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Il ronzio della zanzara si fece largo tra i rumori della superstrada. Si appoggiò tra il collo e il seno nudo di Angie. La ragazza sentì il pungiglione infilarsi sotto la pelle. Angie la colpì con uno schiaffo, e si alzò dalle lenzuola di scatto. Aveva del sangue sul palmo della mano, con in mezzo i pezzetti neri della zanzara. Passò una mano sul letto umido di sudore, mentre i suoi occhi si abituavano al sole intenso che già filtrava dalla finestra della camera. Era morta di caldo quella notte, non avrebbe dovuto accendere il forno la sera prima. Eppure ora sentiva la sensazione opprimente del freddo invadergli il petto e la gola. Ritrovò la canottiera sullo sgabello vicino al bancone della cucina, se la infilò, si versò una tazza dalla caffettiera fredda del giorno prima. Sedette così, mezza nuda, davanti alla finestra, fissando la sagoma del bungalow quattro, confusa nella polvere che ricopriva il vetro.
- Cosa ti ha portato qui?- mormorò nella tazza. Sorseggiò il caffè. Quando nella tazza rimase solo un fondo nerastro e pieno di polvere, la mise nel lavandino. Si portò davanti al forno, rimasto aperto dalla sera prima. La sagoma gialla a puntini neri dei biscotti le ridiede il buonumore. Erano una cosa che non poteva non mettere di buon umore, lo erano stati fin da quando era bambina. Il suo sguardo si spostò di nuovo sulla finestra, poi di nuovo sui biscotti. Levò la teglia sulla quale erano appoggiati dal forno, e ne spezzò uno. Morbido dentro, croccante fuori.
- Sei bello.- disse, mentre gli zigomi le si alzavano in un sorriso. Si mise metà biscotto in bocca, e spostò i restanti su un piatto. Lo lasciò sul bancone, mentre scompariva in direzione della doccia.
***
Entrò in reception mezz’ora dopo, e vide la lancetta corta dell’orologio a muro accarezzare l’otto, poco distante da quella dei minuti. La lancetta dei secondi si era rotta, ma si potevano ancora sentire i suoi ticchettii secchi, perpetrati dagli ingranaggi dietro al quadrante nero e i numeri in rilievo bianchi. Ted se ne era andato un ora prima, un motel come quello poteva concedersi il lusso di lasciare la reception vuota per un ora. O forse no.
Dietro ai vetri della finestra vicino all’ingresso, era stata parcheggiata una oldmobile nera. Sul suo cofano era seduto un uomo. Bianco, senza un capello in testa, secco, vestito con un completo grigio. Davanti a lui, si trovava un altro uomo, di spalle, vestito con una tuta da meccanico. Sul cofano si trovava anche una borsa da palestra aperta. L’uomo calvo ci stava frugando dentro. Poi alzò lo sguardo. Angie lo stava guardando negli occhi. Sorrise. Lui non ricambiò, e disse qualche parola all’altro. Da dietro il vetro giunse solo un suono ovattato. L’uomo in tuta aprì la porta, il campanello attaccato al soffitto trillò. Era un asiatico, con la faccia larga e schiacciata, come quella di un qualche animale predatore visto alla televisione, di cui Angie si era dimenticata il nome. Il bianco dei suoi occhi era più che altro di una tinta giallastra, screziata di venuzze rosate, e sembrava dover inghiottire da un momento all’altro due pupille nere e minuscole.
- Buongiorno.-
- Un uomo e una ragazzina.- disse l'asiatico, con una voce metallica, confusa in un forte accento straniero. La sua bocca, quando si aprì, sembrò tagliata con un coltello in mezzo alla faccia. Angie impietrì. Le sue mani appoggiate al bancone si ritrovarono a sostenere tutto il peso del suo corpo.
-No.- disse subito, accorgendosi solo un attimo dopo che le parole dette dall’uomo e la sua risposta non avevano nessuna connessione logica. “No” cosa? No non ci sono? Oppure no, non voglio che succeda? L’asiatico strinse gli occhi in due fessure gialle.
- Un uomo e una ragazzina.- ripeté. Angie non rispose. Se non rispondeva avrebbe guadagnato tempo. Si guardò intorno. Fuori dalla finestra, l’uomo in completo teneva in mano un oggetto nero e lungo. Un tubo di metallo, un calcio di legno bianco. Nell’altra mano teneva dei cilindri color ocra, che faceva scivolare uno a uno nel fucile. Angie sentì il cuore fermarsi.
- Un uomo e una ragazzina. Qui? Dire!- l’asiatico alzò la voce. Gli occhi di Angie guardarono verso il basso. Verso la copertina di cartoncino colorato del registro degli ospiti, appoggiato sotto le sue mani. L’asiatico se ne accorse. Strappò il libro dal bancone, e lo sfogliò rapidamente. Sorrise, fermandosi su di una pagina. Senza dire una parola, uscì dalla stanza con il registro. Parlò al suo amico, altri suoni ovattati oltre il vetro. L’uomo in completo si alzò, ed entrambi presero a muoversi verso il bungalow quattro. Angie era ancora immobile, dietro il bancone. Aspettò che fossero scomparsi dalla sua vista. Il telefono era su un tavolino ai suoi piedi. Vi si gettò sopra, premette l’asterisco e poi il quattro. Dall’altra parte, la cornetta si mise a squillare. Le orecchie di Angie si riempirono del “tuuttuut” smorto, che andava e veniva, mischiandosi al ticchettio dell’orologio a muro.
- Rispondi.- disse, stringendo i denti. Il campanello della porta suonò di nuovo. Angie alzò lo sguardo. L’asiatico era la dietro, e stava venendo verso di lei. In mano teneva una tenaglia da meccanico annerita dalla ruggine. No, non era ruggine.
- Pronto?- si sentì dall’altra parte. L’asiatico si lanciò sul bancone, scavalcandolo.
- Chi vuole seppellire in quella
fossa?- chiese il vecchio Carter, accompagnando la frase con un risolino
nervoso, tentando di buttarla sul ridere.
L’uomo si trovava davanti a lui, in
mezzo alla radura. In mano teneva una vanga.
- Chi vuole seppellire in quella
fossa?- rise, figurarsi se voleva seppellire qualcuno.
- Oh, purtroppo, mentre stavo
andando con l’auto per la strada qua vicino, un cerbiatto mi ha tagliato la
strada. L’ho tirato sotto.- Rispose l’uomo. Il suo tono era pacato, forse
leggermente impregnato della stessa ironia che si leggeva nei suoi occhi.
- Mio Dio! È morto?- domandò
Carter, con sincera preoccupazione.
- Stecchito.-
- E lei sta bene?-
- Certo, solo un po’ di sangue sul
cofano.- rispose lui con una risata nervosa quanto fuori luogo. Poi continuò:
- Sono pericolose, queste bestie.
Da quando non ci sono più predatori si moltiplicano come conigli. E quando meno
te lo aspetti, te ne ritrovi uno spiaccicato sul cofano.- Mentre parlava,
l’uomo affondò qualche altra volta la sua vanga nel terreno, con rinnovato
vigore. Carter, si grattò la testa, rifletté, rispose:
- Ma in fondo cosa vuole farci?
Sono solo delle povere bestie.-
- Ucciderle. È una buona soluzione,
e anche facile da farsi.-
Carter si scandalizzò:
- Ma che dice! Non si può fare una
strage di animali solo perché causano di tanto in tanto qualche incidente!-
L’uomo sembrava aver finito di
scavare. Buttò la pala fuori dalla fossa, e si issò lentamente in superficie.
Rispose, come al solito, con un mezzo sorriso stampato in volto:
- Alcuni incidenti sono mortali.
Vuole dire che alla fine è meglio un uomo morto che cento cerbiatti stecchiti?-
La domanda lasciò il vecchio Carter
in imbarazzo. Balbettò qualche parola di risposta:
- No, non intendevo quello. Dicevo
soltanto che ucciderli non è la cosa migliore. In fondo sono anche loro esseri
viventi. O no?-
L’uomo si frugò nella tasca
sinistra, estraendo dopo una calma ricerca un pacchetto di PallMall. E, dopo aver tratto un lungo sospiro, disse
infine:
- Voglio dirle una cosa. Conosco
uomini che vivono come animali.- si frugò nella tasca destra, ed estrasse un
accendino, con cui subito diede fuoco alla sigaretta - ma animali che vivono
come un essere umano, non li ho mai visti. Se mi vuole scusare, ora lo
seppellisco. Con permesso.- detto ciò, si incamminò verso la macchina. Il
vecchio, dopo un attimo di indecisione, chiese:
- Ah. Signore! Posso vederlo? Il
cerbiatto, intendo.- pronunciò la domanda timidamente,a bassa voce, quasi vergognandosene. L’uomo
aspirò una boccata di fumo, quindi la soffiò fuori lentamente. Carter si chiese
se non stesse prendendo tempo, se non si stesse inventando una qualche scusa.
Ma alla fine, l’uomo rispose:
- E perché? Le piacciono i
cadaveri?-
Ancora ironia fuori luogo. Carter
provo quasi schifo.
- No, ma cosa dice? È solo per curiosità.-
Farfugliò il vecchio, imbarazzato.
- Se le fa piacere vederlo, si
accomodi. Ma non è un bello spettacolo, sa? Gli ho schiacciato il cranio con
una ruota. Le ossa del cranio hanno lacerato il cervello, c’è tutta la roba
grigia che esce fuori come un tubetto di dentifricio strizzato.-
- Ho capito, lasci stare. Fa
niente. Arrivederci.- Carter si morse la lingua: stava balbettando. L’uomo si
limitò a salutarlo con un cenno, e poi sparì oltre la boscaglia.
Pochi minuti più tardi, Carter era
di nuovo sulla via di casa. Incontrare quell'uomo gli era sembrato strano,
sgradevole: era stato come aver guardato dentro un pozzo troppo profondo. Un
abisso di cui non si riesce a vedere il fondo.
“Fantastichi troppo, vecchio scemo.
Era un uomo, non il diavolo. Era solo un uomo.”
***
L’ultima palata di terra, intanto,
si era appena posata sulla buca, ormai interamente ricoperta. L’uomo vi pestò
sopra con i piedi, e constatò con piacere che era bella compatta: aveva fatto
un buon lavoro. Lasciò cadere a terra il mozzicone della sigaretta, quindi si
lasciò alle spalle la fossa appena riempita.
- Un altro cerbiatto morto.-
borbottò tra se, mentre ritornava alla sua macchina. Pochi minuti dopo, la
portiera della sua auto si chiudeva, la chiave si girava nella toppa d’accensione,
il motore riprendeva a funzionare, e la Desoto abbandonava quel
luogo.
***
La macchina della polizia
parcheggiò esattamente nel posto dal quale la Desoto se ne era andata
due giorni prima. La chiave venne girata, il motore si spense, le portiere si
aprirono, e uscirono due rappresentanti della polizia dello stato. Erano due
bianchi, sudaticci, con la divisa in disordine: stavano continuando una
discussione già iniziata da tempo:
- Quindi eravamo d’accordo. Io
stavo in auto, e lo aspettavo, mentre lui entrava nel bar e parlava al
colombiano. Io gli dico dieci minuti, non di più, e lui okay. Se non fosse
uscito entro il tempo stabilito, allora davo il segnale e facevo irruzione
insieme all’altra pattuglia.- Diceva il primo, alto, occhiali scuri.
- Ah, non eravate solo voi allora.-
il secondo era più basso, più grasso, più sudato. Quando non parlava continuava
a lisciarsi i suoi due scarni baffi castani.
- No, no, non te l’avevo detto?
C’erano anche quegli altri due, quegli altri due nuovi. MacCalle… come si chiamava l’altro?-
- Parson,
mi pare che fosse Par…- la frase dell’altro agente
venne troncata dal collega:
- Smith! Era Smith, e dire che è
pure facile da ricordare.-
- Ma no, che dici? Con MacCall c’era Parson, erano amici
quei due.-
- MacCall
stava con Smith, non dire cazzate!-
- Guarda che ti sbagli.-
- Cazzate.-
Quello coi baffi sospirò. Sembrava
l’ultimo sospiro di una lunga serie.
- Fa niente, lascia stare. Dove?-
- Il sentiero per la casa del
vecchio dovrebbe essere quello. Andiamo.-
I due imboccarono la stradina
sterrata, mentre il poliziotto con gli occhiali continuò a raccontare:
- Allora, dicevo, lui entra, e io
sono calmo. Mi accendo una sigaretta e aspetto. Passano cinque minuti, e me ne
accendo un’altra. Inizio a preoccuparmi: a quell’ora avrebbe dovuto già essere
di ritorno.-
- Oddio, lo avevano ammazzato?-
- Cosa? No, no, magari. Ma fammi
andare avanti.-
- “Magari”?-
- Come?-
- Hai detto “magari”, che
intendevi?-
- Aspetta, ora ci arrivo! Dicevo,
lui non si vede più. Io ho finito le sigarette, e inizio davvero a diventare
nervoso. Undici minuti. Porca vacca, dico io, ora mi tocca davvero fare
irruzione in un bar in cui un intero cartello colombiano si sta facendo il
bicchierino della staffa. E lo sto per fare, quando lui, il coglione, esce,
tutto tranquillo. Io con lui non ci avevo mai lavorato, pensavo sapesse il
fatto suo, no?-
- Certo, lo pensavo anch’io. E
invece?-
- E Invece, quel cazzone, mi dice: Martinez non
c’era. Sono andato un attimo in bagno. Ti eri preoccupato?-
L’agente con i baffetti emise una
sonora risata:
- Ma dai, dici sul serio? Non ci
credo!-
- Credici, amico, gli era scappato
da cagare. Non mi ci far pensare, mi viene voglia di ucciderlo ogni volta che
ci penso.- Il poliziotto con i baffi continuò a ridere di gusto, finché i due
non arrivarono a destinazione: la baita si trovava davanti a loro.
- Chi bussa?-
- Lascia, faccio io.- Quello con gli occhiali si avvicinò all’uscio, e vi
bussò sopra tre volte, in rapida successione. Gli agenti sentirono dei passetti
concitati dall’altra parte, di qualcuno che si avvicinava per aprirgli. Il
signor Carter si affacciò alla soglia:
- Agente?- lo chiese come a dire “desidera?”
Ma risultò più simile a un “cosa ci fa qua?”
- Lei è il signor Theodore Carter?- chiese quello con gli occhiali.
- Si sono io. Cosa succede?- disse il
vecchio, irrigidendosi.
- Stia tranquillo, non siamo qui
mica per arrestarla!- disse con una delle sue solite risate quello con i baffi.
– Dobbiamo solo farle alcune domande. Nei dintorni, ha notato qualche movimento
sospetto, negli ultimi giorni?-
Il vecchio si grattò la testa:
- Dunque, lasciatemi pensare. Qui
non passa molta gente... Eh, che stupido sono, l’altro ieri! È arrivato un uomo
che non avevo mai visto prima in vita mia.-
- Può dirci di chi si trattava, per
favore?-
- Certamente, non ho… non ho nulla da nascondere.- Carter ridacchiò mentre
pronunciava quelle parole.
Il signor Carter quella mattina stava
trascinandosi per il bosco intorno alla sua baita, impegnato nella sua
passeggiata di routine consigliatagli dal medico. Sua moglie aveva scelto quel
luogo come meta delle loro vacanze per la sua quiete e per il suo isolamento.
E, in effetti, quel posto era rimasto isolato almeno fino a vent’anni prima:
poi il governatore aveva ben pensato di violentare quell’eden con un po’ del
buon vecchio progresso. Ora, la grigia colonna vertebrale della strada statale
si snodava lungo le colline, raramente interrompendo il cinguettio degli
uccelli con il rombo di un motore. Nonostante la statale fosse lì, sembrava che
le auto la snobbassero per altre strade, dirette verso altre destinazioni,
lasciando il suo asfalto ad una lentissima agonia sotto le ruote di camioncini fatiscenti
in transito verso il paese più vicino, che per inciso distava almeno trenta
miglia.
Durante il periodo estivo, il
signor Carter non riusciva più a chiamarle vacanze da quando era iniziata la
pensione, rimaneva la maggior parte del tempo da solo, con un qualche libro
aperto davanti, più spesso dormendo che leggendo, e sperando che qualche faccia
nuova si facesse viva per rompere la fastidiosa quiete tutt’intorno a lui:
esattamente il contrario di quello che desiderava la signora Carter, che
borbottava ogni volta che qualcosa di soltanto vagamente umano proiettava la
sua ombra all’orizzonte.
Quella giorno il signor Carter aveva
visto una vecchia Desoto parcheggiata al limitare
della strada, e aveva sorriso. Pochi si fermavano da quelle parti: l’ultima
volta erano stati una giovane coppia, con il figlio che doveva fare pipì. Il
vecchio si era avvicinato all’auto e aveva a lungo rimirato l’imbottitura dei
sedili e i cerchioni, e guardando il cofano si era immaginato il motore.
Sembrava ferma già da un po’ di tempo, era del tutto fredda. I suoi occupanti non sembravano nei paraggi.
Dovevano essersi inoltrati nel bosco, e dato che c’erano solo due sentieri che
conducevano in quello spiazzo, e Carter non aveva visto nessuno mentre veniva
lì, imboccò subito il secondo, speranzoso di potersi fare una bella
chiacchierata prima di pranzo.
Non ci era voluto molto tempo prima
di poter chiaramente distinguere, poco distante dal sentiero che stava
percorrendo, il rumore di un attrezzo metallico che affondava ritmicamente nel
terreno. Incuriosito, Carter si era addentrato nella boscaglia seguendo il
rumore che si faceva sempre più vicino, fino a che non era riuscito a vedere di
cosa si trattava.
L’uomo stava scavando una fossa,
abbastanza larga perché qualcuno potesse sdraiarcisi dentro.
Carter si era domandato in cosa
fosse incappato, e stava giusto per iniziare a formulare qualche congettura a
proposito quando si accorse che l’uomo aveva posato la vanga, e lo stava fissando.
I suoi occhi erano spenti, privi di gioia. E questo era strano, dato che le sue
labbra erano contratte in un sorriso storto. Improvvisamente Carter si era
sentito a disagio. Aveva farfugliato un saluto, per spezzare l’imbarazzo, e
poco dopo la curiosità gli aveva tirato fuori di bocca quella domanda. Chi
vuole seppellire?
-Era un tipo. strano, il modo in
cui parlava...- si bloccò. L’immagine dell’abisso gli si ripresentò davanti. -
No. Lasciate stare. Guidava una Desoto bianca, una
bella macchina. Però aveva appena investito un cerbiatto, sulla strada. Io l’ho
incontrato mentre lo seppelliva.- disse Carter agli agenti.
- Un cerbiatto?- i due agenti si
guardarono l’un l’altro, con un’espressione che quasi poteva dirsi soddisfatta.
Quello con gli occhiali riprese a parlare:
- E l’ha visto, il corpo di questo
cerbiatto?-
- No, non l’ho visto. perché, è
importante?- chiese incuriosito Carter. Subito vide sul volto dei poliziotti
apparire un sorriso strano, compiaciuto e infelice allo stesso tempo.
- Bingo.- fece quello coi baffi.
***
Carter sentì di nuovo la pala
affondare nel terreno, come due giorni prima. La buca scavata da quell’uomo
misterioso, stava venendo riaperta, mentre ai sui lati si ammonticchiava
lentamente la terra soffice della radura.
- Sigaretta?- gli chiese l’agente
con gli occhiali, tendendogliene una. Era seduto su di una sasso, lasciando il
collega scavare con l’unica pala che erano riusciti a procurarsi. Il vecchio
scosse la testa, senza distogliere un attimo lo sguardo dalla buca che, una
vangata dopo l’altra, si svuotava lentamente. E più si svuotava, più Carter
capiva che non avrebbero trovato un cerbiatto la sotto. Il suo contenuto era
incomprensibile, come i pensieri dell’uomo che l’aveva scavata.
La pala si fermò. Si immobilizzò
con un rumore strano, mai sentito, eppure subito riconosciuto per quello che
era. Il poliziotto emise un gemito, e alzò con un rapido gesto la vanga: la
punta era tinta di un rosso vivo, mischiato alla terra fresca.
- Ralph! Credo che ci siamo.-
balbettò.
L’agente con gli occhiali buttò a
terra la sigaretta, e la calpestò con forza. Con due rapidi, larghi passi si
buttò nella buca. Iniziò subito a raspare con le mani sul fondo, spostando il
terriccio dal cadavere. Era di qualche giorno, sembrava. I primi vermi lo
stavano giusto iniziando ad intaccare. Carter si avvicinò timidamente alla
fossa, per osservare meglio.
- Cazzo!- esclamò poi
improvvisamente Ralph. Ora il cadavere era chiaramente visibile, agli occhi di
tutti i presenti. Ed era il corpo senza vita di un cerbiatto, con la scatola
cranica sfondata.
- Che razza di granchio!- disse il
poliziotto con i baffi, grattandosi la testa con un’espressione a metà strada
tra il deluso e l’imbarazzato. Ralph si alzò da terra, afferrò la pala e la
buttò contro il suo collega:
- Ricoprilo. Inizia a puzzare.-
Issatosi al di fuori della fossa, si rivolse a Carter, mentre si infilava di
nuovo gli occhiali da sole:
- Sembra che la fortuna non sia
dalla nostra parte. Comunque avrebbe dovuto avvertire un’autorità forestale,
riguardo al cerbiatto, lo sa?- disse poi, come per ostentare che sapeva fare il
suo lavoro.
- Sì. Mi scusi. Non ci avevo
pensato.- balbettò Carter. – Davvero.-
***
Il ristorante non spiccava
particolarmente, era un locale come tanti, l’ennesimo locale lungo
l’autostrada, in cui la gente entrava e usciva una sola volta nella vita. Il
suo interno era illuminato abbondantemente, nonostante vi fosse davvero ben
poco su cui valesse la pena far luce. Solo qualche tavolo sporco, con qualche
avventore ritardatario che raccoglieva gli ultimi rimasugli di bistecca e
patate dal proprio piatto.
Angelo era appena arrivato: dopo
aver parcheggiato la Desoto lì vicino, era entrato, e quindi
aveva ordinato una bistecca e una birra. E la suo ordinazione era appena
arrivata, quando sentì il cellulare squillargli nella tasca della giacca. Lo
afferrò pigramente, quasi nella speranza che se lo avesse lasciato squillare
abbastanza a lungo alla fine avrebbe smesso, lasciandolo in pace. Ma quando lo
ebbe portato all’orecchio, il telefono continuava imperterrito a trillare.
Rispose:
- Pronto?-
- Ciao bello, sono io, Steve.-
- Ehi, Steve, è un piacere
sentirti. Lavoro?- Angelo non aveva voglia di chiacchierare, e nessuno lo avrebbe
chiamato solo per fare due chiacchiere.
- Sì. Dove ti trovi ora?-
- Un ristorante, sulla strada per
tornare a casa. Ero in campagna per un altro impiego, ma ho appena finito.-
- Ottimo, torna in città appena
puoi. Ti va se ti spiego tutto nei dettagli domani a pranzo, che ne so, al
“Golden Tower”?-
- Mi sta bene. Riguardati,
vecchio.-
- Stammi bene, figliolo.- e
riattaccò. Angelo riprese in mano le sue posate, intenzionato a finire la cena
il prima possibile. “Torna in città”, gli aveva detto. Angelo sorrise, come
aveva sorriso a Carter molte ore prima. Si tornava in città. Tagliò la bistecca
a metà, con un movimento veloce e nervoso.
***
Carter era a letto, ma non riusciva
a dormire. L’immagine della fossa era continuamente davanti ai suoi occhi. La
vedeva piena, vuota, poi di nuovo riempita, poi ancora svuotata. Era un po’
come il passare delle stagioni, un albero che perde le foglie e poi le
riacquista a primavera.
Pensava al suo fondo incomprensibile,
al suo contenuto. Un cerbiatto investito da un’auto: un errore, una distrazione
umana, un animale morto. Eppure, era inquieto. Era come la paura di un buio
diffuso, spezzato da non abbastanza luce. Unarealtà parziale.
Carter sentì le palpebre farsi
pesanti: era tardi, era stanco. Chiuse gli occhi, e i pensieri iniziarono a
confondersi. E tra la veglia e il sonno un’immagine sfuocata occupò la sua
mente. Era come guardare al cinema una vecchia pellicola graffiata. Vedeva se
stesso, che si allontanava dalla radura. E poi quell’uomo, che tornava dentro
la fossa, e che ricominciava a scavare, a scavare una buca più profonda. Una
buca in cui un uomo potesse giacere insieme ad un cerbiatto.
L’insegna era scrostata e ammaccata,
troppo perché il negozio fosse gestito ancora da Buck,
chiunque egli fosse stato. Aveva perlomeno la stessa età dell’edificio, un
grumo di cemento intonaco, incastrato in
una delle strade meno trafficate della città. La luce del sole non poteva
nemmeno entrarci, se non scomposta in una patina biancastra e frammentata dai
vetri della porta e dell’unica vetrina, che non avevano ragion d’esistere se
non un valore affettivo o la mancanza di denaro per comprarne di nuovi. Erano
quei vetri spessi e irregolari, dall’aria antica, erano talmente opachi che era
difficile dire se erano sporchi o meno. Nella penombra del negozio, sedeva un
uomo in una canottiera arancione, che lasciava intravedere sopra un ciuffo di
pelo nerastro, sotto un mezzo ombelico grassoccio. Sedeva con le gambe
appollaiate sul bancone, lanciando di tanto in tanto un “ma che cazzo” contro
la radio lì vicino, che sbraitava una telecronaca di corse di cavalli, mentre si
faceva aria con ventaglio ricavato da un cartone della pizza. Era ormai più di
un ora che passava il tempo in quel modo, quando le campanelle che aveva appeso
sopra la porta, e che trillavano tutte le rare volte che un cliente entrava nel
suo negozio emisero il loro suono di latta, dandogli il segnale di sedersi
composto, abbassare il volume, e incollarsi in faccia il sorriso delle grandi
occasioni:
- Buongiorno.- Fece quindi.
- Buongiorno.- rispose Angelo. Il
sorriso scivolò via dalla faccia del commesso, non appena il nuovo arrivato,
dopo essersi dato un’occhiata intorno, riaprì la porta e girò il cartellino con
scritto “Aperto” sull’altro lato. Fatto ciò, Angelo si avvicinò al bancone,
lanciando intanto qualche occhiata agli scaffali. Arrivato, vi si appoggiò
sopra con i gomiti, e fissò negli occhi l’uomo davanti a lui:
- Ehi, sei tu Buck?-
L’uomo rimase in silenzio per un
po’, prima di rispondere, con una voce scossa da uno di quei timori
irrazionali, che l’istinto ci fa soffrire di tanto in tanto.
- No.-
- Infatti. Tu sei Dave, giusto?-
- Sì.-
- Bene, Dave.
Hai un bel negozietto, qui.-
Dave
stava per rispondere “grazie”, ma improvvisamente si sentì un po’ un idiota a
continuare il dialogo. Si domandò nuovamente cosa volesse quell’uomo. Se era un
rapinatore, sarebbe stato un problema. Aveva una pistola sotto al bancone, ma
era scarica. Poi, sapeva per esperienza che la gente minacciata con una pistola
tende, se in possesso a sua volta di una pistola, a sparare. Fece scivolare la
sua mano vicino al cassetto in cui teneva gli incassi: c’erano dentro cento
dollari e qualcosa. Gli sarebbe dispiaciuto separarsene, ma mai quanto gli
sarebbe dispiaciuto ritrovarsi in corpo un gallone di sangue in meno e nove
millimetri di piombo in più. Rimase in silenzio. Angelo aspettò la risposta, ma
accorgendosi che essa non voleva arrivare, continuò:
- Senti, un ragazzo, giù al porto,
mi ha detto che sei amico di un tizio, tale Edward Turner.- pronunciò quel nome
come se l’avesse appena letto da qualche parte. – Dimmi, diceva la verità?-
Dave
restò un attimo in silenzio prima di rispondere.
- No.-
- No non lo conosci?- incalzò
Angelo, continuando a fissarlo negli occhi, nonostante Dave
avesse già rivolto da tempo lo sguardo al pavimento.
- N…no.-
Fece ancora lui. Ma Angelo sentì un balbettio di troppo per convincersi che
fosse vero. Si alzò dal bancone, fischiettando una melodia indefinibile, e
guardando di nuovo tutta la merce esposta, dando le spalle a Dave.
- È un peccato, sai? Io ci tenevo
molto a conoscerlo, il vecchio Edward. Ma se dici che non lo conosci.- sospirò
-.vuol dire che non lo conosci. Giusto Dave?- si
voltò di scatto verso Dave.
- Sì!- esclamò lui, colto alla
sprovvista.
- Allora non me lo puoi davvero
dire.- Angelo scosse la testa. Poi rialzatola, disse:
- Beh, lasciamo stare. Dimmi,
piuttosto, non è che per caso hai una di quelle mazze della Nike. Sai, quelle
della pubblicità. Dorata, con le scritte nere. Mio figlio l’adora.-
Dave,
esitante come al solito, si abbassò sotto il bancone. Tornò in superficie con una mazza cinese color platino, pregando che andasse
bene lo stesso. Angelo fece un sorriso soddisfatto, e la prese in mano.
La soppesò, la osservò alzandola sopra la testa. Borbottò un “non male”,
quindi, rivolgendosi nuovamente a Dave, chiese:
- Bella. Posso provarla?-
- P…prego.-
Angelo la portò dietro la schiena,
pronto a sferrare il colpo. Sembrava davvero concentrato, come se fosse allo
stadio, nel bel mezzo di una partita. Ma di tanto in tanto, trafiggeva Dave con uno sguardo, lanciato con la coda dell’occhio. Quindi sferrò un colpo a vuoto, facendo
gemere l’aria circostante con un sibilo. Lo fece una seconda volta, e una
terza. E ogni volta che lo faceva, Dave stringeva i
denti. E rimaneva fermo, senza il coraggio di sbattere le palpebre. Quando
Angelo parve aver finito, abbassò la mazza:
- Grandiosa, la amo già. Senti Dave, a quanto me la fai?-
- Sono venti.- Angelo assunse
un’espressione stupita e fasulla.
- Dave. Non
sono ne un morto di fame ne un…- rise -…ne un rapinatore, eh? Avanti, quanto?-
- Cento… centotrentotto.-
farfugliò Dave – E novantanove centesimi.- quindi
inghiottì un groppo di saliva.
Angelo prese il portafoglio di
tasca, e ne tirò fuori centocinquanta dollari.
- A te, Dave.-
appoggiò le banconote sul bancone. Dave appoggiò la
sua mano sudaticcia sulla superficie levigata del bancone. La fece strisciare
lentamente, e raggiunte le banconote, vi appoggiò timidamente sopra le dita.
- Bene. E ora, dato che abbiamo capito che siamo entrambi due adulti onesti
e responsabili, cominciamo da capo. Dov’è Turner?- fece Angelo.
- Cosa?-
La mazza si abbatté sulla sua mano.
***
- Diosanto
Henry, stiamo parlando della fottuta Corea! Io non sono stato fortunato come
te, che ti sei beccato una pallottola nel culo il primo giorno dopo lo sbarco
in Francia! Tu te ne sei tornato a casa, e tanti saluti all’esercito. Io mi
sono fatto anche la maledetta Corea!-
- Smettila con le parolacce, Ed! Lo
sai che a Molly non piace.-
- Mi hai chiamato, Henry?-
- No Molly, tranquilla, va tutto
bene.-
I tre anziani sedevano ormai da una
buona ora al tavolo di quel piccolo ristorante, dopo aver cenato insieme.
C’erano Henry, sua moglie Molly, ed infine il pluridecorato Ed.
- Ma andiamo, Henry, Molly non
sente più un cazzo da almeno tre anni!- sbottò Ed, irritato dal rimprovero
dell’amico.
- Oh, grazie Ed, magari più tardi.-
gli rispose Molly mentre sorrideva ad un vaso di orchidee davanti al loro
tavolo.
- Lo so, accidenti a te, ma puoi
soltanto tentare di fingere un minimo di gentilezza nei suoi confronti? E poi
mi hai davvero martoriato le palle con questa cantilena della Corea, non
possiamo parlare d’altro, perdio? Del Superbowl, di
quello che hanno dato in televisione ieri, di come va la tua artrite.- Gli
disse allora Henry, con voce sconsolata.
- Certo che no! Che cazzo, Pensi a
me faccia piacere ricordarmi di quell’inferno?-
- E pensi che a me faccia piacere
sentirmelo descrivere a cena?-
- Ma ascolta, maledizione, quello
che volevo dire e che io vorrei dimenticarmene, ma non ci riesco! Sono
cinquant’anni che mi sogno di notte i fottuti comunisti che ci sparano addosso.
Quelli ci volevano…- la frase di Ed venne interrotta
dall’amico:
- Stammi a sentire vecchio, non intendo
stare ad ascoltare l’ennesima volta i tuoi racconti sulla guerra! Ma porca
miseria, la vuoi finire di vivere nel passato? Siamo nel duemila, Ed!
Piantiamola con questa caz…- Henry si morse la lingua
prima che l’ultima sillaba della parola fosse pronunciata. Per fortuna la
moglie non stava ascoltando, fissava assorta il ritratto di una donna
grottescamente grassa, appeso sul muro lì vicino.
- Senti.- continuò allora Henry –
Ti prego, non farti dire certe cosa da un rudere come me! Anch’io ho la mia età,
e so che da vivere non mi resta poi molto, ma almeno quel poco che mi rimane
della mia vita tento di godermelo. E dovresti farlo anche te, Cristosanto!-
- Non bestemmiare, Henry!- lo
rimproverò Molly, con uno strillo acuto.
- Scusa.- Mugolò il vecchio, come
un cane rimproverato dal padrone. Poi tornò a fissare negli occhi il suo amico:
ed stava guardando nel vuoto.
- Ed? Ci sei?- Gli domandò.
- Senti, io una storia però te la
devo raccontare.- rispose lui, con un filo di voce.
- Ah, ottimo. Quale?- sospirò,
ormai rassegnato, Henry.
- No, no, non è una delle solite!
Io. beh, lo ammetto, con i mie racconti ho rotto più coglioni io che tutti i
fottuti testimoni di Jeovha
della città.- l’ammissione di colpa del vecchio strappò un sorriso
all’amico -.ma questa… questa non l’ho mai raccontata
a nessuno, te lo giuro. Tu sei il primo, e spero tu la capisca.- Ed si appoggiò
sul tavolo con i gomiti, leggermente assorto. Iniziò quindi a raccontare:
- Al tempo ero sergente, mi avevano
affidato un gruppo di cinque soldati, freschi d’addestramento. Me li ricordo
bene, quei ragazzi. Uno di loro non aveva ancora compiuto i diciassette. Quel
giorno ci trovavamo circa a venti miglia dal confine tra Corea del nord e del
sud. Persi. E circondati dai maledetti cinesi.-
- Vorrai dire coreani. In Corea.-
- Non trattarmi come uno stupido,
so quello che ho detto. Cinesi, volontari. O almeno così diceva quello stronzo
di Mao. Volontari il mio cazzo, ti dico, sperò stia bruciando all’inferno quel
maledetto macellaio. Comunque, dicevo, stavamo proseguendo per una strada
sterrata. Aveva appena piovuto, affondavamo tutti nel fango fino alle caviglie.
I ragazzi avevano i nervi a fior di pelle, e in fondo come potevo biasimarli?
Sentivamo l’alito freddo della morte proprio qui- si diede due colpi sul collo
-Era come se avessimo la consapevolezza, che la nostra vita sarebbe terminata
da un momento all’altro, al suono di una scarica di mitra. E non ci stupimmo
troppo, quando quella raffica si fece sentire davvero. Il bastardo era
appostato sul tetto di un edificio, poco distante dalla strada. Aveva un
mitragliatore. Io faccio solo in tempo a urlare “Al riparo!”, e a buttarmi
dietro un vecchio muro, quello che restava di una casa dilaniata da una bomba,
mentre sentivo i proiettili fischiarmi a una spanna dalla testa, come uno
sciame di calabroni. Fu solo quando riuscì a raggiungere il riparo, che mi
accorsi di essere rimasto solo. Stringevo il Thompson così forte che pensavo
non sarei più riuscito a staccare le dita dal manico. Volevo saltare fuori di
lì, e svuotare tutto il fottuto caricatore addosso a quel maledetto muso
giallo. Ma sapevo che era una stupidaggine dettata dalla rabbia. Dovevo
aspettare. Appoggiai a terra il mio orologio, e gli buttavo addosso
un’occhiata, ogni tanto. Eppure non mi ricordo quanto tempo passò
effettivamente. Pochi minuti, o qualche ora. Intanto il mitragliatore non
sparava più. Continuai ad aspettare, fino a quando non sentii le loro voci.
Erano dietro il muro. Non ho mai capito cosa fosse successo, perché non si fossero
accorti di me. Forse uno dei mie uomini aveva colpito il mitragliere, e la
ferita lo aveva ucciso in seguito allo scontro. Non lo so. Ma loro erano lì, e
non sapevano che io mi trovavo proprio dietro la loro schiena. Saltai fuori dal
mio nascondiglio, e svuotai tutto, te lo giuro, ogni singolo proiettile nel caricatore
addosso al più vicino. Ce n’era un altro: io avevo la mia pistola a portata di
mano, e un colpo in testa mandò all’inferno pure lui. Morirono tutti e due
senza un gemito: ero stato veloce. Ne rimaneva uno: Dio, era solo un ragazzino,
tremava tanto per la paura che non riusciva a far stare fermo il fucile. Io
mirai alla testa: mi presi tutto il tempo necessario affinché il proiettile gli
trapassasse il cranio. Premetti quindi il grilletto e merda! Quella stronza
della mia colt si era inceppata. Imprecai contro me
stesso, e… e cosa potevo fare? Quello lì era proprio
davanti a me, e poteva spararmi, poteva perfino prendere per bene la mira. E
diamine, lo avrebbe fatto. Ero sicuro lo avrebbe fatto! Alzò il fucile.-
Un colpo di tosse, uno di quelli
che si emettono per attirare l’attenzione, fece voltare entrambi i vecchi: non
avevano notato l’uomo che si trovavano davanti entrare nel locale. Sembrava
comparso dal nulla.
- Desidera?- chiese Henry.
- Lei è Ed? Edward Turner?- domandò
Angelo, in direzione del reduce. Il vecchio Ed lo fissò incuriosito,
togliendosi gli occhiali, come se volesse fissarlo direttamente negli occhi.
Sentì una strana sensazione, come d’inquietudine. Cosa mai poteva volere da lui
quell’uomo? Si impastò la bocca di saliva, come per dover fare un lungo
discorso. Ma dalla sua bocca non uscirono che poche parole:
- Io sono Edmund. Edward è il
cuoco, è. in cucina.-
- Ah, allora mi scusi. Anche per
aver interrotto il suo racconto, scusi davvero. Buona serata.- Dopo queste
poche, frettolose parole di scusa, Angelo si allontanò da loro, scomparendo
dietro la porta della cucina. Contento di aver chiarito l’equivoco, Ed si voltò
di nuovo verso Henry, con tutta l’intenzione di finire il racconto.
- Dove. dove ero arrivato? Ah,
certo, che stupido, il cinese.-
- Henry, sono stanca. Torniamo a
casa?- disse sommessamente la vecchia al marito, tirandolo un po’ per la manica
della camicia.
- Cosa? Oh, certo, subito Molly. Un
attimo, che vado a prendere i cappotti.- Henry si alzò da tavola, sotto lo
sguardo attonito di Ed.
- Ma… ma porca… Henry, Diosanto, stavo
finendo! Era importante!-
- Domani Ed, domani. Molly è
stanca, e se devo dire il vero, lo sono anch’io. Avanti, non prendertela.-
Ed inspirò, si irrigidì e stette
zitto. Mille insulti, imprecazioni, bestemmie gli volevano uscire dalla bocca:
tutto quello che aveva provato, tutto quello che aveva vissuto, tutto quello
che era. Ingoiò tutto, e non proferì una sola delle parole che voleva dire. Non
sarebbe servito a niente in fondo.
- È stata una bella serata,
Edmund!- gli disse Molly, con un sorriso stampato da una parte all’altra della
faccia. Lei non si ricordava nemmeno quello che gli era successo il giorno
prima. “ Possibile che sia più felice di me?” si domandò Ed. Sorrise anche lui,
di risposta, e chiunque, se non una vecchia svampita, si sarebbe accorto di
tutta la tristezza di quel sorriso.
Il vecchio zittì la sveglia con una
manata, ponendo fine al suo trillo metallico, che, fastidioso e puntuale, lo
svegliava ogni mattina alle sei. E nonostante fosse lui a impostare la sveglia,
ogni mattina si esibiva in una lunga sequela di scurrilità contro di essa,
mentre si alzava dal letto, si vestiva, e iniziava il suo complesso rituale di toilettatura, verso la cui fine, solitamente il lavaggio
dei denti, tutte le sue imprecazioni si erano tramutate in un sommesso
brontolio. Quel giorno non fu da meno. Appena fu pronto, scese le scale che lo avrebbero
condotto al locale sottostante della palazzina, dove da ormai decenni gestiva
un bar, quattro tavoli e un bancone che si riempiva soprattutto la sera, soprattutto
dei lavoratori di una raffineria lì vicino. Quindi la mattina se la prendeva
con comodo, puliva il pavimento, il bancone, i bicchieri sporchi della sera
prima; poi riempiva il refrigeratore di birra e la macchina del caffè di caffè.
Ed eccolo pronto ad aprire la saracinesca che divideva il bar dalla Barnaby Avenue. Era una vecchia, arrugginita saracinesca,
che si apriva solo con una bella spinta verso l’alto a forza di braccia, cosa
che faceva gemere la schiena del vecchio sei giorni la settimana. E anche
quella mattina, svolte tutte questa attività, si avvicinò ad essa.
- Si apre!- esclamò a bassa voce,
come per incoraggiarsi, quindi, rimosso il lucchetto che assicurava la
saracinesca al pavimento, la alzò facendola stridere. E per poco non ci rimase
dallo spavento, quando immediatamente, a due spanne dalla sua faccia, vide che
c’era qualcuno.
- Oh.Cristosanto!
Brutto figlio di… ma ti sembrano questi gli scherzi
da fare a questo vecchio negro?-
- Ti meriteresti di peggio, Cab. Mi
fai entrare?- rispose Angelo, facendosi una grassa risata.
- Sicuro, vieni, vieni! Ma da
quanto è che sei appostato là fuori? Dio, che colpo mi hai fatto prendere.-
fece Cab, scostandosi per lasciare spazio ad Angelo
per entrare.
