A weekend with (uncle) Sherlock Holmes

di F e d e
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Day #0 ***
Capitolo 2: *** Day #1 ***
Capitolo 3: *** Day #2 ***



Capitolo 1
*** Day #0 ***


Buonasera popolo di efp!
Sono tornata con una storiella che mi frullava da un po’ in testa quindi ho deciso di metterla per iscritto. L’ho pensata prima che uscisse “His Last Vow” quindi si basa in parte gli eventi accaduti durante la terza stagione. Quindi, per chi non l’avesse ancora vista non ci saranno grandissimi spoiler, ma giusto qualche accenno ad alcuni eventi o situazioni che chi avrà visto le puntate di sicuro riconoscerà. Bene, direi che non ho nient’altro da dire! Spero che la storia sia di vostro gradimento!
Alla prossima,
Fede
A weekend with (uncle) Sherlock Holmes
 
 
Day #0
 
Era un bel venerdì in quel di Londra, il sole splendeva, non c’erano state imminenti crisi e tutto procedeva come da programma. John e Mary, infatti, erano emozionati di potersi concedere, finalmente, un bel weekend da soli, immersi nella natura dell’Irlanda per festeggiare il loro secondo anniversario di matrimonio, lontani da tutto e da tutti, dalla frenesia della città. E soprattutto dalla loro vita matrimoniale. Per carità, essere sposati era bellissimo, era come vivere una costante avventura ma quando iniziavano a mettersi in mezzo i figli, tutto si trasformava. Mary, infatti, aveva lasciato il posto d’infermiera accanto a quello del marito, per potersi occupare in tutto e per tutto del loro primogenito, e ciò aveva richiesto uno stravolgimento della loro tranquilla vita, ora costituita solo da notti insonni e giorni passati ad accudire il bambino. John, quindi, aveva deciso di partire solo con la moglie per ritrovare un po’ di pace e serenità.
In quel momento, John era intento a preparare la valigia per poter partire quel pomeriggio, anche se era frustrato perché non riusciva proprio a trovare quel maglione rosso che tanto piaceva a Mary.
E come se gli avesse letto nel pensiero, la donna entrò nella camera da letto e con un sorriso tirò fuori dall’armadio ciò che cercava.
John la guardò sbalordito «Avevo cercato dappertutto e posso giurare che fino a due minuti fa non c’era.»
Mary rise e si rivolse a suo figlio che teneva in braccio «Papà è un po’ agitato per questo viaggetto, eh William?»
John si avvicinò a entrambi, il loro piccolo William, era un John in miniatura. Aveva due anni, un viso paffuto, capelli biondi e occhi azzurrissimi. John non pensava che al mondo ci fosse qualcosa di più bello.  «Macché» disse «Sono solo molto contento che finalmente riusciamo a concederci un po’ di tempo solo per noi due.» Mary annuì e gli diede un veloce bacio sulle labbra «Anch’io.»
John prese il maglione e lo mise dentro la valigia insieme ad altri indumenti. «A che ora deve passare Betty a prendere William?» chiese.
Mary mise per terra il bambino che intanto aveva preso a gironzolare per la camera e diede un’occhiata all’orologio. «Dovrebbe arrivare fra un’oretta. E’ stata proprio felice quando le abbiamo affidato questo compito.»
A un tratto il cellulare di Mary prese a squillare, sul display comparve il nome dell’amica, Betty, designata dai due sposi affinchè si prendesse cura di William per quei pochi giorni che sarebbero stati via. «Parli del diavolo» disse Mary, prendendo in mano il cellulare per rispondere.
John pensò che non ci voleva certo Sherlock Holmes a dedurre che quella chiamata non avrebbe portato niente di buono, Mary, infatti, continuava a ripetere «Capisco» e «Non ti preoccupare», era sicuro che all’amica fosse capitato un imprevisto e il suo viaggio solo con la moglie sarebbe andato in frantumi. Dopo un po’, Mary chiuse la chiamata e si rivolse a John «Abbiamo un problema.»
«Avevo immaginato, infatti.» rispose questi.
«Betty ha avuto un problema improvviso in famiglia. Ha detto che le dispiace molto, ma non riesce proprio a tenere William.» disse Mary sedendosi sul bordo del letto.
John la imitò, mentre il suo sguardo si posò sul figlio che aveva iniziato a giocare con le scarpe del padre, prendendole e sbattendole per terra.
«Forse Harry, potrebbe… Dopotutto è tua sorella e …»
«Mary» John la interruppe bruscamente. «Per favore, lo sai che non è la persona adatta.»
«Ma sta cambiando, John! L’hai visto anche tu, ha iniziato la riabilitazione. Potersi occupare di William potrebbe, non so, farle del bene.»
«Mary, mi fa piacere che tu riponga così tanta fiducia in Harry, ma davvero, la conosco e non penso cambierà mai.» disse lui alzandosi dal letto per andare dal figlio.
«Queste scarpe a papà servono» disse, prendendogliele di mano e in cambio, dandogli un orsacchiotto di peluche con cui giocare. William accettò di buon grado quello scambio e più felice di prima, iniziò a giocare con l’orsacchiotto gironzolando per la stanza.
John rimase un attimo in piedi in mezzo alla camera guardando prima il figlio e poi la moglie. «Magari potremmo –» iniziò John ma venne interrotto da un  «No» secco di Mary.
John la guardò sconcertato «Ma se non sai neanche che cosa volevo dirti!»
«So cosa stavi pensando» disse la donna «Sherlock.»
John non sapeva se ridere o guardare la moglie con tanto d’occhi. Come l’era venuta in mente un’idea simile? Sherlock era di sicuro l’ultima persona a cui John avrebbe chiesto quel favore. Anzi, a pensarci bene, non era proprio una persona considerabile, perché già Sherlock non era uno che ci sapeva fare con le persone, figuriamoci con i bambini! Era impossibile anche solo pensare Sherlock insieme a un bambino: come si sarebbe comportato? Nella mente di John iniziò a formarsi l’immagine di Sherlock che prendeva suo figlio William per il piede, lo contorceva a destra e sinistra e lo utilizzava come cavia per i suoi strambi esperimenti. L’uomo scosse la testa scacciando quell’orribile visione dalla sua testa. Per carità, John si fidava di Sherlock, ma non abbastanza da affidare la vita di William nelle sue mani.
«No, Mary» disse «Di sicuro, non stavo pensando a Sherlock.»
La donna lo guardò alzando un sopracciglio, sorpresa «Ah, no?»
«A dire la verità, stavo pensando alla signora Hudson.» disse John «E’ anziana, certo, ma è sola, quindi potrebbe occuparsi ventiquattro ore su ventiquattro di William.»
«Sì, in effetti non è una cattiva idea.» disse Mary «Dopotutto, ci ha sempre detto che le sarebbe piaciuto passare un po’ di tempo assieme al piccolo.»
«Speriamo solo che accetti, magari occuparsi di un bambino per due giorni potrebbe essere stressante … »
«Ma no, vedrai che sarà più che felice. William porterà un po’ di allegria in quella casa!» disse Mary e John non poté far altro che essere d’accordo con lei. In effetti, la signora Hudson si era sempre lamentata che le visite dei due stavano calando notevolmente e di conseguenza, che non riusciva a vedere William tanto quanto avrebbe voluto.
John sorrise soddisfatto alla moglie con uno sguardo di sollievo nel volto: il viaggio si sarebbe salvato!
«Allora è deciso» disse «Finiamo di preparare le valige e poi andiamo a Baker Street.»
 
