La mia vita sul set di Panenutella (/viewuser.php?uid=110822)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap 1. ***
Capitolo 2: *** Cap 2. ***
Capitolo 3: *** Cap 3. ***
Capitolo 4: *** Cap 4. ***
Capitolo 5: *** Cap 5. ***
Capitolo 6: *** Cap 6. ***
Capitolo 7: *** Cap 7. ***
Capitolo 8: *** Cap 8. ***
Capitolo 9: *** Cap 9. ***
Capitolo 10: *** Cap 10. ***
Capitolo 11: *** Cap 11. ***
Capitolo 12: *** Cap 12. ***
Capitolo 13: *** Cap 13. ***
Capitolo 14: *** Cap 14. ***
Capitolo 15: *** Cap 15. ***
Capitolo 16: *** Sogno ***
Capitolo 17: *** Cap 17. ***
Capitolo 18: *** Cap. 16 ***
Capitolo 19: *** Cap 18. ***
Capitolo 20: *** Cap. 19 ***
Capitolo 21: *** Cap 20. ***
Capitolo 22: *** Cap 21. ***
Capitolo 23: *** Cap 22. ***
Capitolo 24: *** Cap 23. ***
Capitolo 25: *** Cap. 24 ***
Capitolo 26: *** Cap. 25 ***
Capitolo 27: *** Cap 26. ***
Capitolo 28: *** Cap 27. ***
Capitolo 29: *** Cap. 28 ***
Capitolo 30: *** Cap 29. ***
Capitolo 31: *** Cap 30. ***
Capitolo 32: *** Luce ***
Capitolo 33: *** Cap. 31 ***
Capitolo 34: *** Cap. 32 ***
Capitolo 35: *** Cap. 33 - Epilogo ***
Capitolo 1 *** Cap 1. ***
La mia vita sul set - Cap. 1
Guardando fuori dal finestrino dell’aereo, non riuscivo a non pensare alla telefonata che avevo ricevuto la sera prima dalla Nuova Zelanda.
Stavo preparando le valigie per tornare a casa, in America, con una laurea in recitazione in tasca e un biglietto aereo Oxford – New York in tasca, quando il mio telefonino cominciò a squillare. In mezzo a quel casino di vestiti che era la mia stanza, ci sarebbe voluta un’eternità per trovarlo… fortuna che avevo una co-inquilina infallibile.
- Jess! Non trovo il telefono! – u rlai al disopra della musica a palla. Jessy, la mia migliore amica dalle elementari, entrò nella stanza, tuffò una mano dentro una piramide di magliette e me lo lanciò, il tutto senza smettere di sgranocchiare patatine. Il telefono squillava ancora, per fortuna, e risposi al volo, senza guardare il numero.
- Lesley Dalton? – gracchiò una voce dall’altra parte. Sembrava lontanissima e la linea era un po’ disturbata. – Sono Peter Jackson, un regista, e possiamo darci del tu. – Non si fermava ai convenzionali, a quanto pareva. – Ho bisogno di te. Vorresti una parte di Hery nel Signore degli Anelli?
- Stai offrendo la parte della figlia di Galadriel ad una appena laureata all’Accademia di Recitazione di Oxford? – chiesi, non credendo alle mie orecchie. Peter annuì.
- Sir Ian Holm mi ha detto ottime cose su di te e mi ha fatto avere il tuo curriculum. Per favore. Abbiamo un bisogno disperato di una come te. Hai cinque minuti per pensarci.
- Partecipa anche zio Ian? Peter, ho già la valigia pronta. Dammi il tempo di avvertire l’aeroporto e i miei genitori e salgo sull’aereo.
Ed ora eccomi, quasi arrivata in Nuova Zelanda neanche un giorno dopo. Una hostess mi si avvicinò e mi disse di allacciare le cinture per l’atterraggio.
Scesi dall’aereo totalmente in balia del fuso orario e del mio scarso senso d’orientamento. Se per caso avevo dormito, sarà stato per un’oretta scarsa. Sommato alla baldoria fatta la notte prima per festeggiare il diploma ottenuto e la fine della scuola, facevano quasi 48 ore di veglia. Decisamente troppo, per una ragazza di 17 anni e, soprattutto, per me.
Chiesi ad un funzionario la strada per il ritiro dei bagagli e lui, gentilissimo, mi scortò fino al posto giusto. Mentre spettavo le mie uniche due valigie, ripensai alle parole di Peter: “All’uscita dell’aeroporto troverai Barrie Osborne. Ti accompagnerà lui negli Studio. Non ti preoccupare”.
Facile per lui, non ti preoccupare! Spaesata, attraversai le porte dell’aeroporto e mi guardai intorno, strizzando gli occhi per adattarli alla luce del Sole. E un nuovo problema mi venne in mente: COM’ERA FATTO Barrie Osborne? C’erano almeno quarantatre uomini all’uscita dell’aeroporto che avrebbero potuto chiamarsi in quel modo.
Sbuffando, mi lasciai cadere su una panchina, tirando fuori dalla tasca della felpa il libro di Sudoku comprato la sera prima in aeroporto e ormai quasi finito. Appena presi in mano la penna, sentii un rumore di ruote frenate di colpo, poi lo sbattere di una portiera. Dopo circa dieci secondi, qualcuno disse:
- Mi scusi, è lei Lesley Dalton? – alzai gli occhi e annuii, trovandomi di fronte ad un uomo con i capelli grigi e gli occhiali.
- Barrie Osborne? – risposi. Lui sorrise.
- Perdoni il ritardo, signorina Dalton, ma la macchina mi ha piantato a metà strada. Ho dovuto spingerla fino ad un benzinaio.
- Non si preoccupi. Ma gli unici che mi chiamano signorina sono…. Uhm… nessuno. – dissi mentre ci stringevamo la mano. – La prego, signor Osborne, mi dia del tu.
- Lo stesso vale per te, allora – rispose. Senza aggiungere altro, prese le valigie e le caricò nel portabagagli dell’auto. Poi, da perfetto gentiluomo, mi aprì la portiera.
Durante il viaggio io e Barrie non parlammo molto. Lui mi chiese qualche informazione su di me, e io gli risposi di buon grado, ma ero troppo stanca per mettere insieme un discorso abbastanza sensato. Mi chiese com’era Oxford e se ero inglese. Risposi che ero inglese d’origine, ma la mia famiglia si era trasferita a New York l’anno prima per motivi di lavoro. Poi, dopo circa mezz’ora, mentre io scrutavo quello spettacolo di incontaminata natura che era la Nuova Zelanda, Barrie mi lanciò un’occhiata in tralice e mi chiese:
- Perché hai l’aria così stanca? – Io lo guardai, a metà tra il sorpreso e il divertito.
- Perché ieri notte io e i miei compagni di scuola abbiamo fatto una festa per il diploma che è finita all’alba e quindi avrò dormito sì e no due ore, perché poi ho dovuto cominciare a farmi le valigie per tornare a casa ma Peter mi ha chiamato e sono dovuta salire sull’aereo… e non ho dormito, perché ero troppo eccitata.
- Beh, se vuoi, puoi dormire adesso. – Sul mio viso apparve un’ombra di sorriso.
- Sei sicuro? – chiesi titubante. – Non ti sembrerò maleducata o viziata?
Barrie scoppiò a ridere, pur mantenendo gli occhi fissi sull’autostrada.
- Ti sveglio quando mancano cinque minuti, ok?
Non lo ringraziai neanche, non feci in tempo. Mi addormentai come un sasso, caddi in un sonno talmente profondo da sembrare quasi comatoso. Non mi avrebbero svegliato nemmeno la Terza e la Quarta Guerra Mondiale.
Come promesso, Barrie mi svegliò quando ancora dovevamo arrivare. Io, abituata a venire svegliata anche solo ad un piccolo colpo di tosse – quasi sempre appartenente al professor Fitzerbert, mio vecchio insegnante di Storia della Recitazione -, sobbalzai al piccolo colpetto che Barrie mi diede sul braccio. Sbadigliando, allungai le gambe e gli addominali, mentre Barrie, ridacchiando, mi raccontava di come non si era accorto che mi ero addormentata. Gli prestai poca attenzione, persa com’ero ad ammirare la Nuova Zelanda. In giro non c’era neanche una piccola strada asfaltata e, a giudicare dal panorama, avevamo abbandonato l’autostrada da un po’ di tempo. Ora stavamo procedendo su una via sterrata, immersa in vastissimi campi di grano. Sullo sfondo, montagne con le vette innevate si innalzavano imponenti, e il Sole brillava su tutto ciò conferendogli colori talmente brillanti da sembrare quasi fasulli. A volte, uno stormo di uccelli attraversava il cielo in file ordinate, facendosi trasportare dal vento che muoveva le spighe di grano come una madre fa con la culla del proprio figlio.
- Sei sicuro che gli Studio siano qui? Disseminati in mezzo a questo spettacolo?
Barrie rise.
- Certo che sono sicuro! Quelli laggiù – e indicò un gruppo di camper e roulotte. – sono gli Studio. E tu, Lesley Dalton, stai per conoscere i tuoi colleghi. Sei molto simpatica, Lesley, non ci metterai molto a farti degli amici.
Fermò la macchina in mezzo ad un grande prato, mi fece scendere e mi accompagnò davanti ad una roulotte. Sopra la porta c’era scritto “D – Trucco”.
Entrammo, e Barrie disse:
- Pete, ecco la nostra salvezza.
- Lesley! Esclamò un uomo venendomi incontro. Era piuttosto panciuto e aveva i capelli crespi e ricci sulla testa. Aveva l’espressione di gioia e vitalità che ha un bambino quando, la mattina di Natale, si alza e sotto l’albero trova una bicicletta rossa. Senza dubbio era Peter Jackson, il regista. Mi strinse in un caloroso abbraccio, mentre esclamava:
- Benvenuta! Benvenuta! Grazie per essere qui! Ti presenteremo gli altri attori stasera, va bene?
Annuii, troppo imbarazzata ed emozionata per pronunciare parola.
- Strepitoso! Bene, bene! Allora ti lascio nelle mani di questa tizia qui!
- Tizia? – gli urlai dietro mentre, con Barrie, usciva. Si allontanò ridendo.
Perplessa, mi girai e osservai la roulotte. Dentro c’erano molti scaffali, sui quali erano appoggiati dei piedi e delle orecchie di lattice. Alle pareti c’erano alti specchi, molto illuminati, sui quali erano attaccate alcune foto. Poi c’erano delle poltrone di pelle nera. Nel mezzo della scena c’era colei che Peter aveva definito – spero scherzosamente – “tizia”. Mi avvicinai per stringerle la mano mormorando il mio nome. La donna sorrise, stringendola.
- Spaesata, eh? Ti senti fragile, vero?
- Non sai quanto - sussurrai fissandomi la punta delle scarpe.
- Non preoccuparti, passerà molto presto. Io sono Emma. Dunque, qui ci sono i trucchi, poi le parrucche, ma tu non ne avrai bisogno ( a proposito, hai dei capelli davvero meravigliosi! Colore naturale?)… poi si va per la sala costumi, invece da quella parte…
Dopo avermi mostrato tutti i segreti e i particolari degli Studio – evitando accuratamente la sala mensa, non so perché – Emma mi spinse dentro uno stanzone enorme, pieno di attrezzi da palestra. All’interno trovai un uomo con in mano una spada, e lungo i muri tantissimi uomini, tutti alti e possenti. L’uomo che stava al centro, con indosso una tuta da ginnastica, mi si avvicinò e mi porse una spada, senza dire una parola. Incerta, la afferrai, rendendomi conto di quanto pesasse. Lui si allontano di qualche passo, e mi urlò:
- Bene, piccola Lesley! Io sono Bob, e ora combattiamo! ATTACCATELA!
Tutti gli uomini cominciarono a corrermi addosso brandendo spade stranissime, urlando e guardandomi con aria feroce. Mi coprii gli occhi con una mano, mentre sentivo i passi degli stuntmen che si avvicinavano… finché si fermarono ad un tratto.
- Li vedi questi, Lesley? – mi chiese Bob. Io sbirciai fra le dita. Gli stunt ridacchiavano tra di loro. Ecco. Prima figura dell’idiota della giornata.
- S- sì.
- Bene. Dovrai imparare a difenderti da loro. Cominciamo?
Passai le ore seguenti sotto la tutela di Bob e dei suoi assistenti, mentre Emma mi guardava dagli spalti ridacchiando. Bob, scoprii in seguito, era l’insegnante di scherma del cast. Dopo averlo capito, lo presi in simpatia e mi fu più facile imparare le mosse: mi insegnò la posizione di difesa, di attacco, accennammo anche ad una coreografia. La fine della lezione arrivò troppo presto. Avrei dovuto sentirmi uno straccio, ma il mio cervello si rifiutava di essere stanco e quindi non sentivo il bisogno di dormire. Il mio orologio, sull’ora della Nuova Zelanda, segnava le nove meno un quarto quando Emma mi scortò fino alla sala mensa. Quando mi spinse dentro, mi bloccai: dentro c’erano tantissime persone, la sala STRABORDAVA di gente. Dall’altra parte della mensa, Peter mi salutò con un gran cenno della mano e mi fece segno di avvicinarmi. Mentre camminavo, sentivo gli occhi della gente puntarsi su di me, e io, ripetendomi che ero invisibile – mio personale sistema di auto disintegrazione dell’autostima – accelerai il passo mentre mi avvicinavo al regista. Appena lo raggiunsi, sentii qualcuno esclamare:
- Ma guarda chi si vede! La mia piccola Lesley!
- Zio Ian! – esclamai di rimando. Recuperando tutta l’autostima persa, mi precipitai nelle braccia di Ian Holm. Ovviamente non era mio zio, ma un caro amico di famiglia da quando ho memoria: quando la mia famiglia abitava in Inghilterra, lui era lì, ad ogni festa, ogni occasione, ogni cena, ogni Natale, ogni barbecue, ogni campeggio. Stando ai racconti di mia madre, cominciai a chiamarlo “Zio” quando, alla veneranda età di tre anni, dall’alto delle spalle di mio padre lo scorsi in mezzo ad un gruppo di amici e urlai: “Guarda, mama! C’è zio Ian!”.
Quando io e Ian ci sciogliemmo dall’abbraccio, Peter mi scortò fino ad un tavolo dove sedevano – nove uomini – nove – e una donna. Peter mi mise una mano sulla spalla e disse:
- Ragazzi, ecco la nostra salvezza. Questa è Lesley Dalton.
- Wow! Un’altra ragazza! Ci divertiremo un mondo insieme! Io sono Liv! – Grazie all’affabilità di quella ragazza, la sensazione di preoccupazione che mi attanagliava lo stomaco svanì come per magia. Abbracciai Liv, e lei mi presentò gli altri.
- Allora… questo è Elijah, Frodo.
- Porti le lenti a contatto? – gli chiesi. Sorridendo sornione, mi rispose di no.
- Poi ci sono Billy, Dom, Viggo, John, Sean, Bean e… Orlando, detto Orlie.
Salutai tutti stringendo loro la mano, e tutti mi risposero con cortesia. Quando arrivai a stringere la mano di Orlando, venni percorsa da un brivido.
Lo guardai meglio: era un angelo….
Aveva il viso cordiale e aperto. Gli occhi neri e profondi come due pozzi guardavano attenti il mondo e risplendevano come la luna. I suoi lineamenti era fini e eleganti, proprio come quelli di un Elfo. La sua stretta era gentile, la sua pelle calda. I capelli corti e neri erano pettinati in modo sbarazzino. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e mi salutò con un largo sorriso.
Nella mia mente contorta cominciai a sbavare come un mastino.
Oddio.
…Mi ero presa una cotta da manuale.
Salve a tutti! Eccomi con un'altra Fanfiction! Ne ho già scritto una gran parte questa estate, ma l'idea di pubblicarla mi ronzava in testa da un po' ed ora... eccola qua! Come al solito, ringrazio chi passerà per caso, chi avrà voglia di leggerla, chi lo farà e soprattutto... quelli che recensiranno!!
A presto... con un nuovo capitolo! |
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Capitolo 2 *** Cap 2. ***
La mia vita sul set
- cap 2.
-
Allora piccola, hai fame? - mi chiese Billy ingoiando un hot
dog in un sol boccone come Scooby Doo.
-
Non è molto carino, Bil, chiederglielo mentre
stai mangiando come un porco - lo informò Dominic. Quei due
parevano molto affiatati insieme.
- Ehm... beh, in effetti sì ma... - dissi
frugandomi nelle tasche. Sbuffai. - Mi sa che devo saltare. Ho lasciato
il portafoglio sepolto sotto i vestiti in valigia e gli unici dollari
che avevo li ho spesi in aeroporto. - Elijah scoppiò a
ridere.
- Si vede che proprio non conosci Orlando! E' solito offrire
la cena a chiunque gli capiti sotto le mani. - esclamò.
- Dài, El, si vede dalla sua faccia che non
glielo permetterà! - ribattè Billy.
- Deve averlo capito anche Orlie, visto che sta
già tornando con un vassoio in mano.
Assistei a quello scambio di informazioni come un idiota sul
punto di ridere, ma quando sentii l'ultima frase mi voltai nella
direzione che aveva indicato Billy, e in effetti vidi Orlando dirigersi
verso il tavolo con un vassoio carico di patatine fritte e pollo
arrosto.
- Facciamo così - dissi interrompendomi ancora
prima che aprissi bocca. - Stavolta offro io, ok? E poi per ricompensa
ci offri una partita a Monopoli, stasera. Ora ti siedi, e ci facciamo
una bella chiacchierata.
detto questo, mi spinse su una sedia e tutti presero a
fissarmi insistentemente. Per qualche strana ragione, mi sentii come un
imputato in tribunale. Guardai Billy: sorrideva, ma non la finiva di
mangiare.
- Siamo tutti d'accordo? Comincio io? - esordì,
facendomi sobbalzare. Aveva parlato come se si erano messi d'accordo
mentalmente. Inghiottii: "Stupida", pensai "non vedi come sono
gentili?".
- Comincio io - concluse Billy. Appoggiò il viso
sulle mani e mi fissò per qualche secondo, prima di dire:
- Ok, Les, da dove vieni? - tutti gli altri scossero la
testa.
- Troppo scontato, Bill - mormorò Dominic. - Mi
aspettavo di meglio da te.
- Silenzio, dai! Voglio sentire la risposta! -
protestò Elijah.
- Beh, se intendi la mia residenza attuale, New York. Se
intendi il mio Paese natale, Oxford. E se intendi la mia scuola di
recitazione, sempre Oxford.
- Vieni da una scuola di recitazione? - saltò su
Liv. - Allora sei una novellina! Proprio come Orlie! Ma... - mi
scrutò il viso, mentre io, arrossendo, cominciai a mangiare
patatine. - ... tesoro, quanti anni hai?
- Diciassette.
- E com'è che hai già preso il diploma
di recitazione?
Inghiottii a vuoto.
- I miei avevano notato una predisposizione per la
recitazione, così appena finite le medie mi spedirono in una
scuola di Oxford che fungeva anche da liceo. E ho finito l'altro ieri.
O forse tre giorni fa.
- Allora hai un anno in meno di El, e due in meno di Orlie,
Ehi, ragazzi, abbiamo un altro talento in studio!! - urlò
Billy. Mezza sala si voltò a guardarlo, e io mi vergognai
come se avessi corso nuda su e giù per la scuola.
- Ok, Elijah, se ho capito bene, passa il turno a Viggo. -
annunciò Billy, anche se Elijah non aveva dichiarato nessuna
"notizia" del genere. Mi sa che si leggevano DAVVERO il pensiero. Si
posizionò davanti a Mortensen facendo finta di tenere in
mano un microfono e di fargli un'intervista. Viggo mi fissava con occhi
azzurri da pazzo. Veramente, non batteva ciglio. Mi stava facendo quasi
paura.
- Ora stai attenta - mi bisbigliò Sean Astin
nell'orecchio - lui fa domande a reffica. Botta e risposta. Proprio in
quel momento, Viggo cominciò.
- I tuoi?
- Lavorano al World Trade Center, a New York.
- Fratelli, sorelle?
- No.
- Cani?
- No.
- Allergie?
- Alla polvere.
- Incenso preferito?
- Brezza marina.
- Qualcosa di rotto?
- La testa quando avevo un anno.
- Come?
- Stavo gattonando, mi sono aggrappata ad una sedia di ferro
della cucina dei miei e quella mi è caduta addosso. - (P.S= mi è successo
veramente, quando avevo un anno! Tranquilli, tutto ok. :P Panenutella)
Viggo
annuì. Ma non era ancora soddisfatto.
- Fame?
- Passata.
- Ricompensa?
- Quale?
Tutti quanti, al tavolo, scoppiarono a ridere.
- La partita a Monopoli - mi ricordò Billy. - No no no no
no, aspetta. - fissò Orlie. - Qualche domanda, Orlando
Furioso?
- Solo una. - mi fissò. "Oddio",
pensai, "ora mi chiede se ho un ragazzo, se lo voglio sposare,
oppure...." - Ti piacciono i Boston?
Ok, niente panico. Ricapitoliamo. Dopo la domanda di Orlando, tutti
scoppiarono a ridere a crepapelle. Forse per la mia faccia, o forse per
glio occhi a cuore che mi erano venuti, non so.
Fatto sta che mi trascinarono nella sala video, dove era messo, su un
tavolo, un Monopoli, con tutti i soldi e le proprietà
pronte. Ma prima di giocare, Billy e Dom si esibirono in una specie di
spettacolino. Presero in mano due microfoni, e acceso lo stereo,
cominciarono a cantare Wannabe.
Prima Billy.
- Yoh, tell me what you
want, what you really really want...
- So, tell me what you want what you really really want....
Tutti battevamo le mani a tempo, anche se stonarono su
qualche nota. alla fine, esplodemmo in un grande applauso.
- Complienti, Dom, hai un vero senso degli affari! Tre case e quattro
alberghi in Parco della Vittoria! Facevi prima a prenderti tutti i miei
soldi! - si lamentò Sean Astin.
- Beh, guarda la nostra nuova mascotte - e mi indicò. - Ha
un albergo o una casa in ogni sua proprietà.
- Grazie per la fiducia, Boyd - dissi altezzosa. - Ma debbo ricordarti
che di proprietà ne ho due, tu tredici. Me le hai soffiate
tutte.
- Oh, ragazzi!! - saltò su Liv (otto proprietà e
zero case, tanto per intenderci) - guardate l'ora, è
mezzanotte! Ora del concerto!
Capperi, di QUALE concerto stava parlando? Tutti quanti si alzarono,
mentre Elijah cominciava già a canticchiare Yellow Submarine
e dicendo "Comincio io!" ogni due parole. Ci sedemmo per
terra, e io nell'angolino in mezzo ai due divani. Mi sono sempre
piaciuti gli angolini, sono molto rilassanti... mentre Elijah prendeva
in mano il microfono e cominciò a cantare, sentii le
palpebre chiudersi lentamente, finchè non mi addormentai
profondamente, mettendo fine ad una delle più belle giornate
della mia vita.
Siete arrivati vivi alla
fine del capitolo? Spero di sì! :P
Scusate tutti per il ritardo, ma il Greco mi sta portando via un sacco
di tempo... ci devo ancora fare l'abitudine :)
|
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Capitolo 3 *** Cap 3. ***
La mia vita sul set - Cap. 3
Passando dalla fase
"GAME OVER" alla fase "DORMIVEGLIA", considerai quanto
potesse essere comodo il pavimento. Passando dalla fase "DORMIVEGLIA"
a "RISVEGLIO QUASI-COMPLETO", mi accorsi di avere un cuscino sotto la
testa. Infine, aprendo gli occhi, mi ritrovai stesa prona su un letto;
le
coperte erano blu elettriche e di pile. I raggi del sole filtravano
dalla
finestra del camper in cui mi trovavo, posta sopra al lavandino del
piano
cottura. Se fosti stata ancora a scuola, in quella situazione Jess mi
avrebbe
chiesto se avessi ancora i vestiti addosso. Ma sì, avrei
risposto, si che ce li
ho.
Ma adesso non ero più a scuola. Ero in Nuova Zelanda, nella
roulotte di
qualcuno. E, a giudicare dal rumore di pagine sfogliate, quel qualcuno
stava
leggendo un libro.
Mi misi a sedere, sbadigliando. - Dooe soooo? - mugugnai. Nel letto
sopra al
mio, lo sconosciuto (/a) chiuse di scatto il libro, e all'improvviso mi
ritrovai di fronte alla faccia di... Orlando. (Nda: E ti
pareva? Quanto sono
prevedibile! :P)
- Bounjour, madame! - mi salutò. Saltò
a terra agile come un gatto e si
sedette a ginocchia incrociate di fronte a me e sorrise. - Dormito
bene? -
chiese.
- Io... sì, ma... insomma Orlando, qui che ci faccio?
Si passò una mano fra i capelli e guardò fugace
fuori dalla finestra, poi tornò
a guardarmi. - Ti sei addormentata come un sasso, ieri notte -
raccontò - e noi
non sapevamo quale fosse il tuo camper...
- Mm, infatti, devo chiedere a Peter, neanch'io lo so...
- Già fatto. La ditta che ce li fornisce ha avuto un
trasferimento, ed era
l'unica che ci serviva qui in Nuova Zelanda. Ti avrebbe ospitata Liv,
ma nel
suo c'era solo un letto, e tutti gli altri erano occupati. L'unico
libero era
quello dove sei seduta ora. Quindi - sospirò, apparentemente
triste. - ...
dovrò ospitarti io. - mi fece l'occhiolino. - Non che mi
dispiaccia, eh?
Le orecchie mi avvamparono. - Se ti disturbo, posso dormire da un'altra
parte.
- Ah, sì? - ridacchiò. - E dove, esattamente?
- Mah, che ne so... nella roulotte trucco ci sono tante di quelle
sedie... e
sembrano anche piuttosto comode, - dissi alzandomi. Mi diressi verso
l'uscita
del camper (tanto, chissenefrega, ero già vestita, no?),
quando davanti alla
porta vidi le mie valigie. Le indicai.
- Tu le hai portate qui? - chiesi. Più un'accusa che una
domanda. Orlando
annuì. - Non dovevi! - esclamai. Fece spallucce.
- Semplice cavalleria, madame.
- Oooooh, sei proprio un gentiluomo! - scherzai. Ma l'occhio mi cade
inavvertitamente sull'orologio. – Orlando…. Che
ore sono?
- Le otto e mezzo.
- Non dobbiamo girare?
- No – rispose serafico. –
Oggi siamo liberi, anche Liv lo è. Possiamo fare quello che
vogliamo. Qualche
idea?
Il suo telefonino squillò
proprio mentre stava pronunciando le ultime due parole della frase.
Alzò gli
occhi al cielo nel prenderlo dal letto, poi guardò lo
schermo e mormorò:
- Come non detto…. – rispose
al cellulare. – Bob? Ah, ciao Rick, come va?... Ah,
sì? – mi guardò. – Certo,
sicuro. La accompagno io.
- Do-ve? – sillabai con le
labbra. Lui mi fece l’occhiolino e poi fece finta di
maneggiare una spada.
Aaah, ok. Allenamento. Chiuse la comunicazione e mi sorrise:
- Bob ci vuole allenare,
stamattina, insieme a Liv. Ma oggi pomeriggio…. Relax, ok?
Ti porto a
Wellington.
- Wow!! Esaltante!
- Sì ehm…. Aspetta a cantare
vittoria, eh?
- Ciao Liv! – la
salutai
andandole incontro all’entrata della palestra. Orlando mi
aveva detto che ci
saremmo sporcati parecchio, e di conseguenza io mi ero buttata la prima
tuta
della Adidas che avevo trovato nella valigia (Capperi, quanto adoro la Adidas.
I suoi completi da
ginnastica sono sempre così comodi….). Mi ero
anche messa in testa un
cappellino con la visiera nero e bianco, ovviamente, della Adidas.
- Ciaaao! –
ricambiò. – Com’è
stata la prima notte in Nuova Zelanda?
- Tranquilla. Si sono sentiti
i grilli tutto il tempo.
Rise. Era veramente bella. Mi
fece cenno di cominciare ed entrammo, con Orlando al seguito.
- Oh, eccovi qua, finalmente!
– Esclamò venendoci incontro un tipo di circa
trentaquattro anni, con i capelli
e gli occhi neri. Aveva la pelle molto abbronzata. Mi porse una mano: -
Ciao,
io sono Rick, assistente tuttofare. Tu sei Lesley?
- Sì – risposi.
- Ok, preparati a faticare.
Bob ha detto che oggi tu ti devi allenare con arco e spada insieme.
- COSA? – ruggì Orlando,
visibilmente alterato. – Non può farle fare arco e
spada insieme! È arrivata
ieri, non è ancora pronta, è ridicolo!
Rick scosse la testa,
serafico: - Ordini di Bob – disse in tono piatto. –
Aveva previsto la tua
reazione: mi ha detto di ricordarti che il suo personaggio usa quelle
armi
nella sua prima battaglia, e che lei è più
indietro di te di quattro giorni.
Per un attimo temetti che
Orlando gli mettesse le mani addosso. Invece chiuse gli occhi,
tirò un sospiro
e annuì. Poi mi cercò con lo sguardo e disse, con
un occhiolino
tranquillizzante:
- Buona fortuna.
- Beh, dai, sarà
facile, no?
No. Non fu affatto
facile.
Rick rimase quasi tutto il
tempo insieme a me per assistermi, qualche volta dando pure
un’occhiata a
Orlando e Liv dall’altra parte della palestra, che si
allenavano insieme,
ridendo e scherzando. Io invece ero stanca morta. Che ingiustizia.
Rick ad un certo punto, dopo
avermi insegnato tutte le posizioni della prima battaglia che avrei
dovuto
girare, che imparai abbastanza in fretta, mi fece anche tirare con
l’arco.
Almeno un vantaggio ce l’avevo, però: il mio
vecchio campus aveva un’area
dedicata proprio a quel genere di disciplina. Rick mi lasciò
a combattere
contro quattro stuntmen, ad un certo punto della mattinata. E allora
cominciarono
i problemi.
Ognuno dei quattro stunt
aveva un modo diverso di attaccare, ma penso lo facessero apposta: chi
imitava
un orco, chi un elfo - il più difficile da affrontare, e
pensare che io dovevo
per forza raggiungere quel livello di destrezza mi gettava nella
disperazione
più totale – e chi un uomo. Dovetti lottare con un
solo stuntman alla volta, ma
anche se cercavano di andarci piano, mi ritrovai comunque in un bagno
di sudore
dopo cinque minuti. Ogni volte che mi muovevano, i muscoli mi
protestavano indolenziti.
Rick assisteva a tutti i duelli. Mi andò bene con
l’orco e l’uomo, ma quando
toccò all’elfo, interpretato da un ragazzo biondo
che doveva avere l’età di
Orlando, Rick dovette lasciarci a metà duello per andare a
correggere Orlando
con il tiro con l’arco.
Fu allora che l’elfo, di nome
Mark, fece un giro su se stesso e fece finta di colpirmi in faccia, con
il
chiaro intento di spaventarmi, dato che avevo seguito Rick allontanarsi
con lo
sguardo. Evidentemente Mark non aveva misurato bene la sua forza. Con
un tonfo
sordo l’elsa del suo pugnale mi finì dritta sul
naso. Il contraccolpo fu così
violento che la spada mi sfuggì di mano finendo a terra con
un rumore
metallico, mentre cascavo con il sedere per terra: sentivo uno strano
formicolio al naso, e sapevo che cosa sarebbe successo di lì
a pochi secondi.
- Stai bene? – mi chiese Mark
allarmato aiutandomi a rimettermi in piedi, poiché mi
coprivo il viso con una
mano. Annuii veloce, ma sentivo crescere il formicolio al naso sempre
di più, finché…
- ETCIUUM!! – starnutii, e il
sangue che uscì dal naso mi sporcò la maglietta,
la mano e la faccia. –
Accidenti! – mi lamentai.
- Che succede qui? – Accorse
Rick seguito da Orlando. Mi squadrò per un attimo e poi, con
la furia negli
occhi, abbaiò rivolto agli stuntmen : - CHI E’
STATO?
Vidi Mark impallidire. Forse
sapeva anche lui che gli stuntmen non dovevano ferire gli attori
durante
l’allenamento, o passavano guai seri. E Rick in quel momento
non era proprio di
ottimo umore.
- Nessuno – dissi sorridendo.
Lui si voltò verso di me, incredulo.
- Come, nessuno?
- Nessuno – ripetei. – La mia
spada mi è scivolata di mano, mentre la alzavo. E mi
è caduta sul naso. –
spiegai asciugandomi con una mano il sangue che continuava a uscire.
– Ma
comunque non è niente, mi basta andare un secondo in bagno.
– in quel momento
ringraziai di saper recitare.
Rick scrutò per un attimo
l’orologio, ed io ne approfittai per strizzare
l’occhio a Mark, che mi fissava
sbalordito.
- Va bene, allora per oggi
l’allenamento è terminato.
In bagno, fui raggiunta da
Orlando. Si appoggiò allo stipite della porta.
- Davvero ti è
scivolata la
spada di mano?
Alzai le spalle.
- Eddai, dimmelo! Non lo
dirò
a Rick, giuro!
- Mark – dissi,
sciacquandomi
la faccia.
- Quello biondo?
- Già.
- Ma perché non
l’hai detto?
- Perché non
l’ha fatto
apposta.
- Ti ammiro, sai?
Disse mentre si levava la
maglietta, rimanendo a torso nudo, per metterla sotto l’acqua
fredda e
tamponarsi il busto per rinfrescarlo.
- In che senso? -. Non
rispose. Dirottò il discorso da tutt’altra parte.
- Allora, si va a Wellington?
Pranziamo lì?
Gli sorrisi.
- Ma sì. Andiamo.
Siete
arrivati alla fine del capitolo senza sbattere
la testa sulla tastiera del PC? Spero tanto di sì :P.
Cosa succederà a
Wellington? Lo scopriremo nella prossima
puntata di “La mia vita sul set”! Ringrazio tutti
quelli che leggeranno, che
recensiranno e quelli che passeranno soltanto di qui!
Grazie! Panenutella.
|
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Capitolo 4 *** Cap 4. ***
La mia vita sul set
– Cap. 4
- Non
è che mi devi per
forza aprire tutte le porte che incontriamo! Oppure ci
provi gusto?
- Niente
affatto, solo che non voglio che le tue delicate mani si sporchino con
le maniglie!
- Ma
smettila! Queste mani hanno toccato i cheeseburger del McDonalds, credi
che abbiano paura delle maniglie?
Da quando ci
eravamo cambiati, dopo aver fatto addestramento, Orlando ce la stava
mettendo tutta per farmi innervosire. O almeno, così
sembrava. In quel preciso istante mi stava aprendo la portiera
dell’auto.
- Aspetta un
momento – dissi dando una sbirciata dentro l’auto.
– Qui manca qualcosa… Ah, ecco! Il volante
è a destra!
- E che ti
aspettavi? Siamo in Nuova Zelanda! – si aprì la
portiera ed entrò. – Guido io.
- Ma si
ascolta la mia musica – contrattai allacciandomi la cintura.
Presi un CD che mi ero portata nella borsa e lo inserii nel lettore.
Subito partì More Than a Feeling dei Boston. Orlando
lanciò un grido entusiasta e disse:
-
Buongustaia!
Dopo circa
dieci minuti di viaggio e dopo aver cantato la stessa canzone per circa
sette volte, ripensai ai pomeriggi in Inghilterra, dove io e Jess
passeggiavamo a lungo nel parco intorno alla scuola. Poi mi sbattei la
mano sulla fronte, urlando all’improvviso:
- Nooooo!!
– Tanto bastò per far frenare Orlando di colpo.
- Che
succede? – chiese allarmato.
- Ho
dimenticato di avvertire Jess!
- Chi
è Jess!
- La mia
migliore amica! Porca p..puzzola!
Presi il
cellulare e scrissi “Arrivata
ieri pome. Tutto ok. Scusa :P”
Dopo alcuni
secondi, arrivò la risposta. Orlando sbirciò nel
display, e non capendo cosa ci fosse scritto, mi chiese spiegazioni.
- Che vuol
dire: “3-9| 5-9-6| 1-99-9-4-1-2-1| 4-1 | 1-6-3-1||?
-
Letteralmente: “Ci ero arrivata da sola”. Poi ti
spiego.
- Suppongo
che era un trucchetto per non far decifrare i bigliettini dai prof.
- Ci hai
preso!
- M-m.
Guarda, ecco Wellington.
Wellington
era una città splendida. La gente per strada
rideva, e c’era un clima di serenità. Io e Orlando
camminavamo fianco a fianco, ammirando i palazzi e il cielo blu.
- Questo
è il tuo primo ruolo, vero? – mi chiese ad un
tratto, mentre camminavamo per Camperdown Road. Annuii. – E
tu?
- Ho
recitato in qualche pubblicità, da bambino. Ma niente in
confronto a Legolas. Uh, ecco la Weta!
- La che?
- La Weta
Workshop, è la società di effetti speciali di
Peter. Stanno già lavorando al film, con i
modellini… e così via. Vuoi dare
un’occhiata?
- Certo!
– esclamai, entusiasta.
Dentro
l’ambiente era tranquillo. Superammo una stanzetta, ed
entrammo in un locale sulla cui porta c’era un cartello con
su scritto :”Qui stiamo lavorando sodo. Non portare cattivo
umore e se ce la fai non rompere. Grazie! PJ”
- PJ? Peter
Jackson! – esclamò Orlando. –
Che simpaticone!
-
Ehilà, OB! – ci salutò un uomo panciuto
con un forte accento italiano. – E questa bella signorina chi
è?
- Peter
l’ha definita “la salvezza”! –
fece un altro uomo, stavolta latinoamericano.
- Ignoranti,
è Lesley Dalton! – li ribeccò una tipa
con i capelli rossi. – La conoscono tutti!
-
Ehm… Bonjour… - Esordii. Idiota,
perché cavolo ti metti a parlare francese adesso? E
perché mi conoscono tutti?
- Peter
dovrebbe arrivare a momenti, in compagnia del
galantuomo… - il viso dell’italiano si
rabbuiò.
- Di chi
parlate? – chiese orlando, notando la tristezza che si era
subito dipinta sui loro volti.
- Di Matthew
Colt. Della New Line.
- Fa ancora
problemi?
- Non
dovrebbe, ma speriamo per il meglio. – sospirò.
Subito dopo
entrò Peter, insieme a questo famigerato Matthew. Era un
uomo magro e pallido, e la sua espressione non faceva pensare bene.
D’istinto, ci appiattimmo tutti contro il muro. Peter e
Matthew, senza dire una parola e senza rivolgere il saluto a nessuno
dei presenti, si chinarono su un computer confabulando fra di loro. La
presenza di quell’uomo mi impauriva, e cercai di mimetizzarmi
con il bianco panna della parete, ovviamente senza successo. Nella
stanza regnava un silenzio tombale, riverente, irreale. Non avrei mai
pensato di saper restare così immobile. Riuscivo a sentire
il cuore di Orlando battere affianco a me. Al solo pensiero, arrossii,
e il mio cuore cominciò a battere più vivacemente.
Sentii il
nome di “Hery” e “Legolas”
uscire qualche volta dalle bocche dei due al computer, ma oltre questo,
c’era una strana calma… quella che di solito
c’è prima della tempesta.
Infatti
vedevo le sopracciglia di Colt aggrottarsi via via che il loro
colloquio andava avanti, e dopo qualche minuto, alzò lo
sguardo verso di me. Ed esplose.
- Questo,
Jackson, non posso accettarlo!
Improvvisamente
il mio cuore cominciò a galoppare. Perché quel
tipo ce l’aveva con me? Che cosa avevo fatto di sbagliato?
– Il ragazzo mi andava anche bene, Jackson, perché
l’avevo già visto in televisione e sapevo che era
bravo, ma tu mi stai chiedendo di spendere miliardi di dollari per
una… ragazzina uscita da una scuola di recitazione quattro
giorni fa! Ti rendi conto della scelleratezza della tua richiesta?
Seguivo
quello sfogo con il cuore in gola. Tutti i presenti mi fissavano con
pietà.
- Abbiamo
avuto ottime informazioni sul suo conto – ribattè
Peter, in apparenza calmo, ma si sentiva che aveva paura per il suo
grande progetto. Se li vedeva già, tutti i suoi
sogni… svanire nel nulla.
-
Informazioni che ti ha dato Holm, no? Ma lei ha mai recitato da qualche
parte, oltre al teatrino della quarta elementare? Chi ci garantisce che
sarà all’altezza del suo ruolo? Ruolo, peraltro,
di massima importanza! Con gli altri attori lei non c’entra
assolutamente niente! Tutto ciò è nepotismo bello
e buono! Tu l’hai assunta solo perché Holm
è una persona molto importante, per questo! Non per la sua
bravura, perché ne ho viste di… bambine
– tirò fuori la parola con disgusto. –
come lei. Incapaci.
Iniziai a
tremare. Aveva ragione. Finora ero rimasta lì ad ascoltare,
ma nessuno poteva permettersi di insultarmi in quel modo. Quel tipo era
incredibile: stava rovinando una bellissima giornata, e stava rovinando
i sogni di Peter. Ma sapevo che qualsiasi mia reazione avventata
avrebbe significato la rovina del film.
- Basta!
– tuonò Peter. – Non puoi permetterti di
parlare così degli attori. Dei MIEI attori! Io li so
scegliere, l’hai visto con altri miei film. Hai visto il
successo di Kate Winslet, ancora sconosciuta, in Creature del cielo. Tu
hai mai visto Lesley recitare? No. Io sì. E mi fido di lei.
Quindi fidati di me, ok?
Colt
serrò le mascelle. – Va bene – disse. A
quanto pare ricordare il lavoro di Peter per Creature del Cielo era
bastato a sconfiggerlo e a chiudergli la boccaccia. – Va
bene. Avrai i soldi. Ma se questo film non otterrà almeno
tre Oscar, puoi considerare l’argomento “Signore
degli Anelli – i film” chiuso. E potrai dire ciao a
Tolkien.
Detto
questo, girò i tacchi e si sbatté la porta alle
spalle. Rimanemmo tutti in silenzio per un po’, poi il
silenzio, stavolta imbarazzato, si ruppe a causa di Orlando, che, molto
intelligentemente, si schiarì la gola e disse:
-
Vabbè… ehm… noi andiamo, eh? Grazie
per la bellissima giornata e… arrivederci.
Io
continuavo a fissare a terra, e mi sentivo gli occhi di Peter puntati
addosso. Orlando mi prese per il gomito e mi trascino fuori.
Ci mettemmo
a camminare per strada in silenzio. Io me ne stavo con le mani in
tasca, a dare i calci ai minuscoli sassolini dell’asfalto;
Orlando camminava con il naso per aria, pensando a quello da dire. Alla
fine, parlò lui per primo.
- Senti
– mi disse. – Conosco un bellissimo ristorante. Ti
ricordi che non abbiamo mangiato per niente? Ehi?
Non risposi:
sentivo un groppo in gola che mi impediva di parlare e sapevo che se
avessi aperto bocca sarei scoppiata a piangere. – Ti senti
bene?
- Domanda
superflua – dissi. E le lacrime cominciarono a sgorgare. Un
attimo dopo mi ritrovai fra le sue braccia.
- Ha ragione
– dissi affondando il viso nella sua maglietta. –
Ha ragione su tutto. Io non c’entro niente con voi. Voi siete
professionisti, io che cosa ci sto a fare?
- Tu sei
molto più brava di tutti noi, hai capito? Si vede da come ti
impegni quando ti alleni, lo sanno tutti che metti l’anima in
ogni cosa che fai. Stamattina, in palestra, ci ho quasi creduto
anch’io, alla tua bugia. Tu hai tantissime qualità
Les, e solo dando il meglio di te riuscirai a farti strada nel mondo
del cinema. Peter lo sa e lo sa anche Matthew. Quindi stai tranquilla,
ok?
Annuii e
tirai su col naso. – E… gli Oscar?
- Peter e la
sua troupe stanno facendo il loro lavoro così bene che di
Oscar ne vinceremo più di tre. E comunque, andiamo a
pranzare, che ho fame?
Risi.
-
Hippopotamus Restaurant – lesse Orlando ad alta voce.
– Deve essere questo. Entriamo? Salve! Siamo in due, non
abbiamo prenotato. Non fumatori. Sì, quel tavolo
è splendido.
Una
cameriera ci scortò fino ad un tavolo appartato che dava su
una finestra. Ci sedemmo e subito lei ci portò due
Menù. In cima c’era scritto
“Menù del 21 giugno” e chiesi alla
cameriera se cambiassero Menù tutti i giorni, e lei mi
rispose di sì come se fosse la cosa più ovvia del
mondo. Lessi la lista dei piatti, tentando di non soffermarmi sui loro
prezzi.
- Non ci
credo – disse ad un certo punto Orlando. – Sir Ian
McKellen e Hugo Weaving! Fantastico!
Ci vennero
incontro due distinti signori, uno di mezza età,
l’altro un po’ più giovane. Non ci
voleva un genio per riconoscerli. Ci alzammo entrambi dalle sedie.
- Orlando,
quale onore e sorpresa! E c’è anche Lesley, ma
guarda! – Mi strinsero la mano.
- Lesley,
loro sono Sir Ian e Hugo. Interpretano rispettivamente Gandalf e
Elrond.
- Oh,
perfetto!
- Molto
onorato, molto onorato. – disse Weaving.
- Scusateci,
ragazzi, ma abbiamo degli affari urgenti da sbrigare. – e
dopo un allegro commiato se la filarono fuori dal ristorante.
- Avete
deciso cosa ordinare? – ci chiese un cameriere.
-
Io… una bistecca – dissi. –Manzo, per
favore.
- E io
un’aragosta. – ordinò Orlando.
I piatti ci
arrivarono quasi subito. Mangiammo di gusto, era davvero tutto
squisito. Ma verso la fine del pranzo, il telefono di Orlando
squillò.
- Pronto,
Ngila? – salutò con entusiasmo. – Oh,
davvero? Ah ah ah, hai ragione! Sì, è vero!
Novità? Ah, uffa. Ok, arriviamo. – chiuse la
comunicazione. – Hai dimenticato di scrivere il tuo numero
sulla bacheca alla mensa. E ci vogliono agli Studio fra
un’oretta. Scusi! – chiamò il cameriere.
– Ci porta il conto, per favore?
Il cameriere
strappò da un blocchetto un foglietto e me lo porse.
Leggendolo, sbiancai. 230 $ era il totale, di cui 30 la mia bistecca e
200 l’aragosta di Orlando. Le bevande erano gratis.
-
Ehm… Lesley? – mi chiamò Orlando, rosso
in viso.
- Dimmi!
- Per
caso… ehm…. Per favore…. Ecco..
insomma…
- Orlie?
-
Sì, ok! Beh... Mi sono scordato il portafoglio.
Note
dell'autrice: ATTENZIONE. Il personaggio di Matthew Colt l'ho inventato
io. Ci sono sia la Weta Workshop che l'Hippopotamus Restaurant a
Wellington.
Terminate le cose importanti.... siete arrivati vivi fino alla fine?
Spero proprio di sì. Grazie, come al solito, a tutti quelli
che recensiranno e che passeranno di qui!
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Capitolo 5 *** Cap 5. ***
La mia vita sul set - cap. 5
Il primo giorno – Parte
1
-
Non ti ringrazierò mai
abbastanza.
- Ah-ah. Molto divertente, Orlie.
- No, davvero. Parlo sul serio.
- Certo. L'unica cosa certa è che se continui a parlare
sbaglierò il numero.
- Eeeh!! - l'urlo lanciato da Dominic Monaghan fu così
improvviso che la punta
della matita con la quale stavo scrivendo il mio numero di telefono
sulla
bacheca si spezzò. - Alla fine hanno costretto anche te a
scrivere il tuo
numero sulla Bacheca degli Orrori! Preparati a non avere più
un attimo di
pausa!
- Scherzi, vero, Dom? - gli chiesi abbracciandolo per salutarlo. -
Più che
altro penso a quello che mi capiterà adesso. Emma vuole
assolutamente che vada
da lei ora, di corsa.
- E io devo andare ad esercitarmi con l'Elfico - disse Orlando. -
Quindi, mi
chiudo nell'aula video.
- E tu, ragazza mia, verrai con me. - Dom mi mise il braccio intorno
alla
spalla, dirigendomi all'interno di una roulotte enorme, lasciando
Orlando a
guardare la bacheca.
Ci allontanammo di qualche passo, quindi Dom si aggiustò il
berretto sulla
testa (faceva un po' di freschetto, e io indossavo una felpa grigia,
per
coprirmi), guardando in basso. Sembrava imbarazzato.
- Allora, Les, ho saputo che hai fatto un incontro non molto piacevole
qualche
ora fa.
- Preferisco non ricordarlo.
- Più che altro mi spiace che se la sia presa in
tua presenza...
- Dom? Preferisco non ricordarlo. Ho detto.
- Eddai! Sto solo cercando di capire come hai reagito!
Aprii la porta della roulotte, ritrovandomi nella sala trucco.
- Sono rimasta lì, schiacciata contro il muro, senza dire un
parola. E' uno dei
miei tanti difetti. Quello di non sapere come reagire, e di non reagire.
- E altri tuoi difetti?
Mi sedetti su una sedia. Emma non era ancora arrivata.
- Sono pessima a sopportare il dolore. Non quello fisico, ma
psicologico.
Quando qualcosa mi sconvolge, do i numeri. Per inciso, io non sono una
Mary-sue. E tuoi?
In quel momento entrò Emma, carica di fogli. Dom fece appena
in tempo a
sorridere e a dire.
- Io sono pazzo.
- Ok, Lesley, pronta a cominciare? - risposi con un sorrisetto nervoso.
Emma
andò subito al sodo. - Ora, vediamo quello che possiamo fare
per tirare fuori
Hery...
Cominciò a frugare in una grande scatola piena di oggetti
per il trucco, tanti
quanti ce n'erano in tre profumerie messe assieme. Poi mi
svolazzò
attorno cominciando a truccarmi. - Sai, Lesley, sei fortunata ad avere
questi
capelli.
- Perchè? - chiesi stupita.
- Non hai bisogno di una parrucca. I tuoi sono i capelli di Hery.
- Vorresti dire banali, piatti e marroni?
- No, intendo dire lucenti, lisci e bruni.
- E questi? - presi in mano dei fogli.
- Le tue parti da elfo. Dovrai studiarle per domani. Non sei
emozionata? Il tuo
primo giorno di riprese!
- Ah ah ah, che bello.
- Oh, qui abbiamo finito. Vedi
come risaltano i tuoi occhi adesso?
Mi guardai allo specchio. Era
vero. Con quel trucco acqua e sapone sembravano più grandi.
– E il mio costume?
– chiesi.
- Domani si vedrà.
Provai a leggere quello che
era scritto su un foglio: non ci si capiva un accidente.
- Sì, fa questo effetto a
tutti – mi rassicurò Dominic, forse vedendo la mia
espressione. – Le cose vanno
meglio davanti alla birra che gusteremo stasera. Vieni, no?
- Non mi sono mai concentrata
bene davanti a una birra.
Non fece commenti, ma forse
capì che il mio era un no.
È
incredibile come il mio
senso dell’umorismo fosse capace di fare brutti scherzi al
mio cervello.
Nell’orientamento ero una frana: dopo aver salutato Dom, non
riuscii a
ritrovare la mia roulotte, e così finii per entrare in
quella di Elijah (appena
uscito dalla doccia e ancora in asciugamano) e degli altri quattro
Hobbit.
Cercavano in tutti i modi di convincermi a uscire quella sera: erano
arrivati
perfino al punto di rinchiudermi nel loro bagno ma io, testarda
com’ero, riuscii
a sgattaiolare fuori dalla finestrella del bagno e a scappare,
rinchiudendomi
nella stanza del Blue Screen. E lì, nascosta fra le
telecamere, ripassai le mie
battute in elfico finchè non crollai con la testa sulle
ginocchia, ma ormai era
l’alba. Dormii si e no per un’ora e mezza, e
cioè finchè non sentii i quattro
Hobbit scherzare fuori dalla roulotte. Allora uscii, ritrovandomi nella
luce
del mattino della Nuova Zelanda. Sean mi vide in viso, ed
esclamò:
- Oh, cavolo, Emma si dovrà
impegnare, per rimetterti a posto!
- Pensa per te. Com’è andata
ieri sera?
- Fantastico. Orlando,
sbronzissimo, ad un certo punto è inciampato in un tavolo ed
è finito a gambe
all’aria. Meno male che non eri in giro.
- Come mai ti sei alzata così
presto?- mi chiese
Billy.
- Emozione, penso. Ora vado a
fare colazione, così mi rinfresco un po’.
Li
lasciai nella sala trucco
– gli Hobbit cominciavano sempre molto presto. Per potersi
applicare le protesi
ai piedi e alle orecchie -. Mi diressi verso la mensa, dove arraffai la
prima
scodella di porridge che mi capitò tra le mani. Il porridge
era una necessità
di Billy: se non faceva colazione col porridge, la prendeva male.
Malisssimo.
Provai ad assaggiarla. No no
no, davvero disgustoso. Magari, se lo mischiavo al latte… Oh
Dio, un’idea
veramente allucinante!
Buttai tutto quanto nella
spazzatura e il mio cellulare squillò: era Emma che mi
diceva di andare a
vestirmi.
- Oh, Gesù! Come ti tratti
male! – sospirò non appena mi vide. Si
impegnò molto per rimettere a posto la
mia faccia sbattuta, e
poi mi aiutò ad
indossare il costume: era veramente fantastico: comodo e pratico.
Proprio
quello adatto a me. Mentre mi allaggiavo la cintura, Emma mi
informò che avrei
dovuto salire sull’elicottero, per andare a girare le scene
del monte Cardadhras,
una cosa che mi esaltò.
Dietro
la porta secondaria
del caravan del Trucco c’era la pista degli Elicotteri: un
immenso campo di
erba alta con uno spiazzo al centro. Era lì che i miei
compagni mi stavano
aspettando, appoggiati all’elicottero. Uscii a passo di
carica, dirigendomi
verso la pista. Il vento mi lisciava i capelli all’indietro,
e mi immaginai il
mio arrivo al rallentatore. Mi sentii molto importante, mentre i
ragazzi –
tutti maschi – si voltavano pian piano a guardarmi. E quando
arrivai, sentii
Dominic fischiare ammirato, e misi bene a fuoco Orlando. Da lontano non
l’avevo
riconosciuto, con quel parruccone biondo: col massimo della gentilezza,
gli
scoppiai a ridere in faccia.
- Sei ridicolo!!
Anche gli altri risero: tutti
tranne OB, ovviamente, che fece la faccia dell’offeso. Ma non
ebbe il tempo di
replicare, perché Peter raggiunse l’elicottero con
la sua allegria e esuberanza
tipica della mattina presto. Ci ordinò di salire
sull’elicottero, e io obbedii
per prima, eccitata.
Una
volta dentro, il pilota
ci disse:
- Le cinture tenetele solo
per la partenza, poi potrete slacciarvele.
Non avevo mai volato su un
elicottero.
Decollare
presentò qualche
difficoltà, ma i piloti ci riuscirono in pochi minuti.
Appena ci alzammo per
aria, mi slacciai la cintura di sicurezza e cominciammo a chiacchierare
e
ridere, facendo un gran baccano: tutti, tranne Sean. Essendo sposato e
padre di
una bellissima figlia, Alexandra – chiamata affettuosamente
Ally -, Sean Astin
era piuttosto scettico in materia di sicurezza. Era decisamente troppo protettivo, e non credeva che
qualcun altro avesse la situazione sotto controllo.
Con lo sguardo torvo,
strillò:
- Chiudete il becco, si
deconcentrano! – Elijah e Dom gli risposero:
- Sean, sono piloti, sanno
quello che fanno! – ridacchiai. Il modo in cui erano
così legati, pur essendo
diversi, mi sbalordiva ogni volta che aprivano bocca. Erano uniti come
una
ragnatela, legati stretti da un filo invisibile.
Sean, senza dire niente, si
avvicinò al pilota e iniziò a tartassarlo di
domande come:
- Ooh, ragazzo, sei
consapevole che ci sono altri due elicotteri dietro di te? Sei sicuro
di poter
mantenere la rotta? Riuscirai ad atterrare senza difficoltà?
Mentre noi gli chiedevamo
cose del tipo:
- Quanto puoi arrivare vicino
alle montagne? Puoi fare un giro della morte? Se ci fosse una moto a
terra,
riusciresti a prenderla in volo?
Mi
piaceva fare quelle
domande un tantino infantili, e me la stavo spassando alla grande. Ma
poi notai
la faccia di Bean. Al contrario di tutti noi, non si era slacciato la
cintura;
anzi, si teneva aggrappato al sedile con le unghie, e sul volto una
smorfia
tale che sembrava che stesse per vomitare l’anima da un
momento all’altro. Mi
sporsi verso di lui.
- Bean, ti senti bene?
- No! – piagnucolò. – Non ti
muovere! Potresti far ribaltare l’elicottero!
Lo guardai incredula: un
omone come Sean Bean, Boromir nel film, non poteva soffrire il mal
d’elicottero. Era fuori discussione!
- Giuro – gemette – giuro
che non salirò mai più su un
elicottero. Piuttosto scalo la montagna da solo!
Risi. – Assurdo! Davvero!
Dai, non lo soffro io, e lo soffri tu?!
Mi squadrò tetro.
Note dell’autrice.
Spero che ne sia valsa la pena,
di aspettare così
tanto! Meriterei la fustigazione pubblica. Rispetto agli altri, questo
è un capitolo
piuttosto lungo, che si divide in due parti, e la prossima
arriverà presto. Non
posso lasciare Bean in trappola sull’elicottero, poveretto!
Come al solito, spero che questo
capitolo piaccia a
tanti, e ringrazio chiunque apri questa pagina, per un motivo o per un
altro!
Al prossimo capitolo, con
“La mia vita sul set”!
|
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Capitolo 6 *** Cap 6. ***
La
mia vita sul set –
Cap. 6
Il
primo giorno –
parte 2.
Scendemmo
dall’elicottero dopo quasi un’ora e mezza di volo.
Penso che tutta la Nuova Zelanda
abbia potuto
sentire il sospiro di sollievo che sia Sean che Bean tirarono non
appena la
punta dei loro piedi ebbe toccato terra.
Il
freddo era molto intenso: la temperatura doveva essere vicina agli 0
gradi, e
solo con i costumi di scena indosso, rischiavamo tutti di morire
assiderati. Io
saltellavo sulla neve sfregandomi le braccia per riscaldarmi, mentre
Dom e
Billy giocavano a “chi fa la nuvoletta di fiato
più lunga?”, Ian McKellen e
Viggo chiacchieravano fra loro.
Mi
sorprese trovare già le troupe – e Peter
– appostate e pronte a girare. Erano
sui due elicotteri dietro di noi, e non mi pareva ci avessero superati
durante
il tragitto. O meglio, se lo avessero fatto, Sean e Bean sarebbero
morti dal
terrore. Che potessero teletrasportarsi?
Appena
ci vide arrivare, Peter – in pantaloncini corti! –
trotterellò goffo sulla neve
verso i quattro Hobbit e si mise a confabulare con loro. Erano lontani,
perciò
non riuscii a sentire cosa stessero dicendo. Fui raggiunta da Orlando:
si era
coperto il parruccone biondo con una bandana rossa e bianca, e anche
lui aveva
il naso rosso.
-
Emozionata? – decisi di sorridergli, ma cambiai idea a
metà strada e ne uscì
una smorfia indefinita.
-
Tantissimo.
-
Peter sta venendo a darti istruzioni. Mi raccomando, ascoltalo
attentamente e
fa quello che ti dice di fare.
-
Ehm… ok. – Orlando si allontanò verso
Bean incrociando Peter, che prontamente
lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso di
me. Sembrava stesse dicendo:
“Dove credi di andare?”.
-
Lesley, Orlando, eccovi le istruzioni. – mi guardò
– Dalton, gli Elfi non
soffrono il freddo. Vedi di non darlo a vedere, ok?
-
Sì.
-
Secondo: gli Elfi sono leggeri. Non sprofondare troppo nella neve,
anche se
useremo il computer. Terzo: sul Caradhras Hery e Legolas sono
innamorati. Altre
istruzioni a tempo debito. Ah, dimenticavo, quarto: Hery sa come
oltrepassare
la montagna. Devi far credere che sai quello che stai facendo.
-
Messaggio ricevuto.
Poi
Peter iniziò a spiegarmi quello che avrei dovuto fare
durante le riprese. E
quando se ne andò, un vortice di pensieri negativi mi
affollò la testa.
Che
ci facevo io lì? D’un tratto
l’incombenza del ruolo che mi era stato assegnato
mi piombò addosso. Avevo accettato al volo
l’offerta di Peter quando ero in
Inghilterra, ero saltata sul primo aereo per Wellington, ma ero
convinta a
farlo? E se avesse avuto ragione Colt?
Billy,
passando di lì insieme agli altri, si fermò a
guardarmi e poi annunciò:
-
Lesley è in fase insicurezzaaaaa!!
Mi
riscossi dai miei pensieri. – Come dici?
-
Dai, si vede! Vero Dom?
-
Sicuro.
Elijah
mi guardò con quei suoi occhioni dolci e disse:
-
Hai la tipica espressione da “mi si è incastrata
la forchetta nel tostapane”.
Arrossii.
– No! – lui annuì. Poi mi si
avvicinò e mi accarezzò i capelli.
-
Tranquilla, ci siamo passati tutti.
-
OK,
GENTE! – era
Peter con un
megafono in mano. – PRONTI
A GIRARE! E RICORDATEVI, IL DOLORE È PASSEGGERO, LA PELLICOLA
È PER SEMPRE!
Scoppiarono
tutti a ridere, e io raggiunsi in fretta sir Ian in testa alla fila.
Lui mi
porse un arco e io lo presi in mano. Mentre Peter cominciava a dare il
via,
abbassai la testa e ripetei più volte il nome del mio
personaggio nella testa.
Quando la risollevai, mi sembrò di avere lo sguardo
più duro.
-
Azione! –
Cominciammo
a camminare su per la montagna. Immaginai di avere un filo incollato
alla testa
– tecnica imparata dalle elezioni di Yoga frequentate durante
il liceo – e
pensai di essere più leggera. Continuammo a camminare, e
d’un tratto Peter urlò
di fermarci.
-
Astin, cerca di far andare dritto quel pony! Orlando, stai sprofondando
troppo
nella neve. Lesley, non avere il passo baldanzoso.
All’inizio
non capii: di quale passo baldanzoso stava parlando? Forse di quello
che avevo
iniziato a fare dopo un po’ di tempo – forse dovuto
all’eccitazione.
Riprovammo
la stessa scena per una decina di volte, o perché
sbagliavamo qualcosa noi
attori, oppure perché Peter non era soddisfatto della
ripresa aerea. Fatto sta
che quando Elijah – e la sua controfigura – caddero
come da copione, ero così
stufa di camminare in salita che fui ben lieta di lanciarmi
giù per la montagna
per andarlo a tirare su. Peter mi aveva detto di farlo, e provai una
gioia
perversa nell’accontentarlo. Peccato che il copione stabiliva
che Hery non
arrivava in tempo e Aragorn tirava su Frodo. Poi fu il turno di Bean.
Mi colpii
molto come si era calato nel personaggio di Boromir, soggiogato dal
potere
dell’Anello. Recitò la sua frase alla perfezione,
e Peter fu contento del
risultato alla prima ripresa. Hery fu piuttosto seccata dalla reazione
di
Boromir, e ritornò in cima alla fila dando un veloce sguardo
a Legolas. Mentre
risalivo Orlando mi sfiorò la mano. E lo guardai stupita.
Del fatto che avesse
fatto quel gesto di sua iniziativa, e del fatto che il mio cuore avesse
preso
il volo. Lasciai correre, un po’ perplessa.
Finimmo
verso metà giornata. Gli elicotteri, che erano rientrati
agli Studio, ci
vennero a prendere. Quando Pete annunciò lo stop finale, mi
stiracchiai facendo
un inchino fino a terra. Mi afferrai i piedi – ghiacciati -,
chiusi gli occhi,
rimasi in quella posizione per qualche secondo per poi ritornare su.
Non mi ero
accorta che i nove della Compagnia mi avevano accerchiata.
Partì un applauso e
sorrisi disorientata.
-
Perché mi applaudite?
-
La scena della corsa è stata… molto realistica
– mi disse Sean. – Sembravi
arrabbiata.
Rimasi
interdetta. – Davvero? Non me n’ero accorta.
-
RAGAZZI!
SALITE
SULL’ELICOTTERO, SI VA IN STUDIO A PROVARE LA BUFERA!
Potei
sentire l’urlo mentale di paura che lanciò Bean.
“Nooooooooooo!!!”
Poveretto.
Sull’elicottero
trovammo sacchetti pieni di panini. Non ero sicura che mangiare in volo
mi
avrebbe fatto bene, ma morivo dalla fame.
Il
viaggio di ritorno mi sembrò un tantino più lungo
dell’andata, ma almeno
chiacchierai con i miei colleghi, ascoltando gli aneddoti di Billy e
Dom, le
perle di saggezza di Viggo e Ian, e i lamenti strazianti di Sean e Bean.
-
Fa un po’ freddo, per essere il 21 giugno, no? –
affermai ironica. – Dopotutto,
nell’emisfero boreale è appena iniziata
l’estate.
-
Dimentichi un fatto fondamentale – mi corresse Viggo.
– Noi non siamo nell’emisfero
boreale, ma in quello australe. Qui è appena iniziato
l’inverno.
-
Giusto.
Avevo
ragione: mangiare in elicottero mi fece venire la nausea,
così fui lieta almeno
quanto Bean di toccare terra. Dovevano essere almeno le tre e mezza del
pomeriggio quando ci ritrovammo tutti nella sala del blue screen. Peter
ci
spiegò che per girare quella scena ci avrebbero sparato
addosso miliardi di
palline di polistirolo, per riprodurre l’effetto della
bufera. Quando mi chiesi
con che cosa ce li avrebbero sparati addosso, i tecnici azionarono
degli enormi
ventilatori e ci versarono davanti gli scatoloni pieni di polistirolo.
Quella roba
mi si infilò dappertutto: negli occhi, nel naso, nella
bocca… persino nelle
orecchie!! Era disgustosa. Anche gli altri erano nella mia stessa
situazione
per nulla piacevole, ma il fatto che Peter avesse cominciato a girare
senza
preavviso mi mandò nel panico. Faticavo a tenere gli occhi
aperti, e dovevo
essere la prima della fila! Assurdo. Mi misi l’arco in spalla
e cominciai a
camminare sulla passerella elevata che avevano montato apposta per me e
Orlando.
Tutti gli altri arrancavano in mezzo al polistirolo con le controfigure
dei
piccoli Hobbit in spalla, e io e Orlie li superammo guardandoci in giro
perplessi. Quando arrivammo alla fine della passerella allertammo i
sensi e
scrutammo la parete di fronte, immaginando di avere le montagne.
-
Avverto una grande potenza magica, Legolas. – dissi a bassa
voce: gli Elfi ci
sentivano benissimo.
-
C’è un empia voce nell’aria! –
annunciò lui.
- È Saruman! – gridò Ian.
-
Ok, Stop! – urlò Peter. – Andava bene,
ma facciamone un’altra!
E
ricominciarono a spararci addosso le palline di polistirolo.
Uscii
dalla sala riprese tutta rossa in viso per l’irritazione
dovuta a quelle
dannate palline. Corsi quasi verso la sala trucco, dove trovai Emma
– la cara
Emma – ad aspettarmi. Mi fece sedere su una comodissima
poltrona e mi chiese di
raccontarle tutto.
Quando
ebbe finito, mi tastai le orecchie, sorpresa di non trovarle a punta.
Poi andai
nella mia roulotte e mi spogliai come una marionetta. Mi buttai addosso
i primi
pantaloncini che trovai nell’armadio e schiacciai un
pisolino, che si
interruppe non appena entrò Orlando insieme a Billy. Mi
invitarono al bar a Wellington
e stavolta non potei rifiutare: l’unica cosa di cui avevo
bisogni era la BIRRA. Tanta,
tantissima birra.
Però
volli offrire io.
Tornammo
alle roulotte verso le undici di sera. Non mi resi neanche conto di
essermi
messa il pigiama e di essermi buttata sotto le coperte. Mi addormentai
senza
neanche riuscire a dare la buonanotte a OB.
…
“Non
male come primo giorno”.
Note
dell’autrice: ed
ecco, finalmente, il primo giorno di Lesley! Se siete arrivati vivi fin
qua
sono contentissima. Ho scritto questo capitolo di getto, quindi non so
come sia
venuto.
Ovviamente
sono ben
accette anche le critiche!
Un
saluto speciale a
NiNieL82 e a Klood per il sostegno.
Al
prossimo capitolo!
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Capitolo 7 *** Cap 7. ***
La
mia vita sul set – Cap 7.
Mi
svegliai in preda all’ansia e imperlata di sudore: ricordavo
nettamente la
sensazione di panico che avevo provato nel sogno, anche se ricordavo
poco
dell’accaduto. Ciò che sentivo ancora risuonare
nelle orecchie era il rumore
degli aerei che volavano tutto intorno, poi il nulla.
Anche
se sembrava una cosa da poco, era una sensazione orribile.
Guardai
l’orologio, erano le sei e
un quarto:
tanto valeva alzarsi e cominciare ad indossare il costume di scena.
Andai in
bagno e mi sciacquai il viso, lavando via ogni traccia di smarrimento e
tensione. Sentii suonare la sveglia di Orlando nell’altra
stanza: la sera prima
l’aveva messa sul tavolino per essere costretto ad alzarsi
per spegnerla, ma il
suo sonno era talmente… sonnacchioso da poter essere
scambiato per un coma
profondo, se non si conosceva bene il mio compagno di stanza. Dovevo
scuoterlo
io di persona.
Uscii
dal bagno, mi avvicinai al suo letto e lo scossi per un braccio.
- Forza Bloom, è ora di alzarsi.
-
Sì Dalton, tutto quello che vuoi. –
mugugnò, e riprese a russare. Voleva la
guerra! Gli tirai via le coperte, ma lui si rannicchiò in
posizione fetale. Allora
gli mollai uno schiaffo sugli addominali, e finalmente si decise ad
aprire gli
occhi. Lanciò un’espressione poco fine e si mise
in ginocchio sul letto.
-
Lesley!!! – piagnucolò. Alzai le spalle:
-
Ti dovevi svegliare alla prima!
-
Chiama un’ambulanza!
-
Ueeeh! – gli feci il verso. Poi gli voltai le spalle e mi
diressi verso la
porta, ma mi atterrò da dietro, e cominciò a
farmi il solletico sui fianchi.
-
Chi la fa l’aspetti! Chi la fa l’aspetti!
– cantilenò mentre io mi contorcevo
in terra dalle risate. Smise dopo pochi secondi.
-
Non riesco a capire perché mi hai svegliato –
andò in bagno e prese la lametta
per la barba.
-
Pronto? Sei un attore, di solito si recita! Dobbiamo cominciare!
-
Non te l’ha detto nessuno che oggi tocca solo a Ian e
Christopher Lee?
Ci
rimasi di sasso. – Davvero?
Mi
guardò dallo specchio e annuì. – Ma so
che domani dovremmo girare una scena di
combattimento, quindi forse è meglio se andiamo ad
allenarci.
-
D’accordo. Ehi, quando hai finito raggiungimi alla mensa.
Alla
mensa trovai Billy e Dominic – perché erano sempre
insieme? – che prendevano il
cibo per far colazione. Mi avvicinai a loro:
-
Bleah, possibile che devi sempre mangiare quello schifoso porridge?
– chiesi a
Billy con la faccia disgustata. Fu come dirgli che era grasso: si
offese a
morte.
-
Blasfema!!
-
No, dico sul serio, come fa a piacerti?
Mi
ignorò. – Dom, traduciglielo. – e fece
uno strano gesto con la bocca, poi si
allontanò. Dominic ridacchiò e disse:
-
Mi hai offeso, mi vendicherò. È inutile che gli
vai dietro, quando è offeso non
c’è più niente da fare. – poi
mi fissò negli occhi. – Si vede che sei molto
poco inglese.
-
COSA?
Rise.
– Eddai, sto scherzando!
-
Come faccio a rimediare?
-
Rimediare a che cosa? – era arrivato Orlando.
-
A quanto pare ho offeso Billy. Magari non mi rivolgerà
più la parola per tutto
il resto delle riprese.
Rise
e bevve il suo caffè. – C’è
solo una cosa che puoi fare.
-
Cioè? – finii di svuotare il bicchiere di
caffelatte che avevo in mano.
-
Invitalo al pub di Wellington stasera.
-
Ma io stasera non vado a Wellington! – buttai il bicchiere
nella spazzatura.
-
E invece sì, perché mi accompagnerai. Mi serve il
tuo senso estetico.
Bob
Anderson ci aspettava in tuta in mezzo alla palestra. Mi guardai
intorno: non
c’erano stuntmen nei paraggi questa volta.
-
Per quale scena devo allenarmi oggi, Bob? – gli chiesi
stringendogli la mano.
-
Scena cruenta. Hery vs. Legolas. Vi dovrete impegnare.
Non
potevo credere alle mie orecchie: - IO?
Contro di lui? E perché
mai?
-
Spiegartelo è compito di Peter.
Io
e Orlando ci guardammo. Sembrava pensasse quello che stavo pensando io:
“Uno
di noi due si farà male”.
Bob
ci guardò con un sorriso sadico: - Cominciamo?
“Una
volta che impara la coreografia, l’attore deve
perfezionarla” diceva spesso Bob
Anderson. E “perfezionare” con lui una coreografia
era tutt’altro che un gioco
da ragazzi. Del resto, che cosa ci si poteva aspettare? Mica si poteva
scherzare con un uomo della sua statura, che aveva interpretato Dart
Fener in Star Wars?
La
sua serietà e severità erano leggendarie. Per
questo Peter l’aveva chiamato:
chi meglio di lui per istruire un branco di attori scalmanati come noi?
Quella
mattino Bob ci illustrò le prime posizioni e i movimenti da
eseguire rallentati
al massimo. Poi ci esercitammo in solitaria, aiutati da due Stunt. Devo
ammetterlo, Orlando procedeva spedito e imparava molto più
in fretta, ma commetteva
più errori di me, tanto da dover essere ripreso
più volte da Bob, che non
perdeva occasione per distruggere la sua autostima – con me
però non si
comportava diversamente - .
Quando
finalmente ci concedette una pausa, dopo un’ora e mezza di
allenamento, mi
diressi verso la macchinetta in un angolo della palestra e presi una
bottiglietta d’acqua. Poi ne bevvi mezza, e sfruttai il
contenuto restante per
bagnarmi la maglietta.
-
Wow, ottima tecnica di raffreddamento – si
complimentò uno stuntman. Gli sorrisi
e ringraziai. Poi il cellulare nella mia tasca squillò. Il
numero non era
presente nella mia rubrica.
Risposi
titubante. – Pronto?
-
Ehm… parlo con Lesley Dalton? – rispose una vocina
dall’altro capo del filo.
-
Sì, ma… chi parla?
Scoccai
un’occhiata verso Bob e Orlando che discuteva su qualcosa,
dall’altro capo
della palestra.
-
Scusami se ti disturbo… io sono Miranda Otto, sto per fare
un provino per una
parte del Signore degli Anelli…
- Ciao, Miranda! Posso chiederti, però, come hai
fatto ad avere il mio numero?
-
…Beh… - sembrava imbarazzata. – In
realtà me l’ha dato Liv Tyler, ha detto che
potevo chiedere a te…
-
Dipende da che cosa vuoi sapere.
-
Hai letto Il Signore degli Anelli?
Sclank. Colpita e affondata.
-
Più o meno.
-
Per caso sai se Eowin ha i capelli lunghi?
-
… Sì, se non ricordo male.
-
Perfetto, grazie. Non sono una svitata.
“Nooooo…”
pensai con sarcasmo. – Ti serve altro?
-
No, grazie. Ciao!
Mi
ritrovai ad ascoltare il vuoto.
-
Ehi, Lesley! Sei pronta a ricominciare? – mi urlò
Bob.
-
Arrivo!
Presi
il cellulare e inviai un messaggio a Liv.
“Chi è quella Miranda con cui ho appena parlato?
E perché le hai
dato il mio numero?”
Rimisi
via il cellulare e mi avviai verso il centro della palestra.
Lo
sguardo inquisitore che mi fissava da sopra lo schienale della poltrona
della
sala video aveva un che di inquietante. Certo, non ero partita
benissimo, ma
non c’era motivo di fissarmi a quel modo quasi scandaloso,
come se fossi un
pezzo di torta al cioccolato, o peggio, di porridge.
-
Per caso ho la risposta scritta in faccia? - Strinse gli occhi.
– Non sarà così
male!
Non
disse niente: forse stava elaborando una battuta arguta, Quando si
impegnava,
Billy ci metteva un po’ a decidere che cosa dire.
Tutt’altro:
si girò e scrisse qualcosa su un pezzo di carta, poi me lo
porse senza fiatare.
Sopra c’era scritto: “Mi offrirai il porridge per
una settimana.”
-
No! – i miei soldi potevano essere meglio spesi. –
Ti offro la birra.
Saltò
su e si girò verso di me. – Davvero?
-
Ripetimi ancora perché diamine l’ho fatto.
– bofonchiai guardando fuori dal
finestrino dell’automobile.
-
Che cosa? Venire con me o aver invitato Billy al bar?
-
Tutte e due.
-
A quale vuoi che risponda?
-
Tutte e due!
-
Mi serve il gusto femminile. E poi ti dovevi scusare con Billy. Due
piccioni
con una fava.
-
Due piccioni con un lingotto, vorrai dire.
-
Perché non guidi tu?
Lo
fissai freddamente. – Quale delle due ragioni vuoi per prima?
-
La seconda.
-
Non so guidare.
-
Splendido! E l’altra qual era?
-
Ho ancora diciassette anni.
-
E allora?
-
Per quale oscuro motivo mi porti di nuovo a Wellington?
-
Rispondere con un’altra domanda è contro le regole.
-
Non rispondere è contro le regole. Cambiare discorso pure.
-
Perché sei così di cattivo umore?
-
Devo forse ricordartelo?
-
Intendi il tuo amichevole incontro con Matthew?
-
Già. Ma non è solo per quello.
-
Cioè?
-
Domani ci sarà esercitazione al fiume.
-
E con questo?
-
Non mi piace stare al fiume.
-
Perché?
Un
colpo di tosse dietro di me interruppe la nostra discussione. Mi voltai
a
guardare.
-
Scusatemi se vi interrompo, ragazzi – disse Liv sistemandosi
la cintura. –
vorrei solo ricordarvi che esisto anch’io.
-
Non mi ero dimenticato di te, Liv. – ribattè
Orlando.
-
Senza dubbio. Ma eri così impegnato a discutere con Lesley
che non ti sei
neanche accorto che hai sbagliato strada. Hai preso la svolta per
Hamilton, non
per Wellington. - Orlando frenò bruscamente.
-
E ora? La strada è a senso unico fino ad Hamilton, e ci
vogliono otto ore per
arrivare! – esclamai irritata.
-
Ci sarebbe l’altra corsia…
-
Orlando, cambiare corsia e fare dietrofront in questo punto
è abbastanza
illegale. – gli fece notare Liv.
- Abbiamo appuntamento tra un quarto d’ora! E non
hanno ancora inventato il
teletrasporto!
-
Già, che cosa aspettano? – affermai con sarcasmo.
-
Non fare stupidaggini, Orlie – in quel momento Liv
sembrò quasi materna. Ma
Orlando non la stette a sentire.
-
Tenetevi forte!
Se
avessi potuto guardare dall’esterno la manovra che fece con
la macchina, e se
fossi stata un poliziotto, l’avrei certamente sbattuto in
galera per il resto
della sua vita. Come se volesse sbandierare la sua spavalderia al mondo
intero,
Orlando aveva afferrato il volante e aveva sterzato a sinistra di
colpo, non
appena aveva avuto campo libero, ossia la strada senza macchine in
arrivo. Io e
Liv ci prendemmo una testata contro il vetro del finestrino, nonostante
ci
fossimo allacciate le cinture alla partenza.
-
Bloom! –
strillò Liv. – Io soffro
la macchina!
-
Io sto per vomitare i pasticcini della prima comunione. –
dichiarai coprendomi
la bocca con la mano.
-
Su, non è andata così male… - si
giustificò Orlando.
-
Andiamo a Wellington, prima che qualcuno ti prenda il numero di targa
– gli
ordinai. – E giuro che al ritorno prendo un taxi.
No,
era escluso. Categoricamente. Quando uno mi dice “mi serve il
gusto femminile”,
io penso che stia parlando di vestiti. Orlando, invece, aveva
un’idea tutta sua
riguardo all’uso che si fa del gusto
femminile.
-
Tu ci hai portate qui… per scegliere una casa?
-
Esatto.
Una
signora sulla mezza età usci dalla porta
d’ingresso e si diresse verso di noi.
Teneva un blocchetto in mano.
-
Lei è Orlando Bloom? – chiese non appena fu
abbastanza vicina per farsi
sentire. Orlando assentì. – Piacere, sono la
signora Mc.Grow. Mi può fare un
autografo, per favore?
Mentre
Orlando firmava il blocchetto alla signora Mc.Grow, il mio cellulare mi
segnalò
che un messaggio era arrivato. Era Billy che mi chiedeva per che ora ci
saremmo
incontrati al bar. Con un sospiro gli scrissi che per le nove e mezza
sarei
stata davanti al caffè.
Liv
si avvicinò a me: - Posso chiederti una cosa?
- Certo.
-
Perché non ti piace il fiume?
Le
mie orecchie diventarono rosse per l’imbarazzo quando
risposi: - Non so
nuotare.
-
Oh, povera. Devi iscriverti ad un corso in piscina, allora.
-
No, Liv, non hai proprio capito. Io ho paura
dell’acqua alta. Se mi supera la vita, muoio.
-
Entriamo? – ci chiamò Orlando.
La
casa che Orlando aveva l’intenzione di affittare si trovava
nella baia di
Wellington, ed era una villetta a due piani. Il giardino dalla parte
opposta
dell’ingresso si affacciava sul mare, e offriva una splendida
vista di scogli e
barche a vela che navigavano in lontananza. Al piano inferiore
c’era il salotto
e la cucina adiacente, pavimentata a mattonelle, poi un bagno e un
piccolo
studio; al piano di sopra c’era un altro bagno più
grande, una camera da letto
matrimoniale e una singola, e un terrazzo che occupava il resto del
piano.
C’era anche una soffitta, ma la signora Mc.Grow non ci
permise di salire, dicendo
che c’era troppa polvere e la botola non si apriva molto
bene.
Più
volte Orlando chiese pareri e consigli a me e a Liv… beh, in
realtà era Liv che
dava consigli e pareri… io mi limitai solo ad ammirare la
carta da parati e la
moquette sul pavimento. Orlando si preoccupava soprattutto
dell’utilizzo che
avrebbe potuto fare delle varie stanze, ma se fosse dipeso da me, avrei
affittato quella casa solo per la vista sul mare.
Orlie
alla fine chiese il prezzo dell’affitto, e la signora Mc.Grow
– che di aspetto
assomigliava alla Mc.Granitt di Harry Potter –
buttò lì una cifra esorbitante
che mi fece girare la testa. Tuttavia Orlando non si scompose, e
accettò.
Dopo
una settimana quella sarebbe diventata casa sua.
Essendo
arrivati a Wellington alle tre e mezza del pomeriggio, avevamo ancora
un sacco
di tempo prima delle nove. Non avrebbe avuto nessun senso tornare agli
Studio
per poi risaltare in macchina dopo mezz’ora, così
io, Orlie e Liv decidemmo di
fare un giretto in città.
Dopo
ogni angolo avevo il terrore di trovarmi davanti il brutto muso di
Matthwe
Colt, ma non fu l’unica cosa che notai. Era sorprendente come
la mia prima gita
nella capitale neozelandese mi avesse nascosto agli occhi il vero volto
della
città se prima mi era sembrato un luogo soleggiato, pieno di
gente allegra,
adesso notai che a partire da una certa ora, le strade si svuotavano
completamente. Si poteva vedere il cespuglio secco rotolare per terra
ad ogni
sbuffo di vento, e i giornali lasciati sull’asfalto
sfogliavano lentamente le loro
pagine all’aria. Alle sette di sera, poi, Wellington
iniziò ad assumere un
aspetto quantomeno lugubre.
Per
fortuna Liv ci trascinò in un centro commerciale –
un centro commerciale a
Wellington? Strano… -, e ci fece rimanere lì fino
alle otto e mezza. Per
fortuna ero stata così previdente da essermi portata dietro
qualche decina di
dollari neozelandesi, con i quali mi comprai una giacca nera, dato che
la
temperatura in Nuova Zelanda stava cominciando a scendere rapidamente.
Ovviamente
non mancò l’occasione di scambiare quattro
chiacchiere con il mio “camerata”,
tutte più o meno concluse in questo modo e in questo spazio
temporale:
-
Ti ho mai raccontato di come ho incontrato Billy?
-
No, come?
-
Oh, mio Dio, quello è Orlando Bloom! – Oh, mio
Dio, quella è Liv Tyler! – Oh,
mio Dio, chi è quella tipa accanto a Orlando Bloom e Liv
Tyler? – Bloom! Bloom!
Fatti una foto con me! – Orlando, ti amo, sei tutta la mia
vita – e tutti
bla-bla-bla di questo genere prodotte da ogni gruppetto di ragazzine
che
incontravamo. Ovviamente ogni volta ero costretta a schiacciarmi contro
la
vetrina di un negozio mentre quelle prendevano d’assalto
Orlando. Una fitta di
rabbia mi attanagliava ogni volta. Ma forse non era rabbia, era diversa
la
sensazione che stavo provando in quel momento… suonava
come… gelosia. Sì,
proprio gelosia. Quelle ragazzine stavano prendendo d’assalto
il mio Orlando!
All’ennesima
fotografia, quando ormai ero certa che Billy mi stesse aspettando fuori
dal bar
con un forcone in mano, Orlie prima di mettersi in posa venne verso di
me e mi
prese per mano, conducendomi accanto alla ragazzina e abbracciandomi.
Ovviamente, abbracciò anche lei, perché
sennò che foto ricordo sarebbe stata?
-
Oh, eccoli lì! Coraggio Dom, parti con “Momenti di
gloria”!
-
Ah, spiri tosone. Di quanto sono… siamo… in
ritardo?
-
Circa un’oretta. Non ti offendi se ti dico che mi sono
già servito?
-
No no, fai pure. – dissi mentre mi sedevo al bancone
– un ponch, per favore.
-
E per lei? – disse il barista rivolto ad Orlando.
-
Una birra.
-
Subito – e ci diede le spalle.
- Caspita, non sapevo che bevessi roba tanto forte!
– si complimentò Billy.
-
Sciocchezze – afferrai il bicchierino e buttai giù
quel liquore - o quel che
cavolo era, non mi sono mai interessata agli alcolici – in un
sol sorso. E quel
gesto segnò il mio primo passo verso lo “stato di
ebbrezza”, come lo
definiscono i poliziotti quando beccano un ubriaco a guidare.
-
Guida in stato di ebbrezza, non ti fa ridere? – esclamai non
appena appoggiai
sul bancone il quarto bicchiere di ponch.
-
Les, non ti pare di esagerare? – mi chiese Orlando severo.
Sorrisi come una
deficiente e mi avvicinai al suo naso.
-
Naaaaaa!!
-
Ok, hai raggiunto il limite. Scusi – fece rivolto al barista.
– non le serva
più niente.
-
Sì, signore.
-
Oh, ti prego ti prego ti prego, ancora uno!!
-
No, Lesley.
Guardai
supplichevole il barista e sorrisi:
-
Ma lo sai che tu hai la faccia da cruscotto? - dissi a voce alta
inclinando la
testa di qua e di là. Il barista guardò prima me
e poi Orlando. Stava per
aggiungere qualcosa, ma Orlando intervenne:
-
La porto subito fuori. – disse alzandosi, mentre sentivo
Billy e Dom ridere
come matti alle mie spalle. Quando Orlie vide che non avevo intenzione
di
schiodarmi dal bancone, mi afferrò da sotto le ascelle e mi
caricò in spalla.
Incredibile quanto quel ragazzo fosse forte.
-
Ehi, faccia da cruscotto, dammi un ponch per favore, cowboy!
-
Lesley, basta, per favore.
Orlando
mi portò fuori dal bar e scese fino alla spiaggia, che
distava poche centinaia
di metri. Mi mise a terra solo in prossimità della riva, e
le onde mi
accarezzarono le caviglie. Però faticavo a restare in piedi,
e lui, povero,
dovette sorreggermi.
-
Ehi, Orlie, mi togli una curiosità? Che giorno è
oggi?
-
Il 29 giugno.
-
Oh, splendido! Davvero splendido!
Mi
girai verso di lui e lo abbracciai.
-
Lo sai che mi piaci proprio tanto, Orlando Bloom? Ma non nel modo di
quelle
ragazzine stupide. – lo guardai e vidi che mi stava fissando,
così gli buttai
le braccia al collo. – Sì, sì,
già, mi piaci proprio, Orlando Bloom. Davvero
tanto.
Note
dell’autrice: Che
lungo questo capitolo, eh?
Come al solito… grazie a
chi legge! E a chi recensisce!
|
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Capitolo 8 *** Cap 8. ***
La mia vita sul set
– Cap. 8
Note
dell’autrice: Salve truppa, buona festa della mamma! Stavolta
ho voluto mettere le note in cima, perché poi…
oh, insomma, non ve lo dico! Tieniamoci le cose per noi! Ringrazio
quelli che passano di qua, e ovviamente tutti quelli che recensiranno!
P.s = *
Letteralmente: “Perché piangi? Cosa sono quelle
lacrime sul tuo viso? Presto vedrai, tutte le tue paure passeranno ”. Citazione da “Into the
West” di Annie Lennox, scritta per i titoli di coda del
Ritorno del Re.
-----
Non avevo
fatto in tempo a fermare la lingua… Sapevo di essere
ubriaca, completamente andata, ma un minimo controllo doveva essere
ancora dentro di me, da qualche parte. Alzai lo sguardo verso Orlando.
Mi fissava senza dire una parola, l’espressione dello sguardo
indecifrabile. Rimanemmo lì per qualche lunghissimo istante,
poi lui tirò un respiro profondo e mi prese in braccio.
-
Andiamo a casa.
Non ricordo
molto bene cosa successe dopo… anzi, non mi ricordo
assolutamente niente. So solo che quando il mio cellulare
squillò la “mattina” successiva mi
sentivo come se qualcuno mi avesse tirato una vangata sulla testa e
quindi avrei volentieri continuato a dormire. Lasciai così
squillare quell’aggeggio malefico sul comodino e mi girai
dall’altra parte.
-
Lesley, per l’amor del cielo –
brontolò la voce stanca di Orlando sopra
di me
– sono le quattro e mezza del mattino, rispondi a quel
dannato affare e manda a quel paese chiunque stia chiamando.
Afferrai
controvoglia il telefonino e risposi pianissimo, ma il silenzio che mi
circondava era così profondo che la voce di mia madre
dall’altra parte risuonò in tutta la roulotte come
se fosse stata lì di persona.
-
Oh, tesoro, buon compleanno! Non riesco a credere che tu sia
diventata maggiorenne! Qui è ancora il 29… da te
è il 30?
-
Io non riesco ancora a credere che non hai ancora capito il
fuso orario! Sono le quattro qui!
-
Oh, cielo! Dormivi?
-
No – mentii. Era questo quello che ero costretta a
fare con mia madre
quando
rischiavo di offenderla. Quando lo faceva, era difficile farsi
perdonare, e il problema è che si offendeva per
niente… perciò mentivo in qualsiasi situazione.
-
Oh, visto? Nessun disturbo! Auguri anche da papà e
da tutta New York!
-
Grazie…
-
Oh, dimenticavo! Sai chi sta arrivando in Nuova Zelanda?
-
Chi?
-
Janice! – la richiamò la voce di
papà. – Non glielo dire!
-
Oh, d’accordo. Va bene, cara. Tanti auguri!
E mi chiuse
il telefono in faccia, com’era abitudine sua e di tutti i
Dalton (da parte di madre). Spensi il cellulare e mi girai
dall’altra parte.
“Oggi
è il mio compleanno”.
Non avevo
assolutamente intenzione di fare sapere in giro che era il mio
compleanno e in tutta onestà speravo che non lo sapesse
nessuno. Inoltre il mio passaggio d’età era
l’ultimo dei miei pensieri: Il mal di testa che mi
attanagliava era allucinante quando mi alzai dal letto, e dovevo a
tutti i costi spiegare la mia svalvolata ad Orlando, porgergli le mie
scuse – sempre che lui le avesse accettate -, e smentire
tutto quello che avevo detto – ma cosa avevo detto? -. Entrai
nel bagno mentre Orlando chiacchierava a bassa voce con qualcuno: non
mi azzardai ad origliare.
Appoggiai le
mani sulla ceramica fredda del lavandino e fissai il mio riflesso allo
specchio: non ero decisamente fresca come una rosa. Aprii
l’acqua al massimo e mi sciacquai il viso come meglio potevo,
ma tutto il ponch che avevo ingurgitato la sera prima mi
salì improvvisamente su per la gola e dovetti dare di
stomaco.
-
Les, ti senti bene? – Orlando si
affacciò alla porta del bagno – sento degli strani
rumori…
-
VA’ VIA! – gli urlai fra un conato e
l’altro. Ma ovviamente fece tutto il contrario.
-
Ci vediamo dopo – disse al telefono e chiuse la
comunicazione. Entrò
nel bagno
con pigiama a maniche corte, quello grigio che gli faceva risaltare i
muscoli, si bagnò una mano e me la appoggiò sulla
fronte
-
Orlie, davvero, nessuno ti obbliga a…
-
Nessuno mi obbliga – mi interruppe – ma
voglio farlo. Non è facile passare la prima sbronza,
così ti voglio aiutare.
-
Sei molto gentile… penso che adesso mi sia passata.
-
Sicura?
Gli sorrisi.
– Ok, allora. Io esco.
Mi sorprese
il suo comportamento di ghiaccio. Era stato un iceberg: sembrava molto
confuso, o peggio… arrabbiato. Chissà se sarei
riuscita a chiarirmi con lui, prima del tramonto.
Evitai
accuratamente il sentiero per la mensa, e mi diressi direttamente verso
la sala trucco. Non solo in quel modo avrei evitato qualsiasi odore che
avrebbe potuto rivelarsi disgustoso per il mio stomaco sottosopra, ma
sarei anche sfuggita a Billy, Dom e compagnia bella… Tutte
persone che avrebbero potuto farmi commenti poco eleganti riguardo alla
sera precedente.
Camminavo
trascinando i piedi e con lo sguardo a terra. Ormai non avevo
più bisogno di guardarmi intorno per orientarmi, avrei
potuto gironzolare persino a occhi chiusi. Anzi… sarebbe
stato divertente. Alzai il naso in cielo e chiusi gli occhi,
cominciando a saltellare come in quel cartone animato che avevo visto a
casa di mio cugino in Italia… come si chiamava? Ah,
sì… Heidi. Però c’era un
po’ di differenza tra me e le caprette saltellanti: nei
pascoli non c’era un’anima. Io invece avrei potuto
benissimo andare a sbattere contro qualcuno.
Houch!
Appunto.
-
Sai, non me la prenderei più di tanto se almeno
guardassi per terra!
Elijah mi
sventolò una mano davanti al naso. – Quante dita
sono queste?
-
Scusami, El, ero sovrappensiero.
-
Già, e chi non se ne accorto?
-
Scusami. Ciao.
Non avevo
voglia di parlare con chicchessia.
-
Ehi, aspetta un minuto! – mi corse dietro e mi
prese per mano. – Liv
mi ha detto
una cosa su di te.
-
Ehi! Vuoi dire che ha fatto la spia?
-
Nooo, non ha fatto la spia. Se l’è
lasciato sfuggire.
-
Uffaa!!!
-
Non ti devi vergognare per questo.
Lasciai la
sua mano e salii le scale che portavano alla porta della sala trucco.
Aprii la porta e come sempre ci trovai dentro Emma.
-
Ciao Em.
-
Per caso trattarsi male è uno sport nazionale, in
America?
-
Che intendi dire? – sbuffai mentre mi sedevo sulla
mia poltrona.
Mi mise uno
specchio davanti al naso: - Guarda la tua faccia.
Non dico che
sembravo uno zombie, nooo… Basta tenere conto che la notte
prima non mi ero struccata e tutto il can-can del mattino mi aveva
fatto espandere tutto il mascara per mezza faccia. No, non sembravo uno
zombie… semmai un panda che piange.
-
Mi spiace, Emma…
-
Non ti preoccupare, sono diventata truccatrice apposta.
Dal tono di
voce e dal suo comportamento circospetto, capii che mi stava
nascondendo qualcosa. Ma non indagai.
Per tutta la
seduta di trucco mi lasciai coccolare da Emma, che svolazzava intorno
alla mia poltrona con in mano pennelli, struccanti e colori: era una
bella sensazione sentire il tocco leggero dei batuffoli di colore sulla
pelle, il profumo del fondotinta fatto apposta per darmi una carnagione
da elfo… a mano a mano che Emma mi trasformava in Hery, il
mio malumore scivolava via sotto le sue pennellate, diventavo sempre
più allegra. Era il mio compleanno, che cavolo, mi meritavo
un po’ di felicità!
