Sorry, with love.

di Heronstark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The sun's shining. ***
Capitolo 2: *** Keep it. ***



Capitolo 1
*** The sun's shining. ***


Mi butto in questa impresa, forse un po' fiolle e pretenziosa, ma spero vi piaccia.
Vi prego solamente di lasciare una recensione, grazie.
Heronstark.

 


PROLOGO

The sun's shining.

 

 

Bip. Bip. Bip.
Sentivo il sole sulla pelle riscaldarmi come se fosse la dolce carezza di una madre. Attraversava le mie palpebre creando uno splendido caleidoscopio di colori.
Mossi le dita della mano destra, sentendo come un peso all'estremità dell'indice. Ero sdraiata su qualcosa di morbido, odorava di buono, di pulito e di asettico.
Sentivo dei passi, voci attutite che si sovrapponevano fino a creare un insieme di rumori che mi aiutavano a non pensare.
Aprii leggermente le palpebre, intravedendo una finestra che si affacciava su un bosco, i raggi del sole che mi illuminavano il viso. Verde e oro.
Un'intensa fitta alla testa mi riscosse e dovetti richiudere gli occhi. Il dolore aumentava, sembrava eterno. Una lama rovente che si rigirava nel mio cervello, mille aghi sulle pelle.
La luce del sole era più calda, più rovente.
E iniziai a bruciare.

14 ore prima.

“'Fanculo Jason, la strada!” Urlò Melanie al di sopra della musica che usciva dalla radio e ci faceva rimbombare la cassa toracica. La Land Rover di Jason viaggiava a cento chilometri all'ora sulla strada che collegava Roxbury a Denville, appena fuori New York. Era da mezz'ora che avevo gli occhi fissi sul contachilometri, terrorizzata, le mani strette sul poggiatesta davanti a me. La strada era tutta curve, immersa in una fitta vegetazione che soffocava la strada come una cappa, i rami che si allungavano sopra di noi come lunghe dita. L'orologio sul cruscotto segnava le 02:23. Eravamo di ritorno da una festa in una fattoria vicino Roxbury. Era una di quelle feste in cui non serve essere 'in' per entrare, basta portare della Vodka o qualcos'altro per correggere il punch, e sei a posto. E' stata una festa tutta alcol, musica e baci rubati nei bagni.
Una di quelle feste dove le persone come me se ne stanno appiccicate alla pareti, a disagio, con una voglia matta di rinchiudersi in una stanza a leggere Harry Potter o a vedersi l'ultima puntata uscita del loro show preferito delle CW.
Ho sentito dire che Mary fa una cazzata!”
Devi assolutamente vedere l'episodio!”
I. Miei. Fottuti. Sentimenti.”
E ora stavamo tornando, Jason ubriaco alla guida, Stacey di fianco a me mezza fatta, che sonnecchiava appoggiata al vetro freddo del finestrino e Ken (sì, come il fidanzato di Barbie) che ci raccontava una storia fin troppo dettagliata su questa contadina bionda che ha avuto l'onore di conoscere nel bagno del seminterrato.
Seduta fra me e Stacey, Melanie, coi codini colorati che le ondeggiavano sulle spalle a ritmo di musica.
Erano tutti ubriachi, eccetto me, che durante la festa avevo accettato da un cowboy sorridente un bicchiere di punch, di cui avevo rovesciato il contenuto in un vaso.
Avevo insistito per guidare, ma, sarà per la mia bassa statura o per la mia voce sottile, nessuno mi aveva dato ascolto, e mi ritrovavo seduta sul sedile posteriore, alla fine.
La pioggia, che alla partenza cadeva leggera, ora era scrosciante e cadeva con un rumore sordo sul tetto della Jeep, sulla strada e sulle foglie degli alberi, e tutto sembrava cupo. Riuscivo a sentire il freddo infiltrarsi sotto la pelle, dentro le ossa, l'umidità strisciare sui sedili e sui finestrini, freddi e appannati.
Melanie si lanciò in un assolo di Toxic, mentre io guardavo la nostra vita di carta accartocciarsi su sé stessa, ma non me ne resi conto al momento. Era successo tutto in un momento, un fiammifero che annerisce un foglio, un battito d'ali, una risata di un bambino, un numero digitato sul cellulare.
Sdraiata nella vegetazione, la carcassa in fiamme della Jeep una decina di metri più in là, non sentivo le urla dei miei amici, non sentivo più niente.
Mi ricordo solo il tetto del bosco, l'acqua che mi cadeva sulle guance come lacrime, perché io non avevo la forza di piangere. Mi ricordo il battito del mio cuore accelerato, le mani che stringevano convulsamente il terriccio umido, un dolore sordo al fianco. Ricordo una luce bianca, delle ciglia scure. Ricordo un parola.
Scusami.”

 

 

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Capitolo 2
*** Keep it. ***


Eccomi, con questo nuovo capitolo!
Spero vi piacca, e, vi prego, vi prego, lasciate una recensione.

 

Keep it
 

 

Non bruciavo più, e fuori il cielo era blu notte. Nessuna luce mi riscaldava il viso e avevo dolori in tutto il corpo. Un flebo partiva dal mio braccio sinistro per scomparire dentro ad un sacchetto di liquido.

Una macchina di fianco a me continuava a fare bip,bip,bip. Sembrava non volersi fermare.

Perché dopotutto, il mio cuore non s'era fermato. Ero viva.

