L'eredità del poeta

di KillerKing
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ravenna, venerdì 19 maggio 1944, ore 23:30.
 
Immerso nell’oscurità davanti alla porta della tomba di Dante Alighieri nei pressi della Basilica di San Francesco, Frate Antonino Galvati aspettava guardandosi nervosamente intorno e torcendosi senza sosta le mani in grembo.
Mentre l’impazienza correva di pari passo con l’angoscia, con uno scatto girò su sé stesso e si diresse verso la parte destra del piccolo mausoleo, dove aveva lasciato due vanghe ed una piccola torcia elettrica. Raccolse quest’ultima e l’accese rapidamente, giusto per quei pochi secondi necessari a spostare la manica del suo logoro saio e controllare l’ora. Deglutendo, si avvide che Marcello aveva già trenta minuti di ritardo. Eppure gli aveva raccomandato, anzi, lo aveva letteralmente pregato di essere puntuale.
Per le strade non c’era nessuno ed il silenzio quasi irreale che lo circondava non faceva altro che aumentare la sua paura. Ravenna pullulava in egual misura di soldati tedeschi e partigiani, e starsene all’aperto in piena notte era quanto di più pericoloso si potesse fare, persino per un frate come lui. I nazisti non si facevano troppi problemi a rastrellare chiunque apparisse in qualche modo sospetto, indipendentemente da chi fosse. Ed un saio francescano non sarebbe di certo bastato a tutelarlo. Se fosse finito in mano a quegli uomini, nessuno avrebbe potuto dire quale destino gli sarebbe toccato.
Eppure, nonostante la paura, era più che certo di stare per fare la cosa giusta. A quanto aveva sentito, il Führer di Germania amava circondarsi di opere d’arte e di reliquie, sia cristiane che delle antiche religioni pagane, e le sue SS non esitavano a saccheggiare chiese e musei pur di compiacere il loro leader. Cosa impediva di pensare, quindi, che nelle mire degli ex alleati non sarebbero finite anche le spoglie terrene del Sommo Vate della poesia italiana?
Non poteva permettere un simile furto, che aveva quasi un che di sacrilego. Nei secoli passati i suoi confratelli avevano sempre protetto le ossa di Dante da chiunque le volesse strappare al Convento di San Francesco, e lui non sarebbe stato da meno. Le avrebbe tolte dal mausoleo e le avrebbe nascoste, di modo da impedire a chiunque di impossessarsene.
Ma si era tenuto per sé il suo intento, non parlandone neppure col priore: se nessuno avesse saputo, nessuno avrebbe potuto parlare.
Purtroppo però, lui non era mai stato un tipo particolarmente coraggioso e così, dal giorno in cui aveva preso quella decisione, una sottile inquietudine venata di timore aveva cominciato a strisciargli dentro, spingendolo sempre a rimandare il momento dell’azione.
Inquietudine che non era sfuggita all’occhio attento di Marcello Sarti, un suo buon amico.
Ormai entrambi trentenni, lui e Marcello si conoscevano dai tempi delle scuole elementari, ed erano cresciuti insieme. I loro rapporti si erano un poco diradati col passare degli anni, anche a causa dei suoi doveri all’interno del convento, ma la relazione di stima reciproca che li aveva uniti non era mai venuta meno. Anche se, negli ultimi anni, attorno a Marcello si era creato una sorta di alone misterioso, rafforzato spesso da lunghi periodi di assenza da Ravenna. Ma l’amico non aveva mai sentito il bisogno di dargli delucidazioni in merito, e lui si era astenuto dall’indagare. Se il Sarti era un partigiano, lui preferiva non saperlo.
Il casuale incontro che avevano avuto quella mattina gli era sembrato un segno del cielo. Si erano incrociati per strada nei pressi della basilica ed avevano cominciato a chiacchierare degli argomenti più disparati, dalla loro vita privata all’andamento della guerra, la quale sembrava ormai volgere al peggio per i tedeschi su più fronti. Ma Marcello aveva notato quasi da subito il suo tono distratto e le sue risposte vaghe, e glie ne aveva domandato il motivo. E lui, dopo qualche bugia farfugliata in modo incerto, aveva deciso di liberarsi di quel peso e rivelare all’altro il suo progetto.
Con suo grande sollievo, il vecchio amico aveva approvato senza riserve l’idea e addirittura si era offerto di aiutarlo, dandogli appuntamento per quella notte stessa, di fronte al sepolcro del poeta.
Ma allora perché stava tardando tanto? Ci aveva ripensato? O forse gli era successo qualcosa?
Antonino sentì la paura stringergli il cuore con rinnovato vigore, con una morsa così gelida da mozzargli quasi il fiato. Stava per raccogliere le due vanghe per tornarsene al convento, quando sentì un rumore di passi strascicati poco distante da lui.
Restò immobile, indeciso se rimanersene nascosto dietro il muro del mausoleo o aggirarlo per sgattaiolare fra le tenebre fino al porto sicuro della sua stanza nella badia. Forse era Marcello, ma se fosse stato qualcun altro?
- An… Antonino! Sei qui…? -
La voce sorta improvvisa dal buio era debole e affannata, ma innegabilmente era quella del suo amico.
- Marcello! – esclamò il frate riavendosi un poco e riaccendendo la torcia elettrica –  Ma dove eri finito? Perché ci hai messo tanto? -
Ma qualsiasi velleità di rimprovero da parte del religioso svanì come neve al sole nel momento in cui il fascio di luce inquadrò il nuovo arrivato: Marcello claudicava vistosamente, era sporco, lacero, ed i suoi vestiti erano disseminati di macchie scure, le più grandi delle quali rendevano umida la stoffa degli abiti all’altezza della spalla e della coscia sinistre. Con la mano destra, tenendolo alzato quel tanto che poteva da terra, l’uomo portava un sacco di iuta con dentro qualcosa che doveva sicuramente essere pesante.
- Oh Signore misericordioso! – quasi gridò Antonino facendosi avanti per prendere l’amico e sorreggerlo – Ma che ti è successo? Chi ti ha ridotto così? -
L’altro si avvicinò con passo malfermo. Il suo viso era pallido come un cencio.
- Lascia stare, Antonino. – disse con voce provata – Noi due abbiamo un compito da svolgere. -
- Ma cosa stai dicendo?!? Tu sei ferito, devi andare in ospedale! -
Marcello lasciò cadere il sacco, che finendo a terra produsse un sordo rumore metallico, e, avvicinandosi ulteriormente, prese il frate per le spalle.
- Non abbiamo tempo per questo! Potremmo non averne abbastanza nemmeno per quello che dobbiamo fare! Apri le porte del mausoleo, sbrigati! -
Antonino non aveva mai visto una simile espressione sul volto dell’amico. I suoi tratti, seppur deformati dal dolore, tradivano una disperata determinazione e una risoluzione che sembrava non poter accettare obiezioni.
Senza accampare altre recriminazioni, il francescano assentì col capo e si voltò estraendo da una tasca del saio un piccolo mazzo di chiavi. Raggiunta la porta della tomba di Dante ne infilò una nella serratura e l’aprì. Marcello, ripreso il sacco, entrò insieme a lui.
Con la torcia elettrica il frate illuminò l’ambiente. L’interno del cenotafio si presentava come una stanza quadrata di più o meno quattro metri per quattro, le due pareti laterali erano bianche e prive di qualsiasi ornamento. Ma era su quella di fondo che stava il loro obiettivo: incorniciato da marmi rossi, un bassorilievo quattrocentesco mostrava l’Alighieri di profilo, in atteggiamento corrucciato e pensoso. Al di sotto di esso, a contatto con la parete, un sarcofago bianco a quadrilatero con inciso sul frontale un epitaffio scritto in latino.
Marcello non si attardò a provare a leggere. Ad accaparrarsi la sua attenzione fu subito la vista di sei robuste serrature metalliche che stringevano il sarcofago al suo coperchio. Due per ogni lato corto, e due sul davanti.
- Accidenti a te, frate! Non mi avevi detto che la tomba è sigillata! -
- Il mausoleo così come lo vedi non è coevo alla morte di Dante, fu eretto nel settecento. – rispose Antonino - Fu commissionato da un cardinale chiamato Gonzaga, che stabilì che il sarcofago venisse serrato per impedire il furto delle spoglie del poeta, che da sempre sono state nelle mire di molti, in primis in quelle degli abitanti di Firenze. Fino ad ora la minaccia di scomunica è stata un deterrente valido per chiunque volesse violare queste protezioni, ma non servirebbe a fermare i martelli e gli scalpelli nazisti. Per questo ho deciso di spostare le ossa e di non farne parola con nessuno eccetto te. -
- Sei in possesso delle chiavi per aprire le serrature, spero. -
- Una sola chiave le apre tutte, e di norma è uno di noi frati del convento ad averla. Su quale frate sia viene mantenuto il segreto al di fuori del chiostro. Ma la fortuna ha voluto che l’attuale custode sia io, anche se tale titolo, in teoria, non mi darebbe il diritto di agire di testa mia. -
Così dicendo, Antonino si mise di nuovo la mano in tasca e ne tirò fuori una grossa chiave di ferro massiccio, evidentemente molto antica.
- Eccola qui. E’ questa. -
Con gesti quasi cerimoniosi, il frate sbloccò le serrature una dopo l’altra. Ogni chiavistello si aprì senza fatica, segno inequivocabile che erano stati tenuti costantemente oliati nel corso degli anni.
- Bene. – disse infine – Ora dobbiamo spostare il coperchio quel tanto che basta per asportare le ossa. Ti senti in grado di farlo nelle tue condizioni? -
Alla luce innaturale della torcia, il volto biancastro dell’amico appariva quasi spettrale. Ma ancora una volta l’uomo si mostrò più che deciso a procedere.
- Ce la faccio, non preoccuparti. -
Digrignando i denti per il dolore, Marcello si tolse lentamente la giacca. Quando ebbe finito di sfilarsela, Antonino trasalì: se la stoffa della giubba era bagnata, quella della camicia sottostante era letteralmente zuppa di sangue. Ma a turbarlo ancora di più fu la vista del calcio di una pistola che spuntava da una fondina ascellare sotto il braccio ferito ed un curioso e al contempo sinistro bracciale di cuoio sull’avambraccio destro, che partiva dal polso e arrivava quasi al gomito. Collegato ad esso, nella parte rivolta al busto, vi era una sorta di lama a serramanico spezzata.
L’apparizione di quelle armi fu come una secchiata di benzina gettata sul fuoco della paura che già divampava nel frate, ancor più che vedere le ferite stesse. La loro presenza era la prova definitiva che Marcello non era la persona che aveva sempre creduto. Doveva essere davvero un partigiano, o qualcosa del genere.
Antonino avrebbe voluto dire qualcosa, ma ormai si sentiva come se avesse davanti uno sconosciuto. Uno sconosciuto ferito e pericoloso. Così scelse di tacere ed afferrò uno dei lati del coperchio. Marcello prese l’altro e cominciarono a spingere la pesante copertura in avanti.
Riuscirono a spostarla, ma per il ferito fu uno sforzo eccessivo: gemendo e afferrandosi la spalla, Marcello barcollò fino alla parete laterale e scivolò spossato contro di essa.
Antonino continuò a non parlare, immaginando che, sebbene l’amico sanguinasse copiosamente, tornare ad insistere per andare in ospedale sarebbe stato fiato sprecato. Così allungò le braccia dentro il sarcofago e ne estrasse due urne di terracotta, anch’esse molto antiche.
- Le ossa sono lì dentro? – chiese il Sarti con voce rantolante.
- Sì. Vi sono state messe nel diciassettesimo secolo. Molte sono spezzate, questi resti hanno dovuto affrontare diverse traversie. -
- D’accordo, va bene anche così. Antonino, prendi il sacco che ho portato con me. Dentro c’è un contenitore che per fortuna è abbastanza grande da metterci dentro entrambe quelle urne. -
Il frate obbedì e dal sacco estrasse un bauletto di legno rinforzato in ferro, tenuto chiuso da un gancetto e con due maniglie sui lati corti per trasportarlo.
La vista di quell’oggetto e la richiesta di porvi dentro le urne creò nella mente di Antonino una nuova serie di domande, ma ebbe anche l’effetto di restituirgli un minimo di sdegnato coraggio.
- Dovrei nascondere le ossa qui? E perché? Marcello sono stanco di tutti questi misteri, tu mi devi una spiegazione! Che cosa sta succedendo? Ti offri di aiutarmi e poi ti presenti qui grondante sangue, e quelle hanno tutta l’aria di essere ferite da arma da fuoco! Mi chiedi di fare delle cose e nemmeno me ne spieghi i motivi! Chi sei veramente, Marcello? Devi dirmelo! -
L’altro non abbassò lo sguardo a quelle invettive. Lo tenne fisso in quello del religioso e rispose, nonostante facesse sempre più fatica a parlare.
- Hai tutto il diritto di inalberarti, Antonino. Ma credimi quando ti dico che qualsiasi cosa ti rivelassi non farebbe altro che metterti in pericolo. Ed io questo non lo voglio. Ti prego di prestarmi fede, nascondere quelle ossa è importante tanto per me quanto lo è per te. Ma devono stare dentro il bauletto che hai fra le mani, è fondamentale!
Quando la guerra finirà ed il pericolo sarà passato io tornerò a riprendermi quel contenitore e tu potrai rimettere quelle ossa al loro posto. Ma ora, ti prego, fai come dico io. E nel caso dovesse succedermi qualcosa di peggio di quanto mi sia già accaduto stanotte… Se dovessi morire… -
- Non dirlo neanche per scherzo! -
- Stammi a sentire, Antonino! Se non dovessi mai tornare a reclamare quel bauletto… A guerra finita rimetti anche quello nel sarcofago, chiudi le serrature  e, in nome della nostra amicizia, non parlarne mai con nessuno! E dovrai imporre anche a chi un giorno prenderà il tuo posto di non parlarne! Hai capito bene? -
- Io… -
- Hai capito bene, Antonino?!? -
Sui due scese una cappa di pesante silenzio, reso ancora più gravoso da tutte le parole che il frate avrebbe ancora voluto dire, ma che non aveva il cuore di pronunciare. E, dopo qualche lunghissimo secondo, fu proprio lui ad abbassare lo sguardo e a cedere.
- Va bene, Marcello. Iddio mi salvi, farò quanto mi chiedi. -
Senza frapporre ulteriori indugi Antonino posò il bauletto sul pavimento e lo aprì. Sul fondo e sui lati era rivestito da un’imbottitura foderata di velluto rosso, probabilmente messa ad ulteriore protezione di ciò che vi si metteva dentro. Poi prese le urne e le posò delicatamente all’interno del contenitore, una di fianco all’altra. Quindi afferrò il coperchio per chiuderlo. Ma, mentre lo abbassava facendolo scendere sui cardini, si accorse che c’era un piccolo simbolo intagliato nella parte concava, priva di fodera. Era un segno strano, che non aveva mai visto prima: una sorta di triangolo lavorato e privo di base, quasi un compasso dischiuso. Sotto di esso, una specie di mezza luna rivolta verso il lato aperto.
Il bauletto sembrava fatto a mano, quindi era improbabile che quel simbolo fosse un marchio di fabbrica. Per un attimo pensò di chiedere delucidazioni a Marcello ma lasciò subito stare, prefigurandosi che difficilmente ne avrebbe avute.
- Fatto. – disse alla fine il francescano afferrando il contenitore per le maniglie e issandoselo contro il petto  – Possiamo procedere. -
Puntellandosi sul braccio sano, Marcello si rialzò in piedi e fece per aiutare Antonino a trasportare il fardello, ma questi rifiutò, asserendo che ce la faceva da solo.
Uscirono così entrambi al di fuori del mausoleo. Il Sarti sembrava stare sempre peggio, ma il frate era già andato oltre la pietà del buon cristiano: anche lui era ormai intenzionato solo a concludere l’operazione, ed il prima possibile.
- Dove nasconderemo le ossa? – chiese quindi – Avevi detto di aver pensato ad un posto sicuro. -
- Esattamente. – rispose il Sarti puntando il fascio di luce della torcia elettrica – Le seppelliremo lì sotto. -
Antonino guardò nella direzione indicata e rimase di stucco: l’amico aveva illuminato una grossa e lunga serie di siepi che delimitavano un prato, a nemmeno dieci metri dalla tomba.
- Lì?!? – esclamò esterrefatto ed irritato – Tutta questa fatica per poi nascondere i resti di Dante praticamente nello stesso posto?!? -
- Rifletti, Antonino… - gli rispose Marcello emettendo un gran sospiro – Se qualcuno violasse davvero la tomba e la trovasse vuota, è molto probabile che immaginerebbe che le spoglie siano state portate in un luogo lontano, non andrebbe certo a pensare che invece siano ancora qui. E tieni conto di altre due cose. -
- Quali? -
- In primo luogo, se seppelliamo le ossa dove ho detto, potrai costantemente tenerle d’occhio. In secondo, anche se volessimo non credo di avere abbastanza forze ormai per portarle chissà dove. Hai accettato di fidarti fino ad ora. Ti chiedo di continuare a farlo. -
Berciando a mezza voce improperi indegni di un uomo della sua schiatta, Antonino si voltò muovendosi a grandi passi rassegnati verso le siepi. Sebbene fosse fortemente contrariato, aveva comunque riconosciuto che i ragionamenti dell’amico non erano privi di senso.
Marcello intanto, zoppicando, aveva recuperato le vanghe.
I due cominciarono a scavare sotto la siepe, tenendo la torcia spenta. Quella sarebbe stata la parte più lunga e faticosa da svolgere, e le condizioni del Sarti non avrebbero fatto altro che allungarla ulteriormente. Andarono avanti senza parlare e, a furia di compiere ripetutamente gli stessi movimenti, perdendo ben presto la cognizione del tempo. Marcello fu costretto a fermarsi in più di un’occasione, e addirittura una volta la gamba ferita gli cedette. Ma non accennò mai a tirarsi indietro. Continuò a rimuovere la terra imperterrito, fino a che, accendendo un attimo la torcia, si avvide che la fossa scavata era ormai profonda circa un paio di metri.
- Così può bastare. – disse, debole a tal punto da stupirsi lui per primo di essere ancora in grado di parlare – Caliamo il bauletto e ricopriamo tutto. -
Svolsero insieme anche quell’ultima operazione, fortunatamente in meno tempo, spandendo alla fine la terra per far sì che sembrasse che non fosse mai stata smossa.
- Si sono fatte le due del mattino. – disse infine Antonino, anche lui ormai sudato e col fiato corto – Ora cosa si fa? -
- Ora tu te ne torni al tuo convento e ti dimentichi di tutto questo. Mi rifarò vivo appena potrò. Mi raccomando Antonino: nessuno deve sapere. -
- Dove andrai, Marcello? – chiese il frate abbassando le spalle, come se si fosse ricordato all’improvviso che l’uomo ferito che aveva dinanzi era pur sempre un suo vecchio amico – Ora che abbiamo finito ci possiamo andare in ospedale. -
- No. Non è sicuro. C’è il coprifuoco, l’hai dimenticato? E se mi presento con ferite da proiettile i medici chiameranno i carabinieri. E con loro potrebbero arrivare i nazisti. Vai a dormire, Antonino. A me penserò io. -
L’espressione risoluta del Sarti spazzò via le ultime resistenze dell’altro.
- Va bene. – rispose chinando il capo – Rientrerò un momento nel mausoleo per pulire il sangue che hai lasciato in giro e poi tornerò in convento. -
Con gesto improvviso, Marcello si fece avanti ed abbracciò l’amico, lo abbracciò forte tanto quanto le sue ferite glie lo permettevano. Antonino esitò un momento, poi ricambiò.
Quando si staccarono, il francescano aveva gli occhi lucidi.
- Stai attento, Marcello. Chiunque tu sia in realtà. -
- Abbi cura di te, Antonino. A presto. -
Il Sarti si allontanò claudicando e, in pochi minuti, sparì nella strada buia. Antonino rimase a guardarlo fino a che le tenebre non lo inghiottirono completamente.
In cuor suo sperò con tutto sé stesso che, nonostante tutto, il loro saluto fosse stato solo un arrivederci.
 
