On the right side of the wrong bed

di Celeste9
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hold the line ***
Capitolo 2: *** I'll be over you ***
Capitolo 3: *** Reservation to love ***
Capitolo 4: *** Drum talk ***
Capitolo 5: *** 99 ***
Capitolo 6: *** Save a drum, bang a drummer ***



Capitolo 1
*** Hold the line ***


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HOLD THE LINE

Hold the line, love isn't always on time

(Bournemouth beach- settembre 2013)

-“Devo dirglielo. Stavolta devo trovare il coraggio e dirgli cosa provo per lui, prima che parta ancora, che se ne vada per due mesi dall’altro capo del mondo”.

Era seduto di fianco a me, con i piedi affondati nella sabbia, le ginocchia raccolte contro il petto nudo, i tatuaggi in bella vista: ero così affascinata dal suo profilo regolare che trovavo incantevole persino la porzione di paesaggio che s’intravedeva dall’enorme buco del suo orecchio, quello dove aveva il dilatatore, quasi si trattasse di un quadro con la cornice di carne.

Sentivo il bisogno di abbracciarlo, di chiedergli di portarmi con sé in tour perché ero pazza di lui, invece me ne stavo lì, seduta sulla battigia a fare stupidi disegnini sulla sabbia umida con un bastoncino, mentre Josh parlava a ruota libera dell’Australia, di quanto fosse bella, di quante attrazioni straordinarie ci fossero e di tutte le cavolate che avrebbe fatto con Niall e gli altri. Continuavo ad annuire, guardandolo di tanto in tanto sperando che capisse da solo quello che provavo, così, semplicemente leggendomelo negli occhi, ma lui seguitava a parlare scioccamente. Maledetta timidezza!.

-Tra un paio di giorni sarò dall’altra parte del pianeta a fare surf. Non vedo l’ora!

Ad un tratto mi mise una mano sulla coscia e cominciò a farla risalire lentamente, ma il suo unico scopo era sfilarmi il lettore dalla tasca dei pantaloncini. Guardò perplesso il groviglio di fili delle cuffiette e si mise d’impegno per venirne a capo, tirando fuori la punta della lingua, come faceva sempre involontariamente quando era troppo preso da qualcosa.

-Non ci riesco!- disse infine, porgendomi uno dei due auricolari.

Il filo era decisamente corto, dovevamo stare vicini per evitare che le cuffie si sfilassero dalle nostre orecchie; appoggiò la guancia contro la mia che s’imporporò all’istante, lui non se ne accorse e fece partire la musica.

-“Hold the Line”! Che bella!- esclamò; il cuore mi rimbombava nelle orecchie a causa dell’emozione e temevo che Josh lo sentisse, per fortuna era troppo preso dal ritmo della canzone.

-Lo senti in questo punto? È una maniera davvero originale di usare il kick drum non trovi?

-Sì- balbettai, anche se l’unico rumore che mi sembrava di udire era il battito del mio cuore, che accelerò ulteriormente nel momento in cui Josh mise la mano sulla mia.

Lo fece solo per togliermi il bastoncino e usarlo per battere il tempo: mi ero illusa di nuovo per nulla. Mi voltai dalla sua parte e provai ancora una volta a sorridergli nella speranza che fosse lui a fare il primo passo, ma riuscii solo a farmi scivolare l’auricolare dall’orecchio.

“Love isn’t always on time!”

Le parole della canzone si persero nella confusione degli altri bagnanti, nel rumore delle onde e nel verso stridulo dei gabbiani.

-Sei strana oggi. Che cosa c’è che non va?- mi chiese raccogliendo l’auricolare e soffiandoci sopra per liberarlo dalla sabbia.

Cosa non va? Che bella domanda! Va tutto male, anzi, malissimo, sono mesi, anni che non va, da quando mi sono resa conto che mi piaci, e tu mi fai ancora questa stupida domanda? Va tutto male, Josh, tutto e nulla, perché a vedermi sembra che non mi manchi niente, in realtà l’unica cosa che vorrei è essere la tua ragazza. La mia voce interiore era furiosa e insistente, ma la misi a tacere ancora una volta.

-Niente, mi dispiace solo che tu parta un’altra volta- mentii.

Josh mi sfiorò la guancia con le dita, avvicinò il viso al mio, il suo respiro si fece quasi affannoso e l’alito caldo mi appannò gli occhiali. Mi appoggiò le labbra sulla fronte e avvicinò il suo corpo al mio. Fu un attimo in cui tutto cessò di esistere, chiusi gli occhi in attesa di un bacio che non arrivò perché un pallone atterrò vicino a noi riempiendoci di sabbia.

-Ehi, voi due! Volete venire a giocare a Beach volley oppure no?

I nostri amici ci stavano chiamando, Josh si alzò in fretta per raggiungerli.

-Non vieni?

Ero ancora paralizzata dall’emozione, alzai lo sguardo: il vento gli muoveva leggermente i capelli e gli faceva aderire al corpo i pantaloncini da mare, mi trovai a pensare che aveva un gran bel sedere, mi vergognai di me stessa e tornai a fissarmi i piedi.

-Joshy.

-Dimmi.

Mi mancò nuovamente il coraggio di dichiararmi, di dirgli una volta per tutte quello che provavo: la paura di un rifiuto era troppo forte. In fondo lui era così carino, pieno di talento e da quando suonava con gli One Direction, anche popolare, mentre io ero soltanto una delle tante amiche di Bournemouth, quella con gli occhiali e le codine che si metteva sempre vicino a lui nelle foto di compleanno quando eravamo piccoli, quella col naso sempre nei manga e le guance che andavano in fiamme con troppa facilità.

-Posso essere in squadra con te?

-Certo.

Che stupida vigliacca! Mi sarei presa volentieri a schiaffi. Afferrai la mano che lui mi porse per aiutarmi ad alzarmi e raggiungemmo il resto del gruppo che aveva già iniziato a giocare.

 

(Bournemouth Pier- due mesi dopo)

Credo di essere malata di nostalgia: da quando Josh è partito non faccio che venire in spiaggia, anche in giornate di tempo incerto come oggi. Il mare ha un colore ambiguo tra il grigio e il marrone, fa freddo; sarebbe la giornata ideale da trascorrere a letto, ma questa fretta di uscire è figlia di un attacco di malinconia, avevo voglia di tornare fisicamente in uno dei posti che mi hanno vista felice insieme a Josh: venivamo sempre in spiaggia prima che iniziasse a girare il mondo.  Adesso sembriamo vivere su due pianeti lontanissimi, ma se guardo indietro rivedo i pomeriggi in cui uscivamo insieme quasi ogni giorno, le chiacchierate, le interminabili passeggiate da un pier all’altro, persino le litigate che facevamo regolarmente. E ancora, ricordo gli schifidi vermetti che lui stanava dalle aiuole del suo giardino e che toccavo senza timore per dimostrargli quanto fossi spavalda (anche se in realtà mi sentivo morire se solo mi sfiorava) e soprattutto mi tornano in mente le sere trascorse sul dondolo in veranda, seduti vicini e in silenzio a far  finta di studiare, quando in realtà io leggevo i manga e lui percuoteva qualsiasi oggetto con la matita seguendo il ritmo di ogni canzone che gli passasse per la testa.

Accendo l’ iPod, il primo brano è “Hold the Line”: che mania quella di pensare continuamente a Josh sulle note di questa canzone! Mi metto a fissare il mare e gli occhi mi si velano di lacrime e non è a causa del vento che sta sferzando la costa. Ho ancora in testa tutti gli stupidi messaggi che Josh mi ha mandato su Twitter, le sue foto mentre fa surf, si diverte e va alle feste, mi sento sulle spalle il peso di tutte le notti passate a piangere pensando che il sorriso di quelle immagini non era per me e soprattutto ho impresso a fuoco nella mente il suo tweet cancellato immediatamente in cui mi aveva scritto che gli mancavo da morire. Forse era solo uno stupido scherzo di qualche suo amico, forse dietro quel gesto c’era un bicchiere di troppo, forse dovrei smetterla di cibarmi d’illusioni.

Mi sento sciocca perché vivo un grande amore per un ragazzo che mi considera solo un’amica e mi vergogno a dirgli quello che provo realmente. Penso a lui in continuazione, a cosa starà facendo e con chi potrebbe essere e faccio fatica a rassegnarmi al pensiero che lui rappresenti una meta a cui non arriverò mai.

Improvvisamente qualcuno mi abbraccia da dietro, le sue mani abbronzate che spuntano dalla felpa rossa contrastano col pallore delle mie. So che si tratta di lui prima che apra bocca: ho riconosciuto il modo di stringermi mettendo sempre troppa forza nelle braccia, ho annusato il suo profumo, sentito il suo petto contro la mia schiena.

-Sorpresa!- ha la voce stanca, il bel viso stravolto dalle troppe ore di volo.

Doveva andare in Sud Africa dopo il tour e invece è qua; non è passato dalla sua casa di Londra né a Market Harborough dai suoi, perché è venuto direttamente a Bournemouth?

-I tuoi genitori mi hanno detto che eri in spiaggia. Adesso puoi ammirare di persona il mio nuovo look.

Si toglie il cappellino da baseball e si passa una mano tra i capelli: sembrano molto più gialli visti dal vivo, li trovo orrendi così scuoto la testa in segno di disapprovazione, lui sbuffa e mi abbraccia di nuovo.

-Andiamo a Corby a vedere i fuochi d’artificio domani sera?

Annuisco.

-Come siamo loquaci! Non sei contenta di vedermi?

Certo che sono contenta! Vorrei urlarglielo, ma se continua a tenermi tra le braccia faccio fatica persino a respirare.

Prende un auricolare per capire cosa sto ascoltando.

-I Toto? Ancora? Possibile che non ti piaccia altro?

Mi stringe più forte, rabbrividiamo entrambi, io per l’emozione, lui per il freddo.

-Avevo dimenticato quanto si gelasse da queste parti a novembre! Stento a credere che qualche giorno fa ero in spiaggia; in Australia sì che si stava bene!

Ed ecco che riattacca a raccontare per l’ennesima volta di tutte le follie che ha fatto in tour; vorrei mettermi a piangere, ma riesco a trattenermi e convoglio la mia frustrazione in rabbia: lo colpisco su un braccio e lo allontano.

-Non me ne frega nulla! Vattene dalle tue australiane se ci stavi così bene!

Mi rimetto le cuffiette, per lo meno non sono costretta ad ascoltarlo, sono stufa di sentirlo parlare con entusiasmo di un mondo di cui non faccio parte.

