Il lato oscuro della luna

di Hopless_Wander
(/viewuser.php?uid=628083)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Benvenuti a Forks ***
Capitolo 3: *** Nuove conoscenze ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

 

Aveva aspettato un momento di troppo.
Il puma era bloccato nella morsa ferrea delle sue braccia e si divincolava, alla ricerca di una piccola breccia nella forza della ragazza, per poterla attaccare e ritornare alla sua caccia, quella in cui, per un crudele scherzo del destino, si era ritrovato ad essere braccato.
Lei avrebbe dovuto semplicemente stringere l'animale un po' di più, in un folle abbraccio mortale, spezzando collo, torace e membra, riducendo quel corpo agile, scattante ed elegante ad un patetico ed inutile ammasso di muscoli inerti, per poi nutrirsi del sangue che, ancora caldo, si sarebbe immobilizzato nelle vene.

Avrebbe dovuto semplicemente agire, lasciare a se stessa lo spazio per essere ciò che doveva inevitabilmente essere, smetterla di colpevolizzarsi e rassegnarsi, una buona volta e una per tutte.
Avrebbe dovuto semplicemente farla finita.
Ma aveva aspettato, invece. Abbastanza.
Da stupida era rimasta a fissare negli occhi la sua cena e, da stupida, aveva cercato di capire che cosa mai si potesse trovare in quelle iridi che roteavano folli, cercando di dare ulteriore energia ai muscoli già tesi allo stremo.
Si era scoperta a leggerci qualcosa sul serio: furia, fame, istinto animale... paura. Terrore, anzi. Terrore di lei.
Un terrore feroce, da animale braccato che è in trappola e non può fuggire, ma che allo stesso tempo rifiuta di arrendersi – se per mancanza di coscienza o per forza di volontà lei non lo aveva capito – e si dibatte furiosamente, in quell'insignificante istante in cui tutto è sospeso nel nulla, in attesa del granello di polvere che faccia pendere la bilancia degli eventi da una parte o dall'altra.
Un animale che, però, nonostante i suoi sforzi, non aveva alcuna possibilità di ribellione.
In trappola.
Non ce l'aveva fatta. Ma ci aveva provato. Davvero.
Non aveva retto a quel peso che le era precipitato sulle spalle, senza nessuna avvisaglia. Non aveva dimenticato gli incubi che ancora la tormentavano non appena socchiudeva le palpebre per poter vedere solo nero e illudersi che fosse sonno.
E così era corsa via, allontanandosi dagli altri e dalle loro inutili e pietose parole, alla ricerca di un piccolo angolo di vuoto che non pretendesse nulla, né forza, né coraggio, né gratitudine.
Era fuggita alla ricerca di un silenzio che mettesse a tacere lei, le voci che invadevano le sue orecchie ogni volta che quello che era successo veniva rievocato da una parola, un suono, un oggetto sbagliato e anche i suoi ricordi impressi a fuoco e inchiostro indelebile nelle pieghe della sua mente, del passato, del presente, e forse persino del futuro.
Aveva chiuso occhi.
Bocca.
Orecchie.
Naso.
Pugni.
Cuore.
Anima.
Era scivolata via, lungo un fiume di pace che non aveva fonte né foce, ma solo un ripido e tortuoso corso che ben presto l'avrebbe riportata alla realtà, ancora più dolorosamente di prima.
Era scivolata fuori dalla propria pelle alla ricerca di un corpo che non vivesse a spesse di altri e non ne richiedesse costantemente il dolore.
Ma forse un giorno avrebbe dimenticato tutto quanto.
Forse se ne sarebbe andata via.
Forse avrebbe solo trovato un modo per vivere di nuovo.
O semplicemente un motivo per farlo.







Hopless Notes:
Buonsalve a tutti quanti e... e questa è la mia prima storia, su questo sito, e ci tengo davvero moltiiiiissimo! So che è una idea che si è vista più volte di... di non so che cosa, però avrei voluto provare anche io e così l'ho fatto!
Se qualcuno dovesse sentirsi preso in causa da questa storia (tipo... se vi pare che io vi abbia rubato idee) dovete solo dirmelo, visto che è da tanto che bazzico questo sito senza essere iscritta e quindi potrei... tipo aver rubato qualche cosa senza nemmeno averci pensato! Mi scuso subito se è successo :(
Per i primissimi capitoli magari la storia assomiglierà molto a quella di Twilight ma poi è chiaro che dovranno cambiare davvero un sacco di cose perché con Bella vampira c'è un mucchio di roba che non va!
Però non voglio dirvi nulla in anticipo.
Mi piacerebbe un sacco provare a fare uno di quei stupendi banner che ho visto in certe storie, ma io non sono decisamente capace di fare quelle cose! Quindi... magari a qualcuno che legge (se qualcuno leggerà) magari andrebbe di provare a farne uno...
Ho detto tutto e.... ci terrei davvero molto che mi diceste quello che pensate, anche se è solo il prologo e non si capisce quasi nulla. Però aggiornerò prestissimissimo!
Graaaaazie!
Hopless_Wander

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Benvenuti a Forks ***


I.

 

 

