A piece of Ice.

di ehinewyork
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incompresioni ***
Capitolo 2: *** Lontano da qui ***
Capitolo 3: *** La vetta del mondo ***
Capitolo 4: *** No drink, no party (#1) ***
Capitolo 5: *** No drink, no party (#2) ***
Capitolo 6: *** Respiriamo parole ***
Capitolo 7: *** Stelle nella notte ***
Capitolo 8: *** Cuori imperfetti ***
Capitolo 9: *** Vaffanculo ***
Capitolo 10: *** “Siamo come la forza di un’onda ***
Capitolo 11: *** Cicatrici ***



Capitolo 1
*** Incompresioni ***


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" Ti sei mai sentito come se stessi crollando?
Ti sei mai sentito fuori posto?
Come se in qualche modo non fossi adatto e nessuno ti capisse?
Vuoi mai scappare via?
Ti rinchiudi nella tua stanza?
Con il volume della radio così alto che nessuno ti sente urlare?”

*****


Quando il primo giorno di vita vedi la luce dopo tanti mesi di buio, inizi finalmente a muoverti e vedere persone, cose, frammenti del mondo che non avevi mai neanche immaginato. E piangi. Mi ero sempre chiesta perché i bambini appena nati scoppiano in un pianto assordante, ma le pagine di google davano tante risposte confuse e contorte. Allora ero arrivata ad una mia conclusione: forse urlano per farsi sentire, per annunciare che anche loro sono finalmente al mondo, che ora esistono, che non sono più rinchiusi, che sono liberi. E forse anche io quel giorno mi ero sentita così, ma il ricordo ormai era cancellato dalla mia mente. Mi ero sentita libera, ma non avevo più provato quella sensazione da quel momento. Potevo perfettamente urlare, ma non c’era nessuno capace di sentirmi.

Raccolsi tutto in un'unica borsa, quaderni e libri, li intrappolai lì dentro e scrollai la rabbia di dosso. Mi ribolliva ancora il sangue nelle vene dopo la sfuriata di mia madre.

– Sophie! Come hai osato prendere l’auto senza dirmelo? Come? –

stava ancora urlando, non riusciva a capire che non ero stata io e continuava ad incolparmi.

– E’ stato Ivan, capisci? Non so neanche accenderla un’auto! –

io continuavo a replicare, ma lei era ottusa e io non potevo più subirla. Misi lo zaino sulle spalle e raggiunsi la porta d’ingresso, mentre mia madre continuava ad urlare cose senza senso

– Lo dirò a tuo padre appena torna! Credi che non lo sappia? Ivan era da Noemi ieri, non è stato lui! –

Aprii la porta con rabbia e mi voltai verso di lei

– Beh, magari è stata Jessica, no? Mi credi così stupida? –

restai a fissarla, non cambiò espressione. Impassibile com’era, mi urlò ancora una volta contro

– Si è sfasciata l’auto e Jessica ieri era qui. Sei mia figlia e ti conosco bene, combini soltanto guai! Non farlo mai più! –

Sospirai rassegnata, posai una ciocca dietro l’orecchio e

– Mi conosci davvero bene, allora – risposi con un filo di voce.

Richiusi la porta alle mie spalle e scappai da quella casa, dirigendomi a scuola. Era la stessa storia ogni mattina, lei mi incolpava di qualcosa che avevano fatto i miei fratelli e io mi difendevo con le unghie e con i denti. Ma la mia non era quel tipo di madre comprensiva, lei urlava soltanto e non mi ascoltava mai. Ed io le persone che si comportavano così le odiavo a morte. Quindi controllavo la mia ira e le rispondevo con calma per evitare un litigio, ma lei insisteva sempre ed io mi arrabbiavo e poi correvo a scuola. Mai una volta in cui mi avesse dato il buongiorno o mi avesse abbracciato. Solo schiaffi e calci morali, dritti nello stomaco, pronti a farmi sentire ancora più inutile di quanto non facessi già.

La classe quel giorno era quasi vuota, come al solito per paura di qualche interrogazione si assentavano in molti. Allora mi sedetti al banco e salutai i pochi presenti con un finto sorriso, poco dopo cadde sulla sedia accanto a me l’unica persona capace di ascoltarmi, la mia boa durante una tempesta: Ronnie. Respirò affannosamente e scoppiò a ridere guardandomi

– Stavo correndo per raggiungerti, non mi hai sentita? – sorrisi appena

– No, stavo ascoltando musica – annuì comprensiva e ci concentrammo poi sulla lezione.

Durante la quarta ora fu il turno dell’insegnate di inglese, l’unica lezione che riusciva a tirarmi su di morale. Tra una battuta ed un’altra, quel giorno l’insegnante fece un particolare annuncio. Ci mostrò dei fogli che poteva compilare soltanto chi voleva partecipare al concorso London Key: un soggiorno di un mese nella città, tutto a spese della scuola. Mi si illuminarono gli occhi a quella notizia, sembrava un oasi in un deserto, una raggio di luce nell’oscurità. Un mese, io, Londra, sarebbe stato un sogno. Come potevo perdere un’occasione del genere?

All’uscita da scuola raggiunsi Ronnie che stava baciando Leo come se non lo vedesse da anni, sorrisi guardandoli e li divisi mostrandole il foglio che avevo preso.

– Cosa?! Parteciperai? – mi guardò entusiasta. Annuii e

– Hai centrato il punto! Londra sarà mia. E tu verrai con me. – dissi convinta. Lei e Leo si guardarono e scoppiarono in una sonora risata

– Andremo tutti a Londra allora! – risi insieme a loro e li abbracciai. Erano davvero degli ottimi amici quei due, gli unici amici che avevo.

– Credi che debba dirlo ai miei? Sarebbe soltanto un inutile spreco di voce. –

dissi tesa, guardando Ronnie negli occhi

– Dovrai dirglielo. Per quanto tu voglia essere indipendente non puoi ancora, sei minorenne – Sospirai, odiavo quando aveva ragione.

– D’accordo, allora ci vediamo domani.. -

sorrisi lievemente e lì lasciai lì tornando a malincuore a casa. Quello che mi aspettava in quel buco infernale erano soltanto urla e rabbia, sensi di colpa a volontà e, ancora, schiaffi morali. Non volevo tornarci, ero stanca di stare in quel posto, stanca di tutto, di quella che tutti chiamavano vita ma che io chiamavo inferno. Ma non potevo farci molto, dopo tutto Ronnie aveva davvero ragione, io ero ancora minorenne per poter fare ciò che volevo… Sbuffai con un ghigno sulle labbra e scossi la testa. Non me ne fregava di quanti anni avevo, di cosa la legge diceva di fare. Ero troppo stanca anche per poter seguire delle dannatissime regole che non facevano altro che legarmi in una gabbia con delle cinghie sempre più strette. Volevo prendere una decisione e lo avrei fatto.

Appena entrai in casa trovai mio padre sulla soglia della porta, a braccia incrociate. Aveva un’espressione quasi raccapricciante, sembrava volesse uccidermi a forza di sguardi. Mi urlò contro, tutto d’un fiato

– Sei la figlia peggiore che potessi desiderare! Hai distrutto l’auto stavolta! Non ti bastavano tutte le orrende figure che abbiamo fatto al matrimonio e la vacanza rovinata perché tu volevi tornare a casa dalla tua stupida amichetta che era in ospedale, vero? – prese fiato – E solo Dio sa quante cazzo di altre cose hai fatto per rovinare tutto quello che facevamo per te! Mi hai deluso ancora una volta ed ora chiuditi in camera e non uscirci fino a domattina! –

Continuava a puntarmi il dito contro. Mia madre era alle sue spalle, gli stringeva una spalla come se volesse calmarlo. Era un tipo abbastanza violento mio padre, non per altro infatti ogni qualvolta io combinavo quelli che lui chiamava guai ritrovavo sulle mie braccia dei lividi. Mi stringeva i polsi e mi urlava contro, mi ricordava che ero una delusione, che ero sbagliata. E mi strattonava, facendomi cadere a terra. Mia madre lo rimproverava per questo, poi però non faceva altro. E io dovevo restare in silenzio ed annuire, perché sapevo che se provavo soltanto a rispondere alle sue sfuriate, oltre ai lividi avrei trovato anche qualche taglio se non di peggio. Mentre continuava ad urlare prese entrambi i polsi stringendoli con forza e ripeteva

– Sei un disastro, non combini nulla di buono! – mi trascinò in camera e mi guardò con furia– Cosa cazzo ho fatto per avere una figlia come te? – sbatte la porta e io restai immobile.

Paralizzata a terra, con le spalle contro il muro accanto al letto, le lacrime non tardarono ad invadere i miei occhi e ad allagarmi il viso. Chiusi gli occhi e singhiozzai forte, mi massaggiai i polsi che mi facevano un male cane. Ero abituata ai suoi attacchi di ira, ma quella volta era stata forse una delle peggiori. Mi aveva fatto a pezzi, piccoli pezzi frantumati sul pavimento. Ero come un muro: prima avevo solo delle piccole crepe che minacciavano di ingrandirsi, poi ero diventata maceria e mi ero sfracellata al suolo, rotta. E come se non bastasse sentii mia madre che dall’altro lato della porta parlava con lui, con l’uomo dei miei incubi.

– Hai fatto la cosa giusta, se lo meritava! Così non lo farà più! -

e scoppiai ancora una volta, piangendo più forte ancora. Cosa c’era di così sbagliato in me? Il mio cuore rallentava i suoi battiti e la pelle inizio a diventare più fredda. Mi alzai da quel pavimento gelido, e mi buttai sul letto. Recuperai il cellulare dalla tasca e composi il numero di Ronnie. Singhiozzai.

– Perché piangi, Sophie? – mi chiese con voce preoccupata.

Asciugai le lacrime con la manica della felpa e tentai di parlare, nonostante le lacrime bagnavano ancora il mio viso.

– Ho i lividi ai polsi e non so dove altro… mi ha chiusa in camera, p-perché mi incolpano di ogni cosa..- singhiozzai

e lei mi chiese– Cosa?! Gliene hai parlato? -

E io ancora, tentai – No, non gliel’ho chiesto, appena sono arrivata m-mi ha urlato contro.. –

trattenni un singhiozzo ma poi scoppia di nuovo in lacrime. – Cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Voglio andarmene da qui, l-loro mi odiano.. Lui è un mostro. - sottolineai.

La telefonata durò alcune ore e, grazie a Ronnie, riuscii a calmarmi e a ragionare un po’. Lei diceva che non potevo vivere così e che le soluzioni erano poche: o lo denunciavo o scappavo. E dato che non avevo prove per denunciarlo, la seconda mi sembro l’opzione più plausibile. Scoppiai di nuovo in lacrime durante la notte. Piansi per ore, finchè non caddi in un sonno profondo alle 4 del mattino. Avevo tra le mani la penna e sul grembo il mio diario...


Caro diario,
che vita di merda.

SPAZIO AUTORE
Buonasera a tutti, belli e brutti! (Scherzo, siete tutti belli!)
Questo è il mio primo capitolo. E’ una storia che scrissi molto tempo fa e che ho voluto modificare. Spero che vi piaccia! Ma, soprattutto mi auguro che non vi siate annoiati. Ieri ho terminato la lettura di "Uno splendido disastro" di Jamie McGuire e, diamine, mi ha fatto tornare la voglia di scrivere! Non so come ho fatto a partorire questo capitolo, ma sono abbastanza soddisfatta.
Potete lasciarmi recensioni, anche negative, accetto tutto. Grazie mille, un bacio.
ehinewyork

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Capitolo 2
*** Lontano da qui ***


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Rannicchiata su me stessa, in quella stanza fredda, vuota, ma allo stesso tempo piena. Piena dei poster di tutti i miei gruppi preferiti, di quaderni, libri, penne, panni e chissà quale altro oggetto inutile; ma vuota perché aridità, senza felicità e fredda, perché io lo ero, perché tutto ciò che mi circondava non sembrava riscaldarmi o farmi sentire meglio, ma sembrava rendermi ancora più deserta. E il buio che mi circondava non mi spaventava, ma mi rilassava e mi faceva sentire quasi al sicuro. Ma lo ero davvero? Ero al sicuro? Non mi sentivo più tale in quella casa, non mi ero mai sentita al sicuro. Forse, di tanto in tanto, mi sentivo felice perchè - Mi aiuti a sparecchiare?- mi diceva mia madre. Erano occasioni rare io la ringraziavo e la aiutavo, perché anche se poteva sembrare un gesto inutile per me era importante e mi faceva sentire utile, per una volta. Ma quella casa sprigionava freddo anche dal camino, ghiaccio puro, rigidità, indifferenza. A nessuno era mai importato davvero di come stavo, di come andavo a scuola, nessuno mai mi aveva chiesto ‘Cosa hai fatto oggi? Ti va di parlare?’, neanche i miei fratelli, nessuno. Erano 17 anni che non mi sentivo accettata da loro, mi sentivo l’ultima scelta, la figlia non voluta, quella che sbagliava sempre tutto ed era soltanto una delusione. A mia sorella, Jessica, le avevano comprato addirittura un pianoforte per Natale e a mio fratello, Ivan, beh a lui perfino gli avevano regalato un viaggio in America, soltanto lui e la sua ragazza, mentre io non avevo mai ricevuto nulla. Ero consapevole del fatto che loro fossero molto più grandi di me, anche se solo di 2 e 3 anni, ma cosa c‘era di sbagliato se dopo 17 anni in cui vivevo in quella casa, venivo trattata bene anche io? Perché loro potevano ricevere ciò che volevano ed io non potevo? Ero davvero così sbagliata? Eppure non andavo male a scuola, ce la mettevo sempre tutta per prendere degli ottimi voti, non uscivo mai e rispettavo sempre le loro regole. A parte quelle stupide cose che inventavano loro, quei disastri che dicevano che io combinavo, ma che in realtà non facevo. Solo una volta, per distrazione, fui rimproverata dall’insegnate che andò a riferirlo a mia madre. Lei era infuriata, non lo dimenticherò mai "Sei sempre tu! Combini solo guai!" mi diceva e io le chiedevo scusa, le dicevo che non lo avrei più rifatto e rispettavo la mia promessa. Ma lei mi metteva in punizione e io mi chiudevo in camera, ascoltavo musica e scrivevo. Era sempre stata questa la mia vita, ma dopo 17 anni ero stanca, stanca di sentirmi così inutile e insignificante per loro. Volevo scappare. Si, scappare. E lo avrei fatto, di lì a poco, dovevo prende la decisione. Maggiorenne oppure no sarei andata via e il caso volle per quella volta che il concorso si presentasse davanti ai miei occhi; sembrava essere la mia unica speranza. Mille miglia lontano da casa, libera finalmente. Potevo farcela.
Controllai l’orario sul cellulare e mi accorsi che erano le 6.30 del mattino e avevo dormito soltanto un’ora e mezza, perfetto. Dovetti alzarmi e prepararmi per la scuola, non ne avevo alcuna voglia, ma avevo bisogno di stare da sola e di pensare. Raccattai tutte le cose in cartella e uscii dalla camera, incontrando mia madre in corridoio. Sospirai lievemente e la guardai per poi abbassare lo sguardo, lei fece lo stesso. Poi tornò ad ignorarmi, allo stesso modo in cui si ignora un moscerino, insetto inutile ed insignificante. Allora amareggiata uscii di casa e presi a vagare per la città. Avevo voglia di camminare, non mi importava dove andavo, mi bastava camminare e svuotare un po’ la mente. Sfilai l’ipod dalla tasca e lo inserii nelle orecchie, cliccando play: tutto il mondo sparì ed io fuggii via da esso.

“Made a wrong turn, once or twice.
Dug my way out. Blood and fire.
Bad decisions, that’s alright.. Welcome to my silly life.
Mistreated. This place.
Misunderstood,
Miss knowing it’s all good.”

Ciò che riusciva sempre a fare la musica era aiutarmi, farmi compagnia e ricordarmi che non dovevo arrendermi, ma lottare, essere positiva. Era l’unico modo per sentirmi meglio, per sentirmi compresa in quelle quattro mura da manicomio. Era così che ammazzavo il tempo quando non studiavo: ascoltavo la musica e poi leggevo. Sì, leggevo, perchè la lettura proprio come la musica mi raccoglieva da terra e mi salvava, portava la luce nella mia esistenza buia. Diversamente dal cielo che quel mattino era particolarmente cupo, spaventoso. Quelle nuvole grigio scuro sembravano calamite per la terra, come se volessero raggiungerla e portarsi via tutto il male, spazzarlo e lasciare così posto libero alla felicità. Ma a cancellarlo tutto quel nero nelle persone. Non era mica facile. Era soltanto un frutto della mia immaginazione quello, perchè tutto sarebbe restato così come era, per sempre, e sarebbe deperito lì. Se dunque mi fossi trattenuta ancora un po' tra quella gente altro che felicità, sarei diventata nera anche io. Allora non mi restava che andare. Per ripararmi dalla pioggia che iniziò a bucherellare la mia pelle entrai in un bar e chiesi un cappuccino, ma quando controllai il portafoglio mi accorsi che avevo soltanto pochi spiccioli, la quantità giusta per pagare il barista. Sospirai. Mi resi conto che dovevo prendere del denaro prima di partire, altrimenti non sarei potuta sopravvivere più di un mese. Quindi posi due alternative: o lavoravo o rubavo del denaro a mio padre. E dato che non avevo tempo per trovare un lavoro, la seconda fu l’opzione che scelsi. Dopo tutto quello che lui aveva fatto a me, un po’ di denaro in meno non lo danneggiava. Anzi, magari lo avrebbe aiutato a capire che per colpa del suo comportamento sbagliato, non stava perdendo soltanto la sua più grande delusione ma anche il suo amato denaro del cazzo. Mi scrollai la rabbia di dosso e mi ricomposi, citofonando a casa di Ronnie. Avevo un assoluto bisogno di parlarle, di avvertirla della mia decisione. Mi aprì in pigiama e in pantofole e mi guardò perplessa

– Cosa aspetti lì fuori? Si gela, entra dentro!

Io quel freddo pungente,però, non lo avevo per nulla sentito.

Annuii ed entrai dentro, Ronnie era l’unica a cui importava davvero. Mi stupivo sempre ogni volta, per quanto riuscisse a capirmi e farmi star bene. Mi abbracciò senza chiederlo, mi accarezzò la schiena per rassicurarmi. Sapeva perché ero lì, proprio per questo rimase in silenzio e mi guidò nella sua camera. Chiuse la porta alle nostre spalle e poi, con un filo di voce, disse

– Raccontami cos’altro è successo, ti prego.– Prima di raccontarle tutto le feci promettere di non parlarne con nessuno, nemmeno con Leo, poi con un filo di voce

– Non mi parlano più e non è una novità. Ma sono in questa trappola e non ne posso più. Voglio scappare. Davvero. –

scacciai via quel peso dalle mie labbra, tutto d’un fiato. Poche frasi, più libertà: non c’era sensazione migliore. Non disse nulla, si sedette di fronte a me e prende i miei polsi tra le sue mani. Li guardò, li sfiorò ed io feci una smorfia di dolore. Lei non si scostò, ma mi abbracciò ancora, con più dolcezza.

– Mi dispiace così tanto, Sophie. Non lo meriti.. – sospirò scuotendo la testa – Vuoi scappare. – replicò in conferma – Dimmi i tuoi piani e ti aiuterò.. –

- Verrò da te il giorno della partenza, farò un firma falsa e dirò che i miei stanno lavorando. Cosa ne dici? Sarò libera finalmente e voglio andare via, voglio cavarmela da sola. So che posso farcela.

sorrise appena – Va bene, ma mia madre non dovrà sapere nulla! Altrimenti potrebbe dirlo ai tuoi e non voglio che ti trattino ancora male.. –


Come pianificato infatti, il giorno della partenza lasciai la camera e uscii da quella casa in fretta, la voglia di andar via superava qualunque altra cosa.
Chissà se ci ritornerò, chissà cosa accadrà, se il piano funzionerà. L’unica cosa che mi mancherà di questo posto sono i muri pieni delle nostre scritte, i posti in cui ho passato bellissimi momenti con Ronnie. Perchè, no, i brutti ricordi non mi mancheranno. Ne varrà la pena, ne sono certa.
Quattro ore, tre minuti, quindici secondi.
Non mancava molto alla partenza. Poche ore sarei scappata via da quell’inferno, sarei fuggita e sarei stata libera. Evadere da quella gabbia, da quei genitori che non si comportavano da tali, da quei fratelli che sembravano estranei. Sfuggire a tutto quello, sfuggire all’amore mancato per cercarne altro. Volare libera, come un gabbiano, aprire le mie ali e spiccare il volo. Essere indipendente, audace, far capire a tutti che io, la vera me, Sofia, poteva davvero sorprendere tutti, diventare Qualcuno.
Avevo in borsa tutto ciò che mi serviva, poche cose per ripartire da zero. Il denaro fu tra quelli. Riuscii a prenderlo facilmente da mio padre; pigro com'era, stava russando sulla poltrona con il solito film d'azione a fargli da ninna nanna. Ripescai il portafoglio nella sua giacca e presi tutti i contanti che c'erano: venti bigliettoni da 100. Diamine, odiavo quel lurido denaro che usava per pagare una puttanella di turno. Non era molto fedele mio padre, qualche volta mi era capitato di vederlo accostare l'auto ai bordi della strada e lo avevo visto tornare a casa con il colletto sbottonato e la cravatta fuori posto. Portava dei fiori a mia madre e lei ci cascava ogni volta - Scusa il ritardo, amore, ho avuto una riunione - diceva. Io non ero così stupida però, lo avevo capito bene. Ma restavo in silenzio e mi rintanavo nella mia camera, non volevo immischiarmi nei loro affari. Un giorno di qualche mese prima, però, mio padre lo aveva intuito perchè mi aveva scrutato con uno sguardo minaccioso e mi aveva trascinato nella camera degli ospiti - So che sai tutto, prova a dire qualcosa e ti tolgo anche il respiro - aveva detto. Da quel momento non lo avevo neanche più seguito. Lo avevo ignorato. Ma avevo ancora paura delle sue minacce e anche questa ragione si aggiunse alle tante della lista: scappare era la cosa migliore da fare per me.


Non ci volle molto, ma dopo circa un ora fummo all’aeroporto, pronte a partire e io pronta a fuggire.
Salutammo tutti, o meglio, salutarono. Gli altri ragazzi stringevano forte le loro madri e scherzavano con i loro fratelli "Mi raccomando, divertiti!" sentii dire da qualcuno ed io sorridevo tristemente guardandomi intorno. Tutto sembrava così perfetto nelle loro famiglie: genitori che li amavano, fratelli che li sostenevano e li aiutavano. Ma non nella mia famiglia, lì non era tutto così bello. Loro non mi amavano, loro non facevano nulla per me, non riuscivano a darmi ciò di cui avevo bisogno e io per loro ero.. nulla. Le lacrime minacciavano di cadere dagli occhi e di infrangere il mio viso, tentai di trattenerle ma non potetti evitare di far inumidire gli occhi. Sorrisi, un sorriso falso, pieno di tristezza, di malinconia. Ma sorrisi e diedi un bacio sulla guancia alla madre di Ronnie che era stata come una madre per me. Mi voltai e ci dirigemmo all’imbarco.