-E togliti questi cosi!- mi urla perché lo senta anche con la musica ad alto volume- non mi importa niente delle altre, io sono innamorato di te!

Forse, oltre a sentire i Toto, ho anche delle allucinazioni auditive, lo guardo stupefatta in cerca di conferme.

-Di me?

Non ho il tempo di dire altro, l’iPod mi cade di mano e la canzone che stavo ascoltando si trasforma in un vago e confuso borbottio, ma non ha importanza. Josh avvicina lentamente il viso al mio, la sua bocca è irresistibile, finalmente sento la morbidezza e il calore di quelle labbra. Provo una sensazione indescrivibile: mi sento come se la sua anima avesse riempito all’improvviso il vuoto che sentivo nella mia. Ci stiamo baciando per la prima volta, il mio polso accelera i suoi battiti e temo di non essere in grado di sopportare tanta emozione. Sembra che tutto ciò che ci circonda sia stato messo a tacere, c’è silenzio, si sente solo il rumore dei nostri respiri e il suono prodotto dalle nostre labbra, attaccate le une alle altre.

È come se non esistesse nient’altro, solo lui ed io, solo il profumo della sua pelle, il tepore del suo corpo, il sapore della sua bocca. Ci separiamo per riprendere fiato, ma è solo per un attimo, stavolta sono io a fare la prima mossa e nel mio bacio metto tutte le parole che non sono mai riuscita a dirgli in tutti questi anni.  

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Capitolo 2
*** I'll be over you ***


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I’LL BE OVER YOU

There were the nights holding you close
someday I'll try to forget them

Mi svegliai in un bagno di sudore, non so se il mio o quello di Josh, che dormiva tranquillo al mio fianco. Lui e suo fratello avevano le camere in mansarda e d’estate si trasformavano in due autentiche fornaci. Cercai di liberarmi dalla gamba di Josh che mi teneva stretta contro il suo corpo stando attenta a non svegliarlo, ma non ci riuscii perché aveva il sonno leggero: aprì prima un occhio, poi l’altro.

-Dove vai?

-Al lavoro!

Girò la testa in direzione dell’orologio a forma di ruota d’auto che teneva appeso al muro e disse:

-Se ti sbrighi fai in tempo a chiudere lo studio: è mezzogiorno passato.

-Mezzogiorno? Il dottor Cox mi userà come cibo per il prossimo serpente che ci porteranno a curare! Oggi dovevamo somministrare il vaccino a un alano, non ce l’avrà mai fatta da solo! - immaginai il povero fragile medico alle prese con quella specie di cavallo e mi sembrò quasi di sentire la sua vocetta stridula che mi rimproverava perché per l’ennesima volta mi ero dimostrata una pessima assistente.

In realtà ero brava, con gli animali ci sapevo fare, ero diligente e preparata, diventavo inaffidabile solo quando Josh tornava dai tour e il “ci vediamo cinque minuti” diventava un tempo illimitato.

-Tutta colpa tua, come al solito!- lo rimproverai colpendolo col cuscino.

Quei momenti insieme erano davvero preziosi per me, ogni volta che metteva piede a Market Harborough svestiva i panni del batterista degli One Direction e tornava a essere Joshy. Non andavo mai a trovarlo a Londra, la sua vita laggiù mi faceva quasi paura. Ero andata in occasione del suo compleanno ed ero rimasta quasi nauseata dalle persone che frequentava; era sempre stato un festaiolo, ma gli piaceva divertirsi in modo sano non come gli amici che aveva nella capitale, che sembravano avere in mente solo la parola “eccedere” e anche lui, sotto quelle luci, in mezzo a quelle persone, sembrava diverso, meno attento, meno rassicurante. No, per una ragazza del Leicestershire che studiava per diventare veterinaria, Londra non era il posto giusto e forse non lo era nemmeno per Josh giacché, appena poteva, tornava qua o andava a Bournemouth, dove era nato e aveva ancora un sacco di amici.

Il letto era sotto la finestra, mi misi in ginocchio per aprirla e far entrare un po’ d’aria, Josh incollò il suo corpo alla mia schiena e mi mise le mani sul seno, cercando di trascinarmi di nuovo sotto le lenzuola.

Improvvisamente la porta si aprì.

-Joshua hai intenzione di startene tutto il giorno a letto?

Linda, sua madre, era una persona meravigliosa, ma aveva il brutto vizio di entrare nelle stanze senza bussare. Non sembrò sorpresa di trovarmi nel letto di suo figlio, anzi, mi sorrise affabilmente.

-Dharma, tesoro, non immaginavo che ci fossi anche tu! Ecco cos’erano i rumori che diceva di aver sentito Ben: credeva ci fossero di nuovo i procioni che camminavano sul tetto.

Un’altra ragazza sarebbe morta di vergogna se la madre di un suo amico l’avesse trovata in una delle camere di casa sua, vestita solo delle mani del figlio, ma io non ero per niente imbarazzata. I Devine mi conoscevano da una vita, da quando all’asilo avevo spinto il loro primogenito nella sabbiera, perché mi aveva chiamata “bifolca”.

- Ti fermi a pranzo con noi?

Accettai l’invito.

-Non ti ho sentita entrare ieri sera.

-Sono passata dalla finestra.

-Prima o poi uno di voi due si romperà l’osso del collo a forza di arrampicarvi! Ma perché non usate la porta come tutti gli esseri umani?

-Fino a un certo punto c’è la scala- intervenne Josh e sua madre uscì dalla stanza alzando gli occhi al cielo, mentre noi ci rivestivamo con calma.

Quella della scala appoggiata al fianco della casa per entrare in camera sua era stata un’idea di Josh che l’aveva copiata da un telefilm intitolato “Dawson’s Creek”: era il modo in cui la protagonista entrava in camera del suo amico d’infanzia. Mi aveva raccontato sommariamente la trama, ma quando gli avevo chiesto come fosse finito, se quei due alla fine si fossero innamorati, aveva glissato dicendo che non lo ricordava. Non ebbi mai modo di saperlo, poiché non avevo la televisione: i miei genitori erano due fricchettoni convinti, fissati con l’autoproduzione di qualsiasi cosa e guardavano con estrema diffidenza la tecnologia. Guardavano con diffidenza anche Josh, reo di avermi portato sulla cattiva strada facendomi mangiare ai fast food e di avermi regalato un cellulare. Era stato bandito da casa nostra il giorno in cui mia madre lo aveva sorpreso al nostro frigo a bere il latte di riso, direttamente dalla bottiglia, così ero sempre io ad andare da lui.

Scendemmo in cucina, suo padre e suo fratello erano già a tavola.

-Ciao Dharma- mi disse Mike, poi si rivolse al figlio minore- hai visto Ben, che non erano i procioni a fare baccano, ma questi due?

Pranzammo, poi gli uomini si misero sul divano a vedere non ricordo quale evento sportivo, io rimasi in cucina a dare una mano a Linda a rigovernare.

-È bello quando sei qui, sono contenta di avere un po’ di compagnia femminile. Tu e Josh siete sempre al solito punto?

Io stavo lavando i piatti, cominciai a fregarne uno così intensamente che rischiai di fare venire via il decoro. Il “solito punto” era in realtà un punto dolente, almeno per me.

Visti attraverso gli occhi degli altri, Josh ed io avevamo un rapporto da fidanzati, ma non ci consideravamo tali: ci facevamo le coccole se ci sentivamo soli, camminavamo mano nella mano, guardavamo i film dell’orrore e facevamo sesso se ne avevamo voglia, ma poi ognuno andava per la sua strada. La sua presenza nella mia vita e la mia nella sua erano una cosa naturale e inevitabile. Era sempre stato al mio fianco in ogni occasione importante della mia vita ed io sostenevo la sua carriera musicale fin dai primissimi esordi, in altre parole da quando eravamo bambini e usava la mia testa come un tamburo.

Aveva un innegabile talento per la musica, un estro e un senso del ritmo fuori dal comune e lavorava sodo. Aveva frequentato il Leicester college studiando tecnologia della musica e ogni giorno suonava per ore. Tutto questo impegno gli aveva permesso di vincere il concorso Mapex per i batteristi di domani che l’aveva condotto direttamente alla finale europea di Drummer of Tomorrow, ero volata con la sua famiglia fino a Francoforte per sostenerlo vincendo la mia paura dell’aereo. Ero con lui anche al Drummer Festival qua in Inghilterra: la sua esibizione aveva lasciato tutti a bocca aperta; ricordo ancora l’espressione di due batteristi adulti e con un sacco di esperienza che guardandolo suonare, avevano commentato “come faremo a trovare il coraggio di andare sul palco dopo questo?”. Poi era arrivato l’ingaggio per suonare con gli One Direction, parecchi soldi e una popolarità inaspettata che non sempre riusciva a gestire con serenità.

Continuai a lavare i piatti in silenzio, Linda capì che aveva toccato un argomento delicato e si mise a parlare della nipote che faceva la fashion blogger, gliene fui grata e partecipai con interesse alla conversazione.

Aveva anche smesso di chiedermi come mai non andassi mai in tour col figlio, per fortuna, perché non sarebbe stato piacevole spiegarle di quell’unica volta in cui Josh mi aveva portato con sé ed era successo il finimondo quando mi aveva sorpresa a pomiciare con Niall.

-Ti suono come una marimba!- mi aveva minacciata trascinandomi via ed io non avevo capivo perché si fosse arrabbiato tanto, non stavamo insieme, non era il mio ragazzo e non aveva il diritto di interferire in quello che facevo. Poi però avevo capito che era geloso, perché avevo cominciato a provare anch’io una certa inquietudine se mi parlava di qualche avventura.

Ultimamente i nostri rapporti si erano fatti meno disinvolti. Avevamo iniziato da bambini, giocando al dottore insieme e avevamo continuato negli anni successivi, non avevamo vergogna di portare avanti quell’amicizia particolare, priva d’impegni, abbracciandoci spesso e baciandoci in pubblico se ne avevamo voglia. Ma da un po’ di tempo facevo sempre più fatica a sciogliermi dai suoi abbracci e a letto prevaleva la dolcezza, i preliminari infiniti, le coccole prima e dopo.  

La gioia che provavo quando eravamo insieme mi faceva quasi paura, non sapevo se si trattasse veramente di amore, ma qualsiasi cosa fosse, era una sensazione bellissima.

D’altronde Josh era stato la mia prima volta. I miei eccentrici e libertini genitori avevano cresciuto me e mia sorella con la convinzione che la verginità fosse qualcosa di cui sbarazzarsi al più presto, io avevo aspettato i sedici anni, quando, dopo un’accesa partita di Twister nel suo giardino, avevo chiesto a Josh se se la sentiva di liberarmi dall’indesiderato fardello.