- Un cittadino onesto non dovrebbe
avere i nervi a fior di pelle come te.- detto ciò,
Angelo si accomodò ad uno dei tavoli più vicini.
- Ma che cazzo dici? Io sono un
cittadino onesto!- sbottò Cab, accompagnando
l’esclamazione con una sonora risata.
- E dimmi, che ti porto? Vuoi fare
colazione? Ho appena scongelato i croissant, sono decenti, sai?- fece poi.
- Beh, se mi porti una tazza di caffè,
potrei provare a ignorarne il sapore. Vada per il croissant, poi.-
Cab
trotterellò dietro al bancone, e preparò tutto su un vassoietto
pieno di graffi, mentre Angelo sfogliava una rivista di sport appoggiata su un
tavolo vicino a lui. Quando ebbe riempito la tazza di caffè, la appoggiò vicino
alla brioche, e le porto al cliente.
- Allora ragazzo, dimmi, cosa ti
riporta in città?- chiese quindi, appoggiata l’ordinazione sul tavolo e
sedutosi vicino all’amico.
- Lavoro. Come al solito.-
- Hai qualcosa di buono tra le
mani?-
- No, ma ho appena finito un incarico
abbastanza redditizio.-
- Ho sentito, lo sapevo che sarebbe
finita male per il vecchio Ed
Turner.-
Angelo sgranò gli occhi:
- Che? Sai già tutto? Sapevi chi
era?-
- Se lo sapevo? Ma non è il tizio
che lavorava in cucina da Salvo?-
- Cazzo Cab,
ho rotto lo scafoide ad un tizio per risalire a lui!-
Cab
scoppiò a ridere:
- E guarda un po’, bastava che un
certo stronzo di nostra conoscenza fosse venuto a far visita al vecchio Cab un po’ prima! Pensa, ero pure stato di recente nel suo
ristorante.-
- Mi dispiace.-
- A me no, era un pessimo cuoco.
Quindi, ora sei sfaccendato, giusto?-
- Di certo non sono venuto soltanto
per bermi il tuo caffè. Avanti, raccontami, che succede in questo stato che io
non so?-
Improvvisamente entrambi si fecero
seri. Cab si guardò attorno, come per controllare che
non ci fosse nessuno a spiare la loro conversazione. Poi disse sottovoce:
- Si tratta di Jason Foster. Tempo
due settimane e sarà libero come lo sei te adesso.-
- Ehi, aspetta un secondo, erano
vent’anni! Me lo ricordo, traffico di stupefacenti, si era beccato una vacanza
di vent’anni, e ne sono passati solo…-
- Quindici. Buona condotta.-
- Cazzo!-
- Puoi dirlo forte. E ora in città
ci sono almeno una decina di facoltosi figli di puttana che stanno per farsi
nelle mutande la più spaventatosa cagata della loro
vita. Lo sai perché era finito dentro, no?-
- Si lo so. Si vorrà vendicare,
ora.-
- Vendicare? Andiamo, lo sai
meglio di me chi è Jason Foster. Sul dizionario alla voce “fottuto psicopatico”
c’è la sua foto. Quello farà scoppiare una maledetta guerra, non oso nemmeno
immaginare quanta gente potrebbe rimanerci in mezzo.-
- Se me ne parli così mi sembra
quasi di compiere un’opera pia. Chi potrebbe pagare?-
- Mi vengono in mente almeno otto
nomi, te l’ho già detto. Se non ti hanno ancora contattato, è solo questione di
tempo. Approfitta dell’attesa per elaborare un piano d’attacco, eh? Hai già
qualche idea?-
- Mmm. -
Angelo si massaggiò il mento,
riflettendo. – Solo mezza.-
- Attento, Foster non si lascerà
mai trovare da solo, ne lascerà farsi cogliere alla sprovvista. È uno degli
ultimi duri rimasti in città, un po’ mi dispiace che sia già stata decisa la
sua fine. A te no?-
Angelo si alzò dal tavolo,
stiracchiandosi la schiena, e lanciando un lungo sbadiglio.
- Non sono mai stato un
sentimentale, Cab. Grazie per le informazioni, e questa mettila sul mio conto.-
Angelo spinse la sua tazza verso il vecchio. Si alzò, e quindi uscì dal locale.
Il sicario era un uomo di mezz’età,
più grasso che magro, che si cambiava la camicia una volta al mese, e
l’impermeabile neanche una volta in tutta la vita. Uccideva per vivere. Un uomo
dotato di una certa sensibilità avrebbe trovato questo contrasto affascinante,
ma il sicario aveva la sensibilità di blocco di cemento,e quando uccideva tentava di dimenticarsene
subito, spendendo parte del compenso per il lavoro in Chivas
e prostitute. Questo non deve trarre in inganno: il sicario non era un balordo,
ne un accattone, ne un disadattato. Era il sicario: era un professionista.
Quella mattina il capo gli aveva
indicato un bersaglio ostico: nientemeno che Jason Foster, l’assassino, l’ex re
degli spacciatori, lì in città, l’uomo che tutti volevano morto ma che ancora,
per qualche strano e inquietante motivo, camminava. E a lui toccava ovviare al
problema. Il sicario si era appostato da ormai due ore sul tetto di un vecchio
motel di fronte all’edificio nel quale, secondo le sue fonti, Foster sarebbe
entrato di lì a pochi minuti. Si era portato dietro qualche bottiglia di birra,
una radiolina a transistor per passare il tempo, e un buon vecchio Carcano, modello JFK, assicuratogli come non rintracciabile
dall’esame balistico. La strada che divideva i due edifici, quello sul quale il
sicario si trovava e quello in cui la sua vittima sarebbe dovuto entrare, era
solcata di tanto in tanto da una macchina, che però non si azzardava mai a
fermarsi in mezzo a quella periferia degradata, e tirava dritta per la sua
strada. Quindi, quando il sicario vide un’auto fermarsi, fu sicuro che si
trattava del suo obbiettivo. Spense la radio, tracannò un ultimo sorso di
birra, e si appostò presso il parapetto della terrazza su cui si trovava,
facendo scorrere delicatamente la sua mano sulla canna argentata del fucile.
Non si era sbagliato: L’uomo che
uscì dalla macchina era davvero Foster. Secco, fasciato da un completo nero
strettissimo. Sembrava sicuro di sé, il figlio di puttana. Il sicario prese la
mira, e non gli ci volle molto perché la testa dell’uomo si posizionasse tra le
due bande nere del mirino. Ma qualcosa gli impedì di tirare il grilletto. Fu
uno sguardo, Foster che alzava gli occhi verso di lui, e lo fissava. L’uomo
gemette, buttandosi all’indietro. Possibile, possibile che l’avesse visto? Eppure
era lontano, nascosto. No, non poteva essere successo davvero, doveva esserselo
immaginato. Rincuorato da questo ultimo pensiero, il sicario si rialzò da
terra, sperando di poter finire il suo lavoro: e invece Foster era sparito,
entrato nell’edificio davanti alui. Il
sicario digrignò i denti:
- Merda!-
L’ultima cosa che il sicario sentì,
fu lo sparo. La pallottola lo uccise sul colpo, facendogli saltare in aria la
testa.
Il negozio era conosciuto da tutti
come “OldAsh”. Vecchia
cenere. Un nome senza senso, ma che aveva un non so che di affascinante,
esotico. Quelle sei lettere erano tutto ciò che rimaneva del vecchio “GoldCash”, almeno sulla
balbuziente insegna al neon fuori dal negozio. La porta di vetro dell’“Oldash” Si affacciava su un
vicolo stretto, buio e soprattutto sporco, sicuramente uno dei più sporchi
della città, forse anche della contea. Roy, il proprietario, avrebbe potuto
dare un colpo di ramazza all’ingresso, ma non avrebbe mai potuto rinunciare
all’atmosfera decadente che quel luogo era capace di evocare. Da anni ormai,
l’oro non era che una sottilissima fetta dei proventi della sua attività.
“Vendo tutto tranne che la felicità!” aveva detto una volta. Ed era verissimo.
Roy era un sessantenne ingobbito e
rugoso, secco da far paura. Sfoggiava sempre camice scolorite, aperte davanti
su di una canottiera consunta, chiazzata in più punti dal caffè, e da una
miriade di altre macchie la quale natura era incomprensibile all’osservatore
superficiale, e a chiunque quindi, dato che nessuno avrebbe voluto analizzare
da vicino una della canottiere di Roy. Sopra di essa spiccava una catenina
dorata, che terminava in una croce con una delle braccia piegata verso l’alto.
Quella sera Roy stava sfogliando
annoiato un almanacco sportivo di due anni prima, quando sentì la porta del
negozio aprirsi, annunciata dai suoi vecchi cardini arrugginiti, che, girando
su loro stessi, emisero uno straziante cigolio. Appena il vecchio si accorse di
chi era entrato, lasciò un lungo sorriso allargarglisi
sulla faccia, mettendo bene in mostra tutte le sue otturazioni.
- Tu! Non ci credo Diosanto, è un secolo! Bentornato in città. Dimmi, che ti
porta nel mio negozio? Cerchi qualcosa in particolare, guardi soltanto, o
volevi salutare il vecchio Roy? È da un pezzo che non ci si vede, eh?-
Angelo non rispose a nessuna delle
domande, invece scosse la testa con quel sorriso indecifrabile, che lui era
tanto abile a fare, stampato in volto.
- Oh, no, non compro niente.- disse
quindi. – Ho solo bisogno di uno dei tuoi nipotini per un lavoretto.-
Il vecchio sembrò rallegrarsi
sempre di più:
- Oh, non sai quanto ti sono grato,
si divertono sempre come dei pazzi a giocare con te. E dimmi, quale ti mando?-
- Beh, sai, mi piacerebbe davvero
se portassi quiCharlie. Sai, no?-
In un primo momento il sorriso si
cancellò dalla faccia del vecchio, che anzi assunse un’espressione quasi
terrorizzata. Poi, nel tempo di un battito di ciglia, ritornò, anche se
offuscato da un velo di timore:
- Ah, sì, ora ho capito, tu ti
riferisci al piccolino, giusto?-
Angelo lanciò una breve risata, poi
scosse la testa:
- No Roy, quello grande. Non mi
dirai che è occupato?-
- Ehm.-
il terrore ritornò.- No. cioè sì, è occupato. Non c’è. È in vacanza. Scusami
ora ma. devo chiudere.- Roy distolse lo sguardo da Angelo, e iniziò a spegnere
le luci del negozio. Angelo, parve divertito dalla reazione del vecchio, e dopo
una risata meccanica disse:
- Avanti Roy, che ti costa? Poi te
lo riporto.-
Il vecchio, indossando una faccia
di quelle arrabbiate e spaventate al tempo stesso, si avvicinò di scatto ad
Angelo, e gli sibilò contro:
- Cazzo, no! Quello non lo do via
più a nessuno! Cristo di un Dio, l’ultima volta che l’ho noleggiato è scoppiata
la fottuta terza guerra mondiale! Mai più!-
Man mano che parlava, Roy diventava
sempre più paonazzo. Angelo invece, senza perdere la calma (ma anche lui
sottovoce) rispose:
- Beh, però e stata anche colpa
tua, a darlo a Tony Capuzzi. Lo avrebbe visto anche StevieWonder che quello era
imbottito di eroina fino al buco del culo.-
- Sì, okay, me ne ero accorto, non
è che sono rincoglionito fino a quel punto! Il fatto e che…
oh, insomma, diglielo tu di no, a Tony!-
- Lascia stare, capisco. Quindi a
Tony sì, e a me niente. E io che pensavo fossimo amici.- Angelo
sorrideva, in fondo sorrideva sempre. Non fu la sua faccia infatti a far gelare
il sangue nelle vene a Roy. Fu la sua voce, che divenne in un attimo gelida. Il
vecchio sentì la sua mascella, improvvisamente, scossa da un tremito, che si
tradusse nella sua voce in un balbettio nervoso.
- Dio, no, scusa. Ma. non mettermi
in certe situazioni. Abbi un minimo di pietà, cazzo!-
- Roy, dovresti saperlo che io sono
l’ultima persona a cui dovresti chiedere pietà. Ora mi porterai tuo “nipote”, e
me lo porterai subito.- Ora Angelo aveva pure smesso di sorridere. Roy non
riusciva più nemmeno a spiccicare una parola: scosso continuamente da tremiti, si
abbassò, e raccolse una scatola da scarpe. La aprì sul bancone, rivelando al suo
interno una pistola, elastici e nastri si scotch, e molte chiavi. Ne prese una,
attaccata ad una targhetta verde.
- L’indirizzo è sulla targhetta.- Disse.
- Grandioso.- commentò Angelo, intascandosela.
– Ha già con se le sue caramelle?-
Roy rispose guardando il pavimento,
con un filo di voce:
- Sì. Almeno due nastri.-
L’appartamento era rimasto come
l’aveva lasciato. Angelo andava sempre lì, ogni volta che tornava in città. Non
era suo, ma era stato lui a metterci il mobilio, e l’affitto era accettabile. E
Angelo, anche se non lo dava a vedere, era abbastanza ricco da permettersi un
appartamento in centro, e di non abitarci se non pochi giorni all’anno.
L’ingresso dava sul soggiorno, ma lui si diresse subito in cucina, appena fu
entrato. Portava sotto il braccio un lungo pacco, avvolto da vecchi numeri del
“Daily” e in mano un sacchetto di plastica, che emetteva
un tintinnio metallico ad ogni passo fatto. Li appoggiò entrambi sul tavolo,
poi attaccò alla spina della corrente un vecchio tostapane. Aprì la credenza
dove teneva il pane, ma prima di prenderlo, lanciò un’occhiata in direzione
della porta che separava la cucina dal soggiorno. Era aperta, e lasciava
intravedere in lontananza, appoggiato su una mensola, un vecchio telefono nero
laccato. La sua linea privata: comoda e sicura. Sembrava però che non volesse
nemmeno accennare a squillare. Angelo infilò due fette nel tostapane, e si
diresse in soggiorno. Si accasciò sul divano, buttando i piedi sul tavolino
davanti a lui, e accese il televisore. Fece zapping per un po’, lanciando
continue occhiate al telefono, che insisteva a rimanere in silenzio. Alla fine
Angelo si decise per spegnere la tivù. Iniziò invece a fissare intensamente il
telefono, e lo fece per almeno dieci minuti.
- Squilla.- ordinò infine. E il
telefono sembrò obbedirgli. Il suo lungo trillo gli fece tornare il sorriso: si
alzò, e subito dopo alzò la cornetta.
- Pronto?-
- Sant’Iddio, ma dov’eri finito?
Hanno rilasciato Jason Foster!- strillò l’uomo dall’altra parte, palesemente
fuori di sé dalla paura.
- Quanto?- Angelo non disse
nient’altro, perché in fondo nient’altro gli importava.
- Dieci adesso e altrettanto a
lavoro finito.-
- Ma va a farti fottere, con chi
cazzo credi di parlare? Venti te li puoi infilare nel culo, anzi, comprati una
bella bara, perché scommetto che Foster non vede l’ora di crocifiggerti. E te
lo meriti, stronzo taccagno!-
- Su, ti prego, ha già ucciso due
sicari in prigione, e uno oggi.-
- Appunto. Buona giornata.- detto
questo, riattaccò.
“Quindi la base è venti? Bene,
vediamo a quanto si può arrivare.”
Angelo non dovette aspettare poi
molto altro tempo, prima che il telefono squillasse nuovamente.
- Ehi.- disse,
alzando la cornetta.
- Ascoltami, si tratta di Foster. È…-
- Ciao Sid.
Sì, sì, lo so. Trenta.-
- Qualunque cifra, basta che…-
- Quaranta, allora.-
- Eh?-
- Quando hai detto “qualunque
cifra” ho forse capito male?-
- No, ma…-
un attimo di esitazione - …quaranta, non un dollaro
in più.-
- Sei tu il capo. Consideralo già
fatto.- il telefono venne di nuovo riattaccato. Il tostapane fece saltare fuori
le due fette di pane, leggermente bruciate. Angelo, arrivato in cucina, ne
prese una, e la esaminò da vicino. La buttò subito via.Afferrato di nuovo il pacco, uscì di casa.
La stanza, un vecchio ufficio di un’azienda
fallita da tempi immemori, era avvolta dalla penombra. Se fosse stata sera, il
buio sarebbe stato totale, ma invece era mezzogiorno, e il sole picchiava alla
grande sulla città, anche se l’estate stava ormai giungendo al termine, quindi
uno spiraglio luminoso filtrava dalle tapparelle calate, illuminando fiocamente
l’interno del locale. Sei uomini in tutto, e una fetta di pizza, abbandonata a
se stessa in mezzo ad una scatola di cartone, erano i suoi occupanti.
L’arredamento della stanza era ridotto ad alcune casse vuote, usate come sedie,
una scrivania divorata dai tarli e una poltrona da ufficio. Su di essa sedeva
un uomo alto e secco, completamente calvo. I suoi occhi erano infossati,
circondati da delle profonde occhiaie. Sulla scrivania si trovava una pistola
argentata, smontata in tutti i suoi pezzi, tranne l’otturatore, che l’uomo
teneva in mano, lucidandolo con un fazzoletto di stoffa grigia. Teneva stratta tra
i denti una sigaretta. Il fumo gli usciva in due sottili colonne dal naso e dalla
bocca.
Dei passi, provenienti dal
corridoio, interruppero il silenzio, fino a quel momento imperante, nella
stanza. Tutti gli occupanti dell’ufficio, alzarono il loro sguardo da terra, e
tirarono chi fuori di tasca, chi dalla giacca, chi da per terra un’arma da
fuoco. Foster rimontò con velocità impressionante la sua semiautomatica, fece
scattare la sicura slittando l’otturatore all’indietro, e mirò in direzione
dell’ingresso.
- Chi è?- chiese uno di loro,
mentre tutti imitavano Foster nel mirare alla porta.
- Sono io, Jason, sono Sam. Ho
appena fatto quel giro che…-
- Taci, coglione.- gli sibilarono
da dentro la stanza. – Sottovoce. E dentro.-
La porta si aprì davanti a Sam: era
un ragazzo di colore, vestito con una giacca smessa. Tentò di sorridere, nonostante le sei pistole, cariche e
senza sicura, che la gente dentro gli stava puntando contro.
- Ehm, ciao, ragazzi.-
- Sam.-
gli fece uno di loro, un altro nero a mo’ di saluto. Il nuovo arrivato si
accomodò su di uno sgabello traballante vicino alla scrivania, mentre le armi
venivano lentamente abbassate. Respirò a fondo, tentando di farsi vedere a sua
agio, poi adocchiò la pizza.
- Wow, ho una fame…-
fece per afferrarla, ma uno degli altri la prese per primo, e se la calò in
bocca senza probabilmente aver nemmeno sentito le parole di Sam. Questi rimase
per un po’ fermo, con la mano protesa verso la scatola della pizza vuota, e
un’espressione da scemo sulla faccia. Poi emise un colpetto di tosse, come per
dire “vabbè, non importa”, e iniziò quindi a parlare:
- Oh. beh. insomma, ho parlato con
Johnny Long, giù a Chinatown, e pare ci sia questa
nuova triade, in città, che sarebbe disposta a darci una mano, in cambio di una
fetta del territorio. Io non gli ho promesso niente, aspettavo di sentire il
vostro parere, anche perché fino a che non isoliamo Santo da…-
- Santo è già solo.- fece un altro
dei presenti. – E lo rimarrà ancora per qualche giorno, almeno finché le
famiglie non avranno tempo di riorganizzarsi. Quindi se vogliamo agire,
dobbiamo farlo ora. I Capuzzi non saranno mai deboli
come lo sono adesso.-
- Santo Capuzzi.-
la voce di Foster attraversò la stanza, profonda e tagliente. Tutti lo
fissarono, aspettando che finisse il discorso, senza osare nemmeno respirare. Foster
buttò via il mozzicone della sigaretta, e se ne accese un'altra.
- Ero io che procuravo tutta
l’eroina a suo figlio.- digrignò i denti. – Fottuto traditore. Ha lasciato che
gli sbirri ci fottessero tutti. Sapete, dovevo avere una faccia buffa quando mi
dissero di mettere la mani dietro la testa, e io che stavo nascondendo la roba
in mezzo ai sacchi di caffè.- Foster ridacchiò, forse di se stesso.- Ma lui non
è l’unico, no, poi ci sono gli altri! Il colonnello Stevenson, per esempio,
sarebbe stato un gran bello scandalo se qualcuna avesse scoperto i suoi passatempi.
Poi Rich, ah, io lo adoravo quel ragazzo, era un
piacere veder svolgere bene il lavoro anche da qualche americano, e non dai
fottuti italiani, o dai cinesi. E ha fatto strada in questi quindici anni, il
piccolo Richard.-
Sembrava che la lista sarebbe
andata avanti a lungo, se non che, in quell’istante, un nuovo rumore risuonò
nella stanza. Qualcuno aveva bussato alla porta, ed era stato silenzioso
nell’avvicinarvisi, nessuno aveva sentito i suoi passi nel corridoio. La scena
di poco prima si ripeté identica, se non che questa volta le armi alzatesi
contro l’ingresso erano sette.
- Chi è?- chiese lo stesso di
prima.
- Ho un pacco per il signor
Foster.- rispose qualcuno da dietro la porta, e non era la voce di uno dei
ragazzi che Foster aveva messo a sorvegliare l’ingresso.
- Il signor Foster non aspetta
nessun pacco; e ora sparisci, testa di cazzo.- sghignazzò Sam. Subito tutti gli
altri presenti lo squadrarono con uno sguardo che uccide. Sam stava per
domandare: “Ho detto qualcosa di sbagliato?” quando l’uomo dietro alla porta
disse:
- Però si trova comunque la dentro,
non è vero?-
- Sparate.- l’ordine di Foster
giunse immediato, freddo, ma non certo inaspettato. I sette grilletti vennero
premuti, e prima che qualcuno là dentro avesse solo il tempo di respirare, una
tempesta di metallo incandescente crivellò la porta. Gli spari provenivano
prevalentemente da delle pistole, ma c’era anche un mitragliatore leggero, e un
fucile da caccia. Abbastanza per ridurre in un istante un pannello di legno ad
un informe pezzo di legno, ma non per abbatterla. Rimase in piedi, come
sostenuta dalla volontà divina. Quando Foster fece segno di smettere di
sparare, venne obbedito all’istante. Alcuni dei presenti avevano addirittura
svuotato l’intero caricatore, e si prodigarono subito a sostituirlo.
- Va a vedere se è morto.- ingiunse
quindi Foster. Tutti lo guardarono, per capire a chi si stesse rivolgendo.
- Sam.-
sibilò quindi. Il nero deglutì, e, dopo aver cercato invano un po’ di
solidarietà nei volti dei compagni, si avvicinò tremante ai poveri resti della
porta. Avvicinò la mano alla maniglia, un vecchio pomello ammaccato, in cui la
ruggine si confondeva con la patina dorata che in origine lo ricopriva. Lo
girò, e lo tirò verso di sé. Subito la maniglia si staccò, rimanendogli in
mano. Sam si voltò verso gli altri, sorridendo ebete. Ricevette solo sguardi
omicidi. Tentando di sorridere ancora di più, Sam disse:
- Che sfiga, eh? – ridacchiò.
La porta alle sue spalle venne
abbattuta con un calcio, facendo cadere il nero a terra, sotto il suo peso.
Angelo era lì dietro: stringeva in braccio qualcosa, e bastò un’occhiata
superficiale per poter scorgere in quel qualcosa la sensuale silhouette che
solo i più raffinati strumenti di morte hanno.
- Oh no.-
fece qualcuno dentro. Qualcuno alzò di nuovo l’arma, ma non riuscì a premere il
grilletto, perché Angelo premette il suo prima.
Il mitragliatore urlò la prima
esplosione, e poi una seconda, e poi molte altre ancora. E per ognuna di esse 7
e 62 millimetri di morte sfrecciarono per la stanza, inondando l’aria di piombo
e fuoco. Angelo lo reggeva tra le braccia, domando il rinculo come un animale
selvaggio. Nessuna pietà, né pena, né odio. Mai provati, quando lavorava.
Quando il nastro di munizioni sparì
del tutto, consumato dalle fauci del mitragliatore, e il grilletto venne
rilasciato, nella stanza erano rimasti solo cinque cadaveri, novantanove
bossoli fumanti, e tanto sangue da tinteggiarci le pareti. Già, i cadaveri
erano solo cinque: Angelo non si era illuso per un secondo di aver ucciso
Foster. Aveva visto un proiettile disarmarlo, e molti altri affondarglisi
nel ventre. Poi l’uomo era scomparso dietro la scrivania. Ma non era morto, la
gente come lui è protetta da un angelo custode molto premuroso, o da un diavolo
maledettamente caparbio.
- Sai, Jason, forse mi crederai un
sentimentale.- Angelo appoggiò la sua arma al muro – Insomma, piombare in una
stanza con un mitragliatore come questo, è un po’ eccessivo. Il fatto è che
questo è un pezzo di storia americana, non immagini nemmeno quanti vietcong
siano passati a miglior vita dopo una scarica del buon vecchio M60. È un
peccato non usarlo mai. Certo, avrei potuto usare una granata, ma sai, sono
così inaffidabili. Una volta ne ho tirata una, e il mio bersaglio si è salvato,
solo perché si trovava dietro ad un altro tizio che…
beh, ma forse non ti interessa.- si avvicinò alla scrivania: come previsto
Foster era lì. Ansimava freneticamente, per quanto i suoi polmoni consumati
dalle sigarette glielo permettessero, e si tamponava il ventre con una mano. I
proiettili gli avevano aperto un gran brutto squarcio, all’altezza
dell’intestino. Non tutti lo sanno, ma un essere umano ha nella pancia la
bellezza di tredici metri di intestino, che sembrano quasi morire dalla voglia
di schizzare fuori dalla loro flaccida dimora, appena se ne presenta
l’occasione; certamente Foster non voleva che succedesse. Angelo si chinò su di
lui, sorridendo.
- Tu?- balbettò Foster. La sua voce
uscì deformata dal dolore.
- Ehi, JF, che pensavi di fare?
Vendicarti?- chiese Angelo, con lo stesso tono con cui si rimprovera un
bambino.
- Fottiti!- gli sbraitò in faccia
l’altro – Cristo di un Dio. Ero… ero così vicino.-
Angelo interruppe il suo discorso
sconnesso, mentre gli afferrava la mano che tamponava la ferita:
- Mi dispiace Jason.- iniziò ad
alzare la mano. Foster tentò di fare resistenza, ma si accorse all’improvviso
di essere diventato troppo debole. La mano si alzò dallo squarcio, lasciando
uscire un rivolo di sangue e interiora. Il corpo dell’uomo iniziò a contrarsi,
e quindi a tremare convulsamente. Poi, si immobilizzò.
- Mors
tua, vita mea.- mormorò Angelo. Poi lo osservò in
viso, finché non fu certo che ogni singola stilla di vita fosse uscita dal suo
corpo. “Andato” pensò quindi. Gli chiuse delicatamente le palpebre, e andò a
raccattare il mitra.
- Qui ho finito.- Stava per uscire,
quando si bloccò, come se qualcosa di importante gli fosse appena tornata in
mente.
- Tu, sotto la porta. Sei vivo?-
- Non spararmi.- mugolò Sam, senza
muoversi di un solo millimetro dalla sua posizione. Angelo estrasse una pistola
dalla giacca, e piantò un paio di pallottole nella porta abbattuta. Uscì dalla
stanza, pensando a che fare una volta messosi al sicuro. Birra. Si sarebbe preso
una birra.
Joshua
Clay viveva in un minuscolo appartamento di un condominio di periferia, un
casermone di cemento armato con vernice color piscio che si staccava dai
mattoni grigi. Era attaccato ad un pilone della sopraelevata, che ogni otto
minuti dava di che lamentarsi alla vecchia del piano di sotto. Il rumore del
treno era una costante per lui ormai. Si era abituato a sentire il gracchiare
della sua radio, sintonizzata ventiquattrore su ventiquattro su Super Hit 80, venire gradualmente
soppiantato dal vibrante fragore del treno, che viaggiava a tutta velocità
venti metri più in alto. Il rumore non era un fastidio, anzi, era una certezza.
Lo tranquillizzava, lo faceva sentire al sicuro, a casa; e poi lui non dormiva
mai, la notte era sempre fuori. Utilizzava casa sua solo per portarci la
puttana di turno, per bersi una bottiglia di Jack o semplicemente per isolarsi
dal mondo.
Joshua
non aveva mai avuto una vera e propria casa: i suoi genitori erano stati due
hippy. Aveva passato l’infanzia a correre in giro nudo per il prato in cui gli
capitava di parcheggiare il loro camper e ora che una casa ce l’aveva, non
sapeva bene che farsene. Le idee dei genitori non l’avevano mai influenzato,
l’unica cosa che aveva ereditato da loro era il lavarsi poco e la caparbia
ostinazione nel non volersi tagliare i capelli. Così Joshua
viveva. Ora parliamo invece di come sarebbe dovuto morire.
Quel giorno Joshua
se ne stava sul suo divano rattoppato, a leggere il numero di Mad del mese
prima. L’aveva già letto almeno un centinaio di volte, però rideva sempre, con
una risata roca e ottusa, ogni volta che arrivava alle sue battute preferite.
Erano anche quelle una certezza, e a lui piacevano le certezze. Stava giusto
lanciando una di quelle risate di cui ho parlato poco fa, quando qualcuno bussò
alla porta.
- Signor Clay! Signor Clay! Mi apre
per favore?- era Mrs. Birkin, la portinaia. Di sicuro
intenzionata a lamentarsi con lui di qualcosa. Joshua
distolse lo sguardo dalla rivista, e fissò con occhi vacui l’ingresso.
- Signor Clay, benedetto ragazzo,
mi vuole aprire? Devo parlarle!-
Joshua si
portò le mani sulle orecchie, e iniziò a fissare il soffitto, cantando ad
altissima voce Like a Virgin insieme a Madonna.
“ Che palle, ma cosa vuole quella?
Manco non la pagassi.” Pensò tra se, senza smettere di cantare.
- Signor Clay! So che è li dentro!
Mi apra subito!-
“Spero non sia ancora incazzata per
il suo gatto. Mah, in fondo lei nonlo
sa che sono stato io, no?”
- Insomma, inizio davvero ad
arrabbiarmi. Non mi può trattare così!-
“ E poi quello continuava a
pisciare sul mio zerbino, quando ci vuole ci vuole, no? Dio, giuro che un
giorno la ammazzo quella stronza.”
- Oh, basta, se non vuole aprire a
me non importa. Rimanga la dentro, e ci crepi, anche!-
“Ma non può lasciarmi in pace? Ho
una vita già abbastanza difficile io, senza dover venire torturato da una
vecchia lunatica, no? Ma se ne va? Se ne va?” Si tolse le mani dalle orecchie.
Sembrava che non ci fosse più nessuno. Con un sospiro di sollievo, tornò a
leggere la sua rivista. La osservò per un po’, quasi con un’espressione seria.
Poi proruppe in un’altra risata:
- Ah, ma come se le inventano?- e
continuò a sghignazzare. In quel momento il treno di mezzogiorno e quindici
sfrecciò accanto alla palazzina, ovattando con il suo fragore qualsiasi rumore
nel raggio di cento metri.
Quando il rumore delle ruote che
correvano sulla rotaia fu solo un mormorio in lontananza, e la radio poté
tornare a farsi sentire, qualcuno bussò di nuovo alla porta. Joshua si sentì traboccare di irritazione, e scagliata a
terra la rivista sbraitò:
- Ma allora, l’abbiamo finita di
rompere il cazzo? Pago l’affitto e le bollette, e vorrei essere lasciato in
pace quando sono a casa mia! Quindi mi faccia il piacere di piantarla di
bussare e di andare un po’ a fare in…- la porta si
aprì di colpo, sbattendo contro la parete, così forte che avrebbe staccato l’intonaco,
se i muri non fossero stati coperti da una carta da parati a fiori gialli e
fucsia. Angelo, nel momento in cui entrò nella stanza, impugnava una pistola di
piccolo calibro, con al termine della canna un lungo silenziatore. Non sparò
subito: Joshua ebbe il tempo di impallidire, alzarsi
allarmato dalla sedia, lasciar cadere a terra la rivista, e quindi allungare
una mano verso il comodino vicino alla poltrona, sul quale erano appoggiati una
bottiglia vuota, un bicchiere mezzo pieno e un revolver carico. Non ebbe tempo
di fare altro: Angelo gli perforò la mano con un solo colpo, mirato al millimetro.
La mano ferita si sfracellò sul comodino, il bicchiere si rovesciò e la pistola
finì sul pavimento.
- Aah, figlio di…-Joshua cadde a terra, più per lo spavento che per il
dolore, tenendosi la mano sanguinante. Poi, stringendo i denti, si rivolse ad
Angelo:
- Stronzo!- sbraitò – Che cazzo ci
fai in casa mia? Chiamo la polizia!-
- Joshua,
Joshua, Joshua- gli fece
Angelo, scuotendo la testa, rigata in volto da una smorfia condiscendente.
Angelo aveva già posizionato la fronte di Jashua tra
le due stanghette di metallo del mirino, ma qualcosa lo fermò: qualcosa che gli
vibrava in tasca. Angelo alzò gli occhi al cielo, accennando un sospiro.
- Scusa un attimo.- fece poi,
mentre estraeva di tasca il cellulare.- Pronto?- Qualcuno iniziò a parlare
dall’altra parte. Joshua iniziò a fissare la sua
pistola, per terra a un metro da lui.
- Si, sì sono io, chi cazzo dovrei essere?
Cosa vuoi?-
“Se solo riuscissi a raggiungerla…” pensò Joshua,
mentre fissava con la coda dell’occhio il revolver. Iniziò ad allungare timidamente
le dita verso di esso, mentre il cuore gli batteva contro la cassa toracica
come un martello pneumatico. Il suo dito medio stava già accarezzando il
calcio.
- Ehi, Clay, sta un po’ fermo o ti
faccio saltare via l’uccello! Scusa, dicevi?- la minaccia di Angelo riuscì a
immobilizzare l’uomo seduta stante, oltre che a farlo sudare dannatamente
freddo. Joshua ritirò la mano dal comodino, e si
rannicchiò tremante sul pavimento ai piedi della sua poltrona. Angelo continuò
per un po’ ad ascoltare il suo interlocutore. – Sì. Sì.-
annuiva, lo assecondava, ma un frequente nervoso movimento delle labbra faceva
capire chiaramente che gli stavano iniziando a girare:
- Cosa? Ma che cazzo vuol dire “ho
sbagliato”, ero qui che stavo per ammazzarlo! Diosanto,
gli ho già bucato una mano. “Sadico”? Ma vaffanculo,
mi voleva sparare, eh, “sadico” il mio cazzo. Sì, okay, ho capito, ma qui ci
passo da coglione. Sono un professionista, dico, io non lavoro così, io. Che?
Cosa? No, no, ascolta tu, io non sono un fottuto…
che? Ma vaffanculo, vaffanculo
ti dico, puoi pagarmi quanto… ah. Così, dici? Va
bene, allora. Ma accidenti, fammi un altro di questi scherzi del cazzo e… e smettila di scusarti, porca troia, sono già abbastanza
incazzato! Sì, ci si vede, vaffanculo!- Angelo
riattaccò. – Ah, ma tu guarda che razza di… Bah!-
adagiò la pistola in una fondina nascosta sotto la giacca. Quindi si avvicinò
alla sua vittima, e gli porse una mano, forzando un sorriso:
- Buone notizie, pare che alla fin
fine non debba ammazzarti. Dai, vieni, ti accompagno in ospedale.-
Joshua lanciava
ad Angelo continue occhiate colme di disagio. Stavano procedendo con tutta
calma in mezzo al traffico cittadino,che scorreva a scatti al ritmo delle luci smorte dei semafori, su di una
vecchia auto colore verde scuro. Aveva un bagagliaio molto capiente, Angelo la
aveva scelta apposta per portare via il cadavere di quella che sarebbe stata la
sua vittima. Ma Joshua per fortuna non lo sapeva, la
cosa non lo avrebbe certo messo a suo agio. Mentre la macchina si bloccava
davanti ad un giallo di un semaforo, Angelo si rivolse verso Joshua:
- Dispiace se accendo la radio?-
- Prego.- balbettò lui di risposta.
Angelo girò una manopola, facendo diffondere per tutta l’auto la note di una
canzone di Elton John. Non tentò nemmeno di dissimulare un profondo moto di
irritazione, che subito divenne chiaramente visibile sul suo volto:
- Oh Gesù, questa no, per carità.
Dispiace se cambio?- Joshua rispose con un cenno
d’assenso: a lui in verità la canzone non dispiaceva, ma non aveva intenzione
di mettersi a parlare di musica con l’uomo che aveva appena tentato di ucciderlo.
- Non riesco più ad ascoltarla da
quando ho scoperto che è dedicata ad un uomo.-
borbottò quindi Angelo, girando ancora un po’ la manopola. La stazione cambiò
gradualmente, sintonizzandosi alla fine su una qualche canzone di musica
leggera, del genere che la radio di Joshua
trasmetteva quotidianamente. Angelo sembrò nuovamente contrariato.
- Mio Dio, ma come cazzo fanno i
giovani ad ascoltare certa merda?- cambiò di nuovo stazione, questa volta senza
nemmeno chiedere il parere di Joshua a proposito, che
anche questa volta sarebbe stato contrario, ma che in ogni caso non avrebbe mai
espresso. Dagli altoparlanti sulle portiere uscì la voce metallica di una
telecronaca:
- Gli Eagles
si sono aggiudicati la vittoria a pochi secondi dalla fine, grazie ad una
sorprendente azione del nuovo acquisto della squadra, Chris Blanchette,
che è riuscito a portare a canestro la palla passatagli da metà campo dal
compagno di squadra Henry Barrymore. La palla…- a
questo punto, Angelo lanciò una sonora risata, attirando tutta l’attenzione di Joshua.
- Ah, quel negretto, che forza! Da
quanto tempo è in squadra? Un mese?- chiese alla “vittima”, guardandolo fisso
negli occhi. Joshua formulò mentalmente la frase che
contenesse meno parole possibili. Poi la pronunciò:
- Due mesi. mi pare.-
- Già, che fenomeno! È molto
giovane, vero? Quanto avrà, vent’anni, diciannove forse. incredibile. No?-
- Io…-è vero, la penso come te, ti prego non
uccidermi. Joshua sapeva quello che avrebbe
dovuto dire.
- No.-
esclamò invece, e (si accorse dopo averlo fatto) con un tono di voce troppo convinto.
Angelo lo fissò storto:
- No cosa?-gli chiese. Joshua
si morse la lingua e deglutì contemporaneamente, quasi volesse ingoiarla. Le
parole gli uscirono di bocca a fatica.
- Non penso sia un grande
giocatore. Non ti sembra che sia gonfiato?-
- Nel senso che si fa?- Gli chiese
allora Angelo, questa volta con un tono più tranquillo, come se la
conversazione lo interessasse. Mentre faceva la domanda si diede due colpetti
con l’indice e il medio sul braccio.
- No, niente droga, non che io
sappia almeno. Intendevo il modo in cui lo presentano i media, no? È un
fighetto qualsiasi, uno di quelli che le ragazze nere si appendono il poster in
camera, ma come giocatore vale poco, no? Per non parlare poi di quelle
stronzate sull’Hip-Hop.- Più parlava, più Joshua prendeva sicurezza.
- Hip-Hop? Questa non l’avevo
sentita, che intendi?-
- Ma sì, nel tempo libero fa il
rapper, dice che vuole anche pubblicare un suo cd, e probabilmente ci sarà pure
un fottio di gente che andrà a comprarlo, no? Insomma, è un’icona, un idiota
qualsiasi, non un bravo giocatore, no?-
- Ma va via, sei solo invidioso.-
Angelo smise di guardarlo negli occhi, tant’è che il semaforo era tornato
verde, e scosse la testa, esibendosi intanto in una risatina a denti stretti.
- Invidioso di quel negro del
cazzo? Ma fammi il piacere, è solo un idiota.- incalzò Joshua.
- No che non lo è, e tu sei
invidioso. Si capisce, sai?-
- Non lo sono, ti ho solo detto
quello che pensavo, accidenti! È un montato, punto.-
- Non è vero, cazzo! Stattene
zitto.-
- Si che è vero!-
- Oh, testa di cazzo, tappati
quella bocca di merda o questa volta il fottuto buco te lo apro in testa!-
l’urlo di Angelo fu così forte che sembrò che i finestrini dell’auto
tremassero. L’auto si fermò in quel momento davanti ad un altro semaforo rosso.
Angelo squadrò l’uomo che gli stava accanto per alcuni interminabili secondi,
come volesse trafiggerlo con lo sguardo. Joshua si
ritirò contro una delle portiere dell’auto, cercando disperatamente di
scomparire. Improvvisamente iniziò a tremare, e a desiderare di non essersi
davvero ingoiato la lingua. Il semaforo tornò verde. Angelo smise di fissarlo,
e iniziò di nuovo a guidare. I due rimasero per un po’ nel più completo
silenzio, riempito solo dal ronzante sottofondo della radio, ancora accesa sul
notiziario. Joshua fu fortemente tentato di aprire la
portiera e buttarsi fuori dalla macchina, ma aveva paura che il tremito
sconnesso che lo agitava da fin subito dopo l’urlo di Angelo non gli avrebbe
permesso di tirare la maniglia. Cercò di convincersi che la sua paura era
totalmente irrazionale, che in fondo Angelo non doveva ucciderlo, e che
nonostante tutto non lo avrebbe fatto. Ma in fondo lui era un assassino, cosa
gli cambiava un morto in più o in meno? Morire per una discussione sul basket,
poi, era del tutto ridicolo, eppure qualcosa nel volto del killer lo faceva sembrare
terribilmente plausibile. Joshua non riuscì a
trattenere un gemito quando Angelo si voltò di nuovo verso di lui. Sembrava
ancora incazzato, e parecchio. Joshua tentò di
balbettare un’infinità di scuse, non riuscendo però a pronunciarne una sola. Poi,
d’improvviso, Angelo iniziò a sorridere.
- Dai, ragazzo, non fare così, non
ti ammazzo mica. Eddai, era solo una cazzata, non ci
davo peso. Rilassati! Ma davvero ti ho spaventato così tanto?-
- Io…io…- balbettò Joshua.
- Così tanto?-
- Me. me la stavo per fare
addosso.- Rispose Joshua, abbozzando anche lui un
sorriso. Angelo proruppe ancora una volta in una grassa risata.