-
Psss, Ehi, Les – la testa di Elijah era sbucata da
dietro la porta. Aprii gli occhi e lo guardai attraverso uno specchio.
– Fran mi ha detto di dirti che sotto al costume devi
metterti un costume da bagno.
-
E perché? – domandai stupita.
-
Non lo so, ma l’ha fatto mettere anche a
me…
Non potei
far altro che obbedire. Infatti, Fran era uno dei pezzi più
grossi nella troupe di Peter.
Alle otto e
mezzo in punto eravamo tutti sulla scena, con i copioni in mano che
recitavamo le nostre battute. Non so se fosse frutto del mio esercizio
durante quelle prime settimane di recitazione, ma riuscivo ad imparare
le battute estremamente più in fretta e riuscivo a parlare
elfico in maniera più fluida. All’inizio delle
riprese avevo fatto molte sedute di elfico con Cate Blanchett
– mia madre Galadriel, per chi non lo sapesse -, magari con
qualche gara alla fine della lezione. Ma che gareggiavo a fare, mi
dicevo sempre… mi stracciava sempre.
Dovevamo
girare le scene del Consiglio a Gran Burrone, ed era la prima volta che
noi attori della Compagnia ci trovavamo insieme a Hugo Weaving, Elrond.
Era una vera sagoma: durante le pause scherzava con Viggo, e si faceva
un gran ridere, ma una volta iniziato e girare, il suo volto subiva una
trasformazione allucinante: da persona allegra e simpatica si
trasformava in un elfo assolutamente serio e saggio. Durante ogni
istante di pausa, mi preoccupavo sempre di controllare che qualcuno
sapesse del mio compleanno. Volevo evitare a qualsiasi costo auguri di
vario genere, che non avrebbero fatto altro che distrarmi dal mio ruolo
di attrice: succedeva sempre così, durante i miei
compleanni. Appena qualcuno mi faceva gli auguri, la mia testa si
staccava dal corpo come un palloncino pieno d’elio e volava
verso le nuvole… su, su, su… ci voleva un bel
po’ di tempo prima che riuscissi a tornare giù.
Fu verso
mezzogiorno che ci diedero il via libera, e non perché
avessimo finito le riprese della giornata. Ma la videocamera di Peter e
quella di un tecnico erano saltate per aria, forse a causa di un corto
circuito. L’elettricista ci disse che ci avrebbe messo
qualche ora per ripararlo.
Incrociai le
braccia e mi guardai intorno: era una bella giornata.
Elijah mi si
avvicinò, e mi disse sfoderando un sorriso amabile: - Ti va
di fare una passeggiata?
Acconsentii
di buon grado. Mi prese a braccetto e mi condusse lontano dal set,
verso un capannone che prima di allora non avevo mai visto. Prima di
entrare, Elijah si fermò, estrasse dalla tasca del suo
costume una benda e mi disse di legarmela intorno agli occhi. Cominciai
a chiedermi se avesse cattive intenzioni, ma di certo non era
così: Elijah era una persona troppo buona, e poi tutto lo
conoscevano. Forse allora voleva farmi una sorpresa per il mio
compleanno… mentre mi legavo la bandana intorno alla testa
sperai di no con tutte le mie forze. Per essere sicuro che non stessi
sbirciando, mi fece fare qualche giro su me stessa, poi mi condusse
dentro. Appena varcammo la porta, un odore di cloro ci
investì, ma non si sentiva nessun rumore in giro. Non un
anima viva.
Elijah
allora mi tolse la benda dagli occhi e mi fece vedere il contenuto
della stanza. Era un’immensa piscina riempita fino
all’orlo. Prima che gli potessi chiedere spiegazioni, lui si
era già tolto il vestito, rimanendo in costume da bagno. Poi
mi sorrise.
-
Non ti sei messa il costume anche tu? Se vuoi non guardo.
Mi sorpresi
della sua tenerezza, poi mi tolsi il costume di scena e rimasi
anch’io solo con il costume da bagno addosso.
-
Caspita, sei molto magra!
-
El, cos’hai intenzione di fare?
-
Il bagno!
-
A questo c’ero arrivata. Ma io che
c’entro?
-
Beh, a questo punto mi sembra abbastanza facile da
indovinare. Ti insegno a nuotare.
Rimasi a
bocca spalancata per qualche secondo, poi dissi:
-
Mi dispiace, ma io ho paura dell’acqua. Ho paura a
mettere la testa sott’acqua.
-
Nella vita ci vuole coraggio.
-
No, El, non me la sento. Davvero.
-
Forza! Ci sono io. Dai!
Mi si
avvicinò e mi sollevò da terra. Nonostante fossi
di poco più bassa di lui, riuscì a sollevarmi
senza sforzo. Perché tutti si divertivano a prendermi in
braccio?
-
Tieniti stretta a me, e vediamo se non la superi, questa tua
fobia.
Cercai in
tutti i modi di persuaderlo, ma lui continuava ad avanzare verso
l’acqua, inesorabile. A mano a mano che si avvicinava
all’acqua, sentivo maggiormente il bisogno di saltare
giù e scappare, ma la presa di Elijah era ben salda.
-
Dopotutto – disse, - l’acqua che
cos’è? Solo l’unione di due atomi di
idrogeno con atomo di ossigeno. Perché nei hai
così tanta paura?
Ormai era
arrivato con l’acqua fino alle ginocchia.
-
Io… ho paura degli squali!
-
Tsè! Inventane un’altra.
-
Da piccola ho visto la mia amica immaginaria annegare. Sul
serio!
Non sto
scherzando! – Mi strinsi a lui molto più forte di
quanto non stessi già facendo, appena sentii che
l’acqua cominciava a bagnarmi.
-
Elijah Wood! Portami fuori di qui! – sbraitai.
-
Sei pronta? Adesso ti lascio andare.
L’acqua
ci arrivava al collo.
-
No! Sei pazzo? Non ci provare!
-
Tieniti stretta, mi raccomando.
-
NO! EL!
D’un
tratto mi mollò le gambe, e le sentii andare a fondo. Mi
avvinghiai al suo collo come un’ancora di salvezza. Per
rassicurarmi, mi prese per un fianco. Ero sul punto di piangere.
-
Elijah…
-
Shhhhhh… rilassati. Non ci sono squali o amiche immaginarie
che
annegano
qui. Ci siamo solo noi due e l’acqua.
-
Appunto!
-
Why do you weep? What are these tears upon your face? Soon
you’ll see. All of your fears will pass away… *
Non sapevo
che cosa mi stesse cantando, sapevo solo che quella dolce melodia aveva
un effetto calmante su di me.
-
Prova a sdraiarti, chiudendo gli occhi. Avverrà
una magia – mi
consigliò
Elijah, prendendomi per mano e non lasciandomi un minuto. Feci come mi
aveva consigliato. Ci misi un po’ a chiudere gli occhi, ma
poi dopo un po’… mi accorsi che stavo
galleggiando.
-
Mi stai tenendo su tu?
-
No. Io sono qui.
Aprii gli
occhi e lo guardai, ma non era più nel mio campo visivo,
girai piano la testa e lo vidi seduto sul bordo della vasca. Persi
l’equilibrio e mi dimenai dentro l’acqua. Elijah,
non appena mi vide in difficoltà, si tuffò subito
e nuotò veloce verso di me. Appena mi raggiunse mi tenne su
lui.
-
Non lo fare mai più! – Annaspai.
-
Perché? Stavi facendo tutto da sola. Nulla
più. Rimettiti come prima,
ma non ti
spaventare.
Questa volte
ci riuscii più facilmente e provai a tenere gli occhi aperti.
-
Ora – disse un po’ più lontano
da me – prova a muovere le gambe su e giù verso di
me.
Iniziai
prima con una gamba, poi con un’altra, stando attenta a non
farmi entrare l’acqua nel naso. Ma era difficile per me
coordinare i movimenti. Dopo circa tre minuti, riuscii a raggiungerlo.
-
Bravissima! – esultò. – Domani
ci esercitiamo di nuovo.
-
Perché domani?
-
Ci hai preso gusto, eh? – ammiccò.
– Ma ora ti devo accompagnare all’aeroporto.
-
Perché?
-
Non te lo dico.
-
Uffa, odio i segreti.
Pranzai con
un panino veloce alla mensa, dopo essermi fatta la doccia nella
roulotte. Per quanto lo cercassi in giro, non riuscivo a trovare
Orlando.
Poi, quando
lo vidi, Elijah mi aveva appena detto che la macchina era pronta per
partire, e Orlando era seduto ad un tavolo in un angolo della sala. Mi
avvicinai a lui e provai a dire qualcosa, ma stava parlando con Viggo.
-
Orlando…
-
Dalton. Non lo sai che non si interrompe qualcuno mentre sta
parlando?
– Mi rispose bruscamente. Fu come se qualcosa dentro di
me si fosse
spezzato, forse il cuore.
-
Les, dai, andiamo siamo in ritardo.
Mi prese
sottobraccio e mi condusse di forza verso la macchina nella piazzola
principale. Prima di salire mi abbracciò.
-
Mmmm, sai di fragola!
-
E’ il mio shampoo. Ehm…
perché l’abbraccio?
-
Perché sei mia amica e avevo voglia di farlo.
-
Beh… grazie.
-
Di niente.
Il viaggio
verso l’aeroporto si svolse senza aneddoti o chiacchierate di
sorta, niente di cui vale la pena raccontare. Una volta arrivati
all’aeroporto erano circa le sette e mezza di sera, ed Elijah
mi scortò verso la porta da cui uscivano i passeggeri del
volo per New York.
-
Guardati intorno e dimmi se vedi una faccia conosciuta.
Nella mia
mente ripassai i volti di tutti coloro che conoscevo che provenivano da
New York. Ma di quei volti in giro non ne vidi nessuno.
-
Non c’è nessuno.
-
No? Allora chi è quella ragazza un po’
cicciottella che si sta
sbracciando
da un’ora verso di noi?
Guardai
nella direzione che mi stava indicando, e allora anch’io la
vidi.
-
Jess! – esclamai entusiasta, lanciandomi verso di
lei, che mi guardava
sgranocchiando
patatine prendendole dal sacchetto che aveva in mano. Ci abbracciammo
saltellando – beh, in realtà, saltellavo solo io
– strillando commenti gioiosi. Elijah se ne stava un
po’ in disparte, sorridendo con franchezza e ridendo con gli
occhi. Allora condussi Jess verso di lui e gliela presentai.
-
Jess, lui è Elijah… il nostro Frodo.
Jess lo
salutò sventolando una mano. Poi fece cenno di avviarci
verso la macchina di El. Mentre uscivamo dalla porta
dell’aeroporto, El mi disse sottovoce:
-
Non è che vi assomigliate tanto, eh?
-
No, hai ragione. Siamo il polo nord e il polo sud.
Ed era vero.
Se io ero “un insetto stecco”, come mi aveva
definito Dom il giorno prima, lei era più bassa di me e
decisamente più cicciottella di me – anche se io
non ero proprio magrissima, piuttosto direi normale -. Se io avevo i
capelli lunghi e la pelle bianca, lei era un’americana
abbronzata e con i capelli corti. Io ero una chiacchierona che diceva
come minimo novemila parole al giorno, lei di parole al giorno ne
diceva solo quindici. Insomma, l’una l’opposto
dell’altra.
Una volta
saliti in macchina, Elijah accese il motore e si diresse verso
l’uscita del parcheggio dell’aeroporto.
-
Come mai sei qui? Qual buon vento ti porta in Nuova Zelanda?
-
Sono un regalo da parte dei tuoi.
-
Un regalo? – saltò su Elijah –
perché?
Feci segno a
Jess di tacere, e lei mi capì al volo.
-
Ehiiii, perché un regalo? –
insistì El.
-
Mia madre è quel tipo di persona che fa regali a
tutti quanti per futili
motivi
– risposi. – Visto che non ha potuto congratularsi
con me per la laurea, ha preferito spedire Jessica qui come un pacco.
-
E perché solo ora? Insomma, sono passate tre
settimane!
-
Immagino che tutto questo tempo le sia servito per
organizzarsi con la madre di Jess. A proposito, Jessie…
quanto ti fermi da noi?
-
Credo che resterò qui per circa quattro giorni.
Con quella
frase, Jess aveva finito le sue quindici parole giornaliere, ed infatti
non parlò più per tutto il resto della serata.
Il mio
stomaco brontolò, subito seguito da quello di Elijah. Quello
di Jess era pieno zeppo di patatine, forse, perché lei prese
il suo zaino da sotto il sedile, lo aprì e saltarono fuori
quattro o cinque sacchetti di snack e smarties. Ce li offrì,
e noi accettammo di buon grado.
Se vi state
chiedendo perché Jessica Hale era cicciottella, immagino che
ora avrete capito perché.
Quando
arrivammo erano già le nove. Feci fare a Jess un giro veloce
degli Studio, ma entrambe eravamo stanche e convenimmo che sarebbe
stato meglio rimandare al giorno dopo.
Visto che
Liv in quel periodo era in Inghilterra, la sua roulotte era libera,
così feci sistemare la mia amica lì. La lasciai
sola a disfare la valigia – il cui contenuto andava per la
maggior parte sistemato in cucina -, e mi diressi verso il mio caravan
per cambiarmi la maglietta e mettermi qualcosa di più
pesante. L’aria aveva cominciato a farsi decisamente
più fredda. Appena entrai vidi Orlando seduto sul divanetto
a leggere una rivista. Decisi che quello era il momento giusto per
parlargli a proposito della serata del giorno prima: mi fissai per un
attimo i piedi e mi misi le mani nelle tasche dei pantaloni, poi mi
sedetti di fianco a lui, che non rispose nemmeno alzando lo sguardo.
Cercai le parole che avrebbero potuto fare effetto, ma era difficile in
quella situazione.
-
Ehm… senti… Orlie… volevo
parlarti a proposito di…
-
Non lo sai che sono inglese? – Rimasi spiazzata per
un attimo. Non
tanto per il
suo tono aggressivo e furioso, ma per la domanda del tutto inaspettata.
-
Sì, e allora?
-
Odio i soprannomi.
Detto questo
chiuse la rivista, la sbattè sulla pelle del divanetto e
uscì dalla porta. Mi buttai addosso la prima felpa che
trovai nel mio cassetto – quella blu, per fortuna, la
più calda – e corsi fuori per inseguirlo.
-
Orl…ando! – lo chiamai, ma era già
sparito. Però sentii il suono di una porta che sbatteva.
Allora corsi nel buio, provando ad aprire tutte le porte che
incontravo, anche quelle delle roulotte altrui: sala montaggio, la
palestra, il caravan degli Hobbit, quello di Jess – che
trovai vuoto, ma avevo già abbastanza cose di cui
preoccuparmi -… finché non arrivai alla
mensa. Ritrovandomi nel buio, cercai a tentoni
l’interruttore, e quando accesi la luce…
-
SORPRESAAAAAAA!!! – l’urlo scatenato da tutti
quanti fu talmente forte ed improvviso che feci un salto
all’indietro. I tavoli della mensa erano tutti stati spostati
verso le pareti della mensa e messi a formare due file di lunghe
tavolate: una piena di cibo, l’altra piena di regali. Dal
tetto pendeva uno striscione con su scritto Happy Birthday Lesley!.
Davanti a me c’erano tutti: in prima fila Jessica, i quattro
Hobbit – con quattro cappellini identici calcati in
testa -, Viggo, Ian McKellen, Bean e Peter. Poi,
più dietro, i macchinisti, Frann, Philippa, Emma. Andai
verso di loro ad abbracciarli uno per uno, ma per quanto mi guardassi
in giro non riuscii a scorgere Orlando, e i miei occhi si riempirono di
lacrime dalla delusione. Gocce di pianto che gli altri scambiarono per
felicità. Fischi, urla e applausi si alzarono dalla folla, e
allora sorrisi, e una lacrima mi rigò la guancia. La
“folla” attaccò “Tanti auguri
a te”, mentre il cuoco scortava una torta alta due piani
– neanche fosse stato un matrimonio – tutta di
cioccolato, per la gioia di Jess. Mi costrinsero a soffiare sulle
diciotto candeline in cima – e dovetti farlo solo dopo essere
salita su una sedia -. Che festa, ragazzi! Ma prima che potessi dire
qualcosa, qualsiasi cosa, mi costrinsero a scartare i regali. Per
fortuna si erano messi d’accordo e così non ce
n’erano più di una decina, ma comunque veramente
troppi per me. Elijah, Sean, Billy e Dominic ne avevano fatto uno per
tutti, ovviamente. Poi c’era quello di Jessie, quello di Liv
– che poi scoprii essere arrivato per posta -, quello di
Peter e di tutta la crew, eccetera eccetera.
- Come
diamine avete fatto a sapere che oggi era il mio compleanno?
– esclamai.
- Ma Lesley,
è ovvio! – rispose Ian McKellen. –
Quando Ian Holm ti ha proposto a Peter per la parte di Hery, gli ha
fornito il tuo Curriculum Vitae. E secondo te non c’era il
giorno della tua nascita?
Mi sentii
un’imbecille. Come avevo fatto a non arrivarci?
- Beh, dai
coraggio, scartali! – mi urlò qualcuno non
identificato. Forse Bob.
Gli Hobbit
mi avevano regalato una copia del Signore degli Anelli, Jessie un paio
di pantaloni da equitazione e una tuta da ginnastica, Peter…
una cartina della Terra di Mezzo. Il regalo di Liv era una felpa
dell’università di Oxford. Ma non c’era
un regalo da parte di Orlando Bloom. Allora, solo dopo essermi
ricordata di lui, mi girai e lo cercai fra le persone che ormai erano
sparse per la sala mensa con i bicchierini e piattini con la torta in
mano, ma non lo vidi comunque. Abbassai la testa, dicendomi che ormai
la nostra amicizia era finita a causa della mia lingua lunga e del
troppo bere, o forse a causa dei miei sentimenti nei suoi confronti.
Avrei dovuto imparare a non metterci il cuore sopra, su queste cose. Le
guance cominciarono a rigarmi il viso contro la mia volontà.
Mi sentii afferrare per la spalla e qualcuno mi voltò verso
destra.
- Cercavi
forse me?
Era Orlando
e sorrideva. Era spuntato dal nulla, e la dura maschera inespressiva
che gli era appartenuta per tutto il giorno si era volatilizzata,
lasciando spazio ad un sorriso ben più sincero e splendente
di quelli che si vedevano sui volti dei miei amici. Mi passò
il pollice sulla guancia dicendomi:
-
Asciuga queste lacrime. – si vedeva che stava per
mettersi a ridere.
-
Io… Tu… pensavo che fossi arrabbiato!
-
Su, Lesley, hai dimenticato che sono un bravo attore?
-
Sì, ma le cose che ti ho detto ieri
sera…
-
Tutti nelle sbronze dicono qualcosa di cui si potrebbero
pentire.
Anch’io
ho detto parecchie cose su di te, nella sbornia che mi sono preso la
sera prima del tuo primo giorno. Ho rivelato cose compromettenti.
-
Davvero? – Tirai su col naso. –
Cioè? Cos’hai detto? – lui
rise.
-
Che ti amo, ragazzina sciocca, sensibile e astemia che non
sei altro!
Si
abbassò verso di me e unì le sue labbra con le
mie in un lunghissimo e dolcissimo bacio. Il cuore mi balzo in gola
mentre chiudevo gli occhi per sentire meglio le sensazioni che stavo
provando in quel momento. A poco a poco la gente intorno a noi smise di
parlare e iniziò a fissarci, finchè anche Billy e
Dom non se ne accorsero e proruppero in un bell’inopportuno
“Finalmente!”, scatenando
l’ilarità di tutti e facendo partire un applauso.
Avrei voluto
dire a Orlando che anch’io l’amavo con tutto il
cuore, ma sapevo che quel bacio era più esplicito di mille
parole.
|
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Capitolo 9 *** Cap 9. ***
La
mia vita sul set – cap. 9
- 1984.
- 1983.
- '82,
è la mia ultima offerta.
- Prontoooo?
Hallo è dell'83.
- Lionel
Ritchie l'ha composta o nell'82 o nell'84. è escluso che sia
dell'83.
- Di che si
parla?
- Bean
sostiene che Hallo di Lionel Ritchie è una canzone dell'82 o
dell'84. Io dico che è dell'83.
- 1982!!
- L'anno in
cui sono nata, Bean. '83!!!
- Ha ragione
lei, è dell'83.
- Ah! Visto??
Bean-Boromir
sbuffò e girò i tacchi, lasciando Viggo-Aragorn e
me da soli.
- Se non sai
queste cose, non giocare a Trivial Pursuit!! - gli urlai dietro.
- Woooo,
calma principessa. Una foto per spegnere i bollori?
- I bollori
ce li avrà tua nonna! No, Viggo. VIGGO!
Chiusi gli
occhi allo scatto del flash della macchina fotografica di Viggo. Rise
in modo inquietante:
- E questa -
tirò fuori la foto dalla camera - Va dritta dritta sullo
specchio delle meraviglie, insieme alle foto di gruppo.
- Se la
mettiamo in questo modo - alzai le spalle - presto sarà
ricoperta da altre foto... Viggo? - mi voltai a guardarlo, ma era
sparito. Lo vidi poco lontano che rideva con uno sguardo da pazzo, e
Bean che si massaggiava la testa.
- Che
diavolo ha fatto?
- Gli ha
tirato un pugno in testa, suppongo - affermò Astin-Sam.
La nostra
attenzione fu attirata dalla voce stridula di Liv-Arwen che strillava
qualcosa rivolta a Orlando-Legolas, mentre lui ridacchiava continuando
a stuzzicarla.
- Oggi voi
principesse siete un tantinello isteriche, o è solo una mia
impressione?
- Chiudi la
bocca, Merry, e dimmi dov'è Frodo.
- Ah, ho
capito... sei nervosa per l'arrivo di Colt, fra poco! -
Dom-Merry rise. – A proposito… mi spieghi come
faccio a chiudere la bocca e a dirti dov’è El?
- EHI LES!!
- mi chiamò Emma dall'alto della sala trucco, mentre
Elijah-Frodo scendeva le scale. - SALI E VIENI QUI A FARTI DARE UNA
RITOCCATINA!
Non feci in
tempo a rispondere perché Elijah mise un piede-protesi (una
pieprotesi, ah ah ah) in fallo e ruzzolò giù come
una pallina di neve in montagna.
- Porca...
si è fatto male! - strillacchiò Emma, ma Elijah
si tirò su, si tolse l'erba dalle spalle sbuffando e si
allontanò fischiettando e con le mani nelle tasche.
- Tesoro,
hai appena visto Charlie Chaplin dal vivo - disse Billy - pipino
mettendomi un braccio intorno alle spalle.
- Se me lo
avessi raccontato tu, non ci avrei creduto.
- Mm, grazie
per la fiducia. Ehi, non è la tua amica quella
laggiù?
Mi voltai
nella direzione che Billy-Pipino mi stava indicando e vidi Jessica che
mi guardava: andai nella sua direzione.
-
Ciao! Dormito bene?
Lei
annuì senza smettere di mangiare il toast al prosciutto che
aveva in mano.
-
Lesley Dalton!! SE NON SBAGLIO TI AVEVO DETTO DI VENIRE QUI!
La vocina di
Emma sovrastò la confusione del set perforandomi i timpani.
-
Sì, Emma, arrivo! – le urlai. Corsi verso la sala
trucco e salii le scale due a due, fiondandomi, appena entrata, su un
sedile. Emma iniziò quasi subito a scrutarmi alla luce di
una lampada, ma non mi fece alcuna “ritoccatina”.
- Emma,
perché mi hai fatto venire qui se poi non mi rifai il trucco?
- Oh,
scusami… è che devo confidarmi con qualcuno.
- Ah
sì? – mi sporsi verso di lei, curiosa. –
E su cosa?
- Beh
– sprofondò sul sedile di fronte a me –
stamattina presto è arrivata una nuova
costumista… quella che c’era prima, Elizabeth,
è andata in maternità. –
sospirò.
- E allora?
– incalzai. Lei tirò su il mento e
gonfiò il petto.
-
È mia cugina di diciassettesimo grado.
- E sei
nervosa per questo? Io potrei essere tua cugina di novantanovesimo
grado!!
-
Sì, ma comunque… stai attenta…
è un po’ strana.
Mi alzai e
le feci un occhiolino.
- Non
preoccuparti – le sorrisi.
- Les!
– Sean entrò proprio mentre stavo per aprire la
porta. Capii solo guardandolo.
- Colt!
Arrivai di
corsa sul prato accanto a Sean mentre Colt discuteva guardandosi
intorno e il cast lo fissava silenzioso. Non volli ascoltare quello che
stava dicendo. Poi si girò verso di me. Rimase fermo per un
attimo a fissarmi, poi un sorriso sadico gli illuminò il
viso. Si avvicinò e mi afferrò per un braccio,
portandomi avanti.
-
Se credete che lei sia il nuovo talento, vi sbagliate!
Rivolsi
un’occhiata di soccorso a Orlando: vedevo che stava
ribollendo di rabbia. Dai Les, cavatela da sola.
- E lei che
ne sa? – gli dissi. – Per caso mi ha mai visto
recitare?
- No.
– rispose semplicemente. Strattonai il braccio dalla sua
stretta.
- Allora
stia zitto!
Colt si
voltò verso Peter. – Se scegli i tuoi attori in
base all’educazione, siamo a cavallo.
Una figura
rotondetta e con un sacchetto di pop corn in mano si fece strada fra la
gente dietro a Colt e gli andò vicino, fermandosi alle sue
spalle. No, era impossibile, non ci credevo…
- Senti,
bello – appena sentii la voce di Jessica farsi strada in
mezzo allo spazio che c’era fra noi e Colt, da una parte mi
raggelai, dall’altra avevo voglia di ridere.
Colt si
girò verso di lei, molto lentamente. – Se credi
– continuò Jess - che questo sia un posto dove
venire quando ti pare a menare giudizi a casaccio, hai proprio
sbagliato posizione. Anzi, sai cosa? Non credo che esistano posti del
genere. Informati meglio se vuoi giudicare! Queste sono persone che
s’impegnano e che ce la mettono tutta per realizzare il
proprio sogno, e non è che se vieni quando ti gira o ad ogni
morte di papa che capisci qualcosa in più su di loro!
Colt era
viola di bile.
-
Perciò – concluse Jessica. –
Salta sulla tua macchina e fila via, imbecille!
Fu quasi un
sogno vedere Colt non replicare, girare i tacchi e ritirarsi nella sua
macchina con autista, senza rispondere. Blaterava qualcosa fra
sé, mentre l’autista gli apriva la portiera e
accendeva il motore.
Poi, quando
le gomme sgommarono sull’erba… partì un
applauso, seguito da grida festanti. Corremmo tutti in direzione di
Jessie e i maschi la sollevarono in aria – poverini,
chissà che fatica! - .
-
Mai visto niente del genere!
-
Che franchezza, ragazzi!
Mi avvicinai
a Jessica e le sussurrai: - ti sei appena conquistata l’amore
assoluto di tutti noi. Ed è la prima volta che ti sento dire
più di quindici parole!
Ne ottenni
una linguaccia.
-
Ok ragazzi, questa scena la rifacciamo ancora una volta e poi
ci spostiamo. Avete preparato tutti le valige?
-
Uh, io sì! – esclamai fuori luogo.
Infatti,
avevamo concluso le scene da girare negli Studio del campo di grano, e
ci saremmo spostati a Hamilton, per girare le scene di Hobbiton, nella
contea. Io in quelle scene – secondo il libro – non
comparivo, ma avrei seguito comunque la Compagnia, per allenarmi con il
tiro con l’arco, magari.
Ormai
dovevamo modificare solo qualche ripresa, ma la mia faccia doveva avere
una strana espressione.
-
Lesley, per l’amor del cielo, il tuo personaggio
non è euforico! – Tutti intorno
a me risero.
Arrossii e
mi scusai a raffica. Dovevo assolutamente reimpostare il mio umore. Dai
Les, arrabbiati. Ah, ecco!
-
Così va bene? – domandai a Peter
fulminando il nulla con lo sguardo.
-
Ok, ma vediamo se riesci a mantenerla.
Non so come,
ci riuscii.
-
Ehi Orlando! Vieni qui, devo parlarti! – lo
chiamò Peter mentre ognuno di noi lasciava la propria sedia.
Mi voltai un attimo a guardarlo, lo vidi che confabulava insieme al
regista, serio. Sorrisi tra me e feci per voltarmi per andare a
cambiarmi. Ma qualcuno mi rovesciò una tazza di
caffè addosso. Caffè bollente.
-
Ahiahiahiahiahiahiahi!!!!! – ululai dal dolore
saltellando in cerchio. – Che male! Brucia brucia brucia!!
Una
nuvoletta di capelli rossi m’inseguiva cercando di aiutarmi.
Corsi verso la sala costumi – quella più a portata
di mano – e presi dal minifrigo in un angolo del ghiaccio e
me lo appoggiai sulla pancia, sul punto dove era caduto il
caffè.
-
Ehilà, che ti è successo? –
mi chiese Ngila, la costumista
-
Qualcuno con i capelli rossi mi ha versato addosso del
caffè bollente. – risposi saltellando da un piede
all’altro.
-
Qualcuno con i capelli rossi? – ripeté
Ngila, pensierosa. – Ilana!
-
Ho chiesto scusa! – si giustificò la
maldestra tizia con i capelli rossi:
evidentemente
mi aveva seguita. Rispose allo sguardo duro di Ngila con occhi
innocenti. La guardai: non era esattamente alta, non era esattamente
magra. Altezza media, nella struttura fisica non aveva niente di
particolare. Ma aveva un viso dolce: un po’ a punta, gli
occhi erano grandi e color verde prato. Quelli che avevo immediatamente
classificato come capelli rossi, in realtà erano ramati,
ricchi di splendidi riflessi. Se fossero stati lisci le sarebbero
arrivati fin sotto le spalle, ma erano così ricci che le
arrivavano sopra le spalle: ma non era quel riccio disordinato, quello
che diventa a forma di fungo sotto la pioggia, ma era un riccio
ordinato, disciplinato…
Presi il
sacchetto del ghiaccio con la mano sinistra e le porsi la destra:
-
Mi chiamo Lesley Dalton, Les per gli amici.
Scrutò
la mano che le porgevo con infinita sorpresa, poi allungò la
sua verso la mia e la strinse con un certo timore.
-
Io sono Ilana Kim, Linnie per gli amici.
-
Bene, Linnie, felice di conoscere te… e il tuo
caffè.
Arrossì
fino alla punta dei capelli – già rossi per conto
loro – e scappò a nascondersi dietro ad un
manichino. Accidenti, Emma mi aveva detto che era eccentrica, ma non
strana in questo modo. Ngila sorrise e guardò nella sua
direzione.
-
Di solito parla come un mitra, ma per lei tu sei un mito.
È da quando ti sei unita al cast che Emma non fa altro che
parlarle di te… e quindi per lei sei diventata una leggenda
vivente.
Scoppiai a
ridere: - Addirittura! – mi sporsi dal suo manichino e la
vidi che si teneva le mani sulla faccia.
-
Ehi, Linnie, perché proprio me e non…
che ne so… Liv, Sean, Viggo o Elijah?
Lei
sollevò il viso e mi guardò: - A me piace Elijah
Wood! Cioè… non in quel senso… -
scoccò un’occhiata a Ngila che uscendo dalla sala
costumi si chiudeva la porta alle spalle. Raddrizzò la
schiena e continuò: - Ok, va bene, anche in quel senso, ma
non dirlo a nessuno, ok?
-
Beh, allora sai cosa? – dissi nascondendo un
sogghigno. – Stiamo per andare all’aeroporto,
perché non vieni anche tu?
La mia
valigia si aprì nel bel mezzo del prato, rovesciando tutto
il contenuto sull’erba bagnata. Faceva un freddo cane e,
improvvisamente, aveva cominciato a nevicare. Avevo lasciato la mia
giacca a vento sul fondo della valigia, quindi avevo dovuto svuotarla
in gran fretta e ricacciare tutto dentro, senza chiudere bene il
bagaglio.
Imprecai e
cominciai a raccogliere i vestiti, mentre Dom mi chiamava dalla porta
del pullman.
-
Arrivo!
Dom prese
una birra dagli scalini del pullman e si sedette su una panchina di
legno. Viggo trovò la sua posa così poetica che
decise di scattargli una foto.
Finalmente
riuscii a rimettere tutto dentro e mi avvicinai al pullman. Presi la
birra che Dominic si stava portando alle labbra e ne trassi un lungo
sorso.
-
Ehi Les, devo ricordarti che sei la persona che si ubriaca
più facilmente sulla faccia del pianeta?
-
Oh, andiamo, è solo birra.
-
Sì, ma è mia. – Me la
strappò di mano e ricominciò a bere. Billy si
accese
una
sigaretta. Posai il mio bagaglio nello scompartimento del pullman,
salutai Orlando che ascoltava musica seduto all’interno,
raccolsi una pallina di neve e la lanciai in faccia a Dom, che
volò all’indietro giù dalla panchina.
-
Ehi!
Rispose al
fuoco con due palline di neve, ma una colpì la sigaretta di
Billy facendola finire a terra.
-
Macche… - fece lui. Raccolsi un’altra pallina e la
lanciai contro il vetro di Orlando, che si spaventò e fece
un salto sul sedile, e poi schiacciò il naso contro il
vetro. Gli feci una linguaccia nel momento esatto in cui una palla di
neve mi colpiva sulla nuca.
- Colpire
alle spalle non è un atteggiamento da cavaliere! –
Gli dissi.
Billy e Dom
si fermarono all’unisono, fissando qualcosa dietro di me.
-
Che c’è?
Mi voltai e
vidi Elijah seduto a gambe accavallate, che se la dormiva della grossa
con la testa ripiegata sul petto. Mi chinai a guardare se respirava, e
altre due palle di neve mi arrivarono in testa da dietro. Allora ne
raccolsi una a due mani e feci per lanciarla contro quei due
filibustieri, ma tre grosse palle provenienti dalla nostra destra ci
colpirono in piena faccia, facendoci cadere quello che avevamo in mano.
Mi voltai e vidi Linnie e i due Sean, che ci guardavano maligni.
-
Ci piace giocare a baseball – spiegò
Bean.
-
Fran dice che dobbiamo andare. – disse invece
Linnie.
Sospirai e
chiesi: - Devo controllare se ho lasciato qualcosa in giro?
-
No, ci penseranno gli altri a controllare e a spedire
ciò che rimane a Peter.
-
Ve bene, allora.
Salii le
scale del pullman, poi le riscesi e mi sporsi dall’entrata.
– Sali, Linnie?
Lei
obbedì, seguita da Dominic, Billy, Sean e Bean, e Viggo.
Appena Orlando vide Bean, gli disse: - Bel colpo, bastardo del nord.
-
Grazie, babbeo del sud. – gli rispose lui di
rimando.
Afferrai per
mano Linnie e la condussi da Elijah, che nel frattempo si era svegliato
e si era seduto su un sedile stropicciandosi gli occhi.
-
Ehi, El – sollevò lo sguardo al mio
richiamo e incontrò quello di Linnie. – Ti
presento Ilana Kim, Linnie.
Elijah le
strinse la mano con gioia e la invitò a sedersi vicino a
lui. La goffaggine che dominava Ilana in quel momento mi
ricordò tanto la mia reazione la prima volta che vidi
Orlando. Sorrisi fra me.
Mi diressi
verso il sedile di Orlie e mi lasciai cadere al suo fianco. Mentre
l’autista saliva sul pullman, chiudeva le porte e accendeva
il motore, Billy e Dom si alzarono in piedi e non appena le ruote
cominciarono a muoversi, urlarono:
-
Andiamo a Hobbiton!!
Ok,
questo è un capitolo pressoché inutile, ma
prometto che mi rifarò nei prossimi capitoli! Tra la fine
della scuola, molte verifiche e qualche disguido tecnico familiare
ritorno finalmente a pubblicare. Vi capirò se mi riempirete
di critiche e bandierine rosse… solo, cercate di essere
clementi!!
Un
bacio
Panenutella.
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Capitolo 10 *** Cap 10. ***
La
mia vita sul set – Cap. 10
Il suono del
messaggio acustico si fece strada nell’aria
nell’aeroporto di Wellington: “Ultima chiamata
d’imbarco per il volo per New York al gate 7”.
Avevo lasciato la Compagnia al gate dell’aeroporto per
accompagnare Jessica al suo volo per tornare a casa.
Guardai
ancora per un attimo il soffitto e poi abbracciai forte Jess, che
rispose timidamente.
-
Mi dispiace salutarti così presto.
Lei
ricominciò a rosicchiare il suo toast. – Devo
andare – disse tra una masticata e l’altra.
-
Lo so… - mi strinsi nelle spalle - la prossima
volta che sei libera, allora…
-
Mi hanno contattato per fare una specie di telefilm o cose
del genere, ma io comparirei solo in poche puntate,
perciò… diciamo che sarò
“libera” a partire dalla prima
metà di settembre.
-
Davvero? – esclamai entusiasta – E dove
girerete?
-
A New York. Lo sai come sono, sono troppo pigra per spostarmi
troppo.
-
“Ultima
chiamata d’imbarco per il volo per New York con scalo a Los
Angeles al gate 7”.
Ricacciai
indietro le lacrime. – Mandami una mail ogni tanto.
Jessie
annuì. La strinsi in un ultimo abbraccio e la
guardai superare il metal detector e dirigersi in fretta verso
l’imbarco. – Avvisami quando atterri! –
le urlai prima che scomparisse dietro l’angolo: mi fece un
breve cenno con la mano e se ne andò.
Mi sarebbe
mancata.
-
“Ultima
chiamata d’imbarco per il volo…
-
… Per New York con scalo a Los Angeles al gate 7
– completai svogliata.
-
“… per
Hamilton con scalo a New Plymouth al gate 20”.
Un tonfo
sordo del mio cuore.
-
CHE COSA??
Colta di
sorpresa, cominciai a cercare frenetica qualcosa che mi indicasse il
gate 20, ma non trovai niente. Guardando i cartelli, cominciai a
correre in una direzione a caso, sperando che fosse quella giusta. Dato
che il corridoio era rettilineo e che io mi trovavo più o
meno all’inizio, avevo il 50% di possibilità di
sbagliare. O forse il 25%... o forse… vabbè, in
ogni caso, sapevo che “intelligente”
com’ero, avrei potuto benissimo sbagliare direzione anche se
dietro di me ci fosse stato un muro.
Dopo aver
travolto qualche hostess, una manciata di turisti e un poliziotto che
per poco non mi arrestava, cominciai a contare i segnali dei gate.
“Gate 13… Gate 14… Gate
15…”
-
“Ultima
chiamata d’imbarco…”
“…
Gate 16… Gate 17…”
-
“…per
il volo per Hamilton con scalo a New Plymouth…”
“…
Gate 18… Gate 19…”
-
“…al
gate…”
-
20!! – urlai trionfante e alcuni turisti
in pantaloncini corti nonostante il freddo –
probabilmente
tedeschi – mi squadrarono da capo a piedi. Un bambino
tirò la giacca della madre indicandomi.
Appoggiai le
mani sulle ginocchia per riprendere fiato. Dopo qualche secondo il mio
cellulare squillò: lo schermo mi diceva che era Orlando.
Risposi con il fiatone:
-
Lesley, ma che combini?
-
Siete… puff… siete già
sull’aereo?
-
Quale aereo?
Alzai gli
occhi al cielo. – Orlie, questo scherzo è di
cattivo gusto. Non hai sentito la chiamata d’imbarco?
“Ultima chiamata d’imbarco per il volo per Hamilton
con scalo a New Plymouth al gate 20”. – Imitai
l’annunciatrice con voce nasale. - E ora, per piacere, dimmi
se siete su quell’accidenti di aereo.
Sentii
risatine in sottofondo. Anche Orlando stava trattenendo a stento una
risata. – Beh, Les, se vuoi saperlo, siamo esattamente sotto
il tuo naso.
-
Ah-ah.
-
No, siamo davvero sotto il tuo naso.
Sembrava che
stesse dicendo la verità: mi guardai intorno e dopo un
po’ li vidi, tutti insieme, seduti sulle panchine dietro di
me che mi fissavano e facevano di tutto per non scoppiare a ridermi in
faccia. Arrossii fino alla cima dei capelli.
- Ma quello
non è il nostro aereo? – continuai a parlare al
telefono e Orlando mi rispose, stando al gioco.
-
Lesley, il nostro è un diretto. Ed è al
gate 19.
Chiusi la
comunicazione, sbalordita, e mi avvicinai a loro con lo sguardo fisso a
terra. Sapevo che aspettavano che dicessi qualcosa prima di cominciare
a prendermi in giro, ma non mi veniva in mente niente di sensato da
dire. Dopo aver aperto la bocca un paio di volte come un pesce, mi
sedetti sul sedile di fianco a Orlando e borbottai, incrociando le
braccia :
-
Potevi dirmelo prima.
Il primo a
cedere fu Dominic: si piegò in avanti ed esplose in una
risata fragorosa, seguito a ruota da Orlando e poi da tutti gli altri.
Mi sforzavo di risultare dignitosa e di non ridere, ma ridevano e si
davano gomitate d’intesa con un’allegria che alla
fine cedetti anch’io.
-
Sì, lo so, sono un fenomeno…
-
Tesoro, la parola “fenomeno” è
estremamente riduttiva! – dichiarò Elijah
-
Scusate l’intrusione, signori - una hostess si era
avvicinata ai sedili, tenendo in mano un
fascio di
biglietti. Lo porse a Sean che cominciò a distribuirli.
– C’è stato un piccolo problema, e
abbiamo dovuto risolverlo – disse sicura. Guardò
ciascuno di noi e poi mi fissò. – Immagino che sia
lei la signorina Dalton.
-
Sì, sono io. Posso aiutarla?
-
Purtroppo il suo biglietto è stato spostato dalla
business class alla seconda. Spero che non sia un problema.
Anche se ci
ero rimasta male, non c’era motivo di rattristarsi.
– Certo, nessun problema! Grazie mille.
Guardai la
hostess che si allontanava camminando sicura sui tacchi a spillo,
arricciai le labbra e ascoltai la conversazione che si stava svolgendo
fra Elijah e Sean, guardai Orlando e Viggo che facevano finta di
prendersi a pugni, e osservai Billy che leggeva un giornale e Dom che
messaggiava con qualcuno.
-
Ehi, El. El! Scusate l’interruzione…
Dov’è Linnie?
Elijah
sembrò cadere dalle nuvole: si passò la mano tra
i capelli e si guardò intorno spaesato. – Non
saprei, era con me, ma mi sono addormentato ed era sparita.
-
E non ti sei preoccupato?
-
“Chiamata
d’imbarco per il volo diretto per Hamilton al gate 19”.
Lanciai
un’occhiata tetra al soffitto e borbottai: - Ottimo tempismo
del cavolo. – Tirai fuori il cellulare dalla tasca e la
chiamai. Le chiesi dove fosse e lei mi disse di non preoccuparmi, che
era tutto sotto controllo e che era insieme al resto della troupe, che
avrebbe viaggiato con loro.
Rimisi il
telefono in tasca con un sospiro di sollievo.
All’improvviso
Sean mi prese per mano e mi trascinò verso il gate
d’imbarco, incitandomi a sbrigarmi.
-
Sean, non perderemo l’aereo! – protestai.
- Come mai tutta questa fretta? – lui mi guardò
raggiante.
-
Non lo sai? A Matamata incontrerò mia moglie e mia
figlia! Non vedo l’ora!
-
Davvero? Wow, Sean, non vedo l’ora di incontrarle!
-
Eh! – mi sorrise entusiasta. –
Anch’io!
Era un aereo
grande, quello su cui avremmo viaggiato, e molto pulito. La seconda
classe era composta da due file ai lati di due sedili di tessuto blu
opaco ciascuna. Ogni sedile aveva incastrato nello schienale di quello
davanti un tavolino con disegnato il motivo del legno.
All’entrata del velivolo salutai gli altri membri della
Compagnia e andai a sedermi al mio posto, vicino al finestrino. Spensi
il cellulare e guardai la pista di decollo dal vetro. Dopo un paio di
minuti, un tipo robusto dai capelli lunghi, pieno di tatuaggi, con un
bel paio di orecchini e dall’aria per niente affidabile si
sedette pesantemente sul sedile accanto al mio. Mi squadrò
da capo a piedi e produsse un roco gemito di piacere. Il suo alito
puzzava di sigarette.
- Signore e
signori, benvenuti a bordo. – disse una voce femminile
proveniente dall’altoparlante. – Dovremo aspettare
qualche minuto prima di partire a causa del ritardo di alcuni
passeggeri. – Tra i passeggeri c’era chi
chiacchierava, chi ascoltava musica, chi si era già
addormentato e chi leggeva una rivista. Io mi limitavo a guardare fuori
dal finestrino e a sorvegliare il mio maleducato vicino, che aveva
alzato il bracciolo fra me e lui e mi si era avvicinato, fin troppo per
i miei gusti. Mi squadrò ancora una volta, fermando lo
sguardo voglioso all’altezza del mio petto, poi
liberò un peto sonoro e si accese una sigaretta. Quasi
subito una hostess gli si avvicinò e gli disse che
sull’aereo era vietato fumare, ma lui rispose
così, con la sua voce roca e l’alito pesante:
- Senti
bellezza, facciamo così: tu mi lasci fumare questa bella
siga e io ti mollo cinque dollari. – Come per dimostrare la
veridicità di quel che diceva, tirò fuori una
banconota dalla tasca dei pantaloni e gliela mise in mano. La hostess
glieli restituì.
- Mi
dispiace, signore –gli strappò la sigaretta dalla
mano – ma queste sono le regole. Qui dentro non si fuma.
E prima che
lui potesse replicare, se ne andò. Il
“galantuomo” emise un grugnito di disappunto,
affondò il fondoschiena nel sedile mettendosi bello comodo
e, di sua iniziativa, mise un braccio irsuto intorno alle mie spalle.
Lo guardai feroce, ma lui non ci fece caso. Il cuore
cominciò a battermi forte per la rabbia. Lui tirò
fuori un’altra sigaretta dalla tasca e la riaccese.
- Ma non ha
sentito quello che ha detto la signorina? – lo aggredii.
– Qui dentro è vietato fumare.
Mi
guardò sbalordito come se non avesse notato che avevo anche
un volto, oltre al corpo. Scoprì i denti gialli e mi
alitò in faccia.
-
Ma che bello, questo zuccherino – sorrise maligno e
mi fece l’occhiolino. – Se sei mia complice ne do
una anche a te. – Avvicinò il suo brutto muso al
mio. – O, se proprio vuoi, ti do un bacio su quelle labbra
morbide…
Avrei potuto
benissimo vomitargli in faccia, tanto era il disgusto che provavo nei
suoi confronti.
-
Ma piantala, scimmione – ringhiai. – Mi
fai schifo.
Lui rise
rude. – Mi piacciono le femmine che fuggono! – mi
strinse per i polsi e la paura si mischiò alla rabbia: quel
tizio poteva benissimo spezzarmi un polso con una mano. In quel momento
odiai lui e l’indifferenza dei passeggeri. Il maniaco
depravato si stava avvicinando di più, aumentando la presa
sul mio polso, che sentii scricchiolare paurosamente.
-
Eddai – alitò. – Dammi un
bacio…
Una mano
maschile affondò sicura sulla sua spalla, costringendolo a
voltarsi molto lentamente. Lo scimmione allentò la presa sui
miei polsi e io glieli strappai via, poi guardai il mio salvatore. Lo
guardai sorpresa, proprio come il mio vicino, e sorrisi: era capitato
proprio a puntino. Ma il sorriso svanì in fretta dal mio
viso.
Orlando era
furente: guardava lo scimmione dritto negli occhi con
l’espressione più aggressiva che gli avessi mai
visto. Aveva la mascella contratta e le sopracciglia piegate verso il
basso, gli occhi bollenti di rabbia, ma parlò lentamente,
con voce fredda, che mi mise paura.
-
Ti propongo un patto – disse fissandolo negli
occhi. – Tu lasci in pace la mia ragazza, vai a sederti nel
posto in fondo all’aereo e io non ti rompo il naso.
Scossi la
testa impercettibilmente, in ansia per la sua salute. Se lui fosse
stato lucido e se si fossero presi a pugni, Orlando avrebbe avuto
sicuramente la peggio. Tuttavia, Orlando stava talmente tremando per la
rabbia che se gli avesse mollato un pugno sul naso
gliel’avrebbe sicuramente rotto. Ma, in ogni caso, lo
scimmione glielo avrebbe restituito.
Come temevo,
lo scimmione non si era mosso di un millimetro. Rise sfacciatamente
– ormai tutti gli altri passeggeri ci fissavano ammutoliti
– e poi esclamò:
- Non
crederai mica di farmi paura, moscerino! – mi avvolse con un
braccio peloso e mi attirò a sé, nonostante i
miei sforzi per impedirglielo. – Ecco il mio patto: io mi
tengo questo bel zuccherino e tu te ne vai. Su, su! Ronza via!
Orlando era
sul punto di scattare. – Cento dollari e un
biglietto in prima classe, con tante belle massaggiatrici. –
Tirò fuori il suo biglietto e due banconote da cinquanta e
glieli porse.
Lo scimmione
parve interdetto. Prese in mano il biglietto, guardò la
scritta “prima classe”, squadrò di nuovo
me con occhi desiderosi, ed infine si alzò con grazia
pachidermica. Ma prima di dirigersi verso le scalette che portavano
alla prima classe – ormai i motori dell’aereo si
stavano accendendo -, si voltò di nuovo a guardare Orlando
da distanza ravvicinata e sorridendo sfacciatamente gli chiese:
-
Non mi ci fai fare nemmeno un giro?
La mano
chiusa a pugno di Orlando si mosse così velocemente che feci
fatica a seguire la sua traiettoria mentre si scontrava con il naso
dello scimmione, che tenendoselo con due mani cadde pesantemente col
sedere per terra, mentre tutti i passeggeri intorno a noi si
scambiavano occhiate meravigliate e trattenevano il fiato.
-
Scusi, signorina – disse Orlando rivolto ad
un’hostess – gli dia del ghiaccio e lo porti fuori
di qui, per favore.
-
Signore e Signori, qui è il comandante che vi
parla. L’aereo sta per partire. Vi preghiamo di allacciare le
cinture e spegnere i cellulari. Vi auguriamo buon viaggio.
La hostess
accontentò con piacere Orlando, e appena lo scimmione ebbe
varcato la soglia della prima classe, si sedette di fianco a me
agitando la mano.
-
È dalla quarta elementare che non prendo a pugni
qualcuno.
-
Grazie – gli sorrisi riconoscente. Lui mi sorrise a
sua volta.
-
Dovere. Non doveva permettersi di sfiorarti nemmeno con lo
sguardo.
Mi avvicinai
e lo baciai.
-
Ho visto che ti tenevi il polso. Ti fa male? – lo
prese con delicatezza e lo esaminò. In effetti
c’erano
i segni rossi delle dita robuste dello scimmione. Arricciai il naso.
-
Solo un po’.
-
Se fossimo nel Far West avrei il diritto di ucciderlo.
L’aereo,
che ormai aveva cominciato a correre, si sollevò in alto.
Orlando mi fece un romantico baciamano.
-
Non dovevi dargli cento dollari, però.
-
Li avrei dato a chiunque avessi avuto vicino.
Lo guardai
sorpresa. – Perché? – si strinse nelle
spalle e sorrise.
-
Mi mancavi, e mi dispiaceva lasciarti in turistica mentre io
me ne stavo in business class con gli altri. Così ho deciso
di scendere e appena sono arrivato ho visto quell’elefante
che ti importunava e allora… - emise un suono che
assomigliava molto ad un ringhio.
-
Il resto lo conosco.
Poggiai la
testa sulla sua spalla e lui appoggiò la sua sulla mia.
-
Superman.
Sorrise.
Scendendo
dall’aereo, salimmo sulla navetta che ci scortò
direttamente dentro l’aeroporto. I viaggiatori in business
class avevano una navetta a parte, quindi non potei salutare i miei
compagni e lo scimmione. Arrivati dentro l’aeroporto,
però, io e Orlando vedemmo proprio l’energumeno
camminare velocemente, rincorso da un paio di hostess con in mano degli
asciugamani, sbraitando cose come:
- Non sono
mai stato trattato così in tutta la mia vita!
Pensai che
si riferisse al cazzotto di Orlando, ma poi notai che sgocciolava. Non
capii che cosa fosse, ma sperai che non fosse…
- Se te lo
chiedi, quello non è vomito. – mi disse Orlando.
- E allora
cos’è?
- Secondo me
si sono divertiti a lanciargli noccioline.
Dietro di
lui si avvicinarono i quattro Hobbit.
- Beh, oltre
alle noccioline, gli abbiamo lanciato addosso anche le bibite.
– disse Billy, con sguardo folle.
Raggiungemmo
Matamata in macchina con Viggo – guidava lui. Era una piccola
città, ma c’era un non so che di allegro, a
passeggiare nelle strade. Ma non ci diedero il tempo nemmeno di
scendere dalla macchina, ma ci portarono dritti sul set. Appena misi
piede sulla strada, non potei credere ai miei occhi. Avevo di fronte la
Contea: il paesaggio era idilliaco; Verde e azzurro erano i colori
predominanti, dalla mia posizione si vedeva persino casa Baggins,
l’albero sulla collina, i caminetti fumavano, come se fossero
davvero abitati, e in giro c’erano bambini che correvano sul
prato e caprette che brucavano l’erba. Soprattutto, era pieno
di Hobbit: attori con le stesse protesi dei miei quattro amici, solo
che erano ben più di quattro. Sean mi prese per mano e mi
trascinò verso una donna e una bambina.
-
Les, ti presento Catherine – diede un bacio sulla
guancia della moglie – e Alexandra.
Prese in
braccio la bambina e le fece fare l’aeroplanino girando
intorno. Era una bimba splendida: bionda riccioluta e dalla voce
squillante.
Mi
inginocchiai e la salutai. Alexandra mi si avvicinò e mi
disse, inclinando la testa di lato.
-
Tu sei un Elfo, Lesley?
-
Sì, brava! Come hai fatto a indovinare?
La piccola
mi sorrise. – Hai gli occhi da Elfo, come lo zio Orlando.
Sorrisi con
dolcezza e la presi in braccio. Christine mi rivolse uno sguardo
strano, e mi chiese:
-
Quanti anni hai, Lesley?
-
Ne ho diciotto, appena compiuti.
-
Sei molto giovane, allora.
-
POTREI AVERE L’ATTENZIONE DEGLI ATTORI, PER FAVORE?
– la voce di Peter nel megafono suonò totalmente
fuori luogo in quel paesaggio. - VORREI GLI ATTORI QUI DA ME!
Posai
Alexandra ai piedi della madre e mi diressi dove si trovava Peter,
già affiancato da alcuni membri della Compagnia.
Mentre camminavamo, Sean mi chiese:
-
Allora, cosa ne pensi?
-
Di tua moglie e tua figlia? Adorabili. Davvero, Alex
è dolcissima.
-
Sai, farà la figlia di Sam nel ritorno del Re.
Ci unimmo al
cerchio intorno a Peter.
-
Bene, ragazzi, devo farvi un annuncio. – Ci sorrise
rassicurante. – Dobbiamo aumentare il ritmo. Non dico che non
abbiamo fatto molto, anzi, le riprese sono fantastiche e siete tutti
dei professionisti.
-
Io un po’ di meno – dissi tra me e me.
-
Ma di questo passo non rientreremo pienamente nei tempi
stabiliti per La Compagnia dell’Anello. Sappiate che vi siamo
davvero grati per l’impegno che ci state mettendo. Davvero
grati.
Annuimmo
alle sue parole, sorridendo complici. – Bene! – si
battè le mani sul pancione. - Allora, Hobbit, in postazione!
Il gruppo si
sciolse.
-
Pete! Ehy, Pete! – gli corsi dietro.
-
Oh, Lesley, dimenticavo – mi battè una
pacca sulla spalla. – Non sarebbe male se prendessi qualche
lezione di dizione! – stavamo camminando, e mi fermai. Lui se
ne accorse solo dopo qualche passo, si fermò e
guardò indietro. – Intendo dire che a volte hai un
accento un po’ troppo americano. –
spiegò. – Preferiremmo che gli attori parlino con
accento inglese. A proposito, cosa volevi chiedermi?
-
Posso fare una Hobbit alla festa?
-
Fammi vedere.
Andò
verso un tavolo da picnic installato verso il ciglio della strada
sterrata e sfogliò una pila di fogli –
probabilmente il copione -.
-
Direi di sì, non hai molto da fare in questo
periodo. Come avevi pensato di utilizzare il tempo?
-
Pensavo di allenarmi col tiro con l’arco, ma alla
lunga annoia… e mi piacerebbe essere una Hobbit!
-
Ve bene, Lesley, mi hai convinto! In effetti, il tuo
carattere fa molto Hobbit. Non riesco a capire perché ti ho
selezionata per fare Hery… - sembrò pensieroso
mentre si voltava a posare la pila di fogli sul tavolo. –
Potrei licenziarti come ruolo di Hery, ma ormai dove la trovo
un’altra come te? – rise. – Trovati una
costumista, Dalton. Se vuoi fare l’Hobbit, non devi avere lo
stesso aspetto di Hery.
Mi Sfregai
le mani, ghignando. – Grazie, Peter. So a chi rivolgermi.
Mi
allontanai di gran fretta e mi misi a cercare Linnie e Emma, che
provvidenzialmente trovai insieme nello stesso pezzo di prato, e con
mia gran sorpresa stavano parlando.
-
Oh, ciao, Les, la sai l’ultima? – mi
salutò allegra Emma. – Ho sbagliato, non siamo
cugine di diciassettesimo grado, ma solo di terzo.
-
Sì – fece Linnie, e indicò
Emma con la testa. – Ha fatto confusione con la pro-prozia
Trudy e la bisnonna Tessie.
-
Adesso abbiamo capito molte cose di noi e (indovina?) ci
piacciamo! – Emma saltò al collo di Linnie,
proprio come farebbero due sedicenni.
-
E meno male – commentai rivolta a Emma –
che era lei quella strana. Comunque – cambiai discorso.
– Mi servite entrambe, e piuttosto urgentemente.
Si
guardarono in modo strano, come se avessero capito al volo
ciò che intendevo, e mi presero per le braccia, conducendomi
verso un camper in fondo alla strada. Mentre camminavamo scorsi Viggo
sdraiato in mezzo al prato, e lo chiamai.
- Viggo!
Nessuno mi cerchi! Passaparola!
Lui
annuì e ritornò a fare quello che aveva
interrotto, cioè niente.
-
Questa è una tinta per capelli che dura, ma se ne
va dopo la doccia. – Emma mi fece vedere un bottiglione di
prodotti per capelli. Sull’etichetta campeggiava la scritta
del colore della tinta contenuta all’interno.
-
Sei sicura che io stia bene… - deglutii, incerta.
- … color caramello?
-
Ma sì! – mi prese per le guance.
– E in più, con i capelli ricci, starai benissimo!
– Posò il bottiglione sul tavolo e si
girò per prendere dal bancone un cartello pieno di occhi di
diverso colore.
-
Allora, che colore vorresti? – me ne
indicò alcuni. – Blu? Viola? Mi piacerebbe farti
tenere i tuoi, di color verde prato, ma può darsi che
durante la festa ti facciano il primo piano. Dicevamo: Blu? Viola?
Neri? Nocciola? Rossi? No, rossi no, che schifo. Ehm… blu?
Blu l’ho già detto. Dai, scegli tu!
-
Nocciola vanno benissimo.
Linnie
entrò nel camper seguita da un uomo con una ventiquattrore
piuttosto grossa al seguito. – Ehi, Les, tu hai un 38, vero?
Ti presento Sean Foot, ti metterà le protesi domani mattina.
-
Non avevo avuto ancora l’onore di incontrare la
Dalton. – disse mentre mi stringeva la mano.
-
L’onore è tutto mio. Sean Astin mi ha
parlato di te. Allora, cosa mi ordini di fare?
-
Domattina devi essere qui presto, per farti mettere le
protesi ai piedi.
-
Presto… tipo?
-
Sei. Anche prima, se ti piace alzarti presto. E ora,
scusatemi, ma la mia presenza è richiesta altrove.
Appena
uscì dalla porta Linnie mi mostrò un vestito da
Hobbit, con la gonna lunga e le maniche lunghe, e il corpetto di pelle.
– Vuoi anche la cuffietta? Sappi che Peter ti ha dato carta
bianca.
-
Con i capelli nuovi fiammanti che avrò? Non mi
sembra il caso. Grazie mille, comunque.
-
De nada. Domani vieni qui a prendertelo. – Linnie
si sedette sul divanetto dietro allo specchio, facendo saltellare la
nuvola di ricci ramati che aveva in testa.
-
Lesley. – mi chiamò Emma severa, mentre
mi esaminava i capelli. – Qui vedo una doppia punta! Aaah!
Un’altra!! – tirò su la schiena e si
ricompose. – Dovrei pareggiarle i capelli, secondo te?
– chiese ad Ilana. - Sono un po’ scalati, in fondo,
e poi cominciano ad apparire senza pettinatura.
Linnie
annuì. – Le hanno superato le scapole, ormai.
-
I miei capelli crescono molto in fretta.
-
Bene allora. – disse Emma categorica,
spingendomi a sedere su una poltrona da parrucchiera
-
Emma, sei sicura di quello che fai?
-
Ma sì, ho fatto la scuola per parrucchieri dopo la
terza media. Sicuramente te l’ho detto.
-
No.
-
Oh. Beh, adesso lo sai. Bene, ora rilassati e… -
si spremette la crema dal bottiglione sulle mani. –
…parla del più e del meno.
Emma mi
spalmò la crema presa dal bottiglione in testa, colorandomi
ciocca per ciocca, e mi lasciarono lì per una buona
mezz’ora e forse anche di più. Poi mi
lavò i capelli e mi obbligò a chiudere gli occhi
– e a tenerli chiusi fino alla fine! Li spuntò,
pareggiandoli sopra le scapole e prese una piastra bollente, dicendo:
- Non
esistono Hobbit con i capelli lisci.
Tentai
più volte di aprire gli occhi ma Linnie, sempre seduta nel
divanetto dietro di me, mi diceva subito di richiuderli, impedendomi
così di vedere cosa stava combinando quella pazza di una
Emma.
Durante
tutta l’operazione, mi obbligarono a dire tutte le cose che
mi passavano per la mente, facendomi fare anche un gioco chiamato
“Verità e bugia”. Mentre sentivo la
piastra abilmente manovrata da Emma passarmi tra i capelli, mi sorpresi
più volte a trattenere il respiro. Mi sembrò un
sogno quando Emma infine annunciò la fine
dell’operazione. Poi mi spinse lontano dallo specchio e mi
fece mettere le lenti a contatto. Quando eseguii l’ordine,
Linnie applaudì estasiata e Emma, sempre tenendomi gli occhi
chiusi con entrambe le mani, mi posizionò in piedi.
- E
dico-dico uno, e dico-dico due… eeeeeeeeeee TREEE!!!
Emma mi
tolse le mani dagli occhi, e mi ritrovai davanti allo specchio a figura
intera accanto all’entrata del camper a fissare la mia
immagine. Ma non ero sicura di essere io. Avevo i capelli ricci, simili
a quelli di Linnie, che mi arrivavano sopra le spalle, e di un biondo
caramello con qualche riflesso più scuro, e gli occhi color
nocciola. Sembravo così diversa! Stentavo a riconoscermi.
- Faccio
impressione. – commentai. Chissà per quale strana
ragione, avevo un nodo allo stomaco. Ma mi piacevo tantissimo.
– Grazie mille Em. E anche a te, Linnie!
Emma mi
ricordò ti togliermi le lenti prima di andare a dormire e mi
cacciò fuori dal camper.
Volevo farmi
vedere da Peter, ma sulla strada incappai nella Compagnia al completo
che veniva nella mia direzione, scherzando nella luce del tramonto.
Nascosi un sorriso con una mano e andai nella loro direzione.
-
Salve! – dissi fermandomi davanti a loro.
-
Ciao! – mi salutò Elijah. –
Per caso hai visto Lesley Dalton?
-
Perché, non l’ha vista il signor Bloom?
– guardai Orlando fisso negli occhi, ma non mi riconobbe
neanche lui. Scosse la testa, infatti.
-
Non di recente.
-
Allora, l’hai vista o no? – chiese Billy
spiccio. Vidi Viggo scuotere la testa.
-
Ragazzi – disse – Come attori siete bravi
… ma come spirito d’osservazione siete proprio
scarsi. – Tutti si voltarono a guardarlo. – Maddai!
– mi indicò. – Non avete visto che lei
è la nostra piccola Lesley?
Tornarono a
guardarmi, sorpresi e interdetti. Io sorrisi apertamente.
-
Sono una Hobbit.
-
In effetti – disse Dom grattandosi la guancia
– ha la stessa voce di Lesley.
-
È alta come Lesley – aggiunse Billy.
-
Ha lo stesso naso di Lesley – aggiunse Astin.
-
È LEI!!!! – urlò Viggo
spazientito.
-
Ma che ti è successo? – chiese Bean.
-
Vi racconto tutto dopo. – Sorrisi a Orlando, che
venne vicino a me e mi baciò la guancia.
-
Peter ci ha ordinato di andare in città a
divertirci. Per entrare nello spirito Hobbit.
-
Ah beh, quindi devo venire anch’io! –
Risi. Era bello essere Hobbit!
Salve a
tutti, ragazzi! Mi meriterei la fustigazione in pubblico per
l’enorme ritardo nell’aggiornamento, e per questo
imploro tutti i lettori di EFP in ginocchio di perdonarmi. Invoco
specialmente la clemenza di Niniel, che mi aveva detto di non lasciarla
ad aspettare per sei anni – promessa che ho infranto.
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Capitolo 11 *** Cap 11. ***
La
mia vita sul set – Cap. 11
Dopo una
lunga sorsata di coca, poggiai il bicchiere sul tavolo e scorsi il
menu.
- Stavolta
ce l’hai il portafoglio, Orlando?
Seduto di
fronte a me, mi rivolse un’occhiata divertita da sopra il
menu, mentre gli Hobbit continuavano a scambiarsi opinioni
sull’albergo.
- A me non
è sembrato tanto male – dissi chiudendo con un
tonfo il menu. – Voglio dire, non è il Savoy
(anche perché al Savoy non ci sono mai entrata) ma comunque
l’indispensabile c’è.
- Per
“indispensabile” intendi il letto e il bagno?
– mi chiese Billy intrecciando le dita delle mani davanti al
viso. – Perché, se è così,
umilmente dissento.
- Umilmente
dissenti? – ripetei sarcastica. – Che cosa intendi
dire?
- Che per
“indispensabile” io intendo un minibar, una
televisione funzionante e uno stereo con tre casse.
Annuii.
– Ricordami di non invitarti mai a casa mia.
- Ehi, Sean!
Che stai facendo? – Elijah diede un colpetto sulla spalla a
Sean, che guardava il soffitto.
- Sto
cercando gli allarmi antincendio. E le uscite di sicurezza. Bisogna
sempre essere preparati a ogni tipo di emergenza.
Dom, accanto
a me, si batté la pancia con una mano e sorrise. –
Peccato che non ci siano anche gli uomini e John. Ci sei solo tu, elfo,
e tu… miscuglio tra Hobbit e elfo. – mi
arruffò i capelli.
- Un Hobbifo!
Ridemmo.
Bevvi un altro grosso sorso di coca cola e mi alzai dalla sedia,
alzando le mani.
- Allora
signori, - guardai in alto. – Io proporrei…
- Lesley?
– mi interruppe Orlando. Gli rivolsi uno sguardo di
disappunto. – Ti sei ubriacata con la Coca Cola?
Arrossii.
– No! Che ti salta in mente? Dunque. Io proporrei, dopo aver
mangiato, di andare da qualche parte dove si balla.
Mi sedetti.
Tutti si dissero d’accordo.
- Per dove
si balla, tesoro, intendi “discoteca”?
Annuii.
Arrivò il cameriere che ci prese le ordinazioni: prendemmo
tutti una pizza. Billy ordinò un altro giro di birra per
tutti. Sean lo guardava preoccupato:
- Billy, non
pensi di esagerare? Voglio dire, siamo ancora a stomaco vuoto! Poi chi
guida?
- Les!
- Non mi
tirate in mezzo! – esclamai, socchiudendo gli occhi. Alzai in
alto la mia lattina di Coca cola. – Io non so guidare! Al
massimo la moto, ma non credo che ci stiamo tutti… - mi
sfregai gli occhi con un dito: le lenti avevano cominciato a darmi
fastidio.
- Dai, Sean!
– rise Dom. – Non ricordi le parole di Pete oggi?
“È il momento di essere Hobbit! Non siete
preoccupati, non conoscete la missione. Siete soltanto giovani
Hobbit”.
- Non credo
che il termine “giovane” si addica tanto a Billy.
– Orlando ringraziò il cameriere che gli aveva
messo sul tavolo un’altra lattina di birra. –
Dopotutto-, continuò appoggiando i gomiti sul tavolo
– ha trent’anni.
- E sono
molto fiero di averli! – rise lui. Stappò la
lattina. – Non ti ricordi la bevuta di champagne che ci siamo
fatti sull’aereo per la Nuova Zelanda?
Orlando
sospirò, beandosi del ricordo. Mi sfregai ancora gli occhi.
- Scusatemi
– dissi alzandomi, e mi diressi verso il bagno con la borsa
al seguito. Lo trovai vuoto. Appoggiai l’occorrente per le
lenti sul bordo del lavandino e me le tolsi. Mi sciacquai il viso, mi
lavai le mani e mi guardai allo specchio. Chissà come, mi
ero dimenticata di avere i capelli ricci e caramellati. Il contrasto
con i miei occhi naturali, verdi prato, era più intenso che
con gli occhi nocciola.
Sorrisi alla
mia immagine riflessa, e tornai al tavolo. Vedendomi arrivare, Dom
esclamò:
- Ehi, Les,
la tua era una wurstel, vero? È già arrivata.
- Tutte le
pizze sono arrivate. – Ribatté Sean.
Elijah si
alzò e sorridente mi tenne la sedia mentre mi sedevo, come
un vero gentiluomo.
- Io ti ho
versato dell’altra coca nel bicchiere - mi
informò Orlando facendo scivolare il bicchiere verso di me.
Dom mi mise il tovagliolo sulle gambe.
- Ragazzi,
perché questa… botta di gentilezza?
Sean si
passò una mano tra i capelli. – Beh, mi sembra
logico.
- Che cosa
è logico?
- Il fatto
che sei sempre in mezzo a noi, nove uomini –
spiegò Elijah.
- Sei
l’unica femmina. – precisò Billy.
- E quindi?
- Tu sei la
nostra principessa. – concluse Orlando. Mi concedetti un
attimo per comprendere, poi sorrisi commossa e li guardai uno a uno. Mi
si inumidirono gli occhi.
- Accidenti
– dissi chinando la testa e passandomi il dorso della mano
sugli occhi. – Il fumo di questa pizza… mi sta
facendo lacrimare…
Sorrisi. Dom
mi diede un bacio sulla guancia.
- Beh, non
mi resta altro che augurare… Bon appetit!
Senza
più dire niente, attaccammo a mangiare le nostre pizze.
Usando il
metodo poco ortodosso della pesca del bigliettino nel cappello
– di Dominic – decidemmo di andare in un disco-club
un po’ alla periferia della città. La scelta si
rivelò ottima, poiché tutti i giovani si erano
buttati nel centro di Matamata. Era una discoteca singolare, si
potevano prenotare delle stanze da tenere per la serata. In mezzo alla
musica a palla, a giri di cocktail e balli scatenati, Billy e Dominic
erano quelli che si divertivano di più. Ballavano al centro
della stanza che avevamo prenotato, e noialtri battevamo la mani a
tempo, seduti su divanetti in fondo alla sala
- Non ti
mancano le tranquille partite a Monopoli? – mi
urlò Orlando nell’orecchio, per farsi sentire.
-
Sì, ma questo spettacolo – indicai Billy e Dom
– è meglio!!
La canzone
finì e i due Hobbit si fermarono. – Allora, che
dici, elfo! – urlò Dominic rivolto a Orlie.
– Siamo abbastanza in spirito Hobbit?
Orlando rise
e alzò il bicchiere in un brindisi.
-
Ooooooooooooh, Dom! – fece Billy tutto estasiato. Era su di
giri. – Che ne dici di provare la canzone?
- Quale
canzone? – feci io. Elijah li raggiunse al centro della
stanza.
- Ma quella
che dobbiamo cantare alla serata Hobbit!
-
Sì, ma noi dobbiamo essere ubriachi. – disse Dom.
-
Più di così? – disse Orlando.
Scoppiammo a ridere.
-
D’accordo, ma facciamola solo una volta. È molto
stressante provarla tante volte.
Si misero a
cantare e Elijah saltava loro intorno, tenendo in mano sue bicchieri.
Alla fine si fermarono, e noi applaudimmo forte.
Per tornare
come eravamo arrivati, ossia con una sola macchina, mi fecero
accomodare nel sedile davanti, accanto ad Orlando – il
più sobrio di tutti, a parte me – e caricarono
Sean nel portabagagli, in modo che il suo senso della sicurezza andasse
in crisi e non ci lasciasse in pace un istante durante il viaggetto
verso l’albergo. Orlando li fece scendere davanti
all’ingresso, ma io restai dentro la macchina.
- Noi
restiamo un po’ qui, ragazzi – annunciò
Orlando attraverso il finestrino dell’auto. Loro risero e se
ne andarono dandosi gomitate d’intesa nei fianchi. Orlando
appoggiò la mano sul volante e mi guardò.
– Sei stanca?
- Un
po’.
- Ti va se
ti porto in un posto?
Lo guardai.
– Che posto? – Lui scosse la testa
-
È una sorpresa. –
Mi sporsi
oltre il sedile e lo baciai. - Va bene. – dissi.
- Allora
– mi lanciò una striscia di stoffa. – Ti
metti questa intorno agli occhi.
Orlando mi
obbligò a soffrire la macchina con la benda legata intorno
agli occhi. Non volle dirmi niente riguardo alla nostra meta, e dopo un
po’ smisi di chiedergli spiegazioni. Dopo qualche minuto
fermò la macchina e spense il motore.
- Siamo
arrivati? – Chiesi dopo un istante di immobilità.
-
Sì, ma non toglierti la benda.
Percepii il
suo sorriso senza neanche vederlo, mentre mi aiutava a scendere dalla
macchina.
- Prendo una
cosa dal portabagagli… - sentii i suoi passi e poi
l’aprire e il chiudere del portellone - … e poi ti
tolgo la benda.
Mi condusse
tenendomi per le spalle su in cima ad una salita, poi scendemmo ancora,
mi fece svoltare a sinistra, ancora una discesa, una salita, una
discesa…
- Ma dove
siamo, sulle montagne russe? – scherzai. Lui rise. Dopo
ancora una discesina mi fermò, mi voltò verso
sinistra, poggiò qualcosa per terra e poi mi tolse
delicatamente la benda dagli occhi.
Mi ci volle
un po’ per abituarmi alla luce della luna che illuminava il
paesaggio, ma poi capii. Orlando mi aveva portata sulle sponde del lago
di Hobbiton, proprio nel centro del nuovo set. Le acque scure erano
quasi immobili, non tirava un filo di vento. La luna si specchiava sul
lago, e riversava la sua luce argentata sugli alberi sulla riva. In
lontananza si scorgeva la forma scura dell’albero in cima
alla collina, casa Baggins.
Orlando mi
prese per mano. – Hai visto? C’è la luna
piena.
-
È bellissimo – sussurrai soggiogata dalla bellezza
del luogo.
- Mai quanto
te.
Mi voltai
verso di lui e mi persi nel suo caldo abbraccio. Lui mi accarezzava
tranquillo i capelli. Non c’era altro suono che i nostri
respiri e il movimento dell’acqua.
- Che
cos’hai portato?
- Uno
stereo. Mi era venuta un’idea.
- E
cioè?
Mi
tappò la bocca con un bacio. – Accendiamo la radio
e la prima canzone che passa, sarà la nostra canzone.
- Orlando
Bloom, ti appunti queste idee da qualche parte e poi le usi con tutte
le ragazze? – dissi semiseria.
- Non con
tutte. Solo con te.
Sorrisi.
Orlando si accucciò per terra e accese la radio:
trovò un giornale radio notturno, due stazioni di
pubblicità, un talk show radiofonico. Solo al quinto
tentativo l’aria si riempi delle dolci note di Iris, dei Goo
Goo Dolls.
-
Ooooh… - feci intenerita. Orlando si alzò
sorridendomi.
-
È proprio quello che volevo.
Si
avvicinò piano e mi prese i fianchi tra le mani; io gli
cinsi il collo con le braccia. Cominciammo a ballare dolcemente
seguendo le note, avanti e indietro, specchiandoci nella
tranquillità del lago, guardandoci negli occhi. Ad ogni
ritornello mi prendeva per mano e mi faceva fare una giravolta, per poi
tornare nella posizione iniziale.
Alla fine
della canzone, unimmo di nuovo le nostre labbra, sussurrandoci
“Ti amo”. Rimanemmo lì, abbracciati a
occhi chiusi, per degli istanti che per chissà quale
benedizione sembrarono eterni. Poi Orlando si sciolse delicatamente
dalla mia stretta, e si chinò per spegnere la radio. Dal
basso, mi guardò incerto sul da farsi, poi si
sdraiò sull’erba, invitandomi a fare lo stesso.
Una volta a terra, mi appoggiai su di lui.
- Non ti ho
ringraziato abbastanza per la storia dell’aereo. –
dissi.
- Tu mi
ringrazi troppo per qualsiasi cosa. Non ti rendi conto che devo essere
io a ringraziare te.
- Me?
– appoggiai il mento sul suo petto per guardarlo in faccia.
- Dovrei
ringraziarti di ogni respiro che fai, di ogni parola che dici, di ogni
sguardo che lanci con quei tuoi occhi attenti. E dovrei farlo
perché senza di te la mia esistenza non avrebbe tutto questo
significato. Tu sei tutto per me.
Mi
attirò a sé, stringendomi con forza gentile.
Rimanemmo
così, nel silenzio più assoluto, non saprei dire
per quanto tempo.
- Les
– Orlie mi diede una carezza sull’orecchio,
risvegliandomi dallo stato di dormiveglia in cui ero caduta.
– sarà meglio tornare all’albergo,
altrimenti domani saremo distrutti.
Il primo
pensiero che mi passò per la testa mentre mi alzavo e
insieme a lui mi dirigevo verso la macchina, fu che faceva freddo. Il
secondo, fu che Orlando era un termosifone. Non era un pensiero logico,
lo so, ma faccio sempre così quando mi sveglio.
Mi buttai
sul sedile del passeggero e non spiccicai parola per tutto il viaggio
dal set fino all’albergo. Mi accorsi a malapena
dell’entrata nella hall, della salita in ascensore e
dell’entrata della mia stanza. Il mio cervello
registrò solo il saluto amabile che io e Orlando ci
scambiammo davanti alla mia porta, prima che lui si ritirasse nella sua
stanza. Anche con il riscaldamento, avevo freddo: mi misi addosso il
pigiama più pesante che avevo – di flanella
– e mi buttai a pesce sotto le coperte.
Stavo
sognando di ricevere un Oscar da Dick Van Dike, quando qualcuno che
bussava insistentemente alla porta mi costrinse ad aprire gli occhi.
Evitai di guardare l’ora sul display del mio telefono, e
andai ad aprire: mi ritrovai davanti Orlando che saltellava di qua e di
là fregandosi le braccia.
- Ehi, Les
– mi disse battendo i denti. – Mi spiace
svegliarti, ma nella mia stanza il riscaldamento è rotto e
Billy si è preso tutte le coperte pesanti e non
c’è modo di svegliarlo. Cioè, ho
provato a svegliarlo, ma è ancora così brillo che
mi ha mandato a quel paese nel sonno.
Mi
stropicciai gli occhi sbadigliando. Aprii meglio la porta spingendola
con un gomito.
- Entra,
guastafeste. – gli dissi. Una volta in mezzo alla stanza,
affondò i piedi nella moquette bordeaux, e finalmente smise
di fregarsi le braccia. Non avevo neanche acceso la luce, in modo da
rendermi più facile il cammino verso la fase R.E.M.. Mi
ributtai sotto le coperte, sdraiandomi prona. Orlie mi
sfiorò incerto una spalla. – Les? Mi
metto per terra?
- Non fare
l’idiota – bofonchiai, e scostai le coperte. Ero
sveglissima, adesso. Gli ci volle qualche secondo prima di capire che
cosa intendevo. Si sdraiò accanto a me, avvolgendomi con le
braccia: lo spazio nel letto ad una piazza era poco. Ci accoccolammo
stretti stretti, l’uno contro l’altra.
- Possibile
che ci siano le zanzare anche d’inverno? –
bofonchiò Orlando scacciando l’insetto ronzante
che gli girava intorno.
- Forse non
sono zanzare. Forse sono api. – dissi. La mia voce
risuonò attutita a causa del pugno chiuso che tenevo davanti
alla bocca, come una bimba piccola.
- Hai i
piedi freddi – disse dopo un po’. Piegai le
ginocchia, facendo frusciare le coperte.
- Lo so.
Anche il mio naso lo è.
Ormai il
torpore mi stava afferrando. – Sai che ho dimenticato lo
stereo al lago?
- Lo
prenderai… domani… - sbadigliai. - Sai
che… - sbadigliai ancora.
- Che cosa?
Non seppi
proseguire: sprofondai nel sonno, cullata dai dolci battiti del suo
cuore.
La lieve
luce dell’alba attraversava le tende bianche della camera
d’albergo, scacciando lentamente via le tenebre. Un uccellino
cominciò a cinguettare, come se volesse augurare il buon
giorno al mondo. In mezzo a quella calma tanto perfetta quanto irreale,
guardavo dormire Orlando. Avevo aperto gli occhi da poco, ed ero ancora
immersa nel dolce torpore del risveglio. Lui invece dormiva ancora
profondamente, sognando chissà quale avventura fantastica.
Sdraiato su un fianco, con un braccio mi circondava il fianco, e a
volte sorrideva nel sonno, a volte si muoveva piano. Aggrottava le
sopracciglia o muoveva la testa. Mi stupii di quanto fosse espressivo
nel sonno. I capelli neri erano spettinatissimi, senza il gel che li
teneva a posto. Sorrisi. Sarei rimasta in quella posizione in eterno.
Il suono
trillante della sveglia ruppe l’incantesimo. Afferrai veloce
il cellulare e la spensi, poi guardai orlando. Il rumore non
l’aveva svegliato, ma aveva allontanato il braccio da me:
meglio, contando che se non l’avesse fatto l’avrei
dovuto spostare di forza, provocando uno spiacevole e alquanto sgradito
risveglio.
Mi misi a
sedere sul letto, affondando i piedi nella moquette, e mi passai una
mano sugli occhi. L’uccellino fuori continuava a cinguettare,
imperterrito. Mi alzai e mi diressi verso il bagno. Aprii
l’acqua e mi sciacquai il viso, riflettendo sul programma
della giornata. Erano le cinque e un quarto. La sera prima mi ero
accordata con gli Hobbit per vederci tutti insieme nella hall
dell’albergo alle cinque e mezza. Avremmo fatto colazione
durante la seduta di trucco. Poi ci saremmo recati in uno Studio, per
imparare a danzare come Hobbit e la coreografia della festa
lì infatti avremo girato le scene di ballo, mentre gli
esterni nella fattoria di Matamata, Hobbiton. Pausa pranzo e poi si
poteva cominciare a fare le prove delle scene. Il giorno dopo avremo
provato ancora, e forse avremo anche cominciato a girare.
Tornai in
camera e guardai verso il letto: Orlando dormiva ancora. Si era
allargato nel letto, come se nel sonno avesse percepito che mi ero
alzata. Aprii l’armadio – che avevo riempito
quando, il pomeriggio prima, ci avevano portato a vedere
l’albergo – e indossai una tuta da ginnastica. Non
sarebbe servito vestirsi bene per poi saltare e ballare in uno studio
pieno di gente: chissà che sudate pazzesche! Presi una felpa
pesante della Adidas e la indossai. Allacciai le scarpe da ginnastica e
andai in bagno. Non sapendo come pettinare i miei nuovi capelli, decisi
di lasciar perdere. Tentai di lisciarmeli con una mano, ma non
servì granché.
Mi avvicinai
di nuovo al letto e diedi un bacio sulla guancia ad Orlie. Lui sorrise,
socchiuse gli occhi e disse, con voce ancora impastata dal sonno:
- Divertiti.
- Verrai a
vedermi?
- Certo,
cucciola.
Gli
scombinai i capelli e uscii, chiudendo piano la porta.
Il primo che
trovai nella hall fu Elijah. Stava appoggiato al bancone, scuotendosi
forte i capelli. Appena mi vide, sorrise:
-
Levataccia, eh?
- Non so
proprio come facciate a farlo tutti i giorni. Adesso capisco come mai
ti addormenti in soli quindici minuti di pace.
- Ormai mi
ci sono quasi abituato.
Mi appoggiai
al bancone accanto a lui. – Dove sono gli altri?
- Sean sta
arrivando, Dom si è intrufolato nelle cucine (e non
chiedermi come abbia fatto) e Billy… credo che Billy stia
vomitando.
- Oh,
andiamo, non era una sbornia così colossale, la sua!
Ridemmo.
- Alla fine
ti sei divertita con Orlie, ieri sera?
- Molto.
Abbiamo fatto…
- Cose da
innamorati?
- Non
quelle, Wood. Ma vorrei… - sospirai, sorridendo al ricordo.
- … vorrei tenere ciò che abbiamo fatto solo per
noi, capisci? Un ricordo solo nostro. Eravamo solo noi due,
e…
-
Sì, ti capisco perfettamente.
- Orlando
è una persona fantastica.
- Siete
molto uniti, state bene insieme. Si vede che vi amate. –
Arrossii. – Oh, eccoli che arrivano!
Dominic,
Billy e Sean si stavano avvicinando strisciando i piedi e sbadigliando,
più o meno come avevo fatto io solo pochi minuti prima.
Billy in particolare aveva la faccia sbattuta, ma aveva sempre il suo
sguardo sveglio. Dominic reggeva tra le braccia almeno sette croissant,
tutti marroncini e croccanti. Sean era impeccabile, come sempre. Ci
raggiunsero in pochi passi e ci salutarono.
- Hai
vomitato, Billy? – chiesi innocente. Mi fulminò.
- No, per
tua fortuna.
Ridotta ad
una statua di sale, indicai Elijah con l’indice. –
L’idea era sua.
Elijah
sorrise colpevole. Billy sogghignò. – Non ti
preoccupare, piccola Les. Ho lo stomaco duro, io. Non vomito molto
spesso.
- La cosa
che mi sorprende è come riusciate a parlare di vomito alle
cinque e mezza del mattino. – ci informò Sean
lapidario.
- Chi vuole
un croissant? Assortimento vario, assortimento vario! –
annunciò Dom come un pescivendolo al mercato, cacciandoci in
mano un croissant a testa. Alla fine lui ne aveva tre in mano, gli
avanzati.
-
Sarà meglio se cominciamo ad andare, gente, altrimenti
faremo tardi. – dissi.
- Devi avere
un buon motivo per essere così di fretta. – disse
Dom addentando uno dei suo croissant mentre uscivamo
dall’albergo.
-
Più di una – risposi. – Tanto per
cominciare, devo sistemare questa balla di fieno – indicai i
miei capelli. Sorrisi e addentai il croissant. Ripieno di albicocca.
- E poi sono un Hobbit a metà. Finchè
non avrò le protesi anch’io non sarò
mai Hobbit completo!
- Non fa una
piega – commentò Sean.
-
Vabbè, ragazza, andiamo!
Ecco
un altro capitolo! Nel prossimo inizieranno le riprese di Hobbiton!
Spero che vi sia piaciuto!
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Capitolo 12 *** Cap 12. ***
La mia vita sul set
– Cap 12.
Saltammo in
macchina e ci dirigemmo sul set di Hobbiton. Anche se era presto,
c’erano già un sacco di Hobbit di tutte le
età: bambini, donne, uomini, anziani. Sembrava di essere
davvero a Hobbiton, anche se avrei scommesso che molta gente doveva
ancora arrivare.
-
Ragazzi, io devo fare un salto da Emma e Linnie: devo farmi
sistemare e poi devo prendermi il costume.
-
Prendilo, Les, ma non mettertelo prima di essere stata
truccata – mi disse Elijah – è molto
scomodo farlo con gli abiti da Hobbit, fidati di me.
Annuii e mi
diressi verso la roulotte trucco di Emma. Ero certa di trovarci dentro
anche Linnie.
-
Ciao Les – mi salutò Emma mentre
sistemava spazzole di vario genere nei cassetti.
-
Buongiorno – sbadigliai. – Puoi
sistemarmi i capelli?
-
Dovere – disse lei. – Ma
c’è stato un cambio di programma. – Mi
indicò la sedia
davanti allo
specchio.
-
Cioè? – chiesi sedendomi.
-
È arrivata la parrucca che ci serviva, quindi non
hai più bisogno dei capelli tinti. In effetti, è
stata un’idea molto stupida. Non farete altro che ballare,
quindi ti dovrai sempre fare la doccia, quindi sarebbe
un’altra seduta di parrucchiere. Troppa fatica e troppo tempo
sprecato.
Non dissi
una parola. Restai immobile, sulla mia sedia, a soppesare le
parole di Emma. Aveva ragione. Annuii.
-
Va bene. Ma ti prego, facciamo in fretta.
Decolorare i
miei capelli fu una delle sedute allo stesso tempo più
lunghe e più brevi della mia carriera di cliente di
parrucchiere. Fu senz’altro molto breve perché mi
dovetti semplicemente lavare i capelli e asciugarmeli, e più
lunga perché, anche se Emma era un fulmine a mettere
parrucche, fremevo dall’impazienza e ogni minuto mi sembrava
lungo un’eternità.
-
Vuoi smetterla per piacere? – mi sgridò
Emma mentre finiva di incollarmi la parrucca. Forse alludeva al ritmo
frenetico che battevo con i piedi sul pavimento. Appoggiai piano i
piedi per terra e rivolsi le punte l’una contro
l’altra.
-
Scusa – farfugliai. Lei sospirò.
-
Voi attori siete sempre così impazienti e
stressati… dovreste rallentare i tempi.
-
Prova a dover interpretare un minimo di tre scene al giorno e
poi ne riparliamo.
Dissi
balzando in piedi e dirigendomi verso la porta. Saltai giù
dagli scalini e corsi verso la sala trucco degli Hobbit.
- Salve a
tutti! – dissi entrando. Gli Hobbit mi accolsero con sorrisi
e sbadigli, i truccatori mi rivolsero allegri cenni di saluto. Sean
Foote, che riconobbi grazie alla pettinatura, mi disse di sedermi su
una sedia tra il muro e Dominic e di mettere i piedi su una panca. Mi
tolsi le scarpe con un calcio, insieme ai calzini, e pensai che non mi
ero lavata i piedi quella mattina. Cattiva decisione. Ma non
sembrò turbare molto Sean.
- Sai,
tesorina, non è giusto per niente. – mi disse
Billy.
- Uh? Che
cosa? – mi voltai verso di lui.
- Non ti
muovere. – Mi disse Foot.
- Scusa.
– mi rimisi ferma.
- Tu fai
l’elfo, bella tranquilla, e noi a doverci alzare presto tutti
i giorni e a venire qui… eppoi, sei stata l’unica
di noi a non essere stata ancora paparazzata. Un record.
- Siete
stati paparazzati? – chiesi, stupita.
- Come no!
– Elijah si tirò su la zip della felpa nera che
indossava sopra al costume, per coprirsi dal freddo. – Di
continuo.
- Vediamo
per quanto riesci a mantenerlo! – sbadigliò Dom.
- In piedi
signori! – disse una truccatrice, e io mi alzai imitando i
movimenti dei quattro Hobbit.
Quando ci
finirono di attaccare i piedi, passarono alle orecchie e –
per gli altri hobbit – alle parrucche. Il mio truccatore
borbottò qualcosa riguardo la scomodità di
infilare le orecchie già con la parrucca, e mi sentii molto
in imbarazzo. Appena finirono di truccarci, mi diressi verso la
roulotte costumi, subito dopo aver preso il costume dalla roulotte di
Emma, e mi cambiai. Era un vero costume da Hobbit, il mio: gonna lunga
di cotone, corsetto verde e maniche lunghe a metà braccio.
Molto bello, ma molto scomodo, se paragonato al mio comodissimo costume
da elfo (pantaloni e stivali). Per la mia natura elfesca, camminare a
piedi nudi (anche se avevo le protesi) era scomodissimo. Piegai la
testa di lato e mi guardai nello specchio: c’era tutto di un
Hobbit, nella mia immagine, a parte l’altezza. Sorrisi. Peter
avrebbe trovato il modo di farci sembrare tutti più piccoli
rispetto a Gandalf.
Saltai i
gradini della roulotte a due alla volta, atterrando sul prato e tirando
una boccata d’ossigeno purissimo: quel posto era il paradiso!
L’aria era ancora molto fredda, ma si sarebbe riscaldata
almeno un pochino, con sole. Elijah scese le scale e mi porse un
bicchiere col coperchio.
-
Hai dimenticato la tua colazione. – Presi
in mano il bicchiere.
-
Grazie. – mi grattai la tempia con due dita.
– Anche se non ho molta fame, mi sono già saziata
con la brioche che Dom ha rubato dalla cucina dell’albergo.
-
Non importa, Les, bevi. Ci aspetta una giornata faticosa.
Ubbidii
docile, e il liquido caldo del caffelatte mi scese giù per
l’esofago fino a riscaldarmi il pancino. –
Mmmmm… caldo. – dissi leccandomi i baffi. Mi
diressi verso una delle macchine che ci avrebbe scortati allo studio in
città. Elijah mi seguì dopo pochi istanti.
Aprii la
portiera posteriore dell’auto e vidi che Elijah, accanto alla
portiera opposta, si era fermato, e fissava corrucciato qualcosa oltre
la macchina, dietro di noi. Incuriosita, seguii la direzione del suo
sguardo, e mi sorpresi.
El stava
fissando con insistenza, come se la cosa lo turbasse profondamente,
Ilana che chiacchierava e rideva sorseggiando caffè assieme
ad un tizio, in piedi in mezzo al prato davanti alla porta di una casa
Hobbit e ridendo come se fossero intimi amici. Conoscevo quel tizio. Si
chiamava Justin, ed era di sette, otto anni più grande di
lei. E non solo in senso di età: Justin era un armadio, in
modo quasi anormale. Era palestrato, con gli addominali a tartaruga,
abbronzato e con un dragone tatuato sul braccio. Aveva i capelli
tagliati alla marine e, nonostante il freddo, se ne stava
arrogantemente in jeans e petto nudo, sfoggiando dragone e piercing col
diamante sull’ombelico. Era decisamente il tipo che non avrei
mai visto insieme ad una come Ilana, eppure sembrava che si piacessero
parecchio.
- Scusate,
voi due. – la voce di Billy riscosse me ed Elijah dai nostri
pensieri. Mi voltai: la testa parruccata di Billy spuntava impertinente
dal finestrino anteriore dell’auto. – Tanto per
cominciare non è buona educazione fissare la gente
– alzai gli occhi al cielo. – Secondo, se rimanete
lì ancora per molto, io mi congelo e in più
arriveremo in ritardo. Ma se volete finire ridotti a due stalagmiti,
fate pure.
- Va bene, o
capitano mio capitano. – Dissi con molta enfasi sedendomi sul
sedile, chiudendo la portiera e sfregandomi le mani per riscaldarle. El
si sedette sbattendo la portiera, tirando casualmente una gomitata a
Sean che sedeva fra di noi. Si scusò e si mise a
guardare fuori dal finestrino, Dom accendeva il motore e partiva.
Rimase
silenzioso per tutto il tempo che impiegammo a uscire dal set. Poi
cominciò a brontolare cose incomprensibili.
-
Non capisco che cosa ci trovi in quel tizio –
mugugnò ad un certo punto incrociando le braccia.
-
Chi? – chiese Billy.
-
Ilana – rispose lui.
-
Ilana Kim?
-
Già.
-
Strana, quella ragazza. – disse Dom
-
Veramente, è meno strana di te.
– Replicò El passandosi una mano sulla parrucca.
–
Ma quello che non riesco proprio a capire è che cosa ci
trova in quello… scimmione, ecco!
Dom, al
volante, si voltò verso di lui per fargli un sorrisone.
-
Sei geloso! – lo canzonò.
-
Dominic, guarda la strada! – esclamò
Sean terrorizzato.
-
Non sono geloso!
-
Invece sì! Non saresti di malumore se al posto di
Ilana ci fosse stata Philippa! –
insisté
Dom, sforzandosi per non rivoltarsi a guardare Elijah.
-
Ma che c’entra! Linnie e Philippa sono due persone
completamente diverse!
-
Quindi non ti disturba se Linnie si vede con Justin?
– dissi io. Elijah mi guardò.
-
Assolutamente no! – fece una breve pausa. - Lo
conosci?
-
Sì, l’ho visto qualche altra volta, in
giro… ma non penso che faccia parte della crew. Non gli ho
mai parlato.
