Chi non muore si rivede.

di ___Ace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Capitolo 1.

 

Era assurdo. Era completamente, assolutamente e decisamente assurdo tutto ciò. Non poteva stare capitando sul serio e proprio a me. Io, il Capitano della squadra, il Boss della scuola, l’indiscussa celebrità dell’anno, passato e futuro. Insomma, quanto poteva odiarmi Dio lassù per decidere di farmi ricevere una punizione del genere? Quanto l’avevo offeso o fatto vergognare di una sua creazione col mio comportamento? Forse ero stato un po’ miscredente, eretico e ateo, ma, che cazzo, c’era gente peggiore al mondo!
Quel pomeriggio stava filando tutto bene, nella norma, eravamo in vantaggio tre a zero contro quei perdenti dell’università avversaria ed io mi stavo preparando per segnare il quarto punto di fila, roba da mandare in visibilio i presenti e spianarmi la strada verso una carriera d’oro, quando un fulmine a ciel sereno mi aveva fatto impallidire e barcollare. Che sensazione tremenda era stata: un sussulto al cuore, poi uno scossone più forte, seguito da una sorta di gelo nelle vene e poi il sangue. Caldo e denso, uscitomi dalla bocca e corso a macchiare il prato. E dopo? Ricordavo solo di essermi accasciato a terra mentre un centinaio di voci iniziavano a urlare e preoccuparsi. Forse ero rimasto cosciente fino all’arrivo dell’ambulanza e dei soccorsi, alla fine mi avevano ficcato una mascherina sul muso e la testa aveva cominciato a girare. Poi il buio.
Ed ora mi ritrovavo li, in una stanzetta dalle pareti bianche e anonime, le lenzuola del medesimo colore, smorte e i mobili in ferro, a parte un misero armadietto dove avrei sistemato la mia roba visto che, stando a sentire le parole di quel vecchio dottore, sarei rimasto in compagnia dei medici e delle infermiere per un po’. L’unico colore vivo e acceso che avrebbe rallegrato quel mortorio, probabilmente, sarebbe stato quello dei miei capelli rossi.
«Il suo cuore è arrivato al limite» stava dicendo, «Ha subito troppi sforzi negli ultimi anni da quel che ho sentito, o sbaglio?».
Limite un paio di palle, pensai, rivolgendogli un’occhiata torva, io sto benissimo!
«La terremo in osservazione e la sottoporremo ad una serie di esami del sangue, ma devo metterla al corrente che la situazione non è rosea, anzi, molto complicata e seria da quanto risulta nelle analisi. Mi stupisce, di solito in ragazzi giovani della sua età non dovrebbero svilupparsi tali anomalie, ma temo comunque di doverla avvisare che…».
Bla, bla, bla, ma questo quanto parla? Tutte stronzate, si sta solo inventando grossi paroloni per mettermi in soggezione. Ah, quanto vorrei essere fuori di qui, chissà i ragazzi quanto staranno festeggiando per la vittoria riportata! Fiumi di alcool, maledizione!
«In caso di peggioramento dovremo procedere con un trapianto di cuore».
Silenzio, non un fiato, non un movimento, persino la mia mente si scollegò nell’udire quelle parole. Quell’uomo non poteva stare parlando sul serio. Aveva una vaga idea di chi ero, per caso? Ero sempre stato sano come un pesce, nulla fuori posto, non mi ero mai nemmeno beccato una fottuta influenza, e adesso veniva a dirmi che potevo aver bisogno di un cuore nuovo? Appartenuto ad un morto magari? Mai.
Dovettero aspettare una buona mezz’ora prima di riprendere con le spiegazioni perché non fu affatto facile mettermi a tacere e farmi comprendere la gravità della situazione. Non ne volevo sapere e, se non fossi stato nel reparto di cardiologia, probabilmente mi avrebbero ficcato senza dubbio in quello di psichiatria con i matti. Certo, ma cosa pretendevano? Che sorridessi e che facessi buon viso a cattivo gioco? Loro venivano a dirmi che, con ogni probabilità, mi avrebbero fatto un buco sul petto e ci avrebbero infilato le loro manacce sterilizzate ed io non dovevo protestare?
La verità era che avevo paura. Si, paura di cosa sarebbe successo dopo. Avrei dovuto fare costantemente dei controlli, fare attenzione all’alimentazione, al bere, all’attività fisica e, di certo, non mi avrebbero più permesso di giocare. La mia passione era finita quel giorno in campo, in quell’attimo dove avevo raggiunto l’apice del benessere. Tutto si era ribaltato nel giro di un istante ed era andato in malora, a puttane, per la precisione. E cosa mi sarebbe rimasto? Solo un ricordo. Un ricordo e tanti rimpianti, tante opportunità buttate al vento.
«Ora la lasciamo riposare. Passeremo più tardi per farle firmare alcuni documenti e illustrarle la procedura».
Non li ascoltai minimamente e continuai a mantenere fisso lo sguardo verso la finestra, intento a catturare quei pochi raggi di sole che per molto non avrei rivisto; almeno non nel modo che intendevo io.
Dopo un tempo che parve infinito mi riscossi dai miei pensieri e mi guardai attorno alla ricerca di qualcosa che potesse almeno un po’ distrarmi e tirarmi su il morale. Di solito, le rare volte in cui mi capitava di essere triste, bevevo come un dannato in compagnia di amici, ma dubitavo che un malato, per giunta dentro un ospedale, potesse organizzare festini alcolici, quindi alzai gli occhi al cielo e mi decisi ad alzarmi per fare quattro passi. Tra tutte le opzioni di scelta, quella era la migliore. L’obitorio l’avrei visitato un altro giorno.
Non ero il tipo da lasciarmi scoraggiare per così poco e nemmeno l’idea di ulteriori complicazioni mi metteva in soggezione, dopotutto nulla poteva anche solo minimamente scalfirmi e avrei affrontato tutto a testa alta, come sempre e con le sole mie forze. Mi sarei rimesso, avrei fatto vedere a quei bastardi che, anche senza il loro aiuto, sarei stato meglio e avrei ripreso ad allenarmi, a tornare in campo e a stracciare gli avversari a suon di menate e pugni, conquistando l’intero corpo studenti che già mi adorava. Quell’ipotetico trapianto era un nemico, era la squadra avversaria e l’avrei battuta ad occhi chiusi. Ne sarei uscito vincitore anche quella volta, sarei arrivato in cima alla vetta e con il mio cuore avrei fatto scintille.
Non ci sarà bisogno di nessuna operazione, pensai, incamminandomi verso quella che sembrava l’uscita per il reparto in cui mi trovavo, ho sempre retto benissimo a qualsiasi sforzo fisico, sto meglio di un atleta e non ho bisogno dei loro cazzo di contr…
«Ehi, ma guarda dove vai con quella carretta!» sbottai in direzione di un pazzo che mi era appena sfrecciato accanto sulla sedia a rotelle, rischiando di investirmi in pieno. Il diretto interessato, di sicuro senza la patente, inchiodò bruscamente e voltò la testa nella mia direzione, girando poi tutto il suo baldacchino di fili e ruote per poi ritornare indietro, giusto a pochi passi da me.
«Per tua informazione ti ho avvisato due volte di spostarti» spiegò, guardandomi dall’alto in basso come se fossi stato una specie di esperimento genetico mai visto, soffermandosi più del dovuto, ne ero certo, sui miei capelli, «Ma tu continuavi a guardarti i piedi!».
«Avresti anche potuto rallentare» gli feci notare a quel punto, ottenendo uno sbuffo scocciato in risposta e iniziando a provare una strana voglia di appendere quel piccoletto al muro. E poi, a dirla tutta, permettevano sul serio ai pazienti di andare in giro con cappelli assurdi come quello che aveva lui? Quale deficiente si farebbe chiamare Penguin? Robe dell’altro mondo.
Mi sondò per qualche altro istante, borbottando qualcosa di incomprensibile tra sé e sé, iniziando a girarmi attorno con quell’affare con le rotelle. Ignorando il mio fastidio e la mia faccia corrucciata continuò indisturbato quello che stava facendo anche quando persi la pazienza e mi allontanai a passo spedito lungo il corridoio, diretto chissà dove, ovunque pur di togliermelo dai piedi. Se c’era una cosa che non sopportavo erano gli idioti. Nonostante tutto, però, me lo ritrovai puntualmente alle calcagna e con un sorriso sbieco stampato in quella sua faccia da ebete mezza nascosta dal frontino del berretto.
«Sei nuovo di queste parti, vero? Non ti ho mai visto prima» mi chiese, illuminandosi quando gli feci un cenno di assenso, «Sei in cardiologia, hai problemi di cuore?».
«Tu ne avrai sicuramente se continui a seguirmi» risposi secco, adocchiando una sala d’attesa vuota e fiondandomici dentro, sperando che lo spazio tra le due porte fosse abbastanza stretto affinché lui non potesse passarci. Tutto fu vano perché l’impiastro, con un’abilità piuttosto notevole per uno nelle sue condizioni, riuscì a entrarci senza enormi sforzi, posizionandosi di fronte a me.
Restammo a fissarci per un lungo istante, durante il quale mi chiesi cosa diavolo volesse quell’esserino minuto e dall’aria curiosa e scassa cazzo. Pregai che non si trattasse di uno dei soliti buonisti sempre alla ricerca di fare nuove amicizie per non perdere la speranza e tirarsi su il morale.
Alla fine mi stancai di averlo attorno, soprattutto se mi continuava a fissare in quel modo sfacciato e privo di vergogna. Insomma, un minimo di buona educazione, anche se io ero l’ultimo che poteva parlare, visto e considerato che il mio vocabolario era costituito per la maggior parte da insulti. Se non avessi temuto di essere incolpato di aggressione, gli avrei rotto anche l’altra gamba visto che una già gliel’avevano amputata.
«Senti, dimmi cosa vuoi e poi lasciami in pace» dissi, sedendomi su una delle sedie scomode in plastica e passandomi stancamente una mano sul viso. Quella si che era proprio una giornataccia. Prima facevo un mezzo infarto e poi un coglione in carrozzina mi seguiva senza sosta.
«Mi sei simpatico» annunciò, dopo essersi afferrato il mento con le dita con fare pensieroso, «Certo, sei un po’ scorbutico, ma dovresti andare bene».
«Bene per fare cosa?».
Immaginai di vedere i suoi occhi brillare sotto al cappello dato che il suo sorriso si allargò da un orecchio all’altro in modo contorto, «Per formare un gruppo, ovvio!» fece entusiasta, come se avessi dovuto pensare subito ad una prospettiva del genere. L’unica cosa che mi stavo chiedendo, invece, era da che reparto provenisse quello lì.
Probabilmente in psichiatria ci stanno quelli come lui. Si, decisamente, è uno sbandato. Per forza, altrimenti perché girare con uno schifo in testa?
«Un gruppo?» domandai scettico, inarcando un sopracciglio e cercando un modo per chiamare la sicurezza. Un pazzo mi stava importunando, non c’era da scherzare.
«Esatto! Una compagnia, una squadra, chiamala come vuoi. Saremo amici e assieme sarà più facile superare i nostri problemi. Sempre meglio che essere soli, non trovi?».
Bene, è un buonista del cazzo, senza dubbio.
«Scusa marmocchio, ma non ho tempo da perdere. Solo a un idiota può venire in mente di fare una cosa del genere» brontolai, grattandomi distrattamente i capelli e sbadigliando sonoramente. Che cazzata, credeva di poter alleviare il dolore parlandone con qualcuno. Illuso, nessuno avrebbe mai potuto capire, eravamo tutti diversi uno dall’altro, perciò mettere i propri guai nelle mani altrui era inutile e sbagliato, tanto non sarebbe cambiato niente, no? Cosa avrei guadagnato a dargli retta? Semplice, il mio cuore non avrebbe sopportato tanta stupidità e sarebbe esploso prima del tempo. Quindi no, grazie.
«Veramente l’idiota che ha ideato il tutto è un altro» mormorò senza la minima traccia di abbattimento, «In questo momento sta facendo un esame, ma più tardi te lo farò conoscere, non temere!».
Alzai gli occhi al cielo, «Ti ho detto che non mi interessa» ripetei, scoccandogli un’occhiata torva. Di solito funzionava per zittire quelli che mi intralciavano la strada. Con lui, però, l’effetto fu neutralizzato completamente e il mio astio gli scivolò addosso senza toccarlo. Quel sorriso rimase immutato sulla sua faccia da schiaffi.
