La Villa in riva al Lago

di Bale
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***






I
 



Gabriele sonnecchia sul divano. E’ bellissimo, come tutti i bambini quando dormono.

Tiene le manine strette a pugno, sollevate sopra la testa e il suo visino sembra ancora più paffuto del solito.

Mi siedo accanto a lui e gli sfilo le scarpine. Lo faccio con delicatezza, come se avessi paura che possa rompersi. A volte sembra un bambolotto di porcellana, con la sua carnagione perlacea e i suoi boccoli biondi. Respira lentamente e vedo il suo petto gonfiarsi per poi abbassarsi.

Amo guardarlo dormire e non soltanto perché quando dorme non è una peste, ma soprattutto perché mi trasmette calma, pace interiore. Provo ad immaginare i suoi sogni e quasi sempre mi viene in mente una foresta incantata, piena di piante colorate che sembrano caramelle e di unicorni danzanti.

Quanto mi manca il mondo dei bambini. Tutto è rosa e allegro e nulla, assolutamente nulla, può fare loro del male. L’unica paura è quella del mostro nell’armadio, ma basta rimboccarsi le coperte fin sopra la testa per farlo sparire.

Da bambina avevo paura del buio e, anche se lo faccio con riluttanza, devo ammettere che la paura mi è rimasta. Una volta un medico mi ha detto che è del tutto normale. La mia paura del buio non è dovuta alla convinzione che un mostro possa saltare fuori dall’oscurità in qualunque momento, bensì all’intrinseca mancanza di luce. Temiamo l’ignoto in quanto tale. Non lo conosciamo, quindi ci spaventa. Io ho paura del buio semplicemente perché mi impedisce di vedere cosa ho intorno, nulla di più.

Mi alzo dal divano e vado in cucina. Mi verso del succo d’arancia e salgo al piano di sopra. Dopo i primi scalini, sento già la musica invadere l’aria e riempirmi le orecchie.

Aurora sta facendo le valige e ascolta i suoi cantanti preferiti. Ovviamente io non so nulla di musica e, sinceramente, mi rifiuto categoricamente di comprendere quella che i giovani ascoltano al giorno d’oggi.

Finisco le scale, raggiungo il pianerottolo e mi affaccio in camera sua.

-Hai bisogno di una mano?-   urlo per sovrastare l’assolo di chitarra.

Aurora sobbalza leggermente mentre si volta a guardarmi.

Ha gli occhi azzurri di suo padre. Grandi e profondi occhi azzurri che fanno rabbrividire.

Sorride e mi viene incontro.

-Posso portarmi la tua sciarpa verde?-    mi implora, unendo le mani in preghiera.

-Quale sciarpa verde?-    fingo di non capire.

-Quella che hai preso a Firenze-    spiega lei    -Ti prego-

Sorrido anch’io. Non riuscirei mai a dirle di no. Mi toglierei un rene per lei, mi strapperei via il cuore. Le darei la mia vita se potessi.

Quando è nata non sono riuscita ad amarla subito.

La gravidanza non era stata pianificata ed io mi sentivo un po’ confusa. Fu tutto una corsa. Stefano mi chiese di sposarlo e il matrimonio venne celebrato in una vecchia chiesetta di montagna con pochi invitati, per evitare che la gente vedesse la pancia, che ormai cominciava a vedersi, e lo definisse un matrimonio riparatore.

Io e Stefano ci amavamo e ci amiamo sul serio. Eravamo già adulti. Non avevamo pensato ancora di mettere su una famiglia, ma alla fine Aurora era arrivata prepotentemente nelle nostre vite, sgomitando e scalciando.

Quando la vidi la prima volta, così piccola e raggrinzita, provai qualcosa di indefinibile, ma poi, piano piano, con il tempo, ho imparato ad amarla. Siamo diventate forti, una squadra, noi due sole contro il mondo.

-Puoi prendere quello che vuoi-    le dico accarezzandole il viso.

Lei mi abbraccia e appoggia la testa sul mio petto, proprio come faceva da bambina quando la tenevo in braccio. Sento le lacrime salirmi agli occhi, ma le ricaccio indietro. Deglutisco per mandare giù il rospo, cercando di non dare troppo nell’occhio.

Aurora sta partendo per l’università.

Studierà medicina a Roma e io non posso proprio afferrarle il gomito per fermarla. Non ci riesco. Ogni volta che cerco di sollevare il braccio per farlo, capisco che è sbagliato. Deve vivere la sua vita. Dovrà farlo lontano da me, lontano dal suo nido, purtroppo. Non posso fermarla, non sarebbe giusto.

