Una dolce vendetta

di Moira__03
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
Capitolo 1



L’odio si stava bruciando sotto il fuoco incessante di quella passione.
La membrana robusta che faceva da involucro a quell’animo nero, oscurandone la purezza che esso serbava nel suo punto più profondo, si stava sgretolando, carbonizzando.
Anche lui, un tempo, era stato un uomo puro, sia pur ridotto all’ esiguo e limitato istante in cui emise il suo primo vagito.
Ma quanto immacolato può essere lo spirito di un bambino nato dall’incontro di due corpi violenti e saturi di odio?
Si era estinto così velocemente quel barlume di animo incontaminato, costernandosi in fretta dalla perenne devozione alla guerra, tanto da ridursi ad essere un puntino dalla grandezza di un atomo, circondato interamente dal male.
Non vi era modo che quel buono in lui si espandesse, ed era rimasto così. Piccolo, irrilevante, impossibile da percepire tanto che lui aveva sempre trascurato con cotanta naturalezza.
Ma anche lui, in fondo, ce l’aveva. E lei lo stava riscoprendo dietro a  quello stesso animo alimentato spiriti malvagi e  che lei ora, con la sfacciataggine degna di una donna, stava sfiorando con dolcezza, delicatamente così come si sfiora il cristallo, una cura a cui lui non era abituato.
Ma stava riuscendo ad arrivare lì, in quella piccola parte di anima  illuminata da una limpidezza che possiede solo un uomo senza peccati.
E senza saperlo lei aveva scoperto qual era l’arma in grado di sconfiggere la brutalità di un mercenario assetato solo di sangue innocente.
Per vincere quel male, non bisognava usare altro male.
Ma solo sincero amore.
Se solo lo avessero saputo i suoi nemici… sarebbe morto ormai da tempo.
Perché l’amore lo stava levigando piano, senza che quel nero lercio e sporco di sangue riuscisse ad infettarlo. Riusciva a bruciare silenziosamente le impurità che lo avevano reso un uomo crudele e infame, così silenziosamente da impedire che lui se ne accorgesse.
E con altrettanta calma e segretezza lei era arrivata sul punto più sensibile del suo cuore, valicando quella consistente corazza che lui stesso aveva creato intorno ad esso.
«Tu vuoi farmi impazzire…».
Le aveva detto Vegeta, fiatandole quelle parole con un’insolita spontaneità.
E lei sorrideva. Sorrideva perché era conscia che lui sarebbe impazzito. Perché è questo che succede a chi non conosce i sintomi dell’amore e quanto esso è in grado di fregarti.
Chissà quanto avrebbe sbraitato se fosse venuto a conoscenza che la stessa cosa che lo stava mandando in un piacevole delirio, gli stava spianando anche l’involucro della sua avvelenata anima.
Stava spolverando tutto quel marcio, quasi volesse dissolvere ogni suo schifoso peccato.
Era pura e sincera passione. Non c’era male… non c’era odio né violenza.
Era amore.
Solo amore che si stava consumando sotto le fiamme di quei sentimenti inaspettati, forse nemmeno compatibili.
Quello stesso amore che stavano praticando sotto lenzuola sgualcite e immacolate, mentre si accarezzavano con lentezza quasi entrambi volessero sincerarsi che stesse succedendo davvero.
Un tripudio di emozioni, sconosciute per lui,incontrollabili per lei.
Per Bulma non sarebbe esistito un solo umano a reggere il confronto, perché se un uomo temprato dal male e che in passato ha goduto solo dinanzi al mero spargimento di sangue, riesce a far provare sensazioni così caste da sembrar surreali, si può star certi che queste sono tanto vere quanto travolgenti.
E lei sorrideva, mentre gli occhi del saiyan la scrutavano intensamente, senza staccarli mai dai suoi.
Le era esplosa dentro una felicità senza eguali, perché nemmeno una Dea sarebbe mai riuscita a rendere Vegeta un amante focoso privo di qualunque violenza.
Si faceva guidare dalle sue mani, quelle stesse mani che un tempo avevano ucciso, ora bramavano il suo corpo con una delicatezza che non gli apparteneva.
I loro respiri si erano uniti, emanando un’unica e dolce fragranza.
Le loro bocche si erano toccate, morse… desiderate.
Le lingue si erano intrecciate in un bacio che per svariati punti di vista poteva definirsi illecito.
I loro corpi, così dannatamente contrastanti, si erano uniti.
Lei aveva assaporato l’essenza di quell’alieno che sembrava fatto d’acciaio, lui si era inebriato di quella bellezza devastante che era sparsa su ogni millimetro della sua nivea pelle.
Lui l’aveva vista arrossire, gemere, tremare, mentre le sue mani così spietate l’avevano così avidamente cercata.
«Io voglio te, Vegeta».
Aveva sussurrato lei, senza alcuna razione, perché razione non ci poteva essere in ciò che lei ora desiderava.
Ed era stata una sconfitta per lui. Perché nessun essere dotato di senno avrebbe lo avrebbe mai voluto.
Nemmeno la persona più folle dell’universo aveva mai sognato di stargli così tanto vicino.
Perché non esisteva essere nell’universo che non sarebbe morto, guardandolo negli occhi a quella stessa distanza.
E queste erano consapevolezze che avevano deflagrato l’ orgoglio, lo avevano calpestato fino a fargli sentire il dolore direttamente sulla pelle.
Aveva miseramente fallito. Non poteva più ritenersi, ora, lo stesso valoroso guerriero di un tempo.
Perché nel suo mondo chi non riusciva ad incutere terrore, valeva poco e niente.
Adesso Vegeta l’aveva trovato, aveva trovato quell’ insignificante essere in grado di espugnare un’intera vita da mercenario, perché Bulma, era l’unica in tutto l’universo, a non aver paura di lui.
Era stato decimato così meschinamente, reso conscio di una verità che gli bruciava più di tutte le ferite che aveva sul corpo.
Non aveva nemmeno più senso che lui fosse il principe della sua razza. Lei era riuscita persino a declassarlo così tanto da togliergli la corona.
Perché lì dove aveva vissuto, combattendo per mantenere saldo il suo titolo reale, non bisognava presentare un solo punto debole.
Ora ce l’aveva.
Ed era lei.
 
 
 
 
 
 
 
