Le trame dell'Inganno di __Sayuri__ (/viewuser.php?uid=157112)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Duplice minaccia ***
Capitolo 2: *** Rivelazioni ***
Capitolo 3: *** Dove c'era il cuore, uno spazio vuoto ***
Capitolo 4: *** Errore ed onore ***
Capitolo 5: *** Nella mia mano, la speranza ***
Capitolo 6: *** Senza maschere, nessuna difesa ***
Capitolo 7: *** La runa bianca ***
Capitolo 8: *** L'ora dei segreti ***
Capitolo 9: *** Il tradimento e l'attesa ***
Capitolo 10: *** Pensieri egoisti, azioni sbagliate ***
Capitolo 1 *** Duplice minaccia ***
Capitolo 1 - Duplice minaccia
AVVERTIMENTI:
Per una maggiore comprensione dei fatti narrati, in particolar modo di
quelli che coinvolgono i villain, si consiglia la lettura del prequel: "Rinascita".
Capitolo 1 - Duplice minaccia
In un confine dimenticato di
universo
L'ultima
eco del boato
che ha sbriciolato la pietra e fuso migliaia di armature si spegne
gorgogliando nelle profondità cosmiche, e torna a regnare il
silenzio. La luce bianca ed incandescente, che per un istante ha
avvolto e travolto quasi ogni cosa, finalmente cede di nuovo il posto
ad un cielo nero e senza fine. L'unico bagliore che osa spezzare la
continuità delle ombre è quello prodotto da
stelle
morenti e lune deserte, mentre il resto dello spazio è
occupato
dall'oscurità.
Nel vuoto
di quel
Limbo senza limiti e senza uscita, null'altro rimane che il contorno di
due figure, mute e immobili, ma non per questo sconfitte.
Il Senza
Nome si guarda intorno, irato. Che ne è della loro forza,
i Chitauri? Vapori incorporei e carcasse smembrate, che galleggiano
nella pece della sconfitta, buone solo a nutrire la polvere. Un
esercito formidabile, forgiato dalla sapienza e dalla maestria di
Svartalfheim, sprecato dall'inettitudine di un reietto senza speranza,
involucro rabbioso e insolente di una debolezza cronica.
Dell'asteroide-vascello,
il Santuario
di Thanos, non resta altro che un brandello di roccia fumante,
affondata in un mare di detriti e plasma nero.
L'elfo si
prostra a terra con uno scatto secco, la furia nello sguardo e nella
voce.
"Umani..."
Una sola
parola, che ne sottintende mille altre.
Sdegno.
Disonore.
Infamia.
"... non
sono i codardi e vili
che ci avevano assicurato."
Il Titano
gli volge le
spalle, immerso nel suo scranno nero e pulsante di luci bluastre, in
quell'unica porzione di roccia rimasta intatta, protetta dall'aura del
mostro di pietra e buio, compagno dell'ultima nemica.
Il Senza
Nome prosegue, la lingua sputa nel silenzio nuovo veleno.
"Combattono,
insorgono... pertanto non possono essere governati!"
Le dita
possenti e
violacee del Titano si puntellano sul supporto di metallo del
suo trono, e in un istante si rizza in piedi, imperioso e terribile.
L'Altro abbassa la testa di scatto, e un gemito gli sfugge dalle labbra
contratte. Come reagirà Thanos, il dominatore di mondi, ad
un
simile affronto? Con quanta collera e veemenza colpirà il
suo
braccio?
La brama
di sapere
dell'elfo non si placa, nonostante il timore sordo del castigo, e si
arrischia a proseguire, suggerendo al Padrone come usare la frusta.
"Sfidarli
è lusingare... la morte."
Ed ora il
Titano si
volta, con studiata lentezza, negli occhi un ghiaccio che nemmeno il
fuoco di mille soli potrebbe sciogliere.
Eppure,
non c'è
rabbia in quello sguardo, né fretta o impazienza; solo una
furia
calcolatrice e implacabile. Le labbra si tendono in un sorriso feroce,
e il mostro scopre i denti, divertito. Un cambio di programma non
è nient'altro che un trascurabile inconveniente, per chi ha
già previsto ogni cosa. Lui ha avuto tempo, molto
tempo per intessere i suoi piani, e la rivolta degli umani è
solo un nuovo motivo di dileggio nei confronti di un Fato
già
deciso, che si inchinerà infine al suo cospetto.
La risata
bassa e cupa
dell'ultimo Eterno è un fendente di scherno e terrore, e
squarcia il silenzio immobile del Limbo come una nuova esplosione,
inarrestabile e spietata.
Il Senza
Nome non osa
alzare la testa, pietrificato. C'è qualcosa di terribilmente
disturbante in quel mostro senza paura e senza morale che accoglie il
fallimento senza collera, ma con la gioia di poter colpire, ferire e
uccidere ancora.
Lui
stesso ha voltato
le spalle all'onore da molto tempo, tutto quel che ne resta
è
un'impronta sbiadita, incrostata sulla superficie furente delle sue
brame di vendetta.
È
nato dal
buio, l'elfo nero, creatura d'ombra e sussurri, e da sempre
è
schiavo delle tenebre, solo che ora hanno un volto di pietra e una voce
di ferro. Thanos è un padrone spietato e un alleato
pericoloso,
che esige lealtà ed ubbidienza in cambio di parole prive di
promesse, ma è anche la sua unica opportunità di
rivalsa.
Finché riuscirà a sottostare ai suoi progetti e
ad
essergli utile, non avrà nulla da temere.
"Qual
è dunque la prossima mossa, mio Signore? Ricorderemo ai
mortali qual è il loro posto?"
Thanos
muove qualche
passo su quel che resta del suo vascello-asteroide, sollevando polvere
e piccoli frammenti di roccia, che si sbriciolano ed iniziano a
fluttuare nell'aria.
"Atteniamoci
al nostro
disegno originale, recuperare il Tesseract è il primo passo.
Sappiamo dove si trova, e non potrebbe esserci luogo più
propizio. Prepara i nostri alleati, che si muovano ora. E quando Asgard
sarà caduta, l'universo ai miei piedi, gli umani saranno
l'ultima portata del mio banchetto di sangue."
Asgard, ponte
dell'Arcobaleno
Il
silenzio spettrale
della notte è rotto soltanto dal ritmico cozzare degli
zoccoli
del suo destriero, e Sif è stranamente inquieta. Giunta
circa a
metà del ponte spezzato strattona con un gesto secco le
redini e
il cavallo inchioda di colpo, sbuffando e nitrendo.
La
guerriera scende
con un balzo deciso dalla sella e accarezza per un istante il collo
accaldato dell'animale, che sembra stranamente agitato. Gli sussurra
all'orecchio poche parole e poi si incammina incerta su quella sottile
passerella sospesa sul nulla, che accompagna ogni suo passo con
un'ombra di suono e luce.
Ancora
non si spiega
gli avvenimenti degli ultimi giorni: l'agitazione di Thor, il dolore
nel suo sguardo, la sua improvvisa e misteriosa partenza per Midgard.
Tante congetture erano nate a corte sul perché, e
soprattutto
sul come,
di quel viaggio in solitaria. Un nuovo bando per il figlio di Odino?
Una fuga? L'Allfather
si era trincerato dietro un silenzio inamovibile, rendendo complici di
quel segreto solo la Regina ed Heimdall.
Ed ora
quell'inaspettata rivelazione, giunta nel cuore di una notte
stranamente buia, l'aveva strappata con violenza al sonno e ai dubbi.
Odino era riuscito ad inviare Thor sulla terra dei mortali per sventare
un'oscura minaccia. Una grande battaglia era stata combattuta, e vinta.
Chissà
se ha incontrato anche lei...
Sif
scuote la testa
con rabbia, scacciando un pensiero inutile. Thor è salvo, e
sta
tornando a casa, questa è l'unica cosa che conta. Muove
ancora
pochi passi, poi si blocca di colpo, immobilizzata da un rumore alle
sue spalle.
Calpestio di zoccoli e voci nel vento. Tre cavalli, tre
cavalieri.
Quando si
volta, sono già scesi dai loro destrieri e in pochi momenti
la raggiungono.
"Perché
non ci hai aspettati?", chiede
Volstagg, trattenendo a stento uno sbadiglio, la voce ancora mezza
impastata dal sonno.
"Non
credevo veniste
anche voi, il messo di Odino mi ha dato ordine di venire qui ad
accogliere il rientro di Thor, e così ho fatto", ribatte
la guerriera, accennando un mezzo sorriso e riprendendo a camminare.
"Ma siamo
anche noi suoi amici, giusto? Non capisco perché..."
Fandral
interrompe il suo voluminoso compagno d'armi con una sonora pacca sulla
spalla, mormorando: "Andiamo
Volstagg, lo sai, quando si tratta di Thor, Lady Sif è
sempre molto..."
"Dovremmo
muoverci", taglia corto Hogun, tono monocorde e volto impassibile.
Fandral
sospira e alza gli occhi al cielo, ma non dice niente, e riprende a
camminare.
I quattro
avanzano
affiancati, lo stesso ritmo nei passi e i medesimi battiti nel petto,
mossi dall'appartenenza ad una squadra che fa gruppo dentro e fuori i
campi di battaglia.
"Credete
che stia bene?"
Domanda
di colpo Volstagg, titubante.
"Ma
certo, stiamo parlando di Thor! Perché sei tanto timoroso?",
replica Fandral, sicuro e spavaldo.
Il
'Voluminoso' alza la testa e si guarda nervosamente intorno,
rispondendo a mezza voce: "Ho un
brutto presentimento, è così buio..."
"Forse
perché è notte."
"E poi fa
più freddo del normale, non trovate? Ho i brividi..."
"Starei
male anch'io se avessi ingurgitato tre cinghiali, due fagiani e
un'intera
botte di birra prima di coricarmi."
"Ero in
ansia per il
nostro amico, come voi! E l'ansia va pur placata in qualche modo",
tenta di giustificarsi Volstagg, aprendo le braccia.
Sif e
Fandral si
scambiano uno sguardo complice, ridacchiando; ma è la voce
di
Hogun, seria e fredda, a spezzare quel momento di leggerezza.
"Heimdall
sembra preoccupato."
Ormai a
pochi metri da
loro, la figura del guardiano si staglia nitida sulla volta pulsante di
stelle, oro ed ebano, perennemente vigile e in attesa.
Fandral
socchiude lievemente le palpebre, scettico.
"Come fai
a dirlo? A me sembra sempre lo stesso."
Hogun non
risponde ma
allunga il passo, e una strana agitazione si impossessa degli altri
guerrieri, che istintivamente lo imitano e in breve raggiungono
Heimdall, che li scruta in silenzio, poggiato sull'elsa della sua
enorme spada dorata.
"Heimdall,
tu sai perché siamo qui?", domanda Sif, con un leggero
tremito
nella voce.
"Sì",
risponde il guardiano, "stanno arrivando."
"Stanno?", chiedono
all'unisono Fandral e Volstagg, senza capire.
E poi,
d'improvviso,
una folata di vento freddo li colpisce e Sif sente uno strano gelo
penetrarle le ossa. Si copre gli occhi con un
braccio e abbassa la testa, frastornata, mentre un lampo di luce balena
intorno a loro. Qualcosa dentro di lei, forse l'intuito o magari
l'istinto, capisce.
Ma è un presagio troppo assurdo, impossibile da accettare,
pura follia.
Quando si
fa di nuovo
silenzio riapre gli occhi, continuando a farsi schermo con il braccio
alzato, e osserva Fandral, teso e immobile alla sua sinistra, la mano
corsa a stringere l'elsa della spada e gli occhi sbarrati.
Nessuno
parla, nessuno si muove.
Finalmente,
dopo
momenti che paiono durare un'eternità, nel silenzio si fa
spazio
una parola, incerta e flebile come un sussurro.
"Amici..."
La voce
di Thor è terribilmente stanca, piena di
dolore e di amarezza.
Sif muove
un passo,
abbassando il braccio di scatto e ricercando affannosamente il suo
sguardo, ma il dio del Tuono lo tiene inchiodato a terra, il viso
percorso da pensieri e ombre.
E sono
altri occhi quelli che incontra.
Due occhi
verdi, gelidi, folli.
Occhi che
nessuno ha mai dimenticato, ma che tutti speravano di aver sepolto per
sempre.
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Capitolo 2 *** Rivelazioni ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
2 – Rivelazioni
Osservatorio Geofisico di
Tromsø, Norvegia
Siamo spiacenti, il
numero da lei selezionato non è al momento raggiungibile...
Jane si poggia una mano sulla fronte e socchiude gli occhi,
sconsolata. L'aria è talmente gelida che il sospiro che le
sfugge dalle labbra si condensa in uno sbuffo di fumo bianco,
strappandole un nuovo brivido.
Prima che la voce registrata abbia finito di ripetere per l'ennesima
volta la stessa formula si passa nervosamente la mano tra i capelli
spettinati e chiude la chiamata con un gesto secco.
Tiene per un istante il cellulare stretto tra le dita, fissando
intensamente lo schermo quasi aspettandosi che si metta a
squillare da un momento all'altro, e che Erik finalmente la richiami e
le
spieghi che accidenti sta succedendo.
Tutto era iniziato quando
quell'agente dello S.H.I.E.L.D. - Coulson,
forse? -
l'aveva buttata giù dal letto in piena notte, attaccandosi
al campanello per cinque minuti buoni. Darcy per poco non gli era
saltata al collo. Per una che già mal sopportava le
levatacce che le imponeva quando erano a caccia di tempeste magnetiche,
essere svegliata nel pieno della fase REM significava diventare una
portatrice sana di istinti omicidi plurimi.
L'agente,
per nulla intimorito, aveva abbozzato un sorriso tirato che
non aveva niente di ironico, si era tolto gli occhiali scuri
– in piena
notte! Che facessero parte della divisa d'ordinanza? - e
aveva iniziato a dettare ordini in tono placido e accondiscendente. Le
poche frasi che Jane era riuscita a recepire erano totalmente assurde e
decisamente poco rassicuranti:
“Fate
subito le valigie... Avete venti minuti.... Grazie per
la vostra collaborazione.”
Nel
giro di pochi minuti si erano ritrovate scaraventate sui rigidi
sedili di pelle di un'auto nera con i vetri oscurati, scortate da
altre due vetture blindate, destinazione sconosciuta. Un rapimento in
piena regola.
“Credi
che questo c'entri qualcosa col fatto che ho preso in prestito
un paio di penne dall'ufficio di Fury?”, aveva mormorato
Darcy con la sua vocina
petulante, ormai più terrorizzata che arrabbiata.
Jane
le aveva lanciato un'occhiataccia, ma non aveva risposto; in
fondo che poteva dirle? Non ci stava capendo assolutamente nulla!
Dopo
una buona mezz'ora di autostrada era diventato chiaro che
Darcy e il suo inappropriato attacco di cleptomania non c'entravano
niente. A meno che il direttore dello S.H.I.E.L.D. non fosse un tipo
esageratamente vendicativo, obbligarle a lasciare lo stato su un jet
privato era una punizione un po' troppo severa per un misero furto di
penne – che
non scrivevano neppure bene! - aveva precisato la stagista.
Prima
di essere catapultate anche su un aereo, l'agente-rapitore Coulson
aveva almeno avuto il buon cuore di aiutarle a caricare i pochi bagagli
che erano riuscite a racimolare, e a ragguagliarle su qualche altro
dettaglio completamente privo di senso logico.
“Perdoni
la fretta, dottoressa Foster, ma non avremmo agito
con tanta rapidità se non si fosse trattato di una faccenda
più che urgente. È richiesta la vostra presenza
in uno dei migliori osservatori dell'emisfero boreale, ovviamente
dietro cospicuo compenso.”
“Non
mi interessano i soldi, vorrei sapere che sta
succedendo!”, aveva sbottato l'astrofisica, esasperata.
Coulson
aveva sfoggiato uno dei suoi diplomatici sorrisi, e l'aveva
invitata ad accomodarsi su un sedile grigio al centro dello
stretto abitacolo.
“Mi
rendo conto del disagio, ma le ripeto, se non fosse
più che urgente...”
“Avete
scoperto qualcosa?” La voce le aveva tremato
per un istante, probabilmente più di speranza che per paura.
L'agente
era rimasto in silenzio, forse cercando una mezza
verità abbastanza plausibile e che non facesse troppo male.
“Qualcosa
è stato scoperto, signorina Foster, ed abbiamo bisogno che
lei si rechi a Tromsø per qualche tempo.”
“Dove!?”
Aveva domandato Darcy con tono acuto, il viso stralunato.
Coulson
aveva fatto un mezzo sorriso.
“Diciamo...
che è a nord.”
Poi
con un cenno rapido ai piloti aveva dato il via alle procedure di
decollo. L'accensione del motore era stata piuttosto brusca, e tutto
l'abitacolo aveva cominciato a vibrare.
“Signore,
buon viaggio. Vi consiglio di allacciare le
cinture.”
Detto
questo l'agente aveva girato i tacchi e si era diretto al
portellone posteriore, pronto a fare ritorno al quartier generale.
Darcy
e Jane si erano fissate per un secondo attonite, poi un nuovo
scossone le aveva riportare bruscamente alla realtà
obbligandole ad agganciare le cinghie di sicurezza in fretta e furia.
Prima che Coulson richiudesse il portellone la stagista si era voltata
nella sua direzione, pigolando:
“E
si può sapere perché ci devo andare
pure io?!”
Il
tonfo sordo prodotto dalla chiusura della lamiera metallica era
stata l'unica risposta.
Dopo
qualche ora di volo era diventato chiaro che quello lì
sotto, no, non era il Lago Michigan, ma l'Oceano Atlantico, e che per nord Coulson non
intendeva il North Dakota.
La
scoperta non aveva giovato all'umore di Darcy, che si era dimostrata
socievole quanto un cactus rinsecchito, ed aveva acuito il mal di testa
di Jane.
Ovviamente,
quando erano riuscite a prendere sonno era già arrivata
l'ora di atterrare. Strette nelle loro giacchette di jeans, mezze
stordite dal sonno e dal jet lag, si erano ritrovate nella famigerata
Tromsø. In Norvegia. A nord del circolo polare artico.
“Ma
non dovremmo essere in maggio?”, aveva chiesto
Darcy, battendo i denti e guardandosi intorno inquieta.
Jane,
ancora una volta, non aveva saputo cosa risponderle ed era rimasta
imbambolata a fissare quel cielo così limpido e azzurro, che
si specchiava nelle onde placide del Norskehavet - il
mar di Norvegia - e che faceva da contrappeso al muro di monti dalle
cime innevate che circondava l'isola.
La portafinestra alle sue spalle si apre stridendo e Jane si volta di
scatto, mentre il ricordo dell'arrivo in quell'Osservatorio
sperduto nel nulla sfuma nella sua mente come una striscia di fumo.
Darcy la affianca, un braccio stretto intorno al giaccone nuovo,
l'altro lungo il fianco. In mano regge un incarto unto e
colorato, che appallottola tra le dita con un solo gesto, prima di
infilarlo in tasca.
“Dio benedica McDonald's” farfuglia ancora con la
bocca piena, “lo trovi ovunque ed è sempre
aperto.”
“Ma sono solo le sei mezza di sera!” Esclama Jane,
squadrandola allibita.
“Secondo il mio orologio biologico interno è
mezzogiorno e mezzo, ora di pranzo.”
L'astrofisica sospira, alzando gli occhi al cielo.
“Come mai sei uscita in terrazza, con questo
freddo?” Si lamenta la stagista, calandosi ulteriormente il
berretto di lana sulla testa. Un berretto ridicolo, oltretutto. Verde
sbiadito, con due mini-corna di renna di stoffa che spuntano sulle
orecchie.
“Avevo bisogno di una boccata d'aria.”
Sono lì da ormai due giorni, e Jane li ha passati rinchiusa
nell'Osservatorio a monitorare il cielo. Il professor Hansen le ha
dato accesso a tutta la strumentazione - perfino alla ionosonda e al
magnetometro! - e ormai rabbia, ansia e irritazione sono svanite
lasciando il posto all'entusiasmo della ricerca e al brivido della
scoperta. Gli ultimi rilevamenti hanno individuato una strana
attività magnetica nell'emisfero boreale, con un picco anche
in Europa, nella zona della Alpi centrali. Decifrare i dati raccolti
sarebbe molto più semplice se riuscisse a contattare Erik,
ma a quanto pare comunicare con i laboratori S.H.I.E.L.D. - e con tutta
l'America del Nord, a dire la verità - sembra
impossibile, almeno per il momento.
Jane sospira ancora una volta e chiude gli
occhi. È preoccupata.
Per Selvig?
Certo.
Per tutta la questione del 'rapimento' in piena notte?
Anche.
Ma c'è qualcos'altro. Un peso che le opprime il petto e che
la costringe a pensare a una cosa sola. O, meglio, a una persona sola.
Thor.
Il dio del Tuono è un chiodo fisso che le martella dentro
sempre più forte. Dopo il suo ritorno su Asgard per un po'
ne aveva sentito la mancanza, ma col tempo quel piccolo dolore era
sfumato. In fondo, era stata una semplice cotta, no? Un'infatuazione
passeggera e, a dirla tutta, anche un po' infantile. Ma allora
perché adesso si ritrova a rincorrere il ricordo di Thor con
tanta insistenza?