Ho passato molte notti chiusa in bagno a piangere, fino a quando Stefano non è venuto a raccogliermi dal pavimento. Vivo male il distacco, troppo male. Aurora sarà sola e indifesa contro il mondo, un mondo troppo grande per lei, troppo meschino. Dovrà studiare, dovrà sentirsi dire parole che la butteranno giù e dovrà avere la forza di non abbassare mai la testa. Lei è forte. La mia Aurora è una ragazza forte, in grado di affrontare le difficoltà più di quanto non lo sia io, a volte me ne dimentico.

Mi lascia andare e corre in camera mia per recuperare la sciarpa che mi ha chiesto.

Non la seguo, non ce la faccio. Approfitto della sua assenza per lasciarmi sfuggire qualche lacrima.

Entro in camera sua e prendo tra le mani Giorgio, il suo orsetto. Ce l’ha da quando aveva quattro anni. Suo padre lo vinse per lei alle giostre e da allora non l’ha più mollato. Mi ha impedito persino di lavarlo, ma io, di nascosto, l’ho fatto. Ho approfittato delle sue assenze per la scuola o per andare a giocare con le amiche al parco e l’ho preso. L’ho annusato a fondo prima di lavarlo. C’era sempre il suo odore, l’odore della mia bambina.

E’ una donna ormai, devo farmene una ragione. E’una donna adulta che deve fare le sue scelte.

Ha già scelto di fare il medico ed io non ho potuto fare altro che guardarla con le lacrime agli occhi.

Ha un animo nobile la mia Aurora. Ama aiutare gli altri, ama sorridere.

Una volta, da bambina l’ho sentita strattonarmi un braccio mentre passeggiavamo sul viale del paese. Voleva che dessi dei soldi ad un barbone. La accontentai. Andammo a comprare un panino per lui e gli lasciai anche qualche spicciolo. Non dimenticherò mai il sorriso sdentato da bambina che mi rivolse. Ogni volta che ci penso mi si stringe il cuore, soprattutto ora che lei sta per andare via.

Mi sembra una cosa contro natura e non posso farci niente. E’ la mia bambina, mia. Le ho dato la vita, le ho dato l’educazione e l’ho resa in grado di affrontare il mondo.

Non voglio prendermi meriti, vorrei soltanto poterla avere ancora qui con me.

“Non sarà più lo stesso”    mi ha detto pochi giorni fa, quando ha fissato la data della sua partenza    “Ma io ti vorrò bene per sempre”

Quella notte ho pianto e penso proprio che piangerò anche stanotte.

Aurora sta andando via, nulla potrà più fermarla.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***



II


 
 
Stefano china la testa di lato e stringe gli occhi. Mi guarda intensamente. So che cerca di studiarmi, vuole conoscere le mie sensazioni, la mia reazione ad una partenza tanto sofferta.

Aurora partirà domani ed io mi sento morire. Cerco di nasconderlo, non voglio un’altra paternale, e nel frattempo continuo a preparare la cena.

Stefano mi fissa ancora più intensamente, poi ci rinuncia. Va a sedersi sul divano in soggiorno e accende la televisione. Gabriele è seduto sul tappeto a giocare con le sue macchinine. Appena lo vede si alza e gli va incontro.

-Papà-    esclama abbracciandolo.

Lui gli accarezza i capelli e lo fa sedere sulle sue ginocchia.

-Vuoi vedere i cartoni?-   gli chiede.

Io, dalla cucina, so bene che preferirebbe guardare il telegiornale o una di quelle sue serie tv preferite, ma ci rinuncia pur di stare un po’ con il suo bambino. Anche lui è sconvolto dalla partenza di Aurora, ma riesce a nasconderlo molto meglio di me.

In realtà io non voglio proprio nasconderlo. Credo non ci sia nulla di male nella mia sofferenza. Mia figlia parte e ha tutto il diritto di sapere che starò male senza di lei perché le voglio un gran bene.

Stefano, invece, si nasconde. Lo fa per rendere meno difficile il distacco ad Aurora. Anche lei soffre. Per quanto possa essere affascinata ed entusiasta all’idea di iniziare una nuova vita, sa che le mancherà molto quella vecchia.

Chiudo gli occhi e sospiro, mentre finisco di pelare le patate. Cucinare mi rilassa di solito, ma non stasera.

