Dannato australiano

di ELE106
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Promesse ***
Capitolo 2: *** A un passo dal possibile ***
Capitolo 3: *** Nei sogni in fondo a un pianto ***
Capitolo 4: *** Un senso di te ***



Capitolo 1
*** Promesse ***


[Intro: Una chiacchierata telefonica tra battute, frecciatine e dichiarazioni d’amore un po’ goffe, tra i nostri Dan e Pana, dopo la conferma su Twitter che il nostro Little Man ha ottenuto una parte in “The Dead Lands”. L’autriceindegna non sa altro sul ruolo che interpreterà, sorry!]

 
Dannato australiano

Capitolo 1. Promesse


 


 
“Come mai hai ottenuto una parte e io vengo a saperlo dal dannato Twitter?”

“A me lo chiedi? Forse perché passi più tempo col dannato Twitter che con me?”

Quando questa telefonata è iniziata all’incirca quindici minuti fa, l’idea era quella di un po’ di sano e soddisfacente sesso telefonico.
Duro. Sporco.
Ci sarei andato giù pesante, perché sono settimane che non vedo quel coglione e ormai sono al limite della frustrazione psico-fisica. Non faccio altro che pensare alle maniere più disparate in cui potrei farmi scopare da lui, la prossima volta che riusciremo a vederci. Se mai ci riusciremo...

Invece eccoci qui. A fare la coppietta sposata e repressa del cazzo, che si punzecchia sul perché e per come uno dei due stronzeggia più dell’altro.

La mia ex moglie lo faceva sempre.

Pana, sei un bambino! Quando cresci? Occupati di tuo figlio, invece di toppare un provino dietro l’altro e farti chiudere porte in faccia, peggio di un venditore di aspirapolveri.

Ci andava giù pesante anche lei. Ma non come intendo io.

“Non dico di aver diritto a qualche tipo di esclusiva, o trattamento di favore, ma... insomma per Dio, Pana! Scopiamo da mesi, mi sento un fottuto idiota a non sapere niente del tuo lavoro. Tu sai tutto di me!”

A quest’ora sarei potuto venire... venire, venire e venire ancora una volta, invece l'unica cosa che sta per venirmi è un’emicrania.

Dannato australiano!

“Hai finito di fare la moglie isterica?”

“Si...”

Oh Gesù, ecco quel tono! Il tono da cucciolo d’orso imbarazzato.
Io sono un idiota. Mi viene ancora più voglia di scoparmelo quando fa così.

Dannatissimo australiano!

“Non lo so perché non ti ho mai parlato di quella parte. Forse perché temo tu sia suscettibile sull’argomento e non voglio che ti senta a disagio se io sto lavorando e tu no.”

“Ma Pana...”

“Sta zitto, che non ho finito.”

Un tempo me la sarei fatta sotto, affrontando questa discussione con lui. Probabilmente mi sarei messo ad urlare e lo avrei mollato, solo per impedirgli di mollare me per primo.

Da quando stiamo insieme sono cambiato, però. Ed è stato lui a darmi sicurezza. A dirla tutta è praticamente merito suo se ho tirato fuori le palle e ottenuto quella parte.

Ovvio che non glielo dirò mai, ma questo è un altro discorso.

“Dan, ascoltami bene! Voglio che tu ora prenda un aereo, che mi raggiunga immediatamente qui e che mi scopi in tutti i modi in cui ti è possibile scoparmi. Sono stato chiaro?”

“Parto stasera?”

“Bravo il mio orso!”

“Non ti lamentare, poi, se non reggi il ritmo, piccoletto! E piantala di farti paranoie, sono abbastanza uomo da accettare che tu sia un attore migliore di me.”

“Taci! E preoccupati di fartelo restare dritto abbastanza a lungo da farmi venire tante di quelle volte da stendermi. Perché se rimango cosciente ti chiederò di sposarmi, sappilo!”

“Sono contrario.”

“Appunto!”

Certe volte ci penso sul serio. Di sposarlo, dico. Poi mi ricordo che nessuno sa ancora niente di noi due, che è soprattutto lui a volerlo, che è lui che spera di sfondare, che è lui, alla fine, ad avere più bisogno di conferme, di quante ne servano a me.

“Mi sono un po’ rotto del sesso telefonico, Pana. Potrei anche accettare la tua proposta di matrimonio solo per averti a portata di braccio quando al mio amico, qui sotto, viene voglia.”

“E poi che ne sarà della tua carriera luminosa?”

Se vedesse che sto arrossendo come un idiota sdolcinato, e che la sola idea che possa davvero succedere una cosa del genere mi manda in pappa i neuroni, probabilmente mi sfotterebbe per il resto dei miei giorni. Dei nostri giorni.

“A volte non sono sicuro che sia quello che voglio davvero...”

Perché cazzo è diventato così serio ora? Cristo, poi vado in panico e non so che dirgli.

“E quand’è che ti verrebbero questi dubbi? Sentiamo!”

“Quando sto con te, in sintesi.”

“Oh...”

E va bene, le guance rosse non mi donano. Cerchiamo di tornare maschi, almeno per le prossime dieci/dodici ore.

“Mi diventi melenso quando non scopi, Daniel.”

“Tu invece diventi più stronzo quando arrossisci.”

Ecco, lo sapevo.

“Come cazzo lo sai che sono arrossito?”

“Lo sei?”

“...può darsi.”

Smettila, Dan. Smettila perché non credo di essere abbastanza forte da scherzare sul mio cuore. Sei la persona che vorrei vicina più di ogni altra al mondo. E sei anche la più lontana. Certe volte mi sembra di morire, di non respirare se non ti vedo o non ti sento in qualche modo.
E questo mi fa paura.
Non dirmi che mi vorresti sempre al tuo fianco, se poi non mi vieni a prendere e non mi tieni con te. Non dirmelo, perché mi fai solo male.