*
 
Dopo una mezz’oretta, la famiglia Watson scese dal taxi e si accinse a raggiungere il portone del 221b di Baker Street. John superò moglie e figlio e bussò alla porta. Ad accoglierli si presentò una sorridente signora Hudson. «John, caro!» disse allargando le braccia e invitandolo a entrare «Mary, tesoro! E c’è anche il piccolo William, prego entrate!»
«Grazie signora Hudson» disse Mary entrando nell’appartamento mano nella mano con il figlio.
«A cosa devo questa piacevole visita?» disse la signora Hudson abbassandosi un poco per poter dare un bacio sulla guancia al “nipotino”: ormai erano diventati una grande famiglia.
«Signora Hudson, so che non le abbiamo dato neanche un po’ di preavviso» incominciò John «Ma vede, io e Mary fra poche ore dovremmo partire e purtroppo la persona che doveva tenere William per questi pochi giorni ha avuto un imprevisto quindi, abbiamo pensato che magari le avrebbe fatto piacere passare un po’ di tempo con il bambino.»
La signora Hudson non se lo fece ripetere due volte «Ma certo, John, certo! Molto volentieri!»
«Non vogliamo certo arrecarle disturbo, ma lei ci è sembrata la persona più adatta per quest’incarico.» disse Mary.
«Nessun disturbo, cara. Mi fa davvero molto piacere che siate venuti da me!» rispose la signora Hudson con un sorriso. Non riusciva a staccare gli occhi da William, ne era davvero innamorata.
John tirò un sospiro di sollievo.
«Naturalmente abbiamo portato un po’ di vestitini, il seggiolone e i suoi giocattoli.» disse Mary «Per quanto riguarda il cibo, ormai William ha due anni, può mangiare un po’ di pasta.»
«Certo Mary, non preoccuparti. Penserò io a questo bel bambino!» disse la signora Hudson, prendendo William e tirandolo su a fatica per tenerlo in braccio. «Oh, ma quanto pesi!»
Di tutta risposta William le fece una pernacchia e rise.
«Eh già, questo bambino non la smette mai di mangiare, vero?» disse John allungando la mano per spettinare i capelli color paglia di suo figlio.
«Cari, quasi dimenticavo, volete salutare Sherlock prima di partire?» chiese la signora Hudson mentre faceva scendere William dalle sue braccia. Quest’ultimo cercò la mano della madre e la strinse.
«Se non sbaglio dovrebbe essere in casa.»
«Perché no» disse Mary e John annuì.
Per John tornare nel suo vecchio appartamento ormai, non faceva così male come una volta. Anzi, almeno tre volte la settimana faceva visita al suo migliore amico, infatti, Sherlock non faceva altro che informarlo su nuovi casi mentre era al lavoro nell’ambulatorio, procurando a John sempre cariche di adrenalina ripensando alle avventure passate vissute insieme.
I quattro, quindi, raggiunsero la porta dell’appartamento che ora apparteneva solo a Sherlock.
La signora Hudson aprì la porta e con il suo solito «Cucù» fece capolino all’interno della stanza. «Sherlock, guarda chi è venuto a trovarti.» disse.
Questi, d’altro canto, stava seduto ritto e composto – come suo solito – sulla sedia della sala, mani congiunte sotto il mento, gomiti appoggiati sul tavolo e lo sguardo fisso sul computer, gli occhi non si staccarono da quest’ultimo neanche quando gli ospiti entrarono.
Tutto ciò che disse, fu «Mhm.» provocando nella signora Hudson uno sguardo contrariato.
«Sono nel bel mezzo di un caso, Mrs. Hudson.» disse lui, ancora seduto.
«No, non è vero.» ribatté la signora.
A quel punto Sherlock si voltò di scatto, guardando, finalmente, i suoi amici.
«Ciao, eh.» disse John alzando una mano un po’ offeso dalla mancanza di attenzioni da parte di Sherlock, ma non se la prese, oramai c’era abituato.
«Ciao» rispose d’altro canto Sherlock. «Mary, John e … » il suo sguardo cadde in basso fino ad incontrare il figlio del suo migliore amico «Ciao anche a te, little-John»
«William» disse spazientito John.
«William, sì certo.» ripeté il consulente investigativo voltandosi di nuovo verso il computer.
«Adesso non far finta di non saperlo, so che sei contento che gli abbiamo dato il tuo nome.» disse John mentre Mary e la signora Hudson ridevano.
Sherlock arrossì lievemente «Allora» disse questi alzandosi velocemente dalla sedia e prendendo il controllo della situazione «C’è un motivo per la vostra improvvisa visita?»
«Sì, veramente –» stava iniziando John, ma Sherlock lo interruppe «State per partire, viaggio di breve durata considerando le dimensioni della valigia e la sua capienza. Abbigliamento pesante ma comodo, scarpe da trekking, per fare escursioni, forse, quindi a conti fatti, nord Inghilterra o Irlanda.»
John scosse la testa «Ce n’era davvero bisogno?»
«Mi tengo in allenamento» gli rispose Sherlock. «Come sempre.»
«E indovina un po’?» disse la signora Hudson sorridente rivolta al detective.
«Tirare a caso non è nel mio stile, signora Hudson, ormai dovrebbe saperlo» le disse lui dirigendosi verso il tavolo e abbassando lo schermo del suo laptop.
La donna, d’altro canto, fece finta di non averlo sentito e disse «William resta qui con noi!»
Sherlock si voltò lentamente verso la donna. I coniugi fulminarono la donna con lo sguardo.
«Con noi?» chiese Sherlock alquanto esterefatto.
«Con Mrs. Hudson» risposero in coro Mary e John. L’ultima cosa di cui avevano bisogno era che Sherlock si aggirasse intorno a William con finalità non proprio ragionevoli. Per carità, Sherlock era stato un bravo “zio” nei momenti in cui si era trovato insieme al piccolo, forse un po’ spaventato perché non sapeva gestire la cosa, ma tutto sommato si era comportato bene, solo sotto lo sguardo vigile dei genitori. Quest’ultimi non osavano immaginare cosa sarebbe successo se loro non ci fossero stati. O forse stavano ingigantendo la cosa?
Sherlock guardò di sottecchi i due coniugi e disse solo «Capisco. Bene, quindi è stato davvero un piacere avervi rivisto, ma ora dovete andare o farete tardi!» disse cercando di spingere tutti fuori.
«Ma Sherlock, che modi –» disse la signora Hudson iniziando a scendere le scale e dirigendosi verso il suo appartamento, stufa degli sbalzi d’umore di Sherlock che lo rendevano insopportabile.
«Scusate davvero, ma sono davvero molto impegnato» disse Sherlock ai coniugi, mentre si accingeva a indossare il suo lungo cappotto.
«Ma se Mrs. Hudson ha appena detto che non hai nessun caso in ballo! E di sicuro non stai uscendo per andare a fare la spesa, conoscendoti.» disse John.
In quel momento il cellulare di Sherlock prese a squillare, l’interessato lo prese, guardò chi fosse il mittente della chiamata e poi rivolse lo schermo del cellulare verso John.
Chiamata in arrivo … Lestrade.
«Vedi John? Un caso.» disse Sherlock. Abbracciò frettolosamente Mary, strinse con vigore la mano di John «Vado. Fate buon viaggio.»
«Grazie Sherlock» disse Mary sorridendo.
Prima di scendere, il detective rivolse uno sguardo a William «Noi ci vediamo in giro, little-John» disse prima di dargli una pacca un po’ goffa sul capo. Questi sorrise e fece un versetto.
John scosse la testa e sbuffò spazientito. «Ci vediamo.» disse prima di scendere le scale insieme al resto della famiglia.
Intanto, il cellulare non aveva smesso di squillare e Sherlock rispose.
«Abbiamo bisogno del tuo aiuto. Omicidio.» disse Lestrade dall’altra parte del telefono.
«Mandami un messaggio con la via. Vi raggiungo.» rispose Sherlock.
«Grazie» rispose l’ispettore prima di chiudere la telefonata.
 
*
 
Sherlock scese dal taxi che lo portò sulla scena del crimine. Chiuse gli occhi e respirò l’aria cercando di liberare la mente da tutto ciò che in quel momento non poteva essergli di nessuna utilità. Tutti i suoi sensi si fecero vigilissimi pronti a studiare il caso.
Quartiere nella periferia di Londra. Abbastanza isolato, ma facilmente raggiungibile in macchina.
Luogo del delitto: un piccolo bed and breakfast.
Sherlock memorizzò queste informazioni e prese a gironzolare intorno all’edificio per trovare altri elementi utili. Intanto, alcune persone avevano iniziato ad avvicinarsi, incuriositi dalle sirene della polizia e volenterosi di scoprire cosa fosse successo.
Dalla porta principale del locale uscì Lestrade e appena vide Sherlock fece segno di entrare.
«Bello vederti di nuovo in azione» disse l’ispettore una volta entrato dentro e facendo strada al detective che intanto registrava con lo sguardo qualunque cosa potesse servigli per il caso.
«Non è il momento di fare conversazione Lestrade» disse Sherlock «Devo risolvere un omicidio»
«Devo?» ripetè l’ispettore un po’ sorpreso. Si guardò un attimo intorno e notò una certa assenza «Tu e John avete litigato?»
Il nome di John fece voltare subito Sherlock verso l’interlocutore «Cosa c’entra questo con il caso?»
«Non c’entra, infatti.» disse «Me lo chiedevo solo perché non vi ho visti insieme, tutto qui»
«E’ partito per non so dove – o forse l’ho dedotto ma ora non mi ricordo – comunque non è importante. E’ questa?» chiese all’ispettore aprendo la porta di una stanza.
Lestrade ignorò il comportamento dell’amico e fece cenno di sì con la testa «I miei uomini hanno fatto già un sopralluogo, abbiamo lasciato la stanza così com’era affinchè anche tu potessi dargli un’occhiata.»
Sherlock girò intorno alla stanza. Era semplice, un letto, un armadio, una piccola scrivania e una finestra. Primo piano.
La vittima, invece, era proprio nel mezzo della stanza, a pancia in su, con tre ferite da arma contundente – un coltello, forse – nel petto.
Quattro ferite si corresse mentalmente Sherlock chinandosi sul corpo per esaminarlo meglio.
«La vittima si chiama Jack Wilson, trentacinque anni, scapolo, il corpo è stato trovato dal proprietario del locale che ha chiamato subito la polizia.» disse Lestrade descrivendo i fatti.
Sherlock annuì e tirò fuori la sua lente d’ingrandimento tascabile. Esaminò per bene il viso, gli indumenti, le mani serrate. Senza sforzi Sherlock riuscì a dispiegare le dita della mano sinistra. Scoprì che l’uomo teneva stretto un braccialetto d’oro con una medaglietta con un’incisione.
Sherlock prese il bracciale e lo infilò all’interno di una bustina che infilò subito in tasca, cercando di non farsi vedere da Lestrade. Lo avrebbe di sicuro rimproverato per occultamento delle prove.
«Il proprietario del locale è quell’uomo che abbiamo incontrato all’entrata?» chiese Sherlock avvicinandosi alla finestra. Era aperta.
«Sì, il signor Drebber, dopo la morte della moglie, ha iniziato a gestire da solo l’attività.» rispose Lestrade «Adesso i miei uomini lo stanno portando in centrale.»
Sherlock si voltò «Perché mai?»
Lestrade sembrò sorpreso «Per interrogarlo, ovviamente! Era l’unico all’interno del locale al momento dell’omicidio.»
Sherlock guardò l’ispettore cercando di offenderlo nella maniera più gentile che conoscesse. «E’ ovvio che non è stato il signor Drebber, anche un cieco ci sarebbe arrivato. Mi sorprendi ogni volta Lestrade, davvero, per la tua totale assenza di osservazione»
«Come prego?» chiese Lestrade.
Sherlock a quel punto si avvicinò al corpo in mezzo alla stanza «La vittima è stata ferita violentemente con quattro coltellate – un coltello abbastanza grande e pesante visti i tagli sulla camicia – nel petto. Ora, l’uomo sarà alto all’incirca un metro e sessantacinque forse settanta, quindi le coltellate sono partite da una persona con estrema forza e agilità fisica, alta quanto lui o leggermente più bassa. Cosa che certamente il signor Drebber non è.» fece una pausa. «Primo aspetto: ha quasi settant’anni, porta un bastone quindi ha un problema alla gamba – non chiedermi quale perché non ho avuto modo di osservarlo con più attenzione perché era irrilevante – quindi, sarebbe stato alquanto difficile affrontare la vittima. Tralasciando la sua altezza, la vittima aveva una certa prestanza fisica e non sarebbe stato troppo difficile mettere al tappeto quel vecchietto. Altro punto da tenere in considerazione, perché il proprietario, ammesso che abbia compiuto lui l’omicidio, avrebbe chiamato la polizia?»
Lestrade ascoltò con attenzione sempre più stupito di non essere riuscito a captare quegli indizi di vitale importanza, quindi rispose alla domanda posta da Sherlock. «Non lo so, forse per far convergere le indagini da tutt’altra parte.»
«Mhm» disse Sherlock alquanto deluso, dando di nuovo le spalle a Lestrade per continuare a osservare la finestra. Macchie di sangue sul cornicione.
L’ispettore si avvicinò a Sherlock «Abbiamo già preso un campione di quelle, la scientifica ci starà già lavorando.»
Il consulente investigativo rimase in silenzio, osservando prima il corpo per terra, poi le macchie di sangue sulla finestra e poi guardando fuori dalla stessa.
«Qualche idea?» chiese Lestrade dopo un po’, cercando di non interferire con il lavoro del detective.
«Tre o quattro ipotesi, per ora.» disse Sherlock prima di scavalcare a fatica la finestra un po’ troppo stretta e con un balzo atterrare sul prato retrostante.
«Ehi, che stai facendo?» chiese Lestrade affacciandosi dalla finestra.
Di tutta risposta Sherlock, tirò fuori la sua lente e osservò meglio la terra sotto i suoi piedi e dopo poco sorrise. Finalmente aveva qualcosa di concreto su cui volgere le sue indagini. Sherlock aveva trovato delle impronte che dalla finestra della vittima si dirigevano verso la recinzione del locale. Le impronte finivano lì. Dall’altra parte della recinzione c’era una stradina laterale, anche quella poco abitata. Sherlock fece il giro del locale e si ritrovò di nuovo davanti all’entrata, esaminò la porta d’ingresso. Non era stata forzata o manomessa, quindi, l’assassino aveva utilizzato delle chiavi per entrare, si era diretto verso la stanza della vittima, l’aveva uccisa e poi era scappato dalla finestra.
«Allora?» lo incalzò Lestrade quando Sherlock entrò sul luogo del delitto «Trovato qualcosa?»
Sherlock ripose la sua lente d’ingrandimento e si mise le mani in tasca.
«Ciò che dovete cercare è una donna, giovane e di grande agilità fisica. Ho elementi sufficienti per ritenere che l’assassina conoscesse il locale e, ovviamente, la vittima.» fece una pausa «Ma tanto so che alla fine sarò io che riuscirò a catturarla e concederò, come solito, a Scotland Yard il merito per l’impresa.»
Lestrade evitò la frecciatina  «Una donna?» chiese «E da cosa l’avresti dedotto?»
Sherlock indicò la vittima «Le ferite al petto. Abbiamo detto che possono essere state fatte da una persona della sua stessa altezza o più bassa. Poi, la finestra. Hai visto che ho fatto fatica ad uscirne scavalcandola, è troppo piccola per un uomo, ma della dimensione perfetta per una donna.»
«Secondo ciò che hai detto, allora potrebbe essere stato anche un uomo della sua stessa altezza.» disse Lestrade.
«No, per due motivi» disse Sherlock «Primo: l’assassino ha scavalcato la finestra e ha lasciato le sue impronte, queste sono di un piede piccolo e dalla forma, di sicuro di una donna e – »
«Aspetta un attimo.» lo interruppe Lestrade «Perché entrare dalla porta d’ingresso per poi uscire dalla finestra? Non poteva entrare e uscire dalla stessa porta?»
Sherlock lo fulminò con lo sguardo. «No. Ovviamente.» Lestrade alzò un sopracciglio e Sherlock si spiegò «L’uomo, ricevendo i colpi, avrà urlato di dolore e ovviamente, il proprietario si sarà allarmato e sarà corso a controllare cosa stesse succedendo. Se l’assassina fosse uscita dalla porta, sarebbe passata di fronte la stanza del proprietario, rischiando di essere scoperta.»
Lestrade si strofinò il mento «Giusto. Ehm … vai pure avanti.»
«Già. Come dicevo, è stata una donna anche per un altro fattore. Questo » disse tirando fuori dalla tasca la bustina contenente il braccialetto d’oro. «Trovato stretto all’interno del pungo della vittima.»
«Sherlock! Non puoi appropriarti delle prove!» urlò Lestrade prendendogli la busta dalla mano.
I due si fissarono.  «E quindi, cos’è?» chiese l’ispettore osservando il braccialetto all’interno della busta.
«La vittima e l’assassino hanno avuto una discussione e l’uomo, magari cercando di bloccare con le mani la furia della donna, gli ha strappato il braccialetto, che è troppo piccolo, quindi adatto ad un polso fine come quello di una donna.» concluse Sherlock sottolineando quell’ultimo punto osservando il viso ancora scettico di Lestrade.
«Una donna.» ripetè Lestrade «D’accordo. Dirò ai miei uomini di convergere le ricerche verso quella parte.»
Sherlock allungò la mano «Posso riavere il braccialetto, ora?»
«Assolutamente no! E’ una prova che va dritta in centrale.» disse Lestrade.
«D’accordo» disse Sherlock uscendo dalla porta della stanza «Il mio lavoro qui è finito. Avrai mie notizie.»
«O forse saremo noi i primi ad informarti.» disse Lestrade alle spalle dell’uomo.
«Certo, come no.» disse Sherlock sorridendo tra sé e sé, uscendo dal bed and breakfast per dirigersi verso Baker Street.
 