«Su, su, non fare il difficile! Ti prometto che non te ne pentirai e mi faresti un enorme favore se accettassi, sul serio. Siamo in due a portare avanti questa cosa e ho un disperato bisogno di un’altra persona» si inalberò, aggrappandosi come una sanguisuga ad una mia gamba e non dando segno di volersi staccare tanto facilmente, nemmeno quando mi alzai e iniziai a camminare, rischiando di inciampare. Continuò ad artigliarmi il polpaccio, lasciandosi trascinare su e giù per la stanza.
«Anche se accettassi non sarebbe mai un vero gruppo. Per questo bisogna essere almeno in sei e tre non mi pare una compagnia molto numerosa» gli spiegai, saltellando su una gamba sola e perdendo una pantofola.
«Ma se ti arruoli automaticamente diventeremo quattro!» precisò in tono lamentoso per poi riprendere a supplicarmi. Dio, ma in ospedale accadevano cose del genere? Perché non rinchiudevano i malati di mente da qualche parte, magari in una stanza insonorizzata e senza porte per entrare e uscire, ne finestre? A quello, poi, avrebbero dovuto mettere per legge una camicia di forza. Superava il limite della sopportazione.
«Sai contare almeno? Due più uno fa tre!».
«Un altro si unirà a noi quando arriveremo a contare almeno tre partecipanti. Quindi, testa rossa, fa quattro. Ti prego, dì di si!».
«Chiedilo a qualcun altro. E non chiamarmi testa rossa!».
«E come devo chiamarti, allora?».
«Sono Kidd. Eustass Kidd».
Mi guardò stranito per un secondo, così approfittai per liberarmi dalla sua presa e rimettermi dritto in posizione eretta. Avevo fatto più fatica quel giorno che durante i vari allenamenti settimanali. Avrei potuto persino rimanere su una gamba sola per ore, ne ero certo, e avrei addirittura vinto un primato.
«Molto piacere, io sono Penguin» sorrise allora, porgendomi la mano che afferrai dopo un attimo di esitazione, stringendola con decisione e stupendomi nel sentirmi ricambiato allo stesso modo. A quanto pareva il ragazzino aveva un carattere determinato e sicuro di sé, quindi non avrebbe mollato tanto facilmente.
«Che nome stupido» commentai, incapace di starmene zitto.
«Anche il tuo è molto presuntuoso» ribatté saccente, tanto che mi venne voglia di prenderlo e sbattergli la testa addosso al muro. Era inutile, non lo sopportavo a pelle e avevo la vaga sensazione che quello era l’inizio di una lunga serie di guai e complicazioni. Dovevo sbarazzarmene al più presto.
«Ti va di fare un giro? Prima stavo andando a trovare una persona quando ci siamo incrociati, mi accompagni?».
«Ho scelta?».
Ghignò, negando con il capo e facendomi segno di seguirlo così, sbuffando sonoramente, mi incamminai dietro di lui e mi fece strada per una serie di corridoi, ascensori e reparti dai nomi strani e impronunciabili, studiando il luogo e stando a sentire a volte si e a volte no i suoi sproloqui sul tempo, sui medici, sulle infermiere, sui medicinali e sui pazienti del posto che, praticamente, lo conoscevano tutti.
«Posso sapere perché prima sei passato in cardiologia se la tua destinazione era due piani più sopra?» gli chiesi, sinceramente incuriosito.
Si strinse nelle spalle, dicendomi che era una scorciatoia che aveva imparato nel tempo trascorso tra quelle mura che, a detta sua, era tanto, e una volta imparate le piantine dei piani e dell’intero edificio, tutto era più facile e orientarsi era un giochetto da ragazzi. Infatti, come a dimostrare il tutto, arrivammo a destinazione senza giri alternativi, quando io mi sarei perso centinaia di volte se fossi stato da solo.
«Ecco, qui c’è la terapia intensiva» spiegò, parlando a bassa voce e rallentando la sua andatura, affiancandomi e scortandomi lungo un corridoio silenzioso con le porte delle stanze tinte di blu. I medici che giravano erano pochi e nessuno sembrò interessarsi ad un idiota in sedia a rotelle e ad un colosso di due metri dall’aria poco cordiale e con un incendio in testa.
«Ci siamo. Qui c’è il tipo che si unirà a noi» fece, animandosi e mettendosi quasi a saltellare. Lo guardai torvo, pronto a riferirgli che non sarebbe mai accaduto, dato che io no avevo accettato, ma quello aprì la porta senza esitare oltre, e senza bussare, ed entrò in una stanzetta singola dove, incollato ad un letto e ricoperto di bende, stava un ragazzo addormentato con i capelli di un biondo chiaro e piuttosto lunghi.
Rimasi piuttosto stupito alla vista di quello spettacolo raccapricciante: praticamente gli unici arti che non erano ingessati erano il braccio destro e la schiena, busto compreso. Quelli forse poteva anche muoverli, ma le gambe erano tenute inclinate da una serie di aggeggi di metallo, mentre una benda era stretta attorno alla sua fronte.
Mi lasciai scappare un fischio di stupore, provando ad immaginare cosa diavolo avesse combinato per ridursi in quel modo esagerato. Di conseguenza il nanerottolo mi diede un pizzicotto al braccio, intimandomi di fare silenzio mettendosi un dito davanti alla bocca e zittendo per un pelo un mio insulto.
Un fruscio di lenzuola arrivò alle nostre orecchie, seguito da un sospiro stanco e da qualcuno che si schiariva la voce per parlare.
«Penguin? Sei di nuovo tu?» domandò il poveraccio in modo arrendevole, alzando un braccio per afferrare una cordicina penzolante sopra di lui e issandosi un po’ per mettersi seduto e guardare in faccia il suo ospite. Ovviamente non si aspettava di trovare anche me e ciò gli fece corrugare le sopracciglia con aria interrogativa e sorpresa.
«Fammi indovinare» disse subito dopo, riferendosi direttamente a me con fare esasperato, «Ha provato a infinocchiare anche te con la storia del gruppo?».
Sogghignai, per la prima volta sinceramente divertito, quel tipo mi era già simpatico. Ecco, forse con lui avrei potuto fare amicizia, non con quel microbo che girava su quattro ruote.
«Kira-chan, ora siamo in tre, quindi sono venuto a darti il benvenuto nella nostra compagnia! Con te fanno quattro!» batté le mani Penguin, avvicinandosi poi al bordo del letto e poggiando i gomiti sul materasso per poi alzarsi un poco il frontino del cappello e guardare in faccia il suo obbiettivo raggiunto. «Sei dei nostri, finalmente» mormorò in un modo che, per qualche assurdo motivo, mi fece venire la pelle d’oca. Era come se stesse tramando qualcosa dietro quella facciata da stupido che aveva mostrato fino a poco prima. L’espressione che fece, poi, fu tutto, tranne che tranquillizzante. La stessa cosa sembrava pensarla anche il biondo perché, facendo forza sul braccio buono, si spostò di lato per prendere le distanze da quell’essere.
«Ehi, non mi pare di aver detto di essere dei vostri» mi sentii in dovere di sottolineare, per l’ennesima volta, ottenendo uno sguardo carico di gratitudine da parte dell’imbalsamato, il quale sembrò riacquistare un briciolo di speranza nel sentire quella confessione.
«Non fare il difficile, Eustass, vedrai che ci divertiremo. E poi, più siamo meglio é». Era ritornato a comportarsi come un moccioso, ridacchiando spensierato e facendomi segno di prendere una sedia pieghevole e avvicinarmi a loro per fare quattro chiacchiere. Sembrava non preoccuparsi affatto dell’orario di visite ormai terminato e iniziò a parlare senza sosta, presentandomi il ragazzo che rispondeva al nome di Killer, Killer e basta a detta del diretto interessato.
Viva la fantasia, avevo pensato, stando a sentire come fosse finito ingessato dalla testa ai piedi. Un brutto incidente in moto durante una corsa clandestina, quindi, oltre ai danni fisici subiti, si era beccato anche una denuncia, ma aveva fortunatamente evitato la galera per qualche anno. Per quanto mi riguardava, avrei preferito finire al fresco che starmene in un letto d’ospedale senza vie di fuga. Scoprii anche che tutte quelle informazioni non era stato lui stesso a fornirle a Penguin, ma che quest’ultimo fosse andato a ficcanasare sulla sua cartella clinica per saperne di più in proposito.
«Lui non voleva dirmelo» si giustificò, come se ciò fosse abbastanza per giustificare un’azione del genere, «Così mi sono arrangiato come ho potuto».
«Lo sai che potrei denunciarti?» gli fece notare l’altro con calma e con un sorriso sinistro che apprezzai parecchio. Mi piacevano le persone subdole, anche se ciò avrebbe voluto dire che, automaticamente, anche Penguin, con quel suo modi di fare sinistro, entrava nelle mie grazie. Probabilmente lui costituiva l’eccezione.
«Non dire sciocchezze» sbuffò il ragazzino, «Non hai prove e non lo faresti».
«Non sfidarmi».
Incredibilmente il tempo volò e quando un’infermiere fece il suo ingresso, trovandoci ammassati attorno al povero infermo, ci chiese, non senza una certa irritazione nella voce, di uscire e lasciar riposare il paziente, ricordandoci che, se volevamo venirlo a trovare, l’orario era segnato fuori, all’ingresso del reparto. Penguin non lo ascoltò minimamente e, prendendosi un momento prima di andarsene, ricordò a Killer che da quel giorno faceva parte della squadra.
«Solo se ci sta anche lui» chiarì a quel punto, indicandomi con un dito e aspettando una mia risposta.
Li guardai leggermente schifato, riflettendo sul da farsi. Di certo avrei passato un po’ di tempo tra quelle mura e le giornate sarebbero state lunghe e infernali. Forse, se avessi avuto qualche passatempo, avrei sopportato meglio il tutto e quello scapestrato sembrava proprio il tipo di persona spericolata che faceva al caso mio. E poi non mi stava in culo, cosa che raramente accadeva quando conoscevo nuovi elementi, quindi aveva già un punto a suo favore. Magari assieme avremo potuto trovare il modo di mettere fuori gioco quel nanerottolo asfissiante.
Alla fine sospirai sconfitto, scuotendo il capo e accettando quell’assurda proposta.
«E sia» decretai, «Ma voglio avere io il comando» chiarii. O a quella condizione o non se ne faceva niente.
A quelle parole Penguin sembrò farsi dubbioso, tanto che iniziò a mordersi un labbro con indecisione, asserendo infine che di ciò se ne poteva discutere. Dopodiché salutammo Killer e uscimmo dalla stanza, diretti verso il decimo piano.
«Posso sapere perché ci tenevi tanto ad averlo in squadra?» chiesi, ritrovandomi in qualche strano modo a spingere la carrozzina di quell’impiastro che, massaggiandosi le braccia doloranti per lo sforzo e il movimento, salutava gente a destra e a manca, indicandomi quando serviva la strada da prendere per raggiungere l’ala Nord dell’ospedale dove, stando alle sue parole, si trovava l’ideatore di quella commedia. Un altro squinternato insomma.
Si zittì per un momento e ringraziai il Cielo per quei pochi minuti di quiete, giusto il tempo di un viaggio in ascensore, quando poi riprese a parlare, guardandomi in faccia e mostrandomi per la prima volta i suoi occhi scuri che luccicavano di meraviglia ed emozione. Cosa che mi spiazzò, dato che io non mi comportavo mai in quel modo e non esprimevo assolutamente nessun tipo di sentimento.
«Ma dico, l’hai visto?» fece sognante, aspettando che gli dessi ragione. Invece aggrottai la fronte e lo guardai come se avessi avuto davanti un completo idiota. Che, in poche parole, era esattamente la realtà.
«Ehm, si? E’ distrutto».
«E’ bellissimo!».
Parlammo all’unisono, scambiandoci poi delle occhiatacce per il nostro disaccordo. Come poteva dire una cosa del genere se il ragazzo riusciva a malapena a muoversi? Inoltre, imbottito in quel modo, non era di certo un bello spettacolo, per quanto potessi essere gentile nel giudicarlo.
Alla fine decisi di lasciar perdere, stringendomi nelle spalle e girando a sinistra dentro un’enorme sala illuminata e tranquilla dove si aggiravano pazienti in vestaglia e medici indaffarati. Non era male come posto, forse, tra tutti, era il migliore la dentro.
«Ci siamo, continua da quella parte» stava dicendo Penguin, dimenticatosi del suo sogno ad occhi aperti  e fattosi attento e vigile, come se fosse alla ricerca di qualcosa.
Ci aggirammo per quelle stanze per una decina di minuti e, dopo aver sbirciato dentro una camera e averla trovata vuota, fummo costretti a tornare indietro. A quanto pareva il suo compare non c’era e non era ancora tornato dalla visita che aveva in programma.
