Le trame dell'Inganno

di __Sayuri__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Duplice minaccia ***
Capitolo 2: *** Rivelazioni ***
Capitolo 3: *** Dove c'era il cuore, uno spazio vuoto ***
Capitolo 4: *** Errore ed onore ***
Capitolo 5: *** Nella mia mano, la speranza ***
Capitolo 6: *** Senza maschere, nessuna difesa ***
Capitolo 7: *** La runa bianca ***
Capitolo 8: *** L'ora dei segreti ***
Capitolo 9: *** Il tradimento e l'attesa ***
Capitolo 10: *** Pensieri egoisti, azioni sbagliate ***



Capitolo 1
*** Duplice minaccia ***


Capitolo 1 - Duplice minaccia
AVVERTIMENTI: Per una maggiore comprensione dei fatti narrati, in particolar modo di quelli che coinvolgono i villain, si consiglia la lettura del prequel: "Rinascita".




Capitolo 1 - Duplice minaccia



In un confine dimenticato di universo




L'ultima eco del boato che ha sbriciolato la pietra e fuso migliaia di armature si spegne gorgogliando nelle profondità cosmiche, e torna a regnare il silenzio. La luce bianca ed incandescente, che per un istante ha avvolto e travolto quasi ogni cosa, finalmente cede di nuovo il posto ad un cielo nero e senza fine. L'unico bagliore che osa spezzare la continuità delle ombre è quello prodotto da stelle morenti e lune deserte, mentre il resto dello spazio è occupato dall'oscurità.

Nel vuoto di quel Limbo senza limiti e senza uscita, null'altro rimane che il contorno di due figure, mute e immobili, ma non per questo sconfitte.

Il Senza Nome si guarda intorno, irato. Che ne è della loro forza, i Chitauri? Vapori incorporei e carcasse smembrate, che galleggiano nella pece della sconfitta, buone solo a nutrire la polvere. Un esercito formidabile, forgiato dalla sapienza e dalla maestria di Svartalfheim, sprecato dall'inettitudine di un reietto senza speranza, involucro rabbioso e insolente di una debolezza cronica.

Dell'asteroide-vascello, il Santuario di Thanos, non resta altro che un brandello di roccia fumante, affondata in un mare di detriti e plasma nero.

L'elfo si prostra a terra con uno scatto secco, la furia nello sguardo e nella voce.

"Umani..."

Una sola parola, che ne sottintende mille altre.

Sdegno.

Disonore.

Infamia.

"... non sono i codardi e vili che ci avevano assicurato."

Il Titano gli volge le spalle, immerso nel suo scranno nero e pulsante di luci bluastre, in quell'unica porzione di roccia rimasta intatta, protetta dall'aura del mostro di pietra e buio, compagno dell'ultima nemica.

Il Senza Nome prosegue, la lingua sputa nel silenzio nuovo veleno.

"Combattono, insorgono... pertanto non possono essere governati!"

Le dita possenti e violacee del Titano si puntellano sul supporto di metallo del suo trono, e in un istante si rizza in piedi, imperioso e terribile. L'Altro abbassa la testa di scatto, e un gemito gli sfugge dalle labbra contratte. Come reagirà Thanos, il dominatore di mondi, ad un simile affronto? Con quanta collera e veemenza colpirà il suo braccio?

La brama di sapere dell'elfo non si placa, nonostante il timore sordo del castigo, e si arrischia a proseguire, suggerendo al Padrone come usare la frusta.

"Sfidarli è lusingare... la morte."




Ed ora il Titano si volta, con studiata lentezza, negli occhi un ghiaccio che nemmeno il fuoco di mille soli potrebbe sciogliere.

Eppure, non c'è rabbia in quello sguardo, né fretta o impazienza; solo una furia calcolatrice e implacabile. Le labbra si tendono in un sorriso feroce, e il mostro scopre i denti, divertito. Un cambio di programma non è nient'altro che un trascurabile inconveniente, per chi ha già previsto ogni cosa. Lui ha avuto tempo, molto tempo per intessere i suoi piani, e la rivolta degli umani è solo un nuovo motivo di dileggio nei confronti di un Fato già deciso, che si inchinerà infine al suo cospetto.

La risata bassa e cupa dell'ultimo Eterno è un fendente di scherno e terrore, e squarcia il silenzio immobile del Limbo come una nuova esplosione, inarrestabile e spietata.




Il Senza Nome non osa alzare la testa, pietrificato. C'è qualcosa di terribilmente disturbante in quel mostro senza paura e senza morale che accoglie il fallimento senza collera, ma con la gioia di poter colpire, ferire e uccidere ancora.

Lui stesso ha voltato le spalle all'onore da molto tempo, tutto quel che ne resta è un'impronta sbiadita, incrostata sulla superficie furente delle sue brame di vendetta.

È nato dal buio, l'elfo nero, creatura d'ombra e sussurri, e da sempre è schiavo delle tenebre, solo che ora hanno un volto di pietra e una voce di ferro. Thanos è un padrone spietato e un alleato pericoloso, che esige lealtà ed ubbidienza in cambio di parole prive di promesse, ma è anche la sua unica opportunità di rivalsa. Finché riuscirà a sottostare ai suoi progetti e ad essergli utile, non avrà nulla da temere.

"Qual è dunque la prossima mossa, mio Signore? Ricorderemo ai mortali qual è il loro posto?"

Thanos muove qualche passo su quel che resta del suo vascello-asteroide, sollevando polvere e piccoli frammenti di roccia, che si sbriciolano ed iniziano a fluttuare nell'aria.

"Atteniamoci al nostro disegno originale, recuperare il Tesseract è il primo passo. Sappiamo dove si trova, e non potrebbe esserci luogo più propizio. Prepara i nostri alleati, che si muovano ora. E quando Asgard sarà caduta, l'universo ai miei piedi, gli umani saranno l'ultima portata del mio banchetto di sangue."




Asgard, ponte dell'Arcobaleno




Il silenzio spettrale della notte è rotto soltanto dal ritmico cozzare degli zoccoli del suo destriero, e Sif è stranamente inquieta. Giunta circa a metà del ponte spezzato strattona con un gesto secco le redini e il cavallo inchioda di colpo, sbuffando e nitrendo.

La guerriera scende con un balzo deciso dalla sella e accarezza per un istante il collo accaldato dell'animale, che sembra stranamente agitato. Gli sussurra all'orecchio poche parole e poi si incammina incerta su quella sottile passerella sospesa sul nulla, che accompagna ogni suo passo con un'ombra di suono e luce.

Ancora non si spiega gli avvenimenti degli ultimi giorni: l'agitazione di Thor, il dolore nel suo sguardo, la sua improvvisa e misteriosa partenza per Midgard. Tante congetture erano nate a corte sul perché, e soprattutto sul come, di quel viaggio in solitaria. Un nuovo bando per il figlio di Odino? Una fuga? L'Allfather si era trincerato dietro un silenzio inamovibile, rendendo complici di quel segreto solo la Regina ed Heimdall.

Ed ora quell'inaspettata rivelazione, giunta nel cuore di una notte stranamente buia, l'aveva strappata con violenza al sonno e ai dubbi. Odino era riuscito ad inviare Thor sulla terra dei mortali per sventare un'oscura minaccia. Una grande battaglia era stata combattuta, e vinta.

Chissà se ha incontrato anche lei...

Sif scuote la testa con rabbia, scacciando un pensiero inutile. Thor è salvo, e sta tornando a casa, questa è l'unica cosa che conta. Muove ancora pochi passi, poi si blocca di colpo, immobilizzata da un rumore alle sue spalle.

Calpestio di zoccoli e voci nel vento. Tre cavalli, tre cavalieri.


Quando si volta, sono già scesi dai loro destrieri e in pochi momenti la raggiungono.

"Perché non ci hai aspettati?", chiede Volstagg, trattenendo a stento uno sbadiglio, la voce ancora mezza impastata dal sonno.

"Non credevo veniste anche voi, il messo di Odino mi ha dato ordine di venire qui ad accogliere il rientro di Thor, e così ho fatto", ribatte la guerriera, accennando un mezzo sorriso e riprendendo a camminare.

"Ma siamo anche noi suoi amici, giusto? Non capisco perché..."

Fandral interrompe il suo voluminoso compagno d'armi con una sonora pacca sulla spalla, mormorando: "Andiamo Volstagg, lo sai, quando si tratta di Thor, Lady Sif è sempre molto..."

"Dovremmo muoverci", taglia corto Hogun, tono monocorde e volto impassibile.

Fandral sospira e alza gli occhi al cielo, ma non dice niente, e riprende a camminare.

I quattro avanzano affiancati, lo stesso ritmo nei passi e i medesimi battiti nel petto, mossi dall'appartenenza ad una squadra che fa gruppo dentro e fuori i campi di battaglia.

"Credete che stia bene?"

Domanda di colpo Volstagg, titubante.

"Ma certo, stiamo parlando di Thor! Perché sei tanto timoroso?", replica Fandral, sicuro e spavaldo.

Il 'Voluminoso' alza la testa e si guarda nervosamente intorno, rispondendo a mezza voce: "Ho un brutto presentimento, è così buio..."

"Forse perché è notte."

"E poi fa più freddo del normale, non trovate? Ho i brividi..."

"Starei male anch'io se avessi ingurgitato tre cinghiali, due fagiani e un'intera botte di birra prima di coricarmi."

"Ero in ansia per il nostro amico, come voi! E l'ansia va pur placata in qualche modo", tenta di giustificarsi Volstagg, aprendo le braccia.

Sif e Fandral si scambiano uno sguardo complice, ridacchiando; ma è la voce di Hogun, seria e fredda, a spezzare quel momento di leggerezza.

"Heimdall sembra preoccupato."

Ormai a pochi metri da loro, la figura del guardiano si staglia nitida sulla volta pulsante di stelle, oro ed ebano, perennemente vigile e in attesa.

Fandral socchiude lievemente le palpebre, scettico.

"Come fai a dirlo? A me sembra sempre lo stesso."

Hogun non risponde ma allunga il passo, e una strana agitazione si impossessa degli altri guerrieri, che istintivamente lo imitano e in breve raggiungono Heimdall, che li scruta in silenzio, poggiato sull'elsa della sua enorme spada dorata.

"Heimdall, tu sai perché siamo qui?", domanda Sif, con un leggero tremito nella voce.

"Sì", risponde il guardiano, "stanno arrivando."

"Stanno?", chiedono all'unisono Fandral e Volstagg, senza capire.

E poi, d'improvviso, una folata di vento freddo li colpisce e Sif sente uno strano gelo penetrarle le ossa. Si copre gli occhi con un braccio e abbassa la testa, frastornata, mentre un lampo di luce balena intorno a loro. Qualcosa dentro di lei, forse l'intuito o magari l'istinto, capisce. Ma è un presagio troppo assurdo, impossibile da accettare, pura follia.

Quando si fa di nuovo silenzio riapre gli occhi, continuando a farsi schermo con il braccio alzato, e osserva Fandral, teso e immobile alla sua sinistra, la mano corsa a stringere l'elsa della spada e gli occhi sbarrati.

Nessuno parla, nessuno si muove.

Finalmente, dopo momenti che paiono durare un'eternità, nel silenzio si fa spazio una parola, incerta e flebile come un sussurro.

"Amici..."

La voce di Thor è terribilmente stanca, piena di dolore e di amarezza.

Sif muove un passo, abbassando il braccio di scatto e ricercando affannosamente il suo sguardo, ma il dio del Tuono lo tiene inchiodato a terra, il viso percorso da pensieri e ombre.

E sono altri occhi quelli che incontra.

Due occhi verdi, gelidi, folli.

Occhi che nessuno ha mai dimenticato, ma che tutti speravano di aver sepolto per sempre.





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Capitolo 2
*** Rivelazioni ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 2 – Rivelazioni


Osservatorio Geofisico di Tromsø, Norvegia




Siamo spiacenti, il numero da lei selezionato non è al momento raggiungibile...

Jane si poggia una mano sulla fronte e socchiude gli occhi, sconsolata. L'aria è talmente gelida che il sospiro che le sfugge dalle labbra si condensa in uno sbuffo di fumo bianco, strappandole un nuovo brivido.

Prima che la voce registrata abbia finito di ripetere per l'ennesima volta la stessa formula si passa nervosamente la mano tra i capelli spettinati e chiude la chiamata con un gesto secco.

Tiene per un istante il cellulare stretto tra le dita, fissando intensamente lo schermo quasi aspettandosi che si metta a squillare da un momento all'altro, e che Erik finalmente la richiami e le spieghi che accidenti sta succedendo.



Tutto era iniziato quando quell'agente dello S.H.I.E.L.D. - Coulson, forse? - l'aveva buttata giù dal letto in piena notte, attaccandosi al campanello per cinque minuti buoni. Darcy per poco non gli era saltata al collo. Per una che già mal sopportava le levatacce che le imponeva quando erano a caccia di tempeste magnetiche, essere svegliata nel pieno della fase REM significava diventare una portatrice sana di istinti omicidi plurimi.

L'agente, per nulla intimorito, aveva abbozzato un sorriso tirato che non aveva niente di ironico, si era tolto gli occhiali scuri – in piena notte! Che facessero parte della divisa d'ordinanza? - e aveva iniziato a dettare ordini in tono placido e accondiscendente. Le poche frasi che Jane era riuscita a recepire erano totalmente assurde e decisamente poco rassicuranti:

“Fate subito le valigie... Avete venti minuti.... Grazie per la vostra collaborazione.”

Nel giro di pochi minuti si erano ritrovate scaraventate sui rigidi sedili di pelle di un'auto nera con i vetri oscurati, scortate da altre due vetture blindate, destinazione sconosciuta. Un rapimento in piena regola.

“Credi che questo c'entri qualcosa col fatto che ho preso in prestito un paio di penne dall'ufficio di Fury?”, aveva mormorato Darcy con la sua vocina petulante, ormai più terrorizzata che arrabbiata.

Jane le aveva lanciato un'occhiataccia, ma non aveva risposto; in fondo che poteva dirle? Non ci stava capendo assolutamente nulla!

Dopo una buona mezz'ora di autostrada era diventato chiaro che Darcy e il suo inappropriato attacco di cleptomania non c'entravano niente. A meno che il direttore dello S.H.I.E.L.D. non fosse un tipo esageratamente vendicativo, obbligarle a lasciare lo stato su un jet privato era una punizione un po' troppo severa per un misero furto di penne – che non scrivevano neppure bene! - aveva precisato la stagista.

Prima di essere catapultate anche su un aereo, l'agente-rapitore Coulson aveva almeno avuto il buon cuore di aiutarle a caricare i pochi bagagli che erano riuscite a racimolare, e a ragguagliarle su qualche altro dettaglio completamente privo di senso logico.

“Perdoni la fretta, dottoressa Foster, ma non avremmo agito con tanta rapidità se non si fosse trattato di una faccenda più che urgente. È richiesta la vostra presenza in uno dei migliori osservatori dell'emisfero boreale, ovviamente dietro cospicuo compenso.”

“Non mi interessano i soldi, vorrei sapere che sta succedendo!”, aveva sbottato l'astrofisica, esasperata.

Coulson aveva sfoggiato uno dei suoi diplomatici sorrisi, e l'aveva invitata ad accomodarsi su un sedile grigio al centro dello stretto abitacolo.

“Mi rendo conto del disagio, ma le ripeto, se non fosse più che urgente...”

“Avete scoperto qualcosa?” La voce le aveva tremato per un istante, probabilmente più di speranza che per paura.

L'agente era rimasto in silenzio, forse cercando una mezza verità abbastanza plausibile e che non facesse troppo male.

“Qualcosa è stato scoperto, signorina Foster, ed abbiamo bisogno che lei si rechi a Tromsø per qualche tempo.”

Dove!?” Aveva domandato Darcy con tono acuto, il viso stralunato.

Coulson aveva fatto un mezzo sorriso.

“Diciamo... che è a nord.”

Poi con un cenno rapido ai piloti aveva dato il via alle procedure di decollo. L'accensione del motore era stata piuttosto brusca, e tutto l'abitacolo aveva cominciato a vibrare.

“Signore, buon viaggio. Vi consiglio di allacciare le cinture.”

Detto questo l'agente aveva girato i tacchi e si era diretto al portellone posteriore, pronto a fare ritorno al quartier generale.

Darcy e Jane si erano fissate per un secondo attonite, poi un nuovo scossone le aveva riportare bruscamente alla realtà obbligandole ad agganciare le cinghie di sicurezza in fretta e furia. Prima che Coulson richiudesse il portellone la stagista si era voltata nella sua direzione, pigolando:

“E si può sapere perché ci devo andare pure io?!”

Il tonfo sordo prodotto dalla chiusura della lamiera metallica era stata l'unica risposta.

Dopo qualche ora di volo era diventato chiaro che quello lì sotto, no, non era il Lago Michigan, ma l'Oceano Atlantico, e che per nord Coulson non intendeva il North Dakota.

La scoperta non aveva giovato all'umore di Darcy, che si era dimostrata socievole quanto un cactus rinsecchito, ed aveva acuito il mal di testa di Jane.

Ovviamente, quando erano riuscite a prendere sonno era già arrivata l'ora di atterrare. Strette nelle loro giacchette di jeans, mezze stordite dal sonno e dal jet lag, si erano ritrovate nella famigerata Tromsø. In Norvegia. A nord del circolo polare artico.

“Ma non dovremmo essere in maggio?”, aveva chiesto Darcy, battendo i denti e guardandosi intorno inquieta.

Jane, ancora una volta, non aveva saputo cosa risponderle ed era rimasta imbambolata a fissare quel cielo così limpido e azzurro, che si specchiava nelle onde placide del Norskehavet - il mar di Norvegia - e che faceva da contrappeso al muro di monti dalle cime innevate che circondava l'isola.



La portafinestra alle sue spalle si apre stridendo e Jane si volta di scatto, mentre il ricordo dell'arrivo in quell'Osservatorio sperduto nel nulla sfuma nella sua mente come una striscia di fumo. Darcy la affianca, un braccio stretto intorno al giaccone nuovo, l'altro lungo il fianco. In mano regge un incarto unto e colorato, che appallottola tra le dita con un solo gesto, prima di infilarlo in tasca.

“Dio benedica McDonald's” farfuglia ancora con la bocca piena, “lo trovi ovunque ed è sempre aperto.”

“Ma sono solo le sei mezza di sera!” Esclama Jane, squadrandola allibita.

“Secondo il mio orologio biologico interno è mezzogiorno e mezzo, ora di pranzo.”

L'astrofisica sospira, alzando gli occhi al cielo.

“Come mai sei uscita in terrazza, con questo freddo?” Si lamenta la stagista, calandosi ulteriormente il berretto di lana sulla testa. Un berretto ridicolo, oltretutto. Verde sbiadito, con due mini-corna di renna di stoffa che spuntano sulle orecchie.

“Avevo bisogno di una boccata d'aria.”

Sono lì da ormai due giorni, e Jane li ha passati rinchiusa nell'Osservatorio a monitorare il cielo. Il professor Hansen le ha dato accesso a tutta la strumentazione - perfino alla ionosonda e al magnetometro! - e ormai rabbia, ansia e irritazione sono svanite lasciando il posto all'entusiasmo della ricerca e al brivido della scoperta. Gli ultimi rilevamenti hanno individuato una strana attività magnetica nell'emisfero boreale, con un picco anche in Europa, nella zona della Alpi centrali. Decifrare i dati raccolti sarebbe molto più semplice se riuscisse a contattare Erik, ma a quanto pare comunicare con i laboratori S.H.I.E.L.D. - e con tutta l'America del Nord, a dire la verità - sembra impossibile, almeno per il momento.

Jane sospira ancora una volta e chiude
gli occhi. È preoccupata.

Per Selvig?
Certo.
Per tutta la questione del 'rapimento' in piena notte?
Anche.

Ma c'è qualcos'altro. Un peso che le opprime il petto e che la costringe a pensare a una cosa sola. O, meglio, a una persona sola.

Thor.

Il dio del Tuono è un chiodo fisso che le martella dentro sempre più forte. Dopo il suo ritorno su Asgard per un po' ne aveva sentito la mancanza, ma col tempo quel piccolo dolore era sfumato. In fondo, era stata una semplice cotta, no? Un'infatuazione passeggera e, a dirla tutta, anche un po' infantile. Ma allora perché adesso si ritrova a rincorrere il ricordo di Thor con tanta insistenza?

Riapre gli occhi e fissa il sole basso all'orizzonte. La risposta è così ovvia e assurda che le fa male il solo concepirla. I dati che ha raccolto avvalorano l'ipotesi, ma è il suo istinto a gridarle nelle orecchie la verità. Che sia il famoso istinto di donna, quello che non sbaglia mai?