- Ah, scusa, scusa Jo. Certo che
sei un tipo emotivo, eh?- rise, e Joshua tentò di
ridere con lui, anche se con scarsi risultati. - Toh, eccoci, siamo arrivati.-
L’auto frenò dolcemente fino ad adagiarsi entro le linee di vernice scrostata
di uno dei parcheggi dell’ospedale, un vecchio edificio bianco che si ergeva lì
vicino. Entrambi gli occupanti dell’auto scesero, e Joshua
lo fece con seicento libbre di tensione che gli si levavano dalla schiena.
- Grazie per lo strappo.- farfugliò
Joshua.
- Ehi, e di che ringrazi? È stato
un piacere, amico. Sei stato fortunato, sai? Se davvero te la facevi addosso
nella mia auto, finiva che ti ammazzavo sul serio!- rise di nuovo -Beh, si è
fatto tardi, ti saluto. Ah, non una parola del nostro incontro con nessuno, ma
immagino tu lo abbia già intuito. E riguardati quella mano, è una brutta
ferita.-
- Senz’altro.- mormorò infine Joshua. Angelo salì di nuovo sulla macchina, e appena
l’ebbe messa in moto, sparì di nuovo nel traffico. Joshua
lo osservò fino a che fu scomparso all’orizzonte.
- Ma tu guarda che razza di stronzo.-
disse quindi, massaggiandosi la mano.
Angelo premette il grilletto.
L’otturatore slittò, la polvere da sparo si incendiò e esplose, il proiettile frantumò
le ossa del cranio, perforò il cervello ed uscì dall’altra parte, avvolto da
una fontana di sangue.
La vita è una troia orrenda: un
attimo prima stai versando il bagnoschiuma nella tua vasca da bagno, un attimo
dopo ci stai versando il tuo cervello. Questo il signor River lo sapeva bene, perché
era sua la testa che era stata appena perforata dal proiettile di Angelo.
Era stato tutto molto veloce:
Angelo aveva scassinato la porta dell’appartamento, si era mosso furtivamente
fino al bagno, e aveva sfondato la porta con un calcio. Il signor River era la
dietro, ammollato nella sua piccola vasca da bagno. Un proiettile in testa, un
altro figlio di puttana in meno a sottrarre ossigeno all’atmosfera. L’acqua
calda che lambiva i flaccidi fianchi del cadavere iniziò gradualmente a
tinteggiarsi di rosso. Angelo girò la manopola del rubinetto, ancora aperto:
non voleva certo sporcare il bel bagno del signor River.
“Beh, direi che ho finito. Magari
tutti i lavori fossero così.” Si disse tra se, dando un’ultima occhiata
all’ultimo cadavere della sua collezione: lo stava fissando con i suoi occhi
vitrei da morto. Angelo rinfoderò la quarantacinque, e se ne sarebbe andato per
sempre da quella casa, a meno che qualcosa non lo avesse fermato. I qualcosa
furono due: un’ombra che si allungava dal corridoio e una voce.
- Ehi, Bud, sei in casa? Hai
lasciato la porta aperta.- sembrava un uomo giovane, preoccupato per il suo
amico Bud. Un’imprecazione nacque e morì, senza assomigliare a niente di più
che un sussurro, sulle labbra di Salerni. Rientrò nel
bagno, e chiuse la porta. Non poteva chiuderla a chiave, aveva rotto lui stesso
la serratura nemmeno un minuto prima. Quindi puntò la sua pistola contro di
essa, nel caso il nuovo arrivato avesse avuto l’infelice idea di aprirla. I
testimoni erano uno dei problemi peggiori del suo mestiere. Finché era gente
del giro, spacciatori, tirapiedi, mafiosi e feccia del genere, bastava dirgli
di stare zitti: che Angelo rimanesse un ombra priva di identità era nel loro
interesse, dato che di solito le persone che ammazzava e quelle che gli
dicevano di ammazzare appartenevano alla stessa classe sociale. Ma nel caso di
civili, non si poteva mai essere sicuri. Certe volte bastava allungargli cento
dollari, altre volte mille, ma corrompere non era mai una buona scappatoia. Con
i soldi puoi zittire qualcuno per un po’, ma non fargli dimenticare cosa ha
visto.
- Bud? Ehi, Bud, sei lì? Sono io,
Thomas. Che fai, ti nascondi?- i passi di Thomas si avvicinarono sempre di più,
così come la sua voce si fece sempre più distinta.
- Sei al cesso?- la maniglia del
bagno iniziò ad abbassarsi. Angelo era già pronto a premere il grilletto. Però
quel coglione non doveva morire: o meglio, Angelo non aveva intenzione di
ammazzarlo. Nessuno lo avrebbe pagato. Quando sei abituato a fare una qualche
cosa per lavoro, non la fai mai volentieri per te stesso. Quindi, prima che la
porta potesse aprirsi, disse:
- Se la apri, sei morto.- gli
sembrò di essere stato abbastanza convincente. Aveva pronunciato le parole
chiaramente ed ad alta voce, perfino l’ultimo degli imbecilli le avrebbe
capite. Infatti la porta non si aprì.
- Ehi, okay, scusa, scusa. Avevi la
porta dell’ingresso aperta, Bud. Sicuro che non ti è entrato nessuno in casa?-
disse ridacchiando Thomas, dall’altra parte.
- No.-
rispose Angelo, che si ricordava chiaramente di averla chiusa. Serratura rotta,
forse.
- Sicuro? Ehi, ma che è questa
voce? Cazzo, tu non sei Bud!- A quanto sembrava Tommy era più sveglio di quanto
sembrasse. Peccato.
- Effettivamente non lo sono. E
tu?-
- Chi cazzo sei? Guarda che chiamo
gli sbirri!- ora il ragazzo si fece addirittura risoluto. Angelo iniziò a
trovarlo seriamente un gran bel dito nel culo.
- Senti, ora ti spiego come stanno
le cose. Bud si trova qui con me, sta benone, ci stiamo prendendo una birra. Ho
una pistola, quindi siediti a terra, conta fino a cinquecento e non rompere il
cazzo. Capito?-
- Diosanto,
ma cosa vuoi? Gli hai fatto qualcosa?- Balbettò Thomas, dall’altra parte della
porta.
- Senti buon samaritano, Bud è già
bello che andato. Ora che non hai più motivo di preoccuparti, inizia a
contare.-
- L’hai ucciso?-
- Vuoi raggiungerlo?-
- Ehi, calmo, calmo, okay, lo
faccio. Però, chi mi dice che non stai bluffando?-
- Vuoi che spari un paio di colpi
attraverso la porta?- Thomas rimase un attimo zitto. Poi iniziò a contare.
- Bravo ragazzo. Continua così.- Angelo rinfoderò con un movimento lento e accurato
la pistola nella fondina. C’era una finestra, in quel bagno. Poteva fuggire da
lì. La aprì, facendo cadere pezzettini di intonaco bianco sul pavimento. Diede
un’occhiata di fuori: c’era una grondaia a circa due piedi dal davanzale, l’ideale
per scivolare non visto fino in strada. Angelo era pronto a calarsi, quando si
accorse che Thomas aveva smesso di contare. Per un attimo temette se la fosse
filata. Ma fu presto tranquillizzato.
- Vuoi scappare dalla finestra?-
domandò il ragazzo. Doveva aver sentito il rumore.
- Avevo detto fino a cinquecento.
Spero che tu sia veloce a correre come a contare.- Ad Angelo parve di essere
stato abbastanza minaccioso, ma forse non era stato così, poiché Thomas
continuò a parlare come se non avesse sentito alcunché:
- Non puoi scendere da lì. La
grondaia passa davanti al terrazzo del primo piano, e ci stanno facendo una
festa. Se scendi ora, ti vedranno tutti quanti, e non ti posso assicurare che
non chiamino loro gli sbirri.-
- Non dire cazzate, ragazzo, mi
vuoi tenere qui per chiamare la polizia, giusto?-
- Ma che dici, no! Prova ad
ascoltare, non senti la musica?- Angelo aguzzò l’udito: effettivamente da lì
sotto si udiva, anche se molto debole, una melodia classica. Mozart forse.
- Ma che cazzo di musica
ascoltano?- chiese al ragazzo.
- Bah, che ne so, è il compleanno
della signora Rochester, avrà invitato i suoi amici, tutti insieme faranno
almeno mille anni. Ascoltano soltanto classica, a volume moderato. Personalmente
preferirei gli Slipknot, ma almeno non danno fastidio
a nessuno.-
- Bah, bella merda.-
- Ognuno ha i suoi gusti.-
- No, intendevo il fatto che non
posso scendere. Hai qualche suggerimento?-
- Beh, aspetta! Al massimo tra
un’ora la sotto non ci sarà più nessuno, e tu potrai scendere giù senza
problemi.-
- Ehi, un attimo, perché cazzo mi
stai aiutando?-
- Bud era un vero stronzo, era ora
che qualcuno lo facesse fuori. Sai, non mi pagava l’affitto da due mesi. E ogni
volta che tentavo di ricordarglielo mi minacciava con quel suo fottuto coltello
a serramanico. Quando poco fa ho visto la porta aperta, pensavo fosse di nuovo
ubriaco, comunque avevo intuito che qualcosa non andasse. Non sarebbe stata la
prima volta che quel bastardo ci dava di che preoccuparci.- Era plausibile.
Angelo interruppe il monologo del ragazzo:
- Buono a sapersi. Va bene,
aspetterò. Tu rimani lì, e continuaa
parlare. La pistola di cui ti parlavo prima ce l’ho ancora qui.-
- Ehi, rilassati, non voglio
fregarti. Mi hai fatto davvero un favore a farlo fuori. Magari diventiamo
addirittura amici! Sai, da quando Bud è arrivato in questo condominio, ha solo
dato problemi. Voglio dire, girava sempre con gente strana, messicani.-
- Colombiani.-
- Come?-
- Erano colombiani, gli fornivano
la droga. Lui la tagliava e la smerciava.-
- Ah, che stronzo. Lo sapevo che
era un poco di buono. Lo si vedeva dalla faccia.-
- Sì, posso immaginarlo.- Angelo si
sedette sul pavimento del bagno, tenendo sempre la pistola puntata contro la
porta chiusa.
- Sai, una volta uno dei suoi amici
sudamericani mi stava per ammazzare di botte, senza motivo. Continuava a
gridare in spagnolo, a dirmi che ero un figlio di puttana, e a prendermi a
calci.-
- Sono trafficanti di coca, non
maestre dell’asilo. Sono su di giri persino quando siedono al cesso.-
- Immagino, ma vorrei starmene alla
larga da simili schifezze. Sono solo il fottuto portinaio di questo fottuto
condominio, e vorrei solo un po’ di calma. Beh, ora che Bud è morto, direi che
posso dormire sonni tranquilli.-
- Sono contento per te.- Angelo iniziò a giocherellare con la sua pistola, per
nulla interessato ai discorsi del suo interlocutore dall’altra parte della
porta. Calò il silenzio: probabilmente gli argomenti di conversazione erano
finiti. Oppure Thomas stava tentando di tagliare la corda.
- Sei ancora lì?- chiese Angelo.
- Sì, sì, tranquillo!- rispose
velocemente Thomas, che non aveva nessuna voglia di beccarsi una pallottola.
Rimasero ancora per un po’ in silenzio. Poi il ragazzo riprese a parlare, prima
che Angelo cominciasse di nuovo a dubitare della sua presenza.
- Cosa si prova?-
- Cosa si prova a fare che?- la
domanda giunse troppo indefinita per piacere ad Angelo. E il suo intuito gli
fece capire che, una volta completata gli sarebbe piaciuta ancor meno.
- Intendevo…
tu uccidi spesso?-
- Non ti deve interessare.- rispose
Angelo stizzito.
- Però lo fai.-
- Ne vuoi una prova?-
- No, no, stai calmo! Non
scaldarti!-
- Freddo come il ghiaccio.-
- Bene. beh, allora hai ucciso, e
credo anche più di una volta. Cosa si prova? Cazzo, io non ci dormirei la
notte, non è una cosa… normale. Cosa si prova a
togliere la vita ad un essere vivente?- La domanda era strana: Angelo non capì
dove il ragazzo volesse arrivare.
- Perché, si dovrebbe provare
qualcosa?-
- Non lo so, magari ti ecciti, provi
paura, rabbia, che ne so io.-
- Eccitarsi? Per chi cazzo mi hai
preso, per uno psicopatico che gli viene duro ogni volta che ammazza qualcuno?-
- No! Non intendevo quello. Perché,
ti succede così?-
- Cristoiddio,
certo che no! Ma che cazzo ti viene in mente! E poi le tue domande iniziano a
farmi davvero incazzare!- Ma che diavolo voleva sapere quel tipo? Era il suo
lavoro, mica un passatempo. Provare qualcosa. E che cazzo avrebbe dovuto
provare?
- Scusa, scusa! Sto zitto!- si affrettò
a dire Thomas, temendo che il killer desse in escandescenze.
- No che non stai zitto! Parla, o
io sparo.-
- Ah, certo okay.- Thomas parve
riflettere. - Hai visto che forza l’ultima partita degli Eagles?
Che forza Blanchette, come fai a non volergli bene?-
- Lascia perdere Blanchette, che finisce che mi incazzo di nuovo.-
- Ah. okay.- il ragazzo si prese
un’altra pausa di riflessione. - Che musica ascolti?-
- Diosanto,
che schifo!-
- Eh? Che dici?-
- Qui dentro c’è un odore da
vomitare. Dio, sto morendo.-
- Odore? Beh, ci credo, c’è un
cadavere lì dentro, no?-
- Ma non è quello, mica iniziano a
decomporsi dieci minuti dopo la morte. Mi riferivo a quello che sta
galleggiando in questo momento nella vasca.-
- Cosa? Se l’è fatta addosso? Nella
vasca da bagno?-
- Ehi, te la fai addosso dovunque
quando vedi uno che ti sta per sparare contro! Poi quando muori, dentro il tuo
corpo è come se si rilassasse tutto, e quindi lasci uscire ogni cosa. Ma che
cazzo avrà mangiato a cena?- Angelo emise un altro sospiro di schifo,
portandosi una mano davanti al naso.
- Puzza forte?- Gli fece Thomas.
- Non ne hai idea. Fanculo, e dire che stava andando tutto così bene.-
- Aspetta un attimo.- Angelo udì
qualche passo dall’altra parte. Poi il rumore di un interruttore che veniva
premuto. Subito una ventola, posizionata sopra il water, iniziò a girare.
- Fatto. Dovrebbe aspirare gli
odori. Sai, le ho messe io in tutti gli appartamenti. All’inizio ero un po’
indeciso se comprarle o no, sai, le spese, l’installazione. Ma un mio amico mi
ha detto che sono fenomenali. Che dici, funziona?- Chiese Thomas. Ed in effetti
il puzzo iniziava gradualmente a svanire, lasciando il posto ad un aroma artificiale
di lavanda.
Angelo ritrovò il suo appartamento
nel buio più completo. Si slacciò la camicia, e gettò la cravatta su una sedia.
Andò in bagno, e accese il rubinetto della doccia. Poi si buttò sul divano, e
gli sembrò che la fodera spelacchiata lo avesse afferrato per non farlo più
alzare, e che ci stesse sprofondando dentro come in un pantano. Era stata una
giornata pesante, un lavoro lo aveva tenuto impegnato a lungo, pur non essendo
risultato alla fin fine troppo difficile. In pratica non aveva fatto altro che
aspettare seduto al tavolino di un bar per tutto il pomeriggio, ordinando un
caffè dopo l’altro, che la sua vittima finisse il lavoro. E talvolta aspettare
ti metta più stanchezza addosso che spaccare pietre. Le palpebre gli si stavano
serrando gradualmente. Il momento in cui si chiusero del tutto coincise
esattamente con quello in cui il telefono iniziò a squillare. Angelo lo afferrò
senza nessuna voglia di rispondere. Nella sua bocca una schiera di insulti
spintonavano per andare a sommergere l’uomo dall’altra parte, ma le labbra
appesantite dalla stanchezza fecero uscire solo un:
- Pronto?-
-Sono Vi…Vincent.
Vincent Vergara, ti ricordi di me?- balbettò un uomo
dall’altra parte. Il nome non risultò nuovo alle orecchie di Angelo: aveva dato
una mano a Vincent per liberarsi di alcuni sue conoscenze inopportune almeno un
paio di volte, era un suo affezionato cliente. Almeno lo era stato fino a quel
momento.
- Ciao, Vinnie,
immagino tu abbia qualcosa di importante da dirmi per svegliarmi alle…- Angelo si guardò l’orologio al polso: le tre? “Cazzo.”
Era anche più tardi di quanto immaginasse. Sia chiaro, quando il lavoro lo
chiedeva Angelo passava più di una notte in bianco. Ma quando aveva l’occasione
di dormire, lo faceva volentieri, e nonostante la sua particolare attività
lavorativa, dormiva sempre di un sonno tranquillo e profondo. Vergara, dall’altra parte della cornetta, tornò a
balbettare, non permettendo ad Angelo di finire la frase:
- Angelo, ti prego, ho un problema.
Un problema enorme.- parlava a fatica, come se stesse tentando di continuo di
soffocare un conato di vomito.
- Ehi, Vinnie,
che succede? E perché parli come se qualcuno te lo stesse infilando in culo?-
lo canzonò Angelo.
- Ti prego, sono a casa mia, quella
vicino a Lincoln Park. Sei già stato qui, no? Bene, devi…
devi venire subito. Ho bisogno d’aiuto, è… è successa
una cosa.-Vergara stava
divagando. Quindi la “cosa” che era successa non era una cosa da dire al
telefono. Un lavoro, probabilmente.
- Senti ragazzo, ho avuto una
giornataccia, e ora vorrei dormire. Se è un lavoro, ti costerà parecchio.-
sbuffò infine, con un desiderio sempre più forte di riattaccare in faccia a Vergara, non prima di averlo mandato a farsi fottere.
- Va bene! Va bene! Ti pago quello
che vuoi, ma vieni, presto!- piagnucolò di risposta Vinnie.
La cosa non era soltanto un lavoro, a giudicare dall’angoscia nella voce di Vergara, doveva anche essere qualcosa di urgente. Angelo
scosse la testa. Poi rispose:
- Va bene, va bene. Arrivo tra un
attimo, tu stai lì fermo.- e riattaccò. Non lo avrebbe ammesso nemmeno davanti
a se stesso, ma quella faccenda lo incuriosiva.
Vergara
abitava in una casa dall’affitto stratosferico, una villetta bianca di due
piani con un terrazzo bello largo, proprio a due passi dai salici di Lincoln
Park.
Certe sere d’estate, quando fa
caldo anche alle due di notte, su quel terrazzo di cui parlavo poco fa a Vergarapiaceva fare
una qualche festa, senza niente di particolare da festeggiare, giusto un
pretesto per unire coca, donne e alcool nello stesso posto. Angelo vi era anche
stato invitato un paio di volte, senza mai divertirsi particolarmente: Angelo
non beveva, non si drogava, e aveva smesso con le donne dopo una brutta storia
di qualche anno prima. Quando si trovava a una festa, finiva per mettere a
disagio chi si trovava intorno a lui. Era strana quella cosa, come se a
uccidere finisci con l’attaccarti addosso un odore fastidioso per le altre
persone. Percorso il breve tragitto tra la sua portiera e la porta di casa di Vergara, suonò il campanello. Ma non fu Vergara
ad aprirgli: davanti a lui si trovava la caricatura sudaticcia, tremante e
pallida di Vincent, che lo fissava con due occhi rossi dal sonno, l’alcool e da
qualsiasi altra sostanza assunta dal suo inopportuno cliente quella sera.
- Hai una brutta cera, Vinnie.- gli fece Angelo, osservandolo senza dissimulare un
moto di disgusto verso quel sacco di spazzatura che respirava davanti a lui.
- Angelo, mio Dio, entra subito!-
strillò lui, afferrandolo per una manica.
Il cadavere si trovava disteso di
traverso sulle lenzuola di lino del letto a due piazze di Vergara.
Era una donna giovane, trucco pesante e vestiti succinti, non c’erano dubbi riguardo
alla sua professione. La prima cosa che era saltata all’occhio di Angelo,
entrando nella stanza da letto, era il collo di lei: ricoperto da dei grossi
lividi scuri. Gli occhi erano spalancati sul vuoto e la bocca divaricata,
nell’estremo tentativo di respirare.
- Opera tua?- chiese a Vergara, che si trovava al suo fianco, ancora scosso dai
tremiti.
- Io…Io…
non volevo.- Tartagliò lui, scompigliandosi con una mano il cespuglio sporco e
disordinato che aveva in testa.
- Sì, sì, ne sono certo, ora però
risparmiami le stronzate e parlami chiaro: che diavolo è successo?-
- Io… io
la pago, la tiro su, la porto in casa, e… e sono qui,
proprio dove ci troviamo ora noi due. Io mi… mi tolgo
i pantaloni, le mutande… insomma, capisci?-
- Che cazzo è, un fottuto corso
d’educazione sessuale? Ti stavi per scopare la puttana, insomma, e che cazzo è
successo? Ti piace farlo violento e ti è scappata la mano?-
- No, è che…che… quella lì si è messa a ridere! E io gli faccio,
“che cazzo hai da ridere?” ma lei continua, continua, e io glielo domando di
nuovo, e lei continua e…e…
e dopo un po’, non mi ricordo cosa sia successo nel frattempo, mi sono
ritrovato che le stavo stringendo il collo. Era…era…-Vergara si porto
velocemente una mano davanti alla bocca, quasi dandosi uno schiaffo in faccia.
La sua mano sudaticcia, mentre si colpiva la bocca, emise uno schiocco liquido.
Angelo si avvicinò al cadavere: scostò una ciocca di capelli dal suo volto
contratto nel rigor mortis, svelando un viso dai
lineamenti rotondi, dolci e infantili. “Merda.” si disse tra se, mandando per
una attimo tutto il mondo a fare in culo, e desiderando ardentemente di tornare
a letto. La ragazza doveva essere assai inesperta per essersi messa a ridere
davanti ad un uomo con le braghe calate. La gente che va a puttane le considera
il gradino più basso della scala sociale. Essere umiliato da una di loro è una ferita
insopportabile per il loro patetico ego.
Angelo si rivolse di nuovo al suo
cliente:
- E io qui che c’entro, hai già
fatto tutto te.- disse con sarcasmo, godendo nel
vedere come le sue battute facessero stare ancor più male Vergara.
- Cazzo Angelo, tu sei un esperto in… in cadaveri. In cose del genere.-
- Sì, diciamo che è una buona
definizione del mio lavoro. E allora?-
- Nascondila, portala via e fai in
modo che non la ritrovino. Io non saprei nemmeno da dove cominciare, e poi… poi mi fa impressione toccarla.- Vergara
concluse la frase con voce rota dal pianto.
- Povero piccolo.- mormorò Angelo,
distogliendo lo sguardo da quell’uomo tremante e sudato, e rivolgendolo di
nuovo verso la donna.
“Che morte del cazzo che hai fatto,
piccola. Ci sono un migliaio di modi schifosi per togliere la terra sotto i
piedi a un qualsiasi figlio di puttana, più uno ogni secondo che passa; ma
morire così, senza nemmeno un perché, li batte tutti.” Squadrò il cadavere da
capo a piedi, riflettendo sul da farsi. L’avrebbe portato fuori città, e
sepolta da qualche parte. Sì, l’aveva fatto un paio di altre volte, non avrebbe
avuto problemi.
- Vinnie.-
Vergara scattò sull’attenti - portami subito una
borsa bella capiente, e degli asciugamani. Sporchi se ce li hai. Poi un
martello, il più grosso che trovi in casa.-
Vergara
impallidì all’ultima indicazione, e, deglutendo, domandò:
- A cosa serve il martello?-
- Per farcela stare nella borsa.-
Una volta in città c’era un uomo
chiamato Victor Kane, ed era uno dei migliori killer
a pagamento sul mercato. Quando doveva portare via un cadavere, usava sempre
una borsa, una di quelle che si usano di solito per metterci dentro i vestiti
per andare in palestra. Era un vero genio, capace di frantumare con un martello
tutte le giunture del corpo, in modo da poterlo ripiegare su se stesso, e tutto
questo senza far uscire una sola goccia di sangue. Poi bastava infilare il
corpo nella borsa, ci mettevi un po’ di asciugamani sopra, e la lasciavi
aperta, sul sedile dell’auto. Così se uno sbirro ti fermava e gli capitava
sotto gli occhi, non ci faceva caso: a nessuno interessano degli asciugamani fradici
di sudore. Angelo aveva imparato da lui. Sistemato il cadavere, dovevi solo
trovare un luogo sicuro dove nasconderlo. E Angelo in quei casi aveva un posto
di fiducia: un campo di grano, rimasto incolto ormai da anni. Apparteneva ad un
vecchio, che non si era mai interessato agli affari del killer. Era un alcolizzato,
che aveva perso la moglie e i figli in un frontale con un tir. Lui era
miracolosamente sopravvissuto, ma non sembrava che gliene fregasse poi molto:
dopo l’incidente aveva smesso di curare i suoi campi, licenziato tutti i suoi
lavoranti e si era chiuso in casa insieme ad una cattiva bottiglia di whisky.
In quel campo ci si sarebbe potuta disputare la finale del Superbowl,
ci si sarebbe potuto tenere il concerto di Woodstock, a lui non sarebbe
importato. In effetti se ne sarebbe sempre e comunque rimasto in casa, a bere.
Insomma, quel campo era un vero paradiso per chiunque avesse voluto seppellire
qualcosa, o qualcuno, senza essere visto; e la sua proprietà era abbastanza
lontana da qualsiasi cosa perché la polizia potesse anche solo lontanamente
sospettare quello che vi era sepolto sotto.
Quella sera Angelo scavò una buca
molto profonda. Ogni volta che pesava di averla fatta abbastanza fonda,
appoggiava a terra la pala e buttava un occhiata alla borsa: se l’era tenuta
vicina per tutto il viaggio, sul posto vicino al suo, e conoscerne il contenuto
era come se la rendesse ai suoi occhi un po’ più viva. Quando quel pensiero
strano riaffiorava alla sua mente, Angelo riafferrava la pala e tornava a
scavare, per aspettare un altro po’. Ancora qualche istante, prima di doverle
celebrare quel funerale segreto.
Quando Angelo ritornò in città, stava
albeggiando. Era stato molto veloce, e questa cosa lo faceva sentire un po’
meglio. Vergara gli aveva detto di tornare, una volta
nascosto il corpo: era probabilmente preoccupato che non ci fossero stati
problemi, che nessuno avesse scoperto che lui aveva strangolato una prostituta solo
perché quella si era messa a ridere delle dimensioni del suo uccello.
Angelo parcheggiò poco lontano
dalla casa di Vergara, e vi si diresse di buon passo,
intenzionato a finire quella storia il prima possibile. Non sembrava esserci
nessuno lì intorno, solo il vento che muoveva la polvere sui viali del parco. E
invece, con la coda dell’occhio, Angelo scorse qualcuno seduto su di una panchina,
a pochi metri dalla casa. Una ragazza, con una minigonna nera, e la faccia
coperta da una pesante mano di mascara, e del rossetto dalla tinta accesa. In
mezzo al trucco spuntavano due occhi spenti dalla stanchezza. Angelo l’avrebbe
ignorata, l’avrebbe oltrepassata senza rivolgerle uno sguardo. Ma quando le fu
vicino, lei si alzò:
- Mi scusi.- chiese a voce
bassissima. Angelo si fermò, e le diede uno sguardo di sbieco. Era una ragazza
giovane, piccola di statura. I suoi capelli neri le ricadevano spettinati lungo
le spalle, gli occhi erano arrossati sotto il trucco.
- Una mia amica è entrata in quella
casa, qualche ora fa. Mi aveva detto di aspettarla qua fuori ci… ci eravamo date appuntamento mezz’ora fa. Quindi, dato
che mi sembra che anche lei stia andando la dentro…
mi scusi, la sto solo disturbando magari. Ma mi sa dire qualcosa? Se l’ha
vista.- La ragazza abbassò lo sguardo.
“Sì, lo so dove si trova. Ma questo
non deve interessarti. Invece la sai una cosa davvero interessante? Lo sai a
chi appartiene il mondo? Ai potenti. Sono loro a decidere per i poveracci come te
e la tua amica. E la sai la cosa buffa? I potenti in verità sono dei deboli.
Che cazzo di forza c’è nel pagare una ragazzina per una scopata,
nell’ucciderla? Che potere? E c’è solo una differenza tra un potente e un
poveraccio come te. E sono io. Sono io, che combatto guerre che non mi
appartengono, e uccido nemici non miei.E fai meglio metterti il cuore in pace, perché così va il mondo, e
nessuno sembra avere intenzione di cambiarlo. Perché la giustizia è una splendida
parola, ma buona giusto per decorarci i distintivi degli sbirri. Il bianco è nero,
il sopra è sotto. Tutto è sbagliato, ma a chi cazzo importa? Non certo a me. Io,
da un mondo alla rovescia come questo ho solo da guadagnarci.”
- No, non saprei.- Rispose Angelo,
assolutamente impassibile.
- Mi scusi.- rispose la ragazza,
senza alzare più lo sguardo. Angelo se ne andò, senza guardarla più. Ma sapeva
che gli occhi di lei, dal momento in cui le aveva dato le spalle, non gli si
erano staccati di dosso. Arrivato ancora una volta alla porta, bussò. Vergara gli aprì, nello stesso identico stato in cui lo
aveva lasciato. Ma vedere Angelo di ritorno, sembrò farlo star meglio.
- Ah. Angelo! Tutto bene?-
- A parte il cadavere della puttana
che tu hai appena strangolato e che io ho appena seppellito, direi che sto
discretamente. Dammi i soldi ora.- Dapprima lo sfogo dell’assassino lasciò Vergara ammutolito. Ma subito anche lui fu sollevato
dall’idea che quella faccenda sarebbe finita nell’esatto momento in cui avrebbe
pagato Angelo per il suo lavoro. Tirò il portafogli fuori di tasca:
- Qu… quanto?-
- Diecimila.- una somma
semplicemente esagerata. Ma Angelo sapeva che Vergara
avrebbe sborsato qualsiasi cifra, e lo fece. Aprì una piccola cassaforte
nascosta dietro l’acquario che teneva in soggiorno, e tirò fuori alcune mazzette
di biglietti da cento, e una busta di cartoncino gialla con dentro dei documenti.
Infilò i soldi nella busta, e gliela porse con sopra una grossa chiazza di
sudore.
- Grazie.- disse Angelo, ficcandosela
in tasca. –Buonanotte.-
- Buonanotte. E…
grazie. Sai… io non avevo mai ucciso nessuno, prima.-
balbettò infine Vergara, guardando per terra.
- Benvenuto nel club, allora.-
Angelo gli diede le spalle, e se ne andò. Sapeva cosa prova la gente qualunque dopo
aver ucciso la prima volta: una voglia fottuta di parlarne con qualcuno, di
dire tutto quello che hai provato, tutto quello che hai sentito attraversarti
il cervello. È una scarica di adrenalina pazzesca, roba che se te la tieni
dentro rischi di impazzire. Angelo non aveva provato un cazzo, la prima volta.
E non glie ne fregava un cazzo di Vergara, che
impazzisse, che si sparasse un colpo in testa. Non aveva voglia di parlare, non
aveva voglia di parlare con nessuno.
Mentre tornava alla macchina, passò
di nuovo accanto alla panchina. Lei era ancora lì, che lo guardava. Lui si
fermò, e la fissò negli occhi. Prese di tasca i soldi, e glieli porse. Lei non
capì. Angelo gli afferrò il braccio e glieli ficcò in mano di forza.
- Dimenticala. Dimentica tutto.-
Disse poi, guardandola negli occhi. Erano umidi, dilatati.
Si ficcò le mani in tasca, e quindi
si chiuse nell’auto il prima possibile, come se la portiera potesse isolarlo
dal resto del mondo. Non sapeva il perché di quello che aveva appena fatto.
Forse voleva semplicemente dimenticarsi di quella notte, voleva svegliarsi la
mattina dopo come se tutto quello che era successo fosse stato soltanto un
sogno. Non voleva nemmeno pensare a quello che aveva fatto quella notte:
dormiva bene quando non pensava. Quando fu seduto al posto di guida, diede
un’occhiata al retrovisore: la ragazza era ancora lì. E si capiva che stava
piangendo.
Grazie mille a tutti voi lettori, siete
tantissimi e vi adoro!
Dzoro
Spezzare
la paralisi
Paul Brady
si sedette sulla tavoletta del cesso, e tirò fuori il pacchetto di tasca. Le
sue dita iniziarono a muoversi strisciando sulla superfice
di cellophane, lisciando con i polpastrelli le pieghe che venivano a formarsi.
Era un sacchettino più piccolo del palmo della sua mano, tenuto chiuso da un
pezzo di scotch da imballaggio e ricoperto da uno spesso strato di polvere e
sporcizia, che sembrava non volersene andare in nessun modo. Continuò a tenerlo
tra le mani, e a tastarlo, fissandolo con sguardo perso. Passarono lunghi
minuti, prima che avesse il coraggio di aprirlo. Dentro lo aspettava la solita
sorpresa: quel mucchietto di cristalli biancastri, che sembravano guardarlo e
chiedergli: “ma noi qui che ci facciamo”? Ed era fin troppo semplice rispondere
che lì quella roba non doveva trovarsi. Non lì, non in casa sua. Ma quel
sacchetto, e il suo contenuto, non sarebbero certo finiti in mano a Paul, se
fosse stato lui a decidere. Eppure, almeno una volta al mese, Paul si sedeva
sul cesso, e apriva uno di quei luridi involucri, con gli stessi movimenti, lo
stesso disgusto, la stessa paura di venir scoperto. La gente la chiamava crack,
cocaina trattata chimicamente fino ad assumere la forma di cristalli. E si
chiamava così per la sua tendenza a scoppiettare, a fare “crack”, mentre lo si
fuma. Una volta Paul se lo era immaginato, l’inventore del nome, con in mano
una pipa piena di quella merda, e che rideva, rideva come uno scemo per il
rumore buffo che faceva.
“Vaffanculo.” Brady
chiuse gli occhi, scosse la testa: sempre identica a se stessa, quella
situazione si era già perpetuata decine di volte, ed ancora una volta avrebbe
avuto luogo.
Si alzò di scatto, aprì il water e
vi rovesciò dentro tutti i cristalli, facendoli scivolare quasi uno alla volta
dall’involucro. Quando sopra il cellophane non ne rimase più nemmeno uno, lo
appallottolò e buttò anch’esso insieme al resto. Subito dopo tirò l’acqua.
Paul era figlio unico, i suoi
genitori erano irlandesi di terza generazione, anche se, ciononostante, lui
riusciva appena a sentirsi americano. Il padre, così come il nonno, era sempre
stato un operaio oltre che un attivo sindacalista. Invece Paul se ne era sempre
fregato della politica, e una volta diventato abbastanza grande per poterne
parlare aveva sempre preferito tacere. E ciò succedeva ogni qual volta, a
tavola, il signor Brady iniziava a parlare di lotta
sociale, a inveire contro il suo datore di lavoro, a predicare un credo fatto
di rivolta; era una fede che Paul non era mai riuscito a capire, ne forse aveva
mai tentato di farlo: cercava di guardare il padre con uno sguardo
intelligente, annuendo condiscendente ogni qual volta il signor Brady cercava conferma nel figlio con un “o no?” oppure un
“Non pensi?”. Paul cercava di finire la sua zuppa più in fretta che poteva, ad
andarsene via il prima possibile da quell’uomo a cui sapeva di dovere del
rispetto, anche se niente di quello che faceva sembrava ai suoi occhi degno di
guadagnarselo. Se per caso il padre gli domandava qualcosa nello specifico,
Paul masticava lentamente il boccone che aveva ancora in bocca, poi rispondeva
con un sì, oppure un “non so”. Il signor Brady in
quelle occasioni mugugnava, lo guardava storto, poi se ne stava per un po’ in
silenzio, come se avesse intuito che l’argomento non interessava, e non volesse
più distribuire perle ai porci. Invece sua madre non parlava mai, sorrideva
soltanto: cercava di essere serena, anche quando l’atmosfera diventava pesante
come piombo.
Il signor Brady
aveva sempre mal sopportato il menefreghismo del figlio, ma il culmine era
stato quando Paul gli aveva parlato del suo desiderio di andare al college. Non
che il signor Brady volesse obbligarlo a lavorare in
fabbrica come lui, pensava semplicemente che il figlio lo avrebbe fatto.
Fu quella la prima volta che
litigarono davvero. Paul se lo ricordava ancora, erano quasi venuti alle mani,
e avevano urlato come dei pazzi, gridato l’uno contro l’altro fino a perdere il
fiato, lasciando che fosse la rabbia a decidere per loro le parole da dire.
Quando non ce l’aveva fatta più, aveva voltato le spalle al padre e se ne era
andato, lasciando che gli insulti e le bestemmie del genitore si infrangessero
contro la sua schiena. Prima di uscire di casa il suo sguardo si posò sulla
madre, seduta su una sedia dietro la porta socchiusa della sua camera. Non
sorrideva, quella volta. In mano aveva un rosario, e lo sgranava mormorando intanto
chissà quale preghiera. Ma a Paul non interessava, non gliene fregava più
niente di Dio, del diavolo e di quella topaia che una volta aveva considerato
casa sua: uscì sbattendo la porta.
Però al college lui ci era andato,
e aveva dovuto spaccarsi la schiena sotto decine di lavori per poterselo
permettere. Il padre andò a trovarlo, tre settimane dopo la sua fuga da casa.
Si scusò per aver litigato, e gli propose prima di far pace, poi di andare a
lavorare con lui in fabbrica, almeno per pagarsi gli studi: il signor Brady lavorava laggiù da più di quaranta anni, gli avrebbe
trovato un posto senza difficoltà, e Paul non era certo obbligato a rimanere lì
tutta la vita, giusto il tempo necessario per pagare l’iscrizione e le tasse
per il college. Ma il rifiuto di Paul giunse così secco da sembrare uno
schiaffo: lui la conosceva bene la fottuta fabbrica, da piccolo andava a
giocare in un campetto di basket distante appena due isolati da essa, e quella
puttana sembrava fissarlo, e sorridere, divertita dalla certezza che un giorno
avrebbe reso schiavo anche lui. Paul non voleva finire come il padre, per
questo rifiutò. Brady senior, di tutta risposta, alzò
le spalle rassegnato, e la sua rassegnazione era di quella che fa male: un
padre che smette di dire al figlio ciò che deve fare, è un uomo che scopre
all’improvviso di non avere mai avuto un figlio.
Quella fu l’ultima volta che Paul
lo vide, prima di gettargli addosso una manciata di terra e un mazzo di fiori.
Quando la tomba fu sepolta del tutto, ebbe l’impressione di avergli dovuto
sempre dire qualcosa, ma non sapeva davvero cosa. E ormai, non poteva più
farlo.
Dopo l’università fu l’età della
grande disillusione: Paul vide i suoi sogni svanire uno ad uno davanti agli
occhi, mentre la società li calpestava e ci cagava sopra. Cinque anni di
giurisprudenza non bastarono per fargli passare il concorso per diventare
avvocato. E la cosa peggiore era che ogni volta che riprovava a rifarlo, finiva
per sentirsi ancora più inadeguato. Desistette dopo il terzo tentativo.
Paul aveva ventisei anni, e
lavorava come ragioniere per una società che produceva ricambi per automobili.
Era oltretutto tornato a vivere in casa con sua madre; aveva maturato quella
decisione dopo una lunga riflessione, ma essenzialmente se ne era andato via
dal suo appartamento (l’unico in città che riuscisse a permettersi con il suo
misero stipendio) dopo la terza volta che un topo era uscito dal cesso. La
volta che ci era seduto sopra.
La mamma cercava di sorridere
ancora, ma la morte del marito aveva inciso sul suo volto una tristezza che era
impossibile da cancellare, e che traspariva da ogni suo sorriso.
Le cose andavano da schifo, certo,
ma non era questo a far star male Paul, quanto il fatto che da ormai quasi un
anno le cose erano iniziate ad andare, se possibile, peggio. E il suo problema
non era uno di quelli facili da risolvere. Era quel tipo di problema che ha un
volto, due gambe, due braccia e un coltello a serramanico infilato in tasca. Il
suo problema aveva un nome: Scott.
Scott era figlio di irlandesi, così
come lo era lui. Suo padre aveva lavorato nella stessa fabbrica del padre di
Paul, ma ne era stato licenziato da quando non aveva iniziato a non presentarsi
più al lavoro, o a presentarsi solo dopo aver lasciato una o due bottiglie di Paddy vuote sul tavolo della cucina. Morì appena due mesi
dopo il licenziamento, e nessuno se ne stupì, con la poltiglia che si ritrovava
al posto del fegato. Scott crebbe senza un soldo, se non quelli che la madre,
che si era ritrovata una gamba spezzata in tre parti in seguito ad un incidente
sul lavoro,riceveva di tanto in tanto
da alcuni parenti in Europa. Il ragazzo divenne cattivo, tirò avanti fino ai
quindici anni taccheggiando nei minimarket ed estorcendo soldi a tutti quelli
che considerava più deboli di lui, ma soprattutto picchiando gli appartenenti a
quest’ultima categoria. La violenza sembrava addirittura piacergli: un paio di
volte aveva anche preso a calci dei barboni abbastanza ubriachi da non poter
reagire, e quando nel quartiere vennero trovati alcuni gatti e cani morti,
nessuno dubitò di chi fosse opera. Ma la maggior parte delle volte erano suoi
coetanei ad essere vittima dei suoi pestaggi, e Paul era stato tra questi più
di una volta. Scott era davvero uno stronzetto furbo, lo picchiava solo in
pancia, così non lasciava lividi; lo faceva quando aveva bisogno di soldi e
Paul non ne aveva, quando semplicemente gli girava, e poi tutte le volte che
gli capitava di bere dell’alcool o di sniffare metanfetamine.
Paul aveva perso il conto di tutte le volte che si era ritrovato a terra, con
la pancia che gli faceva male, e il respiro che sembrava non voler tornare più,
tanto che aveva sempre paura di morire soffocato.
Quando a quindici anni Scott finì
in riformatorio, c’era gente che avrebbe dato una festa. Alcune sere prima che
la polizia venisse a prenderlo, Paul stava tornando a casa da scuola. E mentre
camminava, sentì una voce, come il grido spaventato di una ragazzina. Ma quel
suono si spense all’improvviso, come se, nel caso si fosse davvero trattato di
una ragazza, qualcuno le avesse tappato la bocca con uno straccio. Veniva da un
vicolo, e in fondo ad esso c’era Scott, insieme con gli altri ragazzi con cui
era solito spadroneggiare nei dintorni. Paul si chiese subito cosa stessero
facendo, ma non passò nemmeno un secondo e si accorse di non volerlo davvero
sapere. Corse via, corse fino a casa, e passò il resto della giornata senza
dire una parola. Quel grido continuava a risuonargli in testa, come una
condanna.