Il cuore mi rimbalza nel petto quando vedo mia figlia scendere le scale per andare a sedersi accanto a suo padre. Si accoccola sul suo torace, sfiorando la testa dorata di suo fratello.

Mi piacerebbe fotografare quella scena, ma continuo a cucinare.

Metto il pollo nel forno e condisco l’insalata. Apro, poi, un cassetto e tiro fuori la tovaglia.

-Ragazzi?-    urlo verso il soggiorno per sovrastare il volume della televisione.

Tutti e tre si voltano all’unisono.

-Chi apparecchia?-    chiedo perdendomi nei loro occhi azzurri.

Hanno tutti gli occhi di Stefano e i miei capelli chiari.

Mi perdo ogni volta che guardo ognuno di loro. Affondo in quegli occhi profondi, quasi trasparenti.

Oggi non posso, devo farmi forza.

Vedo Aurora alzarsi e venire verso di me. Sorride. Quanto è bella mia figlia quando sorride. Rispondo a quel sorriso e le passo la tovaglia.

Lei l’afferra e sparisce, poi torna in cerca dei piatti.

-Mamma?-    mi chiama, mentre si volta e apre il cassetto delle posate.

Io mi giro a guardarla, cercando di non perdere d’occhio la salsa.

-Ho scelto di diventare medico come papà, ho scelto di seguire lui-    comincia un po’ imbarazzata.

La sua voce trema. E’ emozionata ed io temo di piangere. Cerco di rimanere in me e annuisco per farle capire che la sto ascoltando e mi interessa ciò che ha da dirmi.

-Ma questo non vuol dire che io non ammiri anche te-    conclude.

Tira fuori dal tascone della sua felpa grigia un pacchetto con tanto di fiocco, mentre io spalanco la bocca emozionata.

-E’ per te, aprilo-    intima, porgendomelo.

Io lo afferro e nell’allungare le mani noto che sto tremando.

Lo scarto con cura, con calma. Non voglio si rompa e, soprattutto, voglio godermi quel momento. Tiro via il fiocco, poi sollevo i lembi del nastro adesivo sui bordi.

E’ un libro: I Ponti di Madison County.

Sollevo lo sguardo su di lei e la vedo commossa. Piange la mia Aurora. E’ di buon cuore.

Chiudo gli occhi e la rivedo piccola piccola che barcolla nella mia direzione. Io sono seduta sul divano a leggere proprio quello stesso libro. Cerca di abbracciarmi e mi rovescia addosso la mia tazza di the caldo. Il libro è zuppo e lei scoppia a piangere. Non si è scottata, ma si è spaventata come tutti i bambini piccoli. La prendo tra le braccia lasciando scivolare il libro sul pavimento.

-Tanto tempo fa te l’ho distrutto e ora te l’ho ricomprato-

Sorride ancora Aurora. Sorride e mi scalda il cuore.


 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***



III


 
Il telefono squilla.

Stefano non c’è, ha il turno di notte in ospedale. Il giovedì è sempre rimasto di guardia ed io e Aurora ne abbiamo sempre approfittato per guardare film romantici abbracciate sul divano, con Gabriele sulle ginocchia, addormentato beatamente.

Oggi non c’è neanche Aurora. E’ partita ormai da quasi una settimana ed io continuo a sentirmi vuota. Ho creduto che con il passare dei giorni avrei potuto abituarmici un po’, ma ovviamente non è stato così.

Aurora mi manca molto, ogni giorno di più. Qualunque cosa, in questa casa, mi fa pensare a lei. Ci sono ancora le sue magliette nel cesto della biancheria da lavare, le sue riviste in giro, i suoi elastici per i capelli sulla mensola del bagno.

-Gabriele?-   urlo dalla cucina, pulendomi le mani sporche di farina.

Sto facendo una torta, tanto per tenermi impegnata e non pensare.

Mio figlio compare saltellante sulla soglia e mi porge il telefono cordless.

Sarà Stefano che vuole sapere come sto. Chiama spesso ultimamente perché ha notato il mio stato d’animo così strano. Lo capisce perfettamente, ma non riesce a vedermi così giù di morale. A volte vado a piangere giù in cantina perché so che mi giudicherebbe, che starebbe male, travolto da un dolore che, nonostante le apparenze, non è soltanto mio.

-Pronto?-

Una voce squillante mi chiama allegra dall’altro capo del telefono. Non è mio marito.

-Paola! Stavate cenando?-

E’ mia sorella.

