Frontiera

di Silvar tales
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** John's Town ***
Capitolo 2: *** Scotch Plains ***
Capitolo 3: *** Lexington ***
Capitolo 4: *** Diamond Basin ***
Capitolo 5: *** Kanièn:keh ***
Capitolo 6: *** Colline di Great Piece ***
Capitolo 7: *** Monmouth ***
Capitolo 8: *** Black Creek ***
Capitolo 9: *** Packanack ***
Capitolo 10: *** Valley Forge ***
Capitolo 11: *** Troy's Wood ***
Capitolo 12: *** Concord ***



Capitolo 1
*** John's Town ***


Frontiera




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John's Town



"Connor! Rallenta ti prego, inizio ad essere troppo vecchio per queste cose".
Ratonhakè:ton scendeva i pendii di John's Town con i piedi di traverso, la canna da pesca gli penzolava dalle spalle.
"Forza vecchio, scendiamo sulla riva più esterna".
"So benissimo che vicino alla cascata ci sono gli orsi, conosco queste terre molto meglio di te ragazzo".
"Una coppia di orsi, ad essere precisi. E credo che presto avremmo due orsetti in più in questa conca".
Era una bella giornata. Un pomeriggio ottimo per pescare i salmoni sotto le fronde degli abeti.
Connor aveva addirittura imparato a prenderli con le mani, se stava appostato sulla cascata.
Achille aveva preparato delle esche prelibate: scarti di carne d'alce e radicchi.
L'acqua verde sotto la riva era brulicante di avannotti.
Dopo un'ora avevano già il cesto pieno.
"Giornata proficua", disse assorto Achille per spezzare il silenzio. Da tempo un pensiero gli ronzava in testa.
"Connor, ascolta..." Il vecchio della Collina posò la canna da pesca, le mani rugose gli tremavano.
Lunghi anni pesavano sulla sua schiena, vedeva tutta la sua vita risolversi in quel ragazzo, l'unico cui aveva trasmesso le sue conoscenze. Quel ragazzo che portava il nome di suo figlio, quel ragazzo indiano che, alla fine, aveva profondamente amato.
"Non vorrei mai che tu incontrassi Faline. E non provare nemmeno a cercarla".
Connor alzò le spalle e gettò l'amo a venti metri dalla riva. Aveva già sentito quella storia: un'Assassino giunto dalla Francia aveva preso il largo per approdare alle coste occidentali e vivere tra le foreste canadesi e il lontano nord, distante dai due fuochi rivoluzionari che incendiavano Europa e America: il volere di un padre premuroso che nient'altro desiderava fuorché tenere al sicuro la propria figlia. Ed ora la francese era venuta a conoscenza del figlio di Haytham Kenway, un ragazzino indiano più grande di lei di due anni, ed aveva il solo obiettivo di ucciderlo.
"Quella ragazza ti ucciderà Connor, senza alcun dubbio, se lo vorrà. È probabile invece che non lo voglia per davvero, ma ricordati che è perfettamente in grado di farlo".
Ratonhakè:ton iniziò a mostrare segni di nervosismo. Tirò il filo a riva e trovò avvinghiate all'amo solo alghe limacciose sporche di fanghiglia. Sbuffò.
Sapeva di procurare un dolore ad Achille, ignorando così sfacciatamente i suoi avvertimenti.
Eppure si rifiutava di credere che una ragazzina potesse davvero costituire una minaccia.
Sempre più nervoso e scostante, raccolse il cesto e la canna da pesca e si ritirò nel folto del bosco abbandonando Achille sulla riva. Poi si fece cogliere dal rimorso e stette sugli alberi soprastanti per controllare che al vecchio non accadesse nulla di male; lo guardò sospirare e risalire la collina di John's town, lo guardò mettere in fuga una coppia di alci adulte, lo guardò prendere la sicura via per la Tenuta. Poi lo abbandonò.

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Capitolo 2
*** Scotch Plains ***


Scotch Plains



Si trovava nottetempo sulla via per New York, quando in prossimità delle creste rocciose di Scotch Plains il suo cavallo si prese spavento e si rifiutò di proseguire oltre.
Il primo pensiero istintivo di Connor fu che una coppia di puma si aggirasse nei paraggi, così imbracciò l'arco e scese da cavallo, abbandonando la bestia al suo destino.
Fastidiose frasche di nevischio gli si attaccavano sulle guance; il clima non era ancora troppo rigido: l'inverno era al principio.
Iniziò a scalare le pareti che incorniciavano il sentiero principale: non lontano da quella catena di cocuzzoli permaneva un forte della Corona, uno degli ultimi baluardi che ancora non era riuscito a spodestare.
Le colline erano silenti; alla sua sinistra, un pauroso dirupo volava a capofitto sul mare. In lontananza baluginavano le luci dell'avamposto inglese; anche nell'oscurità si distingueva con chiarezza la mole delle mura appollaiate sul promontorio.
Connor camminava circospetto tra la neve alta, attento a non far troppo rumore; con la mano destra carezzava le piume delle sue frecce, pronto ad estrarle dalla faretra nel caso un puma balzasse fuori dalla sua tana. La neve era insidiosa, nascondeva le asperità del terreno, le buche, le tracce.
Ma Connor, nella sua ingenuità, non aveva pensato nemmeno per un secondo di guardare in alto.
Sopra la sua testa, due piedi e due mani leggeri come fiocchi di neve camminavano sui rami scivolosi. Un animale più silenzioso di una lince, più lesto di una lepre, più letale di un lupo affamato. Una donna.
Ma non una donna comune, non una donna con il vestito lungo e la cuffia, nemmeno una donna cacciatrice con il fucile in spalla e il coltellino in tasca: una bestia.
Connor ignaro continuava ad avanzare nella neve e a scrutare davanti a sé, non sospettando minimamente che il pericolo gli sarebbe piovuto dall'alto.
Quando l'ebbe a portata di tiro, la belva saltò e atterrò in piedi proprio di fronte a lui, sbarrandogli la strada; il ragazzo a malapena vide il guizzare e il sibilare di un'arma bianca che veniva estratta dal suo fodero, a malapena schivò i primi due colpi che l'estranea gli inferse con velocità e precisione; ne seguirono un altro, un altro ancora, un terzultimo, e Connor, finalmente ravvedutosi, li parò tutti.
Destra, sinistra, destra, gioco di polso. Parate o no, in pochi secondi l'Assassino era immobilizzato da una lama impugnata da una donna sconosciuta, comparsa dal nulla in una fredda notte di inizio inverno, in un luogo inospitale e improbabile popolato da puma e canaglie britanniche. E nemmeno la ragazza sembrava una loro spia, pensò Connor dandole una rapida occhiata: era vestita alla maniera degli antichi barbari nordici, braccia e spalle scoperte, polsi protetti da possenti bracciali in cuoio, corpetto in cuoio e pelo di volpe come il gonnellino che le teneva scoperte le gambe, stivali bassi in pelle grezza rivestiti all'interno di pelliccia. Infine il viso: guance rosse e screpolate dal freddo, occhi castani come i capelli, gonfi vivi e lunghi fino alle spalle. Il suo sguardo era glaciale, eppure ardeva come un indomito fuoco di rabbia e coraggio. Respirava velocemente, il suo cuore palpitava: aveva la vita di Ratonhakè:ton stretta in mano.
"Tu sei Faline, non è vero?" Tentò Connor con cautela, mentre dentro di sé si dava mille volte dello stupido. Per una volta avrebbe dovuto ascoltare il vecchio, l'aveva sottovalutata. Di certo non l'avrebbe creduta così abile.
La ragazza si leccò le labbra, come per pregustare la sua preda. Solo in quel momento Connor notò che in cintola ella portava il simbolo della loro confraternita, un povero triangolo di ferro arrugginito e rovinato dalle intemperie, eppure inconfondibile.
Ma chi era? Perché mai gli era così avversa se erano confratelli?
Perché Achille non gli aveva mai raccontato nulla di tutto ciò? Si chiese Connor con furia crescente, mentre sentiva il battito cardiaco accelerare.
"Sono io, Ratonhakè:ton. Ti senti in pericolo?" Infierì Faline avanzando di qualche passo e calciando lontano la spada di Connor, mentre con il filo della lama rafforzava la presa sul suo collo.
"Non ci provare nemmeno", lo ammonì vedendo che il ragazzo cercava di raggiungerla con le lame celate.
"Cosa vuoi da me?" Chiese in fretta e furia il ragazzo, mangiandosi le parole. Guardò il suo aggressore con odio. Ciò che odiava in verità era sentirsi impotente, soprattutto se a tenerlo sotto scacco era una donna. O meglio, una ragazzina appena diciottenne.
"Non è evidente?" Fece lei, inclinando la testa e assottigliando gli occhi, come se dovesse inculcare un concetto particolarmente complicato nella testa di un moccioso.
"Uccidermi. Posso sapere perché?" Ringhiò Connor, pensando inutilmente a una via di fuga.
Calarono attimi di silenzio; in sottofondo il canto inquietante dei gufi e lo scricchiolio della neve.
Faline parve interdetta, anche se nulla riusciva a toglierle quel sorriso di trionfo dalla faccia.
"Tu sei il figlio di Haytham Kenway, e questo basta".
"Haytham Kenway è morto!" Si affrettò a chiarire Connor sperando di riuscire ad avvalorare la sua difesa. "E stai parlando con l'uomo che l'ha ucciso".
Faline si ammutolì, anche se la sua espressione rimase la stessa. Poi alzò un sopracciglio e ridacchiò divertita.
"Davvero sbalorditivo. Hai fatto quello che andava fatto allora. Edward Kenway era un grand'uomo, cosa direbbe se vedesse in che stato è ora la sua..." E fissò disgustata Connor "...progenie. Così sia, Ratonhakè:ton. Ho deciso di non ucciderti per il momento, attenderò tu faccia qualcosa di incredibilmente stupido che violi i nostri principi".
Faline rinfoderò la spada e Connor sentì ogni muscolo del corpo rilassarsi.
Lo guardò un'ultima volta con i suoi occhi scuri, ammiccando con cipiglio pericoloso: un avvertimento, prima di voltargli le spalle e sparire nella notte nevosa, così veloce e sfuggente da non permettere a Connor di trattenerla.
Eppure, trovò il tempo di sibilargli un'ultima frase.
"Rimani pur sempre il figlio di Haytham Kenway".