Gli anni passarono. Scott ritornò
nel quartiere, circa sei anni dopo, però Paul lo poté incontrare di nuovo solo
una volta finito il college. Non sembrava essere cambiato, ma se era cambiato
era sicuramente stato in peggio. Sembrava essersi calmato in un certo senso,
Paul non l’aveva visto picchiare più nessuno, ma in compenso aveva iniziato a
spacciare crack e LSD. Ma Paul non intendeva più avere a che far con lui:
bastava non guardarlo negli occhi quando camminavi per strada, e accelerare il
passo se per caso lo incontravi la sera mentre stava spacciando la sua roba.
Certo, era rimasto uno stronzo di prima categoria, ma Scott non aveva mai avuto
problemi nel trovarsi una ragazza con cui passare un mese, una giornata o
soltanto una notte. Paul invece era sovrappeso, col labbro leporino e ogni
volta che una donna gli rivolgeva la parola iniziava a balbettare come un
idiota. E quando vedeva Scott, il disprezzo che provava per lui era sempre
mischiato ad una involontaria ammirazione, se non addirittura invidia.
Nonostante tutto, la sua vita era
trascorsa serenamente, fino a che non arrivò quella mattina di novembre, un
anno prima. Paul stava aspettando l’autobus che prendeva ogni giorno per andare
in ufficio, ed era seduto sulla panchina della fermata. Aveva sonno quella
mattina, si guardava le scarpe tentando di tenere le palpebre aperte. Se quella
mattina, nei pochi minuti che mancavano all’arrivo dell’autobus, avesse
continuato a guardare per terra, forse la sua vita sarebbe continuata
serenamente. E invece, accorgendosi che qualcuno gli si era seduto accanto,
alzò lo sguardo su di lui. E Scott si accorse subito di essere guardato: gli
occhi dei due si incontrarono. Scott gli rivolse la parola, sorridendo:
- Ciao Paul.-
Si ricordava il suo nome. E non se lo sarebbe più scordato. Iniziò quindi, con
tono amichevole, a chiedergli come andava, cosa faceva nella vita. Paul
rispondeva con ottuso imbarazzo a tutte le domande, anche se sapeva che a Scott
non doveva fregargliene proprio un cazzo di lui e della sua miserabile
esistenza. Fu in quell’occasione che Scott gli diede il primo pacchetto di
Crack. Gli disse che lo avrebbe tirato su, che era fenomenale. Paul non ebbe il
coraggio di rifiutare. Lo pagò “un prezzo di favore” (Scott continuava a
ripeterlo) e arrivato a casa lo verso dritto dentro alla pattumiera. Mentre lo
faceva, continuava a ripetersi che era un uomo onesto, pulito, che non avrebbe
mai fumato quella roba, ma forse non ne aveva semplicemente il coraggio.
Pensava che la faccenda sarebbe
finita lì, pensava che Scott si sarebbe dimenticato di lui il giorno dopo. E
invece, era da un anno che il figlio di puttana lo obbligava a comprare la sua
merda. Una volta aveva provato a rifiutare, e lui subito aveva cessato di
fingersi gentile. Non lo aveva preso a botte però, Scott non era più il bullo
di quartiere di un tempo.
- Se vuoi puoi non comprarlo. E forse fai bene. Sai, non so come la
prenderebbe tua mamma se scoprisse che il figlio si droga. A proposito, come
sta? Bene spero. Già, sarebbe davvero un duro colpo per lei se qualcuno gli
dicesse che suo figlio è un drogato.-
Anche quella volta Paul finì per
comprare la droga. Scott aveva ragione, se la madre fosse venuta a conoscenza
di quella faccenda, chi glielo spiegava che lui comprava la roba solo per
scaricarla nel cesso? E purtroppo, il modo più sicuro perché ne venisse a
conoscenza, non era di continuare a prenderla, ma di smettere, e lasciare che
Scott glielo dicesse.
Da quella volta Scott finì
definitivamente di essere gentile: non lo chiamò più nemmeno per nome, preferì
invece ribattezzarlo in decine di modi diversi (tra i quali i suoi preferiti
erano cazzone e mangiamerda).
Paul non poteva nemmeno avvertire
la polizia, Scott stesso gliene aveva spiegato il perché la volta che aveva
minacciato di farlo:
- Oh, tu chiami la polizia? Bene, e
sai io che cosa gli dico? Che io non ti ho mai obbligato a comprarla, e che tu
mi hai denunciato solo perché non avevi abbastanza soldi per comprarla e volevi
vendicarti di me. Insomma, io finisco nella merda, e tu pure. Io in prigione ci
sono stato già, ma tu? Quel tuo bel culetto da scolaretta diventerebbe subito
il preferito di tutti i cuori solitari del tuo blocco.-
Paul aveva studiato per diventare
avvocato, capiva che tutte quelle minacce erano più fumo che altro. Eppure una
paura irrazionale, la paura per tutte le imprevedibili conseguenze che un suo
gesto di coraggio poteva causare, gli impediva di prendere qualsiasi
iniziativa, e lo inchiodava irrimediabilmente in quella situazione. Ma le cose
sarebbero cambiate, e lui sapeva anche come sarebbero cambiate. Perché sarebbe
stato lui, a cambiarle.
Paul osservò i cristalli di Crack
scomparire nello scarico. Sentì qualcosa che gli stringeva il cuore, come se
dovesse scoppiare a piangere da un momento all’altro. Strinse i denti, e cercò
di non farci caso. Non era davvero il caso di piangere, perché quella sera
stessa di Scott sarebbe rimasto solo il ricordo. In casa di Paul c’era uno
stanzino, che la madre aveva sempre tenuto chiuso a chiave. Paul, da piccolo si
era sempre chiesto che cosa contenesse, e ora lo aveva scoperto. Foto
ingiallite solcate da graffi e pieghe, vestiti impolverati e pieni di buchi,
scope rotte. Una scatola. Un revolver, e tredici cartucce. Tutto quello di cui
aveva bisogno. Probabilmente la pistola era appartenuta al padre, anche se il
vecchio non gliene aveva mai parlato. Il metallo era opaco, l’impugnatura
consumata, il tamburo strideva mentre girava. Ma l’arma funzionava ancora. Paul
lo sapeva, perché l’aveva provata: un giorno, dopo aver avvolto la pistola in
un fazzoletto, e averla messa nella tasca della giacca, aveva preso un pullman
che lo aveva condotto senza problemi fino fuori dalla città. Poi era sceso, ed
era proseguito a piedi fino a sotto un viadotto della ferrovia. Aveva cercato a
lungo qualcosa che potesse servire da bersaglio, e aveva scelto dopo lunghi
interrogativi una lattina vuota. L’aveva appoggiata su di uno scatolone, e poi
aveva caricato un colpo nel tamburo. Poi Paul aveva aspettato, fino a quando
non era passato un treno. Solo allora aveva preso la mira, e aveva premuto il
grilletto. Mentre lo faceva, un moto di paura gli aveva fatto chiudere gli
occhi. Riuscì a riaprirli solo quando il treno era passato: la lattina era
ancora intera. Ma dietro di essa, su una delle colonne che sostenevano il viadotto,
spiccava un foro fumante, come uno splendido fiore nero in un prato di cemento
armato. Paul lo aveva ammirato per lunghi minuti, come se fosse ipnotizzato,
inebriato dal potere che aveva appena scoperto di possedere. Poi era scoppiato
a ridere, a ridere fino alle lacrime.
Aveva calcolato tutto. Sarebbe
entrato in casa di Scott, con la scusa di voler comprare della roba. Forse lo
spacciatore sarebbe stato insieme a qualche amico, ma Paul non se ne
preoccupava: gli aveva sempre visti armati di coltelli, ma non avevano pistole.
In fondo erano solo quattro ragazzi che si atteggiavano da gangster, niente di
più, niente di cui doveva preoccuparsi. E quando se lo sarebbe trovato davanti
gli avrebbe detto:“Non voglio la tua droga. Voglio il tuo sangue, stronzo!”
Aveva pensato a lungo alla frase
che avrebbe detto una volta entrato, e ne aveva formulate un’infinità prima di
decidere, ma era quest’ultima ad essere la migliore a suo avviso: sobria,
aggressiva, drammatica. Continuava a ripeterla tra se e se, per evitare di
dimenticarsela, di dirla sbagliata una volta si fosse trovato davanti al suo
nemico. Una volta ucciso Scott, e chiunque si fosse trovato nella stanza,
sarebbe scappato. Poi avrebbe buttato la pistola alla discarica per auto di Lassater. Era stato anche li, e aveva visto in funzione il
compressore per le carcasse delle auto: lì nessuno l’avrebbe potuta ritrovare,
e lui sarebbe stato libero di vivere la sua vita. Provava addirittura una
strana euforia, come se una volta ucciso Scott, anche lui sarebbe diventato una
persona completa, un avvocato affermato, con una fidanzata e il rispetto di
tutte le persone che lo avevano sempre trattato come uno straccio per
pavimenti. Come se ucciderlo fosse un rito di passaggio, come quello di una
popolazione primitiva.
Uscì di casa verso le dieci di
sera, dicendo alla madre che aveva bisogno di una boccata d’aria.
La pistola si trovava nella tasca
della sua giacca, e lui la stringeva come se fosse la mano del suo amico più
caro, che lo stava conducendo verso un mondo migliore. Camminava per strada
come un sonnambulo, come un ubriaco, e la consapevolezza che entro breve
avrebbe ucciso, sembrava avvolgere tutto di un alone di follia. Lui sapeva ciò
che stava per fare, era il non averlo mai fatto a renderlo totalmente irreale.
Ma doveva succedere. Doveva farlo. Per se stesso, per dimostrare di non essere
un perdente, per far vedere che anche un uomo che ha sempre vissuto come un
codardo può cambiare.
“Non voglio la tua droga. Voglio il
tuo sangue, stronzo!” Proprio così, gliel’avrebbe detto dritto in faccia, a
quel figlio di puttana. Gliel’avrebbe fatta vedere, l’avrebbe fatta vedere a
lui e tutti quei bastardi dei suoi amici, gli avrebbe fatto saltare in aria la
testa e poi avrebbe pisciato sul loro cadavere.
Paul si fermò improvvisamente. Era
davanti alla casa di Scott. Gli sembrava di averci messo solo pochi minuti, o
forse un eternità per arrivarci. Sembrava che improvvisamente anche il tempo
fosse impazzito. Ma lui non doveva pensarci, non doveva pensare a niente oltre
che alla frase che doveva dire, e a premere il grilletto al momento giusto.
Avvicinò la mano al campanello, ma prima di avere il tempo per appoggiare il
dito su di esso, un dubbio lo attraversò: la pistola era carica? Si guardò
attorno, per cercare un posto in cui potersi appartare per controllarla. Lo
trovò in un angolo tra un cassonetto dell’immondizia ed il muro di un edificio,
all’apparenza abbandonato. La pistola era carica, si ricordò solo in quel
momento di averla già controllata a casa almeno un centinaio di volte. Era
tutto a posto: ora doveva andare. Nel giro di un paio di secondi, era di nuovo
davanti alla porta, e questa volta il campanello venne suonato. Nel momento
esatto in cui iniziò a trillare, Paul sentì i battiti del cuore accelerare
all’impazzata. Si accorse che il suo respiro stava divenendo affannoso. Cercò
di calmarsi, ripetendo tra se la frase come una preghiera:
“Non voglio la tua droga. Voglio il
tuo sangue, stronzo!”
La porta si aprì, e nello stesso
istante il cuore di Paul cessò per un lunghissimo attimo di battere. Qualcuno
si affacciò sull’uscio:
- Ah, Paul. Che ci fai qui, eh?-
era Sharky, uno degli amici di Scott. Aveva addosso
solo dei jeans, il che faceva vedere per intero un grosso tatuaggio di un drago
che aveva sul torso. Paul, timoroso, abbassò lo sguardo, e si ritrovò a
guardare dritto negli occhi del tatuaggio. Rimase così, muto, per qualche
secondo, abbastanza per far perdere la pazienza a Sharky:
- Ehi, che cazzo hai da guardare,
coglione? Parla!- gli urlò contro Sharky.
- Vorrei…
vorrei comprare del crack da Scott. Posso comprarlo?- balbettò Paul,
trasalendo. Gli sembrò che il drago disegnato lo stesse guardando con
sufficienza. Sharky lo afferrò per il bavero della
giacca, e gli sibilò contro:
- Parla piano, testa di cazzo! Se
lo vuoi far sapere a tutti chi è che ti vende la roba, perché non metti
direttamente un fottuto annuncio sul giornale? Ora tieniti tappata quella cazzo
di bocca, e aspetta: vado a chiedere a Scott.- Sharky,
sibilate queste parole, sbatté la porta.
“Bene, ora chiama Scott, mi fa
entrare, dico quello che penso di lui, poi gli sparo. Andrà così, deve andare
così.” Paul ripeteva ossessivamente quelle parole tra se, ma sembrava che il
suo battito cardiaco non accennasse a calmarsi. La porta si riaprì qualche
minuto dopo. Era ancora Sharky, e aveva qualcosa in
mano:
- Tieni, perdente. Sono cinquanta
dollari.- detto ciò, Sharky gli gettò addosso un
pacchetto di droga. Paul lo afferrò senza quasi pensarci, e subito l’idea che
stava andando tutto a monte lo gettò nel panico. Rimase immobile e silenzioso a
guardare il pacchetto, senza sapere che fare.
- E ora che cazzo c’è? Fuori i
soldi, stronzo.- gli tuonò contro Sharky.
- Io…io…- Paul non sapeva cosa rispondere. - Io devo…beh…. ecco.-
- Ma mi dici che succede? Senti,
ritardato di merda, te l’ho dato quello che volevi, no? Dammi i soldi e
sparisci, prima che inizi a prendere seriamente in considerazione l’idea di romperti
il culo.-
- Io devo parlare con Scott. Prima… devo parlargli.- Paul riuscì a pronunciare la frase
quasi senza balbettare. Sharky iniziò a guardarlo
incuriosito, come si guarda una scimmia allo zoo. Paul sentì il sudore
divenirgli freddo:
“Oddio, forse sospetta qualcosa.
Forse faccio meglio a chiedere scusa, pagare, poi andare a casa. Non voglio
morire, non devo farmi ammazzare. Chi penserà alla mamma dopo? Ora mi scuso,
pago la droga e…”
- Ah, potevi dirlo prima. Entra,
coglione.- Sharky lo afferrò per la giacca, e lo
trascinò dentro. Nel giro di pochi secondi, lo portò davanti a Scott. Si
trovavano nella sua cucina, un locale sudicio con in mezzo un tavolo ricoperto
da una tovaglia di plastica a scacchi, confezioni di cibo d’asporto gocciolanti
unto, e una decina di lattine di birra vuote. Scott sedeva di traverso su di
una sedia, contando delle banconote, e dividendole a seconda del taglio. Appena
Sharky e Paul furono entrati, Sharky
sbatté la porta dalla qual erano appena passati, facendo trasalire Paul, e
attirando l’attenzione di Scott. Egli alzò lentamente la testa dal suo lavoro,
e fissò Paul con aria di sufficienza.
- Ehi, si può sapere che cazzo
succede ora? Che ci fa questo pisciasotto in casa
mia?-
Nella stanza c’era anche un altro
degli amici di Scott, ma Paul non si ricordava il suo nome. Sedeva in un
angolo, con la schiena appoggiata ad un frigorifero, e con una bottiglia vuota
di Bacardi ai suoi piedi. Quando Paul era entrato là dentro, stava ridacchiando
sommessamente, ma quando Scott fece quell’ultima domanda, scoppiò in una risata
fragorosa. Paul riusciva quasi a sentire il fetore di alcol e cibo thailandese
che usciva dalla sua bocca.
- Voleva parlarti, Scott.- fece Sharky – Avanti, sfigato, di quello che hai da dire e
levati dai coglioni. Avanti!- Sharky mollò una
violenta sberla sulla testa di Paul, suscitando una nuova risata nell’ubriaco a
terra. Però Paul quasi non se ne accorse, stava pensando ad altro:
“Non voglio la tua droga. Voglio il
tuo sangue, stronzo!” la ripeté un’infinità di volte nella sua testa, restando
però, nella realtà, completamente in silenzio.
- Beh? Che succede, sei fatto?
Cazzo, non ho tempo da perdere io. Parla, figlio di troia!- Scott urlò le
ultime parole, tanto che Paul sussultò di nuovo. Era il momento. Lì dentro
c’erano solo loro quattro, sarebbe stato ancora più facile del previsto.
Deglutì, quindi mormorò:
- S…Scott…-
“Non voglio la tua droga. Voglio il tuo sangue, stronzo!”
- Si? Ma cosa vuoi? Sharky te l’ha dato il Crack, no?-
- N… non
voglio la tua. droga.- riuscì in fine a dire Paul. La sua voce usciva flebile e
tremula, come la fiamma di un accendino scarico.
- Non vuoi la mia..? Ma allora che
cazzo vuoi? Vuoi farmi una sega? Vuoi baciarmi il cazzo? Avanti faccia di
merda. Dimmi che cazzo vuoi!- le urla di Scott fecero scoppiare l’ubriaco
nell’ennesima, fragorosa risata. Paul estrasse la pistola in quel momento.
Subito il silenzio calò nella stanza, perfino l’ubriaco, appena i sensi diluiti
dall’alcool glielo permisero, smise di ridere. Sharky
indietreggiò, inciampando e rovinando a terra. Scott sembrò sbiancare: i soldi
che teneva in mano gli scivolarono tra le dita, cadendo sul tavolo. Paul prese
la mira, puntò al cuore. Era il momento.
- Paul? Non…-
Scott fece in tempo solo a pronunciare quelle parole. Poi il grilletto venne
premuto. A Paul sembrò come bere da una lattina di birra e trovarci dentro del
piscio: l’unica cosa che uscì dalla canna del revolver fu un sordo suono
metallico. Si era inceppato. Un tremito incontrollabile iniziò a propagarsi per
il corpo di Paul: la pistola gli scivolò di mano, e le gambe, all’improvviso,
non riuscirono più a reggerlo. Cadde per terra in ginocchio. E poi vide la
faccia di Scott: era il volto di chi ha temuto per un attimo di aver perso
tutto il suo potere, e che subito scopre invece di essere più potente che mai.
Iniziò a sorridere. L’ubriaco invece scoppiò a sghignazzare sguaiatamente, più
forte che mai, perfino Sharky sembrò dover scoppiare
a ridere da un momento all’altro. Invece Paul si accorse di star piangendo.
Imprecò mille volte contro se stesso, senza riuscire a credere che stesse
succedendo davvero. Ma non doveva piangere. Doveva tentare di spiegare. Doveva
dire qualcosa. Aprì la bocca:
- Io…-
La porta che dava sul corridoio, la
stessa che Sharky aveva sbattuto qualche minuto
prima, venne sfondata in quello stesso momento. Dietro c’era un uomo, con un
passamontagna in testa, e una semiautomatica silenziata in mano. Il primo
proiettile ad uscire dalla canna finì dritto in mezzo alla pancia di Scott, che
cadde a terra urlando come un maiale. Fu Sharky il
secondo: due colpi gli si conficcarono all’altezza del petto, e un ultimo in
mezzo alla fronte. Si accasciò a terra, mentre dal foro sulla testa usciva uno
spruzzo di sangue grumoso. Scott era a terra, e mugolava, come se volesse
ancora urlare ma non ne avesse più la forza. Angelo abbassò la pistola, e tirò
fuori di tasca un rotolo di scotch grigio: Si chinò su Scott, gli legò gli arti
e gli chiuse la bocca. Lui non riuscì quasi ad opporre resistenza: aveva una
costola spezzata, ogni movimento la faceva muovere tra le sue viscere come un
coltello. Paul fissò tutto come se fosse un film, incapace di credere che
stesse succedendo davvero. Angelo sollevò Scott di peso, e lo sbatté sul
tavolo. Si guardò attorno.
- Mmm.
qui sembra che abbia finito. Tu non lavori con Scott, vero? No, decisamente no:
non ti ho mai visto, e poi non hai la faccia. Che ci facevi qui, compravi la
tua dose?- domandò quindi a Paul. Lui non rispose, non ci riusciva.
- Per favore non uccidermi. Per favore…- iniziò a mormorare l’ubriaco, ancora a terra: era
così bruciato che non riusciva a muoversi. Alla fine Paul riuscì a comporre
qualche parola:
- Volevo…grazie… io stavo…volevo…- Angelo notò il revolver a terra. Lo raccolse, e
prese ad esaminarlo:
- Mmmm.
bel pezzo, non vedevo una Vaquero da anni. Però è un po’ vecchia, il cane è
tutto consumato. Non mi stupisco che non sia riuscita a sparare. Fattelo
cambiare se puoi, anche se non so se la Luger
fornisca ancora i pezzi di ricambio. Beh, pazienza.-
- Per favore…
non uccidermi…per….- un
proiettile si pianto nella tempia dell’ubriaco, dipingendo con il suo cervello
il muro dietro di lui. Paul emise un grido strozzato di spavento. Angelo
rinfoderò definitivamente la sua arma, e si mise un dito davanti alle labbra,
per dirgli di stare zitto. Quindi gli ridiede la pistola:
- Attento la prossima volta, se
devi uccidere qualcuno chiama un professionista, piuttosto. Buona notte.-
Angelo prese Scott, ormai svenuto, per una gamba, e lo trascinò fuori dalla
stanza, lasciando Paul da solo. Questi non gli staccò per un attimo gli occhi
di dosso, fino a quando non fu del tutto sparito dalla vista. Poi iniziò a
guardarsi intorno. Il suo sguardo si fermò sul cadavere di Sharky:
i suoi occhi erano diventati completamente bianchi. La fronte, in mezzo alla
quale spiccava il foro del proiettile, si era colorita tutta di un rosso scuro,
e grondava di un sottile, denso rivolo di sangue. Improvvisamente, Paul sentì
il bisogno di vomitare.
- Com’è il caffè?- chiese Cab, sedendosi al tavolo di Angelo.
- Il migliore che beva da anni,
sapere che lo hai fatto te è perfino inquietante. Che succede?-
- Il grossista deve promuovere
questa nuova qualità, e mi ha fatto un bello sconto! Però non abituartici, da settimana prossima si torna alla
normalità.-
- È stato bello finché è durato.
L’ho pure già finito.-
- Dai, te ne porto dell’altro se ti
piace tanto. Vuoi mangiarci qualcosa assieme?- Cab si
diresse verso il bancone, per prendere la caraffa con dentro il caffé. Angelo intanto rispose:
- Non so, solo se anche il
fornitore di ciambelle aveva uno nuova marca da proporre, altrimenti solo caffé.-
- Sei proprio un viziatello del
cazzo, eh? Aspetta qui.-
Era un tranquillo giovedì mattina,
e come al solito il locale era deserto. In effetti Cab
non preparava molto caffé, una caraffa appena, e di
solito lo serviva solo ad Angelo. Certo non si trattava di un cliente che dava
molta soddisfazione, ma almeno era fedele, e Cab se
lo vedeva arrivare quasi ogni mattina.
Una volta tornato al tavolo di
Angelo, trovò l’amico intento a leggere un giornale, come faceva di solito.
- Succede niente di interessante,
in città?-
- Niente di particolare, è morta
Elena Ivchenkova, hai presente?-
- Mai sentita. È per caso
imparentata con Boris Ivchenkov?-
- Si, in effetti era sua figlia. La
piccola Elena, saranno due giorni fa, se la stava spassando con degli amici,
probabilmente un rave. Verso le tre di mattina raggiunge la casa di un certo
Ivan Daineko, e passa la notte li. La mattina dopo,
sul tardi, si sveglia, si fa una doccia, quindi esce di casa senza salutare. Si
dirige verso una tavola calda: è mezzogiorno, lei deve aver fame, quindi decide
di pranzare. Ordina una bistecca, dell’insalata e una lattina di pepsi light.
Morirà dieci minuti dopo.-
- Dicono tutto questo sul
giornale?-
- No, lo dico io.-
- E perché lo dici a me?-
- Beh, perché è una storia
interessante, e tu con le storie interessanti ci vai a nozze, poi ci sarebbe
anche una certa questione che vorrei sottoporti, ma andiamo con ordine.
Insomma, verso le sette di sera avviene la sua autopsia, e quindi viene
decretata la causa della sua morte: intossicazione chimica. Il veleno che l’ha
uccisa è un solvente, uno di quelli che possono finire dentro della cocaina
tagliata male, o, ancora più facilmente, nel crack.-
- Quindi Elena aveva fumato del
crack. Ce ne ha messo di tempo quel veleno prima di fare effetto.-
- È proprio questo il punto!
Insomma, tu mi conosci, di veleni ne so qualcosa.-
- Beh, suppongo si possa dire così.
Quindi?-
- Quindi, mi sembra strano che una
sostanza velenosa finita per caso, e non per intenzione, nel crack di Elena,
possa provocarne la morte a distanza di quasi dieci ore. Era più facile che
accusasse dei dolori subito dopo averlo fumato, o che morisse durante il sonno.
Ora, supponiamo per caso che nella sua dose di crack sia finito del solvente,
che da solo è del tutto innocuo, ma che se unito ad una determinata sostanza
provoca la morte istantanea.-
- Cazzo, mi sembra la trama di un
fottuto giallo. E di che sostanza stai parlando?- Cab,
man mano che si proseguiva nel discorso, era sempre più curioso di sapere dove
Angelo sarebbe andato a finire. Lui, dal canto suo, rimase in silenzio a
giocherellare con la tazza delcaffé. Poi disse:
- Una sostanza contenuta nella
bibita che ha bevuto. Facile, no?-
- Quindi qualcuno aveva avvelenato
la bibita?-
- Cosa? No, no, hai capito male!
Intendevo una sostanza contenuta in tutte le lattine di quella bibita.-
Cab fissò
Angelo aggrottando le sopracciglia, accorgendosi che quello che aveva appena
capito era esattamente quello che l’amico aveva voluto dirgli.
- Un attimo, aspetta un secondo:
vuoi dirmi che puoi morire bevendo
una pepsi?-
- Solo se prima hai fumato del
crack.-
- Ma fammi quel cazzo di piacere!
Ecco, lo sapevo, io sto ad ascoltarti e tu spari solo cazzate! Bah!- Cab si allontanò stizzito dall’amico, brontolando qualcosa.
Angelo lo guardò con una faccia divertita. Poi tornò a bere il suo caffé:
- Beh, poteva essere un’idea.-
- Ma sta zitto! Comunque non vorrei
essere nei panni dello spacciatore che ha dato del crack tagliato male
all’unica figlia di un boss della mafia russa.- disse intanto Cab, mentre attaccava un nuovo fusto di birra alla spina.
- Su questo hai ragione: non
vorresti esserlo.- disse Angelo.
Il luogo stabilito per l’incontro
era una lavanderia a gettoni, ai piedi di un condominio di venti piani, abitato
prevalentemente da single. Il committente aspettava Angelo seduto vicino
all’unica lavatrice accesa, mentre leggeva il giornale. Era un uomo di mezza
età, vestito con una polo sbiadita, e con cappello da pescatore che, in una
giornata nuvolosa come quella, doveva avere il solo scopo di nascondere una
calvizie incipiente. I suoi occhi erano nascosti dalle lenti giallastre di due
brutti occhiali da sole, fuori luogo almeno quanto il cappello. Non lo guardò
nemmeno negli occhi, quando entrò.
- Buongiorno.-
- Buongiorno.- gli rispose Angelo,
avvicinandosi, accennando un saluto con una mano.
L’uomo estrasse di tasca una busta
marrone, e gliela pose senza dire una parola. E senza dire una parola, Angelo
la aprì e prese ad esaminarne il contenuto. Foto, un uomo asiatico dalla pelle
olivastra e gli occhi sottili, sulla trentina, vestito con un impeccabile
completo. Era un ingrandimento di quella che sembrava una foto di gruppo,
consunta e dai colori sbiaditi, ma Angelo era un buon fisionomista: avrebbe di
certo riconosciuto l’uomo, una volta trovatoselo davanti.
- Chi è questo cinese?- chiese al
committente.
- Giapponese. Si chiama Kensuke
Takeguchi. È il figlio di Hiroito Takeguchi, un pezzo grosso della yakuza da
queste parti.-
- Ah, Takeguchi-san. Non sapevo
avesse un figlio.-
- Kensuke è sempre vissuto in
Giappone, è arrivato ieri mattina in città. Viaggio di piacere si dice, il che
non è poi troppo improbabile, ma nemmeno rilevante per quello che ci interessa.
In effetti non ha fatto niente che gli faccia meritare quello che gli deve
succedere, ma…-
- Ehi, frena un attimo. Lo stavi
per fare!- Angelo esclamò questa frase, apparentemente senza senso, all’improvviso,
interrompendo bruscamente il discorso dell’uomo. Questi, si bloccò, si tolse
gli occhiali, e chiese con tutta calma:
- Che cosa stavo per fare?-
- Stavi per dirmi il perché devo
fare questo lavoro, e a me quel genere di cose non mi interessa. Se devo
lavorare lo voglio fare con la testa libera, niente scrupoli o cazzate simili.
Non voglio sapere se il povero stronzo deve fare la fine che devo fargli fare
per aver violentato due bambine piuttosto che per aver pisciato fuori dalla
tazza del cesso, per me deve essere sempre la stessa, identica, fottutissima
cosa. Ora, sai dirmi dove lo posso trovare, oppure devo fare da me?- La valanga
di parole che era appena uscita dalla bocca dell’assassino lasciò il
committente nel più completo mutismo. Ma subito questi strinse gli occhi, e
sbuffò stizzito.
- Ottimo allora. Domani notte,
all’una ci sarà tutta la banda di Takeguchi all’Easy ride, un locale sulla statale 48.- allungò una carta stradale
con un segno rosso tracciato nel mezzo, che ovviamente indicava il luogo in cui
doveva avvenire il lavoro
- Ci sarà anche suo figlio. Ci
sarebbero momenti più tranquilli per concludere l’incarico, ma la banda si
trova lì per concludere un’importante trattativa con i coreani. Un morto è
l’ideale per mandare tutto a monte, e davanti agli occhi di Takeguchi senior,
per giunta.-
- Semplice. In questo posto
all’una.- Non era difficile.- In quanti saranno?-
- Venti, in linea di massima.- No,
era difficile. - Altre domande?-
Angelo prese a ragionare, organizzò
le idee su come avrebbe potuto finire il lavoro nel modo più sicuro.
- Solo Kensuke, oppure anche gli
altri possono…- non concluse la frase, ma il verbo morire non ha bisogno di
essere pronunciato in alcuni discorsi. Il committente aggrotò un sopracciglio.
- Io non volevo dirlo, ma se un
morto può rovinare la trattativa, dieci morti possono fare, come dire, un bel
casino. Faccia un po’ come più la aggrada, ma tenga a mente questa piccola,
insignificante costrizione: Takeguchi senior deve vivere. E vedergli il figlio
morirgli davanti agli occhi.-
- Capisco.- Fece Angelo.
La sera dopo, alle undici e trenta
precise, Angelo stava entrando in un taxi.
- Dove si va?- gli chiese il
taxista. Era un uomo che doveva aver superato ormai da parecchio la trentina,
se non addirittura raggiunto la quarantina. Una folta chioma di capelli lanosi
di una tonalità tendente al grigio, confusi con una altrettanto lunga barba,
gli ricadevano sulle spalle e sul petto, coperti da una camicia dai colori
sgargianti.
- Imbocca la 48, ti dico io quando
fermarti.- rispose pacatamente Angelo, distendendosi sul sedile di dietro, dopo
avervi buttato sopra una borsa, che cadendo emise un cupo tintinnio.
- Subito, ma ti costerà un po’. È
lunghetta da qua fino alla statale.-rispose il Taxista, mentre ingranava la prima, facendo partire la
macchina con una leggera sgommata.
- Non mi mancano i soldi per
pagarti, e nemmeno il tempo per arrivare. Però tu tenta di fare veloce… Carl.- Concluse,
leggendo il tesserino appeso vicino allo specchietto retrovisore, con sopra una
foto di un ragazzo con molti anni, e capelli, in meno della persona che stava
in quel momento al volante dell’auto. Il cognome era nascosto da una foresta di
Abre Magique biancastri.
- Okay, amico.- Il taxi procedette
per una ventina di minuti prima di poter raggiungere la periferia, altri venti
per abbandonare la zona abitata. Dopo circa un’ora, la macchina procedeva a
velocità sostenuta lungo la statale. Carl aveva già provato tre volte ad
attaccare discorso con il suo cliente, fallendo miseramente ad ogni tentativo.
Angelo si era addirittura illuso di aver convinto il taxista a tenere la bocca
chiusa, quando questi, improvvisamente, gli fece:
- Ehi, guarda là, a destra!- Angelo
volse lo sguardo dove gli era stato indicato, ma non vide che alcuni irregolari
cubi di cemento armato con il tetto di lamiera, circondati da un muro di cinta
fatto di rete metallica.
- Di che si tratta?- domandò,
giusto per non deludere il suo interlocutore.
- Era una base dell’esercito, in
giro si diceva che dentro durante la guerra fredda ci facessero qualche strano
esperimento, tutta roba top secret. E non facevano entrare nessuno, giuro!
Pensa, c’era lo zio di un collega di questo mio amico che portava i
rifornimenti alimentari per i soldati che stavano di guardia alla struttura, e
più di una volta ha giurato di sentire provenire dall’interno dei suoni
stranissimi, come di animali che si lamentano. Ma quando domandava ai soldati
di cosa si trattasse, lo cacciavano sempre via in malo modo, dicendogli che non
doveva interessargli.-
- Ma non mi dire.- Angelo pronunciò
distrattamente la frase, mentre osservava gli edifici scomparire in lontananza.
E più li guardava, più gli pareva di ricordare che in quel posto una volta
c’era un mobilificio.
- Bah, ormai l’hanno chiusa. Ora è
solo l’ennesima leggenda metropolitana. Mi piace pensare a lei come alla nostra
Area 51. Hai presente, no?-
- Certo. Quella degli alieni, no?-
Carl emise un suono a meta strada
tra uno sbuffo e una risata:
- Alieni? Ma fammi il piacere, non
dirmi che grande e grosso come sei credi ancora in simili stronzate! Nell’area
51 ci tengono Elvis!-
- Quell’Elvis?-
- Certo, e chi sennò? -
- E io che pensavo fosse morto.-
disse Angelo, pensando che il sarcasmo fosse evidente.
- Ma no che non è morto! Ce l’hanno
fatto credere, è dalla dichiarazione di indipendenza che quelli stronzi giù a
Washington la mettono nel culo a tutti con le loro balle! Stammi ad ascoltare,
la storia è molto semplice: Elvis è un bravo ragazzo, e un drago con una
chitarra in mano e un microfono davanti. Ma un brutto giorno, quando ha ancora
davanti a se tutta una sfavillante carriera ad attenderlo il medico gli fa: “Mi
dispiace figliolo. Cirrosi epatica.” Bella merda, eh?-
- Cirrosi. beh, non è mica una
tragedia.-
- Ma se è incurabile!- esclamò
scandalizzato Carl, e smise perfino di osservare la strada, per poter lanciare
un’occhiata di aspro rimprovero al suo insensibile cliente.
- Incurabile? Oddio, non sarò un
medico ma mi pare che nel peggiore dei casi te la cavi con un trapianto.- la
calma e la sicurezza con cui Angelo pronunciò quella frase lasciarono Carl
senza parole. Per un po’ balbettò qualche parola senza senso, poi sbottò:
- Beh, non mi ricordo che malattia
fosse esattamente, ma so per certo che era terminale. Allora lo zio Sam prese
una solenne decisione: Elvis non doveva morire. E così venne rapito nottetempo
e congelato in una cella di ibernazione nei sotterranei dell’Area 51, in attesa
che venisse trovata una cura alla malattia.-
- Capisco. Il governo degli Stati Uniti
ha ibernato Elvis Presley. E a che diavolo gli serviva?-
- Cazzo amico, ma non ci arrivi?
Elvis non era un uomo, era un dio! Oggi c’è ancora una manica di invasati che
lo venera come Gesù Cristo. Avere Elvis significa avere il controllo delle
masse, ed è quello che i maiali della casa bianca vogliono!-
- Ah, tutto fila. Se non fosse che
Elvis non è mai sparito dalla circolazione. Chi era sennò ilgrassone che è morto giù a Memphis nel 77 e
che conosciamo tutti? Il gemello malvagio?- qualcosa fece intuire ad Angelo che
anche un’obbiezione assolutamente ragionevole come quella che aveva fatto,
sarebbe stata confutata dal taxista. E infatti la risposta non tardò ad
arrivare:
- Ma no, quello era il sosia!-
- Il che?-
- Ma certo, pensi che quei figli di
puttana a Washington non ci avessero pensato? Per fare in modo che nessuno si
accorgesse del rapimento, sostituirono il vero Elvis con un sosia. Beh, bel
sosia del cazzo, non ci assomigliava nemmeno un po’. Il vero Elvis era un bravo
ragazzo, non avrebbe toccato tutta quella merda, la droga intendo, sai? E non
si sarebbe trasformato in quel mostro obeso che il sosia è diventato! Che
stronzo, si prese tutto il successo. Poi, dire tutte quelle cattiverie razziste.
No, il vero Elvis non l’avrebbe mai fatto. Mai!-
- Ehi, fermati qui. Siamo
arrivati.- Angelo aveva smesso già da un po’ di tempo di ascoltare
l’appassionata narrazione del taxista, per la precisione aveva smesso
nell’esatto momento in cui avevano oltrepassato l’Easy ride. Il taxi si bloccò, e accostò al margine della
carreggiata. Angelo scese, prese qualche banconota dal portafoglio, e quindi la
gettò sulle ginocchia del taxista.
- Ecco, questi dovrebbero bastare,
e tieni il resto. Puoi aspettarmi qui, ora? Torno tra un paio di minuti.-
- Ehi, certo, certo. Ti aspetto!- I
cento dollari che erano appena caduti sulle ginocchia di Carl lo avevano reso
improvvisamente più cordiale, oltre che avergli fatto dimenticare Elvis, l’area
51 e gli stronzi di Washington. Iniziò a controllare contro la luce sopra lo
specchietto retrovisore le banconote. Angelo iniziò a frugare nella borsa che
si era portato appresso, estraendo un passamontagna, dei piccoli oggetti ovali,
e una beretta da nove millimetri, con silenziatore e caricatore espanso da trentadue
colpi. Passando oltre l’ “Easy Ride” aveva visto almeno sei uomini di guardia,
più due che facevano cenno alle macchine che mostravano l’intenzione di
fermarsi presso il locale di proseguire per la loro strada. Quindi dentro ne
rimanevano una trentina. Poteva andare.
- Allora aspettami, mi raccomando,
e tieniti pronto a partire immediatamente. Ah, e se senti qualche rumore, come
dire, sospetto, ignoralo. Chiaro? -
- Come il sole, amico!- rispose
Carl, mentre infilava le banconote dentro il parasole insieme al santino di una
Madonna messicana, sorridendo soddisfatto. Angelo si allontanò dall’auto,
lasciando la borsa, vuota, sul sedile di dietro. Carl, finalmente convintosi di
aver appena guadagnato più del doppio di quanto avesse di fatto avuto diritto a
reclamare, iniziò a fischiettare. Quindi si distese sul sedile, e accese la
radio, lasciando diffondere dai gracchianti altoparlanti nelle portiere la
melodia di una canzone country. Rimase per un po’ così, rilassato, mentre
guardava il cielo stellato fuori dal finestrino. Non riuscì a sentire gli
spari, il tonfo emesso dal silenziatore si perse dietro ai gorgheggi di Liz
Anderson. Discorso a parte furono le esplosioni, che seguirono di lì a poco. La
prima fece saltare subito Carl sul chi vive, le seconda riuscì addirittura a
fargli dimenticare di aver ricevuto l’ordine di ignorare qualsiasi tipo di
rumore. Ma, con la coda dell’occhio, notò nello specchietto retrovisore la
figura del suo cliente che si avvicinava di corsa, con in mano qualcosa che
assomigliava terribilmente ad una pistola. Angelo si buttò rapidamente al suo
posto, e urlò:
- Sei ancora qui? Andiamocene!-
- Ma che cazzo?- iniziò Carl,
quando si accorse che altra gente si stava avvicinando al suo taxi. E anche
loro erano armati. Il primo proiettile andò a perforare il lunotto posteriore,
fracassando subito dopo la povera autoradio. E Carl intuì che non sarebbe stato
l’ultimo.
- Chi sono quei cinesi?- gridò,
mentre girava la chiave.
- Non sono cinesi, sono
giapponesi.- rispose Angelo, sparando qualche colpo in loro direzione dal
lunotto infranto, e probabilmente facendo anche centro qualche volta.
- Perché ci sparano? Che cazzo
erano quelle esplosioni?- la macchina finalmente ripartì, con una sonora
sgommata. Fatti duecento metri, anche gli Yakuza che li stavano inseguendo si
fermarono, e smisero di sparare.
- Fregatene delle esplosioni, e
tranquillizzati. Gli ho sabotato le auto, non possono inseguirci.-
Il pericolo era effettivamente
cessato, ma Carl non dava segno di voler calmarsi:
- Ma chi cazzo sei tu? E cosa… cosa…-
iniziò a balbettare. Angelo gli puntò la pistola contro la tempia:
- Ora sta un po’ zitto. E riportami
in centro.-
Carl rimase in silenzio per tutto
il resto del tragitto. Quando finalmente furono arrivati a destinazione, Angelo
tirò di nuovo fuori il portafogli. Prese tre banconote da cento dollari, e le infilò
nel taschino della camicia dell’autista:
- Per il ritorno, per tappare i
buchi, e per dimenticarti tutto quello che è successo. Chiaro?-
Di tutta risposta, Carl annuì con
stampato sulla faccia un sorriso forzato.
- Buonanotte, allora.- Gli disse
allora il killer, e fece per andarsene. Ma proprio in quel momento Carl sembrò
ritrovare un po’ di coraggio. Abbassò il finestrino, e urlò:
- E cosa cazzo gli dico domani in
officina, quando capiranno che qualcuno mi ha sparato addosso?-
- Dì che è stata la CIA: sapevi
troppo su Elvis.- rispose Angelo senza
voltarsi, e allontanandosi, un passo dopo l’altro, nella notte.
Terzo intermezzo
- Pensavo non ti piacessero le
bombe a mano.- L’affermazione di Cab fece sussultare leggermente Angelo,
facendogli mandare di traverso il sorso di caffé bollente che aveva appena
bevuto.
