Black Stone

di Fragolina84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Che ne sa lei degli Autobots? ***
Capitolo 2: *** Non ti si può nascondere nulla, eh? ***
Capitolo 3: *** Te l'avevo detto che potevo esserti utile ***
Capitolo 4: *** Resta con me ***
Capitolo 5: *** Pensi che arriveremo in tempo, stavolta? ***
Capitolo 6: *** Sarà una splendida giornata anche oggi ***
Capitolo 7: *** Non potevi deciderti due minuti fa? ***
Capitolo 8: *** Ho dovuto infrangere quella promessa ***



Capitolo 1
*** Che ne sa lei degli Autobots? ***


Una Camaro rossa fiammante si bloccò con uno stridore di pneumatici davanti alla sbarra che bloccava l’accesso al Dipartimento della Sanità di Washington. Davanti al solido cancello, che in quel momento era chiuso, c’erano quattro guardie armate e altre due stavano nella garitta a sinistra.
I sei soldati non erano allarmati, ma strinsero i fucili e rimasero in attesa.
La portiera di sinistra si aprì e ne uscì una ragazza. Indossava un paio di stivali color mogano con poco tacco e un paio di pantaloni neri molto attillati. Sopra portava un giubbetto di pelle sempre nero, perfettamente modellato sul seno abbondante e aderente ai fianchi stretti.
Il viso era un ovale perfetto incorniciato da una soffice nuvola di capelli corvini ribelli e spettinati, il tipo di viso adatto a stare sulle copertine dei giornali di moda. Era una splendida donna e tutti i soldati lo notarono. Ma nel loro lavoro avevano imparato a diffidare di tutto e si mantennero imperturbabili.
La ragazza si fece avanti e parlò con la guardia che le si fece incontro.
«Ho delle notizie importanti per il Nest» disse con voce chiara e la guardia trasalì, salvo poi riprendersi subito.
«Il Nest? Non so di cosa stia parlando, signora. Ora tolga di mezzo la sua auto».
La ragazza socchiuse gli occhi. «Se questo non è il Nest, di sicuro è il Dipartimento di Sanità più difeso che abbia mai visto». Parlava americano con un certo accento che l’orecchio della guardia, tuttavia, non riusciva a cogliere.
«Glielo ripeto: tolga di mezzo quell’auto» ripeté di nuovo il soldato «o sarò costretto a far chiamare la vigilanza».
La mora si avvicinò ancor di più. «Mi ascolti: i Decepticons stanno preparando un nuovo attacco. Io ho informazioni che saranno fondamentali per gli Autobots».
Quando la donna nominò Autobots e Decepticons, il soldato cambiò subito atteggiamento. Non poteva essere certo che non si trattasse di un trucco, ma non spettava a lui decidere. Vedendo che tergiversava, la donna incalzò.
«Senta, non abbiamo molto tempo» cominciò, ma l’uomo la fermò sollevando una mano.
«D’accordo» disse. «Aspetti qui».
Poi le voltò le spalle ed entrò nella garitta. Usò la radio e la donna lo vide parlare con qualcuno. Finalmente uscì e le disse che doveva attendere che il suo superiore venisse a parlarle. La ragazza si strinse nelle spalle.
«Non siete granché in fatto di ospitalità, ma va bene» borbottò e si appoggiò al cofano della Camaro, a braccia conserte, incrociando le caviglie inguainate negli stivali.
Trascorsero un paio di minuti prima che si notasse del movimento. Il cancello fu aperto e ne uscì un uomo alto, seguito da altri due soldati che imbracciavano un mitra ciascuno. Dietro il trio si fermò un gigantesco pick-up GMC Topkick nero.
L’uomo alto si fermò ad un metro dalla Camaro rossa.
«Sono il colonnello William Lennox» si presentò e la ragazza lo studiò con interesse. Era molto alto, di certo superava il metro e novanta. Aveva gli occhi castani e lo stesso valeva per i capelli, tagliati corti. Un’ombra di barba gli copriva la mascella e la ragazza notò un piccolo auricolare nero all’orecchio destro. Era un bell’uomo e i jeans e la maglietta che indossava mettevano in risalto la sua figura muscolosa ma proporzionata.
«Lei chi è?» domandò con tono marziale, forse per intimidirla.
«Mi chiamo Destiny. Ho informazioni per gli Autobots».
Quando Destiny nominò gli Autobots, Lennox non si scompose. «Che ne sa lei degli Autobots?» chiese.
La ragazza sorrise e si spostò dal cofano su cui stava ancora appoggiata. «Direi che ne so abbastanza» mormorò. Poi si girò verso l’auto. «Heaven» chiamò. E la Camaro iniziò la trasformazione.
Mentre l’auto si trasformava in un gigantesco robot, Destiny notò che anche il pick-up stava compiendo la propria metamorfosi. Girò lo sguardo su Lennox, e continuò a guardarlo mentre i due robot si mettevano in piedi e si fronteggiavano. Il pick-up puntò uno dei suoi cannoni su Heaven che, pur essendo più piccola del gigante nero che le stava davanti, rispose immediatamente sfoderando le proprie armi.
«Vedo che si è portato la scorta» commentò Destiny. Poi sfiorò la gamba d’acciaio di Heaven. «Giù le armi, Heaven» ordinò. Dopo un momento di esitazione, il robot rinfoderò le armi e rimase immobile.
Destiny si frappose fra lei e Lennox. «Ora dica ai suoi di fare lo stesso, per favore» disse, accennando alle guardie che avevano sollevato i fucili e al gigantesco cyborg che continuava a puntare un cannone al petto di Heaven.
Senza staccare lo sguardo dalla ragazza, Lennox diede pochi ordini secchi e tutti abbassarono le armi. «Anche tu, Ironhide» specificò.
L’Autobot sbuffò irritato ma abbassò le armi.
«Ok, direi che ha dimostrato le sue credenziali. Ora vuole dirmi perché è qui?»
Destiny si guardò intorno. «Qui? In mezzo alla strada?» chiese e proseguì senza attendere risposta. «Signore, le informazioni che abbiamo sono piuttosto confidenziali».
Lennox rifletté qualche istante. Non poteva esserne certo, ma con tutta evidenza quello che aveva davanti era un Autobot. La ragazza sembrava comunque controllarla senza difficoltà: appena le aveva detto di abbassare le armi, Heaven l’aveva fatto e ora era immobile, in attesa.
Inoltre, Destiny sembrava a posto. Lennox tornò a guardarla e sentì di nuovo quella strana compressione al petto. Era la prima volta che guardava una donna con quegli occhi, la prima volta dopo quella tragica sera di quattro settimane prima, quando sua moglie e sua figlia erano rimaste uccise. Si sentì subito in colpa: possibile che stesse già dimenticando?
«D’accordo» decise infine. «Mi segua».
Destiny alzò lo sguardo verso Heaven e annuì leggermente. L’Autobot riprese in pochi secondi l’aspetto di una Camaro e prese a seguire Destiny oltre il cancello di acciaio che si richiuse dietro di loro.
Ironhide continuò a sorvegliarle mentre camminavano ma quando gli passò accanto, Destiny alzò gli occhi ad incontrare i suoi. «Piacere di conoscerti, Ironhide» mormorò.
Ironhide non capiva la natura umana bene come i suoi compagni Autobots. Tuttavia era rimasto colpito da Destiny che non era parsa intimidita, nemmeno di fronte alle sue armi. Riconosceva nella ragazza lo stesso coraggio che aveva trovato nel colonnello Lennox che non aveva mai esitato ad affidargli la propria vita e quella degli umani che erano al suo comando.
Ironhide non disse nulla ma annuì di rimando e le seguì all’interno dell’edificio. La Camaro rossa continuava a seguire Destiny, vicinissima alla ragazza, tanto da sfiorarle la gamba mentre questa camminava dietro Lennox.
Destiny notò che una sezione dell’immenso capannone era occupata da diverse auto. Era un’esperta in materia e riconobbe subito una Ferrari 458 Italia e una Corvette Stingray. Entrambe erano parcheggiate e diversi uomini in camice bianco giravano intorno alle due fuoriserie.
C’erano molti soldati in tenuta di combattimento e un Hummer H2 equipaggiato come mezzo di soccorso girava per l’edificio, senza nessuno al volante. Quando arrivò vicino alla Corvette, l’Hummer si trasformò e si inginocchiò accanto all’auto argentea.
«Dirò a Que di potenziare il tuo armamento» disse.
Un vecchio Autobot canuto uscì da dietro una parete. «Ho giusto un paio di idee che potrebbero fare al caso di Sideswipe, Ratchet».
«Bene Que» rispose Ratchet. «Procedi».
Lennox proseguiva ancora e Destiny si rese conto che quel posto era veramente enorme. Passarono vicino a tre Chevrolet Impala superarmate, ognuna ferma in un box separato. C’erano gigantesche console di computer con i monitor che mostravano immagini satellitari e attrezzature fantascientifiche di cui la ragazza ignorava la funzione.
Finalmente giunsero in fondo al fabbricato dove era parcheggiato un grosso Peterbilt rosso e blu. Non aveva rimorchio e accanto a lui stava un cyborg nero e giallo: sulla fronte portava il marchio degli Autobots, stesso marchio che era ripetuto sulla calandra cromata della motrice Peterbilt.
Quando l’Autobot notò la Camaro rossa mostrò un certo interesse e sollevò due alette ai lati della testa, cosa che conferì stupore alla sua espressione. Destiny doveva essere ormai abituata a quelle manifestazioni di umanità, ma non poté trattenere un sorriso.
Due uomini in camice si fecero avanti e bloccarono Lennox.
«Colonnello, sa bene che non è permesso far entrare auto nell’edificio senza il consenso del Direttore dell’Intelligence».
A seguito degli ultimi attacchi da parte dei Decepticons le misure di sicurezza erano al massimo, ma Lennox alzò una mano a bloccare ulteriori proteste.
«Lo so, Timothy. Ma è tutto a posto».
«Questo lo decideremo noi» disse il secondo uomo ed entrambi fecero per avvicinarsi alla Camaro, ma Destiny si mise in mezzo e l’auto indietreggiò di qualche metro.
«Calma, ragazzi» disse Destiny. «Nessuno tocca la mia auto».
«Dobbiamo accertarci che non si tratti di un Decepticon» disse quello che si chiamava Timothy.
Destiny non si mosse ma girò appena la testa. «Apri il cofano, Heaven» sussurrò e la Camaro obbedì prontamente. L’Autobot giallo e nero si fece più vicino e sbirciò con interesse il motore della Camaro, mentre Destiny faceva notare il severo volto robotico di colore rosso che era il marchio degli Autobot e che era inciso sulla testata del motore.
«È sufficiente?» chiese poi, ma i due tecnici non erano soddisfatti.
«Potrebbe essere una messinscena» obiettarono e cercarono di nuovo di avvicinarsi.
Heaven indietreggiò ancora e, sentendosi minacciata, si trasformò.
«Heaven, no!» gridò Destiny, ma stavolta l’Autobot non obbedì, anche se non fece gesti bellicosi, né sfoderò le armi.
Non appena Heaven fu in posizione eretta, il cyborg giallo e nero indietreggiò di colpo, colpendo di striscio una scaffalatura su cui stavano armi e attrezzature e facendola cadere. Il trambusto fu notevole e Lennox si voltò per vedere cosa fosse successo.
«Che ti prende, Bumblebee?» domandò ma l’Autobot scosse la testa, emettendo solo qualche verso, senza staccare gli occhi da Heaven. Cercò freneticamente fra le frequenze radio finché trovò ciò che cercava.
«Tranquilla» disse ad Heaven, con la voce di un giornalista radiofonico, improvvisamente adirato con Ratchet che non era ancora riuscito ad aggiustare i suoi processori vocali danneggiati in battaglia.
«Nessuno vuole… fare il male» disse ancora, mescolando l’audio di un programma di approfondimento di politica con la voce di un predicatore religioso. Poi si rivolse agli uomini. «Autobot… non ci sono dubbi».
Ma dato che quelli ancora esitavano, anche il grosso camion che era rimasto immobile fino a quel momento, si trasformò. Sotto gli occhi ammirati di Destiny, il Peterbilt divenne il cyborg più grande che avesse mai visto.
Heaven lo riconobbe immediatamente e piegò un ginocchio a terra stringendo la mano destra a pugno e portandola sul cuore. «Comandante» mormorò.
«È un Autobot, garantisco io per lei» disse con la sua voce profonda e la tensione si allentò subito. Poi girò lo sguardo su Heaven. «Alzati, Heaven».
Mentre Heaven si rialzava, Destiny mosse un passo in avanti. «È un onore conoscerti, Optimus».
Optimus Prime si accosciò fino a trovarsi con il viso a livello di Destiny. «Sei coraggiosa, ragazza» disse e Lennox provò un incomprensibile senso di orgoglio. E non ne capiva il motivo.
«William mi ha detto che hai informazioni per noi».
La ragazza annuì e cominciò a parlare.
«Io e Heaven abitiamo a Mexico City. Siamo insieme da quasi sedici anni e non ci siamo mai mosse dal Messico. Heaven è uno dei primi Autobots giunti sulla terra ed è molto vecchia». A quelle parole Heaven borbottò e sbirciò Bumblebee di sottecchi.
«Quanto?» chiese Optimus e il nuovo Autobot prese la parola.
«Ero qui quando i tuoi fratelli Prime sacrificarono le proprie vite per mettere al sicuro la Matrice del Comando» rispose Heaven.
Optimus Prime si aprì il petto formato dalle carrozzeria del Peterbilt e le mostrò la Matrice, annidata vicino alla sua Scintilla. «Questa Matrice?» domandò e Heaven annuì. Poi Destiny riprese a parlare.
«Ci siamo stabilite a Mexico City in quanto lì era presente una fonte di Energon, energia necessaria a Heaven per sopravvivere».
Autobots e Decepticons sopravvivevano grazie all’Energon che era il loro carburante e la materia che permetteva loro di rigenerarsi e non arrugginire. Sulla Terra esistevano punti precisi in cui questo Energon era presente e gli Autobots erano in grado di trovarlo e usarlo.
«Tre giorni fa però» continuò Destiny «un Decepticon ha attaccato la fonte, distruggendola. Heaven non è riuscita a salvare l’Energon, ma ha catturato il Decepticon ed è riuscita a farlo parlare».
«Come?» chiese Optimus.
Destiny sorrise. «I Decepticons sono fondamentalmente codardi e traditori. È bastata la promessa di aver salva la vita perché si sbottonasse».
«Quindi l’avete lasciato libero?» chiese Lennox.
«Certo che no» replicò Destiny voltandosi verso di lui. «Dopo che ci ha rivelato i piani di Megatron, Heaven l’ha terminato».
Bumblebee annuì convinto. «Ben fatto!» esclamò ricevendo in risposta un sorriso di Heaven che gli fece ribollire l’acqua nel radiatore.
«E quali sarebbero questi piani?» chiese Optimus.
«Megatron ha messo le mani su una fonte immensa di Energon. Ora sta mandando i suoi scagnozzi in giro per il mondo a distruggere tutto l’Energon esistente».
«Ma perché?» chiese Lennox, girandosi verso Optimus.
«Perché quando l’avrà fatto, noi saremo tutti finiti» sentenziò il leader degli Autobots. Heaven e Destiny annuirono.
«Megatron vuole mettervi in ginocchio, in modo da poter agire indisturbato quando si sentirà pronto per conquistare il nostro pianeta» concluse Destiny. «Ma c’è dell’altro».
«Wow, questa giornata non fa che migliorare» borbottò Ironhide.
«Megatron ha messo a punto un virus» spiegò la ragazza.
«Un virus?» intervenne Ratchet. «Che genere di virus?»
Destiny stava per rispondere quando vacillò. Sarebbe caduta a terra se Lennox non fosse stato così pronto ad afferrarla. La strinse tra le braccia e la fece stendere a terra, continuando a tenerle sollevata la testa. Heaven si inginocchiò preoccupata e gli altri Autobots si fecero più vicini, finché Optimus ordinò loro di indietreggiare.
«Lasciatele un po’ di spazio, fratelli».
«Destiny» mormorò Lennox. Era la prima volta che pronunciava quel nome così particolare e lo assaporò sulla lingua. «Destiny, che succede?»
La ragazza scosse la testa e strizzò gli occhi. «Scusatemi. Ho guidato per più di trenta ore per arrivare qui e non dormo da quasi cinquanta. È solo un po’ di stanchezza». Poi alzò gli occhi verso Heaven. «Tranquilla, sto bene. Non è niente».
Lennox le passò un braccio dietro le ginocchia e la sollevò. Era leggera come una bambina eppure il corpo che teneva fra le braccia era quello di un’atleta, forte e muscoloso. Riusciva a sentirne la compattezza anche attraverso i vestiti che li separavano e dovette imporsi di non stringerla più del necessario.
Fece sloggiare uno dei tecnici dalla sua poltrona e la fece sedere. Le fece portare un caffé molto zuccherato e la ragazza lo sorseggiò riconoscente. «Va meglio ora?» chiese dopo un po’ e Destiny annuì. Poi alzò gli occhi verso Optimus che si era avvicinato.
«Come vi stavo dicendo, Megatron ha creato un virus. È in grado di attaccarvi accelerando il processo di decadimento dei vostri organismi. Quindi, mentre è impegnato a distruggere le fonti di Energon, Megatron ha per le mani un virus che vi obbliga a ricorrervi prima di quanto accade solitamente».
«C’è un antidoto per questo virus?» chiese Ratchet. In qualità di ufficiale medico, quello era il suo campo.
«No. O almeno il Decepticon non lo sapeva. Pare comunque che l’Energon rallenti il virus» disse Heaven.
«Energon che, se non ci muoveremo in fretta, sarà tutto nelle mani di Megatron» puntualizzò Optimus.
«Ma noi possiamo stare tranquilli» disse Timothy, uno dei tecnici che aveva cercato di analizzare Heaven. «Non possono arrivare alla fonte di Energon che abbiamo qui».
Heaven e Destiny si voltarono di scatto verso il tecnico. «Qui avete una fonte?»
«Certo che sì. Direi che è il minimo, con tutti questi Autobots».
«Colonnello Lennox, siete tutti in grande pericolo. Se i Decepticons lo scoprissero – e dubito che non lo sappiano già – vi attaccherebbero».
«Che vengano!» sbottò Ironhide, e Bumblebee si mise a menare fendenti all’aria saltellando sulle punte, mimando un combattimento con un immaginario Decepticon.
«Puoi stare tranquilla, Destiny» disse Lennox. «Il nostro Energon è superprotetto e non credo che Megatron disponga di forze sufficienti per attaccarci qui. Ma rafforzerò nuovamente le misure di sicurezza».
Optimus Prime piegò un ginocchio a terra. «Le informazioni che ci hai dato sono davvero importantissime, Destiny. E ti ringraziamo per esserti precipitata qui a riferirci ciò che era accaduto».
La ragazza si strinse nelle spalle. «Anche se vivevamo in Messico, non eravamo così fuori dal mondo. Le voci su di voi sono arrivate fin là e il fatto che qui ci fosse un Prime ha convinto Heaven che dovevamo assolutamente venire. Quando siamo arrivate a Washington, Heaven ha intercettato una delle vostre trasmissioni e vi ha rintracciati».
Lennox e Optimus si scambiarono un’occhiata preoccupata: se era così facile intercettare le loro comunicazioni, significava che non erano per nulla al sicuro. Ma Destiny si affrettò a spiegare: «Le intercettazioni sono una delle specialità di Heaven».
«E vi assicuro che non è stato facile forzare il vostro codice» intervenne la femmina di Autobot. «Ma sapevo cosa cercare e ci sono riuscita».
Lennox quasi sospirò di sollievo. «Va bene. Voi due resterete sotto la nostra protezione almeno per questa notte» disse rivolto a Destiny e al suo Autobot.
Destiny si alzò in piedi. «Noi due non abbiamo bisogno della protezione di nessuno, ce la caviamo benissimo da sole» disse decisa, ma vacillò di nuovo e dovette aggrapparsi al braccio di Lennox.
«Dicevi?» chiese lui in tono ironico e sorrise. Quando sorrideva il suo viso faceva ancora più attraente. Destiny ebbe l’impressione che ultimamente non gli fosse capitato spesso di sorridere perché l’uomo sembrò sorpreso di se stesso.
«D’accordo» capitolò Destiny. «Ma solo per questa notte. Domani ce ne andiamo».
Nessuno tranne Optimus notò l’occhiata che si scambiarono Heaven e Bumblebee. E quando i loro occhi si incontrarono, entrambi finsero di guardare da un’altra parte.
«E io dormo con Heaven» concluse Destiny, ma Lennox scosse la testa.
«È escluso. Heaven starà benissimo qui con gli altri Autobots, ma tu hai bisogno di riposare come si deve. Ti troveremo un alloggio». Poi, vedendo che Destiny stava per protestare di nuovo, si affrettò a proseguire. «E non è una richiesta. È un ordine».
Ormai troppo stanca per sostenere quella battaglia, Destiny chinò il capo. Il colonnello Lennox si rivolse a Optimus.
«Forse è il caso che facciate turni di guardia insieme ai miei uomini. Due Autobot e quattro uomini di ronda, oltre alle guardie fisse al cancello e sulle torrette. Che ne pensi?»
Optimus annuì e chiamò Ironhide. «Organizza i turni, per favore».
Ironhide assegnò il primo turno di guardia a Bumblebee e Dino perché sapeva che lavoravano bene insieme. Ma Bumblebee chiese di essere assegnato all’ultimo turno, senza spiegare bene il perché. Ironhide acconsentì.
Il perché divenne chiaro più tardi quando Lennox accompagnò Destiny e Heaven ad un box vuoto. L’Autobot si ritrasformò nella Camaro e si parcheggiò a marcia indietro. Destiny recuperò la propria borsa dal bagagliaio, le accarezzò il cofano e seguì Lennox che l’avrebbe portata al suo alloggio.
A quel punto anche Bumblebee si trasformò. Anche lui era una Chevrolet Camaro gialla, con le strisce da corsa nere su cofano e tetto. Passò davanti a Heaven e si sistemò nel box adiacente, sebbene non fosse il suo. Tutti gli Autobot lo notarono, ma nessuno disse nulla, anche se Ratchet e Optimus si scambiarono un’occhiata.

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Capitolo 2
*** Non ti si può nascondere nulla, eh? ***