“Stai ridendo di me, Daniel?”

“Un po’...”

Dannato australiano!

Di nuovo quel tono di voce da cucciolo, ora. Non posso farcela, qualcuno mi aiuti.

“Pana?”

“Cosa?”

“Scusami, lo so che ti ho fatto un sacco di promesse, che sono venuto a casa tua e tutto quanto... lo so, credimi! Sono solo un coglione!”

“Che razza di discorsi ti metti a fare, adesso?”

“Io ti sposerò davvero un giorno, Pana.”

Vuoi farmi piangere, idiota?

“Smettila!”

“Fidati di me! Lo puoi fare? Puoi fidarti di me?”

“No che non posso, scemo...”

Io ero un casino... da solo. Con lui sono completo, forte, sto bene.
E spero arriverà il giorno in cui anche per Dan sarà lo stesso.

“... io mi sono innamorato di te, Dan! DEVO fidarmi.”

Non mi interessa se sei famoso, orso idiota. A me basta che tu sia mio.

“Allora considerala una proposta seria.”

“Vieni qui da me e basta! E levati dalla testa queste stronzate!”

Perché potrei anche dirti di si, dannato australiano!







Continua...







Nda: ho scoperto che mi diverte tantissimo scrivere di loro due. Tant’è che ho creato pure la serie (a puntate, esatto! Tipo soap opera X’D) e spero di non finirla mai, perché scriverne mi leva lo stress di dosso. Questa storia si può tranquillamente collocare dopo le precedenti due, che potete trovare qui: Pana Complessato
Poi niente, voglio spargere un po’ d’amore a chi, a mesi dalla sua conclusione, è approdato a leggere Occhi Bui e mi ha dedicato parole meravigliose. Io magari non trovo la maniera di esprimervelo a pieno, perché mi irrigidisco e faccio la buffona di fronte ai complimenti, ma sono felice e fiera di quella storia, come di nessun’altra che ho scritto. E visti i miei deficit d’autostima, il mio orgoglio è merito dell’amore che mi avete trasmesso voi che l’avete letta.
Grazie a tutti, spero vi siate divertiti! Baci

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Capitolo 2
*** A un passo dal possibile ***


Intro: Ok, ho creato una piccola long a capitoli, perché gli episodi mi sembravano troppo legati tra loro e non me la sentivo di pubblicarli come one-shot separate, non si capirebbe niente X'D. Quindi eccoci qui, al capitolo due! ;)) Avevamo lasciato Dan e Pana distanti, nelle rispettive case, che prometto di rivedersi e lasciano proposte in sospeso. Che succederà? Dan ha davvero preso quell’aereo e raggiunto il suo piccolo maori a casa sua? Buona lettura ;)
 


Dannato australiano
Capitolo 2. A un passo dal possibile




 
 
Dan indossava sempre tutta una serie di chincaglieria al collo, ai tempi di Spartacus.
Ci imboscavamo dietro qualsiasi cosa riuscisse a nasconderci e tentavamo di dar soddisfazione alla sveltina di turno. Spesso senza successo, vista la quantità di gente che brulicava sul set.

Le odiavo quelle collane. Ogni benedetta volta gli ringhiavo infastidito di levarsi qualcosa di dosso, perche mi si impigliavano ovunque e mi facevano incazzare.

“Ci vuole troppo, Pana. Non abbiamo tempo...”

Poi mi scaraventava per terra o contro una parete o dove voleva lui, e mordeva, spingeva, graffiava e io non capivo più niente. Fanculo i dannati ciondoli!

Mi ricordo una volta in particolare quando, tra una bestemmia e l’altra, malamente infilati in qualche buco di sgabuzzino polveroso e buio, dislocato da qualche parte, in un punto imprecisato tra le scenografie di Sinuessa, ho persino finito per amarli alla follia tutti quegli affari penzolanti.

Si stava strettissimi dentro quella stanzetta. Un groviglio di braccia, mani e piedi e capelli e dita e lingue e Dio solo sa cos’altro.
 
Sudati, sporchi e stanchi; Dan era sopra di me, ce l’avevo tra le gambe e avevo i crampi per quanto lo stringevo forte, tentando di sincronizzarmi a lui ed assecondarlo mentre si muoveva così veloce.
Ero come impazzito, non so che cavolo Dan stesse facendo e come lo stesse facendo, ma cazzo funzionava alla grande. Godevo come mai prima. 
E gridavo, Cristo! Nascosti chissà dove, con mezzo cast e tutta la crew a gironzolarci intorno, io gridavo come un dannato e Dan grugniva roco, profondo.
 
“Shh... cazzo Pana, piantala, ci sentiranno!”
 
A un certo punto deve persino essersi azzardato a mettermi una mano sulla bocca. E io devo avergliela quasi azzannata, se non ricordo male.
 
“Guarda che mi fermo, Pana, zitto!”

“Oh Cristo... io ci sono... oh Dio Dan, ci sono!” Tono di voce sempre più alto, resistenza al limite, fiato corto. “Se ti fermi ora ti stacco l’uccello a morsi, lo giuro!”
 
Rumori al di fuori del nostro nascondiglio che si facevano sempre più vicini, così come l’orgasmo che ormai, per me, era praticamente cosa fatta.
 
“Oh si... si Dan, si, così!”

“Cazzo... cazzo...”
 
E quell’animale che spingeva come se non esistesse un domani. Non si sarebbe mai fermato, lo sapevo bene, inutile minacciare il contrario.

Ma c’era davvero qualcuno che si avvicinava e io urlavo davvero troppo forte.
Così le ho viste.
Mi luccicavano davanti agli occhi, oscillando in sincrono con i movimenti frenetici di Daniel.
I lacci di cuoio erano così vicini...

