All I Need Is The Love You Breathe

di Stephenie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Origin Of Love ***
Capitolo 2: *** Elle Me Dit ***
Capitolo 3: *** Troublemaker ***
Capitolo 4: *** Over My Shoulder ***



Capitolo 1
*** The Origin Of Love ***


The Origin Of Love:


10 Settembre 2000



E’ il primo giorno del Liceo.

E dopo essermi svegliato a causa dell’ansia, a mo’ di zombie raggiungo mia madre Joanie e il resto della mia famiglia. Sono tutti seduti intorno al tavolo della cucina, mentre fanno colazione e mi unisco a loro. La paura che possa andare di nuovo tutto storto è l’unica cosa a cui riesco a pensare, e tutto ciò mi fa perdere la fame. A ME. Mai successo. Mia madre lo nota e mi dice “Mika, perché non mangi nulla? Paura?!?” e tutti gli altri si girano verso di me, come se fossi il sospettato numero uno di un crimine capitale. “No… solo che oggi non mi va”, rispondo cercando di negare l’evidente. L’orologio segna le 7:30, ciò significa che tra una mezz’ora esatta dovrò affrontare il mio inferno chiamato scuola. Ciò vale a dire: presa per il culo dai compagni e dai professori, della serie “sei strano, dislessico e stupido”… E vale a dire anche botte e la mia faccia nel water dei bagni. Mi alzo dal tavolo, con gli occhi dei miei familiari ancora puntati addosso, mi avvio nella mia stanza e mi rendo conto che tutti i miei vestiti sono inadatti per questo incubo. E’ inutile cercare di essere come gli altri, perché tanto qualunque cosa mi metta addosso, dica o faccia, risulterò sempre il più strano. Lo sfigato della scuola, quello con le sciarpe cucite dalla mamma, quello che sta antipatico a tutti i professori, quello che disegna e scrive su un quadernetto colorato, e quello che invece di uscire il venerdì sera, se ne sta rintanato nella sua stanza a comporre musica con il suo piano semi-rotto. Alla fine, mi arrendo e indosso le prime cose che pesco nell’armadio, caccio due quaderni mezzi sgangherati nella borsa e provando con un ultimo disperato tentativo di sistemarmi i miei ricci ribelli, apro la porta e seguendo le mie sorelle scendo le scale senza nemmeno aver salutato mia madre. Paloma e Yasmine vanno entrambe all’università. Camminiamo per 10 minuti prima di trovare la fermata giusta,dopo Pal e Yasm se ne vanno augurandomi buona fortuna. Rimango da solo mentre il freddo mi penetra nelle ossa. Per tutti gli altri sembra una giornata eccitante: rivedere i propri amici,la vecchia e cara scuola, i professori da salutare… per me invece é la solita vecchia merda. Okay, eccola qui… LA SCUOLA. L’INFERNO…. Grande cagata. Mentre scendo dal bus, posso già avvertire le dita che mi indicano e le risatine soffocate dei miei futuri compagni… e il buongiorno a me. Avanzando sempre di più verso l’entrata, mi vergogno dei miei vestiti. Forse non avrei dovuto osare così tanto con i miei vecchi pantaloni gialli, la camicia a stile hippie, le converse bianche, il k-way di mio padre verde scuro e il mio solito cappellino alla français. Cerco di nascondermi e soffoco la voglia di scappare, verso un posto dove la gente mi possa capire, dove possa esprimere le miei emozioni senza limiti e senza alcuna paura di essere giudicato dagli altri. Uno spintone però mi ricorda dove sono: al centro esatto dell’inferno. Eccoci, ci risiamo, e adesso non posso più tornare indietro, sono appena entrato e già tutti i professori mi squadrano dalla testa ai piedi. Ho lo sguardo rivolto verso il pavimento, cammino velocemente e salgo le scale in silenzio, cercando di non fissare nessuno. Non appena raggiungo la mia classe, mi siedo nell’ultimo banco, quello più isolato da tutti. Appena dopo di me la classe si riempie, tutti si abbracciano: chiaro segno che io sia l’unico a non conoscere nessuno. Non si può dire che la fortuna stia dalla mia parte quest’anno. Vicino a me c’è ancora un posto che credo sia destinato a rimanere vuoto per sempre. La professoressa entra in classe e appena inizia a parlare la mia mente vaga già altrove, quando all’improvviso sento il mio nome risuonare nell’aula. Guardo davanti a me e mi rendo conto che sono tutti girati a fissarmi, mentre la professoressa, con un fare molto seccato, ripete di nuovo il mio nome, questa volta per intero: “Mr.Penniman, vorrebbe venire qui a presentarsi?”. Il mondo intero mi cade addosso. Cerco nel modo più calmo possibile di alzarmi dal mio posto, ma sembra che le mie gambe non vogliano collaborare. Quando finalmente riesco a raggiungere la fila prima di me, qualcuno, non so bene chi, mi fa inciampare allungando la gamba, e facendo scoppiare il resto della classe in una risata di gruppo. Sebbene la professoressa richiami l’ordine, non posso negare che neanche lei non stesse ridendo. Mi guarda con aria di sfida, con quel sorrisetto soddisfatto sulle labbra, contenta del lavoro appena svolto dai suoi burattini ammaestrati. Raggiungo la lavagna, mi volto verso i miei compagni e inizio a presentarmi: “M… mi chi-chiamo… Michael Holbrook – e qui tutti si voltano verso i propri amici iniziando a cercare dei soprannomi per me…. Tutti offensivi, ovviamente – e v..vi…vivo a Lon.. Londra da quando ave…avevo 9 anni. S…sono nato a Bei…Beirut – e qui sento qualcuno chiedere “Bei che?!?”. Sto per ripetere il nome della mia città natale, quando sento qualcun altro farlo per me… “Beirut, idiota”, dice una voce femminile che proviene da una ragazza accostata alla porta, che mi guarda e mi strizza l’occhio. La professoressa le si avvicina ed esclama “Emily Hall, che onore averla in classe! Anche quest’anno noto con piacere che le sue abitudini non sono cambiate.” La ragazza, Emily, si limita soltanto ad alzarsi dalla porta con fare scocciato e ad accasciare la sua borsa vicino al mio banco. La professoressa mi guarda e dice “Credo che sia abbastanza, Mr.Penniman, vada pure al suo posto”, non me lo faccio ripetere due volte… Raggiungo il mio banco e sussurro un grazie impacciato ad Emily, che mi si avvicina e mi stampa un bacio sulla bocca. Rimango in uno stato di totale shock per quella che sembra un’eternità, prima di riprendermi, e lei mi dice “Non c’è di che, Mika.”
Questa ragazza mi lascia senza fiato, forse alla fine di tutto, quest’anno potrà essere diverso.