*
 
Baker Street era più caotica di quanto Sherlock avesse voluto. La signora Hudson nell’appartamento dabbasso, continuava a ridere e scherzare con il piccolo William. Sherlock si chiese come potesse la signora Hudson divertirsi con un bambino che non parlava e che quindi, non poteva trattenere una conversazione. Forse era la vecchiaia, ma il detective non voleva approfondire, aveva qualcosa di più importante a cui pensare.
Sherlock, seduto sulla sua poltrona, rifletteva sul caso a cui era stato sottoposto quella sera. Doveva cercare una donna, su quel punto gli indizi erano stati chiari, ma non abbastanza da dare a Sherlock anche la minima idea su chi potesse essere la donna e come rintracciarla. Tutto ciò che aveva, era un braccialetto e date le capacità del detective, questi era sicuro che sarebbe riuscito a ricavarne qualcosa di utile.
Il braccialetto aveva una medaglietta con una piccolissima incisione dentro. Sherlock la riprodusse all’interno della sua mente “George Turner 01/01/2011”.
Era il nome e data di nascita di un bambino. Il figlio di Wilson, forse? Ma il cognome non era lo stesso, a meno che …
«Bravo William! Hai finito tutta la pappa, che bravo bambino!»
La voce della signora Hudson, di quel passo, sarebbe arrivata alle orecchie di mezza Londra. Sherlock contorse la bocca in un moto di disgusto. Odiava che i suoi pensieri venissero interrotti.
«Mrs. Hudson!» urlò Sherlock sperando di ammonirla e di ottenere di conseguenza un po’ di silenzio, ma non funzionò. La signora e il bambino non avevano la minima intenzione di smetterla.
Sherlock si chiese cosa ci fosse di così divertente. Questi, quindi, si alzò dalla sua poltrona - cosa che non faceva mai durante la risoluzione di un caso – e scese di fretta le scale per poi spalancare la porta della casa della signora Hudson.
«Mrs. Hudson!» ripetè Sherlock facendo capolino nella piccola cucina della donna. Quest’ultima e il piccolo William si girarono a guardarlo e poi, come se niente fosse, tornarono a guardare la televisione. William seduto sul seggiolone guardava la televisione battendo le sue piccole manine a ritmo di musica del cartone animato che stava andando in onda.
«Hai intenzione di rimanere sulla porta ancora per molto?» chiese la signora Hudson rivolgendosi a Sherlock.
«Affatto» rispose questi «Ero venuto a dirle di stare un po’ in silenzio. Non vorrà mica svegliare l’intero vicinato» disse sapendo che la donna era sempre preoccupata di ciò che i vicini potessero pensare.
«Dovresti fare una pausa dal lavoro, Sherlock» disse la donna «Stai un po’ qui. Per una volta che possiamo avere William tutto per noi –»
Sherlock guardò la donna roteando gli occhi «No, grazie. Adesso cercate di fare un po’ di silenzio.»
Disse prima di chiudersi la porta alle spalle. Salì i gradini a due a due e torno con la mente al suo caso.
Sherlock, pensa. Allora …
Ma questi non ci riuscì. I due nell’appartamento sottostante non avevano intenzione di finirla. Sherlock esasperato si alzò dalla poltrona e suonò un po’ il violino. Quando capì che ormai i suoi pensieri dovevano essere di nuovo riordinati, decise di fare una pausa e andare a dormire.
Per sua fortuna, i giorni successivi sarebbe rimasto tutti i giorni fuori dall’appartamento per cercare una risoluzione al caso, così da non dover avere più attorno quel piccolo bambino.
Ma Sherlock, su quest’ultimo punto, si sbagliava di grosso.

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Capitolo 2
*** Day #1 ***


Day #1
 
 
Sherlock ricordava benissimo il giorno in cui Mary aveva partorito. John gli aveva mandato un messaggio all’una di notte, testuali parole “So che sei sveglio. Vieni subito in ospedale. JW ”. E così Sherlock aveva fatto. Fortunatamente era riuscito a trovare un taxi che lo portò al S.Bart’s in pochi minuti, raggiunse il reparto di maternità dove trovò niente meno che John seduto nella sala d’aspetto con le mani in testa.
«John?» chiese Sherlock avvicinandosi all’amico. Questi alzò subito la testa e tirandosi su dalla sedia.
«Sherlock, grazie per essere venuto» disse «Io non ce la faccio ad affrontare tutto questo da solo.»
«E dire che sei un dottore, come ti piace ribadire in varie occasioni.» disse Sherlock prendendolo in giro. «Dovresti esserci abituato.»
«E’ diverso quando in quella stanza c’è tua moglie che partorisce tuo figlio.» disse John incominciando a camminare per la sala d’aspetto avanti e indietro in preda ad una crisi d’ansia.
Sherlock roteò gli occhi, ma decise che era meglio non dire niente e aspettare pazientemente che qualche infermiere li informasse su quanto accaduto.
Fu solo dopo una mezz’oretta che dalla stanza uscì una signora sulla cinquantina che senza giri di parole annunciò «E’ nato.»
John scattò subito sull’attenti e prima di precipitarsi all’interno della stanza si voltò verso l’amico.
«Cosa ci fai lì impalato?» chiese questi a Sherlock, il quale rimase sorprendentemente spiazzato dalla domanda.
«Aspetto fuori, no?» rispose il consulente investigativo «Dopotutto è un momento importante per la tua famiglia e –»
«Sherlock» lo interruppe John «Anche tu fai parte della famiglia. Adesso muovi quel culo ed entra.»
Sherlock rimase un po’ sorpreso – come quella volta in cui John gli aveva chiesto di essere il suo testimone di nozze – ma sotto sotto era anche lusingato. Finalmente, anche lui faceva parte di qualcosa d’importante.
Ad accoglierli c’era una Mary radiosa come al solito ma notevolmente stanca, che teneva in braccio il figlio appena nato. Quando i due uomini entrarono, fece un gran sorriso e quando John si avvicinò al suo letto, la donna gli diede in mano il piccolo che stava dormendo beatamente.
John era al settimo cielo, voleva piangere, voleva ridere, voleva saltellare per tutta la stanza, voleva urlare ma non fece nessuna di queste cose, era troppo attratto dal viso paffutello del bimbo che teneva in braccio, con gli occhietti chiusi e dei ciuffetti di capelli che spuntavano fuori dalla testolina.
«Congratulazioni Mary.» disse Sherlock avvicinandosi alla donna e dandole un bacio sulla fronte.
«Grazie Sherlock» disse lei «Non mi aspettavo di trovarti qui!»
«Semplicemente, John se la stava facendo sotto e aveva bisogno di supporto morale.» disse Sherlock provocando nella donna una fragorosa risata.
«Ero solo agitato, Sherlock. Agli esseri umani capita, sai?» disse John ignorando i due che lo stavano prendendo in giro.
I tre rimasero in silenzio a godersi quella pace e tranquillità. Era tutto perfetto, non c’era bisogno di dire o fare niente, l’emozione di quel momento parlava da sé.
«Sherlock» disse Mary ad un tratto, interrompendo il silenzio «Ti andrebbe di tenerlo in braccio?» chiese sorridendo.
Sherlock guardò Mary con tanto d’occhi pensando che la gravidanza le avesse alterato qualche funzione cerebrale. «Cosa?»
«Su, Sherlock. Non fare il timido adesso.» disse John ridendo e avvicinandosi all’amico porgendogli il piccolo. «Attento alla testa»
Sherlock prese cautamente il bambino tra le braccia e lo osservò: era perfetto.
«Gli abbiamo dato il tuo nome.» disse John.
Per Sherlock quella era la nottata delle sorprese, decise quindi di sedersi, per evitare possibili gesti avventati, tipo, svenire.
«Non “Sherlock”, ovviamente.» continuò Mary «John pensa che basta e avanza una sola persona con quel nome. Quindi, abbiamo optato per William.»
Sherlock non poteva crederci. Quando aveva rivelato a John il suo nome intero, non pensava che l’amico ne avrebbe mai scelto uno da dare al bambino. Sherlock era davvero lusingato e, se possibile, anche molto emozionato. Era la prima volta che provava una sensazione come quella e doveva ammetterlo, non gli dispiaceva affatto.
Voleva dire qualcosa, anzi doveva. Quel gesto d’affetto significava molto per lui, quindi, disse –
 
