The Fault in Our Stars

di greenslove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


The Fault in Our Stars  (Colpa delle stelle)
 



L’amore è una malattia dalla quale non vuoi guarire.
                                                   
 
 

Hazel ha sedici anni, ma ha già alle spalle un vero miracolo: grazie a un farmaco sperimentale, la malattia che anni prima le hanno diagnosticato è ora in regressione. Ha però anche imparato che i miracoli si pagano: mentre lei rimbalzava tra corse in ospedale e lunghe degenze, il mondo correva veloce, lasciandola indietro, sola e fuori sincrono rispetto alle sue coetanee, con una vita in frantumi in cui i pezzi non si incastrano più. Un giorno però il destino le fa incontrare Harry, affascinante compagno di sventure che la travolge con la sua fame di vita, di passioni, di risate, e le dimostra che il mondo non si è fermato, insieme possono riacciuffarlo.

Ma come un peccato originale, come una colpa scritta nelle stelle avverse sotto cui Hazel e Harry sono nati, il tempo che hanno a disposizione è un miracolo, e in quanto tale andrà pagato.

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Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


The Fault in Our Stars (Colpa delle stelle)


«Non ti uccidono, se non le accendi»
«E non ne ho mai accesa una. È una metafora, sai:
ti metti la cosa che uccide fra i denti, ma non le dai il potere di farlo.»

 - Augustus Walters ( John Green- Colpa delle stelle)



Capitolo uno



Nel tardo inverno dei miei sedici anni mia madre ha deciso che ero depressa, presumibilmente perché non uscivo molto di casa,
passavo un sacco di tempo a letto, rileggevo infinite volte lo stesso libro, mangiavo molto poco e dedicavo parecchio del mio
abbondante tempo libero
a pensare alla morte.
Sugli opuscoli che parlano di tumori o nei siti dedicati, tra gli effetti collaterali del cancro c’è sempre la depressione.
In realtà la depressione non è un effetto collaterale del cancro. La depressione è un effetto collaterale del morire.
(Anche il cancro è un effetto collaterale del morire. Quasi tutto lo è, a dire il vero.) Mia madre però si era convinta che avevo
bisogno di nuove cure,
così mi ha portato dal dottor Jim, il mio medico di base, il quale ha confermato che stavo sguazzando
in una paralizzante e certo clinica depressione, e che perciò i miei farmaci dovevano essere rivisti e dovevo anche frequentare
un gruppo di supporto.
Il mio gruppo di supporto era composto da un cast mobile di personaggi in vari stadi di malessere indotto dal tumore.
Perché il cast era mobile? Un effetto collaterale del morire. Il gruppo di supporto, nemmeno a dirlo, era deprimente al massimo.
Ci si incontrava ogni mercoledì nel seminterrato di una chiesa episcopale in muratura a forma di croce.
Ci sedevamo tutti in cerchio proprio al centro della croce, dove i due bracci si incrociavano, nel punto in cui si trovava il cuore di Gesù.
L’avevo notato perché Patrick, il capogruppo, nonché l’unicodella stanza ad avere più di diciotto anni, parlava del cuore di Gesù a ogni
singolo assurdo incontro,
dicendo che noi, giovani sopravvissuti al cancro,
ci trovavamo proprio nel sacro cuore di Gesù, e così via. Nel cuore di Dio le cose andavano così:
i sei o sette o dieci che eravamo entravano a piedi/in carrozzina, brucavano una decrepita selezione di biscotti e limonata,
si sedevano nel Cerchio della Fiducia e ascoltavano Patrick raccontare per la millesima volta la sua miserevole,
eprimente storia di vita: di come avesse contratto il cancroalle palle e tutti lo dessero per spacciato, e invece non era morto,
e adesso eccolo lì, un adulto fatto e finito nel seminterrato di una chiesa nella 137esima città più bella d’America, divorziato,
videogamedipendente, praticamente
senza amici, che sbarcava il lunario sfruttando il suo passato canceroso e intanto faceva lenti progressi verso il conseguimento di un
master che non avrebbe migliorato le sue prospettive di carriera, in attesa, come tutti noi, della spada di Damocle che gli avrebbe dato il
sollievo, a cui sì, era davvero sfuggito quel tot di anni prima, quando il cancro gli aveva portato via tutte e due le noccioline ma
gli aveva risparmiato quella
che solol’animo più generoso avrebbe potutochiamare vita.
E ANCHE VOI POTRESTE ESSERE COSÌ FORTUNATI!
Poi noi ci presentavamo. Nome. Età. Diagnosi. E come stavamo quel giorno.
Sono Hazel, dicevo quando toccava a me. Sedici anni. In origine tiroide, ma con una solida e nutrita colonia satellite nei polmoni. Sto così così.
Finite le presentazioni, Patrick chiedeva sempre se c’era qualcuno che voleva esprimere le sue emozioni.
E allora iniziava il sussulto circolare di supporto: tutti che parlavano del loro combattere e battagliare e
vincere e recedere e sottoporsi a esami.
Patrick, gli va dato questo merito, ci lasciava parlare anche di morire. Ma la stragrande maggioranza di loro non stava morendo.
Sarebbero sopravvissuti e diventati adulti, proprio come Patrick. (Il che significava che c’era un bel po’ di competitività al riguardo:
ognuno voleva sconfiggere non solo il cancro,ma anche gli altri presenti nella stanza. Mi rendo conto che è irrazionale,
ma quando ti dicono che hai il 20 per cento di possibilità di vivere per altri cinque anni scatta una specie di gara e ti rendi conto che vuol dire uno su cinque.
Quindi ti guardi intorno e pensi, come farebbe ogni persona sana: devo sopravvivere a quattro di questi bastardi.)

L’unico aspetto positivo del gruppo di supporto era Niall, un tipo con la faccia allungata ma non troppo, la pelle bianca, i capelli biondi e corti e con dei occhi apparentemente blu. E il suo problema erano proprio gli occhi. Aveva un cancro straordinariamente improbabile agli occhi.
​Uno gli era stato tolto da piccolo. Da quanto riuscivo a capire nelle rare occasioni in cui Niall condivideva la sua esperienza
col gruppo, la ricomparsa del male aveva messo il suo unico occhio buono in mortale pericolo.
Io e Niall comunicavamo quasi esclusivamente attraverso sospiri. Ogni volta che qualcuno discuteva delle diete anticancro o
dei benefici della pinna di pescecane, lui mi scoccava un’occhiatina, a cui faceva seguito un microscopico sospiro. Io per tutta
risposta scuotevo la testa in maniera impercettibile e sbuffavo. Il gruppo di supporto, quindi, si era rivelato una gran delusione, e nel giro di poche settimane
sono diventata piuttosto refrattaria rispetto alla faccenda. In effetti, il mercoledì in cui ho fatto la conoscenza di Harry Styles
avevo tentato in tutti i modi di evitare il gruppo di supporto standomene seduta sul divano con mia madre a guardare la terza
parte di una maratona di dodici ore di America’s Next Top Model della passata stagione, che, devo ammetterlo, avevo già visto, ma comunque.
          Io: «Mi rifiuto di andare al gruppo di supporto.»
          Mamma: «Uno dei sintomi della depressione è il disinteresse per le attività.»
          Io: «Ti prego, lasciami guardare America’s Next Top Model. È un’attività.»

