La progenie del male

di schmiddt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Questioni di genetica ***
Capitolo 2: *** Ricatti ***
Capitolo 3: *** Strane alleanze e vani complotti ***



Capitolo 1
*** Questioni di genetica ***


La progenie del male

 

 

Capitolo I

Questioni di genetica

 

 

 

Frank Paciock tamburellò nervosamente le dita grassocce sul tavolo. Eminente personalità della Casa di Tassorosso, era un ragazzo alto e scoordinato, dai capelli scuri e poco curati.  L’andatura goffa  e le spalle cadenti gli erano valse tra i Grifondoro l’affettuoso appellativo di Quasimodo,  Gobbo di Notre Dame. Sebbene qualcun altro al suo posto avrebbe potuto ritenerlo offensivo, Frank aveva accolto quel nomignolo con una scrollata di spalle e una risata sincera. 

Andava sempre in giro ciondolando, con le braccia lunghe dritte sui fianchi ed un sorriso di scuse stampato in volto. Neanche dovesse farsi perdonare la sua statura ingombrante.

Nonostante questi piccoli difetti fisici nessuno si sarebbe mai sognato di dire che Frank fosse un brutto ragazzo. Era il capitano della squadra di Quidditch di Tassorosso, nonché portiere, e ciò gli aveva conferito una notevole popolarità tra le ragazze del suo anno. I muscoli, il temperamento mite e gli occhi perennemente animati da una spensierata vivacità lo rendevano un partito abbastanza appetibile.

Quegli stessi occhi, piccoli e neri, sempre così felici e allegri erano in quel momento fissi su un punto preciso della Sala Grande. Seccati. La reputazione da anima pia di Frank Paciock stava per essere messa a repentaglio.

«Credi che tua cugina la smetterà?» chiese scorbutico al ragazzo al suo fianco, a voce abbastanza alta perché tutti i Tassorosso nei paraggi e parte dei Grifondoro potessero udirlo. James alzò appena lo sguardo dalla colazione che stava voracemente consumando, a scrocco, al tavolo di una Casa a cui non apparteneva. Si sistemò gli occhiali rettangolari sul naso, per prendere tempo, e nascondere con il dorso della mano il suo breve sorriso sbilenco. Si era già accorto di ciò che stava accadendo al tavolo dei Grifondoro. E da una buona mezz’ora. Rose Weasley, parlottando concitatamente tra Fred e Lily , stava tenendo un altro dei suoi eterni sermoni. James avrebbe scommesso la sua Firebolt 2000 sull’argomento della discussione. E non perché fosse particolarmente intuitivo, ma era palese che Rose stesse parlando di Frank. Non si preoccupava certo di nascondere le sue occhiate curiose e sfacciate… o il dito indice, puntato dritto verso di loro.

 E il fatto che non stesse esattamente sussurrando avrebbe potuto essere un ulteriore elemento rivelatore.

James sbuffò forte, facendo volare frammenti di  uovo  un po’ dappertutto. Impossibile dire se si trattasse di un sospiro dispiaciuto o se stesse semplicemente cercando di reprimere una risatina. Frank non batté ciglio, abituato agli inaspettati piovaschi di cibo e agli inspiegabili attacchi di ilarità di cui James era spesso vittima.

Con una mano a sorreggergli il mento e l’altra occupata a spolverare senza troppa convinzione i brandelli di cibo dai pantaloni, aspettò una risposta degna di quel nome.

«Quale cugina? » chiese James dopo aver deglutito rumorosamente, con l’espressione più innocente del repertorio. Avrebbe cercato di negare l’evidenza. Quello era il suo motto: “negare, negare sempre anche di fronte all’evidenza”. Sarebbe morto piuttosto che venir meno ai suoi principi.

Peccato che Rose Weasley scelse quello stesso istante per alzarsi in piedi ed esclamare a voce altissima: «E’ inutile che zio Neville cerchi ancora di nasconderlo. Tutti sanno che Frank non è suo figlio »

Decine di teste si voltarono verso l’origine di quello schiamazzo mattutino. Frank assottigliò gli occhi e con tutto il contegno che riuscì a racimolare alitò dritto in faccia al suo migliore amico: «Dicevi?»

Frank sapeva che sarebbe accaduto, era nell’aria da un paio di giorni. Sentiva lo sguardo di Rose bruciare sulla nuca ogni volta che aveva la sventura di imbattersi in lei tra una lezione e l’altra. Si era accorto del modo in cui stritolava le posate a pranzo e a cena, mentre lo scrutava con cattiveria. Frank era certo, e a ragione, che Rose fantasticasse spesso sul suo omicidio.

«Shht! » Lily strattonò la cugina per il maglione sformato, nel tentativo di ammansirla. Il suo viso tondo assunse la stessa tonalità di rosso dei capelli. « Adesso basta, Rose! »   

Fred non ebbe la forza di dire nulla, limitandosi a scrollare la testa divertito. Gli erano proprio mancate le accese e sconclusionate sceneggiate che sua cugina riusciva a mettere in piedi. Incrociò le braccia al petto e assistette in silenzio alla scena.

Frank sembrava aver raggiunto il limite massimo di sopportazione. La collera riconoscibile in ogni singolo muscolo contratto del viso, nelle innaturali chiazze rosse di cui era ricoperto.

« E no, adesso ne ho abbastanza» sbraitò, e fece per alzarsi. James lo trattenne per un braccio, ma Frank non fece in tempo neanche a spostare la panca di qualche millimetro che Rose si era già allontanata. Indignata e a passo di marcia si era diretta verso l’uscita, incurante dei rimproveri di Lily e delle occhiate sconcertate e divertite della popolazione di Hogwarts. « So perfettamente di cosa sto parlando» aveva sibilato alla platea prima di imboccare il corridoio che l’avrebbe portata all’aula di Trasfigurazione. Lasciò la Sala Grande in un silenzio grave, carico di quesiti. Tutti si chiedevano quale paternità, questa volta, sarebbe stata attribuita al povero Frank Paciock.