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Capitolo 3
*** Lexington ***


Lexington



La incontrò nuovamente a Buckman Tavern tre mesi più tardi, quando la neve iniziava a sgelare e a cadere dalle montagne. Parlava animatamente con una dozzina di giovani uomini, che avevano tutti l'aria di saper bene maneggiare le armi. Connor si mise in disparte ad osservarli, sperando di cogliere qualche preziosa informazione dai loro discorsi; a giudicare da come essi la guardavano e le si rivolgevano, Faline doveva essere il loro leader. Eppure, lei sembrava trattarli come suoi pari.
"Qui la campagna è bella e fertile... Potremmo fermarci un po' qui!"
"Potremmo cacciare e pescare sulle vicine spiagge di Scotch Plains in attesa dell'arrivo dei confratelli".
"Ben detto Harold, ci occorrono provviste e rifornimenti..."
Confratelli? Ma erano tutti Assassini? E di che tipo di rifornimenti andavano discutendo?
"Non siamo in villeggiatura, qui c'è una guerra da combattere", intervenne Faline interrompendo all'istante le fantasie dei suoi chiassosi compagni. A quel punto Connor non riuscì più a trattenersi e uscì allo scoperto.
"Guerra?" Ripeté avanzando verso il loro tavolo con ancora il cappuccio calato sugli occhi. Faline sorrise ma non alzò lo sguardo dal suo bicchiere. Gli altri assassini invece si allarmarono ed alcuni di loro estrassero le armi.
"Non ne vale la pena, non è pericoloso", li trattenne lei. Sapeva che le sue parole tagliavano peggio di una lama. Connor non era tipo da rispondere alle provocazioni, ma stavolta fu per davvero ferito nel vivo del suo orgoglio.
"Non sono pericoloso, eh? Ne sei sicura, Faline?" Accarezzò il manico del suo tomahawk ma si impose di mantenere il controllo.
Finalmente Faline gli rivolse l'attenzione; si alzò in piedi e lo guardò con sufficienza.
"Prima di incontrarti avevo qualche dubbio, sì, ma poi mi è bastato vederti la prima volta per capire che non sei una minaccia. Non riusciresti nemmeno ad uccidere me, vogliamo vedere con dodici uomini al mio fianco?"
A quel punto intervennero i suoi compagni a dare man forte alle sue parole.
"Faline è ben più forte di dodici uomini!"
"Cinquanta ne ha uccisi, da sola!"
Connor era disorientato, non capiva il legame di assoluto rispetto e soggezione che quegli uomini nutrivano nei confronti di quella ragazzina prepotente.
"Non dovresti sbandierare in giro le tue abilità".
"Perché? Ho bisogno di nasconderle?" Sogghignò Faline. "Ti sto dando un vantaggio, non ti concedo di sottovalutarmi".
"Non ti sottovaluto. Anch'io ho avuto modo di saggiare le tue potenzialità durante il nostro primo incontro. Piuttosto ditemi, siete forse rimasti indietro? La guerra è vinta".
"Evidentemente non hai fatto bene il tuo lavoro, Ratonhakè:ton. Non ti sei accorto di nulla? Gli inglesi si stanno riorganizzando. Sono in pochi, un ultimo gruppetto mandato alla morte per l'ostinazione della Corona. Serpeggiano come topi dentro le gallerie e le buche disseminate in tutta la Frontiera. Sono esuli ma presto uniranno le loro forze. Attaccheranno entro l'estate. L'elemento sorpresa è il loro unico vantaggio, non sappiamo dove decideranno di uscire allo scoperto".
"Se ciò che dici è vero, quanti sono?"
"Un migliaio, al massimo. La causa è ormai persa, la Corona non rischierà di più. Non invierà nemmeno dei rinforzi".
Faline aveva ragione, Connor non si era accorto di niente. La sua guardia si era abbassata, ormai convinto che il nemico fosse stato rispedito oltre oceano, convinto che la presenza forte di Washington sarebbe bastata a tener lontane altre navi inglesi.
Eppure aveva combattuto nella rivoluzione, ed ora una ragazzetta venuta dal Canada gli rinfacciava di non essere stato abbastanza attento e guardingo.
"Incontrami fra una settimana, Ratonhakè:ton", disse Faline prendendogli un braccio proprio come se stringesse un patto di alleanza con il suo peggiore avversario. "Tu combatterai con noi".
"Ya-ah!" Esclamarono in coro gli uomini di Faline alzando i calici.

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Capitolo 4
*** Diamond Basin ***


Diamond Basin



"Cosa significa che non intende più ucciderti?"
"Forse credeva che avessi seguito le orme di mio padre, mi credeva un traditore, poi ha cambiato idea quando le ho detto che sono stato io ad ucciderlo. Devo averla convinta".
Achille lo guardò sospettoso, come se cercasse la menzogna nei suoi occhi.
"Faline non cambia idea. Stai attento Connor".





Dopo esser sceso per il fianco meno scosceso della montagna, Connor era arrivato in riva al lago, nel cuore di Diamond Basin, una delle regioni più selvagge della Frontiera.
Nell'oscurità risuonavano i guaiti e gli ululati dei lupi, le rane gracidavano nascoste nell'acqua stagnante. La luna era particolarmente bella e grande quella notte, l'odore pungente di primavera impregnava l'aria.
Dopo essersi liberato degli indumenti più ingombranti, Connor entrò in acqua. Era ancora gelida, intorpidita dal recente velo invernale.
Mise in fuga una famigliola di castori e un branco di trote nel raggiungere un masso affiorante, la sua consueta stazione di pesca. Legò una rete a maglie strette ad un anello che aveva fissato nella roccia anni addietro; bastavano poche esche ad attirare decine di gamberi lacustri al suo interno. I gamberi di lago erano meno saporiti di quelli di mare, e più bianchi, ma se speziati a dovere diventavano squisiti.
Connor guardò soddisfatto il suo operato, quando una voce turbò la quiete di quella conca.
"Giocare con la canna da pesca: tipico di chi non sa che pesci pigliare".
L'Assassino alzò gli occhi al cielo. Faline gli era arrivata alle spalle senza fare il minimo rumore, nemmeno l'acqua sembrava muoversi al suo passaggio. Avanzava silenziosa e minacciosa aprendo il pelo dell'acqua in numerosi cerchi, discreti e invisibili come lei. Un sorriso le svettava in volto, un sorriso beffardo e derisorio, il sorriso di chi aveva ogni cosa sotto controllo.
I suoi vestiti di cuoio e pelliccia si inzuppavano d'acqua e catturavano alghe e tranci di terra galleggianti, un branchetto di plancton lacustre assaggiava incuriosito i peli di volpe che ricoprivano il suo gonnellino, simili a strane anemoni filacciose che fluttuavano nell'acqua scura della pozza. Ma Faline sembrò non curarsene.
"Non si era detto tra una settimana?" disse insofferente Connor, allontanandosi istintivamente di alcuni passi. A differenza dell'altra, lui era goffo e impacciato nel muoversi tra l'acqua, e per nulla silenzioso.
Ma Faline rivolse la sua attenzione altrove, scrutò attenta il cielo e le colline intorno: quella conca era un'enorme trappola, da un momento all'altro i lupi e le linci avrebbero potuto decidere di circondare le alture che chiudevano il lago, togliendo ogni via di fuga agli ignari erbivori che lì venivano per abbeverarsi.
C'era la luna piena, e i lupi si chiamavano felici.
Scacciò svogliata un bastone galleggiante viscido di alghe, tuffò la mano sott'acqua e quando la tirò fuori aveva una trotina stretta tra le dita.
"Toh", la lanciò a Connor che si affrettò a metterla nella rete dopo aver abbozzato un cenno di ringraziamento.
"Dovresti imparare a guardare in alto, è un'ora che ti osservo da quella roccia", e indicò un imprecisato punto alle sue spalle.
"Che... cosa? Avrei potuto essere nudo", obiettò l'Assassino, sentendo una sgradevole sensazione chiudergli lo stomaco.
"Sei nudo?" Chiese Faline, più tranquilla e disinvolta che mai, inclinando un poco la testa e ignorando del tutto il lieve imbarazzo dell'Assassino. Ora il suo tono di voce si era fatto insopportabilmente canzonatorio.
"No!" Si affrettò a chiarire Ratonhakè:ton, allargando le braccia e alzandosi in punta dei piedi sul fondale fangoso per mostrare la cintura in pelle che gli reggeva i pantaloni.
"Peccato", ribatté Faline, puntuale e pungente.
E un sorriso, stavolta spontaneo, le si aprì sulla bocca.
Calarono alcuni attimi di silenzio, nei quali Connor finse di sistemare la rete da pesca. Ovviamente non vi trovò nessun animaletto intrappolato al suo interno, non con tutto il baccano che aveva fatto nel tentativo di mantenere le distanze da Faline. Quella donna lo metteva in agitazione, constatò avvertendo un filo di rabbia montargli nel petto. Ma si rifiutava di credere che quell'ingombrante sensazione che sentiva potesse essere paura.
"Ratonhakè:ton, in realtà avevo detto una settimana, è giusto. Ma io non ti ho offerto la mia collaborazione e il mio appoggio militare per poi vederti pescare, cacciare, ubriacarti... e prima che me lo chieda sì, ti ho osservato, costantemente", si affrettò a chiarire Faline prima che Connor potesse aprire bocca e interromperla, "e devo dire che sono ancor più delusa di prima. Credevo che in questa settimana tu ti fossi dato da fare, ti ho già detto che gli inglesi si stavano riorganizzando, no? Non hai nemmeno cercato di scoprire nulla di più sulla faccenda, o sbaglio?"
Falin terminò la sua raffica di rimproveri con il petto che le palpitava e gli occhi castani che lampeggiavano di impazienza.
Ma nemmeno Connor aveva tanta pazienza a disposizione.
"Avresti anche potuto farlo tu", ribatté acido, "invece che perdere tempo ad osservarmi". La sua espressione diventava sempre più cattiva e furente ogni secondo che passava, non solo perché non gli garbava affatto venir ripreso come uno scolaro negligente, ma anche - e soprattutto - perché lo inquietava ancor di più il fatto che Faline l'avesse osservato durante tutto quel tempo, e lui non si fosse accorto di nulla. Niente di niente, nemmeno un presentimento, un sospetto, neanche una volta.
O i suoi sensi si erano affievoliti così tanto, o lei era mostruosamente brava.
Faline dovette accorgersi della sua rabbia e del suo disagio, perché la sua espressione odiosa e irritante si addolcì. In compenso, avanzò ulteriormente tra l'acqua, lenta e veloce allo stesso tempo.
Connor calcolò male i tempi, calcolò male le distanze, e si ritrovò con le spalle al muro. O meglio, con le spalle alla parete. Sopra di lui torreggiavano le alte mura di Diamond Basin; in lontananza, su quelle cime grigie, i guaiti delle linci che facevano festa animavano il silenzio del paesaggio. Seppur il ragazzo fosse abituato a simili atmosfere, la presenza di Faline rendeva il tutto un poco più inquietante.
La ragazza canadese continuava ad avvicinarsi a Connor, ora meno sicura e decisa di prima, complice il fondale che da scivolosa fanghiglia si tramutava progressivamente in ruvide e scomode rocce, fastidiose e acuminate.
Quando ebbe raggiunto l'Assassino, fece una cosa inaspettata. Gli pose la mano destra sulla sua spalla sinistra, si alzò in punta di piedi, avvicinò la bocca al suo orecchio e inspirò il suo odore. Lo annusò, come un orso annusa la sua preda.
Connor restò immobile, i suoi respiri erano profondi e allo stesso tempo veloci, e l'altra mano che Faline aveva appoggiato sul suo petto nudo e bagnato lo metteva più che mai in imbarazzo.
Faline appoggiò la sua fronte contro la sua guancia, un poco ruvida di barba, strofinò il naso e il viso contro il suo, richiamando con insistenza la sua attenzione.
E Connor trovò il coraggio di abbassare la testa e baciarla, anche se non era sicuro che fosse quella la sua intenzione.
Un bacio appena accennato, a fior di labbra.
I due sembravano quasi studiarsi in quel contatto ravvicinato, studiarsi come due maschi adulti che si fronteggiavano per una femmina da possedere.
La mano di Connor scese temeraria lungo il torace della ragazza, e arrivò a toccarle le cosce con veemenza, con entrambe le mani, addirittura la sollevò un poco e si portò con i fianchi contro i suoi, sfruttando la leggerezza che l'acqua le dava.
E a lei venne spontaneo ridere di lui, della sua avventatezza, della sua palese inesperienza, ma anche della sua assenza di pudore.
Si erano avvicinati come due animali, si erano studiati a vicenda come due animali, il pudore non era altro che un impiccio.
Un impiccio che i lupi, gli orsi, le aquile non conoscevano.

