Thoughts of a goldfish

di ermete
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Indice ***
Capitolo 2: *** Come se non ci fosse un domani ***
Capitolo 3: *** The best friend ***
Capitolo 4: *** Don't get involved: caring is a disadvantage ***
Capitolo 5: *** Il gatto e la farfalla ***
Capitolo 6: *** Tutta colpa della Luna ***
Capitolo 7: *** Paint your life with the color of your dreams ***
Capitolo 8: *** Flash Back - Present Day - Flash Forward ***
Capitolo 9: *** Dal blu all'azzurro ***
Capitolo 10: *** The propose ***
Capitolo 11: *** Sherlock è un nome da femmina ***
Capitolo 12: *** Te lo dirò milioni di volte ***
Capitolo 13: *** A study in touch ***
Capitolo 14: *** Second Chance ***
Capitolo 15: *** Sugar ***



Capitolo 1
*** Indice ***


- Capitolo 1: indice
- Capitolo 2: reaction-fic alla stagione 3. Scena della stag night sulla poltrona.
- Capitolo 3: reaction-fic alla stagione 3. John chiede a Sherlock di essere il suo best man, scena nel mind palace.
- Capitolo 4: reaction-fic alla stagione 3. Mycroft salva Sherlock e lo riporta a Londra, missing moment, scena in elicottero.
- Capitolo 5: Sherlock gatto nero, John farfalla gialla
- Capitolo 6: missing moment all'interno di HLV ispirata ad una fanart
- Capitolo 7: post stagione 3. Ispirata da una fanart di reapersun
- Capitolo 8: post stagione 3. Ispirata da una fanart
- Capitolo 9: durante HLV. Ispirata da una fanart
- Capitolo 10: proposta di matrimonio da John a Sherlock ispiratami da questo post su tumblr  
- Capitolo 11: post HLV ispiratami da questa immagine su tumblr  
- Capitolo 12: AU!magia ispiratomi da questo post su tumblr
- Capitolo 13: post HLV, Sherlock sente il bisogno di toccare John
- Capitolo 14: AU post matrimonio John (con una Mary diversa), presenza di un cucciolo di bulldog inglese
- Capitolo 15: AU, different first meeting, tattoolock, diversi mestieri per entrambi, ooc, John tatuatore e Sherlock tela

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Capitolo 2
*** Come se non ci fosse un domani ***


***Buona sera! Ho deciso di iniziare questa raccolta di reaction-fic a vari pezzi delle puntate della nuova stagione perché se i Mofftiss ci hanno fatto questo regalo (a me sta piacendo da morire la stagione :D), allora anche io li omaggio a modo mio, scrivendo sui pezzi che ho amato maggiormente :D Il titolo (che ho scoperto essere anche il titolo di una poesia XD) si riferisce a me o.o nel senso che il pesce rosso sono io o.o non sapevo che altro titolo dare o.o e poi, magari fossi il pesce rosso di Mycroft! Un ringraziamento a Mars (CrackedActress) che mi ha betato sta belinata qui *_* BACIO!!! PS: Johnlock lives! PPS: lecitamente influenzata da questa fanart di reapersun http://allineedislol.tumblr.com/post/72544093369/reapersun-if-either-remembers-in-the-morning ***

Rating: giallo
Personaggi: John, Sherlock
Genere: sentimentale, comico, what if
Scena di riferimento: loro ubriachi sulle poltrone, quindi what if non avessero avuto una cliente?



 
Come se non ci fosse un domani



John e Sherlock sono seduti l’uno davanti all’altro e si scrutano intensamente. Sempre che due persone esageratamente ubriache riescano a farlo.
Strizzano gli occhi, arricciano le labbra e traballano sulle proprie natiche pesantemente appoggiate sulla rispettiva poltrona e cercano di mettere in fila una lettera dietro l’altra, poi le parole -va prima l’articolo, poi il soggetto, quindi il verbo. E gli avverbi? Oh, non esageriamo. Articolo, soggetto e verbo. Breve, ma conciso- e cercano di formare una frase.
“Sono un ortaggio?” inizia John.
Sherlock sembra confuso nel suo già totale e intorpidito stato di ebbrezza “Tu o la cosa?” domanda, l’indice che punta verso la fronte di John, il resto delle dita incollate al bicchiere di whisky.
Ridono prima ancora che Sherlock concluda la domanda.
“Divertente.” ridacchia John, chinato in avanti.
“Grazie.” biascica Sherlock che, invece, è schiacciato sullo schienale della poltrona nera: se solo si muovesse, rischierebbe di vomitarsi addosso tutto l’alcool che ha scolato fino a quel momento “Non sei un ortaggio.” e poi si ritrova a pensare che se John fosse un ortaggio, probabilmente sarebbe una spiga di grano, per il colore dei suoi capelli. O una carota, per la sua dolcezza.Oppure una patata. Beh, sì, perché è più tonto di un asino a volte. Sì, a volte è proprio potato.
John si arrende e appoggia la schiena alla poltrona “Tocca a te.”
E all’allontanarsi di John è lui a sporgersi in avanti rischiando che la stanza inizi a girare tutta attorno a lui “Sono umano?”
Da sobrio, John avrebbe risposto che no, non è umano. Perché il nome scritto sulla fronte di Sherlock è lo stesso a cui appartiene la fronte stessa, quindi no, Sherlock Holmes non è umano. Ma John è ubriaco, quindi risponde “Talvolta.” e di fronte all’incertezza dell’amico abbandona ogni strana filosofia -decisamente troppo complicata in quel momento- e annuisce “Sì, sei umano.”
Poi inizia un botta e risposta che sembra quasi lucido.
“Sono un maschio?”
“Sì.”
“Alto?”
John è ormai stravaccato sulla poltrona “Non quanto pensa la gente.” risponde di getto e sorride internamente per quella piccola rivalsa nei confronti di Sherlock che ama sottolineare quanto invece lui sia basso.
Sherlock mugola e pensa rumorosamente “Simpatico?”
“Più o meno.”
“Intelligente?”
John ride “Direi di sì.” davvero, deve trattenersi dal perdere il controllo della propria risata.
“Diresti, eh?” mugola Sherlock, perdendosi alla vista di un John sempre più discinto che non la smette di far ciondolare quelle gambe aperte.
John mugola e lo guarda: perché non fanno mai quelle cose assieme? Più spesso? Ubriacarsi e fare gli idioti.
“Sono simpatico?”
“Per qualcuno.” conferma John.
“Le persone mi apprezzano?”
Chissà se se l’è chiesto, il vero Sherlock. Chissà quante volte se l’è chiesto il vero Sherlock.
Eppure a John escono parole tipo “Non direi. Le prendi sempre per il verso sbagliato.”
Eppure a John viene da pensare che se gli avesse chiesto se lui, nello specifico, lo apprezzi, avrebbe riso e, forse, lo avrebbe abbracciato.
Ride, però, John. E non riesce a staccargli gli occhi di dosso. E inizia a fare quei pensieri che ti vengono in mente solo da ubriaco. Quelle cose del tipo, se non le faccio ora, quando?
“Sono l’attuale re d’Inghilterra?” domanda poi Sherlock, e sembra esserne veramente convinto.
John scoppia a ridere ed è sempre più supino tra la poltrona e il pavimento, ma quando Sherlock gli cede la mano e si appoggia allo schienale della poltrona, è pronto a ritirarsi su e a sporgersi in avanti. E a scendere dalla poltrona. E a inginocchiarsi, praticamente, tra le gambe aperte di Sherlock. Perde l’equilibrio, infatti, e per reggersi si appoggia al ginocchio di Sherlock. Quanto è secco il suo ginocchio? Sherlock è un uomo e corre tutto il giorno, dovrebbe avere un po’ più di massa, per l’amor del cielo! Lo palpa, quasi, per poi far spallucce e dichiarare un cristallino “Ohibò, pace.”
Sherlock, d’altro canto, è altrettanto tranquillo “Oh, fa pure.”
John si tira un po’ più su, ma la tentazione di infilarsi nuovamente tra le gambe di Sherlock è così appetibile e al tempo stesso così giusta, ora che è ubriaco, che gli chiede la prima cosa che gli passa per la mente “Sono una donna?” e la conferma che è completamente sbronzo arriva dal fatto che non si indispettisce alla risata e alla risposta affermativa di Sherlock, ma si premura di domandare “Sono di aspetto piacevole(1)?” stava forse flirtando? Ci pensa un po’ su e quindi specifica “Lei.” dice indicando il cartellino che ha sulla fronte.
Sherlock, scavando dentro un piccolo barlume di lucidità borbotta qualcosa del tipo “La bellezza è un concetto interamente basato su impressioni infantili, influenze e modelli comportamentali.”
John non ce la fa più. Possibile che Sherlock debba fare il sapientone anche da ubriaco? Non capisce che vuole solo flirtare un po’? Divertirsi un po’? Scende nuovamente dalla poltrona e si inginocchia davanti a lui “Sì, ma sono di bell’aspetto?”
Sherlock si riappoggia allo schienale e fa spallucce “Non so manco chi sia. Ho scelto un nome a caso dal quotidiano.” sta per riavvicinare il bicchiere alle labbra quando la mano di John gli blocca il polso “John?”
“Io?” inizia a strusciarsi sul corpo di Sherlock per poterlo, letteralmente, scalare “Io sono di bell’aspetto?” coi movimenti intorpiditi dall’alcool, non gli importa di far cadere il bicchiere per terra a costo di riuscire ad intrecciare le dita della mano con quella di Sherlock “Io?”
Sherlock sbatte le palpebre rapidamente una, due, tre volte e prova a ragionare, ma è tutto così confuso. Perché ha bevuto così tanto? Aveva fatto i calcoli proprio per non arrivare a quei punti! E ora si ritrova un John particolarmente espansivo praticamente disteso su di sé che gli domanda se… Oh. Ha un John particolarmente espansivo praticamente disteso su di sé. Lui. Con John. Sopra di sé. E se Sherlock per certe cose è particolarmente lento da sobrio, figurarsi se è più pregno d’alcool di una pina colada servita nei peggiori bar di Caracas -basta televisione, Sherlock, basta. Meglio fumare, a questi punti!-
John insiste “Sono di bell’aspetto?” insinua la punta del naso tra i lembi della camicia ancora fortunosamente tenuti legati dai bottoni e inspira l’odore di Sherlock che in quel momento è un misto di muschio, sapone, birra e un accenno salato ma inconfondibile di sudore “Mh?”
“Ma…” inizia Sherlock che alza la mano libera in alto in segno di resa “Tu, tu?” deglutisce quando, dopo la lenta risalita di John, si ritrova a faccia faccia con lui “O… lei…?” domanda incerto osservando la scritta ‘Madonna’.
“Idiota da sobrio e idiota da ubriaco.” commenta John e tocca con la propria fronte quella di Sherlock “Ma se io volessi baciarti…”
Sherlock spalanca occhi e bocca “Ma tu non sei gay, ti piace così tanto ripeterlo.”
“Perché tutti lo insinuano.” John sembra sicuro di sé: d’altronde, in testa il ragionamento che sta per fare fila liscio come l’olio “E visto che tutti sembrano così convinti del fatto che io e te abbiamo dei trascorsi…” si lecca le labbra guardando quelle di Sherlock “...allora prima che io mi sposi voglio capire almeno cosa voglia dire baciarti.”
“Almeno.” commenta l’altro e finalmente rilassa il braccio sospeso in aria appoggiandolo sulla schiena di John.
“Sherlock, sono così ubriaco che se anche volessi scoparti non centrerei neanche il buco.” dice il dottore e il silenzio si impossessa di loro per alcuni secondi.
Secondi che si interrompono con una risata di entrambi seguita da John che, stufo di aspettare, bacia Sherlock, in parte sulle labbra, in parte sul mento, per tre secondi, a stampo. Peggio che all’asilo.
“John!” borbotta Sherlock quando l’altro si stacca “John.” borbotta “JohnJohnJohn.” ridacchia per poi provare a baciarlo a sua volta. Riuscendoci. Più o meno. Centra le labbra in pieno, ma le sue sono così serrate che è come se lo stesse baciando con la cute che sta appena sotto il naso e poco sopra il labbro superiore. Davvero, peggio che all’asilo.
John si stacca e ride, per poi decidere di prendere in mano la situazione e trascinare Sherlock sul pavimento “No, guarda, si fa così.” rimane sdraiato sopra un curiosissimo detective mentre avvicina le labbra a quelle di lui e, finalmente, le schiude.
Non è un bacio profondo e duraturo, è un continuo giocare con le punte della lingua, un mordicchiare di labbra, un leccare palato e interno delle guance. Interrotto da piccole risate e sguardi divertiti. Non c’è nulla di erotico in tutto questo. C’è un accenno di dolcezza, tanto divertimento e un’infinita dose di curiosità.
Non vanno oltre i trenta secondi di bacio, eppure non riescono a smettere. Iniziano anche a parlare tra un bacio e l’altro.
“Pensa se salisse Mrs Hudson.” ipotizza John posando un bacio sullo zigomo destro di Sherlock.
Sherlock si stiracchia come un gatto sotto il corpo di John, allacciandogli poi le braccia attorno alla schiena “Non credo che sarebbe poi così shockata.” rimane alla mercé di John che continua a costellargli il viso con piccoli e fugaci baci “E poi siamo amici.”
“Appunto. Gli amici non fanno queste cose.” e si contraddice baciando le labbra di Sherlock nel punto in cui l’aveva ferito il giorno del suo ritorno in vita. Poi gli sfiora anche il naso e i suoi occhi sembrano chiedergli scusa.
Sherlock capisce -deduzione facile persino per il suo cervello appesantito dall’alcool- e accoglie lo spirito contraddittorio di John con un sorriso malizioso “Eri tu quello curioso.”
John scuote il capo divertito “E tu no?”
“Sì.” annuisce Sherlock, senza scomporsi troppo “Se c’era un’unica persona con cui avrei potuto provarci, quella eri tu.”
“Perché tu…” John fa camminare le proprie dita sul torace di Sherlock, quindi sul suo viso fino a togliergli l’etichetta dalla fronte e mostrargliela “...sei Sherlock Holmes.”
Entrambi scoppiano a ridere e Sherlock, dopo aver accartocciato il biglietto mostratogli da John, struscia la punta del proprio naso sulla sua “Perché tu sei ossessionato da Sherlock Holmes.”
“Mmh.” mugugna John “E tu sei ossessionato da…” si stacca il biglietto dalla fronte e legge “Madonna?” vede Sherlock alzare le spalle in un’espressione inconsapevole, ma se il detective pensava di essere al sicuro da qualsiasi presa in giro, John si illumina e canticchia “Like a virgin… yeah… touched for the very first time…”
Sherlock spalanca occhi e bocca e inorridisce “Cosa… cosa…” arrossisce imbarazzato “Questa cosa dovrebbe essere…? Un… una…” sbuffa e scuote il viso, anche se farlo gli provoca un giramento di testa che fa traballare il soffitto del salotto “Oh, gosh…”
John ride. Di nuovo. E in quel momento vorrebbe solamente che la notte non finisse e che domani non arrivasse mai. Ma sa che domani, il grande giorno, arriverà e non può fare altro che godersi quei momenti ancora per qualche ora. Quindi ferma il viso di Sherlock tra le proprie mani e lo bacia. Questa volta con più dolcezza, profondamente e al tempo stesso con un’innaturale delicatezza.
Quando si staccano, Sherlock ha gli occhi lucidi per un’infinità di motivi. Ma non ne pronuncerà neanche uno. Si limiterà a girarsi su un fianco e a nascondere il viso sotto il collo di John. E stringerlo. Come se non ci fosse un domani.




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(1) Ho scelto le parole "di bell'aspetto" come genere neutro u.u''' beati gli inglesi che non hanno il femminile e il maschile XD

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Capitolo 3
*** The best friend ***


***Ciao bimbe! Vi ringrazio per l'apprezzamento al primo capitolo di questa faccenda (no dai è troppo poco seria per chiamarla "raccolta" u.u) e spero che anche questo vi piacerà :3 pensavo che il secondo capitolo sarebbe stato su Mycroft e Sherlock, ma poi sono stata bersagliata da questa ideucola così l'ho scritta :3 ringrazio Houtaru_Tomoe per il betaggio :3 e invito tutte a non sclerare troppo domani sera... no che belin dico, sclerate che sono io la prima ad uscire di testa ahahahah XD soffriremo come cani ahahahah XD Moffat ti amodio ahahahah XD BACIO!!!***


Rating: verde
Personaggi: John, Sherlock
Genere: introspettivo, missing moment, sentimentale
Scena di riferimento: John che chiede a Sherlock di essere il suo testimone e quindi la dovuta confessione del "sei il mio migliore amico"





 
The best friend




"The best man?" (1)
A John sembrava essere costato un leggero imbarazzo porgergli quella domanda, anche se Sherlock non ne aveva capito il motivo. Perché, casomai, era lui a dover essere in difficoltà a rispondergli!
Si sforzò a non pronunciare il nome di colui che gli era seduto di fronte, dicendo invece "Billy Kincaid".
Dopo aver chiarito che in verità stava cercando il proprio testimone di nozze e, nello specifico, che voleva accanto a sé il proprio migliore amico -che, per inciso, non era Greg Lestrade né Mike Stamford- in quel particolare giorno, John confessò che l'altra persona più importante della sua vita oltre a Mary Morstan altri non era che lui: Sherlock Holmes.
Sherlock perse il contatto con la realtà, risucchiato inevitabilmente dall'interno, imprigionato dal suo stesso Palazzo Mentale che gli si costruì attorno con la rapidità di uno, due, tre battiti di ciglia. E se il corpo che abitava era immobile davanti a John, una perfetta rappresentazione di sé era ora in piedi in un corridoio la cui fine non era visibile a occhio nudo. E come nei migliori film Disney(2), ogni porta presente decorava il corridoio con motivi, stili e colori diversi. Neanche Sherlock conosceva a memoria la storia celata dietro tutte quelle porte chiuse, anzi. Mentre alcune stanze, a giudicare dall'usura delle maniglie, erano state visitate più volte -magari tutti i giorni- alcune risultavano praticamente intonse: erano le stanze che si erano erette da sole, inconsciamente, quelle che per quanto potesse sforzarsi di farlo, Sherlock non riusciva comunque a cancellare.
Dunque era lì, Sherlock, catapultato nel proprio Palazzo Mentale dalle tanto sincere quanto inaspettate parole di John.

Sei la persona che amo di più al mondo (assieme a Mary).
Ti voglio accanto nel giorno più importante della mia vita.
Sei tu il mio migliore amico.

Si mosse, la proiezione di Sherlock, e si avvicinò alla prima di quelle porte: aveva bisogno di razionalizzare quelle parole, necessitava sentire ripeterle e farne il pieno, bramava nuovi ricordi di John collegati alle parole più significative che gli avesse mai rivolto. Ma se Sherlock si aspettava di trovare una semplice sala di registrazione -ne aveva più di una all'interno del suo palazzo mentale- si sbagliava di grosso.
La formalità dello stile della porta, infatti, non era dovuto allo stile minimalista che solitamente adorna una stanza del genere, bensì a colui che vi trovò all'interno.
Sherlock scosse il capo e fu lì lì per richiudere subito la porta, ma fu fermato da una voce sprezzante che gli si rivolse con tono di biasimo e rimprovero "Sei una delusione su tutta la linea. Stupido sentimentale."
Sherlock guardò chi aveva di fronte e non si sprecò a rispondergli subito, troppo impegnato ad osservare colui che altri non era se non se stesso, più giovane di almeno una decina di anni: aveva lo sguardo rigido e freddo, imperturbabile. La mascella era serrata, nervosa; gli arti sottili scossi da leggeri e quasi impercettibili tic. Il volto era qualcosa di inarrivabile e l'espressione era la tristissima icona della solitudine. Quello era Sherlock prima di John.
"Mycroft è un maiale lento e borioso." riprese a parlare il proprietario della stanza "Ma su una cosa ha sempre avuto ragione." rimase a debita distanza tanto era il disgusto che provava per il proprio alter ego più maturo "Caring is a disadvantage." un'altra pausa, che questa volta aveva un che di teatrale "E tu hai fatto l'unica cosa che avresti dovuto evitare di fare. Complimenti."
Sherlock assottigliò lo sguardo sul proprio alter ego ed in particolar modo sul leggero tremore che gli faceva vibrare le dita, sulle braccia secche coperte dal vestiario e sulle profonde occhiaie che gli inscurivano la pelle sotto gli occhi "Mi dispiace che tu sia bloccato in questo stato."
"Quale stato?" domandò repentino, scattando in avanti eppur sulla difensiva.
Sherlock osservò colui che, oltre ad essere se stesso, era anche il ritratto della paranoia e prese una nota mentale sugli effetti a lungo termine della cocaina, quasi come se se ne fosse dimenticato, quasi come se ne avesse bisogno nell'immediato "A come ero prima di incontrare John."
L'alter ego sbuffò divertito "Non mi sento solo."
Sherlock sorrise a quella che una coincidenza non era: era il suo subconscio che parlava e la sua memoria era troppo buona per poter dimenticare facilmente quello scambio di battute che ebbe con Mycroft pochi mesi prima. E così come rispose a Mycroft, lo fece anche con chi si trovava di fronte "E tu come lo sai?" sussurrò "Non puoi saperlo, non ancora. E purtroppo o, chissà, per fortuna, non lo saprai mai."
L'alter ego si voltò indignato e nel giro di pochi istanti perse il proprio interesse per Sherlock che, ricordando bene quel periodo della propria vita, approfittò di quel momento per uscire dalla stanza sapendo bene che non avrebbe ottenuto null'altro di più che il silenzio da parte sua.
Una volta chiusa la porta dietro di sé, Sherlock sbuffò infastidito: il suo desiderio in quel momento era solo quello di gioire per le parole che John gli aveva regalato, non fare assurdi esami di coscienza con l'individuo più odioso che potesse conoscere. Tuttavia, a quanto pareva, il suo corpo era ancora immobilizzato, quindi tanto valeva curiosare qua e là.
Oltrepassò tre porte piuttosto anonime per poi soffermarsi davanti ad un uscio alquanto familiare: era sobrio, pulito, di un legno non troppo scuro privo di venature. Per un istante glissò e fece per andare oltre, ma la curiosità lo vinse e decise di aprire la porta.
Non appena lo fece, venne investito da un bambino che lo abbracciò all'altezza della vita: aveva i capelli riccioli del colore dell'ebano, la pelle bianca come la porcellana e gli occhi azzurri chiari come la carta zucchero. Era lui, da piccolo. E gli si era appena gettato addosso gongolando come neanche ricordava di aver mai fatto. E non appena ebbe staccato il viso dal suo addome, lo sentì parlare gioioso "Mycroft, sei tornato!"
Sherlock arrossì e ringraziò che le chiavi del suo prezioso Palazzo Mentale fossero riservate a lui soltanto "Non sono Mycroft." e, per evitare di spaventarlo, gli accarezzò il capo riccioluto con la mano destra.
Il bambino trasalì appena e si ritrasse per fuggire dietro al proprio fortino costruito con cuscini di letto e divano. Non disse nulla, ma Sherlock poté riconoscere alcuni singhiozzi celati in parte da un cuscino che il bambino stava premendo sul proprio viso.
Non poteva vederlo, Sherlock, ma sapeva che era così perché era un ricordo della propria infanzia: Mycroft, il suo unico amico, che partiva per il college e che non tutti i week end riusciva a tornare a casa. Quando Violet e Seiger glielo comunicavano allora lui reagiva così: si arrabbiava, si nascondeva dentro il suo soffice fortino e piangeva piano, per non farsi sentire, per non far credere agli adulti che lui fosse un moccioso qualunque che piangeva per un nonnulla.
Col senno di poi Sherlock sapeva benissimo che non era un nonnulla, ma qualcosa di comprensibile e fu per questo che non fuggì dalla stanza ma si spinse oltre il fortino e si inginocchiò ad osservare se stesso. Fece per entrarvi, ma il bambino emerse finalmente dal cuscino e glielo proibì "Non puoi entrare. Non conosci la parola d'ordine."
Sherlock sorrise e lo stupì "Barbarossa." pronunciò solenne e si gustò l'espressione sorpresa del suo piccolo alter ego prima di dirgli "Sono un amico di tuo fratello. Visto che lui non è riuscito a tornare a casa questo fine settimana, mi ha chiesto di venirti a trovarei."
Il piccolo Sherlock soppesò le parole dell'adulto che aveva di fronte "Mycroft non ha amici, ha solo me." sentenziò sicuro soffermandosi sul viso stranamente familiare dell'altro.
"Temeva che tu non prendessi bene la notizia che ha un'altra persona a cui voler bene oltre che a te. Ma mi parla sempre del suo fratellino." giocò quella carta assottigliando lo sguardo su di lui "Prova a chiedermi qualcosa che solo noi possiamo sapere." lo esortò poi e allungò la mano sulla guancia del piccolo Sherlock per asciugargli l'ultima lacrima di quel piccolo pianto.
Il geniale bambino osservò le lunghe dita dell'adulto accarezzargli il viso con una delicatezza che, con lui, avevano azzardato solo la madre, il padre e ovviamente Mycroft. Deglutì e schioccò la lingua sul palato prima di formulare la propria domanda "Che scherzo abbiamo fatto al figlio maggiore dei vicini?"
“Domanda a trabocchetto.” replicò Sherlock, divertito “Sei stato solo tu a svelare alla madre di suddetto ragazzo che aveva una relazione sessuale con la loro domestica.” si accigliò, poi, al pensiero che probabilmente un bambino di nove non dovrebbe sapere cosa sia una relazione sessuale, ma, in fondo, era di se stesso che stava parlando “E te ne sei vantato così tanto con Mycroft che alla fine lo hanno scoperto anche i tuoi genitori e ti hanno messo in castigo per una settimana.”
Il piccolo Sherlock osservò l’adulto con sguardo indagatore, ma non dovette cogliere nulla di strano perché decise di farlo entrare nel proprio fortino: era ancora un po’ diffidente, ma quell’uomo gli aveva appena accarezzato la guancia e non aveva provato alcun fastidio a riguardo. Il suo odore non era strano, colpevole, pungente. Il suo tocco delicato ma sicuro. E poi, insomma, era amico di Mycroft, così tanto stupido non doveva esserlo!
Tuttavia Sherlock, per riuscire ad entrare completamente in quel fortino -quanto gli era mancato!- dovette accucciarsi e prendere in braccio il proprio alter ego che, svogliato e di umore ambiguo, non protestò più di tanto. Il consulente investigativo non amava le smancerie, ma il ricordo di quanto si sentisse solo a quell’età, dopo che Mycroft era entrato al college, lo spinse ad abbracciare e a consolare se stesso “Sai, non sarai sempre solo.”
“Mh?” domandò il piccolo Sherlock che si accucciò meglio che poté addosso al se stesso del futuro: immerse il viso nel suo petto e, ignaro di cosa sia il pudore, annusò profondamente l’odore di quell’uomo. Voleva capire perché non lo ripugnasse! Inspirò a lungo e sì, aveva un odore simile a quello di suo padre, eppure era diverso. E si avvicinava anche a quello di Mycroft, ma c’era qualcosa che non quadrava. Eppure si trovava bene tra quelle braccia, quasi come se quell’uomo fosse un’estensione di sé.
Sherlock non resistette all’impulso di baciare il capo di quel bambino, memore di quanto i gesti affettuosi gli fossero mancati a quell’età. Ricordò con oggettività quanto fosse difficile avere a che fare con lui, di quanto non riuscisse a spiegare cosa non gli andasse bene degli altri bambini, degli adulti, delle numerose tate che aveva avuto, ma che, al contempo, questo non volesse dire che non sentisse la mancanza di una carezza, di un bacio o di un abbraccio. Erano tutti così strani, diversi da lui! E lui non voleva che lo toccassero. Ma ora che poteva farlo, decise di regalare a se stesso una piccola dose di tutto ciò che aveva sempre avuto bisogno: lo strinse forte, quasi tremò e lo rassicurò “Arriverà il giorno in cui anche tu avrai un amico eccezionale che si prenderà cura di te.”
Il piccolo Sherlock si staccò dal torace dell’adulto solo per poterlo osservare in volto “Cosa?” si illuse per un attimo, ma poi scosse il capo “No, è impossibile. Nessuno mi sopporta.”
“Ma cosa dice sempre Mycroft? Una volta eliminato l’impossibile…” si interruppe e lo incoraggiò a continuare.
“...tutto ciò che rimane…” continuò timidamente, sopraffatto dal sorriso dell’altro.
Sherlock annuì soddisfatto “...per quanto improbabile…”
“...deve essere la verità!” concluse il piccolo alter ego e il suo sguardo si accese “Davvero avrò un amico speciale?”
“Avrai degli amici, pochissimi ma buoni.” lo rassicurò e, tenendolo con un braccio, si aiutò con l’altro ad uscire dal fortino “Ma ce ne sarà uno che sarà davvero speciale. Uno che ti farà pensare che tutto il resto del mosto possa sparire, purché lui rimanga con te.”