Stava sorseggiando del tè, riscaldando le mani avvolgendole alla tazza calda e fumante.
Gli occhi fissavano le bianche pareti di quella cucina, perdendosi lì con uno sguardo assente.
Accese nervosa una sigaretta. Inspirò quella nicotina come se potesse essere l’unico mezzo per annebbiare le immagini che di continuo le affastellavano la mente.
Erano passate due settimana. Solo due settimane da quando era successo.
E ancora non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione delle mani di Vegeta sul suo corpo.
Nemmeno il bollente getto della doccia aveva sortito alcun effetto.
Continuava a ripetersi che ciò che tra loro c’era stato, non avrebbe implicato niente. Dopotutto non si erano più parlati, né tantomeno incrociati se non di sfuggita.
Era stato illecito quel loro incontro quella notte, questo non riusciva a negarlo, specie in un momento come quello. Ma per quanto si stesse sforzando, non riusciva a negare che avrebbe ripetuto quel dannatissimo sbaglio tutte le notti della sua vita.
Tanto erano vividi quei ricordi che quasi pensava fossero visibili agli occhi esterni.
Sperava che il fumo perlomeno le offuscasse, perché da lì a poco sarebbe arrivato Yamcha.
Non era nemmeno passato così tanto tempo dall’ultima volta che era stata a letto con lui. Era successo prima dell’arrivo dei saiyan, promettendosi nel letto amore eterno nel caso in cui il loro arrivo avrebbe spazzato via dalla galassia ogni residuo del pianeta.
Si erano avvinghiati l’un l’altro con foga, facendo l’amore come se si stessero dicendo addio.
L’avevano fatto più volte, e mai come allora si erano desiderati. Perché solo quando c’è di mezzo l’idea di non rivedere più qualcuno, le emozioni si sfogano così vigorosamente da sembrare tanto forti.
Yamcha le aveva sussurrato parole dolci, e in quella stessa notte le aveva chiesto, sotto una razionalità bruciata dalla passione, di volere con lei un figlio.
Lei aveva annuito disinvoltamente con la testa, sotto i gemiti che lui le provocava, e lui aveva fatto esplodere in lei l’apice della passione, venendole dentro con l’intento di ingravidarla.
Il giorno prima di partire per l’imminente battaglia con i saiyan, i due si erano guardati intensamente, ed entrambi senza che lo sapessero, avevano ripensato a quella sera e a quel figlio che entrambi avevano desiderato.
Quella guerra poi le aveva portato via lui, con una crudeltà che non le sembrava sopportabile per un qualsiasi umano dotato di sensibilità.
Era trascorso meno di un mese da quando era tornata da Namecc. Poco più di due mesi da quando era successo l’ultima volta con Yamcha. E tutto era cambiato con una rapidità allucinante.
Il suo insensato interesse per Vegeta aveva totalmente eliminato ogni traccia di sentimento nei confronti di Yamcha. Non lo credeva possibile nemmeno lei.
Cercava di sforzarsi di ritrovare quelle cose che l’avevano fatta innamorare di lui, quasi perforando il muro con gli occhi tanto era l’intensità dello sforzo.
Ma non vi ritrovò nient’altro che il ragazzo adolescente conosciuto più di dieci anni fa, e oltre al sincero affetto dovuto all’abitudine della sua presenza, non vide nient’altro.
Vegeta era riuscito a sminuirlo con così tanta facilità da rendere a Bulma visibili e incontrastabili quei difetti che in Yamcha aveva sempre cercato di sopprimere.
Aveva invece visto in quel saiyan quella maturità che da tempo aveva desiderato di riscontrare in Yamcha, quell’essere rude e freddo da farle riscoprire l’arcaica tempra dei veri uomini.
E tutto ciò era bastato a degradare Yamcha, perché Vegeta era si era rivelato l’unico vero uomo in grado di tenerle testa o addirittura di sovrastarla.
Si rese conto di rimuginare da svariati minuti, quando la cenere cadde dalla sigaretta senza che lei la picchiettasse con due dita.
Diede l’ultimo tiro, arrivando a fumarsi quasi il filtro, prima di accartocciarla nel posacenere.
Ebbe un sussulto esageratamente visibile quando, alzatasi per ripulire la cenere, suonò il campanello della porta d’ingresso.
Aspettò qualche istante prima di ricomporsi.
Che premura stupida da parte sua risistemarsi i vestiti prima di aprirgli, come se ci fosse qualcosa da aggiustare. Non era stato quello il momento in cui se li era lasciati togliere da un altro, di cosa poteva accorgersi Yamcha?
Eliminò con veemenza le immagini dalla sua testa, elargì il sorriso più convincente che riuscisse a sfoderare ed aprì la porta.
«Ciao Yamcha» disse lei, forse con troppa formalità. Ma lui, preso com’era dall’immensa gioia di cui era pervaso, non ci badò.
Varcò la soglia avvicinandosi affettuosamente a lei, costringendola ad un forte abbraccio e baciandola con naturalezza.
Lei lo assecondò, sperando che in quell’istante non passasse Vegeta.
Davvero credeva che si sarebbe ingelosito!?
Quasi di fretta si liberò di quell’abbraccio con più naturalezza possibile.
«Allora… andiamo?» pronunciò lei, mostrando la stessa paura che si ha prima di fare qualcosa di cui non si è molto certi.
«Andiamo» asserì lui, con una luce sicura in volto pronta a rasserenarla. Fu la prima volta che Bulma ebbe l’impressione di avere di fronte un uomo.
Ma forse il destino aveva davvero scelto per lei un’altra via, a cui volutamente si stava sottraendo, oppure aveva deciso di giocare da infame, perché in quello stesso istante, il fato volle che al di la della porta ci fosse Vegeta, tornato dai suoi quotidiani allenamenti.
E l’impressione che Yamcha potesse rivelarsi un uomo, svanì di colpo.
Bulma arrossì all’istante, incatenata com’era a quegli occhi neri che la scrutavano sempre con un cipiglio nervoso, adesso un po’ più del solito.
Quasi si ritrovò a nascondere con il corpo la mano che Yamcha le teneva stretta.
Un solo istante era bastato a farle crollare di dosso quelle piccole certezze che aveva su Yamcha. Un istante che sembrava non finire perché non riusciva a togliere gli occhi da quelle due fessure nere che la guardavano sempre con avidità.
Sembravano calamite, create apposta per trattenere su di lui il suo sguardo.
Sperava che il rossore delle sue guance non fosse a Yamcha così evidente, perché proprio quando sentì di avere il fuoco sotto la pelle, il saiyan sfoderò il suo solito ghigno, più stizzito del solito.
Poi, per sua fortuna, la superò.
«Ancora non capisco come tu faccia a vivere sotto lo stesso tetto con quel saiyan senza aver paura che da un giorno all’altro ti faccia esplodere la casa» dichiarò Yamcha, con toni sprezzanti che davano tanto l’aria di serbare gelosia.
Lei sussultò, cercando di sviare da quel discorso. Anche se lui non si fosse accorto del suo improvviso rossore, non significava di certo che non avrebbe scorto il suo imbarazzo o peggio interesse se avessero ancora parlato di lui.
«Stai tranquillo, non succederà niente».
Non seppe trovare niente di meglio da dire. Già dirgli quello, le fece dubitare di aver lasciato trasparire qualcosa che invero era già successa.
«Se lo dici tu…».
Lei abbozzò un sorriso poco entusiasta, mettendosi in macchina accanto a lui.
Era irata a morte con la sorte. Erano talmente esigue le probabilità di incontrare Vegeta, invisibile e silenzioso com’era, che quasi pensò che davvero lassù c’era qualcuno che si stava divertendo a farla impazzire.
C’erano altri milioni di momenti in cui avrebbe potuto incontrarlo, nemmeno a cena o a pranzo lo vedeva più e lui si era fatto vivo proprio adesso. Proprio ora che era con Yamcha e proprio in quel momento in cui sarebbe dovuta essere più serena possibile per ciò che si stava apprestando a fare.
Il ciclo non le veniva da poco più di una settimana. Avrebbe voluto attribuire quel ritardo allo stress perenne a cui era sottoposta, ma un controllo era inevitabile.
Vedeva Yamcha sprizzare gioia da ogni singolo poro, mentre lei si stava silenziosamente abbandonando ad una triste agonia.
Desiderava un figlio con tutta se stessa. Dopotutto a trent’anni una donna ha il dovere di desiderarne uno.
Ma non da Yamcha.
Lo guardava, tremendamente spaventata, mentre cercava di farsi trasmettere da lui anche un minimo di felicità che vi leggeva negli occhi.
«Stai tranquilla Bulma» proferì lui, accarezzandole la guancia.
Lei annuì, elargendo un falso sorriso e simultaneamente Yamcha mise in moto.
Andare dal ginecologo non le era mai pesato così tanto.
Il test di gravidanza continuava a dare segni negativi, ma sarebbe potuto essere solo un problema di ormoni, sia pur lei continuava a dire che il test non si sbagliava.
Infatti era stato proprio lui a proporle quella visita, come se lei non ci avesse pensato.
Non voleva la certezza. Ecco cos’era a destarla tanto.
Durante il tragitto i due non fiatarono e Yamcha attribuì quel silenzio all’ansia da cui lei era invasa dall’idea di poter diventare realmente madre.
Bulma guardava perennemente dal finestrino, appoggiando la testa come in segno di arresa.
Due mesi non bastavano a farle gonfiare la pancia così tanto da rendere visibile la gravidanza e la speranza di non essere incinta era la stessa che prova una ragazzina di sedici anni che ha avuto il suo primo rapporto.
Pensò poi a cosa sarebbe successo se davvero aspettava un bambino.
Avrebbe dovuto sposare Yamcha pur non amandolo più o il coraggio che non le era mai mancato l’avrebbe aiutata a dirgli come stavano le cose?
Immaginava loro due in una nuova casa, da soli, con un figlio.
Non sarebbe stato così doloroso, se solo in quelle visioni astratte all’immagine di Yamcha era stata sostituita quella di Vegeta.
Inevitabilmente altre immagini le si delinearono in mente. Di nuovo quella notte…
Persino l’aria che respirava in quella macchina, ora aveva il profumo di Vegeta.
Chiuse gli occhi di colpo e in quello stesso momento la macchina si fermò.
Non sapeva quanto difficile sarebbe stato troncare la storia con Yamcha, ma una sofferenza atroce la pervase quando pensò invece di allontanarsi da Vegeta.
Un figlio da Yamcha l’avrebbe tenuta saldata a lui per tutta la vita, anche se lei avesse vissuto dall’altra parte del globo, ed era un legame che non voleva, specie con lui.
Non si rese conto di quanto fosse vicina ad una crisi di pianto finché lo sportello a cui era appoggiata non si aprì, facendola ritornare nella sua dolorosa realtà. Gli occhi le bruciavano da morire.
Yamcha gentilmente le pose una mano e l’aiutò vanamente a scendere dall’auto, proprio come ci si comporta con una donna in maternità.
«Non è detto che io sia incinta Yamcha… non è necessaria tutta questa premura» disse lei, parlando con il sorriso per non dargli a vedere quanto fosse invece irritata.
«Ci sono buone probabilità invece che tu lo sia».
Bulma lo fissò per un altro istante e poi prese a camminare verso la clinica.
La certezza con cui lui aveva pronunciato quelle parole erano state tali da distruggere le sue speranze di non esserlo.
In quella sala d’attesa poi ogni sua preoccupazione si moltiplicò.
Guardava in volto tutte le signore, notando quella felicità genuina e sincera mentre con le mani accarezzavano il pancione già evidente.
Si meravigliò quando diversi sguardi ricaddero sulla bella presenza di Yamcha senza che lei provasse un minimo di irritazione.
Doveva essere davvero bello, pensò, muscoloso e tonico com’era.
Chissà come avrebbero guardato invece Vegeta…