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Capitolo 5
*** Kanièn:keh ***


Kanièn:keh



Era piovuto tutta la notte.
I puma erano scesi a valle, gli storni erano migrati sulla costa e i cervi brucavano in riva al fiume. La mattina era sorta con un sole pallido e un vento tenace. Una giornata perfetta per andare a caccia, con la terra umida di tracce e il vento a favore.
Faline si svegliò con il sole che le pungeva gli occhi e la paglia che le pizzicava la schiena. Ratonhakè:ton dormiva ancora. Lui di certo aveva passato una nottata fantastica, anche la parte in cui avevano dormito, s'intende. D'altronde era nato in quella stessa capanna di stecchi in cui si trovavano, doveva essere abituato a quel genere di barbare sistemazioni notturne.
Faline avrebbe preferito dormire nel fango piuttosto che su quel pagliericcio bagnato e pieno di punte. Ma almeno ne era valsa la pena. Connor si era dimostrato impacciato, ma non così tanto impacciato come aveva previsto, e ciò era un bene, perché tra tutte le qualità che Faline possedeva non si poteva certo annoverare la pazienza.
Si alzò, incurante di essere nuda, uscì dalla capanna e raggiunse la vicina insenatura del fiume.
Respirò a fondo l'aria impregnata dell'acidulo odore di lago. La sabbia era costellata di impronte: lepri, gabbiani, volpi e simili animaletti poco più che innocui. All'alba avevano fatto festa tutti quanti assieme, con le erbe e i tuberi teneri che spuntavano tra la sabbia. Immancabilmente c'erano anche tracce di sangue e una zampa pelosa di cervo: gli avanzi della cena di un puma.
"Ehi..." Connor la raggiunse sbadigliando. Indossava solo pantaloni e stivali, ma era rimasto a petto nudo e non aveva ancora raccolto i capelli.
"Spero che almeno tu abbia dormito bene. Da parte mia, io chiedo soltanto di non avere zecche addosso".
"Se vuoi controllo", Connor le girò attorno con fare innocente, scoprendole la nuca e le tempie e alzandole le braccia. "No, niente zecche".
"Hai trovato una buona scusa per guardarmi il culo".
"Faline, sei nuda", si difese Connor, costringendosi a guardarla fisso negli occhi.
Impresa non facile, dovette ammettere a sé stesso. Aveva visto fin troppe poche donne per non mostrarsi curioso del loro corpo.


Nel pomeriggio si armarono di arco, esche e trappole e si recarono sulla collina appena sopra il villaggio indiano. Camminavano su un tappeto rosso di aghi di pino, il profumo di resina misto a quello dolciastro della pioggia era inebriante.
"Ho passato la mia infanzia sotto questi alberi", disse Connor rompendo il silenzio, in volto aveva un sorriso nostalgico. "Mi hanno insegnato a cacciare, a vivere e sopravvivere nella foresta, a uccidere rispettando l'equilibrio della vita. Tuttora sono del parere che tutti gli Assassini dovrebbero crescere tra la mia gente, o avere un'istruzione simile. Mia madre una volta mi disse che non possiamo mai sapere l'esito esatto delle nostre azioni, ma dobbiamo sapere, nel momento in cui le compiamo, se stiamo agendo nel giusto, se stiamo assecondando il moto naturale delle cose o se stiamo corrompendo il mondo che ci circonda, e anche noi stessi al suo interno".
Faline sbuffò e scosse la testa. Era ovvio che non approvava il discorso di Connor nella sua integrità, ma preferì non ribattere. Con un balzo lesto, saltò invece sui rami più bassi di un abete.
"Cosa fai?" Chiese allarmato l'Assassino piegando il collo all'insù. L'idea che Faline potesse ucciderlo da un momento all'altro non l'aveva mai abbandonato del tutto.
E si sentiva vulnerabile come un coniglio in balia di un'aquila con Faline che gli camminava sopra la testa.
"Io preferisco cacciare dall'alto e ammazzare a mani nude, tu vai pure di frecce, coniglietto". Coniglietto, si ripeté Connor colto nel vivo da quella provocazione. A volte sembrava gli leggesse nel pensiero. Non mancava certo un fievole senso di affinità tra loro, se solo non fosse stato così sopraffatto da tutto il resto, forse... Un pensiero strambo e inopportuno iniziò a navigare nel lago della mente di Connor, un pensiero ronzante e fastidioso che scacciò all'istante.
"Suppongo tu abbia in mente di cacciare solo animali oggi, dico bene?"
"Sì, sarebbe un grande spreco fare la mantide, oggi! Prima vorrei portarti a letto qualche altra volta", ribatté pungente Faline, con un sorriso allusivo e furbesco che le si apriva da orecchio a orecchio.
Ovviamente l'ultima parola doveva essere sua di diritto.
L'Assassina strinse il pugnale tra i denti, sorrise furba e si spostò sull'albero adiacente. Puntava una volpe.
Connor scosse la testa, deciso a fingere di ignorarla. Anche se un'irrefrenabile moto di eccitazione gli era nato nello stomaco; non l'avrebbe confessato nemmeno sotto tortura, ma l'avrebbe posseduta di nuovo in quel preciso istante e luogo, per terra tra gli aghi di pino.
E poi, se ripensava alla notte appena trascorsa...
Le sue cosce bagnate che si aprivano, la sua pancia trasparente increspata di pelle d'oca, le sue gambe lunghe e secche, il suo cipiglio aggressivo, fin troppo aggressivo.
Connor trasalì. Si era lasciato andare a pensieri inopportuni da fare sotto la luce del sole. Una vampata di terrore gli scaldò il viso quando si accorse che stava avendo un'erezione. Si diede dell'idiota mille volte.
Cercando di pensare ad altro, finì per puntare un cervo. Si avvicinò cauto, nascondendosi tra la vegetazione e prendendo una freccia dalla faretra. La bestia era quasi a tiro e la freccia sarebbe scoccata a momenti, quando Faline lo raggiunse con due volpi appese al braccio.
"Ma... Sbaglio Ratonhakè:ton o era la tua prima volta?"
Connor trasalì e nella foga spostò l'arco di scatto; la freccia partì, ma schizzò in alto per poi ricadere innocua alle sue spalle.
E il cervo ne approfittò per scomparire oltre il crinale, nel versante di Diamond Basin.

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Capitolo 6
*** Colline di Great Piece ***


Colline di Great Piece



Non c’era alcun dubbio che Faline corresse più forte degli altri.
Correva più forte di Connor, correva più forte dei cervi in fuga sul manto nevoso, correva più forte del vento che scivolava lungo i pendii.
Connor aveva imparato a fidarsi di lei, era arrivato a litigare con Achille, che restava saldo sull’idea che Faline nutrisse palesi doppi fini nei suoi confronti.
Ma guardandola correre sui prati, sulle colline di Great Piece bagnate dal tramonto, gli sembrava impossibile che, in fondo, Faline non fosse una persona di buon animo.
“Sbrigati coniglio, o finirai in bocca alle linci!”
Certo, aggressiva, inquietantemente mostruosa nel corpo a corpo, più maschio che femmina, ma buona in fondo, con un coraggio disarmante e un carisma irresistibile.
Connor arrivò per primo sul crinale, ma solo perché Faline si era attardata qualche minuto ad osservare due alci maschi che litigavano, indecisa se attaccarli o meno. In altre parole, l’aveva lasciato vincere. La donna che lasciava vincere l’uomo: Connor si chiese se quest’insolita inversione di ruoli fosse un grave indizio nei suoi confronti.
Quando furono in cima, Faline allargò le braccia nude al vento e gettò la testa all’indietro, lasciando che i capelli castani le nuotassero a fianco del viso.
“C’EST LA LIBERTÉ!”
Entrambi non riuscirono a trattenersi dal sorridere. Il cielo era azzurro e rosa, il sole si era appena nascosto dietro i monti di Black Creek, ma il vento era la cosa più inebriante. Freddo, libero, indomito.
Rimasero qualche minuto in silenzio, con il sorriso che non voleva andarsene dalle loro bocche. Non sentivano il bisogno di guardarsi in faccia, né di toccarsi. Erano indifferenti l’uno all’altra, in quel momento, condividevano soltanto un amore smisurato per la cosa che li teneva uniti: la bellezza cruda della natura selvaggia. Ma erano consapevoli che, al di fuori di essa, sarebbero come divenuti due estranei. Cos’altro avevano da spartire, se non il cielo e la terra della Frontiera?
Attesero che il crepuscolo sfumasse in notte, poi scesero il pendio, di corsa, fino alla strada maestra. Da lì Connor prese la via per la Tenuta, e Faline per Monmouth. Non si salutarono nemmeno, paghi a sufficienza dei colori che avevano divorato, che erano rimasti impressi nei loro occhi.
Guardandola allontanarsi, Connor si convinse che Faline incarnava un vero ideale di libertà, forse più tenace e veritiero del suo. Si ricordava ancora di come rimase sorpresa venendo a sapere che Connor abitava in una tenuta, in una villa sfarzosa dotata di ogni comodo, e che gestiva una consistente rete di commerci, e che aveva una rendita e un libro contabile cui tener dietro.
“È assurdo! E ti definisci cultore della libertà? Non sei diverso dai cani inglesi”.
Faline era un’Assassino, ma faceva parte di una linea diversa da quella di Connor.
“Ho dormito nella paglia e nelle caverne un anno e tre mesi tra le foreste nordiche e le praterie della costa orientale, sono stata temprata nel ghiaccio e nella polvere, e non ho fatto altro che diventare più forte”.
Era discendente di Jasmine Jalil, fautrice dello scisma che avvenne anticamente, ai tempi di Rashid ad-Din Sinan. Gli Assassini che combattevano sotto il segno di Jasmine non erano nobili, erano perlopiù mercenari, pirati, farabutti di strada; essi interpretavano il Credo così come lo interpretò la loro capostipite, che si scostò fortemente dagli insegnamenti del vecchio Mentore di Masyaf. Ne diede un’interpretazione più anarchica ma pregna di buon senso, alleggerita molto dal pressante senso di dovere e onore che caratterizzava l’originale.
Il Mentore che addestrò Achille fu un radicale oppositore di questa teoria più libertina, e Achille ereditò le sue idee.
Tutt’altra storia fu invece per Edward Kenway, Solcatore di mari, e per la sua bionda e riccia Délphine. Essa era una Figlia del vento, così venivano infatti chiamate le eredi di Jasmine. Eppure sempre combatté fianco a fianco con Edward, e sempre lui condivise i suoi ideali. Non si sa se condivise con lei anche altro oltre idee e precetti, ma si sa, è destino che siano proprio gli Assassini della Confraternita a nutrire la stirpe di Jalil, a far sì che perduri. Alcuni dicono che è l’errore di Altaïr che si perpetua nelle generazioni, altri affermano che l’avvento di tali onde contrarie sia una benedizione, e sono in pochi ad auspicare un trionfo definitivo delle Figlie del vento, sui Templari, sugli Assassini, sul destino delle genti.


