Viva la vida

di Naif
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quarto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
Come un fiore, tu sei.
Sei un piccolo fiore che sta sbocciando.
Ma se il vento, la pioggia lo aggrediscono
il piccolo fiore smette di vivere.
Non smettere di vivere, piccola creatura,
non rinchiuderti in te stessa,
non permettere al dolore di invadere il tuo cuore,
non farlo mai, piccola Effie.
Ti sarò sempre vicina,
anche se non mi vedrai.
Ti voglio bene più di ogni altra cosa.
Tua mamma
 
Ormai quella lettera era piena di lacrime ma aveva ancora il suo profumo. Non riuscivo a capire come la mia vita fosse cambiata in poco tempo. Come può una frase detta da qualcuno cambiare le vite delle persone così velocemente? E invece, una malattia mi aveva portato via l’unica persona che mi era rimasta.
Quell’aereo su cui stavo viaggiando era la mia unica garanzia, al momento.
 
 
 




Il cantuccio di Naif~
Buonasera gente! :) Potrei aver perso il senno ma, a quanto pare, mi sono decisa a pubblicare, nello stesso giorno, una flash-fic e il prologo di una long, sempre su Violetta. u.u Ebbene, o sono impazzita oppure ho voglia di ricevere tanti ma tanti pomodori in faccia… Ad ogni modo, care persone avventurose e coraggiose che siete giunte fin qui alle note, vi ringrazio e spero di non avervi annoiato troppo. Per ora, non appare nessuno di conosciuto, d’altronde è il prologo e la narratrice non è tra i personaggi della serie ma un personaggio creato da me ex-novo che si presenterà meglio nel primo capitolo. Se vi va di farmi sapere se questo prologo vi ha incuriosito, io sono qui. :)
A presto, spero
Naif~

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo ***


Forse avevo dormito per quasi tutta la durata del viaggio, il che era stato un bene: d’altronde in tal modo avevo occupato del tempo che altrimenti avrei passato per rimuginare sul momento in cui avrei rivisto Pablo dopo anni. Forse, dire dopo anni era esagerato, ma quegli incontri sporadici tra Buenos Aires e Madrid che erano avvenuti quando io e la mamma vivevamo ancora in Spagna non avevano di certo contribuito a tessere un rapporto che, in fin dei conti, allora era quasi inesistente.
Tra Pablo e mia madre non ci fu alcun allontanamento particolare: dopo la morte di mio padre, mia madre, che era di origini spagnole, sentiva il bisogno di ritornare nella sua città ed io, ancora troppo piccola, la seguii. Pablo, invece, che era già maggiorenne ed aveva già un lavoro ad uno studio di musica e danza della città, aveva deciso di rimanere, non prima di aver ottenuto il consenso di nostra madre; sarebbe rimasto a Buenos Aires a lavorare ed avrebbe potuto contare non solo su Antonio, il suo datore di lavoro che era per lui più di un mentore, ma anche su Angelica, cara amica di nostra madre. Nonostante sapessi che sarebbe stato in buone mani, nonostante dovessi sapere che Pablo si stava costruendo una vita, presi quella sua decisione come un tradimento, convinta che a lui non importasse poi molto vederci partire per una destinazione oltreoceano. Col senno di poi, avrei pensato che il mio distacco nei suoi confronti era stato forse un po’ troppo drastico, ma continuavo a ritenere valide le mie ragioni: la sensazione di essere stata in un certo senso tradita non si era affievolita negli anni. Io, che da piccola guardavo con ammirazione Pablo, che lo seguivo in giro per la casa e mi divertivo a cantare mentre lui suonava il piano, avevo bisogno di mio fratello con me, visto che non avevo nella mia vita la presenza di un padre.
Per quanta rabbia serbassi nei confronti di Pablo, sapevo di non provare alcun tipo di odio: in fondo, sapevo anche che l’affetto immenso che provavo nei suoi confronti era ancora lì, al suo posto nel mio cuore. Ed era pur sempre uno dei motivi per cui avevo accettato di tornare da lui: infatti, non era solo per pura necessità di vivere che avevo accolto il suo invito. Mia madre, prima di morire, era riuscita a strapparmi la promessa che avrei accantonato qualsiasi tipo di risentimento per provare a recuperare, per quanto possibile, il rapporto con mio fratello: non voleva sapermi sola, una volta dopo la sua – inevitabile, vista la malattia – morte.
Recuperato il bagaglio, mi diressi verso l’uscita dell’aeroporto di Buenos Aires e incominciai a cercare con lo sguardo mio fratello: ora che il momento dell’incontro con lui si faceva vicino, iniziavano a venirmi tutti quei dubbi che grazie al sonno non mi avevano assillato durante il viaggio. Sbuffando, tra un misto di impazienza e preoccupazione, mi sedetti sul trolley e iniziai a picchiettare ritmicamente le dita sulle gambe: mi estraniai a creare quel ritmo a tal punto che non senti qualcuno arrivare al mio fianco.
«Efel?». Mi girai, consapevole che soltanto una persona mi chiamava in quel modo. In realtà, era il solo a cui fosse mai venuto in mente, perché chiunque trovava Effie più immediato come diminutivo del mio nome.
«Pablo» riuscii a dire prima di essere travolta da un abbraccio di mio fratello. Rimasi un attimo colpita, poi mi decisi a ricambiare l’abbraccio. Benché dovessimo chiarire un po’ di cose, quell’abbraccio sapeva di casa: i pensieri e le preoccupazioni avrebbero potuto aspettare.
«Che gioia poterti riabbracciare, sorellina» esclamò Pablo sciogliendo l’abbraccio. Non era cambiato di molto, se non per qualche rughetta solitaria.
«Potrei spiazzarti dicendoti che lo stesso vale per me» gli confessai, sorridendo. Ricambiò il mio sorriso con occhi lucidi: solo lui poteva capire quanto mi costasse ammettere quelle cose.
«E per ora mi basta, Efel, per ora mi basta» mi disse, continuando a sorridere e prendendo le mie mani tra le sue.
«Le tue mani continuano ad essere più grandi delle mie» constatai ridendo, ripensando a quando, da piccoli, lo prendevo in giro perché, al suo confronto, sembrava che lui avesse le mani di un gigante.
«Io noto che persiste, sul tuo volto, il motivo per cui ti chiami Efelide» mi rimbeccò lui, indicando quella lentiggine che aveva ispirato il mio nome. Tra l’altro, efelide e lentiggine non erano propriamente sinonimi, quindi per essere precisi avrei dovuto chiamarmi… Lentiggine? In ogni caso, non ho mai scoperto se Efelide fosse un nome effettivamente diffuso o se fosse nato esclusivamente dalla follia dei miei genitori; fatto sta che quasi nessuno mi chiamava per intero, anzi tutti accettavano di buon grado di chiamarmi Effie, tutti eccetto Pablo.
«Ed io invece noto che continui a ricordarmi il mio nome folle e inusuale» gli feci il verso, imitando il suo tono di voce. Scoppiammo a ridere come due bambini lì, all’ingresso dell’aeroporto, fino a quando qualcosa, o meglio qualcuno, interruppe quel momento di ritrovata serenità: il cellulare di Pablo prese a squillare e mi chiesi se non fosse già il lavoro a dividerci, di nuovo; mi meravigliai, però, perché rispondendo capii che effettivamente era un collega di mio fratello ma lui, prontamente, ricordò della sua giornata di ferie e riattaccò.
«Allora, ragazzetta, che dici se ci dirigiamo a casa e ti sistemi? Dopo, se ti va, potremmo andare a fare un giro in città, che ne pensi?». Apprezzai sinceramente il suo tentativo di restare con me per tutto il giorno ma non potevo fare a meno di notare che sembrava agitato per qualche motivo, forse per la telefonata ricevuta un istante prima.
«Che dici se invece dopo che mi sono sistemata andiamo a questo famoso studio On Beat? Così tu vedi per quale motivo il tuo collega aveva bisogno di te ed io inizio a conoscere un pezzetto della tua vita» proposi io, mettendo a tacere la vocina egoista che dentro di me mi ripeteva che avevo il diritto di reclamare la giornata fratello-sorella. Lo stesso Pablo iniziò a guardarmi stranito ed io cercai di sorridere per rassicurarlo.
«Sei sicura di ciò che hai proposto?» chiese ancora titubante.
«Sicura» risposi annuendo. Avrei recuperato il rapporto che avevo con mio fratello un tempo e lo avrei fatto iniziando a conoscere quel posto che, insieme alla musica, per lui era vita.
Seguii mio fratello, che mi precedeva col trolley, e tolsi la lettera di mia madre dalla tasca del jeans per infilarla in borsa. O almeno, pensavo di averla riposta in borsa: peccato che, distratta dalla conversazione con Pablo, non mi accorsi che la lettera era scivolata fuori della borsa e che qualcuno stesse cercando di catturare la mia attenzione per riconsegnarmela. 







