La mia vita sul set

di Panenutella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap 1. ***
Capitolo 2: *** Cap 2. ***
Capitolo 3: *** Cap 3. ***
Capitolo 4: *** Cap 4. ***
Capitolo 5: *** Cap 5. ***
Capitolo 6: *** Cap 6. ***
Capitolo 7: *** Cap 7. ***
Capitolo 8: *** Cap 8. ***
Capitolo 9: *** Cap 9. ***
Capitolo 10: *** Cap 10. ***
Capitolo 11: *** Cap 11. ***
Capitolo 12: *** Cap 12. ***
Capitolo 13: *** Cap 13. ***
Capitolo 14: *** Cap 14. ***
Capitolo 15: *** Cap 15. ***
Capitolo 16: *** Sogno ***
Capitolo 17: *** Cap 17. ***
Capitolo 18: *** Cap. 16 ***
Capitolo 19: *** Cap 18. ***
Capitolo 20: *** Cap. 19 ***
Capitolo 21: *** Cap 20. ***
Capitolo 22: *** Cap 21. ***
Capitolo 23: *** Cap 22. ***
Capitolo 24: *** Cap 23. ***
Capitolo 25: *** Cap. 24 ***
Capitolo 26: *** Cap. 25 ***
Capitolo 27: *** Cap 26. ***
Capitolo 28: *** Cap 27. ***
Capitolo 29: *** Cap. 28 ***
Capitolo 30: *** Cap 29. ***
Capitolo 31: *** Cap 30. ***
Capitolo 32: *** Luce ***
Capitolo 33: *** Cap. 31 ***
Capitolo 34: *** Cap. 32 ***
Capitolo 35: *** Cap. 33 - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Cap 1. ***


  

La mia vita sul set - Cap. 1

Guardando fuori dal finestrino dell’aereo, non riuscivo a non pensare alla telefonata che avevo ricevuto la sera prima dalla Nuova Zelanda.

Stavo preparando le valigie per tornare a casa, in America, con una laurea in recitazione in tasca e un biglietto aereo Oxford – New York in tasca, quando il mio telefonino cominciò a squillare. In mezzo a quel casino di vestiti che era la mia stanza, ci sarebbe voluta un’eternità per trovarlo… fortuna che avevo una co-inquilina infallibile.

- Jess! Non trovo il telefono! – u rlai al disopra della musica a palla. Jessy, la mia migliore amica dalle elementari, entrò nella stanza, tuffò una mano dentro una piramide di magliette e me lo lanciò, il tutto senza smettere di sgranocchiare patatine. Il telefono squillava ancora, per fortuna, e risposi al volo, senza guardare il numero.

- Lesley Dalton? – gracchiò una voce dall’altra parte. Sembrava lontanissima e la linea era un po’ disturbata. – Sono Peter Jackson, un regista, e possiamo darci del tu. – Non si fermava ai convenzionali, a quanto pareva. – Ho bisogno di te. Vorresti una parte  di Hery nel Signore degli Anelli?

- Stai offrendo la parte della figlia di Galadriel ad una appena laureata all’Accademia di Recitazione di Oxford? – chiesi, non credendo alle mie orecchie. Peter annuì.

- Sir Ian Holm mi ha detto ottime cose su di te e mi ha fatto avere il tuo curriculum. Per favore. Abbiamo un bisogno disperato di una come te. Hai cinque minuti per pensarci.

- Partecipa anche zio Ian? Peter, ho già la valigia pronta. Dammi il tempo di avvertire l’aeroporto e i miei genitori e salgo sull’aereo.

Ed ora eccomi, quasi arrivata in Nuova Zelanda neanche un giorno dopo. Una hostess mi si avvicinò e mi disse di allacciare le cinture per l’atterraggio.

Scesi dall’aereo totalmente in balia del fuso orario e del mio scarso senso d’orientamento. Se per caso avevo dormito, sarà stato per un’oretta scarsa. Sommato alla baldoria fatta la notte prima per festeggiare il diploma ottenuto e la fine della scuola, facevano quasi 48 ore di veglia. Decisamente troppo, per una ragazza di 17 anni e, soprattutto, per me.

Chiesi ad un funzionario la strada per il ritiro dei bagagli e lui, gentilissimo, mi scortò fino al posto giusto. Mentre spettavo le mie uniche due valigie, ripensai alle parole di Peter: “All’uscita dell’aeroporto troverai Barrie Osborne. Ti accompagnerà lui negli Studio. Non ti preoccupare”.

Facile per lui, non ti preoccupare! Spaesata, attraversai le porte dell’aeroporto e mi guardai intorno, strizzando gli occhi per adattarli alla luce del Sole. E un nuovo problema mi venne in mente: COM’ERA FATTO Barrie Osborne? C’erano almeno quarantatre uomini all’uscita dell’aeroporto che avrebbero potuto chiamarsi in quel modo.

Sbuffando, mi lasciai cadere su una panchina, tirando fuori dalla tasca della felpa il libro di Sudoku comprato la sera prima in aeroporto e ormai quasi finito. Appena presi in mano la penna, sentii un rumore di ruote frenate di colpo, poi lo sbattere di una portiera. Dopo circa dieci secondi, qualcuno disse:

- Mi scusi, è lei Lesley Dalton? – alzai gli occhi e annuii, trovandomi di fronte ad un uomo con i capelli grigi e gli occhiali.

- Barrie Osborne? – risposi. Lui sorrise.

- Perdoni il ritardo, signorina Dalton, ma la macchina mi ha piantato a metà strada. Ho dovuto spingerla fino ad un benzinaio.

- Non si preoccupi. Ma gli unici che mi chiamano signorina sono…. Uhm… nessuno. – dissi mentre ci stringevamo la mano. – La prego, signor Osborne, mi dia del tu.

- Lo stesso vale per te, allora – rispose. Senza aggiungere altro, prese le valigie e le caricò nel portabagagli dell’auto. Poi, da perfetto gentiluomo, mi aprì la portiera.

Durante il viaggio io e Barrie non parlammo molto. Lui mi chiese qualche informazione su di me, e io gli risposi di buon grado, ma ero troppo stanca per mettere insieme un discorso abbastanza sensato. Mi chiese com’era Oxford e se ero inglese. Risposi che ero inglese d’origine, ma la mia famiglia si era trasferita a New York l’anno prima per motivi di lavoro. Poi, dopo circa mezz’ora, mentre io scrutavo quello spettacolo di incontaminata natura che era la Nuova Zelanda, Barrie mi lanciò un’occhiata in tralice e mi chiese:

- Perché hai l’aria così stanca? – Io lo guardai, a metà tra il sorpreso e il divertito.

- Perché ieri notte io e i miei compagni di scuola abbiamo fatto una festa per il diploma che è finita all’alba e quindi avrò dormito sì e no due ore, perché poi ho dovuto cominciare a farmi le valigie per tornare a casa ma Peter mi ha chiamato e sono dovuta salire sull’aereo… e non ho dormito, perché ero troppo eccitata.

- Beh, se vuoi, puoi dormire adesso. – Sul mio viso apparve un’ombra di sorriso.

- Sei sicuro? – chiesi titubante. – Non ti sembrerò maleducata o viziata?

Barrie scoppiò a ridere, pur mantenendo gli occhi fissi sull’autostrada.

- Ti sveglio quando mancano cinque minuti, ok?

Non lo ringraziai neanche, non feci in tempo. Mi addormentai come un sasso, caddi in un sonno talmente profondo da sembrare quasi comatoso. Non mi avrebbero svegliato nemmeno la Terza e la Quarta Guerra Mondiale.

 

Come promesso, Barrie mi svegliò quando ancora dovevamo arrivare. Io, abituata a venire svegliata anche solo ad un piccolo colpo di tosse – quasi sempre appartenente al professor Fitzerbert, mio vecchio insegnante di Storia della Recitazione  -, sobbalzai al piccolo colpetto che Barrie mi diede sul braccio. Sbadigliando, allungai le gambe e gli addominali, mentre Barrie, ridacchiando, mi raccontava di come non si era accorto che mi ero addormentata. Gli prestai poca attenzione, persa com’ero ad ammirare la Nuova Zelanda. In giro non c’era neanche una piccola strada asfaltata e, a giudicare dal panorama, avevamo abbandonato l’autostrada da un po’ di tempo. Ora stavamo procedendo su una via sterrata, immersa in vastissimi campi di grano. Sullo sfondo, montagne con le vette innevate si innalzavano imponenti, e il Sole brillava su tutto ciò conferendogli colori talmente brillanti da sembrare quasi fasulli. A volte, uno stormo di uccelli attraversava il cielo in file ordinate, facendosi trasportare dal vento che muoveva le spighe di grano come una madre fa con la culla del proprio figlio.

- Sei sicuro che gli Studio siano qui? Disseminati in mezzo a questo spettacolo?

Barrie rise.

- Certo che sono sicuro! Quelli laggiù – e indicò un gruppo di camper e roulotte. – sono gli Studio. E tu, Lesley Dalton, stai per conoscere i tuoi colleghi. Sei molto simpatica, Lesley, non ci metterai molto a farti degli amici.

Fermò la macchina in mezzo ad un grande prato, mi fece scendere e mi accompagnò davanti ad una roulotte. Sopra la porta c’era scritto “D – Trucco”.

Entrammo, e Barrie disse:

- Pete, ecco la nostra salvezza.

- Lesley! Esclamò un uomo venendomi incontro. Era piuttosto panciuto e aveva i capelli crespi e ricci sulla testa. Aveva l’espressione di gioia e vitalità che ha un bambino quando, la mattina di Natale, si alza e sotto l’albero trova una bicicletta rossa. Senza dubbio era Peter Jackson, il regista. Mi strinse in un caloroso abbraccio, mentre esclamava:

- Benvenuta! Benvenuta! Grazie per essere qui! Ti presenteremo gli altri attori stasera, va bene?

Annuii, troppo imbarazzata ed emozionata per pronunciare parola.

- Strepitoso! Bene, bene! Allora ti lascio nelle mani di questa tizia qui!

- Tizia? – gli urlai dietro mentre, con Barrie, usciva. Si allontanò ridendo.

Perplessa, mi girai e osservai la roulotte. Dentro c’erano molti scaffali, sui quali erano appoggiati dei piedi e delle orecchie di lattice. Alle pareti c’erano alti specchi, molto illuminati, sui quali erano attaccate alcune foto. Poi c’erano delle poltrone di pelle nera. Nel mezzo della scena c’era colei che Peter aveva definito – spero scherzosamente – “tizia”. Mi avvicinai per stringerle la mano mormorando il mio nome. La donna sorrise, stringendola.

- Spaesata, eh? Ti senti fragile, vero?

- Non sai quanto  - sussurrai fissandomi la punta delle scarpe.

- Non preoccuparti, passerà molto presto. Io sono Emma. Dunque, qui ci sono i trucchi, poi le parrucche, ma tu non ne avrai bisogno ( a proposito, hai dei capelli davvero meravigliosi! Colore naturale?)… poi si va per la sala costumi, invece da quella parte…

 

Dopo avermi mostrato tutti i segreti e i particolari degli Studio – evitando accuratamente la sala mensa, non so perché – Emma mi spinse dentro uno stanzone enorme, pieno di attrezzi da palestra. All’interno trovai un uomo con in mano una spada, e lungo i muri tantissimi uomini, tutti alti e possenti. L’uomo che stava al centro, con indosso una tuta da ginnastica, mi si avvicinò e mi porse una spada, senza dire una parola. Incerta, la afferrai, rendendomi conto di quanto pesasse. Lui si allontano di qualche passo, e mi urlò:

- Bene, piccola Lesley! Io sono Bob, e ora combattiamo! ATTACCATELA!

Tutti gli uomini cominciarono a corrermi addosso brandendo spade stranissime, urlando e guardandomi con aria feroce. Mi coprii gli occhi con una mano, mentre sentivo i passi degli stuntmen che si avvicinavano… finché si fermarono ad un tratto.

- Li vedi questi, Lesley? – mi chiese Bob. Io sbirciai fra le dita. Gli stunt ridacchiavano tra di loro. Ecco. Prima figura dell’idiota della giornata.

- S- sì.

- Bene. Dovrai imparare a difenderti da loro. Cominciamo?

 

Passai le ore seguenti sotto la tutela di Bob e dei suoi assistenti, mentre Emma mi guardava dagli spalti ridacchiando. Bob, scoprii in seguito, era l’insegnante di scherma del cast. Dopo averlo capito, lo presi in simpatia e mi fu più facile imparare le mosse: mi insegnò la posizione di difesa, di attacco, accennammo anche ad una coreografia. La fine della lezione arrivò troppo presto. Avrei dovuto sentirmi uno straccio, ma il mio cervello si rifiutava di essere stanco e quindi non sentivo il bisogno di dormire. Il mio orologio, sull’ora della Nuova Zelanda, segnava le nove meno un quarto quando Emma mi scortò fino alla sala mensa. Quando mi spinse dentro, mi bloccai: dentro c’erano tantissime persone, la sala STRABORDAVA di gente. Dall’altra parte della mensa, Peter mi salutò con un gran cenno della mano e mi fece segno di avvicinarmi. Mentre camminavo, sentivo gli occhi della gente puntarsi su di me, e io, ripetendomi che ero invisibile – mio personale sistema di auto disintegrazione dell’autostima – accelerai il passo mentre mi avvicinavo al regista. Appena lo raggiunsi, sentii qualcuno esclamare:

- Ma guarda chi si vede! La mia piccola Lesley!

- Zio Ian! – esclamai di rimando. Recuperando tutta l’autostima persa, mi precipitai nelle braccia di Ian Holm. Ovviamente non era mio zio, ma un caro amico di famiglia da quando ho memoria: quando la mia famiglia abitava in Inghilterra, lui era lì, ad ogni festa, ogni occasione, ogni cena, ogni Natale, ogni barbecue, ogni campeggio. Stando ai racconti di mia madre, cominciai a chiamarlo “Zio” quando, alla veneranda età di tre anni, dall’alto delle spalle di mio padre lo scorsi in mezzo ad un gruppo di amici e urlai: “Guarda, mama! C’è zio Ian!”.

Quando io e Ian ci sciogliemmo dall’abbraccio, Peter mi scortò fino ad un tavolo dove sedevano – nove uomini – nove – e una donna. Peter mi mise una mano sulla spalla e disse:

- Ragazzi, ecco la nostra salvezza. Questa è Lesley Dalton.

- Wow! Un’altra ragazza! Ci divertiremo un mondo insieme! Io sono Liv! – Grazie all’affabilità di quella ragazza, la sensazione di preoccupazione che mi attanagliava lo stomaco svanì come per magia. Abbracciai Liv, e lei mi presentò gli altri.

- Allora… questo è Elijah, Frodo.

- Porti le lenti a contatto? – gli chiesi. Sorridendo sornione, mi rispose di no.

- Poi ci sono Billy, Dom, Viggo, John, Sean, Bean e… Orlando, detto Orlie.

Salutai tutti stringendo loro la mano, e tutti mi risposero con cortesia. Quando arrivai a stringere la mano di Orlando, venni percorsa da un brivido.

Lo guardai meglio: era un angelo….

Aveva il viso cordiale e aperto. Gli occhi neri e profondi come due pozzi guardavano attenti il mondo e risplendevano come la luna. I suoi lineamenti era fini e eleganti, proprio come quelli di un Elfo. La sua stretta era gentile, la sua pelle calda. I capelli corti e neri erano pettinati in modo sbarazzino. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e mi salutò con un largo sorriso.

Nella mia mente contorta cominciai a sbavare come un mastino.

Oddio.

…Mi ero presa una cotta da manuale.

 

Salve a tutti! Eccomi con un'altra Fanfiction! Ne ho già scritto una gran parte questa estate, ma l'idea di pubblicarla mi ronzava in testa da un po' ed ora... eccola qua! Come al solito, ringrazio chi passerà per caso, chi avrà voglia di leggerla, chi lo farà e soprattutto... quelli che recensiranno!!

A presto... con un nuovo capitolo!

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Capitolo 2
*** Cap 2. ***


La mia vita sul set - cap 2.

- Allora piccola, hai fame? - mi chiese Billy ingoiando un hot dog in un sol boccone come Scooby Doo.
- Non è molto carino, Bil, chiederglielo mentre stai mangiando come un porco - lo informò Dominic. Quei due parevano molto affiatati insieme.
- Ehm... beh, in effetti sì ma... - dissi frugandomi nelle tasche. Sbuffai. - Mi sa che devo saltare. Ho lasciato il portafoglio sepolto sotto i vestiti in valigia e gli unici dollari che avevo li ho spesi in aeroporto. - Elijah scoppiò a ridere.
- Si vede che proprio non conosci Orlando! E' solito offrire la cena a chiunque gli capiti sotto le mani. - esclamò.
- Dài, El, si vede dalla sua faccia che non glielo permetterà! - ribattè Billy.
- Deve averlo capito anche Orlie, visto che sta già tornando con un vassoio in mano.
Assistei a quello scambio di informazioni come un idiota sul punto di ridere, ma quando sentii l'ultima frase mi voltai nella direzione che aveva indicato Billy, e in effetti vidi Orlando dirigersi verso il tavolo con un vassoio carico di patatine fritte e pollo arrosto.
- Facciamo così - dissi interrompendomi ancora prima che aprissi bocca. - Stavolta offro io, ok? E poi per ricompensa ci offri una partita a Monopoli, stasera. Ora ti siedi, e ci facciamo una bella chiacchierata.
detto questo, mi spinse su una sedia e tutti presero a fissarmi insistentemente. Per qualche strana ragione, mi sentii come un imputato in tribunale. Guardai Billy: sorrideva, ma non la finiva di mangiare.
- Siamo tutti d'accordo? Comincio io? - esordì, facendomi sobbalzare. Aveva parlato come se si erano messi d'accordo mentalmente. Inghiottii: "Stupida", pensai "non vedi come sono gentili?".
- Comincio io - concluse Billy. Appoggiò il viso sulle mani e mi fissò per qualche secondo, prima di dire:
- Ok, Les, da dove vieni? - tutti gli altri scossero la testa.
- Troppo scontato, Bill - mormorò Dominic. - Mi aspettavo di meglio da te.
- Silenzio, dai! Voglio sentire la risposta! - protestò Elijah.
- Beh, se intendi la mia residenza attuale, New York. Se intendi il mio Paese natale, Oxford. E se intendi la mia scuola di recitazione, sempre Oxford.
- Vieni da una scuola di recitazione? - saltò su Liv. - Allora sei una novellina! Proprio come Orlie! Ma... - mi scrutò il viso, mentre io, arrossendo, cominciai a mangiare patatine. - ... tesoro, quanti anni hai?
- Diciassette.
- E com'è che hai già preso il diploma di recitazione?
Inghiottii a vuoto.
- I miei avevano notato una predisposizione per la recitazione, così appena finite le medie mi spedirono in una scuola di Oxford che fungeva anche da liceo. E ho finito l'altro ieri. O forse tre giorni fa.
- Allora hai un anno in meno di El, e due in meno di Orlie, Ehi, ragazzi, abbiamo un altro talento in studio!! - urlò Billy. Mezza sala si voltò a guardarlo, e io mi vergognai come se avessi corso nuda su e giù per la scuola.
- Ok, Elijah, se ho capito bene, passa il turno a Viggo. - annunciò Billy, anche se Elijah non aveva dichiarato nessuna "notizia" del genere. Mi sa che si leggevano DAVVERO il pensiero. Si posizionò davanti a Mortensen facendo finta di tenere in mano un microfono e di fargli un'intervista. Viggo mi fissava con occhi azzurri da pazzo. Veramente, non batteva ciglio. Mi stava facendo quasi paura.
- Ora stai attenta - mi bisbigliò Sean Astin nell'orecchio - lui fa domande a reffica. Botta e risposta. Proprio in quel momento, Viggo cominciò.
- I tuoi?
- Lavorano al World Trade Center, a New York.
- Fratelli, sorelle?
- No.
- Cani?
- No.
- Allergie?
- Alla polvere.
- Incenso preferito?
- Brezza marina.
- Qualcosa di rotto?
- La testa quando avevo un anno.
- Come?
- Stavo gattonando, mi sono aggrappata ad una sedia di ferro della cucina dei miei e quella mi è caduta addosso. - (P.S= mi è successo veramente, quando avevo un anno! Tranquilli, tutto ok. :P Panenutella)
Viggo annuì. Ma non era ancora soddisfatto.
- Fame?
- Passata.
- Ricompensa?
- Quale?
Tutti quanti, al tavolo, scoppiarono a ridere.
- La partita a Monopoli - mi ricordò Billy. - No no no no no, aspetta. - fissò Orlie. - Qualche domanda, Orlando Furioso?
- Solo una. - mi fissò. "Oddio", pensai, "ora mi chiede se ho un ragazzo, se lo voglio sposare, oppure...." - Ti piacciono i Boston?

Ok, niente panico. Ricapitoliamo. Dopo la domanda di Orlando, tutti scoppiarono a ridere a crepapelle. Forse per la mia faccia, o forse per glio occhi a cuore che mi erano venuti, non so.
Fatto sta che mi trascinarono nella sala video, dove era messo, su un tavolo, un Monopoli, con tutti i soldi e le proprietà pronte. Ma prima di giocare, Billy e Dom si esibirono in una specie di spettacolino. Presero in mano due microfoni, e acceso lo stereo, cominciarono a cantare Wannabe. Prima Billy.
- Yoh, tell me what you want, what you really really want...
- So, tell me what you want what you really really want....
Tutti battevamo le mani a tempo, anche se stonarono su qualche nota. alla fine, esplodemmo in un grande applauso.

- Complienti, Dom, hai un vero senso degli affari! Tre case e quattro alberghi in Parco della Vittoria! Facevi prima a prenderti tutti i miei soldi! - si lamentò Sean Astin.
- Beh, guarda la nostra nuova mascotte - e mi indicò. - Ha un albergo o una casa in ogni sua proprietà.
- Grazie per la fiducia, Boyd - dissi altezzosa. - Ma debbo ricordarti che di proprietà ne ho due, tu tredici. Me le hai soffiate tutte.
- Oh, ragazzi!! - saltò su Liv (otto proprietà e zero case, tanto per intenderci) - guardate l'ora, è mezzanotte! Ora del concerto!
Capperi, di QUALE concerto stava parlando? Tutti quanti si alzarono, mentre Elijah cominciava già a canticchiare Yellow Submarine  e dicendo "Comincio io!" ogni due parole. Ci sedemmo per terra, e io nell'angolino in mezzo ai due divani. Mi sono sempre piaciuti gli angolini, sono molto rilassanti... mentre Elijah prendeva in mano il microfono e cominciò a cantare, sentii le palpebre chiudersi lentamente, finchè non mi addormentai profondamente, mettendo fine ad una delle più belle giornate della mia vita.

Siete arrivati vivi alla fine del capitolo? Spero di sì! :P
Scusate tutti per il ritardo, ma il Greco mi sta portando via un sacco di tempo... ci devo ancora fare l'abitudine :)

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Capitolo 3
*** Cap 3. ***


La mia vita sul set - Cap. 3

Passando dalla fase "GAME OVER" alla fase "DORMIVEGLIA", considerai quanto potesse essere comodo il pavimento. Passando dalla fase "DORMIVEGLIA" a "RISVEGLIO QUASI-COMPLETO", mi accorsi di avere un cuscino sotto la testa. Infine, aprendo gli occhi, mi ritrovai stesa prona su un letto; le coperte erano blu elettriche e di pile. I raggi del sole filtravano dalla finestra del camper in cui mi trovavo, posta sopra al lavandino del piano cottura. Se fosti stata ancora a scuola, in quella situazione Jess mi avrebbe chiesto se avessi ancora i vestiti addosso. Ma sì, avrei risposto, si che ce li ho.
Ma adesso non ero più a scuola. Ero in Nuova Zelanda, nella roulotte di qualcuno. E, a giudicare dal rumore di pagine sfogliate, quel qualcuno stava leggendo un libro.
Mi misi a sedere, sbadigliando. - Dooe soooo? - mugugnai. Nel letto sopra al mio, lo sconosciuto (/a) chiuse di scatto il libro, e all'improvviso mi ritrovai di fronte alla faccia di... Orlando. (Nda: E ti pareva? Quanto sono prevedibile! :P)
- Bounjour, madame! - mi salutò. Saltò a terra agile come un gatto e si sedette a ginocchia incrociate di fronte a me e sorrise. - Dormito bene? - chiese.
- Io... sì, ma... insomma Orlando, qui che ci faccio?
Si passò una mano fra i capelli e guardò fugace fuori dalla finestra, poi tornò a guardarmi. - Ti sei addormentata come un sasso, ieri notte - raccontò - e noi non sapevamo quale fosse il tuo camper...
- Mm, infatti, devo chiedere a Peter, neanch'io lo so...
- Già fatto. La ditta che ce li fornisce ha avuto un trasferimento, ed era l'unica che ci serviva qui in Nuova Zelanda. Ti avrebbe ospitata Liv, ma nel suo c'era solo un letto, e tutti gli altri erano occupati. L'unico libero era quello dove sei seduta ora. Quindi - sospirò, apparentemente triste. - ... dovrò ospitarti io. - mi fece l'occhiolino. - Non che mi dispiaccia, eh?
Le orecchie mi avvamparono. - Se ti disturbo, posso dormire da un'altra parte.
- Ah, sì? - ridacchiò. - E dove, esattamente?
- Mah, che ne so... nella roulotte trucco ci sono tante di quelle sedie... e sembrano anche piuttosto comode, - dissi alzandomi. Mi diressi verso l'uscita del camper (tanto, chissenefrega, ero già vestita, no?), quando davanti alla porta vidi le mie valigie. Le indicai.
- Tu le hai portate qui? - chiesi. Più un'accusa che una domanda. Orlando annuì. - Non dovevi! - esclamai. Fece spallucce.
- Semplice cavalleria, madame.
- Oooooh, sei proprio un gentiluomo! - scherzai. Ma l'occhio mi cade inavvertitamente sull'orologio. – Orlando…. Che ore sono?

- Le otto e mezzo.

- Non dobbiamo girare?

- No – rispose serafico. – Oggi siamo liberi, anche Liv lo è. Possiamo fare quello che vogliamo. Qualche idea?

Il suo telefonino squillò proprio mentre stava pronunciando le ultime due parole della frase. Alzò gli occhi al cielo nel prenderlo dal letto, poi guardò lo schermo e mormorò:

- Come non detto…. – rispose al cellulare. – Bob? Ah, ciao Rick, come va?... Ah, sì? – mi guardò. – Certo, sicuro. La accompagno io.

- Do-ve? – sillabai con le labbra. Lui mi fece l’occhiolino e poi fece finta di maneggiare una spada. Aaah, ok. Allenamento. Chiuse la comunicazione e mi sorrise:

- Bob ci vuole allenare, stamattina, insieme a Liv. Ma oggi pomeriggio…. Relax, ok? Ti porto a Wellington.

- Wow!! Esaltante!

- Sì ehm…. Aspetta a cantare vittoria, eh?

- Ciao Liv! – la salutai andandole incontro all’entrata della palestra. Orlando mi aveva detto che ci saremmo sporcati parecchio, e di conseguenza io mi ero buttata la prima tuta della Adidas che avevo trovato nella valigia (Capperi, quanto adoro la Adidas. I suoi completi da ginnastica sono sempre così comodi….). Mi ero anche messa in testa un cappellino con la visiera nero e bianco, ovviamente, della Adidas.
- Ciaaao! – ricambiò. – Com’è stata la prima notte in Nuova Zelanda?
- Tranquilla. Si sono sentiti i grilli tutto il tempo.
Rise. Era veramente bella. Mi fece cenno di cominciare ed entrammo, con Orlando al seguito.
- Oh, eccovi qua, finalmente! – Esclamò venendoci incontro un tipo di circa trentaquattro anni, con i capelli e gli occhi neri. Aveva la pelle molto abbronzata. Mi porse una mano: - Ciao, io sono Rick, assistente tuttofare. Tu sei Lesley?

- Sì – risposi.

- Ok, preparati a faticare. Bob ha detto che oggi tu ti devi allenare con arco e spada insieme.

- COSA? – ruggì Orlando, visibilmente alterato. – Non può farle fare arco e spada insieme! È arrivata ieri, non è ancora pronta, è ridicolo!

Rick scosse la testa, serafico: - Ordini di Bob – disse in tono piatto. – Aveva previsto la tua reazione: mi ha detto di ricordarti che il suo personaggio usa quelle armi nella sua prima battaglia, e che lei è più indietro di te di quattro giorni.

Per un attimo temetti che Orlando gli mettesse le mani addosso. Invece chiuse gli occhi, tirò un sospiro e annuì. Poi mi cercò con lo sguardo e disse, con un occhiolino tranquillizzante:

- Buona fortuna.
- Beh, dai, sarà facile, no?

 No. Non fu affatto facile.
Rick rimase quasi tutto il tempo insieme a me per assistermi, qualche volta dando pure un’occhiata a Orlando e Liv dall’altra parte della palestra, che si allenavano insieme, ridendo e scherzando. Io invece ero stanca morta. Che ingiustizia.

Rick ad un certo punto, dopo avermi insegnato tutte le posizioni della prima battaglia che avrei dovuto girare, che imparai abbastanza in fretta, mi fece anche tirare con l’arco. Almeno un vantaggio ce l’avevo, però: il mio vecchio campus aveva un’area dedicata proprio a quel genere di disciplina. Rick mi lasciò a combattere contro quattro stuntmen, ad un certo punto della mattinata. E allora cominciarono i problemi.

Ognuno dei quattro stunt aveva un modo diverso di attaccare, ma penso lo facessero apposta: chi imitava un orco, chi un elfo - il più difficile da affrontare, e pensare che io dovevo per forza raggiungere quel livello di destrezza mi gettava nella disperazione più totale – e chi un uomo. Dovetti lottare con un solo stuntman alla volta, ma anche se cercavano di andarci piano, mi ritrovai comunque in un bagno di sudore dopo cinque minuti. Ogni volte che mi muovevano, i muscoli mi protestavano indolenziti. Rick assisteva a tutti i duelli. Mi andò bene con l’orco e l’uomo, ma quando toccò all’elfo, interpretato da un ragazzo biondo che doveva avere l’età di Orlando, Rick dovette lasciarci a metà duello per andare a correggere Orlando con il tiro con l’arco.

Fu allora che l’elfo, di nome Mark, fece un giro su se stesso e fece finta di colpirmi in faccia, con il chiaro intento di spaventarmi, dato che avevo seguito Rick allontanarsi con lo sguardo. Evidentemente Mark non aveva misurato bene la sua forza. Con un tonfo sordo l’elsa del suo pugnale mi finì dritta sul naso. Il contraccolpo fu così violento che la spada mi sfuggì di mano finendo a terra con un rumore metallico, mentre cascavo con il sedere per terra: sentivo uno strano formicolio al naso, e sapevo che cosa sarebbe successo di lì a pochi secondi.

- Stai bene? – mi chiese Mark allarmato aiutandomi a rimettermi in piedi, poiché mi coprivo il viso con una mano. Annuii veloce, ma sentivo crescere il formicolio al naso sempre di più, finché…

- ETCIUUM!! – starnutii, e il sangue che uscì dal naso mi sporcò la maglietta, la mano e la faccia. – Accidenti! – mi lamentai.

- Che succede qui? – Accorse Rick seguito da Orlando. Mi squadrò per un attimo e poi, con la furia negli occhi, abbaiò rivolto agli stuntmen : - CHI E’ STATO?

Vidi Mark impallidire. Forse sapeva anche lui che gli stuntmen non dovevano ferire gli attori durante l’allenamento, o passavano guai seri. E Rick in quel momento non era proprio di ottimo umore.

- Nessuno – dissi sorridendo. Lui si voltò verso di me, incredulo.

- Come, nessuno?

- Nessuno – ripetei. – La mia spada mi è scivolata di mano, mentre la alzavo. E mi è caduta sul naso. – spiegai asciugandomi con una mano il sangue che continuava a uscire. – Ma comunque non è niente, mi basta andare un secondo in bagno. – in quel momento ringraziai di saper recitare.

Rick scrutò per un attimo l’orologio, ed io ne approfittai per strizzare l’occhio a Mark, che mi fissava sbalordito.

- Va bene, allora per oggi l’allenamento è terminato.

In bagno, fui raggiunta da Orlando. Si appoggiò allo stipite della porta.
- Davvero ti è scivolata la spada di mano?
Alzai le spalle.
- Eddai, dimmelo! Non lo dirò a Rick, giuro!
- Mark – dissi, sciacquandomi la faccia.
- Quello biondo?
- Già.
- Ma perché non l’hai detto?
- Perché non l’ha fatto apposta.
- Ti ammiro, sai?
Disse mentre si levava la maglietta, rimanendo a torso nudo, per metterla sotto l’acqua fredda e tamponarsi il busto per rinfrescarlo.
- In che senso? -. Non rispose. Dirottò il discorso da tutt’altra parte.
- Allora, si va a Wellington? Pranziamo lì?
Gli sorrisi.
- Ma sì. Andiamo.

 Siete arrivati alla fine del capitolo senza sbattere la testa sulla tastiera del PC? Spero tanto di sì :P.

Cosa succederà a Wellington? Lo scopriremo nella prossima puntata di “La mia vita sul set”! Ringrazio tutti quelli che leggeranno, che recensiranno e quelli che passeranno soltanto di qui!

Grazie! Panenutella.

 

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Capitolo 4
*** Cap 4. ***


La mia vita sul set – Cap. 4

- Non è che mi devi per forza aprire tutte le porte che incontriamo! Oppure ci provi gusto?
- Niente affatto, solo che non voglio che le tue delicate mani si sporchino con le maniglie!
- Ma smettila! Queste mani hanno toccato i cheeseburger del McDonalds, credi che abbiano paura delle maniglie?
Da quando ci eravamo cambiati, dopo aver fatto addestramento, Orlando ce la stava mettendo tutta per farmi innervosire. O almeno, così sembrava. In quel preciso istante mi stava aprendo la portiera dell’auto.
- Aspetta un momento – dissi dando una sbirciata dentro l’auto. – Qui manca qualcosa… Ah, ecco! Il volante è a destra!
- E che ti aspettavi? Siamo in Nuova Zelanda! – si aprì la portiera ed entrò. – Guido io.
- Ma si ascolta la mia musica – contrattai allacciandomi la cintura. Presi un CD che mi ero portata nella borsa e lo inserii nel lettore. Subito partì More Than a Feeling dei Boston. Orlando lanciò un grido entusiasta e disse:
- Buongustaia!

Dopo circa dieci minuti di viaggio e dopo aver cantato la stessa canzone per circa sette volte, ripensai ai pomeriggi in Inghilterra, dove io e Jess passeggiavamo a lungo nel parco intorno alla scuola. Poi mi sbattei la mano sulla fronte, urlando all’improvviso:
- Nooooo!! – Tanto bastò per far frenare Orlando di colpo.
- Che succede? – chiese allarmato.
- Ho dimenticato di avvertire Jess!
- Chi è Jess!
- La mia migliore amica! Porca p..puzzola!
Presi il cellulare e scrissi “Arrivata ieri pome. Tutto ok. Scusa :P
Dopo alcuni secondi, arrivò la risposta. Orlando sbirciò nel display, e non capendo cosa ci fosse scritto, mi chiese spiegazioni.
- Che vuol dire: “3-9| 5-9-6| 1-99-9-4-1-2-1| 4-1 | 1-6-3-1||?
- Letteralmente: “Ci ero arrivata da sola”. Poi ti spiego.
- Suppongo che era un trucchetto per non far decifrare i bigliettini dai prof.
- Ci hai preso!
- M-m. Guarda, ecco Wellington.

Wellington era una città splendida.  La gente per strada rideva, e c’era un clima di serenità. Io e Orlando camminavamo fianco a fianco, ammirando i palazzi e il cielo blu.
- Questo è il tuo primo ruolo, vero? – mi chiese ad un tratto, mentre camminavamo per Camperdown Road. Annuii. – E tu?
- Ho recitato in qualche pubblicità, da bambino. Ma niente in confronto a Legolas. Uh, ecco la Weta!
- La che?
- La Weta Workshop, è la società di effetti speciali di Peter. Stanno già lavorando al film, con i modellini… e così via. Vuoi dare un’occhiata?
- Certo! – esclamai, entusiasta.
Dentro l’ambiente era tranquillo. Superammo una stanzetta, ed entrammo in un locale sulla cui porta c’era un cartello con su scritto :”Qui stiamo lavorando sodo. Non portare cattivo umore e se ce la fai non rompere. Grazie! PJ”
- PJ? Peter Jackson! – esclamò Orlando.  – Che simpaticone!
- Ehilà, OB! – ci salutò un uomo panciuto con un forte accento italiano. – E questa bella signorina chi è?
- Peter l’ha definita “la salvezza”! – fece un altro uomo, stavolta latinoamericano.
- Ignoranti, è Lesley Dalton! – li ribeccò una tipa con i capelli rossi. – La conoscono tutti!
- Ehm… Bonjour… - Esordii. Idiota, perché cavolo ti metti a parlare francese adesso? E perché mi conoscono tutti?
- Peter dovrebbe arrivare a momenti, in compagnia del galantuomo…  - il viso dell’italiano si rabbuiò.
- Di chi parlate? – chiese orlando, notando la tristezza che si era subito dipinta sui loro volti.
- Di Matthew Colt. Della New Line.
- Fa ancora problemi?
- Non dovrebbe, ma speriamo per il meglio. – sospirò.
Subito dopo entrò Peter, insieme a questo famigerato Matthew. Era un uomo magro e pallido, e la sua espressione non faceva pensare bene. D’istinto, ci appiattimmo tutti contro il muro. Peter e Matthew, senza dire una parola e senza rivolgere il saluto a nessuno dei presenti, si chinarono su un computer confabulando fra di loro. La presenza di quell’uomo mi impauriva, e cercai di mimetizzarmi con il bianco panna della parete, ovviamente senza successo. Nella stanza regnava un silenzio tombale, riverente, irreale. Non avrei mai pensato di saper restare così immobile. Riuscivo a sentire il cuore di Orlando battere affianco a me. Al solo pensiero, arrossii, e il mio cuore cominciò a battere più vivacemente.
Sentii il nome di “Hery” e “Legolas” uscire qualche volta dalle bocche dei due al computer, ma oltre questo, c’era una strana calma… quella che di solito c’è prima della tempesta.
Infatti vedevo le sopracciglia di Colt aggrottarsi via via che il loro colloquio andava avanti, e dopo qualche minuto, alzò lo sguardo verso di me. Ed esplose.
- Questo, Jackson, non posso accettarlo!
Improvvisamente il mio cuore cominciò a galoppare. Perché quel tipo ce l’aveva con me? Che cosa avevo fatto di sbagliato? – Il ragazzo mi andava anche bene, Jackson, perché l’avevo già visto in televisione e sapevo che era bravo, ma tu mi stai chiedendo di spendere miliardi di dollari per una… ragazzina uscita da una scuola di recitazione quattro giorni fa! Ti rendi conto della scelleratezza della tua richiesta?
Seguivo quello sfogo con il cuore in gola. Tutti i presenti mi fissavano con pietà.
- Abbiamo avuto ottime informazioni sul suo conto – ribattè Peter, in apparenza calmo, ma si sentiva che aveva paura per il suo grande progetto. Se li vedeva già, tutti i suoi sogni… svanire nel nulla.
- Informazioni che ti ha dato Holm, no? Ma lei ha mai recitato da qualche parte, oltre al teatrino della quarta elementare? Chi ci garantisce che sarà all’altezza del suo ruolo? Ruolo, peraltro, di massima importanza! Con gli altri attori lei non c’entra assolutamente niente! Tutto ciò è nepotismo bello e buono! Tu l’hai assunta solo perché Holm è una persona molto importante, per questo! Non per la sua bravura, perché ne ho viste di… bambine – tirò fuori la parola con disgusto. – come lei. Incapaci.
Iniziai a tremare. Aveva ragione. Finora ero rimasta lì ad ascoltare, ma nessuno poteva permettersi di insultarmi in quel modo. Quel tipo era incredibile: stava rovinando una bellissima giornata, e stava rovinando i sogni di Peter. Ma sapevo che qualsiasi mia reazione avventata avrebbe significato la rovina del film.
- Basta! – tuonò Peter. – Non puoi permetterti di parlare così degli attori. Dei MIEI attori! Io li so scegliere, l’hai visto con altri miei film. Hai visto il successo di Kate Winslet, ancora sconosciuta, in Creature del cielo. Tu hai mai visto Lesley recitare? No. Io sì. E mi fido di lei. Quindi fidati di me, ok?
Colt serrò le mascelle. – Va bene – disse. A quanto pare ricordare il lavoro di Peter per Creature del Cielo era bastato a sconfiggerlo e a chiudergli la boccaccia. – Va bene. Avrai i soldi. Ma se questo film non otterrà almeno tre Oscar, puoi considerare l’argomento “Signore degli Anelli – i film” chiuso. E potrai dire ciao a Tolkien.
Detto questo, girò i tacchi e si sbatté la porta alle spalle. Rimanemmo tutti in silenzio per un po’, poi il silenzio, stavolta imbarazzato, si ruppe a causa di Orlando, che, molto intelligentemente, si schiarì la gola e disse:
- Vabbè… ehm… noi andiamo, eh? Grazie per la bellissima giornata e… arrivederci.
Io continuavo a fissare a terra, e mi sentivo gli occhi di Peter puntati addosso. Orlando mi prese per il gomito e mi trascino fuori.
Ci mettemmo a camminare per strada in silenzio. Io me ne stavo con le mani in tasca, a dare i calci ai minuscoli sassolini dell’asfalto; Orlando camminava con il naso per aria, pensando a quello da dire. Alla fine, parlò lui per primo.
- Senti – mi disse. – Conosco un bellissimo ristorante. Ti ricordi che non abbiamo mangiato per niente? Ehi?
Non risposi: sentivo un groppo in gola che mi impediva di parlare e sapevo che se avessi aperto bocca sarei scoppiata a piangere. – Ti senti bene?
- Domanda superflua – dissi. E le lacrime cominciarono a sgorgare. Un attimo dopo mi ritrovai fra le sue braccia.
- Ha ragione – dissi affondando il viso nella sua maglietta. – Ha ragione su tutto. Io non c’entro niente con voi. Voi siete professionisti, io che cosa ci sto a fare?
- Tu sei molto più brava di tutti noi, hai capito? Si vede da come ti impegni quando ti alleni, lo sanno tutti che metti l’anima in ogni cosa che fai. Stamattina, in palestra, ci ho quasi creduto anch’io, alla tua bugia. Tu hai tantissime qualità Les, e solo dando il meglio di te riuscirai a farti strada nel mondo del cinema. Peter lo sa e lo sa anche Matthew. Quindi stai tranquilla, ok?
Annuii e tirai su col naso. – E… gli Oscar?
- Peter e la sua troupe stanno facendo il loro lavoro così bene che di Oscar ne vinceremo più di tre. E comunque, andiamo a pranzare, che ho fame?
Risi.

- Hippopotamus Restaurant – lesse Orlando ad alta voce. – Deve essere questo. Entriamo? Salve! Siamo in due, non abbiamo prenotato. Non fumatori. Sì, quel tavolo è splendido.
Una cameriera ci scortò fino ad un tavolo appartato che dava su una finestra. Ci sedemmo e subito lei ci portò due Menù. In cima c’era scritto “Menù del 21 giugno” e chiesi alla cameriera se cambiassero Menù tutti i giorni, e lei mi rispose di sì come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Lessi la lista dei piatti, tentando di non soffermarmi sui loro prezzi.
- Non ci credo – disse ad un certo punto Orlando. – Sir Ian McKellen e Hugo Weaving! Fantastico!
Ci vennero incontro due distinti signori, uno di mezza età, l’altro un po’ più giovane. Non ci voleva un genio per riconoscerli. Ci alzammo entrambi dalle sedie.
- Orlando, quale onore e sorpresa! E c’è anche Lesley, ma guarda! – Mi strinsero la mano.
- Lesley, loro sono Sir Ian e Hugo. Interpretano rispettivamente Gandalf e Elrond.
- Oh, perfetto!
- Molto onorato, molto onorato. – disse Weaving.
- Scusateci, ragazzi, ma abbiamo degli affari urgenti da sbrigare. – e dopo un allegro commiato se la filarono fuori dal ristorante.
- Avete deciso cosa ordinare? – ci chiese un cameriere.
- Io… una bistecca – dissi. –Manzo, per favore.
- E io un’aragosta. – ordinò Orlando.

I piatti ci arrivarono quasi subito. Mangiammo di gusto, era davvero tutto squisito. Ma verso la fine del pranzo, il telefono di Orlando squillò.
- Pronto, Ngila? – salutò con entusiasmo. – Oh, davvero? Ah ah ah, hai ragione! Sì, è vero! Novità? Ah, uffa. Ok, arriviamo. – chiuse la comunicazione. – Hai dimenticato di scrivere il tuo numero sulla bacheca alla mensa. E ci vogliono agli Studio fra un’oretta. Scusi! – chiamò il cameriere. – Ci porta il conto, per favore?
Il cameriere strappò da un blocchetto un foglietto e me lo porse. Leggendolo, sbiancai. 230 $ era il totale, di cui 30 la mia bistecca e 200  l’aragosta di Orlando. Le bevande erano gratis.
- Ehm… Lesley? – mi chiamò Orlando, rosso in viso.
- Dimmi!
- Per caso… ehm…. Per favore…. Ecco.. insomma…
- Orlie?
- Sì, ok! Beh... Mi sono scordato il portafoglio.

Note dell'autrice: ATTENZIONE. Il personaggio di Matthew Colt l'ho inventato io. Ci sono sia la Weta Workshop che l'Hippopotamus Restaurant a Wellington.
Terminate le cose importanti.... siete arrivati vivi fino alla fine? Spero proprio di sì. Grazie, come al solito, a tutti quelli che recensiranno e che passeranno di  qui!

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Capitolo 5
*** Cap 5. ***


La mia vita sul set - cap. 5

Il primo giorno – Parte 1

 

 

- Non ti ringrazierò mai abbastanza.
- Ah-ah. Molto divertente, Orlie.
- No, davvero. Parlo sul serio.
- Certo. L'unica cosa certa è che se continui a parlare sbaglierò il numero.
- Eeeh!! - l'urlo lanciato da Dominic Monaghan fu così improvviso che la punta della matita con la quale stavo scrivendo il mio numero di telefono sulla bacheca si spezzò. - Alla fine hanno costretto anche te a scrivere il tuo numero sulla Bacheca degli Orrori! Preparati a non avere più un attimo di pausa!
- Scherzi, vero, Dom? - gli chiesi abbracciandolo per salutarlo. - Più che altro penso a quello che mi capiterà adesso. Emma vuole assolutamente che vada da lei ora, di corsa.
- E io devo andare ad esercitarmi con l'Elfico - disse Orlando. - Quindi, mi chiudo nell'aula video.
- E tu, ragazza mia, verrai con me. - Dom mi mise il braccio intorno alla spalla, dirigendomi all'interno di una roulotte enorme, lasciando Orlando a guardare la bacheca.

Ci allontanammo di qualche passo, quindi Dom si aggiustò il berretto sulla testa (faceva un po' di freschetto, e io indossavo una felpa grigia, per coprirmi), guardando in basso. Sembrava imbarazzato.
- Allora, Les, ho saputo che hai fatto un incontro non molto piacevole qualche ora fa.
- Preferisco non ricordarlo.
- Più che altro mi spiace che se la sia  presa in tua presenza...
- Dom? Preferisco non ricordarlo. Ho detto.
- Eddai! Sto solo cercando di capire come hai reagito!
Aprii la porta della roulotte, ritrovandomi nella sala trucco.
- Sono rimasta lì, schiacciata contro il muro, senza dire un parola. E' uno dei miei tanti difetti. Quello di non sapere come reagire, e di non reagire.
- E altri tuoi difetti?
Mi sedetti su una sedia. Emma non era ancora arrivata.
- Sono pessima a sopportare il dolore. Non quello fisico, ma psicologico. Quando qualcosa mi sconvolge, do i numeri. Per inciso, io non sono una Mary-sue. E tuoi?
In quel momento entrò Emma, carica di fogli. Dom fece appena in tempo a sorridere e a dire.
- Io sono pazzo.
- Ok, Lesley, pronta a cominciare? - risposi con un sorrisetto nervoso. Emma andò subito al sodo. - Ora, vediamo quello che possiamo fare per tirare fuori Hery...
Cominciò a frugare in una grande scatola piena di oggetti per il trucco, tanti quanti ce n'erano in tre profumerie messe assieme. Poi  mi svolazzò attorno cominciando a truccarmi. - Sai, Lesley, sei fortunata ad avere questi capelli.
- Perchè? - chiesi stupita.
- Non hai bisogno di una parrucca. I tuoi sono i capelli di Hery.
- Vorresti dire banali, piatti e marroni?
- No, intendo dire lucenti, lisci e bruni.
- E questi? - presi in mano dei fogli.
- Le tue parti da elfo. Dovrai studiarle per domani. Non sei emozionata? Il tuo primo giorno di riprese!
- Ah ah ah, che bello.
- Oh, qui abbiamo finito. Vedi come risaltano i tuoi occhi adesso?
Mi guardai allo specchio. Era vero. Con quel trucco acqua e sapone sembravano più grandi. – E il mio costume? – chiesi.
- Domani si vedrà.
Provai a leggere quello che era scritto su un foglio: non ci si capiva un accidente.
- Sì, fa questo effetto a tutti – mi rassicurò Dominic, forse vedendo la mia espressione. – Le cose vanno meglio davanti alla birra che gusteremo stasera. Vieni, no?
- Non mi sono mai concentrata bene davanti a una birra.
Non fece commenti, ma forse capì che il mio era un no.

 

È incredibile come il mio senso dell’umorismo fosse capace di fare brutti scherzi al mio cervello. Nell’orientamento ero una frana: dopo aver salutato Dom, non riuscii a ritrovare la mia roulotte, e così finii per entrare in quella di Elijah (appena uscito dalla doccia e ancora in asciugamano) e degli altri quattro Hobbit. Cercavano in tutti i modi di convincermi a uscire quella sera: erano arrivati perfino al punto di rinchiudermi nel loro bagno ma io, testarda com’ero, riuscii a sgattaiolare fuori dalla finestrella del bagno e a scappare, rinchiudendomi nella stanza del Blue Screen. E lì, nascosta fra le telecamere, ripassai le mie battute in elfico finchè non crollai con la testa sulle ginocchia, ma ormai era l’alba. Dormii si e no per un’ora e mezza, e cioè finchè non sentii i quattro Hobbit scherzare fuori dalla roulotte. Allora uscii, ritrovandomi nella luce del mattino della Nuova Zelanda. Sean mi vide in viso, ed esclamò:
- Oh, cavolo, Emma si dovrà impegnare, per rimetterti a posto!
- Pensa per te. Com’è andata ieri sera?
- Fantastico. Orlando, sbronzissimo, ad un certo punto è inciampato in un tavolo ed è finito a gambe all’aria. Meno male che non eri in giro.
- Come mai ti sei alzata così presto?-  mi chiese Billy.
- Emozione, penso. Ora vado a fare colazione, così mi rinfresco un po’.

 Li lasciai nella sala trucco – gli Hobbit cominciavano sempre molto presto. Per potersi applicare le protesi ai piedi e alle orecchie -. Mi diressi verso la mensa, dove arraffai la prima scodella di porridge che mi capitò tra le mani. Il porridge era una necessità di Billy: se non faceva colazione col porridge, la prendeva male. Malisssimo.
Provai ad assaggiarla. No no no, davvero disgustoso. Magari, se lo mischiavo al latte… Oh Dio, un’idea veramente allucinante!
Buttai tutto quanto nella spazzatura e il mio cellulare squillò: era Emma che mi diceva di andare a vestirmi.
- Oh, Gesù! Come ti tratti male! – sospirò non appena mi vide. Si impegnò molto per rimettere a posto la mia faccia sbattuta,  e poi mi aiutò ad indossare il costume: era veramente fantastico: comodo e pratico. Proprio quello adatto a me. Mentre mi allaggiavo la cintura, Emma mi informò che avrei dovuto salire sull’elicottero, per andare a girare le scene del monte Cardadhras, una cosa che mi esaltò.

Dietro la porta secondaria del caravan del Trucco c’era la pista degli Elicotteri: un immenso campo di erba alta con uno spiazzo al centro. Era lì che i miei compagni mi stavano aspettando, appoggiati all’elicottero. Uscii a passo di carica, dirigendomi verso la pista. Il vento mi lisciava i capelli all’indietro, e mi immaginai il mio arrivo al rallentatore. Mi sentii molto importante, mentre i ragazzi – tutti maschi – si voltavano pian piano a guardarmi. E quando arrivai, sentii Dominic fischiare ammirato, e misi bene a fuoco Orlando. Da lontano non l’avevo riconosciuto, con quel parruccone biondo: col massimo della gentilezza, gli scoppiai a ridere in faccia.
- Sei ridicolo!!
Anche gli altri risero: tutti tranne OB, ovviamente, che fece la faccia dell’offeso. Ma non ebbe il tempo di replicare, perché Peter raggiunse l’elicottero con la sua allegria e esuberanza tipica della mattina presto. Ci ordinò di salire sull’elicottero, e io obbedii per prima, eccitata.

Una volta dentro, il pilota ci disse:
- Le cinture tenetele solo per la partenza, poi potrete slacciarvele.
Non avevo mai volato su un elicottero.

 Decollare presentò qualche difficoltà, ma i piloti ci riuscirono in pochi minuti. Appena ci alzammo per aria, mi slacciai la cintura di sicurezza e cominciammo a chiacchierare e ridere, facendo un gran baccano: tutti, tranne Sean. Essendo sposato e padre di una bellissima figlia, Alexandra – chiamata affettuosamente Ally -, Sean Astin era piuttosto scettico in materia di sicurezza. Era decisamente troppo protettivo, e non credeva che qualcun altro avesse la situazione sotto controllo.
Con lo sguardo torvo, strillò:
- Chiudete il becco, si deconcentrano! – Elijah e Dom gli risposero:
- Sean, sono piloti, sanno quello che fanno! – ridacchiai. Il modo in cui erano così legati, pur essendo diversi, mi sbalordiva ogni volta che aprivano bocca. Erano uniti come una ragnatela, legati stretti da un filo invisibile.
Sean, senza dire niente, si avvicinò al pilota e iniziò a tartassarlo di domande come:
- Ooh, ragazzo, sei consapevole che ci sono altri due elicotteri dietro di te? Sei sicuro di poter mantenere la rotta? Riuscirai ad atterrare senza difficoltà?
Mentre noi gli chiedevamo cose del tipo:
- Quanto puoi arrivare vicino alle montagne? Puoi fare un giro della morte? Se ci fosse una moto a terra, riusciresti a prenderla in volo?

Mi piaceva fare quelle domande un tantino infantili, e me la stavo spassando alla grande. Ma poi notai la faccia di Bean. Al contrario di tutti noi, non si era slacciato la cintura; anzi, si teneva aggrappato al sedile con le unghie, e sul volto una smorfia tale che sembrava che stesse per vomitare l’anima da un momento all’altro. Mi sporsi verso di lui.
- Bean, ti senti bene?
- No! – piagnucolò. – Non ti muovere! Potresti far ribaltare l’elicottero!
Lo guardai incredula: un omone come Sean Bean, Boromir nel film, non poteva soffrire il mal d’elicottero. Era fuori discussione!
- Giuro – gemette – giuro che non salirò mai più su un elicottero. Piuttosto scalo la montagna da solo!
Risi. – Assurdo! Davvero! Dai, non lo soffro io, e lo soffri tu?!
Mi squadrò tetro.

 

Note dell’autrice.

Spero che ne sia valsa la pena, di aspettare così tanto! Meriterei la fustigazione pubblica. Rispetto agli altri, questo è un capitolo piuttosto lungo, che si divide in due parti, e la prossima arriverà presto. Non posso lasciare Bean in trappola sull’elicottero, poveretto!

Come al solito, spero che questo capitolo piaccia a tanti, e ringrazio chiunque apri questa pagina, per un motivo o per un altro!

Al prossimo capitolo, con “La mia vita sul set”!

 

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Capitolo 6
*** Cap 6. ***


La mia vita sul set – Cap. 6

 

Il primo giorno – parte 2.

 

Scendemmo dall’elicottero dopo quasi un’ora e mezza di volo. Penso che tutta la Nuova Zelanda abbia potuto sentire il sospiro di sollievo che sia Sean che Bean tirarono non appena la punta dei loro piedi ebbe toccato terra.
Il freddo era molto intenso: la temperatura doveva essere vicina agli 0 gradi, e solo con i costumi di scena indosso, rischiavamo tutti di morire assiderati. Io saltellavo sulla neve sfregandomi le braccia per riscaldarmi, mentre Dom e Billy giocavano a “chi fa la nuvoletta di fiato più lunga?”, Ian McKellen e Viggo chiacchieravano fra loro.
Mi sorprese trovare già le troupe – e Peter – appostate e pronte a girare. Erano sui due elicotteri dietro di noi, e non mi pareva ci avessero superati durante il tragitto. O meglio, se lo avessero fatto, Sean e Bean sarebbero morti dal terrore. Che potessero teletrasportarsi?

Appena ci vide arrivare, Peter – in pantaloncini corti! – trotterellò goffo sulla neve verso i quattro Hobbit e si mise a confabulare con loro. Erano lontani, perciò non riuscii a sentire cosa stessero dicendo. Fui raggiunta da Orlando: si era coperto il parruccone biondo con una bandana rossa e bianca, e anche lui aveva il naso rosso.
- Emozionata? – decisi di sorridergli, ma cambiai idea a metà strada e ne uscì una smorfia indefinita.
- Tantissimo.
- Peter sta venendo a darti istruzioni. Mi raccomando, ascoltalo attentamente e fa quello che ti dice di fare.
- Ehm… ok. – Orlando si allontanò verso Bean incrociando Peter, che prontamente lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso di me. Sembrava stesse dicendo: “Dove credi di andare?”.
- Lesley, Orlando, eccovi le istruzioni. – mi guardò – Dalton, gli Elfi non soffrono il freddo. Vedi di non darlo a vedere, ok?
- Sì.
- Secondo: gli Elfi sono leggeri. Non sprofondare troppo nella neve, anche se useremo il computer. Terzo: sul Caradhras Hery e Legolas sono innamorati. Altre istruzioni a tempo debito. Ah, dimenticavo, quarto: Hery sa come oltrepassare la montagna. Devi far credere che sai quello che stai facendo.
- Messaggio ricevuto.
Poi Peter iniziò a spiegarmi quello che avrei dovuto fare durante le riprese. E quando se ne andò, un vortice di pensieri negativi mi affollò la testa.
Che ci facevo io lì? D’un tratto l’incombenza del ruolo che mi era stato assegnato mi piombò addosso. Avevo accettato al volo l’offerta di Peter quando ero in Inghilterra, ero saltata sul primo aereo per Wellington, ma ero convinta a farlo? E se avesse avuto ragione Colt?

Billy, passando di lì insieme agli altri, si fermò a guardarmi e poi annunciò:
- Lesley è in fase insicurezzaaaaa!!
Mi riscossi dai miei pensieri. – Come dici?
- Dai, si vede! Vero Dom?
- Sicuro.
Elijah mi guardò con quei suoi occhioni dolci e disse:
- Hai la tipica espressione da “mi si è incastrata la forchetta nel tostapane”.
Arrossii. – No! – lui annuì. Poi mi si avvicinò e mi accarezzò i capelli.
- Tranquilla, ci siamo passati tutti.
-
OK, GENTE! – era Peter con un megafono in mano. – PRONTI A GIRARE! E RICORDATEVI, IL DOLORE È PASSEGGERO, LA PELLICOLA È PER SEMPRE!
Scoppiarono tutti a ridere, e io raggiunsi in fretta sir Ian in testa alla fila. Lui mi porse un arco e io lo presi in mano. Mentre Peter cominciava a dare il via, abbassai la testa e ripetei più volte il nome del mio personaggio nella testa. Quando la risollevai, mi sembrò di avere lo sguardo più duro.

- Azione! –
Cominciammo a camminare su per la montagna. Immaginai di avere un filo incollato alla testa – tecnica imparata dalle elezioni di Yoga frequentate durante il liceo – e pensai di essere più leggera. Continuammo a camminare, e d’un tratto Peter urlò di fermarci.
- Astin, cerca di far andare dritto quel pony! Orlando, stai sprofondando troppo nella neve. Lesley, non avere il passo baldanzoso.
All’inizio non capii: di quale passo baldanzoso stava parlando? Forse di quello che avevo iniziato a fare dopo un po’ di tempo – forse dovuto all’eccitazione.

Riprovammo la stessa scena per una decina di volte, o perché sbagliavamo qualcosa noi attori, oppure perché Peter non era soddisfatto della ripresa aerea. Fatto sta che quando Elijah – e la sua controfigura – caddero come da copione, ero così stufa di camminare in salita che fui ben lieta di lanciarmi giù per la montagna per andarlo a tirare su. Peter mi aveva detto di farlo, e provai una gioia perversa nell’accontentarlo. Peccato che il copione stabiliva che Hery non arrivava in tempo e Aragorn tirava su Frodo. Poi fu il turno di Bean. Mi colpii molto come si era calato nel personaggio di Boromir, soggiogato dal potere dell’Anello. Recitò la sua frase alla perfezione, e Peter fu contento del risultato alla prima ripresa. Hery fu piuttosto seccata dalla reazione di Boromir, e ritornò in cima alla fila dando un veloce sguardo a Legolas. Mentre risalivo Orlando mi sfiorò la mano. E lo guardai stupita. Del fatto che avesse fatto quel gesto di sua iniziativa, e del fatto che il mio cuore avesse preso il volo. Lasciai correre, un po’ perplessa.

Finimmo verso metà giornata. Gli elicotteri, che erano rientrati agli Studio, ci vennero a prendere. Quando Pete annunciò lo stop finale, mi stiracchiai facendo un inchino fino a terra. Mi afferrai i piedi – ghiacciati -, chiusi gli occhi, rimasi in quella posizione per qualche secondo per poi ritornare su. Non mi ero accorta che i nove della Compagnia mi avevano accerchiata. Partì un applauso e sorrisi disorientata.
- Perché mi applaudite?
- La scena della corsa è stata… molto realistica – mi disse Sean. – Sembravi arrabbiata.
Rimasi interdetta. – Davvero? Non me n’ero accorta.
-
RAGAZZI! SALITE SULL’ELICOTTERO, SI VA IN STUDIO A PROVARE LA BUFERA!
Potei sentire l’urlo mentale di paura che lanciò Bean. “Nooooooooooo!!!”
Poveretto.

 Sull’elicottero trovammo sacchetti pieni di panini. Non ero sicura che mangiare in volo mi avrebbe fatto bene, ma morivo dalla fame.
Il viaggio di ritorno mi sembrò un tantino più lungo dell’andata, ma almeno chiacchierai con i miei colleghi, ascoltando gli aneddoti di Billy e Dom, le perle di saggezza di Viggo e Ian, e i lamenti strazianti di Sean e Bean.
- Fa un po’ freddo, per essere il 21 giugno, no? – affermai ironica. – Dopotutto, nell’emisfero boreale è appena iniziata l’estate.
- Dimentichi un fatto fondamentale – mi corresse Viggo. – Noi non siamo nell’emisfero boreale, ma in quello australe. Qui è appena iniziato l’inverno.
- Giusto.

 

Avevo ragione: mangiare in elicottero mi fece venire la nausea, così fui lieta almeno quanto Bean di toccare terra. Dovevano essere almeno le tre e mezza del pomeriggio quando ci ritrovammo tutti nella sala del blue screen. Peter ci spiegò che per girare quella scena ci avrebbero sparato addosso miliardi di palline di polistirolo, per riprodurre l’effetto della bufera. Quando mi chiesi con che cosa ce li avrebbero sparati addosso, i tecnici azionarono degli enormi ventilatori e ci versarono davanti gli scatoloni pieni di polistirolo. Quella roba mi si infilò dappertutto: negli occhi, nel naso, nella bocca… persino nelle orecchie!! Era disgustosa. Anche gli altri erano nella mia stessa situazione per nulla piacevole, ma il fatto che Peter avesse cominciato a girare senza preavviso mi mandò nel panico. Faticavo a tenere gli occhi aperti, e dovevo essere la prima della fila! Assurdo. Mi misi l’arco in spalla e cominciai a camminare sulla passerella elevata che avevano montato apposta per me e Orlando. Tutti gli altri arrancavano in mezzo al polistirolo con le controfigure dei piccoli Hobbit in spalla, e io e Orlie li superammo guardandoci in giro perplessi. Quando arrivammo alla fine della passerella allertammo i sensi e scrutammo la parete di fronte, immaginando di avere le montagne.
- Avverto una grande potenza magica, Legolas. – dissi a bassa voce: gli Elfi ci sentivano benissimo.
- C’è un empia voce nell’aria! – annunciò lui.
- È Saruman! – gridò Ian.
- Ok, Stop! – urlò Peter. – Andava bene, ma facciamone un’altra!
E ricominciarono a spararci addosso le palline di polistirolo.

Uscii dalla sala riprese tutta rossa in viso per l’irritazione dovuta a quelle dannate palline. Corsi quasi verso la sala trucco, dove trovai Emma – la cara Emma – ad aspettarmi. Mi fece sedere su una comodissima poltrona e mi chiese di raccontarle tutto.

Quando ebbe finito, mi tastai le orecchie, sorpresa di non trovarle a punta. Poi andai nella mia roulotte e mi spogliai come una marionetta. Mi buttai addosso i primi pantaloncini che trovai nell’armadio e schiacciai un pisolino, che si interruppe non appena entrò Orlando insieme a Billy. Mi invitarono al bar a Wellington e stavolta non potei rifiutare: l’unica cosa di cui avevo bisogni era la BIRRA. Tanta, tantissima birra.

Però volli offrire io.

 

Tornammo alle roulotte verso le undici di sera. Non mi resi neanche conto di essermi messa il pigiama e di essermi buttata sotto le coperte. Mi addormentai senza neanche riuscire a dare la buonanotte a OB.

 

 

“Non male come primo giorno”.

 

Note dell’autrice: ed ecco, finalmente, il primo giorno di Lesley! Se siete arrivati vivi fin qua sono contentissima. Ho scritto questo capitolo di getto, quindi non so come sia venuto.

Ovviamente sono ben accette anche le critiche!

Un saluto speciale a NiNieL82 e a Klood per il sostegno.

Al prossimo capitolo!

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Capitolo 7
*** Cap 7. ***


La mia vita sul set – Cap 7.

 

Mi svegliai in preda all’ansia e imperlata di sudore: ricordavo nettamente la sensazione di panico che avevo provato nel sogno, anche se ricordavo poco dell’accaduto. Ciò che sentivo ancora risuonare nelle orecchie era il rumore degli aerei che volavano tutto intorno, poi il nulla.
Anche se sembrava una cosa da poco, era una sensazione orribile.
Guardai l’orologio, erano le sei e  un quarto: tanto valeva alzarsi e cominciare ad indossare il costume di scena. Andai in bagno e mi sciacquai il viso, lavando via ogni traccia di smarrimento e tensione. Sentii suonare la sveglia di Orlando nell’altra stanza: la sera prima l’aveva messa sul tavolino per essere costretto ad alzarsi per spegnerla, ma il suo sonno era talmente… sonnacchioso da poter essere scambiato per un coma profondo, se non si conosceva bene il mio compagno di stanza. Dovevo scuoterlo io di persona.
Uscii dal bagno, mi avvicinai al suo letto e lo scossi per un braccio.
- Forza Bloom, è ora di alzarsi.
- Sì Dalton, tutto quello che vuoi. – mugugnò, e riprese a russare. Voleva la guerra! Gli tirai via le coperte, ma lui si rannicchiò in posizione fetale. Allora gli mollai uno schiaffo sugli addominali, e finalmente si decise ad aprire gli occhi. Lanciò un’espressione poco fine e si mise in ginocchio sul letto.
- Lesley!!! – piagnucolò. Alzai le spalle:
- Ti dovevi svegliare alla prima!
- Chiama un’ambulanza!
- Ueeeh! – gli feci il verso. Poi gli voltai le spalle e mi diressi verso la porta, ma mi atterrò da dietro, e cominciò a farmi il solletico sui fianchi.
- Chi la fa l’aspetti! Chi la fa l’aspetti! – cantilenò mentre io mi contorcevo in terra dalle risate. Smise dopo pochi secondi.
- Non riesco a capire perché mi hai svegliato – andò in bagno e prese la lametta per la barba.
- Pronto? Sei un attore, di solito si recita! Dobbiamo cominciare!
- Non te l’ha detto nessuno che oggi tocca solo a Ian e Christopher Lee?
Ci rimasi di sasso. – Davvero?
Mi guardò dallo specchio e annuì. – Ma so che domani dovremmo girare una scena di combattimento, quindi forse è meglio se andiamo ad allenarci.
- D’accordo. Ehi, quando hai finito raggiungimi alla mensa.

 Alla mensa trovai Billy e Dominic – perché erano sempre insieme? – che prendevano il cibo per far colazione. Mi avvicinai a loro:
- Bleah, possibile che devi sempre mangiare quello schifoso porridge? – chiesi a Billy con la faccia disgustata. Fu come dirgli che era grasso: si offese a morte.
- Blasfema!!
- No, dico sul serio, come fa a piacerti?
Mi ignorò. – Dom, traduciglielo. – e fece uno strano gesto con la bocca, poi si allontanò. Dominic ridacchiò e disse:
- Mi hai offeso, mi vendicherò. È inutile che gli vai dietro, quando è offeso non c’è più niente da fare. – poi mi fissò negli occhi. – Si vede che sei molto poco inglese.
- COSA?
Rise. – Eddai, sto scherzando!
- Come faccio a rimediare?
- Rimediare a che cosa? – era arrivato Orlando.
- A quanto pare ho offeso Billy. Magari non mi rivolgerà più la parola per tutto il resto delle riprese.
Rise e bevve il suo caffè. – C’è solo una cosa che puoi fare.
- Cioè? – finii di svuotare il bicchiere di caffelatte che avevo in mano.
- Invitalo al pub di Wellington stasera.
- Ma io stasera non vado a Wellington! – buttai il bicchiere nella spazzatura.
- E invece sì, perché mi accompagnerai. Mi serve il tuo senso estetico.

 Bob Anderson ci aspettava in tuta in mezzo alla palestra. Mi guardai intorno: non c’erano stuntmen nei paraggi questa volta.
- Per quale scena devo allenarmi oggi, Bob? – gli chiesi stringendogli la mano.
- Scena cruenta. Hery vs. Legolas. Vi dovrete impegnare.
Non potevo credere alle mie orecchie: - IO? Contro di lui? E perché mai?
- Spiegartelo è compito di Peter.
Io e Orlando ci guardammo. Sembrava pensasse quello che stavo pensando io:
“Uno di noi due si farà male”.
Bob ci guardò con un sorriso sadico: - Cominciamo?

 

“Una volta che impara la coreografia, l’attore deve perfezionarla” diceva spesso Bob Anderson. E “perfezionare” con lui una coreografia era tutt’altro che un gioco da ragazzi. Del resto, che cosa ci si poteva aspettare? Mica si poteva scherzare con un uomo della sua statura, che aveva interpretato Dart Fener in Star Wars?
La sua serietà e severità erano leggendarie. Per questo Peter l’aveva chiamato: chi meglio di lui per istruire un branco di attori scalmanati come noi?
Quella mattino Bob ci illustrò le prime posizioni e i movimenti da eseguire rallentati al massimo. Poi ci esercitammo in solitaria, aiutati da due Stunt. Devo ammetterlo, Orlando procedeva spedito e imparava molto più in fretta, ma commetteva più errori di me, tanto da dover essere ripreso più volte da Bob, che non perdeva occasione per distruggere la sua autostima – con me però non si comportava diversamente - .
Quando finalmente ci concedette una pausa, dopo un’ora e mezza di allenamento, mi diressi verso la macchinetta in un angolo della palestra e presi una bottiglietta d’acqua. Poi ne bevvi mezza, e sfruttai il contenuto restante per bagnarmi la maglietta.
- Wow, ottima tecnica di raffreddamento – si complimentò uno stuntman. Gli sorrisi e ringraziai. Poi il cellulare nella mia tasca squillò. Il numero non era presente nella mia rubrica.
Risposi titubante. – Pronto?
- Ehm… parlo con Lesley Dalton? – rispose una vocina dall’altro capo del filo.
- Sì, ma… chi parla?
Scoccai un’occhiata verso Bob e Orlando che discuteva su qualcosa, dall’altro capo della palestra.
- Scusami se ti disturbo… io sono Miranda Otto, sto per fare un provino per una parte del Signore degli Anelli…
- Ciao, Miranda! Posso chiederti, però, come hai fatto ad avere il mio numero?
- …Beh… - sembrava imbarazzata. – In realtà me l’ha dato Liv Tyler, ha detto che potevo chiedere a te…
- Dipende da che cosa vuoi sapere.
- Hai letto Il Signore degli Anelli?
Sclank. Colpita e affondata.
- Più o meno.
- Per caso sai se Eowin ha i capelli lunghi?
- … Sì, se non ricordo male.
- Perfetto, grazie. Non sono una svitata.
“Nooooo…” pensai con sarcasmo. – Ti serve altro?
- No, grazie. Ciao!
Mi ritrovai ad ascoltare il vuoto.
- Ehi, Lesley! Sei pronta a ricominciare? – mi urlò Bob.
- Arrivo!
Presi il cellulare e inviai un messaggio a Liv.
Chi è quella Miranda  con cui ho appena parlato? E perché le hai dato il mio numero?”
Rimisi via il cellulare e mi avviai verso il centro della palestra.

 Lo sguardo inquisitore che mi fissava da sopra lo schienale della poltrona della sala video aveva un che di inquietante. Certo, non ero partita benissimo, ma non c’era motivo di fissarmi a quel modo quasi scandaloso, come se fossi un pezzo di torta al cioccolato, o peggio, di porridge.
- Per caso ho la risposta scritta in faccia? - Strinse gli occhi. – Non sarà così male!
Non disse niente: forse stava elaborando una battuta arguta, Quando si impegnava, Billy ci metteva un po’ a decidere che cosa dire.
Tutt’altro: si girò e scrisse qualcosa su un pezzo di carta, poi me lo porse senza fiatare. Sopra c’era scritto: “Mi offrirai il porridge per una settimana.”
- No! – i miei soldi potevano essere meglio spesi. – Ti offro la birra.
Saltò su e si girò verso di me. – Davvero?

 - Ripetimi ancora perché diamine l’ho fatto. – bofonchiai guardando fuori dal finestrino dell’automobile.
- Che cosa? Venire con me o aver invitato Billy al bar?
- Tutte e due.
- A quale vuoi che risponda?
- Tutte e due!
- Mi serve il gusto femminile. E poi ti dovevi scusare con Billy. Due piccioni con una fava.
- Due piccioni con un lingotto, vorrai dire.
- Perché non guidi tu?
Lo fissai freddamente. – Quale delle due ragioni vuoi per prima?
- La seconda.
- Non so guidare.
- Splendido! E l’altra qual era?
- Ho ancora diciassette anni.
- E allora?
- Per quale oscuro motivo mi porti di nuovo a Wellington?
- Rispondere con un’altra domanda è contro le regole.
- Non rispondere è contro le regole. Cambiare discorso pure.
- Perché sei così di cattivo umore?
- Devo forse ricordartelo?
- Intendi il tuo amichevole incontro con Matthew?
- Già. Ma non è solo per quello.
- Cioè?
- Domani ci sarà esercitazione al fiume.
- E con questo?
- Non mi piace stare al fiume.
- Perché?
Un colpo di tosse dietro di me interruppe la nostra discussione. Mi voltai a guardare.
- Scusatemi se vi interrompo, ragazzi – disse Liv sistemandosi la cintura. – vorrei solo ricordarvi che esisto anch’io. 
- Non mi ero dimenticato di te, Liv. – ribattè Orlando.
- Senza dubbio. Ma eri così impegnato a discutere con Lesley che non ti sei neanche accorto che hai sbagliato strada. Hai preso la svolta per Hamilton, non per Wellington. - Orlando frenò bruscamente.
- E ora? La strada è a senso unico fino ad Hamilton, e ci vogliono otto ore per arrivare! – esclamai irritata.
- Ci sarebbe l’altra corsia…
- Orlando, cambiare corsia e fare dietrofront in questo punto è abbastanza illegale. – gli fece notare Liv.
- Abbiamo appuntamento tra un quarto d’ora! E non hanno ancora inventato il teletrasporto!
- Già, che cosa aspettano? – affermai con sarcasmo.
- Non fare stupidaggini, Orlie – in quel momento Liv sembrò quasi materna. Ma Orlando non la stette a sentire.
- Tenetevi forte!
Se avessi potuto guardare dall’esterno la manovra che fece con la macchina, e se fossi stata un poliziotto, l’avrei certamente sbattuto in galera per il resto della sua vita. Come se volesse sbandierare la sua spavalderia al mondo intero, Orlando aveva afferrato il volante e aveva sterzato a sinistra di colpo, non appena aveva avuto campo libero, ossia la strada senza macchine in arrivo. Io e Liv ci prendemmo una testata contro il vetro del finestrino, nonostante ci fossimo allacciate le cinture alla partenza.
- Bloom! – strillò Liv. – Io soffro la macchina!
- Io sto per vomitare i pasticcini della prima comunione. – dichiarai coprendomi la bocca con la mano.
- Su, non è andata così male… - si giustificò Orlando.
- Andiamo a Wellington, prima che qualcuno ti prenda il numero di targa – gli ordinai. – E giuro che al ritorno prendo un taxi.

 No, era escluso. Categoricamente. Quando uno mi dice “mi serve il gusto femminile”, io penso che stia parlando di vestiti. Orlando, invece, aveva un’idea tutta sua riguardo all’uso che si fa del gusto femminile.
- Tu ci hai portate qui… per scegliere una casa?
- Esatto.
Una signora sulla mezza età usci dalla porta d’ingresso e si diresse verso di noi. Teneva un blocchetto in mano.
- Lei è Orlando Bloom? – chiese non appena fu abbastanza vicina per farsi sentire. Orlando assentì. – Piacere, sono la signora Mc.Grow. Mi può fare un autografo, per favore?
Mentre Orlando firmava il blocchetto alla signora Mc.Grow, il mio cellulare mi segnalò che un messaggio era arrivato. Era Billy che mi chiedeva per che ora ci saremmo incontrati al bar. Con un sospiro gli scrissi che per le nove e mezza sarei stata davanti al caffè.
Liv si avvicinò a me: - Posso chiederti una cosa?
- Certo.
- Perché non ti piace il fiume?
Le mie orecchie diventarono rosse per l’imbarazzo quando risposi: - Non so nuotare.
- Oh, povera. Devi iscriverti ad un corso in piscina, allora.
- No, Liv, non hai proprio capito. Io ho paura dell’acqua alta. Se mi supera la vita, muoio.
- Entriamo? – ci chiamò Orlando.

 La casa che Orlando aveva l’intenzione di affittare si trovava nella baia di Wellington, ed era una villetta a due piani. Il giardino dalla parte opposta dell’ingresso si affacciava sul mare, e offriva una splendida vista di scogli e barche a vela che navigavano in lontananza. Al piano inferiore c’era il salotto e la cucina adiacente, pavimentata a mattonelle, poi un bagno e un piccolo studio; al piano di sopra c’era un altro bagno più grande, una camera da letto matrimoniale e una singola, e un terrazzo che occupava il resto del piano. C’era anche una soffitta, ma la signora Mc.Grow non ci permise di salire, dicendo che c’era troppa polvere e la botola non si apriva molto bene.
Più volte Orlando chiese pareri e consigli a me e a Liv… beh, in realtà era Liv che dava consigli e pareri… io mi limitai solo ad ammirare la carta da parati e la moquette sul pavimento. Orlando si preoccupava soprattutto dell’utilizzo che avrebbe potuto fare delle varie stanze, ma se fosse dipeso da me, avrei affittato quella casa solo per la vista sul mare.
Orlie alla fine chiese il prezzo dell’affitto, e la signora Mc.Grow – che di aspetto assomigliava alla Mc.Granitt di Harry Potter – buttò lì una cifra esorbitante che mi fece girare la testa. Tuttavia Orlando non si scompose, e accettò.
Dopo una settimana quella sarebbe diventata casa sua.

 Essendo arrivati a Wellington alle tre e mezza del pomeriggio, avevamo ancora un sacco di tempo prima delle nove. Non avrebbe avuto nessun senso tornare agli Studio per poi risaltare in macchina dopo mezz’ora, così io, Orlie e Liv decidemmo di fare un giretto in città.
Dopo ogni angolo avevo il terrore di trovarmi davanti il brutto muso di Matthwe Colt, ma non fu l’unica cosa che notai. Era sorprendente come la mia prima gita nella capitale neozelandese mi avesse nascosto agli occhi il vero volto della città se prima mi era sembrato un luogo soleggiato, pieno di gente allegra, adesso notai che a partire da una certa ora, le strade si svuotavano completamente. Si poteva vedere il cespuglio secco rotolare per terra ad ogni sbuffo di vento, e i giornali lasciati sull’asfalto sfogliavano lentamente le loro pagine all’aria. Alle sette di sera, poi, Wellington iniziò ad assumere un aspetto quantomeno lugubre.
Per fortuna Liv ci trascinò in un centro commerciale – un centro commerciale a Wellington? Strano… -, e ci fece rimanere lì fino alle otto e mezza. Per fortuna ero stata così previdente da essermi portata dietro qualche decina di dollari neozelandesi, con i quali mi comprai una giacca nera, dato che la temperatura in Nuova Zelanda stava cominciando a scendere rapidamente.
Ovviamente non mancò l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con il mio “camerata”, tutte più o meno concluse in questo modo e in questo spazio temporale:
- Ti ho mai raccontato di come ho incontrato Billy?
- No, come?
- Oh, mio Dio, quello è Orlando Bloom! – Oh, mio Dio, quella è Liv Tyler! – Oh, mio Dio, chi è quella tipa accanto a Orlando Bloom e Liv Tyler? – Bloom! Bloom! Fatti una foto con me! – Orlando, ti amo, sei tutta la mia vita – e tutti bla-bla-bla di questo genere prodotte da ogni gruppetto di ragazzine che incontravamo. Ovviamente ogni volta ero costretta a schiacciarmi contro la vetrina di un negozio mentre quelle prendevano d’assalto Orlando. Una fitta di rabbia mi attanagliava ogni volta. Ma forse non era rabbia, era diversa la sensazione che stavo provando in quel momento… suonava come… gelosia. Sì, proprio gelosia. Quelle ragazzine stavano prendendo d’assalto il mio Orlando!
All’ennesima fotografia, quando ormai ero certa che Billy mi stesse aspettando fuori dal bar con un forcone in mano, Orlie prima di mettersi in posa venne verso di me e mi prese per mano, conducendomi accanto alla ragazzina e abbracciandomi. Ovviamente, abbracciò anche lei, perché sennò che foto ricordo sarebbe stata?

 - Oh, eccoli lì! Coraggio Dom, parti con “Momenti di gloria”!
- Ah, spiri tosone. Di quanto sono… siamo… in ritardo?
- Circa un’oretta. Non ti offendi se ti dico che mi sono già servito?
- No no, fai pure. – dissi mentre mi sedevo al bancone – un ponch, per favore.
- E per lei? – disse il barista rivolto ad Orlando.
- Una birra.
- Subito – e ci diede le spalle.
- Caspita, non sapevo che bevessi roba tanto forte! – si complimentò Billy.
- Sciocchezze – afferrai il bicchierino e buttai giù quel liquore - o quel che cavolo era, non mi sono mai interessata agli alcolici – in un sol sorso. E quel gesto segnò il mio primo passo verso lo “stato di ebbrezza”, come lo definiscono i poliziotti quando beccano un ubriaco a guidare.
- Guida in stato di ebbrezza, non ti fa ridere? – esclamai non appena appoggiai sul bancone il quarto bicchiere di ponch.
- Les, non ti pare di esagerare? – mi chiese Orlando severo. Sorrisi come una deficiente e mi avvicinai al suo naso.
- Naaaaaa!!
- Ok, hai raggiunto il limite. Scusi – fece rivolto al barista. – non le serva più niente.
- Sì, signore.
- Oh, ti prego ti prego ti prego, ancora uno!!
- No, Lesley.
Guardai supplichevole il barista e sorrisi:
- Ma lo sai che tu hai la faccia da cruscotto? - dissi a voce alta inclinando la testa di qua e di là. Il barista guardò prima me e poi Orlando. Stava per aggiungere qualcosa, ma Orlando intervenne:
- La porto subito fuori. – disse alzandosi, mentre sentivo Billy e Dom ridere come matti alle mie spalle. Quando Orlie vide che non avevo intenzione di schiodarmi dal bancone, mi afferrò da sotto le ascelle e mi caricò in spalla. Incredibile quanto quel ragazzo fosse forte.
- Ehi, faccia da cruscotto, dammi un ponch per favore, cowboy!
- Lesley, basta, per favore.
Orlando mi portò fuori dal bar e scese fino alla spiaggia, che distava poche centinaia di metri. Mi mise a terra solo in prossimità della riva, e le onde mi accarezzarono le caviglie. Però faticavo a restare in piedi, e lui, povero, dovette sorreggermi.
- Ehi, Orlie, mi togli una curiosità? Che giorno è oggi?
- Il 29 giugno.
- Oh, splendido! Davvero splendido!
Mi girai verso di lui e lo abbracciai.
- Lo sai che mi piaci proprio tanto, Orlando Bloom? Ma non nel modo di quelle ragazzine stupide. – lo guardai e vidi che mi stava fissando, così gli buttai le braccia al collo. – Sì, sì, già, mi piaci proprio, Orlando Bloom. Davvero tanto.

 

 

Note dell’autrice: Che lungo questo capitolo, eh?
Come al solito… grazie a chi legge! E a chi recensisce!

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Capitolo 8
*** Cap 8. ***


La mia vita sul set – Cap. 8

Note dell’autrice: Salve truppa, buona festa della mamma! Stavolta ho voluto mettere le note in cima, perché poi… oh, insomma, non ve lo dico! Tieniamoci le cose per noi! Ringrazio quelli che passano di qua, e ovviamente tutti quelli che recensiranno!

P.s = * Letteralmente: “Perché piangi? Cosa sono quelle lacrime sul tuo viso? Presto vedrai, tutte le tue paure passeranno ”. Citazione da “Into the West” di Annie Lennox, scritta per i titoli di coda del Ritorno del Re.

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Non avevo fatto in tempo a fermare la lingua… Sapevo di essere ubriaca, completamente andata, ma un minimo controllo doveva essere ancora dentro di me, da qualche parte. Alzai lo sguardo verso Orlando. Mi fissava senza dire una parola, l’espressione dello sguardo indecifrabile. Rimanemmo lì per qualche lunghissimo istante, poi lui tirò un respiro profondo e mi prese in braccio.
-    Andiamo a casa.

Non ricordo molto bene cosa successe dopo… anzi, non mi ricordo assolutamente niente. So solo che quando il mio cellulare squillò la “mattina” successiva mi sentivo come se qualcuno mi avesse tirato una vangata sulla testa e quindi avrei volentieri continuato a dormire. Lasciai così squillare quell’aggeggio malefico sul comodino e mi girai dall’altra parte.
-    Lesley, per l’amor del cielo – brontolò la voce stanca di Orlando sopra
di me – sono le quattro e mezza del mattino, rispondi a quel dannato affare e manda a quel paese chiunque stia chiamando.
Afferrai controvoglia il telefonino e risposi pianissimo, ma il silenzio che mi circondava era così profondo che la voce di mia madre dall’altra parte risuonò in tutta la roulotte come se fosse stata lì di persona.
-    Oh, tesoro, buon compleanno! Non riesco a credere che tu sia diventata maggiorenne! Qui è ancora il 29… da te è il 30?
-    Io non riesco ancora a credere che non hai ancora capito il fuso orario! Sono le quattro qui!
-    Oh, cielo! Dormivi?
-    No – mentii. Era questo quello che ero costretta a fare con mia madre
quando rischiavo di offenderla. Quando lo faceva, era difficile farsi perdonare, e il problema è che si offendeva per niente… perciò mentivo in qualsiasi situazione.
-    Oh, visto? Nessun disturbo! Auguri anche da papà e da tutta New York!
-    Grazie…
-    Oh, dimenticavo! Sai chi sta arrivando in Nuova Zelanda?
-    Chi?
-    Janice! – la richiamò la voce di papà. – Non glielo dire!
-    Oh, d’accordo. Va bene, cara. Tanti auguri!
E mi chiuse il telefono in faccia, com’era abitudine sua e di tutti i Dalton (da parte di madre). Spensi il cellulare e mi girai dall’altra parte.
“Oggi è il mio compleanno”.

Non avevo assolutamente intenzione di fare sapere in giro che era il mio compleanno e in tutta onestà speravo che non lo sapesse nessuno. Inoltre il mio passaggio d’età era l’ultimo dei miei pensieri: Il mal di testa che mi attanagliava era allucinante quando mi alzai dal letto, e dovevo a tutti i costi spiegare la mia svalvolata ad Orlando, porgergli le mie scuse – sempre che lui le avesse accettate -, e smentire tutto quello che avevo detto – ma cosa avevo detto? -. Entrai nel bagno mentre Orlando chiacchierava a bassa voce con qualcuno: non mi azzardai ad origliare.
Appoggiai le mani sulla ceramica fredda del lavandino e fissai il mio riflesso allo specchio: non ero decisamente fresca come una rosa. Aprii l’acqua al massimo e mi sciacquai il viso come meglio potevo, ma tutto il ponch che avevo ingurgitato la sera prima mi salì improvvisamente su per la gola e dovetti dare di stomaco.
-    Les, ti senti bene? – Orlando si affacciò alla porta del bagno – sento degli strani rumori…
-    VA’ VIA! – gli urlai fra un conato e l’altro. Ma ovviamente fece tutto il contrario.
-    Ci vediamo dopo – disse al telefono e chiuse la comunicazione. Entrò
nel bagno con pigiama a maniche corte, quello grigio che gli faceva risaltare i muscoli, si bagnò una mano e me la appoggiò sulla fronte
-    Orlie, davvero, nessuno ti obbliga a…
-    Nessuno mi obbliga – mi interruppe – ma voglio farlo. Non è facile passare la prima sbronza, così ti voglio aiutare.
-    Sei molto gentile… penso che adesso mi sia passata.
-    Sicura?
Gli sorrisi. – Ok, allora. Io esco.
Mi sorprese il suo comportamento di ghiaccio. Era stato un iceberg: sembrava molto confuso, o peggio… arrabbiato. Chissà se sarei riuscita a chiarirmi con lui, prima del tramonto.

Evitai accuratamente il sentiero per la mensa, e mi diressi direttamente verso la sala trucco. Non solo in quel modo avrei evitato qualsiasi odore che avrebbe potuto rivelarsi disgustoso per il mio stomaco sottosopra, ma sarei anche sfuggita a Billy, Dom e compagnia bella… Tutte persone che avrebbero potuto farmi commenti poco eleganti riguardo alla sera precedente.
Camminavo trascinando i piedi e con lo sguardo a terra. Ormai non avevo più bisogno di guardarmi intorno per orientarmi, avrei potuto gironzolare persino a occhi chiusi. Anzi… sarebbe stato divertente. Alzai il naso in cielo e chiusi gli occhi, cominciando a saltellare come in quel cartone animato che avevo visto a casa di mio cugino in Italia… come si chiamava? Ah, sì… Heidi. Però c’era un po’ di differenza tra me e le caprette saltellanti: nei pascoli non c’era un’anima. Io invece avrei potuto benissimo andare a sbattere contro qualcuno.
Houch!
Appunto.
-    Sai, non me la prenderei più di tanto se almeno guardassi per terra!
Elijah mi sventolò una mano davanti al naso. – Quante dita sono queste?
-    Scusami, El, ero sovrappensiero.
-    Già, e chi non se ne accorto?
-    Scusami. Ciao.
Non avevo voglia di parlare con chicchessia.
-    Ehi, aspetta un minuto! – mi corse dietro e mi prese per mano. – Liv
mi ha detto una cosa su di te.
-    Ehi! Vuoi dire che ha fatto la spia?
-    Nooo, non ha fatto la spia. Se l’è lasciato sfuggire.
-    Uffaa!!!
-    Non ti devi vergognare per questo.
Lasciai la sua mano e salii le scale che portavano alla porta della sala trucco. Aprii la porta e come sempre ci trovai dentro Emma.
-    Ciao Em.
-    Per caso trattarsi male è uno sport nazionale, in America?
-    Che intendi dire? – sbuffai mentre mi sedevo sulla mia poltrona.
Mi mise uno specchio davanti al naso: - Guarda la tua faccia.
Non dico che sembravo uno zombie, nooo… Basta tenere conto che la notte prima non mi ero struccata e tutto il can-can del mattino mi aveva fatto espandere tutto il mascara per mezza faccia. No, non sembravo uno zombie… semmai un panda che piange.
-    Mi spiace, Emma…
-    Non ti preoccupare, sono diventata truccatrice apposta.
Dal tono di voce e dal suo comportamento circospetto, capii che mi stava nascondendo qualcosa. Ma non indagai.
Per tutta la seduta di trucco mi lasciai coccolare da Emma, che svolazzava intorno alla mia poltrona con in mano pennelli, struccanti e colori: era una bella sensazione sentire il tocco leggero dei batuffoli di colore sulla pelle, il profumo del fondotinta fatto apposta per darmi una carnagione da elfo… a mano a mano che Emma mi trasformava in Hery, il mio malumore scivolava via sotto le sue pennellate, diventavo sempre più allegra. Era il mio compleanno, che cavolo, mi meritavo un po’ di felicità!
-    Psss, Ehi, Les – la testa di Elijah era sbucata da dietro la porta. Aprii gli occhi e lo guardai attraverso uno specchio. – Fran mi ha detto di dirti che sotto al costume devi metterti un costume da bagno.
-    E perché? – domandai stupita.
-    Non lo so, ma l’ha fatto mettere anche a me…
Non potei far altro che obbedire. Infatti, Fran era uno dei pezzi più grossi nella troupe di Peter.