Connor ripose il libro nello scaffale, ancor più confuso di prima; aveva passato l’intera serata a leggere, a documentarsi sui vecchi volumi di Achille sperando di meglio comprendere i pensieri di Faline. Da quando gli aveva detto che lei seguiva un Credo diverso dal suo, si era chiesto cosa questo avrebbe potuto comportare, soprattutto per quanto riguardava il suo iniziale proposito di ucciderlo. Faline gli aveva risposto che non aveva nulla a che fare con una lotta tra fazioni diverse di Assassini, ma piuttosto perché Connor era e rimaneva il figlio di suo padre.
Ma ancor di più dopo quelle letture, Connor aveva la sensazione che lei gli avesse spudoratamente mentito.
“Ritieni quindi che sebbene io sia arrivato a uccidere mio padre, il mio sangue potrebbe riportarmi dalla parte dei Templari? Sei ridicola. Allora potresti aspettare di vedere se tradirò la Confraternita, e se questo accadrà sarai libera di farmi fuori, dopo. Tanto, visto che ci riusciresti con tanta facilità, non avresti nemmeno bisogno di un’opportunità particolarmente favorevole, come l’hai ora”.
Così le aveva risposto Connor, anche se non era convinto che Faline credesse per davvero all’esistenza di un vizio ereditario nel sangue dei Kenway. Se così era, allora l’aveva creduta più intelligente di quanto non fosse in realtà.


Si coricò sotto le coperte del suo letto con questi pensieri in testa. Faline era tornata a capo dei suoi uomini, nelle foreste di Monmouth.
Si vedevano di rado.
D’altro canto, non avevano motivo di vedersi. A volte gli si presentava alla Tenuta, la ritrovava in camera sua o sulla soglia di casa, la mattina. Se la trovava davanti quando meno se l’aspettava, quando credeva di braccare una lince e invece sbucava lei dalla vegetazione, silenziosa e letale.
Ma anche Faline aveva il suo punto debole, sebbene fosse ridicolo, pensò Connor appena prima di addormentarsi.
E sorrise nel sonno concedendosi un piccolo angolo di trionfo.




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Capitolo 7
*** Monmouth ***


Monmouth



"Lui si chiama Nasir".
"Nasir?" Faline storse il naso, mantenendosi accuratamente a distanza dalla bestia, un cavallo delle praterie adulto, muscoloso e snello allo stesso tempo, maculato bianco e marrone chiaro. Un animale stupendo, a dire di Connor; quest'ultimo gli saltò in groppa senza indugi, si assicurò alla sella con le mani e salì agilmente sul dorso della bestia con solo una lieve spinta delle gambe.
Faline non era certo dello stesso parere.
"Sei davvero presuntuoso Ratonhakè:ton, se credi di potermi insegnare a cavalcare".
"Cavalcare?" La provocò Connor strizzandole l'occhio. Il cavallo soffiò in direzione di Faline, che arretrò di almeno dieci passi. Ma impiegò soltanto mezzo secondo per recuperare la sua grinta.
"Nel senso primo del termine. Purtroppo credo che per un altro tipo di cavalcata abbia tu bisogno di prendere lezioni da me, Ratonhakè:ton", ribatté tagliente, continuando a giocare sull'allusione.
Connor ritirò all'istante il suo sorrisetto soddisfatto e spronò il cavallo verso Faline, costringendola ad arretrare ulteriormente. Afferrò la briglia di un secondo cavallo e fece per porgliela.
"Evidentemente sono abbastanza presuntuoso da ritenere di poterti insegnare", insisté. Almeno per un giorno, voleva a tutti i costi avere la sua piccola rivincita.
Faline scosse la testa, testarda, respingendo i lacci di cuoio grezzo che l’altro le tendeva. Il cavallo scosse la testa, nel tentativo di scacciare le mosche che gli assediavano il muso e la criniera, e sbuffò non meno innervosito di quanto lo fosse la sua aspirante cavallerizza.
"Non credo Ratonhakè:ton, al contrario di voi cavalieri codardi io preferisco combattere a piedi, hai dimenticato forse su cosa si basa il gioco della spada? Piedi e passi. Come posso muovermi in libertà con impicciate le gambe alle staffe e le braccia alle briglie? No grazie, e lo ripeto, no grazie".
Faline gli voltò le spalle e fece per andarsene, quando si bloccò davanti a una schiera di cinquanta uomini, i suoi uomini, a spasso sui pendii delle campagne di Monmouth. Una marmaglia sudaticcia e chiassosa di mercenari, marinari, pirati, predoni, cavalieri nordici e profanatori di tombe dal lontano sud. Ma ognuno di questi uomini aveva una particolarità: un cuore nobile, ardente di libertà e soprattutto fedele fino alla fine alla sua guida. Faline era ben furba, pretendeva che al suo fianco combattessero solo gli uomini più fedeli a lei, solo coloro che la pensavano come lei, ma senza pretendere in nessun modo che fossero disposti a sacrificarsi per lei, perché non si riteneva superiore e più importante degli altri.
L’uomo ha la vita, gli uomini gli ideali, continuava a ripetere come grido di battaglia, come frase di circostanza, come addio per un compagno. E i suoi uomini l'amavano, e l'avrebbero seguita nella fortuna e nella rovina.
"Cosa ci fate qui?" Chiese Faline, stupita e annoiata allo stesso tempo.
"Sai com'è Faline, Monmouth non è parecchio distante da Monmouth", intervenne un ragazzo biondo, di aspetto e portamento nordico e di accento europeo, che si fece avanti dalla folla e andò incontro alla ragazza con un sorriso beffardo e amichevole sul volto.
"Faline è troppo orgogliosa per ammettere di soffrire di un'inguaribile fobia per i cavalli", continuò rivolgendosi a Connor, e accarezzando sul ventre il destriero che cavalcava.
"Ma a voi lo dice", rispose il ragazzo, felice di conoscere finalmente gli uomini che sottostavano agli ordini di Faline. Scese dalla bestia e andò incontro alla piccola squadriglia, ma non vide altro che sguardi ostili e poco amichevoli. Chi lo squadrava torvo, con il viso in ombra e la fronte corrucciata, chi parlottava con il compagno affianco, chi aveva la diffidenza scolpita sul volto, chi sputava a terra e rideva, del tutto disinteressato al ragazzo indiano appena sceso dalla sua cavalcatura, il quale sembrava invece desideroso di instaurare un dialogo.
"Jord, stai parlando con il rampollo di Haytham, lui...!" Azzardò un giovinotto che pareva afflitto da tutte le paure e le disgrazie di questo mondo, gracile, tremante e malnutrito, con sporchi capelli di paglia che gli arrivavano sotto al mento.
Connor alzò gli occhi al cielo. Era esausto di vedere ancora diffidenza attorno a lui per via di suo padre, che oltretutto aveva ucciso con le sue stesse mani non senza provare rimorsi e sofferenze.
Faline, che fino a quel momento era rimasta zitta, ribatté all'affermazione precedente di Connor.
"Ovviamente lo dico a loro e non a te, Ratonhakè:ton. Questi uomini morirebbero per me, mentre io fino a pochi mesi fa cercavo di ucciderti. Trova le differenze".
"E mi chiedo perché ancora non l'hai ucciso Faline", si alzò una voce dal gruppo.
"Non ci hai giocato abbastanza? Ora è il momento di farlo fuori", incalzò un altro, sostenuto da cori di approvazione.
Connor si mise sulla difensiva. Non gli piaceva in nessun modo la piega che stava prendendo la situazione. Ma, nello stesso tempo, era adirato per l'ingiustizia del malanimo che infervorava quella gente.
Jord scosse il capo e sorrise insofferente: anche lui sembrava stanco di quell'insensata faccenda che ancora non dava segni di scioglimento.
"Faline! Dì ai tuoi uomini la verità!"
"Sarebbe?" Lo incalzò la giovane, trattenendo a stento le risate nel vedere Connor timoroso di venire assalito da un momento all'altro da una cinquantina di uomini inferociti per non si sa bene quale motivo.
"Sarebbe che la tua insensata coscienza preferirebbe vedermi morto piuttosto che collaborare per lo scopo che ci accomuna!"
"Non c'è bisogno che io dica loro niente, hanno una testa per pensare. Tuttavia ti salverò anche stavolta dall'incomodo Ratonhakè:ton. Mettete via quelle asce".
Un coro di risate sommesse si levò dal gruppo di mercenari, e tutti rinfoderarono le spade. Anche Faline sorrise ma si trattenne da ridere, paga a sufficienza dell'ennesima vittoria che aveva contratto quel giorno.
"Mi... Mi avete giocato?" Domandò Connor, che invece non rideva affatto. Poco a poco riconosceva nei loro volti gli stessi uomini che pochi giorni addietro avevano brindato con lui a Buckman Tavern per suggellare la loro alleanza, e poco a poco si dava dello stupido.
"Vieni!" Lo incitò Jord dandogli una poderosa pacca sulla spalla, "andiamo a festeggiare al forte di Black Creek!"