Lo sguardo che mi aveva rivolto mi aveva fatto temere seriamente che mi avrebbe buttata nel cespuglio più vicino, ma il suo animo di gentiluomo lo aveva saggiamente fatto decidere che sarebbe stato meglio rimandare alla sera successiva, in camera sua.

Quando entrai dalla finestra, scoprì il lato romantico di Josh, che aveva coperto le luci con alcune magliette rosse per renderle soffuse e aveva messo su una musica struggente: era “I’ll be over you” dei Toto.

-Forse nella tua stramba famiglia è un passo da niente, ma io sono ancora convinto che la prima volta di una ragazza sia importante- mi aveva detto e si era dimostrato il ragazzo più paziente, dolce e premuroso del mondo, trasformando quello che mia sorella aveva definito un momento orribile e doloroso, in uno dei miei ricordi più belli. C’eravamo svegliati la mattina successiva con le nostre famiglie al completo ai piedi del letto: ci avevano cercato per tutta la notte omettendo di controllare nel posto più logico in cui potevamo essere.

-Suppongo che adesso dovrò riammetterti a casa nostra- aveva sospirato mia madre, ma la tregua tra lei e Josh era durata solo fino al momento in cui lui le aveva chiesto perché si ostinasse a fare il pane in casa, quando avrebbe potuto comprarne di più buono al panificio.

Finito di lavare i piatti, salutai Linda, gli uomini di casa Devine mi risposero con un grugnito, tanto erano presi dalla trasmissione e tornai a casa, non senza essere passata a scusarmi col dottor Cox che, invece di rimproverarmi, mi ripeté ancora di prendere la laurea in fretta, così avrei potuto rilevare il suo studio.

Mi misi sui libri, volevo ripassare per l’esame che avrei avuto l’indomani, ma il mio pensiero tornava insistentemente alla notte trascorsa con Josh e le sensazioni che mi sopraffacevano, m’impedivano quasi di vedere la pagina.

L’esame andò molto bene. Per tutta la durata del viaggio in treno cercai di chiamare Josh per dirglielo, ma il suo cellulare era stranamente spento e a casa non rispondeva nessuno: i suoi genitori erano andati a una mostra di fiori, ma lui? Possibile che fosse tornato a Londra senza dirmi niente?

Mi feci una doccia per togliermi un po’ di stanchezza e la puzza del treno, poi uscii a fare una passeggiata: le mie gambe mi portarono automaticamente davanti casa di Josh, feci il giro dell’edificio e fu allora che mi accorsi che la scala era scomparsa, al suo posto c’era un biglietto.

“Mi sono trasferita a The Woodlands. Firmato La Scala”.

The Woodlands era il quartiere residenziale di Market Harborough, non troppo lontano da lì, ci arrivai in pochi minuti e finalmente trovai Josh, che stava seduto per terra ai piedi della scala, appoggiata alla facciata di una delle villette.

-Com’è andato l’esame?- mi chiese venendomi incontro.

-Bene- risposi confusa- ma che ci fai qua?

I suoi occhi e i miei s’incontrarono in uno sguardo complice. Mi rivolse un sorriso malizioso ed io arrossii come ogni volta in cui mi guardava in quella maniera piena di desiderio.

Mi abbracciò come se fossero mille anni che non mi vedeva, inclinò il suo viso verso il mio e mi baciò. Le sue labbra percorsero tutta la mia faccia: le guance, il naso, il mento, fino ad arrivare finalmente alla mia bocca; ci baciammo così a lungo che sembrava non dovessimo staccarci più.

Sentivo il suo odore, la sua pelle contro la mia, il calore delle sue mani che mi accarezzavano dappertutto in cerca di qualcosa che solo loro sapevano, risvegliando i miei sensi. Il mio cuore cominciò a battere sempre più forte, ci conoscevamo talmente bene da riuscire a comunicare senza bisogno di parlare ed io capii che il suo sguardo, i suoi gesti e le sue reazioni significavano una cosa sola: mi amava anche lui.

-Joshy- provai a dire, ma lui mi mise un dito sulle labbra.

-Ti prego, fai parlare prima me, sono così emozionato che non so se quello che sto per dirti ha un senso. Hai risvegliato in me qualcosa che credevo inesistente, mi hai fatto sentire importante per quello che ero, grazie a te ho scoperto l’amore. Quando mi sono accorto che quello che provavo per te era molto più del semplice affetto, non ho fatto altro che pensare a questo mio grande desiderio che mi rendeva inquieto perché non ero sicuro che mi avresti ricambiato.

Lo guardai sorridendo.

-La botta in testa che hai preso quando ti ho spinto nella sabbiera da bambini dev’essere stata bella forte! Come hai fatto a non accorgerti che ti morivo dietro?

-I nostri rapporti non sono mai stati troppo chiari. Ma quando ti sei accorta di essere innamorata di me?

-Più o meno quel giorno in tour, quando ho finito con Liam quello che avevo cominciato con Niall e ho capito che in realtà avrei voluto essere con te.

-Cos’è che hai fatto con Liam? Ora me lo racconti, porcellina!- mi disse Josh ridendo, sollevandomi da terra per prendermi in braccio.

-Non vorrai portarmi in collo fino a casa tua?

-Sono solo pochi passi. Questo sarà il nostro nido d’ora in poi- rispose indicando con un cenno della testa, la villetta alle nostre spalle.

E tra una risata e un bacio entrai in casa, stavolta senza passare dalla scala a pioli, ma attraversando la porta come una sposa: in braccio al ragazzo che avevo sempre amato.

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Capitolo 3
*** Reservation to love ***


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RESERVATION TO LOVE

Everyday it rains somewhere.
You've got to make the best of what you have.
You could tie a train out there.
You better get some sunshine while you can

Diedi un’ultima occhiata al lavoro: avevo impiegato tutta la notte per terminarlo, ma ne era valsa la pena, era perfetto. Quel disegno da solo valeva tre quarti dell’esame: se al professore fosse piaciuto, l’orale sarebbe stato solo una formalità. Misi il ritratto in una cartellina, presi la valigetta con tutti i miei fogli e prima di uscire, raccolsi i riccioli in una coda ordinata e mi sistemai il fiocco della camicetta che avevo indossato per avere un’aria più professionale: la benevolenza dell’insegnante di Disegno passava anche dal nostro aspetto che doveva essere ineccepibile almeno quanto i nostri lavori.

Mi guardai allo specchio e mi vidi, come ogni volta, pallida e spigolosa, con i capelli meno in disordine del solito, ma sempre la solita ragazza banale di sempre; ero una qualunque ventenne graziosa, nessuno aveva mai fatto follie per me e nella mia vita non era mai successo nulla di straordinario.

Prima di uscire, incrociai mia nonna, che cominciò a chiedermi qualunque cosa riguardante l’esame.

-Ti racconto quando torno- le diedi un bacio frettoloso e uscii velocemente, le volevo bene, ma non faceva che riempirmi di domande di ogni genere, quelle che sopportavo meno erano quelle riguardanti l’amore poiché non sapevo mai cosa rispondere: non mi filava nessuno, nessuno di cui valesse la pena parlare, almeno.

Una volta fuori, mi accorsi che pioveva a dirotto: vivevo a Stanmore Hill e dovevo cambiare due volte la metro per arrivare in Accademia. Era in momenti come quello che rimpiangevo di non aver mai preso la patente, ma avevo paura della strada, del traffico e dei pedoni che sbucavano da ogni parte esattamente come temevo la vita, la gente che incontravo e le situazioni impreviste.

Arrivai alla stazione con l’ombrello già messo fuori uso da un paio di raffiche di vento e feci l’amara scoperta di aver preso l’iPod di mio fratello, anziché il mio.

-Fantastico!- pensai con disappunto, mentre mi accomodavo sui sedili lerci del vagone, studiando il modo migliore per proteggere dalla pioggia la cartellina contenente il prezioso disegno. Cullata dai movimenti del vagone e annoiata dalla musica di Adele per poco non mi appisolai e rischiai di non scendere a Oxford Street e di perdere la coincidenza.

Avevo tempo fino alle 19.00 per consegnare il lavoro, ma avevo preferito portarlo la mattina presto, così mi sarei goduta il pomeriggio: avrei chiamato un’amica e saremmo andate da Milkshake City a bere un frullato agli Oreo. Quel pensiero mi fece tornare il buonumore, ero partita da casa da quasi un’ora ed ero vicina alla meta. Uscii dalla stazione e mi apprestai ad attraversare la strada: pioveva forte, tenevo la valigetta sulla testa per bagnarmi il meno possibile, mentre la cartellina con il lavoro era infilata al riparo nell’elastico della gonna.

Una macchina mi passò vicino a velocità sostenuta e, centrando in pieno una pozzanghera, mi schizzò le scarpe; ero così impegnata a imprecare che non mi accorsi dell’Audi bianca che puntava dritto contro di me. Fu un attimo, un momento terribile in cui mi convinsi che sarei morta in quel preciso istante, se solo l’avessi saputo avrei almeno cambiato canzone: passare a miglior vita con la voce di Rhianna nelle orecchie non rientrava nei miei piani.

Scivolai sull’asfalto bagnato, mi volò tutto di mano in un turbinio di fogli come durante il video di Best Song Ever. Non so di preciso quanto rimasi a terra, ma non appena riaprii gli occhi, mi accorsi di non aver intorno alcun capannello di persone, pioveva troppo forte per fermarsi, chino su di me c’era solo quello che probabilmente era il conducente dell’auto, un ragazzo con il cappuccio della felpa ben calcato in testa e del quale riuscii a scorgere solo lo sguardo corrucciato.

-Stai bene?

Ero viva, un po’ ammaccata, ma non stavo per nulla bene perché mi ero accorta di non avere più il disegno infilato nei vestiti. Urlai e il ragazzo con me, probabilmente temeva di aver investito un mio ipotetico cagnolino. Il mio lavoro era completamente sotto la ruota del veicolo, bagnato, rovinato, inservibile. Lui lo sfilò da sotto l’auto e gli diede un’occhiata.

-Zayn Malik?

Gli tolsi il foglio di mano con talmente tanta violenza da lacerarlo.

-Era per un esame all’Accademia di Belle Arti, ma adesso per colpa tua, dovrò rifarlo e non ce la farò mai a consegnarlo in tempo per stasera.

Mi rimisi in piedi, lui fece altrettanto e m’invitò a seguirlo in auto perché stava piovendo davvero forte; aprii la portiera ed esitai: era una macchina lussuosa e non volevo rovinare i sedili.