************

Autrici:


 "Ciao a tutti, e grazie per aver letto questo primo capitolo! Siamo due ragazze che adorano questo grande artista, Mika! Ovviamente presto ci sarà un nuovo capitolo e.. niente.. lasciate recensioni (sia positive che negative :3) e grazie ancora!! A presto!"
 

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Capitolo 2
*** Elle Me Dit ***


Elle Me Dit


 
12.30
Entro in mensa dopo il suono della campanella. Non so bene dove andare, quindi seguo la massa. Emily è davanti a me e vorrei chiederle se potessimo sederci insieme, visto che molto probabilmente, nessuno mi vorrà, ma lei sparisce prima che riesca a raggiungerla. Una volta arrivato nella mensa, prendo il mio vassoio e mi metto in fila, ignorando i vari soprannomi che mi affibbiano. Lo riempio tutto, e alla fine mi volto a guardare i tavoli. Non appena qualcuno capisce che mi sto avvicinando per sedermi al posto vuoto accanto a lui, subito lo occupano con delle borse, e una ragazza prende persino il suo fidanzato per il colletto, tirandolo verso di lei e urlandogli “No, non la far sedere qui.”, il ragazzo a  testa bassa mi dice “mi dispiace, il posto è già occupato”, mentre la fidanzata mi guarda con aria di approvazione e orgoglio verso il suo ragazzo, alzando un sopracciglio, come per dire “non hai speranza contro di me”. Mi volto senza dire una parola, mi accantono alla porta e mi rendo conto che mi rimangono solo due opzioni: la prima consiste nel gettare il mio vassoio e ritornare in classe, la seconda invece nel rinchiudermi in uno dei bagni maschili e pranzare da solo, come il tipico sfigato nei film, che alla fine diventa il figo della situazione, ammirato da file e file di gente, cosa che a me non accadrà mai. Mentre scelgo sul da farsi, qualcuno pensa già a darmi la risposta, gettandomi il vassoio per terra con una mano all’improvviso, e dopo aver raccolto il piatto di purea, stranamente ancora intatto, me lo butta sulla testa con un colpo sonoro, mentre tutta la mensa sbatte le proprie mani sul tavolo, urlando in coro “checca”. Non resisto più, e corro via, rifugiandomi nel bagno. Lì, con della carta riesco a togliere via il purea dai miei capelli, e dopo aver soffocato qualche lacrima, esco fuori a testa bassa coprendomi con il cappuccio, e arrivato in cortile sorprendo Emily a fumare. Lei mi vede arrivare e mi soffia una boccata di fumo in faccia, mentre mi dice “Non saresti dovuto andare in mensa, tesoro”, io la guardo senza sapere bene cosa dirle, riesco soltanto a mormorare un “già” soffocato dalle lacrime che bruciano nella mia gola. Non devo essere un bravo attore, perché lei se ne accorge, si mette davanti a me, e alzandosi in punta di piedi mi sfila il cappuccio e con la sua mano con le dita screpolate, piene di pellicine e tinte di nero, mi sfiora i riccioli e appoggia la sua testa sulla mia spalla. “Niente paura – dice – sweetheart, non sei più solo adesso” restiamo così per almeno un altro paio di minuti, fino a quando il suono della campanella ci fa sobbalzare, lei si allontana velocemente, ma rimane abbastanza vicina da attaccare il suo braccio al mio, mentre dice “adesso abbiamo matematica, è l’ultima ora, dopo, se ti va, puoi venire a casa mia per fare i compiti”, prendo un po’ di coraggio, e dico “senza offesa, ma non sembri la tipa che spende tempo a fare i compiti”, devo aver fatto un buon lavoro, perché la sento ridere di gusto, mentre mi da delle pacche sulla spalla “Okay, Mr. Know it all”.
Ci avviamo insieme in classe, e il professore ci squadra con uno sguardo di disapprovazione, facendoci capire che siamo in ritardo. Non appena raggiungiamo i posti, ci guardiamo con uno sguardo d’intesa, non importa quanto possa essere stata difficile questa giornata, o quante altre brutte giornate dovrò attraversare: “non sei più solo, adesso”, sono queste le parole che lei mi ha detto e che continuano a risuonare nella mia testa, fino alla fine dell’ora. Non appena la campanella suona, ci alziamo tutti in piedi e ci catapultiamo fuori dalla scuola. Emily mi prende per mano e mi trascina correndo, mentre una decina di macchine stanno per investirmi. Solitamente non mi piace correre in mezzo al traffico, ma non posso negare che tutto questo non mi faccia ridere. In effetti, è la prima volta che mi diverto davvero. All’improvviso mi tira a sedere su una panchina accanto a lei, in un parco che non avevo mai visto prima e dopo qualche minuto di totale silenzio, involontariamente le dico:
-Come facevi a sapere il mio soprannome?-
-Perché dopo aver sentito che vieni da Beirut, ho detto l’unica parola che conosco della tua lingua- mi risponde mentre accende un’altra sigaretta.
-Hai indovinato, è proprio il mio soprannome.-
-Un caso curioso che ti chiamino “sacchetto di plastica”-
-Lo fanno anche perché va bene con “Michael”-
-Ti piace?-
-Sì, molto-
-E allora va bene così, Mika-
-Sei sempre così sfrontata?-
-Al diavolo tutte queste stronzate, perché non ci facciamo domande come “qual è il tuo colore preferito” e cose del genere?-
-In effetti nessuno me l’ha mai chiesto.-
-Beh, non credo che tu abbia mai avuto un amico, prima di me-
-Hai ragione, e comunque, il mio colore preferito è il blu. Ma mi piacciono tutti.-
-Il mio invece è il giallo, come i tuoi pantaloni.-
-Cibo preferito?-
-Mi piacciono molto i pancakes, e a te?-
-Tutto. Mangio di tutto.-
Mentre parliamo, per sbaglio inizio a leggere con gli occhi il cartellone davanti a noi, e quando mi rendo conto che dice “Proprietà privata, vietato l’ingresso”, mi giro di scatto verso Emily, e le chiedo
-E’ casa tua?- lei mi fissa per un momento e poi risponde
-Mi piacerebbe…-
-Quindi stiamo violando questa proprietà?!? Oh mio dio.-
-Se la vuoi mettere così… Non ti preoccupare, non ci viene mai ness…-
All’improvviso sentiamo una voce “VOI DUE! FUORI DI QUI!”
Lei mi guarda e dice “Oh, cazzo”. Iniziamo a correre e scavalchiamo il muretto vicino. Continuiamo a correre velocemente, e improvvisamente mi fermo e urlo “Devo tornare a casa!”, “Okay” mi dice lei avvicinandosi e dandomi un bacio sulla guancia, dopo mi fa l’occhiolino e continua a correre. Io mi giro come un ebete, e inizio a camminare verso casa.

 
 

 Note Autrici:
E rieccoci! Grazie ragazzi per aver letto anche questo capitolo, e soprattutto per averlo aspettato. Torneremo presto, e lasciate recensioni (positive o negative), perchè per noi potranno essere un punto di riferimento. Detto questo: ciaaauuuu, alla prossima! :*

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Capitolo 3
*** Troublemaker ***