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Capitolo 8
*** Black Creek ***


Black Creek



Gira e rigira, Faline e i suoi uomini erano sempre intenti a festeggiare in qualche taverna, o in un luogo qualsiasi che avesse un adeguato rifornimento di beveraggi, come il fortino di Black Creek.
Quel luogo aveva il fascino di una foresta tropicale e l'austerità di una selva nordica messi assieme. Il sottobosco era tappezzato di grosse felci di un verde brillante che contrastava con il colore scuro del muschio; il muschio ricopriva ogni cosa, rami e tronchi spezzati, rocce, casotti di caccia.
Le luci del forte baluginavano sperdute nella vegetazione; gli schiamazzi dei soldati che festeggiavano la giornata appena trascorsa, all'infuori delle rassicuranti abitazioni degli uomini, erano ovattati e sovrastati dai guaiti delle linci e dai lamenti delle alci.

"Bevi ancora Connor, forza...! La vita è breve!" Lo incitò Benjamin, il ragazzo che aveva finto di volerlo uccidere, riempendo per la quinta volta il suo boccale.
"Si chiama Ratonhakè:ton", disse stancamente Faline dal fondo del tavolo, forse per la ventesima volta quella serata. Lei non aveva toccato alcolici, li riteneva un pericolo mortale per la sua intelligenza.
"Ratonaghe... Hai voglia di scherzare!" Seguì un coro di risate ebbre e grasse.
Jord sbuffò, stanco di vedere Connor accerchiato da uomini ubriachi e insopportabilmente loquaci.
"Quel ragazzo è ciò che resta degli Assassini della Confraternita..." Iniziò con una certa malinconia, rivolgendosi a Faline e piegandosi verso di lei perché la sentisse meglio tra le chiassose urla dei soldati unite alle risate degli Assassini.
"La Confraternita", ricalcò Faline sprezzante, non riuscendo a trattenere una risata di scherno. Pur non avendo bevuto quella sera pareva lo stesso ubriaca. "Un folle che dà vita a una setta di folli, e altri folli che seguiranno le idee del folle per gli anni a venire. Non c'è da stupirsi che i Templari banchettino".
"Intendi Rashid ad-Din Sinan? Fu lui il folle di cui parli?" Si introdusse Jord con serietà, accigliandosi. Ma Faline lasciò passare qualche minuto di silenzio tra loro, forse perché riteneva la risposta troppo ovvia per doverla palesare, o forse perché si era rinchiusa in chissà quale roccaforte fatta di pensieri lontani.
"Intendo chiunque segua le sue idee".
Il suo sguardo pareva distante, scrutava nelle fiamme del focolare senza trovarvi una fine, come se guardasse oltre la parete nera del camino.
"Eppure tu sei un'Assassina", riprese Jord, a bassa voce, temendo di spezzare il suo filo di pensieri.
"Un'Assassina più intelligente", specificò Faline, guardando il suo compagno negli occhi e dedicandogli uno dei suoi irritanti sorrisi canzonatori. Jord le sorrise di rimando, poi entrambi si persero a fissare Connor che, dopo il sesto boccale di birra, si era lanciato in un appassionato racconto di come avesse liberato un forte templare saltando dall'albero di una nave in movimento al portabandiera di un torrione gremito di cecchini.
"Ho bisogno di una boccata d'aria, vieni", disse d'improvviso Jord a Faline, alzandosi bruscamente dal tavolo. La ragazza lo guardò interrogativa, ma poi raccolse la sua spada e lo seguì. Entrambi trascinarono Connor all'esterno afferrandolo per le braccia, causando un immediato dissenso generale, proprio di chi era stato appena interrotto sul punto culminante di un avvincente racconto.
Tuttavia, i pochi uomini di Faline che ancora erano sobri, seguirono il terzetto fuori dalla cantina.
Fuori, la notte era fitta di stelle e l'aria profumava di erba bagnata.
Connor, ancora confuso da quella perentoria interruzione, si strofinò il viso con le mani, cercando di scuotersi di dosso il torpore dell'alcool e del sonno.
"Forse questo ti può aiutare", spazientita, Faline spinse la testa di Connor in una botte colma d'acqua gelida, di norma un abbeveratoio per cavalli.
Jord e Marcus fecero un balzo all'indietro, anche se ormai erano più che abituati agli sbalzi d'umore di Faline.
Connor riemerse dal tino con i capelli grondanti; fu una fortuna che avesse troppa stanchezza sulle spalle per mettere le mani addosso alla ragazza e attentare alla sua vita. Perlomeno il peso della sbronza gli si era alleviato.
"Dobbiamo fare due chiacchiere con te, Ratonhakè:ton, e ci servi lucido", iniziò Marcus, un ragazzo dall'aspetto nobile, dai folti riccioli nerissimi ed occhi ugualmente neri, molto attraente.
"Quante volte te lo devo ripetere Mark, non sei la mia guardia del corpo", sbuffò Faline tenendosi in disparte e mettendosi a guardare le stelle.
"Già, non ne hai bisogno", calcò il biondo Jord, "eppure mi chiedo, che succede se ti scopri incinta?"
"Già, che succede?" Ripeté Marcus rivolgendosi a Connor con tono minaccioso. "La guerra incombe, e Faline ci serve pronta ed abile a combattere, nel pieno delle sue forze e facoltà!"
Connor, forse ancora un po' intontito, ricambiò quelle che parevano delle minacce con uno sguardo confuso. "Di cosa mi stai accusando esattamente, Marcus?"
"Di nulla, non ti sta accusando di nulla", intervenne nuovamente Faline a denti stretti, e bastò la sua voce ferma e adirata a imporre silenzio. "Marcus, o sei ancora innamorato di me, difetto che ti consiglio caldamente di correggere, o hai bevuto decisamente troppo per una sola sera. In entrambi i casi, qualora io avessi un bambino, seppure in questa stagione infausta, sarò ben felice di partorirlo, e non sarà certo un problema per me. Una vita in più non è mai un problema. Piangiamo già abbastanza le vite che si spengono, perché mai dovremmo fare un dramma per quelle che nascono?"
Gli uomini si zittirono all'istante e piegarono la testa, cedendo come sempre alle inflessibili argomentazioni del loro capo Assassino.
Faline, dopo aver guardato ognuno di loro con severità, sbuffò come una madre paziente, forse per la centesima volta quella sera, e prese Connor in disparte.
"Vieni, flagello della corona... È così che ti chiamano a Nuova York, lo sapevi?"
"Preferisco che mi chiamino il liberatore..." Rispose lui stando al gioco.
Seguì Faline per l'intricato sottobosco, lasciandosi alle spalle il forte e i chiassosi compagni di bevuta; ad ogni passo metteva in fuga veri e propri squadroni di castori e lepri: Black Creek era un'ottima regione di caccia, come molte prede e pochi predatori.
Faline sorrise di fronte alla sua spavalderia.
"Dov'è finita la tua modestia, Ratonhakè:ton? O è solo perché sei ubriaco?"
Si fermarono in una conca oltre il ruscello, all'ombra della parete di roccia, in un'insenatura erbosa dove branchi di alci pascolavano e si accoppiavano felici.
Connor si decise a guardarla in faccia, benché nella notte non distinguesse bene il suo viso, e benché ciuffi bagnati di capelli ancora gli prudessero sul collo e gli risvegliassero pungenti moti di irritazione nei suoi confronti.
"Perché ti ostini a chiamarmi Ratonhakè:ton?" Un secondo dopo si maledisse. Non era certo la domanda migliore che poteva fare in quella circostanza.
Faline sorrise canzonatoria e lo guardò con sufficienza, com'era sua consuetudine.
"Le cose vanno chiamate con il loro nome, altrimenti perdono di significato".
"Sì, questo me l'hai già detto".
"Ebbene", sorrise maliziosa Faline, scuotendo energicamente la testa. Un gufo gridò in lontananza, portandosi via con sé lo squittio di un topo e i versi sguaiati delle linci. Il vento iniziava a levarsi.
Connor dondolò titubante verso Faline. Nella sua magra esperienza questo doveva essere il momento adatto per... baciarla, porle omaggi, insomma fare qualche cosa di galante, alla maniera di quegli strambi e cerimoniosi occidentali.
Ma, neanche a dirlo, lei bloccò tutti i suoi flebili pensieri sul nascere.
"Non ti bacerò ora al chiaro di luna Ratonhakè:ton, se è questo che ti aspetti. Al massimo ti porterò a letto".
Connor si trattenne dall'alzare una seconda volta gli occhi al cielo.
Si era dimenticato che Faline tutto poteva essere tranne che una creatura del gentil sesso.

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Capitolo 9
*** Packanack ***


Packanack



Connor ricordava confusamente gli avvenimenti della sera prima.
Ricordava uno scontro - verbale o fisico? - con gli uomini di Faline, e forse con Faline stessa - probabile -, ricordava di aver passato il resto della notte con Faline, ricordava Faline che si era rifiutata di camminare fino alla Tenuta per dormire a casa Davenport, che si era rifiutata di accomodarsi negli alloggi del forte di Black Creek con la scusa di non voler derubare il posto letto a qualche valoroso militare che se l'era meritato, che si era rifiutata di raggiungere il villaggio dei Mohawk, ma stranamente aveva deciso di camminare fino agli estremi sud di Packanack per dormire in una sudicia caverna sotto una cascata su un'isola popolata da orsi affamati.
Che cercasse in tutti i modi di ucciderlo era evidente, constatò Connor, lieto di aprire gli occhi alla flebile luce di un sole terrestre, grato di essere ancora di questo mondo e di non essere diventato lo stuzzichino di un qualche grizzly.
Fu sorpreso di scoprire che Faline dormiva ancora al suo fianco, tra la paglia umida il muschio e la sabbia. Il ragazzo si stiracchiò, imprecando per le spalle e la schiena intirizzite e affaticate.
Conseguenza più che naturale, considerato che avevano fatto l'amore più volte, sui sassi, nel bagnato. Stesso luogo nel quale avevano dormito, troppo orgogliosi e distanti per giacere vicini e proteggersi dal freddo umido della notte.
Connor si alzò in piedi. Aveva le lombari indolenzite, e un'insopportabile raschio alla gola. Esaminò finalmente alla luce del sole il luogo in cui aveva passato la notte: un misero buco imbottito di muschio e pregno di odore salmastro, di norma usato come tana per i cuccioli d'orso. L'aria umida si incanalava nella galleria, fischiava attraverso le crepe e infine si incrostava sul fondo, rivestendo le pareti di calcare bianco e scivoloso.
Connor si guardò bene dal svegliare Faline, preferiva guardarla dormire.
Non era una ragazza di straordinaria bellezza, ma il suo carisma e la sua aggressività traboccante di vitalismo la rendevano più appetibile di qualsiasi altra donna che avesse mai conosciuto. O almeno le cose stavano così, per lui. Vero era che non aveva conosciuto molte donne.
Faline aveva i capelli castani e lisci, tagliati alla meno peggio fino alle spalle. Il viso semplice, rotondo e allo stesso tempo affilato. Gli occhi erano la parte più cangiante di lei: a volte affilati e freddi, altre grandi e lucidi di vita e libertà - vita e libertà erano la medesima cosa per lei. Le guance le si arrossavano subito al freddo, eppure il freddo le piaceva. Aveva vissuto gran parte della sua vita in Canada, e forse si era spinta ancora più a nord. Era in quelle contrade che aveva raccattato il grosso della sua "ciurma", oltre che nei loschi porti di mare e nei bassifondi delle città francesi.