 
“Sherlock?”



Il piccolo Sherlock si aggrappò al collo dell’adulto e lo scrutò ancor più da vicino “Davvero esistono persone così speciali?”
“Sì, ma sono molto rare. Anzi, uniche.” baciò la guancia del bambino e non poté fare a meno di provare una sorta di malinconia in quel frangente “Ma proprio perché sono uniche sono così speciali.”
Il bambino annuì a bocca aperta “E come si chiama questa persona?” si strinse ulteriormente al collo di Sherlock, poi, quando lo vide avvicinarsi alla porta “Non andare.”
“John. Si chiamerà John.” si chinò e fece scendere il bambino sul pavimento: gli sembrava di aver sentito una lontana eco chiamare il proprio nome e capì che il proprio viaggio all’interno del suo Palazzo Mentale stava per concludersi, quindi ci teneva a congedarsi a modo con il proprio piccolo alter ego “Devo, purtroppo. Ma tornerò a trovarti.” una bugia? Una verità? Sherlock non sapeva se avrebbe ritrovato quella porta, un altro giorno.
Il piccolo Sherlock mugugnò un poco, ma alla fine, dopo aver inspirato un’ultima volta quel profumo familiare, lo lasciò andare “John? Che nome… semplice.”
“Non tutti possono chiamarsi Sherlock.” ammiccò il proprietario del Palazzo Mentale “E ricordati, è nella semplicità che si nascondono le bellezze più grandi.” non era una frase che avrebbe mai detto ad alta voce a chiunque, ma ora era lì, nella sua camera d’infanzia, a parlare con se stesso, dunque tutto era lecito. Non gli regalò parole di addio e chiuse la porta dietro di sé con un sorriso sincero che gli rivolse finché l’ultimo spiraglio di quella stanza non sparì del tutto.

 
“Sherlock?”



Sherlock sentì che il suo corpo stava per risvegliarsi, ma l’ultima stanza dentro la quale era entrato lo spinse a cercarne rapidamente un’altra: voleva altri ricordi e voleva costruirne di nuovi e quello era il posto più adatto per riuscire a farlo.
Non rifletté molto, dunque, quando decise di entrare in una stanza la cui porta era un’elegante lastra di vetro. Ma se Sherlock si aspettava chissà quale metafora antistante quella bizzarra porta, si stupì di entrare in una stanza composta soltanto da specchi. Un’infinita quantità di specchi che riflettevano la sua figura da qualsiasi angolazione si trovassero: Sherlock, sotto tutti i punti di vista. Non si può certo dire che la metafora non ci fosse.
Avanzò, dunque, verso lo specchio che gli si parava di fronte e non disse nulla. Osservava la figura riflessa di fronte a sé e non parlò finché non si accorse di un dettaglio: il proprio respiro e quello dello Sherlock nello specchio non erano sincronizzati. Sorrise divertito “Ti ho scoperto. Parla se devi parlare.”
Lo Sherlock riflesso si mosse e si stiracchiò teatralmente “Oh, finalmente. Ero stufo di imitarti.”
“Non comprendi l’onore che sarebbe stato.” ironizzò Sherlock “Ammettendo che sia solo lontanamente possibile farlo, cosa che tu hai ampiamente smentito.”
Il riflesso gli sorrise maliardo e fece spallucce “Chi vorrebbe essere te, d’altronde? Per carità, sei geniale e…” si lisciò il la camicia sotto la vestaglia aperta “...molto bello, ma sei solo come un cane.”
Sherlock si impettì e gli diede le spalle per qualche istante “Forse non sei stato attento alla conversazione che si è svolta qua fuori.” ruotò nuovamente sui propri piedi, fronteggiando lo specchio “Sono il migliore amico di qualcuno. O meglio, dell’uomo migliore che esista al mondo.”
“Che ti sta per abbandonare a favore di una donna.” replicò subito il riflesso, serafico. Rise sarcastico quando vide Sherlock bloccarsi “Devo veramente spiegarti cosa sono io?” ma non attese che il proprio interlocutore rispondesse, proprio come faceva colui che gli aveva donato l’originale da copiare e riflettere sulla propria superficie “Sei combattuto, mio caro. Tu ami John e odi Mary, ma devi amare Mary affinché John non ti odi.”
“Vuoi il copyright per questa?” sputò Sherlock stizzito.
Il riflesso rise “Quando John si sarà sposato, tu cosa farai?” lo provocò “Sarai solo tu, contro il resto del mondo.”
Sherlock si sporse in avanti con un braccio alzato come se volesse rompere lo specchio ma si fermò, perché dietro al proprio riflesso intravide John. Si voltò istintivamente, ma mentre dietro di lui non vi era anima viva, quando tornò ad osservare il proprio riflesso, vide il sorriso di John interrompere la monotonia della propria figura riflessa in quella stanza piena di specchi.

 
“Okay. Ora mi stai mettendo paura.”



Provò a chiamarlo, ma la sua voce perse potenza e in men che non si dica, si ritrovò a Baker Street, in piedi di fronte a John, nuovamente in possesso del proprio corpo. Esitò ancora pochi istanti, quindi iniziò “Dunque io…”
“Sì.” annuì John.
“Sono…” la voce che esitava, la lingua impastata dall’emozione “...il tuo migliore amico.”
Vide John stupirsi: dunque era così scontato? Riuscì anche a sentirlo confermare tutto a voce “Naturalmente. È ovvio che tu sia il mio migliore amico.”
E Sherlock, incurante di bere un tea dentro il quale era da poco caduto un occhio umano, non poté che iniziare a somatizzare quell’informazione, celando la propria gioia sotto un velo di eleganza e garbo. E concluse che tutti quegli anni di astio e solitudine, di paranoia e ben celata tristezza, erano valsi la pena di essere vissuti se il premio che ne derivava era l’onore di essere il migliore amico di John Watson. E di certo, questa volta si sarebbe impegnato a dimostrargli quanto contasse per lui anche a parole.




 
“John, I am a ridiculous man, redeemed only by the warmth and constancy of your friendship.”(3)




____________

(1)Scusate, l'ho dovuto tenere in inglese perché se l'avessi tradotto avrebbe perso il significato °.°
(2)Ovviamente mi riferisco a "Monsters & Co" *_*
(3)La mia citazione preferita di tutto il discorso di Sherlock :3

 

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Capitolo 4
*** Don't get involved: caring is a disadvantage ***


***Buona sera bimbe! Nulla da dire a riguardo se non che sarà la prima e non ultima reac-fic sul rapporto fraterno dei miei adorati Mycr e Sherl! E basta così °.° tanti BACI!!!***
 
 
Rating: verde
Personaggi: Mycroft, Sherlock
Genere: missing moment, introspettivo
Scena di riferimento: Mycroft che va a recuperare Sherlock in madre patria serba *forte accento russo* e conseguente scena sull’aereo del ritorno
 
 
 
 
 
Don’t get involved: caring is a disadvantage
 
 
 
Un pugno.
Sherlock.
Un altro pugno. Dopo un'ora di frustate e sprangate sulla schiena.
Sherlock...
Una ginocchiata in pieno stomaco, mani che si aggrappano alle catene.
Sherlock. Quando pensi di dirgli di quella sua insignificante mogliettina fedifraga in modo che si allontani e io possa portarti lontano da qui?
Il pugno chiuso e sporco di sangue si ferma in aria.
Finalmente.
 
Non fu tanto la motivazione magistralmente pensata da Mycroft a permettergli di uscire da quel bunker con un prigioniero che non era neanche ammanettato. Fu il suo carisma, il suo sguardo intimidatorio contro cui le guardie non poterono far altro che annuire senza possibilità di replica. Gli tennero persino la porta aperta.
E fu quando salirono sull'elicottero camuffato dell'MI6 che Mycroft poté finalmente dismettere la maschera che aveva dovuto indossare durante quei mesi sotto copertura e tirare un sospiro di sollievo. Si voltò verso un silenzioso Sherlock e quando fece per accompagnarlo verso il sedile più vicino, finì col cadere a terra laddove, forse per un calo di adrenalina, forse per la stanchezza fisica, finì col franare anche il fratello minore.
"Sherlock." poté chiamarlo, finalmente, Mycroft, che si affrettò ad afferrarlo per il busto e a farlo sdraiare sulle proprie gambe con la parte superiore del corpo "È tutto finito, Sherlock. Ora sei salvo."
Sherlock si risvegliò da quel breve svenimento e impiegò qualche istante per ricordare che era riuscito a scappare da quei terroristi serbi e che vi era riuscito grazie anche all'aiuto inaspettato del fratello. Sussurrò il suo nome e si irrigidì appena quando capì di trovarsi tra le sue braccia.
Oddio, oddio, oddio.
Si agitò un poco, ma solo Mycroft avrebbe potuto capirlo, giacché il suo stato ansiogeno era palesato solo dalla respirazione che era aumentata leggermente e da repentini e rapidissimi movimenti delle pupille. Ma così come era trasalito, iniziò anche a calmarsi sensibilmente nel vedere il viso del fratello che era il ritratto del sollievo e della calma.
Mycroft...
Sherlock inspirò a lungo trovando in quel modo la calma che andava cercando. Era salvo e vedeva il volto di suo fratello dopo due anni trascorsi allo sbaraglio, lontano da Londra, lontano da John, lontano dal suo stesso sangue.
Mycroft sorrise quando vide il fratello calmarsi e non accennò a volerlo lasciare andare: non c'era nessuno di fronte al quale mantenere le apparenze, nessuno che avrebbe visto che lui era l'irreprensibile e inattaccabile Uomo di Ghiaccio con tutti tranne che con la persona che, al mondo, era per lui la più importante.
Fratellino mio.
Il maggiore degli Holmes alzò la mancina sul volto di Sherlock scostando quei capelli lunghi e sporchi che stonavano così tanto con l'idea che aveva del proprio fratello: elegante, testardo, acuto. Gli bastò una rapidissima occhiata al torace nudo di Sherlock per capire quante ne avesse passate e pensò che no, non era giusto che avesse sofferto così tanto per un solo uomo, per John Watson. Ma lo tenne per sé, quel pensiero, perché sapeva anche che era stato proprio il pensiero di John Watson ad avergli dato la forza di combattere e di rimanere in vita. Un detestabile ossimoro: la ragione per cui il suo piccolo Sherlock era in quelle condizioni era anche la stessa per la quale era, fortunatamente, in quelle condizioni anziché tre metri sotto terra.
Che odio.
La bocca di Sherlock era impastata dal sangue e dall'arsura, quindi le prime parole che pronunciò, furono un sussurro che Mycroft riuscì ad intuire solo grazie al labiale che lesse sulle labbra emaciate del fratello. Annuì, quindi, avvicinando una bottiglietta d'acqua alle sue labbra: lo aiutò a bere e lo tenne stretto pur stando attento a non premere troppo sulle sue ferite "Sì, Sherlock. Mamma e papà stanno bene."
Il tuo nome. L'ho taciuto per due anni. Non poteva essere pronunciato. Ma ora posso dirlo ad alta voce.
"Sherlock." si lasciò infatti fuggire e il più giovane degli Holmes lo guardò con uno sguardo stanco, ma sempre attento. Mycroft sospirò appena e gli sorrise. Non esibiva mai quel tipo di sorriso: non era finto, non era tirato, non era sarcastico. Era un sorriso piccolo, ma sincero. "Non appena atterreremo a Londra cureremo le brutte ferite che hai sulla schiena. E taglieremo barba e capelli."
Sherlock bevve ancora un sorso d'acqua e ruotò lentamente su un fianco, appoggiando la fronte sull’addome di Mycroft “Perché, non sto bene così?”
“Certo. Sei incantevole.” sussurrò Mycroft sarcastico e sorrise di rimando all’inarcarsi delle labbra di Sherlock. Chiuse poi gli occhi e quando li riaprì gli parve di avere tra le braccia il proprio fratellino quando aveva poco più di dieci anni. Gli piangeva il cuore ammetterlo, ma era così che lo vedeva spesso: un bambino spaventato e indifeso che cerca in tutti i modi l’approvazione di un amico.
Scosse appena il capo e ciò che vide fu nuovamente Sherlock, adulto, coperto di ferite. Si tolse il cappotto e glielo posò addosso. Perché la coperta che gli avevano dato non era sufficiente. Perché non voleva più vedere quelle ferite.
“Come stai?” chiese poi Sherlock, stringendosi nel cappotto di Mycroft: inspirò forte quel profumo familiare e per la prima volta nel corso degli ultimi due anni, non si sentì solo. Uno specchio all’interno del suo Palazzo Mentale parlò per lui.
Mi sei mancato.
Mycroft continuò a cullare Sherlock perché non sapeva se avrebbe mai avuto l’occasione di essere così vicino al proprio fratellino ancora una volta: una volta atterrati a Londra sarebbero tornati i soliti scontrosi, sarcastici fratelli Holmes. Ma ora erano in cielo, una zona franca in cui potevano esprimere un’infinitesima parte di quella cosa chiamata affetto, a cui nessuno dei due sembrava voler dar retta nella propria vita.
Alzò cautamente il pollice della mancina e andò ad accarezzargli lo zigomo contuso con inaspettata delicatezza “Annoiato.” confessò come risposta per quella domanda così convenzionale da risultare speciale, tra loro due “Senza Sherlock Holmes che combina guai in giro per Londra, quella città non è più la stessa.”
Mi sei mancato anche tu.
Sherlock sorrise ad occhi chiusi e si rannicchiò ancor meglio addosso al fratello “Devi proprio trovarti qualcuno, Mycroft.” mugolò e inarcò le spalle per testare la sopportazione al dolore che quelle ferite gli infliggevano e concluse che, tutto sommato, aveva patito di peggio. E poi c’era i il profumo di suo fratello che gli rilassava i nervi: in quei due anni aveva affinato ancor meglio i sensi, discriminando con maggior sensibilità la provenienza e divenendo ancor più selettivo riguardo i propri gusti. E il profumo di Mycroft… era così familiare, così dolce rispetto a quelli che aveva più volte subodorato addosso a quei grezzi uomini dell’est europeo.
Mycroft rise leggermente “Non esiste nessuno che sia alla mia altezza, Sherlock.” avvicinò poi la propria mano al viso di Sherlock: ricordava che fin da piccolo aveva mostrato una sensibilità particolare verso gli odori, quindi gli offrì quella piccola parte di sé che sembrava rilassarlo molto.
Sherlock mugolò di autentico piacere nello strofinare il viso sul palmo e sul dorso della mano di Mycroft: ad ogni boccata che tirava, gli sembrava di sentire sempre meno dolore. Trovò così la forza per rispondergli “Non deve essere necessariamente alla tua altezza.”
Il sorriso di Mycroft, a quel punto, fu leggermente più amaro: non era passata neanche mezzora e stava già parlando di John. Se John non fosse esistito, forse Sherlock sarebbe morto, certamente, ma non avrebbe mai sofferto un dolore che andasse oltre quello fisico. Cosa sarebbe stato meglio, a quel punto? Mycroft, dall’alto della sua pragmaticità e del suo ascetismo, era molto sicuro della risposta che, però, sembrava non coincidere con quella del fratello.
Mentre lasciava la propria mano in balia di quelle di Sherlock, Mycroft cercò di trattenere tutto il proprio astio nei riguardi di John e si sforzò di rispondere in maniera del tutto tranquilla “Non è il genere di cose con cui amo dilettarmi, Sherlock, lo sai come la penso.”
Sherlock aprì gli occhi resi lucidi dalla stanchezza e dal dolore e osservò Mycroft tra l’indice e il medio della sua stessa mano che teneva ancora appoggiata sul viso “Anche io ero così, poi sono cambiato.”
Mycroft strinse un poco le dita attorno al viso di Sherlock, memore di quanto quella moina lo divertisse quando era solo un bambino “Ti sembra di essere cambiato in meglio?” gli chiese, poi, cercando di sembrare il più neutrale possibile.
No. Sherlock. No.
Sherlock mugolò divertito e, pur spostando la mano di Mycroft dal proprio viso, la tenne vicino a sè, ancorata con entrambi i propri palmi “Ho scoperto cose nuove.”
Mycroft, se solo tu provassi a capire...
“Nuovo dolore.” rispose Mycroft, subito, quasi avesse previsto le parole del fratello.
No. Caring is a disadvantage.
“Non è solo dolore.” sussurrò Sherlock, a sua volta conscio della risposta che gli avrebbe dato il fratello.
Mycroft…
Se fosse stato un altro momento, Mycroft avrebbe perorato la propria causa all’infinito. Fino a convincere per Sherlock, fino a prenderlo per sfinimento. Ma non era quello il momento. Sospirò e lo strinse un poco con il braccio libero, lasciandogli l’altra mano come sostegno olfattivo ed emotivo “Riposati, fratellino. Ne hai bisogno.”
E Sherlock lo fece. Chiuse gli occhi e si assopì addosso a Mycroft in un tempo paragonabile a tre battiti di ciglia.
Mycroft rimase fisso ad osservarlo per tutto il tempo del volo, controllando ogni piccolo spasmo, quei nervi che, rilassandosi, muovevano i muscoli in piccoli tic. Rimase immobile con la mano imprigionata tra quelle di Sherlock, soddisfacendo il tatto che da molti anni non aveva avuto l’onore di sentire Sherlock. Restò fermo ad ascoltare il respiro del fratello fino a che non riuscì a sincronizzarlo col proprio. Restò fermo ad udire i mugolii che gli uscivano leggeri dalla bocca ogni qual volta provasse anche solo una stilla di dolore. E restò inamovibile anche nel percepire i battiti di quel cuore tanto forte quanto fragile pompare grazie al preterintenzionale volere di un uomo il cui nome non era stato pronunciato a voce da Sherlock, ma la cui identità si leggeva chiaramente su quel viso stanco, emaciato, ma quanto mai coinvolto.
Non farti coinvolgere: tenere a qualcuno è svantaggioso.
E Mycroft lo sapeva bene, si diceva, mentre si godeva l’ultima ora di volo con le braccia piene del proprio fratellino riportato in patria sano e salvo. Perché, in fondo, nessuno al mondo era coinvolto quanto lui. E perché nessuno al mondo, e ne era sicuro, teneva a Sherlock Holmes tanto quanto ci teneva lui.
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Il gatto e la farfalla ***


Il gatto e la farfalla



“Mrew!” miagola acuto Sherlock, gatto europeo dal pelo nero e lucido, occhi azzurri, quasi trasparenti, mentre balza giù dal davanzale della finestra del soggiorno e corre verso l’ingresso della grande e lussuosa casa in cui abita assieme al suo padrone.
Ed è proprio verso il suo padrone che corre quando la porta dell’ingresso si apre, urlando le proprie rimostranze per l’ennesimo ritardo. Beh, a dire il vero per un gatto il tempo è piuttosto relativo, ma è altrettanto chiaro che, in quanto gatto, pretenda che il suo padrone dedichi a lui tutte le proprie attenzioni. Non a casi di importanza nazionale, non alla regina, ma a lui: il gatto di Mycroft Holmes.
Mycroft, l’Uomo di Ghiaccio, smette la sua maschera di impassibilità non appena chiude la porta dell’ingresso dietro di sé e non appena vede il gatto zompettargli incontro riesce addirittura a sorridere “Sherlock!” non ha bisogno di chinarsi perché il gatto gli salta agilmente tra le braccia sventolandogli la coda in faccia.
“Mrew!” insiste Sherlock che, dopo essersi allungato a sufficienza, riesce ad appoggiarsi addosso a Mycroft, con le zampe anteriori a cavallo della spalla sinistra dell’umano e con il muso sul suo viso, intento ad annusare tutti gli odori che contaminano quello originale della pelle del suo padrone.
“Sì, sì, hai ragione.” ammette Mycroft mentre si incammina all’interno della grande casa “Ho fatto tardi.” gli gratta le orecchie e lo appoggia sul tavolo della cucina “Ma il Primo Ministro è un idiota e dovevo sistemare delle faccende per lui.”
Sherlock sembra ridere sotto i baffi e lo ascolta divertito. Lo fa sempre. Lo fa da quando lo ha adottato, da quando lo ha raccolto da dentro quella sudicia scatola di cartone abbandonata in fondo a Downing Street. Lo ricorda come se fosse ieri, o forse lo era, ieri. Che buffo il concetto di tempo per un gatto. Forse no, in fondo era cresciuto abbastanza da quel giorno.
Ad ogni modo, ricorda che aveva appena smesso di piovere, aveva freddo e si sentiva terribilmente solo. Aveva visto tanta gente passare, ma nessuno si era mai fermato. Poi Mycroft era spuntato, infrangendo il perimetro della scatola con la forma ovale del suo viso e gli aveva sorriso. Era il primo sorriso che vedeva e gli piacque al punto che miagolò istintivamente. Mycroft allora lo prese e lo portò a casa con sé.
Così Sherlock ascolta sempre Mycroft, che per la maggior parte del tempo che trascorre a casa è solo, e lo segue ovunque. Ed è felicissimo così.
 

°oOo°

 
Il giorno dopo, invece, hanno un ospite a casa. Beh, è molto più di un ospite, in realtà.
È l’attuale fidanzato di Mycroft. Beh, attuale, ormai stanno insieme da così tanto tempo che si può anche dire che sia definitivo, ma… Grrr! A Sherlock vibrano i baffi dalla gelosia! Quel Tom, quel filosofo, quell’umano è bello e gentile; questo è vero. E spesso fa dei bei regali a Sherlock, come cibo particolarmente pregiato, giochi divertenti, grattini spettacolari… ma insiste col volergli sottrarre del tempo che Mycroft gli dedicherebbe se lui non ci fosse!
Come in quel preciso momento: il suo Mycroft e quel Tom sono seduti sul divano a conversare amabilmente, a sfiorarsi, a baciarsi persino… e lui è ai piedi del divano da almeno mezzora e non è stato considerato neanche per un minuto intero! Che affronto! Basta così! Ora allungherà la zampina verso la caviglia di quel Tom e…
...e nulla.
Il tempo si è fermato. Si è fermato perché nel momento in cui ha alzato la zampa e l’ha tenuta per aria quella frazione di secondo che precede l’attacco, una farfalla gialla gli si è appoggiata sul pelo lucido vibrando allegramente nella sua direzione.
E Sherlock non può fare altro che pensare “Oh mio dio, oh mio dio, oh mio dio! Sei la cosa più bella che io abbia mai visto!”
La farfalla, d’altro canto, apre e chiude le ali lentamente in modo che Sherlock possa vedere il disegno simmetrico disegnato sulle due membrane sottili “Ma ciao, meravigliosa creatura!”
Il gatto nero deglutisce e rimane immobile con la zampetta alzata continuando ad osservare la farfalla “Cosa devo fare? Come faccio a non romperti? Sembri così delicata!”
Delicato! Sono un maschio! Mi chiamo John!” vibra la farfalla “E tu sei un gatto bellissimo!”
Sherlock miagola appena, stupito e continua ad osservare la farfalla meravigliato “Sei… sei… bellissimo, John.” si lecca i baffi “Sembri delicato, ho paura di romperti.”
“Ehi! Sono piccolo ma sono forte!” ridacchia la farfalla prima di alzarsi in volo e posarsi sul muso del felino “E tu sei sempre più bello. Ogni secondo che passa sei sempre più bello. Con questo pelo lucido, questi occhi che… che…” John esita perché non riesce a trovare il giusto colore da assegnare agli occhi di Sherlock “...sembra che ci sia scoppiata dentro una galassia e quindi ci sono sia l’universo, che il cielo e tutte le stelle.”
Sherlock non riesce a frenare un miagolio che viene udito anche da Tom e Mycroft, i quali ridono divertiti davanti alla scena che hanno di fronte.
Tom prende in mano lo smartphone e riesce a scattare una foto che immortala la farfalla John posata sul musetto di Sherlock. Dopo di ciò si abbassa per prendere Sherlock in braccio e appoggiarlo sulle proprie gambe in modo che anche Mycroft possa accarezzarlo “Guarda che belli, sembra che siano innamorati.”
“Una farfalla ed un gatto, Tom?” ironizza Mycroft mentre accarezza Sherlock pur stando attento a non ferire la farfalla “Non credi che siano un po’ troppo diversi l’uno dall’altro?”
“Sono diversi. E allora?” Tom bacia le labbra di Mycroft “Non mi pare che tu ed io siamo così uguali.”
Mycroft sospira e sorride: ama Tom anche per questo, d’altronde. Per questa sua testardaggine e determinazione anche per motivi che prima riteneva futili. Motivi come l’amore e la dolcezza. Motivi che ora reputa oltremodo accettabili. Ma non riesce a frenare la propria piccola obiezione “Siamo entrambi umani, però.”
“Kierkegaard ha detto che l’amore sopravvive a qualunque trasformazione.” sorride Tom “Quindi quando questa farfalla si trasformerà ulteriormente, il loro amore sopravviverà.”
Mycroft non riesce proprio a frenare una risata ed è pronto a contraddire il proprio compagno ancora una volta “Tom…”
“Shush…” Tom lo zittisce con un bacio, poi con un altro, poi abbassa lo sguardo e gli indica Sherlock e John, un gatto nero ed una farfalla gialla che continuano a guardarsi come se, nel momento in cui smettano di farlo, il mondo potesse esplodere all’istante “Guarda come sono belli insieme.”
Mycroft non può che arrendersi. Perché i baci di Tom sanno di tea alla cannella e perché è diventato indipendente dalle sue labbra e da quel sapore dolciastro e al tempo stesso amarognolo che è un’autentica droga. Di quelle buone, di quelle non nocive, di quelle che danno assuefazione. Si arrende ed abbassa lo sguardo a sua volta, verso il suo adorato micio Sherlock che si è sdraiato sulle loro gambe e sembra aver intrapreso una conversazione silenziosa con quella farfalla bellissima. E siccome Tom gli ha regalato anche un pizzico di follia e metafisica irrazionalità, si ritrova a sperare che quelle due piccole creaturine possano veramente incontrarsi, in un mondo parallelo, e stare assieme per sempre.
 



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Capitolo 6
*** Tutta colpa della Luna ***



 

Tutta colpa della Luna



Sherlock aveva aperto gli occhi a fasi alterne, più volte, senza però riuscire veramente a mettere a fuoco ciò che aveva attorno. O meglio, riusciva perfettamente a mettere a fuoco il viso di John, seduto sulla sedia accanto al suo letto, ma il suo cervello non era in alcun modo collegato alla realtà. Così come le sue sinapsi non facevano in tempo ad inviare i segnali giusti per riuscire a fargli aprire le labbra e a farlo parlare.
È così che funziona l’anestesia locale: per le prime ore viaggi in uno stato di torpore che ti permette di fare micro movimenti e di restare lucido per pochissimi secondi prima di farti sprofondare nuovamente nell’onirica dimensione dei sogni.
Per questo motivo, quando riusciva ad aprire gli occhi, vedeva senza alcun problema l’espressione preoccupata di John, ma non riusciva a parlargli per rassicurarlo e, perché no, ringraziarlo per avergli salvato la vita. Seppur in un modo totalmente inaspettato. Considerando anche che, se si trovava lì in quelle condizioni, era anche colpa di sua moglie. Avrebbe dovuto parlargliene? Sherlock non lo sapeva. Era tutto ancora così sfocato.
 
