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La facciata del tempio era spoglia e rovinata, nonostante le cure che la Grecia moderna aveva per le opere di antica e pregevole architettura, come quella. La storia e il tempo avevano avuto ragione del mito, alla fine.
L’uomo serrò i pugni. Non sarebbe stato così per sempre.
Presto l’Era degli Dèi sarebbe sorta a nuovo splendore, a cancellare con la sua solennità e bellezza quell’epoca stanca e arida.
“Madre Hera”, sussurrò, lo sguardo puntato alle rovine e si sentì più determinato che mai.
Aveva dovuto attendere la notte, per avvicinarvisi. Non desiderava essere visto e aveva bisogno di agire indisturbato.
Con le stelle brillanti su di sé e la luna nuova, per propiziare il rito, salì le scale corrose e s’inoltrò nell’Heranion.
Camminò nell’erba, tra le pietre larghe e bianche. Ecco le colonne spezzate. Il pronahos, tracciato a terra appena, come se non fosse stato un monumento maestoso e sfarzoso, simbolo dell’autorità della regina degli dèi. Serrò le labbra.
Seguì il tracciato a terra, tra l’erbe e le pietre, sotto le stelle. Ed ecco la cella più interna.
Chiuse gli occhi e cercò in sé la scintilla del proprio potere. In risposta, la terra vibrò.
Ascoltò quel vibrare come fosse un canto antico, poi pose a terra il ginocchio destro, sul lastrone di marmo, al riparo di una colonna spezzata. Toccò con i polpastrelli delle dita e la sua espressione corrucciata si addolcì. Madre Hera. E’ tempo di risvegliarsi, madre Hera.
Appoggiò anche l’altro ginocchio e sedette sui talloni. Alzò lo sguardo al cielo e gli occhi scuri mandarono un brillio, alla luce delle stelle.
Li chiuse. Rimase in ginocchio per interminabili minuti, poi si alzò e dispose in cerchio le candele, attorno al nahos.
Shion si svegliò di soprassalto, al Tredicesimo Tempio.
Levandosi di scatto fece una smorfia, quando il suo corpo anziano, irrigidito dal sonno, tentò di protestare per le pretese del Pontefice.
“Sia dannato Hades”, borbottò acido. Non si diede pena di indossare i paramenti sacerdotali, né di svegliare alcun servitore preposto alla sua cura. Gettò invece alle spalle l’enorme massa dei capelli e assottigliò gli occhi viola, raggiungendo la finestra. Che accidenti stava succedendo?
Il rito durò fino a poche ore prima dell’alba.
Quando depose a terra il gioiello, le pietre marmoree della pavimentazione emanarono energia fredda, come se lo reclamassero per loro.
Il guerriero sussultò. Sapeva ciò che era venuto a fare ed era pronto, ciononostante il potere che attraversò la terra e il suo corpo lo colmò tanto da spiazzarlo.
Quel gioiello di smeraldo e d’argento che ricalcava la forma stilizzata di un pavone, sacro ad Hera, era stato forgiato da Efesto – diceva la leggenda - per la madre, ai tempi del mito. Hera aveva sempre sottovalutato il figlio deforme, ma aveva amato tanto quel dono da ricongiungersi con lui.
“Ha amato tanto questo dono da sceglierlo come rifugio, culla per il suo sonno in tutti questi secoli”. Rabbrividì d’eccitazione. Suo Sacerdote, suo il compito di riportarla alla vita.
Salmodiò a voce bassa ritualità antiche, in un greco così arcaico da faticare egli stesso a riconoscerne i vocaboli.
Non ti ho invitata, Hera, a benedire la mia vita.
Non ho riconosciuto la bellezza
nella magica luminescenza del pavone,
la tenacia nella greve fissità dell’animale,
il candore nella perlacea luce del giglio.
Ho già scontato, Hera, la collera feroce che colpisce
chi non calpesta i tuoi cortili
chi diserta i tuoi altari.
Ti porto in dono ora la trama fragile dei giorni
in tua assenza consumati.
L’incompiutezza è imperdonabile?
Che sia tu ad invitarmi adesso
che le ombre si fan lunghe
al fedele mistero che ci unisce.
Cantò
piano, flautato, poi cantò ancora.
E
quando ebbe cantato per la terza volta la terrà tremò. Ci fu un bagliore innaturale
e sull’isola di Samo, per un momento, la notte si fece più chiara del giorno.
Le
pietre si spezzarono e dalle profondità della terra ne salirono altre. Il marmo
delle colonne si ricostruì da se stesso, da terra fino al timpano sgretolato,
che ricomparve in un boato sui capitelli ionici. Si ricomposero le statue, perfette
nel marmo e negli smalti, nella ricchezza dei particolari e gli occhi in pasta
vitrea. E le mura, con i loro affreschi di gigli e pavoni.
Il
Sacerdote fece appena in tempo ad afferrare tra le dita la spilla, prima che
i moti d’assestamento del Tempio la chiudessero nelle profondità delle fondamenta.
La strinse, con forza, ancora abbacinato dal risultato ottenuto.
L’enorme
statua della dea che presiedeva imponente il nahos,
adesso, lo guardava dall’alto, un brillio di vita negli occhi di vetro.
Sentì
il respiro spezzarglisi in gola e piegò la testa, rimanendo in ginocchio davanti
a lei.
“Madre
Hera”
“Sì,
Menelao.” La voce della dea risuonò, ancora incorporea, tra le mura del tempio
ricostruito “Sì, sono qui”.
Il
Sommo Sion strinse le mani affusolate e senili sul davanzale di pietra. Rimase
in ascolto dal Santuario di Atene, come se, per un momento, avesse percepito
qualcosa di molto potente. Qualcosa che non aveva distinto e non aveva sentito
mai, nella sua lunga esistenza, ma che l’aveva colpito per il potere e la violenza
con cui quel Cosmo aveva divampato. Un Cosmo divino.
Hai
sentito anche tu, Doko? Chiuse gli
occhi e rimase in ascolto, ma dalla Cina gli tornò indietro solo un pensiero
carico di interrogativi, come il suo.
Rimase
ancora all’erta, a chiedersi se quel Cosmo avesse in sé intenzioni malvagie
o no, se potesse avere conseguenze non piacevoli per il genere umano che egli,
nel nome di Athena, doveva proteggere.
Il
suo piede scalzo giocò ansiosamente con una pantofola, contro il muro, gli occhi
viola assottigliati nell’espressione concentrata. Attese. Attese. E attese ancora,
solo, nella notte, con Doko dall’altra parte del globo che attendeva con lui.
Ma
dopo quel fragore che era divampato, era stato silenzio. E lo fu ancora per
le settimane a venire.
Aphrodite – giovane cavaliere dei Pesci - s’inoltrò nel prato, spostando l’erba alta e stiracchiando le braccia in un gesto aggraziato nella tunica d’allenamento. Spinse lo sguardo verso i rilievi montuosi, all’area boschiva dell’entroterra. Desiderava un luogo silenzioso dove potersi dedicare indisturbato al proprio addestramento e…
“Phro!”
Oh, no.
“Phro, aspetta!”
Ma perché?
Milo ci mise solo qualche istante per raggiungerlo, saltando nell’erba svettante quasi essa potesse inghiottirlo: “Phro, dove vai?”
“La pianti di fare tutto questo baccano?”
Aphrodite alzò gli occhi al cielo, seccato. Non c’era niente di peggio che un moccioso tra i piedi, in un pomeriggio come quello. E il giovane Scorpio era uno dei mocciosi più rumorosi sulla piazza. Possibile che non avesse trovato niente di meglio da fare che seguirlo? Si girò febbrilmente verso l’arena e gli alloggi. Dove cavolo era Shura?! Perché non veniva a levarglielo di mezzo?
”Dove vai? Perché non ti alleni con noi?”
“Perché siete dei mocciosi del cavolo” spiegò Pisces con relativa pazienza, spingendosi una ciocca dietro le orecchie. Shura. Dove sei finito?
“Se lo sono io lo sei anche tu, un moccioso del cavolo!” il piccolo Milo, sette anni compiuti il Novembre trascorso, alzò il mento e gonfiò il petto. Che Aphrodite fosse più grande di lui di un paio d’anni non lo metteva in soggezione nemmeno un po’. Figurarsi.
“Allenati con me, Phro”.
“Scordatelo”. Aphrodite scrollò le spalle e si spinse in vanti, verso il bosco. Di Shura nessuna traccia. Beh, meglio così: un allenamento solitario era il meglio che si potesse desiderare, nell’afa di quella giornata.
Milo rimase a guardarlo, mentre si allontanava, mettendo il broncio. Giù all’arena si stavano allenando i soldati, a quell’ora, e al bambino non andava di assistere. In quanto a Camus e ad Aioria, aveva in programma di incontrarli solo quel pomeriggio.
Sospirò. Il resto della mattinata si prospettava tragicamente noioso.
Si morse l’interno della guancia, chiaro segno di una preoccupazione crescente che cercava di arginare. Il bosco era sereno e ombroso, perfetto in un mattino caldo come quello, e Aphrodite si era congratulato con se stesso per l’idea.
Ombra e silenzio, sotto le foglie che lasciavano passare i raggi del sole quel tanto che bastava: un rifugio verde. Eppure era bastato inoltrarvisi per sentire che qualcosa non andava.
L’atmosfera intorno si era fatta pesante. E la luce grigia, pur non mutando di intensità, come se fosse improvvisamente calata la sera, nonostante la quantità del sole filtrato dalle foglie fosse sempre la stessa.
Un Gold Saint non era avvezzo temere nulla, quindi Aphrodite rimase immobile, gli occhi celesti puntati avanti a sé, il cipiglio guerriero sul bel visetto delicato.
Si mise in ascolto. Fu con orrore che scoprì di non sentire assolutamente niente: i rumori del bosco si erano chetati, come se anche il vento si fosse messo a riposare tra le foglie, immobile.
Nessun fruscio. Nessun canto di uccelli tra le fronde. Il silenzio era così innaturale che rabbrividì. Si accorse di avere fatto un passo indietro quando un ramo spezzato produsse un suono secco. Quello e solo quello nel silenzio totale, un suono secco che parve cadere pesante e poi venne inghiottito dalla terra. Spalancò gli occhi e strinse i pugni. Indietreggiò ancora di un passo, e andò a sbattere.
Sussultò e si girò di scatto, nel divampare del cosmo giovane, inesperto ma forte, in sé – la guardia alta e le belle labbra tirate in una smorfia concentrata.
Poi si rilassò con uno sbuffo.
“Milo!” esalò, esasperato “Ma sei tu!”
Milo sorrise, imbarazzato e si strinse nelle spalle. Già. Era lui.
“Moccioso del cavolo”. Aphro infierì, ma senza troppa intenzione, a bassa voce. Detestava il fatto, semplicemente, che il moccioso in questione l’avesse visto tanto inquietato. Si strofinò le braccia, a cancellare il ricordo di un brivido, e scrollò le spalle. “Si può sapere perch…”
Quando si era nuovamente girato verso Milo, non l’aveva trovato più.
Febbrilmente, con la sensazione sgradevole di qualcosa messo per il verso sbagliato, si girò a cercarlo. Lo vide poco lontano, trotterellare verso un cespuglio di mirto. Sospirò con qualcosa di simile al sollievo.
“Phro, sai che non eromai stato qui? Ma tu lo sai fin dove arriva questo bosco?” Milo lasciò perdere il cespuglio e si affidò a quello che, con un po’ di fantasia, poteva essere considerato un sentiero tra gli alberi.
“No, non lo so. Alle montagne, penso. Adesso stai fermo”.
“Aioros e Saga non ci fanno andare mai oltre gli uliveti. Vedrai quando lo dico ad Aioria!” Perché siete dei mocciosi del cavolo, confermò Aphrodite mentalmente. Lui, DeathMask e Shura andavano sempre dove volevano.
“Adesso vuoi tornare indietro?” gli intimò. Cominciava a seccarsi.
Ma nemmeno Saga di Gemini riusciva a intimare niente a Milo di Scorpio, che ignorò l’amico e proseguì tra gli alberi. Aphrodite sibilò un’imprecazione a bassa voce.
Si fermò a guardarsi intorno un momento, ad analizzare il bosco: sembrava essere tornato tutto normale. La luce giocava con i riflessi tra le foglie, il vento le faceva stormire piano e i suoni avevano ripreso ad essere naturali.
“Almeno va’ piano!” si portò una ciocca leggera dietro le orecchie con stizza e seguì il compagno “Guarda che rimani qui da solo!”
Milo si fermò di colpo, appena dopo un albero dal tronco umido e ricurvo, e per poco Aphrodite non andò a sbattergli contro per la secondavolta. Lo spinse, allungandogli uno scappellotto, accigliato.
“Ahia”, protestò Scorpio imbronciando le labbra.
“Perché ti sei fermato all’improvviso?”
Aphrodite non ebbe bisogno di finire la frase per comprendere. Di nuovo, attorno a loro, il bosco si era fermato.
“Cosa succede? Perché fa così?” la domanda del piccolo Milo non era rivolta all’amico e Aphrodite non rispose. Si limitò a saettare intorno un’occhiata guardinga. Fece un passo avanti rispetto a Milo e al suo passaggio l’erba frusciò ancora in quel modo malato, come se il suono sordo fosse inghiottito di colpo dalla terra. Scacciò il disagio ed espanse il Cosmo dorato.
Milo, invece, guardò dietro di sé e spalancò gli occhi azzurri.
Se anche lui aveva avuto l’impressione che qualcosa si stesse mettendo per il verso storto, adesso ne aveva la conferma. Il panorama dietro alle loro spalle si era fatto spettrale, come se l’intensità cromatica si fosse di colpo ingrigita. Ma non era solo quello: il fatto era che tutto era cambiato. A partire dalla disposizione degli alberi e della macchia boschiva. Era come se, di punto in bianco, si fossero trovati in un punto diverso.
“Phro…” Milo afferrò la tunica del Gold Saint dei Pesci e la strattonò appena. Era sicuramente una cosa degna di nota, dal suo punto di vista. Da parte sua, Aphrodite sentiva il nervosismo crescere e la sensazione gli piaceva pochissimo.
“Che vuoi?”
Milo stava per aprire la bocca e dirglielo, quando qualcosa davanti a sé attirò irresistibilmente la sua attenzione. “Che cos’è quello?”
Aphrodite seguì con lo sguardo Milo che avanzò, arrampicandosi su sassi e radici, e si chinò a terra, le manine appoggiate sull’orlo di un crepaccio innaturale nella terra di quel bosco di Grecia.
Si sporse appena, con una cautela che Aphrodite giudicò insolita, in Milo, e guardò dentro.
“E’ profondo?” gli domandò l’altro a disagio, senza avvicinarsi.
Milo annuì, lo sguardo perso nell’oscurità del crepaccio. “E’ buio, però. Non vedo il fondo.”.
Si sporse ancora un po’, incosciente, e Pisces sentì un brivido d’allarme.
A parte il contesto inquietante, c’era qualcosa che lo turbava negli angusti spazi bui. Qualcosa che si portava dietro dal suo addestramento in Groenlandia e non aveva mai confessato a nessuno.
Qualcosa cui tornava con la memoria poco volentieri.
Si guardò intorno, teso.
“Vieni via, Milo. Dobbiamo andarcene”.
Dal crepaccio salì l’eco di un suono gracchiante, che si arrampicò sulle pareti terrose. Un ringhio.
“…io mi toglierei da lì” Brusco, Aphrodite. Non ebbe bisogno di ripeterlo.
Di colpo Milo fu al suo fianco, fissando l’apertura del crepaccio. Sollevò lo sguardo sull’amico più grande, come se Aphrodite avesse le risposte ai suoi interrogativi, ma, naturalmente, il giovane Cavaliere dei Pesci non ne aveva.
Il ringhio si ripeté. E poco a poco si fece assordante.
Aphrodite non perse tempo e fece esplodere il cosmo: qualunque cosa fosse si stava avvicinando ed era piuttosto arrabbiata.
L’esplosione del Cosmo di Aphrodite sarebbe potuta passare inosservata ai più, al Santuario, come il semplice, solitario allenamento di un giovane Gold Saint che esplorava il proprio potere.
Qualcuno che non apparteneva al Grande Tempio di Athene, però, qualcuno che stava aspettando nel bosco proprio un segno come quello, non fraintese affatto.
Argo, devoto a Hera, si alzò in piedi in tutta la sua prestanza, lo sguardo predatore fissato in un punto davanti a sé. Teneva d’occhio i due bambini da quando si erano inoltrati nell’area boschiva e non aveva nessuna intenzione di farseli scappare.
“Sono finalmente caduti nella trappola tesa da Tifi” lanciò uno sguardo all’indietro, sopra la spalla “Sono piccoli, ma sono Gold Saints di Athena. In piedi, Giasone. Non abbiamo molto tempo”.
Giasone si tirò su dal masso prescelto come comodo sedile per tutto l’agguato e stiracchiò le membra, svogliato: dei bambini. Adesso Menelao lo mandava a rapire bambini. “Andiamo”, disse.
I due si misero in cammino nell’esatto istante in cui una grossa pianta gonfia e violacea, un enorme ramo d’edera mostruosa, fuoriusciva dal crepaccio schiantando terra e radici con un fragore tremendo e si abbatteva sulle sue piccole prede.
Milo si rannicchiò su se stesso e bruciò il Cosmo a sua volta, l’espressione determinata sul faccino, pronto a scattare. Il ramo si abbatté tra lui e Aphrodite, violento ed entrambi saltarono fuori dalla portata dell’attacco.
“RESTRICCIO!” esclamò Milo, inferocito, rivoltando contro alla pianta tutto il Cosmo a disposizione, riversandolo nelle onde elettromagnetiche di Scorpio.
C’è da dire che quello non era esattamente il nome del colpo che aveva imparato all’isola di Milo, ma Restriction, che era la pronuncia corretta, il bambino sarebbe riuscito ad usarlo solo crescendo, negli anni successivi. Adesso, con la pronuncia greca che si fondeva a quello strano inglese, con i denti da latte che lasciavano posto a quelli più forti, riusciva a pronunciare solo un provato Restriccio. Non che il colpo non fosse ugualmente efficace, ovviamente. Era quello che Milo preferiva, dopotutto.
L’enorme ramo risentì delle onde elettromagnetiche solo per qualche secondo, poi si abbatté nuovamente di lato, cercando di afferrare la pulce che l’aveva affrontato.
“Di nuovo!” gridò Aphrodite, acquattato dietro ad una radice, alzandosi di scatto, “di nuovo, Milo!”
“Restricciooh!”
Aphrodite scattò, approfittando di quei nuovi, pochi istanti di immobilità della pianta maligna.
“Piranha Rose!” sibilò a denti stretti e all’attacco di Milo fece seguire il proprio, conficcando nella polpa dell’edera una rosa nera dopo l’altra.
L’edera parve fermarsi, perplessa.
Aphrodite sogghignò e afferrò Milo per la collottola, portandolo al proprio fianco. Era andata?
Così parve, almeno finchè il ramo si arrotolò su se stesso e assorbì le rose nelle proprie spire.
Divorandole con gusto.
“Ma cosa diavolo…?!” Aphrodite serrò i denti, sconvolto.
Milo parve affascinato: “Woah! Vediamo cosa fa con questo! Scarle Nidel!” trillò, di nuovo in barba all’inglese.