          Mamma: «La televisione è una passività.»
          Io: «Oh, mamma, per favore.»
          Mamma: «Hazel, sei un’adolescente. Non sei più una bambina. Hai bisogno di farti degli amici, di uscire di casa e di vivere la tua vita.»
          Io: «Se vuoi che io sia un’adolescente non spedirmi al gruppo di supporto. 
          Comprami una carta d’identità falsa, così posso andare ai club, bere vodka e spararmi un po’ d’erba.»
          Mamma: «L’erba uno non se la spara, tanto per cominciare.»
          Io: «Vedi? Questo è proprio il genere di cose che saprei se tu mi procurassi una carta d’identità falsa.»
          Mamma: «Vai al gruppo di supporto.»           
          Sbuffai pesantemente
          Mamma: «Hazel, ti meriti una vita.»
E con questo mi ha zittito, anche se non riuscivo a vedere come frequentare un gruppo di supporto rientrasse nella definizione di vita.
Comunque mi sono decisa ad andare, dopo aver negoziato il diritto di registrare l’episodio e mezzo di ANTM che mi sarei persa.
Sono andata al gruppo di supporto per lo stesso motivo per cui una volta avevo consentito a certi infermieri con appenaun anno e
mezzo di pratica di avvelenarmi con medicinali dai nomi esotici: volevo fare contenti i miei genitori. C’è solo una cosa al mondo
più merdosa di dover combattere contro il cancro quando hai sedici anni, ed è avere un figlio che combatte contro il cancro.
La mamma si è infilata nel vialetto circolare dietro la chiesa alle 4.56. Io mi sono trastullata un secondo con la bombola d’ossigeno,
giusto per perdere un po’ di tempo.
«Vuoi che te la porti dentro io?»
«No, ce la faccio» ho detto. La bombola verde cilindrica pesava solo pochi chili, e avevo un carrellino di acciaio con le ruote per tirarmela dietro. Mi forniva due litri di ossigeno al minuto attraverso una cannula, un tubo trasparente che si divideva proprio sotto il mio collo, mipassava dietro le orecchie e poi si riuniva vicino alle narici. Il marchingegno era necessario perché i miei polmoni come polmoni facevano schifo.
«Ti voglio bene» ha detto la mamma
«Anch’io. Ci vediamo alle sei.»
«Fatti degli amici!» ha detto dal finestrino abbassato mentre mi allontanavo. Non volevo prendere l’ascensore perché al gruppo di supporto prendere l’ascensore è un po’ la tipica attività da Ultimi Giorni, così ho infilato le scale. Ho preso un biscotto e mi sono versata della limonata in un bicchiere di carta, poi mi sono voltata.
Un ragazzo mi stava fissando.

Ero abbastanza sicura di non averlo mai visto prima. Alto, asciutto e muscoloso, faceva sembrare minuscola la sedia
di plastica da scuola elementare su cui stava. Capelli castani, ricci con un ciuffo all’insù.
Sembrava avere più o meno la mia età, forse un anno di più,
e sedeva con l’osso sacro contro il bordo della sedia, con una postura aggressivamentes bagliata, e una mano mezza
infilata nella tasca dei jeans scuri.
Ho distolto lo sguardo, consapevole di colpo delle mie infinite inadeguatezze. Portavo un paio di vecchi jeans che un tempo
erano stati attillati ma che ormai si afflosciavano in punti improbabili, e una maglietta gialla con il nome di una band che non mi piaceva nemmeno più.
E poi i capelli: avevo questo taglio da paggetto, e non mi ero nemmeno presa la briga di pettinarmi. In più avevo le guance
assurdamente paffute, da scoiattolino, un effetto collaterale delle cure.
Sembravo una persona di normali proporzioni con un pallone al posto della testa. Per non parlare della bombola che mi trascinavo dietro.
Eppure  gli ho lanciato uno sguardo di soppiatto,  e i suoi occhi verdi smeraldo erano ancora su di me. Ho capito perché
lo chiamano contatto visivo. Sono entrata nel cerchio e mi sono seduta vicino a Niall, a due sedie di distanza dal ragazzo.
L’ho guardato di nuovo. Mi stava ancora osservando.
Insomma, diciamolo: era sexy. Se a fissarti in modo ostinato è un ragazzo non sexy, nel migliore dei casi si tratta di una cosa
imbarazzante, nel peggiore è una forma di aggressione. Ma quando lo fa un ragazzo sexy  be’.
Ho preso il telefono per vedere che ora fosse: 4:59. Il cerchio si è riempito degli sfortunati malati dai dodici ai diciott’anni, e
poi Patrick ci ha fatto  cominciare con la preghiera della serenità.
“Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso e la saggezza di capirne la differenza”.
Il ragazzo mi stava ancora guardando. Mi sentivo avvampare. Alla fine ho deciso che la strategia migliore fosse fissarlo a mia volta.
I ragazzi non hanno il monopolio di questa cosa del fissare, dopotutto. Così l’ho guardato apertamente mentre Patrick confessava per
la millesima volta la sua mancanza di palle eccetera eccetera, e ben presto è stata una gara di sguardi.
Dopo un po’ il ragazzo ha sorriso e poi ha distolto i suoi occhi verdi. Quando mi ha guardato di nuovo, io ho inarcato le
sopracciglia come per dire: Ho vinto.Lui si è stretto nelle spalle. Patrick è andato avanti e finalmente è venuto il momento delle presentazioni.

«Niall, forse oggi potresti iniziare tu. So che stai affrontando un momento difficile.»
«Ok» ha detto Niall.
«Mi chiamo Niall. Ho diciassette anni. E pare che mi debba  operare tra un paio di settimane, dopodiché diventerò cieco. Non è che voglio stare qui a lamentarmi né niente, perché so che a molti di voi va peggio ma be’, ecco, essere cieco fa abbastanza schifo. La mia ragazza mi è di aiuto, però. E gli amici come Harry.»
Ha fatto un cenno verso il ragazzo, che adesso quindi aveva acquistato un nome.
«È così» ha continuato Niall. Si guardava le mani, che teneva serrate una contro l’altra come la cima di un tepee.
«Non ci si può far niente.»
«Siamo qui per te,Niall » ha detto Patrick.
«Diciamoglielo, ragazzi.» E noi, in un coro monotono: «Siamo qui per te, Niall.»