“John.” sussurra Sherlock quando, tre ore dopo, si rende conto di riuscire a tenere gli occhi aperti per più di dieci secondi “John.” ripete a voce più alta quando conferma a se stesso di riuscire a coordinare il meccanismo cervello-bocca.
John scatta in piedi ed è come se tutto ciò lo spaventasse. Sherlock, con la sua innata capacità di tornare dalla morte, lo spaventa. Sherlock, che lo osserva con quegli occhi resi languidi dal dolore e dalla morfina e che sembrano preoccuparsi più per chi ha di fronte che per se stesso. Sherlock, per il quale prova sentimenti che, ormai, dopo ciò che ha scoperto, non potrà più nascondere.
“John.” ripete Sherlock che, intorpidito dalla sonnolenza, non riesce a cogliere tutte le sfumature che ombreggiano il viso del suo migliore amico. Mugola, perché i muscoli del torace gli fanno male, e non fa in tempo a posare la mano sulla fasciatura che questa viene catturata a mezz’aria da John.
“Sherlock.” riesce finalmente a pronunciare John, sedendosi con innaturale leggerezza sul bordo del letto “Sherlock…” ripete, perché tutto ciò che ha da dirgli è così tanto e così grande che vuole prima la certezza che Sherlock sia realmente lucido. E poi, davvero, ha bisogno di un momento. Ha bisogno di un momento per realizzare che per la seconda volta ha rischiato di perderlo. C’è andato vicinissimo. Non sa ancora quale miracolo l’abbia salvato questa volta.
“John.” ripete ancora Sherlock, come se pronunciare ciascuno il nome dell’altro renda ancor più definitiva la loro presenza su quel piano di esistenza “John…” sospira e gli stringe la mano che il suo amico gli ha preso. E si alzerebbe un poco, se potesse, ma i muscoli non rispondono ancora perfettamente ai suoi comandi.
“Sherlock.” deglutisce John i cui movimenti sono impacciati: è un medico e sa come dovrebbe muoversi accanto ad un paziente appena operato, come scansare catetere, drenaggi e deflussori delle flebo. Ma la verità è che ha paura di fare del male a Sherlock. Più di quanto non gliene abbia già fatto.
“John.” il tono di Sherlock questa volta è più simile ad una supplica. Sembra voler dire Vienimi incontro tu, i residui dell’anestesia totale mi immobilizzano qui, ti prego. Ho bisogno che tu mi venga incontro.
John lo fa. Trova il coraggio di chinarsi fino a sfiorare con delicatezza la fronte di Sherlock con la propria, rendendo la mancina una piccola coppa con cui accarezzare la guancia fresca dell’altro. Inspira a lungo ed è grazie a quel rilascio di ossigeno che il suo viso trema abbastanza da impedire alle ciglia di trattenere oltremodo due piccole lacrime che finiscono inevitabilmente sul volto di colui al quale tiene maggiormente al mondo.
“Scusami.” mormora Sherlock che riesce ad alzare il braccio libero dalle flebo per appoggiarlo stancamente attorno al collo di John: non voleva osare tanto, in verità, ma decide di non spostarlo quando sente le labbra del suo migliore amico lambirgli la fronte con un bacio delicatissimo “Non volevo… avevo promesso che non ti avrei più fatto preoccupare…”
“Tu? Sei tu a scusarti con me?” altre due lacrime scendono senza chiedergli il permesso “Con tutto quello che ti ho fatto…”
Sherlock si stacca da John abbastanza da poterlo osservare in volto “John…”
“È stata lei, vero?” domanda John, a bruciapelo, prima che Sherlock possa ragionare a sufficienza da riuscire ad invertare un’eventuale scusa “Claire de la Lune.” sussurra, poi “Lei. Lo porta lei, gliel’ho regalato io. Non sarei mai stato in grado di riconoscerlo, ma tu… non tu. Tu l’hai sentito e l’hai detto ad alta voce.”
Sherlock è stordito da quella rivelazione: normalmente avrebbe affrontato John e lo avrebbe convinto anche di qualcosa di impossibile se solo avesse voluto. Ma ora è debole e il suo cervello anestetizzato non gli è di alcun aiuto “John...”
John gli appoggia il pollice sulle labbra e gli sussurra uno Shuuush dolce e prolungato prima di tornare a parlare “Ed è un’incredibile coincidenza che chi ti ha attaccato portasse sulla propria pelle proprio quel profumo.”
Sherlock arrossisce perché nulla può nascondere il monitor al quale è attaccato e che mostra la sua frequenza cardiaca in accellerazione. Chiude gli occhi e cerca di non concentrarsi sulla bellissima sensazione tattile che una zona erogena e percettiva come le labbra sta provando a causa di quel semplice polpastrello “Non per i motivi che credi tu, però.” dice tutto d’un fiato, per puro spirito di contraddizione, e deglutisce all’idea di aver praticamente baciato un pezzo di John. Un piccolo pezzetto del suo John e dell’enorme quantità di sentimenti che porta con sé. Poi riflette e conclude che, forse, John pensa a quell’attacco di Mary nei suoi confronti come a qualcosa di personale, un qualcosa che in qualche modo riguardi il loro bizzarro rapporto a tre e decreta che, in fondo, le sue parole non erano state del tutto casuali “Suppongo.”
“Non mi importa il motivo, Sherlock.” dice John, infatti, avvicinandosi col viso a quello di Sherlock, pur mantenendo il proprio pollice come confine, come zona sicura, come ultimo briciolo di un qualcosa che, a conti fatti, non ha più senso preservare “Ho rischiato di perderti. Di nuovo.”
“John.” è il rantolo di Sherlock che si accorge di spingersi contro il pollice di John troppo tardi per poterlo impedire.
“Non farò più lo stesso errore.” John si lecca le labbra in un gesto istintivo che non riesce proprio a nascondere. Così come non riesce a fermare il pollice che slitta dalle labbra carnose di Sherlock lasciando il posto alle proprie, più sottili ma non meno consistenti. Labbra che si appoggiano in una carezza leggerissima che indugia poco più di tre secondi prima che John si allontani nuovamente.
Sherlock fa per seguire le labbra di John, ma i muscoli addominali protestano ed è costretto a riappoggiarsi sul cuscino, accompagnato dalle braccia dello stesso ex medico militare. Mugola appena, ma riapre subito gli occhi per poter sorridere a John anche con quelli “Tornerai a vivere a Baker Street?”
John gli sorride a sua volta dopo aver dato un’occhiata ai valori scritti sul monitor “Certo. Ma prima voglio smascherarla.”
“In verità…” mugola Sherlock “Potremmo fingere che tu non sappia nulla.”
“Cosa?” domanda John mentre rimbocca le coperte a Sherlock: sa quanto si possa sentire freddo dopo un’anestesia totale e quegli idioti non gli hanno neanche messo addosso un camice.
“Voleva uccidere anche Magnussen e voglio capire perché.” rivela Sherlock e sorride di fronte all’espressione stupita di John “Fingerai di non sapere nulla. Poi io la smaschererò e tu vorrai lasciarla, ma a quel punto io ti dirò che devi fidarti di lei e che, anzi, mi ha salvato la vita.” prende la mano di John nella propria e la stringe debolmente eppur con sentimento “Tu ti prenderai comunque, plausibilmente, un periodo di pausa durante il quale tornerai a Baker Street e poi fingerai di tornare con lei.”
John ascolta attentamente -lo fa sempre quando Sherlock parla- ma non capisce comunque dove l’altro voglia andare a parare “Tutto questo per che motivo?”
“Devo capire cosa c’entra Magnussen in tutto questo, John.” il suo sguardo si accende e, di riflesso, la stretta alla mano di John si intensifica “Devo capire se quell’uomo ha anche qualcosa che possa usare contro di te. E se è veramente così, dobbiamo smascherarlo.”
“Quindi dovrò fingere di amarla?” è il sospiro prolungato di John.
“Ancora per poco.” è, invece, la rassicurazione di Sherlock.
John non resiste e sorride nuovamente “Mi spiegherai tutto?”
“Solo quando la smaschererò.” ammicca Sherlock, divertito “Così anche tue reazioni sembreranno più vere.”
“Sei geniale come al solito.” è la ricompensa verbale che John gli dona, per poi chinarsi e dargliene un’altra sotto la forma di una piccola carezza a fior di labbra. Carezza che viene interrotta dalla suoneria del cellulare di John che annuncia con un SMS che Mary è arrivata in ospedale e che sta salendo in camera da Sherlock.
Sherlock mugola e gli sospira addosso tutta la sua malcelata aspettativa circa la loro futura convivenza a Baker Street “Valle incontro. Abbracciala perché sei felice che io sono ancora vivo. E fai pure in modo che venga da me, da sola. Non può più farmi nulla, ora.”
John sospira, ma alla fine annuisce: sa bene che Mary non oserebbe fargli nulla in un posto come quello. Lo bacia un’ultima, velocissima volta, quindi si avvia verso l’uscita della stanza “Passerò più tardi.”
Sherlock annuisce perché è certo che John lo farà. Ora hanno un piano. Ora hanno un futuro insieme. E Mary è all’oscuro di tutto.
Che il gioco abbia inizio.
 
 

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Capitolo 7
*** Paint your life with the color of your dreams ***



 
Sherlock le aveva passate proprio tutte.
Un’infanzia solitaria, la morte del suo adorato RedBeard, la partenza di Mycroft per il college.
Quindi un’adolescenza difficile, risse e insulti. La cocaina.
Poi c’erano stati i casi a risollevarlo un poco, così come l’arrivo di John. Ma cosa c’è di peggio nell’avere finalmente qualcosa di veramente importante se poi si finisce col perderlo?
Sì, perché poi c’erano stati Moriarty, gli anni lontani da Londra ed un lentissimo riavvicinamento con John risoltosi col suo matrimonio.
Matrimonio. Il matrimonio con Mary, l’ennesimo problema. A cui era collegato Magnussen, poi il tradimento di Mary e il difficile perdono di John.
Dunque l’omicidio di Magnussen e, come se non tutto ciò non fosse bastato, l’emulatore di Moriarty.
E ultima, ma non per ordine di importanza, la nascita di Joy che lo aveva ancora una volta diviso da John.
Un John che era ancora rotto dentro per il tradimento di Mary, ma che tentava di tenere uniti i cocci per amore di Joy.
John. Che forse lo amava a sua volta, ma non si poteva dire ad alta voce.
E Sherlock, sempre più in disparte, sempre più perduto, che riesce a mantenere le apparenze nel mondo esterno, ma a casa… a casa è un incubo.
Così cerca sempre nuovi hobby per ingannare lo spazio ed il tempo che deve vivere senza John all’interno del 221B. Sia passatempi di cui possegga un reale talento come la musica, che quelli in cui è totalmente negato come la pittura.
Ha scoperto che la pittura è qualcosa di contemplativo che lo aiuta ad insonorizzare le pareti della casa e ad immergerlo in un mondo nuovo che ha il piacere di esplorare. Soprattutto se viene aiutato da una soluzione al sette percento di cocaina.
Sono giorni, ormai, infatti, che si chiude della stanza di John, che ha coperto con enormi teloni bianchi, e pasticcia una tela con colori caldi. E quando è inebriato da quell’alcaloide in forma liquida non usa più i pennelli, preferendo percepire la consistenza densa e viscosa della pittura non diluita sui polpastrelli, giocando con la tela, disegnando ciò che nella sua mente è chiaro come una fotografia, ma che sulla tela si traduce sotto forme di sinuose curve colorate.
Usa colori caldi per disegnare le dune del deserto afghano e impiega un giallo pallido per disegnare John che, però, non è impegnato in una guerra faticosa e dolorosa, bensì si impegna a sorridergli e a rircordargli le loro avventure passate assieme.
Una volta arriva a pasticciare la tela per tre giorni di fila senza mangiare, bere e dormire, aiutato dalla cocaina e dalle allucinazioni in quel sogno senza fine che lo spinge a sorridere a quel John che è sempre più vivido all’interno della tela. Così vivido che a Sherlock sembra di vederlo uscire da quel cencio così pitturato che è spesso almeno mezzo centimetro. E si allunga, Sherlock, verso quel John che esce dal suo personalissimo quadro e gli va incontro per baciarlo.
Ed è così fulgida la sensazione di quel tocco sul viso e sulle braccia, che Sherlock non si accorge che, nel mondo reale, John, il vero John, è entrato in camera sua e lo sta staccando dalla tela.
“Sherlock. Gesù, Sherlock, come sei ridotto…”
Sherlock che, sporco di tempera anche sul viso e, molto probabilmente anche dentro la bocca, impiastriccia il viso e i vestiti del vero John nel momento in cui gli sviene addosso.
A quel punto tutto è buio. Non ci sono più la tela e i colori caldi del deserto. Non ci sono più i chiaroscuri, le luci e le ombre.
C’è solo la voce di John che lo chiama da lontano e a cui non riesce a rispondere.
 
 
 
Sherlock viene svegliato da un brivido di freddo e impiega qualche istante a capire la logistica della sua attuale collocazione nello spazio e nel tempo.
Apre bene gli occhi e, dopo aver messo a fuoco ciò che ha di fronte a sé, tossisce le poche gocce d’acqua che gli sono entrate in bocca. Ma è proprio l’acqua ad avergli permesso di riacquistare la lucidità necessaria per capire di essere dentro la vasca da bagno: l’acqua è aperta ed arriva dal telefono della doccia il cui lungo tubo è stato fissato in alto. Ha addosso i vestiti che ora, oltre ad essere sporchi di vernice, sono anche bagnati ed appiccicati alla propria pelle.
Abbassa lo sguardo ed oltre a vedere i colori a tempera colorare ciò che rimane del fondo della vasca, trova un altro paio di braccia giacere sulle proprie gambe, per poi muoversi, alzarsi e cercare di ripulirlo.
“John?”
L’altro paio di braccia si ferma di scatto, per poi posarsi sul torace ed accompagnarlo leggermente in avanti.
“Sherlock.”
Sherlock ruota il capo appoggiato alla spalla buona di John e sorride debolmente al dottore.
“John. Sei uscito dal quadro.”
John approfitta dei movimenti di Sherlock per pulirgli il viso: non usa la spugna, preferendo accarezzargli con i palmi delle mani le guance, il mento, il naso, la fronte e le labbra. Si sofferma su quest’ultime, facendo slittare l’ultima falange di indice e medio dentro la bocca di Sherlock.
“Sì. Sono uscito dal quadro” mente John, perché non sa ancora come chiedere scusa a Sherlock per tutto ciò che gli ha fatto e perché vuole vedere e sentire ciò che l’altro stava facendo con quella tela pensando che fosse lui.
Sherlock sorride di grazia e autentica gioia, quindi si gira, seppur a fatica, con tutto il corpo facendolo aderire a quello di John: gli prende il volto tra le mani e lo studia mentre l’altro lo guarda.
John lo guarda, vede quel sorriso così semplice e al tempo stesso pieno di aspettative e gli si stringe il cuore. Così gli va incontro, inconsapevole di aver fatto lo stesso anche nella tela, nella fantasia di Sherlock, e appoggia le labbra su quelle di lui, saggiando il suo sapore e un vago sentore di tempera, gustando il suo amore e la sua devozione, leccando via la tristezza e la malinconia che si sono impossessati di lui.
Sherlock mugola e stringe le braccia attorno al collo di John così forte che i vestiti appiccicatisi addosso dall’acqua iniziano a tirare. Lo stringe come se ne andasse della loro stessa vita, nella speranza che un potere superiore al quale neanche crede possa imprigionare quel momento in una tela che li unisca per sempre.
“Ti amo, John.”
Al che John si ferma di colpo. Non che non lo sapesse, certo, ma sentirlo dire ad alta voce è tutta un’altra cosa. Si ferma e prende nuovamente le guance di Sherlock tra le mani, osservandolo a fondo.
“Ti amo anche io, Sherlock” confessa ed è un giuramento così forte da poter essere percepito fisicamente “Ti amo più della mia stessa vita.”
“Lo so” sorride Sherlock “Finalmente me lo hai detto.”
Ma lo sguardo annebbiato che ha di fronte, suggerisce a John che Sherlock non sia ancora lucido del tutto. Quindi gli scosta i capelli da viso e aspetta che lo metta a fuoco al meglio, che le pupille non siano più dilatate come prima.
“Sherlock sono io. Sono il vero John, non quello del quadro.”
Sherlock apre e chiude gli occhi rapidamente, segno che abbia effettivamente messo a fuoco il viso di John. Si guarda attorno e finalmente capisce sul serio di essere nella vera vasca del suo vero bagno assieme al vero John. E va in panico, vorrebbe scappare dalla vasca, ma John lo tiene.
John lo tiene perché ha deciso che non vuole più lasciarlo andare. Che il motivo sia serio o banale, non vuole più permettere a se stesso di lasciarsi scappare Sherlock.
“Sherlock, ti prego. Perdonami” e lo ripete all’inifinito, stringendolo e nascondendo il viso nel collo dell’altro.
Sherlock spalanca gli occhi e non può davvero resistere a John. Lo stringe a sé e non ha bisogno di rispondergli a voce, decretando con un lungo bacio che sì, lo avrebbe perdonato. Perché lui non può fare a meno di John, perché aspettava quel momento da anni, perché la sua vita, ora, avrebbe riacquistato nuovamente un senso.
Si alzano a fatica appesantiti dall’acqua, ma alla fine riescono a spogliarsi e a ripulirsi completamente dai colori caldi che si confondevano con la pelle di John e che, invece, risaltavano su quella più chiara di Sherlock. E dopo essersi avvolti in due coperte di lana, si siedono per terra davanti al fuoco, accompagnati da alcuni cuscini e da due tazze di tea fumante.
John spiega a Sherlock che le cose con Mary vanno male da molto tempo ormai e che il divorzio è ormai l’ultima formalità da compiere. Poi gli racconta di Joy, di volerla con sé, di volerla strappare a Mary prima che la porti via con sé in qualche angolo sperduto del mondo.
“Se per te è un problema, vivremo in due case separate.”
“Non dire sciocchezze, vi voglio entrambi qui.”
John sorride alla risposta di Sherlock e si muove verso di lui. Prova a spingerlo per terra e, quando ci riesce, si sdraia sopra di lui. Quando lo sente ridacchiare, non resiste all’impulso di baciarlo sulle labbra.
“Possiamo fare l’amore?”
Sherlock sorride a quella domanda e si domanda se davvero necessiti di una risposta.
“John Watson, sei serio? Me lo stai chiedendo veramente?”
“Perché? Non vuoi?”
“Non credevo si dovesse chiedere il permesso se entrambi le parti sono consenzienti. Ed è ovvio che io lo sia. Proprio come te.”
“Beh… almeno la prima volta si dovrebbe chiedere. Penso.”
Sherlock non riesce a smettere di sorridere. Non lo ha mai fatto così tanto in vita sua.
“Insegnami a fare l’amore, ti prego.”
Nel dirlo, Sherlock libera i lembi di coperta che ancora tiene tra le dita e fa scendere quella che copre John oltre le sue spalle, la sua schiena, le sue natiche che poi afferra gentilmente ed inizia a massaggiare.
John si solleva da Sherlock il tanto che basta per liberare entrambi da ciò che rimane di quelle calde coltri di lana ed osserva il corpo nudo dell’altro con eccitazione mista a dolcezza e curiosità. È inevitabilmente eccitato di fronte alla perfezione di quel corpo marmoreo che toglie il primato alle statue classiche solo perché quel corpo, effettivamente, è vero, di carne e ossa, caldo e reattivo sotto le sue mani e le sue labbra. E non può non spingersi già contro di lui in cerca di una frizione che è quasi dolorosa da quanto è stata attesa e bramata in tutti quegli anni di stupida negazione.
Le mani di Sherlock risalgono lentamente sulla schiena di John, poi sulle spalle e infine sulla nuca che spinge contro il proprio viso in cerca di un altro bacio, questa volta più affamato e frenetico che si interrompe a tratti, a tempo col proprio respiro che è reso più pesante dall’eccitazione. E divarica istintivamente le gambe per chiuderle attorno ai fianchi di John alla ricerca di ulteriore frizione, di maggiore contatto tra le loro pelle che, tornate asciutte da pochi minuti, si inumidiscono nuovamente, questa volta di sudore e di umori e si mischiano tra loro creando la fragranza perfetta.
John insinua una mano tra i loro ventri ed afferra le due erezioni attorno alle quali si muove velocemente, a ritmo coi respiri e coi gemiti che si fanno sempre più frequenti e concitati. Apre gli occhi per osservare il viso di Sherlock, quella magnifica bocca a forma di cuore che è aperta alla disperata ricerca di aria e che copre con la propria, incapace di resistere a quel richiamo.
Sherlock trova quell’ulteriore sottrazione di ossigeno ancor più eccitante e si impone di trattenere il fiato ancora un poco, il tanto che basta per raggiungere assieme a John un orgasmo atteso da così tanto tempo che non sembra credere che sia reale. E per un attimo lo dubita sul serio, almeno finché non sente John crollargli addosso e ribadirgli nuovamente che lo ama, che lo farà per sempre e che non permetterà più a nessuno di dividerli. Allora riapre gli occhi e rilassa i muscoli tesi, circondando la testa di John con entrambe le braccia.
“Non ti sarà più permesso andartene via, John.”
“Non voglio farlo.”
Sherlock non permette a John neanche di smontare da sopra di lui, ma gli concede di coprirsi la schiena con una delle coperte abbandonate a lato.
“Sei meglio del John dentro al quadro.”
“Sono un po’ geloso di quel quadro. Quando sono entrato nella stanza lo stavi baciando.”
“Sei geloso anche ora che sai che dentro al quadro c’eri tu?”
“Sì.”
Sherlock ride e dopo essere riuscito a fuggire dalla presa di John, sale in camera a recuperare la tela impiastricciata in precedenza. Si siede accanto a John ed ora che la osserva con lucidità può notare un enorme miscuglio di colori e curve senza senso, ben lunghi dal raffigurare anche solo lontanamente il volto di John.
“Dovevi essere tu. In Afghanistan.”
John ride leggermente.
“Beh, i colori ci sono. Ma io sono decisamente più bello.”
Sherlock si unisce alla risata e pian piano inizia a smontale il cencio dal telaio di legno sulla quale è fissata e, una volta concluso il lavoro, butta la stoffa nel fuoco e lo scheletro della tela in un angolo a caso del salotto.
“Così non avrai più alcun motivo di essere geloso di un John che non esiste.”
John lo afferra per il busto con lo scopo di farlo sdraiare nuovamente accanto a sé.
“Non userai mai più alcun tipo di droga. Non con Joy in casa. E inoltre non avrai più motivo per farlo.”
Sherlock annuisce e si lascia catturare dall’abbraccio di John.
“La camera di sopra sarebbe perfetta per Joy.”
“La dipingerai tu. Ma nessuno sfondo afghano, per favore.”
“Accetto suggerimenti.”
“I tuoi sogni che colori hanno?”
Sherlock osserva John e sorride prima di baciargli le labbra.
“C’è il blu di un cielo che, dopo aver visto mille tempeste, è tornato limpido. C’è il colore del grano in primavera, ancora acerbo, non completamente dorato…”
John allarga le labbra in un sorriso mentre ascolta la descrizione dei diversi colori che Sherlock gli decifra addosso e si lascia cullare dal calore del fuoco che, alle sue spalle, brucia e diffonde un odore acrilico, artificiale, fittizio, così lontano da ciò di reale che si è finalmente concretizzato tra lui e Sherlock.
“E in tutto questo” chiede dunque “C’è posto per il nero corvino di una magnifica creatura del colore del marmo posata in mezzo a questo famigerato campo di grano?”
“In un sogno c’è posto per tutto ciò che si vuole.”
“Io voglio che ci sia.”
La statua di marmo dai capelli corvini sorride, nel mondo reale, e si china per intingere le labbra sulla dolce e quanto mai vivida distesa di grano per saggiarne il sapore ancora una volta.
“Come desideri.”
 

 

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Capitolo 8
*** Flash Back - Present Day - Flash Forward ***


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Present Day
 
Sherlock riceve un SMS e prima di aprirlo non sa ancora che quel breve messaggio di testo era quello che aspettava da ormai parecchi mesi e che sospettava di voler leggere da anni.
Infatti, quando sblocca lo schermo dello smartphone, spalanca gli occhi e rimane per qualche istante interdetto, finché gli angoli della bocca non si inarcano imbarazzati ma quanto mai felici. Accarezza lo schermo col pollice prima di posare il cellulare sul tavolo e la sua vestaglia svolazza in cucina accompagnata da un mugolio che esce dal suo petto e che ha tutta l’aria di essere presa dal Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.
Svolazza qua e là e prende due tazze dalla credenza, ma non quelle del servizio buono, anzi. Prende le due vecchie a righe, sbeccate entrambe da almeno un lato. E per qualche istante copre la musica che sta cantando, tutto intento a spostare alcuni mobili della casa.
Poi recupera il violino, si ferma al centro del salotto e si drizza sulle punte dei piedi come un direttore d’orchestra. Un inchino e il mugolio che cantava prima diviene musica.
Sherlock sorride mentre suona perché non ne può fare a meno. E quando lo sguardo gli cade sulle due tazze che ha sistemato sul tavolo del salotto, viene investito dai ricordi.
 
Flash Back
 
Lui e John erano tornati a convivere al 221B di Baker Street in quei mesi in cui il dottore e Mary si erano momentaneamente separati. E, prevedibilmente, nonostante la vicinanza di Sherlock fosse un balsamo curativo per lui, John era alquanto nervoso e pensieroso in quel periodo in cui avrebbe nuovamente dovuto prendere decisioni importantissime. E dire che sperava di quietare per un po' di tempo.
Tuttavia, nonostante Sherlock non potesse fare nulla per impedire a John di riflettere sulle scelte che sarebbe stato opportuno prendere,  non poteva invece esimersi dal tentare in tutti i modi di rimanergli vicino e cercare di fargli vivere in serenità almeno la loro amicizia.
Ed era chiaro che per John contassero maggiormente anche i più piccoli gesti di Sherlock piuttosto che gli innumerevoli SMS di scuse da parte di Mary.
 