All'incirca un'ora dopo essersi accomiatato da Antonino, Marcello era riuscito ad allontanarsi dalla tomba di Dante Alighieri di poco più di un chilometro, aggirandosi per strade deserte che davano a Ravenna le sinistre sembianze di una città fantasma. In realtà, date le sue condizioni, lui per primo era stupito di essere ancora in piedi. Probabilmente, pensò fra sé, era la forza della disperazione a permettergli di andare ancora avanti.
Perché “disperazione” era l'unico nome che si poteva dare al sentimento che gli annodava le viscere in quel momento.
Doveva assolutamente trovare un luogo sicuro dove potersi applicare almeno una medicazione di fortuna, e poi cercare un modo per andarsene e raggiungere i confratelli di Venezia, che fra i gruppi meglio organizzati erano i più vicini.
Ma passare per casa sua sarebbe stato eccessivamente rischioso, così come provare a tornare al palazzetto che fungeva da covo per l'Ordine degli Assassini. Ammesso che i Templari non lo avessero completamente raso al suolo.
Con la mente Marcello tornò agli avvenimenti che si erano succeduti nelle ultime ventiquattro ore. La sua offerta di aiutare Antonino a nascondere i resti dell'Alighieri era stata sincera. Dante era stato uno dei personaggi di spicco fra gli Assassini italiani a cavallo fra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo, ed addirittura era divenuto Mentore della cellula di Ravenna, dopo il suo esilio da Firenze. Proteggere le sue spoglie dalle mani dei nazisti gli era sembrato un atto di rispetto dovuto.
Ma quella stessa sera il covo dell'Ordine aveva ricevuto una attacco a sorpresa da parte dei Templari, coadiuvati dalle SS. Gli erano piombati addosso senza nessun preavviso, armati fino ai denti.
Era stata una strage.
Lui ed i suoi confratelli e consorelle avevano opposto una strenua resistenza, ma in breve tempo erano stati completamente soverchiati. Il fatto che l'attacco fosse giunto totalmente inaspettato poteva voler dire soltanto che, mentre veniva pianificato, tutte le loro spie che si aggiravano per Ravenna erano state identificate e neutralizzate.
Quando l'inevitabilità della sconfitta era stata chiara, aveva deciso di cercare di portare in salvo la reliquia che da secoli era in loro custodia, perché era stato sicuramente quello l'obiettivo della retata.
Con la morte nel cuore per la sorte a cui abbandonava i suoi compagni, aveva preso il bauletto, era riuscito a farsi largo fra i nemici e a raggiungere infine una falsa intercapedine che nascondeva una via di fuga segreta, la quale lo aveva condotto all'esterno. Purtroppo nel farlo si era preso due pallottole.
A quel punto raggiungere Antonino era divenuto di vitale importanza, anche se la sicurezza delle ossa di Dante era passata decisamente in secondo piano rispetto a quella della reliquia.
Gli dispiaceva di aver dovuto ingannare il suo amico facendogli credere che era lì solo per le ossa, ma non aveva avuto scelta. Dirgli la verità, fargli sapere che forse i nazisti erano sulle sue tracce, avrebbe potuto spaventarlo troppo per portare l'opera a termine.
Ora c'era solo da sperare che nessuno lo avesse visto lasciare il covo. Se non erano apparsi soldati in quel lasso di tempo, forse davvero non si erano accorti della sua fuga.
Certo, era un piano con troppi “forse”, “se” e “ma”. Purtroppo però il precipitare della situazione non gli aveva permesso di escogitarne uno migliore. Adesso doveva preoccuparsi solo di trovare il modo per curarsi, perché la vista gli si stava cominciando ad annebbiare per il troppo sangue perso. Non poteva permettersi di morire, o il segreto di dove la reliquia era stata nascosta sarebbe scomparso con lui. Improvvisamente gli sovvenne che in Piazza del Popolo viveva un medico legato all'Ordine: se fosse riuscito a raggiungerlo forse si sarebbe salvato ed avrebbe trovato un modo per lasciare la città.
- TU! FERMA! -
Quell'ordine perentorio, gridato qualche metro alle sue spalle, lo inchiodò. Marcello non si girò, rimase immobile e voltò solo la testa quel tanto che bastava per guardare.
Erano in tre, con le divise grigie, gli elmetti e i mitra spianati. Nazisti. Forse del gruppo che aveva attaccato il covo, forse no. Forse non erano nemmeno seguaci dei Templari. Ma aveva poca importanza. Essersi fatto sorprendere durante il coprifuoco era motivo più che sufficiente per arrestarlo. E anche se quei tre non avessero fatto parte dei nemici storici dell'Ordine, alla notizia della cattura di un italiano armato e ferito i Templari sarebbero arrivati presto.
Il Sarti maledì sé stesso e il destino. Talmente perso nei suoi progetti di fuga, e forse complici i suoi sensi sopiti dalla debolezza, aveva abbassato la guardia e non si era accorto dell'avvicinarsi della pattuglia.
Era finita.
- FERMA! - ripeté uno dei militari – ALZA TUE MANI! -
Marcello si concesse un sorriso. Quel modo strano che avevano i tedeschi di parlare l'italiano lo aveva sempre fatto ridere.
Si voltò di scatto estraendo la pistola e la puntò contro i soldati.
Una raffica di mitra gli falciò l'addome prima che potesse premere il grilletto.
Mentre si accasciava sul selciato della strada, il suo ultimo pensiero coerente fu il rimpianto per aver fallito proprio quando era vicino a riuscire, attenuato solo dalla speranza che la reliquia rimanesse nascosta per gli anni a venire.
Meglio perduta che in mano ai Templari.
Poi tutto si dissolse nel nero.
 