-
Comunque, El, qui hai una persona che conosce abbastanza bene
Ilana. – ridacchiò
Billy.
– Lesley passa molto tempo con lei e sua cugina.
-
Giusto! – esclamò Dom, perdendo di nuovo
la concentrazione e voltandosi, stavolta
nella mia
direzione. – Ehi Les, che ne dici di una missione alla James
Bond?
-
DOMINIC MONAGHAN!!! GUARDA QUELLA CAVOLO DI STRADA, PAZZO
SPERICOLATO!!! – strillò Sean. Dom si
voltò e prese di nuovo il volante fra le mani.
Mise la
freccia e svoltò a sinistra.
-
Fortuna che siamo arrivati – sospirò
– così la smetterai di strillare.
Appena
accostò, scendemmo dall’auto. Sean
sbraitò ancora contro Dom:
-
Se fossimo in Inghilterra, ti denuncerei alla polizia! Se
guidi in questo modo da sobrio, che cavolo fai quando sei ubriaco? Io,
ti ricordo, un motivo per cui vivere ce l’ho!
-
Sean, smettila di fare lo strillone! – fece Billy
spazientito. Io non persi tempo ed
entrai. E
per quella mattina non si parlò più della mia
“missione alla James Bond”. Anzi, non se ne
parlò più.
Era un bello
Studio, forse fatto apposta per la scena del ballo: c’erano
due stanze adibite a spogliatoi, uno per le donne e uno per
gli uomini. Dall’ingresso, decorato con tante belle
macchinette per cibo e bevande, si scendevano un paio di rampe di scale
e si arrivava ad uno stanzone di proporzioni esagerate, gremito di
gente. Cameraman, insegnanti di ballo, coreografi, truccatori. Erano
state sistemate anche un paio di panche, ad un lato della stanza, per
far riposare gli stanchi e per accogliere anche un piccolo
“pubblico”. Fu lì che posai la sacca con
un ricambio che mi ero portata e il mio cellulare. La gente intorno a
me parlava, riempiendo la stanza di un chiacchiericcio insistente. Mi
sedetti un secondo sulla panca, mi passai una mano fra i capelli della
parrucca – e mi parvero fibrosi e simili alla paglia
– e allungai le gambe, rimirando le protesi.
- Signore e
signori, per favore ascoltate! Vi preghiamo di spegnere i cellulari o,
se proprio non ci riuscite, di metterli in modalità
silenziosa. Vi preghiamo inoltre di fare silenzio. Cominciamo. Grazie.
– disse una donna con i capelli biondi legati in una coda di
cavallo e vestita di una comoda tuta da ginnastica, parlando dentro ad
un megafono. La sala si riempì di silenzio dopo pochi
secondi.
- Grazie.
– ripeté la donna. – Ora vi faremo
ascoltare la colonna sonora del ballo, composta dal fenomenale Howard
Shore, e io e i miei assistenti vi mostreremo la coreografia. Voglio
solo ricordarvi che siete Hobbit, l’aria è
impregnata di allegria. Pertanto, se adesso vi viene voglia di ballare,
lasciatevi andare.
Si
girò e premette un tasto di un enorme stereo giallo munito
di un paio di casse altrettanto enormi.
-
Come si chiama? – sussurrai a Billy, accanto a me.
-
Donna Butterfly. È l’insegnante di ballo.
L’aria
della stanza venne invasa dalle note di una bellissima musica suonata
col flauto e altri strumenti, che subito mi fece pensare al set di
Matamata. Era veramente bellissima, e Howard Shore era un genio. Dunque
quella era Flaming Red Hair. Sorrisi.
Cominciai a
battere il ritmo con un piede, mentre altri muovevano la testa a tempo
o canticchiavano. Prima un piede, metti avanti un altro, eccetera, mi
ritrovai a saltare a ritmo della musica. Elijah, alla mia sinistra,
rise e mi prese per mano, e cominciammo a girare intorno. Billy
cominciò a battere il tempo con le mani, e Dom
sparì da qualche parte per chiedere di ballare a qualche
bella signorina. A poco a poco tutti si misero a ballare nella maniera
che più gli andava. Chi saltava, ballava in
cerchio… Ad un certo punto, mentre io ero voltata a ballare
con una ragazza con i capelli bruni a caschetto, un assistente di Donna
prese da parte Elijah e gli disse qualcosa. E la musica
finì. Ci fermammo con il fiatone e partì
l’applauso. Non so per certo a cosa applaudissimo, credo ad
Howard Shore, o alla musica, o forse perché ci andava di
applaudire! Donna risaltò sulla panca e prese in
mano il megafono.
-
Siete stati bravissimi! Ora io e i miei assistenti vi
mostreremo la coreografia.
Il discorso
di Donna venne interrotto dalla porta della “sala
ballo” che si apriva. Entrò Ian McKellen, vestito
da Gandalf.
-
Scusate il ritardo – borbottò Ian.
-
Di niente, Sir Ian, con lei possiamo iniziare seriamente.
Bene, fate tutti attenzione…
Distrutta e
con le gambe doloranti, mi diressi verso la panca dove avevo lasciato
la mia sacca e, sedendomi, ripescai il cellulare dal fondo. Lo schermo
lampeggiava: c’era un messaggio.
“Ehi,
Les! Faccio un po’ di pratica con l’arco e poi
vengo a vederti ok? Appena posso scappo. Ol.”
-
Vabbene… - dissi, troppo stanca e pigra per premere i
tastini del cellulare per rispondere al cellulare. Donna ci aveva
concesso una pausa di cinque-dieci minuti. E meno male, eravamo tutti
distrutti. Avevamo imparato quasi tutta la coreografia, ci mancavano
solo lo stacco finale e la coordinazione, perché tutti se ne
andavano per conto proprio. Mi alzai, dolorante, e mi diressi
sacca al seguito alle macchinette nell’ingresso. Aprii la
porta per andarmene e, fermandomi un momento, scoppiai quasi a
piangere: mi ero dimenticata che c’erano le scale!
Scale
superate – e mi avreste dovuto vedere: sacca ai piedi, un
piede su, uno alla volta, aggrappata alla ringhiera – mi
ritrovai nell’ingresso. Trascinai i piedi fino alla
macchinetta più vicina e presi il portafoglio.
-
Allora, vediamo quanto costi, delizioso the alla pesca
lì in fondo alla c32… 50 centesimi…
mmm, un po’ esoso, non ti pare? E vabbè,
chiuderemo un occhio per una volta… sì
così, scendi… bravissima, mia bottiglietta di
delizioso the alla pesca… ecco… cavolo, sei
ghiacciato!
-
Ehi, ciao! – disse Orlando entrando dalla porta.
– Come procede?
-
Non si vede dalla mia faccia?
Inclinò
la testa di lato, scrutandomi. – Naaaaa! – fece.
– Sei solo stravolta.
-
Appunto! – piagnucolai. Mi guardò di
nuovo e rise.
-
Te la sei cercata, quindi non venire a lamentarti!
Gli feci il
verso e bevvi un sorso di ghiacciato the alla pesca.
-
Gente, ecco il programma: la proviamo un’altra
volta, andiamo a pranzo e poi raggiungiamo i produttori sul set e
proviamo la scena!
All’inizio
non ce n’eravamo accorti, ma nella sala ballo al piano
sotterraneo l’aria era pesante, quasi irrespirabile. Era
ovvio, dal momento che eravamo 40 persone sudate e con le protesi ai
piedi che ballavano in continuazione. Quando uscii dallo studio
inspirai a fondo: l’aria era fredda, ma pulita.
Non ebbi
neanche il tempo di trarre un altro respiro: mi presero per un braccio
e mi trascinarono in macchina, portandomi sul set.
Durante il
viaggio in macchina, gli Hobbit ripresero il discorso dei paparazzi.
-
Secondo voi per quanto tempo la nostra principessa elfica
riuscirà a mantenere il primato di immunità da
paparazzi? – chiese Dom al volante (di nuovo e contro la
volontà di Sean), per stuzzicarmi.
-
Chi lo sa. – rispose Elijah. Io intanto stavo
mandando un messaggio a Linnie col
mio
cellulare. “Che fai stasera?”. Attesi qualche
minuto e mi arrivò la risposta. “Esco con Justin.
Sai che mi fa la corte?””Non mi sembra un tipo
affidabile, Linnie””Tranquilla! Semmai ho lo spray
al pepe!”
-
Linnie stasera esce con l’armadio.
Elijah si
richiuse in sé stesso, ma negò spudoratamente di
essere geloso.
Dopo alcuni
minuti di viaggio, il mio telefono squillò, con la suoneria
personalizzata per Orlando. – Ma come! Orlie ha una suoneria
solo per lui e noi no? – disse Billy.
-
Pronto? Ciao!
-
Hola Les! Che combini?
-
Ti ho perso dopo l’ultimo ballo, dov’eri
finito?
-
Ero andato al gabinetto, ma quando sono tornato tu eri
sparita!
-
L’ABBIAMO RAPITA NOI!! – urlò
Dominic.
-
L’hai sentito? – chiesi.
-
Sì. Ehi, piccola, stasera ti va di uscire? Conosco
un posticino niente male.
-
Orlie, a me non va tantissimo di uscire, sarò
stanca…
-
Dài, ti prego! Giuro che non ti porto da nessuna
parte, solo cenetta e albergo!
-
Uuuuuuuh… vabbene, dai.
-
Fantastico! Allora, ristorantino?
-
Ma sì, perché no? Va bene!
Non mi
dilungo su quello che successe quel pomeriggio sul set. Peter ci
mostrò quello che avremmo dovuto fare, coordinò
gli Hobbit – sia i quattro protagonisti sia le comparse,
tutte bravissime – aggiustò i vari dettagli. E
intanto pensava al copione del giorno dopo. Era strabiliante il lavoro
che riusciva a fare in così poco tempo. In effetti, anche se
non ce ne rendevamo conto, il tempo stringeva. Dovevamo finire la
Compagnia dell’Anello al più presto, e ce la
stavamo mettendo tutta. Ma per ogni scena ci volevano almeno due ore di
lavoro, per i vari ciack e le varie riprese, senza contare i vari
errori che facevamo. Non era un lavoro semplice.
Ma non
eravamo solo noi protagonisti ad impegnarci. Non avevo mai visto tanto
entusiasmo in tante persone. Molti dicevano di voler essere Hobbit
nella realtà, che era tutto bellissimo e che era veramente
un lavoro da favola. Ero contenta che fossero felici del
proprio ruolo, ma pensavo che avrebbero cambiato idea se sarebbero
stati Hobbit per altri due anni.
Le stelle
cominciavano ad illuminare il cielo, e un vento freddo arrivava da
nord, scompigliando le placide acque del lago. Era lì che,
tolti parrucca, protesi e costume mi ero messa ad aspettare Orlando.
Ero seduta sull’erba, fra il ponte di pietra e il mulino
della casa di legno. Mi ero vestita con un paio di jeans lunghi e una
felpa rossa con la lana dentro, e mi ero legata i capelli con due
codini. Alla seduta di trucco a fine giornata i ragazzi mi avevano
offerto una birra, ma avevo rifiutato: non sapevo dove mi avrebbe
portato Orlie, per cui decisi di non rischiare. Avevo indossato dei pantaloni neri di velluto e un paio di stivali, e giocherellavo distrattamente con un codino mentre osservavo pensierosa l'acqua limpida del lago e la sponda opposta, quella dove la sera prima io e Orlando avevamo ballato Iris.
Arrossii al ricordo.
-
Ci credi che sono riuscito a recuperare la radio solo dopo
pranzo? – la voce di Orlie
mi fece
sobbalzare. Scattai in piedi. – Ehi, non volevo spaventarti!
– sorrise. Vedendo la mia faccia contrariata, mi
allungò una mano. – Che dici di andare? Conosco un
ristorante cinese niente male. Cioè, veramente non lo
conosco io, ma Google.
-
Mi sembrava strano, il fatto che conoscessi un ristorante
cinese a Matamata di tua iniziativa! – lo presi in giro.
– Andiamo, dopo tutti questi balli ho fame!
Essendo
componenti della Compagnia, anche se ci sforzavamo, passavamo di rado
il tempo da soli come coppia. Non che gli altri fossero invadenti, ma
tra le riprese, gli allenamenti e tutto il resto, anche se lavoravamo
insieme, non ci permetteva di viverci come avremmo realmente voluto.
Non posso
dire che quello fosse il ristorante cinese più rinomato di
Matamata. Anzi, a dire la verità, ancora non so se ce ne
sono altri, in quella splendida cittadina. Appena entrammo, ci accolse
una cameriera cinese, che parlava bene la nostra lingua, ma con qualche
picco di accento cinese. Ci chiese in quanti eravamo e ci
scortò fino ad un tavolo all’angolo della sala
semivuota, abbastanza isolato e tranquillo. Appena ci sedemmo, la
stessa cameriera ci porse due menù verdi acqua –
da dove li aveva pescati? – e se ne andò con un
piccolo cenno. Aprii il mio, e nel farlo vidi che una parete del
ristorante, quella opposta al nostro tavolo, era fatta completamente di
doppio vetro, che permetteva di vedere tutto quello che succedeva in
strada – potevi persino contare le foglie secche sul
marciapiede. Mi dava un po’ di fastidio mangiare
“in vetrina”, ma dentro a quel locale si stava
così bene, era così tranquillo, che non avevo
voglia di mettermi a fare i capricci, specialmente dopo aver adocchiato
alcune delle prelibatezze raffigurate sul menù. Immaginai un
gatto che si lecca i baffi e sogghignai.
-
Anche tu stai pensando al gatto beato?
Lasciai
cadere il menù sul tavolo. – Come hai fatto???
-
Ormai le nostre menti si stanno fondendo. –
annunciò criptico, annuendo piano con la testa. Una scena
che risultò alquanto inquietante, ma al tempo stesso comica.
Sorrisi.
Restammo
concentrati ancora qualche minuto, intenti a scegliere la nostra cena,
finchè la stessa cameriera – o era una diversa?
Con quella divisa sembravano tutti uguali – venne con il
libretto delle prenotazioni a scrivere quello che volevamo. Orlando
scelse porzione gigante di nuvole di drago, io involtini primavera.
Orlando spaghetti alla salsa di soia e io riso alla cantonese, e per
finire, anatra imperiale e gelato fritto.
-
Non sarà un po’ troppo? –
chiesi indecisa quando la cameriera se ne fu andata.
-
Se non riesci a mangiare qualcosa, dai pure a me. Tutto
l’allenamento di oggi mi ha stancato. Devo dire che
più divento bravo con l’arco, e più mi
stanco.
-
Mmmm, modesto, eh?
Ridemmo.
Appoggiai un gomito sul tavolo e giocai con il bicchiere pieno
d’acqua. Ripensai a Linnie, all’uomo-armadio, a
Elijah… a tutti gli avvenimenti di quel giorno. Orlando
intanto parlava, ma io non lo stavo ad ascoltare. O meglio, gli
prestavo solo un orecchio: raccontava di quello che aveva fatto durante
il giorno, e soprattutto si divertiva come un matto a ricordarmi
com’era la mia faccia mentre prendevo quella bottiglia di the
alla pesca. Non è che non fossi interessata al suo discorso,
ma la mia mente cominciava a deconcentrarsi, come mi succedeva spesso
in quelle sere. Sospirando, presi il bicchiere in mano e bevvi un sorso
d’acqua. Orlando intanto non smetteva più di
parlare: sembrava una di quelle vecchiette al parco, che per ricordarsi
il nome dei nipoti dicono i nomi di tutto l’albero
genealogico, e intanto ne approfittano per raccontare la storia della
loro interminabile vita. Sorprendente di come non si ricordassero il
nome dei propri figli e nipoti ma si ricordavano perfettamente di che
colore erano le persiane della loro casa natale. Mentre svuotavo il
bicchiere, mi parve di scorgere, dall’altra parte della
strada, un’ombra scura, con in mano qualcosa di strano. Ma il
tempo di sgranare gli occhi e guardare meglio, e la figura era sparita.
-
Qualcosa non va? – Orlando, finalmente, aveva
interrotto il suo lunghissimo sproloquio.
-
No, niente, solo che… non lo so, mi è
sembrato di vedere… qualcosa – feci uno
strano gesto
con la mano – laggiù.
Orlando si
voltò, scrutò la strada per pochi secondi e poi
mi guardò. – Probabilmente non era niente
– disse scrollando le spalle – forse un passante.
-
Già, forse. – convenni.
-
Oh oh! Guarda lì! Mi sa che sono per noi!
– disse, quasi esaltato, con lo sguardo
rivoltò
all’entrata della sala. Mi voltai e vidi la cameriera
dirigersi verso di noi con dei piattoni immensi. Uno lo pose
delicatamente di fronte a me e l’altro, ovviamente, di fronte
a Orlando. Costui – non posso dire uomo, perché in
quel momento uomo non lo sembrava affatto – si
passò la lingua sulle labbra e attaccò a divorare
le sue nuvole di drago. Io mi limitai a sembrare più
educata: versai la salsa agrodolce sugli involtini e me li mangiai con
gusto.
Dopo lo
squisito antipasto, fu la volta del primo, poi dell’anatra
– che condividemmo – e del gelato fritto. Divorai
il dolce chiedendomi come diavolo avesse fatto il cuoco a friggere una
palla di gelato, ma ne lasciai metà. Ero al limite. Ma Orlie
fu più che felice di finirlo.
Orlando
aveva imparato a non fare più lo scherzetto del portafoglio
dimenticato: un sollievo per lui, visto che dopo il pranzo
all’Hippopotamus quel giorno a Wellington l’avevo
minacciato seriamente di ucciderlo se ci avesse riprovato. Da bravo
gentiluomo, pagò con la carta di credito e uscimmo dal
ristorante. La temperatura, durante il giorno, era scesa notevolmente.
Mi prese per mano e insieme ci avviammo alla macchina, che aveva
parcheggiato in un posteggio abbastanza lontano: un lieve
bacio per scaldarsi le guance e poi via, di corsa – o quasi
– verso la macchina, pronti a ritornare in albergo.
Anche se la
giornata era stata lunga e faticosa, arrivata in albergo dopo la serata
con Orlie mi sentii bene: in quel momento non c’erano
pensieri ripetitivi che mi pulsavano nel cervello, né
battute in elfico da ripetere, né canzoni da ascoltare e
liste di cose da fare. Pensavo soltanto a com’ero stata bene
con lui quella sera, e la memoria volò subito al ricordo
della mia festa di compleanno. Arrossii. Misi la chiave della mia
stanza nella toppa e, girandola, aprii la porta. Orlie mi guardava
dalla soglia, un po’ assonnato ma felice. Lo guardai e
sorrisi.
-
Adesso sei tu ad avere la faccia sbattuta.
-
Cosa vuoi: un po’ per uno, no? Tu sembri riposata
invece.
-
Forse, ma in realtà ho voglia di andare a
letto…
-
Beh, allora buonanotte. Vedrò di rubare a Billy
qualche coperta prima che si
abbozzoli.
-
Aspetta – lo fermai. Col cuore che pulsava, mi
avvicinai a lui e lo abbracciai. Lui
rispose
all’abbraccio, e mi baciò i capelli. Lo baciai a
mia volta, e prima che gli saltasse in mente di andarsene, lo afferrai
per la felpa e lo portai dentro. Chiusi a chiave la porta e…
Fu una delle
notti più belle della mia vita, e il giorno dopo
arrivò in fretta. Senza svegliarlo, come il giorno prima, mi
preparai e uscii, raggiungendo gli altri Hobbit
nell’ingresso. Non credo che ci abbiano sentiti, ma comunque
non ne fecero parola, e interpretai le gomitate d’intesa tra
Billy e Dom come uno dei loro soliti giochini.
La prima
parte della giornata lavorativa si svolse più o meno come la
precedente, ovvero: trucco alle cinque e mezza del mattino al
set, poi salto in macchina e corsa allo studio. Ma invece di passare
l’intera giornata chiusi lì dentro, Donna
Butterfly ci fece provare un’ultima volta il ballo, poi i
cameraman entrarono in azione, un paio di prove e voilà, la
scena del ballo risultò buona a Peter, Fran e Philippa
già dalla seconda ripresa. Così, si chiuse quella
che sembrava la parte faticosa. Quel pomeriggio io ero libera,
così decisi di farmi un giretto in città: in
più, era da tanto che non aggiornavo i miei gossip: anche se
non era uno dei miei hobby preferiti, mi piaceva sapere un
po’ di notizie meschine sui miei
“colleghi”.
Alla scuola
di Oxford avevo un’amica, Mary, che amava spostarsi in
motorino. Appena la conobbi, cominciò subito a parlarmi di
moto, di tutti i tipi e di tutte le marche, e così
l’argomento cominciò a interessarmi. Un
giorno, verso la fine del secondo anno, Mary mi propose di imparare ad
andare in moto: così mi trascinò a casa sua, mi
mise un casco in testa e passammo la settimana successiva a fare giri
del suo isolato. All’inizio – quella fase ancora
tutta traballante – io andavo lentissima e lei mi seguiva di
corsa; dopo due giorni, ero in grado di andare da sola dritta, senza
scatti in avanti, indietro, destra, sinistra e – una volta
– in alto. Alla fine della settimana, sapevo portarla dietro
con me e fare il giro dell’isolato in meno di un minuto.
Quell’anno
Mary fu bocciata, e invece di continuare gli studi scelse di cambiare
scuola, ma continuammo a tenerci in contatto. Ma un giorno mi disse che
suo padre aveva ricevuto una promozione e dovevano trasferirsi in
Germania. Quattro giorni dopo partì e io non la sentii
né vidi più.
Visto che
ancora non avevo la patente per guidare la macchina, e qualcosa mi
diceva che prima dell’uscita del Ritorno del Re non ce
l’avrei fatta a prenderla, decisi di raggiungere Matamata in
motorino. Un tecnico del suono mi prestò il suo, con la
promessa di non riportarglielo rigato o con una ruota bucata.
-
Mica sono un teppista! – dissi, e salii in sella.
Decisi di
parcheggiare la moto nel posto dell’albergo e di girare un
po’ a piedi. Era bello recitare con i ragazzi, ovvio, ma era
ancora meglio stare un po’ per i fatti propri. Dopo qualche
giro di strada e attraversamento di strisce, mi trovai davanti ad
un’edicola. Sorridendo tra me e me pregustando già
i pettegolezzi che avrei trovato, presi il portafoglio dalla borsa ed
entrai. Ma qualcosa, appena varcata la soglia, mi bloccò.
Sulle
mensole degli scaffali, sulla copertina di ogni giornale, campeggiava
una foto che raffigurava o me e Orlando al tavolo del ristorante, o me
e Orlando per mano che camminavano per strada. Ogni giornale aveva la
mia faccia sbattuta in copertina. Chi più zoomata, chi meno,
ma ero sempre io. Sempre Lesley Dalton e Orlando Bloom. E i giornali
recitavano “Orlando Bloom: una nuova conquista
amorosa?”, “La ragazza di Orlando Bloom”,
“Lesley Dalton e Orlando Bloom: un boom di cuori!”
Shockata e
impaurita, presi il cellulare.
-
Orlando – dissi lugubre. – Abbiamo un
problema.
Intanto
chiedo scusa per il mio enorme ritardo, ma è stato difficile
scrivere questo capitolo – e ringrazio tantissimo Niniel per
avermi dato qualche dritta -. All’inizio
l’intenzione era di scrivere un capitolo 12 più
lungo, ma poi mi è venuto in mente che se avessi continuato
non ci sarebbe stato un altro colpo di scena come quello…
là sopra.
Come al
solito, gente, fatemi sapere che ne pensate!
Per farmi
perdonare da voi lettori – amatissimi – ho deciso
di mettervi un “ritratto” di Les che ho fatto con
faceyourmanga.com. Che ne pensate?
a
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Capitolo 13 *** Cap 13. ***
La mia vita sul
set – Cap. 13.
-
Che
succede? – gli sentii dire dall’altra parte,
preoccupato forse a causa del mio tono di
voce. Mi guardai in giro e nascosi la faccia contro il muro, parlando a
bassa
voce per non dare nell’occhio.
-
Ti
spiego dopo – dissi. – Dove ci vediamo? Dove sei?
-
Io?
Sul set. Ma Les, che sta succedendo?
-
Ho
detto che ti spiego dopo. Ci vediamo tra mezz’ora. Al bar.
Faccio prima che
posso.
-
Lesley…
Chiusi la
telefonata senza ascoltare quello che aveva da dire, cacciai il
telefono nella
borsa e estrassi cinquanta dollari dal portafoglio, e aggiunsi altri
dieci
dollari per sicurezza. Poi, senza guardare tutte le copertine che mi
circondavano, mi diressi al bancone e sbattei i soldi sul legno.
-
Mi
dia una scatola e tutti questi giornali. – il commesso, un
po’ anzianotto, mi
guardò stupefatto.
-
Ma…
ma signorina – cercò di ribattere. –
Questa è la fornitura di tutto il venerdì.
Fino a lunedì non mi arriva più niente.
-
Ah,
sul serio? – dissi, sfrontata. Estrassi il portafoglio dalla
borsa e presi altri quaranta
dollari. – Fanno cento dollari. Le bastano fino a
lunedì? – lo guardai così
male che non ebbe il coraggio di replicare, ma vidi nel profondo dei
suoi occhi
una scintilla di compiacimento. Non gli andava tanto male in fondo.
Prese i
soldi dal bancone e con un “un momento, prego”
farfugliato giusto per dire
qualcosa, scomparve nel retro. Tornò dopo pochi secondi e
poggiò la scatola sul
bancone. Io intanto, per fare prima, cominciai a raccattare giornali
dagli
scaffali e li buttai dentro la scatola. Il commesso cominciò
a fare lo stesso.
-
Ma…
un momento – disse perplesso dopo un paio di minuti guardando
la copertina di
un giornale. Alzò il viso e guardò me, che mi ero
fermata con una pila di
giornali in mano a guardarlo. Mi osservò per un secondo e
poi tornò a guardare
la copertina. Poi me, poi la copertina. Me e la copertina. –
Ma lei è questa
qui? – indicò la mia faccia zoomata. –
Lei è Lesley Dalton?
-
Sì,
esatto, sono io – buttai l’ultima pila di giornali
nella scatola.
-
Oh,
miseriaccia! – saltò su e cominciò a
fare saltelli frenetico. – Ho sempre sognato
di
incontrare un’attrice! La prego, la prego la prego, mi faccia
un autografo! –
supplicò. Rimasi per un attimo a bocca aperta: mi aveva
colto di sorpresa.
-
Ehm…
certo. – dissi, cercando una penna nella borsa. Lui intanto
era corso dietro al
bancone e aveva estratto un foglietto per le ordinazioni – o
almeno quello mi
era sembrato. Me lo porse con un sorriso smagliante. Mi avvicinai a lui
e
schiacciai un paio di volte il tastino della penna a scatto,
pensierosa. Come
si faceva a fare un autografo?
-
Come
si chiama?
-
Geoffrey!
- Sorrisi per la prima volta da quando ero entrata
in
quella piccola edicola e Geoffrey parve sciogliersi. Non so se fosse
per il
sorriso o per il “dammi del tu”. Attirai il
foglietto verso di me e scrissi:
“Al gentile Geoffrey, grazie per
avermi dato
una mano. Lesley Dalton J”.
Scarabocchiai il mio nome e
gli porsi il foglio. Geoffrey lo prese
fremente, lo lesse e per un attimo temetti che gli fosse venuto un
infarto.
-
Sa,
queste foto non le rendono giustizia – disse chiudendo la
scatola.
-
Grazie
– dissi, e feci per prendermi la scatola.
-
Ferma!
– esclamò tutto ad un tratto. – Non
tocchi quella scatola!
-
Geoffrey,
io l’ho già pagata!
-
Ma
no! Anzi, mi faccia un favore, si riprenda questi soldi. Gliela porto
io la
scatola alla macchina!
E mentre
faceva forza con le braccia e diventava rosso per lo sforzo per
sollevare la
scatola io pensai “Quale macchina?”, ma non ebbi il
coraggio di dirlo ad alta
voce, perché quel tizio era capace di offrirmi un passaggio
fino al set perfino
se avesse avuto come mezzo di trasporto un mulo. Uscì
barcollante dall’edicola,
e si fermò.
- Ma dov’è la
sua auto?
- Beh, io ho
il motorino. È a poca distanza da qui.
- Oh, non c’è
problema! Andiamo!
Quel tizio era
proprio strano. Fui costretta a dargli indicazioni fino al parcheggio
dell’albergo. All’entrata, si fermò a si
appoggiò contro il muro per riprendere
fiato. Dopotutto, era un ometto di sessant’anni e passa.
- Grazie
mille, Geoffrey, mi è stato di grande aiuto. Mi lasci pure
la scatola, me la
cavo.
Lo costrinsi a
mollarmi la scatola e la poggiai tra il sedile e il manubrio. Mi misi
il casco
e vi sbirciai dentro, dove in cima alla pila di riviste ce
n’era una con la
foto di me e Orlando che ci baciavamo dalla macchina, prima di salire
per
tornare in albergo. Quella vista bastò a farmi tornare la
rabbia. Saltai in
sella, accesi il motore e partii, dopo aver fatto un lieve cenno di
saluto a
Geoffrey. Svoltai l’angolo, dicendo addio al mio pomeriggio
in solitudine a
Matamata, e ricordandomi che avevo lasciato i cento dollari sul bancone.
Come
riuscii a
non cadere e a non traballare per il troppo peso della scatola, non lo
seppi
mai. Fatto sta che appena poggiai i piedi sul terreno del set, fui
presa di ringraziare
il cielo di non essere caduta come una pera. Sospirando, mi tolsi il
casco e lo
poggiai sul sedile, per poi prendere la scatola e portarla lentamente
incespicando fino a quello che definivamo bar, ossia un gazebo coperto
di
teloni bianchi e con dei tavoli bianchi affiancati l’uno
all’altro. Una sala
mensa all’aperto, diciamo. La gente, al mio passaggio, si
voltava a guardarmi
perplessa, ma nessuno si offrì di aiutarmi.
Capii di
essere arrivata a destinazione quando sentii la voce di Orlando
imprecare
qualcosa e correre ad aiutarmi.
-
Ma
che diavolo è tutta questa roba?
-
Lascia
fare a me e siediti.
Rovesciai il
contenuto sul tavolo: decine e decine di giornali di tutte le marche e
dimensioni si rovesciarono sulla plastica bianca, e in tutti, tutti c’ero io. Una cosa molto
snervante.
Non mi ero
accorta che dietro Orlando c’erano anche tutti gli Hobbit
tranne Sean – doveva
essere con la moglie e la figlia. Dom fece una specie di strilletto e
cominciò
a sventolarsi con una mano, mentre Elijah faceva
“Uuuuuuuh!” e Billy rideva. La
cosa non mi andava a genio. Dal canto suo, Orlando si era alzato e si
era
avvicinato ai giornali, prendendone alcuni in mano.
-
Cos’è
questa roba? – fece.
-
Dimmelo
tu – risposi io.
-
Lesley
è stata paparazzata! – esclamò Dom.
– Non hai detenuto il record per molto,
eh?
-
Gira
al largo, Monaghan. È una faccenda tra me e Bloom.
-
Ahia,
Les sta usando i cognomi… - commento Elijah girando sui
tacchi e filandosela.
-
Les
è moooooooooooooolto arrabbiata… - anche Billy se
la filò. Dom si parò
davanti a Orlando, gli poggiò le mani sulle spalle e disse:
-
OB
– sospirò sconsolato – buona fortuna.
– e pure lui se ne andò.
Io e Orlando
restammo in silenzio per qualche istante: lui prendeva giornali a caso
e
guardava la copertina, io non avevo il coraggio di guardarli di nuovo.
Appena
si ritenne soddisfatto, si appoggiò al tavolo, si
grattò il mento, incrociò le
braccia e, con un lieve sospiro, disse:
-
Les,
non è così grave.
-
Non
è così grave?
– ripetei, indignata. –
Ti rendi conto di cosa vuol dire?
-
Sì,
ma…
-
Ogni
schifosissima edicola di tutto il mondo a questo punto starà
sfoggiando la
mia faccia e la tua insieme su tutti i giornali! E già ho
speso cento dollari
per svuotarne una!
- Tu… hai
speso cento dollari… per svuotare un’edicola piena
di giornali con una tua
foto? – disse Orlando, e scoppiò a ridermi in
faccia. Rideva a crepapelle. Non
ci vidi più: gli tirai un gancio destro neanche niente male,
dritto sul naso.
Il
contraccolpo lo fece schizzare all’indietro e poi ripiegare
in avanti. Si mise
le mani intorno al naso e strizzò gli occhi.
-
Lesley,
porca miseria! Che diavolo ti prende! – disse dolorante.
– È normale venire
paparazzati, razza di stupida ragazza! Perché cavolo mi hai
colpito?
-
Non
ci arrivi da solo? Mi hai riso in faccia!
– sbottai. – E non è normale venire
paparazzati! Capisci che vuol dire? Gente che ti segue, ti spia e ti
fotografa,
per fare scoop!
-
Ah,
solo adesso capisci che non è bello leggere i pettegolezzi
degli altri? – si
passò una mano sotto il naso, dal quale scorreva un
rivoletto di sangue. – Sbaglio o era
uno dei tuoi hobby?
Si era davvero
arrabbiato, ma non mi importava. Lo ero di più io. Presi a
caso due giornali
dal tavolo e glieli sventolai davanti.
-
Guarda
qui! Guarda! Ecco la prima pagina di “Telenovela”: Orlando Bloom, una
nuova conquista amorosa?. E…
oh! Guarda qui. “Dalle stalle alle
stelle”: Chi è la
ragazza con Orlando
Bloom? – li lanciai lontano. – Vedi, ci
hanno preso fuori
dal ristorante!
-
Ma
che cosa caspita c’è di male! Lesley, sei una
stupida. Non ti può sconvolgere
una sciocchezza del genere!
-
Sciocchezza?
Sciocchezza?? Ecco, ecco che
cos’era
l’ombra che avevo visto
dietro
all’albero! Era uno di loro! – ero quasi arrivata
ad urlare. Chiusi le mani a
pugno e la faccia mi diventò rossa. – E tu lo
sapevi, lo sapevi, ma non hai
voluto dirmelo!
-
Ma
che stai dicendo? Secondo te non te l’avrei detto per farti
dispetto?
-
Sai
che ti dico? È colpa tua!
Sgranò gli
occhi. – Cosa?
-
Già,
è colpa tua! Perché io neanche volevo uscire!
-
Dimmi
una cosa. Cos’è che ti brucia di più,
il fatto di essere stata
paparazzata, o
che non detieni più il record degli Hobbit? O forse che non
ti vada giù che la
gente faccia quello che tu hai fatto per un sacco di tempo: violare la
privacy
degli altri? Ma devi imparare a fregartene, Lesley! Fregatene! Tutti
gli attori
veri vengono paparazzati. Vuoi sentirti un’attrice vera?
Verrai paparazzata!
Facci l’abitudine.
Digrignai i
denti e guardai per terra. Il cuore batteva forte. – Sai
cosa? – lo guardai. –
Hai ragione. Non mi sono mai resa conto di quanto sia fastidioso. Ma
ecco. –
ammucchiai un po’ di giornali e glieli misi in mano.
– Visto che tu te ne
freghi, fregatene anche di me.
-
Lesley,
stai esagerando.
-
Può
darsi. Ma a te non te ne frega, giusto?
Senza dire
nient’altro, voltai i tacchi e me ne andai per i fatti miei,
incavolata con
Orlando, con i paparazzi e con tutto il mondo in generale.
Raggiunsi un
posto isolato quasi di corsa e cercai di sbollire la rabbia, camminando
in
cerchio fino a farmi girare la testa. A quel punto mi fermai e decisi
che era
stupido continuare a rimuginarci sopra: meglio farsi una passeggiata.
Il tempo di
formulare un pensiero del genere, e il mio cellulare iniziò
a squillare. Lo
tirai fuori di malo modo dalla borsa – che, poveretta, era
rimasta spiaccicata
dal peso della scatola -, decisa a mandare al diavolo chiunque fosse, ma
poi
lessi il nome sullo schermo, e decisi che non sarebbe stata una buona
idea.
Sospirando, spinsi il tasto verde.
-
Ciao,
mamma.
-
Oh,
Les, tesoro, ma che combini? Ci sono le tue foto sui giornali!
-
Lo
so, mamma, è stata solo una piccola disattenzione e non
ricapiterà mai più.
-
Tesoro,
stai scherzando? È fantastico! Finalmente sei famosa!
-
Mamma,
io non sono famosa!
-
Oh,
per amor del cielo, non fare la sciocchina! Secondo te ti ho chiamato a
quest’ora di
notte per un nonnulla? Se tu non fossi famosa, non ti avrei chiamato!
-
Grazie
mamma! – dissi sarcastica – Sono felice di venire a
conoscenza la
quantità di
amore che provi nei miei confronti!
-
Oh
mio dio! OH MIO DIO!! Lesley, stanno parlando di te a “Fatti
tuoi!”! Mia
figlia è in
televisione!!! – e scoppiò in un pianto di gioia
irrefrenabile e la sentii
chiamare a gran voce mio padre. Spensi la comunicazione: tanto se
avessi detto
qualsiasi altra cosa non mi avrebbe sentito. Sperai solo che non
cominciasse a
fare il giro di telefonate ai parenti.
Sbuffai e
pestai un piede per terra in modo infantile. Quando mi arrabbiavo non
c’era
proprio niente da fare: tutti i programmi mi si cancellavano
automaticamente
dalla testa. Mi passai una mano fra i capelli.
Dovevo parlare
con qualcuno.
-
Uuuuh,
qui c’è del formaggio! No no, lascia stare.
Zio Ian – o
meglio, Bilbo Baggins – girava a telecamere spente, provando
e riprovando la
stessa scena. Ma, ogni volta che ricominciava da capo, la faceva in
modo
diverso. Questo era lo stile inconfondibile di Ian Holm: riproporre ad
ogni
scena lo stesso personaggio ma in maniera diversa. Era imprevedibile
come
pochi.
- Zio Ian, non
potremmo parlare un secondo? – lo seguivo come una svitata
per tutta la cucina
di casa Baggins, con le mani affondate nelle tasche della mia felpa
blu, ma lui
non sembrava darmi ascolto. Si diresse verso l’ingresso della
casetta, fece
finta di mettersi qualcosa in bocca e disse con falsa voce da bocca
piena:
- Non ti
dispiace se mangio?
- Zio Ian?
Potremmo fare quattro chiacchiere?
- Mia piccola
dolce Lesley, sono molto occupato: non potremmo rimandare a, che ne
dici,
domani o dopodomani? È qualcosa di importante?
Rimasi in
silenzio per qualche secondo, pensando a come rispondere.
-
No,
non è importante – dissi alla fine. –
Grazie lo stesso.
Sospirai e,
uscendo dalla casetta, guardai l’orologio. Le otto meno un
quarto.
Tanto valeva
tornarsene in albergo e ripassare un po’ di elfico. Gran
bella giornata del
cavolo. E dire che era partita bene.
Nessuno
mi
disturbò quella sera, così la mia rabbia ebbe il
tempo di sbollire e di
lasciare posto ad un po’ di rimorso per aver colpito Orlando
in quel modo. Dopo
essere andata inutilmente da zio Ian avevo mandato un messaggio a
Linnie,
chiedendole “che fai stasera?” e lei mi aveva
risposto solo “Justin”. Ma
quand’è che si decideva a scaricarlo? Avevo
seriamente paura che le facesse del
male: e non era infondata. Da spie dilettanti provette, Billy e Dom
erano
andati in giro a raccogliere qualche informazione
sull’Armadio. Aveva una serie
di reati minori alle spalle: furto con scasso, rapina… non
aveva esattamente la
fedina penale pulita. E soprattutto, grosso com’era, se
avesse deciso di fare
del male a Ilana ci sarebbe riuscito benissimo: lei era tanto piccola e
indifesa, e un solo braccio di Justin era grosso quanto un cinghiale.
Scacciai
questi pensieri spiacevoli scuotendo la testa. Non era proprio il
momento per
pensarci. E poi, anche se aveva la fedina penale sporca, Peter
l’aveva assunto,
il che vuol dire che non era propriamente una minaccia.
pigiama,
seduta a gambe incrociate sul letto, rilessi ancora una volta alla
svelta le
parole in elfico e le ripetei, sforzandomi di moderare la voce su un
tono da
elfo saggio. Il risultato non fu dei migliori, ma lasciai perdere.
Stropicciai
il foglio e lo lanciai sul comodino, buttandomi poi sul cuscino. Rimasi
un po’
a fissare il soffitto, pensando: dovevo chiedere scusa a Orlando per il
pugno?
Eppure era colpa sua se ci avevano paparazzati fuori dal ristorante, di
questo
ne ero fermamente convinta. Inoltre, ero troppo orgogliosa per chiedere
scusa
per prima.
-
Al
diavolo – mi girai su un fianco e spensi la luce del comodino.
Immagini
confuse mi scorrevano davanti
agli occhi: legno, acqua. Roccia. Una luce abbagliante. La bruttissima
sensazione di respirare acqua. E poi il mio sogno ricorrente: aerei,
grida,
morte. Distruzione. L’immagine cambiò: ero in
piedi, in uno spazio bianco
immacolato, e fissavo due numeri. 11 e 9.
Mi drizzai a
sedere, coperta di sudore e il cuore che pulsava in gola. Mi mancava
l’aria. Mi
alzai e corsi in bagno a sciacquarmi la faccia. Con il volto bagnato,
mi
guardai allo specchio. I due numeri, 11 e 9, continuavano a comparirmi
davanti.
Riempii un
bicchierino d’acqua e lo mandai giù, cercando di
calmare il batticuore. Scossi
la testa. Era solo un sogno.
Me ne tornai a
letto.
Non
me n’ero
resa conto, ma se hai un lavoro normale e una vita normale, se litighi
con
qualcuno – che chiameremo Bob - puoi tagliare completamente i
ponti con Bob e
fregartene finché uno dei due non cede e chiede scusa. Ma se
sei un attore e
litighi con Bob che è anche il tuo fidanzato e collega, sei
costretto a vederlo
di continuo, tutti i minuti di tutti i giorni. E tagliare i ponti
è
impossibile, a meno che non spegni il tuo telefono e cambi il PIN del
telefono
di Bob, col risultato di farlo incavolare ancora di più.
Cambiare il
PIN di Orlando non era stata una buona idea.
Ma il fatto è
che me l’aveva suggerito Dominic. “Vedrai, Les,
impazzirà!” mi aveva detto.
È impazzito,
ma nella maniera sbagliata. E subito dopo Dominic non è
riuscito a trovare un
cespuglio abbastanza folto per nascondersi: l’ho trovato nel
bagno degli
uomini, armata di padella antiaderente. E la cosa più
snervante non è che
piangesse per la botta presa in testa, ma se la rideva come un matto,
tant’è
che credetti di avergli spostato qualche rotella.
- Poverino,
già ha qualche rotella fuori posto, se poi lo colpisci con
una padella… a
proposito, dove l’hai pescata quella? – Mi chiese
Emma mentre truccava una
bambina Hobbit, seduta su uno sgabello in mezzo al prato, dopo che le
avevo
raccontato l’intera faccenda.
- Emmie, non
potremmo parlarne un attimino-ino-ino? – supplicai.
- Non
chiamarmi Emmie, Les, mi ricorda il formaggio. E questa bella bambina
– le
prese le guance tra le dita e gliele sbatacchiò di qua e di
là, mentre lei
rideva – è stata proprio brava! Bravissima!
La bambina
corse via e al suo posto arrivò un bellissimo bambino biondo
chiaro. Emma,
sospirando, si risedette e ricominciò il lavoro da capo.
-
Em?
Possiamo parlarne? – ripetei la domanda.
-
Les,
mi piacerebbe, davvero, ma sono molto impegnata. Devo ancora
ritoccare una
mandria di bambini.
-
Non
credo che “mandria” sia il termine esatto per
definire un gruppo di bambini.
Non sono mica animali. – commentai.
-
Sarà,
ma mi fanno paura i loro piedi. – confessò Emma
impassibile.
Sgranai gli
occhi. Sbuffai. – Ok, faremo un’altra volta
– dissi rassegnata.
Mi voltai per
andarmene e mi ritrovai di fronte a Orlando, proprio come succede nei
film dell’orrore,
quando il mostro ti appare dietro e ti uccide. Sembrava estremamente
arrabbiato. Mi fissò duro, paonazzo, e poi esplose come un
palloncino.
-
Lesley,
sei un’idiota! – urlò.
-
Anche
tu! – risposi. Ma internamente pensavo: “Che ho
fatto adesso?”
Voltò
sfacciatamente la testa dall’altra parte e girò i
tacchi. Dio, com’era
infantile. Ciò contribuì enormemente a far
resuscitare la mia ira morta e
sepolta durante la notte.
Me ne andai a
grandi falcate, scendendo la collina, e dirigendomi verso la
macchinetta delle
bevande.
Avevo bisogno
di un altro caffè.
Ed erano solo
le 8.30 del mattino.
Perfetto.
Stavo benissimo. Seduta sull’erba all’ombra di una
roulotte, con le colline e i
campi verdi davanti e il fiume che scorreva a valle, in jeans, felpa e
caffè bollente.
Non mi serviva altro, solo qualche confidente.
Era strano.
Era sempre tutti lì, a ficcare il naso nei tuoi affari, e
quando ti servivano,
PUFF!, sparivano. Li avevo provati tutti: Zio Ian – troppo
impegnato -, gli
Hobbit – troppo impegnati -, Emma – troppo
impegnata -, Linnie – svanita nel
nulla assieme all’Armadio -, Peter – troppo
impegnato -, qualche comparsa a
caso – troppo discreti per ficcare il naso nei tuoi affari,
benedetti
neozelandesi -…
Mi stavo
sicuramente dimenticando qualcuno, ma mi sfuggiva chi. Bevvi un sorso
di caffè
e chiusi gli occhi, ripensando a Orlando. Che razza di idiota. Che gli
avevo
fatto stavolta?
-
Sai,
mi sembri già abbastanza nervosa anche senza quel
caffè. – disse una
voce saggia
che conoscevo.
Aprii gli
occhi e mi tirai su a sedere. – Viggo!
-
Ciao
Les! A quanto pare tira aria poco buona tra te e Orlando! –
disse stringendomi
la mano con la sinistra. È vero, eravamo colleghi e amici e
anche lui faceva
parte della Compagnia, ma io lo stimavo troppo per trattarlo con lo
stesso poco
rispetto – reciproco – che riserbavo per gli altri
ragazzi.
-
Già,
a quanto pare… uffa, il fatto è che io non sono
una che si arrabbia
facilmente, ma
a volte esco proprio pazza.
-
Benedetta
ragazza, capita a tutti! Ma questo lo prendo io, – prese
lentamente il
mio bicchiere di caffè e se lo scolò tutto
– per evitare altre pazzie da parte
tua.
Si buttò la
spada in spalla con la stessa disinvoltura di un contadino che prende
la zappa,
e mi guardò dritta negli occhi, senza mostrare la minima
espressione. Oh-oh.
Era entrato in fase “Botta e riposta”.
-
Quanti
anni hai? – buttò lì, con nonchalance.
-
18!
– risposi.
-
Sai
guidare la macchina?
-
No.
-
Hai
tutto quello che ti serve qui?
-
Direi.
-
Come
ti senti? – sorrise malvagio.
-
Molto
stressata e nervosa.
-
Perfetto.
– mi fissò con quei suoi occhi azzurrissimi e
inquietanti, da pazzo.
Qualche lucina
era cambiata nei suoi occhi, come se fosse scattato qualcosa, Clik! Un cambiamento drastico. Mi
metteva quasi paura. – Vieni! – esplose alla fine,
ridendo come un pazzo. Mi
prese una mano e si mise a correre giù per la collina,
trascinandomi dietro di
sé! Ero troppo colta di sorpresa per protestare, ma non si
sarebbe fermato
comunque. Mi costrinse a correre anche dopo aver superato la collina,
dopo aver
saltato oltre il sentiero e dopo aver superato una seconda collina.
Solo in
prossimità di un boschetto lì vicino mi permise
di fermarmi. Col fiatone, mi
voltai indietro per vedere il punto, abbastanza lontano, dove eravamo
partiti.
Mi appoggiai sulle ginocchia per respirare meglio. Viggo era un
omaccione,
certo, ma anche lui era un essere umano, anche lui aveva un cuore.
Aveva anche
lui il fiatone, una scena che in qualche modo mi fece sorridere.
-
Adesso
come ti senti? – chiese.
Ci pensai su
un attimo. – Meglio.
-
Sei
più rilassata?
-
No.
-
Fantastico.
Mi costrinse a
sedermi a gambe incrociate e mi piegò la schiena in avanti,
facendo pressione
con un ginocchio e premendo forte. Un male cane.
-
Viggo,
mi fai male così! – protestai.
-
Non
badare al dolore! – mi esortò. – Respira
profondamente.
-
Questa
è una tortura!
-
Lalalalalalalala!
Respira!
Non potei far
altro che eseguire l’ordine, e cominciai a inspirare e
espirare lentamente,
proprio come uno yogin. E Viggo faceva lo stesso. Appena ritenne che
poteva
bastare, mi lasciò andare. La mia schiena
schioccò in maniera inquietante
quando mi tirai su.
-
E
tutto questo per dimostrare…?
-
Adesso
come ti senti? Sei più tranquilla?
Mi pizzicai la
base del naso. – Beh, sì. Adesso sì.
-
Vedi?
– sorrise. –
Lo Yoga funziona.
-
Già!
– sorrisi.
-
Saresti
in grado, adesso, di parlare con Orlando in maniera civile in maniera
adulta?
-
Beh…
sì, se solo lui non si comportasse come un neonato.
Alzò le
braccia al cielo, stiracchiando le giunture in maniera niente affatto
elegante.
– Mmm, sì, ti capisco. Anch’io facevo
così all’inizio. Ma dimmi un po’: chi
dei
due fra voi era più arrabbiato?
-
Io,
sicuramente.
-
Quindi
tu l’hai aggredito. – Non era una domanda.
-
Sì.
-
Quindi
lui non ti ha fatto niente di male, giusto?
-
Sì.
– ammisi.
-
Quindi dovresti essere
tu a chiedergli scusa,
giuuuuuuusto?
-
Beh,
sì, ma…
- Oh, Dalton,
ficcati quella coda che hai tra le gambe e vai a chiedergli scusa! -
sbottò.
Dopodiché raccolse la spada, girò i tacchi e se
ne andò. Non avrebbe potuto
essere più convincente. Presi il telefono e scrissi un
promemoria.
“Per le 19.30. Andare da Orlando e
chiedere
scusa.”
Me ne andai,
finalmente tranquilla, a prendere… no, non un
caffè. The. Alla pesca.
19.30.
La
sveglia squillò. La spensi e non mi mossi. Niente mi avrebbe
separato da quel
meraviglioso piatto di carne portato dal servizio in camera.
20.15.
“Mmmmm…
quasi quasi schiaccio un pisolino. Passerò dopo da Orlando.
Dieci minuti”.
23.45.
Maledizione!
Avevo promesso
a me stessa che avrei dormito solo dieci minuti. Avevo dormito tre ore
e mezza.
Chi me lo diceva che Orlando non se n’era già
andato a dormire?
Il telefono,
posato accanto al cuscino, mi segnalò l’arrivo di
un messaggio: sperando che
fosse Orlando, mi buttai a pesce per prenderlo il più presto
possibile. Sbloccai
frenetica la tastiera, ma rimasi delusa. Non era Orlando: era Billy.
“Les! Posso
passare da te fra trenta secondi? 29… 28…
27…” Il messaggio terminava così.
Tipico
stile di Billy. Ancora venti secondi e qualcuno bussò alla
porta.
-
Sì,
Billy, arrivo! Erano proprio 30 secondi, eh?
Aprii la
porta, e rimasi spiazzata.
Non era Billy.
Era Orlando.
Con in mano un
mazzo di girasoli. Me li porse con un sorriso. Non sapevo se prenderli
o meno. Poi
alzai gli occhi al cielo, sorrisi e lo presi in mano, sfiorando la sua.
-
Grazie.
– sussurrai. Puntò l’indice verso
l’alto e disse, con un sorriso:
-
Eeeee…
non ti ho portato solo questo.
Sparì per un
attimo nel corridoio, e ritornò subito dopo con LA scatola
trascinata su una
carriola.
-
Visto
che Viggo ti ha fatto scuola di filosofia, che ne diresti di accettare
la vita
come va? Può essere divertente. Ah, ero io. Ho solo usato il
telefono di Billy.
Devi dirmi il nuovo PIN.
-
Aspetta.
– posai il mazzo di fiori sul tavolo all’angolo
della stanza e
cominciai a
girare in tondo. – Okay, io so quello che ti devo dire ma non
so da dove
cominciare, il che mi rende alquanto nervosa e capace di formulare un
pensiero
logico.
-
Prova
con parole tue.
-
Ho
sbagliato a darti un pugno sul naso.
Lui annuì. –
Mi ci è voluto un po’ per fargli tornare il suo
colore naturale. Tiri dei pugni
niente male, sai?
-
Ti
prego, non mi interrompere!
-
Scusa!
– si morse la lingua tra i denti, sorridendo birichino.
-
E
ho sbagliato anche ad aggredirti…
-
Ah,
non ti preoccupare, Les, in realtà ho sbagliato io, tu non
volevi uscire e io
ho insistito, se quel fotografo ci ha beccati… - io
continuai a parlare, non
avevo
intenzione di perdere il filo del discorso.
-
…
ma ero arrabbiata e impaurita, è una cosa totalmente
estranea per me… è stato
così strano… e quindi volevo dirti che…
-
E
perciò volevo dirti che…
-
È
colpa mia – concludemmo in sincrono. – Scusa!
– di nuovo insieme. Ci
guardammo e
scoppiammo a ridere. Ci abbracciammo.
-
E
per concludere – si mise in ginocchio sulla moquette e
cominciò a tirare fuori
riviste e a posarle per terra – facciamoci di gossip! Vediamo
quante belle
cavolate hanno scritto sul nostro conto!
-
Non
mi dire! – sbadigliai. – Sai che mia madre
è scoppiata a piangere perché mi ha
visto ad “Affari tuoi!”? Assurdo.
Non mi andava
proprio di leggere quello che gli altri pensavano di me,
perché era una cosa che
non mi aveva mai interessato, ma avrei fatto di tutto pur di non
rovinare quel
momento.
Stavo per
prendere in mano la prima rivista quando qualcuno bussò
insistentemente alla
porta. Mi alzai, aprii la porta, e il tempo si fermò per
qualche istante.
C’era
Linnie,
dalla mia porta, con il volto rigato di lacrime e un livido sotto
l’occhio. Aveva
anche un graffio sul collo, e sembrava in iperventilazione. Ma la cosa
più
sorprendente non fu vederla in quello stato, ma il fatto che sorrideva.
-
Lesley!
Les, Les, Les, posso entrare per favore?
Mi trascinò
dentro la stanza, salutò Orlando nascondendosi il viso e ci
rinchiuse dentro al
bagno.
-
Linnie,
che diamine ti è successo?
-
Prima
le cose più importanti.
-
Che
c’è di più importante di questo?
I strinse
nelle spalle: - Elijah.
- Elijah?
- Già. Mi piace.
- E allora?
Tirò un gran
sospiro e gli occhi le si illuminarono. -
Ci siamo baciati.
Fine di un altro
capitolo, scritto in
veramente poco tempo per essere più lungo del
solito… magari ho scritto più grande,
chissà.
Bene, cari lettori, sapete già quello
che vi chiedo dopo tredici capitoli! Vado a scrivere il numero
quattordici!
Vostra affezionata Panenutella xD
|
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Capitolo 14 *** Cap 14. ***
La
mia vita sul set – Cap. 14
- Non sto
scherzando Les! Ci siamo baciati davvero!
Risi e la
abbracciai: - Linnie, è grandioso! Ma… - tornai
seria. – Adesso, passiamo alle cose più
importanti: chi ti ha ridotta così? Elijah?
Linnie rimase
sconvolta. – Assolutamente no! Scherzi? El non lo farebbe mai!
-
E allora l’Armadio!
Avevo colto nel
segno. Linnie si rabbuiò e chinò il capo, e io
capii che stava per cominciare a piangere. Occorreva piano alternativo.
Aprii la porta del bagno e guardai dentro la camera, in mezzo alla
quale Orlando stava ancora seduto per terra a leggere giornali, e gli
dissi: - Orlie! Abbiamo faccende femminili da sbrigare qui! Se vuoi
restare resta, se non vuoi fila via!
-
Oh mio Dio! – saltò in piedi –
Non dovresti obbligarmi a scelte così ardue, Lesley! Lo sai
che non so decidere!
Se non
l’avessi conosciuto bene e l’avessi sentito parlare
con quel tono, avrei pensato che Orlando fosse omosessuale. Ridacchiai
al pensiero. – Orlando, dovresti essere contento! Volevi un
po’ di scoop? Eccoti servito!
-
Ma promettimi una cosa – m’interruppe
Linnie affacciandosi alla porta del bagno e asciugandosi gli occhi con
la manica della maglietta. – Non avrai reazioni esagerate a
niente di quello che racconterò.
-
D’accordo, Linnie – sorrise Orlando. Si
passò una mano fra i capelli. – Te lo prometto.
Dove ci mettiamo?
Mi voltai verso
di lei. - Dove vuoi metterti, Ilana?
-
Sul… sul letto? Che dici?
Orlando rispose
buttandosi a pesce sul mio letto. Linnie rise e lo seguì, ed
io, prima di sedermi fra di loro, tornai in bagno e presi una scatola
di fazzoletti mono-uso. Poi tornai in camera e mi sedetti a gambe
incrociate sul letto, accanto a Linnie e davanti a Orlando.
-
Da dove comincio? – si domandò Linnie,
grattandosi il dorso di una mano.
-
Magari potresti dirci chi ti ha ridotto così
– suggerì Orlando.
-
Giusto – abbassò il capo per alcuni
secondi, probabilmente cercando di
riordinare le
idee. Io e Orlando non osavamo fiatare, per paura che cambiasse idea.
L’orologio appeso al muro della mia camera segnava lo
scorrere il tempo con il suo inesorabile tic tac…tic
tac…
-
Stamattina mi ero messa d’accordo per uscire con
Justin…
-
Chi? – la interruppe Orlando.
-
Orlando, non fiatare – gli ordinai.
-
Ma chi è Justin? – insistette.
-
L’Armadio! – gli risposi spazientita, e
lui s’illuminò.
-
M-m, ho capito. – annuì.
-
S…stamattina – ricominciò
Linnie – mi ero messa d’accordo per uscire con
Justin. Avevo
già intenzione di lasciarlo perdere, perché non
andavamo molto d’accordo e lui era molto… rude.
-
Quindi voi due avete fatto… - iniziò a
commentare Orlie.
-
Orlandoooooooooo!!!!! – lo ripresi spazientita.
Alzò le mani e mimò il gesto di
chiudersi la
bocca con una cerniera.
-
Justin… l’Armadio…
è un tipo molto brusco e violento, e testardo. E
s’innervosisce quando non ottiene quello che vuole. No, non
s’innervosisce,
Si arrabbia
moltissimo. Ma sa come affascinare una donna. Ed io ci sono cascata.
–
Fece una breve
pausa. – Già da qualche giorno insisteva per
farlo, ma io non volevo. E quando stasera ho rifiutato per
l’ennesima volta, ha perso la testa.
-
Ti ha picchiata?
Lei
tirò su col naso e annuì. Le porsi la scatola di
fazzoletti, ne prese uno e si soffiò il naso.
-
Quel grandissimo bastardo! – esplose Orlando.
-
Avevamo detto niente reazioni esagerate, Orlie! –
gli ricordai.
-
Non me ne frega un accidente di quello che avevamo detto!
Quel gran figlio
di… -
si sforzò di non proseguire, profondamente irritato.
-
Linnie, non hai usato lo spray al peperoncino?
-
Non ci sono arrivata subito, avevo troppa paura. Ma poi
l’ho usato e sono riuscita a scappare. E ho chiamato Elijah.
Non so nemmeno perché, ero nel panico… e non
ragionavo.
-
Hai fatto bene – la rassicurai. – Elijah
che ha fatto?
-
Ha preso la macchina ed è venuto a prendermi. Io
però non ce la facevo a stare ferma, continuavo a muovermi e
lui non riusciva a farmi calmare.
-
Adrenalina – dissi.
-
Alla fine sono riuscita a raccontarglielo, e lui insisteva
per chiamare la polizia. Ma io non volevo. “Perché
non vuoi far arrestare quel bastardo? Sei troppo buona di
cuore” mi ha detto. E allora io sono scoppiata a piangere.
Lui mi ha abbracciato, e poi boh… ci siamo baciati.
Concluse la
storia con una vaga alzata di spalle, ma sapevo che cercava di
nascondere l’euforia. Sorrisi.
-
Tutto qui? Niente dettagli?
-
Orlando, vai fuori. – gli ordinai. –
Razza di essere insensibile. Fatti gli affari tuoi!
-
Disse prendendo in mano un giornale di gossip –
commentò Orlando.
dirigendosi verso
la porta. – Vado a cercare più informazioni dal
diretto interessato. Magari gli offro anche qualcosina. –
Aprì la porta. – Les, domattina facciamo una gara
con l’arco? È da un po’ che non tiri.
-
Ma sì, tanto domani lavoreremo di sera.
– mi voltai verso Linnie – gireremo la festa.
– Spiegai.
-
Adios! – ci salutò OB chiudendosi la
porta alle spalle.
Linnie sorrise e
si asciugò gli occhi.
-
Les, io adesso andrei… anche se so che non
riuscirei a dormire.
-
Se hai bisogno, io sono qui – dissi, intenerita.
Annuì
e si alzò, sfregandosi le mani. Si diresse verso la porta e
uscì, non prima di avermi rivolto un sorriso riconoscente.
-
Rosa
di fior, nasce l’amoor, tra Ilana ed Elijah l’amor
è nato
giààààà…
partono in due, tornano in tre, vuol dire che lì
è già nato un
bebéééééééééé!!!!
-
Qualcuno li faccia smettere!!! – implorai rivolta
al cielo, mentre Dominic e
Billy
ricominciavano la canzoncina dall’inizio per
l’ennesima volta.
Eravamo tutti
seduti sul prato. Orlando si stava preparando a tirare con
l’arco per il suo terzo della gara, io aspettavo il mio turno
sfogliando uno dei tanti giornali che avevo comprato il giorno prima, e
gli Hobbit se ne stavano lì a fare il tifo. Almeno, in
teoria: Elijah se ne stava in un angolino assieme a Linnie e parlavano
a bassa voce tenendosi per mano, Sean giocava con la sua bambina, che
insisteva per tirare con l’arco, e Billy e Dominic cantavano
coretti molto infantili divertendosi un mondo.
Al momento io
conducevo la gara per 2-1. L’obbiettivo era centrare il
bersaglio posto sul collo di una sagoma di un maiale di legno.
Orlando si mise
in posizione, prese la mira e scoccò la freccia, che
volò dritta verso il maiale e si piantò nel
centro del bersaglio.
-
Sììììì!
Evvai! – esultò. Mi si avvicinò e me lo
indicò . – Lo vedi quello? Nel mezzo di quel mezzo?
-
Non cantare vittoria troppo presto – lo avvertii.
– Intanto, guarda qui quello
che dicono!
– Voltai la copia di Donne con le… verso di lui,
aperta sulla pagina dell’articolo.
-
“La presunta nuova fiamma del famoso attore Orlando
Bloom non ha niente da invidiare alle modelle dei famosi stilisti: come
molti nostri lettori potrebbero pensare, Lesley Dalton non fa la
modella, ma recita insieme a Bloom stesso nel film di Peter Jackson
‘Il Signore Degli Anelli: La Compagnia
dell’Anello’. La Dalton apparentemente non ha
niente di speciale nel fisico, ma sarà la sua eleganza nel
portamento a renderla così attraente agli occhi di Bloom?
Come andrà a finire questa storia d’amore?
Andrà al matrimonio o finirà rovinosamente?
Mandate un SMS o spedite una mail al seguente
indirizzo…” bla bla bla bla. – Lesse
Orlando ad alta voce. – Tutte fandonie – porse la
rivista a Dom, stravaccato sull’erba accanto a lui. - Non
crederai ad una sola parola, vero?
-
Neanche una – convenni, anche se in
realtà quello che c’era scritto su quei
giornali mi
bruciava parecchio. Sistemai la freccia sull’arco e misi i
piedi ben allineati.
-
Dunque – Billy si era alzato in piedi e parlava
come la cronaca dello sport. –
in questo momento
Lesley Dalton e Orlando Bloom sono pari: questo sarà
l’ultimo round, dopodiché ce ne andiamo a pranzo,
perché sinceramente non ho più voglia di starvi a
guardare e ho fame, quindi muoviamoci. Se Lesley sbaglia la vittoria va
a Orlando, se Lesley segna, vince.
-
Ehi, non è affatto giusto! –
protestò Orlando. – Io ho fatto centro perfetto!
Non gli risposi,
e Orlando guardò verso Dominic che armeggiava col cellulare.
-
Che stai facendo Dom?
Lui si
affrettò a nascondere il telefono dietro alla schiena.
– Niente! – disse immediatamente, diventando rosso
in viso. Non esattamente il tipo di bugia che mi sarei bevuta. Dom
stava in guardia riguardo a Orlando, così non fece caso a
me. Gli arrivai da dietro e gli presi il cellulare. Era aperto sul
“Crea Nuovo Messaggio” e c’era scritto:
“Rovinosam”. Lo guardai contrariata e alzai un
sopracciglio.
- Stavi mandando
un messaggio a quel giornale di gossip scrivendo che io e Orlando ci
lasceremo rovinosamente? – lo accusai, fredda. Lui
sembrò vacillare, poi per cogliermi di sorpresa si
lanciò contro di me e mi buttò
sull’erba, posando le labbra sulle mie. Dopodiché
si alzò di corsa e scappò, mentre Orlando lo
inseguiva imbufalito. Billy rideva, Linnie e Elijah li guardavano
meravigliati.
-
Sapete… - commentai alzandomi e togliendomi l’erba
dalle maniche della maglietta. – Sarei rimasta sconvolta, se
non avessi saputo che Dom ha la mania di baciare gente di tutti i
sessi, razze e età.
- E ora che
facciamo? – chiese Linnie.
- Ci atteniamo al
piano di Bill – dissi raccogliendo l’arco e
risistemando la freccia. Presi la mira chiudendo l’occhio
sinistro. – Ce ne andiamo a pranzo.
Scoccai la
freccia che con un guizzo di conficcò esattamente accanto
all’ultima freccia di OB. Sorrisi maliziosa e con
indifferenza mi buttai l’arco in spalla, come se vincere in
una gara con l’arco contro Legolas fosse una cosa da poco.
Mentre
raggiungevo Bill – che mi fece un profondo inchino
salutandomi come “Regina suprema delle gare con
l’arco” e mi porse una margherita come premio
– vidi con la coda dell’occhio Elijah che
accarezzava il viso di Linnie per poi avvicinarlo lentamente al suo.
Sorrisi, con un po’ di malinconia e tenerezza. Sembravano
fatti l’uno per l’altra.
Io e Billy
pranzammo insieme in un tavolino del gazebo bianco, e lui mi
raccontò di tutte le cavolate che progettava di fare con
Dom. Poi toccò a me parlare, e lui mi obbligò a
raccontargli tutta la storia, dall’inizio alla fine, dei
giornali di gossip. Così gli raccontai di Geoffrey, dei
dollari spesi per prendere tutti i giornali, del tragitto verso il set
e di come avevo imparato ad andare in moto. Billy era una persona
meravigliosa: era così solare e allegra, e la sua risata ti
contagiava anche nei momenti più drammatici. Durante il mio
racconto rise in continuazione, e alla fine risi anch’io dei
giornali e del pugno che avevo dato a Orlando.
Eravamo in quella
fase del dopo-pranzo in cui teoricamente uno avrebbe voglia di
schiacciare un pisolino, ma l’idea di sdraiarmi
sull’erba non fece in tempo a saltarmi in testa che la
suoneria del cercapersone la fece volatilizzare.
Era Peter. Ci
riuniva tutti sul set della festa.
- Bene ragazzi.
Sono fiero del lavoro che stiamo svolgendo tutti insieme, come una
grande famiglia. – Diceva Peter rivolto a tutto lo staff e il
cast, radunato attorno a lui. – Non potremmo fare a meno di
ognuno di voi. Ma dovremmo velocizzare un po’ i tempi. Per
questo vorrei che ciascuno di voi prepari le valigie e si tenga pronto
a partire, perché subito dopo le riprese di stasera qualcuno
di voi partirà alla volta delle prossime location. Tra
questi, sicuramente, Lesley Dalton, Sean Bean e Viggo Mortensen.
Sapremo dirvi il nome degli altri convocati in seguito.
- Quale
sarà la destinazione? – chiesi incuriosita dopo
aver alzato una mano, come a scuola.
- Queenstown.
Amon Hen e il fiume. – si rivolse a tutti gli altri.
– Grazie a tutti per l’attenzione, ora potete
andare. Fra due ore cominceremo a girare.
Potete immaginare
cosa successe dopo. Viggo, Bean e io saltammo in una macchina a caso e
ci dirigemmo verso l’albergo. Salimmo di corsa –
almeno io, Viggo se la prese comoda in una maniera scandalosa
– e preparammo le valigie, lasciandole nelle rispettive
stanze. Probabilmente saremmo dovuti partire al più presto.
Tornammo al set.
-
Dove sono Bill e Dommy? – chiesi a Sam (avrebbe
dovuto essere Sean, ma
ci eravamo
già preparati per la festa). Era passata quasi
un’ora da quando io, Viggo e Sean eravamo tornati in
città per fare le valigie. Appena arrivata, Emma mi
costrinse a indossare di nuovo maschera e protesi. Quel trattamento non
mi era mancato. Adesso mi trovavo sul prato, un po’ discosta
dal set vero e proprio, assieme a Sam, che giocherellava con una spiga
di grano. Mi sedetti sull’erba e presi un legnetto a forma di
fionda che avevo cominciato a costruire quella mattina. Estrassi dalla
tasca del vestito un coltellino e continuai a perfezionare la fionda.
-
Saranno nella sala trucco. Dovevano truccarsi in maniera
speciale, mi hanno detto. – guardò dietro di me e
scoppiò a ridere. – Guarda, eccoli che arrivano!
Mi voltai e risi
anch’io. Era uno spettacolo fantastico: erano usciti dalla
sala trucco a braccetto, coperti di finta cenere da capo a piedi e i
capelli sparati in aria, cantando:
“Cam-caminì” di Mary Poppins.
-
Cam-caminì
cam-caminì spazzacamin, allegro e felice pensieri non
hoooooooo…. Cam-caminì cam-caminì
spazzacamin, la sorte è con voi se la mano vi
doooooo…
E via di questo
passo. Stavo morendo dal ridere.
Arrivò
anche Elijah tenendo Linnie per mano. Erano così
teneri… sorrisero allo spettacolino e si guardarono.
Sopraggiunse Orlando che mi abbracciò da dietro dandomi un
lieve bacio sulla guancia, che ricambiai. Eravamo colti, noi Hobbit, da
una specie di frenesia e impazienza. Almeno per quanto mi riguardava,
ero molto impaziente di cominciare a provare e girare. Ma la nostra
serenità fu interrotta da un arrivo sgradito e inatteso che
ci congelò i sorrisi sulle labbra. Era arrivato
l’Armadio.
Scuro in viso
peggio della pece, un ghigno da bestia stampato in faccia e i muscoli
più pompati che mai, lui da solo occupava lo spazio di Bill
e Dom a braccetto. Uno spettacolo pauroso. Sentii la tensione
nell’aria crescere, quando si voltò verso Elijah e
Linnie e il suo sguardo si posava sulle loro mani incrociate. Il sangue
dal viso gli defluì verso gli avambracci pompati di fresco,
e una venuzza in testa cominciò a pulsargli vistosamente.
Orlando rafforzò protettivo la presa intorno a me, Elijah
spinse Ilana dietro di sé.
Ebbi il tempo di
contare a mente fino a tre, e esplose.
L’adrenalina
cominciò a scorrermi nelle vene e si impadronì di
me come se fossi io il bersaglio della sua ira, ma mi imposi di
rimanere lucida.
Con un verso
animalesco, spinse da parte Ilana facendola cadere a terra, e si
avventò su Elijah, sollevandolo per il bavero del costume e
alzò un pugno.
I ragazzi
scattarono verso di lui per levarglielo di dosso, io corsi verso Linnie
che piangeva spaventata e l’aiutai ad alzarsi. Volevo
mandarla via, farla allontanare, ma aveva i piedi inchiodati a terra.
- Non osare
avvicinarti alla mia ragazza! Lei è mia! – urlava
l’Armadio. Ma per quanto Elijah fosse più
mingherlino di lui, non sembrava per niente spaventato.
- Lasciala in
pace, Justin, lei non ti vuole. – replicò Elijah,
freddo almeno quanto i suoi occhi.
- Moscerino! Ti
riduco la faccia in poltiglia!
Orlando e Billy
riuscirono a staccarlo dal collo di Elwood. L’Armadio si
voltò verso Ilana dietro di me e le si avvicinò.
-
Diglielo in faccia, diglielo che vuoi venire con me, o te la
faccio pagare!
Linnie
sembrò colta in contropiede. – Ehm…
io…
Per fortuna non
dovette continuare: due tizi grossi più di lui, uno di
colore e uno bianco, spuntati dal nulla, lo placcarono da dietro e se
lo portarono via. Ma questo non vuol dire che l’Armadio non
oppose resistenza: fece un ultimo tentativo di saltare al collo di
Elijah, ma se lo portarono comunque via.
Ci volle qualche
secondo prima che qualcuno di noi si decidesse a parlare. Eravamo
rimasti lì a guardarci l’un l’altro, io
a metà tra l’imbarazzato e lo sconvolto, gli altri
con espressioni indecifrabili. Linnie, poi, nascose il visino fra i
capelli e non si mosse.
Non è
difficile indovinare che i primi a scoppiare a ridere furono proprio
gli Spazzacamini.
-
Dovresti farlo più spesso El! – rise
Dominic fra gli spasmi.
-
Che spettacolo!
Elijah si mise
una mano dietro la testa e ridacchiò. Mi avvicinai a Linnie
e le presi la mano.
-
Non preoccuparti, i ragazzi ci sono abituati. –
abbassai il viso all’altezza del
suo e le feci la
linguaccia, costringendola a ridere. – Vedi solo di non
andare col primo che capita.
Capitolo
di transizione, ma mi serviva per riportare l’Armadio dal
falegname!
Nel
prossimo capitolo si tratteranno cose più serie (stile
Hobbit però!).
A
presto!
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Capitolo 15 *** Cap 15. ***
La
mia vita sul set – Cap. 15
Sembrava
una tradizionale festa di paese, con luci, risate, musica, birra e
balli. Solo che non era una normale festa di paese, era una festa
Hobbit. Non importava che fosse per finta: in quel momento ognuno di
noi, anche quelli dietro le quinte, era un vero Hobbit. Era come se un
incantesimo fosse caduto sopra di noi come neve, facendoci dimenticare
tutte le preoccupazioni e la tristezza e nessuno di noi faceva qualcosa
per spezzare la magia. Peter, anche se sotto effetto di
“incantesimo”, si faceva trascinare
dall’euforia a modo suo, trascinando tutti con la sua
allegria e vitalità pur mantenendo il suo ruolo di regista.
Scorrazzava in giro fra gli Hobbit, correggeva e incoraggiava le
comparse a dare di più, mostrava loro quello che intendeva.
Noi della Compagnia avevamo già dimenticato
l’incidente con Justin e cercavamo tutti di divertirci il
più possibile. Appena aveva un attimo di tempo e se non era
impegnato a fare finta di non conoscere gli altri Hobbit davanti alla
telecamera, spariva dalla circolazione per un paio di minuti e nessuno
di noi si chiedeva dove andasse, conoscendo già la risposta.
-
Ah, essere giovani e innamorati -, aveva sospirato Dom ad un
certo punto prima
di
invitarmi a ballare inchinandosi come un vero gentleman. Presi la sua
mano e mi lasciai condurre in mezzo alla folla.
-
Cosa vorresti insinuare Mon, che non sei più
giovane?
-
No, ho semplicemente detto quello che avrebbe detto Sean se
fosse stato lui a parlare!
Mi presi un
attimo per afferrare il concetto. Lui intuì che il suo
scherzetto era riuscito e ridacchiò. Un giretto di ballo con
Dom e lui si dileguò non appena vide che Super-Peter si era
fermato un attimo. Corse verso di lui con una mela in mano e
praticamente gli saltò addosso. Gli chiese qualcosa
sventolando la mela davanti al naso di Peter, lui si grattò
il mento e alla fine ridacchiò annuendo. Dom se ne
andò dalla parte opposta mordendo con gusta una bella mela
verde. Sembrava piuttosto contento.
-
Dovrebbe essere sempre così, vero? –
disse Sean, affiancandosi alla mia contenta persona.
-
Sempre una festa – annuii. Sean mi prese a
braccetto e cominciammo a girovagare.
-
Sai, il bello deve ancora venire. – mi disse ad un
certo punto.
Lo guardai.
– Cosa intendi?
-
Dom e Billy devono girare la scena del petardo. Ci
sarà da divertirsi.
-
Quale petardo? – chiesi curiosa. Sean si
fermò.
-
La scena del fuoco d’artificio che fanno scoppiare
dentro la tenda. Non hai letto il Signore degli Anelli?
Mi dondolai
sui talloni, arrossendo. – No – ammisi riluttante.
Alzò
un sopracciglio. – Non hai nemmeno il libro, vero?
Cavolo, era
intuitivo. – No – confessai alla fine.
Sospirò.
– Lo devi fare assolutamente! – esclamò.
– è un libro stupendo. Adesso scusami, devo
tornare da Rosie a ballare – si passò una mano in
mezzo alla parrucca con fare sensuale e si allontanò
sensuale, partecipando un poco alla mia risata.
Un lampo di
luce bianca e uno scoppio illuminò il cielo, una sirena
suonò e tutti i nostri nasi si rivolsero verso
l’alto. Mi trovavo in mezzo a un gruppo abbastanza corposo di
Hobbit, che levarono insieme a me la testa in alto e produssero degli
“Ooooooh!” di meraviglia che trasmettevano
allegria. Ma a Peter non andavano bene: si avvicinò a loro
– cioè, a noi, perché c’ero
anch’io in mezzo – e disse:
-
I vostri “ooooh!” vanno bene, ma non
trasmettete abbastanza entusiasmo. Saltate! Acclamate! – fece
vedere quello che intendeva imitando i gesti. –
Più entusiasmo ad ogni fuoco.
Molti degli
Hobbit annuirono e lo ringraziarono, e Peter andò verso
altre comparse a dare dritte e consigli. Per quanto ci riguardava,
riprendemmo dove eravamo rimasti. Un altro lampo bianco e
un’altra sirena. Gli Hobbit, tutti gli Hobbit, alzarono le
teste e urlarono entusiaste, tipo cori da stadio. C’era chi
indicava il cielo, chi saltava e applaudiva, chi rideva.
La festa
continuava e mi spostai da zio Ian, o meglio Bilbo Baggins, il
festeggiato. Se ne stava in uno spiazzetto di prato, seduto su uno
sgabello con intorno un gruppetto di bambini Hobbit che solo a guardare
i loro occhietti vivaci e infantili ti scioglievi dalla tenerezza.
Peter era seduto accanto a zio Ian e teneva sulle ginocchia una
bambina. Diceva: - State seduti qui buoni e il signor Bilbo vi
racconterà una storia.
Sorrisi e
continuai a girare, e capitai per caso dalle parti di Ian/Gandalf,
anche lui impegnato a intrattenere un gruppetto di bambini. Si
appoggiava al suo bastone da stregone, accanto ad una specie di paletto
di legno. I bambini – alti un terzo di lui, specialmente con
quel cappello da stregone -, lo guardavano con
quell’attenzione che in un bambino si può
catturare giocando sulla sua curiosità. Erano cinque o sei e
gli stavano davanti in ordine sparso. Ian disse:
- Chi vuole
vedere le farfalle salti su e giù! Hop! Hop! – i
bambini cominciarono a saltare. – Molto bene! Uno, due
e… pumpupuuu! – puntò il bastone di
legno levigato contro il bastoncino piantato nel terreno dal quale
uscì una luce bianca e i bambini fecero finta di seguire
delle farfalle immaginarie, spargendosi e saltando su e giù
cercando di catturare l’aria con le loro piccole manine.
Sorrisi e fui presa istantaneamente da un’inspiegabile
nostalgia, come un’ondata di tristezza.
Un urlo
isterico nella tenda poco lontano dal punto in cui mi trovavo
catturò tutta la mia attenzione: la tenda in questione era
chiusa solo da tre lati, mentre quello rivolto verso le colline era
aperto. L’urletto da donna aveva seguito una luce bianca
– il set quella sera era pieno di luci bianche. Feci il giro
della tenda e vidi Billy e Dom che si spanciavano dal ridere e i
cameraman che applaudivano ridendo.
-
Cos’è successo? – chiesi
curiosa e con un sorriso incerto, quello di chi sa che sta
arrivando
una risata.
Dominic
uscì dalla tenda tenendosi la pancia dalle risate e mi
battè una pacca sulla spalla, senza rispondere. –
Dai dai dai, qualcuno mi dice cos’è successo?
– insistetti.
-
La colpa, teoricamente, è mia – mi
rispose Billy appoggiato alla tenda e asciugandosi gli occhi inceneriti
dal gran ridere. – Ho fatto un urletto da isterica, ma mi
sono spaventato!
La risata
tanto attesa arrivò.
-
Lesley – Peter mi aveva raggiunta. – Per
ora qui abbiamo finito. Ho già mandato a dire a Viggo,
Orlando e Sean. Per voi è ora di andare.
-
Ma… non abbiamo finito, Pete.
-
Les, sono le dieci e mezza di sera. Domattina avete
l’aereo alle sei. Sarà meglio che tu vada a
toglierti il trucco e riposare.
Nonostante
Peter fosse una persona sensazionale, simpatica e solare, era
esattamente come me: quando si metteva in testa non si schiodava
neanche a morire. E figurarsi cosa succede se io me ne metto in testa
un’altra. “Un delirio” aveva commentato
Billy una volta, qualche giorno dopo il mio arrivo. Ma comunque Peter
era il regista: ero obbligata a cedere terreno. Così, dopo
aver parlato con Orlando – il quale mi disse che sarebbe
venuto con me e gli altri – tornai in albergo, controllai di
non avere lasciato niente negli armadi e nel bagno, mi feci un ultima
doccia e mi infilai a letto.
Alle sei
l’aereo sarebbe partito, e per evitare di fare di corsa
Viggo, Bean, Orlando e io alle cinque e mezza eravamo già in
aeroporto.
-
È un po’ strano partire senza gli
Hobbit, vero? – dissi, seduta su una panca
dell’atrio,
grattandomi sopra un orecchio. – Viggo
annuì.
-
Non c’è la solita ridarella. –
disse in tono lugubre. Era innervosito perché sapeva
che non
avrebbe potuto portarsi la spada sull’aereo. Il legame con la
sua spada era molto speciale: se aveva la spada al suo fianco, si
sentiva Aragorn. Se non aveva la spada, il suo personaggio non avrebbe
mai potuto essere completo. In più, se la portava ovunque, e
sapeva maneggiarla molto meglio di noi altri attori messi assieme.
Nessuno sapeva per quante ore giornaliere si allenasse. Era come se
Aragorn fosse diventato una parte integrante del suo essere, un modello
di vita. Viggo non era solo uno di noi, era il nostro Aragorn. Se avevi
qualche problema, era lui a spingerti ad andare avanti o tornare
indietro. Era il nostro leader, non appena se ne presentava
l’occasione. Viggo Mortensen era uno spirito selvaggio, un
modello, un esempio.
Bean
allungò le gambe. – Dunque, abbiamo già
fatto imbarcare i bagagli, dobbiamo solo oltrepassare il
metaldetector… qualcuno conosce qualche barzelletta?
-
Bean, ti supplico, non adesso. – disse Orlando
alzando gli occhi al cielo. Era
risaputo
che il più delle volte le barzellette di Bean non facevano
ridere.
-
Secondo voi ci raggiungeranno? – chiesi,
appoggiandomi allo schienale.
-
Ovvio, sennò come faremmo a girare le scene? Ci
raggiungeranno domani al
massimo,
con Barrie Osborne e Peter. Faranno a turno per un po’.
– rispose Bean.
-
Ma torneremo a Matamata? – Bean annuì.
-
Dobbiamo finire di girarci le scene, ma qualcosa mi dice che
resteremo lontani
per un
po’.
Orlando si
riscosse per un attimo. Si stava riaddormentando. – Ehi, che
giorno è?
-
È il 20 agosto, OB. Buonanotte. – gli
risposi.
-
Mmm, ‘notte… - e ritornò a
ronfare con la testa penzoloni.
Dieci
minuti dopo l’altoparlante ci avvisò che
l’aereo era pronto per l’imbarco.
La
sensazione di staccare il corpo dal terreno e lentamente immergersi tra
le nuvole mi inebriava e spaventava insieme. Avrei fatto volentieri a
meno della sensazione di vuoto nello stomaco e le orecchie tappate, ma
non avrei saputo rinunciare alla bellezza di vedere il mondo
dall’alto. Mi sembrava di avere un potere soprannaturale:
vedere tutto e niente contemporaneamente.
Una hostess
ci servi una bottiglia d’acqua di plastica da un litro e
quattro bicchierini. Eravamo di nuovo in prima classe. Per me era il
primo viaggio in prima classe: prima di questo li avevo tutti fatti in
turistica. Orlando, seduto sul sedile attaccato al muro, si
era immerso nella lettura di un giornale di auto sportive comprato
precedentemente in aeroporto; Bean si era infilato nelle orecchie le
cuffie del lettore Mp3 e si era isolato dal mondo; io me ne stavo con
le gambe allungate a guardare silenziosa la terra che scorreva
velocemente sotto di noi.
Viggo,
notando il mio silenzio, versò l’acqua in un
bicchiere, mi si sedette accanto e me lo porse.
-
Hai sete?
Lo guardai
un attimo e poi annuii. – Grazie – dissi
prendendolo e svuotandolo in pochi sorsi.
-
Qualcosa non va? – chiese, amichevole. Seguii
distrattamente il bordo del
bicchiere
con un dito.
-
Mah, è solo che… stavo pensando ad un
sogno che ho fatto qualche giorno fa.
-
Racconta. – Inspirai profondamente.
-
Non è che mi ricordi molto, so solo che mi ha
turbata.
-
Cosa ricordi? – Si versò
l’acqua in un bicchiere e la sorseggiò.
-
Acqua e roccia. Nient’altro.
-
Beh, è un po’ poco. Ci
dev’essere qualcosa di più. Come ti sentivi?
Lo guardai
confusa. – Che intendi?
-
Che emozioni provavi.
Rievocai
quelle immagini sfocate che mi affollavano la mente. Non mi ero
concentrata sulle mie sensazioni, ma la risposta arrivò come
se l’avessi saputa già da tempo.
-
Paura.
-
Paura? – ripetè. –
Perché?
-
Io ho paura dell’acqua. – Orlando
alzò gli occhi dal giornale.
-
Come come? Ho sentito bene?
-
No Orlie, hai sentito benissimo. Io ho paura
dell’acqua. Non so nuotare.
Sembrava
sconvolto. – Peter lo sa?
-
Penso di sì.
Orlando
sfoderò una momentanea faccia da poker, poi, lentamente,
chiuse il giornale e lo mise dentro al suo zaino. – Avresti
dovuto dirmelo. – disse senza guardarmi in faccia. Viggo si
allontanò da me e fece finta di cercare qualcosa dentro al
suo borsone.
-
Lo so – dissi – ma mi vergognavo.
Per qualche
strano motivo, sentivo la tensione crescere fra me e lui. Chiuse
lentamente la cerniera dello zaino e poi mi guardò.
-
Non fa niente – sorrise. – Dovremo solo
fare attenzione. – La tensione svanì. –
Poi un giorno ti insegnerò a non avere più paura
dell’acqua.
Lo
ringraziai silenziosamente. L’aereo
cominciò a scendere dolcemente.
Viggo,
Bean, Orlando ed io aspettavamo i nostri bagagli.
-
Oh, ecco il mio! – esclamò Bean e lo
prese al volo, tirandoselo quasi sui piedi.
-
Sapete – Orlando adocchiò il suo e lo
prese di volata. – non sapevo che
Queenstown
avesse un aeroporto.
-
Io non sapevo nemmeno che Queenstown esistesse. –
Dissi. Trovai la mia valigia e la sollevai con molta fatica dal nastro
trasportatore.
-
Complimenti Lesley, complimenti per la conoscenza
approfondita della geografia neozelandese. –
commentò Orlando.
-
Ma smettila! Sai in che regione siamo?
Orlando
sembrò preso in contropiede. Aggrottò le
sopracciglia e arricciò le labbra, evitando il mio sguardo.
Aprì la bocca un paio di volte, ma entrambe le volte la
richiuse subito, senza parole.
-
Siamo nella regione Otago. – Disse Viggo,
interrompendo il mio principio di
risata.
– Ci voltammo verso di lui e lui, impassibile,
posò la valigia a terra, incrociò le braccia e
disse: - Ignoranti.
Fuori
dall’aeroporto ci aspettava un operatore della crew con una
specie di grande taxi, un furgoncino-taxi. Una macchina abbastanza
grande da permettere a quattro attori e i loro bagagli di stare seduti
comodamente senza stripparsi a vicenda. Quindi io mi sedetti davanti,
Orlando, Bean e Viggo dietro. L’autista che era venuto a
prenderci ci avrebbe scortato direttamente in albergo.
-
Non deve essere un albergo molto lontano dalla location,
vero? – chiesi all’uomo appena imboccammo la strada
principale.
-
È il primo hotel adatto a voi che si incontra
sulla strada, signorina Dalton. –
Rispose
ossequiente l’uomo.
-
La prego, mi chiami Lesley.
-
Ok, e lei mi chiami Steve.
-
Interessante la sua tattica nel fare nuove amicizie
– commentò Bean,
probabilmente
riferendosi a me.
-
Capacità che magari tu non avrai mai –
ribatté Orlando.
-
1 a 0, palla al centro. – disse Viggo.
La macchina
prese la seconda uscita ad una rotonda e imboccò Kawarau
Road.
- Vedete,
la strada è veramente molto semplice – ci
spiegò Steve. – Basta fare qualche curva, e per il
resto è tutto dritto. Ci vogliono circa dieci minuti.
– Ci immergemmo in uno spazio meraviglioso: a sinistra si
affacciavano le case di Queenstown, a destra verdi prati e alberi.
La strada
continuò dritta per qualche minuto, poi ad
un’altra rotonda Steve prese la prima uscita ed
entrò a Frankton Road. – Ora
è sempre dritto. La destinazione è sulla sinistra.
Percorse
tutta la strada e ad un tratto il paesaggio cambiò: la
strada si affacciava sulla destra su un bosco di fitti alberi. Sempre
dritto, sempre dritto, sempre dritto. A sinistra cominciammo a scorgere
le acque del lago.
- Non posso
credere che questo sia un lago. Dev’essere il mare,
è troppo grande! – dissi estasiata osservando le
placide acque del lago solcate da qualche motoscafo, canoa e, a volte,
romantiche barchette a remi. Continuammo a costeggiare il lago. Avevo
perso la cognizione del tempo quando Steve frenò la macchina
e ci annunciò di essere arrivati.
Scendemmo
di corsa dalla macchina e salimmo sul marciapiede, ma quasi
immediatamente rimanemmo come statue di sale.
L’
“albergo”, se così si poteva definire,
si affacciava direttamente sulle acque del lago e aveva una splendida
facciata blu ricca di archi. Un cartello ci diceva “Villa del
Lago”*.
-
Io devo andare alla location. Se vi serve qualcosa,
beh…. Chiamate qualcuno.
Steve
saltò in macchina, lasciandoci soli a bocca aperta davanti a
quella meraviglia di posto.
-
E questo sarebbe il primo
hotel adatto a noi che si trova sulla strada? –
esclamò Bean. – Ne avrò visti passare
venticinque, di hotel!
-
Credo che “adatto a noi” voglia dire a
“luogo fantastico a cinque stelle dove possiamo alloggiare
come sultani” – dissi a mezza voce.
Orlando
saltellò contento. – Non voglio più
tornare a Londra, non voglio più tornare a Londra!! Questo
è il posto più bello del mondo!
Appena
entrammo in quello splendido hotel di lusso un facchino ci prese i
bagagli e ce li posizionò ordinatamente in fila su un
carrello di ottone che si era portato dietro. Viggo si
avvicinò per parlare con l’addetta alla reception,
una donna di circa vent’anni con i capelli scuri legati in
uno chignon e con un bel sorriso sulle labbra.
Viggo
appoggiò un gomito sul bancone e, piegandosi in avanti,
parlò a bassa voce, come faceva quando doveva parlare degli
affari suoi – o quando non era a suo agio, ma non capitava
quasi mai.
-
Buongiorno.
-
Buongiorno – ricambiò lei. –
Fate parte del cast del Signore degli Anelli? Ci sono
delle
stanze prenotate per voi. Ce ne sono molte, ma mi hanno detto di
consegnarvi una singola e una da tre. Ovviamente tutte sono munite di
soggiorno con caminetto e cucina.
L’aveva
detto come se una stanza d’albergo con soggiorno e caminetto
fosse una cosa normale, una cosa ordinaria.
Viggo prese
le due chiavi che la signorina gli porgeva e si diresse verso di noi.
- Signor
Mortensen – lo fermò lei. Viggo si
voltò e vide che gli porgeva un foglio da lettera con il
logo blu dell’albergo in cima. – La prego, mi
farebbe un autografo, cortesemente?
Viggo
ritornò al bancone e fece svolazzare la penna scribacchiando
la propria firma, mentre lei lo guardava con trepidazione. Quando Viggo
ebbe posato la penna, lo sguardo della signorina si posò su
Orlando. – Lei è Orlando Bloom? La prego, un
autografo!
Orlando
l’accontentò, e subito dopo lei volle anche quello
di Bean. Quando anche Bean l’ebbe accontentata, mi porse il
foglio. – Sa, io l’ho vista sulle copertine dei
giornali – cinguettò. – Congratulazioni!
– esclamò con un sorriso a trentadue denti
palleggiando lo sguardo fra me e Orlie. – Grazie mille, non
voglio trattenervi oltre. Per le stanze di là.
Ci
indicò una precisa direzione sulla sinistra, verso suntuose
scale di marmo e corrimano in ottone.
Prima di
salire le scale, ci consultammo.
-
Allora, credo che la singola tocchi alla nostra piccola Les.
– disse Viggo,
porgendomi
la chiave. – Quella a tre la prenderemo noi.
-
Sicura, Les? – mi chiese Orlando. Notai una vaga
punta di malizia nella sua voce. –
Potremmo
condividere la singola. Sono certo che ci sia il letto matrimoniale.
La
proposta, per qualche oscuro motivo, mi turbò. Orlando,
dapprima sorridente, mi guardò perplesso e con lo sguardo di
chi non è sicuro di aver detto una cosa gradita.
–
Les? – abbozzò.
-
Eh… noi, ragazzi, andiamo. Dai Viggo! –
Bean si trascinò Viggo su per le scale, ma
poi ci
ripensarono e presero l’ascensore.
-
Les, ho detto qualcosa di sbagliato? – si
avvicinò e mi toccò una mano.
-
No, solo che… la convivenza?
-
Les, non intendevo questo, stavo solo scherzando! –
si scusò in fretta.
-
Lo so, Orlie, ma… in ogni caso… non mi
sento ancora pronta per una cosa del genere.
Non rispose
subito. - Capisco.
-
Ehi, OB – lo fermai. – Io ti amo, lo sai.
Posò
la valigia a terra e si chinò a baciarmi. – Lo so
– disse. – Dopotutto, non dobbiamo per forza
cominciare con la convivenza, no? Possiamo accontentarci di qualche
notte passata assieme! – mi fece l’occhiolino.
Si
caricò la valigia in spalla e prese in mano la mia,
guardò il numero della mia stanza nella chiave che tenevo
ancora in mano e, dando un’occhiata in giro, salì
le scale. Quella piccola rampa di scalini dava a un corridoio, e al
muro era appeso un cartello che portava, in scrittura fine ed elegante,
il testo “Alle camere 11 15”.
-
La tua è la 12. Per di qua. – disse
Orlando. Percorremmo il corridoio e,
oltrepassata
una portafinestra di vetro, scendemmo delle scale all’aria
aperta, percorremmo un vialetto con vari fiori piantati ai lati. La
porta della stanza 12 era a sinistra. Infilai la chiave nella toppa e
la girai. La porta si aprì dolcemente e senza fare il minimo
rumore. Non credetti ai miei occhi.
Era la
stanza più bella che io abbia mai visto e immaginato. La
porta blu che avevo aperto si affacciava su un salotto con moquette
scura al pavimento. C’era un divano blu rivolto verso un
caminetto incassato nel muro, e dietro un tavolo in legno circondato da
sedie. Dietro al tavolo, un meraviglioso piano cottura, con banconi
lucidi e ben organizzati. Poltrone di pelle erano sparse per la stanza
e accanto al caminetto un televisore al plasma. Una portafinestra si
affacciava su un grande balcone con un tavolino rotondo di metallo e
una fantastica vista sul lago.