“Non è un gioco, moccioso del cavolo!” ringhiò Aphrodite, seguendo la traiettoria delle cuspidi lanciate da Milo, in rapida successione.
Il moccioso del cavolo andò a segno, ottenendo solo un ringhio rabbioso da parte della pianta mostruosa: con una velocità innaturale e spaventosa, il ramo frustò l’aria verso di loro, colpendoli entrambi con violenza, sbattendoli a terra.
Milo rotolò nell’erba, più volte, ad attutire il colpo. Aphrodite finì dolorosamente con la schiena contro a un albero tirando un’imprecazione sbalorditiva.
Aphrodite aveva solo nove anni, ma a frequentare DeathMask imprecava già come uno di undici, creando un divertente contrasto con il suo aspetto delicato. Snocciolò la parolaccia con astio, diretto all’orrido vegetale, tirandosi su da terra.
Anche Milo si stava alzando, lì vicino, le ginocchia sbucciate. Maledetta erbaccia! Sentì la sconcezza di Aphrodite e lo guardò con ammirazione. Più grande. Sapeva le parolacce dei più grandi. La distrazione quasi gli costò la vita, quando il ramo, così simile ad un tentacolo, lo afferrò alla vita, stritolandolo. Fu una lezione che Milo non dimenticò più negli anni a venire.
L’edera cresceva sempre di più e del crepaccio da cui era uscita ormai non c’era più traccia. Eppure, allungandosi, scopriva la parte più tenera del ramo, alla propria base, la parte più nuova che cresceva, la più indifesa..
Milo gemette, spingendo le braccia fuori dalla pressione delle spire e singhiozzò quando la presa venne stretta al suo petto.
Puntò l’indice là, dove aveva visto la fibra vegetale più tenera e lasciò partire un’altra cuspide.
Anche Aphrodite stava colpendo lì, nello stesso momento, con una scarica di rose, più di quante ne avesse mai lanciate.
Di nuovo quel suono, quel ringhio, questa volta più straziante.
Il mostro vegetale non aveva gradito tutto quel veleno.
La stretta si allentò e Milo ricadde sul terreno, con un tonfo, e fu rapido a tirarsi in piedi e ad allontanarsi, tossendo.
Lanciò una volta ancora il suo colpo velenoso e poi corse dall’altra parte, rispetto ad Aphrodite, in modo da accerchiare l’avversario.
“Attento!” gli gridò dietro Aphrodite, ma poi la sua attenzione fu catalizzata dall’edera che si stava arrotolando su se stessa, riducendosi.
”Che fa adesso?” sibilò il fanciullo, tenendo d’occhio il più piccolo dall’altra parte, pronto a tutto.
Ci fu calma terribile e fu quella che sempre precede la tempesta: il mostro si riaprì, rombando di un ruggito spaventoso, restituendo in una pioggia crudele le rose nere lanciate da Aphrodite.
Il bambino imprecò di nuovo, facendosi indietro. Un’imprecazione da adolescente che Milo annotò mentalmente e ripeté, sfuggendo alle spine velenose che cadevano dall’alto.
Riuscì ad evitarle tutte, a parte una che lo sfiorò al braccio, graffiandolo.
La reazione fu immediata: Milo scoppiò in lacrime.
Non per il dolore, quanto per lo sdegno, perché dopo il singhiozzo che gli ruppe il respiro reagì dando aria ai polmoni in modo direttamente proporzionale al divampare del suo Cosmo.
“ANTARES!”
Il colpo di Scorpio più potente – quello più difficile – sfolgorò da Milo fino alla base dell’edera, ancora inarcata e vulnerabile, sfaldando le fibre vegetali proprio nel mezzo del tronco.
“Bloody Rose!” fece seguire immediatamente, Aphrodite, e l’edera guizzò in spasmi pericolosi, contorcendosi. Il suo colore mutò, nel silenzio innaturale del bosco.
Sussultò e cercò un appoggio che non aveva più, dato il busto ferito, e ricadde a terra, tra gli alberi, floscia. Si contorse un’ultima volta, come un grosso serpente in agonia e poi non si mosse più, priva di vita.
”Antares! Antaresantaresantares!” Milo continuò a bucherellarla furiosamente, gli occhi ancora arrossati e il petto scosso dai singhiozzi umilianti. E chi se ne frega se Antares è l’ultima, pensò. “Antares…!”
Aphrodite ansimò, il visetto contratto dalla tensione e dalla fatica, le mani sulle ginocchia a sorreggere il busto. Stava bene, a parte un graffio superficiale alla gamba.
“Smettila di prendertela con quell’affare. E’ finita”. Si avvicinò a Milo.
Il piccolo stava osservando il mostro sconfitto con evidente disappunto. Il graffio al braccio era irritante, ma le ginocchia sbucciate al momento bruciavano di più. Tirando su col naso, trotterellò da Aphrodite, il faccino umido illuminato da un bel sorriso. Avevano vinto.
”Da’ qua!” Aphrodite gli afferrò il braccio bruscamente, per esaminare la ferita prodotta dalle sue rose. Milo lo lasciò fare tranquillo, pur passando nervosamente il peso da una gamba all’altra: faceva male.
“C’è rimasta la spina”. Aphrodite fece una smorfia e si sedette sul prato con lui, concentrato. Serrò le dita con più forza sul braccio, per estrarla. “Sta fermo”.
“Non mi muovo”. Si morse il labbro, però, stoico.
A tentativi, Aphrodite riuscì a toglierla dalla ferita. “Ci sarà rimasto del veleno”. Era una vera fortuna che le spine avessero perso gran parte della loro efficacia, dopo essere state piantate nell’avversario.
“Ah, quello non importa”. Milo ci sapeva fare, con il veleno. “Grazie”.
“Mi sembra il minimo”. Aphrodite fece una smorfia poco convinta, piegando la testa sulla spalla, graziosamente. “Per colpa della tua idiozia potevamo venire feriti pesantemente entrambi!”.
Gli mollò il braccio e osservò torvo Milo, che lo ricambiò con curiosità. Chissà se avrebbe detto un’altra parolaccia da grande?
“Perché devo farti io da babysitter?” sbuffò, esasperato. Si rialzò, spazzolandosi i vestiti, guardandosi intorno. Non riconosceva il posto. Si erano allontanati tanto?
Milo gattonò sul prato verso l’edera, immobile come un grosso rettile.
“E’ morto, secondo te?”
“Non lo so. E non ho intenzione di indagare. Dobbiamo tornare al Santuario a riferire quello che abbiamo visto. Se non vuoi venire, ti lascio qui”.
Fu in quel momento che due grosse ombre, d’improvviso, coprirono da dietro quelle dei due bambini.
“Voi non andate da nessuna parte”, berciò una voce, raggelandoli sul posto.
Ringraziamenti: Ai91: Speriamo davvero di non deluderti! Di certo il prologo sarà un po' sui generis, ma introduce quella che, speriamo, sarà una grande Saga. Nel frattempo, Hera si prepara e noi vi porgiamo le avventure di Aphrodite e Milo bambini. XDDD bmico: Ti ringraziamo davvero per i complimenti çOç Squisitissima. Sì, speriamo di essere state più curate possibile nella descrizione, anche se il Tempio di Samo è ridotto uno straccio, ora ocme ora çOç Ma per l'ambientazione era perfetto. Grazie ancora!
Doko e Sion semprevegliano. XD Speriamo siano in grado di intervenire in fretta.
Per quanto riguarda Hera, stiamo all'erta! Un bacio!
“Ma guarda chi abbiamo qui.” Argo fece seguire una gomitata al socio, mentre Aphrodite scattava in piedi e Milo osservava con distacco i due nuovi venuti: uomini alti e muscolosi, come i Saint di grado inferiore che giravano al Grande Tempio. Avevano armature cesellate e ritorte, che li rendevano più minacciosi. Ad occhio e croce, non sembravano particolarmente sensibili ai diritti dell’infanzia.
Giasone incassò la gomitata di Argo e si fece di lato, a circondare i due Gold Saints.
“Bambini, bambini… la vostra dea non vi ha mai detto che non si gira nel bosco da soli?”
Milo si alzò lentamente, tenendo d’occhio quello che gli si avvicinava, e Aphrodite fronteggiò l’altro, ostentando sicurezza. Gettò all’indietro i capelli, con affascinante noncuranza: “Diteci chi siete e che cosa volete, senza troppe storie. Avanti”.
Argo sprofondò in un inchino grottesco, davanti a lui, falsamente carezzevole: “Argo della Vela, Argonauta di Hera.” Salutò, avanzando verso Aphrodite, rapido “E voi due siete nei guai”.
Giasone invece avanzò e basta, senza dire niente, e subito dovette schivare con la faccia il sasso piatto e consistente che Milo gli aveva tirato addosso come un frisbee, del tutto inaspettatamente.
”Maldett…”
“Acciuffalo in fretta” intervenne Argo, piegandosi sulle ginocchia per cogliere l’attimo in cui balzare addosso ad Aphrodite, concentrato: non aveva intenzione di sottovalutare dei Gold Saints di Atena, nemmeno se erano degli scriccioli come quelli che aveva davanti. “Dobbiamo portarli subito da Hera”.
“Lo so,” ringhiò l’altro in risposta. Per poco il sasso non lo prendeva sui denti. “Lo so”.
“Che cosa vuole Hera da noi?” Aphrodite cercava di prendere tempo, indietreggiando di un passo per ogni falcata di Argo. Non aveva idea di quanto fossero forti, ma erano adulti e non promettevano nulla di buono.
“Non siamo qui per dare spiegazioni ad un moccioso. Avanti, vieni qui”. Lo afferrò per i capelli, Argo della Vela, strattonandolo, nell’istante esatto in cui Milo, poco lontano, dava fondo al Cosmo minacciosamente. Aphrodite non fu da meno e fece esplodere il proprio, con un urlo rabbioso:
Mai. Toccargli. I. Capelli. Che diamine.
L’urto fece fare ad Argo un balzo indietro. Rimase a guardare Aphrodite sbalordito, un momento, poi scoppiò a ridere. Lo riafferrò per le spalle, dandogli una scrollata sonora: “Cosa credi di fare, ragazzino?”
Per tutta risposta il ragazzino gli affondò le unghie nei polsi.
“Merda!” sibilò Argo e fu costretto ad allentare la presa, più per lo sbalordimento che per il dolore: fu abbastanza per permettere ad Aphrodite di saltare all’indietro, fuori dalla sua portata, affibbiandogli una ginocchiata al mento.
Argo sentì i propri denti sbattere tra loro e stridere. La propria mano salire e detergere il sangue colato sul mento. Lo aveva sottovalutato, il ragazzino dall’aria delicata che si trovava davanti. Lui che aveva affrontato prove tremende e combattuto e vinto uomini di stazza ben superiore alla sua, le stava prendendo da un moccioso. Doveva smettere di fare il sentimentale e trattarlo da nemico, avesse nove o novant’anni non doveva avere nessuna importanza.
”Lasciami! Lasciami!” ordinava intanto Milo, oltraggiato: al Santuario nessuno aveva mai ignorato un suo ordine perentorio: gli ordini dei Cavalieri d’Oro sono ordini da Cavalieri d’Oro. Giasone ne sembrava all’oscuro, perché lo aveva afferrato per i polsi tenendoselo davanti, sollevato da terra di un buon mezzo metro. La sua aria annoiata si dissolse come neve al sole quando il moccioso di Scorpio, scalciando, arrivò con una tallonata bene assestata proprio tra le sue gambe, al di sotto del cinturone.
Milo venne sbattuto a terra.
“Adesso ti ammazzo”. Giasone aveva perso la pazienza.
Argo doveva stare pensando per lo più le stesse cose, evidentemente. Giasone sdraiò Milo a pancia in giù, incurante del suo dimenarsi e gli piegò le braccia dietro la schiena. Quando si girò a guardare nella direzione degli altri due, il piccolo Pisces stava piantando i denti nella mano del compagno.
“Lurido moccioso!” Argo lasciò partire un manrovescio che mandò Aphrodite lungo disteso. Si fermò, spiazzato: non aveva mai colpito un bambino. E’ che la situazione stava prendendo più tempo del previsto, aveva pensato che sarebbe stato più facile.
E poi gli ordini erano ordini. Sì, ma non aveva mai colpito un bambino, prima.
Balzò su di lui, prima che Aphrodite avesse il tempo di rialzarsi e lo immobilizzò.
“Giasone, datti una mossa”. Berciò, di pessimo umore.
“Ho fatto, ho fatto”.
Giasone del Vello d’Oro aveva fatto: Milo era impacchettato mani e piedi e trattenuto per le spalle, in piedi davanti a lui. Per quanti tentativi facesse per liberarsi dalla corda che lo legava, non riusciva né ad allentarla né a spezzarla.
Era un manufatto artigianale, una corda intrecciata minutamente e straordinariamente resistente, imbevuta di Cosmo divino. Milo non aveva mai visto niente del genere.
“Bene”. Anche Argo aveva legato Aphrodite allo stesso modo e lo trascinò in piedi, girandosi verso il compagno. “Ci siamo”.
“Restriccio! RESTRICCIO!” Pur legato, Milo cercava ancora di dare filo da torcere, spargendo onde immobilizzanti dove poteva. Giasone inarcò un sopracciglio, tenendo il piccolo bene davanti a sé, come si tiene lontano un cucciolo bagnato.
“Questi bambini sono pieni di energia, eh?”
“RE-STRI-CCCIOH!”
“Guarda che sei dalla parte opposta”. Giasone da dietro gli tirò uno scappellotto. Milo incassò, ma non si diede per vinto, concentrandosi su Argo, allora.
“Restriccio, restriccio!”
Il colpo andò a segno: Aphrodite, che Argo aveva accuratamente messo tra sé e il marmocchietto agitato, subì le onde, immobilizzandosi in uno spasmo di muscoli tesi. Il Restriction gli impedì di parlare, ma le imprecazioni che gli attraversarono la mente avrebbero fatto fischiare DeathMask con ammirazione.
Milo gemette, frustrato, quando Giasone se lo caricò su una spalla e Argo sogghignò, perfettamente padrone delle proprie facoltà motorie.
“…’triccio”. Mormorò un’ultima volta, amareggiato, senza nemmeno darsi la pena di far scintillare in sé il Cosmo.
Hera sollevò lo sguardo dalle proprie mani, eleganti, dalle unghie lunghe e curate. Le mani mortali del corpo che aveva prescelto. Era soddisfatta.
Accavallò le gambe sul suo seggio di pietra, senza ostentare potere.
Una donna, non una fanciulla, dall’aria sicura, le labbra piene e lo sguardo penetrante.
“Tifi”, chiamò. Era vellutata, ma le inflessioni del timbro lasciavano intendere che quella voce era abituata al comando e non avrebbe ammesso repliche.
Tifi, seduta ai piedi del seggio di pietra, sollevò il viso verso di lei, facendo ondeggiare i lunghissimi riccioli scuri: “Mia signora”.
“Dove sono? Avrebbero dovuto essere già qui.”
“Lo saranno a breve, ne sono certa”. La ragazza aveva avvertito molto chiaramente il proprio Cosmo ritornare con violenza quando la sua creatura di edera era stata abbattuta ed era caduta al suolo. A quel punto Argo e Giasone erano di certo intervenuti.
Era passato più tempo del previsto, da quel momento. Tifi intrecciò le mani alle ginocchia, in attesa.
Fu proprio in quel momento che avvertirono entrambe distintamente il Cosmo di Argo che si annunciava, in un lampo, alle porte dell’Heranion di Samo.
“Dimensional Sailin’!” aveva esclamato Argo, baritonale e spiccio. Desiderava portare a termine quella missione il prima possibile. Il suo potere aveva sfavillato e il bosco si era di nuovo fatto silenzioso e innaturale, diverso da sé stesso. Aphrodite aveva riconosciuto la sensazione di vuota estraneità già sperimentata e si era morso l’interno della guancia, senza riuscire a muoversi nella stretta delle corde e del braccio possente del guerriero che lo tratteneva.
Negli istanti seguenti un lampo d’energia aveva spezzato l’aria a metà davanti a loro, come se d’improvviso il bosco si fosse strappato in due su un universo di luce.
“Forza”. Argo aveva strattonato Aphrodite, dirigendosi verso la breccia.
Milo si era dimenato sulla spalla di Giasone. Non aveva intenzione di andare da nessuna parte. In primo luogo perché doveva vedersi con Camus e Aioria, quel pomeriggio, in secondo per la ragione – indiscutibile – che Hera appariva come la dea più severa e intransigente del pantheon e Milo aveva la spiacevole sensazione che avrebbe trattato lui e Aphrodite esattamente come aveva approcciato Dioniso, Ercole e altri ragazzini che aveva incontrato sulla sua strada ai tempi del Mito.
Milo era piccolo, ma le leggende di Grecia le conosceva tutte, il suo maestro gliele raccontava la sera, dopo l’addestramento, e adesso se le faceva raccontare da Saga e Aioros, quando riusciva a piantare capricci abbastanza consistenti. Per farla breve, non aveva nessuna intenzione di incontrare Hera prima di avere conosciuto Athena.
“Sì, andiamo”. Giasone lo aveva seguito, una mano grande e forte premuta sulla schiena di Milo, appeso alla sua spalla come un sacco di patate.
Milo si era agitato. “Dove andiamo? Come ti chiami? Perché la tua armatura è brutta?”
“…Argo, vuoi mica fare cambio?”
Ma Argo era già scomparso nella breccia di luce e Giasone dovette tenersi Milo. Che si mise buono, mentre passava a sua volta nel varco: se non altro ne avrebbero avute di cose da raccontare, una volta tornati a casa. Il piccolo Scorpio non venne mai neppure lontanamente sfiorato dal dubbio che avrebbe potuto anche non ritornarci affatto.
La luce si affievolì poco a poco.
Una volta riabituati, gli occhi dei bambini si spalancarono sulle stanze ampie e fresche di un’enorme tempio ionico, dalle colonne eleganti e gli affreschi colorati.
L’attenzione di Milo ne fu subito assorbita, attratta dagli uccelli verdi e blu dalle lunghe code dipinti su tutto il perimetro.
Argo sistemò a terra Aphrodite e fissò lo sguardo in quello di Giasone. Bene. Missione compiuta.
“Chiedo udienza. Tu tienili a bada”. Senza attendere oltre, si girò e scomparve oltre il colonnato.
Giasone sospirò e si tolse dalle spalle Milo, per lasciarlo ricadere vicino ad Aphrodite.
“Non una parola voi due. Non una parola”. Si sgranchì il collo.
Milo si appoggiò schiena contro schiena ad Aphrodite, sollevando il faccino a guardarlo, con aria angelica.
“Bah!” sbottò Giasone, che non si fidava affatto, poi si mise ad osservare gli affreschi, il naso in aria. Però, bel posto aveva tirato su la sua dea, in quattro e quattr’otto.
Aphrodite lanciò uno sguardo a Milo, da sopra la spalla.
Milo lo lanciò a Giasone. Dentro di sé, il bambino sorrise.
C’era un gioco che aveva iniziato a fare da qualche tempo, al Santuario. Lo faceva sotto agli occhi di Camus, per lo più, anche se il piccolo Aquarius tendeva a dargli poca corda, quando si accorgeva di cosa Milo aveva in mente o lo rimproverava piano, cercando di nascondere una risatina disdicevole. Era un gioco che Milo faceva con tanta maestria da non farsi scoprire, mai.