Poi è toccato a Michael. Aveva dodici anni. E la leucemia. Ce l’aveva da sempre. Stava così così. (A sentir lui, quantomeno. Aveva preso l’ascensore.)
Lida aveva sedici anni, ed era abbastanza carina perché il ragazzo sexy ne facesse l’oggetto dei suoi sguardi.
Era una frequentatrice abituale, in lunga remissione da un cancro all’appendice, una forma tumorale di cui, prima di conoscere lei,
non sospettavo nemmeno l’esistenza. Ha detto come aveva fatto a tutti gli altri incontri del gruppo a cui avevo partecipato che si sentiva forte, il che, mentre i tubicini dell’ossigeno mi
solleticavano le narici, mi è parso una vanteria. Ne sono dovuti passare altri cinque prima di arrivare a lui.
Quando è venuto il suo turno ha sorriso un po’. Aveva una voce bassa, roca, eccitante da morire.

«Il mio nome è Harry Styels» ha detto.
«Ho diciassette anni. Ho avuto un lieve osteosarcoma un anno e mezzo fa, ma oggi sono qui solo su richiesta di Niall.»
«E come ti senti?» ha chiesto Patrick.
«Oh, a meraviglia.» Harry Styels ha sorriso con un angolo della bocca.
«Sono su una montagna russa che va solo in salita, amico mio.»

Quando è arrivato il mio turno ho detto:
«Mi chiamo Hazel. Ho sedici anni. Tiroide con metastasi polmonari. Sto così così.»
L’ora è passata in fretta. Sono state raccontate lotte, battaglie vinte in mezzo a guerre che sarebbero state certamente perse; ci si è aggrappati a speranze; le famiglie sono state sia celebrate che criticate; si è convenuto sul fatto che gli amici non possono proprio capire;
si sono versate lacrime; è stato elargito conforto. Né io né Harry Styles abbiamo più aperto bocca fino a che Patrick ha detto:
«Harry, forse ti piacerebbe condividere le tue paure con il gruppo.»
«Le mie paure?»
«Sì.»
«Ho paura dell’oblio» ha detto lui senza nemmeno un attimo di esitazione.
«Ne ho paura come il proverbiale cieco aveva paura del buio.»
«Il paragone giusto al momento giusto,
non c’è che dire» è intervenuto Niall, aprendosi in un sorriso.
«Sono stato indelicato?» ha chiesto Harry.
«Mi capita di essere piuttosto cieco in materia di sentimenti altrui.»
Niall stava ridendo, ma Patrick ha alzato un dito in segno di rimprovero e ha detto:
«Harry, per favore, torniamo a te e ai tuoi problemi. Hai detto che hai
paura dell’oblio?»
«Proprio così» ha risposto Harry. Patrick era confuso.
«Qualcuno qualcuno vuole aggiungere qualcosa in proposito?»
 
Erano tre anni che non frequentavo una scuola vera e propria. I miei genitori erano i miei due migliori amici. Il mio terzo migliore amico era un scrittore che non sapeva nemmeno che esistessi. Ero una persona piuttosto timida, non il tipo che alza la mano.
Eppure, solo per quella volta, ho deciso di parlare. Ho alzato la mano appena appena e Patrick, tutto soddisfatto, ha detto subito:
«Hazel!»
Deve aver pensato che finalmente mi stessi aprendo. Che stessi finalmente diventando Parte Del Gruppo.
Ho guardato Harry Styles, che ha ricambiato il mio sguardo. Aveva gli occhi così verdi che ci si poteva quasi perdere dentro.
 
«Verrà un tempo» ho detto
«in cui tutti noi saremo morti. Tutti. Verrà un tempo in cui non ci saranno esseri umani rimasti a ricordare che qualcuno sia mai esistito o che la nostra specie abbia mai fatto qualcosa. Non ci sarà rimasto nessuno a ricordare Aristotele o Cleopatra, figuriamoci te. Tutto quello che abbiamo fatto, costruito, scritto, pensato o scoperto sarà dimenticato, e tutto questo» ho fatto un gesto che abbracciava la stanza
«non sarà servito a niente. Forse quel momento sta per arrivare o forse è lontano milioni di anni, ma anche se noi sopravvivessimo al collasso del nostro sistema solare non sopravviveremmo per sempre. È esistito un tempo prima che gli organismi prendessero coscienza, e ce ne sarà uno dopo. E se l’inevitabilità dell’oblio umano ti preoccupa, ti incoraggio a ignorarla. Sa il cielo se non è quello che fanno tutti.»

Era una cosa, questa, che avevo imparato dal mio summenzionato terzo miglior amico, Peter Van Houten, il misantropo autore di Un’imperiale
afflizione, il libro che era per me una Bibbia. Peter Van Houten era l’unica persona che mi fosse mai capitato di incrociare che (a) sembrava capire che cosa significa davvero stare per morire, e (b) non era morto.
C’è stata una pausa di silenzio abbastanza lunga. E poi un sorriso si è
diffuso su tutto il viso di Harry: non il sorriso ammiccante appena accennato del ragazzo che cercava di fare il sexy con me mentre mi fissava, ma il suo vero sorriso, troppo grande per il suo volto.

«Accidenti» ha detto piano.«Certo che sei un bel tipo.»
 
Nessuno di noi ha detto più niente per il resto dell’incontro. Alla fine, come al solito, ci siamo presi tutti per mano e Patrick ci ha guidato in preghiera.
 
«Cristo Signore, siamo riuniti qui nel Tuo cuore, letteralmente nel Tuo cuore, essendo sopravvissuti al cancro. Tu e tu solo ci conosci come noi ci conosciamo. Guidaci verso la luce nei momenti di difficoltà. Preghiamo per gli occhi di Niall, per il sangue di Michael e Jamie, per le ossa di Harry, per i polmoni di Hazel, per la gola di James. Preghiamo che Tu ci possa guarire e che noi possiamo sentire il Tuo amore e la Tua pace, che supera ogni comprensione. E ricordiamo nel nostro cuore coloro che abbiamo conosciuto e amato e che sono
tornati a casa da Te: Maria, Kade, Joseph, Haley, Abigail, Angelina, Taylor, Gabriel...» Era un elenco lungo. Il mondo contiene
tantissime persone morte. E mentre Patrick continuava, leggendo l’elenco su un foglio dato che era troppo lungo perché potesse ricordarselo a memoria, io ho tenuto gli occhi chiusi, cercando di
concentrarmi sul pregare, ma anche immaginando il giorno in cui il mio
nome si sarebbe fatto largo in quell’elenco, all’ultimo posto, quando ormai non ascoltava più nessuno.
 
Quando Patrick ha finito, abbiamo recitato insieme quello stupido mantra
 
‘VIVERE OGGI LA NOSTRA VITA MIGLIORE’
e siamo stati liberati. Harry si è spinto su dalla sedia e mi è venuto incontro. Aveva un’andatura leggermente sbilenca, come il suo sorriso. Torreggiava su di me, ma si è tenuto un po’ a distanza, così da non costringermi a torcere il collo per
guardarlo negli occhi.