Forks era esattamente come la ricordavo.
Non che ci fosse poi così molto da tenere a mente, in effetti. La sostanza rimaneva pressoché identica e invariata dall'ultima volta che avevo visitato la cittadina, all'incirca sei anni prima.
Era un posto statico, Forks. Una piccola cittadina di periferia in cui il più piccolo movimento veniva catalogato dagli occhi di tutti e ogni scelta veniva criticata da chiunque si sentisse in dovere di farlo, “per il tuo bene”.
La cappa di nuvole era sicuramente un tratto caratteristico, quanto lo erano i castori per alcune città e gli orsi ruba-cestini-da-picnic per altre. Forse era proprio per quella umidità che le persone di Forks nei miei ricordi erano grigie e tristi come il tempo che la circondava. Quasi mi aspettavo che prima o poi il muschio crescesse anche su di loro e che il tempo smettesse di scorrere, finalmente, in questo posto dimenticato anche da Dio.
Non era un paesino di poche centinaia di persone, ma di certo nulla a che spartire con la grande, caotica e superaffollata Phoenix.
Sapevo che l'Arizona mi sarebbe mancata, ma non sapevo perché. Probabilmente non sarebbe stato per il caldo torrido, o per le lente gocce di sudore lungo la schiena e sopra il labbro superiore, o nemmeno per la terra secca, spaccata e bruciata dal sole. Il caldo non mi piaceva, anche se l'umidità e il freddo infido mi piacevano ancora meno... L'ideale era sempre stata – nei miei sogni, almeno – quell'aria frizzante di primavera, odorante di erba tagliata e polline volante. L'avevo sentita raramente, ma ero anche certo che non fosse poi una tragedia così grande, quella di dover convivere con pioggia e gelo per tutto l'anno. A Phoenix, di gelo, ne avrei avuto altrettanto, dentro di me. Forse anche di più.
No, probabilmente il clima era la cosa che mi sarebbe mancata di meno.
Sapevo però che, entro pochi giorni, avrei sognato di nuovo quella sensazione di anonimato che mi pervadeva ogni mattina, all'ingresso a scuola, quando una calca di studenti si faceva strada verso le aule, spintonando chiunque si trovasse nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nessuno guardava in faccia a nessuno, né in quel momento, né poi. O almeno, nessuno guardava in faccia me.
Me l'ero ritagliato su misura io stesso, quel piccolo Mantello dell'Invisibilità. Ed era bello, indossarlo, per qualche ora. Era bello fermarsi a guardare la gente che passava e raccogliere un piccolo mazzolino di natura umana, così diversa e affascinante: un naso sempre rivolto all'insù in una espressione un po' snob, un paio di scarpe male allacciate, un sopracciglio inarcato più dell'altro in un trucco mattutino poco riuscito, una pacca sulle spalle data per fare male, una mano protesa ad evitare una caduta... Un po' di vita. Non la mia. Quella di qualcuno. Di chiunque.
Ero da sempre bravo ad intuire le emozioni di chi mi circondava ad un primo sguardo, dalla piega della bocca, delle dita, dalla postura delle spalle... E così costruivo le vite di quelle persone su misura per le mie storie mentali, lasciandomi trasportare da quella corrente senza volto.
Poi arrivava inevitabilmente qualcosa a rompere il magico e fragile equilibrio che si era creato fra me e il mondo. Solitamente era proprio il mio nome, gridato fra la gente da qualcuno che evidente non si era lasciato ingannare da quell'insignificanza ostentata.
E io tornavo ad essere Edward Masen, il rosso del corso di Musica, quello che qualche ragazza avvicinava timidamente fuori dalla palestra – come se un'ora di educazione fisica potesse avermi tolto la forza di rifiutare le avance di qualcuno – quello che aveva detto chiaramente al professore di chimica che era un'idiota... uno come tanti altri, insomma. Niente di più, niente di meno.
Non mi lasciavo molti amici alle spalle, a dirla tutta. Il Mantello dell'Invisibilità sembrava funzionare abbastanza bene, salvo alcuni casi particolari. La verità era che avevo troppe parole nella mia testa, per poter badare a quelle di qualcun altro. Probabilmente era proprio per questo che le mie uniche amicizie si contavano in una sala di Musica: perché a nessuno di noi, lì dentro, serviva parlare. Un si bemolle e chiunque capiva che era meglio lasciarmi in pace, quel pomeriggio. Un fa diesis e qualche la allegro e tutti dispensavano fischi di approvazione per la nuova conquista. Era semplice.
Già... Musica.
Forse avrei dovuto considerare l'idea di una qualche strana forma di masochismo, attaccatami per contagio da qualcuno quando ancora ero piccolo e indifeso.
Avevo deciso di non frequentare alcun corso di musica, qui a Forks.
Phoenix era un posto per suonare il piano, una sala piena di amici di diesis era un posto per farlo... ma non Forks. Non questo buco di città.
E il fatto che io avessi deciso di trasferirmi di proposito in questo buco di città, nonostante fosse il mio buco natale, diceva a chiare lettere quanto io fossi inevitabilmente pazzo.
Per quanto a situazioni estreme equivalgano spesso decisioni estreme.
Rimaneva però il fatto che forse la mia, di decisione, lo era stata veramente un po' troppo.
Trasferirsi in una nuova scuola ad anno scolastico già iniziato era, a rigor di logica universale, un colossale e palese tentativo di suicidio.
Mi ero già preparato psicologicamente alla valanga di sguardi che mi sarebbero stati rivolti e al fiume in piena di pettegolezzi che mi avrebbe trascinato via, in preda alla corrente, ma sapevo, per un assioma condiviso da tutto il genere umano, che spesso la realtà si rivela anche peggiore dei pensieri più neri.
Il paesaggio scorreva uniformemente sotto i mie occhi, fuori dal finestrino.
Ecco un altro eclatante esempio di perfetta staticità.
Verde.
Verde.
Marrone.
Verde.
Marrone.
Verde.
Alberi e cespugli si susseguivano in una triste e deprimente parata, guastando ulteriormente il mio umore già pericolosamente vicino all'orlo del precipizio.
Era tutto troppo uguale. Tutto troppo poco stimolante per tenere lontani brutti ricordi. Tutto troppo estraneo perché io tentassi subito di avvicinarmici con familiarità.
Era tutto sbagliato.
Ed è tutta colpa tua, testone.
Non pioveva nemmeno, anche se grosse nuvole sostavano, oziose e cariche di prospettive, sopra le nostre teste in movimento.
Non mi piaceva la pioggia, ma almeno sarebbe stata una variazione sul tema, in quella totale assenza di movimento di pensieri.
“Allora... come sta tua zia Marie?”
Accolsi quel primo tentativo di conversazione quasi con gioia e soprattutto con grande sorpresa, vista la palese ostilità che si tendeva come una corda fra me e mio padre.
“Sta.” risposi semplicemente, stringendomi nelle spalle.
La loquacità non era mai stata il mio forte, già l'ho detto. E la tentazione a rendere le cose difficili anche a chi mi stava attorno, oltre che a me stesso, fu troppo allettante per non coglierla, sopprimendo a forza tutta la temporanea semi-gratitudine. Il fatto che stessi parlando proprio con lui, poi, proprio con Edward Masen senior, non facilitava le cose.
“Immagino che non sia stato facile, per voi... Un brutto colpo.”
“Già.”
Cominciavo giust'appunto a sentirla, quella sensazione di gelo che mi saliva lungo la schiena, ogni singola volta in cui il discorso prendeva quella piega, lo stesso spiffero artico che mi assaliva anche quando parlavo con lui. Situazioni che, sommate per un terribile caso che io stesso avevo generato, causarono un gelo al quadrato. E non ero ancora riuscito a trovare il modo di scacciarlo, nonostante tutti i tentativi.
“Non te l'ho chiesto prima per delicatezza, Eddie, ma perché hai deciso di venire a stare da me?” chiese dopo qualche istante di pensieroso silenzio, con una amarezza che mi fece aggrottare le sopracciglia. Ero perfettamente consapevole del fatto che lo avrei infastidito, con quella mia richiesta, e se ci fosse stato un altro modo per tirarmi fuori da quella situazione di certo non avrei nemmeno accennato alla possibilità. Ma le cose erano andate come erano andate e io ero partito. Nonostante questo, però, non mi sarei mai aspettato quella espressione desolata e quasi colpevole. Vorrei poter dire di non essermi fatto ingannare nemmeno per un secondo da quell'insolito accoramento, ma la verità era che per un attimo ne rimasi sconcertato, tanto da rispondergli – e decidere di continuare a farlo – civilmente.
“Dovevo andarmene via da quel posto.”
I miei occhi rimasero ostinatamente piantati sul vetro del finestrino, senza che io trovassi la voglia di posarli sul suo viso. Non ci avrei visto altro che la copia sfocata del mio – occhi esclusi, che in lui rilucevano di una fredda luce azzurrina – indurita dalla piega dell'espressione ferma e imperscrutabile, nonché costantemente incazzata, che era abituato a portare addosso.
“Perché non zia Marie?”
“Perché sta a Phoenix. E Phoenix è proprio quel posto.” tagliai corto seccamente, senza curarmi di nascondere l'irritazione per l'ostinazione con cui portava avanti il discorso. Ritenevo che ci volesse ben poco per intuire che non era esattamente il mio argomento di discussione preferito – e che non rientrava sicuramente nemmeno nella top 10 – ma lui non era mai stato bravo a capire gli altri, non quando si considerava chiaramente il solo e unico centro del suo intero mondo.
“Capisco.”
“Mi dispiace. Non avevo certo intenzione di darti fastidio.” aggiunsi poi, facendo aumentare esponenzialmente la tensione nell'abitacolo dell'auto. Il tono ironico nella mia voce avrebbe potuto far pensare che il mio intento fosse esattamente opposto a quello dichiarato a parole, ma quella che avevo appena sputato fra i denti con un sogghigno amaro era la pura e semplice verità: sapevo benissimo che non valeva la pena di prendere una decisione del genere solo per un motivo così stupido, visto che sarei stato il primo a non sopportare la sua vicinanza e a pagarne le conseguenze.
Sentii il sospiro di stanchezza di mio padre spandersi nell'aria, contagiando ulteriormente anche me. Ero stanco, terribilmente stanco. Lo eravamo entrambi. E il fatto che per una volta sembrassimo avere qualcosa in comune mi privò anche delle ultime difese rimaste, certo che a quel punto lui avrebbe avuto campo e forze libere per massacrarmi come faceva sempre.
“Tu non mi dai fastidio, ragazzo. Anzi. Mi dispiace solo che sia andata così. Non volevo ricucire i rapporti in questo modo.”
Quel giorno sembrava che mio padre si fosse messo d'impegno per sorprendermi. Non mi ero aspettato quella arrendevolezza, così come mi avevano impietrito tutti i suoi precedenti comportanti e sospettavo che lo avrebbero fatto anche i futuri. Eppure non bastò a fermarmi.
Ipocrita. Proprio ora ti ricordi di avere un figlio?
“Tralasciando il fatto che nessuno ti ha chiesto di ricucire i rapporti, posso chiederti se e come avevi intenzione di farlo, allora?” chiesi inarcando un sopracciglio al finestrino, divertito dalla patetica piega che stava prendendo il suo discorso.
“Non lo so. Di certo non così, solo perché...”
Attesi che completasse quel pensiero, anche se sapevo già dove voleva andare a parare, ma lui non lo fece. Rimase, anzi, in silenzio, mentre io sentivo chiaramente il suo sguardo, lanciato di sfuggita dopo essersi assicurato l'assenza di immediati pericoli sulla carreggiata, su di me.
Sorrisi, stirando le labbra in un ghigno che non aveva nulla di divertito.
“Lo puoi dire, sai? Non sono un bambino. Solo perché mamma è morta. Perché Elisabeth è morta.”
Morta.
La parola, nonostante quanto avessi detto esattamente un istante prima, mi colpì al petto, lasciandomi senza fiato, facendo sì che quella sensazione di gelo si espandesse fino ad occuparmi interamente, impietrendomi sul posto. E mi venne improvvisamente voglia di essere veramente solo un bambino, per poter piangere e stringermi forte le ginocchia al petto, lasciando fuori tutto il mondo e chiudendomi dentro di me.
Anche se nessuno mi aveva mai proibito di farlo.
“Mi dispiace, ragazzo. Mi dispiace.”
Fu qualcosa nella sua voce, a farmi voltare la testa verso di lui, squadrandolo lentamente in viso.
Gli dispiaceva. E, per una volta tanto, riuscivo a leggere nel suo viso che diceva sul serio e che non era una cazzata sentimentalista di quelle che usava ogni tanto per sembrare più umano di quanto non fosse veramente.
Gli dispiaceva per lei.
Era mio padre, quello che avevo al mio fianco, eppure non lo era sul serio. Non da tanto tempo, ormai.
L'avevo visto l'ultima volta più di sei anni prima, quando avevo dichiarato senza troppe remore che quelle visite estive a Forks erano ridicole e che io non avevo intenzione di continuarle oltre: le odiavo e raramente Edward mi dedicava più di qualche occhiata e di qualche secco rimprovero. Che venisse pure lui da me, se voleva. Non lo aveva fatto, e sapevamo entrambi che il motivo della sua scelta era stata proprio mia madre. Elisabeth.
Nessuno mi aveva mai detto come erano andate le cose, chi dei due avesse cominciato ad odiare per primo, a permettere che quanto avevano costruito con fatica si sgretolasse per lasciarli di nuovo soli, e io non lo avevo mai chiesto. Era la loro storia, dopotutto, non la mia.
Sapendo com'erano entrambi, però, ero portato a credere che fosse sua, la colpa. Di quell'uomo che sembrava tanto incapace di dare amore quanto di riceverlo, inadatto a cercare di far funzionare la propria vita assieme a quella di un altro, esasperando il prossimo e allontanando tutti da sé, facendo addirittura fuggire la moglie da quella piovosa e monotona cittadina.
Aveva fatto lo stesso con me, dopotutto. Mi aveva escluso dalla sua vita come si scaccia un fastidioso moscerino: con un secco colpo di polso.
Non avevo mai capito cosa avessi fatto di male. C'era stato un tempo, nella mia infanzia, in cui l'unica cosa che avevo desiderato era stata una famiglia come tutte le altre. Ma non l'avevo mai avuta. Forse era stata mia, la colpa, mia e degli occhi verdi troppo uguali a quelli di Elisabeth, mia e della metà di corredo cromosomico che mi rimandava a quello della donna che lui ormai era arrivato a detestare.
Io ero semplicemente cresciuto con mia madre, vedendo Edward senior di tanto in tanto, senza mai scambiare con lui più di poche, rigide parole al giorno. Il suo freddo atteggiamento di avvocato non lo abbandonava mai neppure con quella che doveva essere la sua famiglia.
Non ero mai riuscito a considerarlo veramente parte della mia famiglia, in realtà. Eppure lo era. Ed era anche l'unica che mi era rimasta.
Ma era stata quella espressione negli occhi, a turbarmi veramente.
Gli dispiaceva.
Non era una semplice condoglianza, fatta per cortesia. Lui credeva in quello che aveva appena detto.
Mi aveva appena mostrato che, sotto tutta la cortina di risentimento che loro stessi avevano posto lentamente fra di loro nel corso del tempo per chissà quale motivo, un tempo doveva aver amato mia madre sul serio, che forse un po' di quell'amore per lei ancora gli era rimasto e che probabilmente gli sarebbe stato attaccato addosso per tutta la vita, anche ora che non era rimasto niente da amare, se non nei ricordi.
Annuii, con un piccolo sorriso di sommessa rassegnazione.
“Anche a me.”
Era rimasto lo stesso di sei anni fa. A dirla tutta era ancora lo stesso di quando ero bambino. Statico quanto l'ambiente che lo circondava.
Sempre gli stessi riccioli bronzei che avevano assunto la leggera tendenza a stempiarsi già da parecchio tempo, ma che si ostinavano a voler rimanere folti; gli occhi freddi e distanti, di un azzurrino – quel colore mi aveva terrorizzato per tutta la mia infanzia, fino a quando non avevo capito che, più che terrore, quell'uomo si meritava disprezzo o indifferenza – che scrutava la strada con attenzione quasi maniacale; il volto rasato di fresco; il completo blu impeccabile, con il colletto della camicia bianca perfettamente stirata, probabilmente da una donna delle pulizie; la postura rigida e le mani saldamente strette al volante dell'auto nera e lucida...