 
Nota dell’Autore: Ben ritrovato/a a chi mi conosce già e benvenuto/a a qualche eventuale nuova conoscenza! E grazie per essere arrivati a leggere fino a qui! Spero che questa storia (che si concluderà col prossimo capitolo) abbia riscosso la vostra approvazione!
Qualche doverosa precisazione: pur essendo stato un paio di volte a Ravenna, non ho mai avuto modo di visitare la tomba di Dante Alighieri e la vicina Basilica di San Francesco. Tutte le informazioni sul mausoleo presenti nel testo sono prese da Wikipedia (vi allego il link alla fine), e chiedo scusa in anticipo per eventuali inesattezze. Naturalmente alcune sono volute, ad esempio le serrature sul sarcofago sono una mia invenzione! ^____^
Ho leggermente rimaneggiato anche altre cosette (se lo fa la Ubisoft, posso farlo anche io!) ma per qualsiasi dubbio o domanda, non esitate a chiedere!
Chiudo con un ringraziamento ad un fraterno amico (noto sul sito come Templaretto) che mi ha supportato nella stesura della trama. Grazie scassacabdziu! (Lui capirà)
Ciao a tutti, ancora grazie, e alla prossima!

 

http://it.wikipedia.org/wiki/Tomba_di_Dante
 
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ravenna, sabato 24 giugno 2006, ore 02:00 del mattino.
 