Il fatto è che era terribilmente eccitante e terribilmente divertente slacciare i calzari di Saga e annodarli a quelli di Aioros quando i due Gold Saints più grandi sedevano insieme tra loro, intenti ad accattivarsi le attenzioni dei più piccoli con il racconto delle gesta degli eroi o con insegnamenti che a loro volta erano stati impartiti da poco.
Milo adorava quei momenti. E il fatto di annodare i calzari di Aioros e Saga sottolineava, a suo parere, il grande amore nei loro riguardi.
Quando si girò un po’ di lato per armeggiare faticosamente sui calzari di Giasone con le manine legate, però, Milo non aveva intenzioni propriamente amorose.
Afferrò tra le dita il primo cordone, non osando spiare il guerriero sopra di lui. Poiché nessuno gli sferrò un calcio alla base della schiena, credette di poter continuare.
Sfilò il laccio, con un movimento lento e questa volta sollevò lo sguardo, certo di essere stato scoperto.
Giasone invece continuava a guardare le pareti, interessato. L’arte classica gli era sempre piaciuta molto. Aphrodite trattenne il respiro, seguendo l’operazione. Incitò l’amico più giovane con un cenno impercettibile del mento.
Milo si morse il labbro inferiore e ripeté l’operazione sull’altro calzare. Fu più difficile perché da quella parte il calzare trovava meno gioco, al di sotto dello stinchiere dell’armatura e più di una volta Giasone spostò il piede, distratto dalla sua contemplazione, facendo rompere il fiato nel petto al piccolo Aphrodite. Ma nemmeno una volta guardò giù in direzione dei bambini legati.
Milo non perse la calma e alla fine riuscì ad annodare i due estremi, strettamente.
“Vieni qui!” Sibilò Aphrodite, tornando a far aderire la schiena a quella di Milo.
Giasone questa volta saettò loro uno sguardo severo. Non aveva detto ‘nemmeno una parola’?
Aphrodite tacque e Milo sorrise, incapace di trattenere l’ilarità al pensiero del guerriero di Hera che franava al suolo con un tonfo. Di solito Saga finiva addosso ad Aioros sul prato di fronte all’Arena. Giasone sarebbe finito con la faccia sul marmo. Oh, beh.
Il guerriero tornò ai suoi affreschi: ce ne era uno che ritraeva la missione degli Argonauti, missione caldeggiata proprio dalla sua dea, che lo entusiasmava particolarmente.
Aphrodite si spinse meglio contro Milo e il piccolo Scorpio raggiunse le corde che legavano l’amico allo stesso modo in cui aveva attaccato i calzari del guardiano.
“Cerca di usare l’unghia” bisbigliò Aphrodite, impercettibile.
“Cosa credi che stia facendo?!” di rimando, Milo, che aveva estroflesso l’unghietta scarlatta della cuspide e ci stava graffiando la corda. Cosmo per Cosmo, forse sarebbe riuscito ad intaccarla.
Le corde resistevano. Un Cavaliere di Athena, anche così giovane, avrebbe avuto ragione di corde normali, anche se robuste, semplicemente mettendo forza nello strattonarle. Il manufatto con il quale erano stati legati, invece, non sembrava arrendersi.
Milo soffocò un gemito, mettendo più impeto nel proprio lavoro. Il fatto di essere quasi completamente immobilizzato non lo aiutava. Tentò ancora, piegandosi leggermente di lato, mentre Aphrodite si piegava dall’altro, ad osservare Giasone.
Seccato, Scorpio convogliò nell’unghia il Cosmo necessario, bruciandolo in una vampata. La corda cedette. Non del tutto, ma abbastanzaper permettere ad Aphrodite di allentare la stretta ai polsi, torcendoli da una parte e dall’altra.
“Cosa succede qui?” ringhiò Giasone, incombendo su di loro, messo sul chi vive dal potere espresso da Milo. Minaccioso, fece bruciare il proprio Cosmo a sua volta, per poi placarlo, osservandoli.
Sembravano sempre inermi e legati. Liquidò la faccenda pensando all’episodio come ad uno sbotto di rabbia mal repressa del più piccolo dei due e, accigliato, tornò a girarsi verso le statue cui ancora non aveva rivolto attenzione. Detestava fare da balia almeno quanto lo detestava Aphrodite.
Il Gold Saint dei Pesci, da parte sua, finì di liberarsi con uno strattone.
“Sta’fermo, adesso”. Bisbigliò a Milo, allungando le mani verso i nodi che lo stringevano.
“VOI DUE! FATE SILENZIO!”
“Sì,” miagolò Milo. Giasone serrò le labbra, soddisfatto, ignaro del fatto che Milo stesse rispondendo all’amico.
“Argo”. Sollevato dal ritorno del compagno, che in quel momento giungeva dal corridoio, Giasone si rilassò.
“Hera è pronta riceverci. Andiamo”.
Pisces si immobilizzò, senza poter finire il lavoro.
“Ti sei addormentato, Giasone? Avanti, prendine uno”. Argo afferrò Aphrodite, rudemente mentre l’altro tirava su Milo per la collottola. “No, no, ci sono”.
Argo sbottò: “Quando ti sei liberato, insetto?”
“Mh?”
“Giasone, questo marmocchio si è liberato dalle corde!”
“Questo no.” Giasone controllò Milo, rapidamente, che affondò i denti nella mano del rapitore.
“Ma sei un Cavaliere o un animale?” Esasperato lasciò partire una ginocchiata nello stomaco di Milo, forte. “Ma è indemoniato? Argo, siamo sicuri di avere rapito Cavalieri di Athena e non Specters?”
Il piccolo Scorpio gemette, sofferente, e si sarebbe accasciato contro Giasone, non fosse per il fatto che era bastato al guerriero quel movimento della gamba per far scattare il semplice, diabolico trucco dei calzari. In un attimo caracollò per terra, spalmando Milo sotto di sé, sotto lo sguardo atterrito di Argo.
Seguirono istanti di inquietante silenzio.
Poi Giasone si sollevò, lentamente.
“Questa volta, ragazzino, ti ammazzo davvero” sillabò all’orecchio di Milo, roco.
“Non credo sia proficuo eliminare le cavie prima dell’esperimento, Argonauta Giasone.” La voce di Hera li raggiunse, melodiosa e forte, dal nahos. “Portateli a me, adesso”.
Ringraziamenti: Gufo Tave: Molte grazie. Il prologo si svolge decisamente prima dell'Episodio G, come puoi vedere. Il resto dell'Heramachia avrà luogo invece post Hades e post ultimo OAV in lavorazione. miloxcamus: Grazie per i complimenti, apprezzatissimi. Andiamo con calma perchè vogliamo fare un lavoro curato e stiamo mettendo a punto i dettagli della saga più grossa che seguitrà il Prologo, quindi dobbiamo progettare bene tutto. ^__- Milo ringrazia per i complimenti e si mette in valigia XD Ai91: Hai visto? I Goldies non si smentiscono, nemmeno da piccini! Il nemico si palesa e facciamo la conoscenza di Hera: vediamo un po' che piega prendono le cose! Engel: çOç che carina! Faremo del nostro meglio per non deluderti! Continuiamo la storia ambientata nell'infanzia, prima di dedicarci alla saga vera e propria. Milo e Phro ringraiano per i complimenti! ^_-
Shinji: Tutti insieme, yess! XDDD Che sorpresa, eh? >O< Grazie per i complimenti, Shun caro, sei gentilissimo. Faremo del nostro meglio per farti fangirlare çOç <3 Sì, Hera è già stata usata, è vero, ma tralasciando gli dèi che Kurumada ha già usato, ci restava poco. E poi Hera è una figa. E poi la nostra in modo particolare: ha la faccia di Susan Sarnadon *C*. XDDD
Milo e Phro si fanno spucciare eccome. XD Un bacio tutto per te! dolcerose: Ecco il capitolo, carissima! Un bacio! AVVERTENZE E INFORMAZIONI: Giasone sta diventando il nostro personaggio di Saint Seiya preferito: è chiaro che è di Kurumada, solo che lui non l'ha mai usato.
Poi, avevamo scritto HEROMACHIA, come titolo. Ma era sbagliato é__è HERAMACHIA dovrebbe essere corretto. Bacioh.
La prima cosa che vide Aphrodite, schiacciato a terra dalla mano grande e forte di Argo, che non ammetteva repliche, furono gli ampi, larghi gradoni di marmo bianco. Candidi, come puri e senza colpa. E del fumo dell’incenso che si innalzava pesante e denso.
Giasone scaraventò Milo a terra di fianco a lui, senza troppe cerimonie, e rimase a grattarsi il collo, lo sguardo basso che saettava di lato a cercare l’assenso di Argo.
Al termine della scala di marmo, che dava su una piattaforma semplice, decorata con bassorilievi raffinati, si stagliava il seggio regale. Grande, troppo grande per una donna sola.
Eppure colei che sedeva sul trono appariva imponente e fiera, nel suo abito di stoffe cangianti, nei gioielli ricchi. Come se tutta quella magnificenza d’architettura e di sfoggio di potere potesse essere ammansita con uno sguardo soltanto.
Milo gemette e imprecò qualcosa d’infantile ma di ugualmente offensivo, fortunatamente a voce troppo bassa perché Giasone potesse sentirlo. Poi seguì la scalinata fin su, sollevando gli occhi in quelli della dea.
Che era una dea si capiva subito dalla quantità di cosmo potente che emanava, in onde profuse senza sforzo. Milo osservò il viso largo e solare, come di madre, gli zigomi alti, gli occhi allungati, verdi, squisitamente dipinti con terre colorate.
La sua espressione severa era mitigata dalla piega delle labbra belle e morbide, i lineamenti addolciti dalla cascata delle onde nere dei capelli sulle spalle, accuratamente acconciate.
“Madre Hera”
Argo e Giasone appoggiarono entrambi il ginocchio a terra per un istante, la mano destra sul cuore, poi si rialzarono. La fanciulla seduta ai piedi del trono non si mosse se non quando il piccolo Aphrodite sollevò lo sguardoverso la Madre, con espressione di sfida. Allora assottigliò appena gli occhi e nulla più.
Da parte sua, Hera ebbe un cenno del capo di ringraziamento per i suoi guerrieri, che avevano portato la missione a termine, poi si concentrò sulle due prede.
Li studiò a lungo, Pisces e Scorpio, giovani Cavalieri di Athena, prima uno poi l’altro, in perfetto silenzio come se potesse toccarli anche solo con il potere dei suoi occhi.
“Ma dov’è finito? Guarda che non ci si può proprio fidare!” Aioria calciò con stizza un dente di leone, sul prato, e le spore bianche salirono verso il cielo di Atene con leggerezza, trasportati dal vento. Camus ne seguì la traiettoria, seduto nell’erba, le ginocchia strette al petto.
Sembrava neve, a guardarla. Però andava in alto. E non era fredda.
“E’ in ritardo!” sbottò il piccolo Leo e si lasciò ricadere sull’erba vicino a Camus, esasperato.
“Aspettiamo” Camus distolse lo sguardo dalle spore del fiore, ormai scomparsi alla vista.
“Ma sono ore che aspettiamo!”
“Esagerato”.
“Perché, non è vero?”
Camus girò il viso verso l’amico, senza dire niente, la bocca chiusa in una linea che esprimeva preoccupazione a chi sapeva leggere bene la sua espressività sempre controllata.
Pur avendo solo sette anni Camus pensava sempre prima di parlare e soppesava ogni parola prima di dirla. Era posato e calmo, spesso taciturno e non troppo amante della compagnia. Anteponeva il dovere al piacere ed era strano che i suoi due migliori amici fossero proprio Milo e Aioria che invece erano agitati e scalmanati, spesso chiassosi e così pieni di energia da camminare sui muri, quasi. Più di una volta avevano rischiato di rompersi l’osso del collo sfidandosi a camminare sulle rovine dei templi più antichi, in alto, sui timpani. Un piede davanti all’altro, attenti a non cadere, le braccia aperte come fossero due piccoli aeroplani. Camus li guardava da sotto e scuoteva la testa.
Non temeva per loro: due Gold Saints non si lasciano sconfiggere dalla gravità né dal pericolo. Però disapprovava il fatto che dovessero perdersi in divertimenti così futili.
Questo per i primi dieci minuti.
Poi, esasperato dalle risate e dalle sciocchezze, saliva a sua volta per mostrare loro come riusciva a passare da una colonna corinzia all’altra, solo con un balzo.
In effetti era strano che proprio Milo e Aioria fossero i suoi migliori amici. Così com’era strano che quel giorno si fosse lasciato convincere da entrambi a tentare una fuga dal campo di addestramento.
Se fossero riusciti ad evitare lo sguardo dei soldati alle porte del Santuario e ad infilarsi oltre la grande siepe di biancospino avrebbero potuto correre giù ad Atene e ritornare prima di sera senza essere scoperti. Camus non aveva idea di come si era fatto convincere – il più delle volte non lo sapeva mai – maera esattamente il piano che avevano intenzione di attuare nel pomeriggio. Ma andava messo in pratica subito dopo pranzo, mentre il Santuario era occupato in altre cose e non avrebbe badato a loro.
Però Milo non si faceva vedere.
Era per questo che Aioria era tanto arrabbiato e prendeva a calci i denti di leoni sul prato, con le loro spore che si liberavano nel vento come neve leggera.
Leo strappò un ciuffo d’erba.
“Me la pagherai, Scorpio!”
“Aspettiamo ancora un po’” lo placò Camus, con un sospiro superiore e laconico “Poi andiamo a cercarlo”.
“Bambini, Cavalieri di Athena”. Esordì la dea assisa e la sua voce era dolce come il miele, ma risoluta e forte. La voce di una madre.
Milo saettò uno sguardo in direzione di Aphrodite.
“Siete stati fortunati ad imbattervi nei miei guerrieri. Molto fortunati.”
“Che intendete dire?” Aphrodite suonò tagliente, invece, e si guadagnò uno scappellotto.
“Argo!” Hera lo redarguì. Poi sorrise ai bambini. “Avreste potuto restare uccisi”.
Il sorriso di Hera si allargò, accondiscendente. Ma una delle sue mani curate salì a massaggiare delicatamente la tempia, come se stesse cominciando ad accusare un leggero mal di testa. Milo la guardò interessato, sgranando gli occhi: Athena era nata da un’emicrania di Zeus, dopotutto. Forse avrebbero assistito ad uno spettacolo notevole, di lì a poco.
Invece, con somma delusione del giovane Scorpio, la dea si abbandonò contro lo schienale del trono ed esalò soltanto un: “Tifi, mia cara...”
La ragazza seduta sui gradini volse il viso verso di lei e annuì. Si alzò, silenziosa e flessuosa e a lei si affiancò, sulla piattaforma.
“Argo della Vela e Giasone del Vello d’Oro sono stati mandati in ronda nei territori di Hera” iniziò a spiegare la fanciulla “Come avviene regolarmente. E sono stati sorpresi nel trovare due giovani Cavalieri devoti ad un’altra divinità.”
“Ma…” tentò Milo. Non erano affatto su territorio estraneo, per come se la ricordava lui.
“Per vostra fortuna,” la fanciulla lo zittì con un gesto dolce, ma proseguì imperterrita “la vergine Athena è in buoni rapporti da sempre con la Madre Hera, ed ella, nella sua lungimiranza, non vi ha giudicati invasori. Siete stati portati al Tempio di Samo, sotto la nostra custodia, fino a che non sarete ricondotti ad Atene. Non temete, dunque”.
“A Samo?” si stupì Aphrodite “Siamo a Samo?”
“All’Heranion, per la precisione” sorrise Tifi.
Aphrodite spalancò gli occhi. Samo era un isola. Decisamente lontana da Atene e dal Santuario.
“Come avremmo fatto io e Milo a raggiungere questo luogo?” il tono acido non sfuggì ad Hera che irrigidì la bella bocca dipinta. Argo non mosse un muscolo, ma scoprì i denti in una smorfia, sentendo il marmocchio rivolgersi così alla sua dea.
Fu Hera stessa a rispondere.
“Sono stati Argo e Giasone a portarvi qui. I territori che stavano pattugliando si trovavano in Attica, poco lontano dal Santuario di Atene. I templi e le regioni consacrate a me nell’antichità sono molti e sono vasti, Giovani Saints.”
Milo si imbronciò. Si ricordava del passaggio strano aperto dall’Energumeno della Vela, che probabilmente li aveva teletrasportati altrove, come sapeva fare anche Mu, ma era sicuro che lui e Aphrodite fossero ancora all’interno della regione conosciuta, quando si erano imbattuti nei due bestioni. O no, forse? Dove portava quel bosco? Era confuso. Il fatto era che le carte dei territori le facevano tenere solo ad Aioros e Saga che erano i più grandi, e lui non aveva idea di dove fossero davvero i confini.
Aphrodite, da parte sua si stava domandando più o meno le stesse cose. Lui le mappe le aveva viste eccome, considerato che DeathMask era solito procurarsele con qualche gioco di mano e pochi scrupoli, e la spiegazione impartita gli sembrava fin troppo stiracchiata.
Di fatto, erano stati aggrediti e legati. Semplice precauzione? E quell’orribile mostro vegetale era solo una cautela per tenere lontani gli intrusi? Qualcuno, poi, non aveva parlato di cavie ed esperimenti? In quel momento prese nota dell’incenso accanto al trono che bruciava instancabile. Annebbiava la mente e seccava la gola. I confini sulle mappe diventavano fiochi e le parole di una dea e dei suoi soldati si confondevano le une con le altre.
Aphrodite si sentì fremere di rabbia, ma la versione della giovane portavoce di Hera, suo malgrado, non gli sembrò adesso troppo irrealistica.
Hera fece un gesto con la mano e Giasone si riscosse dai suoi pensieri.
“Portateli nelle stanze dove possano prendere riposo,” imperò con voce carezzevole la dea “Non vorremo restituirli al Sacerdote di Athena così malconci, vero?”
Nonostante gli sforzi di Aphrodite di leggere minaccia in quell’affermazione, le parole della Dea furono ferme, ma dolci. Materne.
“E slegateli, nel nome di Zeus!” di nuovo una mano alla tempia, in un massaggio leggero e mirato.
La giovane Tifi aveva sceso le scale, fino a Milo. Con un sorriso dolce aveva controllato le sbucciature alle ginocchia e la ferita riportata nel combattimento nel bosco. Gli aveva preso la mano. “Vieni?”
Milo l’aveva guardata dubbioso. Non si fidava per niente, anche se lei era carina, molto carina.
Intanto però Argo teneva fermo Aphrodite, una mano sulla spalla e Giasone lo slegava, attento a mantenersi a distanza: Aphrodite sembrava piuttosto agguerrito.
Anche il giovane Gold Saint dei Pesci alla fine fu condotto oltre il vestibolo, scortato dai due guerrieri, e Milo diede la mano a Tifi, seguendolo. Se tanto dava loro tanto, era meglio stare insieme.
Hera li guardò scomparire tra le colonne dipinte, il volto imperturbabile.
Allungò un piede, in un gesto aggraziato e spense l’incenso nel piccolo braciere, sotto il sandalo.
“’staminchia. Non è da lui.”
