Paradise Lost

di shadowsymphony
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ritorno al paradiso ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Jesse si svegliò all'improvviso. Socchiuse gli occhi e si guardò attorno. Le pareti bianche, le luci bianche, tutto era di un bianco accecante. Non capiva dove si trovasse ma, dopo qualche secondo, si ricordò. Chiuse gli occhi. Nero. Lampi bianchi. “Ehi” sentì una mano sulla testa e una voce calma e bassa. Le dita calde sulla pelle. Sentì un'altra mano sulla propria, e un'altra voce. “Come va?”. La mano gli stava accarezzando il braccio. “Non ti fa niente se ti ho messo lo smalto sulle unghie mentre dormivi?” disse la seconda voce, con una risata sommessa che scomparve in un istante. Socchiuse gli occhi di nuovo e girò lentamente la testa per guardarsi la mano: gli avevano davvero pitturato le unghie della mano sinistra. Erano ricoperte di brillantini. Mosse leggermente le dita, poi richiuse gli occhi. In qualsiasi altro momento, la cosa lo avrebbe fatto scoppiare a ridere e avrebbe scherzosamente insultato il fratello, ma in quel momento non gli faceva né caldo né freddo. “Jes” sentì l'altra voce, e l'altra mano nei capelli. I capelli, giusto. Erano corti adesso. Sei anni di capelli andati in due colpi di forbice. I capelli erano stati il suo unico orgoglio, ma in quel momento non gli importava nemmeno quello. Non gli importava più niente. “Ti prego, dì qualcosa”. Un bacio sulla fronte. Scosse la testa, un movimento impercettibile, ma sapeva che i fratelli lo avrebbero notato. Un sospiro. “Va bene”. Un altro bacio.

 

“E' da tre giorni che non ci parla. Parla con gli infermieri, ma con noi no. Nemmeno con la mamma. Gli abbiamo detto di non preoccuparsi, che non siamo arrabbiati con lui in nessun modo, che siamo solo preoccupati, ma niente. Non apre bocca”. Alex camminava avanti e indietro, una sigaretta in una mano e il cellulare nell'altra. Marc era seduto sul muretto che circondava il minuscolo prato all'esterno dell'ospedale, e guardava il fratello. “Non sappiamo cosa fare. Basterebbe solo una parola”. Il ragazzo si fermò e fece un tiro. Il fumo della sigaretta si mescolò al vapore del suo respiro nell'aria gelida. “Sì, sta bene. Fisicamente. Ma mentalmente... non lo so. Si vede che non è a posto, ma se solo parlasse, anche due parole, e invece niente. Non possiamo leggergli nella mente”. Marc fece segno ad Alex di passargli il telefono. “Aspetta, ti passo M” e gli diede il cellulare. “Ehi Mich” deglutì, cercando di calmarsi “Vieni, prova a parlargli tu. Tu non c'entri niente con questa storia, magari riesce a sbloccarsi”. Il ragazzo fissava le sue scarpe, passando i piedi sul cemento grigio, mentre ascoltava. “Allora vieni? Perfetto. Riesci a passare entro stasera?”. Rispose a monosillabi per una ventina di secondi, poi riattaccò. “Arriva lei, alle cinque” diede il telefono ad Alex, che lo afferrò e lo mise nella tasca dei jeans.

 