– Stai davvero dicendo addio a tutto questo? – chiese

– Lo sto facendo davvero, finalmente. Sono pronta a tutto ora. –

sorridemmo e salimmo sull'aeroplano.


2 ore, Londra, una città.
Una fuga, una follia, un sogno realizzato.
Decollo: direzione libertà.

 

SPAZIO AUTORE
Buonasera tutti!
Rieccomi con il secondo capitolo. Non ho resistito ho voluto pubblicare subito anche il secondo.
Spero che vi piaccia e che non vi abbia annoiati. Spero che sia soddisfacente!
Se volete lasciatemi recensioni, anche negative, accetto tutto.
P.s. scusate qualche mio eventuale errore.
Grazie mille, un bacio.
ehinewyork

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Capitolo 3
*** La vetta del mondo ***


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Paura, felicità, preoccupazione. Adrenalina. Quelle forti emozioni che ci provano su delle montagne russe: quell’attimo di follia, breve ma intenso. Quando da piccoli ci si rannicchiava davanti al televisore durante un film horror, quel misto di paura e curiosità. L’ebbrezza dell’altezza, la voglia di scoprire, di esplorare, di andare sempre più in alto fino a toccare la cima. Il cielo sulla tua testa, il terreno sotto di te e tu lì, pronto a scoprire e a toccare ogni oggetto con le tue mani, in modo quasi surreale, e contemplarlo, denudarlo, in modo da scoprirne ogni sua piccola fattezza, ogni particolare. E nell’attimo successivo realizzare di avercela fatta, di esserci riusciti e di aver raggiunto, a piccoli passi, quella vetta tanto lontana. Così "Ce l’ho fatta!" urlai a me stessa, perché se c’era qualcosa che mi faceva sentire esattamente in quel modo era la libertà. Era una sensazione così assurda, così surreale eppure così vera. Astratta ma concreta, invisibile agli occhi, ma visibile al cuore. Londra. Londra per me era sinonimo di libertà: quell’aria mi accarezzava in modo così delicato la pelle, sapeva di indipendenza, di autonomia. Rappresentava me, mi descriveva in ogni piccola strada, in ogni palazzo e in ogni parco. Nell’erba dei prati, nel sole d’estate e nella neve d’inverno. Tutto era me in quel posto, tutto era me ed io ero tutto. Ogni cosa sembrava capirmi, raccogliermi da terra, accarezzarmi e salvarmi; ogni piccolo angolo di strada era così accogliente, più di qualunque altra cosa nella mia vita. Inspirai tutto l’ossigeno che potevo e lo trattenni in me, per alcuni secondi, quasi come ad assorbirne ogni cosa e ad imprimerla in me, custodirla in un cassetto e chiuderlo a chiave per non lasciarlo sfuggire via. Quale posto era migliore di quello? Nessuna città riusciva a farmi spuntare un sorriso così vero, dopo tutto quello che mi era accaduto. Perché sì, dopo anni di falsi sorrisi, stavo sorridendo per davvero, senza alcuno sforzo ed era tutto merito di Londra. Era tutto ciò di cui avevo bisogno, ne ero certa. Perché proprio nell’esatto momento in cui scendemmo dal bus privato che la scuola aveva affittato e misi piede a terra, mi guardai intorno e non seppi fermare quel sorriso che si affrettò a spuntare sulle mie labbra. Era così bello sorridere, almeno un po’. Strinsi la mano intorno al manico del mio trolley e seguii il gruppo verso il college. Sentii il gelo penetrarmi la pelle. Quel cielo cupo, grigio, con quel sole che trapelava tra le nuvole; e quel vento delicato ma tagliente, ghiacciato: quel giusto mix di caos e calma. Persone che correvano a destra e a manca, auto ferme ai semafori, auto in corsa, persone in corsa. Mi chiesi dov’ero io quando Dio aveva creato Londra, perchè sentivo che quel posto era mio.
Sarei dovuta nascere qui, vivere qui, deperire qui. Non dove sono nata, non in quella città, non in quella famiglia. Ma a Londra.

Appena entrammo nel college tutti i ragazzi iniziarono a fissarci, altri ci salutavano, con i propri libri in mano e le cartelle sulle spalle, pronti a seguire i corsi che preferivano. Io rimasi in silenzio per tutto il tragitto verso le camere, mi osservavo intorno e mi godevo l’ebbrezza provata: era tutto nuovo per me, non ero mai entrata in un college, in un luogo tanto grande come quello. Era un luogo così caldo che riusciva ad essere accogliente. Attraversammo i corridoi e arrivammo ai dormitori ed anche lì molti ragazzi guardavano dalla nostra parte incuriositi: eravamo in venti e ci muovevamo in gruppo, guidati dai professori del college, non potevamo passare inosservati. Ci fermammo dunque al centro del corridoio, guardai gli altri e notai che erano spaesati, dalle loro espressioni da cui trapelava paura e inadeguatezza. Ma io riuscivo a sentirmi a mio agio, riuscivo a compiacermi di essere lì. Non ero spaventata. Ora che volevo ricominciare tutto da capo, lì, in quella città, l’unica cosa di cui potevo aver paura era il fallimento. Perché se lo avessi raggiunto, non solo sarei stata delusa da me stessa, ma sarei stata più in trappola di prima. Le mie ali da gabbiano che avevano appena spiccato il volo si sarebbero spezzate ed io sarei precipitata al suo, dritta in una gabbia, ancora una volta. Quindi dovevo far in modo che quelle piccole ali non si spezzassero, per continuare a volare. Ma a quello ci avrei pensato più avanti.
Ci distribuirono nelle camere che ci spettavano ed io capitai nella camera con Ronnie ed un’altra ragazza. “Anastasia” era così che diceva di chiamarsi, ma – Chiamatemi Ana! – tendeva a precisare. Io annuivo sorridendo e – Io sono Sophie, piacere – mi presentavo in risposta. Era un uragano, la sua valigia era disordinata e aveva i capelli legati in una coda di cavallo. Era la ragazza dai top colorati che risaltavano le curve, ma non troppo; era la ragazza che faceva battute e trasmetteva gioia, voglia di divertirsi. Forse proprio per questo mi piacque dal primo momento, mi bastava guardarla perché mi venisse una voglia assurda di ridere, di darmi alla pazza gioia. Era rumorosa, certo, ma ero sicura che avrei stretto subito amicizia con lei. Sorrisi nel rendermi conto che per fortuna al mondo c'erano ancora persone come lei e non come me, altrimenti il mondo sarebbe stato un completo disastro. Posai la valigia sotto quello che sarebbe stato il mio letto per il prossimo mese e mi ci tuffai sopra, sprofondando nel materasso. Le lenzuola sapevano di vaniglia o forse era ciliegia o forse, ancora, fragola: non riuscii a distinguere. Era un profumo dolce e confortevole e mi chiesi quali strani detersivi usavano lì.. Di qualsiasi tipo erano, ci avrei fatto l’abitudine di lì a poco, così come con tantissime altre cose. Scelsi il letto accanto alla finestra perchè quel pomeriggio di metà Giugno volevo osservare il piccolo panorama che si intravedeva da quella camera: una parte della città con le sue piccole stradine e i palazzi rigorosamente perfetti. Il sole batteva sui tetti delle case e il cielo era azzurro, un tempo insolito per Londra. Eppure era bellissimo poter ammirare tutto da lì, come sula cima di una montagna: raggiunto il tuo traguardo osservi soddisfatto il mondo che è lì sotto di te. Quella minuscola camera era la mia piccola vetta e proprio da lì riuscivo a vedere una parte di quello che sarebbe diventata la mia città nei prossimi mesi, se non anni. Il mio piccolo mondo che avrei dovuto costruire, proprio come un grattacielo, pezzo dopo pezzo, e farlo restare in piedi. Ma la fiamma che era in me era ancora piccola, non era ancora abbastanza forte da poter bruciare e disintegrare tutto il male che c’era alle fondamenta della mia costruzione e che mirava al suo crollo. Dovevo ancora distruggerli quei demoni dagli occhi indifferenti e le mani afferranti; terribili demoni che mi annerivano l’anima. Così sospirai, un sospiro lieve, perchè la malinconia venne a farmi visita. Ma per quella volta decisi di non darle conto e di ripiombare nella realtà.
Mi guardai intorno e vidi Ronnie che sistemava tutto nell'armadio, con accuratezza: il completo opposto di Ana. Risi e mi alzai, decidendo di seguire il suo esempio. Svuotai la valigia e misi ogni cosa al proprio posto, ogni oggetto nella propria nuova casa. Sussultai però quando

– Ragazze! – urlò Ana tornando in camera – Siete pronte per la vostra prima festa londinese?

sembrava ancora più entusiasta di quanto non lo fosse già.

Mi voltai per guardarla – Una festa? Che tipo di festa? –

ridacchiò e si sedette sul bordo del letto facendo scoppiare sulle sue labbra la mostruosa big babol

– Una di quelle feste strafighe, con ragazzi fighissimi, alcool e musica a volontà. Avete presente? – sembrava quasi una presa in giro, ma poi sorrise e ci guardò.

Ronnie era accigliata –Tutto strafigo, insomma. – notò, con il viso contorto in una smorfia.

Ma io non mi lasciai spaventare – E dov’è che sarebbe? – chiesi

- Al Red Planet, a pochi isolati da qui. L’hanno organizzata i ragazzi della confraternita del college – restò a guardarci per pochi secondi - Allora! Ci state si o no? –

Ed io non ci pensai due volte prima di rispondere – Dimmi a che ora devo essere pronta! –

esultò e corse ad abbracciarmi. – Mi piaci ragazza! – scherzò.

Sorrisi: era un grande passo per me, io piacevo a lei, a qualcuno che non fosse Ronnie o Leo. Sarà un gran bel (alquantolungo)soggiorno qui, inizio a trovarmi bene, pensai tra me e me e sorrisi ancora. Quando poi ci voltammo entrambe verso Ronnie lei sospirò

– Non lo so e se ci scoprono? -

Roteai gli occhi e risi – Non potranno di certo arrestarci! Siamo venute qui anche per divertirci oppure no? –

la guardai per pochi secondi e poi finalmente annuì – Al diavolo le regole! Ci sto! Vado ad avvisare Leo! – e fuggì via dalla camera.

- Perfetto, ragazze, alle 8 vi voglio belle come un fiore! - mi guardò Ana strizzando l’occhio e corse in bagno a prepararsi.

Era una follia, ne ero consapevole. Ma ora che avevo sconvolto tutto, bisognava che cambiassi anche stile di vita. Non volevo più una vita monotona, ero pronta a divertirmi e a dimenticare tutto, a fare nuove esperienze. Proprio ora che le catene erano finalmente spezzate potevo iniziare a correre.
Città nuova, vita nuova.


 
SPAZIO AUTORE

Rieccomi qui con un nuovo capitolo. Mi scuso perchè è un po' breve, come anche i precedenti, ma prometto che i prossimi saranno più lunghi!

E' nato un nuovo personaggio, Ana, lei ha una personalità un pò bizarra. La conoscerete meglio negli altri capitoli. E di certo conoscerete meglio anche Ronnie e gli altri :)
Grazie per l'attenzione, un bacio!

ehinewyork
 
 
 

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Capitolo 4
*** No drink, no party (#1) ***


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Le prime volte sono sempre le più belle. Quando porti per la prima volta la bici senza l’aiuto di qualcuno, quando entri in un negozio e compri le tue prime caramelle gommose con i soldi che ti ha dato la mamma, quando cade il tuo primo dente da latte e lo poggi sotto il cuscino aspettando la fatina dei denti. Fare qualcosa per la prima volta è eccitante, fantastico, sbalorditivo, purché sia qualcosa di bello. Quando un pallone ti colpisce in pieno viso non è eccitante, perché il naso ti diventa rosso e ti fa male. Quando cadi a terra e ti sbucci il ginocchio non è bello, perché perdi sangue e devi pulire la ferita con quell’acqua ossigenata che brucia, e ti fa male.  Tutto per la prima volta può essere elettrizzante quanto doloroso.  La prima volta che mio padre mi aveva colpito era stato elettrizzante l’attimo precedente perché avevo risposto al suo rimprovero con una linguaccia, ma era stato doloroso quando mi aveva dato uno schiaffo in pieno viso. Perché, piccola com’ero,  quelle mani enormi avevano fatto diventare la mia pelle rossa e mi avevano fatto piangere. E scappando in camera ero inciampata in un peluche ed ero caduta con le ginocchia sul pavimento, ma mi avevano lasciata lì perché ero una bambina cattiva e poco rispettosa che non meritava di essere aiutata. La prima volta di quella sera londinese però, mi ripromisi di non provare nient’altro che divertimento: nessun dolore, di qualunque tipo esso fosse. Volevo liberarmi di tutto, godermi la mia prima vera festa. Una festa “da sballo”, come tutti i ragazzi usavano dire.

La musica nel Red Planet Pub era assordante più di quanto me l’aspettassi, tanto che si udiva dall’esterno. Eravamo all’entrata, dove giravano voci che quel locale era di un ragazzo della confraternita e lo avevano allestito come una vera discoteca. Avevo sentito dire da una ragazza che le feste come quella le facevano solo poche volte l’anno in quel pub, ma che erano pazzesche e ne valeva la pena aspettare quella fila  lunga chilometri. 
– Non puoi entrare senza biglietto, mocciosa. – 
Il buttafuori era un tipo grosso, indossava una maglia nera quasi trasparente e la sua pelle era scura, lo sguardo indifferente. Prese quella ragazza e la spostò di lato urlando: 
– Ora levati da qui – 
e dando poi spazio ad Ana che gli mostrò i biglietti. Sentii quella ragazza starnazzare mentre un altro di quegli uomini grossi le teneva le braccia 
– Mocciosa lo dirai a tua madre, stronzo! – 
e si era liberata da quella presa  spingendo via il buttafuori, si era guardata le unghie e si era aggiustata il top aderente, andando poi via. Mi augurai che lì dentro non ci fossero tutte ragazze come lei, stupide oche senza cervello con le tette in bella vista. Ma persi ogni speranza appena entrai: erano tutte così. Fu la prima cosa che vidi, un enorme spazio pieno di gente che ballava. Ce ne erano troppe di quelle oche, ne vidi tre avvinghiate ad un ragazzo, ballavano muovendo i fianchi a ritmo di musica e lo baciavano tutte in modo erotico; e il ragazzo aveva una faccia da orgasmo e le assecondava, ballando a sua volta. Pensai che era uno spettacolo davvero patetico. Non avrei mai fatto una cosa simile, neanche sotto tortura, sarebbe stato umiliante abbassarsi ai livelli di una puttana. Ci avviammo tutti e quattro ai divanetti in pelle nera che erano sulla destra della sala e sfogliammo il menù dei drink. 
– Ho voglia di ubriacarmi stasera, chi è con me? – 
Ana non ricevette nessuna risposta, così scrollò le spalle e torno a leggere sul menù. Io non avevo mai bevuto nulla di simile perché non ne avevo mai avuto l’occasione, ma  decisi di provare qualunque cosa, purché fosse forte e “da sballo”. 
– Cosa prendi tu? – 
urlai per sovrastare la musica. Ronnie staccò le labbra da quelle del suo ragazzo e mi guardò 
-  Non ne ho idea, penso prenderò un drink analcolico – 
sorrise e tornò da Leo. 
– Prendi un Red Bloom, Sophie! E’ forte soltanto dopo un bicchiere, il primo è leggero – 
rise Ana, chiamando il cameriere con l’indice alzato. In mezzo a quella calca di gente e musica mi chiesi come fosse possibile che un cameriere sentisse un cliente che lo stava chiamando, era assurdo. 
– Una Vodka Lime per me, doppia per favore – 
sorrise lei. Dopo che gli altri ebbero ordinato, il ragazzo fissò me. Aveva un vassoio vuoto sotto il braccio e portava un grembiule nero con lo stemma del Red Planet, il suo sorriso era affascinante e la sua fronte era sudata per il caldo che c’era lì dentro. Mi scrutò e si bagno le labbra 
– Tu cosa prendi dolcezza? – 
tossii imbarazzata e finsi di guardare il nome sul menù 
– Un Red Bloom, con tanto ghiaccio. Grazie! –
sorrisi cercando di sembrare disinvolta. Il ragazzo annuì strizzando l’occhio 
– Un attimo e sarò da voi! – 
e poi andò via. Era davvero carino, pensai. Ma poi scossi subito la testa e risi, quando vidi Ana salire sul tavolino e iniziare a scuotere il sedere 
– Stasera voglio che vi divertiate tutti, anche tu Sophie! –
urlò prendendomi la mano e invitandomi a salire. 
– No, te lo scordi! E poi scendi, ti stanno guardando tutti il culo come se volessero mangiartelo! –
risi e la tirai giù. 
– Avanti Sophie, non vorrai dirmi che te ne starai seduta per tutta le sera? – 
scosse la testa in forma di disapprovazione.
– Intanto beviamo i drink che sono appena arrivati! – 
cambiai subito discorso. Ana annuì ridendo. Se non avessi saputo che era parte di lei, avrei pensato che quella euforia era dovuta all’alcool. Mandò giù quel bicchiere di Vodka in pochi sorsi e urlò alzando il bicchiere al cielo. 
– Avanti su, bevi tutto d’un sorso! – mi incitò
– E’ la prima volta che bevi, vero? Ti brucerà un po’ la gola, ma passerà subito e ne vorrai un altro! – 
annuii e strinsi le mani intorno al vetro freddo di quel bicchiere. Chiusi gli occhi e lo avvicinai alle labbra, poi presi fiato e lo mandai giù tutto in una volta. Ana gioì rumorosamente e mi fece alzare 
– E’ stato forte vero? – 
mi guardò in attesa di una risposta. Restai un attimo in silenzio e poi 
– E’ stato fortissimo! – 
urlai ridendo. In quel momento sentii scoppiare in me una bomba di felicità, che inondò ogni cellula del mio corpo. Il calore che sentivo in gola era qualcosa di sopportabile, perché la voglia di correre, urlare e fare tutto ciò che volevo era maggiore di qualunque altro tipo di dolore. Per questo motivo seguii subito Ana e ci immergemmo in quella confusione fatta di gente, musica e puzza di alcool. Ci buttammo a capofitto senza pensarci due volte e iniziammo a muoverci, a scuotere i fianchi e a ballare senza dar conto a chi era intorno. Ridevamo e saltavamo, tendendo le mani al cielo urlando come due forsennate. Non pensai a nulla, mi muovevo a ritmo di musica, di quella musica altissima a cui ormai  eravamo abituate. Rimbombava nei timpani e faceva vibrare tutto il corpo, ti trasportava e ti faceva provare miliardi di emozioni. Con gli occhi chiusi, nascosta in mezzo a tante persone, potevo far uscire la ragazza che era nascosta in me, quella che era stata repressa per tanti anni e che ora poteva finalmente essere libera. Ballavo senza fregarmene di cosa potessero pensare le persone che mi circondavano. Ero lì, in uno dei più pub più belli di Londra con una mia nuova amica e non avrei permesso a nessuno di rovinarmi quel momento. La mano di Ana percorse il mio braccio fino a stringere le mie dita per tirarmi a se, avvicino le sue labbra al mio orecchio per dirmi qualcosa 
– Vado a prendere un altro drink, resti qui? – 
mi guardai intorno e poi posai lo sguardo su di lei scuotendo la testa
– Meglio di no, vengo con te, anche io ho voglia di un altro drink! –
ridemmo e ci facemmo largo per arrivare al bancone. Trovammo due sgabelli vuoti e li occupammo, in attesa di qualcuno che ci servisse. 
– Dici che rimorchiamo qualcuno stasera? – 
chiese lei con un sorrisetto sulle labbra. Io feci una smorfia 
– Rimorchiamo? Magari tu, io non ne sono neanche capace! – 
scoppiai a ridere. Quando ci portarono i drink che avevamo ordinato, li bevemmo tutti d’un sorso. Quella volta però strizzai gli occhi e emisi un grugnito, avevo preso un drink più alcolico. Mi trafisse la gola dividendomi a metà. Era Vodka, Vodka doppia. La stessa che aveva preso Ana, soltanto che io non ero abituata a questi drink così forti. 
– Feci così anche io la mia prima volta! – rise guardandomi 
– E come andò a finire? – tossii alzandomi dallo sgabello 
– Passai la notte in bagno – il suo sguardo si rabbuiò, ma non ne capii il motivo. 
Non mi andava di chiederglielo, volevo divertirmi ancora più di prima, così le trascinai con me in pista ancora una volta.
– Stasera voglio rimorchiare! – urlai e mi scatenai lì in mezzo. 


Non sapevo che effetto aveva l’alcool su di me, perché non lo avevo mai provato prima di allora. Ma, se con il primo drink la voglia di ballare era tanta, con la Vodka lo era ancora di più. La musica cambiò e quella che ci diede il ri-benvenuto in pista fu una delle mie canzoni preferite. Non ricordavo il nome, non ricordavo neanche perché fossi lì e cosa stessi facendo, ma sapevo che quella canzone mi faceva impazzire. Quando Ana si staccò da me e iniziò a ballare con un ragazzo, rimasi sola, un po’ disorientata. Ma non mi feci prendere dal panico, perché continuai a seguire la musica, ondeggiando. E probabilmente fu dovuto all’alcool, perché se fossi stata lucida me ne sarei andata all’istante. Sentii d’improvviso due mani calde poggiarsi sui miei fianchi, accarezzarli e delle labbra solleticami l’orecchio.

– Ti va di ballare, tesoro? Sei uno schianto! -

Una voce maschile, dura, eccitata. La voce di un uomo, un uomo che non conoscevo ma che voleva ballare con me. L’alcool che avevo in corpo mi era salito alla testa e non riuscivo a connettere i neuroni per ragionare: volevo soltanto ballare. E se quel uomo senza nome e senza volto voleva ballare con me, io non potevo far altro che accettare. 

– Non accetto un no come risposta – proseguì dopo alcuni secondi di pausa. 