Una notte capitò che non volesse in alcun modo smettere di piovere e, anzi, il tempo si arrabbiò a tal punto da iniziare a rimbombare un'infinita sequenza di tuoni e lampi che finirono col far agitare il già pensieroso John.
Fu per questo che John decise di rintanarsi nel punto più buio della casa, un posto dove non c’erano finestre e che poteva farlo fuggire almeno dal bagliore dei lampi: le rampe delle scale e, nello specifico, la seconda rampa, quella più vicina all’appartamento. Aveva la schiena appoggiata al muro e, mentre una delle due gambe era distesa lungo lo scalino, l’altra era piegata e la pianta del piede poggiava sul gradino sottostante. Sospirò, dunque, all’ennesima sequenza di tuoni il primo dei quali lo fece trasalire tanto era prorompente ed impetuoso. Se solo si fosse fatto un bel tea caldo prima di rintanarsi lì…
Non fece in tempo a pensarlo che sentì la porta dell’appartamento aprirsi e quando si voltò vide che Sherlock portava con sé due tazze fumanti ed una coperta di lana. Nonché il suo sorriso, che da qualche tempo a quella parte si era addolcito parecchio in sua presenza.
John, che davvero non riusciva a capire perché gli altri non riuscissero a vedere tutto ciò che di buono c’era in Sherlock. Certo, il consulente investigativo ci metteva del suo, comportandosi come un’autentica spina nel fianco in presenza delle altre persone, ma se John aveva avuto la pazienza e la curiosità di vedere cosa c’era sotto quella maschera di supponenza, perché non avrebbero potuto farlo anche gli altri? John lo non capiva davvero. Non lo capiva perché stava osservando Sherlock che, estremamente maldestro quando si trattava di prendersi cura di lui gentilmente, si mordeva le labbra per impegnarsi a non far cadere neanche una goccia di tea per terra, cercando di non pestare John e trattenendo la coperta sotto l’ascella per non fargliela franare addosso e… era semplicemente la cosa più dolce che avesse mai visto. Quindi no, non capiva chi lo additava a mostro, no sul serio.
“Vuoi una mano?” chiese John e, a costo di bruciarsi un poco, gli prese le tazze dalle mani per appoggiarle rapidamente sullo scalino di sopra “Ecco, così dovresti farcela.”
Sherlock annuì e finì con l’abbracciare la coperta al torace mentre cercava di valutare in quale gradino fosse più opportuno sedersi.
John lo aiutò abbracciando a sua volta il ginocchio sinistro al petto, invitandolo a sedersi di fronte a sé.
“Ma così…” soppesò Sherlock “…staremo stretti.”
John sorrise divertito dall’imbarazzo di Sherlock “Il punto non è provare a confortarmi?”
Sherlock inarcò un sopracciglio “Stare stretti è scomodo” spalancò poi occhi e bocca, provando a recuperare l’occasione che andava via via sfumandosi “O forse è anche… confortante?”
Il sorriso di John illuminò le scale buie “Più di quanto tu possa immaginare.”
Complice l’imbarazzo di Sherlock, impiegarono più di qualche istante per riuscire ad incastrarsi uno di fronte all’altro su quel gradino, ma alla fine ci riuscirono: era bastato abbassare un poco il baricentro, poi mettere la gamba destra di John a cavallo della sinistra di Sherlock e stringere l’altra sotto il proprio sedere. E Sherlock avrebbe solo dovuto incastrare la destra tra il fianco di John e lo scalino più alto. Sì, tutto sommato stringersi poteva essere decisamente confortante.
Una volta sistemati, bevvero il tea e si rilassarono parlando di vecchi casi, i più divertenti, come quello in cui si scoprì che il famigerato Mister Whiskas della cui scomparsa si lamentava la cara vecchia signora Haley si era infine scoperto un gatto, oppure di quella volta che erano caduti nel Tamigi per scansarsi dall’auto di un sospettato in fuga ed era bastato nominare la parola ammaccabanane(1) per farli ridere come matti.
Quando la risata scemò del tutto, John posò la tazza due scalini più in alto ed osservò Sherlock: il volto si era trasformato divenendo serio e leggermente preoccupato “Non so cosa fare.”
Sherlock deglutì e lo imitò, liberando entrambe le mani e poggiandole in grembo “Hai ancora tempo per decidere.”
“Non so se saprò cosa fare a tempo ultimato” ed era ovvio nella mente di John che la scadenza era la nascita di sua figlia.
“John io…” iniziò Sherlock “…sono l’ultima persona qualificata per consigliare su questioni prettamente… umane.”
Il viso serio di John si infranse in un nuovo sorriso “Non è vero. In questi mesi, ad esempio, mi sei stato di grandissimo aiuto. Ed anche questa è una questione prettamente umana.”
Sherlock scosse il capo “È diverso. Si trattava di te.”
John non avrebbe saputo dire se Sherlock l’avesse detto apposta o se gli fosse scappato, ma di una cosa era sicuro: ero ciò che avrebbe voluto sentire in quel momento. I movimenti che ne seguirono furono impacciati per la posizione in cui si trovava, ma indubbi per quanto riguardava la sicurezza decisionale. Movimenti che si tradussero in braccia sbilanciate in avanti, verso Sherlock, verso il suo torace sul quale John riuscì a franare con i palmi aperti.
Sherlock alzò le mani a sua volta, seppur con il chiaro intento di attutire quella che pensava fosse una caduta fortuita, ma dovette ricredersi quando sentì John arrampicarglisi addosso fino ad allacciargli le braccia attorno al collo in cerca di un abbraccio “J-John…?”
“Shush…” lo invitò John, sistemandosi meglio con le gambe.
Sherlock rimase totalmente immobile e fece silenzio come John gli aveva chiesto.
“Sherlock?”
“Sì, John?”
“Potresti abbracciarmi, per favore?”
John poté sentire Sherlock deglutire pesantemente direttamente dal collo sul quale aveva poggiato il viso e sorrise di nascosto. Poi Sherlock alzò lentamente le braccia e le posò delicatamente sulla schiena di John in una sorta di abbraccio abbozzato.
“Più forte” lo esortò John “sempre che tu voglia.”
“Lo voglio” confermò Sherlock a parole, per poi provarlo anche coi fatti: inspirò a lungo e si impose di calmarsi, di rilassare le spalle e le braccia che finalmente riuscì a stringere attorno alla schiena di John.
Rimasero silenti ed immobili per minuti che sembrarono piacevolmente interminabili. Poi un tuono fece trasalire John e allora Sherlock lo strinse ulteriormente, arrivando addirittura a poggiargli la guancia destra sul capo, massaggiandogli schiena e spalle ed intonando una leggera nenia per farlo rilassare.
Quando il battito cardiaco di John riprese il proprio normale ritmo, ruotò leggermente in quella stretta in modo da riuscire a baciare la guancia di Sherlock e strusciarvi sopra l’attaccatura tra fronte e naso “Grazie.”
Sherlock valutò che non ci fosse alcun bisogno di rispondere a voce, quindi rimase lì, stretto al suo John, appuntandosi mentalmente che quell’esperienza degli abbracci andava ripetuta certamente. Ancora e ancora.
 
Present Day
 
Sherlock agita l’archetto sul violino ad un ritmo frenetico e balla ad occhi chiusi evitando accuratamente ogni mobile dimostrando come abbia effettivamente mappato mentalmente ogni centimetro di quell’appartamento.
Balla e mugola, finché non si ferma davanti alla finestra che si affaccia verso Baker Street.
 
Flash Back
 
Alla fine John decise di tornare a vivere con Mary.
Non perché fosse sicuro dei suoi sentimenti per lei, anzi. Ma non trovava giusto che una bambina che non era ancora nata -sua figlia- pagasse per gli errori dei suoi genitori.
Ma questo non voleva dire che John fosse sereno. Tutt’altro.
Si sfogava quando poteva con Sherlock: stando da lui per qualche ora, aiutandolo con qualche caso non troppo pericoloso, chiamandolo per intere mezzore. E dire che prima di quell’occasione detestava parlare al telefono. Ma con Sherlock era diverso. Era sempre tutto diverso con lui. Così a volte andava fuori dalla porta di casa, si sedeva su quei due scalini che dividevano il suo appartamento dall’asfalto -dal mondo- e chiamava Sherlock.
 
“John.”
“Sherlock” sospirò John, nuovamente in pace col mondo “ti disturbo?”
“Mai, John. Tu non mi disturbi mai.”
John sorrise rincuorato e rinvigorito da una nuova forza “Cosa stavi facendo?”
“Esperimenti con la nicotina.”
“Cioè stavi fumando?”
Sherlock sospirò “Mi stavo annoiando proprio tanto.”
“Lo hai detto col tono di un bambino che è appena stato beccato a rubare i biscotti.”
Sherlock rise leggermente “A proposito, come sta Joy?”
“Bene. Sono appena riuscito a farla addormentare.”
“Mary non ci riesce ancora?”
“Raramente. E dire che i bambini dovrebbero rilassarsi anche solo sentendo l’odore della madre.”
“I bambini, soprattutto così piccoli, sono molto empatici. Joy sente la sua tensione e, di rimando, si agita a sua volta.”
John tirò un lungo sospiro “Non che io non sia teso, francamente.”
“Evidentemente riesci a non esserlo nel momento in cui ti prendi cura di lei.”
“Evidentemente” concordò John per poi sputare fuori il motivo di quella chiamata “Qui la situazione è un inferno, Sherlock. Io… non so cosa sia la felicità quando sono qui. E dire che ho una splendida bambina ora. Ho sempre desiderato diventare padre e speravo che con Joy le cose si sarebbero sistemate, ma…” si interruppe, sopraffatto dalle sue stesse emozioni.
“John…” si rammaricò Sherlock che, dall’altro capo del telefono, iniziò a trafficare qualcosa, a giudicare dai rumori che provenivano dalla sua parte della comunicazione “Vuoi che venga a trovarvi? Troverò…”
“Sì” fu l’immediata risposta di John.
 “…una scusa che non ti faccia litigare con Mary, dopo che io me ne sarò andato…”
“Sì.”
“…perché non voglio causarti ulteriori problemi…”
“Sì, Sherlock, ti prego.”
Sherlock si fermò un istante, poi riprese sia a parlare che a prepararsi per uscire “Dirò che sono venuto a trovare Joy.”
John tirò su col naso “Tu adori Joy.”
“E adoro il suo splendido padre.”
“E faresti tutto per noi” osò John, asciugandosi gli angoli degli occhi.
“E farei tutto per voi” confermò Sherlock “Anche…”
“Anche prenderti cura di noi…” il tono di John era vagamente interrogativo a quel punto, nonché sussurrato.
A Sherlock si fermò il cuore, così come tutto il resto del mondo attorno a sé “Dio, John…” inspirò lentamente perché in quel momento trovò difficile anche respirare “…certo che lo farei.”
John annuì e si asciugò il naso umido con il dorso della mancina “Certo che lo faresti. Certo.”
Anche Sherlock, inconsciamente, annuì sebbene John non potesse vederlo “Certo” quindi sbatté la porta del 221B di Baker Street dietro di sé “Arrivo.”
 
Present Day
 
Sherlock riapre gli occhi quando sente un’automobile fermarsi davanti al portone e sorride maggiormente.
Si volta e non smette ancora di suonare: avanza leggermente e da un’occhiata al proprio cellulare sul cui schermo è ancora presente l’SMS che gli è arrivato poco più di mezzora prima.
 
È finita. Stiamo per arrivare a casa.
Ti amiamo.
J&J
 
Flash Forward
 
“Papo non voglio, perché mi costringi?!” Joy, una timida bambina di tre anni, fa di tutto per nascondersi dietro le gambe di John che, invece, vorrebbe che la figlia andasse incontro alla maestra dell’asilo che la saluta con un gentilissimo sorriso da almeno cinque metri di distanza.
“Amore, non è che ti voglia costringere…” sospira John che, chinandosi, prova ad acciuffare la bambina che, d’altro canto, scatta in direzione di Sherlock.
Sherlock è già chino a braccia aperte per accogliere la piccola Joy che è terribilmente vicina a piangere come una fontana e che si aggrappa al collo del consulente investigativo come se ne andasse della sua stessa vita. E Sherlock non può fare altro che stringerla e consolarla amabilmente “Joy, tesoro, hai ragione, non possiamo costringerti.”
“Sherlock!” lo riprende John, quindi si avvicina ad entrambi, accarezzando la schiena della figlia con amore e pazienza “Joy, io lo so che può spaventare l’idea di stare senza i tuoi papà per qualche ora, ma sono convinto che appena farai amicizia con qualche bambina e qualche bambino sarai felicissima di giocare con loro. Al parco ti diverti sempre con gli altri bambini.”
“Ma perché ci siete voi lì vicino! Io voglio stare con te e con papi!” è il pianto disperato di Joy che nasconde il viso nel collo di Sherlock e non dà la minima impressione di volerlo lasciare andare.
Sherlock fa spallucce all’occhiataccia di John e, anzi, si schiera totalmente con quella che è diventata la sua adorata bambina “John. Direi che per oggi è inutile tentare. Joy si è innervosita troppo e sarà un trauma lasciarla andare ora” spiega con una pazienza che reputa fin troppa “Ci riproveremo domani.”
“Domani sarà la stessa storia” John scuote il capo, ma non osa alzare il tono di voce “Joy deve socializzare e deve imparare a stare lontana da noi per qualche ora.”
La reazione di Joy, tuttavia, è da autentica principessa del dramma “Papi hai sentito?! Papo non mi vuole!”
Sherlock sospira consapevole che se la figlia ha iniziato a reagire melodrammaticamente è anche in parte colpa sua e, dopo aver lanciato l’ennesima occhiataccia a John, bacia la fronte di Joy e le parla con un sorriso dolce e premuroso “Certo che ti vuole, Joy. Ma a volte è un pochino ottuso, te l’ho già spiegato” ride per la risata di Joy e per l’espressione impermalosita di John “Mi prometti che se domani torneremo qui e staremo un po’ con te prima di lasciarti con gli altri bambini, proverai a socializzare un poco?”
Joy annuisce a Sherlock ed è sincera nel farlo: da sempre più retta a lui e John non riesce a spiegarsene il motivo “Sì, papi.”
John si arrende e Sherlock annuisce soddisfatto “Molto bene, Joy. Ora che ne dici di andare un po’ con papo mentre io avviso la maestra?” la vede annuire, quindi la consegna tra le braccia di John che, nonostante il capriccio, le bacia la fronte e le asciuga le lacrime con i pollici. Sherlock, se potesse, volerebbe a qualche centimetro da terra, ma si limita a sorridere ad entrambi “Poi andiamo a disturbare un po’ zio Mycroft, a colorare le sue carte e le sue camicie, va bene?”
Joy esulta e si aggrappa al collo di John che, prima che Sherlock si allontani, riesce a fermarlo per una mano e a trascinarlo verso il basso, verso il proprio viso per baciargli le labbra. Perché due anni prima gli ha salvato la vita per l’ennesima volta, perché lo ha reso nuovamente felice, perché è un ottimo padre per la sua Joy e perché, semplicemente, ora può farlo.
Sherlock arrossisce perché anche se lui e John stanno effettivamente assieme da poco meno di due anni, non può ancora credere all’enorme fortuna che gli è capitata. Tossisce, infatti, per riprendersi e per andare ad informare la maestra che per quel giorno Joy starà con loro. E quando torna indietro per ricongiungersi con la sua famiglia e vede Joy corrergli incontro per fiondarglisi di nuovo in braccio, capisce che il suono della felicità è quello delle loro risate unite assieme, inseparabilmente.
 
Present Day
 
Sherlock allontana lo sguardo dallo schermo e smette di suonare quando sente i passi sulle scale ormai vicini. Ed è verso l’ingresso dell’appartamento che si volta e si incammina dopo aver lasciato il violino sul tavolo. Verso John, che gli sorride e che ha la piccola Joy in braccio, addormentata e quieta tra le braccia di suo papà.
John ha le mani occupate, quindi, quando Sherlock si avvicina, ruota appena la schiena e si appoggia lievemente sul suo torace: quando sente il braccio sinistro del consulente investigativo avvolgergli le spalle e la mano destra posarsi sulle sue, che tengono a loro volta Joy, sa di aver finalmente fatto la scelta giusta.
Sherlock stringe le spalle di John e si china, prima per baciargli la tempia, poi per accarezzare la fronte di Joy con quelle stesse labbra che, subito dopo, tornano sul viso di John, sulla sua guancia, perché non osa tentare di più. Perché non sa se lui e John staranno insieme sotto quel punto di vista, ma a lui basta anche solo averlo a casa, averlo per sé, anche solo platonicamente, e prendersi cura di lui e di ciò che più vicino a lui esiste ora al mondo: Joy. Non sa ancora come andrà, non sa se sarà eventualmente un buon compagno e un buon padre. Sa solo che ce la metterà tutta, e anche di più. Farà tutto il possibile e, se John glielo permetterà, farà in modo che anche ciò che pensava l’impossibile diventi realtà.
Per tutto ciò che tra di loro c’è stato in passato, per ciò che avranno in futuro, vivendo uno accanto all’altro giorno per giorno.





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(1)Omaggio a Scrubs, ovviamente u_u
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** Dal blu all'azzurro ***


***Dico solo: Ice Bucket Challenge di Benedict. Solo questo. *muore di morte* ***







“Cosa ho da perdere?”
Questa è la domanda con la quale John si desta da quel dormiveglia che è così sottile da essere infranto dal sussurro di Sherlock.
Sussurro partito incerto, un salto nel buio, che a Sherlock va bene sia stato udito, ma che se John avesse ignorato per via del sonno sarebbe andato bene lo stesso.
“Sherlock?”
“Cosa ho da perdere, ormai?”
John, che da quando ha scoperto di Mary è tornato a vivere al 221B, si tira su fino a sedersi sul letto e sta per accendere l’abat jour quando la voce di Sherlock lo ferma.
“Non farlo.”
“Sherlock, non capisco.” John è davvero confuso a quel punto “Cosa succede? Non ti senti bene?”
Ma Sherlock evita di rispondergli e torna al tema iniziale di quel paradossale dialogo.
“Non ho più niente da perdere. Ti ho già perso quando te ne sei andato da qui. Da quando ti sei messo quel cerchietto d’oro al dito.”
Oh. John realizza finalmente dove Sherlock voglia andare a parare.
“Non mi hai perso e la conferma è...”
“Hai ragione.”
“...ce l’ho?”
“Non ti ho perso perché non ti ho mai avuto. Non come avrei sempre voluto.”
A dispetto del mutismo in cui John è caduto, Sherlock entra nella stanza buia e, evitando accuratamente i mobili come se conoscesse la stanza a memoria, si ferma davanti al letto e lentamente porta le mani sulla propria maglia.
“Sher…?” sospira John che pare finalmente aver processato le ultime parole dell’altro. Deglutisce a fatica e osserva la sagoma in piedi di fronte a sé iniziare a spogliarsi con movimenti lenti ed impacciati e trova così strano che una creatura come Sherlock sia agitata al punto da avere il respiro accelerato, così tanto accelerato da essere udibile nel buio della notte. Il suo respiro e il frusciare dei vestiti che cadono a terra incorniciano quel momento surreale che riprende dopo una piccolissima pausa.
Riprende esattamente nell’attimo in cui Sherlock si china e si arrampica sul letto trattenendo il respiro. E sempre senza fiato si sdraia, nudo nel fisico e nell’animo, sulla coperta sotto la quale John si ripara da tutto ciò che del mondo lo spaventa e dal quale vuole fuggire.
“Cosa ho da perdere, ormai.” ripete Sherlock come un mantra, forse per mantenere il coraggio che c’è voluto per compiere quel gesto.
John fa scivolare le mani calde da sotto le coperte e le appoggia sulla schiena fredda e tremante di Sherlock.
“Non hai nulla da perdere, Sherlock.” conferma John “Perché non è mia intenzione farti perdere qualcosa.”
E John sfila quella coperta, quell’armatura, che lo divide da Sherlock e abbraccia a piene mani colui che è al contempo la sua salvezza e ciò che vuole proteggere a sua volta.
Sherlock mugola e si irrigidisce, ma vedendo un via libera da parte di John, non riesce più a fermare un desiderio che, se prima della caduta era alquanto platonico e latente, da quando è tornato, dalla notte del falò, dall’addio al celibato, è cresciuto e divenuto anche carnale, insopportabile da celare e trattenere. Lui, che della fisicità non gli era mai importato molto, da quando ha potuto respirare l’odore di John non riesce a pensare ad altro che a baciare, leccare, succhiare la fonte di quella fragranza che ha scatenato quell’irrefrenabile desiderio.
“John.” sussurra Sherlock, gutturale, con la voce che, da bassa, diviene ancora più cupa e al tempo stesso rotta, soprattutto quando sente le mani di John scendere sulla sua spina dorsale per poi fermarsi sul fondo della schiena, poi sulle natiche. E stringere forte, fino a piantare le unghie nella carne.
John, che inizia a distinguere molto più della sagoma di Sherlock ora che si è abituato al buio, osserva a bocca aperta il viso dell’altro contorcersi in un’espressione di autentica benedizione sotto il suo tocco. Così ripete quel gesto, su, fino alla base collo, per poi scendere e tastare ogni disco della colonna vertebrale, e infine tornare su quel sedere perfetto che esplora ogni volta più a fondo, verso l’interno, senza però violarlo effettivamente. Ma ogni mugolio di Sherlock è una tortura, così è per un sollievo che dona ad entrambi che ferma il polpastrello dell’indice sul perineo e lo muove in piccoli cerchi, premendo sempre più, almeno finché non sente l’altro supplicarlo, indeciso se implorarlo di fermarsi o di andare avanti.
Alla fine John decide di fermarsi e Sherlock deve riprendere fiato prima di decidere di fare qualsiasi altra cosa e nel frattempo lo osserva con devozione mista a rabbia. Devozione, perché John, il suo John, lo sta toccando come se fosse la cosa più preziosa e proibita al mondo. Rabbia, perché se lo voleva anche lui, perché mai non ha osato toccarlo finché non è stato lui a farsi avanti? Lui, che è molto più pratico in quelle cose rispetto ad un vergine sociopatico che lo ama al punto dall’averlo lasciarlo andare, nonostante fosse l’ultima cosa che avrebbe voluto fare. Per questo motivo quando ha ripreso abbastanza fiato, si china e lo bacia con violenza, quasi per punizione, mordendolo fino a tagliargli il labbro. Mordendolo perché, nonostante ciò che sta accadendo, John potrebbe comunque decidere di tornare da Mary nello stesso istante in cui avranno finito di farlo. E Sherlock è arrabbiato. Con se stesso, con Mycroft che aveva sempre ragione e con John.
Ma John lo ferma, pur capendo la sua rabbia. Lo ferma e lo bacia nel modo in cui si baciano due persone che si amano. Lo ferma e lo bacia con dolcezza, abbracciandolo senza malizia, ora, stringendolo e dissipando i dubbi che pian piano sono andati dipanandosi in quei mesi.
D’altro canto, sebbene accetti i ritmi impostati da John, Sherlock è ancora agitato, rabbioso e irruente. Ed è con questi umori che si stacca dal bacio di John e lo spoglia senza permettergli di alzarsi dal letto, sedendosi sopra di lui, imponendogli quella sottomissione con gli occhi pieni di amore e dolore. Ringhia, quasi, mordendosi le labbra e tirando profondi respiri per cercare di calmarsi.
“Ti amo,” dice allora John. Non per fuggire dalla rabbia di Sherlock, non per salvare la situazione, non per ripicca per le bugie di Mary. Lo dice perché se cercava un momento giusto per dirlo, allora è quello, in cui Sherlock sembra perso, rotto, dilaniato e lui vuole disperatamente salvarlo da un dolore che lui stesso gli ha arrecato.
Sherlock deve respirare a lungo per accumulare abbastanza aria per riuscire a parlare “Cosa?” c’è ancora rabbia nella sua voce e lo dimostra colpendolo con uno schiaffo abbastanza forte da fargli arrossare la guancia. “Non mi prendere in giro. Almeno questo.”
John accusa quello schiaffo e anche i due successivi “Scusami, Sherlock. Scusa se ti ho messo nella condizione di pensare che sia una presa in giro.” prende un altro schiaffo e John ha ormai capito che la tensione accumulata da Sherlock è così tanta da non riuscire ad impedirsi di farlo “Scusami. Ma ti amo sul serio.”
“John.” Sherlock respira affannosamente e spera vivamente che sia John a fermare quella lunga sequenza di schiaffi che, sebbene si stiano affievolendo per forza fisica, non cessano a interrompersi. Come se le sue mani fossero mosse dal suo inconscio. Come se il suo inconscio fosse riuscito a prendere il sopravvento sulla sua ragione.
John sembra capire. Capisce dallo sguardo di Sherlock che, finalmente, non è più rabbioso, che deve aiutarlo. Così alza le mani e frena le sue intrecciando le dita e stringendole affettuosamente “Scusami, Sherlock.”
Sherlock rimane immobile per qualche istante e respira a fondo una, due, tre volte. Poi si china e libera le proprie mani per donare carezze laddove prima elargiva piccole ed inconsce vendette. Bacia quelle guance arrossate e scaldate dalle sue stesse mani e va a lenire anche il dolore di quel taglio sul labbro leccandolo appena, con la punta della lingua. Tutta la sua fisicità si rilassa: le spalle diventano morbide, così come l’addome nel momento in cui si appoggia a quello di John, per non parlare poi delle gambe che si abbassano e si irrigidiscono nuovamente quando le loro erezioni si toccano e si strofinano leggermente.
“Ti amo,” ripete allora John, perché ora dirlo non sembra più una punizione alle orecchie di Sherlock che accoglie quelle parole nel modo giusto: con un sorriso e con gli occhi lucidi, con uno sguardo dolce che risveglia piccole rughe ai lati di occhi e bocca che John ha voglia di baciare una ad una. “Posso?” chiede poi, a voce bassa, lasciando scorrere una mano tra i loro addomi mentre torna a leccargli la ferita sul labbro inferiore.
“Puoi tutto,” sussurra John mentre allarga le gambe e gliele chiude attorno ai fianchi. “Hai tutti i diritti del mondo su di me,” aggiunge mentre con una mano gli affonda tra i ricci neri e lo tiene ancorato vicino al proprio viso. “Sono tuo. Solo tuo,” è l’ultimo sussurro prima di impegnare labbra, lingua, denti in nient’altro se non baciarlo e succhiargli via il dolore attraverso il viso.
Sherlock chiude la mano attorno alle loro erezioni e pompa con forza: non ha voglia che duri, ha voglia che esplodano il più presto possibile. Nella sua mano, mischiandosi, miscelando i loro odori e facendo penetrare quello dell’uno nella pelle dell’altro.
Entrambi gemono, ma John fa di tutto per recuperare le labbra di Sherlock sulle proprie e mischiare anche l’aria che stanno respirando e muove le anche assieme alla sua, contro il suo pugno, contro il suo stesso sesso e anche lui spera che non duri troppo. Hanno avuto anni di preliminari, di tira e molla, di preparazione: ora vogliono solo venire così forte da superare la soglia di piacere e sfociare appena appena in quella del dolore, da sentire dolore alle tempie, da temere di svenire. Per potersi poi raccogliere assieme e ricostruire quello che hanno distrutto strada facendo, con calma e con un nuovo tipo di collante che durerà per sempre.
Vengono, infatti, istigati uno dall’altro, sulla mano di Sherlock e sull’addome di John, senza emettere un fiato poiché l’aria è ferma dentro i loro polmoni e i cuori pompano velocissimi, coi neurotrasmettitori confusi dall’enorme quantità di messaggi da trasportare alle diverse parti del corpo. Vengono e la loro pelle è bollente quando collassano uno sull’altro con le bocche aperte alla ricerca di quell’aria che devono assolutamente tentare di recuperare. Vengono nel blu scuro della stanza buia, con le braccia di John strette, legate, vincolate alla schiena di Sherlock che in nessun altro posto vorrebbe comunque stare se non lì.
 
Quando si risvegliano, il blu scuro è diventato azzurro per la luce che filtra appena da fuori.
Sherlock non ha più paura che John possa comunque abbandonarlo, quindi non si vergogna a strofinare il naso sotto il suo mento e a strusciarsi su di lui.
E John non deve più scendere a patti con se stesso per una decisione che era così chiara nella sua mente e doveva solo affiorare, spinta dal coraggio dell’uomo che ha tra le braccia e i cui capelli massaggia con labbra e mani curiose.
“John.”
“Mh?”
“Come stanno le guance?”
John ride e fa scendere le mani sul corpo di Sherlock “Hanno avuto quel che si meritavano.”
“Certo,” concorda Sherlock e si muove appena per far slittare le mani di John in quel magico punto in cui si erano soffermate poche ore prima “tuttavia non hai risposto alla mia domanda.”
Il palmo aperto di John si trasforma nell’indice che passa tra le natiche di Sherlock e va a puntare il suo perineo “Stanno bene…” muove il dito e sente l’altro sciogliersi letteralmente “Credi che possa stare io sopra, oggi?”
Sherlock alza il viso e osserva John e per un istante torna serio “Tu puoi tutto, John. Hai tutti i diritti del mondo su di me. Sono tuo e solo tuo.”
John sorride per quelle parole che lui stesso aveva pronunciato poche ore prima e sa che quella è diventata la loro promessa, molto più dei Ti amo che comunque dirà e dei soprannomi scemi che sente dire in giro “C’è voluto un po’ di tempo, mi spiace.”
“Basta scusarti,” Sherlock si morde la lingua perché pensa di averlo detto con un tono un po’ troppo, beh, suo. Così prova a rimediare “Amami tutti i giorni da oggi in poi e saremo a posto.”
“Saremo a posto?” ridacchia John.
“Sì, sì…” annuisce Sherlock, leggermente imbarazzato “Altrimenti ti… schiaffeggerò a morte.” “Sarebbe un bel caso da risolvere…” sussurra John che, finito il momento serietà, riprende a stuzzicare il perineo di Sherlock “...quest’uomo è morto, ma non troviamo l’arma del delitto. Sherlock Holmes può aiutarci lei?”
“J-John…” geme Sherlock che non può più impedire a John di prenderlo e ribaltare i ruoli “...non essere sciocco…”
“Mi sembra di essere tutt’altro che sciocco ora,” ridacchia John “Sarei sciocco se ora non mi impegnassi a recuperare il tempo perduto.”
Sherlock non può che aprire le gambe ed osservare John scendere inesorabilmente su di lui, sul suo pube, e sparire tra le sue cosce fino ad obbligarlo a mordersi il polso per non urlare di piacere. In quella stanza che da blu, scura come l’animo che aveva il giorno prima, ora è azzurra, chiara di speranza per illuminare ciò che andranno ricostruendo.
 