Shura annuì serio, all’affermazione dell’amico. Non disse niente perché era su per giù la terza volta che lo ripeteva. ‘staminchia, non è da lui.
Non lo era infatti.
Lo scomparire così, senza lasciare traccia non era da Aphrodite nemmeno un po’ tanto che il giovane Capricorn era preoccupato.
Il cielo ormai imbruniva. La mattina e il pomeriggio erano trascorsi senza che Aphrodite li raggiungesse, né sul campo, né agli alloggi.
Osservò il suolo roccioso e i marmi curati, dalla finestra della Quarta Casa, e la sera che calava.
“Io vado a cercarlo”, disse.
DeathMask si girò verso di lui di scatto, un’espressione particolarmente adulta sul volto infantile.
“Tu non muovi un muscolo senza di me, ciuro.” Gli si fece sotto e parve più imponente nonostante i due bambini fossero alti uguali. “Se andiamo facciamo in silenzio. Non voglio scocciatori intorno”.
Un paio di minuti dopo, nel buio, risalivano insieme il pendio erboso, cercando tracce di Aphrodite.
Ringraziamenti:
dolcerose: grazie dei complimenti, piccola ^_^ Certo che Aphro era un mito. <3 E non hai ancora visto niente. XD
miloxcamus: Grazie! Siamo contente che ti piaccia e che ti abbia fatto sorridere. Spero che proseguendo ti possa appassionare quanto appassiona noi. Milo da bambino fa cose peggiori di quanto faccia ora. Non abbiamo nessun controllo, ci limitiamo a seguirli mentre agiscono. XDCome vedi in questo capitolo compaiono altri Gold Saints. Ti aspettiamo ancora! Un bacio!
Shinji: XDDDD felice di vederti sclerale per merito nostro, tesoro <3 <3 <3 E speriamo che ti diverta sempre di più. Ti amiamo anche noi. Giasone ci odia. Ma lui non conta, è un cattivo. XD
Gufo Tave: Parole sacrosante, tesoro. Parole sacrosante. XD
Ai91: Grazie dei complimenti. E’ un piacere sapere che ci segui.Le cose non sono come sembrano. Ci sono in serbo notevoli sorprese.
Engel: Grazie, sei sempre adorabile nelel tue recensioni. E’ bello sapere di averti coinvolto, davvero. La caratterizzazione dei Saints bambini in realtà è stata meno difficoltosa del previsto, ci piace giocare e con loro soprattutto: è bello immaginarli bambini senza stravolgerli. E gli aspetti della personalità che ne escono sono davvero gustosi.
La tua osservazione ci ha fatto molto piacere.
Sì, la saga vera e propria è in lavorazione: ci stiamo mettendo tempo perché vogliamo fare un lavoro accurato e lasciare nulla al caso e si prospetta un lavoro complicato, ma ci sta letteralmente innamorando. Intanto speriamo che ti godrai il prologo. Una bacio grande!
Milo e Aphrodite non trascorsero la notte insieme e, se non si poteva dire che fossero liberi, a conti fatti non potevano nemmeno affermare in tutta sicurezza di essere trattati come prigionieri.
Come per precauzione i bambini erano stati sistemati in due stanze adiacenti, nella parte più nascosta del tempio di Samo. Due stanze piccole, ma non oppressive, tutte affrescate con gigli e pavoni. Milo, scacciando la noia, aveva seguito i contorni colorati delle figure con la mano, per tutto il perimetro della stanza, sotto gli occhi attenti della giovane Tifi.
La stanza di Aphrodite era scarsamente illuminata: la piccola finestra quadrata era stata sprangata malamente e la luce filtrava come un alone bianco, indistinto, racchiudendo la cella in penombra.
Il bambino osservava il pulviscolo nell’aria, sul fascio di luce che entrava di taglio. Le labbra tese, di tanto in tanto lanciava qualche sguardo rabbioso alla porta chiusa.
Sapeva che i due energumeni erano lì fuori, di guardia.
Aveva tentato di espandere il proprio Cosmo per raggiungere il Santuario, ma era stato compresso in fretta da quei due bastardi di Hera che lo tenevano sotto controllo. Non era riuscito nemmeno a raggiungere quello di Milo, prigioniero da qualche parte non troppo lontano.
Aphrodite sussultò, suo malgrado, quando sentì rimbombare la porta della propria cella.
Poi strinse malevolo gli occhi azzurri, perché quel rumore l’aveva colto impreparato.
“Ma con tutte le cose che ci sono da fare dobbiamo fare da balie?” ringhiò da fuori Argo della Vela, Argonauta di Hera, che aveva appena dato al portone una gomitata niente male “E’ intollerabile!”
“Intollerabile, già!” gli rispose il compagno, più ovattato.
Il piccolo Aphrodite serrò le labbra e respinse le lacrime di frustrazione.
Per la terza volta in un minuto portò lo sguardo sulla finestra. Se fosse riuscito a rompere quelle assi, avrebbe potuto scappare: per fortuna era un bambino esile.
Si alzò dal pavimento e valutò la situazione.
Il punto non era rompere le assi: un giochetto, per un Gold Saint, perfino per un bambino come lui. Il punto era non far sì che gli imbecilli di Hera se ne accorgessero.
Rifletté un attimo, lo sguardo sulla porta, mentre si masticava nervosamente l’interno della guancia in quel gesto che ripeteva sempre, quand’era concentrato e che non lo avrebbe abbandonato nell’età adulta. Alla fine decise che valeva la pena tentare.
Si alzò sulle punte fino a toccare con i palmi le assi e bruciò il cosmo, il più scrupolosamente possibile.
Aveva appena fatto scintillare il nucleo più caldo e distruttivo, che la porta della cella si aprì.
“Che accidenti credi di fare, ragazzino?” Argo si era buttato dentro come una furia, i capelli scuri sugli occhi e la barba appena sfatta: quel turno di guardia lo stava provando davvero. “Vieni via da quella finestra o ti rompo l’osso del collo!”
Aphrodite scese, serrando la mascella.
“Che stavi facendo, moccioso?” Giasone era entrato dietro il compagno a dargli man forte. Il Gold Saint di Pisces fece molta fatica per non ringhiare ed ebbe per entrambi un’occhiata di puro disprezzo. Appoggiò le spalle al muro tenendo il mento alto: che venissero avanti.
Fu Argo a ringhiare: “Anche se tu riuscissi a defilarti da quella finestra e scorrazzare per la campagna non servirebbe a niente. Avanti. Rendi questo strazio più leggero. E’ difficile per te quanto per noi.” Balie ad un moccioso! Balie, Madre Hera! “Avanti, muoviti.”
Cercò di prenderlo per il braccio e portarlo al centro della stanza, ma Aphrodite schiaffeggiò quella mano grande.
“Allontanati da me.”
Giasone seguì la scena preoccupato, spostando lo sguardo dall’uno all’altro. Ci mancava solo che il ragazzino facesse saltare i nervi di Argo.
“Come osi usare quel tono?” Incombette infatti l’altro e Aphrodite ringraziò il muro alle spalle che non gli permise di indietreggiare.
“Che tono dovrei usare per parlare con un verme?” gli sputò addosso. Pisces ci avrebbe messo qualche anno per imparare la diplomazia.
“Ahia,” pensò Giasone. E non l’aveva nemmeno pensato tutto che Argo afferrò il ragazzino per il collo e Aphrodite si trovò ad un buon metro da terra, senza ossigeno nei polmoni e con il muro di pietra premuto contro la nuca. Anche Argo aveva qualche problema con le finezze diplomatiche.
“Di’ addio al mondo, marmocchio”.
Il duello in cui era impegnato Milo, invece, era più calmo, ma aveva risvolti più raffinati e insidiosi. Il suo avversario era una ragazza. Una bella ragazza.
“Lo so che è una situazione un po’ strana,” aveva detto la bella ragazza, “ma vi libereremo presto.”
Milo era sensibile alle belle ragazze, ma non si lasciò fregare e la guardò sospettoso: “Perché non subito?”
Lei si era seduta con la schiena contro la porta, le ginocchia al petto nascoste dal bell’abito bianco e i riccioli scuri sulle spalle. Aveva sorriso ed era stata gentile. Ma si era anche messa tra lui e l’uscita lasciando intendere con il proprio potere spirituale che no, non si sarebbe spostata se lui gliel’avesse chiesto.
“Perché Hera ha ordinato così.” Rispose infatti, garbata, ma lapidaria. “Un ordine della dea è un ordine della dea. E’ ciò che ella reputava più giusto per questa situazione. Siete soliti discutere gli ordini della vostra dea, voi Saint di Athena?”
“No, mai”. Rispose Milo, dopo averci pensato su per un po’. Il fatto era che non si faceva altro che parlarne, di Athena, che presto sarebbe nata e sarebbe stata tra loro al Santuario, ma di fatto lui non l’aveva proprio mai vista la Pallade dea. “Ma il Sommo Shion ci dice sempre il perché si fanno le cose. Anche Aioros, ce lo dice. E Saga dice sempre che bisogna usare la propria testa e non quella degli altri”.
La buttò lì, a vedere come le prendevano, quelli di Hera, le cose che insegnavano ai Saint di Athena.
“ARGO!” Giasone latrò qualcos’altro di poco comprensibile, poi riuscì a frapporre le proprie mani a quelle del compagno. “Argo non credo che Hera sarebbe contenta se tu ammazzassi quel marmocchio!”
“Ah no?!” Argo non sembrava esattamente propenso a mollare la presa.
“ARGO!”
“Bah!” l’Argonauta alla fine lasciò la presa, rigido e schiumante di rabbia. Serrò le labbra in un ringhio e Aphrodite franò per terra, lungo il muro. Respirò febbrilmente e si portò una mano al collo fissando Argo con furia omicida.
Lo ammazzo. Se mi ha lasciato il segno lo ammazzo. Anzi, lo ammazzo lo stesso.
“Tienilo a bada, Giasone. Tienilo a bada perché io la piallo, questa pulce.”
“Hai sentito, moscerino?” Giasone si piegò su di lui, rabbioso e frustrato, sentendo il compagno muoversi alle spalle come una tigre in gabbia. “Stai zitto! FERMO E ZITTO!”
Aphrodite rimase fermo. Ma tra i denti sibilò qualcosa che somigliava molto a “due vermi”.
“Non intendo costituire una minaccia reale per i Saint di Athena, mio Menelao. …pensala come una polizza d’assicurazione. I fanciulli saranno al Santuario di Atene domani sera al più tardi, sani e salvi.” La dea accavallò le gambe sotto la seta verde e prese un sorso di tè. “Se al momento della mia richiesta la dolce figlia di Zeus…” pronunciò quel nome come se avesse un limone tra i denti “appoggerà i miei piani allora la faccenda si risolverà in una bolla di sapone. Altrimenti…”
Menelao la osservò serio mentre la dea appoggiava la tazza e sfiorava con le dita i gioielli d’argento e smeraldi sul damasco. Sapeva a cosa servivano. Il primo dei tre, il medaglione, l’aveva usato lui stesso per risvegliare la sua dea e il potere antico dell’isola di Samo. In esso, il gioiello che si portava sul cuore, la dea si era calata millenni prima e aveva riposato.
Il diadema era il contatto con la mente e il mondo degli dei: Hera l’avrebbe potuto utilizzare per fare ritorno quando l’avrebbe desiderato.
E l’anello che inibiva, lo stesso che avrebbe dovuto usare sui bambini durante il rito.
I gioielli di cui Efesto aveva fatto dono alla madre e in cui aveva racchiuso il potere divino.
“Siete sicura dell’esito dell’incanto, Madre Hera?”
Gli olii bruciavano ancora, ma questa volta il fumo non proveniva dagli incensieri posti a perimetro del nahos, bensì dall’altare già pronto, come una culla di marmo in fondo al tempio.
Non ebbe timore nel porgere il suo dubbio: Hera era una dea amorevole e accoglieva le incertezze dei suoi devoti.
“L’anello e il rito che effettuerai attraverso il mio potere, prode Menelao, imporranno un sigillo sul Cosmo dei giovani guerrieri. Esso lo frenerà in battaglia e lo addormenterà del tutto poi.”
“Ma Madre… in questo modo li condannate, se si troveranno a combattere in altre Guerre Sacre, non potranno disporre del loro…”
“Oh, Menelao!” la dea dischiuse le belle labbra in un’espressione di disappunto e sbatté le palpebre finemente truccate “Non crederai che io sia capace di questo! Il sigillo verrà posto adesso, ma sarò io e io soltanto a decidere se e quando attivarlo. Inoltre, se la piccola Athena sarà ragionevole, basterà un rito del mio Sacerdote con lo stesso gioiello” e gli sorrise, dolce “a togliere ogni segno che oggi incideremo”.
L’uomo si rasserenò. Era stato uno sciocco a dubitare di lei.
“Bene, Madre Hera. Sono pronto ad esservi strumento” Chinò il capo davanti a lei, piegandosi sul ginocchio nei paramenti sacerdotali.
“Lo vedo e te ne sono grata, mio Menelao. Presto la luna si alzerà e sarà tempo: fai portare subito il più giovane dei due.”
“Ma noi non abbiamo fatto niente” spiegò di nuovo Milo con pazienza. Se ci fosse stato qualcun altro lì, uno di quei bestioni che l’avevano trascinato in quel postaccio, per esempio, non avrebbe perso tanto tempo a parlare. Avrebbe fatto del suo meglio con lo scarlet needle, finché non l’avesse visto implorare. E allora sì che l’avrebbe costretto a scegliere tra la pazzia o la morte.
Altro che parlare.
Però non c’era uno di quegli energumeni. C’era quella ragazza, che era proprio carina, con quegli enormi occhi castani.
Quindi Milo si stava sforzando di usare le parole e non il veleno per convincerla dell’innocenza sua e di Aphrodite.
“Non abbiamo fatto niente. …siamo stati attaccati da una pianta gigante, sai?” le fece vedere al meglio delle sue possibilità, allargando le braccia, quanto quel vegetale fosse grande “E l’abbiamo uccisa! Era enorme e viola!” Pronunciò l’ultima frase con un connubio incredibile di entusiasmo e disgusto.
La giovane produsse un sorriso tirato al pensiero della sua pianta gigante di edera, messa sulla strada dei bambini di Athena per volere divino.
“…una pianta gigante… ma davvero…” fece del suo meglio per allargare un po’ il sorriso. Tanto valeva, si disse, indagare sulle abilità del nemico “E dimmi, come avete fatto?”
Milo la fissò.
Penava che fosse stupido? Lo sapeva perfino un soldato semplice che non si rivelavano a nessuno i segreti della battaglia.
Lei gli sorrise, incoraggiante.
Lui fece altrettanto, deciso a cambiare discorso: “Lo sai che sei bellissima?”
“E tu lo sai che sei furbo?” rise lei, di cuore.
“Quando sarò grande ti inviterò fuori”, assicurò. C’erano già tante ragazze che cercavano di uscire con Aioros e Saga.
“Vedrò di tenermi libera, allora”.
Il bambino le fece il più accattivante dei sorrisi. “Come ti chiami? Io Milo. Milo di Scorpio” aggiunse, come se si trattasse di un cognome.
“Io sono Tifi della Rosa dei Venti”.
Milo ridacchio. “Tifi della Bussola”.
“Molto divertente, Milo di Scorpio, molto divertente”.
“Sei un Cavaliere di Hera?”
Quando la giovane rispose affermativamente, Milo abbandonò definitivamente l’idea di aggirarla per aprire la porta alle sue spalle.
Argo sbatté la porta, quando i servitori passarono a distribuire il rancio e tornò da Giasone con tre razioni. Gli porse la sua e sbatté quella per Aphrodite davanti al moccioso, lanciandogli uno sguardo di traverso.
“Mangia”, brontolò.
Giasone annusò nell’aria l’aroma delizioso delle dolmadakias. Il sapore speziato del riso e delle foglie di vite si sposava bene con i suvlaki di carne. Gli venne l’acquolina in bocca.
Per contro, Aphrodite allontanò il piatto col piede, disgustato.
“Beh?” lo guardò Argo, contrito.
“Volete anche avvelenarci, adesso?” sibilò il ragazzino.
Argo respirò profondamente e si impose di contare fino a dieci per non perdere la calma. Una volta arrivato a dieci preferì arrivare a venti.
“Ti assicuro, pulce, che se volessimo uccidervi non passeremo per il veleno”. Fece scrocchiare le nocche, a dimostrazione.
“Meglio così, Argo. Ce ne è di più per noi”.
“Già.”
La manciata di minuti seguente vide Aphrodite puntare ostinatamente lo sguardo al muro e Argo masticargli con soddisfazione davanti.
“…allora ne vuoi?” berciò quest’ultimo, con la bocca piena.
“No”
“Ma mangi?” Giasone si interessò “Così gracilino non durerai molto come guerriero, sai?”
“Eh, lo butterà giù un soffio di vento…”
“Fatevi gli affari vostri!” trillò Aphrodite “Non avete nemmeno idea del livello di un Saint di Athena!”
“Eh.” Sospirò Argo “Una scuola materna”. Sospirò e gli avvicinò un paio di dolmadakias particolarmente invitanti.
“Mphf!” Aphrodite le accettò, riluttante, ricambiando con uno sguardo algido.
“Ma Hera è cattiva?”
Tifi spalancò gli occhioni scuri, scandalizzata: “Oh, no! E’ la madre di tutti gli dèi, bambino, come puoi pensare una cosa del genere?”
Milo la guardò dubbioso. Era un bambino resistente e sopportava tutto, anche gli allenamenti nelle peggiori condizioni. Mica come Aioria del Leone che era scoppiato a piangere quella volta che era caduto sulle rocce. Ma se lo si teneva chiuso in una stanza per più di due ore, cominciava a soffrire. Se era tanto buona, perché Hera gli faceva una cosa simile?
Aprì la bocca per condividere le sue riflessioni quando bussarono alla porta dietro le spalle di Tifi.
“Fatti indietro, portano la cena”, spiegò alzandosi. Rassettò il vestito e aprì la porta.
l soldato sulla portanon recava il pasto. Aveva alle spalle altre due guardie e dietro di loro aspettava Menelao.
“E’ il momento, Tifi, mia cara”, annuì il Sacerdote. “Fai uscire il bambino”.
“Così presto?”
“E’ anche troppo tardi.”
Tifi spinse Milo in avanti con un certo rammarico e Menelao lo afferrò per le spalle.
Rispondiamo: Shinji: Non temere: non permetteremo a nessuno di rovinare il faccino di Susan-Hera-Sarandon ù_ù Non si tocca. çOç ma neanche i bambini d'oro però! çOç Engel: Eccoci, cara! >O< Beh... diciamo che i piani di Hera sono ben chiari ormai... come li metterà in pratica è tutt'altro paio d maniche. Credo che sia proprio la refrattarietà a starle dietro del marito ad irritarla XDDD Un bacio! Hinayuki: Grazie dei complimenti! >O< Hera ha fatto la sua mossa, adesso tocca ai giovani Saint. XDDD siamo contente che ti piacciano, così piccoli. Cresceranno e allora cominceranno i problemi. ^__- Un bacio e a ritrivarti presto!
“Lasciami! Lasciami!”
La guardia non lo lasciò affatto, ovviamente, e strinse la presa sulle spalle di Milo, che si dimenò con tutta la violenza concessa. Sgambettò. Andò a pestarlo proprio sull’alluce scoperto dal sandalo, ma non ottenne niente, se non un deciso strattone.