Allora mi voltai e lo guardai, era più grande di me, probabilmente aveva trenta anni se non di più. Ma che importanza poteva avere? I fianchi iniziarono a muoversi in sincronia con i suoi, senza che io potessi comandarli. Seguimmo il ritmo della musica, sempre più veloci, sempre più vicini. Si appiccicò a me come una sanguisuga, iniziò a baciarmi la guancia e il collo, sempre più eccitato. Sentii un gonfiore aumentare nei suoi pantaloni. Disgustoso riuscii a pensare davvero disgustoso
-Non ho più voglia di ballare – gli dissi, cercando di staccarmelo di dosso. 
Ma gli angoli delle sue labbra si alzarono in un sorriso malizioso. Maledizione! Cosa avrà pensato? Imprecai in silenzio. Sospirai e scossi la testa voltandomi per andarmene. Quel po’ di lucidità che mi era rimasta, fortunatamente riusciva ancora a farsi sentire. Non era una buona idea restare ancora con quel tipo. Avevamo ballato, ma non doveva andare oltre. Però lui non fu d’accordo, perché mi prese un polso e mi attirò di nuovo a se.
– Allora andremo via da questa folla, tesoro! – ridacchiò divertito. 
Io rabbrividii, disgustata al solo pensiero. E volli andarmene in quel momento. Cercai di farlo, ma quel tipo era più forte di quanto mi aspettassi. Mi trascinò con se senza ascoltare le mie lamentele. 
– Ma cosa vuoi da me? Lasciami in pace! – urlavo colpendogli il braccio. 
Oltrepassò una scala e mi scaraventò contro un muro, guardandomi con malizia. 
– Mi piaci, sei davvero un bel bocconcino, ma non sembri di qui! Sei in vacanza vero? – 
rise mentre continuò a parlare – Beh, buon soggiorno! – mi incatenò lì vicino e sporse le sue labbra verso di me. Tentò di baciarmi più volte ma io mi dimenavo, giravo la testa da ogni lato per evitare qualunque contatto fisico con lui. Mi face ribrezzo, disgusto. Lo odiai. 
– Levami le tue sporche mani di dosso, stronzo! –  tentai con tutte le forze di togliermelo di dosso, ma lui portò le mani lungo i bottoni della mia camicetta cercando di aprirla. 
– Sei proprio bella, non posso lasciarti andare così in fretta! – rise ancora in modo raccapricciante.
Unì i miei polsi sulla mia testa con le sue mani forti e grandi. Li strinse così forti che io non riuscii a liberarmi. Gli urlai di lasciarmi stare, di non toccarmi e mi dimenai per sfuggire alle sue grinfie, ma quel bastardo non si decideva a lasciarmi andare. Nessuno riuscì a sentirmi perché la musica era troppo alta e le persone troppo occupate a ballare. Ma mi stava facendo male. Iniziarono a salirmi le lacrime agli occhi, perché quei maledetti polsi pieni di vecchi lividi e quelle braccia piene di vecchi graffi e segni non decidevano a muoversi, erano imprigionate. 
 
 - Sofia, vieni qui! –iniziò ad urlare.
Eravamo soli in casa. Mia madre e i miei fratelli erano dal dottore.
- Che c’è, papà?- risposi intimidita.
- Ho detto di venire qui, cazzo!-
La rabbia nella sua voce. Mi alzai e andai da lui. Era seduto sulla sua lurida poltrona, la cravatta e la camicia sul pavimento, solo una canottiera a coprirgli il petto, la bottiglia di vino tra le mani. Capii che aveva bevuto e mi pietrificai. Deglutii rumorosamente: mi spaventava ancora di più quando era ubriaco.
-  Portami un’altra bottiglia di vino. Subito! – indietreggiai correndo verso il frigo. Neanche l’ombra di una bottiglia di vino. Sospirai cercando di restare calma, mi abbassai per controllare meglio e trovai un bottiglia di birra. Mi calmai, la presi e sperai che gli andasse bene.
- C’era solo la birra, papà..- gliela porsi.
Il suo sguardo si gelò, serrò la mascella, i muscoli delle sue braccia nude si fecero più evidenti. Vidi il suo braccio sollevarsi e scaraventare a terra la bottiglia di vino vuota. Le schegge si sparsero in tutta la camera, il mio sguardo tornò su di lui. Si alzò e fu talmente ubriaco da non riuscire a reggersi in piedi. Cadde, io indietreggiai ma lui si risollevò. Afferrò la mia maglietta e mi buttò contro il muro.
- Ve lo siete scolato tutto voi il mio vino, figli di puttana! – la furia nei suoi occhi rossi e lucidi.
Rimasi immobile, impassibile. Avevo imparato a non reagire, per non peggiorare le situazioni.
- Mi sono stancato. Ma la cosa che mi ha stancato di più sei tu e tutte le cazzate che fai. Sei una figlia di merda, te l’ho mai detto?- rise come se ciò che avesse appena detto fosse la cosa più divertente che avesse mai detto.
- Però – prese una pausa –sei bella!- mi alzò il viso, poggiando una mano sotto il mio mento. –D’altronde, da un padre così bello come poteva nascere una figlia brutta?- rise ancora delle sue stesse parole. Poi d’un tratto tornò serio, mi incastrò nel muro e mi baciò una guancia. Fu un baciò freddo, viscido, ripugnante. Rimasi pietrificata e disgustata da quel gesto. Lui mi guardò negli occhi e posizionò le sue sporche mani sui miei fianchi, baciando l’incavo del mio collo. Ero inorridita, spaventata da lui. Volevo scappare, ma non avevo la più pallida idea di come fare. Non vedevo quel uomo di fronte a me come mio padre, ma come un mostro che voleva farmi soltanto del male.
- Brava, piccola, hai imparato a star ferma finalmente. –
Emisi un verso di disgusto che lui ignorò completamente. Tentò di scendere sul mio collo e continuare a baciarlo per soddisfare i suoi più orridi e oscuri desideri. Mise una mano sulla mia natica quando la porta di casa si aprì. Si spostò velocemente, strattonandomi.
Entrò mia madre nella camera, confusa dalla situazione in cui eravamo. Mio padre mi lanciò uno schiaffo in pieno viso.
- Pulisci questo disastro che hai combinato. Adesso! -
 
 - Cosa cazzo vuoi da me? Non toccarmi, lasciami! – urlai singhiozzando. I ricordi mi stavano offuscando la mente.
Non si decideva a lasciarmi andare, stava baciando il mio petto. La camicetta era sbottonata e le sue schifose labbra premevano sul mio reggiseno. Mi venne da urlare e da prenderlo a calci. Così con tutta la forza che avevo in me liberai un gamba per colpirlo nel basso ventre. Lo colpii due volte, con tutta la violenza che potevo.
<>–Mi fai schifo, vaffanculo stronzo! – urlai mentre le lacrime mi cadevano sul viso. Indietreggiai quando si alzò, tenendo la mano sul punto in cui lo avevo colpito.- Stronza! Vieni qui, devi essere mia! – urlò con furia.
A quel punto mi voltai ed iniziai a correre. Non riuscii ad intravedere nessuno che conoscevo. Ero in panico, non sapevo dove andare, perché l’uomo tentava di inseguirmi ancora, zoppicando e ancora nessuno sembrò vedere nulla. Corsi in quella folla di gente anche se mi scoppiava la testa e avevo il cuore in gola. E non appena mi voltai per vedere se l’uomo era ancora dietro di me, mi scontrai con qualcuno. Si sentì un rumore di bicchieri rotti. 
– Cazzo! Guarda dove vai! – urlò il tipo. 
– Scusa, i-io.. non volevo – balbettai ancora scossa da tremori. 
Scossi la testa e mi guardai dietro: non c’era più, se n’era andato.
-Tanto devo pulirlo io questo macello! – sbuffò chinandosi a terra. 
Tirai su col naso e asciugai gli occhi, sbavando tutto il trucco che avevo accuratamente messo.
– Mi dispiace, non stavo guardando.. - mi inginocchiai e cercai di aiutarlo.
Tutti i pezzi di vetro erano a terra e il loro contenuto si era versato sul pavimento. Proprio come quando mio padre aveva messo le sue sporche mani su di me. Mandai via quei ricordi e raccolsi qualche scheggia nella speranza di non tagliarmi. Ma non appena poggiai la mano sul pavimento, il ragazzo la poggiò sullo stesso punto, scontrandosi con la mia mano. Tossì, poi sospirò.
- Non preoccuparti faccio da sol.. –  alzò lo sguardo su di me - ..Tu? –
Era il barista. Lo stesso che ci aveva servito quei drink ad inizio serata.
Era sempre sudato sulla fronte, sempre con quel sorriso sulle labbra. Non riuscii a vedere bene i suoi occhi neanche quella volta e le luci della sala non erano molto di aiuto. Ma improvvisamente mi vergognai di avere il viso sporco di mascara, di avere gli occhi rossi e la camicia sbottonata, così la richiusi in fretta e mi coprii il viso. Lui si accorse dell’orribile aspetto che avevo, raccolse tutti i pezzi nel vassoio e si alzò. Mi tese la mano per aiutare ad alzarmi, ma io la rifiutai e mi alzai da sola, cercando di tenermi in piedi.
Mi squadrò dalla testa ai piedi.
- Sembra che tu abbia un brutto aspetto. Hai bisogno di un drink? -


 

 
SPAZIO AUTORE

Buona sera... o dovrei dire, buona notte!
Sono le 2:00 di notte e sono qui a pubblicare il capitolo, sono pazza!

Volevo presentarmi, dato che non l'ho ancora fatto. Mi chiamo Monica, ma chiamatemi tutti Moon. Pechè Moon vi starete chiedendo, beh innanzitutto è una sorta di abbrevizione: un "Mon" con la sola aggiunta di una o. Ma vi dirò di più. Amo la luna perchè cambia aspetto ogni volta ma resta sempre la stessa, non brilla di luce propria, ma viene illuminata dalla luce del sole e senza di esso sarebbe invisibile. Amo la luna perchè è rotta, piena di crateri, ma bella lo stesso. Spesso una parte di lei è nascosta e non riusciamo a vederla, ma basterebbe guardarla per capire che c'è un pezzo che manca, perchè la sua forma non è la stessa dell'ultima sera. Ebbene sì, amo la luna perchè mi ritrovo in lei.
Ma ora la smetto, lo giuro hahaah non mi odiate!

Ora che avete conosciuto una parte di me, torniamo al capitolo. Spero vi sia piaciuto, è più lungo rispetto agli altri ed è pieno di colpi di scena. Sono curiosa di sapere cosa ne pensate. Quindi lasciate recensioni se vi va. P.S. Il titolo della storia, 'Fire Ice', lo cambierò in 'A piece of Ice'. Mi scuso per questo inconveniente.
Grazie mille, alla prossima.


Moon

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Capitolo 5
*** No drink, no party (#2) ***


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Era di fronte a me, il ragazzo. Aspettava che gli dessi una risposta.
-Un drink? Che schifo! – esclamai disgustata. Non volevo più vederne di drink.

Urlavano tutti in quella sala, urla stridule provenienti da bocche sudice. Corpi sudati, persone eccitate, bicchieri di drink sparsi ovunque, tavolini sporchi, bagni occupati a far tutto tranne quello per cui erano stati creati. C’era anche della droga da qualche parte, avevo addirittura visto qualche busta di preservativo svuotato del proprio contenuto. Ma quelle urla di persone felici o soltanto ubriache e quella musica altissima, penetrante, mi stavano martellando i timpani fino ad arrivare al cervello. Sembrava che qualcuno mi stesse prendendo a pugni sulla testa, senza un attimo di tregua. Girava tutto, come su una di quelle giostre che amano i bambini: salti su e inizi a girare, resti fermo al tuo posto ma ciò che ti circonda ruota sempre più velocemente. Ti senti stordito, vorresti fermarti e scendere, sperare che tutto si fermi. Quella su cui ero io, però, non era una giostra, ma un pavimento. E i pavimenti non si possono fermare, tu da lì non puoi scendere, devi per forza restarci. Mi tenevo in piedi, ma barcollavo, afferrando qualunque oggetto solido per mantenermi in equilibrio. Quelle luci mi facevano girare ancora di più la testa, mi confondevano. Vedevo solo delle immagini in movimento: ora illuminate, ora non più. I rumori li sentivo più forti, erano perforanti, quasi come un vecchio carillon che emette un suono stridulo e fastidioso. E la cosa a cui mi stavo tenendo per non cadere era un braccio.
-Hey! Hai bisogno di una mano? –
aveva insistito il barista, portando una mano sulla mia spalla. Gli occhi iniziarono a bruciarmi e le labbra erano salate, per le lacrime che l’avevano bagnata. La sua voce sembrava voler scomparire, la sentivo sempre più lontana.
–Stai bene? Posso chiamarti qualcuno? – continuava a ripetermi.
Avevo riso. Senza motivo ero scoppiata in una sonora risata e la sua faccia aveva cambiato subito espressione. Non era più preoccupato, bensì accigliato.
-Ti sembra che io stia bene? – ridevo ancora, sarcasticamente – Però tu non sei Ana, vero? E neanche Ronnie. Lasciami in pace, mi servono loro – e mi ero voltata, infastidita.
- Aspet... -

L’alcool era tornato ad avere il sopravvento su di me e la testa girava ancora, ma almeno sapevo chi dovevo cercare. Il problema era trovarle, in quella calca di gente. Feci dunque qualche passo avanti (oppure a destra, non riuscii a capirlo) nel tentativo di uscire da lì e raggiungere i divanetti neri dove supposi che le altre mi stessero aspettando. Qualcuno mi pestò un piede, altri mi cozzarono con la spalla. C’era chi si buttò addosso a me, ballando, muovendo i fianchi. Io li allontanai e cercai una via di fuga. Sembrava un labirinto senza una fine. Probabilmente stavo girando in tondo, sempre nello stesso punto, senza rendermene conto. Ed era frustrante non riuscire a liberarmi. Iniziava a mancarmi l’aria, non sapevo dove andare. Mi sentivo abbandonata, persa, sola in mezzo a tante persone. Presi la testa tra le mani e urlai “Basta! “. Poi sentii una mano afferrarmi il braccio. Mi irrigidii. Era una mano grande, calda. E se è di nuovo lui? Supposi. La mia testa iniziò a pulsare ancora più forte. Mi chiesi cosa voleva quell’uomo da me, perché non si decideva a lasciarmi in pace.
La mano mi tirò, piano, e mi lasciò il braccio, ricoprendomi poi la spalla.

-Se cerchi la tua amica, l’ho vista al bancone- disse la voce.
Era calma e dolce. Le sue labbra avevano sfiorato il lobo del mio orecchio e i miei capelli e poi erano tornate al loro posto, di fronte alle mie. Allo stesso modo in cui gli occhi erano di fronte ai miei. I suoi, profondi occhi di un colore ancora ignoto, ma belli. Io però non avevo risposto a quelle parole, lo avevo guardato senza parlare. Mi aveva affascinato, aveva un bel viso, dei lineamenti quasi perfetti, i capelli sollevati dal gel a mostrare la fronte lucida e le labbra sottili, incurvate ora in un sorriso e ora in una smorfia.

– Eccola lì – disse e alzò l’indice indicandomi il bancone del bar.
Vidi Ana seduta su uno sgabello, parlava con un ragazzo che era accanto a lei. Sorrisi. Feci un sospiro di sollievo, mi rilassai e poi – Grazie – replicai piano.
Mi staccai da lui e, a malincuore, tolsi lo sguardo dal suo viso. Mi incamminai verso quel punto, scostando alcune persone per farmi spazio. Ero quasi arrivata ma stavo traballando, il pavimento si muoveva sotto di me, o forse ero io a muovermi troppo. Le gambe non si decidevano a star dritte e quei tacchi altissimi avevano reso le cose ancora più difficili. Una delle due caviglie cedette, si spiegò e prese una storta. Faceva un male cane. Strizzai gli occhi e caddi sul pavimento umido della sala. Mi rialzai facilmente però, perché ad aiutarmi ci fu di nuovo quella mano calda ed accogliente.

-Ti aiuto io- disse. Mi sollevò e mi guardò – Tutto bene? – mi chiese.
Quando annuii piano, iniziò a camminare. Mi trascino con sè, anche se zoppicavo un po’. Mi strinse il polso. Era dolce la sua presa, ma aveva tastato un punto delicato, rosso e pieno di lividi.

-Lasciami il polso!- tirai il braccio e massaggiai il punto. – Mi fa male – continuai.

Si fermò a quel punto: eravamo arrivati al bancone. Abbassò lo sguardo e lo posò sulle braccia. Si morse il labbro in un’espressione strana. Era nauseato per l’orrendo stato in cui ero conciata, graffi e cicatrici, macchie scure e gonfiori. Era tutto ancora evidente. Però allo stesso tempo era dispiaciuto, le sue labbra erano piegate verso destra, sembrava triste. Per tutto il tempo in cui lui mi osservò io rimasi immobile, pietrificata. Quando poi distolse lo sguardo da quel punto, mi ammorbidii e coprii le braccia imbarazzata.
Tossì. -Dovresti metterci un po’ di ghiaccio lì sopra. Vado a prenderlo. – e poi sparì.

Tirai un sospiro di sollievo, libera da qualunque occhio indagatore. Ma quando poggiai i gomiti sul legno freddo del bancone, sentii una voce stridula e familiare urlare il mio nome.
- Sophie, eccoti finalmente! – mi abbracciò dandomi un bacio sulla guancia.
Tutto ciò che riuscii a fare fu sorridere e abbracciarla a mia volta. Ero stanca e volevo soltanto sedermi.
-Dove sei stata? Ti ho cercata ovunque!- esclamò - Ronnie e Leo sono tornati ai dormitori, dovremmo rientrare anche noi.-
Trovai il primo sgabello vuoto e mi ci fiondai sopra, per poi guardarla.
– Se loro se ne sono andati, noi come torniamo?- chiesi, massaggiandomi le tempie.
-A piedi, proprio come siamo venuti-
rispose sedendosi accanto a me e lasciando da solo il ragazzo con cui aveva parlato fino a pochi secondi prima. Mi scrutò con lo sguardo, finché notò gli occhi rossi e il mascara sbavato.
–Cosa ti è successo, Soph? – la sua voce si caricò di preoccupazione, mi prese la mano per accarezzarla.
-Oh, niente- mentii –Mi sono lavata la faccia e mi si è sbavato tutto- tossii agitata –E poi l’alcool rende gli occhi lucidi, no? -

Non volevo farle sapere di quello che era successo, perché avrebbe fatto domande, mi avrebbe chiesto il perché di tutti quei lividi, mi avrebbe chiesto ogni minimo particolare. Si sarebbe sentita in colpa per avermi lasciata da sola in mezzo a così tante persone, tra alcolizzati e maniaci sessuali. E non mi andava che si sentisse così, non volevo spaventarla con tutto il terrore che avevo provato e che provavo ancora. Allora nascosi le braccia dietro il bancone e mentii, allargai le labbra in un finto sorriso e mi augurai che se la desse a bere. E così fu.
-Si, menomale! Pensavo ti avessero fatto qualcosa. Sai quante persone violente ci trovi lì in mezzo?- rise appena, scuotendo la testa. Bevve l’ultimo sorso del suo drink ghiacciato e si alzò.

Io sorrisi e continuai a massaggiarmi i polsi, cercando di alleviare il dolore. Mi ricordai del ghiaccio e del ragazzo che era andato a prenderlo. Mi ricordai dell’aiuto che mi aveva dato per alzarmi dopo la storta che avevo preso e il dolore alla caviglia tornò a farsi sentire. Mi ricordai, poi, che lui aveva visto i miei lividi, li aveva visti bene. Ma non volevo che qualcuno si preoccupasse di quelle cose, specialmente qualcuno che non conoscevo. Erano problemi miei, mie cicatrici e nessun altro doveva sporcarsi le mani. Soltanto io dovevo, perché era stata colpa mia se me li avevano causati. Permettere a qualcuno di immischiarsi nei miei problemi avrebbe portato ad annerire anche l’anima di quel qualcuno. E non doveva accadere.
Dunque scossi la testa e mi alzai a mia volta. – Andiamo – dissi. Ana annuì e salutò il ragazzo moro.

 

Mentre ci allontanavamo, vidi dall’altra parte del bancone, infondo alla fila di bicchieri e bottiglie, quello splendido viso corrucciato. Lo vidi mentre, asciugandosi la fronte sudata, prese del ghiaccio e lo mise su un pezzo di stoffa. Lo chiuse con cura e lo adagiò tra le proprie mani, dirigendosi verso i nostri sgabelli vuoti. Scomparimmo in mezzo alla folla, dirigendoci verso l’uscita. Ma io lo stavo ancora fissando. Aveva poggiato quel pezzo di stoffa sul bancone e si stava guardando intorno. Forse mi sta cercando pensai. E magari era così. Pensai che era davvero un ragazzo carino, perchè voleva aiutarmi.. ed io ero scappata, che mossa stupida da parte mia. Ma lo avevo fatto per lui. Meglio per te se non mi rivedrai più, non avrai nessun peso da sopportare gli dissi in silenzio, nella mia testa. Ed era proprio così: meglio per lui. Meglio per chiunque altro.

Quel pensiero fisso che, però, tartassò la mia mente durante tutto il tragitto verso il mio nuovo rifugio mi fece riflettere parecchio. Pensai a quell’uomo, a ciò che mi aveva fatto e ritornò nella mia mente mio padre e tutta la sua brutalità. Proprio come se tutto il dolore che avevo già subito non fosse bastato, ora anche il ricordo doveva tornare a farmi male. Fu doloroso soltanto ripensarci, a quelle mani su di me; mani forti, potenti, inumane. Un piccolo spiraglio di luce si fece spazio tra quei pensieri bui: quel ragazzo. La mia mente non smetteva di lavorare e cominciò a chiedersi perché lo aveva fatto, perché aveva deciso di aiutare una stupida ragazza indifesa come me. Forse era proprio quello il motivo, perché ero debole, incapace di curarmi le ferite da sola; o almeno lo sembravo. Quindi, pensai, era solo compassione quella, solo pietà. Credevo che era questo l’effetto che facevo alla gente: "Oh, guarda! Una ragazzina imbranata che cade a terra e che piange”. Ma infondo, cosa c’era da aspettarsi? Non avevo neanche diciotto anni e mi comportavo come una donna vissuta, che sapeva tutto del mondo e che aveva subìto tutte le più orrende angherie.

Ma non ero questo, io lo sapevo. Ero soltanto una giovane ragazza, con una famiglia che di famiglia aveva solo il nome e con un padre che non aveva neanche le sembianze di una figura paterna. Una ragazza con un passato buio e freddo, privo di amore. Quell’amore che non aveva mai ricevuto e che non era neanche più capace di dare. Una ragazza con il cuore arido: se l’erano rubato tutto loro il mio amore, senza lasciarne neanche un goccio. Gli abbracci erano l'unico spiraglio di amore in me. Avevo abbracciato qualche volta Ronnie e, quella sera, anche Ana. Ma in nessun’altra occasione. Con Ronnie avevo discusso molte volte per questo motivo, perché lei diceva che non sapevo dimostrarle il mio bene. E io mi scusavo e, ancora, l’abbracciavo. Le dicevo che ce l'avrei messa tutta, ma che non sarebbe stato facile per me.