Trovare un alloggio per Destiny si rivelò più difficile del previsto. Non c’erano missioni in corso quindi tutti gli uomini erano alla base Nest.
Quando Destiny ripeté che poteva benissimo dormire con Heaven, Lennox prese la sua decisione. «Puoi venire a stare da me. Il mio appartamento è più grande degli altri, quindi non ci saranno problemi».
«Sicuro?» chiese lei e quando William annuì, lo ringraziò.
L’appartamento del colonnello Lennox era al terzo piano dell’edificio. La porta d’ingresso si apriva direttamente sul salotto. Da un lato c’era un piccolo cucinotto mentre in mezzo alla sala c’era un grande divano, proprio davanti ad una TV maxischermo che, per quello che poté notare Destiny, era l’unico lusso della stanza.
Non c’era tavolo, ma c’erano tre sgabelli alti vicino al bancone che fungeva da divisorio tra la zona giorno e la cucina. La parete di fronte all’ingresso era occupata da un’enorme vetrata.
«Eccoci qui» disse Lennox. «Mettiti a tuo agio e fa come se fossi a casa tua».
Destiny si avvicinò alla finestra e sbirciò fuori. La vetrata non dava sull’esterno, ma sull’hangar degli Autobots. Da lì poté vedere le due Camaro, quella rossa e quella gialla, parcheggiate una vicino all’altra e il resto degli Autobots ognuno nel suo box.
«Le piace avere le cose sotto controllo, eh colonnello?» chiese la ragazza e lui le si avvicinò.
«È una necessità a volte, purtroppo». Poi le prese la borsa. «Puoi chiamarmi William comunque. Vieni».
Accanto alla cucina si apriva una porta che dava sulla zona notte. C’era una sola camera da letto con il letto matrimoniale e un piccolo bagno.
«Ti cedo la mia stanza, io dormirò sul divano» disse, ma la ragazza scosse la testa.
«Assolutamente no! Sul divano dormo io e su questo non si discute».
Lui rise del piglio autoritario con cui Destiny aveva pronunciato la frase. «Credimi, ho dormito in posti peggiori».
Ma Destiny fu irremovibile, sicché lui alla fine cedette. «Hai fame?» chiese e la donna parve accorgersi solo in quel momento di essere veramente affamata. Quindi, mentre lei faceva una doccia e si metteva comoda, William preparò degli hot dog e un po’ di insalata.
«Non è proprio un pasto da gourmet» si scusò William quando lei lo raggiunse dopo la doccia, «ma purtroppo non ho altro da offrire. Non mi aspettavo di avere ospiti».
Destiny rise e disse che la cena andava benissimo.
Terminata la cena lei insistette per lavare i piatti e quando ebbe finito lui le diede un cuscino e una coperta leggera e le augurò la buonanotte.
La ragazza, stremata, si addormentò subito. William invece rimase sveglio a lungo a fissare il soffitto. Ripensò agli eventi di quella sera, fin dall’arrivo di Destiny. Le informazioni che Destiny aveva condiviso con loro erano davvero importanti e sicuramente meritavano di essere analizzate con la massima cura.
Lo preoccupava soprattutto il discorso del virus. Gli Autobots erano diventati per lui e i suoi uomini una seconda famiglia. Più che compagni d’armi erano amici ed era preoccupato che potessero rimanere colpiti in maniera irrimediabile.
Da quando avevano cominciato a lavorare in sinergia avevano sputato sangue e olio motore insieme. Lui comandava gli uomini, Optimus gli Autobots, ma ormai avevano raggiunto un livello tale di collaborazione che non servivano nemmeno le parole.
E poi c’era Destiny. Non poteva negare che la ragazza l’aveva colpito come solo un’altra donna aveva fatto nel corso della sua vita. Si voltò sul fianco e nella luce che filtrava dalla finestra osservò la foto che stava sul suo comodino.
Ritraeva lui stesso con sua moglie Sarah e sua figlia Annie di tre anni e mezzo. Risaliva all’estate appena trascorsa e li vedeva seduti su una coperta per un picnic a Central Park. Era stata l’ultima vacanza che Lennox si era concesso con la sua famiglia, prima che i Decepticons cominciassero quella serie di strani attacchi. Prima che attaccassero Baltimora, dove abitava la sua famiglia.
Baltimora era ad appena un’ora da Washington e Sarah aveva acconsentito a trasferirsi lì per essergli più vicina. E dato che Lennox aveva a disposizione gli Autobots era in grado di coprire quella distanza in metà tempo.
La sera che il sistema aveva segnalato la presenza dei Decepticons a Baltimora, un vento gelido gli era corso giù per la schiena. In un quarto d’ora dalla segnalazione erano partiti e in venticinque minuti erano a Baltimora.
Ma era già troppo tardi. La città era già semidistrutta, con gli edifici dati alle fiamme e gruppi sparuti di civili che si aggiravano tra le macerie. C’era stata una piccola scaramuccia con alcuni Decepticons che erano tuttavia riusciti a sfuggire all’ira di Optimus e dei suoi Autobots.
Lennox aveva quindi lasciato il comando ad un altro ufficiale e aveva chiesto a Ironhide di portarlo a casa sua. Aveva guardato preoccupato dal finestrino mentre si avvicinavano al luogo dove Sarah abitava con la madre: sembrava che la devastazione più grande fosse stata fatta in quel luogo.
Quando arrivarono nei pressi della casa, Lennox gemette. L’abitazione non c’era più: c’erano solo macerie fumanti. Era sceso precipitosamente dal pick-up e urlando i nomi di Sarah e Annie aveva cominciato a scavare a mani nude.
Ironhide si era trasformato e l’aveva aiutato, scostando con delicatezza i detriti più pesanti. Ma quando le avevano trovate, era troppo tardi. Annie stava fra le braccia della madre: probabilmente Sarah aveva cercato di fuggire prima che uno dei Decepticons facesse saltare la casa.
Sarah aveva la parte inferiore del corpo schiacciata sotto una grossa trave mentre la bambina aveva il collo torto ad un angolazione impossibile. Ironhide assistette impotente mentre Lennox, singhiozzando, cercava di pulire il sangue ormai secco che era uscito dall’angolo della bocca di Sarah. Poi non resistette più e cercò di far spostare Lennox, ma questi gli si rivoltò contro.
Alla fine, Ironhide aveva dovuto afferrarlo per la vita e spostarlo di peso.
«Ora basta, William. Un uomo non dovrebbe mai vedere cose del genere» mormorò, mentre Lennox si divincolava.
«Lasciami, Ironhide. Devo andare da loro. Devo…» ma non riuscì a proseguire e si accasciò nella mano metallica del cyborg, piangendo disperato.
«Resta qui» disse Ironhide, mettendolo a terra. «Le recupero io».
Ironhide era tornato fra le macerie della casa. Aveva frugato in giro trovando alcune coperte e le aveva stese a terra. Con estrema delicatezza aveva tolto di mezzo la trave che bloccava Sarah e sollevato i corpi ormai freddi di lei e della bambina. Poi li aveva avvolti nelle coperte ed era tornato da Lennox che sedeva a terra, su quello che era stato il prato della casa.
«Dobbiamo andare, ora» disse Ironhide, riprendendo la forma del GMC. Lennox aveva quindi caricato i corpi della sua famiglia sul cassone e si era seduto accanto a quei miseri resti. Ironhide era ripartito, cercando di guidare con cautela, evitando buche e scossoni.
Quando si era ricongiunto con gli altri Autobots, Prime aveva intuito subito e aveva ordinato ai suoi di fare da scorta al veicolo che trasportava Lennox. Rientrati a Washington, organizzare il funerale era stato cosa di qualche giorno e alle esequie avevano partecipato solo pochi intimi: alcuni degli amici più cari di Lennox e tutti gli Autobots della base Nest.
Da quel giorno, Lennox si era buttato nel proprio lavoro senza concedersi tregua, probabilmente per scappare a quei ricordi che tuttavia disturbavano ancora i suoi sonni.
 E ora, appena un mese dopo quella tragedia che l’aveva quasi annientato, sentiva di provare qualcosa per un ragazza dagli occhi neri che aveva conosciuto da non più di qualche ora. E si vergognava terribilmente di ciò che sentiva.
«Mi dispiace» sussurrò alla foto e il silenzio che seguì gli pesò sull’anima.
Erano le tre e mezza quando finalmente il sonno vinse la sua battaglia e appena due ore più tardi la sveglia lo ridestò. Si alzò, fece la doccia e si preparò per scendere.
Quando entrò in salotto, sbirciò cautamente il divano. Destiny dormiva sul fianco sinistro, con il braccio piegato sotto il cuscino. Indossava canottiera e shorts e la coperta era scivolata a terra, scoprendo la pelle perfettamente abbronzata delle gambe nude.
Con molta delicatezza, William raccolse la coperta e gliela drappeggiò addosso. La ragazza sospirò, ma non si svegliò.
Diede un’occhiata dalla finestra: Heaven era ancora nel suo box, ma Bumblebee non c’era più, probabilmente impegnato nel suo turno di ronda.
Lennox decise di fare colazione alla mensa, per non disturbare Destiny che dormiva. Le lasciò un biglietto chiedendole di raggiungerlo al centro di comando non appena fosse pronta e scese. Dopo aver fatto colazione raggiunse Heaven.
«Destiny sta ancora dormendo e non ho voluto svegliarla» spiegò all’Autobot che fece lampeggiare i fari per segnalare che aveva capito.
Poi uscì per controllare la situazione all’esterno. La base si stava svegliando in quei momenti e riprendeva il proprio normale assetto. Ratchet e Bee stavano tornando dalla ronda. La Camaro salutò Lennox con un allegro sfarfallio di luci, prima di precipitarsi all’interno dell’hangar, ignorando bellamente i cartelli che ricordavano agli Autobots di muoversi a passo d’uomo.
«Ma che gli prende?» chiese Lennox a Ratchet che si era fermato all’esterno.
«A Bee?» chiese Ratchet. «Niente di che. Ha solo perso la testa per una Camaro rossa».
Lennox rise. «Quelle due hanno portato un bel po’ di scompiglio in questa base» disse, riferendosi a Heaven e Destiny.
Dato che erano rimasti soli, Ratchet si accucciò a fianco dell’umano. «Non rimproverarti per ciò che senti, William». L’uomo tacque e Ratchet proseguì. «È più che normale che tu ti senta attratto da lei».
«Non ti si può nascondere nulla, eh?».
L’Autobot si strinse nelle spalle e sorrise. Ma poi tornò subito serio. «Non hai ancora quarant’anni e sei già vedovo. Non costringerti ad una vita di solitudine solo perché credi che così sia giusto nei confronti di Sarah».
Lennox si coprì il viso con una mano. «Mio Dio, è passato appena un mese. L’amavo davvero tanto se riesco a consolarmi dopo appena quattro settimane» disse mestamente.
«Non siamo noi a decidere ciò che il destino ci mette davanti né in che tempi. Il ricordo di Sarah e Annie non ti abbandonerà mai, questo è certo. Ma non c’è motivo per il quale tu non possa rifarti una vita. Quella ragazza ha un nome importante e non credo che sia capitata per caso nella tua vita».
«Non lo so» disse Lennox, scuotendo la testa. «Sono confuso».
«È normale che tu lo sia». Ratchet si alzò e fece per rientrare nella base. «Ma, se può aiutarti, sappi che la ragazza è rimasta colpita da te almeno quanto tu da lei».
Ratchet non attese risposta ed entrò nel deposito. Lennox lo seguì lentamente, mentre le ultime parole del cyborg gli turbinavano in testa e gliela facevano sentire leggera come se fosse sbronzo. Quando passò davanti alla postazione di Ratchet, gli batté affettuosamente una mano sul muso.
«Grazie, amico» mormorò, e Ratchet fece lampeggiare le luci sul tetto.
Uno dei suoi uomini gli si avvicinò. «Colonnello, l’agente Simmons è nel suo ufficio».
«Grazie, Anton».
Quando lo raggiunse, Simmons si alzò in piedi.
«Bentornato, Seymour!» lo salutò Lennox. Simmons era stato richiamato in servizio non appena i Decepticons erano tornati. «Ti trovo bene».
Sebbene un po’ di grigio colorasse la chioma nera dell’agente Simmons, Lennox doveva ammettere che non l’aveva mai visto così in forma.
«Sai bene che questo lavoro è la mia vita» proclamò pomposamente Seymour. «Nonostante mi abbiate affibbiato questi due perditempo» brontolò, tirando un calcio che mandò il suo piede a sbattere contro la scrivania di Lennox.
«Non siamo perditempo».
L’obiezione era arrivata da un piccolo cyborg blu con gli occhi rossi.
«E cosa sareste?» domandò Simmons.
«Siamo Autobots» proruppe il secondo cyborg, ancora più piccolo, con una corona di indisciplinati capelli bianchi e un occhio più grande dell’altro.
«Wheelie, Brains» li salutò Lennox ed entrambi gli fecero il saluto militare.
«Non siete Autobots, siete Decepticons disertori» borbottò Simmons.
«Non è colpa nostra se siamo nati Decepticons» obiettò Brains. «L’importante è che abbiamo capito che non è con i cattivi che vogliamo stare».
«Ben detto, fratello!» esclamò Wheelie e si diedero il cinque.
Seymour tentò di nuovo di prenderli a calci, ma entrambi riuscirono ad evitarlo.
«Ok, ora basta» intervenne William. «Avete novità per me?»
Seymour si fece serio. «Purtroppo no. Sembra che i Decepticons siano interessati a distruggere l’Energon ma non siamo riusciti a capire perché».
Proprio in quell’istante, Lennox vide Destiny fuori dalla porta di vetro del suo ufficio e le fece cenno di entrare. Simmons si voltò e sgranò tanto d’occhi.
«Seymour, lascia che ti presenti Destiny. Destiny, questo è l’agente speciale Seymour Simmons, della nostra Intelligence».
Poi indicò i due piccoli Autobot e glieli presentò.
«Wow!» esplose Wheelie e diede di gomito a Brains. «Vedi che ho ragione quando dico che stare con gli Autobots è meglio? Dimmi, hai mai visto donne così belle tra i Decepticons?»
Brains scosse il capo e un po’ di fumo gli uscì dalla testa. Destiny ridacchiò.
Simmons la squadrò: Destiny indossava una maglietta bianca con scollo a V, i jeans e un paio di scarpe da ginnastica.
«Una criminale, senza dubbio» bofonchiò Simmons dopo averle stretto la mano.
«Ehi!» protestò la ragazza. «Moderi le parole, non mi conosce nemmeno».
«Non ti conosco, ma sei gnocca. E questo per me è sufficiente: gnocca uguale criminale».
Destiny non capiva e cercò lo sguardo di Lennox per chiedergli aiuto.
«Lascia stare, ti spiego dopo». Quindi si rivolse a Simmons. «La ragazza ha informazioni nuove».
Quando ebbe ascoltato la storia di Destiny, Simmons rimase in silenzio per un po’. «È una brutta faccenda» disse infine.
«Già. Voglio che torniate là fuori con queste nuove informazioni e cerchiate di saperne di più. Soprattutto del virus. È fondamentale capirci qualcosa per essere pronti a proteggere gli Autobots».
Simmons si alzò all’improvviso, facendo sobbalzare Destiny.
«D’accordo, puoi contare su di noi» esclamò e con passo marziale raggiunse la porta.
«Muoviamoci, teste di transistor» disse rivolto a Wheelie e Brains che salutarono Destiny e Lennox e si affrettarono ad uscire.
Quando rimasero soli, Destiny scosse la testa. «Quel Simmons mi sembra totalmente svalvolato».
Lennox scoppiò a ridere. «Sì, può dare questa impressione. Ma è bravo nel suo lavoro e farebbe di tutto per contrastare i Decepticons e proteggere gli Autobots».
Stava ancora ridendo quando alzò gli occhi e la risata gli morì in gola. Charlotte Mearing stava raggiungendo il suo ufficio a passo di carica.
«Che succede?» chiese Destiny notando la sua espressione.
«Niente. Lascia parlare me».
La donna entrò nell’ufficio senza bussare. Indossava un vestito di sartoria e un paio di scarpe sportive rosse che stonavano con l’abbigliamento formale. I capelli biondi erano raccolti in una coda e gli occhi azzurri saettarono per un attimo su Destiny, prima di fermarsi su Lennox.
Era seguita da un’orientale con gli occhiali e una quantità di borse appesa alle spalle esili.
«Che novità è questa, colonnello?» chiese.
«Buongiorno, direttore. Destiny, voglio presentarti il direttore dell’Intelligence nazionale Charlotte Mearing».
Destiny tese la mano ma l’altra ignorò il gesto. «Da quando in qua forniamo asilo a tutti gli Autobots che si presentano ai nostri cancelli?» inveì invece.
Lennox capì che doveva essere stata informata dell’arrivo di Heaven. «Si riferisce alla Camaro rossa? Si chiama Heaven, è l’auto di Destiny».
«Non mi interessa!» tuonò la Mearing. «Questa è una base segreta, non possiamo far entrare cani e porci!»
«Cani e porci?» ripeté Destiny. «Siamo venute qui per…» ma non riuscì a proseguire perché la bionda la interruppe.
«Non mi pare di averla interpellata, signorina».
Destiny indietreggiò come se l’avessero colpita, ma si riprese in fretta. Lanciò uno sguardo verso Lennox che sembrava sconvolto quanto lei. Senza dire una parola girò sui tacchi e uscì.
«Destiny!» la chiamò il colonnello, ma lei non si voltò.
Heaven non era nell’area dove aveva dormito. Destiny si guardò intorno e la vide trasformata accanto agli altri Autobots. Sembravano impegnati in una specie di addestramento con gli umani a cui lei non stava comunque prendendo parte.
«Heaven!» urlò e l’Autobot si girò di scatto. «Ce ne andiamo».
Lennox l’aveva raggiunta e la prese per un braccio, ma la ragazza si divincolò.
«Aspetta, Destiny! Devi scusare il direttore Mearing. Ma quando le avrai parlato…»
«Hai sentito, no? Non sono stata interpellata».
Lennox lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e Destiny si voltò verso Heaven.
«Muoviti!» sbottò, e il cyborg riprese le sembianze della Camaro.
«Non andare» mormorò Bumblebee, ma la ragazza lo ignorò.
«Addio, colonnello Lennox» sussurrò con voce spezzata e salì in macchina.
Partì sgommando e lasciando neri segni di gomma sul pavimento. Quando arrivò al portone del deposito guidò l’auto in una stretta sbandata controllata e uscì. Le guardie si affrettarono ad aprire i cancelli e la ragazza si lanciò in strada senza nemmeno controllare il traffico, facendo fischiare le gomme sull’asfalto, e beccandosi una serie di coloriti insulti da un paio di automobilisti che avevano frenato di colpo per evitarla.
Lacrime di rabbia e frustrazione scendevano dai suoi occhi e lei le asciugò con il dorso della mano. Si fermò poco fuori città, in un motel.
Quando era partita da Città del Messico non aveva avuto molto tempo per fare i bagagli, quindi aveva solo una piccola borsa con qualche cambio. Purtroppo nella fretta di partire dal Nest non l’aveva recuperata, quindi il giubbotto di pelle, gli stivali e il resto delle sue cose erano rimasti nell’appartamento di Lennox. Aveva solo il suo zainetto che conteneva il cellulare, il portafoglio e pochi effetti personali.
Per fortuna sull’altro lato della strada rispetto al motel c’era un piccolo centro commerciale. Comprò qualche capo di biancheria e qualche maglietta e si rifugiò nel motel. Heaven era chiusa in un silenzio offeso, ma Destiny non aveva voglia di curarsene.
Quando scese il buio non aveva ancora deciso cosa fare. Fece una doccia e ordinò una pizza che le consegnarono in camera. Poi si mise a letto, ma si rigirò inquieta fra le lenzuola per un bel po’.

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Capitolo 3
*** Te l'avevo detto che potevo esserti utile ***


Destiny era finalmente riuscita a prendere sonno quando fu svegliata da un rombo, come di centinaia di aerei che passassero a volo radente nel cielo sopra il motel.
Si precipitò giù dal letto e guardò fuori dalla finestra. Non erano centinaia di aerei, ma una sola, mostruosa, macchina aliena. Passò rombando sopra il motel, spinta da due potenti reattori. Altre due navi più piccole la seguivano a distanza. Mentre osservava, tre grossi Suburban neri passarono sulla strada, colpendo un’utilitaria che veniva in senso contrario. I tre veicoli proseguirono indenni, mentre la piccola auto finì nella vetrina di una lavanderia.
Destiny capì immediatamente cos’erano. «Decepticons» mormorò.
Heaven mise in moto e fece rombare il motore. La ragazza si vestì in fretta e si precipitò fuori. Heaven le aprì la portiera e partì non appena fu a bordo, sollevando un polverone nella ghiaia del parcheggio.
Destiny sapeva che la sua Camaro era più veloce dei Suburban, ma a giudicare dalle dimensioni, se si fossero trasformati nella loro forma robotica sarebbero stati un osso troppo duro per Heaven, soprattutto perché era sola.
«Puoi inserirti nelle frequenze radio della base Nest e avvertirli del pericolo?» chiese a Heaven.
«Ho già provato. Li hanno isolati, probabilmente c’è Soundwave nei paraggi».
Tanto tra gli Autobots quanto tra i Decepticons c’erano nomi conosciuti. Erano guerrieri leggendari delle due fazioni, come Optimus Prime. Soundwave era lo specialista delle comunicazioni per i Decepticons e uno dei fedeli luogotenenti di Megatron.
«Allora dobbiamo cercare di arrivare prima di quei tre maledetti Decepticons» disse Destiny e strinse più forte il volante. Ormai era in vista dei tre veicoli neri e non voleva che si accorgessero di lei, quindi scalò una marcia e svoltò su una strada laterale.
Doveva arrivare prima di loro e contava sulla maggiore velocità di Heaven per riuscirci. Doveva avvisare gli Autobots per far sì che non si trovassero del tutto impreparati. Ricordava benissimo le parole del colonnello Lennox: credeva che Megatron non avesse forze sufficienti per attaccare. Anche se aveva innalzato al massimo le misure di sicurezza, lo schieramento di forze poteva non essere sufficiente. I Decepticons non si sarebbero fatti scrupoli ad attaccare, mentre gli Autobots avrebbero dovuto tener conto della salvaguardia degli umani.
«Li abbiamo superati» annunciò Heaven, che teneva d’occhio il sistema satellitare.
Destiny guidava come una pazza per le strade secondarie. C’era un altro motivo che la spingeva a premere a tavoletta l’acceleratore, anche se non voleva ammetterlo con se stessa. Ma mentre sfrecciava per le strade di Washington, c’era un viso davanti ai suoi occhi.
Si distrasse un attimo e la ruota anteriore destra colpì di striscio il marciapiede. La velocità era eccessiva e Destiny perse il controllo, finendo in testacoda e in quel momento un’auto sbucò da una via laterale.
Heaven non perse tempo: si trasformò a metà, dandosi lo slancio per saltare l’ostacolo e Destiny vide la faccia sconvolta del guidatore mentre passavano a non più di un metro dal tetto della sua berlina blu.
«Vuoi che guidi io?» chiese Heaven mentre atterravano indenni e riprendevano a sfrecciare in direzione del Nest.
«No, ce la faccio» disse Destiny, rimproverandosi per la disattenzione.
«Cerca di stare concentrata. Non vale la pena ammazzarci per recuperare una giacca di pelle e un paio di stivali» disse Heaven e la ragazza sogghignò.
«Non è per quello che stiamo tornando al Nest a tutta velocità?» chiese il robot quando non ebbe risposta. «O forse c’entra qualcosa un certo colonnello?» concluse, lasciando la frase in sospeso.
«O una certa Camaro gialla e nera?» rispose Destiny.
«Touché!» esclamò Heaven e ridacchiò. Poi si fece seria. «Tempo stimato per l’arrivo al Nest, novanta secondi».
Destiny svoltò bruscamente a sinistra e si immise sulla strada principale. I Suburban neri non si vedevano ancora, ma i tre velivoli che l’avevano svegliata erano poco dietro di lei. Uno dei due più piccoli si staccò dalla formazione e scese di quota. Probabilmente capì che si trattava di un Autobot perché lanciò due missili che si staccarono da sotto le ali e partirono con uno sbuffo di fumo.
Destiny li teneva d’occhio nello specchietto laterale e scartò di lato quando il primo abbassò la testata per colpire. Il missile esplose sulla strada, lanciando pezzi d’asfalto tutt’intorno. Destiny riuscì ad evitare anche il secondo proiettile con un’abile manovra, ma anche la seconda nave stava scendendo per unirsi all’attacco.
Ora riusciva a vedere la base ma non poteva comunicare con loro per avvertirli. Sperò che le due esplosioni li avessero messi in allarme.
Arrivò in derapata davanti al cancello e, tra lo stupore delle guardie, Heaven iniziò la trasformazione e saltò la recinzione, atterrando all’interno. Posò a terra Destiny e si mise completamente eretta, girandosi per fronteggiare i Decepticons che sarebbero arrivati di lì a poco.
All’udire quel trambusto alcuni soldati uscirono dalla base. Tra loro c’era anche Lennox e Destiny ebbe un tuffo al cuore quando lo vide. Dino e Ironhide, che probabilmente stavano effettuando la ronda, si fermarono accanto a Destiny.
«Che succede?» domandò Dino mentre le lame fissate alle sue braccia mandavano lampi.
«Decepticons in arrivo» gridò Destiny e ci fu immediatamente un gran trambusto. Ironhide si abbassò su di lei. «Quanti?» domandò.
«Tre Suburban stanno arrivando a tutta velocità da ovest e ci sono tre navi aliene a meno di un minuto da qui. Le due più piccole mi hanno attaccata».
Ci fu un’esplosione e un angolo del palazzo andò in frantumi. Istintivamente, Heaven e Dino si accucciarono sugli umani, proteggendoli dai detriti.
«Uomini, ai posti di combattimento!» urlò Lennox e trascinò con sé Destiny mentre rientrava nell’hangar.
«Optimus!» gridò quando lo vide già trasformato. Al suo fianco stava Bumblebee i cui occhi si illuminarono quando vide Heaven. «Siamo sotto attacco, amico» disse, mentre un’altra potente esplosione faceva tremare il palazzo.
«Vogliono distruggere il vostro Energon» fece notare Destiny.
«Autobots!» gridò Prime. «A me».
Tutti gli Autobots si trasformarono e corsero fuori, mentre Optimus abbassava lo sguardo su Heaven. «Sei in grado di combattere?».
Per tutta risposta Heaven fece uscire dal braccio destro il suo cannone al plasma e lo armò.
«Molto bene! Uno in più ci servirà».
Scambiò un cenno con Bumblebee e insieme si precipitarono fuori.
«Sta attenta là fuori, Heaven» raccomandò Destiny prima che l’Autobot uscisse dal portone. Poi si voltò verso Lennox. «Dimmi come posso aiutarti».
«Ti faccio evacuare con il resto dei civili» rispose lui risoluto, trascinandola verso la parte posteriore del capannone, mentre le esplosioni si susseguivano sempre più ravvicinate e le raffiche di mitragliatrice cantavano la loro melodia di morte.
«Io non me ne vado» replicò lei, piantando i piedi. Ma Lennox era molto più forte di lei e la tirava quasi senza sforzo. «Lasciami, William» sbottò alla fine e lui si fermò di colpo.
«I miei uomini stanno morendo là fuori, non posso occuparmi anche di te, Destiny» disse, afferrandola per le braccia. «Ho bisogno di saperti al sicuro, capisci?»
«Non posso abbandonare Heaven» replicò la donna.
«Heaven se la caverà. Bumblebee è uno dei nostri guerrieri migliori e non permetterà a nessuno di toccarla».
Erano in mezzo ad un pandemonio di grida e imprecazioni, immersi in una fiumana di gente che cercava di fuggire. Un soldato con l’uniforme impolverata e un segno insanguinato sulla guancia venne a cercare Lennox.
«Colonnello, abbiamo bisogno di lei».
«Devo andare, Destiny. Ora ascolta: mettiti al sicuro, qui ce la caveremo. Anche Heaven combatterà più concentrata sapendoti al riparo». L’ennesima esplosione quasi coprì la sua voce e tutti si abbassarono istintivamente. Poi chiamò il soldato. «Assicurati che la ragazza lasci il palazzo con il resto dei civili, ok?»
L’uomo annuì e Lennox tornò a guardarla e si accorse che non era mai stata più bella, con quei grandi occhi neri che sembravano volergli leggere l’anima. «Andrà tutto bene, non è la prima volta che ci scontriamo con i Decepticons, credimi». E sorrise.
«Sta attento, Will». Lo disse con un tono supplice che gli fece salire un nodo in gola. Annuì e corse via, lasciandola con il soldato.
Mentre correva per raggiungere i suoi uomini e gli Autobots all’esterno recuperò il suo giubbotto antiproiettile e il suo Bushmaster ACR, la sua arma preferita. Controllò di avere caricatori a sufficienza, sgombrò la mente da un paio di splendidi occhi neri e uscì.
Nei pochi minuti che gli erano serviti per allontanare Destiny, la situazione era drasticamente cambiata. E dalla rapida occhiata che Lennox gettò intorno, capì che le cose non si mettevano bene per gli Autobots.
Erano ancora tutti in piedi, ma proprio mentre guardava Topspin si accasciò. Ironhide lo coprì mentre Ratchet lo trascinava via. Doveva essere ferito, anche se Lennox non sapeva in che misura. Si dedicò a organizzare i suoi uomini in posizioni difensive, passando da una postazione all’altra. Purtroppo i Decepticons continuavano a bombardarli dall’alto, mentre altri tenevano impegnati gli Autobots che non potevano aiutare gli umani.
Lennox vide Heaven e Bumblebee battersi spalla a spalla. Erano più piccoli e più agili di molti loro fratelli, quindi schivavano e sparavano con una velocità inaspettata. Insieme bloccarono un Decepticon in un angolo e lo tempestarono di colpi. Heaven lo prese per la collottola e lo spinse con la testa contro il muro di cemento armato dell’hangar. Olio e metallo uscirono dalla testa fracassata del cyborg ma era ancora vivo almeno finché Bee si girò di spalle, afferrò la testa del robot e la strappò, facendo leva sulle spalle. Lasciando a terra i resti fumanti del nemico si gettarono di nuovo nella mischia, in cerca di un altro bersaglio.
Gli uomini di Lennox stavano facendo del loro meglio per coprire gli Autobots, ma la battaglia infuriava e loro erano isolati, senza possibilità di richiedere rinforzi. Dovevano cavarsela da soli, ma i Decepticons sembravano moltiplicarsi, mentre gli Autobots cominciavano a dare segni di cedimento. Anche Ironhide era ferito e si teneva il fianco. Dino aveva perso una delle lame fissate alle braccia. Ma nessuno si arrendeva, nessuno voleva mollare. Non era nella loro natura.
Optimus Prime continuava a combattere e il suo coraggio risollevava il morale dei suoi e anche degli umani. Sembrava inamovibile come una montagna e, sebbene ammaccato e forse ferito, non gettava la spugna.
Mentre continuava a sparare, Lennox vide Heaven voltarsi di scatto. Raggiunse in fretta il palazzo e abbatté una delle grande vetrate con un pugno. Era un comportamento strano da tenere nel bel mezzo di quella furiosa battaglia. La vide toccarsi la gamba destra e staccare qualcosa che lanciò all’interno del palazzo.
Una granata esplose poco distante e lui dovette abbassarsi. Il soldato vicino fu colpito in pieno dalle schegge e una gli si conficcò nel collo, recidendo l’arteria. Mentre il soldato veniva soccorso dai compagni, Lennox tornò a guardare avanti; Heaven era tornata a combattere con gli altri.
Lennox capì che se voleva dare una mano agli Autobots doveva portarsi più in alto. Gli occhi erano una parte molto vulnerabile di ogni cyborg, ed era lì che dovevano colpire. Ma per farlo doveva salire più in alto con i suoi cecchini.
Mentre Leadfoot faceva cantare le sue mitragliatrici Brownig innaffiando i Decepticons, Lennox approfittò della copertura per organizzare i suoi uomini. Stava indicando che dovevano salire a livello delle finestre più alte o addirittura del tetto quando dalla vetrata che Heaven aveva sfondato vide uscire qualcosa. E quando si piantò preciso nell’occhio destro del Decepticon con cui stava combattendo Optimus Prime, capì che era un dardo. La freccia, dotata evidentemente di una carica, esplose e il cyborg, ululando di dolore, si accasciò. Optimus ne approfittò per finirlo; poi si voltò verso il palazzo e fece un cenno con il capo, come a ringraziare per l’aiuto.
In quel momento, Lennox ebbe il terribile sospetto di sapere chi avesse lanciato la freccia. Raccolse i suoi uomini e, mentre una seconda freccia volava in una parabola precisa e colpiva un Decepticon che stava per abbattere la sua scure d’acciaio su Sideswipe facendolo barcollare quel tanto che bastava perché l’Autobot si rialzasse e lo colpisse, rientrò nel palazzo.
Salì precipitosamente le scale fino all’ultimo piano, mentre i colpi continuavano a tempestare l’edificio che cominciava a cedere. L’ultimo piano era deserto, sgomberato anni prima quando il vero Dipartimento di Sanità era stato trasferito in altra sede. Era buio perché la luce era andata via quando i Decepticons avevano fatto saltare anche i generatori ausiliari. Era difficile orientarsi, ma poi il lampo di un’esplosione all’esterno illuminò tutto come un palcoscenico e lui la vide.
Destiny era in piedi e stava tendendo l’arco. Lo teneva con la sinistra e gli voltava le spalle, mentre con la destra attirò a sé la freccia. Prese la mira con cura e la scagliò. Imprecò quando il dardo non andò a segno, ma si chinò subito per recuperarne un’altro.
Lennox segnalò ai suoi uomini di prendere posto e Destiny si voltò appena quando lui le si avvicinò.
«Mi dispiace di averti disobbedito, William» mormorò lei. «Ma non avrei mai abbandonato Heaven. E poi te l’avevo detto che potevo esserti utile».
«Non parlare» sbottò lui, in tono burbero per nascondere il sollievo di averla vicina. «Continua a tirare».
I suoi uomini erano equipaggiati con LaRue Tactical OBR calibro 7.62 e da quella distanza non potevano sbagliare.
«Mirate agli occhi» ricordò Lennox. «Fuoco!».
La battaglia si era trasformata in una serie di conflitti isolati, dove gli Autobots combattevano praticamente soli o in coppia contro i nemici. Gli uomini di Lennox spararono e fecero subito un paio di centri, ma dovevano stare attenti a non colpire i loro. Il colonnello sbirciò l’arco di Destiny la cui corda continuava a cantare. Era chiaramente tecnologia aliena e ricordò che Heaven si era toccata la gamba prima di gettare qualcosa all’interno del palazzo. Evidentemente Heaven portava l’arco attaccato alla gamba, pronta a lanciarlo a Destiny in caso di bisogno. Quelle due erano davvero formidabili.
Lennox tornò a guardare la battaglia. Gli Autobots erano in inferiorità numerica e nuovi Decepticons continuavano ad arrivare. Si rese conto che non avrebbero potuto trattenerli ancora per molto.
Alcuni Decepticons erano rimasti al di fuori del conflitto, sul tetto dell’edificio di fronte. Quando si alzarono, Lennox li riconobbe subito.
Megatron era il più alto e massiccio dei tre. Gli occhi rossi brillavano di eccitazione mentre seguiva dall’alto lo svolgimento della battaglia. Era il leader dei Decepticons, l’antagonista numero uno di Optimus Prime. Megatron vedeva nella Terra un pianeta da sfruttare e nell’umanità intera una massa di schiavi da piegare al suo volere.
Alla sua destra stava Starscream. Più che un luogotenente era il galoppino di Megatron. Era più piccolo e la differenza di dimensioni era evidenziata dal fatto che restava sempre un po’ curvo, in perenne ossequio del suo signore.
Ciò che preoccupava veramente Lennox era il cyborg sulla sinistra. Era Shockwave, comandante delle operazioni militari dei Decepticons. Scrutava il combattimento con il suo unico occhio rosso, ma ciò che turbava di più il colonnello era che dove c’era Shockwave c’era anche Driller.
Lennox si affacciò alla finestra. «Optimus!» gridò a gran voce e nonostante il frastuono della battaglia, Prime lo sentì e si voltò. Lennox indicò il tetto del palazzo di fronte e Optimus seguì il gesto, dopo aver strappato un braccio al cyborg con cui stava combattendo.
Destiny aveva finito i dardi e si affacciò proprio mentre un cyborg grande due volte Heaven la atterrava. «Heaven!» urlò, impotente, mentre il Decepticon la schiacciava a terra con un piede enorme.
Destiny avrebbe voluto precipitarsi giù per aiutarla, ma Lennox glielo impedì, chiudendola nel cerchio delle sue braccia. «Non puoi fare nulla per lei, Destiny». La ragazza sapeva che aveva ragione: non poteva competere con il cyborg, e rimase lì, orrendamente attratta da quella scena, mentre le lacrime cominciavano a scendere dai suoi occhi alla vista dell’amica in difficoltà.
Heaven tentò di fare fuoco con il cannone sul braccio, ma un altro nemico glielo impedì, sbattendole violentemente il braccio a terra. Le lamiere scricchiolarono e l’Autobot gridò di dolore.
«Sei finita» borbottò con voce cavernosa e al posto del suo braccio destro comparve una lunga lama. Si puntellò per colpire Heaven al centro del petto dove ardeva la Scintilla che le dava vita, mentre Destiny nascondeva il viso nell’abbraccio di William.
Ma la spada non calò. Il cyborg gigante rimase bloccato in quella posizione, mentre la testa gli esplodeva in una vampata di fuoco. Cadde a terra con un tonfo e lì rimase, mentre Bumblebee ricaricava il cannone con cui aveva fatto fuoco.
Calpestando il nemico che aveva abbattuto lo superò e afferrò l’altro Decepticon, quello che aveva tenuto bloccato il braccio di Heaven e che in quel momento stava tentando di fuggire.
«È troppo presto per andarsene, amico» disse con aria truce. Lo prese per le braccia da dietro, gli piantò un piede al centro della schiena e tirò, strappandogli entrambe le braccia.
Sollecitata da Lennox, Destiny guardò in basso e si asciugò le lacrime mentre Heaven si rialzava fulminea come una vipera. Mentre Bee lo teneva fermo gli fece saltare la testa con un colpo. Poi accarezzò Bumblebee con uno sguardo dolcissimo. «Grazie» sussurrò.
Il fuoco dei cecchini di Lennox aveva infine attirato l’attenzione di Shockwave che ruggì un ordine. Immediatamente, due Decepticons girarono le loro mitragliatrici contro il palazzo.
«Giù!» gridò Lennox e spinse a terra Destiny, stendendosi su di lei per proteggerla. Il bordo della finestra si sgretolò sotto i colpi. Due uomini di Lennox furono falciati immediatamente e caddero. Gli altri riuscirono a mettersi al riparo.
«Dobbiamo andarcene di qui» gridò Lennox all’orecchio di Destiny. La ragazza annuì. Recuperò il suo arco e strisciò al fianco di William. Guadagnarono la porta e stavano scendendo le scale quando un terremoto squassò l’edificio. Non c’era stata alcuna esplosione e Lennox capì immediatamente.
La loro fonte di Energon era conservata in un caveau sotterraneo. I Decepticons dovevano averlo capito e ora Shockwave aveva messo in campo la sua ultima pedina: Driller. Si trattava di un mostruoso Decepticons tentacolare, una supertrivella aliena in grado di abbattere ogni cosa sul suo cammino. Lennox l’aveva visto in azione una volta soltanto e in quell’occasione nemmeno Optimus era riuscito ad averne ragione.
Fece appena in tempo ad afferrare Destiny per un braccio e a tirarla verso il muro che il pavimento esplose. La potentissima trivella di Driller macinava il cemento armato come fosse inconsistente. La scala di acciaio su cui stavano vacillò pericolosamente e l’ultimo tratto, quello che portava al pavimento, crollò. Uno degli uomini di Lennox cadde urlando e fu risucchiato dalla trivella del mostro d’acciaio.
Sparare contro quel mostro era inutile. Lennox trascinò con sé Destiny, cercando di riguadagnare il piano superiore, unica via di fuga che gli fosse rimasta. Il mostro d’acciaio notò gli uomini sulla scala e lanciò i suoi tentacoli.
L’uomo alla sinistra di Destiny fu colpito in pieno e la donna soffocò a stento un grido. Il tentacolo di metallo lo tranciò a metà, e l’uomo morì sul colpo, scivolando giù dalla scala. Ma Lennox non le permise di fermarsi. La teneva ancora per mano e la fece passare davanti a sé. La spinse a salire, nonostante la scala fosse pericolante e instabile.
Furono i soli a riuscire a salire: tutti gli otto uomini che avevano messo piede sulla scala furono uccisi e caddero nelle fauci metalliche di Driller. Destiny era già sul pianerottolo e Lennox la stava raggiungendo quando Driller afferrò l’ultimo tratto di scala con uno dei suoi tentacoli e tirò. La scala fu divelta dai sostegni a muro e precipitò di sotto.
William riuscì per un soffio ad aggrapparsi al bordo del pianerottolo. La ragazza si gettò a terra e lo aiutò a tirarsi su, afferrando le cinghie del giubbotto antiproiettile e aiutandolo a salire. Mentre scalciava per issarsi, una delle appendici di Driller lo colpì di striscio ad una gamba e gli aprì un taglio lungo il polpaccio. Ma con l’aiuto di Destiny ben presto fu in salvo. Seduto a terra, Lennox guardò in basso: poteva star certo che il loro Energon era perduto e faticava a credere che l’edificio potesse stare in piedi dopo quell’assalto. Quasi a confermare la sua impressione, la costruzione tremò.
«Dobbiamo muoverci» disse Destiny. Lennox si alzò e zoppicando leggermente si affacciò cautamente alla finestra da cui avevano sparato poco prima.
Capì subito che dovevano abbandonare la battaglia. Molti Autobots erano erano feriti e vide tre piccoli Decepticons attaccare Ironhide che si difese a stento.
«Optimus!» gridò e il gigante di acciaio si voltò subito. «Dobbiamo ritirarci o ci faranno a pezzi».
Prime annuì. «Autobots! Ritirata!» gridò con voce stentorea.
Tutti i cyborg si disimpegnarono in fretta e, riprendendo la forma di auto, cercarono di mettersi in salvo. Optimus si avvicinò alla finestra.
«Driller sta facendo a pezzi il palazzo. Io e Destiny siamo gli unici sopravvissuti qui dentro».
«Ho già fatto evacuare i tuoi uomini. Alcuni sono partiti con Sideswipe e gli altri Autobots. Il resto aspetta sul retro, già dentro il mio rimorchio. Messi in salvo voi due, partirò anche io».
Optimus tese la mano ed entrambi vi salirono. Coprendoli con il proprio corpo li mise a terra. Heaven sistemò l’arco di Destiny agganciandolo alla gamba destra e riprese le sembianze della Camaro. Destiny aiutò Lennox a salire; poi si mise alla guida e sfrecciò via, seguita da Bumblebee.
Optimus perse ancora qualche secondo. Si voltò verso Megatron che non era sceso ad ingaggiare battaglia con lui.
«Hai vinto una battaglia. Ma ci rivedremo presto» disse a voce normale, sicuro che Megatron lo sentisse. Poi si trasformò nel Peterbilt rosso e blu e, dopo aver girato attorno alla costruzione e aver agganciato il rimorchio, partì in fretta mentre dietro di lui l’edificio che era stato la loro casa per molto tempo collassava e crollava su se stesso.