«E’ malato anche questo qui?» domandai, seduto su un tavolino con le gambe a penzoloni e sgranocchiando un pacchetto di praline al cioccolato che il nanerottolo aveva acquistato alle macchinette per entrambi. Inutile dire che avevo monopolizzato la merenda e che glie offrivo un boccone ogni cinque. Dopotutto, era troppo divertente vederlo dimenarsi sulla sedia a rotelle e protestare per l’ingiustizia sulla sua immobilità. Cosa potevo farci io? Ognuno aveva i propri problemi e il suo non mi riguardava.
«Non è il termine esatto definirlo malato»  iniziò a dire, interrompendo la frase per maledirmi, «E’ difficile da spiegare, ma sono certo che te lo vedrai da te».
Mi feci pensieroso, mettendogli il sacchetto a portata di mano, giusto per evitare di attirare l’attenzione dei presenti e di venire ripreso, vagliando nel frattempo varie alternative nella mia mente. Ero curioso di sapere il problema di quel tizio ignoto. Sicuramente, sopra ogni altra cosa, era un completo stupido per avere un piccoletto invalido con una gamba sola come amico, ma il resto restava un mistero che volevo scoprire. In un certo senso, la cosa si stava facendo interessante, anche se assurda.
«Le stai finendo tutte!» protestò di nuovo, «Almeno lasciamene un po’!».
Alzai gli occhi al cielo senza prestargli attenzione e allontanando dalla sua portata la merenda, tenendola più in alto e sfottendo i suoi patetici tentativi di afferrarla e di appropriarsene. Poveretto, un po’ di pena me la faceva, ma non ero incline a fare il buon samaritano; nella vita quelli che sopravvivevano erano i forti, per i deboli non c’era il minimo spazio e se voleva tirare avanti avrebbe dovuto imparare a essere più bastardo e stronzo, esattamente come me. Chissà, magari avrei potuto renderlo mio allievo e insegnargli qualcosa. Probabilmente l’avrei fatto, ma non sapevo ancora che quello un maestro ce l’aveva già, e non uno qualsiasi, ma il peggiore sulla faccia della terra.
«Non lo sai che è da maleducati farsi beffe di chi è meno abile degli altri?» mi sentii chiedere ad un certo punto, adocchiando di sfuggita un sorriso di adorazione sulla faccia del pinguino e voltandomi in direzione della voce del nuovo arrivato.
Accanto a noi, appoggiato con un fianco al bordo del tavolo e le braccia incrociate, se ne stava un ragazzo piuttosto alto e smilzo, il quale mi fissava con l’aria sfacciatamente divertita, o lo sarebbe stato se non avesse sfoggiato un fastidiosissimo ghigno di sufficienza.
Le persone con cui andavo d’accordo erano poche e quelle che mi piacevano ancora meno. Quello lì sentivo di odiarlo a pelle, anche senza conoscerlo.
Lo fissai per qualche altro istante, alzando infine le spalle e ignorando il suo commento, «E tu impara a farti i cazzi tuoi». Ma se credevo di potermi liberare di lui facendo la voce grossa mi sbagliavo di grosso.
«Credi così poco in te stesso che devi sottomettere i deboli per sentirti forte?».
Gli scoccai un’occhiata omicida e in un attimo gli fui di fronte a nemmeno un passo di distanza. La cioccolata abbandonata sul tavolo e i pugni stretti lungo i fianchi. Era più basso di una decina di centimetri, ma mi fronteggiava senza la minima ombra di paura, al contrario, sembrava che la situazione lo divertisse assai.
«Ripeti se hai il coraggio» ringhiai tra i denti, iniziando lentamente a flettere il braccio per colpirlo dritto in faccia e cancellargli quell’espressione da superiore che stava mostrando con fierezza.
«Come siamo scorbutici» sfotté, arricciando le labbra e gettando uno sguardo veloce al deficiente in carrozzina, «Ehi, Penguin, da dove l’hai raccattato?».
«Viene da cardiologia» rispose l’altro a bocca piena, «E’ dei nostri adesso e anche Kira-chan».
«Capisco. Quindi sei riuscito a convincere Killer-ya» mormorò il bastardo, passandosi una mano fra i capelli neri e fregandosene altamente del mio sguardo omicida. Quando cercai di afferrarlo per la collottola dell’orrenda felpa che indossava si scansò velocemente, facendo un passo indietro e alzando un dito verso di me, come a volermi  dare un avvertimento.
«Calma capelli di fuoco, sappi che ci sono delle regole» disse infatti, senza perdere quell’aria ghignante, «Intanto qui comando io…».
«Oh no» lo interruppi, avvicinandomi di un passo e coprendo nuovamente la distanza, sbattendo violentemente un pugno sul tavolo, «Ho espressamente detto al nanerottolo che mi sarei sottoposto a questa stronzata solo se fossi stato io a dirigere i giochi» chiarii categorico, «Se non vi sta bene potete anche dimenticarvi di me».
«Ma guarda, qui qualcuno vuole dettare legge, eh?» mi prese in giro, per nulla impressionato dal mio sfogo, rimanendo impassibile e composto, «E va bene, sarai il leader se lo desideri tanto, ma sia chiaro fin da subito: la responsabilità per qualsiasi guaio è tua e tua soltanto».
«Ci sto» risposi secco. Ci avrei pensato più tardi ai problemi che avrei potuto rischiare di avere accettando quell’aspetto, ma ciò mi premeva di essere al di sopra degli altri, soprattutto al di sopra di quello stronzo con il pizzetto e il sorriso da volpe. L’idea di poterlo zittire e rimettere al suo posto rendeva il tutto più allettante e divertente, anche ritrovarmelo in ginocchio davanti a me in uno sgabuzzino non era male come prospettiva.
Quello allora sorrise in maniera contorta e sadica, facendomi temere di aver appena firmato la mia condanna. Di certo aveva qualcosa in mente, qualcosa di poco carino nei miei confronti, ma riacquisii la mia spavalderia e mi preparai ad affrontarlo. Se era la guerra che voleva allora l’avrebbe avuta e gli avrei fatto capire fin da subito che io non perdevo mai.
«D’accordo. Ultima cosa: io non prendo ordini da nessuno, chiaro?».
Scordatelo moccioso, così non mi sta bene.
«Io sono il Capitano, ergo io decido e do gli ordini. Questi sono i patti» sibilai minaccioso. Prima accettava e poi metteva delle condizioni? Assolutamente no, non gliel’avrei permesso.
«I tuoi patti, vorrai dire» mi corresse, «Ti ricordo che questa cosa è partita da me, quindi mi merito una parte del comando. Ergo» ripeté, con l’intento di beffeggiarmi,  «Tu non mi ordini un emerito cazzo».
«Sai dove te lo metto sto cazzo?».
«Sono curioso di saperlo» mi sfidò, sostenendo il mio sguardo e dando inizio ad una gara silenziosa fatta di fulmini e antipatia reciproca. Era un osso duro, ma ci avrei pensato io a fargli abbassare la cresta e a ridimensionare il suo ego smisurato. Come si permetteva di intralciarmi in quel modo? Nessuno osava, nessuno, perciò chi era lui per avere tutto quel fegato di tenermi testa?
Finalmente qualcuno con le palle, trovai il tempo di pensare. Almeno ci sarebbe stato da divertirsi.
«Quindi dovrò sottostare a Eustass d’ora in poi?» si intromise Penguin, riportandoci alla realtà e facendo si che la smettessimo di scannarci con gli occhi. Con un grugnito mi voltai dalla parte opposta, stizzito e incazzato, mentre quella piaga si interessava al piccoletto invalido.
«Esatto, spero che Sua Maestà sia soddisfatto di questo».
«Chiudi il becco, qualunque sia il tuo nome».
«Mi chiamo Trafalgar Law» sospirò rassegnato, «E ti ho detto di non darmi ordini, Signor…?».
«Si chiama Eustass Kidd, ha ventuno anni e studia all’Università di Ingegneria Meccanica. E’ un novellino ed è arrivato qui oggi trasportato d’urgenza per un malfunzionamento cardiaco, per il resto basta guardarlo, insomma, non è molto socievole, ma non penso sia cattivo, sai? Mi ha anche portato a spasso con la sedia a rotelle».
Fissai allibito l’idiota col cappello, passando dall’essere sorpreso al sentirmi spiato. Com’era venuto a conoscenza di tutte quelle informazioni sul mio conto, quel bastardo infame? Eppure ero certo di non avere cartellini addosso o stupidaggini del genere che indicassero qualcosa sul mio conto.
«E tu come sai tutto questo, di grazia?» sbottai, trattenendo a stento la rabbia. Prima avrei atteso una risposta plausibile che spiegasse l’accaduto, poi l’avrei gettato dalla finestra, carrozzella compresa.
«Ho un’amica addetta agli archivi; sai com’è, le ho mandato un messaggio» si strinse nelle spalle, sorridendomi gioviale, come se la cosa fosse ovvia e chiara come il sole. Peccato che sul mio carattere ci avesse azzeccato: io ero scontroso e poco paziente, quindi non mi calmai affatto.
«Eustass-ya, ma allora sei davvero un mocciosetto».
Voltai il capo quel tanto che bastava per inquadrare quel Trafalgar, dedicandogli un’occhiata truce che prometteva prossime e terribili torture e sofferenze se avesse anche solo osato aprire bocca per ripetere una cosa del genere.
«Ha parlato l’uomo vissuto, immagino» mormorai velenoso.
Quello si concesse una breve risata di sufficienza, mentre Penguin si calcò meglio il cappello in testa nel tentativo di nascondere il suo sorrisetto. Dovevano per forza essere a conoscenza di qualcosa che a me sfuggiva, ne ero certo, e ciò li faceva divertire parecchio.
«In effetti, piccolo Eustass, io ne ho ventiquattro» chiarì soddisfatto, godendosi il mio smarrimento e la mia espressione arcigna. La cosa, ovviamente, non mi faceva affatto piacere e sapere di avere tre anni in meno in confronto a lui mi faceva parecchio incazzare. Ad ogni modo, se non volevo perdere la testa e rodermi troppo l’anima, tenni conto che, a parte quel minuscolo e insignificante particolare dell’età, in confronto a lui io ero il doppio e avrei potuto schiacciarlo in ogni momento. Inoltre sarebbe bastato un giorno o due per fargli capire chi era migliore tra di noi. Un paio di insulti e qualche pugno avrebbero chiarito la situazione e garantito il mio indiscusso dominio.
Trafalgar sfoggiò un ghigno altezzoso e si permise di guardarmi dall’alto in basso, come a voler sottolineare più volte la differenza abissale tra di noi, calcando sul fattore età e facendomi ribollire il sangue nelle vene. Me l’avrebbe pagata e gli avrei fatto rimangiare ogni attimo di quella sua arroganza, poco ma sicuro.
«Un marmocchio come Capitano» borbotto fra sé, ridacchiando sommessamente e ignorando il mio ringhio decisamente poco umano, «Andrà bene» dichiarò infine, guardandomi con la coda dell’occhio senza smettere di ghignare. Cosa cazzo ero diventato, un fottuto pagliaccio? Io incutevo timore e ispiravo rispetto, nonché sesso selvaggio, invece lui che faceva? Se ne sbatteva altamente e rideva.
«Ora ne mancano due e poi saremo un gruppo a tutti gli effetti!» strillò Penguin con entusiasmo, alzando i pollici e aspettando una qualche reazione positiva da parte mia e dello stronzo, ma non avevo la minima intenzione di entusiasmarmi per boiate del genere. Per quanto riguardava, non avrei nemmeno mai pensato di accettare se non mi fossi fatto impietosire dallo sguardo speranzoso di Killer. E poi, ormai, quella storia era diventata una sorta di sfida con Trafalgar so-tutto-io Law e non mi sarei mai fatto scappare l’occasione per metterlo alle strette e fotterlo.
«Ci sono altri dementi come voi in giro, per caso?» mi premurai di chiedere, giusto per sapere cosa dovevo aspettarmi da quel soggiorno in ospedale oltre a una serie infinita di esami, test clinici e stranezze inquietanti varie.
«In effetti al quarto piano c’è uno a cui potremo chiedere. Se ne sta sempre per conto suo» spiegò Penguin con fare dispiaciuto.
«Ha capito tutto dalla vita» commentai. Se voleva mantenersi sano di mente il modo migliore era tenersi alla larga da quelle due mine vaganti.
«E’ per questo che sei senza amici, Eustass-ya?».
«Cosa te lo fa pensare?» ribattei stizzito e con i nervi a fior di pelle. Che ne sapeva lui della mia vita? Io ne avevo di amici, a bizzeffe per sua informazione.