Quando Faline si svegliò Connor era già uscito a caccia di linci. In realtà sperava in una preda più ardita, come un orso maschio adulto. Gli orsi erano pieni di risorse, le loro pelli si vendevano a buon prezzo. Inoltre non erano certo gli animali più difficili da cacciare, né quelli più pericolosi, contrariamente a quanto si potesse pensare.
"Tieni più alto il gomito, Ratonhakè:ton".
Connor sobbalzò. Odiava non riuscire a fiutare i passi di Faline; poteva sentire i balzi di una lepre, non si poteva certo mettere in discussione l'acutezza dei suoi sensi. Eppure lei sapeva come passare inosservata, invisibile persino al suo fiuto e al suo sesto senso.
"Ti sei svegliata mia cara?" Le porse il braccio in finto tono galante: dall'esasperazione era passato all'arrendevolezza. "Non ti permetto di darmi lezioni di tiro con l'arco, signorina".
Faline scattò come una lince: in meno di un secondo estrasse la lama e la puntò al collo del ragazzo con i denti digrignati.
"Chiamami ancora signorina".
"Signorina", continuò impavido Connor, "di quanti altri uomini della tua ciurma potresti essere potenzialmente incinta?"
"Hmm, potenzialmente la metà", gli rispose noncurante lei alzando le spalle. Sorrise dentro di sé, contenta di aver deluso le aspettative di Connor, che ovviamente pensava di suscitare in lei ira o vergogna. "Ma non hanno certo quel tipo di interessi nei miei confronti. Sono io che mi fotto gli uomini, non il contrario, cogli la sfumatura Ratonhakè:ton?"
Connor scosse la testa e si allontanò insofferente, stanco di ingoiare quelle sue battute acide e spinose cui non sapeva controbattere. Non che fosse mai stato un tipo loquace.
"E adesso dove vai, Ratonhakè:ton?" Gli urlò dietro Faline, vedendolo trascinarsi lungo il pendio della collina, diretto nel folto del bosco.
"A pisciare, se posso senza la scorta". Il suo tono di voce era chiaramente irritato e stizzito.
Faline alzò le spalle e lo lasciò andare, paga a sufficienza di tormentarlo, anche perché qualcos'altro aveva attirato la sua attenzione: un frenetico scalpiccio di zoccoli in avvicinamento.
Ben presto dal sentiero appena sotto di lei spuntarono due dei suoi uomini a cavallo, trafelati e con l'aria di recare grosse notizie.
"Faline", iniziò uno di loro fermando il cavallo vicinissimo alla ragazza, tanto che lei balzò all'indietro di parecchi metri, rabbrividendo. "Tieniti a debita distanza con quella bestia!"
Il ragazzo fece un segno di scusa, e attese il suo consenso per parlare nuovamente. Era uno tra i più giovani dei seguaci del Vento, il timore e la soggezione allagavano i suoi truci occhi scuri.
"Di cosa parlavamo?" Disse dopo qualche istante l'Assassina, gonfiando le guance, tormentandosi con indifferenza una ciocca di capelli. Sapeva che era successo qualcosa di grave, ma sapeva altrettanto chiaramente che la paura era il peggior pericolo in cui tutti loro potessero incappare.
"Gli inglesi Faline", intervenne l'altro mercenario, Jonathan, in soccorso del compagno. "Sappiamo dove attaccheranno".
Dunque lo sapete.
Fu la prima cosa che le balzò in testa, assieme a un moto di orgoglio e amore nei confronti dei suoi devoti adepti. Ma lesse qualcos'altro nello sguardo preoccupato di Jon, un leggero movimento di labbra, come se poche ultime parole vi fossero rimaste appese.
"E Faline... Stanno attaccando ora".

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Capitolo 10
*** Valley Forge ***


Valley Forge



"Tenete, è tutto quello che abbiamo". Una gracile contadina, con il viso segnato dagli anni, mise un sacco ricolmo di pane appena sfornato nelle braccia di Faline, e altri viveri come patate e alcuni tranci di carne essiccata li diede ai suoi uomini, sotto lo sguardo esterrefatto di Connor.
"Come hai fatto?" Le domandò. Si trovavano sulle alture di Valley Forge, dove vi era un pugno isolato di case umili; molte fungevano da appoggio per i militari, francesi, americani o inglesi che fossero: questo dipendeva dalla sorte e dal volere di potenti. Nonostante ciò, quella gente sospettosa non aveva mai voluto aiutare Connor, anzi lo guardava con diffidenza, alcuni preferivano addirittura dare ascolto agli inglesi che a lui. Non gli avevano mai nemmeno offerto un tozzo di pane.
Il selvaggio volante, lo additavano alcuni, come fosse un ladro di polli.
"Sai, Ratonhakè:ton, non basta cambiare nome per nascondere le proprie origini. Questa gente non si fida dei Mohawk".
Faline uscì dalla baracca di pietra e si affacciò sulla vallata, con Connor al suo fianco. Le stelle rifulgevano in cielo, era una notte serena. Il fiume scorreva placido e tranquillo, increspato da innumerevoli scaglie d'argento.
Il paesaggio era così tranquillo che sembrava impossibile che la guerra scalpitasse alle porte.
Gli inglesi erano stati avvistati a poche miglia di distanza, sarebbero giunti a momenti.
"State in guardia, sarà una lunga notte".
Faline comandava un esiguo gruppo di centocinquanta combattenti; Connor era riuscito a radunarne solamente una cinquantina. Si maledisse mille volte per non aver pensato ad agire prima, ma non si aspettavano un attacco così prematuro. Aveva subito mandato un ragazzo a New Jork, per chiedere rinforzi a Washington, ma non sarebbero mai arrivati in tempo.
L'unica cosa da fare era sperare che le stime di Faline fossero errate, e che il nemico non potesse disporre di più di cinquecento soldati. In caso contrario, le possibilità di vittoria erano assai limitate.
"Non temere Ratonhakè:ton, noi vinceremo questa guerra, ne sono sicura".
"Come fai ad esserne così sicura?" Le rispose Connor montando in groppa al suo cavallo e intimando alla ragazza a fare lo stesso. Lei riluttante obbedì, e saltò in sella ad un puledro snello e forte, con il manto di un caldo color castano.
"Ho affrontato di peggio".
"Dici sul serio?" La incalzò Connor, lieto di distrarre un poco la mente. I cavalli nitrivano nervosi, scuotevano la testa e calcavano il terreno con gli zoccoli, sembravano insofferenti di dover attendere così a lungo.
Faline rimase qualche minuto assorta, a contemplare con sguardo turbato il vuoto davanti a lei.
"Ogni volta mi riprometto di superare la battaglia senza che nessuno dei miei debba morire".
"È impos-" Fece per ribattere Connor, ma le sue parole vennero bloccate sul nascere.
"Impossibile? No. Difficile, sì".
Connor sbuffò nervoso, assaggiando l'aria. Diede una rapida scorsa al vallone e alle colline pelose d'alberi, ai distanti picchi di Diamond Basin, ai pendii neri che lo circondavano.
Poi il cuore gli balzò in petto.
Oltre l'orlo del bosco, sul fondo della vallata, si distingueva con nitidezza il baluginio di un gruppo di luci, e altre che si accendevano, come volessero richiamare l'alba.
"Sono qui. Fai preparare la guardia", disse in un soffio, senza distogliere i dilatati occhi scuri da quelle ostili scintille.
Faline si sporse dalla sua sella e afferrò il braccio dell'Assassino, lasciando che la stoffa sformata della manica scricchiolasse sotto le sue dita.
"Stai tremando, Ratonhakè:ton".
Connor rise, non dandosi nemmeno la pena di rispondere alla provocazione.
Gli esploratori andavano e venivano, e ogni volta riportavano un numero sempre maggiore di nemici.
"Ora basta, non fate che scoraggiare i vostri compagni. Lo sapremo quando li incontreremo sul campo!" Sbottò irritato all'ennesimo ragazzino d'avanguardia che ritornava con brutte notizie, pur sapendo che il poveretto non aveva alcuna colpa, che anzi come molti giovanissimi faceva di tutto per compiacerlo. In realtà Connor rimproverava sé stesso: questi inglesi saltavano fuori dalle tane come topi, come aveva fatto a non accorgersi dei loro presidii nella Frontiera?