- Caspita!
– commentò ammirato Orlando posando la mia valigia
per terra. – Che lusso!
- Grazie
mille Orlie – dissi. – Ora sistemo la roba.
-
D’accordo. – disse. – Poi ti racconto
com’è la nostra!
Uscì
dalla porta e io la chiusi. Poi mi voltai, presi la valigia e andai
verso la camera da letto. Dominava un suntuoso letto matrimoniale, con
coperte bianche, e una camera armadio. Il bagno poi, non ne parliamo.
Era grande poco meno della camera da letto, aveva piastrelle al
pavimento e al muro, e una grande vasca da bagno.
Mi ritrovai
a condividere lo stesso pensiero di Orlando.
-
Non voglio più tornare a casa! –
cinguettai, mettendomi a saltare in giro per la
stanza.
Era
mezzogiorno. Avevo sistemato le mie cose nella cabina armadio e nel
bagno, aperto tutti i cassetti, provato la tv, aperto il frigorifero
– pieno di cibo! -, mi ero buttata a pesce sul letto,
ingozzata di coca-cola dentro al freezer, stiracchiata
all’aria gelida di Queenstown e… il cellulare
aveva interrotto la mia calma cosmica.
-
Buongiorno principessa! – mi aveva salutato Viggo.
– Mi dispiace interrompere la tua calma materialmente beata,
ma ci attendono tutti alla location. Sei tu che vieni a prenderci o ti
dobbiamo prelevare? Vestiti pesante! Si va a esercitarci sul fiume.
- No no,
vengo io. Che numero è?
- Che
giorno è oggi? – rispose, e riattaccò.
Bussai alla
porta della stanza 20 e Bean venne ad aprirmi. Avevo indossato una
felpa rossa e delle scarpe da trekking.
-
Ciao Les! Pronta?
Uscirono
tutti e tre di corsa, come se non volevano farmi vedere
com’era il loro appartamento superlusso.
Posammo le
chiavi alla reception e salimmo in macchina. Venni a sapere che John
Mahaffie, director della seconda troupe, aveva spiegato ai ragazzi come
raggiungere il set.
-
Certo, Viggo, che invece di farmi l’indovinello,
anche se non molto difficile,
avresti
potuto dirmi direttamente il numero della stanza.
-
Dai Les – rispose lui, con gli occhi incollati
sulla strada e le mani ben piazzate sul
volante
- l’hai detto tu, non era così
terribile. Tant’è che sei arrivata
subito… e poi tenere in attività il tuo
cervellino è una delle mie missioni segrete. Questione di
vita o di morte portarla a termine è.
-
Com’è che adesso parli come Yoda?
– chiese Bean.
-
Semplice Bean, io sono Yoda.
Solo… più figo.
-
A proposito Les, ci onorerai della tua presenza stasera?
– chiese chinandosi verso
di me e
dandomi un colpetto sulla spalla.
-
Certo! – risposi - Monopoli?
-
Veramente pensavamo di più a Risiko!. –
mi informò Orlando ridacchiando.
Sapevano
che la strategia militare era il mio tallone d’Achille.
Viggo
frenò e spense il motore: eravamo arrivati.
Il set era
stato montato sul fiume Kawarau, abbastanza discosto dalla
città. Era un corso d’acqua che aveva scavato la
roccia, aprendosi la strada in mezzo agli scogli e alla dura roccia. Il
dirupo dal quale era protetto doveva essere il frutto di migliaia di
anni di scavi e erosione da parte dell’acqua.
Quando ci
fecero indossare i salvagente e l’istruttore di canoa ci
spiegò che percorso seguire, ci disse immediatamente che in
quel punto la corrente era molto forte. La tensione mi
attanagliò lo stomaco, ma cercai di reprimerla, pensando che
barche di salvataggio erano pronte per darci una mano alla minima
necessità. Orlando doveva aver notato la mia preoccupazione,
perché mi prese per mano e mi rivolse uno sguardo che diceva
espressamente: “Andrà tutto bene”.
Salimmo
sulle canoe insieme alle piccole controfigure degli Hobbit e Brett, la
controfigura di John Rhys-Davies. Avevo già lavorato con
loro in precedenza, ma non li conoscevo ancora bene perché
non avevamo passato molto tempo con loro, a differenza dei quattro
Hobbit. Brett era la controfigura di Gimli, e toccava a me e Orlando
scarrozzarcelo dietro – non che per me fosse un problema, ma
per quanto leggero che fosse, era sempre del peso in più.
Ma dovevo
dare retta a Orlando. Sarebbe andato tutto bene. Di questo ne ero
certa. Saltai sulla canoa e impugnai il remo, pronta a combattere la
mia paura dell’acqua.
Era stato
il primo allenamento con le controfigure che avevamo fatto fino a quel
momento. Decisamente molto più faticoso, sommato al peso in
più e alla forte corrente che dominava in quel tratto di
fiume. Tuttavia riuscimmo a tenere a bada le barche piuttosto bene in
discesa, anche se risalire il fiume era un’impresa tanto
impossibile quanto sfiancante.
Subito dopo
aver finito di provare e riprovare Viggo, Bean, Orlando e io tornammo a
Villa. Andai direttamente nella loro camera – che, per la
cronaca, era situata su tre piani ed era anche più bella
della mia. Viggo ci diede prova della sua abilità di cuoco
preparandoci una deliziosa pasta alla puttanesca. Mangiammo come se non
l’avessimo mai fatto prima, sparecchiammo e preparammo la
tavola per Risiko!.
-
E ora, dopo aver attaccato il Quebec, mi dirigo verso le
truppe viola di Lesley. Ti
attacco con
tre carri armati – annunciò Orlando puntando tre
modellini verso il mio povero, sconsolato ultimo modellino viola
esistente sul territorio del Quebec.
-
Guarda, è inutile che ti scomodi! Mi arrendo!
– annunciai, e tolsi il carrettino
armato dal
tabellone. Orlie fu ben felice di riempire lo spazio vuoto con tre dei
suoi carri armati neri. Ormai il mio obbiettivo, quello di distruggere
le armati marroni, era andato a farsi benedire.
- Tocca a
me! – disse Bean. Appoggiò il mento su una mano e
si mise ad analizzare il tabellone.
-
Quando arrivano gli Hobbit? – chiesi, bevendo un
lungo sorso d’acqua dal
bicchiere
di vetro con incise sopra le iniziali dell’albergo.
-
Dovrebbero arrivare stanotte tardi, ma credo che li vedremo
solo domattina. –
rispose
Viggo buttandosi l’ennesima nocciolina in bocca.
- Ma ci
credete che abbiamo quasi finito la Compagnia dell’Anello?
Mancano solo tre o quattro location e poi passiamo a Le Due Torri. Che
bello, mi toccherà schiattare! –
sdrammatizzò Bean continuando a fissare il tabellone.
-
Ehi, Les, domattina ti va di provare a guidare? –
chiese Orlando mentre si
illuminava
ma poi si rimetteva a pensare.
-
Non credo sia il caso di mettere a rischio la vita di poveri
innocenti mettendomi
in mano un
volante, Ol. – risposi giocherellando con un carro armato.
Viggo rise.
-
Ma no, non intendevo fin da subito. Conosco una strada
secondaria per arrivare
alla
location. La mia idea era: guido io fino fuori città, e poi
sali tu.
-
Potrebbe essere un’idea! Anche se non credo di fare
faville. Se guiderò bene come
ho guidato
le mie truppe purpuree, puoi star certo che ci perderemo. –
Sbadigliai. – Beh, meno male che Sauron non mi ha affidato la
guida delle sue truppe. Sarebbe stato fin troppo facile sconfiggerlo
– scherzai. – Mi arrendo. Tanto il Quebec era il
mio ultimo territorio rimasto. Io me ne vado a letto.
-
Dai, ti accompagno! – saltò su Orlie. Mi
aprì la porta e gli diedi la buonanotte con
un
tranquillo bacio.
-
Ci vediamo domani – lo salutai.
-
Sicuro! Buonanotte.
Non fu
difficile trovare la porta del mio appartamentino, anche
perché i corridoi e i viali erano illuminati a giorno.
Mentre passavo, scorsi qualche altro ospite, e lo salutai.
Impressionante come tutti in quell’albergo fossero felici e
sereni. Dovevano avere dei portafogli ben imbottiti, per permettersi
quel posto.
Entrai in
camera, accesi la luce e aprii la portafinestra per cambiare
l’aria e osservai le acque scure del lago. L’acqua
era un elemento straordinario, capace di scavare la roccia, sconfiggere
il fuoco e nutrire la terra. Perché ne avevo così
tanta paura? Qualche anno prima avevo letto da qualche parte che era
una cosa psicologica, dovuta probabilmente a qualche trauma subito da
piccoli. Ma io non avevo subito nessun trauma. Avevo dovuto inventare
con Elijah, tempo prima, perché mi stava mettendo alle
strette e dovevo trovare una scusa plausibile, ma la verità
era che io non avevo neanche il coraggio di avvicinarmici. I miei
avevano provato a iscrivermi ad un corso di nuoto, quando ero piccola,
ma non avevo neanche osato mettere un dito nell’acqua e la
piscina dovette rimborsarli. Mio padre voleva farmi vedere da qualche
psicologo, ma mia madre era contraria a qualsiasi tipo di terapia
psicologica. Spesso mi diceva: “Oh, tesoro, nessuno
può sapere quello che c’è nella tua
testa meglio di te. Devi imparare a gestirlo da sola”.
Così il mio “problema” non venne mai
risolto. Più volte avevo tentato di avvicinarmi
all’acqua del mare, dicendomi che non c’era nulla
da temere, ma non c’ero mai riuscita.
Sospirando,
chiusi la portafinestra. Andai in camera, mi cambiai e mi infilai sotto
le coperte. Rimasi a riflettere per qualche minuto, poi mi addormentai.
La mattina
dopo mi svegliai di buon’ora, fresca e riposata: avevo
dormito benissimo in quel letto regale. Feci colazione con un
po’ di latte trovato nel frigorifero, mi lavai, mi vestii e
uscii, dopo aver controllato di aver lasciato tutto in ordine.
Prima di
uscire dall’albergo mi infilai un paio di occhiali da sole
– anche se si congelava -, salutai l’addetto alla
reception e, dopo essere uscita, andai dalla macchina messa a
disposizione per noi quattro. Non passò molto tempo prima di
vedere Bean, Viggo e Orlando camminare scherzando verso di me.
-
Buongiorno! – mi salutò allegro Orlie.
– Allora, pronta per guidare?
-
In effetti, Orlie, ti andrebbe se lo facciamo
un’altra volta? Siamo già abbastanza in
ritardo e
per arrivare alla location ci vuole mezz’ora.
-
D’accordo! Magari proveremo stasera, dopo le
riprese. Non possiamo guidare delle canoe al buio.
Saltò
in macchina, salito a ruota da me, Viggo e Bean.
Sul set ci
aspettavano i truccatori, le controfigure, i cameraman e John Mahaffie.
Erano tutti pronti a partire, ed erano le sette del mattino. I
costumisti ci consegnarono un salvagente ciascuno e i nostri costumi, e
ci indicarono un capannone per cambiarci. Poi, i truccatori ci presero
da parte e misero a me e Orlando le protesi alle orecchie –
beati Viggo e Bean, che essendo uomini non ne avevano bisogno. Quando
fummo tutti pronti, potemmo partire. Era chiaro che tutti noi pensavamo
la stessa cosa: “Dopo tutto questo esercizio, finalmente
possiamo far vedere quanto ci siamo impegnati”. Prima di
cominciare a remare, Orlie si voltò verso di me e disse:
-
Non preoccuparti Les, non può succederti niente
finchè ci sono io. Se hai paura, prendi la mia mano.
-
Orlie, come faccio a prenderti la mano se sto remando?
Stava per
rispondere, quando John disse “azione!” e noi
partimmo. Mi concentrai subito solo nel remare: la corrente era
più forte del giorno prima, e quel tratto di fiume era pieno
di scogli appuntiti e affilati. Scendemmo e risalimmo più e
più volte. La prima volta John era contento, ma –
per ordine di Peter – dovevamo fare più riprese, e
lui era ben contento di accontentare il nostro regista primario.
In quella
scena solo Viggo doveva parlare, e svolse il suo lavoro in modo come al
solito eccellente, ma anche lui si lasciò prendere dalla
foga. La prima volta si dimenticò un pezzo di battuta; la
seconda volta, mentre scendevamo, sentimmo Viggo che strillava
“Cosa???”, così, ridendo, dovemmo
risalire di nuovo il fiume; la terza volta tutto andò bene,
ma John la volle rifare. Cominciavo a sentire la forza
dell’acqua e la stanchezza, e pensai che magari era lo stesso
anche per gli altri: era chiaro che stavamo facendo fatica. Anche se
cercavamo di non darlo a vedere, ansimavamo.
Stavamo
risalendo il fiume per la quarta volta, ma la corrente
aumentò. Forse per un motivo scientifico, o forse era solo
una mia impressione dovuta alla stanchezza delle mie braccia: fatto sta
che la nostra barca cominciò a prendere colpi e a seguire il
flusso dell’acqua. Un operatore, prontissimo,
afferrò la prua della barca, per trattenerci. La paura
cominciò a impossessarsi di me. L’operatore teneva
ferma la barca, ma la corrente era tale che la barca
cominciò a riempirsi.
-
Oh
mio Dio!
– urlai. A riva cominciarono a muoversi.
-
Molla la presa! Molla la presa! – continuava a
gridare Orlando rivolto
all’operatore,
ma lui non cedeva. Orlando si voltò e mi prese forte la mano.
La barca fu
sommersa. Finimmo sott’acqua.
Nonostante
avessi stretto convulsamente la mano di Orlando, la corrente me la fece
scivolare via, facendomi ritrovare sola e terrorizzata in mezzo ai
flutti. Non riuscivo a risalire, mi agitavo convulsamente. Migliaia di
bollicine sguazzavano veloci intorno a me verso la superficie, mentre
andavo, andavo, andavo.
In un lampo
di lucidità mi ricordai del salvagente. Tirai la corda, ma
non si gonfiò.
Ero
terrorizzata perché non sapevo nuotare. Perché il
mio salvagente non si era gonfiato. Perché c’era
un fiume che mi stava trascinando via dritta verso gli scogli.
Sott’acqua,
il mio corpo non ce la fece più e in una contrazione
muscolare inalò acqua. Sentii il liquido scendermi fin
dentro ai polmoni. Il mondo cominciò a diventare sempre
più scuro.
Sbattei
contro qualcosa di duro e appuntito, che riuscì a bloccarmi
per un po’ di tempo. Ormai lasciai perdere i ragionamenti e
seguii l’istinto.
Cercai di
aggrapparmi allo scoglio. Ferendomi, ma aggrappandomi. Fu quasi un
miracolo riuscire a sentire la scarica di adrenalina che mi invase i
muscoli e il cuore.
Facendo
leva con le braccia riuscii a issarmi fuori dall’acqua, ma
non riuscivo a inspirare aria.
Paonazza,
appoggiai una mano sulla superficie bagnata e scivolosa dello scoglio.
La mia mano scivolò.
Vidi
avvicinarsi la dura roccia a velocità inaudita.
Crack! Sentii fare la
mia fronte.
Poi, il
buio.
Dovete
perdonarmi per la lunghezza inaudita di questo capitolo e per
l’attesa a cui vi ho costretti, ma spero di avervi ripagati
con il contenuto di queste undici, lunghissime pagine di Word. Ma il
mio obbiettivo era finire il capitolo in questo modo e non mi sono
fermata finchè non l’ho raggiunto. Per Niniel:
spero che non sia troppo per te!
Fatemi
sapere che ne pensate, è molto importante per me!
*
L’hotel Villa del Lago non è di mia invenzione, ma
esiste realmente. Nominandolo qui non intendo violare diritti
d’autore o roba del genere.
|
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Capitolo 16 *** Sogno ***
Non avevo
mai creduto a quelle storie della luce in fondo al tunnel, delle
esperienze extra-corporee, della visione dei morti. Credevo che tutto
quello che le persone vedessero prima di morire o quando erano in stato
di coma fossero solo sogni, solo immagini prodotte da una mente uscita
solo un pochino dai binari. Ne ero fermamente convinta.
Eppure,
quello che vidi poco dopo la roccia contro la mia fronte, dopo il buio
accecante – se mai il buio possa essere accecante, ma avevo
avuto esattamente quella sensazione - per me non fu un semplice sogno.
Sentivo le emozioni sulla mia pelle, sentivo tutto e niente allo stesso
tempo.
La
sensazione era di giacere sull’erba di un prato in pendenza,
di notte. La rugiada sui sottili steli d’erba mi bagnava la
pelle e scintillava sotto il chiarore delle stelle. Il mio viso era
rivolto verso quelle piccole lucine che scintillavano accanto a me. Per
quante preoccupazioni potessi avere in quel momento, per quanti
tormenti mi sconvolgessero l’anima prima di arrivare
lì, mi sentii in pace. Fu allora che
sollevai lo sguardo verso il cielo. Mi accorsi di non essere per niente
sotto il cielo stellato. Davanti a me si estendeva l’intero
universo, ed io potevo vederlo con la stessa nitidezza di come potevo
vedere ogni singolo stelo d’erba intorno a me. Miliardi di
stelle fluttuavano in tutto lo spazio: stelle rosse, azzurre e gialle. In
mezzo ad esse, dominava una magnifica galassia a spirale, al centro della quale splendeva una luce abbagliante. Era lo spettacolo più
bello che si potesse mai immaginare, ben più emozionante
della classica luce in fondo al tunnel. I bracci della galassia
ruotavano lentamente in quell’immenso infinito.
Osservavo
tutto con la massima calma, sopraffatta dalla meravigliosa grandezza di
quello che mi sovrastava. Mi sentii così piccola, ma allo
stesso tempo parte integrante di tutto quello che vedevo: lui non
poteva esistere senza di me, e io non potevo esistere senza di lui, in
una relazione importante e indivisibile. Morivo io, moriva anche lui.
Vivevo io, viveva anche lui. Io e quell’infinito eravamo
inseparabili.
Fu in
quel momento che mi accorsi che in ognuno dei bracci della galassia
c’era un viso che conoscevo. Nessuno escluso.
Vidi i
miei genitori, seduti a godersi la cena al tavolo della nostra casa a
New York, con un bel piatto di spaghetti davanti, ignari di tutto
quello che stava accadendo.
Vidi
Jessica, seduta su una panchina del Central Park, a osservare le
paperelle del laghetto mangiando un toast.
Vidi Zio
Ian a Matamata, con un telefono cellulare in mano, che camminava avanti
e indietro sul sentiero, intento a parlare affannosamente con qualcuno.
Insieme
ai volti di quelle persone, mi giungevano alla memoria dei ricordi,
lontani e vividi e vicini e sbiaditi al tempo stesso. Ricordi di
momenti passati in mezzo all’amore di chi mi voleva bene. In
quel preciso istante fu come se l’infinito mi parlasse.
“Ricordi quando ti abbiamo fatto
la festa a sorpresa nella mensa?”
Avrei
voluto sorridere, ma non avevo controllo del mio corpo. Sorrisi col
pensiero.
Vidi
Ilana, seduta per terra chissà dove, che singhiozzava
spaventata. Vidi Elijah con lei, che cercava di consolarla cingendole
le spalle con un braccio.
Vidi
Billy e Dominic, sempre insieme nonostante tutto.
“Ricordi quando Jess ne ha dette
di tutti i colori a Colt e poi l’abbiamo festeggiata?”
Vidi Sean
con sua figlia in braccio, che parlava preoccupato a sua moglie.
Vidi
Emma, che stava venendo informata da qualcuno.
Vidi Liv,
in Inghilterra, seduta davanti al computer in casa sua.
““Ricordi la prima
volta in cui Billy e Dom hanno cantato ‘Wannabe’,
il giorno in cui sei arrivata?”
Vidi Bean
e Viggo con la sua inseparabile spada, che cercava di tenere calmo
qualcuno, quasi nevrotico.
Vidi
Peter, Fran, Philippa, e tutti gli altri.
Vidi
tutti loro, e capii che avevano un pensiero in comune in testa. Me.
“Ricordi quando Elijah ti voleva
insegnare a nuotare?”
Smisi di
osservare i bracci della galassia, e mi concentrai sul centro.
Risplendeva
di luce propria, e tutti i bracci ruotavano intorno a lui. Ma non era
vuoto come mi aspettavo: al centro campeggiava un’immagine,
più viva e nitida delle altre. Compresi la logica perfetta
di quell’universo: al centro c’era la persona cui
tenevo di più. Orlando stava protestando con una donna di
cui non riuscivo a mettere a fuoco il viso. Era disperato. Bean e Viggo
erano proprio con lui.
Disse una
cosa a quella donna, che a un certo punto si fermò e lo
lasciò passare.
“Ricordi quando abbiamo dormito
insieme perché nella mia stanza non c’era il
riscaldamento e Billy si era fregato tutte le coperte?”
La scena
al centro della galassia cambiò. Orlando era seduto su una
sedia e mi teneva la mano. Quella vista mosse qualcosa da qualche parte
dentro di me: stavo vedendo me stessa da qualche posto sconosciuto a
tutti gli altri.
Orlando
strinse la mano con delicatezza e mosse le labbra.
“Lesley, ti prego, non lasciarmi
da solo”.
Appena
pronunciò il mio nome, successero tante cose
contemporaneamente.
Capii che
quell’universo era formato dall’amore che le
persone avevano nei miei confronti.
La
galassia si espanse in un lampo di luce accecante.
L’erba
scomparì.
Sotto di
me si spalancò un buco nero.
Fui
risucchiata a grande velocità nel buio, atterrando di botto
all’interno del mio corpo, dov’era giusto che
stessi.
Il tutto
nella frazione di mezzo secondo.
Cercai di
riprendere conoscenza del mio corpo. Il primo senso a risvegliarsi fu
l’olfatto. Avvertii odore di medicinali e di una stanza
sconosciuta. Poi si svegliò il gusto: avevo un sapore
orribile in gola. Fu il turno dell’udito: sentii annunci
provenire da qualche parte e dei ritmici bip provenire
da qualche macchinario accanto a me.
Toccò
al tatto. Ripresi sensibilità a partire dai piedi, salendo
lungo le gambe fino ad arrivare al bacino, al petto, alle braccia, alle
mani, al collo, alla testa. Respiravo a fatica e la gola mi raschiava.
Scombussolata,
tirai un respiro più lungo degli altri. Ancora uno, ancora
uno, ancora uno e aprii lentamente gli occhi.
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Capitolo 17 *** Cap 17. ***
La mia vita sul set
– Cap 17
Era sera.
Orlando se n’era andato da un po’ di tempo quando
il dottore aprì piano la porta ed entrò. Aveva in
mano una radiografia con l’immagine di un cervello sopra.
-
Spero che quello non sia il mio – dissi. Lui
sorrise.
-
Perché? È così grazioso!
– si fermò accanto a me, davanti al comodino, e me
la
mostrò.
Seguiva col dito linee curve che io non capivo. – Non sono
stati riscontrati danni di nessun genere. La terremo qui ancora un
giorno e poi potrà tornare a casa.
-
Non avevate detto che dovevate tenermi in osservazione per
almeno quattro giorni?
- chiesi
perplessa.
-
Sì, lo confesso. Ma l’abbiamo osservata
in queste ore, Lesley. Sinceramente, non ho mai visto nessuno
riprendersi in fretta come lei. Altri ci hanno messo settimane. Speravo
di trovare la causa della sua ripresa in queste radiografie, ma
apparentemente il suo cervello è normale. – mi
strizzò l’occhio.
Ripensai
alle parole di Orlando. Anche se non l’avevo detto
esplicitamente, avevo intuito che stavo rallentando il loro lavoro, il
nostro lavoro. La Lesley ragionevole dentro di me lasciò il
posto a quella impulsiva e stupida.
-
Dottore? – dissi, sorridendo languida.
-
Sì? – lui abbassò la
radiografia e mi scrutò da dietro i suoi occhiali.
-
Ha detto che sto bene, vero? – inclinai di lato la
testa.
-
Sì, lo confermo. Lesley, c’è
una luce molto inquietante nei suoi occhi.
-
Posso uscire ora?
Sembrò
spiazzato dalla domanda improvvisa, poi si massaggiò il
mento. – Non sarebbe pratico. Potrebbe avere una ricaduta.
– Non demorsi.
-
In America se un paziente firma un documento nel quale si
assume tutte le responsabilità, può uscire prima.
Si può anche qui?
Voleva
mentire, ma non ci provò. – Sì.
-
Perfetto. – gli strizzai l’occhio e
sorrisi. – Mi porti quel documento. Sono maggiorenne.
Prima di
varcare la soglia dell’ospedale, mi fermai un attimo a
riflettere. Era un momento speciale: quello che stavo facendo era
completamente folle, lo sapevo, ma in quel momento stavo per ributtarmi
anticipatamente a capofitto nella mia vita
“normale”. Oltre quella porta a vetri mi
aspettavano costumi, trucchi, levatacce, riprese, problemi. Ma mi
aspettavano anche amici, risate, i colori della vita. Il dottore aveva
cercato di dissuadermi dall’uscire subito, ma ormai mi ero
completamente lanciata e niente mi avrebbe trattenuta: non potevo
resistere ancora in quell’ospedale. Fu costretto a farmi
firmare il documento che mi lasciava libera di andarmene.
Ringraziai
tacitamente Ilana per avermi portato dentro a un sacchetto dei vestiti
puliti e una leggera giacca di pelle. Il mio costume, chissà
chi l’aveva preso. Ora avevo indosso – dopo un
tempo che mi era sembrato lunghissimo – dei jeans azzurro
chiaro, una camicia bianca e un golfino rosso a maniche lunghe.
Sospirai. Linnie non si era dimenticata la mia giacca, ma quella che mi
aveva portato era estiva e non bastava a coprirmi completamente dal
freddo.
L’aria
gelata dell’esterno mi colpì il viso come una
frustata. Un brivido mi percorse la schiena e mi misi le mani sotto le
ascelle, rendendomi conto che non sapevo con quale mezzo tornare a
Villa Del Lago. Non c’erano taxi in giro, e non sapevo che
strada fare a piedi. Un autobus, neanche a parlarne. Il mio sguardo
vagò per il piazzale di fronte all’entrata.
L’edificio si affacciava sul lungolago, e ci misi poco a
realizzare con un sorriso che quella era la stessa strada che
percorreva tutta la città e che passava davanti al mio
albergo.
“Ok,
il problema della strada è risolto, ma resta quello del
mezzo”. Cercai una qualunque macchina o bicicletta o carretto
con cui magari qualcuno mi avrebbe dato uno strappo, ma a parte le
ambulanze non c’era nessuno. Un’ambulanza mi
passò davanti, rivelando un giovane uomo con in mano un
casco nero appoggiato ad una meravigliosa Harley Davidson nera e
lucida. Mi diressi a grandi passi verso di lui, leggermente piegata in
avanti per mantenere al minimo sopportabile la mia temperatura
corporea. Il vento mi scompigliava i capelli.
- Salve
– gli dissi non appena gli fui davanti. Lui alzò
lo sguardo dal casco e mi sorrise. Non era malaccio come uomo: aveva un
bel fisico asciutto, il volto leggermente spigoloso e due glaciali
occhi azzurri. Portava i capelli neri, corti e un po’
spettinati, e indossava jeans scuri e una giacca di pelle.
- Buonasera
– mi salutò di rimando. – Posso aiutarla
in qualche modo?
Fu subito
chiaro il motivo della sua gentilezza: aveva un marcato accento
neozelandese.
-
Se lei potesse darmi un passaggio con la sua Harley, mi
farebbe un grosso favore.
Altrimenti
non saprei come arrivare dove devo arrivare, non so se mi spiego.
-
Vuole che io le dia un passaggio con la mia moto?
-
Se per lei non è un problema. Sarebbe molto
gentile da parte sua. – saltellai su un
piede per
combattere il freddo. Lui guardò il casco che teneva in
mano, poi me, poi il casco. E me lo lanciò.
-
Dove deve andare? – mi chiese mentre si accingeva a
salire in sella. Sorrisi
imbarazzata.
-
Veramente non so la via, ma se mi fa guidare conosco la
strada.
Si
fermò di nuovo a guardarmi con le mani sul manubrio. Poi
posò il piede che aveva alzato per terra e venne al mio
posto. Gli sorrisi ringraziandolo, buttai all’indietro i
capelli e mi infilai il casco. Saltai in sella e lui venne dietro di me.
-
Aspetti! – mi disse mentre giravo la chiave e, con
un rombo potente, accendevo il
motore.
– Qual è il suo nome? Sa guidare?
-
Sì! Mi chiamo Lesley! E lei?
-
Craig!
-
Salve! Ok… - posizionai le mani sul manubrio.
– Si tenga!
Con uno
scatto felino la moto cominciò a scivolare
sull’asfalto. Non riuscivo a non nascondere
l’eccitazione di guidare una Harley Davidson e mentre
imboccavo la via principale mi lasciai sfuggire un gridolino eccitato.
Craig mi disse qualcosa sull’andare piano, ma il rombo del
motore mi fece intendere tutto il contrario, così girai la
manopola e accelerai. Sentii Craig urlare e avvinghiarsi ai miei
piccoli fianchi. Risi. Ero di nuovo libera!
La moto
sfrecciava sulla strada buia costeggiando il lago, la cui acqua pareva
un velo nero sollevato da lievi colpi di vento. Nonostante
l’ora – erano le 20 – in giro
c’erano pochissime macchine, e ancora meno percorrevano la
mia stessa strada. Craig, dietro di me, aveva provato più
volte a dirmi qualcosa, ma se non rivolgevo il casco verso di lui non
riuscivo a sentirlo. Craig si era più volte avvinghiato a
me, e io speravo che sotto non ci fosse un motivo losco, ma che fosse
solo una semplice azione dettata dalla paura degli scatti della sua
moto – sinceramente, non capivo come un uomo con una Harley
Davidson potesse aver paura della velocità.
Dopo un
po’ all’orizzonte comparve la forma di Villa del
Lago. Sorrisi, poi un ragionamento che non faceva una piega mi
passò in mente come un razzo.
Non era
detto che Peter mi avrebbe permesso di tornare a recitare
così presto, dopo il mio infortunio. Prima di tornare
all’albergo doveva prima parlarne con lui. E Peter a
quell’ora doveva essere sul set sul lago.
Mi sentii
stranamente eccitata quando non svoltai nel cancello di Villa del Lago
e tirai dritto.
-
Vado troppo forte per te? – urlai rivolta a Craig.
- No, anzi,
mi sa che non conosci la definizione di “limite di
velocità”! – rispose.
-
Tranquillo, sto andando solo a 100 all’ora!
-
100? Ma sei matta?
-
Tranquillo, ci siamo quasi!
Credo che
Craig stesse seriamente per svenire quando premetti la leva del freno e
fermai la moto, spegnendo il motore. Era pallido e non diceva una
parola.
Scesi dalla
moto e mi levai il casco – Non riesco a capire come mai hai
così paura della velocità.
Lui
scrollò la testa e afferrò il casco.
- Se mai
dovessi rincontrarti – disse saltando sul sellino anteriore
– ricordami di non lasciarti mai avvicinare di nuovo alla mia
moto. – si infilò il casco.
Sorrisi.
– Ti ringrazio.
Mi voltai
per andare sul set. Si era alzata una leggera nebbiolina.
-
Lesley – mi chiamò Craig attraverso il
casco. Mi voltai. – Mi dai il tuo numero?
Risi.
– No. - Ridacchiai della sua espressione delusa –
Sul serio, ti ringrazio tantissimo, ma non credo sia il caso.
Stava per
ribattere, ma io mi voltai e mi allontanai lungo la riva del fiume,
straordinariamente familiare. Cercai di non ricordare tutto
ciò che era accaduto solo qualche giorno prima, e filai
dritta verso il posto dove ricordavo ci fossero le roulotte di Peter,
Fran, Philippa e dove erano ammassate tutte le attrezzature tecniche.
Sorrisi nel
trovarle e mi avvicinai quasi di corsa alla porta. C’era una
leggera nebbia nell’aria, e non c’era altro suono
se non quello delle suole delle mie scarpe e dell’acqua del
fiume. La luce filtrava all’esterno da una finestra della
roulotte.
Mi accostai
piano alla porta, la mano chiusa a pugno alzata e pronta a bussare, ma
mi bloccai quando sentii il mio nome trapelare attraverso la porta.
Ascoltai. Le parole arrivavano attutite, ma facilmente distinguibili.
-
Non so se lasciare girare la Dalton a Lothlorien, Peter.
Quello che è successo è
molto grave.
– disse una voce di donna, probabilmente quella di Fran.
-
No, Fran: Lesley è indispensabile a Lothlorien,
quelle scene non funzionano senza
di lei e non
siamo così avanzati tecnologicamente da aggiungerla
interamente in digitale – ribatté Peter. Fu una
delle poche volte in cui lo sentii parlare seriamente.
-
Potremmo provare – disse Philippa, ma Peter
negò ancora.
-
Deve dire delle battute, come facciamo? Non è
possibile, sembrerebbe troppo una farsa!
-
Peter, aggiungiamo ogni sorta di mostri in digitale e
sembrano veri, perché non farlo con la Dalton?
Mi accorsi
di aver bussato subito dopo che Peter aprii la porta. Non seppi
descrivere l’espressione stupita che comparve sul suo volto
subito dopo avermi vista.
- Lesley!
– esclamò sgranando gli occhi come se avesse visto
un fantasma.
Entrai a
passo deciso, non avrei permesso a nessuno di tagliarmi fuori, anche
solo per una location.
- Salve
ragazzi! – salutai con un sorriso, cercando di apparire
affabile e in gran forma. Stavano per ricambiare il saluto, ma non
lasciai parlare né Peter, né Fran, né
Philippa. – Prima che voi possiate dire qualsiasi cosa,
volevo solo dirvi che non ho nessunissima intenzione di farmi da parte
per la location di Lothlorien. Sono disposta a continuare a girare il
film anche senza una gamba e se volete fermarmi, beh…
fareste meglio a spararmi o ad annegarmi nel fiume.
Superato
l’attimo di sorpresa, il primo a reagire fu Peter, che
scoppiò a ridere.
-
Quanto mi sei mancata! – disse – Non
temere, piccola Les, neanche io sono disposto a rinunciare a te per
Loth.
Per un
attimo temetti che le lacrime di commozione che mi avevano annebbiato
la vista sarebbero scese lungo le guance, ma non fu così.
Sorrisi e abbracciai Peter. Lui rispose all’abbraccio e mi
disse:
-
Bentornata,
-
Come sei arrivata qui? – chiese Fran, visibilmente
curiosa.
-
Oh, beh, sono riuscita a racimolare uno strappo in moto, ma
il tizio se n’è andato.
-
Vuoi un passaggio? – chiese Philippa. Sia lei che
Fran sembravano molto più
sollevate,
dopo la mia grande rientrata in scena.
-
Beh, sì. Grazie!
L’addetto
alla reception di Villa del Lago sembrò molto sorpreso
quando mi vide
attraversare
la porta vetrata della hall dell’albergo. Gli andai incontro
con un sorriso
incoraggiante,
come per dirgli “Ehi, sono un essere umano, guarda che non ti
mangio”.
Arrivata al
bancone, vi appoggiai un gomito sopra e con un sorriso determinato e
dissi solo
“La
mia stanza?”, certa che lui sapesse perfettamente chi io
fossi e quale camera intendessi.
Infatti.
- Il signor
Bloom ha preso la chiave della sua stanza qualche ora fa, diceva che
preferiva
sapere chi ci fosse dentro la sua camera, signorina Dalton. A quanto ne
so, anche alcuni altri attori sono dentro con lui. Li devo avvertire
del suo arrivo?
Scossi la
testa. – Sa com’è, preferisco fare loro
una sorpresa. – Gli strizzai un occhio e lui parve
sciogliersi come una noce di burro sul pane tostato. Lo salutai con un
cenno del capo e mi allontanai.
Per fortuna
mi ricordavo bene la strada per la mia stanza, e trovai la mia porta
blu abbastanza in fretta. Di nuovo, fui costretta a fermarmi prima di
entrare nella stanza, troppo curiosa per interrompere la conversazione
che – di nuovo – trapelava attraverso la porta.
Sentii distintamente le voci distinte di Billy, Dominic, Elijah,
Linnie, Orlando e Bean. Cosa ci facevano tutti quanti nella mia stanza?
Dalla porta trapelavano le note dei Keane. “Quando il gatto
non c’è i topi ballano”, pensai.
Sorrisi.
- Lesley
sembrava davvero una pezza per pulire. – disse Linnie. La
sentii sospirare da dietro al porta. – Non l’ho mai
vista così malconcia.
Orlando
fornì un’altra descrizione del mio presunto
aspetto malconcio. – Era l’equivalente di un
gattino ferito, l’ultima volta che l’ho vista.
Avevo
passato due mesi e mezzo con la Compagnia, e ogni volta che parlava uno
di noi lo spazio di tempo che separava una frase da un’altra
era carico di calde risate e scherzetti di ogni tipo. Ma stavolta
nessuno rise, non volò una mosca.
Billy
sembrò quello più “normale”.
– Avanti ragazzi! – esclamò –
Les non vorrebbe vederci tutti così!
-
Il problema, Bil, è: quando ci potrà
rivedere? – chiese Dominic.
-
Ha ragione Dom. Quella che Lesley ha preso non è
una botta come un’altra. È
piuttosto
grave. – affermò Elijah.
Qualcuno
bevve qualcosa – forse birra – da una bottiglia.
Sentii il liquido muoversi contro
le pareti di
vetro della bottiglia.
- Oh
insomma, andate a quel paese! – sentii dire con enfasi Billy.
La sua voce si avvicinò alla porta. –
Potrei trovare più allegria in un ospizio, quindi vado a
cercarne uno. Chissà che non migliori un po’ la
serata.
La maniglia
della porta di fronte a me si abbassò, e la porta si
aprì verso l’interno. Mi ritrovai davanti Billy in
camicia viola e jeans scuri, e una bottiglia di birra in mano.
Rimase come
me, bloccato sulla porta con gli occhi fissi nei miei, immobile. Sapevo
che il suo corpo stava accumulando l’energia per esplodere da
un momento all’altro.
-
Billy… - sussurrai.
-
LESLEY!!! – urlò prendendomi fra le
braccia e facendomi roteare in aria,
rientrando
nella stanza e lasciando la porta della camera aperta. Io ridevo ma
avevo
anche un
po’ di mal di mare. Tutti gli altri, che fino a un momento
prima erano seduti sul divano, si alzarono in piedi sbalorditi:
evidentemente vedermi quella sera era l’ultima cosa che si
sarebbero aspettati. Si avvicinarono, mentre Billy continuava a
lanciarmi in aria con un’energia che non gli avrei mai
attribuito.
-
Bill, mettimi giù! Aaaaaaaaaaaaaaaaah mettimi
giùùùùù!!!
– strillavo fra le risate. Lui mi scaraventò a
terra e mi abbracciò forte forte forte.
-
Che ci fai tu qui? – Dominic con una presa da rugby
prese Billy e me lo levò di dosso, per poi buttarsi al suo
posto. Non riuscivo a smettere di ridere.
-
Ma non schiacciatela così!! –
urlò Elijah sopra il baccano.
-
Lesley!!! – urlò di nuovo Billy
buttandosi sopra Dominic e trascinandosi dietro Elijah.
-
Ahia ahia ahia ahia ragazzi!! Mi fate male!
-
Ma levatevi!! – Si aggiunse anche Sean alla calca,
ma al contrario degli altri
cercava di
lasciarmi un po’ d’aria. Ci vollero un paio di suoi
spintoni per convincere gli altri tre Hobbit da sopra il mio stomaco,
ma alla fine fui di nuovo libera di respirare a pieni polmoni. Tra le
bibite vuote cadute per terra nella calca, Sean mi prese entrambe le
mani per aiutarmi a tirarmi su. Mi guardò per un attimo con
quei suoi occhioni da fanatico della sicurezza e mi
abbracciò.
-
Mi sei mancata – disse.
-
Anche tu mi sei mancato, Sean.
Il disco dei
Keane finì di emettere musica e nella stanza scese un
silenzio che fino a poco
prima
nessuno avrebbe pensato ci sarebbe stato. Tutti i membri della
compagnia che potevano abbracciarmi l’avevano già
fatto. Sean si scostò da davanti a me e dietro di lui
c’era Orlando, in piedi sul pavimento in mezzo a bottiglie di
birra e Coca, e mi guardava serio, ma con uno sguardo caldo e luminoso
che urlava a squarciagola: “Bentornata a casa”.
Passo dopo passo, mi avvicinai piano a lui, e lui fece lo stesso.
Arrivati vicinissimi rimanemmo così, alla distanza di un
palmo, a guardarci negli occhi senza dire una parola. Sapevamo entrambi
che qualsiasi parola sarebbe stata superflua, quindi nessuno disse
niente. Poi, lentamente e come se avesse paura di sfiorarmi, mi
accarezzò il braccio, piano, affettuoso. Un gesto semplice
ma carico d’amore, che sostituiva tutte le parole che
potevamo dire. Risposi al tocco con l’altro braccio, quello
della mano fasciata, e glielo passai sul braccio nudo. Si
avvicinò ancora e passò un braccio intorno alla
vita, attirandomi a sé. Gli buttai le braccia al collo e
lui, in un impeto di gioia, mi sollevò in alto, come fa
Johnny con Baby alla fine di Dirty Dancing. Sorrisi e quando mi
posò, poggiai le labbra sulle sue. Orlando rispose al bacio
con un’intensità che non avevo mai visto prima in
lui.
Quando quel
momento magico finì, mi voltai verso la porta e vidi che
tutti i ragazzi si erano voltati verso il muro, forse per gioco o
perché erano realmente imbarazzati. Orlando si
schiarì la gola e Billy disse:
-
Oh, avete finito? Bene! – si voltarono insieme come
soldatini. – Ora Lesley cara, carissima, Lesley, potresti
dirci cosa ci fai qui?
-
Giusto. – concordarono gli altri.
-
So che dovrei essere in ospedale, ma… - Orlando mi
prese la mano e mi fece sedere sul divano blu davanti al caminetto.
- … diciamo che non potevo continuare a bloccare
il lavoro, così ho firmato un documento che mi permetteva di
uscire prima.
-
E come sei arrivata qui’ – chiese
Orlando.
-
Un… ho noleggiato una moto.
-
Hai noleggiato una moto? – chiese Dom. –
Che moto?
-
Una Harley. Un tizio mi ha dato un passaggio con una Harley.
Billy si
eccitò: anche a lui piacevano le moto costose.
-
Billy, ragazzi – lo fermò Elijah prima
che potesse dire una parola. – Sono certo che Lesley
vorrà dirci tutto quanto domani con calma, vero? –
annuii. – Tanto ci vediamo domattina sul set. Sarà
meglio lasciare i due piccioncini da soli. – sorrise e mi
fece l’occhiolino. Dei lamenti di protesta si levarono dal
resto del gruppo, ma Elijah, assumendo espressioni molto da Frodo, li
cacciò tutti fuori e prima di chiudere la porta, uscendo
anche lui, si voltò verso di me.
-
Gra-zie – gli sillabai lentamente con le labbra. Mi
sorrise e chiuse la porta.
Mi voltai di
nuovo verso Orlando, che mi fissava dall’altro lato del
divano. Senza dire una parola mi alzai, gli presi una mano e lo
condussi nella camera da letto. Cara dolce camera da letto. Mi sedetti
sul soffice letto bianco a gambe incrociate, e lui fece lo stesso,
continuando a scrutarmi con quei suoi scuri occhioni da chioccia.
-
Un tizio ti ha dato un passaggio con una Harley? –
disse, dopo una lunga pausa.
-
Sì, si chiama Craig. Alla fine mi ha chiesto il
numero di telefono, ma io non gliel’ho voluto dare.
-
…era carino?
-
Non era male – era geloso!! – ma tu lo
sei di più.
Si
sdraiò per lungo e poggiai la testa sulla sua spalla.
-
Sei stanca?
-
Abbastanza. – non parlò. –
Parlami delle Due Torri.
-
Verso metà settembre arriveranno i nuovi attori e
cominceremo a girarlo. Fra un paio di giorni cominceremo a girare la
parte degli Uruk Hai.
-
Aspetta, ma noi non dovevamo iniziare il 30 agosto a girare
quelle scene?
-
Lesley, fra due giorni è il 30 agosto.
Mi tirai su
e lo scrutai negli occhi, sperando che scherzasse. – Oggi che
giorno è?
-
Il 28 agosto, Les, domani è il 29.
-
Quando ho avuto l’incidente?
-
Il 21.
Ebbi un
tuffo al cuore. – Quanto sono stata in coma? Il dottore mi
aveva detto poco.
-
Due giorni e mezzo, quasi tre.
I conti non
mi quadravano, ma mi prese una botta di sonno e le palpebre
cominciarono a chiudersi. Mi accoccolai a lui.
- Domani
andiamo a fare jogging? So che dovremo girare una scena di corsa.
- Domani non
sei attesa sul set, Les. O almeno, non credo… comunque non
credo che tu possa già riprendere a fare stupidaggini, sei
appena uscita dall’ospedale.
- Oh,
Orlie… - sbadigliai – ho già ripreso a
fare stupidaggini.
Mi stavo
abituando a quel sogno ricorrente di morte, terrore e distruzione. La
sera ero
arrivata ad
aspettarmelo, ma ciò non cambiava l’effetto che
aveva su di me. Come tutte le
altre volte,
mi svegliai col cuore in gola e voltai il volto verso la finestra. Fui
quasi
sorpresa di
ritrovarmi a Villa del Lago, in una stanza inondata dalla luce del sole
mattutino, e
di essere sotto alle coperte, perché, come ero sicura, mi ci
ero addormentata
sopra. Il
lato del letto accanto al mio era rifatto e Orlando non
c’era. Mi alzai sfregandomi
gli occhi,
poggiando i piedi nudi – chi mi aveva tolto le scarpe?
– per terra e andai in sala, che fino alla sera prima era
tappezzata di lattine. Chi aveva pulito? Non poteva essere stato
Orlando a fare tutto quanto.
L’odore
che emanavo mi colpì le narici come una zaffata di zolfo:
ero troppo impregnata dell’odore di medicinali e vomito che
aleggiava in ospedale.
- Dio mio,
è disgustoso! – imprecai tappandomi il naso e
correndo verso il bagno. Buttai i
vestiti sul
pavimento e mi infilai sotto il getto caldo della doccia più
in fretta che potei: sentii subito i muscoli distendersi sotto il
calore dell’acqua.
Uscii dalla
doccia dopo un lungo, lungo tempo, benedicendo colui che, fra tutti gli
altri primitivi armati di clava, aveva scoperto l’acqua calda
e colui che, grazie alla sua inventiva, aveva fatto sì che
arrivasse agli appartamenti abitati da poveri bisognosi di igiene
personale come me.
Avevo una
voglia matta di correre sul set. E non metaforicamente: volevo
cominciare ad allenarmi per la maratona delle Due Torri che avremmo
dovuto fare io, Orlando e Viggo. Mi vestii con i pantaloni della Adidas
che mi piacevano tanto, una felpa pesante e le mie scarpe da jogging.
Mi legai i capelli bagnati con uno chignon e, uscendo dalla stanza, non
dimenticai di lasciare le chiavi sul bancone della hall prima di filare
fuori dalla porta. Sapevo che la distanza tra Villa e il set era di
mezz’ora di macchina, ma non avevo mai avuto paura di
correre, e al college a Oxford ero famosa per la resistenza dei miei
muscoli. L’istruttore di educazione fisica del mio liceo era
solito dire che i miei muscoli non avevano nemmeno l’ombra di
fibre bianche e quando ci dava degli esercizi di velocità mi
chiamava Bradipo. Però sapeva che se ci avesse chiesto di
correre quella ragazza con i capelli scuri a caschetto – li
portavo così all’epoca – avrebbe battuto
tutti i maschi della classe. Così corsi a ritmo costante, le
nuvolette di vapore che uscivano dalla mia bocca e subito si buttavano
dietro di me. Avevo pensato anche a cronometrarmi: quando finalmente le
suole delle mie scarpe cominciarono a solcare la ghiaia, avevo un tempo
di trentasette minuti. Ero orgogliosa di me stessa. Mi guardai intorno,
col fiatone: riconoscevo già i volti di chi, sorpreso, si
fermava a guardarmi e ad indicarmi col dito. Con le gambe frementi e il
cuore che pompava sangue senza sosta, andai dritta al centro del set,
dove puntualmente stava seduto Peter e dove c’erano anche i
ragazzi della Compagnia. La gente ormai aveva formato un gruppetto
intorno a me.
-
Buongiorno, Lesley! – mi salutò allegro
Peter, incurante dei mormorii eccitati che percorrevano la piccola
folla.
-
‘Giorno – tirai un lungo respiro e parlai
a voce alta, rivolta a tutti. – Allora, ne
abbiamo
passate tante, ma ora sono qui! – allargai le braccia per
farmi vedere. – E sono
pronta per
rifare la scena. Quindi chi mi deve truccare mi trucchi, chi mi deve
portare il
costume me
lo porti, che io voglio levarmi questo peso e far vedere a quelli che
aspettano
il film che
la Compagnia dell’Anello non ha paura di un fiume! Ho ragione
o no?
I quattro
Hobbit proruppero in un grido di esultanza.
A parlare in
quel modo a tutto lo staff mi ero sentita un po’ Hitler, e mi
ci era voluta un bel po’ di forza di volontà per
riuscire a salire di nuovo su una canoa, ma alla fine la mia e di
Orlando solcò di nuovo l’acqua, con
tranquillità, come se il fiume mi dicesse:
“L’ho fatto una volta, non lo farò di
nuovo”.
All’ora
di pranzo avevamo finito, ed ero già stremata. Con una
ciotola di patate bollite e insalata, tornai alla sponda del fiume e mi
sedetti, con i piedi che sfioravano quasi l’acqua. dopo tutto
quello che era successo ero decisa a sfidare e sconfiggere la mia
bizzarra fobia.non mi sarei lasciata più coinvolgere dalla
paura dell’annegamento, perché tanto ci ero
passata già una volta.
-
Se ti posso dire – disse Viggo sedendosi affianco a
me con un grugnito di fatica – stai molto meglio senza tutte
quelle bende. Ciao, Lesley.
-
Ciao Viggo! È da un po’ che non ti vedo.
-
Lo so, e mi dispiace. Ma dovevo stare con mio figlio,
sai… fra poco sua madre viene a riprenderlo…
-
Lo so, non fa niente – sorrisi e addentai una
patata bollita. – In effetti, è stato un sollievo
quando Emma mi ha tolto la benda, almeno potranno togliere il graffio
col video shop.
-
Sei combattiva eh?
Risi.
– Dovresti saperlo!
-
Ormai ti conosco! E so che ora sei decisa ad affrontare la
tua paura.
Lo guardai
sorpresa, con una foglia di insalata in bocca. Viggo sorrise.
- Pensi di
poter imparare a nuotare così di botto, che in un attimo la
tua fobia sparirà… beh, io ti consiglierei di
provare qualcosa di un po’ meno suicida. – si
alzò in piedi con uno scricchiolio di giunture
nient’affatto elegante – ma che potevo farci, era
Aragorn – Potresti cominciare a mettere i piedi
nell’acqua.
Mi
battè una mano sulla spalla e se ne andò. Aveva
tutta la ragione possibile. Ma non ci avrei provato comunque, quel
giorno.
Il giorno
dopo, il 29 agosto, iniziammo a girare la scena dell’attacco
degli Uruk Hai, quello dove alla fine Boromir muore. Fu estremamente
faticoso, soprattutto perché l’istruttore di
scherma, Bob Anderson, non era mai soddisfatto delle nostre coreografie
e insieme a Carrie Thiel correggeva alcune mosse che noi dovevamo
subito mettere in pratica, con velocità e destrezza sempre
maggiori che noi, anche dopo lunghi allenamenti, ancora non avevamo
sviluppato. Ci divertimmo da morire quando toccò a John
combattere, perché con quella sua armatura, la barba, il
parruccone e l’ascia, urlava rivolto al cerchio di stuntman
da cui era circondato:
-
Chi è il primo? – e uno, poverino,
alzava piano una mano. – Ok, tu vieni qui, io ti colpisco con
la mia ascia, e poi ti colpisco ancora, e ancora…
-
Eh, John, cerca di non colpirci, ma se succede non fa
niente…
-
Tranquillo! – diceva lui. Il poveretto avanzava e
BUM! BEM! SPOK! BUM BUM BUM!
John lo
faceva a pezzi. Noialtri eravamo piegati dal ridere, tanto che Peter
una volta ha persino voluto allontanarci.
Il giorno
dopo era previsto che Boromir morisse, e ci misero una giornata intera
per
girare
quella scena toccante. Io, Orlando, John e i quattro Hobbit non ci
eravamo
nemmeno
cambiati d’abito, passammo tutto il giorno seduti sulle
nostre poltroncine di
plastica a
guardare Viggo piegato su Bean, a dire tutto il giorno le stesse
battute. Alla
fine del
primo video, gli uomini se la ridevano, mentre Fran, Philippa ed io
piangevamo come delle deviate mentali, col risultato di far ridere di
più gli altri ragazzi. Nella prima parte della giornata
girarono la scena con la telecamera rivolta verso Viggo, poi dopo
pranzo dalla parte di Bean, che molto ironicamente esclamò:
“Che bello, me ne torno a morire dopo un piatto di
patate!”. Girarono ancora per tutto il pomeriggio, mentre,
ormai stufati, io e Billy giocavamo a tris e Sudoku, Dominic leggeva
riviste spazzatura fumando una sigaretta dopo l’altra, Elijah
dormiva e Orlando coccolava la figlioletta di Sean.
Nei dieci
giorni successivi ripetemmo per bene tutte le scene e ci preparammo
psicologicamente all’arrivo dei nuovi attori e del nuovo
film. La cicatrice sulla mia fronte era sparita e così anche
quella sulla mano: ero tornata all’ospedale per dei controlli
e il dottore ne aveva approfittato per togliermi i punti. Ogni mattina,
io e Orlando facevamo di corsa tutta la strada dall’albergo
fino al set; John, da parte sua, si rifiutava di fare una cosa del
genere.
Martedì
10 settembre fu uno dei giorni più leggeri dal punto di
vista del lavoro, ma Linnie mi scarrozzò in girò
per la città con la scusa di comprare i vestiti galanti per
l’arrivo dei nuovi attori, poiché Peter aveva
annunciato che ci sarebbe stata una festa sul fiume. Mi tenne fuori
tutto il pomeriggio, e la sera raggiungemmo il resto della Compagnia al
ristorante e John si prese l’onore di ordinare il cibo per
tutti, facendo uccidere mezza popolazione mondiale di polli e altri
volatili per essere serviti alla nostra tavola, più una
dozzina di aragoste. Durante la cena mia madre mi chiamò al
cellulare, dicendomi che le dovevo fare un grosso favore e portarle un
pacco sul posto di lavoro, la mattina seguente.
-
Mamma, non te lo ricordi? Io sono in Nuova Zelanda!
-
Oh, gioia, perdonami! Lo avevo dimenticato! Però
mi serve quel pacco, a chi posso chiedere?
-
Io non posso prendere un aereo per portarti un pacco, mamma!
Ci sarà qualche tuo collega o nostro vicino di casa che
può fare il lavoro al posto mio, no?
-
Oh, hai ragione, Lesley. Ci sentiamo domani, ti racconto
com’è andata.
-
Va bene, ciao mamma.
-
Ti voglio be…
Chiusi la
telefonata. Ero stata piuttosto maleducata, lo sapevo, ma la stranezza
di mia madre a volte aveva la capacità di darmi sui nervi.
Me ne tornai a tavola.
Tornammo
all’albergo in coma da cibo, e mi infilai sotto le coperte.
Orlando si distese accanto a me. Spossata dalla giornata a suo modo
faticosa, chiusi gli occhi e mi addormentai.
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Capitolo 18 *** Cap. 16 ***
La
mia vita sul set – Cap. 16
Non riuscivo
a vedere bene: i miei occhi erano velati da qualcosa che poteva essere
classificato come lacrime o forse qualche altra cosa sconosciuta.
Sentivo le palpebre pesanti e facevo fatica a tenere gli occhi aperti,
ma non volevo dormire ancora. La prima cosa che notai fu che il
soffitto bianco non aveva crepe, sembrava nuovo: ero già
consapevole di trovarmi in ospedale, ma nonostante ciò
credevo di essere ancora all’aria aperta. Non sapevo come
fossi arrivata lì, e sinceramente non smaniavo dalla voglia
di chiederlo.
I miei occhi
affaticati esplorarono lentamente il soffitto, in cerca della fonte di
luce alla mia sinistra, ma non avevano la forza per trovarla.
Mi accorsi
che la mia mano era ancora stretta fra quelle di Orlando: sentii la sua
pelle fredda.
“Sei
freddo”, avrei voluto dirgli ma, dopo aver preso coraggio e
provato, mi uscii un rantolo che suonava come:
-
E-e-i… e-e-o. – La gola mi bruciò e
sentii l’odore di ruggine del sangue scendere un
po’ più verso il basso, andandosene.
Orlando
scattò spaventato da quel suono improvviso, si
alzò in piedi e si chinò su di me. Non so
descrivere la sensazione di sollievo che si dipinse sul suo volto
appena vide i miei occhi aperti, ma il suo viso era ancora sfocato,
lontano. Credevo di tornare a vedere di nuovo la Galassia.
Vidi
l’immagine sfocata di un sorriso, poi lasciò
andare la mia mano e uscì dal mio campo visivo. La mia testa
pulsava e ogni rumore superiore a un piccolo colpo di tosse
m’infastidiva: persino i continui bip
dell’elettrocardiogramma non facevano che aumentarlo.
Lo sentii
correre fuori dalla stanza e chiamare a gran voce
un’infermiera, dicendo:
-
Ha aperto gli occhi!
Come per
contraddirlo li richiusi, ma poi mi dissi di non fare la bambina.
Sentii gente muoversi e una sedia cadere.
Basta,
silenzio, c’è troppo rumore.
- Per
favore, restate tutti in corridoio! – Ordinò una
secca e profonda voce maschile che si avvicinava.
Quasi mi
prese un colpo quando un medico con la barba grigia mi comparve davanti
all’improvviso piantandomi davanti agli occhi una pila.
Istintivamente provai a chiudere gli occhi, ma lui teneva ferme le
palpebre con un dito: prima uno, poi l’altro occhio.
-
La reazione delle pupille è buona –
disse a mezza voce, forse rivolto a qualcuno. –
Signorina,
sa dirmi come si chiama? – mi chiese alzando un po’
la voce. Mi ci volle un secondo per trovare la risposta.
-
Lesley Dalton. – parlai nonostante il mal di gola,
e stavolta mi uscì qualcosa di più delle
semplici
vocali, ma sempre a voce fioca e lui si dovette chinare un
po’ di più per sentire.
-
Sa dirmi la sua età, qualcosa su di lei?
-
Ho 18 anni, recito in un film – mossi un braccio
per metterlo più comodo. – e…
-
Come si sente? – m’interruppe. Aggrottai
le sopracciglia.
-
Strana.
-
Ha subito un trauma cranico moderato, è
perfettamente normale. La lascio riposare ora.
Di colpo
ebbi sonno, così tanto che non riuscii a tenere gli occhi
aperti. Sentii il dottore dire a Orlando parole come
“problemi”, “disturbo”,
“silenzio”, “accertamenti”
mischiate a un mormorio per me incomprensibile. Chiusi gli occhi e mi
riaddormentai.
Quando
riaprii gli occhi per la seconda volta, mi sentivo molto meglio: il mal
di testa era diminuito e riuscivo a rimanere concentrata più
a lungo, alla faccia della botta di anestesia alla quale molto
probabilmente mi aveva sottoposta il dottore chissà quanto
tempo prima. Nulla era cambiato dalla volta prima: c’erano
gli stessi odori, gli stessi suoni… eppure era come se tutto
mi dicesse “Ehi, ora sei tutta qui! Niente galassie in
mezzo”. Ero persino in vena di sorridere! Allungai le gambe e
mi passai una mano sugli occhi, prima di aprirli. Riuscii a mettere a
fuoco lo spazio che mi circondava molto più in fretta, senza
strane nebbie in giro: era l’alba.
Accostati al
letto, vidi Billy e Dom, uno a fianco all’altro.
- Non siete
esattamente le persone che uno pagherebbe per vedersi davanti appena
sveglio. – dissi – speravo come minimo in un
modello di Abercrombie.
Billy rise e
pure Dominic. – È un piacere rivederti tutta
intera, sorellina, ci hai fatto prendere un bello spavento –
mi disse Dom facendomi l’occhiolino.
-
Soprattutto a Orlando: per poco non ci è rimasto
secco. Ehi, stai giù! – Billy, vedendo
che cercavo
di mettermi a sedere sul letto, mi spinse giù a forza.
– Ordine del medico, finché non decide lui che sei
in grado, non ti devi alzare.
-
Sì, papà – sbuffai. Poi mi
guardai in giro. – Dov’è Ol?
-
Viggo l’ha dovuto portare a forza
all’hotel, non si reggeva in piedi. È rimasto
sveglio una
giornata e
mezza, ma nonostante ciò è voluto rimanere qua
fino a quando il medico ha detto che eri totalmente e eternamente fuori
pericolo. – spiegò Dom. – Il tuo dottore
ci ha anche detto di non entrare a più di due alla volta, di
non fare rumore ecc ecc.
Sbadigliai.
– Ma che ore sono?
-
Più o meno le cinque e mezza.
-
Come faremo per la scena?
-
Stai sicura che tu non remi più. Basta, finito.
– Disse Billy. – Ti hanno aggiunta in
digitale.
Fran e Philippa si sono date da fare per non far trapelare nulla e
mantenere il silenzio stampa. Se Qualcuno viene a sapere che uno degli
attori ha rischiato la vita mentre girava una scena, non
vedrà l’ora di farcela pagare cara.
- Per quel
qualcuno intendi… - qualcosa mi attraversò la
mente come un fulmine: non riuscivo a ricordarmi il nome di quel tizio.
Per quanto mi sforzassi la mia memoria era una tabula rasa. Ricordavo
il suo volto in ogni dettaglio, eppure il suo nome non mi veniva in
mente. Mi presi la testa fra le mani. Che stava succedendo?
Dom si
chinò, vedendo che mi ero fermata all’improvviso.
-
Eh… Les?
Alzai gli
occhi e lui vide qualcosa. – Che c’è?
C’è qualcosa che non va?
-
Quel… quel tizio – dissi. – quel tizio
che ci perseguita, quello che mi sognavo la notte… qual
è il suo nome?
- Non riesci
a ricordartelo? – disse Billy.
-
No… che mi sta succedendo? – chiesi, impaurita.
-
… è Colt. – sussurrò lui.
- Colt!
Matthew Colt! Ecco come si chiama!
Provai di
nuovo a tirarmi su, ma un’occhiata di Billy mi fece
desistere. Li guardai: avevano entrambi facce strane.
-
Che c’è? -chiesi, anche se
sapevo benissimo quale sarebbe stata la risposta.
-
È strano che tu non ti ricordi il nome di un uomo
che ti perseguita da quando hai
cominciato a
lavorare.
-
Lo so, è strano, non ho idea di ciò che
mi stia succedendo.
-
Magari ne parlerai col dottore fra poco, ok? - fece
Dom, avvicinandosi alla porta. Aveva
una strana
espressione, e lo capivo benissimo: la paura che il mio cervello non
funzionasse più a dovere era nell’aria di quella
stanza, rendendola pesante al respiro. Billy lo seguì,
lasciandomi sola nella stanza. Ignorando tutti gli avvertimenti di
Billy, mi misi a sedere sul letto, incrociando le gambe e piegandomi
leggermente in avanti. Volevo pensare a tutto quello che era successo e
che stava succedendo tuttora: perché non ero riuscita a
ricordarmi il nome di Colt? Perché facevo fatica a pensare?
Ci mancava solo la preoccupazione!
Restai
lì seduta sul letto, per chissà quanto tempo. Mi
ritrovai a fissare lo stesso punto del lenzuolo più e
più volte, finché ad un certo punto il rumore di
nocche contro la porta mi fece sobbalzare. Entrò un medico
di mezza età, con i capelli e la barba grigia e due grandi e
vecchi occhiali calati sul naso. Si muoveva silenziosamente, ma
attraverso dritto la stanza come se volesse mostrare a tutto il mondo
la sua innocenza.
-
Buongiorno, signorina Dalton. – mi
salutò aprendosi in un cordiale sorriso mentre si
avvicinava.
-
Buongiorno – risposi.
-
Ci ha fatto prendere un bello spavento, lo sa? Ieri
pomeriggio, quando è arrivata, per
poco non se
ne andava.
-
Cioè? – aggrottai la fronte.
-
Era in stato di morte apparente, e per qualche minuto
è andata in arresto cardiaco. Il
signor Bloom
è quasi morto di paura.
-
Ci credo – dissi. – Mi dispiace.
-
Non è colpa sua. – prese la cartella
appesa al fondo del mio letto e la sfogliò.
-
Non che abbia bisogno di leggere, ho scritto io la roba qui
dentro. – scherzò – Dunque –
rimise la
cartella al suo posto. - passiamo alla visita.
Mi fece la
solita visita di routine, mormorando constatazioni quasi
impercettibili. Alla fine, si tirò su e sospirò,
mettendosi nel taschino la pila con cui mi aveva appena controllato gli
occhi.
- Bene, il
trauma cranico non è così grave com’era
apparso all’inizio, ma può comunque peggiorare,
quindi la terremo qualche giorno in osservazione, per accertarci che
non ci siano complicazioni. Più tardi le faremo una tac per
vedere se c’è da sistemare qualcosa, internamente.
Non deve sforzarsi di pensare troppo – mi strizzò
l’occhio – dalla finestra del corridoio, passando,
l’ho vista immersa nei pensieri. Non deve sforzarsi,
signorina Dalton.
Voltai la
testa verso la parete alla mia destra: non me ne ero accorta, ma nel
muro era infissa una grande finestra rettangolare che mostrava il
viavai del corridoio.
-
Ha qualche domanda da pormi, prima che vada?
Annuii.
– In effetti… prima mi chiedevo…
cioè…
-
Stia tranquilla, non mi muovo. – sorrise.
-
Beh… prima, con i miei amici, mi è
capitata una cosa strana: non mi sono ricordata il
nome di una
persona che per me non è una sconosciuta, e mi stavo
chiedendo il perché. Prima mi bastava meno di un attimo per
ricordare il suo nome, perché ora no?
Il dottore
non smise di sorridere, ma nei suoi occhi comparve il barlume
professionale che per poco aveva lasciato spegnere. –
Signorina Dalton, lei ha sbattuto violentemente la fronte contro uno
spuntone di roccia, e ha passato ore in coma. In questi casi,
e specialmente nel suo, il cervello può…
diciamo… fare cose strane, e una presenza di amnesia non
è rara – spiegò.
-
Che genere di cose strane?
-
Durante il suo periodo di convalescenza potrà
subire un cambio dei ritmi del sonno,
avere mal di
testa, amnesia, vertigini. Per questo la terremo qualche giorno in
osservazione, ma non è in pericolo di amnesia totale
– mi tranquillizzò. – Ora, mi perdoni,
ma se non c’è altro preferisco andare. Fra poco
dovrò cominciare il giro visite e chissà
perché la macchinetta della saletta fa il caffè
più buono a quest’ora.
Sorrisi e
lui, con un cenno del capo, si voltò e andò a
grandi passi verso la porta. La aprii e, prima di uscire, si
voltò e mi avvertì.
-
Signorina Dalton, so che la tentazione sarà forte,
ma forse è meglio che non si guardi allo specchio.
Chiuse la
porta lasciandomi sola. Ovviamente, se non me l’avesse detto,
non ci avrei pensato per un po’. Come dire a uno yogin di non
pensare agli elefanti rosa: ma se me lo dici certo che ci penso!
Alla
sinistra del letto c’era un comodino con tre cassetti: li
aprii uno per uno ma in nessuno di questi c’era uno specchio.
L’idea di guardare nel riflesso della sbarra del letto non
fece in tempo a saltarmi in testa che se ne andò via.
Presi il mio
telefono dal comodino – non sapevo come fosse finito
lì da Villa del Lago, ma in quel momento non
m’importava granché: sicuramente l’aveva
portato uno della Compagnia.
Digitai
veloce il messaggio: “Ciao Linnie, puoi venire qui?”
La risposta
non si fece aspettare molto. “Di corsa! Non abbiamo niente da
fare. Come stai?”
“Ti
spiego tutto quando vieni” smisi di scrivere, indecisa, per
un secondo. “Porta uno specchio”.
Non ci
furono altri messaggi.
Mi appoggiai
contro il cuscino e sospirai, lasciando vagare lo sguardo sul soffitto.
Qualcuno che
bussava sul vetro mi riscosse dai miei pensieri. Mi voltai e vidi
Linnie che mi sventolava uno specchio da tavolo, sorridendo esaltata.
Appena vide il mio sguardo interrogativo, si fiondò dentro
la camera spalancando la porta.
-
Santo cielo, era meglio se non ti chiamavo – mi
lamentai. Lei non ci badò e, con in mano
lo specchio
e un sacchetto di plastica che lei lasciò cadere a terra,
corse attraverso la stanza e mi buttò le braccia al collo,
emettendo suoni acuti a tutto spiano.
-
Sono così felice di rivederti Lesley! –
mi strillò eccitata nell’orecchio. Sorrisi e le
avvolsi
un braccio
intorno alle spalle.
-
Anch’io sono contenta, Linnie. Mi devi raccontare
le ultime novità. Però prima siediti:
non vorrei
che arrivasse la sicurezza attirata da tutto questo baccano.
Rise allegra
e si sedette sul bordo del letto.
-
Mi hai fatto prendere uno spavento così
grande… sembravi morta.
-
A quanto pare ci sono andata vicino. Ho smesso per un
po’ di funzionare.
Linnie
annuì. Era seria adesso. – Non avrebbero mai
dovuto permetterti di girare quella scena, specialmente con quella
corrente.
- Non
è colpa loro, Linnie, sono io che ho insistito: mi ero
impegnata tanto alle lezioni di canottaggio, che alla fine se non
l’avessi girata assieme agli altri mi sarebbe sembrata tutta
fatica sprecata.
La sua voce
s’indurì appena e mi fisso dritta negli occhi: -
Avresti dovuto almeno prendere lezioni di nuoto, Lesley.
-
Lo so. – annuii, sconfitta. – Elijah ci
ha provato a buttarmi in acqua e a insegnarmi le
basi, una
volta, ma non ha avuto grandi risultati.
-
Cosa ti ha detto il medico? – disse repentina.
Aveva cambiato discorso di proposito? Mi
strinsi
nelle spalle.
-
Tra qualche ora dovrebbero prendermi per farmi dei raggi. Il
dottore mi ha detto di star
tranquilla e
di non affaticarmi, ma in questo momento mi sento così
strana, in senso positivo, che non seguo molto le sue indicazioni.
Linnie non
disse niente, si limitò a fissarmi con i suoi occhioni
verdi. Strinse piano le labbra, con una strana espressione, lentamente
si voltò per prendere lo specchio che aveva appoggiato sul
letto, affianco a sé, e me lo porse a faccia in
giù. Lo presi piano, come se fosse una cosa di cristallo.
-
Sii cauta. – mi disse soltanto.
-
Il mio aspetto è così tremendo?
Non rispose.
Lentamente, come se fosse di vitale importanza girarlo con la massima
calma, diressi la superficie riflettente verso il mio volto. Trattenni
il fiato.
Capivo
perché mi avevano detto di non guardarmi: la Lesley che mi
fissava non era la stessa che mi aveva sorriso nello specchio del bagno
a Villa Del Lago. Era pallida, quasi cadaverica, i suoi occhi stanchi.
Aveva un graffio sulla guancia sinistra e due profonde occhiaie viola.
I suoi occhi mi fissavano stupiti ed estranei, come se la Lesley
riflessa non mi conoscesse. Gli occhi indugiarono attenti su ogni
particolare di quel viso stanco, poi qualcosa li attirò alla
fronte. Un cerotto candido copriva un buon lembo di pelle. Quasi in
trance, vidi riflessa nello specchio la mano che, alzandosi, andava a
togliersi quel cerotto che sembrava mandare il messaggio:
“Togliermi è pericoloso”. Incurante del
dolore, la mano staccò il cerotto, lasciandolo cadere. Aveva
ragione il cerotto, era meglio non toglierlo: nascondeva una profonda
ferita, una spaccatura che, benché non fosse sporca di
sangue, lasciava intendere che, di sangue, ne doveva aver perso
parecchio. Lungo la linea di frattura che solcava la fronte di quella
Lesley attonita, che tra l’altro ero io, c’erano
quattro punti, come quattro piccoli ponti costruiti sopra un fiume.
Vidi di nuovo la mano che si alzava, e gli occhi notarono
un’altra cosa. Anche la mano era bendata. In un flashback,
rividi la mia mano sullo scoglio bagnato scivolare. Non mi ero accorta
che mi ero anche tagliata.
Con la
stessa lentezza di quando l’avevo preso in mano, capovolsi lo
specchio e me lo appoggiai sulle gambe.
-
Oh, mio Dio. – sussurrai.
-
Hai capito che cosa ti sei fatta? – sollevai lo
sguardo verso Linnie, incapace di proferir
parola. Con
la fronte corrugata e le labbra strette, mi fissava piena di rabbia.
– Ti sei quasi uccisa. Si alzò di scatto dal letto
e, ripreso lo specchio, si avviò a grandi passi verso la
porta, scaraventando il sacchetto di plastica sul letto. Aprii la porta.
-
Perché fai così? – le
domandai, parlando a bassa voce. Lei si fermò, la mano ferma
sul
pomello
della porta. Poi si voltò a guardarmi, il viso rigato da
lacrime di rabbia.
-
Tu sei la mia migliore amica Lesley, e non sai quanta paura
ho avuto, che reazione ho
avuto,
quando Elijah mi ha detto che tu eri in coma in ospedale! Ho avuto il
terrore di perderti, a causa della tua incoscienza! Avresti dovuto
avere molta più attenzione della tua persona, ecco
perché sono arrabbiata!
Se ne
andò chiudendo forte la porta.
Avrei voluto
uscire dal letto, fermarla, dirle che aveva ragione su quasi tutto.
Quasi.
Sapevo che
paura aveva provato, e la capivo. Avevo visto che piangeva, nella
galassia. Ma non potevo dirglielo. Lo sentivo troppo personale.
Lacrime
cominciarono a rigarmi il viso.
-
Signorina Dalton? – una sottile voce femminile si
fece strada attraverso il mio cervello,
che subito
mandò l’impulso di aprire gli occhi. Davanti a me
avevo un’infermiera in camice bianco che mi
sorrideva. – Si è appisolata.
– mi spiegò.
-
Che ora è? – chiesi un po’
più sveglia.
-
È l’ora di pranzo, le ho portato del
cibo.
-
Grazie, non ho fame.
-
Lei deve mangiare, signorina Dalton.
Cedetti. Non
avevo voglia di insistere. Mi tirai su e presi in mano la forchetta
appoggiata su un tovagliolo sul vassoio che avevo di fronte. Appena lo
feci, l’infermiera notò che non avevo
più il cerotto in fronte.
-
Chi le ha tolto la medicazione? – mi
domandò inquisitoria.
-
Io. Ero curiosa.
-
La ferita si può infettare, Lesley! Gliela rimetto
subito.
Evidentemente
era un’infermiera bacchettona, ma qualcuno l’aveva
avvertita di non fare molto rumore. Mentre mettevo in bocca fette di
una carne poco saporita, dal nulla tirò fuori
dell’acqua ossigenata e una nuova medicazione, e mentre
continuavo a mangiare, lei mi disinfettò la ferita e ci
rimise sopra un nuovo cerotto. Cercai di non badare al bruciore.
- Non deve
levarselo. – mi disse perentoria. – Se lo fa, i
germi presenti nell’aria possono venire ad infiammare i punti
e non sarebbe una storia piacevole. – ma questa infermiera
era figlia di un ufficiale in Marina? Mi fissò ancora per
qualche milionesimo di secondo, poi il suo sorriso tornò a
splendere. – Adesso le tolgo la flebo, non ne ha
più bisogno.
Mandai
giù l’ultimo boccone. – Grazie
– dissi.
-
Fra qualche minuto la verremo a prendere per i raggi X, nel
frattempo cerchi di
rilassarsi.
– riprese il vassoio e fece per uscire dalla stanza.
– A proposito, lei soffre di claustrofobia?
Accennai un
sorriso. – No, per fortuna no.
Come detto
dall’infermiera, due infermieri mi vennero a prendere per
fare i raggi, e mi accompagnarono fino ad una “sala raggi
X”, non so come chiamarla. Fatto sta che mi fecero sdraiare
in questa enorme macchina, e mi dissero di rimanere immobile, di
mantenere la calma, di premere il pulsante del manico se avessi avuto
paura.
Mi ritrovai
con i tappi nelle orecchie a fissare insistentemente una lampada al
neon sopra di me, mentre la strana macchina ronzava e faceva
chissà quale strana magia: l’incontro con Linnie
mi aveva spossata, ma non per la durata della conversazione, poco tempo
prima avevo parlato molto di più con Billy, Dom e il medico.
Ma dopo Linnie, e dopo essermi vista allo specchio, la testa si fece
pesante. Mi chiesi se e quando avrei ripreso a lavorare, quando avrei
rivisto Orlando e tutti gli altri, se sarei mai tornata quella di
prima.
Mi accorsi
di stare per chiudere gli occhi, e l’ultima cosa che mi
ricordai prima di addormentarmi era ciò che il medico aveva
detto fra gli altri sintomi della botta in testa. Sentii la sua voce
nelle mie orecchie che diceva: “Un cambio delle ore di
sonno”.
Sognai di
cavalli, di giardini e cancelli di ferro aperti, di mare, di sole, di
risate. Quasi mi dispiacque risvegliarmi per l’ennesima
volta. Ero stanca di addormentarmi così di botto e a ritmi
irregolari: soprattutto, dopo neanche due giorni di ospedale
– da cosciente, intendo – ero stanca di restare a
letto. Volevo muovermi, uscire all’aria aperta, tornare a
Villa del Lago e a recitare. Aprii e gli occhi e mi ritrovai di fronte
al comodino: avevo dormito su un fianco.
-
Ehi – mi salutò la voce stanca di
Orlando. All’inizio pensai di essermela immaginata, ma
poi mi
voltai verso i piedi del letto e lo trovai chino sulle braccia conserte
poggiate sul
materasso,
che mi guardava con un amore che nei suoi occhi non avevo mai visto e
che non ero sicura di meritare. Era vestito con dei jeans, una camicia
bianca e un pesante maglione blu scuro. Stava seduto su una dura sedia
di plastica grigia da chissà quanto tempo.
M’intenerii nel vederlo così con gli occhi stanchi
e i capelli arruffati, e gli sorrisi.
-
Ehi – dissi, e mossi la mano bendata per fargli una
carezza sul volto. Lui rispose al tocco
come avrebbe
fatto un micino mentre fa le fusa. – Da quanto tempo sei qui?
-
Ero già qui quando ti hanno riportata dalla sala
dei raggi. Dormivi come un sasso.
Mi
allontanai dal bordo del letto e gli feci cenno di salire. Lui
sfoderò un sorriso sghembo, si alzò dalla sedia e
andò a chiudere le tendine della finestra sul corridoio, e
poi ritornò da me. Mi abbracciò e
baciò i capelli, affondai il mio viso contro il suo petto e
m’inebriai del suo odore.
-
Mi sei mancata. – mi sussurrò
nell’orecchio.
-
Anche tu – risposi. Orlando aumentò la
presa. – Non devo avere un buon odore, saprò di
medicinali
– commentai, sorridendo.
-
Presto riavrai il tuo odore – mi
rassicurò. Cominciò ad accarezzarmi ritmicamente
i
capelli con
una mano.
-
Era buono?
-
Buonissimo – sorrise. – Come stai?
-
Mi sento un po’ assonnata, ma per il resto credo di
stare bene.
-
Non vedo l’ora di riaverti con me. Siamo
così spenti, senza di te. Non c’è
più nessuno che
ci fa ridere.
-
Che intendi Bloom, che sono una buffona?
Ridacchiò.
– Vedi? È proprio questo che intendevo.
Avevo la
fronte appoggiata contro il suo cuore, e ogni battito cadenzato mi
riempiva di nostalgia del set. Eppure Orlando era proprio
lì, accanto a me. Di colpo, tutta la tristezza, la paura e i
nervi tesi accumulati fino a quel momento si buttarono fuori in un
fiume di lacrime. Automaticamente, i battiti del cuore di Orlando
accelerarono.
-
Ohu, ohu, ohu, che hai?
-
Niente, solo che… - mi asciugai gli occhi con una
mano – ho avuto paura e… mi manca il
set.
Mi
coprì la testa con il mento. – Anche io ho avuto
paura di perderti. E non preoccuparti, tornerai presto sul set, con me.
Tirai su col
naso e annuii.
- Dobbiamo
girare le scene di Lothlorien e tu sei la figlia della Dama della Luce,
non te lo dimenticare. Sei indispensabile per noi, soprattutto
perché, finito Lorien, dovremo cominciare le Due Torri.
Non credetti
alle mie orecchie. – Le Due Torri?
-
Sì! … Non lo sai? Abbiamo finito la Compagnia
dell’Anello, e dobbiamo cominciare il secondo film. Poi
dovremmo assistere alle prime, partecipare agli Oscar… ne
avremo di lavoro! Rimpiangerai di essere uscita dall’ospedale.
Non risposi.
Le Due Torri.
…Cavolo.
Perdono,
perdono, perdono!! So di averci messo una vita per pubblicare questo
capitolo, e non sono neanche sicura che sia uscito bene, quindi vi
prego, fatemi subito sapere che ne pensate, sono molto in ansia!
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Capitolo 19 *** Cap 18. ***
La
mia vita sul set – Cap. 18
-Les. Les,
svegliati. Les.
Attraverso
una coltre di nebbia, capii che qualcuno mi stava chiamando. Cercai di
aprire gli occhi, fermandomi a metà.
-
Cosa c’è? – chiesi assonnata.
-
Les, ascoltami bene. In che torre lavorano i tuoi, Nord o Sud?
Sollevai un
po’ la testa dal cuscino. - WTC Nord, 99°
piano… perché?
Lo
sconosciuto, del quale non avevo potuto vedere il volto a causa del
buio, scosse la testa. – Niente, solo curiosità.
Torna a dormire ora.
-
Uh… va bene… - Appoggiai di nuovo la
testa sul cuscino.
Orfeo mi
riaccolse tra le sue braccia in un batter d’occhio.
POV Orlando
Bloom
Si era
riaddormentata molto più in fretta di quanto ci aveva messo
per svegliarsi. Povera Les, doveva essere esausta. Non potevo farle
vedere quell’orrendo spettacolo. Era l’una e mezza
appena passata, avrebbe senz’altro trascorso la notte nel
terrore più completo. Ero combattuto: il cuore lottava per
farla rimanere all’oscuro, il cervello mi diceva che ero in
dovere di avvertirla. Avevo scelto di seguire il cuore.
Varcai la
soglia della sala conferenze, dove si era radunata gran parte dello
staff: ma anche se eravamo in tanti, il silenzio era più
completo, a parte qualche singhiozzo soffocato. Raggiunsi Peter e gli
altri in prima fila, proprio davanti al televisore, nel cui schermo
campeggiavano le due Torri Gemelle, una bruciante e piena di fumo,
l’altra ancora intatta.
-
Non le hai detto niente? – mi chiese Elijah,
stringendo la mano di Linnie tra le sue.
Scossi la
testa.
-
Non l’hai avvertita? – chiese Emma
scandalizzata. – Ti ha dato di volta il cervello?
-
E’ stata dimessa dall’ospedale dopo un
trauma cranico poco tempo fa. Se guarda anche lei questo spettacolo,
può darsi che…
Venni
interrotto da piccoli strilli di terrore e trattenute di fiato. Mi
girai di scatto a guardare lo schermo. Un altro aereo era comparso nel
campo della telecamera, e si dirigeva a grande velocità
contro quella che doveva essere la Torre Sud. Tuttavia noi lo guardammo
come se fosse al rallentatore. Si dirigeva verso la torre, sempre
più vicino… e BUM! Il fianco della torre esplose
in una bolla di fuoco e morte, proprio come aveva fatto la sua compagna
solo pochi minuti prima. Qualcuno dei presenti sussurrava “Oh
mio Dio” o imprecava. Detriti volarono fuori
dall’edificio, mentre la giornalista commentava. In
sottofondo potevamo sentire le urla di terrore dei civili. Il cuore mi
pompava al massimo in gola. In mezzo a tutte quelle persone, dentro
alle Torri, c’erano i genitori di Lesley.
Elijah
abbracciò Linnie, forse per tranquillizzarla, Billy e Dom
imprecarono, Sean, Peter e gli altri non dicevano nulla. Io fissavo lo
schermo. Come avrei fatto a dirglielo? Dirle che probabilmente i suoi
genitori erano morti in un attentato sul loro posto di lavoro?
In mezzo a
quel silenziò tombale, il cellulare nella mia tasca
squillò. Ma non era il mio, che avevo lasciato in
silenzioso, ma quello di Lesley. Per fortuna l’avevo preso
dla suo comodino prima di uscire. Lo presi in mano. Sullo schermo
campeggiava una scritta affiancata da un cellulare con una nota: MAMMA.
-
Rispondi! – mi incitò qualcuno.
– Rispondi!
Schiacciai
il tasto verde. – Sì?
-
Pronto? Pronto? Lesley? – barcollai. Era la madre
di Lesley. Beh, ovvio. – Lesley, tesoro mio? –
in
sottofondo si sentivano sirene e grida.
-
Io sono Orlando, signora, il suo… collega. State
bene?
-
Sì, per fortuna io e mio marito non eravamo nella
Torre! Ma dov’è mia figlia?
-
Sta dormendo in camera sua, signora.
-
Oh, meno male! Non devi farglielo vedere, per
l’amor del cielo! Non deve vedere l’attacco! Lesley
soffre di attacchi di panico! Non farglielo vedere, promettimelo!
Restai
spiazzato. La mia piccola Les soffriva di attacchi di panico?
-
Promettimelo! – Ripeté la madre. La sua voce
suonava distorta, forse per un
probabile
disturbo della linea.
-
Farò quel che potrò, signora.
-
E non dirle anche che… - la linea si interruppe.
Rimisi via
il cellulare, dicendo a tutti che stavano bene. Se non altro quella
notizia risollevò un minimo gli animi. Sarebbe stato
sicuramente peggio vedere quell’attacco con la certezza che
Lesley nel giro di pochi minuti era diventata orfana. Guardai
l’orologio: era quasi le due e un quarto.
Nessuno
muoveva uno sguardo dallo schermo della televisione, nessuno osava
fiatare. Nessuno, per i venti minuti successivi, spiccicò
parola.
L’incendio
nelle torri imperversava. Avevamo visto, all’inizio, alcuni
puntini neri che volavano fuori dalle torri. Avevo pensato che fossero
detriti e cenere, ma poi scoprimmo che in realtà erano
persone, che si erano lanciate volutamente nel vuoto per scampare
all’incendio. Un brivido mi percorse la schiena.
Fui il primo
a parlare.
-
Vado a vedere se dorme ancora.
Nessuno mi
rispose. Nessuno dava segni di avermi sentito. Uscii dalla sala e presi
l’ascensore, dirigendomi verso la sua camera. Prima di
avvicinarmi alla porta, trassi un bel respiro per tranquillizzarmi e mi
asciugai le mani sudate sui bermuda del pigiama. Infilai la chiave
nella toppa e, girandola, socchiusi la porta, illuminando la stanza
buia con la flebile luce dello schermo del cellulare. Mi si
formò un nodo in gola quando la vidi dormire rannicchiata in
posizione fetale, con il viso rivolto verso di me e le mani chiuse a
pugno davanti alla bocca. Era la tenerezza fatta a persona, ma
c’era qualcosa nella sua espressione che mi turbava. Non
stava dormendo sonni tranquilli: di tanto in tanto muoveva la testa,
emetteva qualche piccolo mugolio, si scostava le coperte di dosso
tirando calci. Ma tornava sempre nella posizione iniziale.
Richiusi
piano la porta e tornai velocemente nella sala, superando nella hall il
portiere notturno che guardava l’attacco nel
minuscolo schermo di una televisione portatile. Sorpassai tutti i
ragazzi dello staff, accalcati per riuscire a scorgere almeno un
frammento di schermo. Qualcuno era persino salito sul tavolo per
oltrepassare le teste di quelli che gli stavano davanti. Tornai al mio
posto, accanto ai ragazzi, e tornai a guardare la televisione.
-
Qualche novità?
-
Hanno colpito anche il Pentagono.
-
Alle due e trentasei. Ma dicono che non l’hanno
preso in pieno. Solo la facciata Ovest.
Erano le due
e cinquantanove, quando la Torre Sud si ripiegò su se stessa
e crollò, riempiendo l’aria di macerie e polvere.
Quando la nube si diradò, delle due Torri Gemelle ne era
rimasta in piedi solo una, in cui ancora infuriava l’incendio.
Ancora
qualche minuto, e poi, alle tre e ventotto, anche la Torre Nord
crollò.
Qualcuno,
forse perché non ce la faceva più o
perché secondo lui non c’era nient’altro
da vedere, se ne andò.
A poco a
poco la sala si svuotò quasi completamente, a parte qualcuno
che si era seduto per terra davanti allo schermo. Io mi buttai su una
sedia e poggiai i gomiti sul tavolo, sfregandomi gli occhi. Il
cellulare di Lesley squillò di nuovo. Pensai che fosse sua
madre, così risposi senza neanche guardare lo schermo.
- Pronto?
- Chi sei?
– fece una voce d’uomo che avrei dovuto conoscere
ma che non riuscivo ad identificare.
- No, tu chi
sei.
- Io sono
Ian Holm, cicciobello.
- E io sono
Orlando Bloom!
- Ah!
– Holm rise. – Scusami, Orlando! Pensavo fossi
qualche sconosciuto… Dov’è la piccola
Lesley?
-
È su a dormire. Non ha visto niente.
- Per
l’amor del cielo! – sbottò sir Ian.
– Se i suoi genitori non fossero stati dall’altra
parte della città per lavoro, a quest’ora molto
probabilmente sarebbero morti! E tu non le dici niente? Sei uscito di
senno? – Guardai la televisione.
- No,
signore, ma sua madre stessa mi ha chiesto di tenerla
all’oscuro.
-
Gesù! Ne sarà sconvolta se lo viene a scoprire!
- La madre
mi ha chiesto di non farlo perché le sarebbe venuto un
attacco di panico…
Ian
assentì in un mugolio. – Ricordo che da
bambina le è venuto un attacco spaventoso.
-
Davvero? Qual era la circostanza?
-
Dovresti fartelo raccontare da lei. Beh, scusa per il
disturbo.
-
Si figuri, signore.
Chiusi la
comunicazione. Sarebbe stata una lunga notte.
Girai
stancamente il cucchiaio nella quinta tazzina di caffè della
mattina, lentamente e facendolo strusciare contro le pareti della
tazza. Non avevo dormito un secondo. I ragazzi dopo un po’ se
n’erano andati, ma io ero rimasto lì, a rispondere
a tutte le chiamate che arrivavano sul cellulare di Lesley.
Poco tempo
prima erano arrivati Dom e Billy – sempre in coppia, quei due
– e Billy si era messo di vedetta alla porta della stanza.
Aveva il compito di avvertirmi quando Lesley stava arrivando, in modo
che io avessi avuto il tempo di togliere dallo schermo la faccia del
Presidente Bush che teneva un discorso. Sbadigliai.
-
Scusa Billy, ma prima di cominciare a chiacchierare ho
proprio bisogno di un buon caffè! Per caso sai se ho
lasciato qui il mio cellulare? Pensavo di averlo lasciato sul comodino,
ma stamattina era sparito! - Rise, e la sua risata diventava
via via più vicina. – Non mi ricordo proprio dove
l’ho mollato!
Mi era
venuto un accidente quando avevo sentito la sua voce avvicinarsi. Mi
guardai freneticamente intorno in cerca del telecomando: lo trovai su
un tavolo alla mia sinistra. Mi lanciai a prenderlo mentre sentivo la
voce di Lesley avvicinarsi sempre di più. Sentii che stava
varcando la soglia; puntai il telecomando verso lo schermo e schiacciai
un pulsante a caso, girandomi poi di scatto verso di lei. Aveva i
capelli pettinati e aveva indosso una felpa rossa e un paio di jeans,
con scarpe da ginnastica bianche.
-
Ehi, ciao Orlie! – mi salutò tutta
allegra. – Cosa fai da queste parti?
-
Ehm… io bevo il caffè. –
Puntai lo sguardo sui miei piedi. – E tu Les? Hai
già fatto colazione? – Non sentii risposta.
– Les?
Alzai lo
sguardo verso di lei. Era sbiancata di colpo, fissando lo schermo della
televisione con terrore dipinto sul volto. Mi voltai verso lo schermo e
imprecai a bassa voce, dandomi dell’idiota. Avevo girato sul
notiziario che faceva rivedere i filmati delle Torri in fumo.
-
No! – rantolò Lesley, correndo verso la
televisione e appoggiando le mani sullo
schermo.
– No, no, no! – ripetè, la voce
distorta. Guardai allarmato Billy: faceva dei gesti strani nella mia
direzione, e io ne presi alcuni come “Idiota” e
“Dille che non è successo niente”. Poi
Bil si riscosse ed esclamò: - Orlando, tienila!
Mi voltai
verso Lesley e corsi a soccorrerla. Le gambe le stavano cedendo. La
afferrai per le spalle poco prima che toccasse terra e la tirai su,
sorreggendola. Era andata in iperventilazione. – Les, Les!
– mi parai di fronte a lei, spegnendo la televisione al mio
passaggio. Lesley piangeva a dirotto, senza però sbattere le
palpebre. Il respiro era sempre più affannoso. –
Les, sshhh. Lesley – le presi il viso tra le mani e la
obbligai a guardarmi. – non è successo niente,
niente. Stanno bene. Stanno bene, mi senti?
Shhhhhh…
Sembrò
mettere a fuoco il mio viso, per un attimo. Sbatté le
palpebre, ma le lacrime non cessavano di scenderle lungo le guance.
-
C-come fai a…. a dirlo? –
ansimò. Tirai fuori dalla tasca il suo cellulare e glielo
porsi.
Lei lo
afferrò e si distaccò da me, premendo
freneticamente i tasti del suo telefono. Ansimava e non riusciva a
smettere di piangere. si portò il telefono
all’orecchio. Nessuno rispose subito, com’era
logico, e Lesley frenetica, continuava a camminare su e giù
per la caffetteria. Non l’avevo mai vista così
sconvolta, non sembrava nemmeno la mia Lesley. Finalmente, dopo attimi
interminabili, qualcuno dall’altro capo del telefono rispose,
e lei cominciò a parlare a voce alta, acuta, terrorizzata.
-
Mamma?? Oddio, mamma, state bene? –
ansimò passandosi una mano fra i capelli e i suoi
occhi corsero di nuovo verso lo schermo della televisione.
-… Io… io l’ho visto solo
ora… non sapevo… io stavo dormendo! –
aggiunse, in tono di scusa. Perché si stava scusando? Che
motivo c’era di scusarsi? - Cos’è
successo? Dove eravate tu e papà? – si
fermò di colpo e, barcollando, si appoggiò ad un
tavolo per sostenersi. – C—cosa? –
cominciai a provare paura. - ... ma… come… No,
non può essere… ti stai sbagliando, mamma! Ti
stai sbagliando!... il pacco?- mormorò -...
dovevo… avrei dovuto portarlo io e tu l’hai
chiesto a lei?... E lei era… era… dentro?
Lesley, con
il volto cadaverico, si allontanò lentamente il telefono
dall’orecchio e lo lasciò cadere a terra. Un
ciuffo di capelli le copriva gli occhi.
-
Lesley? – mi avvicinai a lei, le mani davanti a me
per accarezzarla e tranquillizzarla. Lesley spinse via con
violenza la mano che le porgevo.
-
Tu… tu sei un BASTARDO! –
Urlò, fissandomi negli occhi con odio. – BASTARDO
IMBECILLE! – Era come se un’onda di rancore si
fosse riversata fuori, attraverso i suoi bellissimi occhi verdi, e si
stesse abbattendo su di me.
-
Che cos’è successo? Lesley, che succede?
Si
avvicinò a me con grandi passi e cominciò a
spingermi, con spintoni bruschi e infuriati. Non potevo far altro che
parare i suoi colpi. Ma cavolo, che pugnetti aveva! Ma non era quello
il momento per abbandonarsi a sciocche considerazioni sulla sua statura
fisica.
-
Lesley, vuoi spiegarmi…
-
TACI!
-
…cos’è successo?
-
JESSICA è MORTA! LEI ERA DENTRO ALLA TORRE, E TU
NON MI HAI AVVERTITA! JESSIE è MORTA! ED è COLPA
MIA!