Identico a come lo ricordavo.
“Sono contento che tu sia venuto da me, Eddie.”
Odiavo quel soprannome, ma con mio padre non ero mai riuscito a discutere. Si era impuntato ad usare il diminutivo e continuava a farlo da sempre. Era il prezzo che io dovevo pagare per quella sua megalomane fissa di dare al figlio il proprio nome. Mi chiamava Eddie per non confondersi con se stesso. Come se fosse stato veramente possibile.
“Non farlo, Edward. Non fare finta di essere un padre. Non puoi mettere a posto tutto quanto con delle banali scuse.”
E io lo ricambiai con la stessa moneta. Non era padre e non gli avrei attribuito quel titolo. Probabilmente mai.
Ed ecco che l'uomo che conoscevo tornò a fare capolino fra le pieghe del suo viso.
“Non mi aspettavo di farlo, ragazzo. Ma, se credi che io voglia passare il resto della tua adolescenza a combattere con te per avere un rapporto perlomeno civile, ti sbagli di grosso.”
Aveva ragione, anche se di dirglielo non se ne parlava nemmeno.
“Quindi è per questo che hai tirato fuori quel teatrino? Per ammansirmi?”
“Cristo, no!” esclamò con tono esasperato, serrando convulsamente le mani sul volante, le nocche bianchissime e tese, tanto da rendere quasi evidente la cartilagine sotto la pelle. “Possibile che continui a pensare che io sia contro di te, ragazzo?”
“Non mi hai dato motivo di pensare altrimenti, in tutto questo tempo. Ammettilo.”
Sembrava stesse facendo uno sforzo enorme per trattenersi dal pigiare con forza l'acceleratore per la rabbia. Mi sarebbe piaciuto avere un'altra scusa per prendermela con lui, ma in fin dei conti apprezzavo: essere sul sedile del passeggero di un'auto con un Masen incazzato a tutta velocità alla guida non è esattamente il modo migliore per assicurarsi una vita longeva.
“Ascolta, Eddie... io e tua madre abbiamo fatto degli errori, ma...”
“Non la nominare! Non ti permettere. Non dire che è lei ad aver sbagliato, quando...”
“Quando cosa? Quando è morta? Dobbiamo dire le cose come stanno veramente o sei deciso a santificarla? È morta, ma era comunque una persona normale e ha sbagliato, come fanno tutti. Puoi dire che io ho fatto più errori di lei, e sarebbe la pura verità, ma non scaricare tutto su di me.”
Non riuscii a dire nulla. Rimasi ammutolito di fronte a quelle parole. Chi cazzo era quell'uomo e che ne aveva fatto di mio padre?
Immagino fosse migliorato, a recitare, nel tempo. Sempre che stesse recitando sul serio.
A quel punto, chi poteva dirlo?
“Il mio errore più grande, Eddie, è stato quello di lasciare che il rancore verso tua madre mi impedisse di farti da padre.”
Sogghignai, incapace di non continuare a sparare parabellum su un uomo che si stava apparentemente scusando con me per i suoi errori di una vita.
Ma il punto era proprio quello: errori di una vita. La mia. La mia intera esistenza. Un po' di soddisfazione me la doveva.
“Non ne saresti stato capace comunque. Non provi abbastanza emozioni, tu, per capire come si tratta un figlio. Ma il bello è che hai dovuto aspettare che mamma morisse per avere dei sensi di colpa su di me. Pensa quanto dovevo essere importante.”
“Non lo eri.” tirò corto mio padre, lasciandomi basito. Fece male, quella affermazione. Cercai di convincermi che non fosse così, ma non ci riuscii. Fece un male del cazzo.
“O, almeno, credevo che non lo fossi. Mi sbagliavo. Io ho amato tua madre, ragazzo. E ho amato anche te. E quando ho cominciato ad odiare Elisabeth mi è venuto istintivo riflettere quell'odio su suo figlio, su mio figlio. Ho cercato di convincermi che voi non serviste a nulla per la mia vita. Ma tu sei la mia famiglia, Eddie, vuoi forse metterlo in dubbio?”
“Beh, qualcosa da dire ce l'avrei...”
“E allora vattene. Tornatene a Phoenix. Costringi tua zia a traslocare. Fai quello che ti pare. Nessuno ti obbliga a stare con me. Ma se decidi di rimanere... per favore... aiutami a rendere tutto questo il più indolore possibile, per tutti e due. Aiutami a rimediare.”
Rimasi in silenzio, a guardare fuori da finestrino, scorgendo per un secondo il cartello che dava il benvenuto a Forks. In quel momento mi sembrò una grande beffa. Una grandissimo scherzo cosmico. Di cattivo, pessimo gusto.
Mio padre sospirò, staccando – inaudito! - una mano dal volante per passarsela sugli occhi.
“Ascolta, Eddie... non era mia intenzione cominciare la nostra 'convivenza' con una litigata del genere. Ne riparleremo, se sarà necessario, ma ora basta, ok?”
Certo, è sempre stato un mago a svicolare problemi e portarli dalla sua parte. Il ruolo del cattivo oggi tocca a me.
Mi limitai però ad annuire, gettando la spugna, restio a prolungare la conversazione.
“Allora...” continuò invece lui, ignorando quello che doveva essere una mia chiarissima espressione a metà fra il supplice e l'assassino “Parlando con tua zia al telefono pensavamo al fatto che ovviamente bisognerà procurarti un auto.”
Mio malgrado mi voltai, incuriosito dall'argomento.
“E...” lo esortai, contraendo la mascella di fronte al suo sorriso soddisfatto.
“E Marie diceva che non sei esattamente un tipo affidabile quando si parla di metterti al volante.”
Ridacchiai, alzando le braccia in segno di resa, ma di assenso. Era vero. Avevo sfondato qualcosa come...
“Diceva che hai mandato al carro attrezzi cinque auto negli ultimi tre anni.”
Ecco. Le cifre mi sembravano abbastanza esatte.
“Non è sempre stata colpa mia.”
A mia discolpa potevo dire che anche gli altri ci avevano messo del loro, su quelle benedette strade.
“Mettiamo pure che sia così... ho deciso che forse è il caso di cominciare con un auto usata.”
Certo, lui aveva deciso. Ma dopotutto aveva ragione.
Ed era odioso doverlo ammettere.
“Va bene. Ne cercherà una in giro.”
“In realtà l'ho già trovata io per te.”
Fu in quel momento che cominciai ad irritarmi di nuovo. Credevo avrei avuto il via libera almeno sul mio mezzo di trasporto. Invece, a quanto pareva, ero condizionato anche in quello.
“Che auto?” chiesi, rassegnato.
“Una Volvo. C30.”
Inarcai le sopracciglia, scettico.
“Una Volvo, eh? Non è esattamente quella che io definirei un'auto economica da sfasciare a piacimento.”
“Nessuno auto sarebbe da sfasciare a piacimento, Eddie. E sì, non è un'auto troppo economica, ma non mi andava di farti andare in giro con una carretta.”
Tipico di lui. La sua indole di avvocato abbastanza benestante gli impediva di farsi rovinare la reputazione dal figlio a causa di un trabiccolo a motore non degno del suo “lignaggio”. Neanche fossi stato il figlio di Luigi XVI.
“Certo, per quanto io ami alla follia le belle auto” cominciai con una bella dose di acidità nel tono “credo che nelle mie finanze di diciassette orfano e disoccupato non ci siano abbastanza fondi per permettermela. Anche da usata.”
Effettivamente non avevo messo da parte molto, negli ultimi tempi. Di certo non mi sarei mai aspettato tutto quello che era successo così in fretta.
La malattia di mamma, il trasferimento...
I risparmi per l'auto non erano stati esattamente la mia priorità. Contavo di riuscire a prendermi qualcosa come un vecchio pick-up o al massimo qualcosa di piccolo, comunque.
“Te l'ho già comprata io. Pagata, con bollo e tutto il resto. Come... una specie di regalo, sai.”
“Wow. C'è chi prepara cartelloni di bentornato e chi... beh, chi fa le cose in grande.”
Era un bel regalo di benvenuto, effettivamente. Anche se ero piuttosto propenso a considerarlo, forse a torto, una specie di tentativo di... corruzione.
Immagino la mia diffidenza fosse esagerata, ma non potevo fare altrimenti. Era più forte di me.
“Pensi che lo accetterai o che vorrai fare le tue solite storie sul fatto che pretendo di guadagnarmi con le cose materiali quanto non ti ho dato sul piano affettivo?”
Touché.
“No, Edward. Grazie.” sputai a denti stretti, troppo pieno di buonsenso per rifiutare un gesto simile.
La nostra conversazione si chiuse così, con un ringraziamento sentito solo a metà e una fiera accondiscendenza paterna.
Restammo in silenzio fino a quando non arrivammo a casa. Era meglio cominciare ad abituarsi a chiamarla in quel modo.
Beh, sorpresa delle sorprese, non era per niente cambiata rispetto a quanto mi ricordavo: era, invece, una sorpresa scoprire che Edward aveva continuato a vivere ostinatamente nella stessa casa in cui avevano vissuto lui e la mamma da quando si erano sposati.
Ero convinto che si fosse trasferito, dopo che io avevo deciso di non tornare da lui. Invece mi ritrovai davanti la piccola casetta bianca, con il giardinetto perfettamente curato sul davanti – conoscevo a menadito anche il retro: ci avevo passato gran parte del mio tempo, durante le mie occasionali visite a Forks – e la porta e le imposte dipinte di blu.
Mi era familiare. Piacevolmente familiare, il che mi sorprese più di ogni altra cosa.
Avevo la sensazione che, una volta entrato, avrei trovato tutto al suo posto: le mie scarpe sporche di fango lasciate in un angolo, la foto del mio primo giorno di scuola, con lo zaino in spalla e qualche dente da latte caduto, il pianoforte verticale nero relegato in un angolo, la mia camera dipinta di blu... Probabilmente era davvero così. Avrei certamente avuto modo di scoprirlo di lì a poco.
In quel momento, comunque, la mia attenzione volò ad altro, nella fattispecie alle tre persone che stavano fuori dalla casa, una donna che chiudeva a chiave la porta e due ragazzi che parlavano, seduti sul prato.
Aprii il finestrino con impazienza, aspettando che Edward parcheggiasse, salutando tutti e tre con un caloroso e sonoro “Ehi!”, per poi lanciarmi verso di loro appena potei farlo.
“Sue!” esclamai, travolgendo la donna in un caloroso abbraccio che lei ricambiò prontamente, con quella forza che raramente aveva trovato in qualcun altro, oltre a lei.
“Edward, santo cielo! Da quanto tempo non ti vedo. Sei... cresciuto davvero molto. Ero abituata a poterti mangiare il riso in testa, caro.” rise, allontanandosi per potermi squadrare per bene. “Sei dimagrito, anche. Mangi abbastanza?”
“Oh, anche se non fosse, sicuramente da ora in poi te ne occuperesti tu. No?”
“Ci puoi giurare.”
Sue Clearwater era una delle più care amiche di mio padre e, in una qualche strana logica che personalmente non avevo mai compreso bene, era anche la persona che si occupava di casa nostra da quando ne avevo memoria. Puliva, cucinava, lavava e lo faceva con una tale tranquillità che si sarebbe detto lo facesse per passatempo. Comunque fosse era anche una delle poche persone a cui Edward pareva riservare manifestazioni d'affetto, ruvide e distanti, certo, ma, appunto, affettuose comunque.
Ecco, quella era una delle cose che mi rassicuravano, nella loro immutabilità. Sue che girovagava per casa, Edward che usciva il week-end per andare a pesca con Harry, Leah e Seth che mi chiamavano da sotto la finestra per uscire a giocare.
Fu proprio verso di loro che mi voltai, a quel punto.
“Come va, ragazzi?” chiesi, leggermente esitante.
Leah e Seth erano stati i miei compagni di giochi per tutte le estati trascorse a Forks, assieme a un certo Jacob che non mi era mai andato a genio. Seth a quei tempi era un mocciosetto con il naso sempre umido, ma personalmente lo avevo sempre trovato davvero simpatico, con quel sorriso da cento Watt che aveva costantemente stampato sulla faccia.
Leah era tutto un altro discorso. Era una ragazza. A undici anni ragazzi e ragazze non vanno esattamente d'accordo. Anzi, sono contagiosi e perciò si evitano. Ecco, io e Leah avevamo ideato un approccio alternativo alla lontananza: ci contagiavamo a vicenda, con delle unghiate e dei cazzotti da far sbiancare chiunque. In realtà, devo ammetterlo, le avevo anche dato qualche bacio, di nascosto, in mezzo agli alberi della riserva, rosso come un pomodoro.
La prima volta lei mi aveva fatto notare che il colore paonazzo delle mie guance e quello dei miei capelli facevano a pugni: è stato l'unico commento femminile che ho sentito uscire dalle sue labbra.
Ecco, in quel momento sarei quasi potuto arrossire di nuovo. Più che altro perché, davvero, non sapevo come comportarmi.
Avrei potuto salutare Seth con una pacca sulle spalle, come al solito, come un... un uomo.
Ma Leah?
Le erano cresciute le tette.
Mi vergognai come un ladro per averlo notato immediatamente, ma era vero. Se nei miei ricordi era una bambina sempre ricoperta di graffi e terra, ora avevo davanti una ragazza in tutto e per tutto. Una bella ragazza, tra il resto.
Mica potevo tirarle un cazzotto sul naso come ai vecchi tempi, no?
Ci pensò Seth a rompere quel millesimo di indecisione.
Mi saltò addosso, travolgendomi e facendomi scoppiare a ridere, seguito da entrambi.
“Quando cazzo è che sei diventato così alto?” chiesi, ansimando, cercando di scrollarmelo di dosso e ignorando il debole rimprovero di Sue.
“Hai visto? Se dovessimo fare a botte, ora te le darei.”
“Continua a sperare, Seth. L'unica capace di farmi il culo credo sia ancora Leah.” ribattei con un sorriso divertito, voltandomi verso di lei.
“Come te la passi, Eddie?” chiese lei con un sorriso storto terribilmente ilare e mi diede, con mio sommo divertimento, un gentile pugno sulla spalla. Risi con lei, finendo per abbracciarla con naturalezza. Perché dovevo sempre stare a farmi tutte quelle seghe mentali, quando era chiara la loro inutilità?
“Bene. Più o meno. Quasi. Sì, insomma, hai capito.”
Scrollai le spalle, leggermente a disagio.
“Ci dispiace, che tua madre sia morta.” azzardò Leah con decisione. Nonostante quel 'morta' mi avesse messo nuovamente al tappeto e nonostante Sue avesse incenerito la figlia con lo sguardo, io non riuscii a sopprimere il moto di simpatia verso di lei. La prima persona che metteva giù le cose esattamente come stavano. Le sorrisi, annuendo.
“Grazie.”
“Non sei cambiato proprio per nulla, sai? Cioè, sei un po' più alto, ma per il resto sei identico a come ti ricordavo.”
Sbuffai, roteando gli occhi, indeciso se prenderlo come un insulto, un complimento o se non dargli alcuna connotazione. Optai per la terza.
“Tu invece sei completamente diversa.” replicai con un sorrisetto che probabilmente parlò più delle parole. Leah sembrò capire: sgranò gli occhi e mi diede un secondo cazzotto, questa volta decisamente più forte.
“Idiota.” borbottò, anche se per un secondo mi parve fosse terribilmente compiaciuta. “A proposito... questa è la tua nuova auto?” mi chiese, indicando con un gesto del mento la Volvo che avevo completamente ignorato, troppo preso da loro, per accorgermene.
“A quanto pare.” annuii, osservandola, attento. Mi piaceva, ammisi con me stesso. Era bella e allo stesso tempo non esageratamente vistosa. Non pareva per nulla di seconda mano, ma non sarei stato di certo io a lamentarmene con il signor Masen, no? “Regalo di benvenuto.”
Fischiarono entrambi, inarcando le sopracciglia.
“Alla faccia, Eddie.”
Sue si avvicinò, mettendo una mano sulle spalle dei figli.
“Siamo rimasti fino a quest'ora per poterti salutare, ma ora dobbiamo proprio andare” annunciò con un sorriso. Non misi nemmeno un po' di impegno per nascondere la delusione. Risero tutti e tre e Leah mi scompigliò i capelli, scuotendo la testa. L'intimità di quel gesto mi sconvolse, in quel momento.
“Torniamo a trovarti, carotina.” mi prese in giro, con l'ennesimo sorriso storto che mi piaceva decisamente più del dovuto.
“La cena è ai fornelli, caro. Spero che tu riesca a riambientarti presto. È bello averti di nuovo qui, per un po' più di tempo.”
 