Riapre gli occhi e fissa il sole basso all'orizzonte. La risposta
è così ovvia e assurda che le fa male il solo
concepirla. I dati che ha raccolto avvalorano l'ipotesi, ma
è il suo istinto a gridarle nelle orecchie la
verità. Che sia il famoso istinto di donna, quello che non
sbaglia mai?
Ma qualcosa non torna, e Darcy è decisamente troppo
silenziosa. Si volta verso di lei, scrutandola in viso, aggrottando la
fronte. Lei si schiarisce la voce e poi si mordicchia il labbro
inferiore, sfuggendo al suo sguardo.
“Darcy, che succede?”
La stagista affonda per un istante il viso nel colletto imbottito del
suo giaccone, poi si arrischia a girare gli occhi verso di lei e
bisbiglia: “Credo che dovresti dare un'occhiata al
telegiornale.”
Asgard, ponte
dell'Arcobaleno
Thor riapre gli occhi di malavoglia, lentamente, cercando di rimandare
il più possibile il momento della verità. Asgard
è immersa in una notte nera e silenziosa, e per un istante
ne inspira il forte odore di casa. Ma è solo un attimo, e la
realtà gli crolla impietosa sulle spalle.
È tornato vincitore, ma si sente un perdente.
Incontra gli sguardi attoniti dei suoi compagni, vede l'orrore e lo
sgomento riflessi nei loro occhi, e spera inutilmente che Loki non lo
veda.
Ma lui ha sempre visto. Ha sempre capito.
“Amici...” mormora, senza riuscire a dire altro.
Come può anche solo spiegare?
Abbassa gli occhi e stringe con forza il braccio del fratello, quasi a
volergli infondere... cosa? C'è davvero ancora qualcosa che
possa meritare? Può perdonarlo? Una parte di lui vorrebbe
rispondere sì
ma la mette a tacere.
“L'Allfather
vi aspetta nella Sala del trono” proclama Heimdall, spezzando
finalmente il silenzio.
Thor si riscuote, consegna il Tesseract ai suoi compagni raccomandando
loro di portarlo subito nella Camera delle armi e si dirige verso i
cavalli bardati al centro del ponte. Il corpo di Loki è
rigido e oppone resistenza, costringendolo a trascinarselo dietro quasi
di peso. La spessa catena che gli stringe i polsi tintinna e
lui comincia a tremare.
Il figlio di Odino cammina più veloce, sale a cavallo
issando il fratello davanti a lui, sul suo stesso destriero. Scambia
uno sguardo d'intesa con i Tre guerrieri, quasi fosse una promessa. Vi spiegherò tutto.
I tre ricambiano il cenno, negli occhi confusione mista a fiducia, e
partono alla volta della dimora degli Æsir. Sif gli rimane
accanto, il suo stallone nero scalpita e scalcia, ma con uno strattone
delle redini lo doma.
“Io vengo con te”, afferma decisa, guardandolo
negli occhi.
Vengo con te,
pensa Thor, non con voi,
ma non dice nulla e annuisce. Sprona il cavallo e parte al galoppo,
stringendosi al petto Loki, che continua a tremare, sempre
più forte.
Non può parlare, il principe caduto, e non vuole
pensare.
La gabbia di metallo che gli blocca la mascella stringe e taglia la
pelle. In gola avverte il sapore del sangue, nelle narici ne ristagna
l'odore acre.
Ma non è per la paura, né per il pianto, che il
petto del dio dell'Inganno sussulta.
Ride, il
reietto di Asgard.
Non ha più lacrime, né sogni.
Ride, il
mancato re, facendosi beffe del suo stesso insensato destino.
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Capitolo 3 *** Dove c'era il cuore, uno spazio vuoto ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
3 – Dove c'era il cuore, uno spazio vuoto
Asgard
Si aspettava folle ed infamia, e invece ad accogliere il suo ritorno ha
trovato solo silenzio e notte. Asgard è rimasta muta, vuota
come gli occhi smarriti dei compagni di un tempo, che ora solo Thor
può chiamare amici.
Nessuna parola, per il figlio malriuscito – e fasullo – di Odino?
Nessuno scherno, per il dio della burla?
Loki trema ed inizia a ridere senza nemmeno rendersene conto, un
sogghigno soffocato dal sangue, dal metallo, dal vuoto che gli riempie
cuore e mente.
Non merita nemmeno quel disonore?
Il cavallo è lanciato al galoppo verso il palazzo di Odino e
le ferite pulsano sotto l'armatura ormai spezzata, ogni sobbalzo
è una fitta dolorosa che gli rammenta spietata il suo
fallimento. Thor gli stringe con forza un braccio, come se temesse la
sua fuga.
Potrebbe scappare, in effetti. Potrebbe sparire. Usare il Tesseract e
poi...
… non ci saranno
regni, né lune deserte, né crepacci dove Lui non
verrà a trovarti...
Il ricordo è un pugno nello stomaco. I pensieri, fili
tranciati di una ragnatela ammuffita, si aggrovigliano e si confondono
alla ricerca di una nuova scappatoia. Ma stavolta non c'è
via di fuga.
Non c'è scampo, e non ci sarà perdono.
Arrivano alla base del palazzo. Sulle pareti si riflette la tenue luce
delle stelle, creando bagliori sinistri. Dove un tempo si specchiava
nel riverbero
dell'oro più puro, ora vede il riflesso del sangue; dove
soffiava la brezza tiepida del conforto, ora ulula il vento gelido del
castigo.
Salgono rapidamente la scalinata ed entrano nell'enorme anticamera
della Sala del trono. I bracieri ardono alle pareti, ma sotto la pelle
martoriata sente solo una lastra di gelo.
Sif li precede, ambasciatrice scontenta di una tetra novella, e non
riesce ad impedirsi di lanciargli un altro sguardo sprezzante prima di
sparire oltre l'enorme portone dorato davanti al quale si sono fermati.
Almeno ora non dovrai
più fingere, Sif. Né nascondere il tuo
astio dietro due occhi indifferenti, per paura della reazione
di Thor. Sei felice,
ora che ho dimostrato che avevi ragione?
La porta si richiude con un tonfo secco che rimbomba a più
riprese contro le pareti, e Loki si prende il tempo di rimirare gli
intarsi che decorano le ante imponenti in legno massiccio. Celebrano la
storia nota di Asgard, le guerre, le vittorie, i bottini.
Tutte bugie.
Il suo sguardo si inchioda sulla pannello che commemora il trionfo su
Jotunheim, dove si cela la menzogna più grande di tutte. La
sua menzogna, la sua storia. E il vuoto che sentiva nel petto ora si
riempie
di rabbia.
Il respiro del dio del Tuono è pesante e irregolare, e la
sua
stretta si fa sempre più ferrea.
Hai paura, fratello? Osi
ancora averne per me,
il tuo peggior nemico?
Si volta verso di lui ed incontra i suoi occhi. È un attimo,
meno di un battito di ciglia, ma il tempo sembra rallentare, fermarsi,
riavvolgersi.
In uno sguardo lungo un niente si dicono tutto quello che mai
riusciranno a pronunciare. Capiscono, accettano, cambiano.
Fratelli,
nonostante il sangue dica il contrario.
Fratelli,
l'unica verità rimasta in un bugia.
Ma poi il portone si riapre di colpo con un cigolio sinistro, e viene
da chiedersi se quel momento appena finito sia esistito davvero. Forse sì
- pensa Loki - forse ci sarebbe speranza, perfino per lui, ma
è un'idea che fa troppo male, perché se
è vero che il tempo guarisce molte ferite, quella nel suo
orgoglio è un ematoma fresco e livido, ancora pulsante.
Tutto dentro di lui è crollato, e rimettere insieme quei
cocci aguzzi ferirebbe anche lui. Meglio tornare – restare? –
un'ombra, un nemico, un folle, e nutrirsi solo di dolore.
Osservatorio Geofisico di
Tromsø, Norvegia
Il televisore riporta immagini confuse di una New York in fiamme e in
rovina. Anche se la minaccia sembra passata, Jane può ancora
leggere il terrore puro dipinto sul volto della cronista. Il primo
pensiero è un non-pensiero, il panico bianco che cancella la
ragione. Poi, rapidamente, affiorano e si accumulano le ipotesi.
“Un attacco terroristico?”, chiede la donna
volgendosi verso Darcy.
“Mh-mh”, risponde sommessamente la stagista,
scuotendo la testa. È in piedi di fianco al divano
grigio della zona relax del centro di ricerca, dove siedono altri tre
membri dello staff, e si mordicchia nervosamente un dito.
“E allora cosa?”, sbotta l'astrofisica, sconvolta.
Decisamente c'è qualcosa che non torna. Qualcosa di grosso.
Scatta in avanti e afferra il telecomando abbandonato sul bracciolo, e
prova ad alzare il volume. Sbaglia tasto un paio di volte, cambiando
canale per errore e provocando un coro di protesta generale, e quando
finalmente riesce nell'intento rimane impietrita.
Non può essere...
Le immagini che scorrono sullo schermo sembrano quelle del trailer di
un film sui supereroi, uno di quelli che Darcy ama tanto e che prova in
tutti i modi a propinarle.
Solo che stavolta lei conosce uno degli 'eroi', e sa con dolorosa
certezza che è tutto reale. Sono veri i suoi capelli dorati,
sono
veri quegli occhi azzurri e sinceri, così come il mantello
rosso che si agita nella frenesia del combattimento.
Non può essere.
Alle sue spalle Darcy
rifiuta
con un gesto secco una tazza di tè fumante dalle mani di
Inge, l'altro stagista presente nell'Osservatorio che le fa il filo da
quando sono arrivate. Ma stavolta non può permettersi di
indugiare nemmeno un secondo in quegli occhi blu, e si precipita verso
l'amica, prima che stramazzi al suolo, o che si metta a gridare, o Dio
solo sa cosa.
“Jane...”
La chiama sottovoce e
prova a
riscuoterla, scuotendola leggermente per una spalla, ma la donna
è ipnotizzata davanti al televisore, lontana anni luce. Una
lacrima le riga il volto e il telecomando le sfugge dalle dita,
sbattendo con violenza al suolo.
Asgard
La Sala del trono è immensa e semivuota. Due sole guardie
alla porta, ma sono i Falchi Rossi di Odino, i suoi guerrieri scelti.
Si dice che abbiano tinto le loro possenti armature cremisi
direttamente
nel sangue dei loro nemici.
Ma Loki non ha mai avuto modo di verificarlo, perché
è sempre stato lasciato indietro.
“Troppo
debole.”
Mentre li sorpassa li scruta con aria di sfida.
Ho guidato un esercito.
Sono ancora troppo debole?
Thor aumenta il passo e lo tira con forza, lo sguardo lucido e fisso.
Loki sbatte le palpebre più volte. Le sue labbra pulsano ma
non le può aprire, la catena stringe e
stride, come a volergli ricordare che in realtà non
è cambiato niente.
Hai perso,
sussurra divertita una voce nella sua testa.
Nel silenzio che lo inghiotte non riesce a metterla a tacere, e quella
ripete lo scherno all'infinito.
Thor avanza a fatica, le gambe pesanti, i piedi di piombo, il cuore
gonfio. Vorrebbe poter perdonare Loki, dimenticare, cancellare; ma come
può farlo, se non è in grado di perdonare nemmeno
sé stesso? Se non capisce nemmeno dove ha sbagliato?
“Guardati! Il
potente Thor! Con tutta la tua forza!”
Si ferma di colpo e alza lo sguardo verso il
trono dorato dove siede rigido e impassibile Odino.
“Dimmi a cosa ti serve
adesso, eh!?”
Il consiglio degli Æsir è riunito, pronto ad
emettere un
giudizio senza alcuna compassione. Non ce n'è mai stata per
Loki, lo realizza solo adesso.
“Mi hai sentito
fratello, non puoi fare niente!”
Thor deglutisce lentamente e abbandona la stretta sul braccio di Loki,
prendendo un respiro. Il brusio di voci concitate si placa, e scruta
negli occhi i suoi compagni, uno ad uno. Cerca conforto nello sguardo
distrutto della madre, pallida e fiera, ritta come una statua di fianco
al marito. Si appoggia con una mano al trono, ma non è per
debolezza, la Regina dei cieli non può permettersela. Ma
deve combattere contro sé stessa per impedirsi di essere
madre, di
amare un figlio mai odiato, di corrergli incontro e stringere tra le
braccia il suo corpo afflitto.
Sif lo guarda e stringe le labbra, sa che vorrebbe essere al suo fianco
ma non può. Questo è un peso che deve portare da
solo.
Fissa gli occhi immobili del Padre e comincia a parlare. Racconta
tutto, nei minimi particolari, ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo.
Celebra la forza e il cuore dei Midgard, e ne sente già la
mancanza.
Piange la caduta di Loki, la sua lotta contro la logica e l'onore, e
continua a non capire.
Si appella alle virtù degli Æsir: alla misericordia di
Balder, alla saggezza di Odino, alla
giustizia di Tyr e Forseti.
Non credeva che dire la verità potesse fare così
male, ma non si ferma. Chiede l'intercessione della madre, discute,
dibatte, grida.
Loki è al suo fianco, immobile, lo sguardo a terra. Non
può parlare, non si può difendere, e non lo
chiede nemmeno, come se sapesse già che non servirebbe a
nulla.
La condanna è già stata emessa, lui lo sa, e giace
sul fondo degli occhi implacabili dell'Allfather.
L'inutile recita si protrae ormai da troppi minuti, e Loki comincia ad
essere stanco.
È una stanchezza pesante, amara, mista a rabbia e rancore.
Thor continua a battersi come se potesse cambiare qualcosa, ma il Fato
non si è mai fatto troppi scrupoli e ora è pronto
a riscuotere il frutto del suo ultimo errore.
All'improvviso il fiume di parole si interrompe, e nel salone cala il
silenzio.
Alza gli occhi.
Odino è in piedi, lo fissa, muove un passo verso di lui.
Poi un altro, e un altro ancora.
Le vesti accarezzano frusciando il pavimento, la lancia d'oro lo urta
con violenza.
Thor indietreggia, una preghiera silenziosa gli anima lo sguardo, ma
subito si spegne. Evidentemente ricorda bene quando era lui a dover
essere giudicato, rammenta il ruggito del Padre che l'ha bandito.
Coraggio, Padre, rinnega
un figlio ed esalta l'altro.
“Loki...”, la voce di Odino non trema, ma non ha
calore, né colore.
“... Odinson.”
Il dio dell'Inganno sbarra gli occhi, confuso e furente. Ferito di
nuovo dalle stesse bugie. Dunque il Padre degli dei ha taciuto ancora
la verità, gli Æsir ancora non sanno, tranne Thor.
È per questo
che mi avete bloccato le labbra? Per impedirmi di parlare, di
raccontare la verità?
Scatta in avanti, ma il dio del Tuono lo trattiene per un braccio, e lo
rimette al suo posto.
“Sta' al tuo
posto, fratello.”
Altra rabbia, altro dolore, e la mente si annebbia.
“A causa dei tuoi crimini e dell'insensatezza delle tue
azioni, del sangue che hai sparso e che a motivo della tua follia
sarà ancora versato...”
Follia? Sì,
sono un folle. Questo è il mio ruolo e non lo posso
cambiare.
“... non sei più degno del tuo rango. Ti spoglio
ora dei tuoi poteri di Æsir, del tuo titolo, della
capacità di nuocere ancora.”
Perché, hai
forse paura di me, vecchio codardo?
“Nel nome di mio Padre, e di suo Padre prima di lui, io
Odino, Allfather, ti condanno all'Oblio!”
Gungnir sbatte a terra con forza, un solo colpo secco, la luce lo
investe, brucia, e Loki crolla in ginocchio. Le forze lo abbandonano,
l'energia gli scorre fuori dalla pelle, e il buio lo attende, di nuovo.
Nascondi ancora la
polvere sotto il tappeto, e confina il mostro sotto il letto. Non mi
importa.
Ricerca lo sguardo della madre, ha il viso rigato di lacrime sottili,
ma non si muove. Tutto crolla e precipita, la vista si offusca e il
dolore lo avvolge come una veste. Si sente soffocare, non
può muoversi, né sfuggire a quella punizione
così terribile che distrugge ogni coscienza, consapevolezza,
ricordo, pensiero, desiderio.
Una tabula rasa dell'anima.
Gli arrivano indistinti gli echi della voce di Odino - parla ancora, ma
non lo sente – e del grido di Thor. E poi, arriva.
Il Vuoto.
Loki prova a combatterlo, ma è troppo debole, e ne viene
risucchiato.
Soccombe, ride ancora, si arrende.
Si frantuma e si perde, senza andare da nessuna parte,
perché a smarrirsi è lui stesso, dentro la sua
medesima mente.
Ci sarei riuscito,
questa volta.
Come un sudario, cala soffocante la cappa nera dell'incoscienza.
Loki
crolla al suolo, inerme, e non sente più niente.
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Capitolo 4 *** Errore ed onore ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
4 – Errore ed onore
Asgard, Sala del trono
Un gemito, un tonfo secco, poi di nuovo silenzio.
Tyr, il dio della Guerra, incrocia le braccia possenti e osserva il
corpo immobile del
più odiato tra gli Æsir. Non
saprebbe definire esattamente cosa prova, ma di certo non è
pena. Non è nemmeno soddisfazione, l'Allfather
è stato fin troppo misericordioso. Un taglio netto
può
servire a scoraggiare momentaneamente un'erbaccia, ma per evitarne la
ricrescita è necessario estirparla alla radice.
Tuttavia Odino ha smesso da tempo di ragionare come uomo di guerra;
è un padre fiaccato dagli anni e logorato dal trono,
insofferente alle sue stesse leggi.
Un tempo il re di Asgard non avrebbe avuto pietà, la sua
condanna sarebbe corsa sul filo della spada, avrebbe lavato l'onta col
sangue.
Invece adesso tace, persino mentre Thor tenta inutilmente di soccorrere
il fratello, accecato da una collera inappropriata, gridando come un
bambino il suo disappunto. Sono lontani i giorni in cui il ruggito del
sangue reale era foriero di forza e autorità. Ora
è poco
più di un flebile vagito.
Il dio della Guerra sospira, accarezzandosi la barba striata di grigio,
finemente intrecciata, mentre gli Æsir abbandonano i loro
posti,
sollevati, indifferenti, già dimentichi di tutto. Alcuni
trovano persino l'inopportuna impudenza di chiacchierate e ridacchiare
tra loro mentre gli sfilano accanto, come se quello fosse un volgare
mercato, e non il supremo Cosiglio.
Che ne è dell'onore
di Asgard?
Tyr spera che ne sia rimasto perlomeno un barlume, sul fondo
dell'occhio di Odino, e che questa sia l'ultima macchia, l'ultima
incertezza, l'ultima caduta, prima di erigere un nuovo fondamento di
giustizia.
“Alzati, mio principe”, comanda con voce ferma
portandosi
accanto al dio del Tuono, che è ancora chino sul corpo
freddo e rigido di
Loki. Ha gli occhi sbarrati, il deludente secondogenito, ma sono spenti
e vuoti, proprio come il suo futuro.
Thor sembra non sentirlo e non accenna a muovesi, quindi lo afferra per
una spalla e lo costringe ad alzarsi, scuotendolo con forza. Lo fissa
negli occhi, imperioso e risoluto.
“Datti un contegno, figlio di Odino”, la voce
è dura
ma lo sguardo è partecipe, quasi paterno,
“è in
momenti come questo che devi mostrare giudizio, rigore e sicurezza.
Asgard necessita questo dal suo futuro re.”
Thor deglutisce, gli occhi azzurri sgranati e smarriti. Sembra solo un
ragazzo, maldestro ed ingenuo, ancora così lontano
dall'esperienza forgiata dalla lotta e dal sacrificio. Poco importa
ciò che afferma di aver fatto su Midgard, se non
è in
grado di essere coerente con ciò che dichiara in patria.
Tyr scuote impercettibilmente la testa, poi fa un cenno alla guardie e
i Falchi Rossi accorrono, silenziosi come un fendente mortale, e
trascinano via Loki, o quel che rimane di lui, subito seguiti dal dio
del Tuono, ostinato nella sua inetta e vana preoccupazione.
Frigga stringe le labbra e si porta una mano al petto, mentre i suoi
figli spariscono dietro un portone dorato. È sempre
più
pallida, gli occhi leggermente velati, ma mantiene stoica la sua
compostezza di regina. Lentamente si volta e cerca nello sguardo algido
del marito il permesso di ritirarsi, di poter essere madre, finalmente,
lontano da occhi e giudizi.
Odino annuisce brevemente, autorizzandola a scivolare via, rapida e
discreta; poi muove qualche passo pesante verso il dio della Guerra,
compagno di mille battaglie e fratello di un tempo troppo lontano, che
subito si porta un pugno al petto e china il capo.
“Mio Re” afferma a voce bassa, “la tua
sapienza non
ha uguali. Sebbene mi prospettassi un castigo più giusto, confido
nella lungimiranza della tua vista.”
L'Allfather
si puntella alla lancia sacra, al pari di un vecchio col
suo bastone, ma la sua stretta è ferrea quasi come un tempo
mentre gli poggia una mano sulla spalla, e proclama con voce tonante:
“Il Fato di Loki forse non si è ancora compiuto,
ma non
starà a lui decidere. Non è nella condizione di
nuocere a
nessuno ora, e se il dipanarsi del tempo richiederà un
cambiamento, senza la benedizione della mia lancia non
avverrà
alcun risveglio.”