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Capitolo 20 *** Cap. 19 ***
La mia vita sul set
– Cap 19
POV Lesley
-
Jessica è morta? – lo stupore dipinto
sul viso di Orlando mi dava sui nervi, come se non
fossi
già abbastanza arrabbiata.
-
Esatto! Lei era dentro la torre! – Non mi sembrava
il caso di urlare, ma il dolore e la
confusione
che mi palpitavano nel petto e mi sconvolgevano l’animo
avevano trovato solo quella via di sfogo. Non si poteva misurare il
dolore che provavo: Jessica era lì, era la mia migliore
amica, stava girando un telefilm a New York, e ora, per colpa mia, non
c’era più. Colpa mia… era una
sentenza capitale, un dato di fatto: Jess era morta per causa mia: ci
sarei dovuta essere io dentro quella Torre, non lei che non
c’entrava niente. Perché mia madre aveva chiesto a
lei di portare quel maledetto pacco nel suo ufficio? Che cosa
c’era dentro il pacco? Che cosa aveva fatto di male Jessica,
per meritarsi una cosa simile? La domanda però non valeva
solo per lei, ma anche per tutte le povere persone che al momento
dell’impatto di quel maledetto aereo erano a lavorare, al
bar, o stavano ammirando il panorama di New York dal Windows On The
World, il famoso ristorante al 107° piano, il più
alto del mondo. Nemmeno lo Sky City Restaurant nello Space Needle di
Seattle offriva una vista del genere.
- Amore
– mi ritrovai nell’abbraccio di Orlando
all’improvviso, non l’avevo neanche visto arrivare
e mi aveva sorpresa. – Amore, calmati. Non è stata
colpa tua.
Orlando era
più alto di me, vuoi per naturale costituzione, vuoi per i
faticosi allenamenti che facevamo ogni giorno. Non mi sorprendeva il
fatto che entrambi avevamo dei tronchi d’albero al posto
delle gambe.
Mentre mi
abbracciava sentivo il suo cuore veloce battere contro il mio, che
batteva sordo contro lo sterno a velocità molto elevata e mi
rimbombava dentro le orecchie.
- Non
è stata colpa tua – mi accarezzava la schiena.
– Nessuno poteva prevedere una cosa simile, non puoi pensare
che sia anche lontanamente colpa tua.
Sentivo che
anche lui era agitato, ma nonostante questo mi trasmetteva calma e
tranquillità. Lentamente le mie braccia reagirono al
contatto fisico, avvolgendo lentamente la sua vita, come se mi fossi
persa in mezzo al nulla, da sola, e all’improvviso mi sia
comparso davanti. Lui, la mia ancora di salvezza, il mio rifugio.
Strinsi Orlando forte, disperata, e affondai il viso contro il suo
maglione: in tutta quella confusione interiore non mi ero neanche
accorta che non era in pigiama. Singhiozzai ancora un altro
po’ con il viso appoggiata contro di lui e mentre continuava
ad accarezzarmi le mie ginocchia, seguite a ruota dalle sue, si
piegarono e finirono sul pavimento, anche se noi non ci sciogliemmo
dall’abbraccio.
-
Mi accompagni da Peter? – mi passai di nuovo il
fazzoletto sotto il naso. Non ero ancora uscita dalla caffetteria
dell’albergo.
-
Perché ci vuoi andare? – mi chiese
Orlando, infilandosi le mani in tasca.
-
Devo parlare con lui.
Mi
guardò con tenerezza e tristezza. – Sorridi
– mi incitò piegando la testa di lato. Non mi
mossi di un millimetro: - Non riesco a capire come tu, oggi, mi possa
chiedere una cosa simile.
Non
replicò: capivo che secondo lui non ne valeva la pena di
discutere con me quel giorno. Mi allungò la mano sinistra e
io l’afferrai stringendola forte, e insieme andammo verso la
stanza di PJ, che aveva preso non molto tempo prima.
Bussai alla
porta e Peter venne quasi subito ad aprire: dalla sua faccia si capiva
che neanche lui aveva dormito molto, quella notte.
-
Lesley. – disse sorpreso facendomi entrare,
pulendosi gli occhiali con il tessuto dei pantaloncini. –
Come stai, piccola?
-
Potrei stare molto meglio – risposi. – E
tu?
-
Sono molto indaffarato, ma credo che mi prenderò
una pausa. – posò la penna che
teneva in
mano su una pila di fogli, probabilmente i copioni delle prossime
scene. – Volevi dirmi qualcosa?
-
Sì – mi avvicinai ad Orlando.
– Per favore, Peter, non darmi una vacanza.
-
Come scusa?
-
Non concedermi giorni di riposo.
-
Lesley, sei sicura? – si pulì di nuovo
gli occhiali per poi ricalarseli sul naso.
-
Assolutamente – sentivo lo sguardo perplesso di
Orlando su di me. – Peter, il
lavoro
è una cosa, la mia vita privata è
un’altra. E la mia vita privata non deve influire sul mio
lavoro, e io devo imparare a non mischiarli insieme. Solo
così si diventa professionisti. Non posso rallentare ancora
il lavoro, Peter, per cui o mi fai lavorare a ritmo normale o mi
licenzio.
Non penso di
aver mai più visto l’espressione stupita di Peter
con cui ora mi stava guardando. Io continuai a fissarlo, dicendo
“Ti prego” con gli occhi. Peter mi venne incontro e
mi strinse forte.
-
Lesley, Lesley, se solo tutti avessero la tua forza!
-
Mi farai lavorare?
-
Sì. Ma non oggi.
Lo guardai
contrariata. – Perché?
-
Non vale solo per te, Lesley, ma per tutti. Oggi non si
lavora, vacanza forzata.
Non avevo
ottenuto quello che veramente volevo, ma era già un inizio.
Una volta di nuovo fuori dalla porta io e Orlando uscimmo da Villa del
Lago e ci fermammo davanti al parcheggio con i piedi in una chiazza di
sole invernale. Orlie mi mise un braccio intorno alle spalle.
-
Coraggio, sfogati.
-
Jessie è morta – mormorai. - Non riesco
a pensare ad altro. Capisci quello che vuol
dire?
Jessica era come una sorella… fino a ieri ricevevo le sue
mail e mi raccontava come stava andando la sua vita e di quanto fossero
buoni i panini di Starbuck’s, e oggi è tutto
finito.
Mentre
parlavo sentivo un peso sullo stomaco e la voglia infinita di piangere,
piangere e continuare a farlo finché non avessi avuto
più la forza per continuare, ma non ci riuscivo
più perché avevo smesso di reagire, o forse
perché il mio corpo mi stava urlando
“Combatti!”.
-
Lesley, per quel che vale, io ci sono per te. Quando vuoi, tu
mi puoi trovare.
Lo guardai.
– Grazie, ma sono comunque furiosa con te.
-
Perché?
-
Perché tu non mi hai chiamata! Tu sapevi tutto, e
non mi hai chiamata! – mi misi davanti a lui con le mani sui
fianchi.
-
Anche se ti avessi svegliata, avresti potuto fare qualcosa?
-
No, ma almeno saperlo in tempo reale, non in un replay sul
notiziario del mattino! Come sei venuto a saperlo stanotte?
-
Mi ha chiamato Dominic.
-
E Dominic come l’ha saputo?
-
Non lo so.
Non avevo
motivo di non fidarmi di lui. Nessuno, ovviamente, a parte il fatto che
quella notte mi aveva svegliata per sapere in che torre lavoravano i
miei e non mi aveva rivelato nulla di quello che stava succedendo. Io
me la dormivo!
-
Potresti lasciarmi sola?
-
Lesley…
-
Per piacere. Sto bene, davvero. Lasciami sola.
Mi
guardò accigliato. – “Sto
bene” è la più grande bugia che puoi
raccontare a te stessa.
-
Può darsi. Vai.
Visto che
non si muoveva, mi voltai e rientrai nella Villa, raggiungendo la mia
stanza.
Chiusi
dietro di me la porta a chiave e, senza badare al disordine, aprii
tutte le finestre, anche quelle che davano sul terrazzo. Guardai
l’ora nell’orologio sopra al caminetto. Erano solo
le dieci meno un quarto. Che cosa dovevo fare?
Uscii sul
terrazzo e, scese le scale, mi avviai per il viale alberato che
conduceva alle sponde del lago. Salii sul piccolo molo di legno
sull’acqua, mi tolsi le scarpe e i calzini e mi sedetti sul
legno chiaro. Lasciai penzolare i piedi sull’acqua, con il
riflesso delle piccole ondine che danzava sul molo e dentro ai miei
occhi. Mi guardai intorno: solitudine era la parola che
descriveva alla perfezione quella postazione, e solitudine era proprio
quello che cercavo. Avevo bisogno di stare da sola per qualche tempo e
lì potevo farlo tranquillamente: gli alberi coprivano la
vista del molo a coloro che osservavano il posto
dall’albergo, e quella zona del lago era poco percorsa da
barche e motoscafi di vario genere.
Tirai fuori
il cellulare dalla tasca. Non riuscivo neanche a pensare che non avrei
mai più visto il nome di Jessie su quel display: provai
l’impulso di gettarlo in acqua, lontano, nel lago. Ignorai
l’impulso e feci tutt’altra cosa: aprii il
menù e scorsi la rubrica in cerca del nome che stavo
cercando. Jane Wicham. Sorrisi al ricordo di come avevo messo
il numero della madre di Jessica nella mia rubrica: avevamo quattordici
anni ed eravamo allo zoo, di sera. Jessie aveva voluto vedere da vicino
le scimmie e infilare un dito fra le sbarre dell’enorme
gabbia. Scioccamente voleva anche scattare loro una foto ed era
già lì lì per farlo, ma una scimmietta
le balzò incontro e le strappò il telefono in
mano, per poi portarlo in un angolo della gabbia e cominciare a
sbatterlo per terra. Jessie le aveva lanciato tante di quelle
maledizioni che pareva il diavolo reincarnato e giurò che
non sarebbe mai più andata in uno zoo. Registrò
il numero di sua madre sul mio telefono e la chiamò per
farci venire a prendere, anche perché il buio stava calando.
Mi sorpresi
a ridere, seduta su quel molo. Io e Jessica ne avevamo passate tante
insieme, ma mai quante ne avrei voluto passare con lei: durante la
nostra permanenza al college di Oxford avevamo fatto tanti progetti,
avevamo persino scritto una lista delle cose da fare prima di morire e
fra le varie cose c’erano anche “diventare famose
in un film di successo” e “depilare un uomo a
tradimento”.
Sorrisi e
premetti il tasto di chiamata. Dovetti aspettare un po’ prima
che Jane rispondesse con un debole “Pronto” e una
sonora soffiata di naso. Appena sentita la sua voce tornò
l’impulso di ricominciare a piangere ma lottai contro le
lacrime.
-
Pronto, Jane, sono Lesley.
-
Lesley!
-
Ho saputo – mormorai.
-
Lo so – pianse – è terribile.
-
Dimmi quando sarà il funerale, prenderò
il primo volo.
-
Lesley, non farò nessun funerale finché
non avranno trovato il corpo. Devi capirmi
–
aggiunse frettolosamente. – finché non
lo troveranno c’è ancora una minima speranza che
Jessica si sia salvata.
–
Le torri sono persino crollate!
–
Io sono sua madre. Jessica era la mia unica figlia e
l’unica della mia famiglia che mi rimaneva. Prima di dirle
addio voglio avere la certezza che sia morta.
Rimasi in
silenzio. – Ti avviserò quando ci saranno
sviluppi. Ciao, Lesley.
Jane mi
chiuse il telefono in faccia e non potei far altro che chiudere a mia
volta la comunicazione. I miei occhi si soffermarono di nuovo sul
riflesso dell’acqua sul legno del molo. C’era
qualcosa di ipnotico in quel movimento che mi permetteva di pensare:
quello che Jane voleva fare era sensato, ma anche folle. Dentro quella
torre c’erano migliaia di persone e quindi migliaia di morti.
Forse sarebbe passato molto tempo prima che riuscissero a recuperare
tutti i cadaveri.
I passi sul
molo non mi distrarono: avrei riconosciuto quel passo leggero ovunque.
Non alzai gli occhi neanche quando Elijah si sedette silenzioso accanto
a me e non disse nulla. Avevo sempre ammirato quel lato del suo
carattere: non era frettoloso e non ti costringeva a parlare, ma
aspettava pazientemente che tu fossi pronto a confidarti. Era molto,
molto comprensivo. E quel giorno con me dovette aspettare un bel
po’, tanto che si riscosse dai suoi pensieri quando cominciai
a parlare.
- Non vuole
fare il funerale – dissi a mezza voce.
- La
speranza è l’ultima a morire.
- Ma oggi
è morta Jessica.
Elijah mi
sedette più vicino e mi mise un braccio intorno alle spalle,
restando a guardare insieme a me le acque del lago.
-
Sai – tirai su col naso – suo padre se
n’è andato prima che lei nascesse. Jessie
l’ha sempre odiato.
-
Quell’uomo ha commesso un errore.
-
Certo. El, sono un brutto spettacolo in questo momento,
perché non raggiungi gli altri?
-
Stai scherzando? Me ne dovrei andare proprio quando la mia
migliore amica ha più bisogno di me?
Lo guardai.
– Grazie, Wood.
Sorrise.
– Orlando farebbe lo stesso, se non si sentisse
così in colpa. E poi sono preoccupato per te, stare sola non
ti fa bene.
-
Grazie. – mi diede un bacio sulla guancia.
-
Di niente. Come stai?
-
Mi stai prendendo in giro?
-
Non fraintendermi, lo so che stai male. In questo periodo ne
stai passando di tutti i colori: prima rischi di annegare e morire, poi
la tua migliore amica muore in un attacco sul posto di lavoro dei tuoi
genitori. È ovvio che tu non te la stia proprio spassando.
-
Non è solo per quello – evitai il suo
sguardo e guardai in alto per scacciare di
nuovo le
lacrime. – È che non dovrebbe essere morta Jessica.
-
Non capisco. – Lo fissai negli occhi.
-
Ieri sera mia madre mi ha telefonato. Mi ha chiesto di
portarle un pacco in ufficio, io ho riso di lei e le ho detto di
chiederlo a qualcun altro. E lei l’ha chiesto a Jessica.
Dovevo essere io dentro quella torre. Io dovrei essere morta, non
Jessica.
-
Ehi, non dirlo neanche.
-
Ma è la verità, non puoi negarlo!
-
Nella vita le cose brutte accadono e tu non puoi fare niente
per impedirlo…
-
… e non dire Hakuna Matata!*
Scoppiò
a ridere ed io con lui.
-
Sai, vorrei tornare all’inizio delle riprese, al
mio primo giorno, quando tutto poteva accadere – confessai.
Ridacchiò:
- Eri tenerissima quando sei arrivata.
Sorrisi da
un lato – E bravo El, mi hai fatto ridere.
Sollevai una
mano per scompigliargli amichevolmente i capelli dritti per via del gel
e Elijah mi guardò intensamente negli occhi, prendendomi la
mano e intrecciando le dita con le mie lentamente, come se fosse una
cosa brutta da fare. Con la mano così stretta alla mia, si
avvicinò ancora un po’ strisciando sul legno del
molo, pur senza distogliere lo sguardo da me. Sentii il cuore
accelerare e il sangue fiondarsi sulle mie guance mentre
all’improvviso realizzavo quello che stava per succedere:
Elijah stava per baciarmi e io non stavo facendo niente per impedirlo.
Che cosa avrei detto ad Orlando?
El aveva
già cominciato a chinare la testa da un lato, ormai ci
separavano solo pochi centimetri, ma mi riscossi e voltai la testa da
un’altra parte, interrompendo quella strana pausa del tempo
che si era formata. Sciolsi la mano dalla sua stretta e mi alzai in
piedi, allontanandomi da lui il più velocemente possibile;
camminai all’indietro fino alla fine del molo, poi mi voltai
e corsi via, lasciandolo solo.
Accanto a
Villa del Lago c’era una palestra che avevamo affittato per
allenarci con la spada e con l’arco, se fuori faceva brutto
tempo. In uno dei tanti spogliatoi tenevamo tutte le spade e le varie
armi del gruppo stunt e uno dello stuff, Tony, passava tutto il giorno
dentro quella stanza a fare parole crociate e sudoku, quan do non era
impegnato a fornire armi a destra e a manca. Quel giorno Tony fu
felicissimo di trovarsi qualcuno davanti. Qualcuno non vestito da
Uruk-Hai, chiaro.
-
Ciao Tony!
-
Lesley! Oh, son due giorni che non ti vedo!
-
Ho avuto i miei problemi – dissi. – non
è che per caso ti avanza qualche manichino da sfasciare, di
là in palestra?
Si
passò una mano sotto il mento, pensieroso. – Mmm
sì, mi pare che ci sia qualche cosa imbottita.
-
Posso sfasciarla?
Sorrise.
– Se tu riesci a sfasciare quell’affare ti offro la
birra per un mese.
Ci
stringemmo la mano. – Affare fatto.
Tony mi
avrebbe offerto la birra per un mese, poco ma sicuro. A furia di
tirargli colpi con la spada, l’imbottitura del manichino
stava già volando per aria e gli avevo fatto partire mezza
testa. Non volevo pensare a quello che avrebbe detto Carrie Thiel, la
mia istruttrice di combattimento elfico, non volevo pensare a niente,
desideravo solo sfogare tutta quella rabbia.
- Ehi, che
fai? – Ma perché quella voce mi perseguitava?
Alzai un attimo lo sguardo, giusto in tempo per vedere il mesto sorriso
che sfoggiava Orlando guardandomi. In un istante tutti i sensi di colpa
per aver quasi-baciato Elijah cominciarono a ballarmi dentro allo
stomaco, e ogni buon proposito di tenere tutto per me aveva fatto le
valigie e se n’era andato per conto suo urlando
“Arrangiati, ragazza”.
- Ciao,
Orlando. – Dissi educata subito prima di ricominciare a
menare quel povero manichino.
- Mi sembri
lievemente arrabbiata.
- Ma
davvero?
- Il tuo
sarcasmo è insolito. Che succede?
A quelle
parole mi fermai sorpresa: possibile che non si ricordasse niente di
quello che era successo? Risi, ma fu una risata amara e senza allegria.
- Proprio
oggi mi chiedi che cosa è successo? Mi sto sfogando!
– staccai un braccio al fantoccio. – Tanto per
cominciare ho perso la mia migliore amica, in più io non
l’ho saputo sul momento perché tu hai pensato che
fosse meglio lasciarmi dormire quando sarebbe stato meglio informarmi!
– lanciai rabbiosa la spada dall’altra parte della
palestra e ripresi fiato mettendomi le mani sui fianchi. Mi voltai a
guardarlo. Al diavolo i vecchi buoni propositi. – E poi
c’è… c’è quel
bacio che io e Elijah ci siamo quasi dati sul molo…
Sembrò
che un fulmine l’avesse colpito in pieno e per un attimo
temetti che si fosse trasformato in una statua.
-
Hai quasi baciato Elijah? – chiese timoroso, come
se non volesse sentire la
risposta.
-
Di striscio.
Orlando
diventò bianco, poi verde, poi rosso. Poteva benissimo
sembrare una pizza margherita. Mi diedi della stupida: non avevo tenuto
conto del lato gelosissimo di Orlando, ma ora ero in ballo e dovevo
ballare.
-
Hai baciato Elijah!
-
Ehi, non l’ho baciato!
-
No, ma ne avevi l’intenzione!
Sapeva
benissimo come farmi scoprire le carte, mi conosceva molto bene ed era
in grado di farmi vedere la realtà meglio di chiunque altro:
volevo davvero baciare Elijah, o era stata solo un’azione
inconsapevole dettata dagli eventi? E se lo volevo davvero, dovevo
riconsiderare il mio affetto per Orlando? Avrei dovuto prendere in
considerazione l’idea di non amarlo più, di
lasciarlo andare? Oppure quel quasi-bacio era stato solo un errore,
niente di preoccupante, un incidente di percorso, una vendetta? E avevo
tenuto in conto anche il fatto che anche Elijah aveva una ragazza o non
mi importava di Linnie? In quel caso mi sarei comportata da egoista,
consideravo Ilana una cara amica.
Dal canto
suo Orlando, vedendo che non sapevo come ribattere, aveva tratto
velocemente le sue conclusioni.
- Se stavi
per baciare un altro uomo vuol dire che per me non provi più
niente… credo che sia il caso di chiudere qui la nostra
relazione.
Era la sua
sentenza definitiva, non c’era la minima traccia di
esitazione sul suo volto, ma nei suoi occhi vidi brillare qualcosa che
non era la solita luce allegra nei suoi occhi. Quello che aveva appena
detto aveva ferito profondamente anche lui: nessuno dei due voleva una
cosa del genere, ma le cose stavano così e non potevamo
farci niente. Ero confusa, lo eravamo entrambi, anche se per diverse
ragioni. Da parte mia, lo ero per tutti gli avvenimenti degli ultimi
tempi. Lui lo era perché fino a qualche ora prima ci
chiamavamo “amore” ed eravamo felici insieme. Ma
quando Orlando lo disse ad alta voce il cuore mi si spezzò.
Non letteralmente, certo, ma per me fu come se l’avesse
fatto… quelle erano parole che da lui non avrei mai voluto
sentire.
Vedendo che
non facevo niente per fermarlo ed essendo consapevole che stavamo
entrambi per crollare, Orlando si girò e uscì
dalla palestra. Rimasi ferma in piedi per parecchio tempo, in attesa di
digerire la cosa. Non fui in grado di mandarla giù ed era
come se la lingua si fosse appiccicata al palato. Buttai giù
il manichino con un calcio e, presa la spada, uscii per restituirla a
Tony.
-
Dì a Carrie che le ricompro il manichino.
– dissi. Tony prese la spada e la rimise al
suo posto
dietro di sé. – Grazie, ci vediamo.
Non volevo
vedere nessuno, né tantomeno scambiare due chiacchiere con
chicchessia. Peter aveva avuto la grande idea di non farci lavorare,
così una volta in camera mi buttai sotto la doccia, decisa a
dimenticare quella pessima giornata.
Erano le
undici di sera. Avevo passato tutto il pomeriggio a cercare di
ricordare Jessica nei giorni che avevamo passato insieme al college,
nella vita in Inghilterra e in quei giorni in cui mi aveva fatto
compagnia in Nuova Zelanda. Non era la cosa migliore da fare e lo
sapevo, ma tanto avrei pensato comunque a lei in un modo o
nell’altro. All’inizio avevo letto tutte le mail
che ci eravamo scambiate in quei mesi, poi avevo sfogliato tutti gli
album di fotografie salvati nel computer o nascosti in fondo alla
valigia. E avevo finito la serata bevendo birra direttamente dal frigo.
Fino a quel momento a nessuno era passato per la mente di venire a
cercarmi, grazie a Dio. …Dio? Per me non c’era,
Dio. Non dopo quello che era riuscito a combinare. Evidentemente si
stava annoiando lassù.
Finendo di
sfogliare l’ultimo album di fotografie che ero riuscita a
trovare, consapevole di essere brilla, pensando a Dio scoppiai a
ridere. Risi, risi e non ero in grado di smettere.
- Ti sei
proprio divertito! – puntai una mano verso il soffitto,
immaginando che l’Altissimo mi stesse ascoltando. –
Bravo, eh, proprio bravo! Evidentemente avevi proprio voglia di
scherzare: prima mi uccidi la migliore amica, poi mi fai lasciare dal
mio ragazzo, o Potente Giocherellone! Bravo, mi sto proprio divertendo
un sacco! Se sei in grado di sentirmi con quelle tue divine orecchie,
Dio, mandami un segno! Una botta in testa! Qualunque cosa!
Quasi saltai
in piedi sulla sedia quando il mio cellulare cominciò a
squillare. Risposi senza baare al numero.
-
Chi entra nei miei domini? – ridacchiai.
-
Lesley, sei ubriaca!
Smisi
all’istante di sorridere. – Ciao, Jane.
-
Sei ubriaca?
-
Giusto un po’. Non dirlo alla mamma.
-
D’accordo…
-
Mi dovevi dire qualcosa?
-
Hanno trovato il corpo di Jessica.
Un fulmine a
ciel sereno. – Dove?
Jane si
soffiò il naso. – Vicino al palazzo che stava di
fronte alla Torre. Jessica si è buttata dalla finestra.
-
Buttata.
-
L’hanno fatto in molti. –
sospirò. – Lesley, aveva un biglietto in tasca
indirizzato a te. Te
l’ho
già spedito.
La mattina
seguente, dopo aver ricevuto le condoglianze da mezzo staff, andai da
Emma per farmi truccare e lei mi sgridò per lo stato in cui
era la mia faccia: le ci volle tutta la buona volontà per
far scomparire le occhiaie viola sotto i miei occhi, e anche senza
avevo il viso stanco: non avevo dormito un secondo e non avevo neanche
voglia di provarci. Avevo passato tutto il resto della nottata a bere
birra fino all’ultima goccia dell’ultima bottiglia
nel super frigo della mia stanza e verso le tre avevo scacciato di malo
modo Billy che era venuto a vedere come stavo. Neanche quel giorno
parlai con qualcuno: dissi le mie battute in modo ordinario e sorrisi
quando Dominic fece una gaffe, ma a parte quello evitai sia Elijah che
Orlando, che s volte sorprendevo a guardarmi da un angolo del set. Se
qualcuno mi chiedeva qualcosa non rispondevo, e quando non eravamo
impegnati a recitare non mi accorgevo neanche di fissare il vuoto,
lontana da tutto e da tutti. Per buona decenza, almeno, nessuno tentava
di avvicinarmisi. Non dissi una parola per tutta la mattina,
né durante la pausa pranzo, né per tutto il
pomeriggio. Per allenarmi alla maratona delle Due Torri, tornai in
albergo di corsa sfidando il gelo e il traffico di pedoni lungo il
lungolago. Salutai solo di striscio il tizio al bancone della hall di
Villa del Lago e quello dovette corrermi dietro per consegnarmi una
busta. Quando la presi in mano sentii immediatamente tutta la
consapevolezza del contenuto. La scrutai attentamente con lo sguardo e
corsi a nascondermi in camera. Mi buttai sul letto e la aprii
frenetica. Conteneva un biglietto piegato in due stropicciato, tagliato
e in qualche punto sporco di gocce di sangue ormai secco, e
c’era scritto “Lesley”. Lo aprii, e
subito mi colpii la familiare grafia di Jessica. Lessi il contenuto con
le lacrime agli occhi.
“Lesley,
io non ho mai
saputo scrivere una lettera, e sinceramente non ho mai sentito il
bisogno di farlo. In effetti, non ho mai scritto più di tre
parole in un biglietto, come quella volta in cui per scriverti
‘Tanti auguri Lesley’ ci ho messo tre compleanni e
tre biglietti diversi. Ma ora più che mai sento il bisogno
di far uscire dalla mia testa tutto quello che non avrò mai
più occasione di dire. Anche perché so che quando
leggerai queste righe sarai già al corrente di tutto quello
che sta succedendo adesso e io te lo scrivo qui, su questo foglio e con
questa penna che ho preso dalla scrivania di qualche sconosciuto.
Lesley, qui dentro
è un macello. Siamo barricati al 107° piano e le
fiamme e il calore che ci circondano e che ci bruciano il corpo
sembrano provenire direttamente dall’Inferno, una punizione
capitale venuta per farci scontare la pena delle nostre colpe,
qualunque esse siano. Siamo saliti fin quassù nella speranza
di trovare salvezza, ma ora il fumo impregna così tanto
l’aria che siamo tutti sdraiati a terra e ogni tentativo di
tenerlo lontano si è dimostrato vano. Alcuni uomini hanno
spaccato le finestre per avere ancora un attimo di ossigeno puro. Sento
gente che urla, ogni volta che mi giro vedo povere persone che soffrono
per le ustioni riportate dappertutto. Sappiamo tutti che la fine si sta
avvicinando sempre di più. È per questo, amica
mia, che ho deciso di utilizzare la finestra davanti a me come via di
fuga, pur sapendo che mi porterà alla morte. Ma se cadere
nel vuoto vuol dire avere ancora un attimo di vita e sentire per
l’ultima volta il vento sulla faccia, allora preferisco
lasciarmi precipitare verso la fine che morire ridotta in cenere.
Non so quando mi
ritroveranno, ma spero che questo messaggio ti arrivi al più
presto.
Ti voglio bene,
Les, grazie per tutto quello che hai fatto per me.
Addio. Jessie.”
Piangevo
disperata. Ancora non potevo credere che quelle erano le ultime parole
della mia Jessie. Non mi importava di quello che pensava Jane a
proposito del funerale, gliene avrei fatto uno io all’istante.
Quasi
inconsapevole di quello che stavo facendo, con indosso una giacca di
pelle che avevo comprato pochi giorni prima uscii dalla portafinestra
della stanza e attraversai il bosco fino ad un piccolo prato a cinque
minuti dalla Villa, sulla sponda del lago, che avevo scoperto per caso
una volta con Orlando. C’era la luna piena in cielo che
illuminava lo spazio intorno a me e questo era un bene, non avevo
pensato a portare con me una torcia. Visto che il lago era molto
vicino, ai lati del prato c’erano tante e grosse pietre,
bianche, grigie e luccicanti.
Mi rimboccai
le maniche e lentamente, una ad una, presi tutte le pietre che mi
servivano e le posizionai davanti all’acqua in cerchio, come
un raduno Scout davanti al falò. Al centro dello spazio
sistemai due rami di un albero in modo da far formare loro una croce e
li fermai mettendoli sotto a due pietre. Era un po’
rudimentale, ma avrei finito il giorno dopo. Avrei comprato dei fiori e
fatto incidere il nome di Jessica, in modo da far sapere a tutti che
quella era un epitaffio, non uno scherzo infantile. Mi inginocchiai
davanti a quel cerchio di pietre, di fronte all’acqua. In
quel momento mi ricordai della volta in cui io e Jessie eravamo andate
a vedere “Moulin Rouge!” al cinema l’anno
prima, e di come lei era rimasta colpita dalla storia. Così
cantai un pezzo della canzone che avevamo cantato per tutta la strada
dal cinema al college.
- One day I’ll fly away,
leave all this to yesterday. Why live life from dream to dream, and
dread the day when dreaming ends…
Non ebbi mai
un’idea precisa di quanto rimasi lì, davanti
all’epitaffio rudimentale che avevo messo in piedi, cantando
quella canzone. Ad un certo punto, stanca di restare in ginocchio, mi
alzai in piedi, e me ne andai, dopo aver dato un ultimo sguardo al
cerchio di pietre.
Ma la
giornata non era ancora finita: appostato davanti alla porta di vetro
della mia stanza, subito prima del limitare del bosco, trovai Elijah,
che appena mi vide si avvicinò.
-
Sono entrato in camera tua e non ti ho vista. Mi sono
preoccupato,
Mi prese una
mano e mi attirò con delicatezza a sé,
conducendomi verso la luce.
-
Elijah, tu sei il mio migliore amico.
-
Anche tu lo sei.
All’improvviso
sentii di nuovo quell’elettricità fra di noi, ma
stavolta non avevo motivi per non volerlo. El era molto dolce e
comprensivo, e sarebbe stato un buon finale di giornata. Elijah mi
strinse la vita con entrambe le braccia, avvicinandomi a sé,
e io smisi di pensare. Mi persi nei suoi occhi freddi e il pensiero di
Ilana mi sfiorò la mente solo di striscio, mentre timido
faceva combaciare le sue labbra dolci e profonde con le mie.
*Tratto dal Re Leone
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Capitolo 21 *** Cap 20. ***
La
mia vita sul set – Cap. 20
Elijah premette le labbra contro le mie, spingendomi a partecipare al
bacio. Quando finalmente mi decisi a lasciarmi andare e a non pensare
più a niente, lo vidi sorridere da un lato e chiudere gli
occhi, mentre cominciava a stringermi più forte e a
trasmettermi una sensazione di sicurezza, come quella che una madre
trasmette al figlio quando ha paura del buio. “Sono
qui”, sembrava dire, “non aver paura”.
Quel bacio non finiva più: che Elijah fosse un ottimo
ballerino con la lingua era risaputo, ma che avesse quella resistenza
ancora no. E se non lo sapevo io, probabilmente lo sapeva solo Linnie.
O Dominic. Ad ogni modo quel bacio a un certo punto finì ed
Elijah ed io restammo naso contro naso per qualche minuto, mentre
nuvolette di fiato si spargevano nella fredda aria di settembre. Vidi
che tremava e con un braccio cominciai a sfregargli la schiena per
riscaldarlo e lui mi circondò con le braccia. A quel punto
capii: anche se quel bacio era stato fantastico, Elijah non mi aveva
fatto battere il cuore, non ero arrossita, e neanche lontanamente a tre
metri da terra, non come quando mi baciava Orlando. Per Elijah non
provavo un sentimento che poteva essere definito amore o infatuazione,
ma solo una profonda e fraterna amicizia.
Con qualche riluttanza le nostre strade si divisero. Entrai in camera,
chiusi la portafinestra, mi buttai vestita sotto le coperte; ripensai a
quella giornata, al modo in cui avevo avuto per tutto il tempo il cuore
pesante come se non avesse nessun motivo per farlo
più velocemente, a come avrei voluto donare ogni battito al
cuore di Jessie. Ripensai al cenotafio e, incredibilmente, mi
addormentai. Non dormivo da due giorni.
Arrivò la mattina che neanche me ne accorsi: per fortuna
quella era stata una notte senza sogni. Non avevo avuto di nuovo
quell’incubo ricorrente che mi aveva attanagliato per molto
tempo. Finalmente ero riuscita a dargli un senso: il fumo, la gente
urlante, il terrore generale, e poi quei due numeri che avevo visto una
volta, 11 e 9. Undici settembre. Era stato un sogno premonitore? Il
fatto che fantasticavo già da tempo di trovarmi in mezzo
alla confusione degli attacchi voleva dire che sarei dovuta morire io
al posto di Jessica? La sveglia mi fece balzare a sedere sul letto,
spalancando gli occhi. Mi girai di scatto verso il comodino e la spensi
con una manata, erano le 5.30. Mi girai per svegliare Orlando e rimasi
delusa quando trovai il suo lato del letto rifatto: tutti gli
avvenimenti del giorno precedente mi tornarono in mente come una
cascata. Ricordai il bacio con Elijah con un pizzico di disappunto:
avevo baciato un mio caro amico il giorno dopo essere stata lasciata
dal mio ragazzo. Come avevo potuto fare una cosa del genere? Che essere
meschino!
Con un balzo gettai all’aria le coperte pesanti. Aprii la
finestra, lasciando entrare la gelida aria del settembre neozelandese,
e corsi in bagno. Dopo essermi lavata i denti e la faccia tornai in
camera per aprire l’armadio e vestirmi. Indossai al volo dei
pantaloni bianchi, una maglietta verde a maniche lunghe e una giacca di
velluto nero con i bottoni, canticchiando una canzone. Mi sedetti sul
letto per mettermi i calzini cominciando a canterellare Like a Virgin
di Madonna e, al momento delle scarpe, mi bloccai con il tallone alzato
per aria: una constatazione fulminea mi era passata improvvisa per la
mente.
Stavo canticchiando.
Non avrei dovuto canticchiare in quel periodo, proprio no. Almeno, non
due giorni dopo la morte della mia migliore amica. Presi le stringhe
della scarpa e le tirai forte, per poi fare il nodo. Feci lo stesso con
l’altra e mi alzai in piedi. Mi stiracchiai. Jessica era
morta. Ok va bene, Lesley. Lei è morta e tu no. Fattene una
ragione e continua ad andare avanti.
Quel pensiero mi sorprese di me stessa. Avevo superato, o stavo quasi
per farlo, la morte di Jessica Bertram. Dovevo andare avanti e
l’avrei fatto: avrei recitato e vinto un sacco di Oscar per
lei.
- Se mai vincerò qualcosa, Jessie… –
m’interruppi, uscendo dalla stanza e chiudendo la porta a
chiave: non dovevo parlare di un se, ma di un quando. –
… Il primo premio che vincerò lo
dedicherò a te. Promesso.
- Buongiorno a tutti, signori
e… signori! – Salutai allegra entrando nella hall
dove gli
Hobbit, Viggo, Bean e Orlando mi attendevano per andare sul set.
– Come va, truppa?
- Lesley, perché devi sempre
essere così attiva alle cinque e mezzo del mattino?
–
Sbadigliò Sean, probabilmente desiderando di tornare nel
letto a dormire con sua moglie.
- Dai, non vedi che bella giornata
è fuori?
- Piove!
Guardai la grande porta a vetri dell’entrata, notando che,
effettivamente, fuori diluviava.
- Eh su, almeno siamo in macchina! Pronti
ad andare?
Mi diressi a grandi passi verso l’uscita andando a finire
sotto la pioggia, direttamente seguita dai miei colleghi che
prontamente aprirono gli ombrelli.
- Ma si droga? – sentii
sussurrare Bean alle mie spalle. Mi voltai alzando un sopracciglio e
lui, notata la mia espressione, mi guardò incerto. Non
pensai a quanto mi stessi inzuppando di pioggia in quel momento.
- Non serve a niente piangere sul latte
versato. Jessica è morta, ed io andrò avanti
–
Annunciai autoritaria. La mia affermazione parve colpire più
di tutti Elijah, che comunque non disse una parola.
- Chi guida? Io vado con Billy e Dom!
Durante la prima parte del viaggio attraverso Queenstown alla volta del
set di Lothlorien, situato in un magazzino vicino
all’aeroporto, io, Billy, Dom e Sean non proferimmo
verbo. Dopo circa dieci minuti, stufa di tutto quel silenzio
– perché Sean non ammetteva che in macchina si
ascoltasse musica quando Dominic era alla guida, ossessionato dalla
sicurezza com’era – presi il cellulare e, digitato
velocemente il numero di Jane aggiungendo il prefisso degli Stati
Uniti, mi accinsi a prendere le informazioni che mi servivano.
- Pronto? – ogni volta che
telefonavo a Jane, la sua voce suonava sempre più stanca.
- Jane, sono io.
- Ciao, Lesley.
- Ascolta… puoi dirmi quando
sarà il funerale? – Billy e Sean si voltarono
verso di me
curiosi ed io li ignorai, voltando la testa a guardare il panorama che
scorreva velocemente fuori dal finestrino.
- Dopodomani mattina, alle dieci, alla
St. Bartholomew’s Church. – Non capivo se la sua
voce fosse spezzata a causa della stanchezza o dell’emozione.
- Parteciperò
anch’io. Se dopodomani sera prenderò
l’aereo appena finisco di lavorare, potrei essere a New York
il 15 mattina sul presto. È un progetto abbozzato, ma se
riesco a coordinare i tempi, forse ce la farò ad arrivare in
tempo in chiesa.
- Lo spero proprio. A Jessica farebbe molto piacere se tu partecipassi.
“ Avrebbe fatto”. – Ci risentiamo Jane.
- A presto.
Chiusi la telefonata e mi accorsi che mi stavano ancora guardando.
- Sono forse un animale allo zoo?
– sbottai. Sean si girò ma Billy
continuò a guardarmi.
- Non riesco a capirti Les. –
si spiegò. – Ieri eri disperata e oggi
sembri… beh… la Lesley
di prima. Lo stai facendo apposta o è successo qualcosa?
Sospirai. – Orlando mi ha lasciata.
- E questo ti rende felice? –
chiese Sean di nuovo interessato.
- No! Ma… - mi fermai. Nessuno
di loro sapeva che la sera prima avevo baciato Elijah e
sinceramente non volevo mettere in giro altri pettegolezzi. –
Insomma, l’ho superata ok?
- In due giorni?
- Succede. – disse Billy.
- Il punto è che…
cioè….
- A parole tue –
m’incoraggiò Dom.
- Quel che è stato
è stato. Non fermiamoci a rimpiangere ciò che
è passato… continuiamo
a vivere, questo è tutto.
- E basta? – Incalzarono tutti e tre all’unisono:
possibile che mi conoscessero abbastanza bene da sapere che nascondevo
qualcosa? Non era una cosa segreta, ovvio.
- C’è dell’altro. Sono
ancora… Io non volevo lasciare Orlando.
- Ah. – di nuovo tutti e tre insieme. Aiuto, erano
già in fase Hobbit!
- Quindi vuoi tornare insieme a lui? – incalzò
Billy.
- Sì.
- E sei ancora innamorata di lui? – Domandò Dom.
- Continuamente.
- Billy, sappiamo già che cosa fare.
Ora mi mettevano paura. – Che cosa? – chiesi
timorosa.
- Ti daremo noi una mano! –
esclamarono insieme. Sembravano i gemelli di Harry Potter.
- Stasera verrai in camera nostra.
– Ordinò Billy. – E sarà il
secondo caso della “Ricuci-Rapporti”!
- “Ricuci-Rapporti?”
- Un’agenzia che risana i
rapporti incrinati e che funziona… beh, quasi sempre.
- E perché “secondo
caso”?
- Perché l’hanno
già fatto una volta – rispose Sean svogliato.
- Per chi?
- Per Elijah e Linnie! –
Dominic fermò la macchina nel parcheggio del magazzino.
- Elijah e Linnie? – ripetei
come una demente. – Perché mai?
- Non lo sai? – Sean mi
guardò di sottecchi, parlando sommesso. – Si sono
lasciati.
- Quando? – chiesi stupefatta.
Perché nessuno dei due me ne aveva parlato?
- Mentre tu eri in ospedale,
più o meno. – Rispose Billy scendendo dalla
macchina.
Mi fermai giusto prima di entrare nel grande magazzino. I pezzi del
puzzle andarono al loro posto: ecco perché Linnie era
così arrabbiata, quando era venuta a trovarmi! Mi stupii
della buona condotta di Elijah: quando mi aveva baciata non era
fidanzato, quindi aveva la coscienza pulita. Beh, neanche io avevo il
ragazzo sera prima.
Appena entrammo nel magazzino ci colpì subito una ventata di
aria bollente, oltre alla bellezza della location: il posto
era stato totalmente ricoperto da alberi giganteschi ed enormi
costruzioni elfiche candide ed eteree come la neve. I ragazzi della
crew sciamavano in giro come api e fra loro spiccava Peter, che
sembrava un vigile del traffico: gesticolava a destra e a manca
girandosi sempre su se stesso, intento a coordinare la folla. A parte
quelli vestiti di eleganti tuniche elfiche, erano tutti vestiti come in
piena estate e si notava subito che, comunque, erano tutti sudati. Non
che ci fosse da meravigliarsi: oltre all’ambiente del
magazzino che letteralmente strabordava di roba, appesi alle pareti e
al soffitto c’erano tantissimi grossi riflettori che con la
loro luce accecante riscaldavano l’aria più di
quaranta termosifoni funzionanti a pieno regime.
- Bloody Hell, che caldo! –
esclamò Elijah togliendosi la giacca a vento. Fu imitato da
Billy
e Dominic, che tanto per cambiare si levò anche la maglietta
a maniche lunghe, forse per un eccesso di vanità, nel vano
tentativo di mostrare a tutti il suo fisico – che non
c’era.
- Non esistono i condizionatori qui
dentro? – domandai slacciandomi i bottoni della
giacca pesante che indossavo.
- La risposta è ovvia!
– rise Billy – Vogliamo fare il Signore Degli
Anelli tecnologico?
- Non è male come
idea… piazziamo un condizionatore a Lothlorien!
Sean rise mentre mi tiravo su le maniche della maglietta. –
Vi raggiungo dopo, devo andare un secondo da Peter –
annunciai. Mi sarei aspettata una richiesta di spiegazione ma leggevo
nei loro occhi che immaginavano già il perché.
Mi diressi verso PJ, che si voltò a guardarmi dopo un
leggero colpetto sulla spalla.
- Ciao! Come va oggi?
- Siamo molto indaffarati –
rispose lui pulendosi gli occhiali con la maglietta. – E tu
come stai?
- Non mi lamento – sorrisi.
- È appena arrivata Cate
Blanchett. – mi fece l’occhiolino. –
Galadriel si sta già facendo mettere la parrucca.
- Allora devo sbrigarmi! –
sorrisi. – Peter, posso avere un giorno di permesso per
dopodomani? Il 15 ci sarà il funerale di Jessica a New York
e non posso mancare – spiegai.
- Certo che puoi prenderti il permesso,
Les – si passò una mano in mezzo ai capelli
crespi. – Hai già pensato a un piano
d’azione?
Quel lato “materno” di Peter era adorabile, si
preoccupava sempre per i suoi attori. Mi misi una ciocca dietro
l’orecchio: - Non ho ancora cercato un aereo, ma se parto
dopodomani sera appena finito di girare potrei essere a New York
presto. La funzione inizierà alle 10, partecipo e torno.
- Sarai sfinita –
osservò Peter.
- È per Jessie. Glielo devo.
– mi morsi un labbro.
- Il 15 sera si terrà la festa
per i nuovi attori e sicuramente sarebbe stato molto più
divertente, con te a dare un po’ di brio. Ma comprendo
benissimo che la tua amica è molto più importante
di un party.
- Lo penso anch’io…
- E adesso vai a prepararti, che sei
già in ritardo! – mi congedò con un
sorriso.
- Ciao Ngila!
Visto che eravamo in un magazzino, Ngila e i suoi assistenti avevano
adibito una grande sala al guardaroba e alla prova costumi: era
decisamente più comodo della roulotte, anche se
c’era molto più disordine in quella stanza che
offriva tanto spazio in più.
- Ehi, Linnie… - mormorai il suo nome dirigendomi verso la
stampella con appeso il mio solito costume che a causa delle tante
riprese si stava rovinando, strappandosi in alcuni punti. Non era una
cosa tanto brutta: così aveva un’aria
più vissuta, ed era meglio qualche piccolo sfilacciamento
che il costume di Viggo, che ormai si portava dietro sul set
accompagnato da un servizio di ago e filo. Ogni tanto si sedeva da
qualche parte, metteva il filo dentro l’ago e cominciava a
ricamare, dando i numeri perché non riusciva mai a
continuare la cucitura originale. Sembrava mia madre quando faceva
così.
Ngila urlò di fermarmi quando presi in mano il mio solito
costume, facendomi prendere un colpo.
- Che c’è di male?
– chiesi preoccupandomi: sudavo freddo come se mi avesse
beccato a uccidere qualcuno.
- Oggi non devi usare quello!
Non ne capii immediatamente il motivo, ma poi sì: Lothlorien
era la casa di Hery, il mio personaggio, Galadriel era sua madre, ed
era logico che sua figlia non sarebbe rimasta davanti a lei in tenuta
da viaggio, per di più sporca e strappata. Ngila mi fece
vedere un abito prendendolo da una stampella in fondo alla stanza e
portandomelo sorpassando Linnie che se ne stava in un angolo a infilare
grucce in sacchetti di plastica trasparente.
Senza dubbio era un bellissimo vestito e lo spettatore avrebbe capito
subito che era di fattura elfica: scendeva leggero fino a terra, fatto
di una stoffa argentea che non seppi identificare. Aveva lo scollo
rotondo ricamato con motivi elfici e le maniche lunghe e ampie in
fondo.
- Piccola obiezione – dissi
alzando una mano. – Prima di essere a Lorien, ci devo
arrivare.
Ngila alzò un sopracciglio con aria infastidita.
– Avete mai girato qualcosa tutto di seguito?
La presenza di Cate Blanchett sul set mi faceva sentire minuscola: la
sua grazia e bellezza erano notevoli anche nella vita reale,
ovviamente, ma con quella lunghissima parrucca dorata e con quel
vestito candido incarnava perfettamente tutto ciò che
Tolkien, nel libro, aveva rappresentato. A parte che Cate era perfetta
per Galadriel, era anche identica al personaggio che Alan Lee aveva
raffigurato nelle prime edizioni del libro. La vedevi con indosso il
costume e ne rimanevo abbagliato: emanava un’aura saggia e il
suo viso era al tempo stesso dolce e imperioso. Mi sarei aspettata che
fosse scostante e irritabile, ma mi dovetti presto ricredere. Appena mi
vide arrivarle incontro col nuovo costume si avvicinò e mi
salutò con un abbraccio. Contro ogni mia aspettativa,
iniziammo subito a fare conversazione come coetanee, come se lei non
fosse stata un’attrice di grandissimo livello e molto
più brava di me. Ovvio, io in suo confronto ero meno di
niente. Ma Cate si dimostrò carina e simpatica con tutti,
che all’inizio si avvicinavano timorosi a lei
all’inizio. L’ilarità di quella
bellissima donna con una lunga parrucca bionda faceva sentire tutti
allegri e senza pensieri, ma quando Peter dava il via alle
registrazioni Cate subiva una trasformazione eccezionale: diceva le sue
battute con voce profonda e mistica e guardava l’insieme di
luci di Natale che avevano appeso per lei come se avesse voluto dire
qualcosa telepaticamente alle lucine stesse. La scena prevedeva un
intenso scambio di sguardi tra me e lei e Peter volle ripetere la scena
circa quattro volte prima di sentirsi soddisfatto delle occhiate
intense che ci lanciavamo. Peter e gli altri direttori volevano che dai
nostri sguardi si capisse che lei era mia madre ma riuscire a
trasmettere quella sensazione era molto più difficile che
dirlo. Galadriel come doveva guardare l’unica figlia che non
aveva visto per molto tempo? Con amore? Un elfo saggio come lei non
può certamente saltare al collo di qualcuno. Con nostalgia?
Come per dire “mi hai fatto preoccupare”?
Teoricamente mi doveva scrutare come se avesse saputo ogni cosa che
Hery aveva fatto prima di rincontrarla. E ovviamente Galadriel lo
sapeva, grazie allo specchio magico. Alla fine, in qualche modo, io e
lei riuscimmo a rendere Peter soddisfatto dei nostri occhi e mi accorsi
che la serata era arrivata in un lampo. Non mi ero accorta di aver
pranzato perché ero troppo concentrata sul lavoro e a
malapena avevo sentito Dominic che mi urlava dall’altra parte
della zona pranzo che quella sera sarei dovuta andare nella loro stanza
per l’Appuntamento, come lo definì lui.
Sfortunatamente tornai all’albergo in macchina con Bean e
Orlando e non fu piacevole: avrei preferito di gran lunga andare in
bici in mutande dal magazzino all’hotel piuttosto che
ritrovarmi sullo stesso mezzo di trasporto di Orlando, ma il destino
purtroppo lavorava contro di me in quel periodo e ripensai
all’opzione “bici in mutande” un attimo
prima di salire in automobile e la dovetti scartare per mancanza di
biciclette nelle vicinanze. Il viaggio, seppure breve, fu molto
imbarazzante. Per evitare di iniziare una discussione con Orlando
evitai accuratamente di incrociare il suo sguardo o di parlargli, o
anche solo di avvicinare un dito a lui, seduto vicino al me nel sedile
posteriore, anche se dovetti lottare strenuamente contro il mio cuore
che mi diceva di saltargli addosso. Semplicemente non potevo
avvicinarmici, non prima di aver piazzato dei paletti fra noi o almeno
sparso delle mine anti-Orlando per il campo dei sentimenti situato
nella mia testa. Meglio considerarlo come un malato di peste bubbonica.
Quando finalmente Bean fermò la macchina nel parcheggio
dell’albergo uscii e mi diressi quasi di corsa nella hall,
sentendomi perforare il cranio dallo sguardo dolce di Orlando.
“No, smettila di pensare a lui in quel modo, hai appena
baciato il tuo migliore amico. Sei la regina delle attrici
sgualdrine”, mi dissi.
La porta della stanza di Billy e Dominic era spalancata in un perenne
invito a entrare senza farsi tanti problemi o scrupoli.
Attraversai la stanza ridacchiando per le scarpe lasciate in giro per
il pavimento, i cuscini di uno dei divani buttati all’aria,
le bottiglie e le lattine di birra di tutte le marche vuote e
accartocciate e i vestiti –i vestiti! – buttati sui
fornelli del piano cottura. Non invidiavo per niente
l’addetto alle pulizie: quei due erano degli incivili di
massimo livello! Vagai per la stanza per meno di un minuto prima di
trovare il cartello appeso alla porta del bagno recante
“Agenzia Ricuci-Rapporti” scritta grande con un
pennarello blu. Aprii, timorosa di quello che avrei potuto trovare
dentro, anche perché da dietro la porta arrivava musica a
tutto volume, musica di un genere che a me non piaceva neppure tanto.
Quello che trovai all’interno della porta del bagno era
peggio del resto della stanza, per quanto fosse possibile. Il
bellissimo lavandino dell’albergo era riempito di ghiaccio e
lattine di birra e il pavimento disseminato di cartoni di pizza aperti
e fette buttate al vento. Ma la cosa scandalosa erano i due artefici di
tutto quel disordine. Billy e Dominic erano la personificazione della
comodità: l’uno seduto schiena contro il muro fra
il water e il bidet, con indosso una sudicia maglietta verdolina e
pantaloni blu della tuta, l’altro stravaccato dentro la vasca
da bagno a fumare sigarette come un turco. Ed entrambi, entrambi,
portavano gli stessi occhialini da sole alla James Bond e si voltarono
verso di me appena misi piede nel loro habitat.
- Benvenuta nella sede
dell’Azienda Ricuci-Rapporti, Lesley Dalton. Prego, si sieda.
Difficile sedersi in mezzo a quel macello. Mi accomodai fra
il water e la porta di legno, dove le lattine di birre erano di meno
rispetto al resto del pavimento. Billy si sporse verso di me sorridendo
beffardo:
- Vuoi una birra?
- Ma sì, ok! – Billy
si sporse verso la vasca, afferrò uno sturalavandini
arancione e con
quello prese una lattina dal lavandino, senza muoversi di un
centimetro. Qualcosa di quell’azione fece smuovere il mio
stomaco provocandomi una fitta di malessere: in quel gesto avevo
rivisto la pigrizia di Jessica. Inghiottii a vuoto e presi la lattina
che Bill mi offriva, la stappai e cominciai a bere. La svuotai in una
volta sola.
- Awwwwwyeaaaaaah – fece
Dominic annuendo piano con la testa, per poi portarsi
l’ennesima sigaretta alla bocca e accenderla.
- Non voglio chiedervi da chi avete preso
l’idea dell’azienda matrimoniale, ma almeno
spiegatemi, ragazzi: perché nel bagno?
- Avresti voluto farla sul balcone con
questo freddo? – replicò Billy svogliato.
- Esiste qualcosa chiamato
“salotto”….
Un attimo di silenzio. – Intende la Zona Svacco, Dom
– spiegò Billy.
- Oh, santo cielo.
Presi la terza lattina di birra annacquata e cominciai a sorseggiarla.
Io, che non reggevo molto la birra, ero appena un po’ brilla,
ma Billy e Dom erano peggio e Dom non la smetteva di fumare. E avevo
passato solo venti minuti in quel bagno! Avevamo trascorso il tempo
parlando della mia situazione sentimentale a grandi linee e solo pochi
minuti prima avevamo cominciato a sfornare possibili o alquanto
improbabili soluzioni. Si andava dall’idea di afferrare
Orlando da una parte e togliergli i vestiti di dosso (Dominic) a
lasciar perdere e aspettare che facesse lui la prima mossa (Billy), da
lasciargli un bigliettino sotto la porta (Dominic) a nascondersi dentro
il suo armadio e saltare fuori all’improvviso nella speranza
di fargli passare tutta la vita davanti e quindi fargli dimenticare
l’offesa subita – “qualsiasi cosa tu
intenda per offesa!” – (Billy).
- Non è il caso di prenderlo
di sorpresa, secondo me – dissi passandomi una mano fra i
capelli. – Forse è meglio avvicinarmi e basta.
- Sì, e una volta che ti sei
avvicinata che fai? – domandò ironico Dominic
buttato la lattina
di birra fuori dalla vasca. – Lo fissi finché non
si decide a parlarti?
- Magari è proprio quello il
punto! – Billy lanciò in aria lo sturalavandini
arancione e lo riprese con abile gesto. – Probabilmente
limitarsi ad aspettare non serve a niente. Meglio fare il primo passo e
saltargli addosso.
- Già, e se reagisce male?
Dom sbuffò: - Uccidilo e vivrai meglio!
Risi. – Ma no!
Qualcuno aprì la porta del bagno, scostando con un movimento
secco cartoni di pizza e lattine e accatastandoli contro il muro
accanto a me. Viggo a petto nudo e pantaloni neri della tuta
entrò per metà nella stanza e tenendo una mano
sulla maniglia disse:
- Sono fuori da questa porta da un quarto
d’ora. Ho sentito tutto quello che avete detto e
posso dirti con sincerità, Lesley, che mi faresti un grosso
favore se uscissi di qui e andassi a parlare con Orlando dei tuoi
sentimenti in maniera civile e senza progettare il suo omicidio.
Così mi lasceresti in bagno a fare… beh, quello
che devo fare da dieci minuti.
Il mattino dopo splendeva un bel sole e faceva quasi caldo. Subito
prima di cominciare a girare corsi all’aeroporto e prenotai
un biglietto per New York, un volo diretto per la città in
partenza quella sera alle 20. Sarebbe stata dura, ma con impegno ce
l’avrei fatta. Certo, dopo la funzione avrei dovuto dormire
per un bel po’ prima di tornare in Nuova Zelanda a girare.
Per fortuna Peter non mi caricò molto e per le sette avevo
già finito: aveva concentrato la giornata sulla scena dello
Specchio di Galadriel e Frodo, una cosa in cui Hery non
c’entrava. Appena uscita dal magazzino corsi subito a Villa
del Lago a buttare roba a casaccio dentro ad un borsone, e per fortuna
all’ultimo secondo mi ricordai del biglietto nella tasca dei
pantaloni che mi ero cambiata poco prima.
Arrivai in aeroporto alle sette e mezza e mi fiondai al check-in. Non
avevo neanche salutato i miei amici prima di partire, ma ormai non
potevo più tornare indietro e davanti a me c’era
una marea di persone. Nell’attesa, pensai a quanto si
sarebbero divertiti quella sera alla festa dei nuovi arrivati: non
conoscevo i loro volti e magari avrei trovato qualche nuovo compagno di
misfatti, come Billy e Dom, oppure amica, come Liv o Emma. La fila
finì e porsi il mio biglietto dell’ultimo minuto
all’addetto dietro il bancone, un uomo di mezza
età con i capelli brizzolati e l’aria severa.
Scrutò per un attimo il mio biglietto e poi me lo porse,
alzando un sopracciglio.
- Questo biglietto non è
valido.
- Come scusi?
- Il biglietto non è valido
perché il volo non c’è. –
spiegò cordiale ma deciso.
- Come sarebbe a dire? Ho preso il
biglietto stamattina!
- Signorina, hanno cancellato il volo.
C’è una tempesta a New York e
l’aeroporto è stato chiuso poche ore fa.
- Ci deve essere un modo per farmi
arrivare a New York! – arrivai a urlare.
- Hanno cancellato tutti i voli per la
città.
- Senta, - aprii rabbiosa la borsa e
tirai fuori il mio nuovo libretto degli assegni. – Mi dica
una cifra. Qualsiasi cifra, per trovarmi un volo entro cinque minuti.
Sono disposta a pagare qualsiasi prezzo, ma io devo essere a New York
entro domattina.
- Lei è sorda, signorina?
Sempre che non vada a New York a nuoto, lei non potrà
raggiungere la città fino a domani sera. E ora, per
cortesia, se ne vada o chiamo la sicurezza. Ci sono persone dietro di
lei che aspettano.
Non potevo dire nient’altro, né fare qualcosa.
Quell’uomo mi stava guardando con durezza, ma andarmene
sarebbe significato perdere il funerale di Jessie. La mia mente
esaminò la possibilità di telefonare a Jane e di
dirle di rinviare la funzione ma la scartai subito: ormai aveva
prenotato la chiesa e invitato tutti. Non poteva spostarlo solo per me.
Vedendo la mia esitazione, posò minacciosamente la mano
sulla cornetta del telefono accanto a lui, ammonendomi con lo sguardo
che se non avessi mollato avrebbe chiamato davvero la sicurezza.
Stringendo convulsamente il libretto degli assegni e reprimendo lacrime
di rabbia girai sui tacchi e me ne andai, evitando lo sguardo di quelli
che facevano la fila dietro di me.
Uscita dall’aeroporto, fuori dalla porta scorrevole di vetro,
guardai di nuovo il libretto degli assegni e il biglietto di quel
maledetto aereo. Allora in un impeto di rabbia cacciai la testa
all’indietro e urlai: le persone che mi passavano accanto si
voltarono spaventate e un cane a poca distanza si mise ad abbaiare.
Non avrei potuto fare nient’altro. Tanto valeva distrarsi e
andare a quella stupida festa.
Avevo incontrato Liv fuori dalla mia stanza. La sorpresa fu grande.
- Liv!
- Lesley! – mi
abbracciò forte.
- Non sapevo che fossi qui!
- Mi hanno chiamata ieri –
spiegò con la sua risata cristallina scuotendo i capelli
corvini. –
Devo girare altre scene! Quella del guado, ad esempio. A proposito
– mi guardò dritta negli occhi. – Ho
saputo di tutto quanto. Mi dispiace.
- Che cosa hai saputo?
- Della morte della tua amica.
Ridacchiai. – Jessie non è solo morta. Domani
mattina a New York ci sarà il suo funerale ed io non ci
posso andare perché hanno cancellato il mio volo.
– Risi più forte e mi dovetti tenere la pancia.
Liv mi guardava perplessa. – E il tizio al bancone ha
minacciato di farmi arrestare perché volevo pagare un
milione di dollari per farmi arrivare a New York anche in
elicottero! - La mia risata era contagiosa su Liv.
– E ora dovrei starmene chiusa in camera mia a piangere e
invece me ne vado alla festa dei nuovi attori in tuta!
Liv mi prese sotto braccio e mi condusse in camera, ridendo.
– Assolutamente no! Ti ho persa di vista per un po’
di tempo Dalton e sei uscita dai binari. Noi oggi andremo alla festa
vestite decentemente.
Non avrei dovuto ridere, ma quella situazione aveva davvero raggiunto
il ridicolo!
Io e Liv eravamo in ritardo di un’ora e mezza ma la cosa non
ci preoccupava. Insomma, la festa si stava tenendo al set del fiume, in
un grande prato illuminato con tanti lampioni di carta.
C’erano tavoli pieni di roba da mangiare e
l’ambiente era allegro, invaso da musica allegra. Le persone
mangiavano, camminavano insieme e chiacchieravano. La certezza assoluta
era che io e Liv facevamo il nostro effetto: io avevo i capelli mossi e
tenuti fermi dietro con uno chignon, ma comunque fatti cadere sulle
spalle. Indossavo un tubino azzurro e scarpe con tacco nero. Liv
indossava dei pantaloni neri e una camicia rossa e si era legata i
capelli in una coda di cavallo. Dopo averli cercati per un
po’, finalmente trovai Billy, Dom ed Elijah che
chiacchieravano animatamente con due persone che prima di allora non
avevo mai visto. O meglio, una la conoscevo di fama, ma non di vista:
era Bernard Hill, il famoso attore che aveva interpretato, fra gli
altri ruoli, quello del capitano Smith in
“Titanic”; sapevo che avrebbe dovuto interpretare
Re Theoden di Rohan, ma l’altro… non
l’avevo mai visto, ma aveva un’aria vagamente
familiare.
- Oh ehi, Lesley! Che ci fai tu qui?
– mi chiese Dom pettinandosi all’indietro i capelli
biondi.
- Hanno cancellato il mio volo e salto il
funerale – risposi acida. – E questi
sono….
- Les, ti presento Bernard
Hill…. – Elijah si avvicinò a me mentre
me lo presentava, e forse volontariamente mi sfiorò una mano
con le dita.
- Molto piacere, Re Theoden. –
sorrisi.
- Temo che tutto il piacere sia mio
– ripose sorridendo. Il suo sorriso diede risalto alle borse
sotto gli occhi.
- … E Craig Parker,
Haldir. – Stavo per porgere la mano anche a lui
quando lo riconobbi. Anche lui fece lo stesso.
- Tu! – esclamò.
- Tu! – esclamai. –
Che ci fai qui?
- Io sono Haldir!
- E io sono Hery! – Ci
abbracciammo.
Una cosa così non me la sarei mai aspettata: capii dove
avevo già visto quell’uomo con i capelli neri e
gli occhi azzurri. Era colui che mi aveva prestato la Harley Davidson
quando ero uscita in anticipo dall’ospedale, quello che mi
aveva congedata con “Ciao, ragazza pazza!”. Chi
l’avrebbe mai detto che avremmo finito per lavorare assieme?
- Vi conoscete già?
– chiese Billy perplesso, scrutandomi interrogativo insieme a
Dom ed Elijah.
- Craig mi ha dato un prezioso passaggio
quando sono uscita dall’ospedale – spiegai.
- Sì, ed io ho rischiato un
infarto – scherzò lui. Ci scambiammo
un’occhiata d’intesa.
- A proposito, non ti ho ancora
ringraziato! Come posso sdebitarmi?
Craig sorrise: era vestito bene, con una camicia bianca e una cravatta
elegante. – Potresti ballare con me. Sta giusto iniziando un
mambo.
Lo guardai: - Perché no?
Craig rise e mi prese per mano, trascinandomi in mezzo alla
“pista da ballo”. Mi fece roteare su me stessa e
cominciammo a ballare. Era un ottimo ballerino! E mi stavo divertendo,
cosa che fino a poco prima mi sarebbe apparsa impossibile.
- Sei bellissima stasera! – mi
urlò in un orecchio per parlare sopra la musica. Sorrisi.
– Come va?
- Sarei dovuta essere su un aereo in
questo momento! – dissi. – La mia migliore amica
è morta nell’attacco alle Torri Gemelle!
- Mi dispiace un sacco!
In una piroetta vidi che eravamo circondati da altre coppie che
ballavano e in un momento vidi anche Ilana che danzava
appassionatamente con un tizio che non avevo mai visto. Craig mi prese
e mi fece cadere all’indietro, per poi prendermi con abile
mossa. Quando mi tirò su, vidi Orlando poco lontano, oltre
le coppie danzanti, che mi scrutava e fulminava Craig con lo sguardo,
come se avesse voluto ucciderlo con le sue stesse mani. E mentre ci
inceneriva, Elijah si accostò a lui e, dopo aver attirato la
sua attenzione con un colpetto sul braccio, lo portò da
qualche parte fuori dalla mia vista.
Verso il finire della festa Billy e Dom mi si avvicinarono con aria
furtiva e mi dissero, con un paio di parole a testa, che avevano
organizzato tutto per quella sera: mi avrebbero fatta ritrovare sola in
macchina con Orlando, in modo che io potessi fargli il mio discorso
strappalacrime sui miei sentimenti e la fame nel mondo, o
“qualsiasi altra cosa tu gli voglia dire, visto che secondo
me sarebbe stato più facile ucciderlo” disse
Billy. A nulla servirono le mie proteste sul fatto che io non avevo la
minima idea di che cosa dire a Orlando, perché non mi
ascoltarono e mi trascinarono in macchina, facendomi sedere sul sedile
posteriore accanto ad un Orlando silenzioso e di pessimo umore. Lungo
il tragitto dal set all’albergo nessuno parlò, ma
a un certo punto, arrivati quasi a destinazione, Dom disse:
- Ehi Bill, mi servono le sigarette, mi
accompagni al distributore?
Billy inchiodò e scesero di corsa dalla macchina, lasciando
come promesso me e Orlando da soli. Li vidi svoltare a un angolo e
sparire. Aspettai un paio di minuti per trovare il coraggio di parlare
e sbirciavo Orlando, che se ne stava a guardare fuori dalla macchina
con il mento appoggiato ad una mano e il gomito sopra il finestrino.
Presi un respiro profondo.
- Io so… che tu sei arrabbiato con me, e non pretendo che tu
non lo sia – lo guardai. Non aveva girato lo sguardo, ma
sapevo che mi stava ascoltando. – Ti volevo…
volevo solo scusarmi se ti faccio soffrire, giuro che non è
mia intenzione. E non ero intenzionata nemmeno a quasi - baciare
Elijah, se è questo che vuoi sapere: ma ero arrabbiata,
Orlando, ero nel panico e tu lo sai che non ragiono quando ho paura.
Ero arrabbiata col mondo e con te, perché pensa quello che
vuoi ma secondo me dovevi avvertirmi durante l’attacco.
– Mi fermai per un attimo per trovare le parole giuste.
– Non si può pretendere di rimanere sempre in
piedi, a volte si cade e lo fanno tutti. Ma questo non vuol dire che
non bisogna rialzarsi. Io mi sto rialzando ma non ce la faccio senza di
te, Orlie, perché… tu lo sai che per te provo
quelle tre parole e lo sai che non c’è bisogno di
dire quali. Quindi ti chiedo, ti prego anzi… Perdonami e
torna da me.
Attendevo con ansia una risposta che non arrivò: dopo trenta
secondi di silenzio Orlando si slacciò la cintura e scese
dalla macchina sbattendo la portiera.
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Capitolo 22 *** Cap 21. ***
La mia
vita sul set – cap.
21
La cosa mi irritava
parecchio: non che avessi parlato sinceramente a Orlando e lui non
aveva
reagito come mi aspettavo – anzi, non aveva reagito proprio
-, ma quantomeno il
fatto che io, Billy e Dominic avevamo impiegato una serata intera per
pianificare l’evento nei minimi particolari e non ci
aspettavamo un fallimento
del genere, specialmente perché dopo quel discorso non avevo
più incrociato
Orlando da solo ed erano passati due giorni, durante i quali avevo
trascorso
ogni minuto libero con il cellulare in mano aspettando che mi chiamasse
o
mandasse un messaggio, qualche volta mordicchiandomi anche le unghie.
Come
avevo potuto finire in quel modo? Non mi ero mai abbassata ad aspettare
i
comodi di qualcuno in campo sentimentale: generalmente, quando un
ragazzo piace
a una ragazza, questa aspetta che magicamente sia lui a fare la prima
mossa. Jessie
ed io non eravamo mai state così: quando ci mettevamo una
cosa in testa,
dovevamo agire per ottenerla. Questo sistema aveva sempre funzionato
con un
ragionevole margine di errore durante la nostra lunga amicizia, quindi
per me
era stata una grossa insoddisfazione non ricevere risposta da parte di
Orlando,
anche perché era un ragazzo aperto: se voleva qualcosa, lo
chiedeva
spontaneamente. Ed ecco un altro motivo per deprimermi… se
non mi mandava
messaggi, probabilmente voleva dire che non aveva più
intenzione di avere a che
fare con me, ed io passavo le serate a chiedermi se la storia fra noi
fosse
davvero finita e se dovevo cercare qualcun altro su cui fare
affidamento.
Non che mi servisse
questo come scusa per fare nuove amicizie, come gli appena arrivati
membri del
cast che, dopo la festa, avevamo accolto a braccia più che
aperte.
Sul set avevamo
trascorso quei due giorni rigirando più volte le scene di
Lothlorien in diverse
versioni, in modo che in sala montaggio decidessero quale fosse la
più indicata
da inserire nel film. Nel tempo libero avevo cercato di non sembrare
troppo
invasiva nei confronti della gente attorno a me, evitando di entrare
nelle
stanze in cui si trovava Orlando e cercando di non inondare i nuovi
arrivati di
parole, come al mio solito. Sapevo di star dando una visione sbagliata
di me,
ma dopo la sfuriata di Jane che mi aveva rimproverato severamente per
non essere
stata presente al funerale di Jessie mi ero chiusa in me stessa per un
pomeriggio, guardando male chiunque mi capitasse a tiro, compreso il
povero
Elijah che più di una volta aveva cercato di consolarmi.
I nuovi arrivati
sopportavano con grande bontà il mio malumore: dopo la festa
avevo avuto modo
di conoscerli tutti, poiché quella sera ne avevo visti solo
due. Il primo era
Craig Parker, Haldir, il bell’uomo che mi aveva fatto ballare
sul prato e che
si stava dimostrando molto amichevole benché avesse qualche
annetto in più di
me. Il secondo era Bernard Hill, anch’esso conosciuto alla
festa, che avrebbe
interpretato il ruolo di Theoden. Poi c’era Miranda Otto, una
dolcissima donna
simpatica e nevrotica, con i capelli lunghi biondo caramello e gli
occhi verdi:
avrebbe interpretato Eowyn, la principessa di Rohan. Aveva vinto il
ruolo
“gareggiando” contro l’attrice Alison
Doody, che aveva rifiutato per poter fare
un bambino. Ciò non toglieva che Miranda avrebbe
interpretato benissimo Eowyn.
Un altro nuovo compagno di avventure era David Wenham,
l’attore australiano che
avrebbe interpretato Faramir, il fratello di Bean – che ormai
aveva quasi
finito le riprese. Appena messo piede sul set, David venne travolto
dall’esuberanza di Billy, Dom e Viggo, che avevano cominciato
a chiamarlo
“Daisy” appena lo vedevano. David odiava avere un
nomignolo femminile ma in
quei due giorni era già diventata una moda tra il cast,
poveretto. Di
femminile, però, non aveva proprio niente: alto
più di un metro e ottanta,
aveva i capelli chiari, gli occhi azzurri e il naso grosso, dai
lineamenti
mascolini. E poi c’era lui, quello che era già
diventato un mito, per me: Andy
Serkis, l’uomo che con
il suo talento
eccezionale avrebbe recitato nel ruolo di Gollum, l’infido
essere che avrebbe
condotto Frodo e Sam fino all’entrata del Monte Fato. Alto
quanto me – quindi
relativamente basso, un metro e settantadue -, ti fissava con grandi
occhi
turchese secondi solo a quelli di Elijah per bellezza. Purtroppo non
avrei
avuto la fortuna di lavorare insieme a lui: infatti, dopo aver finito
di girare
le ultime scene della Compagnia dell’Anello, ci saremmo
divisi in tre unità.
Una, composta da Elijah, Sean e Andy, avrebbe fatto parte della prima
troupe;
io, Viggo, Orlando, John, Miranda e Bernard saremmo stati la seconda
unità,
Billy e Dom la terza. Ma si parlava di un futuro abbastanza lontano,
per il
momento.
Il
mio umore nero
era passato.
Craig, con i
capelli della parrucca da Haldir che svolazzavano da tutte le parti,
corse
verso di me appena mi vide arrivare sulla sponda del fiume che era
stata
allestita per la scena dei porti di Lothlorien: era un posto molto
suggestivo,
con grossi alberi che facevano da molo naturale per le barche, e
durante il
giorno una nebbiolina si alzava rendendo l’atmosfera magica e
molto elfica.
Appena Craig fu abbastanza vicino mi porse un bicchiere da
caffè.
-
Si dia
inizio ad una nuova giornata di riprese! – mi
salutò.
Con un sorriso
presi in mano il bicchiere e cominciai a berlo alla svelta,
lanciandogli
un’occhiata sinuosa. Lui si stupì: evidentemente
si era aspettato che avrei
gettato il bicchiere da parte molto maleducatamente.
-
Grazie,
Craig! – gli sorrisi. Lui sorrise di rimando, illuminando gli
occhi. – Non ti
ho ancora ringraziato come si deve per la faccenda della moto
– dissi.
-
Il
ballo è stato un ringraziamento soddisfacente!
-
Non per
me! – Risi. – Facciamo così: per
sdebitarmi, stasera ti porto a cena. Dopotutto,
domani è domenica! Chi ha mai lavorato la domenica?
Parve pensarci un
po’ su, poi annuì vigorosamente.
-
Adesso
cominciamo a girare? – chiesi.
-
Tu sì.
Io comincio oggi pomeriggio.
-
E
perché sei già in costume?
Si strinse nelle
spalle: - Mi piace la tunica e non devo perdere tempo di pomeriggio. Ma
stasera… – cominciò ad allontanarsi
camminando all’indietro -… stasera mi
dovrai raccontare tante cose su di te, Dalton! – si
voltò e prima di cambiare
totalmente direzione incrociò per un attimo Orlando che lo
fulminò con
un’occhiata gelida. Quando Craig sparì, Orlando
venne verso di me a grandi
passi, guardandomi con quegli occhi scuri che, nonostante tutto, mi
facevano
ancora girare la testa. Si fermò a un passo da me
continuando a fissarmi, tanto
che sperai avesse deciso di rispondere in qualche modo al mio discorso
di due
giorni prima. Poi, quando aprì la bocca per parlare, il mio
cuore sbattè contro
lo sterno.
-
Cominciamo
a girare – disse lapidario.
Le prime tre parole
da quando ci eravamo lasciati. Un passo avanti.
Era
incredibile
come mi sentissi a mio agio girando con Craig. I nostri personaggi
erano molto
legati e appena prima di iniziare a girare Peter ci aveva chiamati per
spiegarci il rapporto tra loro: cresciuti insieme, Haldir era di poco
più
grande di Hery e più o meno la sua guardia del corpo.
– Voglio che voi due
diventiate grandi amici – ci disse.
-
No
problem – avevamo risposto. Pensavo che la differenza di
età avrebbe influito
sul nostro rapporto
ma invece sembrò un motivo in più per fare
amicizia. Forse per la perseveranza
dimostratami o forse per la spontaneità, lo presi in
simpatia e passammo il tempo
libero fra le riprese assieme, parlando del più e del meno.
Quando arrivò l’ora
di cena eravamo distrutti nonostante la leggerezza della giornata.
Decisi di
portarlo in un ristorante sul lungolago, per poter poi fare una
passeggiata.
Appena entrammo nel
ristorante, cercai di tirare fuori il portafoglio ancora prima di
iniziare a
ordinare il cibo, ma lui con uno scatto me lo prese e se lo nascose in
tasca:
non che non lottai per riprendermelo, ma usufruì il fatto
che ci trovavamo in
un luogo pubblico pieno di tavoli e non potevo usare una mossa di
autodifesa
per recuperarlo. Quello che avevo scelto non era un ristorante molto
costoso –
il mio budget non mi permetteva ancora di spendere cifre esorbitanti
– ma Craig
ordinò comunque il piatto più caro: una bella
aragosta rossa, che il cameriere
pescò davanti a noi da un grosso acquario. Non osavo
immaginare il modo in cui
l’avrebbero cucinata, io con la mia misera spaghettata della
casa.
-
Come
fai a mangiare così tanto e a restare così magra?
– chiese dopo che ebbi ingurgitato
l’ultima cucchiaiata della torta al triplo al cioccolato.
– Sei bulimica?
-
Assolutamente
no! Ho soltanto un buon appetito.
-
Lo
vedo! – Rise. – Sai Lesley…
-
Puoi
chiamarmi Les, se ti va – lo interruppi.
Sorrise. Sorrideva
sempre. – Ok, Les! Dicevo… Cameriere! Il conto per
favore!
Non terminò la
frase. Dopo aver pagato il conto e avermi restituito il portafoglio,
come da me
previsto, passeggiammo sul lungolago, per molto tempo.
All’inizio restammo in
silenzio, senza che Craig completasse quello che stava per dire prima
di
fermare il cameriere per il conto. Il silenzio venne interrotto dal
borbottio
sommesso del mio stomaco.
-
Ehm… sto digerendo – sussurrai imbarazzata.
-
E ti brontola la pancia?
-
Sì. La mia pancia brontola.
-
E non solo lei.
Gli tirai una
gomitata sogghignando.
- Quello che ti
stavo dicendo prima –, disse osservando l’acqua del
lago, – è che ti ho vista
molto triste, in questi giorni. E mi chiedevo perché.
Mi strinsi nelle
spalle, abbracciando il tessuto della mia giacca di pelle. –
Ci sono tanti
motivi.
-
Inizia con uno a caso – mi incitò.
-
Primo: Orlando, fino a qualche giorno fa, era il mio ragazzo.
-
Perché vi siete lasciati?
-
Ho quasi baciato Elijah. Sai… Frodo.
-
L’hai quasi baciato perché ti piaceva? –
adesso mi guardava dritto negli occhi.
-
No… cioè, sì… voglio bene a
Elijah, nella maniera in cui si vuole bene ad un
grande amico. Il
fatto è che mi ha colta
in un momento buio: è l’unico che mi è
rimasto vicino in quella giornata del
cavolo ed ero arrabbiata con Orlando.
-
Il motivo?
-
L’11 settembre.
Si fermò un
secondo, poi mi raggiunse allungando il passo. – Hai litigato
con Orlando per
l’attacco alle Torri Gemelle… perché?
- Non mi ha
svegliata. Sai, al World Trade Center lavoravano i miei. Non sono
rimasti feriti
ma vedi… nell’attacco… è
morta la mia migliore amica. – Non riuscivo a
controllare la mia voce, che si spezzava di continuo, mentre cercavo di
combattere le lacrime. Craig mi guardò impietosito e mi
circondò le spalle con
un braccio.
- E’ questo l’altro
motivo? – chiese, abbassando la voce.
- Non solo questo –
guardai in alto e le lacrime, a poco a poco, svanirono. – La
sera della festa
avrei dovuto essere su un aereo per New York: la mattina dopo si
è tenuto il
suo funerale, ma c’è stata una tempesta e
l’aereo è stato cancellato. E sua
madre adesso mi odia perché non ho trovato il modo per
raggiungere la città.
- Cazzo Lesley, che
sfiga.
- Già. È per questo
che sono stata così scontrosa in questi tempi.
- Avresti dovuto
spiegarlo anche agli altri, non solo a me. Fra il cast aleggia
l’idea che tu
sia antipatica, anche se Billy ha l’ha scongiurata in tutti i
modi. Ma non ha
osato raccontare i fatti tuoi.
Sorrisi. – Tenero
Billy.
- Che dire… -
mormorò – spero che le cose si aggiustino.
- Anche io.
Qualche minuto di
silenzio, poi Craig mi guardò: - Torniamo in albergo?
Fra
tutti gli
alberghi in cui ci fermammo durante quei tre anni di riprese, il mio
preferito
rimase sempre Villa del Lago: non solo per la qualità dei
servizi, ma anche per
tutte le cose accadute fra quelle mura. Tra queste rimarranno sempre
impresse
nella mia memoria l’incidente al fiume, l’attacco
alle Torri Gemelle, l’ultima
lettera di Jessie, il bacio con Elijah, la Ricuci-Rapporti…
e quello che trovai
nel mio appartamento quando tornai dalla cena con Craig.
Entrai nella hall,
mi diressi verso il bancone dietro cui sedeva un uomo più
addormentato che
sveglio, e mi feci dare la chiave della mia stanza. Quello me la diede
senza
problemi, dopo aver ricollegato una parte dei neuroni del cervello, e
mi fece
autografare la ormai solita fotografia. Gliela firmai con il sorriso.
Arrivai nel
corridoio sul quale si affacciava la porta della mia stanza e provai ad
infilare la chiave nella toppa, ma quella non entrò. Cercai
di abbassare la
maniglia, ma non c’era verso di aprirla, così
tornai un po’ contrariata dal
tizio nella hall che si scusò infinite volte prima di darmi
la chiave giusta.
Tornai indietro e finalmente riuscii ad dischiudere la porta, che
quando si
aprii mi fece scoprire
un biglietto appoggiato per terra. La grafia che portava
era riconoscibilissima, per me. Elijah non aveva bisogno di firmarsi.
“Vieni nella mia stanza”.
Nell’oscurità
più
completa rilucevano, sparse per tutta la camera, decine di tozze
candele rosse
profumate di rosa. Erano dovunque: vicino alla porta, sul bancone della
cucina,
sul tavolo nel terrazzo. Alcuno erano un po’ sparse, altre
erano messe
perfettamente in fila, una su ciascun gradino della scala che portava
al piano
superiore. Mi sentivo improvvisamente proiettata in un film
dell’orrore, anche
se quelle candeline sembravano richiamare alla mente una delle scene
schifosamente romantiche di un libro Harmony. Sperai si trattasse di
uno
scherzo: mi aspettavo di vedermi comparire davanti un serial killer
armato di coltello.
- Elijah? –
chiamai.
Silenzio.
- Dom?
Silenzio.
- Billy? Craig?
Silenzio.
Evidentemente qualche simpaticone aveva acceso tutte le candeline e se
l’era
filata.
Non so perché, ma
mi sfilai le scarpe e le appoggiai piano sul pavimento di legno,
rimanendo solo
con i calzini bianchi. Senza fare rumore, cominciai a salire la scala,
trascinando piano la mano destra sul muro, per avere come minimo una
base di
appoggio. La scala terminava con un piccolo corridoio sul quale si
affacciavano
quattro porte: una del bagno, due delle camere da letto e una di un
secondo
salottino. Le candele descrivevano una curva verso la porta del piccolo
soggiorno. La aprii piano, sperando che non cigolasse: non volevo
rompere il
silenzio assoluto che regnava in quel posto.
Chiusi piano la
porta e non appena scattò dallo stereo partì una
canzone. L’improvviso rumore
mi fece sobbalzare, spingendo il mio cuore a battere a mille e
più: cercai di
calmare il respiro premendo una mano contro lo sterno, poi mi
concentrai sulla
melodia. Era la stessa canzone che io e Orlando avevamo ballato sulle
sponde
del lago di Hobbiton. Iris.
Nell’oscurità vidi muoversi una figura maschile,
ben più alta di me e molto più
massiccia, anche se conservava una certa grazia nei movimenti.
Non ebbi bisogno di
accendere la luce: quella delle candele mi permise di vederlo bene in
volto,
quando si avvicinò. Mi guardò con quegli occhi
scuri e dolci, si passò una mano
tra i capelli che aveva tagliato il giorno prima in un modo che io non
approvavo per niente – pressoché pelato ai lati,
con una cresta in cima. Era
orribile con quella cosa.
Mi fissò dritto
nell’anima e mi sorrise, timido. Io ero troppo sorpresa per
muovermi o dire
qualcosa. Rimasi ferma dov’ero, e Orlando, piano, mi si
avvicinò. Continuavamo
a fissarci negli occhi, mentre intanto la canzone andava, e lentamente,
misurando i movimenti, Orlando mi prese la mano, delicato. Il solo
contatto con
la sua pelle bastò a surriscaldarmi le mani e il viso,
facendomi avvampare
colorando le mie guance di un rosso vagamente simile a quello delle
candele.
Quasi senza
rendermene conto gli afferrai l’altra mano di slancio, forse
un po’
bruscamente. Orlando era ritornato serio, ma continuava comunque a
guardarmi.
Dio, che sguardo. Il cuore continuava a martellare imperterrito,
stravolgendo
il ritmo del mio respiro: non avevo intenzione di rimanere
lì come un salame,
dovevo dirgli qualcosa, chiedere spiegazioni… no, chiedere
spiegazioni no. Non
in quel momento. Aprii piano la bocca, pur non avendo la minima idea di
che
cosa dire. Mandai al diavolo i miei neuroni impazziti e lasciai parlare
il
cuore, molto prossimo al collasso.
- Non voglio
perderti.
- Non accadrà. Non
sono fatto per stare lontano da te. – Sussurrò lui
dopo un momento.
- Io non riesco a
rialzarmi se tu non ci sei…
- Sono stato un
idiota egoista – ribatté. – Ti ho
lasciata nel momento in cui eri più
vulnerabile, in cui hai dimostrato che anche i più tosti
possono piegarsi… So
che non volevi farmi soffrire Les, e non ti volevo far star male,
ma…
- Non è colpa tua –
lo interruppi. – Siamo stati entrambi dei deficienti
patentati.
- Tu non sei
patentata – protestò.
Alzai le spalle. –
In senso metaforico!
La stretta delle
sue mani sulle mie si fece più salda, ma sempre gentile.
– Queste mani sono
state fatte per proteggerti. – dichiarò. Non
sapendo come rispondere, se mai
avessi potuto trovare una risposta decente, indietreggiai fino ad
appoggiarmi
al muro e, delicata ma decisa, lo tirai verso di me. La canzone
finì e restammo
nel silenzio più totale, rotto soltanto dai lievi sibili dei
nostri respiri.
Orlando appoggiò una mano al muro, vicino al mio viso. Poi
l’altra. Lo afferrai
per la felpa e lo trascinai di slancio verso di me. La mia testa si
riempì di
applausi immaginari quando le nostre labbra si ritrovarono urlandosi a
vicenda:
“Mi sei mancata!”. Sorrisi nel bel mezzo del bacio
e Orlando mi abbracciò: quel
bacio era l’emblema della gioia e dell’amore che
esplose tra noi da tutti i
pori.
Arrivai sul set di
corsa: avrei voluto abbracciare tutti, uno per uno! Due sere prima,
dopo il
bacio, Orlando mi aveva detto che Elijah l’aveva aiutato a
mettere in giro
tutte quelle candele che aveva cercato per tutto il pomeriggio. El
aveva fatto
follie per trovarle, mi confidò Orlie. Avevo passato tutta
la domenica al
maneggio in compagnia di Orlando, e cavalcammo insieme un po’
di tempo lungo le
sponde del lago. Gli raccontai della Ricuci-Rapporti e lui rise di
gusto al
pensiero di Billy che prende lattine di birra dal lavandino con uno
sturalavandini. L’euforia, rimasta ancora da quella notte, mi
aveva impedito di
dormire e già mi sentivo nelle orecchie il rimprovero di
Emma alla vista delle
mie occhiaie. Il primo che incontrai quella mattina fu Billy.
- Ciao! – urlai
saltandogli addosso e stritolandolo in un enorme abbraccio.
- Ehilà, Les!
Sprizzi felicità da tutti i pori: che è successo?
- Io e Orlie
abbiamo chiarito! – gridacchiai.
- Davvero? È
fantastico! Ehi Dom! DOM! – Billy si sbracciò in
direzione di Monaghan che
usciva in quel momento dalla roulotte trucco sul fiume. Appena mi vide
sfoggiare un sorriso a trentadue denti, alzò il pugno verso
il cielo e si mise
a ballare quella che lui chiamava la Danza della Vittoria, che
prevedeva una
serie di sculettate lanciando gridolini eccitati, che però
emessi da lui sembravano
più il verso di un corvo.
Poi, lontano, vidi
arrivare Craig, che quel giorno non avrebbe dovuto recitare ma sarebbe
rimasto
ugualmente nella location, perché gli piaceva stare in mezzo
ai colleghi.
Avrebbe trovato da fare comunque, Bob Anderson gli voleva dare lezioni
di
scherma a più non posso. Lo raggiunsi di corsa.
- Ehi Les! Voli a
due metri da terra!
- Lo so! E sai
perché?
- Mmmm fammi
indovinare – si grattò un istante il mento e mi
strizzò l’occhio. – Ti sei
rimessa con Orlando?
Rimasi spiazzata. –
Come fai a saperlo? – chiesi col tono di una bambina di sei
anni che ha appena
assistito ad un gioco di prestigio.
- Les, per il
futuro ricorda: quando sei contenta lanci delle urla che si sentono da
Wellington.
Risi e lo
abbracciai.
- Mi sono perso
qualcosa? – la tanto agognata voce di Elijah Wood mi
raggiunse le orecchie da
dietro.
- El! El
El El! – gridai. – Ti adoro! Ti venero!
Io…
Sorrise e ricambiò
la stretta con cui lo stavo stritolando. – Per te questo e
altro – mi sussurrò
all’orecchio. – Ti voglio bene.
- Anche io, Woody.
Mi voltai e vidi
che anche tutti gli altri erano arrivati: Sean, John, Bean, Viggo,
Cate, Orlie.
Quest’ultimo teneva in mano il cellulare e, dopo pochi
istanti, mi arrivò un
messaggio.
“Ti amo!”
Girare
la scena dei
doni di Galadriel fu divertente: approvavamo tutti il metodo di Peter
di
riprodurre la scena, perché nel libro era davvero
complicata. Galadriel non
poteva davvero strapparsi i capelli, non si sarebbe visto! E poi,
passai tutto
il tempo a guardare il visino di Orlando che accarezzava il suo nuovo
arco,
guardandolo come un bambino ammira una bicicletta nuova la mattina di
Natale
sotto l’albero.
Finimmo presto di
girare, quel lunedì, e giusto prima di andare a toglierci le
parrucche, le
protesi, i costumi e il trucco, Peter radunò tutto il cast e
annunciò euforico:
- Signori! Ho il
piacere di annunciare che abbiamo finalmente finito di girare La
Compagnia
dell’Anello! Da domani inizieremo le Due Torri!
Un boato di gioia
si levò dalla crew e dal cast.
Scusate
l’assenza gente! Purtroppo, quando
uno spera di avere più tempo, si ritrova con
l’averne di meno. Spero che il
capitolo vi sia piaciuto! E ora… vai col 22!
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Capitolo 23 *** Cap 22. ***
La
mia vita sul set – cap. 22
- SALUTE!!
– due dozzine buone di bicchieri pieni di spumante
tintinnarono in aria sopra al tavolo del ristorante dove stavamo
festeggiando la fine delle riprese della Compagnia
dell’Anello. Avevamo organizzato l’evento in fretta
e furia, quella mattina, e avevamo prenotato in un ristorante al centro
di Queenstown, ben lontano dai nostri alberghi. C’erano
tutti, compresi Fran, Peter e Philippa. Ci aveva raggiunti anche Liv
quel pomeriggio, perché sarebbe stata lei la prima a girare
le scene delle Due Torri, mentre noi dovevamo ancora organizzarci.
Dopo aver
bevuto i nostri spumeggianti bicchieri Ian McKellen annunciò
col suo vocione che sovrastava tutti i rumori del ristorante: - Giuro
sul mio nome, questo film farà faville!
- Tutti
concordarono sonoramente. – Non ho mai visto un cast
così affiatato e ben organizzato! Complimenti
Peter… Fran… Philippa! –
esclamò Zio Ian fermandosi ogni volta su uno dei tre
sceneggiatori. Guardai estasiata Orlando seduto accanto a me e lui mi
fece l’occhiolino prendendomi la mano sotto al tavolo.
- Senza
contare che questa è una cena favolosa! –
ruggì John a capotavola con la sua voce grottesca. Tutti
acconsentirono.
La suoneria
del mio cellulare proveniente dalla tasca dei pantaloni scuri attillati
mi fece abbassare lo sguardo da sotto il tavolo, poco vicino a dove io
e Orlie avevamo posato le mani. Qualcuno mi stava chiamando. Con
qualche difficoltà tirai il telefono fuori dalla tasca e,
mormorando una scusa, mi allontanai dal chiassoso tavolo tappandomi un
orecchio con un dito per sentire meglio l’interlocutore
dall’altro capo del filo.
-
Pronto?... Pronto? Lesley Dalton?
-
Sì! Sì! Sono io! – risposi a voce alta
fiondandomi fuori dal locale tentando di tenermi in equilibrio sui
tacchi a spillo. Il vento fuori dalla porta mi scompigliò i
capelli gettandomeli sul viso. Li scostai con una mano.
- Sono io,
chi parla? – chiesi, tirando un sospiro di sollievo per
essere finalmente in un posto tranquillo, anche se le macchine
passavano a meno di un metro e mezzo da me.
- Salve.
Ehm… io sono Owen Gordon, scrivo per Heyou. Mi chiedevo se
fosse disposta a concedermi un’intervista in vista
dell’uscita del suo primo film! Sarebbe un’ottima
pubblicità per la pellicola!
La proposta
mi colse un po’ alla sprovvista. – Ma certo! Ne
sarò lieta!
Sentii il
giornalista sorridere. – Perfetto! –
esclamò entusiasta. – Quando potremo incontrarci?
Scelga lei.
Mi voltai a
guardare il nome del ristorante sopra la porta dietro di me, poi pensai
che a pranzo per quella settimana ero sempre impegnata. –
Sono libera venerdì pomeriggio, questa settimana. Le
andrebbe di incontrarmi alla panchina sul lungolago dietro al
Bluefrie’s Restaurant, alle tre?
Owen rise.
– Una bizzarra scelta, signorina Dalton! Ci sarò.
- Ottimo!
Arrivederci!
Chiusi la
comunicazione e, con sorriso raggiante, tornai dentro saltellando sui
miei tacchi a spillo.
- Che
succede? – mi chiese premuroso una volta seduta di nuovo
accanto a lui. Mi voltai e gli rifilai un bacio.
- Mi hanno
chiamata per un’intervista! – esclamai.
Orlando
sfoderò un sorriso a trentadue denti e mi batté
il cinque.
Il resto
della settimana, come premio per il nostro impegno, non lavorammo.
Erano tre giorni interi di vacanza escluso il weekend. Ci avviavamo
già agli inizi di ottobre, e ormai l’11 settembre
mi sembrava lontanissimo, ma la perdita di Jessie ricominciava
inevitabilmente a bruciare non appena iniziavo a pensarci. Peter, la
mattina dopo la cena, ci annunciò tra gli urli di gioia che
lui e lo staff avevano già cominciato a organizzare la prima
della Compagnia dell’Anello: la presentazione si sarebbe
svolta a Wellington il 19 dicembre. Ci annunciò anche che di
lì a poco avremmo ricevuto il primo grosso pagamento per il
film, e io non vedevo l’ora.
Peter ci
aveva annunciato il tutto nella sala conferenze di Villa del Lago
– la sala dove avevo assistito in ritardo
all’attacco alle Torri, e non me la sentivo assolutamente di
rientrarci. I nuovi attori volevano portarmici a forza, ma desistettero
quando con qualche sforzo raccontai loro l’accaduto e
così rimasi ad ascoltare le parole di Peter dalla soglia
della porta. Erano tutti entrati, ma era come se ci fosse una forza
negativa che mi respingeva dall’entrare: mettere anche solo
la punta della scarpa dentro mi portava un istantaneo senso di nausea.
Dalla mia
postazione Peter era invisibile, coperto dalle schiene di tutto lo
staff, ma riuscivo comunque a sentire chiaramente le sue parole. Poco
prima di iniziare, però, dalla schiera di schiene
spuntò Orlando, che si diresse velocemente verso di me.