Troublemaker



Arrivo davanti alla porta di casa dopo un’affannata corsa, controllo il display del cellulare per vedere l’ora e prego che mia madre non mi ammazzi per il ritardo. Non appena salgo, sento le urla di mia sorella che dice a qualcun altro:”Deve essere lui!!! Dì a mamma che è tornato!” Mi basta questa frase per capire che sono nei guai. Entro in casa e mia madre si avvicina velocemente e inizia a sbraitare “Michael Holbrook Penniman Jr., sono esattamente le 17 e 10, dovevi essere a casa un’ora fa! Cosa hai fatto in tutto questo tempo? Dov’eri finito? La mia immaginazione inizia già a galoppare, e non mi piace.” Mi sento in dovere di rassicurarla, prima che mi dia per latitante nelle mani di uno spacciatore. “Non è come pensi, ero semplicemente in compagnia di un’amica” in quel momento cade un silenzio tombale. Tutti si girano a fissarmi, e mia madre mi chiede:”Questa amica ha un nome?” quasi come se volesse mettermi alla prova. Immediatamente rispondo “Certo. Si chiama Emily”. Se prima sembrasse arrabbiata, adesso sembra che da tutti i pori della sua pelle fuoriesca della polvere di stelle. -Perché non l’hai invitata a cena?- -Non la conoscete… e non sapevo che fare.- -Beh, visto che questa occasione l’hai sprecata in fumo, domani fammi la cortesia di chiederglielo.- -Va bene… ma ora devo andare a fare i compiti..- dico prima che inizi a farmi il terzo grado sulla mia giornata. Effettivamente Emily è l’unica cosa di buono che mi sia capitata, per il resto è meglio lasciare le cose al buio. Mi chiudo in camera e svuoto lo zaino sul letto, prendo un foglio e inizio a scarabocchiare qualche parola... “Emily, you can’t even like your chance, take a boy and learn to dance, be a girl like any other…” 3 ore dopo… Improvvisamente mi sveglio quando sento dei forti colpi sulla mia porta.
Alzo immediatamente la testa dal tavolo, e sbatto allo spigolo della finestra. Mi occorrono 10 minuti prima di capire quello che sta succedendo. Guardo il foglio scarabocchiato e i quaderni ancora sul letto, inutile dire che nessuno dei miei compiti sia stato svolto. Appallottolo il foglio e lo getto nel cestino. Mi alzo con qualche difficoltà, apro la porta e trovo Yasmine intenta a bussare sulla porta:”Oh, è da un’ora che ti chiamo. La cena è pronta.” e ancora dolorante per la botta alla testa, le rispondo balbettando “Ehm… scusa, ero troppo concentrato a fare i compiti, non ti avevo sentito..” lei si volta e io la seguo in cucina, dove mi aspettano tutti gli altri. La cena scorre veloce mentre mia madre continua a farmi mille domande a cui mi limito soltanto ad annuire e sorridere. Non presto alcuna attenzione ai suoi lunghissimi monologhi e appena finisco di cenare, spingo indietro la sedia e dico “Scusate, devo finire ancora qualche compito…” Esco subito fuori dalla cucina, e ritorno nella mia camera. Non appena controllo il diario scolastico inizio ad addormentarmi di nuovo, però non passano nemmeno 10 minuti, che sento qualcuno bussare alla mia finestra. Sto per arrabbiarmi sul serio, quando apro la finestra e mi arriva una pietra in testa. Mi abbasso per vedere chi fosse, ma vedo soltanto una ragazza piegata in due perché non riesce a smettere di ridere. Non mi basta neanche guardarla in faccia per capire che è Emily. La guardo sbalordito e le chiedo “Che ci fai qui?!?”. Lei continua a ridere cadendo all’indietro e riuscendo solo dopo 10 minuti a concludere la risposta, tra una risata e l’altra: -Sono venuta qui per farti sapere che possiamo andare a scuola insieme domani.- -Vuoi dire che ti sei fatta tutti questi isolati per dirmi solo questo?- -Beh, prima non abbiamo avuto il tempo di scambiarci i numeri di telefono.- -Oh, giusto… va bene, allora di solito esco di casa alle 7.36 circa….ma hey, aspetta un attimo…se non ricordo male non ti ho neppure dato il mio indirizzo di casa.