Fu una notte come tante altre, con l'unica differenza che ora ero tra nuove e fredde coperte, che furono l'unica cosa capace di riscaldarmi. Mi rannicchiai tra di esse e, pensando, iniziai ad essere consapevole del fatto che dopo tanti anni in quelle condizioni - sola, abbandonata, maltrattata - non soltanto non sapevo amare, ma, ancor peggio, non sapevo neanche cosa significasse essere amati. Non riuscivo neanche ad immaginare cosa si provasse o cosa significasse e fu per questo motivo che le lacrime mi scoppiarono sul viso, in una notte che diverso non aveva nulla, se non qualcosa: la prospettiva del cielo non era più la stessa. E ne fui grata.



Spazio autore

Questa volta non ho pubblicato alle 2:00, bensì all'1:00. Faccio progressi!
Duuunque buonasera a tutti e grazie per essere qui. Ho molta voglia di scrivere in questi giorni e ne sto approfittando per le "vacanze" di carnevale.

Sta emergendo sempre di più questo personaggio, vero? In ogni capitolo scoprirete cose nuove di Sophie, ricordi che non ha ancora descritto. Per quanto riguarda gli altri personaggi invece, per questi capitoli Ronnie è messa in ombra, ma si rifera negli altri. Quando ad Ana, lei può sembrare stupida ma lei ha un modo particolare di tenerci alle persone, lo capirete. E il famoso barista? Che ragazzo strano..

Beh, cosa avete da dire voi a riguardo? Sarei felice di sapere il vostro parere, quindi non abbiate paura nel recensire, non potrebbe farmi che piacere. Siete tutti fantastici, grazie!

P.s. Per chi vuole il mio twitter, eccovi il mio nick: @impercettibili

Moon

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Capitolo 6
*** Respiriamo parole ***


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Passarono quattro giorni da quella sera.
Nessuno aveva saputo nulla di quei particolari.
Mi ero limitata a dire che era stata una bella serata. Ronnie, poi, mi aveva chiesto se avevo rimorchiato qualcuno. Mi aveva guardato la mattina dopo, appena mi ero alzata. Si era sdraiata sul letto.

- Sei strana. Sono sicura che hai rimorchiato qualcuno ieri, eh? -

Continuava a fissarmi, ma io non sapevo cosa dirle così su due piedi. Dovevo inventarmi qualcosa.

- Ho ballato con qualche ragazzo, ma niente di più- le avevo detto.

Sembrava essere andato tutto liscio, finché Ana non decise di intromettersi.

- Stava parlando con un ragazzo prima che ce ne andassimo! Chi era? Che ti ha detto? -

Che impicciona che è, pensai. Entrambe mi puntarono gli occhi addosso, in attesa di una mia risposta. Cosa credevano che avessi detto?

-Nessuno, era il barista! Ci siamo scontrati per sbaglio.. -

Erano scoppiate in una risatina irritante, che mi martellava i timpani. Avevo ancora mal di testa, dopo la sera precedente.

-Quello carino! Ti ha baciato?-

Strabuzzai gli occhi, incredula. Quello carino?

-No. Ma che ti inventi! -

E poi mi ero rintanata in bagno per lavarmi. Ma era accaduta quasi la stessa cosa anche il giorno successivo. Loro mi avevano chiesto se avevo conosciuto qualcuno e se lo avevo baciato, e io avevo ripetuto di no, che non era così e che avevo solo ballato. Però non sembravano credermi. Ronnie, in particolare, diceva che ero strana, ma non capiva se era uno strano felice oppure no. E mi diceva “Se è successo qualcosa puoi dirmelo”. Si preoccupava sempre per me. Tutte le volte che a casa mia succedeva un casino, lei lo capiva subito per il modo in cui parlavo. Diceva che ero fredda e io allora le raccontavo tutto. Mi sopportava ogni volta. Però in quel momento non volevo darle un altro peso, ero venuta lì per stare meglio. Dovevo solo dimenticare tutto quello che era successo. Allora le avevo sorriso.

-No, te l'ho detto! Ero uscita per divertirmi e l'ho fatto! - e lei mi aveva creduto.

Dopo quattro giorni me ne dimenticai davvero di quella serata, non ci pensavo più, nonostante i lividi si vedessero ancora. La mattina mi alzavo, facevo colazione e andavo a lezione con un sorriso, come tutti gli altri. Ero felice di essere lì, di respirare quell'aria nuova e di riuscire a star bene; o almeno di provarci. Ed era diventata quella la routine di tutte le mattine: ci alzavamo presto, correvamo a seguire i corsi e il pomeriggio studiavamo nella biblioteca. Così iniziammo a sentirci dei veri e propri studenti del college, con l’unica differenza che non avevamo da studiare tutta quella pila di libri. Ci rintanavamo in quell’enorme stanza piena di studenti silenziosi e fingevamo di essere del loro mondo, prendevamo alcuni libri e facevamo finta di studiarli. A volte, però, non eravamo tanto tranquilli e allora ci beccavamo uno di quei rimproveri del bibliotecario. Urlava così tanto che tutti saltavano dalla propria sedia e a volte parlava così velocemente che non lo capivamo.
-O state in silenzio o andate via.. – diceva. E poi blaterava altre cose incomprensibili.

Noi però ridevamo sotto i baffi per non farci vedere, altrimenti ci avrebbe cacciato via a calci nel sedere. Ma eravamo sempre noi quattro a far casini, tutti gli altri ragazzi della nostra scuola erano innocui, troppo per i miei gusti. Si mettevano in un angolino appartato della biblioteca, studiavano senza alzare neanche per un attimo lo sguardo da quel libro e poi uscivano. Mangiavano e dormivano. Erano di una monotonia mortale e soltanto guardarli mi trasmetteva noia. Quindi preferivo studiare divertendomi, perché poi alla fine riuscivo a superare i test con ottimi voti. Addirittura l’insegnante mi faceva i complimenti per il mio accento. “Impeccabile” affermava “Hai un accento sublime”. Mi veniva quasi da ridere quando lo diceva. Era una donna che vestiva sempre con giacca e gonna colorate, la borsetta abbinata alle scarpe e il tono da ‘Miss ordine’. Ma era gentile, quindi la ringraziavo. Ronnie e Leo, però, non avevano sempre voglia di studiare in biblioteca. Allora a volte Ana mi faceva compagnia, altre volte invece no e mi toccava andarci da sola.

Fu uno degli ultimi giorni di quella prima settimana, quando dopo pranzo gli altri tornarono nelle camere e  io decisi di andare in biblioteca.

-Ana, io vado in biblioteca, ci vediamo dopo in camera!- le dissi, uscite dalla sala della mensa.

- Ancora? Ma non ti annoi ad andarci sempre?-

- Mi piace starci. –

Lei rise –Non capirò mai cosa ci trovi di bello lì dentro- e poi andò via.

Scossi le spalle e sorrisi, infondo era bello sentirmelo dire. Non diedi importanza al fatto che loro la ritenessero una cosa strana, perché a me piaceva davvero starci lì dentro. Mi piaceva avvicinarmi agli scaffali e sentire quell’odore di libri, di carta stampata, di pagine piene di vita e piene di storia. Mi piaceva camminare lì in mezzo e vedere se tutti i libri stessero al loro posto, nella lettera giusta o nel genere giusto e metterli poi in ordine. Mi piaceva sceglierne alcuni e leggerne delle pagine, imprimere le parole più belle su un diario. Prendevo un libro, ammiravo la copertina e poi leggevo la trama, lo sfogliavo e poi catturavo le frasi più belle. Era così che facevo sempre. Era così che avevo sempre fatto. Quell’ “ammasso inutile di carta”, come lo chiamavano gli altri, per me non era affatto inutile. Passavo pomeriggi interi in quella biblioteca, restavo lì finché non mi cacciavano perché dovevano chiudere. Come avevo fatto sin da piccola, in quella del mio paese. Mi rifugiavo lì dentro e tornavo a casa quando chiudevano. Ma era del tutto differenti lì, forse perché ero più grande o forse soltanto perché non era la stessa biblioteca. Era più grande, aveva molti più libri ed io ero molto più felice.

Quel giorno, appena entrai, notai che c’erano pochi ragazzi e pensai che forse era dovuto al bellissimo tempo che c’era a Londra quel pomeriggio. Mi diressi verso il fondo della sala, dove c’era il mio genere preferito, quello dei romanzi d’amore, e svoltai in quel corridoio di scaffali. Mi ricordai di un libro che cercavo da anni, un libro che aveva catturato la mia attenzione ma che non ero mai riuscita a trovare in nessuna libreria. “E’ fuori serie” mi dicevano “Non lo stampano più”. Ed io ci restavo male, ma nonostante ciò continuavo a cercarlo. Allora, appena mi ricordai di questo libro, decisi di controllare se ci fosse in quella libreria, anche se ci credevo poco. Cercai tra i vari ripiani la lettera “L”, di Looking For Alaska; quindi iniziai a frugare tra tutti i libri. Poggiai il dito sul primo della fila e lo sfilai su tutti i libri, leggendo i titoli. Alcuni erano pieni di polvere, abbandonati lì da chissà quanto tempo, altri avevano il fianco della copertina in pessime condizioni, usati chissà quante volte. E al centro di tutta quella fila, c’era uno spazio vuoto. Nel mezzo tra la K e la M, c’era un vuoto. Sospirai. Sopra c’era scritto il nome del libro, su un cartoncino, ma qualcuno lo aveva preso o ancor peggio era andato perduto, come spesso capitava. Decisi di chiedere al bibliotecario, nella speranza di trovarlo. Lo scorsi verso il corridoio dei libri di letteratura e tossii.

-Mi scusi, cerco un libro nella sezione Romanzi, ma ho notato che manca. E’ andato perduto? – chiesi intimidita. Quell’uomo sembrava sempre sul punto di incazzarsi.

-Che libro, precisamente?- chiese.

-Looking For Alaska- replicai, pronunciando quel nome con speranza. Era da anni che lo volevo.

-No, lo abbiamo. Ma prima un ragazzo lo ha preso- mi si illuminarono gli occhi. –Quel ragazzo che è lì!- indicò verso uno dei tavoli, io sorrisi. – Chiedi a lui. Se vuoi leggerlo deve dartelo appena termina, altrimenti potrebbe prenderlo qualcun altro prima di te - mi informò gentilmente.

Io annuii piano e lo ringraziai, voltandomi. Dentro di me fui felicissima di aver trovato quel libro, perché finalmente dopo tantissimi anni potevo averlo. Dentro fui felice, fuori non per molto.

Mi avvicinai a quel ragazzo per chiedergli di darmi il libro non appena lo avrebbe finito, proprio come mi aveva consigliato il bibliotecario. Camminai a passo spedito verso il suo tavolo. Era seduto a gambe incrociate sulla sua sedia, la testa piegata di lato e poggiata sulla mano che teneva chiusa in un pugno. Aveva gli occhi fissi sul libro, non si muoveva di un virgola, come se fosse immobilizzato. Sorrisi nel vedere quelle pagine che da tanto stavo aspettando, che svoltavano nell’aria da destra verso sinistra, con il leggero tocco delle dita del suo lettore. Sorrisi, perché pensai che era bello vedere qualcuno leggere, perdersi in quel piccolo mondo fatto di carta, inchiostro e amore. Sorrisi, perché pensai che era altrettanto bello sapere che quelle pagine le avrei lette io, di lì a poco. Sorrisi, però la mia espressione cambiò subito.

-Ciao, scusami...- mi si mozzò il fiato in gola. Che diamine ci faceva lì?

-Ciao..- si voltò staccando gli occhi dal libro.

Lo riconobbi dai capelli e dai lineamenti del viso, che avevo studiato bene e che non potevo dimenticare. Io lo riconobbi, ma sperai che lui non facesse lo stesso con me. Mi fissò per alcuni secondi, io restai in silenzio anche quella volta.

- Tu. – disse con enfasi. –Sei tu?-

Tossii arrossita, cercai di mascherare il mio lieve imbarazzo e finsi di non sapere chi fosse. – Io? –

–Si, tu. - ripeté.

–Chi sarei?- mi schiarii la voce – Non penso che ci conosciamo- e poi mi sedetti sulla sedia accanto alla sua, non volevo attirare ulteriore attenzione. 

Chiuse gli occhi in due fessure, mi guardò come se mi stesse studiando, come se fossi un enigma da risolvere. Prese tra le mani un foglio rettangolare, sottile, rosso, con su incisa una frase che non riuscii a leggere perché lo poggiò tra le pagine e chiuse il libro.

– Si, sono sicuro che sei tu!- insistette e –Non fingere- mi apostrofò.

E io rimasi sorpresa da quelle parole. Lo trovai schietto e diretto. Continuò a fissarmi, io continuavo a guardarlo. Mi ricordai d’un tratto del perché ero da lui, quindi senza giri di parole glielo dissi.

–Mi spiace infastidirti, volevo chiederti soltanto una cosa, poi tolgo il disturbo-

–Una cosa, cioè?- continuò.

–Il libro- riuscii a dire, mordendomi l’interno della guancia destra.

–Questo che sto leggendo?- lo indicò, io annuii.

–Si, quando hai finito dovrai passarlo a me-

–E se non voglio? – Lo disse in tono simpatico, ma io non risposi allo stesso modo.

–Non è di tua proprietà, non puoi scegliere-

Mi guardò, un raggio di luce gli trafisse gli occhi.
Gli occhi, li guardai bene quegli occhi.
Azzurro. Sì, quello sembrava azzurro.
Aveva gli occhi azzurri. Glaciali occhi azzurri che mi fissavano. Poi mi sorrisero.

–Va bene, hai ragione-

Sorrisi anche io a quel punto,
–Perfetto, grazie. Ti lascio leggere! – poi mi alzai.

Mi stavo allontanando quando la sua mano gelida mi toccò il braccio. Gelida, non più calda.

–E dov'è che ti trovo poi?- mi chiese sorridendo.

–Tutti i giorni qui- replicai, prendendo a camminare.

Ma la sua voce mi chiese di fermarmi. –Aspetta! Qui?-

–Si, in biblioteca- sorrisi.

–A che ora?- mi tirò ancora il braccio e io mi avvicinai, ero troppo lontana per potergli parlare in tono basso. Poi gli risposi.

–Da dopo pranzo, fino alle otto.- sorrisi, lui mi guardò in modo strano. Ma non era turbato, sembrava soltanto curioso.

–E tu, ogni giorno, sei qui per tutto questo tempo?-

–Esatto- annuii in conferma.

–E cos'è che fai qui?- sorrise ancora, tenendomi il braccio.

–Leggo, cos'altro potrei fare?- Che domanda stupida, pensai. Quella conversazione stava prendendo una piega strana.

–Studiare, ad esempio- io risi leggermente e annuii.

–Giusto. Faccio anche quello.-  guardai la sua mano che mi stringeva piano il braccio, non mi aveva ancora mollato.

–Cos'altro fai nella vita, oltre leggere?- io sorrisi.
Mi stava davvero chiedendo quelle cose? Scossi la testa, tirandomi piano il braccio.

–Non mi sembra il caso, scusa. Ti lascio alla lettura. Ci si vede.- gli dissi.

–Ci si vede..- replicò, con un sorriso, lievemente imbarazzato.

A quel punto mi voltai e presi a camminare verso l’uscita della biblioteca. Era davvero strano il
caso alcune volte, farmi incontrare dopo giorni quella stessa persona che avevo piantato perché non volevo che mi conoscesse. Non volevo, eppure sembrava che dovesse accadere proprio questo. Era tutto assurdo e strano: in una città così grande, lui proprio lì doveva essere? E tra tanti momenti della giornata, proprio in quel momento doveva esserci? Ma, soprattutto, tra tanti libri proprio quello che cercavo aveva deciso di leggere?
Poi pensai. Pensai che se non avessi letto quella trama tanti anni prima, se non me ne fossi innamorata, se non lo avessi cercato per anni o, magari, se lo avessi trovato da qualche altra parte, io ora non lo avrei incontrato di nuovo. E sarebbe filato tutto liscio come l’olio, senza intralci, senza intoppi. Avrei finito quel mese in santa pace, poi me ne sarei andata da lì, in giro per l’Inghilterra, alla ricerca di un luogo stabile. Eppure no, avevo incontrato quel ragazzo più di una volta e dovevo incontrarlo ancora. Non erano stati semplici incontri, però. Avevo visto come mi aveva guardata. Sapevo con che tono mi aveva chiesto dove poteva trovarmi, sapevo che quel quarto grado, che anche per quella volta mi ero risparmiata, me lo avrebbe fatto prima o poi. Perché lui aveva visto quelle cicatrici, lui aveva visto e non se ne era dimenticato. Lo avevo letto dai suoi occhi. Gli stessi occhi che mi avevano incantata anche quando erano ignoti. Quegli occhi che ora erano azzurri e che mi avevano guardata alla luce. Quelli che non mi aveva allontanata e che mi avevano presa. Perché a volte quando qualcuno ti sorride con gli occhi tu ti tuffi in quel mare, sperando di salvarti. Ma se ti ci butti di petto ti fai male e puoi rischiare affogarci lì dentro. Allora cerchi la boa e se la trovi ti metti in salvo. Altrimenti sei fregato, ti guardi indietro e maledici il momento in qui sei saltato da quegli scogli. Ma io non ero ancora saltata. Ero in bilico su un piede, indecisa tra il buttarmi e rischiare di affogarci o il voltarmi e tornare indietro, da quella foresta infuocata che si espandeva sempre di più e minacciava di bruciarmi.
Fuoco o acqua.
Morte o vita.

"Che ragionamento assurdo" pensai "è un semplice ragazzo!" E mi misi a ridere. Poi pensai che dovevo smetterla di pensare troppo, perché non mi faceva affatto bene. Entrai nella mia camera e mi buttai sul letto, ignorando gli altri che continuavano a parlare.
Ronnie e Leo erano sul letto, mentre Ana era in bagno a farsi una doccia.

–Ma tu sei idiota!- rise dolcemente al suo ragazzo –Stasera vieni punto e basta!- e risero insieme.

–Va bene, va bene! – disse lui –Ma lo hai detto a Sophie?-

Si voltarono verso di me. Stavo contemplando il cielo di quella sera, pieno di stelle e con la mezza luna al centro. Li sentii ma non risposi, perché ero fatta così. Perché non parlavo a meno che non mi chiedessero qualcosa. Ero una persona di poche parole. E quelle poche volte che parlavo, ne tiravo fuori dei lunghi poemi che potevano annoiare. Quindi, spesso, me ne stavo in silenzio. Come ero stata abituata a fare fin da piccola. “Non parlare se non sei interpellata” mi diceva mio padre con cattiveria. E io lo facevo, ma avevo trasportato con me quell’ abitudine.

–Allora, Sophie, ci vieni con noi stasera?-

A quel punto mi voltai, per guardarli.
–Dov’è che dovrei venire?-

–Ad una festa- sorrise Leo.

–Siete pazzi! Non ci vengo ad un’altra festa, finisco per ubriacarmi come l’altra volta – risposi. –E poi non mi va, ho sonno.-

Ronnie sorrise –Va bene, noi tra poco andiamo- io annuii e tornai tra i miei pensieri.

Quando andarono via dalla camera io mi misi sotto le coperte. Mangiai solo una mela che avevo preso alla mensa. Mi rannicchiai nel letto e chiusi gli occhi.

Pensai ai libri, alle loro pagine, alle loro storie. Pensai agli occhi azzurri.
Pensai poi che ci sarei andata di nuovo in quella biblioteca. Tutti i giorni, fino alle otto. Tutti i giorni, finché gli occhi più belli che avessi mai visto non mi avrebbero portato quel libro.

Poi mi chiesi se volevo aspettare tutti i giorni per il libro, oppure per l’azzurro.





SPAZIO AUTORE

Buonasera e buona domenica, come state?
Stavolta ho impiegato più tempo per pubblicare il capitolo, ma è per colpa della scuola.
Sono in quinto liceo e ho l'esame, quindi se non pubblicherò molto spesso è perchè ho poco tempo per scrivere.
Anyway, il capitolo è incentrato su lei e il suo inaspettato incontro con il ragazzo della festa. Ricordate?
Ho sempre amato le storie difficili, forse prorpio per questo amo il libro che ho citato nella storia. Non so se lo conoscete, è di John Green, Cercando Alaska. Lo ammetto, non l'ho mai letto, proprio come Sophie, ma lo amo da impazzire e mi ispira tantissimo. Soltanto che non lo vendono più e l'ho trovato in pdf in inglese, prima o poi lo leggerò ew.

Cosa ne pensate del capitolo? Spero vi sia piaciuto, ma mi piacerebbe sapere il vostro parere!
Grazie mille, vi adoro!

Moon

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Capitolo 7
*** Stelle nella notte ***


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Caddi presto in un sonno profondo quella notte. E sognai, sognai di voler volare.

Avevo tra le mani una piuma, forse quella di un gabbiano, e il cielo era limpido, di un azzurro luminoso. Stavo fissando quella piuma come se stessi cercando di leggerla, di capire perché era poggiata proprio sul mio palmo e non sul legno bagnato di quel molo. Quei fili bianchi tremavano sotto il tocco del vento, si muovevano delicatamente in una danza. Quella piuma mi stava trasmettendo una calma assurda. Tutto sembrò più leggero, perfino il mio corpo che stava iniziando a fluttuare nell’aria. Sei libera, mi disse una voce, ora puoi volare. E pensai di volerlo fare, di lasciarmi andare sù nel cielo. Quello che avevo tra le mani era diventato un simbolo, un segno per ricordarmi che ora ero libera. La fissai, tra le mie mani, mente quel molo sotto di me sembrò diventare un punto in lontananza, un punto piccolo ed insignificante rispetto alle enormità che c’erano da scoprire. La fissai bene, anche quando d’un tratto evaporò e scomparve. La mano divenne bianca, di un colorito fuori dal normale. Un fumo nero iniziò a circondarmi, e un pavimento gelido mi si piantò sotto i piedi. Urla, c’erano urla, risate perfide e ghigni. Poi d’un tratto una mano mi afferrò con violenza. Dove scappi? Non andrai lontano.  Stavo soffocando, l’aria mi mancava maledettamente e il cervello stava per scoppiarmi. Urlai anche io insieme a tutte quelle voci, poi come un eco in lontananza scomparvero e ripiombai sulla terra ferma.