Strinse con forza il pugno libero dalla mano di Yamcha, mandando al diavolo il saiyan mentalmente e con tutta se stessa.
Perse più di qualche battito quando la porta d’ingresso allo studio ginecologico si aprì svariate volte, mostrando una giovane segretaria che meccanicamente proferiva il cognome delle donne lì presenti.
Dopo svariati minuti sentì pronunciare il suo, e giurò di aver sentito un dolore allo sterno tanto tremendo da pensare che fosse stato il suo cuore a spingere violentemente contro di esso con l’intento di sfondarlo.
«Dai tesoro, andiamo» rassicurò Yamcha, tirandola cautamente da un braccio per farla alzare.
Entrò nello studio con la stessa sicurezza che si ha entrando in una camera delle torture.
Fissò in volto l’uomo che l’avrebbe visitata, guardandolo quasi con lineamenti minacciosi mentre lui le si pose con un sorriso.
«Si accomodi su quella sedia, signora Brief».
Bulma non aprì bocca, nemmeno per correggere il medico sul fatto che non fosse ancora una signora, dacché non ancora sposata.
Si mise comoda aspettando qualche minuto che il ginecologo impiegò per compilare dei documenti e firmare delle carte.
Dal primo momento in cui il dottore cominciò l’ecografia, lei piantò lo sguardo sullo schermo del monitor senza più staccare gli occhi.
Mentre lui cercava di focalizzare al meglio le immagini per trarre delle conclusioni, Bulma cercava di scorgere qualcosa vagamente simile ad un piccolo neonato, senza però ottenere risultati.
La mano di Yamcha non aveva smesso un secondo di stringere la sua, infierendo su di lei, quasi volesse continuare a darle delle certezze che non voleva.
«Quando avrebbe dovuto avere le ultime mestruazioni?» parlò il medico.
«Poco più di una settimana fa» rispose lei, meravigliandosi di quanto secca ritrovò la sua gola.
Lui contorse un po’ le labbra e increspò la fronte.
«Quando ha avuto l’ultimo rapporto, signora?».
In quello stesso istante, Bulma sentì esploderle qualcosa nel petto, facendole fluire tutto il sangue che aveva in corpo sulle guance.
Fortuna che non era attaccata ai macchinari che controllano i battiti cardiaci.
Di certo non avrebbe potuto dirgli la verità.
Dal suo ritorno da Namecc, Bulma si era categoricamente rifiutata di andare a letto con Yamcha. Lui era stato il primo a ritornare dal regno dell’aldilà, prima di Tensing e Rif, ma l’intervallo di tempo trascorso dal momento in cui aveva invitato Vegeta a soggiornare a casa sua, e quello in cui Yamcha resuscitò, era bastato a Bulma per notare quanto invero fosse attratta dal saiyan, tanto da finirci a letto dopo due settimane.
Le scuse per non farsi toccare da Yamcha erano ricadute su quelle stesse questioni che lei in continuazione aveva negato. Gli diceva costantemente di non sentirsi bene, che le girava la testa e sentiva salirle la nausea.
E lui se l’era bevuta con semplicità, prima che Bulma notasse di avere seriamente quei sintomi. Ma non ci badò molto, almeno finché una mattina non passò un’intera ora chiusa in bagno abbracciata al water.
«Poco più di due mesi fa» rispose, dopo aver rimuginato un po’ di tempo, sperando di non sbagliare lasciandosi sfuggire proprio ciò che non voleva dire.
Si raschiò poi rumorosamente la gola e insieme alla speranza di esser parsa convincente, vi fu anche quella che il ginecologo non si accorgesse, da chissà quale strana teoria, che non andasse a letto con un uomo da sole due settimane.
Solo per accertarsi che il medico la stesse credendo, distolse gli occhi dal monitor per puntargli contro il suo volto.
Notò in lui un’espressione stranita.
Dopo un'altra manciata di secondi in cui il ginecologo aguzzò per bene la vista su ciò che aveva visto sul monitor, come nel cercare delle certezze, liberò Bulma da quegli oggetti infernali dicendole gentilmente che poteva risistemarsi.
«Allora dottore?» quella volta fu Yamcha a spezzare il silenzio, impaziente di avere da lui una risposta.
Lui gli sorrise di rimando.
«Ebbene… vostra moglie è incinta».
Bulma sgranò gli occhi, mentre dall’altro lato Yamcha le strinse la mano con dovuta forza tanto da farle capire che stava esplodendo dall’emozione.
Le ci volle un minuto intero prima che lei riprendesse a respirare. Temeva che se lo avesse fatto, le lacrime sarebbero comparse a decretare quell’amara ed ingiustificata tristezza.
Eppure, solo due mesi fa entrambi avevano desiderato di averne uno. Cercò di riesumare quei momenti con l’intento di saturarsi della stessa emozione che l’aveva pervasa quando aveva accettato un figlio da lui, in quella notte in cui avevano bruciato la passione… per l’ultima volta.
Ma la speranza fallita di sentir le stesse sensazioni provate quel giorno, non fece altro che alimentarle il tormento.
«Ne è sicuro?» disse atona lei, quasi sottovoce, sperando di non sembrare turbata.
«Sul fatto che lei è incinta non ho alcun dubbio. Mi servono ulteriori analisi per sancirne il tempo» disse meccanicamente mentre compilava altre carte «Stabiliremo un ulteriore appuntamento».
Poi si alzò, andandole in contro quasi volesse con lei congratularsi, per salutarla e farle i suoi migliori auguri.
Usciti dalla clinica Yamcha l’abbracciò forte, cercando poi le sue labbra con poca decenza.
Lei chiuse gli occhi e ricambiò quel bacio, senza alcuna voglia di farlo, ma usava altrettanta foga in modo da prendere del tempo utile per ricacciar indietro le lacrime.
«Ti riaccompagno a casa. Stasera ho la partita quindi credo di non farcela ad uscire. Lo faremo domani, così andiamo a festeggiare… io e te».
Lei sorrise, stavolta più serena.
Il pensiero che avrebbe rivisto Yamcha il giorno dopo e non la sera stessa le alleviò un po’ la tensione.
Avrebbe potuto pensare un po’ a se stessa quella sera, e magari pensare ad una soluzione.
Di certo non avrebbe abortito. Quello era totalmente escluso.
Troncare con Yamcha avrebbe di certo apportato dei problemi al bambino.
Tutti dilemmi che avrebbe risolto quello stesso giorno, usando anche l’intera notte se fosse stato necessario, a costo di bruciarsi il cervello per trovare la soluzione più ottimale per tutti quanti.
«Tranquillo, ci vediamo domani» disse con una calma sincera.
Di nuovo, per tutto il tragitto, nessuno dei due fiatò una sola parola. Bulma ritrovò man mano la dovuta tranquillità, direzionando la sua mente a concentrarsi per non far calare i lucciconi, anziché pensare alla sua disperata e ormai certa maternità.
Non vedeva l’ora di scendere da quell’auto. Le sembrava così ristretto lo spazio, quasi da poterci soffocare.
Non poteva permettersi di parir triste davanti a Yamcha. E la sua autorità nel sembrare contenta, non stava facendo altro che serrarle il cuore in una morsa d’acciaio, che lo stritolava lentamente fino a farle assaporare ogni sfaccettatura di quel dolore muto e straziante.
Arrivata alla Capsule Corporation scese quasi di corsa dalla macchina, stampando un bacio frettoloso sulle labbra sorridenti di Yamcha prima di catapultarsi all’ingresso.
Entrò in casa veloce, quasi furiosa, rimanendo poi appoggiata con la schiena dietro la porta per svariati minuti.
Di solito quando era irata o giù di morale, lei lavorava. Ma in quella situazione non poteva nemmeno permettersi di sbraitare senza avere un crollo fisico.
In casa non c’era nessuno. Si era anche dimenticata a quale conferenza i suoi genitori stessero partecipando. La sua mente spaziava da così tanto tempo, da farle dimenticare quelle cose che il suo cervello riteneva superflue.
Ciò che le premeva, in quel momento, era rimanere sola, per cui non si sforzò molto per ricordare dove sua madre e suo padre fossero andati quanto invece di rimembrare quando sarebbero tornati.
Se non ricordava male, avrebbe avuto casa libera per un’intera settimana. E questo bastò al allietarla di quel poco che serviva per non farle venire una vera crisi isterica.
Scaraventò rudemente la borsetta sul mobile adiacente all’ingresso, senza premurarsi di aver colpito un vaso che subito si schiantò per terra distruggendosi.
Salì al piano superiore con lentezza estenuante, mantenendosi saldamente alla ringhiera quasi fosse moribonda.
Entrò in camera sua, gettando con noncuranza il cappotto sulla scrivania, dirigendosi poi di fronte l’enorme specchio che ricopriva il suo armadio.
Si meravigliò di quanto paonazza fosse in volto, ma non si soffermò lì per molto perché subito i suoi occhi scesero verso l’addome ancora piatto.
Alzò delicatamente la maglia, con quella prudenza che si ha quando si teme di danneggiare qualcosa, e si pose di fianco, per guardarne il profilo.
Osò poi accarezzarsi piano, come se volesse sentire sotto le mani la presenza di una vita.
Solo due settimane prima quel ventre era stato baciato e leccato con una furia immensa da Vegeta.
Proprio lì, lui, si era soffermato più del dovuto, inalando la dolce essenza della sua pelle, per poi passare ad accarezzarle i fianchi sui quali ancora vi erano i segni delle sue dita che avevano pressato più del dovuto.
Aveva poi spinto contro di lei il suo bacino, dapprima lentamente, con una forza troppo trattenuta da farlo sentire persino spossato, poi sempre più forte, entrandole dentro nello stesso modo spietato con cui lui faceva la guerra.
Le aveva fatto raggiungere l’orgasmo più volte, quella sera, in modo quasi feroce. E non si era per niente premurata di tutelarsi fisicamente, perché sapeva per certo che se fosse andata a letto con quel saiyan, non ne sarebbe uscita illesa.
E ora invece si accarezzava con così tanta calma quello stesso grembo che aveva subito la pesantezza delle mani di Vegeta.
Si sentiva una vera stupida.
Abbozzò un sorriso all’immagine riflessa di quello specchio prima di chiudere gli occhi e liberando finalmente le lacrime che fluirono sulla sua guancia veloci e violente, quasi irate per essere state a lungo trattenute.
Le gambe le cedettero e si ritrovò in ginocchio, chinata verso il basso e con le braccia attorno al ventre come se volesse respingere un forte mal di pancia. Invero abbracciava il suo bambino, a cui sentiva di volere già un bene dell’anima nonostante non fosse dell’uomo che lei ora amava.
E scoppiò poi in lacrime, singhiozzando come una bambina, riempiendo quella camera di grida disperate, stringendo maggiormente il suo grembo quasi volesse chiedere scusa a quel figlio che portava dentro di sé inconsciamente già da tempo, voleva rassicurarlo che lei non era triste perché lui sarebbe un giorno venuto al mondo, ma lo era perché il destino le aveva giocato un brutto scherzo, facendole perdere la testa per l’unico essere per cui non avrebbe dovuto perderla.
Dopotutto Vegeta, nemmeno era umano…
Le lacrime scendevano sulle sue guance con la stessa velocità di un fiume in piena, decretando visibilmente quanto lei fosse frustrata e seriamente disperata.
Pensava che in quel modo si sarebbe liberata parzialmente di quell’angoscia, ma lo strazio che percepì sulla donna riversa a terra che quello specchio le stava mostrando, le alimentò maggiormente l’agonia.
Si guardava negli occhi, mentre piangeva.
Mai si era sentita così debole e inerme, ora provava persino pena per se stessa.
Chiuse poi gli occhi, e le urla che cercava di soffocare con rochi versi le avevano reso ogni suono ovattato, tanto da non accorgersi che dietro di lei, la porta era lentamente stata aperta.