L'esercito avversario si radunò solo al sorgere del sole. Faline aveva ordinato alle sue fila di attendere, voleva affrontarli soltanto quando si fossero adunati del tutto, per evitare il pericolo di venire accerchiati.
Sorse un sole pallido e freddo. Un aquila artigliava il braccio sinistro di Connor, e quando essa spiccò il volo, tutti seppero che era giunto il momento di correre giù dalla collina. Duecento uomini si avventarono come furie su un'ultima guarnigione di mille servi della Corona, con il sole che splendeva alle loro spalle e il vento che soffiava in loro favore, e li spingeva ancora più forte lungo il pendio. Faline restò in groppa al cavallo finché non raggiunsero i nemici, e allora balzò a terra e sguainò la spada. Almeno cento uomini caddero sotto i suoi colpi furenti, aveva perso molti compagni nella corsa verso la valle, sotto i colpi vigliacchi delle armi da fuoco nemiche.
La sua furia diventava ancor più temibile se animata dal desiderio di vendetta.
Connor la perse di vista dopo pochi secondi, inghiottita dall'acciaio e dalle urla dei corpi agonizzanti. Era il caos.
Una mano sconosciuta gli afferrò la caviglia e lo fece cadere di cavallo; si trovò in mezzo alla mischia, libero finalmente di volteggiare tra i nemici e usare le sue lame celate, snelle e letali come anguille velenose.
Aveva perso di vista i suoi compagni, ma non pensava più a loro.
L'adrenalina che gli innervava i muscoli glielo impediva.
Si era già trovato in una situazione simile, a Bunker Hill, poco tempo fa, una delle sue battaglie più memorabili. Sicuramente la più imponente.
Allora se l'era cavata con l'astuzia, evitando con grande scioltezza ed abilità lo scontro aperto. Lo stesso non si poteva dire di questa volta.
"Fate avanzare la guardia!" Urlò con voce roca ai pochi compagni che gli erano rimasti accanto, dopo aver estratto il tomahawk dal petto di un ragazzo inglese. I suoi uomini si gettarono in avanti, impedendo agli inglesi di avanzare oltre ed accerchiarli.
Connor si tolse il sangue dagli occhi e cercò di scorgere Faline, ma non la vide. Il carnaio l'aveva inghiottita.
"Non ti preoccupare per lei", lo confortò uno dei suoi uomini in un raro momento di respiro, stringendogli il braccio. Connor si divincolò all'istante.
"Non mi preoccupo per lei, ma se cade possiamo dire addio alla vittoria".
Ma Faline combatteva sana e salva a un centinaio di metri di distanza, e non aveva nessuna intenzione di cadere.

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Capitolo 11
*** Troy's Wood ***


Troy’s Wood



Al calare del sole, Ratonhnaké:ton scavalcò il mare di corpi che disseminavano la valle. Stretto in mano teneva il gambo della sua bandiera. Lo conficcò con forza nel terreno molle di pioggia e sangue, dietro le spalle di Faline.
La luce toccava di rosso l’erba intirizzita, le rocce, i pinnacoli degli alberi: onorava tutto il sangue che era stato versato.
Faline respirava a fatica, aveva le vesti ridotte a brandelli ed era ricoperta di sangue e fango. Ma era viva.
Quando si accorse della presenza di Connor, si voltò con gli occhi bianchi di lacrime.
Entrambi caddero in ginocchio tra il fango imperlato di brina, e si strinsero, con la gioia e il dolore di due superstiti.
Connor le annusò i capelli stopposi e grumosi di sangue, e gli sovvenne un pensiero. Un formicolio pieno di angoscia.
Gran parte dei suoi uomini giacevano morti, inghiottiti dalla mota sudicia, come se già la terra li reclamasse come parte di sé. I pochi sopravvissuti si erano rifugiati sul promontorio soprastante, a guardare il tramonto, con occhi che gridavano libertà!.
Il sole scendeva in fretta, e il loro abbraccio si faceva più tenue, più freddo. Le loro braccia allentavano la presa, come se fossero state improvvisamente richiamate da un impellente senso di pudore. Faline si eresse in piedi, e guardò Connor con occhi stanchi, seppur profondi. Occhi che volevano dire tutto e niente, occhi che tuttavia rafforzarono i brutti presentimenti di Connor.
Valley Forge era stata liberata, ma la Guerra d’Indipendenza poteva davvero dichiararsi un capitolo chiuso?


*


“I vecchi libri che abbiamo in biblioteca parlano di molte cose, Falì. Puoi leggerli, ma sfogliali con cautela. Alcuni cadono a pezzi e perdono le pagine, altri invece sono menzogneri, ed è con questi ultimi che devi usare ancora più cautela”.
“Certo maman, e li ho letti, molti, parlano di storie mirabolanti al di là del mare, o più a nord dell’Inghilterra. Molti altri invece sono in latino, e li ho lasciati perdere. Ma c’è un libro che ogni volta che entro qui dentro, più di tutti, vorrei leggere. Quello con inciso in coperta il sigillo degli Assassini, che tu tieni sottochiave in quella teca di vetro. Perché poi?” Aggiunse la ragazzina, incrinando le sopracciglia e guardando la madre con accusa.
“Perché? Mi sembra ovvio. Contiene segreti, storie della nostra stirpe passata che ancora non puoi conoscere, perché influenzerebbero le idee che hai ora, Figlia del Vento. Soprattutto le tue attitudini verso les autre, verso gli altri Assassini, gli Assassini della Confraternita”.
Faline scosse la testa con profonda indignazione. Non si sarebbe mai e poi mai aspettata di ricevere una risposta del genere.
“No, maman. La verità deve essere al di sopra di tutte le altre cose. Non importa le conseguenze che comporta, la verità è da inseguire sempre, ad ogni costo”.
“Anche se spezzerà le alleanze? Anche se verserà altro sangue inutile? È solo da due generazioni che ci siamo riavvicinate agli Assassini della Confraternita, Falì!”
Faline alzò le spalle, e non poté impedire che un sorriso da volpe le scivolasse sulle labbra.
“Così mi rendi ancora più curiosa, però. Chissà cosa racconta di così scabroso, quel libro. Chissà quali fattacci contiene. Ma potrebbe anche non accadere nulla, maman. Potrei non cambiare affatto attitudine”.
Il silenzio che impregnava quella grande biblioteca si fece ancor più pesante. La polvere fluttuava nell’aria densa, tagliata dai raggi del sole.
Dopo alcuni minuti, Faline parlò di nuovo. “Non sono né stupida né cieca”.
“No”, si affrettò a rimbeccarla la madre, con profonda serietà, “ma sei troppo vendicativa. E fin troppo giovane”.



*


La notte Faline e Ratonhnaké:ton correvano con i lupi, tra i rami di Troy’s Wood. Inseguivano i loro ululati, ringhiavano nel tentativo di imitarli, giocavano come bambini.
La loro corsa forsennata non aveva proprio nulla di razionale, anzi era del tutto bestiale e spontanea, ma serviva loro per affrontare il gravoso peso di vite umane che avevano perso.
La neve cadeva silenziosa e ricopriva i cadaveri che abitavano Valley Forge, costruendo con pazienza per ognuno un sepolcro di ghiaccio.
Ma né Connor né Faline volevano pensare ai morti, quella notte. Piuttosto li onoravano con la loro incessante voglia di vivere. La luna era tutta per loro, e li condusse a un capanno abbandonato e cadente, senza porta né pavimento. Faline vi si accasciò all’istante, e fu subito seguita da Connor che con foga animale le sfilò di dosso le poche vesti che le rimanevano.
La possedette più e più volte quella notte di neve, assaggiando ogni centimetro della sua bianca pelle salata, non badando a sfogare il proprio piacere dentro di lei, forse addirittura sperando che il suo seme crescesse in quel ventre freddo e trasparente.
Videro sorgere un’altra alba senza che avessero chiuso occhio.
Quando il sole sorse, si recarono in cima alle vicine rocce di Troy’s Wood, e restarono in silenzio a mirare il cielo che da blu diventava azzurro, poi rosa poi arancione.
Fu quella l’ultima luce della loro storia.


La notte seguente giacquero ancora insieme, stavolta in un giaciglio di fronde e sterpi, nascosto sotto un arco di roccia. Connor la strinse a sé con cautela, poiché le sembrava più gracile, più magra e più stanca del solito, come se nel suo piccolo seno covasse un morbo silente. Fu tentato più volte dal chiederle se stesse bene, ma gli venne invece naturale dar voce ai suoi sospetti.
“Può essere che tu sia incinta?”
Neanche a dirlo, Faline scoppiò in una risata roca e canzonatoria, mentre continuava a intrecciare le gambe a quelle del ragazzo. Ma non gli rispose.


Aveva atteso che Ratonhnaké:ton scivolasse nel sonno; allorché si era alzata senza fare il minimo rumore.
Era frastornata, ma non più combattuta.
Alcune cose andavano fatte.
Alcuni debiti dovevano essere pagati.
Come il debito di sangue che i suoi antenati avevano da sempre con gli Assassini che seguivano gli antichi precetti di Al Mualim.
C’era stato un tempo in cui lo scisma che attanagliava l’Ordine era pressoché invisibile; un tempo in cui gli Assassini combattevano uniti la croce templare. Ma poi Edward Kenway non aveva avuto il tempo di insegnare nulla al figlio, che era rimasto incastrato nell’infida rete dei Templari. La linea si era interrotta.
Ora Connor Kenway aveva cercato di porre rimedio agli sbagli del padre, tuttavia il dubbio e il rimorso rimanevano in lui. E dubbio e rimorso erano i peggiori nemici di un Assassino, per come la vedeva Faline.
Il ragazzo dormiva riverso su un fianco, stretto nei suoi vestiti sporchi di sangue, fango e neve.
Sulla sua guancia spiccava una brutta ferita da taglio, che tuttavia era già in via di guarigione.
Guardando le sue mani, Faline notò che metà delle unghie erano rotte. Si ritrovò a chiedersi cose futili, se le avesse rotte danzando tra gli alberi, forse nel tentativo di afferrare un ramo fuori portata, oppure nella battaglia appena trascorsa.
Aveva il mento e le guance appena ruvidi di barba, e un filo di occhiaie sotto le palpebre chiuse.
Quanti anni poteva avere? Venti, venticinque? Sicuramente più di diciotto e meno di trenta. Ma i tratti indiani, cui Faline non era abituata, nascondevano ai suoi occhi la sua vera età.
Senza più rimuginarci sopra, prese un coltello, se lo rigirò un po’ tra le dita, come se scottasse.
Poi, con un taglio netto, aprì da parte a parte la gola di Ratonhnaké:ton.
Questi fece appena in tempo a spalancare gli occhi, e ad emettere una sorta di gorgoglio che si tramutò nel rumore del sangue che defluiva fuori dalla carotide.
Faline lo guardò morire con freddezza, sentendosi una codarda per non averlo affrontato direttamente.
Ma ormai non c’era più alcuna possibilità di porre rimedio a ciò che aveva fatto.
“Rimani pur sempre il figlio di Haytham Kenway”, bisbigliò in un soffio di vento.
Il debito era stato pagato.
Ora nessun dio avrebbe potuto espiare le sue colpe.