Si strinse nelle spalle, «Non mi sembra di vedere qualche tuo conoscente qui in giro. Nessuno ha pensato di venirti a fare visita?».
A quell’affermazione non trovai nulla da ribattere e uno strano senso di comprensione si fece strada in me. Quel pomeriggio avevamo vinto una partita piuttosto importante per l’istituto e per la nostra squadra e, come ogni volta, era prevista una festa con i fiocchi a cui tutti avrebbero partecipato. Con tutto quel casino successo me ne ero scordato e non ci avevo fatto caso, ma possibile che tutti avessero preferito non rinunciare a un po’ d’alcool e musica per passare a vedere come stavo?
Guardai a terra, corrugando la fronte e ignorando la preoccupazione negli occhi di Penguin che, mordendosi le unghie delle dita, era indeciso se confortarmi o lasciarmi in pace.
Pensandoci bene, un po’ me l’ero aspettato e non ero poi tanto stupito. Dopotutto non ero altro che uno spaccone montato, pieno di sé e alla maggior parte dei miei compagni stavo parecchio sulle scatole, solo quelli che volevano farsi un nome e avere una reputazione mi seguivano come discepoli, facendo tutto quello che dicevo e sostenendo ogni mia assurda idea. Nessuno mi contraddiceva, nessuno si metteva contro di me, pena un naso rotto o un braccio lussato, magari qualche livido quando mi sentivo magnanimo. A conti fatti ero un figlio di puttana, quindi, perché preoccuparsi tanto per la mia salute?
«Forza Penguin, è ora che tu vada» fece il ragazzo pelle e ossa, zittendo le proteste del piccoletto con uno scappellotto ben mirato sulla nuca, assicurandogli che il giorno dopo avremo fatto visita all’ipotetico quinto elemento della compagnia.
«D’accordo. Allora a domani ragazzi!» ci salutò sorridente, dandoci le spalle e avviandosi con la sua sedia a rotelle verso gli ascensori. Non mi resi conto della sua assenza fino a che non mi sentii picchiettare una spalla, riscuotendomi dai miei pensieri e riflessioni che, invece di farmi sentire meglio, mi avevano lasciato addosso un senso di nausea e di ribrezzo per la mia vita all’apparenza perfetta, ma contaminata dallo schifo più totale.
Guardai Trafalgar con aria interrogativa, «Che vuoi?».
Mi sondò per qualche secondo, osservandomi attentamente per capire in che condizioni fosse il mio umore in quel momento. Alla fine decise di infischiarsene e di punzecchiarmi ugualmente. «Non ti metterai mica a frignare spero» fece con una smorfia di disgusto.
Lo spintonai lontano da me, stupendomi della facilità con cui riuscii a spostarlo e notando come iniziò a massaggiarsi il braccio. Eppure non ero stato così brusco come mio solito.
«Forza, ti riaccompagno in cardiologia». Così dicendo mi voltò le spalle, affondando le mani nelle tasche dei jeans dannatamente stretti che mettevano in risalto la sua figura magra e, accidenti, davvero troppo magra, tanto che rimasi immobile al mio posto, stranito da tutto ciò. Come cazzo faceva a reggersi in piedi con quelle gambe così fini?
Lasciai scorrere lo sguardo verso l’alto, soffermandomi sul fondoschiena che si portava appresso e il mio viso mutò in un’espressione di apprezzamento.
Certo che gli stronzi hanno sempre un culo da favola, altro che storie, pensai, sorridendo leggermente e mordendomi un labbro, inclinando il capo. Nemmeno davanti sembra essere messo male.
«Eustass-ya».
I miei occhi incontrarono i suoi e mi resi conto di essere stato colto in flagrante, ma la cosa non mi preoccupò affatto. Figuriamoci, ci voleva ben altro per mettermi in imbarazzo e lui sembrò capirlo così, ricambiando il sorriso, non perse tempo per mettermi alla prova.
«Mi trovi così attraente?» domandò con un tono canzonatorio, al che il mio ghigno si allargò.
«Non essere così presuntuoso, apprezzo solo il culo che ti ritrovi».
Alzò gli occhi al cielo, borbottando qualcosa riguardo ai mocciosi irriverenti e, facendomi segno di sbrigarmi, si diresse verso le scale, commentando sul fatto che, se aveva fortuna, lo sforzo fisico mi avrebbe fatto schiattare.
«Ci vuole ben altro per liberarsi di me, Trafalgar» mi premurai di fargli sapere, guardandolo torvo ed elaborando un piano per farlo scivolare sui gradini e mirare a rompergli l’osso del collo con una brutta caduta. Se era davvero così magro la percentuale di successo era piuttosto alta.
«Non preoccuparti, Eustass-ya, ci penserò io a farti fuori» sogghignò lo stronzo con fare sadico e con uno sguardo da folle che per poco non mi fece rabbrividire.
«Allora è guerra» ribattei, digrignando i denti e mostrandogli i canini come se fossi stato un predatore letale.
«Guerra aperta» sibilò maligno.
Era il primo giorno, ma già sapevo che sarebbe stato l’Inferno.
 
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Buonasera gente ^^
Sono certa che in questo momento vi state facendo la stessa mia domanda: Cosa cazzo mi sono messa in testa di fare quando devo finire due long?
Eh, non lo so proprio a dire il vero, ma l’altra sera stavo passando in rassegna i canali in tv e ho beccato il film Braccialetti Rossi, così ho un po’ storpiato la trama, rendendola decisamente molto più scurrile e con personaggi veramente bastardi. Che vergogna di ragazza che sono ^^
A ogni modo sappiate che non lascerò nulla di incompiuto e che con questa nuova fic non ho intenzione di tirarla per le lunghe, anche perché i capitoli saranno abbastanza corposi, quindi rilassatevi!
Alcune paroline sull’inizio di questa storia. Dunque, tutto ruota attorno all’ospedale dove Kidd è stato trasportato d’urgenza per un problema grave, stando a sentire i medici, e questo da inizio ad una vicenda che lo accompagnerà nel suo soggiorno in cardiologia. A quanto pare non è l’unico ragazzo con problemi, infatti abbiamo un Penguin invalido senza una zampetta, ma molto allegro e abbastanza spensierato. Soprattutto innamorato di un certo Kira-chan, scapestrato e devastato, imbalsamato dalla testa ai piedi. Si rimetterà presto, dopotutto dovrà pur riprendere le sue gare clandestine, no? Si, con la sedia a rotelle però! E poi arriva Law. Ow, dannazione a te e al tuo culo! Lui e Penguin, più l’ultimo che il primo, ma andando avanti lo spiegherò meglio, vogliono riunire un gruppetto di ragazzi per affrontare il loro soggiorno tra quelle mura piene di sofferenza e dolore. E non è nemmeno una brutta idea, insomma, non deve essere facile trovarsi rinchiusi in un luogo così cupo ed essere soli. Quindi la loro idea è quella di passare il tempo e divertirsi il più possibile.
Due ragazzi sono stati nominati e nel prossimo capitolo ve li presento, ma penso che, se mi conoscete, possiate benissimo immaginare di chi sto parlando :3
Ace e Marco!
Ok, l’ho detto, mi spiace, non ho resistito!
Che dire, spero che abbiate apprezzato questo inizio ^^
Ora vado, per qualsiasi cosa sapete dove trovarmi e se mi fate sapere cosa ne pensate ve ne sarò grata ^^
Grazie a tutti i nuovi lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Capitolo 2.

 

Uh? Ma dove sono finito? Aspetta, che piano è questo? Che, il decimo? No, no, no, ho sbagliato proprio! Va bene, fa nulla, adesso torno indietro, magari per strada incontro qualcuno che vuole aggregarsi a me. Certo che Kidd poteva anche accompagnarmi invece che restarsene a dormire. Dannazione, dovevamo andare alla ricerca del quinto elemento un fottuto mese fa e nessuno si è ancora deciso a prendere parte attiva nel gruppo. Insomma, che egoisti! Prima perché devono litigare, poi perché uno deve fare gli esami e l’altro rintanarsi in camera, ma che diavolo! L’avrei chiesto a Kira-chan, ma lui non può ancora camminare. Che peccato, sono mesi che ha quei maledetti affari a ingessargli le gambe, si può sapere quando si decidono ad iniziare con la sua riabilitazione? Poveretto, di questo passo difficilmente l’avrò affianco tanto presto. Mhm, bene, da quella parte dovrebbero esserci gli ascensori. Toh, ma guarda! Quei muri sono tutti colorati e dipinti! Che bello! Voglio vederli meglio, non sapevo si potessero imbrattare le pareti! Devo farlo anche io!
Mi diressi verso quella che sembrava una sala d’attesa trasformata in un’insolita sala giochi, anche se il silenzio che vi regnava stonava molto con l’allegria che i colori infondevano alla prima occhiata. Mani, scritte, auguri, battute e disegni di ogni genere erano raffigurati su quattro pareti e mi facevano sentire come se fossi appena capitato dentro un asilo pieno di bambini, anche se non c’era anima viva in quel momento. In particolare, il muro rivolto verso nord era completamente dedicato a un dipinto che mi mozzò il fiato, tanto era bello e particolareggiato. Per non parlare dei colori e del significato che poteva avere. Un’enorme e imponente fenice con le ali spiegate si alzava in volo proprio sopra alla testa del letto di un paziente che notai solo allora, stupendomi non poco e incuriosendomi l’attimo dopo, tanto che mi avvicinai per scoprire di chi si trattasse. La sedia a rotelle cigolò, ma il rumore non sembrò destare sospetti nel ragazzo che sembrava profondamente addormentato. Aveva l’aria rilassata e il volto coperto di lentiggini lo faceva sembrare un ragazzino. Probabilmente doveva essere appena maggiorenne, o giù di lì, e un groviglio di capelli corvini era sparpagliato sul cuscino immacolato. Respirava regolarmente e alcuni fili collegati ad una macchina accanto a lui sparivano sotto alla maglia del pigiama, utili a tenere sotto controllo il battito cardiaco e pronti ad annunciare qualsiasi cambiamento. Li conoscevo bene, anche Law era stato sottoposto a quegli affari quando aveva avuto una ricaduta.
Poco distante dal letto vi era un comodino con alcuni oggetti personali, tra cui una bottiglia d’acqua, un calendario con i giorni passati segnati e una foto che ritraeva un gruppo di mocciosi sorridenti e sghignazzanti in mezzo ad un prato. Guardandola meglio potei distinguere quello che doveva essere il tizio sdraiato a letto in quel momento.
Un fruscio di coperte attirò la mia attenzione e mi voltai a guardare il viso del poveretto sotto e lenzuola.