Il dio della Guerra annuisce, serio, e fa per andarsene, ma Odino lo
blocca con uno sguardo.
“Potrò contare sempre sulla tua
obbedienza, e sulla tua fedeltà.”
Non è una domanda, né un'affermazione, ma quasi
un
pensiero, la richiesta di conferma di una sottomissione dovuta e
scontata.
“Sono leale ad Asgard, e lo sarò sempre.”
Tyr sostiene ancora per un attimo lo sguardo imperioso dell'Allfather,
poi si volta e si allontana a grandi passi dal trono, lasciando
il suo Re in compagnia della solitudine, eterna sposa del comando.
Asgard, stanze reali
Frigga ha da poco convinto Thor a ritirarsi, e si sente esausta. Si
lascia cadere sul letto, sedendosi sul bordo del morbido materasso e
concedendosi un breve momento di debolezza. Mentre si massaggia piano
le
tempie prova a mettere ordine nei suoi pensieri, ma il
suo cuore infranto di madre è un mare in tempesta, una nave
senza ormeggi.
Si rialza lentamente, il corpo rigido, e si incammina verso la terrazza
più esterna, guidata dall'istinto e da un'esperienza ormai
senza
tempo.
La porta di bronzo si apre con un leggero fruscio, e l'aria fresca le
accarezza la veste, increspando la superficie dell'acqua che giace
placida nella vasca triangolare al centro della piccola sala. Le torce
ardono anche se ormai è giorno inoltrato. La luce si spande
nell'aria e rimbalza sulla figura immobile che si staglia contro il
cielo.
Una così piccola terrazza può contenere il
più
grande tra gli Æsir, l'Allfather,
e persino i suoi pensieri.
Odino osserva il suo regno dall'alto e non si volta, anche se l'ha
sentita arrivare.
“Non mi chiedi come ho potuto farlo, questa volta?”
C'è qualcosa di incrinato, nella voce di Odino, anche se il
suo tono è perentorio.
“Non mi hai ascoltata allora, non lo farai adesso.”
“Tu credi che io abbia sbagliato.”
Si volta e la fissa, scandendo con rabbia sottile l'ultima parola.
“Non gli hai nemmeno permesso di difendersi!”
È diventata brava ad essere solo regina, Frigga, ma un
figlio
vale molto più di un trono, anche se non ha il suo
stesso
sangue, e per questo sarà sempre più debole di
Lui. Odino
è la sua ancora, da sempre. Il suo compagno, la sua
metà.
E il suo peggior nemico, talvolta.
“Se lo avessi fatto, probabilmente ora sarebbe morto, e non solo prigioniero
dell'Oblio.”
“Solo?
Hai smarrito nostro figlio! Sai bene che si
perderà, la sua mente non è mai stata sicura. Non
mi hai
nemmeno permesso di curarlo...”, la voce della regina si
incrina
in un singhiozzo soffocato.
Odino torna a guardare Asgard, le sue mura imponenti, le sue
costruzioni
d'oro, e abbassa la voce.
“Ti ho concesso però di custodirlo dove desideri,
non
dimenticarlo. E non dimenticare nemmeno ciò che ha fatto. Se
Thor ci ha portato sull'orlo di una guerra, Loki ha condotto l'ombra
del conflitto nella nostra stessa casa. Il tuo affetto acceca il tuo
buon giudizio, mia Regina, altrimenti vedresti che non
poteva esistere un'altra
soluzione.”
Frigga si appoggia sconsolata ad una colonna, socchiudendo gli occhi
per impedire alla lacrime di cadere.
“Lo riporterai indietro?”
“Solo se sarà necessario, se sarà utile ad
Asgard.”
La regina scatta in avanti, sconvolta.
“Come puoi parlare così di Loki? Come se fosse uno
strumento,
e non tuo figlio?”
Odino risponde al suo sguardo con durezza, ruvido e secco.
“Privo della mia misericordia, è ciò
che è sempre stato.”
Frigga sbarra gli occhi e si sorregge al marmo gelido. Apre appena le
labbra e ne esce solo un sussurro.
“Com'è possibile che tu sia sordo al tuo stesso
cuore a tal punto?”
Passano i minuti, e finalmente Odino risponde:
“Perché io
sono il Re.”
Ma ad ascoltarlo c'è solo il vento, la Regina se
n'è
andata, vinta dal suo essere madre di due soltanto, e non di tutti,
lasciandolo solo a far tacere i rimorsi e a combattere per un bene
senza volto.
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Capitolo 5 *** Nella mia mano, la speranza ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
5 – Nella mia mano, la speranza
Osservatorio Geofisico di
Tromsø, Norvegia
Jane si sciacqua di nuovo il viso con forza, poi intreccia le mani a
coppa e le lascia sotto il getto d'acqua bollente, sperando che sia
sufficiente a restituirle un po' di calore. Lo spazioso bagno coperto
di piastrelle bianche è invaso dal vapore, una nebbia
tiepida e soffocante.
“Va meglio?”
Darcy le porge un asciugamano azzurro e la fissa con l'espressione
più seria che riesce a simulare, stringendo con forza le
labbra per impedirsi di scoppiare a ridere da un momento all'altro.
L'astrofisica le lancia un'occhiata risentita e chiude con un gesto
secco il rubinetto. Poi afferra l'asciugamano, affondando la faccia
pallidissima nel panno ruvido, ed inspira con forza, frizionandosi il
viso.
“Non c'è proprio niente di divertente”,
sentenzia. La voce è smorzata dalla stoffa, ma colma
d'imbarazzo e scoramento.
“Certo che no”, mormora Darcy a mezza voce,
sogghignando, mentre passa una mano sullo specchio appannato, levando
qualche strato di condensa. Sorride al suo riflesso e non riesce ad
impedirsi di dire quello che la passa per la testa.
“Di certo il prof. Hall non sta ridendo.”
“Darcy!”
Jane rialza la testa di colpo e si protende verso di lei, gettandole
addosso l'asciugamano. La stagista lo afferra al volo e lo distende,
quasi a volerne fare una barriera, ed indietreggia allarmata.
“Tranquilla! Non vorrai vomitare addosso anche a
me!”
L'astrofisica sbianca di nuovo e barcolla pericolosamente.
“No ora sto... sto bene”, affermazione che il corpo
smentisce subito provocandole un nuovo capogiro, obbligandola a
reggersi al marmo del lavandino per non franare a terra a peso morto.
“Come no...”, borbotta Darcy roteando gli occhi,
poi la sorregge e l'aiuta a sedersi – a crollare
– sul copriwater di ceramica smaltata.
La poveretta si tiene la testa tra le mani e mugugna lamenti
incomprensibili, mentre la stagista si tiene a distanza di sicurezza,
scuotendo la testa.
“Sarà un effetto del jet lag a scoppio
ritardato.”
“Mmmh...”
“Magari combinato allo stufato di ieri sera, pure io l'ho
trovato un tantino indigesto.”
“Mmmh...”
“Come si chiamava? Far-Far?”
“Mmmh... fårikål...”
Darcy agita con noncuranza una mano.
“Fa lo stesso. La cucina straniera è dura da
digerire, soprattutto per una come te che vive di latte e
cereali.”
“Nommh... er...sto.”
“Eh?”
Jane rialza lentamente il viso, lanciandole un'occhiataccia.
“Non credo sia per questo.”
La stagista abbassa lo sguardo, poi si riavvicina al lavandino e riapre
l'acqua, lasciandola scorrere finché non torna fredda.
“È per quello che hai visto in TV?”
Le riempie un bicchiere e glielo porge, stavolta con aria sinceramente
avvilita.
Jane manda giù a forza qualche sorso e poi stringe le
spalle, rabbrividendo.
“Credo che sia più che altro per quello che non ho
visto.”
Darcy fa una smorfia dispiaciuta e le si siede accanto, anche se il
bordo sottile – e gelido
- della vasca da bagno non è di certo la seduta
più comoda del mondo.
“Sei preoccupata per Selvig?”
“Non ha mai risposto alle mie chiamate, Darcy. E se
fosse...?”
Jane trattiene un singhiozzo, e l'amica le poggia una mano sul
ginocchio, fissandola con aria di rimprovero.
“Non pensarci nemmeno, vedrai che chiamerà.
Piuttosto, non è che il tuo malessere sia dovuto anche alla
ricomparsa di un certo ex-barbone svitato di nostra
conoscenza?”
Cala un silenzio di piombo. Ora è difficile anche respirare,
non solo deglutire.
“Allora ho visto bene. Era lui. Era
Thor.”
L'astrofisica ridacchia nervosamente, si scosta i capelli dal viso e
ricaccia le lacrime con brevi respiri irregolari. Tutto lo stress, la
frustrazione e la fatica di un anno le crolla addosso in un secondo.
“Cosa sta succedendo, Darcy?”
Ha lo sguardo perso e confuso, la giovane astrofisica, e la stagista
vorrebbe davvero avere una risposta da darle, ma il suo solito acume
sembra soffocato da una realtà impossibile da
sdrammatizzare. Stira le labbra, avvilita, poi volta di scatto la testa
e si alza, come se inseguisse un suono disperso nella nebbia.
Jane continua continua a fissare il vuoto.
“Se poteva, perché... Perché non
è tornato prima? Perché non è
tornato...?”
...da me?
È una domanda sciocca e infantile, e riesce a chiudere le
labbra prima che le sfugga e la faccia sentire ancora più
stupida. All'inizio aveva deciso di credere
alla luminosa promessa fatta da un dio a una piccola umana, e l'aveva
anche rincorsa per qualche tempo, tra tempeste magnetiche e laboratori
di
ricerca.
Poi, si era rassegnata
alla verità.
“Jane...?”
Darcy la chiama e armeggia goffamente con la sua borsa di stoffa,
scavando nelle tasche interne come se fosse alla frenetica ricerca di
qualcosa, ma Jane non la sente neppure.
Cosa dovrei fare adesso?
Finalmente la stagista sembra trovare quello che cerca e, dopo un
istante di silenzio, emette un lieve gridolino di gioia.
“Guarda Jane!”
Si precipita verso l'amica, si abbassa sulle ginocchia e le agita
qualcosa contro la faccia. Qualcosa che vibra con insistenza.
L'astrofisica tiene la testa bassa, e sembra ancora persa nei suoi
pensieri.
“Che cosa devo fare?”, mormora meccanicamente.
Darcy sbuffa e la scuote senza tante premure.
“Per prima cosa potresti rispondere al telefono. Guarda un
po' chi c'è?”
Jane risolleva lo sguardo, stranita, ed incontra prima il sorriso
impaziente e gli occhi sgranati di Darcy, e poi lo schermo illuminato
del suo cellulare, che continua a vibrare a un palmo dal suo viso.
Riconosce subito il numero e per poco non si mette a gridare. Sullo
sfondo scuro capeggia il faccione sorridente di Selvig, e basta
quell'immagine rassicurante a smorzare in un istante tutte le sue
ansie.
Asgard, stanze reali
“Sapevo che ti avrei trovato qui.”
Frigga sorride dolcemente, nella voce lo stesso affetto che le muove il
cuore.
Thor è seduto sui gradini dorati della sala dei banchetti
ormai vuota, ed è avvolto dall'inusuale silenzio che lo
accompagna
da quando è tornato da Midgard. Non appena la sente, rialza
il viso e cerca i suoi occhi, provando inutilmente a dissimulare il
dolore.
“Madre...”
La Regina gli si avvicina, e prova a cancellargli dal volto
quell'angoscia terribile, che sente così sua, con una
carezza senza tempo. Il dio del Tuono le stringe la mano e le bacia il
palmo, poi si rialza e osserva il profilo di Asgard, che giace quieta e
bellissima nel suo manto d'oro e d'aurora. Una volta, osservando quel
perfetto riflesso di grandiosità e potenza, si sentiva
coraggioso, si sentiva a
casa.
Ora, avverte forte la
mancanza, un lente grigia che offusca i pensieri e
indurisce la scorza di un animo sconfitto.
“Non riesco ad abituarmi a ciò che ho perso,
madre.”
“Nessuno ti chiede tanto, Thor.”
Il dio stira le labbra in un sorriso amaro.
“Io sì”, mormora con aria solenne.
“È ciò che Asgard si aspetta da me.
Ciò che Lui
si aspetta da me.”
“Non devi farti carico di questo peso da solo. Parlami, ti
prego.”
Thor le poggia una mano sul fianco, in un abbraccio spezzato.
“Avevi ragione, averti come madre è stata la
più grande delle nostre fortune. Non meritate il dolore che
vi ho causato, la colpa di tutto è mia, e mia
soltanto.”
Frigga si sporge verso di lui e scuote teneramente la testa.
“Sei un bravo figlio, Thor. Lo siete entrambi. Non devi
perdere la speranza che, un giorno, Loki possa tornare da
noi.”
“Quanto dovrò aspettare? Sono passati solo venti
giorni e mi sono sembrati mille.”
La Regina osserva orgogliosa il profilo fermo di quel figlio dal cuore
così semplice, eppure così grande.
“Le sentenze di tuo Padre sono severe, ma giuste. E, tu
dovresti saperlo molto bene, nascondono sempre un proposito
più grande.”
“Forse sono cieco, Madre, ma non riesco a vederlo.”
“Fidati di me, Thor. Non esiste nulla di velato allo
sguardo dell'Allfather,
ma ci sono cose che i miei occhi vedono persino con più
chiarezza dei suoi. Così come è stato per te, il
fato di
Loki sarà nelle sue stesse mani. Non permetterei nulla di
meno.”
Frigga si ritira nelle sue stanze quando ormai la notte di Asgard ha
avvolto i sogni di tutti i suoi figli, anche del più
ostinato.
È inquieta, perché sul suo petto grava un peso
tremendo, ma la decisione è ormai presa. Se l'onore di un re
riesce a placarne i rimorsi di padre, il cuore di una madre non si
arrende nemmeno se vincolato da una corona. Tocca a lei, stavolta,
tentare; e tranciare un filo nella trama del destino.
Congeda due delle sue ancelle, che si ritirano discrete e silenziose, e
fa avvicinare l'unica rimasta. Fulla, la più coscienziosa
tra sue le serve, custode e partecipe dei suoi segreti, avanza
rapidamente. Tra le mani regge con attenzione un
piccolo scrigno lucente, e lo porge con una riverenza alla sua Regina.
Frigga lo soppesa tra le dita, che tremano lievemente, poi lo apre. Al
suo interno, avvolta da uno strato di seta, giace la sua più
preziosa reliquia, figlia di un'epoca lontana e quasi dimenticata.
La rivede dopo tanto tempo e si sorprende di quanto sia minuscola,
l'arma che il Fato le ha concesso. In poco più di un'unghia
giace il futuro di Asgard, la caduta o la rinascita di un regno.
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Capitolo 6 *** Senza maschere, nessuna difesa ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
6 – Senza maschere, nessuna difesa
... Oblio ...
Primo giorno
Loki riapre di scatto gli occhi e torna cosciente.
Si porta una mano al viso.
La museruola di ferro non c'è più, la pelle
è sana, ma sotto i polpastrelli quasi non ne avverte la
consistenza.
Il cielo è una stoffa impalpabile e bianca, quasi incolore.
Soffocante.
Lascia ricadere pesantemente il braccio a terra, ma il tonfo ovattato
che produce è a malapena udibile nel mutismo assoluto
dell'Oblio. Si alza in piedi lentamente, aspetta il dolore, aspetta che
quel pungiglione così familiare gli scuota le membra, invece
non sente niente.
Il respiro si fa affannoso, ma non fa alcun rumore, solo un sibilo
appena percepibile nel silenzio che grida spietato intorno a lui.
Stende le braccia, si osserva le mani, le dita pallide e affusolate;
poi contrae di scatto i pugni con forza.
Niente.
È come se sotto quella pelle diafana, che a stento avverte
come sua,
non ci sia nulla di vivo, né ossa, né muscoli,
né sangue che scorre; solo pietra.
Loki stira un angolo della bocca e sogghigna, ma gli occhi non ridono
affatto mentre osserva quel cielo bianco che sembra precipitare, quasi
a volerlo inghiottire.
Chi sarebbe il padre
delle illusioni,
Allfather?
Si incammina in quella landa desolata e senza fine, e cammina per ore,
forse giorni, senza fermarsi. I passi tengono un tempo che non esiste,
mentre cercano inutilmente un'uscita, una salvezza che lo deride come
un miraggio sempre al di là di un orizzonte tremolante.
Vuoi che mi perda? Vuoi
che dimentichi? Non accadrà mai.
Ma ad ogni passo il cielo e la terra si fanno più vicini e
gli rubano un frammento di memoria, nascondendolo nel bianco feroce di
un vuoto che non esiste.
Decimo giorno
Senza fare alcun rumore, nell'Oblio cade la neve. È fitta e
soffocante, come una pioggia di cera.
In mezzo al nulla, senza direzione, un uomo avanza a fatica nella
tormenta.
Il terreno è un manto candido e vischioso, e ad ogni
movimento affonda sempre più, ma non si ferma né
rallenta. Era un dio una volta, di questo è certo, ma ora
l'involucro è perso ed è rimasto solo un figlio
tradito.
Perché mi hai
rinchiuso qui, Padre cieco? Vuoi mostrarmi quanto vuota sia la mia
mente?
Un lampo bianco, un passo malfermo, e cade in avanti, affondando in una
coltre di neve senza temperatura né odore,
solo opprimente consistenza. Lo terrebbe giù,
sconfitto e ad
annegare nel niente, se non trovasse chissà dove la forza di
riemergere e di rimettersi in piedi. Barcolla, inspira con forza e si
passa una mano sul viso.
Sei in errore, Padre. Se questa fosse la mia mente,
ci sarebbe solo ombra, e mi ci potrei nascondere prima di azzannarti
alla gola.
Riprende a camminare, sempre più stanco, sempre meno
presente, lo sguardo fisso sull'orizzonte. Uno spartiacque appena
visibile tra due tele del medesimo colore.
Hai già
ritrovato e sovrapposto le tue impronte svariate volte, cosa speri di
vedere?
Cieli pieni di stelle,
torri d'oro e verdi foreste. Casa.
Non c'è
più casa, per te; bandito e dimenticato dal Regno.
Quasi non ricordi
più il tuo nome, vero?
Non ne sei degno...
Ciò che resta di una rabbia covata al buio per mille anni si
condensa al centro di un petto senza battiti né fiato.
Perché?
Non ricordi cos'hai
fatto?
Loki, l'aborto.
Loki, il maledetto.
Loki, il male senza cura.
Un ultimo grumo di consapevolezza prende possesso del di-nuovo-Loki, e
il dio dell'Inganno ricorda.
Ricorda una serie infinita di errori, di cadute, di privazioni. Scherni
e debolezze, fautori di inutili rincorse a ciò che mai
sarà né potrà essere. Quella quieta
sofferenza, intima e silente, che ha covato e nutrito la Rabbia,
amorevole e odiata compagnia di malefatte, illusioni, bugie, massacri.
Per un istante l'Oblio si tinge di rosso, monito e memoria di tutto il
sangue che ha sparso con mano fredda e cuore troppo debole, poi il
Bianco torna egemone.
Sono stato io a fare
questo? Sì, io e solo io.
Perché?
Loki avanza sempre più lentamente, prova a ridere,
ma è un riso senza eco. La lacrima pesante che gli riga il
volto e precipita al suolo, invece, sembra fare finalmente rumore. Un
suono terribile, una bozzolo che si frantuma.
Ha capito, alla fine.
Perché
è il mio ruolo.
Non esistono strategie, né gloriosi propositi, che possano
cambiare il fine ultimo del suo Fato. Per quanto faccia bene crederlo,
nessuno gli ha piantato nel cuore il seme del male, perché
era già lì, ci
è nato, con un tarlo marcio che consuma la
ragione per la brama di un amore egoista, e inghiotte e distrugge tutto
anche quando trova quel che cerca.
Chi sei?
Anche l'ultima vestigia del ricordo si arrende e crolla.
Nessuno.
C'era la promessa di qualcosa di buono, persino per lui, un tempo. Ma
era una bugia, una delle tante.
E ora le volta le spalle, per sempre.
Cosa sei?
Sorride e guarda il cielo sempre più vicino, e si sentirebbe
quasi più leggero se la verità non fosse un
intruglio velenoso, impossibile da deglutire senza avvertirne l'amaro.
Io sono il male
necessario.
Ventesimo giorno
Senza fare alcun rumore, nell'Oblio si alza la nebbia. È
densa e tiepida, come un vello di lana.
In mezzo al nulla, senza direzione, un ragazzo avanza alla cieca, le
braccia strette al petto. Ha il viso di un bambino e gli occhi di un
vecchio, verdi e cupi, come se avessero visto e compreso l'intero
universo.
Eppure non ricorda niente.
Inspira la foschia a pieni pomoni, e la condensa gli scende in gola,
cancellando ogni pensiero. Una vita senza macchia, ha perso ogni strato
di marcio ed è rimasto ciò che avrebbe
voluto/potuto essere.
Cosa c'è di più puro di un bambino senza colpe?