***


Nda: Salve a tutti! Sforno una questa breve storia dopo un'ispirazione avuta di notte. Credo e spero di non superare i tre capitoli (era partita come one-shot, ma nella stesura mi sono resa conto di voler delineare meglio qualche dettaglio). Spero di non aver fatto grandi errori grammaticali e che la lettura non sia stata pesante o poco scorrevole. Per qualsiasi consiglio, critica costruttiva e quant'altro, io sono qui. Un bacione a tutti.
Ps: Vorrei sottolineare un particolare ringraziamento che va a Proiezioni_ Ottiche sempre pronta a supportare ogni mio sclero quotidiano sui miei patetici complessi da scrittrice e sulle mie perenni paranoie.
Alla prossima ^_^ non tarderà ad arrivare il capitolo seguente.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 
Capitolo 2



Aprì lentamente la porta, rimanendo poi fermo sulla soglia con le solite braccia incrociate.
«Per un attimo credevo davvero che ti stessero ammazzando».
Aveva parlato con il suo solito tono indifferente, senza far trasparire la minima preoccupazione.
Bulma aveva girato di scatto la testa, spaventata da quell’improvvisa presenza, rimanendo a fissarlo per qualche istante con gli occhi sbarrati.
«Mi hai spaventata» disse poi, ritirando un singhiozzo e asciugandosi le lacrime noncurante con un braccio.
«Si può sapere per quale dannato motivo stavi strillando in quel modo?» Vegeta corrugò la fronte, appoggiando una spalla allo stipite della porta, fissandola dritto negli occhi.
Non riuscì ad attribuire quella sensazione di palese fastidio a qualcosa che a lui fosse plausibile. Vedere quella donna riversa per terra, visivamente straziata in volto e con gli occhi rossi e gonfi lo destava più di quanto fosse lecito.
Nemmeno la prima volta che ebbe a che fare con lui, l’aveva vista così terrorizzata.
Lei volse lo sguardo altrove. Non avrebbe potuto fornirgli una risposta senza sembrare ai suoi occhi ridicola.
Cercò intanto di mettersi in piedi con immensa goffaggine.
«Non ho notato tutto questo interesse nei miei confronti in queste ultime due settimane».
Nonostante lo strazio l’avesse pervasa, Bulma non rinunciò a quel suo solito fare punzecchiante, sia pur con non molta sicurezza, ma era l’unico modo per impedirgli di avere da lei una risposta.
Sperava che scomparisse, stizzito da quell’arroganza che lui aveva sempre detestato di lei, invece lui rimase fermo, quasi volesse schernirla, limitandosi a curvare le labbra in un ghigno.
«E chi ha detto che sono interessato» inquisì lui. Vedere quanto quella donna sapesse essere irritante anche se ridotta ad uno straccio, lo divertiva non poco.
«E allora perché sei qui?» disse singhiozzante, tirando su con il naso.
Lui la fissò serio in volto.
«I tuoi strilli mi irritano parecchio».
«Non è affar mio ciò che ti irrita» continuò lei.
La speranza di cacciarlo dalla sua stanza si rivelò vana, e lei non fu più molto sicura di volere davvero che se ne andasse.
Parlare con lui, per quanto esasperante fosse, riusciva a tranquillizzarla e farle perdere il nesso con la realtà.
E lei non voleva altro che quello, in quel momento.
Si era avvicinata alla scrivania, cercando il pacco di fazzoletti in quel mucchio di carte disordinate contenente gli abbozzi di svariati progetti, con tanta foga e ira in corpo da farla urtare contro il vaso di vetro, in cui c’era un enorme mazzo di rose inviato per chissà quale ragione da Yamcha giorni fa, facendolo andare in mille pezzi sul pavimento.
Lei guardò i vetri infrangersi per terra, lasciando cadere rovinosamente i fiori e l’acqua che schizzò ovunque.
Vegeta increspò la fronte, irritato da quell’insolita agitazione.
E invece lui era interessato, ma non glie lo avrebbe dato a vedere nemmeno sotto le peggiori torture. L’aveva evitata per tutto quel tempo, è vero, ma perché era troppo impegnato ad essere incazzato con se stesso, voglioso di sapere cosa gli avesse fatto quella donna in quella notte passata con lei, per averlo ridotto ad essere come un comune umano fatto di carne e di emozioni.
L’aveva veramente fatto impazzire sotto quella dolcezza con cui lei l’aveva toccato e gli era persino piaciuto.
Piaciuto anche troppo.
Quasi le mostrò i denti quando le si rivolse contro con toni che sfioravano il delirio.
«Si può sapere cosa diavolo ti prende?» ringhiò prima di notare i suoi lineamenti contorcersi da un nuovo dolore, questa volta fisico che lui seppe riconoscere da buon intenditore.
Notò i suoi occhi azzurri dilatarsi prima di strizzarli con forza, sopprimendo un lamento, mentre le gambe le cedettero come se non avesse più la facoltà di controllarle.
Sembrava come se qualcuno le avesse tirato un pugno nello stomaco.
Stava crollando per terra, proprio in quello stesso punto in cui i frammenti di vetro si spargevano taglienti e letali pronti a scalfirle la pelle.
Vegeta ebbe giusto il tempo di realizzare quanto male si sarebbe fatta, quella donna dall’esigua forza fisica, per poi saettarsi con una velocità impressionante verso di lei afferrandola un istante prima che si schiantasse al suolo.
Bulma riuscì ad aprire solo metà di un occhio, giusto per accertarsi del danno che aveva fatto ma ritrovandosi inaspettatamente a dieci centimetri da quelle lame di vetro.
Notò che su di esse Vegeta appoggiava un ginocchio, tenendo l’altra gamba invece piegata verso il petto e con il piede poggiato sul pavimento, senza che avesse il benché minimo graffio nonostante il vetro gli avesse tagliato la tuta.
Dubitò seriamente che fosse fatto d’acciaio…
«Che donna sprovveduta» Bulma lo sentì ringhiare.
Ritrovati quei sensi che aveva quasi perso, aprì entrambi gli occhi, ritrovandosi appoggiata interamente col busto sul braccio di Vegeta.
Fece perno con le mani su quei muscoli che la reggevano con una facilità impressionante, sentendo immediatamente di nuovo la fitta atroce all’altezza dell’addome che l’aveva appena destabilizzata, facendola ricadere sulle sue braccia.
Vegeta si alzò con naturalezza, sostenendo interamente il peso della donna facendola rialzare.
«Se hai deciso di ucciderti, dimmelo che ci penso io». Era irato, furibondo per ciò che si era ritrovato a dover fare.
Avrebbe voluto veramente ucciderla, quella donna, per tutto ciò che inconsciamente gli stava facendo.
Incredibile quanta rabbia aveva provato in quel centesimo di istante in cui aveva visto lei protesa per terra e la sua pelle così liscia e immacolata tagliata e sporca di sangue.
Quella stessa ira che provava ora nel vedere i lineamenti di Bulma contorcersi dal dolore senza che fosse stato lui a farglieli provare.
Lei respirava a fatica, annaspando come se qualcuno la stesse tenendo per la gola.
Cercò di ritrovare un minimo di stabilità e forza per poter arrivare a letto senza l’aiuto del saiyan.
Con il minimo cenno di ausilio, quel che bastava a non farla cadere di nuovo, Vegeta collaborò a farla sedere sul materasso, allontanandosi poi quel che bastava a tenere da lei le dovute distanze.
Aveva fatto già abbastanza e questo era bastato a rovinargli l’intera giornata.
Bulma si adagiò sul letto, portando una mano in grembo proprio li dove aveva sentito provenire quel calcio.
«Grazie Vege..»
«Non ringraziarmi» tuonò lui serio e composto.
Lei lo guardò. Ciò che aveva appena fatto lo aveva reso più scontroso del solito.
E lui nemmeno voleva sapere perché si era premurato di afferrarla. Forse perché già lo sapeva.
Decise di non badarci e di cambiare discorso prima di ritrovarsi a distruggere qualcosa.
«Ti decidi o no a darmi una risposta ad almeno una delle cose che ti ho chiesto».
«Non sono tenuta a rispondere se non voglio».
«Non giocare con la mia pazienza, terrestre» parlò lentamente lui, scandendo ogni parola.
Bulma lo fissò, seria in volto. Ogni volta che si guardavano sembrava che si facessero la guerra con gli occhi, sperando entrambi che l’altro abbassasse lo sguardo per primo.
Ma era una battaglia che non aveva mai fine perché finché nessuno dei due parlava, nessuno sbatteva nemmeno le palpebre.
E a Bulma, Vegeta piaceva per quello. Lei era sempre stata quella donna che avrebbe impersonato perfettamente il demone della seduzione, perché ogni uomo, quando se la ritrovava davanti, sbatteva più volte gli occhi e quasi perdeva i neuroni solo a guardarla.
Un discorso con un uomo che riusciva a rimanere lucido, non l’aveva mai fatto.
Vegeta invece no. Lui non si lasciava abbacinare dalla sua devastante bellezza. Lui se ne nutriva violandola con occhi troppo intensi da arrivarle sin sotto la pelle, oltraggiandola più di quanto lei gli permettesse. E non si permetteva di perdere con lei la ragione diventando un inetto.
«Davvero ti interessa sapere cosa ho, Vegeta?» pronunciò sprezzante. Trovò quello il miglior modo per uscire l’argomento. Di certo con lui non poteva permettersi atteggiamenti imploranti o disperati perché sensibilità, quel saiyan, non ne aveva.