 
 

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Capitolo 10
*** The propose ***


***Ciao bimbe! Ora, lo so che solitamente non faccio introduzioni a queste shottine scemine, ma volevo salutarvi e ringraziare tutte coloro che molto premurosamente mi hanno chiesto com'è andato l'esame eeeee è andato bene! 29! Grande soddisfazione *_* (della materia che insegna Tom poi AHAHAHAHAH <3) Poi, sono stata a Londra e ho visto Martin e Ian Hallard e sono felicissima *O* e non dico questo per farmi odiare da voi ma per comunicarvi che tutti i capitoli/storie che pensavo di finire a Londra... non sono stati ancora finiti perché per dare la "caccia" a Martin sono stata fuori anche di sera quindi ho scritto pochissimo ._. perdono ._. e qui il sondaggino del "cosa preferireste leggere prima?" tra: 1)MermanLock (tipo al 60/70%) 2)Soulbond Steampunk (80%) 3)Capitolo conclusivo di I dare you to live (30/40%) 4)Prostitute!John (0% XD) 5)OrphanLock (0% u.u''') 6)Animal Instinct/Kingdom (capitoli al 0% >__>) 7)Seguito della TomCroft (0% ma ci piace u.u) eeeeee no, il Trifoglio non lo prendo neanche in considerazione perché, scusatemi, non me lo sento nelle dita, mi spiace davvero, un giorno lo finirò, "ma non è questo il giorno! è_é" Comunque, vi amo tutte <3 BACIO!!! Ps: flashina ispiratami da un post su tumblr, il cui link è nel capitolo 1 come sempre :3



 
The Propose


Quel caso, alla fine, da un semplice e banale 5 si era rivelato niente meno che un 7 con tanto di inseguimenti su e giù per le vie e per i tetti di Londra. Ed entrambi non avevano potuto fare a meno di ripensare al loro primo caso assieme. Sapeva così tanto di anniversario. Lo pensavano entrambi, ma nessuno l'aveva detto ad alta voce, ritornando a casa, seduti uno accanto all'altro sul taxi. 
Non lo stavano dicendo, era vero, ma era come se i loro sguardi parlassero quella lingua che solo alle coppie affiatate come la loro era concesso apprendere.
Stavano assieme da tre anni, ormai, Sherlock e John, ma ogni giorno era come il primo e al tempo stesso era nuovo, originale, inaspettatamente coinvolgente.
Lo pensano anche ora, dopo essere scesi dal taxi: si guardano e si sorridono mentre Sherlock apre il portone del 221B di Baker Street. E continuano a farlo quando, una volta chiusisi dentro al loro piccolo angolo di paradiso, John lo spinge contro il muro dell'ingresso ed inizia a baciarlo con dolce irruenza, accarezzandolo con una tenerezza che risalta in confronto all'urgenza di leccargli labbra, palato e lingua come se la sua vita dipendesse da quello.
E Sherlock ricambia la dolcezza accarezzandogli il collo e i capelli il cui colore si avvicina sempre più al grigio della cenere. E ricambia anche quella certa urgenza inarcandosi in avanti facendo in modo che i loro petti si scontrino e si strofinino amabilmente in un preludio a qualcosa di più profondo e conosciuto di cui mai e poi mai si stancherà.
"John..." mugola poi, Sherlock, perché l'unica cosa che può interromperli in momenti come quelli è il nome della persona che più si ama al mondo. La persona per la quale sacrificarsi non è mai stata un'opzione, ma una scelta tanto obbligata quanto incondizionata. L'uomo per cui le pareti del suo palazzo mentale si sono modificate inconsciamente laddove prima regnava l'assoluta anarchia intellettuale. L'unico per cui valesse, valga e varrà la pena provare quella difettosa, e un tempo aberrante, attitudine chiamata amore.
"Mmmh, Sherlock..." mugola John a sua volta, ed è un rantolo deliziato, ricco d'amore, che non ha nulla a che vedere con l'eccitazione di prima. È un susseguirsi di baci che ora circondano le labbra di Sherlock e che scendono sul suo mento e sul collo assieme al naso, che struscia al pari di un gatto su quella pelle bianca che si arrossa leggermente. Lo abbraccia, stringendolo in un modo che può sembrare goffo, ma che rivela un John sospirante e deliziato.
Sherlock, che si aspettava che la situazione prendesse in realtà tutt'altra piega, ride leggermente e asseconda l'umore di John baciandogli la fronte in maniera pudica "Ed ecco che la tigre si è trasformata in un adorabile micino. Cosa direbbero i tuoi vecchi commilitoni, John Watson?"
John sorride, ma non dice nulla. Struscia ancora il viso sul petto di Sherlock e controlla l'ora con la coda dell'occhio. Ci siamo quasi.
Sherlock inarca il sopracciglio e, per quanto adori coccolare John, gli sembra che la situazione sia alquanto strana:  il suo buon dottore è un amante generoso, certamente, ed è anche molto avvezzo a riempirlo di carezze e baci, ma sempre all'interno del loro appartamento. Non fuori casa, quasi mai di fronte ad altre persone e, di conseguenza, non nell'ingresso che condividono con la signora Hudson. E siccome Sherlock non è tipo da rimanere senza risposta, non ha che da chiedere "John? ...tutto a posto? Ho per caso fatto
qualcosa che..."
"Sherlock, sai cosa?" domanda John, perché sa che l'ora è vicina e dovrà, all'occorrenza, temporeggiare quanto serve in maniera naturale.
"...Cosa?" domanda un dubbioso Sherlock. Che abbia combinato qualcosa di sbagliato senza accorgersene? Tipo quella volta che...
"Tu mi sposerai."
Sherlock sbatte più volte le palpebre e sente il cuore accelerare dopo aver perso un battito. Quindi John gli stava solo per chiedere di... Beh, ‘solo’. Sta per entrare nel panico quando vede il sorriso strafottente di John e nella propria mente riavvolge la registrazione di quel momento e riascolta il tono di sfida con cui si è proposto John.
Sorride, dunque, spavaldo a sua volta, e lo sfida anch'egli "Ah sì? E chi ti dice che accetterò?"
John aspetta tre secondi, poi parla "L'uomo alla porta."
Qualcuno bussa al portone del 221B e Sherlock si blocca. Osserva il sorriso di John e il cuore manca nuovamente il proprio lavoro per un secondo. Si lascia incoraggiare dall'espressione di John e da quel ricordo che riaffiora prepotente nella sua mente e l'unico motivo per cui si avvicina alla porta lentamente è perché fatica ad abbandonare lo sguardo del suo compagno. Ma alla fine lo fa e quando apre il portone si ritrova davanti un trionfante Angelo che regge in mano una scatolina aperta con dentro un piccolo anello in oro bianco "John mi ha mandato un messaggio dicendomi che ne avresti avuto bisogno."
Sherlock capisce tutto, ovviamente, ma lo metabolizza a dosi così ridotte che rimane a bocca aperta e quando si gira nuovamente, trova John in ginocchio, il sorriso che da strafottente è diventato dolce ed emozionato, gli occhi languidi. Trema anche, appena appena.
"William Sherlock Scott Holmes," inizia solennemente "Sei l'uomo della mia vita. Sei tutto ciò per cui valga la pena stare al mondo. Sei colui che mi ha salvato, tantissime volte e in tantissimi modi diversi."(1) deglutisce, poi, e strizza gli occhi come per cercare di ricordare un discorso che si era preparato.
Ma l'emozione è troppa e fallisce, quindi sbuffa e ricomincia "Sherlock. Mio preziosissimo Sherlock. Io non sono bravo con le parole, ma so per certo che ti amo. Ti amo perché sono sicuro di essere nato per questo, di essere destinato a te anche se tu sei... Pfff... Anni luce più avanti rispetto a me. Sei più bello, più giovane e, Dio me ne scampi, sei miliardi di volte più intelligente di me e di tutto il resto del mondo messo insieme. Ma non mi importa, Sherlock, perché anche se è così, io sono comunque l'uomo per te. Sono tuo, tu sei mio, e voglio che sia per sempre. E so che non ti importa di queste formalità e no, non lo faccio per comodità, per i diritti legali, per il futuro. Lo faccio perché lo voglio, perché credo nel matrimonio e perché sarebbe un onore e una gioia poter dire di essere sposato con te."
Sherlock osserva John riprendere fiato, rosso in viso, con gli occhi definitivamente lucidi e le mani intrecciate davanti alle labbra, in attesa. Rimane a guardarlo e ruota solo il braccio verso Angelo, cercando a tentoni la scatola di velluto blu che l'amico gli porge con gioia prima di chiudere il portone senza che gli venga chiesto.
Crolla a sua volta sulle ginocchia, Sherlock, davanti a John, e gli porge la scatola con la mano destra tenendo la sinistra libera, pronta per essere sigillata. Non dice ancora nulla, ma deglutisce così pesantemente che è quasi udibile ad orecchio umano.
John sospira grato e anche se Sherlock non ha risposto a parole, la mancina che gli porge è un chiaro segno d’assenso, un chiaro messaggio, un a lettere cubitali che è impossibile fraintendere. Apre la scatola e quando inizia ad infilare l’anello nel dito del suo futuro marito, sente Sherlock balbettare qualcosa prima di iniziare effettivamente a parlare.
“John, io… io…” inspira Sherlock che mai nella vita si sarebbe immaginato di potersi emozionare in quel modo per una formalità, per qualcosa che sapeva già, per una promessa di amore eterno. Osserva l’anello scorrergli sulla pelle, accompagnato dalle dita di John, e prova a mettere in ordine le parole che gli si formano nella mente “Io sono solo un uomo ridicolo, John, redento solo dalla costanza della tua amicizia e del tuo amore. (2) Ed è per questo che sono onorato di accettare la tua proposta. E ti ringrazio, perché tu… tu…” si blocca nel momento in cui vede l’anello rivestire perfettamente la circonferenza del proprio dito, segno che anche John, come lui, conosce perfettamente il suo corpo “Perché tu…”
John si sporge in avanti e bacia le labbra di Sherlock mentre con le mani continua a stringere quelle di lui, la destra che gli accarezza la sinistra all’altezza dell’anulare, che strofina quella sottile banda d’oro caricandola di amore, come se volesse creare un artefatto magico che funziona grazie alla potenza del sentimento che li unisce.
Sherlock gli stringe le mani a sua volta e lo fa forte, facendogli quasi male e si stacca dal bacio per la disperazione e l’urgenza di dover dire qualcosa di importante “Io passerò l’intera vita a cercare di meritarti, John, io…”
“Sherlock non devi…”
“Un’intera vita per meritare te…”
“Sherlock.” Lo ferma John e, a quel punto, spera anche di riuscire a calmarlo “Non c’entra il merito, Sherlock. E anche se fosse, tu meriti di essere amato da me quanto io merito di essere amato da me.”
“John…”
“Shush…” lo zittisce John con un bacio a fior di labbra “Dimmi solo ciò che voglio sentirmi dire.”
Sherlock gli passa le mani attorno alla schiena e lo tira verso di sé “Ti amo…”
John sorride e l’ingresso del 221B si illumina “…e?”
E Sherlock non può che illuminarsi a sua volta, di riflesso al sorriso di John “…e voglio sposarti.”
John sente un brivido piacevole percorrergli il corpo “Grazie, futuro signor Watson-Holmes.”
Sherlock mugugna “Perché non Holmes-Watson? È in ordine alfabetico.”
“Perché suona meglio Watson-Holmes.” John vede Sherlock arricciare capricciosamente il naso e gli va incontro “Ma le mie iniziali saranno sempre JHW, va bene?”
Sherlock gongola e invita John ad alzarsi “Va molto bene, futuro marito.”
“Andiamo su a festeggiare?” ridacchia John appoggiandogli impunemente la mancina sul sedere.
“Certo, dobbiamo suggellare il legame ad un livello più profondo.” Conferma Sherlock con naturalità, come se stessero parlando del tempo “E poi usciamo a prendere un anello anche per te. Uguale al mio.”
“Faremo incidere dentro qualcosa?”
“Mmh…” la domanda colpisce Sherlock che, dopo essere entrato nell’appartamento, pare pensarci seriamente mentre si lascia avvolgere dalle braccia di John le cui mani iniziano a spogliarlo “Together…”
“…or not at all?” conclude John con un sorriso.
“Mmh, ma non è solo nostra,” borbotta Sherlock.
“Hai ragione,” lo bacia John “Magari, dopo, saremo più ispirati.”
“Magari…” concorda Sherlock per poi appropriarsi delle labbra di John e zittire entrambi per un lungo lasso di tempo.
 
°o°o°
 
“Sai, credo che alla fine farò incidere solo il tuo nome.” Sussurra Sherlock all’orecchio di John quando, dopo aver fatto l’amore, lo ricopre di baci sul petto, sul collo e, infine, sul viso “In fondo, sei tu l’unica cosa importante, solo tu. Il resto non conta.”
John accarezza il capo di Sherlock per tenerlo il più possibile vicino a sé “Hai ragione. Il mio Sherlock ha sempre ragione.”
“Ricordatelo quando troverai qualcosa di strano nel frigorifero e mi incolperai ingiustamente.”
“Sono così felice che potrei anche trovarci un…” poi, nel vedere il volto acceso e interessato di Sherlock, si ferma “Okay, meglio non darti ulteriori idee.”
“Meglio,” concorda Sherlock e, per l’ennesima volta da due ore a quella parte, stringe la mancina con quella di John. Dove c’è un anello, dove ce ne sarà un altro, dove sarebbe sempre dovuto esserci.
 

_________

(1)-(2) rimaneggiate dal discorso di Sherlock nella 3x02 e dall'accusa di John a Mary nella 3x03, io l'ho rivolta al positivo per Sherly <3

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Capitolo 11
*** Sherlock è un nome da femmina ***


Sherlock è un nome da femmina




Alla fine era tornato tutto alla normalità. Sempre che la vita di Sherlock Holmes e John Watson possa definirsi normale, ovviamente. Sì, perché dopo il ritorno di Sherlock, la faccenda di Magnussen, il forzato matrimonio e l’altrettanto inevitabile divorzio di John e Mary, l’emulatore di Moriarty e la finta gravidanza dell’ex signora Watson, inseguire i criminali per le vie e per i tetti di Londra era la tanto agognata normalità per l’unico consulente investigativo al mondo e il suo fedele aiutante.

Non che l’atmosfera fosse del tutto tranquilla, non ancora. Troppe cose erano successe per chiudere definitivamente quei lunghi e difficili capitoli ed iniziarne uno nuovo senza che gli strascichi di quanto accaduto li influenzasse.

Ed è per questo che, all’ennesima dimostrazione di parkour su e giù per le scale di emergenza e per i tetti dei palazzi, il cuore di John si ferma prima di pompare sangue a sufficienza per liberare nell’aria un urlo udibile nonostante l’inquinamento acustico presente nel centro di Londra.

“SHERLOCK!”

E Sherlock inchioda a tre metri dal perimetro esterno dell’ennesimo tetto che stava per saltare, che sì, forse era un po’ troppo distante da quello successivo. Inchioda e i tre metri di distanza gli danno il tempo sia per frenare la corsa a due passi dal ciglio del palazzo, sia per capire e decidere che non gli importa di quello spacciatore, che lo inseguirà un altro giorno, che starà nascosto per qualche giorno prima di vendere nuovamente la propria merce, che, in quel momento, John è più importante di qualsiasi altra cosa.

“John” si gira verso il dottore e, in caso ce ne sia ulteriore bisogno, si sposta ulteriormente dal bordo del tetto. Non sa cosa dire, non sa come affrontare quella paura che attanaglia il cervello e il cuore del suo buon dottore. Gli hanno puntato la pistola addosso più volte dopo che Mary che gli ha sparato, eppure la reazione di John di fronte alle pistole non è neanche paragonabile all’effetto che gli fa vederlo vicino ad una grande altezza.

John lo raggiunge dopo aver ripreso fiato e lo colpisce non troppo forte da farlo sanguinare, ma abbastanza da fargli bruciare la guancia e lui stesso non può fare a meno di notare di aver mancato, inconsciamente ma non troppo, naso e denti. E quella realizzazione lo fa sedere a terra, piedi a martello, ginocchia piegate e testa nascosta tra di esse.

Sherlock apre la bocca, ma non dice nulla. Si guarda attorno, come alla ricerca di un aiuto che sicuramente non arriverà dato che si trovano su un tetto, e dopo essersi arreso all’evidenza, si china e si siede accanto a John. Lo osserva e ascolta il suo silenzio prima di alzare il braccio destro sulla sua schiena e strofinarla nel tentativo di essere rassicurante: non sa se ha raggiunto il suo scopo, ma nel dubbio è pronto a schivare un altro eventuale pugno.

“Sherlock” inspira John, ancora nascosto nella sua nicchia che gli depriva un sufficiente quantitativo d’aria da evitargli un attacco di panico “Dobbiamo per forza seguirli sui tetti i criminali? Non possiamo farlo per strada?”

“John, se i criminali salgono sui tetti come possiamo seguirli per strada?”

John ride: certo, non fa una piega. “Capisci quello che ti sto chiedendo?”

“Certo, non sono stupido.”

“Allora perché mi rispondi in quel modo!” sbotta John, riemergendo dal proprio nascondiglio.

“Ti ho risposto razionalmente, John” inspira Sherlock “Io so rispondere solo così.”

John lo guarda a fondo e pensa che non è vero. Pensa che non è vero perché ha visto come si era rivolto a lui sulla pista di decollo, accanto all’aereo che li avrebbe nuovamente divisi, probabilmente per sempre. Ha visto con che occhi l’ha guardato e ha letto pure tra le righe di quel Sherlock è un nome da femmina.

“Sherlock” deglutisce John, allora, in cerca di quel coraggio che, dopo avergli fatto fare trenta, gli faccia fare anche trentuno “C’è qualcosa che io possa fare o dire affinché tu decida di non rischiare più la tua vita con leggerezza?”

“John, io…” Sherlock sa che dovrebbe allontanarsi un poco da John, almeno qualche centimetro, ma non riesce a farlo. Perché sa che la risposta che sta per dare potrebbe compromettere definitivamente quel briciolo di speranza che lo lega a lui in modo speciale. Quindi gli sta vicino finché può, almeno finché John non lo caccerà via “…io darò la caccia ai criminali finché avrò gambe per correre. Fa parte di me, scusami.”

John annuisce e, contrariamente a quanto pensava Sherlock, invece di allontanarsi slitta un poco verso di lui, finendo quasi tra le sue braccia “Questo lo so e io ti aiuterò finché potrò farlo, ma quello che intendo è…” alza lo sguardo verso l’alto, poi lo riabbassa sui tetti che si stagliano loro di fronte “…i tetti Sherlock. Io ti ho visto cadere e di notte sogno ancora quel momento. Tu… noi, daremo la caccia ai criminali, ma ti prego, pensaci due volte prima di saltare da un tetto. Ti prego.”

“John…” Sherlock sospira per quella vicinanza e non può che annuire, seppur distrattamente, alla sua richiesta “Cercherò di evitare i tetti.”

John sorride ed è divertito dalle guance di Sherlock che, da bianche lattee, diventano rosse come il più buono dei vini. E decide che probabilmente è il momento. Lassù, su quel tetto, dove gli occhi di Sherlock sono languidi e fissi sulle sue labbra perché mai sono stati così vicini “Sai. Penso che mi sarei battuto per chiamarla Sherley, se fosse realmente esistita.”

“D-davvero?”

“Sarebbe stato il mio modo di dirti ‘Anche io’.”

Sherlock sbatte le sopracciglia più volte, senza controllo “L’avevi capito.”

“Non sono stupido, sai?”

Sherlock scuote diligentemente il capo e si morde l’interno delle labbra, imbarazzato.

È in quel momento che John allunga il collo e salva le labbra di Sherlock da quel piccolo supplizio impegnandole con le proprie, imponendosi in quel bacio in apparenza spavaldo che nasconde in realtà gli ultimi bricioli di insicurezza.

Sherlock mugola per la sorpresa e si adatta al ritmo imposto da John anche se, a differenza sua, non riesce a mascherare quanto sia impacciato di fronte a quella magnifica e inaspettata sorpresa.

“John” dice poi, Sherlock, con un fil di voce “Mi tremano le gambe ora.”

John sorride e, dopo essersi alzato, offre il proprio aiuto a Sherlock “Vorrà dire che ti terrò la mano mentre scendiamo. E anche mentre torniamo a casa. E mentre saliamo le scale. E mentre…”

Sherlock si alza con l’aiuto della mano di John e interrompe la sua lunga lista spalancando la bocca incredulo “Sicuro?”

John intreccia le dita delle loro mani e sa che, ormai, di risposta ce n’è una sola “Sherlock è un nome da femmina.”

E Sherlock, che stringe la mano di John così forte da rischiare di fargli male, non può che annuire a sua volta “Anche io.”
 

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Capitolo 12
*** Te lo dirò milioni di volte ***


Quello in cui vivono John e Sherlock è un mondo in cui  è lecito usare la magia, sempre che qualcuno sia abbastanza intelligente da riuscire a farlo, ovvio. Ma, come per quanto riguarda ogni tipo di energia sovrannaturale, non solo ogni magia ha un prezzo proporzionato all’effetto che apporta a quello stesso piano di esistenza, bensì è alquanto variabile e capricciosa. Non è quel tipo di magia che trovi scritta sui libri: non esistono formule e i contro incantesimi hanno la stessa percentuale di rischio di quelli lanciati in precedenza. In generale, non converrebbe dedicarsi alla magia se non in caso di estrema necessità, ma a volte capita, semplicemente grazie ad un pensiero molto intenso. E la gente, si sa, a volte sa pensare molto rumorosamente.

*

Quando John e Sherlock tornano a casa dall’ultimo caso che hanno risolto, sono bagnati da testa a piedi, ma ciò non li ferma dal ridere allegramente.

“Ridicolo,” ghigna Sherlock togliendosi il cappotto appesantito dalla pioggia “veramente ridicolo.”

“Ridicolo, ma divertente!” lo corregge John strofinandosi la testa con un panno asciutto: il risultato è l’aver spettinato i capelli verso l’alto, come se fossero tanti piccoli aculei “Dì la verità: ti sei divertito anche tu.”

Sherlock osserva John di sottecchi e arrossisce di nascosto quando lo vede riemergere dallo strofinaccio tutto spettinato e a sua volta con le guance imporporate “Sì. Scommetto anche che sarà uno dei tuoi post più seguiti sul blog: piacciono sempre quelli divertenti.”

“A-ah!” concorda John avvicinandosi al cilindro appartenuto al loro cliente più recente e che, evidentemente, era stato dimenticato lì “Ho già il titolo in mente: «Il mago di Oz»!”

Sherlock apre la bocca come per ribattere, ma finisce col non dire alcun che.

John spalanca gli occhi “Non hai mai visto neanche Il mago di Oz?”

“Certo!” dissimula Sherlock facendo spallucce “Parla di… un mago… che vuole trovare il numero atomico, Z, dell’ossigeno, O.”

“Certo che…” inizia John, intrecciando le braccia davanti a Sherlock “...per essere una cazzata è davvero ben articolata e senza dubbio fantasiosa.”

“Oh, smettila!” borbotta Sherlock spingendo John a lato, in imbarazzo “No, non l’ho mai visto, va bene?”

John ridacchia e lo raggiunge di spalle, accennando un piccolo abbraccio amichevole “Dai, non te la prendere. Lo sai che mi diverto a spiegarti tutti i riferimenti della cultura popolare: sembro sempre io quello intelligente quando succede.”

Sherlock arrossisce sia per l’abbraccio che per le parole di John nelle quali vede nascosto un segno dell’affetto che l’altro nutre per lui “Beh,” borbotta poi, per sdrammatizzare “Cos’è che farebbe questo Mago di Oz, che una persona geniale come me non può fare a meno di sapere?”

“Niente, alla fine si scopre che non è un vero mago. Proprio come il nostro cliente.” John si sporge un poco di lato, il tanto che basta per vedere Sherlock rosso in volto “Ehi, vai a farti una doccia bollente prima di prenderti la febbre. Io intanto ti preparo un bel tea caldo.”

Le guance di Sherlock diventano ancor più rosse e sicuramente non perché si sta prendendo un malanno “Anche tu sei bagnato da testa a piedi.”

“Infatti dopo farò anche io una doccia,” assicura John “ma prima vai tu.”

“Ma John…”

“Ordini del medico,” ammicca il biondo mentre accende il bollitore dopo averlo riempito d’acqua.

Sherlock sospira e sparisce dalla stanza prima che John, tra abbracci, ammiccamenti e chissà cos’altro ancora, lo faccia arrossire in maniera permanente. Decide comunque di seguire gli ordini del suo dottore ed infilarsi nella doccia.

Una volta aperto il getto dell’acqua calda, Sherlock aspetta pochi secondi prima di entrare e chiudere la tenda dietro di sé. Non può fare altro che pensare a John. John, John, John, costantemente John.

Cielo, quanto mi piace, quanto lo amo.

Sherlock si insapona e arrossisce nuovamente: dovrà assolutamente imparare a controllarsi o John lo scoprirà. Il suo buon dottore non sarà intelligente come lui, ma non è certamente stupido!

John…

Sherlock sorride e ricorda il momento in cui era emerso dallo strofinaccio con i capelli sparati in aria.

Sembrava un riccio. Un bellissimo riccio. Il mio John.

Mentre continua a lavarsi, Sherlock entra nel proprio Palazzo Mentale che altro non è se non un insieme di stanze che rievocano tutti i luoghi in cui è stato con John, da Brixton a Baskerville, da Buckingham Palace al ristorante di Angelo. E, ovviamente, in ogni stanza c’è John, colui che è ormai il suo pensiero fisso, colui che a volte riesce a distrarlo persino durante i casi .Era stata proprio quell’epifania a convincere Sherlock del fatto di amare John: se esisteva qualcuno più importante dei casi, allora quel qualcuno doveva essere la sua persona. Sherlock non pensava di avere bisogno di qualcuno, ma John, con la sua sola esistenza, l’ha contraddetto e lui ora si ritrova innamorato perso di lui. Inconfessabilmente innamorato perso di lui.

John… ti amo così tanto. Riuscirò mai a dirlo al mio bellissimo riccio? Vorrei tanto riuscirci.

Sherlock è costretto ad uscire bruscamente dal suo Palazzo Mentale: si aggrappa anche al porta sapone e ringrazia la sua agilità per avergli evitato un capitombolo. Forse gli sta venendo veramente la febbre: ha sentito un brivido che partiva dalla testa e che si è poi irradiato verso tutte le estremità, come se avesse preso la scossa. Finisce tuttavia con lo scuotere il capo ed uscire dalla doccia: gli pare persino strano che John non si sia lamentato per averci impiegato troppo tempo!

Quando torna in cucina, non si stupisce di trovarla vuota: John sarà sicuramente andato in camera a mettersi qualcosa di pulito. Sorride nel vedere due tazze fumanti di tea già pronte sul lavandino salvo poi deglutire di fronte al cilindro, un oggetto inanimato ed apparentemente innocuo, ma che in quel momento ha deciso di muoversi leggermente e di mugolare. Sherlock si appoggia al lavandino dietro di sé, salvo poi sporgersi in avanti e controllare l’interno del cilindro. Ed è così che lo vede.

“Oh, cielo.”

Nel frattempo, John scuote il capo riprendendo conoscenza ed osserva verso l’alto: gli sembra strano che sia così buio e, anzi, gli sembra ancor più strano che Sherlock lo guardi dall’alto. Anzi, no, quello non è strano dato che il consulente investigativo è così ridicolmente più alto di lui. Ma, come dire, non era mai stato così grande.

“John...” lo chiama Sherlock con aria terrorizzata e dispiaciuta “John, oddio… sei diventato un…”

“Riccio?!” sbotta John, da dentro il cilindro che inizia rapidamente a scalare cercando di fuoriuscirne “Cosa diavolo…”

“John, oddio,” pigola Sherlock che, dopo aver abbracciato il cilindro, lo porta in salotto e lo appoggia sul divano “Scusami… deve... deve essere stata colpa mia…” mugola disperato e si inginocchia davanti al divano reggendo il cappello con mani tremanti “Scusami…”

“Come sarebbe a dire che è colpa tua? Sherlock, hai fatto qualche esperimento?!” tenta di urlare John che, dopo essersi arrampicato in cima al cilindro, lo sbilancia in avanti cadendo sul divano e venendo nuovamente intrappolato dal cappello “Sherlock!”