- -Solo perché tu lo sappia, non ho bisogno che tu lo faccia… sai… ho i miei mezzi.- dice guardandosi le punte dei piedi. -Già, non so davvero nulla di te, ci conosciamo da così poco… - la guardo negli occhi e senza volerlo le dico “Sai, non ho mai parlato con nessuno dalla finestra della mia stanza a quasi notte fonda” -Effettivamente quante cose hai mai fatto prima, con una persona che non facesse parte della tua famiglia?- dice alzando la voce di un tono, per farsi sentire. Le faccio segno di riabbassare la voce e le rispondo “Cose folli come questa? In realtà… nessuna.” Il buio si fa più pesto e non riesco bene a decifrare l’espressione sul suo volto. Non mi servirebbe nessuna luce, però, per capire i suoi sentimenti. Chiaramente per lei è qualcosa di assurdo come io non possa vivere senza scribacchiare, essere lo sfigato della scuola o comporre musica, ed è chiaro che anche lei non sia capace di vivere senza cacciarsi nei guai. Riesco solo a sentire la sua voce che mi dice “Forza stupido, scendi!!”. Non me lo faccio ripetere due volte: sono stanco di sentirmi diverso dagli altri e di essere sempre l’ultima ruota del carro, voglio anche io un folle ricordo adolescenziale. Cercando di non fare troppo rumore, richiudo la finestra ed esco dalla stanza. Arrivo davanti alla porta principale senza problemi, ma puntualmente, ogni volta che cerchi di non fare rumore, cade qualcosa: il vaso vicino al porta ombrelli, contro cui vado a sbattere traballa, ma per fortuna riesco ad afferrarlo prima che si rompa in mille pezzi. Esco dalla porta e scendo le scale in punta di piedi. Dopo è fatta, sono fuori. Giro l’angolo ed Emily non c’è. Sparita, scomparsa come le ceneri nel vento d’Irlanda. Mi guardo intorno con la giacca ancora stretta nella mano destra, in questo momento sembro un ebete. Mi arrendo e penso che forse a questa ragazza, Emily, piacciano fare le cose di testa sua. Sto per ritornare indietro quando sento due forti braccia che mi stringono il collo, urlo ed agito le mani e sento quella risata ormai familiare: questa volta però entrambi siamo finiti a terra, io per lo spavento ed Emily, beh… Emily per le risate. Mi alzo con il cuore che batte ancora alla velocità della luce e le dico “Sei pazza?!? Potevi farmi venire un infarto!”, lei mi guarda un po’ perplessa e poi ricomincia a ridere, e tra le risate trattenute riesce a dire “Scusami, ma è…è…è troppo divertente!”. Dopo circa 5 minuti si rialza, mi guarda e dice “Mettiti la giacca, fa freddo stasera”, subito dopo si volta e la seguo. Finiamo in un piccolo angolo dove appoggiata c’è una motocicletta: una Harley Davis. Spalanco la bocca e le chiedo “E questa da dove spunta?”, lei mi guarda e mi dice “Me l’hanno spedita i Re Magi… da dove vuoi che venga? Da casa mia.” Alza gli occhi al cielo e mi fa segno di salire, dopo essersi sistemata al posto di guida con un gesto molto hollywoodiano. Io tento di fare lo stesso, ma rimango intrappolato per un paio di minuti e quando finalmente riesco a sedermi, lei accende il motore e inizia a fare una serie di slalom per mettersi in strada. Sto quasi per cadere quando sento la stretta salda delle sue mani che trattengono le mie braccia, stringendole ai suoi fianchi. All’inizio il vento è così forte da farmi lacrimare gli occhi, Emily però sembra a suo agio e soltanto dopo mi rendo conto che non abbiamo il casco: -Emily?!?- -Si?!?- -Dov’è il casco?- -Okay, ehm… non c’è. Non preoccuparti, non moriremo, ti proteggero, fidati.