Rose in quegli anni aveva infatti dimostrato di possedere una fantasia al di sopra della norma. Durante il suo secondo anno aveva messo in giro la voce che Frank fosse frutto di una notte di passione tra Sibilla Cooman e il Platano Picchiatore. Alla fine dello stesso anno Frank era diventato il figlio di Voldemort, concepito e partorito in una sola notte dal suo serpente di fiducia, Nagini. Rose aveva pubblicamente compatito il povero rettile, per la sofferenza che doveva aver provato nel far schizzare fuori quel testone vuoto che Paciock aveva l’abitudine di portarsi in giro. Quest’ultimo pettegolezzo aveva riscosso tanto successo da fare il giro del castello in meno di ventisette minuti. Poi era giunto alle orecchie parzialmente sorde della McGrannit e Rose era finita dritta in punizione. La strillettera che ricevette il giorno successivo divenne leggenda, scolpita a caratteri cubitali nella mente e nel cuore di ogni studente, data la violenza e l’eloquenza di cui Hermione Granger aveva dato prova.  Rose non parlò di Frank né si rivolse a lui per centoventisette giorni, poi tornò comodamente a fare ciò che era stata costretta ad interrompere per un infelice imprevisto.

Tutta la Casa di Grifondoro aveva scommesso sul trionfante ritorno di speculazioni e congetture, made in Weasley,  su Frank Quasimodo Paciock. Impossibile non accorgersi del modo in cui le labbra di Rose vibravano, animate di vita propria, non appena lo scorgeva ciondolare dal fondo del corridoio. Quasi come tentassero con tutte le forze di trattenere lo straripare di tutte quelle supposizioni che sembravano invece brillare a chiare lettere sulla sua fronte,  condite neanche a dirlo da malcelati insulti.

In molti si erano domandati il motivo di cotanto accanimento nei confronti dell’affabile Frank, ma pochi, pochissimi ne erano a conoscenza. James Potter era uno di questi.

«Probabilmente avresti dovuto evitare di pestarle il piede quella volta, al secondo anno»

Frank sospirò. E la sua collera si sgonfiò come un palloncino bucato lasciando il posto alla semplice rassegnazione.

 

 

Dal versante Serpeverde Albus aveva a malapena distolto lo sguardo dalla sua impegnativa attività, e solo per assicurarsi che nessuno morisse nell’immediato futuro, poi si era rituffato subito nel lavoro. Conosceva troppo bene Rose Weasley per stupirsi del suo comportamento sconveniente e aveva fin troppo amor proprio per dare spettacolo come stava facendo Lily, stupida e starnazzante gallina.

 Infine, non avrebbe mai potuto togliere tempo a quella che era diventata la sua attività principale dopo respirare e nutrirsi: sferruzzare cappellini di lana. La spilla del C.R.E.P.A., appuntata proprio sotto la quella da Prefetto, luccicava tanto era stata lucidata. In quanto Presidente e Tesoriere dell’associazione che aveva riportato alla vita con successo, aveva ritenuto necessario realizzare, esclusivamente per uso personale, una spilla più grande con il suo volto sopra. Hugo, in qualità di Vice Presidente e secondo ( e ultimo) membro del C.R.E.P.A, ne sfoggiava una identica, ma piccola quanto un tappo di bottiglia.

Una voce trasognata lo distolse nuovamente dalla perfezione del suo cappellino.

«Cos’è? Una coperta? » Scorpius Malfoy, seduto all’altro capo del tavolo si era piegato in avanti per osservare da vicino il David dei cappelli di lana. La testa inclinata da un lato e il sopracciglio sollevato, sembrava non cogliere il profondo significato della sua opera. Malfoy aveva il colorito pallido di chi è in procinto di morire e la lieve sfumatura bluastra sotto gli occhi gli conferiva l’aria di una mozzarella scaduta. La lunga frangia bionda arrivava ad accarezzare il naso e celava in parte gli occhi chiarissimi,  tanto che era difficile dire quanto ci vedesse. Dall’alto del suo metro e novanta squadrava il cappellino tra le mani di Albus come se fosse la cosa più stramba che avesse mai visto. «Una cravatta per gatti?» Albus strinse le labbra in un moto di irritazione e si strinse al petto il groviglio di lana neanche fosse suo figlio. Come a volerlo proteggere dalla scelleratezza e l’ignoranza dell’individuo Malfoy. «Capirai se ti dico che non ho tempo da perdere in fanfaluche»

L’acuta risatina che seguì la sua asserzione portò Albus a vagliare la possibilità che l’individuo Malfoy doveva essere stupido quanto un gambo di sedano. E guardandolo bene avrebbe potuto benissimo dubitare delle sue nobili origini da Purosangue. Scorpius aveva in comune con un ortaggio più di quanto potesse mai avere con un membro a caso della lunga stirpe Malfoy.  Albus non era ancora riuscito a comprendere il motivo che aveva spinto il Cappello Parlante  a smistare l’individuo Malfoy a Serpeverde. Non che passasse tutti i giorni ad arrovellarsi sulle stravaganze del vecchio Cappello, soprattutto se si trattava di quello strambo figlio di Dracus(1), ma era certo di non essere stato l’unico a domandarselo.

Fatta eccezione per l’aspetto fisico Scorpius aveva  ereditato pochissimo dai modi burberi e duri del padre, dalla meschinità propria della famiglia Malfoy. Sempre con la testa tra le nuvole, ridacchiava in ogni occasione e senza alcun motivo, perfino  nei momenti meno opportuni. Lezioni comprese.

 Dopo cinque lunghissimi anni di carriera scolastica, la McGrannit si era ormai abituata ad averlo in Presidenza tre giorni su sette. Dato il grado di confidenza che doveva comportare quell’assidua frequentazione, Albus era convinto che a breve sarebbero passati a darsi del tu. Rabbrividì di disgusto solo a pensarci.