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Capitolo 4
*** Resta con me ***


Il lungo corteo di Autobots si snodava lungo la strada. Lennox si mosse sul sedile e trasalì per il dolore al polpaccio ferito.
«Dovrei dare un’occhiata a quella ferita» sussurrò Destiny.
«Sto bene» minimizzò lui. «Piuttosto, c’è un modo con cui posso comunicare con Optimus?».
«Heaven» chiamò semplicemente Destiny e l’Autobot accese la radio. Navigò fra le frequenze finché trovò quello che cercava e disse a Lennox di parlare.
«Optimus, mi senti?»
«Sì. Forte e chiaro».
«Dobbiamo raggiungere la base navale di Norfolk. Ho mandato Charlotte Mearing e il resto dei civili a rifugiarsi lì».
«D’accordo. Tieni presente però che non potremo fermarci per molto. Alcuni dei miei sono feriti e avranno bisogno di Energon».
«Appena arriveremo a Norfolk metterò in allerta la base di Diego Garcia e organizzerò il trasporto verso l’Oceano Indiano. Cercheremo di fare il più presto possibile. A Diego Garcia c’è tutto l’Energon di cui avete bisogno».
Lennox chiuse la comunicazione con il leader Autobot chiedendo poi a Heaven di metterlo in contatto con la base. Comunicò che stavano arrivando e poi si abbandonò sul sedile. La ragazza guidò in silenzio per un po’, sbirciando di tanto in tanto lo specchietto. Bumblebee li seguiva come un’ombra e, poco più indietro, Optimus trainava il suo rimorchio argenteo. Per il resto, la strada era sgombra.
«Non ci inseguono neanche» disse d’un tratto lei. «Sanno benissimo che senza Energon è solo questione di tempo. Durante lo scontro ho avuto più volte l’impressione che i Decepticons cercassero più che altro di ferire i nostri».
Lennox si disse d’accordo.
«La tua gamba come sta?» chiese la ragazza, preoccupata. «Sanguina ancora?».
Si mosse lentamente e diede un’occhiata al polpaccio ferito. «No. Al momento no».
Ci misero poco più di tre ore ad arrivare nei pressi della base di Norfolk. A quel punto, Lennox chiamò di nuovo via radio e i cancelli furono prontamente aperti. Alcuni soldati segnalarono agli Autobots esausti di parcheggiarsi in disparte, in una specie di grande hangar.
Ratchet prese a girare in mezzo a loro, valutando i danni. Ad una prima analisi sembrava che non ci fosse nulla di irreparabile, ma la mancanza di Energon avrebbe rallentato le riparazioni e gli Autobots avrebbero faticato a recuperare le energie.
Optimus staccò il rimorchio e i soldati scesero lentamente, sorreggendo i feriti. Anche Destiny e Lennox scesero dalla Camaro, proprio mentre Charlotte Mearing si avvicinava a passo di carica.
«Credevo di essere stata chiara» sbottò, senza nemmeno sincerarsi delle loro condizioni. «Come mai la ragazza è ancora qui?» chiese, accennando con il capo verso Destiny.
Destiny stava per replicare ma William si erse in tutta la sua statura. «Destiny ha combattuto con noi, e così il suo Autobot. Entrambe sono state fondamentali in questa battaglia».
 «Talmente fondamentali che abbiamo perso la base e la fonte di Energon» disse con disprezzo.
Heaven e Optimus si trasformarono. Prime fece un passo avanti.
«Heaven si è battuta con noi» intervenne Optimus. «Ha salvato la vita a molti dei miei e lo stesso si può dire di Destiny. Hanno tutto il diritto di stare qui».
«Lei non c’era, direttore» riprese Lennox. «Non può sapere cos’è successo. Abbiamo perso la base perché lo schieramento di forze messo in campo dai Decepticons ci era nettamente superiore».
«Non mi interessa!» proruppe la Mearing. «Non può stare qui. Questa è una base militare, non ospitiamo civili».
«Signora, ho ancora il comando del Nest?» domandò Lennox.
«Certo che sì» replicò la donna.
«Bene. Allora, in quanto comandante della sezione, stabilisco che Destiny è aggregata da questo momento al team come consulente. Lascio a Optimus Prime la decisione su Heaven».
«Se lo vorrà, Heaven potrà aggiungersi al team degli Autobot già al mio comando» disse il Transformer. Heaven annuì.
Charlotte parve voler replicare, ma si rendeva conto di aver perso la battaglia. Lennox rimase immobile, le mani allacciate dietro la schiena, sostenendo il suo sguardo. Irritata, la Mearing non disse nulla, ma girò sui tacchi e se ne andò.
William si girò verso Destiny e sorrise. «Da come è andata via non credo che sarà disponibile a discutere con te i termini della tua assunzione» scherzò.
Destiny lo ringraziò e poi lo prese per un braccio. «Devi vedere un dottore. Quella gamba…» cominciò, ma lui non la lasciò finire.
«Sto benissimo, credimi» mentì. «Devo controllare i miei uomini». Gettò uno sguardo intorno e chiamò un soldato. «Richard, come ci vogliono sistemare qui?».
«Gli Autobots rimarranno in questo capannone. Per noi sono pronti gli alloggi dei colleghi della Marina che sono attualmente fuori in missione».
«D’accordo. Fammi un favore: accompagna la signorina nel mio alloggio». Poi abbassò lo sguardo su Destiny. «Ti raggiungo tra un po’, ok?»
Destiny annuì, prese la borsa dal bagagliaio di Heaven e, mentre Lennox si allontanava zoppicando leggermente, seguì il soldato che la accompagnò ad un piccolo bilocale. Era molto più piccolo di quello della base di Washington, ma sempre meglio delle camerate che dovevano dividere i soldati semplici. Si disse che poteva dormire sul divano come aveva fatto a Washington, ma poi si rese conto che non era sicura che William lo volesse. Fece una doccia veloce per lavare via la polvere e il sudore di quella lunghissima mattinata e si dispose ad attendere.
Erano passate meno di dieci ore da quando la nave Decepticon l’aveva svegliata, eppure a Destiny sembrava di aver vissuto una vita intera. Chiese a se stessa perché era tornata al Nest.
Lei e Heaven, in sedici anni di conoscenza, avevano sviluppato un rapporto molto stretto. Essendo uno dei primi Autobot giunti sulla terra, Heaven sapeva molto della storia dei Transformers e aveva condiviso le informazioni con Destiny.
I Transformers avevano vissuto in pace per migliaia di anni su Cybertron, il loro pianeta natale. Ma ad un certo punto, sentimenti meschini avevano cominciato a serpeggiare negli animi di alcuni cyborg che si erano così divisi in due fazioni: gli Autobots, combattenti per la libertà e paladini della giustizia, e i Decepticons, irriducibili nemici votati alla conquista del potere a qualunque costo. La guerra civile era stata inevitabile e gli Autobots, inferiori per numero e mezzi, furono costretti ad abbandonare il pianeta, che dopo decenni di guerra senza quartiere, era poco più di un ammasso di macerie.
Si erano lanciati nello spazio alla ricerca dell’Allspark, il “contenitore” della loro storia e della loro tecnologia, e delle altre reliquie aliene, che avrebbero permesso loro di avere un vantaggio e di poter riprendere la battaglia con gli odiati nemici.
Avevano vagato per secoli, visitando i vari pianeti. Alcuni, come Heaven, erano finiti sulla terra e c’erano rimasti, prima nascondendosi dagli occhi degli umani primitivi e poi, quando questi avevano cominciato a sviluppare la propria tecnologia, mescolandosi tra loro, pur cercando di restare invisibili.
Gli Autobots erano di animo gentile e generoso e capitava che, incrociando il cammino con un umano, avvertissero qualcosa nella propria Scintilla, com’era capitato per Heaven quando aveva incontrato Destiny. Allora si rivelavano e in quei casi poteva crearsi una splendida amicizia, com’era effettivamente successo.
Heaven e Destiny erano entrate in contatto con pochissimi Decepticons, nel corso della loro storia comune; più che altro perché Heaven aveva sempre cercato di proteggere l’amica. Ma quando la loro strada aveva incrociato quella dei Decepticons, non era mai stato qualcosa di positivo.
C’erano stati furiosi scontri e Heaven era riuscita a vincere grazie alla sua grande esperienza. E quando Destiny gli aveva fatto capire che poteva aiutarla le aveva fabbricato l’arco. Da allora avevano cominciato a combattere fianco a fianco, ma non erano mai andate a cercare lo scontro. Si erano limitate a difendersi dagli attacchi.
Fino a qualche giorno prima. I Decepticons avevano bisogno di Energon quanto gli Autobots e il comportamento dell’ultimo cyborg che le aveva attaccate era stato talmente strano da spingerle a chiedere spiegazioni. Le informazioni che il nemico aveva dato loro erano troppo importanti per non essere condivise.
Heaven aveva quindi deciso che dovevano parlare con un Prime e l’unico vivente era Optimus, leader della fazione Autobot e alleato con gli umani nella guerra ai temibili Decepticons. Così si erano messe in viaggio.
Ma Destiny doveva essere sincera con se stessa: nonostante fosse facile affezionarsi agli Autobots, quando aveva visto i Decepticons muoversi all’attacco del Nest, il primo pensiero era stato per il Colonnello William Lennox. L’uomo l’aveva colpita più di quanto avesse dato a vedere.
Destiny aveva già provato quella sensazione di farfalle nello stomaco. La storia con Santiago era andata avanti per ben cinque anni. Lui l’aveva dapprima trascinata in un delirio sensuale per poi rivelarsi la sua anima gemella. Era attento ai suoi bisogni, premuroso nei suoi confronti: l’uomo perfetto, in pratica.
Finché Destiny non aveva più potuto tacergli di Heaven. Lui non aveva reagito come sperato. Era spaventato e non era più stato in grado di avvicinarsi al cyborg nemmeno quando era in forma di Camaro. Alla fine le aveva chiesto di scegliere: o lui o “il mostro”, come lui chiamava Heaven. Destiny aveva fatto la sua scelta e da quel giorno non lo aveva più rivisto.
Ma Destiny era una creatura di passione e la solitudine non faceva per lei. Lennox era un bell’uomo, ma si conoscevano da un paio di giorni e soprattutto… c’era quella foto. L’aveva vista il mattino precedente, sul suo comodino. Era la foto di una bellissima donna bionda e di una bambina altrettanto incantevole. Se fossero state sorella e nipote, Lennox non avrebbe avuto quell’espressione estatica sul viso.
E quindi perché sei tornata di corsa da lui? Cosa ti aspetti? si chiese. La domanda non trovò risposta, ma quando sentì girare la maniglia della porta faticò a trattenersi dal corrergli incontro. Erano passate due ore da quando si erano salutati e lui ormai claudicava vistosamente e sembrava sofferente.
«Visto che non vuoi andare da un dottore, adesso devi permettermi di dare un’occhiata alla tua gamba» disse lei, spedendolo a fare la doccia. Quando uscì dal bagno, aveva solo un asciugamano legato intorno al bacino.
«Mi spiace, non ho altro da indossare. Ho chiesto che mi procurino un’uniforme» si scusò.
Aveva un corpo snello e armonioso. L’addestramento che la sua attività comportava gli aveva scolpito addominali e pettorali. Destiny cercò di non indugiare con lo sguardo, ma aveva un corpo piacevole da guardare.
Lo fece sedere sul divano, andando a recuperare la cassetta del pronto soccorso. Poi sedette accanto a lui, mettendosi la gamba in grembo.
«È un bel taglio, ma non è molto profondo» disse. Non sanguinava più quindi Destiny giudicò di applicare dei cerotti per suture per tenere chiusi i labbri della ferita, in modo che si rimarginasse meglio. «Sei stato fortunato. Quel Decepticon poteva ridurti molto male» disse, mentre continuava a lavorare. Lennox osservava il suo viso e si rendeva conto che era veramente bella.
Dato che la pelle del polpaccio era arrossata, Destiny lo fasciò con una benda sterile.
«Domattina controllerò che non ci siano infezioni» disse quasi fra sé. «Fatto!» disse soddisfatta e alzò la testa. Lui la stava ancora fissando sicché i loro sguardi si incrociarono e rimasero occhi negli occhi per almeno un centinaio di battiti del cuore agitato di Destiny. Poi la donna scostò delicatamente la gamba e si alzò.
«Bene, devo andarmi a cercare un posto dove dormire» mormorò.
Anche Lennox si alzò, cercando di non pesare sulla gamba ferita. «Pensavo restassi qui».
Il cuore di Destiny sobbalzò: William voleva che restasse.
«Non vorrei disturbare» disse però, evitando di mostrare entusiasmo.
«Sei talmente piccola che non mi accorgerò nemmeno di averti intorno» rise lui.
Quando finalmente consegnarono a Lennox una divisa e della biancheria, l’uomo si cambiò e insieme raggiunsero la mensa.
«Non dovresti camminare» obiettò Destiny, ma lui si strinse nelle spalle e continuò come se non l’avesse sentita.
«Ad ogni modo, ho detto alla Mearing che ti unisco al team per farla stare zitta, ma sei libera di andartene» disse, mentre entravano nel locale. «Magari hai fretta di tornare a Mexico City» concluse.
«Non c’è proprio nulla che mi spinga a tornare là» disse.
Lennox avrebbe voluto insistere sull’argomento ma uno dei suoi subordinati gli chiese di seguirlo in quanto Optimus aveva bisogno di parlargli. William afferrò un panino e scappò fuori, rallentato dal polpaccio ferito.
«Dimmi tutto» esclamò, quando fu nei pressi del gigante.
«Come sta la tua gamba?» chiese Prime.
«Mi regge» rispose il colonnello.
«Volevo aggiornarti sulla situazione. Ironhide, Sideswipe e i Wreckers sono stati feriti in maniera più importante. Ovviamente perché cercavano di essere ovunque. Spero che Ratchet possa ripararli, ma senza Energon è più difficile. Jolt lo sta aiutando usando le scariche elettriche, ma avremo bisogno di trovare il nostro carburante, e in fretta. Gli altri sono ammaccati e doloranti, ma niente di grave».
«Di quante forze disponiamo, in caso di attacco?» chiese Lennox.
«Al momento non molte, purtroppo. Io, Bee e Ratchet siamo a posto, lo stesso vale per Que e Jolt. Dino è in riparazione, ma dovrebbe essere disponibile in poco tempo e lo stesso discorso vale per Arcee e le altre femmine. Ma i miei guerrieri migliori sono Ironhide, Sideswipe e i Wreckers e, a parte Leadfoot, tutti sono stati colpiti duramente. Ratchet non ha saputo dirmi in quanto potranno riprendersi». Fece una pausa. «E poi c’è Heaven».
«Ok. Tienimi aggiornato. Dobbiamo tornare a Diego Garcia il più presto possibile, cioè non appena gli Autobots saranno in grado di muoversi».
«Com’è la situazione dei tuoi uomini?» chiese Optimus e Lennox fece una smorfia.
«C’era una compagnia al Nest, duecento uomini in tutto. Ho perso cinquantatré uomini oggi. Più di sessanta sono feriti e almeno dieci in maniera grave. Ho appena ottanta uomini disponibili».
Optimus si chinò su di lui. «Non è stata colpa tua, William» mormorò.
«Avrei potuto fare di più. Avrei dovuto dare maggior peso alle parole di Destiny. Ho sottovalutato il pericolo e i miei uomini ne hanno pagato le conseguenze».
«Anche io ho sottovalutato Megatron. Non credevo disponesse di tante forze».
«Per questo dobbiamo tornare a Diego Garcia. Dobbiamo elaborare un piano per cercare di fermarlo».
Lennox passò il resto del pomeriggio a verificare lo stato del suo team. Era tarda sera quando Ratchet venne a cercarlo.
«Dino è a posto, perfettamente ristabilito, così come Arcee e Chromia. Que sta sistemando Elita One poi sarà a posto anche lei. Io sto per mettermi a lavorare su Roadbuster che presenta i danni maggiori».
«Ironhide come sta?» chiese Lennox. Il gigante nero era l’esperto di armamenti e strategie e Lennox sentiva la sua mancanza.
«Resiste, come tutti gli altri».
«Fammi sapere quando saranno stabilizzati a sufficienza per viaggiare. Sto cercando di organizzare il trasporto verso la base».
L’Autobot annuì e tornò al suo lavoro. Dal canto suo, Lennox si rese conto di essere esausto. Era stata una lunga giornata e la gamba gli faceva male. La mensa era già chiusa, perciò tornò lentamente al suo alloggio, rassegnandosi a saltare la cena.
Destiny lo stava aspettando.
«Stavo per mandare qualcuno a cercarti, colonnello. Ho recuperato la cena», annunciò.
Il miniappartamento non aveva cucina, ma c’era un microonde che Destiny usò per riscaldare il polpettone che aveva preso alla mensa.
«Ho capito male o prima mi hai detto che non c’è nulla che ti spinga a tornare in Messico?» esordì mentre Destiny gli porgeva il piatto, per avviare un po’ di conversazione. Lei scosse la testa.
«Mio padre ci ha abbandonate una decina d’anni fa, dopo aver perso la testa per una ragazza di appena vent’anni. Mia madre invece è mancata poco più di quattro anni fa, vittima innocente di una sparatoria fra bande rivali».
William si rabbuiò. «Mi dispiace».
Lei si strinse nelle spalle. «Io e Heaven siamo rimaste lì perché lei poteva avere accesso all’Energon. Ora che l’Energon è stato distrutto, non abbiamo alcun motivo che ci spinga a tornare. E comunque non credo che Heaven voglia andarsene» concluse, in tono malizioso.
«Sì, ho notato una certa attrazione fra le nostre due Camaro!» rise lui. «Se guardo Optimus e gli altri sembrerebbe impossibile che fossero in grado di provare certi sentimenti. Eppure Chromia sta con Sideswipe da quando gli ha posato gli occhi addosso la prima volta. Quindi non mi stupisco più».
Destiny assentì.
«E tu, Destiny? Nessun legame sentimentale?» chiese poi a bruciapelo, tanto che il polpettone le andò quasi di traverso.
«Scusami» si affrettò a dire William. «Non volevo essere indiscreto».
«No, figurati» rispose. «C’era qualcuno. Ma non poteva accettare Heaven. Ed è finita». Liquidò in due parole una storia che aveva creduto potesse essere l’amore della sua vita e che, una volta conclusa, l’aveva ferita nel profondo. «Tu invece sei sposato, giusto? Ricordo di aver visto una foto di tua moglie e tua figlia al Nest» affermò poi. E desiderò non averlo fatto quando vide cambiare la sua espressione.
«Sarah e Annie sono morte in un’incursione dei Decepticons un mese fa» e tacque. Non c’era un modo indolore per dirlo, ma le parole gli uscirono più brutalmente di quanto avesse voluto.
«Mio Dio» esclamò Destiny, coprendosi la bocca con una mano. «È terribile. Mi dispiace, William» concluse, allungandosi per toccargli la mano posata sul tavolino.
Lennox rimase a fissare la mano affusolata di lei sopra la sua. Poi la allontanò e si alzò.
«Scusami. Ho bisogno di riposare» disse semplicemente e senza dire altro si infilò in camera e chiuse la porta.
Destiny rimase come paralizzata per qualche secondo. Poi sparecchiò, gettando nel secchio la cena quasi intatta. Sistemò il cuscino sul divano, si stese e si tirò addosso la coperta.
Non sapeva esattamente quanto tempo era passato né cosa l’avesse svegliata. Rimase immobile nel buio e il lamento si ripeté. Proveniva dalla stanza di William e la donna si alzò e si avvicinò silenziosamente alla porta chiusa. William gridò di nuovo e Destiny bussò. «Va tutto bene, William?» domandò.
Non ricevette risposta, ma l’uomo gemette ancora una volta. A quel punto, fece girare lentamente la maniglia ed entrò. William indossava soltanto i boxer e, nella luminescenza che entrava dalla finestra, Destiny vide che scuoteva la testa e digrignava i denti, preda dell’incubo.
«William?» chiamò di nuovo, ma lui non si svegliò.
Si avvicinò al letto e si chinò su di lui, toccandogli la spalla.
«Svegliati, William» mormorò, ma Lennox continuò a rigirare la testa. Destiny allora gli accarezzò il viso. «È solo un incubo, Will. Svegliati!».
L’uomo spalancò gli occhi e l’afferrò per le braccia, stringendola tanto da farle male. Ansimava come dopo una lunga corsa e una goccia di sudore gli scorse sulla guancia. Il movimento era stato talmente repentino che Destiny sussultò, spaventata.
«Tranquillo. Sono io, Destiny. Va tutto bene». Cercò di rassicurarlo, ma William la guardò con gli occhi ancora ciechi. «È stato solo un brutto sogno, William. È finita ora».
Finalmente l’uomo si rilassò. La lasciò e si abbandonò sul letto, coprendosi il viso con la mano.
«Mi dispiace».
Destiny sedette sul bordo del letto. «Stai bene?» chiese. William la guardò negli occhi e annuì.
«Vuoi un po’ d’acqua?» chiese.
«No. Sono a posto, grazie» rispose lui.
Destiny gli accarezzò di nuovo la guancia. «Cerca di dormire ora» sussurrò. Si alzò e fece per andarsene ma non era ancora arrivata alla porta quando lui la chiamò.
«Resta con me» disse semplicemente.
Destiny si volse e lui le fece posto accanto a sé. La ragazza si coricò accanto a lui, senza toccarlo ma talmente vicina da sentire il calore del suo corpo. Lui taceva, fissando il soffitto. Rimase così per lungo tempo, tanto che Destiny pensò che si fosse addormentato.
«Mi spiace per come mi sono comportato a cena» disse all’improvviso.
«Non importa» mormorò lei, ma Lennox scosse la testa.
«No, voglio spiegarti. Da quando le ho perse, ho vissuto solo alla base Nest. Lì tutti conoscono la mia storia e non è mai stato necessario dire che sono morte».
«Non volevo riaprire una ferita, credimi».
«Lo so» replicò lui. «Non potevi saperlo. Ma ciò non toglie che mi sono comportato male nei tuoi confronti».
Destiny gli sfiorò la spalla. «Non pensarci. È tutto ok».
Nessuno dei due parlò più. Destiny si addormentò, ma William rimase sveglio a pensare al suo sogno. Sicuramente era dovuto all’attacco del giorno prima, che gli aveva riportato alla mente la perdita subita.
Nel sogno i Decepticons attaccavano e lui si trovava nella situazione di dover decidere se salvare Sarah o Destiny. Non poteva arrivare ad entrambe e lui non sapeva che fare. E per la sua indecisione finiva per perderle tutte e due.
Si sentiva terribilmente in colpa per quel sogno. Non avrebbe dovuto avere dubbi su chi salvare. Era Sarah la donna della sua vita e lui non avrebbe dovuto avere esitazioni. E invece aveva tentennato e quella sua negligenza era costata cara ad entrambe. D’accordo, era solo un sogno e lui un pragmatico uomo del ventunesimo secolo, ma forse il suo subconscio gli stava dicendo qualcosa. Eppure Sarah non c’era più e questo non sarebbe cambiato mai; e al suo fianco c’era quella giovane donna dai capelli neri che l’aveva colpito con la forza di un ariete.
Non sapeva esattamente perché le avesse chiesto di restare. Certo, la solitudine cominciava a pesare, ma questa non poteva essere una giustificazione. Non c’era risposta. Era certo di una cosa soltanto: quando l’aveva guardata negli occhi dopo essersi svegliato dall’incubo, aveva desiderato che non se ne andasse. Mentre cercava risposta ai suoi dubbi, confortato dal respiro leggero di Destiny, si addormentò.
Quando il mattino seguente si svegliò, lei non c’era. Pensò che fosse in bagno ma la porta era aperta. Dato che era in ritardo – cosa strana per lui, dato che da un mese non dormiva bene e si svegliava sempre prestissimo – si vestì e scese in fretta. Fece una robusta colazione – era affamato dopo aver praticamente saltato la cena – e si mise in comunicazione con la base Diego Garcia.
Innalzò lo stato di allerta e chiese di organizzare il trasporto degli Autobot e delle truppe che si erano salvate dall’attacco Decepticon. Erano appena settantotto uomini – altri due erano morti durante la notte. Tre C17 sarebbero arrivati entro quella sera stessa. Poi fece il giro dei suoi uomini, partendo dai feriti più gravi e salutandoli uno ad uno. Infine raggiunse l’area che Ratchet aveva destinato a ospedale per gli Autobot.
L’ufficiale medico e Que erano impegnati con Ironhide che borbottava irritato: secondo la sua opinione non aveva nulla che non andasse, nonostante perdesse prezioso Energon dal fianco ferito. Sotto gli occhi stupefatti di Lennox che si stava avvicinando, Destiny sbucò da dietro Ratchet e si avvicinò a Ironhide.
«Dai, gigante: non fare storie!» disse. «Mettiti giù e lascia che ti diamo un’occhiata».
Incredibilmente, Ironhide non protestò e si lasciò andare lentamente sul tavolaccio di fortuna che Ratchet aveva allestito per le riparazioni, docile come un cucciolo.
William era stupito dal suo comportamento: Ironhide era il più burbero e il più sanguigno degli Autobot eppure, di fronte alle parole di Destiny, aveva ceduto senza fiatare. Il modo di fare di quella ragazza li stava davvero conquistando tutti.
«Che hai da brontolare, vecchio mio?» disse William, avvicinandosi.
«Vogliono smontare il mio cannone al plasma! Ma ti pare possibile?»
Lennox sorrise. «C’è da inorridire al solo pensiero» lo canzonò.
«Glielo rimontiamo, poi. Dobbiamo solo sistemarlo», implorò Que.
«Vi dico che funziona!» sbottò Ironhide e lo armò. Un filo di fumo uscì dalla bocca del cannone e il colpo che forse Ironhide voleva sparare non partì.
«Forse no!» sottolineò Destiny. «Lascia fare a Que, ok? Vedrai che quando avrà finito, il tuo cannone funzionerà meglio di prima».
Di nuovo, Lennox assistette a quel piccolo miracolo e, sebbene a malincuore, Ironhide permise a Que di avvicinarsi e lo lasciò fare.
Lennox si informò della salute del resto degli Autobots. Ratchet gli fece cenno di seguirlo e si ritirarono in disparte.
«L’unica situazione veramente preoccupante è quella di Roadbuster» disse il medico degli Autobot, accennando con la testa verso il punto del capannone dove la Chevrolet Impala verde era parcheggiata. «È molto debole e soffre meno nella sua forma terrestre. Gli ho tolto armi ed equipaggiamento superfluo per alleggerirlo. In ogni caso non sarebbe assolutamente in grado di combattere, e meno si muove meglio è».
Ironhide ruggì lamentandosi delle cure ineccepibili di Que e Ratchet scosse la testa, sconsolato. Ma sorrideva mentre proseguiva: «Ironhide, Topspin e Sideswipe sono le altre situazioni critiche, ma non sono in pericolo immediato, anche se non sono schierabili in battaglia. Gli altri sono più o meno a posto, ma non so in caso di combattimento quanto terranno le riparazioni. E comunque siamo tutti esausti e abbiamo bisogno di Energon».
Lennox lo informò che i trasporti sarebbero arrivati quella sera. «E Destiny che ci fa qui?» domandò.
«È capitata qui stamattina cercando Heaven. L’idea di alleggerire Roadbuster è stata sua. Lui non ne voleva sapere – sai meglio di me quanto i Wreckers siano attaccati alle loro armi – ma lei l’ha fatto ragionare e devo dire che ha risposto subito bene all’operazione».
«Ho visto come ha trattato Ironhide» esclamò l’uomo.
«Incredibile, vero?» rise Ratchet. «Parola mia, non l’ho mai visto così arrendevole».
Lennox continuava a guardare Destiny che si affaccendava intorno al cyborg in riparazione.
«Ci conosce meglio di molti umani» disse Ratchet, indovinando i suoi pensieri. «Sa come trattarci e deve aver fatto lei le riparazioni su Heaven perché mi è parso evidente che sa dove mettere le mani. Mi diceva prima che è figlia di un meccanico, quindi conosce la meccanica».
Ironhide ruggì ancora e Ratchet sospirò. «Sarà meglio che rientri, prima che faccia male a qualcuno» disse e stava per andarsene quando annusò l’aria e si bloccò. William lo guardò con aria interrogativa.
«Mi sa che stai un po’ troppo con quella piccola femmina. Il suo odore ti si è appiccicato addosso» esclamò.
«E tu dovresti smetterla di mettere il naso nei miei affari!» sbottò ridendo William.
Lennox passò a salutare Roadbuster – e il fatto che non reagisse con la solita sfacciataggine gli diede l’idea di quanto fosse in difficoltà – e fece il giro del resto degli Autobots, notando come Heaven e Bumblebee fossero già inseparabili.
Quella sera stessa tre Boeing C17 delle Forze Aeree americane atterrarono alla base.
Lennox in persona sovrintese al carico degli Autobot. Optimus Prime con il suo rimorchio salì sul primo cargo, con Sideswipe e le femmine, eccettuata Heaven. Dino, Ironhide, Topspin, Leadfoot e Que e la maggior parte degli umani salì sul secondo (Charlotte Mearing compresa, dato che Lennox non voleva averla tra i piedi durante il volo) mentre sull’ultimo C17 Ratchet volle tenere accanto a sé Roadbuster per controllarlo e Jolt perché lo aiutasse con le sue scariche in caso di problemi. Dato che Lennox voleva vicina Destiny, Heaven la seguì a bordo dell’enorme aereo da trasporto e Bumblebee chiuse il corteo.
Spinti ognuno da quattro potenti turboventole Pratt & Whitney, i tre giganteschi aerei decollarono uno dopo l’altro e s’involarono nel cielo buio verso l’Oceano Indiano e la base Diego Garcia.