Fabiana Torrisi accostò la Smart in un parcheggio a circa trecento metri dalla Basilica di San Francesco e spense il motore. L'acquazzone che per tutto il giorno aveva flagellato la città sembrava non voler diminuire minimamente d'intensità, e la pioggia picchiava sul parabrezza dell'auto quasi con la forza di una grandinata.
- Giulio, credo sia più prudente lasciare l'auto ad una certa distanza dalla tomba. - disse la donna all'uomo che sedeva sul sedile del passeggero alla sua destra – Con questo tempaccio non credo che ci sia nessuno in giro, ma non si sa mai. -
- Mi sembra sensato. - le rispose l'altro sorridendo – La prudenza non è mai troppa! Vuoi aspettare che spiova prima di muoverci? -
Fabiana rispose a sua volta con un sorriso.
- Credo sarebbe inutile, sono quasi ventiquattr'ore che va avanti così. Ci copriamo con l'ombrello e andiamo, la strada non è molta. -
- Sicura? Non vorrei che ti prendessi un malanno proprio alla vigilia di giorni così importanti per te. -
- Sicura. - rispose ancora la donna con una vena di eccitazione nella voce – Anzi, visto che ancora non so come hai fatto a convincermi a fare questa pazzia, diamoci una mossa prima che cambi idea! -
Il sorriso si spense sul viso di Giulio, che si fece improvvisamente serio.
- Fabiana, se vuoi rinunciare siamo ancora in tempo. Forse sarebbe meglio rimettere in moto la macchina e tornarcene a casa tua. - il sorriso riapparve, ma velato da una leggera mestizia – Sono certo che troveremmo modi più che piacevoli per trascorrere il resto della notte. -
- Beh? Proprio ora ci stai ripensando? - replicò lei inasprendo la voce – Per due settimane mi hai dato il tormento fino allo sfinimento per questa cosa ed ora ti fai prendere dalla paura? -
- Ma no! Non ci ho ripensato! - rispose ancora Giulio, sulla difensiva – Ma il rischio maggiore lo corri tu, ci potresti rimettere la carriera... E questo non me lo perdonerei mai... -
Tornando ad addolcire il viso, Fabiana si protese a posare un lieve bacio sulle labbra dell'uomo.
- Stai tranquillo, caro. Se faremo le cose per bene e velocemente non accadrà niente. E anche se ci dovesse vedere qualcuno, io sono pur sempre la responsabile delegata del progetto. Dirò che sono qui per un controllo e che tu sei un mio assistente. E comunque considera che, a conti fatti, non abbiamo cattive intenzioni. Questa è l'unica sera in cui posso esaudire il tuo desiderio e non ci voglio rinunciare. -
- Grazie, Fabiana. Mi concedi un privilegio inestimabile. -
E così dicendo, stavolta fu Giulio ad attrarre a sé la donna ed a scambiare con lei un bacio lungo, avido e appassionato.
- Comunque ora te lo posso dire... - riprese Fabiana quando si staccarono – Questa tuta sportiva che ti sei messo non ti dona. Ti stanno decisamente meglio gli abiti eleganti che indossi di solito. -
- Oh, chiedo scusa, non immaginavo che per fare il predatore di tombe la giacca e la cravatta fossero il dress code più indicato... -
- Ma quale dress code e quali predatori! - rise lei – E comunque sai qual è la cosa che ti sta meglio addosso? -
- No. Quale? -
- Io. -
- Dottoressa Torrisi lei vuol farmi arrossire! -
- Egregio Castellani, lei non è certo il tipo che si turba per queste cose. Andiamo, forza! -
I due scesero dall’auto e si strinsero l’uno all’altra per camminare sotto un solo ombrello. Mentre a passi svelti si avvicinavano alla Basilica, Fabiana non poté fare a meno di chiedere di nuovo a sé stessa con quale coraggio avesse accettato di fare ciò che Giulio le aveva chiesto.
Forse lo aveva fatto perché si era innamorata. E dopo tanto tempo. A trentacinque anni suonati, dopo una gioventù spesa (e forse, in un certo senso, sacrificata) a studiare, a crearsi una posizione professionale sicura, aveva forse trovato un uomo in grado di farle dare finalmente ascolto al cuore, invece che al cervello.
Laureata a pieni voti con una tesi sui poeti italiani dal medioevo al rinascimento (su Dante Alighieri in special modo, il suo preferito dai tempi del liceo), si era fatta strada con le unghie e con i denti attraverso quella giungla irta di insidie che era l’ambiente dell’Alma Mater Studiorum, l’Università di Bologna. E, alla fine, era divenuta prima assistente dell’illustre Professor Altieri, titolare della cattedra di Letteratura Italiana, e candidata numero uno a succedergli nel momento in cui sarebbe andato in pensione. Nel frattempo, i due saggi sull’Alighieri che aveva pubblicato nel 2002 e nel 2005 l’avevano incoronata come una delle “Dantiste” più apprezzate d’Italia, fra le menti della sua generazione.
Ma, naturalmente, tutto questo aveva avuto un prezzo: niente marito, e men che meno figli. La carriera lavorativa non le aveva lasciato spazio per altro. Certo, erano state tutte scelte sue, ma a volte si sentiva come se le mancasse qualcosa. Ben proporzionata, magra e con lunghi capelli mossi di un castano tendente al rosso, magari non avrebbe mai vinto Miss Italia ma era comunque una bella donna, e la sua vasta cultura la rendeva un’interlocutrice brillante, che aveva ammaliato negli anni più di un uomo. Ma ogni storia sentimentale seria che aveva intrecciato era alla fine miseramente naufragata, inghiottita dal gorgo spietato dei suoi impegni.
Poi, del tutto inaspettatamente, Giulio Castellani era apparso nella sua vita.
Si erano conosciuti tre mesi prima, a metà marzo, nell'aula consiliare del Municipio di Ravenna, subito dopo la conferenza stampa indetta dal Comune e dall'Alma Mater per annunciare ai cittadini e alla stampa un progetto di restauro della tomba di Dante. I lavori sarebbero partiti il ventisei giugno ed a lei, nata proprio a Ravenna e grande promotrice dell'iniziativa, era stata affidata la direzione delle operazioni non prettamente “edilizie” del progetto.
Alla vigilia della ristrutturazione, che orientativamente sarebbe durata circa quattro mesi, le due urne contenenti le ossa del poeta sarebbero state tolte dal sarcofago interno alla tomba in cui erano rinchiuse e portate a Roma, dove sarebbero state custodite nei magazzini dei Musei Vaticani per tutta la durata dei lavori.
Nemmeno nel caveau di una banca i resti avrebbero potuto essere più al sicuro, e l'opinione pubblica di Ravenna, da sempre gelosa delle spoglie dell'Alighieri, aveva reagito in modo entusiastico alla notizia.
Era stato durante il piccolo brunch offerto dopo la conferenza stampa che Giulio le si era avvicinato. Dopo essersi presentato, le aveva stretto la mano facendole i complimenti per i suoi due saggi, che aveva letto e trovato eccellenti. Le aveva detto poi di essere un grandissimo appassionato di Dante, che lo riteneva un autore tutt'ora mai eguagliato nel corso dei secoli, e che la notizia del restauro della sua tomba lo aveva riempito di gioia.
Inizialmente, però, lei lo aveva trattato con garbata sufficienza, giudicandolo frettolosamente come uno di quegli pseudo-intellettuali che si sentivano autorizzati a pontificare sul Sommo Poeta solo perché magari si erano letti qualche canto dell'Inferno della Divina Commedia (che anche lei, in ogni caso, giudicava comunque la parte più affascinante dell'opera). Ma a mano a mano che la conversazione procedeva si era dovuta ricredere: il suo cortese ammiratore si era rivelato un profondo conoscitore dell'Opera Omnia del poeta fiorentino. Dal “Convivio” al “De Vulgari Eloquentia”, dalla “Vita Nova” alle “Rime”, il Castellani le si era mostrato come un lettore appassionato ed un critico attento, seppur amatoriale.
Minuto dopo minuto, aveva cominciato a subire il fascino di quell'uomo: di circa quarant'anni decisamente ben portati, era alto, slanciato, vestito in modo elegante (ma con un pizzico di informalità che non lo rendeva snob) e in mezzo ai folti capelli neri portava senza apparente imbarazzo qualche striatura di grigio che dava un tocco di maturità ai suoi lineamenti ancora giovani.
Ad un certo punto, sorridendo interiormente, si era ritrovata a pensare che per l'adattamento cinematografico de “Il Codice Da Vinci”, che sarebbe stato distribuito di lì ad un paio di mesi, Giulio Castellani sarebbe stato assai più credibile di Tom Hanks, nel ruolo del fascinoso professore di Harvard Robert Langdon (anche se, in ambito accademico, non avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura di essere una fan di Dan Brown).
Quella iniziale chiacchierata si era inevitabilmente conclusa con la promessa di un aperitivo insieme il pomeriggio dopo.
E in quel secondo incontro, la scintilla scoccata durante il primo aveva acceso una fiammella che sarebbe presto divampata in un incendio.
Uno spritz dopo l'altro, avevano dapprima ricominciato a parlare di Dante, finendo poi ben presto alle loro vite personali. E così aveva scoperto che lui era sposato, ma incastrato in un matrimonio sterile ed infelice dal quale non poteva però fuggire, dato il suo ruolo di dirigente nell'azienda tessile di proprietà del suocero, a Ferrara.
Nell’apprendere quella notizia, Fabiana aveva pensato che la cosa più intelligente che avrebbe potuto fare sarebbe stata aspettare la conclusione di quell’aperitivo, salutarsi e poi non vedersi più. Andarsi ad invischiare in un rapporto con un uomo dal matrimonio blindato era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Eppure, ad ogni parola, ad ogni sguardo scambiato con lui, aveva sentito qualcosa agitarlesi dentro. Qualcosa che coinvolgeva in egual misura cervello, cuore, stomaco e basso ventre. Soprattutto il basso ventre.
Erano finiti a letto insieme quella stessa sera, a casa di lei.
E così era cominciata la loro relazione. Una relazione scandita da momenti rubati e a volte da lunghi incontri di un giorno o due, quando Giulio fingeva una trasferta lavorativa per venire a stare da lei. Una relazione che traeva la sua forza tanto dall'attrazione fisica e sessuale quanto da un'intesa mentale che Fabiana aveva battezzato come la loro “Affinità Elettiva”.
Giulio le aveva chiesto di rispettare un'unica condizione, e cioè, data la sua particolare situazione, di non parlare di lui ad anima viva, nemmeno ai familiari ed agli amici più intimi. E lei lo aveva accontentato senza nessun problema, soprattutto perché era la cosa migliore non solo per lui, ma anche per lei stessa.
Infatti, in occasione dei lavori di restauro della tomba, per la prima volta nella storia l'antica chiave che apriva le serrature del cenotafio di Dante sarebbe uscita dal convento annesso alla Basilica di San Francesco. Per tradizione quella chiave era sempre stata custodita gelosamente da uno dei francescani del chiostro e, per evitare che qualcuno se ne appropriasse indebitamente, si manteneva il riserbo su quale frate fosse. Ma i tempi in cui le ossa dell'Alighieri erano oggetto di contesa da più parti erano ormai passati, ed i religiosi avevano di buon grado concesso quell'eccezione (e la cospicua donazione del Comune al convento era stata un ottimo incentivo a tale disponibilità).