“Lascia fare a me. Lo tengo io” sospirò Tifi. Abbandonò la cella, ora, visto che non c’era più alcun bisogno di restare, e decise partecipe di seguire il gruppo. Prese la mano di Milo e lo trasse a sé.
“Come desiderate, Argonauta della Rosa dei Venti”.
La guardia si fece rispettosamente da parte e Milo si trovò più in trappola di prima: la stretta di Tifi era gentile, ma incredibilmente forte.
Menelao gli accarezzò i capelli: “Fai il bravo bambino. Questo è un momento importante. Andiamo, adesso”.
“Cosa succede?”
Aphrodite alzò gli occhi dalla terrina. Oltre le mura gli erano arrivate le grida ovattate e le onde del Cosmo di Milo.
“Niente,” berciò Argo, laconico, versandosi un bicchiere d’acqua “Niente, marmocchio.”
“Adesso entrerai in un posto importante. Devi stare fermo e non ti succederà niente di grave. Hai capito?”
Erano fermi nel nahos che Milo aveva già visto, quando era stato condotto ai piedi della dea insieme ad Aphrodite. Davanti a loro si apriva una camera nascosta, più interna, celata da tendaggi drappeggiati. Prima non l’aveva notata: quanto era grande davvero quel tempio?
Tifi tratteneva il piccolo Scorpio e cercava di tranquillizzarlo, china su di lui. Le guardie si disposero ai lati della porta e Menelao entrò prima di lei e del bambino, portandosi al centro della camera cerimoniale.
“Non avere paura, Milo di Scorpio.”
“Non ho paura di niente, Tifi della Bussola!”
“Madre Hera ci aspetta”. Menelao espanse il Cosmo. Non risultò aggressivo, ma fu come un tappeto denso di energia sul pavimento di marmo e sulle pareti affrescate, a foderare la stanza.
Hera, seduta sul seggio di fronte a lui, sollevò impercettibilmente gli angoli delle labbra, a ricompensare il suo Sacerdote con un sorriso. Era bellissima e imponente.
Restava eretta e immobile seduta sul seggio, i capelli morbidi e fluenti, finemente acconciati sulla nuca, le ricadevano sulle vesti di bisso pregiato. Teneva le mani appoggiate al trono, Hera dalle candide braccia, e il suo sguardo bistrato era un abisso senza fine.
Milo tacque, impressionato, ma cercò ancora di liberarsi dalla presa della ragazza mentre veniva spinto dentro.
“Buono” bisbigliò lei spingendolo appena.
La stanza era piccola e di forma circolare, dava la sensazione di intimità, come se nulla avesse potuto penetrare quel luogo se non con il consenso della dea. Alle pareti i motivi di gigli e pavoni, sbiaditi sulle mura fredde, amplificavano il senso di antichità.
Menelao fece alcuni passi verso il seggio e piegò il ginocchio, le mani a coppa tese in avanti alla dea potente. Lei si sporse appena, elegante, e fece ricadere nei palmi del Sacerdote un anello d’oro, pregno d’energia.
Un gioiello semplice, una lamina d’oro sottile, decorata con intarsi a bassorilievo, minuscoli, realizzati da un vero maestro: Efesto doveva essersi impegnato molto. Sulla sommità il sigillo recante il simbolo della dea, leggermente sporgente, quasi appuntito. Ed era lì che il potere divino stava raccogliendosi.
Quando Menelao chiuse il pugno su di esso, l’anello crepitò.
Al centro della camera faceva mostra di sé un altare di pietra, coperto da un panno. A circondarlo, sul pavimento, qualcuno aveva tracciato ricchi simboli concentrici dalle linee morbide. Milo seguì i tratti con lo sguardo e sentì un principio di nausea.
Pensò fossero quei segni, poi si rese conto che erano gli incensieri sul perimetro, con i loro fumi e quegli aromi dolci che aveva già sentito all’arrivo. L’odore pesante e mellifluo si insinuava e andava ad addormentargli gli occhi e i muscoli.
“Dov’è Phro?” si guardò intorno, a cercarlo magari oltre la porta, ma il piccolo Aphrodite dei Pesci non c’era. Sbatté le palpebre, assonnato e tentò di nascondere il viso ai fumi soporiferi, nel vestito di Tifi, mentre Menelao oltrepassava l’altare per inginocchiarsi ai piedi della sua dea.
“Grande Madre. Hera, signora degli dei.”
La signora degli dei fissò il proprio sguardo verde negli occhi di Menelao e il Cosmo che serpeggiava alle pareti si intensificò. Milo rabbrividì e la paura lottò contro la stanchezza che gli invadeva le membra. Tifi lo sospinse piano in avanti, affiancando il Pontefice di Hera, che allargò le braccia, in un gesto cerimoniale, proprio davanti a lui.
Presentava l’offerta alla dea.
Scorpio avvertì un senso di allarme crescente. E poiché la ragazza della Rosa dei Venti lo teneva salda per le spalle e le braccia, si sporse in avanti, facendo scintillare il Cosmo: per tutta risposta all’offensiva degli Argonauti, affibbiò un piccolo, doloroso morso al braccio di Menelao.
Mentre Menelao preparava un rito, qualcuno ne officiava un altro, sulla stessa Samo.
Tiresia non era andato a dormire quella notte. Era rimasto seduto su uno scoglio sul mare, sotto la luna, come se potesse guardarne il riflesso sull’acqua con i suoi pallidi occhi ciechi.
Quando l’astro argentato si era alzato – Tiresia non aveva potuto vederlo, ma la marea gli aveva lambito i piedi delicati – era tornato indietro sulla scogliera, una figura flessuosa nella notte, e aveva raggiunto la riva sassosa del mare.
Si era inginocchiato e aveva raccolto in sé il potere della chiaroveggenza. Con gli occhi della mente vedeva benissimo, Tiresia, Argonauta del Giglio.
“Milo!” sibilò Tifi, impallidendo. Preservare il Sacerdote di Hera dai morsi di un Cavaliere di Athena era una delle incombenze ancora non richieste ad un’Argonauta. Lo strattonò all’indietro, un colpetto di rimprovero sulla nuca.
“Tifi, per la carità della dea!” Menelao si scrollò di dosso il bambino, oltraggiato. Non sembrava irato, quanto offeso per l’affronto in sé, e si ricompose in fretta sotto lo sguardo perplesso di Hera che aveva dischiuso le labbra per impartire un ordine, ma era rimasta in silenzio con il rapido concludersi del piccolo incidente. “Tifi, per carità della dea, tienilo a bada! Un simile comportamento non è affatto conveniente. Legalo, se necessario, per il suo bene e per il nostro”, concluse, rassettando la veste sacerdotale.
Un Saint che teneva un simile comportamento! Scandaloso. In un’altra situazione sarebbe andato di filato a informare il Grande Sacerdote di Atene, poco ma sicuro.
Hera sospirò, eretta ed elegante, sul suo seggio. Probabilmente pensava la stessa cosa: i bambini hanno bisogno di essere educati.
“Tifi, mia cara, legalo”. Insisté Menelao, per prudenza.
“Sia come dici” sussurrò lei.
Dispiaciuta per la rudezza, bloccò le braccia del bambino e con il calore dei propri palmi creò fusti d’edera violacea, pronta ad avvolgersi con le sue spire sui polsi sottili, per stringere in una morsa decisa.
Brutta robaccia viola! Gemette il piccolo tra sé, riconoscendo con allarme l’edera mostruosa in cui lui e Aphrodite si erano imbattuti. Il Cosmo di Milo scintillò ancora, bruciò, con tutta l’indignazione concessa dai sette anni del Cavaliere di Scorpio e questa volta Menelao allargò il proprio, a sovrastarlo.
Il potere emanato dalla figura del Sacerdote era incommensurabile: a guardarne il volto tranquillo non si sarebbe detto, invece gravò pesante su Milo. Non un cosmo aggressivo, ma severo ed enorme: un potere bianco, quasi accecante che ammonì il fanciullo sovrastandolo, colpendolo intimamente come una mano stretta a pugno.
Il bambino vacillò e la grande mano forte di Menelao si chiuse attorno alla sua nuca, guidandolo verso l’altare personalmente.
Milo oppose una resistenza vana: il potere tremendo di Menelao continuava a gravare su di lui come una nebbia bianca, come se potesse, dalle sue dita, insinuarsi nella sua mente, offuscandola
Complici gli incensieri e i loro fumi, Milo dovette lottare per tenere gli occhi aperti e fissò la propria attenzione sul volto di Hera, che un Saint non si arrende.
La dea, dal suo canto, nel cono di luce delle candele contraccambiò lo sguardo con curiosità: era contenta della scelta. Quel bambino così combattivo la cavia perfetta per l’esperimento.
Menelao le si inchinò brevemente, senza una sola parola, poi si girò verso l’altare per preparare il rito. Si tirò dietro il bambino senza lasciare la presa, sottraendolo agli occhi della dea, che non osasse sfidarla ancora.
Fece cenno a Tifi di aiutarlo e la ragazza si mosse in avanti, silenziosa, chiudendo le edere attorno alle caviglie del bambino quando Menelao lo sollevò tra le braccia.
Stanco, Milo si mosse ancora, sforzando le membra intorpidite, gorgogliando una protesta. Menelao non parve oltremodo impressionato e lo distese sull’altare, con cura, una mano sul petto del piccolo, una sulla sua fronte.
“Non ti ho invitato, Hera, a benedire la mia vita” Cantilenò intanto Menelao, intonando i versi a bassa voce. Con gesti misurati e precisi, lasciò il bambino per accendere fiammelle sui bordi dell’altare “Non ho riconosciuto la bellezza
nella magica luminescenza del pavone, la tenacia nella greve fissità dell’animale,
il candore nella perlacea luce del giglio.”
Salmodiò così, e la nenia raccolse il potere attorno all’altare, nel cerchio delimitato dal fuoco. Milo tentò di alzarsi, ma si accorse di non riuscire a muoversi.
Il cosmo di Hera, ampio, si era unito a quello di Menelao, premendolo all’ara. La dea alzava alla luce dorata delle candele il viso luminoso, le belle palpebre dipinte erano chiuse, come se godesse del calore dolce sulla pelle.
Menelao compì il giro attorno all’altare e si fermò di fianco a Milo, di fronte alla sua dea.
Lei aprì gli occhi verdi e il suo sacerdote la guardò con solenne devozione.
“Ho già scontato, Hera, la collera feroce che colpisce
chi non calpesta i tuoi cortili
chi diserta i tuoi altari.”
Poi, li abbassò sul bambino disteso.
Le onde calme producevano un mormorio dolce, portando con loro i ciottoli levigati. Gli lambivano le ginocchia. Tiresia allungò le mani affusolate nell’acqua, bianche come la luna, e attorno ad esse il mare si increspò.
Se Giasone del Vello d’Oro avesse passeggiato quella notte sulla scogliera, com’era solito fare, talvolta, e avesse incontrato il compagno d’arme, avrebbe con ogni probabilità invertito il proprio cammino: era una figura inquietante, Tiresia, e inquietante era il sorriso che gli tirava adesso le belle labbra, mentre fissava senza vederlo il mare tra le sue mani, come fosse un piccolo specchio circolare.
Seduto sui propri talloni e ammantato nel chitone bianco, così alto da rimanere sempre a spalle un po’ chine, era splendente quanto la luna stessa. I capelli biondi, chiarissimi, tagliati corti, lasciavano scoperto il suo viso delicato e talmente perfetto da risultare impersonale. Sembrava uno spirito in quella notte serena.
Aveva sentito il Cosmo dell’amata Hera sciogliersi quando il rito al Tempio aveva avuto inizio e, da lontano, aveva vegliato insieme a lei.
Con quello specchio d’acqua tra le mani, Tiresia spalancò gli occhi della propria mente su Atene. Madre Hera attendeva le mosse del Santuario della piccola figlia di Zeus ed era certa che nuove sarebbero giunte.
Così Tiresia si abbassò, il vento caldo della sera gli accarezzò le braccia scoperte e i seni virginali nella scollatura del chitone. Rabbrividì e guardò.
Shion, Pontefice di Athena, scese i gradini misurando i movimenti. La guardia inginocchiata poco avanti a lui non poteva immaginare quanto si sentisse stanco e quanto fosse davvero vecchio, quell’uomo ancora così imponente nei paramenti sacerdotali, il volto nascosto dalla maschera intagliata. Con quei capelli fluenti, lunghi e sottili, era l’immagine stessa della serenità e della stabilità.
“In piedi, soldato”.
La guadia si alzò, ma non osò levare lo sguardo. La notte era calda e serena. Shion aveva ascoltato i consigli di un amico lontano, sulle montagne della Cina, attraverso il vibrare del Cosmo, ma l’inquietudine non l’aveva lasciato del tutto.
“Ebbene?”
La guardia si riscosse. “Sono stati trovati, sommo Pontefice. Quando il drappello li ha incontrati stavano già tornando agli alloggi da soli”.
“Chi?” domandò Shion. Nonostante conoscesse già la risposta, domandò comunque. “Anche Pisces e Scorpio?”
“No, mio signore” la guardia chinò il capo “No. Cancer e Capricorn, che avevano lasciato gli alloggi questo pomeriggio. Di Pisces e Scorpio non c’è traccia. I nobili Gold Saints hanno detto di essere andati a cercarli, ma senza alcun successo”.
Shion annuì e congedò il soldato.
Aquarius e Leo avevano sollevato per primi la questione della scomparsa di alcuni Cavalieri d’Oro. Almeno due di essi erano stati ritrovati. Ma Pisces e Scorpio erano ancora lontani dal Tempio.
Si era consigliato con Doko per ore ed entrambi avevano localizzato attività di Cosmo presso Samo. Ma come potevano trovarsi là due fanciulli scomparsi tra un allenamento e l’altro?
Dati i fatti, non restava che andare a controllare.
Si tolse la maschera e bevve un sorso d’acqua, dalla brocca accanto al proprio seggio. Si umettò le labbra e si coprì di nuovo il viso, non senza fretta.
Shion non amava la propria vecchiaia, che non gli consentiva di recarsi di persona sull’isola di Samo, territorio di Hera. Dunque chiamò a sé chi reputava idoneo per la missione, i due giovani tra i quali avrebbe dovuto scegliere il proprio successore.
Tiresia si levò in piedi, silenzioso, la mente piena di immagini dorate: grandi ali protettive e mani in grado difrantumare le stelle.
Il mare ondeggiò calmo e il vento accarezzò le acerbe forme femminee attraverso la stoffa, quando, come uno spettro, si mosse verso il Tempio e verso la propria dea.
“L’incompiutezza è imperdonabile?
Che sia tu ad invitarmi adesso.”
Menelao si girò l’anello tra le dita, percependone il potere familiare e il calore, poi lo sollevò bene in alto, e la fiamma della candela brillò sinistra sugli intagli.
Hera scoprì i denti in un sorriso, sentendo il proprio Cosmo divino fluire dentro e fuori da lei, catalizzarsi nei centri nevralgici delle proprie spoglie mortali e in quel minuscolo, prezioso oggetto nelle mani del proprio sacerdote.
Il dono di un figlio a sua madre.
E come una madre abbassò a sua volta lo sguardo sull’altare.
Milo aveva rovesciato la testa di lato, sul marmo, sovrastato dal potere di quei Cosmi tremendi e dalla sonnolenza. Attraverso le palpebre socchiuse vedeva il riflesso iridescente della tunica del Sacerdote e lo sentiva salmodiare sommesso.
“Ti porto in dono ora la trama dei fragili giorni
in tua assenza consumati.
L’incompiutezza è imperdonabile
Che sia tu ad invitarmi adesso…”
La cantilena si arrestò, immobile come il vento sul mare d’estate, e Menelao afferrò i polsi fragili del bambino.
“…che le ombre si fan lunghe…”
Tifi guardava immobile e attenta, in piedi appena fuori il cerchio tracciato.
Milo tentò ancora un debole scintillare del proprio Cosmo, dorato ma inesperto, che si perse in quello più ampio che permeava la stanza. Menelao gli girò i polsi verso l’alto, scoprendone uno sotto le edere resistenti, che siritrassero al suo tocco leggero. Raccolse in sé tutto il potere e con l’altra mano, ancora levata verso l’alto e ad Hera, calò l’anello imprimendo con incredibile forza il sigillo nella carne del bambino.
“…al fedele mistero che ci unisce”.
Milo gridò sorpreso e inferocito, strappando il tessuto di potere e sonnolenza che lo avvolgeva e Tifi sussultò involontariamente quando il cosmo del piccolo divampò con ferocia, sull’altare di pietra, vibrando con la potenza di tutta la sua costellazione. Esplose in tutto il suo potere.
Milo spalancò gli occhi, spaventato, perché bruciarlo non era stata sua intenzione. Con orrore si rese conto di non avere il controllo del proprio potere. Si agitò sotto le mani di Menelao, per recuperarlo, ma non servì a nulla. Subito dopo gli parve di soffocare e la propria luce dorata, quella che era un frammento di sole, collassò su se stessa, come divorata dall’energia circostante.
Fu un solo istante, poi Menelao sfilò l’anello dalla sua carne e tutto tornò alla normalità.
Il segno era nettissimo, un arabesco minuscolo sulle vene del suo polso. Milo recuperò il respiro e sbattè le palpebre osservarlo.
Ebbe il tempo di vederlo solo per un momento, un incisione nella sua pelle, come un minuscolo morso.
Poi scomparve, come se non ci fosse mai stato, eil bambino perse i sensi.
Rispondendo: Engel: Sì era decisamente un capitolo di passaggio, ci è servito per chiarire alcune cose e per prearare le prossime mosse. E, come vedi, eccole qui. *C* si entra nel pieno dell'azione! XD Siamo felici che i bambini ti piacciano, e sì, decisamente le parti in causa hanno ancora da definirsi ampiamente, speriamo che ci seguirai. ...sui sigilli non ci pronunciamo. Resta a guardare. ^__- Ichigo: ah, grazie! çOç E' bellissimo sapere che ti piacciano e quanto: li avrai bambini ancora per un po'. Grazie dei commenti e della presenza! >_< Shaka: Ah, grazie davvero! Questa è una saga che ci sta prendendo molto, in organizzazione e costruzione, ma ci piace e ci diverte. Speriamo che piaccia anche ai lettori. Grazie di tutto! Shinji: Ah, tesoro, grazie! XD Sappi che ci stiamo avvicinando alla fine del prologo e che gli spoiler sono dietro l'angolo! *C* Intanto Phro e Milo fanno quello che possono, ma la trama si infittisce. >__< Un bacio enorme! ArabianPhoenix: Ah, sì. E' una cosa tremenda per un Saint... é__è del resto Hera è una dea tosta, prende le sue contromisure. Milo ha subito l'incantesimo. Ci vuoi ancora bene? é__è miloxcamus: si, ci siamo finalmente. XD Perdona il ritardo, ma è un lavoro a cui teniamo particolarmente e vogliamo che sia il più curato possibile. Speriamo che non ti deluda e che tu continui a seguirci nonostante i tempi lunghi. çOç Siamo felici che i piccoli ti piacciano! Un bacio e a presto! >***<
06.