Come avevo previsto la mia camera era identica. Più o meno.
In realtà Edward aveva provveduto a incastrarci dentro un letto ad una piazza e mezza, invece del semplice letto che avevo da bambino, e a installare un pc sulla scrivania.
I colori erano rimasti quelli, però. Sugli scaffali c'erano ancora i libri che leggevo a quei tempi, nel fondo dell'armadio era rimasto ancora qualche vestito che ora non mi sarebbe entrato nemmeno in un braccio solo e alle pareti erano attaccati i poster malandati di film che a quei tempi adoravo.
Ci pensai un po', ma alla fine staccai tutto, preferendo il colore uniforme delle pareti; trovai un altro posto per i libri e li sostituii con le centinaia di cd che avevo portato con me; lasciai i vestiti vecchi nell'armadio, sistemando assieme anche i nuovi e poi mi lasciai cadere sul letto, osservandomi attorno.
Mi prese una sorta di dolorosa malinconia, in quel momento. Lavato, con la pancia piena e il ticchettio della pioggia che aveva cominciato a cadere fuori dalla finestra.
Era come se stessi troppo poco male e mi sentissi in colpa, per quello.
Mamma era morta da poco e io riuscivo già a volermi ricostruire una vita senza di lei. Era giusto? E se anche lo era, avrei dovuto farlo davvero?
Non lo sapevo e la cosa mi dava un fastidio davvero inesprimibile.
Alla fine mi sotterrai sotto le coperte, affondando le cuffiette nelle orecchie per coprire con un valzer di Chopin il rumore dei pensieri e quello più ticchettante della pioggia che si accaniva contro il tetto, il vetro e tutto il mondo in generale.
E contando tempi, note e battute come qualcun altro conta le pecore, mi rassegnai a passare una notte completamente insonne.