Alle otto e mezzo in punto eravamo tutti sulla scena, con i copioni in mano che recitavamo le nostre battute. Non so se fosse frutto del mio esercizio durante quelle prime settimane di recitazione, ma riuscivo ad imparare le battute estremamente più in fretta e riuscivo a parlare elfico in maniera più fluida. All’inizio delle riprese avevo fatto molte sedute di elfico con Cate Blanchett – mia madre Galadriel, per chi non lo sapesse -, magari con qualche gara alla fine della lezione. Ma che gareggiavo a fare, mi dicevo sempre… mi stracciava sempre.
Dovevamo girare le scene del Consiglio a Gran Burrone, ed era la prima volta che noi attori della Compagnia ci trovavamo insieme a Hugo Weaving, Elrond. Era una vera sagoma: durante le pause scherzava con Viggo, e si faceva un gran ridere, ma una volta iniziato e girare, il suo volto subiva una trasformazione allucinante: da persona allegra e simpatica si trasformava in un elfo assolutamente serio e saggio. Durante ogni istante di pausa, mi preoccupavo sempre di controllare che qualcuno sapesse del mio compleanno. Volevo evitare a qualsiasi costo auguri di vario genere, che non avrebbero fatto altro che distrarmi dal mio ruolo di attrice: succedeva sempre così, durante i miei compleanni. Appena qualcuno mi faceva gli auguri, la mia testa si staccava dal corpo come un palloncino pieno d’elio e volava verso le nuvole… su, su, su… ci voleva un bel po’ di tempo prima che riuscissi a tornare giù.
Fu verso mezzogiorno che ci diedero il via libera, e non perché avessimo finito le riprese della giornata. Ma la videocamera di Peter e quella di un tecnico erano saltate per aria, forse a causa di un corto circuito. L’elettricista ci disse che ci avrebbe messo qualche ora per ripararlo.
Incrociai le braccia e mi guardai intorno: era una bella giornata.
Elijah mi si avvicinò, e mi disse sfoderando un sorriso amabile: - Ti va di fare una passeggiata?
Acconsentii di buon grado. Mi prese a braccetto e mi condusse lontano dal set, verso un capannone che prima di allora non avevo mai visto. Prima di entrare, Elijah si fermò, estrasse dalla tasca del suo costume una benda e mi disse di legarmela intorno agli occhi. Cominciai a chiedermi se avesse cattive intenzioni, ma di certo non era così: Elijah era una persona troppo buona, e poi tutto lo conoscevano. Forse allora voleva farmi una sorpresa per il mio compleanno… mentre mi legavo la bandana intorno alla testa sperai di no con tutte le mie forze. Per essere sicuro che non stessi sbirciando, mi fece fare qualche giro su me stessa, poi mi condusse dentro. Appena varcammo la porta, un odore di cloro ci investì, ma non si sentiva nessun rumore in giro. Non un anima viva.
Elijah allora mi tolse la benda dagli occhi e mi fece vedere il contenuto della stanza. Era un’immensa piscina riempita fino all’orlo. Prima che gli potessi chiedere spiegazioni, lui si era già tolto il vestito, rimanendo in costume da bagno. Poi mi sorrise.
-    Non ti sei messa il costume anche tu? Se vuoi non guardo.
Mi sorpresi della sua tenerezza, poi mi tolsi il costume di scena e rimasi anch’io solo con il costume da bagno addosso.
-    Caspita, sei molto magra!
-    El, cos’hai intenzione di fare?
-    Il bagno!
-    A questo c’ero arrivata. Ma io che c’entro?
-    Beh, a questo punto mi sembra abbastanza facile da indovinare. Ti insegno a nuotare.

Rimasi a bocca spalancata per qualche secondo, poi dissi:
-    Mi dispiace, ma io ho paura dell’acqua. Ho paura a mettere la testa sott’acqua.
-    Nella vita ci vuole coraggio.
-    No, El, non me la sento. Davvero.
-    Forza! Ci sono io. Dai!
Mi si avvicinò e mi sollevò da terra. Nonostante fossi di poco più bassa di lui, riuscì a sollevarmi senza sforzo. Perché tutti si divertivano a prendermi in braccio?
-    Tieniti stretta a me, e vediamo se non la superi, questa tua fobia.
Cercai in tutti i modi di persuaderlo, ma lui continuava ad avanzare verso l’acqua, inesorabile. A mano a mano che si avvicinava all’acqua, sentivo maggiormente il bisogno di saltare giù e scappare, ma la presa di Elijah era ben salda.
-    Dopotutto – disse, - l’acqua che cos’è? Solo l’unione di due atomi di idrogeno con atomo di ossigeno. Perché nei hai così tanta paura?
Ormai era arrivato con l’acqua fino alle ginocchia.
-    Io… ho paura degli squali!
-    Tsè! Inventane un’altra.
-    Da piccola ho visto la mia amica immaginaria annegare. Sul serio!
Non sto scherzando! – Mi strinsi a lui molto più forte di quanto non stessi già facendo, appena sentii che l’acqua cominciava a bagnarmi.
-    Elijah Wood! Portami fuori di qui! – sbraitai.
-    Sei pronta? Adesso ti lascio andare.
L’acqua ci arrivava al collo.
-    No! Sei pazzo? Non ci provare!
-    Tieniti stretta, mi raccomando.
-    NO! EL!
D’un tratto mi mollò le gambe, e le sentii andare a fondo. Mi avvinghiai al suo collo come un’ancora di salvezza. Per rassicurarmi, mi prese per un fianco. Ero sul punto di piangere.
-    Elijah…
-   Shhhhhh… rilassati. Non ci sono squali o amiche immaginarie che
annegano qui. Ci siamo solo noi due e l’acqua.
-    Appunto!
-    Why do you weep? What are these tears upon your face? Soon you’ll see. All of your fears will pass away… *
Non sapevo che cosa mi stesse cantando, sapevo solo che quella dolce melodia aveva un effetto calmante su di me.
-    Prova a sdraiarti, chiudendo gli occhi. Avverrà una magia – mi
consigliò Elijah, prendendomi per mano e non lasciandomi un minuto. Feci come mi aveva consigliato. Ci misi un po’ a chiudere gli occhi, ma poi dopo un po’… mi accorsi che stavo galleggiando.
-    Mi stai tenendo su tu?
-    No. Io sono qui.
Aprii gli occhi e lo guardai, ma non era più nel mio campo visivo, girai piano la testa e lo vidi seduto sul bordo della vasca. Persi l’equilibrio e mi dimenai dentro l’acqua. Elijah, non appena mi vide in difficoltà, si tuffò subito e nuotò veloce verso di me. Appena mi raggiunse mi tenne su lui.
-    Non lo fare mai più! – Annaspai.
-    Perché? Stavi facendo tutto da sola. Nulla più. Rimettiti come prima,
ma non ti spaventare.
Questa volte ci riuscii più facilmente e provai a tenere gli occhi aperti.
-    Ora – disse un po’ più lontano da me – prova a muovere le gambe su e giù verso di me.
Iniziai prima con una gamba, poi con un’altra, stando attenta a non farmi entrare l’acqua nel naso. Ma era difficile per me coordinare i movimenti. Dopo circa tre minuti, riuscii a raggiungerlo.
-    Bravissima! – esultò. – Domani ci esercitiamo di nuovo.
-    Perché domani?
-    Ci hai preso gusto, eh? – ammiccò. – Ma ora ti devo accompagnare all’aeroporto.
-    Perché?
-    Non te lo dico.
-    Uffa, odio i segreti.

Pranzai con un panino veloce alla mensa, dopo essermi fatta la doccia nella roulotte. Per quanto lo cercassi in giro, non riuscivo a trovare Orlando.
Poi, quando lo vidi, Elijah mi aveva appena detto che la macchina era pronta per partire, e Orlando era seduto ad un tavolo in un angolo della sala. Mi avvicinai a lui e provai a dire qualcosa, ma stava parlando con Viggo.
-    Orlando…
-    Dalton. Non lo sai che non si interrompe qualcuno mentre sta
parlando? – Mi rispose bruscamente. Fu come se qualcosa dentro di
me si fosse spezzato, forse il cuore.
-    Les, dai, andiamo siamo in ritardo.
Mi prese sottobraccio e mi condusse di forza verso la macchina nella piazzola principale. Prima di salire mi abbracciò.
-    Mmmm, sai di fragola!
-    E’ il mio shampoo. Ehm… perché l’abbraccio?
-    Perché sei mia amica e avevo voglia di farlo.
-    Beh… grazie.
-    Di niente.

Il viaggio verso l’aeroporto si svolse senza aneddoti o chiacchierate di sorta, niente di cui vale la pena raccontare. Una volta arrivati all’aeroporto erano circa le sette e mezza di sera, ed Elijah mi scortò verso la porta da cui uscivano i passeggeri del volo per New York.
-    Guardati intorno e dimmi se vedi una faccia conosciuta.
Nella mia mente ripassai i volti di tutti coloro che conoscevo che provenivano da New York. Ma di quei volti in giro non ne vidi nessuno.
-    Non c’è nessuno.
-    No? Allora chi è quella ragazza un po’ cicciottella che si sta
sbracciando da un’ora verso di noi?
Guardai nella direzione che mi stava indicando, e allora anch’io la vidi.
-    Jess! – esclamai entusiasta, lanciandomi verso di lei, che mi guardava
sgranocchiando patatine prendendole dal sacchetto che aveva in mano. Ci abbracciammo saltellando – beh, in realtà, saltellavo solo io – strillando commenti gioiosi. Elijah se ne stava un po’ in disparte, sorridendo con franchezza e ridendo con gli occhi. Allora condussi Jess verso di lui e gliela presentai.
-    Jess, lui è Elijah… il nostro Frodo.
Jess lo salutò sventolando una mano. Poi fece cenno di avviarci verso la macchina di El. Mentre uscivamo dalla porta dell’aeroporto, El mi disse sottovoce:
-    Non è che vi assomigliate tanto, eh?
-    No, hai ragione. Siamo il polo nord e il polo sud.
Ed era vero. Se io ero “un insetto stecco”, come mi aveva definito Dom il giorno prima, lei era più bassa di me e decisamente più cicciottella di me – anche se io non ero proprio magrissima, piuttosto direi normale -. Se io avevo i capelli lunghi e la pelle bianca, lei era un’americana abbronzata e con i capelli corti. Io ero una chiacchierona che diceva come minimo novemila parole al giorno, lei di parole al giorno ne diceva solo quindici. Insomma, l’una l’opposto dell’altra.
Una volta saliti in macchina, Elijah accese il motore e si diresse verso l’uscita del parcheggio dell’aeroporto.
-    Come mai sei qui? Qual buon vento ti porta in Nuova Zelanda?
-    Sono un regalo da parte dei tuoi.
-    Un regalo? – saltò su Elijah – perché?
Feci segno a Jess di tacere, e lei mi capì al volo.
-    Ehiiii, perché un regalo? – insistì El.
-    Mia madre è quel tipo di persona che fa regali a tutti quanti per futili
motivi – risposi. – Visto che non ha potuto congratularsi con me per la laurea, ha preferito spedire Jessica qui come un pacco.
-    E perché solo ora? Insomma, sono passate tre settimane!
-    Immagino che tutto questo tempo le sia servito per organizzarsi con la madre di Jess. A proposito, Jessie… quanto ti fermi da noi?
-    Credo che resterò qui per circa quattro giorni.
Con quella frase, Jess aveva finito le sue quindici parole giornaliere, ed infatti non parlò più per tutto il resto della serata.
Il mio stomaco brontolò, subito seguito da quello di Elijah. Quello di Jess era pieno zeppo di patatine, forse, perché lei prese il suo zaino da sotto il sedile, lo aprì e saltarono fuori quattro o cinque sacchetti di snack e smarties. Ce li offrì, e noi accettammo di buon grado.
Se vi state chiedendo perché Jessica Hale era cicciottella, immagino che ora avrete capito perché.

Quando arrivammo erano già le nove. Feci fare a Jess un giro veloce degli Studio, ma entrambe eravamo stanche e convenimmo che sarebbe stato meglio rimandare al giorno dopo.  
Visto che Liv in quel periodo era in Inghilterra, la sua roulotte era libera, così feci sistemare la mia amica lì. La lasciai sola a disfare la valigia – il cui contenuto andava per la maggior parte sistemato in cucina -, e mi diressi verso il mio caravan per cambiarmi la maglietta e mettermi qualcosa di più pesante. L’aria aveva cominciato a farsi decisamente più fredda. Appena entrai vidi Orlando seduto sul divanetto a leggere una rivista. Decisi che quello era il momento giusto per parlargli a proposito della serata del giorno prima: mi fissai per un attimo i piedi e mi misi le mani nelle tasche dei pantaloni, poi mi sedetti di fianco a lui, che non rispose nemmeno alzando lo sguardo. Cercai le parole che avrebbero potuto fare effetto, ma era difficile in quella situazione.
-    Ehm… senti… Orlie… volevo parlarti a proposito di…
-    Non lo sai che sono inglese? – Rimasi spiazzata per un attimo. Non
tanto per il suo tono aggressivo e furioso, ma per la domanda del tutto inaspettata.
-    Sì, e allora?
-    Odio i soprannomi.
Detto questo chiuse la rivista, la sbattè sulla pelle del divanetto e uscì dalla porta. Mi buttai addosso la prima felpa che trovai nel mio cassetto – quella blu, per fortuna, la più calda – e corsi fuori per inseguirlo.
- Orl…ando! – lo chiamai, ma era già sparito. Però sentii il suono di una porta che sbatteva. Allora corsi nel buio, provando ad aprire tutte le porte che incontravo, anche quelle delle roulotte altrui: sala montaggio, la palestra, il caravan degli Hobbit, quello di Jess – che trovai vuoto, ma avevo già abbastanza cose di cui preoccuparmi  -… finché non arrivai alla mensa. Ritrovandomi nel buio, cercai a tentoni l’interruttore, e quando accesi la luce…
- SORPRESAAAAAAA!!! – l’urlo scatenato da tutti quanti fu talmente forte ed improvviso che feci un salto all’indietro. I tavoli della mensa erano tutti stati spostati verso le pareti della mensa e messi a formare due file di lunghe tavolate: una piena di cibo, l’altra piena di regali. Dal tetto pendeva uno striscione con su scritto Happy Birthday Lesley!. Davanti a me c’erano tutti: in prima fila Jessica, i quattro Hobbit – con quattro cappellini identici calcati in testa  -, Viggo, Ian McKellen, Bean e Peter. Poi, più dietro, i macchinisti, Frann, Philippa, Emma. Andai verso di loro ad abbracciarli uno per uno, ma per quanto mi guardassi in giro non riuscii a scorgere Orlando, e i miei occhi si riempirono di lacrime dalla delusione. Gocce di pianto che gli altri scambiarono per felicità. Fischi, urla e applausi si alzarono dalla folla, e allora sorrisi, e una lacrima mi rigò la guancia. La “folla” attaccò “Tanti auguri a te”, mentre il cuoco scortava una torta alta due piani – neanche fosse stato un matrimonio – tutta di cioccolato, per la gioia di Jess. Mi costrinsero a soffiare sulle diciotto candeline in cima – e dovetti farlo solo dopo essere salita su una sedia -. Che festa, ragazzi! Ma prima che potessi dire qualcosa, qualsiasi cosa, mi costrinsero a scartare i regali. Per fortuna si erano messi d’accordo e così non ce n’erano più di una decina, ma comunque veramente troppi per me. Elijah, Sean, Billy e Dominic ne avevano fatto uno per tutti, ovviamente. Poi c’era quello di Jessie, quello di Liv – che poi scoprii essere arrivato per posta -, quello di Peter e di tutta la crew, eccetera eccetera.
- Come diamine avete fatto a sapere che oggi era il mio compleanno? – esclamai.
- Ma Lesley, è ovvio! – rispose Ian McKellen. – Quando Ian Holm ti ha proposto a Peter per la parte di Hery, gli ha fornito il tuo Curriculum Vitae. E secondo te non c’era il giorno della tua nascita?
Mi sentii un’imbecille. Come avevo fatto a non arrivarci?
- Beh, dai coraggio, scartali! – mi urlò qualcuno non identificato. Forse Bob.
Gli Hobbit mi avevano regalato una copia del Signore degli Anelli, Jessie un paio di pantaloni da equitazione e una tuta da ginnastica, Peter… una cartina della Terra di Mezzo. Il regalo di Liv era una felpa dell’università di Oxford. Ma non c’era un regalo da parte di Orlando Bloom. Allora, solo dopo essermi ricordata di lui, mi girai e lo cercai fra le persone che ormai erano sparse per la sala mensa con i bicchierini e piattini con la torta in mano, ma non lo vidi comunque. Abbassai la testa, dicendomi che ormai la nostra amicizia era finita a causa della mia lingua lunga e del troppo bere, o forse a causa dei miei sentimenti nei suoi confronti. Avrei dovuto imparare a non metterci il cuore sopra, su queste cose. Le guance cominciarono a rigarmi il viso contro la mia volontà. Mi sentii afferrare per la spalla e qualcuno mi voltò verso destra.
- Cercavi forse me?
Era Orlando e sorrideva. Era spuntato dal nulla, e la dura maschera inespressiva che gli era appartenuta per tutto il giorno si era volatilizzata, lasciando spazio ad un sorriso ben più sincero e splendente di quelli che si vedevano sui volti dei miei amici. Mi passò il pollice sulla guancia dicendomi:
-    Asciuga queste lacrime. – si vedeva che stava per mettersi a ridere.
-    Io… Tu… pensavo che fossi arrabbiato!
-    Su, Lesley, hai dimenticato che sono un bravo attore?
-    Sì, ma le cose che ti ho detto ieri sera…
-    Tutti nelle sbronze dicono qualcosa di cui si potrebbero pentire.
Anch’io ho detto parecchie cose su di te, nella sbornia che mi sono preso la sera prima del tuo primo giorno. Ho rivelato cose compromettenti.
-    Davvero? – Tirai su col naso. – Cioè? Cos’hai detto?  – lui rise.
-    Che ti amo, ragazzina sciocca, sensibile e astemia che non sei altro!
Si abbassò verso di me e unì le sue labbra con le mie in un lunghissimo e dolcissimo bacio. Il cuore mi balzo in gola mentre chiudevo gli occhi per sentire meglio le sensazioni che stavo provando in quel momento. A poco a poco la gente intorno a noi smise di parlare e iniziò a fissarci, finchè anche Billy e Dom non se ne accorsero e proruppero in un bell’inopportuno “Finalmente!”, scatenando l’ilarità di tutti e facendo partire un applauso.
Avrei voluto dire a Orlando che anch’io l’amavo con tutto il cuore, ma sapevo che quel bacio era più esplicito di mille parole.

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Capitolo 9
*** Cap 9. ***


La mia vita sul set – cap. 9


- 1984.
- 1983.
- '82, è la mia ultima offerta.
- Prontoooo? Hallo è dell'83.
- Lionel Ritchie l'ha composta o nell'82 o nell'84. è escluso che sia dell'83.
- Di che si parla?
- Bean sostiene che Hallo di Lionel Ritchie è una canzone dell'82 o dell'84. Io dico che è dell'83.
- 1982!!
- L'anno in cui sono nata, Bean. '83!!!
- Ha ragione lei, è dell'83.
- Ah! Visto??
Bean-Boromir sbuffò e girò i tacchi, lasciando Viggo-Aragorn e me da soli.
- Se non sai queste cose, non giocare a Trivial Pursuit!! - gli urlai dietro.
- Woooo, calma principessa. Una foto per spegnere i bollori?
- I bollori ce li avrà tua nonna! No, Viggo. VIGGO!
Chiusi gli occhi allo scatto del flash della macchina fotografica di Viggo. Rise in modo inquietante:
- E questa - tirò fuori la foto dalla camera - Va dritta dritta sullo specchio delle meraviglie, insieme alle foto di gruppo.
- Se la mettiamo in questo modo - alzai le spalle - presto sarà ricoperta da altre foto... Viggo? - mi voltai a guardarlo, ma era sparito. Lo vidi poco lontano che rideva con uno sguardo da pazzo, e Bean che si massaggiava la testa.
- Che diavolo ha fatto?
- Gli ha tirato un pugno in testa, suppongo - affermò Astin-Sam.
La nostra attenzione fu attirata dalla voce stridula di Liv-Arwen che strillava qualcosa rivolta a Orlando-Legolas, mentre lui ridacchiava continuando a stuzzicarla.
- Oggi voi principesse siete un tantinello isteriche, o è solo una mia impressione?
- Chiudi la bocca, Merry, e dimmi dov'è Frodo.
- Ah, ho capito...  sei nervosa per l'arrivo di Colt, fra poco! - Dom-Merry rise. – A proposito… mi spieghi come faccio a chiudere la bocca e a dirti dov’è El?
- EHI LES!! - mi chiamò Emma dall'alto della sala trucco, mentre Elijah-Frodo scendeva le scale. - SALI E VIENI QUI A FARTI DARE UNA RITOCCATINA!
Non feci in tempo a rispondere perché Elijah mise un piede-protesi (una pieprotesi, ah ah ah) in fallo e ruzzolò giù come una pallina di neve in montagna.
- Porca... si è fatto male! - strillacchiò Emma, ma Elijah si tirò su, si tolse l'erba dalle spalle sbuffando e si allontanò fischiettando e con le mani nelle tasche.
- Tesoro, hai appena visto Charlie Chaplin dal vivo - disse Billy - pipino mettendomi un braccio intorno alle spalle.
- Se me lo avessi raccontato tu, non ci avrei creduto.
- Mm, grazie per la fiducia. Ehi, non è la tua amica quella laggiù?
Mi voltai nella direzione che Billy-Pipino mi stava indicando e vidi Jessica che mi guardava: andai nella sua direzione.
-    Ciao! Dormito bene?
Lei annuì senza smettere di mangiare il toast al prosciutto che aveva in mano.
-    Lesley Dalton!! SE NON SBAGLIO TI AVEVO DETTO DI VENIRE QUI!
La vocina di Emma sovrastò la confusione del set perforandomi i timpani.
- Sì, Emma, arrivo! – le urlai. Corsi verso la sala trucco e salii le scale due a due, fiondandomi, appena entrata, su un sedile. Emma iniziò quasi subito a scrutarmi alla luce di una lampada, ma non mi fece alcuna “ritoccatina”.
- Emma, perché mi hai fatto venire qui se poi non mi rifai il trucco?
- Oh, scusami… è che devo confidarmi con qualcuno.
- Ah sì? – mi sporsi verso di lei, curiosa. – E su cosa?
- Beh – sprofondò sul sedile di fronte a me – stamattina presto è arrivata una nuova costumista… quella che c’era prima, Elizabeth, è andata in maternità. – sospirò.
- E allora? – incalzai. Lei tirò su il mento e gonfiò il petto.
- È mia cugina di diciassettesimo grado.
- E sei nervosa per questo? Io potrei essere tua cugina di novantanovesimo grado!!
- Sì, ma comunque… stai attenta… è un po’ strana.
Mi alzai e le feci un occhiolino.
- Non preoccuparti – le sorrisi.
- Les! – Sean entrò proprio mentre stavo per aprire la porta. Capii solo guardandolo.
- Colt!

Arrivai di corsa sul prato accanto a Sean mentre Colt discuteva guardandosi intorno e il cast lo fissava silenzioso. Non volli ascoltare quello che stava dicendo. Poi si girò verso di me. Rimase fermo per un attimo a fissarmi, poi un sorriso sadico gli illuminò il viso. Si avvicinò e mi afferrò per un braccio, portandomi avanti.
-    Se credete che lei sia il nuovo talento, vi sbagliate!
Rivolsi un’occhiata di soccorso a Orlando: vedevo che stava ribollendo di rabbia. Dai Les, cavatela da sola.
- E lei che ne sa? – gli dissi. – Per caso mi ha mai visto recitare?
- No. – rispose semplicemente. Strattonai il braccio dalla sua stretta.
- Allora stia zitto!
Colt si voltò verso Peter. – Se scegli i tuoi attori in base all’educazione, siamo a cavallo.
Una figura rotondetta e con un sacchetto di pop corn in mano si fece strada fra la gente dietro a Colt e gli andò vicino, fermandosi alle sue spalle. No, era impossibile, non ci credevo…
- Senti, bello – appena sentii la voce di Jessica farsi strada in mezzo allo spazio che c’era fra noi e Colt, da una parte mi raggelai, dall’altra avevo voglia di ridere.
Colt si girò verso di lei, molto lentamente. – Se credi – continuò Jess - che questo sia un posto dove venire quando ti pare a menare giudizi a casaccio, hai proprio sbagliato posizione. Anzi, sai cosa? Non credo che esistano posti del genere. Informati meglio se vuoi giudicare! Queste sono persone che s’impegnano e che ce la mettono tutta per realizzare il proprio sogno, e non è che se vieni quando ti gira o ad ogni morte di papa che capisci qualcosa in più su di loro!
Colt era viola di bile.
-    Perciò – concluse Jessica. – Salta sulla tua macchina e fila via, imbecille!
Fu quasi un sogno vedere Colt non replicare, girare i tacchi e ritirarsi nella sua macchina con autista, senza rispondere. Blaterava qualcosa fra sé, mentre l’autista gli apriva la portiera e accendeva il motore.
Poi, quando le gomme sgommarono sull’erba… partì un applauso, seguito da grida festanti. Corremmo tutti in direzione di Jessie e i maschi la sollevarono in aria – poverini, chissà che fatica! - .
-    Mai visto niente del genere!
-    Che franchezza, ragazzi!
Mi avvicinai a Jessica e le sussurrai: - ti sei appena conquistata l’amore assoluto di tutti noi. Ed è la prima volta che ti sento dire più di quindici parole!
Ne ottenni una linguaccia.

-    Ok ragazzi, questa scena la rifacciamo ancora una volta e poi ci spostiamo. Avete preparato tutti le valige?
-    Uh, io sì! – esclamai fuori luogo.
Infatti, avevamo concluso le scene da girare negli Studio del campo di grano, e ci saremmo spostati a Hamilton, per girare le scene di Hobbiton, nella contea. Io in quelle scene – secondo il libro – non comparivo, ma avrei seguito comunque la Compagnia, per allenarmi con il tiro con l’arco, magari.
Ormai dovevamo modificare solo qualche ripresa, ma la mia faccia doveva avere una strana espressione.
-    Lesley, per l’amor del cielo, il tuo personaggio non è euforico! – Tutti intorno
a me risero.
Arrossii e mi scusai a raffica. Dovevo assolutamente reimpostare il mio umore. Dai Les, arrabbiati. Ah, ecco!
-    Così va bene? – domandai a Peter fulminando il nulla con lo sguardo.
-    Ok, ma vediamo se riesci a mantenerla.
Non so come, ci riuscii.

-    Ehi Orlando! Vieni qui, devo parlarti! – lo chiamò Peter mentre ognuno di noi lasciava la propria sedia. Mi voltai un attimo a guardarlo, lo vidi che confabulava insieme al regista, serio. Sorrisi tra me e feci per voltarmi per andare a cambiarmi. Ma qualcuno mi rovesciò una tazza di caffè addosso. Caffè bollente.
-    Ahiahiahiahiahiahiahi!!!!! – ululai dal dolore saltellando in cerchio. – Che male! Brucia brucia brucia!!
Una nuvoletta di capelli rossi m’inseguiva cercando di aiutarmi. Corsi verso la sala costumi – quella più a portata di mano – e presi dal minifrigo in un angolo del ghiaccio e me lo appoggiai sulla pancia, sul punto dove era caduto il caffè.
-    Ehilà, che ti è successo? – mi chiese Ngila, la costumista
-    Qualcuno con i capelli rossi mi ha versato addosso del caffè bollente. – risposi saltellando da un piede all’altro.
-    Qualcuno con i capelli rossi? – ripeté Ngila, pensierosa. – Ilana!
-    Ho chiesto scusa! – si giustificò la maldestra tizia con i capelli rossi:
evidentemente mi aveva seguita. Rispose allo sguardo duro di Ngila con occhi innocenti. La guardai: non era esattamente alta, non era esattamente magra. Altezza media, nella struttura fisica non aveva niente di particolare. Ma aveva un viso dolce: un po’ a punta, gli occhi erano grandi e color verde prato. Quelli che avevo immediatamente classificato come capelli rossi, in realtà erano ramati, ricchi di splendidi riflessi. Se fossero stati lisci le sarebbero arrivati fin sotto le spalle, ma erano così ricci che le arrivavano sopra le spalle: ma non era quel riccio disordinato, quello che diventa a forma di fungo sotto la pioggia, ma era un riccio ordinato, disciplinato…
Presi il sacchetto del ghiaccio con la mano sinistra e le porsi la destra:
-    Mi chiamo Lesley Dalton, Les per gli amici.
Scrutò la mano che le porgevo con infinita sorpresa, poi allungò la sua verso la mia e la strinse con un certo timore.
-    Io sono Ilana Kim, Linnie per gli amici.
-    Bene, Linnie, felice di conoscere te… e il tuo caffè.
Arrossì fino alla punta dei capelli – già rossi per conto loro – e scappò a nascondersi dietro ad un manichino. Accidenti, Emma mi aveva detto che era eccentrica, ma non strana in questo modo. Ngila sorrise e guardò nella sua direzione.
-    Di solito parla come un mitra, ma per lei tu sei un mito. È da quando ti sei unita al cast che Emma non fa altro che parlarle di te… e quindi per lei sei diventata una leggenda vivente.
Scoppiai a ridere: - Addirittura! – mi sporsi dal suo manichino e la vidi che si teneva le mani sulla faccia.
-    Ehi, Linnie, perché proprio me e non… che ne so… Liv, Sean, Viggo o Elijah?
Lei sollevò il viso e mi guardò: - A me piace Elijah Wood! Cioè… non in quel senso… - scoccò un’occhiata a Ngila che uscendo dalla sala costumi si chiudeva la porta alle spalle. Raddrizzò la schiena e continuò: - Ok, va bene, anche in quel senso, ma non dirlo a nessuno, ok?
-    Beh, allora sai cosa? – dissi nascondendo un sogghigno. – Stiamo per andare all’aeroporto, perché non vieni anche tu?

La mia valigia si aprì nel bel mezzo del prato, rovesciando tutto il contenuto sull’erba bagnata. Faceva un freddo cane e, improvvisamente, aveva cominciato a nevicare. Avevo lasciato la mia giacca a vento sul fondo della valigia, quindi avevo dovuto svuotarla in gran fretta e ricacciare tutto dentro, senza chiudere bene il bagaglio.
Imprecai e cominciai a raccogliere i vestiti, mentre Dom mi chiamava dalla porta del pullman.
-    Arrivo!
Dom prese una birra dagli scalini del pullman e si sedette su una panchina di legno. Viggo trovò la sua posa così poetica che decise di scattargli una foto.
Finalmente riuscii a rimettere tutto dentro e mi avvicinai al pullman. Presi la birra che Dominic si stava portando alle labbra e ne trassi un lungo sorso.
-    Ehi Les, devo ricordarti che sei la persona che si ubriaca più facilmente sulla faccia del pianeta?
-    Oh, andiamo, è solo birra.
-    Sì, ma è mia. – Me la strappò di mano e ricominciò a bere. Billy si accese
una sigaretta. Posai il mio bagaglio nello scompartimento del pullman, salutai Orlando che ascoltava musica seduto all’interno, raccolsi una pallina di neve e la lanciai in faccia a Dom, che volò all’indietro giù dalla panchina.
-    Ehi!
Rispose al fuoco con due palline di neve, ma una colpì la sigaretta di Billy facendola finire a terra.
- Macche… - fece lui. Raccolsi un’altra pallina e la lanciai contro il vetro di Orlando, che si spaventò e fece un salto sul sedile, e poi schiacciò il naso contro il vetro. Gli feci una linguaccia nel momento esatto in cui una palla di neve mi colpiva sulla nuca.
- Colpire alle spalle non è un atteggiamento da cavaliere! – Gli dissi.
Billy e Dom si fermarono all’unisono, fissando qualcosa dietro di me.
-    Che c’è?
Mi voltai e vidi Elijah seduto a gambe accavallate, che se la dormiva della grossa con la testa ripiegata sul petto. Mi chinai a guardare se respirava, e altre due palle di neve mi arrivarono in testa da dietro. Allora ne raccolsi una a due mani e feci per lanciarla contro quei due filibustieri, ma tre grosse palle provenienti dalla nostra destra ci colpirono in piena faccia, facendoci cadere quello che avevamo in mano. Mi voltai e vidi Linnie e i due Sean, che ci guardavano maligni.
-    Ci piace giocare a baseball – spiegò Bean.
-    Fran dice che dobbiamo andare. – disse invece Linnie.
Sospirai e chiesi: - Devo controllare se ho lasciato qualcosa in giro?
-    No, ci penseranno gli altri a controllare e a spedire ciò che rimane a Peter.
-    Ve bene, allora.
Salii le scale del pullman, poi le riscesi e mi sporsi dall’entrata. – Sali, Linnie?
Lei obbedì, seguita da Dominic, Billy, Sean e Bean, e Viggo. Appena Orlando vide Bean, gli disse: - Bel colpo, bastardo del nord.
-    Grazie, babbeo del sud. – gli rispose lui di rimando.
Afferrai per mano Linnie e la condussi da Elijah, che nel frattempo si era svegliato e si era seduto su un sedile stropicciandosi gli occhi.
-    Ehi, El – sollevò lo sguardo al mio richiamo e incontrò quello di Linnie. – Ti presento Ilana Kim, Linnie.
Elijah le strinse la mano con gioia e la invitò a sedersi vicino a lui. La goffaggine che dominava Ilana in quel momento mi ricordò tanto la mia reazione la prima volta che vidi Orlando. Sorrisi fra me.
Mi diressi verso il sedile di Orlie e mi lasciai cadere al suo fianco. Mentre l’autista saliva sul pullman, chiudeva le porte e accendeva il motore, Billy e Dom si alzarono in piedi e non appena le ruote cominciarono a muoversi, urlarono:
-    Andiamo a Hobbiton!!


Ok, questo è un capitolo pressoché inutile, ma prometto che mi rifarò nei prossimi capitoli! Tra la fine della scuola, molte verifiche e qualche disguido tecnico familiare ritorno finalmente a pubblicare. Vi capirò se mi riempirete di critiche e bandierine rosse… solo, cercate di essere clementi!!
Un bacio
Panenutella.

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Capitolo 10
*** Cap 10. ***


La mia vita sul set – Cap. 10

Il suono del messaggio acustico si fece strada nell’aria nell’aeroporto di Wellington: “Ultima chiamata d’imbarco per il volo per New York al gate 7”. Avevo lasciato la Compagnia al gate dell’aeroporto per accompagnare Jessica al suo volo per tornare a casa.
Guardai ancora per un attimo il soffitto e poi abbracciai forte Jess, che rispose timidamente.
-    Mi dispiace salutarti così presto.
Lei ricominciò a rosicchiare il suo toast. – Devo andare – disse tra una masticata e l’altra.
-    Lo so… - mi strinsi nelle spalle - la prossima volta che sei libera, allora…
-    Mi hanno contattato per fare una specie di telefilm o cose del genere, ma io comparirei solo in poche puntate, perciò… diciamo che sarò “libera” a partire  dalla prima metà di settembre.
-    Davvero? – esclamai entusiasta – E dove girerete?
-    A New York. Lo sai come sono, sono troppo pigra per spostarmi troppo.
-    “Ultima chiamata d’imbarco per il volo per New York con scalo a Los Angeles al gate 7”.
Ricacciai indietro le lacrime. – Mandami una mail ogni tanto.
Jessie annuì.  La strinsi in un ultimo abbraccio e la guardai superare il metal detector e dirigersi in fretta verso l’imbarco. – Avvisami quando atterri! – le urlai prima che scomparisse dietro l’angolo: mi fece un breve cenno con la mano e se ne andò.
Mi sarebbe mancata.
-    “Ultima chiamata d’imbarco per il volo
-    … Per New York con scalo a Los Angeles al gate 7 – completai svogliata.
-    “… per Hamilton con scalo a New Plymouth al gate 20”.
Un tonfo sordo del mio cuore.
-    CHE COSA??
Colta di sorpresa, cominciai a cercare frenetica qualcosa che mi indicasse il gate 20, ma non trovai niente. Guardando i cartelli, cominciai a correre in una direzione a caso, sperando che fosse quella giusta. Dato che il corridoio era rettilineo e che io mi trovavo più o meno all’inizio, avevo il 50% di possibilità di sbagliare. O forse il 25%... o forse… vabbè, in ogni caso, sapevo che “intelligente” com’ero, avrei potuto benissimo sbagliare direzione anche se dietro di me ci fosse stato un muro.
Dopo aver travolto qualche hostess, una manciata di turisti e un poliziotto che per poco non mi arrestava, cominciai a contare i segnali dei gate. “Gate 13… Gate 14… Gate 15…”
-    “Ultima chiamata d’imbarco…”
“… Gate 16… Gate 17…”
-    “…per il volo per Hamilton con scalo a New Plymouth…”
“… Gate 18… Gate 19…”
-    “…al gate…
-    20!! –  urlai trionfante e alcuni turisti in pantaloncini corti nonostante il freddo –
probabilmente tedeschi – mi squadrarono da capo a piedi. Un bambino tirò la giacca della madre indicandomi.
Appoggiai le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. Dopo qualche secondo il mio cellulare squillò: lo schermo mi diceva che era Orlando. Risposi con il fiatone:
-    Lesley, ma che combini?
-    Siete… puff… siete già sull’aereo?
-    Quale aereo?
Alzai gli occhi al cielo. – Orlie, questo scherzo è di cattivo gusto. Non hai sentito la chiamata d’imbarco? “Ultima chiamata d’imbarco per il volo per Hamilton con scalo a New Plymouth al gate 20”. – Imitai l’annunciatrice con voce nasale. - E ora, per piacere, dimmi se siete su quell’accidenti di aereo.
Sentii risatine in sottofondo. Anche Orlando stava trattenendo a stento una risata. – Beh, Les, se vuoi saperlo, siamo esattamente sotto il tuo naso.
-    Ah-ah.
-    No, siamo davvero sotto il tuo naso.
Sembrava che stesse dicendo la verità: mi guardai intorno e dopo un po’ li vidi, tutti insieme, seduti sulle panchine dietro di me che mi fissavano e facevano di tutto per non scoppiare a ridermi in faccia. Arrossii fino alla cima dei capelli.
- Ma quello non è il nostro aereo? – continuai a parlare al telefono e Orlando mi rispose, stando al gioco.
-    Lesley, il nostro è un diretto. Ed è al gate 19.
Chiusi la comunicazione, sbalordita, e mi avvicinai a loro con lo sguardo fisso a terra. Sapevo che aspettavano che dicessi qualcosa prima di cominciare a prendermi in giro, ma non mi veniva in mente niente di sensato da dire. Dopo aver aperto la bocca un paio di volte come un pesce, mi sedetti sul sedile di fianco a Orlando e borbottai, incrociando le braccia :
-    Potevi dirmelo prima.
Il primo a cedere fu Dominic: si piegò in avanti ed esplose in una risata fragorosa, seguito a ruota da Orlando e poi da tutti gli altri. Mi sforzavo di risultare dignitosa e di non ridere, ma ridevano e si davano gomitate d’intesa con un’allegria che alla fine cedetti anch’io.
-    Sì, lo so, sono un fenomeno…
-    Tesoro, la parola “fenomeno” è estremamente riduttiva! – dichiarò Elijah
-    Scusate l’intrusione, signori - una hostess si era avvicinata ai sedili, tenendo in mano un
fascio di biglietti. Lo porse a Sean che cominciò a distribuirli. – C’è stato un piccolo problema, e abbiamo dovuto risolverlo – disse sicura. Guardò ciascuno di noi e poi mi fissò. – Immagino che sia lei la signorina Dalton.
-    Sì, sono io. Posso aiutarla?
-    Purtroppo il suo biglietto è stato spostato dalla business class alla seconda. Spero che non sia un problema.
Anche se ci ero rimasta male, non c’era motivo di rattristarsi. – Certo, nessun problema! Grazie mille.
Guardai la hostess che si allontanava camminando sicura sui tacchi a spillo, arricciai le labbra e ascoltai la conversazione che si stava svolgendo fra Elijah e Sean, guardai Orlando e Viggo che facevano finta di prendersi a pugni, e osservai Billy che leggeva un giornale e Dom che messaggiava con qualcuno.
-    Ehi, El. El! Scusate l’interruzione… Dov’è Linnie?
Elijah sembrò cadere dalle nuvole: si passò la mano tra i capelli e si guardò intorno spaesato. – Non saprei, era con me, ma mi sono addormentato ed era sparita.
-    E non ti sei preoccupato?
-    “Chiamata d’imbarco per il volo diretto per Hamilton al gate 19”.
Lanciai un’occhiata tetra al soffitto e borbottai: - Ottimo tempismo del cavolo. – Tirai fuori il cellulare dalla tasca e la chiamai. Le chiesi dove fosse e lei mi disse di non preoccuparmi, che era tutto sotto controllo e che era insieme al resto della troupe, che avrebbe viaggiato con loro.
Rimisi il telefono in tasca con un sospiro di sollievo.
All’improvviso Sean mi prese per mano e mi trascinò verso il gate d’imbarco, incitandomi a sbrigarmi.
-    Sean, non perderemo l’aereo! – protestai. - Come mai tutta questa fretta? – lui mi guardò raggiante.
-    Non lo sai? A Matamata incontrerò mia moglie e mia figlia! Non vedo l’ora!
-    Davvero? Wow, Sean, non vedo l’ora di incontrarle!
-    Eh! – mi sorrise entusiasta. – Anch’io!

Era un aereo grande, quello su cui avremmo viaggiato, e molto pulito. La seconda classe era composta da due file ai lati di due sedili di tessuto blu opaco ciascuna. Ogni sedile aveva incastrato nello schienale di quello davanti un tavolino con disegnato il motivo del legno. All’entrata del velivolo salutai gli altri membri della Compagnia e andai a sedermi al mio posto, vicino al finestrino. Spensi il cellulare e guardai la pista di decollo dal vetro. Dopo un paio di minuti, un tipo robusto dai capelli lunghi, pieno di tatuaggi, con un bel paio di orecchini e dall’aria per niente affidabile si sedette pesantemente sul sedile accanto al mio. Mi squadrò da capo a piedi e produsse un roco gemito di piacere. Il suo alito puzzava di sigarette.
- Signore e signori, benvenuti a bordo. – disse una voce femminile proveniente dall’altoparlante. – Dovremo aspettare qualche minuto prima di partire a causa del ritardo di alcuni passeggeri. – Tra i passeggeri c’era chi chiacchierava, chi ascoltava musica, chi si era già addormentato e chi leggeva una rivista. Io mi limitavo a guardare fuori dal finestrino e a sorvegliare il mio maleducato vicino, che aveva alzato il bracciolo fra me e lui e mi si era avvicinato, fin troppo per i miei gusti. Mi squadrò ancora una volta, fermando lo sguardo voglioso all’altezza del mio petto, poi liberò un peto sonoro e si accese una sigaretta. Quasi subito una hostess gli si avvicinò e gli disse che sull’aereo era vietato fumare, ma lui rispose così, con la sua voce roca e l’alito pesante:
- Senti bellezza, facciamo così: tu mi lasci fumare questa bella siga e io ti mollo cinque dollari. – Come per dimostrare la veridicità di quel che diceva, tirò fuori una banconota dalla tasca dei pantaloni e gliela mise in mano. La hostess glieli restituì.
- Mi dispiace, signore –gli strappò la sigaretta dalla mano – ma queste sono le regole. Qui dentro non si fuma.
E prima che lui potesse replicare, se ne andò. Il “galantuomo” emise un grugnito di disappunto, affondò il fondoschiena nel sedile mettendosi bello comodo e, di sua iniziativa, mise un braccio irsuto intorno alle mie spalle. Lo guardai feroce, ma lui non ci fece caso. Il cuore cominciò a battermi forte per la rabbia. Lui tirò fuori un’altra sigaretta dalla tasca e la riaccese.
- Ma non ha sentito quello che ha detto la signorina? – lo aggredii. – Qui dentro è vietato fumare.
Mi guardò sbalordito come se non avesse notato che avevo anche un volto, oltre al corpo. Scoprì i denti gialli e mi alitò in faccia.
-    Ma che bello, questo zuccherino – sorrise maligno e mi fece l’occhiolino. – Se sei mia complice ne do una anche a te. – Avvicinò il suo brutto muso al mio. – O, se proprio vuoi, ti do un bacio su quelle labbra morbide…
Avrei potuto benissimo vomitargli in faccia, tanto era il disgusto che provavo nei suoi confronti.
-    Ma piantala, scimmione – ringhiai. – Mi fai schifo.
Lui rise rude. – Mi piacciono le femmine che fuggono! – mi strinse per i polsi e la paura si mischiò alla rabbia: quel tizio poteva benissimo spezzarmi un polso con una mano. In quel momento odiai lui e l’indifferenza dei passeggeri. Il maniaco depravato si stava avvicinando di più, aumentando la presa sul mio polso, che sentii scricchiolare paurosamente.
-    Eddai – alitò. – Dammi un bacio…
Una mano maschile affondò sicura sulla sua spalla, costringendolo a voltarsi molto lentamente. Lo scimmione allentò la presa sui miei polsi e io glieli strappai via, poi guardai il mio salvatore. Lo guardai sorpresa, proprio come il mio vicino, e sorrisi: era capitato proprio a puntino. Ma il sorriso svanì in fretta dal mio viso.
Orlando era furente: guardava lo scimmione dritto negli occhi con l’espressione più aggressiva che gli avessi mai visto. Aveva la mascella contratta e le sopracciglia piegate verso il basso, gli occhi bollenti di rabbia, ma parlò lentamente, con voce fredda, che mi mise paura.
-    Ti propongo un patto – disse fissandolo negli occhi. – Tu lasci in pace la mia ragazza, vai a sederti nel posto in fondo all’aereo e io non ti rompo il naso.
Scossi la testa impercettibilmente, in ansia per la sua salute. Se lui fosse stato lucido e se si fossero presi a pugni, Orlando avrebbe avuto sicuramente la peggio. Tuttavia, Orlando stava talmente tremando per la rabbia che se gli avesse mollato un pugno sul naso gliel’avrebbe sicuramente rotto. Ma, in ogni caso, lo scimmione glielo avrebbe restituito.
Come temevo, lo scimmione non si era mosso di un millimetro. Rise sfacciatamente – ormai tutti gli altri passeggeri ci fissavano ammutoliti – e poi esclamò:
- Non crederai mica di farmi paura, moscerino! – mi avvolse con un braccio peloso e mi attirò a sé, nonostante i miei sforzi per impedirglielo. – Ecco il mio patto: io mi tengo questo bel zuccherino e tu te ne vai. Su, su! Ronza via!
Orlando era sul punto di scattare.  – Cento dollari e un biglietto in prima classe, con tante belle massaggiatrici. – Tirò fuori il suo biglietto e due banconote da cinquanta e glieli porse.
Lo scimmione parve interdetto. Prese in mano il biglietto, guardò la scritta “prima classe”, squadrò di nuovo me con occhi desiderosi, ed infine si alzò con grazia pachidermica. Ma prima di dirigersi verso le scalette che portavano alla prima classe – ormai i motori dell’aereo si stavano accendendo -, si voltò di nuovo a guardare Orlando da distanza ravvicinata e sorridendo sfacciatamente gli chiese:
-    Non mi ci fai fare nemmeno un giro?
La mano chiusa a pugno di Orlando si mosse così velocemente che feci fatica a seguire la sua traiettoria mentre si scontrava con il naso dello scimmione, che tenendoselo con due mani cadde pesantemente col sedere per terra, mentre tutti i passeggeri intorno a noi si scambiavano occhiate meravigliate e trattenevano il fiato.
-    Scusi, signorina – disse Orlando rivolto ad un’hostess – gli dia del ghiaccio e lo porti fuori di qui, per favore.
-    Signore e Signori, qui è il comandante che vi parla. L’aereo sta per partire. Vi preghiamo di allacciare le cinture e spegnere i cellulari. Vi auguriamo buon viaggio.
La hostess accontentò con piacere Orlando, e appena lo scimmione ebbe varcato la soglia della prima classe, si sedette di fianco a me agitando la mano.
-    È dalla quarta elementare che non prendo a pugni qualcuno.
-    Grazie – gli sorrisi riconoscente. Lui mi sorrise a sua volta.
-    Dovere. Non doveva permettersi di sfiorarti nemmeno con lo sguardo.
Mi avvicinai e lo baciai.
-    Ho visto che ti tenevi il polso. Ti fa male? – lo prese con delicatezza e lo esaminò. In effetti
c’erano i segni rossi delle dita robuste dello scimmione. Arricciai il naso.
-    Solo un po’.
-    Se fossimo nel Far West avrei il diritto di ucciderlo.
L’aereo, che ormai aveva cominciato a correre, si sollevò in alto. Orlando mi fece un romantico baciamano.
-    Non dovevi dargli cento dollari, però.
-    Li avrei dato a chiunque avessi avuto vicino.
Lo guardai sorpresa. – Perché? – si strinse nelle spalle e sorrise.
-    Mi mancavi, e mi dispiaceva lasciarti in turistica mentre io me ne stavo in business class con gli altri. Così ho deciso di scendere e appena sono arrivato ho visto quell’elefante che ti importunava e allora… - emise un suono che assomigliava molto ad un ringhio.
-    Il resto lo conosco.
Poggiai la testa sulla sua spalla e lui appoggiò la sua sulla mia.
-    Superman.
Sorrise.

Scendendo dall’aereo, salimmo sulla navetta che ci scortò direttamente dentro l’aeroporto. I viaggiatori in business class avevano una navetta a parte, quindi non potei salutare i miei compagni e lo scimmione. Arrivati dentro l’aeroporto, però, io e Orlando vedemmo proprio l’energumeno camminare velocemente, rincorso da un paio di hostess con in mano degli asciugamani, sbraitando cose come:
- Non sono mai stato trattato così in tutta la mia vita!
Pensai che si riferisse al cazzotto di Orlando, ma poi notai che sgocciolava. Non capii che cosa fosse, ma sperai che non fosse…
- Se te lo chiedi, quello non è vomito. – mi disse Orlando.
- E allora cos’è?
- Secondo me si sono divertiti a lanciargli noccioline.
Dietro di lui si avvicinarono i quattro Hobbit.
- Beh, oltre alle noccioline, gli abbiamo lanciato addosso anche le bibite. – disse Billy, con sguardo folle.

Raggiungemmo Matamata in macchina con Viggo – guidava lui. Era una piccola città, ma c’era un non so che di allegro, a passeggiare nelle strade. Ma non ci diedero il tempo nemmeno di scendere dalla macchina, ma ci portarono dritti sul set. Appena misi piede sulla strada, non potei credere ai miei occhi. Avevo di fronte la Contea: il paesaggio era idilliaco; Verde e azzurro erano i colori predominanti, dalla mia posizione si vedeva persino casa Baggins, l’albero sulla collina, i caminetti fumavano, come se fossero davvero abitati, e in giro c’erano bambini che correvano sul prato e caprette che brucavano l’erba. Soprattutto, era pieno di Hobbit: attori con le stesse protesi dei miei quattro amici, solo che erano ben più di quattro. Sean mi prese per mano e mi trascinò verso una donna e una bambina.
-    Les, ti presento Catherine – diede un bacio sulla guancia della moglie – e Alexandra.
Prese in braccio la bambina e le fece fare l’aeroplanino girando intorno. Era una bimba splendida: bionda riccioluta e dalla voce squillante.
Mi inginocchiai e la salutai. Alexandra mi si avvicinò e mi disse, inclinando la testa di  lato.
-    Tu sei un Elfo, Lesley?
-    Sì, brava! Come hai fatto a indovinare?
La piccola mi sorrise. – Hai gli occhi da Elfo, come lo zio Orlando.
Sorrisi con dolcezza e la presi in braccio. Christine mi rivolse uno sguardo strano, e mi chiese:
-    Quanti anni hai, Lesley?
-    Ne ho diciotto, appena compiuti.
-    Sei molto giovane, allora.
-    POTREI AVERE L’ATTENZIONE DEGLI ATTORI, PER FAVORE? – la voce di Peter nel megafono suonò totalmente fuori luogo in quel paesaggio. -  VORREI GLI ATTORI QUI DA ME!
Posai Alexandra ai piedi della madre e mi diressi dove si trovava Peter, già affiancato da  alcuni membri della Compagnia. Mentre camminavamo, Sean mi chiese:
-    Allora, cosa ne pensi?
-    Di tua moglie e tua figlia? Adorabili. Davvero, Alex è dolcissima.
-    Sai, farà la figlia di Sam nel ritorno del Re.
Ci unimmo al cerchio intorno a Peter.
-    Bene, ragazzi, devo farvi un annuncio. – Ci sorrise rassicurante. – Dobbiamo aumentare il ritmo. Non dico che non abbiamo fatto molto, anzi, le riprese sono fantastiche e siete tutti dei professionisti.
-    Io un po’ di meno – dissi tra me e me.
-    Ma di questo passo non rientreremo pienamente nei tempi stabiliti per La Compagnia dell’Anello. Sappiate che vi siamo davvero grati per l’impegno che ci state mettendo. Davvero grati.
Annuimmo alle sue parole, sorridendo complici. – Bene! – si battè le mani sul pancione. - Allora, Hobbit, in postazione!
Il gruppo si sciolse.
-    Pete! Ehy, Pete! – gli corsi dietro.
-    Oh, Lesley, dimenticavo – mi battè una pacca sulla spalla. – Non sarebbe male se prendessi qualche lezione di dizione! – stavamo camminando, e mi fermai. Lui se ne accorse solo dopo qualche passo, si fermò e guardò indietro. – Intendo dire che a volte hai un accento un po’ troppo americano. – spiegò. – Preferiremmo che gli attori parlino con accento inglese. A proposito, cosa volevi chiedermi?
-    Posso fare una Hobbit alla festa?
-    Fammi vedere.
Andò verso un tavolo da picnic installato verso il ciglio della strada sterrata e sfogliò una pila di fogli – probabilmente il copione -.
-    Direi di sì, non hai molto da fare in questo periodo. Come avevi pensato di utilizzare il tempo?
-    Pensavo di allenarmi col tiro con l’arco, ma alla lunga annoia… e mi piacerebbe essere una Hobbit!
-    Ve bene, Lesley, mi hai convinto! In effetti, il tuo carattere fa molto Hobbit. Non riesco a capire perché ti ho selezionata per fare Hery… - sembrò pensieroso mentre si voltava a posare la pila di fogli sul tavolo. – Potrei licenziarti come ruolo di Hery, ma ormai dove la trovo un’altra come te? – rise. – Trovati una costumista, Dalton. Se vuoi fare l’Hobbit, non devi avere lo stesso aspetto di Hery.
Mi Sfregai le mani, ghignando. – Grazie, Peter. So a chi rivolgermi.
Mi allontanai di gran fretta e mi misi a cercare Linnie e Emma, che provvidenzialmente trovai insieme nello stesso pezzo di prato, e con mia gran sorpresa stavano parlando.
-    Oh, ciao, Les, la sai l’ultima? – mi salutò allegra Emma. – Ho sbagliato, non siamo cugine di diciassettesimo grado, ma solo di terzo.
-    Sì – fece Linnie, e indicò Emma con la testa. – Ha fatto confusione con la pro-prozia Trudy e la bisnonna Tessie.
-    Adesso abbiamo capito molte cose di noi e (indovina?) ci piacciamo! – Emma saltò al collo di Linnie, proprio come farebbero due sedicenni.
-    E meno male – commentai rivolta a Emma – che era lei quella strana. Comunque – cambiai discorso. – Mi servite entrambe, e piuttosto urgentemente.
Si guardarono in modo strano, come se avessero capito al volo ciò che intendevo, e mi presero per le braccia, conducendomi verso un camper in fondo alla strada. Mentre camminavamo scorsi Viggo sdraiato in mezzo al prato, e lo chiamai.
- Viggo! Nessuno mi cerchi! Passaparola!
Lui annuì e ritornò a fare quello che aveva interrotto, cioè niente.

-    Questa è una tinta per capelli che dura, ma se ne va dopo la doccia. – Emma mi fece vedere un bottiglione di prodotti per capelli. Sull’etichetta campeggiava la scritta del colore della tinta contenuta all’interno.
-    Sei sicura che io stia bene… - deglutii, incerta. -  … color caramello?
-    Ma sì! – mi prese per le guance. – E in più, con i capelli ricci, starai benissimo! – Posò il bottiglione sul tavolo e si girò per prendere dal bancone un cartello pieno di occhi di diverso colore.
-    Allora, che colore vorresti? – me ne indicò alcuni. – Blu? Viola? Mi piacerebbe farti tenere i tuoi, di color verde prato, ma può darsi che durante la festa ti facciano il primo piano. Dicevamo: Blu? Viola? Neri? Nocciola? Rossi? No, rossi no, che schifo. Ehm… blu? Blu  l’ho già detto. Dai, scegli tu!
-    Nocciola vanno benissimo.
Linnie entrò nel camper seguita da un uomo con una ventiquattrore piuttosto grossa al seguito. – Ehi, Les, tu hai un 38, vero? Ti presento Sean Foot, ti metterà le protesi domani mattina.
-    Non avevo avuto ancora l’onore di incontrare la Dalton. – disse mentre mi stringeva la mano.
-    L’onore è tutto mio. Sean Astin mi ha parlato di te. Allora, cosa mi ordini di fare?
-    Domattina devi essere qui presto, per farti mettere le protesi ai piedi.
-    Presto… tipo?
-    Sei. Anche prima, se ti piace alzarti presto. E ora, scusatemi, ma la mia presenza è richiesta altrove.
Appena uscì dalla porta Linnie mi mostrò un vestito da Hobbit, con la gonna lunga e le maniche lunghe, e il corpetto di pelle. – Vuoi anche la cuffietta? Sappi che Peter ti ha dato carta bianca.  
-    Con i capelli nuovi fiammanti che avrò? Non mi sembra il caso. Grazie mille, comunque.
-    De nada. Domani vieni qui a prendertelo. – Linnie si sedette sul divanetto dietro allo specchio, facendo saltellare la nuvola di ricci ramati che aveva in testa.
-    Lesley. – mi chiamò Emma severa, mentre mi esaminava i capelli. – Qui vedo una doppia punta! Aaah! Un’altra!! – tirò su la schiena e si ricompose. – Dovrei pareggiarle i capelli, secondo te? – chiese ad Ilana. - Sono un po’ scalati, in fondo, e poi cominciano ad apparire senza pettinatura.
Linnie annuì. – Le hanno superato le scapole, ormai.
-    I miei capelli crescono molto in fretta.
-    Bene allora.  – disse Emma categorica, spingendomi a sedere su una poltrona da parrucchiera
-    Emma, sei sicura di quello che fai?
-    Ma sì, ho fatto la scuola per parrucchieri dopo la terza media. Sicuramente te l’ho detto.
-    No.
-    Oh. Beh, adesso lo sai. Bene, ora rilassati e… - si spremette la crema dal bottiglione sulle mani. – …parla del più e del meno.

Emma mi spalmò la crema presa dal bottiglione in testa, colorandomi ciocca per ciocca, e mi lasciarono lì per una buona mezz’ora e forse anche di più. Poi mi lavò i capelli e mi obbligò a chiudere gli occhi – e a tenerli chiusi fino alla fine! Li spuntò, pareggiandoli sopra le scapole e prese una piastra bollente, dicendo:
- Non esistono Hobbit con i capelli lisci.
Tentai più volte di aprire gli occhi ma Linnie, sempre seduta nel divanetto dietro di me, mi diceva subito di richiuderli, impedendomi così di vedere cosa stava combinando quella pazza di una Emma.
Durante tutta l’operazione, mi obbligarono a dire tutte le cose che mi passavano per la mente, facendomi fare anche un gioco chiamato “Verità e bugia”. Mentre sentivo la piastra abilmente manovrata da Emma passarmi tra i capelli, mi sorpresi più volte a trattenere il respiro. Mi sembrò un sogno quando Emma infine annunciò la fine dell’operazione. Poi mi spinse lontano dallo specchio e mi fece mettere le lenti a contatto. Quando eseguii l’ordine, Linnie applaudì estasiata e Emma, sempre tenendomi gli occhi chiusi con entrambe le mani, mi posizionò in piedi.
- E dico-dico uno, e dico-dico due… eeeeeeeeeee TREEE!!!
Emma mi tolse le mani dagli occhi, e mi ritrovai davanti allo specchio a figura intera accanto all’entrata del camper a fissare la mia immagine. Ma non ero sicura di essere io. Avevo i capelli ricci, simili a quelli di Linnie, che mi arrivavano sopra le spalle, e di un biondo caramello con qualche riflesso più scuro, e gli occhi color nocciola. Sembravo così diversa! Stentavo a riconoscermi.
- Faccio impressione. – commentai. Chissà per quale strana ragione, avevo un nodo allo stomaco. Ma mi piacevo tantissimo. – Grazie mille Em. E anche a te, Linnie!
Emma mi ricordò ti togliermi le lenti prima di andare a dormire e mi cacciò fuori dal camper.
Volevo farmi vedere da Peter, ma sulla strada incappai nella Compagnia al completo che veniva nella mia direzione, scherzando nella luce del tramonto. Nascosi un sorriso con una mano e andai nella loro direzione.
-    Salve! – dissi fermandomi davanti a loro.
-    Ciao! – mi salutò Elijah. – Per caso hai visto Lesley Dalton?
-    Perché, non l’ha vista il signor Bloom? – guardai Orlando fisso negli occhi, ma non mi riconobbe neanche lui. Scosse la testa, infatti.
-    Non di recente.
-    Allora, l’hai vista o no? – chiese Billy spiccio. Vidi Viggo scuotere la testa.
-    Ragazzi – disse – Come attori siete bravi … ma come spirito d’osservazione siete proprio scarsi. – Tutti si voltarono a guardarlo. – Maddai! – mi indicò. – Non avete visto che lei è la nostra piccola Lesley?
Tornarono a guardarmi, sorpresi e interdetti. Io sorrisi apertamente.
-    Sono una Hobbit.
-    In effetti – disse Dom grattandosi la guancia – ha la stessa voce di Lesley.
-    È alta come Lesley – aggiunse Billy.
-    Ha lo stesso naso di Lesley – aggiunse Astin.
-    È LEI!!!! – urlò Viggo spazientito.
-    Ma che ti è successo? – chiese Bean.
-    Vi racconto tutto dopo. – Sorrisi a Orlando, che venne vicino a me e mi baciò la guancia.
-    Peter ci ha ordinato di andare in città a divertirci. Per entrare nello spirito Hobbit.
-    Ah beh, quindi devo venire anch’io! – Risi. Era bello essere Hobbit!   


Salve a tutti, ragazzi! Mi meriterei la fustigazione in pubblico per l’enorme ritardo nell’aggiornamento, e per questo imploro tutti i lettori di EFP in ginocchio di perdonarmi. Invoco specialmente la clemenza di Niniel, che mi aveva detto di non lasciarla ad aspettare per sei anni – promessa che ho infranto.

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Capitolo 11
*** Cap 11. ***


La mia vita sul set – Cap. 11

Dopo una lunga sorsata di coca, poggiai il bicchiere sul tavolo e scorsi il menu.
- Stavolta ce l’hai il portafoglio, Orlando?
Seduto di fronte a me, mi rivolse un’occhiata divertita da sopra il menu, mentre gli Hobbit continuavano a scambiarsi opinioni sull’albergo.
- A me non è sembrato tanto male – dissi chiudendo con un tonfo il menu. – Voglio dire, non è il Savoy (anche perché al Savoy non ci sono mai entrata) ma comunque l’indispensabile c’è.
- Per “indispensabile” intendi il letto e il bagno? – mi chiese Billy intrecciando le dita delle mani davanti al viso. – Perché, se è così, umilmente dissento.
- Umilmente dissenti? – ripetei sarcastica. – Che cosa intendi dire?
- Che per “indispensabile” io intendo un minibar, una televisione funzionante e uno stereo con tre casse.
Annuii. – Ricordami di non invitarti mai a casa mia.
- Ehi, Sean! Che stai facendo? – Elijah diede un colpetto sulla spalla a Sean, che guardava il soffitto.
- Sto cercando gli allarmi antincendio. E le uscite di sicurezza. Bisogna sempre essere preparati a ogni tipo di emergenza.
Dom, accanto a me, si batté la pancia con una mano e sorrise. – Peccato che non ci siano anche gli uomini e John. Ci sei solo tu, elfo, e tu… miscuglio tra Hobbit e elfo. – mi arruffò i capelli.
- Un Hobbifo!
Ridemmo. Bevvi un altro grosso sorso di coca cola e mi alzai dalla sedia, alzando le mani.
- Allora signori, - guardai in alto. – Io proporrei…
- Lesley? – mi interruppe Orlando. Gli rivolsi uno sguardo di disappunto. – Ti sei ubriacata con la Coca Cola?
Arrossii. – No! Che ti salta in mente? Dunque. Io proporrei, dopo aver mangiato, di andare da qualche parte dove si balla.
Mi sedetti. Tutti si dissero d’accordo.
- Per dove si balla, tesoro, intendi “discoteca”?
Annuii. Arrivò il cameriere che ci prese le ordinazioni: prendemmo tutti una pizza. Billy ordinò un altro giro di birra per tutti. Sean lo guardava preoccupato:
- Billy, non pensi di esagerare? Voglio dire, siamo ancora a stomaco vuoto! Poi chi guida?
- Les!
- Non mi tirate in mezzo! – esclamai, socchiudendo gli occhi. Alzai in alto la mia lattina di Coca cola. – Io non so guidare! Al massimo la moto, ma non credo che ci stiamo tutti… - mi sfregai gli occhi con un dito: le lenti avevano cominciato a darmi fastidio.
- Dai, Sean! – rise Dom. – Non ricordi le parole di Pete oggi? “È il momento di essere Hobbit! Non siete preoccupati, non conoscete la missione. Siete soltanto giovani Hobbit”.
- Non credo che il termine “giovane” si addica tanto a Billy. – Orlando ringraziò il cameriere che gli aveva messo sul tavolo un’altra lattina di birra. – Dopotutto-, continuò appoggiando i gomiti sul tavolo – ha trent’anni.
- E sono molto fiero di averli! – rise lui. Stappò la lattina. – Non ti ricordi la bevuta di champagne che ci siamo fatti sull’aereo per la Nuova Zelanda?
Orlando sospirò, beandosi del ricordo. Mi sfregai ancora gli occhi.
- Scusatemi – dissi alzandomi, e mi diressi verso il bagno con la borsa al seguito. Lo trovai vuoto. Appoggiai l’occorrente per le lenti sul bordo del lavandino e me le tolsi. Mi sciacquai il viso, mi lavai le mani e mi guardai allo specchio. Chissà come, mi ero dimenticata di avere i capelli ricci e caramellati. Il contrasto con i miei occhi naturali, verdi prato, era più intenso che con gli occhi nocciola.
Sorrisi alla mia immagine riflessa, e tornai al tavolo. Vedendomi arrivare, Dom esclamò:
- Ehi, Les, la tua era una wurstel, vero? È già arrivata.
- Tutte le pizze sono arrivate. – Ribatté Sean.
Elijah si alzò e sorridente mi tenne la sedia mentre mi sedevo, come un vero gentiluomo.
- Io ti ho versato dell’altra coca nel bicchiere -  mi informò Orlando facendo scivolare il bicchiere verso di me. Dom mi mise il tovagliolo sulle gambe.
- Ragazzi, perché questa… botta di gentilezza?
Sean si passò una mano tra i capelli. – Beh, mi sembra logico.
- Che cosa è logico?
- Il fatto che sei sempre in mezzo a noi, nove uomini – spiegò Elijah.
- Sei l’unica femmina. – precisò Billy.
- E quindi?
- Tu sei la nostra principessa. – concluse Orlando. Mi concedetti un attimo per comprendere, poi sorrisi commossa e li guardai uno a uno. Mi si inumidirono gli occhi.
- Accidenti – dissi chinando la testa e passandomi il dorso della mano sugli occhi. – Il fumo di questa pizza… mi sta facendo lacrimare…
Sorrisi. Dom mi diede un bacio sulla guancia.
- Beh, non mi resta altro che augurare… Bon appetit!
Senza più dire niente, attaccammo a mangiare le nostre pizze.

Usando il metodo poco ortodosso della pesca del bigliettino nel cappello – di Dominic – decidemmo di andare in un disco-club un po’ alla periferia della città. La scelta si rivelò ottima, poiché tutti i giovani si erano buttati nel centro di Matamata. Era una discoteca singolare, si potevano prenotare delle stanze da tenere per la serata. In mezzo alla musica a palla, a giri di cocktail e balli scatenati, Billy e Dominic erano quelli che si divertivano di più. Ballavano al centro della stanza che avevamo prenotato, e noialtri battevamo la mani a tempo, seduti su divanetti in fondo alla sala
- Non ti mancano le tranquille partite a Monopoli? – mi urlò Orlando nell’orecchio, per farsi sentire.
- Sì, ma questo spettacolo – indicai Billy e Dom – è meglio!!
La canzone finì e i due Hobbit si fermarono. – Allora, che dici, elfo! – urlò Dominic rivolto a Orlie. – Siamo abbastanza in spirito Hobbit?
Orlando rise e alzò il bicchiere in un brindisi.
- Ooooooooooooh, Dom! – fece Billy tutto estasiato. Era su di giri. – Che ne dici di provare la canzone?
- Quale canzone? – feci io. Elijah li raggiunse al centro della stanza.
- Ma quella che dobbiamo cantare alla serata Hobbit!
- Sì, ma noi dobbiamo essere ubriachi. – disse Dom.
- Più di così? – disse Orlando. Scoppiammo a ridere.
- D’accordo, ma facciamola solo una volta. È molto stressante provarla tante volte.
Si misero a cantare e Elijah saltava loro intorno, tenendo in mano sue bicchieri. Alla fine si fermarono, e noi applaudimmo  forte.

Per tornare come eravamo arrivati, ossia con una sola macchina, mi fecero accomodare nel sedile davanti, accanto ad Orlando – il più sobrio di tutti, a parte me – e caricarono Sean nel portabagagli, in modo che il suo senso della sicurezza andasse in crisi e non ci lasciasse in pace un istante durante il viaggetto verso l’albergo. Orlando li fece scendere davanti all’ingresso, ma io restai dentro la macchina.
- Noi restiamo un po’ qui, ragazzi – annunciò Orlando attraverso il finestrino dell’auto. Loro risero e se ne andarono dandosi gomitate d’intesa nei fianchi. Orlando appoggiò la mano sul volante e mi guardò. – Sei stanca?
- Un po’.
- Ti va se ti porto in un posto?
Lo guardai. – Che posto? – Lui scosse la testa
- È una sorpresa. –
Mi sporsi oltre il sedile e lo baciai. - Va bene. – dissi.
- Allora – mi lanciò una striscia di stoffa. – Ti metti questa intorno agli occhi.

Orlando mi obbligò a soffrire la macchina con la benda legata intorno agli occhi. Non volle dirmi niente riguardo alla nostra meta, e dopo un po’ smisi di chiedergli spiegazioni. Dopo qualche minuto fermò la macchina e spense il motore.
- Siamo arrivati? – Chiesi dopo un istante di immobilità.
- Sì, ma non toglierti la benda.
Percepii il suo sorriso senza neanche vederlo, mentre mi aiutava a scendere dalla macchina.
- Prendo una cosa dal portabagagli… - sentii i suoi passi e poi l’aprire e il chiudere del portellone - … e poi ti tolgo la benda.
Mi condusse tenendomi per le spalle su in cima ad una salita, poi scendemmo ancora, mi fece svoltare a sinistra, ancora una discesa, una salita, una discesa…
- Ma dove siamo, sulle montagne russe? – scherzai. Lui rise. Dopo ancora una discesina mi fermò, mi voltò verso sinistra, poggiò qualcosa per terra e poi mi tolse delicatamente la benda dagli occhi.
Mi ci volle un po’ per abituarmi alla luce della luna che illuminava il paesaggio, ma poi capii. Orlando mi aveva portata sulle sponde del lago di Hobbiton, proprio nel centro del nuovo set. Le acque scure erano quasi immobili, non tirava un filo di vento. La luna si specchiava sul lago, e riversava la sua luce argentata sugli alberi sulla riva. In lontananza si scorgeva la forma scura dell’albero in cima alla collina, casa Baggins.
Orlando mi prese per mano. – Hai visto? C’è la luna piena.
- È bellissimo – sussurrai soggiogata dalla bellezza del luogo.
- Mai quanto te.
Mi voltai verso di lui e mi persi nel suo caldo abbraccio. Lui mi accarezzava tranquillo i capelli. Non c’era altro suono che i nostri respiri e il movimento dell’acqua.
- Che cos’hai portato?
- Uno stereo. Mi era venuta un’idea.
- E cioè?
Mi tappò la bocca con un bacio. – Accendiamo la radio e la prima canzone che passa, sarà la nostra canzone.
- Orlando Bloom, ti appunti queste idee da qualche parte e poi le usi con tutte le ragazze? – dissi semiseria.
- Non con tutte. Solo con te.
Sorrisi. Orlando si accucciò per terra e accese la radio: trovò un giornale radio notturno, due stazioni di pubblicità, un talk show radiofonico. Solo al quinto tentativo l’aria si riempi delle dolci note di Iris, dei Goo Goo Dolls.
- Ooooh… - feci intenerita. Orlando si alzò sorridendomi.
- È proprio quello che volevo.
Si avvicinò piano e mi prese i fianchi tra le mani; io gli cinsi il collo con le braccia. Cominciammo a ballare dolcemente seguendo le note, avanti e indietro, specchiandoci nella tranquillità del lago, guardandoci negli occhi. Ad ogni ritornello mi prendeva per mano e mi faceva fare una giravolta, per poi tornare nella posizione iniziale.
Alla fine della canzone, unimmo di nuovo le nostre labbra, sussurrandoci “Ti amo”. Rimanemmo lì, abbracciati a occhi chiusi, per degli istanti che per chissà quale benedizione sembrarono eterni. Poi Orlando si sciolse delicatamente dalla mia stretta, e si chinò per spegnere la radio. Dal basso, mi guardò incerto sul da farsi, poi si sdraiò sull’erba, invitandomi a fare lo stesso. Una volta a terra, mi appoggiai su di lui.
- Non ti ho ringraziato abbastanza per la storia dell’aereo. – dissi.
- Tu mi ringrazi troppo per qualsiasi cosa. Non ti rendi conto che devo essere io a ringraziare te.
- Me? – appoggiai il mento sul suo petto per guardarlo in faccia.
- Dovrei ringraziarti di ogni respiro che fai, di ogni parola che dici, di ogni sguardo che lanci con quei tuoi occhi attenti. E dovrei farlo perché senza di te la mia esistenza non avrebbe tutto questo significato. Tu sei tutto per me.
Mi attirò a sé, stringendomi con forza gentile.
Rimanemmo così, nel silenzio più assoluto, non saprei dire per quanto tempo.
- Les – Orlie mi diede una carezza sull’orecchio, risvegliandomi dallo stato di dormiveglia in cui ero caduta. – sarà meglio tornare all’albergo, altrimenti domani saremo distrutti.
Il primo pensiero che mi passò per la testa mentre mi alzavo e insieme a lui mi dirigevo verso la macchina, fu che faceva freddo. Il secondo, fu che Orlando era un termosifone. Non era un pensiero logico, lo so, ma faccio sempre così quando mi sveglio.
Mi buttai sul sedile del passeggero e non spiccicai parola per tutto il viaggio dal set fino all’albergo. Mi accorsi a malapena dell’entrata nella hall, della salita in ascensore e dell’entrata della mia stanza. Il mio cervello registrò solo il saluto amabile che io e Orlando ci scambiammo davanti alla mia porta, prima che lui si ritirasse nella sua stanza. Anche con il riscaldamento, avevo freddo: mi misi addosso il pigiama più pesante che avevo – di flanella – e mi buttai a pesce sotto le coperte.

Stavo sognando di ricevere un Oscar da Dick Van Dike, quando qualcuno che bussava insistentemente alla porta mi costrinse ad aprire gli occhi. Evitai di guardare l’ora sul display del mio telefono, e andai ad aprire: mi ritrovai davanti Orlando che saltellava di qua e di là fregandosi le braccia.
- Ehi, Les – mi disse battendo i denti. – Mi spiace svegliarti, ma nella mia stanza il riscaldamento è rotto e Billy si è preso tutte le coperte pesanti e non c’è modo di svegliarlo. Cioè, ho provato a svegliarlo, ma è ancora così brillo che mi ha mandato a quel paese nel sonno.
Mi stropicciai gli occhi sbadigliando. Aprii meglio la porta spingendola con un gomito.
- Entra, guastafeste. – gli dissi. Una volta in mezzo alla stanza, affondò i piedi nella moquette bordeaux, e finalmente smise di fregarsi le braccia. Non avevo neanche acceso la luce, in modo da rendermi più facile il cammino verso la fase R.E.M.. Mi ributtai sotto le coperte, sdraiandomi prona. Orlie mi sfiorò incerto una spalla. – Les? Mi metto  per terra?
- Non fare l’idiota – bofonchiai, e scostai le coperte. Ero sveglissima, adesso. Gli ci volle qualche secondo prima di capire che cosa intendevo. Si sdraiò accanto a me, avvolgendomi con le braccia: lo spazio nel letto ad una piazza era poco. Ci accoccolammo stretti stretti, l’uno contro l’altra.
- Possibile che ci siano le zanzare anche d’inverno? – bofonchiò Orlando scacciando l’insetto ronzante che gli girava intorno.
- Forse non sono zanzare. Forse sono api. – dissi. La mia voce risuonò attutita a causa del pugno chiuso che tenevo davanti alla bocca, come una bimba piccola.
- Hai i piedi freddi – disse dopo un po’. Piegai le ginocchia, facendo frusciare le coperte.
- Lo so. Anche il mio naso lo è.
Ormai il torpore mi stava afferrando. – Sai che ho dimenticato lo stereo al lago?
- Lo prenderai…  domani… - sbadigliai. - Sai che… - sbadigliai ancora.
- Che cosa?
Non seppi proseguire: sprofondai nel sonno, cullata dai dolci battiti del suo cuore.

La lieve luce dell’alba attraversava le tende bianche della camera d’albergo, scacciando lentamente via le tenebre. Un uccellino cominciò a cinguettare, come se volesse augurare il buon giorno al mondo. In mezzo a quella calma tanto perfetta quanto irreale, guardavo dormire Orlando. Avevo aperto gli occhi da poco, ed ero ancora immersa nel dolce torpore del risveglio. Lui invece dormiva ancora profondamente, sognando chissà quale avventura fantastica. Sdraiato su un fianco, con un braccio mi circondava il fianco, e a volte sorrideva nel sonno, a volte si muoveva piano. Aggrottava le sopracciglia o muoveva la testa. Mi stupii di quanto fosse espressivo nel sonno. I capelli neri erano spettinatissimi, senza il gel che li teneva a posto. Sorrisi. Sarei rimasta in quella posizione in eterno.
Il suono trillante della sveglia ruppe l’incantesimo. Afferrai veloce il cellulare e la spensi, poi guardai orlando. Il rumore non l’aveva svegliato, ma aveva allontanato il braccio da me: meglio, contando che se non l’avesse fatto l’avrei dovuto spostare di forza, provocando uno spiacevole e alquanto sgradito risveglio.
Mi misi a sedere sul letto, affondando i piedi nella moquette, e mi passai una mano sugli occhi. L’uccellino fuori continuava a cinguettare, imperterrito. Mi alzai e mi diressi verso il bagno. Aprii l’acqua e mi sciacquai il viso, riflettendo sul programma della giornata. Erano le cinque e un quarto. La sera prima mi ero accordata con gli Hobbit per vederci tutti insieme nella hall dell’albergo alle cinque e mezza. Avremmo fatto colazione durante la seduta di trucco. Poi ci saremmo recati in uno Studio, per imparare a danzare come Hobbit e la coreografia della festa lì infatti avremo girato le scene di ballo, mentre gli esterni nella fattoria di Matamata, Hobbiton. Pausa pranzo e poi si poteva cominciare a fare le prove delle scene. Il giorno dopo avremo provato ancora, e forse avremo anche cominciato a girare.
Tornai in camera e guardai verso il letto: Orlando dormiva ancora. Si era allargato nel letto, come se nel sonno avesse percepito che mi ero alzata. Aprii l’armadio – che avevo riempito quando, il pomeriggio prima, ci avevano portato a vedere l’albergo – e indossai una tuta da ginnastica. Non sarebbe servito vestirsi bene per poi saltare e ballare in uno studio pieno di gente: chissà che sudate pazzesche! Presi una felpa pesante della Adidas e la indossai. Allacciai le scarpe da ginnastica e andai in bagno. Non sapendo come pettinare i miei nuovi capelli, decisi di lasciar perdere. Tentai di lisciarmeli con una mano, ma non servì granché.
Mi avvicinai di nuovo al letto e diedi un bacio sulla guancia ad Orlie. Lui sorrise, socchiuse gli occhi e disse, con voce ancora impastata dal sonno:
- Divertiti.
- Verrai a vedermi?
- Certo, cucciola.
Gli scombinai i capelli e uscii, chiudendo piano la porta.

Il primo che trovai nella hall fu Elijah. Stava appoggiato al bancone, scuotendosi forte i capelli. Appena mi vide, sorrise:
- Levataccia, eh?
- Non so proprio come facciate a farlo tutti i giorni. Adesso capisco come mai ti addormenti in soli quindici minuti di pace.
- Ormai mi ci sono quasi abituato.
Mi appoggiai al bancone accanto a lui. – Dove sono gli altri?
- Sean sta arrivando, Dom si è intrufolato nelle cucine (e non chiedermi come abbia fatto) e Billy… credo che Billy stia vomitando.
- Oh, andiamo, non era una sbornia così colossale, la sua!
Ridemmo.
- Alla fine ti sei divertita con Orlie, ieri sera?
- Molto. Abbiamo fatto…
- Cose da innamorati?
- Non quelle, Wood. Ma vorrei… - sospirai, sorridendo al ricordo. - … vorrei tenere ciò che abbiamo fatto solo per noi, capisci? Un ricordo solo nostro. Eravamo solo noi due, e…
- Sì, ti capisco perfettamente.
- Orlando è una persona fantastica.
- Siete molto uniti, state bene insieme. Si vede che vi amate. – Arrossii. – Oh, eccoli che arrivano!
Dominic, Billy e Sean si stavano avvicinando strisciando i piedi e sbadigliando, più o meno come avevo fatto io solo pochi minuti prima. Billy in particolare aveva la faccia sbattuta, ma aveva sempre il suo sguardo sveglio. Dominic reggeva tra le braccia almeno sette croissant, tutti marroncini e croccanti. Sean era impeccabile, come sempre. Ci raggiunsero in pochi passi e ci salutarono.
- Hai vomitato, Billy? – chiesi innocente. Mi fulminò.
- No, per tua fortuna.
Ridotta ad una statua di sale, indicai Elijah con l’indice. – L’idea era sua.
Elijah sorrise colpevole. Billy sogghignò. – Non ti preoccupare, piccola Les. Ho lo stomaco duro, io. Non vomito molto spesso.
- La cosa che mi sorprende è come riusciate a parlare di vomito alle cinque e mezza del mattino. – ci informò Sean lapidario.
- Chi vuole un croissant? Assortimento vario, assortimento vario! – annunciò Dom come un pescivendolo al mercato, cacciandoci in mano un croissant a testa. Alla fine lui ne aveva tre in mano, gli avanzati.
- Sarà meglio se cominciamo ad andare, gente, altrimenti faremo tardi. – dissi.
- Devi avere un buon motivo per essere così di fretta. – disse Dom addentando uno dei suo croissant mentre uscivamo dall’albergo.
- Più di una – risposi. – Tanto per cominciare, devo sistemare questa balla di fieno – indicai i miei capelli. Sorrisi e addentai il croissant. Ripieno di albicocca. -  E poi sono un Hobbit a metà. Finchè non avrò le protesi anch’io non sarò mai Hobbit completo!
- Non fa una piega – commentò Sean.
- Vabbè, ragazza, andiamo!

Ecco un altro capitolo! Nel prossimo inizieranno le riprese di Hobbiton! Spero che vi sia piaciuto!

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Capitolo 12
*** Cap 12. ***


La mia vita sul set – Cap 12.

Saltammo in macchina e ci dirigemmo sul set di Hobbiton. Anche se era presto, c’erano già un sacco di Hobbit di tutte le età: bambini, donne, uomini, anziani. Sembrava di essere davvero a Hobbiton, anche se avrei scommesso che molta gente doveva ancora arrivare.
-    Ragazzi, io devo fare un salto da Emma e Linnie: devo farmi sistemare e poi devo prendermi il costume.
-    Prendilo, Les, ma non mettertelo prima di essere stata truccata – mi disse Elijah – è molto scomodo farlo con gli abiti da Hobbit, fidati di me.
Annuii e mi diressi verso la roulotte trucco di Emma. Ero certa di trovarci dentro anche Linnie.
-    Ciao Les – mi salutò Emma mentre sistemava spazzole di vario genere nei cassetti.
-    Buongiorno – sbadigliai. – Puoi sistemarmi i capelli?
-    Dovere – disse lei. – Ma c’è stato un cambio di programma. – Mi indicò la sedia
davanti allo specchio.
-    Cioè? – chiesi sedendomi.
-    È arrivata la parrucca che ci serviva, quindi non hai più bisogno dei capelli tinti. In effetti, è stata un’idea molto stupida. Non farete altro che ballare, quindi ti dovrai sempre fare la doccia, quindi sarebbe un’altra seduta di parrucchiere. Troppa fatica e troppo tempo sprecato.
Non dissi una parola. Restai immobile, sulla mia sedia,  a soppesare le parole di Emma. Aveva ragione. Annuii.
-    Va bene. Ma ti prego, facciamo in fretta.

Decolorare i miei capelli fu una delle sedute allo stesso tempo più lunghe e più brevi della mia carriera di cliente di parrucchiere. Fu senz’altro molto breve perché mi dovetti semplicemente lavare i capelli e asciugarmeli, e più lunga perché, anche se Emma era un fulmine a mettere parrucche, fremevo dall’impazienza e ogni minuto mi sembrava lungo un’eternità.
-    Vuoi smetterla per piacere? – mi sgridò Emma mentre finiva di incollarmi la parrucca. Forse alludeva al ritmo frenetico che battevo con i piedi sul pavimento. Appoggiai piano i piedi per terra e rivolsi le punte l’una contro l’altra.
-    Scusa – farfugliai. Lei sospirò.
-    Voi attori siete sempre così impazienti e stressati… dovreste rallentare i tempi.
-    Prova a dover interpretare un minimo di tre scene al giorno e poi ne riparliamo.
Dissi balzando in piedi e dirigendomi verso la porta. Saltai giù dagli scalini e corsi verso la sala trucco degli Hobbit.

- Salve a tutti! – dissi entrando. Gli Hobbit mi accolsero con sorrisi e sbadigli, i truccatori mi rivolsero allegri cenni di saluto. Sean Foote, che riconobbi grazie alla pettinatura, mi disse di sedermi su una sedia tra il muro e Dominic e di mettere i piedi su una panca. Mi tolsi le scarpe con un calcio, insieme ai calzini, e pensai che non mi ero lavata i piedi quella mattina. Cattiva decisione. Ma non sembrò turbare molto Sean.
- Sai, tesorina, non è giusto per niente. – mi disse Billy.
- Uh? Che cosa? – mi voltai verso di lui.
- Non ti muovere. – Mi disse Foot.
- Scusa. – mi rimisi ferma.
- Tu fai l’elfo, bella tranquilla, e noi a doverci alzare presto tutti i giorni e a venire qui… eppoi, sei stata l’unica di noi a non essere stata ancora paparazzata. Un record.
- Siete stati paparazzati? – chiesi, stupita.
- Come no! – Elijah si tirò su la zip della felpa nera che indossava sopra al costume, per coprirsi dal freddo. – Di continuo.
- Vediamo per quanto riesci a mantenerlo! – sbadigliò Dom.
- In piedi signori! – disse una truccatrice, e io mi alzai imitando i movimenti dei quattro Hobbit.

Quando ci finirono di attaccare i piedi, passarono alle orecchie e – per gli altri hobbit – alle parrucche. Il mio truccatore borbottò qualcosa riguardo la scomodità di infilare le orecchie già con la parrucca, e mi sentii molto in imbarazzo. Appena finirono di truccarci, mi diressi verso la roulotte costumi, subito dopo aver preso il costume dalla roulotte di Emma, e mi cambiai. Era un vero costume da Hobbit, il mio: gonna lunga di cotone, corsetto verde e maniche lunghe a metà braccio. Molto bello, ma molto scomodo, se paragonato al mio comodissimo costume da elfo (pantaloni e stivali). Per la mia natura elfesca, camminare a piedi nudi (anche se avevo le protesi) era scomodissimo. Piegai la testa di lato e mi guardai nello specchio: c’era tutto di un Hobbit, nella mia immagine, a parte l’altezza. Sorrisi. Peter avrebbe trovato il modo di farci sembrare tutti più piccoli rispetto a Gandalf.

Saltai i gradini della roulotte a due alla volta, atterrando sul prato e tirando una boccata d’ossigeno purissimo: quel posto era il paradiso! L’aria era ancora molto fredda, ma si sarebbe riscaldata almeno un pochino, con sole. Elijah scese le scale e mi porse un bicchiere col coperchio.
-    Hai dimenticato la tua colazione.  – Presi in mano il bicchiere.
-    Grazie. – mi grattai la tempia con due dita. – Anche se non ho molta fame, mi sono già saziata con la brioche che Dom ha rubato dalla cucina dell’albergo.
-    Non importa, Les, bevi. Ci aspetta una giornata faticosa.
Ubbidii docile, e il liquido caldo del caffelatte mi scese giù per l’esofago fino a riscaldarmi il pancino. – Mmmmm… caldo. – dissi leccandomi i baffi. Mi diressi verso una delle macchine che ci avrebbe scortati allo studio in città. Elijah mi seguì dopo pochi istanti.
Aprii la portiera posteriore dell’auto e vidi che Elijah, accanto alla portiera opposta, si era fermato, e fissava corrucciato qualcosa oltre la macchina, dietro di noi. Incuriosita, seguii la direzione del suo sguardo, e mi sorpresi.
El stava fissando con insistenza, come se la cosa lo turbasse profondamente, Ilana che chiacchierava e rideva sorseggiando caffè assieme ad un tizio, in piedi in mezzo al prato davanti alla porta di una casa Hobbit e ridendo come se fossero intimi amici. Conoscevo quel tizio. Si chiamava Justin, ed era di sette, otto anni più grande di lei. E non solo in senso di età: Justin era un armadio, in modo quasi anormale. Era palestrato, con gli addominali a tartaruga, abbronzato e con un dragone tatuato sul braccio. Aveva i capelli tagliati alla marine e, nonostante il freddo, se ne stava arrogantemente in jeans e petto nudo, sfoggiando dragone e piercing col diamante sull’ombelico. Era decisamente il tipo che non avrei mai visto insieme ad una come Ilana, eppure sembrava che si piacessero parecchio.
- Scusate, voi due. – la voce di Billy riscosse me ed Elijah dai nostri pensieri. Mi voltai: la testa parruccata di Billy spuntava impertinente dal finestrino anteriore dell’auto. – Tanto per cominciare non è buona educazione fissare la gente – alzai gli occhi al cielo. – Secondo, se rimanete lì ancora per molto, io mi congelo e in più arriveremo in ritardo. Ma se volete finire ridotti a due stalagmiti, fate pure.
- Va bene, o capitano mio capitano. – Dissi con molta enfasi sedendomi sul sedile, chiudendo la portiera e sfregandomi le mani per riscaldarle. El si sedette sbattendo la portiera, tirando casualmente una gomitata a Sean che sedeva fra  di noi. Si scusò e si mise a guardare fuori dal finestrino, Dom accendeva il motore e partiva.
Rimase silenzioso per tutto il tempo che impiegammo a uscire dal set. Poi cominciò a brontolare cose incomprensibili.
-    Non capisco che cosa ci trovi in quel tizio – mugugnò ad un certo punto incrociando le braccia.
-    Chi? – chiese Billy.
-    Ilana – rispose lui.
-    Ilana Kim?
-    Già.
-    Strana, quella ragazza. – disse Dom
-    Veramente, è meno strana di te.  – Replicò El passandosi una mano sulla parrucca.
– Ma quello che non riesco proprio a capire è che cosa ci trova in quello… scimmione, ecco!
Dom, al volante, si voltò verso di lui per fargli un sorrisone.
-    Sei geloso! – lo canzonò.
-    Dominic, guarda la strada! – esclamò Sean terrorizzato.
-    Non sono geloso!
-    Invece sì! Non saresti di malumore se al posto di Ilana ci fosse stata Philippa! –
insisté Dom, sforzandosi per non rivoltarsi a guardare Elijah.
-    Ma che c’entra! Linnie e Philippa sono due persone completamente diverse!
-    Quindi non ti disturba se Linnie si vede con Justin? – dissi io. Elijah mi guardò.
-    Assolutamente no! – fece una breve pausa. - Lo conosci?
-    Sì, l’ho visto qualche altra volta, in giro… ma non penso che faccia parte della crew. Non gli ho mai parlato.
-    Comunque, El, qui hai una persona che conosce abbastanza bene Ilana. – ridacchiò
Billy. – Lesley passa molto tempo con lei e sua cugina.
-    Giusto! – esclamò Dom, perdendo di nuovo la concentrazione e voltandosi, stavolta
nella mia direzione. – Ehi Les, che ne dici di una missione alla James Bond?
-    DOMINIC MONAGHAN!!! GUARDA QUELLA CAVOLO DI STRADA, PAZZO SPERICOLATO!!! – strillò Sean. Dom si voltò e prese di nuovo il volante fra le mani.
Mise la freccia e svoltò a sinistra.
-    Fortuna che siamo arrivati – sospirò – così la smetterai di strillare.
Appena accostò, scendemmo dall’auto. Sean sbraitò ancora contro Dom:
-    Se fossimo in Inghilterra, ti denuncerei alla polizia! Se guidi in questo modo da sobrio, che cavolo fai quando sei ubriaco? Io, ti ricordo, un motivo per cui vivere ce l’ho!
-    Sean, smettila di fare lo strillone! – fece Billy spazientito. Io non persi tempo ed
entrai. E per quella mattina non si parlò più della mia “missione alla James Bond”. Anzi, non se ne parlò più.