Cammina avvolto dal candore di una pace fittizia, indotta, bugiarda. Ma
è pur sempre pace. Si sente quasi felice quando si ferma di
colpo e si inginocchia a terra. Il suolo è traslucido e
riflette l'immagine di qualcun altro, un uomo dagli occhi di ghiaccio,
che ha conosciuto il dolore in ogni sua forma e l'ha donato agli altri.
Non vuole più vederlo, non vuole più sentirlo.
Crolla in avanti, il viso bellissimo – ma perché
è rigato di lacrime? – affonda nel molle tepore
di un amnio
bianchissimo, che lo accoglie e risucchia senza prepotenza.
È prigioniero, ma è una gabbia gentile, senza
sbarre; solo per lui.
Niente lo può ferire, non può fare male a
nessuno. Forse è quello il posto per lui, forse il Fato ha
finalmente deciso di concedergli un po' di quiete.
Di ciò che è stato, della sua mente, resta solo
un ultimo brandello, che gli permette di restare sveglio un altro po',
chissà quanto.
E, mentre affonda sempre più nel torpore bianco dell'Oblio,
chiede, prega,
di poter dimenticare ed ignorare anche quell'ultima, fiacca,
consapevolezza.
Asgard, stanze reali
Asgard dorme un sonno incosciente e tranquillo, ma all'alba mancano
solo un paio d'ore e non c'è un attimo da perdere. Frigga
richiude lo scrigno e deposita il piccolo involto nella mano tesa della
sua ancella. Le richiude le dita, stringendole con tenace dolcezza.
“Sai cosa fare. Nessuno deve vederti, nessuno deve sapere
cosa abbiamo fatto. Prendi il destriero di Gnà, dovrai
essere veloce e silenziosa.”
Fulla annuisce, tesa. È pallida e ha paura, ma ama la sua
padrona più di ogni altra cosa, e le è fedele
come nessun altro.
“Qualsiasi cosa accada, dopo che l'avrai usata, vattene
subito. Devi tornare prima dell'alba e attendere ai tuoi doveri come di
consueto, senza dare nell'occhio. Conto su di te, non
deludermi.”
“Non temete, mia Regina.”
La giovane abbassa la testa, il nastro d'oro tra i capelli riflette per
un istante il bagliore scoppiettante dei bracieri, poi scivola via
veloce e con il cuore in gola.
Il compito che le è stato affidato è estremamente
rischioso e, ai suoi occhi, anche privo di senso, ma lo
assolverà con cura ed efficienza, perché ha da
tempo imparato a fidarsi del giudizio della sua padrona più
del suo stesso istinto.
Frigga si affaccia alla terrazza di bronzo e fissa con apprensione le
scuderie reali. Sono avvolte dal silenzio, come aveva previsto,
finché di colpo non ne esce Fulla, in groppa all'agile
Hòfvarpnir, che tira gli zoccoli e pare volare nella notte
buia e quieta. Si allontanano quasi senza far rumore, sollevando appena
un po' di polvere, e spariscono alla sua vista.
Aggrappata al bordo del parapetto, la dea chiude gli occhi e inspira in
profondità, sperando ancora una volta che la decisione
presa – come madre, non come
regina – sia giusta, e che la sua
vista non
l'abbia tradita.
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Capitolo 7 *** La runa bianca ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
7 – La runa bianca
Rovine di Fensalir, Asgard
Fulla scende
dalla sella con un agile balzo, e i piedi affondano un poco nella melma
tiepida. Lega il cavallo al tronco spezzato di un
albero ormai secco, e il destriero sbuffa irrequieto, pestando
nervosamente la terra molle di palude con gli zoccoli ferrati.
La città d'oro e il suo silenzio innaturale sono lontane,
nascoste da una boscaglia fitta che filtra persino la luce delle stelle
e si muta in un acquitrino stagnante e nebbioso. In quell'angolo
nascosto – dimenticato – di Asgard, sono saltati
argini, mura, canali e sentieri, tutti
inglobati e assorbiti dalle spire immortali di una natura atavica e
bellissima.
In mezzo alla bruma, su una radura piana e accogliente, giace quel che
resta
di un antico splendore.
Celata sotto un mosaico perfetto di arbusti e intrecci ramosi,
abbarbicati a rocce chiare e a simulacri in frantumi, si riesce ancora
ad indovinare la forma di quella che un tempo – lontano,
lontanissimo – era la dimora di Frigga, di Eir, e di tutte le
Ásynjur.
Quando erano davvero delle dee - giuste, temute, potenti - e non
soltanto le mogli degli Æsir. Quando erano tutte regine,
padrone di un potere senza pari, in quel palazzo di pietra bianca e
legno di frassino, il più candido e splendente di una Asgard
non ancora sazia di oro e sangue.
Ora, tra i giunchi e il pantano, non risuona più alcuna
voce, nessun riso, nessuna preghiera. Eppure non c'è mai
silenzio. L'acqua delle sorgenti scorre libera e gorgogliante, senza
briglie, raccogliendosi in bacini placidi e fitti canneti, nutrendo una
terra abbandonata e maledetta – Fensalir
è un nome infame, si può solo sussurrare
– che però non tace mai. Il vento accarezza il
pelo dell'acqua e scuote dolcemente le foglie, soffia nei giuchi cavi e
risveglia il gracidio concitato delle raganelle e il frinire ritmico
dei grilli. In lontananza, al sicuro tra i rami robusti di querce
secolari, le civette e i gufi intonano i loro lugubri richiami agli
astri notturni, finché la luce del giorno non
risveglierà il cinguettio degli uccelli di palude, in un
infinito e immutabile ciclo armonico.
Se Fulla ne avesse il tempo – e il cuore – potrebbe
ricordare che anche allora
si udiva quella stessa melodia, e che ne faceva parte, ma all'alba
manca poco più di un'ora e il ricordo è un filo
di spine che ti ruba anche il senno, se glielo permetti. Quindi avanza
risoluta, incurante del fango che le inzacchera il cuoio dei calzari, e
del sibilo del vento – si dice che nella foresta che nasconde
Fensalir agli occhi di Asgard viva un mostro dagli occhi rossi come
sangue – e prega che il suggello apposto dalla Regina
protegga anche lei.
Si avvicina alle mura diroccate e il terreno si fa più
compatto, permettendole di camminare più velocemente. Segue
con lo sguardo i bagliori intermittenti di piccole lucciole e ritrova
il sentiero, quello che ha accompagnato i suoi passi per una vita
intera, e di cui ora mette in dubbio persino il ricordo.
È stato solo un sogno? Quando chiamava per nome le stelle e
ne udiva le risposte, tessendo il fato degli uomini con le sue sorelle
come se fosse un filo di seta?
La domanda assilla Fulla per un istante e poi diviene fumo nella nebbia
lattiginosa dei ricordi. Non ha più alcuna importanza.
Asgard è cambiata, ha mutato persino i nomi dei suoi figli e
ha cancellato un'epoca in cui bastava poco – un
falò di legna secca, un canto intonato a più
voci, la carne cotta sulle braci – per essere felici. L'era
di Odino ha portato grandezza, potere e sapienza oltre ogni confine, ma
anche sangue, l'odore marcio della morte, la furia della guerra, e ha
imposto il silenzio su tutto quello che era stato prima.
Eppure, in quell'angolo sperduto di mondo, protetto dalla mano di
Frigga, il tempo si è fermato. Del palazzo è
rimasta un piedi una sola ala, la più interna e preziosa.
Fulla spinge con decisione il piccolo portone di legno intarsiato,
ormai quasi totalmente avviluppato d'edera, e viene accolta dalla luce
tremolante di piccole candele.
L'ancella ne insegue il luccichio discreto lungo un breve corridoio,
giungendo ad un salone affrescato e dal mobilio raffinato. Di fronte a
lei, adagiato su di un letto mai sfatto, giace il corpo inerme del
principe perduto. Fulla si avvicina titubante e ne osserva le braccia
rigide, incrociate sul petto, e il viso immobile, senza colore. Sembra
tinto di morte, pensa, tanto è fissa la maschera
dell'incoscienza.
Eppure fa ancora paura.
Forse è per questo che la mano trema mentre la infila nella
bisaccia che le pende su un fianco, e ne estrae l'involto di seta. Lo
svolge con attenzione, riportando alla luce Wyrd, la runa
bianca, e per un istante la fiamma delle candele sembra inchinarsi
al potere del Fato, un omaggio o forse un monito all'insensatezza di
ciò sta per fare.
Con una mano afferra il viso di Loki, sobbalzando per quanto
è fredda e simile a pietra la sua pelle, e la mascella non
oppone resistenza, dischiudendo le labbra e simulando un grido senza
voce. Fulla gli appoggia con delicatezza la runa - un piccolissimo
tassello vuoto, eppure così ricolmo di forza - sulla lingua,
e per un lunghissimo, interminabile momento, dimentica di respirare. La
pietra bianca sembra sciogliersi, ed è incredibile quanto
somigli a una ragnatela il disegno che intesse mentre si sfalda, perde
colore, svanisce tra le pareti di una bocca quasi senza respiro.
L'ancella ritrova il fiato – e il coraggio – e
richiude le labbra del principe, che sembra riprendere gradualmente
colore, pur rimanendo sospeso nel suo sonno di piombo.
È andato
tutto bene.
Fulla si volta, fa per andarsene, ma quando varca la soglia della porta
ad arco avverte qualcosa. Le candele si spengono e una civetta lancia il
suo grido
stridulo nella notte, che entra dalla finestra semiaperta trasportato
da una folata di vento freddo. Il respiro dell'ancella si fa pesante,
terrorizzato, quando sente un nuovo rumore, più vicino, alla
sue spalle, a pochi passi. Stoffa che striscia sul pavimento, lamenti
soffocati, e un bisbigliare rauco, che rimbomba tra le pareti e si muta
in un suono agghiacciante, coma la risata roca di un corvo.
L'ancella si gira di scatto e indietreggia, fronteggiando qualcosa che
non vede, e nell'oscurità i suoi occhi sbarrati incontrano
il riflesso di altri
due occhi, lucidi, folli (verdi?). Urlerebbe ma il grido
le
muore in gola.
Non è
possibile.
Un sogghigno nel buio, silenzio, un passo, di nuovo silenzio, poi la
sgradevole sensazione di perdere l'equilibrio la attanaglia da dentro.
Il nastro d'oro che porta stretto tra i capelli si slaccia, le scivola
sul volto, sibila – sibila!?
- e si muove lento, come un serpente, freddo e squamoso. Quando
scende abbastanza lo avverte vicino all'orecchio, un soffio umido le
lambisce la pelle, ritmico e orribile, e finalmente la paura
intrappolata nel petto si libera in un urlo acuto e sgomento, e Fulla
si copre gli occhi con le mani, scuotendo con forza la testa. Qualcosa
cade a terra, rumore metallico.
Cos'è
successo?
Niente, le
rispondono gli occhi quando li riapre, tutto è esattamente
come dovrebbe. I lumi accesi, la luce fioca... il corpo immobile di
Loki giace nella stessa posizione in cui l'ha trovato. Il suo
petto si alza con più frequenza, il pallore del suo volto
è meno marcato, ma niente sembra suggerire che la sua
visione – suggestione? – sia stata reale. Ma
nonostante tutto Fulla non riesce a scacciare la paura che si
è impossessata di lei. Si volta di scatto e corre, corre,
corre, senza voltarsi indietro, verso l'uscita, attraverso il sentiero
di pietra che diventa terra, fango, foresta. Il cavallo la
attende inquieto, come se avesse fiutato il suo terrore, e sbuffa dalle
narici nuvole di condensa.
L'ancella lo slega veloce, ma le mani non hanno presa e la corda le
sfugge dalle dita, impattando con un tonfo liquido nella melma. Si
china per raccoglierla ma un dolore, sordo, spietato, le percorre i
nervi, la pelle, la mente, e la blocca a metà strada.
Inspirando forte prova a rialzarsi, ma attraverso la nebbia che si
è fatta più fitta le giunge un ringhio basso,
selvaggio, e vicino. Si aggrappa ai finimenti del destriero, che pesta
il terreno molle sempre più impaurito, cercando di tirarsi
sulla sella, prima che il
mostro arrivi. Ma è già
lì, di fronte a lei, e ha davvero gli occhi rossi, spietati.
Fulla lo riconosce, il pelo folto e nero, le zampe possenti, le fauci
dischiuse e aguzze, schiumanti furia.
Freki, l'Ingordo,
uno dei lupi di Odino. La sua guardia spietata, il suo sterminatore
senza
coscienza.
La belva latra – un verso spaventoso – e si
lancia verso di lei, cacciatore consumato e avvezzo divoratore, e
l'ancella riesce con ultimo sforzo disperato a tirarsi sulla sella e
a colpire con forza il dorso del cavallo, che si imbizzarrisce e si
dà alla fuga, veloce come il vento. Il lupo tiene il passo e
ulula, ringhia, affamato, finché la foresta non finisce e le
torri dorate di Asgard non tornano in vista.
Casa.
Fulla si gira, ma nessuno la insegue, la minaccia è passata.
Pochi minuti, e rientra nei cortili reali, vicino alla scuderia. Scende
da cavallo, e quando tocca il terreno si sente
incredibilmente stanca, dolorante, fiaccata. Decide di non farci caso e
permette al destriero di abbeverarsi: ha il dorso madido di sudore e
sembra affaticato.
Fulla sospira. Ha svolto il suo compito, all'alba manca ancora un'ora,
va tutto bene.
Freki non era previsto, ma se Loki si dovesse davvero risvegliare
– cosa improbabile, ormai non crede già
più a quello che gli occhi le hanno suggerito, al buio
– sarà un ottimo deterrente ad ogni tentativo di
fuga. L'importante, ora, è tornare al servizio di Frigga,
darle la buona notizia: la mente del figlio è salva: un
giorno, forse molto lontano, le speranze della regina troveranno anche
un volto.
Eppure Fulla non riesca a sorridere, qualcosa non torna.
Accarezza il manto bruno del cavallo, e la vede. La sua
mano. Grinzosa, sottile, malferma, come quella di una vecchia. Si
scopre il braccio e vede la stessa cosa, la pelle si ritira in pieghe e
solchi, marcendo, rubandole le forze. Crolla a terra e si porta una
mano tra i capelli, diventati sottili e stopposi, e capisce. Il nastro
d'oro, il dono di Frigga alle sue ancelle, suggello di eterna
giovinezza, è stato davvero perduto. Senza quell'unica
barriera, il
tempo riguadagna terreno e le strappa di dosso una maschera fittizia,
brandello dopo brandello. Non ha mai temuto davvero la morte, ma se
questa arrivasse ora, renderebbe inutile la discrezione della Regina,
il suo piano sarebbe svelato, la sua vita in pericolo. E da un
tradimento simile, non ci sarebbe assoluzione.
Fulla striscia a terra, piangendo, e le lacrime percorrono antichi
solchi rugosi di nuovo esposti sul suo viso, cercando un nascondiglio,
disperata, quando all'improvviso si accorge di non essere sola.
Al pozzo, una giovane dai capelli d'oro la fissa sconvolta. Dev'essere
una serva, tra le più umili, dato che è
già sveglia e laboriosa prima dell'alba, e ha gli occhi
velati da un'ombra di malinconia. Lascia cadere il secchio colmo
d'acqua sul selciato e le corre incontro, inginocchiandosi accanto a
lei.
“Mia signora...” mormora, la voce è
tiepida e limpida. Evidentemente l'ha riconosciuta dagli abiti come una
delle ancelle della Regina, ma non comprende cosa le stia accadendo.
“Chi sei?”, domanda Fulla, e non riconosce il
sussurro ruvido che esce dalla sue stesse labbra.
“Una serva di Asgard” mormora la ragazza,
portandosi una mano al petto, “appartengo alla dea Lofn.
Ditemi come posso aiutarvi.”
Fulla stringe le palpebre, la osserva con attenzione eppure non riesce
a ricordare di averla mai vista.
“Chi sei?”, ripete, in un altro rantolo affaticato.
“Il mio nome è Sigyn, mia signora. Ora,
vi
prego, ditemi cosa fare.” Ha gli occhi spalancati, di un
azzurro intenso.
“Aiutami a trovare un posto... in cui nascondermi. Ho perso
il mio nastro, e la morte mi raggiungerà a momenti, non devo
essere trovata... Meglio perire nel disonore... che mettere in pericolo
i piani della Regina.”
Sigyn aggrotta la fronte e scuote leggermente la testa.
“Voi non morirete.” Lo dice con decisione,
dolcemente, prima di aiutarla ad alzarsi e a portarla all'interno di un
capanno di legno e mattoni, dove sono conservate le sementi e il
foraggio per i destrieri degli Æsir.
“Sapete dove avete perso la vostra fascia d'oro?”
Fulla annuisce stanca, e bisbiglia: “Fensalir... a terra,
nell'unica sala dove si trovano candele accese...”
Un ascesso di tosse violenta le impedisce di continuare, e si accascia
su se stessa, sempre più debole, senza accorgersi dell'ombra
che ha attraversato lo sguardo di Sigyn, oscurandole per un istante gli
occhi e il viso. La giovane serva deglutisce, poi estrae dalla tasca
della veste una piccola ampolla. Ne svita il tappo di sughero e
l'avvicina alle labbra raggrinzite di Fulla, spiegando:
“È linfa di frassino, bevete e vivrete abbastanza
da attendere il mio rientro.”
L'ancella beve avidamente il liquido bianco e dolciastro, poi intende
le parole di Sigyn e si blocca, fissandola sgomenta.
“Fensalir non è lontana, e il vostro cavallo
è il più veloce, farò ritorno prima
che albeggi.”
Fulla vorrebbe fermarla, ma riesce a malapena ad sollevare il braccio
rinsecchito, la voce non esce, e la ragazza è già
corsa fuori, sente i suoi passi rapidi sull'acciottolato, il nitrito
sommesso di Hòfvarpnir e il rumore dei suoi zoccoli che
pestano la terra e si fanno sempre più lontani.
È troppo tardi, non ha potuto dissuaderla, né
avvertirla del pericolo.
Una nuova lacrima le riga la guancia, portando con sé anche
l'ultima speranza.
Non tornerà.
Aeroporto di
Tromsø, Norvegia
La pista d'atterraggio è avvolta dal riflesso di un incerto
sole di fine maggio, e anche se finalmente le
temperature cominciano a farsi vagamente accettabili, Jane sente freddo
e si stringe nella giacca rabbrividendo. Darcy è al suo
fianco e ciondola
nervosamente sulle caviglie, senza preoccuparsi di trattenere sbadigli
e mugolii di disapprovazione.
Alzano lo sguardo contemporaneamente mentre un piccolo jet esegue una
parabola nel cielo terso e limpido, prima di atterrare con grazia
sull'asfalto sgombro.
L'astrofisica inspira profondamente, tesa, e osserva il portellone di
metallo scuro come se volesse aprirlo con la sola forza del pensiero.
Dopo un paio di minuti scende un frastornato Selvig, che si porta una
mano sugli occhi, schermandosi dalla luce, e scende i pochi gradini
guadagnando finalmente la terraferma. Jane gli corre incontro e lo
abbraccia con affetto, come se non lo vedesse da chissà
quanto, come se avesse temuto di...
“Ho temuto che non ti avrei più
rivisto...”. Ha gli occhi sgranati e umidi, gli stessi che
aveva quando era solo una studentessa minuta e imbranata, lasciata
orfana dal mondo e perennemente con gli occhi tra le stelle. Non che
ora sia cambiata poi molto.
Selvig sente una stretta al petto e si sforza di sorriderle, ma
è così pesante il fardello che si porta dentro, e
non vuole che nessun altro – e men che meno Jane –
se ne accorga.
“Sto bene” riesce a mormorare, sfiorandole i
capelli in un gesto paterno che vale quando l'amore di un vero padre.
“Devi raccontarmi tutto, cosa è successo a New
York? Ho visto le immagini, era un portale, vero? Quello era un ponte
di Einstein-Rosen? Quello...?”
…Quello era
Thor?
“Tranquilla, Jane, ora abbiamo tempo, ti spiegherò
tutto, con calma.”
“Non dimentichi il dovere, dottor Selvig.”
Un uomo esce dal jet portando due grosse valigie, che deposita ai piedi
di Erik, prima di rivolgere uno sguardo cordiale all'astrofisica.
“Dottoressa Foster, è un piacere.”
Ha un bel sorriso, occhi svegli e scaltri da faina, ed
è decisamente più muscoloso di quel che sembra.
Jane allunga una mano titubante.
“Piacere mio, signor...?”
“Agente Clint Barton”, replica l'uomo stringendo la
sua mano in una presa decisa e ferrea.
“Agente? Intende dire che lavora per lo
S.H.I.E.L.D.?”
Clint ritrae la mano e inforca un paio di occhiali da sole scurissimi. Tipico.
“Aveva dubbi, signorina?”
“A dire la verità no.”
Clint ridacchia e Jane squadra interrogativa Selvig, che afferra con
uno sbuffo le valigie e le si affianca.
“Io e Occhio di Falco abbiamo lavorato insieme, se
così
si può dire.”
“Una collaborazione piuttosto inusuale”, conviene
l'agente Barton, incrociando le braccia.
“Occhio di..
falco?”
domanda Jane sempre più confusa.
“Ti spiegherò tutto, ora però
è meglio andare, sono piuttosto stanco.” E mi serve una birra.