Se Scorpius non fosse stato la copia spiccicata di suo padre, Albus avrebbe avuto motivo di incoraggiare Rose ad indagare sulla sua di paternità, piuttosto che su quella del povero Frank. E a quel punto avrebbe ritenuto legittimo interrogarsi sulle modalità di riproduzione dei sedani. Albus si compiacque del suo taciuto senso dell’ umorismo e tornò senza troppi scrupoli alla sua occupazione, lasciando l’individuo Malfoy a sghignazzare rumorosamente per qualcosa per cui non sarebbe valsa la pena indagare.

«Potter, sei proprio uno spasso »

 

 

 

Se in quel momento un Troll di montagna avesse incrociato il suo cammino, Rose Weasley lo avrebbe sicuramente ridotto in poltiglia nel giro di pochi minuti.

Era furibonda. Non riusciva a capacitarsi del fatto che tutti i suoi tentativi di avvelenare l’esistenza di Frank Paciock si fossero rivelati vani. Lo odiava con tutta se stessa ed aveva tutti i motivi per farlo. Motivi che adesso le sfuggivano, ma che esistevano.

Una volta aveva addirittura avuto l’ardire di pestarle il piede. Una delle innumerevoli prove della spietatezza di quell’oscuro figuro. Quasimodo, così si faceva chiamare seminando panico e terrore tra i primini. Quegli stolti, però, non riuscivano a cogliere l’oscurità del suo animo corrotto e lo idolatravano neanche fosse un dio.

Poteva intortare tutti i suoi cugini e tutti i primini del mondo con i suoi modi da uomo onesto, ma non avrebbe infinocchiato lei.

 Anzi, avrebbe imparato presto che con Rose Weasley non si scherza.

Rose continuò imperterrita la sua marcia, conscia di aver superato di un paio di metri l’aula verso cui era diretta. Se si fosse fermata era certa che non avrebbe resistito all’impulso di schiantare qualcuno, così continuò dritta per la sua strada.

Non aveva alcun motivo per essere arrabbiata e Frank era solo il suo capro espiatorio, qualcuno con cui prendersela, qualcuno che non avrebbe avuto il coraggio di reagire alle sue angherie. Di questo, però, la giovane Grifondoro non sembrava essere consapevole.

 Avrebbe continuato con la sua vendetta, questa era l’unica cosa di cui sembrava essere sicura al momento.

La chioma vaporosa svolazzava ritmicamente sulle sue spalle con la stessa violenza dello sbatacchiare della borsa contro i fianchi. I capelli rossi, gli occhi azzurri e le innumerevoli lentiggini sulle guance tonde costituivano l’eredità della famiglia Weasley. Da Hermione Granger aveva ereditato tutto il resto: i lineamenti delicati, i denti grandi e la zazzera riccia e crespa. Rose era inoltre una ragazza in carne, bassina ma ben piazzata.

Suo zio George diceva sempre che avrebbe potuto, con molta facilità, trovare impiego tra i domatori di draghi. E non era una possibilità da escludere se Rose non avesse avuto in mente di fare l’Auror sin dal suo primo giorno sulla Terra.

Poca teoria e tutto istinto. Si illudeva che quest’ultimo sopperisse alla totale mancanza di voglia di studiare. Suo zio Harry non sembrava essere una cima, eppure aveva sconfitto il Mago Oscuro più grande di tutti i tempi. Questa convinzione costituiva ciò che alimentava più di tutto il suo sogno.

Probabilmente Rose aveva trascurato il fatto che per diventare Auror bisognasse prima passare il G.U.F.O di Pozioni. E fu per questa sua dimenticanza che non si presentò a lezione, continuando spedita la sua passeggiata.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTORE

(1) Albus è convinto che il padre di Scorpius si chiami Dracus. Non essendo ancora arrivato a studiare "Storia contemporanea", tutto ciò che sa sulla famiglia Malfoy deriva dagli improperi di suo zio Ron e da frammenti di conversazioni ascoltate da bambino.

Volti.

Albus Potter: Logan Lerman

Rose Weasley: Emma Watson

Scorpius Malfoy: Mitch Hewer

Frank Paciock: Cory Monteith

James Potter: Aaron Johnson

Lily Potter: Liliana Mumy

Fred Weasley: Luke Pasqualino

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Capitolo 2
*** Ricatti ***


LA PROGENIE DEL MALE


Ringrazio di cuore Flaqui, JarOfHearts_, Marty Evans, e Potterina1993 per aver aggiunto la storia tra le preferite e le seguite.

 

 

 

 

Capitolo II

 Ricatti

 

 

 

 

La lezione  di Cura delle Creature Magiche di quel giovedì pomeriggio si protrasse per più di due ore oltre l’orario stabilito. La fitta coltre di nuvole, che impediva ai deboli raggi solari di riscaldare l’ambiente, e la sottile lastra di ghiaccio di cui era rivestito il terreno, non rendevano di certo le cose facili agli sventurati studenti di Grifondoro e Serpeverde. Rose Weasley era stramazzata a terra già un paio di volte, maledicendo il mese di Novembre e l’intera stirpe del tale che aveva avuto la brillante idea di inserire Cura delle Creature Magiche tra le materie scolastiche.