Ma qualcosa non torna, e Darcy è decisamente troppo silenziosa. Si volta verso di lei, scrutandola in viso, aggrottando la fronte. Lei si schiarisce la voce e poi si mordicchia il labbro inferiore, sfuggendo al suo sguardo.

“Darcy, che succede?”

La stagista affonda per un istante il viso nel colletto imbottito del suo giaccone, poi si arrischia a girare gli occhi verso di lei e bisbiglia: “Credo che dovresti dare un'occhiata al telegiornale.”




Asgard, ponte dell'Arcobaleno





Thor riapre gli occhi di malavoglia, lentamente, cercando di rimandare il più possibile il momento della verità. Asgard è immersa in una notte nera e silenziosa, e per un istante ne inspira il forte odore di casa. Ma è solo un attimo, e la realtà gli crolla impietosa sulle spalle.

È tornato vincitore, ma si sente un perdente.

Incontra gli sguardi attoniti dei suoi compagni, vede l'orrore e lo sgomento riflessi nei loro occhi, e spera inutilmente che Loki non lo veda.

Ma lui ha sempre visto. Ha sempre capito.

“Amici...” mormora, senza riuscire a dire altro. Come può anche solo spiegare?

Abbassa gli occhi e stringe con forza il braccio del fratello, quasi a volergli infondere... cosa? C'è davvero ancora qualcosa che possa meritare? Può perdonarlo? Una parte di lui vorrebbe rispondere ma la mette a tacere.

“L'Allfather vi aspetta nella Sala del trono” proclama Heimdall, spezzando finalmente il silenzio.

Thor si riscuote, consegna il Tesseract ai suoi compagni raccomandando loro di portarlo subito nella Camera delle armi e si dirige verso i cavalli bardati al centro del ponte. Il corpo di Loki è rigido e oppone resistenza, costringendolo a trascinarselo dietro quasi di peso. La spessa catena che gli stringe i polsi tintinna e lui comincia a tremare.

Il figlio di Odino cammina più veloce, sale a cavallo issando il fratello davanti a lui, sul suo stesso destriero. Scambia uno sguardo d'intesa con i Tre guerrieri, quasi fosse una promessa. Vi spiegherò tutto.

I tre ricambiano il cenno, negli occhi confusione mista a fiducia, e partono alla volta della dimora degli Æsir. Sif gli rimane accanto, il suo stallone nero scalpita e scalcia, ma con uno strattone delle redini lo doma.

“Io vengo con te”, afferma decisa, guardandolo negli occhi.

Vengo con te, pensa Thor, non con voi, ma non dice nulla e annuisce. Sprona il cavallo e parte al galoppo, stringendosi al petto Loki, che continua a tremare, sempre più forte.




Non può parlare, il principe caduto, e non vuole pensare.

La gabbia di metallo che gli blocca la mascella stringe e taglia la pelle. In gola avverte il sapore del sangue, nelle narici ne ristagna l'odore acre.

Ma non è per la paura, né per il pianto, che il petto del dio dell'Inganno sussulta.

Ride, il reietto di Asgard.

Non ha più lacrime, né sogni.

Ride, il mancato re, facendosi beffe del suo stesso insensato destino.




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Capitolo 3
*** Dove c'era il cuore, uno spazio vuoto ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 3 – Dove c'era il cuore, uno spazio vuoto





Asgard




Si aspettava folle ed infamia, e invece ad accogliere il suo ritorno ha trovato solo silenzio e notte. Asgard è rimasta muta, vuota come gli occhi smarriti dei compagni di un tempo, che ora solo Thor può chiamare amici.

Nessuna parola, per il figlio malriuscito 
e fasullo  di Odino?
Nessuno scherno, per il dio della burla?

Loki trema ed inizia a ridere senza nemmeno rendersene conto, un sogghigno soffocato dal sangue, dal metallo, dal vuoto che gli riempie cuore e mente.

Non merita nemmeno quel disonore?

Il cavallo è lanciato al galoppo verso il palazzo di Odino e le ferite pulsano sotto l'armatura ormai spezzata, ogni sobbalzo è una fitta dolorosa che gli rammenta spietata il suo fallimento. Thor gli stringe con forza un braccio, come se temesse la sua fuga.

Potrebbe scappare, in effetti. Potrebbe sparire. Usare il Tesseract e poi...

… non ci saranno regni, né lune deserte, né crepacci dove Lui non verrà a trovarti...


Il ricordo è un pugno nello stomaco. I pensieri, fili tranciati di una ragnatela ammuffita, si aggrovigliano e si confondono alla ricerca di una nuova scappatoia. Ma stavolta non c'è via di fuga.

Non c'è scampo, e non ci sarà perdono.

Arrivano alla base del palazzo. Sulle pareti si riflette la tenue luce delle stelle, creando bagliori sinistri. Dove un tempo si specchiava nel riverbero dell'oro più puro, ora vede il riflesso del sangue; dove soffiava la brezza tiepida del conforto, ora ulula il vento gelido del castigo.

Salgono rapidamente la scalinata ed entrano nell'enorme anticamera della Sala del trono. I bracieri ardono alle pareti, ma sotto la pelle martoriata sente solo una lastra di gelo.

Sif li precede, ambasciatrice scontenta di una tetra novella, e non riesce ad impedirsi di lanciargli un altro sguardo sprezzante prima di sparire oltre l'enorme portone dorato davanti al quale si sono fermati.

Almeno ora non dovrai più fingere, Sif. Né nascondere il tuo astio dietro due occhi indifferenti, per paura della reazione di Thor. Sei felice, ora che ho dimostrato che avevi ragione?

La porta si richiude con un tonfo secco che rimbomba a più riprese contro le pareti, e Loki si prende il tempo di rimirare gli intarsi che decorano le ante imponenti in legno massiccio. Celebrano la storia nota di Asgard, le guerre, le vittorie, i bottini.

Tutte bugie.

Il suo sguardo si inchioda sulla pannello che commemora il trionfo su Jotunheim, dove si cela la menzogna più grande di tutte. La sua menzogna, la sua storia. E il vuoto che sentiva nel petto ora si riempie di rabbia.

Il respiro del dio del Tuono è pesante e irregolare, e la sua stretta si fa sempre più ferrea.

Hai paura, fratello? Osi ancora averne per me, il tuo peggior nemico?

Si volta verso di lui ed incontra i suoi occhi. È un attimo, meno di un battito di ciglia, ma il tempo sembra rallentare, fermarsi, riavvolgersi.

In uno sguardo lungo un niente si dicono tutto quello che mai riusciranno a pronunciare. Capiscono, accettano, cambiano.

Fratelli, nonostante il sangue dica il contrario.
Fratelli, l'unica verità rimasta in un bugia.

Ma poi il portone si riapre di colpo con un cigolio sinistro, e viene da chiedersi se quel momento appena finito sia esistito davvero. Forse sì - pensa Loki - forse ci sarebbe speranza, perfino per lui, ma è un'idea che fa troppo male, perché se è vero che il tempo guarisce molte ferite, quella nel suo orgoglio è un ematoma fresco e livido, ancora pulsante. Tutto dentro di lui è crollato, e rimettere insieme quei cocci aguzzi ferirebbe anche lui. Meglio tornare – restare? 
un'ombra, un nemico, un folle, e nutrirsi solo di dolore.




Osservatorio Geofisico di Tromsø, Norvegia



Il televisore riporta immagini confuse di una New York in fiamme e in rovina. Anche se la minaccia sembra passata, Jane può ancora leggere il terrore puro dipinto sul volto della cronista. Il primo pensiero è un non-pensiero, il panico bianco che cancella la ragione. Poi, rapidamente, affiorano e si accumulano le ipotesi.

“Un attacco terroristico?”, chiede la donna volgendosi verso Darcy.

“Mh-mh”, risponde sommessamente la stagista, scuotendo la testa. È in piedi di fianco al divano grigio della zona relax del centro di ricerca, dove siedono altri tre membri dello staff, e si mordicchia nervosamente un dito.

“E allora cosa?”, sbotta l'astrofisica, sconvolta. Decisamente c'è qualcosa che non torna. Qualcosa di grosso.

Scatta in avanti e afferra il telecomando abbandonato sul bracciolo, e prova ad alzare il volume. Sbaglia tasto un paio di volte, cambiando canale per errore e provocando un coro di protesta generale, e quando finalmente riesce nell'intento rimane impietrita.

Non può essere...

Le immagini che scorrono sullo schermo sembrano quelle del trailer di un film sui supereroi, uno di quelli che Darcy ama tanto e che prova in tutti i modi a propinarle.

Solo che stavolta lei conosce uno degli 'eroi', e sa con dolorosa certezza che è tutto reale. Sono veri i suoi capelli dorati, sono veri quegli occhi azzurri e sinceri, così come il mantello rosso che si agita nella frenesia del combattimento.

Non può essere.


Alle sue spalle Darcy rifiuta con un gesto secco una tazza di tè fumante dalle mani di Inge, l'altro stagista presente nell'Osservatorio che le fa il filo da quando sono arrivate. Ma stavolta non può permettersi di indugiare nemmeno un secondo in quegli occhi blu, e si precipita verso l'amica, prima che stramazzi al suolo, o che si metta a gridare, o Dio solo sa cosa.

“Jane...”

La chiama sottovoce e prova a riscuoterla, scuotendola leggermente per una spalla, ma la donna è ipnotizzata davanti al televisore, lontana anni luce. Una lacrima le riga il volto e il telecomando le sfugge dalle dita, sbattendo con violenza al suolo.





Asgard





La Sala del trono è immensa e semivuota. Due sole guardie alla porta, ma sono i Falchi Rossi di Odino, i suoi guerrieri scelti. Si dice che abbiano tinto le loro possenti armature cremisi direttamente nel sangue dei loro nemici.

Ma Loki non ha mai avuto modo di verificarlo, perché è sempre stato lasciato indietro.

“Troppo debole.”


Mentre li sorpassa li scruta con aria di sfida.

Ho guidato un esercito. Sono ancora troppo debole?

Thor aumenta il passo e lo tira con forza, lo sguardo lucido e fisso. Loki sbatte le palpebre più volte. Le sue labbra pulsano ma non le può aprire, la catena stringe e stride, come a volergli ricordare che in realtà non è cambiato niente.

Hai perso, sussurra divertita una voce nella sua testa.

Nel silenzio che lo inghiotte non riesce a metterla a tacere, e quella ripete lo scherno all'infinito.




Thor avanza a fatica, le gambe pesanti, i piedi di piombo, il cuore gonfio. Vorrebbe poter perdonare Loki, dimenticare, cancellare; ma come può farlo, se non è in grado di perdonare nemmeno sé stesso? Se non capisce nemmeno dove ha sbagliato?

“Guardati! Il potente Thor! Con tutta la tua forza!”


Si ferma di colpo e alza lo sguardo verso il trono dorato dove siede rigido e impassibile Odino.

“Dimmi a cosa ti serve adesso, eh!?”


Il consiglio degli Æsir è riunito, pronto ad emettere un giudizio senza alcuna compassione. Non ce n'è mai stata per Loki, lo realizza solo adesso.

“Mi hai sentito fratello, non puoi fare niente!”


Thor deglutisce lentamente e abbandona la stretta sul braccio di Loki, prendendo un respiro. Il brusio di voci concitate si placa, e scruta negli occhi i suoi compagni, uno ad uno. Cerca conforto nello sguardo distrutto della madre, pallida e fiera, ritta come una statua di fianco al marito. Si appoggia con una mano al trono, ma non è per debolezza, la Regina dei cieli non può permettersela. Ma deve combattere contro sé stessa per impedirsi di essere madre, di amare un figlio mai odiato, di corrergli incontro e stringere tra le braccia il suo corpo afflitto.

Sif lo guarda e stringe le labbra, sa che vorrebbe essere al suo fianco ma non può. Questo è un peso che deve portare da solo.

Fissa gli occhi immobili del Padre e comincia a parlare. Racconta tutto, nei minimi particolari, ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo. Celebra la forza e il cuore dei Midgard, e ne sente già la mancanza.

Piange la caduta di Loki, la sua lotta contro la logica e l'onore, e continua a non capire.

Si appella alle virtù degli
Æsir: alla misericordia di Balder, alla saggezza di Odino, alla giustizia di Tyr e Forseti.

Non credeva che dire la verità potesse fare così male, ma non si ferma. Chiede l'intercessione della madre, discute, dibatte, grida.

Loki è al suo fianco, immobile, lo sguardo a terra. Non può parlare, non si può difendere, e non lo chiede nemmeno, come se sapesse già che non servirebbe a nulla.

La condanna è già stata emessa, lui lo sa, e giace sul fondo degli occhi implacabili dell'Allfather.




L'inutile recita si protrae ormai da troppi minuti, e Loki comincia ad essere stanco.

È una stanchezza pesante, amara, mista a rabbia e rancore. Thor continua a battersi come se potesse cambiare qualcosa, ma il Fato non si è mai fatto troppi scrupoli e ora è pronto a riscuotere il frutto del suo ultimo errore.

All'improvviso il fiume di parole si interrompe, e nel salone cala il silenzio.

Alza gli occhi.
Odino è in piedi, lo fissa, muove un passo verso di lui.
Poi un altro, e un altro ancora.

Le vesti accarezzano frusciando il pavimento, la lancia d'oro lo urta con violenza.

Thor indietreggia, una preghiera silenziosa gli anima lo sguardo, ma subito si spegne. Evidentemente ricorda bene quando era lui a dover essere giudicato, rammenta il ruggito del Padre che l'ha bandito.
 
Coraggio, Padre, rinnega un figlio ed esalta l'altro.

“Loki...”, la voce di Odino non trema, ma non ha calore, né colore.

“... Odinson.”

Il dio dell'Inganno sbarra gli occhi, confuso e furente. Ferito di nuovo dalle stesse bugie. Dunque il Padre degli dei ha taciuto ancora la verità, gli Æsir ancora non sanno, tranne Thor.

È per questo che mi avete bloccato le labbra? Per impedirmi di parlare, di raccontare la verità?

Scatta in avanti, ma il dio del Tuono lo trattiene per un braccio, e lo rimette al suo posto.

“Sta' al tuo posto, fratello.”


Altra rabbia, altro dolore, e la mente si annebbia.

“A causa dei tuoi crimini e dell'insensatezza delle tue azioni, del sangue che hai sparso e che a motivo della tua follia sarà ancora versato...”

Follia? Sì, sono un folle. Questo è il mio ruolo e non lo posso cambiare.

“... non sei più degno del tuo rango. Ti spoglio ora dei tuoi poteri di Æsir, del tuo titolo, della capacità di nuocere ancora.”

Perché, hai forse paura di me, vecchio codardo?

“Nel nome di mio Padre, e di suo Padre prima di lui, io Odino, Allfather, ti condanno all'Oblio!”

Gungnir sbatte a terra con forza, un solo colpo secco, la luce lo investe, brucia, e Loki crolla in ginocchio. Le forze lo abbandonano, l'energia gli scorre fuori dalla pelle, e il buio lo attende, di nuovo.

Nascondi ancora la polvere sotto il tappeto, e confina il mostro sotto il letto. Non mi importa.

Ricerca lo sguardo della madre, ha il viso rigato di lacrime sottili, ma non si muove. Tutto crolla e precipita, la vista si offusca e il dolore lo avvolge come una veste. Si sente soffocare, non può muoversi, né sfuggire a quella punizione così terribile che distrugge ogni coscienza, consapevolezza, ricordo, pensiero, desiderio.

Una tabula rasa dell'anima.

Gli arrivano indistinti gli echi della voce di Odino - parla ancora, ma non lo sente – e del grido di Thor. E poi, arriva.

Il Vuoto.

Loki prova a combatterlo, ma è troppo debole, e ne viene risucchiato.
Soccombe, ride ancora, si arrende.
Si frantuma e si perde, senza andare da nessuna parte, perché a smarrirsi è lui stesso, dentro la sua medesima mente.

Ci sarei riuscito, questa volta.

Come un sudario, cala soffocante la cappa nera dell'incoscienza.

Loki crolla al suolo, inerme, e non sente più niente.




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Capitolo 4
*** Errore ed onore ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 4 – Errore ed onore





Asgard, Sala del trono




Un
gemito, un tonfo secco, poi di nuovo silenzio.

Tyr, il dio della Guerra, incrocia le braccia possenti e osserva il corpo immobile del più odiato tra gli Æsir. Non saprebbe definire esattamente cosa prova, ma di certo non è pena. Non è nemmeno soddisfazione, l'Allfather è stato fin troppo misericordioso. Un taglio netto può servire a scoraggiare momentaneamente un'erbaccia, ma per evitarne la ricrescita è necessario estirparla alla radice.

Tuttavia Odino ha smesso da tempo di ragionare come uomo di guerra; è un padre fiaccato dagli anni e logorato dal trono, insofferente alle sue stesse leggi.

Un tempo il re di Asgard non avrebbe avuto pietà, la sua condanna sarebbe corsa sul filo della spada, avrebbe lavato l'onta col sangue.

Invece adesso tace, persino mentre Thor tenta inutilmente di soccorrere il fratello, accecato da una collera inappropriata, gridando come un bambino il suo disappunto. Sono lontani i giorni in cui il ruggito del sangue reale era foriero di forza e autorità. Ora è poco più di un flebile vagito.

Il dio della Guerra sospira, accarezzandosi la barba striata di grigio, finemente intrecciata, mentre gli Æsir abbandonano i loro posti, sollevati, indifferenti, già dimentichi di tutto. Alcuni trovano persino l'inopportuna impudenza di chiacchierate e ridacchiare tra loro mentre gli sfilano accanto, come se quello fosse un volgare mercato, e non il supremo Cosiglio.

Che ne è dell'onore di Asgard?

Tyr spera che ne sia rimasto perlomeno un barlume, sul fondo dell'occhio di Odino, e che questa sia l'ultima macchia, l'ultima incertezza, l'ultima caduta, prima di erigere un nuovo fondamento di giustizia.

“Alzati, mio principe”, comanda con voce ferma portandosi accanto al dio del Tuono, che è ancora chino sul corpo freddo e rigido di Loki. Ha gli occhi sbarrati, il deludente secondogenito, ma sono spenti e vuoti, proprio come il suo futuro.

Thor sembra non sentirlo e non accenna a muovesi, quindi lo afferra per una spalla e lo costringe ad alzarsi, scuotendolo con forza. Lo fissa negli occhi, imperioso e risoluto.

“Datti un contegno, figlio di Odino”, la voce è dura ma lo sguardo è partecipe, quasi paterno, “è in momenti come questo che devi mostrare giudizio, rigore e sicurezza. Asgard necessita questo dal suo futuro re.”

Thor deglutisce, gli occhi azzurri sgranati e smarriti. Sembra solo un ragazzo, maldestro ed ingenuo, ancora così lontano dall'esperienza forgiata dalla lotta e dal sacrificio. Poco importa ciò che afferma di aver fatto su Midgard, se non è in grado di essere coerente con ciò che dichiara in patria.

Tyr scuote impercettibilmente la testa, poi fa un cenno alla guardie e i Falchi Rossi accorrono, silenziosi come un fendente mortale, e trascinano via Loki, o quel che rimane di lui, subito seguiti dal dio del Tuono, ostinato nella sua inetta e vana preoccupazione.




Frigga stringe le labbra e si porta una mano al petto, mentre i suoi figli spariscono dietro un portone dorato. È sempre più pallida, gli occhi leggermente velati, ma mantiene stoica la sua compostezza di regina. Lentamente si volta e cerca nello sguardo algido del marito il permesso di ritirarsi, di poter essere madre, finalmente, lontano da occhi e giudizi.

Odino annuisce brevemente, autorizzandola a scivolare via, rapida e discreta; poi muove qualche passo pesante verso il dio della Guerra, compagno di mille battaglie e fratello di un tempo troppo lontano, che subito si porta un pugno al petto e china il capo.

“Mio Re” afferma a voce bassa, “la tua sapienza non ha uguali. Sebbene mi prospettassi un castigo più giusto, confido nella lungimiranza della tua vista.”

L'Allfather si puntella alla lancia sacra, al pari di un vecchio col suo bastone, ma la sua stretta è ferrea quasi come un tempo mentre gli poggia una mano sulla spalla, e proclama con voce tonante: “Il Fato di Loki forse non si è ancora compiuto, ma non starà a lui decidere. Non è nella condizione di nuocere a nessuno ora, e se il dipanarsi del tempo richiederà un cambiamento, senza la benedizione della mia lancia non avverrà alcun risveglio.”