Avevo sbarrato gli occhi di colpo, frugando con lo sguardo un’ombra di luce che mi facesse capire che era solo un incubo, che non c’era nulla di cui dovessi preoccuparmi. Le luci in camera erano tutte spente e l’unica fonte luminosa era la luna in cielo che, attraverso la sottile fessura della tenda, rifletteva il suo bagliore sul pavimento e riusciva a farmi riprendere fiato. Stavo respirando a fatica, come se tutte quelle urla rimbombassero ancora nella mia mente, passando per la mia gola e facendomi mancare l’aria. Scostai subito la coperta dalle mie gambe, mettendomi seduta e prendendo la mia testa fra le mani, scuotendola e cercando di far tornare il mio respiro regolare. Poggiai una delle mani sul petto e sentii il mio cuore battere all’impazzata, come se volesse scoppiare e far scoppiare con lui anche me. Allora mi alzai, tastai il letto accanto al mio e verificai che le ragazze non erano ancora tornate e pensai che forse non era molto tardi. Ma l’ultima cosa di cui mi importava in quel momento era l’ora. Avevo bisogno di bere dell’acqua e di prendere dell’aria, camminare un po’. E cos’ feci, misi una felpa che mi tenesse caldo, presi una bottiglia d’acqua che tenevo in borsa e uscii dalla camera dirigendomi nel piccolo spazio sul retro del college.

‘Non andrai molto lontano’ rimbombò ancora nella mia testa quella voce, che ricordavo come se fosse stata reale: rauca e profonda, che astrattamente penetrava i miei timpani, con una violenza e una crudeltà inumana. Bevvi subito un sorso d’acqua, cercando di dimenticare quel suono assordante che aveva un tono fin troppo familiare. Sapevo di chi si trattava ed era proprio per questo motivo che il respiro mi era mozzato, perché quel sogno che si era tramutato in un incubo, mi aveva aperto gli occhi come se fosse stato un messaggio di avvertimento: prima o poi mi avrebbero trovata perché la scia che mi ero lasciata dietro era un’ottima pista per loro che erano a casa, la loro casa; che avevo lasciato in sospeso troppe cose e che, si sa, il passato torna sempre a farti visita. Quello era stato solo un assaggio e, da quel momento in poi, dovevo essere pronta per qualcosa di molto peggio. Non potevo di certo aspettarmi di chiudere i ponti con il passato, scappando via da tutto, come se nulla fosse. Avrei dovuto pensarci prima, a distruggere quegli indizi, a scappare senza la scuola, a fuggire da sola e dall’altra parte del mondo. Come l’Australia o l’America, distanti milioni di chilometri da casa e così grandi da far perdere anche agli agenti segreti la speranza di ritrovarmi. Però ora ero lì e rischiavo che da un momento all’altro qualcuno venisse a bussare alla mia porta per dirmi che mio padre era venuto a prendermi, perché secondo lui non potevo andare molto lontano. Cacciai allora tutta l’aria che avevo nei polmoni, sbuffando pesantemente e rendendomi conto di essermi cacciata in una situazione pessima e che dovevo tirarmene fuori il prima possibile.

Attraversai il corridoio che dava sul retro e scavalcai uno dei muretti sovrastati da archi, dato che la porta era chiusa. Trovai un piccolo tratto d’erba in quello spiazzale e mi ci sdraiai sopra, con la testa poggiata su un piccolo cespuglio e lo sguardo rivolto verso il cielo.. Un enorme manto di stelle luminose, che sovrastavano la mia testa, a chiazze blu di cielo. Era da tanto che non vedevo un cielo come quello. Di solito, neanche quando in estate mi capitava di salire sul tetto di casa riuscivo a vedere così bene le stelle, considerando anche che ci salivo di nascosto e che dopo due minuti mi venivano a cercare e mi facevano correre subito in camera. “Ti butto giù dal tetto la prossima volta, altro che stelle!”. E allora ne vedevo poche. Però, una volta le vedi bene, forse anche meglio di quella volta al college. Fu la sera di un quindici Agosto, quando ero piccola e i miei mi lasciarono con mia zia Camilla, soltanto perché lei aveva insistito a portarmi in un posto che lei definiva bellissimo. Quando mi ci portò, potei confermare che lo era. Aveva una casa in montagna, una di quelle baite che si vedono nei film in tv, fatte con il legno e con tanto di caminetto. Ma quel giorno il caminetto non lo avevamo usato, eravamo andate sul tetto di casa sua per guardare le stelle, uno spettacolo straordinario. A me non piaceva vederle e per di più avevo anche paura dell’altezza: fu proprio grazie a lei che superai questa mia fobia e scoprii un amore sconfinato per le costellazioni, per quella meraviglia su di noi, quell’enormità, quell’opera d’arte meravigliosa. Volevo provare la stessa sensazione di stupore quella notte, ma non era la stessa cosa, non c’era mia zia Camilla a dirmi i nomi di ogni costellazione e a cantarmi la canzone delle stelle: adesso c’ero io basta e la canzone dovevo cantarla da sola.

-“Guarda sul nel cielo un milione di stelle... “ iniziai a canticchiarla a bassa voce, tenendo lo sguardo fisso verso quel paradiso luminoso “..son tutte per te”.

E quando sentii delle voci provenire dal corridoio mi zittii un attimo, aspettando che se ne andassero. Capii che erano tornati tutti, qualcuno di loro rideva e qualcun altro zittiva tutti trattenendo a sua volta delle risate, così quando non sentii più nessuno ripresi la mia vecchia ninna nanna. Mia zia Camilla era stata la mamma che non avevo mai avuto, mi aveva insegnato a vedere il mondo con occhi diversi, facendomi capire che oltre a quel buco infernale in cui vivevamo tutti, c’era un mondo intero che era molto più bello. Mi aveva sempre raccomandato di andarmene da lì il prima possibile, perché vedeva che io non ero felice e allora mi diceva “Piccola Sophie, ti prometto che un giorno sarai libera come una farfalla e promettimi tu, invece, che ogni qual volta guarderai il cielo di ricorderai di tutte le belle cose che ti ho sempre detto. Scegli una stella e portala sempre con te, sarò io che ti proteggerò sempre”. Ma quando era morta per qualche malattia strana che se l’era portata via, io ero crollata ancora di più. Mi ero però promessa di seguire i suoi consigli: andarmene via da quel buco infernale. E lo avevo fatto, non solo per lei, ma per me stessa. E quella canzone mi ricordava lei e tutte le belle cose che mi aveva detto.

-“Scegli quella che vuoi, io te la regalo, è solo per te.. Faremo una magia e quella stella..

La mia voce si unì ad un’altra, fu una fusione di suoni che mi fece sussultare il cuore. Mai nessuno aveva cantato quella canzone, solo io e mia zia l’avevamo cantata insieme. Ed ora questa voce sconosciuta si stava combinando con la mia, in un’unica voce..

-..scenderà giù.

Tossi, mi voltai sbalordita. Arrossii di colpo, di nuovo lui. Di nuovo lì, ancora. Continuò, stendendosi accanto a me e fissando lo sguardo verso il cielo.

-“Afferrale la coda, ci trascinerà fino lassù. La cavalcheremo, ci porterà in giro per il cielo, ci mostrerà il mondo da lassù..”-

Ero in imbarazzo, non sapevo come comportarmi, cosa dirgli. Non sapevo se alzarmi oppure restare lì, a fissare le stella, ignorando la sua presenza.

Perché è venuto qui? Cosa vuole da me? Che mi lasciasse in pace per una volta!

Non lo lasciai terminare le canzone, presi la bottiglia che avevo lasciato a terra e mi misi a sedere. Tossicchiai e misi una ciocca dietro l’orecchio.

-Che ci fai qui, scusami? -

-Ti infastidisce la mia presenza? – sorrise guardandomi.

-Mi infastidisce che ti comporti come se ci conoscessimo da una vita! – risposi in tono aspro - Non so neanche qual è il tuo nome e nel bel mezzo della notte ti sdrai accanto a me cantando la mia stessa canzone? –

Tornò con un’espressione seria e rialzò lo sguardo verso il cielo.

-Non ti ho seguito, tranquilla. Sono tornato ora e ho sentito una voce cantare una canzone familiare e mi sono sdraiato qui, semplicemente. –

Semplicemente? Ma è uno scherzo? E’ ovunque, mi perseguita!  

-Allora se non mi segui, spiegami perché mi ti trovo sempre davanti ai piedi. –

-Guarda che sei tu quella che in biblioteca è venuta da me per chiedermi il libro..- mi apostrofò. E improvvisamente sembrò una conversazione tra due persone immature ed infantili.

- Senti, lascia perdere. Non voglio nulla, soltanto il libro. Lascialo in biblioteca, lo prenderò lì.- mi alzai da terra e pulii quel poco di terriccio che si era attaccato ai vestiti. -Spero non ti dispiaccia se me ne vada, no? Oppure vuoi seguirmi fino in camera? –

Si alzò anche lui da terra, mi guardò. – Non ti seguo, ti accompagno. – scoppiai a ridere.

-Ah, si giusto, così mi dai il bacio della buona notte e mi dici ‘a domani’. – risi infastidita.

-Sei sempre così dolce tu?- sorrise. Cosa c’è da sorridere? –Ti lascio in pace allora.-

Infilai la bottiglia nell’enorme tasca della felpa e, abbassando lo sguardo, mi accorsi della mani che era risvoltata. Alzai gli occhi e stava guardando in quel punto. Gli bastava la fioca luce dei lampioni per vedere quell’orrendo spettacolo a chiazze viola. Mi incupii e sistemai la manica.

-Cosa son…- tentò lui.

-Buonanotte.- conclusi e mi avviai nel corridoio, correndo verso la mia camera.

 

Lo lasciai lì, per l’ennesima volta, senza una degna risposta, in modo poco gentile. Ma di dolcezza io non ne conoscevo, perché me l’avevano sempre negata. E come poi dare qualcosa a qualcuno se neanche tu sai com’è fatta?

Forse di dolcezza ne avevo, ma nel profondo del cuore, all’interno di una grotta buia e fredda, all’interno di quel cuore di ghiaccio. E soltanto il caldo poteva salvare quel pezzo di cuore ancora sano, nascosto in quelle gelide profondità.




Spazio autore

Ciao cari lettori, mi dispiace se vi ho fatto asettare troppo ma è stato un periodo pieno di impegni! E considerando che la fine dell'anno si avvicina e l'esame anche, immagino che sarò ancora più impegnata! 

Scusatemi se il capitolo è un pò breve e molto descrittivo. Spero non vi abbia annoiati! Cosa ne pensate? Aspetto un vostro giudizio.. grazie.

Alla prossima! Un bacio,

Moon.

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Capitolo 8
*** Cuori imperfetti ***


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Quando io e i miei fratelli eravamo piccoli, mamma e papà ci portarono al mare. Avevo nove anni, non potrò mai dimenticarlo: per la prima volta in tutta mia vita potevo vedere il mare. Quando avevo ricevuto la notizia ero scoppiata in un urlo di gioia e avevo pensato che sarebbe stato bello fare un gita tutti insieme, come una vera famiglia. A nove anni io pensavo che non eravamo un vera famiglia, a nove anni non mi sentivo amata, a nove anni ero solo circondata da disprezzo. A nove anni. Nove anni era l’età in cui i bambini dovrebbero pensare soltanto a giocare e io, invece, pensavo ad essere apprezzata dalla mia famiglia. Quella calda mattina di Agosto di nove anni prima, mia madre mi fece alzare presto mentre tutti dormivano ancora, mi fece indossare uno dei costumi vecchi di mia sorella e mi disse “Abbiamo solo questo, non romperlo altrimenti tuo padre si arrabbia”. E come quella mattina, in ogni giorno della mia vita in quella famiglia tutto era sempre stato incentrato su di lui, su mio padre e su come io dovessi comportarmi nel modo in cui diceva lui altrimenti le avrei prese di santa ragione. Ma comportarmi secondo le sue regole equivaleva a comportarmi come se non esistessi: “Stai zitta”, “Stai ferma”, “Smettila di fare casini”, “Vai a mangiare in camera”, “Non urlare”. E quel 13 Agosto ne fu aggiunta una nuova alla lista delle sue straordinarie regole: mi ero lanciata sulla sabbia appena eravamo arrivati ed ero corsa verso la riva, bagnandomi i piedi con l’acqua gelata, ma mio padre che era alle mie spalle me le afferrò e mi girò verso di lui “Tu oggi non farai il bagno, è chiaro?” avevo abbassato lo sguardo, girandolo verso mia madre, nella speranza di trovare un conforto, ma lei aveva annuito severa: “Non siamo venuti qui per te”. Ma il coraggio di risponderle non mi era mancato “E per chi siamo venuti? Per Ivan? Per Jessy? E io? Perché io no? Chi sono io, nessuno?” e mi ero buttata in acqua piangendo, mentre i miei genitori rimasero a guardarmi sorpresi, come chiunque altro avrebbe fatto, perchè una bambina di quell’età non poteva rispondere e ribellarsi in quel modo come una quindicenne. Ma a nove anni io stavo iniziando a capire come era il mondo che mi circondava e loro se ne erano accorti fin troppo bene. Fu da quell’anno infatti che iniziarono i veri e propri incubi da sveglia, perché i miei genitori avevano cominciato ad escludermi sempre di più dalla vita familiare, perché non obbedivo, perché ero la rovina della famiglia. E loro non avrebbero fatto niente più per me, neanche qualcosa simile a un granello di sabbia nel deserto: non potevano farlo, perché io non lo meritavo, perché io facevo schifo come figlia. Continuavo a chiedergli perché, dai nove anni ai 12, chiedevo a loro cosa avevo di diverso dai miei fratelli ma nessuno mi dava una risposta e dai 13 anni ai 18 avevo imparato a starmene zitta: credevano che sapevo finalmente comportarmi nel modo che loro ritenevano giusto, ma non avevano capito che in realtà avevo imparato ad odiarli in silenzio, che ormai ero diventata un ragazza furba che sapeva quando parlare e quando starsene zitta, che sapeva che restare lì non le avrebbe fatto bene. Dopo quel 13 Agosto non vidi più il mare.
 
-Buongiorno piccolo raggio di sole!- Ronnie saltellò sul mio letto che iniziò a scricchiolare – E’ ora di alzarti, le lezioni iniziano tra un quarto d’ora.- sorrise, si abbassò verso di me e mi diede un bacio sulla guancia, io ricambiai il sorriso e mugugnai in risposta – Ti voglio bene, lo sai. Ma è ora alzarti se non vuoi che ti tiri io giù dal letto a forza di.. cuscinate!– allungò il braccio sul letto accanto, sfilò il cuscino dalle lenzuola e iniziò a lanciarmi addosso quell’ammasso di piume e stoffa mentre io mi proteggevo con le braccia.
-D’accordo, d’accordo, mi alzo! – urlai ridendo e lei terminò quel supplizio. Mi alzai e pensai che i suoi risvegli ricchi di allegria mi mettevano di buon umore, il che era il suo ruolo nella mia vita da cinque anni a quella parte: rendere le mie giornate più felici. Mi guardò sorridente, come se fosse la persona più felice al mondo.
– Sei di buon umore oggi, o sbaglio? –
-Oh no mmh, non è nulla- conoscevo troppo bene Ronnie e sapevo che c’era qualcosa che doveva dirmi. Mi avvicinai ancora di più e la guardai con sguardo complice.
- Sei sicura che non hai qualcosa da dirmi, eh?- ridacchiai –Cos’è successo? Leo ti ha mandato un mazzo di rose oppure ti ha scritto una lettera d’amore che ti ha fatto stampare quel sorrisino sulla faccia? Non è di certo nulla, perché io ti conosco mia piccola Ronnie, quindi sputa il rospo prima che ti uccida di solletico – scoppiò a ridere e scosse la testa rassegnata.
- A me non è successo nulla – la guardai perplessa – Ma a te forse si – ora ero confusa. Si alzò, dandomi le spalle, aprì il cassettone del mobile e ne tirò fuori un pacchetto argentato di forma rettangolare, con un nastrino blu decorato da stelle e legato ad esso c’era un piccolo biglietto bianco, ripiegato. Non riuscii a capire.
- Credo che questo sia per te, l’ho trovato fuori la porta questa mattina mentre uscivo per colazione. Non uccidermi, ma ho letto il biglietto, non sapevo di chi fosse. – sorrise e lo poggiò tra le mie mani. Io non seppi cosa fare, fissai lei e poi il pacchetto.
- Cosa devo fare adesso? – sospirai, poi il terrore mi invase – Non sarà mica qualcosa da mio padre? – inghiottii rumorosamente.
Ronnie sorrise rassicurandomi – No, sta calma tesoro, leggi il biglietto – sospirai tranquilla e lessi:

 
“Ho guardato il cielo e ho capito che siamo così piccoli e soli che se scoppiassimo,
in tanti pezzi quante sono le stelle, nessuno se ne accorgerebbe.
Diventeremmo parte degli astri e almeno così il mondo riuscirebbe a vederci.
E se questo significasse rendere felice qualcuno che sta guardando il cielo,
più luminoso di prima, allora scoppierei all’istante.
A volte basta poco per star bene, a volte invece no.
Ma spero che questo sia sufficiente. Scusa il disturbo, ma te lo dovevo.”

 
Richiusi il bigliettino, lo sfilai dal nastro e lo infilai nella mia tasca. Avevo gli occhi di Ronnie addosso, mi stava fissando in attesa di una mia risposta. Ma io non avevo nulla da aggiungere, lei aveva letto, io avevo letto e non c’era nulla che io potessi dire. Non sapevo bene lui chi fosse ne come si chiamasse. Ma apprezzai quelle parole che, per quanto potessero sembrare prive di senso, avevano un profondo significato, qualcosa che io riuscivo a capire. E mi piaceva, mi sentivo capita. Fu carino il suo gesto ma mi chiesi cos’era che lui mi dovesse e perché, cosa lo portasse a pensare che lui dovesse qualcosa a me. Sorrisi, scuotendo piano il capo.
-Su forza, vuoi aprire?- disse euforica
-Si si, ora apro, un attimo- e scartai piano quella carta argentata che sembrava luccicare tanto quanto le stelle della notte scorsa. Scostai l’involucro e vidi il fianco di quello che sembra essere un libro. Pagine bianche, le une unite alle altre, rivestite da una copertina nera, con una piccola margherita bianca in basso e in alto, a caratteri cubitali, la scritta “Looking for Alaska”. Portai una mano sulle labbra e un sorriso scoppiò sul mio viso proprio come lui sarebbe scoppiato per rendere felice qualche sognatore sotto un cielo stellato. Quel libro era nuovo e lui, il ragazzo sconosciuto che mi perseguitava ovunque, lo aveva regalato a me. Me lo doveva, diceva in quel biglietto. Ma cos’è che mi doveva? Non ci conoscevamo affatto. Ciò che mi doveva era soltanto il libro della biblioteca, non un libro nuovo. Forse non voleva farmi aspettare troppo o, forse, era uscito fuori di testa. Sì, fui sicura che la seconda opzione era quella esatta: era impazzito.

-Allora, cos’è?-
-Il libro che stavo cercando- sorrisi
-Quale libro?-
 -Cercando Alaska! Ricordi quando ti dissi che cercavo un libro da anni?- lei annuì –Ecco, è quel libro lì. Nuovo di zecche. –
-Ah si? E chi è questo anonimo ammiratore?-
-Non è un ammiratore, è un amico che ha fatto un gesto carino- lei ridacchiò
-Un amico. Sì, da quando in qua hai degli amici sconosciuti che ti regalano i libri dei tuoi sogni?-
Tossicchiai –Da oggi, direi- sorrisi –Ma penso che glielo restituirò una volta che ho finito, non posso tenerlo-
-Perché no? Infondo te lo doveva.. Oppure no?- Presi il libro e lo richiusi nella sua carta argentata insieme al nastrino e lo poggiai sul mio comodino
– Non lo so, non so perché dice che me lo deve, non capisco il senso. Quindi glielo restituirò, anche perché non merito tutto questo! –
-Perché dici di non meritarlo, Sophie? Hai detto che è stato un gesto carino.-
-Infatti lo è stato, ma non l’ho trattato bene e non penso che debba tenermelo- presi un attimo di pausa –Insomma, i gesti carini si fanno con le persone carine, è strano-
-Sei tu che sei strana, che ti prende?- mi guardò con uno sguardo dolce – Sophie, tu sei una persona carina e meriti anche di meglio! Quindi accetta questo regalo, perché sappiamo tutti che lo aspettavi da tanto-
 -Ma non saprei come ripagarlo!- sospirai, avevo sempre questa tendenza a respingere i gesti carini, come se essere trattata bene non facesse parte della mia natura.
-Non devi ripagarlo, dovrai semplicemente ringraziarlo-
-Ma non so neanche dove sia..- mi sciolsi i capelli ancora legati in un chignon e nell’istante in cui decisi di raccontarle della notte scorsa e delle volte ancora prima in cui avevo avuto degli incontri con lui, Ana entrò in camera nostra urlando un suo caloroso buongiorno e gettandosi sul letto. Sdraiata tra di noi, con la testa su un cuscino ci guardò e sorrise
- Ho interrotto qualcosa? – noi scuotemmo la testa, dicendo in coro un secco “No” e “tranquilla” aggiunse Ronnie.
- Ma non dovevamo andare a lezione? Cavolo! – strillai improvvisamente saltando dal letto e aprendo di corsa l’armadio.
-No!- rise Ana guardandoci –l’insegnante oggi non c’è, dicono che ha problemi familiari, quindi le lezioni sono state spostate a domani, ma non ne sono certi- sospirai con gioia. - Che fortuna!- disse Ronnie. Passammo tutta l’ora successiva a parlare di quanto fossero belli i ragazzi del college secondo Ana e di quanto a Ronnie non importasse perché il suo Leo era molto più bello di tutti quelli del college. E si parlò anche di quel pacchetto sul mio comodino, di chi me lo avesse regalato e di cosa avessi intenzione di fare io con lui, con il ragazzo.
-Io? Lo ringrazierò, semplice- perchè in un modo o in un altro, lo avrei fatto. Sentii un bisogno irrefrenabile di scusarmi con lui per come mi ero comportata e di ringraziarlo per quel gesto che aveva fatto, ma che, ahimè, non riuscivo a capire.