Ritornarono nella stanza di Jesse. Con lui c'era la madre che, vedendoli, si alzò dalla sedia che aveva posto accanto al letto, e fece per uscire. “Allora?” sussurrò Alex sulla porta, lanciando un'occhiata a Jesse. La donna scosse la testa e uscì, chiudendo la porta. Marc si avvicinò al letto e guardò per un attimo il fratello. Il tubicino della flebo pieno di liquido gocciolante che gli entrava nel braccio attraverso un ago. Il viso pallido ricoperto da una barba di una settimana, le palpebre viola. Non era più abituato a vederlo coi capelli corti; in quel momento era proprio identico a lui. Se messi vicini, nessuno li avrebbe potuti distinguere, tranne per la corporatura leggermente più robusta. Insieme ad Alex, sarebbero stati di nuovo i tre gemelli indistinguibili, come quando erano bambini. “Chi è chi?”. Sospirò e poi disse “Fra un po' arriva Michelle” e gli accarezzò leggermente la testa. Il ragazzo non si mosse. Marc lo fissò ancora per un attimo, poi si sedette, squadrando Alex dall'altro lato della stanza. Spesso riuscivano a comunicare senza parlarsi, ma non potevano sapere cosa passava davvero per la testa di Jesse. Nei pochi momenti in cui i loro sguardi si erano incrociati, avevano visto che era spaventato. E arrabbiato. Ma c'era qualcos'altro.
Alex si acquattò vicino al letto, e accarezzò il braccio del fratello. “Per favore, Jes, dicci qualcosa. Anche solo una parola” gli disse, cercando di tenere un tono calmo, ma allo stesso tempo deciso. Il ragazzo sospirò e spostò il braccio, mettendolo sotto le lenzuola. Appoggiò la testa su un lato, verso Marc. Ci fu un attimo di silenzio, poi disse qualcosa. Era talmente flebile che nessuno dei fratelli lo sentì, nonostante fossero a meno di un metro di distanza da lui. Marc si alzò subito dalla sedia e si inginocchiò al lato del letto. Riusciva a sentire il respiro caldo del fratello sul viso. “Cosa?”. Silenzio. Jesse fece un respiro profondo, poi ripetè “Sono stanco”, ancora più fioco. Marc lo abbracciò delicatamente. “Lo so, lo so” gli sussurrò nell'orecchio, poi gli diede un bacio sulla guancia. “E' la terza volta. non ce la faccio più” il ragazzo alzò leggermente la voce. “La vita ti sta dando un'ennesima possibilità, non sprecarla” gli disse Alex, dall'altro lato del letto. “Non la voglio!” doveva essere un urlo, ma era ancora un sussurro. Jesse cominciò a piangere silenziosamente “Perchè sono ancora vivo?”. Alex si sentì invadere dalla rabbia, ma provò a mantenere la voce calma “Non puoi morire. Pensa a tutte le persone che ti vogliono bene, che hanno bisogno di te”. “Non me ne fotte un cazzo”. Il ragazzo continuò a tenere la voce calma, ma era tremante “Sei egoista”. “Sì, sono egoista, ma non mi interessa”. Con il braccio libero, Jesse tirò su la coperta fino al naso. “Sei tu muori...” gli disse Marc “... noi moriamo con te. Non possiamo vivere senza di te. Siamo l'unica cosa che abbiamo. Non puoi lasciarci”. “Il mio corpo è ancora vivo, la mia mente è morta 10 anni fa” disse Jesse, alzando la voce “Io sono morto 10 anni fa, ma voi siete ancora qui. Basta. Non me ne fotte un cazzo”. Alex, furibondo, si alzo all'improvviso e uscì dalla stanza senza dire una parola. Di fuori, seduta vicino alla madre, c'era una ragazza che, appena lo vide, scattò in piedi. Il ragazzo la guardò con un'espressione furiosa. “Come sta? Parla?” chiese lei, stringendo il cellulare nelle mani sudate. “E' colpa tua se sta così. Capiscila, Mary, è anche colpa tua. E non me ne frega se ci sentono tutti” il suo tono di voce si era alzato istantaneamente, e tre o quattro persone nel corridoio si erano voltate a guardarlo. Mary era a bocca aperta. “Non fare la finta tonta. Lo sai cosa ha detto? 'Perchè non sono ancora morto?'. È colpa tua. È colpa tua se vuole morire ancora, e magari ci riuscirà finalmente. E adesso non metterti a sparare cazzate, perchè sei una bugiarda. Prenditi la responsabilità delle tue azioni. Vai, entra, parlagli, magari è capace di sputarti in faccia prima di ammazzarsi definitivamente. E non potrei biasimarlo”. La ragazza lo guardò, il viso paonazzo, poi aprì la porta, lasciò uscire Marc e poi si chiuse dentro.

 