-Entra! Non m’importa se l’abitacolo si bagna, non voglio che tu prenda un raffreddore: ti ho già causato abbastanza guai per oggi.

Alzò al massimo il riscaldamento, io avevo gli abiti incollati addosso, la gonna era appiccicata alle gambe come una seconda pelle e la camicetta aderiva così tanto al mio busto che mi si vedevano benissimo i capezzoli eretti a causa del freddo e dallo sguardo del ragazzo fisso all’altezza del mio seno. Incrociai le braccia, imbarazzata, mentre anche lui cercava di scollarsi di dosso i vestiti: indossava una onepiece probabilmente grigia, che era diventata scura a causa della pioggia, gli aderiva come una seconda pelle rivelando braccia muscolose, un bel paio di spalle e gambe toniche. Non riuscivo a vedere il suo viso perché aveva la cerniera della tuta tirata su fin sotto gli occhi che erano di un colore tra il verde e il nocciola, non grandissimi ma brillanti, belli.

-Posso fare qualcosa per rimediare?- mi chiese.

-No, grazie; credo che comprerò una rivista dove ci siano gli One Direction e andrò in Accademia cercando di rifare il disegno, spero di farcela a finire entro le sette di stasera.

-Perché hai scelto proprio Zayn Malik?

-Il nostro insegnante ha detto che ha una simmetria del viso perfetta.

-Non puoi rimanere con quei vestiti bagnati addosso.

-Abito lontano, perderei troppo tempo se tornassi a casa a cambiarmi- aprii lo sportello dell’auto per uscire, lui mi fermò per un braccio.

-Come te la cavi col disegno dal vivo? Se tu avessi un modello, sarebbe più facile?

Ero bravissima quando si trattava di disegnare dal vero, avrei impiegato la metà del tempo a finire il lavoro, ma dove potevo trovare un modello dal viso perfetto in così poco tempo?

-Sarebbe la soluzione ideale.

-Ho un amico che fa il caso tuo- mi disse il ragazzo mettendo in moto e ripartendo.

Che stavo facendo? Io, sempre così prudente e diffidente, ero in auto con un perfetto sconosciuto di cui avevo visto solo gli occhi che mi stava portando chissà dove. Per quanto ne sapevo avrebbe potuto essere un maniaco, un violentatore, un drogato, avrebbe potuto uccidermi e farmi a pezzi eppure mi fidavo di lui, c’era qualcosa nel suo sguardo che ispirava fiducia, che mi rasserenava.

Arrivammo di fronte ad una grande casa, scese a suonare il campanello, la telecamera del videocitofono inquadrò la nostra auto e il cancello si spalancò, quando arrivammo alla porta d’ingresso, la trovammo aperta.

-Josh, che sorpresa! Entra!- gridò una voce dall’interno.

Si chiamava Josh, un nome che significava “salvezza”: ancora non me ne rendevo conto, ma quel ragazzo stava per salvare non solo il mio esame, ma tutta la mia vita sentimentale.

-Ciao! E tu chi sei?- disse il padrone di casa porgendomi la mano.

-Irina- balbettai sconcertata dal trovarmi di fronte Zayn Malik in persona ricoperto solo da un asciugamano intorno ai fianchi.

Josh tirò giù la zip della tuta e finalmente potei vederlo in viso, a essere sincera mi colpì molto di più della visione precedente: era bellissimo, uno di quei ragazzi che in genere mi limitavo a guardare da lontano e con cui non avrei mai avuto il coraggio di parlare.

-Le ho rovinato il disegno per un esame e avrebbe bisogno di un modello per rifarlo.

-Certo- disse Zayn mostrandosi estremamente disponibile- ho il necessario nella stanza dei graffiti. Cosa ti serve?

-Un foglio e se li hai dei carboncini, altrimenti mi farò bastare una matita.

Ero davvero io che mi stavo rivolgendo con tanta disinvoltura all’idolo di migliaia di ragazzine, per altro seminudo?

-Ti preparo l’occorrente, ma intanto cambiatevi che siete zuppi- mi guardò e aggiunse- ti do degli abiti di Perrie, dovrebbero andarti bene.

-Impossibile, io sono così…

-Così come?- intervenne allora Josh- grassa? Te lo dicono gli altri o forse è una tua stupida convinzione?

Abbassai lo sguardo piena di vergogna e balbettai:

-Sì.

-Scommetto che nessuno ti ha mai detto che sei bellissima o speciale.

-Solo la mia famiglia o le mie amiche, ma loro non contano.

-Allora te lo dico io: sei bellissima!

Zayn guardò Josh che sembrava davvero convinto della mia avvenenza e mi sorrise, mentre mi porgeva un asciugacapelli e dei vestiti variopinti che fissai, perplessa.

-Non credo che mi staranno bene, non porto abiti così estrosi.

-Ti staranno benissimo- fece Josh, incoraggiandomi con un sorriso e Zayn disse:

-Ne sono convinto anch’io, puoi tenerli, Perrie ha l’armadio pieno di roba, anzi, mi fai un favore liberandomi un po’ di spazio.

Entrai nel bagno e la prima cosa che vidi fu un enorme specchio che mi costrinse a fissare il pavimento mentre mi vestivo; solo quando ebbi finito detti uno sguardo di sfuggita alla mia immagine. Voci del passato mi avevano definita simpatica, fresca, pazzerella, ma era vero che ero anche bella come diceva Josh? O era solo una frase di circostanza? Scoppiai a ridere: ero nel bagno di Zayn degli One Direction, indossavo gli abiti della sua eccentrica fidanzata e avevo appena incontrato un ragazzo in grado di farmi battere il cuore senza che neanche lo conoscessi.

Da fuori mi arrivò la sua voce.

-Sono contento di sentirti ridere, fallo più spesso, ridi, vivi la tua vita e sentiti magnificamente bellissima.

Era matto da legare, ma questo suo approccio alla vita mi piaceva da matti.

Uscii dal bagno e me lo trovai di fronte: indossava una maglia di Zayn che gli faceva da vestito e un paio di pantaloni della tuta a cui aveva dovuto fare più di una rimbocca.

-Hai visto che ti stanno benissimo?- mi disse, sistemandomi il colletto della camicetta- cos’ha Perrie Edward più di te?

-Me!- esclamò Zayn ridendo- sono pronto.

Indossava ancora l’asciugamano e decisi che l’avrei fatto mettere in posa come il David di Michelangelo, raffigurandolo ovviamente solo fino all’ombelico. Si prestò pazientemente a fare quello che avevo in mente: disegnare con un modello era molto più facile perché potevo girargli intorno e scegliere la luce più adatta. Impiegai quasi due ore, durante le quali Zayn stette fermo senza protestare; la mattinata trascorse piacevolmente tra battute di ogni genere.

Per la prima volta in vita mia, nonostante la situazione paradossale, mi sentivo a mio agio: era forse merito di Josh?

Ordinammo il pranzo, ma mentre loro si abbuffavano io sbocconcellavo un panino poiché ero impegnata con le sfumature e con le ombreggiature da perfezionare; Josh era incantato dalla mia abilità con la matita, ogni tanto smetteva di mangiare e si fermava a guardare il mio lavoro che stava prendendo forma.

-Mangia che devi crescere- lo scherniva Zayn, ma lui non lo sentiva nemmeno, ogni volta che alzavo gli occhi dal disegno lo trovavo che mi fissava.

Ci lavorai altre due ore, alla fine venne meglio di quanto sperassi.

-È perfetto- esclamai.

-Come te- disse Josh.

-Non è vero!

-Smettila con questa storia! Perché pensi di non essere bella? Sei bella a modo tuo: imperfetta, forse, ma bellissima e a me piaci.

-Voglio quel disegno- disse Zayn- salvandomi dall’imbarazzo in cui ero piombata.

-Sì, certo, dopo l’esame te lo farò avere. Sei stato così gentile da farmi da modello.

-Figurati, poi non avrei mai negato un favore a Josh: è come un fratellino per me.

-Sono più vecchio di te! Irina non preoccuparti, glielo darò io: non ho intenzione di perderti di vista.

Mi accompagnò all’Accademia, il professore rimase talmente impressionato dal mio lavoro, da convalidarmi direttamente il voto perché secondo lui un talento come il mio non aveva bisogno di ulteriori conferme.

Uscii dall’aula felice, ma diventai raggiante quando mi accorsi che fuori, appoggiato alla sua auto ad aspettarmi, c’era Josh con un enorme ombrello arancione in mano e un sorriso in grado di illuminare quella serata umida.

Non aveva ancora smesso di piovere sulla città di Londra, ma nel mio cuore si cominciava finalmente a rivedere il sole.

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Capitolo 4
*** Drum talk ***


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DRUM TALK

And when I've feelings that I can't explain
I let the drums do the talking

 

-Chi è Josh Devine? E perché ti segue su Twitter?

La voce alterata del mio ragazzo mi fece sussultare e la matita, impegnata a tracciare una precisissima linea, mi sfuggì di mano disegnando un antiestetico ghirigoro sul progetto per l’esame di architettura.

-Sai come funziona su Twitter, chiunque può seguirti- mi giustificai.

-Ma hai la timeline piena delle vostre conversazioni!

Cercai disperatamente un argomento a cui appigliarmi, confidando nel fatto che lui non conoscesse una parola di inglese, ma fortunatamente mi precedette.

-Ah, ma suona con gli One Direction! Ho capito: vuoi usarlo per arrivare a coso nell’armadio.

“Coso nell’armadio” era Liam Payne, o meglio, il suo poster a grandezza naturale che mi aveva seguito dalla mia cameretta fino all’appartamento che dividevo con il mio ragazzo. Ripensandoci, non era stata una grande idea quella di andare a vivere insieme: con la convivenza quotidiana avevo scoperto che eravamo profondamente diversi, ma dopo le superiori, di fronte alla scelta se fare l’interprete o l’architetto, avevo optato per la seconda, mi ero trasferita a Firenze e lui mi era venuto dietro “per dividere le spese” iscrivendosi a Scienze Politiche, giusto per dimostrare ai genitori di essere impegnato in qualcosa, anche se alla fine non aveva dato neanche un esame.

Io invece lavoravo sodo e quella sera afosa di fine giugno ero seduta di fronte alla finestra spalancata, china sul mio tavolo da lavoro e impegnata a progettare un ponte per l’ultima prova della sessione estiva.