Passai così tutte le ore successive immersa nella lettura, preferendola di gran lunga allo studio. Nella prima pagina, dietro la copertina, trovai questa frase, scritta con una penna nera in una scrittura sciatta, la stessa del biglietto:
“Lei era tutta alti e bassi, prima fuoco e fiamme e subito dopo fumo e cenere.” e nella pagina successiva c’era scritto “La biblioteca è il miglior posto per la lettura, grazie” e accanto un cuore un po’ deformato. Probabilmente era negato nel disegnare cuori, ma a me piacque pensare che quel cuore deformato in verità aveva un significato di fondo. Il protagonista di quella storia era in cerca di un "grande Forse" e io non seppi fare a meno di innamorarmi di lui e non soltanto lui, ma ogni singola pagina di quel libro mi conquistò subito. Intanto che la pioggia fuori bagnò tutto: strade, palazzi, persone, io, allo stesso modo, bagnai quella carta zuppa della mie lacrime.
Salate lacrime di una tristezza che nessuno poteva capire, nessuno, tranne chi quel libro lo aveva vissuto come avevo fatto io. In un solo pomeriggio mi sentii capita, riflessa in parole che non mi appartenevano. Lei, Alaska Young, quel inguaribile lunatica e misteriosa ragazza, mi rispecchiava così tanto che  (piccolo grande spoiler: attento a chi non vuol sapere il finale) dopo la sua morte io mi sentii svuotata e fu lì che scoppiai in un pianto silenzioso. Quando chiusi l'ultima pagina del libro, mi asciugai le lacrime e guadai fuori dalla finestra quella pioggia che a poco a poco cessava, stanca ormai di cadere. Il cielo piangeva per colpa delle nuvole che non gli permettevano di vedere la luce ed era triste, ma non poteva piangere per sempre perchè la tristezza non faceva altro che alimentare quelle nuvole cupe; allora non pianse più, così con un soffio di vento la luce sarebbe tornata da lui.
Presi la mia strada verso l'esterno, srotolai l'ombrello dal suo involucro di plastica, misi il libro in borsa e mi incamminai fuori dal college. Senza pensarci due volte, andai dritta verso il pub, sotto la pioggia scrosciante che tamburellava sul mio ombrello giallo canarino. Se c'era un posto in cui avrei potuto trovarlo, quello sarebbe stato di certo il pub, dove aveva lavorato quella sera; cosí avrei potuto ringraziarlo e restituirgli libro per poi sparire definitivamente dalla sua vita.
Trillò il campanellino sulla porta quando entrai e attirai l'attenzione con gli stivaletti inzuppati d'acqua che scricchiolavano sul pavimento di legno. Il locale era completamente diverso, aveva un'aria piú classica, più Londinese, era tutto in legno scuro e gli sgabelli erano di pelle, di un colore blu chiaro. Mi misi a sedere su uno di essi.
- Cosa desidera? –
- Un drink analcolico –
- Di che tipo? Ne abbiamo tanti, tenga il menú - mi porse un libricino in pelle: bibite. Scossi la testa e glielo restituii.
- Faccia lei, mi fido dei suoi gusti - sorrisi
- Allora proporrei per il mio preferito, White Stawberry - annuii e gli lasciai preparare il drink, guardandomi intorno per trovare quella chioma biondo scuro. Presi il mio drink, pagai il barista e mi andai a sedere ad un tavolo, ripescando il libro e leggendo le parti che piú mi avevano colpito.
 
"Passi la vita inchiodato nel labirinto, pensando al modo in cui un giorno ne uscirai,
e a come sarà fantastico, e immagini che il futuro ti trascinerà pian piano fuori di li,
ma non succede. È solo usare il futuro per sfuggire al presente."
(Cercando Alaska, John Green)
 
Il barista passò a prendere il mio bicchiere vuoto e capii che era lui quando alzai lo sguardo. Scintillanti occhi blu, sotto una ciocca biondo scuro. Mi ricomposi.
- Oh ehm ciao! –
- Ciao.. Che ci fai qui?-
- Bevo qualcosa, no? - risi
- Oh si scusa, volevo dire.. –
- Non preoccuparti. Ti ringrazio. - sorrisi richiudendo il libro e porgendoglielo. - É stato davvero un bel libro-
- Ma non devi restituirmelo, è un regalo-
- Perchè? –
- Perchè si, non deve esserci per forza una motivazione - sorrise, poggió il bicchiere sul vassoio - e comunque prego. Desideri altro? - scossi la testa senza aggiungere altro - Ora torno a lavoro, scusami! - e sparí. Ma io volevo capirci di piú di tutto quello che stava accadendo, quindi mi rimisi a sedere e aspettai che finisse il suo turno. Mi guardó di sottecchi, mentre correva con il vassoio nel locale e quando finì andó dritto verso la porta d'ingresso. Scattai in piedi in un lampo e lo seguii, cercando di raggiungerlo nonostante il suo passo rapido.
- Hei hei! Tu.. - mi fermai accanto a lui - Tu.. Posso sapere almeno il tuo nome? –
- Louis. Piacere mio.. ? –
-Sophie – aggiunsi - Bene Louis insisto nel restituirti il libro! –
Lui ridacchiò - Sei proprio testarda. Non devi restituirmelo, voglio che lo tenga tu –
- Ma non trovo ragioni per questo –
- Non necessariamente ogni cosa ha il suo perchè, a volte le persone fanno le cose, così, senza pensarci una volta di più – sorrise, voltandosi e continuando a camminare lungo il suo percorso.
- Ma credo che in fondo c’è sempre un motivo. Ogni cosa, anche mettere prima il latte e poi il caffè ha una sua ragione. Non trovi? – continuai a seguirlo senza guardare dove stessimo andando. Stringevo il manico dell’ombrello con una mano e con l’altra tenevo il libro.
- Certo, ma magari decidi di mettere prima il latte perché pensi sia giusto, perché potresti anche decidere di non aggiungerci più il caffè. Quindi sì, ogni cosa è fatta per un motivo, ma a volte possiamo anche semplicemente farlo perché crediamo che sia la cosa giusta. – ci fermammo ad un incrocio, c’era il semaforo rosso per i pedoni.
- Ma qui non si tratta di latte e di caffè, ora parliamo di me e del libro che mi hai regalato – lo guardai – Ti ringrazio, ma davvero non capisco perché tu me lo devi, infondo non ci conosciamo e non hai nessun debito con me – ridacchiò, guardandomi finalmente negli occhi. Quel profondo mare blu in cui mi ero tuffata una volta ora era diventato ghiaccio, impenetrabile.
- Ama l’imperfetto tuo prossimo con l’imperfetto tuo cuore (Cercando Alaska, John Green) – citò la frase di quel libro. Rimasi colpita.
Ecco perché quel cuore che aveva disegnato era sformato, era una vaga allusione a questo: Louis aveva il cuore imperfetto e voleva amare chi come lui era così. E forse vide in me questo, forse per quei lividi viola sulle braccia lui aveva iniziato a vedere me come l'imperfetto prossimo da riparare. Sorrisi e capii: forse qualcosa noi ce l'avevamo in comune, forse infondo non era un ragazzo così fastidioso, forse potevamo andare d'accordo. Louis era come me: voleva imparare ad amare.
 
Non dissi nulla, ma continuai a seguirlo. - Nella vita non bisogna porsi troppe domande, Sophie. L’ho fatto perché ho voluto farlo –
-Non nego che sia stato un gesto carino e per questo ti ringrazio. Ma perché io? Non…- mi fulminò con lo sguardo – Okay, d’accordo! – restai in silenzio continuando a camminare al suo fianco. Chiusi l’ombrello perché la pioggia era cessata e mentre passeggiavo, lo guardavo di sottecchi: quel viso bagnato dalla pioggia e quel ciuffo biondo scuro appiccicato alla fronte.
E' vero che dopo quel 13 Agosto di nove anni prima non avevo più visto il mare, ma a quanto pare il mare non è sempre fatto di acqua e di sabbia. A volte, il mare è fatto di occhi e di sorrisi nascosti. Dopo nove anni rividi il mare e sembrava essere Louis: un mare che non voleva annegarmi, ma salvarmi.



Spazio Autore

Parto con delle scuse: sono stata assente un sacco di mesi e mi dispiace! Tra scuola, esame e vacanze non ci ho visto più! Ma ora eccomi qui, ho ricominciato a scrivere.
Eccovi Louis, ma non aspettatevi che sia come il ragazzo di Doncaster. Lui è il Louis di Londra,
un profondo, dolce Louis
.
Non ho più nulla da aggiungere.  Spero vi piaccia, aspetto il vosto parere.

Un bacio,
Moon.

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Capitolo 9
*** Vaffanculo ***


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Il giorno successivo l’insegnante si assentò di nuovo. Dissero che non stava bene, che qualcuno l’aveva vista entrare in ospedale, che presto avrebbero mandato un’insegnante a sostituirla. Mi dispiacque, perché infondo un po’ mi ci ero affezionata. Ma, intanto, quel giorno mi ritrovai annoiata sul letto, dopo un’intera mattinata di intenso studio, a non saper cosa fare. Restai lì piantata a fissare il soffitto e a giocherellare con il nastrino blu del giorno prima, a pensare a cosa avrei fatto io se fossi stata Alaska Young, a come avrei reagito io se fossi stata così: un’esplosione di emozioni, tutta alti e bassi, incasinata così tanto da non sapere come uscirne da quel labirinto di dolore che non aveva neanche un’ombra di luce. C’era qualcosa che mi legava tanto a quel personaggio, eppure non sapevo cosa. Ero sicura che ad una persona triste lo si legge negli occhi che non ce la fa più; e lo capisci anche da ogni suo gesto ed ogni sua frase. Io non sapevo lei che faccia avesse, perché lei un volto reale non lo aveva, ciononostante ogni suo profondo dolore si era fuso con il mio entrandomi fin dentro le ossa. Grazie ad Alaska Young e ad ogni sua parola, potevo capire quanto il dolore fa: brucia dall’interno, distrugge pian piano tutti gli organi salendoti fino al cervello e te lo fa scoppiare. Ora capivo davvero che sfuggire dal passato non è una cosa semplice, che quello non ti lascia in pace e che, anzi, rischia di farti impazzire. Ti intrappola e non sai più uscirne fuori. Non potevo aggrapparmi solo a me stessa, altrimenti avrei finito per lacerarmi da sola: dovevo buttare via l’orgoglio, aprirmi, afferrare la mano di qualcuno, uscire da quel labirinto che tendeva a starmi sempre più stretto. Solo in quel momento potevo capire che mosse fare per non mettere me stessa a repentaglio. Ma, per mia sfortuna, mi conoscevo fin troppo bene: il mio orgoglio era così grande che per metterlo da parte avrei dovuto usare tutte le mie forze. Non ho bisogno di nessuno, mi dicevo, posso cavarmela perfettamente da sola. Nonostante sapessi che non era così, che per quanto forte potessi essere prima o poi sarei crollata, senza nessuno pronto a sorreggermi.

 

- Basta! Non voglio sapere più nulla, non farti vedere mai più! – un tonfo pesante di legno. Era la porta. Vidi Ronnie. Si gettò sul letto piangente.

Mi precipitai subito accanto a lei, accarezzandole i capelli –Cos’è successo? -un filo di preoccupazione nella mia voce.

- Vaffanculo! Quello stronzo deve andarsene a fanculo! – con tutta la rabbia e la tristezza che aveva, sputò fuori quelle parole.

- Sono certa che sarà quella la fine che farà. Se ha fatto soffrire una ragazza così bella come te, non potrebbe meritare di peggio. – alzò il viso, mi guardò. Un piccolo sorriso le fece incurvare le sue labbra, piano. Mi abbracciò forte e scoppiò a piangere di nuovo. E restammo così per un po’ di tempo, finchè il suo pianto non si calmò.

- Vuoi parlarne? – sospirò, annuendo piano. E poi mi raccontò: Leo aveva abbracciato un ragazza, le aveva accarezzato una guancia e poi l’aveva baciata, nei corridoi. Le aveva detto “Ti trovo molto carina, la più carina” e a tutto ciò Ronnie aveva assistito, sbirciando dalla fine del corridoio. Poi gli era corsa incontro e gli aveva mollato uno schiaffo sulla guancia destra mentre lui cercava di darle spiegazioni per pararsi il culo, ma a lei non importava nulla delle spiegazioni, lei lo odiava. Mi disse esattamente così, con le stesse parole mi raccontò tutto con rabbia, con la rabbia di un cuore ferito. Le tenni compagnia per un po’, cercando di intrattenerla, di non farle pensare a quello che era accaduto. Poi però, quando Ana ci raggiunse, le salutai e decisi di uscire.

 

Il libro sempre in borsa, a rileggere milioni di volte quelle frasi che mi avevano illuminato la strada. Lo appoggiai sulla panchina insieme a tutto il resto, alzando poi lo sguardo sul mondo intorno a me. Lo guardai. Quante persone, quanti amori, quanti cuori infranti, vuoti, pieni. Guardai e pensai che siamo solo fragili creature nascoste dietro maschere di legno. Ed è quando iniziamo a bruciare che crolliamo. Basta una piccola scintilla e cadiamo giù, come cenere sul mondo. Ed era bizzarro come tutti gli essere umani fingessero con un sorriso di essere forti, di non aver bisogno di nessuno. Era bizzarro, perchè non possiamo salvarci da soli. Quando il mondo ti crolla addosso - riflettevo - non puoi sul serio credere di riuscire a rimetterlo in piedi soltanto con le tue forze. Siamo fatti per essere amati e per amare a nostra volta, cos'è questa follia di voler restare soli? Io non volevo essere sola. Ma albergava sempre in me quella paura di ferire qualcuno con il male che mi invadeva completamente corpo, mente e cuore.

Concentrai la mia attenzione sulle persone presenti nel parco, scrutando ogni risata, ogni urla dei bambini, ogni persona che passeggiava o che semplicemente era sdraiata nei prati. Non mi accorsi però di qualcuno che si era seduto al mio fianco e che ascoltava la musica animatamente. Assurdo, ma era Louis. Le cuffie bianche nelle orecchie e un libro tra le mani. Scuoteva la testa a ritmo di musica, supposi, mentre con gli occhi seguiva le righe scritte sulla carta.

Possibile che non mi aveva vista?

Tossii, consapevole del fatto che non poteva sentirmi. Fui indecisa tra il salutarlo oppure lasciarlo in pace tra musica e libri, andando via. Intanto che cercai di prendere quella futile decisione, rimasi gli occhi fissi su di lui, come se fossi incantata. Me ne accorsi soltanto quando lui sfilò una cuffia dal suo orecchio e girò lo sguardo verso di me. Si sarà sentito osservato, pensai, arrossendo e girando subito lo sguardo. Lui tossì, come ad imitarmi.

- E quindi ci si ritrova anche qui, eh? – la sua voce era calda. Stava sorridendo quando mi voltai.

- Eh già, sembra proprio così. – annuii

- Non ti avevo vista, perdonami. Ero troppo immerso in questo libro – fece una lieve smorfia

- Tranquillo, io ero assorta nei miei pensieri – sorrisi – Cos’è che leggi? – puntai lo sguardo verso il libro

- Oh, nulla di così eccitante. Commercio. Sai, lo studio è massacrante e la musica mi aiuta a concentrarmi. –

- Non sembravi molto concentrato, scuotevi la testa e mimavi le parole con le labbra – ridacchiai e lui scoppiò a ridere a sua volta.

- Forse hai ragione, ero più preso dalla musica – ridemmo insieme.

Gli chiesi cosa stesse ascoltando, lui invece mi chiese di me e di come mai ero lì a Londra, perché lo aveva capito che non ero inglese. Gli raccontai tutto, del college e dell’opportunità che ci aveva offerto la scuola. Non proprio tutto insomma, ma tutto ciò che era necessario che sapesse. Poi mi chiese come me la passavo lì, tra gli alloggi del college.

- Uhm, bene, ma non conosco nessuno di qui. Però me la cavo, infondo durerà solo altre due settimane e poi saremo liberi – sorrisi piano. Liberi. Io sarei stata davvero libera, loro sarebbero tornati in quel orribile paesino in periferia, buttato lì in mezzo al nord Italia e dimenticato da tutti.

- Quindi terminate e poi tornate a casa? – feci una smorfia, mascherandola poi con un sorriso.

- Beh, in un certo senso è così –

- Perché? – Ecco. Avrei dovuto rispondere con un semplice “certo” e finirla lì, così non avrebbe chiesto nulla.

- Nulla ehm – tentai di inventarmi qualcosa – perché faremo prima un esame e poi andremo via – lui sorrise e annuì comprensivo. Fissò il libro sulle sue gambe e poggiò la mano sul bordo per chiuderlo. Io tossii.

- Oh, comunque scusami, devo proprio andare così ti lascio studiare! –

Chiuse il libro. – No, non andare ti prego, non riuscirei comunque a studiare – mi guardò – Ti va di fare una passeggiata? –

- Uhm – controllai l’orario, fingendo di avere un impegno a breve – Dovrei tornare, quindi magari possiamo fare un po’ di strada insieme –

- D’accordo -

Perché stessi facendo di tutto per scappare da lui non lo seppi neanche io. O forse lo sapevo: io scappavo da tutto, perché avevo paura. Me lo disse anche Ronnie una volta.

 

“Che ci fai qui a quest’ora?” Erano le sei del mattino ed ero sotto casa sua. Il sole non era ancora sorto e il freddo dell’inverno stava penetrando fin dentro le mie ossa.

“Me ne sono andata di casa” le avevo detto.

“Andata? Perché, cos’è successo?” mi aveva fatto entrare perché fuori si gelava.

“Perché ieri mi ha picchiata, di nuovo” avevo risposto con un filo di voce, poi avevo sospirato.

“Ronnie?” avevo detto richiamando la sua attenzione, mentre eravamo strette in un abbraccio. “Perché scappo sempre? Perché non lo affronto mai?” avevo chiesto con un filo di voce.

“Perché hai paura, Sophie. E chi ha paura scappa, perché non vuole avere a che fare con qualcosa che è più grande di lui.” Avevo annuito, prima di scoppiare in un pianto tra le sue braccia.

“Ma tanto poi ritorno” un attimo di pausa “Tanto poi a casa ci ritorno sempre”

 

- … disturbarti, se hai da fare – mi svegliò da miei pensieri.

Mi fermai e lo fissai – Sai cosa? – lui mi guardò perplesso – Fanculo tutto! Ti va un caffè? – sorrise ed annuì

- Un caffè-latte?- ridemmo entrambi, ripensando al discorso del giorno precedente.

Entrammo in un bar, sedendoci ad un tavolino ed ordinando entrambi un caffè-latte.

- Allora! Cos’è che hai mandato a fanculo per bere un caffè latte? –

- Nulla – Cosa avrei potuto mai dirgli?

- Oh – strinse gli occhi in due fessure e mi fissò, quasi come per capire cosa nascondessi. Risi.

- Va bene – sospirai – Ho mando a fanculo tutto. I miei pensieri, me stessa, le mie paure, il mondo. –

- Tutto questo solo per un caffè? –

- No, ma certo. Tutto questo per concedermi qualcosa di diverso. –

- Mi sembra che tu abbia fatto la scelta giusta allora – annuii. – A cosa pensavi prima, mentre camminavamo? - Mi chiese. Ed io mi sentii in imbarazzo.

- Ma non possiamo parlare sempre di me, non ti pare? – risi – Adesso tocca a me! Da quanto studi.. Economia, giusto? – lui annuì

- Sì, studio da circa tre anni, dopo quest’ultimo esame sarò Laureato –

- Oh, sembra meraviglioso – abbassai lo sguardo sulla mia tazza e bevvi un sorso. In che cavolo di situazioni mi ero cacciata. A bere un caffè al bar, seduta ti fronte a lui, lui che sapeva che nascondevo qualcosa, lui che aveva visto, lui che sembrava non farsi sfuggire nulla. Mi maledissi internamente per non essere tornata in camera ed essere venuta lì, senza pensare a…

- Ecco, vedi? Lo stai facendo di nuovo – mi disse scherzosamente – Pensi molto –

- A volte anche troppo – confessai

- A cosa? –

– A me stessa, penso a me stessa e a quello che faccio o non faccio o che vorrei non aver mai fatto – presi un attimo di pausa e sospirai – Guardo quello che ho intorno e lo paragono a quello che ho. Guardo le persone e analizzo le loro vite. E’ noioso, lo so. Ma li guardo tutti, lì fuori nel mondo – guardai fuori dalla vetrina: i marciapiedi umidi, calpestati da vite incasinate – E mi chiedo cosa mai abbiano di così urgente da dover sempre correre e guizzare via da ogni posto, senza fermarsi mai un attimo per se stessi e per il mondo. Ma non lo vedono quello che hanno intorno? Non notano come le foglie cadano piano sul prato umido in autunno e vengono calpestate, come se fossero insignificanti, come se loro non fossero mai state così verdi da rendere la primavera la più bella di tutte le stagioni? Credo che tutti dovrebbero fermarsi un attimo e semplicemente guardare quello che hanno di fronte. Basterebbe anche soltanto questo per capire qualcosa di più del mondo, per non chiudersi in una stupida bolla di ignoranza. – spostai lo sguardo su di lui e poi di nuovo fuori, sulla strada.

– Pensi tutto questo? –

– Già- sospirai. Dopotutto ero sempre io, sempre la stupida e noiosa Sophie – E tante altre cose, che non sto qui a raccontarti.. –

– Sono affascinato – alzai lo sguardo, una scintilla nei suoi occhi blu mare. L’oceano stava brillando. – Guardi il mondo e semplicemente pensi tutto questo? – annuii timida continuando a bere il mio caffè– Sai, io non sono mai stato un grande osservatore del mondo, di tutte le persone o della società in generale. Ma sono sempre stato bravo a capire le persone. Mi spiego meglio: guardo chi passa nel bar, ad esempio, ma non mi chiedo cosa lo abbia portato lì, ma cerco di capire il perché. In altre parole non mi pongo troppe domande, ma cerco di raggiungere la soluzione. Vedi ad esempio, uhmm – guardò in strada ed indicò un bambino che stava donando una monetina ad un senza tetto – Lui ha fatto quel gesto, ma vedi sua madre? Lei non voleva che lui lo facesse, ma lui lo ha fatto comunque. E sai perché? Perché quando andrà a casa potrà dire al suo papà che ha reso qualcuno felice. –

Battei le palpebre, sbalordita.

– Mi stai dicendo che tu guardi le persone e, in un attimo, capisci le loro vite? Cosa sei, una specie di mago?-

– No- ridacchiò – Mi creo io un’immagine di quelle persone, li guardo e immagino il perché delle loro azioni – sorrise.

– Perché lo fai? –

– Perché semplicemente mi piace farlo, la trovo un cosa carina. Forse per qualcuno potrei sembrare un ficcanaso o, semplicemente, invasivo. Ma, personalmente, non mi dispiacerebbe se qualcuno, anche qualcuno che non conosco, cercasse di capirmi e di crearsi un’immagine, anche se a modo suo, di me. –

Sorrisi.

– E se qualcuno si creasse un’immagine negativa di te? –

– Non mi importerebbe. Io so chi sono, gli altri posso pensare ciò che voglio, sono liberi di farlo – Mi apparve così sicuro di se, così privo di insicurezze. E lo invidiai così tanto.

– Oh – dissi soltanto.

– Tu perché pensi così tanto? – mi chiese senza pensarci su due volte.