L'astrofisica non può far altro che annuire, lanciare un
rapido sguardo di commiato all'agente – Occhio? Falco? – e tornare
sui suoi passi.
“Dottore!”
Il ronzio del motore in avvio del jet riempie l'aria ma il richiamo di
Barton si fa comunque sentire. Selvig fa segno a Jane di proseguire,
poi si volta verso l'agente, in attesa.
“Sicuro di farcela?” chiede Clint a mezza voce,
aggrottando lievemente le sopracciglia.
Selvig ridacchia, tristemente, e alza appena le spalle, replicando:
“Sicuro che passerà?”
Barton irrigidisce la mascella, cercando di nascondere la rabbia dietro
un sorriso di circostanza.
“Certo, ma dipende da lei. Passerà, anche se ci
vorrà del tempo” – una vita
– grida una voce nella sua testa.
Selvig sembra più smarrito che mai, ma finge di crederci
davvero in quella bugia.
“Certo”, mormora abbassando lo sguardo. Poi rialza
gli occhi, stirando le labbra. “Arrivederci, agente Barton.
La terrò informata sui risultati delle nostre
ricerche.”
Clint annuisce e lo osserva mentre si allontana e raggiunge la
dottoressa Foster, che si è fermata a metà della
pista per aspettarlo. Poi, silenziosamente, entra nell'abitacolo del
jet e si abbandona su un sedile, la testa fra le mani. Il velivolo
decolla, ma non se ne accorge nemmeno.
“Passerà”, bisbiglia, ma l'irritante
ghigno di Loki, quel suo tono supponente, che ha imparato ad ignorare
ma che continua ad infestare la sua mente, lo deride ancora una volta.
Selvig raggiunge Jane e riprende a camminare al suo fianco, tentando di
sfuggire al suo sguardo indagatore. Osserva il sole che si staglia
al di sopra dei monti e prova a cambiare argomento.
“Ero convinto che fosse notte.”
“Lo è”, conferma l'astrofisica,
allargando le braccia, “ti presento il sole di
mezzanotte.”
Selvig rimane un attimo interdetto, realizzando per la prima volta che
si trova davvero
in Norvegia, davvero
a nord del Circolo Polare Artico.
“Ora mi spiego le occhiaie di Darcy, fanno
impressione”. La stagista li osserva immobile, lo sguardo
vacuo di chi non riesce a dormire da troppe notti.
Jane trova la leggerezza e il sollievo di concedersi una risata.
“Ti consiglio di non stuzzicarla: morde.
Più del solito, intendo.”
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Capitolo 8 *** L'ora dei segreti ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
8 – L'ora dei segreti
Palazzo di Sessrùmnir,
Asgard
Ci sono poche cose in
grado di turbare l'animo di un guerriero, e Tyr ha imparato a
riconoscerle sin da ragazzo, quando ha scelto per amante una spada e
per amico il braccio che la regge.
Una è il silenzio,
perché ricorda l'istante incerto che precede il fragore
della battaglia, quando si è tutti uguali, tutti deboli,
tutti perdenti; come pure la fine dei combattimenti, dopo l'urlo di
vittoria, quando la polvere si posa su un terreno che gronda e si
contano i morti.
Per questo indossa sempre
la sua tintinnante corazza, anche ora, mentre siede - solo - sui quieti
gradini esterni di Sessrùmnir, e tende le orecchie
inseguendo anche il più lieve rumore.
Un'altra è l'immobilità,
perché il riposo delle membra è l'anticamera del
trapasso: illude la vista, abbassa le difese, nutre i pensieri
più nefasti e libera le paure.
Quindi anche adesso
affila la sua spada, in un movimento ritmico e istintivo che gli
è naturale quasi quanto il respirare, pietra contro ferro,
scintille stridenti e odore di bruciato. Una, dieci, cento volte.
Tyr non abbassa mai la
guardia, nemmeno ora che Asgard dorme, avvolta da un sudario vischioso
e quasi nauseante nella sua perfezione, perché quella che
Odino chiama pace
- ma lo è davvero? - è l'unica cosa che il dio
della Guerra teme. Ha accecato gli occhi di tutti, col tempo, e ora
Asgard e il suo Re sono ridicolmente deboli, costretti ad elemosinare
aiuto dalla più degradante e fallace delle alleate.
Freya è ormai
incontrollabile, una belva affamata e vendicativa. Un capriccio di
gioventù dell'Allfather
si è dimostrato un ennesimo, vergognoso errore. Quando era
solo una fanciulla dalla bellezza perfetta e intatta, ha pagato il
prezzo della tregua con Vanaheim con la sua stessa pelle; il suo reame
l'ha usata senza remore come merce di scambio e Odino l'ha sedotta
con l'illusione di un trono che non aveva alcuna reale intenzione di
condividere col lei. Ha scaldato il suo letto per qualche notte, per
poi votarla ad un proposito deviato e abietto, a cui non avrebbe mai
sottoposto nemmeno la più umile delle serve di nascita
asgardiana. Uno stratagemma scaltro e degno di un tiranno, che ha
permesso di vincere una guerra e di ottenere un vantaggio che ancora
oggi possono sfruttare; ma Freya, la più bella dei Nove
Regni, non ha mai perdonato, e giorno dopo giorno ha soffocato onore e
buon senso nel rancore e nell'indecenza più immorale. Eppure
è scaltra, non lascia prove, e sa approfittare perfettamente
della tolleranza di Odino, tanto che nessuno osa palesare un tradimento
che è da secoli sotto gli occhi di tutti. Da quando Asgard
si è corrotta a tal punto?
Un cavallo nitrisce,
interrompendo il filo amaro dei pensieri del dio, e quando lo
scalpiccio di zoccoli si fa più vicino Tyr smette di
affilare la sua lama e alza lo sguardo, abbozzando l'ombra di un
sorriso.
Da un destriero
immacolato scende con naturalezza un uomo – un dio –;
i capelli color della neve e lo sguardo limpido. Accarezza un istante
il manto bianco dello stallone, poi si volta nella sua direzione e
sorride, il passo sicuro e cadenzato.
Tyr si alza e ripone con
un gesto secco la spada nel fodero, e allunga un braccio in direzione
del nuovo arrivato.
“Balder.”
“Fratello...”
risponde il più amato tra gli Æsir, ricambiando
prontamente la stretta, “...immaginavo di trovarti
già qui.”
“Sono passati
secoli dall'ultimo incontro della nostro Triplice Patto, ma io ne
rispetto sempre gli antichi fondamenti. Prima, deve giungere la Guerra. Poi, la Pace.
Infine...”
“...Infine,
viene la Giustizia.”
Tyr e Balder si voltano
di scatto, per poi portarsi simultaneamente una mano al petto, in un
gesto di rispetto e obbedienza. Odino è arrivato senza fare
rumore, sebbene a condurlo sia stato Sleipnir, il suo colossale
destriero a otto zampe. Indossa la sua armatura più scura,
solo lievemente bordata d'oro, e ha nello sguardo una nube ancora
più tetra. Si avvicina con decisione, e poggia una mano su
ciascuna spalla dei due Æsir, i suoi consiglieri
più fidati, fratelli e figli allo stesso tempo. Con loro,
dai tempi del Grande Inizio, ha risolto le più grandi
controversie di Asgard, ne ha giudicato i nemici con saggezza e, come
adesso, ne ha protetto i segreti.
“Fratelli, mai
avrei auspicato un giorno come questo. Mai.”
Li guarda negli occhi con
tale intensità da far loro dimenticare che abbiano una sola
iride in cui specchiarsi, poi comincia a salire i gradini con grave
lentezza.
“Eppure,
è giunto. Non possiamo rimandare oltre, per il bene di
Asgard. Seguitemi.”
Il portone si apre con un
fragore di metallo, ma all'interno del salone buio non trovano nessuno
ad accoglierli. È chiaro che non sono i benvenuti.
A differenza della notte
di Asgard, le stanze di Sessrùmnir non tacciono mai, e tra
le pareti e gli arazzi si rincorrono risate smorzate, sospiri, canti e
ritmici richiami. Uniche testimoni di tanta lascivia: decine di candele
tremolanti.
Odino è una
maschera di pietra, ed avanza imperioso, mentre Balder lancia occhiate
di puro sconcerto alla volta di Tyr che, sempre più
disgustato, scuote la testa ad ogni passo. Asgard non gli è
mai sembrata così bassa
come lo è ora.
Si fermano davanti alla
scalinata di marmo grigio che conduce alle fondamenta di quel palazzo
immondo, all'enorme segreto sepolto sotto strati di terra, roccia,
oscurità.
Un'ancella con una maschera dorata sugli occhi si avvicina reggendo una torcia di legno secco, e
la lamella di fuoco scoppietta e danza, disegnando riflessi dorati sulle pareti.
“Benvenuti,
Signori di Asgard. Freya vi permette di scendere alla cella
sotterranea. Io vi farò da guida.”
“Grazie...”, Balder riesce appena ad accennare un sorriso,
prima che la rabbia di Tyr diventi voce di tuono.
“Non abbiamo
certo bisogno del permesso della tua indegna padrona. Fatti da parte,
conosciamo la strada.”
Dietro la maschera, l'ancella sembra sostenere lo sguardo
del dio senza scomporsi, nemmeno quando lui la
allontana con una spinta decisa; poi rivolge lo sguardo verso Odino,
chinando leggermente il capo.
“La cortesia di Freya
merita un compenso, non credete, Allfather?”
“Taci!”,
tuona Tyr, la mano già corsa all'elsa della spada,
“O preferisci che ti tagli la lingua io stesso?”
Balder gli frena
prontamente il braccio, sussurrando:
“Non oggi,
fratello. Non siamo qui per spargere sangue.”
“Siamo qui per
farci insultare, allora? Da troppo tempo la mia lama non saggia la
carne, e da ancor più tempo ci crogioliamo nella molle
tolleranza, nella sterile diplomazia. Dov'è finita la nostra
forza?”
“Basta.”
L'autorità
risiede nelle poche parole di chi non può essere smentito, e
il Padre degli dei le ha sempre sapute scegliere, né mai si
è mai trattenuto dal pronunciarle, anche quando erano lame e
umiliazioni.
“Ci sarei
riuscito, Padre!
…per te! Per
tutti noi...”
“No,
Loki.”
“La nostra
forza, oggi, è la saggezza dell'esperienza. I nemici che
affrontiamo sono il lascito dei nostri errori passati, e non possiamo
permetterci di commetterli di nuovo. Non ne abbiamo il tempo.”
Odino serra le labbra, e
finalmente Tyr e Balder riescono a scorgere l'immane preoccupazione che
gli attraversa lo sguardo. Senza proferire altra parola lo seguono con
rapida concentrazione, seguiti a breve distanza e in silenzio dall'ancella,
scendendo sempre più in basso, circondati dal buio freddo
che sale dalle viscere di Asgard.
Poi, d'improvviso, quando
l'ultimo gradino è lasciato alle spalle, un cono di luce
bianca filtra dall'alto, generato da un intricato meccanismo di specchi
e fessure nella roccia, e indica la via attraverso le ante spalancate
di un colossale portone di metallo intarsiato.
Balder si volta indietro
mentre lo attraversano, e socchiude gli occhi. Nessuno li segue
più, l'ancella pare sparita.
Il salone scavato nella
pietra che li accoglie è riscaldato da un braciere che arde
senza mai spegnersi, il suo crepitare rimbomba ritmico tra le pareti da
ere incalcolabili. Dall'alto, nascosta dalla roccia, filtra altra luce,
bianchissima, e investe una cella quadrata senza sbarre né
porte, ma sigillata da quattro lastre di cristallo trasparente, lamiere
inviolabili forgiate in un lontanissimo passato. All'interno di quella
gabbia stupefacente, dove tutto è bianco - soffitto,
pavimento, pareti – i contorni immobili del prigioniero
paiono una ferita nera e profonda. Ritto in piedi, volge loro il fianco
e non si sposta, nemmeno quando i padroni del Cielo si portano di
fronte alla cella, vicinissimi eppure così fastidiosamente
al di fuori della sua portata.
“È
un onore
rivederti così presto, Allfather...”
La pelle sembra calce
sbiancata e si tende appena mentre parla: una voce cupa, arida, la voce
di un giovane invecchiato dal tedio e dalla prigionia, nato
già in catene ma mai rassegnato all'esilio.
“...non sei
solo, questa volta?”
Balder e Tyr si scambiano
una veloce occhiata che tradisce una domanda e un dubbio, e Odino, un
passo avanti a loro, si affretta a colmarne l'incertezza.
“Allora,
l'urgenza era impellente. Thor doveva giungere subito su Midgard, e tu
sai raccogliere l'energia oscura necessaria per aprire un varco tra i
nostri mondi. Ma oggi ci servi per altri scopi, Malekith.”
“Oh, io so
perché siete qui”, ghigna l'elfo, voltando la
testa e rivelando l'abominio di un volto candido solo per
metà, l'altra è guastata da una pelle che pare
corteccia bruna e scaglie d'ossidiana, come quella di tutti gli
abitanti di Svartalfheim. “Sapevo che sareste venuti.
L'ho capito quando quelle crepe sono apparse, almeno un anno
fa...” e mentre lo dice indica una, cinque, dieci fenditure
nella roccia, partite come sottili fessure ma ormai divenute spaccature
profonde e irregolari, sempre più ampie, “...sono
ovunque, non è vero? In ogni sotterraneo della vostra amata
Asgard. Nascoste al popolo... ancora per quanto? Cosa dirai quando le
torri cominceranno a crollare, le case a franare, l'oro a
marcire?”
Balder sussulta,
abbandonando le braccia lungo i fianchi, e volge lo sguardo su Odino.
“Cosa?
È l'intera città ad essere un pericolo?”
“L'intero regno”
ribatte Malekith, inespressivo, “come hai potuto non
accorgertene, principe asgardiano? Oppure la tua vista era troppo
offuscata da ozio e idromele?”
Balder stringe i pugni e
deglutisce, stringendo le palpebre.
“Quando...
quando è iniziato?”
“Il
Bifröst è linfa e sostegno del nostro
mondo” spiega il Padre degli dei, “quando Thor l'ha
troncato per salvare Jotunheim ha spezzato un equilibrio vitale che va
ripristinato al più presto, prima che le nostre stesse
fondamenta ci inghiottano.”
Tyr si lascia sfuggire un
verso di disapprovazione, e incrocia le braccia possenti.
“Immaginavo che
le azioni impulsive del nostro principe si sarebbero rivelate
scellerate – ancora
una volta – ma non capisco perché ci
serva l'aiuto di questo aborto.”
Malekith ghigna appena,
accarezzandosi il mento, proprio dove si incontrano due colori, due
pelli, due razze, in un gesto misurato e provocatorio divenuto ormai
istintivo.
“Il ponte
dell'arcobaleno è l'arteria di Asgard. Quando Mjolnir l'ha
reciso ne ha interrotto il percorso, ma non il flusso. Voi non siete in
grado di vederla, l'energia, ma io la avverto anche ora, mentre si
lancia nel vuoto, prosciugando il vostro mondo, goccia dopo goccia.
Occorre ripristinare il Bifröst e ricostruirne il dispositivo
di controllo, altrimenti la cancrena vi
dilanierà.” E sembra quasi che goda al solo
pensiero, l'elfo oscuro, orrore nato per errore, figlio maledetto di Freya, una pedina "sacrificabile" immolata per inganno al re di
Svartalfheim e riscattata troppo tardi.
“E tu puoi
farlo?”, domanda Tyr, scettico.
“Dimentichi di
chi sono figlio.”
“Affatto, lo
ricordo bene. Ricordo quando ho scagliato quel disertore di tuo padre
nel Limbo, prima del Grande Inizio, quando abbiamo sottomesso il
tradimento di Svartalfheim a fil di spada.”
“Tradimento? Il
debito di Asgard è incolmabile. Chi vi ha dato il vostro
potere? Chi ha forgiato le vostre armi? Ricordi solo ciò che
appaga il tuo riflesso, signore della Guerra. Svartalfheim ha modellato
Gungnir, Mjolnir, come pure il congegno che regola il Bifröst.
E io, in cambio della libertà, posso costruirlo di
nuovo.”
Odino frena con un cenno
Tyr e avanza di un altro passo verso la cella.
“Se desideri
tornare nel buio del tuo mondo morente, ti accontenterò.
Prima, però, dimmi come riparare il ponte.”
Malekith inclina appena
la testa, e la treccia di capelli bianchi gli dondola lievemente sulla
spalla.
“Non ci arrivi,
Padre degli dei? Ciò che crea, distrugge.”
“Immaginavo. Il
potere del martello non ha eguali: implacabile arma per demolire o
impareggiabile strumento per edificare, a seconda dell'intenzione di
chi lo impugna. Dovrai dunque solo ricostruire il dispositivo di
controllo. Dimmi cosa ti occorre.”
“Solo tre cose:
una fucina...”
“Verrà
allestita qui, e tu non potrai uscire dalla cella.”
“... Lo
sospettavo, grande Padre.
Dunque necessito dei migliori fabbri dei Nove Regni, i figli di
Ivaldi.”
“La loro razza
è estinta, così come lo sarà presto la
tua” ringhia a labbra strette Tyr.
L'elfo gli riserva una
rapida occhiata gelida, prima di replicare:
“Il tempo ha
indebolito la tua memoria, guerriero. Restano Dvalin ed Eitri, a
Niflheim. Non li hai condotti all'esilio tu stesso, molti eoni
fa?”
Tyr aggrotta la fronte,
stringendo le braccia al petto.
“Esilio che
ormai li avrà resi polvere, in una terra di nebbia e
morte.”
“Non esiste
nessuno di più longevo dei nani, soprattutto se della loro
stirpe. Non sono carne e sangue, come voi, ma roccia e radici. Ma, se
non mi credi, puoi verificare tu stesso.”
Malekith allunga una mano
verso la parete della sua cella e appoggia appena un dito su quella
superficie traslucida, descrivendo piccolo cerchio. Dall'altra parte
della lastra di cristallo si forma una piccola sfera nera, che rimane
sospesa qualche istante a mezz'aria, poi rotola a terra rimbalzando
più volte, fino a fermarsi ai piedi del dio della Guerra,
che si china ad afferrarla, soppesandola tra le dita. E molto
più pesante di quel che la sua massa suggerisce e
stranamente tiepida, la superficie nero-bluastra in continuo movimento.
“Ho condensato
sufficiente energia oscura per un viaggio, ingoia la perla e ricorda il
luogo dove hai già condotto i due mastri nani. Lo
raggiungerai in un battito di ciglia.”
Tyr stira ironicamente un
labbro, fissando l'elfo in tralice.
“Mi credi tanto
inetto? È un viaggio di sola andata.”
Malekith lo fissa senza
timore, passandosi una mano sul mento. Poi allunga nuovamente la mano e
ripete il gesto, formando una nuova sfera.
Tyr la raccoglie e la
incastra sotto la corazza, e si porta l'altra alle labbra. Rivolge uno
sguardo contrariato verso Odino, prima di inghiottirla.
“Dunque
è così che Thor ha potuto manifestarsi su
Midgard. Davvero onorevole.”
“Ho fatto
ciò che andava fatto per proteggere i Nove Regni, e tu lo
sai.”
“Certo...”
mormora Tyr, voltandosi. Ispira profondamente e chiude gli occhi.
Asgard è cambiata, e non ha intenzione di tradirla, ma di
certo non riuscirà mai a mutare con lei. Molto presto
avrà di nuovo bisogno della sua spada – ne
è certo - e della sua onesta devozione. Fino ad
allora, seguirà il consiglio di Odino e la sua vista acuta,
anche se intrisa di un tipo di saggezza tortuosa e a lui
incomprensibile. Ingoia la perla e la sente scendere piano lungo
l'esofago; in un istante il portale si apre davanti – e dentro
- di lui, e sparisce in lampo dorato.
Balder, rimasto muto e
pensieroso da vari minuti, sembra riscuotersi. Cerca per un istante la
sagoma del dio guerriero dove ora non c'è più
nulla, poi muove in avanti, affiancando il Padre degli dei di fronte
alla cella.
“Cos'altro ti
serve?”
Malekith segue solo con
gli occhi la sua voce, rimanendo immobile.
“Il giusto
materiale. Se volete che il dispositivo funzioni correttamente, deve
saper imbrigliare ed indirizzare l'energia del Bifröst,
altrimenti collasserebbe su se stesso. Esiste un solo metallo in grado
di sostenere un tale sforzo: l'uru.”
“La miniere di
uru sono estinte da secoli.”
“Certo, ma del
metallo che ne venne estratto ne rimane più che a sufficienza, non
è vero? L'avete usato per ricoprire, anzi inondare d'oro le
vostre mura, i palazzi, le case e perfino utensili e
armature.”
Balder si volta di scatto
verso Odino, allargando le braccia.
“Dovremmo
spogliare Asgard e privarla delle sue vesti e del suo potere?
È una pazzia!”
Il volto dell'elfo nero
sembra impassibile, ma nasconde un ghigno famelico.
“Pensaci bene,
Allfather. Cosa sei disposto a sacrificare, per ciò in cui
credi?”
Il Padre degli dei
sostiene lo sguardo con l'autorità del comando; se
è in dubbio o in assillo, non lo dà a vedere.
Annuisce gravemente, poi poggia con fare paterno un braccio sulla
spalla di Balder, infondendogli un po' di coraggio.