Il cantuccio di Naif
~
Rieccomi gente! :D Ho pensato di pubblicare già oggi perchè il primo capitolo è abbastanza breve e poi il prologo si sentiva solo soletto, reclamava compagnia... (No, non sono pazza. xD)
Ecco a voi Effie, con i suoi pensieri e la sua leggera incoerenza: probabilmente si nota che ha le idee un po' confuse, appena vede Pablo la rabbia che provava perde forza, a tal punto che la ragazza si mostra disposta a rinunciare ad una giornata in giro per Buenos Aires. Ma chissà che la rabbia di effie non faccia capolino nei prossimi tempi... *si guarda intorno, con nonchalance u.u*
Comunque, dal prossimo capitolo i tempi di aggiornamento saranno più lunghi, non so ancora di quanto ma spero non troppo. Se vi va, fatemi sapere cosa pensate della storia e segnalatemi pure gli errori, io sono qui. :)
A presto e buona puntata per stasera ;)
Naif
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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo ***


Eravamo arrivati a casa in poco tempo ed io ero corsa in quella che sarebbe stata la mia stanza. Agli occhi di chiunque poteva risultare bella, accogliente, ai miei occhi risultava invece evidente che forse dovevo tenere a bada i miei capricci da sorella minore perché Pablo si stava impegnando parecchio a ricucire il nostro rapporto. Su due pareti della stanza erano state appese, tra mensole per i libri, delle foto: in una, c’eravamo mamma, papà, Pablo ed io da piccoli al Parque Tres de Febrero; in un’altra, io e Pablo ad una partita del Boca a La Bombonera; in un’altra ancora, io e la mamma; infine, altre tre foto non ritraevano nessuno della famiglia ma erano state scattate da me che, nonostante fossi piccolina, armeggiavo già con una certa bravura una macchina fotografica. Ritraevano tutte e tre scorci della Boca, un quartiere sul Riachuelo abbastanza famoso: mi ci portò Pablo un giorno un po’ dopo la morte di nostro padre per tirarmi su il morale e la sua missione, almeno per quella mattina, ebbe esito positivo; incominciai a scattare foto ai punti più caratteristici del quartiere e prendevo in giro Pablo perché, nonostante fosse un genio in musica, non sarebbe mai riuscito a fare una foto decente in vita sua. Sorrisi al ricordo e toccai la cornice della foto che tra le tre mi piaceva di più, uno scorcio del Caminito, la strada caratteristica per le sue abitazioni in legno dai colori vivaci.
«È quella che mi piace di più, tra le tre». Mi girai verso Pablo, sorridendo alla sua affermazione. Girandomi, vidi che sul letto posizionato al centro della stanza c’era un gattino grigio che sembrava mi guardasse incuriosito.
«L’ho trovato un po’ di tempo fa fuori casa, stava morendo di fame: non sono più riuscito a sbarazzarmene» raccontò, ridendo. Mi avvicinai: era così familiare, come se lo avessi già visto… Chiesi a mio fratello come si chiamasse.
«Mirtillo». Mi rispose con un tono di voce che presupponeva una reazione da parte mia, una reazione che non tardò ad arrivare.
«È identico» sussurrai, accarezzando il gatto che fece le fusa. Sembrava il gemello vivente di un pupazzo che quando avevo due anni mi portavo dietro ovunque andassi. «Non ricordo, però, perché lo chiamai Mirtillo» confessai.
«Avevi tolto le tonsille e per ridurre il dolore mangiasti del gelato al mirtillo, nel mentre papà ti portò quel pupazzo e tu, tutta contenta, prendendolo in mano dicesti: “Ciao Mirtillo, perché il gelato è buono e tu sei buono”».
«Embè, l’hai lasciato solo per venirmi a prendere?» chiesi mettendomi a ridere.
«È un gatto autonomo, lui, non so se te ne sei accorta ma è rientrato in casa quando siamo tornati noi, era andato dalla vicina» aggiunse poi, anticipando la mia nuova domanda. «Noi dovremmo andare» disse all’improvviso Pablo, non tanto rivolto a me  quanto al gatto: quello si prese una mia ultima carezza per poi saltare giù dal letto e avviarsi verso la porta. Sbalordita da quanto avevo appena visto, seguii mio fratello verso la porta e, dopo aver lasciato Mirtillo alla vicina, ci avviamo verso lo studio dove lavorava Pablo.
 