Hopless Notes:
Ed eccoci qui anche con il secondo/primo capitolo di questa storia! Spero che vi piaccia e recensite recensite recensite!!
Il prossimo aggiornamento potrebbe arrivare molto in ritardo, sapete com'è... impegni su impegni! :)
Grazie a tutti quelli che hanno recensito (una piccola anima pia! Ti adoro!) e a tutti quelli che hanno seguito/ricordato/preferito(??).
Ci rileggiamo!
Hopless_Wander

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Nuove conoscenze ***


II.

 

 

Le note della suite di Bach sfumarono gradualmente nell'accordo finale e a quelle si sostituì una serie meccanica e continuata di suoni fastidiosi che sul momento mi lasciarono confuso e smarrito.
Perso com'ero in quella specie di limbo tra la musica per pianoforte e il sonno arretrato ci misi qualche secondo di troppo per capire che si trattava della mia sveglia.
Qualcuno spenga questo maledetto trabiccolo.
Sbuffai tra me e allungai una mano, premendo un paio di tasti a caso – con una grazia totalmente differente da quella che avevo usato fino a quel momento, seguendo la melodia classica su una tastiera immaginaria, con le dita che si muovevano agili nel vuoto – finché il lamento non si zittì.
Avevo la testa pesante, chiusa in una bolla che rendeva il resto del mondo un po' più ovattato e distante. Gli occhi erano gonfi, come se avessi pianto, ma ero sicuro di non averlo fatto perché avevo percepito ogni fottutissimo minuto di quella notte passata a fissare lo stesso pezzo di soffitto, illuminato da un piccolo spiraglio della finestra.
Non ero davvero stanco, no. Ero solo... spossato.
Dopotutto, non era la prima volta che mi “dimenticavo” di dormire da quando mamma era morta. Questa era solo da aggiungere alla lista delle tante.
Mi alzai, svogliato, e andai ad aprire le imposte della finestra, salvo rimanere a fissare, desolato, la cappa di nebbia che era calata sulla città.
Ecco, la nebbia era uno dei ricordi che nella mia testa erano etichettati esclusivamente sotto la voce “Forks”. Mai vista, in Arizona. Neppure una volta. Non potevo dire che mi dispiacesse, anzi, l'avevo sempre trovata molto pittoresca, ma aveva un'aria vagamente claustrofobica che in quel momento non mi aiutava per nulla.
Quando scesi per la colazione mi resi conto che Edward era già uscito. Non avevo idea di cosa avesse da fare a quell'ora, dopotutto le sue abitudini mi erano estranee. Magari andava a fare jogging, magari era solito cominciare a lavorare sin dal primo mattino, nel caso qualche criminale avesse avuto la brillante idea di cercarsi un avvocato di buon'ora.
Sue non era ancora arrivata, ovviamente, – almeno lei pareva avere una umana concezione del tempo – così mi ritrovai a fare colazione da solo.
Non sarei stato di grande compagnia comunque.
Mi diedi anche dell'idiota, un paio di volte: dopotutto avevo deciso di venire a stare qui in autonomia, ci dovevo passare almeno un altro paio di anni, dovevo cominciare ad abituarmi a quell'ambiente e un muso chilometrico non era esattamente la credenziale migliore per farmi degli amici.
Alla fine, mi accorsi che era decisamente ora di andare, a meno che non fossi intenzionato a fare tardi anche il primo giorno di scuola.
Sorrisi, immaginando la voce severa di mamma che mi incitava dal bagno, e uscii di casa, infagottato nel mio giubbotto a prova di Artico.
La mia auto si rivelò un ottimo motivo per mantenere il sorriso sulle labbra: silenziosa, veloce e decisamente bella. Come avevo già detto, mi piaceva. Ed era davvero facile da guidare, senza il cambio manuale che avevano sempre avuto le mie precedenti carrette.
Non pioveva nemmeno, il che mi parve anche di buon auspicio, oltre a costituire un altro motivo per prestare blandamente attenzione alla strada e perdermi nei miei pensieri, metà disastrosi e metà traballanti, ma edificanti.
Forse mi ci persi un po' troppo, in fin dei conti, perché quando alzai lo sguardo mi trovai di fronte al casello dell'autostrada e, nella piantina mentale che mi aveva inculcato a forza Edward la sera prima, la scuola era un po' – va bene, parecchio – prima. Svoltai con una manovra che nella mia testa doveva essere molto meno pericolosa di quanto invece risultò – ringraziai il Cosmo che le strade di Forks fossero pressoché deserte, a quell'ora e sempre, visto che a Phoenix mi sarei già preso qualche strombazzata di clacson, se non una bella tamponata – e mi diressi verso quella che speravo essere la direzione giusta.
Fortunatamente lo era.
Mi resi conto immediatamente del perché la scuola non aveva attirato la mia attenzione: ben lontana dal competere per dimensioni con il liceo di Phoenix, la “Forks High School” non aveva nemmeno l'aria di un luogo pubblico. Pareva, anzi, una serie di case di mattoni rosso scuro. Probabilmente, se non avessi notato il cartello, avrei avuto la tentazione di scendere, scampanellare e chiedere a qualcuno se avesse la minima idea di dove si fosse nascosta la scuola superiore, se per caso stessimo giocando a nascondino e quali fossero le regole.
Visto che non avevo la minima idea di cosa dovessi fare, una sorta di intuito inedito mi guidò verso l'edificio contrassegnato dal cartello “Segreteria”. La quantità di auto che già affollava i parcheggi circostanti mi sussurrò all'orecchio che probabilmente ero in ritardo, in pericoloso ritardo.
Mi affrettai verso l'entrata, calciando distrattamente qualche ciottolo che mi intralciava il cammino e superai di corsa, ma con sguardo cauto, la porta.
La luce, paragonata al grigiore esterno, mi investì e mi costrinse a fermarmi un paio di istanti, a sbattere le palpebre per abituare gli occhi.
Era un interno piccolo – non che da fuori sembrasse altrimenti, chiaro – caldo e luminoso, con il pavimento rivestito di una moquette che pareva molto rassicurante, piante a decine e una secchiata di volantini colorati e bacheche di avvisi appese ovunque. Pensai frettolosamente che una volta o l'altra quelle pareti sarebbero crollate, a forza di affiggerci fogli su fogli, e poi diressi la mia attenzione al bancone che tagliava in due la sala e, nella fattispecie, alla donna che sedeva a una delle tre scrivanie arroccate dall'altra parte, sommerse di scartoffie. Ancora.
La donna alzò lo sguardo, blandamente interessata, sistemandosi gli occhiali sul naso e controllando che i capelli rossi non fossero usciti dalla coda in cui li aveva raccolti. Era parecchio imponente – la maglia viola che indossava lasciava davvero poco alla mia immaginazione, alla faccia della mia tuta polare – e non sapevo se avrei dovuto fare dietrofront oppure affrontarla a viso aperto.
“Prego.” mi esortò, vagamente impaziente, decidendo per me, in sostanza.
“Sono Edward Masen.” informai, cautamente e il suo sguardo, da blandamente interessato che era, si trasformò in qualcosa che avrei definito come... esageratamente curioso.
“Junior.” aggiunsi, ironicamente.
Lo sguardo che non accennava ad abbassarsi mi fece riflettere per qualche istante sulla portata dei pettegolezzi di cui probabilmente ero stato protagonista. Sicuramente la storia doveva aver fatto il giro della città, ma non mi ero mai reso conto di quanto potesse essere stata... eccitante? Succosa? Non avrei saputo dirlo. Sapevo solo che, pensandoci bene, era una buona storia. Un matrimonio giovanile, lei rimasta incinta troppo presto, una storia d'amore che non va come dovrebbe andare, lei che scappa lontano, lascia il buon avvocato solo a combattere contro i pregiudizi della cittadina e poi muore e il figliol prodigo torna tra le braccia dell'amorevole padre.
Mi venne la nausea.
“Oh, Edward! Ti stavamo aspettando tutti quanti.” mi sorrise improvvisamente la donna, frugando in una precaria pila cartacea e tirandone fuori qualche foglio.
Nausea al quadrato.
“Come ti pare, Forks?” chiese, premurosa e... nauseante. Mi pareva di leggere dietro ai suoi occhi la curiosità.
“C'ero già stato.” le sorrisi a mia volta, scrollando le spalle.
“Intendo... viverci, chiaro.”
“Sono arrivato ieri. Non ho ancora avuto modo di parlare con nessuno.”
E di farmi crescere addosso il muschio.
“Capisco. L'avvocato Masen come se la passa?”
“Sano come un pesce. Mordace come un acido non diluito. Borbottante come una pentola a pressione. Una meraviglia. ” sputai divertito, prima di rendermi conto che l'avevo detto sul serio. Evidentemente, però, la cittadina si era resa conto da sola di ciò che io mi ero appena fatto sfuggire, così mi rilassai, vedendo la segretaria ridacchiare sotto i baffi.
“Come al solito, in pratica. Allora.. qui c'è il tuo orario, assieme a una piantina della scuola. Fai controfirmare questo foglio ai tuoi professori e riportalo qui a fine giornata, ok, caro? E ora corri, che sei in ritardo.”
“Grazie mille.”
“Vedrai, ti troverai bene, qui.”
Le sorrisi, cercando di essere convincente e mi precipitai fuori dall'edificio, con l'intenzione di portare l'auto in un posto in cui non fosse vietato parcheggiare.
C'erano un sacco di carrette malandate, sistemate in file parecchio disordinate. A Phoenix era normalissimo trovare auto nuove e lucide di autoconcessionaria; lì io spiccavo per i miei catorci che i miei amici erano sempre pronti a deridere – zia Marie e mamma avevano deciso di non darmi più fiducia dopo che avevo sfasciato la prima macchina seria in un incidente particolarmente violento – e ora spiccavo anche qui, con la mia auto quasi nuova, assieme ad una jeep di dimensioni mostruose, visibile praticamente da qualunque angolo dello spiazzo cementato. Parcheggiai accanto a un pick-up di un rosso ruggine, poco distante da quel gigante e mi diressi a passo veloce verso l'entrata.
Girai fra le mani la piantina, un paio di volte, cercando di orientarla per il verso giusto, ma, complice la fretta, preferii sbuffare rumorosamente – che avessi ereditato il tratto da mio padre? Nausea di nuovo – e fermare un ragazzo per chiedergli informazioni, nonostante fosse evidentemente di fretta quanto me.
Alla fine, fra frasi smozzicate e terrorizzati “devo andare, cazzo!” riuscii a capire da che parte fosse l'edificio numero 3 – non potei evitare di darmi del cretino, visto che c'era un enorme numero dipinto sulla fiancata – e a raggiungere l'aula di inglese.
Il professore, dall'entrata della porta riuscivo a scorgere la targhetta che recitava Mr Mason, doveva essere in procinto di cominciare a parlare, perché non appena scorse il mio viso in attesa sulla porta mi lanciò un'occhiata vagamente perplessa e un filo seccata.
“In ritardo, signor...?” chiese, inarcando un sopracciglio.
“Masen. È il mio primo giorno.” gli venni in aiuto, entrando nella classe e porgendogli il foglio che doveva firmare. Mi voltai un secondo, giusto in tempo per vedere l'intera classe, seduta ai banchi, che mi fissava insistentemente. Non riusci a trovare una risposta migliore di un “Ehi” borbottato a mezza voce, con un sorriso esitante e un gesto vago della mano.
Il signor Mason fissò il foglio con l'aria di chi casca fra le nuvole – Incoraggiante – ma lo firmò senza dire nulla e mi lasciò sedere – in ultima fila – senza che io dovessi aggiungere altro.
Ora, non sapevo come fosse umanamente impossibile riuscire a fissare insistentemente qualcuno in ultima fila, senza che il professore si accorgesse di nulla, fatto sta che i miei compagni, compresi quelli praticamente davanti alla cattedra, a quanto pareva erano capacissimi di farlo per l'intera durata dell'ora.
Personalmente cominciavo a sentirmi davvero a disagio. Non ero mai stato una persona a cui piaceva stare al centro dell'attenzione, ancor meno uno a cui piaceva essere fissato così sfacciatamente. Ma, visto che era il mio primo giorno, ritenevo di essermi in un certo senso andato a cercare tutta quella esposizione mediatica e così li lasciai fare, concentrandomi sulla lista di letture che il professore mi aveva allungato distrattamente prima che io mi allontanassi dalla cattedra.
Brontë, Shakespeare, Chaucer, Faulkner... Elementare, tutto sommato. Avevo letto già tutto. Un po' per interesse personale, un po' per insistenza di mamma – appassionata di letteratura come poche – e un po' per i corsi avanzati che avevo seguito per l'accordo che avevo raggiunto con lei: potevo dedicare quanto tempo volevo al pianoforte, anche fino a logorare i timpani di tutto il vicinato, purché la mia media scolastica fosse ineccepibile. Avevo provato a svicolare parecchie volte, e ci ero riuscito spesso, ma mamma si era impuntata a farmi frequentare perlomeno i corsi più difficili, anche se non ero mai stato un'eccellenza.
Gli argomenti poco stimolanti e la voce monotona del professore di certo non aiutavano la mia concentrazione, così come non la aiutava il pensiero di mamma, così finii per perdermi di nuovo in una serie di ricordi e dialoghi con lei, fino a quando non sopraggiunse il rumore della campanella, a riscuotermi. Quello e una voce leggermente stridula e una chioma di capelli che sventolava davanti al mio banco.
“E così tu sei Edward, vero?” chiese la sconosciuta con un sorriso di miele. Aveva quell'aria civettuola e maliziosa che normalmente mi faceva girare alla larga da una ragazza. Ma forse ero solo troppo difficile. Era decisamente meglio cercare di essere amichevole.
“In carne e chioma bronzea.” le sorrisi a mia volta, osservando come il suo, di sorriso, si allargava pericolosamente. Nelle vicinanze, tutti si voltarono a fissarmi.
Oh, Cristo.
“Dove hai la prossima lezione?” chiese, continuando a sorridere. Probabilmente entro poco avrebbero cominciato a dolerle le guance, chissà se a quel punto avrebbe smesso di sembrare così esageratamente allegra o se avrebbe avrebbe sopportato stoicamente, come si sopportano delle scarpe scomode.
Osservai perplesso i fogli che mi avevano dato...
“Educazione civica. Mr Jefferson. Edificio 6.”
Sembrava che tutti e dico tutti mi stessero fissando con sguardo curioso.
Cristo, ma da queste parti c'è qualcuno che si sa fare gli affari propri?
Non so perché mi venne in mente proprio in quel momento, ma ricordai uno spaventoso dato che avevo letto tra gli opuscoli della scuola. Trecentocinquantasette iscritti. In totale.
Più uno.
Era chiaro che lì nessuno era fisicamente in grado di pensare per sé. Riuscivo a capirlo. Magari un paio di anni e avrei assunto anche io la cultura del pettegolezzo.
“Io sto andando al 4. Ma ti posso accompagnare comunque” cinguettò la ragazza, riportando la mia attenzione su di sé. “Sono Laureen, a proposito.”
Sorrisi, di nuovo, e mi dichiarai mentalmente stanco di tutte quelle premure. Ma, di nuovo, decisi di restare amichevolmente presente.
“Grazie. Mi faresti un favore.” abbozzai, alzandomi in piedi e raccattando le mie cose, seguito da un consistente numero di persone che imboccarono in massa la nostra stessa direzione. Pareva che mi stessero seguendo, come in quei pessimi film dove gli allievi popolari hanno puntualmente un crocchio di persone che li sostiene psicologicamente anche al cesso.
Nausea. Nausea. Nausea.
Non essere esagerato, fratello. Stai diventando paranoico.
“Scommetto che Phoenix è completamente diversa da Forks.” attaccò di nuovo la ragazza... Laureen... mentre camminavamo.
“Sì, abbastanza.” concordai, stringato. Non ci voleva un genio, per arrivarci.
“E com'è?”
“Assolata. E secca.”
Pareva quasi offesa dalla risposta asciutta e vagamente derisoria.
“Oh. Niente pioggia, nebbia o neve, quindi.”
“Non molta, no.” annuii.
Che intuito, ragazza. Sei una saetta.
“Deve essere un paradiso.”
“Non se fai parte del club di botanica.” ironizzai, con un sorriso storto.
La ragazza mi guardò, aggrottando le sopracciglia.
“Facevi parte del club di botanica?” chiese esitante.
“No.” scrollai le spalle, indifferente.
Non distolse lo sguardo, come a chiedersi quale fosse allora il problema e quale problema avessi io.
“Chissà che abbronzature.”
Inarcai le sopracciglia, aspettando che la sua capacità di osservazione raggiungesse il pallore del mio viso.
“Ma tu non sembri molto abbronzato.”
“Già.”
“Come mai?”
“Vai a capire, tu. Edward senior dove avermi geneticamente regalato il duo capelli rossi – pelle chiara. Un sogno. Giravo con la protezione cinquanta nello zaino.”
Laureen insistette per accompagnarmi fino all'entrata dell'aula, anche se era chiarissimo che non ne avevo bisogno e mi salutò calorosamente. Ricambiai, molto più tiepidamente ed entrai a lezione.