«Come ti chiami?» mi ha chiesto.
«Hazel.»
«No, il tuo nome completo.»
«Uhm. Hazel Grace Lancaster.» Stava per dire qualcos’altro quando Niall si è avvicinato.
«Solo un attimo» ha detto Harry alzando un dito, poi si è rivolto a Niall. «È stato molto peggio di quanto mi avevi detto.»
«Te l’avevo detto che era squallido.»
«Perché ci vieni?»
«Non lo so. Un po’, be’, aiuta.»
Harry si è sporto verso di lui, forse pensando che così non lo avrei sentito.
«Lei è una che viene sempre?»
Non sono riuscita a sentire la risposta di Niall, ma Harry ha ribattuto:
«Sono d’accordo.»
Ha afferrato Niall per le spalle e poi ha fatto mezzo passo indietro.
«Di’ a Hazel della clinica.»
Niall ha posato una mano sul tavolo dei
biscotti e ha puntato i suoi occhi su di me.
«Okay. Dunque, stamattina vado in clinica e dico al chirurgo che preferirei essere sordo che cieco. E lui mi dice: Non è così che funziona, e io, tipo: Sì, mi rendo conto che non funziona così, sto solo dicendo che preferirei essere sordo che cieco, se potessi scegliere, ma lo so che non posso e lui dice: Be’, la buona notizia è che non diventerai sordo e io, tipo: Grazie per avermi spiegato che il mio cancro agli occhi non mi renderà sordo. È una fortuna che un intellettuale della sua levatura si degni di operarmi. »
«Che genio» ho detto.
«Cercherò di farmi venire un cancro agli occhi solo per poter conoscere questo tipo.»
«In bocca al lupo, allora. Devo andare. Monica mi sta aspettando. Devo guardarla un sacco finché posso.»
«Counterinsurgence domani?» ha chiesto
Harry.
         «Certo.» Niall si è voltato e si è avviato verso l’uscita, facendo due scalini alla volta.
          Harry Styles si è girato verso di me.
        «Letteralmente» ha detto.
        «Letteralmente?» ho chiesto.
        «Siamo letteralmente nel cuore di Gesù» ha detto.
        «Pensavo che fossimo nel seminterrato di una chiesa, ma siamo letteralmente nel cuore di Gesù.»
        «Qualcuno dovrebbe dirglielo, a Gesù» ho fatto io.
        «Dev’essere un bel rischio per Lui tenere nel cuore dei ragazzini malati di cancro.»
        «Glielo direi io» ha ribattuto Harry,
        «ma si dà il caso che sia letteralmente incastrato dentro il Suo cuore, per cui non mi sentirebbe.» Ho riso. Lui ha scosso la testa e mi ha guardato.
        «Cosa c’è?» ho chiesto.
        «Niente» ha detto.
        «Perché mi guardi così?»
        Harry ha fatto un mezzo sorriso.
       «Perché sei bella. Mi piace guardare la gente bella, e poco fa ho deciso di non negarmi i semplici piaceri della vita.»
        Poi un breve silenzio impacciato. Harry l’ha interrotto:
        «Voglio dire, dato che, come tu hai fatto così deliziosamente notare, tutto questo finirà nell’oblio e via dicendo.»
         Mi è scappato un verso, o un sospiro, o una cosa che sembrava vagamente un colpo di tosse, non so bene neanch’io, e poi ho detto: «Non sono bel.. »
        «Sei la Natalie Portman della generazione Y. La Natalie Portman di V per Vendetta, dico.»
         «Non l’ho visto» ho detto.
         «Davvero?» ha chiesto.
         «Ragazza bellissima coi capelli da folletto
disprezza l’autorità e non riesce a evitare di innamorarsi di un ragazzo pur sapendo che le porterà solo dei guai. È la tua autobiografia, per quel che ne so.»
Ogni sua sillaba flirtava. Dico sul serio, mi eccitava. Non avevo idea che i ragazzi potessero eccitarmi cioè, non nella vita vera. Una ragazzina più piccola ci è passata vicino.
«Come va, Alisa?» le ha chiesto lui. Lei ha sorriso e borbottato:
«Ciao, Harry.»
«Una del Memorial» ha spiegato lui. Il Memorial era il grande ospedale coi laboratori di ricerca.
«Tu in quale vai?»
«Al Pediatrico» ho detto, con voce più esile di quanto mi aspettassi. Lui ha annuito. La conversazione è parsa finire lì.
«Be’» ho detto, accennando agli scalini che ci portavano fuori dal Cuore Letterale di Gesù. Ho inclinato il carrellino sulle ruote e ho cominciato acamminare. Lui si è messo a zoppicarmi accanto.
«Ci vediamo la prossima volta, magari?» gli ho chiesto.
«Dovresti vederlo» ha detto.
«V per Vendetta, intendo.»
«Okay» ho detto.
«Me lo procurerò.»
«No. Con me. A casa mia» ha detto.
«Adesso.» Mi sono fermata.
«Quasi non ti conosco, Harry Styles. Potresti essere un assassino psicopatico.»
Lui ha annuito. «Okay, Hazel Grace.»

Mi è passato davanti, il passo leggermente aritmico sul lato destro, mentre camminava sicuro e baldanzoso su quella che ero
sicura fosse una gamba finta. L’osteosarcoma a volte ti prende un arto per scoprire chi sei. Se poi gli piaci, si prende il resto.
L’ho seguito di sopra, perdendo terreno dato che salivo lentamente: le scale non sono il posto ideale per i miei polmoni.
E poi eccoci fuori dal cuore di Gesù, nel parcheggio, con l’aria di primavera perfetta seppure un po’ pungente, la luce del
tardo pomeriggio paradisiaca e struggente.La mamma non c’era ancora: strano, perché era quasi sempre lì ad aspettarmi.
Mi sono guardata intorno e ho visto che una ragazza bruna, alta e formosa aveva bloccato Niall contro il muro di pietra della chiesa e
lo stava baciando in modo piuttosto aggressivo. Non erano molto lontani, tanto che riuscivo a sentire gli strani rumori che facevano le loro bocche unendosi, e lui
che diceva «Sempre» e lei che diceva «Sempre» in risposta.

Harry mi è spuntato accanto tutto di colpo, e ha sussurrato:
«Credono fermamente nelle pubbliche manifestazioni di affetto.»
«Perché quei sempre?»
I rumori di lingue attorcigliate sono cresciuti.
«Sempre è la loro parola. Si ameranno per sempre e così via. In un calcolo approssimativo per difetto, direi che si
sono messaggiati la parola sempre quattro milioni di volte nell’ultimo anno.» Sono arrivate altre due auto, che hanno portato via Michael e Alisa. Eravamo rimasti solo io e Harry, e guardavamo Niall e Monica che si davano da fare come se non fossero schiacciati contro un luogo di culto. La mano di lui ha cercato la tetta di lei sopra la maglietta e l’ha stretta, il palmo fermo, le dita che esploravano tutto intorno. Chissà se era una bella sensazione. A vederla così non sembrava, ma ho deciso di perdonare Niall sulla base del fatto che stava per diventare cieco. I sensi devono gioire finché sono in tempo.

