How should I name this story?

di beatrjcemanvilova
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hello, Goodbye ***
Capitolo 2: *** II Something ***



Capitolo 1
*** Hello, Goodbye ***


Una goccia le era scivolata tra i capelli, seguita da un altra subito dopo. Lei si alzò il cappuccio lentamente, senza dar prova di essere infastidita dal fatto che la pioggia filtrasse all'interno del vagone e che avesse, in poche settimane, fulminato tutte le lampade, lasciando lo scomparto al buio. Seduta sugli scalini, sembrava anzi preferire quel vagone deserto agli altri, facendolo diventare il ritrovo fisso con lui. Lui, e basta: il ragazzo senza nome che vedeva appoggiato alla parete. Ma non si trattava di incontri veri e propri, i due condividevano il tempo di due fermate e il loro rapporto non era platonico, ne ideale. I due si guardavano in un modo che nessuno poteva notare, e si osservavano, giorno dopo giorno, in quel vagone tetro e senza luce, e, giorno dopo giorno, avevano imparato a riconoscere i dettagli, i modi e i gesti l'uno dell'altro, senza essersi mai parlati. Ognuno si era semplicemente abituato allo sguardo dell'altro e lo aveva accettato, creando un equilibrio e una complicità, una comunicazione, che nessuna delle poche persone costrette dalla folla a occupare il vagone scomodo e umido, da evitare, non avevano nemmeno visto, indaffarati a ripararsi dalla pioggia e a farsi luce. E neppure quel giorno avevano notato il ragazzo alzarsi e dirigersi verso la ragazza, sedersi vicino a lei e toglierle delicatamente una cuffia dall'orecchio per impossessarsene. Eppure era un gesto del tutto inusuale, ma non per lei. Allora il ragazzo le diede l'auricolare e un leggero bacio sulla guancia e saltò fuori dal treno, sparendo tra la gente, lasciando la ragazza sola con la fine di "Hello, Goodbye". Non aveva nemmeno fatto in tempo a sospirare, che anche lei dovette uscire dal vagone, per cercarlo.

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Capitolo 2
*** II Something ***


Something in the way she moves
attract me like no others lover
Something in the way she woos me
-Something


-Avevi dimenticato la chitarra. 

Appena scesa dal vagone era stata sballottata e spintonata fino a quando qualcuno non l'aveva tirata di lato, traendola in salvo dalla folla. 

-Grazie.

-Grazie a te. Mi hai salvata.

-Figurati, sono John, comunque.

Disse porgendo la mano per presentarsi.

Evidentemente la ragazza doveva essere particolarmente confusa perché a quella mano tesa rispose restituendo lo strumento.

-E tu come ti chiami?

Incalzò con disinvoltura. 

 La ragazza arrossì violentemente, esitando prima di rispondere. Le pesava dover dire a tutti quel patetico nome, e di dover confermare che sì, esatto, come lo stato. 

-Mi chiamo Alaska.

Si aspettava che l'altro si fosse messo a ridere, o che il ragazzo si chiedesse che razza di madre condannava la figlia ad una tale umiliazione. Invece John sorrise. 

Anche lei accennò un sorriso, nonostante cercasse di nascondersi sempre più dietro ai lunghissimi capelli neri.

-È un basso comunque. È leggermente diverso.

Le sue guance tornarono rosse. Aveva passato anni ad osservare il basso di Paul McCartney ed ora era passata per un'ignorante e poser.

-Suoni in una band?

-Ci provo.

Cadde allora un silenzio teso. Erano ancora lì, al binario 9 di chissà quale cittadina e la pioggia continuava a cadere senza dare l'impressione di volersi fermare o di cambiare il ritmo con cui scendeva. 

A rompere il ghiaccio questa volta fu lei:

-Ascolta, non ho fatto colazione e sto morendo di fame. E oggi a scuola non avrei avuto molto da fare... 

-Conosco un bar qui vicino che sforna i cornetti caldi proprio ora.

Voleva congedarsi, ma John l'aveva interrotta subito, per paura di perdere quell'occasione di conoscerla, una volta per tutte.


 La caffetteria di cui le aveva parlato non era altro che uno squallido pub le cui pareti trasudavano umidità e che puzzava di alcool e tabacco, ma, nonostante odiasse che qualcuno potesse vederla mangiare, le brioches erano davvero le migliori che avesse mai provato.