È stato un attimo.
Li ho afferrati tra i denti e stretti più che potevo e sono venuto trattenendo le urla a stento, lasciandomi cadere indietro con la schiena e stringendomi lui tra le cosce con le poche forze che ancora mi restavano.
 
“Si! Oh Dio si...”
 
E così è finita con Dan che ha urlato il suo orgasmo al posto mio, mentre ancora ansimavo con i suoi gingilli in bocca, le gambe spalancate e le unghie conficcate nelle sue chiappe.
 
“I trailer sono fatti anche per quello, ragazzi. La prossima volta vi suggerisco di appartarvi meglio.”
 
La voce divertita di Liam (che per la cronaca, rideva come una iena) ci è arrivata ai timpani ovattata, oltrepassando a stento il fischio dell’orgasmo che scemava lentamente.
 
“Strilli come una meretrice, germano!”

Gli ho soffiato a fatica in un orecchio, prima di infilarci la lingua dentro e mollargli una gran manata sul culo.
 
Oh quanto ho amato quelle chincaglierie in quel momento.
 
Vittoria!
 
“Avresti potuto tapparmi tu la bocca, siriano! Io non te l’avrei mai morsa.”
 
Mi ha risposto ridendo lui, per poi alzarsi e mostrarsi in tutta la sua gloriosa nudità.
 
Ah... l’Australia deve essere un buon posto per crescere manzi di un certo calibro.
 
 
 

“Uh! Stai pensando a qualcosa di spinto, di la verità, Pana!”
 
Eccolo il rompi coglioni che mi interrompe sempre, proprio quando sto pensando qualcosa di bello su di lui.
Cosa che succede di rado.
 
Siamo nudi, sdraiati e aggrovigliati sul mio letto da ore, ormai, non saprei dire quante.
Un po’ abbiamo giocherellato con le mani, un po’ con la lingua, un po’ con le gambe (non so più nemmeno dove siano le mie e dove le sue), un po’ non abbiamo giocherellato per niente, abbiamo fatto l’amore e basta.


Comunque, appena messo piede in casa mia, Mr. Daniel Feuerriegel, profumato e lindo anche dopo svariate ore di aeroporto, file per biglietti, bagagli e sale d’aspetto, ha gettato il borsone sul pavimento e mi si è avventato addosso afferrandomi in vita e facendomi volare per aria.
Prima ancora che i miei piedi toccassero di nuovo terra, mi ha mostrato una scatoletta di velluto nero... e a me è venuto un infarto.
 
Nessuna proposta di matrimonio. No no, nessuna, per carità, sarei morto.
Ma per un attimo ho avuto paura che lo facesse sul serio. Magari un po’ era persino speranza, non lo so.

Sono io l’idiota, non lui.
 
“Ma sei impazzito? Io non lo apro quello!”

Gli ho gridato, indietreggiando come se quell’affare bruciasse e guardandolo come se avessi voluto ucciderlo in quell’istante.
Lui aveva un sorriso che gli arrivava ovunque, beato e tranquillo come se quel gesto non avesse la minima importanza, fosse anzi naturale, normale, bello.
Ed era una cosa bella, si... ma NO!
 
“Non è un anello, paranoica testa di cazzo! Aprilo, prima di incanalare aria in quella boccaccia!”

Insulti, conditi da un’amabile espressione da orsacchiotto coccoloso.
Solo lui può, dannazione!
 
“Ok, dai qua! Non vorrei che ti offendessi e ti mettessi a piangere, femminuccia!”
 
Coloriti insulti ai danni della sua virilità, per mascherare i miei più sentiti complimenti in merito.
Solo io posso.
 
“Ma sta zitto e aprilo!”
 
Erano due laccetti di cuoio. Anzi, erano quei maledetti laccetti di cuoio.
Ho ingoiato rumorosamente l’imbarazzo, al solo ricordo delle scopate selvagge, fatte vestiti da Agron e Nasir.
 
Bei tempi quelli...
 
“Sono briglie?” Gli ho chiesto, ammiccando. “Vuoi che ti monti come un cavallo?”
 
Si è messo a ridere col chiaro intento di sfottermi, quindi mi ha agguantato le collane dalle mani, le ha riposte con cura sul comodino in parte al letto e abbiamo smesso di parlare.

Fino ad ora.
 



“Allora? Me lo dici a che pensi con quei gingilli in mano?”

Ripete, sorridendomi dolcemente.
 
“A come mi montavi ai bei tempi, mentre io avevo queste in bocca.”

“Sei il solito romantico, Pana...”
 
Ride ed esce da sotto le lenzuola per riprendersi le collane che tengo tra le dita delle mani.
Poi mi scosta i capelli dal collo e mi aiuta ad indossarne una, dandomi un bacio leggero sulla spalla nuda, prima di lasciar ricadere di nuovo la chioma al suo posto.
 
Queste boiate sono imbarazzanti, cazzo, quanto stupidamente e pateticamente belle.
Mi faccio quasi schifo da quanto sono felice e vaffanculo a tutti.
 
“Me le sono fatte regalare da Steven, al termine delle riprese. Ci sono affezionato e ho pensato di...”
 
Seduto a gambe incrociate, lo guardo ammiccandogli ancora un po’; lui sa che non reggo bene i gesti di tenerezza e che faccio il buffone per questo.
 
“Niente monta? Avresti potuto morderle tu al posto mio, per una volta!”
 
Dan si china ai bordi del letto e si allunga per raccogliere i suoi pantaloni dal pavimento. Fruga velocemente nelle tasche e torna a guardarmi con una strana espressione, forse un po’ timorosa, stampata in faccia.
 
Oh mio Dio...
 
“Pensavo più ad utilizzarle per questi.”
 