«Immagina di fare quell’ultimo viaggio in ospedale»
ho detto piano.
«L’ultima volta che potrai guidare un’auto.»
Senza voltarsi a guardarmi, Harry ha detto:
«Così mi ammazzi le vibrazioni, Hazel Grace. Sto cercando di contemplare un amore giovane in tutta la sua splendida goffaggine.»
«Credo che le stia facendo male alla tetta» ho detto.
«Sì, non si capisce se stia cercando di eccitarla o di farle un esame diagnostico al seno.» Poi Harry si è infilato la mano in tasca e di tutte le cose possibili ha tirato fuori un pacchetto di sigarette. Ha fatto scattare il coperchio e si è messo una sigaretta fra le labbra.
«Non ci posso credere» ho detto.
«Pensi che sia figo? Oh, mio Dio, hai appena rovinato tutto.»
«Tutto cosa?» mi ha chiesto, voltandosi verso di me. La sigaretta gli pendeva spenta dall’angolo non sorridente della bocca.
«Quel tutto per cui un ragazzo che è non poco attraente e non poco intelligente, insomma, non inaccettabile, mi fissa e sottolinea un uso scorretto della letteralità e mi paragona a un’attrice e mi chiede di andare a vedere un film a casa sua. Ma naturalmente c’è sempre
una hamartia, e la tua evidentemente è questa. Voglio dire, anche se AVEVI UN DANNATO CANCRO, dai soldi a una multinazionale del tabacco in cambio della possibilità di farti venire ANCORA PIÙ CANCRO. Oh, mio Dio. Lasciami solo dirti che non essere in grado di respirare sai cosa fa? SCHIFO. Che delusione. Che delusione totale.»
«Una hamartia?» ha detto lui, la sigaretta ancora in bocca. Gli faceva sporgere più in fuori la mascella. E aveva una mascella fantastica,
purtroppo.
«Un’imperfezione fatale» ho detto, voltandomi dall’altra parte.

Sono partita verso il marciapiede lasciandomi Harry Styles alle spalle, e a quel punto ho sentito una macchina arrivare. Era la mamma. Aveva aspettato che io mi facessi degli amici o roba del genere.
Ho sentito una miscela di delusione e rabbia montarmi dentro. Non so nemmeno che sentimento fosse, davvero, so solo che ce n’era tanto, e volevo tirare ad Harry Styles uno schiaffo ma anche scambiare i miei polmoni con due polmoni che non facessero schifo. Ero lì in piedi con le mie All Stars sul ciglio del marciapiede, la bombola di ossigeno fissata al carrellino, e nel momento in cui mia madre è arrivata ho sentito una mano afferrare la mia. Ho dato uno strattone per liberarmi, ma mi sono voltata verso di lui.

«Non ti uccidono, se non le accendi» ha detto mentre la mamma fermava l’auto praticamente attaccata al cordolo.
«E non ne ho mai accesa una. È una metafora, sai: ti metti la cosa che uccide fra i denti, ma non le dai il potere di farlo.»
«È una metafora» ho detto, dubbiosa. La mamma temporeggiava.
«Proprio così, una metafora» ha detto lui.
«E quindi tu ti comporteresti in un modo rispetto a un altro sulla base delle risonanze metaforiche» ho detto.
«Oh, sì.» Ha sorriso. Il suo sorriso largo, quello vero, quello buffo.
«Sono un devoto credente nella metafora, Hazel Grace.»
Mi sono voltata verso l’auto. Ho dato un colpetto al finestrino. Si è abbassato.
«Vado a vedere un film con Harry Styles» ho detto.
«Per favore, registrami i prossimi episodi della maratona di ANTM.»

 




 ( John Green- Colpa delle stelle)


oblio: Dimenticanza prolungata, completa; perdita di ogni memoria, cancellazione del ricordo

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Capitolo 3
*** Capitolo due ***


 The Faul in Our Stars  (Colpa delle stelle)


 

I libri erano i Mollati supremi: li abbandoni e loro ti aspettano in eterno;
se ti affezioni, loro ti ricambiano per sempre.


- John Green
 



                                                                                              