Sherlock è davvero mortificato e spaventato perché la magia è qualcosa di così imprevedibile che, in primis, non si sarebbe mai aspettato di adoperarla a sua insaputa e, in secondo luogo, non esistono contro incantesimi. E se John non tornasse più umano?

“J-John, non era un esperimento…” mugola Sherlock per poi alzare il cilindro e liberare il piccolo riccio “Sono praticamente sicuro sia stata la magia… io…”

“La magia?!” sospira il riccio John per poi avvicinarsi pericolosamente al bordo del divano pronto ad inveire contro il consulente investigativo “Come hai potuto farmi questo?!”

“Ma io… non l’ho fatto apposta… Non ti farei mai qualcosa di male di proposito, John...”

John sta per riprendere una lunga sequela di insulti e lamentele, ma ora che è così piccolo e il viso di Sherlock è così grande, non può fare a meno di notare i suoi occhi lucidi e veramente, palesemente, inconfutabilmente dispiaciuti. Quindi si sforza con tutto se stesso di pensare al fatto di essere uno stramaledetto riccio e si impone la calma.

“Perché un riccio? Posso sapere almeno questo?”

Sherlock sospira ma conclude che, in quel momento, può fare tutto meno che il difficile “Perché prima ti sei asciugato i capelli e li avevi tutti arruffati e ho pensato che somigliassi ad un riccio.”

Il riccio John lo guarda sconcertato, sebbene non sia certo del fatto che le sue espressioni facciali siano ben riconoscibili “E hai pensato a questa cosa a tal punto da usare inconsapevolmente la magia.”

“Evidentemente.”

“Perché?!”

“Perché ti amo.”

Entrambi si zittiscono e Sherlock si copre la bocca con un sonoro schiaffo: com’è possibile che sia successo? Lui non stava pensando a quelle parole, eppure le ha pronunciate. Ma, ancor più importante, si è appena confessato a John mentre lui è un bellissimo, sconcertante riccio e oltre la bocca, ora si copre l’intero viso.

Il riccio finalmente riacquisisce la facoltà di parola “Puoi ripetere?”

“Ti amo,” replica Sherlock, di riflesso.

“Tu mi ami.”

“Alla follia,” continua a rispondere il consulente investigativo che, a quel punto, valuta l’idea di sciogliersi la lingua con dell’acido.

“E perché non me l’hai mai detto prima?”

“Beh ma perché…” poi Sherlock si interrompe “Ho capito, è un incantesimo anche questo. Io mi sono chiesto se sarei mai stato in grado di confessartelo e…”

“Di confessarlo a me, il tuo bellissimo riccio…” commenta John in tralice.

“...e evidentemente è successo tutto questo casino.”

“Sherlock,” lo chiama John, tanto calmo su quella questione quanto non lo è sull’essere riccio “Perché non me l’hai mai detto?”

“Perché avevo paura, è ovvio.” Sherlock si alza e si allontana dal divano, in completo e totale imbarazzo.

“Di cosa?” urla John, non sicuro che la sua voce da riccio sia abbastanza potente da farsi sentire.

“Di così tante cose che non riesco neanche ad enunciarle tutte.”

“Sherlock, ti prego,” John lo esorta a voltarsi “sono un riccio, non riesco a seguirti. Posso provare a saltare giù dal divano, ma potrei farmi male.”

Sherlock torna indietro e prende il riccio tra le mani “Non permetterò che tu ti faccia male. E cercherò di pensare intensamente al modo per farti tornare umano, lo giuro.”

John realizza di essere per la prima volta tra le braccia di Sherlock e decide di approfittarne appoggiando la guancia sul petto caldo del consulente investigativo “Lo so che non volevi farmi del male, Sherlock. Lo so.”

“Scusami.”

“Basta scusarti,” lo tranquillizza e si appoggia sul suo petto con entrambe le zampe anteriori per guardare verso l’alto, verso il viso di Sherlock “e dimmi ancora che mi ami.”

“Ti amo,” replica Sherlock al volo, per poi scostare lo sguardo e arrossire tremendamente “Perché mi fai questo?”

“Perché non so se me lo dirai ancora una volta concluso l’effetto dell’incantesimo, quindi voglio approfittarne e ascoltare mentre me lo dici più che posso.”

La risposta di John lo coglie di sorpresa “Perché ci tieni che io te lo dica?”

“Prova un po’ a dedurlo, genietto.”

Sherlock deglutisce e va in camera per poi appoggiare John sul letto, con delicatezza. Poi va dall’altra parte del letto e si arrampica a sua volta su di esso, stando ben attento a stargli abbastanza lontano da non schiacciarlo.

“Sherlock,” John zampetta sui cuscini fino ad incastrarsi con gli aculei sui ricci neri dell’altro “Di cosa avevi paura? Anche io provo qualcosa per te, non te ne eri reso conto?”

Sherlock scuote leggermente il capo e non distoglie lo sguardo dal soffitto “Pensavo fosse semplice affetto. Tipo quello che provi per la signora Hudson o per altri tuoi amici.”

Il riccio John alza le zampe anteriori e si appoggia allo zigomo di Sherlock “Come puoi paragonare l’affetto che provo per loro con l’amore che provo per te?” John non sa perché, ma trova molto più semplice parlare dei propri sentimenti ora che è un riccio. Forse perché non ha il solito viso in cui poter scrutare tutte le emozioni che lo attraversano “Mi rendo conto che ho delle colpe, avrei potuto dirtelo anche io. Ma pensavo di aspettare che le cose accadessero con calma, sai? Naturalmente. Non volevo che tu scappassi.”

“Io non scapperei mai da te,” confessa Sherlock a voce bassa mentre alza la mano per sfiorare gli aculei di John a mo’ di carezza “piuttosto mi sarei tenuto tutto per me, ma non avrei mai rinunciato almeno alla tua amicizia.”

“Perché tu mi ami.”

“Perché io ti amo,” conferma Sherlock “e non posso fare a meno di te.”

“E io non posso fare a meno di te.”

Il riccio John muove il musetto e fa il pieno del profumo di Sherlock il cui viso osserva da così vicino da poter cogliere tutte le sfumature e gli occhi lucidi per la stanchezza per le molteplici emozioni.

“Sherlock, prova a dormire un po’,” suggerisce John “sarò qui quando ti sveglierai.”

“Non sono stanco.”

“Sì che lo sei.”

“Ma…”

“Ordini del medico,” sorride il piccolo riccio.

Sherlock sorride per quella frase che per il suo dottore è ormai diventata iconica “John…”

“Domani penseremo a come risolvere la situazione.”

Sherlock annuisce e dopo aver spostato il riccio di qualche centimetro, si adagia al meglio sul letto, di fianco, rivolto verso John, il braccio sinistro adagiato sulla parte destra del letto abbracciando un vuoto che vorrebbe colmare al più presto “Spero di sognare di farti tornare umano e spero che funzioni.”

“Non preoccuparti,” sussurra il riccio prima di scivolare sul letto, verso la mano di Sherlock dalla quale si fa avvolgere e scaldare “ah, e, Sherlock?”

“Mh?”

“In caso non fosse ovvio, ti amo anche io.”

“Ti amo anche io.”

“Lo so.”

“Lo so anche io, ma non riesco a smettere di dirlo.”

Il riccio abbraccia il pollice del consulente investigativo ed entrambi, dopo qualche minuto, sono belli che addormentati.

*

Sherlock sogna John ed è tutto bello, come ogni volta che succede: non è un sogno particolare, non sembra essere nulla di intenso e, senza dubbio, il consulente investigativo non si risveglia grazie ad una scossa che gli attraversa tutto il corpo.

John, d’altro canto, sogna a sua volta. Sogna di desiderare un corpo, sogna di avere un corpo e sogna di usarlo per dimostrare a Sherlock tutto il proprio amore. Sogna di di avere un corpo per recuperare tutto il tempo che hanno perso, per amarlo in maniera fisica e tangibile, carezzevole e carnale. Sogna, John, e lo fa così intensamente da svegliarsi nel cuore della notte colto da un lungo brivido che lo fa sussultare sul letto.

John si sveglia con la mano di Sherlock nella propria… ehi, un momento, la propria mano? Abbassa lo sguardo e si rende conto di aver indietro il suo corpo, e pure mancante di nulla, grazie al cielo!

Vorrebbe svegliare Sherlock, come prima cosa, per farsi baciare ed abbracciare e ricambiare a sua volta tutte quelle attenzioni, ma decide di non farlo per gustare quel momento in cui Sherlock dorme ed è calmo e finalmente può vedere il suo volto da vicino anche ora che è umano e non più un riccio. Senza lasciargli la mano, si sporge verso il fondo del letto per recuperare una di quelle coperte di lana che si usano per quando si rompono i riscaldamenti e all’improvviso il piumone non è più sufficiente e copre entrambi, poiché sia lui che Sherlock sono sopra il copriletto e non vuole ammalarsi, né tanto meno vuole che il suo tesoro si prenda un brutto raffreddore. Non vuole che Sherlock abbia gli occhi lucidi, non per l’imbarazzo, non per la febbre, non per la tristezza: promette a se stesso che da quel momento in poi, se mai le lacrime toccheranno le guance del suo tesoro, sarà solo per gioia.

Così John copre entrambi e si avvicina un poco a Sherlock per condividere il calore corporeo di entrambi, ma non gli riesce in alcun modo di dormire: con la guancia appoggiata sul cuscino, riesce solo a guardarlo e a sorridere stupidamente, stringendogli la mano e portandosela vicina alle labbra per sfiorarla appena.

Non passa neanche un’ora e Sherlock sente che sta per svegliarsi: sente un calore che non aveva mai sentito in quella stanza, in quel letto, da solo. Apre lentamente gli occhi e quando vede il viso sorridente di John, crede di stare sognando ancora, quindi ricambia il sorriso senza arrossire.

“Sherlock,” John può finalmente parlare, ma tutto ciò che dice, invero, è un continuo ripetere il nome dell’altro. Si avvicina ulteriormente ed incassa la testa sotto il mento di Sherlock, abbracciando propriamente il resto del corpo attorno al quale, si rende conto, si incastra alla perfezione. Ed è bellissimo.

“J-John?” è la domanda di Sherlock che a quel punto si rende conto che quella altro non è se non la realtà: alza istintivamente le mani e le appoggia sulla schiena dell’altro, massaggiandolo dolcemente “John sei tornato umano, John sei… sei…”

John mugola di gioia ed alza il viso per scontrare le proprie labbra con quelle di Sherlock in quella che potrà anche essere stata la parodia di un bacio, ma è stata comunque la cosa più dolce e bella fatta fino a quel momento “Voglio passare il resto della mia vita ad amarti.”

Sherlock si stringe ulteriormente a John, incastrandosi ancor meglio, coccolato da quel calore che in altri casi sarebbe fastidioso e soffocante, ma che in quel caso è qualcosa di morbido e fantastico “John, il mio John…” mugola e tenta a sua volta un bacio tanto goffo quanto tenero “Il mio fantastico John…” mugola accarezzandogli i capelli al punto da spettinarli.

John si sente tirare i capelli e non può fare a meno di ridere “Stropicciameli quanto vuoi, ma ti prego, non pensare più a me come ad un riccio.”

“Eri adorabile anche in quella forma.”

“Ma in quella forma non posso amarti come si deve,” mormora John prima di arrampicarsi sopra di lui e strusciarsi con tutto il corpo “tipo così, sai.”

“Mmh, John…” mugola Sherlock che inizia a toccare il corpo di John senza un ordine ben preciso “...devi insegnarmi tutto…”

“Sarà un grande onore,” un bacio “oltre che ad un piacere,” lo tocca e lo bacia con tutto se stesso: non può farne a meno “ora dimmi che mi ami.”

Sherlock ansima leggermente e non risponde a tono a quella domanda, come invece si sarebbe aspettato di fare.

“Mh? Dunque è svanito l’effetto anche di quell’incantesimo?” in realtà John è troppo felice per essere deluso, ma senza dubbio adorava sentirsi dire di essere amato da Sherlock.

“Non ho più bisogno di un incantesimo per riuscire a dirti che ti amo,” lo rassicura Sherlock, sorridendogli con una dolcezza particolare, quella che ha sempre riservato solo a John.

“Allora dimmelo, ti prego.”

“Ti amo.”

“Ancora.”

“Ti amo.”

John ride di gioia “Ti prego, ancora.”

“Te lo dirò milioni di volte,” gli assicura Sherlock prima di iniziare a dirglielo tante volte, in tante lingue diverse, in tanti modi diversi, per tutto il resto della sua vita.

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Capitolo 13
*** A study in touch ***


Ciao bimbe! Questa cosa doveva essere una flashina su un cane e non chiedetemi come è uscito sta roba °_° infatti credo rimedierò presto con quella del cane XD ma è che ormai ero a buon punto senza aver MAI usato un dialogo e a quel punto è diventato un esperimento per me, per vedere se riuscivo a scrivere qualcosa senza dialoghi (Sì, me, lo so che è strano XD). Il risultato è gnegne, ma spero di rimediare presto! Grazie a chi continua a seguirmi nonostante le assenze :3 BACIO!!!





 

A study in touch



La prima volta che Sherlock si è accorto di avere il bisogno di un qualsiasi tipo di contatto fisico che andasse oltre il menare le mani, è stata quando per la prima volta dopo due anni trascorsi in solitudine, ha rivisto Mycroft, in Serbia: erano saliti assieme sull’aereo che li avrebbe riportati a Londra, ma, non essendo soli, non osò alcun tipo di interazione che non andasse oltre un continuo ed ininterrotto sguardo con cui aveva iniziato a studiarlo. Aveva anche sentito un morso allo stomaco nel doversi trattenere anche dal solo sfiorarlo, fisicamente frustrato dal non poter assolvere a quel bisogno.

Bisogno che aveva poi soddisfatto, grazie anche allo stesso Mycroft che, leggermente disorientato dalle continue occhiate del fratello, aveva poi intuito la natura di quello sguardo e dopo aver ordinato ai suoi uomini di lasciarli soli, aveva semplicemente allargato le braccia, offrendosi per uno studio più ravvicinato.

Sherlock si era allora avvicinato guardingo, ancora diffidente del fatto di provare quell’assurdo bisogno, e aveva alzato le lunghe e magre dita sul viso del fratello: si era anche avvicinato, molto lentamente, inalando a piene narici un profumo diverso dal tabacco mediorientale, dalla sporcizia e dall’odore ferriginoso del sangue. Si era leggermente appoggiato al petto di Mycroft e aveva fatto il pieno del pregiato aroma della sua costosa acqua di colonia e si era fatto cullare prima dalla morbidezza del tessuto dei suoi vestiti di sartoria, poi dal leggero abbraccio che il fratello stesso gli aveva offerto, chiudendogli le braccia attorno a spalle e schiena.

Mycroft non si era preoccupato di sostenerlo fino a che ne avesse avuto bisogno e si accordarono tacitamente di non parlare di quell’episodio mai nella vita, con nessuno che non fosse se stesso, nei giardini privati dei propri edifici mentali.

*

Sherlock non aveva certamente reagito, dunque, quando John lo picchiò la prima sera che lo aveva rivisto, incassando pugni e testate che non avevano soddisfatto il suo nuovo bisogno neanche per sbaglio.

Non si era poi scostato dall’abbraccio di Lestrade, per la tensione sincera che aveva sentito provenire dalle sue braccia.

Anche Molly, la signora Hudson e persino Anderson lo avevano abbracciato. Non era stato spiacevole, ma nulla a confronto con la scarica che gli aveva dato il contatto con suo fratello e l’idea, solo l’idea, di poter essere abbracciato da John.

Si chiedeva se quel momento sarebbe mai avvenuto.

*

Avvenne, in effetti, ma fu durante il matrimonio di John. Non che quell’abbraccio non fosse sincero, ma Sherlock era così di malumore, quel giorno, che l’unica volta che il suo John l’aveva abbracciato, non aveva neanche ricambiato.

*

Janine, poi, l’aveva abbracciato. Eccome. L’aveva fatto più volte e cercando sempre di sfociare in qualcosa di più intimo.

Ma Sherlock rabbrividiva tutte le volte e doveva scappare con qualche scusa prima che la cosa fosse troppo evidente.

Le donne, sicuramente, non erano la sua area.

*

Poi era successo di tutto: la scoperta del passato di Mary e la faccenda di Magnussen, l’esilio rischiato da Sherlock e la ricomparsa del presunto Moriarty, la finta gravidanza e l’annullamento del matrimonio. Tutto il meno di un anno, ma alla fine ciò che contava veramente era il risultato: Mary chiusa in un carcere di massima sicurezza, ciò che rimaneva di Moriarty sconfitto del tutto e, soprattutto, John e Sherlock di nuovo assieme a Baker Street.

E il bisogno di Sherlock che cresceva sempre di più.

*

Ora, Sherlock osserva John ogni qual volta l’altro sia distratto o addirittura addormentato. Lo osserva e spera di alimentare a sufficienza il bisogno che ha di lui e che non riesce in alcun modo ad esternare. Ha paura di farlo: ora le cose vanno così bene tra loro che non vorrebbe rischiare di rovinare tutto per il bisogno di toccarlo.

Prova piccoli tocchi fintamente fortuiti e siccome John sembra non badarci o non prendersela, continua a sfiorarlo quando può, con attenzione, senza mai svelare ad alta voce questa sua necessità.

A volte il desiderio è così grande che si ritrova a sperare che John si faccia un pochino male -non tanto, ma se fosse impossibilitato ad usare le mani per qualche giorno, magari lui potrebbe aiutarlo, ma poi si pente di quel pensiero, si sente in colpa di aver anche solo pensato a John infortunato solo per riuscire ad aiutarlo fisicamente nelle sue faccende personali. Tipo vestirlo, sporgliarlo, sbarbarlo, lavarlo.

Tra loro va tutto bene e la loro amicizia è più salda che mai, ma a volte Sherlock vorrebbe solo alzarsi ed abbracciare John per la durata di un giorno, di un mese, di un anno, di un’intera vita.

*

Una volta, durante un caso che vedeva coinvolta un’agenzia di gigolò ed escort, Sherlock decide di provare un esperimento: tra i tanti ragazzi ed uomini disponibili sul catalogo e presenti ad indagini concluse, sceglie quello che fisicamente sembra piacergli maggiormente. Sceglie un uomo sulla quarantina, capelli e occhi chiari, fisico asciutto ma non perfetto, un bel sorriso.

John li osserva da lontano e non capisce perché Sherlock si stia trattenendo sulla scena del crimine così a lungo a caso concluso e rimane a bocca aperta quando vede il gigolò abbracciarlo e reclinare il capo alla ricerca del giusto incastro per poterlo baciare. E rimane ancor più di stucco quando vede Sherlock non fermare in alcun modo quell’approccio.

Sherlock sente il proprio corpo reagire correttamente dal punto di visto fisiologico, sente una quanto meno leggera scarica elettrica attraversargli la schiena e le narici riempirsi di un buon profumo. Ma il suo cervello non sembra voler collaborare e coinvolgersi in quel tentativo di soddisfacimento della propria pulsione. Decide di permettere a quell’uomo di baciarlo per vedere se, una volta superato quel confine, la cosa possa funzionare, ma si sente trascinare via da John, prima che le loro labbra si sfiorino.

John lo infila in un taxi urlando qualcosa circa la deontologia professionale che gli vieterebbe di provarci con qualsiasi persona coinvolta in un caso a cui sono correlati e lui evita di rispondere, pensando all’esito del proprio esperimento.

A quanto pare, affinché il contatto fisico possa definirsi soddisfacente, si richiede che con l’altra persona sussista un legame affettivo. Osserva John di sottecchi mentre lo sente ancora sbraitare su quanto accaduto prima.

*

Un giorno, poi, non riesce più a resistere: John è chino sul lavandino intento a pulire la verdura che poi metterà a cuocere e Sherlock non sa neanche bene come, ma si ritrova in piedi alle sue spalle, dieci centimetri a separare il suo torace dalla schiena dell’altro.

John è distratto, quindi si accorge dell’arrivo di Sherlock solo quando vede una lunga e riccioluta ombra sovrapporsi alla propria proiettata sulle mattonelle della cucina. Sta per voltarsi e chiedergli se abbia bisogno di qualcosa quando si irrigidisce nel sentire il respiro di Sherlock accarezzargli il retro del collo.

Entrambi sono rigidi, ambedue per motivi diversi, ma Sherlock non riesce più a fermarsi, non ora che c’è così vicino. Si china, infatti, e infila le braccia sotto quelle di John circondandolo appena: appoggia poi il profilo sinistro sulla tempia destra dell’altro e inspira a lungo, ad occhi chiusi e labbra leggermente aperte.

John mima inconsapevolmente i suoi movimenti, chiudendo gli occhi e schiudendo la bocca e se pochi istanti prima era teso, ora si rilassa sotto quel tocco tanto delicato quanto palesemente ricercato. E lo cerca a sua volta, sovrapponendo le proprie mani a quelle di Sherlock e strusciando il profilo contro quello dell’altro.

Sherlock non riesce a reprimere un mugolio di piacere: ecco la scarica elettrica, ed è bella forte. E, inoltre, John non si sta allontanando, nota. Anzi, lo sente voltarsi nel proprio abbraccio e cercare in silenzio il suo viso, sia con le mani che con le labbra appena protese in avanti. Sherlock allora gli ferma il viso con le mani -un altro punto di contatto- e lo esplora lentamente, toccandolo fugacemente eppur con tutto se stesso: gli strofina piano le guance con i pollici e sfiora tutto il resto con la punta del naso e delle labbra, assaporando e alimentando quel bisogno che lo stava ormai scavando da dentro.

John si lascia studiare con tutta la lentezza che Sherlock pretende: hanno aspettato così tanto tempo, così tanti anni, che sarà qualche minuto in più?

Sherlock inspira a lungo il dolce profumo di John, memorizzandolo nota per nota e riapre gli occhi nei brevissimi istanti precedenti il bacio, per poi richiuderli languidamente quando le loro labbra si incontrano in un puro istante di estasi.

L’amore, poi, lo fanno lentamente, calmi come la goccia d’acqua che scava la pietra, perché di bruciare come il fuoco, avranno tutto il tempo del mondo, davanti a loro.

Non usano neanche parole, ma sguardi e sorrisi, perché dopo averne passate così tante, basta un leggero inarcare di labbra per creare la confusione più dolce e un leggero strizzare d’occhi per concordare o dissentire ad un’altrettanto tacita domanda.

Si studiano le reciproche cicatrici ed è quello l’unico momento in cui vorrebbero squarciare quel velo di quiete per urlare al mondo Come hai osato ferire la creatura più bella che questa Terra vedrà mai? Urlano stringendo l’uno la pelle dell’altro, sorridendo per consolare l’altro delle proprie stesse ferite, baciando reciprocamente via dal viso della persona più importante al mondo la certezza che non ci sarà più niente capace di ferirli.

Si toccano, perché ora non glielo vieta più nessuno e quel bisogno incessante che raschiava Sherlock da dentro fino a quasi torturarlo, ora non è altro che un’azione normale, una di quelle che non annoia e che non è mai scontata: è la consapevolezza di poter sfiorare la persona che si ama con la stessa libertà con cui si tocca se stessi, conoscendone i limiti, impostando i ritmi e possedendo le chiavi per aprire tutte le porte.

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Capitolo 14
*** Second Chance ***


***Ciao bimbe! Innanzitutto ringrazio la mia adorata Marsallero (Cracked_Actress, actually XD) per il betaggio! Ora, velocissima premessa: è una AU in cui John si è sposato con una Mary a caso (non incinta, non assassina e non c'è stato il casino di Magnussen) e qui inizia da qualcosa come sei mesi dopo il matrimonio. Vi consiglio caldamente di tenere a mente questa immagine mentre leggete eheheh! BACIO!!!***

 

 

Tutto è cominciato quando Mycroft l’ha convinto, non sa neanche lui come, ad accompagnarlo a metà strada tra Londra e Oxford, in un piccolo ma rinomato allevamento di bulldog inglesi.

“Mycroft,” mugugna Sherlock, ancora una volta, prima di scendere dall’auto, “dimmi nuovamente perché sono qui con te.”

“Perché ti stavi annoiando, sei triste per John e io volevo la tua compagnia.”

“Ehi, io non…” sta per obiettare Sherlock, ma prima che possa concludere la frase vede la portiera dal lato di Mycroft chiudersi e quindi è costretto ad uscire e a seguirlo.

Quando entrano nei recinti riservati ai cuccioli, Sherlock ha ancora il muso e borbotta a bassa voce.

“Parla, fratellino, dai voce al tuo dolore,” ridacchia Mycroft, a metà tra il divertito e l’ironico.

“Io non sono triste per John,” è la bugia che ringhia il minore degli Holmes “e poi si può sapere da quando vuoi un cane?”

“Sì, lo sei,” replica rapidamente il maggiore, senza alcuna inflessione nel tono della voce. Inflessione che, invece, acquisisce subito dopo, “Oh, non lo vorrei, in realtà.”

“No,” mugugna Sherlock, continuando assieme a Mycroft quella doppia conversazione come se in realtà fossero in quattro a parlare, “E per quale motivo lo prenderesti allora, di grazia?”

“Sherlock,” si ferma Mycroft e questa volta il tono è vagamente imperativo, “puoi convincere tutto il resto di questo stupido mondo che tu non ti stia struggendo per il matrimonio di John, ma sappi che potrai anche giurare col sangue in mia presenza che non è vero e io non ti crederò comunque.”

Sherlock si ferma a sua volta, ma non guarda Mycroft in faccia: ovvio che sia distrutto per il matrimonio di John e per tutte le conseguenze che ha portato con sé quel maledettissimo giorno. Innanzitutto ora lui vive di nuovo da solo e per quanto John vada spesso a trovarlo, è altrettanto palese che non sia più lo stesso. E sa anche che John si sente in colpa, nonostante la felicità che dovrebbe invece provare per aver sposato Mary, ma Sherlock, per quello, non può proprio farci nulla. Almeno quello, davvero, non può evitarlo: non può anche fingere di essere felice per lui. Fingerà una neutralità che non gli appartiene e John continuerà a fare molto, ma non abbastanza, per farlo sentire meglio. Che vita squallida. La cosa che gli fa più male è che nessuno gli ridarà più indietro quei due anni in cui, nonostante tutte le avversità passate assieme, erano solo loro due contro tutto il resto del mondo.

“Dunque,” sospira Sherlock riprendendo a camminare, “per chi è veramente il sacco di pulci? Per la mamma, forse? O, peggio, per papà?”

Mycroft lo segue e reprime un sospiro: ha visto Sherlock soffrire in molti modi diversi, ma questo è in assoluto il più doloroso tra tutti e non può che provarlo almeno in parte anche su di sé. E quel che è peggio è che non può fare nulla per risolvere la situazione: ha pensato di far sparire Mary in qualche modo, ma risulterebbe sospetto persino per lui e, per quanto gli dia fastidio ammetterlo, John non sarebbe così tanto stupido da non capirlo.

“Mamma e papà? Oh, cielo no,” è la risposta evasiva di Mycroft: deve confessare qualcosa al fratello, ma sarà tutto fuorché facile farlo.

“Dunque? Perché devi prenderti un cane se non lo vuoi?”

“Non è che non lo voglia.”

“Mycroft…” a Sherlock sta per scoppiare un bel mal di testa.

“Guarda!” esclama Mycroft ed egli stesso non può credere alla nota entusiasta che ha assunto il suo tono di voce. Ma non ha tempo di pensarci, perché è impegnato a trascinare Sherlock verso un angolo del recinto in cui si sono isolati due cuccioli di bulldog inglesi.

Mycroft si china ed inizia ad ispezionarli toccandoli il meno possibile, più per abitudine che per altro. Sherlock, invece, quando si china, allunga entrambe le mani verso i musetti dei due cuccioli: un sorriso nasce spontaneo quando i piccoli moncherini delle due code si agitano felicemente scuotendo i sederotti rotondi dei due cani.