“Ehi” disse, con la voce tremante. La visione di Jesse nel letto la terrorizzava. Lui aprì gli occhi e la guardò per un istante. La ragazza si avvicinò a lui, cercando di non guardare l'ago nel suo braccio, e lo guardò in viso: era sempre bellissimo, anche con la barba, la pelle quasi trasparente, gli zigomi sporgenti e i capelli corti. Ma spaventoso. “Come stai?”. Jesse sospirò, poi disse “Bene. Purtroppo”. La guardò di nuovo. I suoi occhi, di un azzurro quasi innaturale, incrociarono quelli scuri della ragazza. Mary prese la sedia e si sedette vicino al letto. Gli sfiorò la mano, e lui la spostò. Era intorpidita, e gli sembrò di sollevare un masso. Fece una leggera smorfia di dolore, e richiuse gli occhi. La ragazza pensò a cosa dire, fissandogli le palpebre ricoperte da una fitta rete di sottilissime vene viola. “Alex mi ha detto che... che vuoi mo...” il solo pensiero la fece rabbrividire. “Sì” la interruppe lui. “Ma perchè?”. “Non puoi capire”. “Ma hai visto che sei ancora vivo... no... non puoi...” balbettò. Improvvisamente, Jesse la fissò, e lei sobbalzò. Il suo sguardo era penetrante, pieno di rabbia. Sentiva il suo respiro pesante, come quello di un animale che sta per assaltare la preda. “E' la terza volta che sono ancora vivo. Se continuo a provarci, ci sarà un motivo. Se in 10 anni non è cambiato niente, se in 10 anni mi ritrovo ancora in questo letto perchè nessuno vuole che io muoia, ci sarà un motivo. Sono morto una volta, ho vissuto, morto un'altra volta, vissuto, e morto ancora, e vissuto ancora. Ma voglio ancora provare a morire, sperando che sia l'ultima volta. Non cambierò idea. La vita non ha più senso. L'ho vissuta quattro volte, e non l'ho ancora trovato. Dovevo morire 10 anni fa. Basta, sono stanco”. Mary tremava. Non l'aveva mai sentito parlare così, era sempre stato un ragazzo così solare e tranquillo.

 

Tu eri l'unica che lo capiva. Dopo 10 anni, tu avevi finalmente ridato un senso alla sua vita. Aveva trovato un'altra ragione per vivere. E adesso ti stupisci che abbia di nuovo provato ad ammazzarsi? Non ti è passato per l'anticamera del cervello che possa essere stata tu a spingerlo? Continua a fare l'innocentina, Mary, tanto non ci casca più nessuno. Sei una puttana”.

 

“Tu vivevi per me?” sussurrò, torturando il ciondolo che portava al collo. Un regalo di Jesse. Lui la fissò, fremente. “Sì. Sì, vivevo per te. Lo hai capito adesso? Meglio tardi che mai” sentiva che stava per piangere di nuovo.“Perchè?”. “Perchè, perchè, non sai dire altro?!” il ragazzo strinse il bordo del letto, nel tentativo di trattenere le lacrime “Guarda, esci. Vai via. Lasciami in pace. Sono stanco, voglio dormire. Dillo anche agli altri. Lasciatemi in pace. Tutti”. Mary sospirò, lo guardò un attimo, poi si alzò e uscì.

Jesse tirò la coperta fin sopra la testa. Era davvero stanco, anche fisicamente. Non mangiava niente di solido da quasi una settimana, ma non gli importava. In corpo aveva già troppe sostanze, nessuna delle quali serviva al suo scopo. La ketamina era sparita. Non ne aveva presa abbastanza. Non ne prendeva mai abbastanza, non era la prima volta. Overdose da metanfetamina e coma, 6 anni prima. Overdose da ketamina, 4 giorni prima. Trauma cranico e coma, 10 anni prima. Ricordava tutto con lucidità. Aveva anche perso la memoria dopo il secondo coma, ma poi era ritornato tutto ancora più intenso. Era intrappolato nei ricordi.

E' morta! Lo so!”

Cercò di calmarsi.

Ma non me lo volete dire, bastardi!”

Respirò profondamente.

Bastardi!”
Jesse...”
Vaffanculo! Basta, ammazzatemi, adesso, forza! Ammazzatemi!”
Smettila!”
Ammazzatemi!”

Ricominciò a piangere.

 

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Capitolo 2
*** Ritorno al paradiso ***


Quattro giorni prima

Scendendo le scale, Jesse diede uno sguardo al salotto. Alex non c'era; Marc era seduto sul divano, leggeva un libro. Non voleva disturbarlo ancora, ma aveva bisogno di lui. Non poteva rimanere solo con se stesso ancora per un secondo. Si sedette vicino a lui e lo abbracciò, mettendo la testa sulla sua spalla.


“E' tornato” gli aveva detto cinque giorni fa. Due sole parole. Il fratello aveva capito subito.