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Capitolo 5
*** Pensi che arriveremo in tempo, stavolta? ***


Destiny tolse le cuffie che aveva indossato per proteggersi dal fragore delle pistole mitragliatrici. «Va meglio ora, Roadbuster?»
«Sì, decisamente. Ma la destra tende ancora a strappare un po’».
Destiny si avvicinò alla Chevrolet e fece la regolazione richiesta. Poi si scostò di nuovo e rimise le cuffie. Roadbuster sparò un’altra raffica con le armi che aveva montate sul cofano e approvò il risultato.
«Ora è perfetta. Grazie!» disse l’Autobot e Destiny gli batté affettuosamente una mano sul tetto.
C’erano poco più di due chilometri tra lo speciale poligono utilizzato dagli Autobot e il quartier generale del Nest perciò, dato che lei e Roadbuster avevano finito, la ragazza fece passare le gambe attraverso il finestrino – tutti i Wreckers avevano le portiere saldate – e si calò all’interno dell’abitacolo.
«Mi sembra di essere Daisy Duke di Hazzard!» esclamò la ragazza ridendo.
Roadbuster accese il motore e partì. Erano passate tre settimane dall’attacco alla base di Washington e l’Autobot si era completamente ristabilito. Il test al poligono era l’ultimo di una lunga serie cui Ratchet aveva voluto sottoporlo prima di poterlo giudicare in grado di rientrare a pieno servizio nel team degli Autobot.
Mentre ritornavano all’headquarter, Destiny ripensò agli eventi degli ultimi venti giorni.
Una volta atterrati a Diego Garcia, gli Autobots avevano potuto accedere all’Energon attorno al quale le misure di sicurezza erano triplicate. Gli effetti della fonte non avevano tardato a manifestarsi e ben presto tutti i Transformers avevano recuperato le energie.
 Erano già stati impegnati in due missioni, in ondate successive. La prima in Europa e la seconda in Africa settentrionale, terminata proprio il giorno prima. In entrambi i casi, la segnalazione era stata tardiva e gli Autobots non erano arrivati in tempo. L’Energon era già distrutto e avevano potuto ingaggiare i Decepticons in lievi scaramucce.
Heaven aveva partecipato in entrambe le occasioni e Optimus Prime la considerava, a ragione, un’ottima aggiunta al suo team. Era abile e coraggiosa e con Bumblebee formava un binomio eccezionale. I due facevano ormai coppia fissa anche fuori dai combattimenti.
Destiny non vedeva il suo Autobot da tre giorni, da quando era arrivata la segnalazione della presenza dei Decepticons in Libia. Erano partiti a bordo dei C17 e Destiny sapeva che si sarebbero lanciati con i paracadute sul deserto libico.
La ragazza non aveva ovviamente preso parte alle missioni: anche se era stata aggregata al team Nest, non era un soldato e non era autorizzata ad accompagnare gli Autobots. Ma il suo aiuto era stato prezioso a Ratchet per rimettere in sesto i Transformers duramente colpiti a Washington. Il medico Autobot l’aveva presa sotto la sua ala: Destiny era in gamba e desiderosa di apprendere e sapeva di meccanica. Inoltre, come aveva dimostrato fin da subito, sapeva come prendere gli Autobots e aveva fatto presto a fare la conoscenza con i membri del team.
Heaven però le mancava. Erano state insieme per gli ultimi sedici anni, quindi sentiva acutamente la mancanza del grande Autobot rosso, ma capiva che era giusto che Heaven stesse con i suoi simili. Certo, il fatto che fosse in giro per il mondo a combattere i Decepticons non la faceva stare del tutto tranquilla, ma sapeva cavarsela e aveva Bumblebee che le copriva le spalle.
C’era qualcun altro di cui Destiny sentiva la mancanza. Un certo colonnello che aveva guidato il Nest tanto in Europa quanto in Africa.
Quando erano arrivati a Diego Garcia, Destiny e William avevano continuato a convivere. Nessuno dei due aveva parlato di quella cosa, ma la prima sera che avevano passato alla base, quando lei gli aveva chiesto dove poteva dormire, lui aveva detto semplicemente: «Non dormi con me?»
«E cosa diranno i tuoi uomini?» aveva obiettato lei.
«I miei uomini non si devono interessare della mia vita privata. Fanno quello che gli dico e stop» aveva risposto lui.
Da quella e per tutte le notti successive avevano dormito insieme. La cosa le faceva battere il cuore, anche se non c’erano stati momenti di intimità tra loro. William sembrava accontentarsi di averla accanto. Destiny non aveva mai nemmeno provato a portare il loro rapporto su un altro, ben più profondo, livello: capiva che in lui c’erano delle resistenze dovute alla scomparsa della sua famiglia e rispettava il suo comportamento, pur se lo desiderava con un’intensità che faceva quasi male.
Erano finalmente arrivati alla base e Destiny notò subito il boato dei due grossi C17 che si stavano allineando per la discesa sulla pista. Mentre Roadbuster percorreva gli ultimi metri prima di infilarsi nell’hangar riservato agli Autobots, Destiny si issò fuori dal finestrino e si schermò gli occhi per proteggerli dal riverbero del sole al tramonto.
Appena Roadbuster si fermò, scese in fretta e raggiunse i cancelli della pista in tempo per vedere il primo C17 toccare terra. Quando anche il secondo fu atterrato e le rampe di carico furono abbassate, il cuore le fece un balzo nel petto quando riconobbe la figura alta e atletica che comparve nel cavernoso vano di carico.
Anche lui la cercò con gli occhi e quando la vide il balenare bianco dei suoi denti rivelò il suo sorriso anche a quella distanza. La tentazione di correre da lei, scavalcare la recinzione e stringerla fra le braccia era grande, ma la represse. Non poteva farlo per due motivi: il primo era la compagnia di soldati che lo stava seguendo giù dalla rampa del C17; il secondo, e più importante, era Sarah. Era presto, troppo presto, per provare qualcosa per un’altra donna e ogni fitta di desiderio che provava per Destiny lo faceva sentire in colpa.
Destiny lo salutò con la mano e attese. Quando tutti gli uomini furono scesi, fu il turno degli Autobot. Il primo fu ovviamente Optimus, seguito da Bee e Heaven. Dal secondo cargo, invece, scesero Ironhide, Sideswipe e Dino. Tutti erano nella loro forma terrestre.
Sembravano tutti sani e salvi e Destiny sospirò di sollievo. Tornò di corsa all’hangar e Optimus suonò il clacson quando le fu vicino. La ragazza gli sfiorò la fiancata con la mano mentre il pesante automezzo proseguiva verso l’area ufficiali.
Destiny sapeva che dopo ogni missione gli ufficiali si riunivano e effettuavano un debriefing con il comando centrale. Optimus Prime, in qualità di comandante degli Autobots, era sempre presente.
Mentre lo osservava, qualcosa la colpì da dietro, facendola barcollare leggermente. Si voltò e vide la sua Camaro rossa.
«Ciao Heaven» sussurrò, posando la mano aperta sul cofano. L’Autobot fece rombare il motore, facendo vibrare la carrozzeria, in segno di saluto.
Destiny rise. «Stai bene?» chiese poi. Per tutta risposta, Heaven si trasformò. Quando fu completamente trasformata si abbassò sulla ragazza.
«Sto bene» disse semplicemente, con la sua voce metallica.
Destiny fece velocemente il giro del resto degli Autobots. C’era qualche lamiera ammaccata, e Dino si lamentava per un graffio sulla carrozzeria, ma niente di più. In compagnia di Ratchet e degli altri tecnici si dedicò a sistemare i cyborg, completando anche il rifornimento degli armamenti. Dovevano essere pronti a partire in pochissimo tempo quindi i tecnici si affrettarono a sistemarli e li mandarono tutti in ricarica.
Litigò giocosamente con Ironhide che voleva tenersi le sue ammaccature.
«Ci metto dieci minuti a sistemarti quel braccio, Ironhide» stava dicendo Destiny, ma il gigante scosse la testa.
«Non ti lascio toccare nulla, piccola bipede». Aveva scoperto quanto la ragazza odiasse quel termine e lo usava di proposito per prenderla in giro ed esasperarla. Anche stavolta ottenne l’effetto sperato perché la vide socchiudere gli occhi. «Vado fiero di ogni graffio che quei maledetti Decepticons mi hanno fatto» concluse.
Per la verità non era semplice graffiare la corazza del cyborg, fatta di acciaio trithyllium con fibre di carbonio, un materiale con un elevatissimo grado di resistenza.
«Ma se non riesci nemmeno a piegarlo bene!» fece notare la donna.
Ironhide fece un paio di movimenti e lo scricchiolio risuonò per tutto l’hangar. «Perfetto, direi!» borbottò e Destiny capitolò.
«Come vuoi, razza di testone. Tieniti il tuo braccio menomato. Forse il prossimo Decepticon che incontrerai riuscirà a darti una lezione come si deve» proruppe lei, fingendo di essere arrabbiata ma stentando a trattenere una risata.
Ironhide si abbassò fino a fronteggiarla. «Domattina, piccola bipede» sussurrò, strizzandole l’occhio.
Destiny gli impartì una carezza sul muso che ricordava quello di una tigre e sorrise. «Sono contenta che tu sia tornato tutto intero, gigante» esclamò.
Dato che non aveva più nulla da fare, cenò con gli altri tecnici alla mensa e tornò all’appartamento. Sapeva che Lennox ne avrebbe avuto ancora per un po’ quindi si infilò in doccia. Quando uscì, con un asciugamano avvolto intorno al corpo, lui era lì, appena rientrato dalla riunione.
«Oh, ciao!» esclamò, mentre il cuore sembrava volerle uscire dal petto.
Era la prima volta che William la vedeva così. Di solito la ragazza si vestiva in bagno ma stavolta, pensando di essere sola, aveva addosso solo l’asciugamano. Qualcosa in particolare attirò il suo sguardo: Destiny aveva un tatuaggio sul petto, a sinistra, sopra il cuore. Per Lennox era inconfondibile: era il simbolo degli Autobots.
Distolse in fretta lo sguardo, rimproverandosi per la sua indelicatezza. «Ciao Destiny» sussurrò.
«Mi aspettavo che arrivassi più tardi».
«Non c’era molto da dire, stavolta» spiegò. «Mi faccio una doccia e poi ti spiego tutto».
«La tua gamba?» chiese.
La ferita che aveva rimediato a Washington e che Destiny aveva curato era guarita perfettamente.
«Molto bene, grazie» rispose lui e si infilò in bagno.
Quando uscì dal bagno, lei lo stava aspettando davanti a due tazze di caffè fumante. Le raccontò brevemente com’era andata: si erano lanciati con i paracadute sul sito che era stato segnalato come il teatro dell’attacco Decepticon ma era già troppo tardi. C’erano due Transformers sconosciuti che stavano cercando di respingere i Decepticons, ma l’Energon era già distrutto. Gli Autobot guidati da Optimus in collaborazione con gli uomini di Lennox avevano colpito e terminato due nemici ma il resto si era dato alla fuga. Li avevano inseguiti a lungo, senza però riuscire a riprenderli.
«Siamo sempre un passo indietro» deprecò William. «Continuiamo a rincorrerli per tutto il globo, ma ci fanno gli sberleffi di continuo. Io non sono contento e i miei superiori ancora meno».
«L’unico lato positivo è che non abbiamo subìto perdite». Un uomo solo era rimasto leggermente ferito: era atterrato malamente dopo il lancio col paracadute, slogandosi la caviglia. «Né tra gli umani, né tra gli Autobots».
«A parte il braccio di Ironhide» evidenziò William.
«Quel testardo non ha voluto che glielo sistemassi. Vuole fare il duro e tenersi tutte le sue cicatrici di guerra» rise lei.
«Stiamo provando a contattare Simmons ma non risponde. Cominciamo ad essere un po’ preoccupati» la informò.
Non sentivano l’agente Simmons da quasi un mese, da quando Lennox l’aveva mandato in cerca di informazioni sulla nuova offensiva dei Decepticons.
«Non è così inusuale che non risponda per un certo periodo, ma non è mai passato un mese senza sue notizie» spiegò.
«Spero che si faccia presto vivo. Abbiamo bisogno di tutte le informazioni possibili per combattere quei maledetti Decepticons» disse. «Ah, sappi che Roadbuster è finalmente a posto» concluse poi. «Oggi l’abbiamo riequipaggiato con tutte le sue armi e le abbiamo provate al poligono».
Quando parlava degli Autobots si capiva quanto le piacesse lavorare con i Transformers.
«Ci tieni molto agli Autobots, eh?» chiese Lennox e lei annuì. «Il tatuaggio l’hai sempre avuto?» chiese poi.
Lei lo guardò perplessa. «Tatuaggio? Quale tatuaggio?»
«Non ho potuto fare a meno di notarlo prima, quando sei uscita dal bagno».
«Ah, questo!» esclamò, scostando appena la maglietta. «Non è un tatuaggio. È una… come si dice… una voglia».
William sgranò gli occhi. «Una voglia?» ripeté incredulo. «Assomiglia in maniera impressionante al marchio degli Autobots».
La donna sembrava a disagio: fece un sorriso tirato e coprì in fretta la macchia sulla pelle. «Sì, lo ricorda».
Lui capì che non voleva toccare l’argomento perciò lasciò correre e propose di andare a letto.
Tre ore più tardi, Lennox era ancora preda dell’incubo. Era lo stesso che l’aveva tormentato qualche settimana prima: c’era il medesimo gigantesco Decepticon che minacciava di uccidere Sarah e Destiny. Di nuovo, William non sapeva che fare. Ma stavolta successe qualcos’altro. Sarah lo guardò con occhi miti e gli sussurrò: «Va’ da lei, William. Salva Destiny». Ma lui ancora tentennava. Poi il cyborg fece fuoco e le dilaniò entrambe. E lui si svegliò di soprassalto.
Destiny si mosse appena: dormiva sul fianco sinistro, voltata verso di lui. Quando si fu calmato a sufficienza, si coricò. Rimase sveglio a guardarla dormire per ciò che restava della notte, ripensando al sogno. Ancora una volta, la sua incapacità di decidere le aveva uccise entrambe, ma stavolta Sarah aveva parlato. Gli aveva detto chiaramente di salvare Destiny, come a fargli capire che doveva staccarsi da lei e continuare la sua vita.
Rimuginò per ore su quel pensiero, cercando di capire se era frutto di un suo desiderio o se Sarah voleva davvero che lui voltasse pagina. Ci stava ancora pensando quando il sole del primo mattino fece capolino nella stanza.
D’improvviso Destiny aprì gli occhi. William si accorse del momento esatto in cui lo mise a fuoco. «Buongiorno» la salutò.
«Ciao, Will» rispose lei e sorrise.
L’uomo sollevò una mano e le accarezzò il viso. Lei divenne seria e rimase immobile, come se temesse di spaventarlo. Quell’intimità era una cosa nuova perché, nonostante avessero sempre dormito insieme, Lennox non l’aveva mai sfiorata con un dito.
Il cuore prese a batterle forte – era certa che lo sentisse anche lui – quando lo vide avvicinare la testa alla sua, ma ancora non si mosse. Era lui a dover superare le proprie barriere, era lui che doveva trovare il coraggio di staccarsi dal ricordo di sua moglie. Lei non lo avrebbe mai forzato.
William si fermò ad un paio di centimetri dal suo viso. Ormai sentiva il suo respiro sulle labbra, ma lui sembrava non essere in grado di coprire quella breve distanza e baciarla. E infatti lo vide ritrarsi quasi impercettibilmente.
«Mi dispiace. Vorrei… ma non posso. Lei…» sussurrò, lasciando la frase in sospeso.
«È tutto a posto, Will» rispose Destiny. «Posso solo immaginare quanto sia difficile».
«Non è per te, Destiny. È solo che mi sembra ancora di tradire Sarah».
Lei gli prese il viso fra le mani. «È tutto ok, devi solo darti un po’ di tempo. Le hai perse in maniera così terribile che è normale ciò che stai provando». William taceva. «Io non vado da nessuna parte» disse allora Destiny e gli sorrise di nuovo dolcemente. «Beh, non è del tutto esatto: ora vado a fare il caffè!»
Più tardi, quando scesero, Lennox si dedicò alle sue attività mentre Destiny aveva un appuntamento con Ironhide che le permise di sistemargli il braccio. Il danno non era grave e le bastarono venti minuti per sistemarlo.
«Visto quanto c’è voluto?» disse, mentre stringeva l’ultimo bullone.
Ironhide provò la riparazione e mugugnò qualcosa.
«Come dici?» chiese lei.
«Ho detto che sei brava, piccola bipede!» ripeté il cyborg.
Lei posò gli attrezzi e si pulì le mani. «Se mi chiami ancora piccola bipede la prossima volta ti metto acqua al posto dell’olio!» mormorò soavemente e la risata di Ironhide la seguì mentre si avvicinava a Heaven.
«Ho bisogno di parlarti» sussurrò quando le fu accanto. Poi si rivolse a Ratchet. «Doc, la porto al poligono».
Quando furono lì, Heaven si trasformò e Destiny sedette su una cassa di munizioni.
«William ha visto la voglia».
Heaven tacque per un po’. «Gli hai spiegato?» chiese.
La ragazza scosse la testa. «Non sapevo che fare. Sai bene che parlargli di quello significherebbe ammettere che mia madre non era una pazza e si aprirebbero tutta una serie di spiacevoli pensieri».
«Hai ragione, ovviamente. Ma devi dirglielo, lui deve sapere che non siamo qui per caso e…» disse, interrompendosi a metà frase e guardandola di traverso. «Aspetta un momento! Se ha visto la voglia significa che ti ha vista nuda, quindi…»
Destiny capì dove voleva andare a parare e la bloccò subito. «Ti sbagli di grosso. Non abbiamo fatto nessun passo avanti in quel senso. Lui non ha fatto in fretta come Bumblebee!»
Al solo nominare l’Autobot, Heaven sospirò e Destiny si coprì gli occhi con una mano. «Ma sentitela!» esclamò. «Grande e grossa, e poi sospira per un testone di Autobot che non parla neanche!»
Heaven ridacchiò. «Già! Ma stavamo parlando di te, ragazza».
«Purtroppo, temo che tu abbia ragione. Dovrò dirglielo. Sperando che non mi prenda per pazza».
Quel giorno non ebbe modo di parlare con Lennox perché era molto impegnato, e a sera, quando si ritrovarono di fronte al solito caffè che stava diventando un rito serale, l’occasione c’era ma non ebbe il coraggio di affrontare l’argomento. Si disse che non c’era bisogno che lui sapesse, si convinse che non era necessario che lui fosse a conoscenza di quei particolari. E tacque.
Quella notte, le sirene di allarme della base li svegliarono. Entrambi saltarono in piedi, si vestirono e scesero. William si informò subito su quanto stava accadendo.
«Signore, registriamo presenza di Decepticons nello Sri Lanka».
Lennox sbirciò i monitor e vide almeno sette punti rossi muoversi sullo schermo: ognuno di essi era un Transformer.
«Ostili?» chiese, ma già sapeva la risposta.
«Sembra di sì, signore. La fonte di Energon più vicina a dove si trovano è a Colombo, sulla costa ovest».
«Maledizione!» sbottò William. «Voglio gli uomini già imbarcati tra cinque minuti. Ci vorranno due ore per arrivare laggiù, ma ci proveremo». Poi si volse verso Destiny. «Questi maledetti Decepticons vogliono impegnarci fino al punto di rottura. Siamo appena tornati e già dobbiamo ripartire. Non so per quanto potremo resistere».
Destiny annuì. Il piano dei Decepticons era chiaro: impegnare gli Autobot in diverse brevi sortite, obbligandoli ad esporsi e a consumare Energon. La loro fonte di energia aveva bisogno di tempo per rigenerarsi e i tecnici della base avevano già fatto notare che il continuo ricorso all’Energon che gli Autobot erano costretti a fare stava indebolendo la fonte.
«Avvisa Optimus» le ordinò e la ragazza corse via.
Il leader Autobot era già in movimento.
«Che notizie, Destiny?» chiese quando la vide arrivare di corsa.
«Sette Decepticons ad un paio di ore di volo da qui, Optimus. Si parte tra cinque minuti».
«Va bene» prese atto, prima di guardarsi intorno. «Wreckers! Jolt! In marcia» ordinò e i quattro Autobot uscirono per raggiungere i C17 già pronti sulla pista. «Arcee! Anche tu e le tue sorelle».
Ironhide si fece avanti. «Vengo anche io» disse semplicemente e Optimus annuì.
Dieci minuti dopo che l’allarme era scattato, i piloti avviarono i potenti motori dei C17 Globemaster. William fu l’ultimo ad imbarcarsi. Non si voltò indietro, a cercare con gli occhi la figura di Destiny che lo guardava andarsene. Non lo faceva mai: da quando l’allarme suonava, lui era già in missione. E non aveva bisogno di guardarla per evocare nella mente ogni particolare del suo viso.
Lennox era salito sull’aereo che trasportava, tra gli altri, Optimus e Ironhide.
«La situazione è questa: abbiamo sette Decepticons che sono sbarcati a nord dell’isola. Li stiamo tenendo sotto controllo e con tutta probabilità si stanno dirigendo verso Colombo, dove è presente una fonte di Energon».
«Pensi che arriveremo in tempo, stavolta?» domandò Optimus.
«Non lo so. Loro sono per via di terra, noi arriveremo dall’alto. Forse riusciremo ad ingaggiare battaglia. Dobbiamo portare a casa qualche risultato, anche per il morale degli uomini» mormorò Lennox.
Durante il volo, Lennox continuò a seguire le tracce dei Decepticon in avvicinamento. Ogni minuto che passava appariva più evidente che stavano dirigendosi a Colombo, ex capitale dello Stato.
Un’ora e cinquantadue minuti dopo la partenza, i piloti avvertirono che avrebbero raggiunto la zona di lancio entro quindici minuti. Tutti si prepararono e, quando i piloti scesero di quota e aprirono i portelli, non esitarono a lanciarsi nel buio. Anche durante il volo, Lennox continuava a sentire i rapporti degli uomini dell’Intelligence, i suoi occhi nel buio.
Gli Autobots si lanciarono per ultimi. Ognuno di loro era dotato dei propri paracadute che ben presto fiorirono nel cielo nero come tanti funghi bianchi. Quando finalmente furono vicini a terra, distinsero chiaramente le luci dei Decepticons in arrivo sotto di loro.
«Optimus!» gridò nel microfono. «Gli arriveremo proprio addosso stavolta».
«Era ora!» esclamò il gigante. «Autobot! State pronti».
Gli Autobots atterrarono per primi e si liberarono dei paracadute. Iniziarono subito a sparare ai Decepticons, obbligandoli a cercare riparo e proteggendo la discesa degli umani.
I nemici non ci misero molto a riorganizzarsi, ma quei pochi istanti bastarono a Lennox e ai suoi per sistemarsi. Fortunatamente erano in una zona periferica, in un impianto di depurazione dismesso, quindi i civili non correvano rischi particolari. E, per un caso fortuito, erano atterrati nella giusta posizione per difendere l’Energon.
I due schieramenti si fronteggiavano e i cecchini di William cominciarono subito a colpire duro, ma i Decepticons conoscevano la tattica e stavano coperti.
«Arcee!» ordinò Optimus. «Stanateli».
Le tre sorelle uscirono dal riparo e si lanciarono avanti. Nella loro forma terrestre erano tre motociclette: Arcee era una Ducati 848 fucsia, Chromia una Suzuki B-King blu e Elita One una MV Agusta F4 di colore viola. Erano più piccole del resto dei Transformers ma erano combattenti agguerrite e le ridotte dimensioni permettevano loro una maggiore agilità e velocità.
Puntando proprio sulla velocità si lanciarono sul campo di battaglia, zigzagando per evitare i proiettili. Riuscirono a far rialzare la testa ad un paio di Decepticons. I cecchini erano pronti e ne colpirono subito uno agli occhi. Accecato, il nemico perse l’orientamento e uscì dal riparo.
Leadfoot e Roadbuster – il quale era rimasto fuori dai combattimenti per un po’ e aveva una gran voglia di divertirsi – lo colpirono immediatamente, finendolo.
Ma il secondo era più furbo. Riuscì ad evitare i colpi dei cecchini, girandosi e incassando la testa e ricevendoli sulle spalle, dove fecero poco danno.
«Per tutti i Prime!» esclamò Ironhide. «Optimus, l’hai riconosciuta?» disse rivolto al suo comandante.
Optimus annuì. «È Viper, quella maledetta!»
Viper era una vecchia conoscenza degli Autobots, uno dei luogotenenti di Megatron. Il suo nome era ben meritato. Era uno dei Decepticons più spietati che Optimus avesse mai incontrato ed era lei che Megatron usava quando doveva portare a termine missioni particolarmente cruente.
Optimus non sapeva nemmeno che fosse sulla terra. L’ultima volta che l’avevano vista era stato su Cybertron, proprio poco prima che gli Autobots abbandonassero il pianeta distrutto e si lanciassero nello spazio. Doveva essere arrivata da poco e se era sulla Terra di certo non avrebbe portato nulla di buono.
Arcee e le sue sorelle erano tornate al riparo e i Decepticons tentarono una sortita, attaccando su due fronti e tentando di aggirare lo schieramento.
«Optimus! Tu e Ironhide attaccate sulla destra» ordinò Lennox. «Wreckers, difendete sulla sinistra! Arcee, fuoco di copertura. Uomini, copriamoli!»
Gli Autobots seguirono gli ordini del colonnello e scattarono ai compiti loro assegnati. Il fatto che obbedissero agli ordini dell’umano era un segno del rispetto e della stima che avevano di Lennox. Quando erano in battaglia, tanto gli uomini quanto gli Autobots prendevano ordini indifferentemente dai due comandanti, quello umano e quello Transformer. E non era mai capitato che ci fossero problemi perché sia Lennox che Optimus Prime avevano la stessa visione della battaglia, lo stesso occhio per la strategia, quell’intuito innato che aveva portato il primo a fare rapidamente carriera nel Nest e il secondo ad assumere il comando di quella potente compagine di guerrieri cyborg.
Le forze del Nest riuscirono a respingere l’assalto, ma non riuscirono ad atterrare nessuno dei nemici che si ritirarono per riorganizzarsi. Lo scontro era ad un punto morto: le forze si equivalevano e nessuno riusciva a prevalere sull’altro.
All’improvviso una voce risuonò sul campo di battaglia.
«Optimus!»
Era una voce sibilante che Lennox non aveva mai sentito.
«È sempre un piacere ritrovarti, Viper».
«Lo so che mi ami, in fondo» replicò Viper, restando nascosta.
«Vieni fuori, che voglio dirtelo di persona». Optimus rispose in tono ironico e la risata amara di Viper risuonò beffarda.
«Dovresti essere cavaliere e venire tu a dirmelo… invece di mandare quelle tre insulse femmine» sibilò, riferendosi ad Arcee e alle sue sorelle che avevano portato a termine il primo attacco. Elita One ringhiò, irritata per l’affermazione di Viper, e le altre le fecero eco.
Elita aveva un conto in sospeso con Viper. Quando ancora erano su Cybertron, Viper aveva catturato il compagno di Elita e l’aveva fatto morire tra orribili torture nella speranza di venire a conoscenza delle strategie degli Autobots. Se Optimus avesse saputo che Viper era sulla terra non avrebbe mai portato Elita One, ma ormai erano in ballo.
«Ora piantala, Viper. Arrendetevi e lasciate l’isola».
Viper rise. «Puoi arrenderti tu, mio caro Prime. Prendi la tua marmaglia e torna da dove sei venuto. Noi abbiamo del lavoro da fare».
Gli Autobots rumoreggiarono, ma Optimus fece cenno di stare calmi.
«Megatron sta sbagliando, Viper. L’Energon che state distruggendo non si riformerà più. Se la fonte che ha per le mani si esaurisse, sarebbe anche la vostra fine».
«Se accadrà, cambieremo pianeta. Ma non prima di aver sfruttato questo come si deve».
I Decepticons ripresero a fare fuoco contro di loro e lo scontro infuriò di nuovo per qualche minuto. Tentarono ancora di farsi avanti e stavolta riuscirono quasi a mettere in difficoltà gli Autobots, finché uno degli uomini di Lennox colpì un nemico in pieno petto con il suo lanciagranate Milkor MGL. Preso in pieno nella sua Scintilla, il Decepticon stramazzò davanti ai compagni, cadendo a terra con un tonfo che fece tremare tutto, e l’attacco si infranse per la seconda volta.
I nemici ripiegarono e Arcee guidò le sue sorelle in avanti, tempestandoli di colpi. Quando arrivarono a tiro dei nemici, rientrarono nei ranghi degli Autobots.
«Ehi, Optimus! Non hai qualcos’altro da mandarmi contro?» sbottò Viper. «Queste tre, con i loro fucili a tappo, non ci impegnano granché. Sai che mi piacciono le sfide».
Il tono di Viper era strafottente, perfettamente nel suo stile. Si divertiva a sfidarli, voleva provocarli. La conoscevano tutti quindi sapevano che lo faceva di proposito, ma stavolta Elita One non resistette.
Tra i due schieramenti si era creato un tratto di terra di nessuno, occupata soltanto dai rottami dei Decepticons terminati. Elita One si lanciò in avanti, da sola. Aveva un unico desiderio: strappare con le sue mani gli occhi a Viper e vendicare così il compagno caduto.
«Elita, no!» gridò Arcee.
«Torna indietro!» ordinò Optimus, ma sapeva che non si sarebbe fermata. Cercava vendetta e non era possibile farla tornare indietro.
Gli Autobots scattarono subito nel fuoco di copertura. Elita One correva veloce ed era talmente repentina nei movimenti che riuscì ad arrivare praticamente indenne nei pressi dello schieramento avversario. Ma poi Viper si erse in tutta la sua statura e agli occhi di Lennox che la vedeva per la prima volta, apparve subito letale come l’animale di cui portava il nome. Aveva il muso di una vipera, con lunghi denti ricurvi che sporgevano verso il basso dal labbro superiore e i grandi occhi rossi con la pupilla verticale come quella dei rettili. La sua metallica lingua biforcuta sporgeva dalle labbra tese in un sogghigno.
Prima che chiunque potesse rendersi conto della cosa, armò il cannone sul braccio destro e fece fuoco contro Elita One. Forse fu la distanza ridotta o forse la straordinaria velocità del colpo a trarre in inganno l’Autobot che non riuscì a schivare.
Elita One fu colpita in pieno petto, proprio dove ardeva la sua Scintilla. La violenza dell’impatto la scagliò indietro, fin quasi a ridosso della linea Autobot. Una ragnatela di scariche elettriche l’avviluppò e l’Autobot rimase a terra, sussultando finché le scariche si esaurirono e rimase immobile.
Il tutto era accaduto in pochissimi secondi ma Viper si era già messa al riparo. Arcee e Chromia, vedendo la sorella a terra, urlarono di rabbia e cercarono di raggiungerla ma Topspin e Leadfoot glielo impedirono. Elita One era a terra, immobile, e non c’era più nulla che potessero fare, salvo recuperare i suoi resti in seguito.
Autobot e soldati ripresero a far fuoco contro i Decepticons che risposero a stento. Optimus capì presto perché. Viper si trasformò in una Lamborghini Gallardo e sfrecciò via, seguita dal resto dei Decepticons.
«Autobot! In marcia!» ordinò e si lanciarono all’inseguimento.
«Pensiamo noi a Elita One» disse Lennox.
Lui e i suoi uomini si fecero avanti per raccogliere i resti dell’Autobot atterrato. Quando le furono accanto, Elita aprì gli occhi.
«Colonnello Lennox! È viva» gridarono i suoi uomini e Lennox si fece avanti e le si inginocchiò a fianco.
«Stai bene?» le chiese e l’Autobot scosse velocemente la testa, come a schiarirsela.
«Credo di sì», rispose e si mise a sedere.
«Vacci piano» raccomandò Lennox. «Non so cosa fosse, ma quel colpo ti ha presa in pieno».
Lennox diede subito la buona notizia a Optimus che comunicò che stavano tornando. I Decepticons si erano divisi prendendo ognuno una direzione diversa. Optimus non aveva voluto dividere le sue forze e quindi aveva rinunciato all’inseguimento.
Si riunirono sul campo di battaglia e Arcee e Chromia non smettevano di abbracciare la sorella che credevano di aver perduto.
Finalmente arrivarono le forze dell’ordine locali a cui Lennox affidò la cura dell’Energon. Ben presto un team di ingegneri americani sarebbe arrivato sul posto per predisporre opportune difese per quella fonte. Ma il Nest doveva rientrare a Diego Garcia quindi gli uomini si divisero sui vari mezzi e raggiunsero il vicino aeroporto, dove i due C17 erano atterrati con un permesso speciale e li stavano attendendo.
Ogni Autobot attendeva paziente il suo turno di salire nella stiva dell’aereo. Elita One stava con le sorelle in disparte, ognuna appoggiata al proprio cavalletto. Improvvisamente, il cavalletto della moto viola cedette e Elita cadde.
Lennox accorse con la gelida premonizione di un disastro. «Che succede?» le chiese.
«Non so» rispose Elita One con voce stentata, «qualcosa non va».
Fece per trasformarsi nella sua forma cyborg, ma non ci riuscì.
«Che mi succede?» si domandò preoccupata.
William la tirò su e la sostenne. «Ironhide! Vieni qui».
Il pick-up nero lo raggiunse in fretta. Con l’aiuto di alcuni soldati, caricarono Elita One sul cassone posteriore. Poi Lennox lo chiuse e batté la mano sul portello. Ironhide partì e salì nella stiva del C17. «Muoviamoci, ragazzi» ordinò Lennox. «Elita deve vedere Ratchet il più presto possibile».