E la scelta per la persona che, a ridosso dell'inizio dei lavori, avrebbe preso in affidamento la chiave era ricaduta proprio su di lei, che avrebbe rappresentato con la sua persona sia la città che l'Università.
Quindi, essendo implicata anche un’istituzione cattolica, se si fosse venuto a sapere che la responsabile del progetto era coinvolta in una relazione con un uomo sposato, il danno d'immagine sarebbe stato terribile, forse fatale. E all'interno dell'Alma Mater c'era più di un collega invidioso che non aspettava altro che vederla trascinata in uno scandalo.
Era stato proprio quando aveva confidato a Giulio che le avrebbero affidato l’antica chiave, che lui le aveva fatto una richiesta a dir poco pazzesca: penetrare di nascosto nella tomba di Dante prima dell’inizio dei restauri e scoperchiare il sarcofago. Voleva poter vedere con i suoi occhi le vestigia del poeta che aveva ammirato al di sopra di ogni altro, prima che fossero portate a Roma.
In quel momento erano a letto abbracciati, dopo aver fatto l’amore. Ma al suono di quelle parole Fabiana si era alzata di scatto a sedere guardando il suo amante con un’espressione a dir poco basita. Per qualche secondo aveva pensato che Giulio stesse scherzando, ma si era dovuta ricredere presto. Faceva maledettamente sul serio.
Il suo rifiuto era stato subitaneo, netto e categorico. Fare una cosa del genere era assolutamente impensabile. Lui aveva distolto lo sguardo, deluso, e le aveva detto di aver capito.
Negli incontri successivi l’argomento non era stato più toccato, ma nonostante Giulio si sforzasse di essere quello di sempre, Fabiana lo aveva capito che ci era rimasto molto male. Quell’atteggiamento le faceva rabbia perché era sin troppo simile ad un capriccio infantile, ma ben presto era stata lei stessa a metterlo in condizione di tornare alla carica. Gli aveva infatti proposto di presenziare all’apertura ufficiale del sarcofago, insieme alle autorità cittadine. Lui l’aveva ringraziata, ma aveva declinato con garbo l’offerta. Quello che lui avrebbe voluto, parole sue, era un momento di “intimità e contemplazione” con i resti mortali di una delle menti più elevate della storia italiana, non una pomposa cerimonia infarcita di persone che di Dante Alighieri conoscevano poco più che il nome.
Ma, da quel momento, le sue richieste si erano fatte sempre più insistenti. D’improvviso, nei momenti più impensabili, riprendeva il discorso e intuiva, glie lo si leggeva negli occhi, che ogni rifiuto ricevuto diveniva sempre più debole. Come un pugile esperto alle prese con un novellino, l’aveva lavorata con abilità ai fianchi, mettendola all’angolo, facendola uscire, e riportandocela quando voleva. Il tutto farcito da attenzioni, carinerie e da una passione a letto sempre più travolgente.
Giocava con lei come il gatto col topo, lo aveva capito, ma quel mascalzone, chissà come, l’aveva alla fine convinta, solleticando quella parte di lei che subiva il fascino del proibito.
Ed ora erano arrivati davanti alla porta della tomba, stretti sotto quell’unico ombrello che la pioggia battente continuava a martellare.
Come previsto, pensò Fabiana guardandosi intorno, non c’era in giro nessuno. Quindici, venti minuti al massimo e tutto sarebbe finito. Era eccitata da morire anche lei, non poteva nasconderselo.
Continuando a ripetersi che in fondo non stavano facendo nulla di male, la donna aprì la borsetta e prese la chiave che apriva la porta. La schiusero quel tanto che bastava per passare ed entrarono nel mausoleo.
Dopo aver richiuso il battente, sempre dalla borsetta Fabiana prese una torcia elettrica ed illuminò il piccolo ambiente, puntando la luce verso il sarcofago bianco ed il bassorilievo del Dante pensoso che lo sovrastava.
- Ci eri già stato qui? - chiese la donna mentre portava il fascio luminoso verso l'epitaffio in latino del sarcofago.
- Due volte. Ma mai con l'emozione che sto provando adesso. - rispose Giulio, che poi riprese guardando l'antica scritta - "I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte visitando cantai finché volsero i miei destini mortali. Poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sto racchiuso, io, Dante, esule dalla patria terra, cui generò Firenze, madre di poco amore".
- Ottima traduzione, bravo. - si complimentò Fabiana - Mi sono sempre chiesta quale sia stato il più grande rimpianto di Dante, se il non avere Beatrice Portinari per sé o il non essere più potuto tornare a Firenze dopo l'esilio. -
- O magari qualcos'altro... - borbottò il suo compagno a mezza bocca.
- Come hai detto? Non ho capito. -
- Oh, nulla! Non ti preoccupare. -
Fabiana spostò di nuovo il fascio di luce, illuminando in progressione tutte le mura della tomba.
- Un restauro è davvero necessario. Vedi? Ci sono grosse macchie di muffa sul soffitto ed i marmi si stanno opacizzando, anche quelli del sarcofago. -
- Sì, hai ragione. Ma adesso prendi la chiave, dai! -
- Non stai più nella pelle, eh? – lo punzecchiò ammiccando la donna – Beh, in effetti nemmeno io! -
E così dicendo tornò a frugare nella sua borsa, estraendone subito dopo un astuccio simile a quelli utilizzati per conservare le penne stilografiche di valore, ma più grande. Passò quindi la torcia elettrica a Giulio ed aprì la custodia, tirando fuori da essa una grossa chiave di metallo.
- Ci siamo! – annunciò Fabiana mostrando al compagno la chiave – Fammi luce sulle serrature. -
Giulio obbedì illuminando il primo dei sei chiavistelli che sigillavano il sarcofago, Fabiana inserì la chiave, e la chiusura si sbloccò senza il minimo cigolio.
- Le tengono perfettamente funzionanti… – disse all’uomo mentre passava alla seconda – Ma persino io non so da quanto tempo il sarcofago non venga aperto. Decenni, forse secoli. -
Non ricevette risposta ma non ci fece caso, presa da quello che stava facendo, e così, una dopo l’altra, le serrature furono tutte sganciate.
- Giulio, poggia la torcia a terra e dammi una mano a spostare in avanti il coperchio del sarcofago. -
Sempre restando in silenzio, l’uomo si mise su uno dei lati corti del cenotafio ed afferrò la copertura, mentre Fabiana faceva lo stesso dalla parte opposta. Contarono fino a tre e poi spinsero, facendo avanzare il coperchio fino alla metà del sarcofago.
Il buio al suo interno non permetteva di vedere nulla, così la donna raccolse la torcia e la puntò dentro la cassa marmorea.
Nel momento in cui la luce spazzò via le tenebre, Fabiana quasi sentì le gambe mancare.
- Oh mio Dio! Che significa tutto questo?!? -
Giulio si sporse a sua volta a guardare e, quando vide, i suoi occhi si ridussero a due fessure: dentro al sarcofago, giaceva un bauletto di legno rinforzato in ferro.
- Che cos’è quell’affare?!? – strepitò ancora Fabiana, agitata – Dove sono le urne che contengono le ossa di Dante?!? -
- Calmati. – le disse Giulio con un insolito tono freddo – Continua a farmi luce, provo a tirarlo fuori. -
L’uomo allungò le braccia dentro il cenotafio ed afferrò il bauletto prendendolo per due maniglie poste sui lati più piccoli. Non si rivelò eccessivamente pesante, così riuscì senza problemi a sollevarlo e poi poggiarlo sul pavimento, chinandosi vicino ad esso. Fatto questo, da una tasca dei pantaloni della tuta prese una confezione trasparente, chiusa da una cerniera di plastica. L’aprì e ne estrasse un paio di guanti di lattice, simili a quelli indossati solitamente dai medici.
- Cosa ci devi fare con quelli? – gli chiese Fabiana disorientata mentre se li infilava alle mani, ma lui di nuovo non le rispose.
Tastando il bauletto, Giulio trovò subito il fermo che lo teneva chiuso e lo sganciò, andando a sollevare poi il coperchio. Dentro, adagiate contro il rivestimento di velluto rosso che imbottiva l’interno, c’erano due urne di terracotta. Con estrema delicatezza, ne prese una e la poggiò sul pavimento accanto al bauletto.
- Sono queste le urne? -
Fabiana la illuminò con la torcia e annuì, in parte rincuorata.
- Sì… Corrisponde alla descrizione che mi era stata fornita. Scoperchiala, per favore. Dobbiamo controllare che ci siano le ossa. -
Giulio fece quanto richiesto, e la donna guardò dentro l’urna. Dentro, chiaramente visibili con la luce elettrica, c’erano un teschio ed alcune ossa umane riconoscibili come vertebre e costole. Alcune intere, altre spezzate.
Senza che Fabiana lo chiedesse, Giulio prese anche la seconda urna e l’aprì. All’interno trovarono una coppia di femori rotti e le restanti ossa di gambe, piedi, mani e braccia.
- Direi che è tutto a posto. – affermò l’uomo, sempre con dipinta in volto quell’espressione quasi glaciale che Fabiana non gli aveva mai visto.
- Tutto a posto un corno! – rispose lei – Non sapevo nulla di quel bauletto! E questo significa che la tomba, chissà quando, era già stata aperta in segreto da qualcuno! Ora saranno necessari tutta una serie di controlli! Quelle ossa potrebbero essere di chiunque! Bisognerà fare una datazione al Carbonio 14 per vedere se questi resti siano almeno coevi al periodo in cui Dante è morto! -
- Non avverrà nulla di tutto questo. – replicò a sua volta Giulio, mentre apriva la zip della giacca della tuta con la mano destra, e ce la metteva dentro.
Fabiana si paralizzò, improvvisamente terrorizzata: la voce, l’espressione, tutto quello che aveva sempre caratterizzato Giulio ai suoi occhi si era come improvvisamente trasformato. E mentre il dito gelido della paura le percorreva la schiena, fu certa che dalla giacca il suo amante avrebbe estratto un’arma.
Ciò che comparve nella sua mano, invece, fu una busta di carta marroncina, molto simile a quelle per tenere il pane. La parte superiore era arrotolata su sé stessa, ma sul fondo era piuttosto gonfia. Giulio glie la tese mentre si rialzava e lei, meccanicamente, la prese.
- Aprila. – le intimò l’uomo e lei, frastornata come se avesse il cervello avvolto da una fitta coltre di nebbia, obbedì.
Dentro c’erano cinque grosse mazzette di banconote, tenute insieme da un nastro cartaceo.
La confusione nella testa della donna aumentava di secondo in secondo.
- Perché mi stai dando questi soldi? -
- Sono quarantamila euro. – rispose l’altro, asettico – Divisi in tagli da cento e da duecento. Una cifra che ritengo adeguata per il tuo disturbo. Sono soldi “puliti” ed i numeri di serie delle banconote non sono sequenziali. Non ti consiglierei però di depositarli sul tuo conto tutti insieme. Per non destare sospetti, è meglio farlo in più soluzioni. -
La bocca di Fabiana cominciò a tremare, e la sua voce uscì stridula ed incrinata.
- Ma di cosa cazzo stai parlando?!? -
Giulio continuò come se nemmeno l’avesse sentita.
- Le ossa che abbiamo davanti sono quelle originali dell’Alighieri, puoi stare tranquilla. Ecco cosa succederà ora: rimetteremo le urne a posto e tu sigillerai nuovamente il sarcofago. Io mi prenderò questo bauletto, usciremo dal mausoleo e non ci vedremo mai più. Tu lunedì ti presenterai qui come previsto, presiederai all’inaugurazione dei lavori e infine al trasferimento delle ossa a Roma.