Era un bello Studio, forse fatto apposta per la scena del ballo: c’erano due stanze adibite a spogliatoi, uno per le donne  e uno per gli uomini. Dall’ingresso, decorato con tante belle macchinette per cibo e bevande, si scendevano un paio di rampe di scale e si arrivava ad uno stanzone di proporzioni esagerate, gremito di gente. Cameraman, insegnanti di ballo, coreografi, truccatori. Erano state sistemate anche un paio di panche, ad un lato della stanza, per far riposare gli stanchi e per accogliere anche un piccolo “pubblico”. Fu lì che posai la sacca con un ricambio che mi ero portata e il mio cellulare. La gente intorno a me parlava, riempiendo la stanza di un chiacchiericcio insistente. Mi sedetti un secondo sulla panca, mi passai una mano fra i capelli della parrucca – e mi parvero fibrosi e simili alla paglia – e allungai le gambe, rimirando le protesi.
- Signore e signori, per favore ascoltate! Vi preghiamo di spegnere i cellulari o, se proprio non ci riuscite, di metterli in modalità silenziosa. Vi preghiamo inoltre di fare silenzio. Cominciamo. Grazie. – disse una donna con i capelli biondi legati in una coda di cavallo e vestita di una comoda tuta da ginnastica, parlando dentro ad un megafono. La sala si riempì di silenzio dopo pochi secondi.
- Grazie. – ripeté la donna. – Ora vi faremo ascoltare la colonna sonora del ballo, composta dal fenomenale Howard Shore, e io e i miei assistenti vi mostreremo la coreografia. Voglio solo ricordarvi che siete Hobbit, l’aria è impregnata di allegria. Pertanto, se adesso vi viene voglia di ballare, lasciatevi andare.
Si girò e premette un tasto di un enorme stereo giallo munito di un paio di casse altrettanto enormi.
-    Come si chiama? – sussurrai a Billy, accanto a me.
-    Donna Butterfly. È l’insegnante di ballo.
L’aria della stanza venne invasa dalle note di una bellissima musica suonata col flauto e altri strumenti, che subito mi fece pensare al set di Matamata. Era veramente bellissima, e Howard Shore era un genio. Dunque quella era Flaming Red Hair. Sorrisi.
Cominciai a battere il ritmo con un piede, mentre altri muovevano la testa a tempo o canticchiavano. Prima un piede, metti avanti un altro, eccetera, mi ritrovai a saltare a ritmo della musica. Elijah, alla mia sinistra, rise e mi prese per mano, e cominciammo a girare intorno. Billy cominciò a battere il tempo con le mani, e Dom sparì da qualche parte per chiedere di ballare a qualche bella signorina. A poco a poco tutti si misero a ballare nella maniera che più gli andava. Chi saltava, ballava in cerchio… Ad un certo punto, mentre io ero voltata a ballare con una ragazza con i capelli bruni a caschetto, un assistente di Donna prese da parte Elijah e gli disse qualcosa. E la musica finì. Ci fermammo con il fiatone e partì l’applauso. Non so per certo a cosa applaudissimo, credo ad Howard Shore, o alla musica, o forse perché ci andava di applaudire! Donna risaltò sulla panca  e prese in mano il megafono.
-    Siete stati bravissimi! Ora io e i miei assistenti vi mostreremo la coreografia.
Il discorso di Donna venne interrotto dalla porta della “sala ballo” che si apriva. Entrò Ian McKellen, vestito da Gandalf.
-    Scusate il ritardo – borbottò Ian.
-    Di niente, Sir Ian, con lei possiamo iniziare seriamente. Bene, fate tutti attenzione…

Distrutta e con le gambe doloranti, mi diressi verso la panca dove avevo lasciato la mia sacca e, sedendomi, ripescai il cellulare dal fondo. Lo schermo lampeggiava: c’era un messaggio.
“Ehi, Les! Faccio un po’ di pratica con l’arco e poi vengo a vederti ok? Appena posso scappo. Ol.”
- Vabbene… - dissi, troppo stanca e pigra per premere i tastini del cellulare per rispondere al cellulare. Donna ci aveva concesso una pausa di cinque-dieci minuti. E meno male, eravamo tutti distrutti. Avevamo imparato quasi tutta la coreografia, ci mancavano solo lo stacco finale e la coordinazione, perché tutti se ne andavano per conto proprio.  Mi alzai, dolorante, e mi diressi sacca al seguito alle macchinette nell’ingresso. Aprii la porta per andarmene e, fermandomi un momento, scoppiai quasi a piangere: mi ero dimenticata che c’erano le scale!
Scale superate – e mi avreste dovuto vedere: sacca ai piedi, un piede su, uno alla volta, aggrappata alla ringhiera – mi ritrovai nell’ingresso. Trascinai i piedi fino alla macchinetta più vicina e presi il portafoglio.
-    Allora, vediamo quanto costi, delizioso the alla pesca lì in fondo alla c32… 50 centesimi… mmm, un po’ esoso, non ti pare? E vabbè, chiuderemo un occhio per una volta… sì così, scendi… bravissima, mia bottiglietta di delizioso the alla pesca… ecco… cavolo, sei ghiacciato!
-    Ehi, ciao! – disse Orlando entrando dalla porta. – Come procede?
-    Non si vede dalla mia faccia?
Inclinò la testa di lato, scrutandomi. – Naaaaa! – fece. – Sei solo stravolta.
-    Appunto! – piagnucolai. Mi guardò di nuovo e rise.
-    Te la sei cercata, quindi non venire a lamentarti!
Gli feci il verso e bevvi un sorso di ghiacciato the alla pesca.

-    Gente, ecco il programma: la proviamo un’altra volta, andiamo a pranzo e poi raggiungiamo i produttori sul set e proviamo la scena!

All’inizio non ce n’eravamo accorti, ma nella sala ballo al piano sotterraneo l’aria era pesante, quasi irrespirabile. Era ovvio, dal momento che eravamo 40 persone sudate e con le protesi ai piedi che ballavano in continuazione. Quando uscii dallo studio inspirai a fondo: l’aria era fredda, ma pulita.
Non ebbi neanche il tempo di trarre un altro respiro: mi presero per un braccio e mi trascinarono in macchina, portandomi sul set.
Durante il viaggio in macchina, gli Hobbit ripresero il discorso dei paparazzi.
-    Secondo voi per quanto tempo la nostra principessa elfica riuscirà a mantenere il primato di immunità da paparazzi? – chiese Dom al volante (di nuovo e contro la volontà di Sean), per stuzzicarmi.
-    Chi lo sa. – rispose Elijah. Io intanto stavo mandando un messaggio a Linnie col
mio cellulare. “Che fai stasera?”. Attesi qualche minuto e mi arrivò la risposta. “Esco con Justin. Sai che mi fa la corte?””Non mi sembra un tipo affidabile, Linnie””Tranquilla! Semmai ho lo spray al pepe!”
-    Linnie stasera esce con l’armadio.
Elijah si richiuse in sé stesso, ma negò spudoratamente di essere geloso.
Dopo alcuni minuti di viaggio, il mio telefono squillò, con la suoneria personalizzata per Orlando. – Ma come! Orlie ha una suoneria solo per lui e noi no? – disse Billy.
-    Pronto? Ciao!
-    Hola Les! Che combini?
-    Ti ho perso dopo l’ultimo ballo, dov’eri finito?
-    Ero andato al gabinetto, ma quando sono tornato tu eri sparita!
-    L’ABBIAMO RAPITA NOI!! – urlò Dominic.
-    L’hai sentito? – chiesi.
-    Sì. Ehi, piccola, stasera ti va di uscire? Conosco un posticino niente male.
-    Orlie, a me non va tantissimo di uscire, sarò stanca…
-    Dài, ti prego! Giuro che non ti porto da nessuna parte, solo cenetta e albergo!
-    Uuuuuuuh… vabbene, dai.
-    Fantastico! Allora, ristorantino?
-    Ma sì, perché no? Va bene!

Non mi dilungo su quello che successe quel pomeriggio sul set. Peter ci mostrò quello che avremmo dovuto fare, coordinò gli Hobbit – sia i quattro protagonisti sia le comparse, tutte bravissime – aggiustò i vari dettagli. E intanto pensava al copione del giorno dopo. Era strabiliante il lavoro che riusciva a fare in così poco tempo. In effetti, anche se non ce ne rendevamo conto, il tempo stringeva. Dovevamo finire la Compagnia dell’Anello al più presto, e ce la stavamo mettendo tutta. Ma per ogni scena ci volevano almeno due ore di lavoro, per i vari ciack e le varie riprese, senza contare i vari errori che facevamo. Non era un lavoro semplice.
Ma non eravamo solo noi protagonisti ad impegnarci. Non avevo mai visto tanto entusiasmo in tante persone. Molti dicevano di voler essere Hobbit nella realtà, che era tutto bellissimo e che era veramente un  lavoro da favola. Ero contenta che fossero felici del proprio ruolo, ma pensavo che avrebbero cambiato idea se sarebbero stati Hobbit per altri due anni.

Le stelle cominciavano ad illuminare il cielo, e un vento freddo arrivava da nord, scompigliando le placide acque del lago. Era lì che, tolti parrucca, protesi e costume mi ero messa ad aspettare Orlando. Ero seduta sull’erba, fra il ponte di pietra e il mulino della casa di legno. Mi ero vestita con un paio di jeans lunghi e una felpa rossa con la lana dentro, e mi ero legata i capelli con due codini. Alla seduta di trucco a fine giornata i ragazzi mi avevano offerto una birra, ma avevo rifiutato: non sapevo dove mi avrebbe portato Orlie, per cui decisi di non rischiare. Avevo indossato dei pantaloni neri di velluto e un paio di stivali, e giocherellavo distrattamente con un codino mentre osservavo pensierosa l'acqua limpida del lago e la sponda opposta, quella dove la sera prima io e Orlando avevamo ballato Iris. Arrossii al ricordo.
-    Ci credi che sono riuscito a recuperare la radio solo dopo pranzo? – la voce di Orlie
mi fece sobbalzare. Scattai in piedi. – Ehi, non volevo spaventarti! – sorrise. Vedendo la mia faccia contrariata, mi allungò una mano. – Che dici di andare? Conosco un ristorante cinese niente male. Cioè, veramente non lo conosco io, ma Google.
-    Mi sembrava strano, il fatto che conoscessi un ristorante cinese a Matamata di tua iniziativa! – lo presi in giro. – Andiamo, dopo tutti questi balli ho fame!

Essendo componenti della Compagnia, anche se ci sforzavamo, passavamo di rado il tempo da soli come coppia. Non che gli altri fossero invadenti, ma tra le riprese, gli allenamenti e tutto il resto, anche se lavoravamo insieme, non ci permetteva di viverci come avremmo realmente voluto.
Non posso dire che quello fosse il ristorante cinese più rinomato di Matamata. Anzi, a dire la verità, ancora non so se ce ne sono altri, in quella splendida cittadina. Appena entrammo, ci accolse una cameriera cinese, che parlava bene la nostra lingua, ma con qualche picco di accento cinese. Ci chiese in quanti eravamo e ci scortò fino ad un tavolo all’angolo della sala semivuota, abbastanza isolato e tranquillo. Appena ci sedemmo, la stessa cameriera ci porse due menù verdi acqua – da dove li aveva pescati? – e se ne andò con un piccolo cenno. Aprii il mio, e nel farlo vidi che una parete del ristorante, quella opposta al nostro tavolo, era fatta completamente di doppio vetro, che permetteva di vedere tutto quello che succedeva in strada – potevi persino contare le foglie secche sul marciapiede. Mi dava un po’ di fastidio mangiare “in vetrina”, ma dentro a quel locale si stava così bene, era così tranquillo, che non avevo voglia di mettermi a fare i capricci, specialmente dopo aver adocchiato alcune delle prelibatezze raffigurate sul menù. Immaginai un gatto che si lecca i baffi e sogghignai.
-    Anche tu stai pensando al gatto beato?
Lasciai cadere il menù sul tavolo. – Come hai fatto???
-    Ormai le nostre menti si stanno fondendo. – annunciò criptico, annuendo piano con la testa. Una scena che risultò alquanto inquietante, ma al tempo stesso comica. Sorrisi.
Restammo concentrati ancora qualche minuto, intenti a scegliere la nostra cena, finchè la stessa cameriera – o era una diversa? Con quella divisa sembravano tutti uguali – venne con il libretto delle prenotazioni a scrivere quello che volevamo. Orlando scelse porzione gigante di nuvole di drago, io involtini primavera. Orlando spaghetti alla salsa di soia e io riso alla cantonese, e per finire, anatra imperiale e gelato fritto.
-    Non sarà un po’ troppo? – chiesi indecisa quando la cameriera se ne fu andata.
-    Se non riesci a mangiare qualcosa, dai pure a me. Tutto l’allenamento di oggi mi ha stancato. Devo dire che più divento bravo con l’arco, e più mi stanco.
-    Mmmm, modesto, eh?
Ridemmo. Appoggiai un gomito sul tavolo e giocai con il bicchiere pieno d’acqua. Ripensai a Linnie, all’uomo-armadio, a Elijah… a tutti gli avvenimenti di quel giorno. Orlando intanto parlava, ma io non lo stavo ad ascoltare. O meglio, gli prestavo solo un orecchio: raccontava di quello che aveva fatto durante il giorno, e soprattutto si divertiva come un matto a ricordarmi com’era la mia faccia mentre prendevo quella bottiglia di the alla pesca. Non è che non fossi interessata al suo discorso, ma la mia mente cominciava a deconcentrarsi, come mi succedeva spesso in quelle sere. Sospirando, presi il bicchiere in mano e bevvi un sorso d’acqua. Orlando intanto non smetteva più di parlare: sembrava una di quelle vecchiette al parco, che per ricordarsi il nome dei nipoti dicono i nomi di tutto l’albero genealogico, e intanto ne approfittano per raccontare la storia della loro interminabile vita. Sorprendente di come non si ricordassero il nome dei propri figli e nipoti ma si ricordavano perfettamente di che colore erano le persiane della loro casa natale. Mentre svuotavo il bicchiere, mi parve di scorgere, dall’altra parte della strada, un’ombra scura, con in mano qualcosa di strano. Ma il tempo di sgranare gli occhi e guardare meglio, e la figura era sparita.
-    Qualcosa non va? – Orlando, finalmente, aveva interrotto il suo lunghissimo sproloquio.
-    No, niente, solo che… non lo so, mi è sembrato di vedere… qualcosa – feci uno
strano gesto con la mano – laggiù.
Orlando si voltò, scrutò la strada per pochi secondi e poi mi guardò. – Probabilmente non era niente – disse scrollando le spalle – forse un passante.
-    Già, forse. – convenni.
-    Oh oh! Guarda lì! Mi sa che sono per noi! – disse, quasi esaltato, con lo sguardo
rivoltò all’entrata della sala. Mi voltai e vidi la cameriera dirigersi verso di noi con dei piattoni immensi. Uno lo pose delicatamente di fronte a me e l’altro, ovviamente, di fronte a Orlando. Costui – non posso dire uomo, perché in quel momento uomo non lo sembrava affatto – si passò la lingua sulle labbra e attaccò a divorare le sue nuvole di drago. Io mi limitai a sembrare più educata: versai la salsa agrodolce sugli involtini e me li mangiai con gusto.
Dopo lo squisito antipasto, fu la volta del primo, poi dell’anatra – che condividemmo – e del gelato fritto. Divorai il dolce chiedendomi come diavolo avesse fatto il cuoco a friggere una palla di gelato, ma ne lasciai metà. Ero al limite. Ma Orlie fu più che felice di finirlo.
Orlando aveva imparato a non fare più lo scherzetto del portafoglio dimenticato: un sollievo per lui, visto che dopo il pranzo all’Hippopotamus quel giorno a Wellington l’avevo minacciato seriamente di ucciderlo se ci avesse riprovato. Da bravo gentiluomo, pagò con la carta di credito e uscimmo dal ristorante. La temperatura, durante il giorno, era scesa notevolmente. Mi prese per mano e insieme ci avviammo alla macchina, che aveva parcheggiato in un posteggio abbastanza lontano:  un lieve bacio per scaldarsi le guance e poi via, di corsa – o quasi – verso la macchina, pronti a ritornare in albergo.

Anche se la giornata era stata lunga e faticosa, arrivata in albergo dopo la serata con Orlie mi sentii bene: in quel momento non c’erano pensieri ripetitivi che mi pulsavano nel cervello, né battute in elfico da ripetere, né canzoni da ascoltare e liste di cose da fare. Pensavo soltanto a com’ero stata bene con lui quella sera, e la memoria volò subito al ricordo della mia festa di compleanno. Arrossii. Misi la chiave della mia stanza nella toppa e, girandola, aprii la porta. Orlie mi guardava dalla soglia, un po’ assonnato ma felice. Lo guardai e sorrisi.
-    Adesso sei tu ad avere la faccia sbattuta.
-    Cosa vuoi: un po’ per uno, no? Tu sembri riposata invece.
-    Forse, ma in realtà ho voglia di andare a letto…
-    Beh, allora buonanotte. Vedrò di rubare a Billy qualche coperta prima che si
abbozzoli.
-    Aspetta – lo fermai. Col cuore che pulsava, mi avvicinai a lui e lo abbracciai. Lui
rispose all’abbraccio, e mi baciò i capelli. Lo baciai a mia volta, e prima che gli saltasse in mente di andarsene, lo afferrai per la felpa e lo portai dentro. Chiusi a chiave la porta e…

Fu una delle notti più belle della mia vita, e il giorno dopo arrivò in fretta. Senza svegliarlo, come il giorno prima, mi preparai e uscii, raggiungendo gli altri Hobbit nell’ingresso. Non credo che ci abbiano sentiti, ma comunque non ne fecero parola, e interpretai le gomitate d’intesa tra Billy e Dom come uno dei loro soliti giochini.
La prima parte della giornata lavorativa si svolse più o meno come la precedente, ovvero:  trucco alle cinque e mezza del mattino al set, poi salto in macchina e corsa allo studio. Ma invece di passare l’intera giornata chiusi lì dentro, Donna Butterfly ci fece provare un’ultima volta il ballo, poi i cameraman entrarono in azione, un paio di prove e voilà, la scena del ballo risultò buona a Peter, Fran e Philippa già dalla seconda ripresa. Così, si chiuse quella che sembrava la parte faticosa. Quel pomeriggio io ero libera, così decisi di farmi un giretto in città: in più, era da tanto che non aggiornavo i miei gossip: anche se non era uno dei miei hobby preferiti, mi piaceva sapere un po’ di notizie meschine sui miei “colleghi”.
Alla scuola di Oxford avevo un’amica, Mary, che amava spostarsi in motorino. Appena la conobbi, cominciò subito a parlarmi di moto, di tutti i tipi e di tutte le marche, e così l’argomento cominciò a interessarmi. Un  giorno, verso la fine del secondo anno, Mary mi propose di imparare ad andare in moto: così mi trascinò a casa sua, mi mise un casco in testa e passammo la settimana successiva a fare giri del suo isolato. All’inizio – quella fase ancora tutta traballante – io andavo lentissima e lei mi seguiva di corsa; dopo due giorni, ero in grado di andare da sola dritta, senza scatti in avanti, indietro, destra, sinistra e – una volta – in alto. Alla fine della settimana, sapevo portarla dietro con me e fare il giro dell’isolato in meno di un minuto.
Quell’anno Mary fu bocciata, e invece di continuare gli studi scelse di cambiare scuola, ma continuammo a tenerci in contatto. Ma un giorno mi disse che suo padre aveva ricevuto una promozione e dovevano trasferirsi in Germania. Quattro giorni dopo partì e io non la sentii né vidi più.
Visto che ancora non avevo la patente per guidare la macchina, e qualcosa mi diceva che prima dell’uscita del Ritorno del Re non ce l’avrei fatta a prenderla, decisi di raggiungere Matamata in motorino. Un tecnico del suono mi prestò il suo, con la promessa di non riportarglielo rigato o con una ruota bucata.
-    Mica sono un teppista! – dissi, e salii in sella.
Decisi di parcheggiare la moto nel posto dell’albergo e di girare un po’ a piedi. Era bello recitare con i ragazzi, ovvio, ma era ancora meglio stare un po’ per i fatti propri. Dopo qualche giro di strada e attraversamento di strisce, mi trovai davanti ad un’edicola. Sorridendo tra me e me pregustando già i pettegolezzi che avrei trovato, presi il portafoglio dalla borsa ed entrai. Ma qualcosa, appena varcata la soglia, mi bloccò.
Sulle mensole degli scaffali, sulla copertina di ogni giornale, campeggiava una foto che raffigurava o me e Orlando al tavolo del ristorante, o me e Orlando per mano che camminavano per strada. Ogni giornale aveva la mia faccia sbattuta in copertina. Chi più zoomata, chi meno, ma ero sempre io. Sempre Lesley Dalton e Orlando Bloom. E i giornali recitavano “Orlando Bloom: una nuova conquista amorosa?”, “La ragazza di Orlando Bloom”, “Lesley Dalton e Orlando Bloom: un boom di cuori!”
Shockata e impaurita, presi il cellulare.
-    Orlando – dissi lugubre. – Abbiamo un problema.

Intanto chiedo scusa per il mio enorme ritardo, ma è stato difficile scrivere questo capitolo – e ringrazio tantissimo Niniel per avermi dato qualche dritta -. All’inizio l’intenzione era di scrivere un capitolo 12 più lungo, ma poi mi è venuto in mente che se avessi continuato non ci sarebbe stato un altro colpo di scena come quello… là sopra.
Come al solito, gente, fatemi sapere che ne pensate!
Per farmi perdonare da voi lettori – amatissimi – ho deciso di mettervi un “ritratto” di Les che ho fatto con faceyourmanga.com. Che ne pensate?

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Capitolo 13
*** Cap 13. ***


La mia vita sul set – Cap. 13.

 
-        
Che succede? – gli sentii dire dall’altra parte, preoccupato forse a causa del mio tono di voce. Mi guardai in giro e nascosi la faccia contro il muro, parlando a bassa voce per non dare nell’occhio.
-        
Ti spiego dopo – dissi. – Dove ci vediamo? Dove sei?
-        
Io? Sul set. Ma Les, che sta succedendo?
-        
Ho detto che ti spiego dopo. Ci vediamo tra mezz’ora. Al bar. Faccio prima che posso.
-        
Lesley…
Chiusi la telefonata senza ascoltare quello che aveva da dire, cacciai il telefono nella borsa e estrassi cinquanta dollari dal portafoglio, e aggiunsi altri dieci dollari per sicurezza. Poi, senza guardare tutte le copertine che mi circondavano, mi diressi al bancone e sbattei i soldi sul legno.
-        
Mi dia una scatola e tutti questi giornali. – il commesso, un po’ anzianotto, mi guardò stupefatto.
-        
Ma… ma signorina – cercò di ribattere. – Questa è la fornitura di tutto il venerdì. Fino a lunedì non mi arriva più niente.
-        
Ah, sul serio? – dissi, sfrontata. Estrassi il portafoglio dalla borsa e presi altri quaranta dollari. – Fanno cento dollari. Le bastano fino a lunedì? – lo guardai così male che non ebbe il coraggio di replicare, ma vidi nel profondo dei suoi occhi una scintilla di compiacimento. Non gli andava tanto male in fondo. Prese i soldi dal bancone e con un “un momento, prego” farfugliato giusto per dire qualcosa, scomparve nel retro. Tornò dopo pochi secondi e poggiò la scatola sul bancone. Io intanto, per fare prima, cominciai a raccattare giornali dagli scaffali e li buttai dentro la scatola. Il commesso cominciò a fare lo stesso.
-        
Ma… un momento – disse perplesso dopo un paio di minuti guardando la copertina di un giornale. Alzò il viso e guardò me, che mi ero fermata con una pila di giornali in mano a guardarlo. Mi osservò per un secondo e poi tornò a guardare la copertina. Poi me, poi la copertina. Me e la copertina. – Ma lei è questa qui? – indicò la mia faccia zoomata. – Lei è Lesley Dalton?
-        
Sì, esatto, sono io – buttai l’ultima pila di giornali nella scatola.
-        
Oh, miseriaccia! – saltò su e cominciò a fare saltelli frenetico. – Ho sempre sognato di incontrare un’attrice! La prego, la prego la prego, mi faccia un autografo! – supplicò. Rimasi per un attimo a bocca aperta: mi aveva colto di sorpresa.
-        
Ehm… certo. – dissi, cercando una penna nella borsa. Lui intanto era corso dietro al bancone e aveva estratto un foglietto per le ordinazioni – o almeno quello mi era sembrato. Me lo porse con un sorriso smagliante. Mi avvicinai a lui e schiacciai un paio di volte il tastino della penna a scatto, pensierosa. Come si faceva a fare un autografo?
-        
Come si chiama?
-        
Geoffrey! - Sorrisi per la prima volta da quando ero entrata in quella piccola edicola e Geoffrey parve sciogliersi. Non so se fosse per il sorriso o per il “dammi del tu”. Attirai il foglietto verso di me e scrissi:
Al gentile Geoffrey, grazie per avermi dato una mano. Lesley Dalton
J”. Scarabocchiai il mio nome  e gli porsi il foglio. Geoffrey lo prese fremente, lo lesse e per un attimo temetti che gli fosse venuto un infarto.
-        
Sa, queste foto non le rendono giustizia – disse chiudendo la scatola.
-        
Grazie – dissi, e feci per prendermi la scatola.
-        
Ferma! – esclamò tutto ad un tratto. – Non tocchi quella scatola!
-        
Geoffrey, io l’ho già pagata!
-        
Ma no! Anzi, mi faccia un favore, si riprenda questi soldi. Gliela porto io la scatola alla macchina!
E mentre faceva forza con le braccia e diventava rosso per lo sforzo per sollevare la scatola io pensai “Quale macchina?”, ma non ebbi il coraggio di dirlo ad alta voce, perché quel tizio era capace di offrirmi un passaggio fino al set perfino se avesse avuto come mezzo di trasporto un mulo. Uscì barcollante dall’edicola, e si fermò.
- Ma dov’è la sua auto?
- Beh, io ho il motorino. È a poca distanza da qui.
- Oh, non c’è problema! Andiamo!
Quel tizio era proprio strano. Fui costretta a dargli indicazioni fino al parcheggio dell’albergo. All’entrata, si fermò a si appoggiò contro il muro per riprendere fiato. Dopotutto, era un ometto di sessant’anni e passa.
- Grazie mille, Geoffrey, mi è stato di grande aiuto. Mi lasci pure la scatola, me la cavo.
Lo costrinsi a mollarmi la scatola e la poggiai tra il sedile e il manubrio. Mi misi il casco e vi sbirciai dentro, dove in cima alla pila di riviste ce n’era una con la foto di me e Orlando che ci baciavamo dalla macchina, prima di salire per tornare in albergo. Quella vista bastò a farmi tornare la rabbia. Saltai in sella, accesi il motore e partii, dopo aver fatto un lieve cenno di saluto a Geoffrey. Svoltai l’angolo, dicendo addio al mio pomeriggio in solitudine a Matamata, e ricordandomi che avevo lasciato i cento dollari sul bancone.

 Come riuscii a non cadere e a non traballare per il troppo peso della scatola, non lo seppi mai. Fatto sta che appena poggiai i piedi sul terreno del set, fui presa di ringraziare il cielo di non essere caduta come una pera. Sospirando, mi tolsi il casco e lo poggiai sul sedile, per poi prendere la scatola e portarla lentamente incespicando fino a quello che definivamo bar, ossia un gazebo coperto di teloni bianchi e con dei tavoli bianchi affiancati l’uno all’altro. Una sala mensa all’aperto, diciamo. La gente, al mio passaggio, si voltava a guardarmi perplessa, ma nessuno si offrì di aiutarmi.
Capii di essere arrivata a destinazione quando sentii la voce di Orlando imprecare qualcosa e correre ad aiutarmi.
-        
Ma che diavolo è tutta questa roba?
-        
Lascia fare a me e siediti.     
Rovesciai il contenuto sul tavolo: decine e decine di giornali di tutte le marche e dimensioni si rovesciarono sulla plastica bianca, e in tutti, tutti c’ero io. Una cosa molto snervante.
Non mi ero accorta che dietro Orlando c’erano anche tutti gli Hobbit tranne Sean – doveva essere con la moglie e la figlia. Dom fece una specie di strilletto e cominciò a sventolarsi con una mano, mentre Elijah faceva “Uuuuuuuh!” e Billy rideva. La cosa non mi andava a genio. Dal canto suo, Orlando si era alzato e si era avvicinato ai giornali, prendendone alcuni in mano.
-        
Cos’è questa roba? – fece.
-        
Dimmelo tu – risposi io.
-        
Lesley è stata paparazzata! – esclamò Dom. – Non hai detenuto il record per molto, eh?
-        
Gira al largo, Monaghan. È una faccenda tra me e Bloom.
-        
Ahia, Les sta usando i cognomi… - commento Elijah girando sui tacchi e filandosela.
-        
Les è moooooooooooooolto arrabbiata… - anche Billy se la filò. Dom si parò davanti a Orlando, gli poggiò le mani sulle spalle e disse:
-        
OB – sospirò sconsolato – buona fortuna. – e pure lui se ne andò.
Io e Orlando restammo in silenzio per qualche istante: lui prendeva giornali a caso e guardava la copertina, io non avevo il coraggio di guardarli di nuovo. Appena si ritenne soddisfatto, si appoggiò al tavolo, si grattò il mento, incrociò le braccia e, con un lieve sospiro, disse:
-        
Les, non è così grave.
-        
Non è così grave? – ripetei, indignata. – Ti rendi conto di cosa vuol dire?
-        
Sì, ma…
-        
Ogni schifosissima edicola di tutto il mondo a questo punto starà sfoggiando la mia faccia e la tua insieme su tutti i giornali! E già ho speso cento dollari per svuotarne una!
- Tu… hai speso cento dollari… per svuotare un’edicola piena di giornali con una tua foto? – disse Orlando, e scoppiò a ridermi in faccia. Rideva a crepapelle. Non ci vidi più: gli tirai un gancio destro neanche niente male, dritto sul naso.
Il contraccolpo lo fece schizzare all’indietro e poi ripiegare in avanti. Si mise le mani intorno al naso e strizzò gli occhi.
-        
Lesley, porca miseria! Che diavolo ti prende! – disse dolorante. – È normale venire paparazzati, razza di stupida ragazza! Perché cavolo mi hai colpito?
-        
Non ci arrivi da solo? Mi hai riso in faccia! – sbottai. – E non è normale venire paparazzati! Capisci che vuol dire? Gente che ti segue, ti spia e ti fotografa, per fare scoop!
-        
Ah, solo adesso capisci che non è bello leggere i pettegolezzi degli altri? – si passò una mano sotto il naso, dal quale scorreva un rivoletto di sangue. – Sbaglio o era uno dei tuoi hobby?
Si era davvero arrabbiato, ma non mi importava. Lo ero di più io. Presi a caso due giornali dal tavolo e glieli sventolai davanti.
-        
Guarda qui! Guarda! Ecco la prima pagina di “Telenovela”: Orlando Bloom, una nuova conquista amorosa?. E… oh! Guarda qui. “Dalle stalle alle stelle”: Chi è la ragazza con Orlando Bloom? – li lanciai lontano. – Vedi, ci hanno preso fuori dal ristorante!
-        
Ma che cosa caspita c’è di male! Lesley, sei una stupida. Non ti può sconvolgere una sciocchezza del genere!
-        
Sciocchezza? Sciocchezza?? Ecco, ecco che cos’era l’ombra che avevo visto
dietro all’albero! Era uno di loro! – ero quasi arrivata ad urlare. Chiusi le mani a pugno e la faccia mi diventò rossa. – E tu lo sapevi, lo sapevi, ma non hai voluto dirmelo!
-        
Ma che stai dicendo? Secondo te non te l’avrei detto per farti dispetto?
-        
Sai che ti dico? È colpa tua!
Sgranò gli occhi. – Cosa?
-        
Già, è colpa tua! Perché io neanche volevo uscire!
-        
Dimmi una cosa. Cos’è che ti brucia di più, il fatto di essere stata
paparazzata, o che non detieni più il record degli Hobbit? O forse che non ti vada giù che la gente faccia quello che tu hai fatto per un sacco di tempo: violare la privacy degli altri? Ma devi imparare a fregartene, Lesley! Fregatene! Tutti gli attori veri vengono paparazzati. Vuoi sentirti un’attrice vera? Verrai paparazzata! Facci l’abitudine.
Digrignai i denti e guardai per terra. Il cuore batteva forte. – Sai cosa? – lo guardai. – Hai ragione. Non mi sono mai resa conto di quanto sia fastidioso. Ma ecco. – ammucchiai un po’ di giornali e glieli misi in mano. – Visto che tu te ne freghi, fregatene anche di me.
-        
Lesley, stai esagerando.
-        
Può darsi. Ma a te non te ne frega, giusto?
Senza dire nient’altro, voltai i tacchi e me ne andai per i fatti miei, incavolata con Orlando, con i paparazzi e con tutto il mondo in generale.
Raggiunsi un posto isolato quasi di corsa e cercai di sbollire la rabbia, camminando in cerchio fino a farmi girare la testa. A quel punto mi fermai e decisi che era stupido continuare a rimuginarci sopra: meglio farsi una passeggiata.

Il tempo di formulare un pensiero del genere, e il mio cellulare iniziò a squillare. Lo tirai fuori di malo modo dalla borsa – che, poveretta, era rimasta spiaccicata dal peso della scatola -, decisa a mandare al diavolo chiunque fosse, ma poi lessi il nome sullo schermo, e decisi che non sarebbe stata una buona idea. Sospirando, spinsi il tasto verde.
-        
Ciao, mamma.
-        
Oh, Les, tesoro, ma che combini? Ci sono le tue foto sui giornali!
-        
Lo so, mamma, è stata solo una piccola disattenzione e non ricapiterà mai più.
-        
Tesoro, stai scherzando? È fantastico! Finalmente sei famosa!
-        
Mamma, io non sono famosa!
-        
Oh, per amor del cielo, non fare la sciocchina! Secondo te ti ho chiamato a
quest’ora di notte per un nonnulla? Se tu non fossi famosa, non ti avrei chiamato!
-        
Grazie mamma! – dissi sarcastica – Sono felice di venire a conoscenza la
quantità di amore che provi nei miei confronti!
-        
Oh mio dio! OH MIO DIO!! Lesley, stanno parlando di te a “Fatti tuoi!”! Mia
figlia è in televisione!!! – e scoppiò in un pianto di gioia irrefrenabile e la sentii chiamare a gran voce mio padre. Spensi la comunicazione: tanto se avessi detto qualsiasi altra cosa non mi avrebbe sentito. Sperai solo che non cominciasse a fare il giro di telefonate ai parenti.
Sbuffai e pestai un piede per terra in modo infantile. Quando mi arrabbiavo non c’era proprio niente da fare: tutti i programmi mi si cancellavano automaticamente dalla testa. Mi passai una mano fra i capelli.
Dovevo parlare con qualcuno.

 -         Uuuuh, qui c’è del formaggio! No no, lascia stare.
Zio Ian – o meglio, Bilbo Baggins – girava a telecamere spente, provando e riprovando la stessa scena. Ma, ogni volta che ricominciava da capo, la faceva in modo diverso. Questo era lo stile inconfondibile di Ian Holm: riproporre ad ogni scena lo stesso personaggio ma in maniera diversa. Era imprevedibile come pochi.
- Zio Ian, non potremmo parlare un secondo? – lo seguivo come una svitata per tutta la cucina di casa Baggins, con le mani affondate nelle tasche della mia felpa blu, ma lui non sembrava darmi ascolto. Si diresse verso l’ingresso della casetta, fece finta di mettersi qualcosa in bocca e disse con falsa voce da bocca piena:
- Non ti dispiace se mangio?
- Zio Ian? Potremmo fare quattro chiacchiere?
- Mia piccola dolce Lesley, sono molto occupato: non potremmo rimandare a, che ne dici, domani o dopodomani? È qualcosa di importante?
Rimasi in silenzio per qualche secondo, pensando a come rispondere.
-        
No, non è importante – dissi alla fine. – Grazie lo stesso.
Sospirai e, uscendo dalla casetta, guardai l’orologio. Le otto meno un quarto.
Tanto valeva tornarsene in albergo e ripassare un po’ di elfico. Gran bella giornata del cavolo. E dire che era partita bene.

 Nessuno mi disturbò quella sera, così la mia rabbia ebbe il tempo di sbollire e di lasciare posto ad un po’ di rimorso per aver colpito Orlando in quel modo. Dopo essere andata inutilmente da zio Ian avevo mandato un messaggio a Linnie, chiedendole “che fai stasera?” e lei mi aveva risposto solo “Justin”. Ma quand’è che si decideva a scaricarlo? Avevo seriamente paura che le facesse del male: e non era infondata. Da spie dilettanti provette, Billy e Dom erano andati in giro a raccogliere qualche informazione sull’Armadio. Aveva una serie di reati minori alle spalle: furto con scasso, rapina… non aveva esattamente la fedina penale pulita. E soprattutto, grosso com’era, se avesse deciso di fare del male a Ilana ci sarebbe riuscito benissimo: lei era tanto piccola e indifesa, e un solo braccio di Justin era grosso quanto un cinghiale.
Scacciai questi pensieri spiacevoli scuotendo la testa. Non era proprio il momento per pensarci. E poi, anche se aveva la fedina penale sporca, Peter l’aveva assunto, il che vuol dire che non era propriamente una minaccia.
pigiama, seduta a gambe incrociate sul letto, rilessi ancora una volta alla svelta le parole in elfico e le ripetei, sforzandomi di moderare la voce su un tono da elfo saggio. Il risultato non fu dei migliori, ma lasciai perdere. Stropicciai il foglio e lo lanciai sul comodino, buttandomi poi sul cuscino. Rimasi un po’ a fissare il soffitto, pensando: dovevo chiedere scusa a Orlando per il pugno? Eppure era colpa sua se ci avevano paparazzati fuori dal ristorante, di questo ne ero fermamente convinta. Inoltre, ero troppo orgogliosa per chiedere scusa per prima.
-        
Al diavolo – mi girai su un fianco e spensi la luce del comodino.

 Immagini confuse mi scorrevano davanti agli occhi: legno, acqua. Roccia. Una luce abbagliante. La bruttissima sensazione di respirare acqua. E poi il mio sogno ricorrente: aerei, grida, morte. Distruzione. L’immagine cambiò: ero in piedi, in uno spazio bianco immacolato, e fissavo due numeri. 11 e 9.

Mi drizzai a sedere, coperta di sudore e il cuore che pulsava in gola. Mi mancava l’aria. Mi alzai e corsi in bagno a sciacquarmi la faccia. Con il volto bagnato, mi guardai allo specchio. I due numeri, 11 e 9, continuavano a comparirmi davanti.
Riempii un bicchierino d’acqua e lo mandai giù, cercando di calmare il batticuore. Scossi la testa. Era solo un sogno.
Me ne tornai a letto.

 Non me n’ero resa conto, ma se hai un lavoro normale e una vita normale, se litighi con qualcuno – che chiameremo Bob - puoi tagliare completamente i ponti con Bob e fregartene finché uno dei due non cede e chiede scusa. Ma se sei un attore e litighi con Bob che è anche il tuo fidanzato e collega, sei costretto a vederlo di continuo, tutti i minuti di tutti i giorni. E tagliare i ponti è impossibile, a meno che non spegni il tuo telefono e cambi il PIN del telefono di Bob, col risultato di farlo incavolare ancora di più.
Cambiare il PIN di Orlando non era stata una buona idea.
Ma il fatto è che me l’aveva suggerito Dominic. “Vedrai, Les, impazzirà!” mi aveva detto.
È impazzito, ma nella maniera sbagliata. E subito dopo Dominic non è riuscito a trovare un cespuglio abbastanza folto per nascondersi: l’ho trovato nel bagno degli uomini, armata di padella antiaderente. E la cosa più snervante non è che piangesse per la botta presa in testa, ma se la rideva come un matto, tant’è che credetti di avergli spostato qualche rotella.

- Poverino, già ha qualche rotella fuori posto, se poi lo colpisci con una padella… a proposito, dove l’hai pescata quella? – Mi chiese Emma mentre truccava una bambina Hobbit, seduta su uno sgabello in mezzo al prato, dopo che le avevo raccontato l’intera faccenda.
- Emmie, non potremmo parlarne un attimino-ino-ino? – supplicai.
- Non chiamarmi Emmie, Les, mi ricorda il formaggio. E questa bella bambina – le prese le guance tra le dita e gliele sbatacchiò di qua e di là, mentre lei rideva – è stata proprio brava! Bravissima!
La bambina corse via e al suo posto arrivò un bellissimo bambino biondo chiaro. Emma, sospirando, si risedette e ricominciò il lavoro da capo.
-        
Em? Possiamo parlarne? – ripetei la domanda.
-        
Les, mi piacerebbe, davvero, ma sono molto impegnata. Devo ancora
ritoccare una mandria di bambini.
-        
Non credo che “mandria” sia il termine esatto per definire un gruppo di bambini. Non sono mica animali. – commentai.
-        
Sarà, ma mi fanno paura i loro piedi. – confessò Emma impassibile.
Sgranai gli occhi. Sbuffai. – Ok, faremo un’altra volta – dissi rassegnata.
Mi voltai per andarmene e mi ritrovai di fronte a Orlando, proprio come succede nei film dell’orrore, quando il mostro ti appare dietro e ti uccide. Sembrava estremamente arrabbiato. Mi fissò duro, paonazzo, e poi esplose come un palloncino.
-        
Lesley, sei un’idiota! – urlò.
-        
Anche tu! – risposi. Ma internamente pensavo: “Che ho fatto adesso?”
Voltò sfacciatamente la testa dall’altra parte e girò i tacchi. Dio, com’era infantile. Ciò contribuì enormemente a far resuscitare la mia ira morta e sepolta durante la notte.
Me ne andai a grandi falcate, scendendo la collina, e dirigendomi verso la macchinetta delle bevande.
Avevo bisogno di un altro caffè.
Ed erano solo le 8.30 del mattino.

 Perfetto. Stavo benissimo. Seduta sull’erba all’ombra di una roulotte, con le colline e i campi verdi davanti e il fiume che scorreva a valle, in jeans, felpa e caffè bollente. Non mi serviva altro, solo qualche confidente.
Era strano. Era sempre tutti lì, a ficcare il naso nei tuoi affari, e quando ti servivano, PUFF!, sparivano. Li avevo provati tutti: Zio Ian – troppo impegnato -, gli Hobbit – troppo impegnati -, Emma – troppo impegnata -, Linnie – svanita nel nulla assieme all’Armadio -, Peter – troppo impegnato -, qualche comparsa a caso – troppo discreti per ficcare il naso nei tuoi affari, benedetti neozelandesi -… 
Mi stavo sicuramente dimenticando qualcuno, ma mi sfuggiva chi. Bevvi un sorso di caffè e chiusi gli occhi, ripensando a Orlando. Che razza di idiota. Che gli avevo fatto stavolta?
-        
Sai, mi sembri già abbastanza nervosa anche senza quel caffè. – disse una
voce saggia che conoscevo.
Aprii gli occhi e mi tirai su a sedere. – Viggo!
-        
Ciao Les! A quanto pare tira aria poco buona tra te e Orlando! – disse stringendomi la mano con la sinistra. È vero, eravamo colleghi e amici e anche lui faceva parte della Compagnia, ma io lo stimavo troppo per trattarlo con lo stesso poco rispetto – reciproco – che riserbavo per gli altri ragazzi.
-        
Già, a quanto pare… uffa, il fatto è che io non sono una che si arrabbia
facilmente, ma a volte esco proprio pazza.
-        
Benedetta ragazza, capita a tutti! Ma questo lo prendo io, – prese
lentamente il mio bicchiere di caffè e se lo scolò tutto – per evitare altre pazzie da parte tua.
Si buttò la spada in spalla con la stessa disinvoltura di un contadino che prende la zappa, e mi guardò dritta negli occhi, senza mostrare la minima espressione. Oh-oh. Era entrato in fase “Botta e riposta”.
-        
Quanti anni hai? – buttò lì, con nonchalance.
-        
18! – risposi.
-        
Sai guidare la macchina?
-        
No.
-        
Hai tutto quello che ti serve qui?
-        
Direi.
-        
Come ti senti? – sorrise malvagio.
-        
Molto stressata e nervosa.
-        
Perfetto. – mi fissò con quei suoi occhi azzurrissimi e inquietanti, da pazzo.
Qualche lucina era cambiata nei suoi occhi, come se fosse scattato qualcosa, Clik! Un cambiamento drastico. Mi metteva quasi paura. – Vieni! – esplose alla fine, ridendo come un pazzo. Mi prese una mano e si mise a correre giù per la collina, trascinandomi dietro di sé! Ero troppo colta di sorpresa per protestare, ma non si sarebbe fermato comunque. Mi costrinse a correre anche dopo aver superato la collina, dopo aver saltato oltre il sentiero e dopo aver superato una seconda collina. Solo in prossimità di un boschetto lì vicino mi permise di fermarmi. Col fiatone, mi voltai indietro per vedere il punto, abbastanza lontano, dove eravamo partiti. Mi appoggiai sulle ginocchia per respirare meglio. Viggo era un omaccione, certo, ma anche lui era un essere umano, anche lui aveva un cuore. Aveva anche lui il fiatone, una scena che in qualche modo mi fece sorridere.
-        
Adesso come ti senti? – chiese.
Ci pensai su un attimo. – Meglio.
-        
Sei più rilassata?
-        
No.
-        
Fantastico.
Mi costrinse a sedermi a gambe incrociate e mi piegò la schiena in avanti, facendo pressione con un ginocchio e premendo forte. Un male cane.
-        
Viggo, mi fai male così! – protestai.
-        
Non badare al dolore! – mi esortò. – Respira profondamente.
-        
Questa è una tortura!
-        
Lalalalalalalala! Respira!
Non potei far altro che eseguire l’ordine, e cominciai a inspirare e espirare lentamente, proprio come uno yogin. E Viggo faceva lo stesso. Appena ritenne che poteva bastare, mi lasciò andare. La mia schiena schioccò in maniera inquietante quando mi tirai su.
-        
E tutto questo per dimostrare…?
-        
Adesso come ti senti? Sei più tranquilla?
Mi pizzicai la base del naso. – Beh, sì. Adesso sì.
-        
Vedi? – sorrise.  – Lo Yoga funziona.
-        
Già! – sorrisi.
-        
Saresti in grado, adesso, di parlare con Orlando in maniera civile in maniera adulta?
-        
Beh… sì, se solo lui non si comportasse come un neonato.
Alzò le braccia al cielo, stiracchiando le giunture in maniera niente affatto elegante. – Mmm, sì, ti capisco. Anch’io facevo così all’inizio. Ma dimmi un po’: chi dei due fra voi era più arrabbiato?
-        
Io, sicuramente.
-        
Quindi tu l’hai aggredito. – Non era una domanda.
-        
Sì.
-        
Quindi lui non ti ha fatto niente di male, giusto?
-        
Sì. – ammisi.
-        
Quindi dovresti essere tu a chiedergli scusa, giuuuuuuusto?
-        
Beh, sì, ma…
- Oh, Dalton, ficcati quella coda che hai tra le gambe e vai a chiedergli scusa! - sbottò. Dopodiché raccolse la spada, girò i tacchi e se ne andò. Non avrebbe potuto essere più convincente. Presi il telefono e scrissi un promemoria.
Per le 19.30. Andare da Orlando e chiedere scusa.
Me ne andai, finalmente tranquilla, a prendere… no, non un caffè. The. Alla pesca.

 19.30. La sveglia squillò. La spensi e non mi mossi. Niente mi avrebbe separato da quel meraviglioso piatto di carne portato dal servizio in camera.

 20.15. “Mmmmm… quasi quasi schiaccio un pisolino. Passerò dopo da Orlando. Dieci minuti”.

 23.45. Maledizione!
Avevo promesso a me stessa che avrei dormito solo dieci minuti. Avevo dormito tre ore e mezza. Chi me lo diceva che Orlando non se n’era già andato a dormire?
Il telefono, posato accanto al cuscino, mi segnalò l’arrivo di un messaggio: sperando che fosse Orlando, mi buttai a pesce per prenderlo il più presto possibile. Sbloccai frenetica la tastiera, ma rimasi delusa. Non era Orlando: era Billy.
“Les! Posso passare da te fra trenta secondi? 29… 28… 27…” Il messaggio terminava così. Tipico stile di Billy. Ancora venti secondi e qualcuno bussò alla porta.
-        
Sì, Billy, arrivo! Erano proprio 30 secondi, eh?
Aprii la porta, e rimasi spiazzata.
Non era Billy.
Era Orlando.
Con in mano un mazzo di girasoli. Me li porse con un sorriso. Non sapevo se prenderli o meno. Poi alzai gli occhi al cielo, sorrisi e lo presi in mano, sfiorando la sua.
-        
Grazie. – sussurrai. Puntò l’indice verso l’alto e disse, con un sorriso:
-        
Eeeee… non ti ho portato solo questo.
Sparì per un attimo nel corridoio, e ritornò subito dopo con LA scatola trascinata su una carriola.
-        
Visto che Viggo ti ha fatto scuola di filosofia, che ne diresti di accettare la vita come va? Può essere divertente. Ah, ero io. Ho solo usato il telefono di Billy. Devi dirmi il nuovo PIN.
-        
Aspetta. – posai il mazzo di fiori sul tavolo all’angolo della stanza e
cominciai a girare in tondo. – Okay, io so quello che ti devo dire ma non so da dove cominciare, il che mi rende alquanto nervosa e capace di formulare un pensiero logico.
-        
Prova con parole tue.
-        
Ho sbagliato a darti un pugno sul naso.
Lui annuì. – Mi ci è voluto un po’ per fargli tornare il suo colore naturale. Tiri dei pugni niente male, sai?
-        
Ti prego, non mi interrompere!
-        
Scusa! – si morse la lingua tra i denti, sorridendo birichino.
-        
E ho sbagliato anche ad aggredirti…
-        
Ah, non ti preoccupare, Les, in realtà ho sbagliato io, tu non volevi uscire e io ho insistito, se quel fotografo ci ha beccati… - io continuai a parlare, non
avevo intenzione di perdere il filo del discorso.
-        
… ma ero arrabbiata e impaurita, è una cosa totalmente estranea per me… è stato così strano… e quindi volevo dirti che…
-        
E perciò volevo dirti che…
-        
È colpa mia – concludemmo in sincrono. – Scusa! – di nuovo insieme. Ci
guardammo e scoppiammo a ridere. Ci abbracciammo.
-        
E per concludere – si mise in ginocchio sulla moquette e cominciò a tirare fuori riviste e a posarle per terra – facciamoci di gossip! Vediamo quante belle cavolate hanno scritto sul nostro conto!
-        
Non mi dire! – sbadigliai. – Sai che mia madre è scoppiata a piangere perché mi ha visto ad “Affari tuoi!”? Assurdo.
Non mi andava proprio di leggere quello che gli altri pensavano di me, perché era una cosa che non mi aveva mai interessato, ma avrei fatto di tutto pur di non rovinare quel momento.
Stavo per prendere in mano la prima rivista quando qualcuno bussò insistentemente alla porta. Mi alzai, aprii la porta, e il tempo si fermò per qualche istante.

C’era Linnie, dalla mia porta, con il volto rigato di lacrime e un livido sotto l’occhio. Aveva anche un graffio sul collo, e sembrava in iperventilazione. Ma la cosa più sorprendente non fu vederla in quello stato, ma il fatto che sorrideva.
-        
Lesley! Les, Les, Les, posso entrare per favore?
Mi trascinò dentro la stanza, salutò Orlando nascondendosi il viso e ci rinchiuse dentro al bagno.
-        
Linnie, che diamine ti è successo?
-        
Prima le cose più importanti.
-        
Che c’è di più importante di questo?
I strinse nelle spalle: - Elijah.
- Elijah?
- Già. Mi piace.
- E allora?
Tirò un gran sospiro e gli occhi le si illuminarono. -  Ci siamo baciati.

 

Fine di un altro capitolo, scritto in veramente poco tempo per essere più lungo del solito… magari ho scritto più grande, chissà.
Bene, cari lettori, sapete già quello che vi chiedo dopo tredici capitoli! Vado a scrivere il numero quattordici!
Vostra affezionata Panenutella xD

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Capitolo 14
*** Cap 14. ***


La mia vita sul set – Cap. 14


- Non sto scherzando Les! Ci siamo baciati davvero!
Risi e la abbracciai: - Linnie, è grandioso! Ma… - tornai seria. – Adesso, passiamo alle cose più importanti: chi ti ha ridotta così? Elijah?
Linnie rimase sconvolta. – Assolutamente no! Scherzi? El non lo farebbe mai!
-    E allora l’Armadio!
Avevo colto nel segno. Linnie si rabbuiò e chinò il capo, e io capii che stava per cominciare a piangere. Occorreva piano alternativo. Aprii la porta del bagno e guardai dentro la camera, in mezzo alla quale Orlando stava ancora seduto per terra a leggere giornali, e gli dissi: - Orlie! Abbiamo faccende femminili da sbrigare qui! Se vuoi restare resta, se non vuoi fila via!
-    Oh mio Dio! – saltò in piedi – Non dovresti obbligarmi a scelte così ardue, Lesley! Lo sai che non so decidere!
Se non l’avessi conosciuto bene e l’avessi sentito parlare con quel tono, avrei pensato che Orlando fosse omosessuale. Ridacchiai al pensiero. – Orlando, dovresti essere contento! Volevi un po’ di scoop? Eccoti servito!
-    Ma promettimi una cosa – m’interruppe Linnie affacciandosi alla porta del bagno e asciugandosi gli occhi con la manica della maglietta. – Non avrai reazioni esagerate a niente di quello che racconterò.
-    D’accordo, Linnie – sorrise Orlando. Si passò una mano fra i capelli. – Te lo prometto. Dove ci mettiamo?
Mi voltai verso di lei. - Dove vuoi metterti, Ilana?
-    Sul… sul letto? Che dici?
Orlando rispose buttandosi a pesce sul mio letto. Linnie rise e lo seguì, ed io, prima di sedermi fra di loro, tornai in bagno e presi una scatola di fazzoletti mono-uso. Poi tornai in camera e mi sedetti a gambe incrociate sul letto, accanto a Linnie e davanti a Orlando.
-    Da dove comincio? – si domandò Linnie, grattandosi il dorso di una mano.
-    Magari potresti dirci chi ti ha ridotto così – suggerì Orlando.
-    Giusto – abbassò il capo per alcuni secondi, probabilmente cercando di
riordinare le idee. Io e Orlando non osavamo fiatare, per paura che cambiasse idea. L’orologio appeso al muro della mia camera segnava lo scorrere il tempo con il suo inesorabile tic tac…tic tac…
-    Stamattina mi ero messa d’accordo per uscire con Justin…
-    Chi? – la interruppe Orlando.
-    Orlando, non fiatare – gli ordinai.
-    Ma chi è Justin? – insistette.
-    L’Armadio! – gli risposi spazientita, e lui s’illuminò.
-    M-m, ho capito. – annuì.
-    S…stamattina – ricominciò Linnie – mi ero messa d’accordo per uscire con
Justin. Avevo già intenzione di lasciarlo perdere, perché non andavamo molto d’accordo e lui era molto… rude.
-    Quindi voi due avete fatto… - iniziò a commentare Orlie.
-    Orlandoooooooooo!!!!! – lo ripresi spazientita. Alzò le mani e mimò il gesto di
chiudersi la bocca con una cerniera.
-    Justin… l’Armadio… è un tipo molto brusco e violento, e testardo. E s’innervosisce quando non ottiene quello che vuole. No, non s’innervosisce,
Si arrabbia moltissimo. Ma sa come affascinare una donna. Ed io ci sono cascata. –
Fece una breve pausa. – Già da qualche giorno insisteva per farlo, ma io non volevo. E quando stasera ho rifiutato per l’ennesima volta, ha perso la testa.
-    Ti ha picchiata?
Lei tirò su col naso e annuì. Le porsi la scatola di fazzoletti, ne prese uno e si soffiò il naso.
-    Quel grandissimo bastardo! – esplose Orlando.
-    Avevamo detto niente reazioni esagerate, Orlie! – gli ricordai.
-    Non me ne frega un accidente di quello che avevamo detto! Quel gran figlio
di… - si sforzò di non proseguire, profondamente irritato.
-    Linnie, non hai usato lo spray al peperoncino?
-    Non ci sono arrivata subito, avevo troppa paura. Ma poi l’ho usato e sono riuscita a scappare. E ho chiamato Elijah. Non so nemmeno perché, ero nel panico… e non ragionavo.
-    Hai fatto bene – la rassicurai. – Elijah che ha fatto?
-    Ha preso la macchina ed è venuto a prendermi. Io però non ce la facevo a stare ferma, continuavo a muovermi e lui non riusciva a farmi calmare.
-    Adrenalina – dissi.
-    Alla fine sono riuscita a raccontarglielo, e lui insisteva per chiamare la polizia. Ma io non volevo. “Perché non vuoi far arrestare quel bastardo? Sei troppo buona di cuore” mi ha detto. E allora io sono scoppiata a piangere. Lui mi ha abbracciato, e poi boh… ci siamo baciati.
Concluse la storia con una vaga alzata di spalle, ma sapevo che cercava di nascondere l’euforia. Sorrisi.
-    Tutto qui? Niente dettagli?
-    Orlando, vai fuori. – gli ordinai. – Razza di essere insensibile. Fatti gli affari tuoi!
-    Disse prendendo in mano un giornale di gossip – commentò Orlando.
dirigendosi verso la porta. – Vado a cercare più informazioni dal diretto interessato. Magari gli offro anche qualcosina. – Aprì la porta. – Les, domattina facciamo una gara con l’arco? È da un po’ che non tiri.
-    Ma sì, tanto domani lavoreremo di sera. – mi voltai verso Linnie – gireremo la festa. – Spiegai.
-    Adios! – ci salutò OB chiudendosi la porta alle spalle.
Linnie sorrise e si asciugò gli occhi.
-    Les, io adesso andrei… anche se so che non riuscirei a dormire.
-    Se hai bisogno, io sono qui – dissi, intenerita.
Annuì e si alzò, sfregandosi le mani. Si diresse verso la porta e uscì, non prima di avermi rivolto un sorriso riconoscente.

-    Rosa di fior, nasce l’amoor, tra Ilana ed Elijah l’amor è nato giààààà… partono in due, tornano in tre, vuol dire che lì è già nato un bebéééééééééé!!!!
-    Qualcuno li faccia smettere!!! – implorai rivolta al cielo, mentre Dominic e
Billy ricominciavano la canzoncina dall’inizio per l’ennesima volta.
Eravamo tutti seduti sul prato. Orlando si stava preparando a tirare con l’arco per il suo terzo della gara, io aspettavo il mio turno sfogliando uno dei tanti giornali che avevo comprato il giorno prima, e gli Hobbit se ne stavano lì a fare il tifo. Almeno, in teoria: Elijah se ne stava in un angolino assieme a Linnie e parlavano a bassa voce tenendosi per mano, Sean giocava con la sua bambina, che insisteva per tirare con l’arco, e Billy e Dominic cantavano coretti molto infantili divertendosi un mondo.
Al momento io conducevo la gara per 2-1. L’obbiettivo era centrare il bersaglio posto sul collo di una sagoma di un maiale di legno.
Orlando si mise in posizione, prese la mira e scoccò la freccia, che volò dritta verso il maiale e si piantò nel centro del bersaglio.
-    Sììììì! Evvai! – esultò. Mi si avvicinò e me lo indicò . – Lo vedi quello? Nel mezzo di quel mezzo?
-    Non cantare vittoria troppo presto – lo avvertii. – Intanto, guarda qui quello
che dicono! – Voltai la copia di Donne con le… verso di lui, aperta sulla pagina dell’articolo.
-    “La presunta nuova fiamma del famoso attore Orlando Bloom non ha niente da invidiare alle modelle dei famosi stilisti: come molti nostri lettori potrebbero pensare, Lesley Dalton non fa la modella, ma recita insieme a Bloom stesso nel film di Peter Jackson ‘Il Signore Degli Anelli: La Compagnia dell’Anello’. La Dalton apparentemente non ha niente di speciale nel fisico, ma sarà la sua eleganza nel portamento a renderla così attraente agli occhi di Bloom? Come andrà a finire questa storia d’amore? Andrà al matrimonio o finirà rovinosamente? Mandate un SMS o spedite una mail al seguente indirizzo…” bla bla bla bla. – Lesse Orlando ad alta voce. – Tutte fandonie – porse la rivista a Dom, stravaccato sull’erba accanto a lui. - Non crederai ad una sola parola, vero?
-    Neanche una – convenni, anche se in realtà quello che c’era scritto su quei
giornali mi bruciava parecchio. Sistemai la freccia sull’arco e misi i piedi ben allineati.
-    Dunque – Billy si era alzato in piedi e parlava come la cronaca dello sport. –
in questo momento Lesley Dalton e Orlando Bloom sono pari: questo sarà l’ultimo round, dopodiché ce ne andiamo a pranzo, perché sinceramente non ho più voglia di starvi a guardare e ho fame, quindi muoviamoci. Se Lesley sbaglia la vittoria va a Orlando, se Lesley segna, vince.
-    Ehi, non è affatto giusto! – protestò Orlando. – Io ho fatto centro perfetto!
Non gli risposi, e Orlando guardò verso Dominic che armeggiava col cellulare.
-    Che stai facendo Dom?
Lui si affrettò a nascondere il telefono dietro alla schiena. – Niente! – disse immediatamente, diventando rosso in viso. Non esattamente il tipo di bugia che mi sarei bevuta. Dom stava in guardia riguardo a Orlando, così non fece caso a me. Gli arrivai da dietro e gli presi il cellulare. Era aperto sul “Crea Nuovo Messaggio” e c’era scritto: “Rovinosam”. Lo guardai contrariata e alzai un sopracciglio.
- Stavi mandando un messaggio a quel giornale di gossip scrivendo che io e Orlando ci lasceremo rovinosamente? – lo accusai, fredda. Lui sembrò vacillare, poi per cogliermi di sorpresa si lanciò contro di me e mi buttò sull’erba, posando le labbra sulle mie. Dopodiché si alzò di corsa e scappò, mentre Orlando lo inseguiva imbufalito. Billy rideva, Linnie e Elijah li guardavano meravigliati.
- Sapete… - commentai alzandomi e togliendomi l’erba dalle maniche della maglietta. – Sarei rimasta sconvolta, se non avessi saputo che Dom ha la mania di baciare gente di tutti i sessi, razze e età.
- E ora che facciamo? – chiese Linnie.
- Ci atteniamo al piano di Bill – dissi raccogliendo l’arco e risistemando la freccia. Presi la mira chiudendo l’occhio sinistro. – Ce ne andiamo a pranzo.
Scoccai la freccia che con un guizzo di conficcò esattamente accanto all’ultima freccia di OB. Sorrisi maliziosa e con indifferenza mi buttai l’arco in spalla, come se vincere in una gara con l’arco contro Legolas fosse una cosa da poco.
Mentre raggiungevo Bill – che mi fece un profondo inchino salutandomi come “Regina suprema delle gare con l’arco” e mi porse una margherita come premio – vidi con la coda dell’occhio Elijah che accarezzava il viso di Linnie per poi avvicinarlo lentamente al suo. Sorrisi, con un po’ di malinconia e tenerezza. Sembravano fatti l’uno per l’altra.

Io e Billy pranzammo insieme in un tavolino del gazebo bianco, e lui mi raccontò di tutte le cavolate che progettava di fare con Dom. Poi toccò a me parlare, e lui mi obbligò a raccontargli tutta la storia, dall’inizio alla fine, dei giornali di gossip. Così gli raccontai di Geoffrey, dei dollari spesi per prendere tutti i giornali, del tragitto verso il set e di come avevo imparato ad andare in moto. Billy era una persona meravigliosa: era così solare e allegra, e la sua risata ti contagiava anche nei momenti più drammatici. Durante il mio racconto rise in continuazione, e alla fine risi anch’io dei giornali e del pugno che avevo dato a Orlando.
Eravamo in quella fase del dopo-pranzo in cui teoricamente uno avrebbe voglia di schiacciare un pisolino, ma l’idea di sdraiarmi sull’erba non fece in tempo a saltarmi in testa che la suoneria del cercapersone la fece volatilizzare.
Era Peter. Ci riuniva tutti sul set della festa.

- Bene ragazzi. Sono fiero del lavoro che stiamo svolgendo tutti insieme, come una grande famiglia. – Diceva Peter rivolto a tutto lo staff e il cast, radunato attorno a lui. – Non potremmo fare a meno di ognuno di voi. Ma dovremmo velocizzare un po’ i tempi. Per questo vorrei che ciascuno di voi prepari le valigie e si tenga pronto a partire, perché subito dopo le riprese di stasera qualcuno di voi partirà alla volta delle prossime location. Tra questi, sicuramente, Lesley Dalton, Sean Bean e Viggo Mortensen. Sapremo dirvi il nome degli altri convocati in seguito.
- Quale sarà la destinazione? – chiesi incuriosita dopo aver alzato una mano, come a scuola.
- Queenstown. Amon Hen e il fiume. – si rivolse a tutti gli altri. – Grazie a tutti per l’attenzione, ora potete andare. Fra due ore cominceremo a girare.

Potete immaginare cosa successe dopo. Viggo, Bean e io saltammo in una macchina a caso e ci dirigemmo verso l’albergo. Salimmo di corsa – almeno io, Viggo se la prese comoda in una maniera scandalosa – e preparammo le valigie, lasciandole nelle rispettive stanze. Probabilmente saremmo dovuti partire al più presto.
Tornammo al set.

-    Dove sono Bill e Dommy? – chiesi a Sam (avrebbe dovuto essere Sean, ma
ci eravamo già preparati per la festa). Era passata quasi un’ora da quando io, Viggo e Sean eravamo tornati in città per fare le valigie. Appena arrivata, Emma mi costrinse a indossare di nuovo maschera e protesi. Quel trattamento non mi era mancato. Adesso mi trovavo sul prato, un po’ discosta dal set vero e proprio, assieme a Sam, che giocherellava con una spiga di grano. Mi sedetti sull’erba e presi un legnetto a forma di fionda che avevo cominciato a costruire quella mattina. Estrassi dalla tasca del vestito un coltellino e continuai a perfezionare la fionda.
-    Saranno nella sala trucco. Dovevano truccarsi in maniera speciale, mi hanno detto. – guardò dietro di me e scoppiò a ridere. – Guarda, eccoli che arrivano!
Mi voltai e risi anch’io. Era uno spettacolo fantastico: erano usciti dalla sala trucco a braccetto, coperti di finta cenere da capo a piedi e i capelli sparati in aria, cantando: “Cam-caminì” di Mary Poppins.
-    Cam-caminì cam-caminì spazzacamin, allegro e felice pensieri non hoooooooo…. Cam-caminì cam-caminì spazzacamin, la sorte è con voi se la mano vi doooooo…
E via di questo passo. Stavo morendo dal ridere.
Arrivò anche Elijah tenendo Linnie per mano. Erano così teneri… sorrisero allo spettacolino e si guardarono. Sopraggiunse Orlando che mi abbracciò da dietro dandomi un lieve bacio sulla guancia, che ricambiai. Eravamo colti, noi Hobbit, da una specie di frenesia e impazienza. Almeno per quanto mi riguardava, ero molto impaziente di cominciare a provare e girare. Ma la nostra serenità fu interrotta da un arrivo sgradito e inatteso che ci congelò i sorrisi sulle labbra. Era arrivato l’Armadio.
Scuro in viso peggio della pece, un ghigno da bestia stampato in faccia e i muscoli più pompati che mai, lui da solo occupava lo spazio di Bill e Dom a braccetto. Uno spettacolo pauroso. Sentii la tensione nell’aria crescere, quando si voltò verso Elijah e Linnie e il suo sguardo si posava sulle loro mani incrociate. Il sangue dal viso gli defluì verso gli avambracci pompati di fresco, e una venuzza in testa cominciò a pulsargli vistosamente. Orlando rafforzò protettivo la presa intorno a me, Elijah spinse Ilana dietro di sé.
Ebbi il tempo di contare a mente fino a tre, e esplose.
L’adrenalina cominciò a scorrermi nelle vene e si impadronì di me come se fossi io il bersaglio della sua ira, ma mi imposi di rimanere lucida.
Con un verso animalesco, spinse da parte Ilana facendola cadere a terra, e si avventò su Elijah, sollevandolo per il bavero del costume e alzò un pugno.
I ragazzi scattarono verso di lui per levarglielo di dosso, io corsi verso Linnie che piangeva spaventata e l’aiutai ad alzarsi. Volevo mandarla via, farla allontanare, ma aveva i piedi inchiodati a terra.
- Non osare avvicinarti alla mia ragazza! Lei è mia! – urlava l’Armadio. Ma per quanto Elijah fosse più mingherlino di lui, non sembrava per niente spaventato.
- Lasciala in pace, Justin, lei non ti vuole. – replicò Elijah, freddo almeno quanto i suoi occhi.
- Moscerino! Ti riduco la faccia in poltiglia!
Orlando e Billy riuscirono a staccarlo dal collo di Elwood. L’Armadio si voltò verso Ilana dietro di me e le si avvicinò.
-    Diglielo in faccia, diglielo che vuoi venire con me, o te la faccio pagare!
Linnie sembrò colta in contropiede. – Ehm… io…
Per fortuna non dovette continuare: due tizi grossi più di lui, uno di colore e uno bianco, spuntati dal nulla, lo placcarono da dietro e se lo portarono via. Ma questo non vuol dire che l’Armadio non oppose resistenza: fece un ultimo tentativo di saltare al collo di Elijah, ma se lo portarono comunque via.
Ci volle qualche secondo prima che qualcuno di noi si decidesse a parlare. Eravamo rimasti lì a guardarci l’un l’altro, io a metà tra l’imbarazzato e lo sconvolto, gli altri con espressioni indecifrabili. Linnie, poi, nascose il visino fra i capelli e non si mosse.
Non è difficile indovinare che i primi a scoppiare a ridere furono proprio gli Spazzacamini.
-    Dovresti farlo più spesso El! – rise Dominic fra gli spasmi.
-    Che spettacolo!
Elijah si mise una mano dietro la testa e ridacchiò. Mi avvicinai a Linnie e le presi la mano.
-    Non preoccuparti, i ragazzi ci sono abituati. – abbassai il viso all’altezza del
suo e le feci la linguaccia, costringendola a ridere. – Vedi solo di non andare col primo che capita.

Capitolo di transizione, ma mi serviva per riportare l’Armadio dal falegname!
Nel prossimo capitolo si tratteranno cose più serie (stile Hobbit però!).
A presto!

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Capitolo 15
*** Cap 15. ***


La mia vita sul set – Cap. 15

Sembrava una tradizionale festa di paese, con luci, risate, musica, birra e balli. Solo che non era una normale festa di paese, era una festa Hobbit. Non importava che fosse per finta: in quel momento ognuno di noi, anche quelli dietro le quinte, era un vero Hobbit. Era come se un incantesimo fosse caduto sopra di noi come neve, facendoci dimenticare tutte le preoccupazioni e la tristezza e nessuno di noi faceva qualcosa per spezzare la magia. Peter, anche se sotto effetto di “incantesimo”, si faceva trascinare dall’euforia a modo suo, trascinando tutti con la sua allegria e vitalità pur mantenendo il suo ruolo di regista. Scorrazzava in giro fra gli Hobbit, correggeva e incoraggiava le comparse a dare di più, mostrava loro quello che intendeva. Noi della Compagnia avevamo già dimenticato l’incidente con Justin e cercavamo tutti di divertirci il più possibile. Appena aveva un attimo di tempo e se non era impegnato a fare finta di non conoscere gli altri Hobbit davanti alla telecamera, spariva dalla circolazione per un paio di minuti e nessuno di noi si chiedeva dove andasse, conoscendo già la risposta.
-    Ah, essere giovani e innamorati -, aveva sospirato Dom ad un certo punto prima
di invitarmi a ballare inchinandosi come un vero gentleman. Presi la sua mano e mi lasciai condurre in mezzo alla folla.
-    Cosa vorresti insinuare Mon, che non sei più giovane?
-    No, ho semplicemente detto quello che avrebbe detto Sean se fosse stato lui a parlare!
Mi presi un attimo per afferrare il concetto. Lui intuì che il suo scherzetto era riuscito e ridacchiò. Un giretto di ballo con Dom e lui si dileguò non appena vide che Super-Peter si era fermato un attimo. Corse verso di lui con una mela in mano e praticamente gli saltò addosso. Gli chiese qualcosa sventolando la mela davanti al naso di Peter, lui si grattò il mento e alla fine ridacchiò annuendo. Dom se ne andò dalla parte opposta mordendo con gusta una bella mela verde. Sembrava piuttosto contento.
-    Dovrebbe essere sempre così, vero? – disse Sean, affiancandosi alla mia contenta persona.
-    Sempre una festa – annuii. Sean mi prese a braccetto e cominciammo a girovagare.
-    Sai, il bello deve ancora venire. – mi disse ad un certo punto.
Lo guardai. – Cosa intendi?
-    Dom e Billy devono girare la scena del petardo. Ci sarà da divertirsi.
-    Quale petardo? – chiesi curiosa. Sean si fermò.
-    La scena del fuoco d’artificio che fanno scoppiare dentro la tenda. Non hai letto il Signore degli Anelli?
Mi dondolai sui talloni, arrossendo. – No – ammisi riluttante.
Alzò un sopracciglio. – Non hai nemmeno il libro, vero?
Cavolo, era intuitivo. – No – confessai alla fine.
Sospirò. – Lo devi fare assolutamente! – esclamò. – è un libro stupendo. Adesso scusami, devo tornare da Rosie a ballare – si passò una mano in mezzo alla parrucca con fare sensuale e si allontanò sensuale, partecipando un poco alla mia risata.
Un lampo di luce bianca e uno scoppio illuminò il cielo, una sirena suonò e tutti i nostri nasi si rivolsero verso l’alto. Mi trovavo in mezzo a un gruppo abbastanza corposo di Hobbit, che levarono insieme a me la testa in alto e produssero degli “Ooooooh!” di meraviglia che trasmettevano allegria. Ma a Peter non andavano bene: si avvicinò a loro – cioè, a noi, perché c’ero anch’io in mezzo – e disse:
-    I vostri “ooooh!” vanno bene, ma non trasmettete abbastanza entusiasmo. Saltate! Acclamate! – fece vedere quello che intendeva imitando i gesti.  – Più entusiasmo ad ogni fuoco.
Molti degli Hobbit annuirono e lo ringraziarono, e Peter andò verso altre comparse a dare dritte e consigli. Per quanto ci riguardava, riprendemmo dove eravamo rimasti. Un altro lampo bianco e un’altra sirena. Gli Hobbit, tutti gli Hobbit, alzarono le teste e urlarono entusiaste, tipo cori da stadio. C’era chi indicava il cielo, chi saltava e applaudiva, chi rideva.
La festa continuava e mi spostai da zio Ian, o meglio Bilbo Baggins, il festeggiato. Se ne stava in uno spiazzetto di prato, seduto su uno sgabello con intorno un gruppetto di bambini Hobbit che solo a guardare i loro occhietti vivaci e infantili ti scioglievi dalla tenerezza. Peter era seduto accanto a zio Ian e teneva sulle ginocchia una bambina. Diceva: - State seduti qui buoni e il signor Bilbo vi racconterà una storia.
Sorrisi e continuai a girare, e capitai per caso dalle parti di Ian/Gandalf, anche lui impegnato a intrattenere un gruppetto di bambini. Si appoggiava al suo bastone da stregone, accanto ad una specie di paletto di legno. I bambini – alti un terzo di lui, specialmente con quel cappello da stregone -,  lo guardavano con quell’attenzione che in un bambino si può catturare giocando sulla sua curiosità. Erano cinque o sei e gli stavano davanti in ordine sparso. Ian disse:
- Chi vuole vedere le farfalle salti su e giù! Hop! Hop! – i bambini cominciarono a saltare. – Molto bene! Uno, due e… pumpupuuu! – puntò il bastone di legno levigato contro il bastoncino piantato nel terreno dal quale uscì una luce bianca e i bambini fecero finta di seguire delle farfalle immaginarie, spargendosi e saltando su e giù cercando di catturare l’aria con le loro piccole manine. Sorrisi e fui presa istantaneamente da un’inspiegabile nostalgia, come un’ondata di tristezza.
Un urlo isterico nella tenda poco lontano dal punto in cui mi trovavo catturò tutta la mia attenzione: la tenda in questione era chiusa solo da tre lati, mentre quello rivolto verso le colline era aperto. L’urletto da donna aveva seguito una luce bianca – il set quella sera era pieno di luci bianche. Feci il giro della tenda e vidi Billy e Dom che si spanciavano dal ridere e i cameraman che applaudivano ridendo.
-    Cos’è successo? – chiesi curiosa e con un sorriso incerto, quello di chi sa che sta
arrivando una risata.
Dominic uscì dalla tenda tenendosi la pancia dalle risate e mi battè una pacca sulla spalla, senza rispondere. – Dai dai dai, qualcuno mi dice cos’è successo? – insistetti.
-    La colpa, teoricamente, è mia – mi rispose Billy appoggiato alla tenda e asciugandosi gli occhi inceneriti dal gran ridere. – Ho fatto un urletto da isterica, ma mi sono spaventato!
La risata tanto attesa arrivò.
-    Lesley – Peter mi aveva raggiunta. – Per ora qui abbiamo finito. Ho già mandato a dire a Viggo, Orlando e Sean. Per voi è ora di andare.
-    Ma… non abbiamo finito, Pete.
-    Les, sono le dieci e mezza di sera. Domattina avete l’aereo alle sei. Sarà meglio che tu vada a toglierti il trucco e riposare.

Nonostante Peter fosse una persona sensazionale, simpatica e solare, era esattamente come me: quando si metteva in testa non si schiodava neanche a morire. E figurarsi cosa succede se io me ne metto in testa un’altra. “Un delirio” aveva commentato Billy una volta, qualche giorno dopo il mio arrivo. Ma comunque Peter era il regista: ero obbligata a cedere terreno. Così, dopo aver parlato con Orlando – il quale mi disse che sarebbe venuto con me e gli altri – tornai in albergo, controllai di non avere lasciato niente negli armadi e nel bagno, mi feci un ultima doccia e mi infilai a letto.

Alle sei l’aereo sarebbe partito, e per evitare di fare di corsa Viggo, Bean, Orlando e io alle cinque e mezza eravamo già in aeroporto.
-    È un po’ strano partire senza gli Hobbit, vero? – dissi, seduta su una panca
dell’atrio, grattandomi sopra un orecchio.  – Viggo annuì.
-    Non c’è la solita ridarella. – disse in tono lugubre. Era innervosito perché sapeva
che non avrebbe potuto portarsi la spada sull’aereo. Il legame con la sua spada era molto speciale: se aveva la spada al suo fianco, si sentiva Aragorn. Se non aveva la spada, il suo personaggio non avrebbe mai potuto essere completo. In più, se la portava ovunque, e sapeva maneggiarla molto meglio di noi altri attori messi assieme. Nessuno sapeva per quante ore giornaliere si allenasse. Era come se Aragorn fosse diventato una parte integrante del suo essere, un modello di vita. Viggo non era solo uno di noi, era il nostro Aragorn. Se avevi qualche problema, era lui a spingerti ad andare avanti o tornare indietro. Era il nostro leader, non appena se ne presentava l’occasione. Viggo Mortensen era uno spirito selvaggio, un modello, un esempio.
Bean allungò le gambe. – Dunque, abbiamo già fatto imbarcare i bagagli, dobbiamo solo oltrepassare il metaldetector… qualcuno conosce qualche barzelletta?
-    Bean, ti supplico, non adesso. – disse Orlando alzando gli occhi al cielo. Era
risaputo che il più delle volte le barzellette di Bean non facevano ridere.
-    Secondo voi ci raggiungeranno? – chiesi, appoggiandomi allo schienale.
-    Ovvio, sennò come faremmo a girare le scene? Ci raggiungeranno domani al
massimo, con Barrie Osborne e Peter. Faranno a turno per un po’. – rispose Bean.
-    Ma torneremo a Matamata? – Bean annuì.
-    Dobbiamo finire di girarci le scene, ma qualcosa mi dice che resteremo lontani
per un po’.
Orlando si riscosse per un attimo. Si stava riaddormentando. – Ehi, che giorno è?
-    È il 20 agosto, OB. Buonanotte. – gli risposi.
-    Mmm, ‘notte… - e ritornò a ronfare con la testa penzoloni.
Dieci minuti dopo l’altoparlante ci avvisò che l’aereo era pronto per l’imbarco.

La sensazione di staccare il corpo dal terreno e lentamente immergersi tra le nuvole mi inebriava e spaventava insieme. Avrei fatto volentieri a meno della sensazione di vuoto nello stomaco e le orecchie tappate, ma non avrei saputo rinunciare alla bellezza di vedere il mondo dall’alto. Mi sembrava di avere un potere soprannaturale: vedere tutto e niente contemporaneamente.
Una hostess ci servi una bottiglia d’acqua di plastica da un litro e quattro bicchierini. Eravamo di nuovo in prima classe. Per me era il primo viaggio in prima classe: prima di questo li avevo tutti fatti in turistica.  Orlando, seduto sul sedile attaccato al muro, si era immerso nella lettura di un giornale di auto sportive comprato precedentemente in aeroporto; Bean si era infilato nelle orecchie le cuffie del lettore Mp3 e si era isolato dal mondo; io me ne stavo con le gambe allungate a guardare silenziosa la terra che scorreva velocemente sotto di noi.
Viggo, notando il mio silenzio, versò l’acqua in un bicchiere, mi si sedette accanto e me lo porse.
-    Hai sete?
Lo guardai un attimo e poi annuii. – Grazie – dissi prendendolo e svuotandolo in pochi sorsi.
-    Qualcosa non va? – chiese, amichevole. Seguii distrattamente il bordo del
bicchiere con un dito.
-    Mah, è solo che… stavo pensando ad un sogno che ho fatto qualche giorno fa.
-    Racconta. – Inspirai profondamente.
-    Non è che mi ricordi molto, so solo che mi ha turbata.
-    Cosa ricordi? – Si versò l’acqua in un bicchiere e la sorseggiò.
-    Acqua e roccia. Nient’altro.
-    Beh, è un po’ poco. Ci dev’essere qualcosa di più. Come ti sentivi?
Lo guardai confusa. – Che intendi?
-    Che emozioni provavi.
Rievocai quelle immagini sfocate che mi affollavano la mente. Non mi ero concentrata sulle mie sensazioni, ma la risposta arrivò come se l’avessi saputa già da tempo.
-    Paura.
-    Paura? – ripetè. – Perché?
-    Io ho paura dell’acqua. – Orlando alzò gli occhi dal giornale.
-    Come come? Ho sentito bene?
-    No Orlie, hai sentito benissimo. Io ho paura dell’acqua. Non so nuotare.
Sembrava sconvolto. – Peter lo sa?
-    Penso di sì.
Orlando sfoderò una momentanea faccia da poker, poi, lentamente, chiuse il giornale e lo mise dentro al suo zaino. – Avresti dovuto dirmelo. – disse senza guardarmi in faccia. Viggo si allontanò da me e fece finta di cercare qualcosa dentro al suo borsone.
-    Lo so – dissi – ma mi vergognavo.
Per qualche strano motivo, sentivo la tensione crescere fra me e lui. Chiuse lentamente la cerniera dello zaino e poi mi guardò.
-    Non fa niente – sorrise. – Dovremo solo fare attenzione. – La tensione svanì. – Poi un giorno ti insegnerò a non avere più paura dell’acqua.
Lo ringraziai silenziosamente.  L’aereo cominciò a scendere dolcemente.

Viggo, Bean, Orlando ed io aspettavamo i nostri bagagli.
-    Oh, ecco il mio! – esclamò Bean e lo prese al volo, tirandoselo quasi sui piedi.
-    Sapete – Orlando adocchiò il suo e lo prese di volata. – non sapevo che
Queenstown avesse un aeroporto.
-    Io non sapevo nemmeno che Queenstown esistesse. – Dissi. Trovai la mia valigia e la sollevai con molta fatica dal nastro trasportatore.
-    Complimenti Lesley, complimenti per la conoscenza approfondita della geografia neozelandese. – commentò Orlando.
-    Ma smettila! Sai in che regione siamo?
Orlando sembrò preso in contropiede. Aggrottò le sopracciglia e arricciò le labbra, evitando il mio sguardo. Aprì la bocca un paio di volte, ma entrambe le volte la richiuse subito, senza parole.
-    Siamo nella regione Otago. – Disse Viggo, interrompendo il mio principio di
risata. – Ci voltammo verso di lui e lui, impassibile, posò la valigia a terra, incrociò le braccia e disse: - Ignoranti.

Fuori dall’aeroporto ci aspettava un operatore della crew con una specie di grande taxi, un furgoncino-taxi. Una macchina abbastanza grande da permettere a quattro attori e i loro bagagli di stare seduti comodamente senza stripparsi a vicenda. Quindi io mi sedetti davanti, Orlando, Bean e Viggo dietro. L’autista che era venuto a prenderci ci avrebbe scortato direttamente in albergo.
-    Non deve essere un albergo molto lontano dalla location, vero? – chiesi all’uomo appena imboccammo la strada principale.
-    È il primo hotel adatto a voi che si incontra sulla strada, signorina Dalton. –
Rispose ossequiente l’uomo.
-    La prego, mi chiami Lesley.
-    Ok, e lei mi chiami Steve.
-    Interessante la sua tattica nel fare nuove amicizie – commentò Bean,
probabilmente riferendosi a me.
-    Capacità che magari tu non avrai mai – ribatté Orlando.
-    1 a 0, palla al centro. – disse Viggo.
La macchina prese la seconda uscita ad una rotonda e imboccò Kawarau Road.
- Vedete, la strada è veramente molto semplice – ci spiegò Steve. – Basta fare qualche curva, e per il resto è tutto dritto. Ci vogliono circa dieci minuti. – Ci immergemmo in uno spazio meraviglioso: a sinistra si affacciavano le case di Queenstown, a destra verdi prati e alberi.
La strada continuò dritta per qualche minuto, poi ad un’altra rotonda Steve prese la prima uscita ed entrò a  Frankton Road. – Ora è sempre dritto. La destinazione è sulla sinistra.
Percorse tutta la strada e ad un tratto il paesaggio cambiò: la strada si affacciava sulla destra su un bosco di fitti alberi. Sempre dritto, sempre dritto, sempre dritto. A sinistra cominciammo a scorgere le acque del lago.
- Non posso credere che questo sia un lago. Dev’essere il mare, è troppo grande! – dissi estasiata osservando le placide acque del lago solcate da qualche motoscafo, canoa e, a volte, romantiche barchette a remi. Continuammo a costeggiare il lago. Avevo perso la cognizione del tempo quando Steve frenò la macchina e ci annunciò di essere arrivati.
Scendemmo di corsa dalla macchina e salimmo sul marciapiede, ma quasi immediatamente rimanemmo come statue di sale.
L’ “albergo”, se così si poteva definire, si affacciava direttamente sulle acque del lago e aveva una splendida facciata blu ricca di archi. Un cartello ci diceva “Villa del Lago”*.
-    Io devo andare alla location. Se vi serve qualcosa, beh…. Chiamate qualcuno.
Steve saltò in macchina, lasciandoci soli a bocca aperta davanti a quella meraviglia di posto.
-    E questo sarebbe il primo hotel adatto a noi che si trova sulla strada? – esclamò Bean. – Ne avrò visti passare venticinque, di hotel!
-    Credo che “adatto a noi” voglia dire a “luogo fantastico a cinque stelle dove possiamo alloggiare come sultani” – dissi a mezza voce.
Orlando saltellò contento. – Non voglio più tornare a Londra, non voglio più tornare a Londra!! Questo è il posto più bello del mondo!

Appena entrammo in quello splendido hotel di lusso un facchino ci prese i bagagli e ce li posizionò ordinatamente in fila su un carrello di ottone che si era portato dietro. Viggo si avvicinò per parlare con l’addetta alla reception, una donna di circa vent’anni con i capelli scuri legati in uno chignon e con un bel sorriso sulle labbra.
Viggo appoggiò un gomito sul bancone e, piegandosi in avanti, parlò a bassa voce, come faceva quando doveva parlare degli affari suoi – o quando non era a suo agio, ma non capitava quasi mai.
-    Buongiorno.
-    Buongiorno – ricambiò lei. – Fate parte del cast del Signore degli Anelli? Ci sono
delle stanze prenotate per voi. Ce ne sono molte, ma mi hanno detto di consegnarvi una singola e una da tre. Ovviamente tutte sono munite di soggiorno con caminetto e cucina.
L’aveva detto come se una stanza d’albergo con soggiorno e caminetto fosse una cosa normale, una cosa ordinaria.
Viggo prese le due chiavi che la signorina gli porgeva e si diresse verso di noi.
- Signor Mortensen – lo fermò lei. Viggo si voltò e vide che gli porgeva un foglio da lettera con il logo blu dell’albergo in cima. – La prego, mi farebbe un autografo, cortesemente?
Viggo ritornò al bancone e fece svolazzare la penna scribacchiando la propria firma, mentre lei lo guardava con trepidazione. Quando Viggo ebbe posato la penna, lo sguardo della signorina si posò su Orlando. – Lei è Orlando Bloom? La prego, un autografo!
Orlando l’accontentò, e subito dopo lei volle anche quello di Bean. Quando anche Bean l’ebbe accontentata, mi porse il foglio. – Sa, io l’ho vista sulle copertine dei giornali – cinguettò. – Congratulazioni! – esclamò con un sorriso a trentadue denti palleggiando lo sguardo fra me e Orlie. – Grazie mille, non voglio trattenervi oltre. Per le stanze di là.
Ci indicò una precisa direzione sulla sinistra, verso suntuose scale di marmo e corrimano in ottone.
Prima di salire le scale, ci consultammo.
-    Allora, credo che la singola tocchi alla nostra piccola Les. – disse Viggo,
porgendomi la chiave. – Quella a tre la prenderemo noi.
-    Sicura, Les? – mi chiese Orlando. Notai una vaga punta di malizia nella sua voce. –
Potremmo condividere la singola. Sono certo che ci sia il letto matrimoniale.
La proposta, per qualche oscuro motivo, mi turbò. Orlando, dapprima sorridente, mi guardò perplesso e con lo sguardo di chi non è sicuro di aver detto una cosa gradita.
– Les? – abbozzò.
-    Eh… noi, ragazzi, andiamo. Dai Viggo! – Bean si trascinò Viggo su per le scale, ma
poi ci ripensarono e presero l’ascensore.
-    Les, ho detto qualcosa di sbagliato? – si avvicinò e mi toccò una mano.
-    No, solo che… la convivenza?
-    Les, non intendevo questo, stavo solo scherzando! – si scusò in fretta.
-    Lo so, Orlie, ma… in ogni caso… non mi sento ancora pronta per una cosa del genere.
Non rispose subito. - Capisco.
-    Ehi, OB – lo fermai. – Io ti amo, lo sai.
Posò la valigia a terra e si chinò a baciarmi. – Lo so – disse. – Dopotutto, non dobbiamo per forza cominciare con la convivenza, no? Possiamo accontentarci di qualche notte passata assieme! – mi fece l’occhiolino.
Si caricò la valigia in spalla e prese in mano la mia, guardò il numero della mia stanza nella chiave che tenevo ancora in mano e, dando un’occhiata in giro, salì le scale. Quella piccola rampa di scalini dava a un corridoio, e al muro era appeso un cartello che portava, in scrittura fine ed elegante, il testo “Alle camere 11  15”.
-    La tua è la 12. Per di qua. – disse Orlando. Percorremmo il corridoio e,
oltrepassata una portafinestra di vetro, scendemmo delle scale all’aria aperta, percorremmo un vialetto con vari fiori piantati ai lati. La porta della stanza 12 era a sinistra. Infilai la chiave nella toppa e la girai. La porta si aprì dolcemente e senza fare il minimo rumore. Non credetti ai miei occhi.
Era la stanza più bella che io abbia mai visto e immaginato. La porta blu che avevo aperto si affacciava su un salotto con moquette scura al pavimento. C’era un divano blu rivolto verso un caminetto incassato nel muro, e dietro un tavolo in legno circondato da sedie. Dietro al tavolo, un meraviglioso piano cottura, con banconi lucidi e ben organizzati. Poltrone di pelle erano sparse per la stanza e accanto al caminetto un televisore al plasma. Una portafinestra si affacciava su un grande balcone con un tavolino rotondo di metallo e una fantastica vista sul lago.
- Caspita! – commentò ammirato Orlando posando la mia valigia per terra. – Che lusso!
- Grazie mille Orlie – dissi. – Ora sistemo la roba.
- D’accordo. – disse. – Poi ti racconto com’è la nostra!
Uscì dalla porta e io la chiusi. Poi mi voltai, presi la valigia e andai verso la camera da letto. Dominava un suntuoso letto matrimoniale, con coperte bianche, e una camera armadio. Il bagno poi, non ne parliamo. Era grande poco meno della camera da letto, aveva piastrelle al pavimento e al muro, e una grande vasca da bagno.
Mi ritrovai a condividere lo stesso pensiero di Orlando.
-    Non voglio più tornare a casa! – cinguettai, mettendomi a saltare in giro per la
stanza.