«Come sono maleducato» iniziai a dire, «Io sono Penguin, piacere di conoscerti. Tu come ti chiami? Ace? Che bel nome, mi piace! Sai, lascia che te lo dica, la tua stanza è una bomba e quel disegno è fantastico! Chi l’ha fatto? Un tuo amico, capisco. Beh, deve essere bravo, dico davvero, e dov’è adesso? Ah, anche lui sta qui in ospedale? Meglio così, magari lo becco in giro. In che reparto? Sul serio? Ma allora lo conosco! Cioè, l’ho visto gironzolare da quelle parti, se ne sta sempre da solo e per conto suo. Ha l’aria un po’, come dire, triste? Apatica? Oh, se è come dici capisco perché è in quello stato, mi dispiace molto. E loro chi sono?» chiesi, indicando la foto di poco prima, «I tuoi fratelli? Così tanti? All’orfanotrofio? Dunque tu sei stato adottato, ma hai comunque continuato a seguirli e a stargli accanto in questi anni? Sei così altruista, i miei complimenti. Come sono carini e ce ne sono anche di più grandi, sembrano simpatici. Il primo ha un ciuffo assurdo, senza offesa. Thatch, che strano nome, quasi quanto i capelli. Quello accanto con i baffi, invece? Vista? Fa a fette qualsiasi cosa, interessante, cioè, forte, è un bel passatempo, credo. E quel maschiaccio davanti a lui? Una femmina! Scusami, non volevo offenderla, ma non mi ero reso conto che… Oh, d’accordo, allora sto tranquillo se a prima vista si confondono tutti. Ma guarda, questo deve essere il ragazzo dei graffiti di cui mi hai parlato. Quindi è qui che l’hai conosciuto, tutto chiaro. Ah, ehm, vive con te? Non pensavo foste… ah, certo, certo, tuo fratello acquisito pure lui. Scusami, ma sai com’è, insomma… beh, lasciamo perdere. Dai, non ridere, ho fatto una figuraccia, lo so, dimentichiamolo. Hanno dipinto loro la tua stanza, immagino. Ma si, ovvio, dovevo capirlo. Un augurio di pronta guarigione. Come sono stati dolci, vorrei anche io una famiglia come la tua, si preoccupano molto per te. Ma che dici? Vedrai che andrà tutto bene e sono sicuro che li riabbraccerai tutti molto presto, fidati, me lo sento. Hai una volontà forte, non ti abbattere. Figurati, ricordati che sono gli ottimisti a fare il mondo, i pessimisti non ci provano nemmeno. Senti, mi sei simpatico, Ace, quindi te lo chiedo: ti va di fare parte di un gruppo? Siamo in quattro per ora e qui ci sono solo io, ma tra noi abbiamo uno che vuole diventare chirurgo; un motociclista spericolato, e bellissimo, lasciamelo dire… Cosa? N-no, c-che ti salta in mente? Non mi piace, e-ecco, è complicato… Basta, andiamo avanti! Dicevo, lui e poi una specie di Drag Queen con il ciclo, si, parlo di un maschio. Conto di arruolare altre due persone per completare l’opera. Sai, se si hanno degli amici su cui contare è più facile affrontare la vita, non ti pare? Vedo che siamo d’accordo, quindi accetti? Si? Wow, sono contentissimo! Devo dirlo agli altri! Se più tardi ripasso a salutarti è un problema? Magari trovo anche questo tuo amico. Come hai detto che si chiama? Marco, molto bene. Ah, non sai quanto mi ha fatto piacere incontrarti, e pensare che sono capitato da queste parti per caso! Che fortuna ho avuto. Tu da quanto sei qui? Cosa? Quasi otto mesi? Accidenti, sono parecchi; io sono qui da tre e già non ne posso più, ma non posso farci nulla, vedi?». Gli indicai la mia gamba mutilata, alzando un po’ la stoffa del pigiama per evidenziare il moncherino, «Me l’hanno tagliata. Buffo vero? Che? Ma no, figurati, ci ho fatto l’abitudine, più o meno. Non è così male e la sedia a rotelle è un ottimo mezzo di trasporto quando impari come sfruttarla al meglio, sono serio. Non provo dolore e poi l’ho persa facendo una buona azione, quindi sono in pace con me stesso, che è la cosa più importante. Uh? Ma dai, non farmi ridere, non sono un eroe, ho solo evitato ad un mio amico un brutto incidente, infatti ne è uscito illeso. Smettila, mi fai arrossire, non sopporto i complimenti. Certo, va bene, ti lascio riposare adesso e ripasso più tardi come promesso con gli altri, sempre se riesco a recuperarli. Ti avviso, sembrano avanzi di galera, ma quando impari a conoscerli non sono male, maleducazione a parte. Allora ciao Ace, a dopo! Sono felice di averti come compagno!». Così, ammiccando e salutandolo con la mano, uscii da quella che era la sua stanza e mi avviai verso gli ascensori tutto allegro e sorridente. Avevo appena reclutato un nuovo componente grazie ad un colpo di fortuna e questo sembrava anche simpatico e gentile. Certo, bisognava essere bravi per capirlo, ma non era male, anzi, molto tranquillo e loquace. Chissà cosa avrebbero detto gli altri.
Mentre riflettevo con entusiasmo su tutto ciò, il ragazzo nella camera, sorrise nel sonno.
 
*
 
Sbuffai seccato, alzando gli occhi al cielo e voltandomi dall’altra parte del letto, rivolgendo il mio interesse alla parete spoglia e fissando un punto indefinito fuori dalla finestra, tappandomi le orecchie e coprendomi la testa con il cuscino. Tutto pur di estraniarmi dal mondo e ridurre al minimo la voce di quel saccente mucchio d’ossa.
Da quando l’avevo conosciuto, un mese prima, mi aveva letteralmente rovinato l’umore e tutte le giornate seguenti. Non avevo mai conosciuto nessuno di più insopportabile, pungente, menefreghista e irriverente come lui. Invece di spegnere la fiamma della mia rabbia con le sue battutine, la alimentava ed era sempre una lotta accesa per aggiudicarsi l’ultima battuta o il dominio l’uno sull’altro. Certo, trenta giorni erano relativamente pochi per dire di conoscere una persona, ma sentivo che non saremo mai e poi mai andati d’accordo, anzi, nemmeno volevo provarci. Non aveva niente di interessante e non valeva la pena perdere tempo prezioso per uno con il suo caratteraccio. Per non parlare dell’aspetto inquietante, dannazione!, uno zombie era meno pauroso e di sicuro più sorridente. Me lo ritrovavo tra i piedi senza nemmeno accorgermene, sbucava all’improvviso, silenzioso e con quel ghigno a storpiargli le labbra che lo rendeva ancora più sinistro e cupo. E quello sguardo. Dio, a volte mi era sembrato di avere accanto il Diavolo in persona. Con quegli occhiacci grigi e freddi da fare invidia addirittura alla stagione invernale stessa. Gli occhi erano il male minore e potevo sorvolare persino sulle occhiaie profonde e sui capelli scuri, anzi, dire scuri era dire poco perché questi erano di un nero talmente nero che non ero più tanto sicuro che il colore stesso potesse essere quello più scuro nella scala cromatica. Doveva per forza essercene uno che descrivesse meglio quella sua tonalità, tipo qualcosa come nero notte o, che cazzo, nero Trafalgar, ecco. Insomma, se avesse voluto avrebbe persino potuto sembrare appena passabile, ma aveva dovuto per qualche contorta ragione rendersi ancora più tetro. Seriamente, chi andava in giro con la scritta ‘death’ tatuata sulle nocche delle dita? Assurdo, semplicemente assurdo e non gli avrei mai creduto se mi avesse detto che l’aveva fatto per seguire uno stile di vita o un genere musicale. A me piaceva il metal pesante, ma andiamo, mica mi vestivo come uno sbandato; borchie, catene, vestiti bucati e capelli a parte. Quello era pazzo come il suo amichetto. Dovevano stare in psichiatria o in manicomio, ne ero certo.
«Eustass-ya, mi stai ascoltando?» fece con voce infastidita dal mio poco interesse, «Guarda che sto parlando della tua situazione e dovresti fare attenzione. Non tutti hanno un cuore debole come il tuo».
Chiusi gli occhi e iniziai a contare fino a dieci, conscio che avrei dovuto continuare almeno fino a cento dato che per calmarmi e ignorare le insinuazioni di quel bastardo dovevo impegnarmi fino in fondo. In qualche contorto modo quell’impiastro di Trafalgar era riuscito ad appropriarsi di una copia della mia cartella clinica e mi era piombato in stanza, Dio solo sapeva come, con tutte le scartoffie in mano e, senza chiedere il permesso, si era accomodato su una sedia, troppo vicino al mio letto e alle mie orecchie, e aveva iniziato a leggere ogni riga di quelle pagine, facendo commenti, insinuazioni e dicendomi cosa secondo lui andava fatto. Ma chi cazzo si credeva di essere? Il mio medico personale? Infermiera sarebbe stato meglio, almeno l’avrei sbattuto al muro senza tante cerimonie.
«Possibile che tu non ti sia mai fatto qualche esame per controllare la tua salute? Tralasciare così il tuo organismo, che spreco!» stava commentando, per l’ennesima volta. L’avrei scannato vivo, senza dubbio, poi l’avrei nascosto all’obitorio assieme al resto dei morti. Quello era il suo posto.
«Questo si che è divertente» sghignazzò dopo alcuni minuti di silenzio, durante i quali avevo iniziato a sperare che gli fosse venuto un qualsiasi malore e che l’avesse stroncato sul posto, «Alla prova dello sforzo hai resistito davvero così poco? Che delusione».
«Chiudi quella boccaccia!» ringhiai, mettendomi seduto con uno scatto e cercando di strappargli di mano tutti i documenti riguardanti la mia situazione, senza però riuscirci e rischiando di sbilanciarmi e cadere dal letto. Per tutta risposta, l’altro si allontanò di qualche centimetro per assicurarsi di essere fuori dalla mia portata e, sfoggiando un ghigno sadico, gettò il tutto ai suoi piedi, incrociando le braccia dietro la testa e allungando le gambe per posare i piedi sul materasso.
«Come sei irascibile, Eustass-ya» sfotté, «Stavo solo cercando di aiutarti».
«Al diavolo, non ho bisogno del tuo aiuto. Io sto benissimo e se mi verrà un infarto sarà solo colpa tua!» lo accusai, fulminandolo con lo sguardo per poi scacciare i suoi piedi con una manata infastidita.
«Ma dai, ti faccio battere così forte il cuore? Come sei romantico» ironizzò soddisfatto, facendomi arrossire per la rabbia.
Rimasi a fissarlo a bocca aperta per qualche secondo, incapace di ribattere prontamente. Come si permetteva quello stronzo di prendersi gioco di me in quel modo e senza la minima preoccupazione? Infame, lo odiavo con tutto me stesso!
Stavo valutando le possibilità che avevo di saltare giù dal letto e acciuffarlo per sbattergli quella testaccia di cazzo contro il muro, quando decise di fare il suo ingresso il rompi coglioni per eccellenza. Sul serio, quel piccoletto superava addirittura Trafalgar, anche se il suo livello di stronzaggine era impossibile da battere.
«Oh, Penguin, giusto in tempo. Eustass-ya stava per commettere un omicidio» lo salutò a quel punto quella piaga che aveva rimesso le sue zampacce sotto al mio naso, approfittando della mia distrazione. Gli rivolsi un’occhiata di fuoco.
«Eustass-ya può ucciderti lo stesso e poi eliminare il testimone» lo ammonii minaccioso, ma il mio intento di impaurirlo scemò quando l’invalido di turno iniziò a parlare a voce alta e con entusiasmo malcelato. Ero certo che, se avesse potuto, si sarebbe messo a saltare e ad abbracciarci.
«Non indovinerete mai cosa è successo! Sono così contento e anche voi dovreste esserlo!».
«Cosa gli hanno dato?» farfugliai, più a me stesso che ad altri, ma Trafalgar sembrò credere che gli avessi appena rivolto la parola di mia spontanea volontà.
«Facci l’abitudine, tende ad essere molto espansivo quando è di buon umore».
«Neanche avesse scopato con Killer!» sbottai, stupendomi non poco nel sentire il moro accanto a me sbuffare divertito, trattenendo una risata e voltandosi da un'altra parte per non essere notato. Ma pensa, allora aveva anche lui i suoi punti deboli, buona a sapersi.
Tornai a fissare il moccioso che non aveva smesso un attimo di ululare allegro, blaterando frasi senza senso e tirando in ballo la stronzata di formare un gruppo, argomento che mi aveva assillato da un mese a quella parte e sapere che avrei dovuto averci a che fare tutti i giorni fino a quando non mi avrebbero dimesso mi faceva sentire male, malissimo. Quell’idiota era davvero convinto che io facessi parte di quella combriccola di matti e che fossi loro amico e pretendeva che gironzolassi per l’ospedale con loro, anche se uno si faceva vedere solo quando voleva e un altro non poteva muoversi, ingessato dalla testa ai piedi. Risultato? Dovevo sorbirmi Penguin da solo e la cosa non mi andava affatto. Fortunatamente in quelle ultime settimane ero stato sottoposto ad un mucchio di esami e così avevo perso tempo, inoltre, ogni volta che vedevo il brutto muso di Trafalgar, mi sentivo ribollire il sangue e finivo per incazzarmi per un nonnulla con lui, così me ne andavo da un’altra parte per non averlo intorno. Funzionava, solo che me lo ritrovavo puntualmente fra le palle in ogni caso.
«Abbiamo un nuovo componente!» esultò infine, avvicinandosi pericolosamente al bordo del mio letto, «Sta al decimo piano e si chiama Ace! Alzatevi adesso, così andiamo a salutarlo e ve lo presento!». Così dicendo mi afferrò per un braccio e fece forza nell’intento di tirarmi su. Inutile dire che non mi spostò di un centimetro e che sulle mie labbra fece capolino un sorrisetto soddisfatto. Povero illuso.
«Sparisci microbo» mormorai annoiato e, con uno spintone, spedii la sua carrozzella all’indietro, facendola cozzare contro il muro, tanto che il piccoletto rischiò di sbalzare per terra con tutto il peso. Fortunatamente per lui ciò non accadde e sul pavimento ci finì solo il suo stupido cappello.
«Bravo, ti senti potente adesso?» mi sfotté Trafalgar, battendo le mani in modo sarcastico e scuotendo il capo esasperato, facendomi alzare gli occhi al cielo per chiedere la grazia di vederlo scomparire il più presto possibile.