«Sono incinta, diamine!» sbraitò, tornando ad accarezzarsi il ventre.
Vegeta cercò di rimanere impassibile, ma la sorpresa di quella notizia destò anche lui.
Era stata la prima volta tra di loro, quando due settimane fa avevano bruciato nel fuoco di una passione senza nome, ed era alquanto improbabile che l’avesse ingravidata proprio lui.
Provò a tener a bada quell’istinto folle che gli stava logorando le interiora, pensando a quel terrestre che le era stato così tanto vicino, troppo vicino, quando li aveva incontrati sull’uscio della porta qualche ora fa.
Immaginava lei muoversi con lo stesso fare suadente che lo aveva fatto impazzire, sotto quel terrestre e quel suo corpo da infimo guerriero.
Strinse i pugni senza che lei potesse accorgersene, sfogando nella forza di quella stretta, tutta l’ira che possedeva in corpo.
«E intendi seccare me con i tuoi schifosi lamenti?» le si stava avvicinando, calpestando il vetro con rumori secchi e sonori.
Aveva deciso di soffocare la sua rabbia così, Vegeta, facendole credere che la sua collera fosse dovuta a ciò che le stava rinfacciando. E nel frattempo si meravigliò di quanto forte era quella sensazione che stava strisciando lungo le sue ossa come elettricità, fino ad arrivargli nella cavità più profonda del petto. Per la prima volta, il suo cuore di pietra stava subendo degli scalfi.
Bulma indietreggiò involontariamente considerando troppo esagerata quell’irritazione leggibile sul suo volto, per essere solo dovuto al fastidio provato nel sentirla piangere.
Quando il saiyan sfiorò con il ginocchio il piumone morbido, l’afferrò rudemente dal collo ampio della maglia, costringendola ad eguagliarlo in altezza.
«Sappi che a me non interessa un bel niente se aspetti uno schifoso moccioso» le soffiò, sottovoce, facendole vibrare la pelle.
Capì a cosa si stesse riferendo solo quando, con la stessa ira che aveva sul volto, lui si impossesso delle sue labbra, costringendola a dischiuderle prendendole il viso con una mano.
Poggiò un ginocchio sul letto, ponendolo esattamente in mezzo alle gambe di Bulma, mentre con una voracità degna di un mercenario la sovrasto con il busto saggiandole avido la bocca.
Dapprima Bulma corrugò la fronte. Sapeva che sia pur volesse impedirglielo, Vegeta non si sarebbe staccato da lei se solo non l’avesse deciso lui.
Ma questo non era un buon motivo per assecondarlo.
Le lacrime, intanto, avevano già ripreso la loro torbida discesa senza che lei nemmeno se ne accorgesse.
Si sarebbe dovuta rassegnare all’idea che sarebbe stato Yamcha l’uomo che avrebbe avuto al suo fianco. Non poteva permettersi di prendersi una stupida cotta per un saiyan come Vegeta che non le avrebbe dato né futuro, né tanto meno certezze.
Ma non riusciva a credere che davvero con Yamcha sarebbe stata più felice. Perché nonostante Vegeta fosse poco disponibile a relazionarsi con lei in modi più umani, nonostante fosse così arrogante e avesse modi scorbutici, riusciva a farla sentire una donna a tutti gli effetti, più di qualunque altro essere umano.
Avrebbe vissuto una vita piena di felicità solo pensando a ciò che lui era in grado di farle provare.
Il solo ricorso di una sensazione bastava a farla sorridere.
Perché delle emozioni così forti, dirette e mai pronunciate, si erano rivelate più tangibili di qualunque altra sensazione fisica.
Persino in quel momento Vegeta, nonostante la stesse quasi obbligando a sottostare alla sua volontà, riusciva a sedurla ed eccitarla.
Ma quando lui la sollevò con un braccio, posizionandola sotto di sé e facendo aderire il suo robusto corpo su quello esile e morbido di lei, Bulma si staccò dalle sue labbra.
«Vegeta aspetta…» disse, facendo uno sforzo tremendo per arrestare quell’eccitazione immane che già l’aveva pervasa.
Lui la guardò seccato.
«Che vuoi».
«Non posso Vegeta… non posso rischiare di farmi male» disse annaspando, portando poi una mano sulla pancia piatta.
Ovviamente, la sua premura verteva verso il bambino che portava in grembo.
Non che vi fosse un reale rischio di danneggiarlo, tutte le donne incinte continuano ad andare a letto col proprio uomo.
Ma con lui era diverso. Lui non era umano. E non era umana nemmeno la sua forza.
Con un minimo sbaglio, una pressione di troppo, avrebbe facilmente distrutto quella piccola vita che stava nascendo in lei.
E questo fu l’unico movente che riuscì a farla fermare.
«Ti ho detto che non è affar mio» inquisì lui, assottigliando lo sguardo.
«Non puoi costringermi…» disse con non molta convinzione.
Lui ghignò visibilmente, elargendole quel sorriso poco rassicurante.
Senza dire altro lui, con una calma inaspettata, prese a baciarle il collo, lentamente arrivando alle labbra e mordendogliele con una strana delicatezza e senza togliersi quel ghigno dal volto.
Con una mano poi le sfiorò i fianchi, alzandole la maglia di quel poco che serviva per toccarla direttamente sulla pelle.
Il suo incedere era incredibilmente controllato, nemmeno Yamcha l’aveva mai toccata con così tanto premura quasi fosse fatta di sottile e pregiata porcellana.
Bulma restò immobile. Aveva chiuso gli occhi: quelle sensazioni andavano gustate senza avere di fronte alcuna immagine. E sarebbero state impresse così, indelebilmente nel suo cervello.
Una soavità che non si sarebbe mai aspettata e che la fece sciogliere, quasi dimenticare il motivo per cui l’avesse fermato, perché ora non desiderava altro le carezze delicate di quelle ruvide mani ovunque sul suo corpo.
Avvinghiò le dita ai suoi capelli, mentre lui ispezionava il suo corpo come se lo vedesse per la prima volta.
Arrivò poi sul suo seno, accarezzandolo sfuggevolmente per poi ritornare sul suo piatto addome facendola sussultare.
Lei si tese per un istante, pensando strane cose quando si soffermò sulla pancia, ma si rilassò di colpo quando poi tornò a sfiorarle i fianchi.
Con quello stesso andamento lento, che stava torturando anche lui al pari di quanto lo divertiva, Vegeta ritornò sulle sue labbra, baciandole piano ma intensamente, intrecciando poi la sua lingua a quella di lei e con movenze che andavano in armonia con quelle del saiyan, aprì maggiormente la bocca per invitarlo a non smettere.
Continuavano a baciarsi, lentamente, controllando anche il respiro e proprio quando lei avvolse entrambe le braccia attorno al collo del saiyan, lui si arrestò.
«Infatti non ti sto costringendo» disse ghignante lui, rispondendo provocatorio a quello che lei gli aveva poc’anzi rinfacciato.
Lei serrò le labbra, digrignando quasi i denti.
Che bastardo, pensò, urlandoglielo con il solo sguardo più che furibondo.
«Non sai che darei per riuscire a farti del male» gli disse con estrema calma, prima di catapultarsi con più foga sulle sue labbra, cercandole come si cerca l’ossigeno dopo una lunga apnea.
Lui ghignò di rimando, prendendola ad accarezzare con più fretta ora, toccandola ovunque senza che lei controbattesse.
Inutile dire che gli aveva già fatto abbastanza del male, sia pur non ne fosse a conoscenza.
Perché lei, con la sola presenza, riusciva a far battere un cuore che forse non aveva mai battuto con quel ritmo, perché a lui quell’organo era sempre servito per tenerlo solo in vita.
Lei era riuscita a rompere quelle catene che lui invece vi aveva messo intorno, perché era stato lui stesso a rifiutarsi di ricevere un qualsiasi tipo di sentimento.
Bulma, invece, con la stessa accortezza di una ladra, era riuscita a valicare quella fortezza ed eludere ogni allarme che avrebbe indotto Vegeta a fermarla prima che potesse arrivare nel punto più delicato del suo essere.
E di nuovo lei si ritrovò avvinghiata al suo corpo, dicendogli che lo voleva. E lui rispondeva di rimando, strappando ogni residuo di quelle vesti che lo separavano dalla sua pelle nuda e immacolata, dicendogli che la odiava perché lo stava facendo impazzire, che non sapeva cosa gli avesse fatto per ridurlo in quel vergognoso stato, la odiava perché riusciva a tirargli di bocca quelle parole che mai credeva di dire. Ma poi le diceva che dopotutto gli piaceva e l’avrebbe trattenuta anche con la forza, se fosse stato necessario, perché se anche lei avesse provato a scappare, lui l’avrebbe cercata e ritrovata anche nell’angolo più nascosto dell’universo.
E proprio quando avevano cominciato a farlo lui soppresse con un ringhio quella voglia di dirle che avrebbe ucciso senza mezzi termini quell’infame che l’aveva ridotta a schifo, dandole un figlio che invece da lui non avrebbe voluto.
E con quegli stessi ringhi lui esplose in lei, mentre lei esplose in lui, raggiungendo insieme l’orgasmo per poi continuare a farlo per tutta la notte che veniva, lasciando che il cellulare squillasse incessantemente.
 