Il dio della Guerra annuisce, serio, e fa per andarsene, ma Odino lo blocca con uno sguardo.

“Potrò contare sempre sulla tua obbedienza, e sulla tua fedeltà.”

Non è una domanda, né un'affermazione, ma quasi un pensiero, la richiesta di conferma di una sottomissione dovuta e scontata.

“Sono leale ad Asgard, e lo sarò sempre.”

Tyr sostiene ancora per un attimo lo sguardo imperioso dell'Allfather, poi si volta e si allontana
a grandi passi dal trono, lasciando il suo Re in compagnia della solitudine, eterna sposa del comando.




Asgard, stanze reali





Frigga ha da poco convinto Thor a ritirarsi, e si sente esausta. Si lascia cadere sul letto, sedendosi sul bordo del morbido materasso e concedendosi un breve momento di debolezza. Mentre si massaggia piano le tempie prova a mettere ordine nei suoi pensieri, ma il suo cuore infranto di madre è un mare in tempesta, una nave senza ormeggi.

Si rialza lentamente, il corpo rigido, e si incammina verso la terrazza più esterna, guidata dall'istinto e da un'esperienza ormai senza tempo.

La porta di bronzo si apre con un leggero fruscio, e l'aria fresca le accarezza la veste, increspando la superficie dell'acqua che giace placida nella vasca triangolare al centro della piccola sala. Le torce ardono anche se ormai è giorno inoltrato. La luce si spande nell'aria e rimbalza sulla figura immobile che si staglia contro il cielo.

Una così piccola terrazza può contenere il più grande tra gli Æsir, l'Allfather, e persino i suoi pensieri.

Odino osserva il suo regno dall'alto e non si volta, anche se l'ha sentita arrivare.

“Non mi chiedi come ho potuto farlo, questa volta?”

C'è qualcosa di incrinato, nella voce di Odino, anche se il suo tono è perentorio.

“Non mi hai ascoltata allora, non lo farai adesso.”

“Tu credi che io abbia sbagliato.”

Si volta e la fissa, scandendo con rabbia sottile l'ultima parola.

“Non gli hai nemmeno permesso di difendersi!”

È diventata brava ad essere solo regina, Frigga, ma un figlio vale molto più di un trono, anche se non ha il suo stesso sangue, e per questo sarà sempre più debole di Lui. Odino è la sua ancora, da sempre. Il suo compagno, la sua metà.

E il suo peggior nemico, talvolta.

“Se lo avessi fatto, probabilmente ora sarebbe morto, e non solo prigioniero dell'Oblio.”

Solo? Hai smarrito nostro figlio! Sai bene che si perderà, la sua mente non è mai stata sicura. Non mi hai nemmeno permesso di curarlo...”, la voce della regina si incrina in un singhiozzo soffocato.

Odino torna a guardare Asgard, le sue mura imponenti, le sue costruzioni d'oro, e abbassa la voce.

“Ti ho concesso però di custodirlo dove desideri, non dimenticarlo. E non dimenticare nemmeno ciò che ha fatto. Se Thor ci ha portato sull'orlo di una guerra, Loki ha condotto l'ombra del conflitto nella nostra stessa casa. Il tuo affetto acceca il tuo buon giudizio, mia Regina, altrimenti vedresti che
non poteva esistere un'altra soluzione.”

Frigga si appoggia sconsolata ad una colonna, socchiudendo gli occhi per impedire alla lacrime di cadere.

“Lo riporterai indietro?”

“Solo se sarà necessario, se sarà utile ad Asgard.”

La regina scatta in avanti, sconvolta.

“Come puoi parlare così di Loki? Come se fosse uno strumento, e non tuo figlio?”

Odino risponde al suo sguardo con durezza, ruvido e secco.

“Privo della mia misericordia, è ciò che è sempre stato.”

Frigga sbarra gli occhi e si sorregge al marmo gelido. Apre appena le labbra e ne esce solo un sussurro.

“Com'è possibile che tu sia sordo al tuo stesso cuore a tal punto?”




Passano i minuti, e finalmente Odino risponde:

“Perché io sono il Re.”

Ma ad ascoltarlo c'è solo il vento, la Regina se n'è andata, vinta dal suo essere madre di due soltanto, e non di tutti, lasciandolo solo a far tacere i rimorsi e a combattere per un bene senza volto.



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Capitolo 5
*** Nella mia mano, la speranza ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 5 – Nella mia mano, la speranza





Osservatorio Geofisico di Tromsø,  Norvegia




Jane si sciacqua di nuovo il viso con forza, poi intreccia le mani a coppa e le lascia sotto il getto d'acqua bollente, sperando che sia sufficiente a restituirle un po' di calore. Lo spazioso bagno coperto di piastrelle bianche è invaso dal vapore, una nebbia tiepida e soffocante.

“Va meglio?”

Darcy le porge un asciugamano azzurro e la fissa con l'espressione più seria che riesce a simulare, stringendo con forza le labbra per impedirsi di scoppiare a ridere da un momento all'altro.

L'astrofisica le lancia un'occhiata risentita e chiude con un gesto secco il rubinetto. Poi afferra l'asciugamano, affondando la faccia pallidissima nel panno ruvido, ed inspira con forza, frizionandosi il viso.

“Non c'è proprio niente di divertente”, sentenzia. La voce è smorzata dalla stoffa, ma colma d'imbarazzo e scoramento.

“Certo che no”, mormora Darcy a mezza voce, sogghignando, mentre passa una mano sullo specchio appannato, levando qualche strato di condensa. Sorride al suo riflesso e non riesce ad impedirsi di dire quello che la passa per la testa.

“Di certo il prof. Hall non sta ridendo.”

“Darcy!”

Jane rialza la testa di colpo e si protende verso di lei, gettandole addosso l'asciugamano. La stagista lo afferra al volo e lo distende, quasi a volerne fare una barriera, ed indietreggia allarmata.

“Tranquilla! Non vorrai vomitare addosso anche a me!”

L'astrofisica sbianca di nuovo e barcolla pericolosamente.

“No ora sto... sto bene”, affermazione che il corpo smentisce subito provocandole un nuovo capogiro, obbligandola a reggersi al marmo del lavandino per non franare a terra a peso morto.

“Come no...”, borbotta Darcy roteando gli occhi, poi la sorregge e l'aiuta a sedersi – a crollare – sul copriwater di ceramica smaltata.

La poveretta si tiene la testa tra le mani e mugugna lamenti incomprensibili, mentre la stagista si tiene a distanza di sicurezza, scuotendo la testa.

“Sarà un effetto del jet lag a scoppio ritardato.”

“Mmmh...”

“Magari combinato allo stufato di ieri sera, pure io l'ho trovato un tantino indigesto.”

“Mmmh...”

“Come si chiamava? Far-Far?”

“Mmmh... fårikål...”

Darcy agita con noncuranza una mano.

“Fa lo stesso. La cucina straniera è dura da digerire, soprattutto per una come te che vive di latte e cereali.”

“Nommh... er...sto.”

“Eh?”

Jane rialza lentamente il viso, lanciandole un'occhiataccia.

“Non credo sia per questo.”

La stagista abbassa lo sguardo, poi si riavvicina al lavandino e riapre l'acqua, lasciandola scorrere finché non torna fredda.

“È per quello che hai visto in TV?”

Le riempie un bicchiere e glielo porge, stavolta con aria sinceramente avvilita.

Jane manda giù a forza qualche sorso e poi stringe le spalle, rabbrividendo.

“Credo che sia più che altro per quello che non ho visto.”

Darcy fa una smorfia dispiaciuta e le si siede accanto, anche se il bordo sottile – e gelido - della vasca da bagno non è di certo la seduta più comoda del mondo.

“Sei preoccupata per Selvig?”

“Non ha mai risposto alle mie chiamate, Darcy. E se fosse...?”

Jane trattiene un singhiozzo, e l'amica le poggia una mano sul ginocchio, fissandola con aria di rimprovero.

“Non pensarci nemmeno, vedrai che chiamerà. Piuttosto, non è che il tuo malessere sia dovuto anche alla ricomparsa di un certo ex-barbone svitato di nostra conoscenza?”

Cala un silenzio di piombo. Ora è difficile anche respirare, non solo deglutire.

“Allora ho visto bene. Era lui. Era Thor.”

L'astrofisica ridacchia nervosamente, si scosta i capelli dal viso e ricaccia le lacrime con brevi respiri irregolari. Tutto lo stress, la frustrazione e la fatica di un anno le crolla addosso in un secondo.

“Cosa sta succedendo, Darcy?”

Ha lo sguardo perso e confuso, la giovane astrofisica, e la stagista vorrebbe davvero avere una risposta da darle, ma il suo solito acume sembra soffocato da una realtà impossibile da sdrammatizzare. Stira le labbra, avvilita, poi volta di scatto la testa e si alza, come se inseguisse un suono disperso nella nebbia.

Jane continua continua a fissare il vuoto.

“Se poteva, perché... Perché non è tornato prima? Perché non è tornato...?”

...da me?

È una domanda sciocca e infantile, e riesce a chiudere le labbra prima che le sfugga e la faccia sentire ancora più stupida. All'inizio aveva deciso di credere alla luminosa promessa fatta da un dio a una piccola umana, e l'aveva anche rincorsa per qualche tempo, tra tempeste magnetiche e laboratori di ricerca.
Poi, si era rassegnata alla verità.

“Jane...?”

Darcy la chiama e armeggia goffamente con la sua borsa di stoffa, scavando nelle tasche interne come se fosse alla frenetica ricerca di qualcosa, ma Jane non la sente neppure.

Cosa dovrei fare adesso?

Finalmente la stagista sembra trovare quello che cerca e, dopo un istante di silenzio, emette un lieve gridolino di gioia.

“Guarda Jane!”

Si precipita verso l'amica, si abbassa sulle ginocchia e le agita qualcosa contro la faccia. Qualcosa che vibra con insistenza.

L'astrofisica tiene la testa bassa, e sembra ancora persa nei suoi pensieri.

“Che cosa devo fare?”, mormora meccanicamente.

Darcy sbuffa e la scuote senza tante premure.

“Per prima cosa potresti rispondere al telefono. Guarda un po' chi c'è?”

Jane risolleva lo sguardo, stranita, ed incontra prima il sorriso impaziente e gli occhi sgranati di Darcy, e poi lo schermo illuminato del suo cellulare, che continua a vibrare a un palmo dal suo viso.

Riconosce subito il numero e per poco non si mette a gridare. Sullo sfondo scuro capeggia il faccione sorridente di Selvig, e basta quell'immagine rassicurante a smorzare in un istante tutte le sue ansie.




Asgard, stanze reali





“Sapevo che ti avrei trovato qui.”

Frigga sorride dolcemente, nella voce lo stesso affetto che le muove il cuore.

Thor è seduto sui gradini dorati della sala dei banchetti ormai vuota, ed è avvolto dall'inusuale silenzio che lo accompagna da quando è tornato da Midgard. Non appena la sente, rialza il viso e cerca i suoi occhi, provando inutilmente a dissimulare il dolore.

“Madre...”

La Regina gli si avvicina, e prova a cancellargli dal volto quell'angoscia terribile, che sente così sua, con una carezza senza tempo. Il dio del Tuono le stringe la mano e le bacia il palmo, poi si rialza e osserva il profilo di Asgard, che giace quieta e bellissima nel suo manto d'oro e d'aurora. Una volta, osservando quel perfetto riflesso di grandiosità e potenza, si sentiva coraggioso, si sentiva a casa.

Ora, avverte forte la mancanza, un lente grigia che offusca i pensieri e indurisce la scorza di un animo sconfitto.

“Non riesco ad abituarmi a ciò che ho perso, madre.”

“Nessuno ti chiede tanto, Thor.”

Il dio stira le labbra in un sorriso amaro.

“Io sì”, mormora con aria solenne. “È ciò che Asgard si aspetta da me. Ciò che Lui si aspetta da me.”

“Non devi farti carico di questo peso da solo. Parlami, ti prego.”

Thor le poggia una mano sul fianco, in un abbraccio spezzato.

“Avevi ragione, averti come madre è stata la più grande delle nostre fortune. Non meritate il dolore che vi ho causato, la colpa di tutto è mia, e mia soltanto.”

Frigga si sporge verso di lui e scuote teneramente la testa.

“Sei un bravo figlio, Thor. Lo siete entrambi. Non devi perdere la speranza che, un giorno, Loki possa tornare da noi.”

“Quanto dovrò aspettare? Sono passati solo venti giorni e mi sono sembrati mille.”

La Regina osserva orgogliosa il profilo fermo di quel figlio dal cuore così semplice, eppure così grande.

“Le sentenze di tuo Padre sono severe, ma giuste. E, tu dovresti saperlo molto bene, nascondono sempre un proposito più grande.”

“Forse sono cieco, Madre, ma non riesco a vederlo.”

“Fidati di me, Thor. Non esiste nulla di velato allo sguardo dell'Allfather, ma ci sono cose che i miei occhi vedono persino con più chiarezza dei suoi. Così come è stato per te, il fato di Loki sarà nelle sue stesse mani. Non permetterei nulla di meno.”




Frigga si ritira nelle sue stanze quando ormai la notte di Asgard ha avvolto i sogni di tutti i suoi figli, anche del più ostinato.

È inquieta, perché sul suo petto grava un peso tremendo, ma la decisione è ormai presa. Se l'onore di un re riesce a placarne i rimorsi di padre, il cuore di una madre non si arrende nemmeno se vincolato da una corona. Tocca a lei, stavolta, tentare; e tranciare un filo nella trama del destino.

Congeda due delle sue ancelle, che si ritirano discrete e silenziose, e fa avvicinare l'unica rimasta. Fulla, la più coscienziosa tra sue le serve, custode e partecipe dei suoi segreti, avanza rapidamente. Tra le mani regge con attenzione un piccolo scrigno lucente, e lo porge con una riverenza alla sua Regina.

Frigga lo soppesa tra le dita, che tremano lievemente, poi lo apre. Al suo interno, avvolta da uno strato di seta, giace la sua più preziosa reliquia, figlia di un'epoca lontana e quasi dimenticata.

La rivede dopo tanto tempo e si sorprende di quanto sia minuscola, l'arma che il Fato le ha concesso. In poco più di un'unghia giace il futuro di Asgard, la caduta o la rinascita di un regno.







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Capitolo 6
*** Senza maschere, nessuna difesa ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 6 – Senza maschere, nessuna difesa





... Oblio ...




Primo giorno



Loki riapre di scatto gli occhi e torna cosciente.
Si porta una mano al viso.
La museruola di ferro non c'è più, la pelle è sana, ma sotto i polpastrelli quasi non ne avverte la consistenza.

Il cielo è una stoffa impalpabile e bianca, quasi incolore. Soffocante.

Lascia ricadere pesantemente il braccio a terra, ma il tonfo ovattato che produce è a malapena udibile nel mutismo assoluto dell'Oblio. Si alza in piedi lentamente, aspetta il dolore, aspetta che quel pungiglione così familiare gli scuota le membra, invece non sente niente.

Il respiro si fa affannoso, ma non fa alcun rumore, solo un sibilo appena percepibile nel silenzio che grida spietato intorno a lui. Stende le braccia, si osserva le mani, le dita pallide e affusolate; poi contrae di scatto i pugni con forza.

Niente.

È come se sotto quella pelle diafana, che a stento avverte come sua, non ci sia nulla di vivo, né ossa, né muscoli, né sangue che scorre; solo pietra.

Loki stira un angolo della bocca e sogghigna, ma gli occhi non ridono affatto mentre osserva quel cielo bianco che sembra precipitare, quasi a volerlo inghiottire.

Chi sarebbe il padre delle illusioni, Allfather?

Si incammina in quella landa desolata e senza fine, e cammina per ore, forse giorni, senza fermarsi. I passi tengono un tempo che non esiste, mentre cercano inutilmente un'uscita, una salvezza che lo deride come un miraggio sempre al di là di un orizzonte tremolante.

Vuoi che mi perda? Vuoi che dimentichi? Non accadrà mai.

Ma ad ogni passo il cielo e la terra si fanno più vicini e gli rubano un frammento di memoria, nascondendolo nel bianco feroce di un vuoto che non esiste.



Decimo giorno



Senza fare alcun rumore, nell'Oblio cade la neve. È fitta e soffocante, come una pioggia di cera.

In mezzo al nulla, senza direzione, un uomo avanza a fatica nella tormenta.

Il terreno è un manto candido e vischioso, e ad ogni movimento affonda sempre più, ma non si ferma né rallenta. Era un dio una volta, di questo è certo, ma ora l'involucro è perso ed è rimasto solo un figlio tradito.

Perché mi hai rinchiuso qui, Padre cieco? Vuoi mostrarmi quanto vuota sia la mia mente?

Un lampo bianco, un passo malfermo, e cade in avanti, affondando in una coltre di neve senza temperatura né odore, solo opprimente consistenza. Lo terrebbe giù, sconfitto e ad annegare nel niente, se non trovasse chissà dove la forza di riemergere e di rimettersi in piedi. Barcolla, inspira con forza e si passa una mano sul viso.

Sei in errore, Padre. Se questa fosse la mia mente, ci sarebbe solo ombra, e mi ci potrei nascondere prima di azzannarti alla gola.

Riprende a camminare, sempre più stanco, sempre meno presente, lo sguardo fisso sull'orizzonte. Uno spartiacque appena visibile tra due tele del medesimo colore.

Hai già ritrovato e sovrapposto le tue impronte svariate volte, cosa speri di vedere?


Cieli pieni di stelle, torri d'oro e verdi foreste. Casa.

Non c'è più casa, per te; bandito e dimenticato dal Regno.
Quasi non ricordi più il tuo nome, vero?
Non ne sei degno...


Ciò che resta di una rabbia covata al buio per mille anni si condensa al centro di un petto senza battiti né fiato.

Perché?

Non ricordi cos'hai fatto?
Loki, l'aborto.
Loki, il maledetto.
Loki, il male senza cura.


Un ultimo grumo di consapevolezza prende possesso del di-nuovo-Loki, e il dio dell'Inganno ricorda. Ricorda una serie infinita di errori, di cadute, di privazioni. Scherni e debolezze, fautori di inutili rincorse a ciò che mai sarà né potrà essere. Quella quieta sofferenza, intima e silente, che ha covato e nutrito la Rabbia, amorevole e odiata compagnia di malefatte, illusioni, bugie, massacri.

Per un istante l'Oblio si tinge di rosso, monito e memoria di tutto il sangue che ha sparso con mano fredda e cuore troppo debole, poi il Bianco torna egemone.

Sono stato io a fare questo? Sì, io e solo io.

Perché?


Loki avanza sempre più lentamente, prova a ridere, ma è un riso senza eco. La lacrima pesante che gli riga il volto e precipita al suolo, invece, sembra fare finalmente rumore. Un suono terribile, una bozzolo che si frantuma.

Ha capito, alla fine.

Perché è il mio ruolo.

Non esistono strategie, né gloriosi propositi, che possano cambiare il fine ultimo del suo Fato. Per quanto faccia bene crederlo, nessuno gli ha piantato nel cuore il seme del male, perché era già lì, ci è nato, con un tarlo marcio che consuma la ragione per la brama di un amore egoista, e inghiotte e distrugge tutto anche quando trova quel che cerca.

Chi sei?


Anche l'ultima vestigia del ricordo si arrende e crolla.

Nessuno.

C'era la promessa di qualcosa di buono, persino per lui, un tempo. Ma era una bugia, una delle tante.
E ora le volta le spalle, per sempre.

Cosa sei?


Sorride e guarda il cielo sempre più vicino, e si sentirebbe quasi più leggero se la verità non fosse un intruglio velenoso, impossibile da deglutire senza avvertirne l'amaro.

Io sono il male necessario.



Ventesimo giorno



Senza fare alcun rumore, nell'Oblio si alza la nebbia. È densa e tiepida, come un vello di lana.

In mezzo al nulla, senza direzione, un ragazzo avanza alla cieca, le braccia strette al petto. Ha il viso di un bambino e gli occhi di un vecchio, verdi e cupi, come se avessero visto e compreso l'intero universo.

Eppure non ricorda niente.

Inspira la foschia a pieni pomoni, e la condensa gli scende in gola, cancellando ogni pensiero. Una vita senza macchia, ha perso ogni strato di marcio ed è rimasto ciò che avrebbe voluto/potuto essere.

Cosa c'è di più puro di un bambino senza colpe?