Nonostante avessi le idee chiare sulla carriera che avrei voluto intraprendere dopo la laurea, non ero affatto il futuro architetto dalla mente quadrata come si poteva pensare, anzi, ero istintiva, disordinata e inguaribile sognatrice, di quelle che pensano che le cose belle accadano per caso e ci credono davvero.

-Vado a dormire- annunciò il mio ragazzo, sbadigliando scompostamente.

-Notte- dissi sollevata del fatto che l’indagine fosse già conclusa, perché la storia di Josh andava avanti da quasi un anno e su Twitter c’era solo una piccolissima parte di quello che avevamo condiviso.

Ecco, Josh faceva parte di quelle cose belle che avvengono fortuitamente, poiché tutto era nato da un complimento che gli avevo fatto:

-Spero che diventerai famoso come Jeff Porcaro.

E lui aveva risposto:

-Ma Jeff Porcaro è morto!

Avevo quasi sbattuto la testa sulla tastiera pensando che avevo buttato al vento la mia occasione, l’unica volta in cui ero stata notata in mezzo a tutto lo spam! Poi però avevo ricevuto un suo DM in cui mi spiegava che era cresciuto con la musica dei Toto, ma che il suo stile si avvicinava più a quello di Simon Phillips. E avevamo continuato a scambiarci messaggi parlando della nostra passione comune.

Un giorno mi aveva mandato un link: era “Wish you were here”, ma non la versione classica dei Pink Floyd, bensì la cover di Ed Sheeran; ero andata in confusione, aveva forse voluto dirmi qualcosa con quella canzone o l’aveva solo scelta perché gli piaceva? Ricordavo di avergli confidato che per me i testi erano  importanti almeno quanto la melodia, ma forse la mia fantasia stava correndo troppo. Avevamo continuato a scambiarci canzoni, finché lui non mi aveva dato il colpo di grazia con “Through the barricades” una canzone bellissima che celebra l’amore che riesce a trionfare nonostante tutto, l’emozione mi aveva stretto così forte lo stomaco che mi ero messa a piangere.

Dalla musica eravamo passati ad argomenti più personali, parlando dell’importanza che aveva la famiglia per noi, fino alla nostalgia che sentivamo nei confronti delle città di mare in cui eravamo nati. Cercavo di convincermi che non fosse il ragazzo perfetto, ma era tutto contro di me: la sua simpatia, la sua voglia di vivere e, perché no, la sua bellezza.

Non so perché avesse scelto me, probabilmente faceva così con tutte o forse trovava piacevole parlare con qualcuno che non lo ossessionasse o che gli facesse proposte al limite della decenza (anche se una volta, omettendo una preposizione, gli avevo scritto che avrei dovuto fargli un servizietto, anziché “devo darti buca”. Conoscevo bene l’inglese, ma non era facile scrivere in tempo reale, soprattutto se si era preda di una strana agitazione come lo ero io ogni volta che trovavo un suo messaggio).

-Sei innamorata di lui?- mi aveva chiesto una volta Valentina, la mia compagna di corso, l’unica che sapesse di noi e le avevo risposto di no, che per innamorarsi bisognava frequentarsi, che io ero impegnata, che lui apparteneva ad un mondo troppo diverso dal mio. Ma nello stesso momento in cui le parole mi uscivano dalla bocca indossavano le vesti delle bugie, perché il sorriso che mi si dipingeva sul volto quando parlavo di lui, o l’accelerare del cuore se mi capitava di pensarlo, erano fenomeni che non riuscivo a controllare.

Non avrei mai creduto che al mondo potesse esserci una persona che fosse assolutamente in sintonia con me, anche se a dirla tutta era come se non esistesse affatto: lui era il sesto membro degli One Direction, o comunque, un batterista di talento, io una studentessa italiana di architettura. C’erano dei giorni in cui mi trovavo a pensare che non avrei mai voluto conoscerlo, non così, almeno: avrei preferito che fosse un compagno di corso, il postino, il garzone del macellaio… invece era Josh Devine: che storia avremmo mai potuto costruire?

Avere al mio fianco un ragazzo poco affettuoso che mi trascurava e che metteva se stesso al primo posto, non faceva che incoraggiare la mia attrazione per Josh e questo non andava bene perché se da una parte mi sentivo felice e apprezzata, dall’altra ero dilaniata da terribili sensi di colpa e dubbi lancinanti.

-Sei innamorata- aveva sentenziato Valentina il giorno in cui l’avevo trascinata alla ricerca di uno smartphone su cui scaricare l’app di Josh per parlare con lui, proprio io, che andavo orgogliosa del mio telefono antidiluviano.

-È per controllare gli appelli in tempo reale- avevo provato a mentirle, ma lei sapeva benissimo che non era vero, mi conosceva troppo bene per non capire che il rossore che saliva sulle mie guance mentre lo sguardo contemporaneamente si abbassava, erano chiari segni di un sentimento che cresceva prepotentemente dentro di me ogni giorno di più.

Finii per usare la mia amica per mantenere un contatto con la realtà, sperando che lei, vedendo le cose da fuori, fosse capace di tenermi ancorata a terra, ma era troppo saggia e sincera per dirmi quello che non era evidente e così volavo sempre più in alto.

-So che tutta questa storia di Josh è sbagliata, che non dovrei farmi illusioni e soprattutto ricordare che sono impegnata, ma allora perché mi tremano le mani ogni volta che vedo un suo messaggio?

-Da quanto tempo non vieni letteralmente corteggiata? Non significa che se ti tremano le mani tu stia dicendo di sì. Significa che hai delle emozioni.

Non osai confessarglielo, ma io dicevo sì ogni volta che aprivo la bustina sul cellulare o cliccavo sul link della twitcam. Mi allontanavo sempre di più dalla grigia realtà per immergermi sempre più in quel mare di colori, un mare che, a lungo andare, sapevo che mi avrebbe inghiottito.

Josh aveva iniziato a mandarmi foto con Snapchat (“prima o poi ti troverai il batterista nudo!” aveva ironizzato Valentina facendo riferimento all’uso che normalmente veniva fatto di quell’applicazione), mi stupiva come riuscisse ad essere sempre fotogenico anche la mattina appena sveglio, o dopo una sessione in palestra o nel bel mezzo di un concerto. Una volta che ebbi scaricato la sua applicazione mi tempestò di videochiamate: facevamo conversazioni infinite con lui che rideva quando non capivo quello che definivo il “suo” inglese o quando gli dicevo di aspettare perché stavo cercando una parola sul dizionario. Durante le nostre chiacchierate tenevo il  telefono rigorosamente puntato sulla finestra aperta da cui si godeva un magnifico panorama di Firenze. Non mi ero mai mostrata, temevo che il mio aspetto avrebbe sporcato l’immagine che si era fatto della sua “Crazy Mofo preferita”, come amava chiamarmi in maniera dispettosa, ma sapevo di piacergli in qualche modo, ne avevo avuto la prova con un tweet che aveva scritto di getto con qualche errore e privo di punteggiatura e poi cancellato.

“It drives me mental after talking with you. I get crazy after to let the steam out the pot so to speak”.

Sapere che lo coinvolgevo anche in maniera fisica mi rendeva quasi orgogliosa e non ero mai riuscita a capire fino a che punto fosse scherzosa la sua gelosia nei confronti di Liam.

-L’ho colpito con un lime durante “Summer Love”- mi aveva candidamente confessato Josh, dopo che gli avevo raccontato della mia cottarella per Liam e io avevo riso, trattenendomi dal dirgli che il lime avrebbe dovuto tirarlo contro se stesso perché nei suoi confronti provavo qualcosa di ben più profondo della simpatia.

Era stato un lungo autunno in lotta col fuso orario, poi un inverno infinito a combattere con la voglia di scappare in Inghilterra durante la pausa tra un tour e l’altro e infine una primavera dominata dal desiderio preponderante di raggiungerlo durante una delle nuove tappe.

Ed era arrivata l’estate e me ne stavo ancora lì, seduta al tavolo da lavoro, di fronte a quella finestra da cui si vedeva tutta Firenze, inchiodata alla sedia dalla mia vigliaccheria, dal senso di responsabilità e dalla fedeltà verso una persona che era sempre più coinquilino e sempre meno fidanzato.

Josh mi aveva chiesto se sarei andata ad uno dei tre concerti italiani.

-Non posso, ho un esame da preparare- avevo riposto e lui aveva assunto un’espressione delusa.

Gli avevo mostrato la tavola con il ponte e aveva detto che gli sarebbe piaciuto che stessi progettando un ponte che unisse la mia vita alla sua, all’improvviso mi ero accorta che le goccioline che stavano cadendo sul foglio non era il sudore dovuto al clima torrido di Firenze, bensì lacrime incontrollabili che uscivano dai miei occhi: ero innamorata, follemente innamorata, adesso riuscivo anche ad ammetterlo persino con me stessa.

-Vado a dormire. Tu che fai?- ripeté il mio ragazzo chiudendo il suo pc.

-Finisco la tavola per l’esame.

In realtà in quella caldissima sera di fine giugno dovevo guardare la cam che Josh aveva aperto per farmi seguire l’esibizione dei ragazzi in diretta.

Ad un tratto qualcuno prese il suo telefono e lo portò in giro per il palco puntandolo su Liam che stava facendo l’assolo in “Over again”.

Mi tornò in mente un tweet in cui avevo scritto che una delle cose che rasentavano la perfezione erano le parole di quella canzone di Ed cantate dalla voce di Liam, mi fece piacere che se ne fosse ricordato.

-“Oh, Josh!”- pensai mordendomi le nocche, preda da una folla di emozioni che ormai ero in grado di identificare, ma che non potevo  dominare e che esplosero quando il telefono tornò al suo posto e lui si girò a farmi la linguaccia.

Finito il concerto, chiuse la comunicazione video, poi mi mandò un messaggio: “Ho impedito a Harry di tirare le mie bacchette in mezzo alla folla perché vorrei darle a te. Mi faresti avere il tuo indirizzo, così posso spedirtele?”

Glielo detti senza pensarci su, poi mi misi a disegnare: era notte fonda, ma non mi sentivo stanca, anzi, la città era silenziosa e l’aria più fresca, l’ideale per lavorare. Ero così presa dal desiderio di finire il progetto che non mi accorsi del tempo che era trascorso e solo lo sbuffare di un autobus mi fece alzare la testa dal foglio.

-“Ma che ora è? Sono già arrivati i pullman dei turisti?”- pensai dando un’occhiata all’orologio: erano quasi le quattro del mattino, chi diamine poteva aver voglia di andare a Piazzale Michelangelo all’alba?

Mi affacciai, dovevo essermi sicuramente addormentata e quello era un bel sogno. Non poteva esserci altra soluzione per spiegare la presenza del bus degli One Direction sotto casa mia.