 
Perfetto! Ora si che ha tirato fuori gli anelli.
 
 
Sono fottuto.
 
 
 
 
 
 
 
 
Continua...
 
 
 
 
 
Nda: Dedico questa ‘puntata’ della serie alla meravigliosamente buona e gentilissima Francesca (alias @almaga77 alias Nagron), per tutta la passione e l’entusiasmo che mi comunica e che mette in quelle due cazzate che scrivo io. E mi fermo qui, perché, come il vostro Pana, anche la sottoscritta è una cagasotto, in queste faccende! X’D Grazie a tutti per aver letto, come sempre! ;) Un ultimo grazie speciale alla mia beta Thinias, per il suo aiuto e la sua pazienza.
Ps: Se vi diverte, mi farebbe tanto felice sapere cosa ne pensate della storia (boiata) del matrimonio e come vi piacerebbe che finisse! :D Sondaggio!
Ps2(poi basta): non mi uccidete col prossimo capitolo, tanto poi finisce bene, ahahahah ;))))

 

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Capitolo 3
*** Nei sogni in fondo a un pianto ***


Intro: E via con il terzo capitolo del terzo episodio della soap-opera Pana Complessato! X’D Se non ci state capendo più niente, tranquilli che è normale; non ci capisco più niente nemmeno io!! ç___ç MA! Tornando al capitolo seguente, siamo agli inevitabili momenti bui. Incomprensioni, litigi, decisioni difficili e... altro! Buona lettura ;)
 
 

 
Dannato Australiano
Capitolo 3. Nei sogni in fondo a un pianto
 
 
 
E poi un giorno è andato tutto a monte.
 
Un giorno pigro e senza colori, mentre fuori il cielo gorgogliava e brontolava cupo, con una voglia assassina di inondare il mondo sotto a un inferno d’acqua.
Un giorno come tanti, in cui non avevo altro da fare che pensare (e non a cose belle).
 
Cose che capitano... a me più di una volta.
 
Dan non c’è, lui non c’è mai.
Dan corre e va per la sua strada, si piega alle voglie del suo mondo, cambia così tante volte e così velocemente che a me sembra di non correre mai abbastanza veloce per stargli dietro.
Io sono quello che rimane qui alla finestra, a guardare fuori, come attendendo che quest’apocalisse d’acqua spazzi via tutto e tutti.
 
Un secondo pensi che nulla ti renda felice. Il secondo dopo perdi quel qualcosa e capisci... capisci che invece esisteva chi riusciva a farlo.
 
Se è vero che la felicità è fatta di momenti, mentre la vita è quel che accade nell’attesa, vuol dire che io non sono forte abbastanza per farmeli bastare. Io non riesco a vivere di quei momenti, perché l’attesa di lui mi uccide.
 
 

“Mi vuoi sposare o no, Dan? Guarda che è semplice! Sei stato tu a darmi quegli anelli, cosa volevi dimostrare?” Sei tu quello che fa promesse e non le mantiene mai.
 

Abbiamo rotto al telefono. Come fottuti ragazzini del cazzo, che amoreggiano su FB per qualche mese, senza essersi mai visti davvero.
 
“I-io... non credevo che tu...”

“Non credevi cosa? Che avrei accettato? Pensavi di fare il bello e coraggioso che spacca il culo a tutti sposando un altro uomo, mentre invece sei un cagasotto?”

“Pana, ne abbiamo parlato tante volte. Devi solo aspettare che...”

“Io non aspetto più un cazzo di nessuno! Se non lo fai ora non lo farai mai, mai!”
 

Panico. Risentimento. Paura. Non capivo più nulla.
 

“Come fai ad esserne sicuro? Dicevi che anche tu avevi bisogno di tempo per capire, che era complicato...”

“Beh, sai?! Quando uno stronzo australiano di un metro e novanta, di cui ti sei disgraziatamente e spaventosamente innamorato, ti regala una coppia di anelli e dice che vuole sposarti, ti assicuro che posso aver detto quello che vuoi ed essermelo rimangiato nell’istante in cui ho accettato quelle dannate fedi!”
 

Percepivo la mia voce alzarsi progressivamente e il battito cardiaco accelerare, ma non riuscivo più a fermarmi.
 

“Calmati, Pana! Lo sai che ti amo, solo...”

“NO! Tu ami la tua stramaledettissima carriera, altrimenti non mi faresti questo!”
 
Non ricordo a che punto della discussione la voce ha iniziato a tremarmi e le lacrime a inondarmi gli occhi. So solo che all’ennesimo “Pana, io ti amo!” ho attaccato il telefono. Non prima di avergli urlato “È finita, Dan. Vaffanculo!”
 

Lui non ha più richiamato.
Due giorni e non ha richiamato. Mai.
E nemmeno parlassimo di una specie di crudele scherzo del destino, qui non ha fatto altro che piovere. Sempre. Giorno e notte, pranzo e cena, lavoro e casa. Dalle mie parti non è nemmeno anormale, ma a questo punto della mia vita mi sembra tutta una grandissima e karmica presa per il culo.
 
 
Quando qualcuno dice che si trova sempre una ragione per andare avanti, specie se puoi incolpare solo te stesso per il tuo dolore (come nel mio caso), non tiene conto dei danni collaterali temo.
Se non senti più il tuo cuore battere, se non speri nemmeno più che possa riprendere a farlo, che senso ha andare avanti? A cosa ti aggrappi?

Potrei richiamarlo io, lo so. Ma non cambierebbe nulla lo stesso.
Non posso continuare a stare così, ad accettare i suoi compromessi, le sue decisioni, i suoi tempi, le sue voglie. Non ce la faccio più.
 