Lo Studio On Beat era in fermento, come se a momenti ci dovesse essere un particolare evento: i corridoi erano pieni di ragazzi che correvano in ogni direzione, qualcuno si stava riscaldando, altri stavano ripetendo il testo di una canzone o la partitura di una musica. Seguii Pablo verso quello che, a prima vista, doveva essere l’auditorium: mi feci in un angolo della sala e feci segno a Pablo che avrei ascoltato e visto da lì. Non volevo essere presentata o cose del genere, non ero il tipo che amava stare al centro dell’attenzione.
«Ma Pablo, non dovevi stare a casa, oggi? Non avevi qualcuno da incontrare?» chiese quella che riconobbi come Angie. Era una carissima amica di Pablo, nonché figlia di Angelica, e la ritrovai bellissima come la ricordavo: da piccola, era sempre da lei che andavo quando litigavo con Pablo e lei sembrava non annoiarsi mai, benché fossi una… mocciosa lagnosa, alle volte, lo ammetto! Non potei fare a meno di notare il modo in cui aveva sottolineato qualcuno.
«Il qualcuno di cui parli è venuto con me, non preoccuparti» disse facendo un cenno col capo nella mia direzione. E, così, accadde quel che volevo evitare: Angie, che stava dando gli ultimi consigli a dei ragazzi ai piedi del palco, mi trovò con lo sguardo e corse verso di me e mi abbracciò. Ricambiai l’abbraccio ma notai che quei ragazzi presero a guardarmi con aria interrogativa: ecco, era proprio questo che volevo evitare, presentazioni e cose varie.
«Effie, quanto sei cresciuta! E quanto mi sei mancata!» disse Angie, sciogliendo l’abbraccio e dandomi una carezza.
«Anche tu mi sei mancata, tanto» dissi sinceramente: era stata come una sorella per me e non avere più neanche lei nella mia vita di tutti i giorni era stato altrettanto difficile, soprattutto nei primi tempi.
E mentre io e lei iniziammo a parlare di come fosse andato il viaggio, vidi sott’occhio il gruppetto venirci incontro e guardare me e Pablo con aria curiosa.
«Una nuova alunna dello studio?» chiese una ragazza con i capelli castani, sempre più chiari verso le punte, raggiante all’idea di una nuova compagna di corso. Sperai vivamente che Pablo riducesse quell’attenzione al minimo, sentendo le guance accaldate a causa del rossore già evidente.
«No, Violetta, è mia sorella». Manco avesse detto “Al mio tre, scatenate l’inferno!”, il gruppetto iniziò a parlare concitatamente, ognuno chiese qualcosa, chi a me chi a Pablo ed io, vedendo che stava accadendo proprio ciò che temevo, schizzai fuori dalla sala in cerca di un distributore: avevo bisogno di acqua, la gola era completamente secca, e cercare una bottiglina d’acqua era anche un ottimo diversivo per scappare da quella situazione. Proprio mentre stavo aprendo la bottiglia, sentii qualcuno tossicchiare e mi girai.
«Ehm, mi dispiace se ti ho messa in imbarazzo, poco, fa, attirando l’attenzione di tutti in sala, ecco, vorrei scusarmi» disse la ragazza che poco fa Pablo aveva chiamato Violetta. Le sorrisi, perché nella sua voce sentii sincerità, e mi dissi che dopotutto la mia reazione era stata esagerata, anzi il mio atteggiamento doveva essere sembrato anche abbastanza maleducato.
«Non preoccuparti, la colpa è mia, non amo stare al centro dell’attenzione e in queste occasioni tendo a scappare» ammisi, scusandomi a mia volta. La ragazza ricambiò il sorriso, sorridendo perfino con gli occhi, mi tese la mano e si presentò.
«Comunque, io sono Violetta ed è un piacere conoscerti. Se vuoi, posso starti vicina lì dentro e calmare la curiosità generale». La proposta della ragazza mi sembrava una cosa positiva.
«Ti ringrazio, è una buona idea! Io sono Efelide ma chiamami pure Effie» dissi, stringendole la mano.
«Bel nome! È per la lentiggine?» chiese curiosa indicando quella macchiolina cui si riferiva.
«Eh già, i miei avevano poca fantasia» dissi non nascondendo l’ironia. Lei rise e contagiò anche me.
«Beh, i genitori a volte danno nomi un po’ altisonanti, alle volte un po’ inusuali: io per esempio mi chiamo Violetta per la Traviata, l’opera verdiana» mi confessò con una voce più bassa di prima. Capii che dietro quel nome c’era altro ma per il momento non volevo approfondire, sapevo riconoscere uno sguardo malinconico e l’avvicinarsi di ricordi dolorosi, così le strinsi più forte la mano, cercando di infonderle sicurezza.
«A volte, un nome, per quanto inusuale, è il ricordo più caro che si ha di persone ormai non più accanto a noi». Era incredibile il fatto che stessi parlando così liberamente con una persona appena conosciuta, forse ciò era dovuto all’empatia che quella ragazza creava. Sorrise alle mie parole con gli occhi un po’ lucidi e mi fece segno verso l’auditorium. «Entriamo?» mi chiese infatti. Annuii e la segui all’interno della sala.
Ognuno era ritornato al suo posto ed Angie e Pablo aiutavano i ragazzi a ultimare la loro preparazione.
«Abbiamo una presentazione con YouMix e sono tutti in fermento» incominciò a spiegarmi, poi si voltò verso di me con aria apprensiva. «Scusami, ho dato per scontato che tu sapessi di YouMix…».
«Tranquilla, anche se abitavo in Spagna, qualcosa a proposito so» le dissi, rassicurandola. Mentre finivo di parlare, un ragazzo, su invito di Pablo, andò sul palco e iniziò a cantare e suonare con la chitarra una canzone: a sentire mio fratello, il titolo era “Nuestro camino”. Avvertii Violetta al mio fianco irrigidirsi, intanto il ragazzo, quasi imperturbabile, continuava a cantare, tenendo fisso lo sguardo su di lei; iniziai a lanciare occhiate discrete ad entrambi, quasi stessi seguendo una partita di tennis, cercando al contempo di tranquillizzare Violetta con una pacca sulla spalla. Lei trasalì, come se fosse stata svegliata da un sogno ad occhi aperti, ma mi sorrise e continuò ad ascoltare la prova, comunque agitata: sorrisi, appuntandomi in mente di approfondire la questione con la ragazza, curiosa di sapere cosa si celasse dietro quegli sguardi. Neanche avevo finito di formulare questo pensiero, che presi coscienza di ciò che stavo facendo: mi stavo interessando a fatti e persone che fino a poco prima mi erano completamente estranei. Era un po’ strano, quantomeno per me, che venivo definita “eremita” dalla maggior parte delle persone che avevano a che fare con me per il mio essere schiva e introversa: avevo imparato nella vita a non fare affidamento su nessuno ed a non affezionarmi a persone perché, per un motivo o per un altro, avrebbero potuto abbandonarmi. Meglio mostrarsi forti ed indipendenti, questo era il mio motto.
Persa nei miei pensieri, non mi ero accorta che la canzone era ormai volta alla fine. «Molto bene, Leon, se Violetta è d’accordo potresti cantarla tu, visto che lei non se la sente: nemmeno io amo i cambi di scaletta a pochi minuti da un evento ma credo che sia l’unico modo per rimpiazzare l’assenza di Diego» disse Pablo guardando il gruppetto. Il tizio di nome Leon fece una strana smorfia al nome Diego, Violetta sembrava di nuovo agitata ed una ragazza bionda non faceva che sorridere esageratamente.
«The show must go on, Pablo, ma perché non posso rimpiazzare io Diego? Insomma, chi meglio di una Supernova può brillare?» disse la giovane con una convinzione tale che mi fece strabuzzare gli occhi.
«Ludmilla, ne abbiamo già parlato poco fa, sei già nella scaletta e non vedo perché tu debba avere più spazio di altri. Comunque, mi stavo rivolgendo a Violetta: che dici, sei d’accordo?».
Sentii Violetta fare un respiro profondo che non seppi interpretare bene. «Non ho nulla in contrario» disse poi, ma con un tono strano, che non riuscii a classificare.
Subito dopo, iniziò a spargersi tra i presenti entusiasmo, forse si stava avvicinando l’inizio della presentazione, e due ragazze raggiunsero me e Violetta: una era mora, con gli occhi castani e un sorriso contagioso, l’altra aveva i capelli rossicci e uno stile alternativo e colorato ma interessante. Entrambe lanciarono a Violetta un’occhiata dispiaciuta per poi girarsi verso di me e presentarsi: la prima si chiamava Francesca, l’altra Camilla.
«Effie, noi dobbiamo andare a prepararci, che dici se ci fai compagnia?» propose Camilla, mentre Francesca rassicurava Violetta con una carezza sulla schiena. Annuii e le seguii in un’auletta a fianco l’auditorium. Avvertivo un po’ di tensione e non potei fare a meno di collegarla a quel Leon: neanche mi stesse leggendo in mente, Violetta sbuffò. «Vuole provocarmi? Perché continua ad essere… arrabbiato? Cosa? Sbaglio o Diego non è più un suo problema?» sbottò la ragazza, agitata. Francesca e Camilla la guardarono con apprensione, io invece iniziavo ad avere una certa confusione in testa; forse avevano sentito il mio disagio, perché all’improvviso si girarono tutte e tre verso di me e Violetta mi fece un sorriso un po’ tirato.
«Ti prometto che dopo lo show ti racconto, non avrai capito molto» mi disse comprensiva.
«Qualcosa l’ho afferrata ma non sono sicura che le mie intuizioni siano giuste…» confessai.
«Allora dopo partiamo dalla tua ricostruzione, è una promessa» concluse con un sorriso un po’ più convincente. Sorrisi a mia volta alle tre e le lasciai prepararsi per raggiungere Pablo che, ancora nell’auditorium, stava parlando con Angie e quello che doveva essere Marotti: non appena mio fratello mi vide di nuovo in sala, mi raggiunse con un sorriso troppo esteso per essere vero. Negli ultimi minuti mi sembrava di non riuscire più ad interpretare nessuno!
«Sorellina, tutto bene?» iniziò poggiando una mano sulla spalla, proprio come quando da piccola voleva chiedermi qualcosa che era sicuro che non volessi fare. Lo guardai un po’ accigliata, facendogli capire che ancora sapevo riconoscere i suoi modi di fare e lui, quasi fosse sollevato, mi guardò con ancora più preoccupazione porgendomi quella che riconobbi come la borsa della mia macchina fotografica.
«Da dove l’hai presa, questa?» chiesi incredula, convinta che fosse ancora in valigia.
«Beh, tu eri distratta ed io l’ho presa, ecco» iniziò a spiegarmi con nonchalance. «Ma il punto non è questo, ti andrebbe di fare delle foto alla presentazione dei ragazzi?» chiese con uno sguardo così convincente che mi fece cedere in pochi secondi.
«Sappi che me la pagherai» lo avvisai, riducendo gli occhi a fessure. Lui iniziò a ridere.
«Rimani sempre troppo piccoletta per darmi una lezione! Mi terresti questa cartellina? La devo portare a casa e non devo perderla, sono delle partiture di Angie cui devo dare un’occhiata» mi chiese. Annuii e aprii la borsa per riporre quella cartellina: sistemai bene la cartellina, in modo che non si sgualcisse, e decisi di recuperare la lettera di mia madre in quel mare di cianfrusaglie, prima che si stropicciasse tutta, per metterla al riparo in una tasca separata. Con orrore, però, scoprii che non era in borsa ma doveva esserci, era lì che l’avevo riposta, quindi cercai meglio, tuttavia la mia ricerca ebbe esito negativo e fu in quel momento che, come un fulmine a ciel sereno, un pensiero mi colpì in pieno: avevo perso uno degli ultimi ricordi di mia madre.
 