Notò le diverse chiamate perse solo la mattina dopo, leggendo i diversi messaggi affacciata dalla finestra della sua camera da cui era ben visibile il trainer in cui Vegeta, dal mattino tanto presto da farle pensare che non aveva nemmeno dormito, si stava allenando.
Solo un messaggio le catturò l’interesse ed era un avviso da parte del ginecologo che aveva fissato con lei un appuntamento per quella stessa sera.
Provò allora a telefonare Yamcha, ma quando dopo un paio di volte a rispondere fu la segreteria telefonica, lei gli lasciò un messaggio, dicendogli che sarebbe passata a prenderlo da casa sua alle diciannove.
La giornata trascorse con lenta noia, data l’assenza perenne del saiyan, a dispetto di quella notte che invece era volata.
Aspettò l’arrivo della sera con una fastidiosa monotonia sulle spalle, sorseggiando il solito tè per cercar di calmare i bollori dei suoi ormoni impazziti.
Per far passare il tempo si preparò con cura, truccandosi adeguatamente e raccogliendo i capelli in uno chinone lasciando cadere qualche ciuffo.
Uscì di casa senza alcuna fretta. Era in perfetto orario, forse anche in anticipo.
Decise di scapsulare una delle sue auto più veloci e belle in apparenza.
Arrivò a casa di Yamcha dopo una dozzina di minuti, parcheggiando accanto ad un auto altrettanto appariscente piazzata proprio in prossimità della sua dimora.
Si meravigliò quando notò tutte le luci spente.
Rimuginò qualche istante prima di scendere dalla macchina e andare a suonare al campanello, ma prima che potesse farlo, venne attratta da qualcos’altro.
Un lieve bagliore, quasi esiguo, sembrava provenire proprio dalla sua camera. Si avvicinò silenziosa, con un cipiglio curioso sul volto e quando arrivò in prossimità della finestra, dietro quelle tende color avorio notò l’immagine offuscata di Yamcha… con una donna.
Sentì il cuore arrestarsi di colpo, prima di riprendere a battere con maggiore violenza.
Non ci fu nemmeno bisogno di sbirciare con più attenzione, perché la voce della donna che invocava il nome di lui con toni a lei non estranei, era bastato a farle capire cosa stessero facendo.
Non c’era da meravigliarsi allora sul fatto che Yamcha aveva accettato con così tanta disinvoltura le diverse negazioni di lei nell’andare a letto.
Lo stesso ghiaccio che le aveva fermato i battiti, ora l’aveva immobilizzata, cercando di farle capire se quella rabbia convulsa che l’era esplosa dentro fosse dovuta alle sporche menzogne con cui lui continuava a fare il finto ragazzo innamorato, oppure se fosse dovuto al pensiero che da quel traditore adesso aspettava anche un figlio.
O forse era per entrambe, e la collera si raddoppiò.
Ritornò alla macchina con la stessa tranquillità con cui era scesa, cercando di reprimere ogni sintomo di isteria con l’innata pazienza che aveva sempre avuto.
Proprio quando si apprestò ad entrare in macchina notò quella accanto alla quale aveva parcheggiato.
Sarebbe dovuto aspettarselo. Era proprio di quella donna che tempo fa fu la causa di un tremendo litigio. Ed era stato proprio quel giorno in cui lei venne invitata dal genio per una rimpatriata insieme a Crilin e Goku, riscoprendo, la stessa mattina, le sue aliene origini.
La storia andava avanti da chissà quanto tempo. E non poté che riconoscere che Yamcha, in fondo, era stato davvero un buon attore.
Mise in moto l’auto facendo tuonare il suo rumore più del dovuto, quasi volesse richiamare l’attenzione di lui, per poi schizzare con uno stridio di gomme, dritta davanti a lei.
Durante il tragitto si obbligò con veemenza a non piangere. Si sarebbe sfogata poi.
Parcheggiò quasi con rudezza l’auto, scendendo poi da essa sbattendosi lo sportello dietro con forza.
Camminava sicura e senza alcun cedimento su quei tacchi che le slanciavano il corpo più del dovuto.
Entrò poi nella sala d’attesa con altrettanta sfacciataggine, mettendosi a sedere fissando un punto indistinto e costringendosi a non pensare.
Dopo una manciata di minuti, dalla porta dello studio ginecologico sbucò il dottore, che la fissava con un certo riguardo, rivolgendosi a lei nonostante ci fossero altre pazienti in fila ad aspettare.
Bulma corrugò la fronte, spazzando via ogni segno di certezza e di indignazione, quando lui le parlò con una certa serietà.
«Stavo cercando proprio lei, signora Brief. La prego di accomodarsi».


***


NdA: Eccomi qui con il secondo e penultimo (spero) capitolo. Ripeto, ero partita con l'idea di creare una oneshot, ma non ci sono riuscita. Questo è il motivo per cui ho deciso di non dilungarmi molto con le descrizioni e con i colpi di scena. Forse un giorno da questa piccola ispirazione farò uscire una bella long. Ma gli esami mi tolgono tutto quel tempo di cui avrei bisogno per sfornare decenti capitoli in tempi reali. Spero comunque che vi sia piaciuto. Ringrazio vivamente tutti coloro che mi seguono silenziosamente o chi decide di dedicarmi del tempo lasciandomi delle recensioni. Il vostro supporto per me è fondamentale. Desidero ringraziare nuovamente Proiezioni_Ottiche che, come al solito, mi incoraggia e sostiene mentre io la fucilo di paranoie degne di una complessata, spronandomi a scrivere. Non so che fine avrei fatto senza i suoi consigli e i suoi utilissimi supporti.
Un bacione a tutti ragazzi! Alla prossima!