“Il popolo
capirà, non c'è altro modo”. Poi si
volta verso Malekith e imperioso prosegue: “Comincerai l'opera al
ritorno di Tyr. Questa è l'unica occasione che avrai per
ottenere clemenza: non sprecarla.”
Foresta dimenticata, nei
pressi delle rovine di Fensalir
Mancano ormai pochi
filari di alberi all'ampia radura che ospita le rovine del palazzo,
quando Hòfvarpnir si blocca di colpo, inchiodando gli
zoccoli al terreno. Sigyn prova a restare in sella, stringendo con
forza le redini, ma il cavallo indietreggia terrorizzato, rizzandosi
sulle zampe posteriori e sbalzandola a terra.
La botta è
meno forte del previsto, attutita da uno strato di muschio umido, ma
quando la ragazza prova a rialzarsi facendo presa su una roccia, la
pietra affilata le taglia la pelle, aprendo uno squarcio profondo nel
palmo. Geme sommessamente stringendo la mano al petto e si volta,
restando a terra. Il destriero bruno è appena dietro di lei
e continua a pestare la terra, nitrendo e sbuffando. Prova a calmarlo
allungando le dita tremanti verso il muso dell'animale, ma
improvvisamente si fa un gran silenzio, innaturale. Rimane immobile e
respira piano, mentre da terra si alza una nebbia sottile che odora di
pioggia e di marciume. E
lo sente.
Un ringhio alle sue
spalle, basso, omicida, vibrante. Lo sente insinuarsi sotto la pelle
come un brivido, e la ferita pulsa e brucia. La creatura alle sue
spalle libera un latrato basso e raccapricciante, quasi di scherno, e
sbuffa forte. Avverte il suo fiato sul collo, tra i capelli, e
comprende cosa deve provare una falena imprigionata tra i fili
ingannevoli di una ragnatela l'istante prima del morso fatale.
Si volta lentamente, col
respiro mozzato, e la fissa negli occhi, la creatura.
Se mi vuoi, non ti
darò la soddisfazione della caccia.
È un lupo.
Enorme e nerissimo, con
gli occhi rossi e rotondi come bacche selvatiche. Spalanca le fauci, e
latra famelico, schiumando una striscia di bava bianca. Non le lascia
nemmeno il tempo di gridare.
Quando le salta addosso e
tenta di azzannarla alla gola, riesce a ritrarsi appena in tempo, la
mandibola del lupo schiocca e si serra a vuoto vicinissima al suo
orecchio. Ha schivato il primo affondo, ma non avrà la
stessa fortuna una seconda volta. La belva ritrae il capo un istante,
prendendo la rincorsa per l'assalto letale, e Sigyn segue l'istinto in
un'estrema, futile, mossa disperata. Serra gli occhi e spinge in avanti
la mano ferita, tentando di allontanare da sé la bestia per
almeno un altro secondo, per un'ultima boccata d'aria, un ultimo
pensiero.
Non voglio morire. Non
voglio fallire.
Le dita insanguinate
impattano sul muso del lupo, sfregando le narici umide e spalancate. La
belva indietreggia di colpo, soffiando e scuotendo la testa. Sigyn
riesce a rialzarsi appena e la vede dimenarsi come impazzita, per poi
lanciare un ululato acuto e straziante, tristissimo. Un piccolo stormo
di uccelli abbandona spaventato il rifugio sicuro di ramo con un frullo
d'ali e il lupo si volta di colpo, fissandola per un
lunghissimo, interminabile secondo.
Poi, così
com'è apparso, il lupo svanisce nella nebbia.
L'ancella rimane a terra,
ansante, in attesa di un attacco a sorpresa che però non
arriva. Lentamente, passano alcuni minuti, e tiene il tempo ascoltando
i battiti agitati del suo cuore che le rimbombano forte nelle orecchie.
Poi, decide che deve rischiare. Ha un compito vitale, da lei dipende
una vita, o forse più. Si alza in piedi con cautela,
inghiottendo un grumo acido di saliva e, ignorando la nausea che le
avvolge le pareti della gola, risale a cavallo. Hòfvarpnir
sembra di nuovo tranquillo, e la accoglie sul dorso senza vacillare e,
obbediente, riprende il galoppo.
Quando giungono di fronte
alle rovine del palazzo, Sigyn scende dalla sella e strappa una
striscia di tessuto dalla sua semplice veste per fasciarsi la mano che
continua a stillare sangue. Individua subito il sentiero seminascosto
dalle erbacce, e insegue uno sciame di lucciole. La terra sotto i suoi
piedi risuona d'acqua e di polvere, a seconda di dove si posa il suo
passo, e le fronde degli alberi sembrano sussurrare indicazioni senza
tempo. Lo sente, Sigyn, il canto che intona Fensalir, una melodia
spezzata e malinconica che le entra nella testa, e le fa
venire improvvisamente voglia di piangere.
'Nostalgia.
Fensalir intona un
lamento per il ritorno di una sua figlia perduta.'
Si porta una mano alla
bocca e trattiene un singhiozzo, imponendosi di non fermarsi.
Dimentica.
Il passato dei tuoi avi.
Il motivo per cui hai
sempre desiderato e temuto venire qui.
Ci sono cose che non
saranno mai alla sua portata, lo sa bene, e non ha senso sperare,
illudersi, provare a capire, ricordare, rivendicare. È solo
un'umile figlia di Asgard che cammina leggera all'ombra della sua
benevolenza, e tale dovrebbe restare. E, soprattutto, ha un compito da
svolgere, una promessa da mantenere.
Arriva di fronte ad una
porta avvolta d'edera, lasciata spalancata dalla fuga di Fulla,
probabilmente. All'interno, un ambiente che odora di muffa e di tempo
lontano, illuminato da piccole candele. Imbocca il breve corridoio e
giunge in un salone più grande, dove l'aria profuma invece di
carta, legno inchiostro. Ma dove aleggia anche qualcos'altro,
qualcosa di malato e cupo, come una piaga purulenta.
Sigyn vede ripiani ricolmi di
antichi volumi, affreschi sbiaditi dal tempo, un'altra porta sfondata
dall'umidità che sembra dare sull'esterno e, finalmente, il
motivo per cui si trova lì. Sul pavimento giace il nastro
dorato di Fulla, perso in istante di panico di cui non
comprende la ragione. Il lupo è fuori, la stanza pare un
rifugio sicuro.
Sigyn si china rapida e
raccoglie il semplice gioiello, e il metallo è freddo e
liscio tra le dita. È allora che lo vede. Un uomo
– un ragazzo? - abbandonato su di un letto sfatto, scomposto.
Il petto dello sconosciuto si alza e si abbassa frenetico, mosso
dall'aritmia di un respiro sincopato, e dal braccio che sporge verso il
basso, quasi a sfiorare il terreno, gocciola senza sosta un sottile
fiotto di sangue scuro.
Sigyn smette di respirare
e si rende conto di star stringendo con troppa forza il nastro d'oro
quando una fitta di dolore cieco le attraversa la vista. L'uomo
è sveglio.
Volta il viso verso di
lei, ma è seminascosto dai capelli neri, che gli ricadono
sulla pelle sudata in ciocche sudicie e scomposte.
“Chi
sei?”
Ha una voce profonda,
forse arrochita dalla solitudine, tagliente, e quando si alza nota che anche
i suoi lineamenti sono affilati e scarni. Si regge in piedi a fatica,
ma ha nello sguardo tanto odio da farle tremare il cuore.
“Non rispondi?
Chi ti manda? La regina? Il mio amato
Padre? Non importa, non credere di poter fuggire e vivere.
Questa volta no.”
Sigyn non lo riconosce,
non comprende le sue parole, ma avverte chiaramente la paura
strisciarle sulla spina dorsale come un serpente di seta. Dalla
finestra semiaperta entrano le prime luci di un'alba che incombe, e non
ha più tempo.
Si volta di colpo e prova
uno scatto, ma la sua fuga si interrompe dopo pochi passi, quando si
ritrova di fronte l'uomo che fino a un attimo prima stava dall'altra
parte della stanza.
Com'è
possibile?
Lo fissa sgranando gli
occhi, impietrita da quella smorfia crudele che gli attraversa il
volto. Lui alza un braccio verso di lei, tentando inutilmente di
nascondere la fatica che quel semplice gesto evidentemente gli provoca,
e stringe le dita, lentamente.
Sembra afferrare solo
aria, ma Sigyn si sente improvvisamente soffocare, il collo stretto in
una morsa invisibile.
Lui ride.
È una risata
sghemba, folle, agghiacciante.
Poi, di colpo, volta gli
occhi all'indietro e mostra il bianco dei bulbi, emettendo un lamento
soffocato. Sigyn si sente di nuovo libera, e prende un respiro profondo
e disperato. Poi, tutto accade in un attimo. L'uomo le frana addosso,
ma lei riesce a mantenersi in piedi. Avverte il tanfo malsano delle sue
ferite aperte, il calore della febbre che gli divora le membra, l'odore
dolciastro del sangue e infine, il tonfo secco del suo corpo che crolla
a terra. Non aspetta altro, non controlla che si muova ancora,
semplicemente corre con quanto fiato le resta in corpo.
Un passo dopo l'altro,
senza pensare ad altro, solo alla luce che sta per invadere ogni cosa e
alla vita di Fulla appesa ad un filo. Non si rende nemmeno conto che
è già salita in groppo a a Hòfvarpnir,
che stanno galoppando insieme contro il tempo, che manca poco, che
può farcela, che è ormai giunta al capanno dove
l'attende l'ancella di Frigga.
Scende dal cavallo di
corsa, e l'alba è davvero giunta quando si china al fianco
di Fulla, che sembra non respirare più, e le infila tra i
capelli ormai bianchi la fascia dorata. Pochi, veloci battiti di
ciglia, e niente sembra cambiare. Lo sconforto sta per vincerla quando
l'ancella di Frigga improvvisamente prende un respiro, con forza, come
se fosse il primo di una nuova vita. Quando rialza il viso, le rughe si
fanno via via più sottili, la pelle si distende e gli occhi
si fanno luminosi e umidi.
“Ci sei
riuscita...”
Persino la sua voce
è ormai tornata quella fresca e giovane che appartiene al
suo aspetto, e Sigyn d'istinto le stringe le braccia al collo,
sollevata, nascondendo una lacrima tra i suoi capelli di rame.
“Hai salvato la
mia vita, e non solo...” mormora Fulla, rialzandosi,
finalmente sicura, “...meriti un encomio.”
“Affatto, mia
signora. Sono una serva di Asgard, un premio non mi si addice affatto.
Vi prego solo di riprendere il vostro compito e di salvaguardare i
piani della nostra Regina, è l'unico compenso che
conta.”
L'ancella di Fulla
inclina il viso, guardandola con ammirato stupore.
“Chiunque altro
avrebbe chiesto una ricompensa, ma tu hai dimostrato la vera
lealtà. Ti avvenga come desideri, non farò parola
del tuo aiuto.”
Fa per andarsene, ma si
blocca sull'uscio, colta da un pensiero, e si volta.
“A meno che...
Hai visto qualcuno? È accaduto qualcosa di strano?”
E ora Sigyn dovrebbe dire
che sì, nella foresta vaga un lupo dagli occhi rossi, che ha
provato a sbranarla, per poi fuggire senza motivo apparente.
Dovrebbe dire che nelle stanze di Fensalir vive un mostro dall'aspetto
d'uomo, che ha ferite profonde, ed è ricolmo di un odio e di
una rabbia che sfugge alla sua comprensione. E che anche lui l'ha
assalita. Ma, se lo facesse, dovrebbe anche spiegare il
perché sia ancora viva e questo, nemmeno lei lo comprende.
E, probabilmente, non potrebbe mai più tornare a vedere i
selvaggi giardini di Fensalir, le sue rocce chiare, né
udirne il richiamo.
Un istinto antico, una
voce interna e compagna d'ogni donna che la sappia ascoltare le
consiglia di tacere, perché l'ora che precede l'alba
è l'ora dei segreti, e questo è il suo, e lo deve
difendere, se vuole tener viva una piccola, flebile speranza egoista.
Ingoia il dubbio in un
sorriso leggero, ma tirato, e abbassa gli occhi chiari.
“Ho solo
recuperato il vostro nastro, mia Signora.”
Ed è la
verità, anche se non tutta, e per Fulla è
più che sufficiente. Sigyn la sente correte via, sollevata,
leggera, verso i suoi doveri di corte. Dovrebbe alzarsi anche lei e
riprendere il suo lavoro, ma indugia ancora. La testa è
pesante, i pensieri come macigni la inchiodano a terra, e nella mente
si fa strada la convinzione che qualcosa, nel suo Fato, sia cambiato
per sempre.
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Capitolo 9 *** Il tradimento e l'attesa ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
9 – Il tradimento e l'attesa
Cella sotterranea,
Sessrùmnir (Asgard)
Malekith incrocia le
braccia, rigido, prima di volgere lo sguardo verso la parete di roccia
scura più lontana dalla cella.
“Esci
fuori.”
Dall'ombra, il sorriso
malizioso appena accennato e il passo lento, emerge la figura di Amora.
Cammina sicura, a testa alta, e si ferma a pochi centimetri dalla
gabbia di cristallo, in attesa.
“E
così Lei
ha mandato il suo cagnolino più fedele, stavolta. Che ne
è stato dell'altro?”
“Parli di
Freyr? [1] Oggi è impegnato, Asgard è in festa e
il popolo in fermento. In onore del principe Thor, tornato vittorioso
da Midgard, è stata indetta la Grande Caccia, e ogni
guerriero partecipa. Dunque ogni asgardiano.”
L'elfo squadra la donna
da capo a piedi, impassibile, poi rilassa le braccia lungo i fianchi e
si volta.
“Dunque Lei ha mandato te.
Qual è il suo messaggio?”
L'Incantatrice ridacchia
sommessamente, quasi un sussurro tra le labbra socchiuse.
“Nessun
messaggio, Lady Freya mi ha inviata semplicemente ad osservare per poi
riferire. Ma io non sono qui solo per questo.”
Il Dannato [2] gira
appena la metà più chiara del volto verso di lei,
senza tradire né curiosità né
fastidio, aspettando che prosegua.
“Non sono
un'ingenua, Malekith. So chi sono i tuoi alleati e cosa avete in
mente...”
“Tu non sai
nulla, inutile fem... ”
“... forse, ma
conosco l'unica verità che conta: il vostro piano non
fallirà.”
L'elfo si volta e colma
la distanza tra loro con due rapide falcate, mentre Amora alza
lievemente il viso per poterlo fissare negli occhi attraverso la parete
trasparente, mascherando alla perfezione l'orrore dietro ad un sorriso
sfacciato.
“Sei qui per
venderti ai nemici di Asgard, quindi.”
“Quando
sarà tutto finito voi ne sarete i signori, o sbaglio? Sto
semplicemente agendo con lungimiranza.”
Malekith si sfiora il
mento con un dito, leccandosi le labbra. La lingua è
violacea è ributtante, ma la donna si sforza con tutta se
stessa di non guardarla, stringendo i denti.
“Davvero
divertente. Non hai nulla da offrirmi eppure pretendi
clemenza.”
Amora allarga il falso
sorriso e socchiude appena le palpebre, inclinando il viso. Una ciocca
di capelli scuri sfugge dai fermagli a gemma e le ricade sulla guancia,
solleticandole la pelle. Sta sudando freddo, ma è ormai
così brava a non darlo a vedere da sorprendere persino se
stessa.
Un'allieva perfettamente
patetica.
La voce di Freya
è un colpo di frusta tra i pensieri, ma lei non è
più una bambina spaurita da molti, molti anni.
Si dice che i migliori
superino infine i loro maestri; lasciandoli indietro, nella polvere.
Infila una mano
affusolata tra le pieghe della veste, poi la allunga verso la parete di
cristallo, il palmo verso l'alto. Apre le dita come se fossero setosi
petali di fior di loto, rivelando un piccolo frammento di metallo
rilucente.
“Te ne
porterò uno ogni giorno, se prometti di
risparmiarmi.”
Malekith si concede un
basso sogghigno, quasi impercettibile.
“Sei scaltra e
ben informata, asgardiana. Non faccio promesse, ma il nuovo Regno
avrà bisogno di consiglieri obbedienti e fidati. Potresti
avere una possibilità.”
Per un attimo, negli
occhi neri di Amora, si accende una scintilla viva e pulsante, quasi
infantile, di pura gioia. Poi, fugace com'è apparsa,
scompare, e la maschera dell'Incantatrice torna al suo posto.
“Mi
basta”, mormora a voce bassa, come se parlasse a se stessa, e
muove cauta un paio di piccoli passi, il braccio ornato di bracciali
sempre steso in avanti. La parete di cristallo trasparente oppone
appena resistenza, poi rivela una consistenza semiliquida e vischiosa,
permettendo il passaggio della sua mano, increspandosi come una pozza
d'olio smossa dal lancio di una pietra.
Malekith osserva le sue
mosse con sguardo rapace e distante, decidendo di metterla alla prova.
Ha ormai immerso fino il braccio fino al gomito nella cella, riesce a
fiutare l'odore pungente e speziato della sua pelle – ed
è quasi nauseante sentire un profumo dopo tutti quei secoli,
quando ha ormai imparato a riconoscere l'aroma della vergogna,
dell'attesa, del silenzio, perché non ha mai avuto
nient'altro – e lo fissa. Per quanto sia brava a nascondere tutto, l'elfo vede la sua paura,
perché se per anni interminabili l'unico volto che ti
ritrovi a fissare è il tuo riflesso sbiadito su uno schermo
di vetro apprendi ogni declinazione possibile d'espressione, e impari
davvero a seppellirle tutte sotto un'apparenza di pelle e pieghe
immobili.
Oh, ora sta tremando,
l'Incantatrice, un lievissimo fremito le percorre le dita, il polso, e
non sfugge a uno sguardo acuto e tagliente, che ha carpito persino le
gradazioni del buio e il moto millenario della roccia. E per una volta
può concedersi di fingersi carceriere, e non prigioniero
eterno.
Le afferra il braccio e
le richiude il polso in una morsa d'acciaio gelido e Amora sussulta,
negli occhi finalmente chiarissimo il terrore. Conosce l'inganno di
quella prigione senza sbarre, dove tutto può entrare e nulla
uscire, e sa che Malekith potrebbe incatenarla al suo stesso fato con
un semplice strattone. Passano secondi interminabili, scanditi dal
crepitio costante del braciere acceso e dai battiti di un cuore
sconvolto che rimbombano tra le orecchie dell'asgardiana come tonfi
sinistri.
L'elfo sogghigna,
assaporando il vantaggio del potere, poi, lentamente, allenta la presa,
le dita ruvide percorrono la pelle d'ambra e seta di Amora, il polso
sottile, afferrano la scheggia di metallo e si ritirano a pugno,
bramose. L'incantatrice ritrae di getto il braccio, ma il gesto
è troppo repentino e la parete trasparente resiste al moto
quasi fosse una cascata di resina, e il dolore/terrore le percorre
tendini e giunture, centimetro dopo centimetro, finché la
libertà non produce un sospiro ansante e sollevato. La donna
arretra, il respiro irregolare, massaggiandosi piano il polso portato
al petto in un istintivo gesto di difesa e osserva la cella, le
increspature si stanno placando e rivelano via via il prodigio
racchiuso al suo interno.
Malekith sbriciola tra le
dita la piccola placca metallica, le scaglie d'argento levitano e si
condensano formando una sottile lastra in continuo movimento, quasi uno
specchio di mercurio. Una finestra clandestina su un altro mondo,
dall'altra parte del cosmo, di cui intravede roccia, buio, e pulsanti
luci blu. [4]
E prima che l'immagine si
faccia aspetto e parola – e sarebbe un volto di pietra e una
voce di ferro – Amora si volta e corre via, verso l'alto,
verso un'altra penombra che però sa almeno un poco di casa, lasciando il
Dannato ad intessere le trame di un inganno mortale.
Niflheim, Caverna
dell'Abisso
Tyr riapre gli occhi di
scatto, inspira e si schiarisce la voce, massaggiandosi la base del
collo. Il globo si energia oscura ha svolto il suo compito alla
perfezione, ma a differenza del Bifröst lascia strascichi che
a lungo andare distruggerebbero anche il corpo di un asgardiano;
persino di un Æsir, nonostante la benedizione di Odino.
In fondo alla gola resta
un vago retrogusto di carne bruciata, in testa, un sibilo intermittente
e stridulo, e nei tendini, sotto muscoli e pelle contratti, un tremore
diffuso.
Il dio si riscuote,
alzando ritmicamente le spalle e stirando le gambe possenti,
riattivando la circolazione e i tessuti intorpiditi; poi estrae la
spada con un gesto secco che produce una nuvola di piccole scintille, e
si inoltra nella Caverna dell'Abisso. Niflheim è ormai un
mondo senz'anima e senza vita, e quel che reticolo di grotte e sentieri
privi di uscita, scavati nella pietra nera e porosa tipica del Regno
della Nebbia, è l'ultimo memento di una civiltà
ormai perduta.
I rami di Yggdrasil si
sgretolano uno dopo l'altro, Grande Padre.
Riuscirà
Asgard ad opporsi ad un fato che incombe e pare già scritto?