 

Marc appoggiò il libro sul bracciolo, e iniziò ad accarezzargli la testa. “Devi essere forte. Sei forte. Passerà”. Era la milionesima volta che glielo diceva, non ci credeva più. “No, no”. “Sì” il ragazzo lo strinse ancora più forte. Jesse cercò di calmarsi, ma l'abbraccio del fratello non aveva fatto nessun effetto. “Non so cosa fare”. “Non lasciarti andare. Non pensarci. passerà, te lo prometto”. no, non passerà mai.
Il ragazzo si alzò, e il fischio nella testa ricomparve all'istante. Fece appena in tempo a raggiungere il bagno, e vomitò nel lavandino. Sembrava non finire mai, un fiume disgustoso come i pensieri nella sua mente. Non ne poteva più; aveva anche smesso di mangiare dal giorno prima, ma continuava a rigurgitare. Rialzò la testa e si guardò allo specchio. Tutto era avvolto da lampi e luci intermittenti. Sciacquò la bocca e sputò. Non passerà mai.

 

Dillo.”

Denise.”

Ancora.”

Denise, Denise, Denise.”

Un sospiro. “Potrei rimanere ad ascoltarti per ore”

Ma non ho voglia di ripeterlo per ore, lo sai già. Poi dopo quattro volte mi si ingarbuglia la lingua”
Una risata. “Te la sgarbuglio io. Jesse, Jesse, Jesse”. Un bacio.

 

Passò in cucina. Non c'era nessuno; Alex doveva essere in giardino. prese un cucchiaio dal lavandino e tornò al piano di sopra. Nel salire le scale, mise una mano in tasca. Sentì qualcosa di freddo, liscio, una superficie ricurva, e si tranquillizzò per un attimo.

 

Cos'è? Droga?”

Ketamina. E' fantastica. Indescrivibile. Appena la prendi, tutto scompare, sei in un altro mondo. Il mondo che tu vuoi, quello nella tua testa. E' come morire, ma sei vivo”

E' pericoloso?”

Ma no, basta che non ne prendi troppa. Ma ce ne vuole”

Cosa succede se ne prendo troppa?”

Muori. Per davvero. Ma non preoccuparti, non succede niente. E' la porta per un altro mondo. Non sai in quante canzoni parlo delle cose che ho visto miei trip. Fidati, è bellissimo. E' il paradiso”

 

Rientrò nella sua stanza e chiuse la porta.

 

Alex entrò nella sua stanza per prendere il cellulare che aveva lasciato sul letto. Vide il fratello, seduto alla scrivania, la testa appoggiata sule braccia conserte. Da sotto spuntava il suo libro di fotografia. Era sveglio, e fissava l'anta della porta finestra che si muoveva leggermente. Faceva freddo, ma lui era in maglietta. “Ehi, stai bene?” gli chiese, mettendogli una mano sulla spalla. Lui sussultò e lo guardò per un istante, poi nascose il viso tra le braccia.

 

Non voglio vedere il paradiso”
“Ci sono io con te. Non avere paura”

 

Alex sapeva; era già accaduto una volta, era stato assolutamente orribile. Lo accarezzò delicatamente. “Va tutto bene, Jes. Promettimi che non farai niente” gli disse, cercando di nascondere la preoccupazione nella sua voce. Jesse lo guardò negli occhi con un'espressione vuota, priva di emozione, poi disse “Va bene”. Alex lo fissò, poi uscì dalla stanza, sperando che le sue parole avessero fatto breccia nel cervello annebbiato del fratello. Jesse rimase a fissare la finestra. Le parole di Alex gli erano scivolate addosso, senza nemmeno sfiorarlo. Aveva risposto senza pensare. Non riusciva a pensare. C'era solo dolore nella sua testa.

 

Ieri dopo il trip ho scritto una canzone. Indovina su cosa?”

Mmh...”

Su di te, bellissimo. C'eri solo tu nella mia mente. Era davvero il paradiso”

Lo sapevo” sorrise
“E c'ero io nel tuo paradiso?”
“Sì, Denise. C'eri solo tu”
“Vedi che è stato bello? Non devi avere paura”

Ma non lasciarmi mai là da solo. Resta sempre insieme a me. Non ce la potrei fare senza di te
“Non ti lascerò mai.”
Un bacio.