 
 
 





Il cantuccio di Naif~
Buon pomeriggio gente! :D Scusatemi se pubblico il capitolo solo adesso ma in questi giorni sono stata costretta a stare a letto a causa dell’influenza, ergo solo ora ho convinto mia madre che sto un po’ meglio e ne ho approfittato per controllare e pubblicare il capitolo. Non so se è per la febbre ma non mi convince molto, forse alcune cose avrei dovuto svilupparle meglio… Ad ogni modo, spero almeno che si inizi a capire qualcosa in più della storia! :) Per quanto il suo carattere continui a rivelarsi un po’ difficile, Effie fa la conoscenza di Violetta, Francesca e Camilla (anche se ha, a tutti gli effetti, parlato solo con la prima) e ha ritrovato Angie! Vi prometto che tutti questi incontri avranno il seguito che spetta loro nei capitoli a venire.
Ah, una cosa di cui non devo assolutamente dimenticarmi, nel capitolo vengono citati dei posti di Buenos Aires di cui forse devo darvi giusto qualche informazione: il Parque Tres de Febrero è un parco di Buenos Aires che si trova nel quartiere di Palermo; a proposito di quartieri, gli altri due posti citati sono nel
quartiere de La Boca, situato sulle rive del fiume Riachuelo. La Bombonera, in particolare, il cui vero nome è Estadio Alberto Jacindo Armando, è lo stadio in cui gioca la squadra Boca Juniors. Infine, il Caminito è una strada, sempre del quartiere de La Boca, famosa per i sui edifici in legno (ricostruiti negli anni Cinquanta) dai colori variopinti. Beh, io in questi luoghi, ahimè!, non ci sono mai stata ma credo che chi vive a Buenos Aires li conosca e ci sia stato, almeno una volta.
Credo proprio di dover mettere fine a queste note, tra poco sono più lunghe loro che il capitolo! xD Prima però devo ringraziare DulceVoz e DWHO, quelle due splendide ragazze che mi lasciano recensioni altrettanto splendide, e chi preferisce, segue o semplicemente legge questa storia: grazie! <3
A presto,
Naif~

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo ***


Non riuscivo ancora a credere di aver perso la lettera ed iniziarono ad invadermi mille dubbi in proposito: quand’era successo? L’ultima volta che l’avevo vista era stato in aeroporto, quando l’avevo riposta in borsa. Che l’avessi persa proprio in quel momento? Come avevo potuto essere talmente sbadata? Forse non ricordavo di averla riposta a casa di Pablo? Volevo che ci fosse una risposta plausibile che mi tranquillizzasse, che mi desse la sicurezza che quella lettera fosse ancora in mio possesso, ma più ci pensavo, più capivo che quelle che stavo cercando erano solo illusioni; quella agitazione improvvisa mi aveva tenuta immobile per non so quanto tempo e non mi accorsi che Angie, arrivata al mio fianco, mi stesse dicendo qualcosa e, forse, aspettando una risposta. Senza che io aprissi bocca, lei, capendo che non avevo ascoltato una parola del suo discorso, senza scomporsi mi ripeté quanto aveva detto.
«Pablo mi ha detto che sarai tu a fare da fotografa, stamattina» iniziò a dirmi ed io annuii, cercando di ritrovare la calma e di accantonare il mio problema per un attimo. «Forse dovresti sapere qualcosa in più su ciò che tra poco avrà inizio: quella di oggi è una sorta di presentazione per un futuro evento sempre ideato da YouMix che coinvolgerà i ragazzi dello studio. In realtà, il progetto è ancora da definirsi in ogni suo particolare, ma l’idea di fondo e il tema sono già noti e Marotti ha voluto che i ragazzi organizzassero questa breve presentazione affinché potesse essere annunciato il tutto alla fine». Fece una pausa ed io annuii ancora, per rassicurarla che questa volta la stessi ascoltando. «I ragazzi canteranno delle canzoni, alcune nuove e altre no, chi in gruppo chi da solo, il tutto non durerà moltissimo: credo che Marotti, prima del piccolo show, voglia darti qualche indicazione ma io credo che tu non ne abbia bisogno, sai perfettamente come procedere senza suggerimenti» concluse sorridendomi. Sorrisi anch’io, pensando alla fiducia che aveva in me nonostante il tempo passato.
«Grazie per la fiducia, Angie, spero davvero che sia come dici tu, anche perché non sono abituata a fare da fotografa ad eventi del genere, anzi non sono proprio abituata a fare da fotografa» ammisi iniziando a capire che forse quella situazione non fosse adatta a me.
«Invece io credo che andrai benone, lo sai meglio di me cosa sei capace di fare con una macchina fotografica, ci sarà pure stato un oceano di mezzo a separarci ma mi giungevano delle notizie belle a riguardo». Prima ancora che quelle sue parole mi entrassero bene nella testa, si allontanò diretta verso un gruppetto ai piedi del palco; proprio da quel gruppo, si staccarono Pablo e Marotti e vennero verso di me.
«Ah, ma non sarà troppo piccola? La sa usare una macchina fotografica?» iniziò a chiedere quel Marotti che già iniziava ad essermi antipatico. Offesa, gli risposi senza impormi troppi filtri.
«Di certo io la so usare, se vuole però al posto di presentare può fotografare lei e alla fine vediamo il risultato, che ne dice?». Il mio nuovo “amico”, troppo vivace per i miei gusti, sia nei modi che nel vestire, per poco non svenne ma si riprese subito: sembrava un po’ pazzo, con quel suo modo di fare, quando parlava si muoveva come un’anguilla.
«Bene, bene, allora siamo a posto! Sento proprio che quest’anno andrà ancora meglio dei precedenti, le mie idee sono sempre ottime!». A quelle parole, Pablo trattenne una risata: forse l’idea del progetto non era propriamente di Marotti. «Un’ultima cosa perché poi devo andare a parlare con il cameraman: attenta ai gruppi e attenta ai solisti, fa’ foto in primo piano e non, anche e soprattutto al sottoscritto» e appena finito di parlare, iniziò a correre verso il cameraman. Guardai preoccupata Pablo, che ancora si stava trattenendo dal ridere.
«Non preoccuparti e non pensare a Marotti, sarai brava come tuo solito» mi rassicurò.
 