- Come scusa?- chiese al barista,
staccando le labbra dalla sua tazza, e appoggiandola sul tavolo.
- Ma sì, sarò pure vecchio, ma non
ancora rincoglionito. Lo ho capito subito che sei stato te, sai?- detto ciò, il
vecchio nero buttò sul tavolo di Angelo un giornale, aperto su una delle pagine
centrali. Il titolo, urlato a grandi caratteri, era estremamente esplicito: otto
cadaveri in una sparatoria avvenuta su un locale affacciato sulla statale.
Secondo gli inquirenti la maggior parte delle vittime era stata causata
dall’esplosione di due bombe a mano, il decesso delle restanti era stato
causato da dei proiettili di piccolo calibro. La maggior parte dei colpi era
stata esplosa al di fuori del locale, da più di un arma. I cadaveri erano tutti
di rappresentanti della malavita coreana e giapponese, si pensava a un
regolamento di conti.
- Otto? Diavolo, unbel macello, non trovi?- disse Angelo, poi
emise una breve risata, e quindi vuotò il caffé.
- Allora sei stato davvero tu.
Porco Giuda.- Cab fissò la pagina del giornale scuotendo la testa. Nonostante
Angelo fosse cliente del suo bar da anni, parlargli li faceva sempre uno strano
effetto, sapendo in che razza di modo si procurava il pane.
- Per quanto riguarda le bombe a
mano, un conto e non apprezzarle, un conto è non capire quando potrebbero
risultare utili. Insomma, se c’è troppa gente in una stanza, una bomba a mano è
l’ideale per dare una sfoltita. Me ne riempi un’altra tazza?-
Grazie a tutte le persone che mi leggono.
Vedo che siete davvero tanti, se siete arrivati fin qui, potreste mettere tra
le vostre storie seguite anche questa, e rendermi il biografo di assassini a
pagamento più felice del mondo. Gracias, ve quieromucho!
Dzoro
Camerata
Nichols
aveva un sogno.Nel suo sogno c’era una casa, circondata da un giardino, circondato dai
rassicuranti confini di una staccionata bianca alta tre piedi. E nel giardino
avrebbe invitato i suoi amici a mangiare carne grigliata sul suo barbecue, il
suo barbecue grande come auto. E avrebbe regalato dei guantoni da baseball ai
suoi figli, e gli avrebbe lanciato la palla, mentre sua moglie avrebbe sorriso
da dietro la porta a vetri della cucina, preparando la cena. E lo sapeva che
era solo un sogno: Nichols non aveva amici, e non
aveva una famiglia. Odiava troppo gli uomini per averne.
Il suo posto nel mondo era esattamente quello in cui si trovava, dove si
trovava il suo lavoro. Al
tredicesimo piano di un palazzo color polvere, incastrato tra i monoliti di
cemento di un quartiere in mano agli spacciatori e gli scarafaggi. Il più
vicino possibile al pulsante cuore nero della città, il più nascosto possibile
dal fastidioso giudizio di Dio.
Alcune sere, quando alla tivù non
davano niente di interessante, o non aveva nessun lavoro da sbrigare, a Nichols piaceva mettersi davanti a un giornale di
enigmistica e a una tazza di tè caldo, seduto sul tavolo foderato da tovaglia
di plastica color linoleum della cucina. Passava il suo tempo così, fino al
momento in cui la sua stanchezza non era
un pretesto sufficiente per nascondersi sotto le coperte. Solitamente
sfogliava il giornale distrattamente, soffermandosi di tanto in tanto sulle
vignette umoristiche, fino a che non trovava le pagine delle parole crociate. Iniziava quindi a farle, bevendo un
sorso dalla sua tazza ogni tre o quattro definizioni azzeccate. Sulla tazza
c’era scritto “Alla migliore mamma del mondo.”
Quella sera era una di quelle sere:Nichols
aveva appena finito il suo the, subito dopo essersi ricordato che le iniziali
del terzo presidente degli stati uniti erano la T e la J. Mancava poco al
completamento del quadro, solo poche linee bianche ancora.
“La capitale della Corea del Nord.”
Questa era facile, Seoul. Stava per scriverla, ma vide che c’erano più di una
casella che sarebbero rimaste bianche. Come era possibile? Ah, vero, che
imbecille, Seoul era la capitale della Corea del sud. La Corea del Nord aveva
come capitale…
- La capitale della Corea… della Corea del nord.-disse tra se, ad alta voce, sbuffando
frustrato. Iniziò a tamburellare con la punta della matita sulla superficie del
tavolo, cercando di ricordare. Sembrava
proprio non venirgli in mente, ed era strano: lui era sicuro di conoscere la
risposta. Beh, ci avrebbe pensato dopo, sotto con un'altra definizione.
“Il campo della boxe.” Questa era
facile, e Nichols stava per scrivere la risposta,
quando qualcuno suonò alla porta. Il suono elettrico del campanello fece
voltare Nichols di scatto, e anche un po’ trasalire:
- Chi è?- Fece, alzandosi dalla
sedia. Mentre si avvicinava alla porta, il campanello continuòa emettere il suo suono fastidioso, con brevi pause tra una
scampanellata e l’altra.
- Arrivo, arrivo accidenti! Ma lo
sai che ore sono? Stai calmo!- appena Nichols
ebbe tolto il fermo della porta, essa si aprì violentemente. Un uomo entrò
nella casa barcollando, quasi travolgendo il dottore dall’altra parte. Fece
pochi passi, prima di piombare a terra. Ansimava come qualcuno che ha appena terminato una lunga corsa. O a cui hanno appena
sparato: tutto il sangue che aveva addosso tolse subito al dottore il dubbio.
- E adesso che cazzo succede?- si
disse tra se, come di suo solito ad alta voce. Mise il corpo dell’uomo supino,e come volevasi dimostrare una ferita d’arma da fuoco spiccò come un bel
fiore rosso in mezzo alla camicia azzurrina dell’uomo.Niente di grave probabilmente, al massimo un
polmone perforato. Comunque richiedeva cure mediche al più presto. Nichols guadò la moquette verde: si era sporcata. Scosse la
testa:
- Senti amico, io non ti conosco, e
sono anche stanco. Non ti costerà poco.-
Il ferito, cinque minuti dopo, si
trovava sdraiato sul divano del soggiorno di Nichols,
ricoperto di giornali e fogli di carta assorbente. Nichols
stava pulendo in cucina i ferri, rimasti incrostati di sangue dopo l’ultima
operazione. Era stata due sere prima, e l’aveva tenuto in piedi dalle cinque di
pomeriggio fino a mezzanotte: un ragazzo, figlio di un nome importante nel
campo della prostituzione, era arrivato con nel petto otto pallini di fucile a
pompa, uno dei quali per poco non gli era entrato nel cuore. Era sopravvissuto,
Nichols sapeva il fatto suo. Solo pochi nel giro
della mala conoscevano il suo nome, e a lui andava bene così: la polizia non si
era mai accorta della sua piccola attività, e lui guadagnava di più di quando
lavorava come chirurgo al St Agnes. Passò uno straccio imbevuto di
disinfettante sull’ultimo bisturi, e lo buttò in una bacinella di metallo
insieme agli altri. Prese da sotto il lavandino la scatola con i guanti di lattice,
e da un appendiabiti vicino al frigo un grembiule da cucina bianco, appeso accanto
ad almeno altri cinque grembiuli puliti.
- Ehi, dottore, ce l’hai da bere?-
gli urlò il ferito, dal soggiorno. Era un uomo dalla faccia pulita, senza un filo
di barba, con dei bei vestiti e un corpo atletico. Doveva avere poco più di
trent’anni. Aveva una anello al dito. Il dottore provò fastidio al pensare che
avesse una fede. Per quanto cercasse di
fregarsene, sapere che l’uomo a cui doveva salvare la vita aveva dei legami gli
faceva sentire come se gli avessero affidato una responsabilità più grande di
quella che avrebbe voluto assumersi. Certo, tutti gli esseri umani ha dei
legami, delle persone che piangono la loro morte. Le fedi glielo ricordavano soltanto.
Chissà chi era, che gli aveva
sparato, perché l’aveva fatto. La professionalità del dottor Nichols gli impediva sempre di chiedere qualsiasi cosa ai
suoi clienti, ma ciò non impediva che in lui ogni volta nascessero un’infinità
di domande. Nichols prese la bacinella di alluminio
con i ferri. Si avvicinò al frigorifero, e ne estrasse una bottiglia di vodka
mezza vuota, adagiata vicino ad un mezzo limone raggrinzito e ad un barattolo
aperto di burro d’arachidi. Poi prese una siringa, sigillata in un pacchetto di
plastica ermetico, che si trovava in una vaschetta di plastica insieme a molte
altre siringhe. In soggiorno, buttò la vodka al suo paziente, poi si mise il grembiule.
Il ferito si attaccò subito alla bottiglia, e ne bevve quasi un terzo senza staccarsi un attimo. La staccò dalle labbra facendo una
smorfia:
- Bah, che schifo. I russi hanno
poco da andare fieri di questa merda, è quasi meglio l’alcool etilico. Non ce
l’ha del Jack Daniels, per caso?-
Nichols si
infilò i guanti di lattice, facendoli schioccare contro il braccio.
- Posso andare a comprarlo, ma non
è compresa nel prezzo, e più il tempo passa più la ferita si infetta, sempre
che tu sappia cosa voglia dire. Stattene zitto quando opero, oppure potrei
finire per aprirti un buco ancora più grosso.- detto ciò, prese un bisturi
dalla bacinella,e iniziò ad esaminare
la ferita. Il ferito abbozzò un sorriso:
- Okay, lasci stare. Lei non ne
vuole?-
- Ho smesso di bere da dieci anni.
Ero alcolizzato una volta.-
- Non sapevo che un medico potesse essere anche un
alcolizzato.-
- Un medico può fumare e bere come
chiunque. Può anche bere abbastanza per andare al lavoro ubriaco, e trasformare un povero stronzo in paraplegico,dopo avergli segato la spina dorsale un po’ di più del dovuto. Zitto ora.- Nichols
prese la siringa, e la iniettò nel braccio del suo paziente.
- Non si dovrebbe…
non mischiare medicine e alcool?- chiese il paziente, mentre la voce gli si
impastava.
- No, certo che no. Stai fermo.-
Aspettò solo qualche minuto, il
tempo che il pentothal facesse effetto, poi infilò il
bisturi nella ferita.
- Erano brutti tempi, quelli.-
continuò, anche se sapeva fin troppo bene
che l’uomo al quale stava salvando la vita poteva capire ben poco in quel
momento.Ma a lui piaceva parlare. Lo trovava catartico.
- Ma non tutto il male viene per nuocere. In prigione conobbi un tizio
che mi propose di aprire uno studio con lui, una volta uscito. In carcere era
famoso, un associazione umanitaria al
tempo aveva fatto un gran casino per concedergli l’infermità mentale, e cazzo
se la meritava tutta quel perverso. Aveva tagliato le gambe di sua
moglie con una segatrice da granito perché diceva che dentro ci abitassero dei
diavoli. Capito il tipo, no? Credeva di avere una non so che cazzo di missione,
di dover guarire tutti i mali del mondo. Credo che una volta uscito abbia
ammazzato qualcun altro. Forse ora gli hanno già cotto il cervello sulla sedia elettrica. Che ne parlo a fare, come
se me ne fregasse qualcosa. Però l’idea che mi aveva dato era buona, e riuscì
anche a mettermi in contatto con gente che mi avrebbe protetto e permesso di
lavorare. Così eccomi qui, a estrarre piombo e ricucire ferite. Non male, eh?
Ecco, ci siamo quasi.- Nichols aveva in quel momento
afferrato il proiettile con le pinze, e lo stava facendo lentamente scivolare
tra le pieghe della ferita.
- Ci siamo. Ci siamo…
ecco!- era fuori. Nichols lo fece cadere in un
posacenere, dove poté adagiarsi insieme ad almeno un'altra decina di proiettili incrostati di sangue. Nichols pensò per l’ennesima volta quella settimana che
avrebbe dovuto farli sparire.
L’operazione si era conclusa in
tempi relativamente brevi. Nichols aveva già ricucito
la ferita, e bendato il torace al suo paziente.
- Ehi, bel lavoro doc. Grazie.-
- Risparmia i ringraziamenti per
qualcun altro, sono cinquecento dollari. Ora sei a posto, ma hai perso troppo
sangue. Non devi fare movimenti bruschi, ed devi anche evitare di muoverti, se
possibile. Ora non è possibile per esempio, caccia i soldi, e poi levati dai
coglioni.- sbottò Nichols, mentre si spogliava dai
suoi abiti da lavoro.
- I soldi sono nella mia giacca.
Non prenderne di più di quanto ti devo, mi raccomando. Uh, che sonno.- l’uomo
si sdraiò di nuovo sul divano.
- Ehi, che cazzo fai, dormi? Dai,
devi andartene. Ehi!- Nichols diede un paio di colpi
sulla testa del paziente, ma era troppo tardi: era già caduto in un sonno
profondissimo, di quelli che terminano solo a mezzogiorno del giorno dopo. Nichols sospirò, e se ne andò un attimo in camera sua.
Tornò di lì a poco, e buttò una coperta addosso all’addormentato sul suo
divano.
- Sappi però che ti verrà a costare
un supplemento.- borbottò, dirigendosi verso la giacca con i soldi, appesa
sull’attaccapanni vicino all’ingresso. Trovò un portafogli in una delle tasche
interne, e subito ne rovesciò il contenuto sul tavolo della cucina. Tra i soldi
cadde anche una carta d’identità, sulla quale il dottore intravide un nome:
Sidney Russel. Un indizio in più sull’identità
dell’uomo che aveva appena operato, ma non doveva importargli. Iniziò a contare
le banconote, lanciando di tanto in tanto un’occhiata sul paziente che dormiva
alle sue spalle. Nichols temette per un attimo che
stesse fingendo soltanto di dormire, ma subito un russare gorgogliante e
profondo cancellò ogni preoccupazione: dormiva di sicuro, e anche se fosse
stato vero il contrario non c’era da temere. Ridotto com’era, era inoffensivo,
non c’era pericolo che lo strangolasse durante la notte e scappasse senza
pagare. A proposito di pagare, Nichols aveva appena
finito di contare i soldi:
- Quattrocentoottanta e trenta centesimi.
Pezzo di merda.-
Nichols
quella notte si gettò di traverso sul suo letto, e si addormentò nel giro di
pochi minuti. L’operazione lo aveva sfiancato definitivamente, non aveva
nemmeno messo a posto il tavolo della cucina: capì che avrebbe ignorato quale
fosse la capitale della Corea del nord per l’eternità. Anzi, i suoi ultimi
pensieri furono di colossali parate militari con bandiere rosse e gigantografie
di Kim Jong-Il, prima di venire sopraffatto
dall’incoscienza. Si addormentò tranquillamente, disturbato soltanto da un
rumore lontano, che se fosse stato più sveglio avrebbe identificato come un
telefono che veniva alzato e un numero che veniva composto.
Il sonno del dottor Nichols si infranse contro il trillare incessante del suo
campanello, tre ore dopo. Erano le tre e mezzo di mattina. Il primo pensiero
della giornata fu quindi un “Chi cazzo è?”, al quale seguì un frettoloso
vestirsi e correre alla porta. Una volta aperta, non sommerse di insulti
quell’inopportuno visitatore solo per due motivi: era troppo stanco, e davanti
a se si trovava una donna. Doveva avere la stessa età del suo paziente, e un
veloce occhiata del dottore riuscì a trovare una fede sulla sua mano sinistra. Capì
subito.
- Cosa desidera?- chiese comunque Nichols, squadrandola da capo a piedi nel frattempo. Non
era neppure male.
- Io…
credo che mio marito sia in casa sua. Posso entrare?-
“ E no, cazzo, sono le quattro di
mattina, io non sono stato ancora pagato e il mio paziente usa la mia casa come
una fottuto albergo! Ma ora basta, ora quello stronzo se ne va insieme alla sua
troia, se ne va via!”
- Prego.- rispose il dottore,
aprendogli del tutto la porta e invitandola ad entrare. Subito dopo gli indicò
dove si trovava il marito, quindi se ne andò in cucina. Dato che aveva la netta
sensazione che il sonno l’avrebbe colto di nuovo da un momento all’altro,
decise di prepararsi un caffé. Riuscì non solo a
prepararlo, ma pure a finirlo, e quei due erano ancora nel suo soggiorno, che continuavano
a parlare. Adocchiò in quel momento la sua enigmistica, ancora aperta sul
cruciverba della sera prima. Ma proprio non riusciva a ricordarsi quale fosse
la capitale della Corea del nord. Guardò l’ennesima volta in direzione
dell’uomo e la donna nella sua cucina: ore i due erano abbracciati, e rimasero
così per lungo tempo. Quando si staccarono l’uno dall’altro, Nichols tirò un sospiro di sollievo. La donna si alzò dal
divano, e si diresse verso l’uscita: il dottore le si avvicinò.
- Grazie per avermi fatto entrare.
E mi scusi.- mormorò lei. Nichols notò con fastidio
che la sua voce era strozzata, come se dovesse scoppiare a piangere da un
istante all’altro. E l’ultima cosa che voleva dover fare quella notte era
tentare di consolare una donna in lacrime sull’ingresso di casa sua.
- Di niente, di niente.- Nichols disse solo quello, prima che lei uscisse. Avrebbe
voluto chiedere perché non si portava dietro anche il marito, ma sapeva che la
sua reazione non gli sarebbe piaciuta.
Tornando in soggiorno, vide il suo
paziente raggomitolato sul divano, che fingeva di essersi riaddormentato. La
carta assorbente e i giornali erano stati appallottolati in un gomitolo
sanguinolento sulla moquette. Nichols lasciò stare,
voleva soltanto tornare a letto. Notò però, prima di andarsene, che sul tavolo
vicino al divano era comparso un quaderno di cartone color carta da pacchi, con
la copertina rigida, come di quelli che si usano per tenere le fotografie. Ma
cosa poteva importergliene a lui?
Angelo accese l’autoradio.
“Ancora latitante l’assassino
dell’imprenditore ucciso ieri sera nei pressi della sede del consiglio
municipale. La vittima, MartinKrieger, era proprietario di una catena di concessionarie d’auto
e diverse attività nel campo della ristorazione, ma era famoso soprattutto per la sua grande attività di filantropo.
Opera sua è stata la fondazione Krieger, che dal 1992
ha permesso a più di centomila senzatetto di costruirsi una vita e trovare un lavoro e una casa. Krieger è stato colpito da
due proiettili di una pistola semiautomatica dotata di ottica, il che fa pensare al lavoro di un assassino
professionista. Il killer
ha esploso i colpi dal tetto di un palazzo vicino. La vittima è stata subito
trasportata in ospedale, ma è deceduta prima di poter raggiungere la sala
operatoria. L’assassino è stato avvistato dalle guardie del corpo del signor Krieger, che hanno subito aperto il fuoco contro di lui.
Alcuni testimoni hanno visto un uomo ferito allontanarsi a bordo di una
Chevrolet El-Camino rosso scuro. Sono questi al
momento i principali indizi a disposizione degli inquirenti per ritrovare
questo spietato killer. I funerali del signor Krieger
si terranno…” Angelo spense l’autoradio. Parcheggiò
vicino ad una Chevrolet El-Camino, e scese sul
marciapiede: conosceva bene il posto, e sapeva che avrebbe trovato Sid laggiù.
Era già la seconda volta in
ventiquattrore che Nichols veniva svegliato dal suo campanello. Questa volta
erano le otto e mezzo di mattina. Questa volta, Nichols
giurò a se stesso di incenerire d’insulti chiunque, donna, uomo o bambino, si
fosse trovato in quel momento dietro la sua porta, di sbattergli la suddetta in faccia e tornarsene a
dormire, anche se sapeva che riprendere
sonno era ormai una speranza assai remota. La sua marcia furente in direzione della porta però si bloccò di colpo, appena uscito dalla camera da letto: l’uomo
non era più sul divano, ne in un qualsiasi altro posto in cui Nichols l’avrebbe potuto vedere.
“Eh no, cazzo, quel tizio mi deve
ancora venti dollari.” subito iniziò ad aprire tutte le porte che davano sul
soggiorno, sapendo che il paziente non poteva essersene andato lontano, con
quella ferita. Il campanello, intanto, riprese a suonare.
- Un attimo, porca puttana, smettila di suonare il fottuto
campanello, un attimo e ti apro!- urlò Nichols in
direzione della porta, e in quell’esatto momento il campanello smise di
suonare. Il dottore non aveva ancora trovato il fuggitivo: stava per
rassegnarsi, quando vide la porta che dava sulla scala antincendio aperta. Vi
si fiondò subito:
- Ehi, Russel!
Ehi, sei qui?- gridò, guardandosi tutt’intorno.
- Sono qui, sono qui, tranquillo.
Pensavi fossi scappato?- gli fece il paziente, dall’alto. Nichols
non sapeva dove avesse trovato la forza, ma era riuscito a salire la scala
antincendio fino al tetto della palazzina (non troppo distante, sia chiaro:
l’appartamento di Nichols era all’ultimo piano).
- Ricordati che mi devi dei soldi,
perché io non me lo dimentico. Ora c’è qualcuno alla porta, tu stai fermo dove
ti trovi!- gli gridò contro Nichols, prima di tornare
nel suo appartamento. Raggiunse la porta d’ingresso alternando i passi alle
imprecazioni. La aprì con violenza, già pronto a vomitare tutti gli insulti che
aveva elaborato fin dalla sera prima, quando quella scocciatura era iniziata.
Doverli ingoiare tutti insieme, fu per lui un vero colpo. L’uomo dietro la porta lo conosceva, e chi nel giro
non lo conosceva?
- Cosa ci fa qui?- una domanda
stupida, detta con una voce da stupido. Angelo non rispose nemmeno. Con un
braccio fece scostare verso una parete del corridoio il dottore, ed entrò
guardandosi intorno con circospezione. Nichols rimase
immobile nel posto in cui Angelo l’aveva spinto, a fissarlo, mentre il respiro
gli si faceva sempre più affannoso.
- Dimmi un po’, doc, per caso
stanotte hai operato?- la domanda di Angelo giunse improvvisa, e Nichols rispose subito:
- Senta, io li opero soltanto, non
me ne frega niente di cosa hanno fatto o per chi lavorano. Mi basta ricevere i
miei soldi, e non chiedo…-
- Lo so doc, lo so. Capisco
perfettamente la tua preoccupazione, ma ti assicuro che non hai nulla da
temere. Tu hai fatto il tuo lavoro, io sto per fare il mio. E ora dimmelo: dove
si trova?-
- Ottantasei. No, era
l’ottantacinque. Dio, quelli sì che erano tempi. Il mondo era nostro, eravamo
noi al comando. Ma anche questa non tornerà più.- Russel
si trovava sul tetto della palazzina, uno spiazzo rettangolare occupato da
qualche condizionatore, materiale edile abbandonato e dalla sporcizia dei
piccioni che vi abitavano. Sidney era seduto, appoggiato con la schiena ad una
pila di sacchi di cemento. Tra le ginocchia teneva l’album delle fotografie, e
lo sfogliava pigramente, come se dovesse trovarne una in particolare, ma avesse
tutto il tempo del mondo per cercarla. Non smise di sfogliarlo nemmeno quando i
passi di Angelo fecero gemere e scricchiolare il metallo arrugginito della
scala antincendio. Prima di degnarlo di attenzione, Russel
aspettò che gli si fosse avvicinato. Alzò lo sguardo solo quando Angelo gli fu
a meno di un paio di metri di distanza, abbozzando, riconosciuto di chi si
trattava, un sorriso.
- Cosa? Tu? Oh, Dio mio..- tentò di
ridere - Dio, ma da quanto..?-
- Non ricordo di preciso, Sidney.
Dalla guerra mi pare.- Rispose Angelo. Si piegò sulle
ginocchia, avvicinandosi di più a Russel.
- Quindi ora lavori per Krieger? Sapevo che eri entrato in un brutto giro, sai, le
voci. Ma lavorare per Krieger… sono deluso.- sospirò
Sidney, scuotendo la testa.
- Non per lui. Non solo, almeno.-
rispose Angelo, ridestando l’attenzione del suo interlocutore.
- Sei un assassino a pagamento?-
- Si dice così, no? Dovresti
saperne qualcosa, hai organizzato una bella festa al vecchio Martin, e se te lo dico io, ti puoi
fidare. Inoltre ho una buona notizia per
te: ha tirato le cuoia prima che lo potessero operare.-
- Davvero?- Sidney sorrise di
nuovo, piacevolmente stupito. – Allora non è stato del tutto inutile. Grazie vecchio
mio, sei ancora un amico dopo tutto.-
Anche Angelo sorrise, ma lo fece
mentre estraeva la sua Glock silenziata.
- Le ultime parole famose, eh?-
mormorò Sidney. Tornò a sfogliare l’album, finché non sembrò aver trovato
qualcosa che gli interessava. Estrasse la foto, e la mostrò all’assassino:
- Ehi, guarda questa. Ci sei anche te.- Angelo la riconobbe: uomini sudati, ricoperti della
polvere del Kuwait, che tentavano di sorridere. DesertStorm.
- Perché hai preso l’album?-
chiese.
- Beh, la sai quella storia, che
quando stai per morire rivedi tutta la tua vita passarti davanti? Diciamo che non mi andava di aspettare, così
ho chiesto a Grace di portarmelo.-
- Grace?-
- Mia moglie. Scusa se non ti ho mai invitato a pranzo, mi
sarebbe piaciuto fartela conoscere.-
- Ti sei pure sposato. Cazzo se ne
è passato di tempo. Ne è passato.-
Angelo puntò la pistola contro la testa di Sidney, premendo l’acciaio del silenziatore
contro la pelle della fronte. L’altro,
dal canto suo, riprese a sfogliare l’album più velocemente. Sapeva che non c’era più tempo.
- Ehi, la vuoi vedere questa?- la
porse ad Angelo, che la afferrò
impassibile. Era una bambina, doveva avere sei anni al massimo.
- Lei chi è?-
- Mia figlia. Mary.- Angelo la osservò, chiedendosi dove Sidney
volesse arrivare.
- È carina. Stai tentando di
commuovermi?- Lo disse con un tono
cinico, quasi una risata sarcastica. Ma Sid non era
altrettanto allegro, non sorrideva nemmeno. Aveva un funerale dipinto in
faccia.
- È morta.- un lungo silenzio seguì
la sua affermazione. Angelo sembrò quasi sussultare,
quando sentì quella parola: morte. Non era una parola strana per lui, la conosceva
come se fosse sua madre.Eppure, in quel momento, quando la
sentì, provò qualcosa che non aveva mai provato, come se si trovasse nel posto sbagliato. Sgradevole, inaspettato,
un brivido gli corse lungo la schiena.
- Chi è stato?- domandò subito. Perché
quando Sidney aveva detto morta,
chiunque avrebbe capito che intendevauccisa.
- E me lo chiedi?-
- Krieger?-
- Ti racconto una storia. Un
ragazzo ha passato gli anni migliori della sua vita con un fucile in mano, a
mangiare sabbia in un deserto miglia e miglia lontano da casa. Decide di
cambiare vita: si sposa, ha una figlia, apre un ristorante. Ma i soldi non
bastano, ha bisogno di un prestito. Una grossa somma.-
- Te li ha dati Krieger,
quei soldi?-
Sid non rispose.
- Stavo camminando per strada, insieme a mia figlia, e questa macchina si
ferma vicino a noi. Krieger, ovviamente, insieme ad
alcuni uomini. Dio, tu non l’hai
visto. Non hai visto come l’ha guardata.-
- So dei passatempi di Krieger.- disse Angelo. - Mi dispiace per tua figlia.-
Sidney scoppiò in una risata isterica che, come quella di un pazzo, nacque
e morì nel giro di un respiro.
- Vaffanculo!- L’insulto scivolò fuori dalle labbra di Sidney
improvvisamente, dapprima strozzato, poi allargandosi in un urlo rabbioso -
A te non è mai dispiaciuto nemmeno di te stesso, sei un fottuto animale! Ma
come cazzo fai? Speravo che tornare a casa ti avrebbe reso normale, che la
guerra sarebbe davvero finita per te. E invece... Ma ti rendi conto? Di cosa
sei? Di quello che fai? Come fai a vivere? Come fai a dormire, la notte? Sai, in guerra, tra i ragazzi, correva
una voce: che a te, in fondo, piacesse quel merdaio. Che ti piacesse uccidere.-
- Basta, Sid.- l’ordine di Angelo giunse
calmo, deciso. Forse sofferente, ma solo un vecchio amico se ne sarebbe potuto
accorgere.
- Basta.- Angelo puntò di nuovo la
pistola. Sidney lo guardò negli occhi, lasciando sbollire la rabbia che era
esplosa in lui un momento prima. Si accasciò sul muro dietro di lui, tenendo
l’album stretto sul suo petto.
- Senti… Okay.
Va bene così.-
Chiudendo gli occhi, Sid si raggomitolò su se stesso.
Aveva capito che quella era la fine.
- Okay. Dove vuoi che lo faccia?-
Sidney ci mise un attimo per capire cosa Angelo gli stesse chiedendo. Poi ci
arrivò:
- Al cuore. Non mi va la testa,
Grace non lo sopporterebbe.-
- Va bene. Addio, Sidney.-
- Addio.- I loro sguardi si
incrociarono. Sidney portò l’album di fotografie sul cuore, e chiuse di nuovo gli occhi. Angelo prese la
mira.
L’esplosione lacerò il mattino,
frantumando il silenzio in mille pezzi. Il proiettile sfrecciò in aria
sibilando, e quando Angelo sentì il suo fischio pensò che fosse la voce del
mondo, impazzito, che urlava. Non era stato lui a sparare. L’album di
fotografie si era aperto, in una nuvola di frammenti di cartone, lasciando
uscire il proiettile. Sidney doveva aver nascosto la pistola nella giacca.
Angelo maledisse la sua ingenuità, quando il colpo gli raschiò la pelle sulla
guancia. Aveva mancato la morte di una spanna. Il secondo colpo fu lui, però, a
spararlo. E le sue mani erano troppo esperte per poter sbagliare mira. Colpì Sideny in pieno, il proiettile affondò nella tenera pelle
che ricopriva la gola, incidendo uno squarcio che esplose nel giro di un
respiro in un fiotto di sangue rosso e denso. Sidney tentò di tappare la
ferita, mosso da un primordiale istinto di sopravvivenza, mentre la sua voce si
tramutava in un rantolo liquido. Il suo ultimo sguardo, lanciato da due occhi
spalancati sull’abisso, si fermò negli occhi di Angelo. Dall’album era
scivolata fuori una foto: Sidney, sua moglie, la bambina. Una famiglia. Cadde
in mezzo al sangue, e ne venne ricoperta. Angelo guardò quel povero cadavere
per minuti lunghi un eternità, senza mai abbassare la pistola, ne cambiare
espressione. Il fondo dei suoi occhi era rimasto impiastrato di un sentimento a
lungo dimenticato, che la ferita sulla guancia avevaripescato, grattandosul fondo di qualche
remoto, dimenticato angolo del suo
cuore.
“Diomio, ma perché è successo? Perché è successo a me, poi? Ora gli
spara, gli spara e lascerà pure il cadavere sul tetto! Mio Dio, sono nella
merda. Arriverà la polizia, e perquisirà l’appartamento, e io devo far sparire
tutto, e dovrò cambiare appartamento, e
non avrò più un solo cliente. Cazzo, ma quello stronzo doveva proprio venire
qui? Che giornata di merda, che giornata di merda, che gi…”
Lo sparo interruppe il flusso dei pensieri del dottore, facendolo sobbalzare.
“L’ha fatto! Dio onnipotente, l’ha fatto! Ma non ne ha usato una
silenziata? L’avranno sentito tutti! Ora arrivano gli sbirri e… no, no cazzo! Non voglio finire di nuovo in prigione! Ma
io non c’entro niente! E poi i miei clienti non lo permetteranno! Chi posso
chiamare? Green? Trevor? Si, chiamerò Trevor. Vaffanculo, gli ho salvato la sua
vita del cazzo, non può lasciarmi nella merda. Sì, ora lo chiamo, può risolvere
tutto, può…”
- Ehi, dottore. Non è che hai del caffé?- Angelo
era tornato. Doveva essere appena sceso dal tetto. Nichols
aveva atteso il suo ritorno raggomitolato nella sua vestaglia, quasi in
posizione fetale, seduto sul divano. Vedere Angelo lo rassicurò, in un qualche
modo. Ora se ne sarebbe andato, e forse sarebbe stato ragionevole, e l’avrebbe
aiutato a sbarazzarsi del cadavere. Ma un attimo, la polizia sarebbe arrivata
da un momento all’altro, e se trovava il cadavere…
- Rilassati, e tutto finito. La polizia non arriverà prima di un ora, me ne
sono occupato prima.- continuò Angelo, come se gli avesse letto nel pensiero.
Non doveva essere difficile per un professionista come lui corrompere un paio
di sbirri. Nichols tirò definitivamente un sospiro di
sollievo: la notte era andata troppo male perché la mattina potesse andare allo
stesso modo. Ora gli avrebbe preparato il suo maledetto caffè, e poi se ne
sarebbe andato. Passarono pochi minuti ed entrambi si trovarono in cucina.
Angelo era rimasto silenzioso, dopo la sua ultima domanda. Il suo sguardo era
basso, e si perdeva nel vuoto. Nichols, mescolando
una tazza di caffé solubile, si chiese se stesse
bene: sembrava strano. Gli posò la tazza davanti, suscitando una minima
reazione:
- Grazie.-
- Prego.- Nichols lasciò Angelo bere un paio di
sorsi, poi si fece coraggio e chiese – Mi scusi, ma ora, quel cadavere, sul
tetto. Non…potrebbe…- la
richiesta di Nichols sembrò riscuotere Angelo da un
qualche strano sonno.
- Cosa? Oh. Sì. Certo. PyongYang.-
- Cosa?-
- La capitale della corea. PyongYang.- disse
Angelo, facendo un cenno verso la rivista di enigmistica ancora aperta sul
tavolo.
La prima cosa che Angelo fece una
volta sceso dal taxi fu lasciar vagare un’occhiata circospetta su tutto ciò che
si trovava lì attorno. Non era mai stato in quel posto, e avrebbe preferito non
doverci andare, ma ogni tanto il lavoro ti fa fare cose che non faresti di
solito. Uccidere, per esempio. Appena fu certo che lì intorno non ci fosse
niente di potenzialmente pericoloso, allungo venti dollari al messicano che
l’aveva condotto fin lì.
- Tieni il resto.- disse senza
guardarlo.
- Muchasgracias, mister. Buona giornata.- gli rispose quello.
Subito il finestrino si alzò, e la macchina ripartì, lasciando Angelo avvolto
da una nuvola di polvere, da solo, in mezzo a un viale sterrato bruciato da un
sole di mezzogiorno così caldo che nessuno avrebbe detto che l’estate fosse appena
iniziata. Poco distante da lui svettava un muro di cinta tappezzato da uno spesso,
selvaggio strato d’edera; la recinzione correva tutt’intorno ad una collina,
ricoperta da un soffice prato inglese, e dominata dalla sua sommità da una
villa neogotica, sorvegliata da statue scrostate, e ricoperta da fregi e
decorazioni di pietra consumati dal tempo e dalle intemperie. La strada
sterrata conduceva fino ad un cancello di ferro battuto nero, l’ultima barriera
tra gli onesti abitanti della città e quella che negli ultimi anni, scalando
un’altissima pila di cadaveri, era ascesa sul gradino più alto nel podio delle
famiglie mafiose della città. Una “S” e una “C” dorate troneggiavano in cima al
cancello, sancendo da quel punto in poi il dominio di Santo Capuzzi.
Forse l’unico uomo in città ad avere sulla coscienza più morti di Angelo, anche
se tra loro due c’erano almeno un paio di sostanziali differenze: Santo non si
era mai sporcato le mani per far fuori qualcuno, ne era mai stato pagato per
farlo. In effetti era lui di solito quello che pagava.
Davanti al cancello si trovavano
due uomini in completo. Uno era armato con un fucile da caccia. Angelo si avvicinò
mormorando una canzone, sorridendo. Riuscì a sentire, man mano che si avvicinava,
una musica allegra e il fragore di un concitato vociare provenire dalla villa. Una
festa probabilmente, anche se Angelo ignorava cosa ci fosse da festeggiare, o
perché fosse stato convocato proprio in un occasione del genere. Le guardie del
cancello erano coperti da una patina di sudore e polvere, e stringevano i denti
sotto il sole cocente. Gli vennero incontro non appena lo videro. Uno era un
tizio scheletrico, con la faccia che si contraeva continuamente in un tripudio
di tic nervosi, era chiaro che stare sotto il sole non gli stava piacendo.
L’altro aveva una faccia rugosa e abbronzata, e dei capelli nero lucido,
impastati con una quantità indecente di gel. Faceva ritmicamente cadere il
fucile da caccia che stringevano con la mano destra sul palmo della sinistra.
- Chi va la?- fece quello con il
gel, appena si trovarono abbastanza vicini.
- Ha un invito?- chiese l’altro, scostando
leggermente la giacca, e facendo intravedere gli spigoli della pistola che
teneva infilata nella cinta. Un gesto che denotava più arroganza che
competenza, Angelo gli si sarebbe potuto avvicinare ed estrarla, oppure
sparargli direttamente nelle palle prima che lui avesse il tempo di dire “ehi”.
Gli succedeva spesso, ad Angelo, di pensare a come uccidere la persona davanti
a se. Una deformazione professionale fastidiosa, ma anche piuttosto salutare:
aveva perso il conto di quante volte gli aveva salvato la vita.
Angelo si frugò nella tasca,
estraendo una busta tutta coperta da pieghe, e sgualcita sui bordi. Porgendola
poi alle guardie, disse:
- Ho un invito. Per la precisione,
è un invito del signor…- lesse un attimo un nome segnato
sulla busta - Spencer. È abbastanza per aprire il vostro bel cancello?- la
guardia abbronzata passò il fucile al compagno, afferrò la busta e, dopo averla
aperta, iniziò a leggerne il contenuto. Angelo iniziò a battere per terra la
punta del piede, aspettando che l’uomo avesse finito di leggere. E invece la
guardia continuava a fissare il foglio, con un espressione ebete stampata in
faccia.
- Cosa succede, ci sono parole
troppo difficili?- chiese ad un punto Angelo.
- Sta zitto, cazzone.
Ho un proiettile in canna.- gli rispose l’altro uomo, puntandogli contro il
fucile.
- Ehi, scusa, non volevo offendere.
È il tuo ragazzo?- Angelo sorrise. La guardia digrignò i denti.
- È in regola.- disse in quel
momento l’altra guardia, riconsegnando la busta. – Perquisiscilo, poi fallo
entrare.-
- Niente armi, eh?- Domandò Angelo.
- No.-
rispose seccamente il magro.
- Beh, allora questa ve la do
direttamente io. Trattala come una signora, mi raccomando.- Angelo scostò la
giacca, rivelando una fondina all’altezza della sua ascella. Estrasse la sua
quarantacinque, e la consegnò senza dire un’altra parola. Poi quello abbronzato,
fattogli alzare le braccia, iniziò a perquisirlo.
- Ditemi un po’, sembra che la
dietro ci si stia dando alla pazza gioia. Che si festeggia?- domandò Angelo,
mentre la guardia gli stava perquisendo la giacca.
- È la festa di matrimonio del
signor Capuzzi.-
- Santo?-
- No, Antonio, il figlio.-
- Pensavo che Tony fosse già
sposato.-
- Si tratta del secondo matrimonio.
La prima moglie del signor Capuzzi è deceduta
recentemente.-
- Oh, mi dispiace. Di che si è
trattato?-
- Un incidente.-
- Capisco.-La guardia finì proprio in quell’istante di
perlustrare le scarpe di Angelo, senza aver trovato nessun altra arma. Con un
espressione che avrebbe potuto benissimo essere delusa, si alzò da terra, si
spolverò la giacca con due manate, e disse:
- È a posto, possiamo farlo
passare.-
- Sparisci, allora.- fece l’altra
guardia, sputando per terra.
- Grazie e arrivederci.- rispose
Angelo. Il magro azionò il pulsante di un telecomando, e lo fece come se fosse
quel pulsante il grilletto del suo fucile, che per tutta quella lunga e calda
mattinata non aveva potuto premere. Il cancello iniziò ad aprirsi, cigolando.
Angelo lo oltrepassò, riprendendo a canticchiare.
La festa era nel bel mezzo del suo
svolgimento, quando Angelo vi passò vicino. Accanto ad una piscina, ornata da
una schiera di statue di marmo, un complessino ammassato sopra di un palco
pericolante si affannava a suonare una canzone pop anni ottanta, mentre la
rumorosa folla degli invitati si affannava a ballarla. Tony Capuzzi
invece se ne stava seduto, ridendo sguaiatamente di tanto in tanto, con un
braccio avvinghiato alla vita della sua novella sposa, come un tentacolo si
avvolge intorno alla preda. Le analogie tra Tony e una piovra erano in effetti
più d’una. Era un uomo grasso, di quel grasso tremolante e gonfio, sempre
ricoperto da un velo di sudore, il che conferiva al suo aspetto un che di
viscido. Il tipo d’uomo che mangia male, beve troppo, e si fa più iniezioni di
quante il medico prescriva di solito. Sua moglie invece aveva semplicemente
l’aria della puttana: Angelo si domandò da quale Topless Bar il marito l’avesse
pescata.
Tony Capuzzi,
negli ultimi tempi era diventato una vera celebrità in città, nel bene e nel
male, soprattutto nel male. Mezzo italiano, mezzo portoricano, tutto un gran
figlio di puttana. Papà Santo lo aveva avuto da una sveltina con una delle sue
cameriere, e per un qualche strano slancio di generosità, o forse per avere un
erede al quale consegnare il suo impero, non solo lo aveva fatto nascere, ma lo
aveva pure riconosciuto. La signora Capuzzi lo
detestava: lei aveva vent’anni in meno del pater familiae,
e forse sperava lei di ottenere il controllo del dominio dei Capuzzi, una volta che il marito avesse tirato le cuoia.
Non aveva mai potuto dare un figlio a Santo: era sterile. Almeno queste erano
le voci che Angelo aveva sempre sentito.
Angelo oltrepassò un gruppo di
ragazzini, che stavano giocando a nascondersi tra le statue del giardino.
Raggiunse con pochi rapidi passi l’entrata della villa, dove lo attendeva un
secondo posto di blocco, sei uomini, in completo con le pistole che si
scorgevano sotto la giacca, e le cravatte slacciate dal troppo caldo.