La mattinata trascorse più o meno monotona. Il professore di trigonometria, un certo Mr Varner, si era già guadagnato la vetta nella mia lista nera, ma d'altra parte l'aveva raggiunta più per la materia che insegnava che per la sua personalità – che rimaneva comunque parecchio irritante. Fu l'unico che mi costrinse a presentarmi, anche se più che una presentazione, la mia fu un ammasso di frasi sconnesse e incoerenti gesti della mano. Comunque fosse, agli sguardi curiosi della massa, mi sembrava viaggiasse a braccetto anche una leggera dose di simpatia, il che mi rassicurava un po'.
Dopo un paio di lezioni riconoscevo più o meno tutti i volti che avevo incontrato, anche se i nomi non mi erano ancora noti. Avevo sempre avuto memoria, per i tratti somatici. Mi rimanevano impressi nella retina e mi balzavano subito agli occhi, quando li rivedevo.
Credo di non avere mai sparato tante balle come in quelle ore. C'era sempre qualcuno che chiedeva cose come “come va?” “ti trovi bene?”. Chiunque abbia detto che la sincerità è sempre la strada migliore, non è mai stato un liceale arrivato ad anno scolastico già iniziato. Le bugie sono d'obbligo, a prescindere dalla punizione divina che ne seguirà.
Riuscii anche a fare vagamente amicizia con un ragazzo che mi si sedette accanto in tutte le lezioni fino all'ora di pranzo. Beh, parlare di amicizia o anche solo di conoscenza era un po' esagerato, visto che continuava a parlare a raffica, mentre io ascoltavo e perlopiù osservavo.
Aveva dei capelli biondo cenere divisi in punte ordinate e un viso infantile, ma simpatico.
Mike? Poteva essere?
Mi sedetti al suo tavolo, in mensa, assieme ai suoi amici, ai quali venni presentato in pompa magna. Eric, Tyler, Ben, Laureen, che si era seduta salutando calorosamente tutti quanti, Angela e Jessica.
Probabilmente avevo ottima memoria anche con i nomi.
Complimenti, Edward. Stai andando alla grande.
“Arizona, eh?” commentò a quel punto, Mike. Sul tavolo calò un silenzio di una curiosità vagamente imbarazzante.
“Già.”
“Feste con piscine, folle di gente e pestaggi un giorno sì e l'altro no, vero?” chiese, metà invidioso e metà eccitato all'idea. Mi chiesi da dove venissero queste informazioni. Film? Leggende metropolitane? In parte erano preoccupantemente vere.
“Nah. Ero più il tipo da serate tra amici. Sai, ti ubriachi e puntualmente il giorno dopo non ricordi nulla. Tre volte su quattro qualche vestito è misteriosamente sparito e sai che probabilmente hai fatto sesso, non sai con chi, ma, ehi, è fra amici!” commentai, ironicamente. Non era sarcasmo; era più o meno la verità. Era successo davvero, un paio di volte. Forse tre. O boh. Passai un istante in silenzio. “Non che questo ti protegga dalle malattie sessualmente trasmissibili, chiaro.” aggiunsi.
L'intero gruppo scoppiò in una risata – chi più nervosamente, chi palesemente esilarato – che mi divertì, facendomi sorridere a mia volta.
“E così eri un cazzone, dalle tue parti, eh?” rise Mike, tirandomi una gomitata tra le costole. Me le massaggiai, vagamente irritato, cercando di non darlo a vedere.
“No, non proprio. Avevo la testa a posto, la maggior parte del tempo. Suonavo. Pianoforte.”
“Oh, bello.” intervenne quella che mi pareva essere Angela, un po' timidamente. Parve essersi pentita del suo intervento non appena si spense l'ultima vocale, ma il mio sorriso sincero la rassicurò un po'.
“Suoni anche qui?” si azzardò a chiedere, esitante.
Sospirai e scossi la testa.
“Come mai?”
“Ho deciso di smettere.” mentii, vagamente. Il discorso cadde senza che nessuno ci facesse troppo caso e la conversazione proseguì, anche con il mio scarso aiuto. Seguii un po', parecchio disinteressato, captando a tratti qualche pezzo di discorso.
“E così ci hai provato davvero con la Cullen?” sputò in quel momento Eric, sgranando gli occhi in direzioni di Mike.
“Già.” confermò questo, vagamente cupo.
“Scommetto che non è andata, eh?”
“Già.”
“Che ti ha detto?”
“Devo andare, scusa.” borbottò il ragazzo, agitandosi sulla sedia. Eric sbuffò.
“Ma dove vuoi andare, sta' qua! Noi vogliamo sapere.”
“No, lei ha detto così: 'Devo andare, scusa.'” ripeté, con un colorito vagamente rossastro.
“Oh. Beh, Mike, perlomeno ti ha rivolto la parola. A qualcuno non è andata così bene.”
“Non è una consolazione.”
Il disagio di Mike mi parve molto, troppo divertente, così decisi di inserirmi nella discussione.
“Di chi state parlando?” chiesi, sporgendomi sul tavolo.
I ragazzi si girarono verso di me, con un sorriso decisamente maschile sul volto. Se non avessi già intuito l'argomento di conversazione, probabilmente l'avrei indovinato ora.
“Isabella Cullen.” risposero, come fosse ovvio.
“E sarebbe?”
“Una dei fratelli Cullen.”
“E chi sono questi Cullen?” borbottai, cominciando a spazientirmi.
Angela dall'altro lato del tavolo mi sorrise e sotto gli occhi del gruppo, palesemente divertito, mi indicò una direzione con il suo mento sottile.
All'improvviso fu tutto chiaro.
Nonostante la direzione indicata comprendesse parecchi tavoli, non ci fu bisogno di specificare a quale gli altri si stessero riferendo: quattro ragazzi stavano elegantemente seduti, leggermente chini verso il tavolo, come se il mondo circostante non li interessasse, nell'angolo più distante e isolato della mensa. Stavano fermi, quasi immobili, con i loro vassoi di cibo intatti e lo sguardo fisso sul ripiano di metallo lucido.
Non sembravano studenti. A guardarli li avrei scambiati per laureandi o simili. C'era un ragazzo, bruno, imponente, con dei bicipiti davvero mostruosi e un viso espressivo. Accanto a lui stava seduto un biondo dal viso vagamente sofferente e in parte annoiato, non imponente quanto il primo, ma sicuramente più muscoloso di quanto ci si aspetterebbe da un liceale. Le ragazze sedute di fronte a loro erano altrettanto appariscenti: una era bionda, con dei lineamenti da Madonna scolpita nel marmo o da catalogo di bellezza; l'altra era decisamente minuta, l'ossatura sottile e i capelli corti e scompigliati. Mi dava l'idea di uno spirito dei boschi, di quelli che ridono nascosti dietro ai tronchi degli alberi e poi ti prendono per mano, ti trascinano in fondo al bosco, dove non puoi più ritrovare la strada, e ti costringono a morire nel tentativo di seguirli nella loro danza.
Fratelli Cullen.
Non parevano fratelli. Ma si assomigliavano, in un certo senso. Sì.
Erano tutti di una bellezza che aveva dell'inquietante, immutabile e scolpita nella pietra dei millenni. Pallidi, più di chiunque altro, in questa cittadina raramente baciata dal sole. Avevano tutti occhiaie profonde, marcate, quasi avessero passato l'intera nottata in piedi, senza chiudere occhio. E anche quella prima, e quella prima ancora.
Mi aspettavo che da un momento all'altro si aprisse una crepa lungo la linea delle loro guance e che loro si polverizzassero lì davanti, rivelando la finzione.
Non riuscivo a staccare gli occhi da quel quartetto. Non ci riuscivo e allo stesso tempo avrei voluto guardare lontano, come se continuare a fissarli cominciasse a dolermi, in un punto indefinito del petto, più o meno in direzione dello sterno.
“Oh.” scandii solo, sorpreso.
“Già.” fu lo scarno commento generale, corredato da risatine divertite.
“I due mori sono Emmett e Alice Cullen. I due biondi sono Jasper e Rosalie Hale. Vivono tutti e quattro con il dottor Cullen, il medico dell'ospedale di Forks, e sua moglie.” mi spiegarono, velocemente.
Nomi strani. Antichi, in un certo senso. Da nonni. Non che Edward non lo fosse, per carità. Ma la mia era una tradizione. Lo era anche la loro?
“Sono tutti fratelli?” chiesi, vagamente interessato. Distolsi lo sguardo, cercando di non farmi beccare con le mani in pasta a fissarli.
“Oh, no. I due gemelli Hale, quelli biondi, sì. Sono in affido. Gli altri sono adottati.”
“Così grandi, in affidamento?”
“Sì, stanno con il dottore da molto tempo. Immagino che ormai quella sia la loro famiglia.”
“Un bel gesto, da parte dei signor Cullen, occuparsi di tutti quei ragazzi.” commentai, piacevolmente colpito.
“Sarebbe un bel gesto anche se smettessero di farsela esclusivamente tra loro.” borbottò Mike, vagamente risentito.
Il tavolo intero ridacchiò.
“Cioè, stanno assieme tra di loro?” chiesi, aggrottando le sopracciglia.
“Sì.” annuì Laureen, felice di poter fare un po' di sano gossip. “Emmett con Rosalie e Jasper con Alice.”
“Non so nemmeno se sia legale.” rincarò Jessica.
“Beh, ma non sono davvero parenti, no?” provò a conciliare Angela. Ogni secondo che passava riuscivo a trovarla più simpatica.
“Senti, Angie. È illegale, punto. Moralmente, se vuoi metterla così. Sono la fauna migliore di questa scuola, hanno il dovere professionale di mettersi a disposizione della comunità.” commentò di nuovo l'altra. Il commento mi fece ridere, per qualche strano motivo, con un moto di simpatia nei suoi confronti.
Al di là del divertimento era evidente che la cittadina condannava queste relazioni così... inconsuete. Forks non era mai stata di mentalità troppo aperta e questo pettegolezzo sarebbe stato molto chiacchierato anche in una scuola come Phoenix. Figuriamoci qui.
Un'altra occhiata distratta e discreta al loro tavolo mi offrì la vista di un Emmett e una Alice decisamente ilari che chiacchieravano con una Rosalie decisamente sdegnata. Jasper non muoveva un muscolo del viso, girando però lo sguardo fino a incontrare di striscio il mio, che si spostò immediatamente di nuovo sul mio piatto.
Riuscii a chiedermi, cercando di non sentirmi troppo imbarazzato, di cosa stessero discutendo per essere così divertiti.
“E sono sempre stati qui? Credo che dei tipi del genere me li ricorderei.” riflettei improvvisamente ad alta voce, cercando di ripercorrere le mie estati passate, alla ricerca di una traccia di quella bellezza che mi aveva impietrito oggi.
“Certo che no.” commentò Eric, come se fosse normale anche per uno straniero come me. “Si sono trasferiti qui l'anno scorso, da un posto sperduto in Alaska o qualcosa del genere.”
Se non altro non ero l'unico nuovo. E nemmeno il più appariscente.
Era come se la gente li evitasse, però. Io ero arrivato da nemmeno un giorno ed ero già in mezzo ai ragazzi. Loro avevano un vuoto, attorno, come un fossato che li separava dal resto della scuola.
Mi sembrarono soli.
Aggrottai le sopracciglia, pensoso.
“Aspetta, Mike. E la tua... Isabella?” chiesi improvvisamente, rendendomi conto che il suo nome non compariva tra quelli che mi erano stati citati.
“Oh... già. Lei non c'è. Probabilmente aveva altro da fare.” commentò l'interessato, scrollando le spalle. Sembrava gli fosse passata, ma ero portato a credere che fosse colpa dell'orgoglio ferito. Sorrisi, cercando di nasconderlo il più possibile.
“Così è l'unica senza ragazzo. Ed è bella come i fratelli?” chiesi. Mi interessavano, quei fratelli. Non sapevo perché, ma mi interessavano. Forse era per quella disumanità che si celava a stento nei loro tratti così perfetti, forse era per quelle espressioni così distanti e a tratti sofferenti che li avevo visti assumere in questi minuti. Erano un mistero.
“Forse anche di più.” sorrisero i ragazzi, annuendo. “Ma è strana.”
“Strana?”
“Sì, ogni tanto non capisci se c'è o se si è persa in un altro mondo. Non risponde quando le parli, a volte parla da sola o si alza nel mezzo della lezione ed esce senza una parola. Parla molto poco, anche meno dei fratelli. I professori la trattano come se fosse una bomba pronta ad esplodere.” spiegò Eric, aggrottando le sopracciglia.
“Credo abbia dei problemi.” la giustificò Angela, timidamente.
“Sì, seri.” replicò invece con acidità Jessica. Ecco, la simpatia di qualche secondo prima svanì. Non mi era mai piaciuto chi derideva quel genere di persone, nemmeno in Arizona. Era un comportamento che proprio non sopportavo.
Altra occhiata discreta.
Jasper stringeva la mascella, guardando vagamente il soffitto, anche in quell'unico istante riuscivo a distinguere la linea dell'osso in tensione. Alice gli aveva poggiato una mano sull'avambraccio, sporgendosi sul tavolo e sussurrando qualcosa a mezza voce, mentre Emmett teneva quel suo braccio enorme sulla sua spalla. Fu il turno di Rosalie: gettò un'occhiata irritata nella nostra direzione e per un istante pensai che dovessero aver sentito le nostre parole, ma era impossibile, così riportai l'attenzione sulle persone che mi circondavano.
“E come mai vi ostinate a provarci con lei, se la considerate strana?” chiesi, rivolto ai ragazzi.
“Perché quando una è così bella le si perdona tutto.” rispose Mike, come fosse ovvio. Era stupido, invece, ma evitai di farglielo notare.
“Sai,” cominciò Eric “A volte sorride, però. Dal nulla. O ride per qualche frase dei fratelli. O corre verso di loro. A volte sembra serena. È allora che ti dimentichi di tutto il resto. Ma ha uno sguardo strano, a volte, come se stesse soffrendo davvero troppo, per un corpo così piccolo. Ti viene voglia di stringerla e sussurrarle in un orecchio che passerà, che lo farai passare...”
Rimasi qualche secondo in silenzio. Fissandolo, perplesso. E non solo io: l'intero gruppo si bloccò.
“Ehi, Mike.” accennai, aggrottando le sopracciglia. “Ma non eri tu quello partito per la tangente dell'amore? A me pare che qui ce ne sia un altro.”
Eric assunse un colorito preoccupante, mentre tutti, attorno, ridevano.
“No, non credo. È solo un inguaribile romanticone.” rispose per lui Angela, sorridendo divertita.
“Già, mi accontento di qualcuno più accessibile.” sbuffò l'altro. “Mica punto in alto come Newton.”
“Oh, Arizona, guarda: parli del diavolo e spuntano le corna. Eccola là.” esclamò a quel punto Mike, che era evidentemente molto sensibile alla presenza della ragazza.
Io voltai la testa, incuriosito, incontrando il profilo di una figura che varcava la soglia della mensa. Fu allora che capii che ero nella merda almeno fino al naso.
Cazzo.