Capitolo due


Harry Styles guidava in modo raccapricciante. Che si fermasse o ripartisse, era tutto un tremendo SBALLOTTAMENTO.
Finivo in avanti con le cinture di sicurezza che mi segavano ogni volta che posava il piede sul freno del suo SUV Toyota, e il mio
collo veniva sbattuto indietro ogni volta che dava gas. Avrei dovuto essere agitata in fondo ero in macchina con un
ragazzo strano, destinazione casa sua, sapevo bene che i miei polmoni spappolati avrebbero complicato ogni
sforzo di tenere a bada avances indesiderate ma Harry aveva una guida talmente mediocre che non
riuscivo a pensare a nient’altro. Abbiamo percorso forse un miglio in un silenzio imbarazzato prima che Harry
dicesse:
«Mi hanno bocciato tre volte all’esame di guida.»
«Ma non dirmi.» Ha riso e annuito.
«Be’, non sento la pressione nella prostata e non riesco ad abituarmi a guidare con il sinistro. I miei 
medici dicono che la maggior parte degli amputati riesce a guidare senza problemi, ma
be’, io no.  Ad ogni modo, vado a dare l’esame per la quarta volta, e guido più
o meno come adesso.»
Mezzo miglio davanti a noi si è accesa una luce rossa. Harry ha inchiodato, scagliandomi
nell’abbraccio triangolare della cintura di sicurezza.
«Scusa. Giuro su Dio che sto cercando di essere delicato. Insomma, alla fine dell’esame sono
praticamente sicuro che mi bocceranno un’altra volta, ma l’istruttore dice tipo:
Hai una guida sgradevole, ma non tecnicamente insicura. »
«Temo di non pensarla così» ho detto io.
«Sospetto un Premio Cancro.» I Premi Cancro sono le piccole cose che i bambini col cancro ottengono e quelli
normali no: palloni da pallacanestro firmati dagli eroi sportivi, giustificazioni per compiti non fatti,
patenti di guida immeritate ecc.
«Sì» ha detto lui. Il semaforo è diventato verde. Mi sono preparata. Harry è partito a razzo.
«Sai, ci sono le auto con il cambio a mano, per quelli che non possono usare le gambe» gli ho fatto notare.
«Sì» ha detto. «Forse, un giorno.» Ha sospirato in un modo che mi ha indotto a
chiedermi se credesse davvero all’esistenza di un giorno. Sapevo che l’osteosarcoma è altamente curabile,
eppure c’è tutta una serie di modi per stabilire in maniera approssimativa le aspettative
di sopravvivenza di qualcuno senza chiederglielo apertamente. Io sono ricorsa al classico
«E allora, vai a scuola?»
Di solito a un certo punto i tuoi ti tolgono dalla scuola, se si aspettano che tu non abbia speranze.
«Sì» ha detto.
«Vado alla North Central. Sono un anno indietro, però. E tu?»
Per un attimo ho pensato di mentire. Nessuno ama i cadaveri, dopotutto. Ma alla fine ho detto la verità.
«No, i miei mi hanno ritirata tre anni fa.»
«Tre anni?» ha detto, stupito.
Ho raccontato ad Harry del mio miracolo: diagnosi di cancro alla tiroide in fase IV a tredici anni. (Non gli ho
detto che la diagnosi era arrivata tre mesi dopo la mia prima mestruazione.
Tipo: Congratulazioni! Sei una donna. Adesso muori.) Era, ci fu detto, incurabile. Fui sottoposta a un’operazione chiamata
dissezione radicale del collo che è piacevole tanto quanto il nome che porta. Poi radioterapia. Poi provarono
un po’ di chemio per i tumori ai polmoni. I tumori dapprima si restrinsero, poi crebbero. A quel punto
avevo compiuto quattordici anni. I polmoni iniziarono a riempirsi d’acqua.
Incominciai ad avere un aspetto piuttosto mortifero: mani e piedi mi si gonfiarono;
la pelle si screpolava; avevo le labbra sempre blu. C’è un farmaco che allevia il panico che ti prende quando non riesci a respirare,
e me ne iniettarono un bel po’ con la flebo, insieme a un’altra decina e passa di medicine varie. Ma
anche così ti rimane lo stesso un po’ la sensazione di affogare, che non è molto bello, soprattutto quando ce l’hai
ininterrottamente per mesi e mesi. Poi finii all’ospedale con la polmonite, e mia madre in quei giorni stava seduta accanto al mio letto e diceva: Sei
pronta, tesoro? e io le dicevo che ero pronta, e mio padre diceva solo che mi voleva bene con questa voce che non è che stava per spezzarsi, era già
completamente rotta, e ci tenevamo per mano, e io non riuscivo a respirare e i miei polmoni lavoravano disperati,
annaspando, costringendomi a scendere dal letto alla caccia di una posizione che mi permettesse di far arrivare loro più
aria, e io ero imbarazzata per quanto fossero disperati a fare il loro dovere, ma anche disgustata per il fatto che non
mollavano e basta, e ricordo la mamma che diceva va tutto bene, è tutto a posto, starai bene, e mio padre che cercava in
tutti i modi di non singhiozzare, perché quando lo faceva, cioè sempre, era come un terremoto. E ricordo di aver
desiderato di non svegliarmi più. Tutti credevano che per me fosse ormai giunta la fine, ma la mia oncologa Maria
riuscì a estrarre un po’ del liquido dai polmoni e di lì a poco gli antibiotici che mi avevano dato per la polmonite fecero
effetto. Mi svegliai, e fui inserita in una di quelle terapie sperimentali che nella Repubblica di Cancrolandia sono
famose per Non Funzionare. Il farmaco era il *Phalanxifor, una molecola concepita per attaccarsi alle cellule
cancerogene e rallentarne la crescita. Non funzionava in circa il 70 per cento delle persone. Ma nel mio caso
funzionò. I tumori regredirono. E si stabilizzarono. Viva il Phalanxifor! Negli ultimi diciotto mesi le mie
metastasi non sono praticamente cresciute, lasciandomi con due polmoni che come polmoni fanno schifo, ma che
possono tirare avanti a tempo indeterminato con il supporto di inalazioni di ossigeno e di dosi giornaliere di Phalanxifor.
Alla fine il mio miracolo canceristico si era tradotto in un po’ di tempo guadagnato. (Non sapevo ancora quanto.) Ma nel raccontarlo ad Harry Styles 
ho dipinto il quadro più roseo possibile, infiorettando la miracolosità del miracolo.
«Quindi adesso devi tornare a scuola»
ha detto lui.
«In realtà non posso» ho spiegato
«perché ho già preso il diploma di maturità, da privatista. Quindi seguo dei corsi al college locale.»
«Una ragazza da college» ha detto facendo sì con la testa.
«Questo spiega quell’aria sofisticata.» Mi ha guardato sogghignando. Io gli ho dato un colpetto per scherzo sul braccio. Ho sentito il
muscolo sotto la pelle, teso e sbalorditivo.
Ci siamo infilati con uno stridio di ruote in una strada residenziale, piena di case dai muri decorati a stucco. La sua era la prima a sinistra.
Stile coloniale, due piani. Ci siamo fermati nel cortiletto inchiodando. L’ho seguito dentro. All’ingresso, una
targa di legno recava incise le parole ‘’La casa è dove si trova il cuore’’, ma tutte le stanze parevano tappezzate di sentenze
simili. ‘’I buoni amici sono difficili da trovare e impossibili da dimenticare’’, si leggeva in un’illustrazione sopra