- Ehi, Fermo!- lo bloccò uno di
loro –da qui in poi non si passa.-
- L’invito del signor Spencer che
ho qui con me dice il contrario.-
- Lei è il signor Salerni?-
- Così dicono.-
- Entri, la stavamo aspettando.-
Cinque minuti dopo, Angelo si
trovava seduto su di una poltrona, nel mezzo di un salotto, pavimento di marmo
e pareti tappezzate da un gran numero di quadri, perlopiù imitazioni di
classici dell’arte italiana, dipinti con un tratto troppo spesso e colori
troppo vivi, come se li avessero commissionati ad un disegnatore di fumetti.
Vicino ad un caminetto, che il caldo di quelle ultime giornate d’estate
condannava alla perenne inattività, si trovava un mobile ricolmo di alcolici
con frigobar annesso; qualche metro sopra di esso era appesa la riproduzione di
un quadro del Botticelli. Angelo si trovò a fissare gli occhi strabici di
Venere.
- Le piace?- la domanda,
pronunciata con tono cordiale, fece intuire ad Angelo l’arrivo del signor
Spencer: infatti qualcuno si era appena materializzato all’interno della stanza.
Era un uomo di media statura, abbastanza magro, con una faccia amichevole
incorniciata da capelli biondo cenere. Portava un elegante gessato grigio, e
sembrava perfettamente a suo agio nell’indossarlo, come se si trattasse di una
seconda pelle. Angelo si alzò dalla poltrona, e strinse la mano che l’uomo gli
stava porgendo. Poi, buttando un’altra occhiata al quadro, rispose:
- Apprezzo le donne nude, ma le
preferisco con qualche chilo di meno.- Spencer rise.
- Al tempo le preferivano un po’ in
carne. Archie Spencer, segretario personale di Santo Capuzzi. È un vero piacere conoscerla, signor Salerni.- si strinsero le mani. – Scusi se la convochiamo
in una situazione così anomala, ma una festa di matrimonio è un ottima
occasione per tenere una conversazione di lavoro come quella che stiamo avendo
ora.-
- Certo Archie,
capisco, ho visto il film. Avanti, cosa desidera la famiglia dal sottoscritto?-
Spencer assunse una faccia a metà
tra lo stupito e l’imbarazzato:
- Oh, vuole subito parlare del
lavoro?Speravo di poterle offrire
qualcosa da bere.- Con un cenno, indicò ad Angelo il bar.
- Mi dispiace, sono come gli
sbirri: mai sul lavoro. Cosa posso fare per voi?- Angelo provava sempre un
forte fastidio quando la discussione iniziava a diventare inutile.
- Non si domandi cosa può fare per
noi: piuttosto, pensi a quello che potremmo offrirle.- lo disse con un tono
solenne, doveva essere la citazione di una frase celebre. Ma ad Angelo non
interessava.
- Cosa potreste offrirmi?-
Spencer estrasse dalla tasca un bloc notes e una penna nero lucido e scrisse qualcosa sul
primo foglio di carta del blocco. Lo strappò, e lo porse ad Angelo.
- Questo è l’anticipo. Ne avrà
altrettanti a lavoro svolto.- Angelo lo prese e subito lo lesse con un’unica
rapida occhiata. Si accorse con piacere che era decisamente abbastanza.
- Allettante. Decisamente
un’offerta degna di considerazione. Ma ancora non si è detto in che cosa
consiste il lavoro.-
- Mi conceda un attimo, e lo
saprà.- Spencer si diresse con un passo leggero fino ad uno scaffale, ed
estrasse da un cassetto una grossa busta di cartone. Nel giro di un minuto,
Angelo stringeva in mano il suo contenuto: un foglio, con quattro nomi scritti
sopra, in un’ordinata colonna nera.
- Devono morire tutti?- domandò con
freddezza, una volta finito di leggere. Spencer rimase un attimo in silenzio,
come per assimilare quella parola tanto insolita, e tanto indigesta per chi non
ci aveva mai a che fare. Morire. Poi disse:
- È una faccenda molto delicata.- Il
sorriso cordiale di Spencer era stato sostituito da un volto serio e austero.
Angelo rilesse un’altra volta la lista.
- Quanto delicata, Archie?-
- Abbastanza da richiedere le
attenzioni dell’FBI.-
- Mi sembra decisamente delicata,
allora. Inizio a capire il perché di tutti quelli zeri che hai scritto.-
- Sono testimoni, signor Salerni.- fece Spencer, sempre più serio - Testimoni di un
processo contro uno dei nostri uomini, non le dispiace se non faccio nomi,
vero? La faccenda è riservata.-
- I nomi non mi interessano, quando
lavoro.- rispose Angelo, continuando a fissare la lista, a rileggerla.
- Ne sono contento. Dicevo, al
momento queste persone sono sotto la protezione di alcuni agenti dell’FBI, in
attesa del processo che si terrà lunedì prossimo. So che forse è superfluo
dirlo, ma non devono prendervi parte.- Spencer rivolse il suo sguardo al quadro
sopra di loro. - Al momento fanno parte di un programma di protezione dei
testimoni dei federali, non sappiamo dove si trovano. Lei lo scopre, aspetta la
notte prima del processo, e se ne occupa. Può andar bene?- Spencer, concluso il
discorso, tornò a sorridere. Un sorriso amichevole, che chiedeva (forse
esigeva) un sì. Angelo rispose con un altro sorriso. Riconsegnò la lista nelle
mani dell’uomo.
- Per me può andare.- fece infine.
- Ero sicuro che avrebbe fatto
questa scelta! Benvenuto in famiglia!-
- Grazie.- rispose Angelo digrignando
un sorriso: di sicuro quella non era la famiglia ideale dalla quale essere
adottato. Porse di nuovo la mano all’ospite, che di nuovo la strinse con
vigore. Angelo aveva una lametta per rasoio nascosta nella manica della camicia:
era la sua ultima carta da giocare, quando la situazione si faceva difficile.
Avrebbe voluto estrarla, infilarla nell’attaccatura del gomito e tagliare fino
al polso il bastardo ipocrita che aveva davanti, lasciando che il
dissanguamento finisse il lavoro. Lo avevano incastrato. Dallo stesso momento
in cui aveva letto per la prima volta la lista, era già stato considerato
assunto. Un processo con coinvolti i federali era un cazzo amarissimo da
succhiare, e i Capuzzi se lo sarebbero dovuti
ingoiare tutto. Per uscirne, avevano bisogno del meglio, e Angelo sapeva di
esserlo. E sapeva che se non avesse accettato, sarebbe finito per concimare le
aiuole di quella villa. Poco male, d'altronde: il lavoro era troppo redditizio
per essere rifiutato, e ad occhio e croce non avrebbe dato problemi nel suo
svolgimento.
- Quando si inizia?- chiese Angelo.
Angelo, nel corso della sua vita,
aveva lavorato per persone di ogni tipo. Questo gli era stato utile non solo
per tutti i soldi che gli aveva portato, ma anche per tutte le persone che gli
aveva fatto conoscere. Quando si parlava di servizi segreti poi, aveva
l’imbarazzo della scelta. Una non esagerata somma di denaro gli fece avere nel
giro di alcune settimane un lungo elenco di case e appartamenti affittati da
società fittizie, dietro le quali operava l’FBI. Ne poté escludere la maggior
parte, con un po’ di ricerche e un po’ di buon senso. Visitò personalmente i
rimanenti, e non ci mise molto prima di trovare quello che ospitava i suoi
obbiettivi. Lo sorvegliò per quarantottore circa, prima che i suoi inquilini
facessero i bagagli, e si spostassero verso una casa in periferia, che Angelo
aveva già perlustrato qualche giorno prima. Dopo una settimana circa, si sentì
abbastanza sicuro nel poter prevedere i loro spostamenti. Studiò planimetrie,
elaborò piani d’azione. Quando ebbe finito, cominciò ad aspettare.
Eccomi
qua, alla fine ieri sera mi sono dimenticato di pubblicare il capitolo. Quindi eccovene due, o uno e mezzo se preferite, sono sette
pagine in fondo. Grazie per essere arrivati fino a questo punto della storia di
Angelo: siamo vicini alla conclusione. Prossima settimana pubblicherò un
capitolo bonus prima di venerdì, assicuratevi di seguire la storia per non
perdervelo. Ciao!
Dzoro
Ultimo Intermezzo
-
Ehi, Cab. Cab! Non sapevo che oggi fosse giorno di
chiusura.- Angelo bussò sulla saracinesca di metallo, ottenendo come risposta
solo un cigolio arrugginito, che risuonò come un invocazione di pietà. Non moriva
dalla voglia di bere uno dei caffè di Cab, ma
l’orario d’apertura era già passato da mezzora, e il vecchio era sempre stato
puntuale come l’ufficio del fisco ad aprire le serrande. Angelo si chiese
l’ennesima volta che cosa fosse successo.
-
Ehi, Cab, ti si è rotta la sveglia? Avanti, devo
festeggiare, ho una roba grossa tra le mani. Certo, sarebbe meglio festeggiarla
con una birra piuttosto che con il tuo brodo, ma ci tenevo a dirtela. Insomma,
siamo amici, no? Cazzo, Cab, apri, mi sento un idiota
ad aspettare qua davanti. Senza tenere conto del fatto che sto parlando con una
fottuta saracinesca…Cab!-
Ancora
niente, silenzio. Per quella dimenticata strada di periferia non passavano
macchine, nemmeno persone, nemmeno un maledetto gatto. Angelo stava da solo,
insieme al vento, e ad una saracinesca arrugginita. Si grattò la testa,
indeciso sul da farsi. Che poteva fare, poi, tornare a casa? Non aveva un cazzo
da fare, in casa, il lavoro non sarebbe iniziato prima di qualche giorno,
Spencer aveva detto che lo avrebbe chiamato lui. E intanto l’unica cosa che gli
era venuta in mente da fare era prendersi un caffè. No, non aveva voglia di
tornarsene a casa. Girò dietro la palazzina nella quale si trovava il bar, è
trovo un cortile invaso da bidoni della spazzatura straripanti e bottiglie
rotte, oltre che una porta ed un citofono. Non vivevano molte persone, lì
dentro. Una rapida occhiata vagò sulle poche targhette dei nomi, e trovò subito
quello che gli interessava:
-
“CabellSanders”? Ma che
cazzo di nome è Cabell?- mentre mormorava tra se
queste parole, suonò il campanello. Fu come bussare alla saracinesca, non
accadde un bel niente. Lo suonò di nuovo, lo suonò fino a domandarsi se non
fosse rotto. Forse Cab non era in casa, ma era troppo
strano per crederci, quello era capace di non uscire di casa nemmeno per il
ringraziamento. Diede un paio di colpetti alla porta, e notò che era abbastanza
vecchia. Si frugò in tasca, e trovò il pezzetto di metallo ricurvo che usava in
quelle situazioni. Chinatosi a terra, alzò i pantaloni, ed estrasse dalla calza
un coltello a farfalla. Lo inserì nella serratura seguito dal grimaldello, e
non ci volle molto prima che riuscisse a farla scattare.
La
porta si aprì gemendo, su di un corridoio di piastrelle bianche e nere, popolato
da sacchi della spazzatura, carta da parati lacera e un paio di gatti, che
leccavano il fondo di un piattino di latte in un angolo verso il fondo. Angelo
prese a controllare i nomi sulle porte, ma si ricordò subito che Cab abitava al primo piano. Le scale erano in fondo al
corridoio, dietro ai due gatti. Quando gli fu vicino, alzarono la testa dal
piattino, e lo fissarono. Uno di loro miagolò, e Angelo ebbe l’impressione che
stesse tentando di dirgli qualcosa. Gli piacevano i gatti, erano dei simpatici furbetti
del cazzo, non erano servili come i cani, o puzzolenti come i criceti, o
stupidi come i pesci rossi. Sapevano cavarsela senza problemi, e allo stesso
tempo mantenere una certa dignità. Pensò che in fondo erano meglio degli
uomini. Gli superò, e loro continuarono a fissarlo, mentre saliva i gradini di
legno rigati dalle tarme, sollevando ad ogni passo polvere e scricchiolii. Al
piano di sopra non c’era nemmeno il corridoio, le scale sbattevano dritto
contro una porta di legno laccato, straripante di serrature, con sopra una
targhetta di ottone: “CabSanders”.
Angelo
iniziò subito a bussare:
-
Ehi, vecchio, che ti succede, non rispondi?- prese a pugni la porta come se
fosse il suo peggior nemico, ma sembrava proprio che quella mattina non avrebbe
ricevuto risposte. Si avvicinò con un orecchio alla porta. La dietro doveva
essere accesa la radio: sentiva una canzone.
“You got to tell me, brave captain.”
-Ma
che cazzo succede? È diventato sordo?- Angelo riprese di tasca grimaldello e coltello,
e si diede da fare su una delle serrature: con sua somma sorpresa, risultò
essere l’unica chiusa. La porta si aprì subito, Cab
non aveva nemmeno tirato il catenaccio, che penzolava molle dall’altra parte.
“Why are the wicked so strong.”Continuava la canzone in sottofondo, mentre Angelo entrava in un
anticamera piena di scarpe consunte, e di foto appese alle pareti. C’era una
porta socchiusa davanti a lui. La musica veniva da lì. Angelo la raggiunse con
il passo lento di chi entra in una casa non sua senza un invito. La aprì:
- Cab?-
“ How do the angels get to sleep.”
Il
soggiorno era spoglio, se non per uno scaffale ricolmo di ogni genere di
cianfrusaglia: pietre colorate, foto, libri, vasi pieni di conchiglie, navi in
bottiglia. Poi c’era solo un comodino, con sopra appoggiato uno stereo
risalente agli anni ottanta, e una poltrona che dava le spalle all’ingresso, in
mezzo alla sala. Angelo vi si avvicinò. Cab era lì,
seduto, con gli occhi chiusi, e con un gatto nero acciambellatogli sulle gambe.
I suoi occhi gialli incontrarono quelli di Angelo. Miagolò anche lui.
-Cab?-
“When the devil leaves the porchlight on?”
Cab era morto così, di sera, con gli occhi già chiusi dal
sonno, sulla poltrona di casa sua, con un disco di Tom Waits come marcia funebre,
e un gatto nero a dargli l’estrema unzione.
Un
completo nuovo
Cab era
morto. Angelo non era triste, non pensava di esserlo, almeno. Più che altro era
stordito: era come rendersi all’improvviso conto che le persone non vengono
solo uccise, ma muoiono anche da sole. Ed era strano, era come un effetto senza
la causa, un vaso che cade dalla credenza senza nessuno che lo spinge giù. Cab era morto.
Angelo passò un giorno intero in
casa sua. Non era triste, lui pensava di non esserlo, aveva trascorso altre giornate
così. Ma questa era diversa, perché Cab era morto. Il
funerale sarebbe stato il giorno dopo, in una chiesa lì vicino (per chissà
quale ragione Cab era amico del pastore), alcuni suoi
avventori abituali, gli operai che andavano al locale la sera, avevano sbrigato
tutte le formalità della situazione. Era strano, Cab
aveva più amici di quanti se ne attribuirebbero ad un vecchio scorbutico.
Angelo non era mai stato ad un
funerale, non che lui se ne ricordasse almeno, sapeva che di solito ci si
vestiva di nero. Fu un pensiero improvviso, natogli in testa da un momento
all’altro, senza motivo. Lui non ce l’aveva un completo nero. Andò perfino a
controllare nel suo armadio, ma non si era sbagliato. Pensò a dove potesse
andare per comprarne uno, e gli venne subito in mente. Poco dopo scese in
strada, e salì sul primo taxi.
- Buongiorno.- gli fece il taxista,
bianco sulla trentina, vestiti puliti, sorridente, cordiale. Angelo rispose con
un mezzo grugnito. Poi disse indirizzo e nome del negozio di vestiti.
- Dispiace se accendo la radio?-
chiese ad un punto il taxista.
- Sì.-
rispose Angelo. Seguì il silenzio, per un po’.
- È una bella giornata, non pensa?-
- Ne ho viste di migliori.-
Ancora silenzio.
- Ha visto ieri Oprah?
Da non credere, io stavo per…-
- Non guardo la Tv.-
Silenzio.
-Va. va a
comprare un vestito, vero?- evidentemente l’indirizzo era già noto al Taxista.
- Sì.-
- Vendono ottima roba da Claretti,
non pensa?-
- Sì.-
- Un’occasione importante?-
- Un funerale.-
Il viaggio proseguì, silenzioso,
fino al negozio.
Il risveglio arrivò accompagnato da
molteplici sensazioni, confuse dal torpore. Un brivido freddo si propagò dalla
punta dei piedi al resto del corpo, scuotendo Angelo dal sonno. Stava dormendo?
No, non era così, doveva essere svenuto. Un forte dolore alle braccia gli fece
capire che qualcosa gli stava tirando gli arti superiori, stretto attorno ai
suoi polsi. Si accorse solo in quel momento di non essere sdraiato, ma tenuto
in piedi da una corda appesa al soffitto. Le palpebre iniziarono a sbattere,
aprendosi lentamente sul buio della stanza: anche quando furono del tutto
aperte, Angelo non riuscì a vedere nulla: tutto era avvolto dalla più completa
oscurità. Il respiro di Angelo si fece più affannoso, mentre l’adrenalina
iniziava a scorrergli in corpo. Iniziarono allora a succedersi gli odori:
sangue rappreso, quello era famigliare. L’odore dolciastro della carne morta.
Il freddo continuava a farsi
sentire: capì esattamente dove si trovava. Il magazzino del macello Dunham, per l’esattezza la cella frigorifera. Ci era già
stato, un anno prima lo aveva addirittura usato per tenere nascosto il corpo di
una vittima. Quella sì che era stata una storia pazzesca. Cosa ci faceva lì?
Cercò di ricordare, man mano che la sua mente riacquistava lucidità. Aveva
appena messo il vestito, stava andando al funerale di Cab. Ricordava due odori,
un acqua di colonia straniera, nauseante, prima, poi l’aroma dolce e pericoloso
del cloroformio. Ricordava una macchina che si fermava, poi basta. Diavolo se
si sentiva male. Non era nemmeno tanto sicuro si fosse trattato di cloroformio,
forse era qualcosa di ancora più potente. Qualche altra immagine gli attraversò
la mente: uomini, vestiti di nero. Urla in una lingua che non conosceva, mani e
braccia che lo immobilizzavano. Due occhi che lo guardavano, da uno spiraglio
del finestrino oscurato della macchina. C’era qualcosa di strano in quegli
occhi, l’ultima immagine che ricordava. Sottili, freddi. A mandorla. Ecco,
erano stati giapponesi, ora ricordava. Non gli ci volle troppo tempo per
trovare un motivo per il quale lo avessero rapito: Taneguchi.
Non poteva biasimarlo se ce l’aveva con lui, gli aveva ammazzato il figlio in
fondo. Però, per qualche motivo, Angelo era ancora vivo. E si mise a sorridere,
capendo esattamente quello che stava succedendo.
La porta del magazzino si aprì,
lasciando entrare una luce fioca e soffusa, illuminando lunghe file di maiali
scotennati e appesi ai ganci del soffitto. Angelo era in uno degli angoli della
stanza, di spalle rispetto alla porta. Tentò di voltarsi, ma il nodo attorno ai
suoi polsi era troppo stretto. Rimase fermo, ascoltando un rumore di passi che
si faceva sempre più vicino.
- Immagino che slegarmi e
riportarmi a casa sia fuori discussione, eh?- fece Angelo, senza però riuscire
a parlare abbastanza forte da farsi sentire. I passi si bloccarono. Sentì
dietro di se la voce di un vecchio, che parlava in una lingua che non
conosceva. Poi quella di una persona più giovane, che invece si esprimeva in un
inglese quasi buono:
- Sei tu l’uomo dell’easy ride?- la
domanda fece sorridere Angelo:
- No, e tu?- passarono alcuni
secondi, il tempo necessario per far capire ad un giapponese un affermazione
ironica, prima che una feroce bastonata gli si sfracellasse sulla schiena. Una
mazza da baseball, o una spada di legno. Lui strinse i denti, ma dentro di se
rideva al pensiero di quanto gli avesse fatti incazzare.
- Sai perché sei qui?- gli domando
di nuovo quella voce.
“Per fottermi tua sorella,
sfigato.”
-Spiegamelo tu, Hiroito.-
-Hai fatto qualcosa che non dovevi
fare. Sappiamo tutto.-
-Cosa sapete voi? Mio Dio, siete
dei cazzoni. - aspettò un attimo prima di continuare
il discorso. - Beh, che ti prende, non mi colpisci con la tua mazza? Lasciami
dire altre due cose, allora. Avete perso, ora i coreani sono contro di voi,
tutta la cazzo di città è contro di voi. Lo so perfettamente, io so tutto. Ora
potete uccidermi, e cosa otterrete? Vendetta? Andiamo, la vendetta è buona per
i film. La verità e che non potete uccidermi, perché sono una pedina troppo
importante, in scacchiere più grandi della vostra. E se mi fate fuori, sarete
davvero fottuti. E voi lo sapete, vero? Certo che lo sapete. Per questo avete
montato tutta questa stronzata, il macello, il rapimento. Pensate di farmi
paura? Ma lo sapete chi cazzo sono? Avanti, ve lo chiedo un’altra volta, non è
una domanda retorica. Pensate davvero di farmi paura?- Non giunse nessuna
risposta. Angelo si chiese se non fosse lì addirittura Taneguchi
in persona. Se lo immaginò, immobile come una soldato di terracotta, in piedi
dietro di lui. Aveva ucciso suo figlio. E lui stava dietro di lui, in silenzio,
e lo guardava con odio, senza fare nulla.
- Avanti.- continuò Angelo, quando
ancora nessuna risposta era arrivata.
-Avanti. Uccidetemi. Fatelo, se avete
le palle. Io so cos’è la morte. Non ne ho paura.-
Angelo venne bendato, ammanettato.
Prese anche un bel po’ di calci. Doveva averli fatti davvero incazzare. Lo
caricarono di nuovo su una macchina, e lo mollarono più o meno dove lo avevano
rapito. Sentì qualcuno che gli toglieva le manette, e infine un ultimo calcio
in mezzo alle palle. Rimase sul marciapiede per un po’, mordendosi la lingua,
respirando a fatica. Quando si rialzò, si tolse la benda dagli occhi. Era un
peccato, gli si era rotto tutto il vestito nuovo. La giacca era strappata, e
anche sporca di sangue. Sangue? Non si era accorto che lo stava perdendo. Si
tastò il corpo, e trovò un sopracciglio rotto. Il sonnifero doveva proprio
averlo rincoglionito, non se ne era accorto nemmeno. Buttò la giacca in un
bidone della spazzatura, insieme alla benda. Poi si diresse al cimitero.
La cerimonia era già finita, quando
lui arrivò. La tomba era stata appena richiusa, c’erano molti fiori sopra.
Angelo ne andò a comprare alcuni poco fuori dal camposanto (la donna che li
vendeva gli lanciò una lunga serie di occhiate terrorizzate: la sua faccia non
doveva essere un bello spettacolo), e ne mise anche lui.
- Ciao vecchio.- fece poi,
chinandosi sulla tomba.
- Non guardarmi male, lo so che è da
rincoglioniti parlare coi morti. Scusa se non sono venuto al funerale, ho avuto
un contrattempo. Volevo solo dirti che il tuo caffè non faceva poi così schifo,
e che mi mancherà. Penso che smetterò di berlo. Cioè, non il tuo, il caffè in
generale. Capisci, no? Non ne ho mai avuto bisogno in fondo. E poi… e poi basta. È tutto in effetti. Beh. Ci vediamo.-
Angelo si alzò, e tornò a casa. Quando fu davanti allo specchio, notò che in
effetti era un brutto spettacolo. Si toccò i denti, uno gli rimase in mano. Ma
era già finto, quindi pazienza.
Dave
frenò di colpo il furgoncino, accorgendosi che stava sorpassando l’indirizzo al
quale doveva effettuare la consegna. Una macchina dietro di lui suonò
ripetutamente il clacson, inchiodando anch’essa all’ultimo istante ed evitando
così il tamponamento.
- Ehi, vaffanculo,
sta attento dove vai!- urlò qualcuno dal finestrino semi-abbassato della
macchina, mentre superava il furgoncino.
- Attento al mio cazzo, coglione!-
rispose Dave, mostrando l’indice della mano sinistra.
Quella avvolta dalle fasciature.
Dopo il brutto incidente che gli
era capitato qualche tempo prima, aveva rivalutato le potenzialità economiche
del suo negozio di articoli sportivi, in altre parole aveva iniziato a pensare
che ritrovarsi lo scafoide frantumato a colpi di mazza da baseball per aver
tirato su pochi dollari spacciando crack non era quello a cui pensava quando si
era stabilito in città. Ora il negozio andava avanti con le consegne a
domicilio, il fatto di avere un attività piccola gli permetteva di tenere
prezzi competitivi, e di vendere abbastanza da poterci campare. Insomma, tutto
andava più o meno bene.
Parcheggiò in sosta vietata, tanto
da quelle parti non sarebbe passato uno sbirro neanche se fosse stato avvistato
Bin Laden limonare con Saddam. Aprì lo sportello posteriore del furgone
ammaccando il paraurti dell’auto parcheggiata li dietro, ed estrasse il pacco.
La mano gli faceva un male cane, come al solito. Il dottore gli aveva detto di riposarsi
per un po’, ma doveva lavorare, cosa poteva farci?
Entrò nell’edificio lì vicino, un
palazzo di poco più di dieci piani, dal colore simile ad una chiazza di vomito.
L’atrio era deserto, c’era solo una pianta morta, caduta a terra da tempo
immemore insieme al suo vaso, e un nastro della polizia abbandonato in un
angolo. Quest’ultimo particolare attirò l’attenzione di Dave:
doveva esserci stato un omicidio di recente, non era una cosa poi troppo rara
in quella parte della città.
Prese l’ascensore, fino al
tredicesimo piano, e bussò alla porta dell’appartamento al quale era
indirizzato il pacco (stranamente non c’era il campanello, era stato asportato
del tutto lasciando vicino alla posto solo un buco dal quale sporgevano due
fili tronchi). Gli aprì un tizio sulla trentina, maglietta scolorita e jeans
macchiati, capelli lunghi, aria da fattone.
- ‘giorno. Il signor Nichols?- chiese Dave.
- No, no, è di là, mi ha detto di
aprire.- Rispose l’uomo, scuotendo la testa.
- Ah, ok. Posso entrare? Ho bisogno
di una firma.- e anche di essere pagato.
- Credo di sì. Prego.- entrambi
entrarono nella casa, fino ad arrivare in soggirono.
Si sedettero sul divano, e iniziarono ad aspettare. Dave
si guardò intorno: notò subito il posacenere sul tavolo davanti al divano,
pieno di pezzettini di metallo estremamente simili a proiettili. Per terra
adocchiò un bisturi arrugginito, e iniziò ad intuire dove fosse capitato. Il terzo
particolare che lo colpì fu la mano del fattone accanto a lui, che era fasciata
come la sua.
- Te la sei rotta pure te?- chiese
a bruciapelo.
- Cosa? Oh, no, no, una cazzo di
storia, giuro su Dio, mi hanno sparato!-
- Che? Ti hanno sparato alla mano?-
- Una cazzo di storia, te l’ho
detto! Insomma, me ne sto tranquillo in casa mia, mi faccio i cazzi miei, no?
Ed arriva all’improvviso questo gran rottinculo che
mi spara! Io me la faccio addosso, penso che sta per uccidermi, no? E invece lo
stronzo decide di portami all’ospedale!-
- Al…
cosa? Mi prendi per il culo. -
- Te lo giuro, non ho capito
nemmeno io che cazzo è successo, fatto sta che prendiamo la macchina, e
arriviamo lì, no? E io che cazzo ci faccio all’ospedale con una ferita d’arma
da fuoco? Sai quante cazzo di domande ti fanno? Avrei dovuto denunciarla alla
polizia, dirgli come era successo, no? E figurati se vado a denunciare quel
cazzo di mafioso, o gangster, o quel cazzo che era agli sbirri: altro che un
buco nella mano, no? Quindi me ne vado per i cazzi miei da un dottore che opera
senza fare troppe domande. Ora sono qui a farmi togliere i punti.-
- Non potevi venire direttamente
qui, invece che farti portare all’ospedale prima?-
- Scherzi? Quello stronzo mi stava
per ammazzare, figurati se mi mettevo a chiedergli di farmi da tassista. Per
fortuna alla fine è andato tutto bene, no?-
- Immagino di sì.-
Il dottor Nichols
emerse in quel momento dal bagno, accompagnato dal suono dello sciacquone.
Indossava un grembiule, infilato su di un maglione e un paio di pantaloni
logori.
- Ah, salve. Ha il pacco per me?-
fece in direzione di Dave.
- Certo, deve solo firmare qui. Sono
centonovantanove dollari e novantacinque.-
Nichols
estrasse una penna di tasca, e firmò il foglio che Dave
gli aveva porto.
- Ci dedichiamo alla pesca, eh?-
chiese Dave, riferendosi a quello che lui sapeva
essere il contenuto del pacco. Era una canna da pesca, insieme ad esche, ami e stivali
di gomma.
- Sì. -
- Una vacanza?-
- Lascio la città.-
- Cosa?- sbottò il fattone
all’improvviso, irrigidendosi di scatto.
- Beh, che c’è da far tanto casino?
Me ne vado, tutto qui.-
- Ma… ma
cosa è successo? Pensavo il lavoro non le mancasse e…
e beh, non me l’aspettavo.-
- Cosa è successo? Niente,
assolutamente niente. Forse mi sono soltanto stufato. Ho trovato una baita, in
affitto, in montagna. Ci starò finché i soldi non finiscono.-
- Stufato?-
- Sì. Questa città non è un bel
posto. Mi sono rotto. Come era quel film? “Non è un paese per vecchi”. E io mi
sento vecchio, e me ne voglio andare.- finita quella frase, nessuno disse più
nulla. Una volta intascati i suoi cento dollari, Dave
fece un cenno con la testa, come per dire grazie, e se ne andò.
- Che ti succede, Joshua, ci sei rimasto male?- il dottore ruppe il silenzio
poco dopo, mentre toglieva la fasciatura al suo paziente. Fece la domanda con
una punta di ironia, un po’ come dire “Non ti sari mica innamorato?”
- No. Però è strano. La consideravo
un… Un’ istituzione, capisce, no?-
- I tempi cambiano.- tagliò corto Nichols – si arriva sempre ad un punto, in cui qualcosa
deve cambiare.-
- Scusate! Permesso! Scusate, eh?-
l’agente, un bianco grassoccio più sulla quarantina che la trentina, e con un
paio di baffi spelacchiati, barcollò in mezzo alle scrivanie della centrale,
sorreggendo due bicchieri di Starbucks, attento a non
farli cadere. Pestò qualche piede, chiese innumerevoli volte scusa, ma alla
fine giunse quasi incolume alla scrivania alla quale voleva arrivare.
Sbuffando, appoggiò i bicchieri.
- Ecco, Ralph. Ho il tuo frappuccino.- Senza ringraziare, Ralph afferrò il
bicchiere, aprì il coperchio e annusò il contenuto.
- C’è la cannella.-
- Avevi detto che lo volevi con la
cannella.-
- Avevo detto senza.-
- Oh.-
- Lascia stare, non importa.
Cannella, bella merda.- sbottò schifato Ralph. Bevve un po’, mentre leggeva un
piccolo fascicolo appoggiato sulla sua scrivania. Anche il poliziotto grasso
iniziò a bere, guardando il suo collega come per controllare che non si
arrabbiasse. Ralph buttava giù un sorso dopo l’altro, esibendo una faccia
schifata dopo l’altra, perlopiù per far sentire in colpa il suo collega.
Ad un certo punto alzò la testa
dalla sua lettura e disse:
- Questo potrebbe interessarti.-
- Di che si tratta?-
- È un rapporto stilato da… come si chiama? Dai, quello della omicidi, divorziato,
calvizie incipiente.-
- Kautsky?-
- No, non sparare nomi a caso, per
piacere. e chi cazzo è Kautsky? E che cazzo di nome è
Kautsky, poi? Ma te li sogni di notte?-
- No. Kautsky,
della omicidi, è…-
- Dickinson. Sì, è di Dickinson.-
- Ma chi è Dickinson?-
- Quello della omicidi, lui, via!
C’è scritto pure qui.- Ralph agitò il rapporto sotto il naso del collega, senza
che egli potesse effettivamente leggere alcunché.
- “Chi è Dickinson”, ma dove vivi?
Allora, dicevo, può interessarti.-
- E perché?-
- Ti ricordi quella storia
dell’omicidio di quel banchiere, Gary Dawson, mesi fa?-
- La scomparsa, non l’omicidio.-
- E chi ci crede più che è vivo?
Insomma, il giorno prima della sua scomparsa, un testimone dice di aver visto
nei dintorni della banca un tizio che chiedeva informazioni riguardo a Gary.
Ovviamente era un sospettato. Ne abbiamo fatto un Identikit, ma i ricordi del
testimone erano troppo vaghi. Insomma, potevamo pisciare su un foglio e avremmo
avuto un ritratto più somigliante. E abbiamo continuato fino ad adesso, finchèDickinson…-
- Ti ripeto che si chiama Kautsky. Dici Dickinson perché si chiama Dick.-
- Ma che cazzo vuoi dalla mia vita?
Quindi non solo ha uno scioglilingua al posto del nome, ma si chiama Dick. Ma
lo sai che c’è qualcosa di perverso nelle cazzate che dici?-
Il poliziotto con i baffi abbassò
lo sguardo come un cane bastonato, mormorando appena “ma è la verità”, poi
rimase zitto.
- Dicevo, finché Dickinson non ha
messo le mani su altri identikit di possibili sospetti di altri omicidi
avvenuti nello stato quest’anno, li ha confrontati e…
beh, c’erano dei tratti ricorrenti. La stessa persona? Perché la stessa persona
dovrebbe uccidere tanta gente senza apparente collegamento, e non solo in
città, da un angolo all’altro dello stato.-
Il poliziotto coi baffi sembrò
riflettere:
- Un killer a pagamento?- suggerì
infine.
- Ehi, vedo che hai fatto i compiti
per casa.- Ralph rise, l’altro accennò un sorriso -
Stronzate.- disse infine.
- Come?- chiese l’altro, non sicuro
di aver capito bene.
- Hai mai visto quel film, quello
con quel tizio francese, che parla di un Killer a pagamento.-
- No, non mi pare.-
- Beh, allora ascolta. Parla di un
killer che dall’inizio alla fine del film non fa altro che ammazzare su
commissione. Perché la polizia non lo riesce ad arrestare? Perché è bravo, va
bene, ma non basta. Non è semplicemente possibile che un uomo uccida tante
persone in così poco tempo, uccidere non è mica facile come sembra. Subito
partono inchieste, indagini, e se tu non sei bravo a nasconderti il giusto
tempo, finisci dentro, poco ma sicuro. Poi a che servirebbe fare tanti lavori,
cioè, tanti omicidi su commissione? Uno solo basta a guadagnare soldi per
vivere agiatamente per un bel po’ di tempo. Perché continuare, dopo aver
racimolato una fortuna? E poi di solito un malavitoso non assume un
professionista per fare un lavoro, manda dei sicari, gente del giro, di cui si
fida, che poi magari non uccideranno più nessuno in tutta la loro vita.
L’ipotesi di Dickinson, alla fine, è affascinante, posso ammetterlo. Ma non ci
credo. Non esiste un super assassino, che se ne va libero per il paese, senza
che nessuno ricordi quale sia la sua faccia.-
L’agente con i baffi ascoltò rapito
il ragionamento del collega, ed entrambi rimasero un attimo in silenzio, prima
che lui prendesse la parola:
- E se esistesse invece?-
- Non esiste.- ribattè
Ralph - Punto.-
- Ciao, Esther.-
Ed appoggiò un mazzo di fiori
gialli sulla lapide. Sopra c’erano pochi altri fiori appassiti, e la foto di
una donna sorridente: in effetti Ed non riusciva a ricordare un momento in cui
sua moglie non avesse sorriso. Il cimitero era silenzioso quel pomeriggio,
avvolto da una luce opaca, che sembrava illuminare soltanto la polvere. Ed si
guardò intorno: era solo. Riprese a parlare:
- Te l’ho mai raccontato come
finisce quella storia, in Corea? Quel ragazzo, con il fucile in mano, davanti a
me. Intorno a noi c’erano solo morti: i miei uomini. I suoi. Eravamo rimasti
solo noi, e il mondo. È un bastardo indifferente, il mondo. Lui avrebbe premuto
quel grilletto, e il mio mondo mi sarebbe stato strappato da sotto i piedi. Era
finita, capisci? Beh, lui sparò. Ma prima diresse il fucile contro la sua
testa. Se lo puntò in mezzo agli occhi e… e, beh,
premette il grilletto. Basta. Era… era finita.-
Ed non disse più nulla. Una brezza
gelida sibilò per un attimo tutt’intorno, come per riempire quel silenzio
incolmabile.
- Dio mio, Esther.
Io me lo chiedo ancora.- continuò dopo qualche minuto, con voce strozzata – Me
lo chiedo ancora perché l’abbia fatto. Ma io lo so bene perché lo ha fatto.
Piuttosto, mi chiedo se non abbia fatto bene a farlo.-
- Esther,
perché? Qualsiasi cosa che facciamo, bella, brutta, qualsiasi cosa! Provare
qualcosa che sembra davvero bello, amare, o solamente fottere come animali, odiare
il proprio nemico, uccidere, DiosantoEsther, è la stessa cosa! Alla fine rimaniamo soli. Che
cambia? Alla fine non ci rimane nulla. Io pensavo di averti, eppure ti ho
persa. Cosa mi rimane, allora? Che cosa?-
Quello che succede in
questo capitolo è successo realmente. Ma grazie a Dio è soltanto un sogno che
ho avuto. Non ricordo se lo ho avuto prima o dopo aver iniziato a scrivere
questa storia, ne tantomeno se fossi io ad essere Angelo, o se avessi semplicemente
assistito alla scena. Però ero in quella stanza, e ho visto la macchia sul
muro.
Dzoro
La macchia sul muro
Era una mattina che puzzava di
caffè bruciato, e aveva il sapore dell’aspirina. Angelo ci si trovò dentro non
appena il suono arrugginito della sveglia lo strattonò via a forza dal torpore
del sonno. Mai capito come funzionasse quella cazzo di sveglia, suonava a
casaccio, ogni tanto, nel momento meno opportuno. Chiunque l’avrebbe buttata:
non Angelo, lui non era mai a casa. Però ogni volta che si svegliava in quel
modo la scaraventava a terra, sperando che si rompesse. Ma restava lì,
perfettamente integra, ticchettando sorniona, come se volesse dirgli che non
poteva dormire in eterno, che non poteva tenersi fuori dal flusso incessante
del tempo. Il tempo è un assassino impacciato, armato di lancette di stagno. Ti
trafigge, lentamente, e sei te a guidare la sua mano insicura.
Angelo si alzò dal letto con in
bocca il sapore del vomito, e strisciò fuori dal letto, infilandosi in un’altra
giornata, che lui non aveva chiesto a nessuno, ma che ogni mattina gli veniva
recapitata puntualmente. Come una bolletta del gas, come una lettera di tua
madre alla quale sai già che non risponderai. Infilò i piedi nelle scarpe,
infilò le scarpe fuori di casa. Camminò attaccando un passo all’altro, senza
pensarci, senza fermarsi. Comprò il giornale con una banconota da dieci
dollari, e non chiese il resto,e lo
lasciò su una panchina nel parco. Mangiò in un chiosco di hot dog. Andò a
pisciare in un cesso pubblico. Prese un caffè in un bar. Sedette. Aspettò.
Al tramonto si trovò di nuovo
davanti all’ingresso di casa sua. L’occhio gli cadde su di una macchina
parcheggiata dall’altra parte della strada: un modello europeo, a cui non
riuscì a dare un nome, nero lucido, così pulito che sembrava che mai la polvere
ci si sarebbe potuta posare sopra.
Sullo zerbino di casa sua lo
aspettava ad Spencer in persona: indossava un completo grigio, una cravatta
color crema e un sorriso troppo raggiante per essere sincero.
- Buonasera signor Salerni, la posso disturbare?-
- Archie.
Dimmi pure, che succede?- Angelo gli strinse la mano. Aveva una stretta da
politico Spencer, calda e sufficientemente robusta. Una stretta per tutte le
occasioni.
- Dovrei un attimo parlarle di
lavoro.-
- Allora, si inizia?-
- La vedo impaziente.- disse
l’altro, con una risata compiacente. Angelo sentì un profondo senso di fastidio
invaderlo. Non tanto perché Spencer non avesse risposto alla sua domanda,
quanto per quella parola che aveva appena pronunciato. Impaziente? E di che
cazzo doveva essere impaziente? Di uccidere ancora, di far fuori altre persone?
Ma che cazzo gli passava per la testa, chi cazzo pensava che fosse? Pensava che
era uno stronzo che uccide per piacere, pensava che uno come lui non vedesse
l’ora di tornare ad uccidere? Impaziente.
Angelo provò quasi spavento,
rendendosi conto che l’irritazione si era appena trasformata in rabbia. Quel
figlio di puttana stava solo scherzando, non c’era un motivo per perdere la pazianza. Scosse la testa, tentando di scacciar via l’irritazione
come si scaccia una zanzara. Diavolo, forse impaziente lo era davvero, in
fondo. Forse era stufo di aspettare, forse si era accorto di quanto quella sua
vita fosse vuota, quando non la riempiva con un po’ di morte.
- Signor Salerni?-
Chiese Spencer, con un sorriso appiccicato a fatica su di una faccia
imbarazzata.
Angelo si accorse che quel violento
flusso di pensieri doveva averlo addirittura tenuto impalato per qualche
secondo, come un ubriaco. Si sentì un idiota.
- Scusi. sono solo stanco. Sì,
stanco, tutto qui.-
- Capisco. forse allora è meglio se
torno in un altro momento. Vede, avevo un affare da proporle.-
Un affare. Un lavoro.
- No, non si preoccupi. Mi dica.-
Spencer prese un biglietto di tasca:
sopra c’era un indirizzo.
- Vive da sola, a questo indirizzo.
Non è un lavoro che affiderei a lei, in situazioni normali, ma al momento tutti
i ragazzi sono impegnati, e la famiglia non può certo fare tutto quello che gli
passa per la testa. Sono tempi difficili, la polizia ci tiene il fiato sul
collo. Se lei potesse occuparsene…- lasciò la frase
in sospeso, tendendo il foglio. Angelo lo prese. Non sembrava una cosa
difficile, e certo non lo era. Capì solo a metà il giro di parole di Spencer,
ma che glie ne fregava a lui di sapere perché gli avessero affidato quel
lavoro? Lo accettò, disse a Spencer di non preoccuparsi.