“Ehi, qualcuno qui ha trovato due nuovi amici,” Mycroft arriva addirittura a sorridere apertamente, poi, finalmente, avvicina la mancina al più piccolo dei due, “Uno, però, serve a me, Sherl.”

“Sherlock,” lo corregge il minore degli Holmes, “e non ho intenzione di prendermi quello che scarterai tu. Ti sembro il tipo di persona che riesce a prendersi cura di un cane?”

“No,” sorride Mycroft, e lo fa pure affettuosamente questa volta, “ma questo piccoletto mi sembra il tipo di cane che riesce a prendersi cura di te.”

Sherlock sospira,“Non posso, Mycroft. Non posso.”

“Non puoi pensare già a quando lo perderai, Sherlock.”

“Chi sei tu e cosa ne hai fatto dell’uomo che dice di non coinvolgersi sentimentalmente?”

“Quell’uomo…” inizia Mycroft, ma non riesce a finire la frase ad alta voce.

Tuttavia, lo fa Sherlock “...si è coinvolto sentimentalmente. E il cane è un regalo per…?”

Mycroft annuisce.

“Hai trovato un pesce rosso.”

“Oh,” protesta Mycroft, “è molto più di un pesce rosso. Questo è uno di quei pesci che sta sulla Barriera Corallina. Di quelli belli e colorati. E intelligenti. E…”

“Sono contento per te, Myc.” E lo è sul serio, Sherlock: non è invidioso, non potrebbe mai esserlo a discapito di suo fratello, nonostante i battibecchi e tutto il resto.

Il grazie di Mycroft è implicito nello sguardo che, da Sherlock, si muove ora e torna verso il cucciolo, “Questo è il mio modo di chiedergli di venire a vivere da me.”

“Bastardo,” ride Sherlock, “lo compri così? Come si può dire di no a questi cosi tutti rughe, saliva e occhioni supplicanti.”

“Beh, è quella la strategia,” confessa Mycroft, per poi toccare leggermente la spalla di Sherlock con la propria, “Senti, la verità è che sapevo già che ci sarebbero stati due cagnolini della stessa cucciolata oggi. Ho chiesto all’allevatrice di tenerci da parte questi due fratellini perché ho pensato sul serio che potessimo prenderne uno a testa. Credo ti farebbe bene avere un cucciolo con te.”

“Due fratelli?” Sherlock sospira e prende in braccio il cucciolo rimasto, “Oggi giochi proprio sporco, Mycroft.”

“Che ne dici di chiamarli Orville e Wilbur?”

“Come i fratelli Wright?”

“Visto che sei d’accordo, allora andiamo a parlare con l’allevatrice.”

“Ehi,” è la breve protesta di Sherlock.

“Ehi, tu,” Mycroft si alza, portando con sé il piccolo Orville, “non vorrai mica separare due fratelli.”

Sherlock sospira e si alza con il cucciolo in braccio, “Suppongo di no. Andiamo, Wilbur.”

Perché, oggettivamente, come avrebbe potuto dire di no, Sherlock, al proprio fratello che non vedeva sorridere in quel modo da anni e al piccolo cucciolo che gli masticava già la sua preziosa sciarpa blu in segno d’affetto?

*

Convincere la signora Hudson a tenere Wilbur non è certamente stato un problema: quel cucciolo è così docile e carino che neanche Moriarty oserebbe alzare un dito su di lui. Lo circuirebbe e lo renderebbe il suo temibile mastino infernale, magari, ma sempre con amore e uccidendo chiunque lo sfiorasse.

E Sherlock ha scoperto in fretta che tutti quei luoghi comuni sugli animali domestici che rendono la vita più bella e meno triste sono tutti veri. Se lui è triste, basta che Wilbur lo guardi e scodinzoli per farlo sorridere. Se Wilbur guaisce per qualsivoglia motivo, Sherlock lo prende in braccio e lo accudisce con dolcezza.

Per la prima volta dopo tanto tempo, Sherlock sente di essere amato da qualcuno, anche se quel qualcuno è “solo” un cucciolo di bulldog inglese con pelle e saliva in abbondanza.

*

La prima volta che John va al 221B dopo l’arrivo di Wilbur, trova Sherlock sdraiato sul divano, supino, con il cucciolo adagiato tra torace e addome, le quattro zampe divaricate, pancia contro pancia. Dormono entrambi.

John reclina il capo verso la spalla destra e sorride teneramente per quell’immagine che trasmette tutti i sentimenti positivi che possano esistere al mondo: vede la quiete, sente la dolcezza, percepisce l’innocenza. Carpisce tutto ciò che di Sherlock ha sempre avuto la fortuna di vedere e che pochi altri, al mondo, si sono sforzati di voler cercare: vede tutto ciò che di buono c’è in lui.

Si avvicina lentamente e non resiste all’impulso di scattare qualche foto col cellulare prima di togliersi la giacca ed avvicinarsi ulteriormente: si inginocchia ai piedi del divano ed alza la mano, per poi fermarla. Per un attimo è indeciso su chi desideri accarezzare, in effetti. La normalità suggerirebbe che accarezzare un cucciolo di bulldog inglese sia la cosa più giusta da fare, per principio, in assoluto. Ma John sa di non essere del tutto normale, così si sofferma ad osservare il viso di Sherlock che, dopo tanti mesi, è appena appena meno tirato del solito -merito del cucciolo, pensa, la pet therapy fa miracoli, è risaputo- ma non può comunque non sentirsi in colpa. Nei confronti di Sherlock, di se stesso e di entrambi. Perché se è vero che ama Mary, come mai si sente così vuoto quando non è al 221B assieme a Sherlock? E perché l’idea di stare ferendo Sherlock è più dolorosa dell’eventuale pensiero di poter rompere con Mary? E perché, infine, non si sente in colpa come dovrebbe all’idea di lasciarla? Perché lui, che è sempre stato così tanto coraggioso, ora si sente un codardo? Non si sente più se stesso?

I perché di John sono molti e decisamente rumorosi, tanto da svegliare Sherlock che non interrompe quel flusso di pensieri per poter godere ancora della vicinanza del suo dottore.

John, d’altro canto, mette finalmente a fuoco ciò che ha di fronte e si accorge di aver interrotto il sonno dell’altro, “Sherlock,” sorride amabilmente e dissimula i propri movimenti adagiando la propria mano sulla testolina del cucciolo “non sapevo ti fossi trovato un nuovo amico.”

“L’altro mio unico amico è stato impegnato recentemente,” il tono è più triste che accusatorio, Sherlock non riesce ad evitarlo. La voce è un sussurro leggero ma facilmente udibile data la vicinanza di John.

“Vuoi proprio farmi sentire in colpa,” prova a scherzare John, ma la verità è che quella situazione pesa anche a lui. Prova tuttavia a cambiare discorso, “Dunque, com’è successo…?”

“Wilbur.”

“Wilbur? Che carino,” sorride John e si lascia annusare e leccare dal cucciolo che nel frattempo si è svegliato, “Dunque, come sei capitato nella vita di Sherlock, eh?” domanda al cucciolo.

“Mycroft ha pensato che ne avessi bisogno,” ammette Sherlock in un altro sussurro mentre osserva Wilbur che pare apprezzare alquanto John: e chi non lo farebbe? A quale pazzo al mondo potrebbe non piacere John?

Per quanto apprezzi farsi coccolare dal cucciolo, John si volta verso Sherlock: lo vede stanco nonostante il sorriso sia meno tirato. Sente la voce bassa e calma e non può che percepirla triste, “Stai bene? Sembri fiacco. Hai mangiato? Hai la febbre?”

“John,” sorride Sherlock e, non sa come, non riesce a frenare il proprio braccio la cui mano, alzandosi, ricade morbidamente nell’incavo tra la spalla e il collo di John “stai sfoggiando il dottore che c’è in te.”

John alza la mancina e la ricongiunge alla mano destra di Sherlock stringendola un poco, lì, vicino alla sua guancia, “Rispondi alle mie domande, per favore.”

Sherlock ricambia la stretta e deglutisce un lungo sospiro, “Sto bene, lo sai che quando mi sveglio fatico un po’ a carburare.”

“Okay,” concede John e non accenna a voler spostare la propria mano dalla comoda presa in cui è avvolta, “che ne dici se ti preparo qualcosa? I pancakes, magari, che ti piacciono tanto.”

“Mmh,” annuisce Sherlock, “Wilbur però non può mangiarli.”

“A lui daremo la sua pappa. Ne hai ancora?”

“Ovviamente.”

John si china in avanti e gli sussurra sorridente, come se stessero condividendo un enorme segreto, “Scommetto che in questa casa c’è più pappa per cani che cibo per umani, vero?”

Sherlock ride appena e fa di tutto per scontrare delicatamente la propria fronte con quella di John, “Si vede che mi conosci bene.”

Anche John ride e Wilbur, sentendosi escluso, si unisce con un piccolo guaito. Il dottore lo accarezza con la mano libera e, sempre guardando il cucciolo, parla in verità a Sherlock, “Mi manca vivere con te.”

“Con me o con Wilbur?” scherza Sherlock per sdrammatizzare, e sentendo John ridere appena, gli stringe la mano che ha ancora nella propria, “Torna.”

“Non è così semplice.”

“Perché?”

Già. Perché? Se è vero che John non si sente più lo stesso da quando non vive con Sherlock, la soluzione più semplice non sarebbe tornare?

“Perché non ci siamo più solo tu ed io,” John prova a convincere anche se stesso con quella risposta.

Il tono di voce di Sherlock continua a rimanere basso, come se la mancanza di John influisse anche sulla propria potenza vocale, “Per me ci siamo sempre stati solo tu ed io. E sempre lo saremo. Sempre.”

“Non è così semplice,” ripete John prima di alzarsi e dirigersi in cucina.

Per quel giorno, il discorso è da considerarsi chiuso.

*

Mycroft è seduto nel patio di una piccola ma elegante caffetteria assieme ad uomo leggermente più giovane di lui, altrettanto elegante e oggettivamente più bello di lui, quando riceve un sms.

Vedo che hai convinto il tuo pesce rosso a venire a vivere con te. E vedo che Orville cresce bene come suo fratello Wilbur. SH

Mycroft alza lo sguardo per cercare il viso di Sherlock nelle vicinanze ma, non trovandolo, si limita a rispondergli in un momento in cui l’uomo che lo accompagna si assicura che il guinzaglio di Orville sia ancora legato alla gamba del tavolo.

Che ne dici di raggiungerci, fratellino? Qui fanno un’ottima Victoria Cake. MH

Non vorrei disturbare la colazione del pesce rosso e del suo compagno. SH

Vorrebbe conoscerti, in verità. E scommetto che a Orville farebbe piacere rivedere Wilbur. MH

Come fai a sapere che Wilbur è con me? SH

Orville, notoriamente molto pigro, sta annusando l’aria come un forsennato. MH

Va bene. Ordinami un pezzo di torta, nel frattempo. SH

Sarà fatto. Ah, Sherlock? MH

Sì? SH

Ti sarei grato se non lo chiamassi “pesce rosso” in sua presenza. MH

“Va bene,” risponde la voce di Sherlock alle spalle di Mycroft.

Mycroft si alza, mentre l’uomo che è con lui è indeciso se osservare i due bulldog inglesi fare le feste l’uno all’altro o Sherlock, che lo sta studiando proprio come il suo compagno ha fatto con lui la prima volta che si sono incontrati.

“Sherlock,” inizia il maggiore degli Holmes, “ti presento Tom, il mio compagno. Tom, ti presento mio fratello Sherlock.”

Sherlock osserva prima il volto fiero e felice di Mycroft, quindi allunga una mano verso Tom, sorridendo piano, ma sinceramente, “È un vero piacere.”

*

Non riesco a smettere di guardare le foto. JW

Quali foto? SH

Ti ho fatto delle foto la prima volta che ti ho visto con Wilbur. Quando sono arrivato a casa stavate dormendo. JW

Non è giusto. Io non ho foto tue. SH

Non mi hai nel tuo palazzo mentale? JW

Tu SEI il mio palazzo mentale. SH

Non capisco cosa significhi. JW

Comunque, se tu abitassi qui non ci sarebbe bisogno di avere delle foto. SH
Torna. SH

Sherlock, sono sposato ora. JW

Non è qualcosa di irreversibile. Non è come tagliarsi via un braccio o una gamba. Puoi cambiare quello status. SH

Non è semplice come schioccare le dita. JW

Allora smettila di comportarti come se ti dispiacesse. SH

Ma mi dispiace. JW

Non abbastanza. SH

*

Prima o poi doveva succedere e quella era la conferma. Prima o poi doveva succedere che non fosse abbastanza bravo da riuscire a prendersi cura di Wilbur: è questo ciò di cui Sherlock si sta incolpando ora, nella sala d’attesa dello studio veterinario più vicino a Baker Street, mentre cammina avanti e indietro con lo sguardo rivolto alla porta che conduce alla stanza in cui il dottor Smith sta visitando il suo adorato bulldog inglese.

Quando una porta si apre, Sherlock scatta in avanti, non accorgendosi subito che, in realtà, è entrato qualcuno dall’ingresso principale e non da quell’uscio che lo divide ancora dal suo amico a quattro zampe. Quindi si volta nella direzione opposta ed è stupito di vedere John.

“Cosa ci fai qui?”

John riprende fiato dalla corsa che ha evidentemente fatto ed alza la mancina per indicare le sale visita della clinica veterinaria.

“Si sa qualcosa? Come sta Wilbur?”

“Cosa ci fai qui?” ripete Sherlock e questa volta alza la voce, nervoso e preoccupato.

John inspira forte per recuperare l’ultimo sorso di ossigeno che gli mancava per tornare a respirare regolarmente, quindi fa spallucce, “Mi ha chiamato Greg, mi ha detto cosa è successo.” Scrolla poi il capo, ancora incredulo su quel punto, “Perché hai chiamato Greg? Perché non hai chiamato me? Sono io il tuo migliore amico.”

Ma se John è incredulo in un verso, Sherlock lo è nell’altro, “Hai veramente voglia di discuterne ora?” ringhia quasi, “Non ho bisogno anche di te, ora.”

“Anche di me?”

“Non ho bisogno di stare male anche per te, adesso.” sbotta Sherlock perché non può avere la pazienza anche per affrontare John, ora. No davvero. “Ora è chiaro, John? Vattene.”

E ora John si sente incredibilmente stupido. E stronzo. Ma per quanto stupido e stronzo, non abbandonerà Sherlock in quella situazione. Anche a costo di prendersi un pugno in faccia. Gli si avvicina dunque, nonostante lo senta mugolare in dissenso e lo veda crollare sulla sedia e piegarsi in avanti per nascondere il viso tra un intreccio di braccia, gambe e riccioli scuri a nascondere ciò che rimane scoperto della fronte. John gli si inginocchia davanti e gli cattura la parte superiore del busto tra le braccia: stringe forte, perché non lo vuole lasciare andare: che lo insulti pure, se vuole, lui non si muoverà.

Ma Sherlock non protesta, anzi, sembra arrendersi: è così stanco di trattenere tutto ciò che ha dentro. Trattenere, poi, per cosa? Ormai anche i muri conoscono i suoi sentimenti per John, quindi perché sforzarsi di negare? Ora saranno affari di John, starà a lui decidere come comportarsi: cosa accettare e cosa rifiutare. E se a Sherlock non andrà più bene, beh, il mondo è piccolo, si dice, ma lui sa bene come sparire.

John lo chiama a bassa voce e non vedendo alcuna apparente protesta, prova seppur con qualche difficoltà ad alzargli il viso: quando ci riesce, gli tira i capelli all’indietro per scoprirgli il viso “Eccolo qui il mio Sherlock,” sussurra e continua quei movimenti che via via si trasformano sempre più in piccole carezze, “dai, dimmi cosa è successo al piccolo Wilbur.”

Sherlock alterna lo sguardo tra la porta e il viso di John, “Non so di preciso, ha ingerito qualcosa, è colpa mia.”

“Magari non è nulla di irreparabile,” lo incoraggia John, “nulla che non si possa espellere in modo naturale.”

“È così piccolo.”

“Quindi più adatto a guarire da certi tipi di problemi.”

“Non è un osso rotto, John.”

“Lo so, Sherlock,” sussurra il dottore “lo so. Ma non è detto che sia finita.”

“John, tu…” inizia Sherlock, poggiando la fronte su quella di John.

“Cosa?”

“Nulla.”

John sta per obiettare, ma a quel punto la porta della sala visite si apre e il veterinario ha un sorriso incoraggiante disegnato sul volto. Sherlock si alza di scatto e John lo segue subito dopo.

“Wilbur sta bene, signor Holmes,” lo rassicura prima di tutto “era solo una monetina. A volte capita che gli animali domestici le mangino, ma siccome Wilbur è ancora piuttosto piccolo, ha avuto bisogno di una mano per poterla espellere in modo naturale.”

Sherlock è così sollevato che inizia un lungo sproloquio a bassa voce il cui interlocutore altri non è se non se stesso, così è John a rispondere alle domande del dottor Smith e a guidare l’amico all’interno della sala visita tenendolo per mano.

“Portiamolo a casa,” dice poi John e Sherlock annuisce in silenzio, cullando un dormiente Wilbur tra le braccia, come se fosse un neonato.

*

Una volta arrivati a Baker Street, Sherlock non ha voluto lasciare Wilbur neanche per un istante, così John si è occupato della cena, di apparecchiare tavola e anche di rassettare un po’ in giro per cercare, quanto meno, di diminuire le probabilità che altri incidenti come quelli di quel giorno possano ripetersi.

Solo dopo cena, Sherlock si fida ad appoggiare un ancora dormiente Wilbur sulla sua cuccia: si accascia sulla propria poltrona, poi, sfibrato da quella lunga giornata.

John lo imita, sedendosi sulla propria e sporgendosi un poco in avanti per riuscire a toccare il ginocchio di Sherlock. “Dai, alla fine è andato tutto bene. Wilbur sta bene, puoi rilassarti.”

Sherlock annuisce, “Sì. Infatti ora puoi anche andare…” si morde il labbro, poi aggiunge “Grazie.”

Lo stupore di John è palpabile e lo stempera con una piccolissima risata, “Posso rimanere ancora un po’.”

“Ma come? Non hai una moglie da cui tornare? Sei sposato ora, l’hai detto così tante volte,” Sherlock guarda altrove, ma arriccia con forza le dita delle mani sui braccioli della poltrona, “se non fossi così stanco sono sicuro che riuscirei a ricordare velocemente tutte le volte che l’hai detto e fare un rapido calcolo.”

“Sherlock…”

“Vai via, John. Non ti ho cercato io, oggi.”

“Perché vuoi che me ne vada?”

“Perché se non te ne vai ora, potresti pentirtene.”

John reclina il capo di lato, ma non accenna a spostare la propria mano dal suo ginocchio, “Perché?”

Sherlock, d’altro canto, scatta in avanti e gli afferra la mano “Perché io ora proverò a baciarti.” Ringhia: è la sua ultima cartuccia, “E se tu lo accetterai, il tuo matrimonio sarà finito per sempre, mentre se lo rifiuterai, sarà la nostra amicizia ad essere finita.”

John chiude gli occhi e, dopo molto tempo, finalmente sente una scarica elettrica scuoterlo: sente risvegliare una parte di coscienza che era da tempo sopita, nascosta e che fremeva per poter uscire. Riapre gli occhi, allora, e lo fa in tempo per riuscire a vedere il viso di Sherlock avvicinarsi al proprio. Apre leggermente le labbra e respira un soffio d’aria direttamente dalla bocca di Sherlock, ma lo ferma prima che il vero contatto avvenga.

“Aspetta.”

Sherlock chiude gli occhi ed inspira, sconfitto. Sente John alzarsi e può distinguere il frusciare delle maniche della giacca quando rivestono le sue braccia da ex soldato. Ma, più di ogni altra cosa, sente il mondo crollare.

John, invece, si muove con più sicurezza ed è per questo che riesce a capire quale pensiero stia attraversando la mente di Sherlock, quindi si china di fronte a lui, riempiendo quel posto rimasto vuoto.

“Le cose vanno fatte bene, Sherlock,” gli bacia la fronte e lo stringe con una forza nuova e al tempo stesso vecchia, con un vigore ritrovato, “non voglio essere il codardo che tradisce sua moglie irrispettosamente.”

Sherlock riapre gli occhi e lo guarda da vicino e gli pare di riconoscere qualcuno che ha conosciuto molto tempo prima: un ex soldato pieno di problemi, ma fiero e pronto a rimettersi in gioco.

“Quindi ora vado al mio appartamento,” parla lentamente, John, come se stesse suggellando un patto importante, “parlo con Mary,” gli accarezza le occhiaie coi pollici, “faccio la valigia,” un altro bacio sulla fronte, “e ritorno qui, a casa. Il posto a cui appartengo, dalla persona che amo veramente, okay?”

“John,” il respiro di Sherlock accelera inevitabilmente.

“Fammi fare le cose bene, come avrei fatto un tempo, quando eri tu a guidarmi.”

“Vai. E fai in fretta,” lo sprona Sherlock, strattonandolo con tutta la forza che ha in corpo, “perché prima concludi questa faccenda, prima potrai tornare nel posto a cui appartieni, dalla persona che ti ama veramente.” Usa le sue stesse parole: un voto, una promessa.

Anche John lo strattona prima di liberarsi dalla sua presa: gli sorride, poi si volta e corre giù per le scale, quindi per strada, verso la via che lo aiuterà a concludere la ricerca della vera essenza di sé.

Per quanto riguarda Sherlock, ora non può fare altro che attendere, a mani intrecciate, con la gamba destra che balla un tip tap nervoso sul vecchio pavimento del 221B di Baker Street.

*

Sono quasi le cinque del mattino quando Sherlock, ancora seduto sulla poltrona del soggiorno, si sveglia a causa di qualche leggero rumore: fuori dalla finestra si sentono gli ammortizzatori dei Double Decker sfiatare alle pensiline delle fermate, le frenate dei camioncini dei fornitori che consegnano i latticini freschi alle caffetterie e i tonfi dei quotidiani lanciati dai fattorini contro le porte.

Ma sono i suoni che percepisce all’interno dell’appartamento quelli che lo incuriosiscono maggiormente: sente il leggero russare di Wilbur e, ancor più bello, sente qualche tintinnio proveniente dalla cucina. Mette a fuoco, allora, e dopo aver individuato un vecchio borsone militare davanti alla porta dell’ingresso, vede John, il suo John, preparare la colazione nonostante l’orario decisamente mattutino. Che l’abbia fatto apposta per svegliarlo? A Sherlock va bene così.

Va bene, perché si alza dalla poltrona e con la grazia di un gatto si avvicina a John, di spalle, in tempo per chiuderlo in una presa possessiva e probabilmente anche un po’ scomoda.

Le spalle di John scricchiolano un poco, ma al dottore non sembra dar fastidio più di tanto. “Sono riuscito a far finta di non volerti svegliare, dunque.”

Sherlock dondola leggermente, facendo barcollare inevitabilmente anche John del quale ignora completamente le parole, “Sei tornato?”

“Tu che dici?”

“Sei tornato?” insiste Sherlock: ha bisogno di sentirlo dire.

John capisce ed annuisce paziente, “Sì, sono tornato.”

“Sei tornato per restare?”

“Per sempre.”

Sherlock modifica la propria presa, ma non la smorza di molto, “Conosci le mie intenzioni, ora.”

“Rimarrai sempre il mio migliore amico.”

“Mmh,” non la risposta che Sherlock si aspettava.

John, tuttavia, sorride sicuro, “Non si lascia una moglie per un semplice amico, Sherlock.”

Sherlock mugola ancora e rinvigorisce la stretta.

John ride appena e, non sa neanche lui come, riesce a ruotare in quella stretta per poi trovarsi faccia a faccia con Sherlock. “Lo dico più chiaramente, allora. Ma solo se allenti un po’ la presa.”

Sherlock ammorbidisce i muscoli delle braccia, ma riesce comunque a tenere John stretto a sé. Ha gli occhi languidi e un leggero sorriso disegnato su quelle stesse labbra con le quali ora sfiora il viso di John.

John chiude gli occhi e appoggia le labbra su quelle di Sherlock, brevemente, come un leggero assaggio che lo prepari ad un boccone che è troppo gustoso da poter essere mangiato tutto assieme, “Ti chiedo scusa e ti ringrazio al contempo, Sherlock.” Pronuncia frasi brevi, poiché le sue labbra e quelle di Sherlock, ora che si sono assaggiate per la prima volta, non sembrano aver alcuna intenzione di stare ancora troppo lontane l’una dall’altra, “Ti chiedo scusa per essere stato così sciocco da non vedere cosa c’era veramente tra noi, facendo soffrire entrambi, ma soprattutto te.”

Sherlock mugola e nonostante sembri in uno stato di trance portato da una qualche forma di estasi, sta ascoltando attentamente le parole di John.

“E ti ringrazio, perché è grazie a te se sono riuscito a ritrovato a me stesso dopo essermi smarrito. Non posso stare lontano da te, Sherlock, non posso e non voglio, ne va della mia vita.”

“John…”

John alza le proprie braccia quanto può, stringendo Sherlock all’altezza dei fianchi, “E ti ringrazio per avermi dato un’altra possibilità quando non l’avrei certamente meritata.”

Sherlock ripete il nome di John come un mantra e continua a baciarlo delicatamente, quasi come se stesse chiedendo il permesso.

“Ti amo,” conclude John, “e farò tutto ciò che in mio potere per darti la felicità che meriti.”

Sherlock sorride, finalmente, e lo fa a piene labbra, felice e grato per le parole che John gli ha appena regalato. Non era contemplata l’opzione di non perdonarlo, così, a mente calda, ma è sicuro che in un momento più tranquillo riascolterà quelle parole più e più volte e rinnoverà la certezza di aver fatto la scelta giusta a concedere a John un’altra possibilità.

Si incontrano a metà strada per un bacio più lungo, più approfondito, con le braccia che prima si ammorbidiscono attorno agli altrui colli e che dopo rafforzano nuovamente quegli abbracci, mossi da un altro tipo di urgenza che diminuisce al suono di un guaito.

Entrambi abbassano lo sguardo e vedono un gioioso e rinvigorito Wilbur provare ad attirare la loro attenzione con un esagerato scodinzolio e un accenno di guaito.

“Oh,” John si china per prenderlo in braccio e porgerlo a Sherlock, “visto? Il piccolo Wilbur sta bene.”

“Oggi è un giorno fortunato,” sussurra Sherlock tenendo Wilbur con un braccio e le spalle di John con l’altro, “John?”

“Sì?”

“Oggi possiamo stare tutto il giorno insieme? Tu, io e Wilbur?”

John sorride ed alza il viso per baciare la guancia di Sherlock, “Certo.”

“Sdraiati? Sul divano o sul letto?”

“Sì, Sherlock.”

Sherlock sorride felice e anche Wilbur si unisce alla sua gioia leccandogli la mano, “Sta accadendo sul serio, John?”

John si fa strada tra le braccia di Sherlock con attenzione e, dopo avergli baciato le labbra a lungo e dolcemente, annuisce appena, “Sì, è tutto vero. Stiamo insieme, Sherlock. Siamo di nuovo tu ed io...”

“...e Wilbur...”

John ride, “Siamo tu, io e Wilbur contro il resto del mondo. Senti come suona bene?”

Sherlock sospira, ed è un anelito bello, sereno e soddisfatto. “Suona perfettamente.”

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Capitolo 15
*** Sugar ***


***Ciao bimbe! Non scrivo da molto tempo, mi scuso, ma sono molto impegnata con le battute finale dell'università tra esami, tirocinio e tesi :3 Ma ci tenevo a rompere il digiuno con questa shottina a dir poco stupidina nata dalla mia temporanea fissa per Adam Levine e le sue canzoni (vi chiedo scusa in anticipo per l'eccessivo uso della parola "zuccherino" XD ), per la mia fissa per i tatuaggi e bon, ho usato questa cosina scema per stemperare un po' di tensione, ecco. Si tratta di una AU con different first meeting, OOC, diversi mestieri per entrambi, non c'è il PTSD per John e Sherlock non è nemmeno un detective, figuriamoci! Una cavolatina, come ho già detto! Bonci, un bacione! BACIO!!! Ps: ringrazio HotaruTomoe per il betaggio <3***




 

Sugar



 

La tua presunta abilità è richiesta. Venerdì pomeriggio alle 15 nel tuo appartamento. Se puoi bene, se non puoi liberati. SH

Questo è l’SMS che John si ritrova nel cellulare, mercoledì mattina, appena alzato dal letto. Il numero è sconosciuto, la sigla non gli fa suonare alcun campanello d’allarme e, ancor peggio, non è specificata la presunta abilità di cui sarebbe dotato. Che il simpaticone dall’altra parte del telefono abbia sbagliato numero?