Sarà come se tutto quello che abbiamo fatto stanotte non sia mai avvenuto e tu potrai continuare a vivere tranquillamente la tua vita. -
Fabiana non riusciva a credere alle proprie orecchie. Quelle parole suonavano assurde alla sua mente, ma, nonostante questo, cominciò a sentirsi come se un'enorme voragine si stesse aprendo sotto i suoi piedi.
- Giulio, ma sei impazzito? Perché ti stai comportando... -
- Non mi chiamo Giulio Castellani. - la interruppe lui – E, a questo punto, voglio sperare che tu sia abbastanza intelligente da non chiedermi quale sia il mio vero nome. C'è una guerra in corso, Fabiana. Una guerra silenziosa, di cui i libri di storia non parlano, ma che va avanti da secoli in ogni parte del mondo. Una guerra che ha visto cadere centinaia di uomini di entrambe le fazioni che la combattono e il cui esito potrebbe essere influenzato da questo bauletto. -
Finalmente qualcosa si sbloccò nella testa di Fabiana. E l'incredulità iniziò a far posto all'ira e allo sdegno.
- Tu... Tu sapevi che questo bauletto era chiuso nel sarcofago con le urne... E mi hai usata per arrivare a metterci le mani sopra... -
- Esatto. Come avrai capito, io faccio parte di una di quelle due fazioni. Ed ognuna di esse ha una sua rete di spie ed informatori. Il solo problema era rappresentato dall'impossibilità di aprire la tomba con discrezione. Al di fuori del convento di San Francesco nessuno sa quale frate abbia in custodia la chiave, e anche se fossi riuscito a scoprirlo, nessuno mi assicurava che sarei riuscito a corromperlo. Forse mi sarei ritrovato a dover usare la forza.
Poi, sei mesi fa, sono venuto a sapere che la tomba sarebbe stata restaurata.-
- Ed hai colto al volo l’occasione quando ti ho detto che la chiave sarebbe passata a me... -
- No. Abbiamo uomini sia al comune di Ravenna che all'Alma Mater. Quando mi sono avvicinato a te la prima volta, ero già al corrente del fatto che ti sarebbe stata affidata la chiave. In pratica lo sapevo ancora prima che lo sapessi tu. Me ne hai parlato di tua sponte, ma se non lo avessi fatto avrei trovato io il modo per toccare l’argomento. Ora fai ciò che è meglio per te, accetta quel denaro e mettiamo fine a tutto. Ti ho già raccontato sin troppo. -
La rabbia di Fabiana esplose all'improvviso, come un vulcano rimasto troppo a lungo sopito. Mentre lacrime bollenti di collera scendevano a rigarle le guance, si scagliò contro l'uomo per il quale aveva creduto di contare qualcosa fino ad un minuto prima, tentando di tempestargli il petto ed il viso di pugni e schiaffi.
- Bastardo! Miserabile figlio di Puttana! Mi hai ingannata! Ti sei preso gioco di me! -
L'altro incassò stoicamente i primi colpi per farla sfogare, ma poi fu lesto a bloccarle le braccia afferrandole i polsi con le mani.
- Tutto questo non serve a niente, Fabiana, né a cambiare le cose. Non voglio essere costretto a farti del male, quindi fai quello che ti dico! -
- Non osare più pronunciare il mio nome, maledetto! - gli gridò lei in risposta – Io chiamo la polizia! -
- No! - ringhiò lui stringendo la presa – Non lo farai! -
Da quel momento tutto accadde con una velocità che nessuno dei due avrebbe potuto controllare.
Fabiana alzò di colpo una gamba e gli assestò una ginocchiata ai genitali. L'uomo, emettendo un gemito soffocato, la lasciò andare e si accasciò sul pavimento tenendosi con le mani la parte offesa. A quel punto la donna non perse nemmeno un istante: lasciò cadere la busta coi soldi e si lanciò verso la porta del mausoleo, spalancandola e uscendo fuori di corsa.
Non appena ebbe guadagnato l'esterno la pioggia la investì con la stessa veemenza di quando erano arrivati, anche se lei quasi non se ne accorse. Ma l'acciottolato era viscido a causa dell'acqua e la fece scivolare.
Cadde picchiando il mento a terra e la botta le fece esplodere davanti agli occhi una miriade di puntini colorati, grandi come punte di spillo ma altrettanto penetranti e dolorosi. Trovò comunque la forza di rialzarsi e, ancora mezza intontita, cominciò a frugare nella borsa per prendere il cellulare.
Lo trovò e lo tirò fuori, ma prima che riuscisse a comporre il 113 se lo sentì strappare di mano. L'uomo che aveva conosciuto come Giulio Castellani si era ripreso e quei pochi secondi in cui era stata riversa al suolo gli erano stati sufficienti per raggiungerla.
Il telefono finì per terra e la colluttazione fra i due riprese. Disperata, sentendo che il suo aggressore era troppo più forte di lei, Fabiana cominciò a chiamare aiuto gridando con quanto fiato aveva in corpo. Riuscì a farlo solo due volte, prima che l'uomo le spingesse con violenza la mano aperta contro il centro del seno.
Uno scatto metallico, un piccolo rumore sordo, e la donna smise di urlare.
Con gli occhi sbarrati, fissò per un momento lo sguardo in quello dell'uomo di cui si era innamorata, mentre la sua bocca si apriva e si chiudeva ma senza più emettere nessun suono.
Poi le gambe le cedettero e si accasciò inerte.
Mentre la lama celata rientrava nella manica della tuta, lui l'accompagnò dolcemente verso il basso e, tenendola fra le braccia, cominciò ad accarezzarle lievemente il viso.
- Non sarebbe dovuta andare così... - le disse con una voce che forse si stava impastando di pianto – Non avrei voluto che finisse in questo modo... Perché non hai voluto darmi retta? Nonostante tutto avevo cominciato a tenerci a te... Mi dispiace... Mi dispiace, Fabiana... -
Ma lei non diede nessun segno di averlo sentito o compreso. Continuò ad ansimare mentre il petto le sussultava prima velocemente, poi sempre più lentamente.
Fino al momento in cui, in pochi attimi, si arrestò del tutto e rimase immobile.
Con un'ultima carezza sul volto, l'uomo le chiuse gli occhi e prese in braccio il suo corpo. Mentre il suo cervello vagliava freneticamente le varie ipotesi sul come comportarsi dato il risvolto inaspettato degli eventi, a passo svelto rientrò nel mausoleo. Quando fu dentro ed il suo sguardo si posò sul sarcofago ancora aperto, seppe cosa fare.
Il più delicatamente possibile, adagiò il cadavere di Fabiana nel cenotafio, piegandole le gambe di modo che assumesse una posizione simile a quella fetale. Poi le mise le due urne con le ossa in grembo e, recuperata l'antica chiave, rispinse a posto il coperchio e lo sigillò nuovamente, chiudendo le sei serrature una dopo l'altra.
Riprese la busta coi soldi rimettendola sotto la giacca insieme alla chiave, raccolse la borsa, nella quale mise la torcia elettrica, e recuperò contemporaneamente le chiavi della Smart.
Si fermò un momento, ed interiormente chiese ancora perdono a Fabiana. Era stato sincero quando le aveva detto che avrebbe voluto un epilogo diverso. Ma la posta in gioco era davvero troppo alta per lui. Più importante anche di una vita umana.
Si volse ed uscì fuori con la borsa a tracolla ed il bauletto vuoto sotto il braccio, chiuse a chiave la porta del mausoleo ed andò a raccogliere il telefono cellulare che era ancora a terra. Sull'acciottolato non c'erano tracce di sangue. Se c'erano state, la pioggia le aveva già lavate via.
Spento il telefonino e tolta la batteria, tornò di corsa all'automobile, mise il bauletto e la borsa nel piccolo bagagliaio e partì. Le strade erano deserte ma la pioggia continuava imperterrita a venire giù a secchiate, quindi impiegò comunque una ventina di minuti per arrivare a casa di Fabiana, che dalla Basilica distava poco più di cinque chilometri. Parcheggiò sotto al palazzo dov'era l'appartamento e trasferì il bauletto nel bagagliaio della macchina che aveva preso a noleggio con documenti falsi, quindi salì in casa.
Una nuova stretta al cuore lo prese quando posò gli occhi sul letto che avevano condiviso tante volte, ma fu solo un attimo fugace di rimpianto. Posò la borsa e le chiavi della Smart dove lei era solita lasciarle e tornò alla sua auto. Mise in moto e diede gas.
Mentre guidava su strade che stavano cominciando a sembrare fiumi, fece il punto della situazione. Uccidere Fabiana era stato un imprevisto, ma dalla sua aveva il fattore tempo: il sabato stava appena iniziando, ed aveva di fronte anche la domenica. Lunedì sarebbe scoppiato un discreto putiferio quando la Dottoressa Torrisi non si sarebbe presentata alla cerimonia, e l’avrebbero sicuramente cercata sia al telefono che a casa. Ma si sarebbe arrivati almeno a martedì sera prima che fosse data per scomparsa. E se le autorità avessero preteso di iniziare i lavori comunque, pur non avendo la chiave per aprire il sarcofago, sarebbero passati almeno altri due giorni prima di ottenere le autorizzazioni necessarie per procedere ad un’apertura forzata delle serrature. Senza contare il caos che sarebbe scoppiato una volta trovato il corpo di Fabiana. Quindi aveva almeno sei o sette giorni per fare quello che doveva e poi sparire. Praticamente il triplo del tempo di cui aveva bisogno. E data la proverbiale macchinosità della burocrazia italiana, sette giorni era addirittura una previsione pessimistica.
Nel giro di mezz'ora, quando ormai si erano fatte quasi le quattro del mattino, era nella camera del motel vicino all'autostrada dove aveva preso alloggio. Un posto squallido e non proprio pulitissimo, ma che aveva il vantaggio di essere gestito da un tizio più interessato al profitto che a fare domande.
Ancora con i guanti di lattice addosso, cominciò ad esaminare il bauletto. Sembrava in tutto e per tutto un normale contenitore di legno rinforzato in ferro, utile per metterci dentro quasi qualsiasi genere di oggetto. Lo aprì, già sapendo dove andare a guardare. E lo vide subito, nella parte cava del coperchio. Un piccolo simbolo intagliato. Un simbolo inconfondibile. Quello della confraternita degli Assassini.
Esultando mentalmente, riprese la sua ispezione con rinnovato slancio: i suoi sforzi stavano per dare i loro frutti, e quello era, senza più alcun dubbio, il bauletto che, prima di morire, Marcello Sarti aveva affidato a frate Antonino Galvati nel 1944.
Passò ad esaminare l'interno imbottito e foderato di velluto rosso, poi guardò di nuovo l'esterno e quasi subito si accorse che, data l'altezza del bauletto, la parte dentro avrebbe dovuto essere più profonda di quanto appariva. A quel punto capì di aver trovato la soluzione, e sorrise. Prese un coltellino svizzero dalla tasca dei pantaloni ed affondò la punta lungo tutto il perimetro del fondo. Quando ebbe finito, fece leva con la lama e spinse verso l'alto. La base si alzò subito, rivelando un doppiofondo ed il tesoro che celava. Il Sarti doveva essere stato proprio disperato, pensò, se non era riuscito a trovare un espediente migliore per proteggere ciò che per più di sessant'anni era stato dato per perduto: due fogli di pergamena rinchiusi fra lastrine di vetro per assicurarne la conservazione, due fogli di pergamena risalenti al quattordicesimo secolo, vergati da cima a fondo da una scrittura fitta e ordinata.
Due fogli di pergamena scritti di suo pugno dall’Assassino Dante Alighieri.
 