Afferrai il telefono e scesi di sotto incurante dei capelli tenuti su da una matita, del pigiama e delle ciabatte.

La porta di casa si aprì cigolando.

-Dove vai?- bofonchiò il mio ragazzo dall’altra stanza.

-A buttare la spazzatura- risposi convinta.

Ed era vero, stavo per buttare via la mia vecchia vita, la nostra relazione, la mia carriera universitaria; stavo correndo incontro alla felicità che avevo costruito con pazienza, giorno dopo giorno, nel corso di quell’anno.

Prima di aprire il portone esitai, temendo che forse non gli sarei piaciuta fisicamente, ma la voglia di dargli quell’abbraccio che troppe volte avevo rimandato mi spinse prepotentemente fuori da quelle quattro mura che erano state il teatro della nostra storia fino a quel momento.

Mi avvicinai al bus, le porte si aprirono e scese per primo Liam: non me l’aspettavo e fissai il suo viso stanco senza sapere cosa fare. Se fosse accaduto la scorsa estate credo che sarei svenuta, invece in quel preciso istante non provai niente, lo salutai, gli sorrisi e chiesi:

-Dov’è Josh?

Dietro di lui si sentivano risate, rumori indistinti: una gran confusione! Cercai di sbirciare al di là del corpo di Liam e finalmente vidi spuntare quel sorriso luminoso che aveva illuminato le mie grigie giornate.

-Spostati, scimmione, lei è mia!- disse facendosi largo e non appena fummo l’uno di fronte all’altra mi fissò quasi incantato senza smettere di sorridere.

Mi porse le sue bacchette.

-Sono tue, te le avevo promesse.

-Hai dirottato il bus e fatto tutta questa strada per darmi le tue bacchette?- ero un po’ delusa, lo ammetto.

Il suo sorriso si fece più radioso:

-Veramente, visto che impiegavi tanto a progettare quel maledetto ponte, ho pensato di accelerare i tempi e collegare finalmente le nostre vite con qualcosa di meno effimero del segnale wifi. Non credevo fosse possibile innamorarsi di una ragazza senza averla neanche mai vista in faccia, ma poi un uccellino azzurro mi ha portato te.

Mi tese la mano per farmi salire a bordo dell’autobus.

-Non posso venire via con te, sono in pigiama.

-Abbiamo due giorni liberi prima del concerto in Germania, sai quanto shopping possiamo fare insieme?- poi mi prese il viso tra le mani e aggiunse- e quante altre cose!

Sorrisi, annuendo, mentre Josh mi diceva:

-Ricordi cosa ti ho scritto quando ero in Nuova Zelanda? Voglio che tu sia la mia amante, la mia amata, il mio amore! Lo penso ancora, sai?

L’ultima cosa cosa che vidi quel giorno, prima che le porte del bus si chiudessero, fu l’alba che salutava Firenze, tingendo il cielo di rosa e con esso il mio volto e quello di Josh uniti, finalmente, in un interminabile bacio.

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Capitolo 5
*** 99 ***


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Angolino dell’autrice: ho scritto la prima stesura di questa storia sull’aereo che mi riportava a casa da Londra. Dopo pochi giorni le fans hanno scoperto dove si trovava casa di Liam e lo hanno assediato. Lui dà la colpa agli amici che hanno fotografato il suo palazzo, ma secondo me è stata la mia vicina di posto che aveva gli occhi più su quello che scrivevo che sul suo libro.

99

Oh 99, I love you

La panchina è fredda e l’erba umida: ha piovuto parecchio stanotte e il sole di questo giovedì di gennaio non è ancora riuscito ad asciugarla completamente. La giornata è splendida, sono nel parco di Primrose Hill: di fronte a me si staglia il panorama mozzafiato dell’intera città di Londra, ma non lo vedo neanche: il mio sguardo è incollato sull’orologio.

Il rombo di un’auto sportiva rompe la quiete di Primrose Road; alzo la testa e comincio a sorridere: è incredibile come basti pensare a te per distendere automaticamente i muscoli della mia bocca. Sali di corsa sul promontorio, arrivi in cima in un baleno senza un filo di fiatone, al contrario di quanto è successo alla sottoscritta, ma d’altronde se ti dico sempre che sei malato di palestra e tu mi chiami ogni volta Lazy Mofo, un motivo ci sarà.

-Ciao Joshy.

-Ciao hunny!

Ci voleva questo incontro, da soli, senza gli amici, dopo il mezzo disastro di ieri; siamo finalmente uno di fronte all’altra, sprofondati nell’imbarazzo: io con le mani ostinatamente piantate nelle tasche del montgomery e le tue impegnate a giocherellare col portachiavi dell’auto.

Ti passi nervosamente la mano tra i capelli che ormai hanno perso tutto il biondo, poi spalanchi le braccia e mi dici:

-Fatti abbracciare!

Non aspettavo altro! Affondo la faccia nella tua spalla larga, il pelo del tuo giubbotto mi solletica il naso, hai un buon profumo che non riesco a identificare, dolciastro con una nota di fondo di tabacco, io odoro sicuramente di metropolitana, della doccia che ieri notte, dopo il nostro giro di locali, non sono riuscita a fare poiché l’unico asciugacapelli dell’albergo non era disponibile, ma a te sembra non importare e strofini la guancia contro i miei codini e mi sussurri qualcosa che sinceramente non capisco, ma sono troppo emozionata per chiederti di ripetere. È stato per ricevere quest’abbraccio che ho trovato il coraggio di mollare tutto e tutti fuggendo qualche giorno a Londra e forse è importante anche per te giacché hai rimandato di una settimana la tua partenza per Los Angeles pur di incontrarmi.

Eccomi qua Joshy, vorrei dirti tante cose, ma non ce la faccio ed è un impedimento contagioso poiché sembra che nessuno dei due si ricordi come si fa a parlare, sorridiamo e basta, poi all’improvviso scoppiamo a ridere per l’imbarazzo ed è in quel momento che il ghiaccio s’incrina.

-Ma quanto profumo ti sei messo?- ti chiedo, rendendomi conto che il tuo odore si è trasferito sui miei vestiti.

-Ci sono caduto dentro come Obelix nella pozione.

Saliamo in auto. Per i miei capelli lunghi la capote abbassata non è certo la cosa migliore, così cerco di infilarli il più possibile nel cappello,  tu senti caldo, hai sempre caldo a dire il vero e non ti rendi conto che mi si sta congelando il naso a causa della velocità e del clima più pungente di quello a cui sono abituata.

Al primo semaforo te lo confesso, tu ridi come un matto, poi pigi un pulsante.

-È l’auto dei Trasformers- mi dici tutto orgoglioso come un bambino che mostra il giocattolo nuovo ricevuto a Natale, mentre azioni il meccanismo che mi mette al riparo dall’assideramento, ma non dai vari gradi di paura che mi provocano la tua guida spericolata, il vedere sfrecciare le auto dalla parte, per me, sbagliata e soprattutto l’averti così vicino in quell’abitacolo stretto.

C’era proprio bisogno di metterti in maglietta? Capisco che con quelle braccia enormi il giubbotto ti dia fastidio perché ti tira, ma così non riesco a staccare gli occhi dai tuoi tatuaggi: sono perfetti, Kat Von D è l’unica da cui mi farei inchiostrare la pelle.

Non riusciamo ancora a parlare, così accendi la radio. Inizia “Fight for you” di Jason Derulo e ci guardiamo ancora con complicità, ricordando le volte che mi hai tormentato con “Talk dirty to me”, ma soprattutto perché le note di fondo sono della canzone dei Toto che amo di più, sono di quel gruppo che piace tantissimo a entrambi e che ci ha fatto conoscere.

-“Destino, smetti di provocare!”-penso tra me e me mentre parcheggiamo a Canary Wharf. Con tutti questi grattacieli non sembra neanche di essere a Londra, ma neanche io mi riconosco più e anche tu non sembri lo stesso, con quell’espressione timida dipinta sul tuo bel volto che non si addice al tuo carattere spavaldo.

Mi mostri l’edificio in cui abita Liam. Smettila di parlarmi di loro, non m’interessano. Lo so che ti ho detto tante volte che la voce di Payno mi emoziona, ma non m’importa di lui, non hai idea di come in tutte le canzoni di Midnight Memories senta soltanto la batteria. Di quanto sia diventata brava a distinguere quale tamburo stai usando o il tipo di bacchette. Del perché di ogni brano degli One Direction mi arrivi dritto al cuore prima il ritmo e solo dopo la melodia e le parole.

Camminiamo l’uno di fianco all’altra con le dita che si cercano: le mani si sfiorano, ma non si afferrano mai, metto le mie in tasca per evitare ogni tentazione, dopo poco fai lo stesso anche tu. Mi guardo intorno cercando di distrarmi e capisco perché Liam viva qui: non c’è traccia di turisti, di directioners assatanate, la gente ti passa accanto e non fa neanche caso a te. Con la coda dell’occhio guardo le nostre figure riflesse in una delle immense vetrate dei grattacieli di Marsh Wall che mi sbattono ancora una volta in faccia, in maniera impietosa, quanto tu sia magnificamente bello ed io ordinaria, poco curata e mal vestita rispetto alle amiche che frequenti di solito. Già, begli amici che hai. Anche se faceva di tutto per pronunciare in un pessimo inglese, quello che ti ha detto Joey l’ho capito persino io.

-Da come ne parli, credevo fosse una strafica e invece è bruttina.

È così, vero? E tu hai alzato le spalle e storto la bocca, distruggendo in un attimo mesi di discorsi sulla bellezza e sulla perfezione che non esiste se non nell’animo. Mi sfugge una lacrima, che cerco di asciugare in fretta prima che tu te ne accorga, ma è troppo tardi perché non smetti di guardarmi e non ti è sfuggita; mi tiri per la manica allontanandomi da quel giudice impietoso fatto di riflessi e mi obblighi a guardarti negli occhi.

-Mi dispiace per ieri sera, io sono davvero convinto che tu sia bellissima, speciale e unica anche se i tuoi occhi e quelli degli altri ti dicono il contrario. Sorridi per favore, ne ho bisogno, desidero che tu sia felice con me, non voglio essere causa delle tue lacrime.