Prologo Quando
rinvenne, nella stanza
sacra c’era silenzio. Milo fece un paio di respiri profondi,
per impadronirsi
di quanto più ossigeno possibile, in tutto quel fumo
dolciastro e argenteo. Calcolò
che dovessero essere
trascorsi solo una manciata di istanti e sbatté le palpebre,
come per snebbiare
la mente. Hera
sedeva ancora sul suo
seggio, gli occhi verdi tradivano tranquilla soddisfazione e lo
guardava da
lontano quasi con dolcezza, come una madre che si assicura di non
essere stata
troppo severa. Menelao
l’aveva raggiunta e,
piegato davanti a lei, spingeva l’anello al dito della dea. Il
gioiello baluginò per un
attimo. La
fanciulla, Tifi, gli appoggiò
una mano sulla spalla, leggera. Milo
si rannicchiò, come per
sfuggire al suo tocco, singhiozzò di rabbia e frustrazione,
guardandoli tutti e
tre, pieno d’odio. “E’
tutto finito” diceva la
fanciulla con dolcezza, cantilenando la voce “E’
tutto a posto. Tutto a posto”.
Milo sentì le dita fresche di lei sciogliere con delicatezza
i legami stretti e
dolorosi di edera ai polsi e alle caviglie. Seppe di essere libero. Si
tirò su di scatto, deciso a
balzare addosso a quella traditrice, Tifi della Bussola o chi accidenti
fosse,
ma venne raggelato dal grido basso e potente di un guerriero. “Madre
Hera! Sommo Menelao!” “Argo!”
nella voce di Menelao,
girato verso l’Argonauta che adesso entrava con trafelata
urgenza, si avvertì
una nota di cortese disappunto, per la maleducazione che il giovane
stava
dimostrando, con quell’ingresso poco formale al cospetto
della sua dea. “Sommo
Menelao!” berciò l’altro,
in risposta, indicando freneticamente più o meno in
direzione dell’ingresso
“Alle porte del Tempio! Sono arrivati due Gold
Saint!” “Come?!” Anche
Tifi si irrigidì, le
sopracciglia sottili adombrarono il suo sguardo, preoccupato. “Alle
porte! Si avvicinano e sono
due! Medea li ha avvistati dalla sua postazione!” Argo era
corso appena l’aveva
saputo. “Due?”
Menelao si fece avanti. “In
armatura!” assicurò Argo
“entrambi giovani, ma grandi abbastanza per sostenere un
combattimento. Uno dei
due ha le ali”.
Sollevando le sopracciglia, mimò le ali sulle
spalle, con le mani, come se ai suoi occhi quella fosse una decorazione
assolutamente inutile e veniale. Milo
sentì il cuore gonfiarsi di
gioia e vergogna. Il
suo primo pensiero fu: Aioros e Saga!
Aioros e Saga sono venuti qui a prenderci,
ma seguì subito dopo il disagio di farsi trovare prigioniero
e inerme tra quei
guerrieri ostili, farsi trovare così proprio da loro, da
Gemini e Sagitter di
cui bramava l’ammirazione. Fremette,
a metà tra il sollievo
e l’imbarazzo, guardandosi intorno. Serrò
le labbra, raggelato,
quando alle spalle di Argo comparve quella figura. Alto e longilineo,
sotto la
tunica presentava una muscolatura elastica e ben definita. A vederlo,
sembrava
un giovane uomo, come poteva esserlo Saga, ma il bambino
notò la curva leggera
dei seni, sotto la stoffa, il collo elegante. Innaturale, con la pelle
troppo
bianca per i raggi del sole di Grecia, con quei lineamenti da statua
levigata,
era attraente e spaventoso. Argo
sobbalzò, quando si accorse
del suo ingresso. Milo
non si sentì di dargli
torto, ma rimase coraggiosamente dov’era, anche quando gli
occhi appannati di
cecità dello sconosciuto di posarono su di lui, come se
potessero vederlo
comunque. “Era
previsto” li placò Hera,
serena, che fino a quel momento non aveva detto nemmeno una parola
“Vengono a
riprendere i loro compagni. Non è così,
Tiresia?” Egli
non si inchinò né si mosse
dal fondo della stanza e quando parlò lo fece con voce
maschile. “E’
come dite, Madre Hera. Tra le
onde dell’Egeo ho seguito il loro viaggio dal Santuario di
Atene fino a qui.
Vengono alla ricerca dei bambini e di spiegazioni”. Hera
sorrise appena. Non sapeva
perché l’indovino fosse venuto, quando
già Argo aveva annunciato l’arrivo dei
giovani di Athena, ma conosceva la vista interiore sul futuro e il
passato del
giovane Argonauta Tiresia: se era lì, era lì per
agire. Non
chiese spiegazioni e si
apprestò a governare, caricando la bella voce
dell’antico tono del comando. “Che
la sala sia predisposta per
accogliere i messaggeri del Santuario di Atene. Fate alzare il
fanciullo e
conducete l’altro, affinché possano essere
riconsegnati agli emissari di Athena
che vengono a reclamarli”. “Sì,
Madre”. Menelao si inchinò e
prese una mano di Tifi. “Riponi gli oggetti, cara”,
le disse sottovoce “E tu,
Argo. Conduci l’altro giovane Cavaliere qui”. Argo
si battè il petto con una
mano, in un nervoso saluto militare, poi uscì, di nuovo,
borbottando. Milo
percepì l’atmosfera
distendersi, osservò i volti sereni dei suoi rapitori, tesi
fino ad un attimo
prima. Decise
che non c’era più tempo da
perdere. Libero dalla sua prigione d’edera, balzò
già dall’altare.
Argo
borbottò stizzosamente fino
al corridoio affrescato.
“Giasone!” berciò, spingendosi
all’indietro i riccioli scuri “Giasone, esci col
moccioso! Madre Hera lo vuole
al suo cospetto, sta succedendo qualcosa”.
La porta di legno si spalancò con
forza e il sollievo di Giasone fu paragonabile a quello di Milo, quando
poté
uscire, cercando di trattenere il piccolo prigioniero.
“Ti ho detto molla”.
Ringhiò Aphrodite, conficcandogli per l’ennesima
volta il
gomito appuntito nello stomaco. Poi fronteggiò Argo
“Allora?! Dov’è Milo?”
Aveva avvertito anche lui i cosmi
in avvicinamento, in lontananza, familiari.
Aveva riconosciuto quello
sontuoso di Aioros e quello avvolgente di Saga. Stavano venendo
lì e Aphrodite
aveva tutta l’aria di qualcuno che voleva vedere piegati nel
fango i seguaci di
Hera per mano di Gemini e Sagitter.
D’altro canto aveva avvertito
l’esplosione del Cosmo di Milo, il potere pesante e denso che
poi l’aveva
avvolto, nascondendolo ai suoi sensi.
“Ho chiesto dov’è!”
“Buono, buono, ragazzino!” Argo
provò l’impulso di prenderlo per un orecchio, ma
si trattenne. “Adesso ti ci
porto. Cammina”. E lo spinse in avanti, con una manata, verso
le stanze sacre
della Madre.
Milo
era balzato giù dall’altare
così rapidamente da non essere intercettabile.
“Nonno!” aveva strillato Tifi,
più lontana, e Menelao – anziano ma atletico
– si era slanciato per prenderlo,
piegandosi lui stesso sull’ara. Aveva sfiorato i capelli di
Milo in corsa, ma
quando aveva chiuso le dita il bambino era già lontano.
“Fermatelo!” esclamò roco, lo
stomaco premuto sul marmo. Non era esattamente civile riconsegnare un
ragazzino
ai suoi pari grado se questi saltellava per tutta la stanza come un
grillo,
pensava il Pontefice di Hera. “Per la bellezza degli occhi
verdi della Madre,
riportatelo qui!”
Milo evitò Tifi, scartando di
lato, poi corse verso il vestibolo, con tutte le sue forze. Lo
separavano
dall’uscita sul corridoio solo pochi metri.
Tiresia non cercò di afferrarlo,
e forse fu questo a trarre in inganno la percezione di Milo. Se
percepì
l’avvicinarsi del piccolo Saint di Scorpio o se
già sapeva dove sarebbe
esattamente passato, non fu chiaro nemmeno ad Hera, che
appoggiò tranquilla la
schiena al suo trono, in fondo alla stanza.
Semplicemente vide il proprio
Argonauta stendere appena il braccio, morbidamente, afferrando le
tempie di
Milo con una mano grande e pallida.
Il ragazzino frenò sorpreso,
aggrappandosi con le mani al suo polso, per non franare a terra.
Tiresia aveva
piegato la testa in avanti, come se lo stesse guardando con quei suoi
occhi
ciechi. Non cambiò espressione. Sembrava quasi che non
respirasse.
Dal suo palmo aperto, però, sprigiona
un lieve bagliore perlaceo.
Tiresia schiuse le labbra bianche
gli occhi morti fissi in quelli di Milo. Il bambino non emise un
gemito, ma gli
conficcò le unghie nei polsi, per reazione.
Nel bianco perlaceo che
effondevano quella mano e quegli occhi, qualcosa nella mente di Milo
cambiò.
Cose di poco conto, non strutture precise.
Solo piccoli particolari che il
bianco di Tiresia soffocò e inghiottì.
Qualcosa di piccolo come un
anello che incide le carni, un’esplosione di Cosmo non
comandata, corde d’edera
flessuosa e resistente strette ai polsi e alle caviglie. Cambiarono le
sensazioni di prigionia e quelle di costrizioni, il ricordo di marmo
gelido
sotto la schiena e quello di mani ruvide strette ai polsi. Dappertutto,
a
colmare, c’erano solo gli occhi verdi e caldi di una madre.
Milo avvertì alla bocca dello
stomaco un vago senso di nausea ed ebbe un capogiro. Si
aggrappò ancora, questa
volta per non perdere l’equilibrio.
Quando il malessere si placò,
aveva scordato qualcosa che non avrebbe dovuto dimenticare.
Tiresia ritirò il braccio, i
lineamenti perfetti senz’ombra di tensione.
Aphrodite
si divincolò di nuovo,
ormai trascinato verso la stanza del rituale.
“Lasciami, ho detto! Ti sto
seguendo!”
Insensibile se non alla volontà
di Hera, Argo lo strattonò ancora fino alla soglia,
affiancato da Giasone. Imbecille decerebrato!,
sillabò mentalmente il giovane Pisces. Poi
smise di seguire i due carcerieri e si slanciò in avanti,
verso Milo.
“Stai bene?” Lo afferrò per un
braccio, ruvido, ma ad assicurarsi che fosse tutto intero
“Cosa ti hanno
fatto?”
Milo lo guardò e parve confuso.
“Ecco qui anche l’altro, Sommo
Menelao”, Argo gonfiò il petto, affiancando
Tiresia insieme a Giasone, sul
fondo della sala.
“Bene”. Il sommo Pontefice si era
ricomposto e adesso rimaneva in piedi, insieme alla piccola Tifi,
accanto al
seggio della sua dèa. “Tra breve saranno
qui”.
“Allora?” Aphrodite scosse
l’amico e avvicinò il viso al suo, incoraggiandolo
a dire qualcosa, qualsiasi
cosa.
“Phro…” cominciò Milo, per
poi
tacere di nuovo. Aveva la sensazione di dovergli assolutamente dire
qualcosa.
Invece aveva la mente fastidiosamente vuota, da mezz’ora a
quella parte. “Mi
hanno portato qui… e….”
“E?”
“…beh!” Non si ricordava! Milo
sbuffò di fastidio, pestando i piedini.
“…non lo so più!”
“…non lo sai più.”
Ripeté
l’altro, seccato.
“No!”
“Come fai a non saperlo più?!”
Milo stava per ribattere, ma
venne interrotto dall’annuncio ufficiale
dell’arrivo dei messaggeri di Atene.
Il Cosmo caldo e familiare di due
Cavalieri d’Oro precedette i loro passi oltre la soglia della
stanza,
accarezzando familiare i due bambini Gold Saint scomparsi da Atene.
Rispondendo:
miloxcamus: yes!
La prima! Siamo davvero contentissime che ti piaccia, nonostante i
tempi di
aggiornamento piuttosto lunghi. Sappi che ormai siamo alla fine (
mancano due
capitoli, per la fine del prologo) e andiamo piano piano per definire
gli
ultimi dettagli e portare avanti la costruzione di quella che
sarà l’Heramachia
vera e propria. Insomma, qui siamo alla resa dei conti e speriamo che
tu possa
continuare a seguirci ancora! Beh… Milo ha preso una bella
batosta, stellina
mia. é__è Ma era necessario. Poi, vedrete
perché. *C* Si prospettano sorprese
bestialissime. Vedrai gli sviluppi. Un bacio enorme! Shinji: Ah, non
lamentarti, Hades Sama, visto che di sviluppi già ne
conosci! *C**lo
pungola* Volgiamo alla conclusione, per
questo prologo. Poi. Inizia. Il peggio. *C* Infondici del tuo oscuro
Cosmo,
Hades Sama! *C* ArabianPhoenix: E’
successo, sì. No, carissima é_è Nessun
salvataggio per Milo. Ma non possiamo
anticipare niente, anche se questi eventi saranno ovviamente
importantissimi
per il futuro. Speriamo di tenerti col fiato sospeso tanto quanto
adesso.
>O< Ichigo: Amore
é__è
ci dispiace! Non potevamo davvero fare altrimenti. E’ dovuto
succedere. Ma
stiamo organizzando l’Heramachia ( quindi Prologo e Saga vera
e propria) in
modo da rimanere in continuity e IC con la serie originale. Quindi
niente paura
e non aspettatevi stravolgmenti di carattere su Milo o altri. Ma
attenti:
succederanno cose tremende! *C**musica
inquitante*
07. Prologo Aioros! Pensò
Milo, sentendo il cuore spalancarsi d’amore, Saga!
Il loro cosmo dorato li precedeva, irradiandosi tra le
colonne e i corridoi dell’Heraion.
Due figure dorate sulla soglia, le corporature giovanili,
muscolose, ma atletiche, erano rese più imponenti dalle
sacre vesti. Apparsi
così, senza nemmenofarsi
annunciare
sulla soglia di Hera, parvero due giovani dei. Inaspettatamente la Madre
sorrise.
Milo si lanciò verso la soglia e verso di loro, con
l’urgenza impellente di doverli informare di qualcosa di
importantissimo, ma –
forse per l’eccitazione o per tutti quegli incensi
aromatizzati nella stanza –
non ricordava nulla di ciò che doveva dire a Gemini e
Sagitter. Attraversò lo
spazio senzaincidenti,
conscio appena
dei fumi di incenso più radi, adesso, degli affreschi dei
gigli sulla parte
bassa dei muri. Dei sandali decorati della Madre Hera, seduta sul
trono, che
aveva accavallato le gambe lunghe mentre lui le dava le spalle per
correre via,
quasi per sfidarla.
Poco male, perché nella corsa trovò
immediatamente le mani
forti di Aioros, calde di Cosmo dorato, che lo sollevarono da terra.
Più circospetto, anche Aphrodite lo aveva seguito e Saga, al
fianco di Sagitter, gli aveva appoggiato una mano sulla schiena,
tenendolo
contro di sé. Pisces si irrigidì appena.
Non per Saga, pensò… no, invece, proprio per
Saga. Pieno di
rabbia, non riusciva ad alzare il viso a quello del compagno
più anziano. A
salvarlo! Erano andati a salvarlo! Con che orgoglio avrebbe potuto
guardarli
negli occhi?
Sospirò e tacque, mordendosi l’interno della
guancia,
nervoso.
Hera sorrise, davanti a loro, al punto opposto della stanza.
Sorrise con la dolcezza di una madre.
Non era ancora scesa dal trono e non lo fece. Irradiò invece
tanto potere da colmare la stanza, il suo Cosmo era maturo e colmo di
tenerezza.
Saga fece un passo avanti, offrendo il viso alla dea, le
sopracciglia sottili aggrottate sul suo viso d’adolescente.
La guardò,
nonostante tutto, come si guarda un nemico.
“Benvenuti”li
salutò
lei.
Allora e solo allora gli Argonauti presenti nella stanza
piegarono il capo cortesemente: Tifi e Menelao, accanto al seggio della
loro
dea, Argo e Giasone, contro la parete.
Solo Tiresia rimase immobile, lo sguardo fisso davanti a sé
nel suo modo inquietante, la testa piegata appena sulla spalla come se
fosse in
ascolto di qualcosa che solo lui poteva sentire.
“Sono Aioros di Sagitter ed egli è Saga di Gemini,
Santi
d’Oro devoti ad Athena”.
Hera annuì. Osservò la figura altera del giovane
che aveva
parlato, i riccioli che gli riamavano il collo, gli occhi verdi,
profondi. Poi
l’altro, così giovane eppure già
così forte, il volto bellissimo e seducente.
“Vi conosco”.
“Perché Pisces e Scorpio sono nellevostre mani?” la
voce di Aioros era calda e
limpida, la richiesta posta con estrema cortesia. Eppure, al fianco di
Saga,
era la personificazione stessa della fermezza.
Giasone passò il peso da una gamba all’altra,
vagamente a
disagio.
Argo aveva fatto un passo avanti a lui, istintivamente, e
guardava i due nuovi arrivati con freddezza: erano ricoperti dai
leggendari
Gold Cloth voluti da Atena. Quello dei Gemelli copriva il giovane che
lo
portava interamente, regalando imponenza ad un corpo atletico e forte.
Quella
del Sagittario inguainava il ragazzo vicino, disegnando grandi ali
d’oro sulla
sua schiena. Emanavano santità e potere quanto lo stesso
tempio e Argo si
sorprese del fatto che altri schieramenti divini portassero in loro la
bellezza
del sacro quanto quello di Hera.
I due giovani guardavano la Divina Madre
senza chinare lo
sguardo, sereni. Senza arroganza, ma anche senza vergogna. I loro
sguardi erano
limpidi. Veri guerrieri,
pensò Argo. Ma quello che uscì dalle sue labbra
fu: “Tsk! Mocciosi!”guadagnandosi
un’occhiataccia gelida del piccolo Aphrodite.
“Aioros di Sagitter e Saga di Gemini” la dea Hera
li salutò
formalmente dal trono, di fronte a loro. Portò di nuovo le
gambe unite e
appoggiò sulle cosce i palmi, regale. “Sono lieta
di accogliere nel mio tempio
la vostra visita. Speravamo giungeste presto”.
“Sapevate che saremo venuti e ci accogliete come amici.
Perché, se eravate a conoscenza dei motivi della nostra
partenza, non avete
avvertito il nostro Santuario?”
Le parole di Aioros risuonarono giovani e sagge insieme. Tiresia
tese le labbra in un sorriso strano che non raggiunse mai gli occhi
ciechi.
Il Sacerdote Menelao affiancava la Madre, immobile. In
altre
occasioni avrebbe accolto di persona i giovani Saint di Atena,
svolgendo il
proprio ruolo di intermediario tra gli umani e la divinità,
ma questa volta
Hera aveva tutta l’aria di voler condurre da sola le
trattative.
“I fanciulli dei Pesci e dello Scorpione” stava
dicendo la
dea, infatti “sono stati miei ospiti” con uno
sguardo verde e un sorriso che si
allargò sul bel volto, sfidò i due bambini a
contraddirla.
“Ospiti?” domandò Saga “Ospiti
qui a Samo, quando Atene è
ben lontana?”
Hera non appannò il proprio sorriso materno neppure per un
istante.