 

Si alzò, uscì e si diresse in bagno. Sentiva la TV al piano di sotto. Chiuse la porta. Frugò nell'armadietto sotto il lavandino, e tirò fuori una siringa da una scatola. La appoggiò sul bordo del lavandino e poi fissò il suo riflesso nello specchio. Chi era quella persona? I capelli gli cadevano sul viso, aggrovigliati e unti sulla testa. Non li lavava e non li pettinava da una settimana. Aprì un cassetto e tirò fuori un paio di forbici e una spazzola. Tutto sembrava andare al rallentatore. Li spazzolò, finché tornarono morbidi e lucenti. Guardò i boccoli che gli cadevano sulle spalle e si allungavano fino alla vita. Ci passò le dita, poi sollevò le forbici, afferrò una ciocca e la tagliò. Una dopo l'altra, le ciocche caddero a terra, circondandogli i piedi di riccioli dorati. Alzò la testa e si guardò nello specchio. Ci fu un attimo di lucidità in cui riuscì a vedersi con chiarezza: il viso tirato non più circondato dai ricci morbidi, le occhiaie viola, le labbra quasi bianche, la fronte con tre rughe leggere, e i suoi occhi blu con le pupille minuscole. Li incontrò. Quel fischio nella sua testa si fermò per un attimo. Ma cosa cazzo sto facendo? Il tempo di un respiro, e la nebbia e il dolore ricomparvero. Non vedeva niente, non sentiva niente. Doveva farlo smettere.

 

Denise. Denise. Denise?”. Tutto era coperto da un fischio. Non riusciva a sentire nemmeno la propria voce. “Denise?”. Forse non lo sentiva. “Denise!”.

 

Tirò fuori dalla tasca il cilindro di plastica dalla tasca, l'accendino e il cucchiaio. Il suo corpo si muoveva, la sua mente non se ne accorgeva. Tutto accadde in un secondo. Diluì la polvere con poche gocce d'acqua, la aspirò con la siringa, e si guardò il braccio sinistro. Era ancora pieno di lividi, le vene più grandi erano collassate anni prima. Ne cercò una, una qualsiasi, e la sottile linea blu vicino al polso fu come se si illuminasse nel suo cervello. Non aveva paura. Non sentiva niente, solo il dolore nella sua testa che sarebbe finito col contenuto di quella siringa. Era piena per metà. Guardò l'ago entrare nella linea blu, circondata da una luce accecante, e spinse lo stantuffo finché la siringa fu completamente vuota. Si sentì invadere dal calore, e poi tutto scomparve.

 

Vedeva una luce. Sentiva dei suoni lontani, sembravano voci. Ce l'aveva fatta? Era finalmente tornato da lei, nel suo paradiso? Non la vedeva, non la sentiva. Un suono intermittente e un fischio.

 

Denise?”

 

Il suo respiro, il suo cuore. Perché li sentiva? Dove si trovava? Cosa stava succedendo? “Si è svegliato?”. Era la voce di suo fratello. “Jes”. La luce accecante iniziò a svanire. Capì cosa stava succedendo, e fu come se avesse ricevuto una scossa. No. Il suo cervello fu invaso da centinaia di pensieri simultanei. Era ancora vivo. Non era tornato da lei. Era stato ancora tutto inutile. Buio.

 

 

Era stato tutto inutile. Tre giorni dopo, era ancora in quel letto. Vivo. Il dolore nella testa era scomparso, ma lo sentiva nel resto del corpo. Dopo il secondo tentativo, quello con la meth, aveva almeno perso la memoria; questa volta invece non aveva dimenticato assolutamente niente. Dimenticare o morire. Nessuno dei due. Continuava a sbagliare tutto. Avrebbe dovuto prendere una dose maggiore di ketamina, magari anche solo un milligrammo in più. Appena uscito da lì, ci avrebbe riprovato ancora, ma era troppo stanco. Riprovava per poi fallire sempre. Perché una cosa semplice come morire era così difficile?
Guardò il tubicino della flebo attaccato al braccio e, senza pensarci, provò a rimuovere l'ago. Gli aghi lo terrorizzavano; la terapia di avversione per curare la sua dipendenza da meth, sei anni prima, aveva funzionato fin troppo bene. Ma in quale vena gliel'avevano messo? Ne erano rimaste poche nelle braccia. Sfilò l'ago delicatamente, cercando di non guardare, e poi lo lasciò pendere dalla sacca. Il braccio era completamente intorpidito, provò a muoverlo, e quello iniziò a pungere e bruciare. Quando la pelle tornò sensibile, si girò a pancia sotto e cercò di dormire.