«Aiuto! Aiuto! Sherlock!»
Sherlock aprì di scatto gli occhi. Dall’appartamento di sotto provenivano le urla della signora Hudson e il pianto di William. Subito l’uomo pensò che la signora Hudson fosse stata attaccata da qualcuno – come successe quella volta con quegli agenti americani – quindi si alzò di scatto dal divano e si precipitò dabbasso.
«Sherlock!»
«Mrs. Hudson?» disse Sherlock aprendo la porta dell’appartamento. La scena che si trovò di fronte era alquanto comica se non fosse per il fatto che la donna sembrava alquanto disperata. Quest’ultima era stessa per terra e non riusciva a rimettersi in piedi, una scala ribaltata e il piccolo William che seduto sul seggiolone, non la smetteva di piangere, essendosi evidentemente spaventato per l’accaduto. Sherlock quindi, aiutò la donna a sedersi sulla sedia e visto che questa insisteva tanto, chiamò un ambulanza.
«Stavo facendo le mie solite pulizie del sabato mattina» incominciò a spiegare la signora Hudson quando i medici dell’ambulanza arrivarono sul posto «stavo pulendo le mensole della cucina – quelle in alto – quando a un tratto sono scivolata dalla scala e sono caduta. Il piccolo William si è così spaventato che ha iniziato a piangere, poverino.»
«Non si preoccupi signora, può capitare a chiunque» le disse uno dei due medici, tirandola sulla barella «Adesso andiamo in ospedale e facciamo tutti gli accertamenti. Anche se – »
«Anche se, cosa?» chiese la signora Hudson alquanto preoccupata.
«Qui» il medico le toccò la caviglia «Probabilmente ha preso una distorsione.»
«E cosa vuol dire?» chiese l’interessata.
«Non è niente di grave, non si preoccupi, dovrebbe solo restare sotto osservazione per un paio di giorni. Comunque, adesso la portiamo in ospedale e facciamo tutti gli accertamenti necessari.»
Sherlock, intanto, guardava la scena a braccia conserte. Tutto per delle pulizie di casa pensò, Che idiozia.
«Ok, allora noi andiamo. Arrivederci.» dissero i medici a Sherlock, mentre uscivano dall’appartamento, trasportando una signora Hudson un po’ scossa dall’accaduto.
Sherlock sbuffò e uscì dalla cucina della donna. Stava per salire le scale verso il suo appartamento quando si bloccò di colpo: ora, chi avrebbe badato a William?
 
*
 
Lestrade osservava il messaggio sul suo cellulare. Era certo che l’aveva inviato, allora, perché Sherlock ci stava mettendo così tanto ad arrivare? Lo stava aspettando da più di un’ora e ancora non si faceva vivo. Si chiese se gli fosse successo qualcosa.
Ma no, pensò. Non preoccuparti inutilmente.
Prese a camminare avanti e indietro all’interno della stanza e più passava il tempo, più gli venivano i brividi. Non era molto a suo agio stare solo con un morto steso su un tavolo per l’autopsia. Aveva gentilmente chiesto a Molly di tirare fuori la vittima uccisa la sera prima affinchè Sherlock potesse dargli un’altra occhiata, visto ciò che la polizia aveva scoperto in quelle poche ore.
Lestrade diede un altro sguardo all’orologio quando la porta della stanza si aprì e finalmente entrò Sherlock.
«Sherlock, finalmen – » ma l’ispettore non riuscì a finire la frase.
Sherlock Holmes, si era presentato in un obitorio con un bambino in braccio. Un bambino.
Lestrade dovette ricomporsi perché stava decisamente facendo la figura dell’idiota (con bocca e occhi spalancati), ma non riusciva a credere a quello che stava vedendo. Dove l’aveva tirato fuori quel piccoletto e soprattutto di chi era?
«Bene ispettore» iniziò Sherlock ignorando lo sguardo scioccato di Lestrade «Allora, cosa volevi mostrarmi?»
«Un bambino.» fu tutto ciò che riuscì a dire.
Sherlock prima guardò Lestrade e poi il bambino che teneva in braccio, sveglissimo e con un sorriso a trentadue denti sul volto.
«Davvero brillante deduzione, ispettore, sono colpito.» disse Sherlock infastidito avvicinandosi al corpo sul tavolo dell’autopsia.
«Si può sapere cosa ci fai con un bambino in braccio?» chiese Lestrade quasi urlando e osservando il piccolo.
«E’ il figlio di John.» disse il consulente investigativo «Mi sorprende che tu non te lo ricorda.»
«Ah, William!» esclamò Lestrade «E ti sembra il caso di portarlo dentro un obitorio?»
Sherlock lo fulminò con lo sguardo «Non vedo dove sia il problema.»
«Ma – » Lestrade voleva tempestarlo di domande ma venne bruscamente interrotto da uno Sherlock impaziente di sapere il perché della convocazione.
«Ecco» l’ispettore si schiarì la voce e con un rapido movimento spostò il lenzuolo dal viso dell’uomo, scoprendone il petto. «Abbiamo analizzato le ferite riportate sul corpo dell’uomo e i risultati dimostrano che l’arma del delitto è stato un coltello da cucina, molto pesante e affilato. Alcuni agenti, poi, controllando la cucina dell’attività del signor Drebber, hanno trovato un set di coltelli, ma mancava all’appello quello usato per compiere il delitto.»
«Capisco» disse Sherlock calandosi un po’ sul corpo del signor Wilson per osservare meglio le ferite, ma facendo attenzione a tenere ben stretto William. «C’è dell’altro?»
«Sì, abbiamo analizzato il sangue trovato sulla finestra cercando di risalire al DNA ma senza nessun risultato. Sui nostri registri non appare niente.»
Sherlock roteò gli occhi. Se lo aspettava, come al solito, doveva pensare a tutto da solo. William stretto al suo petto fece un versetto.
«Cosa dici, little-John?» disse Sherlock guardando il bambino e successivamente rivolgendosi a Lestrade «Il bambino vi considera degli incapaci. E io non posso far altro che dargli ragione.»
L’ispettore rivolse ad entrambi un’occhiataccia. «Dovrai spiegarmi un po’ di cose» disse a Sherlock indicando il bambino.
«Tutto quello che vuoi quando avremmo finito. Quindi … c’è altro che dovrei sapere?» chiese Sherlock.
«A dir la verità sì.» rispose Lestrade mentre Sherlock faceva scendere William dalle proprie braccia. «Il signor Drebber ci ha informato che non lavorava da solo all’interno della sua attività. Era da circa un mese, infatti, che aveva assunto una donna che si prendesse cura della struttura, pulizie delle stanze, accoglienza degli ospiti … La cosa curiosa è che il signor Drebber ci ha riferito che questa donna non voleva essere pagata, anzi, si era addirittura offerta di svolgere tutti quei servizi che il proprietario non riusciva a fare in cambio di una stanza in cui stare. Ovviamente il signor Drebber ha accettato, considerandolo un valido aiuto.»
«Capisco. E che fine ha fatto questa donna? Perché non era presente ieri sul luogo del delitto?» chiese Sherlock.
«Perché si era licenziata.» rispose Lestrade «Due giorni dopo la registrazione del signor Wilson»
Sherlock alzò il capo e incominciò a riflettere «Non può essere una coincidenza. Qual è il nome della donna?»
«Secondo il suo curriculum si chiama Alicia Green.» disse l’ispettore porgendo a Sherlock il documento, il quale lo prese e lo guardò per un attimo prima di ripiegarlo e metterlo all’interno del cappotto.
Lestrade si accorse che il viso di Sherlock era diventato a un tratto cupo e pensieroso.
«Qualcosa non va?» chiese.
«Niente. Avevo un’ipotesi in mente. Evidentemente era sbagliata.» rispose Sherlock.
«Ovviamente stiamo cercando di rintracciarla, per scoprire se ha a che fare con l’omicidio del signor Wilson.»
«Perfetto. Conto su di voi, Scotland Yard.» disse Sherlock dando una pacca sulla spalla all’ispettore. Prese William in braccio e si avviò verso l’uscita.
«Te ne vai così?» chiese Lestrade perplesso.
«Già. Ho un bambino di cui occuparmi, hai presente, no?» rispose Sherlock indicando William.  «Sai, la pappa e quelle cose là.»
«Ma sono appena le dieci e mezzo del mattino! Non dovrebbe aver già mangiato?» esclamò Lestrade ma Sherlock era già uscito, la porta chiusa con un gran tonfo.
L’ispettore si mise le mani in testa «Povero William … »
 
*
 
Sherlock teneva stretto per la mano William, ammetteva che non era un bel posto per un bambino ma cosa poteva farci? Lui doveva risolvere un caso e gli eventi di quella mattina avevano voluto che ci fosse anche il piccolo.
«Allora hai capito cosa devi fare?» chiese Sherlock a uno dei suoi “amici” senzatetto.
Questi si rigirò la foto tra le mani e annuì poco convinto.
«Ti verrà dato un compenso, ovviamente» disse il consulente investigativo tirando fuori dalla tasta una banconota da cinquanta sterline. Magicamente lo sguardo dell’uomo cambiò, adesso annuiva vigorosamente.
«Le farò sapere se scopro qualcosa signor Holmes.» disse guardando prima il consulente investigativo e poi il bambino che questi teneva per mano. Istintivamente la presa di Sherlock si fece più salda.
«Bene.» disse, prendendo William in braccio per allontanarsi più velocemente da quel posto. Difficile a dirsi, ma Sherlock non era un completo sprovveduto. Se fosse successo qualcosa al bambino non se lo sarebbe mai perdonato.
I due riuscirono a uscire sani e salvi da quel quartiere non poco raccomandabile e appena tornarono sulla strada principale, Sherlock chiamò un taxi.
«E adesso aspettiamo gli eventuali sviluppi.» disse questi una volta entrato nel taxi a William, il quale borbottò qualcosa con il viso crucciato «Sì, lo so. Mi dispiace per la puzza che fanno, ma non possiamo farci niente.» disse riferendosi ai senzatetto.
Il tassista incuriosito guardò il suo cliente, il quale se ne accorse, rivolgendogli un’occhiataccia.
L’uomo alla guida tornò a guardare la strada.
 