l’appendiabiti. ‘’L’amore vero nasce dalle difficoltà’’, prometteva un cuscino ricamato a punto croce nel salotto
arredato all’antica. Harry si è accorto che leggevo.
«I miei li chiamano Incoraggiamenti» ha spiegato.
«Ce ne sono dappertutto.»
Sua madre e suo padre stavano preparando delle enchiladas in cucina (su un vetro colorato sopra il lavandino c’era scritto, a lettere in rilievo,
‘’La famiglia è per sempre’’). Sua madre metteva il pollo nelle tortillas, che suo padre poi arrotolava e sistemava in una terrina da
forno. Non sono parsi troppo sorpresi del mio arrivo, il che aveva senso: il fatto che Harry mi facesse sentire speciale non
indicava necessariamente che lo fossi.
Forse portava a casa una ragazza diversa ogni sera per farle vedere un film e metterle le mani addosso.
«Questa è Hazel Grace» ha detto, per presentarmi.
«Solo Hazel» ho detto io.
«Come va, Hazel?» ha detto il padre di Harry. Era alto quasi come Harry, e magrolino, come di solito non sono le persone
abbastanza anziane da essere genitori.
«Non c’è male» ho detto.
«Com’è stato il gruppo di supporto di Niall?»
«Da non crederci» ha detto Harry.
«Sei un tale disfattista» ha detto sua madre.
«Hazel, a te è piaciuto?»
Ho preso tempo, cercando di capire se la mia risposta doveva piacere ad Harry o ai suoi.
«Sono quasi tutti simpatici» ho detto alla fine.
«È quello che abbiamo constatato anche noi con le famiglie al Memorial, nei momenti più difficili della terapia di Harry» ha detto suo padre.
«Erano tutti così gentili. E forti, anche. Nei giorni più bui, il Signore fa entrare nella tua vita le persone migliori.»
«Svelto, dammi un cuscino e un po’ di filo, perché questo deve diventare un Incoraggiamento» ha detto Harry, e
suo padre è parso un po’ infastidito, ma poi Harry gli ha passato il lungo braccio intorno al collo e ha detto:
«Sto scherzando, papà. Mi piacciono quegli assurdi incoraggiamenti. Davvero. Solo che non posso ammetterlo, perché sono
un adolescente.» Suo padre ha alzato gli occhi al cielo.
«Ti fermi con noi a cena, spero» ha detto sua madre. Era di mezza altezza, bruna e con un sorriso tale e quale a quello del figlio.
«Forse» ho detto.
«Devo essere a casa alle dieci. Inoltre non, ehm, non mangio carne»
«Nessun problema. Ne vegetarianizziamo alcune» ha detto lei.
«È perché gli animali sono troppo carini?» mi ha chiesto Harry.
«Vorrei minimizzare il numero di morti di cui sono responsabile» ho detto.
Harry ha aperto la bocca per rispondere, ma poi si è bloccato.
Sua madre ha colmato il silenzio.
«Be’,mi pare una cosa bellissima.»
Hanno parlato per un po’ di come le enchiladas fossero le famose enchiladas dei Waters, Enchiladas Da Non Perdere,
e di come il coprifuoco fosse alle dieci anche per Harry, e che non si fidavano di nessuno che desse ai propri figli un
coprifuoco diverso dalle dieci, e mi hanno chiesto se andavo a scuola
«Va al college» è intervenuto Harry e hanno detto che il tempo era veramente e
assolutamente straordinario per essere marzo, e che in primavera tutte le cose sono nuove, e non mi hanno chiesto
nemmeno una volta del mio ossigeno o della mia diagnosi, cosa stranissima e
meravigliosa, e poi Harry ha detto:
«Io e Hazel andiamo a guardare V per Vendetta così lei può vedere il suo doppio cinematografico,
la Natalie Portman dei metà anni Duemila.»
«La tivù del salotto è tutta vostra, se volete usarla» ha detto in tono allegro
suo padre.
«Penso che in realtà lo guarderemo di sotto.» Suo padre ha riso.
«Bel tentativo. Ma è meglio in salotto.»
«Ma voglio far vedere a Hazel Grace il seminterrato» ha detto Harry.
«Solo Hazel» ho detto io.
«Allora mostra a Solo-Hazel il seminterrato» ha detto suo padre.
«E poi venite di sopra e guardate il film in salotto.»
Harry ha sbuffato, e tenendosi in equilibrio su una gamba ha ruotato i fianchi, spingendo così la protesi in avanti.
«Va bene» ha borbottato.
L’ho seguito giù per scale su cui c’era la moquette fino a un’enorme camera da letto nel seminterrato. Una mensola ad
altezza occhi correva tutto intorno alla stanza ed era piena di cimeli di pallacanestro: foto, decine di trofei con omini
laccati in oro immortalati a metà salto, o mentre palleggiavano, o lanciati verso un invisibile canestro. C’erano anche un
sacco di palloni e scarpe autografati.
«Giocavo a pallacanestro» ha detto.
«Dovevi essere piuttosto bravo.»
«Non ero male, ma tutte le scarpe e i palloni sono Premi Cancro.»
Si è avvicinato alla tivù, dove una pila enorme di DVD e videogiochi era sistemata in forma vagamente piramidale.
Si è chinato per sfilare V per Vendetta.
«Ero un po’ l’archetipo del ragazzo cresciuto in Indiana» ha detto,
«tutto impegnato nel tentativo di riesumare la perduta arte del tiro in sospensione. Un giorno però ero nella
palestra della North Central ad allenarmi ai tiri liberi, fermo all’altezza della lunetta, quando tutto d’un tratto non
sono più riuscito a spiegarmi perché me ne stavo lì a lanciare metodicamente un oggetto sferico all’interno di un altro
oggetto toroidale. Mi è sembrata la cosa più stupida del mondo. Ho cominciato a pensare ai bambini
piccoli che provano a infilare una forma cilindrica dentro un buco circolare, e a come lo fanno sistematicamente per mesi
e mesi finché non capiscono come funziona, e che la pallacanestro è essenzialmente una versione solo un po’ più aerobica dello stesso esercizio.
Comunque, ho continuato a cercare di infilare un pallone dietro l’altro, ho fatto otto canestri di fila, il mio record di
sempre, ma più andavo avanti e più mi sembrava di assomigliare a un bambino
di due anni. E poi per qualche motivo ho incominciato a pensare agli ostacolisti. Stai bene?»
Mi ero seduta nell’angolo del suo letto disfatto. Non stavo cercando di essere allusiva né niente. È solo che mi stanco
quando sto in piedi per molto tempo. Ero stata in piedi in salotto, e poi c’erano state le scale, e poi ancora lì nel
seminterrato, il che era stare in piedi un sacco, per me, e non volevo svenire. Ero
un po’ una lady vittoriana, rispetto allo svenire.
«Sto bene» ho detto. «Ti ascolto. Gli ostacolisti?»
«Sì, gli ostacolisti. Non so perché. Ho iniziato a pensare a loro e alle corse a ostacoli, in cui saltano sopra questi
oggetti totalmente arbitrari che sono stati messi sul loro cammino. E mi sono chiesto se gli ostacolisti si dicono mai
cose come Faremmo molto più in fretta se solo ci sbarazzassimo di questi aggeggi.»
«Questo è stato prima della tua diagnosi?» gli ho chiesto.
«Be’, sì, c’entra anche quella.» Hasorriso con un angolo della bocca.
«Il giorno dei tiri liberi esistenzialmente pregni è stato anche, casualmente, il mio
ultimo giorno di vita su due gambe. Da quando mi hanno fissato l’amputazione
al giorno in cui è successo è passato un weekend. Il mio personale vago barlume di ciò che sta passando Niall.»