Cammina avvolto dal candore di una pace fittizia, indotta, bugiarda. Ma è pur sempre pace. Si sente quasi felice quando si ferma di colpo e si inginocchia a terra. Il suolo è traslucido e riflette l'immagine di qualcun altro, un uomo dagli occhi di ghiaccio, che ha conosciuto il dolore in ogni sua forma e l'ha donato agli altri.

Non vuole più vederlo, non vuole più sentirlo.

Crolla in avanti, il viso bellissimo – ma perché è rigato di lacrime? 
affonda nel molle tepore di un amnio bianchissimo, che lo accoglie e risucchia senza prepotenza. È prigioniero, ma è una gabbia gentile, senza sbarre; solo per lui. Niente lo può ferire, non può fare male a nessuno. Forse è quello il posto per lui, forse il Fato ha finalmente deciso di concedergli un po' di quiete.

Di ciò che è stato, della sua mente, resta solo un ultimo brandello, che gli permette di restare sveglio un altro po', chissà quanto.

E, mentre affonda sempre più nel torpore bianco dell'Oblio, chiede, prega, di poter dimenticare ed ignorare anche quell'ultima, fiacca, consapevolezza.




Asgard, stanze reali





Asgard dorme un sonno incosciente e tranquillo, ma all'alba mancano solo un paio d'ore e non c'è un attimo da perdere. Frigga richiude lo scrigno e deposita il piccolo involto nella mano tesa della sua ancella. Le richiude le dita, stringendole con tenace dolcezza.

“Sai cosa fare. Nessuno deve vederti, nessuno deve sapere cosa abbiamo fatto. Prendi il destriero di Gnà, dovrai essere veloce e silenziosa.”

Fulla annuisce, tesa. È pallida e ha paura, ma ama la sua padrona più di ogni altra cosa, e le è fedele come nessun altro.

“Qualsiasi cosa accada, dopo che l'avrai usata, vattene subito. Devi tornare prima dell'alba e attendere ai tuoi doveri come di consueto, senza dare nell'occhio. Conto su di te, non deludermi.”

“Non temete, mia Regina.”

La giovane abbassa la testa, il nastro d'oro tra i capelli riflette per un istante il bagliore scoppiettante dei bracieri, poi scivola via veloce e con il cuore in gola.

Il compito che le è stato affidato è estremamente rischioso e, ai suoi occhi, anche privo di senso, ma lo assolverà con cura ed efficienza, perché ha da tempo imparato a fidarsi del giudizio della sua padrona più del suo stesso istinto.




Frigga si affaccia alla terrazza di bronzo e fissa con apprensione le scuderie reali. Sono avvolte dal silenzio, come aveva previsto, finché di colpo non ne esce Fulla, in groppa all'agile Hòfvarpnir, che tira gli zoccoli e pare volare nella notte buia e quieta. Si allontanano quasi senza far rumore, sollevando appena un po' di polvere, e spariscono alla sua vista.

Aggrappata al bordo del parapetto, la dea chiude gli occhi e inspira in profondità, sperando ancora una volta che la decisione presa 
come madre, non come regina  sia giusta, e che la sua vista non l'abbia tradita.






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Capitolo 7
*** La runa bianca ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 7 – La runa bianca



Rovine di Fensalir, Asgard




Fulla scende dalla sella con un agile balzo, e i piedi affondano un poco nella melma tiepida. Lega il cavallo al tronco spezzato di un albero ormai secco, e il destriero sbuffa irrequieto, pestando nervosamente la terra molle di palude con gli zoccoli ferrati.

La città d'oro e il suo silenzio innaturale sono lontane, nascoste da una boscaglia fitta che filtra persino la luce delle stelle e si muta in un acquitrino stagnante e nebbioso. In quell'angolo nascosto – dimenticato 
di Asgard, sono saltati argini, mura, canali e sentieri, tutti inglobati e assorbiti dalle spire immortali di una natura atavica e bellissima.

In mezzo alla bruma, su una radura piana e accogliente, giace quel che resta di un antico splendore.

Celata sotto un mosaico perfetto di arbusti e intrecci ramosi, abbarbicati a rocce chiare e a simulacri in frantumi, si riesce ancora ad indovinare la forma di quella che un tempo – lontano, lontanissimo – era la dimora di Frigga, di Eir, e di tutte le Ásynjur. Quando erano davvero delle dee - giuste, temute, potenti - e non soltanto le mogli degli Æsir. Quando erano tutte regine, padrone di un potere senza pari, in quel palazzo di pietra bianca e legno di frassino, il più candido e splendente di una Asgard non ancora sazia di oro e sangue.
Ora, tra i giunchi e il pantano, non risuona più alcuna voce, nessun riso, nessuna preghiera. Eppure non c'è mai silenzio. L'acqua delle sorgenti scorre libera e gorgogliante, senza briglie, raccogliendosi in bacini placidi e fitti canneti, nutrendo una terra abbandonata e maledetta – Fensalir è un nome infame, si può solo sussurrare – che però non tace mai. Il vento accarezza il pelo dell'acqua e scuote dolcemente le foglie, soffia nei giuchi cavi e risveglia il gracidio concitato delle raganelle e il frinire ritmico dei grilli. In lontananza, al sicuro tra i rami robusti di querce secolari, le civette e i gufi intonano i loro lugubri richiami agli astri notturni, finché la luce del giorno non risveglierà il cinguettio degli uccelli di palude, in un infinito e immutabile ciclo armonico.

Se Fulla ne avesse il tempo – e il cuore – potrebbe ricordare che anche allora si udiva quella stessa melodia, e che ne faceva parte, ma all'alba manca poco più di un'ora e il ricordo è un filo di spine che ti ruba anche il senno, se glielo permetti. Quindi avanza risoluta, incurante del fango che le inzacchera il cuoio dei calzari, e del sibilo del vento – si dice che nella foresta che nasconde Fensalir agli occhi di Asgard viva un mostro dagli occhi rossi come sangue – e prega che il suggello apposto dalla Regina protegga anche lei.

Si avvicina alle mura diroccate e il terreno si fa più compatto, permettendole di camminare più velocemente. Segue con lo sguardo i bagliori intermittenti di piccole lucciole e ritrova il sentiero, quello che ha accompagnato i suoi passi per una vita intera, e di cui ora mette in dubbio persino il ricordo.

È stato solo un sogno? Quando chiamava per nome le stelle e ne udiva le risposte, tessendo il fato degli uomini con le sue sorelle come se fosse un filo di seta?

La domanda assilla Fulla per un istante e poi diviene fumo nella nebbia lattiginosa dei ricordi. Non ha più alcuna importanza. Asgard è cambiata, ha mutato persino i nomi dei suoi figli e ha cancellato un'epoca in cui bastava poco – un falò di legna secca, un canto intonato a più voci, la carne cotta sulle braci – per essere felici. L'era di Odino ha portato grandezza, potere e sapienza oltre ogni confine, ma anche sangue, l'odore marcio della morte, la furia della guerra, e ha imposto il silenzio su tutto quello che era stato prima.

Eppure, in quell'angolo sperduto di mondo, protetto dalla mano di Frigga, il tempo si è fermato. Del palazzo è rimasta un piedi una sola ala, la più interna e preziosa. Fulla spinge con decisione il piccolo portone di legno intarsiato, ormai quasi totalmente avviluppato d'edera, e viene accolta dalla luce tremolante di piccole candele.

L'ancella ne insegue il luccichio discreto lungo un breve corridoio, giungendo ad un salone affrescato e dal mobilio raffinato. Di fronte a lei, adagiato su di un letto mai sfatto, giace il corpo inerme del principe perduto. Fulla si avvicina titubante e ne osserva le braccia rigide, incrociate sul petto, e il viso immobile, senza colore. Sembra tinto di morte, pensa, tanto è fissa la maschera dell'incoscienza.
Eppure fa ancora paura.
Forse è per questo che la mano trema mentre la infila nella bisaccia che le pende su un fianco, e ne estrae l'involto di seta. Lo svolge con attenzione, riportando alla luce Wyrd, la runa bianca, e per un istante la fiamma delle candele sembra inchinarsi al potere del Fato, un omaggio o forse un monito all'insensatezza di ciò sta per fare.

Con una mano afferra il viso di Loki, sobbalzando per quanto è fredda e simile a pietra la sua pelle, e la mascella non oppone resistenza, dischiudendo le labbra e simulando un grido senza voce. Fulla gli appoggia con delicatezza la runa - un piccolissimo tassello vuoto, eppure così ricolmo di forza - sulla lingua, e per un lunghissimo, interminabile momento, dimentica di respirare. La pietra bianca sembra sciogliersi, ed è incredibile quanto somigli a una ragnatela il disegno che intesse mentre si sfalda, perde colore, svanisce tra le pareti di una bocca quasi senza respiro. L'ancella ritrova il fiato – e il coraggio – e richiude le labbra del principe, che sembra riprendere gradualmente colore, pur rimanendo sospeso nel suo sonno di piombo.
È andato tutto bene.
Fulla si volta, fa per andarsene, ma quando varca la soglia della porta ad arco avverte qualcosa. Le candele si spengono
e una civetta lancia il suo grido stridulo nella notte, che entra dalla finestra semiaperta trasportato da una folata di vento freddo. Il respiro dell'ancella si fa pesante, terrorizzato, quando sente un nuovo rumore, più vicino, alla sue spalle, a pochi passi. Stoffa che striscia sul pavimento, lamenti soffocati, e un bisbigliare rauco, che rimbomba tra le pareti e si muta in un suono agghiacciante, coma la risata roca di un corvo.



L'ancella si gira di scatto e indietreggia, fronteggiando qualcosa che non vede, e nell'oscurità i suoi occhi sbarrati incontrano il riflesso di altri due occhi, lucidi, folli (verdi?)
. Urlerebbe ma il grido le muore in gola.
Non è possibile.
Un sogghigno nel buio, silenzio, un passo, di nuovo silenzio, poi la sgradevole sensazione di perdere l'equilibrio la attanaglia da dentro. Il nastro d'oro che porta stretto tra i capelli si slaccia, le scivola sul volto, sibila – sibila!? - e si muove lento, come un serpente, freddo e squamoso. Quando scende abbastanza lo avverte vicino all'orecchio, un soffio umido le lambisce la pelle, ritmico e orribile, e finalmente la paura intrappolata nel petto si libera in un urlo acuto e sgomento, e Fulla si copre gli occhi con le mani, scuotendo con forza la testa. Qualcosa cade a terra, rumore metallico.

Cos'è successo?

Niente, le rispondono gli occhi quando li riapre, tutto è esattamente come dovrebbe. I lumi accesi, la luce fioca... il corpo immobile di Loki giace nella stessa posizione in cui l'ha trovato. Il suo petto si alza con più frequenza, il pallore del suo volto è meno marcato, ma niente sembra suggerire che la sua visione – suggestione? 
sia stata reale. Ma nonostante tutto Fulla non riesce a scacciare la paura che si è impossessata di lei. Si volta di scatto e corre, corre, corre, senza voltarsi indietro, verso l'uscita, attraverso il sentiero di pietra che diventa terra, fango, foresta. Il cavallo la attende inquieto, come se avesse fiutato il suo terrore, e sbuffa dalle narici nuvole di condensa.

L'ancella lo slega veloce, ma le mani non hanno presa e la corda le sfugge dalle dita, impattando con un tonfo liquido nella melma. Si china per raccoglierla ma un dolore, sordo, spietato, le percorre i nervi, la pelle, la mente, e la blocca a metà strada. Inspirando forte prova a rialzarsi, ma attraverso la nebbia che si è fatta più fitta le giunge un ringhio basso, selvaggio, e vicino. Si aggrappa ai finimenti del destriero, che pesta il terreno molle sempre più impaurito, cercando di tirarsi sulla sella, prima che il mostro arrivi. Ma è già lì, di fronte a lei, e ha davvero gli occhi rossi, spietati. Fulla lo riconosce, il pelo folto e nero, le zampe possenti, le fauci dischiuse e aguzze, schiumanti furia.

Freki, l'Ingordo, uno dei lupi di Odino. La sua guardia spietata, il suo sterminatore senza coscienza.

La belva latra – un verso spaventoso 
e si lancia verso di lei, cacciatore consumato e avvezzo divoratore, e l'ancella riesce con ultimo sforzo disperato a tirarsi sulla sella e a colpire con forza il dorso del cavallo, che si imbizzarrisce e si dà alla fuga, veloce come il vento. Il lupo tiene il passo e ulula, ringhia, affamato, finché la foresta non finisce e le torri dorate di Asgard non tornano in vista.
Casa.
Fulla si gira, ma nessuno la insegue, la minaccia è passata. Pochi minuti, e rientra nei cortili reali, vicino alla scuderia. Scende da cavallo, e quando tocca il terreno si sente incredibilmente stanca, dolorante, fiaccata. Decide di non farci caso e permette al destriero di abbeverarsi: ha il dorso madido di sudore e sembra affaticato.
Fulla sospira. Ha svolto il suo compito, all'alba manca ancora un'ora, va tutto bene.
Freki non era previsto, ma se Loki si dovesse davvero risvegliare – cosa improbabile, ormai non crede già più a quello che gli occhi le hanno suggerito, al buio – sarà un ottimo deterrente ad ogni tentativo di fuga. L'importante, ora, è tornare al servizio di Frigga, darle la buona notizia: la mente del figlio è salva: un giorno, forse molto lontano, le speranze della regina troveranno anche un volto.
Eppure Fulla non riesca a sorridere, qualcosa non torna.

Accarezza il manto bruno del cavallo, e la vede. La sua mano. Grinzosa, sottile, malferma, come quella di una vecchia. Si scopre il braccio e vede la stessa cosa, la pelle si ritira in pieghe e solchi, marcendo, rubandole le forze. Crolla a terra e si porta una mano tra i capelli, diventati sottili e stopposi, e capisce. Il nastro d'oro, il dono di Frigga alle sue ancelle, suggello di eterna giovinezza, è stato davvero perduto. Senza quell'unica barriera, il tempo riguadagna terreno e le strappa di dosso una maschera fittizia, brandello dopo brandello. Non ha mai temuto davvero la morte, ma se questa arrivasse ora, renderebbe inutile la discrezione della Regina, il suo piano sarebbe svelato, la sua vita in pericolo. E da un tradimento simile, non ci sarebbe assoluzione.

Fulla striscia a terra, piangendo, e le lacrime percorrono antichi solchi rugosi di nuovo esposti sul suo viso, cercando un nascondiglio, disperata, quando all'improvviso si accorge di non essere sola.
Al pozzo, una giovane dai capelli d'oro la fissa sconvolta. Dev'essere una serva, tra le più umili, dato che è già sveglia e laboriosa prima dell'alba, e ha gli occhi velati da un'ombra di malinconia. Lascia cadere il secchio colmo d'acqua sul selciato e le corre incontro, inginocchiandosi accanto a lei.

“Mia signora...” mormora, la voce è tiepida e limpida. Evidentemente l'ha riconosciuta dagli abiti come una delle ancelle della Regina, ma non comprende cosa le stia accadendo.

“Chi sei?”, domanda Fulla, e non riconosce il sussurro ruvido che esce dalla sue stesse labbra.

“Una serva di Asgard” mormora la ragazza, portandosi una mano al petto, “appartengo alla dea Lofn. Ditemi come posso aiutarvi.”

Fulla stringe le palpebre, la osserva con attenzione eppure non riesce a ricordare di averla mai vista.

“Chi sei?”, ripete, in un altro rantolo affaticato.

“Il mio nome è Sigyn, mia signora. Ora, vi prego, ditemi cosa fare.” Ha gli occhi spalancati, di un azzurro intenso.

“Aiutami a trovare un posto... in cui nascondermi. Ho perso il mio nastro, e la morte mi raggiungerà a momenti, non devo essere trovata... Meglio perire nel disonore... che mettere in pericolo i piani della Regina.”

Sigyn aggrotta la fronte e scuote leggermente la testa.

“Voi non morirete.” Lo dice con decisione, dolcemente, prima di aiutarla ad alzarsi e a portarla all'interno di un capanno di legno e mattoni, dove sono conservate le sementi e il foraggio per i destrieri degli Æsir.

“Sapete dove avete perso la vostra fascia d'oro?”

Fulla annuisce stanca, e bisbiglia: “Fensalir... a terra, nell'unica sala dove si trovano candele accese...”

Un ascesso di tosse violenta le impedisce di continuare, e si accascia su se stessa, sempre più debole, senza accorgersi dell'ombra che ha attraversato lo sguardo di Sigyn, oscurandole per un istante gli occhi e il viso. La giovane serva deglutisce, poi estrae dalla tasca della veste una piccola ampolla. Ne svita il tappo di sughero e l'avvicina alle labbra raggrinzite di Fulla, spiegando:

“È linfa di frassino, bevete e vivrete abbastanza da attendere il mio rientro.”

L'ancella beve avidamente il liquido bianco e dolciastro, poi intende le parole di Sigyn e si blocca, fissandola sgomenta.

“Fensalir non è lontana, e il vostro cavallo è il più veloce, farò ritorno prima che albeggi.”

Fulla vorrebbe fermarla, ma riesce a malapena ad sollevare il braccio rinsecchito, la voce non esce, e la ragazza è già corsa fuori, sente i suoi passi rapidi sull'acciottolato, il nitrito sommesso di Hòfvarpnir e il rumore dei suoi zoccoli che pestano la terra e si fanno sempre più lontani.

È troppo tardi, non ha potuto dissuaderla, né avvertirla del pericolo.
Una nuova lacrima le riga la guancia, portando con sé anche l'ultima speranza.

Non tornerà.




Aeroporto di Tromsø, Norvegia





La pista d'atterraggio è avvolta dal riflesso di un incerto sole di fine maggio, e anche se finalmente le temperature cominciano a farsi vagamente accettabili, Jane sente freddo e si stringe nella giacca rabbrividendo. Darcy è al suo fianco e ciondola nervosamente sulle caviglie, senza preoccuparsi di trattenere sbadigli e mugolii di disapprovazione.

Alzano lo sguardo contemporaneamente mentre un piccolo jet esegue una parabola nel cielo terso e limpido, prima di atterrare con grazia sull'asfalto sgombro.

L'astrofisica inspira profondamente, tesa, e osserva il portellone di metallo scuro come se volesse aprirlo con la sola forza del pensiero.

Dopo un paio di minuti scende un frastornato Selvig, che si porta una mano sugli occhi, schermandosi dalla luce, e scende i pochi gradini guadagnando finalmente la terraferma. Jane gli corre incontro e lo abbraccia con affetto, come se non lo vedesse da chissà quanto, come se avesse temuto di...

“Ho temuto che non ti avrei più rivisto...”. Ha gli occhi sgranati e umidi, gli stessi che aveva quando era solo una studentessa minuta e imbranata, lasciata orfana dal mondo e perennemente con gli occhi tra le stelle. Non che ora sia cambiata poi molto.

Selvig sente una stretta al petto e si sforza di sorriderle, ma è così pesante il fardello che si porta dentro, e non vuole che nessun altro – e men che meno Jane – se ne accorga.

“Sto bene” riesce a mormorare, sfiorandole i capelli in un gesto paterno che vale quando l'amore di un vero padre.

“Devi raccontarmi tutto, cosa è successo a New York? Ho visto le immagini, era un portale, vero? Quello era un ponte di Einstein-Rosen? Quello...?”

…Quello era Thor?

“Tranquilla, Jane, ora abbiamo tempo, ti spiegherò tutto, con calma.”

“Non dimentichi il dovere, dottor Selvig.”

Un uomo esce dal jet portando due grosse valigie, che deposita ai piedi di Erik, prima di rivolgere uno sguardo cordiale all'astrofisica.

“Dottoressa Foster, è un piacere.”

Ha un bel sorriso, occhi svegli e scaltri da faina, ed è decisamente più muscoloso di quel che sembra. Jane allunga una mano titubante.

“Piacere mio, signor...?”

“Agente Clint Barton”, replica l'uomo stringendo la sua mano in una presa decisa e ferrea.

“Agente? Intende dire che lavora per lo S.H.I.E.L.D.?”

Clint ritrae la mano e inforca un paio di occhiali da sole scurissimi. Tipico.

“Aveva dubbi, signorina?”

“A dire la verità no.”

Clint ridacchia e Jane squadra interrogativa Selvig, che afferra con uno sbuffo le valigie e le si affianca.

“Io e Occhio di Falco abbiamo lavorato insieme, se così si può dire.”

“Una collaborazione piuttosto inusuale”, conviene l'agente Barton, incrociando le braccia.

Occhio di.. falco?” domanda Jane sempre più confusa.

“Ti spiegherò tutto, ora però è meglio andare, sono piuttosto stanco.” E mi serve una birra.