*
 
Sherlock era seduto sulla sedia della sala, mani congiunte sotto il mento e gomiti appoggiati sul tavolo. Lo sguardo era posato su William che giocava divertito con il cuscino dell’Union Jack ma la mente vagava sul caso. Stava pensando agli ultimi indizi avuti in mattinata: era quasi sicuro che quella donna c’entrasse qualcosa con l’omicidio ma c’erano ancora dei pezzi del puzzle che Sherlock non riusciva a far combaciare. I suoi pensieri furono interrotti dal suo cellulare che iniziò a squillare. Questi lo prese senza neanche controllare chi fosse.
«Sherlock Holmes» rispose.
«Dov’è William?» chiese una voce dall’altro capo del telefono. C’era rabbia mista ad ansia.
«Oh, ciao John. Neanche un “ciao, come stai?”» chiese Sherlock.
John evitò la frecciatina dell’amico. «Solo ora sono venuto a sapere che la signora Hudson è finita in ospedale in seguito ad una brutta caduta, quindi sai com’è, la domanda mi sorge spontanea.»
«Tranquillo, William è con me.» disse Sherlock tranquillo. Il bambino sentito il suo nome si voltò verso lo “zio”. Sherlock gli fece un sorriso.
«Tranquillo? Oh mio Dio Sherlock.» disse John. Fece una pausa. «E’ successo qualcosa?»
«Cosa vuoi che sia successo?»
«Con te tutto è possibile.»
«Come sei esagerato, John.»
«Non hai risposto alla domanda.»
«Abbiamo passato una tipica giornata zio – nipote.» disse Sherlock con il suo tono di voce “da presa in giro” «Siamo andati a trovare un povero signore accoltellato e poi abbiamo fatto una passeggiata a Lauriston Gardens»
«Dimmi che stai scherzando.» disse John «Hai portato mio figlio all’obitorio e dai senzatetto?! Cristo, Sherlock!»
«Era per un caso. Non l’avrei mai fatto se fosse stato rischioso e – »
«Per questo non volevo affidarti William.» lo interruppe John «Se la signora Hudson non fosse caduta a quest’ora io e te non staremo affrontando questa conversazione.»
«Vorrei ricordarti che neanche la signora Hudson sa come accudire un bambino.» disse Sherlock perdendo il suo tono di voce scherzoso, iniziandosi ad infastidire «Non so se te n’eri mai accorto, ma non ha figli.»
«Ma almeno lei è una donna!» ribatté John «Ha l’istinto materno e tutte quelle stronzate lì.»
«Io ho fatto delle ricerche, ovviamente.»
Sherlock sentì John ridere dall’altra parte del telefono. Una risata forzata, finta «Per crescere un bambino non basta andare su internet e digitare “come comportarsi con un bambino di due anni”. » John fece un sospiro « Vedi, ho ragione. Non sai gestire questa situazione.»
«Io sono suo zio e porta anche il mio nome!» disse Sherlock. «Ovvio che so gestire la situazione!»
«E questo cosa diavolo c’entra – »
«La conversazione finisce qui, John.» lo interruppe Sherlock «Mi fa arrabbiare il fatto che tu non riponga neanche un briciolo di fiducia in me, dopo tutto quello che abbiamo passato. Sono capace di occuparmi di William e questa è l’occasione per dimostrartelo.»
Detto questo chiuse la conversazione e lanciò il telefono sul tavolo con noncuranza.
William lo guardò con tanto d’occhi, smettendo per un momento di giocare con il cuscino colorato. Il consulente investigativo si avvicinò al piccolo e si inginocchiò ai piedi della sua poltrona.
«Sei proprio uguale a tuo padre» disse osservando il viso paffutello «Spero che tu non prenda il suo stesso caratteraccio.»
William sorrise e allungò una mano verso i capelli di Sherlock «Sarebbe bello se prendessi qualcosa dal sottoscritto» disse l’uomo mentre le mani del piccolo prendevano i capelli di Sherlock tirandoglieli «Mhm, forse è meglio no. Tuo padre ha troppi psicopatici nella sua vita. Non c’è bisogno che anche suo figlio lo diventi.»
 
*
 
Ci volle un po’ prima che John si scusasse per il comportamento avuto nei confronti di Sherlock. Ripensandoci, forse aveva esagerato, ma cosa ci poteva fare se era così protettivo nei confronti di suo figlio? Così, prima di andare a dormire decise di mandare un messaggio a Sherlock.
 
Mi dispiace per la discussione di questo pomeriggio, sono stato uno stronzo. JW
Inviato 11.30 p.m.
 
La risposta arrivò poco dopo.
 
Sì. SH
Ricevuto 11.32 p.m.
 
Sì, cosa? JW
Inviato 11.32 p.m.
 
Sì, sei stato uno stronzo. SH
Ricevuto 11.33 p.m.
 
Già. JW
Inviato 11.34 p.m.
 
Mangia volentieri. Ho avuto molta difficoltà a cambiarlo. Non pensavo fosse così … poco igienico. SH
Ricevuto 11.35 p.m.
 
A John scappò una risata. Non ce lo vedeva proprio Sherlock Holmes a cambiare il pannolino sporco di un bambino. Appena sarebbe tornato a Londra, avrebbe chiamato Lestrade e insieme avrebbero fatto un video a Sherlock alle prese con i pannolini sporchi di William.
 
Sarebbe esilarante vederti all’opera! JW
Inviato 11.37 p.m.
 
Peccato non accadrà mai. SH
Ricevuto 11.38 p.m.
 
Mi è bastato suonare il violino per un minuto e si è addormentato. SH
Ricevuto 11.39 p.m.
 
Gli piace. JW
Inviato 11.40 p.m.
 
Come fa a piacergli se poi si addormenta? E’ un controsenso. SH
Ricevuto 11.42 p.m.
 
E’ una cosa da bambini, Sherlock. JW
Inviato 11.43 p.m.
 
Capisco. Anzi, a dir la verità no. SH
Ricevuto 11.43 p.m.
 
Vabbè, buonanotte John. SH
Ricevuto 11.44 p.m.
 
Grazie per quello che stai facendo. JW
Inviato 11.45 p.m.
 
Solo perché Mrs. Hudson è in ospedale. SH
Ricevuto 11.46 p.m.
 
Come non detto. JW
Inviato 11.46 p.m.
 
 
*
 



Note dell’autrice: La prima parte di questo secondo capitolo è ovviamente un flashback della nascita di William. Devo dire che mi è piaciuto molto scrivere qualcosa inerente al parto :) .
E finalmente, sono riuscita a scrivere anch’io una conversazione (anche se mini-mini) via SMS. Ho sempre adorato questo modo di Sherlock e John di comunicare, sono decisamente meglio delle telefonate!
Questione più “tecnica”: la storia è composta da tre capitoli, il prossimo, quindi, sarà l’ultimo e anche più lungo di questo.
Ringrazio le persone che hanno messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, mi ha fatto un sacco piacere!
Alla prossima,
Fede

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Capitolo 3
*** Day #2 ***


Day #2
 
 
Quella domenica mattina William si svegliò di buon’ora, rimase a rotolarsi un po’ sul lettone prima di far sapere a suo zio che finalmente si era svegliato. Sherlock, d’altro canto, era rimasto sveglio tutta la notte, non aveva avuto sonno e non era stanco, quindi aveva deciso di rimanere a leggere un libro nella sua camera da letto mentre osservava William che dormiva. Quindi, appena il piccolo si svegliò, Sherlock decise di tirarlo su e cambiarlo. Sì, non faceva un buon odore. Assolutamente.
Sherlock, quindi, andò velocemente in cucina, prese il suo portatile e lo appoggiò sul letto, di fianco a William steso a pancia in su. L’uomo digitò velocemente qualcosa sulla tastiera e il video di Youtube partì “Come cambiare il pannolino a un bambino”.
Sherlock si sentiva proprio un idiota, mentre seguiva le istruzioni da internet, ma dopotutto non c’era nessuno a poter testimoniare ciò che stava accadendo, quindi si tranquillizzò.
Dopo aver cambiato precariamente il piccolo, era il momento di fargli mangiare qualcosa. La sera prima aveva scoperto che andava matto per i biscotti, quindi, data la scorta che la signora Hudson aveva nella sua cucina, Sherlock decise di intrufolarsi nell’appartamento della donna per prenderle tre pacchi ancora belli pieni. Sherlock prese William e lo fece sedere sul seggiolone, aprì un pacco di biscotti e glieli mise davanti. Il piccolo tutto contento, iniziò a mangiare e in men che non si dica si era già finito metà pacchetto. Sherlock decise che aveva mangiato abbastanza – anche perché poi i biscotti non sarebbero bastati sia per il pranzo che per la cena – quindi gli tolse il sacchetto da davanti e gli fece bere un po’ d’acqua.
«Su, adesso bevi» disse Sherlock al piccolo porgendogli un bicchiere. Quando William ebbe finito, Sherlock lo fece scendere dal seggiolone per permettergli di gironzolare per l’appartamento. L’uomo guardò quel piccolo esserino prendere il cuscino con la bandiera inglese – evidentemente gli piaceva, quindi Sherlock gliel’avrebbe regalato, dopotutto a lui non importava gran ché – e iniziare a giocarci: lo prendeva, lo faceva volare in aria e poi lo riprendeva.
Sherlock, si trovò inevitabilmente a pensare a quanta gioia doveva portare un bambino così bello e vivace in una famiglia, e in un momento di debolezza Sherlock pensò che sarebbe stato bello essere un uomo come gli altri, non avere nessuna preoccupazione, avere una famiglia, vivere una vita normale.
«Shellok!» il bambino si avvicinò correndo verso lo zio con il cuscino in mano. Quest’ultimo rimase a fissarlo dall’alto in basso, con in mano la sua tazza di thè. Aveva sentito male o quel bambino aveva appena pronunciato il suo nome? William batté i piedi per terra, Sherlock continuava a fissarlo senza prestargli la minima attenzione.
Dopo essersi ripreso, Sherlock posò la sua tazza sul tavolo e decise di assecondare il bambino in qualunque cosa volesse, il quale gli porse il cuscino, poi correndo, andò a posizionarsi vicino al divano.
«E ora cosa dovrei fare?» chiese Sherlock al bambino, sapendo benissimo che non gli avrebbe risposto. L’istinto gli disse di lanciare il cuscino verso William.
Questi era contentissimo – Sherlock quindi capì il suo intento – lo prese al volo e cercò di lanciarlo anche lui, ma non riuscì a farlo volare più in là di un metro.
Alla fine, Sherlock passò la mattinata così, lanciando un cuscino ad un bambino che non avrebbe mai più ricordato quel momento. Sherlock se ne fregò della sua caratteristica compostezza e acidità e ritornando bambino anche lui, comprese per la prima volta il significato di felicità.
 