“Non tutta l’Attica è sacra ad Athena
dagli occhi brillanti”
cinguettò, volutamente frivola “Come di certo
saprete, la stessa area di
Colono, vicina ad Atene, è consacrata a Poseidon. Allo
stesso modo, nei pressi
del vostro Santuario ci sono templi e regioni dedicati alla mia
persona. I
vostri compagni sono stati trovati su suolo sacro a me, Hera Madre
degli dèi
tutti. In qualità di guerrieri di Athena sono stati
trattenuti, pura
formalità”.
Aioros strinse Milo e girò una rapida occhiata a Saga: non
ricordava di alcun luogo consacrato ad Hera nei pressi del loro
Santuario. Era
anche vero che, per il ruolo che la Madre
ricopriva sull’Olimpo, poteva avere sedi di culto
ovunque, anche un minuscolo tempietto privato. Del resto, quando nei
giorni
successivi Aioros e Saga avrebbero condotto con loro Milo e Aphrodite
per
effettuare delle ricerche in proposito, i bambini non sarebbero mai
più
riusciti a rintracciare il luogo in cui Giasone e Argo li avevano
sorpresi, e,
con gli anni e con il susseguirsi di tragedie più grandi,
quella stranezza
sarebbe stata archiviata come irrilevante.
La dea si rilassò, la schiena contro il proprio seggio, la
testa appena reclinata sulla spalla. Appoggiò una mano sul
bracciolo destro e
attese, guardando i quattro Gold Saint.
Aioros teneva ancora Milo in braccio, Saga aveva Aphrodite contro la
propria
gamba, e si era portato avanti di un passo come per proteggere i
compagni.
Le bastò uno sguardo per capire che non l’avevano
creduta
fino in fondo, quella storia. Non ha alcuna importanza,
rifletté, basterà non
dare al Santuario di Atena pretesti
per mettere in dubbio le mie parole.
Porse l’altra mano e subito Tifi le fu al fianco, offrendole
appoggio. Hera si alzò e accompagnata dalla giovane
raggiunse i Gold Saint.
“Mi rendo conto che possiate avere male interpretato il
susseguirsi degli eventi” si rivolse ai due bambini, in
particolar modo, e sia
Aphrodite che Milo ebbero l’impressione di sentire una fresca
carezza di madre,
sulla guancia “Forse i miei soldati sono stati troppo duri.
Forse le regole
sono state fatte rispettare senza elasticità. Dunque faremo
così:” propose e
fece una pausa strategica osservando Aioros e Saga “Per
ripagarvi del disagio, vi
omaggerò secondo l’antico uso di Samo. Vi
darò in dono due dei miei celebranti,
che rimarranno al vostro servizio fino a che lo ritenete
necessario”.
Menelao alzò il viso, sorpreso, ma non disse una parola.
Aioros
non mosse un muscolo del viso, eppure le sue sopracciglia divennero
severe.
“Sarà il dono di una Madre alla dolce Athena,
quando
rinascerà su questa terra”.
La concessione fu così dolce e cortese, che né
Aioros né
Saga trovarono motivazioni da contrapporle. Sagitter chinò
il capo nel gesto
formale del ringraziamento: “Divina Hera, accettiamo le
vostre disposizioni e
onore vi fa la nobiltà del vostro animo. Al nostro ritorno
ad Atene riceverete
dal nostro Pontefice, il Sommo Shion, una missiva ufficiale che
chiarirà la
posizione del Santuario”.
“Molto bene” Hera annuì e sedette
nuovamente. Fece un gesto
con la mano. “Giasone. Tifi. Sarete voi ad accompagnare i
Cavalieri di Athena e
a servirli. Preparatevi per la partenza”.
Giasone parve sorpreso: aprì un paio di volte la bocca per
dire qualcosa, si umettò le labbra, ma poi non disse niente,
non osando
contraddire la propria dea. Spalancò gli occhi azzurri
spaesato, però, nel
momento esatto in cui lo fece anche Aphrodite.
Quel maledetto lo avrebbe seguito fino ad Atene! Si girò,
ancora stretto contro Saga e ancora incapace di sostenerne lo sguardo,
verso
l’Argonauta, come se Giasone fosse stato diretto responsabile
di quella scelta.
“Tifi…” mormorò invece il
vecchio Menelao, tendendo una mano
verso la fanciulla. Lei lo guardò, intenerita, ma
l’amore per lui non intaccò
la determinazione nel suo sguardo. Gli si avvicinò, gli
prese il viso tra le
mani e lo baciò con dolcezza, sulle guance.
“Addio, nonno” gli disse.
Menelao non emise un lamento. Strinse la nipote, il volto
affondato nei suoi capelli ricci e vaporosi.
“Addio, bambina. Nell’amore di Hera, resteremo
uniti”.
Dopo di che, Tifi si staccò e, composta, raggiunse il fianco
di Aioros. Milo la guardò, sospettoso. Con innaturale calma,
anche Giasone si
fece avanti, fermandosi accanto a Saga.
Guardò Tifi anche lui, confuso. Poi Menelao, come se il
Sacerdote potesse fare qualcosa. Non accadde niente. C’era
Atene nel suo
futuro.
Con ogni probabilità non avrebbe più visto
l’Heraion né i
suoi compagni per molto tempo. Si volse ad abbracciare con lo sguardo
la stanza
e solo in quel momento si rese conto che Tiresia non c’era.
In silenzio, se n’era andato e né gli Argonauti
né i Saint
avrebbero potuto affermare quando lo strano giovane si era allontanato
senza
attirare attenzione.
“E’ tempo di andare, ora” la voce di Saga
di Gemini fu
stentorea come un ordine.
“Piano, piano! Un momento!”
“Argo” lo chiamò la dea.
Madre Hera! Madre Hera, perdonate la mia richiesta! Chiedo
di poter andare a mia volta!”
“Argo, per quale motivo?”
Giasone che fino a quel momento si era guardato i piedi
afflitto, sollevò lo sguardo verso il compagno
d’arme. Restò col fiato sospeso.
“E’ una richiesta strana, Madre Hera… ma
vi prego di
esaudirla!”
“Taci, per favore, Argo” intervenne Menelao, pacato
“Hera ha
effettuato la sua scelta; né io né te possiamo
intervenire per modificare la
sua volontà divina. Quindi fatti da parte, ragazzo
mio”.
“Ma Sommo Menelao…!”
“Un momento, Menelao. E anche tu, Argo, ascolta
bene” Hera
alzò le mani, placando i suoi due Argonauti. “Le
mie disposizioni non cambiano:
Giasone e Tifi scorteranno i Gold Saint ad Atene e resteranno quale mio
tributo
al Santuario. Ma se tu, Argo, mi preghi di unirti a loro, in onore
della lealtà
dimostratami, lascerò che tu vada”.
“Divina Hera! Con tre Argonauti in meno, l’Heraion
sarà meno
custodito!”
“E dunque, mio Menelao? Non ho alcuna intenzione bellica e
non ne temo da altre divinità”. Sorrise e
inchinò la bella fronte ai quattro
Cavalieri d’Oro “Questi sono tempi di pace. E se
con questo gesto posso
riproporre la mia alleanza con la dolce Athena, non mi
tirerò indietro. Vai,
dunque, Argo”.
Argo della Vela, Argonauta di Hera aveva la mente in
subbuglio. Quando lui, Giasone e Tifi erano stati messi sulle tracce
dei Gold
Saint, a loro e agli altri Argonauti era stato detto che non avrebbero
dovuto
farsi scoprire, quando avrebbero rapito i bambini.
In caso contrario, se fossero stati sorpresi dal Santuario
di Atene, avrebbero dovuto pagare il loro errore per salvare i rapporti
diplomatici con l’Heraion, seguendo come tributo ad Atene i
fanciulli rapiti.
Una linea pericolosa, quella della Madre, ma audace: privandosi dei
suoi
Argonauti al Tempio, li inseriva senza destare sospetti
all’interno del Tempio
di Athena, a monitorare la situazione per lei. Non erano impreparati, a
quell’eventualità.
Tuttavia tra sapere una cosa e trovarcisi davanti a muso
duro c’era differenza e l’Argonauta si era sentito
irrigidire quando Tifi e
Giasone avevano ricevuto quell’ordine. C’è poi da dire che
Giasone non è capace di stare in mezzo a tutti quei
mocciosi, come farà in
quell’asilo nido di Atene? E da solo non riuscirà
a non farsi mettere i piedi
in testa dal Sacerdote di Athena, sicuramente lo torturerà! E
già si
immaginava le cose peggiori. La verità era che non sarebbe
riuscito a separarsi
dal compagno d’arme con il quale era praticamente cresciuto.
“Sì, Madre Hera. Con il vostro consenso,
andrò”.
Argo si inchinò alla sua dea, salendo i pochi gradini e
appoggiando la fronte sui sandali intrecciati di lei. La Madre
gli alzò il viso e,
pur senza dire niente lo fece sollevare con dolcezza, accompagnandolo
finché
non raggiunse Tifi e Giasone. Li salutò tutti e tre e
restò immobile a
guardarli andare via, il bel volto appena adombrato dal dolore della
separazione
quando, insieme ai Gold Saint, lasciarono la sala del trono e poi
l’Heraion. Li
seguì con la mente quando raggiunsero Atene spandendo il
cosmo oltre i loro
limiti. Un lampo di luce che la dea percepì nel proprio
cuore ,poi più nulla.
Sospirò.
Insieme a lei sospirò Menealo che quel giorno perdeva due
compagni e una nipote.
“Siamo
in pace, Madre Hera?”
“Sì, mio Menelao. E lo saremo per sempre, se
Athena
rispetterà l’antica alleanza, se non mi
costringerà a mettere in atto le
contromisure che abbiamo preso oggi”.
“Athena è una dea saggia”.
“E’ vero. Non abbiamo niente da temere: so che
pensi a Tifi.
Starà bene”
Il Sacerdote annuì e lei gli accarezzò il volto.
“Se Athena dagli occhi brillanti non fosse così
saggia,
Madre?”
“Allora non potremo opporci alla battaglia, mio Menelao. Ma
tre dei nostri potenti guerrieri sarebbero su suolo nemico ad aprirci
la
strada”.
“Siete previdente, Madre Hera”.
Lei lo guardò con affetto e lui ricambiò con
devozione: “Ora
raduna gli altri Argonauti: è tempo di tenere concilio, tra
di noi”.
Era passata un’ora dalla partenza dei Cavalieri di Athena e
sull’Heraion scendeva la sera, profumata dagli oleandri che
crescevano sulla
costa. Menelao si inchinò e andò a richiamare al
tempio i comandanti
dell’esercito di Hera. Tiresia fu l’ultimo a
presentarsi al cospetto della dea
e solo quando anch’egli si fu accomodato,con il suo sguardo
cieco fisso in
avanti e la testa reclinata sulla spalla, come in ascolto, si diede
inizio alla
riunione.
Aphrodite
camminava avanti a tutti, finalmente sul suolo di
Atene. Non si voltava indietro, il visetto imbronciato e lo sguardo
basso.
Sentiva per Saga un’ammirazione fortissima, tutto
l’amore che un bambino così
orgoglioso poteva provare per una figura autoritaria e straordinaria
come Saga
di Gemini. Da quando era venuto a salvarlo, però, gli
sembrava che tutto fosse
crollato. Si sentiva ferito e umiliato: adesso Saga l’avrebbe
considerato un
ragazzino inutile, non degno di essere suo pari. Sbuffò e
aumentò l’andatura.
Non riusciva a guardare in faccia né Saga né
Aioros.
Dal canto suo, Milo trotterellava di fianco a Sagitter, per
stare al passo con lui, la manina ingoiata in quella più
grande del compagno.
“Dunque, giovane Scorpio” gli si rivolse ancora
Aioros con
la complicità che lo caratterizzava nei confronti dei
più piccoli “Hai
ricordato?”
“No!” Milo si tormentava. C’era qualcosa
che doveva
assolutamente dire a Sagitter e che lo torturava come una spina sotto
la pianta
del piede, ma non riusciva a trovarla nella sua memoria. La cosa era
frustrante
e il bambino stringeva le dita del più grande, in ansia.
“Ti verrà in mente, non devi temere. Ora
guarda!” Aioros
indicò davanti a loro, sulla collina rocciosa, la scalata
dei Dodici Templi che
emergevano candidi tra le rocce, nel cielo fiammeggiato del tramonto.
“Siamo a
casa”.
Anche Gemini sorrise, al fianco del compagno. La tenerezza e
l’abilità che dimostrava con i fanciulli gli
spalancavano il cuore. Osservò la
schiena minuta di Aphrodite, davanti a loro, la piccola mano di Milo
stretta in
quella di Aioros e il profilo nobile del Cavaliere di Sagitter. Si
sorprese
della leggerezza e della felicità di quella sera in cui
tornavano vincitori,
con i bambini scomparsi riportati dall’isola di Samo. Il
cuore di Saga da tempo
era ormai conteso dalla luce e dalla tenebra in una battaglia che
combatteva
ogni giorno e ogni notte.
In quel pomeriggio sereno, al fianco di Aioros e ai piedi
del Santuario, non c’era nemmeno un ombra, solo una luce
dorata e bellissima.
“A casa, sì” ripeté sereno,
sorridendo ad Aioros. “Andiamo”.
Giasone, dietro di loro con Argo e Tifi, sollevò lo sguardo
al Santuario di Athena. I dodici Templi si susseguivano l’un
l’altro lungo il
pendio del monte spiccando nella roccia nuda. Quello sarebbe stato il
posto in
cui avrebbe dovuto vivere da quel momento in avanti, si rese conto.
Guardò Argo e il compagno aveva il viso adombrato, le labbra
piegate in una smorfia disgustata. Non gli aveva parlato da quando
erano
partiti, ma non aveva nemmeno mai lasciato il suo fianco. Si
domandò cosa
stesse pensando. Se avrebbe avuto momenti per chiederglielo, nei giorni
successivi.
Guardò Tifi e lei gli sorrise. Composta e apparentemente
serena seguiva i Saint senza dimostrare incertezza o timore. Giasone
del Vello
d’Oro vide Milo di Scorpio girare la testa per osservarli da
sopra la spalla e
vide l’amica sorridere anche a lui e mostrargli la lingua per
gioco.
Il bambino rise.
“Stiamo per entrare al Santuario” Saga,
l’aria seria, si
volse a metterli al corrente. “Sarò io stesso a
condurvi dal Pontefice, che si
occuperà della vostra permanenza”.
Tifi annuì. Argo rispose con un grugnito.
Da oltre il Primo Tempio si udì un fischio,
spaccò l’aria
della sera a metà, vibrante.
“Ciuro! Sei
tornato!” un paio di ragazzini si agitavano, sulle scale.
Quello che aveva fischiato
aveva gli occhi rossi e Giasone ne rimase impressionato: dove era
capitato?
Aphrodite alzò la faccia e per la prima da giorni fece un
sorriso. Agitò una mano verso i due, più in alto.
Poi si lanciò in corsa verso
DeathMask e Shura.
Anche Milo trotterellò veloce dietro Pisces, quando tra le
colonne vide Camus, silenzioso ma attento, che era sceso non appena
aveva
avvertito il Cosmo dei guerrieri a ritorno.
Aioria balzò in avanti rispetto a Camus, corse
giù a fare le
feste al fratello Aioros che insieme a Saga tornava da una missione
insidiosa, e
balzò addosso a Milo, offeso e felice insieme. Finirono ad
azzuffarsi
sull’erba, quasi travolgendo Giasone.
Argo sospirò, sentendo l’inizio di una fastidiosa
emicrania
martellargli la tempia.
EDIT:
Questo capitolo, in un errore d'aggiornamento, era stato
perduto. Ovviamente siamo state in grado di recuerare lo scritto, ma le
risposte alle recnsioni sono state perse ;O; Perdonateci! *ABBRACCIA
TUTTI*
Tanto per cominciare, ci
scusiamo per l'incidente: Shaka e Ikki avevando deciso di colonizzare
l'Heramachia con le loro drabble e questa fanfiction era stata
aggiornata con due capitoli da cento parole. Ma li abbiamo sgamati e
siamo riuscite a intervenire: e c'è chi dice ancora che
Virgo e Phoenix non siabo due splendidi bastardi. Bah!
Siamo arrivati alla fine del
Prologo e l'abbiamo tirato per le lunghe, ma alla fine siamo qui:
grazie a tutti coloro che ci hanno seguito in questa piccola avventura
con i Goldie bambini, e a coloro che aspettano il seguito: L'Heramachia
sarà uan cosa ENORME e, poco ma sicuro, la troverete presto
su questi schermi. XD Speriamo che vi coinvolga come sta appassionando
noi.
Tra la pubblicazione del
Prologo e quella della Saga vera e propria, vi faremo una sorpresa
lunga almeno almeno quattordici capitoli.
Vi aspettiamo sempre, con
tutto il nostro amore <3
08.
Prologo
L’Undicesima Casa dello Zodiaco era pulita, ma non si poteva
dire che brillasse.
I servitori addetti alle pulizie avrebbero dovuto tenerla bene in
ordine e linda, per la sacralità del luogo e in onore del
custode che l’abitava, il Gold Saint di Aquarius. Solo che a
capo della servitù, lì, non c’era un
servitore: c’era un guerriero.
Argo berciò qualcosa a bassa voce e infilò altri
due panni da lavare nella cesta della biancheria. Assolutamente
inammissibile che lui, un Argonauta, uno dei più valenti
guerrieri della più elevata casta della Madre Hera fosse
costretto a fare il lavapavimenti, lo sguattero, il servitore di un
maledetto moccioso del Tempio di Athena! Eppure così aveva
voluto la divina Hera, madre degli dèi e del suo destino: li
aveva dati al Santuario di Atene come dono, pegno per un incidente
diplomatico.
Quanti anni erano passati, da allora? Dodici? Tredici?
Quegli ultimi tempi non erano stati felici per il Santuario di Atene:
molti avvenimenti lugubri e cupi si erano susseguiti e regnava, sotto
l’apparente tranquillità mediterranea, sotto i
colori brillanti della vita di Grecia, un’oscurità
densa e pregnante che soffocava i cuori.
Il Sacerdote della Pallade Athena suscitava ancora obbedienza, ma Argo
aveva visto che era più attraverso la paura che esercitava
il comando, piuttosto che con il rispetto.
Di certo un’ottima notizia da portare alla Madre.
Argo ricordava il suo primo ingresso all’Undicesima Casa: era
entrato, smargiasso, deciso a non farsi mettere i piedi in testa, e
quello che si era trovato davanti era uno scricciolo dai capelli rossi
e le guance paffute, la frangia tagliata di fresco sulle sopracciglia
severe.
Il suo primo pensiero era stato, inconsapevolmente, lo stesso aveva
avuto Milo di Scorpio, Cavaliere di Athena dell’Ottava Casa: Va là. E’
un pinguino.
Il pinguino si era fatto avanti, gli occhioni assottigliati
nell’espressione di chi è uno dei Dodici Mocciosi
più forti del pianeta e l’aveva fronteggiato.
“E tu che diavolo vuoi?”
“Sono Camus di Aquarius. Cavaliere di Athena e custode del
Tempio della Giara Sacra” aveva mormorato sotto la frangia di
capelli rossi. “Chi sei tu?”
Nonostante gli arrivasse poco più su del ginocchio, non
sembrava particolarmente intimorito.