Ad ogni passo risulta
sempre più chiaro il perché quel dedalo
sotterraneo venisse utilizzato in tempi remoti come prigione da tutti i
Regni. Ai lati del sentiero scorrono piccoli rigagnoli d'acqua
gorgogliante e giallastra, che diffonde nell'aria un vapore fetido e
soffocante.
“Zolfo”,
mormora Tyr arricciando il naso “più di quanto ne
ricordassi.”
Passo dopo passo, i
ruscelli si fanno sempre più profondi e ampi, divenendo ben
presto veri e propri corsi d'acqua torbida ed incandescente. Ogni tanto
riaffiora qualche carcassa resa ormai irriconoscibile dall'erosione, le
ossa bianche corrose ed esposte rendono appena intuibile la razza di
appartenenza, poi la corrente con un gorgo le risucchia di nuovo a
fondo, continuando a consumarne il pallore finché non ne
resterà più nulla.
Il dio della Guerra
schiocca la lingua, contrariato. Come può esserci ancora
qualcosa di vivo, là sotto?
Avanza rabbioso lungo
cunicoli via via più larghi, la luce filtra e si riflette
attraverso i mille piccoli fori di quella roccia nera e lucida, ma il
cielo rosso di Niflheim è lontano e irraggiungibile. Supera
decine, centinaia di resti scheletrici di ogni genere: jotun, uomini,
elfi... Alcuni sono ancora coperti da brandelli di pelle secca e
scampoli di stoffa lacera, legati a spessi ceppi di metallo e distesi a
terra, altri sospesi a mezz'aria ondeggiano lievemente in una macabra
danza funebre.
Dopo vari minuti, quando
il rumore d'acqua si fa più forte e il vapore più
denso, Tyr comprende di essere arrivato. Si lascia alle spalle
un'immensa cascata di acque putride e ricolme di zolfo, e il frastuono
delle rapide copre il rumore concitato dei suoi passi, ma non
l'imprecazione che sputa fuori dai denti.
“Per le
Norne!”
Davanti a lui si estende
la grotta più interna dell'intero alveare, ampia e spaziosa
quanto basterebbe per l'accampamento di un drappello di soldati, e
risuona di echi metallici e richiami gutturali, che riconosce
all'istante come l'incomprensibile lingua dei nani.
“Quei due
piccoli bastardi...”
Dvalin ed Eitri hanno
saputo impiegare con impareggiabile perizia i secoli d'esilio. A
mezz'aria, fissata a tre massi di roccia lucida, si allarga
un'impressionante ragnatela di catene e spessi legami di metallo opaco.
Richiusa su se stessa, fissata sopra i tre macigni, potrebbe
avviluppare tra spire di ferro uno sventurato prigioniero, e
svolgerebbe lo stesso compito della tagliola: una trappola mortale e
spietata.
Tyr afferra l'elsa della
sua spada con entrambe le mani e sferra un colpo micidiale a uno degli
anelli di ancoraggio, ma il metallo resiste e le catene tremano appena,
producendo un eco cigolante che si propaga sinistro attraverso le
gallerie cave.
“Non
è un materiale comune. Non può essere spezzato,
nemmeno dal metallo asgardiano.”
Dvalin è tozzo
e tarchiato come ogni appartenente alla sua razza, ma la barba bianca e
ispida unita ad uno sguardo acuto gli conferiscono un aspetto nobile e
insondabile. È il Re dei nani, ma ciò non spiega
una fine intelligenza e una saggezza che generano quasi riverenza e
che, tra le altre cose, gli hanno permesso di imparare l'All-Tongue,
così da poter comunicare in ogni Reame.
Tyr stira le labbra
sottili in un sorriso aspro, riponendo la lama nel fodero con una mossa
secca e tornando ad osservare le spesse catene.
“Dunque
è indistruttibile?”
“Quasi. Abbiamo
estratto la dargonite [5] dalla pietra nera di Niflheim, ma il processo
le ha fatto perdere una delle sue più notabili
prerogative...”
Il mastro nano richiama
il suo sottoposto con un borbottio gorgogliante, ed Eitri si avvicina
con cieca ubbidienza. Passa accanto a Tyr senza nemmeno guardarlo,
negli occhi una fissità vitrea, e intinge
l'estremità di un legaccio metallico nelle acque sulfuree.
Quando lo ripesca, dopo pochi istanti, è un moncone fumante
e semi disciolto.
“Affascinante”
mormora ironico il dio, “non mi aspettavo di ritrovarvi vivi,
ma di certo non pretendevo una tanto calorosa accoglienza.”
Dvalin lo fissa,
aggrottando le sopracciglia folte e canute.
“La trappola
non è una punizione per
te...”
“Punizione?”
“... anche se,
forse, se ti immolassi sarebbe un sacrificio più che
fruttuoso.”
“Tu vaneggi,
vecchio nano.”
“No, vedo
abbastanza lontano da credere in una pazzia che potrebbe salvarci
– salvarvi
– tutti.”
Tyr libera una risata
secca e roca, poi afferra Eitri senza nessuno sforzo e se lo carica su
una spalla. L'omuncolo si dibatte appena e grugnisce sommessamente, ma
non osa opporsi alla poderosa stretta del dio.
“Anni di
esalazioni venefiche hanno intorpidito la tua mente, piccolo re.
È una fortuna che Asgard abbia di nuovo bisogno di voi, e
possa passar sopra al misfatto che vi ha relegato qui.”
Inoltre, non mi piace per niente
quello che vedo, pensa con fastidio Tyr, fissando ancora
una volta l'immenso intrico di catene. Sopra il masso di roccia
più altra, dalla parete, emerge uno spuntone di pietra,
lungo quanto un braccio e largo una decina di centimetri. Sembra cavo,
forse un piccolo canale di scolo - ma
per cosa? - e visto dal basso ricorda sorprendentemente
l'aspetto di un serpente a fauci spalancate, pronto a sputare veleno.
Cattivo presagio.
Il dio mormora uno
scongiuro e senza attendere oltre si porta alle labbra la perla nera.
La trattiene sotto la lingua, dove inizia a spargere un aroma amaro, e
afferra anche Dvalin per il busto, che non reagisce ma bisbiglia
un'ultima frase priva di senso.
“Non si torna
indietro, adesso. Hai fatto la tua scelta, asgardiano, ma senza
conoscerne le conseguenze.”
Una tetra profezia che
rimarrà inascoltata, o il semplice delirare di una mente
vecchia e guasta?
Non sta a Tyr il provare
a comprenderlo, né la volontà di farlo: lui è
nato per la guerra fisica,
per la lotta tra carne e armi, e non per la tortuosa indolenza dei
pensieri. Dunque inghiotte senza remore il globo di materia oscura,
ricercando quella strada tra le stelle che lo riporterà ad
Asgard con i suoi prigionieri, al
sicuro, nel Regno di oro e luce.
Balcone esterno,
Osservatorio Geofisico di Tromsø (Norvegia)
Jane fissa a occhi
socchiusi un cielo che preannuncia tempesta.
Raffiche di vento gelido
le sferzano a più riprese il viso, scompigliandole
ulteriormente dei capelli già spettinati a sufficienza.
Prende un respiro profondo, alzando le spalle lentamente, poi si volta
e getta uno sguardo verso l'interno della sua camera.
Darcy è
seduta, il viso affondato tra le braccia appoggiate al tavolo di legno
chiaro, addormentata. Quando ha provato a spostarla per accompagnarla a
letto, ha ringhiato.
Erik, sdraiato per lungo
sul divanetto, le gambe a penzoloni, dorme a pancia all'aria. Ha perso
conoscenza alla terza birra, ma è stata una fortuna,
perché quello che è riuscito a raccontare era
ormai troppo.
Troppo doloroso.
Troppo incredibile.
Troppo tutto.
Ed è per
questo che Jane non riesce a dormire, quel tutto è troppo ingombrante
persino per una mente acuta e abituata a calcoli impossibili come la
sua.
“Sei scaltra,
più di qualunque altro in questo Regno.”
Appena dietro le labbra
serrate si smorza un risata dolceamara, che fino a ieri non avrebbe
trattenuto, ma che ora cozza con una realtà con cui fatica a
scendere a patti.
L'astrofisica torna a
fissare le nuvole scure che si addensano all'orizzonte, ma i pensieri
in testa sono un vortice impazzito e tentare di estrarne uno sembra
un'impresa impossibile.
Concentrati, Jane.
Analizza, rifletti.
Cerca soluzioni, schemi,
spiegazioni.
Un minimo di senso.
Un lampo squarcia la
coltre di nubi facendola sobbalzare d'istinto. Tende le orecchie e
aspetta che arrivi il tuono – Thor? - ma passano
i secondi e non succede nulla. Lancia un rapido sguardo al polso,
l'orologio di plastica segna le sette e mezza. È quasi
ironico che in quei giorni di luce perenne l'oscurità giunga
proprio di prima mattina, appena dopo l'alba, portata dal temporale.
Un altro fulmine disegna
per un istante un ramo incandescente nel cielo plumbeo, e stavolta il
tuono arriva: un boato stordente e tremendo; come se qualcosa, nei
più alti strati dell'atmosfera, si fosse spezzato di colpo.
D'accordo.
Riprenderò a
cercarti, come ho sempre fatto.
La prima goccia di
pioggia è fresca e le accarezza il viso, e Jane si chiede se
sarà forte abbastanza, anche se non avrà
mai la consapevole leggerezza di Darcy, o il cuore di Erik e la sua
assennata esperienza,
Da domani io...
La seconda goccia
è uno schiaffo gelido che le ricorda che non ha tempo, che
non può più permettersi insicurezze, cadute,
inutili attese. Le rammenta il suo essere donna di scienza, il suo
amore per i quesiti della fisica e per i misteri del cosmo, la tenacia
e l'entusiasmo curioso con cui ha sempre saputo affrontare nuove sfide
– anche se spesso sola
– perché il pensiero non ha briglie e la vera
conoscenza è senza confini.
No, Jane, non domani.
Oggi.
Corre dentro prima che la
bufera la investa e, senza rendersene nemmeno conto, mentre estrae i
suoi appunti e si prepara alla ricerca, trova la forza di
sorridere e di nascondere la paura dentro un quaderno degli appunti
pieno di speranza.
***
Note
[1] Fratello di Freya,
nel mito anche lui viene portato ad Asgard dopo la guerra tra Vanir ed Æsir.
Il suo inserimento in questa storia vuole essere un semplice
riferimento ad una scena del prequel "Rinascita", dove il Senza Nome
comunica con un misterioso alleato asgardiano.
[2] Nella versione originale dei fumetti Marvel, The Accursed (il
Maledetto, o il Dannato) è un 'titolo' di Malekith.
[3] Anche questo è un riferimento al prequel di questa
storia, dove vediamo il sottoposto di Thanos utilizzare lo stesso
metodo per comunicare con gli alleati dell'Eterno a Svartalfheim e
Asgard.
[4] Nell'universo Marvel, è la lega pià
resistente, apparentemente indistruttibile e di origini sconosciute (mi
pare ^^), in grado di spezzare anche l'uru.
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
Volevo approfittare di questo spazio per ringraziare di cuore i
coraggiosi e le coraggiose (non vi merito!) che continuano a seguire e
leggere questa storia, vorrei poter aggiornare con più
frequenza (rimpiango l'anno scorso, quando riuscivo persino a leggere
una buona percentuale delle storie del Fandom, oltre che ad aggiornare
più regolarmente... sigh, gli impegni purtroppo cambiano!
T^T) e mi rendo conto che questi capitoli potrebbero risultare un
po'... pesanti? Strani? Ho deciso di lasciar più
spazio a personaggi 'secondari' per tentare di costruire un sottostrato
più solido (?) e sensato (????), ma i personaggi originali
del film che sono rimasti un po' in ombra finora (sì, Thor,
sto guardando te XD) non resteranno in panchina ancora per molto!
Grazie e alla prossima!
Sayuri
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Capitolo 10 *** Pensieri egoisti, azioni sbagliate ***
Capitolo 1 - La caduta di un dio
Capitolo
10 – Pensieri egoisti, azioni sbagliate
Asgard, cortili reali
Le ginocchia raccolte
al petto, una mano a terra e una sulla guancia, a sfiorare pelle e
capelli, Sigyn attende.
Che finisca il silenzio.
Che l'alba spazzi via il ricordo di una notte che sa di proibito e di sbagliato.
Che arrivi, finalmente, la voglia di muoversi, di alzarsi.
Il muretto di pietra del pozzo - unico specchio dei suoi pensieri da
sempre - è freddo e le punge la schiena, ma è un
piccolo dolore utile, che la distrae da un desiderio che non dovrebbe
avere.
Fensalir chiama, una nenia costante che insiste e rimbalza nell'ultima
eco di ogni suono, insinuandosi tra il ronzio basso degli insetti e il
chiassoso risvegliarsi di una città in festa.
Torna, figlia perduta.
Torna e ritrova ciò che è andato smarrito. Ciò che ti
appartiene.
Scuote la testa e si ravviva la chioma dorata, sorridendo con amarezza.
Ci sono cose che è meglio non desiderare, né
cercare, perché illudersi di avere meriti e diritti
riaprirebbe una ferita ancora slabbrata, e allora sì,
perderebbe davvero ogni cosa. Eppure...
Un improvviso squillo di trombe taglia l'aria e irrompe in ogni angolo
di Asgard, diffondendo note di festa e di gloria, annunciando la Grande
Caccia.
Di colpo nei cortili rimbombano voci e suoni metallici, passi pesanti e
risa ancora impastate dal sonno: i guerrieri di Corte sono
già pronti a sellare i destrieri e a presentarsi davanti al
trono di Odino per prendere parte ad una sfida senza tempo, che
accoglie tutti i figli di Asgard quasi come una giostra. Un gioco di
guerra antichissimo che premia forza, valore e risultati.
Sigyn si alza, scuotendo via la polvere e il terriccio dalla gonna
umida – un osservatore attento la vedrebbe, l'ombra del
sangue che ha lavato via dalla stoffa grigia e quella fasciatura
stretta che le imprigiona un palmo – e osserva in silenzio il
via vai concitato dei soldati.
“Siete già in piedi, Lady Sigyn?”
Lør non è poi tanto più giovane di
lei, eppure la onora sempre di un titolo che a conti fatti non le
spetta. Ha la pelle ambrata di chi è nato nelle terre
più settentrionali, labbra sottili e occhi bellissimi, grigi
e svegli, ora seminascosti da palpebre ancora sonnecchianti.
“Non riuscivo a dormire”, le risponde con un
sorriso appena accennato.
La ragazza si tormenta una treccia rossiccia e si stira come un gatto,
soffocando uno sbadiglio dietro il palmo. È una delle poche
ancelle a cercare la sua compagnia, forse l'unica che si accorge sempre
di lei nonostante i suoi sforzi di passare il più possibile
inosservata. Parla poco e mai a sproposito, conosce e apprezza il
silenzio, e porta negli occhi, in fondo ad uno sguardo che pare
leggero, il suo stesso dolore, impercettibile eppure pesantissimo. Sono
tutte orfane, le ancelle di palazzo, nate già senza radici
dopo l'ultima Grande Guerra, salvate eppure condannate ad un Fato senza
gloria né infamia.
“Siete sempre così silenziosa...”
Sigyn stringe le labbra abbozzando un sorriso, scrutando il cielo da
sotto le ciglia. A differenza di molte altre, lei ricorda. È
stata una guerra diversa a portarle via madre e padre, una guerra di
cui nessuno parla mai, un capitolo rimosso da ogni tomo di cronache
asgardiane. Era solo una bambina, ma già troppo grande per
dimenticare, e quello che ha visto – la lama, il sangue, le
lacrime, la vita che lasciava gli occhi dei suoi cari – la
rincorre dietro le palpebre ogni notte. Doveva morire, eppure
è stata risparmiata. La
misericordia della nuova Asgard, aveva detto una voce di
donna, ferma e gentile, mentre il pianto le annebbiava gli occhi chiari
e stringeva tra le piccole dita una mano morbida ma sempre più fredda.
“È anche per questo che l'ho scelta”,
afferma una nuova voce, maschile e vibrante, spezzando di colpo il
ricordo.
Le ancelle si voltano di scatto, incontrando lo sguardo divertito e
sicuro di un guerriero dall'armatura cremisi. Si assicura la lunga
lancia dietro le spalle e dà un altro morso al frutto che
stringe in una mano, prima di avvicinarsi. Lør lo riconosce
subito e arrossisce, poi china la testa in segno di rispetto, lanciando
un'occhiata furtiva e maliziosa a Sigyn, che annuisce
impercettibilmente, congedandola.
La giovane corre via, voltandosi di tanto in tanto, le labbra sottili
piegate in un sorriso allegro e curioso.
“Lord Theoric, sono lieta di...” mormora Sigyn,
ma lo voce si smorza in un soffio quando lui ne reclama le labbra con
decisione. Sente la stretta ferma delle sue dita calde e indurite dalle
armi sul collo e tra i capelli. Le accarezza appena una guancia con il
pollice, poi interrompe un bacio asciutto con la stessa prepotenza da
guerriero con cui l'ha rubato, fissandola negli occhi.
Sigyn fugge lo sguardo ridente delle sue iridi scure e piega il collo
come un cigno, pudica, premendo la pelle contro la sua mano e tentando
inutilmente di scacciare l'imbarazzo.
“Spero che fra due mesi mi chiamerai finalmente solo Theoric,
Sigyn.”
La ragazza si irrigidisce involontariamente e il guerriero le solleva
il mento, lentamente. Lo osserva in silenzio, inspirando piano: occhi
scuri e penetranti, capelli castani che gli sfiorano le spalle e
riflettono il rosso sangue dell'imponente armatura dei soldati scelti
di Odino. È bello,
di una bellezza fiera, selvaggia, che pare indomabile. Pur essendo
più vecchio di lei di parecchie stagioni, è il
più giovane capitano dei Falchi Rossi da che si abbia
memoria, e l'Allfather
lo considera quasi come un figlio. Per questo la sua decisione di
prendere in sposa un'umile ancella è apparsa ai
più inspiegabile, quasi un vezzo di prepotenza. Avrebbe
potuto avere chiunque – e in molte l'avrebbero desiderato -
tuttavia ha scelto proprio chi preferiva l'ombra, il silenzio e
l'anonimato di un ruolo di sfondo. Sigyn aveva sempre cercato di
passare il più possibile inosservata, accettando anche i
compiti più umili; eppure, in qualche modo, lui l'aveva
notata. Non era il tipo d'uomo abituato a domandare consensi
né a chiedere permessi, perciò l'aveva
avvicinata e, stringendole la mano dopo averne baciato il palmo, aveva
detto semplicemente: 'Vi ho scelta.'
Ricordava bene la sensazione di completo smarrimento, la bocca dello
stomaco che si chiudeva, il terrore che le aveva appesantito i
pensieri. Lo sentiva anche adesso, ma aveva capito subito che non
avrebbe mai potuto opporsi. Avrebbe imparato ad amarlo davvero, un
giorno, così come aveva già imparato a
rispettarlo, e a guardarlo negli occhi senza tremare.
Lo accetto.
Theoric sorride e si allontana di un passo, scagliando il torsolo
smangiucchiato tra l'erba alta dietro il pozzo e fissando il cielo per
un istante.
“Spero anche che quando sarai la mia sposa mi permetterai di
capire cosa ti passa per la testa.”
“Non datevi pena, i miei non sono certo pensieri
interessanti.”
Il guerriero riporta lo sguardo su di lei, trattenendo una risata.
“Immagino sia così, sei solo un'ancella,
dopotutto...” le si avvicina di nuovo, prendendole una mano,
“...oltre al tuo bizzarro interesse per piante e arbusti non
hai altro.”
Sigyn sussulta; non c'è cattiveria nella voce di Theoric,
eppure la ferisce così a fondo da bloccarle il respiro. O
forse è solo l'orgoglio che punge dietro gli occhi.
“Ma non temere, dopo le nozze non sarai più
costretta a rifugiarti in cose tanto futili e sconvenienti” -
un'altra piccola
pugnalata al cuore - “ti insegnerò
per cosa vale la pena vivere e a conoscere il mondo.”
La ragazza deglutisce a fatica e sente quasi il bisogno di piangere. Stupida, non sai apprezzare la
fortuna che il Fato ti concede. Si costringere a sorridere
e a stringere più forte la mano di Theoric.
“Sarà così di certo” mormora,
“e mi duole pensare di dover aspettare ancora due
mesi.” Bugiarda.
Il guerriero ride e le stampa un rapido bacio sulla fronte. Poi le
lascia la mano ed estrae dalla bisaccia che porta a tracolla un grosso
elmo color rame. Quando lo indossa, Sigyn pensa che sia davvero
spaventoso.
“Per ora pensa solo al dono che vorresti. Stasera il
vincitore della prima giornata di Caccia può chiedere
qualsiasi cosa tra le offerte preparate dagli Æsir.”
“E programmate di essere voi, quel vincitore?”
“Diciamo che le probabilità sono a mio favore. Io
vinco sempre.”
Theoric sgancia la lunga alabarda assicurata alle spalle e ne poggia
con fierezza un'estremità al suolo, facendo schizzare
qualche sassolino in ogni direzione. “Ebbene, cosa
desideri?”