L’appartamento era vuoto, quando
Angelo ci entrò. Era un monolocale, da una parte angolo cottura e un frigo
ricoperto da un mosaico di calamite colorate, dall’altra un letto e un
televisore. Non era stato difficile entrare, la porta non aveva un
chiavistello, non era nemmeno chiusa a doppia mandata. Chiunque abitasse lì era
un ottimista, non temeva nessun ladro. Nessun assassino. Accendere la luce
rivelò numerosi poster sulle pareti, cantanti e attori, perlopiù giovani. Ogni
secondo che passava dava sempre più ad Angelo l’impressione di trovarsi nella
stanza di una ragazzina. Controllò più volte che l’indirizzo fosse quello
giusto, e lo era, ed ogni volta si chiedeva chi ci fosse in quell’appartamento
che meritasse di morire. Si sedette sul letto, sbuffò, aspettò che il suo
obiettivo facesse ritorno a casa. C’era una trapunta di HelloKitty.
Vicino al letto si trovava un armadio.
Angelo si accorse di essere davvero curioso. Lo aprì. Vestiti da donna,
giovane. Tutto in quella stanza raccontava di una ragazza. Una prostituta
forse. Una donna del genere potrebbe meritare di morire per un infinità di
motivi diversi.
Passi nel corridoio. Angelo spense
la luce, e si mise dietro l’anta aperta dell’armadio, così che chiunque fosse
entrato non avrebbe potuto vederlo. Erano passi leggeri, quelli che giunsero
dal corridoio dietro l’ingresso. La porta si aprì, la luce si accese. Angelo si
sporse leggermente, per vedere chi fosse: vide una busta della spesa, da cui
spuntava il ciuffo verde di un gambo di sedano. Una figura indistintae colorata passò davanti alla sua linea di
visuale, e poi sentì la porta di ingresso chiudersi. Di nuovo qualcosa passò
per lo spiraglio dal quale Angelo sbirciava, ma non era uno spiraglio
abbastanza grande. Uscì dal suo nascondiglio. Girata di spalle, china sul
frigo, c’era una ragazza. Minuta, vestita in modo trasandato. Prese da uno dei
ripiani del frigo un cartone di succo di frutta, lo svitò e ne bevve. Angelo
trasse da sotto la giacca la sua silenziata. Lei si voltò. Non l’aveva sentito,
si era voltata e basta. Teneva lo sguardo basso, mentre ri-avvitava
il tappo del cartone. Dei capelli biondo chiaro ricadevano a ciocche disordinate
intorno alla faccia di una ragazza giovanissima, con gli occhi grandi e tondi,
le labbra sottili. Angelo se lo domandò di nuovo.
“Perché?”
Lei lo notò in quel momento. Un
grido strozzato, ed il cartone cadde per terra, emettendo un tonfo sordo e lasciando
uscire uno schizzo appiccicoso. Era terrorizzata, e come avrebbe dovuto
sentirsi altrimenti? Angelo imprecò tra se: avrebbe potuto sparargli alle spalle,
aveva avuto tutto il tempo del mondo.
- Vuoi i soldi?- domandò lei,
confusa.
La ferita le si aprì nell’orbita
dell’occhio destro, il proiettile uscì dalla sua testa perforandole la nuca. Si
piantò nel muro, che subito si ricoprì di una macchia rosso scuro. In mezzo ad
essa c’erano alcuni grossi grumi, pezzi di cervello,e di scatola cranica.
Iniziarono a scivolare con lentezza lungo la parete, dipingendo lucide scie di
sangue. Fecero un rumore starno quando si staccarono, e caddero sul pavimento,
come di una ventosa. Ad angelo parve di non averlo mai sentito. Il cadavere era
già a terra, con la bocca leggermente aperta, come se anche lei chiedesse
“perché?” Angelo non la sapeva la risposta. Camminò per un po’ avanti e
indietro per la stanza, nervosamente.
“Merda.” Guardò il cadavere. Poi si
girò, camminò avanti e indietro per la stanza, lo guardò di nuovo. Lo guardò
più volte, prima di uscire.
“Merda.”
Dal momento in cui tornò in
macchina iniziò a girare per la città, senza metà, come un pazzo. Non l’avrebbe
mai ammesso, ma l’idea di aver sbagliato obbiettivo lo tormentava. Si fermò ad
un distributore, e prese il cellulare. Cercò il numero di Spencer.
- Buonasera signor…-
la voce di Spencer era stupita, quando rispose.
- Spencer, devo parlarle.- lo
interruppe subito Angelo. Spencer indugiò un attimo, prima di rispondere.
-Ora? Mi scusi, sono al ristorante,
con la mia famiglia, eviterei se si può. Non può aspettare un paio d’ore,
soltanto?-
- Ora ho detto. Ora.-
- Mi scusi, non…-
- Ora, ora, vaffanculo,
ora! Mi capisci, frocio? Ora, adesso!- qualcuno, la intorno, si voltò allarmato
verso di lui, ma Angelo non ci fece caso. Spencer rimase un attimo in silenzio.
- Ma è successo qualcosa?-
- No, tutto a posto, una favola, ma
devo parlarle. Ora.-
Golden Tower.
Angelo conosceva il posto. Tende dorate alle pareti, pavimento bianco,
camerieri impeccabili, pieno della gente giusta della città, e di una magnifica
luce dorata. Angelo incedette fino al tavolo di Spencer, ignorando le domande
dei camerieri, che fin dal momento in cui era entrato lo avevano guardato
allarmati. Spencer era in compagnia di una donna bionda, dal volto allungato e
severo, vestita con un completo di giacca e pantaloni dall’aria costosa e austera,
e due bambini, maschio e femmina, più o meno della stessa età, agghindati come
due bambolotti. I ragazzi fissavano quell’uomo, tanto fuori luogo, con una
serietà che non sembrava quella di un bambino. Spencer fece per un po’ vagare
uno sguardo imbarazzato tra Angelo e la sua famiglia, pensando a come risolvere
la situazione.
- Ehm…Kat, questo è il signor Manson, lavora con me. porta i
bambini a scegliere il dolce, al carrello, io parlo un po’ con lui.-
La moglie lo guardò con disprezzo,
senza dire una parola. Prese i bambini per mano, e si allontanò dal tavolo.
Spencer li fissò allontanarsi, poi guardò Angelo negli occhi, sospirando:
- Signor Salerni,
spero capisca che non era il momento migliore.-
- Mi scusi tanto se non me ne frega
un cazzo. Chi è che ho ucciso?-
-Signor Salerni!
Ma cosa..?- Spencer si guardò attorno, come per far notare che c’era gente.
- Non sto urlando, non ci sente
nessuno. Chi?-
Spencer sospirò, e fissò Angelo con
aria molto grave. Angelo si chiese perfino se non avesse tirato troppo la
corda. E perché l’avesse tirata.
- Signor Salerni-
iniziò Spencer –non faccio un lavoro meno sporco del suo. Vedo tutta la merda
che vede anche lei, forse anche di più.-
- Ma non ci ficca le mani dentro.-
- La pianti. A cosa serve tutto
questo? Avevo sentito che a lei non interessava chi fosse la sua vittima.-
- Era una ragazzina, porca puttana,
aveva quindici… sedici anni. Perché?-
In quel momento, il dubbio di aver
sbagliato obbiettivo lo attraversò di nuovo. E da una parte, se avesse davvero
sbagliato, la terra sarebbe tornata a girare nel verso giusto: avrebbe potuto
tornare a stare calmo, perché non ci sarebbe stato nessuno al mondo a
desiderare la morte di una ragazzina di sedici anni. Dall’altra, avrebbe
significato che quella ragazza era morta per nulla.
Spencer rimase serio.
- Ci tiene davvero così tanto a
saperlo?-
- Faccio un lavoro del cazzo, e ho
i miei capricci. Chi?-
- Non era nessuno. Un’attricetta
porno, faceva la lesbica in filmati da due soldi che poi sarebbero finiti su
internet. Aveva diciannove anni. Tony ci aveva provato con lei, lei lo aveva
mandato a cagare, lui non aveva digerito la cosa.-
Detto ciò, Spencer tacque.
- Tony Capuzzi.-
mormorò Angelo.
- Sì.- confermò
Spencer.
- Tutto qui?-
- Sì.-
- Fanculo.-
Angelo si gettò sullo schienale della sedia. Spencer lo fissò, mentre la sua
espressione andava ad addolcirsi:
- Il male è più banale di quello
che si pensa, signor Salerni.-
- E che cazzo vuol dire?-
- È filosofia.-
- Sono stronzate. Che cazzo è il
male?-
- Signor…-
- Sono io? Sono io, forse?-
- La smetta!- gli ingiunse Spencer,
sibilando tra i denti. La gente, la attorno, li stava guardando. Angelo si rese
conto di aver alzato al voce: si calmò.
- Era solo il suo lavoro. Sarà
pagato, per questo.- Disse Spencer. Tentava di consolarlo. Patetico.
- Non importa. E scusa per la
scenata. Ma lei…- “sembrava una bambina. Sembrava
innocente. Poteva essere tua figlia. Era piccola, bella. E tu le hai fatto
esplodere la testa.”
Spencer scosse il capo:
- Signor Salerni,
stia tranquillo. Abbiamo tutti i nostri momenti difficili. Passerà. Però ci
pensi due volte, la prossima volta.- il suo tono di voce si inasprì – Non
voglio che la mia famiglia finisca in mezzo al mio lavoro. Capisce?-
- Sì.-
angelo era chino in avanti, con la testa tra le mani.
- Non la mia famiglia.-
- Sì. Mi dispiace.-
- Non loro.-
- No.-
- No.-
- No.-ripetè Angelo, ancora una volta, meccanicamente.
- Allora, ci siamo capiti. Ora vado
via, li porto a prendere un gelato. Ha già mangiato, lei?-
- No.-
- Fanno un aragosta fenomenale qui.
Glie ne faccio portare una, va bene? Offro io, eh?-
- Okay.-
- Okay.- Spencer se ne andò. Diede
addirittura una pacca sulla schiena ad Angelo. E lui si sentì un perfetto
sfigato. C’era mancato poco che non si fosse messo a piagnucolare, come un cazzone. E ancora non riusciva a capire: cosa era per lui
quella ragazzina? Nulla, un bel cazzo di niente. Nulla.
L’aragosta arrivò di lì a poco, in mezzo a delle foglie lucide
d’insalta. Quando angelo la tagliò, uscì un acquetta
bianca e schiumosa. Non aveva fame. La lasciò lì, e tornò a casa.
Si svegliò a mezzogiorno, e si
chiese quanti giorni fossero passati. Si chiese come li avesse passati, poi.
Che aveva fatto, cosa aveva mangiato, dove? Angelo non beveva, non si drogava,
ma aveva passato quegli ultimi giorni completamente fuori di se, come un
animale, come se ogni sua azione fosse stata completamente dettata
dall’istinto, come un riflesso abituale. Come una rana con un cavo elettrico
ficcato nel culo, aveva ballato il suo inutile valzer, aspettando. E, ogni
tanto, ricordandosi di quella macchia sul muro, e dei pezzi di cervello che
scivolavano, e del loro rumore, mentre toccavano terra.
“Quante persone hai ucciso? Te lo
ricordi il primo?
Quell’afghano, armato di
kalashnikov, sorpreso in una casa che puzzava di piscio acido, miracolosamente
rimasta in piedi a Khafji dopo i bombardamenti. L’avevi guardato negli occhi, prima di
far scattare il grilletto del M-16. E avevi visto quell’espressione stupida,
volgare, quasi ridicola, come se non se lo aspettasse. Davvero niente di
tragico, in fin dei conti. Non ti eri sentito diverso, subito dopo, quando il
sangue si era mischiato con la sabbia, diventando solo del fango con un colore
strano. Non ti eri sentito peggiore. Non più malvagio.”
Forse il male era davvero banale,
come diceva Spencer.
“Il secondo, poi, te lo ricordi?
Forse è stata una bomba a mano, come potresti ricordarlo? Quando il fumo si era
diradato, anche lui non era che una macchia sul muro. E così, molti cadaveri
dopo, te ne sei convinto. Che avresti potuto continuare ad uccidere
all’infinito, fino al momento in cui saresti diventato te la macchia sul muro.”
E invece, qualcosa, in
quell’appartamento miserabile, davanti al cadavere di quella ragazza, qualcosa
si era rotto. Perché non lei?
“Sei stato te a deciderlo, ricordi?
Hai scelto te questo mestiere. Uccidere, solo per soldi, con freddezza. Non ti
sei mai creato codici morali, o stronzate simili. Dovevi uccidere e basta. Uno
spacciatore, uno stupratore, un mafioso, non meritavano di morire più di quanto
lo meritasse quella ragazza. Nessuno meritava di morire, e così era come se
tutti lo meritassero. Se nessuno ti scopre, nessuno ti giudica. E se qualcuno
ti giudica, che cazzo te ne frega a te? Sei libero. Libero cazzo, fino alla
fine, fino a quando diventerai anche te una macchia sul muro.”
Eppure, ogni volta che pensava a
lei, sentiva la nausea, calda e viscida, annodarglisi
intorno allo stomaco. E capiva, che era successo qualcosa. Ma non capiva cosa.
Si trovava per strada. Il sole era
alto. Mezzogiorno? Forse. Dove si trovava? Era uno dei suoi itinerari
preferiti, o almeno lo era stato fino a qualche tempo prima. Prima che Cab morisse. La strada che portava al suo bar. La percorse
come di suo solito, trascinandosi sul marciapiede deserto. Quella strada era sempre
stata vuota di giorno. Quando vide il camion, e la gente che vi si affaccendava
attorno, affrettò il passo, incuriosito. Era un camion dei traslochi, ed era
parcheggiato esattamente davanti al vecchio bar. Quando poté sbirciarci dentro,
vide dentro molte cose, mobili, scatoloni di cianfrusaglie, prelevati sia del
bar che dell’appartamento di Cab.
- Mi scusi, può spostarsi?- uno
degli addetti al trasloco spinse da parte Angelo, mentre caricava uno
scatolone. Angelo arretrò, e così facendo sbatté contro qualcuno.
- Oh, mi dispiace.- fece questi,
anche se la situazione avrebbe richiesto le scuse di Angelo, non certo le sue.
- No. niente.- farfugliò Angelo.
Era una donna, di colore, sulla trentina. La felpa e i jeans stretti fasciavano
un corpo magro e minuto, ma il suo volto era florido, in carne, e i suoi occhi
erano familiari.
- Portate via le…
cose?- chiese quindi Angelo, non trovando una parola migliore con cui concludere
la frase.
- Sì, le cose.-
la donna sorrise. Quando sorrideva le guance le si alzavano, e il suo viso
diventava molto dolce. C’era un che di malinconico, e di rassicurante in quel
sorriso.- Conosceva il locale?-
- Ero un amico di Cab. Ci andavo
spesso.-
- Suo amico, eh? Pensavo che con il
suo carattere non se ne fosse mai fatti.-
- Eh, sì, aveva proprio un
carattere di merda.- Angelo si bloccò: qualcosa, nella voce della donna, lo
metteva a suo agio, toglieva i suoi consueti freni inibitori, che in altre
situazioni non gli avrebbero fatto dire una parolaccia davanti ad un estraneo.
Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, tra loro. Poi lei rise:
- Beh, cavolo se è vero! Di merda, sì.- aveva dei bei denti. Bianchi. Anche Angelo sorrise.
- Sei sua parente? Sua figlia?-
- Sono Angie.
Era mio papà.- gli porse la mano. Lui la strinse.
- Angelo.- rispose, ripetendo il nome
che aveva detto centinaia di volte a centinaia di sconosciuti, e che qui gli sembrò
tanto fuori luogo.
- Angie e
Angelo. Carino!- rise lei.
- Sì.-
rimase zitto un attimo - La figlia di Cab. Non sapevo fosse sposato.-
- Separato. La mamma aveva scoperto
che lui, beh, la tradiva. Non lo vedo da quando avevo dieci anni. Ho saputo che
era morto solo qualche giorno fa.-
- Mi dispiace.- Che altro dire? Lei
sorrise ancora, e fece un gesto con la mano, come per dire che era tutto a
posto:
- Tranquillo, Angelo. Lo conoscevo
appena, e mia madre me l’ha sempre fatto odiare. Ne parlava sempre così male.-
abbassò lo sguardo. Le dispiaceva, era chiaro.
- Insomma. ho appena scoperto che,
non essendoci nessun testamento, sono l'unica erede di tutte le sue ricchezze.
Ed eccomi qui.-
- Ti ha lasciato il locale?-
- Sì. Qualcosa di utile c’era. Ma
perlopiù è roba vecchia. Un po’ di cose le lascerò qua fuori, se vedi qualcosa
che ti piace, serviti!-
Angelo adocchiò una cassa piena di
dischi in vinile, abbandonata sul marciapiede. Vi si chinò sopra:
- Non ti piace Tom Waits?-
- Non ascolto molta musica. prendili
se vuoi.-
- Cab ne
andava pazzo. I suoi lo avevano chiamato così in onore di CabCalloway, ma niente, sapeva appena chi era. Invece
Tom Waits poteva ascoltarlo per ore. Mai sentito di un negro che ascolta Tom
Waits. Oh, scusa!- Angelo si morse la lingua: Angie non
sembrava molto più bianca di quanto lo fosse il padre. Come prima, era stato sopraffatto
dalla confidenza che quella donna sapeva infondere in lui.
- Tranquillo, anche la mamma lo
chiamava così. “Quel negro di merda”!- lo disse con una voce bassa e
caricaturale, entrambi non poterono che ridere di nuovo. Quando smisero, Angie abbassò lo sguardo. Angelo riprese a spulciare i
dischi.
- Lo conoscevi bene?- domandò lei.
- Non poi troppo. Mi preparava solo
il caffè, in fondo. Era un tipo che ti mandava a cagare piuttosto che
salutarti, ma immagino fosse il suo modo per dimostrare affetto. Era un mio
buon amico, non era una persona cattiva.- “Era il tuo unico amico. Non era una
persona cattiva? E come cazzo fai a dirlo, era un informatore, vedeva tutta la
merda che vedevi te. Stai mentendo, le stai mentendo. Che cazzo ne sapevi tu,
di quel vecchio?” Angelo si sentì attraversare da un fastidioso rimorso. Stette
qualche secondo in silenzio, a guardare i dischi. Resosi poi conto di come quel
suo improvviso tacere fosse strano, alzò la testa e concluse il discorso:
- Tu sei sua figlia, forse ne sai
molto di più.-
- Te l’ho detto, ricordo poco di
lui.-
- Poco?-
- Una volta, al mare, abbiamo
costruito insieme un castello di sabbia.-
- Beh, è un bel ricordo.-
- Già.- lei, rimase di nuovo zitta.
Angelo si chiese a cosa stesse pensando. Vide che sulle sue labbra, c’era
ancora quel sorriso malinconico.
Continuò a spulciare i dischi, non
sapendo cosa altro dire.
- Ti interessano?- domandò lei,
all’improvviso.
- Posso prenderli?-
- Vai pure.-
Angelo sollevò lo scatolone, era
pronto ad andarsene.
- Beh, mi ha fatto piacere
conoscerti. Arrivederci.-
- Ciao.-
rispose lei. Lui si voltò, e fece diversi passi.
- Aspetta!- Angelo non pensava già
più che avrebbe sentito di nuovo la sua voce. Si voltò. Angie
gli si stava avvicinando, con in mano una penna ed un pezzetto di carta. Appoggiò
il foglietto sullo scatolone tra le braccia di Angelo, e scrisse qualcosa.
- Lavoro in un ristorante. È anche
un Motel, siamo abbastanza lontano dalla città, ma passa se vuoi. Mi ha fatto
piacere parlare con te.-
Sul biglietto c’erano un numero di telefono
e un indirizzo. Lo appoggiò nello scatolone, tra i dischi.
- Così se ti viene in mente altro
su di lui… beh, possiamo parlarne.- finì lei. Angelo
non sapeva cosa rispondere. Sorrise.
Quando tornò a casa, Angelo frugò
nello scatolone: ci mise un po’ a ritrovare il biglietto. Temette anche di
averlo perso. Appoggiò il biglietto vicino al telefono.
La mattina dopo, si svegliò intorno
alle nove. Non appena tornò in salotto, il suo sguardo si posò sul biglietto accanto
al telefono. Era ancora troppo presto. Preparò il caffè, tostò un paio di fette
di pane e ne masticò solo metà di una. Nove e venti. Iniziò a camminare per la stanza,
trafiggendo l’orologio con occhiate gelide e spazientite. Dieci. Prese il
biglietto, e compose il numero. Mentre dall’altra parte il telefono squillava,
Angelo si chiese cosa avrebbe detto una volta che lei avesse alzato. Aspettò.
Uno squillo. Due. Quattro. Nove.
“Merda.” Riattaccò. Si sdraiò sulla
poltrona, e guardò il soffitto. C’era una macchia d’umidità sopra la sua testa.
Pensò a come avrebbe potuto toglierla, quando il telefono squillò.
Angelo si alzò di scatto: scese dal
divano, e corse fino alla cornetta. La alzò:
Una scena del capitolo, mi accorsi anni dopo
che l’avevo scritta, è presa pari pari da quella di
un film. Ma ha un tono e un atmosfera totalmente diversi da quelli del film,
quindi l’ho lasciata. Buona lettura, love
Dzoro
Marie
-Marie,
apri!- esclamò Jake sospirando, mentre bussava sulla
porta chiusa del bagno. Ancora una volta non giunse riposta.
- Marie, non fare così, che cosa ho
fatto di male? Apri, cazzo!-
Ancora nulla. Jake
sospirò ancora, poi sbottò:
- Senti, mi sono rotto di
aspettarti! Ora torno di là. Ma tu resta lì, mi raccomando, anzi, puoi anche
creparci la dentro? Chiaro? Chiaro?!-
Ma anche le sue urla, non
suscitarono nessuna risposta.
-Ah, ‘fanculo.-
sibilò Jake, uscendo dal bagno.
Marie era rannicchiata al buio,
seduta sul water chiuso, con la testa tra le braccia.
Come previsto, l’appartamento in
cui i testimoni avrebbero passato l’ultima notte prima del processo era in una
palazzina di mattoni rossi, al quarto piano, un appartamento con cinque stanze
e un bagno. Di fronte alla palazzina se ne trovava un'altra, e al suo interno
c’erano altri cinque appartamenti posseduti rispettivamente da una società di
medicinali per bestiame ed una di prodotti per il bagno, entrambe inesistenti.
In uno di questi appartamenti si trovava una stanza, con otto computer
portatili, collegati ad una rete locale wireless, collegata a sua volta ad un
sistema a circuito chiuso di telecamere. Per terra si trovavano quattro
cadaveri di uomini bianchi di corporatura robusta, con la barba incolta e le
camicie sporche. Angelo stava cambiando il caricatore dell’mp5. Era tornato al
lavoro.
Scese le scale con passo sostenuto,
sapeva che nell’altro palazzo dovevano trovarsi almeno altrettanti agenti, che
si sarebbero allarmati non appena si fossero accorti che la sala di controllo
era popolata solo da quattrocento chili di carne morta e dozzine di bicchieri
di Starbucks vuoti. Passò dalla macchina, e prese dal
bagagliaio un secondo mp5, e una colt 45: non voleva
che la balistica pensasse ad un solo uomo, nel momento in cui avrebbe trovato i
bossoli. Si diresse nell’altra palazzina. Si avvicinò all’agente che
sorvegliava il corridoio fuori dall’appartamento chiedendo se aveva una
sigaretta, si allontanò lasciandolo con il setto nasale spostato di una spanna
in direzione del cervello. Porta sfondata a calci. Un federale, di colore,
seduto sul divano, morto praticamente subito, buco in testa. Un altro agente,
una donna di mezz’età, alzò una pistola prima di cadere morta. Angelo ripose la
pistola quasi scarica, e iniziò a perlustrare l’appartamento: trovò PercivalThorne sul corridoio che
portava alla camera da letto. Thorne, era un maschio
bianco, sulla quarantina, vestito con un pigiama grigio, spettinato, e con un
espressione del tipo “Dio mio, fa che non stia accadendo davvero” stampata in
faccia. Thorne, era il primo nome sulla lista. Un
proiettile gli recise di netto la colonna vertebrale, morì sul colpo. Una porta
che dava sul corridoio si chiuse. Angelo la riaprì subito, prima che Samuel Hobes, dietro di essa, facesse in tempo a chiuderla a
chiave. Cervello perforato, una manciata di secondi dopo. KatrynThorne era la prossima sulla lista. Angelo controllò
tutte le stanze, passò per una cucina, un salotto e due camere da letto vuote.
Arrivò davanti al bagno: la porta era chiusa. Accostando l’orecchio alla porta,
poté sentire il faticoso respiro di lei. Diede un calcio alla serratura: non abbastanza
forte evidentemente, la porta rimase in piedi. Sentì un urlo, provenire da la
dietro. Seguì un lungo lamento, in cui, di tanto in tanto, si udivano le parole
“ti prego”. La raffica aprì una costellazione di fori dai bordi frastagliati e
nerastri sulla porta color latte del bagno, e trasformò il lamento dall’altra
parte in un urlo. Poi in un rantolio. Un altro calcio trovò la porta
decisamente più cedevole. Katryn stava sul fondo di
una vasca da bagno, imbrattato da chiazze di sangue nero e appiccicoso. Mentre
Angelo puntava il mitra contro la fronte di lei, lei alzò gli occhi verso i
suoi.
Seguì l’ennesimo sparo.
Angelo si portò di nuovo nel
corridoio, e mentre appoggiava un passo dietro all’altro, godè un attimo del
silenzio che aveva appena creato. Marie. Mancava Marie. Era rimasta solo una
porta chiusa. Chiusa a chiave. Un calcio nel punto giusto, e si aprì.
Una camera da letto, pochi mobili,
due letti, uno non fatto e uno occupato. Ma Angelo capì subito che la dentro
non c’era nessuno. Forse qualcuno abbastanza sordo da non sentire le urla e la
porta delle sua stanza che veniva sfondata. Di certo non la giovane figlia di Thorne. Ma forse, Marie era abbastanza spaventata da non
riuscire a muovesi, e ora era nel suo letto, che tremava paralizzata dalla
paura. Angelo scostò le coperte: vestiti. Forse allora Marie era furba, e si
stava nascondendo.
Angelo capì subito che non c’era
molto posto per nascondersi, laggiù. Uscì, e ispezionò un'altra volta
l’appartamento, constatando soltanto che gli altri occupanti erano esattamente
morti come gli aveva lasciati.
“Cazzo”. L’orologio diceva che era
lì da cinque minuti, abbastanza perché altri agenti potessero raggiungere da un
momento all’altro l’appartamento.
Tornò di fretta nella stanza vuota,
e la ispezionò con più attenzione. C’era una finestra: Angelo vi guardò giù,
chiedendosi se fosse possibile uscirne senza farsi male: concluse che doveva
essere così.
“Ma che cazzo succede?”
Tornò in corridoio, e si fermò
davanti al cadavere di PercivalThorne.
- Scusa Percy.-
iniziò a frugarlo. Trovò quasi subito il cellulare. Lo mise in tasca, e si
premurò di levare il culo da lì il prima possibile.
Parcheggiò la macchina a molti
isolati da lì, e quando fu sicuro di essere fuori dalla zona di pericolo, tirò
fuori il cellulare di Percy. Scorse i nomi della
rubrica fino alla M. Marie. Chiamò.
Angelo dovette aspettare diversi
squilli, tanto che iniziò a pensare che la sua unica traccia stesse per
svanirgli tra le dita. Clik.
- Pronto?- Una voce maschile,
giovane, una parola pronunciata in mezzo ad una risata, un alone d’ubriacatura
appena accennato. Musica elettronica in sottofondo.
- Marie?- disse Angelo.
- No, Marie non c’è, è a pisciare.-
seguì una risata in sottofondo. Angelo digrignò i denti.
- Devo parlare con lei.-
- Ti ho detto che non c’è, che
cazzo insisti a fare, bello?- Altre risate, meno fragorose di prima. Poi una
voce in sottofondo, che pronunciò qualcosa simile a “è suo padre, attacca
coglione!”. E dall’altra parte, dopo qualche altro secondo di musica
martellante, riattaccarono.
Angelo sospirò. Iniziò a pensare
alle discoteche e i locali in cui potesse entrare anche un ragazzino, in quella
parte della città. E a come una ragazzina fosse fuggita dal programma di
protezione dei testimoni dell’FBI, per andarci.
L’entrata del locale dava su una
strada periferica, con pochi lampioni e diverse macchine parcheggiate lungo i
marciapiedi. Non c’era fila fuori, in fondo faceva freddo e non era sabato
sera. Un buttafuori calvo, vestito con una giacca da motociclista, si annoiava
davanti all’ingresso.
Angelo si avvicinò, suscitando la
sua attenzione.
- Vuoi entrare?-
- Sì.-
Non fece altre storie. Angelo
faceva quell’effetto alla gente dell’ambiente.
Oltrepassò il guardaroba,
fregandosene della ragazza che si trovava lì dietro, e che gli ripeté un paio
di volte di consegnare il cappotto, prima di capire che quello non era un
cliente con il quale le sarebbe piaciuto litigare.
Vicino all’ingresso c’era una zona
con dei tavoli, un bar, e le pareti nere pitturate con schizzi di vernici
sgargianti. Lì la musica era abbastanza bassa da permettere una telefonata.
Angelo rimase un attimo in disparte, osservando i vari gruppi di ragazzi che
c’erano la dentro, studenti del college perlopiù. Tirò fuori il cellulare, e
fece di nuovo il numero di Marie. Aspettò un attimo.
- Cazzo, di nuovo!- era un tavolo
vicino, cinque ragazzi, una ragazza.
- E’ ancora suo padre?-
Angelo si avvicinò, tenendo il
cellulare bene in vista.
- Non rispondere, spegnilo! Vuoi finire nei casini?- disse uno dei ragazzi ad
un altro, che teneva in mano un cellulare colorato, da ragazzina.
- Ehi.-
fece Angelo, per attirare l’attenzione.
- Aspetta, ci sono quasi.-
- Ehi!- gridò più forte Angelo,
attirando l’attenzione di tutti.
E tutti alzarono lo sguardo, portandolo
prima su di lui, poi sul cellulare nella sua mano. Sprofondarono subito in un
silenzio a metà tra la paura e l’imbarazzo, appena scalfito da un “Oh, cazzo”,
sibilato tra i denti. Angelo prolungò il silenzio qualche secondo ancora,
fissando tutti i presenti con il chiaro obbiettivo di metterli ancora di più a
disagio, e riuscendoci alla perfezione. Alla fine si soffermò sul ragazzo con
il cellulare: uno sfigato con il ciuffo e una maglietta aderente, con la bocca
aperta in una smorfia ottusa.
- Dov’è Marie?.- domandò alla fine.
- In… in
bagno. Davvero.- rispose il tizio, imbarazzato.
Quando si fu allontanato
abbastanza, Angelo poté sentirli confabulare tra di loro. Li lasciò fare. Li
lasciò pensare di essere solo un papà incazzatissimo.
Entrò nel bagno delle donne,
facendo sussultare due ragazzine vestite da troie che stavano chiacchierando
davanti ai lavandini. Le zitti e le fece andare via con un occhiataccia.
Il bagno era ricoperto da
piastrelle di ceramica bianche, sulle quali le orme sporche dei clienti avevano
portato uno spesso strato di sporcizia umida. La porta di uno dei cessi era
chiusa. Angelo vi bussò sopra. Nessuna risposta.
- Marie?-
Dentro c’era qualcuno, Angelo ne
sentiva il respiro.
- Sì.- la
risposta giunse da dietro la porta chiusa qualche attimo dopo, flebile, roca.
Come la voce di una persona che ha pianto.
- Sono dell’FBI, Marie. Esci.-
Anche questa risposta si lasciò
attendere.
Questa volta la risposta non
arrivò.
- Marie, cosa è successo? Tutto
bene?-
La ragazza non voleva saperne di
rispondere.
- Marie, puoi dirmelo. Non siamo
arrabbiati, ma i tuoi genitori sono tanto preoccupati. Avanti, su. Cosa è
successo?-
La risposta si fece ancora
attendere. Ma alla fine arrivò:
- Ero uscita con Jake, con gli altri.-
- Sei scappata dalla finestra?-
- Non…
scusi, mi dispiace così tanto, non volevo.- la voce le si spezzò in un pianto
nervoso.
- No, no, no! Va tutto bene, Marie.
Dimmi solo cosa è successo.-
La risposta arrivò confusa dal
pianto:
- Non ce la facevo più a stare in
casa, mamma e papà erano così nervosi, non ci parlavamo quasi più. E Jake mi ha mandato un messaggio che usciva con gli altri
stasera, qui. Era vicino alla casa dove eravamo e lui…
lui era così gentile, mi mancava tanto… E poi quando
sono arrivata, era un altro, voleva solo…- Di nuovo
silenzio. Angelo sospirò. Pensò un attimo a cosa dire:
- Marie, mi dispiace, ma è stato
pericoloso, te ne rendi conto? Dobbiamo tornare a casa.-
non fu nemmeno sicuro che la ragazza l’avesse sentito: aveva iniziato di nuovo
a piangere.
Angelo masticò un “porca puttana”,
ed uscì dal bagno. Non poteva trascinarla fuori, avrebbe attirato l’attenzione
di tutti. Stava già attirando l’attenzione di tutti, era nel fottuto bagno
delle donne. Tornò al tavolo, trovandolo molto meno allegro di come era prima.
I ragazzi stavano parlando tra loro. Angelo fece in tempo a sentire un “Ti dico
che non è lui!”, detto sottovoce, prima di prendere lui stesso la parola:
- Avanti, chi di voi è Jake?-
Tutti gli sguardi si posarono su
uno dei ragazzi: come aspetto era la copia di quello che aveva il cellulare in
mano prima, ma sembrava più sicuro di se, a giudicare dalla faccia. Si alzò.
- Vieni con me, ragazzo.- lo intimò
Angelo.
Arrivarono davanti ai bagni.
- Tu non sei suo padre.- disse Jake, improvvisamente.
- Non ho detto di esserlo.-
- Hai il cellulare di suo padre,
chi sei?-
- Ora tu vai in bagno, le dici che
ti dispiace, e fine della storia.-
- Scusa di cosa, di lei che mi fa
fare la figura dello sfigato davanti a tutti? E poi non mi hai detto chi cazzo
sei!- alzò la voce. La stessa voce irritante che aveva risposto al telefono.
Angelo digrignò i denti.
- Non me ne frega niente se stasera
ti ammazzerai di seghe, vai a chiederle scusa.-
- Senti, non vado da quella troia
nemmeno morto! E tu dimmi chi cazzo sei, o io chiamo la fottuta polizia!-
- No, no, no, senti tu, stronzetto.
È da quando hai risposto al telefono, che ho tanta voglia di ridurre quella tua
faccia di cazzo ad un grumo sanguinante, ma non l’ho fatto, perché sono buono e
tu potresti essere mio figlio. Quindi piantala di fare l’isterica, e chiedigli
scusa. Perché giuro su Dio, che se non lo fai, la tua faccia diventerò un grumo
sanguinante, e lo diventerà tra cinque secondi. Su.-
- Ehi, non provare a minacciarmi!
Mio padre è nell’esercito! Sei un poliziotto? Guarda che potresti perdere il
lavoro se solo.-
-Cinque, troietta.-
-Marie.-Jake bussò alla porta del bagno.
- Senti Marie. mi dispiace, okay?
Sono stato un cretino è ho tradito la tua fiducia e…
mi dispiace.- Jake lanciò un occhiata spaventata
verso l’ingresso del bagno: sapeva che Angelo era là fuori che lo aspettava.
Due rigagnoli di sangue gli colavano dalle narici, sporcandogli di rosso le
labbra.
- Ora capisco che tu sia
arrabbiata, ed è giusto così. Ora vado via, ed è okay se non vorrai parlarmi
più. Beh. Ciao.-
Jake si
staccò dalla porta: barcollò fino a fuori, desideroso di andarsene davvero il
prima possibile. Trovò Angelo dove lo aveva lasciato.
- Fatto, campione?- disse Angelo.
- Sì. Sei contento, ora?-
- Come a un bimbo a Natale. Tieni
dolcezza, pulisciti la faccia, è tutta sporca di roba rossa.- gli tese un
fazzoletto.
- Ma fottiti, stronzo.-
Angelo lo prese per il bavero, e lo
incollò al muro:
- Dato che ti interessava tanto,
sì, sono io la fottuta polizia. Quindi torna dai tuoi amici, vai a casa, e
tieni tappata quella bocca del cazzo, se non vuoi che il papà marine sappia che
porti le minorenni per night. Ok?-
Jake
rimase zitto, e andò via a capo chino. Angelo sperò che l’avesse bevuta: almeno
avrebbe avuto tempo per lasciare la città, prima che iniziassero a cercarlo. Si
assicurò che si fosse allontanato, ed entrò nel bagno.
- Marie? Va meglio ora? Pensi di
poter uscire? Dai.-
Aspettò la risposta.
- Va bene.-
Senti due piedi leggeri appoggiarsi
sul pavimento, facendo scricchiolare lo sporco. La serratura scattò, la porta
si aprì.
Davanti a lui apparve una
ragazzina, magra, una minigonna nera, capelli corti, castano chiari, e con il
trucco che le colava dagli occhi arrossati.
Diciotto anni, probabilmente.
Angelo provò a sorridere.
- Andiamo?-
La accompagnò fino alla macchina. I
suoi occhi guardavano per terra, umidi. Di tanto in tanto tirava su col naso,
le labbra le tremavano.
Le aprì la porta e la fece salire
sul sedile davanti. Appena fu seduta, alzò per la prima volta la testa verso di
lui. Occhi verdi.
- Sei dell’FBI?-
- Certo. I tuoi sono preoccupati,
pensavamo ti fosse successo qualcosa. Ora ti riporto a casa, okay?-
- Okay. Scusa.-
-Tranquilla.-
-No, intendo, scusa, posso…-
- Dimmi.-
- Posso vedere il tuo distintivo?-
Angelo la fissò. Era una ragazza
furba. Non rispose, e chiuse la porta. Sali al posto di guida, e mise in moto.
Pensò con rabbia alla nottata appena trascorsa, a quante persone l’avevano
visto in faccia. Contava comunque di sparire dalla circolazione, una volta
finito quel lavoro, di cambiare città.
Il suo sguardo sbandò un attimo
sulla ragazza, seduta vicino a lui. Lo stava ancora guardando. Riportò gli
occhi sulla guida, mentre immagini di schegge di teschio, e di grumi di materia
grigia, tornarono a farsi più vive.
La ragazza era la figlia di un
testimone ad un processo per crimini federali. Non era lei che meritava di
morire, solo suo padre, ma un solo morto è diverso da una famiglia massacrata.
Il massacro di quella notte era il segnale che i Capuzzi
erano di nuovo pronti a spaccare il culo al mondo intero, che non bisognava
cazzeggiare con loro.
Era solo una testa sopra un palo.
E continuava a guardarlo: si sentì
i suoi occhi addosso per tutto il tempo. I suoi occhi verdi.
Angelo appoggiò la borsa con le
armi sul tavolo della sua cucina, e si guardò le mani: uno schizzo di sangue,
secco. Si chiese di chi potesse essere, e quella sera aveva l’imbarazzo della
scelta.Aprì l’acqua, e ne toccò di
tanto in tanto il flusso per controllare se era diventata calda. Vi mise le mani
sotto, e chiuse gli occhi per un secondo. Le immagini della raffineria Cooper
gli scorsero sotto le palpebre: una accozzaglia di muri carbonizzati, dopo un
incendio che ne aveva decretato la chiusura. Fuori città, tranquillo come posto.
Il suo posto di riserva, l’ultima carta da giocare nel caso dovesse commettere
un omicidio lontano dal mondo, senza che nessuno se ne accorgesse.
Quando alzò le palpebre, vide che
la macchia era quasi sparita. Sfregò ancora un attimo, e sparì del tutto.
Chiuse l’acqua, e accese il tritarifiuti. Mentre le lame iniziavano a girare,
smontò il cellulare di Thorne, e ve lo infilò pezzo
per pezzo. Andò a d accendere la macchina del caffè. Mentre l’acqua si
scaldava, si sedette, e appoggiò la testa trafitta dall’emicrania sul palmo di
una mano, socchiudendo ancora un attimo gli occhi.
Aveva parcheggiato la macchina in
uno spiazzo sterrato davanti alla raffineria. Erano scesi entrambi. Lei non
aveva detto una parola, come se non capisse quello che stava per succedere,
come se non lo volesse capire. Avevano camminato insieme per un po’, fino a
essere lontani dalla strada. Angelo le aveva detto di voltarsi di schiena, e
lei aveva obbedito. Era quasi sovrannaturale come non avesse fatto resistenza.
A quel punto, la colt era uscita di nuovo dalla sua
fondina, ed era stata alzata, finché in mezzo alle due scagliette
di metallo del mirino non era comparsa la nuca bianca della ragazzina. E quella
era la fine delle immagini. L’ultima sensazione che ricordava, il grilletto
freddo che sfregava contro l’indice della sua mano. E di tanto in tanto
l’immagine di una macchia di sangue denso, che colava dal muro di una cucina.
Aveva sentito la stessa sensazione. Era stato uguale.
Angelo per un attimo si chiese se
non avesse fatto la cosa sbagliata. Valeva davvero la pena di andare contro
tutto quello che era stata la sua vita fino a quel giorno, contro il suo
lavoro, contro le persone che forse non lo amavano, ma lo stimavano e lo
proteggevano? Ne dubitava. Quella ragazzina doveva morire, era l’unico modo per
dare una coerenza alla sua vita. Il suo posto era il pavimento della raffineria
Cooper, inchiodata a terra da un proiettile.
Il caffè era pronto. Lo versò, e
tornò in soggiorno. Appoggiò una tazza sul tavolino davanti al divano. Ne
teneva un’altra in mano.
- E’ caldo. Bevilo, su.-
Marie prese la sua tazza, ma non la
bevve: la teneva tra le mani, guardandone il contenuto. Era lì con lui, nel suo
salotto: e a quell’ora sarebbe dovuta essere solo carne morta. Angelo si chiese
ancora se non stesse sbagliando. Si chiese cosa stesse facendo. E perché lo
stesse facendo.