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Epilogo ***


Capitolo 3 - Epilogo 



L’aveva guardato con fare esitante, non riuscendo a decifrare quel atteggiamento grave che si assume prima di ricevere cattive notizie.
Era entrata nel suo studio senza staccargli gli occhi di dosso e senza rilassare i suoi lineamenti.
«Prego, si accomodi qui» le aveva indicato il dottore, facendo cenno verso la sedia di fronte la scrivania.
Bulma continuava a non aprir bocca. Non sapeva che dire e prima di preoccuparsi seriamente, decise di ascoltare le parole del ginecologo senza trarre lei stessa assurde ed esasperate conclusioni.
«Dunque signora, io vorrei farle qualche domanda» cominciò, riprendendo le schede mediche relative a Bulma «Suo marito è qui?!».
«Non è mio marito… e non è qui» parlò fredda lei.
«Bene» disse come se fosse quella la risposta che voleva avere, in modo da non avere motivi che avrebbero condizionato la donna a mentire.
«Signora ho avuto un po’ di dubbi relativi alla visita di ieri. Ci sono fattori riscontrati nell’ecografia che non corrispondono esattamente ai calcoli e alle date previste da lei indicate».
Bulma lo guardò con fare rassegnato, confermandogli ciò che aveva appena detto, ma senza rilassare i lineamenti che ancora mostravano un volto curioso.
«A cosa si riferisce esattamente?» parlò lei.
«Beh, lei ha detto che l’ultimo rapporto con il vostro compagno lo ha avuto più di due mesi fa, se non erro…»
«Sì» asserì lei immediatamente, incitandolo a proseguire.
«E l’ultimo ciclo mestruale avrebbe dovuto averlo poco più di una settimana fa, ma non mi ha detto se il mese scorso lo ha per caso avuto…».
Lei ci pensò su un istante, cercando di ricordare se nei giorni passati su Namecc aveva avuto a che fare anche con le sue cose.
«In effetti… ho avuto qualche perdita. Ma non saprei esattamente se definirlo un vero ciclo mestruale. E’ durato tre giorni ma era quasi esiguo» dichiarò lei.
«Ha passato un periodo stressante, signora?» domandò lui, con fare formale portando due dita sul mento.
«Beh sì… sono una scienziata. Sono stata fuori casa per un bel po’ di tempo in un posto non molto sicuro e confortevole e perlopiù da sola» disse lei, senza effettivamente digli che aveva passato quel tempo su un pianeta alieno per non turbarlo. Un suo pensiero andò poi verso Gohan e Crilin, che le fecero increspare la fronte dal ricordo di quelle giornatacce a cui l’avevano costretta.
«Può dirmi qual è il problema, dottore?» inquisì quasi stizzita.
Lui si alzò e tirò fuori da un contenitore plastificato le lastre della sua precedente ecografia, ponendole perfettamente dritte su una lavagna luminosa.
«Per quanto lei mi ha detto, vostro figlio dovrebbe avere all’incirca otto settimane. In otto settimane è già possibile valutare la differenziazione del sesso ed è visibile il cordone ombelicale, e sarebbe persino possibile già registrare l’attività celebrale. Inoltre mi ha detto che è stato concepito anche più di due mesi fa, il che significa che se il feto ha nove settimane di vita dovrebbe già presentare una forma della scatola cranica più sviluppata e sarebbero persino distinguibili in esso gli occhi» fece un attimo di pausa, cercando di riprendere senza usare toni di voce che l’avrebbero sconvolta «Ma niente di tutto questo. Sembra che il feto si sia generato non più di quattro settimane fa, per le caratteristiche che presenta».
Bulma sbiancò, fissando con occhi spalancati le lastre che riflettevano quel piccolo essere indistinto dentro di lei.
Ingoiò un grumo di saliva pesante più del piombo, continuando a rimanere in silenzio.
«Quattro settimane?» chiese conferma Bulma. Nel peggiore dei casi avrebbe dovuto avere non più di due settimane.
«O poco più» aggiunse il medico.
Bulma continuò a perforare con lo sguardo quelle lastre sulla lavagna, cercando di disegnare i contorni indistinti di un essere umano.
«Devo sapere qualcosa signora?» chiese lui, palesando la sua diffidenza relative all’ultimo rapporto avuto.
Bulma restò per un altro istante a squadrare le immagini, prima di riportare il volto sul dottore.
«Credo che non servirà saperlo, perché anche se le confermassi che ho avuto l’ultimo rapporto due settimane fa, non si troverebbe comunque con i calcoli» dichiarò, fregandosene di ciò che avrebbe potuto pensare.
Il ginecologo sussulto e strabuzzò gli occhi più volte, ritornando a guardare le immagini.
«Strano… io posso confermare che il feto non ha meno di quattro settimane di vita. Questo è certo. Sicura che non le venga nient’altro in mente?».
«Certo che ne sono sicura» tuonò lei, stizzita non poco da quella situazione così in bilico.
«D’accordo, allora se non le dispiace dovrò rivisitarla» disse sistemando tutte le attrezzature vicino un macchinario infernale.
Bulma si accomodò sulla sedia per la visita, senza aggiungere nient’altro.
Quando il medico cominciò l’ecografia lei prese a muovere gli occhi dal monitor alle lastre e dalle lastre di nuovo al monitor in modo da confrontare le due immagini, prima di notare che il medico si era fermato di colpo guardando sullo schermo di quel computer come se vedesse quelle figure per la prima volta.
Si raschiò un po’ la gola prima di ricomporre i lineamenti del viso.
«Può alzare gentilmente la maglia?» le disse con poca convinzione, quasi spaventato.
Bulma lo fissò incerta, più spaventata dalla sua reazione che dal problema che poteva esserci. Alzò poi la maglia rimanendo a fissare il suo ventre, non più immacolato, con in volto lo stesso sbigottimento del medico.
«Oddio, ma che è successo?» quasi urlò lei, sull’orlo del panico vedendo la sua pancia piena di ematomi violacei.
«E’ quello che mi sto chiedendo anche io» sussurrò lui, parlando più con se stesso che non con la donna.
Poi ritornò sulle immagini, ingoiando rumorosamente un grumo di saliva.
«E’ impossibile…» dichiarò spalancando le palpebre e rivolgendo poi come un fulmine lo sguardo sulle lastre ancora appese.
«Cosa?» disse lei, incitandolo a continuare.
Lui la guardò fisso negli occhi, come volesse accertarsi che di fronte a lei avesse una donna normale.
«Signora, il feto è cresciuto ancora».
Il gelò piombò nella stanza con la stessa velocità con cui quelle parole deflagrarono il cuore di Bulma.
Lei lo fissava e a stento tratteneva i muscoli che avevano preso a tremare.
«C’è qualcosa che non mi torna. La grandezza del feto sembra essere rimasta la stessa, ma c’ò qualcos’altro che sta crescendo a vista d’occhio» si aggiustò gli occhiali, come per guardare meglio quelle immagini.
Bulma sembrava essere in stato di shock, tanto da aver smesso persino di ascoltarlo.
La preoccupazione riguardo a qualche probabile parte malformata di suo figlio era pari a quella che prevedeva una fecondazione che non tornava secondo i calcoli dei suoi precedenti rapporti.
«E’ molto forte…» sillabò poi il medico, perdendo quella sicurezza che uno specializzato dovrebbe avere, ritornando a testare il ventre della donna con delicate mani.
Bulma riuscì a sentire solo quello.
Suo figlio era forte, tanto forte.
«Credo che bisognerà fare degli accertamenti sul suo compagno, signora. Non so, analisi o quant’altro. Sta succedendo qualcosa che non ho mai visto in trent’anni della mia carriera medica».
«Non c’è bisogno di controllare» disse lei quasi sottovoce con toni rochi, prima di render meno secca la gola ingoiando un enorme quantitativo di saliva.
«Posso fare solo una telefonata? Credo di poter dare maggiori risposte» disse atona.
«Certo, faccia pure» si risistemò lui, spegnendo i macchinari e portando le nuove lastre accanto a quelle del giorno precedente per poterle vedere con una visuale migliore.
Bulma sfoderò tremante il cellulare, digitando il numero dell’unica persona che avrebbe potuto fornirle qualche vaga certezza.
«Pronto? Chichi sei tu?».
«Ciao Bulma! Da quanto tempo, che mi dici?» cinguettò lei dall’altra parte della cornetta.
«Chichi per favore, ho bisogno di un’informazione» boccheggiò «Devi dirmi quanto tempo è durata la gravidanza di Gohan».
Se avesse potuto vedere il volto di Chichi l’avrebbe trovato più che turbato e investigativo.
«Non è stata una gravidanza normale, ovviamente. Credevo persino che il feto non fosse compatibile con il mio corpo. Ed è durata cinque mesi».
Bulma sbarrò gli occhi, saettandoli verso quelli del ginecologo.
«Puoi dirmi altro? Cosa ti hanno detto i medici?».
«Beh, loro non sono riusciti a capire granché perché non riuscivano a riconoscere le cellule del feto. Ma dicevano solo che cresceva in fretta e che mi stava danneggiando da dentro. Gli ematomi erano evidenti anche sulla superficie esterna della pancia. In più la prima cosa a formarsi è stata la coda che cresceva in maniera sconsiderata. E questo lo hanno capito circa dopo il terzo mese».
La donna rimase ad ascoltare, dimenticandosi persino di respirare tanto era forte e clamorosa era diventata la certezza dell’appartenenza di quel bambino.
«Ma perché? E’ successo qualcosa? Sei incinta Bulma?» disse spedita, preoccupata dal mutismo ostentato ed insolito dell’amica.
«Ti dirò tutto più tardi, sono dal ginecologo. Ti ringrazio tanto Chichi, a presto» chiuse la chiamata dopo che lei ebbe risposto altrettanto cordialmente sia pur evidentemente preoccupata.
«Novità?» inquisì l’altro.
Quanto avrebbe potuto destare la notizia che aspettava un figlio da un alieno?
Era già successo all’unica amica che aveva, per cui il problema non verteva sull’improbabilità che il suo corpo avrebbe sopportato un mezzosangue dentro di lei, ma la vera catastrofe era riferire l’accaduto al medico senza che lui potesse prenderla per pazza.
«Beh sì, una mia amica ha avuto lo stesso tipo di gravidanza che ora sto passando io» disse con più calma, cercando di metter da parte per il momento il problema che quel figlio appartenesse a Vegeta.
«E a cosa è dovuto?».
«Il padre di questo bambino non è un… terrestre» disse aggrottando un po’ la fronte sperando che la notizia non suscitasse troppo scalpore. Persino a lei sembrava strano proferirlo ad alta voce.
Il ginecologo la guardò esterrefatta senza sapere se prenderla sul serio. Avrebbe strappato immediatamente la sua laurea se non fosse incuriosito dall’evento al pari di quanto ne era invece sconcertato.
«Si faccia dare il numero del ginecologo della vostra amica. Voglio parlarci di persona».
Non seppe dire niente di più sensato.
Nessuno dei due apri più bocca se non per salutarsi cordialmente e darsi le direttive per i prossimi appuntamenti.
Non appena mise piede fuori dallo studio e dalla clinica, Bulma fissò il cielo con immensa spontaneità, chiudendo gli occhi ed inspirando fragorosamente.