 

“Signor Grachyov”. Si svegliò. Vicino a lui c'era l'infermiera. “Perché ha tolto la flebo?”. “Non la voglio” disse con un sospiro. “Le serve”. “Non la voglio” ripeté “Sto bene”. “No, non sta bene”. “Mi fa venire da vomitare” disse lui, girandosi a pancia su. “Non vomiterà niente. Vuole che le porti la cena? Sono le sei”. Sbuffò “Va bene”. L'infermiera reinserì l'ago nel braccio di Jesse. Non aveva intenzione di mangiare. La donna uscì e, sulla porta socchiusa, vide un viso familiare. “Jes” sentì “Posso entrare?”. Lui sorrise leggermente. La ragazza sorrise a sua volta ed entrò. “Ehi!”. “Ciao tettona”. “Oh, piantala” ridacchiò lei, andando a baciarlo sulla guancia. “Come va? Finalmente ti sei deciso a parlare. E che ti hanno anche messo lo smalto”. “Sto bene” disse lui, e il sorriso scomparve in un istante. “Tua madre è preoccupata”. “Sto bene, Michelle.” ripeté “Proverò anche a mangiare”. “Bravo” sorrise Michelle “I ragazzi mi hanno chiesto se possono entrare, dopo”. “Va bene”. Aveva ancora paura a confrontarsi con i fratelli. Gli aveva promesso e ripromesso che sarebbe stato forte, e che non avrebbe fatto niente, e invece aveva mentito. Non era nemmeno vero che non gliene fregava delle persone che gli volevano bene, e di loro. Sapeva che non potevano davvero vivere senza di lui, come lui non poteva senza di loro. La sua morte li avrebbe uccisi lentamente. Non voleva che accadesse. Gli aveva già delusi troppe volte.

 

Con la cena, entrarono anche i due ragazzi. Non riusciva a guardarli negli occhi, aveva paura. Alex appoggiò il vassoio sulle sue ginocchia. “Come va?”. Jesse non rispose. Michelle intervenne “Ha detto che sta bene e che ha dormito un po'”. Alex sorrise e sperò che il fratello facesse lo stesso, ma era di nuovo chiuso nel silenzio. Fissava la zuppa di pomodoro fumante. “E' una schifezza, non lo mangerei neanche se fosse l'ultimo cibo rimasto sulla terra” commentò Marc, cercando di strappargli una risata. Niente. “Vuoi che ti aiuto?”. Scosse la testa. Sapeva usare benissimo anche la mano sinistra. La vista del cibo gli aveva fatto tornare un po' di appetito, dopo quattro giorni, e prese il cucchiaio. Sembrava pesantissimo. Gli tornò alla mente lo stesso cucchiaio che aveva usato per scaldare la droga, e con esso il dolore, e lo appoggiò. Niente zuppa, avrebbe provato il pane. Quello era più leggero, ma la mano gli tremava. Sapeva che tutti nella stanza lo stavano guardando, in silenzio. Non voleva nessuno, ma non voleva nemmeno parlare, così lo addentò e basta. Non era molto morbido, sicuramente gli avevano dato qualche fetta avanzata dal pranzo, ma non ci fece troppo caso. Dai, cazzo, parlate. Teneva lo sguardo fisso sul vassoio, ma vide con la coda dell'occhio Michelle avvicinarsi ad Alex e sussurrargli qualcosa. “Mary è ancora di fuori?”. Appena sentì il suo nome, quasi sobbalzò. Per fortuna nessuno lo notò. “Sì.”. Altri sussurri. Sentiva il calore risalirgli dai piedi alla testa, sembrava volesse uscire dal corpo. “Parlate a voce alta, tanto vi sento lo stesso, non cercate di tenermi nascosto qualcosa un'altra volta” disse, senza pensarci, continuando a dare piccoli morsi alla fetta di pane. Sguardo fisso sulla zuppa. Respiro pesante. I tre si girarono verso di lui. Li sentì bisbigliare ancora. “Diglielo tu”. “Io? Ma perché io?”. “Vado io, dai”. Marc si sedette vicino al letto e sospirò. Non sapeva come dirglielo. Non sapeva come avrebbe potuto prenderla. Forse era una bella notizia per lui, forse no. “Ehm... no... non so se è vero, non gliel'ho chiesto, ma... dicono che abbia lasciato anche Nathan”. Sentì il calore risalì di nuovo, ma quella volta non era solo una sensazione. Riuscì a voltare la testa prima di vomitare quel poco che aveva mangiato sul pavimento.

 

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