Era mezzogiorno. Avevo sistemato le mie cose nella cabina armadio e nel bagno, aperto tutti i cassetti, provato la tv, aperto il frigorifero – pieno di cibo! -, mi ero buttata a pesce sul letto, ingozzata di coca-cola dentro al freezer, stiracchiata all’aria gelida di Queenstown e… il cellulare aveva interrotto la mia calma cosmica.
- Buongiorno principessa! – mi aveva salutato Viggo. – Mi dispiace interrompere la tua calma materialmente beata, ma ci attendono tutti alla location. Sei tu che vieni a prenderci o ti dobbiamo prelevare? Vestiti pesante! Si va a esercitarci sul fiume.
- No no, vengo io. Che numero è?
- Che giorno è oggi? – rispose, e riattaccò.

Bussai alla porta della stanza 20 e Bean venne ad aprirmi. Avevo indossato una felpa rossa e delle scarpe da trekking.
-    Ciao Les! Pronta?
Uscirono tutti e tre di corsa, come se non volevano farmi vedere com’era il loro appartamento superlusso.
Posammo le chiavi alla reception e salimmo in macchina. Venni a sapere che John Mahaffie, director della seconda troupe, aveva spiegato ai ragazzi come raggiungere il set.

-    Certo, Viggo, che invece di farmi l’indovinello, anche se non molto difficile,
avresti potuto dirmi direttamente il numero della stanza.
-    Dai Les – rispose lui, con gli occhi incollati sulla strada e le mani ben piazzate sul
volante -  l’hai detto tu, non era così terribile. Tant’è che sei arrivata subito… e poi tenere in attività il tuo cervellino è una delle mie missioni segrete. Questione di vita o di morte portarla a termine è.
-    Com’è che adesso parli come Yoda? – chiese Bean.
-    Semplice Bean, io sono Yoda. Solo… più figo.
-    A proposito Les, ci onorerai della tua presenza stasera? – chiese chinandosi verso
di me e dandomi un colpetto sulla spalla.
-    Certo! – risposi - Monopoli?
-    Veramente pensavamo di più a Risiko!. – mi informò Orlando ridacchiando.
Sapevano che la strategia militare era il mio tallone d’Achille.
Viggo frenò e spense il motore: eravamo arrivati.

Il set era stato montato sul fiume Kawarau, abbastanza discosto dalla città. Era un corso d’acqua che aveva scavato la roccia, aprendosi la strada in mezzo agli scogli e alla dura roccia. Il dirupo dal quale era protetto doveva essere il frutto di migliaia di anni di scavi e erosione da parte dell’acqua.
Quando ci fecero indossare i salvagente e l’istruttore di canoa ci spiegò che percorso seguire, ci disse immediatamente che in quel punto la corrente era molto forte. La tensione mi attanagliò lo stomaco, ma cercai di reprimerla, pensando che barche di salvataggio erano pronte per darci una mano alla minima necessità. Orlando doveva aver notato la mia preoccupazione, perché mi prese per mano e mi rivolse uno sguardo che diceva espressamente: “Andrà tutto bene”.
Salimmo sulle canoe insieme alle piccole controfigure degli Hobbit e Brett, la controfigura di John Rhys-Davies. Avevo già lavorato con loro in precedenza, ma non li conoscevo ancora bene perché non avevamo passato molto tempo con loro, a differenza dei quattro Hobbit. Brett era la controfigura di Gimli, e toccava a me e Orlando scarrozzarcelo dietro – non che per me fosse un problema, ma per quanto leggero che fosse, era sempre del peso in più.
Ma dovevo dare retta a Orlando. Sarebbe andato tutto bene. Di questo ne ero certa. Saltai sulla canoa e impugnai il remo, pronta a combattere la mia paura dell’acqua.

Era stato il primo allenamento con le controfigure che avevamo fatto fino a quel momento. Decisamente molto più faticoso, sommato al peso in più e alla forte corrente che dominava in quel tratto di fiume. Tuttavia riuscimmo a tenere a bada le barche piuttosto bene in discesa, anche se risalire il fiume era un’impresa tanto impossibile quanto sfiancante.
Subito dopo aver finito di provare e riprovare Viggo, Bean, Orlando e io tornammo a Villa. Andai direttamente nella loro camera – che, per la cronaca, era situata su tre piani ed era anche più bella della mia. Viggo ci diede prova della sua abilità di cuoco preparandoci una deliziosa pasta alla puttanesca. Mangiammo come se non l’avessimo mai fatto prima, sparecchiammo e preparammo la tavola per Risiko!.

-    E ora, dopo aver attaccato il Quebec, mi dirigo verso le truppe viola di Lesley. Ti
attacco con tre carri armati – annunciò Orlando puntando tre modellini verso il mio povero, sconsolato ultimo modellino viola esistente sul territorio del Quebec.
-    Guarda, è inutile che ti scomodi! Mi arrendo! – annunciai, e tolsi il carrettino
armato dal tabellone. Orlie fu ben felice di riempire lo spazio vuoto con tre dei suoi carri armati neri. Ormai il mio obbiettivo, quello di distruggere le armati marroni, era andato a farsi benedire.
- Tocca a me! – disse Bean. Appoggiò il mento su una mano e si mise ad analizzare il tabellone.
-    Quando arrivano gli Hobbit? – chiesi, bevendo un lungo sorso d’acqua dal
bicchiere di vetro con incise sopra le iniziali dell’albergo.
-    Dovrebbero arrivare stanotte tardi, ma credo che li vedremo solo domattina. –
rispose Viggo buttandosi l’ennesima nocciolina in bocca.
- Ma ci credete che abbiamo quasi finito la Compagnia dell’Anello? Mancano solo tre o quattro location e poi passiamo a Le Due Torri. Che bello, mi toccherà schiattare! – sdrammatizzò Bean continuando a fissare il tabellone.
-    Ehi, Les, domattina ti va di provare a guidare? – chiese Orlando mentre si
illuminava ma poi si rimetteva a pensare.
-    Non credo sia il caso di mettere a rischio la vita di poveri innocenti mettendomi
in mano un volante, Ol. – risposi giocherellando con un carro armato. Viggo rise.
-    Ma no, non intendevo fin da subito. Conosco una strada secondaria per arrivare
alla location. La mia idea era: guido io fino fuori città, e poi sali tu.
-    Potrebbe essere un’idea! Anche se non credo di fare faville. Se guiderò bene come
ho guidato le mie truppe purpuree, puoi star certo che ci perderemo. – Sbadigliai. – Beh, meno male che Sauron non mi ha affidato la guida delle sue truppe. Sarebbe stato fin troppo facile sconfiggerlo – scherzai. – Mi arrendo. Tanto il Quebec era il mio ultimo territorio rimasto. Io me ne vado a letto.
-    Dai, ti accompagno! – saltò su Orlie. Mi aprì la porta e gli diedi la buonanotte con
un tranquillo bacio.
-    Ci vediamo domani – lo salutai.
-    Sicuro! Buonanotte.

Non fu difficile trovare la porta del mio appartamentino, anche perché i corridoi e i viali erano illuminati a giorno. Mentre passavo, scorsi qualche altro ospite, e lo salutai. Impressionante come tutti in quell’albergo fossero felici e sereni. Dovevano avere dei portafogli ben imbottiti, per permettersi quel posto.
Entrai in camera, accesi la luce e aprii la portafinestra per cambiare l’aria e osservai le acque scure del lago. L’acqua era un elemento straordinario, capace di scavare la roccia, sconfiggere il fuoco e nutrire la terra. Perché ne avevo così tanta paura? Qualche anno prima avevo letto da qualche parte che era una cosa psicologica, dovuta probabilmente a qualche trauma subito da piccoli. Ma io non avevo subito nessun trauma. Avevo dovuto inventare con Elijah, tempo prima, perché mi stava mettendo alle strette e dovevo trovare una scusa plausibile, ma la verità era che io non avevo neanche il coraggio di avvicinarmici. I miei avevano provato a iscrivermi ad un corso di nuoto, quando ero piccola, ma non avevo neanche osato mettere un dito nell’acqua e la piscina dovette rimborsarli. Mio padre voleva farmi vedere da qualche psicologo, ma mia madre era contraria a qualsiasi tipo di terapia psicologica. Spesso mi diceva: “Oh, tesoro, nessuno può sapere quello che c’è nella tua testa meglio di te. Devi imparare a gestirlo da sola”. Così il mio “problema” non venne mai risolto. Più volte avevo tentato di avvicinarmi all’acqua del mare, dicendomi che non c’era nulla da temere, ma non c’ero mai riuscita.
Sospirando, chiusi la portafinestra. Andai in camera, mi cambiai e mi infilai sotto le coperte. Rimasi a riflettere per qualche minuto, poi mi addormentai.

La mattina dopo mi svegliai di buon’ora, fresca e riposata: avevo dormito benissimo in quel letto regale. Feci colazione con un po’ di latte trovato nel frigorifero, mi lavai, mi vestii e uscii, dopo aver controllato di aver lasciato tutto in ordine.
Prima di uscire dall’albergo mi infilai un paio di occhiali da sole – anche se si congelava -, salutai l’addetto alla reception e, dopo essere uscita, andai dalla macchina messa a disposizione per noi quattro. Non passò molto tempo prima di vedere Bean, Viggo e Orlando camminare scherzando verso di me.
-    Buongiorno! – mi salutò allegro Orlie. – Allora, pronta per guidare?
-    In effetti, Orlie, ti andrebbe se lo facciamo un’altra volta? Siamo già abbastanza in
ritardo e per arrivare alla location ci vuole mezz’ora.
-    D’accordo! Magari proveremo stasera, dopo le riprese. Non possiamo guidare delle canoe al buio.
Saltò in macchina, salito a ruota da me, Viggo e Bean.

Sul set ci aspettavano i truccatori, le controfigure, i cameraman e John Mahaffie. Erano tutti pronti a partire, ed erano le sette del mattino. I costumisti ci consegnarono un salvagente ciascuno e i nostri costumi, e ci indicarono un capannone per cambiarci. Poi, i truccatori ci presero da parte e misero a me e Orlando le protesi alle orecchie – beati Viggo e Bean, che essendo uomini non ne avevano bisogno. Quando fummo tutti pronti, potemmo partire. Era chiaro che tutti noi pensavamo la stessa cosa: “Dopo tutto questo esercizio, finalmente possiamo far vedere quanto ci siamo impegnati”. Prima di cominciare a remare, Orlie si voltò verso di me e disse:
-    Non preoccuparti Les, non può succederti niente finchè ci sono io. Se hai paura, prendi la mia mano.
-    Orlie, come faccio a prenderti la mano se sto remando?
Stava per rispondere, quando John disse “azione!” e noi partimmo. Mi concentrai subito solo nel remare: la corrente era più forte del giorno prima, e quel tratto di fiume era pieno di scogli appuntiti e affilati. Scendemmo e risalimmo più e più volte. La prima volta John era contento, ma – per ordine di Peter – dovevamo fare più riprese, e lui era ben contento di accontentare il nostro regista primario.
In quella scena solo Viggo doveva parlare, e svolse il suo lavoro in modo come al solito eccellente, ma anche lui si lasciò prendere dalla foga. La prima volta si dimenticò un pezzo di battuta; la seconda volta, mentre scendevamo, sentimmo Viggo che strillava “Cosa???”, così, ridendo, dovemmo risalire di nuovo il fiume; la terza volta tutto andò bene, ma John la volle rifare. Cominciavo a sentire la forza dell’acqua e la stanchezza, e pensai che magari era lo stesso anche per gli altri: era chiaro che stavamo facendo fatica. Anche se cercavamo di non darlo a vedere, ansimavamo.
Stavamo risalendo il fiume per la quarta volta, ma la corrente aumentò. Forse per un motivo scientifico, o forse era solo una mia impressione dovuta alla stanchezza delle mie braccia: fatto sta che la nostra barca cominciò a prendere colpi e a seguire il flusso dell’acqua. Un operatore, prontissimo, afferrò la prua della barca, per trattenerci. La paura cominciò a impossessarsi di me. L’operatore teneva ferma la barca, ma la corrente era tale che la barca cominciò a riempirsi.
-    Oh mio Dio! – urlai. A riva cominciarono a muoversi.
-    Molla la presa! Molla la presa! – continuava a gridare Orlando rivolto
all’operatore, ma lui non cedeva. Orlando si voltò e mi prese forte la mano.
La barca fu sommersa. Finimmo sott’acqua.
Nonostante avessi stretto convulsamente la mano di Orlando, la corrente me la fece scivolare via, facendomi ritrovare sola e terrorizzata in mezzo ai flutti. Non riuscivo a risalire, mi agitavo convulsamente. Migliaia di bollicine sguazzavano veloci intorno a me verso la superficie, mentre andavo, andavo, andavo.
In un lampo di lucidità mi ricordai del salvagente. Tirai la corda, ma non si gonfiò.
Ero terrorizzata perché non sapevo nuotare. Perché il mio salvagente non si era gonfiato. Perché c’era un fiume che mi stava trascinando via dritta verso gli scogli.
Sott’acqua, il mio corpo non ce la fece più e in una contrazione muscolare inalò acqua. Sentii il liquido scendermi fin dentro ai polmoni. Il mondo cominciò a diventare sempre più scuro.
Sbattei contro qualcosa di duro e appuntito, che riuscì a bloccarmi per un po’ di tempo. Ormai lasciai perdere i ragionamenti e seguii l’istinto.
Cercai di aggrapparmi allo scoglio. Ferendomi, ma aggrappandomi. Fu quasi un miracolo riuscire a sentire la scarica di adrenalina che mi invase i muscoli e il cuore.
Facendo leva con le braccia riuscii a issarmi fuori dall’acqua, ma non riuscivo a inspirare aria.
Paonazza, appoggiai una mano sulla superficie bagnata e scivolosa dello scoglio. La mia mano scivolò.
Vidi avvicinarsi la dura roccia a velocità inaudita.
Crack! Sentii fare la mia fronte.
Poi, il buio.

Dovete perdonarmi per la lunghezza inaudita di questo capitolo e per l’attesa a cui vi ho costretti, ma spero di avervi ripagati con il contenuto di queste undici, lunghissime pagine di Word. Ma il mio obbiettivo era finire il capitolo in questo modo e non mi sono fermata finchè non l’ho raggiunto. Per Niniel: spero che non sia troppo per te!
Fatemi sapere che ne pensate, è molto importante per me!
* L’hotel Villa del Lago non è di mia invenzione, ma esiste realmente. Nominandolo qui non intendo violare diritti d’autore o roba del genere.

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Capitolo 16
*** Sogno ***


Consiglio la lettura di questo breve capitolo (o Spin-Off, se così posso definirlo) con questa magnifica musica in sottofondo:  
http://www.youtube.com/watch?v=mZlVaAMsoM8


Sogno
.


Non avevo mai creduto a quelle storie della luce in fondo al tunnel, delle esperienze extra-corporee, della visione dei morti. Credevo che tutto quello che le persone vedessero prima di morire o quando erano in stato di coma fossero solo sogni, solo immagini prodotte da una mente uscita solo un pochino dai binari. Ne ero fermamente convinta. 
Eppure, quello che vidi poco dopo la roccia contro la mia fronte, dopo il buio accecante – se mai il buio possa essere accecante, ma avevo avuto esattamente quella sensazione - per me non fu un semplice sogno. Sentivo le emozioni sulla mia pelle, sentivo tutto e niente allo stesso tempo. 
La sensazione era di giacere sull’erba di un prato in pendenza, di notte. La rugiada sui sottili steli d’erba mi bagnava la pelle e scintillava sotto il chiarore delle stelle. Il mio viso era rivolto verso quelle piccole lucine che scintillavano accanto a me. Per quante preoccupazioni potessi avere in quel momento, per quanti tormenti mi sconvolgessero l’anima prima di arrivare lì, mi sentii in pace. Fu allora che sollevai lo sguardo verso il cielo. Mi accorsi di non essere per niente sotto il cielo stellato. Davanti a me si estendeva l’intero universo, ed io potevo vederlo con la stessa nitidezza di come potevo vedere ogni singolo stelo d’erba intorno a me. Miliardi di stelle fluttuavano in tutto lo spazio: stelle rosse, azzurre e gialle. In mezzo ad esse, dominava una magnifica galassia a spirale, al centro della quale splendeva una luce abbagliante. Era lo spettacolo più bello che si potesse mai immaginare, ben più emozionante della classica luce in fondo al tunnel. I bracci della galassia ruotavano lentamente in quell’immenso infinito. 
Osservavo tutto con la massima calma, sopraffatta dalla meravigliosa grandezza di quello che mi sovrastava. Mi sentii così piccola, ma allo stesso tempo parte integrante di tutto quello che vedevo: lui non poteva esistere senza di me, e io non potevo esistere senza di lui, in una relazione importante e indivisibile. Morivo io, moriva anche lui. Vivevo io, viveva anche lui. Io e quell’infinito eravamo inseparabili.
Fu in quel momento che mi accorsi che in ognuno dei bracci della galassia c’era un viso che conoscevo. Nessuno escluso. 
Vidi i miei genitori, seduti a godersi la cena al tavolo della nostra casa a New York, con un bel piatto di spaghetti davanti, ignari di tutto quello che stava accadendo. 
Vidi Jessica, seduta su una panchina del Central Park, a osservare le paperelle del laghetto mangiando un toast. 
Vidi Zio Ian a Matamata, con un telefono cellulare in mano, che camminava avanti e indietro sul sentiero, intento a parlare affannosamente con qualcuno.
Insieme ai volti di quelle persone, mi giungevano alla memoria dei ricordi, lontani e vividi e vicini e sbiaditi al tempo stesso. Ricordi di momenti passati in mezzo all’amore di chi mi voleva bene. In quel preciso istante fu come se l’infinito mi parlasse.
Ricordi quando ti abbiamo fatto la festa a sorpresa nella mensa?
Avrei voluto sorridere, ma non avevo controllo del mio corpo. Sorrisi col pensiero.
Vidi Ilana, seduta per terra chissà dove, che singhiozzava spaventata. Vidi Elijah con lei, che cercava di consolarla cingendole le spalle con un braccio. 
Vidi Billy e Dominic, sempre insieme nonostante tutto. 
Ricordi quando Jess ne ha dette di tutti i colori a Colt e poi l’abbiamo festeggiata?
Vidi Sean con sua figlia in braccio, che parlava preoccupato a sua moglie.
Vidi Emma, che stava venendo informata da qualcuno.
Vidi Liv, in Inghilterra, seduta davanti al computer in casa sua.

“Ricordi la prima volta in cui Billy e Dom hanno cantato ‘Wannabe’, il giorno in cui sei arrivata?”
Vidi Bean e Viggo con la sua inseparabile spada, che cercava di tenere calmo qualcuno, quasi nevrotico.
Vidi Peter, Fran, Philippa, e tutti gli altri.
Vidi tutti loro, e capii che avevano un pensiero in comune in testa. Me.
Ricordi quando Elijah ti voleva insegnare a nuotare?
Smisi di osservare i bracci della galassia, e mi concentrai sul centro.
Risplendeva di luce propria, e tutti i bracci ruotavano intorno a lui. Ma non era vuoto come mi aspettavo: al centro campeggiava un’immagine, più viva e nitida delle altre. Compresi la logica perfetta di quell’universo: al centro c’era la persona cui tenevo di più. Orlando stava protestando con una donna di cui non riuscivo a mettere a fuoco il viso. Era disperato. Bean e Viggo erano proprio con lui. 
Disse una cosa a quella donna, che a un certo punto si fermò e lo lasciò passare. 
Ricordi quando abbiamo dormito insieme perché nella mia stanza non c’era il riscaldamento e Billy si era fregato tutte le coperte?
La scena al centro della galassia cambiò. Orlando era seduto su una sedia e mi teneva la mano. Quella vista mosse qualcosa da qualche parte dentro di me: stavo vedendo me stessa da qualche posto sconosciuto a tutti gli altri.
Orlando strinse la mano con delicatezza e mosse le labbra.
Lesley, ti prego, non lasciarmi da solo”.
Appena pronunciò il mio nome, successero tante cose contemporaneamente.
Capii che quell’universo era formato dall’amore che le persone avevano nei miei confronti.
La galassia si espanse in un lampo di luce accecante.
L’erba scomparì.
Sotto di me si spalancò un buco nero.
Fui risucchiata a grande velocità nel buio, atterrando di botto all’interno del mio corpo, dov’era giusto che stessi.
Il tutto nella frazione di mezzo secondo.
Cercai di riprendere conoscenza del mio corpo. Il primo senso a risvegliarsi fu l’olfatto. Avvertii odore di medicinali e di una stanza sconosciuta. Poi si svegliò il gusto: avevo un sapore orribile in gola. Fu il turno dell’udito: sentii annunci provenire da qualche parte e dei ritmici bip provenire da qualche macchinario accanto a me.
Toccò al tatto. Ripresi sensibilità a partire dai piedi, salendo lungo le gambe fino ad arrivare al bacino, al petto, alle braccia, alle mani, al collo, alla testa. Respiravo a fatica e la gola mi raschiava.
Scombussolata, tirai un respiro più lungo degli altri. Ancora uno, ancora uno, ancora uno e aprii lentamente gli occhi.

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Capitolo 17
*** Cap 17. ***


La mia vita sul set – Cap 17

Era sera. Orlando se n’era andato da un po’ di tempo quando il dottore aprì piano la porta ed entrò. Aveva in mano una radiografia con l’immagine di un cervello sopra.
-    Spero che quello non sia il mio – dissi. Lui sorrise.
-    Perché? È così grazioso! – si fermò accanto a me, davanti al comodino, e me la
mostrò. Seguiva col dito linee curve che io non capivo. – Non sono stati riscontrati danni di nessun genere. La terremo qui ancora un giorno e poi potrà tornare a casa.
-    Non avevate detto che dovevate tenermi in osservazione per almeno quattro giorni?
- chiesi perplessa.
-    Sì, lo confesso. Ma l’abbiamo osservata in queste ore, Lesley. Sinceramente, non ho mai visto nessuno riprendersi in fretta come lei. Altri ci hanno messo settimane. Speravo di trovare la causa della sua ripresa in queste radiografie, ma apparentemente il suo cervello è normale. – mi strizzò l’occhio.
Ripensai alle parole di Orlando. Anche se non l’avevo detto esplicitamente, avevo intuito che stavo rallentando il loro lavoro, il nostro lavoro. La Lesley ragionevole dentro di me lasciò il posto a quella impulsiva e stupida.
-    Dottore? – dissi, sorridendo languida.
-    Sì? – lui abbassò la radiografia e mi scrutò da dietro i suoi occhiali.
-    Ha detto che sto bene, vero? – inclinai di lato la testa.
-    Sì, lo confermo. Lesley, c’è una luce molto inquietante nei suoi occhi.
-    Posso uscire ora?
Sembrò spiazzato dalla domanda improvvisa, poi si massaggiò il mento. – Non sarebbe pratico. Potrebbe avere una ricaduta. – Non demorsi.
-    In America se un paziente firma un documento nel quale si assume tutte le responsabilità, può uscire prima. Si può anche qui?
Voleva mentire, ma non ci provò. – Sì.
-    Perfetto. – gli strizzai l’occhio e sorrisi. – Mi porti quel documento. Sono maggiorenne.

Prima di varcare la soglia dell’ospedale, mi fermai un attimo a riflettere. Era un momento speciale: quello che stavo facendo era completamente folle, lo sapevo, ma in quel momento stavo per ributtarmi anticipatamente a capofitto nella mia vita “normale”. Oltre quella porta a vetri mi aspettavano costumi, trucchi, levatacce, riprese, problemi. Ma mi aspettavano anche amici, risate, i colori della vita. Il dottore aveva cercato di dissuadermi dall’uscire subito, ma ormai mi ero completamente lanciata e niente mi avrebbe trattenuta: non potevo resistere ancora in quell’ospedale. Fu costretto a farmi firmare il documento che mi lasciava libera di andarmene.
Ringraziai tacitamente Ilana per avermi portato dentro a un sacchetto dei vestiti puliti e una leggera giacca di pelle. Il mio costume, chissà chi l’aveva preso. Ora avevo indosso – dopo un tempo che mi era sembrato lunghissimo – dei jeans azzurro chiaro, una camicia bianca e un golfino rosso a maniche lunghe. Sospirai. Linnie non si era dimenticata la mia giacca, ma quella che mi aveva portato era estiva e non bastava a coprirmi completamente dal freddo.
L’aria gelata dell’esterno mi colpì il viso come una frustata. Un brivido mi percorse la schiena e mi misi le mani sotto le ascelle, rendendomi conto che non sapevo con quale mezzo tornare a Villa Del Lago. Non c’erano taxi in giro, e non sapevo che strada fare a piedi. Un autobus, neanche a parlarne. Il mio sguardo vagò per il piazzale di fronte all’entrata. L’edificio si affacciava sul lungolago, e ci misi poco a realizzare con un sorriso che quella era la stessa strada che percorreva tutta la città e che passava davanti al mio albergo.
“Ok, il problema della strada è risolto, ma resta quello del mezzo”. Cercai una qualunque macchina o bicicletta o carretto con cui magari qualcuno mi avrebbe dato uno strappo, ma a parte le ambulanze non c’era nessuno. Un’ambulanza mi passò davanti, rivelando un giovane uomo con in mano un casco nero appoggiato ad una meravigliosa Harley Davidson nera e lucida. Mi diressi a grandi passi verso di lui, leggermente piegata in avanti per mantenere al minimo sopportabile la mia temperatura corporea. Il vento mi scompigliava i capelli.
- Salve – gli dissi non appena gli fui davanti. Lui alzò lo sguardo dal casco e mi sorrise. Non era malaccio come uomo: aveva un bel fisico asciutto, il volto leggermente spigoloso e due glaciali occhi azzurri. Portava i capelli neri, corti e un po’ spettinati, e indossava jeans scuri e una giacca di pelle.
- Buonasera – mi salutò di rimando. – Posso aiutarla in qualche modo?
Fu subito chiaro il motivo della sua gentilezza: aveva un marcato accento neozelandese.
-    Se lei potesse darmi un passaggio con la sua Harley, mi farebbe un grosso favore.
Altrimenti non saprei come arrivare dove devo arrivare, non so se mi spiego.
-    Vuole che io le dia un passaggio con la mia moto?
-    Se per lei non è un problema. Sarebbe molto gentile da parte sua. – saltellai su un
piede per combattere il freddo. Lui guardò il casco che teneva in mano, poi me, poi il casco. E me lo lanciò.
-    Dove deve andare? – mi chiese mentre si accingeva a salire in sella. Sorrisi
imbarazzata.
-    Veramente non so la via, ma se mi fa guidare conosco la strada.
Si fermò di nuovo a guardarmi con le mani sul manubrio. Poi posò il piede che aveva alzato per terra e venne al mio posto. Gli sorrisi ringraziandolo, buttai all’indietro i capelli e mi infilai il casco. Saltai in sella e lui venne dietro di me.
-    Aspetti! – mi disse mentre giravo la chiave e, con un rombo potente, accendevo il
motore. – Qual è il suo nome? Sa guidare?
-    Sì! Mi chiamo Lesley! E lei?
-    Craig!
-    Salve! Ok… - posizionai le mani sul manubrio. – Si tenga!
Con uno scatto felino la moto cominciò a scivolare sull’asfalto. Non riuscivo a non nascondere l’eccitazione di guidare una Harley Davidson e mentre imboccavo la via principale mi lasciai sfuggire un gridolino eccitato. Craig mi disse qualcosa sull’andare piano, ma il rombo del motore mi fece intendere tutto il contrario, così girai la manopola e accelerai. Sentii Craig urlare e avvinghiarsi ai miei piccoli fianchi. Risi. Ero di nuovo libera!

La moto sfrecciava sulla strada buia costeggiando il lago, la cui acqua pareva un velo nero sollevato da lievi colpi di vento. Nonostante l’ora – erano le 20 – in giro c’erano pochissime macchine, e ancora meno percorrevano la mia stessa strada. Craig, dietro di me, aveva provato più volte a dirmi qualcosa, ma se non rivolgevo il casco verso di lui non riuscivo a sentirlo. Craig si era più volte avvinghiato a me, e io speravo che sotto non ci fosse un motivo losco, ma che fosse solo una semplice azione dettata dalla paura degli scatti della sua moto – sinceramente, non capivo come un uomo con una Harley Davidson potesse aver paura della velocità.
Dopo un po’ all’orizzonte comparve la forma di Villa del Lago. Sorrisi, poi un ragionamento che non faceva una piega mi passò in mente come un razzo.
Non era detto che Peter mi avrebbe permesso di tornare a recitare così presto, dopo il mio infortunio. Prima di tornare all’albergo doveva prima parlarne con lui. E Peter a quell’ora doveva essere sul set sul lago.
Mi sentii stranamente eccitata quando non svoltai nel cancello di Villa del Lago e tirai dritto.
-    Vado troppo forte per te? – urlai rivolta a Craig.
- No, anzi, mi sa che non conosci la definizione di “limite di velocità”! – rispose.
-    Tranquillo, sto andando solo a 100 all’ora!
-    100? Ma sei matta?
-    Tranquillo, ci siamo quasi!

Credo che Craig stesse seriamente per svenire quando premetti la leva del freno e fermai la moto, spegnendo il motore. Era pallido e non diceva una parola.
Scesi dalla moto e mi levai il casco – Non riesco a capire come mai hai così paura della velocità.
Lui scrollò la testa e afferrò il casco.
- Se mai dovessi rincontrarti – disse saltando sul sellino anteriore – ricordami di non lasciarti mai avvicinare di nuovo alla mia moto. – si infilò il casco.
Sorrisi. – Ti ringrazio.
Mi voltai per andare sul set. Si era alzata una leggera nebbiolina.
-    Lesley – mi chiamò Craig attraverso il casco. Mi voltai. – Mi dai il tuo numero?
Risi. – No. - Ridacchiai della sua espressione delusa – Sul serio, ti ringrazio tantissimo, ma non credo sia il caso.
Stava per ribattere, ma io mi voltai e mi allontanai lungo la riva del fiume, straordinariamente familiare. Cercai di non ricordare tutto ciò che era accaduto solo qualche giorno prima, e filai dritta verso il posto dove ricordavo ci fossero le roulotte di Peter, Fran, Philippa e dove erano ammassate tutte le attrezzature tecniche.
Sorrisi nel trovarle e mi avvicinai quasi di corsa alla porta. C’era una leggera nebbia nell’aria, e non c’era altro suono se non quello delle suole delle mie scarpe e dell’acqua del fiume. La luce filtrava all’esterno da una finestra della roulotte.
Mi accostai piano alla porta, la mano chiusa a pugno alzata e pronta a bussare, ma mi bloccai quando sentii il mio nome trapelare attraverso la porta. Ascoltai. Le parole arrivavano attutite, ma facilmente distinguibili.
-    Non so se lasciare girare la Dalton a Lothlorien, Peter. Quello che è successo è
molto grave. – disse una voce di donna, probabilmente quella di Fran.
-    No, Fran: Lesley è indispensabile a Lothlorien, quelle scene non funzionano senza
di lei e non siamo così avanzati tecnologicamente da aggiungerla interamente in digitale – ribatté Peter. Fu una delle poche volte in cui lo sentii parlare seriamente.
-    Potremmo provare – disse Philippa, ma Peter negò ancora.
-    Deve dire delle battute, come facciamo? Non è possibile, sembrerebbe troppo una farsa!
-    Peter, aggiungiamo ogni sorta di mostri in digitale e sembrano veri, perché non farlo con la Dalton?
Mi accorsi di aver bussato subito dopo che Peter aprii la porta. Non seppi descrivere l’espressione stupita che comparve sul suo volto subito dopo avermi vista.
- Lesley! – esclamò sgranando gli occhi come se avesse visto un fantasma.
Entrai a passo deciso, non avrei permesso a nessuno di tagliarmi fuori, anche solo per una location.
- Salve ragazzi! – salutai con un sorriso, cercando di apparire affabile e in gran forma. Stavano per ricambiare il saluto, ma non lasciai parlare né Peter, né Fran, né Philippa. – Prima che voi possiate dire qualsiasi cosa, volevo solo dirvi che non ho nessunissima intenzione di farmi da parte per la location di Lothlorien. Sono disposta a continuare a girare il film anche senza una gamba e se volete fermarmi, beh… fareste meglio a spararmi o ad annegarmi nel fiume.
Superato l’attimo di sorpresa, il primo a reagire fu Peter, che scoppiò a ridere.
-    Quanto mi sei mancata! – disse – Non temere, piccola Les, neanche io sono disposto a rinunciare a te per Loth.
Per un attimo temetti che le lacrime di commozione che mi avevano annebbiato la vista sarebbero scese lungo le guance, ma non fu così. Sorrisi e abbracciai Peter. Lui rispose all’abbraccio e mi disse:
-    Bentornata,
-    Come sei arrivata qui? – chiese Fran, visibilmente curiosa.
-    Oh, beh, sono riuscita a racimolare uno strappo in moto, ma il tizio se n’è andato.
-    Vuoi un passaggio? – chiese Philippa. Sia lei che Fran sembravano molto più
sollevate, dopo la mia grande rientrata in scena.
-    Beh, sì. Grazie!


L’addetto alla reception di Villa del Lago sembrò molto sorpreso quando mi vide
attraversare la porta vetrata della hall dell’albergo. Gli andai incontro con un sorriso
incoraggiante, come per dirgli “Ehi, sono un essere umano, guarda che non ti mangio”.
Arrivata al bancone, vi appoggiai un gomito sopra e con un sorriso determinato e dissi solo
“La mia stanza?”, certa che lui sapesse perfettamente chi io fossi e quale camera intendessi.
Infatti.
- Il signor Bloom ha preso la chiave della sua stanza qualche ora fa, diceva che
preferiva sapere chi ci fosse dentro la sua camera, signorina Dalton. A quanto ne so, anche alcuni altri attori sono dentro con lui. Li devo avvertire del suo arrivo?
Scossi la testa. – Sa com’è, preferisco fare loro una sorpresa. – Gli strizzai un occhio e lui parve sciogliersi come una noce di burro sul pane tostato. Lo salutai con un cenno del capo e mi allontanai.
Per fortuna mi ricordavo bene la strada per la mia stanza, e trovai la mia porta blu abbastanza in fretta. Di nuovo, fui costretta a fermarmi prima di entrare nella stanza, troppo curiosa per interrompere la conversazione che – di nuovo – trapelava attraverso la porta. Sentii distintamente le voci distinte di Billy, Dominic, Elijah, Linnie, Orlando e Bean. Cosa ci facevano tutti quanti nella mia stanza? Dalla porta trapelavano le note dei Keane. “Quando il gatto non c’è i topi ballano”, pensai. Sorrisi.
- Lesley sembrava davvero una pezza per pulire. – disse Linnie. La sentii sospirare da dietro al porta. – Non l’ho mai vista così malconcia.
Orlando fornì un’altra descrizione del mio presunto aspetto malconcio. – Era l’equivalente di un gattino ferito, l’ultima volta che l’ho vista.
Avevo passato due mesi e mezzo con la Compagnia, e ogni volta che parlava uno di noi lo spazio di tempo che separava una frase da un’altra era carico di calde risate e scherzetti di ogni tipo. Ma stavolta nessuno rise, non volò una mosca.
Billy sembrò quello più “normale”. – Avanti ragazzi! – esclamò – Les non vorrebbe vederci tutti così!
-    Il problema, Bil, è: quando ci potrà rivedere? – chiese Dominic.
-    Ha ragione Dom. Quella che Lesley ha preso non è una botta come un’altra. È
piuttosto grave. – affermò Elijah.
Qualcuno bevve qualcosa – forse birra – da una bottiglia. Sentii il liquido muoversi contro
le pareti di vetro della bottiglia.
- Oh insomma, andate a quel paese! – sentii dire con enfasi Billy. La sua voce si avvicinò alla porta.  – Potrei trovare più allegria in un ospizio, quindi vado a cercarne uno. Chissà che non migliori un po’ la serata.
La maniglia della porta di fronte a me si abbassò, e la porta si aprì verso l’interno. Mi ritrovai davanti Billy in camicia viola e jeans scuri, e una bottiglia di birra in mano.
Rimase come me, bloccato sulla porta con gli occhi fissi nei miei, immobile. Sapevo che il suo corpo stava accumulando l’energia per esplodere da un momento all’altro.
-    Billy… - sussurrai.
-    LESLEY!!! – urlò prendendomi fra le braccia e facendomi roteare in aria,
rientrando nella stanza e lasciando la porta della camera aperta. Io ridevo ma avevo
anche un po’ di mal di mare. Tutti gli altri, che fino a un momento prima erano seduti sul divano, si alzarono in piedi sbalorditi: evidentemente vedermi quella sera era l’ultima cosa che si sarebbero aspettati. Si avvicinarono, mentre Billy continuava a lanciarmi in aria con un’energia che non gli avrei mai attribuito.
-    Bill, mettimi giù! Aaaaaaaaaaaaaaaaah mettimi giùùùùù!!! – strillavo fra le risate. Lui mi scaraventò a terra e mi abbracciò forte forte forte.
-    Che ci fai tu qui? – Dominic con una presa da rugby prese Billy e me lo levò di dosso, per poi buttarsi al suo posto. Non riuscivo a smettere di ridere.
-    Ma non schiacciatela così!! – urlò Elijah sopra il baccano.
-    Lesley!!! – urlò di nuovo Billy buttandosi sopra Dominic e trascinandosi dietro Elijah.
-    Ahia ahia ahia ahia ragazzi!! Mi fate male!
-    Ma levatevi!! – Si aggiunse anche Sean alla calca, ma al contrario degli altri
cercava di lasciarmi un po’ d’aria. Ci vollero un paio di suoi spintoni per convincere gli altri tre Hobbit da sopra il mio stomaco, ma alla fine fui di nuovo libera di respirare a pieni polmoni. Tra le bibite vuote cadute per terra nella calca, Sean mi prese entrambe le mani per aiutarmi a tirarmi su. Mi guardò per un attimo con quei suoi occhioni da fanatico della sicurezza e mi abbracciò.
-    Mi sei mancata – disse.
-    Anche tu mi sei mancato, Sean.
Il disco dei Keane finì di emettere musica e nella stanza scese un silenzio che fino a poco
prima nessuno avrebbe pensato ci sarebbe stato. Tutti i membri della compagnia che potevano abbracciarmi l’avevano già fatto. Sean si scostò da davanti a me e dietro di lui c’era Orlando, in piedi sul pavimento in mezzo a bottiglie di birra e Coca, e mi guardava serio, ma con uno sguardo caldo e luminoso che urlava a squarciagola: “Bentornata a casa”. Passo dopo passo, mi avvicinai piano a lui, e lui fece lo stesso. Arrivati vicinissimi rimanemmo così, alla distanza di un palmo, a guardarci negli occhi senza dire una parola. Sapevamo entrambi che qualsiasi parola sarebbe stata superflua, quindi nessuno disse niente. Poi, lentamente e come se avesse paura di sfiorarmi, mi accarezzò il braccio, piano, affettuoso. Un gesto semplice ma carico d’amore, che sostituiva tutte le parole che potevamo dire. Risposi al tocco con l’altro braccio, quello della mano fasciata, e glielo passai sul braccio nudo. Si avvicinò ancora e passò un braccio intorno alla vita, attirandomi a sé. Gli buttai le braccia al collo e lui, in un impeto di gioia, mi sollevò in alto, come fa Johnny con Baby alla fine di Dirty Dancing. Sorrisi e quando mi posò, poggiai le labbra sulle sue. Orlando rispose al bacio con un’intensità che non avevo mai visto prima in lui.
Quando quel momento magico finì, mi voltai verso la porta e vidi che tutti i ragazzi si erano voltati verso il muro, forse per gioco o perché erano realmente imbarazzati. Orlando si schiarì la gola e Billy disse:
-    Oh, avete finito? Bene! – si voltarono insieme come soldatini. – Ora Lesley cara, carissima, Lesley, potresti dirci cosa ci fai qui?
-    Giusto. – concordarono gli altri.
-    So che dovrei essere in ospedale, ma… - Orlando mi prese la mano e mi fece sedere sul divano blu davanti al caminetto. -  … diciamo che non potevo continuare a bloccare il lavoro, così ho firmato un documento che mi permetteva di uscire prima.
-    E come sei arrivata qui’ – chiese Orlando.
-    Un… ho noleggiato una moto.
-    Hai noleggiato una moto? – chiese Dom. – Che moto?
-    Una Harley. Un tizio mi ha dato un passaggio con una Harley.
Billy si eccitò: anche a lui piacevano le moto costose.
-    Billy, ragazzi – lo fermò Elijah prima che potesse dire una parola. – Sono certo che Lesley vorrà dirci tutto quanto domani con calma, vero? – annuii. – Tanto ci vediamo domattina sul set. Sarà meglio lasciare i due piccioncini da soli. – sorrise e mi fece l’occhiolino. Dei lamenti di protesta si levarono dal resto del gruppo, ma Elijah, assumendo espressioni molto da Frodo, li cacciò tutti fuori e prima di chiudere la porta, uscendo anche lui, si voltò verso di me.
-    Gra-zie – gli sillabai lentamente con le labbra. Mi sorrise e chiuse la porta.
Mi voltai di nuovo verso Orlando, che mi fissava dall’altro lato del divano. Senza dire una parola mi alzai, gli presi una mano e lo condussi nella camera da letto. Cara dolce camera da letto. Mi sedetti sul soffice letto bianco a gambe incrociate, e lui fece lo stesso, continuando a scrutarmi con quei suoi scuri occhioni da chioccia.
-    Un tizio ti ha dato un passaggio con una Harley? – disse, dopo una lunga pausa.
-    Sì, si chiama Craig. Alla fine mi ha chiesto il numero di telefono, ma io non gliel’ho voluto dare.
-    …era carino?
-    Non era male – era geloso!! – ma tu lo sei di più.
Si sdraiò per lungo e poggiai la testa sulla sua spalla.
-    Sei stanca?
-    Abbastanza. – non parlò. – Parlami delle Due Torri.
-    Verso metà settembre arriveranno i nuovi attori e cominceremo a girarlo. Fra un paio di giorni cominceremo a girare la parte degli Uruk Hai.
-    Aspetta, ma noi non dovevamo iniziare il 30 agosto a girare quelle scene?
-    Lesley, fra due giorni è il 30 agosto.
Mi tirai su e lo scrutai negli occhi, sperando che scherzasse. – Oggi che giorno è?
-    Il 28 agosto, Les, domani è il 29.
-    Quando ho avuto l’incidente?
-    Il 21.
Ebbi un tuffo al cuore. – Quanto sono stata in coma? Il dottore mi aveva detto poco.
-    Due giorni e mezzo, quasi tre.
I conti non mi quadravano, ma mi prese una botta di sonno e le palpebre cominciarono a chiudersi. Mi accoccolai a lui.
- Domani andiamo a fare jogging? So che dovremo girare una scena di corsa.
- Domani non sei attesa sul set, Les. O almeno, non credo… comunque non credo che tu possa già riprendere a fare stupidaggini, sei appena uscita dall’ospedale.
- Oh, Orlie… - sbadigliai – ho già ripreso a fare stupidaggini.

Mi stavo abituando a quel sogno ricorrente di morte, terrore e distruzione. La sera ero
arrivata ad aspettarmelo, ma ciò non cambiava l’effetto che aveva su di me. Come tutte le
altre volte, mi svegliai col cuore in gola e voltai il volto verso la finestra. Fui quasi
sorpresa di ritrovarmi a Villa del Lago, in una stanza inondata dalla luce del sole
mattutino, e di essere sotto alle coperte, perché, come ero sicura, mi ci ero addormentata
sopra. Il lato del letto accanto al mio era rifatto e Orlando non c’era. Mi alzai sfregandomi
gli occhi, poggiando i piedi nudi – chi mi aveva tolto le scarpe? – per terra e andai in sala, che fino alla sera prima era tappezzata di lattine. Chi aveva pulito? Non poteva essere stato Orlando a fare tutto quanto.
L’odore che emanavo mi colpì le narici come una zaffata di zolfo: ero troppo impregnata dell’odore di medicinali e vomito che aleggiava in ospedale.
- Dio mio, è disgustoso! – imprecai tappandomi il naso e correndo verso il bagno. Buttai i
vestiti sul pavimento e mi infilai sotto il getto caldo della doccia più in fretta che potei: sentii subito i muscoli distendersi sotto il calore dell’acqua.
Uscii dalla doccia dopo un lungo, lungo tempo, benedicendo colui che, fra tutti gli altri primitivi armati di clava, aveva scoperto l’acqua calda e colui che, grazie alla sua inventiva, aveva fatto sì che arrivasse agli appartamenti abitati da poveri bisognosi di igiene personale come me.
Avevo una voglia matta di correre sul set. E non metaforicamente: volevo cominciare ad allenarmi per la maratona delle Due Torri che avremmo dovuto fare io, Orlando e Viggo. Mi vestii con i pantaloni della Adidas che mi piacevano tanto, una felpa pesante e le mie scarpe da jogging. Mi legai i capelli bagnati con uno chignon e, uscendo dalla stanza, non dimenticai di lasciare le chiavi sul bancone della hall prima di filare fuori dalla porta. Sapevo che la distanza tra Villa e il set era di mezz’ora di macchina, ma non avevo mai avuto paura di correre, e al college a Oxford ero famosa per la resistenza dei miei muscoli. L’istruttore di educazione fisica del mio liceo era solito dire che i miei muscoli non avevano nemmeno l’ombra di fibre bianche e quando ci dava degli esercizi di velocità mi chiamava Bradipo. Però sapeva che se ci avesse chiesto di correre quella ragazza con i capelli scuri a caschetto – li portavo così all’epoca – avrebbe battuto tutti i maschi della classe. Così corsi a ritmo costante, le nuvolette di vapore che uscivano dalla mia bocca e subito si buttavano dietro di me. Avevo pensato anche a cronometrarmi: quando finalmente le suole delle mie scarpe cominciarono a solcare la ghiaia, avevo un tempo di trentasette minuti. Ero orgogliosa di me stessa. Mi guardai intorno, col fiatone: riconoscevo già i volti di chi, sorpreso, si fermava a guardarmi e ad indicarmi col dito. Con le gambe frementi e il cuore che pompava sangue senza sosta, andai dritta al centro del set, dove puntualmente stava seduto Peter e dove c’erano anche i ragazzi della Compagnia. La gente ormai aveva formato un gruppetto intorno a me.
-    Buongiorno, Lesley! – mi salutò allegro Peter, incurante dei mormorii eccitati che percorrevano la piccola folla.
-    ‘Giorno – tirai un lungo respiro e parlai a voce alta, rivolta a tutti. – Allora, ne
abbiamo passate tante, ma ora sono qui! – allargai le braccia per farmi vedere. – E sono
pronta per rifare la scena. Quindi chi mi deve truccare mi trucchi, chi mi deve portare il
costume me lo porti, che io voglio levarmi questo peso e far vedere a quelli che aspettano  
il film che la Compagnia dell’Anello non ha paura di un fiume! Ho ragione o no?
I quattro Hobbit proruppero in un grido di esultanza.

A parlare in quel modo a tutto lo staff mi ero sentita un po’ Hitler, e mi ci era voluta un bel po’ di forza di volontà per riuscire a salire di nuovo su una canoa, ma alla fine la mia e di Orlando solcò di nuovo l’acqua, con tranquillità, come se il fiume mi dicesse: “L’ho fatto una volta, non lo farò di nuovo”.
All’ora di pranzo avevamo finito, ed ero già stremata. Con una ciotola di patate bollite e insalata, tornai alla sponda del fiume e mi sedetti, con i piedi che sfioravano quasi l’acqua. dopo tutto quello che era successo ero decisa a sfidare e sconfiggere la mia bizzarra fobia.non mi sarei lasciata più coinvolgere dalla paura dell’annegamento, perché tanto ci ero passata già una volta.
-    Se ti posso dire – disse Viggo sedendosi affianco a me con un grugnito di fatica – stai molto meglio senza tutte quelle bende. Ciao, Lesley.
-    Ciao Viggo! È da un po’ che non ti vedo.
-    Lo so, e mi dispiace. Ma dovevo stare con mio figlio, sai… fra poco sua madre viene a riprenderlo…
-    Lo so, non fa niente – sorrisi e addentai una patata bollita. – In effetti, è stato un sollievo quando Emma mi ha tolto la benda, almeno potranno togliere il graffio col video shop.
-    Sei combattiva eh?
Risi. – Dovresti saperlo!
-    Ormai ti conosco! E so che ora sei decisa ad affrontare la tua paura.
Lo guardai sorpresa, con una foglia di insalata in bocca. Viggo sorrise.
- Pensi di poter imparare a nuotare così di botto, che in un attimo la tua fobia sparirà… beh, io ti consiglierei di provare qualcosa di un po’ meno suicida. – si alzò in piedi con uno scricchiolio di giunture nient’affatto elegante – ma che potevo farci, era Aragorn – Potresti cominciare a mettere i piedi nell’acqua.
Mi battè una mano sulla spalla e se ne andò. Aveva tutta la ragione possibile. Ma non ci avrei provato comunque, quel giorno.

Il giorno dopo, il 29 agosto, iniziammo a girare la scena dell’attacco degli Uruk Hai, quello dove alla fine Boromir muore. Fu estremamente faticoso, soprattutto perché l’istruttore di scherma, Bob Anderson, non era mai soddisfatto delle nostre coreografie e insieme a Carrie Thiel correggeva alcune mosse che noi dovevamo subito mettere in pratica, con velocità e destrezza sempre maggiori che noi, anche dopo lunghi allenamenti, ancora non avevamo sviluppato. Ci divertimmo da morire quando toccò a John combattere, perché con quella sua armatura, la barba, il parruccone e l’ascia, urlava rivolto al cerchio di stuntman da cui era circondato:
-    Chi è il primo? – e uno, poverino, alzava piano una mano. – Ok, tu vieni qui, io ti colpisco con la mia ascia, e poi ti colpisco ancora, e ancora…
-    Eh, John, cerca di non colpirci, ma se succede non fa niente…
-    Tranquillo! – diceva lui. Il poveretto avanzava e BUM! BEM! SPOK! BUM BUM BUM!
John lo faceva a pezzi. Noialtri eravamo piegati dal ridere, tanto che Peter una volta ha persino voluto allontanarci.
Il giorno dopo era previsto che Boromir morisse, e ci misero una giornata intera per
girare quella scena toccante. Io, Orlando, John e i quattro Hobbit non ci eravamo
nemmeno cambiati d’abito, passammo tutto il giorno seduti sulle nostre poltroncine di
plastica a guardare Viggo piegato su Bean, a dire tutto il giorno le stesse battute. Alla
fine del primo video, gli uomini se la ridevano, mentre Fran, Philippa ed io piangevamo come delle deviate mentali, col risultato di far ridere di più gli altri ragazzi. Nella prima parte della giornata girarono la scena con la telecamera rivolta verso Viggo, poi dopo pranzo dalla parte di Bean, che molto ironicamente esclamò: “Che bello, me ne torno a morire dopo un piatto di patate!”. Girarono ancora per tutto il pomeriggio, mentre, ormai stufati, io e Billy giocavamo a tris e Sudoku, Dominic leggeva riviste spazzatura fumando una sigaretta dopo l’altra, Elijah dormiva e Orlando coccolava la figlioletta di Sean.

Nei dieci giorni successivi ripetemmo per bene tutte le scene e ci preparammo psicologicamente all’arrivo dei nuovi attori e del nuovo film. La cicatrice sulla mia fronte era sparita e così anche quella sulla mano: ero tornata all’ospedale per dei controlli e il dottore ne aveva approfittato per togliermi i punti. Ogni mattina, io e Orlando facevamo di corsa tutta la strada dall’albergo fino al set; John, da parte sua, si rifiutava di fare una cosa del genere.
Martedì 10 settembre fu uno dei giorni più leggeri dal punto di vista del lavoro, ma Linnie mi scarrozzò in girò per la città con la scusa di comprare i vestiti galanti per l’arrivo dei nuovi attori, poiché Peter aveva annunciato che ci sarebbe stata una festa sul fiume. Mi tenne fuori tutto il pomeriggio, e la sera raggiungemmo il resto della Compagnia al ristorante e John si prese l’onore di ordinare il cibo per tutti, facendo uccidere mezza popolazione mondiale di polli e altri volatili per essere serviti alla nostra tavola, più una dozzina di aragoste. Durante la cena mia madre mi chiamò al cellulare, dicendomi che le dovevo fare un grosso favore e portarle un pacco sul posto di lavoro, la mattina seguente.
-    Mamma, non te lo ricordi? Io sono in Nuova Zelanda!
-    Oh, gioia, perdonami! Lo avevo dimenticato! Però mi serve quel pacco, a chi posso chiedere?
-    Io non posso prendere un aereo per portarti un pacco, mamma! Ci sarà qualche tuo collega o nostro vicino di casa che può fare il lavoro al posto mio, no?
-    Oh, hai ragione, Lesley. Ci sentiamo domani, ti racconto com’è andata.
-    Va bene, ciao mamma.
-    Ti voglio be…
Chiusi la telefonata. Ero stata piuttosto maleducata, lo sapevo, ma la stranezza di mia madre a volte aveva la capacità di darmi sui nervi. Me ne tornai a tavola.
Tornammo all’albergo in coma da cibo, e mi infilai sotto le coperte. Orlando si distese accanto a me. Spossata dalla giornata a suo modo faticosa, chiusi gli occhi e mi addormentai.

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Capitolo 18
*** Cap. 16 ***


La mia vita sul set – Cap. 16

Non riuscivo a vedere bene: i miei occhi erano velati da qualcosa che poteva essere classificato come lacrime o forse qualche altra cosa sconosciuta. Sentivo le palpebre pesanti e facevo fatica a tenere gli occhi aperti, ma non volevo dormire ancora. La prima cosa che notai fu che il soffitto bianco non aveva crepe, sembrava nuovo: ero già consapevole di trovarmi in ospedale, ma nonostante ciò credevo di essere ancora all’aria aperta. Non sapevo come fossi arrivata lì, e sinceramente non smaniavo dalla voglia di chiederlo.
I miei occhi affaticati esplorarono lentamente il soffitto, in cerca della fonte di luce alla mia sinistra, ma non avevano la forza per trovarla.
Mi accorsi che la mia mano era ancora stretta fra quelle di Orlando: sentii la sua pelle fredda.
“Sei freddo”, avrei voluto dirgli ma, dopo aver preso coraggio e provato, mi uscii un rantolo che suonava come:
- E-e-i… e-e-o. – La gola mi bruciò e sentii l’odore di ruggine del sangue scendere un po’ più verso il basso, andandosene.
Orlando scattò spaventato da quel suono improvviso, si alzò in piedi e si chinò su di me. Non so descrivere la sensazione di sollievo che si dipinse sul suo volto appena vide i miei occhi aperti, ma il suo viso era ancora sfocato, lontano. Credevo di tornare a vedere di nuovo la Galassia.
Vidi l’immagine sfocata di un sorriso, poi lasciò andare la mia mano e uscì dal mio campo visivo. La mia testa pulsava e ogni rumore superiore a un piccolo colpo di tosse m’infastidiva: persino i continui bip dell’elettrocardiogramma non facevano che aumentarlo.
Lo sentii correre fuori dalla stanza e chiamare a gran voce un’infermiera, dicendo:
-    Ha aperto gli occhi!
Come per contraddirlo li richiusi, ma poi mi dissi di non fare la bambina. Sentii gente muoversi e una sedia cadere.
Basta, silenzio, c’è troppo rumore.
- Per favore, restate tutti in corridoio! – Ordinò una secca e profonda voce maschile che si avvicinava.  
Quasi mi prese un colpo quando un medico con la barba grigia mi comparve davanti all’improvviso piantandomi davanti agli occhi una pila. Istintivamente provai a chiudere gli occhi, ma lui teneva ferme le palpebre con un dito: prima uno, poi l’altro occhio.
-    La reazione delle pupille è buona – disse a mezza voce, forse rivolto a qualcuno. –
Signorina, sa dirmi come si chiama? – mi chiese alzando un po’ la voce. Mi ci volle un secondo per trovare la risposta.
-    Lesley Dalton. – parlai nonostante il mal di gola, e stavolta mi uscì qualcosa di più delle
semplici vocali, ma sempre a voce fioca e lui si dovette chinare un po’ di più per sentire.
-    Sa dirmi la sua età, qualcosa su di lei?
-    Ho 18 anni, recito in un film – mossi un braccio per metterlo più comodo. – e…
-    Come si sente? – m’interruppe. Aggrottai le sopracciglia.
-    Strana.
-    Ha subito un trauma cranico moderato, è perfettamente normale. La lascio riposare ora.
Di colpo ebbi sonno, così tanto che non riuscii a tenere gli occhi aperti. Sentii il dottore dire a Orlando parole come “problemi”, “disturbo”, “silenzio”, “accertamenti” mischiate a un mormorio per me incomprensibile. Chiusi gli occhi e mi riaddormentai.

Quando riaprii gli occhi per la seconda volta, mi sentivo molto meglio: il mal di testa era diminuito e riuscivo a rimanere concentrata più a lungo, alla faccia della botta di anestesia alla quale molto probabilmente mi aveva sottoposta il dottore chissà quanto tempo prima. Nulla era cambiato dalla volta prima: c’erano gli stessi odori, gli stessi suoni… eppure era come se tutto mi dicesse “Ehi, ora sei tutta qui! Niente galassie in mezzo”. Ero persino in vena di sorridere! Allungai le gambe e mi passai una mano sugli occhi, prima di aprirli. Riuscii a mettere a fuoco lo spazio che mi circondava molto più in fretta, senza strane nebbie in giro: era l’alba.
Accostati al letto, vidi Billy e Dom, uno a fianco all’altro.
- Non siete esattamente le persone che uno pagherebbe per vedersi davanti appena sveglio. – dissi – speravo come minimo in un modello di Abercrombie.
Billy rise e pure Dominic. – È un piacere rivederti tutta intera, sorellina, ci hai fatto prendere un bello spavento – mi disse Dom facendomi l’occhiolino.
-    Soprattutto a Orlando: per poco non ci è rimasto secco.  Ehi, stai giù! – Billy, vedendo
che cercavo di mettermi a sedere sul letto, mi spinse giù a forza. – Ordine del medico, finché non decide lui che sei in grado, non ti devi alzare.
-    Sì, papà – sbuffai. Poi mi guardai in giro. – Dov’è Ol?
-    Viggo l’ha dovuto portare a forza all’hotel, non si reggeva in piedi. È rimasto sveglio una
giornata e mezza, ma nonostante ciò è voluto rimanere qua fino a quando il medico ha detto che eri totalmente e eternamente fuori pericolo. – spiegò Dom. – Il tuo dottore ci ha anche detto di non entrare a più di due alla volta, di non fare rumore ecc ecc.
Sbadigliai. – Ma che ore sono?
-    Più o meno le cinque e mezza.
-    Come faremo per la scena?
-    Stai sicura che tu non remi più. Basta, finito. – Disse Billy.  – Ti hanno aggiunta in
digitale. Fran e Philippa si sono date da fare per non far trapelare nulla e mantenere il silenzio stampa. Se Qualcuno viene a sapere che uno degli attori ha rischiato la vita mentre girava una scena, non vedrà l’ora di farcela pagare cara.
- Per quel qualcuno intendi… - qualcosa mi attraversò la mente come un fulmine: non riuscivo a ricordarmi il nome di quel tizio. Per quanto mi sforzassi la mia memoria era una tabula rasa. Ricordavo il suo volto in ogni dettaglio, eppure il suo nome non mi veniva in mente. Mi presi la testa fra le mani. Che stava succedendo?
Dom si chinò, vedendo che mi ero fermata all’improvviso.
-    Eh… Les?
Alzai gli occhi e lui vide qualcosa. – Che c’è? C’è qualcosa che non va?
- Quel… quel tizio – dissi. – quel tizio che ci perseguita, quello che mi sognavo la notte… qual è il suo nome?
- Non riesci a ricordartelo? – disse Billy.
- No… che mi sta succedendo? – chiesi, impaurita.
- … è Colt. – sussurrò lui.
- Colt! Matthew Colt! Ecco come si chiama!
Provai di nuovo a tirarmi su, ma un’occhiata di Billy mi fece desistere. Li guardai: avevano entrambi facce strane.  
-    Che c’è?  -chiesi, anche se sapevo benissimo quale sarebbe stata la risposta.
-    È strano che tu non ti ricordi il nome di un uomo che ti perseguita da quando hai
cominciato a lavorare.
-    Lo so, è strano, non ho idea di ciò che mi stia succedendo.
-    Magari ne parlerai col dottore fra poco, ok?  - fece Dom, avvicinandosi alla porta. Aveva
una strana espressione, e lo capivo benissimo: la paura che il mio cervello non funzionasse più a dovere era nell’aria di quella stanza, rendendola pesante al respiro. Billy lo seguì, lasciandomi sola nella stanza. Ignorando tutti gli avvertimenti di Billy, mi misi a sedere sul letto, incrociando le gambe e piegandomi leggermente in avanti. Volevo pensare a tutto quello che era successo e che stava succedendo tuttora: perché non ero riuscita a ricordarmi il nome di Colt? Perché facevo fatica a pensare? Ci mancava solo la preoccupazione!
Restai lì seduta sul letto, per chissà quanto tempo. Mi ritrovai a fissare lo stesso punto del lenzuolo più e più volte, finché ad un certo punto il rumore di nocche contro la porta mi fece sobbalzare. Entrò un medico di mezza età, con i capelli e la barba grigia e due grandi e vecchi occhiali calati sul naso. Si muoveva silenziosamente, ma attraverso dritto la stanza come se volesse mostrare a tutto il mondo la sua innocenza.
-    Buongiorno, signorina Dalton. – mi salutò aprendosi in un cordiale sorriso mentre si
avvicinava.
-    Buongiorno – risposi.
-    Ci ha fatto prendere un bello spavento, lo sa? Ieri pomeriggio, quando è arrivata, per
poco non se ne andava.
-    Cioè? – aggrottai la fronte.
-    Era in stato di morte apparente, e per qualche minuto è andata in arresto cardiaco. Il
signor Bloom è quasi morto di paura.
-    Ci credo – dissi. – Mi dispiace.
-    Non è colpa sua. – prese la cartella appesa al fondo del mio letto e la sfogliò.
-    Non che abbia bisogno di leggere, ho scritto io la roba qui dentro. – scherzò – Dunque –
rimise la cartella al suo posto. - passiamo alla visita.
Mi fece la solita visita di routine, mormorando constatazioni quasi impercettibili. Alla fine, si tirò su e sospirò, mettendosi nel taschino la pila con cui mi aveva appena controllato gli occhi.
- Bene, il trauma cranico non è così grave com’era apparso all’inizio, ma può comunque peggiorare, quindi la terremo qualche giorno in osservazione, per accertarci che non ci siano complicazioni. Più tardi le faremo una tac per vedere se c’è da sistemare qualcosa, internamente. Non deve sforzarsi di pensare troppo – mi strizzò l’occhio – dalla finestra del corridoio, passando, l’ho vista immersa nei pensieri. Non deve sforzarsi, signorina Dalton.
Voltai la testa verso la parete alla mia destra: non me ne ero accorta, ma nel muro era infissa una grande finestra rettangolare che mostrava il viavai del corridoio.
-    Ha qualche domanda da pormi, prima che vada?
Annuii. – In effetti… prima mi chiedevo… cioè…
-    Stia tranquilla, non mi muovo. – sorrise.
-    Beh… prima, con i miei amici, mi è capitata una cosa strana: non mi sono ricordata il
nome di una persona che per me non è una sconosciuta, e mi stavo chiedendo il perché. Prima mi bastava meno di un attimo per ricordare il suo nome, perché ora no?
Il dottore non smise di sorridere, ma nei suoi occhi comparve il barlume professionale che per poco aveva lasciato spegnere. – Signorina Dalton, lei ha sbattuto violentemente la fronte contro uno spuntone di roccia, e ha passato ore in coma.  In questi casi, e specialmente nel suo, il cervello può… diciamo… fare cose strane, e una presenza di amnesia non è rara – spiegò.
-    Che genere di cose strane?
-    Durante il suo periodo di convalescenza potrà subire un cambio dei ritmi del sonno,
avere mal di testa, amnesia, vertigini. Per questo la terremo qualche giorno in osservazione, ma non è in pericolo di amnesia totale – mi tranquillizzò. – Ora, mi perdoni, ma se non c’è altro preferisco andare. Fra poco dovrò cominciare il giro visite e chissà perché la macchinetta della saletta fa il caffè più buono a quest’ora.
Sorrisi e lui, con un cenno del capo, si voltò e andò a grandi passi verso la porta. La aprii e, prima di uscire, si voltò e mi avvertì.
-    Signorina Dalton, so che la tentazione sarà forte, ma forse è meglio che non si guardi allo specchio.
Chiuse la porta lasciandomi sola. Ovviamente, se non me l’avesse detto, non ci avrei pensato per un po’. Come dire a uno yogin di non pensare agli elefanti rosa: ma se me lo dici certo che ci penso!
Alla sinistra del letto c’era un comodino con tre cassetti: li aprii uno per uno ma in nessuno di questi c’era uno specchio. L’idea di guardare nel riflesso della sbarra del letto non fece in tempo a saltarmi in testa che se ne andò via.
Presi il mio telefono dal comodino – non sapevo come fosse finito lì da Villa del Lago, ma in quel momento non m’importava granché: sicuramente l’aveva portato uno della Compagnia.
Digitai veloce il messaggio: “Ciao Linnie, puoi venire qui?”
La risposta non si fece aspettare molto. “Di corsa! Non abbiamo niente da fare. Come stai?”
“Ti spiego tutto quando vieni” smisi di scrivere, indecisa, per un secondo. “Porta uno specchio”.
Non ci furono altri messaggi.
Mi appoggiai contro il cuscino e sospirai, lasciando vagare lo sguardo sul soffitto.

Qualcuno che bussava sul vetro mi riscosse dai miei pensieri. Mi voltai e vidi Linnie che mi sventolava uno specchio da tavolo, sorridendo esaltata. Appena vide il mio sguardo interrogativo, si fiondò dentro la camera spalancando la porta.
-    Santo cielo, era meglio se non ti chiamavo – mi lamentai. Lei non ci badò e, con in mano
lo specchio e un sacchetto di plastica che lei lasciò cadere a terra, corse attraverso la stanza e mi buttò le braccia al collo, emettendo suoni acuti a tutto spiano.
-    Sono così felice di rivederti Lesley! – mi strillò eccitata nell’orecchio. Sorrisi e le avvolsi
un braccio intorno alle spalle.
-    Anch’io sono contenta, Linnie. Mi devi raccontare le ultime novità. Però prima siediti:
non vorrei che arrivasse la sicurezza attirata da tutto questo baccano.
Rise allegra e si sedette sul bordo del letto.
-    Mi hai fatto prendere uno spavento così grande… sembravi morta.
-    A quanto pare ci sono andata vicino. Ho smesso per un po’ di funzionare.
Linnie annuì. Era seria adesso. – Non avrebbero mai dovuto permetterti di girare quella scena, specialmente con quella corrente.
- Non è colpa loro, Linnie, sono io che ho insistito: mi ero impegnata tanto alle lezioni di canottaggio, che alla fine se non l’avessi girata assieme agli altri mi sarebbe sembrata tutta fatica sprecata.
La sua voce s’indurì appena e mi fisso dritta negli occhi: - Avresti dovuto almeno prendere lezioni di nuoto, Lesley.
-    Lo so. – annuii, sconfitta. – Elijah ci ha provato a buttarmi in acqua e a insegnarmi le
basi, una volta, ma non ha avuto grandi risultati.
-    Cosa ti ha detto il medico? – disse repentina. Aveva cambiato discorso di proposito? Mi
strinsi nelle spalle.
-    Tra qualche ora dovrebbero prendermi per farmi dei raggi. Il dottore mi ha detto di star
tranquilla e di non affaticarmi, ma in questo momento mi sento così strana, in senso positivo, che non seguo molto le sue indicazioni.
Linnie non disse niente, si limitò a fissarmi con i suoi occhioni verdi. Strinse piano le labbra, con una strana espressione, lentamente si voltò per prendere lo specchio che aveva appoggiato sul letto, affianco a sé, e me lo porse a faccia in giù. Lo presi piano, come se fosse una cosa di cristallo.
-    Sii cauta. – mi disse soltanto.
-    Il mio aspetto è così tremendo?
Non rispose. Lentamente, come se fosse di vitale importanza girarlo con la massima calma, diressi la superficie riflettente verso il mio volto. Trattenni il fiato.
Capivo perché mi avevano detto di non guardarmi: la Lesley che mi fissava non era la stessa che mi aveva sorriso nello specchio del bagno a Villa Del Lago. Era pallida, quasi cadaverica, i suoi occhi stanchi. Aveva un graffio sulla guancia sinistra e due profonde occhiaie viola. I suoi occhi mi fissavano stupiti ed estranei, come se la Lesley riflessa non mi conoscesse. Gli occhi indugiarono attenti su ogni particolare di quel viso stanco, poi qualcosa li attirò alla fronte. Un cerotto candido copriva un buon lembo di pelle. Quasi in trance, vidi riflessa nello specchio la mano che, alzandosi, andava a togliersi quel cerotto che sembrava mandare il messaggio: “Togliermi è pericoloso”. Incurante del dolore, la mano staccò il cerotto, lasciandolo cadere. Aveva ragione il cerotto, era meglio non toglierlo: nascondeva una profonda ferita, una spaccatura che, benché non fosse sporca di sangue, lasciava intendere che, di sangue, ne doveva aver perso parecchio. Lungo la linea di frattura che solcava la fronte di quella Lesley attonita, che tra l’altro ero io, c’erano quattro punti, come quattro piccoli ponti costruiti sopra un fiume. Vidi di nuovo la mano che si alzava, e gli occhi notarono un’altra cosa. Anche la mano era bendata. In un flashback, rividi la mia mano sullo scoglio bagnato scivolare. Non mi ero accorta che mi ero anche tagliata.
Con la stessa lentezza di quando l’avevo preso in mano, capovolsi lo specchio e me lo appoggiai sulle gambe.
-    Oh, mio Dio. – sussurrai.
-    Hai capito che cosa ti sei fatta? – sollevai lo sguardo verso Linnie, incapace di proferir
parola. Con la fronte corrugata e le labbra strette, mi fissava piena di rabbia. – Ti sei quasi uccisa. Si alzò di scatto dal letto e, ripreso lo specchio, si avviò a grandi passi verso la porta, scaraventando il sacchetto di plastica sul letto. Aprii la porta.
-    Perché fai così? – le domandai, parlando a bassa voce. Lei si fermò, la mano ferma sul
pomello della porta. Poi si voltò a guardarmi, il viso rigato da lacrime di rabbia.
-    Tu sei la mia migliore amica Lesley, e non sai quanta paura ho avuto, che reazione ho
avuto, quando Elijah mi ha detto che tu eri in coma in ospedale! Ho avuto il terrore di perderti, a causa della tua incoscienza! Avresti dovuto avere molta più attenzione della tua persona, ecco perché sono arrabbiata!
Se ne andò chiudendo forte la porta.
Avrei voluto uscire dal letto, fermarla, dirle che aveva ragione su quasi tutto. Quasi.
Sapevo che paura aveva provato, e la capivo. Avevo visto che piangeva, nella galassia. Ma non potevo dirglielo. Lo sentivo troppo personale.
Lacrime cominciarono a rigarmi il viso.

-    Signorina Dalton? – una sottile voce femminile si fece strada attraverso il mio cervello,
che subito mandò l’impulso di aprire gli occhi. Davanti a me avevo un’infermiera in camice bianco che mi sorrideva.  – Si è appisolata. – mi spiegò.
-    Che ora è? – chiesi un po’ più sveglia.
-    È l’ora di pranzo, le ho portato del cibo.
-    Grazie, non ho fame.
-    Lei deve mangiare, signorina Dalton.
Cedetti. Non avevo voglia di insistere. Mi tirai su e presi in mano la forchetta appoggiata su un tovagliolo sul vassoio che avevo di fronte. Appena lo feci, l’infermiera notò che non avevo più il cerotto in fronte.
-    Chi le ha tolto la medicazione? – mi domandò inquisitoria.
-    Io. Ero curiosa.
-    La ferita si può infettare, Lesley! Gliela rimetto subito.
Evidentemente era un’infermiera bacchettona, ma qualcuno l’aveva avvertita di non fare molto rumore. Mentre mettevo in bocca fette di una carne poco saporita, dal nulla tirò fuori dell’acqua ossigenata e una nuova medicazione, e mentre continuavo a mangiare, lei mi disinfettò la ferita e ci rimise sopra un nuovo cerotto. Cercai di non badare al bruciore.
- Non deve levarselo. – mi disse perentoria. – Se lo fa, i germi presenti nell’aria possono venire ad infiammare i punti e non sarebbe una storia piacevole. – ma questa infermiera era figlia di un ufficiale in Marina? Mi fissò ancora per qualche milionesimo di secondo, poi il suo sorriso tornò a splendere. – Adesso le tolgo la flebo, non ne ha più bisogno.
Mandai giù l’ultimo boccone. – Grazie – dissi.
-    Fra qualche minuto la verremo a prendere per i raggi X, nel frattempo cerchi di
rilassarsi. – riprese il vassoio e fece per uscire dalla stanza. – A proposito, lei soffre di claustrofobia?
Accennai un sorriso. – No, per fortuna no.

Come detto dall’infermiera, due infermieri mi vennero a prendere per fare i raggi, e mi accompagnarono fino ad una “sala raggi X”, non so come chiamarla. Fatto sta che mi fecero sdraiare in questa enorme macchina, e mi dissero di rimanere immobile, di mantenere la calma, di premere il pulsante del manico se avessi avuto paura.
Mi ritrovai con i tappi nelle orecchie a fissare insistentemente una lampada al neon sopra di me, mentre la strana macchina ronzava e faceva chissà quale strana magia: l’incontro con Linnie mi aveva spossata, ma non per la durata della conversazione, poco tempo prima avevo parlato molto di più con Billy, Dom e il medico. Ma dopo Linnie, e dopo essermi vista allo specchio, la testa si fece pesante. Mi chiesi se e quando avrei ripreso a lavorare, quando avrei rivisto Orlando e tutti gli altri, se sarei mai tornata quella di prima.
Mi accorsi di stare per chiudere gli occhi, e l’ultima cosa che mi ricordai prima di addormentarmi era ciò che il medico aveva detto fra gli altri sintomi della botta in testa. Sentii la sua voce nelle mie orecchie che diceva: “Un cambio delle ore di sonno”.

Sognai di cavalli, di giardini e cancelli di ferro aperti, di mare, di sole, di risate. Quasi mi dispiacque risvegliarmi per l’ennesima volta. Ero stanca di addormentarmi così di botto e a ritmi irregolari: soprattutto, dopo neanche due giorni di ospedale – da cosciente, intendo – ero stanca di restare a letto. Volevo muovermi, uscire all’aria aperta, tornare a Villa del Lago e a recitare. Aprii e gli occhi e mi ritrovai di fronte al comodino: avevo dormito su un fianco.
-    Ehi – mi salutò la voce stanca di Orlando. All’inizio pensai di essermela immaginata, ma
poi mi voltai verso i piedi del letto e lo trovai chino sulle braccia conserte poggiate sul
materasso, che mi guardava con un amore che nei suoi occhi non avevo mai visto e che non ero sicura di meritare. Era vestito con dei jeans, una camicia bianca e un pesante maglione blu scuro. Stava seduto su una dura sedia di plastica grigia da chissà quanto tempo. M’intenerii nel vederlo così con gli occhi stanchi e i capelli arruffati, e gli sorrisi.
-    Ehi – dissi, e mossi la mano bendata per fargli una carezza sul volto. Lui rispose al tocco
come avrebbe fatto un micino mentre fa le fusa. – Da quanto tempo sei qui?
-    Ero già qui quando ti hanno riportata dalla sala dei raggi. Dormivi come un sasso.
Mi allontanai dal bordo del letto e gli feci cenno di salire. Lui sfoderò un sorriso sghembo, si alzò dalla sedia e andò a chiudere le tendine della finestra sul corridoio, e poi ritornò da me. Mi abbracciò e baciò i capelli, affondai il mio viso contro il suo petto e m’inebriai del suo odore.
-    Mi sei mancata. – mi sussurrò nell’orecchio.
-    Anche tu – risposi. Orlando aumentò la presa. – Non devo avere un buon odore, saprò di
medicinali – commentai, sorridendo.
-    Presto riavrai il tuo odore – mi rassicurò. Cominciò ad accarezzarmi ritmicamente i
capelli con una mano.
-    Era buono?
-    Buonissimo – sorrise. – Come stai?
-    Mi sento un po’ assonnata, ma per il resto credo di stare bene.
-    Non vedo l’ora di riaverti con me. Siamo così spenti, senza di te. Non c’è più nessuno che
ci fa ridere.
-    Che intendi Bloom, che sono una buffona?
Ridacchiò. – Vedi? È proprio questo che intendevo.
Avevo la fronte appoggiata contro il suo cuore, e ogni battito cadenzato mi riempiva di nostalgia del set. Eppure Orlando era proprio lì, accanto a me. Di colpo, tutta la tristezza, la paura e i nervi tesi accumulati fino a quel momento si buttarono fuori in un fiume di lacrime. Automaticamente, i battiti del cuore di Orlando accelerarono.
-    Ohu, ohu, ohu, che hai?
-    Niente, solo che… - mi asciugai gli occhi con una mano – ho avuto paura e… mi manca il
set.
Mi coprì la testa con il mento. – Anche io ho avuto paura di perderti. E non preoccuparti, tornerai presto sul set, con me.
Tirai su col naso e annuii.
- Dobbiamo girare le scene di Lothlorien e tu sei la figlia della Dama della Luce, non te lo dimenticare. Sei indispensabile per noi, soprattutto perché, finito Lorien, dovremo cominciare le Due Torri.
Non credetti alle mie orecchie. – Le Due Torri?
- Sì! … Non lo sai? Abbiamo finito la Compagnia dell’Anello, e dobbiamo cominciare il secondo film. Poi dovremmo assistere alle prime, partecipare agli Oscar… ne avremo di lavoro! Rimpiangerai di essere uscita dall’ospedale.
Non risposi.
Le Due Torri.
…Cavolo.

Perdono, perdono, perdono!! So di averci messo una vita per pubblicare questo capitolo, e non sono neanche sicura che sia uscito bene, quindi vi prego, fatemi subito sapere che ne pensate, sono molto in ansia!

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Capitolo 19
*** Cap 18. ***


La mia vita sul set – Cap. 18

-Les. Les, svegliati. Les.
Attraverso una coltre di nebbia, capii che qualcuno mi stava chiamando. Cercai di aprire gli occhi, fermandomi a metà.
-    Cosa c’è? – chiesi assonnata.
-    Les, ascoltami bene. In che torre lavorano i tuoi, Nord o Sud?
Sollevai un po’ la testa dal cuscino. - WTC Nord, 99° piano… perché?
Lo sconosciuto, del quale non avevo potuto vedere il volto a causa del buio, scosse la testa. – Niente, solo curiosità. Torna a dormire ora.
-    Uh… va bene… - Appoggiai di nuovo la testa sul cuscino.
Orfeo mi riaccolse tra le sue braccia in un batter d’occhio.

POV Orlando Bloom

Si era riaddormentata molto più in fretta di quanto ci aveva messo per svegliarsi. Povera Les, doveva essere esausta. Non potevo farle vedere quell’orrendo spettacolo. Era l’una e mezza appena passata, avrebbe senz’altro trascorso la notte nel terrore più completo. Ero combattuto: il cuore lottava per farla rimanere all’oscuro, il cervello mi diceva che ero in dovere di avvertirla. Avevo scelto di seguire il cuore.
Varcai la soglia della sala conferenze, dove si era radunata gran parte dello staff: ma anche se eravamo in tanti, il silenzio era più completo, a parte qualche singhiozzo soffocato. Raggiunsi Peter e gli altri in prima fila, proprio davanti al televisore, nel cui schermo campeggiavano le due Torri Gemelle, una bruciante e piena di fumo, l’altra ancora intatta.
-    Non le hai detto niente? – mi chiese Elijah, stringendo la mano di Linnie tra le sue.
Scossi la testa.
-    Non l’hai avvertita? – chiese Emma scandalizzata. – Ti ha dato di volta il cervello?
-    E’ stata dimessa dall’ospedale dopo un trauma cranico poco tempo fa. Se guarda anche lei questo spettacolo, può darsi che…
Venni interrotto da piccoli strilli di terrore e trattenute di fiato. Mi girai di scatto a guardare lo schermo. Un altro aereo era comparso nel campo della telecamera, e si dirigeva a grande velocità contro quella che doveva essere la Torre Sud. Tuttavia noi lo guardammo come se fosse al rallentatore. Si dirigeva verso la torre, sempre più vicino… e BUM! Il fianco della torre esplose in una bolla di fuoco e morte, proprio come aveva fatto la sua compagna solo pochi minuti prima. Qualcuno dei presenti sussurrava “Oh mio Dio” o imprecava. Detriti volarono fuori dall’edificio, mentre la giornalista commentava. In sottofondo potevamo sentire le urla di terrore dei civili. Il cuore mi pompava al massimo in gola. In mezzo a tutte quelle persone, dentro alle Torri, c’erano i genitori di Lesley.
Elijah abbracciò Linnie, forse per tranquillizzarla, Billy e Dom imprecarono, Sean, Peter e gli altri non dicevano nulla. Io fissavo lo schermo. Come avrei fatto a dirglielo? Dirle che probabilmente i suoi genitori erano morti in un attentato sul loro posto di lavoro?  
In mezzo a quel silenziò tombale, il cellulare nella mia tasca squillò. Ma non era il mio, che avevo  lasciato in silenzioso, ma quello di Lesley. Per fortuna l’avevo preso dla suo comodino prima di uscire. Lo presi in mano. Sullo schermo campeggiava una scritta affiancata da un cellulare con una nota: MAMMA.
-    Rispondi! – mi incitò qualcuno. – Rispondi!
Schiacciai il tasto verde. – Sì?
-    Pronto? Pronto? Lesley? – barcollai. Era la madre di Lesley. Beh, ovvio. – Lesley, tesoro mio? –
in sottofondo si sentivano sirene e grida.
-    Io sono Orlando, signora, il suo… collega. State bene?
-    Sì, per fortuna io e mio marito non eravamo nella Torre! Ma dov’è mia figlia?
-    Sta dormendo in camera sua, signora.
-    Oh, meno male! Non devi farglielo vedere, per l’amor del cielo! Non deve vedere l’attacco! Lesley soffre di attacchi di panico! Non farglielo vedere, promettimelo!
Restai spiazzato. La mia piccola Les soffriva di attacchi di panico?
- Promettimelo! – Ripeté la madre. La sua voce suonava distorta, forse per un
probabile disturbo della linea.
-    Farò quel che potrò, signora.
-    E non dirle anche che… - la linea si interruppe.
Rimisi via il cellulare, dicendo a tutti che stavano bene. Se non altro quella notizia risollevò un minimo gli animi. Sarebbe stato sicuramente peggio vedere quell’attacco con la certezza che Lesley nel giro di pochi minuti era diventata orfana. Guardai l’orologio: era quasi le due e un quarto.
Nessuno muoveva uno sguardo dallo schermo della televisione, nessuno osava fiatare. Nessuno, per i venti minuti successivi, spiccicò parola.
L’incendio nelle torri imperversava. Avevamo visto, all’inizio, alcuni puntini neri che volavano fuori dalle torri. Avevo pensato che fossero detriti e cenere, ma poi scoprimmo che in realtà erano persone, che si erano lanciate volutamente nel vuoto per scampare all’incendio. Un brivido mi percorse la schiena.
Fui il primo a parlare.
-    Vado a vedere se dorme ancora.
Nessuno mi rispose. Nessuno dava segni di avermi sentito. Uscii dalla sala e presi l’ascensore, dirigendomi verso la sua camera. Prima di avvicinarmi alla porta, trassi un bel respiro per tranquillizzarmi e mi asciugai le mani sudate sui bermuda del pigiama. Infilai la chiave nella toppa e, girandola, socchiusi la porta, illuminando la stanza buia con la flebile luce dello schermo del cellulare. Mi si formò un nodo in gola quando la vidi dormire rannicchiata in posizione fetale, con il viso rivolto verso di me e le mani chiuse a pugno davanti alla bocca. Era la tenerezza fatta a persona, ma c’era qualcosa nella sua espressione che mi turbava. Non stava dormendo sonni tranquilli: di tanto in tanto muoveva la testa, emetteva qualche piccolo mugolio, si scostava le coperte di dosso tirando calci. Ma tornava sempre nella posizione iniziale.
Richiusi piano la porta e tornai velocemente nella sala, superando nella hall il portiere notturno  che guardava l’attacco nel minuscolo schermo di una televisione portatile. Sorpassai tutti i ragazzi dello staff, accalcati per riuscire a scorgere almeno un frammento di schermo. Qualcuno era persino salito sul tavolo per oltrepassare le teste di quelli che gli stavano davanti. Tornai al mio posto, accanto ai ragazzi, e tornai a guardare la televisione.
-    Qualche novità?
-    Hanno colpito anche il Pentagono.
-    Alle due e trentasei. Ma dicono che non l’hanno preso in pieno. Solo la facciata Ovest.
Erano le due e cinquantanove, quando la Torre Sud si ripiegò su se stessa e crollò, riempiendo l’aria di macerie e polvere. Quando la nube si diradò, delle due Torri Gemelle ne era rimasta in piedi solo una, in cui ancora infuriava l’incendio.
Ancora qualche minuto, e poi, alle tre e ventotto, anche la Torre Nord crollò.
Qualcuno, forse perché non ce la faceva più o perché secondo lui non c’era nient’altro da vedere, se ne andò.
A poco a poco la sala si svuotò quasi completamente, a parte qualcuno che si era seduto per terra davanti allo schermo. Io mi buttai su una sedia e poggiai i gomiti sul tavolo, sfregandomi gli occhi. Il cellulare di Lesley squillò di nuovo. Pensai che fosse sua madre, così risposi senza neanche guardare lo schermo.
- Pronto?
- Chi sei? – fece una voce d’uomo che avrei dovuto conoscere ma che non riuscivo ad identificare.
- No, tu chi sei.
- Io sono Ian Holm, cicciobello.
- E io sono Orlando Bloom!
- Ah! – Holm rise. – Scusami, Orlando! Pensavo fossi qualche sconosciuto… Dov’è la piccola Lesley?
- È su a dormire. Non ha visto niente.
- Per l’amor del cielo! – sbottò sir Ian. – Se i suoi genitori non fossero stati dall’altra parte della città per lavoro, a quest’ora molto probabilmente sarebbero morti! E tu non le dici niente? Sei uscito di senno? – Guardai la televisione.
- No, signore, ma sua madre stessa mi ha chiesto di tenerla all’oscuro.
- Gesù! Ne sarà sconvolta se lo viene a scoprire!
- La madre mi ha chiesto di non farlo perché le sarebbe venuto un attacco di panico…
Ian assentì in un mugolio.  – Ricordo che da bambina le è venuto un attacco spaventoso.
-    Davvero? Qual era la circostanza?
-    Dovresti fartelo raccontare da lei. Beh, scusa per il disturbo.
-    Si figuri, signore.
Chiusi la comunicazione. Sarebbe stata una lunga notte.

Girai stancamente il cucchiaio nella quinta tazzina di caffè della mattina, lentamente e facendolo strusciare contro le pareti della tazza. Non avevo dormito un secondo. I ragazzi dopo un po’ se n’erano andati, ma io ero rimasto lì, a rispondere a tutte le chiamate che arrivavano sul cellulare di Lesley.
Poco tempo prima erano arrivati Dom e Billy – sempre in coppia, quei due – e Billy si era messo di vedetta alla porta della stanza. Aveva il compito di avvertirmi quando Lesley stava arrivando, in modo che io avessi avuto il tempo di togliere dallo schermo la faccia del Presidente Bush che teneva un discorso. Sbadigliai.
-    Scusa Billy, ma prima di cominciare a chiacchierare ho proprio bisogno di un buon caffè! Per caso sai se ho lasciato qui il mio cellulare? Pensavo di averlo lasciato sul comodino, ma stamattina era sparito! -  Rise, e la sua risata diventava via via più vicina. – Non mi ricordo proprio dove l’ho mollato!
Mi era venuto un accidente quando avevo sentito la sua voce avvicinarsi. Mi guardai freneticamente intorno in cerca del telecomando: lo trovai su un tavolo alla mia sinistra. Mi lanciai a prenderlo mentre sentivo la voce di Lesley avvicinarsi sempre di più. Sentii che stava varcando la soglia; puntai il telecomando verso lo schermo e schiacciai un pulsante a caso, girandomi poi di scatto verso di lei. Aveva i capelli pettinati e aveva indosso una felpa rossa e un paio di jeans, con scarpe da ginnastica bianche.
-    Ehi, ciao Orlie! – mi salutò tutta allegra. – Cosa fai da queste parti?
-    Ehm… io bevo il caffè. – Puntai lo sguardo sui miei piedi. – E tu Les? Hai già fatto colazione? – Non sentii risposta. – Les?
Alzai lo sguardo verso di lei. Era sbiancata di colpo, fissando lo schermo della televisione con terrore dipinto sul volto. Mi voltai verso lo schermo e imprecai a bassa voce, dandomi dell’idiota. Avevo girato sul notiziario che faceva rivedere i filmati delle Torri in fumo.
-    No! – rantolò Lesley, correndo verso la televisione e appoggiando le mani sullo
schermo. – No, no, no! – ripetè, la voce distorta. Guardai allarmato Billy: faceva dei gesti strani nella mia direzione, e io ne presi alcuni come “Idiota” e “Dille che non è successo niente”. Poi Bil si riscosse ed esclamò: - Orlando, tienila!
Mi voltai verso Lesley e corsi a soccorrerla. Le gambe le stavano cedendo. La afferrai per le spalle poco prima che toccasse terra e la tirai su, sorreggendola. Era andata in iperventilazione. – Les, Les! – mi parai di fronte a lei, spegnendo la televisione al mio passaggio. Lesley piangeva a dirotto, senza però sbattere le palpebre. Il respiro era sempre più affannoso. – Les, sshhh. Lesley – le presi il viso tra le mani e la obbligai a guardarmi. – non è successo niente, niente.  Stanno bene. Stanno bene, mi senti? Shhhhhh…
Sembrò mettere a fuoco il mio viso, per un attimo. Sbatté le palpebre, ma le lacrime non cessavano di scenderle lungo le guance.
-    C-come fai a…. a dirlo? – ansimò. Tirai fuori dalla tasca il suo cellulare e glielo porsi.
Lei lo afferrò e si distaccò da me, premendo freneticamente i tasti del suo telefono. Ansimava e non riusciva a smettere di piangere. si portò il telefono all’orecchio. Nessuno rispose subito, com’era logico, e Lesley frenetica, continuava a camminare su e giù per la caffetteria. Non l’avevo mai vista così sconvolta, non sembrava nemmeno la mia Lesley. Finalmente, dopo attimi interminabili, qualcuno dall’altro capo del telefono rispose, e lei cominciò a parlare a voce alta, acuta, terrorizzata.
-    Mamma?? Oddio, mamma, state bene? – ansimò passandosi una mano fra i capelli  e i suoi occhi corsero di nuovo verso lo schermo della televisione. -… Io… io l’ho visto solo ora… non sapevo… io stavo dormendo! – aggiunse, in tono di scusa. Perché si stava scusando? Che motivo c’era di scusarsi? - Cos’è successo? Dove eravate tu e papà? – si fermò di colpo e, barcollando, si appoggiò ad un tavolo per sostenersi. – C—cosa? – cominciai a provare paura. - ... ma… come… No, non può essere… ti stai sbagliando, mamma! Ti stai sbagliando!... il pacco?- mormorò -... dovevo… avrei dovuto portarlo io e tu l’hai chiesto a lei?... E lei era… era… dentro?
Lesley, con il volto cadaverico, si allontanò lentamente il telefono dall’orecchio e lo lasciò cadere a terra. Un ciuffo di capelli le copriva gli occhi.
-    Lesley? – mi avvicinai a lei, le mani davanti a me per accarezzarla e tranquillizzarla. Lesley  spinse via con violenza la mano che le porgevo.
-    Tu… tu sei un BASTARDO! – Urlò, fissandomi negli occhi con odio. – BASTARDO IMBECILLE! – Era come se un’onda di rancore si fosse riversata fuori, attraverso i suoi bellissimi occhi verdi, e si stesse abbattendo su di me.
-    Che cos’è successo? Lesley, che succede?
Si avvicinò a me con grandi passi e cominciò a spingermi, con spintoni bruschi e infuriati. Non potevo far altro che parare i suoi colpi. Ma cavolo, che pugnetti aveva! Ma non era quello il momento per abbandonarsi a sciocche considerazioni sulla sua statura fisica.
-    Lesley, vuoi spiegarmi…
-    TACI!
-    …cos’è successo?
-    JESSICA è MORTA! LEI ERA DENTRO ALLA TORRE, E TU NON MI HAI AVVERTITA! JESSIE è MORTA! ED è COLPA MIA!