- So che non dirà altro, quindi mi limito a godermi l’attimo: apro le braccia e tentando di non cadere, cerco di volare. Sento la risata di Emily che inizia a canticchiare “You call me Lavander, you call my sunshine, heavy metal hour on tv.” Ha una bella voce, nonostante si possa sentire una piccola nota di amarezza: questa ragazza è davvero strana. Mi rimetto al mio posto e guardo il paesaggio intorno, questa è in assoluto la stronzata più grande della mia vita. Improvvisamente Emily spegne il motore e mi chiede di scendere “Siamo arrivati- dice -vedi?!? Non sei morto.” Non appena scendo, solleva il sedile e prende delle bottiglie di Cherry Cola e Granatina, richiude tutto e comincia a camminare sull’aiuola, ignorando il divieto. Faccio esattamente come lei, fino a quando di siede su un muretto vecchio e pericolante, ma non si fa problemi a sedersi sopra, e neanche a stappare le bottiglie con la sola forza di denti e mandibola. Me ne porge una e mi dice “Allora, vediamo se indovini dove ci troviamo”, mi guardo intorno e rispondo “In un giardino di una vecchia casa…?” “Sbagliato- risponde –siamo in un retrobottega di una chiesa”. Quasi mi affogo con lo Cherry “Cosa?!? Wow… figo!”, lei mi guarda, ride, continua a bere e mi dice “Mi dispiace per quei ragazzi nella mensa oggi”, non ho il coraggio di guardarla e le dico “Nessun problema, mi sono abituato ormai.” “Non tirarmi stronzate, lo so benissimo che non ci si abitua mai a questo tipo di cose, si fa solo finta.” “Sì, peccato che faccia schifo anche in quello.” La sua mano afferra la mia e mi guarda dritto negli occhi “Hey- dice –tu non fai schifo, okay? Non permettere mai a nessuno di fartelo anche solo pensare.” Mentre mi guarda sentiamo qualcun altro parlare, io rimango di ghiaccio: non ho idea di che fare e dire. Emily si gira di nuovo verso me e sussurra “Non dire una parola, resta qui”. Si allontana, e per paura comincio a bere ancora di più, sentendomi sempre più pesante. Sento delle urla e spaventato mi avvicino: riesco solo a vedere Emily che tira un pugno ad un ragazzo e un’altra ragazza che cerca di intromettersi. Mi faccio avanti “Emily, che succ….” “Sta’ zitto, Mika” dice, dopo si volta a guardare il ragazzo e dice “Sapevo che fossi uno stronzo, ma farlo di nuo….” “Di nuovo cosa? Tradirti? Andiamo Em, ci siamo sempre divertiti tu ed io, ma sai bene che non saremmo potuti andare mai oltre, insomma io sono io e tu.. beh, sei tu.” lui si avvicina ma lei si allontana “Non sarò mai abbastanza?” sussurra “Em, andiamo, babe…”, Emily gli tira un altro pugno, lui si avvicina e le dice “Sei una stupida stronza, guardati: non sei in grado nemmeno di prenderti cura di te stessa, sei malata come tutta la tua famiglia. Non sarai mai nulla perché non vali niente. Fanculo, Em”, prende la mano dell’altra ed insieme se ne vanno. Mi avvicino ad Emily e le chiedo: -Cavolo, ma chi era?- dopo alcuni attimi di silenzio, cerco di toccarle la spalla, ma si allontana e dice -Era il mio ragazz… ex-ragazzo. – -Cosa?!? Lui?!? Mi sembrava che stesse….- si gira di scatto e la vedo piangere -Cosa? Che mi stesse tradendo? Non è la prima volta, dopottutto- -Perché ci stai insieme? Puoi avere di meglio- lei mi risponde subito “In un vecchio film, ho sentito che a volte abbracciamo l’amore che pensiamo di meritare” -Ascoltami, non ti conosco da tantissimo tempo, e neppure da molte ore, ma so per certo che meriti qualcuno che ti renda felice- lei mi prende le spalle e inizia a scuotermi: -Ma mi hai vista?!? Cosa posso offrire di bello a qualcuno? Cosa puoi dare in cambio quando non sei abbastanza nemmeno per te stesso?! Hai detto bene, ci conosciamo da poco e la mia vita è un casino…- mi avvicino e le dico “Smettila, non importa quanto incasinata sia la tua vita, questa non può essere una giustificazione, non puoi lasciarti trattare così da uno stronzo. Tu, mia cara Emily Hall, meriti il meglio, ma fino a quando lo riceverai posso solo prometterti che io resterò al tuo fianco per molto, ma molto tempo.” Lei con uno scatto si aggrappa al mio braccio e continua a piangere. Io appoggio la testa sulla sua spalla e ci sdraiamo sul prato dell’aiuola vietata, come due criminali che fuggono nella notte. Qui, dove il tempo sembra essersi fermato per sempre.