Comunque John non è tipo da prendersela per così poco, quindi decide di giocare con questo sconosciuto mentre fa colazione: almeno non si annoierà.

Se l’abilità di cui parli è solo presunta, allora non si tratta del sesso. JW

John sa che il tempo delle battutine sul sesso dovrebbe essere già finito da una decina d’anni, da quando è uscito dall’adolescenza, ma chissà cosa potrebbe uscire fuori da quello strano SMS.

Non stavo parlando di sesso. Tuttavia, se la presunta abilità che cerco in te è veramente ragguardevole, potrebbe portare anche a quella piacevole conseguenza. SH

John quasi si strozza col caffè: ecco, lo sapeva, quel gioco gli si era ritorto contro e ora era lui quello in imbarazzo. Si decide quindi a chiedere spiegazioni.

Perfetto. Chi sei? Da hai avuto il mio numero e, per l’amor del cielo, di quale presunta abilità stai parlando? JW

Sherlock Holmes. Mike Stamford. Tatuaggi. SH

“Che razza di nome è Sherlock…” si domanda John mentre si ricorda del momento in cui aveva incontrato Mike e, raccontandogli della sua nuova attività da tatuatore, gli aveva chiesto se, per l’appunto, potesse consigliarlo ai suoi amici in caso fossero interessati a quel genere di prestazioni.

Capisco. Dunque sei amico di Mike? Sei un medico anche tu? Al Bart’s? Devo darti una brutta notizia, comunque. JW

Amico è una parola grossa. Frequento il Bart’s, ma non sono un medico. Quale brutta notizia? SH

A giudicare dall’insistenza circa l’abilità richiesta, ritengo di non essere il tatuatore che fa per te: tatuo solo da un anno e non ho nemmeno uno studio mio. Probabilmente dovresti affidarti ad un professionista più esperto. JW

Rifiuti un lavoro di cui hai bisogno senza neanche incontrare la tua tela e sentire la sua richiesta? Potrei essere il tatuaggio della tua vita. SH

John sbuffa l’aroma della sua seconda tazza di caffè e risponde nuovamente.

Hai letto cosa ti ho appena scritto? Non andavi cercando una particolare abilità ed esperienza? JW

E tu non sei curioso di vedere la tua tela? SH

Allegata all’ultimo SMS vi è la foto di un torace pallido e asciutto, addirittura tonico: l’ideale per un tatuatore. John deglutisce perché quel torace non è solamente ideale per un lavoro ad ago e inchiostro, ma è anche molto sensuale: inoltre, si intravede anche una porzione di viso che arriva appena sotto il naso.

“Dio. Mio. Quelle labbra.” Sillaba John, intento a studiare a fondo il torace di Sherlock sul quale spiccano già alcuni tatuaggi: si impone di concentrarsi su quelli, ma la verità è che quel corpo perfetto l’ha rapito. E non solo a livello professionale.

Un altro SMS da parte di Sherlock.

Dunque, la tela è di tuo gradimento? SH

Molto. JW

Allora accetti il lavoro? SH

In realtà proprio perché la tela è davvero molto bella non sono sicuro di voler rischiare di rovinarla. JW

Quello non dovrebbe essere il primo ostacolo psicologico che un tatuatore dovrebbe superare? SH

Questa tela è particolarmente bella. JW

Allora sono sicuro che ne avrai particolare cura mentre la tatuerai. SH

“Ma cosa diavolo…” mugugna John che, tuttavia, tutto s’aspettava tranne che avrebbe flirtato con uno sconosciuto. Uno sconosciuto apparentemente molto bello, ma pur sempre sconosciuto.

Perché io? JW

Perché ho visto i tuoi lavori sulla tuo sito online. E perché ho visto te. SH

Dove? JW

Al Bart’s. SH

Stai dicendo che ti piaccio? JW

Vediamoci oggi allo Starbuck’s di Camden Town. Ore 18. Parleremo del soggetto del tatuaggio. SH

Chi ti dice che io sia libero a quell’ora? JW

Liberati per me. A dopo. SH

John rimane a bocca aperta, stupido sia dalla propria incapacità a dire di no a quella stupenda tela, che per l’improvviso verificarsi di quell’occasione imperdibile. Mal che vada conoscerà un gran bel ragazzo, no?

Dopo aver finito di fare colazione, impacchetta album ed astuccio e va al lavoro.

***

John è seduto in uno dei tavolini interni dello Starbuck’s e sta scarabocchiando sul proprio album da disegno quando Sherlock gli si para di fronte allungando verso di lui un altro bicchiere di Earl Grey.

“Scusa per il ritardo,” sorride Sherlock, offrendo la bevanda in segno di scuse.

Il tatuatore esita qualche istante di troppo sul volto di Sherlock scoprendo che anche l’altra metà mancante del viso è a dir poco stupenda. Sorride rapito, a labbra aperte, e fa cenno allo splendore che ha di fronte di sedersi.

Anche Sherlock si prende qualche istante per poter rimirare John da più vicino e il sorriso che gli dona lo spinge a ricambiare, riempiendo le guance che si colorano appena appena di rosa.

“Cosa stavi disegnando? Hai qualche lavoro in sospeso?” Chiede il giovane che lascia scorrere lo sguardo sulla poca pelle che John mette in mostra -oh come vorrebbe vedere quei tatuaggi per intero- e non può fare a meno di chiedersi chi sia la fortunata persona a cui è stato permesso toccarlo.

John torna alla realtà scuotendo leggermente il capo “No, solo qualche schizzo a mano libera.” tossicchia, ma non fa nulla per nascondere il proprio sguardo curioso “Beh devo dire che ad una prima occhiata i tuoi tatuaggi non sono affatto male. Perché vuoi cambiare tatuatore?”

“Ho cambiato molti tatuatori,” inizia Sherlock che vede John annuire: quello era palese, d’altronde gli stili sono molto diversi l’uno dall’altro “ma nessuno di loro mi ha più dato l’emozione che ho provato la prima volta. Quindi l’ho cambiato ad ogni nuovo tatuaggio, ma la magia non è più successa.”

Il sorriso che nasce sulle labbra di John è spontaneo: può capire bene cosa Sherlock possa intendere con le sue parole. Un tatuaggio non dovrebbe essere solo un mero disegno indelebile sulla pelle, bensì dovrebbe significare qualcosa di importante. Un tatuaggio può essere stilisticamente bello, ma se fatto senza cuore non varrà comunque nulla ai suoi occhi. E a quanto pare anche Sherlock la pensa in quel modo.

“Capisco cosa intendi. Deve esserci un rapporto di fiducia tra tela e tatuatore, ma…”

“...chi mi dice che tu sia la persona giusta?” Lo interrompe Sherlock, intuendo il flusso dei pensieri di John.

“Esatto.”

“Io voglio te, John.”

Non che John non sia deliziato dal sentire quelle parole, ma non può fare a meno di chiedere “Perché?”

“Perché mi piaci.”

Sherlock deglutisce dopo aver confessato quella piccola, grande verità e John rimane a bocca aperta. Lusingato, certo, ma anche confuso.

“L’hai detto a tutti i tuoi precedenti tatuatori?”

“Non essere geloso,” dice Sherlock, provando a nascondere l’imbarazzo dietro quella battuta. Poi torna serio “No, non essere ridicolo.”

John ride e scuote leggermente il capo “Non capisco, ci conosciamo? Non direi, però. Me lo ricorderei uno come te.”

Sherlock arrossisce appena e si alza porgendogli la mano “Vieni, facciamo un giro: ti racconterò tutto.”

***

Mentre camminano nel mercato sotterraneo di Camden Town, Sherlock confessa a John di averlo notato mentre studiavano al college, ma non aveva mai trovato il coraggio di parlargli, lasciandosi scappare l’occasione anche solo di parlargli. E così, quando aveva saputo da Mike Stamford che John era tornato in città ed era niente meno che un tatuatore, aveva deciso di prendere la palla al balzo e di contattarlo il più presto possibile.

“Non ci posso credere,” è il commento divertito di John.

“A quale parte della storia?” chiede Sherlock con un sorriso.

“Che dopo tutti questi anni io ti piaccia ancora al punto di chiedermi di tatuarti,” John fa spallucce e scrolla il capo “Insomma, non faresti prima a chiedermi di uscire? E, in secondo luogo...”

Sherlock si ferma quando si accorge che anche John ha arrestato i propri passi “Sì?”

John allarga le braccia in un gesto di resa “Insomma, sei magnifico, potresti avere chiunque…”

Ma Sherlock lo interrompe prontamente “Questo è assurdo, dato che per me sei tu quello magnifico.”

Il sorriso di John si apre sinceramente e fa un passo in avanti per annullare la distanza che li divide: alza la mancina per seguire coi polpastrelli la struttura chimica di una stringa di DNA tatuata sul braccio di Sherlock.

Sherlock trattiene il respiro fino a quando le dita di John gli si fermano sullo zigomo destro “Mi tatuerai, dunque?”

John, che pensa di aver intuito perché Sherlock tenga così tanto a farsi tatuare da una persona da cui è attratto, annuisce leggermente “Sì.”

Sherlock rilascia il respiro che stava nuovamente trattenendo e appoggia la guancia sulla mano con cui John lo sta ancora accarezzando “Grazie.”

Escono dal mercato e camminano in giù, verso la fermata metropolitana di Camden Town sfiorandosi le mani, tenendosi a tratti per i mignoli, parlando di cosa hanno fatto in quegli anni. John scopre che Sherlock è diventato un chimico e lavora per una struttura governativa dell’MI6. Sherlock scopre che John, dopo il congedo militare, lavora come fisioterapista in una struttura militare in cui si aiutano i veterani di guerra alla riabilitazione fisica per i traumi più o meno gravi subiti in guerra.

Si salutano con due baci sulla guance e la promessa di scambiarsi SMS con le foto delle bozze del tatuaggio che John avrebbe iniziato ad incidere venerdì.

“A presto, zucchero.” scappa a John.

“Zucchero?” ride Sherlock, fermandosi al bivio della Nothern Line tra Morden e Edgware.

John ride, rendendosi conto di quanto ha appena detto solo nel momento in cui Sherlock gliel’ha fatto notare “Scusa, ho in testa questa canzone che si chiama Sugar, per l’appunto,” ride ancora “Te la faccio ascoltare venerdì.”

“I Maroon 5, John? Davvero?” Sherlock inarca un sopracciglio per poi esser colto dall’illuminazione “Non dirmi che è per Adam Levine.”

John ammicca e prima di scendere le scale confessa “Dovresti averlo capito, ormai, che mi piacciono alti, belli e tatuati.”

Sherlock ride e si avvia dalla scalinata opposta, correndo per riuscire a prendere la metro in arrivo.

***

Sei sicuro, Sherlock? Un tatuaggio così grande? JW

Sì, tutto il braccio sinistro, spalla, parte del collo e del fianco. SH

Sarà impegnativo, potrebbe volerci più di una seduta. JW

È un problema? SH

Metterti le mani addosso per più di un giorno? Assolutamente no. JW

Mi auguro che tu non stia parlando esclusivamente del tatuaggio. SH

Oddio, no. JW

***

È venerdì e quando Sherlock arriva all’appartamento di John gli chiede di potersi cambiare ed indossare dei pantaloni più comodi dato che la seduta sarà alquanto lunga. Così, quando Sherlock esce dal bagno indossando esclusivamente un paio di pantaloni della tuta, John deve raccogliere la propria mascella dal pavimento per riuscire a parlare di nuovo.

“Mio dio. E io che stavo per rinunciare a questo lavoro.”

Sherlock decide di rompere gli indugi, perché di titubanze ne ha già avute fin troppe e non può fare a meno di chiedersi se sarebbero potuti diventare qualcosa di più già dai tempi del college se non fosse stato così timido. Cammina, dunque, e una volta arrivatogli di fronte si abbassa e appoggia le labbra su quelle di John: non è neanche un bacio, è un desiderio di toccarlo a livello più intimo che si porta dietro da almeno cinque anni.

È John a farlo diventare un bacio, approfondendo quel tocco, ma tirandosi indietro in tempo per evitare di arrivare già a quel punto: è già chiaro che succederà, quindi vuole godersela appieno, frenando per rendere l’attesa più dolce. Una promessa che verrà mantenuta e maggiormente apprezzata perché ancora più attesa. E poi John vuole scoprire se la sua teoria è giusta.

“Vai, zucchero, sdraiati,” lo invita John accompagnandolo al lettino per massaggi che è solito usare per il suo lavoro da tatuatore, “avremo tempo anche per quello, dopo.”

Sherlock mugola in assenso e si sdraia: deglutisce mentre osserva i movimenti di John e sente il cuore accelerare. Cerca di controllarsi, ma la verità è che anche il suo respiro aumenta mentre aspetta che John, il ragazzo che ha aspettato per cinque anni, operi la magia su di lui.

Dopo aver selezionato la playlist dei Maroon 5, John sorride a Sherlock ed inizia a prepararsi. Sistema parte dell’occorrente nel tavolo vicino al lettino e, sotto lo sguardo vigile dell’altro, si infila i guanti di lattice: lo schiocco dell’elastico sul suo polso fa rabbrividire la sua tela.

“Rilassati,” suggerisce John, ma la verità è che Sherlock sta vivendo quella preparazione come una sorta di preliminare amoroso: trattiene il respiro quando il tatuatore riveste il tubo della macchinetta con la protezione di plastica e fatica a deglutire quando lo sente provare il funzionamento della stessa.

“J-John…” mugola poi, quando John gli applica lo stencil sulla pelle “...sta per succedere. Stai per tatuarmi, tu” sottolinea “stai per tatuarmi.”

“Calmati, lo sai, dovrai stare fermo una volta che avrò iniziato.” John si china e gli bacia la guancia “Raccontami cosa provi mentre lo faccio.”

Sherlock annuisce vigorosamente e tiene gli occhi chiusi finché non sente il rumore della pistola inquinare la musica che proviene dal laptop di John: vede il suo tatuatore baciargli la spalla in un punto in cui l’inchiostro dello stencil non lo ha sporcato e poi succede. Ed è una benedizione.

John traccia i contorni del primo esagono tutto in una volta: sa che all’inizio un tatuaggio può essere doloroso, ma sa anche che il cervello umano in questi casi interviene liberando più endorfine che aiutano a sopportarlo. Ogni persona, poi, è diversa: ognuno percepisce e sopporta ogni tipo di dolore in modo diverso. Gli sono capitati omoni più grandi di lui che chiedevano continue pause a causa del dolore, e ragazzine più esili di lui capaci di sopportare due ore e mezzo di incisioni senza patire la benché minima pena. Poi ci sono le persone come Sherlock.

Sherlock, che non solo sopporta stoicamente le ferite portate dall’incisione, ma che prova anche un leggero piacere per quel tipo di dolore.

“J-John… oh la tua mano è perfetta, la pressione sublime…”

“Raccontami, zuccherino, dimmi perché ti piace tanto,” sussurra John, concentrato nel proprio lavoro, ma estremamente ricettivo ai mugolii di Sherlock.

“È stupendo, John, è stupendo,” insiste Sherlock, mordendosi appena le labbra.

“Lo so, ma voglio sentirlo da te,” si ferma per pulirgli i punti già incisi e ne approfitta per guardarlo negli occhi. “Dimmelo, zuccherino, ti prego.”

Sherlock inspira a lungo e cerca di calmarsi un poco: d’altronde ne avranno per ore e ha tutto il tempo di godersi quel tatuaggio.

“Il mio primo tatuaggio risale al mio ultimo anno di college: tu non c’eri già più e mi annoiavo così tanto…” arriccia alcune delle vocali finali delle parole, preso da quella leggera ma costante eccitazione “...e stavo con uno, si chiamava Victor. Buono a nulla, tranne che per i tatuaggi e, beh, era un bel vedere, come diresti tu.”

John ridacchia e lo esorta a continuare.

“Ebbene, Victor ha insistito col volermi tatuare e io ho accettato perché, come ho già detto, ero molto annoiato e il disegno che mi aveva proposto era molto bello. Ed è successo che…” Sherlock fa una pausa durante la quale ne approfitta per osservare il viso concentrato di John che trova ancor più bello del solito “...che una volta sparito il dolore iniziale trovassi quel dolore piacevole.”

John alza un angolo della bocca in un sorriso: aveva ragione, dunque. “Vai avanti. Descrivilo.”

“Non è solo il piacere fisico. È la consapevolezza di avere completo potere sul tuo corpo.” Sherlock si morde il labbro inferiore quando John arriva al gomito: quel punto è molto più sensibile degli altri. “Tu hai deciso di tatuarti qualcosa di indelebile sul tuo corpo e hai deciso che a farlo sarà qualcun altro di cui devi fidarti. Quindi non è solo viaggiare su quel sottile confine tra dolore e piacere, ma è anche…”

“...controllo.” John finisce la sua frase e interrompe il proprio lavoro per cambiare aghi alla pistola “Userei quelli più grossi per riempire gli spazi neri più grandi. Pensi di farcela?”

Sherlock sospira “John…”

“Pensi di farcela senza muoverti, Sherlock?” ripete John e quando l’altro annuisce si allunga per disinfettare quanto ha già fatto “Bravo il mio zuccherino.”

Per le successive due ore, Sherlock mugola e si sforza di rimanere immobile sotto la macchinetta di John che continua a tatuarlo con maestria.

A due ore e mezza dall’inizio del lavoro, John ha quasi finito tutto il braccio sul quale ha tatuato tante piccole cellette, alcune delle quali colorate di nero, e al centro dell’avambraccio, poco sopra il polso, un’ape grande almeno 5 centimetri.

“Devo finire i dettagli, poi decidiamo se fare il costato o se rimandare…” John non riesce a finire la frase che la playlist fa partire Sugar, la canzone che è rimasta nella sua testa e che non vuole andarsene per nulla al mondo “Oh, eccola…” inizia a mugolarla.

Sherlock intanto è giunto al limite: è eccitato per il tatuaggio e, ancor di più, perché è proprio John ad inciderglielo: i respiri si trasformano, diventando sempre più simili a piccoli ansiti “John…”

Suuugar… yes please…” canticchia John provando invano ad imitare la voce in falsetto di Adam Levine, mentre preme sul braccio di Sherlock per farlo voltare verso di sé “...won’t you come and put it down on me…” ridacchia per quel particolare passaggio “...right here… ‘cause I need… little of love and little sympathy…

“John,” quello di Sherlock è un vero e proprio gemito ora “ti prego, tatuami pure Sugar nell’interno coscia se vuoi, sarò il tuo zuccherino, ma ora ho bisogno di te.”

John alza le mani e allontana la pistola dalla pelle di Sherlock e gli occhi dal suo braccio: può così notare la sagoma dell’erezione della sua bisognosa tela sotto i pantaloni comodi della tuta “Va bene, direi che abbiamo aspettato anche troppo,” spegne la macchinetta in tempo per subire l’assalto di Sherlock che gli si siede sulle gambe senza alcun riguardo.

“Sherlock,” ride John, nonostante tutto “aspetta, dai, devo disinfettarti il braccio.”

“Dopo,” ruggisce Sherlock e la sua voce parte da dentro il suo torace ed è un concentrato di eccitazione e fame.

“No, zucchero, ora.”

“No!” ringhia Sherlock strusciandogli addosso tutta la propria eccitazione: il vago sentore del dolore al braccio non è nemmeno paragonabile al suo desiderio per John.

John sospira e riesce a malapena ad appoggiare la macchinetta al tavolo e a recuperare i disinfettante “Dai, Sherlock, hai aspettato due ore e mezza, puoi anche allungare per altri…”

“Due ore e mezza?” è il ruggito sarcastico di Sherlock “Sono cinque anni che aspetto questo momento, sono cinque anni che aspetto te, John.”

John si ferma, allora, ed annuisce appena. Bacia le labbra di Sherlock e lo stringe, per poi liberarlo ed indicargli la camera da letto “Vai di là e finisci di spogliarti per me, zucchero. Io ti raggiungo subito. Giuro.”

Sherlock segue le istruzioni di John quando lo sente promettere più volte che lo avrebbe raggiunto subito. Raggiunge il letto e disfa le coperte, spogliandosi completamente prima di sdraiarvisi sopra. E non fa in tempo ad urlare a John di sbrigarsi quando lo vede arrivare in camera, nudo anch’egli, con in mano un panno imbevuto di disinfettante. Perde subito interesse per il panno -onestamente, può fargli ciò che vuole, ora- e si inginocchia sul letto accogliendolo a braccia aperte.

John non può che offrirglisi, approfittando delle attenzioni che Sherlock sta dando al suo corpo per disinfettargli braccio, spalla e collo: lo fascerà più tardi, ci sono questioni più urgenti da risolvere.

“John,” mugola infatti Sherlock, afferrandogli l’erezione per attirare la sua attenzione “John,” ripete e quando vede che l’altro molla tutto ciò che aveva in mano per potersi dedicare a lui, lo spinge sul letto, lo fa sdraiare, e gli si sistema tra le gambe studiandogli il pene da più vicino “l’ho immaginato tante volte.”

“Cosa, zuccherino? Il mio pene?” ridacchia John, ma è costretto a smettere quando sente Sherlock prenderglielo in bocca senza tanti complimenti, senza neanche assaggiarlo prima. Si inarca appena per osservare la propria erezione sparire nella bocca di Sherlock più volte e non riesce ad evitare di prendergli il viso tra le mani ed accarezzarglielo, spostandogli i ricci dalla fronte, massaggiandogli lo scalpo.

Sherlock mugola e smonta dalla propria posizione per salire sul corpo di John ed iniziare a leccare ogni lembo di pelle a cui riesce ad arrivare che sia coperta da tatuaggi “Sei magnifico e hai un sapore eccezionale…” gli prende in bocca un capezzolo e alterna leccate a morsi neanche troppo leggeri “...ma ho bisogno che tu faccia qualcosa per me.”

John stacca il viso di Sherlock dal proprio corpo solo per guidarlo verso la propria bocca ed assaggiarlo. Assaggiarlo ed assaggiare il proprio stesso sapore sulle labbra carnose di Sherlock “Dimmi.”

Ricambiando il bacio, Sherlock tasta a tentoni il comodino fino a trovare un cassetto che apre, totalmente alla cieca, ma alla precisa ricerca di qualcosa di specifico “Ho bisogno che tu mi prenda. Poi parleremo, poi faremo tutto quello che vuoi, ma ora ne ho bisogno.”

“Mmh, il mio zuccherino è così bisognoso di cure,” sussurra John che, dopo aver recuperato il necessario, fa valere la propria forza fisica costringendo Sherlock a sdraiarsi sotto di sé e divaricandogli le gambe senza pudore “improvvisamente sono molto geloso di chi si è preso cura di te fino a questo momento.”

“Ho sempre pensato a te, ho sempre voluto te,” dice Sherlock così velocemente che quasi si mangia le parole “John, il mio John…” mugola roco quando sente la lingua dell’altro insinuarsi nella sua apertura e, sebbene la reazione principale sia quella di irrigidirsi, si lascia andare in realtà molto in fretta, lasciando che il nodo muscolare inizi a rilassarsi “...ti vedevo giocare a rugby: una visione, John, eri una visione.”

John gli afferra l’erezione mentre continua a prepararlo con le dita dell’altra mano “Tu potevi farti avanti, ma è una vergogna che io non ti abbia notato. Shame on me, Sugar.”

“Mi nascondevo…” mugola Sherlock, afferrando le lenzuola con entrambe le mani “...troppo timido… troppo insicuro…”

“Mi saresti piaciuto subito, zuccherino,” apre le dita come se fossero due forbici, poi le inarca alla ricerca della prostata.

“Nnnnno…” geme Sherlock, sobbalzando appena quando John trova ciò che stava cercando “...meglio ora… dopo… ti spiego… dopo…”

John sa che Sherlock è sufficientemente pronto per accoglierlo ed è una benedizione perché anche lui non riesce più a resistere alla visione che ha sotto di sé. Si allinea, dunque, e inizia a spingere piano, sicuro di essere ben lubrificato a sua volta. Si spinge in Sherlock e via via che tutta la sua lunghezza sparisce in lui si sporge in avanti per afferrargli meglio i fianchi.

“Oddio, sì,” mugola Sherlock allargando ulteriormente le gambe che poi va a stringere attorno ai fianchi dell’altro “spingi, John, spingi, veloce.”

Si china, John, e gli bacia gli labbra prima di tornare in ginocchio ed afferrarlo ancor meglio “Tranquillo, Sherlock, ora ti do tutto ciò di cui hai bisogno.”

John spinge e Sherlock, ormai perduti controllo e inibizione, gli va incontro più che può stringendoglisi attorno per creare maggiore attrito.

John spinge forte e velocemente, perché sa che è ciò di cui Sherlock ha bisogno. E Sherlock porta le braccia sopra la testa e si inarca, mostrandosi in tutta la propria bellezza, perché ha capito che il proprio fisico è un punto debole di John.

Dura tutto pochi minuti, ma non per questo è stato intenso. E si vengono così tanto incontro che quando raggiungono l’orgasmo, Sherlock è praticamente seduto sulle cosce di John che lo tiene a sua volta stretto e nasconde il viso nel collo pallido dell’altro.

Riprendono fiato in silenzio, stretti uno tra le braccia dell’altro e John non può fare a meno di notare quanto Sherlock sia diverso, ora, che finalmente ha liberato tutte le tensioni e i piaceri e, perché no, forse qualche rimpianto per il tempo perduto che avrebbero potuto trascorrere assieme.

Si sdraiano e Sherlock è un budino che fa le fusa tra le braccia di John, impotente e completamente alla sua mercé.

“Cosa intendevi prima, quando hai detto che è stato meglio farlo ora?” domanda poi John, rompendo il pacifico silenzio che si è venuto a creare nella stanza.

Sherlock struscia il profilo del naso sotto il mento di John e sospira beato “Beh, John, pensaci. Tu saresti comunque partito con l’esercito ed io, beh, ero diverso prima. Non ti sarei piaciuto. ora siamo più adulti. Diciamo che ci siamo conosciuti nel momento giusto.”

“Chi ti dice che non mi saresti piaciuto?”

“Io.”

“E tu sai tutto?” ridacchia John.

“Quasi,” ammette Sherlock con falsa modestia.

John ride di nuovo e decide che è il momento per alzarsi e finire di sistemare il braccio di Sherlock: glielo pulisce di nuovo, lo copre col cellophane e lo bacia a fior di labbra.

“Spero vivamente che non baci ogni tatuaggio che fai,” borbotta Sherlock che, una volta finita quell’operazione, cattura nuovamente John tra le braccia trascinandolo a letto con sé “o dovrò avvelenare tutti i tuoi clienti.”

A John piace che Sherlock dia per scontato che tra loro ci sia già un legame che vada al di là del sesso: molto meno complicato, non si perderanno in inutili imbarazzi “No, bacio solo il mio zuccherino, prometto.”

Sherlock mugola soddisfatto per poi aggiungere “Grazie, John.”

“A te, Sherlock. Ma dimmi una cosa,” sorride ancor prima di pronunciare quella domanda “dovrò tatuarti ogni volta che vorrò fare l’amore con te o…?”

“Scemo,” Sherlock gli mordicchia il collo prima di rispondergli “mi eccito anche normalmente. Ma diciamo che potremmo usare i tatuaggi per le occasioni speciali. va bene?”

“Va bene,” acconsente John “ma tu promettimi che non avrai altro tatuatore al di fuori di me.”

“E tu promettimi che sarò la tua tela preferita.”

John lo bacia e lo rassicura “Tranquillo, Sherlock, avevi ragione: sei il tatuaggio della mia vita.”

 

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