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Capitolo 20
*** Cap. 19 ***


La mia vita sul set – Cap 19

POV Lesley

-    Jessica è morta? – lo stupore dipinto sul viso di Orlando mi dava sui nervi, come se non
fossi già abbastanza arrabbiata.
-    Esatto! Lei era dentro la torre! – Non mi sembrava il caso di urlare, ma il dolore e la
confusione che mi palpitavano nel petto e mi sconvolgevano l’animo avevano trovato solo quella via di sfogo. Non si poteva misurare il dolore che provavo: Jessica era lì, era la mia migliore amica, stava girando un telefilm a New York, e ora, per colpa mia, non c’era più.  Colpa mia… era una sentenza capitale, un dato di fatto: Jess era morta per causa mia: ci sarei dovuta essere io dentro quella Torre, non lei che non c’entrava niente. Perché mia madre aveva chiesto a lei di portare quel maledetto pacco nel suo ufficio? Che cosa c’era dentro il pacco? Che cosa aveva fatto di male Jessica, per meritarsi una cosa simile? La domanda però non valeva solo per lei, ma anche per tutte le povere persone che al momento dell’impatto di quel maledetto aereo erano a lavorare, al bar, o stavano ammirando il panorama di New York dal Windows On The World, il famoso ristorante al 107° piano, il più alto del mondo. Nemmeno lo Sky City Restaurant nello Space Needle di Seattle offriva una vista del genere.
- Amore – mi ritrovai nell’abbraccio di Orlando all’improvviso, non l’avevo neanche visto arrivare e mi aveva sorpresa. – Amore, calmati. Non è stata colpa tua.
Orlando era più alto di me, vuoi per naturale costituzione, vuoi per i faticosi allenamenti che facevamo ogni giorno. Non mi sorprendeva il fatto che entrambi avevamo dei tronchi d’albero al posto delle gambe.
Mentre mi abbracciava sentivo il suo cuore veloce battere contro il mio, che batteva sordo contro lo sterno a velocità molto elevata e mi rimbombava dentro le orecchie.
- Non è stata colpa tua – mi accarezzava la schiena. – Nessuno poteva prevedere una cosa simile, non puoi pensare che sia anche lontanamente colpa tua.
Sentivo che anche lui era agitato, ma nonostante questo mi trasmetteva calma e tranquillità. Lentamente le mie braccia reagirono al contatto fisico, avvolgendo lentamente la sua vita, come se mi fossi persa in mezzo al nulla, da sola, e all’improvviso mi sia comparso davanti. Lui, la mia ancora di salvezza, il mio rifugio. Strinsi Orlando forte, disperata, e affondai il viso contro il suo maglione: in tutta quella confusione interiore non mi ero neanche accorta che non era in pigiama. Singhiozzai ancora un altro po’ con il viso appoggiata contro di lui e mentre continuava ad accarezzarmi le mie ginocchia, seguite a ruota dalle sue, si piegarono e finirono sul pavimento, anche se noi non ci sciogliemmo dall’abbraccio.

-    Mi accompagni da Peter? – mi passai di nuovo il fazzoletto sotto il naso. Non ero ancora uscita dalla caffetteria dell’albergo.
-    Perché ci vuoi andare? – mi chiese Orlando, infilandosi le mani in tasca.
-    Devo parlare con lui.
Mi guardò con tenerezza e tristezza. – Sorridi – mi incitò piegando la testa di lato. Non mi mossi di un millimetro: - Non riesco a capire come tu, oggi, mi possa chiedere una cosa simile.
Non replicò: capivo che secondo lui non ne valeva la pena di discutere con me quel giorno. Mi allungò la mano sinistra e io l’afferrai stringendola forte, e insieme andammo verso la stanza di PJ, che aveva preso non molto tempo prima.
Bussai alla porta e Peter venne quasi subito ad aprire: dalla sua faccia si capiva che neanche lui aveva dormito molto, quella notte.
-    Lesley. – disse sorpreso facendomi entrare, pulendosi gli occhiali con il tessuto dei pantaloncini. – Come stai, piccola?
-    Potrei stare molto meglio – risposi. – E tu?
-    Sono molto indaffarato, ma credo che mi prenderò una pausa. – posò la penna che
teneva in mano su una pila di fogli, probabilmente i copioni delle prossime scene. – Volevi dirmi qualcosa?
-    Sì – mi avvicinai ad Orlando. – Per favore, Peter, non darmi una vacanza.
-    Come scusa?
-    Non concedermi giorni di riposo.
-    Lesley, sei sicura? – si pulì di nuovo gli occhiali per poi ricalarseli sul naso.
-    Assolutamente – sentivo lo sguardo perplesso di Orlando su di me. – Peter, il
lavoro è una cosa, la mia vita privata è un’altra. E la mia vita privata non deve influire sul mio lavoro, e io devo imparare a non mischiarli insieme. Solo così si diventa professionisti. Non posso rallentare ancora il lavoro, Peter, per cui o mi fai lavorare a ritmo normale o mi licenzio.
Non penso di aver mai più visto l’espressione stupita di Peter con cui ora mi stava guardando. Io continuai a fissarlo, dicendo “Ti prego” con gli occhi. Peter mi venne incontro e mi strinse forte.
-    Lesley, Lesley, se solo tutti avessero la tua forza!
-    Mi farai lavorare?
-    Sì. Ma non oggi.
Lo guardai contrariata. – Perché?
-    Non vale solo per te, Lesley, ma per tutti. Oggi non si lavora, vacanza forzata.
Non avevo ottenuto quello che veramente volevo, ma era già un inizio. Una volta di nuovo fuori dalla porta io e Orlando uscimmo da Villa del Lago e ci fermammo davanti al parcheggio con i piedi in una chiazza di sole invernale. Orlie mi mise un braccio intorno alle spalle.
-    Coraggio, sfogati.
-    Jessie è morta – mormorai. - Non riesco a pensare ad altro. Capisci quello che vuol
dire? Jessica era come una sorella… fino a ieri ricevevo le sue mail e mi raccontava come stava andando la sua vita e di quanto fossero buoni i panini di Starbuck’s, e oggi è tutto finito.
Mentre parlavo sentivo un peso sullo stomaco e la voglia infinita di piangere, piangere e continuare a farlo finché non avessi avuto più la forza per continuare, ma non ci riuscivo più perché avevo smesso di reagire, o forse perché il mio corpo mi stava urlando “Combatti!”.
-    Lesley, per quel che vale, io ci sono per te. Quando vuoi, tu mi puoi trovare.
Lo guardai. – Grazie, ma sono comunque furiosa con te.
-    Perché?
-    Perché tu non mi hai chiamata! Tu sapevi tutto, e non mi hai chiamata! – mi misi davanti a lui con le mani sui fianchi.
-    Anche se ti avessi svegliata, avresti potuto fare qualcosa?
-    No, ma almeno saperlo in tempo reale, non in un replay sul notiziario del mattino! Come sei venuto a saperlo stanotte?
-    Mi ha chiamato Dominic.
-    E Dominic come l’ha saputo?
-    Non lo so.
Non avevo motivo di non fidarmi di lui. Nessuno, ovviamente, a parte il fatto che quella notte mi aveva svegliata per sapere in che torre lavoravano i miei e non mi aveva rivelato nulla di quello che stava succedendo. Io me la dormivo!
-    Potresti lasciarmi sola?
-    Lesley…
-    Per piacere. Sto bene, davvero. Lasciami sola.
Mi guardò accigliato. – “Sto bene” è la più grande bugia che puoi raccontare a te stessa.
-    Può darsi. Vai.
Visto che non si muoveva, mi voltai e rientrai nella Villa, raggiungendo la mia stanza.
Chiusi dietro di me la porta a chiave e, senza badare al disordine, aprii tutte le finestre, anche quelle che davano sul terrazzo. Guardai l’ora nell’orologio sopra al caminetto. Erano solo le dieci meno un quarto. Che cosa dovevo fare?
Uscii sul terrazzo e, scese le scale, mi avviai per il viale alberato che conduceva alle sponde del lago. Salii sul piccolo molo di legno sull’acqua, mi tolsi le scarpe e i calzini e mi sedetti sul legno chiaro. Lasciai penzolare i piedi sull’acqua, con il riflesso delle piccole ondine che danzava sul molo e dentro ai miei occhi. Mi guardai intorno: solitudine  era la parola che descriveva alla perfezione quella postazione, e solitudine era proprio quello che cercavo. Avevo bisogno di stare da sola per qualche tempo e lì potevo farlo tranquillamente: gli alberi coprivano la vista del molo a coloro che osservavano il posto dall’albergo, e quella zona del lago era poco percorsa da barche e motoscafi di vario genere.
Tirai fuori il cellulare dalla tasca. Non riuscivo neanche a pensare che non avrei mai più visto il nome di Jessie su quel display: provai l’impulso di gettarlo in acqua, lontano, nel lago. Ignorai l’impulso e feci tutt’altra cosa: aprii il menù e scorsi la rubrica in cerca del nome che stavo cercando.  Jane Wicham. Sorrisi al ricordo di come avevo messo il numero della madre di Jessica nella mia rubrica: avevamo quattordici anni ed eravamo allo zoo, di sera. Jessie aveva voluto vedere da vicino le scimmie e infilare un dito fra le sbarre dell’enorme gabbia. Scioccamente voleva anche scattare loro una foto ed era già lì lì per farlo, ma una scimmietta le balzò incontro e le strappò il telefono in mano, per poi portarlo in un angolo della gabbia e cominciare a sbatterlo per terra. Jessie le aveva lanciato tante di quelle maledizioni che pareva il diavolo reincarnato e giurò che non sarebbe mai più andata in uno zoo. Registrò il numero di sua madre sul mio telefono e la chiamò per farci venire a prendere, anche perché il buio stava calando.
Mi sorpresi a ridere, seduta su quel molo. Io e Jessica ne avevamo passate tante insieme, ma mai quante ne avrei voluto passare con lei: durante la nostra permanenza al college di Oxford avevamo fatto tanti progetti, avevamo persino scritto una lista delle cose da fare prima di morire e fra le varie cose c’erano anche “diventare famose in un film di successo” e “depilare un uomo a tradimento”.
Sorrisi e premetti il tasto di chiamata. Dovetti aspettare un po’ prima che Jane rispondesse con un debole “Pronto” e una sonora soffiata di naso. Appena sentita la sua voce tornò l’impulso di ricominciare a piangere ma lottai contro le lacrime.
-    Pronto, Jane, sono Lesley.
-    Lesley!
-    Ho saputo – mormorai.
-    Lo so – pianse – è terribile.
-    Dimmi quando sarà il funerale, prenderò il primo volo.
-    Lesley, non farò nessun funerale finché non avranno trovato il corpo. Devi capirmi
–    aggiunse frettolosamente. – finché non lo troveranno c’è ancora una minima speranza che Jessica si sia salvata.
–    Le torri sono persino crollate!
–    Io sono sua madre. Jessica era la mia unica figlia e l’unica della mia famiglia che mi rimaneva. Prima di dirle addio voglio avere la certezza che sia morta.
Rimasi in silenzio. – Ti avviserò quando ci saranno sviluppi. Ciao, Lesley.
Jane mi chiuse il telefono in faccia e non potei far altro che chiudere a mia volta la comunicazione. I miei occhi si soffermarono di nuovo sul riflesso dell’acqua sul legno del molo. C’era qualcosa di ipnotico in quel movimento che mi permetteva di pensare: quello che Jane voleva fare era sensato, ma anche folle. Dentro quella torre c’erano migliaia di persone e quindi migliaia di morti. Forse sarebbe passato molto tempo prima che riuscissero a recuperare tutti i cadaveri.
I passi sul molo non mi distrarono: avrei riconosciuto quel passo leggero ovunque. Non alzai gli occhi neanche quando Elijah si sedette silenzioso accanto a me e non disse nulla. Avevo sempre ammirato quel lato del suo carattere: non era frettoloso e non ti costringeva a parlare, ma aspettava pazientemente che tu fossi pronto a confidarti. Era molto, molto comprensivo. E quel giorno con me dovette aspettare un bel po’, tanto che si riscosse dai suoi pensieri quando cominciai a parlare.
- Non vuole fare il funerale – dissi a mezza voce.
- La speranza è l’ultima a morire.
- Ma oggi è morta Jessica.
Elijah mi sedette più vicino e mi mise un braccio intorno alle spalle, restando a guardare insieme a me le acque del lago.
-    Sai – tirai su col naso – suo padre se n’è andato prima che lei nascesse. Jessie l’ha sempre odiato.
-    Quell’uomo ha commesso un errore.
-    Certo. El, sono un brutto spettacolo in questo momento, perché non raggiungi gli altri?
-    Stai scherzando? Me ne dovrei andare proprio quando la mia migliore amica ha più bisogno di me?
Lo guardai. – Grazie, Wood.
Sorrise. – Orlando farebbe lo stesso, se non si sentisse così in colpa. E poi sono preoccupato per te, stare sola non ti fa bene.
-    Grazie. – mi diede un bacio sulla guancia.
-    Di niente. Come stai?
-    Mi stai prendendo in giro?
-    Non fraintendermi, lo so che stai male. In questo periodo ne stai passando di tutti i colori: prima rischi di annegare e morire, poi la tua migliore amica muore in un attacco sul posto di lavoro dei tuoi genitori. È ovvio che tu non te la stia proprio spassando.
-    Non è solo per quello – evitai il suo sguardo e guardai in alto per scacciare di
nuovo le lacrime. – È che non dovrebbe essere morta Jessica.
-    Non capisco. – Lo fissai negli occhi.
-    Ieri sera mia madre mi ha telefonato. Mi ha chiesto di portarle un pacco in ufficio, io ho riso di lei e le ho detto di chiederlo a qualcun altro. E lei l’ha chiesto a Jessica. Dovevo essere io dentro quella torre. Io dovrei essere morta, non Jessica.
-    Ehi, non dirlo neanche.
-    Ma è la verità, non puoi negarlo!
-    Nella vita le cose brutte accadono e tu non puoi fare niente per impedirlo…
-    … e non dire Hakuna Matata!*
Scoppiò a ridere ed io con lui.
-    Sai, vorrei tornare all’inizio delle riprese, al mio primo giorno, quando tutto poteva accadere – confessai.
Ridacchiò: - Eri tenerissima quando sei arrivata.
Sorrisi da un lato – E bravo El, mi hai fatto ridere.
Sollevai una mano per scompigliargli amichevolmente i capelli dritti per via del gel e Elijah mi guardò intensamente negli occhi, prendendomi la mano e intrecciando le dita con le mie lentamente, come se fosse una cosa brutta da fare. Con la mano così stretta alla mia, si avvicinò ancora un po’ strisciando sul legno del molo, pur senza distogliere lo sguardo da me. Sentii il cuore accelerare e il sangue fiondarsi sulle mie guance mentre all’improvviso realizzavo quello che stava per succedere: Elijah stava per baciarmi e io non stavo facendo niente per impedirlo. Che cosa avrei detto ad Orlando?
El aveva già cominciato a chinare la testa da un lato, ormai ci separavano solo pochi centimetri, ma mi riscossi e voltai la testa da un’altra parte, interrompendo quella strana pausa del tempo che si era formata. Sciolsi la mano dalla sua stretta e mi alzai in piedi, allontanandomi da lui il più velocemente possibile; camminai all’indietro fino alla fine del molo, poi mi voltai e corsi via, lasciandolo solo.

Accanto a Villa del Lago c’era una palestra che avevamo affittato per allenarci con la spada e con l’arco, se fuori faceva brutto tempo. In uno dei tanti spogliatoi tenevamo tutte le spade e le varie armi del gruppo stunt e uno dello stuff, Tony, passava tutto il giorno dentro quella stanza a fare parole crociate e sudoku, quan do non era impegnato a fornire armi a destra e a manca. Quel giorno Tony fu felicissimo di trovarsi qualcuno davanti. Qualcuno non vestito da Uruk-Hai, chiaro.
-    Ciao Tony!
-    Lesley! Oh, son due giorni che non ti vedo!
-    Ho avuto i miei problemi – dissi. – non è che per caso ti avanza qualche manichino da sfasciare, di là in palestra?
Si passò una mano sotto il mento, pensieroso. – Mmm sì, mi pare che ci sia qualche cosa imbottita.
-    Posso sfasciarla?
Sorrise. – Se tu riesci a sfasciare quell’affare ti offro la birra per un mese.
Ci stringemmo la mano. – Affare fatto.

Tony mi avrebbe offerto la birra per un mese, poco ma sicuro. A furia di tirargli colpi con la spada, l’imbottitura del manichino stava già volando per aria e gli avevo fatto partire mezza testa. Non volevo pensare a quello che avrebbe detto Carrie Thiel, la mia istruttrice di combattimento elfico, non volevo pensare a niente, desideravo solo sfogare tutta quella rabbia.
- Ehi, che fai? – Ma perché quella voce mi perseguitava? Alzai un attimo lo sguardo, giusto in tempo per vedere il mesto sorriso che sfoggiava Orlando guardandomi. In un istante tutti i sensi di colpa per aver quasi-baciato Elijah cominciarono a ballarmi dentro allo stomaco, e ogni buon proposito di tenere tutto per me aveva fatto le valigie e se n’era andato per conto suo urlando “Arrangiati, ragazza”.
- Ciao, Orlando. – Dissi educata subito prima di ricominciare a menare quel povero manichino.
- Mi sembri lievemente arrabbiata.
- Ma davvero?
- Il tuo sarcasmo è insolito. Che succede?
A quelle parole mi fermai sorpresa: possibile che non si ricordasse niente di quello che era successo? Risi, ma fu una risata amara e senza allegria.
- Proprio oggi mi chiedi che cosa è successo? Mi sto sfogando! – staccai un braccio al fantoccio. – Tanto per cominciare ho perso la mia migliore amica, in più io non l’ho saputo sul momento perché tu hai pensato che fosse meglio lasciarmi dormire quando sarebbe stato meglio informarmi! – lanciai rabbiosa la spada dall’altra parte della palestra e ripresi fiato mettendomi le mani sui fianchi. Mi voltai a guardarlo. Al diavolo i vecchi buoni propositi. – E poi c’è… c’è quel bacio che io e Elijah ci siamo quasi dati sul molo…
Sembrò che un fulmine l’avesse colpito in pieno e per un attimo temetti che si fosse trasformato in una statua.
-    Hai quasi baciato Elijah? – chiese timoroso, come se non volesse sentire la
risposta.
-    Di striscio.
Orlando diventò bianco, poi verde, poi rosso. Poteva benissimo sembrare una pizza margherita. Mi diedi della stupida: non avevo tenuto conto del lato gelosissimo di Orlando, ma ora ero in ballo e dovevo ballare.
-    Hai baciato Elijah!
-    Ehi, non l’ho baciato!
-    No, ma ne avevi l’intenzione!
Sapeva benissimo come farmi scoprire le carte, mi conosceva molto bene ed era in grado di farmi vedere la realtà meglio di chiunque altro: volevo davvero baciare Elijah, o era stata solo un’azione inconsapevole dettata dagli eventi? E se lo volevo davvero, dovevo riconsiderare il mio affetto per Orlando? Avrei dovuto prendere in considerazione l’idea di non amarlo più, di lasciarlo andare? Oppure quel quasi-bacio era stato solo un errore, niente di preoccupante, un incidente di percorso, una vendetta? E avevo tenuto in conto anche il fatto che anche Elijah aveva una ragazza o non mi importava di Linnie? In quel caso mi sarei comportata da egoista, consideravo Ilana una cara amica.
Dal canto suo Orlando, vedendo che non sapevo come ribattere, aveva tratto velocemente le sue conclusioni.
- Se stavi per baciare un altro uomo vuol dire che per me non provi più niente… credo che sia il caso di chiudere qui la nostra relazione.
Era la sua sentenza definitiva, non c’era la minima traccia di esitazione sul suo volto, ma nei suoi occhi vidi brillare qualcosa che non era la solita luce allegra nei suoi occhi. Quello che aveva appena detto aveva ferito profondamente anche lui: nessuno dei due voleva una cosa del genere, ma le cose stavano così e non potevamo farci niente. Ero confusa, lo eravamo entrambi, anche se per diverse ragioni. Da parte mia, lo ero per tutti gli avvenimenti degli ultimi tempi. Lui lo era perché fino a qualche ora prima ci chiamavamo “amore” ed eravamo felici insieme. Ma quando Orlando lo disse ad alta voce il cuore mi si spezzò. Non letteralmente, certo, ma per me fu come se l’avesse fatto… quelle erano parole che da lui non avrei mai voluto sentire.
Vedendo che non facevo niente per fermarlo ed essendo consapevole che stavamo entrambi per crollare, Orlando si girò e uscì dalla palestra. Rimasi ferma in piedi per parecchio tempo, in attesa di digerire la cosa. Non fui in grado di mandarla giù ed era come se la lingua si fosse appiccicata al palato. Buttai giù il manichino con un calcio e, presa la spada, uscii per restituirla a Tony.
-    Dì a Carrie che le ricompro il manichino. – dissi. Tony prese la spada e la rimise al
suo posto dietro di sé. – Grazie, ci vediamo.
Non volevo vedere nessuno, né tantomeno scambiare due chiacchiere con chicchessia. Peter aveva avuto la grande idea di non farci lavorare, così una volta in camera mi buttai sotto la doccia, decisa a dimenticare quella pessima giornata.

Erano le undici di sera. Avevo passato tutto il pomeriggio a cercare di ricordare Jessica nei giorni che avevamo passato insieme al college, nella vita in Inghilterra e in quei giorni in cui mi aveva fatto compagnia in Nuova Zelanda. Non era la cosa migliore da fare e lo sapevo, ma tanto avrei pensato comunque a lei in un modo o nell’altro. All’inizio avevo letto tutte le mail che ci eravamo scambiate in quei mesi, poi avevo sfogliato tutti gli album di fotografie salvati nel computer o nascosti in fondo alla valigia. E avevo finito la serata bevendo birra direttamente dal frigo. Fino a quel momento a nessuno era passato per la mente di venire a cercarmi, grazie a Dio. …Dio? Per me non c’era, Dio. Non dopo quello che era riuscito a combinare. Evidentemente si stava annoiando lassù.
Finendo di sfogliare l’ultimo album di fotografie che ero riuscita a trovare, consapevole di essere brilla, pensando a Dio scoppiai a ridere.  Risi, risi e non ero in grado di smettere.
- Ti sei proprio divertito! – puntai una mano verso il soffitto, immaginando che l’Altissimo mi stesse ascoltando. – Bravo, eh, proprio bravo! Evidentemente avevi proprio voglia di scherzare: prima mi uccidi la migliore amica, poi mi fai lasciare dal mio ragazzo, o Potente Giocherellone! Bravo, mi sto proprio divertendo un sacco! Se sei in grado di sentirmi con quelle tue divine orecchie, Dio, mandami un segno! Una botta in testa! Qualunque cosa!
Quasi saltai in piedi sulla sedia quando il mio cellulare cominciò a squillare. Risposi senza baare al numero.
-    Chi entra nei miei domini? – ridacchiai.
-    Lesley, sei ubriaca!
Smisi all’istante di sorridere. – Ciao, Jane.
-    Sei ubriaca?
-    Giusto un po’. Non dirlo alla mamma.
-    D’accordo…
-    Mi dovevi dire qualcosa?
-    Hanno trovato il corpo di Jessica.
Un fulmine a ciel sereno. – Dove?
Jane si soffiò il naso. – Vicino al palazzo che stava di fronte alla Torre. Jessica si è buttata dalla finestra.
-    Buttata.
-    L’hanno fatto in molti. – sospirò. – Lesley, aveva un biglietto in tasca indirizzato a te. Te
l’ho già spedito.

La mattina seguente, dopo aver ricevuto le condoglianze da mezzo staff, andai da Emma per farmi truccare e lei mi sgridò per lo stato in cui era la mia faccia: le ci volle tutta la buona volontà per far scomparire le occhiaie viola sotto i miei occhi, e anche senza avevo il viso stanco: non avevo dormito un secondo e non avevo neanche voglia di provarci. Avevo passato tutto il resto della nottata a bere birra fino all’ultima goccia dell’ultima bottiglia nel super frigo della mia stanza e verso le tre avevo scacciato di malo modo Billy che era venuto a vedere come stavo. Neanche quel giorno parlai con qualcuno: dissi le mie battute in modo ordinario e sorrisi quando Dominic fece una gaffe, ma a parte quello evitai sia Elijah che Orlando, che s volte sorprendevo a guardarmi da un angolo del set. Se qualcuno mi chiedeva qualcosa non rispondevo, e quando non eravamo impegnati a recitare non mi accorgevo neanche di fissare il vuoto, lontana da tutto e da tutti. Per buona decenza, almeno, nessuno tentava di avvicinarmisi. Non dissi una parola per tutta la mattina, né durante la pausa pranzo, né per tutto il pomeriggio. Per allenarmi alla maratona delle Due Torri, tornai in albergo di corsa sfidando il gelo e il traffico di pedoni lungo il lungolago. Salutai solo di striscio il tizio al bancone della hall di Villa del Lago e quello dovette corrermi dietro per consegnarmi una busta. Quando la presi in mano sentii immediatamente tutta la consapevolezza del contenuto. La scrutai attentamente con lo sguardo e corsi a nascondermi in camera. Mi buttai sul letto e la aprii frenetica. Conteneva un biglietto piegato in due stropicciato, tagliato e in qualche punto sporco di gocce di sangue ormai secco, e c’era scritto “Lesley”. Lo aprii, e subito mi colpii la familiare grafia di Jessica. Lessi il contenuto con le lacrime agli occhi.
Lesley,
io non ho mai saputo scrivere una lettera, e sinceramente non ho mai sentito il bisogno di farlo. In effetti, non ho mai scritto più di tre parole in un biglietto, come quella volta in cui per scriverti ‘Tanti auguri Lesley’ ci ho messo tre compleanni e tre biglietti diversi. Ma ora più che mai sento il bisogno di far uscire dalla mia testa tutto quello che non avrò mai più occasione di dire. Anche perché so che quando leggerai queste righe sarai già al corrente di tutto quello che sta succedendo adesso e io te lo scrivo qui, su questo foglio e con questa penna che ho preso dalla scrivania di qualche sconosciuto.
Lesley, qui dentro è un macello. Siamo barricati al 107° piano e le fiamme e il calore che ci circondano e che ci bruciano il corpo sembrano provenire direttamente dall’Inferno, una punizione capitale venuta per farci scontare la pena delle nostre colpe, qualunque esse siano. Siamo saliti fin quassù nella speranza di trovare salvezza, ma ora il fumo impregna così tanto l’aria che siamo tutti sdraiati a terra e ogni tentativo di tenerlo lontano si è dimostrato vano. Alcuni uomini hanno spaccato le finestre per avere ancora un attimo di ossigeno puro. Sento gente che urla, ogni volta che mi giro vedo povere persone che soffrono per le ustioni riportate dappertutto. Sappiamo tutti che la fine si sta avvicinando sempre di più. È per questo, amica mia, che ho deciso di utilizzare la finestra davanti a me come via di fuga, pur sapendo che mi porterà alla morte. Ma se cadere nel vuoto vuol dire avere ancora un attimo di vita e sentire per l’ultima volta il vento sulla faccia, allora preferisco lasciarmi precipitare verso la fine che morire ridotta in cenere.
Non so quando mi ritroveranno, ma spero che questo messaggio ti arrivi al più presto.
Ti voglio bene, Les, grazie per tutto quello che hai fatto per me.
Addio. Jessie.
Piangevo disperata. Ancora non potevo credere che quelle erano le ultime parole della mia Jessie. Non mi importava di quello che pensava Jane a proposito del funerale, gliene avrei fatto uno io all’istante.
Quasi inconsapevole di quello che stavo facendo, con indosso una giacca di pelle che avevo comprato pochi giorni prima uscii dalla portafinestra della stanza e attraversai il bosco fino ad un piccolo prato a cinque minuti dalla Villa, sulla sponda del lago, che avevo scoperto per caso una volta con Orlando. C’era la luna piena in cielo che illuminava lo spazio intorno a me e questo era un bene, non avevo pensato a portare con me una torcia. Visto che il lago era molto vicino, ai lati del prato c’erano tante e grosse pietre, bianche, grigie e luccicanti.
Mi rimboccai le maniche e lentamente, una ad una, presi tutte le pietre che mi servivano e le posizionai davanti all’acqua in cerchio, come un raduno Scout davanti al falò. Al centro dello spazio sistemai due rami di un albero in modo da far formare loro una croce e li fermai mettendoli sotto a due pietre. Era un po’ rudimentale, ma avrei finito il giorno dopo. Avrei comprato dei fiori e fatto incidere il nome di Jessica, in modo da far sapere a tutti che quella era un epitaffio, non uno scherzo infantile. Mi inginocchiai davanti a quel cerchio di pietre, di fronte all’acqua. In quel momento mi ricordai della volta in cui io e Jessie eravamo andate a vedere “Moulin Rouge!” al cinema l’anno prima, e di come lei era rimasta colpita dalla storia. Così cantai un pezzo della canzone che avevamo cantato per tutta la strada dal cinema al college.
- One day I’ll fly away, leave all this to yesterday. Why live life from dream to dream, and dread the day when dreaming ends…
Non ebbi mai un’idea precisa di quanto rimasi lì, davanti all’epitaffio rudimentale che avevo messo in piedi, cantando quella canzone. Ad un certo punto, stanca di restare in ginocchio, mi alzai in piedi, e me ne andai, dopo aver dato un ultimo sguardo al cerchio di pietre.
Ma la giornata non era ancora finita: appostato davanti alla porta di vetro della mia stanza, subito prima del limitare del bosco, trovai Elijah, che appena mi vide si avvicinò.
-    Sono entrato in camera tua e non ti ho vista. Mi sono preoccupato,
Mi prese una mano e mi attirò con delicatezza a sé, conducendomi verso la luce.
-    Elijah, tu sei il mio migliore amico.
-    Anche tu lo sei.
All’improvviso sentii di nuovo quell’elettricità fra di noi, ma stavolta non avevo motivi per non volerlo. El era molto dolce e comprensivo, e sarebbe stato un buon finale di giornata. Elijah mi strinse la vita con entrambe le braccia, avvicinandomi a sé, e io smisi di pensare. Mi persi nei suoi occhi freddi e il pensiero di Ilana mi sfiorò la mente solo di striscio, mentre timido faceva combaciare le sue labbra dolci e profonde con le mie.

*Tratto dal Re Leone

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Capitolo 21
*** Cap 20. ***


La mia vita sul set – Cap. 20

Elijah premette le labbra contro le mie, spingendomi a partecipare al bacio. Quando finalmente mi decisi a lasciarmi andare e a non pensare più a niente, lo vidi sorridere da un lato e chiudere gli occhi, mentre cominciava a stringermi più forte e a trasmettermi una sensazione di sicurezza, come quella che una madre trasmette al figlio quando ha paura del buio. “Sono qui”, sembrava dire, “non aver paura”.
Quel bacio non finiva più: che Elijah fosse un ottimo ballerino con la lingua era risaputo, ma che avesse quella resistenza ancora no. E se non lo sapevo io, probabilmente lo sapeva solo Linnie. O Dominic. Ad ogni modo quel bacio a un certo punto finì ed Elijah ed io restammo naso contro naso per qualche minuto, mentre nuvolette di fiato si spargevano nella fredda aria di settembre. Vidi che tremava e con un braccio cominciai a sfregargli la schiena per riscaldarlo e lui mi circondò con le braccia. A quel punto capii: anche se quel bacio era stato fantastico, Elijah non mi aveva fatto battere il cuore, non ero arrossita, e neanche lontanamente a tre metri da terra, non come quando mi baciava Orlando. Per Elijah non provavo un sentimento che poteva essere definito amore o infatuazione, ma solo una profonda e fraterna amicizia.
Con qualche riluttanza le nostre strade si divisero. Entrai in camera, chiusi la portafinestra, mi buttai vestita sotto le coperte; ripensai a quella giornata, al modo in cui avevo avuto per tutto il tempo il cuore pesante come se non avesse nessun  motivo per farlo più velocemente, a come avrei voluto donare ogni battito al cuore di Jessie. Ripensai al cenotafio e, incredibilmente, mi addormentai. Non dormivo da due giorni.

Arrivò la mattina che neanche me ne accorsi: per fortuna quella era stata una notte senza sogni. Non avevo avuto di nuovo quell’incubo ricorrente che mi aveva attanagliato per molto tempo. Finalmente ero riuscita a dargli un senso: il fumo, la gente urlante, il terrore generale, e poi quei due numeri che avevo visto una volta, 11 e 9. Undici settembre. Era stato un sogno premonitore? Il fatto che fantasticavo già da tempo di trovarmi in mezzo alla confusione degli attacchi voleva dire che sarei dovuta morire io al posto di Jessica? La sveglia mi fece balzare a sedere sul letto, spalancando gli occhi. Mi girai di scatto verso il comodino e la spensi con una manata, erano le 5.30. Mi girai per svegliare Orlando e rimasi delusa quando trovai il suo lato del letto rifatto: tutti gli avvenimenti del giorno precedente mi tornarono in mente come una cascata. Ricordai il bacio con Elijah con un pizzico di disappunto: avevo baciato un mio caro amico il giorno dopo essere stata lasciata dal mio ragazzo. Come avevo potuto fare una cosa del genere? Che essere meschino!
Con un balzo gettai all’aria le coperte pesanti. Aprii la finestra, lasciando entrare la gelida aria del settembre neozelandese, e corsi in bagno. Dopo essermi lavata i denti e la faccia tornai in camera per aprire l’armadio e vestirmi. Indossai al volo dei pantaloni bianchi, una maglietta verde a maniche lunghe e una giacca di velluto nero con i bottoni, canticchiando una canzone. Mi sedetti sul letto per mettermi i calzini cominciando a canterellare Like a Virgin di Madonna e, al momento delle scarpe, mi bloccai con il tallone alzato per aria: una constatazione fulminea mi era passata improvvisa per la mente.
Stavo canticchiando.
Non avrei dovuto canticchiare in quel periodo, proprio no. Almeno, non due giorni dopo la morte della mia migliore amica. Presi le stringhe della scarpa e le tirai forte, per poi fare il nodo. Feci lo stesso con l’altra e mi alzai in piedi. Mi stiracchiai. Jessica era morta. Ok va bene, Lesley. Lei è morta e tu no. Fattene una ragione e continua ad andare avanti.
Quel pensiero mi sorprese di me stessa. Avevo superato, o stavo quasi per farlo, la morte di Jessica Bertram. Dovevo andare avanti e l’avrei fatto: avrei recitato e vinto un sacco di Oscar per lei.
- Se mai vincerò qualcosa, Jessie… – m’interruppi, uscendo dalla stanza e chiudendo la porta a chiave: non dovevo parlare di un se, ma di un quando. – … Il primo premio che vincerò lo dedicherò a te. Promesso.

-    Buongiorno a tutti, signori e… signori! – Salutai allegra entrando nella hall dove gli
Hobbit, Viggo, Bean e Orlando mi attendevano per andare sul set. – Come va, truppa?
-    Lesley, perché devi sempre essere così attiva alle cinque e mezzo del mattino? –
Sbadigliò Sean, probabilmente desiderando di tornare nel letto a dormire con sua moglie.
-    Dai, non vedi che bella giornata è fuori?
-    Piove!
Guardai la grande porta a vetri dell’entrata, notando che, effettivamente, fuori diluviava.
-    Eh su, almeno siamo in macchina! Pronti ad andare?
Mi diressi a grandi passi verso l’uscita andando a finire sotto la pioggia, direttamente seguita dai miei colleghi che prontamente aprirono gli ombrelli.
-    Ma si droga? – sentii sussurrare Bean alle mie spalle. Mi voltai alzando un sopracciglio e
lui, notata la mia espressione, mi guardò incerto. Non pensai a quanto mi stessi inzuppando di pioggia in quel momento.
-    Non serve a niente piangere sul latte versato. Jessica è morta, ed io andrò avanti –
Annunciai autoritaria. La mia affermazione parve colpire più di tutti Elijah, che comunque non disse una parola.
-    Chi guida? Io vado con Billy e Dom!

Durante la prima parte del viaggio attraverso Queenstown alla volta del set di Lothlorien, situato in un magazzino vicino all’aeroporto, io, Billy, Dom e Sean non proferimmo verbo.  Dopo circa dieci minuti, stufa di tutto quel silenzio – perché Sean non ammetteva che in macchina si ascoltasse musica quando Dominic era alla guida, ossessionato dalla sicurezza com’era – presi il cellulare e, digitato velocemente il numero di Jane aggiungendo il prefisso degli Stati Uniti, mi accinsi a prendere le informazioni che mi servivano.
-    Pronto? – ogni volta che telefonavo a Jane, la sua voce suonava sempre più stanca.
-    Jane, sono io.
-    Ciao, Lesley.
-    Ascolta… puoi dirmi quando sarà il funerale? – Billy e Sean si voltarono verso di me
curiosi ed io li ignorai, voltando la testa a guardare il panorama che scorreva velocemente fuori dal finestrino.
-    Dopodomani mattina, alle dieci, alla St. Bartholomew’s Church. – Non capivo se la sua voce fosse spezzata a causa della stanchezza o dell’emozione.
-    Parteciperò anch’io. Se dopodomani sera prenderò l’aereo appena finisco di lavorare, potrei essere a New York il 15 mattina sul presto. È un progetto abbozzato, ma se riesco a coordinare i tempi, forse ce la farò ad arrivare in tempo in chiesa.
- Lo spero proprio. A Jessica farebbe molto piacere se tu partecipassi.
“ Avrebbe fatto”. – Ci risentiamo Jane.
-    A presto.
Chiusi la telefonata e mi accorsi che mi stavano ancora guardando.
-    Sono forse un animale allo zoo? – sbottai. Sean si girò ma Billy continuò a guardarmi.
-    Non riesco a capirti Les. – si spiegò. – Ieri eri disperata e oggi sembri… beh… la Lesley
di prima. Lo stai facendo apposta o è successo qualcosa?
Sospirai. – Orlando mi ha lasciata.
-    E questo ti rende felice? – chiese Sean di nuovo interessato.
-    No! Ma… - mi fermai. Nessuno di loro sapeva che la sera prima avevo baciato Elijah e
sinceramente non volevo mettere in giro altri pettegolezzi. – Insomma, l’ho superata ok?
-    In due giorni?
-    Succede. – disse Billy.
-    Il punto è che… cioè….
-    A parole tue – m’incoraggiò Dom.
-    Quel che è stato è stato. Non fermiamoci a rimpiangere ciò che è passato… continuiamo
a vivere, questo è tutto.
- E basta? – Incalzarono tutti e tre all’unisono: possibile che mi conoscessero abbastanza bene da sapere che nascondevo qualcosa? Non era una cosa segreta, ovvio.
- C’è dell’altro. Sono ancora… Io non volevo lasciare Orlando.
- Ah. – di nuovo tutti e tre insieme. Aiuto, erano già in fase Hobbit!
- Quindi vuoi tornare insieme a lui? – incalzò Billy.
- Sì.
- E sei ancora innamorata di lui? – Domandò Dom.
- Continuamente.
- Billy, sappiamo già che cosa fare.
Ora mi mettevano paura. – Che cosa? – chiesi timorosa.
-    Ti daremo noi una mano! – esclamarono insieme. Sembravano i gemelli di Harry Potter.
-    Stasera verrai in camera nostra. – Ordinò Billy. – E sarà il secondo caso della “Ricuci-Rapporti”!
-    “Ricuci-Rapporti?”
-    Un’agenzia che risana i rapporti incrinati e che funziona… beh, quasi sempre.
-    E perché “secondo caso”?
-    Perché l’hanno già fatto una volta – rispose Sean svogliato.
-    Per chi?
-    Per Elijah e Linnie! – Dominic fermò la macchina nel parcheggio del magazzino.
-    Elijah e Linnie? – ripetei come una demente. – Perché mai?
-    Non lo sai? – Sean mi guardò di sottecchi, parlando sommesso. – Si sono lasciati.
-    Quando? – chiesi stupefatta. Perché nessuno dei due me ne aveva parlato?
-    Mentre tu eri in ospedale, più o meno. – Rispose Billy scendendo dalla macchina.
Mi fermai giusto prima di entrare nel grande magazzino. I pezzi del puzzle andarono al loro posto: ecco perché Linnie era così arrabbiata, quando era venuta a trovarmi! Mi stupii della buona condotta di Elijah: quando mi aveva baciata non era fidanzato, quindi aveva la coscienza pulita. Beh, neanche io avevo il ragazzo sera prima.
Appena entrammo nel magazzino ci colpì subito una ventata di aria bollente, oltre alla bellezza della location:  il posto era stato totalmente ricoperto da alberi giganteschi ed enormi costruzioni elfiche candide ed eteree come la neve. I ragazzi della crew sciamavano in giro come api e fra loro spiccava Peter, che sembrava un vigile del traffico: gesticolava a destra e a manca girandosi sempre su se stesso, intento a coordinare la folla. A parte quelli vestiti di eleganti tuniche elfiche, erano tutti vestiti come in piena estate e si notava subito che, comunque, erano tutti sudati. Non che ci fosse da meravigliarsi: oltre all’ambiente del magazzino che letteralmente strabordava di roba, appesi alle pareti e al soffitto c’erano tantissimi grossi riflettori che con la loro luce accecante riscaldavano l’aria più di quaranta termosifoni funzionanti a pieno regime.
-    Bloody Hell, che caldo! – esclamò Elijah togliendosi la giacca a vento. Fu imitato da Billy
e Dominic, che tanto per cambiare si levò anche la maglietta a maniche lunghe, forse per un eccesso di vanità, nel vano tentativo di mostrare a tutti il suo fisico – che non c’era.
-    Non esistono i condizionatori qui dentro? – domandai slacciandomi i bottoni della
giacca pesante che indossavo.
-    La risposta è ovvia! – rise Billy – Vogliamo fare il Signore Degli Anelli tecnologico?
-    Non è male come idea… piazziamo un condizionatore a Lothlorien!
Sean rise mentre mi tiravo su le maniche della maglietta. – Vi raggiungo dopo, devo andare un secondo da Peter – annunciai. Mi sarei aspettata una richiesta di spiegazione ma leggevo nei loro occhi che immaginavano già il perché.
Mi diressi verso PJ, che si voltò a guardarmi dopo un leggero colpetto sulla spalla.
-    Ciao! Come va oggi?
-    Siamo molto indaffarati – rispose lui pulendosi gli occhiali con la maglietta. – E tu come stai?
-    Non mi lamento – sorrisi.
-    È appena arrivata Cate Blanchett. – mi fece l’occhiolino. – Galadriel si sta già facendo mettere la parrucca.
-    Allora devo sbrigarmi! – sorrisi. – Peter, posso avere un giorno di permesso per dopodomani? Il 15 ci sarà il funerale di Jessica a New York e non posso mancare – spiegai.
-    Certo che puoi prenderti il permesso, Les – si passò una mano in mezzo ai capelli crespi. – Hai già pensato a un piano d’azione?
Quel lato “materno” di Peter era adorabile, si preoccupava sempre per i suoi attori. Mi misi una ciocca dietro l’orecchio: - Non ho ancora cercato un aereo, ma se parto dopodomani sera appena finito di girare potrei essere a New York presto. La funzione inizierà alle 10, partecipo e torno.
-    Sarai sfinita – osservò Peter.
-    È per Jessie. Glielo devo. – mi morsi un labbro.
-    Il 15 sera si terrà la festa per i nuovi attori e sicuramente sarebbe stato molto più divertente, con te a dare un po’ di brio. Ma comprendo benissimo che la tua amica è molto più importante di un party.
-    Lo penso anch’io…
-    E adesso vai a prepararti, che sei già in ritardo! – mi congedò con un sorriso.

- Ciao Ngila!
Visto che eravamo in un magazzino, Ngila e i suoi assistenti avevano adibito una grande sala al guardaroba e alla prova costumi: era decisamente più comodo della roulotte, anche se c’era molto più disordine in quella stanza che offriva tanto spazio in più.
- Ehi, Linnie… - mormorai il suo nome dirigendomi verso la stampella con appeso il mio solito costume che a causa delle tante riprese si stava rovinando, strappandosi in alcuni punti. Non era una cosa tanto brutta: così aveva un’aria più vissuta, ed era meglio qualche piccolo sfilacciamento che il costume di Viggo, che ormai si portava dietro sul set accompagnato da un servizio di ago e filo. Ogni tanto si sedeva da qualche parte, metteva il filo dentro l’ago e cominciava a ricamare, dando i numeri perché non riusciva mai a continuare la cucitura originale. Sembrava mia madre quando faceva così.
Ngila urlò di fermarmi quando presi in mano il mio solito costume, facendomi prendere un colpo.
-    Che c’è di male? – chiesi preoccupandomi: sudavo freddo come se mi avesse beccato a uccidere qualcuno.
-    Oggi non devi usare quello!
Non ne capii immediatamente il motivo, ma poi sì: Lothlorien era la casa di Hery, il mio personaggio, Galadriel era sua madre, ed era logico che sua figlia non sarebbe rimasta davanti a lei in tenuta da viaggio, per di più sporca e strappata. Ngila mi fece vedere un abito prendendolo da una stampella in fondo alla stanza e portandomelo sorpassando Linnie che se ne stava in un angolo a infilare grucce in sacchetti di plastica trasparente.
Senza dubbio era un bellissimo vestito e lo spettatore avrebbe capito subito che era di fattura elfica: scendeva leggero fino a terra, fatto di una stoffa argentea che non seppi identificare. Aveva lo scollo rotondo ricamato con motivi elfici e le maniche lunghe e ampie in fondo.
-    Piccola obiezione – dissi alzando una mano. – Prima di essere a Lorien, ci devo arrivare.
Ngila alzò un sopracciglio con aria infastidita.  – Avete mai girato qualcosa tutto di seguito?

La presenza di Cate Blanchett sul set mi faceva sentire minuscola: la sua grazia e bellezza erano notevoli anche nella vita reale, ovviamente, ma con quella lunghissima parrucca dorata e con quel vestito candido incarnava perfettamente tutto ciò che Tolkien, nel libro, aveva rappresentato. A parte che Cate era perfetta per Galadriel, era anche identica al personaggio che Alan Lee aveva raffigurato nelle prime edizioni del libro. La vedevi con indosso il costume e ne rimanevo abbagliato: emanava un’aura saggia e il suo viso era al tempo stesso dolce e imperioso. Mi sarei aspettata che fosse scostante e irritabile, ma mi dovetti presto ricredere. Appena mi vide arrivarle incontro col nuovo costume si avvicinò e mi salutò con un abbraccio. Contro ogni mia aspettativa, iniziammo subito a fare conversazione come coetanee, come se lei non fosse stata un’attrice di grandissimo livello e molto più brava di me. Ovvio, io in suo confronto ero meno di niente. Ma Cate si dimostrò carina e simpatica con tutti, che all’inizio si avvicinavano timorosi a lei all’inizio. L’ilarità di quella bellissima donna con una lunga parrucca bionda faceva sentire tutti allegri e senza pensieri, ma quando Peter dava il via alle registrazioni Cate subiva una trasformazione eccezionale: diceva le sue battute con voce profonda e mistica e guardava l’insieme di luci di Natale che avevano appeso per lei come se avesse voluto dire qualcosa telepaticamente alle lucine stesse. La scena prevedeva un intenso scambio di sguardi tra me e lei e Peter volle ripetere la scena circa quattro volte prima di sentirsi soddisfatto delle occhiate intense che ci lanciavamo. Peter e gli altri direttori volevano che dai nostri sguardi si capisse che lei era mia madre ma riuscire a trasmettere quella sensazione era molto più difficile che dirlo. Galadriel come doveva guardare l’unica figlia che non aveva visto per molto tempo? Con amore? Un elfo saggio come lei non può certamente saltare al collo di qualcuno. Con nostalgia? Come per dire “mi hai fatto preoccupare”? Teoricamente mi doveva scrutare come se avesse saputo ogni cosa che Hery aveva fatto prima di rincontrarla. E ovviamente Galadriel lo sapeva, grazie allo specchio magico. Alla fine, in qualche modo, io e lei riuscimmo a rendere Peter soddisfatto dei nostri occhi e mi accorsi che la serata era arrivata in un lampo. Non mi ero accorta di aver pranzato perché ero troppo concentrata sul lavoro e a malapena avevo sentito Dominic che mi urlava dall’altra parte della zona pranzo che quella sera sarei dovuta andare nella loro stanza per l’Appuntamento, come lo definì lui.

Sfortunatamente tornai all’albergo in macchina con Bean e Orlando e non fu piacevole: avrei preferito di gran lunga andare in bici in mutande dal magazzino all’hotel piuttosto che ritrovarmi sullo stesso mezzo di trasporto di Orlando, ma il destino purtroppo lavorava contro di me in quel periodo e ripensai all’opzione “bici in mutande” un attimo prima di salire in automobile e la dovetti scartare per mancanza di biciclette nelle vicinanze. Il viaggio, seppure breve, fu molto imbarazzante. Per evitare di iniziare una discussione con Orlando evitai accuratamente di incrociare il suo sguardo o di parlargli, o anche solo di avvicinare un dito a lui, seduto vicino al me nel sedile posteriore, anche se dovetti lottare strenuamente contro il mio cuore che mi diceva di saltargli addosso. Semplicemente non potevo avvicinarmici, non prima di aver piazzato dei paletti fra noi o almeno sparso delle mine anti-Orlando per il campo dei sentimenti situato nella mia testa. Meglio considerarlo come un malato di peste bubbonica. Quando finalmente Bean fermò la macchina nel parcheggio dell’albergo uscii e mi diressi quasi di corsa nella hall, sentendomi perforare il cranio dallo sguardo dolce di Orlando. “No, smettila di pensare a lui in quel modo, hai appena baciato il tuo migliore amico. Sei la regina delle attrici sgualdrine”, mi dissi.
La porta della stanza di Billy e Dominic era spalancata in un perenne invito a entrare senza farsi tanti problemi o scrupoli.  Attraversai la stanza ridacchiando per le scarpe lasciate in giro per il pavimento, i cuscini di uno dei divani buttati all’aria, le bottiglie e le lattine di birra di tutte le marche vuote e accartocciate e i vestiti –i vestiti! – buttati sui fornelli del piano cottura. Non invidiavo per niente l’addetto alle pulizie: quei due erano degli incivili di massimo livello! Vagai per la stanza per meno di un minuto prima di trovare il cartello appeso alla porta del bagno recante “Agenzia Ricuci-Rapporti” scritta grande con un pennarello blu. Aprii, timorosa di quello che avrei potuto trovare dentro, anche perché da dietro la porta arrivava musica a tutto volume, musica di un genere che a me non piaceva neppure tanto. Quello che trovai all’interno della porta del bagno era peggio del resto della stanza, per quanto fosse possibile. Il bellissimo lavandino dell’albergo era riempito di ghiaccio e lattine di birra e il pavimento disseminato di cartoni di pizza aperti e fette buttate al vento. Ma la cosa scandalosa erano i due artefici di tutto quel disordine. Billy e Dominic erano la personificazione della comodità: l’uno seduto schiena contro il muro fra il water e il bidet, con indosso una sudicia maglietta verdolina e pantaloni blu della tuta, l’altro stravaccato dentro la vasca da bagno a fumare sigarette come un turco. Ed entrambi, entrambi, portavano gli stessi occhialini da sole alla James Bond e si voltarono verso di me appena misi piede nel loro habitat.
-    Benvenuta nella sede dell’Azienda Ricuci-Rapporti, Lesley Dalton. Prego, si sieda.
Difficile sedersi in mezzo a quel macello.  Mi accomodai fra il water e la porta di legno, dove le lattine di birre erano di meno rispetto al resto del pavimento. Billy si sporse verso di me sorridendo beffardo:
-    Vuoi una birra?
-    Ma sì, ok! – Billy si sporse verso la vasca, afferrò uno sturalavandini arancione e con
quello prese una lattina dal lavandino, senza muoversi di un centimetro. Qualcosa di quell’azione fece smuovere il mio stomaco provocandomi una fitta di malessere: in quel gesto avevo rivisto la pigrizia di Jessica. Inghiottii a vuoto e presi la lattina che Bill mi offriva, la stappai e cominciai a bere. La svuotai in una volta sola.
-    Awwwwwyeaaaaaah – fece Dominic annuendo piano con la testa, per poi portarsi l’ennesima sigaretta alla bocca e accenderla.
-    Non voglio chiedervi da chi avete preso l’idea dell’azienda matrimoniale, ma almeno spiegatemi, ragazzi: perché nel bagno?
-    Avresti voluto farla sul balcone con questo freddo? – replicò Billy svogliato.
-    Esiste qualcosa chiamato “salotto”….
Un attimo di silenzio. – Intende la Zona Svacco, Dom – spiegò Billy.
- Oh, santo cielo.

Presi la terza lattina di birra annacquata e cominciai a sorseggiarla. Io, che non reggevo molto la birra, ero appena un po’ brilla, ma Billy e Dom erano peggio e Dom non la smetteva di fumare. E avevo passato solo venti minuti in quel bagno! Avevamo trascorso il tempo parlando della mia situazione sentimentale a grandi linee e solo pochi minuti prima avevamo cominciato a sfornare possibili o alquanto improbabili soluzioni. Si andava dall’idea di afferrare Orlando da una parte e togliergli i vestiti di dosso (Dominic) a lasciar perdere e aspettare che facesse lui la prima mossa (Billy), da lasciargli un bigliettino sotto la porta (Dominic) a nascondersi dentro il suo armadio e saltare fuori all’improvviso nella speranza di fargli passare tutta la vita davanti e quindi fargli dimenticare l’offesa subita – “qualsiasi cosa tu intenda per offesa!” – (Billy).
-    Non è il caso di prenderlo di sorpresa, secondo me – dissi passandomi una mano fra i capelli. – Forse è meglio avvicinarmi e basta.
-    Sì, e una volta che ti sei avvicinata che fai? – domandò ironico Dominic buttato la lattina
di birra fuori dalla vasca. – Lo fissi finché non si decide a parlarti?
-    Magari è proprio quello il punto! – Billy lanciò in aria lo sturalavandini arancione e lo riprese con abile gesto. – Probabilmente limitarsi ad aspettare non serve a niente. Meglio fare il primo passo e saltargli addosso.
-    Già, e se reagisce male?
Dom sbuffò: - Uccidilo e vivrai meglio!
Risi. – Ma no!
Qualcuno aprì la porta del bagno, scostando con un movimento secco cartoni di pizza e lattine e accatastandoli contro il muro accanto a me. Viggo a petto nudo e pantaloni neri della tuta entrò per metà nella stanza e tenendo una mano sulla maniglia disse:
-    Sono fuori da questa porta da un quarto d’ora. Ho sentito tutto quello che avete detto e
posso dirti con sincerità, Lesley, che mi faresti un grosso favore se uscissi di qui e andassi a parlare con Orlando dei tuoi sentimenti in maniera civile e senza progettare il suo omicidio. Così mi lasceresti in bagno a fare… beh, quello che devo fare da dieci minuti.

Il mattino dopo splendeva un bel sole e faceva quasi caldo. Subito prima di cominciare a girare corsi all’aeroporto e prenotai un biglietto per New York, un volo diretto per la città in partenza quella sera alle 20. Sarebbe stata dura, ma con impegno ce l’avrei fatta. Certo, dopo la funzione avrei dovuto dormire per un bel po’ prima di tornare in Nuova Zelanda a girare. Per fortuna Peter non mi caricò molto e per le sette avevo già finito: aveva concentrato la giornata sulla scena dello Specchio di Galadriel e Frodo, una cosa in cui Hery non c’entrava. Appena uscita dal magazzino corsi subito a Villa del Lago a buttare roba a casaccio dentro ad un borsone, e per fortuna all’ultimo secondo mi ricordai del biglietto nella tasca dei pantaloni che mi ero cambiata poco prima.
Arrivai in aeroporto alle sette e mezza e mi fiondai al check-in. Non avevo neanche salutato i miei amici prima di partire, ma ormai non potevo più tornare indietro e davanti a me c’era una marea di persone. Nell’attesa, pensai a quanto si sarebbero divertiti quella sera alla festa dei nuovi arrivati: non conoscevo i loro volti e magari avrei trovato qualche nuovo compagno di misfatti, come Billy e Dom, oppure amica, come Liv o Emma. La fila finì e porsi il mio biglietto dell’ultimo minuto all’addetto dietro il bancone, un uomo di mezza età con i capelli brizzolati e l’aria severa. Scrutò per un attimo il mio biglietto e poi me lo porse, alzando un sopracciglio.
-    Questo biglietto non è valido.
-    Come scusi?
-    Il biglietto non è valido perché il volo non c’è. – spiegò cordiale ma deciso.
-    Come sarebbe a dire? Ho preso il biglietto stamattina!
-    Signorina, hanno cancellato il volo. C’è una tempesta a New York e l’aeroporto è stato chiuso poche ore fa.
-    Ci deve essere un modo per farmi arrivare a New York! – arrivai a urlare.
-    Hanno cancellato tutti i voli per la città.
-    Senta, - aprii rabbiosa la borsa e tirai fuori il mio nuovo libretto degli assegni. – Mi dica una cifra. Qualsiasi cifra, per trovarmi un volo entro cinque minuti. Sono disposta a pagare qualsiasi prezzo, ma io devo essere a New York entro domattina.
-    Lei è sorda, signorina? Sempre che non vada a New York a nuoto, lei non potrà raggiungere la città fino a domani sera. E ora, per cortesia, se ne vada o chiamo la sicurezza. Ci sono persone dietro di lei che aspettano.
Non potevo dire nient’altro, né fare qualcosa. Quell’uomo mi stava guardando con durezza, ma andarmene sarebbe significato perdere il funerale di Jessie. La mia mente esaminò la possibilità di telefonare a Jane e di dirle di rinviare la funzione ma la scartai subito: ormai aveva prenotato la chiesa e invitato tutti. Non poteva spostarlo solo per me.
Vedendo la mia esitazione, posò minacciosamente la mano sulla cornetta del telefono accanto a lui, ammonendomi con lo sguardo che se non avessi mollato avrebbe chiamato davvero la sicurezza. Stringendo convulsamente il libretto degli assegni e reprimendo lacrime di rabbia girai sui tacchi e me ne andai, evitando lo sguardo di quelli che facevano la fila dietro di me.
Uscita dall’aeroporto, fuori dalla porta scorrevole di vetro, guardai di nuovo il libretto degli assegni e il biglietto di quel maledetto aereo. Allora in un impeto di rabbia cacciai la testa all’indietro e urlai: le persone che mi passavano accanto si voltarono spaventate e un cane a poca distanza si mise ad abbaiare.
Non avrei potuto fare nient’altro. Tanto valeva distrarsi e andare a quella stupida festa.
Avevo incontrato Liv fuori dalla mia stanza. La sorpresa fu grande.
-    Liv!
-    Lesley! – mi abbracciò forte.
-    Non sapevo che fossi qui!
-    Mi hanno chiamata ieri – spiegò con la sua risata cristallina scuotendo i capelli corvini. –
Devo girare altre scene! Quella del guado, ad esempio. A proposito – mi guardò dritta negli occhi. – Ho saputo di tutto quanto. Mi dispiace.
-    Che cosa hai saputo?
-    Della morte della tua amica.
Ridacchiai. – Jessie non è solo morta. Domani mattina a New York ci sarà il suo funerale ed io non ci posso andare perché hanno cancellato il mio volo. – Risi più forte e mi dovetti tenere la pancia. Liv mi guardava perplessa. – E il tizio al bancone ha minacciato di farmi arrestare perché volevo pagare un milione di dollari per farmi arrivare a New York anche in elicottero!  - La mia risata era contagiosa su Liv.  – E ora dovrei starmene chiusa in camera mia a piangere e invece me ne vado alla festa dei nuovi attori in tuta!
Liv mi prese sotto braccio e mi condusse in camera, ridendo. – Assolutamente no! Ti ho persa di vista per un po’ di tempo Dalton e sei uscita dai binari. Noi oggi andremo alla festa vestite decentemente.
Non avrei dovuto ridere, ma quella situazione aveva davvero raggiunto il ridicolo!

Io e Liv eravamo in ritardo di un’ora e mezza ma la cosa non ci preoccupava. Insomma, la festa si stava tenendo al set del fiume, in un grande prato illuminato con tanti lampioni di carta. C’erano tavoli pieni di roba da mangiare e l’ambiente era allegro, invaso da musica allegra. Le persone mangiavano, camminavano insieme e chiacchieravano. La certezza assoluta era che io e Liv facevamo il nostro effetto: io avevo i capelli mossi e tenuti fermi dietro con uno chignon, ma comunque fatti cadere sulle spalle. Indossavo un tubino azzurro e scarpe con tacco nero. Liv indossava dei pantaloni neri e una camicia rossa e si era legata i capelli in una coda di cavallo. Dopo averli cercati per un po’, finalmente trovai Billy, Dom ed Elijah che chiacchieravano animatamente con due persone che prima di allora non avevo mai visto. O meglio, una la conoscevo di fama, ma non di vista: era Bernard Hill, il famoso attore che aveva interpretato, fra gli altri ruoli, quello del capitano Smith in “Titanic”; sapevo che avrebbe dovuto interpretare Re Theoden di Rohan, ma l’altro… non l’avevo mai visto, ma aveva un’aria vagamente familiare.
-    Oh ehi, Lesley! Che ci fai tu qui? – mi chiese Dom pettinandosi all’indietro i capelli biondi.
-    Hanno cancellato il mio volo e salto il funerale – risposi acida. – E questi sono….
-    Les, ti presento Bernard Hill…. – Elijah si avvicinò a me mentre me lo presentava, e forse volontariamente mi sfiorò una mano con le dita.
-    Molto piacere, Re Theoden. – sorrisi.
-    Temo che tutto il piacere sia mio – ripose sorridendo. Il suo sorriso diede risalto alle borse sotto gli occhi.
-    … E Craig Parker, Haldir.  – Stavo per porgere la mano anche a lui quando lo riconobbi. Anche lui fece lo stesso.
-    Tu! – esclamò.
-    Tu! – esclamai. – Che ci fai qui?
-    Io sono Haldir!
-    E io sono Hery! – Ci abbracciammo.
Una cosa così non me la sarei mai aspettata: capii dove avevo già visto quell’uomo con i capelli neri e gli occhi azzurri. Era colui che mi aveva prestato la Harley Davidson quando ero uscita in anticipo dall’ospedale, quello che mi aveva congedata con “Ciao, ragazza pazza!”. Chi l’avrebbe mai detto che avremmo finito per lavorare assieme?
-    Vi conoscete già? – chiese Billy perplesso, scrutandomi interrogativo insieme a Dom ed Elijah.
-    Craig mi ha dato un prezioso passaggio quando sono uscita dall’ospedale – spiegai.
-    Sì, ed io ho rischiato un infarto – scherzò lui. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa.
-    A proposito, non ti ho ancora ringraziato! Come posso sdebitarmi?
Craig sorrise: era vestito bene, con una camicia bianca e una cravatta elegante. – Potresti ballare con me. Sta giusto iniziando un mambo.
Lo guardai: - Perché no?
Craig rise e mi prese per mano, trascinandomi in mezzo alla “pista da ballo”. Mi fece roteare su me stessa e cominciammo a ballare. Era un ottimo ballerino! E mi stavo divertendo, cosa che fino a poco prima mi sarebbe apparsa impossibile.
-    Sei bellissima stasera! – mi urlò in un orecchio per parlare sopra la musica. Sorrisi. – Come va?
-    Sarei dovuta essere su un aereo in questo momento! – dissi. – La mia migliore amica è morta nell’attacco alle Torri Gemelle!
-    Mi dispiace un sacco!
In una piroetta vidi che eravamo circondati da altre coppie che ballavano e in un momento vidi anche Ilana che danzava appassionatamente con un tizio che non avevo mai visto. Craig mi prese e mi fece cadere all’indietro, per poi prendermi con abile mossa. Quando mi tirò su, vidi Orlando poco lontano, oltre le coppie danzanti, che mi scrutava e fulminava Craig con lo sguardo, come se avesse voluto ucciderlo con le sue stesse mani. E mentre ci inceneriva, Elijah si accostò a lui e, dopo aver attirato la sua attenzione con un colpetto sul braccio, lo portò da qualche parte fuori dalla mia vista.

Verso il finire della festa Billy e Dom mi si avvicinarono con aria furtiva e mi dissero, con un paio di parole a testa, che avevano organizzato tutto per quella sera: mi avrebbero fatta ritrovare sola in macchina con Orlando, in modo che io potessi fargli il mio discorso strappalacrime sui miei sentimenti e la fame nel mondo, o “qualsiasi altra cosa tu gli voglia dire, visto che secondo me sarebbe stato più facile ucciderlo” disse Billy. A nulla servirono le mie proteste sul fatto che io non avevo la minima idea di che cosa dire a Orlando, perché non mi ascoltarono e mi trascinarono in macchina, facendomi sedere sul sedile posteriore accanto ad un Orlando silenzioso e di pessimo umore. Lungo il tragitto dal set all’albergo nessuno parlò, ma a un certo punto, arrivati quasi a destinazione, Dom disse:
-    Ehi Bill, mi servono le sigarette, mi accompagni al distributore?
Billy inchiodò e scesero di corsa dalla macchina, lasciando come promesso me e Orlando da soli. Li vidi svoltare a un angolo e sparire. Aspettai un paio di minuti per trovare il coraggio di parlare e sbirciavo Orlando, che se ne stava a guardare fuori dalla macchina con il mento appoggiato ad una mano e il gomito sopra il finestrino. Presi un respiro profondo.
- Io so… che tu sei arrabbiato con me, e non pretendo che tu non lo sia – lo guardai. Non aveva girato lo sguardo, ma sapevo che mi stava ascoltando. – Ti volevo… volevo solo scusarmi se ti faccio soffrire, giuro che non è mia intenzione. E non ero intenzionata nemmeno a quasi - baciare Elijah, se è questo che vuoi sapere: ma ero arrabbiata, Orlando, ero nel panico e tu lo sai che non ragiono quando ho paura. Ero arrabbiata col mondo e con te, perché pensa quello che vuoi ma secondo me dovevi avvertirmi durante l’attacco. – Mi fermai per un attimo per trovare le parole giuste. – Non si può pretendere di rimanere sempre in piedi, a volte si cade e lo fanno tutti. Ma questo non vuol dire che non bisogna rialzarsi. Io mi sto rialzando ma non ce la faccio senza di te, Orlie, perché… tu lo sai che per te provo quelle tre parole e lo sai che non c’è bisogno di dire quali. Quindi ti chiedo, ti prego anzi… Perdonami e torna da me.
Attendevo con ansia una risposta che non arrivò: dopo trenta secondi di silenzio Orlando si slacciò la cintura e scese dalla macchina sbattendo la portiera.

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Capitolo 22
*** Cap 21. ***


La mia vita sul set – cap. 21

 La cosa mi irritava parecchio: non che avessi parlato sinceramente a Orlando e lui non aveva reagito come mi aspettavo – anzi, non aveva reagito proprio -, ma quantomeno il fatto che io, Billy e Dominic avevamo impiegato una serata intera per pianificare l’evento nei minimi particolari e non ci aspettavamo un fallimento del genere, specialmente perché dopo quel discorso non avevo più incrociato Orlando da solo ed erano passati due giorni, durante i quali avevo trascorso ogni minuto libero con il cellulare in mano aspettando che mi chiamasse o mandasse un messaggio, qualche volta mordicchiandomi anche le unghie. Come avevo potuto finire in quel modo? Non mi ero mai abbassata ad aspettare i comodi di qualcuno in campo sentimentale: generalmente, quando un ragazzo piace a una ragazza, questa aspetta che magicamente sia lui a fare la prima mossa. Jessie ed io non eravamo mai state così: quando ci mettevamo una cosa in testa, dovevamo agire per ottenerla. Questo sistema aveva sempre funzionato con un ragionevole margine di errore durante la nostra lunga amicizia, quindi per me era stata una grossa insoddisfazione non ricevere risposta da parte di Orlando, anche perché era un ragazzo aperto: se voleva qualcosa, lo chiedeva spontaneamente. Ed ecco un altro motivo per deprimermi… se non mi mandava messaggi, probabilmente voleva dire che non aveva più intenzione di avere a che fare con me, ed io passavo le serate a chiedermi se la storia fra noi fosse davvero finita e se dovevo cercare qualcun altro su cui fare affidamento.
Non che mi servisse questo come scusa per fare nuove amicizie, come gli appena arrivati membri del cast che, dopo la festa, avevamo accolto a braccia più che aperte.
Sul set avevamo trascorso quei due giorni rigirando più volte le scene di Lothlorien in diverse versioni, in modo che in sala montaggio decidessero quale fosse la più indicata da inserire nel film. Nel tempo libero avevo cercato di non sembrare troppo invasiva nei confronti della gente attorno a me, evitando di entrare nelle stanze in cui si trovava Orlando e cercando di non inondare i nuovi arrivati di parole, come al mio solito. Sapevo di star dando una visione sbagliata di me, ma dopo la sfuriata di Jane che mi aveva rimproverato severamente per non essere stata presente al funerale di Jessie mi ero chiusa in me stessa per un pomeriggio, guardando male chiunque mi capitasse a tiro, compreso il povero Elijah che più di una volta aveva cercato di consolarmi.
I nuovi arrivati sopportavano con grande bontà il mio malumore: dopo la festa avevo avuto modo di conoscerli tutti, poiché quella sera ne avevo visti solo due. Il primo era Craig Parker, Haldir, il bell’uomo che mi aveva fatto ballare sul prato e che si stava dimostrando molto amichevole benché avesse qualche annetto in più di me. Il secondo era Bernard Hill, anch’esso conosciuto alla festa, che avrebbe interpretato il ruolo di Theoden. Poi c’era Miranda Otto, una dolcissima donna simpatica e nevrotica, con i capelli lunghi biondo caramello e gli occhi verdi: avrebbe interpretato Eowyn, la principessa di Rohan. Aveva vinto il ruolo “gareggiando” contro l’attrice Alison Doody, che aveva rifiutato per poter fare un bambino. Ciò non toglieva che Miranda avrebbe interpretato benissimo Eowyn. Un altro nuovo compagno di avventure era David Wenham, l’attore australiano che avrebbe interpretato Faramir, il fratello di Bean – che ormai aveva quasi finito le riprese. Appena messo piede sul set, David venne travolto dall’esuberanza di Billy, Dom e Viggo, che avevano cominciato a chiamarlo “Daisy” appena lo vedevano. David odiava avere un nomignolo femminile ma in quei due giorni era già diventata una moda tra il cast, poveretto. Di femminile, però, non aveva proprio niente: alto più di un metro e ottanta, aveva i capelli chiari, gli occhi azzurri e il naso grosso, dai lineamenti mascolini. E poi c’era lui, quello che era già diventato un mito, per me: Andy Serkis, l’uomo che  con il suo talento eccezionale avrebbe recitato nel ruolo di Gollum, l’infido essere che avrebbe condotto Frodo e Sam fino all’entrata del Monte Fato. Alto quanto me – quindi relativamente basso, un metro e settantadue -, ti fissava con grandi occhi turchese secondi solo a quelli di Elijah per bellezza. Purtroppo non avrei avuto la fortuna di lavorare insieme a lui: infatti, dopo aver finito di girare le ultime scene della Compagnia dell’Anello, ci saremmo divisi in tre unità. Una, composta da Elijah, Sean e Andy, avrebbe fatto parte della prima troupe; io, Viggo, Orlando, John, Miranda e Bernard saremmo stati la seconda unità, Billy e Dom la terza. Ma si parlava di un futuro abbastanza lontano, per il momento.

 Il mio umore nero era passato.
Craig, con i capelli della parrucca da Haldir che svolazzavano da tutte le parti, corse verso di me appena mi vide arrivare sulla sponda del fiume che era stata allestita per la scena dei porti di Lothlorien: era un posto molto suggestivo, con grossi alberi che facevano da molo naturale per le barche, e durante il giorno una nebbiolina si alzava rendendo l’atmosfera magica e molto elfica. Appena Craig fu abbastanza vicino mi porse un bicchiere da caffè.
-         
Si dia inizio ad una nuova giornata di riprese! – mi salutò.
Con un sorriso presi in mano il bicchiere e cominciai a berlo alla svelta, lanciandogli un’occhiata sinuosa. Lui si stupì: evidentemente si era aspettato che avrei gettato il bicchiere da parte molto maleducatamente.
-         
Grazie, Craig! – gli sorrisi. Lui sorrise di rimando, illuminando gli occhi. – Non ti ho ancora ringraziato come si deve per la faccenda della moto – dissi.
-         
Il ballo è stato un ringraziamento soddisfacente!
-         
Non per me! – Risi. – Facciamo così: per sdebitarmi, stasera ti porto a cena. Dopotutto, domani è domenica! Chi ha mai lavorato la domenica?
Parve pensarci un po’ su, poi annuì vigorosamente.
-         
Adesso cominciamo a girare? – chiesi.
-         
Tu sì. Io comincio oggi pomeriggio.
-         
E perché sei già in costume?
Si strinse nelle spalle: - Mi piace la tunica e non devo perdere tempo di pomeriggio. Ma stasera… – cominciò ad allontanarsi camminando all’indietro -… stasera mi dovrai raccontare tante cose su di te, Dalton! – si voltò e prima di cambiare totalmente direzione incrociò per un attimo Orlando che lo fulminò con un’occhiata gelida. Quando Craig sparì, Orlando venne verso di me a grandi passi, guardandomi con quegli occhi scuri che, nonostante tutto, mi facevano ancora girare la testa. Si fermò a un passo da me continuando a fissarmi, tanto che sperai avesse deciso di rispondere in qualche modo al mio discorso di due giorni prima. Poi, quando aprì la bocca per parlare, il mio cuore sbattè contro lo sterno.
-         
Cominciamo a girare – disse lapidario.
Le prime tre parole da quando ci eravamo lasciati. Un passo avanti.

 Era incredibile come mi sentissi a mio agio girando con Craig. I nostri personaggi erano molto legati e appena prima di iniziare a girare Peter ci aveva chiamati per spiegarci il rapporto tra loro: cresciuti insieme, Haldir era di poco più grande di Hery e più o meno la sua guardia del corpo. – Voglio che voi due diventiate grandi amici – ci disse.
-         
No problem – avevamo risposto. Pensavo che la differenza di età avrebbe influito
sul nostro rapporto ma invece sembrò un motivo in più per fare amicizia. Forse per la perseveranza dimostratami o forse per la spontaneità, lo presi in simpatia e passammo il tempo libero fra le riprese assieme, parlando del più e del meno. Quando arrivò l’ora di cena eravamo distrutti nonostante la leggerezza della giornata. Decisi di portarlo in un ristorante sul lungolago, per poter poi fare una passeggiata.
Appena entrammo nel ristorante, cercai di tirare fuori il portafoglio ancora prima di iniziare a ordinare il cibo, ma lui con uno scatto me lo prese e se lo nascose in tasca: non che non lottai per riprendermelo, ma usufruì il fatto che ci trovavamo in un luogo pubblico pieno di tavoli e non potevo usare una mossa di autodifesa per recuperarlo. Quello che avevo scelto non era un ristorante molto costoso – il mio budget non mi permetteva ancora di spendere cifre esorbitanti – ma Craig ordinò comunque il piatto più caro: una bella aragosta rossa, che il cameriere pescò davanti a noi da un grosso acquario. Non osavo immaginare il modo in cui l’avrebbero cucinata, io con la mia misera spaghettata della casa.
-         
Come fai a mangiare così tanto e a restare così magra? – chiese dopo che ebbi ingurgitato l’ultima cucchiaiata della torta al triplo al cioccolato. – Sei bulimica?
-         
Assolutamente no! Ho soltanto un buon appetito.
-         
Lo vedo! – Rise. – Sai Lesley…
-        
Puoi chiamarmi Les, se ti va – lo interruppi.
Sorrise. Sorrideva sempre. – Ok, Les! Dicevo… Cameriere! Il conto per favore!
Non terminò la frase. Dopo aver pagato il conto e avermi restituito il portafoglio, come da me previsto, passeggiammo sul lungolago, per molto tempo. All’inizio restammo in silenzio, senza che Craig completasse quello che stava per dire prima di fermare il cameriere per il conto. Il silenzio venne interrotto dal borbottio sommesso del mio stomaco.
- Ehm… sto digerendo – sussurrai imbarazzata.
- E ti brontola la pancia?
- Sì. La mia pancia brontola.
- E non solo lei.
Gli tirai una gomitata sogghignando.
- Quello che ti stavo dicendo prima –, disse osservando l’acqua del lago, – è che ti ho vista molto triste, in questi giorni. E mi chiedevo perché.
Mi strinsi nelle spalle, abbracciando il tessuto della mia giacca di pelle. – Ci sono tanti motivi.
- Inizia con uno a caso – mi incitò.
- Primo: Orlando, fino a qualche giorno fa, era il mio ragazzo.
- Perché vi siete lasciati?
- Ho quasi baciato Elijah. Sai… Frodo.
- L’hai quasi baciato perché ti piaceva? – adesso mi guardava dritto negli occhi.
- No… cioè, sì… voglio bene a Elijah, nella maniera in cui si vuole bene ad un grande  amico. Il fatto è che mi ha colta in un momento buio: è l’unico che mi è rimasto vicino in quella giornata del cavolo ed ero arrabbiata con Orlando.
- Il motivo?
- L’11 settembre.
Si fermò un secondo, poi mi raggiunse allungando il passo. – Hai litigato con Orlando per l’attacco alle Torri Gemelle… perché?
- Non mi ha svegliata. Sai, al World Trade Center lavoravano i miei. Non sono rimasti feriti ma vedi… nell’attacco… è morta la mia migliore amica. – Non riuscivo a controllare la mia voce, che si spezzava di continuo, mentre cercavo di combattere le lacrime. Craig mi guardò impietosito e mi circondò le spalle con un braccio.
- E’ questo l’altro motivo? – chiese, abbassando la voce.
- Non solo questo – guardai in alto e le lacrime, a poco a poco, svanirono. – La sera della festa avrei dovuto essere su un aereo per New York: la mattina dopo si è tenuto il suo funerale, ma c’è stata una tempesta e l’aereo è stato cancellato. E sua madre adesso mi odia perché non ho trovato il modo per raggiungere la città.
- Cazzo Lesley, che sfiga.
- Già. È per questo che sono stata così scontrosa in questi tempi.
- Avresti dovuto spiegarlo anche agli altri, non solo a me. Fra il cast aleggia l’idea che tu sia antipatica, anche se Billy ha l’ha scongiurata in tutti i modi. Ma non ha osato raccontare i fatti tuoi.
Sorrisi. – Tenero Billy.
- Che dire… - mormorò – spero che le cose si aggiustino.
- Anche io.
Qualche minuto di silenzio, poi Craig mi guardò: - Torniamo in albergo?

 Fra tutti gli alberghi in cui ci fermammo durante quei tre anni di riprese, il mio preferito rimase sempre Villa del Lago: non solo per la qualità dei servizi, ma anche per tutte le cose accadute fra quelle mura. Tra queste rimarranno sempre impresse nella mia memoria l’incidente al fiume, l’attacco alle Torri Gemelle, l’ultima lettera di Jessie, il bacio con Elijah, la Ricuci-Rapporti… e quello che trovai nel mio appartamento quando tornai dalla cena con Craig.
Entrai nella hall, mi diressi verso il bancone dietro cui sedeva un uomo più addormentato che sveglio, e mi feci dare la chiave della mia stanza. Quello me la diede senza problemi, dopo aver ricollegato una parte dei neuroni del cervello, e mi fece autografare la ormai solita fotografia. Gliela firmai con il sorriso.
Arrivai nel corridoio sul quale si affacciava la porta della mia stanza e provai ad infilare la chiave nella toppa, ma quella non entrò. Cercai di abbassare la maniglia, ma non c’era verso di aprirla, così tornai un po’ contrariata dal tizio nella hall che si scusò infinite volte prima di darmi la chiave giusta. Tornai indietro e finalmente riuscii ad dischiudere la porta, che quando si aprii mi fece scoprire
un biglietto appoggiato per terra. La grafia che portava era riconoscibilissima, per me. Elijah non aveva bisogno di firmarsi.
Vieni nella mia stanza”.

 Nell’oscurità più completa rilucevano, sparse per tutta la camera, decine di tozze candele rosse profumate di rosa. Erano dovunque: vicino alla porta, sul bancone della cucina, sul tavolo nel terrazzo. Alcuno erano un po’ sparse, altre erano messe perfettamente in fila, una su ciascun gradino della scala che portava al piano superiore. Mi sentivo improvvisamente proiettata in un film dell’orrore, anche se quelle candeline sembravano richiamare alla mente una delle scene schifosamente romantiche di un libro Harmony. Sperai si trattasse di uno scherzo: mi aspettavo di vedermi comparire davanti un serial killer armato di coltello.
- Elijah? – chiamai.
Silenzio.
- Dom?
Silenzio.
- Billy? Craig?
Silenzio. Evidentemente qualche simpaticone aveva acceso tutte le candeline e se l’era filata.
Non so perché, ma mi sfilai le scarpe e le appoggiai piano sul pavimento di legno, rimanendo solo con i calzini bianchi. Senza fare rumore, cominciai a salire la scala, trascinando piano la mano destra sul muro, per avere come minimo una base di appoggio. La scala terminava con un piccolo corridoio sul quale si affacciavano quattro porte: una del bagno, due delle camere da letto e una di un secondo salottino. Le candele descrivevano una curva verso la porta del piccolo soggiorno. La aprii piano, sperando che non cigolasse: non volevo rompere il silenzio assoluto che regnava in quel posto.
Chiusi piano la porta e non appena scattò dallo stereo partì una canzone. L’improvviso rumore mi fece sobbalzare, spingendo il mio cuore a battere a mille e più: cercai di calmare il respiro premendo una mano contro lo sterno, poi mi concentrai sulla melodia. Era la stessa canzone che io e Orlando avevamo ballato sulle sponde del lago di Hobbiton. Iris. Nell’oscurità vidi muoversi una figura maschile, ben più alta di me e molto più massiccia, anche se conservava una certa grazia nei movimenti.
Non ebbi bisogno di accendere la luce: quella delle candele mi permise di vederlo bene in volto, quando si avvicinò. Mi guardò con quegli occhi scuri e dolci, si passò una mano tra i capelli che aveva tagliato il giorno prima in un modo che io non approvavo per niente – pressoché pelato ai lati, con una cresta in cima. Era orribile con quella cosa.
Mi fissò dritto nell’anima e mi sorrise, timido. Io ero troppo sorpresa per muovermi o dire qualcosa. Rimasi ferma dov’ero, e Orlando, piano, mi si avvicinò. Continuavamo a fissarci negli occhi, mentre intanto la canzone andava, e lentamente, misurando i movimenti, Orlando mi prese la mano, delicato. Il solo contatto con la sua pelle bastò a surriscaldarmi le mani e il viso, facendomi avvampare colorando le mie guance di un rosso vagamente simile a quello delle candele.
Quasi senza rendermene conto gli afferrai l’altra mano di slancio, forse un po’ bruscamente. Orlando era ritornato serio, ma continuava comunque a guardarmi. Dio, che sguardo. Il cuore continuava a martellare imperterrito, stravolgendo il ritmo del mio respiro: non avevo intenzione di rimanere lì come un salame, dovevo dirgli qualcosa, chiedere spiegazioni… no, chiedere spiegazioni no. Non in quel momento. Aprii piano la bocca, pur non avendo la minima idea di che cosa dire. Mandai al diavolo i miei neuroni impazziti e lasciai parlare il cuore, molto prossimo al collasso.
- Non voglio perderti.
- Non accadrà. Non sono fatto per stare lontano da te. – Sussurrò lui dopo un momento.
- Io non riesco a rialzarmi se tu non ci sei…
- Sono stato un idiota egoista – ribatté. – Ti ho lasciata nel momento in cui eri più vulnerabile, in cui hai dimostrato che anche i più tosti possono piegarsi… So che non volevi farmi soffrire Les, e non ti volevo far star male, ma…
- Non è colpa tua – lo interruppi. – Siamo stati entrambi dei deficienti patentati.
- Tu non sei patentata – protestò.
Alzai le spalle. – In senso metaforico!
La stretta delle sue mani sulle mie si fece più salda, ma sempre gentile. – Queste mani sono state fatte per proteggerti. – dichiarò. Non sapendo come rispondere, se mai avessi potuto trovare una risposta decente, indietreggiai fino ad appoggiarmi al muro e, delicata ma decisa, lo tirai verso di me. La canzone finì e restammo nel silenzio più totale, rotto soltanto dai lievi sibili dei nostri respiri. Orlando appoggiò una mano al muro, vicino al mio viso. Poi l’altra. Lo afferrai per la felpa e lo trascinai di slancio verso di me. La mia testa si riempì di applausi immaginari quando le nostre labbra si ritrovarono urlandosi a vicenda: “Mi sei mancata!”. Sorrisi nel bel mezzo del bacio e Orlando mi abbracciò: quel bacio era l’emblema della gioia e dell’amore che esplose tra noi da tutti i pori.
 

Arrivai sul set di corsa: avrei voluto abbracciare tutti, uno per uno! Due sere prima, dopo il bacio, Orlando mi aveva detto che Elijah l’aveva aiutato a mettere in giro tutte quelle candele che aveva cercato per tutto il pomeriggio. El aveva fatto follie per trovarle, mi confidò Orlie. Avevo passato tutta la domenica al maneggio in compagnia di Orlando, e cavalcammo insieme un po’ di tempo lungo le sponde del lago. Gli raccontai della Ricuci-Rapporti e lui rise di gusto al pensiero di Billy che prende lattine di birra dal lavandino con uno sturalavandini. L’euforia, rimasta ancora da quella notte, mi aveva impedito di dormire e già mi sentivo nelle orecchie il rimprovero di Emma alla vista delle mie occhiaie. Il primo che incontrai quella mattina fu Billy.
- Ciao! – urlai saltandogli addosso e stritolandolo in un enorme abbraccio.
- Ehilà, Les! Sprizzi felicità da tutti i pori: che è successo?
- Io e Orlie abbiamo chiarito! – gridacchiai.
- Davvero? È fantastico! Ehi Dom! DOM! – Billy si sbracciò in direzione di Monaghan che usciva in quel momento dalla roulotte trucco sul fiume. Appena mi vide sfoggiare un sorriso a trentadue denti, alzò il pugno verso il cielo e si mise a ballare quella che lui chiamava la Danza della Vittoria, che prevedeva una serie di sculettate lanciando gridolini eccitati, che però emessi da lui sembravano più il verso di un corvo.
Poi, lontano, vidi arrivare Craig, che quel giorno non avrebbe dovuto recitare ma sarebbe rimasto ugualmente nella location, perché gli piaceva stare in mezzo ai colleghi. Avrebbe trovato da fare comunque, Bob Anderson gli voleva dare lezioni di scherma a più non posso. Lo raggiunsi di corsa.
- Ehi Les! Voli a due metri da terra!
- Lo so! E sai perché?
- Mmmm fammi indovinare – si grattò un istante il mento e mi strizzò l’occhio. – Ti sei rimessa con Orlando?
Rimasi spiazzata. – Come fai a saperlo? – chiesi col tono di una bambina di sei anni che ha appena assistito ad un gioco di prestigio.
- Les, per il futuro ricorda: quando sei contenta lanci delle urla che si sentono da Wellington.
Risi e lo abbracciai.
- Mi sono perso qualcosa? – la tanto agognata voce di Elijah Wood mi raggiunse le orecchie da dietro.
- El!
El El El! – gridai. – Ti adoro! Ti venero! Io…
Sorrise e ricambiò la stretta con cui lo stavo stritolando. – Per te questo e altro – mi sussurrò all’orecchio. – Ti voglio bene.
- Anche io, Woody.
Mi voltai e vidi che anche tutti gli altri erano arrivati: Sean, John, Bean, Viggo, Cate, Orlie. Quest’ultimo teneva in mano il cellulare e, dopo pochi istanti, mi arrivò un messaggio.
Ti amo!

 Girare la scena dei doni di Galadriel fu divertente: approvavamo tutti il metodo di Peter di riprodurre la scena, perché nel libro era davvero complicata. Galadriel non poteva davvero strapparsi i capelli, non si sarebbe visto! E poi, passai tutto il tempo a guardare il visino di Orlando che accarezzava il suo nuovo arco, guardandolo come un bambino ammira una bicicletta nuova la mattina di Natale sotto l’albero.
Finimmo presto di girare, quel lunedì, e giusto prima di andare a toglierci le parrucche, le protesi, i costumi e il trucco, Peter radunò tutto il cast e annunciò euforico:
- Signori! Ho il piacere di annunciare che abbiamo finalmente finito di girare La Compagnia dell’Anello! Da domani inizieremo le Due Torri!
Un boato di gioia si levò dalla crew e dal cast.

 

Scusate l’assenza gente! Purtroppo, quando uno spera di avere più tempo, si ritrova con l’averne di meno. Spero che il capitolo vi sia piaciuto! E ora… vai col 22!

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Capitolo 23
*** Cap 22. ***


La mia vita sul set – cap. 22

- SALUTE!! – due dozzine buone di bicchieri pieni di spumante tintinnarono in aria sopra al tavolo del ristorante dove stavamo festeggiando la fine delle riprese della Compagnia dell’Anello. Avevamo organizzato l’evento in fretta e furia, quella mattina, e avevamo prenotato in un ristorante al centro di Queenstown, ben lontano dai nostri alberghi. C’erano tutti, compresi Fran, Peter e Philippa. Ci aveva raggiunti anche Liv quel pomeriggio, perché sarebbe stata lei la prima a girare le scene delle Due Torri, mentre noi dovevamo ancora organizzarci.
Dopo aver bevuto i nostri spumeggianti bicchieri Ian McKellen annunciò col suo vocione che sovrastava tutti i rumori del ristorante: - Giuro sul mio nome, questo film farà faville!
- Tutti concordarono sonoramente. – Non ho mai visto un cast così affiatato e ben organizzato! Complimenti Peter… Fran… Philippa! – esclamò Zio Ian fermandosi ogni volta su uno dei tre sceneggiatori. Guardai estasiata Orlando seduto accanto a me e lui mi fece l’occhiolino prendendomi la mano sotto al tavolo.
- Senza contare che questa è una cena favolosa! – ruggì John a capotavola con la sua voce grottesca. Tutti acconsentirono.
La suoneria del mio cellulare proveniente dalla tasca dei pantaloni scuri attillati mi fece abbassare lo sguardo da sotto il tavolo, poco vicino a dove io e Orlie avevamo posato le mani. Qualcuno mi stava chiamando. Con qualche difficoltà tirai il telefono fuori dalla tasca e, mormorando una scusa, mi allontanai dal chiassoso tavolo tappandomi un orecchio con un dito per sentire meglio l’interlocutore dall’altro capo del filo.
- Pronto?... Pronto? Lesley Dalton?
- Sì! Sì! Sono io! – risposi a voce alta fiondandomi fuori dal locale tentando di tenermi in equilibrio sui tacchi a spillo. Il vento fuori dalla porta mi scompigliò i capelli gettandomeli sul viso. Li scostai con una mano.
- Sono io, chi parla? – chiesi, tirando un sospiro di sollievo per essere finalmente in un posto tranquillo, anche se le macchine passavano a meno di un metro e mezzo da me.
- Salve. Ehm… io sono Owen Gordon, scrivo per Heyou. Mi chiedevo se fosse disposta a concedermi un’intervista in vista dell’uscita del suo primo film! Sarebbe un’ottima pubblicità per la pellicola!
La proposta mi colse un po’ alla sprovvista. – Ma certo! Ne sarò lieta!
Sentii il giornalista sorridere. – Perfetto! – esclamò entusiasta. – Quando potremo incontrarci? Scelga lei.
Mi voltai a guardare il nome del ristorante sopra la porta dietro di me, poi pensai che a pranzo per quella settimana ero sempre impegnata. – Sono libera venerdì pomeriggio, questa settimana. Le andrebbe di incontrarmi alla panchina sul lungolago dietro al Bluefrie’s Restaurant, alle tre?
Owen rise. – Una bizzarra scelta, signorina Dalton! Ci sarò.
- Ottimo! Arrivederci!
Chiusi la comunicazione e, con sorriso raggiante, tornai dentro saltellando sui miei tacchi a spillo.
- Che succede? – mi chiese premuroso una volta seduta di nuovo accanto a lui. Mi voltai e gli rifilai un bacio.
- Mi hanno chiamata per un’intervista! – esclamai.
Orlando sfoderò un sorriso a trentadue denti e mi batté il cinque.