Preparai, con attenzione certosina, la macchina fotografica, studiai la luce, mi spostai in vari punti della sala per fare foto di prova e solo a pochi minuti dall’inizio della presentazione mi ritenni soddisfatta.
Mancava davvero poco e Marotti salì sul piccolo palco dell’auditorium pronto ad introdurre i ragazzi; mi fermai per un attimo e avvertii un’adrenalina particolare che non seppi decifrare pienamente. Non era legata soltanto al compito che mi era stato affidato in poco tempo, aveva un che di nuovo: la sensazione che avevo era forse stupida ma mi sembrava che accettando la proposta –leggasi richiesta- di Pablo si aprisse un qualcosa di nuovo. Guardai la sala che, per quanto non molto grande, era piena di persone e ragazzi; un cenno di Pablo mi riscosse e mi posizionai, pronta a immergermi nel mio piccolo, iconico mondo.
I ragazzi eseguivano, in gruppo o da solisti, i loro pezzi uno dopo l’altro e l’energia che comunicavano era tanta. La cosa che mi stupì fu che erano in grado di mischiare più generi ottenendo un qualcosa di stupendo; a fatica riuscii a tenere a bada quella meraviglia e ad impormi di restare concentrata. Sembrerà strano ma fu automatico, per me, muovermi nella sala alla ricerca delle angolazioni migliori.
Violetta, Francesca e Camilla erano davvero bravissime: insieme ad altre due ragazze, una mora e l’altra bionda, si esibirono in un pezzo molto orecchiabile che parlava di quel momento che precede appena uno show, in cui l’adrenalina e l’ansia si mischiano, dandoti emozioni fortissime. Mi fermai un attimo a riflettere sul significato di quel testo: la musica era un mondo talmente ammaliante e coinvolgente che anche una tipa come me, che per scelta ci aveva poco a che fare, non poteva non sentirsene parte ogni volta che ci entrava in contatto. Per me, quello era stato sempre il mondo di Pablo ed era stato proprio lui quando ero piccola ad avermici introdotto. Vederlo lì, ai piedi del palco, seguire lo show, vederlo fiero dei propri ragazzi, mi fece desiderare far parte di qualcosa, qualsiasi cosa; proprio io, che mi ero sempre tirata fuori da tutto ciò che richiedesse contatto umano, stavo desiderando ciò che avevo sempre evitato? Scossi un po’ la testa e cercai di recuperare concentrazione.
Ormai al posto delle ragazze, che intanto erano scese e avevano preso posto a fianco a Pablo, sul palco era salito Leon con la sua chitarra. Prese posizione su uno sgabello al centro del palco e, dopo aver sorriso in direzione delle persone presenti, iniziò a pizzicare le corde della chitarra. Se prima mi era parso bravo, in quel momento notai che aveva talento e riusciva a renderlo ancora più grande cantando davvero con quell’amore di cui parlava la canzone; guardai Violetta che, tra Francesca e Camilla, ascoltava con uno sguardo innamorato. Lo scambio di sguardi si stava ripetendo ma non più in un clima di tensione; ed io, con in mano la mia fida macchina fotografica, immortalai sia Leon che Violetta perché sentivo che quella canzone parlasse di qualcosa che apparteneva ad entrambi. Non sapevo chi fosse quel Diego che la ragazza aveva citato né il motivo per cui Leon avrebbe dovuto essere arrabbiato, ma a me quei due, divisi solo da qualche metro di distanza, sembravano legati da qualcosa di forte.
Finita la canzone, Marotti, tutto pimpante, raggiunse Leon sul palco.
«Vi è piaciuto lo show? Vi è piaciuto? Ma certo che vi è piaciuto, l’ho presentato io! Ma non siamo qui a parlare del mio talento, no no, voi avete visto l’esibizione di questi ragazzi perché c’è un annuncio importante da fare, eh eh! Da oggi, si apre ufficialmente una tournèe in Argentina dei ragazzi dello studio On Beat! Eh, ve lo aspettavate? I ragazzi parteciperanno ad un festival che avrà luogo alla fine della tournèe al teatro Gran Rex dove si esibiranno e sfideranno altre due scuole del paese. La scuola vincitrice parteciperà all’Intervision Music Festival!». Dalla reazione che ebbero i presenti, sembrò che Marotti avesse appena sganciato una bomba: anche io mi bloccai dalla meraviglia e guardai i ragazzi che sembravano sorpresi tanto quanto me. Solo gli insegnanti sembravano tranquilli e compiaciuti. Il presentatore diede fine allo show e i ragazzi iniziarono a saltellare in preda alla gioia che quell’annuncio aveva portato; ne approfittai per salire sul palco, ormai vuoto, e fare qualche foto dall’alto all’auditorium e soprattutto ai ragazzi. Quando mi ritenni soddisfatta degli scatti, scesi dal palco in cerca delle ragazze e, trovate, mi complimentai con loro.
«Siete state davvero fortissime! E la canzone era meravigliosa!» dissi abbracciandole.
«Ahhh grazie, Effie!» dissero tutte e tre.
«Di niente, anzi davvero vi meritate di partecipare a questa tournèe, siete davvero in gamba».
«Ma ci credete? In tutta l’Argentina! E se vincessimo alla competizione, addirittura in altre nazioni!» esclamò Francesca. Camilla a fianco a lei fece una piccola smorfia.
«Chissà se vinceremo, e se sono più brave le altre due scuole?» si chiese un po’ triste. Violetta invece sorrise raggiante.
«Non pensarla in questo modo, già è una grande opportunità poterci esibire in tutto il paese. Mi preoccupa di più mio padre, sarà difficile convincerlo a darmi il permesso a partecipare» concluse pensierosa.«Lo convinceremo noi, deve darti il permesso» disse con decisione Francesca. Proprio in quel momento, Pablo ci raggiunse.
«Ragazze, ancora complimenti, siete state bravissime» disse rivolto alle tre ragazze, ancora eccitate per lo show e per la notizia, poi si girò verso di me, un po’ a disagio. «Effie, io avrei una riunione improvvisa con Marotti e i professori, mi dispiace doverti costringere ad aspettarmi…». Prima ancora che io potessi rimanerci male, Violetta intervenne.
«Pablo, se Effie è d’accordo, può venire con noi, andiamo a casa mia ed Effie è la benvenuta» propose la ragazza, lasciando Pablo ma soprattutto me sorpresi.
«Beh, per me non ci sono problemi, tu che dici?» mi chiese, leggermente titubante e dispiaciuto. Ci ero rimasta un po’ male, in quel momento desideravo iniziare a recuperare il tempo perso con mio fratello, però avevo capito che quella riunione non era prevista per cui non avevo motivo per arrabbiarmi.
Annuii. «Per me va bene, se non creo problemi».
«Ma quali problemi! E poi, non dovremmo parlare di una cosa, noi quattro?» chiese retoricamente Francesca con uno sguardo divertito.
«Certo! Andiamo a spettegolare!» rispose Camilla. E dopo aver salutato un divertito e certamente più rilassato Pablo e fatto un saluto veloce agli altri ragazzi, tutte e quattro ci avviammo verso l’uscita dello studio.
 