Joshy per quanto tu possa essere dolce e adorabile non ce la farai mai a rimediare ad anni di insicurezze e bassa autostima. Provo a spiegartelo, ma in una lingua che non è la mia è ancora più difficile, cerco di farti capire perché non voglio una foto insieme: come credi che mi sentirei ogni volta che la riguarderei? Penserei che siamo il Bello e la Bestia, mi vedrei ancora più brutta e starei male pensando che ero in tua compagnia “in quello stato”. Per favore non insistere, se davvero riesci a vedermi con occhi diversi, cattura la mia immagine con quelli e portami nel cuore in quel modo, come sto facendo io con ogni attimo di questi giorni incredibili.

Apprezzo molto che tu rispetti la mia decisione e che tu tenga in tasca quel maledetto telefono che generalmente hai sempre in mano e che usi a sproposito per immortalare qualunque cosa: dai canti in chiesa, alla tua ignara mamma che balla a un party.

Decidiamo di sederci un po’ al parco di Canada Square, ogni volta che stiamo per attraversare la strada sento la tua mano sulla schiena, come se tu avessi paura che io mi faccia investire perché guardo dalla parte sbagliata: è un gesto di cui neanche ti accorgi, ma che mi riempie il cuore. Mentre camminiamo prendi un lembo della mia sciarpa e te la passi intorno al collo, io ho un flash di Harry che fa la stessa cosa in una delle mie storie e divento rossa. Solo che questa non è una fan fiction anche se ne ha tutte le caratteristiche: la normale ragazza italiana che per puro caso fa amicizia con il batterista della band più nota del pianeta. A volte non ci credo nemmeno io, sai?

Ci sediamo su una panchina, ho una stringa sciolta così insisti per farmi togliere le scarpe e allacciarmele come le porti tu; mi sento avvampare di nuovo, non oso dirtelo, ma mi sento tanto Cenerentola, solo che al posto della scarpetta di vetro ho le Blazer, d’altronde anche tu sei un Principe atipico, di quelli che invece dei fiori ti portano un tubo di Oreo “che ti piacciono tanto”. Mi chiedo chi sia più stalker tra noi due e mentre lo faccio, scopro che stai fotografando a tradimento le nostre gambe, così cerco di farti giurare di non pubblicarla da nessuna parte.

-Se mi tagghi ti faccio picchiare da Liam, tanto adesso so dove abita- ti minaccio, ma ottengo solo una risata più forte.

-Te la mando sul cellulare- fai una pausa strategica come se ti fossi già preparato quella battuta- ah, già, il tuo  non fa nemmeno le foto.

E ridi, di nuovo, e io con te, finché non mi escono le lacrime e mi fa male la pancia.

Riprendiamo l’auto e andiamo verso Pimlico per pranzare prima che tu ti rinchiuda ancora nello studio di registrazione.

-Posso darti un bacio?- mi chiedi a bruciapelo.

-No.

Josh, stupido testone! Dobbiamo davvero continuare la litigata di Natale, dopo la tua frase infelice “sei il motivo per cui qualcuno si masturba”? Come si sentirebbe la tua ragazza se sapesse cosa combini? Pensi mai a lei? E non dire che stavi giocando, perché a volte sei terribilmente serio nelle tue affermazioni.

Non ho intenzione di innamorarmi di te, ho il cuore impegnato, lo sai bene, tu puoi prenderti tutto lo spazio restante, riempire tutti quei vuoti che neanche un grande amore come quello che provo per il mio compagno, è mai riuscito a riempire. Non rendere sempre tutto così difficile e ricorda che anche la tua fidanzata merita rispetto.

In auto metti della musica tecno, non ne abbiamo sentita in abbondanza ieri sera in quel locale? Sopporto con rassegnazione, anche se non riesco a trattenere una smorfia. Ridi sotto i baffi.

-Volevi The Cure?

Annuisco speranzosa mentre armeggi con i pulsanti di quella specie di astronave e in un attimo “Cold Coffee” di Ed Sheeran riempie il minuscolo abitacolo e cerca di attaccare quella parte di me che resiste al tuo corteggiamento.

“And stay with me forever
Or you could stay with me for now”

Bastardo, ho perso il conto delle volte che mi hai dedicato questa canzone.

Per fortuna arriviamo in un baleno da Yum Yum dove ci servono sushi; ti rammento ancora una volta che sono vegetariana, tu ribatti che, però, i gamberi sono l’unica cosa che m’impedisce di esserlo totalmente. Ricordi ogni particolare delle nostre infinite chiacchierate notturne, mi fai quasi paura, ma forse è un segno che tieni davvero a me, o magari hai, semplicemente, una buona memoria.

Sei nato per tenere le bacchette in mano, non importa se le usi per suonare o per mangiare, sei bravissimo comunque, al contrario di me che sono imbranata in entrambi i casi.

-Ma tu sei brava a scrivere- mi dici

-“Qualcuno distrugga Google translate!- penso.

-Lascia una recensione almeno- e poi aggiungo che al momento sto scrivendo su Harry.

-Lui odia le fanfictions, una volta gli hanno mandato un capitolo di Dark e l’ha letto: l’ha trovato cattivo e rivoltante. Anch’io non capisco che problemi abbia la gente per scrivere certe cose.

-A volte il problema sono le canottiere troppo aderenti di certi batteristi.

-Stai scrivendo una storia zozza su di me?

Per poco lo stupore non ti manda di traverso il boccone che stai mangiando: ridiamo così forte da strappare un sorriso persino alla serissima coppia del tavolo accanto. Stare con te è come essere in compagnia del sole che porta la luce dove c’era il buio, che scalda i cuori freddi e fa nascere i semi nascosti nel terreno. Mi fai star bene ed è la verità quando ti dico che sei l’unica persona in grado di farmi sorridere anche quando non ne ho voglia.

In sala registrazione fai un keek da mettere su Twitter, mi appiattisco tra una pianta e una colonna, poi vengo a vedere il numero di commenti che sale vertiginosamente in pochi secondi: sono in poche a scrivere cose sensate, la maggior parte chiedono di essere seguite o postano cose che farebbero impallidire i personaggi delle mie storie.

-Leggo solo i primi due tweets e i tuoi anche se non capisco perché tu lo faccia- confessi.

-Insisterò finché non ti avrò tra i follower.

-Cosa te ne fai? Hai tutto questo- dici mentre pizzichi la chitarra accennando un accordo tremendamente simile a quello iniziale di Disintegration.

Hai ragione: sto vivendo il sogno di tutte quelle centinaia di ragazzine, sembri leggermi nel pensiero e affermi che i sogni migliori si fanno a occhi aperti, prima che possa ribattere, aggiungi che devo accontentarmi di Niall che mi segue con l’account di sua zia e si diverte un mondo a interagire con me.

-A dire il vero sospettavo fosse lui, ma mi sembrava inverosimile.

E invece è vero, come il fatto che tu sia qui davanti a me in questo momento.

Ti lascio lavorare in pace: la canzone è grandiosa, non vedo l’ora che tu esca dall’ombra degli One Direction e dimostri a tutti che meriti di essere seguito perché sei un grandissimo professionista, non perché suoni con loro e hai un bel faccino.

La giornata è quasi finita, devo tornare in albergo e tu a casa di Joey.

-Faremo una twitcam, quelle poverette delle nostre fans, se la meritano.

-Sei un sadico.

-Adoro vedere come si agitano o quando strillano per l’emozione.

-Sei un sadico- ripeto.

Accendi il quadro dell’auto, la radio diffonde “Don’t let her go” dei Passengers, tamburelli le dita sul volante, mi guardi e dici:

-Hanno ragione.

-No che non ce l’hanno, vedrai che quando sarai in vacanza non ti mancherò neanche un pochino- mi mordo le labbra perché so che è vero, che ti trasformerai completamente, che ti perderai, come ogni volta in cui vai a Los Angeles.

Ti porti la mano al petto e mi guardi sconsolato.

-Fa male.

A te fa male? Tra poco tornerò alla mia solita vita, incollata allo stesso scoglio, una vita a cui do tutto e da cui ricevo poco: mai un complimento, una gratifica. Tutti che mi danno per scontata, che pretendono e basta, senza che nessuno che si fermi mai a chiedere come sto, se ho dei sogni, se sono felice. Ho delle amiche fantastiche, ma la più vicina abita a 200km da me e nessuna di loro potrà abbracciarmi quando ripenserò a questi giorni insieme a te e mi assalirà la nostalgia. Hai ragione Joshy, fa male, ma a te passerà in fretta, vedrai.

Abbiamo ancora il tempo per un ultimo sorriso che mi scalderà il cuore fino al nostro prossimo incontro e per un bacio che non riuscirai a darmi.

Non c’è bisogno dell’acqua per sentirsi affogare, ho un grosso macigno sul petto che mi impedisce di respirare e che si chiama realtà: ho sempre paura che tu ti affezioni troppo a me e faccio sempre una gran fatica ad arginare il tuo entusiasmo e il tuo affetto.

È arrivato davvero il momento dei saluti. Com’è fatta la malinconia? Ha il rumore di una R8 che si allontana, un profumo dolciastro con una nota di tabacco che impregna la mia sciarpa, il gusto delle lacrime che m’impongo di non versare, ma che trovano sempre il modo di uscire, indossa un giubbotto morbido e ha i contorni della tua figura.

-See you soon hunny!

Ancora sei mesi, poi (forse) Barcellona per il tuo compleanno: altra città, nazione differente, stesse bugie da raccontare a chi ci sta accanto e a noi stessi.

-See you never Joshy.

 

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Capitolo 6
*** Save a drum, bang a drummer ***


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SAVE A DRUM: BANG A DRUMMER

Mia madre aveva un negozio di abiti vintage in cui si poteva trovare di tutto; la aiutavo sempre quando era il momento di allestire gli scaffali o le vetrine anche se lei si lamentava in continuazione perché ogni volta mi prendevo i pezzi migliori. Quel giorno non protestò quando mi vide infilare in borsa una maglietta che mi aveva colpito nel momento in cui l’avevo tirata fuori dallo scatolone, evidentemente non la riteneva un buon affare; non so perché la scelsi: era una semplice T shirt rosa col disegno di una batteria e la scritta “Save a drum, bang a drummer”, pensai che fosse una frase spiritosa e decisi di indossarla quella sera stessa.

Mi ero lasciata da poco col ragazzo con cui stavo da un paio d’anni, avevo bisogno di tempo per riflettere se avevo ancora intenzione di stare con lui o se la nostra era una di quelle relazioni che vanno avanti per abitudine. Le mie amiche mi avevano convinta a uscire con loro per una serata “scacciapensieri”; mentre ci recavamo al locale, non facemmo altro che imbatterci in persone che sembravano felici, d’altronde era sabato sera, un giorno speciale per gli altri: tutti ai miei occhi parevano avere un’intesa, una meta, un programma, mentre a me il fine settimana dava solo la misura della mia solitudine. Tutto quell’entusiasmo mi mise a disagio e cercai una scusa per filarmela, ma le mie amiche me lo impedirono: una di loro si era lavorata per settimane il buttafuori del Funky Buddha che ci aveva fatte entrare nonostante fossimo quattro ragazze qualunque.