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Capitolo 4
*** Over My Shoulder ***


OVER MY SHOULDER

Mi sveglio alle 6 del mattino, la finestra ancora aperta mentre piove. Mi alzo a fatica mentre cerco di focalizzare il resto della stanza, la sedia che di solito si trova sotto la finestra è scaraventata contro il muro, mentre tutti i fogli da disegno volano per la stanza. Non appena mi metto in piedi cado sul pavimento e sono costretto a sedermi sul letto per almeno 10 minuti perché ho un fortissimo mal di testa e un senso di nausea che mi fanno sperare di riuscire ad arrivare almeno alla fermata dell’autobus. Dentro di me in realtà sto bestemmiando contro Emily: non mi ricordo assolutamente niente di quello che è successo ieri, e non sarei sorpreso se fossi stato drogato. Sento mia madre uscire dalla sua camera e dirigersi in cucina. Mi alzo a fatica e chiudo la finestra, iniziando a preparare la mia cartella. Dopo mi vesto e pregando tutti i santi spero che mia madre non mi faccia troppe domande. Chiudo la maniglia dietro di me e la raggiungo in cucina, dove ha preparato il caffè. Mi siedo lentamente e mangio la mia colazione con nonchalance, ci raggiungono anche i miei fratelli e per fortuna nessuno sembra fare troppo caso alla mia capigliatura. Mia madre si siede accanto a me e dopo aver sorseggiato un po’ di caffè mi chiede:
-Allora, tu ed Emily vi sentirete oggi?-
-Penso di sì…- dico a fatica sperando di non vomitarle addosso.
-Allora non dimenticarti di chiederle se può restare a pranzo.-
-Ma certo, ora devo andare… a dopo!-
Prima di uscire corro in bagno e mi sciacquo la faccia, prendo qualche boccata d’aria ed esco dalla porta sul retro. Non appena faccio qualche passo, Emily appare dall’angolo. Sembra molto contenta e sicuramente più rilassata di me, come se avesse passato la notte a dormire beatamente.
-Hey, yo! Come va?-
-Non tanto bene… non come a te, comunque.-
-Ancora stordito da ieri sera?- mi chiede
-Sì, e tu?-
-Per niente… ci sono abituata ormai.-
-Vorrei poter essere come te… Non so come affronterò la scuola oggi…-
-Facile, non l’affronterai, perché non ci andremo mai.-
-Stai scherzando, vero?!?-
-Ti sembro una che può scherzare? Monta su, dai!- dice indicandomi il motore. Non so bene che fare, ma nel dubbio, mi lascio trascinare, perché per qualche astruso motivo, mi fido di lei. Mi ritrovo così per la seconda volta nel bel mezzo della strada, senza casco, mentre Emily guida questo motore di cui non ho ancora capito chi sia il reale proprietario. Mentre ci penso su mi ricordo quello che dovevo chiedere ad Emily e quasi urlando le dico:
-Emily! Vorresti venire a pranzo a casa mia oggi?!- all’inizio non dice niente, ma ad un tratto esclama:
-A casa con la tua famiglia? Figo, ci sto!-
-Okay, ma adesso dove stiamo andando?- le chiedo preso dal dubbio e dalla curiosità
-Vedrai, ti stupirò! Sei mai stato in campagna?-
-No, in realtà no-
-Perfetto, perché il posto in cui ti sto portando è unico al mondo!-
Durante il tragitto mi chiedo quale possa essere questo posto, e mentre vedo il caos della città scomparire dietro di noi, davanti si apre uno scenario fatto di alberi, foglie d’autunno e profumo di spezie. Ad un certo punto, Emily frena dietro una vecchia quercia. Sembra esattamente come un film: c’è un grande cancello davanti a noi e noto che il lucchetto che tiene chiuse le ante è rotto ed Emily con un piccolo tocco spalanca il cancello. Io la seguo senza sapere il perché; lei entra da una grande porta settecentesca, come se lei fosse la proprietaria. Entro anche io e le bellezza di quella casa mi toglie il fiato, anche se ormai è notabile che non ci viva più nessuno da anni, conserva comunque un fascino inalienabile, e i rami dei pioppi entrano dalle grandi finestre ma tutto ciò rende l’atmosfera ancora più bella e unica. Emily mi fa cenno di seguirla su per le scale, non dice niente fino a quando non arriviamo davanti ad una grande stanza. Lei apre la porta guardandomi, si dirige verso un armadio e prende quelli che all’inizio sembrano due grandi sacchi, ma poi dice:
-La prima volta che sono venuta in questa casa avevo 6 anni, conoscevo bene i proprietari: erano una coppia di scozzesi molto gentili, la proprietaria si chiamava Victoria e preparava dei biscotti alla vaniglia molto buoni che suo marito invece odiava. Quando avevo 13 anni venni qui un pomeriggio d’autunno e non trovai più nessuno, continuai a bussare per ore nella pioggia battente sperando che qualcuno mi aprisse, lo facevano sempre e mi lasciavano giocare nel giardino o nella loro biblioteca. Inutile dire che rimasi sola e riuscii a scassinare la porta, capii che se n’erano andati, ma almeno mi è rimasta la casa, e questi vestiti. Dai su, provalo!-
Non so bene che dire, non avrei mai immaginato che ci potessero essere simili ricordi nel passato della spericolata Emily, a mio avviso adesso non sembra più la ragazza sfacciata e forte di ieri, ma inizio a capire che anche lei ha un lato molto fragile. Con un sorriso prendo il vestito e uscendo dalla stanza inizio a provarlo e questa è la cosa più strana che abbia mai fatto in tutta la mia vita. Dopo qualche minuto Emily esce dalla stanza con un lungo abito nero addosso, mi prende per mano e scendiamo le scale. Passiamo davanti ad uno specchio: il mio abito è lucido e il tessuto è doppio, nero e la forma a mo’ di pinguino e con la coda dietro, la camicia di seta leggera e particolarmente elegante, i bottoni neri con rifiniture in argento, un papillon vellutato e un cappello stile ‘800 che fa fatica a coprire tutti i miei ricci scompigliati. Arrivati nel salone vedo che l’unico mobile rimasto è un vecchio tavolino bianco con due sedie intorno, seguendo Emily noto con la coda dell’occhio un vecchio pianoforte a coda nero con gli interni marroni e nonostante il tempo, è in buone condizioni. Emily si siede facendo scricchiolare la sedia, mi guarda e mi dice:
-Vieni a sederti!- in quel momento, però, l’unica cosa che vorrei fare è provare quel vecchio pianoforte, così mi avvicino e scostando un vecchio lenzuolo, premo i tasti bianchi, facendo riecheggiare per la casa una dolce melodia. Emily si gira a guardarmi e mi chiede:
-Sai suonare, per caso?-
-Sì- le rispondo
-Io ho sempre voluto imparare… che ne dici di suonarmi qualcosa?-
-Agli ordini…-
Avvicino la vecchia sedia al piano e mi lascio trasportare dall’emozione. Le prime note sono incerte, paurose e tetre. Dopo sento i passi di Emily avvicinarsi e sedersi accanto a me. Preme sempre lo stesso tasto, mentre io comincio a rilassarmi, lei mi guarda ma non dice niente, io chiudo gli occhi e inizio a cantare la stessa canzone che ho scribacchiato quando avevo 15 anni. Non la suonavo da molto tempo, e adesso non so perché mi è ritornata in mente: “Over my shoulder, running away… feels like I’m falling, losing my day. Cold… and dry… cold, and dry…”
Al secondo ritornello lei mi segue a ruota, iniziando a cantare con me e ad aggiungere nuove parole. Dopo 12 minuti passati a ripetere lo stesso ritornello e a fare assoli al piano, le mie mani mi fanno troppo male per continuare. Appoggio la mano sulla mia gamba e in un nanosecondo sento la sua mano stringere la mia, e le nostre dita intrecciarsi le une con l’altre. Rimaniamo così per non so quanto tempo e a intervalli irregolari, lei continua a premere lo stesso tasto, poi senza volerlo dire ad alta voce, mi lascio scappare: “Cosa c’è che non va con te, Emily?” Non appena lo dico, mi volto a guardarla e noto che ha gli occhi chiusi e lentamente allenta la presa sulla mia mano, fino a lasciarla del tutto. Dopo qualche minuto si volta, e i miei occhi incontrano i suoi, mi prende il viso tra le mani e all’inizio si avvicina alle mie labbra, ci soffia sopra, ma non appena io chiudo gli occhi posso sentire il sorriso sulle sue labbra e appoggia la sua guancia sulla mia. Lentamente la sento sussurrare nel mio orecchio:
-Ieri, ho pensato “questo nuovo ragazzo sembra molto a suo agio nelle situazioni più disperate”, per questo ti ho accolto nel mio personale inferno, pensando che come me, ti saresti sentito a casa.- così dicendo distoglie lo sguardo insieme alle sue mani, si volta dandomi le spalle e stringendo le dita sulla vecchia panca, dopo qualche minuto si alza e comincia a camminare, allontanandosi sempre di più, e sento che insieme al suo corpo stia allontanando anche il suo cuore da me. Rimango fermo a fissarla e dopo mi rendo conto che non posso perdere l’unica persona che ho nella mia vita sociale, ma se voglio rimanerle accanto ho bisogno di sapere che di lei mi posso fidare, così raccolgo il coraggio, la raggiungo, seppur mantenendo una certa distanza, e dico:
-Cosa intendevi con quella frase? Emily, sento che ci stiamo avvicinando molto anche se ci conosciamo solo da pochissimo tempo, però prima di legarmi a te, devo sapere la verità, insomma… Tu hai visto che problemi ho, e nonostante ciò hai scelto di aiutarmi… lascia che io faccia lo stesso per te.-
Non appena finisco la frase, si gira di scatto e riesco a vedere la rabbia nei suoi occhi, inizia a camminare verso di me e si ferma iniziando ad indicarmi:
-Tu pensi di sapere tutto di me? Sono l’unica cosa più vicino all’essere un’amica che tu abbia mai avuto e pensi già di saper come comportarsi in un’amicizia? Ti ho aiutato solo perché mi facevi pietà, e perché sei così debole che è facilissimo farti fare quello che voglio io. Apri gli occhi, ti sei fidato di me ciecamente fin dal principio. Avrei potuto portarti in qualche posto pericoloso dove spacciano o roba del genere…. E tu nonostante ciò, hai comunque accettato di venire con me oggi, quale sano di mente l’avrebbe fatto?-
-E’ questo quello che sei? Non ho bisogno di altre risposte… si, è vero, mi sono fidato di te, e ho sbagliato, ma in fondo non ti ha chiesto nessuno di aiutarmi…-
-Non vuoi il mio aiuto? Benissimo, visto che sai come cavartela da solo, tolgo il disturbo.-
Così dicendo si gira, apre la porta, e senza neanche avere il tempo di capire quello che succede, se ne va. Rimango in piedi ad ascoltare il ruggire della sua moto sfrecciare sulla breccia del viale. Non penso subito a come tornare a casa, certo è un bel problema… siamo in aperta campagna, e non sono sicuro di ricordare la strada. Mi siedo sul pavimento e trattengo a stento le lacrime: l’unica bella cosa che avevo, se n’è andata. Forse è il mio destino quello di non avere amici, forse la mia unica amica è la musica. Dopo un po’, mi alzo e sfregandomi gli occhi mi accorgo che ho ancora quello strano vestito addosso, così salgo al secondo piano ed entro in quella vecchia camera per recuperare i miei vestiti, e in un angolino noto appallottolati anche i vestiti di Emily. Non importa quello che mi ha detto, anche se abbiamo trascorso insieme poco tempo, la sua qualità è stata indimenticabile, e nonostante tutto voglio restituirle i vestiti, così li caccio nel mio zaino e marcio a piano terra, deciso a chiamare mia sorella. All’uscita, però, noto la stessa bici rossa che avevo notato all’inizio, nascosta nel retrobottega della casa. Non so come abbia fatto, senza far rumore, ma Emily deve averla tirata fuori e anche gonfiato un po’ le ruote. Non so cosa pensare di questa ragazza: non vuole più darmi il suo aiuto, ma continua ad occuparsi di me. Monto in sella e decido di fare affidamento al mio senso di orientamento, dopo quasi un metro, però, inizio a notare delle freccette sgangherate sull’asfalto, e seguendole, alla fine, riesco a ritornare a casa.


Nota Autrici: eccoci con un nuovo capitolo! Scusateci per la lunga assenza ma la scuola ci spolpa via tutto il tempo, per farci perdonare abbiamo tentato di fare questo capitolo più lungo degli altri e speriamo che vi piaccia! A presto! ;)
 

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