Penguin, invece, non dava segno di volersi arrendere e ritornò alla carica, stavolta attaccandosi al braccio del suo compare e iniziando a tirarlo verso di sé. Inaspettatamente a quello che credevo, il ragazzo si alzò di sua spontanea volontà, stiracchiandosi inarcando la schiena e raccogliendo le scartoffie riguardanti la mia salute, riordinandole e premendosele al petto come a voler far intendere che non se ne sarebbe separato.
I loro occhi si posarono su di me nella muta richiesta di seguirli e rimasero a fissarmi per una decina di minuti, persino quando decisi, con un grugnito stizzito, di alzarmi e infilarmi i pantaloni della tuta abbandonati ai piedi del letto. Non mi vergognai di mostrarmi mezzo nudo, non ci feci caso, non ero uno timido e pudico, per quanto mi riguardava potevano guardare e rodere, uno spettacolo del genere non si vedeva tutti giorni, soprattutto in ambienti come quello.
Quando fui pronto rivolsi loro un ghigno carico di aspettativa che venne però smontato nel giro di qualche secondo da entrambi perché Penguin sembrò non averci fatto caso e schizzò fuori dalla porta iniziando a parlare d’altro, mentre Trafalgar aveva l’espressione da perfetto indifferente e, con un’alzata di spalle, si avviò verso l’uscita, iniziando a sfogliare la mia cartella e mandandomi in bestia. ‘Fanculo, non sapevano apprezzare un capolavoro quando lo vedevano.
«Annotazione personale: abbassare l’ego smisurato di Eustass-ya».
«Cosa hai detto?» sibilai velenoso, ottenendo in cambio un sorriso tanto falso quanto viscido.
«Niente».
Giuro che ti sopprimo, maledetto bastardo. Hai poco da fare quella faccia soddisfatta, tanto prima o poi ti darò una lezione che non dimenticherai tanto facilmente, parola mia! Te le faccio ingoiare quelle scartoffie, poi ti sbatto al muro e ti faccio urlare in tutte le lingue del mondo e solo allora ti spezzerò le ossa. Dannato pezzo di…
«Kira-chan!».
Mi riscossi dai miei pensieri non appena i miei timpani esplosero a causa dell’urlo disumano che fece Penguin, alzando le mani verso il cielo come se davanti a lui fosse appena apparsa la Santa Vergine. Sbigottito guardai nella direzione in cui prese a lanciarsi a tutta birra con la sedia a rotelle, notando un tizio pieno di bende a fasciature che, accortosi della minaccia che incombeva su di lui, tentava disperatamente di fare marcia indietro per svignarsela. Peccato che non sembrava avere molta dimestichezza con quella carretta, quindi non riuscì a fare molto, soprattutto con solo un braccio libero, e venne inevitabilmente investito dalla felicità del piccoletto che, in un moto di confidenza e fratellanza, accostò la sua vettura a quella del biondo e lo abbracciò di slancio, facendomi ridere di fronte alla smorfia di dolore che fece l’altro per la stretta subita. Evidentemente le sue condizioni non erano così rosee, ma almeno poteva uscire da quella sua stanza anonima e silenziosa.
«Kira-chan che bello vederti! Puoi uscire, quindi? Eh, puoi? Vuol dire che da oggi in poi potremo girare per l’ospedale assieme! Vedrai, ti insegnerò tutte le scorciatoie, come curvare senza perdere la stabilità, come andare più veloce e tutti trucchetti simili! Ci divertiremo un sacco ne sono cer…».
«Frena, frena, frena!» lo apostrofò Killer, impallidito per l’orrenda notizia che aveva appena ricevuto, «Non ho la minima intenzione di…».
«Così è questo Killer-ya?» si intromise Trafalgar quando li raggiungemmo, seguito a ruota dalla mia espressione divertita e incuriosita da tutto ciò. Mi stava simpatico Killer, forse era stato la prima persona sulla faccia della terra a non infastidirmi appena l’avevo conosciuto e mi dispiaceva davvero molto che avesse una palla al piede come spasimante, ma la cosa aveva un che di estremamente assurdo, quindi avevo deciso che mi sarei goduto un po’ le loro scenate per poi intervenire e salvarlo da quel tipetto soffocante.
Penguin si voltò verso di noi annuendo convinto e con gli occhi che brillavano per l’emozione. «Si, si! Hai visto, Law? Te lo dicevo che si sarebbe unito a noi molto presto! Giusto in tempo per andare a trovare Ace».
«Vedo» mormorò solamente Trafalgar, superandoci e dirigendosi verso le scale, «Prendete gli ascensori, ci vediamo al decimo piano e poi ci farai strada, d’accordo?» sentenziò, mentre l’espressione sul viso di Penguin si faceva sempre meno affidabile e quella di Killer sempre più preoccupata. Probabilmente il piccoletto non stava nella pelle per passare qualche minuto completamente solo con il suo sogno ad occhi aperti. Quest’ultimo, per tutta risposta, sembrava preso dal panico e cercava invano di trovare qualche scusa per defilarsi. Tutto fu inutile perché la sua sedia a rotelle fu arpionata da quel pazzo col cappello che lo trascinò tutto raggiante verso la sua meta, più che deciso ad ottenere quello che voleva.
Repressi un brivido iniziando a seguirli. Forse dovevo davvero fare qualcosa per aiutare Killer.
«Eustass-ya, non prendi le scale? Ti facevo più sportivo e intrepido».
Strinsi i denti, deviando dagli ascensori e superando quell’impiastro, iniziando a salire i gradini velocemente. Se credeva che mi sarei tirato indietro davanti a quella sua sfida si sbagliava di grosso. Anzi, sarei persino arrivato per primo!
Erano solo quattro piani, potevo farcela benissimo.
 
*
 
«Va meglio adesso?».
Credo di si, avrei voluto dire, ma rimasi in silenzio e risposi con un sospiro profondo, tenendo ancora la testa tra le ginocchia e la schiena appoggiata al muro freddo che, in qualche modo, calmava il bollore che mi era corso lungo le vene qualche attimo prima.
Avevamo da poco superato gli ascensori del nono piano ed ero arrivato fin lì senza il minimo sforzo, seguito a ruota da Trafalgar che, anche se qualche scalino più indietro, sembrava intenzionato a non mollare. Stava andando tutto bene, stavo pure vincendo, quando un violento capogiro mi aveva fatto vacillare e perdere il controllo del mio corpo, mentre un violento tremore mi aveva fatto sussultare e ritrovare accasciato carponi a terra e con il fiato corto. Le mani mi tremavano e mi sembrava che l’aria che inalavo non arrivasse in modo preciso ai polmoni. Tra tutto quel casino, avevo creduto per un attimo che il cuore potesse scoppiarmi da un momento all’altro.
Non l’avrei mai ammesso, ma era stato solo grazie a Trafalgar se ero riuscito a calmarmi e a riprendere il controllo. Si era accovacciato accanto a me e mi aveva fatto sedere sulle scale, con calma e senza fretta, facendomi piegare le ginocchia verso il petto e, con delicatezza, guidando la mia testa a contatto con esse in modo da fermare le vertigini e il tremore. Il marmo freddo e le pareti avevano contribuito a tranquillizzarmi e un’invitante bottiglietta d’acqua che avevo svuotato per metà era magicamente apparsa sotto al mio naso.
Mentre aspettava che mi calmassi era andato alle macchinette del nono piano per prendermi qualcosa da bere, tornando alla velocità della luce per assicurasi che le mie condizioni non fossero peggiorate e sorridendo soddisfatto quando avevo riacquistato un colorito più intenso, nonostante avessi la carnagione chiara di mio.
«Da ora in poi basta scale» fece categorico, ma con un tono di voce meno astioso del solito e quasi ironico, «La morte sarebbe una liberazione per te ed io non ho intenzione di lasciarti andare in pace tanto presto». Una frase del genere poteva assumere tante sfumature e significati diversi, ma detta da lui appariva in un solo e unico modo plausibile. «A meno che tu non sia così debole».
Ghignai involontariamente, incapace di trattenermi, «Mi stai minacciando, sfidando o cosa?» gli chiesi, divertito dall’idea di aver appena trovato il mio personale tormento.
«Ti sto dando un motivo per combattere» dichiarò, sghignazzando a sua volta e allacciando il suo sguardo al mio quando decisi finalmente di alzare il capo. «Anche se non ha un briciolo di moralità, è sempre meglio di niente».
La determinazione nei miei occhi lo fece sorridere ulteriormente e, in quel momento, sancimmo il nostro silenzioso accordo. Nessuno dei due sarebbe morto, pena la consapevolezza di essere stati vinti dall’altro.
«Avanti» disse dopo qualche attimo di stallo, porgendomi la mano per aiutare ad alzarmi, «Gli ascensori sono laggiù, l’ultimo piano lo faremo con quelli».
Ignorando la sua mano tesa mi rialzai da solo, spolverandomi distrattamente i pantaloni e respirando prontamente, felice di constatare che l’aria arrivasse dritta, dritta nei miei polmoni, donandomi sollievo, mentre il mondo era ritornato immobile, smettendo di girare su se stesso come una trottola. Trafalgar sbuffò per poi precedermi e farmi strada.
Lo affiancai, affondando le mani nelle tasche e notando con immenso piacere che ero più alto di lui nonostante la differenza di età che, se solo ci pensavo, ancora mi infastidiva. Dopotutto, nonostante rimanesse un autentico stronzo, mi aveva aiutato. Chissà, forse sul suo conto mi ero sbagliato e l’avevo giudicato troppo in fretta. Magari, da qualche parte nel suo animo, era gentile e altruista.
Una volta all’interno dell’ascensore mi appoggiai stancamente alla parete, mentre lui premette il pulsante con il numero dieci. Le porte si chiusero automaticamente, lasciando che il silenzio ci avvolgesse e dandomi modo di riflettere e decidere se avessi dovuto ringraziarlo, dandogli una seconda possibilità, o fare finta di nulla e fingere che non fosse accaduto nulla.
«Eustass-ya, piantala di fissarmi» sbuffò, voltandosi a guardarmi e facendomi rendere conto che l’avevo osservato per tutto quel tempo senza nemmeno accorgermene, facendogli così intendere cose sbagliate e fuori luogo, «Non avrai mica intenzione di baciarmi come fanno nei film, spero» dichiarò, accompagnando il tutto con un ghigno canzonatorio. Ovviamente doveva rovinare tutto e mandare a puttane la sua reputazione e l’idea di bravo ragazzo che per un misero istante mi aveva dato.
No, questo qui è uno stronzo e io col cazzo che lo ringrazio. Al diavolo lui e la sua gentilezza.
Mi imbronciai, voltandomi dall’altra parte e ignorando la risata che mi giunse alle orecchie poco dopo e che mi fece sentire ulteriormente idiota. Andiamo, mica l’avevo guardato perché volevo baciarlo.
Come gli é venuta in mente un’idea simile? Nemmeno sotto tortura! Nemmeno per un culo così… Oh, maledizione, perché ci sto pensando adesso? Per quale assurdo motivo? Lo odio, lo odio, lo odio!
Strinsi i pugni, nascondendo le mani dietro alla schiena, e mi imposi di non aggredirlo, avrei solo contribuito a divertirlo ulteriormente e avrei fatto esattamente il suo gioco. Dovevo calmarmi, invece, e essere superiore, allora avrebbe smesso di infastidirmi e se ne sarebbe andato con la coda tra le gambe.
«Dì un po’» disse ad un tratto, facendomi sussultare nel ritrovarmelo accanto, anche lui appoggiato alla parete dell’ascensore che, invece di salire, stava scendendo. Probabilmente qualcuno  lassù aveva deciso di punirmi e di lasciarmi più tempo del previsto in compagnia di quel demonio.
«Che vuoi?» borbottai, guardandolo con la coda dell’occhio.
«Non vorresti baciarmi?» domandò schietto, fissando un punto dritto davanti a sé e parlando con tranquillità, come se la sua fosse una domanda qualsiasi, come se mi avesse appena chiesto di che colore erano i miei calzini. Mi stupì un poco, ma decisi di prenderlo sul serio e pensai seriamente di poterlo fare. Dopotutto, cosa importava? Quello che mi trattenne, però, fu il mio fortissimo senso dell’orgoglio. Non potevo di certo dargliela vinta così facilmente.
«Quindi vuoi un bacio». Non era una domanda la mia, solo una semplice constatazione che mi fece gongolare. Per una volta avevo io il coltello dalla parte del manico e l’avrei punzecchiato un bel po’ prima di accontentarlo.