Indifferenti alla secolare rivalità tra le loro Case, gli studenti del quinto anno si alternavano, collaborativi, nel lanciare occhiate di puro odio alla professoressa Hopkirk. Quest’ultima, strizzata dentro una pelliccia di Graphorn, stava bacchettando Lysander Scamandro per la immotivate prepotenze compiute ai danni di Scorpius Malfoy.  « Non un’altra parola, signor Scamandro. E se sento in giro un’altra maldicenza sulle capacità…»  si interruppe cercando  imbarazzata di trovare la parola adatta, la mano ossuta  strinse con forza i lembi della pelliccia. «…amatorie del signor Malfoy, stia certo che ne risponderà a me! »   Terminò la sua arringa col naso per aria e un’espressione superba impressa sul viso piccolo e affilato. Facendo mulinare la lunga gonna, si girò verso le creature che avrebbero dovuto esaminare in quelle ore. Tre puledri dorati  si spintonavano tra di loro, contendendosi giocosamente le carezze  e le attenzioni di Scorpius Malfoy. Quest’ultimo sghignazzava esaltato, insensibile ai fantasiosi insulti che Lysander gli aveva rivolto fino ad allora. L’antipatia che il compagno di Casa nutriva per lui era palese a tutti, ma non a Scorpius. Spesso vittima degli scherzi di Lysander, Scorpius non solo non reagiva, ma sorrideva anche, divertito da tante attenzioni. Davanti a tale brio Lysander perdeva ogni controllo e se non fossero stati presenti innumerevoli testimoni ai loro screzi, Scorpius sarebbe stato già bello che morto.

Lysander, che si era finto contrito davanti al rimprovero della professoressa, non poté impedire che un sorrisetto impertinente spuntasse sul suo volto non appena lei si girò.

«Malfoy, sei proprio una checca» sillabò piano, abbastanza perché la Hopkirk non lo sentisse. Attorno a lui esplose un boato di risa, ma Scorpius lo ignorò come era solito fare con qualsiasi organismo non appartenesse alla specie animale. E sorrise. Lo stesso sorriso sereno che riservava alle cattiverie di Scamandro. Continuò ad accarezzare il manto lucido del puledro dal corno più piccolo, l’unico che aveva rifiutato le carezze delle ragazze. Era risaputo che gli unicorni soffrissero poco la vicinanza agli esseri umani di sesso maschile, eppure Scorpius costituiva un’eccezione. La sua passione per le creature magiche doveva essere lampante anche agli occhi degli unicorni. Le ragazze, accalcate a pochi metri dagli animali, simulavano entusiasmo ed eccitazione. Non volendo dare motivo alla professoressa di prolungare ulteriormente la lezione, a turno si avvicinavano velocemente per accarezzarli.

Così come Scorpius, anche Rose costituiva un’eccezione. Gli unicorni erano corsi via non appena aveva manifestato l’intenzione di avvicinarsi. Per nulla dispiaciuta adesso osservava la scena da lontano, aspettando con impazienza che quello strazio finisse. Senza preoccuparsi della presenza dell’insegnante, si lasciava andare in rumorosi sbadigli e sussurrate parolacce destinate a Malfoy e alla sua dannata voglia di mettersi in mostra. Le cinque erano arrivate e passate e il suo stomaco iniziava a borbottare impaziente. Se non fosse stato anche per quell’idiota del gemello Scamandro non avrebbero perso tempo in scempiaggini.

Rose non aveva ancora imparato a distinguere i due fratelli Scamandro. Nonostante non appartenessero alla stessa Casa e, di conseguenza, non indossassero gli stessi colori per lei non era necessario contraddistinguerli. Sin dall’infanzia rappresentavano un’identità unica: “gemello Scamandro”.

Lily le aveva confessato che gemello Scamandro aveva una cotta stratosferica per lei, Rose Weasley, e che aveva compiuto carneficine di spasimanti, possibili rivali, tra i ragazzi del loro anno. Le aveva descritto numerosi episodi di cui a Rose non importava un fico. 

Non poteva perdersi in stupide svenevolezze. La missione che avrebbe dovuto portare a termine richiedeva tempo, concentrazione e una buona dose di malvagità. Tutte caratteristiche che era sicura di possedere, ma che si stavano rivelando insufficienti.

Avrebbe trovato una spalla, qualcuno che l’avrebbe sostenuta nel suo folle e piano, e mentre vagliava con lo sguardo la calca attorno agli unicorni individuò la sua preda.

Un brivido gelido scese giù lungo la schiena di Albus Potter.

Si guardò attorno con sospetto interrompendo a metà il commento poco carino sugli articoli della Gazzetta.

«Trascurano i veri problemi della società moderna… » continuò a blaterare esagitato, tornando a rivolgere la sua attenzione al povero Pucey. L’attimo di smarrimento non aveva avuto il potere di zittirlo. E Pucey sospirò esasperato.

Albus vantava pochissime amicizie, tra i Serpeverde. Una di queste, e l’unica, era quella che lo legava ad Helbert Pucey. Apparteneva ad una famiglia Purosangue che aveva appoggiato non troppo sfacciatamente l’ascesa di Lord Voldemort, ma che aveva espiato le proprie colpe fornendo informazioni utili agli Auror, dopo la Guerra.

Helbert era un ragazzo sfigato, pallido e scheletrico, con un paio di occhiali da vista sempre sporchi e molto più grandi della sua faccia. Nessuno sulla Terra poteva dire di averlo mai visto privo del suo cappellino di lana, macchiato ormai in più punti.

Una leggenda narrava che aveva in origine una tinta verde brillante, adesso aveva il colore del fango. «Certo, gli elfi e gli gnomi… » borbottò senza convinzione, strofinando stancamente  l’occhio sotto le spesse lenti.

 Albus quasi saltò per l’emozione. «Proprio quello che intendevo, Helb. Sai leggermi nel pensiero» disse aprendosi in un sorriso che andava da un orecchio all’altro. «Non capisco perché non vuoi unirti al C.R.E.P.A. Avremmo bisogno di gente come te. Certo, mio cugino Hugo è piuttosto in gamba se consideri il fatto che…» Pucey lo guardò terrorizzato, ma il compagno era troppo occupato a farneticare per accorgersene. «Senti, Al» lo interruppe bruscamente. «C’è una questione … Lysander ha bisogno di me per una faccenda… Ci vediamo dopo, ti va?» si congedò brevemente e senza dargli troppe spiegazioni.