*
 
Dopo una mattinata persa a giocare con il bambino, le chiamate ricevute dalla signora Hudson e i messaggi ansiosi di John, Sherlock decise che era arrivato il momento di concentrarsi sul caso affidatogli da Lestrade. Ma ovviamente, non poteva chiedere troppo. Il campanello, infatti, suonò, distogliendo Sherlock da ogni suo pensiero. Prima di scendere ad aprire, il consulente investigativo si affacciò alla finestra per vedere chi fosse arrivato. Una macchina nera era parcheggiata davanti al 221b. Sherlock sbuffò e andò ad aprire la porta, mettendoci più tempo di quanto ne sarebbe servito. Quando aprì la porta, si presentò davanti a lui suo fratello Mycroft, impeccabile come sempre nei suoi completi d’alta sartoria e con l’immancabile ombrello al braccio.
«Disturbo?» chiese Mycroft chiudendosi il portone alle spalle e seguendo il fratello su per le scale.
«Sempre, Mycroft. Sempre.» rispose Sherlock senza neanche girarsi verso l’interlocutore.
I due entrarono nell’appartamento, Sherlock si sdraiò sul divano, chiuse gli occhi e mise entrambe le mani congiunte sotto il mento. Il fratello, d’altro canto, rimase in piedi al centro della stanza, con il peso del corpo sull’ombrello e roteò gli occhi al comportamento del fratello.
«Allora» disse questi «come vanno le cose, caro fratellino?»
«Non provare a fare conversazione Mycroft» disse Sherlock senza aprire gli occhi «Dimmi piuttosto cosa vuoi, senza giri di parole.»
Mycroft tirò fuori una pila di fogli e li appoggiò sul tavolino della sala, di fronte al divano.
«Sono venuto a chiedere la tua consulenza per un caso – »
«Di sicurezza nazionale» lo interruppe Sherlock finendo la frase «Cambia battuta, dopo un po’ stanca.»
Il fratello maggiore gli lanciò un’occhiataccia ma decise di ignorare il suo comportamento, dopotutto c’era abituato. «Allora?» chiese.
Sherlock aprì gli occhi ma non si discostò dalla posizione «Allora, cosa?»
«Darai un’occhiata ai fascicoli che ti ho portato?»
«Nope!» disse Sherlock alzandosi dal divano e dirigendosi verso la cucina a versarsi una tazza di thè.
«Sherlock, per l’amor del cielo, per una volta potresti – »
«Ho già due casi in ballo.» lo interruppe questi.
«Due casi? Addirittura. Iniziamo a fare gli straordinari, a quanto pare.» disse Mycroft sarcastico. «Ma a quanto mi risulta, ti stai occupando di un solo caso. Sono proprio curioso di sapere qual è il secondo e soprattutto perché non ne sono venuto a conoscenza.»
«Segniamo la data sul calendario: Mycroft che per una volta non ha il controllo di ciò che gli capita proprio sotto il naso!»
Mycroft non fece in tempo a ribattere che il pianto di un bambino arrivò alle sue orecchie. Proveniva dalla camera di Sherlock. William doveva aver finito il suo sonnellino pomeridiano.
«Sherlock, ma che cosa –»
Quest’ultimo lo ignorò dirigendosi verso la sua camera da letto. Prese William in braccio e si mise di fronte a Mycroft.
«Fratello caro, questo è il secondo caso di cui mi sto occupando.»
Mycroft guardò sconcertato prima il fratello e poi il bambino che si stava stropicciando gli occhi con la manina.
«Ma questo … è il figlio di John?» chiese.
«In persona.» rispose Sherlock.
«John ha ricevuto una bella botta in testa per decidere di affidare suo figlio a te.»
«Divertente» disse Sherlock prima di mettere William sul seggiolone e posargli davanti un bel piatto di biscotti. «Ho scoperto di saperci fare con William. Io gli piaccio e lui piace a me, siamo in sintonia.»
«La botta l’hai presa forte anche te, a quanto pare» disse Mycroft sedendosi sulla sedia della sala. «Da quando in qua sai occuparti di un bambino?»
«Da quando le circostanze lo richiedono.»
«Capisco … » disse Mycroft turbato «Anche se mi sentirei più tranquillo metterti sotto sorveglianza da uno dei miei uomini, sai, per attestare che tutto davvero fili liscio.»
«Non ci provare» disse Sherlock girandosi di scatto verso il fratello. «William non ha problemi con me.»
«Solo perché non è in grado di parlare. Se lo fosse, te lo direbbe.» lo accusò il maggiore.
«Mycroft, non stavi andando via?» chiese Sherlock aprendo la porta dell’appartamento invitando il fratello, nel modo più gentile che conoscesse, ad uscire. Si era stancato di quella pagliacciata.
Il maggiore degli Holmes quindi, visto che la sua presenza non era gradita – come al solito – si alzò dalla sedia e inforcando il suo ombrello, si accinse ad uscire. Prima però, si voltò verso il tavolino del salotto osservando i fascicoli che poco prima aveva poggiato sopra.
«Puoi riprenderteli.» disse Sherlock seguendo il suo sguardo.
«Sherlock.» lo ammonì Mycroft.
«Fa come vuoi. Sono sicuro che William sarà felicissimo di potergli dare un’occhiata al posto mio»
Che tradotto, sarebbe: William sarà felicissimo di prenderli, strapparli e farci tanti bei coriandoli.
Mycroft capì l’antifona e con uno sbuffo tornò a riprendersi i documenti. «E’ così difficile fare un favore a tuo fratello, eh, Sherlock?»
Questi roteò gli occhi e andò da William che intanto aveva finito il suo piatto di biscotti e adesso chiedeva di scendere dal seggiolone. Sherlock lo accontentò.
«Vorrei non avessimo lo stesso cognome»
Mycroft capiva benissimo quello che Sherlock voleva dirgli con quella frase. Le aspettative della gente nei loro confronti e la voglia di non appartenere a quel mondo così complicato, invisibile agli occhi di qualunque uomo “ordinario”.
«Il cognome è una convenzione sociale, caro fratello» disse il maggiore «Anche se tu avessi preso il cognome di mamma, non sarebbe cambiato nulla. Saremo sempre noi, con le solite responsabilità sulle spalle»
«Per favore, Mycroft. Evita di fare certe frasi fatte» disse Sherlock guardando prima il fratello e poi il piccolo William che arrampicandosi sulla sedia, cercava di raggiungere il portatile di Sherlock. Questi si avvicinò «No, little-John. Questo non lo puoi toccare» disse prendendogli di mano il computer. Il bambino deluso iniziò a piagnucolare.
«Beh, allora ti lascio» disse Mycroft «Mi sembra, infatti, che tu sia occupato al momento.»
Sherlock fece una smorfia e non si disturbò neanche a salutarlo. William intanto piangeva come un matto, era arrabbiato perché voleva giocare con qualcosa di diverso del solito cuscino colorato.
Sherlock se possibile era più arrabbiato di lui. Era convinto che fosse tutta colpa di Mycroft, doveva aver turbato il bambino in qualche modo. Fatto sta che adesso Sherlock non sapeva cosa fare per farlo smettere. Il pianto del piccolo che cresceva sempre più aveva attutito il suono che fece il suo cellulare. Un messaggio. L’uomo lo lesse e gli s’illuminarono gli occhi.
Si affrettò a prendere il suo cappotto e infilarselo per poi prendere il giubbottino di William e metterglielo addosso.
«Forza little-John! Nuovi sviluppi sul caso!» disse, mentre con eccessivo entusiasmo cercava di infilare le braccia del piccolo all’interno delle maniche.
Il bambino si tranquillizzò un pochino, ma aveva ancora gli occhi lucidi: non gli piaceva essere ballonzolato come un pupazzo.
Sherlock prese William in braccio e come una furia si precipitò in strada chiamando un taxi.
 
*
 
«Ho fatto ciò che mi aveva chiesto signor Holmes» disse il senzatetto al quale Sherlock aveva parlato il giorno prima. Ora si trovavano a Lauriston Gardens in una stradina laterale, senza occhi indiscreti puntati addosso. «Ho fatto vedere in giro la foto della donna che mi aveva dato e alcune voci mi hanno riferito che è in fuga.»
«Sai dove si trova adesso?» chiese Sherlock con William in braccio, il quale guardava il senzatetto in modo sospetto.
«No, signor Holmes. Gliel’ho detto, scappa da un posto all’altro. Vuole diventare invisibile.»
«E’ a corto di soldi, deve essere ancora qui a Londra.» disse Sherlock cercando di riflettere sulle nuove informazioni ottenute.
«Dov’è stata tutto questo tempo?» chiese il consulente investigativo.
«Oh, un po’ di qua un po’ di là.» rispose il senzatetto facendo un gesto evasivo con la mano «Per lo più centri d’accoglienza per persone che hanno problemi di soldi … Non può girovagare in queste zone con un bambino a carico –»
«Un bambino?» Sherlock lo interruppe «La donna ha un figlio?» Il caso si faceva sempre più interessante e il consulente investigativo era convinto che sarebbe arrivato alla risoluzione del caso più in fretta di quanto credeva. Aveva parecchi elementi a disposizione, bastava solo collegarli nel modo giusto.
«Oh sì! Ed è anche molto protettiva nei suoi confronti.» disse lui «Non vuole che nessuno si avvicini a lui.»
«Hai altro da dovermi riferire?» chiese Sherlock.
«No, questo è tutto ciò che ho scoperto. Spero che sia bastato per la ricompensa.» rispose l’uomo avido di ricevere il denaro promesso.
«Ma certo» disse Sherlock porgendo all’uomo la banconota «Da adesso in poi, ci penso io.»
Il senzatetto guardò incredulo la banconota da cinquanta sterline.
«E’ sempre un piacere fare affari con lei!» urlò.
Ma Sherlock era già sparito.
 
*
 
Sherlock scese dal taxi che lo portò davanti alla sede di Scotland Yard e si affrettò a raggiungere l’ufficio dove lavorava Lestrade. Con passo svelto superò tutti quegli sguardi che osservavano prima Sherlock e poi il bambino che teneva in braccio.
Sherlock spalancò la porta dell’ufficio di Lestrade ed entrò. Questi sobbalzò dallo spavento «Sherlock! Sei impazzito a entrare così – »
«Ho risolto il caso.» disse Sherlock facendo sedere William su una delle due sedie libere all’interno dell’ufficio, mentre lui restò in piedi.
Lestrade al suono di quelle parole cambiò completamente atteggiamento.
«Davvero? E allora?» chiese.
«Non c’è tempo per spiegare adesso.» ripose Sherlock «Dobbiamo muoverci in fretta. Chiama a raccolta le pattuglie.»
Lestrade era sorpreso, quindi in modo un po’ goffo fece un paio di telefonate, prese il giubbotto e si diresse verso l’uscita. «Dove andiamo di preciso?»
«In giro per Londra.»
 