 
«Un po’ mi dispiace non essere rimasta con gli altri, non te li abbiamo neanche presentati» disse facendo il broncio Violetta. Stavamo camminando verso casa sua con molta calma; guardai Violetta, poi Francesca e Camilla e mi resi conto che non stavo facendo affatto caso alla stanchezza e al sonno del viaggio ma stavo bene in compagnia di tre nuove… conoscenze. Non ero abituata ad avere amici, quindi mi sentivo un po’ strana.
«Vilu, avremmo perso sicuramente tanto tempo e noi dobbiamo dare inizio a questo pomeriggio di sole ragazze!» disse Francesca con convinzione.
«Tu parli da soggetto interessato, hai colto la palla al balzo per evitare ancora una volta Marco» sbottò Camilla, facendo annuire anche Violetta.
«Chi è Marco?» chiesi io, con curiosità. Alle parole di Camilla e alla mia domanda, Francesca divenne rossa come un peperone.
«La domanda giusta non è questa ma:”Chi è Leon?”» disse la ragazza italiana, cambiando soggetto maschile del discorso…
«Per ora sarà anche questa la domanda -devo dare una spiegazione ad Effie- ma sta’ tranquilla che la domanda seguente riguarderà Marco» disse dal canto suo Vilu, ricordandosi della discussione interrotta prima dello show. «Hai detto che hai ipotizzato qualcosa: racconta» mi incitò la ragazza.
«Ho visto uno scambio di sguardi, durante le prove», iniziai a dire. «Lui mentre cantava quella canzone ti guardava, tu eri agitatissima, poi Pablo ti ha chiesto se per te andasse bene che la cantasse Leon… insomma, tutto faceva supporre che ci fosse qualcosa in più». Mi fermai un attimo guardando Violetta, che sembrava tranquilla, perciò continuai. «Quando poi Leon ha cantato nello show, nei vostri occhi c’era una luce diversa, particolare… Non credo di sbagliare, se dico che tra voi non ci sia solo amicizia» conclusi, facendo un sorriso. Anche le tre ragazze sorrisero.
«Non pensavo si vedesse così tanto» mormorò Violetta, leggermente imbarazzata.
«Oh, Vilu, ma sei seria? Si vede da lontano che vi amate!» disse Francesca, sorridendo nel vedere l’imbarazzo dell’amica.
Camilla diede ragione a Francesca. «Sì, siete fatti l’uno per l’altra». Vilu era ancora rossa per l’imbarazzo.
«Non devi imbarazzarti, secondo me è una bella cosa che il vostro sia un legame forte così come dicono Francesca e Camilla» le spiegai.
«Però non è forte abbastanza…» disse a voce bassa la ragazza.
«Oh ma insomma! La vuoi smettere? Inizia a raccontare ad Effie questa storia, vedrai che anche lei ci darà ragione!» disse Francesca un po’ arrabbiata bonariamente con l’amica.
«Due anni fa, ho iniziato a frequentare lo studio quando ancora si chiamava Studio 21: ho conosciuto splendide persone, ho trovato delle amiche meravigliose», disse guardando Francesca e Camilla, «ho conosciuto Leon e ritrovato un ragazzo che avevo incontrato in precedenza, Tomas. Ho imparato cosa significasse essere innamorata di qualcuno ma l’ho capito troppo tardi: vedi, avevo una cotta per due ragazzi, Tomas e Leon, e non riuscivo a capire per chi fosse solo un’infatuazione e per chi, invece, vero amore». Riflettei un attimo sulle parole della ragazza: non avevo mai provato amore per qualcuno, forse avevo avuto una cotta ma niente di importante; ripresi ad ascoltare Violetta, cercando di immedesimarmi in lei, nonostante le mie poche esperienze in amore. «Ero molto confusa, così, dopo lo show di fine anno, dissi ad entrambi che volevo restare sola: partii con mio padre e tornai qui a Buenos Aires solo a fine estate. Il problema era che avevo capito per chi provassi vero amore, per Leon, solo che avevo mille paure: e se lui mi avesse dimenticata? Se avesse iniziato ad odiarmi per averlo fatto soffrire? Le mie paure, però, erano insensate perché dopo esserci incontrati di nuovo ripartimmo da capo, insieme; quando mi sembrava che tutto fosse andato per il verso giusto, uno spagnolo di nome Diego ha portato scompiglio, allontanando me e Leon e contribuendo ad un piano ideato da una nostra compagna dello studio che mi voleva vedere fuori dai giochi. Leon, ingelosito, restava male vedendo Diego che mi corteggiava e dopo un po’ ci lasciammo: Diego ne approfittò per corteggiarmi senza problemi ed io, soffrendo perché ancora una volta con Leon le cose non erano andate bene, pian piano accettai sempre più di buon grado la compagnia di Diego. Proprio quando mi stavo convincendo che fosse giusto per me amare Diego, Francesca e Leon hanno scoperto l’inganno e il piano che Ludmilla e lo spagnolo avevano architettato». Fischiai dalla meraviglia, non avevo mai immaginato quanto una persona invidiosa potesse essere disposta a fare.
«Mi dispiace per tutto quello che hai dovuto affrontare» dissi a Violetta, abbracciandola. «Francesca, come avete saputo tu e Leon del piano?».
«Leon ha sempre sospettato che Diego e Ludmilla nascondessero qualcosa, poi il caso ha voluto che ascoltasse e registrasse una loro telefonata in cui parlavano proprio del piano per distruggere Violetta» raccontò con un’aria triste.
«Quello che non riesco a capire è come abbia potuto Diego ingannarti per tanto tempo…» mi chiesi, allibita al solo pensiero che qualcuno potesse ingannare con talmente tanta nonchalance una persona.
«Lui dice che alla fine si fosse davvero innamorato di me, però non ce l’ho fatta a perdonarlo, odio le menzogne» spiegò Vilu, ancora scossa per l’accaduto.
«E con Leon, invece, com’è finita?» chiesi, cercando di cambiare discorso per non farle ricordare il dolore passato.
«Beh, in nessun modo, in realtà: mi ha dato sostegno da amico. È stato davvero gentile e dolce, mi è stato vicino e mi ha aiutato ad affrontare la situazione, però non siamo tornati sul discorso che ci riguardava, anzi l’ho rivisto abbracciarsi con la sua ex ragazza e non so interpretare il suo atteggiamento nei miei confronti» mi rispose, dando voce ai suoi dubbi più recenti.
«Perché non vi date un’altra possibilità? Sarà sicuramente quella giusta, sembrate perfetti se vi si immagina insieme» ammisi, riprendendo il discorso di Francesca e Camilla. Violetta divenne pensierosa, ripensando, con lo sguardo perso nel vuoto, forse proprio a Leon.
«Non so, credo che sia meglio capire bene alcune cose. Ora però basta chiacchiere, siamo arrivati a casa mia e mi dovete aiutare con mio padre» disse indicando una villetta alla nostra destra.
«Esatto, diamo inizio alla missione “convinciamo German”!» esclamò euforica Camilla.
«Effie, anche il tuo aiuto è fondamentale!» mi disse Francesca.
«C’è qualcosa che devo sapere su tuo padre, Vilu?» chiesi, cercando di immaginarmi il padre della ragazza.
«È un po’ protettivo…» iniziò a dire.
«Solo un po’?!?» dissero all’unisono Francesca e Camilla. Iniziarono a ridere e risi con loro, capendo che la nostra missione sarebbe stata un po’ più difficile di quanto mi aspettassi all’inizio…
 