- Non
riesci a entrare?
Scossi la
testa. Orlie non rispose, ma mi abbracciò da dietro con le
braccia possenti e mi sentii completamente al sicuro, con lui accanto.
Una sensazione che ebbe la gigantesca forza di combattere contro la
nausea.
All’annuncio
di Peter mi voltai sorridendo verso il viso di Orlando sopra di me, che
mi guardò a sua volta e mi sorrise. Mi voltai completamente
verso di lui sciogliendomi dall’abbraccio e lui mi
afferrò il volto con entrambe le mani e poggiò la
fronte contro la mia.
- Siamo
attori! – sussurrai guardando il mio riflesso nei suoi occhi.
Lui sorrise.
Cercai tra
la folla che usciva dalla sala la piccola figura di Elijah, che non
tardò ad uscire chiacchierando allegramente con gli altri
tre Hobbit.
- Ciao
ragazzi! – Li fermai. Mi salutarono tutti con un grande
abbraccio. – El, puoi venire con me un momento?
Dom emise
un verso tra un “oh” ammiccante e un muggito
– Vai, ragazzo, dacci dentro!
El rise e
mi seguì in un angolo della sala accanto alla portafinestra,
mentre Orlando se ne andava con gli altri squadrando gelosamente
Elijah, passando.
- Dimmi
tutto, Les! – sorrise El.
- Woody, ti
volevo ringraziare. Sei stato unico. Per me, per Orlie… per
tutto. – lo vidi assumere un’espressione a
metà tra il lusingato e il dignitoso. – Voglio
ricambiare il favore – conclusi. Parve sorpreso.
- Come
scusa?
- Ti
restituisco il favore. Tu mi hai aiutato con Orlie, ora io ti aiuto con
Linnie. Vi siete lasciati, no?
- Les,
Ilana ha un carattere molto più difficile del tuo.
È stata una sua scelta andare per la sua strada.
- E tu la
lasceresti andare così? Significa così poco per
te?
Rimase
colpito, poi si strinse nelle spalle. – Se ha scelto
lei…
- Elijah
Wood, devi combattere! Se Ilana ti piace, se sei innamorato di lei,
devi lottare per quello a cui tieni!
Mi
guardò dolcemente. – E il nostro bacio?
- Guardiamo
in faccia alla realtà: nessuno dei due avrebbe voluto
davvero baciare l’altro ed eravamo tutti e due incasinati
fino al collo. Tu eri stato appena mollato da Ilana, a quanto mi hanno
detto, e io ero reduce dalla storia delle Twin. Se fossimo stati un
attimino più assennati, non ci avremmo neanche
provato… per questo tu sei rimasto il mio migliore amico.
Quindi – proseguii interrompendogli le parole in bocca.
– io ti aiuto con Ilana, e ricambio il favore.
- Les, ho
solo comprato delle candele e scritto un biglietto!
- No El,
hai fatto molto di più: mi hai resa felice. – gli
buttai le braccia al collo e lo strinsi con forza. – Quindi
taci e accetta il mio aiuto… anche perché te lo
darò, che tu voglia o no!
Elijah
ricambiò la stretta e, sorridendo, mi baciò sulla
punta del naso.
Era
strabiliante come da studentessa non mi ero mai accorta quanto fosse
deliziosamente fantastico non lavorare nei giorni della settimana.
Durante quei cinque mesi di riprese mi ero abituata ai ritmi frenetici
delle riprese, come tutti gli altri, e ritrovarsi con tutto il tempo
libero per cinque giorni era come quando la scuola chiudeva per giorni
per la troppa neve: uno spasso unico e inaspettato. Sta di fatto che
quei giorni, modestamente, ce li eravamo davvero meritati. E
così passammo quel periodo di vacanza forzata prima di
iniziare a girare le Due Torri per fare ogni tipo di
attività che avevamo rimandato fino a poco tempo prima. Il
primo giorno – fu una mia idea – noi della
Compagnia approfittammo dei più svariati servizi
dell’albergo per fare bunjee-jumping sul lago.
C’era una specie di seggiovia, come quelle delle piste da
scii, di proprietà dell’albergo, che conteneva
tutta l’attrezzature per il Bungy e che attraversava la
superficie del lago ad un’altezza di 143 metri. Ovviamente
Sean si rifiutò di buttarsi e passò il tempo a
controllare che le corde ai nostri piedi fossero legate saldamente alla
struttura in modo assolutamente sicuro, in modo che nessuno di noi
cadendo si sarebbe sfracellato contro l’acqua che
“da quell’altezza era come cemento”
– Sean. Dom, amante del rischio, portò la
telecamera per filmare tutto quanto, persino quando i ragazzi si misero
a litigare per decidere chi doveva andare per primo – nessuno
di loro voleva farlo. Rimasero lì a discutere e a fare la
conta per mezz’ora, e ogni volta che ne usciva uno come
Elijah e Billy ricominciavano perché rischiavano un infarto
e non sapevano come fare. Alla fine, poiché il tempo passava
e non potevamo restare lì per tutto il giorno senza
concludere niente, feci un passo avanti:
- Vado io
per prima! – annunciai.
Smisero
immediatamente di discutere, come nella scena del consiglio di Elrond
quando Frodo si offre per andare al Monte Fato. Dom mi buttò
la telecamera in faccia. Ammiccai nella sua direzione: - Prima le
signore!
- Eh,
appunto Dommy, vai! – disse Billy. Ridemmo mentre Dom
assumeva espressioni forzatamente offese.
L’addetto,
che fino a quel momento era rimasto in silenzio in un angolo ad
aspettare che qualcuno si decidesse, balzò in piedi e,
sorridendo, mi fece andare aventi e cominciò a legarmi i
piedi con un elastico lunghissimo, e mi mise una specie di
“cintura di sicurezza” nel busto,
un’imbracatura che mi avrebbe assicurato di non cadere e
sfracellarmi la faccia sull’acqua.
- Noi non
spingiamo nessuno – disse. – Si lanci quando se la
sente di farlo.
- Les, sei
sicura? – Chiese Orlie.
- Certo!
– saltellai facendo alzare l’esastico legato ai
miei piedi e mi avvicinai al bordo della piattaforma per calcolare
l’altezza.
Il tempo di
guardare il vuoto che si espandeva sotto di me e finiva con
l’acqua del lago, e davanti agli occhi mi si parò
la grafia di Jessie nella sua lettera. L’aveva scritta subito
prima di buttarsi dalla Torre. Un tonfo al cuore mi mozzò il
respiro. “Ma se cadere da 107 piani vuol dire avere
ancora un attimo di vita e sentire per l’ultima volta il
vento sulla faccia, allora preferisco lasciarmi precipitare verso la
fine che morire ridotta in cenere.”
Barcollai e
feci un passo indietro. Chiusi gli occhi e all’improvviso mi
ritrovai quasi proiettata nei panni di Jessica: sentivo ancora le
parole della lettera nelle orecchie e intorno a me immaginavo le
persone urlanti e il caldo del fuoco, e vidi la finestra spaccata
aperta sulla voragine di 107 piani. Scossi la testa e riaprii gli
occhi, con nuova determinazione: sarebbe stato come fare
l’ultima azione di Jessica. Mi sarei buttata per
“sentire per l’ultima volta il vento sulla
faccia”.
- Ehi Les,
se vuoi vai per ultima! – mi urlò Dom che da
cinque minuti mi stava filmando sull’orlo della piattaforma.
Forse parlava sul serio, ma mi girai lentamente verso di lui con lo
sguardo glaciale che usavo durante le riprese per dimostrare che Hery
era più o meno soggiogata dalla forza dell’Anello,
quello che secondo Peter metteva paura allo spettatore. Fissai per un
attimo la telecamera, e poi mi lanciai con una spinta delle gambe,
aprendo le braccia come le ali di un gabbiano.
Durante il
volo mi imposi di tenere gli occhi aperti anche se la corrente
d’aria spingeva contro il mio viso. La reazione corporea fu
sensazionale: trattenni il respiro mentre cadevo, e sentii il mio corpo
percorso da scariche di adrenalina pura che mi faceva battere il cuore
all’impazzata. Lanciai un grido estasiato: vidi
l’acqua scura del lago avvicinarsi sempre di più e
quando fu talmente vicina da farmi credere che a quella
velocità sarei finita dritta dentro l’acqua
l’elastico legato ai miei piedi si tese, facendomi rimbalzare
in alto. Gridai ancora, mi piegai su me stessa e risi. Poi la corda si
allungò ancora più lentamente, mentre si muoveva
anche lateralmente. Mi sentii come dentro una lavatrice, ma era una
sensazione stupenda! Mi sentii chiamare e alzai lo sguardo verso
l’impalcatura, dove vidi i ragazzi sporgersi e salutarmi con
la mano, mentre Dom riprendeva ancora. Li salutai e risi ancora. Dalla
piattaforma della seggiovia l’elastico cominciò a
essere riarrotolato, tirandomi su di nuovo con i piedi per terra. Era
stato davvero incredibile.
Appena misi
piede sulla seggiovia mi sciamarono intorno tutti quanti, che mi
chiedevano com’era stato – io, come una scema,
continuavo a ridere – e risposi:
-
Rifacciamolo! È mitico!
Dominic
rise continuando a filmare – erano passati dieci minuti buoni
dall’inizio delle sue riprese ma per lui non era un problema
– e spinse avanti Viggo per fargli fare il salto: lui si
tolse dal collo la macchina fotografica di ultima generazione, si fece
mettere le imbracatura e si buttò come se non avesse
aspettato altro per tutto il giorno, lanciando un urlo entusiasta. Mi
sporsi verso il basso e lo vidi penzolare giù,
tranquillissimo. Pensai che forse non era la prima volta che lo faceva,
pazzo com’era.
Dopo Viggo
toccò agli altri: Bean, i quattro Hobbit, Orlando. Sir Ian,
come disse lui, “era troppo vecchio per quel genere di
cose”.
Fu
un’esperienza incredibile, e mentre tornammo in albergo non
smisi mai di sorridere, e il cuore batteva di nuovo pesantemente, come
gonfio di felicità: mi sentii libera e serena, e per la
prima volta dall’11 settembre il ricordo di Jessica fu meno
doloroso e un po’ più distante da me. Presi per
mano Orlando e mi avvicinai al suo orecchio:
-
Sono felice – gli sussurrai. La mia affermazione
liberò la sensazione del cuore e
sorrisi:
quelle parole esprimevano esattamente quello che provavo. Nella mia
testa anche il ricordo di Jessie sorrideva.
Orlando mi
strinse la mano e si voltò verso di me: fissandomi negli
occhi mi accarezzò una guancia, sorrise e mi
baciò teneramente. Gli cinsi la vita con le braccia.
Clic! Sentii fare la
macchina fotografica di Viggo.
- Allora,
ragazzi, mi fate spazio? – feci lo slalom fra Viggo e Billy,
che guardavano le foto del pomeriggio nella macchina fotografica. Dom
era più lontano, chinato con Orlie sulla videocamera per
cercare di collegarla alla presa video della televisione tramite un
filo rosso. Avevamo organizzato una serata tutti insieme nella stanza
mia e di Orlando. Io ero appena uscita dal bagno dove mi ero pettinata
i capelli e mi avvicinai al divano sistemandomi la felpa verde della
tuta. Elijah e Sean erano dall’altra parte, dai banconi della
cucina, e con sincronizzazione da perfetti barman riempivano bicchieri
e bicchierini di birra e bibite di vario grado alcolico. Viggo e Billy
si scostarono un pochino senza però distogliere lo sguardo
dallo schermo della fotocamera. Mi sedetti per terra e tentai di
guardare anche io. Qualcuno bussò alla porta ed entrarono
sorridendo Craig, Bill e Miranda, vestita con jeans chiari stretti e
una maglia nera a maniche corte, i capelli biondi lasciati ad
incorniciare il viso dolce e materno.
- Ciao!
– li salutai. Miranda mi vide e venne a sedersi accanto a me.
– Sei venuta a vedere lo spettacolo?
Annuì.
– Dicono che sia stato fantastico!
La voce di
Dom interruppe quello che stavo per dire. – Fatto!
– urlò, e corse verso l’interruttore per
spegnere la luce. Orlando si buttò sugli altri e mi
raggiunse a mo’ di pesce, travolgendo Bean e Bill.
– Salve, madamigella! – Sorrise.
Io e
Miranda ci distanziammo per permettergli di sedersi accanto a me, lui
si mise a gambe incrociata e gli poggiai la testa sulla spalla.
Il filmato
iniziava esattamente nel punto in cui io mi offrivo di saltare per
prima. Non ci sarebbe stato inizio migliore se non il momento in cui i
ragazzi discutevano come bambini perché avevano troppa fifa
di iniziare: Dom aveva ripreso benissimo la mia espressione annoiata e
leggermente divertita nel guardarli. A vederla risero tutti, e lo
fecero anche a vedere me che mi giravo per raggelare Dom con lo
sguardo. La cosa più buffa, infatti, era che in quel momento
regnava il silenzio più totale e la mia espressione era
ancora più agghiacciante (modestamente). Ad ogni modo, il
momento in cui risi di più, tanto da piegarmi in due, fu il
lancio di Dominic stesso: dopo un piccolo punto in cui non si vide
niente – cioè quando aveva passato la telecamera a
Sean -, si vide Dom saltare in posa da marinaio sull’attenti,
con tanto di saluto militare. La cosa strana era che non aveva mai
fatto Bunjee prima d’allora e il fatto che riuscisse a
buttarsi con cotanta leggerezza risultava quantomeno esilarante!
Passai il
giorno dopo tutto con Orlando senza tenere conto degli altri
– con il lavoro che facevamo era difficile rimanere soli
durante la settimana, per questo dovevamo sfruttare ogni minima
occasione, anche se a volte eravamo troppo stanchi per combinare
qualcosa, nonostante l’occasione stessa. Il giorno dopo
ancora, l’ultimo della vacanza ossia venerdì, a
colazione, Peter ci annunciò che la presentazione ufficiale
della Compagnia dell’Anello si sarebbe svolta a Wellington il
19 dicembre. Dopodiché avremmo dovuto mettere in pausa le
riprese per assistere a delle prime importanti come quelle di New York
e Los Angeles, concedere qualche intervista, per poi tornare a girare
fino alla notte degli Oscar. Una micro pausa di uno o due giorni al
massimo, e di nuovo in Nuova Zelanda a girare finché la
storia non si sarebbe ripetuta per le Due Torri, e poi ancora per il
Ritorno del Re. Peter ci disse anche che Sir Ian e Elijah avrebbero
dovuto girare un’altra volta la scena di Moria, per
aggiungere una battuta che era stata scritta dopo l’11
settembre. Dopo il discorso del nostro regista Miranda posò
la tazza del caffè sul tavolino davanti a me e, con fare
ammiccante, mi chiese di accompagnarla a fare un po’ di
shopping quella mattina.
-
Certo! – risposi. – Ma prima devo
chiedere una cosa a Craig.
- Ehi Craig!
- Ehi Les!
- Devo
chiederti un favore.
- Mi dica
– sorrise.
- Mi
accompagni alla mia prima intervista oggi pomeriggio?
- A che ora?
- Alle tre.
Craig parve
pensare grattandosi il mento. – Me lo chiedi solo per poter
guidare la mia Harley, vero?
Gli feci
l’occhiolino – Sai che tengo molto alla tua moto!
-
Grazie! – sorrise sornione, poi capì
quello che avevo detto – Ehi!
Risi.
– Grazie Craig! – gli picchiettai la spalla.
Miranda
aveva un gusto per i vestiti fantastico, al contrario di Orlando che la
maggior parte delle volte non aveva la minima idea di quello che si
ficcava addosso. Più o meno ogni mattina Orlando entrava nel
vortice dell’armadio e ne usciva con le prime cose che gli
restavano appiccicate. Io, invece, non mi potevo lamentare: certo, non
avevo lo stesso gusto di donne sensuali e femminili come Liv, per
esempio, ma di solito quello che compravo era abbastanza carino. Per
questo, girando fra i negozi di marche famose di Queenstown –
sì, in quella città c’erano anche
negozi famosi -, mi comprai per la notte degli Oscar un vestito verde
fluente lungo di Valentino con lo spacco laterale senza spalline, e un
paio di scarpe col tacco da abbinarci. Per la presentazione invece, un
paio di pantaloni bianchi di seta, una lunga maglia a motivo floreale e
Manolo Blahnik d’argento con una punta si Swarovsky. Non
avevo ancora idea di come mi sarei pettinata, né quando
avrei riguadagnato la somma spesa. Avrei voluto passare più
tempo a chiacchierare con Miranda e a passeggiare per il centro, ma ero
così emozionata per l’intervista imminente che
appena finimmo costrinsi Miranda a saltare in macchina e a riportarmi
in albergo.
Mentre
eravamo ferme ad un semaforo, le chiesi: - Come funziona
un’intervista?
Lei si
girò verso di me facendo spostare i lunghi capelli biondi e
sorrise: - Arrivi lì, ti fanno delle domande, ti registrano
per non perdere niente di quello che dici e poi a volte ti fanno
qualche foto da accompagnare all’articolo. Cerca di essere il
più naturale possibile, sii te stessa.
-
E se dico qualche cavolata? Se mi lascio sfuggire qualcosa
sulle riprese?
-
Ovviamente devi pensare prima di parlare.
-
Certo. Ovvio.
Il semaforo
divenne verde e le macchine cominciarono a muoversi. –
Vedrai, è facile! – mi tranquillizzò.
-
Speriamo – sospirai.
- Lesley!
Sei pronta? – Bussò Craig urlando attraverso la
porta. –
-
Sì, entra! Ci sono quasi! – urlai di rimando dal
bagno per poi tornare ad applicarmi il mascara sulle ciglia stando
attenta a non spargerlo sulla maglia a pieghe celeste. Mentre Craig
entrava attraverso la porta aperta afferrai la spazzola accanto al
lavandino e guardandomi allo specchio cominciai a pettinarmi
velocemente i capelli. Craig incrociò le braccia, sorrise e
si appoggiò allo stipite della porta.
- Se non ti
mettono in prima pagina è un insulto.
Sorrisi
chiudendo la spazzola nel cassetto. – Ti ho chiesto di
accompagnarmi solo perché Orlando è chiuso in
palestra con Bob.
-
Davvero? Pensavo che fosse perché siamo amici e da
amico ti dovevo accompagnare in moto.
-
Sì, anche quello è vero.
Craig
sorrise e mi lanciò un casco nero preso dal pavimento.
-
La Harley sta per rombare!
-
Questo è il piano: io resto qui dietro
l’angolo e tu vai. Fai quest’intervista e poi torni
indietro. Semplice!
-
Se lo dici tu… - sospirai. Da dove ci eravamo
infilati con la moto riuscivo a
intravedere
l’uomo che aspettava sulla panchina davanti al lago. Era
piuttosto giovane, con i capelli rossi. Sospirai ancora e con un
sorriso eccitato attraversai la strada e lo raggiunsi.
-
Owen Gordon?
Lui
scattò in piedi e si girò, e il suo viso si
dipinse di stupore e forse meraviglia. – Lesley Dalton?
Sorridendo
gli tesi la mano. La strinse. – Le foto non le
rendono per niente giustizia. – annunciò.
Accennai a
una risata. – Grazie! – Da dove arrivava quel mio
fare civettuolo???
-
Allora – visibilmente eccitato, mi
mostrò il registratore – Iniziamo?
Senza dire
niente mi sedetti sulla panchina e accavallai le gambe. Lui accese il
registratore. – E’ pronta per questa intervista?
-
Sono piuttosto emozionata, questa è la mia prima
intervista.
Sorrise
intenerito. – Bene. Come ci si sente a lavorare con un gruppo
così affiatato e pieno di grandi attori di tutto il mondo?
-
Sono tutti molto carini! Per fortuna sono tutte persone molto
piacevoli con cui passare il tempo, quindi ci frequentiamo tantissimo
anche fuori dal set. Oramai siamo diventati una grande famiglia. In
Viggo Mortensen, per esempio, vedo uno zio saggio (anche se non posso
dire che sia esattamente vecchio)! È bello instaurare questo
genere di rapporto con i colleghi, siamo camerati.
-
Quando pensa che sarà pronto questo primo episodio
della saga “Il Signore degli Anelli”?
-
La presentazione qui in Nuova Zelanda si terrà il
19 dicembre, quindi di lì a poco il film uscirà
in quasi tutte le sale.
-
Parliamo del suo sconvolgente incidente con la barca di
qualche tempo fa: che cosa è avvenuto esattamente?
Trattenni a
stento una smorfia di disappunto: mentre mi trovavo in ospedale Billy
aveva detto che avevano mantenuto il silenzio stampa. Evidentemente si
sbagliava, dovevo quindi trovare una scusa per non mettere Peter nei
pasticci. – La corrente del fiume era troppo forte e io e
Orlando Bloom non siamo riusciti a controllare la barca, che
cominciò a riempirsi di acqua. Finimmo sommersi, ma ci
recuperarono subito.
-
Voci trapelate dicevano che lei ha dovuto trascorrere un
periodo di degenza in ospedale a causa delle ferite riportate
nell’incidente.
Feci con la
mano un gesto di disinteresse. – Non si può mai
verificare la veridicità delle voci nel mondo del gossip.
Può darsi che siano state messe in circolo per gioco, sono
solo sciocchezze. Poteva andare peggio, ma per fortuna non è
successo niente di grave.
Lui
annuì. – Come hanno reagito gli altri alla
situazione?
-
Ovviamente erano preoccupati per noi, ma avevamo a
disposizione tutti i mezzi di sicurezza che si possano immaginare
– Sorrisi sicura.
-
Come la Nuova Zelanda ha vissuto il tragico episodio avvenuto
qualche tempo fa a New York, ossia il crollo delle Twin Towers?
-
Non posso parlare a nome di tutta la nazione, ma ognuno dei
membri del cast l’ha
presa in
maniera diversa. Quasi tutti hanno assistito all’attacco in
diretta, dopo mezzanotte, alle televisioni dell’albergo. Io,
purtroppo, ne sono venuta a conoscenza solo la mattina dopo (a causa
del mio sonno pesante non mi sono svegliata insieme agli altri). Siamo
tutti molto addolorati per l’accaduto e piangiamo la perdita
di così tante persone innocenti. - Dissi l’ultima
frase con un tono da Presidente degli Stati Uniti.
-
Sappiamo che anche una sua amica è stata coinvolta
nell’attentato: se la sente di
ricordare
qualcosa su di lei?
Quelle
parole, come un pugno, mi fecero cambiare immediatamente espressione.
– Quella è stata una profonda perdita. Le chiedo,
per favore, di non pormi domande sull’argomento. Volevo un
mondo di bene a quella persona e la sua assenza mi affligge,
sarò in grado di parlarne a tempo debito.
-
Certo, lo possiamo capire. Mi scusi. –
abbassò il capo accennando dispiacere.
-
Non fa niente – sorrisi di nuovo socchiudendo gli
occhi. – Ha qualche altra domanda?
-
Sì: com’è stata
quest’intervista?
-
Decisamente interessante! Mi sono divertita a rispondere alle
sue domande!
Spense il
registratore e sorrise. – La ringrazio infinitamente, ma le
chiedo un ultimo favore: scatterebbe per me delle foto da aggiungere
all’articolo?
Proprio
come Miranda mi aveva detto. – Senz’altro!
– risi e scattai in piedi. Lui tirò fuori da uno
zaino che aveva a fianco una macchina fotografica.
-
Ne può fare una appoggiata alla ringhiera sul lago?
Mi
avvicinai alla ringhiera con due passi, vi posai le mani sopra, mi
voltai e sorrisi rivolta all’obiettivo. Lui scattò
più foto. Poi mi spostai e mi sedetti sullo schienale della
panchina, giungendo a pugno le mani davanti a me e osservando
l’acqua. Scattò. Guardai nella macchina
fotografica e sorrisi di nuovo allegramente. Scattò. Posai i
piedi sulla panchina e saltai alzando i pugni al cielo, ridendo.
Scattò al momento giusto e rise.
-
Splendida. La ringrazio infinitamente!
Gli strinsi
la mano. - È stato davvero un piacere!
Lui prese
le sue cose e, con un sorriso e un ultimo cenno del capo, si
allontanò verso un motorino a poca distanza da dove eravamo
noi. Lo guardai andarsene, poi girai i tacchi e attraversai di corsa la
strada per raggiungere Craig, che era rimasto tutto il tempo a spiarmi
dietro l’angolino come un maniaco sessuale. Appena gli
arrivai al fianco, lo abbracciai saltellando e gli battei il cinque.
-
Sei stata favolosa! – esclamò.
– Com’è stato?
-
Fantastico! – risi.
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Capitolo 24 *** Cap 23. ***
La
mia vita sul set – Cap. 23
Dopo la
prima intervista volavo a due metri da terra: volteggiavo da una stanza
all’altra della camera dell’albergo facendo le
più svariate cose, compreso riempire le valige – i
nostri giorni a Queenstown erano quasi finiti e dovevamo spostarci.
Mentre facevo quelle svariate migliaia di piccole cose alla luce del
freddo sole di fine settembre parlottavo anche al cellulare, cercando
di organizzare una serata al fast food per festeggiare la buona
riuscita dell’intervista. Erano solo cinque del pomeriggio ma
ogni minuto era prezioso!
-
Ciao Dommy! Mi sedetti di slancio sulla sedia della scrivania.
-
Ciao! Com’è andata
l’intervista?
-
Bene! Sto organizzando un’uscita al Fast Food
stasera, vieni?
A
“Fast Food” lanciò un grido –
Puoi scommetterci piccola! Porto anche quel pigrone di Bill,
così magari rimorchiamo qualche bella donna!
- Ahaha
Dom, possibile che non riesci a pensare a nient’altro?
- Non
prendermi in giro, sai che penso anche ad altre cose.
- Mh, ad
esempio?
- A trovare
le sigarette stasera.
- Geniale!
Devo riagganciare.
- Ok! Ciao!
– Buttò giù. Feci il numero di Billy e
cominciai a mettermi lo smalto rosso sulle unghie dei piedi dopo averlo
preso da un angolo della scrivania.
- Billy
Bond – rispose imitando pateticamente la voce sensuale di 007.
- Dom ti
trascina a cena da me stasera. - Sembrò sbuffare.
– Dice che magari riuscite a rimorchiare!
-
Grannnnnnnde!! Quando ci vediamo?
- Ti faccio
sapere! – chiusi lo smalto e lo rimisi
nell’angolino della scivania.
- Adios!
Chiusi la
comunicazione e chiamai Orlando che rispose al primo squillo.
-
Ciao amore! Aspettavo una tua chiamata…
com’è andata?
-
È stato uno spasso! Ne parliamo stasera al Fast?
-
Aggiudicato! Io sono in centro, se vuoi prima di andare
faccio un salto da te… che ne dici?
Il mio
sorriso si intenerì. – Ti aspetto.
-
Splendido. Arriverò fra un’oretta circa.
-
Così tanto? Che devi fare?
-
Eeeeeh… vedrai.
-
Eddai, dimmelo!
-
No! Ahah ci vediamo dopo piccola.
Riattaccò
il telefono, lasciandomi sulle spine. Fare così era una
caratteristica di Orlando: prima mi diceva qualcosa e poi non mi dava
maggiori informazioni, il che il più delle volte mi lasciava
presagire che stesse almanaccando qualcosa insieme ai ragazzi del cast
– e per me non sempre quel qualcosa era piacevole.
Telefonai
anche a tutti gli altri ma trovai solo i quattro Hobbit e Orlando
disponibili. Craig aveva già un impegno per quella sera,
Viggo doveva andare da qualche parte con suo figlio insieme a Bean
– forse a giocare a bowling -, Sir Ian “era troppo
vecchio per mangiare quelle dannate porcherie” e
così anche gli altri. Mentre parlavo con tutti avevo preso
dall’armadio tutti i vestiti, piegati e impilati sul letto
matrimoniale. Poi ero salita su una sedia per prendere la valigia sopra
il guardaroba e l’avevo posata per terra sollevando un cumulo
di polvere che mi costrinse ad aprire la portafinestra e a fare entrare
l’aria fredda.
Passai a
raccattare tutte le cianfrusaglie che avevo tenuto sparse per
l’appartamento per non so quanto tempo, sfidando ogni volta
quella santa cameriera che ogni volta passava a pulire. Ero
disordinata, molto disordinata: una cosa che avevo sempre condiviso con
Jessie. Orlando, da quando ci eravamo conosciuti, cercava sempre di
riordinare un po’ quella scia di disordine che ero abituata a
lasciare dietro al mio passaggio. La cosa strana del mio disordine, era
che le cose io le trovavo! Era nell’ordine di Orlando che le
perdevo – e in questo lui assomigliava a mia madre.
Iniziai col
cercare di mettere gli accessori del bagno nel beauty case in maniera
ordinata, rinunciando al momento delle spazzole che gettai dentro a
caso. Poi passai alla valigia più grande, con tutti i
vestiti che mi ero comprata dal mio arrivo in Nuova Zelanda.
Ero
così concentrata che non mi accorsi neanche del tempo che
passava e alzai lo sguardo dai vestiti impilati solo quando sentii
bussare alla porta. Corsi ad aprire col sorriso sulle labbra
scavalcando di slancio tutte le borse, borsine e borsette sparse sul
pavimento, e mi ritrovai davanti il viso da sex symbol di Orlando.
-
La mia bimba famosa! – mi prese per i fianchi e mi
fece fare un giro in aria.
-
Orlie! – durante il volo gli tenni le braccia
intorno al collo e poi abbassai il volto per baciarlo. – Mi
sei mancato.
-
Anche tu, Les. – mi posò a terra ed
entrai, con lui che mi seguiva a ruota. Saltellai di
nuovo in
mezzo alla roba ma, arrivata all’altezza del divano, sentii
un tonfo dietro di me: mi voltai e l’unica cosa che vidi era
Orlando disteso a faccia in giù sul pavimento, con una borsa
di pelle fra i piedi e le braccia larghe. Era inciampato!
Invece di
aiutarlo scoppiai a ridere. Fece un po’ di fatica ad alzarsi,
scaraventando la borsa verso il frigo dell’angolo cottura.
-
Sì ridi, ridi Lesley! Ahia che botta! –
venne verso di me massaggiandosi il naso,
mentre io
mi piegavo in due in preda al gran ridere. Orlando si
avvicinò piano, utilizzando la pratica ninja supersilenziosa
di Legolas. – Adesso vedi che ti faccio! - Appena fui a tiro,
mi caricò in spalla come un sacco di patate. Una lieve paura
si intrufolò al posto della risata.
-
Orlando mettimi giù! Giù subito!
Orlie rise.
– Ti mangio! Miao!
Portandomi
in spalla tranquillamente come un contadino con la balla di fieno corse
verso la camera da letto e non curante di tutti i vestiti accatastati
sul materasso mi ci scaraventò sopra, facendoli volare tutti
giù. Ricominciai a ridere e lui si buttò a
cavalcioni sopra di me, bloccandomi con le gambe e cominciando a farmi
il solletico. Risi più sguaiatamente di prima e cominciai a
dimenarmi sotto il suo peso cercando di bloccarlo ma lui perseverava.
Alla fine, quando ritenne che così era abbastanza, si
abbassò all’improvviso e mi baciò
dolcemente socchiudendo gli occhi come un gatto. Sorrisi nel mezzo del
bacio e lasciai che per un attimo quella dolcezza mi pervadesse, poi
con un luccichio di scaltrezza negli occhi lo capovolsi con una mossa
di autodifesa imparata al corso di Stunt, cogliendolo di sorpresa.
Accettò quel cambio di posizione e invece di protestare,
posò la testa accanto alla mia sul cuscino e mi
circondò con le braccia, trasferendomi tutto il calore del
suo corpo.
-
La sai una cosa? – mi chiese sottovoce. Lasciai
passare un secondo.
-
Cosa?
-
Sei la mia vita.
Per un
attimo pensai mi sarebbero uscite lacrime di commozione ma non
successe. Mi girai verso di lui e poggiai il mio naso contro il suo,
sfregando la punta con la punta.
-
Anche tu.
Sorrise e
mi accarezzò il viso.
Sdraiati
sul mio letto a farci le coccole neanche ci accorgemmo del tempo che
passava. Solo quando mancava mezz’ora
all’appuntamento con gli altri al Fast Orlando si
alzò e mi disse che prima di andare doveva prendere una cosa
in camera sua e che io dovevo avviarmi perché altrimenti
facevo tardi. Nonostante la mia curiosità, eseguii i suoi
ordini e lui andò in camera sui. Mi infilai dei pantaloni di
velluto neri, una maglia a maniche lunghe, una felpa pesca e un paio
Tiger bianche. Prima di uscire dalla stanza decisi di raccogliermi i
capelli in una treccia su un lato della testa, guardai alla svelta il
mio riflesso allo specchio e forse per il luccichio di
felicità negli occhi o forse per le mie gote ancora
arrossate per l’emozione delle coccole con Orlando, mi vidi
bella.
Uscii
volando, metaforicamente.
A parte
Viggo che non poteva venire perché aveva un impegno con suo
figlio, Bean che usciva con una ragazza e John che attualmente si
trovava fuori città, gli invitati ufficiali alla festa erano
le persone a cui ero più affezionata e quella –
l’unica – che conoscevo un po’ di
più fra i nuovi arrivati: i quattro Hobbit, Orlando, Craig.
I soliti insomma. Ci dovevamo vedere davanti al Fast alle otto in punto
e arrivai alle otto e due minuti, ma stranamente ero l’ultima
ad arrivare. Un attimo…
- Ma
dov’è Orlando?
Fu Dom a
rispondere sistemandosi il cappello sui ciuffi biondi. – Ha
chiamato due minuti fa, ha detto che ritarda.
-
Ok, allora… entriamo?
Mi chiesi
perché Orlando non avesse chiamato me per avvertirmi, feci
spallucce ed entrai nel locale.
Il Fast
Food era, come dice il nome, un fast food. Una specie di
McDonald’s che però serviva come la Ceasar Salad o
pasta fredda, che non distribuiva insomma quelle schifezze di hamburger
fatte con chissà che cosa – anche se le patatine,
a mio avviso, erano fantastiche. Quando si passeggia fra le stradine di
Queenstown il Fast si trova quasi per caso: non grande, con grandi
sedili di velluto attaccati alle pareti e un forte odore di birra e
cibo, immerso in un’atmosfera simpatica e accogliente che non
si poteva definire tranquilla ma variava a seconda dei clienti della
serata. Non so quante volte io e i ragazzi ci siamo andati dopo le
faticose giornate di riprese per bere una birra e rilassarci, prima di
tornare nei nostri comodi letti a Villa del Lago. I proprietari di quel
locale ci avevano visti così tante volte che ormai avevano
preso a chiamarci per nome e c’era anche chi provvedeva a non
farci assaltare dai fan che qualche volta riconoscevano Viggo o Elijah.
Grazie alla
mia prenotazione ci avevano sistemato in un angolino tranquillo del
bar, ad un tavolo circolare munito si panche di velluto che lo
attorniavano completamente: in sostanza, se ti volevi sedere dovevi
scavalcarlo. Non proprio il massimo della raffinatezza e della
comodità ma comunque simpatico.
Una volta
tutti accomodati dissi:
-
Signore e signori… anzi, solo signori…
siamo qui riuniti oggi…
-
Per celebrare la santa messa liturgica! – mi
interruppe Craig, scatenando l’ilarità
generale.
-
Ehi Les, potevi avvertirci! Mi sarei messo il vestito della
domenica! – protestò Dom.
-
La “domenica” in senso religioso
è totalmente assente nella tua vita tranne che nel tuo nome,
Dominic! – risposi con una linguaccia.
E Billy: -
L’unica domenica che intende Dom è quella in cui
si sta stravaccati nel letto tutta la mattina, meglio se accanto a
qualche bella ragazza! – si girò e gli
batté il cinque.
Dom
guardò dietro di me e mi ordinò svogliato: - Les,
di’ al venditore ambulante dietro di te che non compriamo
niente.
Gli lanciai
un’occhiata contrariata per quello che aveva detto e mi
voltai girando il busto sul sedile, pronta a dire educatamente
– non alla maniera di Dom – al venditore di rose
che non volevamo niente ma prima che dicessi qualche cosa il cervello
mi avvertì che quello dietro ad un enorme mazzo di fiori
appostato alle mie spalle non era un venditore: da sopra quel cespuglio
di mille colori a mezz’aria spuntava il viso sorridente di
Orlando. Mi lasciai sfuggire un versetto intenerito e mi avvicinai a
lui mettendo un ginocchio sullo schienale del sedile per dargli un
bacio di ringraziamento.
-
Congratulazioni per la tua prima intervista Les.
Presi il
mazzo e lo annusai. Mi ricordava il profumo dei campi vicino alla
nostra prima location.
-
E tu, Billyno tanto carino, scansati che voglio stare vicino
alla mia ragazza! – Orlando afferrò Billy da sotto
le ascelle, lo sollevò e lo sistemò un
po’ più in là sul sedile.
-
Ehi, Mozzarella, guarda che gli elfi non piacciono a nessuno!
-
Vediamo quante fan impazziranno per Pipino
l’Hobbit! – ribattei scherzosa e
iniziammo
tutti a ridere. In quel momento arrivò la nostra cameriera
preferita del Fast, Marge: avremmo fatto come minimo quindici foto con
lei e avevo il sospetto che se le fosse vendute in giro.
-
Allora, io prendo un’insalata fredda di pasta
– dissi – ci puoi mettere tanti wurstel?
Lei
annuì e mentre annotava le richieste degli altri lanciava
sguardi seducenti ad Orlando: non era la prima volta che lo faceva ed
ero stata molto indaffarata a marchiare il territorio durante le prime
cene. Ma una volta chiarito il fatto che Orlando era mio e che lei non
gli interessava minimamente, aveva smesso di provarci e anzi, mi stava
anche diventando simpatica.
Alla fine
del giro, Craig disse: - Credo che siamo tutti d’accordo
nell’affermare che visto che è la nostra ultima
cena al Fast ordiniamo anche una vagonata di patatine.
Annuimmo e
Marge se ne andò con un sorriso divertito.
Quando
rimanemmo soli, Elijah disse a mezza voce: - E’ davvero la
nostra ultima cena al Fast, caspita. Mi sono affezionato a questo posto.
-
Già. – concordai. – A me
mancherà un sacco Villa del Lago… sto pensando di
far spostare il cenotafio di Jessie al cimitero, credo che sia illegale
tenerne uno nel territorio di un albergo.
-
Hai fatto un cenotafio per Jessie? – chiese Billy
di colpo interessato.
-
Sì! – esclamò Elijah.
– E mentre lo costruiva giuro di averla sentita cantare.
Lo fulminai
immediatamente con lo sguardo. Lui mi vide, arrossì e
incassò la testa nelle spalle. Ci fu un attimo di silenzio.
-
Non ti ho mai sentita cantare… -
mugugnò Orlando. Oddio Lesley, cambia discorso
subito!
Come al solito non seguii quello che mi diceva la testa e rimasi zitta
finché Dom non ruppe il silenzio calato sul tavolo.
-
Quelle persone dovevano essere terrorizzate…
-
Tu cosa proveresti se fossi in un grattacielo che brucia?
– Chiese Sean. Alla sua
domanda
retorica Dom lo guardò di sottecchi.
-
Chissà se sono ancora qui.
-
Intendi dire i fantasmi? – insinuò
Billy. – Dom, quelle persone sono morte, nessuno
può
sapere dove sono ora!
-
Io sì. Lo so. – Tutti gli occhi si
girarono verso di me. – O almeno, credo. – Nessuno
fiatò.
Guardai la mia mano stretta in quella di Orlando, poi il suo viso.
– Quando abbiamo avuto l’incidente in barca,
ricordi? Ho sbattuto la testa sullo scoglio… quando mi sono
svegliata in ospedale il dottore mi ha detto che per un po’
sono andata in arresto cardiaco, che… sono andata e tornata,
ma intanto ho visto. Ho visto una galassia davanti a me e ognuno dei
suoi bracci mi faceva vedere cosa stavano facendo tutti quelli che amo.
Ma non era una cosa estranea, era già dentro di me!
Silenzio.
– Sei morta davvero? – chiese Elijah, annuii
impercettibilmente. Poi feci la mossa più giusta che mi era
balzata in mente in quel momento, e per fortuna riaccese
l’atmosfera.
-
Sto pensando di comprare casa a Wellington! Una casa tutta
mia… secondo voi ce la faccio con la paga della Compagnia?
Craig si
grattò il naso. – Secondo me dovresti aspettare un
po’ di soldi dalle Due Torri. Almeno sai che così
hai dei risparmi.
Sean si
dichiarò d’accordo. – E poi magari devi
anche spendere soldi per ristrutturare, applicare i giusti e
qualificati sistemi di allarme, mettere le inferriate alle finestre del
giardino… L’unico che ha avuto abbastanza fortuna
nel trovare una casa a posto è stato Orlando.
-
Oh sì mi ricordo! – esclamai.
– Io e Liv ti avevamo accompagnato, vero Orlie? Avevi anche
sbagliato strada.
Lui
annuì. In quel momento arrivarono le nostre ordinazioni
munite di alti boccali di birra. Una volta tutti pronti, con
un’occhiata complice alzammo i boccali verso l’alto
in un brindisi taciturno. Io bevevo alla mia prima intervista, alla mia
vita sul set con dei ragazzi speciali come loro e, soprattutto, a
Jessie.
Il giorno
dopo chiesi a Linnie di accompagnarmi al cimitero per far incidere una
lapide per Jessie, così prendevo anche due piccioni con una
fava: avrei parlato con lei di Elijah e onorato Jessie come si deve.
Pur con qualche riluttanza Linnie accettò. Andammo la
mattina presto in taxi e ne approfittai per chiederle che era successo
con Woody e perché si era comportata in quel modo brusco
quando mi era venuta a trovare all’ospedale. Anche se era mia
amica e la conoscevo temevo la risposta che mi avrebbe dato ma lei
sembrava riluttante a rispondere con sincerità:
cercò un paio di volte di sviare la mia attenzione
dall’argomento con inutili giri di parole ma alla fine la mia
testardaggine e la sua scarsa abilità nel mentire finirono
col metterla con le spalle al muro. Il problema era che Linnie, quando
si sentiva sotto pressione, passava direttamente all’attacco.
Smise improvvisamente di guardare fuori dal finestrino e si
voltò a fissarmi con occhi ardenti facendo ballare i ricci
ramati. Parlò con voce glaciale, non urlando come mi sarei
aspettata.
- Vuoi
sapere perché mentre eri in ospedale ti ho urlato contro?
Perché ho mollato Elijah? Eccoti servita: quando ti abbiamo
visto cadere su quello scoglio e rimanere immobile ci siamo spaventati
a morte, ancora di più quando non rispondevi. Ti sono venuti
a prendere dall’ospedale in elicottero e ti ci hanno portato
di corsa. Eravamo tutti preoccupati e specialmente Orlando…
sembrava che stesse per lasciarci le penne, ma anche Elijah non stava
fermo un attimo, non l’ho mai visto così agitato!
Non ascoltava nessuno, c’era il terrore nei suoi occhi. Anche
io ero spaventata, certo, ma non mi quadrava il suo stato
d’animo.
“Devi stare tranquillo” gli ho detto.
“Tranquillo?” Ha risposto. “Io non sto
tranquillo! Potrebbe andarsene! È troppo importante
perché se ne vada! Non può
morire…”. Si è seduto per terra e si
è messo la testa tra le mani. Aveva ancora il costume. Io
non riuscivo a capire quello che stesse dicendo. “Sei
innamorato di lei?” gli ho chiesto e lui ci ha messo un
po’ a rispondere. “No”, ha detto alla
fine ma i suoi occhi dicevano un’altra cosa e io mi sono
ingelosita da morire e imbestialita da morire con te, perché
lui amava te e non me. Per questo l’ho lasciato.
-
Linnie… - dissi. – non è mai
stato innamorato di me, neanche per un istante. Mi vuole sono bene ma
ama te, me l’ha detto lui.
Linnie, che
dopo il racconto aveva abbassato il viso, lo alzò e mi
guardò mostrandomi che ora aveva gli occhi pieni di lacrime.
– No, io non credo.
Il taxi
ripartì e si allontanò. - Io sapevo che
all’inizio tu piangevi seduta per terra e lui ti
consolava. – In realtà l’avevo
visto nella galassia. – Ti devo dire la verità:
dopo l’attacco alle Torri Gemelle Orlando mi ha lasciata e io
e Elijah ci siamo baciati, ma è stato solo un bacio
– mi affrettai a dire vedendo la sua espressione. –
Eravamo entrambi confusi e incasinati e non ci stavamo con la testa.
Siamo solo amici e lui ama te. Ma la domanda è: tu lo ami?
Il taxi si
fermò davanti al cimitero. Scendemmo e lei, chiusa la
portiera, mormorò: - Lo amo.
-
Allora vai da lui e parlagli.
Tentennò.
– E se mi respinge?
Sorrisi.
– Non credo proprio.
Accanto al
cimitero c’era un’impresa di pompe funebri. Fino ad
allora non ero mai stata in un posto del genere e avevo sempre sperato
di non farlo mai: all’interno l’aria era pesante,
anche se il riscaldamento dietro ad un comò era acceso.
Davanti alla porta c’era un uomo in giacca e cravatta che
scriveva attento con una stilografica, e accanto alla scrivania una
porta coperta da una pesante tenda di velluto viola. Appena entrammo,
ci vide e si alzò.
-
Buongiorno. Sono Aaron. Accomodatevi. - Wow, questo saltava i
convenevoli a pie’
pari!
– Voi siete?
-
Io sono Lesley Dalton. – Aaron scrisse il mio nome
su un quaderno nero, poi alzò lo sguardo verso Linnie.
-
Oh, no, io sono qui come supporto morale – si
affrettò a precisare lei. – Quella che deve fare
questa cosa è Les.
Aaron
tornò a guardarmi. – Mi dispiace per la sua
perdita. – Quell’uomo doveva aver ripetuto quella
frase un milione di volte, tanto quanto bastava per perdere il senso
emotivo per quelle parole cariche di significato, eppure nei suoi occhi
si leggeva un dispiacere sincero… o almeno così
mi pareva.
-
Grazie. – Risposi.
-
In cosa posso esserle utlile?
-
Vorrei una lapide, il più presto possibile.
-
Vuole seppellire il defunto in questo cimitero?
-
Sì.
Aaron
scrisse sul quaderno. – Cosa ci vuole incidere?
Combattei
contro la difficoltà del trattenere le lacrime e ci pensai
su. – “A Jess” – mi fermai.
– “7 Ottobre 1983 – 11 settembre
2001” – Mi fermai di nuovo. Pensai di far incidere
cose come “Amata mia sorella”, ma non andava dal
momento che era troppo banale e non era mia sorella. Anche tutte le
altre che mi venivano in mente erano comuni. Citare una frase della
lettera, neanche a pensarci. Poi mi venne in mente una cosa che Jess
aveva detto a Matthew Colt, il giorno dopo il mio compleanno,
quando era venuto per rompere le scatole a tutti.
-
“Salta sulla tua macchina e fila via,
imbecille!” – conclusi, e risi. Quella frase
raffigurava
tutta la figura e il carattere di Jessica, era perfetta per lei.
Fantastica. Aaron purtroppo non poteva capirlo e mi guardò
allibito per un attimo, tornando poi a scrivere nel suo quaderno.
-
Quando si terranno i funerali?
-
In realtà si sono già tenuti. A New
York. - Mi guardò perplesso. – Nessuno deve
essere
seppellito sotto la lapide. È solo un modo per onorare una
mia grande amica perché non ho potuto essere presente al suo
funerale. Jess è morta nell’attacco alle Torri
Gemelle. Vorrei che sia tutto pronto per domattina. Per la
collocazione, mi fido di lei.
Aaron mi
aveva guardato dolorosamente al sentir nominare il WTC ma la sua natura
professionale riprese subito le redini della situazione.
-
Intende pagare ora?
-
Non ho altra scelta.
Aaron
contò il totale su una calcolatrice. – Di solito
è la mia assistente a fare i conti ma è in
maternità… - cercò di spiegare.
– Sono 2500 dollari.
-
Perfetto. – Scrissi tutto su un foglio del
biglietto degli assegni. – Per quando sarà pronto?
-
Domattina alle dieci come ha chiesto lei, signorina Dalton.
-
Grazie. – mi alzai e Linnie con me. Gli strinsi la
mano. – è stato un piacere.
Una volta
fuori mandai un messaggio a tutti i miei amici.
“Domattina,
alle dieci, al cimitero. Funerale Jess. Siate puntuali”.
Il mattino
dopo alle dieci in punto, c’erano Viggo, Orlando, Miranda,
Liv, Dom, Billy, Sean, Elijah, Linnie, Bean, Craig, Christine con
Alexandra ed io, naturalmente. Tutti vestiti con gli abiti
più solenni che eravamo riusciti a tirare fuori dalle
valigie già pronte e chiuse per la partenza di quella sera,
in silenzio davanti alla lapide di Jessie scolpita a puntino che
recitava a caratteri eleganti.
A Jess
7 Ottobre 1983
– 11 Settembre 2001
“Salta
sulla tua macchina e fila via, imbecille!”
All’inizio
i ragazzi avevano a riso al leggere quella frase, ma ora nessuno stava
ridendo ed eravamo lì impalati da dieci minuti. Il
fatto era che non riuscivo a spiccicare una parola in sua memoria!
Orlando mi stringeva la mano e solo grazie a quella stretta riuscivo a
non piangere, e ad un certo punto avevo detto:
- Credo che
sia il caso di dire qualcosa. – ma poi più niente.
Alla fine, quando ognuno di noi l’aveva ricordata abbastanza
per il tempo che aveva passato con lei, dal silenzio emerse la voce di
Viggo che cantava i primi versi di How to save a life, un
po’ come io avevo fatto per Moulin Rouge.
- Step one you say we need to
talk, he walks, you say sit down it’s just a talk. He smiles
politely back at you, you stare politely right on through.
Poi Liv: - Some sort of window to your
right, as he goes left and you stay right, between the lines of fear
and blame you begin to wonder why you came.
Cominciai
io, stando al loro gioco: - Where
did I go wrong? I lost a friend somewhere along in the bitterness and I
would had stayed up with you all night had I know how to save a life.
A turno e
in coro, come per tacito accordo, cantammo tutta la canzone in una
sinfonia di voci per me molto commovente. * Forse quello era il
funerale che Jess voleva, non lo sapevo. Sapevo solo che per me era
quello giusto, anche se non era molto ortodosso o consono alla
tradizione. Magari anche gli altri che avevano cantato con me la
pensavano allo stesso modo! Ed ero riuscita a onorare Jessie, anche
perché non avevo potuto assistere al suo vero funerale a New
York per colpa di quella cavolo di tempesta che mi aveva impedito di
prendere l’aereo. Quando finimmo tutto il ritornello
applaudimmo: l’emozione di quel momento ci travolse facendoci
manifestare le emozioni, eppure stavolta non erano negative, non mi
venne da piangere come una bambina, ma sorrisi! Applaudire mi aveva
sempre messo allegria e l’avevo sempre fatto agli spettacoli
con Jessie e adesso che lei non c’era più lo
facevo per lei, mi sentii finalmente in pace. Il fatto di non aver
potuto andare a New York mi aveva fatto sentire in colpa fino a quel
momento e ora finalmente era tutto finito!
- Grazie a
tutti per essere venuti, vi voglio bene – dissi con un
sorriso rivolta a tutti e subito dopo mi ritrovai in un grande
abbraccio di gruppo, mentre Alexandra correva con le sue gambettine
intorno a noi. E va bene, qualche lacrimuccia di commozione mi
scappò anche dentro tutto l’abbraccio!
- Bene!
– disse Viggo riacquistando all’istante il suo
istinto da Aragorn – ci vediamo all’aeroporto
gente!
Io e
Orlando tornammo insieme a Villa del Lago per un ultimo saluto a tutto
lo staff dell’albergo e ai nostri appartamenti che ci avevano
ospitato per tutto quel tempo! Io e lui avevamo deciso di scrivere una
lettera di ringraziamento da consegnare alla reception nella quale ci
complimentavamo per la qualità dei servizi e dei dipendenti
e promettevamo di fare buona pubblicità. Appena entrati
nella mia stanza Orlando mi abbracciò e mi baciò.
Il contatto fisico con il suo corpo mi fece battere forte il cuore,
come sempre. Ogni giorno che passava lo amavo sempre di più,
non avrei mai e poi mai voluto tornare a quel periodo di settembre, il
peggior mese della mia vita.
-
Allora che dici, pranziamo e andiamo all’aeroporto?
– proposi. – L’aereo per Rohan
è alle cinque.
Orlando
sorrise. – Non ti ricordi proprio il nome di quel posto vero?
-
No! Però non me lo dire: voglio scoprirlo una
volta atterrata dopo un volo immersa nella mia totale ignoranza
geografica!
Ridemmo.
Gli passai un braccio intorno alla vita. – Andiamo.
Prendemmo
le valigie, controllai circa sette volte di aver preso tutto e
nonostante ciò ero sicura di aver dimenticato qualcosa,
chiudemmo la stanza, andammo alla location, consegnammo le chiavi e la
lettera, salutammo tutti e andammo al ristorante. Per fortuna ci
acconsentirono di lasciare tutti i bagagli in un angolino tranquillo e
ben sorvegliato dell’ingresso, mangiammo e poi di corsa
all’aeroporto! Incontrammo tutti gli altri al check-in,
pronti a separare, per la prima volta, la Compagnia. D’ora
poi non avremmo più lavorato tutti insieme ma in location
separate perché così prevedevano i copioni delle
Due Torri e del Ritorno del Re: io sarei andata a Rohan –
quel posto sconosciuto – con Orlando, Miranda, Viggo, John,
Bernard Hill, John Mahaffie – secondo regista. Billy e Dom a
Wellington, Sean e Elijah dal monte Ruapehu nell’Isola del
Nord. E poi c’erano quelli che se ne sarebbero andati via per
un po’: Bean, Liv, Craig, che promise di venirmi a trovare
ogni settimana. Appena mi vide entrare con Orlando Elijah mi corse
incontro e mi abbracciò stretta stretta sollevandomi da
terra.
-
Ehi El! Che succede? Che ho fatto?
-
Io ti adoro nella maniera più assoluta! Non
smetterò mai di ringraziarti Les!
-
Linnie ti ha parlato?
-
Sì!
E mi
abbracciò di nuovo. – Adesso siamo pari
– dissi.
Ora era il
momento di salutare tutti quanti.
-
Mi mancherete un sacco – dissi fra un abbraccio e
l’altro.
-
Ehu, non c’è bisogno di fare le scene,
ci rivedremo lo stesso ogni week end! – esclamò
Billy.
– Non staremo tanto lontani, e poi fra neanche due mesi ci
sarà la presentazione della Compagnia dell’Anello!
In quel
momento arrivò la chiamata per l’aereo mio e della
troupe di Rohan.
Il viaggio
in prima classe, come al solito, era comodissimo. Io e Orlando ci
posizionammo in due sedili appartati e trascorrevamo il tempo facendoci
le coccole e mordicchiando uno spuntino, parlando del più e
del meno e guardando foto. Dopo la metà del viaggio,
però, mi sembrò pensieroso.
-
Che c’è, Orlie?
Evitò
il mio sguardo - Mmmm… niente.
-
Ehiiiiiiiii!
-
Volevo chiederti una cosa…
-
Bene, allora dimmela! – sorrisi.
-
Mi vergogno… e non so se accetterai.
-
Se non me lo chiedi non lo saprai mai, dimmelo
all’orecchio se sei timido.
Orlando mi
prese una mano fra le sue, si chinò verso di me e mi
sussurrò all’orecchio:
-
Vuoi vivere con me?
Ammetto
che l’idea della canzone non è stata mia ma di
Grey’s Anatomy, sono rea di furto d’idea! Magari a
voi fidati lettori non è piaciuta neanche ma, giuro, a me
sì! Se qualcuno fosse interessato a sentire la versione per
come l’hanno cantata in questo capitolo, eccovi il video e la
sequenza degli attori!
Sequenza
di voci: Viggo – Liv – Lesley – Orlando
– Miranda (2 voci di seguito) – Lesley –
Christine – Tutti – Lesley!
Video:
http://www.youtube.com/watch?v=CxSR3ZYcdZA&feature=my_liked_videos&list=LL5A5-9eWUkFi8nwzSS8hYDQ
Se
vi ha fatto schifo ditemelo senza problemi! Accetto le critiche!
Vi
voglio bene!
Nut
|
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Capitolo 25 *** Cap. 24 ***
La
mia vita sul set – cap. 24
La proposta appena
fatta mi spiazzò e mi voltai a guardarlo, incontrando i suoi
grandi occhi scuri che mi fissavano speranzosi, in silenzio.
- Teoricamente
è come se lo stessimo già facendo –
continuò piano. – Mangiamo insieme, lavoriamo
insieme, dormiamo insieme… mancano solo i tuoi vestiti nel
mio armadio.
Sorrisi. –
I miei
vestiti nel tuo
armadio? E se fosse il contrario?
Sorrise a sua volta
con un altro luccichio di speranza negli occhi. – Il tuo
armadio è un campo di battaglia del Vietnam e tu non hai una
casa nella baia di Wellington.
Rimasi in silenzio
valutando i pro e i contro della convivenza, mentre lui continuava ad
attendere la mia risposta. Accentuò di poco la stretta delle
braccia intorno a me come per incitarmi a dire di sì. Io lo
lasciavo aspettare: dopotutto mica potevo concedermi così in
fretta! Volevo anche io essere desiderata, che diamine!
Quando vidi che ormai
stava perdendo la speranza gli misi una mano sulla spalla e gli dissi:
- Va bene, spostiamo i miei vestiti nel tuo armadio.
Sul volto gli si
aprì un sorriso smagliante e mi abbracciò
esultando, suscitando l’attenzione dei nostri colleghi seduti
negli altri posti che, dopo averci squadrato curiosi per un
po’, tornarono alle loro vecchie occupazioni. Orlie intanto
continuava a stritolarmi con i suoi muscoli nuovi di zecca –
e palestra – impedendomi quasi di respirare. Quando
finalmente mi lasciò di nuovo libera di rifornire i miei
polmoni di ossigeno, mi invitò a poggiare la mia testa sulle
sue ginocchia e a fare piani per il mio trasferimento. Ovviamente non
avremmo potuto tornare in città prima delle vacanze di
Natale, a meno che non vi capitassimo per caso con la troupe, quindi
sarebbe stato intelligente cominciare a suddividersi lo spazio negli
armadi da subito.
-
Così i miei vestiti si abituano al fetore dei tuoi
– lo stuzzicai.
-
Ma che dici! Se metto la lavatrice molto più
spesso di te! Tu sai sempre di pulito perché…
perché hai tanti vestiti, ammettilo!
- Che ci vuoi fare,
sono una ragazza!
- Non sempre: quando
sei in mezzo a noi uomini della Compagnia ti comporti da maschiaccio,
anche se ti trattiamo da principessa.
- E la cosa mi piace
parecchio!
Passammo il resto del
volo a pianificare le nostre vacanze di Natale, oltre al mio
trasferimento. Non contando la presentazione del film il 19 dicembre a
Wellington – buona occasione per rivisitare la casa di
Orlando -, l’ultimo giorno di riprese sarebbe stato il 23
dicembre, prima della vigilia. Avremmo festeggiato tutti insieme il
Natale e, dopo qualche giorno di relax sulle spiagge della Nuova
Zelanda a fare surf – una buona cosa dell’emisfero
australe, anzi ottima -, dopo Capodanno, io e Orlando saremmo andati a New York per una settimana per andare a trovare i
miei genitori e fare un giro in città. Sarebbe stata la
prima volta da soli in una città senza il resto della
Compagnia. Amavo i miei colleghi ma, sinceramente, non vedevo
l’ora che quella settimana arrivasse: non volevo sembrare
egoista ma per una volta avrei voluto avere l’esclusiva su di
lui, anche se sapevo già che in una metropoli come New York
le fan lo – o ci
– avrebbero assaltato ad ogni svolta. Ma, almeno, non avrei
avuto in giro Dominic che gli saltava in braccio per sbaciucchiarlo, o
Sean che appena ci vedeva uscire dal set ci domandava se avevamo chiuso
col lucchetto le nostre roulotte. Non sapevo com’era Orlando
senza la Compagnia attorno ed ero curiosa di scoprire se sarebbe stato
sempre lo stesso o se l’ambiente gioioso del set
l’aveva reso più friabile: vedevo
quell’imminente viaggio nella mia città come
un’occasione di scoperte, e finalmente avrei rivisto i miei
genitori che non vedevo dalle vacanze di Pasqua del mio ultimo anno al
college.
Atterrammo
all’aeroporto di Rohan a mezzanotte meno un quarto: la
distanza fra… Rohan e Queenstown non era tantissima, ma
durante il volo c’erano stati dei problemi nella
coordinazione dei voli all’aeroporto, a quanto avevo capito,
e così avevamo dovuto aspettare che ci dessero
l’ok per atterrare. Come Viggo mi aveva spiegato una volta
allacciate le cinture, Rohan non era una città ma una
regione della Terra di Mezzo, dove i nostri personaggi avrebbero
incontrato Eomer e la sua cricca di soldati e girato
l’attacco dei Mannari. Dopo aver girato lì saremo
andati proprio a Edoras, la città dorata, in un posto vicino
a Queenstown.
-
Ma se dovremo tornare non potevamo rimanere in
città e poi venire qui? – chiesi perplessa.
Si strinse nelle
spalle. – Dovremo stare nel parco a Queenstown solo otto
giorni, poi il set verrà distrutto. Tanto vale cominciare
col grosso del lavoro… almeno così ha detto
Mahaffie.
John Mahaffie era uno
dei tanti bracci destri di Peter e dirigeva la seconda
unità, la nostra. Si diceva fosse quasi della stessa bravura
di Peter, ma io non credevo. Senza offesa.
-
Come fai a sapere tutto, Viggo?
-
Io so. – sorrise e mi fece l’occhiolino.
Non disse
nient’altro. A volte tutto quel mistero era quasi irritante:
mi faceva sempre sentire ignorante.
Arrivammo nella
grande entrata dell’aeroporto con una serie di valigie al
seguito. Sopra la grande porta scorrevole di vetro c’era
scritto non “Rohan Airport” come mi aspettavo, ma
“Alexandra Airport”. Rimasi sorpresa.
-
Ecco
come si chiama questo posto! – ad un’occhiata
divertita di John aggiunsi – nella regione di Otago, a quanto
vedo.
Orlando, visibilmente
stanco, borbottò qualcosa.
Il nostro set era a
Poolbourn, una grande terra nella regione dell’Otago dove
dominavano le cristalline acque di due immensi laghi: il lago Dunstan e
il lago Onslow. Con immenso piacere scoprii che avremo utilizzato uno
dei due per girare la fuga degli abitanti di Rohan. Era una grande
terra, ricca di montagne e prati dai colori autunnali, e si diceva
abitata dalle persone più amichevoli della Nuova Zelanda
– ma dopo aver conosciuto quelle di Matamata ci credevo poco.
Il set si trovava a quasi 39 km da Alexandra e per raggiungerlo si
impiegava mezz’ora in macchina. Avremo alloggiato in un
albergo a cinque stelle vicino all’aeroporto e dopo un
viaggio in aereo non vedevo l’ora di sdraiarmi sul letto e
dormire: a quanto pareva anche Orlando la pensava così dato
che a malapena si reggeva in piedi e dovetti sorreggerlo fino
all’uscita dell’aeroporto, aiutata da Craig.
L’albergo
era molto carino: aveva stanze piccole ma accoglienti, con il parquet
di quercia e armadi che correvano lungo tutta una parete. Alle finestre
c’erano tende bianche che coprivano la visuale sulla strada
che ci aveva portati fin lì, e i letti avevano
l’aria comoda.
Io presi una delle
poche camere matrimoniali che ci avevano assegnato – erano
poche per la gioia degli uomini che costituivano la maggior parte del
cast e della crew.
Trascinai
Orlando-Che-Dormiva-In-Piedi fino al letto una volta aperta la porta
della nostra stanza, lo buttai sul letto e lui rimase prono sulle
lenzuola, talmente stanco da non riuscire a tenere gli occhi aperti. Mi
sdraiai vestita vicino a lui e appoggiai il viso vicino al suo.
- Si può
sapere perché sei così stanco?
Aprì poco
un occhio. – Chiederti di convivere ha prosciugato
completamente le mie forze intellettuali –
bofonchiò.
Sorrisi e, stanca,
chiusi gli occhi avvolgendolo alla vita.
Il giorno dopo ci
svegliammo molto presto, verso le quattro e mezza, quando il sole non
aveva neanche cominciato a sorgere. Buttai la sveglia giù
dal comodino appena cominciò a suonare e scossi leggermente
Orlando per svegliarlo. Lui si alzò più o meno
subito e corse in bagno con rinnovata energia. Mi parevano strani
quegli sbalzi di energia, ma decisi che non era il caso di
preoccuparmi: magari era così attivo perché aveva
dormito sodo.
Aspettai che uscisse
dal bagno e mi rifilasse un bacio veloce prima di andare verso
l’armadio a camminare a piedi scalzi sul tappeto davanti al
letto. Entrai in bagno, mi guardai allo specchio e mi sciacquai il viso
con acqua fredda, pensando: sarebbe stato strano arrivare sul set e non
trovare gli Hobbit ad attenderci, strano girare senza la loro
energia… ci saremmo sicuramente fatti dei nuovi amici con la
seconda troupe, ma sentivo già la loro mancanza.
Guardai il mio
riflesso allo specchio: una nuova parte dell’avventura stava
per cominciare.
Io e Orlie, vestiti
già con i nostri costumi di scena, uscimmo
dall’albergo e prendemmo la macchina. Nel tragitto dalla
nostra camera all’atrio non avevamo incontrato nessuno dei
colleghi quindi o erano ancora a letto oppure ci stavano già
aspettando: non sarebbe stata la prima volta.
Orlando era molto
bravo a guidare, a differenza mia che non ci avevo mai provato. Durante
i primi mesi di riprese dal mio compleanno in avanti aveva cercato di
insegnarmi ma cadevo nel panico appena prendevo in mano il
volante… a meno che non fossi parzialmente brilla.
Durante il viaggio in
macchina io e Orlie ci scoprimmo a canticchiare nonostante
l’ora: io ero felice per la proposta di convivenza di
Orlando, lui dopo un po’ mi spiegò che era felice
perché avevo accettato, e soprattutto perché
avremo cominciato a fare una cosa per cui ci eravamo allenati tanto nei
mesi precedenti.
- Che
cos’è? Dai dimmelo!
- Hai presente le
lezioni pomeridiane di equitazione?
- Certo! –
Tre pomeriggi alla settimana avevamo frequentato addestramenti equestri
per prepararci bene a delle riprese: molto faticosi ma divertenti.
- Oggi cominceremo ad
andare a cavallo.
Lanciai un urlo
entusiasta: la passione per i cavalli era qualcosa che io e Orlando
condividevamo e non vedevamo l’ora di galoppare un
po’ per le riprese!
- Dovrai stare
attento a non cadere – dissi ammiccando.
Lui svoltò
a destra. – Non cadrò! Piuttosto sono preoccupato
per te.
- Ehi, io non
saprò nuotare ma mi muovo bene a cavallo! Tu invece sei la
persona più maldestra del mondo.
- IO almeno non sono
finito il ospedale dopo un trauma cranico. Lo sai che ti si vede ancora
la cicatrice? – stava cominciando a scaldarsi.
- Orlie, lasciamo
perdere, non roviniamo il momento. – gli misi una mano sul
ginocchio. – Pensiamo a recitare, divertirci e cerchiamo di
non farci male. Ok?
- Hai ragione
piccola.
Frenò la
macchina: davanti a noi, sfiorato dai primi raggi del sole, si
estendeva il lago e il set. La crew sciamava in giro come a mezzogiorno
e le sponde del lago erano contemplate da tantissime comparse tutte
vestite con abiti di scena. Uno della crew fece cenno ad Orlie di
portare la macchina in uno spiazzo più lontano, dove ne
erano parcheggiate altre. Lui tolse il freno a mano e fece dietrofront
sull’erba, andando a parcheggiare fra la macchina di Peter e
quella di Miranda. Spense il motore e scendemmo, poi prendendoci per
mano ci dirigemmo verso il cast.
C’era
Miranda, già con la parrucca e il costume. la sua bellezza
radiosa sembrava illuminare tutto lo spazio circostante: aveva un
portamento regale nei movimenti che mi ricordò
Cate Blanchett, Galadriel, che durante le riprese a Lothlorien mi aveva
insegnato a muovermi meglio come un’elfa regale quale era
Hery. Lasciai la mano di Orlando e, immaginando che mi sollevasse un
filo invisibile, andai verso di lei.
- Buongiorno Miranda!
Pronta per il primo giorno?
- Ehi Les! Vedo che
ti sei già calata nella parte. Buongiorno anche a te,
Orlando – si rivolse verso di lui.
- Anche a te
– rispose. Fra loro c’era quella cortesia estranea
che stonava un po’ in un ambiente amichevole come quello.
- Siamo tutti pronti
per girare? Noi dobbiamo ancora metterci le parrucche. –
dissi.
- Dovete fare in
fretta! Mahaffie sta radunando tutti quanti. Io vado da Bernard. Sta
facendo il buffone con Viggo mentre imparano il copione.
Indicò col
pollice una roulotte dietro di lei, dalla quale stava scendendo proprio
Bernard con in mano tanti fogli di carta. Scendeva i gradini danzando.
- Sbrigatevi!
– insistè Miranda sorridendo amichevolmente. Mi
voltai a guardare Orlando, pensierosa. Poi mi venne un’idea.
- Chi arriva ultimo
paga da bere! – e mi misi a correre.
- Non vale!
Messe parrucche e
orecchie, un tizio della crew con dei fogli in mano ci portò
ad un recinto abbastanza lontano dal set, dentro cui camminavano
tranquilli tre magnifici cavalli: un cavallo baio, uno morello corvino
– bellissimo - e uno bianco pomellato sui fianchi.
- Allora –
disse con aria assonnata. – Il baio è di Aragorn,
il pomellato di Legolas e Gimli e il morello di Hery.
- Ah! –
proruppi rumorosamente facendo voltare i presenti che nutrivano i
cavalli. – A me il più bello ah ah ah!
- Non sei spiritosa!
– mi riprese Orlando scavalcando lo steccato, dove lo
raggiunse una ragazza con i codini e un cappello con in mano una sella.
La seguì verso il suo cavallo che appena li vide
scartò di lato spaventato. Orlie, guardandolo come se fosse
innamorato di lui, alzò le mani e gli si avvicinò
a occhi bassi per mostrargli che non intendeva fargli del male. Lo
accarezzò sul collo e poi vicino agli occhi e in mezzo alle
orecchie, mentre la ragazza gli metteva le briglie e la sella.
Lo guardavo
affascinata. Poi, quando mi fece cenno di avvicinarmi, saltai il
recinto e atterrai in mezzo agli animali. Orlie mi guardò
sorridendo mentre mi avvicinavo al mio cavallo per aiutare la ragazza a
sellarlo.
- Ciao bellezza
– gli sussurrai accarezzandogli gli occhi e appoggiato il
naso al suo. – Come ti chiami?
- E’ una
femmina – rispose la ragazza. – Si chiama Calliope.
Il cavallo
agitò la coda. – Ciao Calliope! Io sono Lesley
– la accarezzai in mezzo alle orecchie.
- Les – mi
chiamò Orlando e mi voltai a guardarlo. Era già
in groppa al suo, la bellezza fatta a elfo. – Appena
è sellato monta a cavallo.
Guardai la ragazza.
- Non ci
vorrà molto – disse infilando il morso in bocca a
Calliope. Lei la lasciò fare docile. La ragazza le
passò le briglie sul collo, le diede una pacca di
ringraziamento sul collo e mi di disse: - Fatto -. Poi prese le briglie
del cavallo di Aragorn e lo condusse fuori dal recinto facendolo
saltare: infatti non c’erano porte per uscire, era un modo
per non far scappare i cavalli.
Tornai a guardare
Calliope negli occhi, poi presi le briglie con la mano sinistra e,
infilato il piede sinistro nella staffa, montai facendo passare la
gamba destra all’indietro. Potevo anche non saper nuotare, ma
con i cavalli me la cavavo alla grande. Mi voltai a guardare Orlando
che mi ricambiava sorridendo. – Fantastica. –
disse. – Ora andiamo.
Spronò il
cavallo e saltò il recinto. Mi piegai verso il collo di
Calliope e dissi – Vai, bella! – stuzzicandola con
i talloni. Lei scattò in avanti un po’ troppo in
fretta per i miei gusti e saltò senza preavviso, lasciandomi
senza fiato.
- Ehi, va tutto bene?
– mi disse un cameraman appoggiato alla recinzione.
- Sì,
solo… non me l’aspettavo.
- Stai attenta a
guidarla! – mi urlò la ragazza delle selle.
– Calliope è un purosangue, appena la sfiori parte
al galoppo. È abbastanza difficile farle fare quello che
vuoi… mi hanno detto di dartela perché sei brava,
ma se non te la senti te ne diamo uno un po’ più
docile.
- Questo va
benissimo, grazie! – risposi. Sarebbe stato faticoso, ma
sempre bello. Guardai di nuovo Orlando, che mi aspettava tenendo ben
strette le briglie del suo cavallo, e lo raggiunsi solleticandola
piano. Stavolta partì più lentamente, al trotto
veloce.
- Andiamo?
– gli chiesi non appena lo raggiunsi. – Mahaffie ci
aspetta.
Spingemmo i cavalli
al trotto.
John Mahaffie era un
uomo con i capelli grigi, il viso allegro e un impermeabile sbiadito
indosso. Davanti alle telecamere aveva posizionato una poltrona
arancione molto ingombrante, e raccontava che quando gli avevano
offerto il lavoro gli avevano detto di scegliere una poltrona. Lui
aveva scelto quella dicendo “Sembra comoda” e
quindi ora lavorava sempre seduto lì sopra. Ripeteva la
storia ogni volta che glielo chiedevi. Anche se era uno dai modi
gentili a me metteva ansia, perché nei mesi precedenti avevo
lavorato sempre e solo con Peter e non sapevo se anche lui avrebbe
voluto le stesse cose e avrebbe apprezzato il mio modo di interpretare
Hery. Il lavoro con lui sarebbe stata un’incognita nei primi
giorni, ma se Peter si fidava di lui allora non dovevo temere niente.
Noi attori principali
eravamo tutti in fila a cavallo, con le armi sguainate, pronti ad
ascoltare le indicazioni di John. Non parlavamo se non sussurrando.
- Si è
saputo qualcosa del lavoro di oggi? Non ci hanno dato copioni.
– sussurrai rivolta a Bernard vicino a me.
- Penso che dovremo
girare l’attacco dei Mannari. Doveva essere ambientato a
Rohan ma hanno cambiato.
- Sembrerà
di essere al manicomio – disse Viggo alla mia sinistra e ci
voltammo a guardarlo. – Aggiungeranno le bestie in digitale,
noi dovremo fare finta di combattere – spiegò.
- Ah, splendido!
– dissi.
- Ehi Brettie
– disse Orlando alla controfigura di Gimli seduto sul cavallo
davanti a lui. – Dimmelo se ti faccio male.
- Niente paura, coso.
Con quest’armatura che ho indosso…
In quel momento
Mahaffie prese un megafono in mano e, rivolto a noi e alle migliaia di
comparse messe lungo il lago – tra cui spiccava la chioma
bionda di Miranda – e parlò sicuro: - Allora,
state fuggendo da molte ore. Siete stanchi. Entreremo
nell’entroterra e cominceremo a girare. Ad un segnale voi,
popolo di Rohan, avrete paura. Miranda, tu chiederai a Bernard di
combattere. Vi abbiamo già dato le battute. – Si
rivolse verso Orlando, dopo aver ricevuto cenni d’assenso da
parte delle comparse. – Orlando, tu salirai dopo a cavallo
perché starai davanti a tirare frecce digitali, ok? Viggo,
tu guarda Miranda col cavallo al galoppo. Brettie, guiderai il cavallo
verso Orlando. Lesley – si rivolse verso di me – tu
e Orlando vi dovrete guardare spesso, vi tenete d’occhio.
Combatterai coi pugnali, non con l’arco. Tutti voi cavalieri
di Rohan, dovrete mostrare fatica, cercare di non sembrare scemi mentre
ammazzate i mannari. Muovetevi fingendo di combattere, ai Mannari ci
penseremo noi. Tutto chiaro?
- Sì
– rispondemmo uno ad uno.
- Allora cominciamo.
Motore…partito… - guardai Orlie. -
…ciack…E…AZIONE!!
Cominciammo tutti a
muoverci, ed improvvisamente smisi di essere Lesley e iniziai a
interpretare Hery: il passaggio da una personalità
all’altra era così immediato che a volte mi
capitava di recitare anche al di fuori del set.
Due cavalieri di
Rohan portarono avanti i cavalli vicino ad un muro di rocce,
oltrepassando Orlando che scrutava l’orizzonte. Poi
guardarono verso destra e si misero a urlare. Uno di loro cadde dal
cavallo e urlò di nuovo, e Legolas corse verso di lui con un
pugnale in mano e finse di trafiggerlo, mentre alla mia sinistra
Theoden e Aragorn si fermavano preoccupati a guardare.
Legolas fece un verso
di fatica, poi si voltò verso di me e urlò verso
di me e Aragorn a piedi. – Un esploratore!
Aragorn si
girò e corse verso Theoden, che gli andò incontro
al galoppo dicendo: - Cosa c’è?
- I Mannari! Ci
attaccano! – urlò Aragorn. Le comparse
cominciarono a urlare e i cavalieri scattarono in avanti. Legolas corse
in avanti e cominciò a tirare frecce.
- STOP! –
Urlò Mahaffie, e ridiventammo attori. – Bernard,
cerca di essere più preoccupato. Sei un re, sei in pensiero
per la sicurezza del tuo popolo. Lesley, cerca di non guardare Orlando
tutto il tempo: avevo detto solo tienilo d’occhio.
– Sorrisi. – Sei consapevole del pericolo, sii
vigile.
- Ok. –
dissi.
- Andava bene, ma
facciamone un’altra!
Ripetemmo la scena
modificando i particolari, e andammo avanti. Noi cavalieri correvamo in
avanti dopo la discussione tra Miranda e Bernard, e correvamo verso
Orlando che continuava a lanciare frecce. Poi, quando il suo cavallo si
avvicinò, saltò in groppa e continuammo ad
andare. Cominciammo a menare fendenti a casaccio, affaticati, e io
spingevo il cavallo al galoppo intorno all’area immaginando
di mozzare teste di Goblin e di pugnalare Mannari alla giugulare. Ogni
tanto guardavo Orlando, che correva da una parte all’altra
insieme a Brettie. Mi ero spinta più in là, a
destra, vicino alle telecamere, e voltai il cavallo in direzione degli
altri, tirando un fendente con la destra compiendo un semicerchio col
braccio e con espressione cattiva. Mi scostai i capelli dagli occhi
mentre Calliope scartava a destra, e guardai Orlando che galoppava in
mezzo alla mischia. Fermai Calliope per un istante. Vidi Aroth
– il cavallo di Orlando – impennarsi. Accadde molto
lentamente. Il cavallo dimenava le zampe anteriori in aria, Orlando non
riuscì a mantenere la presa e cadde all’indietro
atterrando di schiena, e Brettie gli cadde addosso. Vidi Orlando
sussultare.
- No! –
Urlai, mentre Mahaffie gridava di fermarsi. Spronai forte Calliope. Lei
si lanciò in avanti con uno scatto e volò fino ad
Orlando, ancora sdraiato a terra con espressione dolorante. Mi buttai
giù da cavallo senza neanche dirgli di fermarsi. Mi chinai
verso di lui: era pallido e si teneva la mano premuta sul fianco
sinistro, gemendo.
- Ti sei fatto male?
– dissi allarmata.
- No… -
rispose a fatica. – Credo… credo di essermi rotto
qualcosa.
Gli altri attori ci
accerchiarono preoccupati.
- Lasciategli
dell’aria, ragazzi! – ordinai preoccupata.
– Piccolo, riesci ad alzarti?
-
Sì…
- Ehi ragazzo
– Viggo si avvicinò. – Vieni, ti do una
mano.
- Viggo, prendilo da
sinistra. Aiutiamolo ad alzarlo. Gli portate dell’acqua per
piacere?
Vidi Miranda portare
Calliope verso di noi. Un ragazzo gli porse un bicchiere
d’acqua mentre io e Viggo lo aiutavamo ad andare verso le
macchine, lontano dai curiosi.
- Ti sei fatto male,
ragazzo? – chiese Mahaffie avvicinandosi a noi.
- Crede di essersi
rotto qualcosa.
- Fate venire Anne!
– Urlò. Anne era il medico
dell’unità, venuta dalla Francia.
Insieme a Viggo
appoggiai Orlando ad una macchina. Anne arrivò e gli disse
di togliersi il costume. Lui obbedì a fatica e vidi, quando
si tolse anche la canotta, che aveva un grosso livido sul fianco
sinistro. La pelle era gonfia. Anne lo sfiorò e lui
cercò di reprimere una smorfia di dolore.
- Sì,
credo sia rotta. Qualcuno deve portarlo all’ospedale.
- Ci vado io
– mi offrii. – Posso Mahaffie?
Lui ci
guardò, poi disse: - Tenetemi aggiornato.
- Aspetta –
disse a fatica, cercando di non respirare troppo. Si piegò
in avanti coprendosi di nuovo il fianco col braccio.
– Les, tu non sai guidare.
- Chi ci
può accompagnare?
- Vengo io con voi.
– si offrì Viggo. – Appena vi mollo
all’ospedale torno indietro.
Lo guardai.
– Grazie.
Viggo premette di
nuovo sull’acceleratore, all’entrata di Alexandra,
e io mi voltai un’altra volta a guardare Orlando. Era sempre
più pallido, stava a occhi chiusi e cercava di non respirare
per il dolore. Sembrava dormire. O forse era svenuto?
- Les, mantieni la
calma – mi impose Viggo. – Non lo puoi aiutare se
hai un attacco di panico.
- Sono solo
preoccupata. – Lui mi guardò di sottecchi,
tornando poi a fissare la strada.
- Non è
grave avere una costola rotta. Non quanto un trauma cranico…
adesso sai come si sentiva Orlando quando hai avuto tu
l’incidente. – Frenò la macchina davanti
all’ospedale. – Adesso tocca a te prenderti cura di
lui.
Non spense neanche il
motore. Aprii la portiera dalla parte di Orlando, gli sfiorai una
spalla e lui aprì gli occhi. Lo aiutai a scendere e lo presi
a braccetto, portandolo dentro.
Lo misero in una
stanza, gli diedero una flebo antidolorifica e gli fecero una tac.
Aspettammo i risultati per tutto il pomeriggio. Lui dormì
per buona parte del tempo, e io rimasi ad aspettare seduta su una
scomoda sedia accanto a lui.
Verso le tre del
pomeriggio si svegliò a causa di un’infermiera che
era entrata rumorosamente nella stanza insieme ad una dottoressa molto
avvenente.
- Signor Bloom! Come
si sente?
Orlando non rispose,
si limitò solo ad alzare le spalle: respirare gli faceva
male.
- Per fortuna ha solo
una costola incrinata, guarirà in un paio di settimane,
forse un po’ di più. Nel frattempo si tenga la
fasciatura, ok? Dovrà cambiarla. – Si rivolse a
me. – Magari può aiutarlo quando avrà
bisogno, no?
- Certo –
risposi.
- La dimetteremo
stasera. - La dottoressa se ne andò. Mi alzai in piedi,
stirai le gambe e gli diedi un bacio sulle labbra.
- Mi hai fatto
spaventare. – Sussurrai.
- Scusa –
disse. – La tua è stata una profezia: sono caduto
e mi sono fatto male.
- Non è
colpa tua, poteva capitare a chiunque. Ti sei fatto male solo
perché Brettie ti è caduto addosso.
- Già
– disse. – Ehi, piccola, sarai rimasta un sacco su
quella sedia sgangherata. Vieni – si sforzò per
farmi posto sul letto. – Vieni qui.
Accettai al volo e mi
sdraiai cercando di non fargli male, e cominciai ad accarezzargli la
fronte.
- Per favore, non
fare più scherzi del genere – lo implorai.
- Lo stesso vale per
te – sorrise. – Siamo i più maldestri
del mondo. Ti ho mai raccontato del mio incidente di qualche anno fa?
Scossi la testa, lui
sorrise.
- Stavo camminando
sul tetto di casa e sono caduto – raccontò.
– Mi sono rotto la schiena. Sono rimasto sulla sedia a
rotelle e i dottori dissero che non avrei più camminato. Ma
mi hanno operato e sono riuscito a camminare di nuovo.
Si Piegò
poco in avanti, prese la mia mano e la guidò in un punto
verso il bacino, dove sentii che correva una lunga cicatrice, quasi
invisibile ma molto spessa.
- Se non ci fossi
riuscito, chissà dove sarei ora – sorrise e si
riadagiò sui vestiti, inconsapevole dell’ondata di
quieta paura che provavo.
Avevo rischiato di
perdere Orlando ancora prima di conoscerlo, e fino ad allora non avevo
capito l’importanza di averlo accanto. Se non mi fossi goduta
il tempo passato con lui, cosa sarebbe successo se ad un certo punto
fosse sparito?
Deglutii e appoggiai
la testa sulla sua spalla. Non l’avrei perso, mai: avrei
fatto di tutto per farlo felice e stargli accanto. Lo giurai a me
stessa.
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Capitolo 26 *** Cap. 25 ***
La mia vita sul set
– Cap. 25
Nonostante
l’infortunio di Orlando e il dolore lancinante che sentiva
all’addome la sua testardaggine e la sua impazienza avevano
la precedenza su tutto: la sera stessa del suo arrivo
all’ospedale cominciò a smaniare per poter uscire,
camminando in circolo per la stanza irrequieto come un leone in gabbia.
Era iniziato tutto quando il dottore era arrivato, poche ore dopo la
tac, con le lastre del suo torace e aveva detto che una delle costole
sinistre era soltanto incrinata, non aveva perforato niente e che
sarebbe uscito quella sera stessa se prometteva di riposarsi per
qualche giorno. Orlando sapeva che a breve avremo dovuto girare la
scena della corsa e che non potevamo usare la sua controfigura, per il
fatto che avremo detto delle battute e i cameraman avrebbero girato
primi piani all’infinito. Io non potevo fare niente per
calmarlo: avevo pensato anche a tirargli qualcosa in testa ma la cosa
non avrebbe giovato, quindi me ne stavo seduta su una poltrona in un
angolo della stanza a guardarlo fare avanti e indietro. Io mi limitavo
a starmene seduta su una poltrona sgangherata, con le gambe lasciate a
penzolare da un bracciolo, a guardarlo brontolare cercando di non farmi
venire il mal di mare per il suo andare continuamente avanti e
indietro, avanti e indietro…
- Non
potresti sederti e stare buono? – Sbottai ad un certo punto.
- Come
faccio, Les? Se si sbrigassero a portare quei moduli di dimissione
potremmo uscire!
Mi alzai in
piedi e andai verso di lui. Gli presi con delicatezza il braccio che
proteggeva la parte lesa e lo abbracciai piano intorno alla vita.
– Se ti muovi e ti agiti… non ti faranno uscire.
Fece una
smorfia contrariata. – Hanno un sacco di lavoro –
continuai persuasiva. – Se ti distrai magari il tempo passa e
non te ne accorgi. Arriveranno con quei fogli e ce ne torneremo in
albergo. E poi – sorrisi – non vedo l’ora
di raccontarlo agli Hobbit.
Un angolo
della sua bocca si alzò in un sorriso. – Dieci
dollari che ridono come matti. – Disse.
- Secondo
me Sean inizia a farti la predica.
- Davvero?
E cosa potrebbe dirmi?
- Che
dovevi stare attento al cavallo e controllare che nessuno gli andasse
addosso! E parla lui che cavalca un pony!
Ridacchiammo.
Orlando mi guardò di soppiatto – Devo tornarmene
per forza a letto?
-
Sì-sì – annuii. – Altrimenti
a letto senza buonanotte.
- No, ti
prego, senza la buonanotte no! Umpf… - si piegò
in avanti tenendosi il fianco.
- Ecco, hai
visto? Questo perché ti devo mettere a letto come i bambini!
Lui si
ritirò su, scrollò le spalle e disse
scherzosamente in falsetto: - Sì, mamma!
Gli tirai
una pacca sulla spalla. – Veloce!
Orlie
girò di malavoglia i tacchi e si diresse sbuffando verso il
letto. Tolse le coperte e si cacciò sul materasso.
– Che palle – borbottò infastidito.
Sorrisi, lo raggiunsi e gli rimboccai le coperte sotto al mento,
dandogli infine un bacio leggero sulle labbra. Appena iniziai a
sollevare il capo Orlie uscì un braccio da sotto il lenzuolo
e mi tenne la fronte premuta contro la sua tenendomi una mano dietro la
testa. – Resterai qui? – mi chiese in un sussurro,
come se temesse che quelle parole potessero essere ascoltate da qualcun
altro nella stanza e mi stesse rivelando un segreto inconfessabile.
– Certo -. Mi tirai su e gli scombinai i capelli. –
Malandrino.
Mi
allontanai di nuovo verso la poltrona e mi sedetti stancamente,
chiudendo gli occhi e facendo un respiro profondo. Prima che me ne
accorgessi la schiena cominciò a rilassarsi, gli occhi si
chiusero ermeticamente e la mente sprofondò nel sonno.
Mi
svegliò qualcosa che batteva ripetutamente contro del
metallo a poca distanza davanti a me, veloce come lo squillo di una
sveglia. Aprii gli occhi di scatto e mi misi a sedere: neanche mi ero
accorta di essermi accoccolata su un fianco della poltrona. Orlando era
in piedi davanti a me, con il camice dell’ospedale aperto
sulla schiena, e batteva una bacchetta contro il metallo della flebo
sorridendo raggiante.
- Sveglia
Lesley! – Ripeteva. – Forza, dormigliona!
-
Che…? Che fai!
- Sono
arrivati i medici e neanche te ne sei accorta! –
proferì entusiasta. Mi sventolò davanti un
pacchetto di fotocopie. – Sono i moduli di dimissione!
- Va bene,
va bene! Ma… ma stai mostrando il sedere a tutto il
corridoio! – urlai alzandomi in piedi e correndogli dietro
per coprirgli le grazie che stava facendo vedere allegramente a una
dozzina e mezzo di infermiere ridacchianti affacciate alla porta.
Alcune avevano anche il cellulare alzato e Orlie se la spassava, mentre
io ero rossa come un peperone.
- Signore,
non c’è niente da vedere qui! – cercai
di allontanarle.
- Sta
scherzando, spero! Quello è Orlando Bloom! E quello
è il suo didietro! – rispose una alta e magrolina.
- Ciao,
ragazze! – Le salutò Orlando alzando una mano e
girando il busto verso di loro. Gli scoccai un’occhiata
sbalordita. Le infermiere lanciarono gridolini entusiasti.
- Ma sei
matto? – gli chiesi.
- Coraggio,
amore! Prima o poi tutti gli uomini vorranno vederti nuda!
…Al cinema – si affrettò ad aggiungere.
- Ma la
Compagnia è il tuo primo film! – protestai. Lui mi
fece l’occhiolino.
- Dettagli.
Ma per accontentarti… - si chiuse il camice con una mano e
disse alle infermiere: - Signore, mi piacerebbe moltissimo passare un
po’ di tempo con voi ma la mia ragazza preferisce che io
firmi i fogli di dimissione e dedichi un po’ di tempo a lei.
Spero che non vi dispiaccia, anche perché – emise
un lamento. Finto, ovviamente. – i miei dolori si fanno
sentire.
Le
infermiere emisero lamentele scontente.
- Ehi, ma
quella è Lesley Dalton? – gridò un
medico del corridoio dopo avermi vista passando davanti al manipolo di
infermiere. – La stella emergente! Che bellezza!
Il medico
si avvicinò alla stanza e si fece largo tra le donne.
– Mia figlia legge sempre i giornali di gossip e parla spesso
di lei. Le riviste non le rendono giustizia! –
Annunciò. – Ehi, uomini! Venite a vedere!
C’è una donna bellissima vestita in modo strano
qui!
Dandomi
un’occhiata mi accorsi di avere indosso ancora il costume di
scena. Un gruppo di medici e infermieri si avvicinò alla
stanza, tirando fuori i telefonini e scattandoci delle foto. Guardai
stralunata Orlando: adesso aveva la mascella contratta e li squadrava
severo. Adesso il geloso era lui! Geloso dei miei fan! Sorrisi fra me e
me: vendetta.
- Al
diavolo la professionalità, eh? –
protestò, prima di voltarsi verso il letto e prendere una
penna dal comodino. Mi affrettai a chiudere la porta lasciando fuori
fan, flash e telefonini. Appena la serratura scattò
sentì delle risate provenire dal corridoio e un gruppo di
passi che si allontanava. Tirai un sospiro di sollievo. Guardai i fogli
di dimissioni che Orlando stava firmando.
- Non
facciamolo mai più – dissi scandendo bene le
parole, prima di piegarmi in due e cominciare a ridere per
l’assurdità della situazione. – Non vedo
l’ora di dirlo a Jessie!
Smisi
all’istante di ridere e la realtà mi
colpì come un fulmine. Jessie non c’era
più, per un attimo l’avevo dimenticato.
Nel giro di
cinque minuti Orlando si rivestì, si mise le scarpe e
consegnò i moduli all’infermiera
all’accettazione. Gli diedero un cerotto antinfiammatorio da
posizionare sulla parte lesa il giorno seguente e un paio di pomate per
lenire il dolore. In tutto il percorso per l’ospedale verso
l’uscita rimasi in silenzio dietro di lui guardandomi intorno
agitata, paurosa di vederci assaliti all’improvviso da un
medico o un’infermiera. Perdevo tempo a immaginarmi
l’articolo di un giornale immaginario. “La
neo-attrice Lesley Dalton, dopo aver accompagnato il suo compagno
Orlando Bloom all’ospedale di Alexandra in Nuova Zelanda,
è stata aggredita nel corridoio del reparto di traumatologia
da un gruppo di medici assatanati che si sono approfittati di
lei…”
- Les?
– la voce di Orlando mi fece sobbalzare. Mi guardava
perplesso. – Ti senti bene?
-
Sì… a meraviglia – risposi con
un’ultima occhiata dietro le spalle. Forse avrei fatto meglio
a tenere a portata di mano una pistola, in futuro. O un mestolo. O lo
spray al pepe.
- Dovrei
seguire un corso di autodifesa – dissi fra me e me prendendo
Orlie per mano.
- E
perché mai? Ci sono io a proteggerti. – si
intrufolò tra i miei pensieri. Mi baciò i capelli.
- Davvero?
– chiesi.
- Certo.
Proteggo sempre ciò che amo, specialmente se sono
così... vive.
Sorrisi
intenerita. – Ti amo.
Mi strinsi
a lui. Uscimmo dall’ospedale e attraversammo la strada per
andare sul marciapiede dalla parte opposta: avevamo deciso di tornare a
piedi all’albergo, data la poca distanza che c’era
fra i due edifici. Mentre guardavamo a destra e a sinistra per evitare
l’arrivo delle macchine mi tornò in mente una cosa
che mi aveva detto Viggo quando stavamo portando Orlando al pronto
soccorso: “Adesso sai come si sentiva Orlando quando hai
avuto tu l’incidente”. Mi scosse un brivido.
- Hai
freddo? – chiese prontamente Orlando. Sembrava
un’antenna pronta a captare qualsiasi cosa fuori posto.
Scossi la testa.
- Posso
chiederti una cosa?
- Dimmi.
- Tu hai
sentito mentre io e Viggo parlavamo in macchina?
Annuì.
– Vuoi chiedermi se davvero per me è stato lo
stesso quando tu hai avuto l’incidente?
Lo fissai
stupita. Girammo a destra alla svolta. – Come fai a saperlo?
- Dai tuoi
occhi traspare quello che pensi – mi spiegò.
– E poi ti conosco bene: a te piace capire bene le cose, il
passato, il presente… e il futuro anche.
- E la
risposta è…?
Scosse le
spalle e aggrottò la fronte al ricordo. – Lesley,
per me è stato peggio. Non ti ricordi proprio niente? No,
certo… qual è l’ultima cosa che ti
ricordi?
Rievocai il
ricordo e mi mancò il respiro come se fossi di nuovo
lì. – La mia mano che scivola sulla roccia bagnata
e la pietra che si avvicina a velocità raggelante.
- E non sai
quello che è successo dopo?
- Linnie me
l’ha accennato.
Sospirò
mentre attraversavamo la strada. – Les, ti
racconterò la storia dal mio punto di vista, ma devi
promettermi che nel frattempo non dirai una parola.
- Croce sul
cuore.
Rimase un
secondo in silenzio e scendemmo dal marciapiede per superare una
vecchina che procedeva a velocità bradipo.
Cominciò a raccontare:
–
Quando l’acqua ha sommerso la canoa ti ho tenuta stretta, ma
la corrente era più forte di me. Ho sentito la tua presa
svanire e ho tirato la corda del salvagente, pensando che avessi fatto
lo stesso. Mi sono tenuto a galla e ho visto Brett alla mia destra
ancora sotto la superficie: il suo salvagente non si era gonfiato.