 
Nota dell'Autore: Salve a tutti amiche ed amici, ben ritrovati, e grazie un milione per aver letto la seconda parte di quest'umile storiella. Confesso subito le mie colpe ammettendo di essere un gran bugiardo. Nello scorso capitolo avevo dichiarato che la seconda parte avrebbe concluso la storia, invece sono arrivato a scriverne anche una terza. E' praticamente finita, devo solo limarla qua e là. La pubblicherò quindi in tempi brevi, direi una settimana.
Qui non ho particolari segnalazioni da fare, se non che la tomba di Dante è stata davvero sottoposta a restauri fra il 2006 e il 2007.
Vi saluto e vi ringrazio ancora, sperando di avervi lasciato col fiato sospeso. Chi ha rimesso il bauletto nel sarcofago? Chi è veramente Giulio Castellani? Come faceva a sapere che il bauletto non era più nella buca sotto la siepe? E cosa c'è scritto sui fogli di pergamena?
Domande a cui la terza parte darà risposta.
Fino ad allora, buona vita a tutti quanti! ^____^

 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Abbazia di San Galgano, nei pressi di Siena, domenica 25 giugno 2006, ore 19:15.
 
Il sole stava cominciando la sua discesa verso ovest, ma ci sarebbero ancora state almeno due ore di luce prima del calare delle tenebre.
L’uomo che si era fatto conoscere come Giulio Castellani scese dall’auto ed inforcò gli occhiali scuri. Davanti a lui, al centro di un grande prato dal verde rigoglioso, le vestigia dell’antica abbazia di San Galgano svettavano quasi a voler sfidare il cielo.
Alcuni turisti ancora si aggiravano nei dintorni, ma se ne sarebbero andati presto. Già quel sito era frequentato piuttosto poco, in più si stava avvicinando l’ora di cena. E quando sei in Toscana, il nutrimento del corpo ha dignità pari almeno a quello dello spirito. Ogni luogo di culto si sarebbe presto svuotato, e turisti e fedeli avrebbero terminato il loro pellegrinaggio in ristoranti e trattorie.
Non lui però. Lui aveva un lavoro da fare.
Appoggiato all’automobile, l’uomo prima si accese una sigaretta e poi prese il suo cellulare. Chiamò un numero che non compariva nella rubrica ma che sapeva a memoria, ed attese.
Gli rispose una casella vocale che gli chiese di inserire un codice numerico a tredici cifre. L’uomo lo digitò e poi lasciò il suo messaggio.
- Sono Tiziano Baroncelli, chiamo da linea sicura. Sono nei pressi dell’obiettivo ipotizzato, tempo di azione stimato entro la mezzanotte. Prossimi aggiornamenti a operazione ultimata. -
Chiuse la comunicazione e ripose il telefono in tasca. Aveva omesso della morte della Dottoressa Torrisi. Meglio non parlarne per telefono, anche su una linea protetta. Lo avrebbe fatto presente a missione completata, anche se era assai improbabile che sarebbero riusciti a risalire in qualche modo a lui. Giulio Castellani non esisteva e Fabiana aveva tenuto la loro relazione segreta. La chiave che apriva il sarcofago l’aveva gettata in mare al porto di Ravenna, i vestiti che aveva indossato quando l’aveva dovuta uccidere ed il suo telefonino li aveva bruciati e poi sotterrati in un boschetto adiacente ad una piazzola autostradale nei pressi di Firenze. La lama celata era stata pulita e disinfettata. E comunque i suoi superiori, in caso di bisogno, lo avrebbero protetto. Lo avrebbero fatto, visto l’enorme contributo che stava per dare alla Causa.
Spense la sigaretta contro la suola della scarpa e si mise la cicca in tasca, tanto per non lasciare in giro un mozzicone col suo DNA, e si incamminò verso l’abbazia.
Mentre avanzava, si ritrovò a pensare a come tutto fosse cominciato praticamente ed assurdamente per caso.
All’interno della Confraternita, tutti sapevano cosa era successo a Ravenna il 19 maggio del ’44, ma comunemente si pensava che l’oggetto coinvolto in quei fatti fosse andato irrimediabilmente perduto. Ed invece così non era. E lui aveva avuto tutte le indicazioni necessarie per ritrovarlo nella casa di sua madre e non lo aveva mai saputo. Per anni la soluzione del mistero era stata rinchiusa in una vecchia valigia, e nella sua famiglia nessuno aveva mai sospettato nulla.
La sua famiglia… Fino al quindicesimo secolo i Baroncelli avevano avuto un certo ruolo sia nella vita politica di Firenze che nella guerra fra Assassini e Templari, ma col passare degli anni la loro importanza era lentamente sbiadita, finendo per divenire una famiglia come tante altre. Ancora fedele alla Causa, ma ai margini di essa.
A lui questo stato di cose non era mai andato a genio, ed aveva sempre cercato di dimostrare la sua fedeltà in ogni modo possibile, sia come raccoglitore d’informazioni che come agente sul campo. Non si era mai tirato indietro, nemmeno di fronte a lavori sporchi o ingrati.
Ora gli veniva quasi da ridere a pensare che l’importanza che aveva sempre cercato di ottenere era sempre stata a portata di mano nella soffitta di sua madre, a Fiesole, nei pressi di Firenze.
Suo padre era morto nel 1999 durante una missione a New York, e sua madre era rimasta da sola, dato che lui se ne era già andato vivere per conto suo. Lei aveva sempre saputo benissimo chi erano suo marito e suo figlio e cosa facevano, quindi era più che conscia dei pericoli che la loro condizione avrebbe sempre comportato, ed era riuscita ad accettarlo. Lui però, sapendola sola e ormai avanti con l'età, andava a trovarla almeno tre o quattro volte al mese. Ed era stato durante un pomeriggio domenicale di otto mesi prima in sua compagnia, che quell'incredibile storia aveva avuto principio.
Stavano guardando senza particolare interesse un documentario sulla vita di Dante Alighieri in televisione. Naturalmente chi aveva preparato il servizio, così come quasi chiunque altro nel resto del mondo, non aveva idea di chi fosse stato Dante in realtà. Ad un tratto le immagini erano passate alla tomba del poeta a Ravenna, alla Basilica di San Francesco e all'adiacente convento di frati. Era stato in quel momento che sua madre, quasi sovrappensiero, aveva detto che un suo lontano cugino aveva vissuto in quel chiostro dal 1932 al 1965, anno in cui era morto d'infarto. Se lo ricordava perché il convento aveva mandato a lei i pochi effetti personali di quel frate, che all'epoca non aveva parenti più prossimi in vita.
Incuriosito dalla cosa, aveva chiesto a sua madre se era ancora in possesso di quei lasciti, e lei gli aveva risposto che erano in una vecchia valigia in soffitta. Era salito in solaio a dare un'occhiata ed aveva riscontrato che la magra eredità era composta solo da un saio ormai tarmato, un orologio da polso di poco valore e da una vecchia Bibbia rilegata in pelle.
Deluso, stava per rimettere tutto in valigia quando si era accorto di una cosa: la copertina posteriore della Bibbia era leggermente più spessa di quella anteriore.
Nel giro di due minuti era sceso al pianterreno ed era tornato con un affilato coltello da cucina, mettendosi subito a tagliare i bordi del retro del libro. All’interno, ordinatamente piegato, c’era un foglio di carta.
Lo aveva preso, lo aveva aperto, ed aveva cominciato a leggere ciò che vi era scritto.
Il foglio era datato 3 giugno 1946. Il giorno successivo al referendum che aveva sancito, a furor di popolo, il passaggio dalla monarchia alla repubblica in Italia. E, nella prima riga, lo scrittore rivelava subito la sua identità: Antonino Galvati, frate del convento francescano di Ravenna.
Nello scritto, il frate aveva deciso di narrare per filo e per segno di un avvenimento che lo aveva visto coinvolto la notte del 19 maggio 1944. Già lì era trasalito: la data era quella dell’attacco a sorpresa dei Templari nel covo degli Assassini di Ravenna, che aveva portato alla sua distruzione.
Febbrilmente aveva continuato la lettura e, mano a mano che i minuti passavano, le mani avevano cominciato a formicolargli ed i suoi occhi si erano spalancati a tal punto che quasi gli era sembrato che volessero uscirgli fuori dalle orbite.
Durante quella notte, Galvati, depositario dell’unica chiave in grado di aprire il sarcofago dell’Alighieri, aveva deciso di spostare le ossa del poeta per sottrarle ad un eventuale saccheggio da parte delle SS naziste. Un suo amico in odore di partigianeria, Marcello Sarti, si era offerto di aiutarlo nel compito. Ma Sarti non solo si era presentato all’appuntamento convenuto gravemente ferito, aveva anche preteso che le urne contenenti le spoglie di Dante venissero nascoste insieme ad un bauletto, dentro il quale sarebbero state poste.
Il frate non sapeva cosa avesse di speciale quell’oggetto (e non lo aveva scoperto nemmeno in seguito) ma, seppur riluttante, aveva accettato le condizioni. E nel foglio aveva descritto quale immane fatica era costata loro il semplice spostare le ossa dal cenotafio ad una buca sotto una siepe, a pochi metri dalla tomba. Ma c’era stata una parte che gli aveva fatto letteralmente schizzare il cuore in gola, una parte che aveva dovuto leggere due volte prima di crederci davvero: quella in cui Galvati aveva descritto quel piccolo simbolo sconosciuto nella parte interna del coperchio del bauletto.
In quel momento aveva capito tutto e si era sentito come se un fulmine lo avesse colpito scendendo dal cielo.
Sarti era un Assassino, era riuscito a scampare alla distruzione del covo, ed aveva messo in salvo la reliquia che lì era custodita nascondendola insieme alle ossa di Dante Alighieri.
Più aveva riletto quelle parole, più lo stupore lo aveva pervaso da capo a piedi. La reliquia, quella che negli ultimi sessant’anni tutti avevano smesso di cercare perché ritenuta perduta, non si era mai spostata da Ravenna.
Nell’ultima parte dello scritto, il frate spiegava perché avesse messo nero su bianco quanto avvenuto in quella notte, sebbene avesse promesso a Sarti di tenersi il segreto per sé. Dopo aver saputo della morte dell’amico, ucciso poco distante dal convento da una pattuglia di soldati tedeschi in ricognizione, Galvati aveva scritto di essere andato nel panico. Era però riuscito a dominarsi, ed aveva lasciato il bauletto con le urne sotto la siepe. Comunque, alla fine, i nazisti non erano mai venuti a cercare di trafugare le ossa. Già nel maggio del ’44 la Germania stava cominciando a perdere terreno su più fronti, ma a distanza di pochi giorni, neanche tre settimane, c’era stato il tracollo. Il 5 giugno le truppe americane del Generale Clark erano finalmente riuscite ad entrare a Roma. Il 6 quelle al comando di Eisenhower conquistavano le spiagge della Normandia, in quello che sarebbe passato alla storia come il D-Day.
A quel punto l’intera milizia tedesca era stata occupata ad affrontare problemi decisamente più prosaici rispetto al cercare oggetti d’arte o antichi cimeli esoterici per Hitler. E così le ossa erano rimaste dove i due amici le avevano sepolte fino a oltre la conclusione della guerra.
Poi, la notte fra il 2 e 3 giugno del ’46, Galvati, sempre in segreto, aveva rimesso le urne nel sarcofago. Le aveva lasciate nel bauletto di Sarti ed aveva chiuso anche quello nella tomba, rispettando le volontà che l’amico gli aveva lasciato prima che si separassero per l’ultima volta.
Infine aveva scritto tutto su quel foglio, perché non voleva che quel segreto, qualunque fosse, andasse perduto per sempre dopo la sua morte. Non era mai riuscito a scoprire se il suo amico Sarti fosse stato un partigiano o chissà cos’altro, né nessuno era mai venuto a chiedergli di lui, così aveva affidato quella storia ad un foglio e lo aveva nascosto in quello che per lui era il libro più importante del mondo, scegliendo deliberatamente di non rivelarlo a voce ad anima viva.
Una decisione quasi profetica, aveva pensato concludendo la lettura, vista la morte improvvisa che aveva colto il religioso ventuno anni dopo.
Mentre si infilava il foglio in tasca e metteva via il resto, aveva pensato a quanto il destino sapesse essere beffardo. Per quarant’anni la traccia per ritrovare la reliquia di Ravenna era stata in possesso della sua famiglia, e nessuno lo aveva mai nemmeno lontanamente immaginato!
Un tempo lunghissimo, smisurato. E lui non aveva intenzione di perderne altro.
Aveva contattato i confratelli di Firenze e aveva chiesto loro di fornirgli quante più informazioni possibili sulla tomba di Dante, soprattutto se fosse mai stata aperta dopo il 1946. Le risposte gli erano arrivate il giorno dopo: nessun furto denunciato o apertura “ufficiale”. Quindi, se il frate era stato sincero e non aveva fatto parola con nessuno di quanto aveva scritto, allora con ogni probabilità il bauletto era ancora dentro il sarcofago.
Giunto a quella conclusione, si era deciso a parlare di quanto aveva scoperto con i suoi superiori. E, al contrario di ciò che aveva immaginato, non si erano dimostrati poi così entusiasti di quello che era riuscito a scoprire. Gli avevano dato comunque l’autorizzazione a perseguire il suo obiettivo, imponendogli però di tenere un profilo più basso possibile, visto che ci si muoveva comunque sul campo di ipotesi, prima fra tutte quella che il bauletto contenesse effettivamente la reliquia.
Quella reazione tiepida lo aveva infastidito non poco, ma aveva capito subito che era stata legata a ciò che si stava preparando a Milano, che da anni canalizzava quasi completamente tutte le risorse a disposizione delle cellule attive in Italia. Che soddisfazione sarebbe stata riuscire a fare di meglio nel giro di pochi mesi!
Così aveva passato il mese successivo a scervellarsi su come individuare il frate che aveva in custodia la chiave del sarcofago, e a tenersi costantemente in contatto con gli informatori che operavano nella zona di Ravenna. Fino a che, un giorno, uno di questi gli aveva detto che la tomba dell’Alighieri sarebbe stata sottoposta a restauro, e che a capo del progetto sarebbe stata messa una donna di nome Fabiana Torrisi, Dantista dell’Università di Bologna.
Aveva fatto raccogliere altre informazioni e, dopo aver letto il dossier su di lei, aveva pianificato con cura come avvicinarla, studiando tutto quello che poteva sulle opere letterarie di Dante.
Ed ora era ad un passo dal compiere la sua impresa, mentre ciò che restava dell’abbazia di San Galgano si ergeva davanti a lui. Il ricordo di Fabiana fluttuò nella sua mente solo per pochi altri istanti. Non poteva fermarsi proprio ora perché preda di stupidi rimorsi. Quella donna, per quanto si fosse davvero un po’ affezionato a lei, se l’era cercata. Se avesse accettato i soldi che le aveva offerto, soldi suoi, che non aveva ricevuto dai superiori, sarebbe stata ancora viva.
Così si riconcentrò sul suo obiettivo.
Al centro di quella spianata erbosa, l’Abbazia sembrava lo scheletro scarnificato di un gigantesco mostro. Alcune sezioni erano crollate, il tetto era stato completamente rimosso e così anche il pavimento, tanto che ormai l’erba copriva anche tutto l’interno della costruzione. Andava comunque detto che anche le sole mura erano imponenti e di mirabile fattura. Costruita in un lasso di tempo di settant’anni, fra il 1218 ed il 1288, l’Abbazia era stato un centro di grande importanza ed influenza per decenni, fino a che l’epidemia di peste che aveva colpito l’Europa intorno alla metà del trecento aveva decimato sia i monaci cistercensi che la abitavano che i possedimenti ad essa assegnati. Un decadimento inarrestabile che era culminato nel sedicesimo secolo, quando il tetto era venuto giù e in tutta l’abbazia si contava ormai la presenza di un solo monaco.
Da allora, sporadicamente, si era fatto qualche lavoro di restauro. Ma la costruzione non era mai stata riportata all’antico fasto, rimanendo in uno stato di costante semiabbandono.
Guardandosi intorno, Tiziano Baroncelli si avvide che, come aveva previsto, i pochi visitatori del sito cominciavano a tornare alle loro automobili. Presto sarebbe rimasto solo, dato che i resti dell’abbazia erano così spogli e privi di qualcosa da rubare, che non era prevista nemmeno la presenza di un custode notturno.
C’era solo una cosa fra le sue mura, quella che attirava quei pochi visitatori che ancora la frequentavano. Ma era qualcosa che in Italia conoscevano in pochissimi, e che era lasciata lì, incustodita in mezzo alla navata centrale, protetta solo da una sottile teca di plexiglas.
La cosa di cui Dante Alighieri aveva scritto nei fogli di pergamena che aveva trovato nel bauletto.
Non era stato difficile decifrarli. Seppur scritti in un italiano trecentesco, era subito apparso evidente come il poeta, durante la scrittura, avesse ceduto il passo al Mentore degli Assassini. Niente iperboli o figure retoriche, niente voli pindarici o frasi che si potessero prestare a più di un'interpretazione. Solo una breve storia, una rapida descrizione, ed il divieto tassativo di utilizzare ciò che giaceva nell’Abbazia.
Ciò che, ora che era entrato, gli stava davanti, ai suoi piedi sotto il plexiglas.
Una spada arrugginita. O meglio, l’elsa di una spada arrugginita ed una piccola parte di lama visibile. Il resto era saldamente incastonato in una pietra ben piantata nel terreno.
Una spada nella roccia. La spada che San Galgano aveva piantato in terra nel 1180 in segno di rinuncia ad una vita di eccessi e attorno alla quale l’abbazia era stata costruita.
Peccato che, secondo quanto scritto da Dante nel suo lascito, quella non fosse la spada da cui Galgano si era separato per suggellare la sua conversione. E non era nemmeno una spada come le altre. Scriveva il poeta che quella era l’arma con la quale Farinata degli Uberti aveva guidato i Ghibellini alla vittoria, durante la battaglia di Montaperti nel 1260.
Dante non aveva mai smesso di cercare quella spada, ed alla fine era riuscito a venirne in possesso durante uno scontro fra Assassini e Templari nel 1319, quando era già Mentore di Ravenna.
Ma, dopo averla ottenuta, ne aveva proibito l’uso. Quella spada, aveva scritto, sembrava dotata di vita propria, rendeva invincibile ed intoccabile chi la brandiva, e con un colpo poteva sbaragliare anche dieci avversari. Ma il prezzo per tutto questo era venire travolti da una sete di sangue incontrollabile, tanto da non permettere più di distinguere fra amici e nemici. Il poeta non specificava se lui l’avesse mai usata, né riusciva a spiegarsi se quell’arma fosse un dono di Dio o del Demonio. Ma aveva imposto che nessuno la utilizzasse mai più.
Gli Assassini di Ravenna avevano provato a distruggerla ma non ci erano riusciti, così alla fine si erano risolti a camuffarla, di modo che sembrasse arrugginita ed inservibile, e a nasconderla. L’Alighieri aveva personalmente guidato la spedizione che di notte era penetrata nell’abbazia ed aveva sostituito la spada del Santo con quella di Farinata, lasciandola poi lì, nascosta in piena vista, sotto gli occhi di chiunque vi posasse lo sguardo.
E l’espediente aveva funzionato per quasi settecento anni. Fino a quella sera.
Dante non era riuscito ad interpretare la natura di quell’arma, non aveva le conoscenze necessarie per farlo, ma lui, uomo del ventunesimo secolo, riusciva ad immaginare più che bene cosa fosse in realtà e da dove venisse: era una spada dai poteri simili a quelli che si ipotizzava avesse avuto la leggendaria lama conosciuta come Excalibur, o come quelli della spada che Giovanna d’Arco aveva brandito contro gli inglesi durante la Guerra dei Cent’Anni.
Quella non era un’arma benedetta dalla Grazia di Dio o avvelenata dalla volontà del Diavolo, era un dono giunto dai meandri più profondi del passato, un concentrato di tecnologia quale nel presente non aveva ancora eguali.
Era un manufatto sopravvissuto alla catastrofe che aveva cancellato la Prima Civilizzazione. Era una Spada dell’Eden.
E a separarla da lui ora restava solo una stupida teca di plexiglass, che, con gli attrezzi che aveva in macchina, avrebbe rimosso in due minuti.
A Milano, il famigerato dottor Warren Vidic era in procinto di passare ad una nuova applicazione pratica della sua tecnologia Animus. Era sul punto di individuare un nuovo soggetto di sperimentazione per il suo macchinario dei ricordi genetici. Fino ad ora aveva ottenuto solo una collezione di fallimenti, dagli anni ’80 in poi non aveva fatto altro che provocare nelle sue cavie morte o pazzia. Eppure le alte sfere ancora credevano in quel tizio.
Ma ora lui li avrebbe fatti ricredere tutti e quando avrebbe varcato le soglie della sede milanese della Abstergo con una Spada dell’Eden in mano, chiunque gli avrebbe tributato il rispetto di cui aveva sempre saputo di essere meritevole.
Alzò gli occhi verso il cielo che fungeva da soffitto dell’Abbazia, e vide che cominciava a tingersi dei colori del tramonto.
Finalmente avrebbe avuto il posto che gli spettava.
E il suo nome sarebbe stato scolpito per sempre a lettere d’oro, negli annali dei Templari.