E Marie continuava a stare in
silenzio, sul suo divano, scaldandosi le mani con la tazza di caffè. E Angelo,
in piedi davanti a lei, si chiese se non dovesse dirle qualcosa, spiegarle che cosa
stesse succedendo, cosa era successo.
- Marie, senti.- provò ad iniziare.
Bussarono alla porta. Angelo si
voltò di scatto: lo avevano trovato? Non era possibile. La polizia non si
sarebbe messa a bussare, in una situazione simile.
- Vai dietro al divano.- sussurrò
in direzione di Marie. Lei sembrava allarmata almeno quanto lui. Appoggiò la
tazza sul tavolino, e si nascose dove gli era stato detto. Angelo si avvicinò
alla porta, mise una mano sulla maniglia:
- Chi è?-
- Sono Spencer.- fece una voce allegra
dall’altra parte.
Angelo sospirò. Girò la maniglia,
facendo subito comparire davanti a lui il sorriso affettato di Spencer.
- Buonasera, signor Salerni. Allora, cosa mi dice?-
- Ho finito. Tutto è andato per il
meglio.- disse Angelo, mentre iniziò a temere seriamente il momento in cui
Spencer avrebbe trovato uno dei nomi della sua lista della spesa nascosto
dietro al suo divano.
- Signor Salerni!
Rivolgersi a lei è stata la scelta migliore che la famiglia abbia fatto da
molto tempo a questa parte!- Spencer tese una mano ad Angelo, e gli mise
l’altra sul braccio.
- Grazie, lei non si rende conto
del servizio che ci ha reso.-
Angelo stava per dire di non
ringraziare, che era tutto a posto, ma si accorse che lo sguardo di Spencer si
era improvvisamente rivolto a qualcosa dietro alle sue spalle. Guardava
qualcosa alle sue spalle.
- Signor Salerni?
C’è qualcuno con lei?- Chiese Spencer. Angelo rispose immediatamente: sapeva
che esitando avrebbe peggiorato la situazione all’inverosimile.
- Nessuno.- e riuscì a tenere il
“perché me lo chiede?” in bocca.
- Ci sono due tazze di caffè sul
suo tavolo.-
- Ne vuole una?-
Spencer rise:
- Oh, grazie! Ed io che pensavo che
non avrebbe potuto fare di meglio questa notte!- si sedette sul divano. Prese
la tazza di Marie, e iniziò a bere.
- Ottimo. Ma non lo bevo amaro, di
solito. Non è che ha…-
Zucchero. Lo teneva in cucina.
- Sì.-
Angelo non mentì, e andò a prenderlo. Nonostante sapesse che questo significava
lasciare il suo datore di lavoro a meno di un metro dalla vittima di un
omicidio che avrebbe dovuto commettere. In cucina, trovò il sacchetto dello
zucchero al solito posto, e tornò prima che poté in salotto.
Spencer lo riaccolse sorridente.
- Grazie. Mi piace il suo
appartamento: semplice, accogliente. Anch’io vorrei qualcosa del genere, ma mia
moglie non ne vuole sapere. Non ha idea di quanto spendiamo in pulizie. Troppo
grande, dico io.- E iniziò a guardarsi attorno. Torse
leggermente il busto, come per guardare dietro di lui. Dove si trovava Marie.
- Non ho preso il cucchiaino.-
disse Angelo, tutto di un fiato. Era vero, se l’era dimenticato. Spencer tornò
a guardarlo:
- Oh? Ah, fa nulla, posso… aspettare.-
- Un attimo.- Angelo tornò in
cucina, prese un cucchiaino e tornò subito di là. Per fortuna Marie non si era
mossa di una spanna, ne aveva fatto un respiro.
- Grazie, grazie.- Spencer bevve il
suo caffè.
- Allora, non c’è stato nessun
problema?- domandò subito dopo.
- Tutto nella norma.- Angelo non
voleva stare lì ad aspettare un'altra domanda. Pensò anche lui a qualcosa da
dire, in modo che quella conversazione non mostrasse quanto fosse preoccupato
in quel momento.
- Potrete stare tranquilli domani.-
- Oh, lo siamo già adesso.- Spencer
finì con un sorso il suo caffè, e mise la tazza sul tavolino.
- Non è una cosa di cui andiamo
fieri, ma non possiamo mostrarci deboli, o clementi, in una situazione come
questa. Una prova di forza, tutto qui. Ma ne avevamo bisogno.- Questo era
inaspettato. Cosa stava tentando di fare, di mostrare che aveva anche lui una
coscienza? Forse temeva una scenata da parte di Angelo, come qualche giorno
prima.
Angelo annuì silenzioso, fissando
il suo caffè. Non voleva parlare. Non voleva rispondere. Qualsiasi parola
avesse pronunciato, Spencer non sarebbe stato l’unico a sentirla.
- Non potevamo lasciarli in vita.- aggiunse Spencer.
Angelo strinse i denti.
Pochi minuti dopo, le tazze
contenevano non più di un fondo tiepido di caffé, e
Angelo accompagnò Spencer alla porta. Ancora una stretta di mano. Ancora altri
grazie.
- Perdoni la presunzione, non
voglio insegnarle il lavoro, ma ha intenzione di restare in città?-
- No. Penso che farò le valige al
più presto.-
- Entro poche ore scoppierà un bel
casino. Non si faccia trovare impreparato. Addio, Signor Salerni.
- Signor Spencer.-
Spencer tirò la porta dietro di se.
Stava per chiuderla. Angelo la bloccò con una mano. L’ospite lo guardò
perplesso:
- Cosa..?-
Angelo guardava per terra, come se
ci fossero scritte lì le parole che ora, doveva assolutamente dire. Alzò lo
sguardo:
- La ragazza... non era in casa.
L'ho trovata in una discoteca poco lontano dall'appartamento.-
Spencer sbiancò. Stava per
domandargli come mai non l'avesse detto subito. Ma si ricordò ciò che
quell'uomo aveva fatto quella notte: forse perfino un professionista come Salerni poteva restare scosso.
-E?- Fece infine, sperando che il
racconto finisse bene.
- L'ho portata in un posto sicuro.
Ho finito il lavoro lì, non la troveranno se io non voglio che la trovino.-
Spencer rifletté se ciò avrebbe
potuto causare complicazioni. Gli sembrò di no.
- Va bene. La prossima volta... me
lo dica prima.- era a disagio.
- Ci sarà una prossima volta?-
disse Angelo. Spencer sorrise.
- Buonanotte, signor Salerni.-
La porta si richiuse. Angelo guardò
il divano. Andò a sedersi in cucina, e quando si fu appoggiato sulla sedia,
mise la testa tra le mani: era tutto sbagliato. E dal salotto, soffocato dalla
distanza, sentì provenire un pianto sommesso.
Ps:Ho l’impressione che molti di voi non abbiano letto
il capitolo 14 (la macchia sul muro), che ho pubblicato la stessa settimana del
13. Vi consiglio di leggerlo, è un pezzo importante di questo ciclo conclusivo.
Sorprese
Gregory Statham
aprì gli occhi sul soffitto bianco della sua camera. L’idea che il processo
avrebbe avuto luogo entro due ore da quel momento, scacciò via immediatamente
il sonno, e tenne spalancati i suoi occhi mentre si alzava. Il suo sguardo vagò
sull’altra metà del letto, e le sue mani toccarono le lenzuola, il che era un gesto
senza senso, ma non lo sarebbe stato un mese prima, quando quella parte del
letto era occupata da sua moglie. Ogni mattina, quando controllava la cassetta
della posta, aspettava una lettera dall’avvocato di lei. Non era ancora
arrivata.
Si alzò, e trovò i vestiti sulla
sedia dove gli aveva lasciati la sera prima. Si passò una mano sul volto,
accorgendosi che la barba non era ancora lunga. La pausa in bagno che si prese
prima di vestirsi fu breve, quasi del tutto priva dei rituali del risveglio con
i quali gli esseri umani riempiono gli attimi subito dopo essere usciti dal
letto. Badò solo a lavare bene i denti: suo padre era alcolizzato, e mentre,
trent’anni prima, gli urlava contro con il suo fiato pestilenziale, si era
promesso di non avere mai un alito come il suo.
Dal momento in cui il nodo della
sua cravatta venne stretto, a quando girò le chiavi nella toppa della porta,
non passò un minuto. Ne passarono un paio fino a quando le infilò nella toppa
dell’auto.
Accese un radiogiornale a volume
basso, come al solito nonlo ascoltò.
Parcheggiò mezz’ora dopo in uno
spazio riservato alla polizia, vicino alla piazzola grigia, con al suo centro
una fontana circondata da una panchina, dove alcune impiegate in tailleur
bevevano caffè e leggevano il giornale. Lapiazza era sofrastata dall’edificio bianco del tribunale.
Trovò Pelham
seduto su di una panchina nell’atrio, piegato sotto la stanchezza. Un
cinquantenne calvo e grassottello, che arrivava a stento al metro e sessanta. Erano
ormai due mesi che lavorava fianco a fianco con lui, ma non gli riusciva
proprio di considerarlo un amico, forse a causa della sua cordialità affettata.
Lo raggiunse con la giacca sotto un braccio, e in mano un bicchiere di caffè
preso in un bar davanti al tribunale.
- Buongiorno.-
Il piccolo uomo alzò la testa,
guardandolo triste da dietro i suoi occhiali a fondo di bottiglia. Era evidente
che qualcosa non andava.
- Siamo fottuti, Greg.- disse con voce sommessa.
Statham
rimase impassibile, ma sentì una sensazione sgradevole attraversarlo. Era la
stessa che aveva provato un mese prima, a cena insieme alla donna che aveva
vissuto con lui fino a quel momento, quando lei gli aveva detto che le cose non
andavano.
- Che succede?-
- I nostri testimoni. Stanotte sono
stati uccisi.-
- Cosa?-
Pelham
riabbassò la testa, lasciando sprofondare la conversazione nel peggiore dei
silenzi. Statham appoggiò sulla panchina giacca e
bicchiere. Si sedette. Aprì e chiuse la bocca diverse volte, cercando di
iniziare a parlare. Non ci riusciva. Sentivail sangue pulsargli nella fronte.
- Non so come abbiano fatto.- fece Pelham, come giustificandosi.
- Non sai come…
Cristo, John!- riuscì a dire finalmente Statham -
Erano sorvegliati speciali dell’Fbi! Saranno stati una decina d’agenti
addestrati.-
- Sette agenti. Sorvegliavano i due
testimoni, e la moglie di uno di loro. È stato un massacro da prima pagina,
probabilmente un commando addestrato, hanno ritrovato bozzoli di almeno tre
armi da fuoco diverse.-
- Ma chi cazzo si credono di essere
i Capuzzi? John! È Chiaro come il sole che sono stati
loro, a chi cazzo d’altro interessava uccidere quei due contabili? Non posso
credere che ora ne usciranno tanto facilmente!-
- Probabilmente no. Ma ora,
stamattina la seduta sarà chiusa al massimo dieci minuti dopo l’ingresso in
aula, perché semplicemente non ci sarà niente da mostrare. Lo stato aprirà un
altro processo contro Santo Capuzzi, per incriminarlo
dell’omicidio di stanotte: passerà altro tempo, verranno spesi altri soldi. E
non so come finirà. Mi dispiace Gregory, ci hanno fregato.-
Statham
non disse nient’altro. Rimase silenzioso, composto, solo i suoi occhi
lasciavano trasparire la sua rabbia.
Lavorava da quindici anni nella
polizia. Da due mesi sognava di notte il momento in cui Santo e Antonio Capuzzi sarebbero stati messi a marcire in una prigione, in
attesa dell’iniezione letale.
- Serve che io resti qui?- chiese
alla fine.
- No.-
- Torno a casa.-
- Sì.-
mormorò Pelham, a capo chino.
Statham
si alzò. Uscì dal tribunale. Entrato in macchina, iniziò a guidare. Quando girò
la chiave, l’autoradio si accese su una canzone. Non la spense. Guidò senza
pensare a dove andava. Si fermò dopo un paio di miglia davanti ad un negozio di
alimentari. Uscì dall’auto e rientrò un minuto dopo, appoggiando sul sedile
davanti un sacchetto di carta, dal quale spuntava il collo di una bottiglia.
Tornò al suo appartamento.
Entrato in casa, buttò la sua
giacca sul divano, tirò fuori dal sacchetto una bottiglia di vodka, e la
appoggiò sul tavolo accanto ad un bicchiere vuoto. Lo riempì. Si sedette,
appoggiandosi sullo schienale fino ad inclinare la sedia. Da lì, allungando un
braccio, poteva raggiungere il divano. Estrasse dalla tasca della giacca il suo
distintivo. “Per proteggere e per servire.” Chi aveva protetto? A cosa era servito?
- Siamo patetici.- mormorò.
Lasciò cadere per terra il
distintivo. Avvicinatosi al tavolo, prese il bicchiere, e ne guardò il
contenuto. I sui denti si digrignarono fino a che li sentì quasi stridere, e la
mano si strinse intorno al vetro. Si alzò di scatto, e gettò il bicchiere
contro al muro, abbastanza forte da infrangerlo.
Si diresse di corsa nel suo studio:
sopra la sua scrivania si trovavano pile di vecchie riviste, tazze di caffè
vuote e fogli scarabocchiati e accartocciati, sovrastati da una lavagnetta
coperta da post-it e scritte. E un telefono. Prese la cornetta, e la tenne tra
l’orecchio e la spalla, mentre strappava dalla lavagna un biglietto, e leggeva
il numero scritto sopra. Lo compose.
Chiunque ci fosse dall’altra parte,
non lo fece attendere troppo.
- George? Sono Greg. Ho un
problema.-
La sveglia suonò. Angelo si alzò di
scatto, sebbene il suono arrivasse ovattato e distante dalla stanza da letto.
Si era addormentato seduto al tavolo della cucina, non ricordava esattamente
quando. Probabilmente poche ore prima. Aveva pensato molto, prima di
addormentarsi. Pensieri inconcludenti, confusi, probabilmente dolorosi. Il
sonno era stato leggero, ma finché era durato gli aveva dato sollievo. Ora,
sveglio, si ricordò di Marie, nel suo salotto. Non se ne era andata, l’avrebbe
sentita. Infatti la vide subito, sul divano: anche lei si era addormentata e la
sveglia aveva fatto il suo lavoro anche con lei. Angelo si alzò, è andò a
spegnere la sveglia, nella sua camera. Il letto era rifatto, come l’aveva
lasciato il giorno prima. Mentre spegneva la sveglia, lo guardò. Sotto si
trovava una delle sue pistole, caricata e pronta per l’uso. Era fissata alle
doghe del letto con del nastro adesivo, in modo tale da poterla staccare subito
in caso di bisogno. Con quella avrebbe potuto risolvere tutto. Non la prese,
tornò in salotto.
Marie era seduta sul divano. Quando
comparve, i loro sguardi si incrociarono. Angelo pensò di dover dirle qualcosa,
per questo aprì la bocca. La richiuse subito. Aveva ucciso la sua famiglia, e
lei lo sapeva. E continuava a guardarlo. Cosa poteva dirle?
- Io…-
provò a iniziare una frase, senza sapere come finirla. Lei probabilmente non lo
notò nemmeno.
- Grazie.- mormorò lei, così piano
che Angelo pensò di aver capito male, e non rispose nulla.
Erano circa le sei di sera, quando Spencer uscì dalla sua macchina, di ritorno dal lavoro. La sua automobile andò ad occupare il suo posto riservato, nel garage sotterraneo del palazzo in cui si trovava il suo appartamento. Prese l’ascensore, e salì diretto sino al trentesimo piano. Aveva comprato casa sua circa cinque anni prima, uno splendido salotto che si affacciava su Lincoln Park grazie a un enorme vetrata: luce perfetta, dall’alba al tramonto. Era stato quello che gli aveva fatto fare il grande passo e firmare l’assegno. Il passo successivo era stato comprare un grande tappeto indiano e un divano da diecimila dollari, nonché un ripiano di marmo per il bar, poi un altro degli obbiettivi della sua vita era stato da considerarsi ottenuto.
L’ascensore si fermò, e Spencer ne uscì, specchiandosi immediatamente nel marmo pulito dell’atrio. La porta dei vicini era aperta, come al solito: si trattava di alcuni uffici di una società di informatica, che occupava cinque piani del grattacielo. Avere dei vicini del genere dava a Spencer una sensazione piacevole, sapere di poter permettersi un appartamento vicino a stanze affittate da una multinazionale gli dava l’idea di aver ottenuto molto dalla vita.
Vicino all’entrata dell’azienda, si trovava un uomo. Spencer all’inizio non ci aveva fatto molto caso, ma mentre si apprestava ad infilare le chiavi nella sua toppa, la coda del suo occhio indagò ulteriormente su di lui: dietro a quel completo scolorito, si trovava un asiatico di media statura, anche se molto largo di spalle, dagli occhi piccoli e neri nascosti da rughe giallastre, e con una bocca sottile che solcava da una parte all’altra la sua faccia piatta e larga. Vicino ai suoi piedi si trovava una borsa da palestra grigia, con la tracolla consunta. Spencer ebbe due sensazioni: la prima era la stessa che provava ogni volta che doveva incontrare uno degli uomini che avevano a che fare con i Capuzzo. La seconda, che lo stesse guardando. La porta si aprì, e subito i pensieri riguardo all’asiatico svanirono: c’era qualcuno seduto sul suo divano.
- Chi..?- provò a dire, più sorpreso che intimorito: un ospite? Strano, di solito a quell’ora sua moglie non era ancora tornata. Però, l’uomo che stava seduto sul suo divano aveva un aria familiare, e Spencer tentò addirittura per un istante di ricordare dove l’avesse già visto, Prima che qualcuno lo spingesse da dietro, facendolo entrare a forza. L’asiatico era alle sue spalle, e stava chiudendo la porta.
- Avvocato Spencer.- lo salutò Statham, alzandosi dal divano.
- Che succede? Questa è casa mia! Lo sa chi sono?- gli gridò contro Spencer, non senza prima essersi allontanato dall’orribile orientale alle sue spalle, come per paura che potesse colpirlo di nuovo. Ma questo si limitò ad aggirarlo, fino ad arrivare al divano. Teneva in mano la borsa, che fece, una volta arrivato a destinazione, cadere a terra. Si sentì un suono metallico provenire dal suo interno. Statham dandogli le spalle, si mise a guardare fuori dalla finestra. Poi disse:
- Archibald Spencer, laureato in legge a Yalta nel 1993, eredita dal padre lo studio, conduce una brillante carriera di penalista. Stimato da colleghi e opinione pubblica. Nel 2001 fonda un’associazione per dare borse di studio a studenti provenienti dalle classi meno abbienti, che, stranamente, vede tra i suoi massimi sostenitori Antonio “Tony” Capuzzo, noto “affarista”, della nostra città. Bel panorama qui, comunque.-
- La pianti. Che cosa vuole da me?- Spencer gli si avvicinò – Pensa che non l’abbia riconosciuta? Lei era al tribunale. Sergente Statham, giusto? Beh, consideri il suo lavoro come perso. Ha appena fatto il più grande errore della sua vita!-
- In questo momento sono solo il signor Statham. Sono qui in vacanza.- Statham si voltò e spinse Spencer. Dentro il corpo secco di Statham doveva esserci una forza notevole, a giudicare da come Spencer rovinò sul suo divano, mentre si lasciava scappare un gemito spaventato. – E non provi più a minacciarmi. Il mio amico George , qui, ha avuto un adolescenza difficile in Corea del Nord. Ma non si preoccupi, ora riga dritto, finché glielo dico io. Dicevo, apparentemente l’unico legame che la unisce a Tony è quello appena citato, oltre che la sua presenza ad alcune feste organizzate di tanto in tanto nella villa dei Capuzzo. Ma io dico che non è tutto. Io dico che lei è un fottuto bugiardo, e le donazioni di Capuzzo non sono altro che pagamenti per servizi resi alla famiglia. Dico che lei è la puttana dei Capuzzo, un tramite, il passaggio intermedio tra committente ed esecutore. Una specie di preservativo per delitti. Che dice, mi sto sbagliando?-
Spencer lo fissò in silenzio. Aveva riacquistato la calma, ma in fondo non l’aveva mai persa. La sfuriata di prima sarebbe servita contro uno sbirro, pensava a quella situazione come ad un goffo colpo di mano della polizia. Capì allora che si era sbagliato. Doveva misurare le sue parole.
- Senta.- iniziò a dire – Non pensi di essere il primo che mi muove contro queste accuse. So delle attività di Capuzzo, ma non posso rifiutare i suoi soldi. Se finiscono nelle tasche di chi ha bisogno, invece che in droga e morte, non me ne faccia una colpa. Non sono il suo tramite. A quelle feste ci andavo per rappresentare la società. E il resto delle sue accuse sono semplicemente infondate. Nessuno ha mai avuto prove. E anche lei non ne ha. Ora, mia moglie sta per tornare insieme ai miei bambini. La prego, non li spaventi come sta spaventando me. La prego.-
Statham riprese a guardare dalla finestra.
- Le prove, signor Spencer – disse – Servono in tribunale. A me bastano le mie certezze. E il non trascurabile dettaglio, che io ho ragione. E lei, cazzo se non ne ha.- rise, finendo la frase – Due giorni fa, c’è stato un omicidio. Un omicidio brutale, un fottuto massacro. L’unico modo che la famiglia Capuzzo poteva usare per salvarsi il culo da un processo per crimini federali. Non mi dica che non ne sa niente.-
Spencer rimase impassibile.
- Sergente, questo sarebbe il momento giusto per andarsene.- Dopo quelle parole, pianificò di restare in silenzio. Cercavano di intimorirlo, ma non ci sarebbero riusciti. Bastava tacere.
Statham gli si avvicinò, e lo prese per una spalla:
- Mi sa che lei non ha compreso questa nostra situazione. Io so, che lei sa chi ha fatto quel massacro. Lei mi darà i loro nomi. Io li troverò, e li farò sputare una confessione. E allora i suoi amici italiani saranno molto dispiaciuti. Ora, mi dica quei nomi.-
Spencer tacque. Distolse il suo sguardo dagli occhi di Statham, e fissò la porta. Il sergente sogghignò.
- Capisco.- Guardò George. L’asiatico, era rimasto fino a quel momento calmo e in silenzio seduto sul divano. Si alzò, e afferrò Spencer per la giacca, trascinandolo a forza in direzione della finestra.
- Ehi, fermo!- Spencer provò a divincolarsi, ma una mano di George gli si strinse attorno ad un braccio. Era forte, avrebbe potuto spezzarglielo se avesse voluto. Arrivati a pochi passi dalla finestra lo lasciò cadere per terra. Lo alzò di nuovo, abbastanza veloce perché Spencer non facesse resistenza. Poi lo buttò contro il vetro, di testa. Il colpo fece vibrare i pannelli. Spencer sentì il dolore propagarsi dalla testa alla spina dorsale, e poi alla schiena, togliendogli il fiato. Mentre si rialzava da terra ne ritrovò un po’ per emettere un gemito. Sentì di nuovo le mani di George su di lui. Poco dopo, sulla finestra c’era del sangue.
Statham si avvicinò:
- Bei vetri. Resistenti. Quante volte dovremo buttartici contro prima che si rompano? O si spezzerà prima il tuo collo? O la smetterai di essere uno stronzo, e ci dirai quello che vogliamo sentire? Quanto dolore dobbiamo infliggerle ancora, signor Spencer?
- Vaffanculo.- mormorò a terra Spencer, tenendosi la tempia sanguinante.
- Siamo dei veri duri, eh? George.-
George alzò Spencer da terra. Lo alzò senza fatica, come se non pesasse nulla. Lo trascinò un attimo indietro. Questa volta voleva prendere la rincorsa. Questa volta, il vetro si crepò.
- Cazzo George, è in questi momenti che sono contento di essere tuo amico.- Fece Statham, chinandosi su Spencer. Questi si voltò supino, tossendo. Piangendo.
- E lei vuole essere nostro amico, Spencer?- Gli disse, mentre le loro facce quasi si sfioravano.
Spencer aprì la bocca, e ci vollero alcuni secondi prima che qualche suono ne potesse uscire:
- Andate via…-
Statham scosse la testa.
- George, andiamo in bagno.- George lo guardò senza capire. Statham alzò le spalle – Mi piace il suo tappeto. Non voglio sporcarlo.-
La macchina si fermò in mezzo ad un parcheggio deserto, accanto ad una tavola calda lungo la statale. Angelo scese, e si guardò intorno, ma non c'erano poliziotti lì.
- Scendi.- disse rivolto verso la macchina. Marie scese, Tenendo la testa bassa. Non l'aveva mai alzata, durante il viaggio. Non aveva mai nemmeno parlato. Aveva solo seguito gli ordini di Angelo, senza lamentarsi, senza obbiettare. L'aveva seguito prima in macchina, e poi fino a lì. Il perché non cercasse di scappare non era ben chiaro ad Angelo. Non gli era ben chiaro nemmeno ciò che stava facendo lui stesso, ma aveva smesso di chiederselo: sapeva solo che non l'avrebbe uccisa. Ma poi, nient'altro.
Marie non aveva più parlato. Non aveva più parlato dopo quella manciata di parole, appena svegliatasi. E Angelo non aveva risposto. Cosa poteva poi rispondere: “prego”? “Mi dispiace”? Aveva ucciso la sua famiglia, lei lo sapeva, eppure non sembrava arrabbiata, o disperata. Solo triste.
Entrarono nel locale, e aspettarono che arrivasse la cameriera.
- Hai fame?-
Lei scosse la testa.
- Prendo un po' di cose, così se ti viene... puoi mangiare.-
Una vecchia cameriera prese nota su un foglio, una bistecca e dei pancake, e tornò in cucina, lasciando il tavolo in silenzio. Angelo si mise una mano tra i capelli, rifletté Poi disse:
- Tuo padre... era un contabile di una famiglia mafiosa. Si era venduto all' FBI per testimoniare contro i suoi ex datori di lavoro. Per questo lui… e la sua… la tua famiglia...- Angelo alzò gli occhi vero di lei. Forse incontrò per un attimo i suoi - E te...-
- Ho capito.- disse lei, subito, veloce. Come a dire che l'argomento era chiuso.
Angelo tacque. Cercò altre parole da dire, quel silenzio gli faceva male.
- Quindi... non possiamo stare in città. I Capuzzi non devono sapere che sei viva. Dobbiamo aspettare un po' che le acque si calmino.- Angelo sapeva che erano tutte balle. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare. Prendere il primo aereo, andarsene dall'altra parte del mondo. Oppure andare con lei dalla polizia, e ridarle quello che rimaneva della sua vita. Così stava solo prolungando le cose. La stava proteggendo dai Capuzzi, certo, ma loro pensavano che lei fosse morta. Se fosse tornato in città, avrebbe avuto tutto il tempo di metterla sotto la protezione della polizia. Ma lei sapeva. Conosceva la sua faccia. Forse quella di Spencer. Sapeva tutto. Più ci pensava, più Angelo capiva di essere dentro un precario equilibrio, che non sarebbe durato in eterno.
Arrivò la bistecca. Angelo si accorse che nemmeno lui aveva fame. La tagliò. Ne mangiò un pezzo, meccanicamente. Arrivarono i pancakes.
- Perché non mi hai ucciso?- Angelo trasalì: si voltò subito verso la cameriera che si stava allontanando dal tavolo: nessuna reazione, sembrava che non avesse sentito la domanda.
Allora si voltò di nuovo verso Marie.
- Ora andiamo a prenderti dei vestiti. Non posso portarti in giro conciata così.-
- Tu non sei un uomo malvagio.-
- Eh?-
- Non lo sei. Cerchi di esserlo, per fare le cose... che hai dovuto fare.-
Angelo sogghignò.
- Non mi conosci abbastanza.-
- Come ti chiami, signor Salerni?-
Angelo non rispose immediatamente. Erano poche le persone che conoscevano il suo vero nome, e lei sicuramente non poteva essere una di quelle. Ma quando aprì la bocca per parlare, si accorse che era stufo di vivere così. Era stufo di tutte le bugie.
- Peter.- disse – Mi chiamo Peter.-
- Ora ti conosco.- gli sembrò che Marie avesse addirittura accennato un sorriso, pronunciando quelle parole. Lo prendeva in giro.
- Non fare la stupida. Pensi che quello che ho fatto ieri notte sia la cosa peggiore che ho fatto nella mia vita? Non lo è.-
- Peter, non importa cosa hai fatto. Se io ora sono viva, tu non sei malvagio.-
Peter rimase in silenzio. E, all'improvviso, iniziò a desiderare che quello che la ragazza stesse dicendo, fosse vero.
- Mangia un po'. Abbiamo ancora molte miglia davanti.-
Il cutter aprì una linea rossa sul petto di Spencer, facendolo gemere sotto il pezzo di scotch da pacchi che gli bloccava la bocca. C'erano diversi tagli su tutto il suo corpo, che gocciolavano sulla superfice candida della vasca da bagno, mentre Spencer si dibatteva al suo interno. Gli avevano fatto togliere i vestiti, poi l'avevano buttato nella sua jacuzi. Poi George si era tolto la giacca, e aveva tirato fuori il taglierino.
L'ultimo taglio doveva essere come il finale di una serie di improvvisazioni, George sembrava addirittura soddisfatto. Prese lo scotch, e lo strappò via, sapendo che Spencer non avrebbe urlato in quel momento. Era esausto.
- Basta... Dio mio, fallo smettere.- biascicò Spencer.
- Sei te che lo devi far smettere. E bastano solo pochi nomi, per farlo.-
- Non sta succedendo davvero... Dio, non so nemmeno di quello di cui state parlando...- il dolore si stava facendosi strada nella testa di Spencer: ormai le bugie non uscivano più belle come prima, dalla sua bocca. E Statham se ne accorgeva. Erano a buon punto col lavoro.
Si chinò sulla vasca. Spencer si ritirò in un angolo, il più lontano da lui che potesse.
- Senti, ma non l'hai vista la borsa? Ti sta tagliando con un cutter. Un cazzo di taglierino. Quanta roba pensi non ci sia la dentro? Roba peggiore. Peggio di quella con cui ti sta facendo frignare ora.-
- Per favore...-
- George, continua.-
L'asiatico grugnì, e si chinò sulla borsa. Tirò fuori un paio di grosse tenaglie da meccanico. Entrò nella vasca, e cercò di afferrare Spencer per un braccio. Lui si divincolò, lanciando dei gemiti acuti. La tenaglia andò a piombare sulla sua tempia, privandolo dei sensi. George lo prese per il polso, rimise lo scotch al suo posto, e lo trascinò fino al bordo della vasca. I tagli sul suo corpo, strisciando e allargandosi contro la ceramica, ridiedero coscienza a Spencer. Appena in tempo per vedere il suo polso tenuto fisso da un piede sul bordo, mentre la tenaglia si stringeva intorno ad un unghia. Spencer chiuse forte gli occhi, come se non vedendo gli avrebbe fatto meno male. Ma non fece meno male. Lo scotch tramutò l'urlo in un muggito, mentre l'unghia strappata cadeva per terra.
- Quante storie. Un unghia. Ne hai dieci, Spencer. Hai dieci cazzo di unghie. Come farai altre nove volte? Come farai quando le avrai finite, e ci lavoreremo la tua faccia, le tue dita, il tuo uccello? E la sai la cosa buffa? Abbiamo tutto il tempo del mondo. Per curare le tue ferite, iniziare tutto da capo, e poi metterci dentro del sale.-
Spencer era a terra, rannicchiato come un feto. Singhiozzava.
- Oh, Spencer. Ci spezzi il cuore. Pensavo fossi un duro, te ne stiamo facendo passare di brutte, e non hai ancora detto un cazzo. E ora piangi?- Spencer non lo guardò nemmeno. Statham si irritò. Slacciò la cintura, ed entrò nella vasca.
- Dimmi - lo sferzò, dalla parte della cinghia - quei cazzo - un altra volta - di nomi!- e ancora altre volte, urlando, fino a che anche a lui mancò il fiato. Rimase in piedi, ansimante, con le gambe divaricate, e Spencer ai suoi pedi, ricoperto di sangue, scosso da continui tremiti. George lo guardava con una certa soddisfazione, come se ne apprezzasse lo sforzo creativo. Gettò un occhiata sulla borsa, e stava per aprirla di nuovo quando sentirono qualcosa provenire dal soggiorno. Una porta che si apriva. Spencer sentì una voce di donna chiamare il suo nome, e subito si sentì morire. Statham, senza riuscire a smettere di ansimare, guardò la porta:
- Ora immagina, Spencer.- iniziò - Manderò di la George. Con tua moglie. Con i tuoi bambini. Non sei curioso di cosa succederà? Di chi stuprerà per primo? Di come renderà la tua vita un cazzo di incubo, solo perché te, figlio di puttana, non hai voluto dirci quei nomi? Eh?-
Spencer piangeva. Statham gli si buttò addosso, e gli strappo il nastro adesivo dalla bocca:
- Allora?-
- No...- Spencer riusciva appena a parlare - Non puoi farmi questo... Chi sei? Chi sei per fare tutto questo?-
- Chi sono?- Spencer si alzò. George intanto uscì dal bagno - Sono la legge, Spencer. Sono quello che sa cosa è giusto e cosa non lo è. Sono quello che tortura e uccide i pezzi di merda come te, che pisciano sopra tutto ciò che c'è di bello e sacro. E non guarderò in faccia nessuno, ne te, ne la tua troia, ne i tuoi bambini, finché non avrò avuto giustizia.-
Dal soggiorno si sentì arrivare un urlo di donna.
- No!- Spencer voleva urlare, ma dalla sua gola uscì solo un suono strozzato.
- Ora. E' la tua ultima occasione, e la loro. I nomi.-
Spencer fissò i suoi occhi arrossati su quelli freddi, lontani di Statham. Aprì la bocca.
- Dove stiamo andando?- Chiese Marie. Indossava una giacca verde militare, dei jeans e un cappellino da baseball. Si erano fermati nel negozio più vicino all'entrata dell'interstatale, e avevano preso le uniche cose che riuscivano a stare addosso alla ragazza. Ora lei sedeva nel sedile davanti, vicino a Peter.
- Da una mia amica.-
- Quella a cui hai telefonato?-
- Sì.-
- E' la tua ragazza?-
- La conosco appena. No, non lo è.-
- Ne hai una? Una ragazza, una moglie?-
Peter non toccava una donna da due anni. Era un periodo in cui i soldi nelle sue mani erano davvero diventati troppi, e avevano iniziato a trasformarsi in eroina. I ricordi erano confusi. Era fatto, nella camera di un albergo. Forse era un albergo. Con lui c'era qualcuno, una donna. Si era spogliata davanti a lui, e gli era salita addosso. Più i ricordi si avvicinavano al coito, più diventavano dei lampi di sensazioni, sequenza brevi e sbiadite come scatti di una macchina fuori fuoco. In uno di essi, nelle mani della donna era comparso un coltello. Peter fino a quel momento aveva pensato di aver rimorchiato la ragazza da un bar, e invece si era fatto fregare. All'epoca aveva già ucciso abbastanza persone da meritare una vendetta. Il coltello era sceso, diretto contro la sua gola. Peter l'aveva riparata con una mano, e il coltello si era conficcato lì. La pistola era nella giacca, ai piedi del letto. Nel lampo di ricordi successivo, era in mano sua. La fronte della ragazza era esplosa in una pioggia di sangue. Peter era venuto in quel momento.
Quella sera, aveva smesso di desiderare.
- No.- Rispose Peter.
C'erano momenti in cui voleva che Marie lo odiasse. Quella ragazza era la grande incoerenza della sua vita. E le persone che aveva ucciso erano un incoerenza in vite di altre persone. Lui le eliminava le incoerenze, era il suo lavoro. Ma non voleva eliminare quella.
- Manca molto?- domandò Marie.
- Non troppo.-
La macchina correva sull'interstatale, verso un qualche luogo.
Paul entrò nella stanza spingendo la porta con la schiena, mentre le sue braccia proteggevano goffamente un mazzo di fiori già fatto appassire da un paio di forti raffiche di vento incontrate per strada. L’ospedale era abbastanza lontano dalla metropolitana, e lui non aveva una macchina, dopo essere stato bocciato per la terza volta all’esame di guida aveva rinunciato alla patente.
- Ciao mamma!- Esclamò voltandosi su se stesso, urtando con i fiori un supporto per l’endovena abbandonato in un angolo, e subito evitandone la caduta sorreggendolo con il ginocchio. Sua madre rispose silenziosamente con un sorriso sdentato, muovendo appena la testa, e subito chinandola di nuovo sul petto. Stava sdraiata sul suo letto d’ospedale, con la schiena appoggiata per metà al muro, mentre le sue mani sgranavano un rosario di plastica bianca. Il figlio sistemò i fiori su un comodino, e si sfilò di dosso il cappotto. Lei si segnò, ed appoggiò il rosario vicino ai fiori.
- Come stai mamma?-lei sorrise.
- Grazie per essere venuto.- Glielo diceva ogni volta, dal giorno dopo lo scompenso cardiaco. E lui ogni volta rispondeva:
- Di niente, di niente.- e seguiva un silenzio che Paul trovava imbarazzante, nonostante la madre sorridesse serena, guardando qualcosa in lontananza, apparentemente sulla parete davanti a lei. Poi guardò lui:
-Che bello che sei diventato!-
- Dai, mamma.-
- Che bello essere ancora qui, e vedere il mio bambino così grande!-
Paul sbuffò, e chinò il capo arrossito verso il pavimento.
- Anche il papà sarebbe contento di te.-
“Mamma, sono un perdente, ho un lavoro che non mi piacerà mai e non mi porterà da nessuna parte, e l’unica cosa che avrebbe potuto levarmi da questa situazione non sono nemmeno riuscito a portarla a termine. Scott è morto. E allora? Cosa è cambiato?”
- Papà non è mai stato contento di me.- Mormorò Paul, sperando che la madre non lo sentisse. Forse in effetti non lo sentì, ma una mamma capisce cosa passa per la testa al figlio.
- Ti voleva bene Paul.-
- Mamma, non ne voglio parlare.-
- Paul, se sei qui, è perché qualcuno desiderava che tu ci fossi. Perché qualcuno ti ha voluto bene, nonostante tutto.-
- Nonostante me?-
- Nonostante il male che facciamo.-
Paul guardò la madre, senza più sapere cosa dirle.
- Guardiamo la tivù, okay?- si decise infine, e preso il telecomando accese su un telefilm dozzinale. Lo guardarono insieme per un ora, prima che lei si addormentasse. Paul si alzò ed uscì. Tornato in strada, guardò in alto: mentre veniva lì avrebbe giurato che stesse per piovere. Invece c’era il sole.
Se siete arrivati fino all'ultimo capitolo, immagino la storia vi sia piaciuta. Grazie mille! Lasciate una recensione, guadagnerete un sacco di punti e mi renderete contento. So che non a tutti piacerà questo finale in sospeso, ma se siete stati attenti, noterete che la storia è davvero conclusa. Angelo non è più Angelo, la sua nuova vita può iniziare. Però mi piacerebbe raccontare la storia di Peter, quindi restate sintonizzati, forse un giorno avremo un Angelo - Seconda Parte. Grazie ancora, ciao!
Vorrei raccontarvi cosa ho imparato scrivendo questo romanzo.
Lo iniziai alle superiori, avevo quindici anni e andavo matto per i film di Tarantino e i fumetti del Punitore, e volevo scrivere una cosa macha e cazzuta. Così nacque Angelo. Angelo era il protagonista di una serie di storielle, scollegate tra di loro, accomunate da un ambientazione hard boiled fatta di violenza e gente che parla in italiano come nei film americani. Avevo uno stile da latte alle ginocchia, roba tipo stese sui loro corpi un opprimente sudario intessuto di piombo e fuoco, roba che se avessi la macchina del tempo tornerei indietro e mi prenderei a schiaffi. Mentre le scrivevo sapevo che si sarebbero concluse con il ciclo di Marie, scatenato dal racconto dell’omicidio dell’attrice pornografica, scena che mi comparve in uno dei sogni più allucinati della mia vita. Ma tra me pensavo dove voglio andare a parare? Cosa significa tutto questo? Iniziai a desiderare che anche quella raccolta di storielle cariche di machismo adolescenziale portasse da qualche parte. E, dopo molti anni, ho capito dove portava.
Da poco ho letto un libro in cui si parla di narrazione e scrittura, in cui si dice che il protagonista di una storia, per essere tale, deve avere un obbiettivo, desiderare qualcosa, è questo che mette in moto la storia, che altrimenti sarebbe statica. La storia di Paul, l’aspirante avvocato ultra-sfigato, è il tentativo fallito di una persona che tenta di essere protagonista.
Mi sono reso conto da un po’ di tempo, che quello che realizza una persona, che la rende felice, non è ottenere quello che desidera. Angelo desidera soldi, desidera fare la cosa che sa fare meglio, e pensa che tutto ciò dia un senso alla sua vita. Ma inizia ad essere un uomo solo quando si rende conto di essere stato perdonato, contro ogni possibile previsione.
Credo che non abbiamo bisogno di realizzare i nostri desideri, i nostri sogni, le nostre ambizioni. Se non li realizziamo siamo frustrati, e quando li realizziamo non sono mai la gran figata che pensavamo. C’è un solo desiderio che vale la pena di essere realizzato: quello di essere amati, accettati anche se siamo un disastro completo. Quando Angelo lo capisce, smette di essere un personaggio, e diventa una persona. Così diventa Peter, non può più essere Angelo, il personaggio improbabile inventato da un ragazzino alle superiori (e che forse non esiste nemmeno, come suggerisce il dialogo tra i due poliziotti nel capitolo 13. Avete notato che nessuno chiama Angelo per nome?). Ed è per questo che la storia finisce con Paul, la storia di un amore che esiste nonostante il male che facciamo.
Tutto questo non l’ho infilato a forza nel libro, e venuto fuori da solo, scrivere mi ha aiutato a capire meglio me stesso e la mia vita. È questa la bellezza della scrittura, quello che auguro ad ognuno di voi che scrive con passione, e sa godere del proprio lavoro molto di più mentre scrive che quando controlla le recensioni.
E non lo dico per elogiarmi da solo, che sarebbe una cosa da vero sfigato, ma per invitarvi a fare altrettanto, a scrivere una cosa di cui possiate essere orgogliosi, che pensiate possa lasciare un segno. E, per favore, fate in modo che non sia l’ennesima scenetta in cui Draco Malfoy sodomizza di Harry Potter. Siete molto meglio di così.
Dzoro
Ps: il seguito di Angelo Strano è in (lentissima) lavorazione. Sarà una cosa diversa, molto realistica e cruda, ma anche con più personaggi femminili e il ritorno di un personaggio molto amato. Stay in touch.