*
 
Londra era una delle città più popolose d’Europa e cercare una persona in mezzo a otto milioni di abitanti era come letteralmente, cercare un ago in un pagliaio, il consulente investigativo e Lestrade ne erano al corrente. Ma grazie alle informazioni ottenute dagli “amici” senzatetto di Sherlock e grazie alle abilità dello stesso, riuscirono a impiegarci giusto due ore prima di trovare quel centro d’accoglienza che aveva ospitato la donna per ultimo.
L’uomo che si occupava della struttura disse alla polizia che si ricordava bene di quella donna, aveva trascorso poco tempo all’interno di quel centro e solo pochi minuti fa ne era uscita.
Partì quindi una corsa contro il tempo, e fu solo dopo pochi minuti che Sherlock insieme ad una pattuglia della polizia riuscì a rintracciare la donna in un vicolo poco trafficato dai pedoni, e metterla alle strette.
Sherlock con William in braccio uscì dall’auto della polizia insieme a Lestrade e altri due uomini, che insieme puntavano le loro pistole contro la donna.
«Signorina Green, si fermi! Polizia!» urlò Lestrade.
La donna era a pochi metri dalla polizia e Sherlock solo in quel momento riuscì a osservarla meglio. Erano stati due giorni molto difficili dallo stato in cui si presentava: una donna minuta e magra, con il viso sottile stanco e stressato, i capelli bruni acconciati in una disordinata coda di cavallo. Di fianco a lei, invece, in una piccola carrozzina giaceva un bambino piccolo, suo figlio, evidentemente spaventato da tutto quel trambusto.
«Signorina Green» disse Lestrade avvicinandosi lentamente alla donna «Lei è accusata – »
La donna sentendo quelle parole, tirò fuori dallo zaino che aveva con sé, un coltello da cucina e se lo puntò contro.
Gli uomini presenti sobbalzarono alla vista di quella mossa inaspettata.
Sherlock guardò la donna e poi il coltello che teneva in mano. Era quella l’arma che aveva ucciso il signor Wilson?
«Fate un altro passo e giuro che mi uccido!» urlò la donna puntandosi il coltello contro il petto.
«Signorina Green, non faccia mosse avventate! Lasci quel coltello!» disse Lestrade.
«Stia zitto, non voglio parlare con la polizia!»
William, stretto tra le braccia di Sherlock, assistendo a tutto quel trambusto iniziò a piangere e contorcersi. Tutti i presenti rimasero a fissarlo e sicuramente stavano pensando la stessa cosa: cosa ci faceva Sherlock ancora in giro con un bambino in un momento delicato come quello?
Come succedeva tutte le volte in cui era sotto pressione, a Sherlock venne in mente un’idea per cercare di salvare la pelle a tutti. Cercò di tranquillizzare il piccolo e avvicinandosi a Lestrade glielo porse.
«Sherlock, ma che diavolo stai facendo?» chiese questi sconcertato.
«Tieni William. Fidati.» disse Sherlock con ancora il piccolo in mano.
Lestrade sospettoso mise la pistola all’interno della sua custodia e prese William in braccio senza mai staccare gli occhi dalla signorina Green la quale guardava la scena basita.
Sherlock, quindi, si allontanò dall’ispettore e iniziò a camminare in direzione della donna.
«Cosa stai facendo?» chiese questa a Sherlock.
«Stia tranquilla, non faccio parte della polizia» disse Sherlock «Ma a loro piacerebbe eccome.» disse facendo un cenno con la testa a Lestrade.
«E allora chi sei? Cosa ci fai qui con loro?»
«Sono quello che ti ha scoperta, signorina Green. O forse dovrei dire, signorina Turner
La donna guardò Sherlock con tanto d’occhi. Il consulente investigativo fece un sorriso. Gotcha (1).
«Cosa – » boccheggiò la donna.
«Ammetto con enorme rammarico, che mi ci è voluto un po’ prima di capirlo. C’erano parecchie cose che non mi tornavano, quindi adesso vorrei sapere la sua versione.»
La donna continuò a fissare il consulente investigativo, senza riuscire ad emettere nessun suono. Il suo sguardo vagava dall’uomo che aveva davanti, all’ispettore che teneva in braccio un bambino e i due poliziotti che tenevano ancora puntate le loro pistole contro la sospettata.
Sherlock si accorse di quegli sguardi e si girò «Voi due, potete abbassare le pistole ora.»
Gli interpellati guardarono Sherlock ma non fecero come gli era stato detto.
«Fate come dice.» decretò l’ispettore Lestrade «Sherlock, spero che tu sappia quello che stai facendo»
«Non si preoccupi, ispettore» disse dando le spalle ai tre uomini della polizia «Adesso, signorina Turner, dall’altra parte hanno ritirato le armi, ora tocca a lei. Mi dia quel coltello.»
La donna rimase ancora con quell’arma puntata contro il petto, non avendo la minima intenzione di lasciarla andare.
«Non lo faccia. Pensi a suo figlio.» disse Sherlock. Sapeva che toccare la famiglia era un punto sensibile per molte persone, tanto da diventare così vulnerabili.
La signorina Turner guardò suo figlio all’interno del passeggino che per tutto quel tempo non aveva fiatato. Quindi, con la mano che le tremava, allungò il coltello verso Sherlock il quale mettendosi i suoi guanti di pelle (per non lasciare impronte sopra) lo prese e allungando il braccio invitò uno degli uomini presenti a prenderlo.
«Non volevo che tutto questo accadesse.» disse la donna dopo che uno dei due poliziotti prese il coltello dalle mani di Sherlock «Non avevo altra scelta.»
Sherlock rimase in silenzio. Voleva ascoltare quella storia per vedere se combaciava con le sue deduzioni fatte fino a quel momento.
«Io e Wilson abbiamo avuto una storia tanto tempo fa» iniziò a raccontare la donna a Sherlock «Eravamo felici sa, avevamo comprato una casa, certo, non era la casa dei nostri sogni ma – »
«Ci risparmi i particolari.» la interruppe Sherlock «Passi direttamente alle cose più importanti»
«Fatto sta che la nostra relazione stava andando in frantumi.» ricominciò la signorina Turner acquistando un po’ di tono nella voce «Wilson aveva cominciato a prendere una brutta strada: iniziò con il gioco d’azzardo, le scommesse, a bere e io non sapevo cosa fare. Provai a parlargli, a farlo ragionare, ma niente. E come se non bastasse, iniziò a picchiarmi.»
Sherlock e gli uomini presenti ascoltarono senza emettere alcun suono.
«Quando scoprii di essere incinta mi cadde il mondo addosso.» disse la Turner «Come potevo crescere un figlio in quelle condizioni? Non avrei mai permesso che accadesse una cosa simile. Così, una sera decisi di andarmene – Wilson era fuori come suo solito – presi tutti i risparmi che ci erano rimasti e scappai.»
«La mia fuga durò un anno. All’inizio mi rifugiai da vecchi amici, ma sapevo che erano i primi posti in cui Wilson mi avrebbe cercata. Quindi, iniziai a spostarmi da una parte all’altra di Londra credendo che i miei continui spostamenti avrebbero messo Wilson in confusione il quale ero certa mi stava cercando. Intanto mio figlio George era nato e ce la stavamo cavando bene, finchè … »
«Finchè non ha trovato lavoro dal signor Drebber.» completò la frase Sherlock «Le si è presentata un’occasione unica, aveva un posto sicuro per lei e suo figlio, non doveva far altro che fare un po’ di pulizie, ma questo era niente in confronto a tutto ciò che aveva subito. Bastava procurare a un vecchio signore un curriculum con un cognome falso, in modo che nessuno potesse risalire alla sua vera identità. Dico bene?»
La Turner annuì «Esatto.»
«Quindi quando pochi giorni fa si ritrovò faccia a faccia con il suo ex fidanzato, non ha visto altra via d’uscita e l’ha ucciso.»
«No! Non è andata così!» esclamò la donna. Lestrade e i poliziotti sobbalzarono.
«Beh, signorina Turner, c’è un corpo all’obitorio che non la pensa proprio così.» disse Sherlock.
«Intendevo dire … non l’ho ucciso subito. Abbiamo parlato, prima» disse Alicia Turner «Sembrava fosse cambiato ma la verità è che voleva portarmi via mio figlio, in modo che non avessi più una ragione per vivere!»
Alicia Turner iniziò a tremare convulsamente e accasciarsi accanto al corpo del figlio che aveva assistito a tutta la scena a occhi spalancati.
«Decisi quindi, di licenziarmi dall’attività, ma sapevo che non sarebbe servito a nulla. Wilson non avrebbe mai smesso di cercarmi e Dio solo sa se non mi avrebbe uccisa prima lui.» disse la donna «Così, dopo l’ennesimo litigio decisi di porre fine a tutta quella storia e l’ho ucciso. Ho dovuto farlo! Non avevo altra scelta!» esclamò Alicia piangendo disperatamente abbracciando il figlio.
Sherlock la guardò dall’alto in basso «Sa cosa le dico signorina Turner? Lei non ha ucciso Wilson per suo figlio. L’ha fatto per se stessa.»
«Sherlock, no – » Lestrade si avvicinò al consulente investigativo per cercare di calmarlo.
Questi lo bloccò con un gesto secco della mano.
«Avrebbe potuto chiedere aiuto a chiunque, invece ha deciso di farsi giustizia da sola. Adesso suo figlio verrà affidato ad un centro sociale. Lo sa questo?»
La donna lo guardò con gli occhi pieni di lacrime.
«Quindi mi sembra che il suo comportamento abbia solo peggiorato le cose.»
«Sherlock, adesso basta» disse Lestrade – William lo aveva affidato ai due poliziotti - «La signorina Turner ha confessato, non c’è bisogno di tutto questo.»
«Quello è suo figlio, no? – chiese indicando William – Lei cosa avrebbe fatto?» esclamò la donna a Sherlock cercando di tener ferma la voce.
Sherlock restò un attimo in silenzio. Cosa avrebbe fatto se William si fosse trovato in pericolo? La risposta la sapeva già, c’era già passato anni fa per proteggere John dalla furia di Moriarty. Lui si sarebbe sacrificato. Ancora, ancora e ancora. L’avrebbe fatto sempre per le persone che amava.
Lestrade, a quel punto, decise di porre fine a quella conversazione, con delicatezza aiutò la signorina Alicia Turner a tirarsi su e voltarla.
«Signorina Turner lei è in arresto per omicidio. Ha il diritto di rimanere in silenzio … »
Così mentre Lestrade dettava alla donna la formula, ammanettandola, Sherlock volse lo sguardo al figlio della donna, aveva iniziato a piangere,  forse aveva capito che non avrebbe visto sua madre da lì a un bel po’ d’anni. Sherlock si voltò verso Lestrade che stava conducendo la signorina Turner verso l’auto. «Ispettore aspetti!»
Entrambi si girarono e Sherlock si avvicinò.
«Le tolga un attimo le manette» disse il consulente investigativo a Lestrade.
Questi era confuso «Come scusa?»
Sherlock lo fulminò con lo sguardo e l’ispettore non poté far altro che accontentarlo.
«Questo appartiene a lei.» disse Sherlock rivolto alla donna.
La Turner allungò il braccio per prendere ciò che Sherlock le stava porgendo. L’uomo le circondò il polso destro con le mani, lasciandole attaccato un braccialetto d’oro. Mentre compiva quel gesto, il consulente investigativo si rese conto di una ferita abbastanza profonda alla mano, come sospettava, la donna durante il litigio con l’ex fidanzato si era tagliata, lasciando macchie di sangue sul cornicione della finestra sul luogo del delitto.
Alla vista di quell’oggetto Alicia Turner iniziò a piangere.
«Sherlock ma quello è – » disse Lestrade osservando il braccialetto. Era una prova e soprattutto come aveva fatto a prenderla? Lestrade stesso l’aveva portata in centrale! Ma con Sherlock Holmes era meglio non farsi troppe domande. Quindi, fece finta che tutto quello che stesse capitando fosse perfettamente normale.
«Chiuda un occhio, ispettore» disse Sherlock «Dopotutto è tutto ciò che le ricorderà suo figlio nei prossimi anni in cui non potrà vederlo»
Lestrade annuì poco convinto e rimise le manette alla donna, facendola sedere sul sedile posteriore dell’auto della polizia, poi chiamò i due agenti – che nel frattempo si erano occupati del figlio della Turner - e ordinò loro di portare entrambi in centrale. Lui avrebbe chiarito un po’ di cose sulla faccenda assieme a Sherlock.
Quest’ultimo andò da William e dopo avergli scompigliato un po’ i capelli, gli diede un bacio sulla fronte. Lestrade era colpito da quel gesto di tenerezza da parte della persona più anti-sentimentale del pianeta.
«Chi l’avrebbe detto, Sherlock Holmes è capace di atti di affetto!» esclamò Lestrade con un sorriso.
Sherlock si voltò verso l’ispettore «Tu non hai visto niente.»
«Oh, stai tranquillo, il tuo segreto è al sicuro con me.» ribattè Lestrade incamminandosi insieme all’amico con in braccio il nipote, fuori da quel quartiere, verso il centro città.
«Allora?» chiese dopo vari minuti di silenzio l’ispettore.
Avevano deciso di prendere un taxi, l’aria fuori si era fatta gelata e Sherlock non voleva che William prendesse il raffreddore. Si stavano dirigendo verso Baker Street, in mezzo al traffico londinese.
«A quanto mi risulta non sono ancora dotato di telepatia.» disse Sherlock impassibile «”Allora”, cosa?»
«Come hai fatto a capire …  insomma, tutto quanto?» chiese Lestrade.
«Vari elementi dalla scena del delitto, il curriculum che mi avevi mostrato, il braccialetto con l’incisione del nome del figlio della Turner e poi … ho avuto un po’ d’aiuto»
«Aiuto di che tipo?» chiese curioso Lestrade.
«Ispettore, non posso mica rivelarle i miei metodi» disse Sherlock scendendo dal taxi, fermatosi davanti a Baker Street. «A quel punto non avreste più bisogno di me!»
 