Albus annuì comprensivo. «Guarda che ci conto!» rise.

Pucey rispose con una risatina forzata e un cenno della mano, poi si diresse alla velocità della luce verso il suo boss, Lysander, e il vice-boss, Nott.

Al li osservò da lontano, quasi invidioso del loro affiatamento. Se avesse conosciuto bene la natura del loro rapporto non avrebbe provato invidia per nulla. Lysander era il despota, un tiranno che stabiliva cosa andava fatto e cosa era vietato fare, chi picchiare e cosa pensare. Nott era la sua spalla destra: un ragazzo di poche parole, intelligente e Suprema Mente del trio. Neanche Lysander, con cui aveva stretto amicizia sin dal primo anno, poteva dire di conoscerlo bene. Silenzioso e riservato, Nott parlava poco. E nonostante fossero passati già quasi sei anni dall’inizio della sua permanenza ad Hogwarts, nessuno sapeva il suo nome di battesimo. E nessuno aveva osato chiederglielo.

Helbert Pucey era un devoto praticante. Idolatrava quei due neanche fossero i suoi genitori e scodinzolava dall’uno all’altro, cercando di assecondarli in tutto e per tutto.

Albus, ammirando l’aura di rispetto di cui erano sembravano essere circondati, riuscì a captare parte di ciò di cui stavano confabulando.

«…faremo fuori Malfoy» stava dicendo Lysander.

 

 

 

 

I lunedì mattina non sono mai stati celebri per essere amati dagli studenti, maghi e babbani. Dopo una domenica lunga e rilassante, infatti, tornare alle lezioni non può considerarsi la massima ambizione di ogni ragazzo. I lunedì di quell’anno scolastico e di quella particolare classe di studenti, però, si sarebbero rivelati diversi da quelli di tutti gli altri e ben peggiori. Quel fatidico giorno della settimana era stato ribattezzato “lunedì delle quattro P”: Pozioni, Price, Potter, Pucey. La prospettiva di due ore consecutive di Pozioni con il professor Price, severissimo e implacabile, e che aveva l’abitudine di tartassarli con tonnellate di compiti e interminabili sfuriate dirette perlopiù a quell’ inetto di Pucey, non doveva apparire piacevole.

Il professor Price trascorreva le lezioni intervallando insulti non troppo velati alla capacità di apprendimento di Helbert ad indefinite e borbottate lusinghe nei confronti di Albus Potter (l’unico a godere di un vago accenno di simpatia),  impegnandosi con tutte le forze a farsi disprezzare dai propri alunni.  Quella mattina gli occhi piccoli e lattiginosi del docente scrutavano con sospetto i movimenti di Rose Weasley, e la seguirono fino a quando non si sedette con aria di sfida accanto al cugino, pronta a condividere il suo calderone. Mai in quindici anni di coesistenza si erano scambiati più di semplici convenevoli e qualche parola, per cui il sopracciglio sollevato di Albus era più che giustificato. Ogni tratto del suo volto manifestava diffidenza. E non solo perché non potevano ritenersi altro che conoscenti, ma perché Rose non aveva fatto altro che tallonarlo per tutta la mattina. Aveva sentito il suo fiato sul collo sin da quando aveva finito di masticare l’ultimo biscotto della colazione.

Non proferì parola, mentre le faceva un po’ di spazio, ma l’espressione perplessa non abbandonò il suo volto. Così come non abbandonò quello del professore.

Con un movimento di bacchetta, e senza staccare gli occhi da Rose, incantò i gessetti perché scrivessero gli ingredienti della pozione che avrebbero dovuto preparare.

Non appena lesse i nomi delle prime due sostanze, Albus seppe già quale sarebbe stata la pozione da realizzare e non ne fu preoccupato: aveva già preparato la Bevanda della Pace. Con un incantesimo non verbale accese una piccola fiamma al di sotto del calderone e si servì dell’Aguamenti per riempirlo d’acqua.

«Bisogna ricavare l’essenza di ellaboro.» spiegò a Rose a voce alta e accompagnando le parole con gesti eloquenti, neanche stesse spiegando filosofia ad un infante con gravi disagi mentali.

«So cosa bisogna fare!» si lamentò indignata la cugina, meditando già di lasciargli tutto il lavoro per ripicca.

«Certo che lo sai » la assecondò Albus poco convinto. «E adesso vai all’armadio a prendere gli ingredienti» Sciò.

Rose si rimangiò gli insulti che avrebbe voluto riversargli addosso. Non voleva indispettirlo, si sarebbe piegata anche a questo se ciò avrebbe significato averlo al suo fianco nella sua battaglia personale. Si morse la lingua e obbedì.

Al suo ritorno Albus le strappò di mano l’ellaboro. «Troppo lenta» sbuffò con impazienza. «Facciamo che io preparo la pozione e tu stai lì cercando di causare meno danni possibili» le sibilò piano, consapevole della presenza opprimente del professore alle loro spalle.

Prince non si era mosso di un millimetro e si gustava la scena in attesa di un errore che giustificasse l’ennesimo rimprovero. Non avrebbe permesso ad Albus di fare tutto il lavoro, per cui Rose si mise a tritare il tiglio, ignorando per quanto possibile le occhiate omicide del Serpeverde. «Prince ci fissa» annunciò, cercando di non muovere le labbra per impedire al professore di leggergliele.

«Perché sono bello» dichiarò Albus con abbondante sarcasmo. Non che si aspettasse che lei ridesse, ma non si aspettava neanche quell’espressione grave, così insolita sul viso perennemente allegro di Rose.

«Senti, Al» iniziò, passando subito al dunque. Non aveva voglia di perdersi ancora in chiacchiere. «Ho un favore da chiederti». Massacrò con violenza gli ultimi rimasugli di tiglio, non osando guardarlo in faccia. Albus soffrì nell’assistere al brutale assassinio di quello sfortunato vegetale, la cui unica colpa era quella di essere necessario alla riuscita della pozione. Quell’angoscia lo distrasse dal discorso di Rose. «Eh?»