 
 
 
 
 
 

Il cantuccio di Naif~
Ma salve salvino salvetto! Come state? :3 Io un po’ indaffarata, scusatemi se pubblico solo ora ma sono stata in facoltà *coff coff* sì, in facolta: sono un po’ vecchia xD Oddio, forse dire vecchia è esagerato, però non sono piccina, ecco… u.u
Allora, che dite di questo capitolo? L’ho controllato appena tornata ma non so dire se mi convince… è a metà tra un capitolo di passaggio e una piccola summa di eventi precedenti alla storia: come avrete notato, ho mantenuto alcuni ultimi eventi della serie, altri li ho cambiati un po’. Per esempio, parlando del progetto con YouMix, ho cercato di mantenere l’idea di fondo: non credo che esista un festival col nome che ho inventato (non mi piace molto ma è l’unica cosa che mi è venuta in mente xD)…
Comunque, spero che questo capitolo non vi abbia annoiato, che la sottoscritta non vi abbia annoiato, nel caso vi porgo le mie scuse. u.u Se vi va, fatemi sapere che ne pensate, nel bene e soprattutto nel male – i consigli sono sempre bene accetti! ;)
A presto,
Naif~

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Capitolo 5
*** Capitolo Quarto ***


Bussammo alla porta e dopo poco venne ad aprirci una signora sorridente dai capelli neri. Appena ci vide, abbracciò Violetta. «Ragazze, ma quanto siete state brave! La mia piccolina… Olga è tanto fiera di te!».
Un signore alto in giacca e cravatta sbucò fuori da una porta. «Olga, lascia Violetta e le ragazze entrare, lascia loro spazio vitale» disse pacato.
«Roberto, smettila tu e il tuo spazio vitale, non se ne può più!» sbraitò quella che doveva essere Olga. Violetta sbuffò, con l’aria di chi assisteva a quella scena un giorno sì e l’altro pure; le ragazze trattennero a stento un risolino, io cercai di fare del mio meglio, visto che non conoscendo nessuno della famiglia di Violetta di certo non avevo la confidenza che potevano magari avere Francesca e Camilla.
Ola e Roberto si scambiarono qualche altra battuta, punzecchiandosi l’un l’altro, finché non raggiunse in salotto un signore alto e castano che si fermò a braccia conserte con un’espressione accigliata al centro della stanza: doveva essere il padre di Violetta.
«Tu non andrai da nessuna parte» disse con una calma assoluta, come se con quelle parole non stesse mandando in frantumi il sogno della figlia. Quasi fossi io Violetta, sentii un tonfo dentro e uno sconforto tali che strinsi automaticamente a pugno delle mani. Avvertivo che anche le ragazze si erano irrigidite, mentre Violetta stava trattenendo un singhiozzo.
«Avevo una speranza nel credere che stavolta, dopo tutto quello che abbiamo passato, sarebbe stato diverso, che la tua reazione sarebbe stata diversa: evidentemente mi sbagliavo» disse Violetta con un’amara consapevolezza. Il padre della ragazza incassò il colpo sentendo quelle parole.
«Lo faccio per il tuo bene, potrebbero succederti mille cose…» iniziò a giustificarsi.
«Tu non ti fidi di me» sentenziò Vilu.
«Non è vero, non mi fido degli altri…» provò a controbattere German.
«Ed ecco la solita scusa. Dobbiamo davvero ogni volta ripetere lo stesso schema? Siamo costretti a dire le stesse cose fin quando non sarò abbastanza grande da poter decidere di andare altrove?». Detto questo, la ragazza scappò su per le scale probabilmente diretta in camera sua. Il padre sembrava colpito da quelle parole, ferito.
«Non dovrebbe fare così ogni volta, German» disse con calma Francesca.
«Sì, Francesca ha ragione: Violetta in più occasioni le ha dimostrato di essere matura e di meritare la sua fiducia» aggiunse Camilla.
German titubava: alle parole delle due ragazze, dapprima assunse un’espressione arrabbiata, poi dubbiosa. «Voi semplicemente non sapete come stanno le cose» riuscì unicamente a dire.
«Sì che lo sappiamo, perché ogni volta che lei dice di no a Violetta siamo noi a dover fare l’impossibile per tirarle su il morale!» replico Francesca con decisamente meno calma di prima.
«Voi non capite…» iniziò di nuovo German.
«Cosa c’è da capire? Qual è la spiegazione valida al suo comportamento che sfugge sia a noi sia a Vilu?» chiese Francesca, perdendo la pazienza.
«Ho già perso mia moglie Maria, non voglio perdere anche mia figlia» mormorò l’uomo, prendendosi il volto tra le mani.
Cadde un assoluto silenzio nella stanza: iniziai a capire il perché della malinconia negli occhi di Violetta nel ricordare la storia del suo nome. E capii anche che la paura di German, per quanto non logica, avesse una causa.
«German, so che non mi conosce e probabilmente non ho il diritto di dire la mia» iniziai a dire un po’ timorosa, «ma privando Violetta della libertà di scegliere non recupererà ciò che ha perso. Io ho perso entrambi i genitori e non credo ci sia modo di farli ritornare in carne ed ossa qui accanto a me, come una volta». La voce mi mancò per un attimo, abbassai il volto. «So che quando si perde una persona si reagisce in modo da tenersi stretto tutto ciò che resta, ma deve capire che agendo così perderà l’amore di sua figlia. Vale la pena di dare ascolto alla paura?». Non avevo il coraggio di guardare nessuno, le mie scarpe avevano assunto improvvisamente un che di interessante. Poi all’improvviso la vista mi si offuscò, come se ci fosse una patina bagnata. Stavo piangendo.
«Restate con Violetta» sussurrai a Francesca e Camilla, dopodiché uscii da casa Castillo, diretta non so dove.
 