L’ho preso e l’ho tirato fuori, poi mi sono girato
per cercarti appena ho sentito arrivare le imbarcazioni di soccorso. I
nostri amici sulle altre barche urlavano qualcosa ma avevo le orecchie
tappate dall’acqua. Tu non c’eri. Io non volevo
salire su quella barca senza di te, ma pensavo fossi già
salita. Quando sono salito e non ti ho vista sono andato nel panico. Ci
siamo guardati intorno per cercarti, quando qualcuno da terra ha urlato
e ha indicato il fiume verso la cascata. Mi sono girato… e
ti ho vista. Ti ho vista mentre ti aggrappavi a quello scoglio per
metterti in salvo. Eri salva! La barca ha cominciato a correre per
venire a prenderti, ma vedevo che annaspavi, che non avevi aria. Hai
messo la mano sulla roccia, ti è scivolata e… mi
è sembrato di sentire la tua testa che si spaccava. Ti sei
accasciata su quella roccia, che per fortuna era abbastanza grande da
accogliere gran parte del tuo corpo.
- Ti abbiamo raggiunta subito dopo e dei paramedici ti hanno
caricata su. Les: la tua faccia e il tuo costume erano ricoperti di
sangue. Sul vestito si vedeva appena, mischiato all’acqua del
fiume, ma sgorgava copiosamente dal taglio sulla fronte e sul braccio.
Ti ho presa tra le braccia e ti chiamavo. Tu non rispondevi: era tutta
colpa mia! Non avrei dovuto lasciarti. – Si battè
una mano sulla fronte. – Ti abbiamo portata a riva.
È arrivata Anne con la cassetta medica, ma poteva fare ben
poco. Ha chiamato l’ospedale di Queenstown, che ha subito
mandato un elicottero. Anne ti ha messo due dita sul collo e ho visto
la paura in lei. “Battito assente”, ha detto, e ha
cominciato a farti il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a
bocca. Io ero vicino a te, ma è arrivato Viggo e mi ha
spintonato lontano dal gruppo che ti accerchiava, in un posto da cui
avrei comunque potuto vederti. Ho vomitato. E poi sono tornato da te,
anche se c’era Viggo che me lo voleva impedire. Ad un certo
punto, mentre sentivamo il rumore di un elicottero avvicinarsi, hai
cominciato a sputare acqua. Ho sentito il sollievo entrare nel mio
cuore: pensavo che ti saresti salvata… speranza che non ha
trovato riscontro: non hai aperto gli occhi. Quando uno sputa acqua nei
film poi si sveglia, no? Tu non l’hai fatto. Non
l’hai fatto Les! Sembravi morta, e in un certo senso lo eri.
Ti hanno caricata sull’elicottero e l’unico che
hanno fatto venire con te sono stato io. Ti monitoravano il battito
durante il volo, e l’aggeggio all’improvviso ha
smesso di suonare. I paramedici hanno tirato fuori le piastre e ti
hanno rianimata. Il tuo cuore si era fermato per un minuto e mezzo.
– Si fermò sul marciapiede e si
appoggiò ad un muretto, a poca distanza
dall’albergo. – Appena sono arrivati sulla
piattaforma dell’ospedale ti hanno messa su una barella.
Quando hanno detto “Arresto cardiaco prolungato in
volo” ho temuto di morire. Mi hanno tenuto lontano mentre ti
portavano di corsa in una stanza e ti medicavano. Nel frattempo sono
arrivati tutti gli altri: ho spiegato loro tutto quanto. Ci hanno fatto
rimanere in corridoio e quando ho provato a entrare dentro
un’infermiera, Bean e Viggo mi hanno placcato. Non
sottovalutare la bravura di Bean nel rugby –
sdrammatizzò, poi tornò serio. – Ilana
e Elijah hanno cominciato a litigare proprio quando sono riuscito a
entrare. Ho preso una sedia e mi sono seduto vicino a te, prendendoti
la mano. Non ti ho mai vista così immobile,
fragile… sembravi una scultura di vetro in procinto di
spezzarsi. Respiravi a fatica ed eri piena di lividi, tagli e
bende… era tutta colpa mia… solo colpa
mia… Un medico mi ha detto che eri in coma, che non sapeva
quando ti saresti risvegliata. Mi ha detto che parlarti avrebbe
aiutato, così ho cominciato a parlare di quando avevamo
cantato Wannabe, e tutte quelle cose lì. Non mi sono
allontanato da te per due giorni e mezzo. Sul set stavamo perdendo le
speranze: Peter pensava che non si sarebbe potuto più fare
il Signore degli Anelli, Fran cercava una sostituta, Philippa si
inventava una storia per la New Line. Quasi alla fine del secondo
giorno (era il 23 agosto) ti ho supplicato di non lasciarmi. Mi sentivo
uno schifo, pensavo di averti uccisa. Non ho mai mangiato, non ci
riuscivo. Avrei voluto buttarmi giù da un ponte: mi sentivo
totalmente colpevole – Sospirò. – Ti ho
supplicato di restare con me. E poi, quando anche io cominciavo a
credere che sarebbe stato per sempre così, hai parlato. Non
posso descrivere il sollievo che mi hai dato: sei stata ossigeno puro.
…E credo che tu sappia il resto.
Restai in
silenzio, rapita dal racconto. Mi sentii uno schifo per come avevo
fatto sentire Orlando solo per la mia mancanza di coraggio
nell’affrontare l’idrofobia e la mia
incapacità di nuotare. Gli strinsi la mano.
- Scusami.
Scusami, amore. Mi dispiace.
Orlando si
alzò di scatto dal muretto e mi mise schiena al muro,
mettendomi le braccia ai lati del viso. Scandì lentamente le
parole, apparentemente arrabbiato. – Non farmi mai
più una cosa simile. Va bene? Mi sono sentito morire.
Deglutii,
non sapendo che cosa dirgli. Capii che non avrei potuto trovare parole
adatte per esprimergli il mio rammarico per l’accaduto e la
mia gratitudine nei suoi confronti, quindi gli circondai il viso con le
mani posandogliele sulle guance, e lo guardai negli occhi. Avvicinai
piano il mio viso al suo e lo baciai, cercando di infondervi tutte
quelle sensazioni che galoppavano nel cuore e nella mente di entrambi.
Orlando rispose ardentemente al bacio e quando ci separammo sentii di
essere in qualche modo più vicina a lui. Mi sorrise, mi
prese per mano e insieme entrammo in albergo, facendoci strada sotto le
luci dei lampioni e nel buio della notte.
Accendemmo
la webcam seduti vicini sul letto matrimoniale e chiamammo gli Hobbit
con Skype*. Risposero Elijah e Sean da un computer, Billy e Dom
dall’altro.
-
Ciaooooooooooooooooo! – ci salutammo in coro, tutti allo
stesso modo.
- Ci
spiegate cos’è successo? – chiese Billy,
e la voce ci arrivò attutita per colpa degli altoparlanti
scadenti del mio computer. – Abbiamo sentito che Orlie ha
combinato un bel pasticcio.
- Come al
solito, Bill – Elijah, nel riquadro accanto, alzò
gli occhi al cielo mettendosi una patatina in bocca. – Quando
non ci siamo noi a controllarlo, vedi che guai che combina.
-
Com’è andato il primo giorno soli soletti,
ragazzi? – chiesi ad alta voce.
- Ehi, Les,
non urlare! – protestò Dom. – Sai, i
tuoi altoparlanti saranno anche scadenti, ma il microfono funziona
benissimo.
Sean e
Orlando risero. – Comunque, ragazzi, ci rivediamo nel weekend
vero? Perché non fate un salto qui? – proposi.
Molti di loro annuirono, i primi Bill e Dom.
- Non vedo
l’ora, sorellina! Ci hanno fatto sedere tutto il giorno su un
sellino da bici!
Scusatemi tanto per il
capitolo ritardatario e scritto male, prometto che mi
impegnerò tantissimo per il prossimo!
Nut
|
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Capitolo 27 *** Cap 26. ***
La mia vita sul set
– Cap. 26
Il giorno
dopo la nostra telefonata con gli Hobbit e la nostra
“promessa di appuntamento” eravamo di nuovo sui
cavalli, con le redini in pugno e i piedi nelle staffe, pronti a
girare. Il tempo non era brutto, anzi c’era il cielo sereno,
ma nell’aria aleggiava una foschia quasi invisibile, ma
tuttavia percettibile. Gli oggetti più lontani sembravano
avere i bordi sfocati, come se qualcuno li avesse disegnati e poi
picchiettati con la gomma, ma da vicino spariva tutto quanto, era tutto
molto più definito: Mahaffie diceva che con le telecamere
non ci sarebbe stato alcun problema, perché al massimo
sarebbe bastato un ritocchino digitale.
I cavalli si
muovevano sul prato, muovendo la testa e battendosi i fianchi con la
lunga coda. Tenevo la mia Calliope ferma al suo posto mentre un branco
di cameraman e addetti alla manutenzione dei più svariati
macchinari di ripresa. Eravamo tutti sui cavalli, nella stessa
posizione di due giorni prima, con l’adrenalina
già pronta a scorrere nelle vene e perfettamente calati nei
nostri ruoli. Orlando era avanti, giù da cavallo, aveva
già l’arco in mano e guardava lontano. Calliope
scalpitò e tirai le redini per tenerla ferma, osservando
attentamente Orlando: stava in piedi con la schiena dritto, stringeva
l’arma con forza e sicurezza, ma ad un attento osservatore
saltava all’occhio il suo tenere il peso tutto sulla gamba
destra per non caricare troppo sul lato sinistro.
- Signori,
cinque minuti e cominciamo a girare! – Gridò
Mahaffie attraverso un megafono. Mi guardai intorno per un secondo per
accertarmi che nessuno badasse a me e spinsi gentilmente Calliope verso
di lui. Il cavallo avanzò piano, tenuto a bada dalle redini
strette nel mio pugno, e arrivò a scostare la spalla di
Orlando con il muso. Lui si voltò e sobbalzò
leggermente quando si accorse dell’animale che gli stava a
due centimetri dalla nuca. Alzò lo sguardo verso di me e si
aprì in un sorriso. Fece il giro di Calliope e mi mise una
mano su un polpaccio. Mi chinai verso di lui e gli sussurrai:
- Vediamo di
non far venire un colpo a nessuno.
- Ci sto
– rispose.
- Mancano
due minuti! – Urlò la voce di Fran, che ci aveva
raggiunto dalla prima troupe la sera prima. Con un’ultima
occhiata a Orlando mi voltai e mi spinsi veloce al punto di attacco: le
comparse si stavano mettendo già ai posti di partenza.
– Un minuto!
Mi voltai
indietro ancora una volta e incoccai una freccia nell’arco,
pronta a scattare in avanti ad un segnale.
- E azione!
Ci muovemmo
tutti nello stesso momento, come se qualcuno avesse schiacciato il
tasto play del registratore dopo averlo messo in pausa. La confusione
si fece subito alta e mi voltai verso Viggo, che in quel momento stava
spingendo avanti il suo cavallo urlando qualcosa che non sentii. Come
Mahaffie mi aveva chiesto di fare, voltai Calliope verso le telecamere
lasciandole le briglie e sollevando l’arco con entrambe le
mani. Poi, quando fui abbastanza vicina, inclinai l’arma
verso il terreno e scoccai una freccia. Era la mia unica freccia reale
per far capire agli specialisti degli effetti speciali come tiravo e
riprodurlo in digitale per il resto dell’attacco.
Ad un
segnale io e i Cavalieri di Rohan girammo i cavalli e ci dirigemmo
verso Orlando che faceva finta di tirare frecce all’orizzonte
per colpire i Mannari, e quando arrivò il momento lui, non
so come, approdò sul cavallo e andammo avanti. Non vidi come
fece a salire a cavallo così all’improvviso ma ero
troppo concentrata nelle riprese. Ecco di nuovo Brettie sul cavallo,
pensai, e chissà se stavolta non farà di nuovo un
tuffo ad angelo sul mio elfo.
Le riprese
dell’attacco durarono ancora a lungo, per tutta la mattina.
Mahaffie era contento mentre ci dirigeva dalla sua poltrona e quasi
ogni momento ci fermava per dirci qualche cosa e appuntarci
miglioramenti da fare, e nel mentre un gruppo di giovani tecnici si
affaccendava davanti a schermi satellitari che trasmettevano le riprese
direttamente a Peter per ricevere indicazioni. Un sistema di
comunicazione geniale, se si teneva conto che in quel campo non
prendevano neanche i cellulari. Alla fine dell’ultima ripresa
prima della pausa pranzo, quando ci disse di fermarci perché
le riprese andavano bene, eravamo sudati marci nonostante il freddo.
Scesi da cavallo e quasi finii lunga distesa a terra per la mancata
forza delle mie gambe deboli dopo tanto stare a cavallo. Piegai
più volte le ginocchia, lasciai le redini di Calliope e lei
se ne andò altrove, verso dei secchi pieni d’acqua
lontano dalle telecamere. Mi guardai intorno: tutti erano affaticati e
nonostante questo chiacchieravano, detergendosi il sudore con le
maniche dei costumi. Orlando, con una lattina di birra in mano e una
bandana rossa in testa, chiacchierava con Viggo.
Il fischio
dell’altoparlante attirò la mia attenzione.
- Lesley!
– gracchiò Mahaffie. – Vieni qui, per
favore!
Il brusio,
per un secondo rimasto leggermente attutito, riprese e io corsi verso
Mahaffie, più per riattivare la circolazione che per fretta.
Appena giunta dal direttore mi piegai verso il bordo della sua poltrona
e lui mi parlò fissandomi negli occhi:
- Lesley, io
e Peter vogliamo farti i complimenti. Guarda qui. – mi
indicò una telecamera in cui scorrevano le immagini appena
girate: in quel momento comparii in groppa a Calliope e, tendendo
l’arco mi voltai all’indietro scoccando una
freccia. – Qui sei riuscita ad esprimere la confusione della
situazione e il tuo sguardo trasmette la ferocia dell’istinto
di combattere. Brava! – mi disse, e io arrossii.
- Grazie
– farfugliai.
-
Però, ci sentiamo anche di farti un appunto. Oggi
pomeriggio, quando gireremo il ritrovamento delle cinture di Merry e
Pipino, non dovrai avere l’espressione preoccupata che hai
quando guardi Legolas.
- Ha
ragione. Mi dispiace. Lo farò. – mi scusai.
- Non devi
scusarti, ragazza – sorrise. – Stai facendo un
ottimo lavoro per essere al tuo primo film.
- Grazie,
signore.
- Vai, vai
pure.
- Grazie.
Voltai i
tacchi alla svelta. Anche se era gentile quell’uomo mi
incuteva l’ansia di essere giudicata. Mi diressi verso
Orlando e Viggo, che continuavano imperterriti a chiacchierare.
- Salve
ragazzi – salutai. – Andiamo a mangiare e a
riposarci? Ho fame!
-
Sì, sono d’accordo – rispose Viggo.
– Andiamo ad Alexandra? Guido io.
Cominciammo
a camminare e Orlie mi mise un braccio intorno alle spalle e mi
baciò i capelli.
- Come va la
costola? – Chiesi appoggiandomi a lui.
- Niente di
che. Ma mi dovrei cambiare la benda…
- Io e la
dottoressa avevamo concordato che ci avrei pensato io, ricordi?
– Gli strizzai l’occhio. – Ah, Mahaffie
mi ha detto che siamo stati grandi! Ma, Viggo…
-Voltò piano la testa. – Non dovremmo toglierci i
costumi e le orecchie?
- Ma che ti
frega! – rispose con una risata. – A noi non
importa di spaventare la gente, vero OB?
-
Assolutamente no! Andiamo ad inquietare dei camerieri a caso
– sorrise. – Ehi, Viggo, comunque è
meglio avere un grosso arco che tante frecce.
Viggo
sorrise. – Non sono del tutto d’accordo, stupido
elfo.
Non capii il
doppio senso, ma trovai la cosa ugualmente divertente.
- Cerca solo
di stare fermo, ok? Cercherò di non farti male.
- Cerca di
fare anche il più in fretta possibile, così
evitiamo di farci denunciare per atteggiamenti impropri in luogo
pubblico. – Aggiunse Orlando, a petto nudo, appoggiato alle
piastrelle del bagno degli uomini del ristorante. Gli avevo appena
levato la benda, scoprendo il grosso livido viola che aveva sul fianco.
La pelle era anche un po’ gonfia al tatto, e quando la
sfiorai per mettervi la pomata che gli avevano dato in ospedale
sobbalzò leggermente.
- Ti fa
male? – chiesi a bassa voce.
- No,
è solo… un po’ fredda.
- Resisti
ancora un secondo.
Afferrai la
garza nuova appoggiata sul lavandino e, non appena alzò le
braccia per farmi passare, gliela avvolsi più volte per il
busto fermandola infine.
- Fatto.
Alza le braccia… - mi alzai in punta di piedi per riuscire a
infilargli la casacca del costume senza scompigliargli la parrucca
bionda.
Mi diede un
bacio sulla bocca.
- Rasenti la
perfezione – mi sussurrò.
- Io non
cerco la perfezione – alzai lo sguardo. – Cerco te.
Sorrise.
Tornammo al
set dopo solo mezz’ora: il personale del ristorante,
spaventato dal nostro aspetto stravagante, aveva fatto di tutto per
farci uscire il prima possibile, compreso sorpassare venti clienti con
il tavolo già prenotato. Almeno il cibo era buono e il
cassiere dovette lottare con il panico provocato dalla spada di Viggo
per far quadrare i conti. In sostanza, tutto fumo e tutto arrosto:
tutti gli altri erano ancora a mangiare e noi eravamo gli unici sul
set, quindi ci sedemmo sull’erba a riposarci.
- Dolce,
fredda, pungente erba – sospirai sdraiandomi a terra.
– Qualcuno sa che fine ha fatto John?
Vig si
accese una sigaretta, inspirò il fumo e creò
nuvolette nell’aria. – Sarà andato in
città a prendere qualche medicinale per la sua allergia
–.
- Giusto
– dissi, poi sbadigliai e chiusi gli occhi.
- Lo capisco
– fece Orlando allungando le gambe. – A volte le
lenti a contatto mi fanno arrossire gli occhi.
- Se ti
danno fastidio le puoi togliere e ti possono modificare gli occhi al
computer, ragazzino! – Ribatté Viggo –
John non può far finta di non avere la barba, ti pare?
Orlando
sogghignò. – E tu non puoi far finta di non avere
gli abiti luridi, uomo sporcaccione.
Vig
sbuffò. – Va’ a farti la manicure,
elfetto dei miei stivali! – scherzò, e Orlie rise
con lui. Che bella, la sua risata: mi faceva battere il cuore
più velocemente solo a sentirla. Non solo
l’ilarità… anche il profumo, la voce,
gli occhi… tutto di lui mi faceva impazzire. Davanti ai miei
occhi cominciarono ad avventarsi immagini veloci e confuse, simili
all’inizio di un sogno.
- Ehi, ma la
piccola Les che fa? Dorme? – sentii dire ad un certo punto la
voce di Vig.
- Non dormo
– risposi. – Faccio riposare gli occhi.
-
…Parla nel sonno, OB?
- Come no,
di continuo – rispose e ridacchiò di nuovo.
– Soffre di diarrea verbale!
- Piccola
Leeeeees – sentii Viggo tocchignarmi la faccia con un dito.
– Sveglia!
Decisi di
stare al gioco e non risposi, così Vig decise di continuare.
– Sto per fare la lotta con il tuo elfetto…
Sentii un
tonfo e spalancai gli occhi tirandomi a sedere. – Lo hai
fatto davvero? – Esclamai.
Orlando
cominciò a ridere e dondolarsi sull’erba,
prendendomi in giro perché Viggo, in realtà, era
solo saltato per terra.
- Ehi,
guardate chi c’è laggiù! –
Viggo ci indicò un punto oltre il prato. –
C’è Peter!
Ci voltammo
a guardare il punto che ci stava indicando e vedemmo la sagoma del
nostro regista preferito che arrancava su per l’erba
giallognola del campo, dritto verso di noi. Saltammo in piedi urlando e
corremmo verso di lui.
- Ehi,
giovanotti, come va la vita? – ci salutò
allegramente dall’alto della maglietta bordeaux e dei
pantaloni beige. – Come mai siete qui? Dovreste essere
più giù di un chilometro!
Ci fissammo
allarmati. – Che intendi dire? – chiesi.
- Dovrete
girare la scena del ritrovamento delle cinture, no? Guardate che vi
aspettano sulle colline più in alto. Io ci stavo andando in
macchina ma vi ho visto sdraiati sul prato e sono venuto a vedere che
stavate combinando.
Scattammo
verso la macchina verdolina di Peter senza neanche accorgercene.
Viggo
schiacciò sul pedale del freno talmente
all’improvviso che credo lasciò i segni della
frenata per due metri di campo. Davanti a noi c’era un
sottogruppo della seconda troupe, con tanto di poltrona arancione di
Mahaffie. Scendemmo al volo.
- Ehi, dove
eravate ragazzi? – Tuonò John. – Vi
stavamo aspettando!
- Abbiamo
sbagliato set – spiegò Orlando. –
Eravamo nell’altro.
- Avremo
tempo di chiacchierare stasera! – Annunciò Peter
affiancato da Mahaffie. – Viggo, preparati a tirare calci ad
un elmo!
Detto questo
ci fecero mettere ai nostri posti e cominciammo immediatamente a
girare: la giornata sarebbe stata ancora lunga e avevamo tanto da
girare.
Un calcio
all’elmo. Un urlo. Peter chiedeva di ripetere.
Un calcio.
Un urlo. Ripetere.
Calcio. Urlo.
Calcio.
Urlo. Un agghiacciante, prolungato e addoloratissimo urlo, e Peter fu
contento della performance. Viggo aveva calciato l’elmo
talmente forte da averlo fatto volare oltre le teste dello staff e
aveva tirato un urlo agghiacciante cadendo in ginocchio. Io, nella
parte di Hery, lo osservavo da dietro il cumulo fumante di carcasse di
orchi. Dopodiché Aragorn cominciò ad esplorare i
dintorni e a seguire le tracce come un cane da caccia. E la scena
finì. Appena Peter annunciò che avevamo finito,
Viggo crollò a sedere per terra e si levò uno
stivale con un calcio, scoprendo un piede sanguinolento.
- Ehi, Vig,
che hai fatto? – Gli si avvicinò Orlando.
- Oh niente,
elfetto, chiama Anne che devo essermi rotto qualche dito –
rispose con noncuranza. Voltai i tacchi e feci cenno di chiamare il
medico, che arrivò in tutta fretta con una cassettina. Si
avvicinò a Viggo sdraiato per terra e cominciò a
medicarlo mentre lui se la rideva.
- Les, per
favore, prenderesti la mia macchina fotografica? – Mi chiese.
– Anzi, mi faresti una foto?
Stranita la
presi dall’erba vicino alle telecamere, approfittandone per
dire a Peter e Mahaffie che non era niente di grave, e scattai da
lontano una foto di Viggo chino sul suo piede insieme ad Anne e ad un
giovane uomo, e un’altra in cui Viggo guarda dritto verso
l’obbiettivo con due pollici in alto.
Posai la
macchina e mi strinsi nelle spalle voltandomi verso Orlando.
– Si direbbe che sia giorno di ammaccati –
constatai. – Tu con la costola, Viggo con il piede. E domani
dovremo alzarci presto per correre.
- Davvero
– annuì Orlie. – Manchi solo tu, facendo
le corna.
- Peter!
– Chiamai. – Possiamo tornare in albergo? Qui sta
facendo buio!
Peter
annuì. – Evidentemente porto sfortuna. Andatevene
a casa mentre io porto Viggo in ospedale a fare delle
radiografie…
- Pete, non
c’è bisogno! Sto benissimo! –
Urlò Viggo da lontano, ma lui continuò
imperterrito.
-
…E state attenti a non fare incidenti! Ci mancherebbe solo
questa.
Sorrisi e
cominciai a correre verso la roulotte trucco. Emma mi aspettava
appoggiata alla ringhiera. – Che giornata, eh? – mi
salutò appena mi vide arrivare. Mi fermai e sbadigliai.
- Non dirlo
a me. Tutte queste levatacce mi stanno uccidendo.
Emma
sorrise. – Dai, vieni, ti tolgo quelle orecchie da elfo.
È venerdì, ancora un giorno e ti riposerai nel
weekend.
Entrando
rabbrividii per colpa del freddo di metà novembre, e mi
voltai indietro in cerca di Orlando: lo trovai su una soglia di
un’altra roulotte volto verso di me. Mi appoggiai un secondo
allo stipite, e ci sorridemmo da lontano nello stesso momento.
Buio nella
stanza, il rumore delle auto che passavano per la strada, la calda
coperta sui nostri corpi, il sapore di hamburger e patatine fritte
ancora sulla lingua, la stanchezza della settimana. Tutto questo era
l’attimo presente, quello che dipingeva me e Orlando in
pigiama, abbracciati e silenziosi nel silenzio della notte. Non avevamo
sonno ma restavamo comunque in silenzio, gustandoci la calma dopo la
tempesta.
- Mi sono
dimenticata di dirti una cosa – mormorai. Gli accarezzavo il
punto rigonfio del fianco.
- Dimmela
adesso – mi incoraggiò.
- Non voglio
più pensare né all’incidente,
né a Jessie. Voglio dimenticarla. – Lo abbracciai.
– Voglio tornare a essere quella che ero quando sono arrivata
in Nuova Zelanda.
Mi
accarezzò i capelli. – Sai che non puoi
dimenticare Jessie… è parte di te e non puoi
lasciarla indietro, neanche con tutta la forza del mondo. E tu ne hai
tanta, di forza.
Feci una
smorfia imbronciata. – Voglio essere quella di prima!
- Lo sarai
– mi sollevò il mento – lo sei
già. Comincia col sorridere di più, che ne dici?
Feci un
sorriso a denti stretti. – Coshi?
Rise.
– È buio, Les, non ti vedo!
Ridacchiai.
– Mi aiuterai, acrobata pazzerello?
- Ci puoi
contare.
- E
un’altra cosa! – esclamai. – Basta
concentrarsi su di me, ok? Sono invisibile invisibile invisibile
invisibile!
- Tu sei
tutto tranne che invisibile!
- Ma dormi!
– gli diedi un bacio della buonanotte e restai in silenzio.
La sveglia
suonò fin troppo presto, per i miei gusti: come se ci fosse
stato qualcuno lassù a dire: “Ehi,
cos’è quella cosa che stai facendo? Dormire? Mai
sentito nominare!” e avesse deciso di svegliarmi seduta
stante. Erano le quattro del mattino. Quattro del mattino! Qualcuno
lassù ce l’aveva a morte con me. Con un braccio
scavalcai il busto di Orlando e spensi quel fastidioso trillo con un
colpo secco.
- Buongiorno
– mormorò socchiudendo gli occhi. Fuori era ancora
buio, se non si contava la minima variazione di colore che stava
prendendo il cielo.
- Gioddo
– risposi, e starnutii. Tirai su col naso, rendendomi conto
di quello che avevo appena fatto. – Oh, Gedù!
- Hai il
raffreddore?
- Ma dai? A
me don zembra! – Cercai a tentoni un pacchetto di fazzoletti
e mi soffiai il naso, mentre Orlie, ridendo sotto i baffi, correva a
prendere il cellulare e componeva un numero portandoselo
all’orecchio.
- Billy?
– fece una pausa. - Eh, chissenefrega se sono le quattro del
mattino, tanto dovete partire! Senti qua: Les ha il raffreddore!
– Un’altra pausa. – Esatto! Oggi dobbiamo
correre!
La risata
assordante di Billy mi giunse alle orecchie dall’altro lato
della stanza.
- Anne, ti
prego, dammi qualcosa per il naso gocciolante! – gridai come
una pazza appena entrata nella roulotte-infermieria, una volta nella
location. Anne fece un salto alto così, spaventata, e poi mi
guardò tenendosi una mano sul petto.
- Ti
è venuto il raffreddore? – chiese con il suo
accento francese e ridacchiò. – O è
Karma, o è proprio destino.
Aprì
un armadietto di metallo bianco, frugò dentro per qualche
minuto e mi lanciò un vasetto blu. Lo presi al volo e lo
aprii: all’interno c’era una specie di crema verde
pistacchio.
- Annusalo
quando ti serve e il naso ti smetterà di colare –
mi fece l’occhialino. – Fammi un cenno durante le
pause e te lo lancio.
Annusai, e
un pungente odore di menta mi pervase le narici, stappandomi il naso
come uno sturalavandini unito al Mastro Lindo.
- Ehi, che
forza! Merci!
- Prego.
Saltellai
sul posto per riscaldarmi, imitata da Viggo. Orlando si afferrava i
piedi piegandosi in due, con la parrucca bionda che andava da tutte le
parti. A quel punto arrivò John che, preoccupato, scrutava
tre assistenti che arrancavano su per la collina portando un pezzo di
armatura di Gimli ciascuno. Appena arrivarono in cima gli si
avvicinarono, posarono l’armatura sul terreno e dissero:
- Ok, adesso
la indossi e corri.
John, sotto
il cumulo di cerone e la barba finta, sbiancò. Io, Viggo e
Orlando ridemmo.
- Signori!
– disse Mahaffie. – Vi spiego cosa dovremo fare
oggi: gireremo, se possibile, una sola volta a più riprese.
– Peter e Mahaffie camminavano in mezzo a noi e puntavano il
dito verso l’orizzonte per spiegarsi meglio. - Il percorso da
fare è unico e rettilineo. Dall’alto delle
colline, qualche volta, vedrete gli Uruk-Hai correre. Dovrete procedere
in quest’ordine. Viggo, Lesley, Orlando e John.
- A volte
Lesley e Orlando dovranno superare Viggo –
continuò Peter. – Per cercare i pericoli e
osservare il percorso degli Uruk-Hai. Lesley e Orlando – si
voltò verso di noi – ricordate che gli Elfi non
provano la fatica, quindi cercate di non respirare troppo pesantemente
o a bocca aperta.
- Pare
facile! – Commentai tirando su col naso. Aprii il vasetto blu
e inspirai di nuovo l’odore di menta.
- Oggi siete
la Compagnia dei Malandati! – scherzò Peter.
– Viggo col piede rotto, Orlando con la costola fratturata,
Lesley col raffreddore e Brett – lo indicò lontano
– col ginocchio sciancato.
Viggo rise.
– Non fa niente Pete, siamo attori.
- Lo faremo
comunque! – aggiunse Orlie.
- Vi siete
riscaldati abbastanza? – chiese Mahaffie. – Allora
cominciamo!
Ci mettemmo
in posizione, pronti a scattare in avanti, nella sequenza che ci aveva
indicato Mahaffie. Eravamo carichi! Io sentivo il bisogno di correre
per scacciare il freddo della mattina presto. Annusai ancora una volta
nel vasetto e lo lanciai in direzione di Anne, dietro alle telecamere.
Planò verso lo schermo di una cinepresa e Anne lo
afferrò.
- Ragazzi!
– urlò Peter, seduto in pantaloncini su uno
sgabello. – State inseguendo i vostri nemici da tre giorni,
correndo giorno e notte, e smaniate dalla voglia di acciuffarli.
Orlando: a questo segnale – alzò un cappello rosso
e lo sventolò – dovrai correre avanti a Viggo,
fermarti su una roccia e recitare la tua battuta.
- Ok
– disse Orlie.
- Tutti
pronti? …Partito… ciak… azione!
Scattammo in
avanti, e subito capii che sarebbe stato difficile dar l’idea
di non essere affaticata con il raffreddore. Feci affidamento fin da
subito sulla mia resistenza e sugli allenamenti che avevo fatto nelle
settimane precedenti con i miei amici. Tentai sin da subito di non
respirare con la bocca aperta come ma era difficile non farlo per via
del naso che mi colata. Iniziammo a correre giù per il
pendio della collina e Viggo e Orlando sembravano fare a gara a chi
corresse più velocemente. Cominciai a sentire il cuore
pompare più velocemente il sangue nelle vene e i passi che
cadevano pesanti sull’erba. L’aria che mi entrava
dal naso tappato cominciò a non bastarmi e tentai di
respirare con la bocca socchiusa. John arrancava dietro di me, Viggo
procedeva spedito molto più avanti. In cielo ci seguiva un
elicottero per riprendere la scena dall’alto. Osservai
Orlando davanti a me: correva bene, non sembrava affaticato.
Scendemmo
dalla collina, superando Peter e le telecamere sulle rotaie. Correre su
e giù per le colline sotto il sole era sfiancante. Peter
alzò il cappello rosso e Orlando superò Viggo di
slancio, fermandosi su una roccia davanti a lui e scrutando nel vuoto.
- Legolas!
Cosa vedono i tuoi occhi di elfo? – urlò Viggo.
- Il
sentiero volta a nord-est! – rispose. – Stanno
portando gli Hobbit a Isengard!
Viggo disse
qualcos’altro, stando fermo – secondo il copione
doveva dire “Saruman”.
- STOP!
– Urlò Peter, e mi fermai crollando a sedere per
terra. Mi voltai verso un pick-up
- Anne!
Lanciami il vasetto!
Lo afferrai
al volo e sniffai a lungo come un drogato.
- Andava
bene così ragazzi! – Ci disse Peter mentre
ansimavamo. Magari era impietosito dai nostri sguardi da cani bastonati.
- Facciamo
una pausa di due minuti – disse Mahaffie. – E poi
riprendiamo.
Annuii.
Sarebbe stata una lunga giornata.
A quel punto
vidi andare verso Peter e Mahaffie la sagoma di un uomo. Era vestito
con un gessato e avanzava a testa alta, procedendo verso di noi con
passo sicuro. Lo riconobbi appena fu abbastanza vicino.
Era Matthew
Colt.
|
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Capitolo 28 *** Cap 27. ***
La
mia vita sul set – Cap. 27
Era il
colmo. La beffa assoluta di una giornata appena cominciata e
già incredibilmente spossante.
Osservavo
Colt dal prato verso la cima della collina, a braccia incrociate,
affiancata da Viggo, Orlando, John e Brett e aspettando che Peter e gli
altri si sbrigassero a finire quello che stavano facendo in modo da
continuare a girare. Mi aspettavo di vedere Colt scalpitare per la
rabbia da un momento all’altro ma, contro le mie
più nere aspettative, quell’uomo vestito di
gessato manteneva un temperamento calmo e si limitava a lanciarci
un’occhiata furtiva di tanto in tanto, mentre osservava delle
riprese.
Sbuffai a
battei le braccia sui fianchi.
-
È troppo tranquillo per i miei gusti!
-
Già. Quand’è che ci mostra il suo lato
divertente e si mette a strillare? – Commentò
Orlando con un sorriso. La sua parrucca bionda scintillava al sole.
-
Chissà, magari non ne ha voglia – disse Viggo.
- Non credo
– ribattei. – Uno come lui ha sempre voglia di
rompere le scatole.
Guardandolo
torva da lontano, non riuscivo a levarmi dalla mente che
l’ultima volta che ci eravamo visti Jessie gliene aveva dette
di tutti i colori.
“Salta
sulla macchina e fila via, imbecille!”, gli aveva detto. La
stessa frase che ora era incisa sulla sua lapide a Queenstown. Un
brivido mi percorse la schiena.
- Basta, mi
sono stufata. Vado a vedere che stanno combinando –
annunciai, e iniziai a scendere la collina con passo deciso,
calpestando l’erba giallognola del prato. Nessuno dei miei
amici mi seguì, magari perché volevano assistere alla scena
da lontano.
- Salve
– dissi non appena fui a portata di voce. Mi fermai proprio
davanti a Colt, con la testa alta e lo sguardo fiero come se stessi
ancora interpretando Hery. Lui, Peter e Mahaffie alzarono lo sguardo
dalla telecamera nello stesso momento.
- Signorina
Dalton – mi salutò lui formale. –
È cresciuta.
Cresciuta?
Io? Cosa crede, che sia una bambina? Colt si piegò sulla sua
ventiquattrore e ne estrasse una rivista, per poi porgermela dicendo:
- Ho giusto
qui la sua intervista di qualche tempo fa. Congratulazioni per il
successo.
- Grazie
– risposi prendendola. La poggiai su una telecamera.
– La leggerò dopo. Peter? – Mi voltai
verso di lui. – Non dovremmo riprendere a girare? Siamo
indietro sulla tabella di marcia.
-
Sì, sì, Les, certo. – Peter si
voltò verso Colt. – Vuole assistere?
Lui
annuì, e io cominciai a tornare sui miei passi, quando
sentii:
- A
proposito, Peter, dov’è quella ragazza che mi ha
cacciato via l’ultima volta? Quella robusta che mangia
patatine di continuo.
Mi bloccai
raggelata fin dentro le viscere con un misto di agitazione, nausea e
irritazione che mi ribolliva dentro. Mi voltai a guardare Colt dritto
negli occhi con una smorfia.
-
È morta. Nelle Torri Gemelle. – Risposi
con voce di ghiaccio, e la sorpresa si dipinse sul suo volto. Si
voltò verso Peter.
- Mi
dispiace, Peter. Deve essere stata una terribile perdita per la crew.
- Non faceva
parte della crew – ribattei ancora – era una mia
amica.
Non aspettai
un’altra risposta perché non sapevo che genere di
reazioni avrei potuto avere se fossi rimasta lì a
chiacchierare: avrei potuto scoppiare a piangere come prendere a
vomitare, non lo sapevo. Tornai quasi di corsa sulla collina e,
fermandomi al mio posto, sfiorai la mano di Orlando. Lui mi
scrutò attento con gli occhi coperti dalle lenti a contatto
azzurre: sapevo che aveva intuito qualcosa ma, per rasserenarlo, gli
sorrisi. Cercai di rilassarmi anche se dentro di me mi sentivo una
landa desolata, completamente vuota. E, com’era sempre
successo quando mi ricordavo di Jessie durante le riprese,
subentrò la paura di non riuscire a dare il meglio per il
resto della giornata.
A quel punto
la voce di Peter ci disse di ricominciare a correre.
“Ok
Les, continua soltanto a correre” ripetei a me stessa.
“Sono solo dieci minuti che vai avanti, non è
così difficile. Un piede dietro l’altro. Non
badare a Billy, Dom ed Elijah. Non guardarli!”.
Era una
parola: mentre Peter, John e Colt ci scrutavano da dietro le telecamere
e ci urlavano di continuo che cosa fare i tre Hobbit, appena arrivati,
se ne stavano seduti belli comodi con gli occhiali da sole a bersi una
gazzosa e a schernire il nostro modo di correre. Era da molto che non
facevamo altro che andare con le ali ai piedi e ormai cominciavo a
sentire la fatica appesantire le mie gambe e la milza, che aveva
iniziato a pulsare dolorosamente. Ero arrivata in quella parte della
corsa in cui cerchi in tutti i modi di distrarti dalla fatica ma
l’unica cosa su cui riesci a focalizzare la tua attenzione
è il tuo corpo che cede: i passi rimbombavano sul terreno e
le braccia cominciavano a filarsela da tutte le parti, e lo sforzo di
tenermi in posizione eretta e fingermi disinteressata era sfiancante.
Soprattutto mi agitava il fatto che ci fosse anche Colt a guardarci, e
che avesse parlato di Jessie. Guardai avanti a me: Orlando correva
appoggiandosi ora su un piede ora sull’altro, cercando di non
forzare troppo sul fianco ferito, e Viggo era molto avanti a noi fresco
come una rosa. Orlando si voltò e scrutò dietro
di me per riprendere John e esortare Gimli a correre ancora. Lo superai
e approfittai dello stacco in primo piano su di lui per voltare il viso
verso le telecamere e gli Hobbit, che appena mi videro alzarono i
pollici e sorrisero in segno di incoraggiamento. Sorrisi e tornai a
guardare avanti a me giusto in tempo per accorgermi che un enorme masso
stava per farmi cadere: era troppo tardi per girarci intorno e stavo
già per inciamparci, quando senza neanche volerlo ci misi un
piede sopra e darmi lo slancio per saltare. Il tempo parve fermarsi
durante il volo, poi vidi il terreno avvicinarsi e atterrai sul piede
destro, per poi slanciarmi di nuovo verso l’alto e riprendere
a filare sul terreno con nuova energia.
E dopo un
minuto e trenta la scena finì.
- Stop!
– Urlò John. Crollai a sedere sul prato insieme ai
miei amici, affaticati quanto e più di me, mentre
l’elicottero per la ripresa aerea atterrava e la crew
esplodeva in un applauso. I tre Hobbit corsero verso di noi in urla di
festa, e arrivò applaudendo anche Colt.
- Siete
stati fantastici! – Esclamarono.
- Ehi Lezzy,
perché non fai più spesso quella cosa con la
pietra? È stato eccitante! – Commentò
Dom.
- Lezzy?
– mi limitai a chiedere, intenta com’ero a cercare
di controllare il fiato corto.
-
Così quando puzzi posso appellarti “Oh
Lezzy!” – ridacchiò. – Capito?
Olezzi, Oh Lezzy… no?
Cercai di
stampargli una manata sulla fronte mentre Elijah e Orlando cominciavano
a ridere, ma Dom la evitò e mi diede un lungo bacio sulla
guancia.
- Siamo
felicissimi di essere di nuovo qui insieme a voi, ragazzi –
disse Billy tirando fuori una sigaretta e accendendosela. –
Ma, senza offesa, andate a farvi la doccia.
- E va bene!
– dissi alzandomi in piedi. – Però ci
vediamo tutti tra poco, va bene? Facciamo un giro ad Alexandra, non
l’ho ancora vista.
- Noi ci
stiamo – risposero in coro, per poi scoppiare a ridere per la
loro sincronia e cominciare a battersi il cinque. Mi voltai verso
Orlando e mi sforzai di sorridergli.
- Ci vediamo
in albergo.
Me ne andai
ignorando le gomitate d’intesa che i ragazzi si stavano
scambiando, e mi diressi dritta verso le telecamere e i tre uomini,
superando con un mezzo sorriso e un’occhiata in tralice Colt,
che intanto mi guardava ammirato. Ma prima di trovare un passaggio
verso l’albergo presi dalla telecamera la rivista che mi
aveva portato proprio lui, l’uomo che nei miei primi mesi di
riprese aveva popolato i miei incubi più tremendi.
Tornai in
albergo grazie al passaggio di un tizio della crew che doveva fare un
salto in città, e appena entrai ebbi la tentazione di
gettarmi sul letto.
- Come no,
Les – dissi a me stessa – se di siedi su quel coso
non ti alzi più.
Tipico di
me, parlarmi da sola. Scossi la testa ed entrai nel bagno, dandomi
un’occhiata veloce allo specchio.
- No! Ngila
si infurierà…
Mi ero
dimenticata il costume addosso come una stupida, e nessuno mi aveva
fermato. Avrei dovuto trattarlo come fosse di cristallo, altrimenti
Ngila mi avrebbe davvero ucciso. Avrei potuto mandarle un messaggio sul
telefono ma non avevo il suo numero, e l’idea di dire a
qualcun altro di tranquillizzarla quando avesse dato i numeri mi venne
in mente solo dopo.
Me lo tolsi
facendo attenzione, restando in biancheria intima, e lo piegai bene per
terra. Poi mi tastai le orecchie, accorgendomi di essermi tenuta anche
le protesi da elfo. Ero completamente fusa! Ma dove avevo la testa?
Cercai di
staccarmele grattandole via, con l’orrendo risultato di
ridurle quasi in polvere. Quello però non era un problema:
per me, Orlando e tutti gli altri elfi c’era una scorta tale
di orecchie da poterci truccare mezza popolazione neozelandese. Le
buttai via.
Mi infilai
nella doccia e mi lavai come un automa, troppo stanca per pensare bene
a quello che stavo facendo e anche per accorgermi che, tra una corsa e
l’altra, si erano fatte le sei del pomeriggio. Avevamo
davvero corso per tutto quel tempo? Le corsette che mi facevo per
allenamento da Villa del Lago alla location sul fiume non erano bastate
per permettermi di superare con più facilità
quella giornata di riprese. Una volta uscita dalla doccia mi infilai
addosso una maglietta da calcio, vecchia e larga di Orlando, e
poiché di statura ero più piccola di lui
– e mi piaceva, soprattutto quando mi abbracciava –
mi stava lunghissima. Mi buttai a pesce sul letto con i capelli ancora
gocciolanti e mi addormentai in un lampo.
Lo
strascico del vestito bianco strusciava sul tappeto rosso che correva
in mezzo alle panche piene di gente. Il profumo di un bouquet di fiori
fra le mie mani mi inebriava, e mio padre mi conduceva tenendomi per un
braccio. Avanzavamo lenti lungo la navata, i quattro Hobbit stavano in
prima fila insieme alla mia famiglia.
E
Craig mi aspettava all’altare.
Aprii gli
occhi di scatto, ritrovandomi sul letto nella stessa posizione in cui
mi ero addormentata. Quanto tempo era passato? Non lo sapevo: potevano
essere passati dieci minuti come due ore.
Con la mente
ancora in subbuglio per il sogno appena fatto cercai di calmare il
respiro corto che mi era venuto. Il cuore batteva forte e mi sentivo
come se avessi tradito davvero Orlando. Cercai di alzarmi, ma mi
accorsi che qualcosa me lo impediva: Il braccio di Orlando. Era
lì sul letto accanto a me, addormentato, che mi stringeva
alla vita come un bambino con l’orsacchiotto di pezza.
Però, a differenza di me, si era levato sia il costume che
le orecchie e la parrucca, e respirava profondamente. Quasi mi
dispiaceva doverlo svegliare, ma anche se non conoscevo l’ora
sapevo che di lì a poco saremmo dovuti andare in giro con
gli Hobbit e gli altri attori. Gli accarezzai il braccio.
- Ehi
– sussurrai. Lui rispose con un mugolio scocciato.
– Dobbiamo andare dagli Hobbit.
- No, non
voglio… restiamo qui – biascicò
stringendomi ancora di più e accoccolandosi con la testa
sulla mia pancia. Risi sommessamente.
- E va bene!
– dissi. – Non mi fai neanche chiamare gli Hobbit
per avvertirli?
- No
– rispose mugugnando.
- Bella
roba! – Esclamò una voce dietro Orlando.
– E noi che avremmo dovuto aspettarvi!
Restai
immobilizzata per la sorpresa: di sentire un’altra voce oltre
le nostre, ovviamente, ma soprattutto di riconoscere quel timbro
scherzoso e giocondo che apparteneva a Dominic Monaghan.
Orlando
restò tranquillo nella sua posizione, e io con qualche
difficoltà mi allungai per guardare meglio oltre il suo
testone: Dom se ne stava svaccato sul bordo del letto a premere i
tastini del GameBoy alla velocità della luce. A guardarlo
star così comodo nel letto matrimoniale mio e di Orlando
mentre noi ci dormivamo sopra non seppi se mettermi a ridere
o arrabbiarmi con lui… anche se era impossibile arrabbiarsi
con Dom!
-
…Dom? – lo chiamai languida e torva allo stesso
tempo.
- Les?
- Che ci fai
qui?
Dom
lasciò cadere il Gameboy sul suo stomaco e mi fece
l’occhiolino.
- Mi
annoiavo.
Aggrottai le
sopracciglia e strinsi le labbra.
- E questo
ti ha spinto a spaparanzarti sul mio letto e a giocare ai videogiochi?
Sentii il
corpo di Orlando scosso da una risata sommessa, e Dom si
passò una mano fra i capelli.
- In
realtà è stato lui – indicò
OB con il pollice – mi ha detto di farti da sveglia. Sai,
giusto in caso…
- Giusto in
caso avrei continuato a dormire? – completai. Orlando mosse
la testa giù e su per annuire.
- Ma grazie!
– Esclamai. – La vostra fiducia nei miei confronti
è davvero commovente!
Risero
entrambi mentre mi dilettavo a sfoggiare un’espressione
offesissima.
- Ad ogni
modo – continuai scostando il braccio di Orlando e rotolando
giù dal letto. – vado a prepararmi. Dopo questa
dormita mi sento rinata.
Peccato che
mi ero quasi accidentalmente dimenticata di raccontare ad Orlando il
mio strano sogno: certo che comunque farlo non sarebbe stato il massimo
con le orecchie da Dumbo di Dom a venti millimetri di distanza.
Feci leva
con le ginocchia sul pavimento per alzarmi e mi diressi in bagno,
mentre i due cavalieri sul letto non si mossero di un centimetro.
Mi lavai
alla meglio, tornai in camera ignorando i due sul letto che
chiacchieravano e presi i primi vestiti che mi capitarono
dall’armadio e tornai in bagno per infilarmeli. Mi misi una
maglietta lilla a maniche corte aderente e un paio di pantaloni neri,
mi legai i capelli in una coda bassa e mi infilai scarpe bianche ai
piedi.
Diedi allo
specchio un’ultima occhiata al mio aspetto stravolto sepolto
sotto una spolverata di blush e tornai in camera. Vidi che anche Orlie
si era cambiato, indossando una camicia aperta su una maglietta bianca.
- Ehi, Les,
ottima intervista! – Esultò Dom lanciandomi il
giornale.
- Belle
foto, cucciola – si complimentò Orlie mentre lo
afferravo al volo. – Sei bellissima.
- Oh mio
Dio, me ne devo andare o morirò di diabete con tutto questo
zucchero! – si lamentò Dom uscendo di corsa dalla
porta.
Orlando
sogghignò ancora. – Hai già letto
l’intervista?
- Non ho
fatto in tempo – risposi stringendomi nelle spalle.
– Andiamo?
I bicchieri
al bancone tintinnavano, i clienti al tavolo chiacchieravano e
mangiavano hot dog tra le risate generali all’interno del
locale. Sul terrazzo, dove eravamo noi, Dom e Viggo fumavano, Sean era
impegnato a non fare respirare il fumo delle sigarette a sua figlia,
Elijah chiacchierava con Billy bevendo birra, John beveva un daiquiri e
mi raccontava di come fosse tremendo portare quella dannata maschera di
lattice a forma di nano, Orlando coccolava Alexandra, che insisteva a
giocare col posacenere ignorando i divieti di Sean, e io sfogliavo
Heyou fino ad arrivare alla mia intervista. C’era molta
confusione e l’unico che mancava era Craig, che era stato
trattenuto in costumeria. Gli altri attori erano ancora sul set con
Peter: non era strano, non era ancora calata la sera.
- Alex, non
toccare quel coso! – Esclamò Sean per
l’ennesima volta mentre Orlie se la posava sulle ginocchia.
La bambina lasciò andare il posacenere, rise e
cominciò a tirare i riccioli a Orlie. –
Aleeeeeeeeex!
- Sean,
lascia stare, è divertente! – ribatté
Orlando cercando di togliersi dai capelli le manine della bambina. Si
divertiva anche più di Alex! Sean invece cominciò
a brontolare.
- Non
capisco perché sua madre non se la sia portata dietro invece
di scaricarla a me.
-
Perché si sarebbe annoiata in una SPA, penso… -
risposi distrattamente mentre osservavo la prima foto della mia
intervista, quella in cui sorridevo in direzione della macchina
fotografica appoggiata alla ringhiera sul lago.
-
Ehilà, principessa, che fai? – mi distrasse la
voce di Craig, appena arrivato al locale. Alzai la testa e lo scrutai.
- Leggo la
mia prima intervista! – risposi. – Vuoi leggere?
Craig si
sedette sulla panca in mezzo ai vasi di azalee e si sporse oltre la mia
spalla per vedere.
- “Compare
come una visione Lesley Dalton, la debuttante che sta facendo rumore
nel cinema ancora prima dell’uscita del suo primo film. Acqua
e sapone, vestiti semplici, occhi grandi color di foglia, sembra essere
la classica frivola ragazza di campagna, ma mai prima impressione si
rivela più sbagliata. Perché Lesley non
è di campagna, non è frivola, è tosta.
Tosta nella sua semplicità.”. Mmmm,
non ti sembra che ti abbia leccato un po’ troppo i piedi, Les?
-
Già, soprattutto la parte della frivola ragazza.
Craig
sghignazzò. – Beh, almeno non è andato
a farti domande su matrimonio e cose del genere. – Arrossii.
– Ehi, che ho detto?
Non risposi
e gli feci cenno di avvicinarsi. Lui si sporse con un orecchio.
- Prima ho
sognato che ci sposavamo.
- Chi? Tu e
Orlando? – chiese a bassa voce. Scossi il capo. – E
allora chi?
Tentennai e
esalai: – Io e te.
Craig
cercò di trattenere una risata e finì con lo
strozzarsi con la birra, che finì col farlo saltare in piedi
e farsi uscire i polmoni dal petto a forza di tossire, che
finì in uno scoppio di risa che fece voltare tutti i nostri
amici e zittire buona parte del locale. Io avrei voluto scavare una
fossa tra le mattonelle del terrazzo e infilarci la testa, mentre Craig
continuava imperterrito a ridere contagiando anche gli altri.
- Che ci
trovi tanto da ridere? – Esplosi dopo due minuti buoni. Craig
si asciugò le lacrime dagli occhi e mi rivolse un sorriso
smagliante, mettendomi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, sussurrandomi la sua risposta. Per un attimo
temetti che stesse per baciarmi.
- Lesley, tu
sei completamente matta! Io non ti sposerei mai! – Rispose
invece - Non perché tu non sia una bella ragazza, per
carità – aggiunse notando la mia espressione
infastidita – ma perché, prima cosa, sei fidanzata
con Bloom. E seconda cosa, perché sono gay fino al midollo
delle ossa.
Spalancai
gli occhi e raddrizzai le orecchie, non riuscendo a credere a quello
che avevo appena sentito.
- Dici sul
serio o mi prendi in giro?
Craig
sorrise e scosse la testa, poi si sedette più vicino.
– Pensa, non lo sa quasi nessuno. Neppure gli altri del cast,
penso. Eppure per me non è una cosa strana, e nemmeno un
segreto, ma dal momento che nessuno lo sa mi conviene dirlo a pochi qui
in giro, anche perché c’è una schiera
di ragazze, al bar, che non fa altro che fissare il mio sedere.
Mi sporsi
oltre la sua spalla per guardare dentro al locale nella luce del sole
ormai tramontato che scemava lentamente mentre le luci sul terrazzo si
accendevano, e vidi davvero un gruppetto di cinque o sei ragazze che
bevevano da bicchieri sottili e ridacchiavano e parlottavano osservando
il sedere di Craig, atteggiandosi da civette. Sorrisi tra me e me.
– Perché non alimenti le loro speranze andando a
prendermi un Bloody Mary?
Lui mi
scoccò un’occhiata complice e andò
dentro al locale. Una volta arrivato al bancone si sporse esattamente
al centro del gruppo di donne – che si spostarono per
ammirare meglio il panorama, ossia i muscoli di Craig -,
appoggiò il gomito sul piano e disse qualcosa al barista,
che gli diede un bicchiere dallo stelo sottile dopo pochi attimi. Craig
lo prese, posò una banconota sul bancone, si girò
verso di me e, dopo essersi accertato che le civette lo stessero
guardando, mi mandò un bacio sulla punta delle dita.
Tornò indietro con il bicchiere in mano mentre quelle mi
scoccavano occhiate invidiose.
Mi porse
l’alcolico con un sorriso e si sedette accanto a me.
- Bloody
Mary per la signorina.
Osservai le
ragazze, che adesso avevano adocchiato Orlando, e mi rivolsi di nuovo a
Craig:
- Ci tieni
proprio a fare la figura del sex-symbol, eh?
- Certo.
Però ora ti consiglierei di marcare il territorio
– mi indicò Orlando con un gesto del mento. Mi
girai e vidi gli occhi del gruppo di ragazze puntati fissi su di lui e
sulla bambina.
Eh no, ora
erano fastidiose!
Bevvi un
sorso di cocktail facendo una smorfia di disgusto per il sapore forte,
poi mi alzai e andai verso di lui. Appena Orlie mi vide gli occhi si
illuminarono, posò Alex a terra e mentre lei correva tra le
braccia di Sean, Orlie mi attirò a sé e mi
baciò con tenerezza. Potei quasi sentire i versi di
delusione delle ragazze al bancone: dovevano avere capito che su quel
terrazzo la regina ero io.
Mi
allontanai delicatamente e gli accarezzai una guancia.
- Vado dagli
Hobbit – mi congedai.
Mi avvicinai
quasi di corsa a Dom e mi buttai seduta tra lui e Viggo, dritta in
mezzo alla nuvola di fumo che stavo producendo.
- Dai,
ragazzi – tossicchiai – siete peggio delle
ciminiere!
- Lo so
– rispose Viggo.
- Che
c’è, Les? – mi chiese invece Dom posando
la sigaretta accesa nel posacenere e picchiettando la punta
incandescente sul vetro per spegnerla.
- Avrei
bisogno di una mano, Dom. Con Orlando.
Mi
guardò di sottecchi e accennò un sorriso.
– Di nuovo la Ricuci-Rapporti?
- No.
Stavolta è uno scherzo – risposi innocente. Dom si
illuminò. – Mentre eravamo in ospedale per la
costola di Orlie una schiera di infermiere ha fatto pazzie per riuscire
a vedere un pezzo del suo didietro, e lui non ha fatto niente apposta
per farmi ingelosire. Adesso voglio ricambiare, non ti sembra giusto?
Dom
guardò di soppiatto Orlie e rispose: - Giustissimo. Che
pensavi?
- Veramente
mi volevo affidare alla tua follia.
Si
aprì in un sorriso: - Quando torneremo sul set fa’
finta di inciampare, cadere o qualsiasi altra cosa, basta che tu
finisca a terra. Io avrò convinto tutti gli uomini presenti
ad accorrere in tuo aiuto e a fare i cascamorti, e vediamo come la
prenderà Orlando – Suggerì. –
Che ne dici?
- Dico che
è perfetto! – esclamai, e gli battei un pugno
sulla spalla.
- Les, hai
preso qualcosa per il raffreddore? – Mi chiese Viggo a quel
punto. Mi voltai verso di lui.
- Non da
quando sono tornata il albergo. Perché?
Viggo si
grattò il naso – Perché domani sera
andremo tutti insieme a far campeggio fra i monti per girare un pezzo
di corsa all’alba. Un’idea di Peter. –
Alzò le spalle. – Non vorrei che ti becchi
l’influenza.
- Ah, ho
capito. Beh, chiederò ad Annie. Grazie Viggo!
- Beh,
però ora pensiamo a mettere a punto il nostro piano!
– Esclamò Dom.
Sorrisi:
sembrava così lontano il set, quella sera, che potevamo
essere benissimo soltanto un gruppo di amici usciti una sera per bere
qualcosa e non degli attori famosi in giro per una città che
avrebbero visto ancora per poco tempo.
Ma in
realtà era proprio quello che eravamo: attori che bevevano
fra una giornata e l’altra di riprese. Ad un tratto sentii
tutta la stanchezza accumulata in quei mesi: mancavano ancora poche
settimane alle vacanze di Natale e al mio viaggio a New York insieme a
Orlando, ma sembrava non dovessero arrivare mai.
Sarebbe
stata dura girare Le Due Torri, e avevamo appena cominciato.
Lo
so, chiedo perdono, ho impiegato troppo tempo a scrivere questo infimo
capitolo. La scuola diventa difficile in questo ultimo periodo del mese
e tra la gita e la marea di compiti che ci hanno dato ci si
è messo pure il blocco dello scrittore. Per tutto questo
tempo ho avuto la sensazione che questo capitolo sia brutto.
No, davvero, se fa schifo non mi offendo.
Ditemi
la vostra, vi prego!
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Capitolo 29 *** Cap. 28 ***
La
mia vita sul set – cap 28.
La voce
entusiasta di Dom arrivò dal corridoio fino alla sala
ristorante dell’hotel, facendomi sobbalzare e rovesciare il
caffè sul pavimento.
- Diamo il
benvenuto al mese di dicembre! – Esclamò entrando
con un balzo. – Lezzy, sei tutta sola! Dove sono gli altri?
- Ancora a
dormire, suppongo – risposi prendendo un tovagliolo di carta
e asciugando la pozza. – Dopotutto sono solo le cinque meno
un quarto, ed è un miracolo che ci abbiano aperto la porta
di questa sala per prendere un goccio di caffè.
-
Sì, può darsi che tu abbia ragione.
Dom prese la
caffettiera e se ne versò un bicchiere.
- Allora,
oggi ci attiviamo? – Mi voltai a guardarlo sperando che
capisse quello che intendevo. Ovviamente lo fece.
- No.
– Rispose – In realtà pensavo di
scrivere tutto quanto su un foglio, imbustarlo, mandarlo a Oprah e
parlare davanti a tutta l’America di cosa significa al giorno
d’oggi attirare l’attenzione.
-
Sicuramente farebbe un sacco di share – concordai divertita.
Sorrise e posò il bicchiere, poi si voltò verso
di me e indicò la porta con la testa. Uscimmo a braccetto a
passo di marcia e ci avviammo verso le scale, diretti alle nostre
camere.
- Come va il
raffreddore, a proposito? – Mi chiese, dando voce a
chissà quale filo logico dei suoi pensieri.
- Non mi
lamento – risposi. – Il naso non è
più tappato e questo è un bene. Non avrei mai
voluto andare in campeggio a girare col candelotto.
Dom rise
sotto i baffi. – Ci divertiremo un sacco! Ehi, ciao Sean!
Sean, appena
alzato dal letto, borbottò qualcosa di rimando e
continuò a scendere le scale. Io e Dom uscimmo sul corridoio
delle camere e ci salutammo con un pugno sulle spalle che stava a
significare “ci vediamo dopo!”.
Entrai nella
mia stanza e trovai Orlando mezzo steso sul letto con il petto nudo, le
scarpe infilate e i jeans slacciati. A dormire.
Era come se
avesse avuto un corto circuito mentre si vestiva.
- Sei ancora
a letto! – Urlai afferrando un cuscino e cominciando a
prenderlo a colpi.
- Ferma!
Ferma! Smettila! – Supplicava lui.
- Stai
facendo tardi, Orlie!
- Sono le
quattro e mezza, Les, ancora cinque minuti…. –
Afferrò la coperta dall’altro lato del letto e se
la tirò sulla faccia.
- No, Orlie,
sono le cinque! Erano le quattro e mezza quando è suonata la
sveglia, l’appuntamento al set è fra dieci minuti!
A quelle
parole Orlando parve riattivarsi: scostò la coperta,
saltò giù da letto, si tirò su la
cerniera dei pantaloni e prese da terra la sua maglia nera da Legolas.
-
Perché non mi hai svegliato prima? – si
lamentò.
- Pensavo
avessi recepito il messaggio quando ho cominciato ad andare avanti e
indietro dal bagno.
Orlie si
tirò su a sedere e sbadigliò. – Infatti
– rispose. – Ma conoscendoti sapevo che ti saresti
alzata un’ora prima del normale per prepararti, e che mi
avresti svegliato in tempo.
- Geniale,
Mr Pigro. Datti da fare, ci vediamo al set.
- Non mi
aspetti? – Chiese buttandosi a sedere sul letto e infilandosi
la maglietta. Mi voltai con la mano sulla maniglia della porta e gli
strizzai l’occhio.
- No! Devo
fare una cosa con Dom. Ciao!
Mi chiusi la
porta alle spalle e la sua voce passò attraverso la porta.
- Quale
cosa???
Saltai in
macchina non appena Dom ebbe acceso il motore.
- Ehy Les!
Ci hai messo tanto che sono passati gli altri tre Hobbit e Viggo.
- Scusa. Ho
dovuto svegliare Orlie... a cuscinate.
- Questi
elfi non sanno alzarsi alle cinque e mezza del mattino.
- Dannati
elfi – borbottai. Dommie rise.
- Se lo dici
tu è autocertificazione!
Partì
in sgommata, Dom lo Spericolato.
Il set
brulicava di persone già a quell’ora del mattino,
come ogni giorno dal mio arrivo. Emma aveva già pensato a
mettermi le orecchie a punta, e il mio costume un po’
sgualcito era stato lavato, stirato e poi stropicciato a dovere. Non
sapevo perché si fossero presi la briga di stirarlo.
Non avevo
ancora visto Orlando sul set: che fosse arrivato mentre ero da Emma era
probabile, ma come minimo l’avrei visto passare. Di sicuro
non stava parlando con Peter o Fran. Poteva essere insieme agli Hobbit,
oppure si stava attardando con Viggo e Bernard all’albergo
senza un motivo apparente. L’unica alternativa era che la
macchina del caffè l’aveva risucchiato!
Ero
l’unica della Compagnia ad essere già pronta. Me
ne stavo seduta con un bicchierone di caffè in mano in
attesa che cominciassimo a girare, a leggere e rileggere il mio copione
della giornata.
Ripetei la
mia battuta in elfico e quelle normali per la quinta volta, poi misi da
parte il foglio quasi con rabbia: la testa mi pulsava e mi impediva di
concentrarmi a dovere. Mi passai una mano sugli occhi.
-
È tutto ok? – mi chiese qualcuno passando
lì accanto.
- Vai
tranquillo. – Gli risposi senza guardare chi fosse e quello
se ne andò senza dire altro.
Non andava
bene: dovevo fare un mucchio di cose quel giorno, non sarebbe bastato
un semplice mal di testa a fermarmi.
Per prima
cosa mi alzai dalla sedia e andai da Peter, che mi salutò
col solito entusiasmo mettendomi in mano un mucchio di fogli
perché glieli reggessi.
- Hai visto
gli altri? – Gli chiesi aspettando che li riprendesse. -
È da un po’ che li aspetto ma non si fanno vedere.
Peter si
sistemò gli occhiali con una mano e prendendo una penna e
cominciando a scrivere sul blocco che reggevo mi sorrise.
-
Sì, sono arrivati qualche minuto fa. Si stanno vestendo
nella saletta laggiù – indicò col
pollice un piccolo edificio alle sue spalle. – Strano che non
li abbia visti passare!
Sorrisi.
- Saranno
diventati dei ninja!
Peter
sorrise di nuovo e mi tolse i fogli dalle mani per metterseli sotto al
braccio.
- A
proposito, Les. Volevo informarti che dopodomani sarai tu la
protagonista.
Mi
lasciò interdetta. – In che senso?
- Nel senso
che girerai solo tu – una luce crudele brillò
nelle sue pupille. – Il resto degli attori avrà il
giorno libero.
- Davvero?
È grandioso! Grazie per l’opportunità,
Pete.
Girai i
tacchi e feci per andare dagli altri, ma all’ultimo gli
ricordai che il giorno dopo saremmo andati in campeggio e che quindi
non se la doveva prendere se non sarei riuscita a dare il massimo.
Peter annuì, e con una pacca sulla spalla ben assestata, mi
disse che io davo sempre il massimo e “fine delle
comunicazioni”.
Beh, grazie
Peter.
- Ehi, dico,
tante grazie per avermi avvertita!
Orlie, in
piedi in mezzo ad una stanza intento ad allacciarsi la cintura di
sostegno per la schiena che gli avevano dato per proteggere la costola
ancora mezza rotta, si girò a sorridermi.
- Ti dovevo
restituire la tirata di prima, no?
Incrociai le
braccia – Mi stavo perdendo tutto il divertimento di queste
parti.
Il cast di
Rohan era riunito: alcuni erano seduti comodamente sul divano
sorseggiando caffè o parlando ad una telecamera, altri si
preparavano mentalmente al lavoro incombente. Bernard si divertiva a
lanciare noccioline in bocca a Dom che intanto masticava una mela, e
Billy veniva aiutato da un’assistente a indossare la casacca.
Viggo era a petto nudo e controllava il filo del costume.
C’era
anche Barrie Osborne! Non lo vedevo da un po’.
- Ciao,
Barrie! – lo salutai con un ampio gesto del braccio e lui mi
ricambiò con un cenno del capo. Scrollai i capelli.
- Ti prego,
non essere così vanitosa! – Mi riprese Dom
dall’altra parte della stanza. Lo raggiunsi.
- Sono
l’unica donna, devo essere vanitosa! – mi difesi
ridendo.
–
Allora, qual è il piano?
Mi voltai a
guardare Orlando. – Mmmm, non so. Non mi vengono idee geniali
quando ho mal di testa.
Dom
s’illuminò. – Fai finta di avere un
capogiro!
- Scusa?
-
Sì! Ti gira la testa, inciampi in un cavo e finisci per
terra: errore di percorso.
L’idea
era buona. – Quando?
- Alla fine
della giornata – rispose addentando la mela.
- Ragazzi!
– ci richiamò all’ordine la voce di
Viggo che intanto aveva finito di indossare il costume. – Ci
organizziamo per stasera?
- Dovremmo
finire di girare alle sette. Potremmo prendere gli elicotteri e volare
alla location con la troupe, se Peter è d’accordo
– propose Orlando mentre io notavo una macchina del
caffè in un angolo della stanza e andavo a prendere qualcosa.
- Ma
dovremmo portarci dietro dei bagagli – ribatté
Billy – come faremo a prepararli?
- Partiamo
dopo, verso le nove. Datevi il tempo di andare in albergo a prendere i
sacchi a pelo – disse Bernie.
- O
facciamoceli portare: ognuno scrive una lista di cose utili e mandiamo
qualcuno… Tipo Daisy – Fece Orlando. Presi il
bicchiere di caffè e iniziai a sorseggiare mentre Barrie
rispondeva:
- Ottima
idea, peccato che David sia in un’altra unità.
– Ribatté Viggo. – Ottimo spirito di
osservazione, Elf-boy.
- Ognuno di
noi potrebbe correre in albergo appena finito di girare – mi
intromisi sorseggiando il caffè. – Così
da essere pronti qui massimo alle otto e mezza. Ci portiamo dietro del
cibo e mangeremo una volta sistemato il campeggio. Tanto io, Viggo,
Orlie e John non dovremmo neanche toglierci il costume, e non credo che
finiremo di girare tutti insieme.
- Dici bene!
– Esclamò John. – Non vedo
l’ora di indossare questa stupida maschera per tutta la
notte! Dannata allergia.
-
Però l’idea è buona. La mia, intendo.
Viggo parve
riflettere un attimo. – Sì, potrebbe funzionare.
- Oppure
potremmo chiedere a Pete di finire presto le riprese. Si potrebbe fare,
Barrie? – chiesi.
- Se ci
sbrighiamo potremmo farcela benissimo. Sempre che una telecamera non
salti per aria.
- Quindi
giriamo, finiamo in fretta, corriamo in albergo, saltiamo in elicottero
e andiamo in campeggio. – Riassunse Orlie e tutti annuirono.
A quel punto la sirena ci chiamò tutti da Peter. Mentre gli
altri uscivano mi girai verso Dom con un sorriso.
- A quanto
pare la fine della giornata arriverà più presto
del solito.
Dom sorrise
e lanciò il torsolo della mela nel cestino. – Ci
divertiremo. Comincerò a spargere la voce fra gli uomini per
prestarti soccorso, come si suol dire. Li convincerò
promettendo che dopo andrai a letto con tutti!
–
Tu sei pazzo, Dom!
Una cosa che
mi scocciava un po’ della produzione della saga era che avevo
un ruolo piuttosto marginale. Certo, non avrei potuto pretendere in
ogni caso di essere la protagonista del primo film che avrei girato una
volta uscita da Oxford, ma Hery svolgeva più che altro un
lavoro di presenza, non di attività nella storia. Avevo
fatto delle ricerche su Internet: secondo il libro avrei acquistato
maggiore rilevanza tra la metà delle Due Torri e nel Ritorno
del Re, nelle battaglie finali. Mi era dispiaciuto tantissimo scoprire
che Hery sarebbe morta nella battaglia davanti al Nero Cancello: a
quanto pareva Tolkien voleva dare a Legolas un valido motivo per andare
all’Ovest.
Ma questo
sarebbe successo in seguito: nella prima parte delle riprese del
secondo film avrei dovuto conservare il mio ruolo secondario e
accontentarmi dei primi piani sui miei occhi – una cosa che
faceva impazzire Fran. Quindi non facevo molta fatica, in confronto a
protagonisti come Viggo. Ma a chi mi diceva che doveva essere facile
recitare nella parte per le poche battute rispondevo sempre che non lo
era: Hery si esprimeva a gesti e con le espressioni del viso. Quello
che non diceva lo doveva trasmettere col corpo, così mi
aveva spiegato più volte lo stesso Peter.
Perciò
mi elettrizzava l’idea che per un giorno intero sarei stata
al centro dell’attenzione.
Ma quel
giorno era di nuovo uno dei tanti, uno in cui io dovevo muovermi
più che recitare. Non faticoso come la corsa o il mio primo
giorno. Passammo le riprese incentrati su Viggo e Miranda, una scena
che, a sentire i discorsi durante la pausa pranzo, sarebbe stata
tagliata dal film.
- Come
sarebbe a dire, “tagliata”? – mi lamentai
infilzando una patata al forno con la forchetta.
- Lesley,
non possiamo tenere tutte le scene che giriamo – rispose
Peter qualche posto più in là al tavolo della
sala mensa. – Non hai idea di quanto abbiamo dovuto tagliare
nella Compagnia dell’Anello. Scene di tutti, anche tue.
La notizia
mi fece drizzare le orecchie, ma non replicai. Mi voltai
verso Dom che si era seduto accanto a me e gli sussurrai:
- Bella
roba! Già non faccio niente nella Compagnia, e mi tagliano
delle scene.
Dom si
tirò indietro i capelli biondi e si versò
dell’acqua.
- Succede
– disse.
Diedi
un’occhiata a Orlie più in là che
parlava con Billy, e Sean e Elijah che ci avevano raggiunto
dall’albergo e raccontavano come passavano le giornate nella
loro unità. Eravamo tutti riuniti.
Continuai a
mangiare senza aggiungere altro.
- Dai, Les,
se tenessero tutto quello che abbiamo girato i film sarebbero lunghi
cinque ore! – si spiegò Dom.
Risposi con
un mugolio. Lui si avvicinò e mi sussurrò:
- Che ne
dici di farlo adesso? Peter ha detto che per oggi le scene di
stamattina possono bastare, e io ho già avvertito tutti gli
uomini sposati, fidanzati, single e cornuti di questo cast ad
attorniarti come zanzare a Matamata.
Lo guardai
di soppiatto e presi il mio vassoio alzandomi dal tavolo. Gli
bastò uno sguardo per capire che il Piano era cominciato.
- Se ti
chiedessi di farmene provare una? – Chiesi indicando col
mento la sigaretta che Dom stava fumando. Stavamo aspettando che
Orlando uscisse dalla sala mensa da cinque minuti, seduti sulla
spalliera di una panchina di plastica, e Dom se n’era accesa
una per passare il tempo. Fino a quel momento io mi ero limitata a
pensare con le mani affondate nelle tasche della mia felpa verde e alla
mia inaspettata richiesta Dom si tolse la sigaretta dalle labbra e me
la passò. La aspirai titubante e il sapore aspro della
sigaretta mi chiuse la gola, tanto che Dom fu costretto ad aiutarmi con
dei colpi sulla schiena.
- Stai bene,
sorellina? Non morire proprio adesso che è riemerso dalla
Terra del Cibo!
-
S-sì, tutto ok. Fa proprio schifo! – Gli restituii
la sigaretta con una smorfia di disgusto e lanciai
un’occhiata alle mie spalle: Orlie era finalmente uscito
dalla sala mensa seguito da gli ultimi ritardatari della pausa pranzo.
- Perfetto.
Cominciamo, pupa!
Dom mi
strizzò l’occhio e corse via come col diavolo alle
calcagna.
Io restai
seduta sulla spalliera della panchina, ancora scossa da qualche colpo
di tosse sommesso e pensavo non sarei mai riuscita a levarmi
quell’odoraccio dalla gola. Osservai furtiva la situazione:
sentivo da dietro la voce di Orlie che parlava da solo, e qualche
cameraman che ogni tanto mi lanciava un’occhiatina, pronto a
buttarsi a pesce nella mia direzione.
Che cosa
potevo simulare per giustificare una caduta all’indietro
dalla spalliera? Uno sbadiglio sarebbe stato troppo teatrale,
così come una risata improvvisa. L’unica opzione,
come aveva detto Dom, era davvero il capogiro.
Mi alzai per
scendere e quando fui coi piedi sulla panca chinai la testa, mi portai
una mano alla fronte corrugata e mi buttai all’indietro
sbattendo la schiena sul terreno.
Spuntarono
come funghi da tutte le parti e in un attimo mi ritrovai circondata da
maschi di una fascia d’età che andava fra i 21 e i
70 anni, che dicevano tutti insieme cose a caso e mi offrivano mani per
rialzarmi. Erano talmente tanti che non riuscivo a distinguere una
singola parola! Incontrai per caso il faccino sorridente di Dom fra le
mani tese verso di me, e mentre ne afferravo una per tirarmi su sentii
la voce di Orlando sovrastare tutte le altre.
-
Cos’è successo? – Diceva – Che
c’è?
- Niente,
sono solo caduta ma questi bei ragazzi mi hanno dato una mano
– ammiccai nella direzione del suo capoccione che spuntava
dietro due o tre file di teste. – In tutti i sensi!
Gli uomini
circostanti si misero a ridere. Tutti tranne lui, ovviamente. Lontano,
Dom rideva come un matto.
- Permettimi
di aiutarti, Lesley! – Mi pregò un tipo
più basso di me con gli occhiali da sole.
- Ehi, piano
con la mia ragazza! – esclamò Orlie, rosso in
faccia come un peperone, tentando di farsi largo fra gli
altri.
- Non
preoccuparti Orlando! – urlò qualcuno in mezzo
alla folla. – Ci pensiamo noi a lei!
Sembrava che
il fumo stesse per uscire dalle sue orecchie.
I ragazzi
ricominciarono a tendere le mani verso di me e nel momento esatto in
cui le afferrai tre di loro mi issarono sulle spalle e mi portarono in
giro così, tra le mie risate, le occhiatacce di Orlando e
l’approvazione di Dom, seduto lontano sull’erba.
- Ti amo,
Dommie! – Gli urlai.
Non
riuscivamo a smettere di ridere.
Ci avevamo
provato, ovvio, ma proprio non rientrava nelle nostre
capacità momentanee: tre volte Dom aveva dovuto correre in
bagno per fare pipì, e io non riuscivo a cacciare bene nello
zaino quello che dovevo portarmi in campeggio.
-
L’ultima frase è stata… il massimo!
– Mi urlò da dietro la porta chiusa.
Mi piegai in
due sullo zaino. – Avrei voluto vedere la sua faccia.
- Non sai
che ti sei persa! – Uscì dal bagno. –
Per un attimo ho temuto che l’Orlando Furioso stesse per
caricare la massa di toreri.
- Ci credo!
– Presi un’altra bottiglia d’acqua dal
minibar e la infilai nello zaino. – Non poteva andare meglio.
Dom mi
passò la felpa verde che in precedenza avevo buttato per
terra.
- Questa
vendetta vale cinque volte l’assalto delle infermiere, no?
-
È così che le donne si vendicano! Ottimo lavoro,
007.
- Yeah,
licenza di uccidere! – commentò battendomi il
cinque. In quel momento la porta della mia stanza d’albergo
si aprì e Orlie entrò, senza il costume addosso:
non ci avevano permesso di tenerli fino alla mattina dopo, soprattutto
per andare in campeggio.
Orlie diede
un’occhiata di sbieco a Dom che non perse tempo a dileguarsi,
e non appena la porta si richiuse dietro di lui venne verso di me
sfoderando un sorrisone.
- Non ti
facevo così vendicativa, Les – disse. –
D’ora in avanti ci penserò due volte prima di
flirtare con le altre ragazze con la scusa della costola.
Drizzai le
orecchie e chiusi lo zaino. – L’hai fatto?
- Come, non
lo sapevi? Pensavo che tutta questa messinscena fosse per quello.
- No, era
per l’assalto in ospedale! Ma adesso mi dovrò
vendicare anche per le ragazze della crew, mi vuoi dire?
- No, ti
supplico, non un’altra vendetta! – Si
inginocchiò per terra a mani giunte, implorante. –
Farò qualsiasi cosa!
- Convincimi
a non vendicarmi, Elfboy!
Una luce di
cattiveria e malizia apparve sul suo volto.
- Come vuoi
– disse, e si lanciò su di me solleticandomi i
fianchi.
Non smise di
farmi il solletico nonostante le mie urla, le mie minacce di morte e le
suppliche, fermandosi per qualche secondo per poi riprendere, in un
gioco infantile e senza sosta. Solo quando attorcigliata come un ragno
gli promisi che non avrei fatto un bis insieme a Dom Orlando si
lasciò cadere su di me, avvicinando la bocca al mio
orecchio, e sussurrò:
- Mi vuoi
sposare?
Rimasi
immobile come pietrificata, presa in contropiede. Mi ero anche
dimenticata di respirare e il mio cuore perse un colpo. Anche Orlie
restò immobile su di me, forse aspettando una mia risposta.
Il mondo fuori sembrava essersi fermato.
Alla fine,
dopo secondi o minuti, Orlando si puntellò sui gomiti e si
sporse su di me.
- Ehi,
piccola, stavo scherzando… - mi rassicurò con
un’espressione a metà tra lo spiritoso e il
deluso. Tirai un sospiro di sollievo e il mondo riprese a girare.
Lo baciai.
- Lo sapevo.
E scattai
fuori dalla stanza.
Le pale
degli elicotteri cominciarono a girare sempre più
velocemente, permettendo ai velivoli di sollevarsi in aria. Era passato
molto tempo da quando avevo volato per l’ultima volta, ma non
riuscivo a godermi l’evento immersa com’ero nel
ricordo di quello che era appena accaduto. Non riuscivo a capire se
quello che Orlie aveva detto fosse davvero uno scherzo o se
l’avesse finto vedendo la mia espressione. Come facevo a
sapere che me l’avrebbe chiesto in questo modo? E chi mi
diceva che non l’aveva progettato fin dall’inizio e
che c’era rimasto male? Il fatto era che avevamo appena
cominciato a convivere: anche se la sua proposta di matrimonio fosse
stata seria, di sicuro avrebbe dato l’idea di correre un
po’ troppo e gli avrei detto di aspettare. Ma se invece
Orlando avesse voluto farmi uno scherzo?
Guardai
fuori dal finestrino, mortificata. Gli avrei dovuto chiedere
spiegazioni. Era meglio così, oppure no? Forse dovevo
lasciar correre. Sorrisi: scherzo o no, la proposta mi aveva gettato
nell’euforia e depresso allo stesso tempo.
Gli altri
ragazzi, sull’elicottero, passavano il tempo a scherzare e
con loro anche Orlando. Craig, che aveva saputo
dell’iniziativa del campeggio e ci aveva raggiunto
entusiasta, si limitava a sorridere alle loro battute e ai loro
racconti divertenti ma più di una volta l’avevo
sorpreso a osservarmi.
Mi voltai a
guardarlo, stretta in una coperta che avevo trovato a bordo, e
incrociai il suo sguardo.
- Va tutto
bene? – Mimò con le labbra.
Non potei
fare a meno di sorridere.
- Ne
parliamo dopo.
Mi
dispiace tantissimo e chiedo perdono in ginocchio! Non sono sparita di
mia iniziativa, giuro: tutta colpa della scuola, non mi hanno lasciata
respirare! Figuriamoci scrivere… Chiedo scusa a tutti i
fedeli che continuano a seguirmi nonostante tutto! Spero che il
capitolo partorito pezzettin pezzettino dalla mia stanca mente vogliosa
d’estate vi sia piaciuto!
Fra
poco andrò in Irlanda per un pochino e penso che non avrò
molto tempo per scrivere, ma non abbandonerò questa fan
fiction – soprattutto ora che Lesley e la Compagnia
cominciano a fare quello che vogliono.
Baci
(e buonanotte! – h. 23.33)
Nut.
|
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Capitolo 30 *** Cap 29. ***
La mia vita sul set
– Cap 28.
Presi un sasso da
terra e lo lanciai verso l’acqua del lago. Dopo aver
disegnato un arco in cielo la pietra si immerse nei flutti con un pluf. Lontano da
me, accostati alla riva, le sagome di Viggo e John intenti a pescare;
dietro di me, le tende montate e Bernard che faceva cuocere gli
spiedini sul falò. Gli Hobbit e Orlando erano andati a
prendere altra legna; la freddolosa Miranda si era rintanata nella
tenda a leggere in attesa della cena; accanto a me, chino a prendere
un’altra pietra da terra, stava Craig.
Si
alzò e tirò la pietra sull’acqua,
facendola rimbalzare tre volte.
- Che cosa gli
avresti risposto?
Continuai a
lanciare sassolini.
- Se avesse detto
sul serio, dici? – Craig annuì. – Pensi
che fosse tutto uno scherzo?
- Non sviare la
domanda – rispose. Guardai il sole quasi al tramonto, pensosa.
- Non lo so
– sospirai. – È troppo presto per
pensare al matrimonio! Insomma, ha appena messo i vestiti nel mio
armadio e già è dura per me
abituarmici… ma sposarmi adesso? Ho appena
diciott’anni!
- Beh, non
è che lui sia di tanto più grande…
- Vero, ma rimane
il fatto che sia troppo presto per entrambi.
- Quindi gli
avresti risposto di no?
- Per adesso,
sì.
Presi ancora un
sasso e lo scagliai lontano con tutta la mia forza. Prese la direzione
sbagliata e affondò con fracasso poco lontano da John e
Viggo.
- Ehi, ragazzina!
Mi fai scappare i pesci! – mi urlò John roteando
il pugno in aria come un vecchio burbero. Alzai una mano in segno di
scusa e mi rivolsi di nuovo a Craig.
- Ma la vera
domanda è: ha detto sul serio oppure no?
- Sinceramente,
stasera l’ho visto piuttosto afflitto.
- Fantastico.
- Magari era solo
una prova generale! Forse voleva vedere come avresti reagito per
organizzarsi meglio e valutare il momento migliore per chiedertelo.
- Non penso sia
così subdolo e organizzato! Tu come hai fatto con tua moglie?
- Ehi, dimentichi
due cose fondamentali – si indicò con entrambi i
pollici – Primo: mai stato sposato; Secondo: gay.
- Ah, giusto!
Scusa. Mi ci devo ancora abituare.
- Fa niente
– mi fece l’occhiolino.
- Cosa
farò adesso?
- Sostanzialmente
hai due opzioni: puoi andare a chiederglielo, oppure far finta di
niente.
Ottima scelta – borbottai sfregandomi le
braccia.
Les, seriamente, magari non era niente! Tu sai che ti ama,
lui sa che lo ami; solo questo conta, alla fine. Se la vostra relazione
è seria il giorno di abiti da sposa e ricevimenti
verrà, prima o poi.
Ciò
che mi stava dicendo Craig aveva un senso, e aveva ragione. Dovevo
parlarne a Orlie e poi fare finta di niente. Quella non era la sera
migliore per farsi problemi: la mattina dopo avremo dovuto alzarci
prestissimo, e il giorno dopo sarei stata la protagonista indiscussa
del set. Dovevo mantenere la concentrazione a tutti i costi! Era anche
ora di dare una svolta alla mia vita... in senso positivo.
- Ti ho mai
accennato all'incidente in barca durante le riprese della Compagnia
dell'Anello?
- Mmm diciamo che
ne ho sentito parlare – rispose
- La stampa?
- Il set
– precisò - ma non ho mai ascoltato tutta la
storia.
- Ti
farò un riassunto: non so nuotare, stavamo girando Hamon Hen
e la barca mia e di Orlando è finita sott'acqua. Non sono
precipitata nella cascata solo perché mi sono aggrappata ad
uno scoglio.
Craig
lanciò un'imprecazione. - Ne sei uscita incolume, vero?
Sorrisi e mi
scoprii il braccio destro alzando la manica della maglietta –
Mi sono fatta questa quando ho sbattuto contro lo scoglio –
presi la mano di Craig e la guidai a sfiorare la lunga cicatrice. Lui
la seguì stranito.
- E per questa
sono finita in coma all'ospedale – gli feci toccare quella
sulla fronte, di solito nascosta per tutto il giorno dal cerone del
trucco.
- Mi stai facendo
venire i brividi; qual è il succo della storia?
- Il succo
è – lo guardai accattivante - mi insegni a nuotare?
Sbiancò.
– Adesso?
Stavamo in piedi
fianco a fianco rivolti verso l’acqua, perciò mi
venne un colpo quando Viggo ci sbatté le mani sulle spalle
urlandoci che avevano pescato abbastanza pesci per cenare.
Il
falò scoppiettava in mezzo al cerchio formato dai membri
della Compagnia. Scolavamo birra e parlavamo del più e del
meno: era uno di quei momenti in cui sei talmente felice da essere
quasi triste perché sai che la perfezione di quel momento
non tornerà mai più. Forse ero un po’
alticcia.
- Ditemi se
questa non è un’ingiustizia! – stava
dicendo John indicando i pesci sulla griglia accanto a noi e guardando
Viggo con occhi di fuoco. – Me ne sto seduto sulla sponda del
lago per ore e non prendo niente, quello sta seduto nella mia stessa
posizione e sulla stessa riva del mio lago e prende tre trote! Non
è possibile!
Risi. –
È la fortuna del principiante John, non te la prendere!
Viggo mi
guardò penetrante addentare un wurstel. – Quale
principiante, scusa? Pesco da quando ero nel ventre di mia madre.
Smisi di
masticare. – C’è qualcosa che non sai
fare?
Gli altri risero.
– Forse non sa fare la casalinga – disse Orlando.
– La sua camera non è un granché, te lo
dico io!
Dom disse la sua.
- Però ti ci vedrei al posto di Robin Williams nel ruolo di
Mrs. Doubtfire, Viggo. Hai quel certo non so che…
- Di effeminato?
Dom si
buttò a negare di averlo mai pensato.
Rimasi un attimo
a pensare. – Scusate, ragazzi, quando andiamo a dormire?
– chiesi.
- Oddio, sei
vecchia dentro! – mi urlò Craig dalla boscaglia in
cui era andato a fare pipì. – Non hai mai
considerato l’opzione di fare after?
- Che?
-
After! - urlò più forte.
-
Cos’è l’after?
Dom si
passò una mano sugli occhi. – Quanto stai sveglio
fin dopo l’ore in cui ti sei svegliato il giorno prima.
- Ma siete matti?
Domani dovrò essere in forma!
Tutti alzarono
gli occhi al cielo imponendomi di smetterla di preoccuparmi, ma tentai
di farli ragionare: non aveva senso per noi fare after, correre e poi
dormire due ore prima di cominciare la vera giornata di lavoro.
- Les ha ragione,
in fondo – concordò Orlie. Si voltò
verso di me. – Andiamo in tenda? – chiese indicando
con il naso un punto lontano del prato. Finii di bere la birra e mi
alzai.
- Buonanotte,
ragazzi!
-
‘Notte – risposero.
- E le trote?
– chiese John.
- Mangiale!
– Risposi. Presi la mano di Orlando e ci avviammo insieme
verso la tenda: il momento del chiarimento era arrivato.
Lui
aprì la cerniera e si scostò per farmi entrare,
per poi farlo a sua volta. Era una tenda grande da campeggio, verde e
nera, con dentro due sacchi a pelo. Anche se ne avrei preferito uno
matrimoniale, la cosa non mi dispiaceva. Orlie si sedette a gambe
incrociate di fronte a me, dopo aver acceso una lampadina vicino
all’entrata.
- Allora, domani
sarà il tuo grande giorno eh?
Feci un mezzo
sorriso. – Spero di non deludere!
- Figurati.
– Fece una pausa. – Senti…
- Era sul serio,
vero? – Lo interruppi in fretta. Mi guardò stupito.
- Che?
- La proposta era
seria?
- No, Les,
davvero! Stai tranquilla!
- Ok.
Orlie
ridacchiò furbo. – Che avresti risposto?
“Ma che
è? Siete tutti abbonati a questa domanda?”.
Tentennai.
- Les,
è curiosità.
- Sì.
Orlando
sgranò gli occhi. – Sì?
- Sì.
Ma non ora. Insomma, è troppo presto. Dopo.
Lui sorrise.
– Va bene se ci sposiamo tra cinque minuti?
- No, ma fra
cinque o sei anni potrebbe anche essere. – Gli feci
l’occhiolino e lo baciai. – Buonanotte.
Un rumore
assordante mi fece spaventare e scattare a sedere. Stranamente non mi
ritrovai a guardare le pareti di tela della tenda, ma il cielo appena
più rischiarato dai primi raggi del sole. Il rumore
incessante erano i clacson delle macchine che avevano deciso di usare
come sveglia.
- Avanti,
ragazzi, sveglia! In piedi, svegli, in forma! Sono le quattro del
mattino! Hop hop hop! – Stava urlando Barnie con un megafono.
Intorno a me le voci erano già concitate.
Mi tirai su a
sedere, e le mie mani toccarono un fondo bagnato e umidiccio.
- Ma
che…?
- Lesley!
– Mi sentivo chiamare. – Lesley, che fine hai fatto?
Mi guardai
intorno: ero sdraiata nell’acqua del lago!
- Ma
che…? Sono qui! – Urlai alzandomi in piedi,
stillando acqua dai vestiti, dalle punte dei capelli, dalle dita delle
mani. Alzai i piedi con fatica e uscii dall’acqua schizzando
da tutte le parti. Le persone di cui incrociavo la strada si fermavano
a guardarmi stupite: non capivano che cosa ci facessi sdraiata in acqua
a dormire.
Figuriamoci se lo
sapevo io.
Corsi per quanto
me lo consentivano i vestiti fradici verso il camper dove avevano
sistemato i costumi di scena. Appena mi videro entrare completamente
bagnata, Emma, Ilana e Ngila smisero di sistemare costumi e pulire
pennelli e si voltarono a guardarmi esterrefatte.
- Non avevo
bisogno di una doccia, mi sono solo svegliata nel lago.
- Ti sei solo svegliata nel
lago? – ripetè Emma incredula.
- Credo di essere
sonnambula.
Il senso pratico
di Emma venne alla luce e sul suo volto si formò
un’espressione da generale.
- Qui dobbiamo
risolvere in fretta la situazione – disse risoluta voltandosi
verso le altre. – Linnie, prendi un phon per asciugarle i
capelli. Non abbiamo molto tempo! Ngila, poggia il suo costume
lì sulla sedia e vai a prendere un asciugamano pulito. Su
ragazze, in fretta! Non abbiamo tempo da perdere! –
Eseguirono gli ordini e Emma si voltò verso di me.
– E tu togliti quei vestiti fradici!
L’idea
di protestare per il fatto che sarei rimasta quasi completamente nuda
alle quattro del mattino fece in tempo a balzarmi in mente che fece le
valigie e scomparì augurandomi buona fortuna. Afferrai il
bordo del maglione che indossavo e cercai l’asciugamano che
Ngila era corsa a prendermi, cominciando a sfregarmi mentre Linnie
attaccava il phon ad una presa dietro ad una poltrona e mi indirizzava
contro il caldo getto d’aria. Le lancette
dell’orologio ticchettavano veloci. Appena fui abbastanza
asciutta mi infilai il costume. Emma mi fece sedere sulla sedia e mi
attaccò le orecchie come un razzo, per poi spedirmi fuori
dalla roulotte.
Il cielo stava
già cominciando a prendere i colori dell’alba e
sapevo di essere in ritardo clamoroso: infatti verso la
sommità dell’altura, dove avremo dovuto girare, mi
aspettavano tutti, pronti per girare. Li raggiunsi di corsa.
- Buongiorno!
– Mi salutò Peter – Dov’eri
finita?
- Scusate il
ritardo, ho fatto fatica a svegliarmi.
- Lesley, so che
questo lavoro è difficile e che avete fatto una levataccia,
ma vedi di non fare così tardi un’altra volta, per
favore. Serietà e responsabilità, prima di tutto.
Mi stupii delle
parole di Peter: m’immaginavo che in una situazione del
genere mi avrebbe strizzato l’occhio e rassicurato dicendo
“Tranquilla, succede a tutti”, non che mi avrebbe
sgridato come se fossi stata in ritardo di tre ore. Volsi gli occhi per
un attimo verso Orlando in costume, poi tornai su Peter.
- Scusami
– dissi. – Non succederà più.
- Lo spero.
– Rispose, poi esclamò: - forza, tutti in
posizione! Lesley, dovete correre in quella direzione –
indicò Ovest. – Orlando sarà in fondo
alla fila. Appena il sole comincerà a spuntare da quella
collina laggiù si volterà e dirà la
sua battuta. Poi la scena sarà finita.
“E mi
hai fatto la ramanzina per cinque minuti di riprese?”,
pensai. Ma non avevo tempo di dire la mia. Superai Orlando che ne
approfittò per sfiorarmi la mano mentre passavo, e mi fermai
dietro a John in armatura di Gimli, che a sua volta stava dietro a
Viggo vestito da Aragorn. Tutti i nostri amici erano fortunati a poter
dormire ancora.
- Deve venire
bene alla prima, ragazzi! – Gridò Peter dalla sua
sedia dietro alla telecamera. – Motore…
“Che ci
facevo in acqua?”
-…ciak…
-
“Perché
non ero nella tenda?”
-…
Azione! – gridò.
Scattai in avanti
spingendomi sulle gambe, cercando di tenere la distanza tra me e John.
Sul terreno davanti ai nostri piedi i raggi del Sole cominciarono a
farsi strada sonnolente in mezzo alle alture, cadendo
sull’erba autunnale che calpestavamo. Mentre avanzavo, sentii
Orlando dire:
- Sorge un Sole
rosso – fece una pausa. – Stanotte è
stato versato del sangue.