Il resto della settimana, come premio per il nostro impegno, non lavorammo. Erano tre giorni interi di vacanza escluso il weekend. Ci avviavamo già agli inizi di ottobre, e ormai l’11 settembre mi sembrava lontanissimo, ma la perdita di Jessie ricominciava inevitabilmente a bruciare non appena iniziavo a pensarci. Peter, la mattina dopo la cena, ci annunciò tra gli urli di gioia che lui e lo staff avevano già cominciato a organizzare la prima della Compagnia dell’Anello: la presentazione si sarebbe svolta a Wellington il 19 dicembre. Ci annunciò anche che di lì a poco avremmo ricevuto il primo grosso pagamento per il film, e io non vedevo l’ora.
Peter ci aveva annunciato il tutto nella sala conferenze di Villa del Lago – la sala dove avevo assistito in ritardo all’attacco alle Torri, e non me la sentivo assolutamente di rientrarci. I nuovi attori volevano portarmici a forza, ma desistettero quando con qualche sforzo raccontai loro l’accaduto e così rimasi ad ascoltare le parole di Peter dalla soglia della porta. Erano tutti entrati, ma era come se ci fosse una forza negativa che mi respingeva dall’entrare: mettere anche solo la punta della scarpa dentro mi portava un istantaneo senso di nausea.
Dalla mia postazione Peter era invisibile, coperto dalle schiene di tutto lo staff, ma riuscivo comunque a sentire chiaramente le sue parole. Poco prima di iniziare, però, dalla schiera di schiene spuntò Orlando, che si diresse velocemente verso di me.
- Non riesci a entrare?
Scossi la testa. Orlie non rispose, ma mi abbracciò da dietro con le braccia possenti e mi sentii completamente al sicuro, con lui accanto. Una sensazione che ebbe la gigantesca forza di combattere contro la nausea.
All’annuncio di Peter mi voltai sorridendo verso il viso di Orlando sopra di me, che mi guardò a sua volta e mi sorrise. Mi voltai completamente verso di lui sciogliendomi dall’abbraccio e lui mi afferrò il volto con entrambe le mani e poggiò la fronte contro la mia.
- Siamo attori! – sussurrai guardando il mio riflesso nei suoi occhi. Lui sorrise.

Cercai tra la folla che usciva dalla sala la piccola figura di Elijah, che non tardò ad uscire chiacchierando allegramente con gli altri tre Hobbit.
- Ciao ragazzi! – Li fermai. Mi salutarono tutti con un grande abbraccio. – El, puoi venire con me un momento?
Dom emise un verso tra un “oh” ammiccante e un muggito – Vai, ragazzo, dacci dentro!
El rise e mi seguì in un angolo della sala accanto alla portafinestra, mentre Orlando se ne andava con gli altri squadrando gelosamente Elijah, passando.
- Dimmi tutto, Les! – sorrise El.
- Woody, ti volevo ringraziare. Sei stato unico. Per me, per Orlie… per tutto. – lo vidi assumere un’espressione a metà tra il lusingato e il dignitoso. – Voglio ricambiare il favore – conclusi. Parve sorpreso.
- Come scusa?
- Ti restituisco il favore. Tu mi hai aiutato con Orlie, ora io ti aiuto con Linnie. Vi siete lasciati, no?
- Les, Ilana ha un carattere molto più difficile del tuo. È stata una sua scelta andare per la sua strada.
- E tu la lasceresti andare così? Significa così poco per te?
Rimase colpito, poi si strinse nelle spalle. – Se ha scelto lei…
- Elijah Wood, devi combattere! Se Ilana ti piace, se sei innamorato di lei, devi lottare per quello a cui tieni!
Mi guardò dolcemente. – E il nostro bacio?
- Guardiamo in faccia alla realtà: nessuno dei due avrebbe voluto davvero baciare l’altro ed eravamo tutti e due incasinati fino al collo. Tu eri stato appena mollato da Ilana, a quanto mi hanno detto, e io ero reduce dalla storia delle Twin. Se fossimo stati un attimino più assennati, non ci avremmo neanche provato… per questo tu sei rimasto il mio migliore amico. Quindi – proseguii interrompendogli le parole in bocca. – io ti aiuto con Ilana, e ricambio il favore.
- Les, ho solo comprato delle candele e scritto un biglietto!
- No El, hai fatto molto di più: mi hai resa felice. – gli buttai le braccia al collo e lo strinsi con forza. – Quindi taci e accetta il mio aiuto… anche perché te lo darò, che tu voglia o no!
Elijah ricambiò la stretta e, sorridendo, mi baciò sulla punta del naso.

Era strabiliante come da studentessa non mi ero mai accorta quanto fosse deliziosamente fantastico non lavorare nei giorni della settimana. Durante quei cinque mesi di riprese mi ero abituata ai ritmi frenetici delle riprese, come tutti gli altri, e ritrovarsi con tutto il tempo libero per cinque giorni era come quando la scuola chiudeva per giorni per la troppa neve: uno spasso unico e inaspettato. Sta di fatto che quei giorni, modestamente, ce li eravamo davvero meritati. E così passammo quel periodo di vacanza forzata prima di iniziare a girare le Due Torri per fare ogni tipo di attività che avevamo rimandato fino a poco tempo prima. Il primo giorno – fu una mia idea – noi della Compagnia approfittammo dei più svariati servizi dell’albergo per fare bunjee-jumping sul lago. C’era una specie di seggiovia, come quelle delle piste da scii, di proprietà dell’albergo, che conteneva tutta l’attrezzature per il Bungy e che attraversava la superficie del lago ad un’altezza di 143 metri. Ovviamente Sean si rifiutò di buttarsi e passò il tempo a controllare che le corde ai nostri piedi fossero legate saldamente alla struttura in modo assolutamente sicuro, in modo che nessuno di noi cadendo si sarebbe sfracellato contro l’acqua che “da quell’altezza era come cemento” – Sean. Dom, amante del rischio, portò la telecamera per filmare tutto quanto, persino quando i ragazzi si misero a litigare per decidere chi doveva andare per primo – nessuno di loro voleva farlo. Rimasero lì a discutere e a fare la conta per mezz’ora, e ogni volta che ne usciva uno come Elijah e Billy ricominciavano perché rischiavano un infarto e non sapevano come fare. Alla fine, poiché il tempo passava e non potevamo restare lì per tutto il giorno senza concludere niente, feci un passo avanti:
- Vado io per prima! – annunciai.
Smisero immediatamente di discutere, come nella scena del consiglio di Elrond quando Frodo si offre per andare al Monte Fato. Dom mi buttò la telecamera in faccia. Ammiccai nella sua direzione: - Prima le signore!
- Eh, appunto Dommy, vai! – disse Billy. Ridemmo mentre Dom assumeva espressioni forzatamente offese.
L’addetto, che fino a quel momento era rimasto in silenzio in un angolo ad aspettare che qualcuno si decidesse, balzò in piedi e, sorridendo, mi fece andare aventi e cominciò a legarmi i piedi con un elastico lunghissimo, e mi mise una specie di “cintura di sicurezza” nel busto, un’imbracatura che mi avrebbe assicurato di non cadere e sfracellarmi la faccia sull’acqua.
- Noi non spingiamo nessuno – disse. – Si lanci quando se la sente di farlo.
- Les, sei sicura? – Chiese Orlie.
- Certo! – saltellai facendo alzare l’esastico legato ai miei piedi e mi avvicinai al bordo della piattaforma per calcolare l’altezza.
Il tempo di guardare il vuoto che si espandeva sotto di me e finiva con l’acqua del lago, e davanti agli occhi mi si parò la grafia di Jessie nella sua lettera. L’aveva scritta subito prima di buttarsi dalla Torre. Un tonfo al cuore mi mozzò il respiro. “Ma se cadere da 107 piani  vuol dire avere ancora un attimo di vita e sentire per l’ultima volta il vento sulla faccia, allora preferisco lasciarmi precipitare verso la fine che morire ridotta in cenere.”
Barcollai e feci un passo indietro. Chiusi gli occhi e all’improvviso mi ritrovai quasi proiettata nei panni di Jessica: sentivo ancora le parole della lettera nelle orecchie e intorno a me immaginavo le persone urlanti e il caldo del fuoco, e vidi la finestra spaccata aperta sulla voragine di 107 piani. Scossi la testa e riaprii gli occhi, con nuova determinazione: sarebbe stato come fare l’ultima azione di Jessica. Mi sarei buttata per “sentire per l’ultima volta il vento sulla faccia”.
- Ehi Les, se vuoi vai per ultima! – mi urlò Dom che da cinque minuti mi stava filmando sull’orlo della piattaforma. Forse parlava sul serio, ma mi girai lentamente verso di lui con lo sguardo glaciale che usavo durante le riprese per dimostrare che Hery era più o meno soggiogata dalla forza dell’Anello, quello che secondo Peter metteva paura allo spettatore. Fissai per un attimo la telecamera, e poi mi lanciai con una spinta delle gambe, aprendo le braccia come le ali di un gabbiano.
Durante il volo mi imposi di tenere gli occhi aperti anche se la corrente d’aria spingeva contro il mio viso. La reazione corporea fu sensazionale: trattenni il respiro mentre cadevo, e sentii il mio corpo percorso da scariche di adrenalina pura che mi faceva battere il cuore all’impazzata. Lanciai un grido estasiato: vidi l’acqua scura del lago avvicinarsi sempre di più e quando fu talmente vicina da farmi credere che a quella velocità sarei finita dritta dentro l’acqua l’elastico legato ai miei piedi si tese, facendomi rimbalzare in alto. Gridai ancora, mi piegai su me stessa e risi. Poi la corda si allungò ancora più lentamente, mentre si muoveva anche lateralmente. Mi sentii come dentro una lavatrice, ma era una sensazione stupenda! Mi sentii chiamare e alzai lo sguardo verso l’impalcatura, dove vidi i ragazzi sporgersi e salutarmi con la mano, mentre Dom riprendeva ancora. Li salutai e risi ancora. Dalla piattaforma della seggiovia l’elastico cominciò a essere riarrotolato, tirandomi su di nuovo con i piedi per terra. Era stato davvero incredibile.
Appena misi piede sulla seggiovia mi sciamarono intorno tutti quanti, che mi chiedevano com’era stato – io, come una scema, continuavo a ridere – e risposi:
-    Rifacciamolo! È mitico!
Dominic rise continuando a filmare – erano passati dieci minuti buoni dall’inizio delle sue riprese ma per lui non era un problema – e spinse avanti Viggo per fargli fare il salto: lui si tolse dal collo la macchina fotografica di ultima generazione, si fece mettere le imbracatura e si buttò come se non avesse aspettato altro per tutto il giorno, lanciando un urlo entusiasta. Mi sporsi verso il basso e lo vidi penzolare giù, tranquillissimo. Pensai che forse non era la prima volta che lo faceva, pazzo com’era.
Dopo Viggo toccò agli altri: Bean, i quattro Hobbit, Orlando. Sir Ian, come disse lui, “era troppo vecchio per quel genere di cose”.
Fu un’esperienza incredibile, e mentre tornammo in albergo non smisi mai di sorridere, e il cuore batteva di nuovo pesantemente, come gonfio di felicità: mi sentii libera e serena, e per la prima volta dall’11 settembre il ricordo di Jessica fu meno doloroso e un po’ più distante da me. Presi per mano Orlando e mi avvicinai al suo orecchio:
-    Sono felice – gli sussurrai. La mia affermazione liberò la sensazione del cuore e
sorrisi: quelle parole esprimevano esattamente quello che provavo. Nella mia testa anche il ricordo di Jessie sorrideva.
Orlando mi strinse la mano e si voltò verso di me: fissandomi negli occhi mi accarezzò una guancia, sorrise e mi baciò teneramente. Gli cinsi la vita con le braccia.
Clic! Sentii fare la macchina fotografica di Viggo.

- Allora, ragazzi, mi fate spazio? – feci lo slalom fra Viggo e Billy, che guardavano le foto del pomeriggio nella macchina fotografica. Dom era più lontano, chinato con Orlie sulla videocamera per cercare di collegarla alla presa video della televisione tramite un filo rosso. Avevamo organizzato una serata tutti insieme nella stanza mia e di Orlando. Io ero appena uscita dal bagno dove mi ero pettinata i capelli e mi avvicinai al divano sistemandomi la felpa verde della tuta. Elijah e Sean erano dall’altra parte, dai banconi della cucina, e con sincronizzazione da perfetti barman riempivano bicchieri e bicchierini di birra e bibite di vario grado alcolico. Viggo e Billy si scostarono un pochino senza però distogliere lo sguardo dallo schermo della fotocamera. Mi sedetti per terra e tentai di guardare anche io. Qualcuno bussò alla porta ed entrarono sorridendo Craig, Bill e Miranda, vestita con jeans chiari stretti e una maglia nera a maniche corte, i capelli biondi lasciati ad incorniciare il viso dolce e materno.
- Ciao! – li salutai. Miranda mi vide e venne a sedersi accanto a me. – Sei venuta a vedere lo spettacolo?
Annuì. – Dicono che sia stato fantastico!
La voce di Dom interruppe quello che stavo per dire. – Fatto! – urlò, e corse verso l’interruttore per spegnere la luce. Orlando si buttò sugli altri e mi raggiunse a mo’ di pesce, travolgendo Bean e Bill. – Salve, madamigella! – Sorrise.
Io e Miranda ci distanziammo per permettergli di sedersi accanto a me, lui si mise a gambe incrociata e gli poggiai la testa sulla spalla.
Il filmato iniziava esattamente nel punto in cui io mi offrivo di saltare per prima. Non ci sarebbe stato inizio migliore se non il momento in cui i ragazzi discutevano come bambini perché avevano troppa fifa di iniziare: Dom aveva ripreso benissimo la mia espressione annoiata e leggermente divertita nel guardarli. A vederla risero tutti, e lo fecero anche a vedere me che mi giravo per raggelare Dom con lo sguardo. La cosa più buffa, infatti, era che in quel momento regnava il silenzio più totale e la mia espressione era ancora più agghiacciante (modestamente). Ad ogni modo, il momento in cui risi di più, tanto da piegarmi in due, fu il lancio di Dominic stesso: dopo un piccolo punto in cui non si vide niente – cioè quando aveva passato la telecamera a Sean -, si vide Dom saltare in posa da marinaio sull’attenti, con tanto di saluto militare. La cosa strana era che non aveva mai fatto Bunjee prima d’allora e il fatto che riuscisse a buttarsi con cotanta leggerezza risultava quantomeno esilarante!

Passai il giorno dopo tutto con Orlando senza tenere conto degli altri – con il lavoro che facevamo era difficile rimanere soli durante la settimana, per questo dovevamo sfruttare ogni minima occasione, anche se a volte eravamo troppo stanchi per combinare qualcosa, nonostante l’occasione stessa. Il giorno dopo ancora, l’ultimo della vacanza ossia venerdì, a colazione, Peter ci annunciò che la presentazione ufficiale della Compagnia dell’Anello si sarebbe svolta a Wellington il 19 dicembre. Dopodiché avremmo dovuto mettere in pausa le riprese per assistere a delle prime importanti come quelle di New York e Los Angeles, concedere qualche intervista, per poi tornare a girare fino alla notte degli Oscar. Una micro pausa di uno o due giorni al massimo, e di nuovo in Nuova Zelanda a girare finché la storia non si sarebbe ripetuta per le Due Torri, e poi ancora per il Ritorno del Re. Peter ci disse anche che Sir Ian e Elijah avrebbero dovuto girare un’altra volta la scena di Moria, per aggiungere una battuta che era stata scritta dopo l’11 settembre. Dopo il discorso del nostro regista Miranda posò la tazza del caffè sul tavolino davanti a me e, con fare ammiccante, mi chiese di accompagnarla a fare un po’ di shopping quella mattina.
-    Certo! – risposi. – Ma prima devo chiedere una cosa a Craig.

- Ehi Craig!
- Ehi Les!
- Devo chiederti un favore.
- Mi dica – sorrise.
- Mi accompagni alla mia prima intervista oggi pomeriggio?
- A che ora?
- Alle tre.
Craig parve pensare grattandosi il mento. – Me lo chiedi solo per poter guidare la mia Harley, vero?
Gli feci l’occhiolino – Sai che tengo molto alla tua moto!
-    Grazie! – sorrise sornione, poi capì quello che avevo detto – Ehi!
Risi. – Grazie Craig! – gli picchiettai la spalla.

Miranda aveva un gusto per i vestiti fantastico, al contrario di Orlando che la maggior parte delle volte non aveva la minima idea di quello che si ficcava addosso. Più o meno ogni mattina Orlando entrava nel vortice dell’armadio e ne usciva con le prime cose che gli restavano appiccicate. Io, invece, non mi potevo lamentare: certo, non avevo lo stesso gusto di donne sensuali e femminili come Liv, per esempio, ma di solito quello che compravo era abbastanza carino. Per questo, girando fra i negozi di marche famose di Queenstown – sì, in quella città c’erano anche negozi famosi -, mi comprai per la notte degli Oscar un vestito verde fluente lungo di Valentino con lo spacco laterale senza spalline, e un paio di scarpe col tacco da abbinarci. Per la presentazione invece, un paio di pantaloni bianchi di seta, una lunga maglia a motivo floreale e Manolo Blahnik d’argento con una punta si Swarovsky. Non avevo ancora idea di come mi sarei pettinata, né quando avrei riguadagnato la somma spesa. Avrei voluto passare più tempo a chiacchierare con Miranda e a passeggiare per il centro, ma ero così emozionata per l’intervista imminente che appena finimmo costrinsi Miranda a saltare in macchina e a riportarmi in albergo.
Mentre eravamo ferme ad un semaforo, le chiesi: - Come funziona un’intervista?
Lei si girò verso di me facendo spostare i lunghi capelli biondi e sorrise: - Arrivi lì, ti fanno delle domande, ti registrano per non perdere niente di quello che dici e poi a volte ti fanno qualche foto da accompagnare all’articolo. Cerca di essere il più naturale possibile, sii te stessa.
-    E se dico qualche cavolata? Se mi lascio sfuggire qualcosa sulle riprese?
-    Ovviamente devi pensare prima di parlare.
-    Certo. Ovvio.
Il semaforo divenne verde e le macchine cominciarono a muoversi. – Vedrai, è facile! – mi tranquillizzò.
-    Speriamo – sospirai.

- Lesley! Sei pronta? – Bussò Craig urlando attraverso la porta. –
- Sì, entra! Ci sono quasi! – urlai di rimando dal bagno per poi tornare ad applicarmi il mascara sulle ciglia stando attenta a non spargerlo sulla maglia a pieghe celeste. Mentre Craig entrava attraverso la porta aperta afferrai la spazzola accanto al lavandino e guardandomi allo specchio cominciai a pettinarmi velocemente i capelli. Craig incrociò le braccia, sorrise e si appoggiò allo stipite della porta.
- Se non ti mettono in prima pagina è un insulto.
Sorrisi chiudendo la spazzola nel cassetto. – Ti ho chiesto di accompagnarmi solo perché Orlando è chiuso in palestra con Bob.
-    Davvero? Pensavo che fosse perché siamo amici e da amico ti dovevo accompagnare in moto.
-    Sì, anche quello è vero.
Craig sorrise e mi lanciò un casco nero preso dal pavimento.
-    La Harley sta per rombare!


-    Questo è il piano: io resto qui dietro l’angolo e tu vai. Fai quest’intervista e poi torni indietro. Semplice!
-    Se lo dici tu… - sospirai. Da dove ci eravamo infilati con la moto riuscivo a
intravedere l’uomo che aspettava sulla panchina davanti al lago. Era piuttosto giovane, con i capelli rossi. Sospirai ancora e con un sorriso eccitato attraversai la strada e lo raggiunsi.
-    Owen Gordon?
Lui scattò in piedi e si girò, e il suo viso si dipinse di stupore e forse meraviglia. – Lesley Dalton?
Sorridendo gli tesi la mano. La strinse.  – Le foto non le rendono per niente giustizia. – annunciò.
Accennai a una risata. – Grazie! – Da dove arrivava quel mio fare civettuolo???
-    Allora – visibilmente eccitato, mi mostrò il registratore – Iniziamo?
Senza dire niente mi sedetti sulla panchina e accavallai le gambe. Lui accese il registratore. – E’ pronta per questa intervista?
-    Sono piuttosto emozionata, questa è la mia prima intervista.
Sorrise intenerito. – Bene. Come ci si sente a lavorare con un gruppo così affiatato e pieno di grandi attori di tutto il mondo?
-    Sono tutti molto carini! Per fortuna sono tutte persone molto piacevoli con cui passare il tempo, quindi ci frequentiamo tantissimo anche fuori dal set. Oramai siamo diventati una grande famiglia. In Viggo Mortensen, per esempio, vedo uno zio saggio (anche se non posso dire che sia esattamente vecchio)! È bello instaurare questo genere di rapporto con i colleghi, siamo camerati.
-    Quando pensa che sarà pronto questo primo episodio della saga “Il Signore degli Anelli”?
-    La presentazione qui in Nuova Zelanda si terrà il 19 dicembre, quindi di lì a poco il film uscirà in quasi tutte le sale.
-    Parliamo del suo sconvolgente incidente con la barca di qualche tempo fa: che cosa è avvenuto esattamente?
Trattenni a stento una smorfia di disappunto: mentre mi trovavo in ospedale Billy aveva detto che avevano mantenuto il silenzio stampa. Evidentemente si sbagliava, dovevo quindi trovare una scusa per non mettere Peter nei pasticci. – La corrente del fiume era troppo forte e io e Orlando Bloom non siamo riusciti a controllare la barca, che cominciò a riempirsi di acqua. Finimmo sommersi, ma ci recuperarono subito.
-    Voci trapelate dicevano che lei ha dovuto trascorrere un periodo di degenza in ospedale a causa delle ferite riportate nell’incidente.
Feci con la mano un gesto di disinteresse. – Non si può mai verificare la veridicità delle voci nel mondo del gossip. Può darsi che siano state messe in circolo per gioco, sono solo sciocchezze. Poteva andare peggio, ma per fortuna non è successo niente di grave.
Lui annuì. – Come hanno reagito gli altri alla situazione?
-    Ovviamente erano preoccupati per noi, ma avevamo a disposizione tutti i mezzi di sicurezza che si possano immaginare – Sorrisi sicura.
-    Come la Nuova Zelanda ha vissuto il tragico episodio avvenuto qualche tempo fa a New York, ossia il crollo delle Twin Towers?
-    Non posso parlare a nome di tutta la nazione, ma ognuno dei membri del cast l’ha
presa in maniera diversa. Quasi tutti hanno assistito all’attacco in diretta, dopo mezzanotte, alle televisioni dell’albergo. Io, purtroppo, ne sono venuta a conoscenza solo la mattina dopo (a causa del mio sonno pesante non mi sono svegliata insieme agli altri). Siamo tutti molto addolorati per l’accaduto e piangiamo la perdita di così tante persone innocenti. - Dissi l’ultima frase con un tono da Presidente degli Stati Uniti.
-    Sappiamo che anche una sua amica è stata coinvolta nell’attentato: se la sente di
ricordare qualcosa su di lei?
Quelle parole, come un pugno, mi fecero cambiare immediatamente espressione. – Quella è stata una profonda perdita. Le chiedo, per favore, di non pormi domande sull’argomento. Volevo un mondo di bene a quella persona e la sua assenza mi affligge, sarò in grado di parlarne a tempo debito.
-    Certo, lo possiamo capire. Mi scusi. – abbassò il capo accennando dispiacere.
-    Non fa niente – sorrisi di nuovo socchiudendo gli occhi. – Ha qualche altra domanda?
-    Sì: com’è stata quest’intervista?
-    Decisamente interessante! Mi sono divertita a rispondere alle sue domande!
Spense il registratore e sorrise. – La ringrazio infinitamente, ma le chiedo un ultimo favore: scatterebbe per me delle foto da aggiungere all’articolo?
Proprio come Miranda mi aveva detto. – Senz’altro! – risi e scattai in piedi. Lui tirò fuori da uno zaino che aveva a fianco una macchina fotografica.
-    Ne può fare una appoggiata alla ringhiera sul lago?
Mi avvicinai alla ringhiera con due passi, vi posai le mani sopra, mi voltai e sorrisi rivolta all’obiettivo. Lui scattò più foto. Poi mi spostai e mi sedetti sullo schienale della panchina, giungendo a pugno le mani davanti a me e osservando l’acqua. Scattò. Guardai nella macchina fotografica e sorrisi di nuovo allegramente. Scattò. Posai i piedi sulla panchina e saltai alzando i pugni al cielo, ridendo. Scattò al momento giusto e rise.
-    Splendida. La ringrazio infinitamente!
Gli strinsi la mano. - È stato davvero un piacere!
Lui prese le sue cose e, con un sorriso e un ultimo cenno del capo, si allontanò verso un motorino a poca distanza da dove eravamo noi. Lo guardai andarsene, poi girai i tacchi e attraversai di corsa la strada per raggiungere Craig, che era rimasto tutto il tempo a spiarmi dietro l’angolino come un maniaco sessuale. Appena gli arrivai al fianco, lo abbracciai saltellando e gli battei il cinque.
-    Sei stata favolosa! – esclamò. – Com’è stato?
-    Fantastico! – risi.

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Capitolo 24
*** Cap 23. ***


La mia vita sul set – Cap. 23

Dopo la prima intervista volavo a due metri da terra: volteggiavo da una stanza all’altra della camera dell’albergo facendo le più svariate cose, compreso riempire le valige – i nostri giorni a Queenstown erano quasi finiti e dovevamo spostarci. Mentre facevo quelle svariate migliaia di piccole cose alla luce del freddo sole di fine settembre parlottavo anche al cellulare, cercando di organizzare una serata al fast food per festeggiare la buona riuscita dell’intervista. Erano solo cinque del pomeriggio ma ogni minuto era prezioso!
-    Ciao Dommy! Mi sedetti di slancio sulla sedia della scrivania.
-    Ciao! Com’è andata l’intervista?
-    Bene! Sto organizzando un’uscita al Fast Food stasera, vieni?
A “Fast Food” lanciò un grido – Puoi scommetterci piccola! Porto anche quel pigrone di Bill, così magari rimorchiamo qualche bella donna!
- Ahaha Dom, possibile che non riesci a pensare a nient’altro?
- Non prendermi in giro, sai che penso anche ad altre cose.
- Mh, ad esempio?
- A trovare le sigarette stasera.
- Geniale! Devo riagganciare.
- Ok! Ciao! – Buttò giù. Feci il numero di Billy e cominciai a mettermi lo smalto rosso sulle unghie dei piedi dopo averlo preso da un angolo della scrivania.
- Billy Bond – rispose imitando pateticamente la voce sensuale di 007.
- Dom ti trascina a cena da me stasera. - Sembrò sbuffare. – Dice che magari riuscite a rimorchiare!
- Grannnnnnnde!! Quando ci vediamo?
- Ti faccio sapere! – chiusi lo smalto e lo rimisi nell’angolino della scivania.
- Adios!
Chiusi la comunicazione e chiamai Orlando che rispose al primo squillo.
-    Ciao amore! Aspettavo una tua chiamata… com’è andata?
-    È stato uno spasso! Ne parliamo stasera al Fast?
-    Aggiudicato! Io sono in centro, se vuoi prima di andare faccio un salto da te… che ne dici?
Il mio sorriso si intenerì. – Ti aspetto.
-    Splendido. Arriverò fra un’oretta circa.
-    Così tanto? Che devi fare?
-    Eeeeeh…  vedrai.
-    Eddai, dimmelo!
-    No! Ahah ci vediamo dopo piccola.
Riattaccò il telefono, lasciandomi sulle spine. Fare così era una caratteristica di Orlando: prima mi diceva qualcosa e poi non mi dava maggiori informazioni, il che il più delle volte mi lasciava presagire che stesse almanaccando qualcosa insieme ai ragazzi del cast – e per me non sempre quel qualcosa era piacevole.
Telefonai anche a tutti gli altri ma trovai solo i quattro Hobbit e Orlando disponibili. Craig aveva già un impegno per quella sera, Viggo doveva andare da qualche parte con suo figlio insieme a Bean – forse a giocare a bowling -, Sir Ian “era troppo vecchio per mangiare quelle dannate porcherie” e così anche gli altri. Mentre parlavo con tutti avevo preso dall’armadio tutti i vestiti, piegati e impilati sul letto matrimoniale. Poi ero salita su una sedia per prendere la valigia sopra il guardaroba e l’avevo posata per terra sollevando un cumulo di polvere che mi costrinse ad aprire la portafinestra e a fare entrare l’aria fredda.

Passai a raccattare tutte le cianfrusaglie che avevo tenuto sparse per l’appartamento per non so quanto tempo, sfidando ogni volta quella santa cameriera che ogni volta passava a pulire. Ero disordinata, molto disordinata: una cosa che avevo sempre condiviso con Jessie. Orlando, da quando ci eravamo conosciuti, cercava sempre di riordinare un po’ quella scia di disordine che ero abituata a lasciare dietro al mio passaggio. La cosa strana del mio disordine, era che le cose io le trovavo! Era nell’ordine di Orlando che le perdevo – e in questo lui assomigliava a mia madre.
Iniziai col cercare di mettere gli accessori del bagno nel beauty case in maniera ordinata, rinunciando al momento delle spazzole che gettai dentro a caso. Poi passai alla valigia più grande, con tutti i vestiti che mi ero comprata dal mio arrivo in Nuova Zelanda.
Ero così concentrata che non mi accorsi neanche del tempo che passava e alzai lo sguardo dai vestiti impilati solo quando sentii bussare alla porta. Corsi ad aprire col sorriso sulle labbra scavalcando di slancio tutte le borse, borsine e borsette sparse sul pavimento, e mi ritrovai davanti il viso da sex symbol di Orlando.
-    La mia bimba famosa! – mi prese per i fianchi e mi fece fare un giro in aria.
-    Orlie! – durante il volo gli tenni le braccia intorno al collo e poi abbassai il volto per baciarlo. – Mi sei mancato.
-    Anche tu, Les. – mi posò a terra ed entrai, con lui che mi seguiva a ruota. Saltellai di
nuovo in mezzo alla roba ma, arrivata all’altezza del divano, sentii un tonfo dietro di me: mi voltai e l’unica cosa che vidi era Orlando disteso a faccia in giù sul pavimento, con una borsa di pelle fra i piedi e le braccia larghe. Era inciampato!
Invece di aiutarlo scoppiai a ridere. Fece un po’ di fatica ad alzarsi, scaraventando la borsa verso il frigo dell’angolo cottura.
-    Sì ridi, ridi Lesley! Ahia che botta! – venne verso di me massaggiandosi il naso,
mentre io mi piegavo in due in preda al gran ridere. Orlando si avvicinò piano, utilizzando la pratica ninja supersilenziosa di Legolas. – Adesso vedi che ti faccio! - Appena fui a tiro, mi caricò in spalla come un sacco di patate. Una lieve paura si intrufolò al posto della risata.
-    Orlando mettimi giù! Giù subito!
Orlie rise. – Ti mangio! Miao!
Portandomi in spalla tranquillamente come un contadino con la balla di fieno corse verso la camera da letto e non curante di tutti i vestiti accatastati sul materasso mi ci scaraventò sopra, facendoli volare tutti giù. Ricominciai a ridere e lui si buttò a cavalcioni sopra di me, bloccandomi con le gambe e cominciando a farmi il solletico. Risi più sguaiatamente di prima e cominciai a dimenarmi sotto il suo peso cercando di bloccarlo ma lui perseverava. Alla fine, quando ritenne che così era abbastanza, si abbassò all’improvviso e mi baciò dolcemente socchiudendo gli occhi come un gatto. Sorrisi nel mezzo del bacio e lasciai che per un attimo quella dolcezza mi pervadesse, poi con un luccichio di scaltrezza negli occhi lo capovolsi con una mossa di autodifesa imparata al corso di Stunt, cogliendolo di sorpresa. Accettò quel cambio di posizione e invece di protestare, posò la testa accanto alla mia sul cuscino e mi circondò con le braccia, trasferendomi tutto il calore del suo corpo.
-    La sai una cosa? – mi chiese sottovoce. Lasciai passare un secondo.
-    Cosa?
-    Sei la mia vita.
Per un attimo pensai mi sarebbero uscite lacrime di commozione ma non successe. Mi girai verso di lui e poggiai il mio naso contro il suo, sfregando la punta con la punta.
-    Anche tu.
Sorrise e mi accarezzò il viso.

Sdraiati sul mio letto a farci le coccole neanche ci accorgemmo del tempo che passava. Solo quando mancava mezz’ora all’appuntamento con gli altri al Fast Orlando si alzò e mi disse che prima di andare doveva prendere una cosa in camera sua e che io dovevo avviarmi perché altrimenti facevo tardi. Nonostante la mia curiosità, eseguii i suoi ordini e lui andò in camera sui. Mi infilai dei pantaloni di velluto neri, una maglia a maniche lunghe, una felpa pesca e un paio Tiger bianche. Prima di uscire dalla stanza decisi di raccogliermi i capelli in una treccia su un lato della testa, guardai alla svelta il mio riflesso allo specchio e forse per il luccichio di felicità negli occhi o forse per le mie gote ancora arrossate per l’emozione delle coccole con Orlando, mi vidi bella.
Uscii volando, metaforicamente.


A parte Viggo che non poteva venire perché aveva un impegno con suo figlio, Bean che usciva con una ragazza e John che attualmente si trovava fuori città, gli invitati ufficiali alla festa erano le persone a cui ero più affezionata e quella – l’unica – che conoscevo un po’ di più fra i nuovi arrivati: i quattro Hobbit, Orlando, Craig. I soliti insomma. Ci dovevamo vedere davanti al Fast alle otto in punto e arrivai alle otto e due minuti, ma stranamente ero l’ultima ad arrivare. Un attimo…
- Ma dov’è Orlando?
Fu Dom a rispondere sistemandosi il cappello sui ciuffi biondi. – Ha chiamato due minuti fa, ha detto che ritarda.
-    Ok, allora… entriamo?
Mi chiesi perché Orlando non avesse chiamato me per avvertirmi, feci spallucce ed entrai nel locale.
Il Fast Food era, come dice il nome, un fast food. Una specie di McDonald’s che però serviva come la Ceasar Salad o pasta fredda, che non distribuiva insomma quelle schifezze di hamburger fatte con chissà che cosa – anche se le patatine, a mio avviso, erano fantastiche. Quando si passeggia fra le stradine di Queenstown il Fast si trova quasi per caso: non grande, con grandi sedili di velluto attaccati alle pareti e un forte odore di birra e cibo, immerso in un’atmosfera simpatica e accogliente che non si poteva definire tranquilla ma variava a seconda dei clienti della serata. Non so quante volte io e i ragazzi ci siamo andati dopo le faticose giornate di riprese per bere una birra e rilassarci, prima di tornare nei nostri comodi letti a Villa del Lago. I proprietari di quel locale ci avevano visti così tante volte che ormai avevano preso a chiamarci per nome e c’era anche chi provvedeva a non farci assaltare dai fan che qualche volta riconoscevano Viggo o Elijah.
Grazie alla mia prenotazione ci avevano sistemato in un angolino tranquillo del bar, ad un tavolo circolare munito si panche di velluto che lo attorniavano completamente: in sostanza, se ti volevi sedere dovevi scavalcarlo. Non proprio il massimo della raffinatezza e della comodità ma comunque simpatico.
Una volta tutti accomodati dissi:
-    Signore e signori… anzi, solo signori… siamo qui riuniti oggi…
-    Per celebrare la santa messa liturgica! – mi interruppe Craig, scatenando l’ilarità
generale.
-    Ehi Les, potevi avvertirci! Mi sarei messo il vestito della domenica! – protestò Dom.
-    La “domenica” in senso religioso è totalmente assente nella tua vita tranne che nel tuo nome, Dominic! – risposi con una linguaccia.
E Billy: - L’unica domenica che intende Dom è quella in cui si sta stravaccati nel letto tutta la mattina, meglio se accanto a qualche bella ragazza! – si girò e gli batté il cinque.
Dom guardò dietro di me e mi ordinò svogliato: - Les, di’ al venditore ambulante dietro di te che non compriamo niente.
Gli lanciai un’occhiata contrariata per quello che aveva detto e mi voltai girando il busto sul sedile, pronta a dire educatamente – non alla maniera di Dom – al venditore di rose che non volevamo niente ma prima che dicessi qualche cosa il cervello mi avvertì che quello dietro ad un enorme mazzo di fiori appostato alle mie spalle non era un venditore: da sopra quel cespuglio di mille colori a mezz’aria spuntava il viso sorridente di Orlando. Mi lasciai sfuggire un versetto intenerito e mi avvicinai a lui mettendo un ginocchio sullo schienale del sedile per dargli un bacio di ringraziamento.
-    Congratulazioni per la tua prima intervista Les.
Presi il mazzo e lo annusai. Mi ricordava il profumo dei campi vicino alla nostra prima location.
-    E tu, Billyno tanto carino, scansati che voglio stare vicino alla mia ragazza! – Orlando afferrò Billy da sotto le ascelle, lo sollevò e lo sistemò un po’ più in là sul sedile.
-    Ehi, Mozzarella, guarda che gli elfi non piacciono a nessuno!
-    Vediamo quante fan impazziranno per Pipino l’Hobbit! – ribattei scherzosa e
iniziammo tutti a ridere. In quel momento arrivò la nostra cameriera preferita del Fast, Marge: avremmo fatto come minimo quindici foto con lei e avevo il sospetto che se le fosse vendute in giro.
-    Allora, io prendo un’insalata fredda di pasta – dissi – ci puoi mettere tanti wurstel?
Lei annuì e mentre annotava le richieste degli altri lanciava sguardi seducenti ad Orlando: non era la prima volta che lo faceva ed ero stata molto indaffarata a marchiare il territorio durante le prime cene. Ma una volta chiarito il fatto che Orlando era mio e che lei non gli interessava minimamente, aveva smesso di provarci e anzi, mi stava anche diventando simpatica.
Alla fine del giro, Craig disse: - Credo che siamo tutti d’accordo nell’affermare che visto che è la nostra ultima cena al Fast ordiniamo anche una vagonata di patatine.
Annuimmo e Marge se ne andò con un sorriso divertito.
Quando rimanemmo soli, Elijah disse a mezza voce: - E’ davvero la nostra ultima cena al Fast, caspita. Mi sono affezionato a questo posto.
-    Già. – concordai. – A me mancherà un sacco Villa del Lago… sto pensando di far spostare il cenotafio di Jessie al cimitero, credo che sia illegale tenerne uno nel territorio di un albergo.
-    Hai fatto un cenotafio per Jessie? – chiese Billy di colpo interessato.
-    Sì! – esclamò Elijah. – E mentre lo costruiva giuro di averla sentita cantare.
Lo fulminai immediatamente con lo sguardo. Lui mi vide, arrossì e incassò la testa nelle spalle. Ci fu un attimo di silenzio.
-    Non ti ho mai sentita cantare… - mugugnò Orlando. Oddio Lesley, cambia discorso
subito! Come al solito non seguii quello che mi diceva la testa e rimasi zitta finché Dom non ruppe il silenzio calato sul tavolo.
-    Quelle persone dovevano essere terrorizzate…
-    Tu cosa proveresti se fossi in un grattacielo che brucia? – Chiese Sean. Alla sua
domanda retorica Dom lo guardò di sottecchi.
-    Chissà se sono ancora qui.
-    Intendi dire i fantasmi? – insinuò Billy. – Dom, quelle persone sono morte, nessuno
può sapere dove sono ora!
-    Io sì. Lo so. – Tutti gli occhi si girarono verso di me. – O almeno, credo. – Nessuno
fiatò. Guardai la mia mano stretta in quella di Orlando, poi il suo viso. – Quando abbiamo avuto l’incidente in barca, ricordi? Ho sbattuto la testa sullo scoglio… quando mi sono svegliata in ospedale il dottore mi ha detto che per un po’ sono andata in arresto cardiaco, che… sono andata e tornata, ma intanto ho visto. Ho visto una galassia davanti a me e ognuno dei suoi bracci mi faceva vedere cosa stavano facendo tutti quelli che amo. Ma non era una cosa estranea, era già dentro di me!
Silenzio. – Sei morta davvero? – chiese Elijah, annuii impercettibilmente. Poi feci la mossa più giusta che mi era balzata in mente in quel momento, e per fortuna riaccese l’atmosfera.
-    Sto pensando di comprare casa a Wellington! Una casa tutta mia… secondo voi ce la faccio con la paga della Compagnia?
Craig si grattò il naso. – Secondo me dovresti aspettare un po’ di soldi dalle Due Torri. Almeno sai che così hai dei risparmi.
Sean si dichiarò d’accordo. – E poi magari devi anche spendere soldi per ristrutturare, applicare i giusti e qualificati sistemi di allarme, mettere le inferriate alle finestre del giardino… L’unico che ha avuto abbastanza fortuna nel trovare una casa a posto è stato Orlando.
-    Oh sì mi ricordo! – esclamai. – Io e Liv ti avevamo accompagnato, vero Orlie? Avevi anche sbagliato strada.
Lui annuì. In quel momento arrivarono le nostre ordinazioni munite di alti boccali di birra. Una volta tutti pronti, con un’occhiata complice alzammo i boccali verso l’alto in un brindisi taciturno. Io bevevo alla mia prima intervista, alla mia vita sul set con dei ragazzi speciali come loro e, soprattutto, a Jessie.

Il giorno dopo chiesi a Linnie di accompagnarmi al cimitero per far incidere una lapide per Jessie, così prendevo anche due piccioni con una fava: avrei parlato con lei di Elijah e onorato Jessie come si deve. Pur con qualche riluttanza Linnie accettò. Andammo la mattina presto in taxi e ne approfittai per chiederle che era successo con Woody e perché si era comportata in quel modo brusco quando mi era venuta a trovare all’ospedale. Anche se era mia amica e la conoscevo temevo la risposta che mi avrebbe dato ma lei sembrava riluttante a rispondere con sincerità: cercò un paio di volte di sviare la mia attenzione dall’argomento con inutili giri di parole ma alla fine la mia testardaggine e la sua scarsa abilità nel mentire finirono col metterla con le spalle al muro. Il problema era che Linnie, quando si sentiva sotto pressione, passava direttamente all’attacco. Smise improvvisamente di guardare fuori dal finestrino e si voltò a fissarmi con occhi ardenti facendo ballare i ricci ramati. Parlò con voce glaciale, non urlando come mi sarei aspettata.
- Vuoi sapere perché mentre eri in ospedale ti ho urlato contro? Perché ho mollato Elijah? Eccoti servita: quando ti abbiamo visto cadere su quello scoglio e rimanere immobile ci siamo spaventati a morte, ancora di più quando non rispondevi. Ti sono venuti a prendere dall’ospedale in elicottero e ti ci hanno portato di corsa. Eravamo tutti preoccupati e specialmente Orlando… sembrava che stesse per lasciarci le penne, ma anche Elijah non stava fermo un attimo, non l’ho mai visto così agitato! Non ascoltava nessuno, c’era il terrore nei suoi occhi. Anche io ero spaventata, certo, ma non mi quadrava il suo stato d’animo.
    “Devi stare tranquillo” gli ho detto. “Tranquillo?” Ha risposto. “Io non sto tranquillo! Potrebbe andarsene! È troppo importante perché se ne vada! Non può morire…”. Si è seduto per terra e si è messo la testa tra le mani. Aveva ancora il costume. Io non riuscivo a capire quello che stesse dicendo. “Sei innamorato di lei?” gli ho chiesto e lui ci ha messo un po’ a rispondere. “No”, ha detto alla fine ma i suoi occhi dicevano un’altra cosa e io mi sono ingelosita da morire e imbestialita da morire con te, perché lui amava te e non me. Per questo l’ho lasciato.
-    Linnie… - dissi. – non è mai stato innamorato di me, neanche per un istante. Mi vuole sono bene ma ama te, me l’ha detto lui.
Linnie, che dopo il racconto aveva abbassato il viso, lo alzò e mi guardò mostrandomi che ora aveva gli occhi pieni di lacrime. – No, io non credo.
Il taxi ripartì e si allontanò. - Io sapevo che all’inizio tu piangevi seduta per terra e lui ti consolava.  – In realtà l’avevo visto nella galassia. – Ti devo dire la verità: dopo l’attacco alle Torri Gemelle Orlando mi ha lasciata e io e Elijah ci siamo baciati, ma è stato solo un bacio – mi affrettai a dire vedendo la sua espressione. – Eravamo entrambi confusi e incasinati e non ci stavamo con la testa. Siamo solo amici e lui ama te. Ma la domanda è: tu lo ami?
Il taxi si fermò davanti al cimitero. Scendemmo e lei, chiusa la portiera, mormorò: - Lo amo.
-    Allora vai da lui e parlagli.
Tentennò. – E se mi respinge?
Sorrisi. – Non credo proprio.
Accanto al cimitero c’era un’impresa di pompe funebri. Fino ad allora non ero mai stata in un posto del genere e avevo sempre sperato di non farlo mai: all’interno l’aria era pesante, anche se il riscaldamento dietro ad un comò era acceso. Davanti alla porta c’era un uomo in giacca e cravatta che scriveva attento con una stilografica, e accanto alla scrivania una porta coperta da una pesante tenda di velluto viola. Appena entrammo, ci vide e si alzò.
-    Buongiorno. Sono Aaron. Accomodatevi. - Wow, questo saltava i convenevoli a pie’
pari! – Voi siete?
-    Io sono Lesley Dalton. – Aaron scrisse il mio nome su un quaderno nero, poi alzò lo sguardo verso Linnie.
-    Oh, no, io sono qui come supporto morale – si affrettò a precisare lei. – Quella che deve fare questa cosa è Les.
Aaron tornò a guardarmi. – Mi dispiace per la sua perdita. – Quell’uomo doveva aver ripetuto quella frase un milione di volte, tanto quanto bastava per perdere il senso emotivo per quelle parole cariche di significato, eppure nei suoi occhi si leggeva un dispiacere sincero… o almeno così mi pareva.
-    Grazie. – Risposi.
-    In cosa posso esserle utlile?
-    Vorrei una lapide, il più presto possibile.
-    Vuole seppellire il defunto in questo cimitero?
-    Sì.
Aaron scrisse sul quaderno. – Cosa ci vuole incidere?
Combattei contro la difficoltà del trattenere le lacrime e ci pensai su. – “A Jess” – mi fermai. – “7 Ottobre 1983 – 11 settembre 2001” – Mi fermai di nuovo. Pensai di far incidere cose come “Amata mia sorella”, ma non andava dal momento che era troppo banale e non era mia sorella. Anche tutte le altre che mi venivano in mente erano comuni. Citare una frase della lettera, neanche a pensarci. Poi mi venne in mente una cosa che Jess aveva detto a  Matthew Colt, il giorno dopo il mio compleanno, quando era venuto per rompere le scatole a tutti.
-    “Salta sulla tua macchina e fila via, imbecille!” – conclusi, e risi. Quella frase
raffigurava tutta la figura e il carattere di Jessica, era perfetta per lei. Fantastica. Aaron purtroppo non poteva capirlo e mi guardò allibito per un attimo, tornando poi a scrivere nel suo quaderno.
-    Quando si terranno i funerali?
-    In realtà si sono già tenuti. A New York. - Mi guardò perplesso. – Nessuno deve
essere seppellito sotto la lapide. È solo un modo per onorare una mia grande amica perché non ho potuto essere presente al suo funerale. Jess è morta nell’attacco alle Torri Gemelle. Vorrei che sia tutto pronto per domattina. Per la collocazione, mi fido di lei.
Aaron mi aveva guardato dolorosamente al sentir nominare il WTC ma la sua natura professionale riprese subito le redini della situazione.
-    Intende pagare ora?
-    Non ho altra scelta.
Aaron contò il totale su una calcolatrice. – Di solito è la mia assistente a fare i conti ma è in maternità… - cercò di spiegare. – Sono 2500 dollari.
-    Perfetto. – Scrissi tutto su un foglio del biglietto degli assegni. – Per quando sarà pronto?
-    Domattina alle dieci come ha chiesto lei, signorina Dalton.
-    Grazie. – mi alzai e Linnie con me. Gli strinsi la mano. – è stato un piacere.
Una volta fuori mandai un messaggio a tutti i miei amici.
“Domattina, alle dieci, al cimitero. Funerale Jess. Siate puntuali”.

Il mattino dopo alle dieci in punto, c’erano Viggo, Orlando, Miranda, Liv, Dom, Billy, Sean, Elijah, Linnie, Bean, Craig, Christine con Alexandra ed io, naturalmente. Tutti vestiti con gli abiti più solenni che eravamo riusciti a tirare fuori dalle valigie già pronte e chiuse per la partenza di quella sera, in silenzio davanti alla lapide di Jessie scolpita a puntino che recitava a caratteri eleganti.

A Jess
7 Ottobre 1983 – 11 Settembre 2001
“Salta sulla tua macchina e fila via, imbecille!”

All’inizio i ragazzi avevano a riso al leggere quella frase, ma ora nessuno stava ridendo ed eravamo lì impalati da dieci minuti.  Il fatto era che non riuscivo a spiccicare una parola in sua memoria! Orlando mi stringeva la mano e solo grazie a quella stretta riuscivo a non piangere, e ad un certo punto avevo detto:
- Credo che sia il caso di dire qualcosa. – ma poi più niente. Alla fine, quando ognuno di noi l’aveva ricordata abbastanza per il tempo che aveva passato con lei, dal silenzio emerse la voce di Viggo  che cantava i primi versi di How to save a life, un po’ come io avevo fatto per Moulin Rouge.
- Step one you say we need to talk, he walks, you say sit down it’s just a talk. He smiles politely back at you, you stare politely right on through.
Poi Liv: - Some sort of window to your right, as he goes left and you stay right, between the lines of fear and blame you begin to wonder why you came.
Cominciai io, stando al loro gioco: - Where did I go wrong? I lost a friend somewhere along in the bitterness and I would had stayed up with you all night had I know how to save a life.
A turno e in coro, come per tacito accordo, cantammo tutta la canzone in una sinfonia di voci per me molto commovente. * Forse quello era il funerale che Jess voleva, non lo sapevo. Sapevo solo che per me era quello giusto, anche se non era molto ortodosso o consono alla tradizione. Magari anche gli altri che avevano cantato con me la pensavano allo stesso modo! Ed ero riuscita a onorare Jessie, anche perché non avevo potuto assistere al suo vero funerale a New York per colpa di quella cavolo di tempesta che mi aveva impedito di prendere l’aereo. Quando finimmo tutto il ritornello applaudimmo: l’emozione di quel momento ci travolse facendoci manifestare le emozioni, eppure stavolta non erano negative, non mi venne da piangere come una bambina, ma sorrisi! Applaudire mi aveva sempre messo allegria e l’avevo sempre fatto agli spettacoli con Jessie e adesso che lei non c’era più lo facevo per lei, mi sentii finalmente in pace. Il fatto di non aver potuto andare a New York mi aveva fatto sentire in colpa fino a quel momento e ora finalmente era tutto finito!
- Grazie a tutti per essere venuti, vi voglio bene – dissi con un sorriso rivolta a tutti e subito dopo mi ritrovai in un grande abbraccio di gruppo, mentre Alexandra correva con le sue gambettine intorno a noi. E va bene, qualche lacrimuccia di commozione mi scappò anche dentro tutto l’abbraccio!
- Bene! – disse Viggo riacquistando all’istante il suo istinto da Aragorn – ci vediamo all’aeroporto gente!

Io e Orlando tornammo insieme a Villa del Lago per un ultimo saluto a tutto lo staff dell’albergo e ai nostri appartamenti che ci avevano ospitato per tutto quel tempo! Io e lui avevamo deciso di scrivere una lettera di ringraziamento da consegnare alla reception nella quale ci complimentavamo per la qualità dei servizi e dei dipendenti e promettevamo di fare buona pubblicità. Appena entrati nella mia stanza Orlando mi abbracciò e mi baciò. Il contatto fisico con il suo corpo mi fece battere forte il cuore, come sempre. Ogni giorno che passava lo amavo sempre di più, non avrei mai e poi mai voluto tornare a quel periodo di settembre, il peggior mese della mia vita.
-    Allora che dici, pranziamo e andiamo all’aeroporto? – proposi. – L’aereo per Rohan è alle cinque.
Orlando sorrise. – Non ti ricordi proprio il nome di quel posto vero?
-    No! Però non me lo dire: voglio scoprirlo una volta atterrata dopo un volo immersa nella mia totale ignoranza geografica!
Ridemmo. Gli passai un braccio intorno alla vita. – Andiamo.

Prendemmo le valigie, controllai circa sette volte di aver preso tutto e nonostante ciò ero sicura di aver dimenticato qualcosa, chiudemmo la stanza, andammo alla location, consegnammo le chiavi e la lettera, salutammo tutti e andammo al ristorante. Per fortuna ci acconsentirono di lasciare tutti i bagagli in un angolino tranquillo e ben sorvegliato dell’ingresso, mangiammo e poi di corsa all’aeroporto! Incontrammo tutti gli altri al check-in, pronti a separare, per la prima volta, la Compagnia. D’ora poi non avremmo più lavorato tutti insieme ma in location separate perché così prevedevano i copioni delle Due Torri e del Ritorno del Re: io sarei andata a Rohan – quel posto sconosciuto – con Orlando, Miranda, Viggo, John, Bernard Hill, John Mahaffie – secondo regista. Billy e Dom a Wellington, Sean e Elijah dal monte Ruapehu nell’Isola del Nord. E poi c’erano quelli che se ne sarebbero andati via per un po’: Bean, Liv, Craig, che promise di venirmi a trovare ogni settimana. Appena mi vide entrare con Orlando Elijah mi corse incontro e mi abbracciò stretta stretta sollevandomi da terra.
-    Ehi El! Che succede? Che ho fatto?
-    Io ti adoro nella maniera più assoluta! Non smetterò mai di ringraziarti Les!
-    Linnie ti ha parlato?
-    Sì!
E mi abbracciò di nuovo. – Adesso siamo pari – dissi.
Ora era il momento di salutare tutti quanti.
-    Mi mancherete un sacco – dissi fra un abbraccio e l’altro.
-    Ehu, non c’è bisogno di fare le scene, ci rivedremo lo stesso ogni week end! – esclamò
Billy. – Non staremo tanto lontani, e poi fra neanche due mesi ci sarà la presentazione della Compagnia dell’Anello!
In quel momento arrivò la chiamata per l’aereo mio e della troupe di Rohan.

Il viaggio in prima classe, come al solito, era comodissimo. Io e Orlando ci posizionammo in due sedili appartati e trascorrevamo il tempo facendoci le coccole e mordicchiando uno spuntino, parlando del più e del meno e guardando foto. Dopo la metà del viaggio, però, mi sembrò pensieroso.
-    Che c’è, Orlie?
Evitò il mio sguardo - Mmmm… niente.
-    Ehiiiiiiiii!
-    Volevo chiederti una cosa…
-    Bene, allora dimmela! – sorrisi.
-    Mi vergogno… e non so se accetterai.
-    Se non me lo chiedi non lo saprai mai, dimmelo all’orecchio se sei timido.
Orlando mi prese una mano fra le sue, si chinò verso di me e mi sussurrò all’orecchio:
-    Vuoi vivere con me?


Ammetto che l’idea della canzone non è stata mia ma di Grey’s Anatomy, sono rea di furto d’idea! Magari a voi fidati lettori non è piaciuta neanche ma, giuro, a me sì! Se qualcuno fosse interessato a sentire la versione per come l’hanno cantata in questo capitolo, eccovi il video e la sequenza degli attori!
Sequenza di voci: Viggo – Liv – Lesley – Orlando – Miranda (2 voci di seguito) – Lesley – Christine – Tutti – Lesley!

Video: http://www.youtube.com/watch?v=CxSR3ZYcdZA&feature=my_liked_videos&list=LL5A5-9eWUkFi8nwzSS8hYDQ

Se vi ha fatto schifo ditemelo senza problemi! Accetto le critiche!
Vi voglio bene!
Nut

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Capitolo 25
*** Cap. 24 ***


La mia vita sul set – cap. 24

La proposta appena fatta mi spiazzò e mi voltai a guardarlo, incontrando i suoi grandi occhi scuri che mi fissavano speranzosi, in silenzio.
- Teoricamente è come se lo stessimo già facendo – continuò piano. – Mangiamo insieme, lavoriamo insieme, dormiamo insieme… mancano solo i tuoi vestiti nel mio armadio.
Sorrisi. – I miei vestiti nel tuo armadio? E se fosse il contrario?
Sorrise a sua volta con un altro luccichio di speranza negli occhi. – Il tuo armadio è un campo di battaglia del Vietnam e tu non hai una casa nella baia di Wellington.
Rimasi in silenzio valutando i pro e i contro della convivenza, mentre lui continuava ad attendere la mia risposta. Accentuò di poco la stretta delle braccia intorno a me come per incitarmi a dire di sì. Io lo lasciavo aspettare: dopotutto mica potevo concedermi così in fretta! Volevo anche io essere desiderata, che diamine!
Quando vidi che ormai stava perdendo la speranza gli misi una mano sulla spalla e gli dissi: - Va bene, spostiamo i miei vestiti nel tuo armadio.
Sul volto gli si aprì un sorriso smagliante e mi abbracciò esultando, suscitando l’attenzione dei nostri colleghi seduti negli altri posti che, dopo averci squadrato curiosi per un po’, tornarono alle loro vecchie occupazioni. Orlie intanto continuava a stritolarmi con i suoi muscoli nuovi di zecca – e palestra – impedendomi quasi di respirare. Quando finalmente mi lasciò di nuovo libera di rifornire i miei polmoni di ossigeno, mi invitò a poggiare la mia testa sulle sue ginocchia e a fare piani per il mio trasferimento. Ovviamente non avremmo potuto tornare in città prima delle vacanze di Natale, a meno che non vi capitassimo per caso con la troupe, quindi sarebbe stato intelligente cominciare a suddividersi lo spazio negli armadi da subito.
-    Così i miei vestiti si abituano al fetore dei tuoi – lo stuzzicai.
-    Ma che dici! Se metto la lavatrice molto più spesso di te! Tu sai sempre di pulito perché… perché hai tanti vestiti, ammettilo!
- Che ci vuoi fare, sono una ragazza!
- Non sempre: quando sei in mezzo a noi uomini della Compagnia ti comporti da maschiaccio, anche se ti trattiamo da principessa.
- E la cosa mi piace parecchio!
Passammo il resto del volo a pianificare le nostre vacanze di Natale, oltre al mio trasferimento. Non contando la presentazione del film il 19 dicembre a Wellington – buona occasione per rivisitare la casa di Orlando -, l’ultimo giorno di riprese sarebbe stato il 23 dicembre, prima della vigilia. Avremmo festeggiato tutti insieme il Natale e, dopo qualche giorno di relax sulle spiagge della Nuova Zelanda a fare surf – una buona cosa dell’emisfero australe, anzi ottima -, dopo Capodanno, io e Orlando saremmo andati a New York per una settimana per andare a trovare i miei genitori e fare un giro in città. Sarebbe stata la prima volta da soli in una città senza il resto della Compagnia. Amavo i miei colleghi ma, sinceramente, non vedevo l’ora che quella settimana arrivasse: non volevo sembrare egoista ma per una volta avrei voluto avere l’esclusiva su di lui, anche se sapevo già che in una metropoli come New York le fan lo – o ci – avrebbero assaltato ad ogni svolta. Ma, almeno, non avrei avuto in giro Dominic che gli saltava in braccio per sbaciucchiarlo, o Sean che appena ci vedeva uscire dal set ci domandava se avevamo chiuso col lucchetto le nostre roulotte. Non sapevo com’era Orlando senza la Compagnia attorno ed ero curiosa di scoprire se sarebbe stato sempre lo stesso o se l’ambiente gioioso del set l’aveva reso più friabile: vedevo quell’imminente viaggio nella mia città come un’occasione di scoperte, e finalmente avrei rivisto i miei genitori che non vedevo dalle vacanze di Pasqua del mio ultimo anno al college.

Atterrammo all’aeroporto di Rohan a mezzanotte meno un quarto: la distanza fra… Rohan e Queenstown non era tantissima, ma durante il volo c’erano stati dei problemi nella coordinazione dei voli all’aeroporto, a quanto avevo capito, e così avevamo dovuto aspettare che ci dessero l’ok per atterrare. Come Viggo mi aveva spiegato una volta allacciate le cinture, Rohan non era una città ma una regione della Terra di Mezzo, dove i nostri personaggi avrebbero incontrato Eomer e la sua cricca di soldati e girato l’attacco dei Mannari. Dopo aver girato lì saremo andati proprio a Edoras, la città dorata, in un posto vicino a Queenstown.
-    Ma se dovremo tornare non potevamo rimanere in città e poi venire qui? – chiesi perplessa.
Si strinse nelle spalle. – Dovremo stare nel parco a Queenstown solo otto giorni, poi il set verrà distrutto. Tanto vale cominciare col grosso del lavoro… almeno così ha detto Mahaffie.
John Mahaffie era uno dei tanti bracci destri di Peter e dirigeva la seconda unità, la nostra. Si diceva fosse quasi della stessa bravura di Peter, ma io non credevo. Senza offesa.
-    Come fai a sapere tutto, Viggo?
-    Io so. – sorrise e mi fece l’occhiolino.
Non disse nient’altro. A volte tutto quel mistero era quasi irritante: mi faceva sempre sentire ignorante.
Arrivammo nella grande entrata dell’aeroporto con una serie di valigie al seguito. Sopra la grande porta scorrevole di vetro c’era scritto non “Rohan Airport” come mi aspettavo, ma “Alexandra Airport”. Rimasi sorpresa.
-    Ecco come si chiama questo posto! – ad un’occhiata divertita di John aggiunsi – nella regione di Otago, a quanto vedo.
Orlando, visibilmente stanco, borbottò qualcosa.

Il nostro set era a Poolbourn, una grande terra nella regione dell’Otago dove dominavano le cristalline acque di due immensi laghi: il lago Dunstan e il lago Onslow. Con immenso piacere scoprii che avremo utilizzato uno dei due per girare la fuga degli abitanti di Rohan. Era una grande terra, ricca di montagne e prati dai colori autunnali, e si diceva abitata dalle persone più amichevoli della Nuova Zelanda – ma dopo aver conosciuto quelle di Matamata ci credevo poco. Il set si trovava a quasi 39 km da Alexandra e per raggiungerlo si impiegava mezz’ora in macchina. Avremo alloggiato in un albergo a cinque stelle vicino all’aeroporto e dopo un viaggio in aereo non vedevo l’ora di sdraiarmi sul letto e dormire: a quanto pareva anche Orlando la pensava così dato che a malapena si reggeva in piedi e dovetti sorreggerlo fino all’uscita dell’aeroporto, aiutata da Craig.
L’albergo era molto carino: aveva stanze piccole ma accoglienti, con il parquet di quercia e armadi che correvano lungo tutta una parete. Alle finestre c’erano tende bianche che coprivano la visuale sulla strada che ci aveva portati fin lì, e i letti avevano l’aria comoda.
Io presi una delle poche camere matrimoniali che ci avevano assegnato – erano poche per la gioia degli uomini che costituivano la maggior parte del cast e della crew.
Trascinai Orlando-Che-Dormiva-In-Piedi fino al letto una volta aperta la porta della nostra stanza, lo buttai sul letto e lui rimase prono sulle lenzuola, talmente stanco da non riuscire a tenere gli occhi aperti. Mi sdraiai vestita vicino a lui e appoggiai il viso vicino al suo.
- Si può sapere perché sei così stanco?
Aprì poco un occhio. – Chiederti di convivere ha prosciugato completamente le mie forze intellettuali – bofonchiò.
Sorrisi e, stanca, chiusi gli occhi avvolgendolo alla vita.

Il giorno dopo ci svegliammo molto presto, verso le quattro e mezza, quando il sole non aveva neanche cominciato a sorgere. Buttai la sveglia giù dal comodino appena cominciò a suonare e scossi leggermente Orlando per svegliarlo. Lui si alzò più o meno subito e corse in bagno con rinnovata energia. Mi parevano strani quegli sbalzi di energia, ma decisi che non era il caso di preoccuparmi: magari era così attivo perché aveva dormito sodo.
Aspettai che uscisse dal bagno e mi rifilasse un bacio veloce prima di andare verso l’armadio a camminare a piedi scalzi sul tappeto davanti al letto. Entrai in bagno, mi guardai allo specchio e mi sciacquai il viso con acqua fredda, pensando: sarebbe stato strano arrivare sul set e non trovare gli Hobbit ad attenderci, strano girare senza la loro energia… ci saremmo sicuramente fatti dei nuovi amici con la seconda troupe, ma sentivo già la loro mancanza.
Guardai il mio riflesso allo specchio: una nuova parte dell’avventura stava per cominciare.

Io e Orlie, vestiti già con i nostri costumi di scena, uscimmo dall’albergo e prendemmo la macchina. Nel tragitto dalla nostra camera all’atrio non avevamo incontrato nessuno dei colleghi quindi o erano ancora a letto oppure ci stavano già aspettando: non sarebbe stata la prima volta.
Orlando era molto bravo a guidare, a differenza mia che non ci avevo mai provato. Durante i primi mesi di riprese dal mio compleanno in avanti aveva cercato di insegnarmi ma cadevo nel panico appena prendevo in mano il volante… a meno che non fossi parzialmente brilla.
Durante il viaggio in macchina io e Orlie ci scoprimmo a canticchiare nonostante l’ora: io ero felice per la proposta di convivenza di Orlando, lui dopo un po’ mi spiegò che era felice perché avevo accettato, e soprattutto perché avremo cominciato a fare una cosa per cui ci eravamo allenati tanto nei mesi precedenti.
- Che cos’è? Dai dimmelo!
- Hai presente le lezioni pomeridiane di equitazione?
- Certo! – Tre pomeriggi alla settimana avevamo frequentato addestramenti equestri per prepararci bene a delle riprese: molto faticosi ma divertenti.
- Oggi cominceremo ad andare a cavallo.
Lanciai un urlo entusiasta: la passione per i cavalli era qualcosa che io e Orlando condividevamo e non vedevamo l’ora di galoppare un po’ per le riprese!
- Dovrai stare attento a non cadere – dissi ammiccando.
Lui svoltò a destra. – Non cadrò! Piuttosto sono preoccupato per te.
- Ehi, io non saprò nuotare ma mi muovo bene a cavallo! Tu invece sei la persona più maldestra del mondo.
- IO almeno non sono finito il ospedale dopo un trauma cranico. Lo sai che ti si vede ancora la cicatrice? – stava cominciando a scaldarsi.
- Orlie, lasciamo perdere, non roviniamo il momento. – gli misi una mano sul ginocchio. – Pensiamo a recitare, divertirci e cerchiamo di non farci male. Ok?
- Hai ragione piccola.
Frenò la macchina: davanti a noi, sfiorato dai primi raggi del sole, si estendeva il lago e il set. La crew sciamava in giro come a mezzogiorno e le sponde del lago erano contemplate da tantissime comparse tutte vestite con abiti di scena. Uno della crew fece cenno ad Orlie di portare la macchina in uno spiazzo più lontano, dove ne erano parcheggiate altre. Lui tolse il freno a mano e fece dietrofront sull’erba, andando a parcheggiare fra la macchina di Peter e quella di Miranda. Spense il motore e scendemmo, poi prendendoci per mano ci dirigemmo verso il cast.
C’era Miranda, già con la parrucca e il costume. la sua bellezza radiosa sembrava illuminare tutto lo spazio circostante: aveva un portamento regale  nei movimenti che mi ricordò Cate Blanchett, Galadriel, che durante le riprese a Lothlorien mi aveva insegnato a muovermi meglio come un’elfa regale quale era Hery. Lasciai la mano di Orlando e, immaginando che mi sollevasse un filo invisibile, andai verso di lei.
- Buongiorno Miranda! Pronta per il primo giorno?
- Ehi Les! Vedo che ti sei già calata nella parte. Buongiorno anche a te, Orlando – si rivolse verso di lui.
- Anche a te – rispose. Fra loro c’era quella cortesia estranea che stonava un po’ in un ambiente amichevole come quello.
- Siamo tutti pronti per girare? Noi dobbiamo ancora metterci le parrucche. – dissi.
- Dovete fare in fretta! Mahaffie sta radunando tutti quanti. Io vado da Bernard. Sta facendo il buffone con Viggo mentre imparano il copione.
Indicò col pollice una roulotte dietro di lei, dalla quale stava scendendo proprio Bernard con in mano tanti fogli di carta. Scendeva i gradini danzando.
- Sbrigatevi! – insistè Miranda sorridendo amichevolmente. Mi voltai a guardare Orlando, pensierosa. Poi mi venne un’idea.
- Chi arriva ultimo paga da bere! – e mi misi a correre.
- Non vale!

Messe parrucche e orecchie, un tizio della crew con dei fogli in mano ci portò ad un recinto abbastanza lontano dal set, dentro cui camminavano tranquilli tre magnifici cavalli: un cavallo baio, uno morello corvino – bellissimo -  e uno bianco pomellato sui fianchi.
- Allora – disse con aria assonnata. – Il baio è di Aragorn, il pomellato di Legolas e Gimli e il morello di Hery.
- Ah! – proruppi rumorosamente facendo voltare i presenti che nutrivano i cavalli. – A me il più bello ah ah ah!
- Non sei spiritosa! – mi riprese Orlando scavalcando lo steccato, dove lo raggiunse una ragazza con i codini e un cappello con in mano una sella. La seguì verso il suo cavallo che appena li vide scartò di lato spaventato. Orlie, guardandolo come se fosse innamorato di lui, alzò le mani e gli si avvicinò a occhi bassi per mostrargli che non intendeva fargli del male. Lo accarezzò sul collo e poi vicino agli occhi e in mezzo alle orecchie, mentre la ragazza gli metteva le briglie e la sella.
Lo guardavo affascinata. Poi, quando mi fece cenno di avvicinarmi, saltai il recinto e atterrai in mezzo agli animali. Orlie mi guardò sorridendo mentre mi avvicinavo al mio cavallo per aiutare la ragazza a sellarlo.
- Ciao bellezza – gli sussurrai accarezzandogli gli occhi e appoggiato il naso al suo. – Come ti chiami?
- E’ una femmina – rispose la ragazza. – Si chiama Calliope.
Il cavallo agitò la coda. – Ciao Calliope! Io sono Lesley – la accarezzai in mezzo alle orecchie.
- Les – mi chiamò Orlando e mi voltai a guardarlo. Era già in groppa al suo, la bellezza fatta a elfo. – Appena è sellato monta a cavallo.
Guardai la ragazza.
- Non ci vorrà molto – disse infilando il morso in bocca a Calliope. Lei la lasciò fare docile. La ragazza le passò le briglie sul collo, le diede una pacca di ringraziamento sul collo e mi di disse: - Fatto -. Poi prese le briglie del cavallo di Aragorn e lo condusse fuori dal recinto facendolo saltare: infatti non c’erano porte per uscire, era un modo per non far scappare i cavalli.
Tornai a guardare Calliope negli occhi, poi presi le briglie con la mano sinistra e, infilato il piede sinistro nella staffa, montai facendo passare la gamba destra all’indietro. Potevo anche non saper nuotare, ma con i cavalli me la cavavo alla grande. Mi voltai a guardare Orlando che mi ricambiava sorridendo. – Fantastica. – disse. – Ora andiamo.
Spronò il cavallo e saltò il recinto. Mi piegai verso il collo di Calliope e dissi – Vai, bella! – stuzzicandola con i talloni. Lei scattò in avanti un po’ troppo in fretta per i miei gusti e saltò senza preavviso, lasciandomi senza fiato.
- Ehi, va tutto bene? – mi disse un cameraman appoggiato alla recinzione.
- Sì, solo… non me l’aspettavo.
- Stai attenta a guidarla! – mi urlò la ragazza delle selle. – Calliope è un purosangue, appena la sfiori parte al galoppo. È abbastanza difficile farle fare quello che vuoi… mi hanno detto di dartela perché sei brava, ma se non te la senti te ne diamo uno un po’ più docile.
- Questo va benissimo, grazie! – risposi. Sarebbe stato faticoso, ma sempre bello. Guardai di nuovo Orlando, che mi aspettava tenendo ben strette le briglie del suo cavallo, e lo raggiunsi solleticandola piano. Stavolta partì più lentamente, al trotto veloce.
- Andiamo? – gli chiesi non appena lo raggiunsi. – Mahaffie ci aspetta.
Spingemmo i cavalli al trotto.

John Mahaffie era un uomo con i capelli grigi, il viso allegro e un impermeabile sbiadito indosso. Davanti alle telecamere aveva posizionato una poltrona arancione molto ingombrante, e raccontava che quando gli avevano offerto il lavoro gli avevano detto di scegliere una poltrona. Lui aveva scelto quella dicendo “Sembra comoda” e quindi ora lavorava sempre seduto lì sopra. Ripeteva la storia ogni volta che glielo chiedevi. Anche se era uno dai modi gentili a me metteva ansia, perché nei mesi precedenti avevo lavorato sempre e solo con Peter e non sapevo se anche lui avrebbe voluto le stesse cose e avrebbe apprezzato il mio modo di interpretare Hery. Il lavoro con lui sarebbe stata un’incognita nei primi giorni, ma se Peter si fidava di lui allora non dovevo temere niente.
Noi attori principali eravamo tutti in fila a cavallo, con le armi sguainate, pronti ad ascoltare le indicazioni di John. Non parlavamo se non sussurrando.
- Si è saputo qualcosa del lavoro di oggi? Non ci hanno dato copioni. – sussurrai rivolta a Bernard vicino a me.
- Penso che dovremo girare l’attacco dei Mannari. Doveva essere ambientato a Rohan ma hanno cambiato.
- Sembrerà di essere al manicomio – disse Viggo alla mia sinistra e ci voltammo a guardarlo. – Aggiungeranno le bestie in digitale, noi dovremo fare finta di combattere – spiegò.
- Ah, splendido! – dissi.
- Ehi Brettie – disse Orlando alla controfigura di Gimli seduto sul cavallo davanti a lui. – Dimmelo se ti faccio male.
- Niente paura, coso. Con quest’armatura che ho indosso…
In quel momento Mahaffie prese un megafono in mano e, rivolto a noi e alle migliaia di comparse messe lungo il lago – tra cui spiccava la chioma bionda di Miranda – e parlò sicuro: - Allora, state fuggendo da molte ore. Siete stanchi. Entreremo nell’entroterra e cominceremo a girare. Ad un segnale voi, popolo di Rohan, avrete paura. Miranda, tu chiederai a Bernard di combattere. Vi abbiamo già dato le battute. – Si rivolse verso Orlando, dopo aver ricevuto cenni d’assenso da parte delle comparse. – Orlando, tu salirai dopo a cavallo perché starai davanti a tirare frecce digitali, ok? Viggo, tu guarda Miranda col cavallo al galoppo. Brettie, guiderai il cavallo verso Orlando. Lesley – si rivolse verso di me – tu e Orlando vi dovrete guardare spesso, vi tenete d’occhio. Combatterai coi pugnali, non con l’arco. Tutti voi cavalieri di Rohan, dovrete mostrare fatica, cercare di non sembrare scemi mentre ammazzate i mannari. Muovetevi fingendo di combattere, ai Mannari ci penseremo noi. Tutto chiaro?
- Sì – rispondemmo uno ad uno.
- Allora cominciamo. Motore…partito… - guardai Orlie. - …ciack…E…AZIONE!!
Cominciammo tutti a muoverci, ed improvvisamente smisi di essere Lesley e iniziai a interpretare Hery: il passaggio da una personalità all’altra era così immediato che a volte mi capitava di recitare anche al di fuori del set.
Due cavalieri di Rohan portarono avanti i cavalli vicino ad un muro di rocce, oltrepassando Orlando che scrutava l’orizzonte. Poi guardarono verso destra e si misero a urlare. Uno di loro cadde dal cavallo e urlò di nuovo, e Legolas corse verso di lui con un pugnale in mano e finse di trafiggerlo, mentre alla mia sinistra Theoden e Aragorn si fermavano preoccupati a guardare.
Legolas fece un verso di fatica, poi si voltò verso di me e urlò verso di me e Aragorn a piedi. – Un esploratore!
Aragorn si girò e corse verso Theoden, che gli andò incontro al galoppo dicendo: - Cosa c’è?
- I Mannari! Ci attaccano! – urlò Aragorn. Le comparse cominciarono a urlare e i cavalieri scattarono in avanti. Legolas corse in avanti e cominciò a tirare frecce.
- STOP! – Urlò Mahaffie, e ridiventammo attori. – Bernard, cerca di essere più preoccupato. Sei un re, sei in pensiero per la sicurezza del tuo popolo. Lesley, cerca di non guardare Orlando tutto il tempo: avevo detto solo tienilo d’occhio. – Sorrisi. – Sei consapevole del pericolo, sii vigile.
- Ok. – dissi.
- Andava bene, ma facciamone un’altra!
Ripetemmo la scena modificando i particolari, e andammo avanti. Noi cavalieri correvamo in avanti dopo la discussione tra Miranda e Bernard, e correvamo verso Orlando che continuava a lanciare frecce. Poi, quando il suo cavallo si avvicinò, saltò in groppa e continuammo ad andare. Cominciammo a menare fendenti a casaccio, affaticati, e io spingevo il cavallo al galoppo intorno all’area immaginando di mozzare teste di Goblin e di pugnalare Mannari alla giugulare. Ogni tanto guardavo Orlando, che correva da una parte all’altra insieme a Brettie. Mi ero spinta più in là, a destra, vicino alle telecamere, e voltai il cavallo in direzione degli altri, tirando un fendente con la destra compiendo un semicerchio col braccio e con espressione cattiva. Mi scostai i capelli dagli occhi mentre Calliope scartava a destra, e guardai Orlando che galoppava in mezzo alla mischia. Fermai Calliope per un istante. Vidi Aroth – il cavallo di Orlando – impennarsi. Accadde molto lentamente. Il cavallo dimenava le zampe anteriori in aria, Orlando non riuscì a mantenere la presa e cadde all’indietro atterrando di schiena, e Brettie gli cadde addosso. Vidi Orlando sussultare.
- No! – Urlai, mentre Mahaffie gridava di fermarsi. Spronai forte Calliope. Lei si lanciò in avanti con uno scatto e volò fino ad Orlando, ancora sdraiato a terra con espressione dolorante. Mi buttai giù da cavallo senza neanche dirgli di fermarsi. Mi chinai verso di lui: era pallido e si teneva la mano premuta sul fianco sinistro, gemendo.
- Ti sei fatto male? – dissi allarmata.
- No… - rispose a fatica. – Credo… credo di essermi rotto qualcosa.
Gli altri attori ci accerchiarono preoccupati.
- Lasciategli dell’aria, ragazzi! – ordinai preoccupata. – Piccolo, riesci ad alzarti?
- Sì…
- Ehi ragazzo – Viggo si avvicinò. – Vieni, ti do una mano.
- Viggo, prendilo da sinistra. Aiutiamolo ad alzarlo. Gli portate dell’acqua per piacere?
Vidi Miranda portare Calliope verso di noi. Un ragazzo gli porse un bicchiere d’acqua mentre io e Viggo lo aiutavamo ad andare verso le macchine, lontano dai curiosi.
- Ti sei fatto male, ragazzo? – chiese Mahaffie avvicinandosi a noi.
- Crede di essersi rotto qualcosa.
- Fate venire Anne! – Urlò. Anne era il medico dell’unità, venuta dalla Francia.
Insieme a Viggo appoggiai Orlando ad una macchina. Anne arrivò e gli disse di togliersi il costume. Lui obbedì a fatica e vidi, quando si tolse anche la canotta, che aveva un grosso livido sul fianco sinistro. La pelle era gonfia. Anne lo sfiorò e lui cercò di reprimere una smorfia di dolore.
- Sì, credo sia rotta. Qualcuno deve portarlo all’ospedale.
- Ci vado io – mi offrii. – Posso Mahaffie?
Lui ci guardò, poi disse: - Tenetemi aggiornato.
- Aspetta – disse a fatica, cercando di non respirare troppo. Si piegò in avanti coprendosi di nuovo il fianco col braccio.  – Les, tu non sai guidare.
- Chi ci può accompagnare?
- Vengo io con voi. – si offrì Viggo. – Appena vi mollo all’ospedale torno indietro.
Lo guardai. – Grazie.

Viggo premette di nuovo sull’acceleratore, all’entrata di Alexandra, e io mi voltai un’altra volta a guardare Orlando. Era sempre più pallido, stava a occhi chiusi e cercava di non respirare per il dolore. Sembrava dormire. O forse era svenuto?
- Les, mantieni la calma – mi impose Viggo. – Non lo puoi aiutare se hai un attacco di panico.
- Sono solo preoccupata. – Lui mi guardò di sottecchi, tornando poi a fissare la strada.
- Non è grave avere una costola rotta. Non quanto un trauma cranico… adesso sai come si sentiva Orlando quando hai avuto tu l’incidente. – Frenò la macchina davanti all’ospedale. – Adesso tocca a te prenderti cura di lui.
Non spense neanche il motore. Aprii la portiera dalla parte di Orlando, gli sfiorai una spalla e lui aprì gli occhi. Lo aiutai a scendere e lo presi a braccetto, portandolo dentro.

Lo misero in una stanza, gli diedero una flebo antidolorifica e gli fecero una tac. Aspettammo i risultati per tutto il pomeriggio. Lui dormì per buona parte del tempo, e io rimasi ad aspettare seduta su una scomoda sedia accanto a lui.
Verso le tre del pomeriggio si svegliò a causa di un’infermiera che era entrata rumorosamente nella stanza insieme ad una dottoressa molto avvenente.
- Signor Bloom! Come si sente?
Orlando non rispose, si limitò solo ad alzare le spalle: respirare gli faceva male.
- Per fortuna ha solo una costola incrinata, guarirà in un paio di settimane, forse un po’ di più. Nel frattempo si tenga la fasciatura, ok? Dovrà cambiarla. – Si rivolse a me. – Magari può aiutarlo quando avrà bisogno, no?
- Certo – risposi.
- La dimetteremo stasera. - La dottoressa se ne andò. Mi alzai in piedi, stirai le gambe e gli diedi un bacio sulle labbra.
- Mi hai fatto spaventare. – Sussurrai.
- Scusa – disse. – La tua è stata una profezia: sono caduto e mi sono fatto male.
- Non è colpa tua, poteva capitare a chiunque. Ti sei fatto male solo perché Brettie ti è caduto addosso.
- Già – disse. – Ehi, piccola, sarai rimasta un sacco su quella sedia sgangherata. Vieni – si sforzò per farmi posto sul letto. – Vieni qui.
Accettai al volo e mi sdraiai cercando di non fargli male, e cominciai ad accarezzargli la fronte.
- Per favore, non fare più scherzi del genere – lo implorai.
- Lo stesso vale per te – sorrise. – Siamo i più maldestri del mondo. Ti ho mai raccontato del mio incidente di qualche anno fa?
Scossi la testa, lui sorrise.
- Stavo camminando sul tetto di casa e sono caduto – raccontò. – Mi sono rotto la schiena. Sono rimasto sulla sedia a rotelle e i dottori dissero che non avrei più camminato. Ma mi hanno operato e sono riuscito a camminare di nuovo.
Si Piegò poco in avanti, prese la mia mano e la guidò in un punto verso il bacino, dove sentii che correva una lunga cicatrice, quasi invisibile ma molto spessa.
- Se non ci fossi riuscito, chissà dove sarei ora – sorrise e si riadagiò sui vestiti, inconsapevole dell’ondata di quieta paura che provavo.
Avevo rischiato di perdere Orlando ancora prima di conoscerlo, e fino ad allora non avevo capito l’importanza di averlo accanto. Se non mi fossi goduta il tempo passato con lui, cosa sarebbe successo se ad un certo punto fosse sparito?
Deglutii e appoggiai la testa sulla sua spalla. Non l’avrei perso, mai: avrei fatto di tutto per farlo felice e stargli accanto. Lo giurai a me stessa.

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Capitolo 26
*** Cap. 25 ***


La mia vita sul set – Cap. 25

Nonostante l’infortunio di Orlando e il dolore lancinante che sentiva all’addome la sua testardaggine e la sua impazienza avevano la precedenza su tutto: la sera stessa del suo arrivo all’ospedale cominciò a smaniare per poter uscire, camminando in circolo per la stanza irrequieto come un leone in gabbia. Era iniziato tutto quando il dottore era arrivato, poche ore dopo la tac, con le lastre del suo torace e aveva detto che una delle costole sinistre era soltanto incrinata, non aveva perforato niente e che sarebbe uscito quella sera stessa se prometteva di riposarsi per qualche giorno. Orlando sapeva che a breve avremo dovuto girare la scena della corsa e che non potevamo usare la sua controfigura, per il fatto che avremo detto delle battute e i cameraman avrebbero girato primi piani all’infinito. Io non potevo fare niente per calmarlo: avevo pensato anche a tirargli qualcosa in testa ma la cosa non avrebbe giovato, quindi me ne stavo seduta su una poltrona in un angolo della stanza a guardarlo fare avanti e indietro. Io mi limitavo a starmene seduta su una poltrona sgangherata, con le gambe lasciate a penzolare da un bracciolo, a guardarlo brontolare cercando di non farmi venire il mal di mare per il suo andare continuamente avanti e indietro, avanti e indietro…
- Non potresti sederti e stare buono? – Sbottai ad un certo punto.
- Come faccio, Les? Se si sbrigassero a portare quei moduli di dimissione potremmo uscire!
Mi alzai in piedi e andai verso di lui. Gli presi con delicatezza il braccio che proteggeva la parte lesa e lo abbracciai piano intorno alla vita. – Se ti muovi e ti agiti… non ti faranno uscire.
Fece una smorfia contrariata. – Hanno un sacco di lavoro – continuai persuasiva. – Se ti distrai magari il tempo passa e non te ne accorgi. Arriveranno con quei fogli e ce ne torneremo in albergo. E poi – sorrisi – non vedo l’ora di raccontarlo agli Hobbit.
Un angolo della sua bocca si alzò in un sorriso. – Dieci dollari che ridono come matti. – Disse.
- Secondo me Sean inizia a farti la predica.
- Davvero? E cosa potrebbe dirmi?
- Che dovevi stare attento al cavallo e controllare che nessuno gli andasse addosso! E parla lui che cavalca un pony!
Ridacchiammo. Orlando mi guardò di soppiatto – Devo tornarmene per forza a letto?
- Sì-sì – annuii. – Altrimenti a letto senza buonanotte.
- No, ti prego, senza la buonanotte no! Umpf… - si piegò in avanti tenendosi il fianco.
- Ecco, hai visto? Questo perché ti devo mettere a letto come i bambini!
Lui si ritirò su, scrollò le spalle e disse scherzosamente in falsetto: - Sì, mamma!
Gli tirai una pacca sulla spalla. – Veloce!
Orlie girò di malavoglia i tacchi e si diresse sbuffando verso il letto. Tolse le coperte e si cacciò sul materasso. – Che palle – borbottò infastidito. Sorrisi, lo raggiunsi e gli rimboccai le coperte sotto al mento, dandogli infine un bacio leggero sulle labbra. Appena iniziai a sollevare il capo Orlie uscì un braccio da sotto il lenzuolo e mi tenne la fronte premuta contro la sua tenendomi una mano dietro la testa. – Resterai qui? – mi chiese in un sussurro, come se temesse che quelle parole potessero essere ascoltate da qualcun altro nella stanza e mi stesse rivelando un segreto inconfessabile. – Certo -. Mi tirai su e gli scombinai i capelli. – Malandrino.
Mi allontanai di nuovo verso la poltrona e mi sedetti stancamente, chiudendo gli occhi e facendo un respiro profondo. Prima che me ne accorgessi la schiena cominciò a rilassarsi, gli occhi si chiusero ermeticamente e la mente sprofondò nel sonno.
Mi svegliò qualcosa che batteva ripetutamente contro del metallo a poca distanza davanti a me, veloce come lo squillo di una sveglia. Aprii gli occhi di scatto e mi misi a sedere: neanche mi ero accorta di essermi accoccolata su un fianco della poltrona. Orlando era in piedi davanti a me, con il camice dell’ospedale aperto sulla schiena, e batteva una bacchetta contro il metallo della flebo sorridendo raggiante.
- Sveglia Lesley! – Ripeteva. – Forza, dormigliona!
- Che…? Che fai!
- Sono arrivati i medici e neanche te ne sei accorta! – proferì entusiasta. Mi sventolò davanti un pacchetto di fotocopie. – Sono i moduli di dimissione!
- Va bene, va bene! Ma… ma stai mostrando il sedere a tutto il corridoio! – urlai alzandomi in piedi e correndogli dietro per coprirgli le grazie che stava facendo vedere allegramente a una dozzina e mezzo di infermiere ridacchianti affacciate alla porta. Alcune avevano anche il cellulare alzato e Orlie se la spassava, mentre io ero rossa come un peperone.
- Signore, non c’è niente da vedere qui! – cercai di allontanarle.
- Sta scherzando, spero! Quello è Orlando Bloom! E quello è il suo didietro! – rispose una alta e magrolina.
- Ciao, ragazze! – Le salutò Orlando alzando una mano e girando il busto verso di loro. Gli scoccai un’occhiata sbalordita. Le infermiere lanciarono gridolini entusiasti.
- Ma sei matto? – gli chiesi.
- Coraggio, amore! Prima o poi tutti gli uomini vorranno vederti nuda! …Al cinema – si affrettò ad aggiungere.
- Ma la Compagnia è il tuo primo film! – protestai. Lui mi fece l’occhiolino.
- Dettagli. Ma per accontentarti… - si chiuse il camice con una mano e disse alle infermiere: - Signore, mi piacerebbe moltissimo passare un po’ di tempo con voi ma la mia ragazza preferisce che io firmi i fogli di dimissione e dedichi un po’ di tempo a lei. Spero che non vi dispiaccia, anche perché – emise un lamento. Finto, ovviamente. – i miei dolori si fanno sentire.
Le infermiere emisero lamentele scontente.
- Ehi, ma quella è Lesley Dalton? – gridò un medico del corridoio dopo avermi vista passando davanti al manipolo di infermiere. – La stella emergente! Che bellezza!
Il medico si avvicinò alla stanza e si fece largo tra le donne. – Mia figlia legge sempre i giornali di gossip e parla spesso di lei. Le riviste non le rendono giustizia! – Annunciò. – Ehi, uomini! Venite a vedere! C’è una donna bellissima vestita in modo strano qui!
Dandomi un’occhiata mi accorsi di avere indosso ancora il costume di scena. Un gruppo di medici e infermieri si avvicinò alla stanza, tirando fuori i telefonini e scattandoci delle foto. Guardai stralunata Orlando: adesso aveva la mascella contratta e li squadrava severo. Adesso il geloso era lui! Geloso dei miei fan! Sorrisi fra me e me: vendetta.
- Al diavolo la professionalità, eh? – protestò, prima di voltarsi verso il letto e prendere una penna dal comodino. Mi affrettai a chiudere la porta lasciando fuori fan, flash e telefonini. Appena la serratura scattò sentì delle risate provenire dal corridoio e un gruppo di passi che si allontanava. Tirai un sospiro di sollievo. Guardai i fogli di dimissioni che Orlando stava firmando.
- Non facciamolo mai più – dissi scandendo bene le parole, prima di piegarmi in due e cominciare a ridere per l’assurdità della situazione. – Non vedo l’ora di dirlo a Jessie!
Smisi all’istante di ridere e la realtà mi colpì come un fulmine. Jessie non c’era più, per un attimo l’avevo dimenticato.