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Capitolo 6
*** Sarà una splendida giornata anche oggi ***


Durante il volo verso Diego Garcia, Elita One peggiorò.
Lennox sedette sul cassone di Ironhide e le rimase accanto. Le poche parole che l’Autobot disse erano sempre più stentate man mano che passava il tempo e Lennox notò delle macchie di ruggine che si stavano formando sulla carrozzeria di solito perfetta della moto viola.
Improvvisamente ricordò le parole di Destiny quando era arrivata alla base Nest di Washington.
Megatron ha creato un virus. È in grado di attaccarvi accelerando il processo di decadimento dei vostri organismi. Quindi, mentre è impegnato a distruggere le fonti di Energon, Megatron ha per le mani un virus che vi obbliga a ricorrervi prima di quanto accade solitamente.
E ricordava che non c’era antidoto.
«Maledizione, Seymour! Dove ti sei cacciato?» mormorò a se stesso.
Quando atterrarono a Diego Garcia, Elita One non parlava più. La ruggine aveva ormai coperto la maggior parte della carrozzeria. Ironhide fu fatto scendere in fretta e si diresse velocemente verso l’hangar. Ratchet e i tecnici – Destiny compresa – erano già stati messi in allerta via radio, quindi li stavano aspettando.
Scaricarono Elita One con molta cautela. L’Autobot soffriva ormai ad ogni movimento.
Ratchet non sapeva che fare perché non aveva mai visto nulla di simile.
«Credo sia stata infettata dal virus di cui ci aveva parlato Destiny» disse Lennox.
«Secondo le informazioni che abbiamo, l’Energon rallenta il processo» ricordò Destiny.
«Proviamo a metterla in ricarica» propose Ratchet, ma la sua espressione lasciava intendere che non sapeva se la soluzione avrebbe dato qualche risultato.
Sul momento, Elita parve migliorare ma, due ore più tardi, peggiorò di nuovo. Mentre Destiny vegliava su Elita, Ratchet chiamò Optimus.
«Dimmi che ci sono buone novità, amico» gli disse, ma l’ufficiale medico scosse la testa.
«Non c’è nulla che possiamo fare, Optimus» mormorò sconsolato. «Credo che ormai sia alla fine. Anzi, mi stupisco che sia arrivata fin qui».
Prime gli posò una mano sulla spalla. «Non c’era altro che potessi fare, Ratchet». Sapeva che il medico Autobot avrebbe fatto di tutto per salvarla e che faceva fatica a perdonarsi qualsiasi fallimento. «Vado a chiamare Arcee e Chromia» aggiunse poi.
Alle tre meno un quarto di quel pomeriggio, neanche dodici ore dopo che le sirene avevano svegliato la base Nest, la Scintilla di Elita One si spense definitivamente. Arcee e Chromia erano straziate dal dolore, ma mantenevano una grande dignità.
Destiny staccò Elita dalla ricarica ormai inutile e coprì con un panno i resti dell’Autobot, asciugandosi poi una lacrima con il dorso della mano.
«Abbiamo perso una grande combattente e un’amica carissima. Il suo ricordo non ci abbandonerà mai» proclamò Optimus. Poi si rivolse ad Arcee e Chromia: «So che il vostro desiderio ora è quello di vendicare la sua morte, ma vi ricordo che noi non siamo Decepticons. Abbiamo una missione da portare avanti e la nostra prima preoccupazione dev’essere la tutela degli umani. Non tollererò azioni personali che mettano in pericolo voi stesse e i vostri compagni».
Le due sorelle chinarono la testa.
«Ma vi assicuro una cosa» aggiunse Optimus Prime. «Viper pagherà per ciò che ha fatto e, non appena ci sarà l’occasione, sarà vostro l’onore di terminarla. Per Elita One».
«Grazie, Optimus» mormorò Arcee.
I lavori della base ripresero regolarmente, ma tra i tecnici serpeggiava un clima pesante. Era la prima volta che perdevano un Autobot da quando lavoravano in sinergia con i cyborg e capivano che dovevano fare qualcosa per cercare di trovare un antidoto al virus. Per questo, Optimus aveva disposto che i resti di Elita One rimanessero agli umani, in modo che potessero analizzarli e provare a capirne di più.
Quasi sette ore più tardi, un Gulfstream V privato ricevette l’autorizzazione ad atterrare sulla pista della base Nest. Il piccolo executive jet era l’unico mezzo non militare autorizzato a prendere terra in quella base. Un furgoncino con la scritta “follow me” sul tetto gli si parò davanti e il Gulfstream lo seguì fino ad un piccolo hangar. Quando fu fermo e il pilota ebbe spento il motore, il portello si aprì e ne uscirono l’agente Simmons, seguito da Wheelie e Brains. I tre scesero la scaletta e raggiunsero Lennox che, preavvertito dell’arrivo, era ad aspettarli.
«Ci hai fatto preoccupare, Seymour» lo accolse, stringendogli la mano.
«Lo so. Ma rispondervi avrebbe potuto far saltare la nostra copertura» rispose.
«Qui abbiamo avuto un mese infernale culminato con la giornata di oggi. Abbiamo perso Elita One, infettata dal virus».
«Mio Dio!» esclamò l’agente.
«Come stanno le sue sorelle?» chiese Wheelie.
«Resistono. Con un leader meno carismatico di Optimus sarebbero già partite in cerca di vendetta».
Si avviarono insieme e raggiunsero l’area hangar degli Autobots dove Lennox chiese a Optimus e Ratchet di seguirlo.
«Anche voi» disse a Destiny e Heaven. Loro erano state le prime ad avvisarli della minaccia e riconosceva loro il diritto di essere presenti e informate sugli sviluppi della faccenda.
Si ritirarono in disparte e Simmons chiese una tazza di caffè.
«Fra i Decepticons c’è molto movimento» cominciò a raccontare. «Megatron sta ammassando una grande armata attorno alla sua fonte di Energon».
«Dove?» chiese Optimus Prime.
«Non lo sappiamo per certo» disse Brains. «Di sicuro è in Africa, dove si è rifugiato a seguito della battaglia in Egitto. Ma, diversamente dal solito, non ci sono fughe di notizie. I Decepticons non parlano e sono riusciti a mantenere il più stretto riserbo».
«In ogni caso, anche se sapessi per certo dov’è, non potresti attaccare» affermò Seymour. «Se sono veri i rumors che abbiamo intercettato, l’armata di Megatron si compone almeno quaranta elementi e ogni giorno cresce».
«Quaranta Decepticons?» chiese preoccupata Destiny. «Ci farebbero a pezzi».
«Tra l’altro ci sono un paio di elementi davvero notevoli» intervenne Wheelie. «Una certa Viper, ad esempio».
«La conosciamo. È stata lei ad uccidere Elita» spiegò Prime.
Lennox sbatté il pugno sulla scrivania. «Simmons sei stato via più di un mese. Devi dirmi qualcosa che non so».
Simmons tacque per un lungo periodo. Poi sospirò.
«Ammetto che non abbiamo fatto molti progressi su questo fronte ma, in compenso, ne sappiamo molto di più sul virus».
Ratchet si tese in avanti.
«Megatron non ha sintetizzato quel virus. L’ha trovato. O meglio, gli è stato offerto».
«Spiegati» ordinò Lennox.
Simmons prese un altro sorso di caffè. «Abbiamo informazioni certe che tre mesi fa una nave Decepticons è arrivata sulla terra. Non so come abbia fatto a sfuggire ai nostri sensori e ai satelliti, ma dev’essere successo, dato che non ne sapevamo nulla».
«Questa cosa va approfondita» disse Optimus. «È probabile che, come ci sono umani che lavorano con noi, ce ne siano anche dalla parte del nemico. E se sono riusciti a nascondere un arrivo alieno, è probabile che siano nelle alte sfere».
«Farò una segnalazione al generale Morshower» promise il colonnello.
«Ad ogni modo, questa nave aliena trasportava, tra gli altri, una certa Viper».
«Per questo non ci risultava che fosse sulla Terra. È arrivata solo ultimamente» evidenziò Ratchet.
«Dopo che voi Autobots ve ne siete andati da Cybertron» riprese Simmons, «sembra che Viper sia caduta in disgrazia. Per questo non è arrivata con i primi che sono giunti sul nostro pianeta, e sembra che The Fallen non la volesse tra i piedi perché era costretta a nascondersi con un manipolo di servitori. Eliminato The Fallen, la strada per la Terra le si è spalancata davanti».
«Ovviamente doveva riscattarsi agli occhi di Megatron» intervenne Brains. «Quindi gli ha portato in dono un cybervirus».
«Sappiamo qualcosa in più su questo virus? Come funziona?» domandò Ratchet.
«Ci stiamo arrivando, Doc» replicò Wheelie.
«Dalle prime informazioni raccolte sembrava che il virus l’avesse sintetizzato Viper, ma non è così» continuò Brains. «Viper l’ha trovato su Cybertron già preconfezionato, per così dire».
«Si trattava di un’arma di distruzione di massa» proseguì Simmons. «Viper non ha fatto altro che renderla “trasportabile”. Dato che l’avete combattuta, penso che possiate confermare che può sparare speciali proiettili in grado di infettare il Transformer che colpiscono».
Optimus annuì. «Esatto. Con Elita One è andata proprio così».
«Come e da chi sia stato creato il virus, non è dato sapere. Probabilmente tutte le informazioni erano contenute nell’Allspark distrutto».
Simmons annuì alle parole di Wheelie. «Comunque, chiunque l’abbia creato ha pensato anche ad un antidoto».
«C’è un antidoto?» chiese Destiny.
«Sì, bellezza». Wheelie le si avvicinò. «L’antidoto c’è. Ma non sappiamo dove».
«Non prenderti troppe libertà, specie di lattina parlante» brontolò Simmons. Poi riprese il racconto. «Sembra che una reliquia aliena sia caduta sulla Terra nei secoli passati».
Non era una cosa inusuale. Su Cybertron esistevano molte reliquie, oggetti in grado di potenziare un Transformers o con altre proprietà straordinarie. Molte di esse erano in mano agli Autobot che negli ultimi giorni, presagendo la perdita della guerra civile fra robot, le avevano lanciate nello spazio, nella speranza che sfuggissero alla cattura da parte dei Decepticons. Alcune erano poi cadute sulla Terra e lì erano rimaste, in attesa che i Transformers venissero a recuperarle, come era successo per l’Allspark, poi andato distrutto.
«Questa reliquia si chiama Black Stone. Vi dice qualcosa?» chiese Simmons, guardando gli Autobot.
Ratchet e Optimus scossero la testa e il leader Autobot si rivolse a Heaven: «Ti ricorda qualcosa?»
«No, mi dispiace».
«Spero che non sia la Pietra Nera dei musulmani. Perché, nel caso, non ci metteremo mai sopra le mani» disse Lennox.
«Sappiamo dove si trova?» chiese Destiny.
«Brains!» chiamò Simmons e il piccolo Autobot si fece avanti.
«Secondo noi è stata innalzata una cortina fumogena attorno alla reliquia, per proteggerla. Abbiamo raccolto informazioni che parlano di un Custode e una Chiave. Secondo quelle che per noi sono solo leggende, c’è un Transformer posto a guardia di questo oggetto misterioso – il Custode, appunto – che vigila incessantemente sulla Reliquia in attesa della Chiave. Non è chiaro di cosa si tratti, ma presumiamo che la Chiave sia un oggetto che serve a riattivarla o ad usare il suo potere».
«Una cosa facile, noi mai, eh?» borbottò Ratchet.
«Abbiamo cercato di scoprire dove si trova, ma anche qui le informazioni sono ingarbugliate e frammentarie. Incrociando tutti i riferimenti raccolti, il campo si è ristretto a quattro siti. E non crediamo che sia una coincidenza il fatto che tutti questi luoghi sono fra i più misteriosi del pianeta».
«Di quali luoghi stiamo parlando?» chiese William.
«Machu Pichu in Perù, Chichén Itzá in Messico, Stonehenge in Inghilterra e Abu Simbel in Egitto. Sono in ordine di probabilità».
«È assurdo» obiettò Lennox. «Questi luoghi sono visitati ogni giorno da migliaia di turisti e sono continuamente studiati da esperti e archeologi. Come hanno potuto farsi sfuggire qualcosa del genere? E perché tenere qualcosa di così prezioso in luoghi tanto frequentati?».
Seymour si strinse nelle spalle. «Il miglior modo per nascondere qualcosa è piazzarlo sotto gli occhi di tutti».
«E non è tutto!» esclamò Wheelie. «Brains, digli il resto».
«Già, dimenticavo. C’è una profezia legata alla reliquia».
Non appena Brains pronunciò la parola “profezia”, Destiny e Heaven si scambiarono un’occhiata e la ragazza scosse velocemente la testa. Il particolare non sfuggì a Lennox che però decise di non approfondire in quel momento.
«Ma prima che tu lo chieda» aggiunse Simmons rivolto a William, «di questo proprio non sappiamo nulla. I riferimenti sono vaghi e pieni di lacune».
Lennox si abbandonò contro lo schienale della poltrona. «Va bene. Avete fatto un buon lavoro e siete tornati con molte informazioni. Dovrò comunicarle al più presto al generale Morshower». Sbirciò l’orologio. «Se volete scusarmi, lo chiamerò immediatamente».
Uscirono e Destiny raggiunse l’esterno. Le stelle trapuntavano il cielo scuro e una falce di luna splendeva sopra la base.
«Non gliel’hai ancora detto, vero?» proruppe Heaven che l’aveva seguita silenziosamente e la ragazza scosse la testa.
«Devi farlo! Ormai cominciano ad esserci troppe coincidenze».
Destiny non rispose.
«Non puoi continuare a tenerglielo nascosto. Non capisco tutta questa reticenza». Di nuovo, la donna non rispose; sicché l’Autobot capì che voleva stare da sola e se ne andò. Destiny fece un lungo sospiro e si allontanò un po’. Trovò un posto per sedersi e rimase lì, con il rumore dell’oceano che sembrava quello di un gigante addormentato.
Lennox la trovò ancora lì. Le porse una tazza di caffè e le sedette accanto.
«Lo so che devi dirmi qualcosa» disse lui dopo qualche minuto di silenzio.
«La mia storia è abbastanza complicata» cominciò, tenendo la tazza stretta tra le mani e fissando le nere profondità del caffè. «Vedi, mia madre era…» ma non sapeva come affrontare il discorso. Trasse un profondo respiro e proseguì: «Insomma, mia madre era una specie di strega».
Lui non disse nulla ma inarcò un sopracciglio.
«Non guardarmi così. In Messico queste tradizioni sono ancora vive. Comunque, era una sciamana anche se per la maggior parte della gente era solo una pazza».
«Una volta dubitavo anche io» intervenne Lennox. «Da un po’ di tempo a questa parte, da quando lavoro con dei robot senzienti provenienti da un altro pianeta, sono molto più aperto anche a queste cose!»
«Ad ogni modo, lei non praticava magia nera o altre porcherie simili ma aveva, a suo dire, dei poteri. Diceva di vedere le cose prima che accadessero».
«Ed era vero?» chiese lui.
Destiny si strinse nelle spalle. «La maggior parte non si è mai realizzata. Altre premonizioni si sono realizzate sì ma in maniera un po’ differente da quanto aveva predetto lei, mentre solo pochissime si sono avverate, come l’abbandono di mio padre».
«Ti seguo» la incoraggiò.
«Quando sono nata, pare che mia madre, subito dopo avermi partorita, abbia rovesciato gli occhi e profetato qualcosa. Le sue parole esatte sono andate perdute, ma non è un caso che io porti questo nome. Da quello che so, avrebbe predetto l’arrivo di Heaven e che il mio destino sarebbe stato quello di essere una pedina nella guerra tra robot».
«Quindi non sei capitata al Nest proprio per caso» disse William.
Lei scosse la testa. «Il segno che hai visto sul mio petto, non assomiglia al simbolo degli Autobot. È esattamente il loro marchio. L’ho sempre avuto e mia madre diceva sempre che era importante, ma non mi spiegava mai il perché. Immagina la mia sorpresa quando l’ho ritrovato sulla testata del motore di Heaven».
«Ho l’impressione di essere stato usato» mormorò e Destiny si girò preoccupata verso di lui, salvo poi accorgersi che sorrideva e gli sorrise di rimando.
«Ora capisco come mai oggi, quando Brains ha parlato di profezia, ti ho vista scambiare un’occhiata con Heaven».
Destiny non riuscì a replicare perché le sirene di allarme suonarono ancora.
«Mio Dio! Di nuovo» proruppe William. Si alzò e, insieme a Destiny, rientrò.
«Ragazzi, ditemi» ordinò quando giunse nei pressi della postazione tecnica.
«Signore, abbiamo intercettato una trasmissione Decepticon. È durata troppo poco perché riuscissimo a localizzarla con precisione, ma proviene dall’Africa occidentale, molto probabilmente dal Mali».
«Che dice il nemico?»
«Si stanno mobilitando, colonnello. La loro destinazione è la Grande Zimbabwe. Abbiamo verificato e ci risulta effettivamente una fonte di Energon. È lì che attaccheranno».
«Ok, cercate di rintracciarli e seguite i loro movimenti. Uomini e Autobots pronti a partire in venti minuti. Stavolta arriviamo prima».
Andò di persona ad avvisare Optimus.
«Sideswipe, Dino! Pronti a partire» ordinò il leader Autobot. «Bee, anche tu e Heaven».
Arcee e Chromia si offrirono, ma Optimus preferì non portarle: la perdita della sorella era ancora troppo fresca, una ferita ancora aperta che le avrebbe sicuramente portate a mettere in pericolo la loro vita e quella di chi fosse stato loro accanto.
«Vengo anche io» si offrì Ratchet e Ironhide gli fece eco.
«E sia. A bordo!» ordinò Optimus e tutti gli Autobot si avviarono verso l’area destinata al carico.
Lennox diede gli ultimi ordini e fece per seguire il resto della compagnia a bordo dei C17, ma Destiny lo fermò.
«Cerca di stare attento, Will» gli sussurrò, guardandolo dritto negli occhi.
Era la seconda missione in ventiquattr’ore e Destiny era preoccupata. E temeva anche per i suoi amici Autobots: sapevano troppo poco di quel maledetto virus che aveva stroncato Elita One.
Lui sorrise e le sfiorò la guancia con la punta delle dita. «Tranquilla. Andrà tutto bene». Poi le voltò le spalle e salì a bordo.
Durante il volo lui e i suoi uomini cercarono di recuperare un po’ di sonno perduto. Erano soldati, abituati alle condizioni più disagevoli, quindi per loro non era un problema dormire rannicchiati sui sedili imbullonati alla paratia dell’aereo o sdraiati sulle casse di equipaggiamento mentre i potenti Boeing da trasporto militare volavano nella notte verso il grande continente africano.
Sette ore dopo essere decollati, i piloti avvisarono che si avvicinava il momento del lancio. Il plotone di soldati entrò in attività e in dieci minuti furono tutti pronti, disponendosi ad officiare lo stesso rituale andato in scena ormai troppe volte.
Si lanciarono non appena il portello fu spalancato e calarono appesi alla seta bianca dei loro paracadute. Quando arrivarono a terra, non c’era traccia dei Decepticons ma Lennox sapeva che non erano lontani perciò si affrettò a predisporre le difese attorno alla fonte di Energon che i suoi tecnici avevano individuato e che si trovava proprio al centro del grande recinto di pietre, la struttura principale del sito.
I nemici sarebbero arrivati da nord e Lennox schierò i suoi uomini con gli Stinger sui rilievi vicini. Gli Autobot rimasero nella parte bassa, al riparo delle mura del complesso monumentale. William sapeva che, non appena i Transformers nemici si fossero fatti vedere, si sarebbe scatenato un inferno di battaglia e quelle mura antiche, classificate come patrimonio dell’Unesco, sarebbero state distrutte o, nella migliore delle ipotesi, danneggiate. Provò un certo rimpianto per quello che sarebbe accaduto perché un tale monumento non doveva andare perduto, ma non avrebbe esitato a dare l’ordine, quando fosse giunto il momento.
«Signore, abbiamo le immagini satellitari» gli disse il suo addetto alle comunicazioni. Lui e il suo team avevano montato le antenne per le trasmissioni e ora Lennox vedeva sul monitor le immagini dei Decepticons in avvicinamento.
Insieme a Optimus osservarono le immagini.
«Guai grossi in vista» esclamò Optimus. Erano in arrivo sei Decepticons, ma non era questo a preoccupare il leader dei cyborg che schierava sette Autobot e poteva contare sull’appoggio degli umani. A inquietarlo erano le due sagome che guidavano il corteo. «Quella è Viper» disse, indicando la sagoma più a sinistra. «E quello è Megatron in persona».
«Ne sei certo?» chiese William e il gigante annuì.
«Sarà una splendida giornata anche oggi» borbottò William, andando ad avvisare i suoi uomini di stare maggiormente in guardia.
Tredici minuti più tardi udirono distintamente il rombo dei nemici in avvicinamento. Lennox lasciò che si avvicinassero e ordinò di aprire il fuoco. I nemici scomparvero tra le esplosioni, ma non si illudeva di averne colpiti molti perché erano astuti e velocissimi.
Protetti dal polverone che si era alzato, i Decepticons cominciarono a rispondere al fuoco. Tre potenti scoppi scossero le mura della Grande Zimbabwe che, miracolosamente, resistettero. Lennox comunicò via radio con i suoi uomini e ordinò di martellarli con gli Stinger. Era un peccato non avere carri armati a disposizione.
I mezzi corazzati del team Nest erano tutti equipaggiati con i sabot, munizioni sottocalibrate capaci di penetrare le corazze molto resistenti dei nemici alieni e di creare esplosioni terribili, bruciando dall’interno con temperature di migliaia di gradi centigradi. Erano tra le poche armi veramente efficaci contro i giganti di Cybertron.
Ma anche gli Stinger, missili terra-aria spalleggiabili a ricerca di calore, se ben lanciati potevano essere devastanti con la loro testata esplosiva da 2,25 chilogrammi.
Il fumo si era diradato e Lennox notò con piacere che la loro offensiva doveva aver colto di sorpresa i nemici perché uno dei giganti di acciaio era a terra, distrutto. Gli altri erano costretti ad usare i rilievi e le rocce per nascondersi.
«Costringeteli a tenere giù la testa! Date copertura agli Autobot!» ordinò Lennox.
Il colonnello sapeva bene che non poteva trincerarsi dietro quella cinta muraria. Per una volta avevano il coltello dalla parte del manico: con il Decepticon distrutto, la forza di Megatron era di appena cinque elementi, contro i sette Autobot che collaboravano con i duecento soldati arrivati da Diego Garcia.
Ad un cenno di Lennox, Optimus e Ironhide guidarono gli Autobots in una sortita in avanti ma, non avendo dimenticato i terrificanti effetti dei proiettili speciali di Viper, cercavano di usare il terreno per ripararsi. E Viper non si fece attendere.
Armò lo speciale cannone montato sul braccio destro e sparò contro di loro. Furono tutti agili nel mettersi al riparo e il colpo andò a vuoto. Viper sibilò qualcosa e tornò ad abbassarsi, mentre Ironhide stava dando fondo alle sue riserve, creando un inferno di fuoco e impedendole di alzarsi.
Gli Autobots avanzarono e gli uomini di Lennox li seguirono. I nemici erano rimasti in cinque, ma un altro non riuscì a resistere all’avanzata e fu brutalmente terminato da Heaven che lo colpì più volte in pieno petto.
A Megatron non piaceva perdere, ma non era uno stupido: capiva che in quattro contro sette non avevano possibilità di farcela. Il plotone di Autobot e umani che gli si era schierato contro era troppo forte e meglio organizzato perciò ordinò la ritirata.
Mentre fuggivano un altro Decepticon fu colpito e perse prezioso Energon dallo squarcio aperto da uno degli Stinger lanciato dai soldati di Lennox. Invocò l’aiuto di Megatron che non si girò nemmeno: perché avrebbe dovuto salvarlo? Perché avrebbe dovuto trascinarsi dietro un peso morto del genere? Ciò che importava a Megatron era salvare la propria pellaccia e quella di Viper. Non che Viper gli interessasse, beninteso: ciò che la rendeva preziosa era il virus che gli aveva portato da Cybertron.
Certo, sapere che aveva usato il virus nella precedente incursione nello Sri Lanka l’aveva fatto infuriare molto più del fatto di non essere riusciti a distruggere l’Energon. Viper gli aveva detto di aver usato quella potentissima arma su Elita One, un Autobot minore. Aveva contravvenuto ai suoi ordini che erano quelli di non usare il virus. Megatron stava infatti organizzando una incursione in cui prendere contemporaneamente tutti gli Autobots. C’era un solo caso in cui Megatron aveva caldamente raccomandato che Viper usasse il suo speciale cannone: era l’ipotesi in cui si fosse presentata l’occasione di colpire Optimus Prime.
Megatron sapeva bene che, tolto di mezzo il leader Autobot, il resto della fazione nemica sarebbe stato in balia dello scoraggiamento e della disorganizzazione, cosa che avrebbe permesso a lui di prendere il sopravvento. Già una volta aveva ucciso Optimus, salvo poi vederlo risuscitare grazie all’ostinazione di un umano, quell’insignificante Sam Witwicky, e alla Matrice del Comando, che ora era proprio nelle mani di Optimus.
Adesso aveva un’arma potente, in grado di distruggere gli Autobots. Ma Viper aveva fatto un grossolano errore. L’aveva usata troppo presto e ora gli Autobots stavano attenti e in guardia. Quel giorno infatti erano stati molto più accorti del solito nella copertura, segno che il virus aveva fatto fuori Elita One e quindi lo temevano. Non sarebbe stato facile.
Megatron vide che nessuno si stava lanciando all’inseguimento ma i colpi grandinavano loro intorno. In particolare, un Autobot rosso che non conosceva aveva preso di mira Viper e continuava a spararle addosso. Viper era abile nello schivare i colpi, ma Megatron la sentiva sibilare e lamentarsi, il che voleva dire che era irritata. E quando lo era, Viper diventava incontrollabile.
Stava per raccomandarle di mantenere la testa bassa e continuare ad allontanarsi alla massima velocità quando Viper si trasformò nella sua forma robotica. Megatron non aveva nemmeno fatto in tempo a parlare che lei aveva già sparato un colpo.
Il tempo parve rallentare: lo speciale proiettile sparato da Viper viaggiava a velocità supersonica e Heaven sapeva già con cristallina certezza che l’avrebbe centrata. Qualcosa in effetti la colpì, ma non dalla direzione che si aspettava.
Fu spostata di lato, con tanta violenza che il proiettile di Viper – che aveva un sistema di guida all’infrarosso – perse il bersaglio e la testata si abbassò visibilmente. Heaven cadde e avvertì comunque l’impatto e l’esplosione, anche se sapeva di non essere stata colpita.
Alzò lo sguardo e incrociò quello di Bumblebee, sopra di lei.
«Tutto bene?» chiese lui.
«Sì, sto bene. Ma tu?»
Bumblebee si scostò e Heaven vide chiaramente la ragnatela di scariche avvolgergli la gamba sinistra. Optimus e Ratchet accorsero.
«Sto bene… colpito di striscio» disse Bee, giocando come sempre con le frequenze radio e cercando in rete le parole che gli erano necessarie.
Le scariche si esaurirono e Bumblebee si alzò in piedi. Sebbene Heaven lo sorreggesse, non ebbe alcuna difficoltà. Optimus ricordava che, una volta colpita, Elita aveva perso conoscenza e si era rialzata solo più tardi. Bumblebee stava reagendo in maniera diversa e questo faceva ben sperare. Ma era stato colpito e su questo non c’erano dubbi.
Lennox ordinò il rientro. Dalla vicina base di Llewellin Barracks giunsero due elicotteri Puma che si misero a disposizione per il trasporto verso la base dove i due C17 erano pronti alla partenza. Metà dei soldati di Lennox si divise tra i due velivoli, mentre il resto sfruttò un passaggio da parte degli Autobots.
Durante il volo, William comunicò con i tecnici della base spiegando loro l’accaduto e tenne Bumblebee sotto stretta osservazione. Tuttavia, tre ore dopo l’attacco non si era manifestato alcun sintomo. Tutti cominciarono a pensare che forse Bumblebee se la fosse cavata indenne.