L'astrofisica non può far altro che annuire, lanciare un rapido sguardo di commiato all'agente – Occhio? Falco? 
e tornare sui suoi passi.

“Dottore!”

Il ronzio del motore in avvio del jet riempie l'aria ma il richiamo di Barton si fa comunque sentire. Selvig fa segno a Jane di proseguire, poi si volta verso l'agente, in attesa.

“Sicuro di farcela?” chiede Clint a mezza voce, aggrottando lievemente le sopracciglia.

Selvig ridacchia, tristemente, e alza appena le spalle, replicando:

“Sicuro che passerà?”

Barton irrigidisce la mascella, cercando di nascondere la rabbia dietro un sorriso di circostanza.

“Certo, ma dipende da lei. Passerà, anche se ci vorrà del tempo” 
una vita – grida una voce nella sua testa.

Selvig sembra più smarrito che mai, ma finge di crederci davvero in quella bugia.

“Certo”, mormora abbassando lo sguardo. Poi rialza gli occhi, stirando le labbra. “Arrivederci, agente Barton. La terrò informata sui risultati delle nostre ricerche.”

Clint annuisce e lo osserva mentre si allontana e raggiunge la dottoressa Foster, che si è fermata a metà della pista per aspettarlo. Poi, silenziosamente, entra nell'abitacolo del jet e si abbandona su un sedile, la testa fra le mani. Il velivolo decolla, ma non se ne accorge nemmeno.

“Passerà”, bisbiglia, ma l'irritante ghigno di Loki, quel suo tono supponente, che ha imparato ad ignorare ma che continua ad infestare la sua mente, lo deride ancora una volta.




Selvig raggiunge Jane e riprende a camminare al suo fianco, tentando di sfuggire al suo sguardo indagatore. Osserva il sole che si staglia al di sopra dei monti e prova a cambiare argomento.

“Ero convinto che fosse notte.”

“Lo è”, conferma l'astrofisica, allargando le braccia, “ti presento il sole di mezzanotte.”

Selvig rimane un attimo interdetto, realizzando per la prima volta che si trova davvero in Norvegia, davvero a nord del Circolo Polare Artico.

“Ora mi spiego le occhiaie di Darcy, fanno impressione”. La stagista li osserva immobile, lo sguardo vacuo di chi non riesce a dormire da troppe notti.

Jane trova la leggerezza e il sollievo di concedersi una risata.

“Ti consiglio di non stuzzicarla: morde. Più del solito, intendo.”









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Capitolo 8
*** L'ora dei segreti ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 8 – L'ora dei segreti





Palazzo di Sessrùmnir, Asgard




Ci sono poche cose in grado di turbare l'animo di un guerriero, e Tyr ha imparato a riconoscerle sin da ragazzo, quando ha scelto per amante una spada e per amico il braccio che la regge.

Una è il silenzio, perché ricorda l'istante incerto che precede il fragore della battaglia, quando si è tutti uguali, tutti deboli, tutti perdenti; come pure la fine dei combattimenti, dopo l'urlo di vittoria, quando la polvere si posa su un terreno che gronda e si contano i morti.
Per questo indossa sempre la sua tintinnante corazza, anche ora, mentre siede - solo - sui quieti gradini esterni di Sessrùmnir, e tende le orecchie inseguendo anche il più lieve rumore.

Un'altra è l'immobilità, perché il riposo delle membra è l'anticamera del trapasso: illude la vista, abbassa le difese, nutre i pensieri più nefasti e libera le paure.
Quindi anche adesso affila la sua spada, in un movimento ritmico e istintivo che gli è naturale quasi quanto il respirare, pietra contro ferro, scintille stridenti e odore di bruciato. Una, dieci, cento volte.

Tyr non abbassa mai la guardia, nemmeno ora che Asgard dorme, avvolta da un sudario vischioso e quasi nauseante nella sua perfezione, perché quella che Odino chiama pace - ma lo è davvero? - è l'unica cosa che il dio della Guerra teme. Ha accecato gli occhi di tutti, col tempo, e ora Asgard e il suo Re sono ridicolmente deboli, costretti ad elemosinare aiuto dalla più degradante e fallace delle alleate.

Freya è ormai incontrollabile, una belva affamata e vendicativa. Un capriccio di gioventù dell'Allfather si è dimostrato un ennesimo, vergognoso errore. Quando era solo una fanciulla dalla bellezza perfetta e intatta, ha pagato il prezzo della tregua con Vanaheim con la sua stessa pelle; il suo reame l'ha usata senza remore come merce di scambio e Odino l'ha sedotta con l'illusione di un trono che non aveva alcuna reale intenzione di condividere col lei. Ha scaldato il suo letto per qualche notte, per poi votarla ad un proposito deviato e abietto, a cui non avrebbe mai sottoposto nemmeno la più umile delle serve di nascita asgardiana. Uno stratagemma scaltro e degno di un tiranno, che ha permesso di vincere una guerra e di ottenere un vantaggio che ancora oggi possono sfruttare; ma Freya, la più bella dei Nove Regni, non ha mai perdonato, e giorno dopo giorno ha soffocato onore e buon senso nel rancore e nell'indecenza più immorale. Eppure è scaltra, non lascia prove, e sa approfittare perfettamente della tolleranza di Odino, tanto che nessuno osa palesare un tradimento che è da secoli sotto gli occhi di tutti. Da quando Asgard si è corrotta a tal punto?

Un cavallo nitrisce, interrompendo il filo amaro dei pensieri del dio, e quando lo scalpiccio di zoccoli si fa più vicino Tyr smette di affilare la sua lama e alza lo sguardo, abbozzando l'ombra di un sorriso.

Da un destriero immacolato scende con naturalezza un uomo – un dio –; i capelli color della neve e lo sguardo limpido. Accarezza un istante il manto bianco dello stallone, poi si volta nella sua direzione e sorride, il passo sicuro e cadenzato.

Tyr si alza e ripone con un gesto secco la spada nel fodero, e allunga un braccio in direzione del nuovo arrivato.

“Balder.”

“Fratello...” risponde il più amato tra gli Æsir, ricambiando prontamente la stretta, “...immaginavo di trovarti già qui.”

“Sono passati secoli dall'ultimo incontro della nostro Triplice Patto, ma io ne rispetto sempre gli antichi fondamenti. Prima, deve giungere la Guerra. Poi, la Pace. Infine...”

“...Infine, viene la Giustizia.”

Tyr e Balder si voltano di scatto, per poi portarsi simultaneamente una mano al petto, in un gesto di rispetto e obbedienza. Odino è arrivato senza fare rumore, sebbene a condurlo sia stato Sleipnir, il suo colossale destriero a otto zampe. Indossa la sua armatura più scura, solo lievemente bordata d'oro, e ha nello sguardo una nube ancora più tetra. Si avvicina con decisione, e poggia una mano su ciascuna spalla dei due Æsir, i suoi consiglieri più fidati, fratelli e figli allo stesso tempo. Con loro, dai tempi del Grande Inizio, ha risolto le più grandi controversie di Asgard, ne ha giudicato i nemici con saggezza e, come adesso, ne ha protetto i segreti.

“Fratelli, mai avrei auspicato un giorno come questo. Mai.”

Li guarda negli occhi con tale intensità da far loro dimenticare che abbiano una sola iride in cui specchiarsi, poi comincia a salire i gradini con grave lentezza.

“Eppure, è giunto. Non possiamo rimandare oltre, per il bene di Asgard. Seguitemi.”

Il portone si apre con un fragore di metallo, ma all'interno del salone buio non trovano nessuno ad accoglierli. È chiaro che non sono i benvenuti.

A differenza della notte di Asgard, le stanze di Sessrùmnir non tacciono mai, e tra le pareti e gli arazzi si rincorrono risate smorzate, sospiri, canti e ritmici richiami. Uniche testimoni di tanta lascivia: decine di candele tremolanti.

Odino è una maschera di pietra, ed avanza imperioso, mentre Balder lancia occhiate di puro sconcerto alla volta di Tyr che, sempre più disgustato, scuote la testa ad ogni passo. Asgard non gli è mai sembrata così bassa come lo è ora.
Si fermano davanti alla scalinata di marmo grigio che conduce alle fondamenta di quel palazzo immondo, all'enorme segreto sepolto sotto strati di terra, roccia, oscurità.

Un'ancella con una maschera dorata sugli occhi si avvicina reggendo una torcia di legno secco, e la lamella di fuoco scoppietta e danza, disegnando riflessi dorati sulle pareti.

“Benvenuti, Signori di Asgard. Freya vi permette di scendere alla cella sotterranea. Io vi farò da guida.”

“Grazie...”, Balder riesce appena ad accennare un sorriso, prima che la rabbia di Tyr diventi voce di tuono.

“Non abbiamo certo bisogno del permesso della tua indegna padrona. Fatti da parte, conosciamo la strada.”

Dietro la maschera, l'ancella sembra sostenere lo sguardo del dio senza scomporsi, nemmeno quando lui la allontana con una spinta decisa; poi rivolge lo sguardo verso Odino, chinando leggermente il capo.

“La cortesia di Freya merita un compenso, non credete, Allfather?”

“Taci!”, tuona Tyr, la mano già corsa all'elsa della spada, “O preferisci che ti tagli la lingua io stesso?”

Balder gli frena prontamente il braccio, sussurrando:

“Non oggi, fratello. Non siamo qui per spargere sangue.”

“Siamo qui per farci insultare, allora? Da troppo tempo la mia lama non saggia la carne, e da ancor più tempo ci crogioliamo nella molle tolleranza, nella sterile diplomazia. Dov'è finita la nostra forza?”

“Basta.”

L'autorità risiede nelle poche parole di chi non può essere smentito, e il Padre degli dei le ha sempre sapute scegliere, né mai si è mai trattenuto dal pronunciarle, anche quando erano lame e umiliazioni.

“Ci sarei riuscito, Padre!
…per te! Per tutti noi...”

“No, Loki.”

“La nostra forza, oggi, è la saggezza dell'esperienza. I nemici che affrontiamo sono il lascito dei nostri errori passati, e non possiamo permetterci di commetterli di nuovo. Non ne abbiamo il tempo.”

Odino serra le labbra, e finalmente Tyr e Balder riescono a scorgere l'immane preoccupazione che gli attraversa lo sguardo. Senza proferire altra parola lo seguono con rapida concentrazione, seguiti a breve distanza e in silenzio dall'ancella, scendendo sempre più in basso, circondati dal buio freddo che sale dalle viscere di Asgard.
Poi, d'improvviso, quando l'ultimo gradino è lasciato alle spalle, un cono di luce bianca filtra dall'alto, generato da un intricato meccanismo di specchi e fessure nella roccia, e indica la via attraverso le ante spalancate di un colossale portone di metallo intarsiato.

Balder si volta indietro mentre lo attraversano, e socchiude gli occhi. Nessuno li segue più, l'ancella pare sparita.

Il salone scavato nella pietra che li accoglie è riscaldato da un braciere che arde senza mai spegnersi, il suo crepitare rimbomba ritmico tra le pareti da ere incalcolabili. Dall'alto, nascosta dalla roccia, filtra altra luce, bianchissima, e investe una cella quadrata senza sbarre né porte, ma sigillata da quattro lastre di cristallo trasparente, lamiere inviolabili forgiate in un lontanissimo passato. All'interno di quella gabbia stupefacente, dove tutto è bianco - soffitto, pavimento, pareti – i contorni immobili del prigioniero paiono una ferita nera e profonda. Ritto in piedi, volge loro il fianco e non si sposta, nemmeno quando i padroni del Cielo si portano di fronte alla cella, vicinissimi eppure così fastidiosamente al di fuori della sua portata.

“È un onore rivederti così presto, Allfather...”

La pelle sembra calce sbiancata e si tende appena mentre parla: una voce cupa, arida, la voce di un giovane invecchiato dal tedio e dalla prigionia, nato già in catene ma mai rassegnato all'esilio.

“...non sei solo, questa volta?”

Balder e Tyr si scambiano una veloce occhiata che tradisce una domanda e un dubbio, e Odino, un passo avanti a loro, si affretta a colmarne l'incertezza.

“Allora, l'urgenza era impellente. Thor doveva giungere subito su Midgard, e tu sai raccogliere l'energia oscura necessaria per aprire un varco tra i nostri mondi. Ma oggi ci servi per altri scopi, Malekith.”

“Oh, io so perché siete qui”, ghigna l'elfo, voltando la testa e rivelando l'abominio di un volto candido solo per metà, l'altra è guastata da una pelle che pare corteccia bruna e scaglie d'ossidiana, come quella di tutti gli abitanti di Svartalfheim. “Sapevo che sareste venuti. L'ho capito quando quelle crepe sono apparse, almeno un anno fa...” e mentre lo dice indica una, cinque, dieci fenditure nella roccia, partite come sottili fessure ma ormai divenute spaccature profonde e irregolari, sempre più ampie, “...sono ovunque, non è vero? In ogni sotterraneo della vostra amata Asgard. Nascoste al popolo... ancora per quanto? Cosa dirai quando le torri cominceranno a crollare, le case a franare, l'oro a marcire?”

Balder sussulta, abbandonando le braccia lungo i fianchi, e volge lo sguardo su Odino.

“Cosa? È l'intera città ad essere un pericolo?”

“L'intero regno” ribatte Malekith, inespressivo, “come hai potuto non accorgertene, principe asgardiano? Oppure la tua vista era troppo offuscata da ozio e idromele?”

Balder stringe i pugni e deglutisce, stringendo le palpebre.

“Quando... quando è iniziato?”

“Il Bifröst è linfa e sostegno del nostro mondo” spiega il Padre degli dei, “quando Thor l'ha troncato per salvare Jotunheim ha spezzato un equilibrio vitale che va ripristinato al più presto, prima che le nostre stesse fondamenta ci inghiottano.”

Tyr si lascia sfuggire un verso di disapprovazione, e incrocia le braccia possenti.

“Immaginavo che le azioni impulsive del nostro principe si sarebbero rivelate scellerate – ancora una volta – ma non capisco perché ci serva l'aiuto di questo aborto.”

Malekith ghigna appena, accarezzandosi il mento, proprio dove si incontrano due colori, due pelli, due razze, in un gesto misurato e provocatorio divenuto ormai istintivo.

“Il ponte dell'arcobaleno è l'arteria di Asgard. Quando Mjolnir l'ha reciso ne ha interrotto il percorso, ma non il flusso. Voi non siete in grado di vederla, l'energia, ma io la avverto anche ora, mentre si lancia nel vuoto, prosciugando il vostro mondo, goccia dopo goccia. Occorre ripristinare il Bifröst e ricostruirne il dispositivo di controllo, altrimenti la cancrena vi dilanierà.” E sembra quasi che goda al solo pensiero, l'elfo oscuro, orrore nato per errore, figlio maledetto di Freya, una pedina "sacrificabile" immolata per inganno al re di Svartalfheim e riscattata troppo tardi.

“E tu puoi farlo?”, domanda Tyr, scettico.

“Dimentichi di chi sono figlio.”

“Affatto, lo ricordo bene. Ricordo quando ho scagliato quel disertore di tuo padre nel Limbo, prima del Grande Inizio, quando abbiamo sottomesso il tradimento di Svartalfheim a fil di spada.”

“Tradimento? Il debito di Asgard è incolmabile. Chi vi ha dato il vostro potere? Chi ha forgiato le vostre armi? Ricordi solo ciò che appaga il tuo riflesso, signore della Guerra. Svartalfheim ha modellato Gungnir, Mjolnir, come pure il congegno che regola il Bifröst. E io, in cambio della libertà, posso costruirlo di nuovo.”

Odino frena con un cenno Tyr e avanza di un altro passo verso la cella.

“Se desideri tornare nel buio del tuo mondo morente, ti accontenterò. Prima, però, dimmi come riparare il ponte.”

Malekith inclina appena la testa, e la treccia di capelli bianchi gli dondola lievemente sulla spalla.

“Non ci arrivi, Padre degli dei? Ciò che crea, distrugge.”

“Immaginavo. Il potere del martello non ha eguali: implacabile arma per demolire o impareggiabile strumento per edificare, a seconda dell'intenzione di chi lo impugna. Dovrai dunque solo ricostruire il dispositivo di controllo. Dimmi cosa ti occorre.”

“Solo tre cose: una fucina...”

“Verrà allestita qui, e tu non potrai uscire dalla cella.”

“... Lo sospettavo, grande Padre. Dunque necessito dei migliori fabbri dei Nove Regni, i figli di Ivaldi.”

“La loro razza è estinta, così come lo sarà presto la tua” ringhia a labbra strette Tyr.

L'elfo gli riserva una rapida occhiata gelida, prima di replicare:

“Il tempo ha indebolito la tua memoria, guerriero. Restano Dvalin ed Eitri, a Niflheim. Non li hai condotti all'esilio tu stesso, molti eoni fa?”

Tyr aggrotta la fronte, stringendo le braccia al petto.

“Esilio che ormai li avrà resi polvere, in una terra di nebbia e morte.”

“Non esiste nessuno di più longevo dei nani, soprattutto se della loro stirpe. Non sono carne e sangue, come voi, ma roccia e radici. Ma, se non mi credi, puoi verificare tu stesso.”

Malekith allunga una mano verso la parete della sua cella e appoggia appena un dito su quella superficie traslucida, descrivendo piccolo cerchio. Dall'altra parte della lastra di cristallo si forma una piccola sfera nera, che rimane sospesa qualche istante a mezz'aria, poi rotola a terra rimbalzando più volte, fino a fermarsi ai piedi del dio della Guerra, che si china ad afferrarla, soppesandola tra le dita. E molto più pesante di quel che la sua massa suggerisce e stranamente tiepida, la superficie nero-bluastra in continuo movimento.

“Ho condensato sufficiente energia oscura per un viaggio, ingoia la perla e ricorda il luogo dove hai già condotto i due mastri nani. Lo raggiungerai in un battito di ciglia.”

Tyr stira ironicamente un labbro, fissando l'elfo in tralice.

“Mi credi tanto inetto? È un viaggio di sola andata.”

Malekith lo fissa senza timore, passandosi una mano sul mento. Poi allunga nuovamente la mano e ripete il gesto, formando una nuova sfera.

Tyr la raccoglie e la incastra sotto la corazza, e si porta l'altra alle labbra. Rivolge uno sguardo contrariato verso Odino, prima di inghiottirla.

“Dunque è così che Thor ha potuto manifestarsi su Midgard. Davvero onorevole.”

“Ho fatto ciò che andava fatto per proteggere i Nove Regni, e tu lo sai.”

“Certo...” mormora Tyr, voltandosi. Ispira profondamente e chiude gli occhi. Asgard è cambiata, e non ha intenzione di tradirla, ma di certo non riuscirà mai a mutare con lei. Molto presto avrà di nuovo bisogno della sua spada – ne è certo -  e della sua onesta devozione. Fino ad allora, seguirà il consiglio di Odino e la sua vista acuta, anche se intrisa di un tipo di saggezza tortuosa e a lui incomprensibile. Ingoia la perla e la sente scendere piano lungo l'esofago; in un istante il portale si apre davanti – e dentro -  di lui, e sparisce in lampo dorato.

Balder, rimasto muto e pensieroso da vari minuti, sembra riscuotersi. Cerca per un istante la sagoma del dio guerriero dove ora non c'è più nulla, poi muove in avanti, affiancando il Padre degli dei di fronte alla cella.

“Cos'altro ti serve?”

Malekith segue solo con gli occhi la sua voce, rimanendo immobile.

“Il giusto materiale. Se volete che il dispositivo funzioni correttamente, deve saper imbrigliare ed indirizzare l'energia del Bifröst, altrimenti collasserebbe su se stesso. Esiste un solo metallo in grado di sostenere un tale sforzo: l'uru.”

“La miniere di uru sono estinte da secoli.”

“Certo, ma del metallo che ne venne estratto ne rimane più che a sufficienza, non è vero? L'avete usato per ricoprire, anzi inondare d'oro le vostre mura, i palazzi, le case e perfino utensili e armature.”

Balder si volta di scatto verso Odino, allargando le braccia.

“Dovremmo spogliare Asgard e privarla delle sue vesti e del suo potere? È una pazzia!”

Il volto dell'elfo nero sembra impassibile, ma nasconde un ghigno famelico.

“Pensaci bene, Allfather. Cosa sei disposto a sacrificare, per ciò in cui credi?”

Il Padre degli dei sostiene lo sguardo con l'autorità del comando; se è in dubbio o in assillo, non lo dà a vedere. Annuisce gravemente, poi poggia con fare paterno un braccio sulla spalla di Balder, infondendogli un po' di coraggio.