“Tsk. Io sono Argo”. Argo della Vela, era stato
lì lì per aggiungere, ma si era trattenuto in
tempo. “E adesso levati di mezzo: devo fare le
pulizie”.
“Falle con criterio” puntualizzò il
Pinguino, e prima che Argo avesse avuto il tempo di azzopparlo,
squartarlo, appenderlo per i piedi o fare qualcosa di molto crudele, il
moccioso era già trotterellato via, sereno e rapido, senza
muovere un muscolo del cipiglio sul faccino.
“Bah!” aveva sbottato Argo della Vela, ed era
rientrato per spazzare il naos.
Anche in quel momento, mentre portava fuori il bucato da fare, pensava
alla Madre Hera che intesseva i suoi piani a Samo, al destino crudele
che aveva avuto in serbo per lui, Giasone e Tifi: servitori al Tempio
della Pallade. Era solo una copertura, certo, lo sapeva, per permettere
alla divina Madre di avere i suoi occhi all’interno delle
mura di Atene, ma che prezzo! Gli vennero i brividi: quante volte si
era trovato uno dei mocciosi d’oro così vicino e
indifeso da poterlo uccidere solo allungando una mano? Quante volte,
nella notte, avrebbe potuto incendiare il Santuario e prenderlo
dall’interno, come gli Achei avevano preso Ilio, un tempo?
Eh? Quante volte…?
“Ehi, Argo!” Giasone lo raggiunse, distraendolo
dalle sue elucubrazioni sanguinose. “Aspettami, vengo
anch’io”.
Aveva una cesta piena di panni, a sua volta che gli copriva quasi tutta
la faccia. Aveva un aspetto smunto.
“Mh” grugnì Argo in risposta,
studiandolo.
E’ colpa di Quellogrande! Lo stressa a morte con la pulizia
della casa, dei vestiti, della cucina, delle colonne…!
Se ad Argo era andata tutto sommato bene, finendo a capo della
servitù dell’Undicesima Casa (che Camus
dell’Acquario era stato un bambino riservato e crescendo era
diventato un giovane altrettanto discreto) a Giasone era andata peggio:
servitore alla Dodicesima Casa, era una spina nel fianco di Aphrodite
dei Pesci quanto Aphrodite dei Pesci lo era nel suo.
Uno detestava l’altro in un silenzio rassegnato,
perché gli ordini – che venissero da Hera o dalle
disposizioni pontificie – non si potevano discutere e
l’uno era stato assegnato all’altro.
Il Grande Sacerdote Shion, quando i tre Argonauti erano giunti al
Tempio, aveva deciso che gli ostaggi di Hera rimanesseroa servire alle
Case dello Zodiaco: avrebbero potuto essere più controllati
che a gomito a gomito con dei Cavalieri d’Oro?
Era stata un’ottima pensata.
Tranne, naturalmente, che per Aphrodite dei Pesci e per Giasone del
Vello d’Oro.
“Tutti” borbottava intanto Argo, scendendo con il
compagno lungo le scalinate scavate nella roccia “Li
ammazzerò tutti. Appena Hera ci darà
l’ordine, questi marmocchi li ammazzo tutti di persona,
parola mia! Dovessi aspettare altri dodici anni…”
Giasone sospirò sollevando gli occhi al cielo. Era abituato
a sentire Argo proferire sanguinosissime minacce ai danni dei Gold
Saint che aveva visto crescere. Illustrava scenari apocalittici, di
come li avrebbe uccisi per Hera e ballato sulle loro
spoglie… salvo poi, specie negli anni
dell’infanzia dei Cavalieri d’Oro, correre come una
chioccia protettiva e preoccupata a rialzare il ragazzino che era
caduto a terra, che aveva sbattuto contro una colonna, che si era rotto
due o tre falangi all’arena.
Argo, quando minacciava i Saint di Athena, era credibile quanto Giasone
che cercava di frullare le verdure per i capricci alimentari di
Aphrodite dei Pesci.
Argo della Vela, per intenderci, era anche quello che c’era
rimasto peggio di tutti, tra lui, Giasone e Tifi, quando era morto
Aioros di Sagitter.
Che fosse traditore o no, era solo un ragazzo, aveva detto
a Giasone.
Una notte era successo il finimondo, la dea appena nata che veniva
rapita, veniva sgozzata – tra la servitù per un
paio d’ore si era vociferato persino che la neonata avesse
ammazzato il Sacerdote, ma fortunatamente era stata messa a tacere in
fretta – o spariva nel nulla. Poi si era venuto a sapere che
era stato Aioros di Sagitter a rapirla, ma che era stato ammazzato in
fretta e senza troppo spargimento di sangue e che la bambina era
tornata al sicuro al Tredicesimo Tempio. Giasone aveva seguito la
faccenda con timido distacco, in tutto quel fragore. Tifi aveva avuto
il suo da fare, giovane custode del piccolo Custode
dell’Ottava Casa, che dalla morte di Aioros di Sagitter aveva
avuto il cuore spezzato.
Ma Argo era stato devastato. Ad Argo della Vela Aioros era piaciuto
– alla maniera in cui un Saint d’Athena
può piacere a un Argonauta di Hera, certo – da
subito, come il suo compagno quando insieme erano giunti a Samo per
riprendersi Quellogrande e Quellopiccolo.
Sembrava un bravo
ragazzo, no? Aveva detto a Tifi e lei gli aveva
accarezzato la guancia, stanca. Chi
l’avrebbe detto che sotto un aspetto così puro, si
nascondesse tanto marciume?
Quella notte, Aioros di Sagitter era morto e Saga di Gemini scomparso.
Argo, per tutta la mattina seguente, era rimasto quasi atterrito a
fissare gli occhi atterriti del bambino dell’Acquario,
smarrito più di lui, senza che nessuno dei due sapesse cosa
fare: quegli avvenimenti erano come un terribile auspicio.
“Li ammazzo uno per uno!”
“Sì, Argo. Ma aspetta che sia la divina Hera a
darci gli ordini” sospirò Giasone.
Scesero ancora e fu DeathMask di Cancer a incrociarli sulle scale.
Stava salendo verso la Dodicesima.
“Ehi” sibilò Argo “Dove va
quello?”
“Da Aphrodite dei Pesci, immagino”. Nemmeno Giasone
si era rassegnato al fatto che Cancer e Pisces trascorressero il
più della giornata insieme: non trovava che la compagnia del
Cavaliere della Quarta Casa fosse adatto al Custode della Dodicesima.
“Ancora? Cosa aspetta Quellogrande a liberarsene?”
sbottò Argo. DeathMask passò tra di loro, come se
nemmeno li vedesse. All’ultimo momento, però,
saettò uno sguardo rosso e malevolo a Giasone, fece un
ghignaccio e lo spintonò più in là.
“Ehi!” gli ringhiò dietro Argo, ma
già il Saint di Cancer, ventitre anni compiuti da poco,
scompariva dietro la curva della scala.
“Ah, fa niente” Giasone fece un gesto: conosceva
abbastanza gli amici di Aphrodite per sapere che, in un modo tutto suo,
Cancer l’aveva appena salutato. “Andiamo, che si fa
tardi”.
Pochi minuti dopo oltrepassavano l’arena e gli alloggi dei
soldati, diretti alle lavanderie. Sulla soglia dell’edificio
antico in muratura nuda, Tifi li stava aspettando all’ombra,
appoggiata alla parete, una gamba ripiegata morbidamente. Parlava con
un uomo alto, abbronzato e muscoloso, che sebbene la sovrastasse per
mole e altezza, sembrava pendere dalle sue labbra, il viso addolcito
mentre la guardava: era stato un guerriero una volta. In lizza, da
fanciullo, per l’Armatura d’Oro del Sagittario,
scomparsa ormai dal Santuario da tredici anni – da quando
Aioros era fuggito e morto nel tentativo di rapire la dea fanciulla. Il
corpo di Sagitter non era più stato ritrovato. Neppure
l’armatura.
Galan, antico compagno d’arme di Aioros, era caduto in
disgrazia – si diceva, al Tempio – dopo avere
tentato di rubare l’ichor
di Athena, come un volgare ladro, il peggiore dei traditori. Era stato
perdonato dopo avere pagato le sue colpe in uno scontro che
l’aveva visto, a quel tempo, contrapporsi proprio
all’amico Aioros.
Era stato uno scontro durissimo: Galan aveva chinato il capo e si era
pentito; era stato destituito dall’onore di poter un giorno
combattere per la Sacra Armatura. Era stato radiato, destinato a
prestare servizio l’ordine che aveva violato come servitore
nelle Case dello Zodiaco. Aveva perso un occhio e un braccio, in quella
battaglia.
Ciononostante, o forse proprio per quella ragione, sembrava avere un
successo notevole con le donne.
Soprattutto con Tifi.
Che diavolo vuole quello?
Pensò Argo tra sé: era molto protettivo nei
confronti dell’amica.
Anche Giasone stava dando segni di impazienza, nel vederli:
“Ancora lui. Sempre in mezzo ai piedi!”
“Già” annuì Argo, cupo.
L’uomo che sorrideva a Tifi di un sorriso bianco e perfetto
– il sorriso dell’eroe – era il servitore
adibito alla cura della Quinta Casa e del Gold Saint di Leo: dopo la
morte di Sagitter, Galan era stato uno dei pochi a professare
l’innocenza del vecchio amico ed era rimasto al fianco del
giovane cavaliere d’Oro di Leo, fratello minore di Aioros.
Tifi aveva avuto modo di conoscerlo bene, data l’amicizia di
Aioria di Leo e di Milo di Scorpio. Negli anni dell’infanzia
dei Cavalieri d’Oro spesso si era ritrovata il giovane Leo
scorrazzare per l’Ottavo Tempio o aveva dovuto impedire a
Milo di mandare all’aria i lavori di riordino del collega.
Anche Argo lo conosceva: il Pinguino era amico di Aioria di Leo e di
Quellopiccolo tanto da offrire la loro compagnia ad Argo della Vela
più di quanto l’Argonauta avesse ritenuto
necessario.
“Ora è meglio che vada” stava dicendo a
Tifi l’omaccione. “Il mio signore Aioria
è tornato da Tokyo da poco e non è più
lo stesso. Temo, dolce Tifi, che sia successo qualcosa quando si
è recato a vistare il Pontefice nelle sue stanze: gli
resterò vicino per portargli aiuto, in caso lo
necessiti”.
“Sì, Galan. Spero di rivederti, questa
sera”. Lo salutò lei ed ebbe per
l’interlocutore un sorriso dolcissimo che portò
Argo a pensare che se suo nonno, il Sacerdote Menelao, avesse visto
come civettava con un nemico, gli sarebbe preso un infarto secco a
quella povera anima!
Poi Galan della Quinta Casa fece una cosa che per poco non fece
prendere un infarto secco ad Argo e Giasone: si chinò sulla
piccola Tifi, le prese una guancia nella mano e appoggiò le
labbra sulle sue.
Maledetto monco!
Berciò Argo, tra sé. Ma l’espressione
di Tifi era così felice, così deliziata, che non
ebbe il coraggio di tradurre in parole i suoi pensieri. Del resto tra
quei due andava avanti da abbastanza tempo per essersene fatti una
ragione. Turbato come se Tifi fosse stata la sua stessa sorella, Argo
si voltò dall’altra parte, cupo.
Giasone, più accomodante, invece si era fatto avanti in
tempo per salutare cordialmente Galan e prendere posto accanto a Tifi,
nell’ombra della vigna che scendeva fresca dal tetto della
lavanderia.
Lei salutò l’amico strizzando l’occhio e
si sporse per vedere se stesse arrivando anche Argo.
L’Argonauta della Vela si fece avanti solo qualche istante
dopo, fingendo di avere perso un importantissimo panno di Aquarius e
poi di averlo ritrovato sul fondo della cesta.
“Sei arrivata prima” cominciò Giasone,
tanto per attaccare bottone.
Lei sorrise.
“Milo ha rotto la tunica in allenamento, stamattina. Volevo
che la riavesse pronta per il pomeriggio”.
Inventò. La verità era che Camus era sceso
dall’Undicesima qualche ora prima per andare a trovare
Scorpio e lei era scivolata silenziosamente fuori per lasciare soli di
due Gold Saint e per vedere Galan.
Quello evitò di dirlo agli amici, però. Si
illudeva ancora di passare inosservata.
“Bah!” berciò Argo, buttando i panni nel
bacile di pietra “Quellopiccolo deve darsi una regolata! Non
è che può far fuori una tunica al
giorno!”
“Beh, devono pur allenarsi” tentò
Giasone “Sono guerrieri. Siamo noi che siamo giù
d’allenamento da tredici anni!”
“Ssssh!” Tifi si guardò alle spalle,
cauta. Non c’era nessuno.
“Tsk!” sibilò Argo e proseguì
sottovoce “Non possiamo mica allenarci ed esplodere il Cosmo
sotto gli occhi di tutti! Ci scoprirebbero!”
Giasone borbottò qualcosa di affermativo e Tifi tacque, il
pensiero rotto tra il nonno e i compagni, da una parte, e Galan e Milo
dall’altra.
“Ma quando Hera ci
chiamerà…!” terminò
trionfante Argo della Vela “Quando Hera ci
chiamerà farò una strage! Basterà un
mio pugno per sbarazzarmi di tutti questi marmocchi e si dovranno
preoccupare del loro faccino, altro che delle tunichette! Li sradico da
terra! Li faccio a pezzi! Ah, vedrete! Quando Hera ci
chiamerà…”
Hera
li chiamò.
Solo, li chiamò quando ormai tutto era perduto.
Tredici anni dopo la morte di Sagitter, una ragazzina era giunta da
Tokyo asserendo di essere Athena, con un manipolo di Bronze Saint al
suo seguito.
Il Santuario li chiamò traditori, tutti, ma come guidati da
mano divina i cinque giovani Bronze salirono le scalinate di marmo
Tempio dopo Tempio, sconfiggendo e uccidendone i custodi.
Argo e Milo sprofondarono nel lutto, quando persero Aquarius per mano
dello stesso allievo che Camus aveva cresciuto.
Tifi non poté che partecipare al loro dolore, ma fu toccata
anche dalla gioia di Galan, nel vedere la figura di Aioros,
l’amico defunto, tornare alla luce, brillante e splendente
com’era stato in vita: eroe senza macchia finalmente
riabilitato al cielo di Grecia, lui che aveva salvato Athena, non
rapita.
Giasone tacque per giorni. Aphrodite era morto e a lui era sempre parso
immortale, nell’algida noncuranza che aveva sempre distinto
il suo protetto agli occhi di Giasone. Con lui era morto DeathMask di
Cancer, il Saint dagli occhi rossi e crudeli che lo salutava sulle
scale del Tempio a forza di spallate. E Shura di Capricorn, amico degli
altri due tanto da soggiornare alla Dodicesima quanto Aphrodite.
Giasone tacque per giorni e quando ricominciò a parlare lo
fece con più riserbo e attenzione e se raramente
nominò i Gold Saint defunti, da quel momento, mai lo fece
accostando la parola morte nella stessa frase.
Poi venne Hades a distruggere le pietre antiche del Santuario, ad
uccidere i Saint che erano sopravvissuti. Quando Hera
richiamò a sé gli Argonauti che aveva lasciato
alle costole di Athena come spie, il Grande Tempio era distrutto, le
rovine quasi deserte e i suoi tre guerrieri portavano macerie pesanti e
polverose sui loro cuori.
Però obbedirono e una notte scomparvero, tornando a Samo.
Rispondendo:
ArabianPhoenix: Ah, grazie! Grazie! Non finiremo mai per
ringraziarti dei complimenti che ci hai fatto per questa fanfiction.
Questo è l'ultimo capitolo del Prologo ed è qui
che i Gold Saint cessando di essere beambini, Quando Heramachia
ricomincerà, l'ambientazione sarà quella di un
ipotetico Post Hades, con i character come li ricordi dal manga e
dall'anime. Grazie per averci seguito fin qui. Speriamo di ritrovarti
presto anche per la saga vera e propria! Engel: Accidenti, grazie davvero! Te
la sei letta tutta d'un fiato e poi ti abbiamo lasciato sospirare con
questo ultimo capitolo. Ci dispiace immensamente! Ma adesso, se non
altro, il Prologo è terminato. XD Grazie anche per le belle
parole che hai avuto per il nostro Tiresia. E' un personaggio a cui
siamo estremamente affezionate, tutte e tre, E' un personaggio
difficilissimo da rendere e quindi le tue osservazioni ci rendono
doppiamente orgogliose, Speriamo di non deluderti, continua a seguirci!
Idem per Hera: cerchiamo di caratterizzare la Madre nel modo migliore,
ma è un personaggio così eccelso che temiamo
sempre di non essere all'altezza. Saga e Aioros insieme...
vabbè. =ç= *GUH!* ...avranno
modo di tornare ad esserlo nella saga vera e propria, vedrai <3
Grazie di tutto. nikkith: Ollallà!
Ci togliamo il cappello! Ovviamente i Gold ci saranno tutti. Shion e
Kanon in testa agli altri. Ci mancherebbe altro, lasciarli a casa. Li
vedrai e li vedrai eccome. I Bronze appariranno di certo e avranno il
giusto spazio che necessitano: sono pur sempre i protagonisti, la
piccola scorta armata di Athena. Non abbiamo nessuna intenzione di
togliere loro importanza. Seiya, Shiryu, Hyoga, Shun e Ikki
presenzieranno come nella serie originale. Saranno i Gold ad avere
più spazio del solito perchè se lo meritano, ecco
<3 *FETICISTE* Grazie per i complimenti, sono stati di
una dolcezza adorabile. Siamo in ritardo, ma alla fine abbiamo
aggiornato. Ci vuoi ancora bene? éOè beat: la
nostra meravigliosa beat! Alla fine allora te la sei letta!
çOç Grazie! Non sai che felicità ci
hai dato. Di certo sarà un progetto ambizioso. E' una cosa
ENORME da gestitre ed è il motivo per cui andiamo
così piano; non vogliamo rischiare di rovinare qualcosa che,
per noi, è già diventata molto importante e ci
piacerebbe conquistasse anche voi. Milo e Phro sono un'arma di
distruzione di massa, così piccoli, è vero. Che
puccezza. Ma sono pericolosi proprio per quello. Gli Argionauti
cominciano ad averne un'idea. <3 Hera darà
eccome filo da torcere alla piccola Athena. Ma questa volta Saori
è pronta per affrontare un'avversaria di questo calibro al
massimo delle sue forze: ci saranno sorprese interessanti, vedrai. O,
almeno, lo speriamo. Grazie di tiutto anche a te, tesoro. Ti
abbracciamo forte.
ECCOCI
ALLA FINE: GRAZIE ANCORA A TUTTI. A CHI HA COMMENTATO, A CHI HA LETTO,
A CHI CI HA MESSO NEI PREFERITI, A CHI CI HA STAMPATO, A CHI CI HA
REGALATO DELLE CARAMELLE, A CHI HA SPUCCIATO APHRODITE DEI PESCI:
GRAZIE INFINITE. LA SAGA COMINCERA'
PRESTO, DOPO QUESTO PROLOGO. NEL FRATTEMPO, CHI E' INTERESSATO AI
RETROSCENA DELLHERAMACHIA, LI PUO' TROVARE QUI, IN PROGRESS: CLIKKATE
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