– Perché io.. ? Uhm, beh, il perché non lo neanche io, a dire il vero. Mi siedo lì, su una panchina, su un marciapiedi, su in cima al mondo, in qualsiasi posto e osservo. Cosa c’è di più bello nel guardare da lontano qualcosa che è più grande di noi? Ci soffermiamo sempre sulle piccole cose e mai, dico mai, nessuno si prende la briga di pensare al resto. E allora mi metto a guardare tutto quello che gli altri trascurano. Le persone. Le persone si trascurano a vicenda, si feriscono e finiscono per maledirsi per questo tutti i giorni della loro vita. Ma cosa sarebbe successo che ci avessi pensato un attimo prima di fare quella grande cazzata che ha rovinato completamente la tua vita? E gli errori li commettiamo sempre più di una volta, finché non ci sbattiamo contro così forte da farci male fino all’osso. – Mi stava fissando senza distogliere gli occhi dai miei, mi sembrò interessato davvero. Annuì. – E questo credo che accada perché crediamo di essere forti, ma in realtà non lo siamo. In realtà siamo tutti fragili. E, allora, io beh.. Allora penso che le persone abbiano bisogno di altre persone per strare bene. Noi non lo ammettiamo, perché crediamo che gli altri ci feriscano. Ma in realtà siamo noi stessi a ferirci irreparabilmente senza accorgercene. Non credi? -

– Lo credo anch’io – sorrise, senza aggiungere altro. – Allora, tu di solito aggiungi prima il latte o il caffè? – mi chiese alla sprovvista, io sorrisi.

– Il caffè –

– E perché? –

– Perché il caffè è scuro e mi piace l’idea di rendere chiaro qualcosa che è scuro. E’ come portare luce in qualcosa. E poi mi piace, non so. Trovo bello vedere il colore bianco del latte mescolarsi al marrone del caffè, fanno un bel contrasto. – sorrisi - E tu? –

– Il latte. –

– Perché? –

– Non sempre mi piace aggiungerci il caffè. - sorrise

– Giusto. -

 

***

 

– Dove pensa di andare così in fretta, signorina Sofia Greco? – disse il nuovo insegnate con il suo accento Americano - Non c’è motivo di correre. Ho bisogno di parlarle, quindi aspetti un attimo qui fuori, la prego. – annuii gentilmente ed uscii, attendendolo fuori la porta. Erano già tre giorni che era arrivato: moro, con gli occhi scuri quanto i capelli, alto e magro, privo di muscoli all’apparenza. Si incamminò fuori dall’aula e mi raggiunse, scuotendo il suo cuoio capelluto con una mano. Mi guardò, aveva uno sguardo preoccupato.

– E’ successo qualcosa, professor Collins? – non rispose, ma mi invitò ad accomodarmi in aula. Deglutii rumorosamente, sedendomi di fronte all’enorme cattedra.

– Signorina Greco, c’è qualcosa che deve dirmi? – lo guardai perplessa, scossi la tessa.

– N-no professore. Ho studiato per i test e credo, spero, di averli superati tutti. Qualcosa non va? – lui scosse la testa e mi mostrò dei fogli.

– Vede? Questi qui – indicò un fascicolo – Sono tutte le autorizzazioni complete dei suoi compagni. Mentre questa – indicò un foglio – è la sua. E’ completa di tutto, ma non ha inserito il numero dei suoi genitori. Mi auguro che lei sappia che se le succede qualcosa, noi abbiamo la completa responsabilità e dovremo chiamare i suoi genitori per avvertirli. Giusto?- annuii piano, guardando in basso sul foglio. Evitai lo sguardo del professore.

– Mi scusi, ha ragione, dovevo inserirlo e non so come mi sia potuto sfuggire di mente. M-ma.. non ricordo il numero ora, uhm.. mi dispiace, professor Collins. – Il professore mi guardò dritta negli occhi, mentre io cercavo di mascherare il più possibile il mio panico.

– Signorina, ho parlato con uno dei suoi professori e mi ha avvertito del fatto che lei non si è presentata con i suoi genitori in aeroporto prima della partenza. Perché? – aggrottai la fronte, leggermente infastidita dal suo modo di irrompere nei miei affari, anche se era un semplice professore.

– Oh, semplicemente non potevano venire. – dissi fredda, senza aggiungere altro.

– D’accordo. Non si preoccupi per i numeri dei suoi genitori, faremo in modo di recuperarli. Ma voglio che lei sappia che se qualcosa non va può venire da me. Non esiti a farlo. – Tossii.

– Ma certo, la ringrazio e mi scuso ancora. – Sorrisi, lui ricambiò. Mi alzai ed uscii a passo rapido dall’aula, dritta in camera.

Rimasi stranita da quella conversazione con il signor Collins. Stranita e al contempo preoccupata.

“Faremo in modo di recuperarli”

E se poi avrebbe contatto i miei genitori? Certo che lo avrebbe fatto, ovvio. Non poteva fare altrimenti.

Scivolai sul letto, stanca.

Vaffanculo, urlai silenziosamente a me stessa e tutto il resto del mondo. Tremendamente e schifosamente, mandai di nuovo tutto a fanculo.




Spazio autore
Buonasera.
Cosa ne pensate del capitolo nono?
E se qualcuno se lo sta chiedendo, sì, ho modificato i nomi dei capitoli in lingua italiana. Li preferisco così.

Alla prossima,

Moon.

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Capitolo 10
*** “Siamo come la forza di un’onda ***


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“Guarda, papà,è una scimmia” strillava mia sorella indicando un piccolo scimpanzè dietro la vetrina dello zoo.
“Ma è orribile” aveva poi aggiunto Ivan con un pizzico di acidità “Voglio vedere i leoni marini, papà!” tirava la manica della sua giacca. E lui rideva. Mio padre stava ridendo.
Rimanevo sbalordita nel vedere quella scena. Appena dieci anni e una scena di quel tipo mi lasciava esterrefatta. Non aveva mai riso mio padre con me, lui era sempre un uomo arrabbiato e costantemente pronto a sgridarmi per ogni cosa.
“Adesso andremo a vedere i leoni marini, Ivan” e continuavano a camminare, lasciandomi indietro. Io li seguivo, standomene in disparte. Non parlavo, ne mi lamentavo di nulla. Per quieto vivere, me ne restavo semplicemente sulle mie. Ma non andava bene neanche questo, perchè per ragioni che solo loro ritenevano ovvie io sbagliavo, sbagliavo sempre qualcosa.
“Dio santissimo, Sofia! Non fermarti a guardare ogni animale. E poi solo tu guardi gli animali più brutti.” Abbassavo lo sguardo, mordendomi un labbro. “Non vedi quel orso quanto è orrendo” diceva, emettendo un verso di disgusto.
“Non è brutto! E’ soltanto solo.” Dicevo in risposta, sperando che non si arrabbiasse.
“E’ solo proprio come te!” scoppiavano in una risata  i miei fratelli.
“Non c’è niente da ridere.” Replicavo, in difesa.
“Quanto sei permalosa, Sofia!” interveniva mia madre “Non ti si può dire nulla che te la prendi. E poi hai cominciato tu.Quindi vedi di non rifarlo più”
Mio padre sbuffava, abbastanza furioso “Ti avevo detto di lasciarla a casa, non si può stare un attimo in pace”
Mi incupivo “M-ma..”
“Niente ‘ma’” insisteva mai madre, prendendomi per un braccio.
“Invece si!” mi ribellavo “ non voglio venire più da nessuna parte. Lasciatemi a casa, sto meglio da sola” mi liberavo dalla stretta di mia madre, incrociando le braccia al petto e continuando a tenere il muso per tutto il giorno. E la volta dopo mi lasciavano a casa, da sola. Ed io piangevo nel mio letto, buttavo lacrime e chiedevo in vano perché non mi amassero.
 
***
 
- Quindi lui ti ha chiesto scusa e tu, semplicemente, lo hai perdonato? - chiesi interdetta
- Mi ha pregato in ginocchio per dargli una possibilità e fargli spiegare ed io gliel’ho data. Mi ha detto che era una scommessa che aveva fatto con dei ragazzi qui del college. Mi ha spiegato che qui ne fanno a bizzeffe di scommesse e che se faceva quello che ha fatto, gli avrebbero regalato un ingresso gratis in un posto per me e lui.. – prese un attimo di pausa – Ma non l’ho perdonato, sono ancora arrabbiata con lui. Solo che.. gli ho detto che poteva risparmiarsi almeno il bacio e lui si è scusato ed io gli ho detto che poi mi sarebbe passata. –
- Così ora è tornato tutto come prima? – annuì piano – E non hai paura che lo faccia di nuovo? Voglio dire.. sei ancora ferita, no? –
- Si, Sophie, sono ancora ferita. Ma io lo amo, non posso farci nulla – annuii comprensiva e l’abbracciai.
- Ho bisogno che tu sappia una cosa – le dissi, prendendola alla sprovvista.
- Cosa? –
- Che io sarò sempre al tuo fianco, che in un modo o nell’altro riuscirai sempre ad avere un posto nel mio cuore. Voglio che tu sappia che in ogni circostanza, non devi mai smettere di essere forte e di lottare. Se io ci sarò o meno, promettimi che.. – mi interruppe
- Sophie, ma cosa stai dicendo? –
- Fammi finire. – sospirai – Promettimi che non permetterai a nessuno di togliere il sorriso dal tuo volto, promettimi che mi terrai sempre nel tuo cuore e che proteggerai tutti i nostri ricordi e tutto ciò che c’è di noi in quel paese in cui siamo cresciute -
- Sophie, ma tu non.. –
- Promettilo. –
- Te lo prometto – disse sospirando, poi mi guardò dritta negli occhi. – Ma perché mi stai dicendo questo? –
- Molto probabilmente il professor Collins cercherà di contattare i miei genitori per avere i loro numeri, in caso di emergenza. – presi un attimo di pausa, stendendomi accanto a lei – E io penso di essere in seri guai. Domani cercherò di parlare con lui, mi dovrò inventare qualche scusa per evitare che li contatti. Perché lo sai che se scoprono che sono qui sono davvero fottuta – un tremore nella mia voce, un filo di preoccupazione nella sua.
- E’ assurdo, non possono farlo.. Cazzo, non possono. No, no, no! – si alzò di scatto, mettendosi seduta. – Ti aiuterò ad uscire da questa storia – sorrisi lievemente.
- Grazie. Ti voglio un gran bene. – sorrise anche lei di rimando, abbracciandomi forte.
- Anche io te ne voglio. Tu non meriti del male e tuo padre, loro, la tua famiglia ti fanno soltanto male. Non meriti questo, non lo hai mai meritato – asciugò le lacrime che caddero sulle mie guance – Tu meriti di essere libera, di essere amata, di essere felice. E’ da tanto tempo che non ti vedo sorridere davvero. Me lo fai un sorriso, uno di quelli che solo tu sai fare? – la guardai negli occhi e allargai piano le labbra, cercando di rendere quel sorriso uno dei miei più luminosi. Sorrisi per lei, perché non volevo che mi vedesse così, che non mi ricordasse come una ragazza sempre infelice e negativa. Sorrisi per me stessa, perché non volevo essere triste per sempre e non volevo arrendermi così facilmente. Sorrisi per darmi il coraggio di andare avanti, per darmi forza. E pensai quasi di starmi salvando da sola, ma non era così, perché avevo qualcuno sempre pronto ad incoraggiarmi e a sostenermi. Qualcuno che, anche se con poco, riusciva a darmi la giusta spinta per continuare a camminare e non cadere; qualcuno senza cui sarei già finita nel baratro.
 
***
 
-Mi auguro che vi stiate preparando per il test della prossima settimana. Sarà l’ultimo che farete e sarà il più difficile. Alla prossima lezione. E studiate! – il professor Collins raccolse tutti il suoi libri nella borsa e attese che gli alunni uscissero dall’aula.
Salutai Ronnie con un cenno e lei mi sorrise di rimando, mimando un buona fortuna con le labbra. Annuii e la guardai uscire dall’aula. Attesi che tutti gli altri alunni uscissero e mi diressi dritta alla cattedra.
-Professor Collins! Devo parlarle. –
-Signorina Greco! Prego, prenda posto, mi dica tutto. – mi sorrise e si sedette dietro la cattedra. Tossii rumorosamente.
-Riguardo ai miei genitori, ho ricontrollato sul mio cellulare e ho trovato questo numero – gli porsi un biglietto – E’ di mio padre. Ma è un numero che ho da molto tempo e lui usa soltanto il cellulare dell’ufficio, con un numero personale e privato che conosce solo l’azienda. Non so se questo numero sia ancora in funzione, ma dovrebbe esserlo – il professore mi guardò, poco convinto di ciò che stessi dicendo.
- E sua madre non possiede un cellulare? Oppure un numero fisso? – tentò di mettermi alle strette.
- No. Mia madre è una di quelle donne poco moderne, non ne vuole sapere nulla di tecnologia! Ha presente? – ridacchiai piano, cercando di sembrare convincente. Rise anche lui annuendo alla mia domanda. – E il numero fisso non lo abbiamo, perché come al solito mia madre è così monotona che preferisce spedire lettere che mandare un e-mail e se potesse manderebbe i telegrammi piuttosto che usare un telefono per chiamare qualcuno! – ridemmo ancora.
- Dunque questo è il numero? – annuii, prese il biglietto tra le sue mani. – Perfetto, la ringrazio! –
- Un attimo professore.. Quindi lei ha già contattato i miei genitori? – deglutii, con l’ansia che mi salì fino al cervello e mi fece battere il cuore così velocemente da rischiare un infarto.
- Li avrei contattati oggi, ma dato che lei mi ha procurato il numero non ne avrò motivo. –
Il battito rallentò, il male alle tempie sembrò placarsi tutto d’un tratto. Trattenei il fiato ancora per un po’.
-D’accordo. A domani! – sorrisi e uscii fuori dall’aula, correndo dritta tra le braccia di Ronnie, con un sorriso così ampio da illuminare tutto il corridoio. Scacciai fuori tutta l’aria in un pesante sospiro.
- Non ha sospettato di nulla! Sono ancora salva! – dissi entusiasta.
- Vedi? Lo sapevo che ce l’avresti fatta! – ricambiò il sorriso. – Adesso ricomponiti che sta passando il professore – sussurrò al mio orecchio.
Sciolsi l’abbraccio e mi voltai, ricambiando il saluto del professore che, camminando lungo il corridoi, raggiunse l’aula numero dieci.
A passo svelto mi incamminai con gli altri verso la mensa, ma non avevo molta fame. Mi fermai all’entrata del grande salone, un gran vocio di ragazzi che blateravano del più e del meno si riversò lungo i corridoi e lungo i miei timpani, fino ad entrarmi nel cervello.
- Ronnie! – la chiamai – Non ho per niente fame, credo che andrò a fare un giro. –
Si fermò a guardarmi – Sei sempre in giro ultimamente, dove te la svigni eh? – ridacchiò.
- Da nessuna parte – scossi la testa – Faccio un giro nei parchi e poi , lo sai, mi metto a pensare. –
- Tu pensi sempre. Smettila di pensare, ti torturi soltanto. Piuttosto alza i tacchi e fai qualche conquista! Stasera voglio i dettagli. – risi e annuii, salutandola per poi andarmene via.
 
Il solito ed insolito tempo londinese: cielo azzurro, nuvole sparse, sole caldo, penetrante, picchiettante sulle case, sulle strade, sulle persone. Una ventata di aria fresca fece svolazzare i miei capelli, la inspirai tutta. Ferma al semaforo e poi pronta a camminare di nuovo, senza un attimo di sosta. Passeggiai tra i violoni, sotto alberi carichi d’ombra, tra strade strette, accanto a persone sconosciute, su marciapiedi umidi nonostante il sole, contro un vento delicato e tagliente. Passai accanto ad una libreria, nel centro della città. Mi fermai ad ammirare la vetrina e fui colpita da un libro dalla copertina ricca di colori sgargianti, che si intitolava “Siamo come la forza di un’onda”. Sulla copertina un mare blu, in tempesta, si scagliava contro uno scoglio, sotto un cielo più azzurro dell’azzurro stesso, con un sole che scoppiava di luce in un cielo contornato da nuvole che seguivano l’orizzonte e con dei gabbiani, che svolazzavano intorno al titolo bianco del libro quasi a sottolineare quanto la forza di cui si avvale un’onda è così forte da riuscire a rendere libero chiunque. Una copertina piena di contrasti, dalla triste e cupa tempesta del mare, alla sgargiante lucentezza del cielo. Entrai di corsa nella biblioteca, ripescando il libro tra gli scaffali e leggendone il retro.
 
“Ma non siamo tutti forti come hai sempre creduto”
Ho il timone stretto tra le mani, sto cercando di mantenere la rotta e di non precipitare al centro di una tempesta. E lei è lì seduta comoda a dirmi quanto siamo forti.
“A me non mi importa di quello che pensi tu. Siamo tutti dannatamente forti come queste onde che minacciano di far ribaltare la mia nave. Ed io sarò forte più di loro se questo sarà necessario. E te lo posso giurare sul mio stesso cuore, che io a costo di morire ti salverò da tutto questo.”
 
Lo comprai, lo impacchettai, lo misi in borsa. Decisi che quel libro sarebbe stato il mio ringraziamento a Louis per quello che lui aveva regalato a me. Un ringraziamento per ciò che aveva indubbiamente fatto con il cuore, un gesto che a detta di Louis stesso “era stato fatto perché lo riteneva giusto”. Ed io, allo stesso modo, ritenevo giusto dare a lui quel libro, che tanto mi ispirava forza quanto libertà.
 
 
 ***
 
-Tra quindici minuti ho finito il turno – sorrise con il vassoio vuoto sotto il suo braccio, il libricino delle ordinazioni in una mano e con l’altra poggiò la penna sull’orecchio. Gli occhi si chiusero in due fessure mentre allargò il sorriso guardando nella mia direzione. Io seguii i suoi movimenti tra i vari tavoli del pub, sedendomi su uno dei sgabelli blu alla fine del lungo bancone. Ordinai un thè caldo quel pomeriggio, perché il vento fuori era iniziato a diventare penetrante e tutto il freddo di quel giovedì di fine Giugno mi gelò le mani e il viso. Rabbrividii al pensiero dell’aria che dolcemente mi aveva perforato la pelle, ma poi mi rilassai ripensando a quel caldo asfissiante che dovevamo sopportare ogni estate nel mio paese, un caldo che odiavo da morire e che non avrei voluto mai più sentire. Aspettai Louis per venti minuti, mentre il thè riscaldò piano tutto il mio corpo e il barista dietro il bancone mi diede a parlare.
 
- Cosa ti porta da questa parti? – mi prese alla sprovvista, mentre ero immersa nel miei pensieri.
- Cosa? - battei le palpebre più volte, allontanando la tazza dalle labbra. Tossì.
- Ti chiedevo.. Cosa ti porta qui?- disse, continuando a lavare i bicchieri.
- Oh! Un concorso scolastico. -
Spuntò un piccolo sorriso sulle sue labbra, mentre alzò lo sguardo su di me - Mi riferivo al fatto che vieni spesso qui al pub. –
- Ah – sorrisi – Nulla, un amico. -
Spostò lo sguardo da me, scrutando tutta la sala che c’era intorno, puntandolo poi sulla porta e nuovamente su di me. – E non è ancora qui? -  annuii.
- E’ qui, lo sto aspettando - puntai il pollice verso Louis – Ha quasi finito il suo turno –
- Oh, capisco. Tomlinson. – ridacchiai curiosa e approfittai di quei minuti per scoprire qualcosa in più su di lui.
- Tomlinson è il suo cognome? – il ragazzo moro annuì, voltandosi per prendere delle bottiglie di liquore e crearne dei cocktail. Solo in quel istante capii chi era. Dei ricordi vaghi si fecero spazio nella mia mente e mi apparvero delle immagini della prima sera in quel pub e del ragazzo moro che Ana aveva trascurato per parlare con me: era lui.
- Non sapevi neanche il suo cognome? – risi continuando a guardarlo in viso per definirne i lineamenti che nella mia mente erano sfocati. Era alto, moro, con una cadenza americana e dei grandi occhi marroni che te li sentivi subito puntare addosso.
- No, ci conosciamo da poco, non so molto di lui – sorrisi. Poggiò una bottiglia di alcool sul bancone e si abbassò verso di me.
- Perfetto, allora sappi che lui è un gran rompiscatole – risi – e che se te lo tieni sempre vicino potresti non uscirne viva perché ti fa dei discorsi che ti ci perdi dentro e non li  capisci!  –
- Addirittura? – ridemmo insieme. Si alzò tornando al suo lavoro.
- Certo. Odierai il mondo in cui ti fissa. – continuò a dire scherzosamente – Una volta mi guardò per cinque minuti contati mentre preparavo dei cocktail. Ad un tratto io gli chiesi perché mi stesse fissando e lui disse che era rimasto semplicemente incantato. Ma io credo che si sia innamorato di me. Gliel’ho sempre detto: “Louis, guarda che sei gay e non te ne sei neanche accorto” ma lui dice sempre... –
- Ti piacerebbe. – sbucò Louis dalle mie spalle. Il ragazzo moro rise e io li guardai entrambi continuare a prendersi in giro.
- A me di certo no, ma a Lucas si. Ti fissa tutto il giorno! –
Louis alzò il dito medio verso il moro – Intanto non è a me che ha palpato il culo – scoppiai a ridere mentre il ragazzo divenne rosso in viso - Ora torna a lavorare, scansafatiche –
- Vaffanculo – disse il  ragazzo moro, ridendo insieme a Louis. Poi si girò verso me – Alla prossima e ricorda quello che ti ho detto! –
- Certo, ma sta tranquillo gli troverò qualche ragazzo così non ti fisserà più – Louis guardò verso di me con uno sguardo offeso, poi ridemmo tutti e tre.
- Ah, io sono Zac –
- Allora alla prossima Zac! Io sono Sophie. –
- Ciao Sophie. –
Mi alzai e seguii Louis fuori dal pub, stringendomi nel cappotto per il freddo che mi investì improvvisamente. Camminammo per un lungo tratto senza aprire bocca, fu solo il silenzio misto al rumore della città a riempire i nostri timpani. Non sapevo se parlare oppure aspettare che lo facesse lui e non sapevo neanche dove stessimo andando, perché mi ritrovai a seguirlo vero una meta ignota.
 