“Il popolo capirà, non c'è altro modo”. Poi si volta verso Malekith e imperioso prosegue: “Comincerai l'opera al ritorno di Tyr. Questa è l'unica occasione che avrai per ottenere clemenza: non sprecarla.”




Foresta dimenticata, nei pressi delle rovine di Fensalir



Mancano ormai pochi filari di alberi all'ampia radura che ospita le rovine del palazzo, quando Hòfvarpnir si blocca di colpo, inchiodando gli zoccoli al terreno. Sigyn prova a restare in sella, stringendo con forza le redini, ma il cavallo indietreggia terrorizzato, rizzandosi sulle zampe posteriori e sbalzandola a terra.

La botta è meno forte del previsto, attutita da uno strato di muschio umido, ma quando la ragazza prova a rialzarsi facendo presa su una roccia, la pietra affilata le taglia la pelle, aprendo uno squarcio profondo nel palmo. Geme sommessamente stringendo la mano al petto e si volta, restando a terra. Il destriero bruno è appena dietro di lei e continua a pestare la terra, nitrendo e sbuffando. Prova a calmarlo allungando le dita tremanti verso il muso dell'animale, ma improvvisamente si fa un gran silenzio, innaturale. Rimane immobile e respira piano, mentre da terra si alza una nebbia sottile che odora di pioggia e di marciume. E lo sente.
Un ringhio alle sue spalle, basso, omicida, vibrante. Lo sente insinuarsi sotto la pelle come un brivido, e la ferita pulsa e brucia. La creatura alle sue spalle libera un latrato basso e raccapricciante, quasi di scherno, e sbuffa forte. Avverte il suo fiato sul collo, tra i capelli, e comprende cosa deve provare una falena imprigionata tra i fili ingannevoli di una ragnatela l'istante prima del morso fatale.
Si volta lentamente, col respiro mozzato, e la fissa negli occhi, la creatura.

Se mi vuoi, non ti darò la soddisfazione della caccia.

È un lupo.
 
Enorme e nerissimo, con gli occhi rossi e rotondi come bacche selvatiche. Spalanca le fauci, e latra famelico, schiumando una striscia di bava bianca. Non le lascia nemmeno il tempo di gridare.
Quando le salta addosso e tenta di azzannarla alla gola, riesce a ritrarsi appena in tempo, la mandibola del lupo schiocca e si serra a vuoto vicinissima al suo orecchio. Ha schivato il primo affondo, ma non avrà la stessa fortuna una seconda volta. La belva ritrae il capo un istante, prendendo la rincorsa per l'assalto letale, e Sigyn segue l'istinto in un'estrema, futile, mossa disperata. Serra gli occhi e spinge in avanti la mano ferita, tentando di allontanare da sé la bestia per almeno un altro secondo, per un'ultima boccata d'aria, un ultimo pensiero.

Non voglio morire. Non voglio fallire.

Le dita insanguinate impattano sul muso del lupo, sfregando le narici umide e spalancate. La belva indietreggia di colpo, soffiando e scuotendo la testa. Sigyn riesce a rialzarsi appena e la vede dimenarsi come impazzita, per poi lanciare un ululato acuto e straziante, tristissimo. Un piccolo stormo di uccelli abbandona spaventato il rifugio sicuro di ramo con un frullo d'ali e il lupo si volta di colpo, fissandola per un lunghissimo, interminabile secondo.

Poi, così com'è apparso, il lupo svanisce nella nebbia.

L'ancella rimane a terra, ansante, in attesa di un attacco a sorpresa che però non arriva. Lentamente, passano alcuni minuti, e tiene il tempo ascoltando i battiti agitati del suo cuore che le rimbombano forte nelle orecchie. Poi, decide che deve rischiare. Ha un compito vitale, da lei dipende una vita, o forse più. Si alza in piedi con cautela, inghiottendo un grumo acido di saliva e, ignorando la nausea che le avvolge le pareti della gola, risale a cavallo. Hòfvarpnir sembra di nuovo tranquillo, e la accoglie sul dorso senza vacillare e, obbediente, riprende il galoppo.

Quando giungono di fronte alle rovine del palazzo, Sigyn scende dalla sella e strappa una striscia di tessuto dalla sua semplice veste per fasciarsi la mano che continua a stillare sangue. Individua subito il sentiero seminascosto dalle erbacce, e insegue uno sciame di lucciole. La terra sotto i suoi piedi risuona d'acqua e di polvere, a seconda di dove si posa il suo passo, e le fronde degli alberi sembrano sussurrare indicazioni senza tempo. Lo sente, Sigyn, il canto che intona Fensalir, una melodia spezzata e malinconica che le entra nella testa, e le fa venire improvvisamente voglia di piangere.

'Nostalgia.
Fensalir intona un lamento per il ritorno di una sua figlia perduta.'

Si porta una mano alla bocca e trattiene un singhiozzo, imponendosi di non fermarsi.

Dimentica.
Il passato dei tuoi avi.
Il motivo per cui hai sempre desiderato e temuto venire qui.

Ci sono cose che non saranno mai alla sua portata, lo sa bene, e non ha senso sperare, illudersi, provare a capire, ricordare, rivendicare. È solo un'umile figlia di Asgard che cammina leggera all'ombra della sua benevolenza, e tale dovrebbe restare. E, soprattutto, ha un compito da svolgere, una promessa da mantenere.

Arriva di fronte ad una porta avvolta d'edera, lasciata spalancata dalla fuga di Fulla, probabilmente. All'interno, un ambiente che odora di muffa e di tempo lontano, illuminato da piccole candele. Imbocca il breve corridoio e giunge in un salone più grande, dove l'aria profuma invece di carta, legno inchiostro. Ma dove aleggia anche qualcos'altro, qualcosa di malato e cupo, come una piaga purulenta.

Sigyn vede ripiani ricolmi di antichi volumi, affreschi sbiaditi dal tempo, un'altra porta sfondata dall'umidità che sembra dare sull'esterno e, finalmente, il motivo per cui si trova lì. Sul pavimento giace il nastro dorato di Fulla, perso in istante di panico di cui non comprende la ragione. Il lupo è fuori, la stanza pare un rifugio sicuro.

Sigyn si china rapida e raccoglie il semplice gioiello, e il metallo è freddo e liscio tra le dita. È allora che lo vede. Un uomo – un ragazzo? - abbandonato su di un letto sfatto, scomposto. Il petto dello sconosciuto si alza e si abbassa frenetico, mosso dall'aritmia di un respiro sincopato, e dal braccio che sporge verso il basso, quasi a sfiorare il terreno, gocciola senza sosta un sottile fiotto di sangue scuro.
Sigyn smette di respirare e si rende conto di star stringendo con troppa forza il nastro d'oro quando una fitta di dolore cieco le attraversa la vista. L'uomo è sveglio.

Volta il viso verso di lei, ma è seminascosto dai capelli neri, che gli ricadono sulla pelle sudata in ciocche sudicie e scomposte.

“Chi sei?”

Ha una voce profonda, forse arrochita dalla solitudine, tagliente, e quando si alza nota che anche i suoi lineamenti sono affilati e scarni. Si regge in piedi a fatica, ma ha nello sguardo tanto odio da farle tremare il cuore.

“Non rispondi? Chi ti manda? La regina? Il mio amato Padre? Non importa, non credere di poter fuggire e vivere. Questa volta no.”

Sigyn non lo riconosce, non comprende le sue parole, ma avverte chiaramente la paura strisciarle sulla spina dorsale come un serpente di seta. Dalla finestra semiaperta entrano le prime luci di un'alba che incombe, e non ha più tempo.

Si volta di colpo e prova uno scatto, ma la sua fuga si interrompe dopo pochi passi, quando si ritrova di fronte l'uomo che fino a un attimo prima stava dall'altra parte della stanza.

Com'è possibile?

Lo fissa sgranando gli occhi, impietrita da quella smorfia crudele che gli attraversa il volto. Lui alza un braccio verso di lei, tentando inutilmente di nascondere la fatica che quel semplice gesto evidentemente gli provoca, e stringe le dita, lentamente.
Sembra afferrare solo aria, ma Sigyn si sente improvvisamente soffocare, il collo stretto in una morsa invisibile.
Lui ride.
È una risata sghemba, folle, agghiacciante.

Poi, di colpo, volta gli occhi all'indietro e mostra il bianco dei bulbi, emettendo un lamento soffocato. Sigyn si sente di nuovo libera, e prende un respiro profondo e disperato. Poi, tutto accade in un attimo. L'uomo le frana addosso, ma lei riesce a mantenersi in piedi. Avverte il tanfo malsano delle sue ferite aperte, il calore della febbre che gli divora le membra, l'odore dolciastro del sangue e infine, il tonfo secco del suo corpo che crolla a terra. Non aspetta altro, non controlla che si muova ancora, semplicemente corre con quanto fiato le resta in corpo.

Un passo dopo l'altro, senza pensare ad altro, solo alla luce che sta per invadere ogni cosa e alla vita di Fulla appesa ad un filo. Non si rende nemmeno conto che è già salita in groppo a a Hòfvarpnir, che stanno galoppando insieme contro il tempo, che manca poco, che può farcela, che è ormai giunta al capanno dove l'attende l'ancella di Frigga.

Scende dal cavallo di corsa, e l'alba è davvero giunta quando si china al fianco di Fulla, che sembra non respirare più, e le infila tra i capelli ormai bianchi la fascia dorata. Pochi, veloci battiti di ciglia, e niente sembra cambiare. Lo sconforto sta per vincerla quando l'ancella di Frigga improvvisamente prende un respiro, con forza, come se fosse il primo di una nuova vita. Quando rialza il viso, le rughe si fanno via via più sottili, la pelle si distende e gli occhi si fanno luminosi e umidi.

“Ci sei riuscita...”

Persino la sua voce è ormai tornata quella fresca e giovane che appartiene al suo aspetto, e Sigyn d'istinto le stringe le braccia al collo, sollevata, nascondendo una lacrima tra i suoi capelli di rame.

“Hai salvato la mia vita, e non solo...” mormora Fulla, rialzandosi, finalmente sicura, “...meriti un encomio.”

“Affatto, mia signora. Sono una serva di Asgard, un premio non mi si addice affatto. Vi prego solo di riprendere il vostro compito e di salvaguardare i piani della nostra Regina, è l'unico compenso che conta.”

L'ancella di Fulla inclina il viso, guardandola con ammirato stupore.

“Chiunque altro avrebbe chiesto una ricompensa, ma tu hai dimostrato la vera lealtà. Ti avvenga come desideri, non farò parola del tuo aiuto.”

Fa per andarsene, ma si blocca sull'uscio, colta da un pensiero, e si volta.

“A meno che... Hai visto qualcuno? È accaduto qualcosa di strano?”

E ora Sigyn dovrebbe dire che sì, nella foresta vaga un lupo dagli occhi rossi, che ha provato a  sbranarla, per poi fuggire senza motivo apparente. Dovrebbe dire che nelle stanze di Fensalir vive un mostro dall'aspetto d'uomo, che ha ferite profonde, ed è ricolmo di un odio e di una rabbia che sfugge alla sua comprensione. E che anche lui l'ha assalita. Ma, se lo facesse, dovrebbe anche spiegare il perché sia ancora viva e questo, nemmeno lei lo comprende. E, probabilmente, non potrebbe mai più tornare a vedere i selvaggi giardini di Fensalir, le sue rocce chiare, né udirne il richiamo.
Un istinto antico, una voce interna e compagna d'ogni donna che la sappia ascoltare le consiglia di tacere, perché l'ora che precede l'alba è l'ora dei segreti, e questo è il suo, e lo deve difendere, se vuole tener viva una piccola, flebile speranza egoista.

Ingoia il dubbio in un sorriso leggero, ma tirato, e abbassa gli occhi chiari.

“Ho solo recuperato il vostro nastro, mia Signora.”

Ed è la verità, anche se non tutta, e per Fulla è più che sufficiente. Sigyn la sente correte via, sollevata, leggera, verso i suoi doveri di corte. Dovrebbe alzarsi anche lei e riprendere il suo lavoro, ma indugia ancora. La testa è pesante, i pensieri come macigni la inchiodano a terra, e nella mente si fa strada la convinzione che qualcosa, nel suo Fato, sia cambiato per sempre.

 







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Capitolo 9
*** Il tradimento e l'attesa ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 9 – Il tradimento e l'attesa





Cella sotterranea, Sessrùmnir (Asgard)




Malekith incrocia le braccia, rigido, prima di volgere lo sguardo verso la parete di roccia scura più lontana dalla cella.

“Esci fuori.”

Dall'ombra, il sorriso malizioso appena accennato e il passo lento, emerge la figura di Amora. Cammina sicura, a testa alta, e si ferma a pochi centimetri dalla gabbia di cristallo, in attesa.

“E così Lei ha mandato il suo cagnolino più fedele, stavolta. Che ne è stato dell'altro?”

“Parli di Freyr? [1] Oggi è impegnato, Asgard è in festa e il popolo in fermento. In onore del principe Thor, tornato vittorioso da Midgard, è stata indetta la Grande Caccia, e ogni guerriero partecipa. Dunque ogni asgardiano.”

L'elfo squadra la donna da capo a piedi, impassibile, poi rilassa le braccia lungo i fianchi e si volta.

“Dunque Lei ha mandato te. Qual è il suo messaggio?”

L'Incantatrice ridacchia sommessamente, quasi un sussurro tra le labbra socchiuse.

“Nessun messaggio, Lady Freya mi ha inviata semplicemente ad osservare per poi riferire. Ma io non sono qui solo per questo.”

Il Dannato [2] gira appena la metà più chiara del volto verso di lei, senza tradire né curiosità né fastidio, aspettando che prosegua.

“Non sono un'ingenua, Malekith. So chi sono i tuoi alleati e cosa avete in mente...”

“Tu non sai nulla, inutile fem... ”

“... forse, ma conosco l'unica verità che conta: il vostro piano non fallirà.”

L'elfo si volta e colma la distanza tra loro con due rapide falcate, mentre Amora alza lievemente il viso per poterlo fissare negli occhi attraverso la parete trasparente, mascherando alla perfezione l'orrore dietro ad un sorriso sfacciato.

“Sei qui per venderti ai nemici di Asgard, quindi.”

“Quando sarà tutto finito voi ne sarete i signori, o sbaglio? Sto semplicemente agendo con lungimiranza.”

Malekith si sfiora il mento con un dito, leccandosi le labbra. La lingua è violacea è ributtante, ma la donna si sforza con tutta se stessa di non guardarla, stringendo i denti.

“Davvero divertente. Non hai nulla da offrirmi eppure pretendi clemenza.”

Amora allarga il falso sorriso e socchiude appena le palpebre, inclinando il viso. Una ciocca di capelli scuri sfugge dai fermagli a gemma e le ricade sulla guancia, solleticandole la pelle. Sta sudando freddo, ma è ormai così brava a non darlo a vedere da sorprendere persino se stessa.

Un'allieva perfettamente patetica.

La voce di Freya è un colpo di frusta tra i pensieri, ma lei non è più una bambina spaurita da molti, molti anni.

Si dice che i migliori superino infine i loro maestri; lasciandoli indietro, nella polvere.

Infila una mano affusolata tra le pieghe della veste, poi la allunga verso la parete di cristallo, il palmo verso l'alto. Apre le dita come se fossero setosi petali di fior di loto, rivelando un piccolo frammento di metallo rilucente.

“Te ne porterò uno ogni giorno, se prometti di risparmiarmi.”

Malekith si concede un basso sogghigno, quasi impercettibile.

“Sei scaltra e ben informata, asgardiana. Non faccio promesse, ma il nuovo Regno avrà bisogno di consiglieri obbedienti e fidati. Potresti avere una possibilità.”

Per un attimo, negli occhi neri di Amora, si accende una scintilla viva e pulsante, quasi infantile, di pura gioia. Poi, fugace com'è apparsa, scompare, e la maschera dell'Incantatrice torna al suo posto.

“Mi basta”, mormora a voce bassa, come se parlasse a se stessa, e muove cauta un paio di piccoli passi, il braccio ornato di bracciali sempre steso in avanti. La parete di cristallo trasparente oppone appena resistenza, poi rivela una consistenza semiliquida e vischiosa, permettendo il passaggio della sua mano, increspandosi come una pozza d'olio smossa dal lancio di una pietra.
Malekith osserva le sue mosse con sguardo rapace e distante, decidendo di metterla alla prova. Ha ormai immerso fino il braccio fino al gomito nella cella, riesce a fiutare l'odore pungente e speziato della sua pelle – ed è quasi nauseante sentire un profumo dopo tutti quei secoli, quando ha ormai imparato a riconoscere l'aroma della vergogna, dell'attesa, del silenzio, perché non ha mai avuto nient'altro – e lo fissa. Per quanto sia brava a nascondere tutto, l'elfo vede la sua paura, perché se per anni interminabili l'unico volto che ti ritrovi a fissare è il tuo riflesso sbiadito su uno schermo di vetro apprendi ogni declinazione possibile d'espressione, e impari davvero a seppellirle tutte sotto un'apparenza di pelle e pieghe immobili.
Oh, ora sta tremando, l'Incantatrice, un lievissimo fremito le percorre le dita, il polso, e non sfugge a uno sguardo acuto e tagliente, che ha carpito persino le gradazioni del buio e il moto millenario della roccia. E per una volta può concedersi di fingersi carceriere, e non prigioniero eterno.

Le afferra il braccio e le richiude il polso in una morsa d'acciaio gelido e Amora sussulta, negli occhi finalmente chiarissimo il terrore. Conosce l'inganno di quella prigione senza sbarre, dove tutto può entrare e nulla uscire, e sa che Malekith potrebbe incatenarla al suo stesso fato con un semplice strattone. Passano secondi interminabili, scanditi dal crepitio costante del braciere acceso e dai battiti di un cuore sconvolto che rimbombano tra le orecchie dell'asgardiana come tonfi sinistri.

L'elfo sogghigna, assaporando il vantaggio del potere, poi, lentamente, allenta la presa, le dita ruvide percorrono la pelle d'ambra e seta di Amora, il polso sottile, afferrano la scheggia di metallo e si ritirano a pugno, bramose. L'incantatrice ritrae di getto il braccio, ma il gesto è troppo repentino e la parete trasparente resiste al moto quasi fosse una cascata di resina, e il dolore/terrore le percorre tendini e giunture, centimetro dopo centimetro, finché la libertà non produce un sospiro ansante e sollevato. La donna arretra, il respiro irregolare, massaggiandosi piano il polso portato al petto in un istintivo gesto di difesa e osserva la cella, le increspature si stanno placando e rivelano via via il prodigio racchiuso al suo interno.

Malekith sbriciola tra le dita la piccola placca metallica, le scaglie d'argento levitano e si condensano formando una sottile lastra in continuo movimento, quasi uno specchio di mercurio. Una finestra clandestina su un altro mondo, dall'altra parte del cosmo, di cui intravede roccia, buio, e pulsanti luci blu. [4]

E prima che l'immagine si faccia aspetto e parola – e sarebbe un volto di pietra e una voce di ferro – Amora si volta e corre via, verso l'alto, verso un'altra penombra che però sa almeno un poco di casa, lasciando il Dannato ad intessere le trame di un inganno mortale.




Niflheim, Caverna dell'Abisso




Tyr riapre gli occhi di scatto, inspira e si schiarisce la voce, massaggiandosi la base del collo. Il globo si energia oscura ha svolto il suo compito alla perfezione, ma a differenza del Bifröst lascia strascichi che a lungo andare distruggerebbero anche il corpo di un asgardiano; persino di un Æsir, nonostante la benedizione di Odino.
In fondo alla gola resta un vago retrogusto di carne bruciata, in testa, un sibilo intermittente e stridulo, e nei tendini, sotto muscoli e pelle contratti, un tremore diffuso.

Il dio si riscuote, alzando ritmicamente le spalle e stirando le gambe possenti, riattivando la circolazione e i tessuti intorpiditi; poi estrae la spada con un gesto secco che produce una nuvola di piccole scintille, e si inoltra nella Caverna dell'Abisso. Niflheim è ormai un mondo senz'anima e senza vita, e quel che reticolo di grotte e sentieri privi di uscita, scavati nella pietra nera e porosa tipica del Regno della Nebbia, è l'ultimo memento di una civiltà ormai perduta.

I rami di Yggdrasil si sgretolano uno dopo l'altro, Grande Padre.
Riuscirà Asgard ad opporsi ad un fato che incombe e pare già scritto?

Ad ogni passo risulta sempre più chiaro il perché quel dedalo sotterraneo venisse utilizzato in tempi remoti come prigione da tutti i Regni. Ai lati del sentiero scorrono piccoli rigagnoli d'acqua gorgogliante e giallastra, che diffonde nell'aria un vapore fetido e soffocante.