Cercai di girare la testa, e mi accorsi di avere un collarino, come quelli dei cani, per intenderci.

Mugolando per il dolore, me lo slacciai, gettandolo sul pavimento di moquette dell'ospedale. Cercai di tirarmi su a sedere, riuscendo a muovermi solo di un paio di centimetri. Le lenzuola del letto erano sottili come cartapesta, mentre la coperta posata sopra era pesante e calda, azzurro cielo.

Una leggera pioggerellina picchiava sul vetro. Ebbi un brivido, ricordando l'incidente. Chiusi gli occhi, stringendo il lenzuolo con tutta la mia forza.

Ricordavo tutto, fino allo schianto. Poi era solo una macchia confusa. Schegge di verde e nero e oro, e una parola.

Scusami.”

“Scusami.” Mormorai. Mi sembrava famigliare quella parola, come una canzone ascoltata per migliaia di volte.

Un'infermiera entrò nella mia stanza, con una cartelletta alla mano. Storse il naso appena vide che mi ero tolta il collarino, ma non disse nulla.

Loro non mi possono controllare, pensai. Sono anch'io Divergente.

Non prendetemi per matta, ma io adoro leggere, e non voglio che i libri restino libri. Voglio che i libri siano miei, entrino nella mia vita, voglio che facciano parte di essa.

Mi sentivo un po' Tris, in quel momento, ma il mio coraggio scemò appena l'infermiera iniziò a farmi il terzo grado.

“Ricordi come ti chiami?” Mi chiese.

Rimasi leggermente sbigottita. “Certo che sì.”

Lei mi guardò, alzando un sopracciglio, in attesa.

Sbuffai. “Daenerys Targaryen.”

Lei mi guardò abbastanza perplessa.

“Dove sono i miei draghi?!” Esclamai, ridendo.

Non so come feci a ridere in quel momento, non sapendo come stavano i miei amici. Forse era la tensione accumulata dopo l'incidente, forse era un modo per sfogarmi.

L'infermiera si era visibilmente spazientita. “Hai un leggero trauma cranico, e potresti aver perso la memoria. Niente di duraturo, in caso, ritornerà fra qualche ora. Ora, ti ricordi il tuo nome?”

“Lis, Lis Adams.”

Quando ti ritrovi con una madre cento per cento russa e un padre cento per cento americano, scopri che il russo e l'inglese, in fatto di nomi, non collaborano.

Specialmente, perché potresti ritrovarti con un nome tipo Yelisabeta Adams. Perlomeno il diminutivo era carino.

Mi fece un altro paio di domande e, dopo aver constato che non avessi perso nessuna nozione fondamentale della mia esistenza, vece entrare mio padre.

Papà non era il papà che molti di voi hanno, con un abito elegante e che magari lavora in banca. Papà è un operaio che adora la sue figlie (me e mia sorella), con una zazzera di capelli mori e con un sorriso sempre pronto sulle labbra. Papà si accontent di cose semplici.

E, in quel momento, papà era molto arrabbiato.

“Cosa ti è saltato in mente?!” Disse, cercando di restare calmo. L'infermiera scosse la testa e uscì, pensando che stavo abbastanza bene da affrontare una discussione famigliare. “Potevi morire, Dio mio!” Mi venne incontro e mi abbracciò forte, stringendomi a sé. Ahi.

Mi doleva tutta il corpo, lividi qui, lividi là. Tatiana era dietro papà, alta, sebbene avesse solo otto anni, e anche molto intelligente.

Nelle breve discussione che ci scambiammo, scoprì che avevo dormito per circa 18 ore, avevo un lieve trauma cranico e vari ematomi in tutto il corpo, per vi dell'impatto sull'asfalto. I miei amici stavano bene, sebbene Ken si sia rotto un braccio.

Non sapevo come sentirmi, a quella notizia...sollevata? Non erano poi veri amici, quelli. Era che, per una sera, non volevo rimanere in casa a fare l'asociale. Volevo uscire, divertirmi, svagarmi. I veri amici mi aspettavano a scuola, James e Cass, con i loro sorrisi e con le loro pacche sulle spalle.

 

La mattina seguente.

 

“Al diavolo!” Dissi, togliendomi dei fili dal corpo. Evidentemente dovevano misurarmi il battito cardiaco, perché appena li tolsi la macchina lì a fianco cominciò a emettere un biiiiip ininterrotto. Avevo chiesto un caffè, ad un'infermiera che sembrava più gentile di quella di ieri sera, ma erano passati quaranta minuti ed io ero ancora qui, ad aspettare. Per cui avevo deciso di fare per conto mio.

Mio padre mi aveva portato dei vestiti, che avevo indossato questa mattina.

Leggins neri, la mia dorata maglia lunga griga con scritto “I believe in Sherlock” e un paio di Vans malandate, color antracite.

Uscendo dalla mia stanza, sentendomi un po' come una fuggitiva, raggiunsi il Caffè che c'era nella hall dell'ospedale, che avevo scoperto si chiamava St. Clar.

La sfortuna volle che, dopo aver preso il mio caffè doppio con miele, inciampai nei miei stessi piedi.

Immaginatevi la scena; ero lì in piedi, con in mano il caffè, e girandomi inciampo, rovesciandone tutte il contenuto sulla maglietta di un povero sventurato che passava lì in quel momento.

I nostri sguardi si legarono.

“Scusami,” sussurrai.

 

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