Nel giro di cinque minuti Orlando si rivestì, si mise le scarpe e consegnò i moduli all’infermiera all’accettazione. Gli diedero un cerotto antinfiammatorio da posizionare sulla parte lesa il giorno seguente e un paio di pomate per lenire il dolore. In tutto il percorso per l’ospedale verso l’uscita rimasi in silenzio dietro di lui guardandomi intorno agitata, paurosa di vederci assaliti all’improvviso da un medico o un’infermiera. Perdevo tempo a immaginarmi l’articolo di un giornale immaginario. “La neo-attrice Lesley Dalton, dopo aver accompagnato il suo compagno Orlando Bloom all’ospedale di Alexandra in Nuova Zelanda, è stata aggredita nel corridoio del reparto di traumatologia da un gruppo di medici assatanati che si sono approfittati di lei…”
- Les? – la voce di Orlando mi fece sobbalzare. Mi guardava perplesso. – Ti senti bene?
- Sì… a meraviglia – risposi con un’ultima occhiata dietro le spalle. Forse avrei fatto meglio a tenere a portata di mano una pistola, in futuro. O un mestolo. O lo spray al pepe.
- Dovrei seguire un corso di autodifesa – dissi fra me e me prendendo Orlie per mano.
- E perché mai? Ci sono io a proteggerti. – si intrufolò tra i miei pensieri. Mi baciò i capelli.
- Davvero? – chiesi.
- Certo. Proteggo sempre ciò che amo, specialmente se sono così... vive.
Sorrisi intenerita. – Ti amo.
Mi strinsi a lui. Uscimmo dall’ospedale e attraversammo la strada per andare sul marciapiede dalla parte opposta: avevamo deciso di tornare a piedi all’albergo, data la poca distanza che c’era fra i due edifici. Mentre guardavamo a destra e a sinistra per evitare l’arrivo delle macchine mi tornò in mente una cosa che mi aveva detto Viggo quando stavamo portando Orlando al pronto soccorso: “Adesso sai come si sentiva Orlando quando hai avuto tu l’incidente”. Mi scosse un brivido.
- Hai freddo? – chiese prontamente Orlando. Sembrava un’antenna pronta a captare qualsiasi cosa fuori posto. Scossi la testa.
- Posso chiederti una cosa?
- Dimmi.
- Tu hai sentito mentre io e Viggo parlavamo in macchina?
Annuì. – Vuoi chiedermi se davvero per me è stato lo stesso quando tu hai avuto l’incidente?
Lo fissai stupita. Girammo a destra alla svolta. – Come fai a saperlo?
- Dai tuoi occhi traspare quello che pensi – mi spiegò. – E poi ti conosco bene: a te piace capire bene le cose, il passato, il presente… e il futuro anche.
- E la risposta è…?
Scosse le spalle e aggrottò la fronte al ricordo. – Lesley, per me è stato peggio. Non ti ricordi proprio niente? No, certo… qual è l’ultima cosa che ti ricordi?
Rievocai il ricordo e mi mancò il respiro come se fossi di nuovo lì. – La mia mano che scivola sulla roccia bagnata e la pietra che si avvicina a velocità raggelante.
- E non sai quello che è successo dopo?
- Linnie me l’ha accennato.
Sospirò mentre attraversavamo la strada. – Les, ti racconterò la storia dal mio punto di vista, ma devi promettermi che nel frattempo non dirai una parola.
- Croce sul cuore.
Rimase un secondo in silenzio e scendemmo dal marciapiede per superare una vecchina che procedeva a velocità bradipo. Cominciò a raccontare:
– Quando l’acqua ha sommerso la canoa ti ho tenuta stretta, ma la corrente era più forte di me. Ho sentito la tua presa svanire e ho tirato la corda del salvagente, pensando che avessi fatto lo stesso. Mi sono tenuto a galla e ho visto Brett alla mia destra ancora sotto la superficie: il suo salvagente non si era gonfiato. L’ho preso e l’ho tirato fuori, poi mi sono girato per cercarti appena ho sentito arrivare le imbarcazioni di soccorso. I nostri amici sulle altre barche urlavano qualcosa ma avevo le orecchie tappate dall’acqua. Tu non c’eri. Io non volevo salire su quella barca senza di te, ma pensavo fossi già salita. Quando sono salito e non ti ho vista sono andato nel panico. Ci siamo guardati intorno per cercarti, quando qualcuno da terra ha urlato e ha indicato il fiume verso la cascata. Mi sono girato… e ti ho vista. Ti ho vista mentre ti aggrappavi a quello scoglio per metterti in salvo. Eri salva! La barca ha cominciato a correre per venire a prenderti, ma vedevo che annaspavi, che non avevi aria. Hai messo la mano sulla roccia, ti è scivolata e… mi è sembrato di sentire la tua testa che si spaccava. Ti sei accasciata su quella roccia, che per fortuna era abbastanza grande da accogliere gran parte del tuo corpo.
    - Ti abbiamo raggiunta subito dopo e dei paramedici ti hanno caricata su. Les: la tua faccia e il tuo costume erano ricoperti di sangue. Sul vestito si vedeva appena, mischiato all’acqua del fiume, ma sgorgava copiosamente dal taglio sulla fronte e sul braccio. Ti ho presa tra le braccia e ti chiamavo. Tu non rispondevi: era tutta colpa mia! Non avrei dovuto lasciarti. – Si battè una mano sulla fronte. – Ti abbiamo portata a riva. È arrivata Anne con la cassetta medica, ma poteva fare ben poco. Ha chiamato l’ospedale di Queenstown, che ha subito mandato un elicottero. Anne ti ha messo due dita sul collo e ho visto la paura in lei. “Battito assente”, ha detto, e ha cominciato a farti il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Io ero vicino a te, ma è arrivato Viggo e mi ha spintonato lontano dal gruppo che ti accerchiava, in un posto da cui avrei comunque potuto vederti. Ho vomitato. E poi sono tornato da te, anche se c’era Viggo che me lo voleva impedire. Ad un certo punto, mentre sentivamo il rumore di un elicottero avvicinarsi, hai cominciato a sputare acqua. Ho sentito il sollievo entrare nel mio cuore: pensavo che ti saresti salvata… speranza che non ha trovato riscontro: non hai aperto gli occhi. Quando uno sputa acqua nei film poi si sveglia, no? Tu non l’hai fatto. Non l’hai fatto Les! Sembravi morta, e in un certo senso lo eri. Ti hanno caricata sull’elicottero e l’unico che hanno fatto venire con te sono stato io. Ti monitoravano il battito durante il volo, e l’aggeggio all’improvviso ha smesso di suonare. I paramedici hanno tirato fuori le piastre e ti hanno rianimata. Il tuo cuore si era fermato per un minuto e mezzo. – Si fermò sul marciapiede e si appoggiò ad un muretto, a poca distanza dall’albergo. – Appena sono arrivati sulla piattaforma dell’ospedale ti hanno messa su una barella. Quando hanno detto “Arresto cardiaco prolungato in volo” ho temuto di morire. Mi hanno tenuto lontano mentre ti portavano di corsa in una stanza e ti medicavano. Nel frattempo sono arrivati tutti gli altri: ho spiegato loro tutto quanto. Ci hanno fatto rimanere in corridoio e quando ho provato a entrare dentro un’infermiera, Bean e Viggo mi hanno placcato. Non sottovalutare la bravura di Bean nel rugby – sdrammatizzò, poi tornò serio. – Ilana e Elijah hanno cominciato a litigare proprio quando sono riuscito a entrare. Ho preso una sedia e mi sono seduto vicino a te, prendendoti la mano. Non ti ho mai vista così immobile, fragile… sembravi una scultura di vetro in procinto di spezzarsi. Respiravi a fatica ed eri piena di lividi, tagli e bende… era tutta colpa mia… solo colpa mia… Un medico mi ha detto che eri in coma, che non sapeva quando ti saresti risvegliata. Mi ha detto che parlarti avrebbe aiutato, così ho cominciato a parlare di quando avevamo cantato Wannabe, e tutte quelle cose lì. Non mi sono allontanato da te per due giorni e mezzo. Sul set stavamo perdendo le speranze: Peter pensava che non si sarebbe potuto più fare il Signore degli Anelli, Fran cercava una sostituta, Philippa si inventava una storia per la New Line. Quasi alla fine del secondo giorno (era il 23 agosto) ti ho supplicato di non lasciarmi. Mi sentivo uno schifo, pensavo di averti uccisa. Non ho mai mangiato, non ci riuscivo. Avrei voluto buttarmi giù da un ponte: mi sentivo totalmente colpevole – Sospirò. – Ti ho supplicato di restare con me. E poi, quando anche io cominciavo a credere che sarebbe stato per sempre così, hai parlato. Non posso descrivere il sollievo che mi hai dato: sei stata ossigeno puro. …E credo che tu sappia il resto.
Restai in silenzio, rapita dal racconto. Mi sentii uno schifo per come avevo fatto sentire Orlando solo per la mia mancanza di coraggio nell’affrontare l’idrofobia e la mia incapacità di nuotare. Gli strinsi la mano.
- Scusami. Scusami, amore. Mi dispiace.
Orlando si alzò di scatto dal muretto e mi mise schiena al muro, mettendomi le braccia ai lati del viso. Scandì lentamente le parole, apparentemente arrabbiato. – Non farmi mai più una cosa simile. Va bene? Mi sono sentito morire.
Deglutii, non sapendo che cosa dirgli. Capii che non avrei potuto trovare parole adatte per esprimergli il mio rammarico per l’accaduto e la mia gratitudine nei suoi confronti, quindi gli circondai il viso con le mani posandogliele sulle guance, e lo guardai negli occhi. Avvicinai piano il mio viso al suo e lo baciai, cercando di infondervi tutte quelle sensazioni che galoppavano nel cuore e nella mente di entrambi. Orlando rispose ardentemente al bacio e quando ci separammo sentii di essere in qualche modo più vicina a lui. Mi sorrise, mi prese per mano e insieme entrammo in albergo, facendoci strada sotto le luci dei lampioni e nel buio della notte.

Accendemmo la webcam seduti vicini sul letto matrimoniale e chiamammo gli Hobbit con Skype*. Risposero Elijah e Sean da un computer, Billy e Dom dall’altro.
- Ciaooooooooooooooooo! – ci salutammo in coro, tutti allo stesso modo.
- Ci spiegate cos’è successo? – chiese Billy, e la voce ci arrivò attutita per colpa degli altoparlanti scadenti del mio computer. – Abbiamo sentito che Orlie ha combinato un bel pasticcio.
- Come al solito, Bill – Elijah, nel riquadro accanto, alzò gli occhi al cielo mettendosi una patatina in bocca. – Quando non ci siamo noi a controllarlo, vedi che guai che combina.
- Com’è andato il primo giorno soli soletti, ragazzi? – chiesi ad alta voce.
- Ehi, Les, non urlare! – protestò Dom. – Sai, i tuoi altoparlanti saranno anche scadenti, ma il microfono funziona benissimo.
Sean e Orlando risero. – Comunque, ragazzi, ci rivediamo nel weekend vero? Perché non fate un salto qui? – proposi. Molti di loro annuirono, i primi Bill e Dom.
- Non vedo l’ora, sorellina! Ci hanno fatto sedere tutto il giorno su un sellino da bici!

Scusatemi tanto per il capitolo ritardatario e scritto male, prometto che mi impegnerò tantissimo per il prossimo!
Nut

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Capitolo 27
*** Cap 26. ***


La mia vita sul set – Cap. 26

Il giorno dopo la nostra telefonata con gli Hobbit e la nostra “promessa di appuntamento” eravamo di nuovo sui cavalli, con le redini in pugno e i piedi nelle staffe, pronti a girare. Il tempo non era brutto, anzi c’era il cielo sereno, ma nell’aria aleggiava una foschia quasi invisibile, ma tuttavia percettibile. Gli oggetti più lontani sembravano avere i bordi sfocati, come se qualcuno li avesse disegnati e poi picchiettati con la gomma, ma da vicino spariva tutto quanto, era tutto molto più definito: Mahaffie diceva che con le telecamere non ci sarebbe stato alcun problema, perché al massimo sarebbe bastato un ritocchino digitale.
I cavalli si muovevano sul prato, muovendo la testa e battendosi i fianchi con la lunga coda. Tenevo la mia Calliope ferma al suo posto mentre un branco di cameraman e addetti alla manutenzione dei più svariati macchinari di ripresa. Eravamo tutti sui cavalli, nella stessa posizione di due giorni prima, con l’adrenalina già pronta a scorrere nelle vene e perfettamente calati nei nostri ruoli. Orlando era avanti, giù da cavallo, aveva già l’arco in mano e guardava lontano. Calliope scalpitò e tirai le redini per tenerla ferma, osservando attentamente Orlando: stava in piedi con la schiena dritto, stringeva l’arma con forza e sicurezza, ma ad un attento osservatore saltava all’occhio il suo tenere il peso tutto sulla gamba destra per non caricare troppo sul lato sinistro.
- Signori, cinque minuti e cominciamo a girare! – Gridò Mahaffie attraverso un megafono. Mi guardai intorno per un secondo per accertarmi che nessuno badasse a me e spinsi gentilmente Calliope verso di lui. Il cavallo avanzò piano, tenuto a bada dalle redini strette nel mio pugno, e arrivò a scostare la spalla di Orlando con il muso. Lui si voltò e sobbalzò leggermente quando si accorse dell’animale che gli stava a due centimetri dalla nuca. Alzò lo sguardo verso di me e si aprì in un sorriso. Fece il giro di Calliope e mi mise una mano su un polpaccio. Mi chinai verso di lui e gli sussurrai:
- Vediamo di non far venire un colpo a nessuno.
- Ci sto – rispose.
- Mancano due minuti! – Urlò la voce di Fran, che ci aveva raggiunto dalla prima troupe la sera prima. Con un’ultima occhiata a Orlando mi voltai e mi spinsi veloce al punto di attacco: le comparse si stavano mettendo già ai posti di partenza. – Un minuto!
Mi voltai indietro ancora una volta e incoccai una freccia nell’arco, pronta a scattare in avanti ad un segnale.
- E azione!
Ci muovemmo tutti nello stesso momento, come se qualcuno avesse schiacciato il tasto play del registratore dopo averlo messo in pausa. La confusione si fece subito alta e mi voltai verso Viggo, che in quel momento stava spingendo avanti il suo cavallo urlando qualcosa che non sentii. Come Mahaffie mi aveva chiesto di fare, voltai Calliope verso le telecamere lasciandole le briglie e sollevando l’arco con entrambe le mani. Poi, quando fui abbastanza vicina, inclinai l’arma verso il terreno e scoccai una freccia. Era la mia unica freccia reale per far capire agli specialisti degli effetti speciali come tiravo e riprodurlo in digitale per il resto dell’attacco.
Ad un segnale io e i Cavalieri di Rohan girammo i cavalli e ci dirigemmo verso Orlando che faceva finta di tirare frecce all’orizzonte per colpire i Mannari, e quando arrivò il momento lui, non so come, approdò sul cavallo e andammo avanti. Non vidi come fece a salire a cavallo così all’improvviso ma ero troppo concentrata nelle riprese. Ecco di nuovo Brettie sul cavallo, pensai, e chissà se stavolta non farà di nuovo un tuffo ad angelo sul mio elfo.
Le riprese dell’attacco durarono ancora a lungo, per tutta la mattina. Mahaffie era contento mentre ci dirigeva dalla sua poltrona e quasi ogni momento ci fermava per dirci qualche cosa e appuntarci miglioramenti da fare, e nel mentre un gruppo di giovani tecnici si affaccendava davanti a schermi satellitari che trasmettevano le riprese direttamente a Peter per ricevere indicazioni. Un sistema di comunicazione geniale, se si teneva conto che in quel campo non prendevano neanche i cellulari. Alla fine dell’ultima ripresa prima della pausa pranzo, quando ci disse di fermarci perché le riprese andavano bene, eravamo sudati marci nonostante il freddo. Scesi da cavallo e quasi finii lunga distesa a terra per la mancata forza delle mie gambe deboli dopo tanto stare a cavallo. Piegai più volte le ginocchia, lasciai le redini di Calliope e lei se ne andò altrove, verso dei secchi pieni d’acqua lontano dalle telecamere. Mi guardai intorno: tutti erano affaticati e nonostante questo chiacchieravano, detergendosi il sudore con le maniche dei costumi. Orlando, con una lattina di birra in mano e una bandana rossa in testa, chiacchierava con Viggo.
Il fischio dell’altoparlante attirò la mia attenzione.
- Lesley! – gracchiò Mahaffie. – Vieni qui, per favore!
Il brusio, per un secondo rimasto leggermente attutito, riprese e io corsi verso Mahaffie, più per riattivare la circolazione che per fretta. Appena giunta dal direttore mi piegai verso il bordo della sua poltrona e lui mi parlò fissandomi negli occhi:
- Lesley, io e Peter vogliamo farti i complimenti. Guarda qui. – mi indicò una telecamera in cui scorrevano le immagini appena girate: in quel momento comparii in groppa a Calliope e, tendendo l’arco mi voltai all’indietro scoccando una freccia. – Qui sei riuscita ad esprimere la confusione della situazione e il tuo sguardo trasmette la ferocia dell’istinto di combattere. Brava! – mi disse, e io arrossii.
- Grazie – farfugliai.
- Però, ci sentiamo anche di farti un appunto. Oggi pomeriggio, quando gireremo il ritrovamento delle cinture di Merry e Pipino, non dovrai avere l’espressione preoccupata che hai quando guardi Legolas.
- Ha ragione. Mi dispiace. Lo farò. – mi scusai.
- Non devi scusarti, ragazza – sorrise. – Stai facendo un ottimo lavoro per essere al tuo primo film.
- Grazie, signore.
- Vai, vai pure.
- Grazie.
Voltai i tacchi alla svelta. Anche se era gentile quell’uomo mi incuteva l’ansia di essere giudicata. Mi diressi verso Orlando e Viggo, che continuavano imperterriti a chiacchierare.
- Salve ragazzi – salutai. – Andiamo a mangiare e a riposarci? Ho fame!
- Sì, sono d’accordo – rispose Viggo. – Andiamo ad Alexandra? Guido io.
Cominciammo a camminare e Orlie mi mise un braccio intorno alle spalle e mi baciò i capelli.
- Come va la costola? – Chiesi appoggiandomi a lui.
- Niente di che. Ma mi dovrei cambiare la benda…
- Io e la dottoressa avevamo concordato che ci avrei pensato io, ricordi? – Gli strizzai l’occhio. – Ah, Mahaffie mi ha detto che siamo stati grandi! Ma, Viggo… -Voltò piano la testa. – Non dovremmo toglierci i costumi e le orecchie?
- Ma che ti frega! – rispose con una risata. – A noi non importa di spaventare la gente, vero OB?
- Assolutamente no! Andiamo ad inquietare dei camerieri a caso – sorrise. – Ehi, Viggo, comunque è meglio avere un grosso arco che tante frecce.
Viggo sorrise. – Non sono del tutto d’accordo, stupido elfo.
Non capii il doppio senso, ma trovai la cosa ugualmente divertente.

- Cerca solo di stare fermo, ok? Cercherò di non farti male.
- Cerca di fare anche il più in fretta possibile, così evitiamo di farci denunciare per atteggiamenti impropri in luogo pubblico. – Aggiunse Orlando, a petto nudo, appoggiato alle piastrelle del bagno degli uomini del ristorante. Gli avevo appena levato la benda, scoprendo il grosso livido viola che aveva sul fianco. La pelle era anche un po’ gonfia al tatto, e quando la sfiorai per mettervi la pomata che gli avevano dato in ospedale sobbalzò leggermente.
- Ti fa male? – chiesi a bassa voce.
- No, è solo… un po’ fredda.
- Resisti ancora un secondo.
Afferrai la garza nuova appoggiata sul lavandino e, non appena alzò le braccia per farmi passare, gliela avvolsi più volte per il busto fermandola infine.
- Fatto. Alza le braccia… - mi alzai in punta di piedi per riuscire a infilargli la casacca del costume senza scompigliargli la parrucca bionda.
Mi diede un bacio sulla bocca.
- Rasenti la perfezione – mi sussurrò.
- Io non cerco la perfezione – alzai lo sguardo. – Cerco te.
Sorrise.

Tornammo al set dopo solo mezz’ora: il personale del ristorante, spaventato dal nostro aspetto stravagante, aveva fatto di tutto per farci uscire il prima possibile, compreso sorpassare venti clienti con il tavolo già prenotato. Almeno il cibo era buono e il cassiere dovette lottare con il panico provocato dalla spada di Viggo per far quadrare i conti. In sostanza, tutto fumo e tutto arrosto: tutti gli altri erano ancora a mangiare e noi eravamo gli unici sul set, quindi ci sedemmo sull’erba a riposarci.
- Dolce, fredda, pungente erba – sospirai sdraiandomi a terra. – Qualcuno sa che fine ha fatto John?
Vig si accese una sigaretta, inspirò il fumo e creò nuvolette nell’aria. – Sarà andato in città a prendere qualche medicinale per la sua allergia –.
- Giusto – dissi, poi sbadigliai e chiusi gli occhi.
- Lo capisco – fece Orlando allungando le gambe. – A volte le lenti a contatto mi fanno arrossire gli occhi.
- Se ti danno fastidio le puoi togliere e ti possono modificare gli occhi al computer, ragazzino! – Ribatté Viggo – John non può far finta di non avere la barba, ti pare?
Orlando sogghignò. – E tu non puoi far finta di non avere gli abiti luridi, uomo sporcaccione.
Vig sbuffò. – Va’ a farti la manicure, elfetto dei miei stivali! – scherzò, e Orlie rise con lui. Che bella, la sua risata: mi faceva battere il cuore più velocemente solo a sentirla. Non solo l’ilarità… anche il profumo, la voce, gli occhi… tutto di lui mi faceva impazzire. Davanti ai miei occhi cominciarono ad avventarsi immagini veloci e confuse, simili all’inizio di un sogno.
- Ehi, ma la piccola Les che fa? Dorme? – sentii dire ad un certo punto la voce di Vig.
- Non dormo – risposi. – Faccio riposare gli occhi.
- …Parla nel sonno, OB?
- Come no, di continuo – rispose e ridacchiò di nuovo. – Soffre di diarrea verbale!
- Piccola Leeeeees – sentii Viggo tocchignarmi la faccia con un dito. – Sveglia!
Decisi di stare al gioco e non risposi, così Vig decise di continuare. – Sto per fare la lotta con il tuo elfetto…
Sentii un tonfo e spalancai gli occhi tirandomi a sedere. – Lo hai fatto davvero? – Esclamai.
Orlando cominciò a ridere e dondolarsi sull’erba, prendendomi in giro perché Viggo, in realtà, era solo saltato per terra.
- Ehi, guardate chi c’è laggiù! – Viggo ci indicò un punto oltre il prato. – C’è Peter!
Ci voltammo a guardare il punto che ci stava indicando e vedemmo la sagoma del nostro regista preferito che arrancava su per l’erba giallognola del campo, dritto verso di noi. Saltammo in piedi urlando e corremmo verso di lui.
- Ehi, giovanotti, come va la vita? – ci salutò allegramente dall’alto della maglietta bordeaux e dei pantaloni beige. – Come mai siete qui? Dovreste essere più giù di un chilometro!
Ci fissammo allarmati. – Che intendi dire? – chiesi.
- Dovrete girare la scena del ritrovamento delle cinture, no? Guardate che vi aspettano sulle colline più in alto. Io ci stavo andando in macchina ma vi ho visto sdraiati sul prato e sono venuto a vedere che stavate combinando.
Scattammo verso la macchina verdolina di Peter senza neanche accorgercene.

Viggo schiacciò sul pedale del freno talmente all’improvviso che credo lasciò i segni della frenata per due metri di campo. Davanti a noi c’era un sottogruppo della seconda troupe, con tanto di poltrona arancione di Mahaffie. Scendemmo al volo.
- Ehi, dove eravate ragazzi? – Tuonò John. – Vi stavamo aspettando!
- Abbiamo sbagliato set – spiegò Orlando. – Eravamo nell’altro.
- Avremo tempo di chiacchierare stasera! – Annunciò Peter affiancato da Mahaffie. – Viggo, preparati a tirare calci ad un elmo!
Detto questo ci fecero mettere ai nostri posti e cominciammo immediatamente a girare: la giornata sarebbe stata ancora lunga e avevamo tanto da girare.

Un calcio all’elmo. Un urlo. Peter chiedeva di ripetere.
Un calcio. Un urlo. Ripetere.
Calcio. Urlo.
Calcio. Urlo. Un agghiacciante, prolungato e addoloratissimo urlo, e Peter fu contento della performance. Viggo aveva calciato l’elmo talmente forte da averlo fatto volare oltre le teste dello staff e aveva tirato un urlo agghiacciante cadendo in ginocchio. Io, nella parte di Hery, lo osservavo da dietro il cumulo fumante di carcasse di orchi. Dopodiché Aragorn cominciò ad esplorare i dintorni e a seguire le tracce come un cane da caccia. E la scena finì. Appena Peter annunciò che avevamo finito, Viggo crollò a sedere per terra e si levò uno stivale con un calcio, scoprendo un piede sanguinolento.
- Ehi, Vig, che hai fatto? – Gli si avvicinò Orlando.
- Oh niente, elfetto, chiama Anne che devo essermi rotto qualche dito – rispose con noncuranza. Voltai i tacchi e feci cenno di chiamare il medico, che arrivò in tutta fretta con una cassettina. Si avvicinò a Viggo sdraiato per terra e cominciò a medicarlo mentre lui se la rideva.
- Les, per favore, prenderesti la mia macchina fotografica? – Mi chiese. – Anzi, mi faresti una foto?
Stranita la presi dall’erba vicino alle telecamere, approfittandone per dire a Peter e Mahaffie che non era niente di grave, e scattai da lontano una foto di Viggo chino sul suo piede insieme ad Anne e ad un giovane uomo, e un’altra in cui Viggo guarda dritto verso l’obbiettivo con due pollici in alto.
Posai la macchina e mi strinsi nelle spalle voltandomi verso Orlando. – Si direbbe che sia giorno di ammaccati – constatai. – Tu con la costola, Viggo con il piede. E domani dovremo alzarci presto per correre.
- Davvero – annuì Orlie. – Manchi solo tu, facendo le corna.
- Peter! – Chiamai. – Possiamo tornare in albergo? Qui sta facendo buio!
Peter annuì. – Evidentemente porto sfortuna. Andatevene a casa mentre io porto Viggo in ospedale a fare delle radiografie…
- Pete, non c’è bisogno! Sto benissimo! – Urlò Viggo da lontano, ma lui continuò imperterrito.
- …E state attenti a non fare incidenti! Ci mancherebbe solo questa.
Sorrisi e cominciai a correre verso la roulotte trucco. Emma mi aspettava appoggiata alla ringhiera. – Che giornata, eh? – mi salutò appena mi vide arrivare. Mi fermai e sbadigliai.
- Non dirlo a me. Tutte queste levatacce mi stanno uccidendo.
Emma sorrise. – Dai, vieni, ti tolgo quelle orecchie da elfo. È venerdì, ancora un giorno e ti riposerai nel weekend.
Entrando rabbrividii per colpa del freddo di metà novembre, e mi voltai indietro in cerca di Orlando: lo trovai su una soglia di un’altra roulotte volto verso di me. Mi appoggiai un secondo allo stipite, e ci sorridemmo da lontano nello stesso momento.

Buio nella stanza, il rumore delle auto che passavano per la strada, la calda coperta sui nostri corpi, il sapore di hamburger e patatine fritte ancora sulla lingua, la stanchezza della settimana. Tutto questo era l’attimo presente, quello che dipingeva me e Orlando in pigiama, abbracciati e silenziosi nel silenzio della notte. Non avevamo sonno ma restavamo comunque in silenzio, gustandoci la calma dopo la tempesta.
- Mi sono dimenticata di dirti una cosa – mormorai. Gli accarezzavo il punto rigonfio del fianco.
- Dimmela adesso – mi incoraggiò.
- Non voglio più pensare né all’incidente, né a Jessie. Voglio dimenticarla. – Lo abbracciai. – Voglio tornare a essere quella che ero quando sono arrivata in Nuova Zelanda.
Mi accarezzò i capelli. – Sai che non puoi dimenticare Jessie… è parte di te e non puoi lasciarla indietro, neanche con tutta la forza del mondo. E tu ne hai tanta, di forza.
Feci una smorfia imbronciata. – Voglio essere quella di prima!
- Lo sarai – mi sollevò il mento – lo sei già. Comincia col sorridere di più, che ne dici?
Feci un sorriso a denti stretti. – Coshi?
Rise. – È buio, Les, non ti vedo!
Ridacchiai. – Mi aiuterai, acrobata pazzerello?
- Ci puoi contare.
- E un’altra cosa! – esclamai. – Basta concentrarsi su di me, ok? Sono invisibile invisibile invisibile invisibile!
- Tu sei tutto tranne che invisibile!
- Ma dormi! – gli diedi un bacio della buonanotte e restai in silenzio.

La sveglia suonò fin troppo presto, per i miei gusti: come se ci fosse stato qualcuno lassù a dire: “Ehi, cos’è quella cosa che stai facendo? Dormire? Mai sentito nominare!” e avesse deciso di svegliarmi seduta stante. Erano le quattro del mattino. Quattro del mattino! Qualcuno lassù ce l’aveva a morte con me. Con un braccio scavalcai il busto di Orlando e spensi quel fastidioso trillo con un colpo secco.
- Buongiorno – mormorò socchiudendo gli occhi. Fuori era ancora buio, se non si contava la minima variazione di colore che stava prendendo il cielo.
- Gioddo – risposi, e starnutii. Tirai su col naso, rendendomi conto di quello che avevo appena fatto. – Oh, Gedù!
- Hai il raffreddore?
- Ma dai? A me don zembra! – Cercai a tentoni un pacchetto di fazzoletti e mi soffiai il naso, mentre Orlie, ridendo sotto i baffi, correva a prendere il cellulare e componeva un numero portandoselo all’orecchio.
- Billy? – fece una pausa. - Eh, chissenefrega se sono le quattro del mattino, tanto dovete partire! Senti qua: Les ha il raffreddore! – Un’altra pausa. – Esatto! Oggi dobbiamo correre!
La risata assordante di Billy mi giunse alle orecchie dall’altro lato della stanza.

- Anne, ti prego, dammi qualcosa per il naso gocciolante! – gridai come una pazza appena entrata nella roulotte-infermieria, una volta nella location. Anne fece un salto alto così, spaventata, e poi mi guardò tenendosi una mano sul petto.
- Ti è venuto il raffreddore? – chiese con il suo accento francese e ridacchiò. – O è Karma, o è proprio destino.
Aprì un armadietto di metallo bianco, frugò dentro per qualche minuto e mi lanciò un vasetto blu. Lo presi al volo e lo aprii: all’interno c’era una specie di crema verde pistacchio.
- Annusalo quando ti serve e il naso ti smetterà di colare – mi fece l’occhialino. – Fammi un cenno durante le pause e te lo lancio.
Annusai, e un pungente odore di menta mi pervase le narici, stappandomi il naso come uno sturalavandini unito al Mastro Lindo.
- Ehi, che forza! Merci!
- Prego.

Saltellai sul posto per riscaldarmi, imitata da Viggo. Orlando si afferrava i piedi piegandosi in due, con la parrucca bionda che andava da tutte le parti. A quel punto arrivò John che, preoccupato, scrutava tre assistenti che arrancavano su per la collina portando un pezzo di armatura di Gimli ciascuno. Appena arrivarono in cima gli si avvicinarono, posarono l’armatura sul terreno e dissero:
- Ok, adesso la indossi e corri.
John, sotto il cumulo di cerone e la barba finta, sbiancò. Io, Viggo e Orlando ridemmo.
- Signori! – disse Mahaffie. – Vi spiego cosa dovremo fare oggi: gireremo, se possibile, una sola volta a più riprese. – Peter e Mahaffie camminavano in mezzo a noi e puntavano il dito verso l’orizzonte per spiegarsi meglio. - Il percorso da fare è unico e rettilineo. Dall’alto delle colline, qualche volta, vedrete gli Uruk-Hai correre. Dovrete procedere in quest’ordine. Viggo, Lesley, Orlando e John.
- A volte Lesley e Orlando dovranno superare Viggo – continuò Peter. – Per cercare i pericoli e osservare il percorso degli Uruk-Hai. Lesley e Orlando – si voltò verso di noi – ricordate che gli Elfi non provano la fatica, quindi cercate di non respirare troppo pesantemente o a bocca aperta.
- Pare facile! – Commentai tirando su col naso. Aprii il vasetto blu e inspirai di nuovo l’odore di menta.
- Oggi siete la Compagnia dei Malandati! – scherzò Peter. – Viggo col piede rotto, Orlando con la costola fratturata, Lesley col raffreddore e Brett – lo indicò lontano – col ginocchio sciancato.
Viggo rise. – Non fa niente Pete, siamo attori.
- Lo faremo comunque! – aggiunse Orlie.
- Vi siete riscaldati abbastanza? – chiese Mahaffie. – Allora cominciamo!
Ci mettemmo in posizione, pronti a scattare in avanti, nella sequenza che ci aveva indicato Mahaffie. Eravamo carichi! Io sentivo il bisogno di correre per scacciare il freddo della mattina presto. Annusai ancora una volta nel vasetto e lo lanciai in direzione di Anne, dietro alle telecamere. Planò verso lo schermo di una cinepresa e Anne lo afferrò.
- Ragazzi! – urlò Peter, seduto in pantaloncini su uno sgabello. – State inseguendo i vostri nemici da tre giorni, correndo giorno e notte, e smaniate dalla voglia di acciuffarli. Orlando: a questo segnale – alzò un cappello rosso e lo sventolò – dovrai correre avanti a Viggo, fermarti su una roccia e recitare la tua battuta.
- Ok – disse Orlie.
- Tutti pronti? …Partito… ciak… azione!
Scattammo in avanti, e subito capii che sarebbe stato difficile dar l’idea di non essere affaticata con il raffreddore. Feci affidamento fin da subito sulla mia resistenza e sugli allenamenti che avevo fatto nelle settimane precedenti con i miei amici. Tentai sin da subito di non respirare con la bocca aperta come ma era difficile non farlo per via del naso che mi colata. Iniziammo a correre giù per il pendio della collina e Viggo e Orlando sembravano fare a gara a chi corresse più velocemente. Cominciai a sentire il cuore pompare più velocemente il sangue nelle vene e i passi che cadevano pesanti sull’erba. L’aria che mi entrava dal naso tappato cominciò a non bastarmi e tentai di respirare con la bocca socchiusa. John arrancava dietro di me, Viggo procedeva spedito molto più avanti. In cielo ci seguiva un elicottero per riprendere la scena dall’alto. Osservai Orlando davanti a me: correva bene, non sembrava affaticato.
Scendemmo dalla collina, superando Peter e le telecamere sulle rotaie. Correre su e giù per le colline sotto il sole era sfiancante. Peter alzò il cappello rosso e Orlando superò Viggo di slancio, fermandosi su una roccia davanti a lui e scrutando nel vuoto.
- Legolas! Cosa vedono i tuoi occhi di elfo? – urlò Viggo.
- Il sentiero volta a nord-est! – rispose. – Stanno portando gli Hobbit a Isengard!
Viggo disse qualcos’altro, stando fermo – secondo il copione doveva dire “Saruman”.
- STOP! – Urlò Peter, e mi fermai crollando a sedere per terra. Mi voltai verso un pick-up
- Anne! Lanciami il vasetto!
Lo afferrai al volo e sniffai a lungo come un drogato.
- Andava bene così ragazzi! – Ci disse Peter mentre ansimavamo. Magari era impietosito dai nostri sguardi da cani bastonati.
- Facciamo una pausa di due minuti – disse Mahaffie. – E poi riprendiamo.
Annuii. Sarebbe stata una lunga giornata.
A quel punto vidi andare verso Peter e Mahaffie la sagoma di un uomo. Era vestito con un gessato e avanzava a testa alta, procedendo verso di noi con passo sicuro. Lo riconobbi appena fu abbastanza vicino.
Era Matthew Colt.

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Capitolo 28
*** Cap 27. ***


La mia vita sul set – Cap. 27

Era il colmo. La beffa assoluta di una giornata appena cominciata e già incredibilmente spossante.
Osservavo Colt dal prato verso la cima della collina, a braccia incrociate, affiancata da Viggo, Orlando, John e Brett e aspettando che Peter e gli altri si sbrigassero a finire quello che stavano facendo in modo da continuare a girare. Mi aspettavo di vedere Colt scalpitare per la rabbia da un momento all’altro ma, contro le mie più nere aspettative, quell’uomo vestito di gessato manteneva un temperamento calmo e si limitava a lanciarci un’occhiata furtiva di tanto in tanto, mentre osservava delle riprese.
Sbuffai a battei le braccia sui fianchi.
- È troppo tranquillo per i miei gusti!
- Già. Quand’è che ci mostra il suo lato divertente e si mette a strillare? – Commentò Orlando con un sorriso. La sua parrucca bionda scintillava al sole.
- Chissà, magari non ne ha voglia – disse Viggo.
- Non credo – ribattei. – Uno come lui ha sempre voglia di rompere le scatole.
Guardandolo torva da lontano, non riuscivo a levarmi dalla mente che l’ultima volta che ci eravamo visti Jessie gliene aveva dette di tutti i colori.
“Salta sulla macchina e fila via, imbecille!”, gli aveva detto. La stessa frase che ora era incisa sulla sua lapide a Queenstown. Un brivido mi percorse la schiena.
- Basta, mi sono stufata. Vado a vedere che stanno combinando – annunciai, e iniziai a scendere la collina con passo deciso, calpestando l’erba giallognola del prato. Nessuno dei miei amici mi seguì, magari perché volevano assistere alla scena da lontano.
- Salve – dissi non appena fui a portata di voce. Mi fermai proprio davanti a Colt, con la testa alta e lo sguardo fiero come se stessi ancora interpretando Hery. Lui, Peter e Mahaffie alzarono lo sguardo dalla telecamera nello stesso momento.
- Signorina Dalton – mi salutò lui formale. – È cresciuta.
Cresciuta? Io? Cosa crede, che sia una bambina? Colt si piegò sulla sua ventiquattrore e ne estrasse una rivista, per poi porgermela dicendo:
- Ho giusto qui la sua intervista di qualche tempo fa. Congratulazioni per il successo.
- Grazie – risposi prendendola. La poggiai su una telecamera. – La leggerò dopo. Peter? – Mi voltai verso di lui. – Non dovremmo riprendere a girare? Siamo indietro sulla tabella di marcia.
- Sì, sì, Les, certo. – Peter si voltò verso Colt. – Vuole assistere?
Lui annuì, e io cominciai a tornare sui miei passi, quando sentii:
- A proposito, Peter, dov’è quella ragazza che mi ha cacciato via l’ultima volta? Quella robusta che mangia patatine di continuo.
Mi bloccai raggelata fin dentro le viscere con un misto di agitazione, nausea e irritazione che mi ribolliva dentro. Mi voltai a guardare Colt dritto negli occhi con una smorfia.
- È morta. Nelle Torri Gemelle.  – Risposi con voce di ghiaccio, e la sorpresa si dipinse sul suo volto. Si voltò verso Peter.
- Mi dispiace, Peter. Deve essere stata una terribile perdita per la crew.
- Non faceva parte della crew – ribattei ancora – era una mia amica.
Non aspettai un’altra risposta perché non sapevo che genere di reazioni avrei potuto avere se fossi rimasta lì a chiacchierare: avrei potuto scoppiare a piangere come prendere a vomitare, non lo sapevo. Tornai quasi di corsa sulla collina e, fermandomi al mio posto, sfiorai la mano di Orlando. Lui mi scrutò attento con gli occhi coperti dalle lenti a contatto azzurre: sapevo che aveva intuito qualcosa ma, per rasserenarlo, gli sorrisi. Cercai di rilassarmi anche se dentro di me mi sentivo una landa desolata, completamente vuota. E, com’era sempre successo quando mi ricordavo di Jessie durante le riprese, subentrò la paura di non riuscire a dare il meglio per il resto della giornata.
A quel punto la voce di Peter ci disse di ricominciare a correre.

“Ok Les, continua soltanto a correre” ripetei a me stessa. “Sono solo dieci minuti che vai avanti, non è così difficile. Un piede dietro l’altro. Non badare a Billy, Dom ed Elijah. Non guardarli!”.
Era una parola: mentre Peter, John e Colt ci scrutavano da dietro le telecamere e ci urlavano di continuo che cosa fare i tre Hobbit, appena arrivati, se ne stavano seduti belli comodi con gli occhiali da sole a bersi una gazzosa e a schernire il nostro modo di correre. Era da molto che non facevamo altro che andare con le ali ai piedi e ormai cominciavo a sentire la fatica appesantire le mie gambe e la milza, che aveva iniziato a pulsare dolorosamente. Ero arrivata in quella parte della corsa in cui cerchi in tutti i modi di distrarti dalla fatica ma l’unica cosa su cui riesci a focalizzare la tua attenzione è il tuo corpo che cede: i passi rimbombavano sul terreno e le braccia cominciavano a filarsela da tutte le parti, e lo sforzo di tenermi in posizione eretta e fingermi disinteressata era sfiancante. Soprattutto mi agitava il fatto che ci fosse anche Colt a guardarci, e che avesse parlato di Jessie. Guardai avanti a me: Orlando correva appoggiandosi ora su un piede ora sull’altro, cercando di non forzare troppo sul fianco ferito, e Viggo era molto avanti a noi fresco come una rosa. Orlando si voltò e scrutò dietro di me per riprendere John e esortare Gimli a correre ancora. Lo superai e approfittai dello stacco in primo piano su di lui per voltare il viso verso le telecamere e gli Hobbit, che appena mi videro alzarono i pollici e sorrisero in segno di incoraggiamento. Sorrisi e tornai a guardare avanti a me giusto in tempo per accorgermi che un enorme masso stava per farmi cadere: era troppo tardi per girarci intorno e stavo già per inciamparci, quando senza neanche volerlo ci misi un piede sopra e darmi lo slancio per saltare. Il tempo parve fermarsi durante il volo, poi vidi il terreno avvicinarsi e atterrai sul piede destro, per poi slanciarmi di nuovo verso l’alto e riprendere a filare sul terreno con nuova energia.   
E dopo un minuto e trenta la scena finì.
- Stop! – Urlò John. Crollai a sedere sul prato insieme ai miei amici, affaticati quanto e più di me, mentre l’elicottero per la ripresa aerea atterrava e la crew esplodeva in un applauso. I tre Hobbit corsero verso di noi in urla di festa, e arrivò applaudendo anche Colt.
- Siete stati fantastici! – Esclamarono.
- Ehi Lezzy, perché non fai più spesso quella cosa con la pietra? È stato eccitante! – Commentò Dom.
- Lezzy? – mi limitai a chiedere, intenta com’ero a cercare di controllare il fiato corto.
- Così quando puzzi posso appellarti “Oh Lezzy!” – ridacchiò. – Capito? Olezzi, Oh Lezzy… no?
Cercai di stampargli una manata sulla fronte mentre Elijah e Orlando cominciavano a ridere, ma Dom la evitò e mi diede un lungo bacio sulla guancia.
- Siamo felicissimi di essere di nuovo qui insieme a voi, ragazzi – disse Billy tirando fuori una sigaretta e accendendosela. – Ma, senza offesa, andate a farvi la doccia.
- E va bene! – dissi alzandomi in piedi. – Però ci vediamo tutti tra poco, va bene? Facciamo un giro ad Alexandra, non l’ho ancora vista.
- Noi ci stiamo – risposero in coro, per poi scoppiare a ridere per la loro sincronia e cominciare a battersi il cinque. Mi voltai verso Orlando e mi sforzai di sorridergli.
- Ci vediamo in albergo.
Me ne andai ignorando le gomitate d’intesa che i ragazzi si stavano scambiando, e mi diressi dritta verso le telecamere e i tre uomini, superando con un mezzo sorriso e un’occhiata in tralice Colt, che intanto mi guardava ammirato. Ma prima di trovare un passaggio verso l’albergo presi dalla telecamera la rivista che mi aveva portato proprio lui, l’uomo che nei miei primi mesi di riprese aveva popolato i miei incubi più tremendi.

Tornai in albergo grazie al passaggio di un tizio della crew che doveva fare un salto in città, e appena entrai ebbi la tentazione di gettarmi sul letto.
- Come no, Les – dissi a me stessa – se di siedi su quel coso non ti alzi più.
Tipico di me, parlarmi da sola. Scossi la testa ed entrai nel bagno, dandomi un’occhiata veloce allo specchio.
- No! Ngila si infurierà…
Mi ero dimenticata il costume addosso come una stupida, e nessuno mi aveva fermato. Avrei dovuto trattarlo come fosse di cristallo, altrimenti Ngila mi avrebbe davvero ucciso. Avrei potuto mandarle un messaggio sul telefono ma non avevo il suo numero, e l’idea di dire a qualcun altro di tranquillizzarla quando avesse dato i numeri mi venne in mente solo dopo.
Me lo tolsi facendo attenzione, restando in biancheria intima, e lo piegai bene per terra. Poi mi tastai le orecchie, accorgendomi di essermi tenuta anche le protesi da elfo. Ero completamente fusa! Ma dove avevo la testa?
Cercai di staccarmele grattandole via, con l’orrendo risultato di ridurle quasi in polvere. Quello però non era un problema: per me, Orlando e tutti gli altri elfi c’era una scorta tale di orecchie da poterci truccare mezza popolazione neozelandese. Le buttai via.
Mi infilai nella doccia e mi lavai come un automa, troppo stanca per pensare bene a quello che stavo facendo e anche per accorgermi che, tra una corsa e l’altra, si erano fatte le sei del pomeriggio. Avevamo davvero corso per tutto quel tempo? Le corsette che mi facevo per allenamento da Villa del Lago alla location sul fiume non erano bastate per permettermi di superare con più facilità quella giornata di riprese. Una volta uscita dalla doccia mi infilai addosso una maglietta da calcio, vecchia e larga di Orlando, e poiché di statura ero più piccola di lui – e mi piaceva, soprattutto quando mi abbracciava – mi stava lunghissima. Mi buttai a pesce sul letto con i capelli ancora gocciolanti e mi addormentai in un lampo.
Lo strascico del vestito bianco strusciava sul tappeto rosso che correva in mezzo alle panche piene di gente. Il profumo di un bouquet di fiori fra le mie mani mi inebriava, e mio padre mi conduceva tenendomi per un braccio. Avanzavamo lenti lungo la navata, i quattro Hobbit stavano in prima fila insieme alla mia famiglia.
E Craig mi aspettava all’altare.

Aprii gli occhi di scatto, ritrovandomi sul letto nella stessa posizione in cui mi ero addormentata. Quanto tempo era passato? Non lo sapevo: potevano essere passati dieci minuti come due ore.
Con la mente ancora in subbuglio per il sogno appena fatto cercai di calmare il respiro corto che mi era venuto. Il cuore batteva forte e mi sentivo come se avessi tradito davvero Orlando. Cercai di alzarmi, ma mi accorsi che qualcosa me lo impediva: Il braccio di Orlando. Era lì sul letto accanto a me, addormentato, che mi stringeva alla vita come un bambino con l’orsacchiotto di pezza. Però, a differenza di me, si era levato sia il costume che le orecchie e la parrucca, e respirava profondamente. Quasi mi dispiaceva doverlo svegliare, ma anche se non conoscevo l’ora sapevo che di lì a poco saremmo dovuti andare in giro con gli Hobbit e gli altri attori. Gli accarezzai il braccio.
- Ehi – sussurrai. Lui rispose con un mugolio scocciato. – Dobbiamo andare dagli Hobbit.
- No, non voglio… restiamo qui – biascicò stringendomi ancora di più e accoccolandosi con la testa sulla mia pancia. Risi sommessamente.
- E va bene! – dissi. – Non mi fai neanche chiamare gli Hobbit per avvertirli?
- No – rispose mugugnando.
- Bella roba! – Esclamò una voce dietro Orlando. – E noi che avremmo dovuto aspettarvi!
Restai immobilizzata per la sorpresa: di sentire un’altra voce oltre le nostre, ovviamente, ma soprattutto di riconoscere quel timbro scherzoso e giocondo che apparteneva a Dominic Monaghan.
Orlando restò tranquillo nella sua posizione, e io con qualche difficoltà mi allungai per guardare meglio oltre il suo testone: Dom se ne stava svaccato sul bordo del letto a premere i tastini del GameBoy alla velocità della luce. A guardarlo star così comodo nel letto matrimoniale mio e di Orlando mentre noi ci dormivamo  sopra non seppi se mettermi a ridere o arrabbiarmi con lui… anche se era impossibile arrabbiarsi con Dom!
- …Dom? – lo chiamai languida e torva allo stesso tempo.
- Les?
- Che ci fai qui?
Dom lasciò cadere il Gameboy sul suo stomaco e mi fece l’occhiolino.
- Mi annoiavo.
Aggrottai le sopracciglia e strinsi le labbra.
- E questo ti ha spinto a spaparanzarti sul mio letto e a giocare ai videogiochi?
Sentii il corpo di Orlando scosso da una risata sommessa, e Dom si passò una mano fra i capelli.
- In realtà è stato lui – indicò OB con il pollice – mi ha detto di farti da sveglia. Sai, giusto in caso…
- Giusto in caso avrei continuato a dormire? – completai. Orlando mosse la testa giù e su per annuire.
- Ma grazie! – Esclamai. – La vostra fiducia nei miei confronti è davvero commovente!
Risero entrambi mentre mi dilettavo a sfoggiare un’espressione offesissima.
- Ad ogni modo – continuai scostando il braccio di Orlando e rotolando giù dal letto. – vado a prepararmi. Dopo questa dormita mi sento rinata.
Peccato che mi ero quasi accidentalmente dimenticata di raccontare ad Orlando il mio strano sogno: certo che comunque farlo non sarebbe stato il massimo con le orecchie da Dumbo di Dom a venti millimetri di distanza.
Feci leva con le ginocchia sul pavimento per alzarmi e mi diressi in bagno, mentre i due cavalieri sul letto non si mossero di un centimetro.
Mi lavai alla meglio, tornai in camera ignorando i due sul letto che chiacchieravano e presi i primi vestiti che mi capitarono dall’armadio e tornai in bagno per infilarmeli. Mi misi una maglietta lilla a maniche corte aderente e un paio di pantaloni neri, mi legai i capelli in una coda bassa e mi infilai scarpe bianche ai piedi.
Diedi allo specchio un’ultima occhiata al mio aspetto stravolto sepolto sotto una spolverata di blush e tornai in camera. Vidi che anche Orlie si era cambiato, indossando una camicia aperta su una maglietta bianca.
- Ehi, Les, ottima intervista! – Esultò Dom lanciandomi il giornale.
- Belle foto, cucciola – si complimentò Orlie mentre lo afferravo al volo. – Sei bellissima.
- Oh mio Dio, me ne devo andare o morirò di diabete con tutto questo zucchero! – si lamentò Dom uscendo di corsa dalla porta.
Orlando sogghignò ancora. – Hai già letto l’intervista?
- Non ho fatto in tempo – risposi stringendomi nelle spalle. – Andiamo?

I bicchieri al bancone tintinnavano, i clienti al tavolo chiacchieravano e mangiavano hot dog tra le risate generali all’interno del locale. Sul terrazzo, dove eravamo noi, Dom e Viggo fumavano, Sean era impegnato a non fare respirare il fumo delle sigarette a sua figlia, Elijah chiacchierava con Billy bevendo birra, John beveva un daiquiri e mi raccontava di come fosse tremendo portare quella dannata maschera di lattice a forma di nano, Orlando coccolava Alexandra, che insisteva a giocare col posacenere ignorando i divieti di Sean, e io sfogliavo Heyou fino ad arrivare alla mia intervista. C’era molta confusione e l’unico che mancava era Craig, che era stato trattenuto in costumeria. Gli altri attori erano ancora sul set con Peter: non era strano, non era ancora calata la sera.
- Alex, non toccare quel coso! – Esclamò Sean per l’ennesima volta mentre Orlie se la posava sulle ginocchia. La bambina lasciò andare il posacenere, rise e cominciò a tirare i riccioli a Orlie. – Aleeeeeeeeex!
- Sean, lascia stare, è divertente! – ribatté Orlando cercando di togliersi dai capelli le manine della bambina. Si divertiva anche più di Alex! Sean invece cominciò a brontolare.
- Non capisco perché sua madre non se la sia portata dietro invece di scaricarla a me.
- Perché si sarebbe annoiata in una SPA, penso… - risposi distrattamente mentre osservavo la prima foto della mia intervista, quella in cui sorridevo in direzione della macchina fotografica appoggiata alla ringhiera sul lago.
- Ehilà, principessa, che fai? – mi distrasse la voce di Craig, appena arrivato al locale. Alzai la testa e lo scrutai.
- Leggo la mia prima intervista! – risposi. – Vuoi leggere?
Craig si sedette sulla panca in mezzo ai vasi di azalee e si sporse oltre la mia spalla per vedere.
- “Compare come una visione Lesley Dalton, la debuttante che sta facendo rumore nel cinema ancora prima dell’uscita del suo primo film. Acqua e sapone, vestiti semplici, occhi grandi color di foglia, sembra essere la classica frivola ragazza di campagna, ma mai prima impressione si rivela più sbagliata. Perché Lesley non è di campagna, non è frivola, è tosta. Tosta nella sua semplicità.”. Mmmm, non ti sembra che ti abbia leccato un po’ troppo i piedi, Les?
- Già, soprattutto la parte della frivola ragazza.
Craig sghignazzò. – Beh, almeno non è andato a farti domande su matrimonio e cose del genere. – Arrossii. – Ehi, che ho detto?
Non risposi e gli feci cenno di avvicinarsi. Lui si sporse con un orecchio.
- Prima ho sognato che ci sposavamo.
- Chi? Tu e Orlando? – chiese a bassa voce. Scossi il capo. – E allora chi?
Tentennai e esalai:  – Io e te.
Craig cercò di trattenere una risata e finì con lo strozzarsi con la birra, che finì col farlo saltare in piedi e farsi uscire i polmoni dal petto a forza di tossire, che finì in uno scoppio di risa che fece voltare tutti i nostri amici e zittire buona parte del locale. Io avrei voluto scavare una fossa tra le mattonelle del terrazzo e infilarci la testa, mentre Craig continuava imperterrito a ridere contagiando anche gli altri.
- Che ci trovi tanto da ridere? – Esplosi dopo due minuti buoni. Craig si asciugò le lacrime dagli occhi e mi rivolse un sorriso smagliante, mettendomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sussurrandomi la sua risposta. Per un attimo temetti che stesse per baciarmi.
- Lesley, tu sei completamente matta! Io non ti sposerei mai! – Rispose invece - Non perché tu non sia una bella ragazza, per carità – aggiunse notando la mia espressione infastidita – ma perché, prima cosa, sei fidanzata con Bloom. E seconda cosa, perché sono gay fino al midollo delle ossa.
Spalancai gli occhi e raddrizzai le orecchie, non riuscendo a credere a quello che avevo appena sentito.
- Dici sul serio o mi prendi in giro?
Craig sorrise e scosse la testa, poi si sedette più vicino. – Pensa, non lo sa quasi nessuno. Neppure gli altri del cast, penso. Eppure per me non è una cosa strana, e nemmeno un segreto, ma dal momento che nessuno lo sa mi conviene dirlo a pochi qui in giro, anche perché c’è una schiera di ragazze, al bar, che non fa altro che fissare il mio sedere.
Mi sporsi oltre la sua spalla per guardare dentro al locale nella luce del sole ormai tramontato che scemava lentamente mentre le luci sul terrazzo si accendevano, e vidi davvero un gruppetto di cinque o sei ragazze che bevevano da bicchieri sottili e ridacchiavano e parlottavano osservando il sedere di Craig, atteggiandosi da civette. Sorrisi tra me e me. – Perché non alimenti le loro speranze andando a prendermi un Bloody Mary?
Lui mi scoccò un’occhiata complice e andò dentro al locale. Una volta arrivato al bancone si sporse esattamente al centro del gruppo di donne – che si spostarono per ammirare meglio il panorama, ossia i muscoli di Craig -, appoggiò il gomito sul piano e disse qualcosa al barista, che gli diede un bicchiere dallo stelo sottile dopo pochi attimi. Craig lo prese, posò una banconota sul bancone, si girò verso di me e, dopo essersi accertato che le civette lo stessero guardando, mi mandò un bacio sulla punta delle dita. Tornò indietro con il bicchiere in mano mentre quelle mi scoccavano occhiate invidiose.
Mi porse l’alcolico con un sorriso e si sedette accanto a me.
- Bloody Mary per la signorina.
Osservai le ragazze, che adesso avevano adocchiato Orlando, e mi rivolsi di nuovo a Craig:
- Ci tieni proprio a fare la figura del sex-symbol, eh?
- Certo. Però ora ti consiglierei di marcare il territorio – mi indicò Orlando con un gesto del mento. Mi girai e vidi gli occhi del gruppo di ragazze puntati fissi su di lui e sulla bambina.
Eh no, ora erano fastidiose!
Bevvi un sorso di cocktail facendo una smorfia di disgusto per il sapore forte, poi mi alzai e andai verso di lui. Appena Orlie mi vide gli occhi si illuminarono, posò Alex a terra e mentre lei correva tra le braccia di Sean, Orlie mi attirò a sé e mi baciò con tenerezza. Potei quasi sentire i versi di delusione delle ragazze al bancone: dovevano avere capito che su quel terrazzo la regina ero io.
Mi allontanai delicatamente e gli accarezzai una guancia.
- Vado dagli Hobbit – mi congedai.
Mi avvicinai quasi di corsa a Dom e mi buttai seduta tra lui e Viggo, dritta in mezzo alla nuvola di fumo che stavo producendo.
- Dai, ragazzi – tossicchiai – siete peggio delle ciminiere!
- Lo so – rispose Viggo.
- Che c’è, Les? – mi chiese invece Dom posando la sigaretta accesa nel posacenere e picchiettando la punta incandescente sul vetro per spegnerla.
- Avrei bisogno di una mano, Dom. Con Orlando.
Mi guardò di sottecchi e accennò un sorriso. – Di nuovo la Ricuci-Rapporti?
- No. Stavolta è uno scherzo – risposi innocente. Dom si illuminò. – Mentre eravamo in ospedale per la costola di Orlie una schiera di infermiere ha fatto pazzie per riuscire a vedere un pezzo del suo didietro, e lui non ha fatto niente apposta per farmi ingelosire. Adesso voglio ricambiare, non ti sembra giusto?
Dom guardò di soppiatto Orlie e rispose: - Giustissimo. Che pensavi?
- Veramente mi volevo affidare alla tua follia.
Si aprì in un sorriso: - Quando torneremo sul set fa’ finta di inciampare, cadere o qualsiasi altra cosa, basta che tu finisca a terra. Io avrò convinto tutti gli uomini presenti ad accorrere in tuo aiuto e a fare i cascamorti, e vediamo come la prenderà Orlando – Suggerì. – Che ne dici?
- Dico che è perfetto! – esclamai, e gli battei un pugno sulla spalla.
- Les, hai preso qualcosa per il raffreddore? – Mi chiese Viggo a quel punto. Mi voltai verso di lui.
- Non da quando sono tornata il albergo. Perché?
Viggo si grattò il naso – Perché domani sera andremo tutti insieme a far campeggio fra i monti per girare un pezzo di corsa all’alba. Un’idea di Peter. – Alzò le spalle. – Non vorrei che ti becchi l’influenza.
- Ah, ho capito. Beh, chiederò ad Annie. Grazie Viggo!
- Beh, però ora pensiamo a mettere a punto il nostro piano! – Esclamò Dom.
Sorrisi: sembrava così lontano il set, quella sera, che potevamo essere benissimo soltanto un gruppo di amici usciti una sera per bere qualcosa e non degli attori famosi in giro per una città che avrebbero visto ancora per poco tempo.
Ma in realtà era proprio quello che eravamo: attori che bevevano fra una giornata e l’altra di riprese. Ad un tratto sentii tutta la stanchezza accumulata in quei mesi: mancavano ancora poche settimane alle vacanze di Natale e al mio viaggio a New York insieme a Orlando, ma sembrava non dovessero arrivare mai.
Sarebbe stata dura girare Le Due Torri, e avevamo appena cominciato.

Lo so, chiedo perdono, ho impiegato troppo tempo a scrivere questo infimo capitolo. La scuola diventa difficile in questo ultimo periodo del mese e tra la gita e la marea di compiti che ci hanno dato ci si è messo pure il blocco dello scrittore. Per tutto questo tempo ho avuto la sensazione che questo capitolo sia brutto.  No, davvero, se fa schifo non mi offendo.
Ditemi la vostra, vi prego!

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Capitolo 29
*** Cap. 28 ***


La mia vita sul set – cap 28.

La voce entusiasta di Dom arrivò dal corridoio fino alla sala ristorante dell’hotel, facendomi sobbalzare e rovesciare il caffè sul pavimento.
- Diamo il benvenuto al mese di dicembre! – Esclamò entrando con un balzo. – Lezzy, sei tutta sola! Dove sono gli altri?
- Ancora a dormire, suppongo – risposi prendendo un tovagliolo di carta e asciugando la pozza. – Dopotutto sono solo le cinque meno un quarto, ed è un miracolo che ci abbiano aperto la porta di questa sala per prendere un goccio di caffè.
- Sì, può darsi che tu abbia ragione.
Dom prese la caffettiera e se ne versò un bicchiere.
- Allora, oggi ci attiviamo? – Mi voltai a guardarlo sperando che capisse quello che intendevo. Ovviamente lo fece.
- No. – Rispose – In realtà pensavo di scrivere tutto quanto su un foglio, imbustarlo, mandarlo a Oprah e parlare davanti a tutta l’America di cosa significa al giorno d’oggi attirare l’attenzione.
- Sicuramente farebbe un sacco di share – concordai divertita. Sorrise e posò il bicchiere, poi si voltò verso di me e indicò la porta con la testa. Uscimmo a braccetto a passo di marcia e ci avviammo verso le scale, diretti alle nostre camere.
- Come va il raffreddore, a proposito? – Mi chiese, dando voce a chissà quale filo logico dei suoi pensieri.
- Non mi lamento – risposi. – Il naso non è più tappato e questo è un bene. Non avrei mai voluto andare in campeggio a girare col candelotto.
Dom rise sotto i baffi. – Ci divertiremo un sacco! Ehi, ciao Sean!
Sean, appena alzato dal letto, borbottò qualcosa di rimando e continuò a scendere le scale. Io e Dom uscimmo sul corridoio delle camere e ci salutammo con un pugno sulle spalle che stava a significare “ci vediamo dopo!”.
Entrai nella mia stanza e trovai Orlando mezzo steso sul letto con il petto nudo, le scarpe infilate e i jeans slacciati. A dormire.
Era come se avesse avuto un corto circuito mentre si vestiva.
- Sei ancora a letto! – Urlai afferrando un cuscino e cominciando a prenderlo a colpi.
- Ferma! Ferma! Smettila! – Supplicava lui.
- Stai facendo tardi, Orlie!
- Sono le quattro e mezza, Les, ancora cinque minuti…. – Afferrò la coperta dall’altro lato del letto e se la tirò sulla faccia.
- No, Orlie, sono le cinque! Erano le quattro e mezza quando è suonata la sveglia, l’appuntamento al set è fra dieci minuti!
A quelle parole Orlando parve riattivarsi: scostò la coperta, saltò giù da letto, si tirò su la cerniera dei pantaloni e prese da terra la sua maglia nera da Legolas.
- Perché non mi hai svegliato prima? – si lamentò.
- Pensavo avessi recepito il messaggio quando ho cominciato ad andare avanti e indietro dal bagno.
Orlie si tirò su a sedere e sbadigliò. – Infatti – rispose. – Ma conoscendoti sapevo che ti saresti alzata un’ora prima del normale per prepararti, e che mi avresti svegliato in tempo.
- Geniale, Mr Pigro. Datti da fare, ci vediamo al set.
- Non mi aspetti? – Chiese buttandosi a sedere sul letto e infilandosi la maglietta. Mi voltai con la mano sulla maniglia della porta e gli strizzai l’occhio.
- No! Devo fare una cosa con Dom. Ciao!
Mi chiusi la porta alle spalle e la sua voce passò attraverso la porta.
- Quale cosa???

Saltai in macchina non appena Dom ebbe acceso il motore.
- Ehy Les! Ci hai messo tanto che sono passati gli altri tre Hobbit e Viggo.
- Scusa. Ho dovuto svegliare Orlie... a cuscinate.
- Questi elfi non sanno alzarsi alle cinque e mezza del mattino.
- Dannati elfi – borbottai. Dommie rise.
- Se lo dici tu è autocertificazione!
Partì in sgommata, Dom lo Spericolato.

Il set brulicava di persone già a quell’ora del mattino, come ogni giorno dal mio arrivo. Emma aveva già pensato a mettermi le orecchie a punta, e il mio costume un po’ sgualcito era stato lavato, stirato e poi stropicciato a dovere. Non sapevo perché si fossero presi la briga di stirarlo.
Non avevo ancora visto Orlando sul set: che fosse arrivato mentre ero da Emma era probabile, ma come minimo l’avrei visto passare. Di sicuro non stava parlando con Peter o Fran. Poteva essere insieme agli Hobbit, oppure si stava attardando con Viggo e Bernard all’albergo senza un motivo apparente. L’unica alternativa era che la macchina del caffè l’aveva risucchiato!
Ero l’unica della Compagnia ad essere già pronta. Me ne stavo seduta con un bicchierone di caffè in mano in attesa che cominciassimo a girare, a leggere e rileggere il mio copione della giornata.
Ripetei la mia battuta in elfico e quelle normali per la quinta volta, poi misi da parte il foglio quasi con rabbia: la testa mi pulsava e mi impediva di concentrarmi a dovere. Mi passai una mano sugli occhi.
- È tutto ok? – mi chiese qualcuno passando lì accanto.
- Vai tranquillo. – Gli risposi senza guardare chi fosse e quello se ne andò senza dire altro.
Non andava bene: dovevo fare un mucchio di cose quel giorno, non sarebbe bastato un semplice mal di testa a fermarmi.
Per prima cosa mi alzai dalla sedia e andai da Peter, che mi salutò col solito entusiasmo mettendomi in mano un mucchio di fogli perché glieli reggessi.
- Hai visto gli altri? – Gli chiesi aspettando che li riprendesse. - È da un po’ che li aspetto ma non si fanno vedere.
Peter si sistemò gli occhiali con una mano e prendendo una penna e cominciando a scrivere sul blocco che reggevo mi sorrise.
- Sì, sono arrivati qualche minuto fa. Si stanno vestendo nella saletta laggiù – indicò col pollice un piccolo edificio alle sue spalle. – Strano che non li abbia visti passare!
Sorrisi.
- Saranno diventati dei ninja!
Peter sorrise di nuovo e mi tolse i fogli dalle mani per metterseli sotto al braccio.
- A proposito, Les. Volevo informarti che dopodomani sarai tu la protagonista.
Mi lasciò interdetta. – In che senso?
- Nel senso che girerai solo tu – una luce crudele brillò nelle sue pupille. – Il resto degli attori avrà il giorno libero.
- Davvero? È grandioso! Grazie per l’opportunità, Pete.
Girai i tacchi e feci per andare dagli altri, ma all’ultimo gli ricordai che il giorno dopo saremmo andati in campeggio e che quindi non se la doveva prendere se non sarei riuscita a dare il massimo. Peter annuì, e con una pacca sulla spalla ben assestata, mi disse che io davo sempre il massimo e “fine delle comunicazioni”.
Beh, grazie Peter.

- Ehi, dico, tante grazie per avermi avvertita!
Orlie, in piedi in mezzo ad una stanza intento ad allacciarsi la cintura di sostegno per la schiena che gli avevano dato per proteggere la costola ancora mezza rotta, si girò a sorridermi.
- Ti dovevo restituire la tirata di prima, no?
Incrociai le braccia – Mi stavo perdendo tutto il divertimento di queste parti.
Il cast di Rohan era riunito: alcuni erano seduti comodamente sul divano sorseggiando caffè o parlando ad una telecamera, altri si preparavano mentalmente al lavoro incombente. Bernard si divertiva a lanciare noccioline in bocca a Dom che intanto masticava una mela, e Billy veniva aiutato da un’assistente a indossare la casacca. Viggo era a petto nudo e controllava il filo del costume.
C’era anche Barrie Osborne! Non lo vedevo da un po’.
- Ciao, Barrie! – lo salutai con un ampio gesto del braccio e lui mi ricambiò con un cenno del capo. Scrollai i capelli.
- Ti prego, non essere così vanitosa! – Mi riprese Dom dall’altra parte della stanza. Lo raggiunsi.
- Sono l’unica donna, devo essere vanitosa! – mi difesi ridendo.
– Allora, qual è il piano?
Mi voltai a guardare Orlando. – Mmmm, non so. Non mi vengono idee geniali quando ho mal di testa.
Dom s’illuminò. – Fai finta di avere un capogiro!
- Scusa?
- Sì! Ti gira la testa, inciampi in un cavo e finisci per terra: errore di percorso.
L’idea era buona. – Quando?
- Alla fine della giornata – rispose addentando la mela.
- Ragazzi! – ci richiamò all’ordine la voce di Viggo che intanto aveva finito di indossare il costume. – Ci organizziamo per stasera?
- Dovremmo finire di girare alle sette. Potremmo prendere gli elicotteri e volare alla location con la troupe, se Peter è d’accordo – propose Orlando mentre io notavo una macchina del caffè in un angolo della stanza e andavo a prendere qualcosa.
- Ma dovremmo portarci dietro dei bagagli – ribatté Billy – come faremo a prepararli?
- Partiamo dopo, verso le nove. Datevi il tempo di andare in albergo a prendere i sacchi a pelo – disse Bernie.
- O facciamoceli portare: ognuno scrive una lista di cose utili e mandiamo qualcuno… Tipo Daisy – Fece Orlando. Presi il bicchiere di caffè e iniziai a sorseggiare mentre Barrie rispondeva:
- Ottima idea, peccato che David sia in un’altra unità. – Ribatté Viggo. – Ottimo spirito di osservazione, Elf-boy.
- Ognuno di noi potrebbe correre in albergo appena finito di girare – mi intromisi sorseggiando il caffè. – Così da essere pronti qui massimo alle otto e mezza. Ci portiamo dietro del cibo e mangeremo una volta sistemato il campeggio. Tanto io, Viggo, Orlie e John non dovremmo neanche toglierci il costume, e non credo che finiremo di girare tutti insieme.
- Dici bene! – Esclamò John. – Non vedo l’ora di indossare questa stupida maschera per tutta la notte! Dannata allergia.
- Però l’idea è buona. La mia, intendo.
Viggo parve riflettere un attimo. – Sì, potrebbe funzionare.
- Oppure potremmo chiedere a Pete di finire presto le riprese. Si potrebbe fare, Barrie? – chiesi.
- Se ci sbrighiamo potremmo farcela benissimo. Sempre che una telecamera non salti per aria.
- Quindi giriamo, finiamo in fretta, corriamo in albergo, saltiamo in elicottero e andiamo in campeggio. – Riassunse Orlie e tutti annuirono. A quel punto la sirena ci chiamò tutti da Peter. Mentre gli altri uscivano mi girai verso Dom con un sorriso.
- A quanto pare la fine della giornata arriverà più presto del solito.
Dom sorrise e lanciò il torsolo della mela nel cestino. – Ci divertiremo. Comincerò a spargere la voce fra gli uomini per prestarti soccorso, come si suol dire. Li convincerò promettendo che dopo andrai a letto con tutti!
– Tu sei pazzo, Dom!

Una cosa che mi scocciava un po’ della produzione della saga era che avevo un ruolo piuttosto marginale. Certo, non avrei potuto pretendere in ogni caso di essere la protagonista del primo film che avrei girato una volta uscita da Oxford, ma Hery svolgeva più che altro un lavoro di presenza, non di attività nella storia. Avevo fatto delle ricerche su Internet: secondo il libro avrei acquistato maggiore rilevanza tra la metà delle Due Torri e nel Ritorno del Re, nelle battaglie finali. Mi era dispiaciuto tantissimo scoprire che Hery sarebbe morta nella battaglia davanti al Nero Cancello: a quanto pareva Tolkien voleva dare a Legolas un valido motivo per andare all’Ovest.
Ma questo sarebbe successo in seguito: nella prima parte delle riprese del secondo film avrei dovuto conservare il mio ruolo secondario e accontentarmi dei primi piani sui miei occhi – una cosa che faceva impazzire Fran. Quindi non facevo molta fatica, in confronto a protagonisti come Viggo. Ma a chi mi diceva che doveva essere facile recitare nella parte per le poche battute rispondevo sempre che non lo era: Hery si esprimeva a gesti e con le espressioni del viso. Quello che non diceva lo doveva trasmettere col corpo, così mi aveva spiegato più volte lo stesso Peter.
Perciò mi elettrizzava l’idea che per un giorno intero sarei stata al centro dell’attenzione.
Ma quel giorno era di nuovo uno dei tanti, uno in cui io dovevo muovermi più che recitare. Non faticoso come la corsa o il mio primo giorno. Passammo le riprese incentrati su Viggo e Miranda, una scena che, a sentire i discorsi durante la pausa pranzo, sarebbe stata tagliata dal film.
- Come sarebbe a dire, “tagliata”? – mi lamentai infilzando una patata al forno con la forchetta.
- Lesley, non possiamo tenere tutte le scene che giriamo – rispose Peter qualche posto più in là al tavolo della sala mensa. – Non hai idea di quanto abbiamo dovuto tagliare nella Compagnia dell’Anello. Scene di tutti, anche tue.
La notizia mi fece drizzare le orecchie,  ma non replicai. Mi voltai verso Dom che si era seduto accanto a me e gli sussurrai:
- Bella roba! Già non faccio niente nella Compagnia, e mi tagliano delle scene.
Dom si tirò indietro i capelli biondi e si versò dell’acqua.
- Succede – disse.
Diedi un’occhiata a Orlie più in là che parlava con Billy, e Sean e Elijah che ci avevano raggiunto dall’albergo e raccontavano come passavano le giornate nella loro unità. Eravamo tutti riuniti.
Continuai a mangiare senza aggiungere altro.
- Dai, Les, se tenessero tutto quello che abbiamo girato i film sarebbero lunghi cinque ore! – si spiegò Dom.
Risposi con un mugolio. Lui si avvicinò e mi sussurrò:
- Che ne dici di farlo adesso? Peter ha detto che per oggi le scene di stamattina possono bastare, e io ho già avvertito tutti gli uomini sposati, fidanzati, single e cornuti di questo cast ad attorniarti come zanzare a Matamata.
Lo guardai di soppiatto e presi il mio vassoio alzandomi dal tavolo. Gli bastò uno sguardo per capire che il Piano era cominciato.

- Se ti chiedessi di farmene provare una? – Chiesi indicando col mento la sigaretta che Dom stava fumando. Stavamo aspettando che Orlando uscisse dalla sala mensa da cinque minuti, seduti sulla spalliera di una panchina di plastica, e Dom se n’era accesa una per passare il tempo. Fino a quel momento io mi ero limitata a pensare con le mani affondate nelle tasche della mia felpa verde e alla mia inaspettata richiesta Dom si tolse la sigaretta dalle labbra e me la passò. La aspirai titubante e il sapore aspro della sigaretta mi chiuse la gola, tanto che Dom fu costretto ad aiutarmi con dei colpi sulla schiena.
- Stai bene, sorellina? Non morire proprio adesso che è riemerso dalla Terra del Cibo!
- S-sì, tutto ok. Fa proprio schifo! – Gli restituii la sigaretta con una smorfia di disgusto e lanciai un’occhiata alle mie spalle: Orlie era finalmente uscito dalla sala mensa seguito da gli ultimi ritardatari della pausa pranzo.
- Perfetto. Cominciamo, pupa!
Dom mi strizzò l’occhio e corse via come col diavolo alle calcagna.
Io restai seduta sulla spalliera della panchina, ancora scossa da qualche colpo di tosse sommesso e pensavo non sarei mai riuscita a levarmi quell’odoraccio dalla gola. Osservai furtiva la situazione: sentivo da dietro la voce di Orlie che parlava da solo, e qualche cameraman che ogni tanto mi lanciava un’occhiatina, pronto a buttarsi a pesce nella mia direzione.
Che cosa potevo simulare per giustificare una caduta all’indietro dalla spalliera? Uno sbadiglio sarebbe stato troppo teatrale, così come una risata improvvisa. L’unica opzione, come aveva detto Dom, era davvero il capogiro.
Mi alzai per scendere e quando fui coi piedi sulla panca chinai la testa, mi portai una mano alla fronte corrugata e mi buttai all’indietro sbattendo la schiena sul terreno.
Spuntarono come funghi da tutte le parti e in un attimo mi ritrovai circondata da maschi di una fascia d’età che andava fra i 21 e i 70 anni, che dicevano tutti insieme cose a caso e mi offrivano mani per rialzarmi. Erano talmente tanti che non riuscivo a distinguere una singola parola! Incontrai per caso il faccino sorridente di Dom fra le mani tese verso di me, e mentre ne afferravo una per tirarmi su sentii la voce di Orlando sovrastare tutte le altre.
- Cos’è successo? – Diceva – Che c’è?
- Niente, sono solo caduta ma questi bei ragazzi mi hanno dato una mano – ammiccai nella direzione del suo capoccione che spuntava dietro due o tre file di teste. – In tutti i sensi!
Gli uomini circostanti si misero a ridere. Tutti tranne lui, ovviamente. Lontano, Dom rideva come un matto.
- Permettimi di aiutarti, Lesley! – Mi pregò un tipo più basso di me con gli occhiali da sole.
- Ehi, piano con la mia ragazza! – esclamò Orlie, rosso in faccia come  un peperone, tentando di farsi largo fra gli altri.
- Non preoccuparti Orlando! – urlò qualcuno in mezzo alla folla. – Ci pensiamo noi a lei!
Sembrava che il fumo stesse per uscire dalle sue orecchie.
I ragazzi ricominciarono a tendere le mani verso di me e nel momento esatto in cui le afferrai tre di loro mi issarono sulle spalle e mi portarono in giro così, tra le mie risate, le occhiatacce di Orlando e l’approvazione di Dom, seduto lontano sull’erba.
- Ti amo, Dommie! – Gli urlai.

Non riuscivamo a smettere di ridere.
Ci avevamo provato, ovvio, ma proprio non rientrava nelle nostre capacità momentanee: tre volte Dom aveva dovuto correre in bagno per fare pipì, e io non riuscivo a cacciare bene nello zaino quello che dovevo portarmi in campeggio.
- L’ultima frase è stata… il massimo! – Mi urlò da dietro la porta chiusa.
Mi piegai in due sullo zaino. – Avrei voluto vedere la sua faccia.
- Non sai che ti sei persa! – Uscì dal bagno. – Per un attimo ho temuto che l’Orlando Furioso stesse per caricare la massa di toreri.
- Ci credo! – Presi un’altra bottiglia d’acqua dal minibar e la infilai nello zaino. – Non poteva andare meglio.
Dom mi passò la felpa verde che in precedenza avevo buttato per terra.
- Questa vendetta vale cinque volte l’assalto delle infermiere, no?
- È così che le donne si vendicano! Ottimo lavoro, 007.
- Yeah, licenza di uccidere! – commentò battendomi il cinque. In quel momento la porta della mia stanza d’albergo si aprì e Orlie entrò, senza il costume addosso: non ci avevano permesso di tenerli fino alla mattina dopo, soprattutto per andare in campeggio.
Orlie diede un’occhiata di sbieco a Dom che non perse tempo a dileguarsi, e non appena la porta si richiuse dietro di lui venne verso di me sfoderando un sorrisone.
- Non ti facevo così vendicativa, Les – disse. – D’ora in avanti ci penserò due volte prima di flirtare con le altre ragazze con la scusa della costola.
Drizzai le orecchie e chiusi lo zaino. – L’hai fatto?
- Come, non lo sapevi? Pensavo che tutta questa messinscena fosse per quello.
- No, era per l’assalto in ospedale! Ma adesso mi dovrò vendicare anche per le ragazze della crew, mi vuoi dire?
- No, ti supplico, non un’altra vendetta! – Si inginocchiò per terra a mani giunte, implorante. – Farò qualsiasi cosa!
- Convincimi a non vendicarmi, Elfboy!
Una luce di cattiveria e malizia apparve sul suo volto.
- Come vuoi – disse, e si lanciò su di me solleticandomi i fianchi.
Non smise di farmi il solletico nonostante le mie urla, le mie minacce di morte e le suppliche, fermandosi per qualche secondo per poi riprendere, in un gioco infantile e senza sosta. Solo quando attorcigliata come un ragno gli promisi che non avrei fatto un bis insieme a Dom Orlando si lasciò cadere su di me, avvicinando la bocca al mio orecchio, e sussurrò:
- Mi vuoi sposare?
Rimasi immobile come pietrificata, presa in contropiede. Mi ero anche dimenticata di respirare e il mio cuore perse un colpo. Anche Orlie restò immobile su di me, forse aspettando una mia risposta. Il mondo fuori sembrava essersi fermato.
Alla fine, dopo secondi o minuti, Orlando si puntellò sui gomiti e si sporse su di me.
- Ehi, piccola, stavo scherzando… - mi rassicurò con un’espressione a metà tra lo spiritoso e il deluso. Tirai un sospiro di sollievo e il mondo riprese a girare.
Lo baciai.
- Lo sapevo.
E scattai fuori dalla stanza.

Le pale degli elicotteri cominciarono a girare sempre più velocemente, permettendo ai velivoli di sollevarsi in aria. Era passato molto tempo da quando avevo volato per l’ultima volta, ma non riuscivo a godermi l’evento immersa com’ero nel ricordo di quello che era appena accaduto. Non riuscivo a capire se quello che Orlie aveva detto fosse davvero uno scherzo o se l’avesse finto vedendo la mia espressione. Come facevo a sapere che me l’avrebbe chiesto in questo modo? E chi mi diceva che non l’aveva progettato fin dall’inizio e che c’era rimasto male? Il fatto era che avevamo appena cominciato a convivere: anche se la sua proposta di matrimonio fosse stata seria, di sicuro avrebbe dato l’idea di correre un po’ troppo e gli avrei detto di aspettare. Ma se invece Orlando avesse voluto farmi uno scherzo?
Guardai fuori dal finestrino, mortificata. Gli avrei dovuto chiedere spiegazioni. Era meglio così, oppure no? Forse dovevo lasciar correre. Sorrisi: scherzo o no, la proposta mi aveva gettato nell’euforia e depresso allo stesso tempo.
Gli altri ragazzi, sull’elicottero, passavano il tempo a scherzare e con loro anche Orlando. Craig, che aveva saputo dell’iniziativa del campeggio e ci aveva raggiunto entusiasta, si limitava a sorridere alle loro battute e ai loro racconti divertenti ma più di una volta l’avevo sorpreso a osservarmi.
Mi voltai a guardarlo, stretta in una coperta che avevo trovato a bordo, e incrociai il suo sguardo.
- Va tutto bene? – Mimò con le labbra.
Non potei fare a meno di sorridere.
- Ne parliamo dopo.

Mi dispiace tantissimo e chiedo perdono in ginocchio! Non sono sparita di mia iniziativa, giuro: tutta colpa della scuola, non mi hanno lasciata respirare! Figuriamoci scrivere… Chiedo scusa a tutti i fedeli che continuano a seguirmi nonostante tutto! Spero che il capitolo partorito pezzettin pezzettino dalla mia stanca mente vogliosa d’estate vi sia piaciuto!
Fra poco andrò in Irlanda per un pochino e penso che non avrò molto tempo per scrivere, ma non abbandonerò questa fan fiction – soprattutto ora che Lesley e la Compagnia cominciano a fare quello che vogliono.
Baci (e buonanotte! – h. 23.33)
Nut.

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Capitolo 30
*** Cap 29. ***


La mia vita sul set – Cap 28.

Presi un sasso da terra e lo lanciai verso l’acqua del lago. Dopo aver disegnato un arco in cielo la pietra si immerse nei flutti con un pluf. Lontano da me, accostati alla riva, le sagome di Viggo e John intenti a pescare; dietro di me, le tende montate e Bernard che faceva cuocere gli spiedini sul falò. Gli Hobbit e Orlando erano andati a prendere altra legna; la freddolosa Miranda si era rintanata nella tenda a leggere in attesa della cena; accanto a me, chino a prendere un’altra pietra da terra, stava Craig.
Si alzò e tirò la pietra sull’acqua, facendola rimbalzare tre volte.
- Che cosa gli avresti risposto?
Continuai a lanciare sassolini.
- Se avesse detto sul serio, dici? – Craig annuì. – Pensi che fosse tutto uno scherzo?
- Non sviare la domanda – rispose. Guardai il sole quasi al tramonto, pensosa.
- Non lo so – sospirai. – È troppo presto per pensare al matrimonio! Insomma, ha appena messo i vestiti nel mio armadio e già è dura per me abituarmici… ma sposarmi adesso? Ho appena diciott’anni!
- Beh, non è che lui sia di tanto più grande…
- Vero, ma rimane il fatto che sia troppo presto per entrambi.
- Quindi gli avresti risposto di no?
- Per adesso, sì.
Presi ancora un sasso e lo scagliai lontano con tutta la mia forza. Prese la direzione sbagliata e affondò con fracasso poco lontano da John e Viggo.
- Ehi, ragazzina! Mi fai scappare i pesci! – mi urlò John roteando il pugno in aria come un vecchio burbero. Alzai una mano in segno di scusa e mi rivolsi di nuovo a Craig.
- Ma la vera domanda è: ha detto sul serio oppure no?
- Sinceramente, stasera l’ho visto piuttosto afflitto.
- Fantastico.
- Magari era solo una prova generale! Forse voleva vedere come avresti reagito per organizzarsi meglio e valutare il momento migliore per chiedertelo.
- Non penso sia così subdolo e organizzato! Tu come hai fatto con tua moglie?
- Ehi, dimentichi due cose fondamentali – si indicò con entrambi i pollici – Primo: mai stato sposato; Secondo: gay.
- Ah, giusto! Scusa.  Mi ci devo ancora abituare.
- Fa niente – mi fece l’occhiolino.
- Cosa farò adesso?
- Sostanzialmente hai due opzioni: puoi andare a chiederglielo, oppure far finta di niente.
    Ottima scelta – borbottai sfregandomi  le braccia.
    Les, seriamente, magari non era niente! Tu sai che ti ama, lui sa che lo ami; solo questo conta, alla fine. Se la vostra relazione è seria il giorno di abiti da sposa e ricevimenti verrà, prima o poi.
Ciò che mi stava dicendo Craig aveva un senso, e aveva ragione. Dovevo parlarne a Orlie e poi fare finta di niente. Quella non era la sera migliore per farsi problemi: la mattina dopo avremo dovuto alzarci prestissimo, e il giorno dopo sarei stata la protagonista indiscussa del set. Dovevo mantenere la concentrazione a tutti i costi! Era anche ora di dare una svolta alla mia vita... in senso positivo.
- Ti ho mai accennato all'incidente in barca durante le riprese della Compagnia dell'Anello?
- Mmm diciamo che ne ho sentito parlare – rispose
- La stampa?
- Il set – precisò - ma non ho mai ascoltato tutta la storia.
- Ti farò un riassunto: non so nuotare, stavamo girando Hamon Hen e la barca mia e di Orlando è finita sott'acqua. Non sono precipitata nella cascata solo perché mi sono aggrappata ad uno scoglio.
Craig lanciò un'imprecazione. - Ne sei uscita incolume, vero?
Sorrisi e mi scoprii il braccio destro alzando la manica della maglietta – Mi sono fatta questa quando ho sbattuto contro lo scoglio – presi la mano di Craig e la guidai a sfiorare la lunga cicatrice. Lui la seguì stranito.
- E per questa sono finita in coma all'ospedale – gli feci toccare quella sulla fronte, di solito nascosta per tutto il giorno dal cerone del trucco.
- Mi stai facendo venire i brividi; qual è il succo della storia?
- Il succo è – lo guardai accattivante - mi insegni a nuotare?
Sbiancò. – Adesso?
Stavamo in piedi fianco a fianco rivolti verso l’acqua, perciò mi venne un colpo quando Viggo ci sbatté le mani sulle spalle urlandoci che avevano pescato abbastanza pesci per cenare.

Il falò scoppiettava in mezzo al cerchio formato dai membri della Compagnia. Scolavamo birra e parlavamo del più e del meno: era uno di quei momenti in cui sei talmente felice da essere quasi triste perché sai che la perfezione di quel momento non tornerà mai più. Forse ero un po’ alticcia.
- Ditemi se questa non è un’ingiustizia! – stava dicendo John indicando i pesci sulla griglia accanto a noi e guardando Viggo con occhi di fuoco. – Me ne sto seduto sulla sponda del lago per ore e non prendo niente, quello sta seduto nella mia stessa posizione e sulla stessa riva del mio lago e prende tre trote! Non è possibile!
Risi. – È la fortuna del principiante John, non te la prendere!
Viggo mi guardò penetrante addentare un wurstel. – Quale principiante, scusa? Pesco da quando ero nel ventre di mia madre.
Smisi di masticare. – C’è qualcosa che non sai fare?
Gli altri risero. – Forse non sa fare la casalinga – disse Orlando. – La sua camera non è un granché, te lo dico io!
Dom disse la sua. - Però ti ci vedrei al posto di Robin Williams nel ruolo di Mrs. Doubtfire, Viggo. Hai quel certo non so che…
- Di effeminato?
Dom si buttò a negare di averlo mai pensato.
Rimasi un attimo a pensare. – Scusate, ragazzi, quando andiamo a dormire? – chiesi.
- Oddio, sei vecchia dentro! – mi urlò Craig dalla boscaglia in cui era andato a fare pipì. – Non hai mai considerato l’opzione di fare after?
- Che?
- After!  - urlò più forte.
- Cos’è l’after?
Dom si passò una mano sugli occhi. – Quanto stai sveglio fin dopo l’ore in cui ti sei svegliato il giorno prima.
- Ma siete matti? Domani dovrò essere in forma!
Tutti alzarono gli occhi al cielo imponendomi di smetterla di preoccuparmi, ma tentai di farli ragionare: non aveva senso per noi fare after, correre e poi dormire due ore prima di cominciare la vera giornata di lavoro.
- Les ha ragione, in fondo – concordò Orlie. Si voltò verso di me. – Andiamo in tenda? – chiese indicando con il naso un punto lontano del prato. Finii di bere la birra e mi alzai.
- Buonanotte, ragazzi!
- ‘Notte – risposero.
- E le trote? – chiese John.
- Mangiale! – Risposi. Presi la mano di Orlando e ci avviammo insieme verso la tenda: il momento del chiarimento era arrivato.
Lui aprì la cerniera e si scostò per farmi entrare, per poi farlo a sua volta. Era una tenda grande da campeggio, verde e nera, con dentro due sacchi a pelo. Anche se ne avrei preferito uno matrimoniale, la cosa non mi dispiaceva. Orlie si sedette a gambe incrociate di fronte a me, dopo aver acceso una lampadina vicino all’entrata.
- Allora, domani sarà il tuo grande giorno eh?
Feci un mezzo sorriso. – Spero di non deludere!
- Figurati. – Fece una pausa. – Senti…
- Era sul serio, vero? – Lo interruppi in fretta. Mi guardò stupito.
- Che?
- La proposta era seria?
- No, Les, davvero! Stai tranquilla!
- Ok.
Orlie ridacchiò furbo. – Che avresti risposto?
“Ma che è? Siete tutti abbonati a questa domanda?”. Tentennai.
- Les, è curiosità.
- Sì.
Orlando sgranò gli occhi. – Sì?
- Sì. Ma non ora. Insomma, è troppo presto. Dopo.
Lui sorrise. – Va bene se ci sposiamo tra cinque minuti?
- No, ma fra cinque o sei anni potrebbe anche essere. – Gli feci l’occhiolino e lo baciai. – Buonanotte.

Un rumore assordante mi fece spaventare e scattare a sedere. Stranamente non mi ritrovai a guardare le pareti di tela della tenda, ma il cielo appena più rischiarato dai primi raggi del sole. Il rumore incessante erano i clacson delle macchine che avevano deciso di usare come sveglia.
- Avanti, ragazzi, sveglia! In piedi, svegli, in forma! Sono le quattro del mattino! Hop hop hop! – Stava urlando Barnie con un megafono. Intorno a me le voci erano già concitate.
Mi tirai su a sedere, e le mie mani toccarono un fondo bagnato e umidiccio.
- Ma che…?
- Lesley! – Mi sentivo chiamare. – Lesley, che fine hai fatto?
Mi guardai intorno: ero sdraiata nell’acqua del lago!
- Ma che…? Sono qui! – Urlai alzandomi in piedi, stillando acqua dai vestiti, dalle punte dei capelli, dalle dita delle mani. Alzai i piedi con fatica e uscii dall’acqua schizzando da tutte le parti. Le persone di cui incrociavo la strada si fermavano a guardarmi stupite: non capivano che cosa ci facessi sdraiata in acqua a dormire.
Figuriamoci se lo sapevo io.
Corsi per quanto me lo consentivano i vestiti fradici verso il camper dove avevano sistemato i costumi di scena. Appena mi videro entrare completamente bagnata, Emma, Ilana e Ngila smisero di sistemare costumi e pulire pennelli e si voltarono a guardarmi esterrefatte.
- Non avevo bisogno di una doccia, mi sono solo svegliata nel lago.
- Ti sei solo svegliata nel lago? – ripetè Emma incredula.
- Credo di essere sonnambula.
Il senso pratico di Emma venne alla luce e sul suo volto si formò un’espressione da generale.
- Qui dobbiamo risolvere in fretta la situazione – disse risoluta voltandosi verso le altre. – Linnie, prendi un phon per asciugarle i capelli. Non abbiamo molto tempo! Ngila, poggia il suo costume lì sulla sedia e vai a prendere un asciugamano pulito. Su ragazze, in fretta! Non abbiamo tempo da perdere! – Eseguirono gli ordini e Emma si voltò verso di me. – E tu togliti quei vestiti fradici!
L’idea di protestare per il fatto che sarei rimasta quasi completamente nuda alle quattro del mattino fece in tempo a balzarmi in mente che fece le valigie e scomparì augurandomi buona fortuna. Afferrai il bordo del maglione che indossavo e cercai l’asciugamano che Ngila era corsa a prendermi, cominciando a sfregarmi mentre Linnie attaccava il phon ad una presa dietro ad una poltrona e mi indirizzava contro il caldo getto d’aria. Le lancette dell’orologio ticchettavano veloci. Appena fui abbastanza asciutta mi infilai il costume. Emma mi fece sedere sulla sedia e mi attaccò le orecchie come un razzo, per poi spedirmi fuori dalla roulotte.
Il cielo stava già cominciando a prendere i colori dell’alba e sapevo di essere in ritardo clamoroso: infatti verso la sommità dell’altura, dove avremo dovuto girare, mi aspettavano tutti, pronti per girare. Li raggiunsi di corsa.
- Buongiorno! – Mi salutò Peter – Dov’eri finita?
- Scusate il ritardo, ho fatto fatica a svegliarmi.
- Lesley, so che questo lavoro è difficile e che avete fatto una levataccia, ma vedi di non fare così tardi un’altra volta, per favore. Serietà e responsabilità, prima di tutto.
Mi stupii delle parole di Peter: m’immaginavo che in una situazione del genere mi avrebbe strizzato l’occhio e rassicurato dicendo “Tranquilla, succede a tutti”, non che mi avrebbe sgridato come se fossi stata in ritardo di tre ore. Volsi gli occhi per un attimo verso Orlando in costume, poi tornai su Peter.
- Scusami – dissi. – Non succederà più.
- Lo spero. – Rispose, poi esclamò: - forza, tutti in posizione! Lesley, dovete correre in quella direzione – indicò Ovest. – Orlando sarà in fondo alla fila. Appena il sole comincerà a spuntare da quella collina laggiù si volterà e dirà la sua battuta. Poi la scena sarà finita.
“E mi hai fatto la ramanzina per cinque minuti di riprese?”, pensai. Ma non avevo tempo di dire la mia. Superai Orlando che ne approfittò per sfiorarmi la mano mentre passavo, e mi fermai dietro a John in armatura di Gimli, che a sua volta stava dietro a Viggo vestito da Aragorn. Tutti i nostri amici erano fortunati a poter dormire ancora.
- Deve venire bene alla prima, ragazzi! – Gridò Peter dalla sua sedia dietro alla telecamera. – Motore…
“Che ci facevo in acqua?”
-…ciak… -
“Perché non ero nella tenda?”
-… Azione! – gridò.
Scattai in avanti spingendomi sulle gambe, cercando di tenere la distanza tra me e John. Sul terreno davanti ai nostri piedi i raggi del Sole cominciarono a farsi strada sonnolente in mezzo alle alture, cadendo sull’erba autunnale che calpestavamo. Mentre avanzavo, sentii Orlando dire:
- Sorge un Sole rosso – fece una pausa. – Stanotte è stato versato del sangue.
- Stop! – Urlò Barnie. – Era buona, grazie ragazzi!
Smisi immediatamente di correre e cominciai a scendere dall’altura a passo deciso, diretta al camper di Emma.
Orlando mi raggiunse di corsa e mi prese per un braccio, attirandomi a sé. Mi buttai le braccia intorno al collo, toccando il tessuto stoppaccioso della sua parrucca bionda.
- Che cosa ho fatto stanotte, Orlie?
Lui appoggiò la sua fronte alla mia. – In che senso? Non c’eri nella tenda quando mi sono svegliato. – Sussurrò.
- Infatti. Mi sono svegliata in acqua…
Il suo corpo si irrigidì. – Che ci facevi in acqua?
- Non lo so! Credo di essere sonnambula.  
Orlie parve riflettere.
- Non saprei, cucciola. Ho dormito tutta la notte… vale a dire, per le tre ore che abbiamo avuto a disposizione. Dovremo chiedere a qualcun altro: stasera i ragazzi hanno organizzato un aperitivo ad Alexandra, ti va di andarci?
Annuii. – Adesso torniamo a dormire in albergo?