-No, siamo soltanto io e Gabriele stasera-    rispondo   -Stavo finendo di preparare-

Mi sforzo di essere cordiale, allegra come lei. A volte la invidio. Riesce ad avere sempre il sorriso sulle labbra, a vedere il lato positivo di qualsiasi situazione. E’ un’inguaribile ottimista, una donna fuori dal comune.

-C’è il nuovo notaio in città-    mi dice, ed io non riesco proprio a capire come possa essermi utile un’informazione del genere.

-Non ho bisogno di un notaio-     rispondo automaticamente.

Lei ride. Marta ha sempre avuto una splendida risata, coinvolgente, contagiosa.

-So che non ne hai bisogno, ma si dà il caso che questo nuovo giovanotto abbia preso in affitto il mio appartamento giù al lago-

-Ti pagherà bene-    commento distrattamente.

-Il punto è che domani non potrò passare a riscuotere l’affitto, ho Leonardo con l’influenza-    continua con un sospiro.

Sembra spazientita dalla mia totale noncuranza e indifferenza.

-Oh povero piccolo-   rispondo.

-Potresti andarci tu?-

Marta alza la voce e va dritta al punto.

Io ci penso un po’ su. Non ho nulla da fare. Ho smesso di lavorare quando è nato Gabriele e da allora non faccio altro che dispensare favori a destra e a manca. Non posso cercare scuse, dopotutto. Non avendo un lavoro non posso dire di avere altro da fare, soprattutto ora che Gabriele ha iniziato l’asilo e Aurora è andata all’università.

-Sì certo, ci vado io-    rispondo dopo averci pensato su un bel po’.

Marta sorride trionfante. Non la vedo, ma riesco a percepirlo.

-Mi devi un favore-    dico poi, prima di mettere giù il telefono.

Alzo lo sguardo e vedo Gabriele. E’ ancora in piedi davanti alla porta della cucina e mi guarda.

-Ho fame-    comunica dopo un po’.

-E’ pronto, tesoro-    rispondo, recuperando la tovaglia per apparecchiare.

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


 


IV


 
 
Piove. E’ una pioggia leggera, insignificante.

In lontananza, però, dei nuvoloni neri annunciano un temporale.

Ho dimenticato l’ombrello a casa, come al solito. Se mi vedesse Aurora scoppierebbe a ridere divertita. Non ho mai avuto un buon rapporto con gli ombrelli: quelli che non dimentico li distruggo ed è per questo motivo che non ne compro mai, lascio che me li regalino gli altri. Il Natale scorso ne ho ricevuti sette.

Raggiungo l’entrata della piccola villetta in riva al lago. C’è una tettoia che mi ripara la testa per fortuna. Sono abbastanza fradicia, ma cerco di non farci caso. Prenderò i soldi e me ne tornerò dritta a casa. Ho una montagna di vestiti da stirare e poi potrei fare anche un bel bagno caldo prima di pranzo.

Busso alla porta. Lo faccio insistentemente, per sovrastare il rumore della pioggia che sta diventando più fitta.

Attendo diversi minuti, prima di notare la maniglia muoversi.

La porta si apre con un leggero cigolio e davanti a me compare un bellissimo ragazzo. E’ molto alto, magro, ha una silhouette perfetta. I suoi capelli sono neri come la pece, il suo sorriso gentile.

-Sono la sorella della proprietaria-    annuncio.

Il suo sorriso si allarga e si fa da parte per lasciarmi entrare.

Io non me lo faccio ripetere. Sta arrivando un temporale con i fiocchi, si sentono già i tuoni in lontananza.

-Gran bella giornata-    commenta lui sarcastico, chiudendosi la porta alle spalle.

La casa è sempre la stessa, piccola e accogliente. Ho sempre amato questa villetta. Potrebbe essere un ottimo rifugio per i miei pianti notturni, ma ormai è già stata affittata.

-La sorella di Marta?-    chiede lui, raggiungendomi.

Mi porge la mano, una mano lunga e affusolata.

La afferro e, con voce roca, comunico il mio nome.

-Sono Francesco-    mi risponde stringendo con decisione la mia mano bagnata.

-Le porto qualcosa di caldo?-    chiede chinandosi su di me.

E’ molto alto ed io mi sento quasi insignificante accanto a lui.

-Non vorrei disturbare-    rispondo, notando gli scatoloni ancora da svuotare, posti proprio in mezzo al soggiorno. In un angolo c’è la custodia di una chitarra. Sembra piena.