«So che non siamo proprio… amici… però avrei bisogno della tua perfidia e delle tue idee geniali» borbottò, inghiottendo il proprio orgoglio. «Sai, no? Per farla pagare a Frank e tutto il resto… Non siamo amici ma il legame di sangue è più forte, no?» sussurrò incerta azzardando un’occhiata nella sua direzione. La buffa smorfia che si dipinse sul viso di Albus, insofferenza mista a compassione, fu più eloquente di una vera e propria risposta.

Rose perse d’un tratto tutta la diplomazia che era riuscita a scovare nei profondi meandri del suo essere e si colorò di un rosso acceso.

«Me lo devi, Potter» soffiò come un gatto arrabbiato. Aveva provato con le buone, ma adesso era tempo di passare alle cattive. «O dirò a tutti della faccenda del C.R.E.P.A.»

Albus sussultò. La mano che stringeva la bacchetta, puntata contro il fuoco, ebbe un tremito involontario e la fiamma divampò. Non ebbero il tempo di reagire che il professore si era già avventato su di loro.

«WEASLEEEY!»

Quel piccolo incendio costò loro i timpani e decine di punti a Grifondoro. Entrambi adesso sostavano davanti alla Presidenza aspettando di essere ricevuti dalla McGrannit.

Albus era una furia, ma Rose se possibile lo era quanto e più di lui. Non era stata colpa sua, questa volta, eppure era stata l’unica a perdere punti.

Per tali motivi e per il precedente rifiuto, Rose non si sentì per nulla in colpa quando pose ad Albus le sue condizioni.

«Se non mi aiuterai dirò a tutti che non hai fondato tu il C.R.E.P.A. e che hai riciclato l’idea di mia madre! Fossi in te ci penserei»

Albus Potter non replicò.

 

 

 

NOTE DELL'AUTORE

Volti:

Lysander Scamandro - Bradley James

Lorcan Scamandro - Hunter Parrish

Nott - Ian Somerhalder

Helbert Pucey - Mike Bailey

Hugo Weasley - Nathan Coenen

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Capitolo 3
*** Strane alleanze e vani complotti ***


LA PROGENIE DEL MALE

 

 

Capitolo III

 

 

In primis vorrei ringraziare _Back_ e Bocca Dorata per aver recensito la storia. Grazie mille, ragazze!

Ringrazio anche Ginny W, Marty Evans, Potterina1994, roby90, yle, Flaqui e JarOfHearts per aver inserito la fanfiction tra le preferite seguite.

Vi lascio alla lettura!

 

 

 

Erano le sei del mattino e la Sala Grande era totalmente deserta, eccezione fatta per gli Elfi domestici che si affaccendavano attorno ai lunghi tavoli delle Case e per Albus Potter. Quest’ultimo sedeva stranamente al tavolo di Grifondoro sfoggiando una smorfia corrucciata, il piede che batteva ritmico sul pavimento preannunciava l’imminente perdita di pazienza. Aveva mandato un Gufo a Rose, alle cinque e mezzo, per dirle di incontrarsi clandestinamente in Sala Grande, un’ora prima dell’inizio delle colazione. E lei non solo non si era degnata di rispondergli, ma non si era neanche presentata all’appuntamento. Inammissibile. Si passò una mano tra i capelli scuri, tanto scarmigliati e ribelli che un gufo avrebbe potuto scambiare la sua testa per un nido e sospirò spossato. Gli occhi verdi e allungati erano in attesa, fissi sul portone d’ingresso della Sala Grande

Scostò la manica dell’uniforme e fece emergere il grosso orologio d’oro che un tempo era appartenuto a suo padre. Segnava le sei e sette, constatò, intuendo che i minuti di ritardo accumulati da Rose sarebbero aumentati. Il movimento repentino del braccio aveva spaventato i pochi elfi rimasti a rassettare, che lo occhieggiarono atterriti. Albus era consapevole di essere considerato da loro alla stregua di un Mangiamorte. Tutti gli elfi domestici cercavano di mantenersi alla larga da lui per evitare che li liberasse con l’inganno, donando loro quegli orrendi calzini che era solito portarsi in giro. L’anno prima aveva causato un pianto isterico di gruppo tra gli elfi che era riuscito a liberare. E anche tra quelli con cui non aveva avuto a che fare. La voce che un maniaco seriale si fosse messo a distribuire capi di vestiario si era diffusa in fretta nelle cucine del castello.

La McGrannit non era stata molto contenta e aveva consigliato cordialmente ad Albus di smettere. Pena: il sonno eterno.

Proprio quando si decise a rassegnarsi e ad abbandonare l’idea del colloquio clandestino, una Rose Weasley assonnata sbucò dalla porta della Sala Grande.

«Alla buon ora!» esclamò a gran voce non appena la vide arrivare, traballante e con la cucitura del cuscino stampata su una guancia. «Avevo quasi perso le speranze» aveva aggiunto con voce più bassa, conscio di aver fatto perdere almeno dieci anni di vita alle tremanti creature presenti in Sala. Gli elfi si diedero comunque alla fuga, dimentichi della magia elfica che avrebbe permesso loro di smaterializzarsi ovunque.

«Vedo che fai voler bene come al solito» commentò Rose riferendosi al fuggifuggi generale. Si trascinò con malagrazia sulla panca su cui era seduto il cugino, per poi gettarsi sul tavolo come un sacco di patate ed intrecciare le braccia sotto la testa. Albus credette per un attimo che avesse cominciato a dormire.

«Che dia’olo ‘uoi a quest’ora del mattino?» aveva bofonchiato invece con la voce attutita dalla stoffa del maglione. Il ragazzo si passò una mano tra i capelli neri, ribelli tanto quanto quelli del padre, prendendo  tempo prima di rispondere. «Ho intenzione di accettare la tua proposta, Weasley» sbuffò seccato non appena racimolò il coraggio necessario per sputar fuori il suo assenso. «Non che avessi altra scelta».