 

Isabella Cullen aveva lasciato la fila per il cibo in quel momento, allontanandosene con una mela e una bottiglietta di soda.
Ma non era quello che avevo notato.
Isabella Cullen aveva qualcosa di diverso dai fratelli, ora che ci facevo caso: tutti gli altri erano vestiti con classe, indumenti discreti, ma senza dubbio firmati. Lei camminava con la sua andatura quasi danzante vestita semplicemente di un paio di jeans sbiaditi, una camicia a quadri di flanella pesante e un paio di anfibi.
Ma non era nemmeno quello che avevo notato veramente.
“Edward?”
Capelli lunghi, di un mogano scuro, un cascata che si distendeva pigramente quasi fino ai fianchi. Pelle diafana, come i fratelli. Occhi ambrati e occhiaie scure, come i fratelli. Bella.
Il punto era che quella ragazza era... era... disumana.
Di una bellezza disumana.
Se ne stava lì, in mezzo a quella mensa, come fosse parte di tutto quello – la scuola, gli amici, i fratelli, i compiti a casa, i ripassi frenetici prima dei test... – ma io avrei giurato a me stesso che non era così, che quello non era il suo posto, che il suo corpo era qui, ma che la sua mente no.
Rabbrividii, istantaneamente.
Non era il suo posto. Non era il mio. La sua mente era altrove. Lo era anche la mia.
Rabbrividii di nuovo. Non sapevo perché, ma guardarla mi stava diventando insopportabile. Non riuscivo a sopportare la sua vista nemmeno un secondo di più.
“Arizona? Ehi, Arizona?”
Disumana. Di una tristezza disumana.
La postura perfetta, il volto distante, le labbra dischiuse così naturalmente... nulla riusciva a nasconderlo. Io lo vedevo, così come spesso avevo intuito i pensieri degli altri.
Isabella Cullen si portava addosso un giubbotto di tristezza che allungava i suoi tentacoli anche verso di me e io non riuscivo a sopportarlo. Era davvero opprimente.
Deglutii, deciso a chiudere gli occhi per sottrarmi a quello spettacolo. Pietrificato, però, in quella posizione.
“Ehi, Bella!” udii, dalla voce trillante di Alice.
Isabella non ascoltò. O forse non sentì, il suo corpo non aveva minimamente reagito alla voce della sorella. Continuò semplicemente a camminare, senza guardarsi attorno, per poi prendere posto ad un tavolo vuoto in un angolo, far comparire chissà dove un taccuino e una penna e cominciare a scrivere, febbrilmente e allo stesso tempo fluidamente.
Non sapevo perché, ma da quella posizione che impediva la vista delle pagine, avevo l'impressione che da quella punta sgorgassero centinaia di parole al minuto, decise al secondo, una ogni istante.
Non capivo.
Non capiva nessuno, probabilmente, di quelli che avevano seguito la scena. E ce n'erano.
Alice e i Cullen, invece, sembravano capire.
Riuscii a spostare lo sguardo su di loro giusto in tempo per vederli alzare e raggiungere la sorella al tavolo. Quello che si chiamava Jasper allungò una mano e la poggiò sulla sua spalla, facendole alzare lo sguardo di scatto.
E poi un sorriso. Il suo sorriso. Qualcosa di disumano all'ennesima potenza. Talmente insopportabile, alla mia vista, che dovetti guardare altrove.
Quando misi a fuoco il viso di Laureen, davanti a me, provai di nuovo una sorta di principio di nausea.
“Ehi, Masen, ma che fai? La vedi da due minuti e già ti innamori di lei?”
“Uhm?” chiesi, cadendo totalmente dalle nuvole, voltandomi verso la voce che aveva parlato. Mike, presupposi.
“Isabella.”
“E...”
“Innamorato.”
“Chi?”
“Tu.”
“Oh...”
L'intero gruppo scoppiò a ridere, ma il fatto che improvvisamente ridesse di me non mi fece più divertire tanto quanto prima. Arrossii, invece, cosa che li divertì ancora di più.
“Non sono innamorato.” borbottai, offeso “è solo che...”
“Cazzo.” convenne Eric.
“Appunto.” annuii io.
E tanti saluti al romanticismo.
“Ma guardalo, arrossisce. È così carino!” belò Laureen in un modo che mi fece saltare completamente i nervi. Sbuffai.
“Sì, grazie. E scommetto che il colore fa a pugni con quello dei miei capelli.”
Ricevetti una pacca sulla schiena in segno di conforto.
“Amico, questo era proprio un commento gay.”
Mio malgrado dovetti ridere assieme agli altri.
“Oh, insomma. Decidetevi: sono innamorato di quella Isabella o sono gay?”
“Credo che siano possibili entrambi gli scenari.”
“Stronzi.”
Era... strano come fossi riuscito a socializzare già dal primo giorno. A Phoenix il fatto che non fossi un inguaribile chiacchierone e che adorassi starmene per conto mio aveva fatto sì che avessi un gruppetto di amici piuttosto ristretto. Qui sembrava tutto più facile. Forse qualche cosa mi aveva cambiato, forse non era cambiato nulla dentro, ma solo fuori, forse...
Forse boh.