-Nessun disturbo-    risponde prontamente   -E poi credo le convenga aspettare che la pioggia si plachi un po’-

Non attende altri cenni e si dirige verso il piccolo cucinino, in fondo alla stanza.

Io mi tolgo l’impermeabile e lo lascio cadere sulla spalliera di una sedia. Soltanto dopo noto che è piena di libri di diritto, di fotocopie di sentenze e una specie di tesina rilegata. Sulla copertina c’è il suo nome: Francesco Cosi.

Mi ritornano in mente i tempi dell’università. Ho studiato Giurisprudenza, ma non sono riuscita a laurearmi. Mi mancava soltanto la tesi, ma poi sono rimasta incinta. Non ho rimpianti né rimorsi, eppure vedere quei libri mi provoca una strana sensazione nel petto.

-Ecco qui-

Sobbalzo al suono della sua voce e mi volto, distogliendo lo sguardo dai volumi sulla sedia.

Il notaio ha tra le braccia un vassoio sul quale ha appoggiato due tazze da the diverse. Una è alta e stretta, di colore verde, mentre l’altra è larga e blu.

-Mi scusi-    dice notando il mio sguardo   -Non ho ancora tirato fuori il mio bellissimo servizio da the-

Scoppio a ridere e, per la prima volta nella mia vita, la mia risata suona come quella di mia sorella Marta, quella che ho sempre invidiato, quella che ha fatto sempre cadere gli uomini ai suoi piedi.

Anche lui ridacchia e china lo sguardo quasi imbarazzato.

Mi fa spazio sul divano e mi invita a sedermi.

Io ubbidisco e rimango lì per ore, a chiacchierare, ridere e sorseggiare the caldo. Mi racconta della sua famiglia, i suoi due fratelli e i suoi genitori, mi parla del suo lavoro, del trasferimento ed io mi apro, confessando i miei studi mai completati.

-Potresti riprenderli-     mi suggerisce, finendo il the.

-Potrei-    confermo sporgendomi verso il tavolino per appoggiare la tazza sul vassoio.

-E’ un peccato, soprattutto visto che ti mancava soltanto la tesi-    continua.

-Ora ho anche molto più tempo libero visto che mia figlia Aurora è all’università-     dico più a me stessa che a lui.

In effetti potrebbe farmi bene distrarmi un po’.

-Hai già una figlia universitaria?-

Annuisco e mi volto a guardarlo. I suoi occhi sono scuri e intensi.

-Medicina a Roma-

Lui sorride.

-Non Giurisprudenza?-    mi chiede, lanciandomi una strana occhiata di traverso, come se avesse paura di offendermi.

-Ha scelto di seguire le orme del padre-    rispondo inespressiva.

Lui annuisce e tace, ma non distoglie lo sguardo da me. Improvvisamente comincio a sentirmi a disagio, come se non dovessi essere lì.

-Ha smesso di piovere-    dico, voltandomi a guardare fuori dalla finestra.

Lui si alza in piedi, poi aspetta che lo faccia anch’io.

Sparisce in camera da letto, poi ritorna con una busta bianca.

-Ecco i soldi-    mi dice porgendomela.

Anche lui sembra aver cambiato atteggiamento.

Afferro la busta con decisione e me la infilo nella borsa, poi indosso l’impermeabile. Lui mi aiuta e, quando le sue dita sfiorano per sbaglio la mia nuca, un brivido mi percorre la schiena. Resto immobile per qualche minuto, con gli occhi chiusi e i denti affondati nel labbro inferiore. Ho provato delle strane sensazioni oggi, sensazioni che non riesco proprio a spiegarmi.

-I prossimi mesi potrò pagare con il bonifico se tua sorella mi manda le sue coordinate bancarie-

Mi volto e lo fisso intensamente. All’improvviso non voglio più andarmene, il disagio è svanito.

-A meno che tu non voglia tornare-   continua poi.

Io non rispondo, mi limito a sorridere in preda all’imbarazzo e al panico.

Senza neanche salutare mi dirigo verso la porta e sparisco.

Non so se ritornerò in questa casa, con lui dentro. Una parte di me, curiosa, lo vorrebbe, ma l’altra mi impone di ricordare che sono una donna adulta, matura, sposata e che non posso essere impulsiva né istintiva. Ho un bambino piccolo a casa che mi aspetta. Non sono più una stupida adolescente. Non lo sono più da un pezzo.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***




 
V


 
 
La pioggia è cessata. In lontananza, tra le montagne, si riesce a scorgere l’arcobaleno.