E poi là, abbandonato sul comodino in parte al letto, dal lato dove solitamente dorme lui, guardo il suo anello ciondolare in fondo al laccetto di cuoio, che sembra volersi ‘suicidare’ e cadere dal mobile.
L’ho tolto quel giorno in cui è finito tutto e l’ho appoggiato lì, dove lui non c’era, dove non c’è e dove non ci sarebbe più stato.
Brilla da solo, sembra così freddo e inutile. Non è quello il suo posto.
 
Una sola lacrima non la senti, finché non ti bagna le labbra e il salato della colpa e del rimorso ti toccano e poi ti entrano dentro.
 
Non posso... io non posso, non posso stare senza di lui, semplicemente non posso.
Mi manca l’aria, non respiro.
Ho i capelli unti, sento le dita intricarsi nei nodi, mentre le passo in mezzo e stringo, stringo, vorrei strapparmi tutto di dosso.
 
Che ho fatto? Cosa cazzo ho fatto?
 
L’ho perso, l’ho cacciato io. Sono stato io a rovinare tutto, lo faccio ogni dannata volta.
Non lo so perché, non lo so di che diavolo ho paura.
 
Dan... non farmi questo.
 
Perché fa così male? Perché? Quando è successo? Io non volevo questo...
Quando tra di noi è iniziata non era niente, niente! Era sesso, era compagnia, era divertimento, era... non lo so.
Forse era l’illusione di un niente che poi all’improvviso è svanita... e dietro di essa c’era tutto.
 
Chiamami, bastardo australiano! Chiamami ora, vuoi farmi morire? Chiamami e mi farò andar bene qualsiasi cosa. Chiamami e farò tutto, tutto, non posso stare così.
 
Mi sembra di impazzire, sembra che persino i muri di casa mi osservino e mi giudichino uno stronzo idiota.
Mi guardo attorno, non vedo quasi niente, ormai le lacrime sono troppe e il nodo che sento crescermi in gola è un macigno troppo grande.

Il cellulare squilla, il cuore mi si ferma ed è talmente violento il bisogno, il desiderio che sia lui, che mi rendo conto di poter fare solo una cosa, a questo punto: ingoiare l’orgoglio e il risentimento, asciugarmi le maledette lacrime da principessina offesa e andare da Daniel. Adesso. Supplicarlo di riprendersi quest’inutile piccolo idiota che non sa nemmeno il perché, due giorni fa, ha iniziato a discutere con lui. Che a volte vuole solo conferme e quando non gli vengono date, crolla.
 
Andrò da lui, lo pregherò in ginocchio, ma devo rimettere tutto a posto.
 
Afferro il mio anello, lo indosso al collo e mi precipito all’ingresso agguantando la prima felpa che trovo lì appesa. Ma appena tocco la maniglia della porta per uscire, il campanello suona.

Fuori piove sempre a dirotto, tuona, il vento è forte e fischia, ulula tra palazzi e alberi e strade.
 
Chi cazzo è che rompe i coglioni proprio adesso?
 
Apro la porta, fissando a terra con l’intento di spintonare il visitatore rompi palle e sparire prima che possa rivolgermi la parola.
 
“Sto uscendo, lasciami un mess...”
 
“Dovresti far finire di parlare la gente, prima di mollarla e sbatterle il telefono in faccia!”
 
Alzo gli occhi dal pavimento, dove fissavo un paio di sneakers infangate, che un tempo dovevano essere bianche, saldamente piantate di fronte a me ad impedirmi di passare.
 
“Dan?”
 
La sua voce trema, lui è uno straccio bagnato. Tutto gli si attacca addosso, acqua e lacrime che gli rigano le guance. Il respiro pesante, rabbia, disperazione, speranza, paura.
Ho l’impressione di guardarmi allo specchio.
 
Provi le stesse cose che provo io, Dan? Hai paura... hai paura che quello che c’è tra noi sia troppo e ci distrugga?
 
Continuo a guardarlo senza riuscire a respirare, a parlare, a muovermi. Non so nemmeno se sono ancora in piedi o se sono crollato per terra, come il misero essere che mi sento.
 
“Dan?”

“Vaffanculo!”

“D-dan...”

“Mi fai entrare o mi metto ad urlare qui fuori, così ci sentono tutti?”
 
Mi scansa con un braccio e lo seguo con lo sguardo mentre entra e si scuote via freddo e pioggia, quasi fosse un orso bagnato che si asciuga la pelliccia.
 
“Vaffanculo!”
Continua a ripetere, senza girarsi.

“È così che vuoi ridurmi, Pana?!”
 
È ancora di schiena, rigido, i pugni stretti, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Io non respiro più, penso che morirò.
La felpa ancora in mano e gli occhi inondati di lacrime ma fissi sulle sue spalle, che mi sembrano ancora più larghe, ancora più famigliari, ancora più casa.
 
“Ho detto ai miei di te... sei contento? E farò tutto quello che vuoi, Pana, tutto! Lasciami solo il tem...”

Non lo lascio finire, non posso, non posso più ascoltare niente. Corro verso di lui e lo abbraccio, quasi gli salto addosso. Le mie braccia non riescono nemmeno a contenerlo tutto. La fronte appoggiata proprio al centro della schiena che più amo al mondo.  Stringo la stoffa della sua maglietta tra le dita, tra lacrime e singhiozzi e il suono del suo cuore che batte tanto veloce, che sembra l’anima gemella del mio, impazzito.
 
“Non ascoltarmi più, Dan... non mi ascoltare, non mi ascoltare più.”
 
Si gira tra le mie braccia e mi abbraccia forte.
 
“Porca puttana, Pana...”
 
Lo scemo piange anche lui. Non l’ho mai visto piangere, il pensiero di essere stato io a farlo star male ha il potere di farmi felice e infelice allo stesso tempo.
 
Che cos’è, Dan? Che cos’è questa cosa che sembra voglia divorarci?
 