 
*
 
Il taxi aveva scaricato Sherlock davanti alla porta di casa sua ma quest’ultimo non aveva nessuna intenzione di entrare. Tra una cosa e l’altra si era fatta ora di cena e con la signora Hudson ancora in ospedale – ovvero: non c’era nessuno a cui Sherlock potesse chiedere di preparargli da mangiare e di sicuro lui non si metteva a cucinare – e William che avvertiva i morsi della fame – Sherlock decise che non era il caso che il piccolo continuasse a mangiare biscotti – , il consulente investigativo era già sulla via che lo portava verso il ristorante di Angelo.
Sherlock non doveva aspettarsi nessuna accoglienza e nessun cameriere a indicargli il tavolo, perché Sherlock aveva già il suo tavolo vicino alla grande vetrata.
Quindi, prese posto con William e aspettò che Angelo si facesse vivo. Come se gli avesse letto nel pensiero, il ristoratore uscì dalla porta della cucina diretto verso il suo miglior cliente.
Alla vista di Sherlock gli occhi gli s’illuminarono e accelerò il passo.
«Sherlock!» disse allungando una mano stringendo quella del cliente «E’ davvero un grandissimo piacere vederti! E’  da molto tempo che non mettevi piede nel mio locale.»
«Buonasera Angelo. Sì, sono stato impegnato, in quest’ultimo periodo.»
Angelo ammiccò in direzione di William «Oh sì, vedo …  vedo.» disse prima di afferrare un seggiolone posto all’entrata e posizionarlo accanto al tavolo. Sherlock mise il piccolo dentro.
«E dimmi un po’ » continuò Angelo «John che fine ha fatto?»
Sherlock chiuse un attimo gli occhi. Evidente l’uomo non sapeva del matrimonio del suo migliore amico e lui giustamente, pensava che Sherlock e John ci fosse “ancora” del tenero.
«In questo momento è fuori Londra.» rispose semplicemente Sherlock.
«Capisco» disse Angelo battendo le mani «Per stasera specialità della casa e un qualcosa di caldo anche per questo bel bambino» disse rivolto a William prima di dargli un buffetto sulla guancia e defilandosi in cucina.
William lo seguì con lo sguardo un po’ confuso.
«Lascialo perdere» disse Sherlock nella sua direzione «Angelo è fatto così.»
Sherlock in quei minuti di attesa, non poté fare a meno di pensare al caso appena conclusosi.
Quella volta era stata tutta questione d’istinto, non si era basato sui fatti, ma sulle emozioni che lui stesso provava. Quei pochi giorni con William avevano fatto capire a Sherlock che le persone erano disposte ad atti estremi pur di proteggere le persone amate. William aveva fatto sbloccare qualcosa all’interno del consulente investigativo, era riuscito, involontariamente, a portare alla risoluzione del caso. E parte del contributo doveva essere dato anche a Mycroft che lo aveva aiutato inconsapevolmente. Tutta quella questione del cognome aveva fatto sì che Sherlock capisse la verità sulla donna. Il consulente investigativo decise che avrebbe dovuto scusarsi con il fratello per il suo comportamento sgarbato di quel pomeriggio.
Sherlock, annoiato dall’attesa, decise di ammazzare il tempo scrivendo un messaggio a John.
 
Angelo crede che William sia mio figlio. SH
Inviato 7.26 p.m.
 
La risposta arrivò poco dopo.
 
Che diavolo … ?! Ma se non ti assomiglia neanche! JW
Ricevuto 7.28 p.m.
 
Sherlock roteò gli occhi. Idiota.
 
Scusa, ho sbagliato a formulare la frase. Angelo crede che William sia nostro figlio. SH
Inviato 7.29 p.m.
 
La risposta questa volta arrivò dopo cinque minuti. Di solito John non ci metteva così tanto a rispondere.
 
Ah. JW
Ricevuto 7.34 p.m.
 
Ovviamente, avrà pensato che sia stato tu a donare lo sperma. SH
Inviato 7.35 p.m.
 
Ah. JW
Ricevuto 7.36 p.m.
 
Possibile che John si scandalizzasse per ogni minima cosa? Sherlock trovava il suo comportamento alquanto infantile. Dopotutto era una cosa normale da dire.
 
John, per favore. SH
Inviato 7.37 p.m.
 
Il telefono di Sherlock rimase in silenzio per un paio di minuti. Non arrivò più nessun messaggio. Non da parte di John almeno.
 
Mi piacerebbe molto incontrare questo Angelo! :D Mary.
Ricevuto 7.41 p.m.
 
Mary, stiamo parlando di tuo marito. Contieniti. SH
Inviato 7.42 p.m.
 
 
*
 
I due coniugi tornarono a Londra quella sera sul tardi, così decisero di recarsi subito a Baker Street per prendere William e tornare a casa. John aprì la porta della casa, anche se era quasi l’una di notte, era stranamente silenziosa. A quell’ora Sherlock doveva essere sveglio, suonare il violino o concentrato su uno dei suoi strampalati esperimenti, invece niente, la pace assoluta. John e Mary lasciarono le valigie sul pianerottolo e cercando di non fare rumore, salirono le scale ritrovandosi all’interno dell’appartamento di Sherlock, non credendo alla scena che gli si parò davanti agli occhi.
Sherlock steso sul divano con le braccia attorno al corpo di William, entrambi che dormivano profondamente. I due coniugi si scambiarono uno sguardo d’intesa, positivamente sorpresi dall’umanità di Sherlock in quel momento.
John, in quel momento si maledisse. Come aveva potuto pensare che Sherlock non sarebbe stato in grado di occuparsi di un bambino? Certo, con metodi non proprio “consueti” ma il dottore ammetteva che l’amico se l’era cavata egregiamente per quei pochi giorni.
Quest’ultimo, quindi, facendo il minimo rumore, si avvicinò ai due, cercando di togliere William dall’abbraccio del suo migliore amico.
«John, aspetta!» bisbigliò la moglie tirando fuori dalla borsa il suo cellulare puntandolo contro Sherlock «Con questa, puoi ricattarlo quando vuoi» disse prima di fare una foto.
«Ottima idea!» disse John ridendo, prima di prendere William e insieme a Mary, dirigersi verso casa. Sherlock rimase ancora profondamente addormentato.
 
*
 
Sherlock si svegliò di buon’ora quella mattina, accecato dal sole appena sorto che filtrava dalle finestre della sala. Evidentemente si era addormentato sul divano la sera prima. Il consulente investigativo si mise a sedere e ci vollero meno di due secondi per rendersi conto che qualcosa non andava. Dov’era William? Sherlock si fece prendere dal panico, cercò per tutta la casa, ma niente. Cos’era successo al piccolo mentre l’uomo dormiva? E dire che l’aveva tenuto stretto per tutto il tempo, si sarebbe svegliato se qualcuno l’avesse preso! Sherlock si maledisse: ecco perché non dormiva mai. Doveva essere vigile ventiquattro ore su ventiquattro.
Come una furia prese il cellulare sopra il tavolo, ma non fece in tempo a digitare niente perché lo schermo segnalava due messaggi ricevuti. Erano da parte di John, Sherlock aprì il primo e lo lesse.
 
Mary ed io siamo passati da Baker Street ieri sera e abbiamo preso William. Non abbiamo voluto svegliarti. JW
Ricevuto 01:12 a.m.
 
Comunque, grazie per tutto quello che hai fatto. Davvero. JW
Ricevuto 01:13 a.m.
 
William stava bene, meno male. Sherlock si concesse un sospiro di sollievo e si diede dello stupido: si era preoccupato per nulla.
 
La prossima volta che tu e Mary volete partire, non pensateci neanche ad affidare William alla signora Hudson. Per lui ci sarà sempre suo zio Sherlock. SH
Inviato 06:45 a.m.
 
 
 
*
 
 
 
 
Note dell’autrice: eccoci alla fine di questa mini-storia! Se siete arrivati fino a qui (dopo 10 pagine di Word) vi ringrazio davvero!
Spero che la storia vi sia piaciuta almeno un po’, come detto all’inizio, mi frullava un po’ in testa e ho voluto sperimentare pubblicandola. So che la spiegazione del caso e la risoluzione non sono l’eccellenza, ma fidatevi, è davvero molto difficile ricostruire una scena del crimine, capirne gli sviluppi e dargli una conclusione che non sia banale. Tutto ciò mentre Sherlock si occupa del nipote ed è proprio grazie a lui che comprende l’amore di una madre – o un qualsiasi parente – nei confronti di un bambino piccolo, sempre bisognoso di cure e attenzioni.
Comunque, nel complesso mi è piaciuto molto scrivere questo capitolo e le battute dei vari personaggi (personalmente sono una frana nel descrivere, preferisco di gran lunga i dialoghi!) e a questo proposito volevo omaggiare due grandissimi shipper di Sherlock e John. Sto parlando ovviamente di Mary e Angelo! E’ stato esilarante poter pensare alla possibile reazione del primo shipper Johnlock – stupita ma contenuta –, alla vista di Sherlock con un bambino in braccio!
Per quanto riguarda gli ultimi messaggi tra Sherlock e John mi è piaciuto riprendere la conversazione del precedente capitolo e osservare come il consulente investigativo abbia cambiato idea sul bambino. Se prima occuparsi di William veniva visto come un “dovere” lentamente si è trasformato in un piacere che sarebbe disposto a ripetere più e più volte.  
(1): Gotcha. Ovvero “Beccato/a”, traducibile anche con “Ti ho scoperto/a”. Mi piace davvero questa parola in inglese e ho voluto lasciarla tale.
Quindi, arrivati alla fine, non posso non ringraziare tutte quelle persone che hanno messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e tutte quelle persone che hanno letto la storia – che ha ricevuto molte visite –  e a questo proposito, non è che vi si paralizza la mano se accennate a scrivere un minimo di recensione, anche per farmi capire se la storia vi è piaciuta o semplicemente per dirmi che l’idea non vi entusiasma e che avrei dovuto cambiare /fare dell’altro XD
Ringrazio, inoltre, la gentilissima Judith Kylem Sparrow per la bella recensione! :)
Sperando ancora una volta, che questa storia vi abbia regalato almeno un piccolo sorriso, vi saluto!
Alla prossima!
Fede

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