«Non ho intenzione di pregarti, caro Eustass, quindi rispondi alla mia domanda: si o no?».
«Non così in fretta, Trafalgar» lo avvisai, sorridendo e chiudendo gli occhi come riflesso involontario, alzando poi il capo verso l’alto godendomi quell’attimo di pace, dimenticando i miei problemi. Sembravamo due ragazzini.
«Molto bene, in questo caso…». E mi fu addosso, le mani fra i miei capelli e le sue labbra sulle mie, leggere, quasi come un soffio.
Si allontanò l’istante dopo, tornando ad appoggiarsi alla parete, ma più vicino, tanto che le nostre spalle si sfioravano. Restammo in silenzio per un altro po’, ognuno perso nei propri pensieri, e le porte dell’ascensore fecero in tempo ad aprirsi per poi richiudersi senza che nessun altro salisse, riprendendo a salire verso la nostra destinazione.
Alla fine sospirai, spostando il peso da una gamba all’altra e notando di sfuggita Trafalgar voltarsi a guardarmi con un sopracciglio sarcastico inarcato.
«Che dolce, sospiri addirittura con aria sognante» sfotté, scoccandomi un’occhiata malandrina.
Sbuffai, scocciato questa volta, roteando gli occhi e allontanandolo da me con una spinta, senza metterci però tanto impegno, sentendolo ridere vittorioso subito dopo.
Che razza di impiastro.
 
*
 
Sette mesi e diciotto giorni, pensai, sospirando amareggiato e segnando per l’ennesima volta un altro giorno andato a vuoto sul calendario che tenevo a portata di mano sopra al comodino.
Era diventata ormai un’abitudine passare le giornate in quel modo, ovvero vagare per l’ospedale come un fantasma nell’attesa di un qualche cambiamento che, a discapito di tutte le mie preghiere, non avveniva mai. I giorni passavano, diventando mesi e avevo il terrore che presto si sarebbero trasformati in anni.
Mi imposi di sorridere, voltandomi verso il ragazzo addormentato lì accanto, lasciando scorrere lo sguardo sul suo viso e sui capelli sbarazzini, tentando in tutti i modi di riportare alla mente le immagini della sua risata e della sua spensieratezza che tanto mi mancavano in quei momenti. Era passato troppo tempo e, per quanto mi ostinassi a sperare, l’ansia e la paura, purtroppo, si erano insinuate nelle mie viscere, facendomi dormire male la notte e lasciandomi un senso di impotenza addosso. Non potevo fare nulla, non ne ero stato capace nemmeno all’inizio e se adesso le sue condizioni erano così ignote era solo colpa mia.
«Perché hai dovuto fare di testa tua? Ti avevo detto di startene al sicuro, invece tu dovevi fare l’eroe, come tuo solito, vero?» mormorai per la milionesima volta. Quelle domande ormai mi giravano per la testa da tempo e speravo sempre di ottenere una risposta plausibile ma, puntualmente, mi arrivava alle orecchie solo il rumore dei macchinari e il silenzio opprimente che i primi mesi aveva rischiato di farmi impazzire.
Lasciai vagare lo sguardo sul dipinto che gli avevo fatto per il suo compleanno un mese addietro, con la speranza che anche lui, come una fenice, potesse risvegliarsi, risorgere, riprendere a vivere. Andavo da lui tutti i giorni, passavo ore e ore accanto al suo capezzale, parlando, dormendo, passeggiando, facendo qualsiasi cosa, a volte anche piangendo, e aspettando che aprisse gli occhi e che riprendesse a sfottermi per la mia assurda pettinatura o per il mio fastidioso menefreghismo.
Sospirai, poggiando i gomiti sul materasso e scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte, conscio di quanto lo potessero infastidire mentre dormiva.
Ace, ti prego, apri gli occhi.
Un baccano che non avrebbe dovuto esserci nei corridoio suscitò la mia attenzione e impedì alla tristezza di travolgermi, facendomi corrugare la fronte quando le voci si fecero più alte e vicine, fino a che la porta non si aprì, rivelando la figura di un tizio con un cappello piuttosto eccentrico, seguito da un altro nelle sue condizioni per quanto riguardava il trasporto, ma messo decisamente peggio per le gambe completamente ingessate. Dietro di loro, successivamente, apparvero due ragazzi dalle differenti espressioni: uno incazzato e l’altro con un sorrisetto beffardo sul viso, sordo agli insulti che il primo gli stava dirigendo, con tanto di gestacci e minacce di morte.
Non li avevo mai visti, nemmeno all’orfanotrofio, ed ero molto restio nel credere che Ace conoscesse davvero gente come quella, insomma, erano uno diverso dall’altro ed ero certo che non fossero nemmeno tanto raccomandabili a giudicare dal loro stato di salute. Quello biondo con i capelli lunghi, poi, doveva di certo essere uno spericolato.
«Ti uccido nel sonno, Trafalgar!» stava dicendo l’energumeno rosso, stringendo i pugni e incenerendo con lo sguardo quello che gli stava a qualche centimetro di distanza, il quale aveva l’aria rilassata e per niente preoccupata, anzi, pensò bene di mandarlo a quel paese alzando il dito medio nella sua direzione, cosa che non servì affatto a calmare gli animi.
«Si può sapere che fine avevate fatto? Mezz’ora per fare quattro piani! Persino io sono più veloce con le stampelle!» si stava lamentando il primo che era entrato, mentre l’altro suo compare in sedia a rotelle si grattava la testa perplesso, indeciso se intervenire a frenare le ire del rosso o lasciare che si arrangiassero da soli.
Il ragazzino che recava la scritta Penguin sul frontino del cappello sembrò accorgersi solo allora di me e, con un sorriso da un orecchio all’altro, tanto grande e genuino da ricordarmi terribilmente quello di Ace, mi venne incontro porgendomi amichevolmente la mano.
«Tu devi essere Marco, giusto?» esultò, sorprendendomi e dando inizio ad una serie di curiosità su di lui e su come fosse a conoscenza della mia identità. Ero certo di non conoscere nessuno la dentro, a parte, ovviamente, il ragazzo sul letto di fianco.
Gliela strinsi, ma non dissi nulla e non accennai ad un sorriso. Non lo facevo mai nemmeno quando rivedevo una persona cara dopo tanto tempo, semplicemente era nel mio carattere e aspettai che continuasse, lasciandogli intendere che non avevo la minima idea di chi lui potesse essere.
«Sono contento di conoscerti, finalmente, io sono Penguin» si presentò puntandosi il cappello e ridacchiando per la mia espressione stupita, «Speravo di trovarti qui, Ace mi aveva detto che saresti passato».
Non fu il fatto che conoscesse il nome di mio fratello a togliermi il respiro, ma le parole che aveva usato in seguito alla sua spiegazione. Era impossibile, Ace non si era svegliato e non parlava da mesi. Era in coma.
«Scusami» sussurrai, sentendo il sangue gelare nelle vene e stringendo le mani sulla stoffa dei miei pantaloni, «Tu hai parlato con Ace?».
Dietro di lui gli altri tre ospiti si erano fatti silenziosi e, osservando prima le pareti, poi il paziente a letto, poi noi due, ascoltavano interessati la conversazione, curiosi quanto me di capire cosa stesse succedendo.
«Beh, non ci ho proprio parlato» ammise Penguin, torturandosi le mani con fare nervoso, «E’ difficile da spiegare. Vedi, io posso sentire quello che pensa, di conseguenza riesco a… Ehi, ehi aspetta! Che fai? Stai calmo!».
«Andatevene, tutti» dissi, senza voler ascoltare oltre quella farsa e alzandomi in piedi, pronto a buttarli fuori con la forza se fosse stato necessario. Non dovevano permettersi di prendersi gioco in quel modo di persone nelle condizioni di Ace. Nessuno doveva azzardarsi a farsi beffe di lui, non dopo quella che aveva passato e che era ancora costretto a sopportare, non dopo che aveva salvato la vita a tutti quei ragazzini. Non dopo che si era sacrificato per me.
«Calma amico, abbassa i toni» sbottò a quel punto il tizio con i capelli rossi, facendo un passo avanti e affiancando Penguin, il quale, alzando le mani in segno di difesa, si mise tra me e lui per calmare gli animi, assicurando che andava tutto bene e che poteva spiegarsi meglio.
«Marco» fece, rivolgendosi direttamente a me e, dopo aver deglutito a fatica prendendo coraggio, iniziò ad avvicinarsi lentamente, aggirandomi e recuperando dal comodino la foto della mia famiglia, quella dove Ace era tanto felice. Provai un moto di fastidio nel vedere come la teneva con sicurezza tra le mani, dopotutto, quello era uno dei miei ricordi più cari e non mi andava di condividerlo con gli estranei, ma quello che fece dopo mi lasciò senza parole, stordito a più non posso.
«Questo è Thatch, giusto?» domandò, indicando un tipo dall’aria beffarda nella fotografia e con un ciuffo castano di dimensioni alquanto discutibili. Notando il mio sgomento, continuò a fare i nomi dei miei fratelli, fermandosi persino a elencarmi i loro gusti e passatempi, facendomi mancare le forze e costringendomi a rimettermi seduto, sentendomi oppresso da tutte quelle sensazioni contrastanti.
Com’era possibile che sapesse tutte quelle cose e quei particolari? Era impossibile che avesse tirato a indovinare, anche perché i miei famigliari erano persone piuttosto bizzarre. Nessuno, a parte chi li conosceva bene, poteva dire di sapere qualcosa sul loro conto, perciò la possibilità era una e una soltanto: quel piccoletto aveva davvero detto la verità, ma come fosse riuscito a parlare con Ace ancora non mi era chiaro. Come poteva pretendere che credessi sul serio che lui potesse comunicare o leggergli il pensiero? Andiamo, rasentava l’impossibile!
Decisi allora di metterlo alla prova, alzando lo sguardo su di lui e fissandolo truce, pronto a prenderlo a pugni se mi avesse mentito o anche solo preso in giro.
«Se è vero che puoi sentirlo, allora rispondi a una domanda» proposi, iniziando a pensare a qualcosa di cui solo Ace fosse stato a conoscenza. Volevo chiedergli se avesse saputo dirmi a che età ero stato adottato, ma pensai che poteva aver spiato nella mia cartella clinica e essersi imparato per bene i miei dati e informazioni personali, così cercai più a fondo, trovando infine quello che mi serviva.
«Questo lo sa solo lui» mormorai, indicando con un cenno del capo il ragazzo che dormiva profondamente, «E’ una domanda che mi piace porre alle persone e solo lui mi ha dato una risposta accettabile e ricca di significato. Sono certo che se la ricorda, quindi non avrai problemi a riferirmela, no?» feci sarcastico, facendogli intuire quanto poco credessi alla sua versione, ma vedendolo determinato ad andare fino in fondo a suo rischio e pericolo, continuai. «Dimmi: cosa ci uccide e cosa ci rende eterni?».
Penguin rimase in silenzio, voltandosi di poco verso Ace per osservarlo meglio, come se lo stesse guardando negli occhi, mentre, alle sue spalle, i suoi compagni osservavano scettici quanto me la scena. Tutti tranne quello che rispondeva al nome di Trafalgar, il quale, con le braccia incrociate al petto e un ghigno di vittoria sulle labbra, aspettava la risposta. Sul serio credeva a quelle stronzate? O stava solo reggendo il gioco all’amico?
In quel momento il ragazzino mi rispose, freddandomi e facendomi venire la pelle d’oca, mentre un brivido di freddo mi correva lungo la schiena. Il mio mondo, per un istante, vacillò.
«Nessun uomo lo sa, ma sono sicuro che siano la stessa cosa».
Se fossi stato in piedi probabilmente a quell’ora mi sarei ritrovato a terra, tanto era forte l’emozione. Non c’erano più dubbi, nessun altro avrebbe potuto pronunciare quelle esatte parole. Quindi era per forza vero; poteva percepire quello che pensava Ace; poteva comunicare con lui; poteva… Poteva…
Alzai gli occhi, incollandoli ai suoi e guardandolo implorante. «Ti prego» lo supplicai senza ritegno, «Ti prego, dimmi cosa sta pensando. Ti prego!».
Mi sembrava che il cuore potesse scoppiarmi da un momento all’altro nel petto e l’ansia, l’aspettativa, un miscuglio indistinto di sensazioni mi aggrovigliava lo stomaco, togliendomi persino il respiro. l’unica cosa a cui pensavo era il desiderio di poter sentire Ace ancora una volta, godere delle sue battute, dei suoi discorsi, delle sue follie. Lo volevo disperatamente.