 
Note dell’Autore: Eccoci ancora una volta qui, amiche e amici. Stavolta siamo giunti davvero alla fine e spero che questa storia abbia incontrato il vostro gradimento. Ora che è terminata posso tornare a dedicarmi alla sezione che mi vede più impegnato, ovvero quella di Saint Seiya! Piaciuto il colpo di scena finale? O avevate già capito tutto durante la lettura di questo capitolo e di quello precedente? Spero che il vedere un Templare utilizzare una lama celata non vi abbia turbato: l’idea mi è venuta ricordando che, in AC3, Haytham Kenway ne usa una pur stando dall’altra parte della barricata. E in Black Flag il Templare Julien DuCasse afferma che spesso tali armi venivano sottratte dai cadaveri degli Assassini morti e poi riutilizzate. Se vi va non fatevi problemi a dirmi le vostre impressioni! ^__^
Andiamo a parlare un po’ di questo ultimo capitolo…
L’abbazia di San Galgano: la descrizione che ne ho dato ricalca abbastanza fedelmente la realtà, compreso il fatto (per me inspiegabile) che a tutt’oggi venga lasciata in uno stato di semi abbandono. Al di là del valore religioso (che a qualcuno, me compreso, può anche non interessare) è comunque un’opera inestimabile dal punto di vista artistico (ma di che ci stupiamo? Ogni anno crolla un pezzo di Pompei e non glie ne frega nulla a chi ne dovrebbe garantire la conservazione… vabbè, non è questo il luogo per simili polemiche…). La spada nella roccia c’è davvero anche se non è nella navata centrale, dove io l’ho collocata perché mi sembrava un’immagine più suggestiva. Da quello che ho letto (perché non ci sono mai stato di persona) è in una zona adiacente nota come “Rotonda di Montesiepi”. Vi allego alla fine il link wikipedia, in caso qualcuno di voi volesse saperne di più.
La spada dell’Eden: Chiunque abbia giocato alla serie di AC sa benissimo che i frutti dell’Eden non erano solo le sfere (o “mele” che dir si voglia). Anche qui vi allego un link informativo dove si parla, appunto, anche delle spade (anche se quella sita in San Galgano è una mia invenzione).
La famiglia Baroncelli: un esponente di questa dinastia lo troviamo in AC2, col nome di Bernardo. Fu uno dei Templari cospiratori che parteciparono alla Congiura dei Pazzi, ordita per togliere la vita a Lorenzo il Magnifico. Nel gioco è Ezio ad ucciderlo, nella realtà, ovviamente, no. Tiziano è, come avrete capito, un suo discendente.
Farinata degli Uberti (1212 – 1264): fu un comandante dei Ghibellini (i fedeli all’impero) di nobili natali fiorentini. Dopo aver contribuito alla cacciata dei Guelfi (i fedeli al potere del papato) da Firenze, si oppone ai condottieri Senesi e Pisani che volevano radere al suolo la città, riuscendo a farli desistere. Dante lo incontra nel Canto VI dell’Inferno, nel girone degli Eretici. Pur avendolo messo fra i dannati, il poeta si rivolge al compatriota con parole che dimostrano moltissimo rispetto.
Detto ciò, è giunto il momento di salutarci. Vi ringrazio moltissimo per l’attenzione concessami, spero che la lettura di questo mio scritto vi abbia fatto passare dei momenti piacevoli.
Per qualsiasi altra domanda, dubbio o delucidazione, io sono qua.
Buona vita a tutti voi! ^____^


http://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_San_Galgano

http://it.assassinscreed.wikia.com/wiki/Frutti_dell%27Eden

 
 
 

 

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