“Zolfo”, mormora Tyr arricciando il naso “più di quanto ne ricordassi.”

Passo dopo passo, i ruscelli si fanno sempre più profondi e ampi, divenendo ben presto veri e propri corsi d'acqua torbida ed incandescente. Ogni tanto riaffiora qualche carcassa resa ormai irriconoscibile dall'erosione, le ossa bianche corrose ed esposte rendono appena intuibile la razza di appartenenza, poi la corrente con un gorgo le risucchia di nuovo a fondo, continuando a consumarne il pallore finché non ne resterà più nulla.
Il dio della Guerra schiocca la lingua, contrariato. Come può esserci ancora qualcosa di vivo, là sotto?

Avanza rabbioso lungo cunicoli via via più larghi, la luce filtra e si riflette attraverso i mille piccoli fori di quella roccia nera e lucida, ma il cielo rosso di Niflheim è lontano e irraggiungibile. Supera decine, centinaia di resti scheletrici di ogni genere: jotun, uomini, elfi... Alcuni sono ancora coperti da brandelli di pelle secca e scampoli di stoffa lacera, legati a spessi ceppi di metallo e distesi a terra, altri sospesi a mezz'aria ondeggiano lievemente in una macabra danza funebre.

Dopo vari minuti, quando il rumore d'acqua si fa più forte e il vapore più denso, Tyr comprende di essere arrivato. Si lascia alle spalle un'immensa cascata di acque putride e ricolme di zolfo, e il frastuono delle rapide copre il rumore concitato dei suoi passi, ma non l'imprecazione che sputa fuori dai denti.

“Per le Norne!”

Davanti a lui si estende la grotta più interna dell'intero alveare, ampia e spaziosa quanto basterebbe per l'accampamento di un drappello di soldati, e risuona di echi metallici e richiami gutturali, che riconosce all'istante come l'incomprensibile lingua dei nani.

“Quei due piccoli bastardi...”

Dvalin ed Eitri hanno saputo impiegare con impareggiabile perizia i secoli d'esilio. A mezz'aria, fissata a tre massi di roccia lucida, si allarga un'impressionante ragnatela di catene e spessi legami di metallo opaco. Richiusa su se stessa, fissata sopra i tre macigni, potrebbe avviluppare tra spire di ferro uno sventurato prigioniero, e svolgerebbe lo stesso compito della tagliola: una trappola mortale e spietata.
Tyr afferra l'elsa della sua spada con entrambe le mani e sferra un colpo micidiale a uno degli anelli di ancoraggio, ma il metallo resiste e le catene tremano appena, producendo un eco cigolante che si propaga sinistro attraverso le gallerie cave.

“Non è un materiale comune. Non può essere spezzato, nemmeno dal metallo asgardiano.”

Dvalin è tozzo e tarchiato come ogni appartenente alla sua razza, ma la barba bianca e ispida unita ad uno sguardo acuto gli conferiscono un aspetto nobile e insondabile. È il Re dei nani, ma ciò non spiega una fine intelligenza e una saggezza che generano quasi riverenza e che, tra le altre cose, gli hanno permesso di imparare l'All-Tongue, così da poter comunicare in ogni Reame.
Tyr stira le labbra sottili in un sorriso aspro, riponendo la lama nel fodero con una mossa secca e tornando ad osservare le spesse catene.

“Dunque è indistruttibile?”

“Quasi. Abbiamo estratto la dargonite [5] dalla pietra nera di Niflheim, ma il processo le ha fatto perdere una delle sue più notabili prerogative...”

Il mastro nano richiama il suo sottoposto con un borbottio gorgogliante, ed Eitri si avvicina con cieca ubbidienza. Passa accanto a Tyr senza nemmeno guardarlo, negli occhi una fissità vitrea, e intinge l'estremità di un legaccio metallico nelle acque sulfuree. Quando lo ripesca, dopo pochi istanti, è un moncone fumante e semi disciolto.

“Affascinante” mormora ironico il dio, “non mi aspettavo di ritrovarvi vivi, ma di certo non pretendevo una tanto calorosa accoglienza.”

Dvalin lo fissa, aggrottando le sopracciglia folte e canute.

“La trappola non è una punizione per te...”

Punizione?

“... anche se, forse, se ti immolassi sarebbe un sacrificio più che fruttuoso.”

“Tu vaneggi, vecchio nano.”

“No, vedo abbastanza lontano da credere in una pazzia che potrebbe salvarci – salvarvi – tutti.”

Tyr libera una risata secca e roca, poi afferra Eitri senza nessuno sforzo e se lo carica su una spalla. L'omuncolo si dibatte appena e grugnisce sommessamente, ma non osa opporsi alla poderosa stretta del dio.

“Anni di esalazioni venefiche hanno intorpidito la tua mente, piccolo re. È una fortuna che Asgard abbia di nuovo bisogno di voi, e possa passar sopra al misfatto che vi ha relegato qui.”

Inoltre, non mi piace per niente quello che vedo, pensa con fastidio Tyr, fissando ancora una volta l'immenso intrico di catene. Sopra il masso di roccia più altra, dalla parete, emerge uno spuntone di pietra, lungo quanto un braccio e largo una decina di centimetri. Sembra cavo, forse un piccolo canale di scolo - ma per cosa? - e visto dal basso ricorda sorprendentemente l'aspetto di un serpente a fauci spalancate, pronto a sputare veleno.
Cattivo presagio.

Il dio mormora uno scongiuro e senza attendere oltre si porta alle labbra la perla nera. La trattiene sotto la lingua, dove inizia a spargere un aroma amaro, e afferra anche Dvalin per il busto, che non reagisce ma bisbiglia un'ultima frase priva di senso.

“Non si torna indietro, adesso. Hai fatto la tua scelta, asgardiano, ma senza conoscerne le conseguenze.”

Una tetra profezia che rimarrà inascoltata, o il semplice delirare di una mente vecchia e guasta?

Non sta a Tyr il provare a comprenderlo, né la volontà di farlo: lui è nato per la guerra fisica, per la lotta tra carne e armi, e non per la tortuosa indolenza dei pensieri. Dunque inghiotte senza remore il globo di materia oscura, ricercando quella strada tra le stelle che lo riporterà ad Asgard con i suoi prigionieri, al sicuro, nel Regno di oro e luce.




Balcone esterno, Osservatorio Geofisico di Tromsø (Norvegia)




Jane fissa a occhi socchiusi un cielo che preannuncia tempesta.
Raffiche di vento gelido le sferzano a più riprese il viso, scompigliandole ulteriormente dei capelli già spettinati a sufficienza. Prende un respiro profondo, alzando le spalle lentamente, poi si volta e getta uno sguardo verso l'interno della sua camera.
Darcy è seduta, il viso affondato tra le braccia appoggiate al tavolo di legno chiaro, addormentata. Quando ha provato a spostarla per accompagnarla a letto, ha ringhiato.
Erik, sdraiato per lungo sul divanetto, le gambe a penzoloni, dorme a pancia all'aria. Ha perso conoscenza alla terza birra, ma è stata una fortuna, perché quello che è riuscito a raccontare era ormai troppo.

Troppo doloroso.
Troppo incredibile.
Troppo tutto.

Ed è per questo che Jane non riesce a dormire, quel tutto è troppo ingombrante persino per una mente acuta e abituata a calcoli impossibili come la sua.

“Sei scaltra, più di qualunque altro in questo Regno.”

Appena dietro le labbra serrate si smorza un risata dolceamara, che fino a ieri non avrebbe trattenuto, ma che ora cozza con una realtà con cui fatica a scendere a patti.
L'astrofisica torna a fissare le nuvole scure che si addensano all'orizzonte, ma i pensieri in testa sono un vortice impazzito e tentare di estrarne uno sembra un'impresa impossibile.

Concentrati, Jane.

Analizza, rifletti.
Cerca soluzioni, schemi, spiegazioni.
Un minimo di senso.

Un lampo squarcia la coltre di nubi facendola sobbalzare d'istinto. Tende le orecchie e aspetta che arrivi il tuono – Thor? - ma passano i secondi e non succede nulla. Lancia un rapido sguardo al polso, l'orologio di plastica segna le sette e mezza. È quasi ironico che in quei giorni di luce perenne l'oscurità giunga proprio di prima mattina, appena dopo l'alba, portata dal temporale.

Un altro fulmine disegna per un istante un ramo incandescente nel cielo plumbeo, e stavolta il tuono arriva: un boato stordente e tremendo; come se qualcosa, nei più alti strati dell'atmosfera, si fosse spezzato di colpo.

D'accordo.
Riprenderò a cercarti, come ho sempre fatto.

La prima goccia di pioggia è fresca e le accarezza il viso, e Jane si chiede se sarà forte abbastanza, anche se non avrà mai la consapevole leggerezza di Darcy, o il cuore di Erik e la sua assennata esperienza,

Da domani io...

La seconda goccia è uno schiaffo gelido che le ricorda che non ha tempo, che non può più permettersi insicurezze, cadute, inutili attese. Le rammenta il suo essere donna di scienza, il suo amore per i quesiti della fisica e per i misteri del cosmo, la tenacia e l'entusiasmo curioso con cui ha sempre saputo affrontare nuove sfide – anche se spesso sola – perché il pensiero non ha briglie e la vera conoscenza è senza confini.

No, Jane, non domani.
Oggi.

Corre dentro prima che la bufera la investa e, senza rendersene nemmeno conto, mentre estrae i suoi appunti e si prepara alla ricerca, trova la forza di sorridere e di nascondere la paura dentro un quaderno degli appunti pieno di speranza.

 







***






Note 

[1] Fratello di Freya, nel mito anche lui viene portato ad Asgard dopo la guerra tra Vanir ed Æsir. Il suo inserimento in questa storia vuole essere un semplice riferimento ad una scena del prequel "Rinascita", dove il Senza Nome comunica con un misterioso alleato asgardiano.

[2] Nella versione originale dei fumetti Marvel, The Accursed (il Maledetto, o il Dannato) è un 'titolo' di Malekith.

[3] Anche questo è un riferimento al prequel di questa storia, dove vediamo il sottoposto di Thanos utilizzare lo stesso metodo per comunicare con gli alleati dell'Eterno a Svartalfheim e Asgard.

[4] Nell'universo Marvel, è la lega pià resistente, apparentemente indistruttibile e di origini sconosciute (mi pare ^^), in grado di spezzare anche l'uru.

-.-.-.-.-.-.-.-.-.-

Volevo approfittare di questo spazio per ringraziare di cuore i coraggiosi e le coraggiose (non vi merito!) che continuano a seguire e leggere questa storia, vorrei poter aggiornare con più frequenza (rimpiango l'anno scorso, quando riuscivo persino a leggere una buona percentuale delle storie del Fandom, oltre che ad aggiornare più regolarmente... sigh, gli impegni purtroppo cambiano! T^T) e mi rendo conto che questi capitoli potrebbero risultare un po'... pesanti? Strani? Ho deciso di lasciar più spazio a personaggi 'secondari' per tentare di costruire un sottostrato più solido (?) e sensato (????), ma i personaggi originali del film che sono rimasti un po' in ombra finora (sì, Thor, sto guardando te XD) non resteranno in panchina ancora per molto!


Grazie e alla prossima!

Sayuri



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Capitolo 10
*** Pensieri egoisti, azioni sbagliate ***


Capitolo 1 - La caduta di un dio

Capitolo 10 – Pensieri egoisti, azioni sbagliate





Asgard, cortili reali




Le ginocchia raccolte al petto, una mano a terra e una sulla guancia, a sfiorare pelle e capelli, Sigyn attende.

Che finisca il silenzio.
Che l'alba spazzi via il ricordo di una notte che sa di proibito e di sbagliato.
Che arrivi, finalmente, la voglia di muoversi, di alzarsi.

Il muretto di pietra del pozzo - unico specchio dei suoi pensieri da sempre - è freddo e le punge la schiena, ma è un piccolo dolore utile, che la distrae da un desiderio che non dovrebbe avere.

Fensalir chiama, una nenia costante che insiste e rimbalza nell'ultima eco di ogni suono, insinuandosi tra il ronzio basso degli insetti e il chiassoso risvegliarsi di una città in festa.

Torna, figlia perduta. Torna e ritrova ciò che è andato smarrito. Ciò che ti appartiene.

Scuote la testa e si ravviva la chioma dorata, sorridendo con amarezza. Ci sono cose che è meglio non desiderare, né cercare, perché illudersi di avere meriti e diritti riaprirebbe una ferita ancora slabbrata, e allora sì, perderebbe davvero ogni cosa. Eppure...

Un improvviso squillo di trombe taglia l'aria e irrompe in ogni angolo di Asgard, diffondendo note di festa e di gloria, annunciando la Grande Caccia.

Di colpo nei cortili rimbombano voci e suoni metallici, passi pesanti e risa ancora impastate dal sonno: i guerrieri di Corte sono già pronti a sellare i destrieri e a presentarsi davanti al trono di Odino per prendere parte ad una sfida senza tempo, che accoglie tutti i figli di Asgard quasi come una giostra. Un gioco di guerra antichissimo che premia forza, valore e risultati.
Sigyn si alza, scuotendo via la polvere e il terriccio dalla gonna umida – un osservatore attento la vedrebbe, l'ombra del sangue che ha lavato via dalla stoffa grigia e quella fasciatura stretta che le imprigiona un palmo – e osserva in silenzio il via vai concitato dei soldati.

“Siete già in piedi, Lady Sigyn?”

Lør non è poi tanto più giovane di lei, eppure la onora sempre di un titolo che a conti fatti non le spetta. Ha la pelle ambrata di chi è nato nelle terre più settentrionali, labbra sottili e occhi bellissimi, grigi e svegli, ora seminascosti da palpebre ancora sonnecchianti.

“Non riuscivo a dormire”, le risponde con un sorriso appena accennato.

La ragazza si tormenta una treccia rossiccia e si stira come un gatto, soffocando uno sbadiglio dietro il palmo. È una delle poche ancelle a cercare la sua compagnia, forse l'unica che si accorge sempre di lei nonostante i suoi sforzi di passare il più possibile inosservata. Parla poco e mai a sproposito, conosce e apprezza il silenzio, e porta negli occhi, in fondo ad uno sguardo che pare leggero, il suo stesso dolore, impercettibile eppure pesantissimo. Sono tutte orfane, le ancelle di palazzo, nate già senza radici dopo l'ultima Grande Guerra, salvate eppure condannate ad un Fato senza gloria né infamia.

“Siete sempre così silenziosa...”

Sigyn stringe le labbra abbozzando un sorriso, scrutando il cielo da sotto le ciglia. A differenza di molte altre, lei ricorda. È stata una guerra diversa a portarle via madre e padre, una guerra di cui nessuno parla mai, un capitolo rimosso da ogni tomo di cronache asgardiane. Era solo una bambina, ma già troppo grande per dimenticare, e quello che ha visto – la lama, il sangue, le lacrime, la vita che lasciava gli occhi dei suoi cari – la rincorre dietro le palpebre ogni notte. Doveva morire, eppure è stata risparmiata. La misericordia della nuova Asgard, aveva detto una voce di donna, ferma e gentile, mentre il pianto le annebbiava gli occhi chiari e stringeva tra le piccole dita una mano morbida ma sempre più fredda.

“È anche per questo che l'ho scelta”, afferma una nuova voce, maschile e vibrante, spezzando di colpo il ricordo.

Le ancelle si voltano di scatto, incontrando lo sguardo divertito e sicuro di un guerriero dall'armatura cremisi. Si assicura la lunga lancia dietro le spalle e dà un altro morso al frutto che stringe in una mano, prima di avvicinarsi. Lør lo riconosce subito e arrossisce, poi china la testa in segno di rispetto, lanciando un'occhiata furtiva e maliziosa a Sigyn, che annuisce impercettibilmente, congedandola.
La giovane corre via, voltandosi di tanto in tanto, le labbra sottili piegate in un sorriso allegro e curioso.

“Lord Theoric, sono lieta di...” mormora Sigyn, ma lo voce si smorza in un soffio quando lui ne reclama le labbra con decisione. Sente la stretta ferma delle sue dita calde e indurite dalle armi sul collo e tra i capelli. Le accarezza appena una guancia con il pollice, poi interrompe un bacio asciutto con la stessa prepotenza da guerriero con cui l'ha rubato, fissandola negli occhi.
Sigyn fugge lo sguardo ridente delle sue iridi scure e piega il collo come un cigno, pudica, premendo la pelle contro la sua mano e tentando inutilmente di scacciare l'imbarazzo.

“Spero che fra due mesi mi chiamerai finalmente solo Theoric, Sigyn.”

La ragazza si irrigidisce involontariamente e il guerriero le solleva il mento, lentamente. Lo osserva in silenzio, inspirando piano: occhi scuri e penetranti, capelli castani che gli sfiorano le spalle e riflettono il rosso sangue dell'imponente armatura dei soldati scelti di Odino. È bello, di una bellezza fiera, selvaggia, che pare indomabile. Pur essendo più vecchio di lei di parecchie stagioni, è il più giovane capitano dei Falchi Rossi da che si abbia memoria, e l'Allfather lo considera quasi come un figlio. Per questo la sua decisione di prendere in sposa un'umile ancella è apparsa ai più inspiegabile, quasi un vezzo di prepotenza. Avrebbe potuto avere chiunque – e in molte l'avrebbero desiderato - tuttavia ha scelto proprio chi preferiva l'ombra, il silenzio e l'anonimato di un ruolo di sfondo. Sigyn aveva sempre cercato di passare il più possibile inosservata, accettando anche i compiti più umili; eppure, in qualche modo, lui l'aveva notata. Non era il tipo d'uomo abituato a domandare consensi né a chiedere permessi, perciò l'aveva  avvicinata e, stringendole la mano dopo averne baciato il palmo, aveva detto semplicemente: 'Vi ho scelta.'

Ricordava bene la sensazione di completo smarrimento, la bocca dello stomaco che si chiudeva, il terrore che le aveva appesantito i pensieri. Lo sentiva anche adesso, ma aveva capito subito che non avrebbe mai potuto opporsi. Avrebbe imparato ad amarlo davvero, un giorno, così come aveva già imparato a rispettarlo, e a guardarlo negli occhi senza tremare.

Lo accetto.

Theoric sorride e si allontana di un passo, scagliando il torsolo smangiucchiato tra l'erba alta dietro il pozzo e fissando il cielo per un istante.

“Spero anche che quando sarai la mia sposa mi permetterai di capire cosa ti passa per la testa.”

“Non datevi pena, i miei non sono certo pensieri interessanti.”

Il guerriero riporta lo sguardo su di lei, trattenendo una risata.

“Immagino sia così, sei solo un'ancella, dopotutto...” le si avvicina di nuovo, prendendole una mano, “...oltre al tuo bizzarro interesse per piante e arbusti non hai altro.”

Sigyn sussulta; non c'è cattiveria nella voce di Theoric, eppure la ferisce così a fondo da bloccarle il respiro. O forse è solo l'orgoglio che punge dietro gli occhi.

“Ma non temere, dopo le nozze non sarai più costretta a rifugiarti in cose tanto futili e sconvenienti” - un'altra piccola pugnalata al cuore - “ti insegnerò per cosa vale la pena vivere e a conoscere il mondo.”

La ragazza deglutisce a fatica e sente quasi il bisogno di piangere. Stupida, non sai apprezzare la fortuna che il Fato ti concede. Si costringere a sorridere e a stringere più forte la mano di Theoric.

“Sarà così di certo” mormora, “e mi duole pensare di dover aspettare ancora due mesi.” Bugiarda.

Il guerriero ride e le stampa un rapido bacio sulla fronte. Poi le lascia la mano ed estrae dalla bisaccia che porta a tracolla un grosso elmo color rame. Quando lo indossa, Sigyn pensa che sia davvero spaventoso.

“Per ora pensa solo al dono che vorresti. Stasera il vincitore della prima giornata di Caccia può chiedere qualsiasi cosa tra le offerte preparate dagli Æsir.”

“E programmate di essere voi, quel vincitore?”

“Diciamo che le probabilità sono a mio favore. Io vinco sempre.” Theoric sgancia la lunga alabarda assicurata alle spalle e ne poggia con fierezza un'estremità al suolo, facendo schizzare qualche sassolino in ogni direzione. “Ebbene, cosa desideri?”

Sigyn riflette un istante. Dovrebbe chiedere un abito costoso, o un gioiello, come ogni promessa sposa che si rispetti. Ma non saprebbe che farsene. Se le rimangono solo questi due mesi, vuole illudersi di avere ancora il potere di decidere per sé, un barlume fatuo di libertà, la possibilità di  scegliere, sbagliare. Vivere.