Amore. Quello stronzo bastardo, infame e bugiardo. Puoi vegetare felice per una vita intera, senza mai sapere cos’è, senza provarlo, senza volerlo. Ma lui ti trova, un bel giorno di pioggia, ti stringe il cuore in una morsa e pompa finché non inizia a battere. Sei vivo. La vita te la infila dentro a calci, finché sai di esserci, sai di esistere, perché solo esistere fa stare tanto male. E prega solo che quell’amore non ti abbandoni mai, che non ti calpesti come fossi un insetto, perché allora non puoi tornare a vegetare felice. Non sei più quello di prima.
 


Dan mi bacia e sparisce tutto.
 
Io respiro di nuovo, perché ora sono al sicuro.
Perché a me non serve altro.
Perché se lui è con me, io sono migliore. Smetto di sentirmi male, incompleto, complessato e triste.
Lui e il modo in cui mi stringe, lui e come mi sopporta, come mi prende in giro e come mi fa incazzare da morire. Lui e come mi ama, anche se sono un casino.
 
 
Lui... è il mio sogno in fondo a un pianto.
 
 
 
 
 


Continua...
 
 
 


Nda: dunqueeeeeeeeeeeeeeeeee ci siamo!  Non gliene frega nulla a nessuno, ma va beH! Volevo solo precisare che non ho messo ancora la parola ‘fine’ a questa piccola long, perché c’è in gestazione un capitolo 4, con tanto di conclusione della questione ‘matrimonio(???)’. Povero Pana... AIUTATELO A DECIDERE!!! Poi niente, approfitto, anche se in ritardo, per far fare tantissimi auguri di Buon Anno a tutti! Grazie come sempre per aver letto ;)
Baci!

 

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Capitolo 4
*** Un senso di te ***


Intro: Bene, eccoci qui. Mi sento più leggera e sollevata, come sempre dopo aver chiuso e (spero) dato un senso a quello che ho messo in moto. Per riassumere, Dan e Pana hanno finalmente dato corpo e forma al loro rapporto; quello che è iniziato col sesso, è finito per essere l’amore della loro vita. Tra litigi, incomprensioni, idee strampalate (come il matrimonio) e tanto altro, hanno forse trovato una dimensione tutta loro per coltivare e far crescere il loro legame. Buona lettura ;)
 
 

Dannato Australiano

Capitolo 4. Un senso di te
 
 
Le festività natalizie sono strane.
 
È questo che penso, mentre con dita leggere scosto qualche ricciolo chiaro dalla fronte del mio bambino.
Dorme tranquillo, faccia in su e testolina comodamente appoggiata all’ampio torace di Daniel.
Si sono addormentati assieme, credo, poco fa, mentre guardavano la tv e io parlavo al telefono con sua madre.
 
Li osservo a lungo, seduto malamente sui bordi del divano per non disturbarli mentre sono tanto... belli.
 
Dan ha il braccio intorno al piccolo, lo avvolge quasi completamente, la mano stringe un poco il suo braccino paffuto.
 
Penso che quest’anno ho trascorso il Natale da solo… beh, nella casa di mia nonna con i miei fratelli e le loro famiglie, sentendomi per tutto il tempo stonato, fuori posto.
Dov’era la mia di famiglia? Dov’erano le persone che amavo?
Non sono poi molte, onestamente.
Mio figlio Ahi Kā e... Daniel.
 
Ho trascorso il Natale senza di loro, come mille altre volte, eppure stavolta mi è sembrato atroce.
Stavolta ne avevo davvero bisogno.
 
 
“Quando porti qui il bambino, Danielle?”
 
Gliel’ho chiesto la sera della vigilia, subito dopo aver appreso che nemmeno Dan avrebbe fatto un salto ‘da me’ per le feste.
 
Un groppo assurdo in gola, una nostalgia soffocante e dolorosa, come solo il Natale può infliggerti.

Le feste sono proprio strane.

Non ti mancava niente, o forse non ti accorgevi che ti mancasse niente, poi qualcuno dice ‘Natale’ ed esplode qualcosa di triste e insieme dolce-amaro dentro di te.
Tutto quello che non hai vicino sembra esserti d’improvviso essenziale. Sei vuoto, incompleto, ne hai bisogno come di respirare.
 
“Sei sicuro di volertene occupare da solo, Pana?”
 
Non era seccata, nemmeno spazientita o gelosa, era preoccupata. Il tono di voce pacato, quasi delicato, comprensivo e lei non lo è mai.
 
“Sembro davvero tanto disperato?”
Le ho risposto, le mani nei capelli e un sorriso tirato e stanco che lei tanto non poteva vedere.
 
“Sembri solo...”
 
“Ho voglia di stare un po’ con lui. Lo sai che le feste mi mettono malinconia.”
 
“E l’australiano?”
 
“Non ha potuto raggiungermi.” Faceva uno strano effetto sentirlo nominare da lei. Si rifiuta ancora di chiamarlo per nome, di accettare che lui ormai sia una parte importante della mia, della nostra vita. “Ci vedremo appena possibile e io vorrei...” ho deglutito più e più volte, non trovando il coraggio di formulare quella richiesta, anzi, quel semplice e naturale desiderio. “... vorrei fargli conoscere Ahi Kā.”
 
Lei non mi ha risposto subito, ha sospirato. Mi sembrava quasi di vederla quella smorfia che fa sempre quando la deludo o quando sospetta che stia per farlo.
 
“Mi sembra naturale che tu voglia presentarglielo, solo...” e ho avuto paura, per un secondo, di quello che mi avrebbe detto; paura che fosse una di quelle verità fastidiose, che lei sola conosce di me e che mi uccidono ogni volta “... solo cerca di non fare cazzate, Pana. Se lui deve far parte della nostra famiglia, se deve rientrare tra le persone vicine a nostro figlio, cerca di ricordarne l’importanza quando ti prenderanno quei tuoi momenti da ‘voglio stare solo, non rompete i coglioni, sparite tutti’.”