Rose Weasley riemerse dal groviglio di mani e braccia e gli occhi azzurri si illuminarono della familiare scintilla furba. «Sogno o son desta?» disse con una pomposità tale da fare invidia a zio Percy. «Sbaglio o il signor Potter ha appena accettato di essere mio schiavo?»

«Vacci piano, coccodè» la mise in guardia il suddetto signor Potter. «Accetto di collaborare, ma a patto che non debba fare niente di pericoloso, che non corra il rischio di finire in punizione ed ultima cosa ma non meno importante…» la tenne sulle spine per qualche secondo. «…se tenterai un’altra volta di sabotare le mie pozioni sappi che vorrò la tua testa impalata su una picca»

«D’accordo, schiavo»

 

 

 

 

 

 

 

 

Le settimane passarono in fretta, ma Rose ed Albus non cavarono un ragno dal buco. I primi giorni andarono sprecati in futili battibecchi. Litigarono su tutto ciò su cui era possibile litigare: su chi doveva essere il capo della missione, su chi fosse il nipote preferito di nonna Molly, su quale fosse la squadra di Quidditch migliore (Rose tifava per i Cannoni di Chudley e Albus per i Tornados). Nulla che avesse a che fare con Frank, il suo dubbio legame di sangue con Neville Paciock o il suo passato torbido. Esausti e spossati dalle furibonde liti, passarono gradualmente a collaborare in maniera quasi civile. Concordarono sul fatto che bisognasse arruolare qualche segugio da mandare in ricognizione di tanto in tanto e la scelta ricadde su Lily e Hugo. Se la prima non si sarebbe mai posta il problema di ficcanasare nella vita altrui, in quanto quello costituiva già uno dei suoi hobby, il secondo fu più difficile da convincere. In qualità di suo superiore all’interno del C.R.E.P.A Albus lo aveva persuaso a sostenerli, dietro la malcelata minaccia di un’imminente espulsione dall’associazione. E fu per quel motivo che un martedì mattina Hugo e Lily si ritrovarono a sgattaiolare fuori dalla Sala Comune di Grifondoro, diretti verso quello che un tempo era stato l’ufficio di mastro Gazza. Rannicchiati sotto il mantello dell’invisibilità di James Potter, strisciarono silenziosamente lungo le pareti del secondo piano, stando attenti a non svegliare i numerosi personaggi storici dipinti sulle pareti della scuola. I lunghi capelli rossi di Lily erano raccolti in una coda sfatta che rispecchiava l’aria trasandata del pigiama, Hugo era sicuro di averlo già visto indosso a suo cugino James ma non poteva dirlo con certezza. Gli occhi nocciola, grandi e luminosi, vagliavano senza sosta la pergamena che stringeva tra le dita. Alle spalle del cugino, lasciava che fosse lui a guidarla, ma Hugo non aveva fatto un gran lavoro fino ad allora. Nonostante le indicazioni precise della ragazza aveva imboccato il corridoio sbagliato per ben due volte. Il nervosismo giocava brutti scherzi all’anima inquieta di Hugo Weasley. La fronte imperlata di sudore denotava il suo stato di tensione, così come i capelli appiccicati alla fronte e il continuo tremolio delle mani. Malgrado indossasse una tuta dall’aspetto pesante, quella non sembrava scaldarlo granché. Tremava come una foglia.

«Non capisco perché non possano farlo loro» si lamentò Hugo a voce bassissima, mentre evitava per un pelo di sbattere contro un’armatura. «E poi Frank è un bravo ragazzo» lanciò un’occhiata alle sue spalle, dove Lily procedeva con il naso ficcato nella Mappa del Malandrino. Si sarebbe aspettato che lei lo contraddicesse, d’altronde si era dimostrata entusiasta di fronte all’idea di distruggere la reputazione di Frank Paciock. Tuttavia la risposta di Lily lo lasciò spaesato.

«Proprio un ragazzo onesto e simpatico» lo liquidò seguendo con lo sguardo i due puntini  che sulla pergamena recavano il nome di Lily Potter e Hugo Weasley. «Non c’è traccia della McGrannit, gira a destra» aggiunse in fretta per cambiare discorso.

«Lily?» Hugo rallentò il passo, sollevando un sopracciglio nel palesare tutta la sua curiosità. La lunga chioma riccia riluceva di riflessi rossicci sotto il chiarore delle torce, tanto da far assomigliare la sua testa ad un fungo in fiamme. «Perché eri così contenta di indagare sul passato di Frank?» Una linea di disappunto percepibile dal tono della voce.

«Da quando ti interessa quello che faccio?» Lily ripiegò la mappa con stizza e la ripose nella tasca del pigiama, gli occhi, adesso ostili, puntati sulla nuca del cugino.

«Neanche tu ti sei tirato indietro, o sbaglio?» La frecciatina trafisse il cuore e la coscienza di Hugo, il cui collo iniziò ad imporporarsi. Lily assunse un’espressione soddisfatta che sembrava urlare “Ben ti sta”.

«Sono stato minacciato!» replicò il ragazzo sdegnato. Il tono acuto che accompagnò la sua giustificazione rischiò di svegliare il dipinto dell’ex Capo del Consiglio dei maghi, Barberus Bragge. Lily gli arpionò svelta le spalle per poi ficcargli un pugno in bocca.

«Shht» lo ammonì. E con la mano libera gli indicò lo spiraglio di luce che usciva da una delle stanze in fondo al corridoio. «Siamo arrivati» bisbigliò e mise fine a quell’inutile conversazione.