Cercai di ripercorrere a ritroso la strada che avevo fatto precedentemente con le tre ragazze ma il mio pianto raggiunse un livello tale che divenne impossibile continuare a camminare in quelle condizioni; mi lasciai cadere su una panchina e mi presi la testa tra le mani. Dicendo quelle cose a German, mi ero accorta di quanto avessi sbagliato anche io negli anni: per il dolore e per la perdita, io avevo agito in modo contrario a come invece il signor Castillo aveva fatto con la figlia. Lui le aveva tolto parte della libertà per proteggerla; io, per proteggere me stessa da nuovo dolore, avevo escluso tutti dalla mia vita, tranne mia madre. E dalla sua morte mi sentivo come se non avessi altro motivo per continuare a vivere. Certo, per tutti sembrava così logico che tornassi da Pablo, il quale con la morte di nostra madre era diventato anche mio tutore: e forse poteva essere la cosa giusta, visto che tra noi c’era ancora una giusta spontaneità fraterna. Ma avrei dato al destino altri motivi per stare male? Avrei fatto entrare nella mia vita altre persone che un giorno, per un qualsiasi motivo, avrebbero potuto abbandonarmi? Il mio era egoismo? Vittimismo? Masochismo? Non riuscivo a capire.
«Effie!». Alzai il capo e cercai di mettere a fuoco una preoccupata Angie: era in compagnia di Leon, che aveva un’espressione interrogativa sul volto.
«Non è niente, solo un po’ di nervosismo» dissi ad Angie e, senza darle tempo di replicare, mi rivolsi a Leon. «Va’ da Violetta, ha bisogno di te, ha litigato con German». Il ragazzo, a quelle parole, mi fece un cenno e scappo verso casa Castillo.
«Va’ anche tu, Angie, è tua nipote» aggiunsi rivolta alla donna che si era seduta a fianco a me.
«Tra poco con lei ci sarà Leon, con te invece non c’è nessuno» replicò, cercando di tranquillizzarmi. Eppure mi sembrava agitata per Violetta, così cercai di convincerla.
«Angie Saramego, non vedo motivo per cui tu debba perdere tempo con me invece che andare da Violetta» dissi cercando di accennare una risata per darle una prova che il mio malumore non fosse una cosa grave. Lei però scosse la testa con decisione.
«Raggiungerò Violetta dopo aver capito cosa ti sta dando motivo di tristezza, Efelide Galindo: non mi farai cambiare idea» esclamò lei a mo’ di rimprovero.
«Ci credi se ti dico che non è nulla di che?» chiesi con un po’ di insicurezza. Probabilmente quest’ultima mi aveva tradita, perché ancora una volta la Saramego scosse il capo.
«No che non ti credo, perché nei tuoi occhi vedo un grande dolore: parlamene» mi rispose, spronandomi a sfogarmi.
«Non avevate una riunione, voi professori?» chiesi, cercando un’ultima via di fuga.
«L’avevamo ed è finita però tuo fratello doveva ancora parlare con Antonio e Marotti. Ora però parla». La guardai negli occhi, in quegli occhi in cui mio fratello da ragazzino si perdeva, entrando in uno stato di trance cui una preoccupata Angie metteva puntualmente fine sventolandogli una mano davanti al volto: sorrisi, pensando al sorriso che mia madre tratteneva ogni volta che assisteva ad una scena del genere, cercando di tapparmi la bocca per non mettere ancora di più in imbarazzo mio fratello. Si era perdutamente innamorato della sua migliore amica, chissà se con gli anni questo sentimento fosse rimasto inalterato. Non potevo in ogni caso biasimarlo: Angie era una ragazza talmente bella, solare e divertente che mi sembrava impossibile pensare che qualcuno che la conoscesse potesse non affezionarsi a lei.
«Mi sto chiedendo se ho fatto la cosa giusta tornando qui da Pablo. Io, che ho sempre evitato i legami per paura di soffrire, adesso vengo qui e non solo devo fare i conti con la lontananza da mio fratello che mi ero imposta ma anche con persone che, pur non mi conoscendomi, vogliono rendermi partecipe delle loro vite e capirmi: io, a tutto questo, non sono più abituata, sempre se una volta lo sono stata». Ammisi tutto senza essere interrotta e dopo aver detto le ultime parole restammo un po’ in silenzio, le mie mani tra quelle di Angie.
«Non sei più abituata a vivere, Effie» iniziò a dirmi dolcemente Angie. «Semplice e complicato al contempo, è questo il tuo problema: tornando qui, ti sei ritrovata davanti tutto ciò che avevi evitato. Escludendo qualsiasi tipo di legame dalla tua vita, ti sei mai sentita viva?» mi chiede senza alcuna provocazione ma con assoluta dolcezza. Probabilmente nelle sue parole c’era quella verità che a me non sembrava lampante così come sembrava a lei.
«Non so da che parte iniziare» sussurrai, sentendo crescere in me una nuova paura, quella di non farcela.
«Intanto hai ammesso il problema e questo è già un ottimo inizio» mi tranquillizzò sorridendomi. «E poi, ci siamo noi e con noi non intendo solo me e Pablo: a te forse non sembrerà, ma oggi venendo allo studio sei entrata in un covo di matti, persone diverse tra loro ma ognuna preziosa a suo modo» aggiunse accennando una risata. La guardai, non capendo dove volesse arrivare. «Qualcuno ha detto che la follia è in ognuno di noi: figuriamoci negli artisti! Tu però oggi sei venuta a contatto con un covo di folli buoni e simpatici, te lo posso assicurare» disse ancora facendomi un occhiolino. «Ti aiuteremo noi, senza se e senza ma» concluse, prevedendo una mia reazione. Reazione che non tardò ad arrivare, visto che in tutta la faccenda c’era qualcosa che mi preoccupava e non poco.
«Ma non voglio sembrare una vittima, una persona triste e complessa che deve essere aiutata…».
«Mhm, sei fuori strada: loro sono in grado di aiutarti inconsapevolmente, a te basterà la loro compagnia per capire cosa significhi davvero vivere, nulla più» mi spiegò ancora, con la pazienza di una madre.
«Potrò contare sempre su di te?» le chiesi, in cerca di una conferma.
«Quando vuoi. Sarò sempre al tuo fianco, così come Pablo. Ti fidi di me?». Annuii. «Fidati anche di Pablo» mi disse ancora, accarezzandomi il capo.
«Grazie Angie, davvero».
«Di niente, Effie: sei ancora quella piccola peste che correva per tutta casa Galindo facendo scherzi al fratello. Devi solo tornare alla luce, tutto qui». Le sorrisi, capendo attraverso quelle parole che tornando avevo ritrovato anche una specie di sorella.
«Ora va’ da Violetta, ha bisogno delle tue parole ».
Guardai Angie allontanarsi, poi percorsi l’ultimo tratto che mi mancava per arrivare allo studio. Arrivata, mi fermai all’entrata e presi posto su un muretto in attesa di mio fratello; nell’attesa, decisi di leggere un libro che avevo in borsa.
Così, accettai la compagnia di Adso e dei misteri di un monastero benedettino.
 
 
 
 
 
 
 
Il cantuccio di Naif~
Siore, siori, buoooonasera! :D Come state? Io sono uscita un momento dalla mia reclusione universitaria, ovviamente per andare in facoltà (eh, mica a farmi una passeggiata per godere di questo sole! T_T), ed ora, per la vostra gioia (seh, Naif, credici xD) sto pubblicando il nuovo capitolo. Innanzitutto, mi scuso di starvi propinando questo capitolaccio: non me gusta mucho, nella mia mente sembrava così geniale ma si sa, per qualche legge che mi è sconosciuta le idee che appaiono grandiose al solo pensiero, messe in pratica con una buona probabilità sembreranno una schifezza. Ergo, non so che dire di questo capitolo, posso solo dirvi che ho fatto tutto il possibile per renderlo meno schifoso, ecco. Sono ricorsa all’aiuto della Saramego, che dolce! :3
Ah, a tal proposito mi viene in mente una domanda che vorrei farvi: è Effie a narrare la storia. Ora, non sono capitan ovvio, ma in questi giorni mi sto ponendo un quesito e vorrei chiedere una vostra opinione: Effie racconterà ogni, e sottolineo ogni, cosa, ma mi sembra scontato dire che ci saranno occasioni nel corso della storia in cui altri personaggi potrebbero dare una visione diversa di un episodio, più personale. Ecco, mi stuzzica l’idea di inserire nella storia dei capitoli che narrano di un episodio già raccontato da Effie ma dal punto di vista, ad esempio, di Pablo, Violetta…. e via dicendo. Che ne pensate? Si accetta qualsiasi opinione! :D
Ultima cosa: prevedo un rallentamento nei prossimi aggiornamenti. È periodo di esami, ahimè, e non so se posso assicurarvi la puntualità con cui saranno pubblicati i prossimi due capitoli. :( Vi chiedo umilmente perdono T_T
A presto (si spera!),
Naif~
 
P.s.: Adso è il narratore di Il nome della rosa di Umberto Eco. Effie è una lettrice accanita, sappiatelo! ;)

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