Ho sorriso senza quasi volerlo, perché quello ero proprio io in tutto e per tutto.

“Mi sono spiegata, Pana?”

“Sissignora!”

Si è messa a ridere anche lei, erano mesi e mesi che non rideva con me.
 
Forse, nel casino che ho combinato con me stesso, con lei, con me e lei insieme, col bambino, la mia carriera, la mia vita in generale, sono anche riuscito a mettere in piedi qualcosa di decente.
 
“Ti invio i dettagli del nostro volo e l’ora di arrivo prevista, poi ci aggiorneremo meglio.”

“Grazie, Danielle!”

Un sospiro di sollievo e le feste sono passate.
 
 
 
Il mio bambino è arrivato a casa di mia nonna, da me, il giorno dopo capodanno. Una massa disordinata di boccoli biondicci, pelle scura come la mia e due occhi enormi, con dentro tutto quello che serve per sentirsi amato.
 
“Papà!”

L’abbraccio più lungo della storia.
Il mio vero Natale è venuto in quell’istante.
 
 
Il mio regalo, invece, la mattina seguente, nei panni di un sorridente e bellissimo australiano che bussa alla nostra porta e varca la soglia con quattro borsoni pieni di pacchi tra le braccia. E l’intenzione di fermarsi da noi per un bel po’ di tempo.
 
 
Siamo ospiti in casa Taylor da oltre una settimana e Dan è diventato il preferito di Ahi Kā, esattamente due ore dopo il suo arrivo. Dovrei sentirmi geloso, ma non ci riesco.
Non si scollano mai uno dall’altro, passano le giornate prendendomi in giro e complottando scherzetti scemi alle mie spalle.
 
E chissenefrega se io e Daniel non siamo mai soli, se non facciamo l’amore da secoli (esagero un po’, mi piace ancora fare il melodrammatico), se mi bacia di nascosto per paura, dice, di ‘traumatizzare’ il mio cucciolo; chissenefrega se appena mi sfiora, contro pareti e porte chiuse, mi fa tremare e andare a fuoco con quelle mani, quelle dita magiche, per poi abbandonarmi e correre via al primo ‘Daaaaaaaan!’ strillato con vocetta angelica da mio figlio, dall’altra parte della casa.
 
Chissenefrega, se il senso di tutto questo è che ora posso stare qui a guardarli dormire assieme.
 
Perché un senso c’era alla fine delle urla, dei drammi e dei pianti, un senso c’è e riposa qui accanto a mio figlio e io posso sentirlo, come fosse un segreto sussurrato a tradimento; se non sei attento e non ascolti, te lo perdi e chissà se ti capiterà mai di sentirtelo sussurrare ancora.
 
Ti amo, Dan.
 
 Amarlo è un privilegio del quale non avrò più paura. Forse me lo sono meritato. Mi sono guadagnato questo squarcio di sole nel grigio e turbolento cielo che dall’alto osservava una vita passata a scappare da tutto quello che diventava troppo importante.
Me lo sono guadagnato per essere strisciato fuori da un egocentrismo malsano, fatto di scarsa autostima, zero empatia verso chiunque e molto autolesionismo; e parlo di egocentrismo perché alla fine, anche se non ti ami per niente, sei sempre tu il centro dell’universo.

Poi è arrivato mio figlio.
Poi Daniel.
Poi io non contavo più niente e tutto ciò che volevo era che stessero con me, che fossero felici di stare con me.

Ho fatto un sacco di cazzate durante la strada percorsa per capirlo, lo riconosco, ma alla fine ogni sforzo ha avuto un senso e mi ha portato nel posto giusto.
 
Non mi interessa più del matrimonio. È stata la paura di perderci l’un l’altro a spingerci a desiderarlo. E ora quella paura è addormentata (proprio come questi due orsi qui), sopita al calduccio, al centro dei nostri cuori ingarbugliati.
Tutti quelli che contano davvero sanno che stiamo insieme e il resto del mondo si fotta! Al resto del mondo non importa nulla di noi. Non faremo annunci o stupide dichiarazioni, smetteremo semplicemente di nasconderci.
 
Dan mugugna qualcosa nel sonno, le labbra socchiuse e qualcosa di tenero che mi prende alla bocca dello stomaco, come un bisogno immediato di toccarlo, di sentirmi i suoi occhi addosso.
Adesso, subito.
 
Svegliati…
 
Forse l’ho detto ad alta voce e lui mi ha sentito, perché una strisciolina di verde gli si intravede tra le palpebre, ora semichiuse.

“Ehi”
Mormora, accorgendosi di avere ancora il bambino un po’ addosso e bloccando ogni movimento per non svegliarlo.

“Ehi!” Gli rispondo io e, senza nemmeno accorgermene, la mia mano gli è arrivata alla guancia e lo accarezza dolcemente; lui la prende nella sua e la sfiora con le labbra calde.

“Tutto a posto con Danielle?”

“Si, viene a riprenderlo domani.”
 
Piano, si alza dal divano, accomodando sui cuscini il bambino che continua a dormire tranquillamente.
Dan torna a guardarmi ed è come se sapessimo tutti e due che è il momento per noi.
 
“Sai cosa mi ha detto, prima di addormentarsi?”

Mi sussurra accostandosi a me; le sue mani mi scivolano sui fianchi, lui mi tira contro di se e mi stringe, affonda il naso nella pelle sensibile del mio collo.

“Cosa?” rispondo, quasi senza voce.
 
Oh Dio, Dan, quant’è che non mi tocchi? Troppo, troppo.
 