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Capitolo 7
*** Non potevi deciderti due minuti fa? ***


Quando arrivarono a Diego Garcia, Bumblebee assicurò che si sentiva benissimo e che non aveva bisogno di cure. Destiny non gli badò neanche. Usando una delle potenti lampade a luce bianchissima controllò ogni centimetro di carrozzeria, in cerca di un segno rivelatore che alla fine, purtroppo, trovò sul parafango posteriore sinistro. Era una minuscola macchiolina color ruggine: era davvero piccolissima, ma non doveva trovarsi lì.
Destiny chiamò immediatamente Lennox e Optimus, illustrando loro la situazione. Bumblebee fu subito messo in ricarica e tutti poterono notare che la macchia sparì, lasciando solo una leggera traccia opaca sul metallo lucido.
Il mattino seguente, quando staccarono Bumblebee dalla fonte di Energon, la macchia ricomparve, insieme ad altre due più piccole. L’Autobot fu subito ricollegato all’Energon: ma stavolta scomparvero soltanto le due macchie più piccole, quelle che si erano appena formate. La prima rimase.
Quando Heaven venne a saperlo chiamò Destiny ed entrambe uscirono.
«Dobbiamo fare qualcosa» esclamò. Sembrava strano a dirsi, ma Heaven era innamorata di Bumblebee. A questo si aggiungeva che si sentiva in colpa per ciò che era successo: Bee era intervenuto per salvarla e si era beccato un colpo che era destinato a lei.
«Non so come fare ad aiutarlo» rispose sconsolata Destiny. I tecnici erano ancora al lavoro sui resti di Elita One ma con scarsissimi risultati. «L’Energon al momento sembra riuscire a tenere a bada il virus».
«E quando non sarà più sufficiente?» chiese Heaven e Destiny tacque. «Non posso permettere che Bee…» proseguì l’Autobot rosso, senza riuscire a finire la frase con le terribili parole.
«Che proponi?» domandò Destiny. Anche lei era preoccupata per Bumblebee, ma per quanto si fosse scervellata, non aveva trovato soluzione.
«Andiamo a cercare l’antidoto».
Destiny ricordava bene il colloquio avuto con Seymour, prima che i Decepticons attaccassero in Africa. E ricordava anche che Brains aveva identificato quattro probabili siti.
«Non sappiamo nemmeno dove sia con certezza. Non vorrei che fosse solo una mera leggenda» replicò Destiny.
«Io non starò con le mani in mano. Se non vuoi venire con me, andrò da sola» sbottò Heaven e si voltò per andarsene.
Ma Destiny la fermò. «Aspetta! È ovvio che vengo con te, sciocca. Volevo solo dire che non sarà facile, non che non ci proveremo».
Heaven si rabbonì e la ragazza riprese la parola. «Devo parlare con William perché ci organizzi la cosa».
Destiny andò subito a cercare William che era al telefono con il generale Morshower. «Ti devo parlare» sussurrò, ma lui fece cenno di no con la testa.
«È molto urgente» insistette e lui le fece cenno di andare ad aspettarlo nel suo ufficio.
Quando entrò, Destiny stava versando il caffè per entrambi.
«Che succede?» domandò lui preoccupato. «Bumblebee è peggiorato?»
«No, per il momento è stabile» replicò, porgendogli la tazza. «Ma Heaven è in ansia e anche io».
«Leggo nei tuoi occhi che voi due avete avuto un qualche tipo di idea. E la cosa, te lo confesso, mi spaventa» sogghignò William, bevendo un po’ di caffè che quasi gli andò di traverso alla successiva affermazione della donna.
«Io e Heaven andremo a cercare l’antivirus».
Non era una richiesta. L’aveva semplicemente informato della cosa.
«È escluso. Stiamo organizzando un team e saranno i miei uomini ad andare. Non certo tu» sentenziò. Ed era il colonnello Lennox a parlare, non William. Ma non aveva di fronte una ragazzina di dodici anni.
«Un team? Per fare in modo che Megatron si accorga che stiamo seguendo una pista?»
Lennox sorvolò sul suo tono sarcastico. «Un team per riuscire a portare a casa quella reliquia che, vista la situazione di Bee, ha un valore inestimabile».
Destiny scosse la testa. «Stammi a sentire: se fai muovere i tuoi uomini, i Decepticons in qualche modo verranno a saperlo. Capisci cosa succederebbe se Megatron la trovasse per primo?»
Lennox non rispondeva, perciò Destiny lo incalzò. «Io e Heaven possiamo muoverci dappertutto senza difficoltà, passando inosservate. Possiamo arrivare nei luoghi indicati da Brains e cercare in giro senza timore di essere scoperte».
In cuor suo, Lennox cominciava a pensare che l’idea di Destiny fosse sensata. Ma non voleva mandarla via, soprattutto non da sola. Si era abituato ad averla attorno: rientrare nel suo miniappartamento e trovarla ad attenderlo era piacevole. Destiny era una compagnia perfetta e avrebbe mentito a se stesso se non avesse ammesso di essersi affezionato a lei. E forse non era solo affetto ciò che provava, ma non sapeva – o non voleva, almeno per il momento – dare un nome alla sensazione di benessere che provava quando stava con Destiny.
Destiny interpretò il suo silenzio come indecisione e proseguì. «Per quanto mia madre potesse essere pazza, aveva previsto che io sarei stata una risorsa nella guerra con i Decepticons. Beh, io ci sono dentro ora e non posso e non voglio stare in panchina a guardare».
«Va bene» mormorò Lennox. Destiny stava per proseguire nella sua tirata sicché rimase spiazzata dalla sua arrendevolezza. Ma lui smorzò subito il suo entusiasmo. «Ma non da sola. Vengo con te».
«Non dire sciocchezze!» sbottò lei. «Sei il comandante. Non puoi perdere tempo a girovagare per il mondo con me» evidenziò, nonostante la prospettiva di averlo vicino la allettasse non poco. «Che cosa succederebbe se il nemico attaccasse di nuovo mentre siamo via?»
«Hai ragione, ovviamente» prese atto lui. «Allora manderò con te alcuni dei miei uomini» concluse.
«Proprio non mi ascolti quando parlo, vero? La discrezione è d’obbligo. Se ci muoviamo in troppi, Megatron capirà che abbiamo più informazioni di lui e tanto noi quanto la reliquia saremo in grande pericolo. Io e Heaven sapremo cavarcela, come abbiamo sempre fatto».
Di nuovo, la ragazza aveva ragione. Ma Lennox non voleva mollare. «Allora verrà Simmons con te». Destiny stava per obiettare di nuovo, ma lui alzò una mano. «Non dire altro! È la mia ultima offerta».
La donna sorrise. «Ti senti più tranquillo a mandarmi in giro con quello svitato di Simmons?» chiese in tono sarcastico.
«Accontentami, per favore» mormorò e lei acconsentì.
Lennox chiamò Simmons e dedicarono l’ora successiva a pianificare la missione. Era fondamentale che Heaven partisse con Destiny, ma ciò comportava l’utilizzo di uno dei C17 dell’esercito.
«Non crederai che io mi lanci con il paracadute, vero?» chiese lei inorridita e Lennox scoppiò a ridere davanti alla sua espressione.
«No, niente paracadute. Vi faremo atterrare da qualche parte, il Nest non ha problemi in questo senso». Girò lo schermo del computer verso di lei e le mostrò la mappa satellitare. «Seguiremo l’ordine stabilito da Brains: Sudamerica poi Inghilterra ed Egitto. Anche se spero che non sia necessario visitare tutti e quattro i luoghi».
Quando ebbero finito, William si alzò in piedi. «Direi che velocità e riservatezza sono fondamentali. Perciò partirete fra due ore, tempo che mi sarà necessario a far caricare il C17 e a farvi organizzare il volo nel dettaglio».
Un’ora e quarantacinque più tardi Destiny si avvicinò alla Camaro gialla che era sempre collegata all’Energon. Sapeva che Heaven si era già congedata da Bee e gli aveva spiegato cosa avevano intenzione di fare. Posò la mano sul cofano dell’auto sportiva.
«Cercheremo di tornare il prima possibile» mormorò.
«Fate… attenzione» rispose l’Autobot con le sue frasi a metà rubate alla radio.
Destiny sorrise e batté delicatamente la mano sulla carrozzeria lucida. «E tu sta tranquillo e goditi il riposo».
Poi si girò e raggiunse William che stava aspettando alla porta dell’hangar, in compagnia di Optimus. Il gigante di ferro si inginocchiò accanto a lei: «Volevo ringraziarti a nome di Bumblebee e di tutti gli Autobots per quello che stai facendo».
Destiny si strinse nelle spalle. «Non è nulla di speciale» minimizzò, ma Optimus scosse la testa.
«La prima volta che ti ho vista, ho detto che hai coraggio. Adesso che ti conosco, lo confermo al cento per cento».
La donna chinò la testa per ringraziarlo.
«Buona fortuna» augurò Optimus a lei e Heaven e si allontanò, lasciandola sola accanto a William.
Sulla base Diego Garcia era in corso un furioso acquazzone e i due rimasero per qualche istante ad osservare la fitta pioggia che batteva sulla pista. A una decina di metri di distanza, il C17 Globemaster aspettava solo Heaven e Destiny, la rampa di carico abbassata. Non potevano vedere al suo interno perché era parcheggiato di traverso rispetto a dove si trovavano loro, ma sapevano che Simmons, Brains e Wheelie erano già imbarcati.
Lennox ruppe finalmente il silenzio. «Voglio essere informato di ogni sviluppo» disse, più bruscamente di quanto avesse voluto, solo per mascherare la mancanza che già sentiva di lei.
«Me l’hai già raccomandato un’infinità di volte». Destiny si voltò verso di lui. «Non hai nulla da dirmi che io non sappia già?»
Sì, c’era. Voleva dirle che non voleva che partisse, ma non poteva farlo. Dalla missione di Destiny dipendeva la sopravvivenza stessa degli Autobots e, di conseguenza, anche di tutti loro. Voleva dirle che era preoccupato che potesse trovarsi in pericolo, ma non poteva fare nemmeno quello. Non aveva prove di quella sua sensazione e Destiny sapeva il fatto suo e non partiva allo sbaraglio: Heaven e gli altri l’avrebbero protetta. Voleva dirle che gli sarebbe mancata, perché già sentiva acutamente il senso di vuoto che avrebbe lasciato dietro di sé, ma non poteva farlo. Dirle una cosa del genere sarebbe stato come ammettere che lui forse si stava…
Perciò non disse nulla di ciò che gli passava per la testa e rimasero immobili a fissarsi occhi negli occhi, almeno finché il motore di Heaven ruggì fuori giri e la Camaro rossa uscì dall’hangar, verso il C17 in attesa. Destiny sorrise mestamente.
«Heaven ha fretta di partire» constatò, mettendosi lo zainetto su una spalla.
«Fa’ attenzione» mormorò lui, arginando il fiume di parole che invece voleva dirle.
Destiny rise. «Già detta anche questa!» esclamò. Poi si fece seria. «Grazie di tutto, ma soprattutto di aver creduto in me. Ci sentiamo presto». Tirò su il cappuccio della tuta, girò sui tacchi e corse sotto la pioggia per raggiungere il cargo.
Era quasi arrivata sotto l’enorme sezione di coda quando William capì che non poteva lasciare che partisse così. «Destiny!» la chiamò e la sua voce, abituata a gridare ordini nel fragore dei combattimenti, giunse fino a lei che si fermò. Si voltò e rimase sotto la pioggia, strizzando gli occhi per proteggerli dalla pioggia.
Lennox le stava correndo incontro e pensò che avesse dimenticato di dirle qualcosa. Ma quando le fu vicino, William la prese per i fianchi, l’attirò a sé e, chinando il capo, la baciò. Destiny non se lo aspettava, ma rispose al bacio con tutto il trasporto accumulato nell’attesa che lui si sbloccasse. Lasciò cadere lo zainetto sull’asfalto allagato e intrecciò le braccia dietro la nuca dell’uomo, stringendosi a quel corpo solido e muscoloso. Incuranti del fatto che si stavano infradiciando fino alle ossa, continuarono a baciarsi.
William pensava che si sarebbe sentito in colpa per quel bacio, ma tutto ciò che provava era un grande senso di liberazione. Sentì nella propria testa la voce di Sarah: «Sii felice». Sì, ora poteva esserlo. E allora la baciò con più passione, stringendola a sé, mentre la pioggia scendeva sui loro corpi avvinghiati.
Quando si scostò, lei lo tenne stretto. Aveva le palpebre serrate, le folte ciglia quasi aggrovigliate, e i capelli neri che gocciolavano sulle spalle, ma sorrise sulle sue labbra.
«Non potevi deciderti due minuti fa? Avremmo evitato la doccia» mormorò e aprì gli occhi.
«Scusami. Solo quando ti ho vista andare via, mi sono reso conto che non potevo assolutamente lasciarti andare in quel modo».
«Sono contenta che tu ti sia finalmente deciso» sussurrò, e gli sfiorò di nuovo le labbra con le proprie.
Dietro di loro, Heaven fece rombare di nuovo il propulsore, ma con meno rabbia di prima. Destiny si voltò, restando nel cerchio delle braccia dell’uomo. «Penso che sia meglio andare ora».
«Mi mancherai» sussurrò lui e si meravigliò di quanto facilmente gli uscissero quelle parole.
«Anche tu» rispose la donna, sciogliendo l’abbraccio.
«Promettimi che tornerai presto da me. Promettimi che tornerai sana e salva tra le mie braccia».
«Te lo prometto. Il prima possibile. Ma finché non mi lasci andare…»
Con un sorriso di scuse, William la lasciò. La giovane raccolse lo zainetto e lo rimise in spalla. Fece per voltarsi ma poi, come per un ripensamento, si gettò di nuovo fra le sue braccia e, alzandosi in punta di piedi, lo baciò. Infine, senza lasciargli il tempo di dire altro, raggiunse Heaven e insieme sparirono nel vano di carico dell’aereo militare.
 