Torna, figlia perduta. Torna e ritrova ciò che è andato smarrito. Ciò che ti appartiene.

La voce di Fensalir si fa più forte e le parole escono da sole.

“Un cavallo.”

Theoric non riesce a trattenere una risata stupita, e la guarda quasi con ammirazione.
“Non mi deludi mai, Sigyn. E stanotte, al tramontare della terza stella, avrai il tuo dono.”

L'ancella lo guarda allontanarsi, sentendo uno strano vuoto riempirle il petto. Dovrebbe essere felice, grata, serena. Eppure quando stringe le labbra, oltre al sapore fruttato e dolciastro che Theoric le ha lasciato sulla pelle, avverte chiaramente anche il gusto salato di una lacrima che non riesce a impedirsi di versare.




Sala del Trono,  Asgard




La sala del trono è gremita e pare un mare tumultuoso di corazze e armi. I soldati scherzano e ridono a voce alta, impazienti, perché la Grande Caccia è solo un altro modo di fare guerra - senza veri nemici e senza troppe perdite - e ad Asgard gli uomini nascono già con la voglia di combattere nel sangue.
Le leggende narrano di un tempo lontano in cui persino le donne prendevano parte ai conflitti, spesso con più impeto e successo dei loro compagni maschi. Valchirie, si chiamavano, ma anche questo, come tanti, è un nome maledetto e collegato al tradimento.

Sif non crede più a queste storie, ma quando era una ragazzina scontrosa e i suoi compagni la schernivano, lasciandola indietro o gettandola nel fango, si convinceva di essere l'ultima delle valchirie, e continuava a combattere. Aveva scelto la via del soldato col cuore e con la mente – un'eccezione vista dai più come un'innaturale eresia – e per questo non avrebbe ceduto, mai.
Poi il principe Thor aveva deciso che la sua audacia andava premiata, e non disprezzata. Amava andare contro le regole, fin da bambino. Erano diventati amici e le cose erano diventate più facili, all'inizio. Poi, sempre più complicate. Almeno per lei.

La guerriera rinfodera la spada con un gesto secco e lo cerca tra la folla. Sono giorni che non si fa vedere a palazzo, se non quando è obbligato dall'etichetta di corte. Appare ai banchetti – tutti dati in suo onore - con lo sguardo pesante e triste, e prima che vino e idromele annebbino i sensi di tutti sparisce.
In molti mormorano.
Una donna? Un'amante? Un passatempo segreto imparato su Midgard?
Sif sa che si reca ogni notte sulla sponda tranciata del Bifröst, e vorrebbe non essere così perspicace da capirne il perché.

“Questa volta ho intenzione di vincere”, afferma Volstagg agganciandosi a fatica la corazza sul voluminoso addome, “dicono che il banchetto preparato per la squadra trionfante sia così sublime da far impallidire persino le tavole del Valhalla.”

“La nobiltà dei tuoi motivi mi commuove sempre...”, replica Fandral con un sorrisetto divertito. “...Devo ricordarti il tuo prezioso contributo all'ultima Caccia?”

“Eravamo bambini suvvia, non avevamo i mezzi né l'esperienza per...”

“...Caduto da cavallo dopo nemmeno un'ora, l'indomabile leoncino di Asgard.”

“Non ti permetto di prendermi in giro, ero già il doppio di te allora...”

“...forse anche il triplo. È in quel periodo che hai ottenuto il tuo più nobile titolo: Volstagg il Volum...”

“Taci, seduttore dei miei stivali!”

Sif si scansa di lato per non finire nell'amichevole zuffa, e alza gli occhi al cielo. In realtà si sente già più leggera.

“Smettetela. Volstagg ha ragione, eravamo solo dei ragazzini.”

“Esatto!”, grida il guerriero spingendo la faccia di Fandral in un barile colmo d'acqua. Lo spadaccino comincia a divincolarsi convulsamente, provocando l'ilarità condivisa degli altri soldati che assistono alla scena. Dopo pochi secondi lo lascia tornare in superficie e recuperare rumorosamente fiato. “Te lo ricordi anche tu, vero Hogun?”

Il Fosco si appunta l'ultimo pugnale nella fibbia sotto il polso e li squadra senza espressione.

“Ricordo che ti abbiamo dovuto portare di peso all'accampamento, e che piangevi come una ragazzina.”

“Cosa?!”

Fandral ricomincia a ridere sguaiatamente e si porta indietro i capelli fradici con una mano, dando una pacca sulle spalle al corpulento amico.

“Andiamo, anche con te siamo la squadra più forte. Ma stavolta ci seguirai a piedi, non vorrei vedere qualche cavallo stramazzare al suolo dopo pochi passi per la tua mole tanto leggiadra.”

“Ti darei un pugno sul naso se non rischiassi di migliorare il brutto muso che ti ritrovi.”

Sif si inserisce tra i due guardandoli negli occhi, seria.

“Le squadre per essere valide devono avere cinque membri, noi siamo solo in quattro.”

Cala uno strano silenzio, Fandral abbassa lo sguardo e si porta di fianco a Hogun, strizzando il mantello e lasciandosi dietro una scia di piccole gocce. Sif stringe le labbra e e incrocia le braccia con forza. Volstagg prova a stemperare la tensione con una risata che appare comunque troppo stridula e forzata.

“Potremmo chiedere a qualcun altr...”

“No”, replica secco Hogun.

“Magari lui verrà...”

“Non lo farà, e non possiamo chiederglielo”, mormora Sif, appoggiandosi a una panca ricolma di armi. Dalle sue spalle giunge un rumore di passi che dovrebbe riconoscere, eppure non ci fa caso.

“Lo avete visto anche voi, quel che è successo...” prosegue mestamente, fissando negli occhi i compagni uno alla volta. Perché hanno quella strana espressione sollevata, quasi felice? “Non possiamo domandargli nulla.”

“E se mi offrissi volontario?”

Sif si volta di scatto e si ritrova davanti gli occhi azzurri e l'ampio sorriso di Thor. Sembra quasi tornato quello di un tempo. Per il sollievo non riesce a parlare e si irrigidisce non appena le sfiora la schiena.

“Amici, ho preferito la solitudine in questi giorni perché sentivo il bisogno di pensare e di schiarire la mente, ma ci vuole ben altro per abbattermi, lo sapete. Ci siamo già passati.”

Sif ricorda bene i funerali solenni di Loki, il cordoglio durato mesi, quell'ombra scura che non aveva mai visto prima nello sguardo di Thor e che da allora non è più andata via. Ora sanno che è stato tutto per nulla. Sente una rabbia molto simile all'odio riempirle il petto, la stessa che prova da sempre quando pensa al dio dell'Inganno.

“Thor combatterà con noi!”, urla Volstagg, e i guerrieri che li circondano fanno eco al suo grido e sollevano le armi in segno di rispetto, sbattendole sugli scudi.

“Con Mjolnir dalla nostra parte, non avremo rivali!” esclama Fandral entusiasta.

Il del del Tuono sorride e abbassa lo sguardo, fissando le dita strette sull'impugnatura del martello.

“Non ti sarà concesso portarlo.”

Quando rialza gli occhi incontra il viso contratto e segnato di suo padre, appena entrato dal portone che conduce alle stanze più interne del palazzo. È affiancato dalla Regina. Alle loro spalle si fanno strada Tyr, Balder e il capitano dei Falchi Rossi. Nella sala il chiacchiericcio sfuma in brusio e tutti chinano la testa.

“Nessun'arma può essere di vantaggio, nella Grande Caccia. Vinceranno il coraggio, l'onore e la forza dell'uomo.” Sif irrigidisce la mascella e osserva l'Allfather portarsi di fronte a Thor, imponente nelle sua armatura nera e oro, e fissarlo con severità. Si chiede se si siano più parlati, dal processo di Loki. “Sarà un problema per te?”

“No, Padre”, replica Thor a bassa voce.

“Bene”, commenta Odino dopo aver fissato con attenzione il figlio qualche istante. Non appena riceve il martello dalle sue mani, il manufatto produce un basso sfrigolio elettrico. Quindi si volta e fa un cenno ai due Æsir che lo accompagnano, che annuiscono solenni, poi muove qualche passo e si dirige verso il trono.

“Cerca di dimostrarmi che mi è rimasto almeno un figlio degno.”

Lo sussurra così piano, quando gli passa accanto, che solo Thor è in grado di sentirlo, e gli ci vuole un notevole sforzo per non replicare. Sicuramente in questo ha già dimostrato il suo progresso.
Balder gli rivolge un sorriso pieno e incoraggiante e poi lo supera, subito imitato da Tyr, che invece gli lancia uno sguardo truce, alzando un sopracciglio.

“Hai bisogno di un'altra arma” afferma Frigga, sfiorando la spalla di Thor e riportando il sereno nel suo sguardo, “quale desideri?”

Il dio del Tuono si fissa i palmi vuoti con aria confusa. Da troppo tempo sono abituati a reggere solo Mjolnir.

“Non ci ho pensato, madre.”

“Per fortuna l'ho fatto io per te.”

La Regina allarga il sorriso e richiama con un gesto il capitano dei Falchi Rossi, che si avvicina e porge a Thor una spada splendidamente decorata. Il dio la accetta e la soppesa tra le dita. È pesante, ma il suo polso è abituato a ben altro.

“Ti ricordi ancora come si usa?”, lo schernisce bonariamente Theoric.

“Vuoi darmi lezioni?”, replica Thor sorridendo e stringendogli fraternamente il braccio che gli porge.

“Ci ho provato quando eri solo un marmocchio, ma non sei mai stato il mio miglior allievo. Lei, invece...” prosegue il capitano, indicando Sif, “era più brava di te già dal primo giorno.”

“Vi ringrazio, Lord Theoric” afferma la guerriera, assottigliando le palpebre, “ma la vostre lusinghe non dissuaderanno la nostra squadra dal battere la vostra.”

Il capitano dei Falchi Rossi le rivolge uno sguardo sicuro.

“Vedremo se riuscirete ad essere i primi a riuscire nell'impresa. Ma quest'anno ho una motivazione in più per vincere, vi avverto.”

I soldati intorno a loro serrano i ranghi e Odino, in piedi davanti al trono, inizia il suo discorso d'apertura della Grande Caccia. Thor non si volta ma ascolta ogni sua parola, in silenzio. Frigga lascia scorrere lo sguardo sul suo profilo qualche istante, l'amore e l'orgoglio le riempiono gli occhi senza intaccarne il contegno regale, poi si congeda con un lieve inchino.

Quando si è assicurato che tutti i guerrieri siano troppo concentrati sul discorso dell'Allfather per badare alle sue parole, Theoric affianca Thor e, abbassando lo sguardo, bisbiglia:

“Mi dispiace.”

Il principe si riscuote e aggrotta le sopracciglia, sorpreso dal suo tono serio.

“Per cosa?”

Il capitano dei Falchi Rossi deglutisce e abbozza un sorriso nervoso, ma quando lo fissa negli occhi non c'è traccia di leggerezza nelle sue iridi scure.

“Per tuo fratello. Al processo... ero presente.”

Thor contrae di riflesso ogni muscolo del corpo, e riavvolge i ricordi fino a quella notte funesta. Ricorda, sì, i due Falchi Rossi a guardia del portone che ha condotto lui e suo fratello al cospetto di Odino. Uno di loro era Theoric, ovviamente. Il ricordo gli proietta sulla pelle una sensazione fastidiosa. Freddo. Come le catene di Loki, come i suoi occhi, come il dolore che gli ha invaso mente e cuore. Si obbliga a cancellare tanta debolezza e si passa rapidamente una mano sul viso, poi incrocia le braccia possenti.

“Ti ringrazio. Non posso dimenticare quel che mio fratello ha fatto, nel bene e nel male, e non so perdere la speranza, ma...” alza gli occhi al cielo, il dio del Tuono, ed è uno sguardo senza nuvole, “... sebbene il Fato mi abbia posto davanti questo duro cammino, non ho intenzione di tirarmi indietro.”

“Sono proprio le parole di un Re,” afferma Theoric posandogli una mano sulla spalla. Poi assottiglia lo sguardo, ironico, allentando la tensione. “Ma non credere che mi lascerò impietosire.”

“Non te lo perdonerei. Ma oggi non ho intenzione di perdere.”

“Come nessuno”, ridacchia il capitano, allargando le braccia, “vedremo a chi arriderà la vittoria al sorgere delle prime stelle.” Poi gli rifila un 'amichevole' colpo sull'addome, facendo stridere l'armatura, e si allontana a passo sicuro.




Quando Odino termina il discorso, i guerrieri rompono le righe e si riversano all'esterno euforici, pronti a dare il via alla prima giornata della Grande Caccia. Il resto del popolo si starà già ammassando su tetti e parapetti improvvisati, in attesa di salutare i guerrieri in marcia. Chi a fine giornata avrà mietuto più fiere riceverà in premio qualsiasi bene richiesto. Poi le squadre migliori potranno avventurarsi verso le terre a est della capitale e proseguire nella Grande Caccia per alcune settimane. Balder lascia scorrere lo sguardo sulla folla di uomini armati. Nelle ultime tre edizioni ha trionfato Lord Theoric, ma per la prima volta il principe Thor avrà l'età giusta per contrastarlo. Sarà una sfida interessante.

“Come hanno preso la notizia che sarai tu stavolta a guidarli nelle terre orientali?”, domanda Tyr avvicinandosi e ammirando a sua volta il mare concitato dei soldati.

“Bene, stranamente.”

“Strano, indubbio. Non si era mai visto prima il dio della Pace accompagnare una spedizione armata, seppur di una guerra fittizia.” Il dio appoggia la mano sull'elsa della spada, in un riflesso ormai automatico. “Evidentemente considerano la tua presenza di buon auspicio, in qualche modo.”

Balder sorride divertito.

“O magari erano stufi della tua?”

Tyr ridacchia e non risponde all'innocua provocazione, perché conosce bene l'animo del dio più amato di Asgard e sa quanto sia luminoso, persino quando cerca di porsi in ombra.
Odino scende i pochi gradini del trono dorato e impone la sua presenza sbattendo a terra Gungnir.

“È tutto pronto?”, domanda il Re fissando il dio della Guerra, che annuisce.

“I nani collaborano, poche ore e la fucina sarà pronta. Malekith è una serpe e comunica con loro in una lingua che non capisco, ma non può nuocere da dentro la cella. Ho già predisposto che una decina dei miei più fidati e discreti soldati fingano un infortunio, oggi, così da non prendere parte al resto della Caccia.”

“Perfetto. Noi sceglieremo in quali zone cominciare a smantellare l'uru. Tu, Balder, eviterai che nascano mormorii o sospetti.”

I tre Æsir si scambiano uno sguardo solenne a avvertono uno strano peso sul petto. Stanno decidendo la storia e le sorti di Asgard, ancora una volta, e sanno di non poter fallire.




Osservatorio Geofisico di Tromsø (Norvegia)




Quando Darcy riapre gli occhi, infastidita, la luce che filtra dalla finestra è accecante. Che novità. Stira le braccia sul tavolo – mi verrà il torcicollo, minimo - e strizza gli occhi, mentre alle sue spalle Selvig si muove sul divano e sbadiglia con la grazia di un orso. Buongiorno a te.

Jane è da qualche parte in cucina e sta facendo un baccano infernale. A quanto pare lo shock per le rivelazioni delle ultime ore le ha causato un'improvvisa ispirazione culinaria – come se sapesse cucinare – o l'irrefrenabile voglia di distruggere stoviglie. Più probabile.

La stagista emette un sospiro e si decide ad alzarsi, strisciando rumorosamente la sedia sul pavimento. Selvig protesta con grugnito ma apre finalmente gli occhi.

“Che ore sono?”

“Quasi mezzogiorno...” risponde la ragazza portandosi di fronte alla portafinestra, le mani sui fianchi e gli occhi a fissare un cielo di un azzurro sbiadito, quasi bianco. “...credo.”

“Che cos'è questo baccano?”, chiede Erik portandosi faticosamente a sedere, la testa tra le mani e i capelli sparati in ogni direzione.

“Questa è una bella domanda. JANE!” Nessuna risposta dalla cucina, solo ulteriori tonfi e rumori simili a... martellate?

“Dio, la mia testa...”

“Non si preoccupi, vado a prenderle un po' d'acqua e un'aspirina.” Se Jane ha lasciato almeno un bicchiere integro...

Nella spaziosa cucina pare esplosa una bomba, ma l'astrofisica non sta distruggendo proprio nulla. Anzi. L'isola in legno chiaro è diventata un laboratorio in miniatura, e Jane è impegnata a costruire... qualcosa. Una specie di dispositivo portatile.

“Buongiorno.”

“Mmh-mh.”

“Cosa stai facendo?”, chiede Darcy alzandosi sulle punte e recuperando un bicchiere dal ripiano sopra al lavandino.

“Bene, bene.”

La stagista rotea gli occhi e poggia il bicchiere senza troppa grazia di fianco all'amica.

“Pronto? Terra chiama Jane?”

La donna si riscuote e poggia il cacciavite e quella specie di grosso telecomando, che emette un ronzio basso e costante. Sullo schermo lampeggia l'immagine di una sfera verdognola, forse ad indicare il globo terrestre.

“Che c'è?”

“A Selvig serve un'aspirina. Tu che combini?”

“Lavoro. Gli appunti di Erik sono sensazionali. Il progetto Pegasus, gli studi sull'energia oscura, il Tesseract... Mai vista tanta precisione nel rilevare i raggi gamma, e poi... tutti i dati sul portale! E combaciano con la nostra teoria del Ponte di Einstein-Rosen! Tutto questo è...”

“Incredibile?”

“Esatto!”

“Sì, certo.”

Jane rifila alla stagista un'occhiata obliqua, dimostrando di non gradire il suo sarcasmo.

“Che cosa sarebbe incredibile?”, biascica Selvig entrando nella stanza a passo malfermo, la camicia mezza fuori dai pantaloni.

“Erik!”, grida Jane balzando in piedi, provocando una nuova fitta di mal di testa al dottore, “i tuoi resoconti sono illuminanti! La possiamo trovare, è qui!”

Darcy porge all'uomo un bicchiere pieno per metà, e lui si incanta a osservare la pasticca che frizza e si scioglie nell'acqua, come ipnotizzato. La sua voce è un flebile sussurro, come sempre quando quella che ha in testa ricomincia a confonderlo.

“Trovare... cosa?”

“La Fonte!”, Jane afferra un foglio scribacchiato e raggiunge Erik, che quasi si soffoca trangugiando la medicina, e glielo sventola davanti agli occhi, “è così che l'hai chiamata, no? Vediamo, 'un punto sulla superficie terrestre che rilascia la stessa firma gamma del nucleo del Tesseract', ed è qui Erik, in Norvegia!”

Selvig impallidisce e sforza l'ultima sorsata, poi poggia il bicchiere sul tavolo e una mano sulla spalla dell'astrofisica, con fare paterno.

“Jane, quegli studi non hanno più importanza, devi lasciar perdere.”

“Ma...”

“È pericoloso, Jane.”

“L'ultima volta che me l'hai detto, non è bastato a fermarmi.”

Selvig trattiene una mezza risata e incassa il colpo.

“Vero.”

“Erik, ti prego, siamo di fronte ad un'altra scoperta straordinaria. Sulla base delle tue istruzioni ho costruito un fasometro portatile, ha già circoscritto la zona interessata ad un'area di poco più di venti chilometri, con il tuo aiuto posso fare di meglio. Ti prego.”

Selvig chiude gli occhi e sospira, ma è già quasi una resa.

“Dobbiamo farlo per la ricerca, ricordi?”

“D'accordo, d'accordo.” Chissà se mi aiuterà a liberarmi la testa o a sconvolgerla ancora di più?

Erik torna in salotto, subito seguito da Jane e a ruota da Darcy, che lo guardano allibite indossare il cappotto.

“Che fai? Non hai detto che volevi aiutarmi?”

“È così.” Purtroppo.

“E allora, te ne vai? Il mio portatile è di là, ho già settato i parametri, se utilizzassimo il magnetometro dell'Osservatorio potremmo velocizzare...”

“Quello che ci serve non è qui, Jane.”

La donna arretra istintivamente il collo, senza capire.

“E dove, allora?”

Selvig si stringe la sciarpa sul collo e si cala un berretto di lana sugli occhi. Poi fa per poggiare la mano sulla maniglia della porta, quindi si blocca e si volta.

“In biblioteca. Sapete dove possiamo trovarne una, da queste parti?”

 






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