- Stop!
– Urlò Barnie. – Era buona, grazie
ragazzi!
Smisi
immediatamente di correre e cominciai a scendere dall’altura
a passo deciso, diretta al camper di Emma.
Orlando mi
raggiunse di corsa e mi prese per un braccio, attirandomi a
sé. Mi buttai le braccia intorno al collo, toccando il
tessuto stoppaccioso della sua parrucca bionda.
- Che cosa ho
fatto stanotte, Orlie?
Lui
appoggiò la sua fronte alla mia. – In che senso?
Non c’eri nella tenda quando mi sono svegliato. –
Sussurrò.
- Infatti. Mi
sono svegliata in acqua…
Il suo corpo si
irrigidì. – Che ci facevi in acqua?
- Non lo so!
Credo di essere sonnambula.
Orlie parve
riflettere.
- Non saprei,
cucciola. Ho dormito tutta la notte… vale a dire, per le tre
ore che abbiamo avuto a disposizione. Dovremo chiedere a qualcun altro:
stasera i ragazzi hanno organizzato un aperitivo ad Alexandra, ti va di
andarci?
Annuii.
– Adesso torniamo a dormire in albergo?
Se
c’era un posto in cui mi sentivo veramente a casa, quelle
erano le braccia di Orlando. Nessuno aveva una capacità di
tranquillizzarmi come la sua: lì mi sentivo al sicuro. Forse
perché sapevo che, finché c’era lui,
non poteva succedermi niente. Almeno finché non
c’erano scogli, barche e fiumi in circolazione – ma
quello era un caso a parte. Il mio momento preferito della giornata era
senza dubbio la sera: quando tornavamo dal bar, dal ristorante o dal
set e ci concedevamo alla passione senza preoccupazioni, e poi
dormivamo insieme nel letto dell’Hotel. Ci tranquillizzavamo
a vicenda: soprattutto lo facevo io quando lui aveva gli incubi
– e accadeva spesso ultimamente.
Dormimmo come
sassi per tutto il pomeriggio, dopo aver chiacchierato un po’
dell’ultima settimana. Ci svegliammo in tempo per arrivare in
ritardo di mezz’ora al bar a pochi passi
dall’hotel, dove tutti ci accolsero con allusioni e doppi
sensi anche se in realtà ci capivano perfettamente.
Sgranocchiando
noccioline e stuzzichini ne approfittai per chiedere se qualcuno mi
aveva vista vagabondare la notte precedente: nessuno seppe rispondere a
parte Craig. Disse che era rimasto tutta la notte da solo sulla riva
del lago a pescare e che ad un certo punto mi aveva visto sedermi sulla
riva del lago; era andato a vedere se avessi bisogno di qualcosa e,
poiché io non rispondevo, avevo gli occhi chiusi e
– a detta sua – russavo, aveva capito che dormivo
profondamente e mi aveva riportato alla tenda, per poi dedicarsi di
nuovo alla sua pesca solitaria. Dopo cinque minuti, però, mi
aveva visto di nuovo sedermi sulla riva del lago e la scena era la
stessa. Mi aveva riportato un’altra volta nella tenda e mi
aveva messo “vicino a Orlando”, ma subito dopo mi
aveva rivisto nella stessa posizione. A quel punto mi aveva mandato a
quel paese e mi aveva lasciato lì. Ad un certo punto dovevo
aver deciso di farmi un bagno, ma si doveva essere addormentato.
La storia
suscitò parecchia ilarità fra gli ascoltatori e
diede brio alla serata. Orlando si ubriacò con solo quattro
shots: fece inciampare un cameriere barcollando in giro per il bar, si
sdraiò su un tavolo e ci provò con il barista, e
alla fine fui costretta a riportarlo di peso in Hotel poiché
erano tutti troppo ubriachi per darmi una mano prendendo al macchina.
Mentre camminavo a fatica fra le strade male illuminate di Alexandra
con Orlando buttato a pesce sulla mia spalla che avanzava strascicando
i piedi, lui cantava a squarciagola le canzoni di Britney Spears: la
sua preferita al momento di entrare nella hall era “Gimmie
One More Time”! Alzai una mano per salutare il tizio dietro
al bancone e filai dritto verso la nostra camera, arrancando come un
vecchio trattore carico di cocomeri. Una volta nella stanza lo sdraiai
sul letto, gli tolsi le scarpe e lo coprii con una coperta.
E crollai anche
io.
La sveglia
suonò presto, come sempre. L’unica differenza,
quel giorno, era che balzai giù dal letto. Dal bagno
proveniva il rumore della doccia. Entrai per sciacquarmi il viso e
Orlando, da dietro la tendina opaca, mi lanciò il suo
entusiastico buongiorno. Lo salutai a mia volta.
- Amore, ieri
sera ero un po’ alticcio? – mi chiese.
- Amore
– imitai il suo tono allegro. – Tutta la Nuova
Zelanda ti ha sentito cantare Britney Spears.
Rise di gusto.
– L’ultimo shot è stato il colpo di
grazia.
- L’ho
notato!
- Se mi aspetti
ti accompagno sul set. Sarà bello vederti darti da fare sul
serio, per una volta.
Aveva ragione:
era cominciato il mio giorno da protagonista.
Sorrisi al mio
riflesso allo specchio.
- Si aprano le
danze!
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Capitolo 31 *** Cap 30. ***
La
mia vita sul set – Cap. 30
Entrai in
macchina così velocemente che per poco non uscii dal
finestrino opposto. Orlando mi seguì saltellando su un piede
solo per riuscire a infilarsi la scarpa che ancora gli mancava.
- Ti prego,
dimmi che non farai così tutte le volte che sarai prima
attrice – disse chiudendo la portiera.
-
È la prima volta! Potrò finalmente dimostrare
quanto sono brava!
-
Perché, lo sei?
Gli rifilai
un’occhiata in tralice e un coppino sulla nuca.
Sghignazzò.
- Sarai
bravissima, ci scommetto. Ma non crederai che Peter ti
lascerà fare da sola!
- Che
intendi dire?
- Peter ti
fa fare le cose come vuole lui; se non gli dai quello che vuole, ti
farà rifare le scene all’infinito
finché non ti verrà un crollo emotivo e ti
ritroverò rintanata in un angolo dietro le telecamere a
piangere a dirotto e a dire “voglio la mamma”.
Lo guardai
sconvolta. – Non sei incoraggiante!
- Ti sto
mandando in paranoia?
-
Sì!
-
È esattamente quello che voglio fare –
annuì serafico tenendo gli occhi fissi sulla strada.
Evitai di
rispondere e rimasi in silenzio fino a che non arrivammo sul set e
scendemmo dalla macchina. Orlie aveva canticchiato tutto il tempo,
contento di starsene tranquillo seduto su una sedia a vedermi sgobbare.
Maschilista!
- Ci vediamo
dopo amore! – mi salutò Orlando scompigliandomi i
capelli.
Mi diressi a
passo svelto verso la sala trucco, sapendo che qualcuno mi avrebbe
gentilmente portato il mio caffelatte, e aprii la porta.
-
Buongiorno! – mi salutò Emma. – Siediti
e rilassati.
Per
attaccare le orecchie ci volle lo stesso tempo del solito, ma a me
sembrarono secoli. Emma attaccò subito a chiacchierare sugli
ultimi pettegolezzi della crew, di come lo stunt Merberg si fosse preso
una cotta colossale per l’aiuto-luci Lucienne, e di come lei
ci fosse andata a letto senza neanche sapere il suo secondo nome. Il
suo allegro cicaleccio venne interrotto dall’arrivo del mio
prezioso caffelatte, ma ricominciò subito dopo come se
niente fosse accaduto. Io mi limitavo a guardarla nel riflesso dello
specchio e pensavo non avrebbe smesso più, quando finalmente
Peter bussò alla porta.
- Ciao Les!
Pronta per il grande inizio?
Gli sorrisi
determinata. – Sono nata pronta!
- Ok!
– Mi passò un blocco di fogli. – Questo
è il tuo copione di oggi. Fra venti minuti cominciano con la
scena insieme a Gandalf.
Guardai con
terrore il blocco che stringevo fra le mani. Erano almeno trenta fogli!
E avrei dovuto impararli tutti entro venti minuti? Deglutendo, lo aprii.
- Oh, cazzo.
Ma è elfico!
Emma
posò il pennello intinto di colla e preso quelle da
precisione, sbirciando da sopra la mia spalla.
- Dovresti
iniziare in ordine d’importanza! –
Suggerì.
- Emma,
questo è il Signore degli Anelli. Tutto è
importante!
- Non hai
capito. Inizia dalla scena con Gandalf, forza! Impara poco alla volta!
Giusto.
Esatto. Esattamente quello che dovevo fare. Lessi i primi due fogli.
Ok, sarebbe stato facile. Emma girò la mia sedia verso
l’uscita e m’indicò la porta con un
pollice.
- Fuori di
qui – ordinò. Obbedii. Quando stavo per richiudere
la porta e scendere le scale, Emma mi chiamò.
- Lesley!
– Infilai la faccia nella fessura e sbirciai dentro: Emma mi
guardava sorridendo. – Ricordati di respirare e arriverai a
fine giornata.
Orlando ci
aveva visto giusto, almeno solo in parte. Non stavo ancora invocando la
misericordia del Signore, ma sullo stare seduta dietro ad una
telecamera ci aveva azzeccato. Avevo imparato le battute della prima
scena e continuavo a farle girare nella mia mente come un giradischi
rotto. Jessie mi avrebbe detto che stavo andando alla grande.
A un certo
punto avevo visto passare lontano da me i quattro Hobbit, Viggo e
Orlando, per una volta senza costume, chiacchierando e ridendo. Cosa ci
facevano lì?
- Non sarete
lì per vedermi! – Esclamai, e un cameraman poco
più in là sobbalzò e si
girò a guardarmi stupito. Concentrazione, Dalton.
Concentrazione. Oddio, dovevo ancora cominciare e già
parlavo da sola! Entro fine giornata avrei miseramente sfociato nella
schizofrenia.
La voce di
Philippa tuonò attraverso un megafono e mi fece scattare in
piedi come una marionetta.
E se non
fossi brava, o pronta?
No! No.
Concentrazione.
- Bene
signori, pronti per cominciare! Siete pregati di spegnere le suonerie
dei cellulari e di spegnere le videocamere e le macchine fotografiche
durante le riprese!
Ancora prima
di accorgermene mi ritrovai accanto alla sedia di Peter, a guardare la
folla di operatori. La paura cedette lo spazio alla determinazione e
all’ansia da prestazione.
Sir Ian mi
affiancò silenzioso come una nuvola. Sembrava proprio una
nuvola, con quel suo nuovo costume da Gandalf
Nuova-Versione-Biancaneve.
Solo allora
notai la mia sedia.
Quella nera
col mio nome scritto sullo schienale.
- Uuuuuuh!
Bella! – Esclamai indicandola. Gli occhi della maggior parte
del personale seguirono la punta del mio indice, prima che lo ritirassi
e lo nascondessi dietro la schiena arrossendo come una bambina di sei
anni. I membri della Compagnia, mischiati alla folla, si sforzarono di
nascondere le risate soffocate nelle maniche delle magliette.
Peter
sospirò, scosse la testa e ordinò: - Cominciamo!
Io e Sir Ian
ci scambiammo un’occhiata.
- Ti ricordi
le battute? – Mi chiese.
- Ci puoi
scommettere.
- Lesley!
– La voce di Peter. Il cuore ricominciò a
martellare. Tump tump tump. Peter mi si avvicinò e mi prese
per un braccio, invitandomi a seguirlo.
- Ti spiego
tutto – disse. – Dovete scendere da quel pendio, in
mezzo a quelle case di Rohan, vedi? Tu ti avvii verso la stalla
– mi mostrò i passi – e la scena
finisce. Quella dopo sarà girata dentro: devi attraversarla,
andare dal cavallo, salirci sopra e galoppare fuori. E intanto non devi
smettere di parlare. Tutto chiaro?
-
Trasparente.
- Perfetto
allora. In posizione!
Tump tump
tump. Più in basso cercai lo sguardo di Orlando: lui mi
vide, mi sorrise, mi fece il segno dell’Ok e poi
tirò un sorso di caffè.
Guardandolo
mostrarmi quel gesto d’incoraggiamento, sentii levarmi di
dosso le vesti di Lesley e diventare Hery. Un cambio drastico, a mio
parere. Orlando notò qualcosa e mi sorrise. Ricambiai in un
lampo.
- Azione!
Io e Gandalf
cominciammo a camminare. Lui procedeva con passo sicuro, io lo seguivo
indietro di un passo, diretta verso l’entrata della stalla.
- Non
possiamo evitare questa battaglia. – Disse. –
Theoden è convinto di potercela fare da solo.
- I suoi
sforzi saranno vani se un aiuto non giungerà
dall’esterno. Gli uruk-hai sono troppi, dobbiamo andare
contro il suo volere.
- Va fatto.
Arrivammo
davanti alla grande porta della stalla di Rohan. Mi voltai a guardarlo
con rammarico.
- Che io
vada in battaglia non è un suo desiderio – dissi
mentre due cavalieri davanti a noi aprivano il portone. –
Farai finta di non saperne niente?
Gandalf mi
fece l’occhiolino. Silenzio.
- Stop!
Con una
rapidità raccapricciante mi trovai di nuovo a essere me
stessa. Espirai pesantemente e mi grattai la cicatrice sulla fronte,
mentre Ian mi diceva che ero andata bene ed Emma mi raggiungeva con un
batuffolo ricoperto di cerone. Cominciò a far girare con
decisione la mia faccia di qua di là di su di giù
per mettere in mostra le parti del trucco da ritoccare, mentre Peter,
Fran e Philippa guardavano la scena nello schermo di una telecamera.
Stavo quasi per avvicinarmi, quando Peter ordinò di farne
un’altra.
Così
io e sir Ian ci ritrovammo a risalire il percorso di scena. Quando
chiesi a Peter che cosa non gli era andato a genio, mi rispose senza
mezzi termini che non rendevo abbastanza bene l’urgenza della
situazione. “Non sembra che tu stia facendo qualcosa di
nascosto, sembra che stia andando a fare la spesa!”.
Quindi nella
ripresa successiva cercai di dare l’impressione di essere
un’antenna: andavo avanti spedita dietro a Gandalf, con le
gambe rigide e l’aria tesa. Recitai le mie battute senza
sbagliare, ma Peter non fu contento neanche stavolta. Dovevo essere
più flessibile.
Sir Ian ogni
volta mi incoraggiava dicendomi che stavo andando bene. Certo che sto
andando bene, sono solo prossima a una crisi di nervi!
Gli
andò bene solo alla dodicesima volta. Peter disse la sua
frase di fine ripresa e si complimentò con me e sir Ian. Poi
mi si avvicinò.
- Ok,
Lesley. Questa deve venire bene alla prima ripresa, non possiamo ogni
volta riportare dentro il cavallo. - Ah.
-
Ti spiego quello che devi fare: entri, dici le tue battute…
– “ma non mi dire”, pensai –
Sali a cavallo e corri fuori.
- Quindi
entro, dico quello che devo dire…
- Solo la
prima battuta. Poi sali a cavallo, dici la seconda ed esci. Galoppi
fino a quel punto e poi ti fermi. Fine della scena.
Annuii. Non
avevo il coraggio di guardare l’ora, ma cominciavo ad avere
fame. Sorrisi tra me e me: chissà cosa ne avrebbe detto Jess?
- Prepararsi
alla ripresa! – Urlò Fran dentro il megafono. Fu
di nuovo un brusio di telecamere, poi “Azione” di
Peter.
Entrai nella
stalla, superai i cavalli nei box e mi diressi verso Calliope superando
una telecamera accanto al suo recinto.
-
Farò il più in fretta possibile –
dissi.
- Sei
sicura? – Mi chiese Gandalf.
- Cavalco
veloce.
Aprii il
cancello e mi avvicinai al cavallo, salendo di slancio in sella.
Guardai di nuovo Gandalf.
-
Tornerò con…
Ci fu uno
scoppio accanto a noi e Calliope s’impennò,
lanciando un nitrito spaventato. Dovetti stringermi con forza sulle
gambe per non cadere in terra. Sir Ian si appiccicò al muro
per non essere colpito dallo zoccolo del cavallo.
-
Cos’è successo? – Domandai cercando di
riprendere fiato, una volta che Calliope tornò con gli
zoccoli a terra. Degli operatori stavano già andando a
prendere la telecamera esplosa per allontanarla dalla paglia secca.
Diedi qualche pacca sul collo a Calliope che ancora scalpitava, per
tranquillizzarla.
- Tranquilla
Callie, non è successo niente.
Sbuffò.
Scesi e
uscii dalla stalla. Mahaffie era proprio lì
dall’entrata. Mi sorrise e disse:
- Piccoli
problemi tecnici! Approfittane per fare una pausa.
Sorrisi di
rimando e mi avviai verso la mia sedia nera nuova di zecca, che forse
per caso o perché l’aveva spostata con le sue
manine, era proprio tra quella di Orlando e quella di Dom. Mi sedetti
sbuffando e passandomi una mano sugli occhi. Orlie mi fece un grattino
sulla schiena e Dom mi passò una bottiglia d’acqua.
- Stai
andando alla grande, sorellina! – Mi tranquillizzò
Dom.
-
È estenuante! Adesso so che cosa provi tutti i giorni,
Woody.
Elijah si
sporse dalla sua sedia e mi sorrise. –
C’è chi è abituato alla fama, ormai!
Gli feci una
linguaccia. – È solo questione di abitudine, Les
– rise.
- Dai
piccola, sei bravissima ed è quasi ora di pranzo. Fai questa
e andiamo tutti a mangiare – mi rassicurò Orlie.
Mi appoggiai nell’incavo del suo collo e sospirai. Poi presi
la bottiglia e ne bevvi metà. Diedi un bacio al volo a
Orlando, salutai gli altri e tornai alla stalla, dove mi accolsero i
tecnici.
- Siamo
pronti.
Sfoggiai un
sorriso e poi mi calai di nuovo nei panni di Hery.
- Dai
ragazzi, ricominciamo! – Esclamò Peter battendo le
mani.
Ed eccoci di
nuovo a recitare come se nulla fosse stato.
Entrai di
nuovo nella stalla, seguita da Gandalf.
-
Farò il più in fretta possibile.
- Sei sicura?
- Cavalco
veloce. - Salii in sella e guardai Gandalf. –
Andrò a Lorien. Radunerò i guerrieri. Haldir
tornerà con me.
Gandalf
annuì. Spinsi il mio cavallo fuori dal box.
- Non
penserai di fare tappa a Dol Guldur. – Dedusse. Mi voltai a
fulminarlo.
- Non
pensare che io sia così debole, Gandalf il Bianco.
Senza
attendere risposta, piantai i talloni nel ventre del cavallo e quello
si lanciò fuori, superando in un balzo il portone e
fiondandosi nel campo.
Tirai le
redini, mentre le telecamere montate sui binari si fermavano e
registravano la scena. Peter rideva.
-
Stupefacente! – Mi corse incontro mentre scendevo e mi
batté il cinque. – Perfetta! Non ti avevo mai
visto così!
- Chi sei
tu, che ne hai fatto di Peter?
La crew rise.
Mangiare fu
rigenerante. Mi ingozzai di pasta asciutta fino a farmela uscire dalle
orecchie e poi attaccai a mangiare una banana dietro l’altra,
ignorando le continue allusioni di Billy e Dom. A sentire loro, mi
scusava solo il fatto che fossero piene di zucchero. A parte quello,
comunque, nulla impediva loro di considerarmi una temporanea
pervertita. Io.
Ngila mi
chiamò e uno dei suoi tanti aiutanti mi fece cambiare
costume. Non avevo mai visto una cosa simile, almeno non su di me: era
ampio, bianco, con dei ricami verdi e d’argento a forma di
fiore. I miei capelli furono pettinati e intrecciati con un diadema di
perle. Mi aiutarono a indossarlo mentre come una pazza ridacchiavo e
ripetevo le frasi in elfico come un mantra.
-
È difficile camminare con questo… affare!
- Si chiama
“vestito”, Les. È diverso dai pantaloni,
più femminile ed elegante, non sporca, non mangia, non beve,
non lo devi portare fuori a fare i bisogni. È un ottimo
accessorio, in confronto ai tuoi soliti pantaloni aderenti. –
Rispose Ngila facendomi rimanere letteralmente di stucco. Lei se ne
accorse e mi fece l’occhiolino. – Sei molto
più donna così, e per camminare ci farai
l’abitudine!
Di sicuro mi
sarei trovata meglio a camminare sui trampoli in mezzo a una palude di
alligatori, ma dovevo ammettere che facendo un certo effetto perfino a
me stessa. Mi sentivo buffa e mi presentai davanti alla telecamera
ridacchiando. L’operatore, che in quel momento stava
riprendendo, mi disse “Ciao, Les!” e io sorrisi
alla telecamera, sollevai il vestito e cominciai a saltellare
esibendomi in una specie di tiptap, facendo ridere la gente di
passaggio. Fu allora che la vidi.
- Cate!
– Salutai. – Cate Blanchett!
- Ciao ciao,
Lesley! – Mi abbracciò. – Sei una
favola! Come stai?
- Va tutto
bene. Sto ancora ripetendo le battute elfiche.
Cate
sfiorò la sua lunga parrucca bionda, sorridendomi materna.
– Tranquilla, se non te le ricordi te le
suggeriscono… almeno per le prime riprese. Se poi arrivi
alla tredicesima che non sei ancora riuscita a farne una buona, allora
sì che ci si spazientisce.
- Non
sbaglierò così spesso – la rassicurai.
- Brava – mi
disse in elfico.
- Hannon
le.
– Risposi. Grazie. – Quanto manca
all’inizio delle riprese?
Cate si
guardò intorno.
- Non molto.
Dio, che
invidia bruciante! Quella donna era troppo bella per essere vera.
Troppo bella e troppo brava. Troppo. Doveva avere un qualche difetto!
Se Jess fosse stata lì insieme a me in quel momento, ero
sicura che avrebbe detto “Di sicuro è una testa di
cavolo”. Quasi scoppiai a ridere da sola.
Le misi una
mano sulla spalla. – Ci vediamo dopo, Galadriel!
- Ciao,
Giradischi!
…Giradischi?
- Dai
ragazzi, si comincia! – arrivò il solito vocione
di Peter.
Promise che
quella sarebbe stata l’ultima. Facile, era la ventiseiesima!
Non era mai contento. Aveva detto che andava bene già alla
terza, ma che potevo dare di più. Da parte mia, stavo
perdendo le energie.
- Ancora
una. – Disse Peter.
Sospirai e
tornai per l’ennesima volta nella mia posizione e appena
urlarono il consueto “Azione!”, cominciai a
recitare.
Cominciai a
salire lentamente gli scalini che portavano ai due troni, avvicinandomi
alla figura di Galadriel volta di spalle. Appena fui abbastanza vicina
mi fermai.
- Sapevo
che saresti venuta.
Rimasi in
silenzio. Galadriel si voltò.
- Benvenuta,
figlia mia.
Indugiai,
lottando tra la gioia dell’essere di nuovo a casa e
l’urgenza di tornare indietro.
- Non
starò qui a lungo. Ho un compito da portare a termine.
Galadriel
sorrise amaramente. – Mia
figlia. Sempre uguale ai tuoi fratelli. Sempre desiderosa di combattere.
- Dimmi
dov’è Haldir.
Galadriel
non rispose. Mi voltai e scesi i gradini.
- Hery. – Mi
voltai e lei si avvicinò. – Sai
che se te ne vai ora… non tornerai mai più a
Lorien. Non andare incontro al tuo destino. – Mi
prese una mano. – Resta,
figlia mia.
Per un
attimo fui tentata di restare. Di restare a Lorien per il resto
dell’eternità. Ma il richiamo di Legolas era
troppo forte, dovevo portare a termine la mia missione.
- Addio,
madre.
E me ne
andai.
- STOP!
BUONA! – Urlò Peter entusiasta.
Alzai le
braccia al cielo in segno di vittoria e battei il cinque a Cate,
contenta per avercela fatta.
- Bene,
signori, per oggi abbiamo finito! Grazie a tutti! Ci vediamo domani,
buona serata!
Mi ritrovai
immediatamente fra le braccia di Orlando.
- Sei stata
FANTASTICA! – Saltellò, sballottandomi da tutte le
parti.
- Ti prego,
OB! Il vestito!
Lui rise e,
tenendomi per mano, mi accompagnò fino al camper costumi.
Una volta
cambiata uscii. I ragazzi mi aspettavano seduti fuori a fumare una
sigaretta o a bere birra.
- Ehi, Les!
– Elijah alzò la bottiglia in segno di saluto.
- Brava,
Giradischi! – Fece Dom soffiando il fumo dalle narici.
- Ti va di
andare a bere qualcosa, attrice di successo?
Sospirai.
– Mi piacerebbe moltissimo, ragazzi, ma facciamo
un’altra volta. Sono sfinita.
Si
guardarono e si espressero in ampi cenni di comprensione.
- Non vi
preoccupate, torno da sola in albergo!
Me ne stavo
seduta sui gradini della roulotte trucco, da sola, a bere birra da una
bottiglia. Non ero ancora tornata in albergo e tutti ormai se
n’ero andati in città o a casa. Ero completamente
sola. Avevo l’occasione di ripensare alla giornata appena
trascorsa. Sorrisi tra me e me: quanto avrei voluto avere Jessie
accanto in quel momento, per scroccarle patatine e canticchiare le
sigle dei cartoni animati.
Chissà
cos’avrebbe detto di me.
- Senti,
devi smetterla.
La voce
arrivò all’improvviso, facendomi prendere un
colpo. Rimasi a fissare il terreno sotto i miei piedi anche se
conoscevo quella voce. Non perché non avessi voglia di
parlare, non perché non avrei saputo come rispondere a
quell’ordine, non perché non avrei saputo neanche
spiccicare parola. Ma perché non avevo motivo di sentire
quella voce. Non era possibile che la sentissi.
Passarono un
paio di minuti, e lentamente mi convinsi di essermela immaginata.
Tornai a vagare con la mente ai ricordi della scuola.
- Davvero,
devi smetterla.
Cominciai a
tremare nonostante l’aria tiepida e il cuore
cominciò a battere forte. Alzai lentamente gli occhi.
Poco lontano
da me, Jessie restituiva il mio sguardo.
Chiedo
umilmente perdono per la lunga attesa, ma è stato un
capitolo davvero difficile da scrivere! Non so perché, ma
è stato difficile e spero di essermi sdebitata con voi per
la lunghissima attesa!
Sempre
vostra,
Panenutella
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Capitolo 32 *** Luce ***
Luce
Stava
lì in piedi davanti a me, immobile, vestita con la sua
solita tuta, esattamente com’era l’ultima volta che
l’avevo vista. Esattamente come me la ricordavo. Senza
sacchetto di patatine. Eppure non era reale, tridimensionale: era una
specie di ombra colorata e opaca, che lasciata intravedere
ciò che stava dietro di lei come coperto dalla nebbia.
Così eterea e irraggiungibile, ma così vera.
Ero rimasta
come una statua di sale, perciò lei si spazientì
e inclinò la testa.
- Beh?
Esattamente
la stessa voce. Ero sul punto di cominciare a prendermi a schiaffi.
-
Tu… - boccheggiai. – Tu…
- Rilassati
Les, non ti mangio!
-
Ma… sei un fantasma?
- No
– rispose. – Sono il tuo riflesso allo specchio!
- Bella
battuta.
Sorrise.
- Ma se sei
un fantasma che ci fai qui?
Jess si
strinse nelle spalle. – Sai, non avevo niente da fare e ho
deciso di farti visita.
- Davvero?
Mi
guardò come se fossi scema. – Les, sono venuta a
dirti che non è colpa tua.
- Scusa?
- Devi
smetterla, capito?
- Di far che?
- Di
incolparti della mia morte! Tu non c’entri niente, chiaro?
Nessuno poteva prevedere una cosa del genere, e men che meno avresti
potuto consegnare quel pacco. Non è colpa tua.
Rimasi a
guardarla con un groppo in gola.
- E devi
anche smetterla di pensare a me, sai? Mi piacerebbe tanto passare da
quella bella luce paradisiaca e fare visita a nonna Pearl, ma non posso
se continui a piangere per me!
- Non
è possibile che io sia l’unica a farlo! E tua
madre?
Mi rivolse
uno sguardo triste. – Mia madre mi ha già
dimenticato affogandosi nell’alcool. Ed io che pensavo fosse
una persona originale, credevo iniziasse direttamente con le
metamfetamine!
- Mi
dispiace…
- Capisci?
Tu sei l’unica che continua ad andare in giro dicendo
“Jess di qua, Jess di là”…
Anche i tuoi amici l’hanno superata!
- Loro ti
conoscevano da un mese, io da tutta la vita! Mi dispiace! –
Scoppiai in singhiozzi. Jess si avvicinò ancora un
po’ guardandomi con tenerezza.
- Non
piangere. Non voglio.
Mi asciugai
gli occhi con una manica e tornai a guardarla. Non potevo staccare gli
occhi da lei.
- Lesley,
non c’è motivo di essere tristi. Io sto bene. Sono serena. Sono
in pace. Non c’è motivo di piangere.
- Non so
come fare senza di te…
- Hai degli
amici che ti amano e che ti aiuteranno a superarla, come hanno fatto
loro stessi.
- Puoi
seguire tutti loro?
Jess
sorrise. – Ovviamente no. Se potessi, passerei tutto il tempo
a guardare Dom nudo sotto la doccia.
Risi.
– E se ci incontrassimo tutte le sere e chiacchierassimo come
facevamo prima?
- Oh
andiamo, Les! È come se chiedessi a Dio di farti visita alle
cinque per il tè.
- Un
po’ troppo irrazionale?
- Un
tantino, già.
- Dimmi dove
sta la razionalità in questo esatto momento.
- Sono
venuta a portarti un messaggio.
Alzai una
mano come per zittirla. – Sì, ho capito, non
è colpa mia.
-
C’è anche un’altra cosa –
puntualizzò. – Devi lasciarmi andare.
Sentii un
tuffo al cuore. – Non posso lasciarti andare Jess.
- Lesley
– sospirò. – So che mi vuoi bene. Te ne
voglio anch’io! Ma arriva il momento in cui devi lasciare
andare anche i morti. Io non ci sono più, ma tu sei viva! Tu
respiri, il tuo cuore batte, puoi toccare gli oggetti e sentire il
sapore del cibo e l’odore dei fiori, hai degli amici che ti
amano, farai grandi cose e hai tutta la vita davanti! E stai sprecando
il tuo tempo a versare lacrime su una persona che sta meglio ora!
È inutile e non è giusto! Lasciami andare!
Abbassai lo
sguardo. Non avrei potuto smettere di pensare a lei, non ne sarei stata
capace anche se l’avessi voluto.
-
Sì che puoi – rispose.
- Mi leggi
nel pensiero?
Jess
annuì. – Direi. E tanti saluti alla privacy, vero?
Io posso sentire tutto quello che pensi e ti dirò una cosa:
ogni volta che pensi alla mia morte io la rivivo. Giuro. E ti assicuro
che volare giù da un grattacielo tre volte al giorno non
è piacevole!
Ci rimasi
malissimo: adesso la questione non riguardava soltanto il mio cervello,
ma lei. Pensando di continuo all’11 settembre
l’avevo costretta a rivivere quell’esperienza un
milione di volte. Dovevo assolutamente smettere per evitare di farle
del male e farla stare bene.
Jess
sorrise. – Vedi che ci arrivi, coi tre minuti di ricarica che
hai?
- Perdonami.
– Mi mordicchiai il labbro.
- Lasciami
andare, Les.
Gli occhi
tornarono a riempirsi di lacrime. Come sarebbe stata la mia vita senza
pensare più a lei?
- Il passato
non esiste altro che nei nostri ricordi, Les.
Cos’è che ti tormenta adesso?
Esitai a
parlare perché sentivo di avere un groppo in gola e, se
avessi aperto bocca, sapevo che avrei ricominciato a piangere.
Non ti ho
detto addio, pensai.
L’espressione
di Jess si addolcì. – Lo stai facendo ora.
Dovevo
parlare. Per forza. – Ti sto lasciando andare, vero?
Le lacrime
ricominciarono a scorrere. Jess sorrise.
- Stiamo
già meglio, vedi?
Annuii e mi
passai una mano sugli occhi. – Vedi la luce?
Lei
indicò un punto alla mia sinistra. Mi voltai a guardare, ma
vidi soltanto il panorama del set vuoto e buio. Jess lo guardava con un
riflesso si stelle negli occhi.
- Vai, Jess.
Vai verso la luce!
Jess mi
guardò di nuovo. – Tra un istante.
-
Perché?
Si
avvicinò e mi abbracciò. Vidi la sua ombra
avvolgere la mia e una sensazione di calore mi pervase.
- Addio,
Lesley.
Nuove
lacrime scesero. – Ti voglio bene, Jessie.
Sciogliemmo
l’abbraccio e Jess, con uno sguardo complice, andò
verso la luce. Seguendola con lo sguardo, incontrai qualcosa di anomalo
nel paesaggio: come se un’alba senza colori stesse sorgendo
in un punto lontano del prato, invisibile agli occhi del mondo. Lei
stava andando in quella direzione, ma a un tratto si fermò e
si voltò verso di me con un sorriso smagliante.
- Non
è bellissima?
Sorrisi
anch’io. – È tutta tua, baby!
– Risposi.
Jess fece un
passo in avanti, poi si voltò di nuovo.
- Ah, Les?
Ho riso parecchio per la lapide. – Sorridemmo. – E
un’altra cosa: svegliati. Addio.
Drizzai le
orecchie. – Cosa?
Jess sorrise
ancora e guardò la luce e, con un passo, scomparve con un
lampo di luce. Ma la sua voce mi arrivò ancora una volta.
- SVEGLIATI!
– Mi ordinò.
Spalancai
gli occhi e scattai a sedere, ritrovandomi al buio sul letto della mia
stanza d’albergo, con la luce della luna che entrava dalla
finestra.
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Capitolo 33 *** Cap. 31 ***
La
mia vita sul set – Cap. 31
Mi
scuso per l’incredibile ritardo, ma mi è successo
una cosa spiacevole: circa due mesi fa ho scoperto che qualcuno ha
plagiato questa fan fiction. Ho segnalato la violazione, ma ancora non
è stata valutata. Perciò non sono riuscita a
scrivere per un bel po’ di tempo, quindi vi avverto: chiedo
per la schifezza che è uscita, ma è tutto quello
che sono riuscita a buttare giù dopo questa
faccenda….
Dalla
finestra arrivava il suono del traffico in strada, macchine veloci che
arrivavano e sgusciavano via indisturbate. Un sottile filo di luce
attraversava il vetro e disegnava una linea retta sul pavimento, e un
altro arrivava da sotto la porta chiusa; tutto era immobile,
silenzioso, pacifico, e solo dopo qualche secondo mi resi conto che
l’altra metà del letto era in ordine. Orlando non
era ancora tornato.
Stringendomi
le ginocchia piegate sotto le coperte, rimasi ad ascoltare: per la
prima volta, dentro di me, sentivo il silenzio. Non il confuso turbinio
di pensieri, sensazioni e rimorsi orribili che da mesi mi attanagliava
lo stomaco, ma una pace ritrovata, finalmente la quiete dopo la
tempesta.
Mi sdraiai.
Possibile che fosse stato un sogno? Possibile che fosse così
realistico, che non mi ricordassi neanche di essere arrivata in albergo
e di essermi infilata a letto? Scossi la testa e mi girai su un fianco.
No, non poteva essere stato solo un sogno, era troppo reale. Troppo
pieno di dettagli e sensazioni per essere solo frutto della mia mente.
Sorrisi tra
me e me: sogno o no, era successo davvero! Le avevo davvero detto
addio, e i miei rimpianti si erano volatilizzati come polvere al vento!
L’euforia
improvvisa mi fece aprire gli occhi, notando una cosa strana.
L’altra metà del letto era vuota e di Orlando
nella stanza non c’era traccia, ma l’orologio
segnava le tre meno un quaro del mattino. Strano che i ragazzi stessero
facendo così tardi prima di un giorno di lavoro! Forse si
erano radunati in qualche stanza a bere ancora un po’.
Probabile.
Allontanai
le coperte da me e uscii piano dalla stanza, muovendomi il
più silenziosamente possibile per non svegliare gli altri
ospiti dell’albergo. Arrivai di soppiatto fino alla stanza
che Elijah e Sean avevano affittato per il weekend e vidi che la porta
era socchiusa. Lentamente la aprii, stando attenta a non farla
cigolare, e infilai la testa dentro. Trattenni a stento una risata
quando scoprii che erano tutti ammassati lì dentro a
ronfare, alcuni accatastati per terra, come Orlando, altri buttati come
capitava sul letto matrimoniale, come Dom, Billy e lo stesso Elijah. Il
sottofondo era permeato da un russare disarmonico e disomogeneo, e
tutti avevano ancora i vestiti e le scarpe addosso! Chiudendo piano la
porta senza fare rumore e cercando di fare gimkana fra i Belli
Addormentati senza svegliarli, scavalcando Billy in posizione fetale e
evitando per un soffio la testa Sean che se la ronfava in una posa
vagamente somigliante a un tappeto a forma di orso, saltellai fino al
letto matrimoniale e mi sdraiai in uno spazietto libero in mezzo a
tutti loro a poca distanza da Dominic. Mi accasciai con un sospiro, e
Dom, che probabilmente mi sentì nel dormiveglia, socchiuse
gli occhi e sussurrò:
- Tutto
bene, sorellina?
Mi voltai
verso di lui. – Sì – sospirai e sorrisi.
– Sì, tutto bene.
Qualcuno
ridacchiò. – Ho sempre sognato addormentarmi senza
una ragazza nel letto e svegliarmici abbracciato!
- Ehi
– un’altra voce. – Vuoi botte?
- Sono
sveglia! – Bofonchiai attraverso le coperte.
- Sean, hai
finito di divertirti in bagno? – strepitò Billy,
sogghignando poi quando Sean lo mandò a quel paese
attraverso la porta.
- Dai,
piccola Les! Dobbiamo andare.
Finalmente
sollevai la testa dal cuscino. – Che devo fare per dormire in
santa pace? – Mi lamentai. Orlando, seduto vicino a me,
sorrise.
- Di sicuro
non addormentarti in mezzo a uomini casinisti e in dopo sbornia.
– Si chinò. – E poi dormire con me in un
hotel a New York.
Tutto era
pronto per il mio secondo giorno da protagonista. Pur essendo ancora
inesperta, di certo mi sentivo più pronta del giorno prima.
Se intendessi pronta a dare il meglio o pronta a fare casino, ancora
non lo sapevo. Sentivo soltanto il sangue che mi scorreva nelle vene e
il terreno sotto i piedi. Il cielo pieno di nuvole e il vento appena
più primaverile del solito.
A differenza
del giorno precedente, avremmo girato in un capannone. Diverse scene
richiedevano un’ambientazione troppo complessa per poter
usufruire della natura, quindi si sarebbe utilizzato il Green Screen.
In programma
avevo Dol Guldur, un colloquio con Haldir e uno scontro con un
Uruk-Hai. L’ultimo era quello che in un giorno normale mi
avrebbe preoccupato di più, ma avrei fatto faville!
Gli altri
membri della Compagnia dell’Anello mi avevano accompagnato
così presto sul set solo per farmi il tifo: non avrebbero
fatto assolutamente niente per tutta la giornata, per loro valeva la
pena spassarsela un po’, perché così
avrebbero avuto qualcosa in più su cui puntare al nostro
gioco “Indovina la papera”. – Per chi non
conoscesse questo gioco, “Indovina la papera” si
svolgeva così: ci sedevamo in cerchio con davanti una
bottiglia di birra, e a turno imitavamo una papera che uno di noi aveva
fatto sul set; il primo che indovinava chi era stato a sbagliare una
scena beveva un sorso di birra, e vinceva il primo che arrivava a
ubriacarsi. Ci giocavamo alla fine delle giornate più
faticose.
Mi ritrovai
con la schiena a terra prima ancora di poter avvertire il dolore sulla
fronte.
- Ti avevo
detto di stare attenta al ramo! – mi ricordò Craig
porgendomi la mano e tirandomi su, mentre Peter rideva sotto i baffi e
Dom usava la fotocamera di Viggo per fotografarmi.
- Non
pensavo che fosse così basso!
Craig rise.
– Di’ la verità: avevi paura che ti
acchiappassi e hai giocato il jolly della caduta per destare il mio
lato da gentiluomo.
-
Sì, addio. Tecnicamente oggi pomeriggio ti sto facendo
mangiare la polvere, ammettilo! Al prossimo “indovina la
papera” ti userò come ispirazione. E dire che
Allan* avrebbe dovuto metterci solo dieci minuti ad aggiustare quel
dettaglio di Dol Guldur.
- Che cosa
vuoi – rispose, e mi imitò quando mi sedetti a
terra. – Siamo in un cast di professionisti. Tu stai dando il
massimo oggi! Sei veramente bravissima: la tua interpretazione con
Christopher Lee è stata magica! – Mi
passò una nocciolina dal sacchetto che teneva in mano.
Arrossii. La
giornata lavorativa stava ormai volgendo al termine, ma mi sentivo
ancora carica di energia e fino a quel momento mi ero divertita come
una matta a recitare le scene, anche quelle di cui Peter non era mai
contento. Craig mi aveva raggiunta sul set solo dopo pranzo, tutti gli
Hobbit tranne Dom erano andati in città e Orlando era dovuto
andare ad fare un’intervista. Io e Craig avevamo fatto del
nostro meglio per circa tre ore, quando al cambio di scena su Dol
Guldur Allan si era accorto di avere sbagliato qualcosa nello scenario
e avevano interrotto le riprese.
E
così eravamo finiti lì, sul pavimento, ad
ammazzare il tempo in attesa di riprendere il lavoro.
- A
proposito, com’è finita quella storia del
matrimonio tra te e Orlando?
Saggiai la
punta di metallo della freccia che stavo rigirando fra le mani,
distratta. – Gli ho detto che avrei accettato. In un futuro
prossimo.
- E per
quanto riguarda quel favore che mi hai chiesto?
Alzai lo
sguardo. – Quello di insegnarmi a nuotare?
Lui
annuì.
- Te la
sentiresti?
- Non lo so,
Les. Ti aiuterei volentieri, ma non me la sento di rischiare,
specialmente se sei già quasi annegata. In più se
hai paura io non posso combinarci niente, e in effetti non capisco
perché chiedi questo a me e non ad un istruttore
qualificato.
-
Perché smanio dalla voglia di vederti a petto nudo!
Rise, risi.
Ma poi lui si fece subito serio e mi si avvicinò.
- Les, devo
dirti una cosa.
- Dalla tua
faccia direi che è una brutta notizia…
- Sai che
Haldir muore alla fine del film, vero?
La freccia
mi punse il polpastrello, facendone uscire una goccia di sangue. La
succhiai via. – Sì, l’avevo letto su
Wikipedia. Non vuol dire che non ci vedremo più, vero?
Craig
sorrise. – Certo che no. Se non mi dovessero chiamare per un
altro film resterò qui a farti compagnia.
- E questa
ti sembra una brutta notizia?
-
L’hai pensato tu!
Gli tirai un
pugno amichevole sulla coscia, ridacchiando. – Ti voglio
bene, Craig.
Quella
carica di positività e adrenalina durò per tutte
le due settimane seguenti. Per me fu come tornare all’inizio
di quella magnifica avventura, quando ero ancora un’inesperta
ragazzina finita in Nuova Zelanda quasi per caso. Per me tutto aveva
assunto colori nuovi, come se un arcobaleno fosse esploso e fosse
caduto come neve su tutto ciò che mi circondava. Mi
sorprendevo sempre dei gesti più insignificanti come
prendere in mano una tazzina del caffè o spazzolarmi i
capelli. Vivevo ogni secondo come il primo della mia vita. Finalmente, focalizzavo. Realizzai che per
tutti quei mesi mi ero soltanto illusa di star vivendo, oppressa
com’ero da quel senso di smarrimento e di delusione di me
stessa. Ma adesso, adesso mi sentivo davvero parte della mia stessa
vita. Provavo una sensazione di controllo e potere come mai prima di
allora. Credo che anche gli altri notarono il cambiamento del mio
comportamento, e lo accolsero a braccia più che aperte.
Ringraziavo
per qualsiasi cosa mi accadesse: che fosse una birra insieme alla
Compagnia o una scena girata cinquanta volte prima di risultare
soddisfacente, che fosse un abbraccio appassionato con Orlando o un
acquazzone preso senza un ombrello, tutto aveva il significato di vita.
E
così, tra il lavoro, le birre al bar e una gioia
irrefrenabile, quelle due settimane passarono.
E
arrivò il giorno della prima della Compagnia
dell’Anello.
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Capitolo 34 *** Cap. 32 ***
La mia vita sul set
– Cap. 32
La
macchinetta del caffè finì di versare nel
bicchiere l’immondo liquido nerastro con uno sbuffo di
soddisfazione, e il barista mi porse la tazzina poggiata su un piattino
con aria ancora non del tutto sveglia. La presi e ingoiai il
caffè in un sorso, buttando giù i fondi di
zucchero. Lanciai un’occhiata dietro di me: l’area
dei gate, piena di negozi quasi tutti semichiusi, era praticamente
deserta. C’eravamo solo noi, seduti sulle panchine con i
trolley fra i piedi, ad aspettare che chiamassero noi e i pochi
viaggiatori presenti sull’aereo per Wellington. Tutti
semiaddormentati. Tranne me. Io ero al quinto caffè e
l’idea di prenderne un sesto mi allettava parecchio. Lanciai
un’altra occhiata al barista.
- Lesley,
prendine un altro e ti arresteranno per alcolismo!
Mi voltai
verso Dominic. – Il caffè può essere
considerato bevanda per alcolisti?
-
Sì, se fai abuso del barista!
Quello, da
dietro il bancone, gli rivolse un sorriso di ringraziamento. Dominic si
tolse gli occhiali da sole e mi sorrise ammiccando. – Non
c’è mica da preoccuparsi così tanto,
eh. Sarai solo sotto gli occhi di tutti.
Scesi
controvoglia dal seggiolino e tornai a sedermi in mezzo a Dom e
Orlando, che se ne stava lì addormentato con la faccia
nascosta in una rivista.
- Sono solo
un po’ nervosa! È il mio primo film!
- Lo so,
sorellina, ma siamo svegli solo da un paio d’ore e
l’hai già ripetuto quattordici volte. –
Ribatté stringendomi in un abbraccio. –
Relaaaaaaaaaaax!
- Ahia! Dom!
Non spettinarmi i capelli!
Lui rise
– Che importa? Avrai una schiera di parrucchieri a tua
disposizione prima della prima!
Elijah,
dalla panchina dietro alla nostra, gli tirò un coppino sulla
nuca.
- Lasciala
andare, Dom! E non dirle bugie! Poi piangi, se lei ti fucila.
Dom rise
ancora e allentò la presa, lasciandomi alzare di scatto. Gli
feci una linguaccia degna di un bambino di prima elementare e mi
diressi verso l’edicola, sistemandomi i capelli con una mano
ma ridacchiando fra me e me.
Lo stand
dell’edicola era addobbato a festa più di tutto
l’aeroporto messo insieme.
- Qualcuno
qui è ossessionato col Natale…
Guardai il
cassiere: pareva un cadavere con la testa sul bancone. Continuai a
girare fra le pile di giornali in cerca di qualcosa con cui passare il
tempo durante il volo; valutai una rivista di enigmistica, una di
architettura e una di cinema, che non presi solo perché
avevo il terrore di scoprire cosa avrebbero detto sull’uscita
del film. Mi ero ormai arresa, quando l’occhio mi cadde su
una faccia conosciuta stampata su una copertina. Mi avvicinai, presi il
giornale di gossip fra due dita e lo tirai fuori lentamente: dalla
prima pagina Orlando mi restituiva lo sguardo. Un dolcissimo e
profondissimo sguardo che mi sciolse immediatamente. Guardai il titolo.
“Orlando Bloom: il mio cuore ha
gli occhi verdi”.
Mi strinsi
la rivista al petto. Evidentemente l’avevo trovata!
- Gentili viaggiatori, qui
è il comandante che vi parla. Benvenuti sul volo Air Zealand
457. l’atterraggio è previsto per le sette del
mattino al Wellington International Airport per le sette in punto. Vi
preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza per la partenza e vi
auguriamo buon viaggio.
Contaci,
amico! I quattro caffè avevano già smesso di fare
effetto su di me e avevano lasciato alla concentrazione e
all’euforia. Orlando aveva scambiato il suo posto con Bernard
e stava cercando a tutti i costi di fare entrare anche il mio trolley
negli scomparti sulle nostre teste. Gli rivolsi un sorriso e lui
ricambiò. Cercai di non badare ai muscoli dei suoi
avambracci che spuntavano dalla maglietta a maniche corte: non potevo
saltargli addosso su un aereo se non volevo essere denunciata per atti
osceni in luogo pubblico!
- Ehi,
piccola, cos’hai comprato in edicola? – Mi chiese
alludendo alla rivista che avevo messo sul tavolino, prima di lanciarsi
sul sedile accanto a me.
- Oh,
niente! È solo una cosetta che ho trovato in edicola.
Orlando
sbirciò da sopra la mia spalla.
- Ah, ho
capito! – Esclamò sornione p.
Quando
l’aereo decollò gli Hobbit si lanciarono in un
urlo entusiasta. Io cominciai a battere le mani sul tavolino e a urlare
ripetutamente “Andiamo alla prima del film!”.
Orlando si mise a ridere e cominciò a farmi eco, seguito da
Elijah, Dominic, Billy, finché tutto l’aereo non
risuonò del nostro coro e gli altri passeggeri della prima
classe non iniziarono a urlare di smetterla. Perfino Sean si stava
divertendo come un pazzo!
Smettemmo
solo quando arrivarono le hostess con la sicurezza a intimarci di
tacere, se non volevamo disturbare i piloti e causare la caduta
dell’aereo. Testuali parole. Perciò, quando Orlie
si mise le cuffie alle orecchie e si addormentò, io presi la
rivista e andai direttamente alla sua intervista.
Orlando
Bloom: ho un cuore dagli occhi verdi.
Fascino,
bellezza, un affabile sorriso. Orlando Bloom è quello di
sempre.
Salve,
Orlando. Non è cambiato da quando ci siamo incontrati la
prima volta.
[risata]
Molto gentile da parte sua, grazie. Lei oggi è molto bella.
La
ringrazio molto. Allora, questi primi mesi di riprese come sono andati?
Davvero
molto, molto bene. Il regista [Peter Jackson, ndr.] ha tutto in mente
molto chiaramente. Credo che non si potesse scegliere regista migliore
per rappresentare Il Signore degli Anelli.
E
il cast?
Siamo
fratelli. È ovvio che ci amiamo l’un
l’altro, non potrei voler loro più bene. Siamo
come boy-scout! Ma Peter ci ha dato anche una compagna bravissima,
Lesley Dalton.
Che
mi dice di lei?
È
la mia principessa. Ci divertiamo sempre a stuzzicarla sul set e lei ci
rincorre con le padelle della mensa [risata]. Sono grato a Peter per
averci affiancato una ragazza così talentuosa, dà
anima e corpo al suo lavoro.
Da
queste parole sembra molto affezionato a lei.
La
amo.
Quindi
tutte le voci su una vostra possibile relazione sono veritiere.
Certo!
Sono state vere fin dall’inizio e non me ne vergogno. Ricordo
la prima volta che abbiamo trovato foto di noi sulle copertine dei
giornali: Lesley è diventata matta e ha comprato
praticamente tutta l’edicola. Ha lasciato agli altri clienti
solo le riviste di enigmistica [risata]. A me non importava, ma
l’importante è lei. Lesley ha illuminato la mia
vita. Che rimanga fra noi, se morissi e mi aprissero per
l’autopsia troverebbero al posto del mio cuore una foto di
Lesley! Il mio cuore ha gli occhi verdi. [Sorride].
Adesso
si vocifera sulla morte di Legolas…
[Strabuzza
gli occhi]. Davvero? Non lo sapevo. No, Peter non sta progettando
niente di simile, è solo una diceria.
Passiamo
al suo personaggio, Legolas. È il suo primo ruolo
importante, come si è trovato a interpretarlo?
Io
e Legolas siamo molto diversi: lui è saggio, posato, un
killer freddo ma un amico leale. Io gli assomiglio solo per
l’ultima caratteristica! Ma dopo averci fatto
l’abitudine mi riesce naturale immedesimarmi in lui e nei
suoi pensieri. È sempre impegnativo, intendiamoci, ma Peter
è molto permissivo e puntiglioso al tempo stesso: se gli do
quello che lui vuole durante le riprese lui mi lascia fare qualcosa
liberamente.
Si
tratta di favori riservati solo a lei?
Oh,
no. Succede per tutto il cast.
Se
Peter Jackson dovesse richiamarla sul set fra, per esempio, dieci anni,
lei accetterebbe?
Certamente!
Non esiterei un solo istante. Adoro la Nuova Zelanda, adoro il cast,
adoro il Signore degli Anelli, adoro Peter. Non me ne andrei mai di qui.
Desidera
una famiglia tutta sua?
È
uno dei miei sogni segreti, non lo dica a nessuno! [Risata]
Siamo
arrivati all’ultima domanda: posso permettermi di toccare un
argomento personale?
Mi
dica… spero che non sia troppo personale!.
Non
credo. Sappiamo che Lesley Dalton ha avuto una perdita l’11
settembre. Lei, da osservatore imparziale, come ha trovato la sua
reazione alla notizia?
…È
difficile, soprattutto perché continuano a farle domande
sulla sua perdita. Lei non vuole parlarne e, personalmente, credo che
mai lo farà. Penso che ormai debbano smetterla di starle sul
fiato sul collo per estrapolarle due parole sulla sua amica: lei
è una persona sensibile e intelligente e tutta queste
domande la fanno star male.
Signor
Bloom, io non l’ho chiesto a Lesley, ma a lei.
Ciò
che ferisce Lesley ferisce anche me. Non chiederò scusa per
questo.
Capisco.
La ringrazio, Orlando.
Grazie
a lei.
- Liv! Liv,
mi devi richiamare. Dai, Liv! È un emergenza! Sono nei
casini! Ti prego, richiama!
Chiusi la
comunicazione e lanciai il cellulare sul letto. Rimasi lì in
piedi in asciugamano, con le goccioline d’acqua che dai
capelli bagnati mi scorrevano lungo il corpo, e il vestito verde di
Valentino steso sulle lenzuola accanto a uno azzurrino e lungo di
Armani. Avevo fatto tutto quanto: mi ero depilata tutto il corpo,
tagliata le unghie, pulita il viso, tolto completamente il trucco,
lavato accuratamente i capelli. Mi rimaneva solo da mettere il vestito.
E non. Sapevo. Quale.
Il
telefonino, andato a finire sotto il cuscino, si mise a squillare. Mi
lanciai a prenderlo come un razzo e risposi. La linea era leggermente
disturbata.
- Liv!
- Lesley,
rilassati ok? Sono appena atterrata!
- Liv,
sbrigati! È un’emergenza!
Liv
sospirò. – Mi dai almeno il tempo di arrivare in
albergo?
- Certo!
Però sbrigati!
- Posso
cambiarmi in camera tua?
- Certo!
Sbrigati!
- Lesley,
calmati o ti polverizzo.
- Vuoi
scherzare! Questa è la prima del mio primo film!
-
L’hai detto già nel secondo messaggio che mi hai
lasciato… comunque, sono in taxi. Se aspetti un quarto
d’ora mi trovi lì.
- Ma
perché tu non hai nessun problema? – Piagnucolai
– Tu sei bellissima, ti basterebbe metterti un sacco della
spazzatura e ti ritroveresti tutti gli uomini di questo mondo ai tuoi
piedi… Io invece mi ritrovo con la statura di tua sorella
Mia e il volto di un cavallo del palio di Siena. Sto qua come una scema
a non sapere decidere se mettere il vestito di Valentino o quello di
Armani e tu non arrivi! Liv, sbriga…
…Aveva
riagganciato.
Corsi ad
aprire appena sentii bussare alla porta. Liv mi guardava come se stesse
per azzannarmi alla giugulare e al tempo stesso abbracciarmi materna. I
capelli arruffati, la mano serrata sul manico del trolley e la giacca
annodata alla vita che le cascava sulle ginocchia mi fecero intendere
che si era davvero sbrigata.
-
Farò finta di non aver sentito il commento su mia sorella.
– Mi annunciò scansandomi e facendosi largo nella
stanza.
- Sono nel
panico, Liv!
Lei fece
cadere il trolley sul pavimento e fissò allibita i vestiti
stesi sul letto. Li indicò.
- Mi hai
davvero fatta correre come una pazza perché non sai
scegliere fra questi due?
Mi avvicinai
al letto. – Quello verde l’ho preso per il colore,
pensavo stesse bene coi miei occhi, mentre quello azzurrino lo trovo
più fine. Non so scegliere!
Liv
sospirò. – Metti quello verde. Quello azzurro con
te non c’entra un bel niente. Anzi, t’ingrassa.
Oh, Dio.
– Prendilo, Liv. Prendilo e caccialo fuori dalla finestra.
Liv mi
guardò sorridendo divertita. – E cosa farai con i
capelli?
- Pensavo di
tenerli sciolti…
- Ottimo! Le
cose complicate falle per New York e Tokyo. Qui fa’ vedere
alla gente quello che sei, non quello che Hollywood cercherà
di fare di te.
Per evitare
contatti troppo diretti e assillanti con la stampa, gli organizzatori
avevano affittato per la nostra troupe le stanze di un albergo poco
fuori Wellington, distante circa un chilometro e mezzo dal cinema.
Prepararsi insieme alla bellissima Liv con la consapevolezza che
Orlando e i miei fratelli si stavano preparando per la prima del film
era surreale ed eccitante.
Ci
incontrammo nell’atrio dell’hotel quando le auto
nere decapottabili che ci avrebbero scortato fino in centro si
fermarono davanti all’entrata. Erano tutti splendidi:
perfettamente vestiti, puliti e pettinati – anche se dovetti
sorvolare sull’abbigliamento di OB… abbastanza
orripilante – e tutti sorridevano smaglianti. Evidentemente
non ero l’unica ad essere iperattiva per
l’eccitazione!
Stacchettai
di corsa verso Orlando che mi accolse con un abbraccio e un sorriso.
- Non ti
bacio solo perché rovinerei il tuo rossetto… - Mi
sussurrò all’orecchio.
- Ti rifarai
stanotte, non ti preoccupare!
Abbracciai
Elijah, Viggo, Dom, Liv – per l’ennesima volta -,
Peter, John, Bean, Sean, Billy, Sir Ian, zio Ian, Fran, Philippa,
Barrie, Orlando.
- Ehi Les,
non ti stai mica per sposare! – Scherzò Viggo
davanti alla mia calorosità mentre Peter, Fran, Philippa e
Barrie, dopo aver ricambiato il mio abbraccio, uscivano chiacchierando
e salivano in macchina lasciando da soli noi del cast.
- Certo,
Viggo, lo so! Ma lo sai, perché te l’ho
già detto… - mi rivolsi a tutti quanti.
– Ragazzi, grazie. Grazie per tutto quello che mi avete
regalato. Mi avete insegnato a vivere e a ridere. Siete la mia
famiglia.
Bean mi
guardò e sorrise commosso, per poi alzare il bicchiere di
champagne che teneva in mano, imitato da ciascuno di noi.
- Alla
Compagnia dell’Anello. A Peter e a quello che ha creato. E
alla nostra Lesley.
- Alla
Compagnia dell’Anello! A Peter! A Lesley! –
Gridammo – io saltai l’ultima -, e scolammo lo
champagne leggermente frizzante.
- Vi
ringrazio per il brindisi, ragazzi – disse la testa di Peter
che sbucava dalla porta d’entrata. – Ma ci conviene
andare o faremo tardi!
Secondo il
navigatore satellitare, al cinema mancava ancora poco più di
un chilometro. Eppure, l’atmosfera di Wellington era
totalmente cambiata dall’ultima volta che l’avevo
vista: adesso le persone in strada erano tantissime a formare delle
file che si dirigevano verso il centro città. Tantissimi
avevano in mano una copia del Signore degli Anelli o una locandina del
film.
- Stanno
tutti venendo a vedere la prima? – Dissi fra me e me
ammirandoli da dietro il finestrino oscurato.
- Si direbbe
– rispose Bean eccitato dal sedile anteriore. –
Dio, quanto mi piacciono le prime!
- Calma
Sean! Non saltellare o quelli là fuori avranno strani
pensieri! – Lo ammonì John, e sir Ian accanto a me
rise.
- Oh,
Lesley, non vorrei che tu ti allarmassi troppo, ma dicono che ci
sarà anche il signor Colt.
Guardai sir
Ian. – Davvero? – Lui annuì. Feci
spallucce. – Beh, finalmente avrà
l’occasione di vedere quello che Peter è stato in
grado di fare e dirà alla New Line di sganciare i soldi per
il Ritorno del Re!
John
ridacchiò. – Brava ragazza.
La macchina
partì ad un semaforo verde e imboccò una strada a
senso unico, dove il marciapiede era su entrambi i lati pieno di
persone eccitate che si muovevano in una sola direzione, il centro.
- Non ci
credo. Stanno venendo tutti per noi? Sapevo che erano eccitati ma non
pensavo così tanto!
- Non sono
molti quelli che ambientano un film fantasy in Nuova Zelanda, specie se
di questa portata. – Rispose Ian. – Ho lavorato in
molte opere ma, devo dire la verità, poche volte ho visto
cose simili. Sarà una premiere da ricordare, a mio parere.
- Grazie a
tutti per essere qui. Grazie infinite. Sono così fiero che
Wellington sia diventato una parte di noi! Grazie! Se nelle prossime
settimane vi capiterà di vedere il film, spero vi
piacerà. Perché è stato fatto qui a
Wellington.
Alle parole
di Peter la folla urlò entusiasta
- Un
bell’applauso alla compagnia dell’anello!
– incitò il presentatore nel microfono, e al di
sotto del palco su cui eravamo in semicerchio si alzò uno
scrosciare di mani simile alla pioggia di un temporale. Sorrisi ancora
e salutai con il braccio alzato percorrendo con lo sguardo tutta la
piazza davanti al cinema. Avevano addobbato tutto per
l’occasione: dal palco di tek e scalette di ferro e plastica
davanti al cinema che sfociava in un tappeto rosso – il red carpet! Oh Dio,
il RED CARPET! – che si dirigeva verso lo stesso, ai
palloncini di vari colori attaccati ai vasi di pietra delle piante
sparse per la piazza, alla facciata del cinema che presentava la
locandina del film alta praticamente tre volte me.
Dopo
un'altra raffica di saluti Peter si diresse verso l’entrata
del cinema, seguito dai produttori, da Matthew Colt –
caratterizzato da una spettacolare maschera neutra – e infine
da noi attori.
L’interno
del cinema era semplice: evidentemente avevano già informato
Peter della strada verso la sala video, perché ci si
fiondò entusiasta. Sean, che chiudeva la fila, sembrava
incalzato dalla schiera di spettatori che ci inseguiva come topi dietro
al Pifferaio Magico.
Mi sedetti
fra Orlando e Sean. La folla di spettatori non era l’unica in
visibilio: io non stavo un attimo ferma!
Quando la
sala fu gremita di gente e di brusio insistente e le luci si spensero,
Orlando mi afferrò una mano e la strinse con forza.
-Mi
raccomando, se hai paura stringimi la mano –
scherzò.
- E se tu
hai paura, stringi la mia!
Il brusio a
poco a poco scemò. Il megaschermo si illuminò e
le prime immagini che vedemmo furono il trailer del film.
Già da quel momento il mio cuore cominciò a
martellarmi contro lo sterno.
- Les, ti
sento sin da qui! Sai calma o a momenti ti verrà un infarto!
– Bisbigliò Orlando.
- OB,
è anche il tuo primo film! Non sei emozionato come me?
Lui mi prese
una mano e se l’appoggiò sul petto. Anche il suo
cuore stava ballando la samba.
Lo schermo
divenne di nuovo nero, e la suadente e antica voce di Cate Blanchett
iniziò a dire cose in elfico e poi a tradurle in inglese,
mentre una musica inquietante e bellissima suonava e “Il
Signore degli Anelli” compariva lentamente, dorata su sfondo
nero.
- Il mondo è cambiato.
Lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto
nell’aria. Molto di quello che è stato,
è perduto. Perché ora non vi è nessuno
che lo ricorda.
Fu
un’esperienza indimenticabile, per me e per tutti quelli
presenti in quella sala. Il pubblico aveva partecipato, qualcuno aveva
fischiato alla mia prima scena – cosa che mi
lusingò parecchio -, trattennero il fiato alla cavalcata di
Arwen e al combattimento su Colle Vento, si entusiasmarono alla vista
del Balrog e esclamarono di vittoria quando Aragorn passa attraverso
gli Uruk-Hai uccisi per correre da Boromir morente.
Rimasi
scioccata nel vedere come avevano reso il lavoro spezzettato che
avevamo fatto in quei mesi, e come nel montaggio avessero messo tutto
alla perfezione, tagliato delle scene e modificato i colori delle
riprese per far combaciare tutto alla perfezione. Howard Shore aveva
fatto un lavoro incredibile: la musica ti coinvolgeva, sembrava fatta
apposta per la pellicola, e sottolineava benissimo gli avvenimenti nel
film. Molto spesso mi dimenticai di essere io, quella sullo schermo:
avevano fatto un lavoro eccezionale per modificare Hery. Mi avevano
riprese moltissime volte senza che io me ne accorgessi, soprattutto i
primi piani. Non capii se avessero alterato il colore dei miei occhi
all’inverosimile o se non mi fossi mai guardata davvero allo
specchio. Per tutto rimasi a bocca aperta come un merluzzo. Veramente
incredibile.
- Non voglio
addormentarmi. Potrei svegliarmi nella mia camera del college e
scoprire che non è mai successo nulla! Non voglio andare a
letto! Sento che potrei correre intorno all’isolato!
– Cantilenai.
- Ti prego,
non farlo. Sono le due di notte e ho sonno. – Si
lamentò Orlando girando la chiave nella toppa della sua
porta di casa. Erano mesi che non ci entravamo e mi aspettavo che tutto
fosse ricoperta da uno strato di polvere alto due metri. E invece no.
- Ehi,
è pulito! – Esclamai entrando.
- Per forza.
Credi che avrei fatto lasciare tutto in disordine dagli affittuari? Ho
chiamato un’azienda di pulizie ieri e ho fatto sistemare
tutto. I ragazzi invece dovrebbero aver lasciato i soldi sotto il
calorifero in salotto… ma adesso sto davvero crollando.
Risi.
– Le ragazze non ti hanno lasciato stare un momento.
Orlando
sorrise. – Io e Viggo eravamo le star!
- Beh, i
signori hanno gradito anche la mia persona! Hai sentito quando hanno
fischiato alla mia prima scena?
Cominciammo
a salire le scale. – Sì, e devo ammettere che non
avevano tutti i torti! Emma ha fatto davvero un buon lavoro a rendere
così bene. Nella realtà non sei mica
così eterea…
Aprì
la porta della camera da letto.
- Ehi, elfo,
cosa vuoi dire?
Mi
guardò sorridendo sotto i baffi.
- Che in
realtà hai un brutto muso.
Lo inseguii
fino alla porta del bagno, dove lui si chiuse a chiave e
cominciò a farsi una doccia – alle due di notte?
-. Io, scartando a prescindere l’idea di andare a dormire,
cominciai a rovistare in giro.
Dopo il film
non avevamo neanche fatto in tempo ad alzarci dalle poltrone che i fan
si misero ad assillarci, chiedendo di autografare le locandine o nostre
foto di paparazzi o scattare qualche foto insieme a loro. Riuscimmo a
respirare un po’ d’aria solo grazie a un tizio
della sicurezza che li placcò fino a che non uscimmo, per
poi farceli di nuovo saltare addosso. Loro e tutti quelli che erano
rimasti fuori dal cinema.
L’attenzione
del pubblico scemò solo poche ore dopo, quando ormai era
l’ora di cena. Noi, ancora troppo entusiasti per poter
separarci, andammo a festeggiare ad un pub. Dopo più o meno
cinquanta brindisi a Peter, al cast, alla crew, agli stunt e alle
chiappe della nonna degli stunt, uscimmo in strada. Orlie mi convinse a
dormire a casa sua, e davanti alle mie proteste si convinse ad
accompagnarmi in hotel in taxi a prendere le mie valigie.
Ed ora
eccoci lì, nella casa che Orlando si era comprato a
Wellington all’inizio delle riprese, a farci la doccia a
notte fonda fra il 19 e il 20 dicembre. E quando uscii tutta
gocciolante dal bagno e trovai Orlie steso sul letto a ronfare, mi
sistemai accanto a lui e cominciai a guardare televendite di prodotti
per la casa a bassissimo volume. Finché
l’adrenalina non smise di fare effetto e mi addormentai
anch’io con la tv accesa.
- Jingle Bells, Jingle Bells,
Jingle all the way! Oh what fun it is to ride in a one-horse open
sleigh! – Continuai a cantare a squarciagola
saltellando sul marciapiede e fancendo sballottare i sacchetti dei
regali che avevo appena comprato. – Buon Natale, buon Natale
a tutti!
Turisti in
pantaloncini si giravano a guardarmi, ma a me non importava. Natale in
spiaggia, ma ci pensiamo?! In realtà saremmo andati in
spiaggia il giorno dopo: quella sera, la Vigilia di Natale, avremmo
fatto un cenone a casa di Orlando. In pantaloncini, canottiera e
occhiali da sole. Roba da matti.
Eccomi!
Anche se un po’ in ritardo (come sempre), Buon Natale e
felice 2014! E siccome siamo in vena di regali, vi annuncio questo: si
è formata un’alleanza! Non vi stupite se trovate
la mia cara Lesley nella fan fiction di Stargirl1998 “The
world behind The Hobbit”, abbiamo fatto un accordo e le ho
dato il permesso di inserirla! Per darvi due informazioni, la storia
è ambientata circa dieci anni dopo “La mia vita
sul set” e l’attore protagonista è Aidan
Turner. Ma non posso dire di più perché
altrimenti mi segnalano.
Spero
che questo capitolo sia valso l’attesa!
Saluti
Nut
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Capitolo 35 *** Cap. 33 - Epilogo ***
La
mia vita sul set
Cap.
33 – Epilogo
Ero quasi
arrivata a casa dopo aver comprato gli ultimi ingredienti per il
dessert, quando Orlando mi chiamò al cellulare.
- Ciao OB!
Sto proprio per svoltare l’angolo – risposi.
- Ciao Les!
Sai cosa mi chiedo?
- Cosa?
– Girai. La casa era proprio in fondo alla strada.
- Ci staremo
tutti, stasera? Intendo, siamo invasi dal cibo!
Mi misi a
ridere. – Probabilmente ne faremo fuori la metà
prima di stasera: siamo dei cani a cucinare. La doccia è
rimasta libera dai pacchi di pasta? Sto sudando come un maiale e mi sto
amputando due dita.
- Ferma
lì, vengo a darti una mano.
Chiuse la
telefonata e, in fondo la strada, lo vidi uscire di casa e dirigersi di
corsa verso di me. Posai per terra un sacchetto per spegnere il
telefono.
Aveva
indosso una canottiera blu e dei pantaloncini bianchi e appena
arrivò mi diede un bacio, prima di prendere il sacchetto a
terra e quello che tenevo in mano.
- Non dubito
della forza nascosta nei tuoi ridicoli polsini, ma potevo aiutarti
prima che perdessi una mano!
- Ridicoli
polsini? – Gli avvolsi la vita con un braccio. –
Bene, allora non verrò in tuo soccorso la prossima volta che
non riuscirai ad aprire il barattolo dei sottaceti!
Orlando
rise. – Chiamerò i pompieri…
Rimanemmo in
silenzio attraversando la strada, fino alla porta di casa. Orlando
posò i sacchetti sul patio e si stiracchiò.
- Bene
– disse voltandosi verso di me. – Apri?
Lo guardai
perplessa. – Io non ho le chiavi, Orlie. Sapevo che ci
saresti stato tu in casa.
Mi
rifilò un’occhiata raggelata. – Io non
le ho prese perché pensavo che le avessi tu!
Ah, ok.
Meraviglioso! Eravamo chiusi fuori casa. Orlando guardò
sconsolato il pomello della porta e sospirò. Restammo
qualche secondo a guardare sconsolati la porta.
- Due minuti
fa ti sarei saltata addosso. Adesso lo farei solo per strozzarti.
–
Mi sa che i pompieri li dovremo chiamare davvero… -
Ribatté lui senza prestarmi attenzione.
- Se
restiamo a fissare la porta non si aprirà per
magia… Non c’è una finestra aperta?
– chiesi, sperando di non dover scomodare i vigili del fuoco
per una cosa così imbarazzante.
- Al piano
di sotto no, o almeno quelle del salotto. Ho lasciato aperta solo
quella piccola sopra i fornelli…
Dal patio
partiva una staccionata bianca che separava il giardino anteriore da
quello principale sul retro. Orlando mi aiutò a scavalcarla
e mi seguì a ruota.
La cucina
della casa era un’enorme vetrata con una portafinestra che
dava sul giardino. Le finestre più grandi non si potevano
aprire ma sopra i fornelli, in alto, c’era un piccolo infisso
aperto verso l’interno.
Guardammo in
alto. Era troppo in alto per poterci arrivare da sola…
-
…ma forse se mi spingessi… - mormorai.
- Cosa?
- Prova a
spingermi, magari ci arrivo!
Orlie mi
guardò apprensivo. – Non sono sicuro, piccola.
Potresti farti male… Sarebbe meglio chiamare qualcuno. Sean
ha i numeri di tutti i fabbri della città! Mille grazie ad
Elijah, ovviamente. – Scherzò.
Sorrisi.
– Sarebbe un’idea, ma il burro si
squaglierà!
- Da quando
il burro è diventato più importante della nostra
incolumità?
- Dal
momento in cui sono uscita per l’ennesima volta dal
supermercato e mi è passata la voglia di tornarci. Dai!
Salto in groppa ai cavalli! Ci riuscirò. Forza, cinque
dollari che ce la faccio.
Lui
sospirò e si incrociò le mani davanti,
porgendomele.
- Stai
attenta, pazzerella.
Gli misi la
mano sulla spalla e il piede sulle mani, poi appena mi alzò
piazzai l’altra mano sullo stipite della finestra.
- Su! Su
ancora un po’!
Sentii Orlie
grugnire per lo sforzo e spingermi in alto e praticamente mi lanciai
contro la finestra. Afferrai il davanzale con entrambe le mani e mi
alzai sulle braccia. Imprecando, mi misi a cavalcioni della finestra,
piegata su me stessa per via delle dimensioni ridotte.
- Les,
occhio!
- Oh, zitto!
Se tu sei cascato da un tetto non vuol dire che lo debba fare
anch’io!
Mi sedetti
tenendomi sulla cornice della finestra, allungai una gamba e poggiai il
piede tra i fornelli e il bancone. Poi saltai a terra. Alla faccia di
Orlando: io mi arrampico su alberi e case!
Corsi ad
aprire la porta attraversando la cucina.
- Dovrebbero
farci le Olimpiadi su questa disciplina, vincerei l’oro di
sicuro! E ho anche vinto cinque dollari!
- Contaci!
– Disse superandomi per portare i sacchetti in cucina.
Cominciò a mettere le cose in frigo. –
Già che ci sei mi lanci una mela?
Lo feci un
po’ troppo forte e lo presi in fronte.
Stavo
finendo di sistemare i piatti in tavola quando un gran miscuglio di
voci e una scampanellata mi annunciarono che gli ospiti erano arrivati.
La musica natalizia si diffondeva nell’aria dallo stereo nel
salotto e sotto l’albero acceso di luci c’erano i
regali.
- Buon
Natale!
- Les, hai
un po’ di spazio per il carretto in casa? – Fece
Dominic avanzando verso di me.
- Il
carretto?
Billy si
scostò per mostrarmi la carriola piena di regali che Dom si
stava trascinando dietro. – Non avevamo abbastanza braccia
per portarli tutti, così abbiamo rubato quella da un
giardino poco lontano da qui – spiegò.
Li guardai
stranita. – E la macchina?
-
L’abbiamo lasciata parcheggiata accanto alla slitta!
– Rispose sorridendo Viggo.
- Non ci
capisco più niente… - borbottai guardandomi in
giro. Gli occhi mi si posarono oltre il giardino, lungo il marciapiede
davanti alla casa. – Craig! – chiamai. Era proprio
lì davanti. – Che ci fa lì la tua
Harley?
- Non
è la mia Harley – ribatté.
- E di chi
è allora?
Gli Hobbit
sghignazzarono. – È il tuo regalo di Natale!
Mi ci volle
un istante per metabolizzare la notizia.
- Oh mamma
mia! Oh mamma mia! – Mi lanciai per strada e corsi ad
abbracciare la moto. – Oh mio Dio! Una Harley Davidson! Oddio!
I ragazzi
ridevano, felici di vedermi così entusiasta.
–
Ma Les, dov’è Orlie?
-
E’ di sopra a farsi la doccia! – Risposi afferrando
il manubrio della moto.
La mandria
di bufali quasi si travolse per sorpassarsi l’un
l’altro urlando e correndo verso il bagno. Sentii dal bagno
Orlando urlare terrorizzato perfino dal marciapiede. Con uno sbuffo
scesi dalla moto e tornai in casa, fermandomi nell’ingresso.
Le urla dal bagno continuavano.
Craig
spuntò dalle scale.
- A
proposito, Lesley, la sai l’ultima? Peter te l’ha
detto?
- Che cosa?
- Sorridi,
piccola: hai la nomination all’Oscar!
Di tutti i
Natali che avevo festeggiato con la mia famiglia, nessuno
riuscì a battere quello che celebrammo in Nuova Zelanda. A
parte sentirci dire che neanche le mosche avrebbero apprezzato la
robaccia immonda che avevamo cucinato io e Orlando, andò
tutto benissimo. Anche quando Dom rischiò di mandare a fuoco
la casa perché si era messo in testa di saper fare un
flambé. A momenti flambé lo diventavamo noi! E
finimmo anche per scartare i regali ubriachi, anche se io non riuscivo
a distogliere gli occhi dalla Harley parcheggiata nel giardino. Gli
altri lo avevano notato, dal momento che non facevano altro che
lanciarmi fra le gambe le cartacce dei regali e mettermi in testa i
fiocchetti dei nastrini. Che stupidacchiotti.
Non finimmo
mai tanto ubriachi quanto lo fummo a Capodanno, però.
Eravamo squisitamente, visivamente e perdutamente fuori di testa.
Qualcuno di noi era già finito in mare, e tutti avevamo la
sabbia dentro alle mutande, anche se la maggior parte di noi non aveva
idea di come ci fosse finita. A mezzanotte, sotto i fuochi di
artificio, convinsi Orlando ad appartarci dietro ai cespugli. Lui non
voleva starmi vicino perché temeva di potermi saltare
addosso e non avevamo le protezioni necessarie, ma gli strappai la
bottiglia di vodka fra le mani, costringendolo a rincorrermi fin
là dietro.
Il mattino
dopo ci svegliammo tutti ammassati l’uno sull’altro
e completamente bagnati. Il Sole mi faceva male agli occhi e, per
quanto mi sforzassi, da mezzanotte in poi non ricordavo più
niente. Solo la corsa fino ai cespugli, poi il buio. Nemmeno Orlando
aveva ricordi di quel lasso di tempo.
Ma qualcosa
di quella notte rimase. Lo capii dalla striscia rosa che campeggiava
sul test di gravidanza. Mi ero già accorta sul volo per New
York di avere un ritardo di parecchi giorni, e adesso
quell’affarino di plastica bianca mi diceva che aspettavo un
bambino.
Dalla
finestra del bagno di casa mia si scorgeva lo skyline della
città, scurito dalle ombre del crepuscolo. Non che in quel
momento mi interessasse molto.
- Non puoi
dire sul serio – balbettò Orlando, guardando il
test che tenevo in mano.
- Se
è rosa vuol dire che sono incinta, Orlando!
-
Ma… abbiamo usato tutte le protezioni necessarie…
- Si sedette sul gabinetto e si passò una mano sugli occhi.
– Quando può essere successo?
- Ogni volta
abbiamo preso le precauzioni giuste, non può essere stato un
incidente! A meno che… - trattenni il fiato. – Oh,
Signore! Capodanno!
Mi
guardò terrorizzato. – Dio mio, che cosa abbiamo
fatto?
Mi poggiai
contro il lavandino. Flash cominciarono a balenarmi davanti agli occhi.
I fuochi d’artificio che scoppiavano in cielo, le grida di
gioia che si levavano dalla spiaggia… e io e Orlando, nudi
dietro ai cespugli. – Oh, no.
- Che cosa
facciamo? – Farfugliò. – Non posso avere
un figlio, non sono pronto! Ho ventun anni, Cristo Santo!
- Credi che
io sia pronta invece? Ne ho solo diciotto! Mio padre ci farà
secchi!
- Lesley!
È pronta le cena! – La voce di mia madre
passò attraverso la porta.
- Siamo
morti. Siamo fatti secchi, ammazzati, trucidati. Peter ci
taglierà la testa. – Borbottai aprendo la porta e
andando in corridoio.
- Mi
preoccupa di più mia madre, a dire la verità
– replicò Orlando, seguendomi a ruota.
Quella
settimana ebbi nausee per tutto il giorno. Continuavo a correre in
bagno, e a momenti mi strappavo i capelli dalla tensione. Orlando non
era da meno.
Ma non ero
incinta; poche ore prima della premiere di New York del film, il ciclo
arrivò. Feci un altro test di gravidanza, e scoprii che il
primo era un falso positivo. Il ritardo era causato dallo stress e
dalla tensione provocata dal ritardo, almeno questo lessi sui forum su
Internet. Questo però mi fece riflettere ancora una volta
sul mio rapporto con Orlando, e da quel momento in poi decisi di
assumere la pillola anticoncezionale. Non saremmo incappati in una
situazione analoga in futuro.
La Compagnia
dell’Anello venne apprezzata in tutto il mondo. Molti attori
che erano stati i miei miti mi fecero i complimenti per
l’interpretazione, e c’erano sempre più
ragazzine che mi venivano a chiedere un autografo travestite da Hery.
Il mondo ci amava e non vedevamo l’ora che arrivasse la
Cerimonia degli Oscar a Los Angeles.
Quell’anno,
però, non vinsi la statuetta d’oro. La giuria
ritenne che Jennifer Connelly lo meritasse più di me, ma non
li biasimai. La Compagnia dell’Anello si rifece vincendo
quattro premi, e il record d’incassi internazionale. Il mio
debutto a Hollywood non avrebbe potuto essere migliore.
Le riprese
delle Due Torri durarono solo tre mesi, la maggior parte dei quali
trascorsi nella ricostruzione del Fosso di Helm.
Un’esperienza durissima: dormivamo di giorno e lavoravamo la
notte, tutte le notti di quasi tutta la settimana. Eravamo diventati
dei fantasmi, ombre verdoline che assumevano un aspetto normale solo
grazie agli strati su strati di cerone che ci applicavano tutti i
giorni al crepuscolo. Gli unici momenti di svago, in quella location,
furono le danze che improvvisavamo con le armi degli Uruk Hai
– e le idee che ne ricavava Peter – e gli scherzi a
Sir Ian McKellen – Billy che gli rubava il the e i biscotti a
metà delle riprese. Molti di noi si beccarono
l’influenza per colpa della pioggia, naturale o artificiale
che fosse. Orlando si divertiva come un pazzo a combattere, Viggo ci
metteva l’anima e io avrei preferito scene più
tranquille. Ma si doveva fare, no?
Quasi ci
inchinammo al sorgere del Sole, quando girammo la cavalcata dei
Rohirrim giù dalla collina del Fosso alla fine della
battaglia. Anche se, in seguito, quella scena venne rifatta quasi
interamente al computer. Il mio ruolo nel secondo film della saga
richiedeva senza dubbio più impegno rispetto al primo ed era
senza dubbio più dinamico, dovendo fare molte più
cose e recitare molte più battute. Molto spesso, se mi
sedevo per terra, non avevo più la forza di alzarmi.
All’uscita
del film ci accolsero folle urlanti di fan che gridavano i nostri nomi
e ci fermavano sul red carpet sventolando i giornali per farsi fare un
autografo. Ci osannavano, e osannavano anche Peter, la mente di tutto.
Il nostro giro per il mondo per le premiere richiese molta energia ma
ci diede anche gioia e momenti di relax, fra noi che ormai non potevamo
fare a meno uno dell’altro. Il film vinse due premi Oscar e
ricevette quattro nomination. Un po’ poco, rispetto
all’impegno che ci avevamo messo.
Il Ritorno
del Re fu l’ultima fase della nostra avventura. Come tappa
finale, richiedeva uno sforzo enorme a ciascun membro del Cast e della
crew. Era la fine di tutto, anche del mio personaggio. Quante lacrime
alla fine delle scene di ognuno di noi. I primi ad andarsene furono
Andy, Bernard, Miranda, David, Liv e Cate. Ma non piansi mai quanto
alla fine delle scene della Compagnia vera e propria. Non fui
l’unica, però. Tutti erano tristi, per la fine
della nostra convivenza.
La prima ad
andarmene fui proprio io: la mia ultima scena era quella della mia
morte. Come “premio del mio impegno” –
così disse lui-, Peter mi concesse di non avere un copione:
avrei scelto io le cose da dire.
Gli orchi
erano tanti intorno al Nero Cancello. Hery era completamente soggiogata
al volere dell’Occhio e tentò di fare uccidere
Aragorn da un troll. Ma la vista del suo amato Legolas e della fine
dell’Anello ormai prossima, rinsavì.
Parò il colpo del troll col proprio corpo, mentre Legolas
urlava il suo nome e intorno a loro la battaglia cessava.
Sdraiata
nella polvere, col silenzio del cast e della crew intorno a me, evitai
lo sguardo di Legolas che mi teneva fra le braccia e guardai
direttamente il cielo plumbeo. Il silenzio era assoluto, e per darmi la
carica giusta pensai un’ultima volta al dolore che avevo
provato quando avevo scoperto della morte di Jess.
- Mi sento
vuota, come se tutti stessero correndo e io fossi l’unica a
non potermi muovere. Che cosa è successo? Pensavo di essere
forte, Legolas, ma non lo sono. Quello che ho fatto mi si ritorce
contro. Non merito di morire da eroe e di ricevere una sepoltura degna
della mia stirpe. Ho infangato il nome di Galadriel Dama della Luce con
le mie azioni… Legolas, il cielo si spezza… -
Alzai una mano e sfiorai il viso di Orlando, che mi fissava con gli
occhi umidi, accarezzandolo. – Ti amo.
Lasciai
cadere pesantemente la mano e feci annebbiare il mio sguardo, fissando
il vuoto al posto del suo viso.
- Stop!
– Gridò Peter dopo un paio di secondi. Orlando si
asciugò gli occhi e mi aiutò ad alzarmi, mentre
Peter arrivava verso di me con gli occhiali bagnati di lacrime e mi
abbracciava. Dalla crew partì un applauso e anche io
scoppiai in lacrime.
- Grazie,
Peter. Grazie per tutto. – Gli dissi
nell’abbraccio. – Grazie, Peter.
- Grazie,
Les. – Rispose. Rimanemmo lì a dire
“grazie” più e più volte.
Alla fine Peter sciolse l’abbraccio, e Fran urlò:
- Hery,
signore e signori!
Un altro
applauso partì dalla crew e si levò verso il
cielo. Orlando mi abbracciò forte, e salutai tutti quanti
abbracciandoli uno ad uno.
Avevo finito
le riprese del Signore degli Anelli. La mia vita sul set non sarebbe
stata mai più la stessa. La mia vita in generale sarebbe
stata diversa.
A poco a
poco tutti terminarono di girare. Alla sua ultima scena Orlando ruppe
l’arco e ci rimase malissimo. Dom non riuscì a
terminare il suo discorso di commiato per le lacrime che gli facevano
morire la voce in gola, e l’ultima scena di Elijah fu uno
spettacolo davvero straziante.
La nostra
vita non sarebbe davvero mai più stata la stessa: saremmo
rimasti per sempre legati fra noi e legati a quel luogo. E per
ricordarci del nostro legame fraterno e indissolubile, tutti noi della
Compagnia ci facemmo tatuare il numero “9” scritto
in elfico, ognuno su una parte diversa del corpo. Io scelsi il pezzo di
pelle poco prima del pollice sinistro.
E
così finirono le riprese del Signore degli Anelli.
Qualche
giorno dopo la premier di Pechino del Ritorno del Re, Peter mi
chiamò per annunciarmi che, come due anni prima, avevo
ottenuto la Nomination all’Oscar per la mia interpretazione.
***
29
febbraio 2004, Los Angeles, Kodak Theatre.
76esima
edizione degli Academy Awards
Chris Cooper
si avvicinò al microfono e iniziò a parlare con
spavalda sicurezza.
- Gli
artisti scelgono un ruolo perché possono avere un
personaggio e farlo proprio. Queste cinque superbe attrici hanno fatto
di più che averlo soltanto: hanno creato alcuni dei momenti
migliori dell’anno nei film. Le candidate per la migliore
attrice non protagonista sono: Shohreh Aghdashloo, per “la
casa di sabbia e nebbia”; - Applauso. – Patricia
Clarkson, per “le schegge di April”; - Applauso.
– Marcia Gay Harder, in “Mystic River”; -
Applauso e qualche fischio. – Lesley Dalton, in “Il
Signore degli Anelli: il Ritorno del Re”; - Applauso e
fischi. La telecamera mi riprese e mi guardai intorno nervosa.
– Renée Zellweger, in “ritorno a Cold
Mountain”. – Applauso. Chris aprì la
busta e lesse il contenuto. - E l’Oscar va a…
Lesley Dalton, per “Il Signore degli Anelli: il Ritorno del
Re”!
Il
pubblicò dal pubblico si levò un forte applauso e
delle urla, mentre il mio cuore perdeva un battito. Sorrisi, e mi
voltai a baciare Orlando. Poi mi alzai, mentre Dom e Sean si alzavano
per farmi passare e mi davano pacche sulle spalle ridendo e applaudendo
forte. Passando per il corridoio di velluto mi fermai ad abbracciare
forte Peter, mentre l’applauso continuava e
nell’aria si diffondeva la musica di Howard Shore. Poi mi
avviai verso il palco, salii le scale bianche bordate di nero. Il mio
vestito rosa pallido frusciava dietro di me e mi misi a ridere mentre
prendevo la statuetta dalle mani di Chris e gli davo un bacio sulla
guancia. Strinsi l’Oscar come se fosse stato
l’unico pezzo di legno in mezzo al mare durante una tempesta.
Lo guardai con adorazione: ce l’avevo fatta!
Mi avvicinai
al microfono mentre la musica scemava e l’applauso si placava
lasciando posto al silenzio.
- Yuppie!
– Squittii nell’apparecchio. Qualcuno
ridacchiò. – Sono su di giri! Grazie, grazie
davvero. Vorrei ringraziare l’Academy Awards per questo
onore; Peter Jackson – lo cercai fra la folla. –
Senza di te sarei ancora a scuola! – risate. – La
New Line Cinema, e i miei colleghi del cast. Siete i miei fratelli e vi
voglio un mondo di bene. E se mi è concesso vorrei dedicare
questo Oscar a Jessica Bertram. – Mi schiarii la voce e alzai
lo sguardo e la statuetta verso il soffitto. – L’11
settembre ti a portato via troppo presto. A te, Jess. Grazie.
Un altro
applauso partì dalla platea. Un applauso commosso dalle mie
parole perché, anche a due anni dalla tragedia, ancora
nessuno dimenticava. Mi avviai verso le scale per tornare a sedere, ma
qualcosa mi fermò.
- Lesley!
Era Orlando.
Mentre tutta la platea si girava a guardarlo percorse di corsa il
corridoio fra i sedili e salì le scale con due balzi,
lasciando tutti a bocca aperta. Mentre lo fissavo esterrefatta si
avvicinò al microfono e iniziò a parlare.
- Chiedo
scusa per l’interruzione, signore e signori, ma non sarei
riuscito a resistere ancora. – Si girò verso di
me, impietrita sulle scale. – Les, tesoro. Due anni fa, in
Nuova Zelanda, ti chiesi di sposarmi. Tu hai risposto che eravamo
entrambi troppo giovani per pensarci. Quindi ora… - Orlando
si inginocchiò sul palco e tirò fuori dalla tasca
dei pantaloni una scatolina di velluto blu, mentre il pubblico
tratteneva il fiato e qualcuno (forse Liv) lanciava gridolini
estasiati. – Lesley Dalton, vuoi concedermi l’onore
di sposarmi?
Potete
indovinare che cosa risposi.
“Il
Signore degli Anelli: il Ritorno del Re” entrò
nella storia per aver vinto più premi Oscar nella storia del
cinema, insieme a “Titanic” di James Cameron e
“Ben Hur”: undici, scintillanti e strameritate
statuette.
Il colpo di
scena di Orlando alla notte degli Oscar fece troppo scalpore e i
giornalisti da lì a due mesi non fecero altro che starci col
fiato sul collo, perciò decidemmo di non sposarci
più. Ufficialmente, almeno.
In una
soleggiata e fresca mattina di maggio 2004 mi ritrovai a percorrere un
molo di legno chiaro sul lago di Queenstown, nei giardini di Villa del
Lago, diretta all’ arco di fiori bianchi poco lontano da me.
Passando fra le due file di poche sedie bianche, mio padre mi
accompagnava stringendomi il braccio con gentilezza e commozione. Il
mio vestito di Lazaro frusciava sul tappeto bianco poggiato
sull’erba. Non avevo occhi che per la mia meta. Il vicario
che mi aspettava con il libro in mano, Craig alla sua destra, pronto
per farmi da testimone, Viggo alla sua sinistra, testimone di Orlando.
Liv che mi reggeva lo strascico del vestito. E Orlando, che mi guardava
sorridendo emozionato, non vedendo l’ora che io allungassi il
passo e lo raggiungessi subito per terminare la tortura
dell’attesa. Vestito con uno smoking nero e una camicia
bianca, quando ero a due passi da lui si asciugò una lacrima
che rischiava di scendergli sulla guancia. Anche io dovevo combattere
con le lacrime di emozione per non rovinare il trucco perfetto.
Finalmente
arrivammo all’arco di fiori. Mio padre mi fece il baciamano e
mi consegnò ad Orlando. Ci sorridemmo estasiati.
- Potete
sedervi – disse il vicario rivolto agli invitati. Io e
Orlando ci voltammo un momento verso di loro.
Mia madre e
mio padre in prima fila. I genitori di Orlando dall’altra
parte. E sparsi, Elijah, Sean, Dominic, Billy, Bean, Liv, Sir Ian, zio
Ian, Peter, Fran, Philippa, David, John, Bernard, Miranda, Emma,
Linnie, Andy e Barrie. In piedi poco davanti al padre la piccola
Alexandra reggeva un cuscino di raso su cui erano poggiate due perfette
riproduzioni dell’Unico Anello – con
l’aggiunta di un minuscolo smeraldo nella mia.
Avevamo
invitato solo i nostri amici più cari e i nostri genitori
per la cerimonia più intima della storia dei VIP, facendo
loro giurare di non farne parola con nessuno. Quel giorno sarebbe
rimasto solo un segreto, per non dare alla stampa la gioia di avere dei
croccantini su cui buttarsi.
- Signore e
signori, siamo qui per riunire i qui presenti Orlando Bloom e Lesley
Dalton nel vincolo del matrimonio. Se qualcuno è contrario
alla loro unione, che parli ora o taccia per sempre.
Nessuno
fiatò.
Ed ora il
mio nome è Lesley Bloom, nata Dalton.
Siamo
giunti alla fine. Questa per me è davvero la fine di
un’era!
So
che nessuno dei miei cari lettori si aspettava di
quest’ultimo capitolo così improvviso…
avrei voluto continuare all’infinito, ma tutto prima o poi
deve finire. Così anche questa fanfiction, con cui ho
passato quasi quattro lunghi anni della mia vita. Lesley e i suoi amici
mi hanno riempito le giornate per tutto questo tempo, e mi mancheranno
molto. Così come mi mancheranno le puntuali recensioni di
Tetide e degli altri recensori!
Posso
solo ringraziare tutti i lettori che mi hanno seguito con
fedeltà e costanza nel corso di tutta la fanfiction, quelli
che sono venuti e andati, quelli che si sono affacciati alla storia
solo per un paio di capitoli, e anche i lettori silenziosi, quelli che
mi hanno seguito senza parlare, come ombre che mi tengono compagnia.
La
mia vita senza Lesley, Orlando, gli Hobbit e gli altri non
sarà più la stessa. Ma magari torneranno con
degli Spin Off, se mi faranno il regalo di farmi ancora visita. Magari
mi dedicherò ad altri progetti e non toccherò mai
più questa storia. Non si può dire cosa mi
riserva il futuro.
Posso
solo limitarmi a ringraziare in particolar modo Manubach96, Tetide,
Stargirl1998, innamoratahobbit, e Klood e Niniel. Grazie a tutti voi
per avermi dato tanto.
Vi
voglio bene.
Panenutella,
o Nut.
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