Scendo dall’auto e mi dirigo verso il palazzo di mia sorella. Nella mia borsa, ben custodita sotto il mio braccio, c’è la busta bianca che mi ha dato il notaio, quella che contiene i soldi dell’affitto.

La porto a Marta. Non vedo l’ora di liberarmene, perché in fondo spero di riuscire a liberarmi dell’immagine di quegli occhi profondi e scuri, un’immagine ancora viva nella mia testa. All’improvviso mi accorgo di non ricordare gli occhi di Stefano. Non riesco a focalizzarli, non riesco a creare nella mia mente un’immagine di quegli occhi azzurri così belli e intensi, quelli che i miei figli hanno ereditato, quelli che mi fanno rabbrividire, che mi fanno sentire spogliata di qualsiasi cosa, di ogni schermo e corazza.

Marta mi apre la porta preoccupata.

-Pensavo fosse il medico-    dice quando mi vede.

-Leonardo sta male?-    chiedo entrando e buttando l’impermeabile sul divano.

Mi fermo a guardarlo, inanimato e sgualcito, lo stesso impermeabile che il notaio ha toccato per aiutarmi ad indossarlo. Un brivido mi percorre la schiena al solo ricordo di quel tocco quasi impercettibile, ma ancora chiaro nei miei ricordi.

-La febbre è salita a trentotto-    mi urla dall’altra stanza.

Io non la raggiungo. Non riesco a scrollarmi via di dosso quelle strane sensazioni, del tutto nuove e a dir poco bizzarre, per un uomo che neanche conoscevo fino a un’ora fa.

Apro la borsa ed estraggo la busta bianca. Davanti ai miei occhi compare il suo viso, quelle mani affusolate che mi porgono i soldi, quella sua gentilezza impacciata, le spalle troppo alte e le orecchie troppo grandi.

-Ti lascio qui i soldi, devo andare-    urlo a Marta    -Vuoi che chiami Stefano?-   chiedo poi pensando a mio nipote.

-No, grazie-     mi risponde affacciandosi dalla cameretta di suo figlio   -Il pediatra sarà qui a momenti-

Annuisco e le rivolgo un cenno di saluto, poi sparisco oltre la porta d’entrata.

Mi sento un po’ in colpa per non aver salutato Leonardo, per non essere andata a vedere come sta, ma il dottore è in arrivo e mio nipote si ammala così spesso che ormai ho perso il conto. E’ piccolo, è normale.

Salgo in macchina e guardando il parabrezza mi accorgo che sta ricominciando a piovere. Sospiro e chiudo gli occhi. Devo sforzarmi di non pensare, di essere quella di sempre, la mamma, la moglie, la donna tutta d’un pezzo, quella che soffre per la lontananza della figlia e che cerca di farlo in silenzio.

Apro gli occhi all’improvviso e capisco cosa devo fare.

Recupero la borsa dal sedile posteriore e ne estraggo il cellulare.

Gabriele e Aurora mi sorridono dalla foto che ho impostato come sfondo. E’ proprio a lei che sto pensando. Devo sentire la sua voce, mi calmerà.

Compongo il numero e attendo.

Uno squillo, due squilli, tre squilli.

Aurora non risponde, forse è a lezione.

Sbuffo e metto via il cellulare. Devo tornare a casa, i miei ometti si aspetteranno un bel pranzo oggi.


 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


 
 
VI

 
 
Finisco di lavare i piatti e mi asciugo le mani con un canovaccio, che poi appoggio sul termosifone. Stefano dorme sul divano. E’ distrutto. Credo abbia operato oggi.

Gabriele è disteso sul suo ventre, con il telecomando tra le manine paffute che sembra più grande di lui. Guarda i cartoni animati con aria beata ed io evito di disturbarlo.

Passo dietro al divano e raggiungo le scale.

Mi ritrovo in camera di Aurora senza neanche sapere come ci sono finita. Mi manca. Ogni giorno il dolore si fa più intenso, spinge contro le costole, mi stravolge il cuore.

Raggiungo il letto e mi siedo su un lato, afferrando Giorgio, l’orsetto, e stringendolo tra le braccia. Mi illudo di stringere lei, mia figlia, la mia bambina lontana che ormai è già una donna. Diventerà una dottoressa, una mamma, una persona forte, in grado di affrontare quella vita che ci fa sempre un po’ paura, quel mondo che ci sembra sempre un po’ troppo grande.