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Capitolo 12
*** Concord ***


Concord



I superstiti dei seguaci di Faline l'attendevano a Concord, la maggior parte rintanata in taverna a bere e festeggiare la vittoria. Ma per la ragazza quelle baldorie e quelle grasse risa erano divenute pungenti per le sue orecchie, e pesanti per il suo cuore.
Su di lei gravava la responsabilità di essersi presa la vita di Connor Kenway, aveva agito a nome delle Figlie del Vento e non era stata una decisione facile. Ma non poteva logorarsi nel rimorso, lo stesso rimorso che aveva rimproverato alla sua vittima.
Si sedette in disparte a un tavolaccio di legno, distante dal fuoco, con un boccale di birra a portata di labbra e il cappuccio calato sugli occhi. Aveva lasciato il corpo dell'Assassino nello stesso luogo in cui l'aveva ammazzato, nascosto dai rami bassi dei pini e dalla neve, che continuava a cadere senza dare segni di sosta. Silenziosa e discreta com'era, nessuno dei suoi uomini s'era accorto della sua presenza. Almeno non subito.
Dopo alcuni minuti, Jord, che era sempre più sobrio degli altri, scorse la figura appartata di Faline nascosta nella penombra. Lei gli fece cenno di avvicinarsi: era sempre stata molto in intimità con Jord, con lui si confidava più volentieri che con gli altri, doveva ammettere, anche se odiava fare preferenze tra i suoi compagni.
Il ragazzo inglese le si sedette accanto, cercando di non attirare l'attenzione degli altri: aveva intuito che Faline anelava parlare con lui solo.
"Leggo inquietudine nei tuoi occhi, ragazza".
Faline non alzò gli occhi dal suo boccale, rimase a capo chino, con la saliva che le si seccava in bocca. Tolse il cappuccio dal viso e fissò lo sguardo in quello di Jord. Prima di parlare bevve un lungo sorso di alcolico.
"Ho ammazzato Kenway".
I suoi occhi rimasero innaturalmente freddi mentre lo diceva, la sua espressione contratta e il suo animo padrone di sé. Era un dato di fatto, non un auspicio, e non aveva timore di calcare con la voce ciò che era già accaduto, ciò a cui non si poteva porre rimedio.
Jord, com'era sua peculiarità, non diede a vedere apertamente la sua sorpresa, alzò la testa e inspirò profondamente, mentre i suoi occhi diventavano più sottili e si coloravano di disappunto.
"Faline..."
"Avanti, cos'hai da dire?" Si infervorò lei, dopo aver vuotato in un sol colpo il calice. "Ho sbagliato? Sei qui per riprendermi come una scolara alle prime armi? Credi che non sappia prendermi le mie responsabilità?"
Senza nemmeno accorgersene, Faline si era alzata in piedi, e adesso gli occhi di tutti i suoi uomini erano puntati su di lei, assieme a quelli degli avventori.
"È meglio se ne discutiamo fuori..." Disse Jord a bassa voce, facendo un cenno agli altri che subito uscirono dalla locanda, bisbigliando animatamente tra loro.
Faline li seguì irata, lasciando sul tavolo più monete del necessario. Fuori, l'aria fredda la rinsavì un poco, e riprese facoltà di sé. I suoi Assassini si erano riuniti attorno alle luci del portico, e attendevano spiegazioni.
Ma Faline era fiera e non si voltava indietro, avrebbe preferito cento volte la disapprovazione dei suoi compagni piuttosto che mostrarsi debole e insicura delle proprie scelte.
"Ho preso la mia decisione. Il figlio di Kenway è morto".
Calò un silenzio generale, e Faline non vide un solo sguardo amichevole davanti a lei. Finché Gerard, un giovanotto della Provenza pronto a fare la rivoluzione ad ogni goccia di bruttotempo, si azzardò a esprimere il suo parere senza mezzi termini, proprio come Faline gli aveva insegnato.
"C'era un Kenway, tempo fa, gran sterminatore di croci rosse. Solcava i mari e cavalcava la Jackdaw, onorò e combatté fianco a fianco dei tuoi ideali, e che modo di onorare la sua memoria, troncare la vita della sua eredità! Non ti sei dimostrata diversa dai Templari!"
Non sei diverso dai cani inglesi. Le ritornarono alla mente le parole che aveva sputato in faccia a Ratonhakè:ton, mesi prima all'ombra delle colline di Great Peace.
Faline si rifiutò di prestare orecchio a quelle parole, e rimase salda a difesa della sua scelta. Non poteva permettersi di vacillare.
"Noi abbiamo giurato fedeltà a te, figlia del vento, e ai tuoi ideali. Ma ciò che hai fatto non si adegua affatto ai tuoi insegnamenti. Hai fatto una cosa che viola i tuoi stessi principi. Ci chiedi integrità, coerenza e fedeltà, e le hai rese tre cose inconciliabili!" Marcus parlò con estrema lucidità, tanto che pareva impossibile ribattere a parole dettate con tale fermezza.
Ma Faline era più cocciuta che mai. Distolse lo sguardo dai suoi uomini, e parlò a voce bassa, sommessa, ma tagliente. Più tagliente di qualsiasi altra lingua.
"Ciò che dite può essere vero, ma nessuno di voi ha il peso che io porto sulle spalle, da sempre.
Secoli e secoli di ferite sanguinanti, mai cucite, mai cicatrizzate. Ragione avete a dire che l'odio e l'astio intestino non si risolvono con una vita mozzata, ma essa può reclamare la nostra superiorità in merito alla lotta contro i Templari. E dico lotta, non parvenza di alleanza, come più volte Ratonhakè:ton ha mostrato di volere. Ora tocca a noi prendere le redini dell'Ordine, tocca a noi riportarlo agli antichi fasti, non lasciarlo nelle mani di uno stupido ragazzino che nemmeno conosce i basilari principi del Credo!"
Ma quelle parole, seppur pronunciate con gran forza e trasporto, convinsero poco i compagni di Faline, ancora diffidenti e quasi timorosi che il loro capo avesse perso il lume della ragione. Dopo vibranti attimi di silenzio, Marcus parlò a nome di tutti gli altri:
"Questa volta non possiamo sostenere la tua scelta, Faline. Ci hai insegnato tu a pensare con la nostra testa, a non seguire ciecamente il volere del leader, ebbene noi ti diciamo apertamente che hai commesso un grave errore. E che costerà caro a lungo, a chiunque voglia combattere nell'Ordine sotto il segno di Jasmine Jalil".
Calò un silenzio pressante, tanto che si udiva il rumore ovattato della neve che cadeva.
"Ebbene, penso che abbiate espresso a sufficienza il vostro parere. Ora siete congedati. Vi raggiungerò in mattinata a Monmouth. Chi non intende più seguirmi, lasci questa compagnia stanotte stessa".
Sulla squadriglia calò un gelo più mordente del fiato invernale che ghiacciava la Frontiera. Ma poi, pian piano, la coltre di ghiaccio sgocciolò fino a sciogliersi, e gli uomini di Faline si mossero, senza vergogna né risentimento, poiché essi erano uomini fieri e liberi come l'Assassino che li guidava.
Chi ritenne fosse meglio abbandonare la causa di Faline, le voltò le spalle in quell'attimo stesso, non senza rivolgerle poche e secche parole di congedo.
"È stato un onore combattere per te, figlia del vento, ma ora viaggiamo su una strada diversa da quella su cui siamo partiti".
"Non intendo più seguirti, Faline, ma che la sorte ti conduca verso una sorte propizia".
"Che tu possa raggiungere i tuoi scopi ed essere felice, anche se da adesso in avanti combatterai sola".
Faline li ascoltò e li guardò andarsene senza battere ciglio, anche se il suo cuore si contorceva e gemeva di dolore: perdere i suoi uomini era come perdere i suoi figli, e si sentiva come una madre che aveva clamorosamente fallito nel suo compito.


La mattina dopo si radunarono a Monmouth in una ventina: trentotto uomini erano assenti dalle sua fila. Marcus e Jord le erano ancora accanto, ma Gerard, Leonard, Alexander, e molti altri compagni di ventura tra i suoi più cari le avevano voltato le spalle.
Vedendo una tale sfoltita, stavolta Faline non riuscì a nascondere il proprio rammarico. Strinse i pugni e i denti fino a farsi male, e gli occhi le lacrimavano, feriti dal chiarore dell'alba. Marcus le afferrò un braccio con forza, e le bisbigliò a mezza voce parole piene di astio represso:
"Io proprio non ti capisco figlia del vento, stavolta non ti capisco".
"Mark, sbaglio o non hai detto tutto quello che volevi dire?" Gli si rivolse lei, fissando i suoi occhi castani in quel pallido viso sferzato dai riccioli neri in balìa dei ghirigori d'aria. "Allora parla francamente. Se ora sei qui solo perché rimani invaghito di quell'inutile cosa che ho fra le gambe che ti ho fatto assaggiare un paio di volte, allora mi disgusti, e ti ritenevo un uomo più onorevole.
Ma se le cose non stanno così, e il mio cuore lo spera, parla. Ora".
Si erano addentrati fra le selve di Monmouth, lontani dall'accampamento, lontani da orecchie indesiderate. Il manto nevoso era costellato di impronte: volpi, lepri, alci e orsetti lavatori si avvicinavano sempre di più ai poli abitati in ricerca di cibo. Era un momento propizio per la caccia: poche esche e il gioco era fatto. Ma Faline aveva ben altri pensieri per la testa.
"Dunque parlerò. E no, voglio tranquillizzarti, il mio cuore non ti desidera. Soprattutto non dopo quello che hai fatto al bastardo indiano. Pensa che sembravate persino due innamorati".
Faline si trattenne dal ridere, e si limitò a soffiare divertita, mentre imperterrita avanzava tra la neve e spezzava i rami secchi che le impedivano il passaggio: si stavano dirigendo verso la costa.
"Che sciocchezza. Pensi che potrò mai innamorarmi Mark?"
Il ragazzo non rispose, ma lasciò intendere un no.
"In ogni modo, cos'hai intenzione di fare con il vecchio? Lui è l'unico che può sospettare di te..."
Stavolta Faline non si sforzò nemmeno di reprimere una risata.
"Che... Cosa? Mi stai consigliando di far fuori Achille Davenport? E cosa ti fa credere che le accuse di un vecchio siano un problema per me?"
"Giusto", ammise Marcus abbassando il capo in segno di resa.
Avevano raggiunto la spiaggia. La mareggiata rodeva il muro di neve che ricopriva la sabbia e le dune, onda dopo onda mangiava il ghiaccio incrostato sulle rocce.
Faline inspirò profondamente l'aria nevosa, scrutando l'orizzonte e il cielo plumbeo. I capelli incrostati di cristalli trasparenti le svolazzavano attorno al viso.
"Riporto Ratonhakè:ton al vecchio della Collina. Oggi".
Mark alzò le spalle, e scosse la testa.
"Una cosa non si può rimproverarti, Faline. Che tu non sia fino in fondo coerente con le tue scelte".

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