-Fumi la pipa? Sul serio? 

Il ragazzo l'aveva tirata fuori da una delle tasche interne del suo cappotto nere e si limitò a sorridere alla domanda.

-Forse sono un uomo d'altri tempi. 

Azzardò inoltre, inducendo la ragazza a osservare il suo aspetto: un lungo cappotto nero e un completo grigio.

Effettivamente.

Ma del resto, non lo biasimava, anche lei, del resto, con le corone di fiori e le magliette di band dimenticate e sconosciute dalla sua generazione, doveva sembrare capitata per caso in quell'epoca. 

-Forse.

Rispose infine, distogliendosi da quei pensieri.

Sentiva lo sguardo curioso dell'altro seguire i suoi movimenti, mentre metteva sul tavolino la borsa a tracolla di pelle consumata, cercando decisa qualcosa al suo interno.

Gli era sembrato strano che avesse interrotto così la conversazione, concentrandosi sulla borsa. Aveva pensato che avesse volutamente sviare, ma si ricredde quando, spazientita, rovesciò sul tavolo il contenuto della tracolla. 

Erano principalmente libri. 

Sulla strada, Cime Tempestose, un libro scolastico di filosofia e una copia dell'Iliade con testo a fronte, come enunciavano delle scritte ben in evidenza che sembravano voler pubblicizzare il prodotto, come se la gente fosse attirata da annunci fluorescenti che reclamavano che se volevi potevi leggerti un po' di greco la sera, giusto per rilassarsi un poco. 

Ma queste erano tutte considerazioni che faceva lui, che il greco l'aveva odiato per tutti i primi due anni di scuola e che ora evitava come la peste.

E mentre accusava Omero, o chi per lui, perché a scuola ovviamente avevano sfatato quel mito da subito, di aver condannato le generazioni a venire, la ragazza aveva trovato quel che cercava. Era un piccolo librettino di poesie chiamato 'Farfalle'.

La ragazza aveva inforcato degli occhiali, di quelli alla Buddy Holly, con due lenti spesse e che rendevano i suoi occhi molto più grandi di quanto non fossero già. E fu allora che si accorse, che vide quel magnifico spettacolo per la prima volta. 

Aveva visto gli occhi ingranditi della ragazza dietro le lenti e si era chiesto come fosse possibile.

Heterocromia.

Un'occhio nero, di un nero più scuro e profondo della notte e l'altro, l'altro era azzurro, quasi carta da zucchero, del colore 
del ghiaccio.

-Questo è...

La ragazza si era interrotta immediatamente davanti allo stupore di John. E aveva abbassato lo sguardo, era arrossita e si era ritirata ancora dietro ai capelli, come era solita a fare, poiché quelli ormai erano gesti meccanici. 

Perché si ostinava a uscire di casa? I suoi glielo avevano sempre detto che era un'errore, un mostro, un disastro che cammina.

-Mi dispiace, non volevo.

-No, scusa tu. Non volevo spaventarti. Dovrei mettere delle lenti colorate.

Lui aveva cercato di rattoppare, ma lei si era vergognata. 

Vergognata per essere ancora una volta quella strana, quella diversa. Che poi diversa da chi? Da quelle troiette tutte tette e culo che si scendevano per un paio di complimenti? Da quegli idioti che si sballavano in discoteca per riuscire a sentire qualcosa ed ad emergere da quell'apatia diffusa, come fosse una malattia e solo in pochi erano immuni.

-Cosa mi stavi dicendo?

L'altro avrebbe voluto dirle che era bellissima, che i suoi occhi erano speciali e che la rendevano unica e rara. Ed invece se ne uscì cambiando argomento.

Voleva sapere, voleva sapere dove si posizionava John. Se aldilà o aldiquà della netta linea che separava gli ipocriti dai dispersi, il nome con cui chiamava quelli, che come lei, hanno perduto il loro tempo e da diversi trascorrono la vita nella propria realtà, disperandosi per il fatale errore di Dio. E così lo mise alla prova.

-Vedi questo libricino? Contiene delle poesie e delle immagini che esprimano il loro significato visivamente. È questo che voglio fare io. Rappresentare poesie.

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