A bordo della Camaro c’era un silenzio teso. Destiny era al volante e Seymour le era seduto accanto, mentre Wheelie e Brains erano sul sedile posteriore.
La tensione che riempiva l’abitacolo era dovuta ai due insuccessi precedenti. I due siti visitati in Messico e Perù si erano rivelati degli assoluti buchi nell’acqua. Spreco di tempo e denaro americani, come aveva sottolineato Simmons.
Non era ovviamente colpa loro. Ma stavano perdendo tempo e non ne avevano. Avevano frugato quei luoghi in lungo e in largo, ma senza alcun risultato. Il problema era che non sapevano nemmeno cosa cercare perché le informazioni in loro possesso erano poche e lacunose.
Destiny lanciò un’occhiata a Brains dal retrovisore. «Qualche novità, Brains?»
Dopo che erano atterrati in Inghilterra, aveva chiesto al piccolo Autobot di provare a cercare di nuovo o di incrociare i dati in maniera diversa per vedere se saltava fuori qualche novità. Brains scosse la testa e la ragazza sbuffò.
«Non so, forse stiamo prendendo la cosa dalla parte sbagliata».
«Le informazioni che avevamo erano troppo approssimative. Ma non abbiamo finito di cercare e sono fiducioso».
In quel momento Heaven avvertì che c’era una chiamata di Lennox in arrivo.
«Ciao Will» lo salutò Destiny.
Dopo il saluto che si erano scambiati prima della partenza da Diego Garcia di due settimane prima, lei e Will non avevano più avuto modo di parlare da soli, tanto che la donna cominciava a pensare di essersi immaginata tutto. Ma poi risentiva il sapore delle sue labbra e la stretta delle sue mani sui fianchi e rivedeva quegli occhi, fissi nei suoi. E non vedeva l’ora di tornare alla base Nest. Eppure, nella sua felicità, non poteva scordare la difficile situazione in cui si trovavano.
«Come sta Bumblebee?» domandò, ben sapendo che Heaven aspettava con ansia quel momento giornaliero.
«La situazione non è diversa da ieri. L’Energon sembra tenere ancora a bada il virus».
Destiny sapeva che il virus si stava lentamente diffondendo sulla carrozzeria gialla di Bumblebee perché Lennox le aveva mandato un’e-mail con un paio di foto. Le macchie di ruggine erano ancora contenute, ma si stavano propagando su tutta la parte posteriore. Secondo i tecnici, la diffusione era più lenta di quanto non lo fosse stata con Elita One in quanto Bee era stato colpito di striscio, mentre la femmina era stata colta in piena Scintilla.
«Voi a che punto siete?» chiese il colonnello.
In quel momento, Seymour indicò qualcosa sulla sinistra. Destiny annuì.
«Siamo appena arrivati in vista di Stonehenge».
In mezzo ai campi verdissimi, il famosissimo sito monolitico s’innalzava dalla fitta nebbia. I giganteschi blocchi di pietra grigia sembravano nascondere un segreto che ancora non era stato svelato.
«Bene. Tenetemi aggiornato» ordinò e li salutò.
Destiny parcheggiò a bordo strada e tutti scesero. In giro, fortunatamente non c’era anima viva. La donna era rimasta sinceramente stupita dell’influenza del Nest: in ogni luogo che avevano visitato erano stati liberi di girare a loro piacimento e anche a Stonehenge non c’erano nemmeno gli inservienti che solitamente badavano al sito.
Era una giornata umida e fredda e Destiny sollevò il colletto della giacca. C’era un’atmosfera magica e vagamente inquietante che pervadeva quel sito. Molto più di quelli che avevano visitato in Sudamerica. Forse era soltanto suggestione dovuta al tempo, ma evidentemente dovevano avvertirlo anche Seymour e i due piccoli Autobot perché, stranamente, erano tutti molto silenziosi.
Entrarono nel cerchio di pietre antiche – tutti meno Heaven che, in forma di Camaro, rimase all’esterno – e cominciarono a guardarsi intorno. Non c’era molto eccetto i grandi monoliti grigi che avevano resistito a chissà quanti secoli.
Rimasero per oltre un’ora nel sito, osservando da vicino le pietre e cercando indizi sulla presenza della reliquia. Ma non trovarono nulla e, demoralizzati, si riunirono al centro del cerchio di pietre interno.
«Non c’è nulla nemmeno qui» borbottò Wheelie.
Seymour guardò il cielo. «Non abbattiamoci. Si sta facendo buio. Torneremo domani e verificheremo con maggiore attenzione».
Destiny annuì. Si avviarono mestamente per raggiungere Heaven, ma Destiny si bloccò all’improvviso, fissando una delle pietre. Quando Seymour se ne accorse, le si avvicinò.
«Che succede?» domandò, ma lei non rispondeva sicché girò lo sguardo nella stessa direzione. Destiny stava fissando una pietra come ce n’erano a tante altre, ma poi Seymour si accorse che c’era una runa incisa su quel masso. Era una specie di mezzaluna orizzontale, sormontata da un disco rotondo. Nella parte inferiore era disegnata una specie di croce, con il braccio orizzontale molto più corto dell’altro. C’erano altre rune disegnate sulle rocce, ma quella sembrava aver attirato l’attenzione di Destiny.
«Quel simbolo» sussurrò «io lo conosco».
Ricordava che da bambina, quando ancora non sapeva leggere e scrivere, disegnava quel simbolo dappertutto. Anche ora, se era soprappensiero con davanti un foglio e una penna, capitava spesso che riempisse la carta con quello stesso disegno.
«Conosci davvero quella runa?» chiese Seymour ma lei non diede segno di averlo udito.
Si avvicinò alla pietra e tese la mano. Quando fu ad un paio di centimetri dalla superficie incisa, il simbolo si illuminò di un bagliore argenteo. Spaventata, Destiny ritrasse la mano, ma anche Seymour aveva notato lo strano fenomeno.
«Mio Dio!» esclamò. «Forse abbiamo trovato qualcosa».
Lentamente, Destiny avvicinò di nuovo la mano e il bagliore ricomparve. La donna esitò solo un attimo poi toccò la runa con la punta delle dita. La strana luce cessò improvvisamente e, con un rombo, la terra tremò leggermente. Heaven, che era ancora fuori dal cerchio di pietre, si trasformò.
«Presto, venite!» gridò e tutti si affrettarono a raggiungerla.
Ciò che videro li lasciò a bocca aperta. Nel terreno, appena fuori dal cerchio di massi, si era aperta una grande cavità scura, talmente grande che Heaven avrebbe potuto passarci senza problemi. Una serie di ripidi scalini di pietra scendeva nel sottosuolo, talmente in profondità che nemmeno i fanali di Heaven riuscivano a farne scorgere il fondo.
«Abbiamo trovato molto più di qualcosa» mormorò Simmons.
«Che facciamo? Scendiamo?» chiese Destiny, timorosa. Era ancora molto scossa da ciò che era successo dopo che aveva toccato la runa. Sentiva che c’era qualcosa di più, qualcosa che le sfuggiva. E aveva paura di ciò che avrebbe scoperto.
«Certo che scendiamo!» rispose Seymour.
«E se fosse una trappola?» chiese Wheelie.
«Non abbiamo tempo per pensarci. Se lo fosse, comunque, lo scopriremo presto».
«Vado avanti io» disse Heaven.
Cominciarono a scendere lentamente. Quando furono a metà della scalinata, mentre il fondo ancora non si vedeva, la botola che si era aperta nel terreno si richiuse, sigillandoli dentro.
«Adesso sembra un po’ più una trappola» bofonchiò Wheelie. Ma non c’era molto che potessero fare se non continuare a scendere e sperare che ci fosse un’altra via d’uscita o un modo per riaprire la botola.
Destiny contava gli scalini man mano che scendevano e quando arrivò a cento, il pavimento si spianò. Valutando in una ventina di centimetri l’altezza media degli scalini, erano scesi venti metri sotto la superficie. Era un’opera grandiosa e si fermarono un attimo a valutarla.
Seymour puntò la torcia sul muro. «È opera degli alieni. Vedete le incisioni sulle pareti?»
Tutto il muro era infatti costellato di glifi alieni, simboli di Cybertron.
«Chissà da quanti anni i Transformers si nascondono tra noi. Chissà quante delle nostre opere monumentali hanno costruito» mormorò Destiny in tono reverente.
«Proseguiamo» disse Brains. «La cosa promette molto bene».
Si avviarono lungo quel gigantesco corridoio, largo almeno cinque metri e alto otto o dieci metri. Heaven conduceva, avanzando cautamente, usando i fanali per illuminare davanti a sé.
Finalmente scorsero una luce. Non era luce solare, ma una luminescenza azzurrina quasi ultraterrena che disegnava un rettangolo, una sorta di porta, davanti a loro.
«Fermi!»
Una voce cupa riecheggiò nel corridoio e tutti istintivamente si bloccarono. Wheelie si strinse contro la gamba di Destiny.
«Mostraci chi sei» rispose Heaven, sfoderando il suo cannone.
Qualcuno, o qualcosa, si stagliò nell’apertura. Per un attimo non riuscirono a scorgere molto, ma appena i loro occhi si furono abituati, lo videro. Era un Transformer, nella sua protoforma. Era di poco più piccolo di Heaven nella sua forma robotica e non sembrava avere atteggiamenti bellicosi.
Fece un passo avanti, verso di loro e Heaven si agitò inquieta.
«Chi di voi ha aperto il Passaggio?» domandò.
«Io» rispose Destiny. Si fece avanti, sfiorò la gamba di Heaven e la invitò ad abbassare le armi. «Sento che è ok» sussurrò.
Si avvicinò con prudenza al Transformer che la fissò per un momento prima di piegare una gamba e inginocchiarsi davanti a lei. Il gesto era così inusuale che tutti rimasero immobili.
«È un onore, dopo tanti secoli, inginocchiarmi davanti a te. Sono felice che tu mi abbia finalmente trovato».
«Non capisco» mormorò Destiny.
Il Transformer sconosciuto si alzò e la invitò a seguirlo oltre la soglia illuminata.
Furono introdotti in una grande camera circolare. Il bagliore azzurrino che avevano visto proveniva da una struttura centrale, una specie di altare su cui galleggiava qualcosa.
«Chi sei tu?» chiese Destiny.
«Io, mia signora, sono il Custode».
L’enormità di quella rivelazione li lasciò tutti senza fiato. Significava che la leggenda era vera e che erano davvero arrivati alla Reliquia.
«Perché ti sei inginocchiato di fronte a me?» chiese di nuovo la donna.
«Perché tu, mia signora, sei la Chiave».
Destiny indietreggiò di un passo, mentre tutti i tasselli andavano al loro posto. La profezia di sua madre era dunque vera: lei era davvero destinata ad essere una pedina nella guerra fra Autobots e Decepticons. Lei era la Chiave. Ora si spiegava anche perché avesse continuato a disegnare quella runa e perché sua madre, la prima volta che aveva visto ciò che stava facendo, avesse fatto quella strana espressione, tanto da spingerla a nasconderle il fatto che quel apparentemente insignificante disegno era quasi un’ossessione.
Ecco perché si era sempre sentita fuori posto, come se ci fosse altro ad attenderla. In un istante, tutti i buchi vennero colmati e lei, finalmente, sentì tra le mani il proprio destino.
«Vedo confusione sui vostri visi» disse il Custode. «In teoria, la Chiave avrebbe dovuto conoscere la realtà dei fatti, ma mi rendo conto che sono passati molti secoli e quindi la storia deve essersi dispersa nelle nebbie, diventando più leggenda che realtà. Permettete dunque che vi spieghi».
Il Custode narrò loro la storia della Black Stone, indicando la piccola pietra nera che fluttuava nella luce azzurra, sopra l’altare al centro della sala. Spiegò loro che era soprattutto una potente fonte di Energon, oltre che l’antidoto all’odioso virus che avevano imparato a conoscere.
«Una volta toccato dalla Black Stone» spiegò, «il Transformer diventa immune al virus e, anche se viene colpito di nuovo, non viene più infettato».
La pietra veniva dal sacro suolo di Cybertron ed era stato proprio il Custode a portarla sulla Terra. Non volendo favorire né l’una né l’altra fazione, il Custode aveva deciso di legarla a quella strana razza di piccoli insetti che popolava il pianeta su cui era arrivato. Soltanto un umano, quindi, poteva utilizzare la pietra.
«Ma non un umano qualsiasi. Per aprire ogni serratura, serve infatti una chiave. E la nostra Chiave deve essere un umano sì, ma con il cuore di un Transformers» e guardò intensamente Destiny. «Tu sai cosa intendo, vero mia signora?»
Sì, lei lo sapeva. Aprì la cerniera della giacca e scostò la maglietta. Nella luce fioca, il marchio sulla sua pelle brillava di un tenue lucore.
«In molti secoli passati a fare da Custode alla Black Stone ho capito di aver sbagliato: avrei dovuto affidare la Reliquia agli Autobots perché i Decepticons sono capaci solo di odio. Ma non volevo immischiarmi; volevo che fosse il fato a decidere».
«Ma come funziona questo discorso della Chiave?» domandò Seymour.
«In realtà, esistono al mondo due Chiavi. Da quando ho deciso di legare la Reliquia alla vostra fragile razza, questa regola non è mai venuta meno. Ogni generazione di umani ha dato i natali ad una coppia di individui con addosso il marchio che tu porti, mia signora. Uno per i Decepticons e uno per gli Autobots». Il Custode sorrise. «In realtà, quando ho visto lei» e indicò Heaven «avevo già capito quale fazione reclamava questo prezioso tesoro, altrimenti non avrei mai ceduto senza combattere».
«Quindi, da qualche parte, qualcuno porta addosso il marchio dei nostri nemici e potrebbe mettere le mani sulla Black Stone?» s’informò Seymour.
Il Custode annuì. «È esatto. Ma in ogni serratura va una chiave per volta. Quindi una sola delle Chiavi può usare la Reliquia, finché l’altra non muoia. Per essere tu lo strumento, mia signora, devi reclamare la Reliquia prima che lo faccia l’altra Chiave».
Destiny si voltò istintivamente verso la Black Stone. Senza proferire parola si avvicinò all’altare. La Reliquia non era altro che una pietra perfettamente rotonda e piatta, di circa cinque centimetri di diametro. Sembrava un nero ciottolo di fiume ma incisa su una faccia c’era la stessa runa che avevano trovato in superficie e che aveva aperto il portale.
«Le apparenze ingannano, mia signora» disse il Custode, indovinando benissimo i pensieri di Destiny che si chiedeva come quella banalissima pietra potesse essere uno strumento tanto potente.
La Black Stone galleggiava su quello che sembrava un cuscinetto di energia e che la teneva sospesa una trentina di centimetri sopra l’altare.
Destiny tese la mano per prenderla. Mentre le sue dita si avvicinavano alla Reliquia, la voglia sul suo petto prese a risplendere. La ragazza sentiva la potente energia racchiusa in quella piccola pietra aumentare man mano che si avvicinava, finché non arrivò ad afferrarla.
Si sprigionò un lampo di luce bianchissima, mentre Destiny sentiva tutta la forza racchiusa nella Reliquia risalire lungo il braccio destro, attraversare il suo corpo e fermarsi sulla voglia sopra il seno sinistro. Si coprì gli occhi con la mano ma non indietreggiò.
Finalmente la luce si spense. Destiny girò la destra: la Reliquia stava esattamente nel suo palmo, ancorata ad esso per mezzo di quattro filamenti di energia. La faccia su cui era incisa la runa era nascosta nel palmo mentre quella visibile mostrava ora il marchio degli Autobots.
«La Reliquia è stata reclamata» esultò il Custode, mentre Destiny, ancora incredula, continuava a fissare la propria mano.
«Stai bene?» chiese Heaven preoccupata. Destiny annuì.
«Ma c’è altro che devi sapere, mia signora» disse il Custode, prima di bloccarsi all’improvviso, voltandosi verso il corridoio da cui erano arrivati. «Qualcun altro ha aperto il portale» disse.
«È possibile?» chiese Brains.
«Sì. Ora che il sigillo è stato spezzato, chiunque della nostra razza può accedere a questo luogo».
«Della vostra razza?». Destiny si girò verso i compagni. «Nessun Autobot ci ha seguiti. È un Decepticon».
«Non uno solo, mia signora. Più di uno. E ormai molto vicini».
«C’è un’altra via d’uscita?» domandò Seymour e il Custode indicò una vasta apertura sul lato opposto rispetto a dove erano entrati.
Destiny toccò la Black Stone che si disattivò tornando ad assomigliare ad un semplice sasso di fiume e si staccò dalla sua mano. La porse a Seymour.
«Dovete andare. Io posso farvi guadagnare un po’ di tempo». Poi si rivolse a Heaven. «Portali via di qui il più in fretta possibile».
Ma l’Autobot scosse la testa. «Non vado senza di te».
«Heaven, non abbiamo tempo di discutere. La Reliquia è più importante, se cadesse nelle mani dei Decepticons, Bee e gli altri sarebbero spacciati».
«Lo saranno comunque» evidenziò Wheelie. «Soltanto tu puoi usarla».
«Proprio per questo i Decepticons non la uccideranno» intervenne il Custode.
«Troverò un modo per tornare, vi ritroverò. Ma è fondamentale mettere in salvo la Reliquia o non avremo neanche una possibilità».
«Resto io a fare da diversivo» disse Seymour ma la donna scosse la testa.
«Non capisci? Uccideranno chiunque troveranno qui. Solo io ho una speranza di sopravvivere. Ora, per favore, andate».
Simmons la fissò per qualche istante poi chinò la testa. «Ha ragione. Dobbiamo andare. Heaven, forza».
L’Autobot si inginocchiò a terra. «Ti ritroveremo, ovunque tu sia».
«Lo so. Dì a Will che in un modo o nell’altro manterrò la promessa che gli ho fatto».
Heaven annuì. Poi si voltò e fece strada al gruppetto, illuminando il cammino verso l’uscita.
«Ci sarebbero molte altre cose da dirti, mia signora, ma non so se ne avrò il tempo. Però c’è una cosa che devi assolutamente sapere. Avrai di sicuro sentito il grande potere racchiuso nella Black Stone. Ricorda: ogni volta che la userai, richiederà un grande dispendio di energia. Tu sei forte e hai il coraggio di una leonessa, ma dovrai dosare bene le forze perché quella Reliquia può prosciugarti del tutto».
«Lo terrò a mente» rispose. Poi trasalì, quando sentì un rumore metallico provenire dal corridoio d’entrata. «Grazie per il tuo aiuto».
Il Custode annuì solennemente. «È stato un onore. Ora va’ dietro a me, mia signora. Il nemico è qui». Poi si voltò. «Fermi!» gridò come aveva fatto con l’altro gruppo di intrusi, ma stavolta la risposta fu ben diversa. Un colpo possente fece tremare gli stipiti del grande portale e un Decepticon entrò nella sala della Reliquia.
Era molto più piccolo del Custode: Destiny calcolò che nella sua forma terrestre dovesse essere una moto o qualcosa del genere e si sentì leggermente rincuorata in quanto non sembrava un avversario così temibile. Il sollievo durò poco: altri due Decepticons seguirono il primo e questi erano talmente grossi che dovettero chinarsi per passare attraverso l’apertura.
«Non potete entrare qui dentro» disse il Custode.
«La porta era aperta, nonno» disse il primo che era entrato. Poi sbirciò dietro di lui, osservando Destiny. «È questa la famigerata Reliquia?» sbottò ridendo fragorosamente.
«La Reliquia non è qui. È stata portata via».
«Inventane un’altra, ma fa’ che sia più credibile la prossima volta» sibilò uno dei due giganti e colpì il Custode su un fianco, mandandolo a sbattere contro la parete, dove rimase.
«Allora, che ci fai tu qui, piccolo insetto?»
Destiny non rispose né indietreggiò di fronte al Decepticon.
«Non sembri spaventata» mormorò.
«Non lo sono, infatti» replicò, sollevando il mento in gesto di sfida.
«Male. Dovresti» sussurrò e con gesto talmente repentino l’afferrò per il collo e la sollevò, sbattendola contro una delle massicce colonne che sostenevano la volta di pietra con tanta forza che la ragazza sentì le costole scricchiolare.
La mano del Transformer era una tenaglia d’acciaio che le premeva anche sul petto, impedendole di respirare. Stava cercando freneticamente di liberarsi ma sentiva le forze venire meno, quando il Custode si rialzò a fatica, aggrappandosi alla parete di roccia per sostenersi. Era ferito e Destiny, tra le stelle luminose e i buchi neri che le riempivano gli occhi, vide che l’Energon stillava da una profonda ferita al fianco.
«Fermo!» gridò con voce rauca. «Non hai idea di cos’hai per le mani» disse.
«Altro non è che un’insulsa umana. Ce ne sono altri sette miliardi da sottomettere là fuori» rispose l’altro e strinse un po’ più la presa. I movimenti di Destiny si fecero deboli e scoordinati mentre l’ossigeno andava esaurendosi.
«Lasciala o la ucciderai!»
«Sì, vecchio. L’idea è quella». La risata sguaiata fu ripresa dai due scagnozzi che in tal modo non si accorsero del fatto che il Custode si era staccato dalla parete e si era lanciato contro il loro capo. Lo colpì con la forza di un ariete. Il Decepticon lasciò la presa su Destiny, più per la sorpresa che per la violenza del colpo. La ragazza scivolò a terra, mentre l’aria fresca e benedetta tornava a riempirle i polmoni, passando per la gola già dolorante.
«Sette miliardi di umani, ma una sola Chiave per la Black Stone».
Le parole del Custode bastarono ad incuriosire il nemico che si trattenne dal finirlo.
«Una Chiave?»
«La Black Stone ha bisogno di una chiave per essere attivata. Lei è la Chiave. Se la uccidete, la Black Stone sarà inutilizzabile finché non nasca una nuova Chiave e raggiunga l’età giusta per prendere consapevolezza del proprio ruolo».
Destiny notò che non aveva fatto cenno al fatto che la Reliquia poteva essere utilizzata solo per gli Autobot finché lei fosse rimasta in vita, né che esisteva anche una Chiave per i Decepticons, e lo ringraziò silenziosamente. Sapeva che con quella ferita e senza Energon non c’era alcuna possibilità per il Custode di sopravvivere, eppure stava rischiando tutto per lei.
«Che facciamo, capo?» chiese il Decepticon più vicino a Destiny.
«Non credo del tutto a questo vecchio. Ma non spetta a noi decidere. La porteremo a Lord Megatron». Poi si rivolse al Custode. «C’è altro che dovremmo sapere?»
«Solo che la Chiave non ha ancora terminato il suo addestramento. Io sono il solo che può insegnarle ad usare la Black Stone».
«Oh, sono sicuro che la signorina saprà improvvisare» borbottò il Decepticon. Con un gesto del braccio destro sfoderò la sua arma e sparò un solo colpo proprio al centro del petto del Custode. Il corpo metallico fu proiettato lontano e si fermò contro la parete. Destiny corse da lui e gli si inginocchiò a fianco. Non aveva abbastanza forze per sollevargli la testa, così posò una mano sul freddo metallo della fronte, fissando i suoi occhi mentre la vita si spegneva piano nella sua Scintilla.
«Mi spiace, mia signora» mormorò con le ultime forze rimaste. Poi, mentre Destiny pensava a qualcosa da dirgli, gli occhi si spensero definitivamente. Destiny chinò il capo, mentre una lacrima scendeva sulla guancia e andava a infrangersi sul volto esanime del Custode.
«Avanti, principessa» disse il capobanda, prendendola per le braccia e facendola alzare. Le legarono le braccia dietro la schiena e mezzo spingendola e mezzo trascinandola la condussero fuori.
Il buio era sceso fitto e Destiny si guardò intorno. Non c’erano luci in vista, il che significava che era riuscita a guadagnare abbastanza tempo perché Heaven potesse allontanarsi o comunque nascondersi. Confortata dal fatto che il suo diversivo aveva funzionato, si dedicò ad analizzare la propria situazione, che non era certo rosea.
La sua sopravvivenza, almeno nel breve periodo, era assicurata. Le parole del Custode erano state sufficienti ad instillare il dubbio in quel manipolo di Decepticons che erano con tutta evidenza solo esecutori, non in grado di prendere decisioni.
Il capo aveva detto che l’avrebbero portata da Megatron e la cosa non la faceva stare tranquilla. Non sapeva cosa aspettarsi da quell’incontro, ma era decisa a restare in vita a qualunque costo. La sabbia nella clessidra che misurava la vita di Bumblebee stava finendo e lei doveva trovare un modo per tornare a Diego Garcia e usare la Black Stone.
I due energumeni si trasformarono in due enormi jeep Hummer nere. Il capobanda la spinse nell’abitacolo di uno di essi e chiuse la portiera. Viaggiarono in corteo fino all’aeroporto dove si imbarcarono su un cargo commerciale. Sulle prime Destiny fu sorpresa, ma poi capì: come c’erano umani che lavoravano con i buoni, ce n’erano anche con i Decepticons.
Il volo fu lungo e scomodo. Nonostante le sue lamentele, la slegarono solo il tempo necessario ad usare il piccolo bagno. I muscoli delle braccia protestarono quando il Decepticon la costrinse di nuovo a torcerle all’indietro e la ammanettò.
Riuscì in qualche modo a dormicchiare ad intervalli finché avvertì la differenza di pressione quando l’aereo iniziò le manovre di atterraggio.
Quando uscì dall’aereo, socchiuse gli occhi per difenderli dal riverbero accecante del sole. Sapeva che la base di Megatron era in Africa e il sole e il paesaggio circostante la indussero a pensare di essere proprio sul grande continente.
Destiny fu fatta salire di nuovo su uno degli Hummer e fu sballottata senza pietà sulle malridotte strade africane. Era tardo pomeriggio quando arrivarono in vista di una bassa catena di colline bruciate dal sole.
Ai piedi di quei rilievi c’era una specie di campo base che, dopo essere stata per qualche tempo alla base Nest, non faticava a riconoscere come caotico e disordinato. Ciò che la spaventò fu il numero di cyborg che vide. Dovevano essere almeno una cinquantina, di tutte le taglie.
L’Hummer finalmente si fermò. Il capobanda aprì la portiera e la trascinò giù dal mezzo, facendola cadere nella polvere.
«Claymore!» disse una profonda voce metallica. «Ti abbiamo mandato a cercare una Reliquia e torni con questo minuscolo esserino?»
Con le braccia legate dietro la schiena, Destiny faticava ad alzarsi. Claymore – finalmente conosceva il suo nome – l’afferrò e la rimise in piedi. Il cyborg che aveva parlato la stava scrutando con i suoi terribili occhi rossi. La stella a tre punte della Mercedes sul suo petto brillò al sole quando si mosse e Destiny riconobbe Soundwave.
«Ha a che fare con la Reliquia» disse Claymore, spingendola avanti. «Devo parlare con Megatron».
Dal suo atteggiamento, Destiny capì che aveva paura di Soundwave.
«Per te è Lord Megatron» sottolineò Soundwave, e alla donna parve che Claymore tentasse di farsi ancora più piccolo.
«Chi vuole vedermi?» sbottò una voce da sotto una grande tenda mimetica.
Claymore trasalì. «Sono Claymore, Lord Megatron».
«Entra!» ringhiò.
Spingendo Destiny senza troppe cerimonie, Claymore avanzò sotto il telo. Dentro l’atmosfera era buia e fresca e gli occhi della ragazza ci misero un po’ ad abituarsi, dopo il sole abbacinante. Claymore la spinse di nuovo in mezzo alle scapole e lei non resistette più, voltandosi a fronteggiarlo.
«Smettila!» sibilò.
Claymore alzò una mano per colpirla, ma Megatron lo fermò.
«Non toccarla» ordinò e Claymore abbassò la mano. «Non vogliamo che i nostri ospiti vadano a dire in giro che non si trovano bene con noi».
Destiny si voltò verso di lui. Ora che i suoi occhi si erano adattati alla penombra riusciva a vederlo bene e scorse i feroci occhi rossi nel viso spigoloso, la chiostra di denti affilati. Megatron era seduto su una specie di trono, le braccia abbandonate sui braccioli. Era evidente che era affetto da un certo grado di egocentrismo e gli piaceva ricevere ossequio dai suoi sudditi. Chissà quanto doveva scocciargli quella faccia sfigurata!
Con la mano ad artiglio le fece cenno di avvicinarsi. Destiny fece qualche passo avanti e alzò lo sguardo verso di lui. Entrambi rimasero in silenzio.
«Se aspetti che io m’inginocchi davanti a te dovrai farmi spezzare le gambe» disse lei all’improvviso.
Claymore si fece avanti per punire quella sbruffonata, ma Megatron lo fermò con un gesto della mano.
«Non so se sia incoscienza o coraggio… ma mi piace» mormorò. Poi si rivolse a Claymore: «Slegala».
«Ma, signore, potrebbe…» obiettò Claymore, ma Megatron abbatté il pugno sul bracciolo.
«Slegala, ho detto» urlò e il cyborg si affrettò ad obbedire.
Destiny gemette quando il sangue prese a rifluire nelle braccia che per tante ore erano rimaste bloccate in quella posizione innaturale. Aveva profondi segni rossi sui polsi, che prese a massaggiare per far circolare il sangue, e le mani gonfie e vagamente bluastre.
«Come ti chiami?»
«Destiny».
«E come mai quell’idiota di Claymore ti ha portata qui?» chiese.
«Lord Megatron, io…» cominciò Claymore, ma Megatron lo fermò di nuovo.
«Non ho chiesto a te» sibilò. «Sarà meglio che aspetti fuori, Claymore. La tua presenza mi irrita. E sai cosa succede quando sono irritato, vero?»
Claymore s’inchinò immediatamente e uscì camminando a ritroso.
Megatron fissò di nuovo lo sguardo su di lei. «Allora, Destiny: come mai sei qui?»
«Perché pensi che collaborerò con te?» chiese Destiny e lui si abbassò fino a trovarsi con gli occhi allo stesso livello di quelli nerissimi di lei.
«Starscream!» chiamò poi.
Il fedelissimo luogotenente di Megatron fece il suo ingresso.
«Mi hai chiamato, padrone?»
«La signorina Destiny ha bisogno di riposare. Trovale un alloggio ma trattala con cortesia. È un’ospite preziosa». Poi si rivolse direttamente a lei: «Domani parleremo ancora, piccola Destiny».
Poi fece un cenno della mano e Starscream si avvicinò, facendole cenno di seguirlo.
La accompagnò fuori e Destiny lo seguì docilmente. Non aveva senso rischiare la vita quando sapeva di essere l’unica risorsa per gli Autobots. Starscream la condusse ad un paio di container e bussò con delicatezza sul tetto di uno di essi.
Un uomo aprì la porta e alzò lo sguardo verso il Decepticon.
«Questa umana rimarrà con te, Greg» disse Starscream e l’uomo girò lo sguardo su di lei. «Lord Megatron dice che è preziosa, quindi è da trattare con rispetto, ma non deve scappare». Poi abbassò lo sguardo dei suoi occhi rossi su di lei. «Capito?» domandò.
Destiny annuì.
L’uomo uscì e la prese per un braccio, sospingendola all’interno del container.
«Sarà fatto come Lord Megatron desidera» disse l’uomo. Il Decepticon annuì e se ne andò.
Destiny fu sospinta all’interno dell’alloggio prefabbricato che era arredato con sobrietà: niente fronzoli ma tutta funzionalità. Un’intera parete era occupata da una sofisticata consolle di monitor e computer. La donna notò che su uno dei monitor era fissa un’immagine satellitare nella quale riconobbe la base Diego Garcia. Ciò significava che i Decepticons spiavano le loro mosse: per quello avevano saputo che erano in Inghilterra e li avevano intercettati a Stonehenge. Probabilmente li avevano seguiti anche in Sudamerica.
«Sì, spiamo gli Autobots» disse, notando il suo sguardo. «Come credi che facciamo ad essere sempre un passo avanti a voi?» concluse.
«Mi chiedo come tu possa stare dalla parte di Megatron» sbottò Destiny.
«I tuoi Autobots non hanno nessuna possibilità di vincere contro Lord Megatron. Meglio stare dalla parte di chi vincerà».
Destiny sogghignò. «Sai qual è il problema? Se vinceranno gli Autobots, tu sarai salvo e libero. Se vincerà Megatron, ammesso che ti lasci in vita, sarai schiavo per il resto della tua vita».
«Meglio una vita da schiavo che la morte».
La donna si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu».
Greg si girò verso le sue apparecchiature. «Mettiti comoda. Da qui non puoi uscire, la porta ha una serratura biometrica e si apre solo con la scansione delle mie impronte digitali».
Quindi era in trappola. Si mise a sedere e si chiese che cosa stesse facendo William e come se la stesse cavando Bumblebee.

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Capitolo 8
*** Ho dovuto infrangere quella promessa ***