A volte vorrei essere come lei, per non soffrire così tanto, per avere la forza di fare delle scelte che non ho mai osato fare. All’improvviso mi compare davanti l’immagine di due occhi neri e profondi. E’ un ricordo non ancora sbiadito, di stamattina. Quello sguardo così intenso mi è rimasto impresso nel cuore ed io non posso proprio dimenticarlo, non ci riesco. Ci provo, ma, per quanto ci provo, proprio non ce la faccio.

Ho voglia di rivederlo e neanche so perché. Un brivido, lo stesso della mattina precedente, mi attraversa di nuovo la schiena.

Lascio andare Giorgio e vado in bagno. Dallo specchio sopra il lavandino, una donna stanca, vecchia e sfiancata dal dolore, mi restituisce lo sguardo.

Cerco di darmi una pettinata, sistemo il trucco, mi cambio ed esco.

Stefano continua a dormire e non si accorge di me. Anche Gabriele si è addormentato, sul torace di suo padre, con la televisione ancora accesa.

Non la spengo, non ho tempo. Devo uscire.

Raggiungo in macchina il lago, ma, ovviamente, non busso al cancello della villetta. Non posso farlo, mi sono già spinta troppo oltre.

Mi stringo nel cappottino e raggiungo la riva. C’è una panchina vecchia e logora, quella sulla quale, ai miei tempi, i ragazzini andavano a sbaciucchiarsi. Quasi tutte le ragazze della mia generazione hanno dato lì il primo bacio, compresa io. E’ stato con Stefano, a quindici anni. Fu molto dolce, delicato. Fu bellissimo e, a quel pensiero, non posso fare altro che sentirmi in colpa.

Cosa ci faccio qui? Cosa mi aspettavo di trovare? Devo tornare a casa dalla mia famiglia, o almeno da ciò che ne resta. Aurora se n’è andata e mi manca. Non riesco a non pensare a lei, lontana, sola, senza la sua mamma.

Lancio un’ultima occhiata malinconica all’acqua immobile del lago, poi mi volto per raggiungere la mia auto e ritornare a casa mia, al calore del mio focolare.

-Salve-   

Qualcuno mi ferma. Io sobbalzo, poi alzo lo sguardo. E lui, il notaio.

Sorrido nervosamente.

Ha in mano il sacchetto dell’immondizia. Contiene perlopiù giornali e riviste ed io mantengo lo sguardo fisso su di esso per evitare quello di Francesco.

Lui sorride. Non lo vedo, ma lo sento. Lo percepisco. Il suo sorriso mi riscalda il petto.

-Va tutto bene?-    mi chiede notando il mio atteggiamento un po’ strano.

-Facevo una passeggiata-    rispondo passando a guardarmi i piedi.

-Oh-    esclama lui e il suo tono sembra quasi deluso   -Pensavo ci fossero problemi con l’affitto-

Credeva fossi lì per lui e, anche se non lo sa e io non lo do a vedere, è proprio così che stanno le cose.

-Nessun problema-    rispondo e, finalmente, alzo lo sguardo su di lui.

Un fremito mi sconvolge ed io mi stringo ancora di più nella mia giacca.

Non è bello, non lo è in maniera chiara e decisa. Non è un sex symbol, ma ha qualcosa che mi attrae. I suoi occhi mi penetrano l’anima, il suo sorriso mi contagia. Non posso fare a meno di rivolgergli il mio, quello che ho messo sotto chiave da quando Aurora ha deciso di partire.

-E’ un sorriso quello?-   mi chiede, chinandosi leggermente per vedere meglio.

Io mi giro di lato, come per nascondermi.

Mi sento una ragazzina, la stessa quindicenne che, su una panchina un po’ più in là, ha dato il primo bacio al suo primo ragazzo.

Non rispondo e non riesco più a guardarlo. Sento le viscere contorcersi, il cuore accelerare i battiti.

-Ho tirato fuori il mio lussuoso servizio da the, sai?-    dice all’improvviso   -Posso offrirtene una tazza come si deve ora-

Sollevo lo sguardo e con un cenno del capo gli faccio intendere che accetto il suo invito.

Ci incamminiamo verso la villetta, in silenzio. Improvvisamente quel senso di colpa e di angoscia è svanito. Sto bene, mi sento bene. Non soffro neanche più tanto per il distacco da mia figlia.

Francesco sembra proprio essere la mia medicina.


 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***




VII

 
Mi guarda. Sembra rapito dai miei occhi, perso nei suoi pensieri.

Abbiamo parlato molto, abbiamo sorseggiato del the. Ci siamo conosciuti, esplorati.