 

Ora di Biologia, poi due ore di educazione fisica. E poi a casa dalla merenda di Sue. Dio, sì.
Cercavo di pensarla il più positivamente possibile, anche ciò stava a significare, più o meno, che mi mancavano ancora tre ore di lezione e quindi ero a metà dell'opera.
Ma si sa, bicchiere mezzo pieno, o mezzo vuoto, dipende tutto da noi.
Avevo raggiunto l'aula con Mike e Jessica, accompagnato dalle loro chiacchiere e dai miei silenzi pensierosi e, quando ero entrato in aula, mi ero diretto direttamente verso la scrivania del professor Banner e gli avevo fatto firmare il modulo.
Fu quando mi indicò il mio posto a sedere, che la vidi. Seduta al mio stesso tavolo. Accanto al posto vuoto. Il mio.
Cazzo.
Isabella guardava fuori dalla finestra senza badare a tutto il resto del mondo. Lo trovai positivo, in un certo senso. In quel modo non avrebbe dato troppe attenzioni a me. Non le avrei sopportate. Probabilmente le avrei rimesso sui pantaloni. Non sapevo come avrei retto la vicinanza di quella ragazza per un intero anno, ma dopotutto non era mia, la scelta.
Mi avvicinai al tavolo e presi posto, con il busto rivolto alla lavagna e la testa leggermente voltata verso di lei.
“Ehm... Ehi. Io sono Edward.” tentai, in sua direzione.
La vidi girarsi verso di me e rimanere ferma immobile a fissarmi. Una eternità, da parte mia. Probabilmente furono solo un paio di secondi. Poi il suo sguardo divenne qualcosa che nessuno, nessuno, io ancor meno di tutti, sarebbe riuscito a sopportare: un misto di odio, rabbia, dolore, qualcosa che assomigliava a desiderio, ma soprattutto uno sconfinato terrore.
Mi impietrii anche io, lo sguardo fisso su di lei e sulle sue mani che parevano tremare, sul suo braccio destro che si era sollevato all'altezza delle spalle, come volesse... toccarmi? Schiaffeggiarmi? Accarezzarmi la guancia? Poi strinse i pugni e si voltò, rompendo quell'immobilità che aveva contagiato anche me, facendomi voltare di scatto a mia volta, paonazzo, deciso ad ascoltare la lezione, senza riuscirci veramente.
Non capivo.
Che cosa diamine significava, quello sguardo? Ero più che certo di non averla mai vista, potevo già averla offesa in qualche modo?
Capii all'improvviso cosa intendevano i ragazzi, quando la definivano strana. Lo era davvero. E la cosa mi spaventava, in un assurdo e ridicolo modo. Era solo una ragazza. Una ragazza con qualche problema. Avrei potuto tentare di essere più gentile, no?
Forse, ma non in quel momento. Non quando lei continuava a stringere convulsamente i pugni, il più lontana possibile da me, ma con qualche movimento accennato, di tanto in tanto, che mi pareva volesse avvicinarla.
A metà della lezione, giusto un'eternità dopo, quella tortura si interruppe. La interruppe proprio lei, per esser precisi. Si alzò di scatto dal banco e si avviò verso l'uscita.
“Ehm... signorina Cullen?” azzardò il professore, in sua direzione.
“Mi... mi dispiace, signore. Devo uscire. Devo.” mormorò.
Il professore annuì precipitosamente.
“Certo, vada pure.”
Qualche mormorio nella classe. Le mie guance di fuoco. Il professore ricominciò a parlare.

 

“Neanche un'ora e tu e Isabella Cullen vi siete già quasi azzannati?” chiese Jessica, ridacchiando compiaciuta, mentre ci dirigevamo verso la palestra.
Le sorrisi vagamente, cercando di ignorare l'imbarazzo.
“Mi sono solo presentato, in realtà.”
“Non so cosa le sia preso. Dio, quella è davvero strana.” sospirò la ragazza. “Se io ti avessi avuto vicino di certo non ne avrei approfittato per tentare di darti fuoco con la retina.”
Risi, divertito.
“Ehi, Edward, non mi prendere in giro!”
“No, penso solo a cosa avresti preferito fare, Jessica.”
“Idiota. Vai negli spogliatoi, che è meglio. Ci vediamo dopo.”
Annuii, entrando negli spogliatoi, per poi cominciare a scuotere la testa.
Avevo una mezza idea di cosa stava succedendo.
Mamma era morta. E questo ormai si era radicato dentro di me con sufficiente chiarezza.
E mi aveva segnato a fondo, più di qualsiasi altra cosa fosse successa nella mia vita da scansafatiche.
Ora che questo era successo, che qualcosa dentro di me cominciava a scricchiolare, avevo bisogno di una facciata con i controfiocchi. E la stavo regalando al mondo intero.
“Ehi, Masen, vedi di non accaparrarti tutte le ragazze di questa scuola. Lasciacene qualcuna, mi raccomando.” mi urlò Mike, dall'altra parte della palestra, ridendo. Risi con lui e decisi di non pensare più. Educazione fisica faceva al caso mio.
Il professore era riuscito a procurarmi una divisa, ma mi aveva accordato il permesso di rimanere a guardare, per quella prima lezione, così avevo sostanzialmente passato il tempo a chiacchierare con Jessica e Mike che, nei tempi morti, si eclissavano per venire a scambiare quattro parole con me.
Alla fine quelle due ore passarono in un lampo e mi diressi con sollievo, ma con un certo compiacimento per la giornata complessivamente positiva, verso la segreteria, per consegnare tutti i maledetti fogli che dovevo consegnare e poi darmela a gambe.
Avrei dovuto immaginare che non sarebbe stato così facile.
Entrato dalla porta mi bloccai, notando che qualcuno mi aveva preceduto e che si era accaparrato le attenzioni della segretaria. A dirla tutta sembrava stessero litigando.
Ci misi qualche secondo a riconoscerlo, di spalle.
Jasper Hale-Cullen stava chino sul bancone, sibilando in direzione della segretaria, che pareva dispiaciuta e terrorizzata, ma irremovibile.
“Mia sorella non può più frequentare quel corso.” ruggì, forse per l'ennesima volta.
“Me l'hai già detto,” confermò in fatti la donna “ma, davvero, non posso farci nulla. Isabella si dovrà rassegnare a frequentare Biologia.”
Biologia?
Il fratello di Isabella si stava dando tutto quel daffare per toglierla dalla classe di Biologia? Dalla mia classe?
No, non era possibile.
“Senta, lei lo sa com'è mia sorella, lei sa che...”
“Sì, lo so. Ma purtroppo non posso fare assolutamente nulla. Arrivederci.” legiferò la segretaria, chiudendo il discorso.
Qualcuno entrò, alle mie spalle, facendo entrare una corrente d'aria che mi lanciò un brivido gelato lungo la schiena e mi fece avanzare di qualche passo.
La testa di Jasper si voltò di scatto verso di me. Rimasi fulminato: se lo sguardo che la sorella mi aveva lanciato era stato terribile, il suo, se possibile, era quasi peggio. Odio allo stato puro. Odio, rabbia e disprezzo, anche.
“Non importa.” ringhiò verso la segretaria e mi passò accanto, stringendo i pugni, per poter uscire.
Mi avvicinai al bancone, continuando a guardarmi le spalle, paonazzo di vergogna e rabbia.
Che diritto avevano, quei due, di trattarmi in quel modo? Cosa avevo fatto? Avevo rubato loro aria, venendo a stare qui?
“Edward, caro. Tutto bene?” mi chiese la donna, che a sua volta tentava di riprendere fiato dalla precedente discussione.
“Sì. Sì.” assicurai, vagamente.
“Sicuro, caro? Sei tutto rosso.”
“Sì, mi capita spesso. Non si preoccupi. Ecco qui le carte. Arrivederci.” tagliai corto, riconsegnandole i fogli che nel corso della giornata avevo irrimediabilmente spiegazzato.
“Aspetta. È tutto ok? È stato un buon primo giorno?”
“Certo. È andato tutto a meraviglia.” assicurai. Ma non ci credette nemmeno lei.







Hopeless notes:
e così ecco qui anche il nuovo capitolo! :) Questo non mi piace più di tanto, è un po' noioso... ma vabbeh, lo dovevo fare per forza no?
Come avete visto Bella è un po' diversa da come l'abbiamo conosciuta e così anche Edward mi pare, ma è giusto così. La reazione di Bella è stata comunque abbastanza esagerata.
Ecco, non so più cosa dire. Solo che probabilmente le cose cominceranno a farsi diverse. Forse, non lo so. Non ho ancora capito bene :D
Ah, sì, a proposito: per voi la lunghezza del capitolo è giusta? O è troppo lunga? Vi annoiate? Devo tagliare di più?
Ringrazio tutti quelli che hanno messo la storia fra le preferite-seguite-ricordate e anche le due adorabili ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo! Vi adoro :)
Al prossimo capito e mi raccomando, ditemi cosa ne pensate!!

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2434707