“Ha chiesto se può chiamarmi papà-orso... ne sai qualcosa?”

Ridacchia prima di rialzare la testa e tornare a guardami negli occhi.
Non c’è bisogno che gli risponda, vero? Lo sa che solo io lo chiamo ‘orso’, capisce la portata di quelle due semplici parole.
 
Quando una persona ti entra dentro, apre una voragine da qualche parte, vicino al tuo cuore, e scava, scava finché raggiunge il nucleo. E ti ci senti annegare dentro a quel vuoto, ogni volta che sei lontano da quel qualcuno. Solo lui può riempirlo.
 
Certe volte scavano troppo a fondo e ti distruggono.
Possono iniziare col sesso (possono distruggerti dentro anche solo con quello), possono iniziare con l’amicizia, con la fiducia e il rispetto, possono iniziare in mille modi, ma finisconosempre con le parole.
E se pronunciano quelle giuste, quelle persone hanno scavato abbastanza.
 
Le parole giuste le ha pronunciate mio figlio.
 
Papà-Orso.
 
Daniel può smettere di scavare, perché è arrivato, è dentro di me, è l’unico e solo essere umano in grado di colmare il mio vuoto.
 
Si avvicina alle mie labbra con le sue, con quel sorriso sincero, felice, aperto, dove puoi leggere tutto, dove c’è lui scritto ben chiaro in ogni piccola linea d’espressione, che si forma intorno ai suoi occhi quando ride.
 
Ci baciamo lenti, ci baciamo come fosse la prima volta e in un certo senso lo è.
Perché se abbiamo giocato fino a un attimo prima, adesso siamo scoperti, siamo uno di fronte all’altro, nudi, vulnerabili, siamo coscienti che il gioco è finito ed è ora che si inizia a fare sul serio.
Non ci si può tirare indietro. E non voglio tirarmi indietro.
 
Gli darò tutto, tutto quello che possiedo e posso donargli; corpo, voce, anima, mente e cuore.
  
Facciamo l’amore svelti, ancora mezzi vestiti, seduti un po’ scomodi sul mio letto; porte chiuse, luce accesa, voci basse e trattenute.
Mani ansiose, fameliche, disperate, che scostano magliette e sbottonano pantaloni; pelle calda contro pelle più calda, frizione, brividi e tanto bisogno di soddisfarsi reciprocamente.
 
Stare sopra di solito non mi piace. Sotto è comodo, lascio che sia Dan a guidarmi a governarmi, mentre io mi abbandono, mi perdo nel sentirlo godere di me e prendersi tutto quello che vuole. Stare sotto ha sempre significato stabilire dei confini, dei ruoli, in cui io prendo e lui da.
 
Questa notte invece sto sopra a cavalcioni su di lui. Controllo io il ritmo, le spinte, le pause, ogni movimento e gemito avviene per mia volontà e coi suoi occhi puntati addosso.
Ed è tutto così diverso e intenso, da farmi quasi piangere per quanto è bello e enorme e spaventoso il modo in cui un solo uomo, quest’uomo, riesce a farmi sentire amato.
 
 
 
È mattina presto quando Danielle viene a riprendere Ahi Kā; saluta mia nonna con un abbraccio affettuoso, Dan con una diffidente stretta di mano e me con il suo cipiglio da mamma protettiva, quale un po’ è stata.
 
E quando sento ‘papà-orso’ pronunciato direttamente dalla voce di mio figlio, il vento mi sussurra di nuovo all’orecchio.
 
Amali sempre.
 
Un attimo appena e il vento cala, lasciandomi l’eco di quel segreto nel cuore e lacrime trattenute, quando il mio piccolo abbraccia Dan e gli da un bacio sulla guancia; lacrime che esplodono quando salta in braccio a me e mi stringe un dito tra le sue manine.
 
Amali sempre.
 
E lo farò, so che lo farò.
 
 
 
 
 
 
“Oh Dio, ora si scopa tutti i giorni, vero Pana?”
 
Ecco. Finita la poesia.
 
La sua mano sul mio culo, due secondi dopo che ho pianto come una ragazzina perché non potrò vedere mio figlio per un po’, sarebbe anche sufficiente a far scattare una ginocchiata nei gioielli di Dan, non fosse che sono ancora mezzo stordito dal sonno e dalle lacrime.
 
“Sei veramente un idiota!”

“Eddai, era per farti un po’ ridere! Non mi piace vederti piangere...”
 
E i baci che mi semina sul collo funzionano sempre, ma non credo glielo dirò, non subito.
 
“Entriamo? Tua nonna dice di aver preparato una colazione speciale tutta per me. Mi ama!”
 
Ammicca, si... bravo! Riderai ancora per poco.
 
Già, perché mi sono scordato di avvertirlo che sta per scendere a calci in culo dal piedistallo in cui l’aveva piazzato la vecchia; poco male, lo scoprirà tra un attimo, quando da dentro casa risuonerà la sua ira selvaggia, appena si accorgerà dell’orrida poltiglia appiccicaticcia che troneggia al centro del suo divano ‘buono’.
Perché quello che mia nonna ignorava, fino a poco fa, era che il suo adorato orso australiano fosse più casinista del piccolo guerriero mezzo-maori (suo nipote), e che ieri sera, le due bestie ingorde si fossero divertite a scartare ogni genere di caramella, cioccolatino e/o merendina, prima di sprofondare in coma diabetico e addormentarcisi sopra.
 
 
“DANIEL GREGORY FEUERRIEGEL!!”
 
Eccola. La furia maori-nonna scatenata.
 
“Oh porco cazzo…”

Lui mi guarda supplicando la salvezza.
Che io non gli darò, ovviamente.
 
“Gregory… temo proprio tu sia nei guai!”
 
 
 
 
 
Fine.

 

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