Mi ha raccontato di suo padre. Deve ammirarlo molto.

Era un ambasciatore e il suo lavoro ha portato Francesco e tutta la sua famiglia in giro per l’Europa. Conosce molte lingue. Ha visto il mondo, quello che a me fa tanto paura, ma che, allo stesso tempo, mi incuriosisce e mi attrae come qualcosa di proibito.

-Ma il mio paese preferito resta l’Italia-    conclude dopo diversi istanti di silenzio.

-Sul serio?-    chiedo io, chinandomi in avanti per appoggiare la tazza sul tavolino.

E’ la stessa della mattina precedente, quella alta e stretta, di ceramica verde con il manico scheggiato. Non ha tirato fuori il suo servizio da the, dubito ne abbia uno. La sua era solo una scusa per convincermi ad entrare, a passare altro tempo insieme a lui ed io non posso fare a meno di sentirmi lusingata, ma anche stranamente a disagio.

Mi chiedo chi sia quest’uomo e cosa voglia da me. Sono sempre stata una donna molto insicura di me stessa. Forse è anche per questo che ho rinunciato alla laurea, la gravidanza era solo un pretesto. Non mi sento all’altezza di molte situazioni, non mi sento a posto nel mondo, a mio agio con le altre persone. Non sono una gran chiacchierona, non so cosa dire la metà del tempo. Mi sono sempre nascosta dietro Stefano, dietro la sua importante professione, il suo atteggiamento gentile, la sua eleganza, il suo controllo. Mi sono sempre annullata, seppellita, isolata, soprattutto in presenza di estranei.

Con Francesco, invece, è diverso. Non mi vergogno di ciò che dico, di quello che sono. Anche se non so come comportarmi, nonostante l’imbarazzo, mi sento a casa, a posto. Mi sento me stessa ed è proprio questo il problema: non dovrei. Non dovrebbe essere così. Ho una casa, una famiglia ed è soltanto con loro che dovrei sentirmi così bene, perfettamente a mio agio.

Mi muovo sul divano, irrequieta, poi la sua voce mi distoglie di miei pensieri.

-L’Italia avrà tanti difetti-    dice lui riprendendo il discorso sui suoi viaggi e spostamenti      -ma è casa mia. Sento di appartenere a questo paese anche se gran parte della mia infanzia l’ho vissuta altrove-

Alzo lo sguardo e sorrido. Ha una strana luce negli occhi, quella che ti provocano i ricordi, quelli dolorosi e spiacevoli, quelli profondi.

-I tuoi fratelli sono rimasti all’estero?-    chiedo.

-Sì-     risponde con un filo di malinconia nella voce    -Si sono sposati, hanno messo su famiglia-

-Tu sei single?-    domando d’istinto e, soltanto dopo, mi rendo conto di quanto possa suonare inopportuna e sconveniente la mia domanda. Mi copro la bocca con una mano, in segno di pentimento.

Lui scuote la testa e sorride, come per rassicurarmi.

-Sono single-    conferma dopo un po’.

Io lo guardo e non riesco a smettere di farlo. Il mio cuore accelera i battiti. Vorrei avvicinarmi per sentire il suo odore, accarezzare i suoi capelli, assaggiare la sua pelle.

Mi trattengo, ma non posso fare a meno di chiedermi cosa prova lui, se è attratto da me nello stesso modo, se mi ha invitata a casa sua solo perché sono simpatica o c’è dell’altro. In effetti non mi sento per niente simpatica.

All’improvviso mi sento stupida. Non dovrei essere qui, seduta a pochi centimetri da lui, con gli occhi persi nei suoi.

Non gli piaccio, non posso piacergli. Non ho nulla che potrebbe attrarre uno come lui, inutile illudersi.

Mi ha trovata fuori da casa sua, immersa nella nebbia come un fantasma, persa nel vuoto. Mi avrà presa per una vecchia rimbambita, una che non sa quello che fa, che ha bisogno di aiuto. Mi ha invitata per cortesia, perché è gentile, dolce.

Mi alzo di scatto dal suo divano, dal nostro divano, quello mio e di mia sorella, quello che ci ha viste crescere e giocare, diventare adulte e madri.

Lui mi guarda confuso.

-Qualcosa non va?-      mi chiede, alzandosi a sua volta.

Io scuoto la testa e recupero la mia giacca.

-Devo andare-    balbetto dirigendomi verso la porta.

Non riesco più a guardarlo. So solo che mi sto illudendo.

Devo proprio andare.

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