Non sembrava un locale così speciale, in fondo c’era la musica, giovani ansiosi di divertirsi e alcolici, come in mille altri posti, ma credo che la sua fama derivasse dal fatto che fosse frequentato dalle celebrità e probabilmente era per quello che tutti sembravano tanto ansiosi di mostrarsi. Le mie amiche non furono da meno e ben presto rimanemmo solo in due, Edna ed io: le altre erano state inghiottite nella bolgia, trascinate da due accompagnatori conosciuti e baciati nel giro di un minuto. A volte avrei voluto essere come loro, lasciare che le cose accadessero senza farmi troppi problemi, godermi le cose e viverle con la filosofia dell’”è stato bello finché è durato”. Invece ero ancora di quelle sciocche ragazze che credono nelle relazioni durature basate sui sentimenti e sul rispetto reciproco.

-“Di certo non troverò l’uomo della mia vita qua dentro”- trovai il tempo di pensare prima che Edna mi piantasse un gomito nel fianco e dicesse:

-Guarda quello! Non ti toglie gli occhi di dosso da almeno dieci minuti!

Lanciai una rapida occhiata al ragazzo con la canottiera attillata nera che mi stava fissando e capì l’entusiasmo della mia amica. Non era altissimo, ma era comunque proporzionato, aveva le braccia tornite su cui spiccavano tre grandi tatuaggi, lineamenti belli e regolari e due labbra carnose che si distesero in un sorriso non appena si accorse che avevo risposto al suo sguardo.

-Ti sta sorridendo: com’è carino!- cinguettò Edna stritolandomi un braccio e intensificò la stretta non appena lui venne dalla nostra parte.

-Ciao! Sono un grande sostenitore della causa della tua maglietta, che ne dici di combattere insieme per raggiungere l’obiettivo?

Ero sbigottita da tanta intraprendenza e mancanza di tatto, invece di arrabbiarmi cercai di essere ironica:

-In genere quando si sottoscrive una causa, si fornisce un documento.

Mi guardò in modo strano, come se si aspettasse che sapessi chi fosse, poi si passò la mano tra la cresta ossigenata e quasi imbarazzato, si presentò:

-Mi chiamo Josh.

-Miranda.

-Sono un batterista.

Adesso capivo il motivo del suo interesse, come dargli torto: avevo indosso una sorta di slogan in cui promettevo sesso a chiunque fosse stato in grado di reggere un paio di bacchette.

-Non cerco avventure di una notte, mi dispiace- dissi.

-Non importa- mi sorrise ancora e si allontanò.

-Idiota!- sibilò Edna- quando ti ricapita un figo del genere?

Mentre cercavo le parole giuste per risponderle, arrivò un cameriere con un drink.

-Da parte di quel ragazzo lassù nel privé.

Alzai gli occhi e vidi Josh con un cocktail identico in mano che m’invitava a un brindisi a distanza.

-Digli che sono astemia- ero decisa a non dargliela vinta: solo perché era incredibilmente carino, non aveva il diritto di dare per scontato che avrei accettato la sua proposta.

Andai in pista a ballare per sottrarmi allo sguardo di disapprovazione di Edna, dopo poco vidi che erano scesi anche Josh e i suoi amici, si mise vicino a me, ma ballava con una ragazza e non mi guardò se non distrattamente.

-“Ti sta bene Miranda: ogni lasciata è persa!”- mi dissi quasi con rabbia.

Nel momento in cui le sue mani si appoggiarono sulla minigonna di pelle dell’altra, mi allontanai dandomi della stupida: come potevo essere gelosa di una persona che non era neanche mia?

Mi sedetti al bancone del bar e ordinai un analcolico, c’era un cameriere che si lamentava per la mole di lavoro di quella sera.

-Ma quelli devono festeggiare i loro compleanni sempre qui? Non ho più mani a forza di servire alcolici nel privé.

Alzai gli occhi e vidi due membri degli One Direction, mentre giù in pista c’erano Conor Maynard e un altro ragazzo che avevo visto sui giornali, credo avesse a che fare con l’abbigliamento. E c’era Josh. Mio malgrado non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso: chissà se era famoso anche lui?

Famoso o no, ormai non mi guardava neanche più tanto era preso dalla ragazza con i capelli rosa e la minigonna di pelle che ballava di fronte a lui.

-“Stupida Miranda, avresti potuto essere tu!”

Avevo perso le mie amiche, mandai loro un messaggio dicendo che sarei tornata a casa da sola: quel posto mi aveva stufato, decisi di andare fuori e chiamare un taxi che mi portasse a casa.

Presi la felpa al guardaroba e uscii nel parcheggio, feci un bel respiro e i miei polmoni mi furono grati per essersi liberati dell’aria viziata di quel locale. E anch’io fui felice di essere scappata da quel luogo. Era una notte bellissima, con un cielo limpido e stellato: guardai l’orologio e decisi di aspettare ancora un po’ prima di rinchiudermi nel mio appartamento dove non mi aspettava nessuno se non un letto vuoto e un frigorifero pieno di porcherie. Mi sedetti sul cofano di un’auto e mi misi a guardare le stelle.

-Là dentro non si respira.

La voce di Josh mi fece sobbalzare, si sedette accanto a me, fissando nel medesimo punto in cui stavo guardando io.

-È una notte magica, non trovi? È un vero peccato sprecarla chiusi in un locale.

-Mi sembrava che tu ti stessi divertendo.

-Io mi diverto sempre.

Dal suo sorriso capì che era una di quelle persone che sono sempre felici, al contrario di me, che rovinavo la mia vita pensando troppo e che perdevo tempo e occasioni a furia di riflettere, soppesando in continuazione i pro e i contro.

Mise la mano nella tasca della felpa che aveva legata in vita e i fari dell’Audi R8 su cui eravamo seduti si accesero, mentre le frecce iniziarono a lampeggiare.

Mi sorrise ancora.

-Quante possibilità c’erano che tra le decine di auto che ci sono nel parcheggio, ti sedessi proprio sulla mia? Quando è destino è destino.

-Non credo nel destino, nella casualità- gli dissi.

-Indossare una maglia simile, andare proprio al Funky Buddha il giorno in cui il migliore amico di un batterista festeggia il suo compleanno, essere notata tra centinaia di ragazze, e sederti proprio sulla sua auto non sono sufficienti?

Scossi la testa.

-Ed essere di fronte a me giusto nel momento in cui ho voglia di baciare qualcuno?

Non feci in tempo a rispondergli perché mi appoggiò le labbra sulla bocca, chiusi gli occhi a quel contatto piacevole e inaspettato, non riuscivo a controllarmi, le mie mani tremavano e il mio respiro cresceva d’intensità: cercai con avidità quella bocca quante volte mi fu possibile e lo trovai sempre pronto a rispondere ai miei baci. Anche le nostre mani cominciarono a muoversi, vincendo le mie riserve, ci sfioravamo con desiderio e destrezza come se volessimo fare nostre tutte le parti del corpo dell’altro, che ancora non conoscevamo.

-A cosa stai pensando?- mi chiese.

-Mi vergogno a dirtelo- risposi, sentendo le guance che andavano in fiamme.

-Un’altra coincidenza- disse lui prendendomi la mano tra le sue.

Chiacchierammo a lungo, poi decidemmo di fare un giro in auto.

-E il tuo amico?

-Joey? Oh sarà così pieno di vodka che non si accorgerà neanche della mia assenza.

Più tardi, tra le lenzuola di un albergo ebbi ancora il tempo di chiedermi quale fosse lo scopo di quella serata. Avere un rapporto occasionale con un ragazzo appena conosciuto? Tutto lì?

Basta pensare, pensare sempre! Per una volta nella vita decisi di lasciarmi andare e di seguire quel desiderio incontrollabile di sentirlo dentro di me; senza dirci niente cominciammo ad amarci in quella calda notte d’agosto e fu in quel groviglio appassionato di braccia e gambe che io… io… io mi sentii viva come non lo ero mai stata.

La mattina successiva mi svegliai con la sensazione di aver vissuto un’esperienza incredibile, Josh che dormiva profondamente al mio fianco con la faccia affondata nel cuscino e i tre profilattici usati sul pavimento erano la riprova che non avevo sognato.

-“Tre volte, mai successo in vita mia”- mi dissi stupita, vergognandomi un po’- “chissà cosa avrà pensato di me”.

In fondo, però, importava poco, tanto non ci saremmo più rivisti, la nostra era stata solo una fantastica, irripetibile avventura di una notte. Recuperai i vestiti che erano sparsi per tutta la camera, ma non riuscii a trovare la mia maglietta; la cercai finché non mi accorsi che era sul letto, schiacciata tra il muscoloso corpo di Josh e il materasso. Recuperarla senza svegliarlo sembrava un’impresa impossibile, non credo sarei stata in grado di dirgli qualsiasi cosa, non avevo idea di come si salutasse un estraneo con cui si era vissuta un’esperienza tanto intima. Così infilai la felpa e uscii, capii che qualcosa era cambiato perché non mi sentii addosso gli occhi di tutti, per la prima volta non li vidi pronti a criticarmi perché indossavo un indumento tanto pesante in una calda, tarda mattinata di agosto. E se qualcuno lo fece, non me ne accorsi o non ci feci caso: era venuto il momento di prendere in mano la mia esistenza, decidere senza farmi troppe domande o preoccuparmi dell’opinione altrui, cominciare a vivere.

Tornai a casa, mi feci una doccia e chiamai il mio ex ragazzo, sei mesi più tardi ci fidanzammo in maniera ufficiale. Qualche giorno dopo la nostra serata al Funky Buddha, le mie amiche mi dissero che Josh era il batterista degli One Direction, ma non ho mai raccontato loro come fosse finita con lui.

Non so se Josh ha un ricordo bello e indelebile di quella notte d’agosto trascorsa assieme, se mi pensa ancora con un sorriso come faccio io, o con una punta di rimpianto. L’unica cosa di cui sono certa è che so a chi appartiene la maglietta rosa che tiene annodata sotto lo Hi-hat quando suona ai concerti. E ogni volta che ci ripenso, mi dico che banging a drummer sia stata la decisione più saggia della mia vita perché mi ha liberato da ogni paura e indecisione, ci ripenso e sorrido sussurrando “Grazie Josh!”.

 

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