Se c’era un posto in cui mi sentivo veramente a casa, quelle erano le braccia di Orlando. Nessuno aveva una capacità di tranquillizzarmi come la sua: lì mi sentivo al sicuro. Forse perché sapevo che, finché c’era lui, non poteva succedermi niente. Almeno finché non c’erano scogli, barche e fiumi in circolazione – ma quello era un caso a parte. Il mio momento preferito della giornata era senza dubbio la sera: quando tornavamo dal bar, dal ristorante o dal set e ci concedevamo alla passione senza preoccupazioni, e poi dormivamo insieme nel letto dell’Hotel. Ci tranquillizzavamo a vicenda: soprattutto lo facevo io quando lui aveva gli incubi – e accadeva spesso ultimamente.
Dormimmo come sassi per tutto il pomeriggio, dopo aver chiacchierato un po’ dell’ultima settimana. Ci svegliammo in tempo per arrivare in ritardo di mezz’ora al bar a pochi passi dall’hotel, dove tutti ci accolsero con allusioni e doppi sensi anche se in realtà ci capivano perfettamente.
Sgranocchiando noccioline e stuzzichini ne approfittai per chiedere se qualcuno mi aveva vista vagabondare la notte precedente: nessuno seppe rispondere a parte Craig. Disse che era rimasto tutta la notte da solo sulla riva del lago a pescare e che ad un certo punto mi aveva visto sedermi sulla riva del lago; era andato a vedere se avessi bisogno di qualcosa e, poiché io non rispondevo, avevo gli occhi chiusi e – a detta sua – russavo, aveva capito che dormivo profondamente e mi aveva riportato alla tenda, per poi dedicarsi di nuovo alla sua pesca solitaria. Dopo cinque minuti, però, mi aveva visto di nuovo sedermi sulla riva del lago e la scena era la stessa. Mi aveva riportato un’altra volta nella tenda e mi aveva messo “vicino a Orlando”, ma subito dopo mi aveva rivisto nella stessa posizione. A quel punto mi aveva mandato a quel paese e mi aveva lasciato lì. Ad un certo punto dovevo aver deciso di farmi un bagno, ma si doveva essere addormentato.
La storia suscitò parecchia ilarità fra gli ascoltatori e diede brio alla serata. Orlando si ubriacò con solo quattro shots: fece inciampare un cameriere barcollando in giro per il bar, si sdraiò su un tavolo e ci provò con il barista, e alla fine fui costretta a riportarlo di peso in Hotel poiché erano tutti troppo ubriachi per darmi una mano prendendo al macchina. Mentre camminavo a fatica fra le strade male illuminate di Alexandra con Orlando buttato a pesce sulla mia spalla che avanzava strascicando i piedi, lui cantava a squarciagola le canzoni di Britney Spears: la sua preferita al momento di entrare nella hall era “Gimmie One More Time”! Alzai una mano per salutare il tizio dietro al bancone e filai dritto verso la nostra camera, arrancando come un vecchio trattore carico di cocomeri. Una volta nella stanza lo sdraiai sul letto, gli tolsi le scarpe e lo coprii con una coperta.
E crollai anche io.

La sveglia suonò presto, come sempre. L’unica differenza, quel giorno, era che balzai giù dal letto. Dal bagno proveniva il rumore della doccia. Entrai per sciacquarmi il viso e Orlando, da dietro la tendina opaca, mi lanciò il suo entusiastico buongiorno. Lo salutai a mia volta.
- Amore, ieri sera ero un po’ alticcio? – mi chiese.
- Amore – imitai il suo tono allegro. – Tutta la Nuova Zelanda ti ha sentito cantare Britney Spears.
Rise di gusto. – L’ultimo shot è stato il colpo di grazia.
- L’ho notato!
- Se mi aspetti ti accompagno sul set. Sarà bello vederti darti da fare sul serio, per una volta.
Aveva ragione: era cominciato il mio giorno da protagonista.
Sorrisi al mio riflesso allo specchio.
- Si aprano le danze!

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Capitolo 31
*** Cap 30. ***


La mia vita sul set – Cap. 30

Entrai in macchina così velocemente che per poco non uscii dal finestrino opposto. Orlando mi seguì saltellando su un piede solo per riuscire a infilarsi la scarpa che ancora gli mancava.
- Ti prego, dimmi che non farai così tutte le volte che sarai prima attrice – disse chiudendo la portiera.
- È la prima volta! Potrò finalmente dimostrare quanto sono brava!
- Perché, lo sei?
Gli rifilai un’occhiata in tralice e un coppino sulla nuca. Sghignazzò.
- Sarai bravissima, ci scommetto. Ma non crederai che Peter ti lascerà fare da sola!
- Che intendi dire?
- Peter ti fa fare le cose come vuole lui; se non gli dai quello che vuole, ti farà rifare le scene all’infinito finché non ti verrà un crollo emotivo e ti ritroverò rintanata in un angolo dietro le telecamere a piangere a dirotto e a dire “voglio la mamma”.
Lo guardai sconvolta. – Non sei incoraggiante!
- Ti sto mandando in paranoia?
- Sì!
- È esattamente quello che voglio fare – annuì serafico tenendo gli occhi fissi sulla strada.
Evitai di rispondere e rimasi in silenzio fino a che non arrivammo sul set e scendemmo dalla macchina. Orlie aveva canticchiato tutto il tempo, contento di starsene tranquillo seduto su una sedia a vedermi sgobbare. Maschilista!
- Ci vediamo dopo amore! – mi salutò Orlando scompigliandomi i capelli.
Mi diressi a passo svelto verso la sala trucco, sapendo che qualcuno mi avrebbe gentilmente portato il mio caffelatte, e aprii la porta.
- Buongiorno! – mi salutò Emma. – Siediti e rilassati.
Per attaccare le orecchie ci volle lo stesso tempo del solito, ma a me sembrarono secoli. Emma attaccò subito a chiacchierare sugli ultimi pettegolezzi della crew, di come lo stunt Merberg si fosse preso una cotta colossale per l’aiuto-luci Lucienne, e di come lei ci fosse andata a letto senza neanche sapere il suo secondo nome. Il suo allegro cicaleccio venne interrotto dall’arrivo del mio prezioso caffelatte, ma ricominciò subito dopo come se niente fosse accaduto. Io mi limitavo a guardarla nel riflesso dello specchio e pensavo non avrebbe smesso più, quando finalmente Peter bussò alla porta.
- Ciao Les! Pronta per il grande inizio?
Gli sorrisi determinata.  – Sono nata pronta!
- Ok! – Mi passò un blocco di fogli. – Questo è il tuo copione di oggi. Fra venti minuti cominciano con la scena insieme a Gandalf.
Guardai con terrore il blocco che stringevo fra le mani. Erano almeno trenta fogli! E avrei dovuto impararli tutti entro venti minuti? Deglutendo, lo aprii.
- Oh, cazzo. Ma è elfico!
Emma posò il pennello intinto di colla e preso quelle da precisione, sbirciando da sopra la mia spalla.
- Dovresti iniziare in ordine d’importanza! – Suggerì.
- Emma, questo è il Signore degli Anelli. Tutto è importante!
- Non hai capito. Inizia dalla scena con Gandalf, forza! Impara poco alla volta!
Giusto. Esatto. Esattamente quello che dovevo fare. Lessi i primi due fogli. Ok, sarebbe stato facile. Emma girò la mia sedia verso l’uscita e m’indicò la porta con un pollice.
- Fuori di qui – ordinò. Obbedii. Quando stavo per richiudere la porta e scendere le scale, Emma mi chiamò.
- Lesley! – Infilai la faccia nella fessura e sbirciai dentro: Emma mi guardava sorridendo. – Ricordati di respirare e arriverai a fine giornata.

Orlando ci aveva visto giusto, almeno solo in parte. Non stavo ancora invocando la misericordia del Signore, ma sullo stare seduta dietro ad una telecamera ci aveva azzeccato. Avevo imparato le battute della prima scena e continuavo a farle girare nella mia mente come un giradischi rotto. Jessie mi avrebbe detto che stavo andando alla grande.
A un certo punto avevo visto passare lontano da me i quattro Hobbit, Viggo e Orlando, per una volta senza costume, chiacchierando e ridendo. Cosa ci facevano lì?
- Non sarete lì per vedermi! – Esclamai, e un cameraman poco più in là sobbalzò e si girò a guardarmi stupito. Concentrazione, Dalton. Concentrazione. Oddio, dovevo ancora cominciare e già parlavo da sola! Entro fine giornata avrei miseramente sfociato nella schizofrenia.
La voce di Philippa tuonò attraverso un megafono e mi fece scattare in piedi come una marionetta.
E se non fossi brava, o pronta?
No! No. Concentrazione.
- Bene signori, pronti per cominciare! Siete pregati di spegnere le suonerie dei cellulari e di spegnere le videocamere e le macchine fotografiche durante le riprese!
Ancora prima di accorgermene mi ritrovai accanto alla sedia di Peter, a guardare la folla di operatori. La paura cedette lo spazio alla determinazione e all’ansia da prestazione.
Sir Ian mi affiancò silenzioso come una nuvola. Sembrava proprio una nuvola, con quel suo nuovo costume da Gandalf Nuova-Versione-Biancaneve.
Solo allora notai la mia sedia.
Quella nera col mio nome scritto sullo schienale.
- Uuuuuuh! Bella! – Esclamai indicandola. Gli occhi della maggior parte del personale seguirono la punta del mio indice, prima che lo ritirassi e lo nascondessi dietro la schiena arrossendo come una bambina di sei anni. I membri della Compagnia, mischiati alla folla, si sforzarono di nascondere le risate soffocate nelle maniche delle magliette.
Peter sospirò, scosse la testa e ordinò: - Cominciamo!
Io e Sir Ian ci scambiammo un’occhiata.
- Ti ricordi le battute? – Mi chiese.
- Ci puoi scommettere.
- Lesley! – La voce di Peter. Il cuore ricominciò a martellare. Tump tump tump. Peter mi si avvicinò e mi prese per un braccio, invitandomi a seguirlo.
- Ti spiego tutto – disse. – Dovete scendere da quel pendio, in mezzo a quelle case di Rohan, vedi? Tu ti avvii verso la stalla – mi mostrò i passi – e la scena finisce. Quella dopo sarà girata dentro: devi attraversarla, andare dal cavallo, salirci sopra e galoppare fuori. E intanto non devi smettere di parlare. Tutto chiaro?
- Trasparente.
- Perfetto allora. In posizione!
Tump tump tump. Più in basso cercai lo sguardo di Orlando: lui mi vide, mi sorrise, mi fece il segno dell’Ok e poi tirò un sorso di caffè.
Guardandolo mostrarmi quel gesto d’incoraggiamento, sentii levarmi di dosso le vesti di Lesley e diventare Hery. Un cambio drastico, a mio parere. Orlando notò qualcosa e mi sorrise. Ricambiai in un lampo.
- Azione!
Io e Gandalf cominciammo a camminare. Lui procedeva con passo sicuro, io lo seguivo indietro di un passo, diretta verso l’entrata della stalla.
- Non possiamo evitare questa battaglia. – Disse. – Theoden è convinto di potercela fare da solo.
- I suoi sforzi saranno vani se un aiuto non giungerà dall’esterno. Gli uruk-hai sono troppi, dobbiamo andare contro il suo volere.
- Va fatto.
Arrivammo davanti alla grande porta della stalla di Rohan. Mi voltai a guardarlo con rammarico.
- Che io vada in battaglia non è un suo desiderio – dissi mentre due cavalieri davanti a noi aprivano il portone. – Farai finta di non saperne niente?
Gandalf mi fece l’occhiolino. Silenzio.
- Stop!
Con una rapidità raccapricciante mi trovai di nuovo a essere me stessa. Espirai pesantemente e mi grattai la cicatrice sulla fronte, mentre Ian mi diceva che ero andata bene ed Emma mi raggiungeva con un batuffolo ricoperto di cerone. Cominciò a far girare con decisione la mia faccia di qua di là di su di giù per mettere in mostra le parti del trucco da ritoccare, mentre Peter, Fran e Philippa guardavano la scena nello schermo di una telecamera. Stavo quasi per avvicinarmi, quando Peter ordinò di farne un’altra.
Così io e sir Ian ci ritrovammo a risalire il percorso di scena. Quando chiesi a Peter che cosa non gli era andato a genio, mi rispose senza mezzi termini che non rendevo abbastanza bene l’urgenza della situazione. “Non sembra che tu stia facendo qualcosa di nascosto, sembra che stia andando a fare la spesa!”.
Quindi nella ripresa successiva cercai di dare l’impressione di essere un’antenna: andavo avanti spedita dietro a Gandalf, con le gambe rigide e l’aria tesa. Recitai le mie battute senza sbagliare, ma Peter non fu contento neanche stavolta. Dovevo essere più flessibile.
Sir Ian ogni volta mi incoraggiava dicendomi che stavo andando bene. Certo che sto andando bene, sono solo prossima a una crisi di nervi!
Gli andò bene solo alla dodicesima volta. Peter disse la sua frase di fine ripresa e si complimentò con me e sir Ian. Poi mi si avvicinò.
- Ok, Lesley. Questa deve venire bene alla prima ripresa, non possiamo ogni volta riportare dentro il cavallo. - Ah.
 - Ti spiego quello che devi fare: entri, dici le tue battute… – “ma non mi dire”, pensai – Sali a cavallo e corri fuori.
- Quindi entro, dico quello che devo dire…
- Solo la prima battuta. Poi sali a cavallo, dici la seconda ed esci. Galoppi fino a quel punto e poi ti fermi. Fine della scena.
Annuii. Non avevo il coraggio di guardare l’ora, ma cominciavo ad avere fame. Sorrisi tra me e me: chissà cosa ne avrebbe detto Jess?
- Prepararsi alla ripresa! – Urlò Fran dentro il megafono. Fu di nuovo un brusio di telecamere, poi “Azione” di Peter.
Entrai nella stalla, superai i cavalli nei box e mi diressi verso Calliope superando una telecamera accanto al suo recinto.
- Farò il più in fretta possibile – dissi.
- Sei sicura? – Mi chiese Gandalf.
- Cavalco veloce.
Aprii il cancello e mi avvicinai al cavallo, salendo di slancio in sella. Guardai di nuovo Gandalf.
- Tornerò con…
Ci fu uno scoppio accanto a noi e Calliope s’impennò, lanciando un nitrito spaventato. Dovetti stringermi con forza sulle gambe per non cadere in terra. Sir Ian si appiccicò al muro per non essere colpito dallo zoccolo del cavallo.
- Cos’è successo? – Domandai cercando di riprendere fiato, una volta che Calliope tornò con gli zoccoli a terra. Degli operatori stavano già andando a prendere la telecamera esplosa per allontanarla dalla paglia secca. Diedi qualche pacca sul collo a Calliope che ancora scalpitava, per tranquillizzarla.
- Tranquilla Callie, non è successo niente.
Sbuffò.
Scesi e uscii dalla stalla. Mahaffie era proprio lì dall’entrata. Mi sorrise e disse:
- Piccoli problemi tecnici! Approfittane per fare una pausa.
Sorrisi di rimando e mi avviai verso la mia sedia nera nuova di zecca, che forse per caso o perché l’aveva spostata con le sue manine, era proprio tra quella di Orlando e quella di Dom. Mi sedetti sbuffando e passandomi una mano sugli occhi. Orlie mi fece un grattino sulla schiena e Dom mi passò una bottiglia d’acqua.
- Stai andando alla grande, sorellina! – Mi tranquillizzò Dom.
- È estenuante! Adesso so che cosa provi tutti i giorni, Woody.
Elijah si sporse dalla sua sedia e mi sorrise. – C’è chi è abituato alla fama, ormai!
Gli feci una linguaccia. – È solo questione di abitudine, Les – rise.  
- Dai piccola, sei bravissima ed è quasi ora di pranzo. Fai questa e andiamo tutti a mangiare – mi rassicurò Orlie. Mi appoggiai nell’incavo del suo collo e sospirai. Poi presi la bottiglia e ne bevvi metà. Diedi un bacio al volo a Orlando, salutai gli altri e tornai alla stalla, dove mi accolsero i tecnici.
- Siamo pronti.
Sfoggiai un sorriso e poi mi calai di nuovo nei panni di Hery.
- Dai ragazzi, ricominciamo! – Esclamò Peter battendo le mani.
Ed eccoci di nuovo a recitare come se nulla fosse stato.
Entrai di nuovo nella stalla, seguita da Gandalf.
- Farò il più in fretta possibile.
- Sei sicura?
- Cavalco veloce. - Salii in sella e guardai Gandalf. – Andrò a Lorien. Radunerò i guerrieri. Haldir tornerà con me.
Gandalf annuì. Spinsi il mio cavallo fuori dal box.
- Non penserai di fare tappa a Dol Guldur. – Dedusse. Mi voltai a fulminarlo.
- Non pensare che io sia così debole, Gandalf il Bianco.
Senza attendere risposta, piantai i talloni nel ventre del cavallo e quello si lanciò fuori, superando in un balzo il portone e fiondandosi nel campo.
Tirai le redini, mentre le telecamere montate sui binari si fermavano e registravano la scena. Peter rideva.
- Stupefacente! – Mi corse incontro mentre scendevo e mi batté il cinque. – Perfetta! Non ti avevo mai visto così!
- Chi sei tu, che ne hai fatto di Peter?
La crew rise.

Mangiare fu rigenerante. Mi ingozzai di pasta asciutta fino a farmela uscire dalle orecchie e poi attaccai a mangiare una banana dietro l’altra, ignorando le continue allusioni di Billy e Dom. A sentire loro, mi scusava solo il fatto che fossero piene di zucchero. A parte quello, comunque, nulla impediva loro di considerarmi una temporanea pervertita. Io.
Ngila mi chiamò e uno dei suoi tanti aiutanti mi fece cambiare costume. Non avevo mai visto una cosa simile, almeno non su di me: era ampio, bianco, con dei ricami verdi e d’argento a forma di fiore. I miei capelli furono pettinati e intrecciati con un diadema di perle. Mi aiutarono a indossarlo mentre come una pazza ridacchiavo e ripetevo le frasi in elfico come un mantra.
- È difficile camminare con questo… affare!
- Si chiama “vestito”, Les. È diverso dai pantaloni, più femminile ed elegante, non sporca, non mangia, non beve, non lo devi portare fuori a fare i bisogni. È un ottimo accessorio, in confronto ai tuoi soliti pantaloni aderenti. – Rispose Ngila facendomi rimanere letteralmente di stucco. Lei se ne accorse e mi fece l’occhiolino. – Sei molto più donna così, e per camminare ci farai l’abitudine!

Di sicuro mi sarei trovata meglio a camminare sui trampoli in mezzo a una palude di alligatori, ma dovevo ammettere che facendo un certo effetto perfino a me stessa. Mi sentivo buffa e mi presentai davanti alla telecamera ridacchiando. L’operatore, che in quel momento stava riprendendo, mi disse “Ciao, Les!” e io sorrisi alla telecamera, sollevai il vestito e cominciai a saltellare esibendomi in una specie di tiptap, facendo ridere la gente di passaggio. Fu allora che la vidi.
- Cate! – Salutai. – Cate Blanchett!
- Ciao ciao, Lesley! – Mi abbracciò. – Sei una favola! Come stai?
- Va tutto bene. Sto ancora ripetendo le battute elfiche.
Cate sfiorò la sua lunga parrucca bionda, sorridendomi materna. – Tranquilla, se non te le ricordi te le suggeriscono… almeno per le prime riprese. Se poi arrivi alla tredicesima che non sei ancora riuscita a farne una buona, allora sì che ci si spazientisce.
- Non sbaglierò così spesso – la rassicurai.
- Brava – mi disse in elfico.
- Hannon le. – Risposi. Grazie. – Quanto manca all’inizio delle riprese?
Cate si guardò intorno.
- Non molto.
Dio, che invidia bruciante! Quella donna era troppo bella per essere vera. Troppo bella e troppo brava. Troppo. Doveva avere un qualche difetto! Se Jess fosse stata lì insieme a me in quel momento, ero sicura che avrebbe detto “Di sicuro è una testa di cavolo”. Quasi scoppiai a ridere da sola.
Le misi una mano sulla spalla. – Ci vediamo dopo, Galadriel!
- Ciao, Giradischi!
…Giradischi?
- Dai ragazzi, si comincia! – arrivò il solito vocione di Peter.

Promise che quella sarebbe stata l’ultima. Facile, era la ventiseiesima! Non era mai contento. Aveva detto che andava bene già alla terza, ma che potevo dare di più. Da parte mia, stavo perdendo le energie.
- Ancora una. – Disse Peter.
Sospirai e tornai per l’ennesima volta nella mia posizione e appena urlarono il consueto “Azione!”, cominciai a recitare.
Cominciai a salire lentamente gli scalini che portavano ai due troni, avvicinandomi alla figura di Galadriel volta di spalle. Appena fui abbastanza vicina mi fermai.
- Sapevo che saresti venuta.
Rimasi in silenzio. Galadriel si voltò.
- Benvenuta, figlia mia.
Indugiai, lottando tra la gioia dell’essere di nuovo a casa e l’urgenza di tornare indietro.
- Non starò qui a lungo. Ho un compito da portare a termine.
Galadriel sorrise amaramente. – Mia figlia. Sempre uguale ai tuoi fratelli. Sempre desiderosa di combattere.
- Dimmi dov’è Haldir.
Galadriel non rispose. Mi voltai e scesi i gradini.
- Hery. – Mi voltai e lei si avvicinò. – Sai che se te ne vai ora… non tornerai mai più a Lorien. Non andare incontro al tuo destino. – Mi prese una mano. – Resta, figlia mia. 
Per un attimo fui tentata di restare. Di restare a Lorien per il resto dell’eternità. Ma il richiamo di Legolas era troppo forte, dovevo portare a termine la mia missione.
- Addio, madre.
E me ne andai.
- STOP! BUONA! – Urlò Peter entusiasta.
Alzai le braccia al cielo in segno di vittoria e battei il cinque a Cate, contenta per avercela fatta.
- Bene, signori, per oggi abbiamo finito! Grazie a tutti! Ci vediamo domani, buona serata!
Mi ritrovai immediatamente fra le braccia di Orlando.
- Sei stata FANTASTICA! – Saltellò, sballottandomi da tutte le parti.
- Ti prego, OB! Il vestito!
Lui rise e, tenendomi per mano, mi accompagnò fino al camper costumi.

Una volta cambiata uscii. I ragazzi mi aspettavano seduti fuori a fumare una sigaretta o a bere birra.
- Ehi, Les! – Elijah alzò la bottiglia in segno di saluto.
- Brava, Giradischi! – Fece Dom soffiando il fumo dalle narici.
- Ti va di andare a bere qualcosa, attrice di successo?
Sospirai. – Mi piacerebbe moltissimo, ragazzi, ma facciamo un’altra volta. Sono sfinita.
Si guardarono e si espressero in ampi cenni di comprensione.
- Non vi preoccupate, torno da sola in albergo!

Me ne stavo seduta sui gradini della roulotte trucco, da sola, a bere birra da una bottiglia. Non ero ancora tornata in albergo e tutti ormai se n’ero andati in città o a casa. Ero completamente sola. Avevo l’occasione di ripensare alla giornata appena trascorsa. Sorrisi tra me e me: quanto avrei voluto avere Jessie accanto in quel momento, per scroccarle patatine e canticchiare le sigle dei cartoni animati.
Chissà cos’avrebbe detto di me.
- Senti, devi smetterla.
La voce arrivò all’improvviso, facendomi prendere un colpo. Rimasi a fissare il terreno sotto i miei piedi anche se conoscevo quella voce. Non perché non avessi voglia di parlare, non perché non avrei saputo come rispondere a quell’ordine, non perché non avrei saputo neanche spiccicare parola. Ma perché non avevo motivo di sentire quella voce. Non era possibile che la sentissi.
Passarono un paio di minuti, e lentamente mi convinsi di essermela immaginata. Tornai a vagare con la mente ai ricordi della scuola.
- Davvero, devi smetterla.
Cominciai a tremare nonostante l’aria tiepida e il cuore cominciò a battere forte. Alzai lentamente gli occhi.
Poco lontano da me, Jessie restituiva il mio sguardo.

Chiedo umilmente perdono per la lunga attesa, ma è stato un capitolo davvero difficile da scrivere! Non so perché, ma è stato difficile e spero di essermi sdebitata con voi per la lunghissima attesa!
Sempre vostra,
Panenutella

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Capitolo 32
*** Luce ***


Luce

Stava lì in piedi davanti a me, immobile, vestita con la sua solita tuta, esattamente com’era l’ultima volta che l’avevo vista. Esattamente come me la ricordavo. Senza sacchetto di patatine. Eppure non era reale, tridimensionale: era una specie di ombra colorata e opaca, che lasciata intravedere ciò che stava dietro di lei come coperto dalla nebbia. Così eterea e irraggiungibile, ma così vera.
Ero rimasta come una statua di sale, perciò lei si spazientì e inclinò la testa.
- Beh?
Esattamente la stessa voce. Ero sul punto di cominciare a prendermi a schiaffi.
- Tu… - boccheggiai. – Tu…
- Rilassati Les, non ti mangio!
- Ma… sei un fantasma?
- No – rispose. – Sono il tuo riflesso allo specchio!
- Bella battuta.
Sorrise.
- Ma se sei un fantasma che ci fai qui?
Jess si strinse nelle spalle. – Sai, non avevo niente da fare e ho deciso di farti visita.
- Davvero?
Mi guardò come se fossi scema. – Les, sono venuta a dirti che non è colpa tua.
- Scusa?
- Devi smetterla, capito?
- Di far che?
- Di incolparti della mia morte! Tu non c’entri niente, chiaro? Nessuno poteva prevedere una cosa del genere, e men che meno avresti potuto consegnare quel pacco. Non è colpa tua.
Rimasi a guardarla con un groppo in gola.
- E devi anche smetterla di pensare a me, sai? Mi piacerebbe tanto passare da quella bella luce paradisiaca e fare visita a nonna Pearl, ma non posso se continui a piangere per me!
- Non è possibile che io sia l’unica a farlo! E tua madre?
Mi rivolse uno sguardo triste. – Mia madre mi ha già dimenticato affogandosi nell’alcool. Ed io che pensavo fosse una persona originale, credevo iniziasse direttamente con le metamfetamine!
- Mi dispiace…
- Capisci? Tu sei l’unica che continua ad andare in giro dicendo “Jess di qua, Jess di là”… Anche i tuoi amici l’hanno superata!
- Loro ti conoscevano da un mese, io da tutta la vita! Mi dispiace! – Scoppiai in singhiozzi. Jess si avvicinò ancora un po’ guardandomi con tenerezza.
- Non piangere. Non voglio.
Mi asciugai gli occhi con una manica e tornai a guardarla. Non potevo staccare gli occhi da lei.
- Lesley, non c’è motivo di essere tristi. Io sto bene. Sono serena. Sono in pace. Non c’è motivo di piangere.
- Non so come fare senza di te…
- Hai degli amici che ti amano e che ti aiuteranno a superarla, come hanno fatto loro stessi.
- Puoi seguire tutti loro?
Jess sorrise. – Ovviamente no. Se potessi, passerei tutto il tempo a guardare Dom nudo sotto la doccia.
Risi. – E se ci incontrassimo tutte le sere e chiacchierassimo come facevamo prima?
- Oh andiamo, Les! È come se chiedessi a Dio di farti visita alle cinque per il tè.
- Un po’ troppo irrazionale?
- Un tantino, già.
- Dimmi dove sta la razionalità in questo esatto momento.
- Sono venuta a portarti un messaggio.
Alzai una mano come per zittirla. – Sì, ho capito, non è colpa mia.
- C’è anche un’altra cosa – puntualizzò. – Devi lasciarmi andare.
Sentii un tuffo al cuore. – Non posso lasciarti andare Jess.
- Lesley – sospirò. – So che mi vuoi bene. Te ne voglio anch’io! Ma arriva il momento in cui devi lasciare andare anche i morti. Io non ci sono più, ma tu sei viva! Tu respiri, il tuo cuore batte, puoi toccare gli oggetti e sentire il sapore del cibo e l’odore dei fiori, hai degli amici che ti amano, farai grandi cose e hai tutta la vita davanti! E stai sprecando il tuo tempo a versare lacrime su una persona che sta meglio ora! È inutile e non è giusto! Lasciami andare!
Abbassai lo sguardo. Non avrei potuto smettere di pensare a lei, non ne sarei stata capace anche se l’avessi voluto.
- Sì che puoi – rispose.
- Mi leggi nel pensiero?
Jess annuì. – Direi. E tanti saluti alla privacy, vero? Io posso sentire tutto quello che pensi e ti dirò una cosa: ogni volta che pensi alla mia morte io la rivivo. Giuro. E ti assicuro che volare giù da un grattacielo tre volte al giorno non è piacevole!
Ci rimasi malissimo: adesso la questione non riguardava soltanto il mio cervello, ma lei. Pensando di continuo all’11 settembre l’avevo costretta a rivivere quell’esperienza un milione di volte. Dovevo assolutamente smettere per evitare di farle del male e farla stare bene.
Jess sorrise. – Vedi che ci arrivi, coi tre minuti di ricarica che hai?
- Perdonami. – Mi mordicchiai il labbro.
- Lasciami andare, Les.
Gli occhi tornarono a riempirsi di lacrime. Come sarebbe stata la mia vita senza pensare più a lei?
- Il passato non esiste altro che nei nostri ricordi, Les. Cos’è che ti tormenta adesso?
Esitai a parlare perché sentivo di avere un groppo in gola e, se avessi aperto bocca, sapevo che avrei ricominciato a piangere.
Non ti ho detto addio, pensai.
L’espressione di Jess si addolcì. – Lo stai facendo ora.
Dovevo parlare. Per forza. – Ti sto lasciando andare, vero?
Le lacrime ricominciarono a scorrere. Jess sorrise.
- Stiamo già meglio, vedi?
Annuii e mi passai una mano sugli occhi. – Vedi la luce?
Lei indicò un punto alla mia sinistra. Mi voltai a guardare, ma vidi soltanto il panorama del set vuoto e buio. Jess lo guardava con un riflesso si stelle negli occhi.
- Vai, Jess. Vai verso la luce!
Jess mi guardò di nuovo. – Tra un istante.
- Perché?
Si avvicinò e mi abbracciò. Vidi la sua ombra avvolgere la mia e una sensazione di calore mi pervase.
- Addio, Lesley.
Nuove lacrime scesero. – Ti voglio bene, Jessie.
Sciogliemmo l’abbraccio e Jess, con uno sguardo complice, andò verso la luce. Seguendola con lo sguardo, incontrai qualcosa di anomalo nel paesaggio: come se un’alba senza colori stesse sorgendo in un punto lontano del prato, invisibile agli occhi del mondo. Lei stava andando in quella direzione, ma a un tratto si fermò e si voltò verso di me con un sorriso smagliante.
- Non è bellissima?
Sorrisi anch’io. – È tutta tua, baby! – Risposi.
Jess fece un passo in avanti, poi si voltò di nuovo.
- Ah, Les? Ho riso parecchio per la lapide. – Sorridemmo. – E un’altra cosa: svegliati. Addio.
Drizzai le orecchie. – Cosa?
Jess sorrise ancora e guardò la luce e, con un passo, scomparve con un lampo di luce. Ma la sua voce mi arrivò ancora una volta.
- SVEGLIATI! – Mi ordinò.
Spalancai gli occhi e scattai a sedere, ritrovandomi al buio sul letto della mia stanza d’albergo, con la luce della luna che entrava dalla finestra.

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Capitolo 33
*** Cap. 31 ***


La mia vita sul set – Cap. 31

Mi scuso per l’incredibile ritardo, ma mi è successo una cosa spiacevole: circa due mesi fa ho scoperto che qualcuno ha plagiato questa fan fiction. Ho segnalato la violazione, ma ancora non è stata valutata. Perciò non sono riuscita a scrivere per un bel po’ di tempo, quindi vi avverto: chiedo per la schifezza che è uscita, ma è tutto quello che sono riuscita a buttare giù dopo questa faccenda….

Dalla finestra arrivava il suono del traffico in strada, macchine veloci che arrivavano e sgusciavano via indisturbate. Un sottile filo di luce attraversava il vetro e disegnava una linea retta sul pavimento, e un altro arrivava da sotto la porta chiusa; tutto era immobile, silenzioso, pacifico, e solo dopo qualche secondo mi resi conto che l’altra metà del letto era in ordine. Orlando non era ancora tornato.
Stringendomi le ginocchia piegate sotto le coperte, rimasi ad ascoltare: per la prima volta, dentro di me, sentivo il silenzio. Non il confuso turbinio di pensieri, sensazioni e rimorsi orribili che da mesi mi attanagliava lo stomaco, ma una pace ritrovata, finalmente la quiete dopo la tempesta.
Mi sdraiai. Possibile che fosse stato un sogno? Possibile che fosse così realistico, che non mi ricordassi neanche di essere arrivata in albergo e di essermi infilata a letto? Scossi la testa e mi girai su un fianco. No, non poteva essere stato solo un sogno, era troppo reale. Troppo pieno di dettagli e sensazioni per essere solo frutto della mia mente.
Sorrisi tra me e me: sogno o no, era successo davvero! Le avevo davvero detto addio, e i miei rimpianti si erano volatilizzati come polvere al vento!
L’euforia improvvisa mi fece aprire gli occhi, notando una cosa strana. L’altra metà del letto era vuota e di Orlando nella stanza non c’era traccia, ma l’orologio segnava le tre meno un quaro del mattino. Strano che i ragazzi stessero facendo così tardi prima di un giorno di lavoro! Forse si erano radunati in qualche stanza a bere ancora un po’. Probabile.
Allontanai le coperte da me e uscii piano dalla stanza, muovendomi il più silenziosamente possibile per non svegliare gli altri ospiti dell’albergo. Arrivai di soppiatto fino alla stanza che Elijah e Sean avevano affittato per il weekend e vidi che la porta era socchiusa. Lentamente la aprii, stando attenta a non farla cigolare, e infilai la testa dentro. Trattenni a stento una risata quando scoprii che erano tutti ammassati lì dentro a ronfare, alcuni accatastati per terra, come Orlando, altri buttati come capitava sul letto matrimoniale, come Dom, Billy e lo stesso Elijah. Il sottofondo era permeato da un russare disarmonico e disomogeneo, e tutti avevano ancora i vestiti e le scarpe addosso! Chiudendo piano la porta senza fare rumore e cercando di fare gimkana fra i Belli Addormentati senza svegliarli, scavalcando Billy in posizione fetale e evitando per un soffio la testa Sean che se la ronfava in una posa vagamente somigliante a un tappeto a forma di orso, saltellai fino al letto matrimoniale e mi sdraiai in uno spazietto libero in mezzo a tutti loro a poca distanza da Dominic. Mi accasciai con un sospiro, e Dom, che probabilmente mi sentì nel dormiveglia, socchiuse gli occhi e sussurrò:
- Tutto bene, sorellina?
Mi voltai verso di lui. – Sì – sospirai e sorrisi. – Sì, tutto bene.

Qualcuno ridacchiò. – Ho sempre sognato addormentarmi senza una ragazza nel letto e svegliarmici abbracciato!
- Ehi – un’altra voce. – Vuoi botte?
- Sono sveglia! – Bofonchiai attraverso le coperte.
- Sean, hai finito di divertirti in bagno? – strepitò Billy, sogghignando poi quando Sean lo mandò a quel paese attraverso la porta.
- Dai, piccola Les! Dobbiamo andare.
Finalmente sollevai la testa dal cuscino. – Che devo fare per dormire in santa pace? – Mi lamentai. Orlando, seduto vicino a me, sorrise.
- Di sicuro non addormentarti in mezzo a uomini casinisti e in dopo sbornia. – Si chinò. – E poi dormire con me in un hotel a New York.

Tutto era pronto per il mio secondo giorno da protagonista. Pur essendo ancora inesperta, di certo mi sentivo più pronta del giorno prima. Se intendessi pronta a dare il meglio o pronta a fare casino, ancora non lo sapevo. Sentivo soltanto il sangue che mi scorreva nelle vene e il terreno sotto i piedi. Il cielo pieno di nuvole e il vento appena più primaverile del solito.
A differenza del giorno precedente, avremmo girato in un capannone. Diverse scene richiedevano un’ambientazione troppo complessa per poter usufruire della natura, quindi si sarebbe utilizzato il Green Screen.
In programma avevo Dol Guldur, un colloquio con Haldir e uno scontro con un Uruk-Hai. L’ultimo era quello che in un giorno normale mi avrebbe preoccupato di più, ma avrei fatto faville!
Gli altri membri della Compagnia dell’Anello mi avevano accompagnato così presto sul set solo per farmi il tifo: non avrebbero fatto assolutamente niente per tutta la giornata, per loro valeva la pena spassarsela un po’, perché così avrebbero avuto qualcosa in più su cui puntare al nostro gioco “Indovina la papera”. – Per chi non conoscesse questo gioco, “Indovina la papera” si svolgeva così: ci sedevamo in cerchio con davanti una bottiglia di birra, e a turno imitavamo una papera che uno di noi aveva fatto sul set; il primo che indovinava chi era stato a sbagliare una scena beveva un sorso di birra, e vinceva il primo che arrivava a ubriacarsi. Ci giocavamo alla fine delle giornate più faticose.

Mi ritrovai con la schiena a terra prima ancora di poter avvertire il dolore sulla fronte.
- Ti avevo detto di stare attenta al ramo! – mi ricordò Craig porgendomi la mano e tirandomi su, mentre Peter rideva sotto i baffi e Dom usava la fotocamera di Viggo per fotografarmi.
- Non pensavo che fosse così basso!
Craig rise. – Di’ la verità: avevi paura che ti acchiappassi e hai giocato il jolly della caduta per destare il mio lato da gentiluomo.
- Sì, addio. Tecnicamente oggi pomeriggio ti sto facendo mangiare la polvere, ammettilo! Al prossimo “indovina la papera” ti userò come ispirazione. E dire che Allan* avrebbe dovuto metterci solo dieci minuti ad aggiustare quel dettaglio di Dol Guldur.
- Che cosa vuoi – rispose, e mi imitò quando mi sedetti a terra. – Siamo in un cast di professionisti. Tu stai dando il massimo oggi! Sei veramente bravissima: la tua interpretazione con Christopher Lee è stata magica! – Mi passò una nocciolina dal sacchetto che teneva in mano.
Arrossii. La giornata lavorativa stava ormai volgendo al termine, ma mi sentivo ancora carica di energia e fino a quel momento mi ero divertita come una matta a recitare le scene, anche quelle di cui Peter non era mai contento. Craig mi aveva raggiunta sul set solo dopo pranzo, tutti gli Hobbit tranne Dom erano andati in città e Orlando era dovuto andare ad fare un’intervista. Io e Craig avevamo fatto del nostro meglio per circa tre ore, quando al cambio di scena su Dol Guldur Allan si era accorto di avere sbagliato qualcosa nello scenario e avevano interrotto le riprese.
E così eravamo finiti lì, sul pavimento, ad ammazzare il tempo in attesa di riprendere il lavoro.
- A proposito, com’è finita quella storia del matrimonio tra te e Orlando?
Saggiai la punta di metallo della freccia che stavo rigirando fra le mani, distratta. – Gli ho detto che avrei accettato. In un futuro prossimo.
- E per quanto riguarda quel favore che mi hai chiesto?
Alzai lo sguardo. – Quello di insegnarmi a nuotare?
Lui annuì.
- Te la sentiresti?
- Non lo so, Les. Ti aiuterei volentieri, ma non me la sento di rischiare, specialmente se sei già quasi annegata. In più se hai paura io non posso combinarci niente, e in effetti non capisco perché chiedi questo a me e non ad un istruttore qualificato.
- Perché smanio dalla voglia di vederti a petto nudo!
Rise, risi. Ma poi lui si fece subito serio e mi si avvicinò.
- Les, devo dirti una cosa.
- Dalla tua faccia direi che è una brutta notizia…
- Sai che Haldir muore alla fine del film, vero?
La freccia mi punse il polpastrello, facendone uscire una goccia di sangue. La succhiai via. – Sì, l’avevo letto su Wikipedia. Non vuol dire che non ci vedremo più, vero?
Craig sorrise. – Certo che no. Se non mi dovessero chiamare per un altro film resterò qui a farti compagnia.
- E questa ti sembra una brutta notizia?
- L’hai pensato tu!
Gli tirai un pugno amichevole sulla coscia, ridacchiando. – Ti voglio bene, Craig.

Quella carica di positività e adrenalina durò per tutte le due settimane seguenti. Per me fu come tornare all’inizio di quella magnifica avventura, quando ero ancora un’inesperta ragazzina finita in Nuova Zelanda quasi per caso. Per me tutto aveva assunto colori nuovi, come se un arcobaleno fosse esploso e fosse caduto come neve su tutto ciò che mi circondava. Mi sorprendevo sempre dei gesti più insignificanti come prendere in mano una tazzina del caffè o spazzolarmi i capelli. Vivevo ogni secondo come il primo della mia vita. Finalmente, focalizzavo. Realizzai che per tutti quei mesi mi ero soltanto illusa di star vivendo, oppressa com’ero da quel senso di smarrimento e di delusione di me stessa. Ma adesso, adesso mi sentivo davvero parte della mia stessa vita. Provavo una sensazione di controllo e potere come mai prima di allora. Credo che anche gli altri notarono il cambiamento del mio comportamento, e lo accolsero a braccia più che aperte.
Ringraziavo per qualsiasi cosa mi accadesse: che fosse una birra insieme alla Compagnia o una scena girata cinquanta volte prima di risultare soddisfacente, che fosse un abbraccio appassionato con Orlando o un acquazzone preso senza un ombrello, tutto aveva il significato di vita.
E così, tra il lavoro, le birre al bar e una gioia irrefrenabile, quelle due settimane passarono.
E arrivò il giorno della prima della Compagnia dell’Anello.

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Capitolo 34
*** Cap. 32 ***


La mia vita sul set – Cap. 32

La macchinetta del caffè finì di versare nel bicchiere l’immondo liquido nerastro con uno sbuffo di soddisfazione, e il barista mi porse la tazzina poggiata su un piattino con aria ancora non del tutto sveglia. La presi e ingoiai il caffè in un sorso, buttando giù i fondi di zucchero. Lanciai un’occhiata dietro di me: l’area dei gate, piena di negozi quasi tutti semichiusi, era praticamente deserta. C’eravamo solo noi, seduti sulle panchine con i trolley fra i piedi, ad aspettare che chiamassero noi e i pochi viaggiatori presenti sull’aereo per Wellington. Tutti semiaddormentati. Tranne me. Io ero al quinto caffè e l’idea di prenderne un sesto mi allettava parecchio. Lanciai un’altra occhiata al barista.
- Lesley, prendine un altro e ti arresteranno per alcolismo!
Mi voltai verso Dominic. – Il caffè può essere considerato bevanda per alcolisti?
- Sì, se fai abuso del barista!
Quello, da dietro il bancone, gli rivolse un sorriso di ringraziamento. Dominic si tolse gli occhiali da sole e mi sorrise ammiccando. – Non c’è mica da preoccuparsi così tanto, eh. Sarai solo sotto gli occhi di tutti.
Scesi controvoglia dal seggiolino e tornai a sedermi in mezzo a Dom e Orlando, che se ne stava lì addormentato con la faccia nascosta in una rivista.
- Sono solo un po’ nervosa! È il mio primo film!
- Lo so, sorellina, ma siamo svegli solo da un paio d’ore e l’hai già ripetuto quattordici volte. – Ribatté stringendomi in un abbraccio. – Relaaaaaaaaaaax!
- Ahia! Dom! Non spettinarmi i capelli!
Lui rise – Che importa? Avrai una schiera di parrucchieri a tua disposizione prima della prima!
Elijah, dalla panchina dietro alla nostra, gli tirò un coppino sulla nuca.
- Lasciala andare, Dom! E non dirle bugie! Poi piangi, se lei ti fucila.
Dom rise ancora e allentò la presa, lasciandomi alzare di scatto. Gli feci una linguaccia degna di un bambino di prima elementare e mi diressi verso l’edicola, sistemandomi i capelli con una mano ma ridacchiando fra me e me.
Lo stand dell’edicola era addobbato a festa più di tutto l’aeroporto messo insieme.
- Qualcuno qui è ossessionato col Natale…
Guardai il cassiere: pareva un cadavere con la testa sul bancone. Continuai a girare fra le pile di giornali in cerca di qualcosa con cui passare il tempo durante il volo; valutai una rivista di enigmistica, una di architettura e una di cinema, che non presi solo perché avevo il terrore di scoprire cosa avrebbero detto sull’uscita del film. Mi ero ormai arresa, quando l’occhio mi cadde su una faccia conosciuta stampata su una copertina. Mi avvicinai, presi il giornale di gossip fra due dita e lo tirai fuori lentamente: dalla prima pagina Orlando mi restituiva lo sguardo. Un dolcissimo e profondissimo sguardo che mi sciolse immediatamente. Guardai il titolo.
Orlando Bloom: il mio cuore ha gli occhi verdi”.
Mi strinsi la rivista al petto. Evidentemente l’avevo trovata!

- Gentili viaggiatori, qui è il comandante che vi parla. Benvenuti sul volo Air Zealand 457. l’atterraggio è previsto per le sette del mattino al Wellington International Airport per le sette in punto. Vi preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza per la partenza e vi auguriamo buon viaggio.
Contaci, amico! I quattro caffè avevano già smesso di fare effetto su di me e avevano lasciato alla concentrazione e all’euforia. Orlando aveva scambiato il suo posto con Bernard e stava cercando a tutti i costi di fare entrare anche il mio trolley negli scomparti sulle nostre teste. Gli rivolsi un sorriso e lui ricambiò. Cercai di non badare ai muscoli dei suoi avambracci che spuntavano dalla maglietta a maniche corte: non potevo saltargli addosso su un aereo se non volevo essere denunciata per atti osceni in luogo pubblico!
- Ehi, piccola, cos’hai comprato in edicola? – Mi chiese alludendo alla rivista che avevo messo sul tavolino, prima di lanciarsi sul sedile accanto a me.
- Oh, niente! È solo una cosetta che ho trovato in edicola.
Orlando sbirciò da sopra la mia spalla.
- Ah, ho capito! – Esclamò sornione p.
Quando l’aereo decollò gli Hobbit si lanciarono in un urlo entusiasta. Io cominciai a battere le mani sul tavolino e a urlare ripetutamente “Andiamo alla prima del film!”. Orlando si mise a ridere e cominciò a farmi eco, seguito da Elijah, Dominic, Billy, finché tutto l’aereo non risuonò del nostro coro e gli altri passeggeri della prima classe non iniziarono a urlare di smetterla. Perfino Sean si stava divertendo come un pazzo!
Smettemmo solo quando arrivarono le hostess con la sicurezza a intimarci di tacere, se non volevamo disturbare i piloti e causare la caduta dell’aereo. Testuali parole. Perciò, quando Orlie si mise le cuffie alle orecchie e si addormentò, io presi la rivista e andai direttamente alla sua intervista.
Orlando Bloom: ho un cuore dagli occhi verdi.
Fascino, bellezza, un affabile sorriso. Orlando Bloom è quello di sempre.
Salve, Orlando. Non è cambiato da quando ci siamo incontrati la prima volta.
[risata] Molto gentile da parte sua, grazie. Lei oggi è molto bella.
La ringrazio molto. Allora, questi primi mesi di riprese come sono andati?
Davvero molto, molto bene. Il regista [Peter Jackson, ndr.] ha tutto in mente molto chiaramente. Credo che non si potesse scegliere regista migliore per rappresentare Il Signore degli Anelli.
E il cast?
Siamo fratelli. È ovvio che ci amiamo l’un l’altro, non potrei voler loro più bene. Siamo come boy-scout! Ma Peter ci ha dato anche una compagna bravissima, Lesley Dalton.
Che mi dice di lei?
È la mia principessa. Ci divertiamo sempre a stuzzicarla sul set e lei ci rincorre con le padelle della mensa [risata]. Sono grato a Peter per averci affiancato una ragazza così talentuosa, dà anima e corpo al suo lavoro.
Da queste parole sembra molto affezionato a lei.
La amo.
Quindi tutte le voci su una vostra possibile relazione sono veritiere.
Certo! Sono state vere fin dall’inizio e non me ne vergogno. Ricordo la prima volta che abbiamo trovato foto di noi sulle copertine dei giornali: Lesley è diventata matta e ha comprato praticamente tutta l’edicola. Ha lasciato agli altri clienti solo le riviste di enigmistica [risata]. A me non importava, ma l’importante è lei. Lesley ha illuminato la mia vita. Che rimanga fra noi, se morissi e mi aprissero per l’autopsia troverebbero al posto del mio cuore una foto di Lesley! Il mio cuore ha gli occhi verdi. [Sorride].
Adesso si vocifera sulla morte di Legolas…
[Strabuzza gli occhi]. Davvero? Non lo sapevo. No, Peter non sta progettando niente di simile, è solo una diceria.
Passiamo al suo personaggio, Legolas. È il suo primo ruolo importante, come si è trovato a interpretarlo?
Io e Legolas siamo molto diversi: lui è saggio, posato, un killer freddo ma un amico leale. Io gli assomiglio solo per l’ultima caratteristica! Ma dopo averci fatto l’abitudine mi riesce naturale immedesimarmi in lui e nei suoi pensieri. È sempre impegnativo, intendiamoci, ma Peter è molto permissivo e puntiglioso al tempo stesso: se gli do quello che lui vuole durante le riprese lui mi lascia fare qualcosa liberamente.
Si tratta di favori riservati solo a lei?
Oh, no. Succede per tutto il cast.
Se Peter Jackson dovesse richiamarla sul set fra, per esempio, dieci anni, lei accetterebbe?
Certamente! Non esiterei un solo istante. Adoro la Nuova Zelanda, adoro il cast, adoro il Signore degli Anelli, adoro Peter. Non me ne andrei mai di qui.
Desidera una famiglia tutta sua?
È uno dei miei sogni segreti, non lo dica a nessuno! [Risata]
Siamo arrivati all’ultima domanda: posso permettermi di toccare un argomento personale?
Mi dica… spero che non sia troppo personale!.
Non credo. Sappiamo che Lesley Dalton ha avuto una perdita l’11 settembre. Lei, da osservatore imparziale, come ha trovato la sua reazione alla notizia?
…È difficile, soprattutto perché continuano a farle domande sulla sua perdita. Lei non vuole parlarne e, personalmente, credo che mai lo farà. Penso che ormai debbano smetterla di starle sul fiato sul collo per estrapolarle due parole sulla sua amica: lei è una persona sensibile e intelligente e tutta queste domande la fanno star male.
Signor Bloom, io non l’ho chiesto a Lesley, ma a lei.
Ciò che ferisce Lesley ferisce anche me. Non chiederò scusa per questo.
Capisco. La ringrazio, Orlando.
Grazie a lei.

- Liv! Liv, mi devi richiamare. Dai, Liv! È un emergenza! Sono nei casini! Ti prego, richiama!
Chiusi la comunicazione e lanciai il cellulare sul letto. Rimasi lì in piedi in asciugamano, con le goccioline d’acqua che dai capelli bagnati mi scorrevano lungo il corpo, e il vestito verde di Valentino steso sulle lenzuola accanto a uno azzurrino e lungo di Armani. Avevo fatto tutto quanto: mi ero depilata tutto il corpo, tagliata le unghie, pulita il viso, tolto completamente il trucco, lavato accuratamente i capelli. Mi rimaneva solo da mettere il vestito. E non. Sapevo. Quale.
Il telefonino, andato a finire sotto il cuscino, si mise a squillare. Mi lanciai a prenderlo come un razzo e risposi. La linea era leggermente disturbata.
- Liv!
- Lesley, rilassati ok? Sono appena atterrata!
- Liv, sbrigati! È un’emergenza!
Liv sospirò. – Mi dai almeno il tempo di arrivare in albergo?
- Certo! Però sbrigati!
- Posso cambiarmi in camera tua?
- Certo! Sbrigati!
- Lesley, calmati o ti polverizzo.
- Vuoi scherzare! Questa è la prima del mio primo film!
- L’hai detto già nel secondo messaggio che mi hai lasciato… comunque, sono in taxi. Se aspetti un quarto d’ora mi trovi lì.
- Ma perché tu non hai nessun problema? – Piagnucolai – Tu sei bellissima, ti basterebbe metterti un sacco della spazzatura e ti ritroveresti tutti gli uomini di questo mondo ai tuoi piedi… Io invece mi ritrovo con la statura di tua sorella Mia e il volto di un cavallo del palio di Siena. Sto qua come una scema a non sapere decidere se mettere il vestito di Valentino o quello di Armani e tu non arrivi! Liv, sbriga…
…Aveva riagganciato.

Corsi ad aprire appena sentii bussare alla porta. Liv mi guardava come se stesse per azzannarmi alla giugulare e al tempo stesso abbracciarmi materna. I capelli arruffati, la mano serrata sul manico del trolley e la giacca annodata alla vita che le cascava sulle ginocchia mi fecero intendere che si era davvero sbrigata.
- Farò finta di non aver sentito il commento su mia sorella. – Mi annunciò scansandomi e facendosi largo nella stanza.
- Sono nel panico, Liv!
Lei fece cadere il trolley sul pavimento e fissò allibita i vestiti stesi sul letto. Li indicò.
- Mi hai davvero fatta correre come una pazza perché non sai scegliere fra questi due?
Mi avvicinai al letto. – Quello verde l’ho preso per il colore, pensavo stesse bene coi miei occhi, mentre quello azzurrino lo trovo più fine. Non so scegliere!
Liv sospirò. – Metti quello verde. Quello azzurro con te non c’entra un bel niente. Anzi, t’ingrassa.
Oh, Dio. – Prendilo, Liv. Prendilo e caccialo fuori dalla finestra.
Liv mi guardò sorridendo divertita. – E cosa farai con i capelli?
- Pensavo di tenerli sciolti…
- Ottimo! Le cose complicate falle per New York e Tokyo. Qui fa’ vedere alla gente quello che sei, non quello che Hollywood cercherà di fare di te.

Per evitare contatti troppo diretti e assillanti con la stampa, gli organizzatori avevano affittato per la nostra troupe le stanze di un albergo poco fuori Wellington, distante circa un chilometro e mezzo dal cinema. Prepararsi insieme alla bellissima Liv con la consapevolezza che Orlando e i miei fratelli si stavano preparando per la prima del film era surreale ed eccitante.
Ci incontrammo nell’atrio dell’hotel quando le auto nere decapottabili che ci avrebbero scortato fino in centro si fermarono davanti all’entrata. Erano tutti splendidi: perfettamente vestiti, puliti e pettinati – anche se dovetti sorvolare sull’abbigliamento di OB… abbastanza orripilante – e tutti sorridevano smaglianti. Evidentemente non ero l’unica ad essere iperattiva per l’eccitazione!
Stacchettai di corsa verso Orlando che mi accolse con un abbraccio e un sorriso.
- Non ti bacio solo perché rovinerei il tuo rossetto… - Mi sussurrò all’orecchio.
- Ti rifarai stanotte, non ti preoccupare!
Abbracciai Elijah, Viggo, Dom, Liv – per l’ennesima volta -, Peter, John, Bean, Sean, Billy, Sir Ian, zio Ian, Fran, Philippa, Barrie, Orlando.
- Ehi Les, non ti stai mica per sposare! – Scherzò Viggo davanti alla mia calorosità mentre Peter, Fran, Philippa e Barrie, dopo aver ricambiato il mio abbraccio, uscivano chiacchierando e salivano in macchina lasciando da soli noi del cast.
- Certo, Viggo, lo so! Ma lo sai, perché te l’ho già detto… - mi rivolsi a tutti quanti. – Ragazzi, grazie. Grazie per tutto quello che mi avete regalato. Mi avete insegnato a vivere e a ridere. Siete la mia famiglia.
Bean mi guardò e sorrise commosso, per poi alzare il bicchiere di champagne che teneva in mano, imitato da ciascuno di noi.
- Alla Compagnia dell’Anello. A Peter e a quello che ha creato. E alla nostra Lesley.
- Alla Compagnia dell’Anello! A Peter! A Lesley! – Gridammo – io saltai l’ultima -, e scolammo lo champagne leggermente frizzante.
- Vi ringrazio per il brindisi, ragazzi – disse la testa di Peter che sbucava dalla porta d’entrata. – Ma ci conviene andare o faremo tardi!

Secondo il navigatore satellitare, al cinema mancava ancora poco più di un chilometro. Eppure, l’atmosfera di Wellington era totalmente cambiata dall’ultima volta che l’avevo vista: adesso le persone in strada erano tantissime a formare delle file che si dirigevano verso il centro città. Tantissimi avevano in mano una copia del Signore degli Anelli o una locandina del film.
- Stanno tutti venendo a vedere la prima? – Dissi fra me e me ammirandoli da dietro il finestrino oscurato.
- Si direbbe – rispose Bean eccitato dal sedile anteriore. – Dio, quanto mi piacciono le prime!
- Calma Sean! Non saltellare o quelli là fuori avranno strani pensieri! – Lo ammonì John, e sir Ian accanto a me rise.
- Oh, Lesley, non vorrei che tu ti allarmassi troppo, ma dicono che ci sarà anche il signor Colt.
Guardai sir Ian. – Davvero? – Lui annuì. Feci spallucce. – Beh, finalmente avrà l’occasione di vedere quello che Peter è stato in grado di fare e dirà alla New Line di sganciare i soldi per il Ritorno del Re!
John ridacchiò. – Brava ragazza.
La macchina partì ad un semaforo verde e imboccò una strada a senso unico, dove il marciapiede era su entrambi i lati pieno di persone eccitate che si muovevano in una sola direzione, il centro.
- Non ci credo. Stanno venendo tutti per noi? Sapevo che erano eccitati ma non pensavo così tanto!
- Non sono molti quelli che ambientano un film fantasy in Nuova Zelanda, specie se di questa portata. – Rispose Ian. – Ho lavorato in molte opere ma, devo dire la verità, poche volte ho visto cose simili. Sarà una premiere da ricordare, a mio parere.

- Grazie a tutti per essere qui. Grazie infinite. Sono così fiero che Wellington sia diventato una parte di noi! Grazie! Se nelle prossime settimane vi capiterà di vedere il film, spero vi piacerà. Perché è stato fatto qui a Wellington.
Alle parole di Peter la folla urlò entusiasta
- Un bell’applauso alla compagnia dell’anello! – incitò il presentatore nel microfono, e al di sotto del palco su cui eravamo in semicerchio si alzò uno scrosciare di mani simile alla pioggia di un temporale. Sorrisi ancora e salutai con il braccio alzato percorrendo con lo sguardo tutta la piazza davanti al cinema. Avevano addobbato tutto per l’occasione: dal palco di tek e scalette di ferro e plastica davanti al cinema che sfociava in un tappeto rosso – il red carpet! Oh Dio, il RED CARPET! – che si dirigeva verso lo stesso, ai palloncini di vari colori attaccati ai vasi di pietra delle piante sparse per la piazza, alla facciata del cinema che presentava la locandina del film alta praticamente tre volte me.
Dopo un'altra raffica di saluti Peter si diresse verso l’entrata del cinema, seguito dai produttori, da Matthew Colt – caratterizzato da una spettacolare maschera neutra – e infine da noi attori.
L’interno del cinema era semplice: evidentemente avevano già informato Peter della strada verso la sala video, perché ci si fiondò entusiasta. Sean, che chiudeva la fila, sembrava incalzato dalla schiera di spettatori che ci inseguiva come topi dietro al Pifferaio Magico.
Mi sedetti fra Orlando e Sean. La folla di spettatori non era l’unica in visibilio: io non stavo un attimo ferma!
Quando la sala fu gremita di gente e di brusio insistente e le luci si spensero, Orlando mi afferrò una mano e la strinse con forza.
-Mi raccomando, se hai paura stringimi la mano – scherzò.
- E se tu hai paura, stringi la mia!
Il brusio a poco a poco scemò. Il megaschermo si illuminò e le prime immagini che vedemmo furono il trailer del film. Già da quel momento il mio cuore cominciò a martellarmi contro lo sterno.
- Les, ti sento sin da qui! Sai calma o a momenti ti verrà un infarto! – Bisbigliò Orlando.
- OB, è anche il tuo primo film! Non sei emozionato come me?
Lui mi prese una mano e se l’appoggiò sul petto. Anche il suo cuore stava ballando la samba.
Lo schermo divenne di nuovo nero, e la suadente e antica voce di Cate Blanchett iniziò a dire cose in elfico e poi a tradurle in inglese, mentre una musica inquietante e bellissima suonava e “Il Signore degli Anelli” compariva lentamente, dorata su sfondo nero.
- Il mondo è cambiato. Lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell’aria. Molto di quello che è stato, è perduto. Perché ora non vi è nessuno che lo ricorda.

Fu un’esperienza indimenticabile, per me e per tutti quelli presenti in quella sala. Il pubblico aveva partecipato, qualcuno aveva fischiato alla mia prima scena – cosa che mi lusingò parecchio -, trattennero il fiato alla cavalcata di Arwen e al combattimento su Colle Vento, si entusiasmarono alla vista del Balrog e esclamarono di vittoria quando Aragorn passa attraverso gli Uruk-Hai uccisi per correre da Boromir morente.
Rimasi scioccata nel vedere come avevano reso il lavoro spezzettato che avevamo fatto in quei mesi, e come nel montaggio avessero messo tutto alla perfezione, tagliato delle scene e modificato i colori delle riprese per far combaciare tutto alla perfezione. Howard Shore aveva fatto un lavoro incredibile: la musica ti coinvolgeva, sembrava fatta apposta per la pellicola, e sottolineava benissimo gli avvenimenti nel film. Molto spesso mi dimenticai di essere io, quella sullo schermo: avevano fatto un lavoro eccezionale per modificare Hery. Mi avevano riprese moltissime volte senza che io me ne accorgessi, soprattutto i primi piani. Non capii se avessero alterato il colore dei miei occhi all’inverosimile o se non mi fossi mai guardata davvero allo specchio. Per tutto rimasi a bocca aperta come un merluzzo. Veramente incredibile.

- Non voglio addormentarmi. Potrei svegliarmi nella mia camera del college e scoprire che non è mai successo nulla! Non voglio andare a letto! Sento che potrei correre intorno all’isolato! – Cantilenai.
- Ti prego, non farlo. Sono le due di notte e ho sonno. – Si lamentò Orlando girando la chiave nella toppa della sua porta di casa. Erano mesi che non ci entravamo e mi aspettavo che tutto fosse ricoperta da uno strato di polvere alto due metri. E invece no.
- Ehi, è pulito! – Esclamai entrando.
- Per forza. Credi che avrei fatto lasciare tutto in disordine dagli affittuari? Ho chiamato un’azienda di pulizie ieri e ho fatto sistemare tutto. I ragazzi invece dovrebbero aver lasciato i soldi sotto il calorifero in salotto… ma adesso sto davvero crollando.
Risi. – Le ragazze non ti hanno lasciato stare un momento.
Orlando sorrise. – Io e Viggo eravamo le star!
- Beh, i signori hanno gradito anche la mia persona! Hai sentito quando hanno fischiato alla mia prima scena?
Cominciammo a salire le scale. – Sì, e devo ammettere che non avevano tutti i torti! Emma ha fatto davvero un buon lavoro a rendere così bene. Nella realtà non sei mica così eterea…
Aprì la porta della camera da letto.
- Ehi, elfo, cosa vuoi dire?
Mi guardò sorridendo sotto i baffi.
- Che in realtà hai un brutto muso.
Lo inseguii fino alla porta del bagno, dove lui si chiuse a chiave e cominciò a farsi una doccia – alle due di notte? -. Io, scartando a prescindere l’idea di andare a dormire, cominciai a rovistare in giro.
Dopo il film non avevamo neanche fatto in tempo ad alzarci dalle poltrone che i fan si misero ad assillarci, chiedendo di autografare le locandine o nostre foto di paparazzi o scattare qualche foto insieme a loro. Riuscimmo a respirare un po’ d’aria solo grazie a un tizio della sicurezza che li placcò fino a che non uscimmo, per poi farceli di nuovo saltare addosso. Loro e tutti quelli che erano rimasti fuori dal cinema.
L’attenzione del pubblico scemò solo poche ore dopo, quando ormai era l’ora di cena. Noi, ancora troppo entusiasti per poter separarci, andammo a festeggiare ad un pub. Dopo più o meno cinquanta brindisi a Peter, al cast, alla crew, agli stunt e alle chiappe della nonna degli stunt, uscimmo in strada. Orlie mi convinse a dormire a casa sua, e davanti alle mie proteste si convinse ad accompagnarmi in hotel in taxi a prendere le mie valigie.
Ed ora eccoci lì, nella casa che Orlando si era comprato a Wellington all’inizio delle riprese, a farci la doccia a notte fonda fra il 19 e il 20 dicembre. E quando uscii tutta gocciolante dal bagno e trovai Orlie steso sul letto a ronfare, mi sistemai accanto a lui e cominciai a guardare televendite di prodotti per la casa a bassissimo volume. Finché l’adrenalina non smise di fare effetto e mi addormentai anch’io con la tv accesa.


- Jingle Bells, Jingle Bells, Jingle all the way! Oh what fun it is to ride in a one-horse open sleigh! – Continuai a cantare a squarciagola saltellando sul marciapiede e fancendo sballottare i sacchetti dei regali che avevo appena comprato. – Buon Natale, buon Natale a tutti!
Turisti in pantaloncini si giravano a guardarmi, ma a me non importava. Natale in spiaggia, ma ci pensiamo?! In realtà saremmo andati in spiaggia il giorno dopo: quella sera, la Vigilia di Natale, avremmo fatto un cenone a casa di Orlando. In pantaloncini, canottiera e occhiali da sole. Roba da matti.

Eccomi! Anche se un po’ in ritardo (come sempre), Buon Natale e felice 2014! E siccome siamo in vena di regali, vi annuncio questo: si è formata un’alleanza! Non vi stupite se trovate la mia cara Lesley nella fan fiction di Stargirl1998 “The world behind The Hobbit”, abbiamo fatto un accordo e le ho dato il permesso di inserirla! Per darvi due informazioni, la storia è ambientata circa dieci anni dopo “La mia vita sul set” e l’attore protagonista è Aidan Turner. Ma non posso dire di più perché altrimenti mi segnalano.
Spero che questo capitolo sia valso l’attesa!
Saluti
Nut

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Capitolo 35
*** Cap. 33 - Epilogo ***


La mia vita sul set

Cap. 33 – Epilogo

Ero quasi arrivata a casa dopo aver comprato gli ultimi ingredienti per il dessert, quando Orlando mi chiamò al cellulare.
- Ciao OB! Sto proprio per svoltare l’angolo – risposi.
- Ciao Les! Sai cosa mi chiedo?
- Cosa? – Girai. La casa era proprio in fondo alla strada.
- Ci staremo tutti, stasera? Intendo, siamo invasi dal cibo!
Mi misi a ridere. – Probabilmente ne faremo fuori la metà prima di stasera: siamo dei cani a cucinare. La doccia è rimasta libera dai pacchi di pasta? Sto sudando come un maiale e mi sto amputando due dita.
- Ferma lì, vengo a darti una mano.
Chiuse la telefonata e, in fondo la strada, lo vidi uscire di casa e dirigersi di corsa verso di me. Posai per terra un sacchetto per spegnere il telefono.
Aveva indosso una canottiera blu e dei pantaloncini bianchi e appena arrivò mi diede un bacio, prima di prendere il sacchetto a terra e quello che tenevo in mano.
- Non dubito della forza nascosta nei tuoi ridicoli polsini, ma potevo aiutarti prima che perdessi una mano!
- Ridicoli polsini? – Gli avvolsi la vita con un braccio. – Bene, allora non verrò in tuo soccorso la prossima volta che non riuscirai ad aprire il barattolo dei sottaceti!
Orlando rise. – Chiamerò i pompieri…
Rimanemmo in silenzio attraversando la strada, fino alla porta di casa. Orlando posò i sacchetti sul patio e si stiracchiò.
- Bene – disse voltandosi verso di me. – Apri?
Lo guardai perplessa. – Io non ho le chiavi, Orlie. Sapevo che ci saresti stato tu in casa.
Mi rifilò un’occhiata raggelata. – Io non le ho prese perché pensavo che le avessi tu!
Ah, ok. Meraviglioso! Eravamo chiusi fuori casa. Orlando guardò sconsolato il pomello della porta e sospirò. Restammo qualche secondo a guardare sconsolati la porta.
- Due minuti fa ti sarei saltata addosso. Adesso lo farei solo per strozzarti.
– Mi sa che i pompieri li dovremo chiamare davvero… - Ribatté lui senza prestarmi attenzione.
- Se restiamo a fissare la porta non si aprirà per magia… Non c’è una finestra aperta? – chiesi, sperando di non dover scomodare i vigili del fuoco per una cosa così imbarazzante.
- Al piano di sotto no, o almeno quelle del salotto. Ho lasciato aperta solo quella piccola sopra i fornelli…
Dal patio partiva una staccionata bianca che separava il giardino anteriore da quello principale sul retro. Orlando mi aiutò a scavalcarla e mi seguì a ruota.
La cucina della casa era un’enorme vetrata con una portafinestra che dava sul giardino. Le finestre più grandi non si potevano aprire ma sopra i fornelli, in alto, c’era un piccolo infisso aperto verso l’interno.
Guardammo in alto. Era troppo in alto per poterci arrivare da sola…
- …ma forse se mi spingessi… - mormorai.
- Cosa?
- Prova a spingermi, magari ci arrivo!
Orlie mi guardò apprensivo. – Non sono sicuro, piccola. Potresti farti male… Sarebbe meglio chiamare qualcuno. Sean ha i numeri di tutti i fabbri della città! Mille grazie ad Elijah, ovviamente. – Scherzò.
Sorrisi. – Sarebbe un’idea, ma il burro si squaglierà!
- Da quando il burro è diventato più importante della nostra incolumità?
- Dal momento in cui sono uscita per l’ennesima volta dal supermercato e mi è passata la voglia di tornarci. Dai! Salto in groppa ai cavalli! Ci riuscirò. Forza, cinque dollari che ce la faccio.
Lui sospirò e si incrociò le mani davanti, porgendomele.
- Stai attenta, pazzerella.
Gli misi la mano sulla spalla e il piede sulle mani, poi appena mi alzò piazzai l’altra mano sullo stipite della finestra.
- Su! Su ancora un po’!
Sentii Orlie grugnire per lo sforzo e spingermi in alto e praticamente mi lanciai contro la finestra. Afferrai il davanzale con entrambe le mani e mi alzai sulle braccia. Imprecando, mi misi a cavalcioni della finestra, piegata su me stessa per via delle dimensioni ridotte.
- Les, occhio!
- Oh, zitto! Se tu sei cascato da un tetto non vuol dire che lo debba fare anch’io!
Mi sedetti tenendomi sulla cornice della finestra, allungai una gamba e poggiai il piede tra i fornelli e il bancone. Poi saltai a terra. Alla faccia di Orlando: io mi arrampico su alberi e case!
Corsi ad aprire la porta attraversando la cucina.
- Dovrebbero farci le Olimpiadi su questa disciplina, vincerei l’oro di sicuro! E ho anche vinto cinque dollari!
- Contaci! – Disse superandomi per portare i sacchetti in cucina. Cominciò a mettere le cose in frigo. – Già che ci sei mi lanci una mela?
Lo feci un po’ troppo forte e lo presi in fronte.

Stavo finendo di sistemare i piatti in tavola quando un gran miscuglio di voci e una scampanellata mi annunciarono che gli ospiti erano arrivati. La musica natalizia si diffondeva nell’aria dallo stereo nel salotto e sotto l’albero acceso di luci c’erano i regali.
- Buon Natale!
- Les, hai un po’ di spazio per il carretto in casa? – Fece Dominic avanzando verso di me.
- Il carretto?
Billy si scostò per mostrarmi la carriola piena di regali che Dom si stava trascinando dietro. – Non avevamo abbastanza braccia per portarli tutti, così abbiamo rubato quella da un giardino poco lontano da qui – spiegò.
Li guardai stranita. – E la macchina?
- L’abbiamo lasciata parcheggiata accanto alla slitta! – Rispose sorridendo Viggo.
- Non ci capisco più niente… - borbottai guardandomi in giro. Gli occhi mi si posarono oltre il giardino, lungo il marciapiede davanti alla casa. – Craig! – chiamai. Era proprio lì davanti. – Che ci fa lì la tua Harley?
- Non è la mia Harley – ribatté.
- E di chi è allora?
Gli Hobbit sghignazzarono. – È il tuo regalo di Natale!
Mi ci volle un istante per metabolizzare la notizia.
- Oh mamma mia! Oh mamma mia! – Mi lanciai per strada e corsi ad abbracciare la moto. – Oh mio Dio! Una Harley Davidson! Oddio!
I ragazzi ridevano, felici di vedermi così entusiasta.
– Ma Les, dov’è Orlie?
- E’ di sopra a farsi la doccia! – Risposi afferrando il manubrio della moto.
La mandria di bufali quasi si travolse per sorpassarsi l’un l’altro urlando e correndo verso il bagno. Sentii dal bagno Orlando urlare terrorizzato perfino dal marciapiede. Con uno sbuffo scesi dalla moto e tornai in casa, fermandomi nell’ingresso. Le urla dal bagno continuavano.
Craig spuntò dalle scale.
- A proposito, Lesley, la sai l’ultima? Peter te l’ha detto?
- Che cosa?
- Sorridi, piccola: hai la nomination all’Oscar!

Di tutti i Natali che avevo festeggiato con la mia famiglia, nessuno riuscì a battere quello che celebrammo in Nuova Zelanda. A parte sentirci dire che neanche le mosche avrebbero apprezzato la robaccia immonda che avevamo cucinato io e Orlando, andò tutto benissimo. Anche quando Dom rischiò di mandare a fuoco la casa perché si era messo in testa di saper fare un flambé. A momenti flambé lo diventavamo noi! E finimmo anche per scartare i regali ubriachi, anche se io non riuscivo a distogliere gli occhi dalla Harley parcheggiata nel giardino. Gli altri lo avevano notato, dal momento che non facevano altro che lanciarmi fra le gambe le cartacce dei regali e mettermi in testa i fiocchetti dei nastrini. Che stupidacchiotti.
Non finimmo mai tanto ubriachi quanto lo fummo a Capodanno, però. Eravamo squisitamente, visivamente e perdutamente fuori di testa. Qualcuno di noi era già finito in mare, e tutti avevamo la sabbia dentro alle mutande, anche se la maggior parte di noi non aveva idea di come ci fosse finita. A mezzanotte, sotto i fuochi di artificio, convinsi Orlando ad appartarci dietro ai cespugli. Lui non voleva starmi vicino perché temeva di potermi saltare addosso e non avevamo le protezioni necessarie, ma gli strappai la bottiglia di vodka fra le mani, costringendolo a rincorrermi fin là dietro.
Il mattino dopo ci svegliammo tutti ammassati l’uno sull’altro e completamente bagnati. Il Sole mi faceva male agli occhi e, per quanto mi sforzassi, da mezzanotte in poi non ricordavo più niente. Solo la corsa fino ai cespugli, poi il buio. Nemmeno Orlando aveva ricordi di quel lasso di tempo.
Ma qualcosa di quella notte rimase. Lo capii dalla striscia rosa che campeggiava sul test di gravidanza. Mi ero già accorta sul volo per New York di avere un ritardo di parecchi giorni, e adesso quell’affarino di plastica bianca mi diceva che aspettavo un bambino.
Dalla finestra del bagno di casa mia si scorgeva lo skyline della città, scurito dalle ombre del crepuscolo. Non che in quel momento mi interessasse molto.
- Non puoi dire sul serio – balbettò Orlando, guardando il test che tenevo in mano.
- Se è rosa vuol dire che sono incinta, Orlando!
- Ma… abbiamo usato tutte le protezioni necessarie… - Si sedette sul gabinetto e si passò una mano sugli occhi. – Quando può essere successo?
- Ogni volta abbiamo preso le precauzioni giuste, non può essere stato un incidente! A meno che… - trattenni il fiato. – Oh, Signore! Capodanno!
Mi guardò terrorizzato. – Dio mio, che cosa abbiamo fatto?
Mi poggiai contro il lavandino. Flash cominciarono a balenarmi davanti agli occhi. I fuochi d’artificio che scoppiavano in cielo, le grida di gioia che si levavano dalla spiaggia… e io e Orlando, nudi dietro ai cespugli. – Oh, no.
- Che cosa facciamo? – Farfugliò. – Non posso avere un figlio, non sono pronto! Ho ventun anni, Cristo Santo!
- Credi che io sia pronta invece? Ne ho solo diciotto! Mio padre ci farà secchi!
- Lesley! È pronta le cena! – La voce di mia madre passò attraverso la porta.
- Siamo morti. Siamo fatti secchi, ammazzati, trucidati. Peter ci taglierà la testa. – Borbottai aprendo la porta e andando in corridoio.
- Mi preoccupa di più mia madre, a dire la verità – replicò Orlando, seguendomi a ruota.

Quella settimana ebbi nausee per tutto il giorno. Continuavo a correre in bagno, e a momenti mi strappavo i capelli dalla tensione. Orlando non era da meno.
Ma non ero incinta; poche ore prima della premiere di New York del film, il ciclo arrivò. Feci un altro test di gravidanza, e scoprii che il primo era un falso positivo. Il ritardo era causato dallo stress e dalla tensione provocata dal ritardo, almeno questo lessi sui forum su Internet. Questo però mi fece riflettere ancora una volta sul mio rapporto con Orlando, e da quel momento in poi decisi di assumere la pillola anticoncezionale. Non saremmo incappati in una situazione analoga in futuro.
La Compagnia dell’Anello venne apprezzata in tutto il mondo. Molti attori che erano stati i miei miti mi fecero i complimenti per l’interpretazione, e c’erano sempre più ragazzine che mi venivano a chiedere un autografo travestite da Hery. Il mondo ci amava e non vedevamo l’ora che arrivasse la Cerimonia degli Oscar a Los Angeles.
Quell’anno, però, non vinsi la statuetta d’oro. La giuria ritenne che Jennifer Connelly lo meritasse più di me, ma non li biasimai. La Compagnia dell’Anello si rifece vincendo quattro premi, e il record d’incassi internazionale. Il mio debutto a Hollywood non avrebbe potuto essere migliore.

Le riprese delle Due Torri durarono solo tre mesi, la maggior parte dei quali trascorsi nella ricostruzione del Fosso di Helm. Un’esperienza durissima: dormivamo di giorno e lavoravamo la notte, tutte le notti di quasi tutta la settimana. Eravamo diventati dei fantasmi, ombre verdoline che assumevano un aspetto normale solo grazie agli strati su strati di cerone che ci applicavano tutti i giorni al crepuscolo. Gli unici momenti di svago, in quella location, furono le danze che improvvisavamo con le armi degli Uruk Hai – e le idee che ne ricavava Peter – e gli scherzi a Sir Ian McKellen – Billy che gli rubava il the e i biscotti a metà delle riprese. Molti di noi si beccarono l’influenza per colpa della pioggia, naturale o artificiale che fosse. Orlando si divertiva come un pazzo a combattere, Viggo ci metteva l’anima e io avrei preferito scene più tranquille. Ma si doveva fare, no?
Quasi ci inchinammo al sorgere del Sole, quando girammo la cavalcata dei Rohirrim giù dalla collina del Fosso alla fine della battaglia. Anche se, in seguito, quella scena venne rifatta quasi interamente al computer. Il mio ruolo nel secondo film della saga richiedeva senza dubbio più impegno rispetto al primo ed era senza dubbio più dinamico, dovendo fare molte più cose e recitare molte più battute. Molto spesso, se mi sedevo per terra, non avevo più la forza di alzarmi.
All’uscita del film ci accolsero folle urlanti di fan che gridavano i nostri nomi e ci fermavano sul red carpet sventolando i giornali per farsi fare un autografo. Ci osannavano, e osannavano anche Peter, la mente di tutto. Il nostro giro per il mondo per le premiere richiese molta energia ma ci diede anche gioia e momenti di relax, fra noi che ormai non potevamo fare a meno uno dell’altro. Il film vinse due premi Oscar e ricevette quattro nomination. Un po’ poco, rispetto all’impegno che ci avevamo messo.

Il Ritorno del Re fu l’ultima fase della nostra avventura. Come tappa finale, richiedeva uno sforzo enorme a ciascun membro del Cast e della crew. Era la fine di tutto, anche del mio personaggio. Quante lacrime alla fine delle scene di ognuno di noi. I primi ad andarsene furono Andy, Bernard, Miranda, David, Liv e Cate. Ma non piansi mai quanto alla fine delle scene della Compagnia vera e propria. Non fui l’unica, però. Tutti erano tristi, per la fine della nostra convivenza.
La prima ad andarmene fui proprio io: la mia ultima scena era quella della mia morte. Come “premio del mio impegno” – così disse lui-, Peter mi concesse di non avere un copione: avrei scelto io le cose da dire.
Gli orchi erano tanti intorno al Nero Cancello. Hery era completamente soggiogata al volere dell’Occhio e tentò di fare uccidere Aragorn da un troll. Ma la vista del suo amato Legolas e della fine dell’Anello ormai prossima, rinsavì. Parò il colpo del troll col proprio corpo, mentre Legolas urlava il suo nome e intorno a loro la battaglia cessava.
Sdraiata nella polvere, col silenzio del cast e della crew intorno a me, evitai lo sguardo di Legolas che mi teneva fra le braccia e guardai direttamente il cielo plumbeo. Il silenzio era assoluto, e per darmi la carica giusta pensai un’ultima volta al dolore che avevo provato quando avevo scoperto della morte di Jess.
- Mi sento vuota, come se tutti stessero correndo e io fossi l’unica a non potermi muovere. Che cosa è successo? Pensavo di essere forte, Legolas, ma non lo sono. Quello che ho fatto mi si ritorce contro. Non merito di morire da eroe e di ricevere una sepoltura degna della mia stirpe. Ho infangato il nome di Galadriel Dama della Luce con le mie azioni… Legolas, il cielo si spezza… - Alzai una mano e sfiorai il viso di Orlando, che mi fissava con gli occhi umidi, accarezzandolo. – Ti amo.
Lasciai cadere pesantemente la mano e feci annebbiare il mio sguardo, fissando il vuoto al posto del suo viso.
- Stop! – Gridò Peter dopo un paio di secondi. Orlando si asciugò gli occhi e mi aiutò ad alzarmi, mentre Peter arrivava verso di me con gli occhiali bagnati di lacrime e mi abbracciava. Dalla crew partì un applauso e anche io scoppiai in lacrime.
- Grazie, Peter. Grazie per tutto. – Gli dissi nell’abbraccio. – Grazie, Peter.
- Grazie, Les. – Rispose. Rimanemmo lì a dire “grazie” più e più volte. Alla fine Peter sciolse l’abbraccio, e Fran urlò:
- Hery, signore e signori!
Un altro applauso partì dalla crew e si levò verso il cielo. Orlando mi abbracciò forte, e salutai tutti quanti abbracciandoli uno ad uno.
Avevo finito le riprese del Signore degli Anelli. La mia vita sul set non sarebbe stata mai più la stessa. La mia vita in generale sarebbe stata diversa.
A poco a poco tutti terminarono di girare. Alla sua ultima scena Orlando ruppe l’arco e ci rimase malissimo. Dom non riuscì a terminare il suo discorso di commiato per le lacrime che gli facevano morire la voce in gola, e l’ultima scena di Elijah fu uno spettacolo davvero straziante.
La nostra vita non sarebbe davvero mai più stata la stessa: saremmo rimasti per sempre legati fra noi e legati a quel luogo. E per ricordarci del nostro legame fraterno e indissolubile, tutti noi della Compagnia ci facemmo tatuare il numero “9” scritto in elfico, ognuno su una parte diversa del corpo. Io scelsi il pezzo di pelle poco prima del pollice sinistro.
E così finirono le riprese del Signore degli Anelli.

Qualche giorno dopo la premier di Pechino del Ritorno del Re, Peter mi chiamò per annunciarmi che, come due anni prima, avevo ottenuto la Nomination all’Oscar per la mia interpretazione.

***
29 febbraio 2004, Los Angeles, Kodak Theatre.
76esima edizione degli Academy Awards

Chris Cooper si avvicinò al microfono e iniziò a parlare con spavalda sicurezza.
- Gli artisti scelgono un ruolo perché possono avere un personaggio e farlo proprio. Queste cinque superbe attrici hanno fatto di più che averlo soltanto: hanno creato alcuni dei momenti migliori dell’anno nei film. Le candidate per la migliore attrice non protagonista sono: Shohreh Aghdashloo, per “la casa di sabbia e nebbia”; - Applauso. – Patricia Clarkson, per “le schegge di April”; - Applauso. – Marcia Gay Harder, in “Mystic River”; - Applauso e qualche fischio. – Lesley Dalton, in “Il Signore degli Anelli: il Ritorno del Re”; - Applauso e fischi. La telecamera mi riprese e mi guardai intorno nervosa. – Renée Zellweger, in “ritorno a Cold Mountain”. – Applauso. Chris aprì la busta e lesse il contenuto. - E l’Oscar va a… Lesley Dalton, per “Il Signore degli Anelli: il Ritorno del Re”!
Il pubblicò dal pubblico si levò un forte applauso e delle urla, mentre il mio cuore perdeva un battito. Sorrisi, e mi voltai a baciare Orlando. Poi mi alzai, mentre Dom e Sean si alzavano per farmi passare e mi davano pacche sulle spalle ridendo e applaudendo forte. Passando per il corridoio di velluto mi fermai ad abbracciare forte Peter, mentre l’applauso continuava e nell’aria si diffondeva la musica di Howard Shore. Poi mi avviai verso il palco, salii le scale bianche bordate di nero. Il mio vestito rosa pallido frusciava dietro di me e mi misi a ridere mentre prendevo la statuetta dalle mani di Chris e gli davo un bacio sulla guancia. Strinsi l’Oscar come se fosse stato l’unico pezzo di legno in mezzo al mare durante una tempesta. Lo guardai con adorazione: ce l’avevo fatta!
Mi avvicinai al microfono mentre la musica scemava e l’applauso si placava lasciando posto al silenzio.
- Yuppie! – Squittii nell’apparecchio. Qualcuno ridacchiò. – Sono su di giri! Grazie, grazie davvero. Vorrei ringraziare l’Academy Awards per questo onore; Peter Jackson – lo cercai fra la folla. – Senza di te sarei ancora a scuola! – risate. – La New Line Cinema, e i miei colleghi del cast. Siete i miei fratelli e vi voglio un mondo di bene. E se mi è concesso vorrei dedicare questo Oscar a Jessica Bertram. – Mi schiarii la voce e alzai lo sguardo e la statuetta verso il soffitto. – L’11 settembre ti a portato via troppo presto. A te, Jess. Grazie.
Un altro applauso partì dalla platea. Un applauso commosso dalle mie parole perché, anche a due anni dalla tragedia, ancora nessuno dimenticava. Mi avviai verso le scale per tornare a sedere, ma qualcosa mi fermò.
- Lesley!
Era Orlando. Mentre tutta la platea si girava a guardarlo percorse di corsa il corridoio fra i sedili e salì le scale con due balzi, lasciando tutti a bocca aperta. Mentre lo fissavo esterrefatta si avvicinò al microfono e iniziò a parlare.
- Chiedo scusa per l’interruzione, signore e signori, ma non sarei riuscito a resistere ancora. – Si girò verso di me, impietrita sulle scale. – Les, tesoro. Due anni fa, in Nuova Zelanda, ti chiesi di sposarmi. Tu hai risposto che eravamo entrambi troppo giovani per pensarci. Quindi ora… - Orlando si inginocchiò sul palco e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una scatolina di velluto blu, mentre il pubblico tratteneva il fiato e qualcuno (forse Liv) lanciava gridolini estasiati. – Lesley Dalton, vuoi concedermi l’onore di sposarmi?
Potete indovinare che cosa risposi.

“Il Signore degli Anelli: il Ritorno del Re” entrò nella storia per aver vinto più premi Oscar nella storia del cinema, insieme a “Titanic” di James Cameron e “Ben Hur”: undici, scintillanti e strameritate statuette.
Il colpo di scena di Orlando alla notte degli Oscar fece troppo scalpore e i giornalisti da lì a due mesi non fecero altro che starci col fiato sul collo, perciò decidemmo di non sposarci più. Ufficialmente, almeno.
In una soleggiata e fresca mattina di maggio 2004 mi ritrovai a percorrere un molo di legno chiaro sul lago di Queenstown, nei giardini di Villa del Lago, diretta all’ arco di fiori bianchi poco lontano da me. Passando fra le due file di poche sedie bianche, mio padre mi accompagnava stringendomi il braccio con gentilezza e commozione. Il mio vestito di Lazaro frusciava sul tappeto bianco poggiato sull’erba. Non avevo occhi che per la mia meta. Il vicario che mi aspettava con il libro in mano, Craig alla sua destra, pronto per farmi da testimone, Viggo alla sua sinistra, testimone di Orlando. Liv che mi reggeva lo strascico del vestito. E Orlando, che mi guardava sorridendo emozionato, non vedendo l’ora che io allungassi il passo e lo raggiungessi subito per terminare la tortura dell’attesa. Vestito con uno smoking nero e una camicia bianca, quando ero a due passi da lui si asciugò una lacrima che rischiava di scendergli sulla guancia. Anche io dovevo combattere con le lacrime di emozione per non rovinare il trucco perfetto.
Finalmente arrivammo all’arco di fiori. Mio padre mi fece il baciamano e mi consegnò ad Orlando. Ci sorridemmo estasiati.
- Potete sedervi – disse il vicario rivolto agli invitati. Io e Orlando ci voltammo un momento verso di loro.
Mia madre e mio padre in prima fila. I genitori di Orlando dall’altra parte. E sparsi, Elijah, Sean, Dominic, Billy, Bean, Liv, Sir Ian, zio Ian, Peter, Fran, Philippa, David, John, Bernard, Miranda, Emma, Linnie, Andy e Barrie. In piedi poco davanti al padre la piccola Alexandra reggeva un cuscino di raso su cui erano poggiate due perfette riproduzioni dell’Unico Anello – con l’aggiunta di un minuscolo smeraldo nella mia.
 Avevamo invitato solo i nostri amici più cari e i nostri genitori per la cerimonia più intima della storia dei VIP, facendo loro giurare di non farne parola con nessuno. Quel giorno sarebbe rimasto solo un segreto, per non dare alla stampa la gioia di avere dei croccantini su cui buttarsi.
- Signore e signori, siamo qui per riunire i qui presenti Orlando Bloom e Lesley Dalton nel vincolo del matrimonio. Se qualcuno è contrario alla loro unione, che parli ora o taccia per sempre.
Nessuno fiatò.
Ed ora il mio nome è Lesley Bloom, nata Dalton.

Siamo giunti alla fine. Questa per me è davvero la fine di un’era!
So che nessuno dei miei cari lettori si aspettava di quest’ultimo capitolo così improvviso… avrei voluto continuare all’infinito, ma tutto prima o poi deve finire. Così anche questa fanfiction, con cui ho passato quasi quattro lunghi anni della mia vita. Lesley e i suoi amici mi hanno riempito le giornate per tutto questo tempo, e mi mancheranno molto. Così come mi mancheranno le puntuali recensioni di Tetide e degli altri recensori!
Posso solo ringraziare tutti i lettori che mi hanno seguito con fedeltà e costanza nel corso di tutta la fanfiction, quelli che sono venuti e andati, quelli che si sono affacciati alla storia solo per un paio di capitoli, e anche i lettori silenziosi, quelli che mi hanno seguito senza parlare, come ombre che mi tengono compagnia.
La mia vita senza Lesley, Orlando, gli Hobbit e gli altri non sarà più la stessa. Ma magari torneranno con degli Spin Off, se mi faranno il regalo di farmi ancora visita. Magari mi dedicherò ad altri progetti e non toccherò mai più questa storia. Non si può dire cosa mi riserva il futuro.
Posso solo limitarmi a ringraziare in particolar modo Manubach96, Tetide, Stargirl1998, innamoratahobbit, e Klood e Niniel. Grazie a tutti voi per avermi dato tanto.
Vi voglio bene.
Panenutella, o Nut.

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