- Louis, dove stiam.. –
- Seguimi – deglutii piano annuendo.
- Ma volevo parlarti di una cosa.. – dissi con un filo di voce, camminando al suo fianco.
- Lo so. Tu seguimi soltanto, poi dopo potremo parlare – mi rassegnai e lo seguii in silenzio. Attraversammo delle piccole stradine e mi terrorizzai al pensiero di cosa potesse accadere nei vicoli ciechi, stretti e bui che c’erano lì finchè non entrammo in una strada che mi terrorizzò ancora di più. Cinque auto su sette erano sfasciate, le rimanenti intatte erano tutte imbrattate di disegni e scritte volgari; abbassai lo sguardo e vidi due siringhe sui bordi dei marciapiedi, dei mozziconi di canne sparsi ovunque. Un tossico camminava sul lato opposto della strada e barcollava parlando e blaterando qualcosa di incomprensibile, poi passammo accanto a due ragazzini a terra che risero e ci guardarono mentre bevevano da una bottiglia trasparente contenente un liquido marrone: Jack Daniel’s. Staccai lo sguardo da loro inorridita quando mi puntarono gli occhi addosso. Mi tenni sempre vicina a Louis, mentre continuavamo a percorrere quella lunga strada che sembra essere eterna.
- Cosa ci fanno due bei ragazzi come voi qui? Vi converrebbe andar via – disse una donna da una finestra che dava sulla strada, una sigaretta tra le dita, sputò il fumo verso l’alto. Louis sembrò restare serio e teso per tutto il tempo del nostro tragitto, guardò sempre dritto ed ignorò chiunque guardasse dalla nostra parte. Fin dal momento in cui eravamo usciti da quel pub, il suo sguardo era rimasto duro e dal cipiglio che si era fatto posto nel suo volto traspariva un filo di preoccupazione. Desiderai chiedergli se fosse successo qualcosa e, soprattutto, perché eravamo finiti in un posto così squallido come quello. Ma non lo feci, perché capii che aveva ben altri pensieri nella testa e che c’era qualcosa o qualcuno che gli stava causando quello stato d’animo. Ci fermammo quasi alla fine della strada, si voltò di fronte ad un enorme cancello blu sporcato anch’esso dalla pittura, con disegni e scritte incomprensibili. Per un attimo pensai che lui abitasse li e quella fosse la sua casa. Ma lui tossì guardandomi.
- Aspetta qui e non muoverti, torno subito -
Annuii e rimasi ferma a pochi metri da quel cancello, mentre lui bussò al citofono.
- Chi è? – una voce maschile.
- Sono Louis, aprimi. Adesso. –
- Vaffanculo Louis, tu non ci entri in casa mia! –
Louis si avvicinò di più e sussurrò qualcosa a denti stretti, per evitare che io lo sentissi. Poi il cancello si aprì e lui sorrise verso di me prima di sparire all’interno. Io avanzai per sbirciare oltre quel enorme ammasso di ferro e vidi uno spazio in cui c’erano delle biciclette buttate a terra e sulla sinistra delle scale che davano ai piani superiori. Sentii il rumore di vetro rompersi sul pavimento, delle grida di cui non riuscii a distinguerne le voci. D’un tratto un ragazzo ed una ragazza scesero di corsa le scale e mi vennero addosso, spostandomi bruscamente per poi scappare in strada. Rimasi interdetta e poi tornai a guardare all’interno. Un tonfo pesante di una porta che si chiuse con violenza, rumore di passi sulle scale. Sbucò un Louis leggermente furioso che si passò una mano tra i capelli e si sforzò in un sorriso venendo verso di me.
 
- Mi dispiace averti fatto aspettare molto. Ora possiamo andare. – io sorrisi appena ed annuii.
- Il prima possibile però – sorrise lievemente camminando a passo svelto.
 
Il bar in cui arrivammo dopo dieci minuti di cammino fu lo stesso della volta prima. Stesso bar, stesso tavolo, stesso caffè-latte, sempre noi.
- Insisto, voglio offrirti dei pancakes. Non accetto un no come risposta. – io sbuffai sorridendo
- Va bene! – chiamò il cameriere e ordinò due porzioni di pancakes, per me e per lui. Ed arrivarono due minuti dopo.
- Allora, di cosa volevi parlarmi Sophie? – asciugai le labbra con un tovagliolo e sfilai dalla borsa il libro che era avvolto in una carta argentata.
- Ho detto che non dovevi restituirmelo.. –
- Ma non è Cercando Alaska! Aprilo. – sorrisi porgendoglielo. Lui non esitò a scartarlo e ne sembrò meravigliato quando lo aprì, perché sorrise guardando la copertina e poi sfogliò le pagine.
- P-perché questo? – chiese stupito.
- Beh, perché volevo – sorrisi – Hai presente quando vuoi fare qualcosa perché credi che sia giusto? –
- Non usare le mie parole contro di me! – rise
- Ho voluto regalartelo per ricambiare il gesto che hai fatto tu. Quindi, ti prego, accettalo. –annuì comprensivo.
- Va bene, grazie allora – girò il libro e ne lesse il retro – Sembra bellissimo –
- Lo penso anche io. Mi è piaciuto molto per quello che c’era scritto proprio lì dietro e l’ho preso. Mi ispira libertà e forza e ho pensato che poteva aiutare qualcuno, quindi l’ho dato a te. – mi guardò stranito, poi si morse un labbro e posò il libro nel suo zaino.
- Perché credi che io abbia bisogno di aiuto? –
- Perché tutti ne abbiamo. Non credi? -





Spazio autore

Sempre qui pronta a tutti i vostri giudici o complimenti!
Grazie, un bacio.
Moon

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Capitolo 11
*** Cicatrici ***


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Lo sciroppo d’acero si riversò in modo uniforme sui pancakes che erano ammassati gli uni sugli altri, mentre il silenzio continuava a tenerci compagnia da qualche minuto. Mi aspettai una risposta da lui, dopo quello che avevo detto, ma non aprì bocca. Mi guardò soltanto per un secondo e poi posò lo sguardo altrove. Nessuna negazione, nessuna obiezione, solo il silenzio. Ti è sembrato così strano ciò che ho detto o, semplicemente, ho centrato il punto? Avrei voluto chiedergli, ma non lo feci.

- Chi ci abita in quel palazzo? – fu una domanda imprevista, che neanche io mi aspettai di porgli.

- Nessuno – replicò con un filo di voce, sforzandosi in un sorriso – Nessuno di importante –

- Doveva essere importante abbastanza se ci sei andato lì di corsa –

- No, non lo era. Avevo solo un affare da sbrigare. Ma è saltato fuori all’ultimo momento e, francamente, non credevo neanche che saresti venuta, altrimenti avrei rimandato. –

- Non preoccuparti – sorrisi - Quando sognavo Londra non avrei mai immaginato di conosce un ragazzo che mi avrebbe fatto da guida turistica in un quartiere malfamato e per di più a casa di nessuno – continuai in tono scherzoso, con una punta di sarcasmo. Tentai di tirargli fuori quella verità che palesemente teneva all’oscuro. Forse nessuno conosceva quella storia, forse lui non ne aveva mai parlato con nessuno e, forse, neanche aveva intenzione di farlo. E, infatti, i miei forse si trasformarono in certezze.

Rise, evitò per un attimo il mio sguardo. Sembrò prendere fiato, la dose di ossigeno che gli serviva per prendere coraggio, per guardarmi in faccia di nuovo e mentirmi.

- Non c’è nulla di misterioso in questa storia. Sono stato lì, ho fatto una cosa ed è finita qui. -

- E’ la prima volta che ci vai? – non mi arresi – I quartieri come quello sono abbastanza pericolosi –

- Pericolosi? Pericoloso è un termine riduttivo. Ti dico soltanto questo: non passarci mai di lì, perchè non sai cosa potrebbe capitarti. -

Deglutii piano, passai una ciocca dietro un orecchio.

- Cosa potrebbe capitarmi?-

- Il peggio. Ci sono uomini inaffidabili, persone meschine. Quelle strade sputano ferocia anche dai marciapiedi. Quando cammini devi tenere sempre alta la guardia, devi correre e mai rispondere a qualcuno. Uscirtene da lì il prima possibile, perché potrebbe capitarti davanti qualcuno che se ne frega di tu chi sei, di quanti anni hai e di che sesso sei. Non so se ci siamo intesi. Sono violenti, molto violenti gli uomini da quelle parti. – tossii – Per questo, promettimi che non ci andrai mai -

- Prometto – gli dissi senza guardarlo negli occhi.

Sono violenti, molto violenti un rimbombo nella mia testa.

 

uomini inaffidabili, persone meschine le parole riecheggiarono

 

molto violenti

Iniziarono a passare nella mia mente milioni di scene, di situazioni realmente accadute, di situazioni assurde, inventate, create in quel momento dalla mia testa. Iniziò a martellarmi forte, un terribile odore di dolci appena sfornati passò sotto il mio naso e sentii lo stomaco rivoltarsi, pronto a rigurgitare tutto ciò che avevo mangiato. Mi tenni con la schiena dritta, seduta contro la pelle morbida dei divanetti. Sorrisi guardando fuori, cercando di mascherare quel terrore che stava invadendo le mie viscere. Lui mi sorrise, pronunciando un lieve “grazie” che a stento raggiunse i miei timpani.

Mi sentii troppo fragile, troppo sensibile a quei ricordi che riaffioravano subito, dei ricordi che io cercavo di far sprofondare in un mare d’acqua, ma che di punto in bianco ritornavano a galla, ogni volta. Le mani iniziarono a prudermi per l’ansia e, coma una catena, anche i polsi e le braccia mi prudevano come orticaria. Ma non potevo grattarmi, non davanti a lui che continuava a parlare di quanto il tempo fosse bello quel giorno.

- Sono giornate rare in cui ne approfitto e me ne resto sul prato a disegnare -

Mi guardò ed io annuii, sorrisi, poi guardai in basso. Avevo le mani rosse, il sangue sembrò volermi scoppiare da un momento all’altro nelle vene. Mi prudeva tutto e continuai a strofinare le braccia tra loro per alleviare il fastidio, per cercare di mascherarlo ancora per poco.

- Sophie, tutto bene? –

Stavolta si fermò, smise di parlare e mi guardò preoccupato.

- Oh, sì, devo solo andare un attimo al bagno. Scusami. -

Mi alzai e corsi dritta alla toilette. La fioca luce di quei bagni illuminava lievemente il mio volto allo specchio: terrore, terrore si vedeva in quei grandi occhi. Alzai le maniche della maglia e guardai stupida tutta la pelle arrossata che prudeva ancora. Gettai le mani e le braccia sotto l’acqua fredda, chiusi il rubinetto e le fissai.

Residui di lividi, macchie viola così scure da sembrare nere. Una cicatrice nell’interno del braccio destro, che sembrò essere così evidente in quel momento. Non avevo mai fatto caso a quanto fosse grande, mai perché non volevo, non volevo pensare, ne potevo ricordare quel giorno di metà inverno che mi era rimasto impresso sulla pelle.

 

“Tu! Tu mi hai seguito puttana di una figlia! Mi hai seguito e se ti azzardi ad aprire bocca ti tolgo anche il respiro!”

“I-Io non dirò nulla papà” la voce tremante di chi vorrebbe scoppiare a piangere per la paura, ma sa che non può farlo.

“Sei una bugiarda. Tu stavi correndo dritta a dirlo a tua madre. Ma se vengo a sapere che qualcuno sa di questa storia, questo, questo lo vedi?!”tirò fuori un piccolo coltellino dalla tasca della giacca. “Questo te lo infilo fin dentro la gola.”lo puntò dritto verso di me.

“Non dirò niente, papà. Te lo prometto.”ancora un lieve tremore.

“Devi fare quello che dico io, è chiaro? Sei mia figlia, tua madre non ha alcun diritto su di te. Io decido cosa devi fare.” Non abbassò l’arma.

“Ma sono anche sua figlia.”

“Ma di più mia! Tu respiri quando te lo dico io, parli quando te lo dico io, vivi come dico io. E’ chiaro?”la rabbia nel suo volto.

“C-chiaro..” abbassai lo sguardo, intimorita, impaurita, terrorizzata.

Prese il mio braccio destro, lo fissò. “Vedi tutti questi segni? Sono fatti da me e sono così fiero di questi. Così tutti sapranno che sei mia, che sei mia figlia e di nessun altro.” Continuò a guardarmi.

“Ma papà..” deglutii “Hai sempre detto che sono una pessima figlia”

“Lo sei, infatti!”un ghigno sul suo volto “Ma cambierai. E grazie a questi segni tutti sapranno che figlia meravigliosa sarai diventata grazie a me.” Deglutii rumorosamente.

“Davvero pensi che io posso diventare migliore?” un barlume di speranza si accese in me, una speranza vana.

“Ma soltanto grazie a me” rise malignamente “E ora vedi qui?” indicò il braccio, in un punto limpido “Vedi come i miei segni qui non hanno ancora fatto il loro ingresso?”abbassai lo sguardo annuendo.

“Tu sei mia e se c’è qualcosa che può dimostrarlo è un segno ancora più marcato.”

Alzò il braccio, aprì il coltellino. Sgranai gli occhi come non avevo mai fatto, tentai di indietreggiare prima che potesse mettermi le mani addosso. Ma la sua presa si fece più dura e io ero intrappolata.

“No! No, papà, non farlo! Sarò buona.”dissi iniziando a singhiozzare.

“Zitta! Non urlare! Smettila di frignare e dammi questo dannatissimo braccio.”

Strillai, ma mi coprì la bocca. Mi dimenai, ma mi tenne stretta. La punta di quel coltello toccò la mia pelle delicata. Strinsi gli occhi, scossa da tremiti, finché la lama non sprofondò e un calore bagnò a gocce il mio braccio. Il sangue gocciolò fino a terra e le lacrime uscirono dei miei occhi a fiumi. Crollai a terra.

L’acqua fredda mi bagnò anche il volto, schiusi gli occhi, con le gocce che ricoprivano le mie ciglia. Mi guardai dritta nello specchio sospirando, poi asciugai il viso. Sperai che tutti i ricordi smettessero di avere quel potere su di me, di rendermi così vulnerabile.

Sono violenti, molto violenti

 

Scossi la testa sbuffando, li scacciai via. Presi una forte respiro e decisi che tornare agli alloggi sarebbe stata la cosa migliore.

Era ancora seduto, con le mani strette nelle tasche e lo sguardo perso nel sole che batteva sulle strade. Louis si voltò non appena mi vide.

- Hey! E’ tutto okay? Stai bene? –

Srotolai le maniche e mi sistemai. Mi guardò da capo a piedi.

- Si, grazie, Louis. Ora però sarà meglio che io torni, okay? -

Lasciai sul tavolo il caffè-latte e la mia porzione di pancakes. Presi la borsa e indossai la giacca.

- Ma come? Vai via così? – si alzò e mi guadò perplesso.

- Si, Louis, vado via così – puntai gli occhi nei suoi.

- Come al solito – un tono seccato. Prese la giacca e la indossò. – Non mi stupisce – aprì la porta d’ingresso ed uscimmo dal bar.

- Cosa vorresti dire? – si strinse nelle spalle, poi si fermò e mi guardò.

- Voglio dire che non è una novità che tu “vada via così”. Lo fai sempre, di punto in bianco parti e te ne vai. – lo guardai con gli occhi intimoriti, un leggero fastidio ancora persistente sulle braccia.

- Non è sempre così, come non lo è adesso –

- Ah no? Mi è apparso così strano il modo in cui hai deciso di andare via. C’è qualcosa da cui scappi? Scappi da me, per caso? – notai un luccichio nei suoi occhi.

- No, non scappo da niente e da nessuno. Solo.. È solo che… -  sollevò le sopracciglia, io sospirai.

- Solo cosa? Dovresti far pace con te stessa, prima andare dalle persone e poi fuggirtene -

- Ma no, ti sbagli di grosso! –

- Dimostramelo – mi apostrofò.

Lo guardai, poi abbassai lo sguardo. Me stessa capì di dover fare davvero i conti con sé. Ed io capii che quel ragazzo di fronte mi stava smascherando con troppa facilità: mi stava buttando in faccia la verità, pezzo dopo pezzo. E mi sentii denudata, priva di qualunque autodifesa, fragile. Troppo fragile per potermi nascondere ancora.

- Non posso – dissi con un filo di voce – Non posso dimostrarlo -

- D’accordo – replicò – Allora ti lascio andare – lo guardai stupida quando mi diede un bacio sulla guancia – Sei libera di fuggire adesso, okay? –

Annuii piano abbassando la testa, ma non appena vidi che iniziò a camminare lo tirai di nuovo verso di me.

- Louis, aspetta! – dissi – Non c’è niente che tu abbia sbagliato, d’accordo? Sei fin troppo buono con me. Ho solo.. ho solo alcune cose per la testa – sospirai.

- Troppe. Ne hai troppe nella testa – mi guardò – Facciamo così – infilò una mano nella sua tasca, ne estrasse una penna. Prese una mia mano e poggiò la punta sulla pelle irritata. Pensai che mi chiedesse perché la mia pelle avesse quel colorito così insolito, ma tutto ciò che fece fu scrivere.

- Questo è il mio numero. Chiamami quando vuoi vedermi. –  sorrisi – Chiamami quando avrai parlato con te stessa, quando non scapperai. –

Sospirai, poi annuii piano – D’ accordo. -

Ma non avevo bisogno di parlare con me stessa, non c’era nient’altro che dovessi dirmi. Tutto ciò che c’era da sapere lo sapevo già: scappavo dalle paure piuttosto che affrontarle, tutto qua.

Mi voltai e lo vidi camminare con la schiena dritta verso una meta che non conoscevo. Diretto verso casa o forse verso il parco o verso qualunque altro posto che fosse nella direzione opposta alla mia. Sobbalzò a quel punto un pensiero nella mia testa, fissai quel numero inciso con l’inchiostro sulla pelle che stava tornando del suo normale colorito. Mi stava urlando in tutti i modi che non dovevo scappare, mi stava offrendo la mano, una mano che probabilmente mi avrebbe tenuta stretta. Ma come potevo averne la certezza? L’ennesimo punto nero mi appannò la vista.

Gli uomini, pensai, sono creature così oscure e non sai mai cosa vogliono davvero da te.

Li temevo, li temevo gli uomini. Con quelle mani così grandi e quei sorrisi così raccapriccianti, che non capivo da che parte andare: se andarmene via oppure restare. Mi terrorizzavano, tanto che avevo paura che se mi fossi fidata troppo di un uomo sarei diventata soltanto una vittima. Pensai che tutte quelle paure fossero dovute ad una sola ragione. Mio padre.

Paura di amare perché non sapevo cosa significasse.

Paura di restare perché la fuga era la strada più semplice.

Paura della paura stessa, perchè non sapevo affrontarla, perché credevo di non farcela.

E quando dovevo finalmente fare un passo avanti, tutte le mie paure parlavano insieme nella testa, creando una tale confusione da farmi ribollire il cervello. Mi si presentavano davanti ostacoli da superare e mille voci mi dicevano che non ce l’avrei fatta, che la strada da percorrere era troppo difficile, che c’era qualcosa che mi bloccava e che mai sarei riuscita a buttare giù quel muro. Ma, al tempo stesso, ce n’erano altre mille che dicevano di non dargli retta e di affrontare tutto, di rischiare. A volte prevalevano le une, a volte le altre.

In quel momento ci furono voci che mi consigliarono di girare i tacchi e di andarmene da lì. Sei debole, mi dissero. Alcune invece mi urlarono di restare e di andargli incontro, di lasciare stare il passato e di seguire Louis fin quando lui non avrebbe capito che ero stanca perfino di scappare.

E l’assurdità di quella situazione fu che mi ritrovai a stringere con il palmo della mano il mio cellulare, senza averlo scelto. Digitai il suo numero, mentre lui continuava a camminare tra la folla lungo quel enorme viale. Inconsapevolmente io ero restata, io ero tornata da lui. Anzi, io non me ne ero andata affatto.

Uno squillo. Due squilli.

– Pronto? –

– Aspetta – un sussurro  – Non fare come me, tu non scappare. –  Si voltò, con le mani infilate nelle tasche e la fronte arricciata per il vento che gli colpiva il volto.

– E se invece lo facessi? – tenne gli occhi fissi su di me, come io su di lui  – Cosa ci sarebbe di male? –

– E’ sbagliato – sospirai – E’ sbagliato scappare. E’ da codardi. -

Lo vidi voltarsi completamente e camminare a passo lento verso di me – Mi stai dando del codardo? – sorrise e io ricambiai allo stesso modo.

– Io? Beh, non escluderei l’opzione –  risi.

 

Si trovó ad un passo da me, chiuse il cellulare e mi guardó. Io riposi il mio nella borsa e sorrisi verso di lui stringendomi nelle spalle. Fu una sensazione nuova, ritrovarmi di fronte a qualcuno da cui stavo per scappare, qualcuno pur cui invece ero restata, qualcuno che mi stava insegnando a farlo.

 

- Sono io ad essere codarda, lo sai - mi morsi il labbro inferiore. Lui stava sorridendo, con un sorriso che gli illuminava completamente il volto.
– Perchè? –
– Scappo sempre, no? – portai anche io le mani nelle tasche.
– Non sei poi così codarda, almeno tu hai avuto il coraggio di provarci, di provare a restare – mi guardó dritto negli occhi e poi abbassó lo sguardo.
Io lo fissai e lo vidi quando cambió espressione: aggrottò la fronte e non rialzó gli occhi su di me.
– Almeno io? - chiesi interdetta.
– Si, non tutti sanno farlo –
– Ad esempio, chi? – poggiai la schiena al muro mentre lui era di fronte a me. Mi tenne sulle spine per alcuni secondi, poi finalmente mi degnó di un suo sguardo.
– Ad esempio io. Io non azzardo neanche – sospiró.
– Ah no? – scosse la testa e mi guardó, lasció cadere le braccia lungo i fianchi. Mi si strinse il cuore quando incurvó le labbra di lato, in un'espressione che faceva trasparire sofferenza. Sorrisi piano, poi poggiai una mano sulla sua spalla.
– Anche io fino a poco fa sapevo soltanto scappare, sai? –
– Si - mi guardó – Come hai fatto a cambiare idea? –
– Grazie a te –
Alzó gli angoli della sua bocca in un piccolo sorriso.
– Cosa vuoi dire? –
– Che se tu non mi avessi buttato in faccia quello che faccio, quello che sbaglio, io ora non sarei qui. È grazie a te se non me ne sono andata. –
Mi lanció un timido sorriso e mi ringrazió. Rimasi intenerita di fronte a quello spettacolo, quello di un ragazzo che sembrava avere gli occhi di un bambino. Degli occhi così profondi e pieni, così interamente da scoprire. Sembró la persona piú piccola del mondo in quel momento, come quei suoi grandi occhi che contenevano un piccolo infinito. E quel sorriso che per la centesima volta esplose luminoso sul suo volto. Poggiò la sua mano sulla mia che era ancora sulla sua spalla e i mille ricordi della prima sera mi riaffiorarono nella mente. Pensai che tutti gli avvenimenti da quel giorno a quel momento non erano stati poi così spiacevoli, pensai che forse non erano stati neanche del tutto casuali e che probabilmente per una volta, sbagliando avevo fatto le cosa giusta.

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