Ho annuito. Mi piaceva Harry Styles. Mi piaceva proprio ma proprio tanto.
Mi piaceva che la sua storia finisse con qualcun altro. Mi piaceva la sua voce.
Mi piaceva che avesse fatto tiri liberi esistenzialmente pregni. Mi piaceva che fosse un docente del
Dipartimento dei Sorrisi Leggermente Truffaldini con una nomina anche presso il Dipartimento dell’Avere una Voce
Che Fa Sentire la mia Pelle come una Vera Pelle.
«Hai fratelli o sorelle?» ho chiesto.
«Eh?» ha risposto, un po’ distratto.
«Hai detto quella cosa sui bambini che giocano.»
«Ah, sì. No. Ho dei nipoti, i figli delle mie sorelle da parte di mio padre. Le mie sorelle però sono molto più grandi.
Hanno...PAPÀ, QUANTI ANNI HANNO JULIE E GEMMA?»
«Ventotto!»
«Hanno ventotto anni. Vivono a Chicago. Sono tutte e due sposate con eleganti avvocati. O banchieri.
Non ricordo. Tu hai fratelli o sorelle?»
Ho scosso la testa per dire di no.
«Allora, raccontami di te» mi ha detto, sedendosi accanto a me a distanza di sicurezza.
«Ti ho già raccontato di me. Mi hanno diagnosticato»
«No, non del tuo cancro. Di te. Interessi, hobby, passioni, feticci strani, e via dicendo.»
«Mmm» ho detto.
«Non dirmi che sei una di quelle persone che diventano la loro malattia.
Conosco così tanta gente di quel tipo. È sconfortante. Come se il cancro fosse la cosa che conta. La cosa che conta più
delle persone. Ma certo tu non hai lasciato che vincesse prematuramente lui, giusto?»
Mi è venuto da pensare che forse invece sì. Mi sforzavo di capire come presentarmi ad Harry, quali
entusiasmi comunicargli, e nel silenzio che è seguito mi è venuto da pensare che non ero interessante.
«Sono piuttosto ordinaria.»
«Questo lo rifiuto in blocco. Pensa a qualcosa che ti piace. La prima cosa che ti viene in mente.»
«Mmm. Leggere?»
«Che cosa leggi?»
«Tutto. Cioè, dai romanzi d’amore stupidi alla narrativa pretenziosa alla poesia. Tutto.»
«Scrivi anche poesie?»
«No.»
«Vedi!» Harry l’ha quasi gridato.
«Hazel Grace, sei l’unica adolescente in America che preferisce leggere poesia invece che scriverla. Questo mi dice
tantissimo di te. Ci scommetto che leggi un sacco di libri con la L maiuscola, vero?»
«Immagino»
«Qual è il tuo preferito?»
«Mmm» ho detto.
Il mio libro preferito era 'Un’imperiale afflizione', ma non mi andava di
raccontarlo in giro. A volte leggi un libro e ti riempie di uno strano zelo evangelico che ti convince che il mondo
frantumato che ti circonda non potrà mai ricomporsi a meno che, o fino a quando, tutti gli esseri umani non avranno letto
quel libro. E poi ci sono libri come Un’imperiale afflizione, di cui non puoi parlare con l’altra gente, libri così
speciali e rari e tuoi che sbandierare il tuo amore per loro sembrerebbe un tradimento.
Non era nemmeno che il libro fosse così bello.
Era solo che l’autore, Peter Van Houten, sembrava capirmi in strani, impossibili modi.
Un’imperiale afflizione era il mio libro, nel modo in cui il mio corpo era il mio corpo, e i miei pensieri i miei pensieri.
Eppure l’ho detto ad Harry.
«Il mio libro preferito probabilmente è 'Un’imperiale afflizione'.»
«Ci sono degli zombie?» mi ha chiesto.
«No» ho detto.
«Soldati speciali?»
Ho scosso la testa.
«Non è quel tipo di libro.»
Ha sorriso.
«Leggerò anch’io questo terribile libro con un titolo noioso che non contiene nemmeno dei soldati speciali»
ha promesso, e ho capito che non avrei dovuto dirglielo. Harry si è proteso verso una pila di libri accanto al
suo comodino. Ha preso un tascabile e una penna. Mentre scarabocchiava
qualcosa sul frontespizio ha detto:
«Tutto quello che chiedo in cambio è che tu legga questa brillante e spaventevole versione romanzata del mio videogioco preferito,
The Price of Dawn». Ho riso e l’ho preso.
Le nostre mani si sono pasticciate un po’ nel passaggio del libro, e poi lui me ne ha presa una.
«Fredda» ha detto, facendo pressione con un dito sul mio polso pallido.
«Non tanto fredda quanto sottossigenata» ho detto.
«Adoro quando mi parli usando il linguaggio medico» ha detto. Si è alzato e mi ha trascinato su con sé, e non mi ha
lasciato andare la mano finché non abbiamo raggiunto le scale.
Abbiamo guardato il film divisi da diversi centimetri di divano. Ho fatto la mossa da scuole medie in cui metti una
mano sul divano a metà strada tra te e lui per fargli capire che va bene se te la
prende, ma lui non ci ha provato. Dopo un’ora di film i genitori di Harry sono entrati e ci hanno servito le enchiladas, che abbiamo mangiato sul
divano, ed erano deliziose. Il film parla di questo tizio mascherato che muore eroicamente per Natalie
Portman, che è davvero brava e molto sexy e non c’entra niente con la mia faccia gonfia di steroidi.
Ai titoli di coda lui ha detto:
«Bello, eh?»
«Bello, sì» ho concordato, anche se non lo pensavo, in realtà.
Era più un film per maschi. Non so perché i ragazzi si aspettano che a noi piacciano i film per loro.
Noi non ci aspettiamo che a loro piacciano i film da ragazze.
«Dovrei andare a casa. Domattina ho lezione» ho detto.
Sono rimasta seduta sul divano mentre Harry cercava le chiavi. Sua madre mi si è seduta accanto e ha detto:
«Quello è proprio bello, non trovi?»
Forse credeva che stessi fissando l’Incoraggiamento sopra il televisore: un disegno di un angelo con la scritta Senza
dolore come possiamo conoscere la gioia?
(È una vecchia argomentazione nel campo della Riflessione sulla Sofferenza, e la sua stupidità o scarsa
sottigliezza potrebbe essere sondata per secoli, ma basterà dire che l’esistenza dei broccoli non influisce affatto sul sapore della cioccolata.)
«Sì» ho detto.
«Un bel pensiero.»
Ho guidato io l’auto di Harry fino a casa, con lui sistemato sul sedile del passeggero. Harry mi ha fatto ascoltare un paio di canzoni che gli
piacevano, di un gruppo chiamato The Hectic Glow, ed erano belle, ma siccome non le conoscevo non erano
belle per me quanto per lui. Ho continuato a lanciare occhiate alla sua gamba, o al posto in cui prima c’era la sua gamba, cercando di immaginare
come dovesse essere quella finta. Non volevo che fosse importante, ma un po’ lo era. Forse per lui era lo stesso col
mio ossigeno. La malattia respinge. L’avevo imparato molto tempo prima, e sospettavo che anche per Harry fosse così.
Quando ho svoltato nel cortile di casa mia, Harry ha spento la radio. L’aria
si è addensata. Probabilmente pensava se baciarmi o no: io lo facevo di sicuro.
Mi chiedevo se lo volevo. Avevo baciato dei ragazzi, ma era stato molto
tempo prima. Pre-miracolo. Ho spento il motore e l’ho guardato. Era
proprio bello. So che i ragazzi di solito non lo sono, ma lui sì.
«Hazel Grace» ha detto, il mio nome
suonava nuovo e migliore in bocca a lui.
«È stato un vero piacere fare la tua conoscenza.»
«Anche per me, signor Styles» ho detto io. Mi intimidiva guardarlo. Non riuscivo a sostenere l’intensità dei suoi occhi verdi kryptonite.
«Ti posso rivedere?» mi ha chiesto.
C’era un tenero nervosismo nella sua voce. Ho sorriso.
«Certo.»
«Domani?» ha chiesto.
«Come corri» ho detto. «Non vorrai sembrare troppo impaziente.»
«È ben per quello che ho detto domani» ha detto.
«Io vorrei rivederti stanotte. Ma sono disposto ad aspettare tutta la notte e molta parte di domani.»
Ho alzato gli occhi al cielo.
«Non sto scherzando» ha detto.
«Non mi conosci neanche» ho detto. Ho preso il libro dal cassetto dell’auto.
«E se ti chiamo quando ho finito questo?»
«Ma non hai nemmeno il mio numero di telefono» ha detto.
«Ho il forte sospetto che tu lo abbia scritto nel libro.»
Si è aperto in quel suo sorriso sbilenco.
«E poi dici che non ci conosciamo ancora.»




- John Green 


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*Phalanxifor: In questo romanzo la malattia e la sua cura sono trattate in modo fittizio. Per esempio, non esiste niente che si chiami Phalanxifor

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