 

 

 

Il locale non sembrava aver perso lo squallore di un tempo, malgrado Gazza avesse tirato le cuoia già da un decennio e almeno tre inservienti si fossero susseguiti dopo di lui. Dal basso soffitto pendeva una lampada a petrolio che illuminava almeno in parte il lugubre antro e uno strano odore di frittura impregnava l’ambiente. Lungo le pareti prive di finestre si stagliavano gli archivi stracolmi di note e rapporti sulle punizioni, corporali e non, che erano state inflitte agli studenti dai tempi della fondazione della scuola. Appesa dietro la scrivania sporca e gremita di cartacce vi era l’amatissima collezione di manette appartenuta a Gazza. All’occhio allenato di Hugo quella stranezza non sfuggì. «Che diavolo è quella roba?» chiese interessato, puntando il dito contro le catene arrugginite. Lily lo ignorò deliberatamente.

«Dobbiamo sbrigarci» dichiarò con aria seria e professionale. «Occupati degli armadi a sinistra, io inizio da destra». E così fecero. Si diedero da fare per più di due ore, dato che dopo Gazza nessuno era stato così scrupoloso da rispettare l’ordine alfabetico dei documenti, ma alla fine riuscirono a trovare ciò che stavano cercando.

«Lily! Lily!» Hugo sventolò davanti al volto una cartella poco spessa su cui spiccava la parola “Paciock”. «Credo di averlo trovato» I granelli di polvere impigliati tra i suoi capelli riccioluti fecero quasi sorridere Lily che, dall’altro capo di quel tugurio, non sembrava essere messa meglio. Un sottile strato di terra le copriva il labbro superiore dandole l’aspetto di una fanciulla baffuta. Si spostò velocemente attraverso la stanza fino a raggiungerlo fiondandosi su quel pezzo di carta come se ne valesse della sua vita.

«Fa vedere!» strappò la cartella dalle mani del cugino e l’aprì sotto il suo sguardo attonito.

Nulla. Completamente vuota. Frank era uno stinco di santo e Rose si sarebbe dovuta rassegnare all’evidenza.

Lily sospirò sconfortata prima di gettare il fascicolo nel cassetto, insieme agli altri, ma in quel movimento un foglio piccolo quanto un post-it scivolò sul pavimento.

Il tempo doveva averlo consumato tanto che non era possibile leggerlo per intero, pochissime parole erano decifrabili. Tra queste: “Jean Granger”, “Malfoy” e “aula di Pozioni”.

I due cugini lo esaminarono scioccati.

Ciò che aveva da sempre spronato Hugo a dare il meglio di sé era la certezza che sua madre fosse perfetta, composta e ligia alle regole. Mai l’Hermione Granger che conosceva lui avrebbe potuto subire un richiamo.

E tutte le sue convinzioni crollarono come un castello di carte.

 

 

 

 

 

 

 

Quello stesso martedì mattina Scorpius Malfoy si svegliò nel suo letto con una nuova consapevolezza: Albus Potter necessitava di un suo studio approfondito. Erano trascorse diverse settimane dall’ultima conversazione tra i due e Scorpius non vedeva l’ora che l’evento si ripetesse. Lo aveva osservato da lontano, aveva analizzato le sue mosse e le sue espressioni, il modo in cui la sua mano scattava istintivamente in aria ad ogni lezione del professor Prince, il modo in cui storceva la bocca ogni volta sua cugina si azzardava a rivolgergli la parola. No, Scorpius Malfoy non ne era innamorato. Non sospirava grondante di amore e miele quando lo vedeva entrare nel dormitorio e non scriveva il suo nome sul suo diario tra cuoricini rossi.

Il motivo per cui era interessato ad Albus Potter era di natura scientifica.

Certo, riteneva che il compagno fosse uno dei pochi esseri umani simpatici con cui aveva avuto a che fare, ma era anche matto come un cavallo. Da bravo e potenziale etologo avrebbe analizzato i comportamenti di quella creatura di Merlino nel suo habitat naturale. Forte di quella convinzione pensò bene di alzarsi nel modo più silenzioso possibile. Scostò le lenzuola con cura, afferrò il taccuino grigio che teneva sempre sul comodino e con nonchalance si avvicinò di soppiatto alle cortine serrate del letto accanto al suo. Una fessura tra i tendaggi gli permise di osservare il Soggetto dormiente. Albus russava beatamente, rannicchiato in posizione fetale. «Ottimo, ottimo» mormorò compiaciuto prima di iniziare a scribacchiare nozioni sulla seconda pagina dell’agenda, sulla prima (scritto a grandi lettere) vi era il nome di Albus, seguito da una breve didascalia.

“Soggetto 345”

Scorpius era sicuro che con quella tesi avrebbe preso il M.A.G.O. in Cura delle Creature Magiche senza neanche dover sostenere l’esame. Ad honorem.

La professoressa Hopkirk sarebbe scoppiata in lacrime e sarebbe stata felicissima di cedere la cattedra al più grande scienziato di tutti i tempi: lui. Scorpius avrebbe galantemente rifiutato ma lei avrebbe insistito, lodando la sua modestia e la sua umiltà.

Un grido proveniente dal terzo letto del dormitorio lo distolse dai suoi sogni di gloria.

«Allora è proprio vero che sei una checca!» Lysander Scamandro, a petto nudo, tirava le lenzuola fin sopra i pettorali. Neanche dovesse coprirsi il seno.

Prima che potesse gridare “al maniaco” Scorpius scoppiò in una risata fragorosissima che svegliò tutto il dormitorio.

Lasciò la stanza tra le bestemmie generali, ma nemmeno quella sequela di insulti riuscì a scalfire la sua ilarità. Uscì dalla Sala Comune piegato in due per l’eccesso di risa, ma non appena ebbe la forza di rimettersi in piedi afferrò la matita e scrisse velocemente sul suo taccuino.

Un altro nome adesso compariva accanto a quello di Albus Potter.

Lysander Scamandro sarebbe stato la sua prossima cavia.

 

 

 

 

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