Sigyn riflette un istante. Dovrebbe chiedere un abito costoso, o un
gioiello, come ogni promessa sposa che si rispetti. Ma non saprebbe che
farsene. Se le rimangono solo questi due mesi, vuole illudersi di avere
ancora il potere di decidere per sé, un barlume fatuo di
libertà, la possibilità di scegliere,
sbagliare. Vivere.
Torna, figlia perduta.
Torna e ritrova ciò che è andato smarrito. Ciò che ti
appartiene.
La voce di Fensalir si fa più forte e le parole escono da
sole.
“Un cavallo.”
Theoric non riesce a trattenere una risata stupita, e la guarda quasi
con ammirazione.
“Non mi deludi mai, Sigyn. E stanotte, al tramontare della
terza stella, avrai il tuo dono.”
L'ancella lo guarda allontanarsi, sentendo uno strano vuoto riempirle
il petto. Dovrebbe essere felice, grata, serena. Eppure quando stringe
le labbra, oltre al sapore fruttato e dolciastro che Theoric le ha
lasciato sulla pelle, avverte chiaramente anche il gusto salato di una
lacrima che non riesce a impedirsi di versare.
Sala del Trono,
Asgard
La sala del trono è gremita e pare un mare tumultuoso di
corazze e armi. I soldati scherzano e ridono a voce alta, impazienti,
perché la Grande Caccia è solo un altro modo di
fare guerra - senza veri nemici e senza troppe perdite - e ad Asgard
gli uomini nascono già con la voglia di combattere nel
sangue.
Le leggende narrano di un tempo lontano in cui persino le donne
prendevano parte ai conflitti, spesso con più impeto e
successo dei loro compagni maschi. Valchirie,
si chiamavano, ma anche questo, come tanti, è un nome
maledetto e collegato al tradimento.
Sif non crede più a queste storie, ma quando era una
ragazzina scontrosa e i suoi compagni la schernivano, lasciandola
indietro o gettandola nel fango, si convinceva di essere l'ultima delle
valchirie, e continuava a combattere. Aveva scelto la via del soldato
col cuore e con la mente – un'eccezione vista dai
più come un'innaturale eresia – e per questo non
avrebbe ceduto, mai.
Poi il principe Thor aveva deciso che la sua audacia andava premiata, e
non disprezzata. Amava andare contro le regole, fin da bambino. Erano
diventati amici e le cose erano diventate più facili,
all'inizio. Poi, sempre più complicate. Almeno per lei.
La guerriera rinfodera la spada con un gesto secco e lo cerca tra la
folla. Sono giorni che non si fa vedere a palazzo, se non quando
è obbligato dall'etichetta di corte. Appare ai banchetti
– tutti dati in suo onore - con lo sguardo pesante e triste,
e prima che vino e idromele annebbino i sensi di tutti sparisce.
In molti mormorano.
Una donna? Un'amante? Un
passatempo segreto imparato su Midgard?
Sif sa che si reca ogni notte sulla sponda tranciata del
Bifröst, e vorrebbe non essere così perspicace da
capirne il perché.
“Questa volta ho intenzione di vincere”, afferma
Volstagg agganciandosi a fatica la corazza sul voluminoso addome,
“dicono che il banchetto preparato per la squadra trionfante
sia così sublime da far impallidire persino le tavole del
Valhalla.”
“La nobiltà dei tuoi motivi mi commuove
sempre...”, replica Fandral con un sorrisetto divertito.
“...Devo ricordarti il tuo prezioso contributo
all'ultima Caccia?”
“Eravamo bambini suvvia, non avevamo i mezzi né
l'esperienza per...”
“...Caduto da cavallo dopo nemmeno un'ora, l'indomabile leoncino di
Asgard.”
“Non ti permetto di prendermi in giro, ero già il
doppio di te allora...”
“...forse anche il triplo. È in quel periodo che
hai ottenuto il tuo più nobile titolo: Volstagg il
Volum...”
“Taci, seduttore dei miei stivali!”
Sif si scansa di lato per non finire nell'amichevole zuffa, e alza gli
occhi al cielo. In realtà si sente già
più leggera.
“Smettetela. Volstagg ha ragione, eravamo solo dei
ragazzini.”
“Esatto!”, grida il guerriero spingendo la faccia
di Fandral in un barile colmo d'acqua. Lo spadaccino comincia a
divincolarsi convulsamente, provocando l'ilarità condivisa
degli altri soldati che assistono alla scena. Dopo pochi secondi lo
lascia tornare in superficie e recuperare rumorosamente fiato.
“Te lo ricordi anche tu, vero Hogun?”
Il Fosco si appunta l'ultimo pugnale nella fibbia sotto il polso e li
squadra senza espressione.
“Ricordo che ti abbiamo dovuto portare di peso
all'accampamento, e che piangevi come una ragazzina.”
“Cosa?!”
Fandral ricomincia a ridere sguaiatamente e si porta indietro i capelli
fradici con una mano, dando una pacca sulle spalle al corpulento amico.
“Andiamo, anche con te siamo la squadra più forte.
Ma stavolta ci seguirai a piedi, non vorrei vedere qualche cavallo
stramazzare al suolo dopo pochi passi per la tua mole tanto
leggiadra.”
“Ti darei un pugno sul naso se non rischiassi di migliorare
il brutto muso che ti ritrovi.”
Sif si inserisce tra i due guardandoli negli occhi, seria.
“Le squadre per essere valide devono avere cinque membri, noi
siamo solo in quattro.”
Cala uno strano silenzio, Fandral abbassa lo sguardo e si porta di
fianco a Hogun, strizzando il mantello e lasciandosi dietro una scia di
piccole gocce. Sif stringe le labbra e e incrocia le braccia con forza.
Volstagg prova a stemperare la tensione con una risata che appare
comunque troppo stridula e forzata.
“Potremmo chiedere a qualcun altr...”
“No”, replica secco Hogun.
“Magari lui
verrà...”
“Non lo farà, e non possiamo
chiederglielo”, mormora Sif, appoggiandosi a una panca
ricolma di armi. Dalle sue spalle giunge un rumore di passi che
dovrebbe riconoscere, eppure non ci fa caso.
“Lo avete visto anche voi, quel che è
successo...” prosegue mestamente, fissando negli occhi i
compagni uno alla volta. Perché
hanno quella strana espressione sollevata, quasi felice?
“Non possiamo domandargli nulla.”
“E se mi offrissi volontario?”
Sif si volta di scatto e si ritrova davanti gli occhi azzurri e l'ampio
sorriso di Thor. Sembra quasi tornato quello di un tempo. Per il
sollievo non riesce a parlare e si irrigidisce non appena le sfiora la
schiena.
“Amici, ho preferito la solitudine in questi giorni
perché sentivo il bisogno di pensare e di schiarire la
mente, ma ci vuole ben altro per abbattermi, lo sapete. Ci siamo
già passati.”
Sif ricorda bene i funerali solenni di Loki, il cordoglio durato mesi,
quell'ombra scura che non aveva mai visto prima nello sguardo di Thor e
che da allora non è più andata via. Ora sanno che
è stato tutto per nulla. Sente una rabbia molto simile
all'odio riempirle il petto, la stessa che prova da sempre quando pensa
al dio dell'Inganno.
“Thor combatterà con noi!”, urla
Volstagg, e i guerrieri che li circondano fanno eco al suo grido e
sollevano le armi in segno di rispetto, sbattendole sugli scudi.
“Con Mjolnir dalla nostra parte, non avremo
rivali!” esclama Fandral entusiasta.
Il del del Tuono sorride e abbassa lo sguardo, fissando le dita strette
sull'impugnatura del martello.
“Non ti sarà concesso portarlo.”
Quando rialza gli occhi incontra il viso contratto e segnato di suo
padre, appena entrato dal portone che conduce alle stanze più
interne del palazzo. È affiancato dalla Regina. Alle loro
spalle si fanno strada Tyr, Balder e il capitano dei Falchi Rossi.
Nella sala il chiacchiericcio sfuma in brusio e tutti chinano la testa.
“Nessun'arma può essere di vantaggio, nella Grande
Caccia. Vinceranno il coraggio, l'onore e la forza dell'uomo.”
Sif irrigidisce la mascella e osserva l'Allfather portarsi di fronte a
Thor, imponente nelle sua armatura nera e oro, e fissarlo con
severità. Si chiede se si siano più parlati, dal
processo di Loki. “Sarà un problema per
te?”
“No, Padre”, replica Thor a bassa voce.
“Bene”, commenta Odino dopo aver fissato con
attenzione il figlio qualche istante. Non appena riceve il martello
dalle sue mani, il manufatto produce un basso sfrigolio elettrico.
Quindi si volta e fa un cenno ai due Æsir che lo
accompagnano, che annuiscono solenni, poi muove qualche passo e si
dirige verso il trono.
“Cerca di dimostrarmi che mi è rimasto almeno un figlio
degno.”
Lo sussurra così piano, quando gli passa accanto, che solo
Thor è in grado di sentirlo, e gli ci vuole un notevole
sforzo per non replicare. Sicuramente in questo ha già
dimostrato il suo progresso.
Balder gli rivolge un sorriso pieno e incoraggiante e poi lo supera,
subito imitato da Tyr, che invece gli lancia uno sguardo truce, alzando
un sopracciglio.
“Hai bisogno di un'altra arma” afferma Frigga,
sfiorando la spalla di Thor e riportando il sereno nel suo sguardo,
“quale desideri?”
Il dio del Tuono si fissa i palmi vuoti con aria confusa. Da troppo
tempo sono abituati a reggere solo Mjolnir.
“Non ci ho pensato, madre.”
“Per fortuna l'ho fatto io per te.”
La Regina allarga il sorriso e richiama con un gesto il capitano dei
Falchi Rossi, che si avvicina e porge a Thor una spada splendidamente
decorata. Il dio la accetta e la soppesa tra le dita. È
pesante, ma il suo polso è abituato a ben altro.
“Ti ricordi ancora come si usa?”, lo schernisce
bonariamente Theoric.
“Vuoi darmi lezioni?”, replica Thor sorridendo e
stringendogli fraternamente il braccio che gli porge.
“Ci ho provato quando eri solo un marmocchio, ma non sei mai
stato il mio miglior allievo. Lei, invece...” prosegue il
capitano, indicando Sif, “era più brava di te
già dal primo giorno.”
“Vi ringrazio, Lord Theoric” afferma la guerriera,
assottigliando le palpebre, “ma la vostre lusinghe non
dissuaderanno la nostra squadra dal battere la vostra.”
Il capitano dei Falchi Rossi le rivolge uno sguardo sicuro.
“Vedremo se riuscirete ad essere i primi a riuscire
nell'impresa. Ma quest'anno ho una motivazione in più per
vincere, vi avverto.”
I soldati intorno a loro serrano i ranghi e Odino, in piedi davanti al
trono, inizia il suo discorso d'apertura della Grande Caccia. Thor non
si volta ma ascolta ogni sua parola, in silenzio. Frigga lascia
scorrere lo sguardo sul suo profilo qualche istante, l'amore e
l'orgoglio le riempiono gli occhi senza intaccarne il contegno regale,
poi si congeda con un lieve inchino.
Quando si è assicurato che tutti i guerrieri siano troppo
concentrati sul discorso dell'Allfather per badare alle sue parole,
Theoric affianca Thor e, abbassando lo sguardo, bisbiglia:
“Mi dispiace.”
Il principe si riscuote e aggrotta le sopracciglia, sorpreso dal suo
tono serio.
“Per cosa?”
Il capitano dei Falchi Rossi deglutisce e abbozza un sorriso nervoso,
ma quando lo fissa negli occhi non c'è traccia di leggerezza nelle
sue iridi scure.
“Per tuo fratello. Al processo... ero presente.”
Thor contrae di riflesso ogni muscolo del corpo, e riavvolge i ricordi
fino a quella notte funesta. Ricorda, sì, i due Falchi Rossi
a guardia del portone che ha condotto lui e suo fratello al cospetto di
Odino. Uno di loro era Theoric, ovviamente. Il ricordo gli proietta
sulla pelle una sensazione fastidiosa. Freddo. Come le
catene di Loki, come i suoi occhi, come il dolore che gli ha invaso
mente e cuore. Si obbliga a cancellare tanta debolezza e si passa
rapidamente una mano sul viso, poi incrocia le braccia possenti.
“Ti ringrazio. Non posso dimenticare quel che mio fratello ha
fatto, nel bene e nel male, e non so perdere la speranza,
ma...” alza gli occhi al cielo, il dio del Tuono, ed
è uno sguardo senza nuvole, “... sebbene il Fato
mi abbia posto davanti questo duro cammino, non ho intenzione di
tirarmi indietro.”
“Sono proprio le parole di un Re,” afferma Theoric
posandogli una mano sulla spalla. Poi assottiglia lo sguardo, ironico,
allentando la tensione. “Ma non credere che mi
lascerò impietosire.”
“Non te lo perdonerei. Ma oggi non ho intenzione di
perdere.”
“Come nessuno”, ridacchia il capitano, allargando
le braccia, “vedremo a chi arriderà la vittoria al
sorgere delle prime stelle.” Poi gli rifila un 'amichevole'
colpo sull'addome, facendo stridere l'armatura, e si allontana a passo
sicuro.
Quando Odino termina il discorso, i guerrieri rompono le righe e si
riversano all'esterno euforici, pronti a dare il via alla prima giornata della Grande Caccia. Il resto del popolo si starà
già ammassando su tetti e parapetti improvvisati, in attesa
di salutare i guerrieri in marcia. Chi a fine giornata avrà mietuto
più fiere riceverà in premio qualsiasi bene richiesto. Poi le squadre migliori potranno avventurarsi verso le terre a est della capitale e proseguire nella Grande Caccia per alcune settimane.
Balder lascia scorrere lo sguardo sulla folla di uomini armati. Nelle
ultime tre edizioni ha trionfato Lord Theoric, ma per la prima volta il
principe Thor avrà l'età giusta per contrastarlo.
Sarà una sfida interessante.
“Come hanno preso la notizia che sarai tu stavolta a guidarli
nelle terre orientali?”, domanda Tyr avvicinandosi e
ammirando a sua volta il mare concitato dei soldati.
“Bene, stranamente.”
“Strano, indubbio. Non si era mai visto prima il dio della
Pace accompagnare una spedizione armata, seppur di una guerra
fittizia.” Il dio appoggia la mano sull'elsa della spada, in
un riflesso ormai automatico. “Evidentemente considerano la
tua presenza di buon auspicio, in qualche modo.”
Balder sorride divertito.
“O magari erano stufi della tua?”
Tyr ridacchia e non risponde all'innocua provocazione,
perché conosce bene l'animo del dio più amato di
Asgard e sa quanto sia luminoso, persino quando cerca di porsi in ombra.
Odino scende i pochi gradini del trono dorato e impone la sua presenza
sbattendo a terra Gungnir.
“È tutto pronto?”, domanda il Re
fissando il dio della Guerra, che annuisce.
“I nani collaborano, poche ore e la fucina sarà
pronta. Malekith è una serpe e comunica con loro in una
lingua che non capisco, ma non può nuocere da dentro la
cella. Ho già predisposto che una decina dei miei
più fidati e discreti soldati fingano un infortunio, oggi,
così da non prendere parte al resto della Caccia.”
“Perfetto. Noi sceglieremo in quali zone cominciare a
smantellare l'uru. Tu, Balder, eviterai che nascano mormorii o
sospetti.”
I tre Æsir si scambiano uno sguardo solenne a avvertono uno
strano peso sul petto. Stanno decidendo la storia e le sorti di Asgard,
ancora una volta, e sanno di non poter fallire.
Osservatorio Geofisico di
Tromsø (Norvegia)
Quando Darcy riapre gli occhi, infastidita, la luce che filtra dalla
finestra è accecante. Che
novità. Stira le braccia sul tavolo –
mi verrà il
torcicollo, minimo - e strizza gli occhi, mentre alle sue
spalle Selvig si muove sul divano e sbadiglia con la grazia di un orso.
Buongiorno a te.
Jane è da qualche parte in cucina e sta facendo un baccano
infernale. A quanto pare lo shock per le rivelazioni delle ultime ore
le ha causato un'improvvisa ispirazione culinaria – come se sapesse cucinare
– o l'irrefrenabile voglia di distruggere stoviglie. Più probabile.
La stagista emette un sospiro e si decide ad alzarsi, strisciando
rumorosamente la sedia sul pavimento. Selvig protesta con grugnito ma
apre finalmente gli occhi.
“Che ore sono?”
“Quasi mezzogiorno...” risponde la ragazza
portandosi di fronte alla portafinestra, le mani sui fianchi e gli
occhi a fissare un cielo di un azzurro sbiadito, quasi bianco.
“...credo.”
“Che cos'è questo baccano?”, chiede Erik
portandosi faticosamente a sedere, la testa tra le mani e i capelli
sparati in ogni direzione.
“Questa è una bella domanda. JANE!”
Nessuna risposta dalla cucina, solo ulteriori tonfi e rumori simili
a... martellate?
“Dio, la mia testa...”
“Non si preoccupi, vado a prenderle un po' d'acqua e
un'aspirina.” Se
Jane ha lasciato almeno un bicchiere integro...
Nella spaziosa cucina pare esplosa una bomba, ma l'astrofisica non sta
distruggendo proprio nulla. Anzi.
L'isola in legno chiaro è diventata un laboratorio in
miniatura, e Jane è impegnata a costruire... qualcosa. Una
specie di dispositivo portatile.
“Buongiorno.”
“Mmh-mh.”
“Cosa stai facendo?”, chiede Darcy alzandosi sulle
punte e recuperando un bicchiere dal ripiano sopra al lavandino.
“Bene, bene.”
La stagista rotea gli occhi e poggia il bicchiere senza troppa grazia
di fianco all'amica.
“Pronto? Terra chiama Jane?”
La donna si riscuote e poggia il cacciavite e quella specie di grosso
telecomando, che emette un ronzio basso e costante. Sullo schermo
lampeggia l'immagine di una sfera verdognola, forse ad indicare il
globo terrestre.
“Che c'è?”
“A Selvig serve un'aspirina. Tu che combini?”
“Lavoro. Gli appunti di Erik sono sensazionali. Il
progetto Pegasus, gli studi sull'energia oscura, il Tesseract... Mai
vista tanta precisione nel rilevare i raggi gamma, e poi... tutti i dati sul portale! E
combaciano con la nostra teoria del Ponte di Einstein-Rosen! Tutto
questo è...”
“Incredibile?”
“Esatto!”
“Sì, certo.”
Jane rifila alla stagista un'occhiata obliqua, dimostrando di non
gradire il suo sarcasmo.
“Che cosa sarebbe incredibile?”, biascica Selvig
entrando nella stanza a passo malfermo, la camicia mezza fuori dai
pantaloni.
“Erik!”, grida Jane balzando in piedi, provocando
una nuova fitta di mal di testa al dottore, “i tuoi resoconti
sono illuminanti! La possiamo trovare, è qui!”
Darcy porge all'uomo un bicchiere pieno per metà, e lui si
incanta a osservare la pasticca che frizza e si scioglie nell'acqua,
come ipnotizzato. La sua voce è un flebile sussurro, come
sempre quando quella che ha in testa ricomincia a confonderlo.
“Trovare... cosa?”
“La Fonte!”,
Jane afferra un foglio scribacchiato e raggiunge Erik, che quasi si
soffoca trangugiando la medicina, e glielo sventola davanti agli occhi,
“è così che l'hai chiamata, no?
Vediamo, 'un punto sulla superficie terrestre che rilascia la stessa
firma gamma del nucleo del Tesseract', ed è qui Erik, in
Norvegia!”
Selvig impallidisce e sforza l'ultima sorsata, poi poggia il bicchiere
sul tavolo e una mano sulla spalla dell'astrofisica, con fare paterno.
“Jane, quegli studi non hanno più importanza, devi
lasciar perdere.”
“Ma...”
“È pericoloso, Jane.”
“L'ultima volta che me l'hai detto, non è bastato
a fermarmi.”
Selvig trattiene una mezza risata e incassa il colpo.
“Vero.”
“Erik, ti prego, siamo di fronte ad un'altra scoperta
straordinaria. Sulla base delle tue istruzioni ho costruito un
fasometro portatile, ha già circoscritto la zona interessata
ad un'area di poco più di venti chilometri, con il tuo aiuto
posso fare di meglio. Ti prego.”
Selvig chiude gli occhi e sospira, ma è già quasi
una resa.
“Dobbiamo farlo per la ricerca, ricordi?”
“D'accordo, d'accordo.” Chissà se mi
aiuterà a liberarmi la testa o a sconvolgerla ancora di
più?
Erik torna in salotto, subito seguito da Jane e a ruota da Darcy, che
lo guardano allibite indossare il cappotto.
“Che fai? Non hai detto che volevi aiutarmi?”
“È così.” Purtroppo.
“E allora, te ne vai? Il mio portatile è di
là, ho già settato i parametri, se utilizzassimo
il magnetometro dell'Osservatorio potremmo velocizzare...”
“Quello che ci serve non è qui, Jane.”
La donna arretra istintivamente il collo, senza capire.
“E dove, allora?”
Selvig si stringe la sciarpa sul collo e si cala un berretto di lana
sugli occhi. Poi fa per poggiare la mano sulla maniglia della porta,
quindi si blocca e si volta.
“In biblioteca. Sapete dove possiamo trovarne una, da queste
parti?”
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