«Colonnello, abbiamo un problema».
Lennox si voltò verso Clint che stava alla consolle, mentre un allarme cominciava a suonare.
«Che succede?» chiese, con la terribile premonizione di ciò che gli avrebbe detto Clint.
«Signore, rileviamo nemici in arrivo. Sono molti».
Clint si scostò e gli mostrò il monitor. Lennox non riusciva a credere a ciò che vedeva: c’era un fronte compatto di puntini rossi che si stava avvicinando velocemente alla base. Erano già troppo vicini per permettergli di fare un piano di difesa ad hoc.
«Dio mio!» disse William e corse via, raggiungendo Optimus.
Il leader Autobot era già in movimento da quando aveva sentito la sirena suonare.
«Optimus, credo che siamo alla resa dei conti» gli disse William. «Stanno venendo qui».
«Se Megatron ha deciso di spostare qui la battaglia, significa che si sente assolutamente sicuro di poterla vincere» replicò Prime. «Temo che la situazione sia grave, William».
«Lo so. Cercheremo di organizzarci nel miglior modo possibile, ma sono tanti, e molto vicini».
Clint lo chiamò di nuovo e Lennox lo raggiunse, mentre Optimus si riuniva ai suoi per spiegare loro ciò che li attendeva.
Clint indicò un segnale nella moltitudine che stava avanzando verso di loro, in retroguardia. William lo riconobbe subito: prima che Destiny partisse aveva fatto modificare il suo orologio. All’insaputa della ragazza aveva fatto nascondere in esso un trasponder e il segnale che Clint aveva evidenziato era proprio quello.
Non aveva più avuto notizie di Destiny da quando era scomparsa a Stonehenge, quindi da tre giorni. Quando Seymour e gli altri erano tornati, gli avevano raccontato la storia. Quattro o cinque anni prima l’avrebbe trovata assolutamente inverosimile, ma ormai ci credeva senza mettere in dubbio nulla.
Ricordava bene la voglia sul petto di Destiny e come avesse subito riconosciuto in essa il simbolo degli Autobots. Ma non aveva mai pensato che quel simbolo potesse davvero rendere Destiny fondamentale per i suoi amici Autobots.
Sebbene il suo primo impulso fosse stato quello di andare a cercarla di persona, non l’aveva fatto. Era stata Heaven a convincerlo a desistere.
«Destiny riuscirà a tornare, credimi. Tu non puoi permetterti di abbandonare i tuoi uomini».
Si era convinto proprio perché era stata lei a pronunciare quelle parole: sapeva quanto tenesse a Destiny e quanto fosse difficile per lei il momento che stava vivendo. Aveva dovuto abbandonare la ragazza nelle mani dei Decepticons ed era costretta a guardare Bumblebee che peggiorava un po’ ogni giorno.
Nonostante avessero portato a casa la Black Stone, essa si era dimostrata inutilizzabile, come del resto già sapevano. Avevano bisogno di Destiny per farla funzionare, altrimenti restava un banale ciottolo nero.
Il contingente Decepticon che si stava avvicinando era una forza formidabile e di sicuro stava arrivando anche Viper che non avrebbe esitato ad usare il virus sui cyborg. Era quindi di vitale importanza riuscire a recuperare Destiny velocemente in modo poter usare la Black Stone su Bee per farlo partecipare alla battaglia. E per essere pronti nel caso in cui altri Autobot fossero stati infettati.
«Clint, per favore chiamami il comandante McNamara».
Steve McNamara era il comandante di un contingente di Navy Seal che si trovava di stanza presso la base Diego Garcia. Dato che la situazione stava evolvendo verso un vero inferno, Lennox sapeva che gli unici in grado di recuperare Destiny erano loro.
McNamara arrivò di corsa.
«Credo che oggi ci divertiremo, colonnello. Sembra che il tempo stia virando verso una bella bufera» disse Steve. Era un colosso alto più di due metri, tanto che anche Lennox doveva alzare il capo per guardarlo negli occhi.
«Sembra di sì, Steve. Ho bisogno dei tuoi per una missione speciale» disse Lennox. Gli spiegò la situazione e McNamara annuì.
«Presumo che i Decepticons la terranno in retroguardia. Non sarà uno scherzo infiltrarsi dietro le loro linee, ma niente di impossibile. Qui siamo noi a conoscere il terreno, e sfrutteremo ogni risorsa possibile».
«Destiny è fondamentale per gli Autobots: senza di lei non abbiamo nessuna possibilità di uscirne. Dovete recuperarla a qualsiasi costo».
«Sarà fatto, colonnello» replicò Steve. Fece il saluto militare e corse via.
«Tempo al contatto, cinque minuti, signore» lo avvisò Clint, e William corse fuori. La base era costantemente in stato di allerta e ognuno sapeva cosa doveva fare, quindi non aveva bisogno di controllare i suoi uomini.
«William!»
Optimus richiamò la sua attenzione e William si voltò. Il gigante stava indicando qualcosa nel cielo a ovest. Lennox seguì la direzione e li vide: c’erano diversi velivoli in avvicinamento.
«Signori, possiamo cominciare» ordinò Lennox con grande calma e i suoi uomini cominciarono a sparare. I pesanti proiettili sibilarono nel cielo ed esplosero con fragore, spezzando la formazione nemica che si disperse nel cielo. Due cyborg furono colpiti in pieno e precipitarono nell’oceano, mentre altri tre subirono colpi di striscio e riuscirono comunque ad atterrare.
Lennox si rese immediatamente conto che la forza che si opponeva loro era davvero formidabile. I Decepticons rispondevano al fuoco costringendo il colonnello e i suoi a cercare riparo. Mentre gli facevano tenere la testa bassa, i nemici atterrarono in massa, tempestando la base di colpi. Altri cyborg emersero dall’oceano, dirigendosi decisamente verso la base, travolgendo tutto quanto trovavano sul proprio cammino.
Mentre Lennox cercava di coordinare al meglio gli uomini, cercando di prevedere la direzione in cui avrebbe virato la battaglia, Steve McNamara aveva finalmente radunato i suoi ed era pronto a partire. Clint, il sergente addetto alle comunicazioni, gli comunicò nell’auricolare che il segnale di Destiny era finalmente sulla terraferma, segno che anche la ragazza era atterrata sull’isola.
«Bene, ragazzi» disse McNamara «il nostro obiettivo è finalmente arrivato. Dobbiamo recuperare la ragazza sana e salva, a qualsiasi costo» spiegò, facendo passare delle foto di Destiny, in modo che gli uomini la vedessero.
«È importante che liberiamo la ragazza il più presto possibile» ribadì di nuovo. «Ci infiltreremo dietro le loro linee senza clamore, preleveremo Destiny e la riporteremo da Lennox. Tutto chiaro?»
Gli uomini annuirono sicché McNamara li condusse fuori dove Ironhide e Sideswipe li stavano aspettando: il fatto che Lennox si fosse privato del loro aiuto era indicativo di quanto ritenesse Destiny importante.
I combattimenti infuriavano nella parte ovest dell’isola su cui era sbarcato il grosso delle forze Decepticons. McNamara li guidò in un lungo giro, al riparo degli edifici della base che offrivano una buona copertura anche alle masse più imponenti degli Autobots.
I Seals di NcNamara erano in gamba e si muovevano come fili di fumo, evanescenti come fantasmi. Ironhide e Sideswipe controllavano incessantemente il cielo e i dintorni. Al riparo di uno degli hangar, McNamara guardò il piccolo schermo del suo tablet che gli segnalò assembramenti di nemici davanti a loro e sul lato sinistro.
Diede gli ordini necessari, segnalando a gesti le direzioni da prendere. Gli uomini si divisero in due squadre, ognuna con un unico compito: recuperare Destiny. Dividersi a quel punto aveva un unico scopo: se una delle squadre si fosse trovata in difficoltà, l’altra avrebbe potuto portare a termine la missione.
McNamara avrebbe guidato la prima e tenne con sé Ironhide. Si mossero con tutta la fretta che la prudenza permetteva loro di usare, infiltrandosi dietro le linee nemiche. I Decepticons erano assolutamente presi dalla battaglia e la loro avanzata fu priva di ostacoli.
Il comandante alzò il pugno per segnalare al gruppo di fermarsi e sbirciò di nuovo il tablet, notando che il segnale di Destiny, evidenziato con un pallino verde, non si era mosso ed era a poche decine di metri da loro. Alzò il capo e vide un grosso container, parcheggiato poco distante. Destiny doveva trovarsi all’interno.
Il tablet lo avvertiva che c’erano tre Decepticons in zona, ma si guardò intorno e non c’era traccia di nemici. Segnalò ai suoi che l’obiettivo era nel container e stava per ordinare l’avanzata, quando un Decepticon si alzò in piedi. Era rimasto celato dietro il cassone e gli uomini di McNamara si affrettarono a mettersi al riparo, per quanto fossero già invisibili al cyborg.
Non era molto grosso – arrivava a malapena a superare il container con la testa – quindi Ironhide non ci avrebbe messo molto ad avere la meglio. E infatti l’Autobot stava per partire all’attacco quando il nemico si voltò nella direzione opposta.
«Lost! Dove vai, pezzo di cretino? Lord Megatron è stato chiaro, mi pare. O no?» gridò e un secondo cyborg si raddrizzò poco distante.
«Sono stufo di star qui a far la guardia a questi due insulsi umani, Claymore» rispose.
Nell’auricolare gli comunicarono che anche la seconda squadra era in posizione e McNamara richiamò l'attenzione di Ironhide che si chinò verso di lui.
«Ci sono tre Decepticon. Saranno compito tuo e di Sideswipe. Un lavoretto veloce e pulito, senza troppo chiasso. Sembra che qui in zona ci siano solo loro tre ma potrebbero richiamarne altri e questo non lo vogliamo. Destiny è nel container, assieme ad un altro umano, se dobbiamo credere alle parole di quel Decepticon».
McNamara alzò la testa per controllare la situazione: i due Decepticons che avevano parlato si stavano muovendo, passeggiando avanti e indietro; il terzo ancora non si vedeva. Poi tornò a guardare la sua squadra: «È possibile che il secondo umano stia dalla parte del nemico. L’obiettivo è di estrarre anche lui, ma se dovesse diventare ostile non aspetteremo certo che ci faccia scoprire. Tutto chiaro?»
I Seals annuirono e imbracciarono le loro armi.
«Vai, Ironhide» mormorò il comandante e l’enorme cyborg annuì.
«Io prendo quello grosso» borbottò a Sideswipe che lo sentì attraverso il proprio sistema audio.
«Perché?» chiese l’altro.
«Perché è più grosso».
«Sarebbe meglio che lo sistemassi io, Ironhide. Sai, ormai hai una certa età».
Ironhide sogghignò. «Non farò alcun commento su tua madre, pezzo di latta, perché la conoscevo troppo bene per offenderla. Io prendo quello grosso, tu il piccoletto. Il terzo è del primo che arriva».
Attese che Sideswipe fosse in posizione, il più vicino possibile. Poi si alzò in tutta la sua statura, uscendo dal riparo dietro cui era accucciato.
Claymore lo vide subito e aprì la bocca per dare l’allarme. Non fece in tempo: una grossa lama incandescente gli uscì dal petto. Claymore la osservò stupefatto; Sideswipe ritirò la propria arma e lo lasciò scivolare a terra.
L’altro Decepticon, quello che si chiamava Lost, si voltò quando sentì il clangore metallico provocato dalla caduta del compagno, ma nemmeno lui fece in tempo a difendersi. Ironhide sparò due colpi, uno per ognuno dei suoi speciali fucili. Entrambi i proiettili colpirono Lost in pieno petto e il pesante cyborg fu sbalzato violentemente indietro.
Un terzo Decepticon, gemello di Lost, emerse da dietro il container e sparò contro Ironhide che si accucciò per evitare il colpo. Il proiettile colpì una cisterna che esplose con un boato prodigioso. L’Autobot si rimise in piedi e sparò, imitato da Sideswipe. Insieme, tempestarono di colpi il Decepticon che infine scivolò a terra, restando a sussultare finché la sua scintilla non si spense.
«A te, comandante» disse Ironhide.
McNamara si fece avanti con i suoi, avvicinandosi alla porta del container. Provò ad aprirla ma risultava chiusa, sicché si spostò lasciando il posto al suo secondo che la sfondò con un ariete. McNamara, fucile d’assalto imbracciato, entrò e la situazione gli fu subito chiara.
Quando aveva sentito la porta cedere, Destiny aveva colpito l’altro occupante del container e si era lanciata verso la porta. Sbilanciato, l’uomo si era rialzato a fatica, ma era riuscito ad estrarre la pistola e ora la stava puntando sulla donna. McNamara ebbe meno di un secondo per decidere.
«Giù!» gridò e Destiny obbedì immediatamente, lasciandosi cadere sul pavimento.
McNamara sparò tre colpi che andarono a segno, due al viso e uno alla gola. L’uomo fu spinto all’indietro, sbatté contro la parete e si accasciò.
Il comandante non perse tempo. Si avvicinò a Destiny e la aiutò a rialzarsi.
«Stai bene?» domandò e lei annuì.
«Mi manda Lennox» spiegò.
«Lo so. Devo raggiungerlo, non abbiamo tempo da perdere».
Uscirono e Destiny sorrise quando vide Ironhide e Sideswipe. «Mi sei mancato, gigante» disse al primo.
«Anche tu, piccola bipede!» borbottò questi. «Dobbiamo muoverci, comandante» disse poi.
La cisterna colpita continuava a bruciare eruttando in cielo una colonna di fumo nero che sicuramente avrebbe richiamato i nemici.
Gli uomini, con al centro Destiny, cominciarono a correre ripercorrendo lo stesso tragitto che avevano fatto all’andata. Ma dopo qualche decina di metri, la ragazza cominciò a perdere il passo.
«Qualcosa non va?» chiese McNamara, affiancandola.
«Mi spiace» ansimò lei. «Non mangio come si deve da diversi giorni. Quell’idiota nel container campava di patatine e cereali integrali».
«Non possiamo fermarci» precisò e le afferrò il braccio. Un altro dei suoi uomini fece lo stesso dall’altra parte, sostenendola. Ripresero a correre spediti.
Avevano ormai percorso tre quarti del loro tragitto quando furono attaccati. Ironhide diede l’allarme ma non fu abbastanza svelto e due Seals furono falciati da una sventagliata di mitra prima che il resto potesse gettarsi al riparo.
«Rispondere al fuoco!» ordinò McNamara e i suoi uomini obbedirono, mentre i due Autobot facevano cantare le proprie mitragliatrici.
Il tratto dov’erano rimasti bloccati offriva diversi ripari, ma fu ben presto chiaro che erano circondati.
«Sideswipe!» chiamò Ironhide ad un certo punto e l’amico gli si avvicinò. «Tu sei più piccolo e veloce di me. Prendi Destiny e portala da Lennox».
«Non potete farcela da soli» sbottò l’Autobot argento, mentre si voltava e lanciava un missile che abbatté un nemico.
«Lei è più importante, noi ce la caveremo» disse Ironhide, facendo cenno a Destiny di raggiungerlo. «Va’ con lui, Destiny». Entrambi esitavano. «È un ordine!» alzò la voce Ironhide e, dopo un altro momento di tentennamento, Sideswipe si trasformò nella Corvette, aprendo la portiera del passeggero.
«Ci vediamo più tardi, ok?» disse Destiny, gli occhi lucidi.
Ironhide tese la mano, sfiorandole la guancia con una delicatezza insospettata per un cyborg della sua stazza. «Puoi scommetterci, amica mia» disse. «Ora va’, coraggio».
Destiny salì a bordo della Corvette e Sideswipe sfrecciò via. Attraversò il campo di battaglia come una saetta argentata, schivando gli sporadici colpi che grandinavano intorno a loro. Destiny gettò uno sguardo fuori dal finestrino. Non era un soldato ma una cosa era perfettamente chiara anche ai suoi occhi: gli Autobots erano in forte inferiorità numerica e, senza l’aiuto degli umani, sarebbero capitolati già da un po’.
Sideswipe inchiodò nei pressi di una postazione fortificata e Destiny vide William in piedi, voltato verso di loro. Nonostante la precarietà della situazione, non poté impedirsi di sentire il cuore fare una capriola nel petto.
Scese dall’auto e frenò l’impulso di lanciarsi fra le sue braccia: erano nel bel mezzo di una battaglia e non c’era tempo per quello. Lui però, senza dire una parola, la raggiunse e le sollevò il mento. La baciò sulle labbra, delicatamente. Poi la fissò negli occhi e lei lesse in quello sguardo il suo stesso desiderio.
«Stai bene?» chiese con voce profonda e lei annuì.
Sapeva già che McNamara e Ironhide erano bloccati nella terra di nessuno e stavano combattendo per aprirsi la via del ritorno.
«Com’è la situazione qui?» chiese Destiny. «Heaven?»
«Heaven sta bene» replicò William, indicando l’Autobot rosso in mezzo alla battaglia «ma la situazione non è buona, purtroppo» continuò. «Viper ci sta dando del filo da torcere. Chromia è stata colpita» disse e Sideswipe sussultò: Chromia era la sua compagna.
«Dov’è?» chiese, preoccupato.
«È stata colpita di striscio e insiste per continuare a combattere, ma più spreca Energon e più gli effetti del colpo si fanno visibili» spiegò. Poi sollevò il braccio. «È laggiù, con Arcee e Ratchet».
«Posso andare da lei?» chiese Sideswipe e Lennox annuì.
«Abbiamo perso Que e Jolt è stato colpito da Viper» proseguì William mentre Sideswipe correva via. «Dino è gravemente ferito e tutti gli altri stanno combattendo al limite delle proprie forze».
Destiny avrebbe voluto andare subito da Heaven, farle sapere che era tornata sana e salva, ma non c’era tempo. «Will, ho bisogno della Black Stone» affermò la ragazza.
Proprio in quel momento un soldato li raggiunse. Portava una valigetta dall’aria pesante.
«Quando mi hanno avvisato che stavi arrivando con Sideswipe ho mandato qualcuno a prenderla».
Il soldato aprì la valigetta e, incastonata in strati di soffice imbottitura, Destiny la vide. Allungò la mano per afferrarla e, mentre si avvicinava, la Reliquia prese a risplendere, mostrando il marchio degli Autobot. La girò, mostrando la runa sull’altro lato, e la pietra si ancorò alla sua mano com’era già successo di fronte al Custode.
«Mio Dio!» mormorò Lennox dopo aver assistito al fenomeno. «È impressionante».
«Portami da Bumblebee» ordinò la ragazza.
Corsero insieme da Bee e, quando vide la Camaro gialla, Destiny rimase impressionata dalle sue condizioni. La parte posteriore era completamente arrugginita e anche il resto della carrozzeria era ricoperto di macchie di ruggine.
Destiny gli si avvicinò e sfiorò il tettuccio con la mano sinistra.
«Ciao, Destiny» sussurrò con la sua vera voce.
«Sono qui, Bee. Vediamo se questa Reliquia funziona» mormorò.
Il Custode non aveva avuto tempo di spiegarle come usarla, così Destiny provò a passarla sulla carrozzeria di Bee, ma la Reliquia rimase inerte nella sua mano. Non sapeva bene cosa dovesse succedere ma il Custode le aveva detto che la Black Stone avrebbe attinto dalla sua forza e Destiny non sentiva accadere nulla dentro di sé.
Vedendo che non c’erano reazioni, Lennox l’affiancò. «Qualcosa non va?» domandò.
«Il Custode avrebbe dovuto formarmi per l’utilizzo della Black Stone, ma i Decepticons l’hanno ucciso prima che potesse farlo» disse Destiny, muovendosi intorno a Bee.
All’improvviso sentì che stava succedendo qualcosa. La voglia sul petto si illuminò e la pelle prese a pizzicare. Si trovava nei pressi della fiancata destra e si accorse che, sul parafango, Bee portava il marchio degli Autobot. Avvicinò la mano destra al simbolo e la Reliquia si illuminò.
«Forse se…» mormorò la ragazza e toccò il marchio con la Black Stone, facendo combaciare i due simboli.
Una scintilla azzurra si sprigionò dalla Black Stone e Destiny avvertì una fitta di dolore al cuore che accelerò bruscamente i battiti. Allontanò la mano da Bee che fu percorso da una rete di luminosi lampi azzurri. La ruggine cadde a terra, raccogliendosi sotto di lui in mucchietti di polvere rossiccia, mentre il giallo della sua carrozzeria tornava a brillare.
Destiny fece un passo indietro mentre Bumblebee si trasformava.
«Stai bene?» chiese con un filo di voce la ragazza e, per tutta risposta, Bee fendette l’aria con un paio di pugni.
«Alla grande!» disse attraverso la radio.
Destiny sorrise. «Bene, allora funziona davvero. Ora sei immune al virus di Viper».
Bumblebee s’inginocchiò davanti a lei. «Mi hai salvato la vita. Non c’è grazie abbastanza grande» mormorò, ancora con la sua vera voce.
«Vuoi ringraziarmi?» rispose Destiny. «Vai là fuori e fa vedere chi sei».
«Ci puoi scommettere!» ribatté e si fiondò fuori dall’edificio.
Lennox la prese per un braccio. «Tu stai bene?»
«Sì, è tutto ok» mentì. Si sentiva stanca e spossata, ma non poteva permettersi di cedere. «Devo raggiungere gli altri Autobots infettati».
«Seguimi».
Quando arrivarono da lei, Chromia era nella sua forma robotica. Era stesa a terra e per un momento pensarono di essere arrivati troppo tardi. Sideswipe torreggiava su di lei, sparando colpi a ripetizione, proteggendola con il suo stesso corpo.
Destiny si inginocchiò accanto alla sua testa.
«Chromia, mi senti?»
L’Autobot girò appena il capo. Le parti di telaio visibili erano coperte di ruggine.
«Dov’è il tuo marchio?» chiese Destiny, ma Chromia non rispose. Era allo stremo.
«Sideswipe!» chiamò allora la donna. «Il suo marchio! Dov’è?»
«Sul petto» rispose l’Autobot senza neanche voltare la testa.
Destiny finalmente lo vide tra le macchie ossidate. Avvicinò la Black Stone che reagì come con Bumblebee. Lei avvertì lo stesso dolore al petto mentre la Reliquia traeva energia dalla sua forza vitale. In pochi istanti la ruggine cadde, rivelando la carrozzeria blu di Chromia che si alzò in piedi, guarita.
«Grazie, Destiny» mormorò e prese posto accanto a Sideswipe che la guardò con un’espressione talmente carica di quello che Destiny non poteva che definire amore che la donna pensò che, se avesse potuto, si sarebbe messo a piangere dal sollievo di vedere la compagna ristabilita.
La ragazza cercò di alzarsi ma fu colta da un capogiro e Lennox dovette sostenerla.
«Destiny, che cosa non mi stai dicendo?»
Lei scosse la testa come per schiarirsela. «Gli ultimi non sono stati i giorni più riposanti della mia vita» si giustificò. «Sono un po’ sottosopra».
Alzò lo sguardo verso William che aveva l’aria di non credere ad una sola delle sue parole.
«Dobbiamo raggiungere Jolt» disse, per distrarlo.
Il frastuono della battaglia era assordante ed erano costretti ad urlare anche se le loro teste erano accostate, segno che i nemici si stavano avvicinando costringendo gli Autobots a cedere terreno.
«Per arrivare a Jolt» intervenne Arcee, tenendosi il fianco ferito che stillava luminose gocce di Energon «dovrete attraversare il campo di battaglia». Poi chiamò la sorella. «Chromia! Li portiamo noi» ordinò e riprese le sembianze della Ducati 848 che era la sua forma terrestre.
Anche Chromia si trasformò in una moto ed entrambi salirono.
«Tenete giù la testa» raccomandò Arcee e schizzò via, seguita da Chromia.
Zigzagarono per il campo di battaglia come imprendibili saette colorate, usando qualsiasi cosa come riparo, non offrendo altro che bersagli effimeri ai nemici. Lennox aveva già assaporato l’ebbrezza di una corsa in sella a un Autobot ma per Destiny era un’esperienza del tutto nuova e non sapeva se ne era più affascinata o più terrorizzata.
Finalmente raggiunsero Jolt e Destiny scese dalla moto. L’Autobot era in condizioni peggiori rispetto a Bee e Chromia e quando la donna lo chiamò, non rispose né si mosse. Gli occhi erano spalancati e fissi al cielo ma erano spenti.
Con un terribile presagio che le pesava sul cuore, Destiny trovò il marchio degli Autobot e accostò la Black Stone che però non si attivò. Provò più volte ma, inginocchiata accanto alla massa di metallo che era stata Jolt, capì che era arrivata tardi. Alzò lo sguardo verso Lennox.
«Mi spiace, Will» sussurrò. «È morto» disse, stupendosi di quanto le pesasse quella perdita.
«Maledizione!» imprecò l’uomo.
Ma non ebbero tempo di assimilare la perdita perché il terrapieno dietro cui si riparavano fu colpito. William si gettò su di lei per proteggerla ed entrambi finirono a terra, mentre una pioggia di terra e detriti pioveva sui loro corpi distesi.
«Tutto ok?» domandò William mentre entrambi tentavano di rialzarsi, annaspando in cerca di aria. Assicuratosi che Destiny stava bene, si guardò intorno.
Pensava che il bordo della trincea fosse stato colpito da un proiettile ma poi vide due corpi colossali rotolare via e riconobbe la livrea rossa e blu di Optimus Prime, impegnato in un corpo a corpo con il suo acerrimo nemico, Megatron.
I due se le davano di santa ragione ed erano entrambi feriti: il metallo che proteggeva la spalla sinistra di Optimus era ammaccato e pendeva, mostrando la muscolatura d’acciaio sottostante, mentre Megatron zoppicava vistosamente con la gamba destra. Giravano l’uno intorno all’altro, ognuno cercando di proteggere il proprio lato ferito, tentando di insinuarsi nella guardia per mettere a segno il colpo finale.
Muti e impressionati, Destiny e William li stavano ad osservare, ammirando la perfezione di quelle superbe macchine da guerra, apprezzando la dedizione e il senso dell’onore che spingeva Optimus Prime a giocare la sua vita per la razza umana.
E così videro in diretta cosa successe. Megatron si avventò con rinnovata energia su Optimus che incrociò le braccia per resistere alla carica. Lo schianto fu terribile e Prime, che non aveva fatto in tempo a puntellarsi bene, perse l’equilibrio. Megatron rotolò di lato e Viper apparve dietro di lui nel suo letale splendore. Fece saettare la lingua metallica fra le fauci e sparò tre colpi.
Sbilanciato e impossibilitato a difendersi, Optimus li ricevette tutti e tre in pieno petto. Cadde all’indietro a braccia spalancate, colpendo il terreno con tale forza che Destiny si sentì mancare il fiato.
«Optimus!» gridò e cercò di lanciarsi verso di lui ma William l’afferrò per la vita e la trattenne.
«Lasciami, Will» strepitò la donna, divincolandosi nella sua stretta. «Devo andare da Optimus, devo fare qualcosa!»
«È troppo pericoloso, Destiny. Megatron ti ucciderà».
Lei si girò e William vide le lacrime rigarle le guance, scavando solchi nella polvere che le incipriava il viso.
«Se Optimus muore, non avremo nessuna possibilità di farcela».
«Lo so. Aspetta» replicò e chiamò Bee attraverso l’auricolare. «Bee, hai visto?» chiese e quando l’altro confermò, Lennox proseguì: «Tu e Chromia siete immuni al virus. Dovete tenermi impegnata Viper. Fatela fuori!».
Bumblebee accusò ricevuta e, prese le sembianze della Camaro, attraversò il campo di battaglia a tutta velocità e attaccò Viper, seguito da Chromia.
Lennox non rimase a guardarli e chiamò Sideswipe: «Prendi tutti gli Autobots che riesci e attaccate Megatron, fatelo allontanare da Optimus. I miei uomini si occuperanno degli altri Decepticons».
Liberi dalla minaccia di Viper, Sideswipe, i Wreckers e Heaven attaccarono il leader Decepticon, facendolo allontanare dal corpo di Optimus. Destiny scattò in piedi e raggiunse il gigante a terra, seguita da Lennox.
Optimus era troppo grande per lei e Destiny doveva raggiungere la sua testa. Il marchio degli Autobots era sulla fronte del cyborg. Lennox chiese aiuto e Ratchet accorse. Destiny salì sul tetto del mezzo di soccorso che era la sua forma terrestre.
«Optimus!» chiamò Destiny e il gigante di acciaio girò la testa verso di lei.
«Non farlo» mormorò con voce stentata «ti ucciderà».
«Sshh» lo zittì la donna e, prima che Optimus, troppo indebolito, potesse girare la testa, prima che William, che aveva sentito tutto, potesse impedirglielo, posò la mano sulla fronte del cyborg.
Un violento lampo di luce si sprigionò dalla Black Stone. Il corpo di Optimus sussultò ma Destiny continuò. Sentiva la propria energia fluire attraverso il braccio e la Reliquia e sapeva che le sarebbe stato fatale. Ma se non avesse salvato Optimus non ci sarebbe stato futuro per nessuno di loro e lei doveva fare qualcosa. Era nata per questo. Era il suo destino.
Impotente, Lennox la osservava. La vide chinare la testa e la sentì gemere. Non capiva cosa stesse succedendo ma aveva ben chiare le ultime parole di Optimus: ti ucciderà. Si slanciò verso di lei, cercando di allontanare la mano dalla fronte dell’Autobot. In fondo, doveva esserci un altro modo.
Non arrivò nemmeno a sfiorare la mano di Destiny, allontanato di colpo da una potente scossa elettrica che gli intorpidì il braccio. La Reliquia proteggeva se stessa.
«Sta indietro, Will» sibilò la donna con una voce che lui stentò a riconoscere.
Poi, improvvisamente com’era iniziato, il lampo di luce si spense. Destiny piombò a sedere di scatto e Lennox le fu subito accanto, sorreggendola. La testa le ciondolava, ma quando William le prese il viso tra le mani, aprì gli occhi.
«È tutto a posto, ora» disse e in quel momento, Optimus Prime si rialzò.
Oltre ad aver annullato gli effetti dei colpi di Viper, la Black Stone aveva agito come una potente fonte di Energon e ora il gigante splendeva nella sua corazza blu e rossa. Gli Autobots presenti esultarono quando il loro leader ritornò alla vita e Megatron, ormai assediato, lo guardò con sgomento.
Senza una parola, Optimus sfoderò la sua spada che divenne incandescente. Si scagliò in avanti, veloce e preciso come il volo di una freccia, e colse Megatron al centro del petto, trapassandolo da parte a parte.
Era un colpo mortale, lo sapevano entrambi. Optimus guardò le profondità degli occhi rossi di Megatron.
«Mi hai costretto a farlo, fratello» sussurrò.
Estrasse la spada dal corpo di Megatron che rantolò. Barcollò all’indietro e tutti i suoi Decepticons furono testimoni della sua caduta. Optimus Prime torreggiava su di lui, il viso di ferro così espressivo colmo di dolore. Gettò la spada lontano da sé: aveva fatto ciò che doveva, ma non ne andava fiero. Era lì la differenza fra gli Autobots e i Decepticons.
Bumblebee comparve in quel momento. Era ammaccato e dolorante ma stringeva in mano qualcosa che gettò a terra. La testa mozzata di Viper rotolò ai piedi di Optimus che osservò i feroci occhi di serpente della femmina spegnersi in un’ultima vampa di odio.
Quella che era sembrata una grande vittoria per i Decepticons, si trasformò ben presto in una totale disfatta. Vedendo la dipartita del loro leader, privi anche del sostegno di Viper, molti nemici si affrettarono a fuggire. Gli uomini di Lennox li tempestarono di colpi, finché Optimus ordinò che fossero lasciati in pace.
E se ne andarono, lasciando morte e devastazione dietro di sé. Optimus sapeva che si sarebbe pentito della decisione di lasciarli andare ma era il momento di seppellire e onorare i loro morti. Ai Decepticons avrebbe pensato più tardi.
Lennox aiutò Destiny a scendere e, quando furono a terra, Optimus gli fece cenno di raggiungerlo. Destiny assicurò che stava bene e lo guardò allontanarsi.
William si arrampicò su un cumulo di macerie e Optimus piantò i pugni sui fianchi.
«Fratelli umani e fratelli Autobots» iniziò, mentre sul campo scendeva un silenzio benedetto che contrastava così tanto con il frastuono della battaglia appena conclusa, «abbiamo combattuto come leoni oggi».
«Alcuni di noi hanno versato sangue, altri hanno sparso Energon. Eppure nessuno di noi ha mai perso il coraggio» disse Lennox e Optimus annuì, sicché proseguì. «Abbiamo perso molti uomini oggi. Abbiamo perso Que e Jolt, guerrieri valorosi, amici fidati».
Mentre parlava, Ironhide e la squadra di McNamara si fecero avanti. Erano tutti sani e salvi e Destiny sorrise al bestione nero che la indicò con un dito: «Te l’avevo detto che ci saremmo rivisti, piccola… Destiny» pronunciando, forse per la prima volta, il suo nome.
Insieme, il comandante degli Autobots e quello degli umani, tennero un vibrante discorso. Elogiarono il coraggio di chi si era battuto fino alla fine, ricordarono il sacrificio di chi era morto nella battaglia.
Destiny guardava William, fiera di lui. E mentre lo osservava, sentì scendere su di sé un gran senso di pace. Nonostante gli avesse assicurato di stare bene, sentiva il proprio cuore affaticato pulsare lento nel petto. La vista le si annebbiò per un attimo, costringendola a scuotere il capo.
Ogni respiro le costava un’enorme fatica e, mentre intorno a lei uomini e Autobots gioivano della vittoria sui nemici, sentì il gelo insinuarsi nelle membra stanche tanto che la Black Stone, al momento ancorata alla sua mano, divenne di colpo pesantissima.
«La nostra vittoria» stava dicendo Optimus «non sarebbe stata possibile però senza di lei. Una piccola umana che ha dimostrato a tutti di noi di avere coraggio e onore, di possedere il cuore di un Transformers. Grazie, Destiny».
Destiny chinò il capo, accettando quella pubblica manifestazione. Mentre tutti intorno festeggiavano, innalzando le braccia al cielo e urlando la loro gioia, la donna guardò William e sorrise. Lo vide sorridere di rimando ma in un momento tutto divenne grigio e le cedettero le gambe.
Mentre si accasciava, Lennox gridò il suo nome e scivolò giù dal mucchio su cui era salito. Corse verso di lei, gettandosi in ginocchio e prendendola delicatamente tra le braccia.
«Destiny!» la chiamò e la donna aprì gli occhi.
Sorrise, ma era un sorriso stanco e provato. William ricordava bene la sensazione del suo corpo contro il proprio quando l’aveva baciata per la prima volta, prima che partisse alla ricerca della Reliquia. Quello era il corpo di una giovane donna nel pieno della propria vitalità. Ora invece gli sembrò fragile come un uccellino, come se la carne le fosse stata risucchiata dalle ossa.
Era pallida e lui avrebbe dovuto accorgersene prima. Aveva visto troppi uomini morire e quel pallore, le labbra esangui sul viso sottile, non gli fecero presagire nulla di buono. Destiny provò a sollevare la mano per accarezzargli il viso, ma lo sforzo era eccessivo e la lasciò ricadere.
«È tutto a posto, William» mormorò ma lui scosse il capo.
«Non mi resta molto tempo» provò a dire ma William la fermò.
«Non dirlo!» sbottò. «I soccorsi stanno arrivando e…»
«Il tempo sta scadendo, Will» disse lei con più veemenza «e ci sono cose che devi sapere».
Lui rimase zitto e lei parve raccogliere le ultime forze.
«La Reliquia è fondamentale per gli Autobots. Non devi permettere che cada nelle mani dei Decepticons e devi darti da fare per cercare la nuova Chiave».
«Non parlare, risparmia le forze» replicò lui e Destiny aggrottò la fronte e scosse leggermente la testa.
«Promettimelo!» proruppe.
Lui tacque, guardandola negli occhi. «Te lo prometto».
Per lui equivalse ad una resa. Sapeva che non ce l’avrebbe fatta e chinò il capo, sopraffatto da un peso che sapeva di non poter sopportare. Aveva perso tutto già una volta…
«Dov’è Heaven?» chiese Destiny con un filo di voce.
«Sono qui» disse l’Autobot rosso, inginocchiandosi lì vicino.
«Il nostro cammino insieme è giunto alla fine, amica mia» disse Destiny, con le parole che facevano sempre più fatica ad uscire. «È stato un buon cammino e sono felice di averti incontrata. Ora starai con Bumblebee, come è giusto che sia». Bee posò una mano metallica sulla spalla della compagna.
«Abbi cura di lei» raccomandò Destiny e Bee annuì, incapace di parlare.
Improvvisamente si irrigidì e Lennox, convinto che fosse la fine, la strinse a sé, come a volerla trattenere.
«Non ancora, ti prego» sibilò lei tra i denti serrati.
Riaprì gli occhi e lo fissò. Quando parlò, William dovette abbassarsi per afferrare le parole.
«Ti avevo promesso che sarei tornata sana e salva fra le tue braccia» disse. «Mi dispiace, ma ho dovuto infrangere quella promessa, spero che capirai».
Alcune gocce caddero sul viso di Destiny e William ci mise qualche istante a capire che erano lacrime che sgorgavano incontrollate dai suoi occhi.
«Io…» sussurrò e poi, di colpo, rovesciò gli occhi nelle orbite. Con un respiro lievissimo, il corpo perse rigidità e la testa ricadde di lato.
«Destiny!»
William la chiamò, ma lei se n’era andata. Heaven si alzò e si nascose nell’abbraccio di Bumblebee che la strinse a sé.
I filamenti di energia che tenevano la Black Stone ancorata al suo palmo si dissolsero e la piccola pietra cadde a terra, innocua.
Lennox le sorresse la testa con una mano dietro la nuca.
«Non ti ho neanche detto che ti amo» mormorò e baciò le sue labbra ormai gelide.
Quando, troppo tardi, arrivarono i soccorsi trovarono Lennox che teneva ancora stretta Destiny e la cullava come aveva fatto con sua figlia. Cercarono di avvicinarsi per verificare se potevano fare qualcosa, ma Lennox ringhiò di stare lontani e di non toccarla.
I paramedici guardarono Optimus che fece loro cenno di allontanarsi. Poi si chinò su di lui.
«Dobbiamo andare, William».
L’uomo parve non udirlo. Optimus dovette chiamarlo altre due volte prima che sollevasse la testa.
«Andiamo via, ora».
Lui annuì e si alzò in piedi. Tenne Destiny in braccio, la testa appoggiata alla sua spalla, i capelli che gli solleticavano il viso. Poi si avviò, mentre gli Autobot gli facevano da scorta, un picchetto d’onore per lei che li aveva salvati.
«Aveva il cuore di un Autobot» mormorò mestamente Ratchet e Optimus si fermò di colpo.
«Aspetta un attimo, William» esclamò e l’uomo si fermò, voltandosi verso di lui.
«Il suo cuore, William» disse, ma Lennox non capiva.
«Il cuore di un Autobot» disse di nuovo, indicando la donna che teneva fra le braccia.
William abbassò la testa e la guardò. Sul petto, in contrasto con il pallore della pelle, il marchio degli Autobots risaltava ancora di più.
Il segno che hai visto sul mio petto, non assomiglia al simbolo degli Autobot. È esattamente il loro marchio. L’ho sempre avuto e mia madre diceva sempre che era importante, ma non mi spiegava mai il perché.
Le sue parole gli riecheggiarono in testa.
«Il cuore di un Autobot è la sua Scintilla» spiegò Optimus mentre il suo petto si apriva e la Matrice del Comando scivolava fuori, fermandosi sul suo palmo teso. «Se la Matrice può ripotenziare la Scintilla di un Transformer, forse potrebbe anche funzionare con lei».
Lennox la depose a terra e alzò lo sguardo verso Optimus.
«Non so se funzionerà» disse il cyborg. «Potrebbe anche...»
«Che cosa?» domandò William con voce terribile, inginocchiato accanto alla ragazza. «È già morta, Optimus».
Optimus tacque poi annuì. «E sia» disse.
Avvicinò la Matrice al marchio di Destiny, così come lei aveva fatto con la Reliquia, finché non le sfiorò la pelle. Nel momento in cui la Matrice entrò in contatto con lei, Destiny inarcò la schiena come colpita dalla scarica di un defibrillatore e spalancò gli occhi.
«Destiny!» gridò William.
Lei si mise a sedere, lo attirò a sé e lo baciò. Gli Autobot applaudirono e i Wreckers non poterono impedirsi di sparare in aria, richiamando l’attenzione dei soldati vicini e rischiando di beccarsi una scarica di mitragliatrice.
«Ti amo» sussurrò Destiny quando si staccarono.
«L’ho detto prima io» borbottò Lennox e lei sorrise.
«Quello non vale, ero già morta».
Lui la baciò di nuovo, stritolandola in un abbraccio.
«Ti amo» sussurrò finalmente.
«E vissero per sempre felici e contenti» disse Bumblebee attraverso la radio, beccandosi il primo di una lunga serie di scapaccioni dalla sua compagna Heaven.
 
Bene! Si conclude qui questo mio lavoro sui Transformers.
A te che sei passato di qui e che hai letto fino all'ultima sillaba chiedo di lasciare un commento,
per farmi sapere se questa storia ti è piaciuta o no.
Grazie per ogni parola che vorrai donarmi.
Fragolina84

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