Un lieve sorriso le curvò le labbra.
Non seppe descrivere quel senso di estrema gioia che la pervase facendole perdere la sensibilità della pelle, pensando a quella maternità. Non credeva nemmeno che esistessero delle parole tanto schiette da poter fare minimamente immaginare le emozioni che si provavano.
Accarezzò il grembo con in volto i lineamenti di una neomamma in procinto di parlare al pancione.
Suo figlio era di chi sarebbe dovuto essere.
Un alieno.
Un saiyan.
E con lo stesso dolce sorriso si diresse verso la macchina, senza alcuna fretta di tornare a casa,.
Guardava scorrere i palazzi forse con troppa lentezza, ma senza osservarli davvero. Sarebbe stata alla guida per svariate ore, da sola, per gustarsi al meglio quella notizia, ogni sfaccettatura di quella felicità che le aveva fatto riprendere a battere il cuore con ritmi nuovi mentre la sua mente già divagava verso i più probabili lineamenti che avrebbero caratterizzato suo figlio, rendendolo più bello di un Dio.
Non riusciva a togliersi di dosso quei lineamenti amorevoli, che avrebbero fatto distinguere a chiunque che fossero quelli di una donna in dolce attesa.
Non li tese nemmeno quando, arrivata a casa, notò la figura di Yamcha davanti all’ingresso della dimora.
«Bulma? Che fine hai fatto tesoro? Ti ho lasciato mille chiamate, mi hai fatto preoccupare».
Lei gli andò incontro senza smettere di sorridere e quando era a mezzo metro da lui, già pronto ad accoglierla tra le braccia, lei lo evitò, passandogli avanti.
«Ciao Yamcha. Com’è andata la partita?» provocò lei, con toni troppo tranquilli per non far capire che fosse invero acida.
Lui cercò di digerire l’essere stato scansato, prima di voltarsi per rispondere.
«Bene, abbiamo vinto» disse non molto entusiasta.
Bulma si voltò verso di lui, dopo aver inserito la chiave nella serratura.
«Davvero? Questa volta è sicuro oppure si rivelerà poi un altro fallimento?» parlò con un ghigno stampato in faccia, generalizzando le sue parole con troppa vaghezza.
Lui ebbe un sussulto indecifrabile, non capendo le parole così determinate della donna.
«In che senso? Non capisco quello che stai dicendo Bulma. Una volta che è finita una partita, se l’hai vinta, la vittoria rimane» parlò come se si stesse rivolgendo ad una non molto sana di mente.
«Non mi sto riferendo al baseball, Yamcha» sorrise mostrandogli i denti, abbagliandolo per un istante.
Lui strabuzzò gli occhi, con la stessa espressione in faccia di chi si sente preso in giro.
«E a cosa allora?».
Lei roteò gli occhi verso l’alto, cancellando immediatamente il sorriso dal volto, quasi volesse dargli dello stupido per una cosa che era invece così ovvia.
Si girò poi, aprendo la porta di casa dandogli le spalle.
Lui l’afferrò da un braccio.
«Bulma ma che diavolo stai dicendo!?».
Lei si voltò di colpo, inchiodando gli occhi nei suoi.
«Sono passata da casa tua prima di andare dal ginecologo. E credo di essere arrivata in anticipo perché evidentemente eri occupato».
Yamcha impallidì di colpo, sentendo fluire tutto il sangue all’altezza del petto facendogli impazzire i battiti.
Lei gli diede due piccoli colpetti sulla guancia, elargendogli un sorriso per niente rassicurante.
«Spero che tu abbia fatto centro stavolta, perché con me, caro mio, hai fallito miseramente» pungolò con fare acido ed insopportabile, prima di sbattergli la porta in faccia.
Entrò in casa con incedere ancora teatrale su quei tacchi a spillo, a testa alta, pregna di una soddisfazione senza eguali.
Occhio per occhio, diceva un detto.
E il suo destino glie lo stava suggerendo da parecchio, peccato non avergli dato ascolto prima. Si sarebbe risparmiata tanto di quel veleno in corpo e gustato più il sapore della vendetta.
Una dolce vendetta.
Salì le scale senza battere ciglio ritrovandosi di fronte proprio colui che stava cercando.
Vegeta la squadrò, percorrendo il suo corpo divenuto più sinuoso dall’altezza artificiale di quelle decolté, aggrottando il solito cipiglio.
«Stavo cercando proprio te» gli disse, portando le mani affusolate sui fianchi con movenze sinuose, notando con piacere che Vegeta aveva addosso solo i pantaloni.
«Che vuoi» parlò scontroso, senza toglierle gli occhi di dosso.
Lei sciolse la sua posa autoritaria, camminando verso di lui con incedere lento.
Si arrestò solo quando arrivò a due centimetri dal suo corpo, fissandolo bene in volto stavolta, avendolo eguagliato in altezza.
Lui non si mosse nemmeno di un millimetro. Nemmeno quando lei aveva poggiato con delicatezza le mani sul suo torace nudo lui distolse lo sguardo famelico dai suoi occhi.
Se la stava divorando senza dire nulla e senza muovere un solo muscolo.
Corrucciò il viso, divenendo inquisitorio quando lei si fiondò sulle sue labbra e gli avvolse il collo con quelle esili braccia.
Poi l’assecondò, muovendo solo allora le mani per porle sui fianchi morbidi di lei sui quali già faceva pressione.
Senza pensarci nemmeno un istante, Vegeta la sbatté al muro, bloccandole ogni via di fuga che lei non avrebbe mai attuato.
Per sua grande sorpresa, fu proprio il saiyan a parlare per primo.
«Hai deciso di fregartene del tutto del moccioso?» ringhiò con un ghigno stampato in volto.
Lei elargì un sorriso mostrandogli tutti i denti perfettamente allineati.
«Certo che no. Ma credo di avere l’assoluta certezza che non si farà danneggiare così facilmente».
Vegeta la guardò di sottecchi. «Non lo credo affatto visto che ha il tuo stesso sangue…».
Per la prima volta ebbe l’impressione di vedere lo sguardo del saiyan farsi più ampio, sia pur impercettibilmente.
Si guardarono intensamente per svariati secondi, respirando lentamente quasi non volessero interrompere quel silenzio assoluto.
Erano seri in volto, tutti e due.
In Bulma vi era quel barlume di preoccupazione che lui non lo accettasse, in Vegeta c’era quello strano sintomo che già altre volte aveva sentito nascergli all’altezza del petto quando era in presenza di quella donna.
Lei lentamente mosse le braccia per prima, con una calma estenuante quasi avesse paura di destarlo. Si alzò la maglia quel che bastava per mostrare la pancia piatta.
«E’ molto forte… proprio come te» soffiò lei, inghiottendo un grumo di saliva troppo rumorosamente.
Lui le guardò il ventre sporco di chiazze viola, tanto evidenti in quella pelle d’avorio.
Non riuscì a trattenere un sorriso sbieco.
Non poteva che appartenere alla sua razza, e già così piccolo lui si accontentava di spargere dei lividi, anziché del sangue.
«Non sei più tu il principe adesso, saiyan» proferì lei, guadagnandosi l’attenzione dei suoi occhi.
Ed entrambi, nello stesso istante ghignarono, lei per gioia, lui per orgoglio.
E con la stessa passione, con emozioni riferite a ragioni differenti, si fusero, bruciando con maggiore ardore quell’eccitazione spontanea, nuova, diversa, perché i loro corpi diversi solo per la diversa razza di sangue, si unirono ognuno con un diverso scopo, ma le loro menti vertevano verso lo stesso e unico pensiero.
Loro figlio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Avrebbe patito tutto quello altre cento volte, nonostante le sembrava di aver toccato con mano l’inferno.
Dopotutto, era inevitabile se pensava al perché.
Era figlio di Vegeta, poteva essere altrimenti?
Il dolore le aveva dilaniato l’animo, facendola strillare quasi fino a perdere la voce, oltre che la coscienza.
Era solo una debole terrestre, lei, Vegeta glie lo ripeteva sempre.
Ed ora stava combattendo ad armi non del tutto pari, con quel piccolo essere che aveva cercato di uscire dal suo corpo quasi autonomamente, arrecandole un male atroce, insopportabile.
Era forte… troppo forte.
Lei no.
Ma la colpa non era di quel bambino, ma della sua aliena razza.
Perché erano così che nascevano i saiyan. Violenti, spietati.
Il sangue terrestre era servito solo a tingergli i capelli di un colore diverso dal nero.
Secondo ogni probabilistico calcolo, un mezzosangue sarebbe dovuto essere più debole e infimo di uno di pura razza. Ma non era stato così.
A dispetto di ogni previsione, quel bambino aveva una forza superiore a qualsiasi altro neonato saiyan.
C’erano più medici del dovuto in quella sala parto, e a nulla era servita la morfina impiantata nelle sue vene troppo tardi per alleviarle il dolore.
Non era un normale neonato, lui. Sembrava già così sviluppato.
Lo stupore generale esplose nell’intera camera con un boato indistinto quando, alzando il bambino ormai fuori dal pancione, si palesò quella lunga e pelosa coda, pronta a rivelare le sue aliene appartenenze.
Dopo aver boccheggiato per svariati minuti, e perforato il soffitto con occhi quasi fuori dalle orbite, Bulma riprese pian piano tra le mani le redini della sfocata coscienza che aveva sentito mancarle per qualche attimo.
Il sudore freddo le aveva velato la fronte, e il respiro troppo affaticato le aveva rinsecchito la gola.
Riuscì ad inalare quella poca aria che le era bastato per soffiare un paio di parole, dicendo ai medici di portarle suo figlio.
Cercò di ricomporsi, ma aveva le costole che le dolevano, alcune si erano rotte.
Ma riuscì, con uno sforzo immane, a distendere le braccia per avvolgere quel bimbo sporco di sangue.
Un sorriso le si delineò in volto quando lo guardò per la prima volta.
Le sue iridi erano azzurre, proprio come i suoi. Ogni colore che riportava, era puramente terrestre, a parte quella carnagione lievemente ambrata.
Ma c’era qualcosa che la riempì di un’emozione strana, quasi conosciuta, quando lo fissò dritto negli occhi.
Quel taglio netto e corrucciato, così spigoloso, che sembrava guardarla con quella risaputa aria adirata, era ben evidente e pronto a ricordarle di chi fosse figlio.
Gli accarezzò delicatamente i lineamenti, quasi volesse accertarsi che fosse autentico, prima di sillabare flebilmente due dolci parole.
«Benvenuto, Trunks»


***


NdA: Salve a todos! E finisce così questa piccola storiella. Avevo in mente di allungarla, inserire altre scene e altri dettagli. Ma stavo invece pensando (sotto l'utilissimo consiglio della mia adorata Proiezioni_Ottiche) di scrivere tali approfondimenti in un'altra storia collegata a questa. Avrei intenzione di esporre i pensieri di Yamcha  e trattare meglio le vincende successive a quelle che ho scritto qui (riferendomi all'arco temporale che va da quando Bulma sbologna Yamcha, fin quando partorisce). Gradirei sapere cosa ne pensate, se vi piacerebbe leggere qualcosa del genere riferito sempre a questa storia. Un grazie enorme a tutti per la collaborazione e grazie a chi segue e recensisce! A presto!

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