Penguin sorrise dolcemente, guardando di nuovo il moro che dormiva solo in apparenza, rivolgendomi subito dopo uno sguardo divertito.
«Ha detto, o meglio, ha pensato che dovresti smetterla di essere così paranoico. E’ stanco di sentire le sue lamentele». Arrossì un poco nel rispondermi, forse per paura di offendermi, invece scoppiai a ridere, trattenendo a stendo le lacrime e passandomi una mano sul viso, sentendo tutta l’ansia scemare e provando una strana e insana gioia in tutto ciò. Ace non si era svegliato, era vero, ma almeno avevo trovato un metodo, anche se incredibile, per parlargli, per riuscire a capirlo. Fino a quando non si fosse espresso di nuovo da solo, mi sarebbe andato bene.
«Non ci credo» disse una voce infondo alla stanza, ma non feci caso a chi l’avesse detto.
«Penguin è pieno di sorprese, Eustass-ya, non te lo dimenticare».
«Può davvero percepire i suoi pensieri? Come è possibile?».
«Killer ha ragione. Come fa?».
«Chi può dirlo? Ha un’inclinazione particolare a capire gli stati d’animo delle persone. E’ sempre stato bravo in questo».
«Lui mi sente quando parlo? Mi capisce?» chiesi al ragazzino che era appena diventato la mia salvezza. Non gli sarei mai stato grato abbastanza.
«Certo!» annuì convinto, «Ti ascolta sempre e, aspetta, mi ha appena chiesto se per favore puoi smetterla di disturbarlo la notte. Dice ch se tu non riesci a dormire non è un problema suo. Ti consiglia anche qualche calmante o sonnifero».
Risi di nuovo, dando un buffetto sulla spalla a Ace, «Sei sempre il solito, non cambierai mai». Per un istante mi sembrò di vederlo sorridere leggermente e ciò riaccese la speranza di poterlo riabbracciare molto presto.
«A quanto pare devi un favore a Penguin» constatò il ragazzo con il pizzetto, Trafalgar, avvicinandosi e sedendosi sul bordo del letto, sorridendo in modo ambiguo.
«Oh, certo, tutto quello che vuole» dichiarai, non capendo gli sbuffi esasperati del rosso e dell’altro in sedia a rotelle, il quale sembrò voler sbattere la testa contro il muro.
«Ecco che ricomincia» borbottò disperato.
Nel frattempo Penguin si schiarì la voce e, con una cerca solennità, mi chiese se volevo entrare nel loro gruppo, informandomi che Ace ne faceva già parte e spiegandomi anche che grazie a me sarebbero stati al completo, nonché un sostegno l’uno per l’altro.
«E non preoccuparti di Kidd» aggiunse poi, indicando il rosso che, con una smorfia sul viso, osservava il tutto con disgusto, «E’ maleducato, ma infondo ha un cuore d’oro».
Trafalgar scoppiò a ridere senza ritegno e, se il biondo non si fosse posizionato davanti a lui, sarebbe sicuramente finito in rianimazione a giudicare dall’espressione omicida che gli rivolse quel temerario Kidd.
«Finiremo per ammazzarci tutti».
«Via, via, Killer, sii ottimista» lo rimbeccò Penguin, facendolo sbuffare e scuotere il capo con fare arrendevole. Quest’ultimo si rivolse poi direttamente a me,
«Sei ancora in tempo per salvarti» mi avvisò, ma ero in debito con il suo compagno e se voleva che mi aggregassi a loro, allora l’avrei fatto più che volentieri. Dopotutto, ero stanco di restarmene da solo ad affrontare quei giorni lunghi e difficili. Magari era vero che, assieme, le cose sarebbero migliorate.
Perciò sorrisi gioviale, guardando prima Ace e poi quel gruppetto di sconosciuti che erano entrati per caso nella mia vita, ribaltandola totalmente e dandomi una nuova speranza. Erano strambi, certo, ma, per qualche strano motivo, mi ispiravano fiducia.
«Sono dei vostri» dichiarai con convinzione, stringendo la mano a Penguin che iniziò ad esultare, congratulandosi con me e facendo spuntare l’ombra di un sorriso anche sulle facce burbere degli altri.
Mi rivolsi allora a Ace, sfiorandogli una mano e guardandolo dolcemente.
Mi sei mancato tanto, fratello.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buonasera a tutti ^^ so che è tardi, ma mi sono impegnata tanto per finirlo e correggerlo, quindi ve lo beccate a queste ore, LOL.
Mi sono resa conto che oggi è lunedì e, anche se non sono ancora sicura della tempistica di questa storia, ovvero non so quando e come aggiornerò, ho deciso che per oggi avrei aggiunto un capitolo, anche perché erano un paio di giorni che covavo l’ispirazione, quindi ecco qui, spero sul serio di aversi incuriositi, soddisfatti, fatti sospirare, piangere, ridere, quello che volete, insomma.
Che dire? Beh, ovviamente l’ospedale non è un ambiente così carino e simpatico, ma le sorprese non mancano, soprattutto le situazioni ambigue, come avrete notato.
Oggi si parte con Penguin che, dopo essersi perso per i corridoi, capita per caso nella stanza di Ace, il bello addormentato per eccellenza, e si mette a chiacchierare con lui del più e del meno, stringendo subito amicizia e arruolandolo nella sua ciurma. Praticamente, a occhi sconosciuti, sembra parlare da solo, ma la cosa è molto più complicata e stupefacente. Ripeto, questa long l’ho tratta da una serie televisiva, Braccialetti Rossi, e anche lì un ragazzino poteva sentire i pensieri del suo compagno in coma da mesi, così non ho potuto non inserirlo. Ma di questo parleremo tra poco, volevo solo essere chiara. Ah, e no, non seguirò in modo preciso la trama del film, penso che il resto lo inventerò di sana pianta, solo mi era piaciuta l’idea dell’essere collegati mentalmente e del gruppo di amici in ospedale, tutto qui.
Penguin mi è sembrato il più adatto per interpretare la parte del sensitivo, è il più allegro, socievole e spensierato. Ho anche accennato a come ha perso la gamba, ma lo spiegherò meglio più avanti, praticamente è un piccolo eroe **
Il bellissimo dipinto sulla parete nella stanza di Ace lo immagino così:
http://static2.wikia.nocookie.net/__cb20111115211548/onepiece/it/images/5/5a/Marco_trasformato.jpg
‘Sono gli ottimisti a fare il mondo, i pessimisti non ci provano nemmeno’. L’ho letta in una rivista, la frase, se non ricordo male, viene niente meno che dal personaggio della Marvel, ovvero il fantastico Iron Man. Ritengo il tutto una vera e propria filosofia di vita.
E poi arriva uno sbuffante Kidd, costretto a sorbirsi Trafalgar, il quale sembra divertirsi ad infastidirlo con la sua presenza. Bene, noi siamo contenti, vero? Soprattutto quando litigano e si scannano vivi, sono così perfetti, un mix esplosivo, non c’è che dire. I due passano il tempo assieme, non sempre, ma quando possono e quando capita e non perdono l’occasione per beccarsi, neh? Mi pare giusto u.u allora, andiamo con ordine perché faccio confusione.
A parte il punzecchiarsi a vicenda, vorrei parlare della salute di Kidd. La spiegherò andando avanti, ma, a quanto pare, il suo cuore inizia a non reggere più molto bene, infatti, facendo le scale, si sente male e Trafalgar lo aiuta senza pensarci due volte, mostrandoci che, forse, non è così insensibile, soprattutto verso chi sta male. Lo scambio di battute che avviene tra i due non è inteso in senso romantico o affettivo, è, come dice Law, un incentivo per far si che Kidd continui a lottare senza cedere. Magari, col tempo, potrebbe diventare qualcosa di più, ma per adesso no. Nemmeno il bacio a fior di labbra che si scambiano in ascensore. Non volevo metterlo, ma non ho resistito e, anche se la cosa sembra ambigua o stonata, il tutto avviene in modo molto ‘sciallo’, ossia tranquillo, senza impegno. E’ stato un momento così, un battito d’ali, un soffio. Personalmente lo trovo tanto carino e ruffiano :3
Ad ogni modo passiamo ora a Marco.
Marco, splendore. Voglio più Marco/Ace in giro, sia chiaro, e anche più Penguin/Killer. Avanti, sono coppie adorabili!
Dunque, Marco gironzola per l’ospedale ed è lui che segna i giorni sul calendario. Non sappiamo ancora cosa sia successo a lui e a Ace, ma lo scopriremo, anche perché devo ancora deciderlo anche io ^^
Ace in ogni caso, è in coma da otto mesi, quasi, e non si sveglia. La fenice, ovviamente, è un augurio di pronta guarigione, basta pensare alla leggenda legata ad essa. Ed ecco la sorpresa: Penguin sente i suoi pensieri, si. Con stupore di tutti, il piccoletto si fa valere ancora e lascia gli altri a bocca aperta, soprattutto il povero Marco che a momenti sviene. Più avanti parlerò meglio del suo rapporto con Ace, ma credo si possa intuire che i due sono molto, molto legati e, ommioddio, mi sento male, non si parlano da mesi e uno combatte tra la vita e la morte! Piango!
‘Cosa ci uccide e cosa ci rende eterni?
Nessun uomo lo sa, ma sono sicuro che siano la stessa cosa’.
Onore e gloria all’uomo/donna che ha fatto questo discorso. Purtroppo non conosco il proprietario, ma tutti i diritti vanno a lui.
Concludo che sono stanca morta!
Spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto e che la storia sia apparsa già più interessante, in ogni caso accetto qualsiasi critica o consiglio costruttivo ^^ giuro che risponderò alle recensioni, se ce ne saranno, lo giuro e chiedo umilmente perdono per qualsiasi ritardo, ma sono incasinata oltre ogni dire.
Grazie come sempre a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.

 

Quel giorno era un giorno molto importante per me e dire che non stavo più nella pelle per l’eccitazione era dire poco. Per quel motivo non riuscii a dormire per tutta la notte e mi ritrovai alle sette del mattino già alzato e in attesa di cominciare la mia riabilitazione. Diavolo, ero rimasto steso sul quel letto troppo a lungo e quando mi avevano dato il permesso di usufruire della sedia a rotelle per muovermi un po’, anche se lentamente, mi era sembrato un miracolo. Imprevisti e impiastri a parte, tutto era andato bene e il mio umore si era un po’ sollevato. Alla notizia che avrei ripreso a camminare, a piccoli passi s’intende, ero scoppiato dalla gioia e molto probabilmente il mio grido euforico aveva raggiunto persino il piano di Kidd. Per l’appunto, era capitato nella mia stanza una mezz’ora dopo, chiedendomi se avessi udito anche io delle urla selvagge. Avevamo riso come degli idioti quando gli avevo spiegato che la colpa di ciò era mia e mi aveva fatto i suoi migliori auguri di pronta guarigione per le mie povere gambe ingessate.
Kidd non era un cattivo ragazzo, l’avevo capito subito, solo bisognava sapere come prenderlo e, soprattutto, cosa più importante, non fargli perdere la pazienza e non farlo arrabbiare, per nessun motivo. Sotto questo aspetto mi andava piuttosto bene, lui sembrava avermi preso in simpatia ed io ero sempre stato un tipo socievole e più portato a riappacificare gli animi, per questo non mi risultava difficile tenerlo calmo e mitigare quel suo carattere irascibile e dalla bestemmia facile. Tra tutti quelli che giravano in quell’ospedale, lui era l’unico che mi andava a genio. Eravamo molto simili, sia per lo stile di vita che per i gusti in fatto di cibo, musica, sport, e altre futilità varie. Chiacchieravamo per ore senza rendercene conto e quando passava a salutarmi il tempo volava e ciò, per me, era un toccasana. Almeno non rischiavo di annoiarmi o deprimermi e lui riusciva a ricavarsi uno spazio di tranquillità, levandosi di torno la sua, parole testuali, più grande maledizione.
A quanto pareva, quel tale, Trafalgar Law, l’amichetto della mia maledizione personale, sembrava averlo preso di mira e c’era da dire che tra i due non correva affatto buon sangue. Mi era bastato uno sguardo per capire che era meglio stare alla larga da quel tipo; aveva una strana luce sadica e minacciosa negli occhi che mi faceva accapponare la pelle ogni volta che lo incontravo, per cui preferivo starmene in disparte e non attirare l’attenzione.
Ad ogni modo, per quel giorno almeno, non avrei avuto nessuna seccatura tra i piedi, dato che un infermiere piuttosto gentile ed educato mi stava scortando nella sala dove avrei iniziato i miei esercizi per riattivare in modo corretto il funzionamento delle mie gambe. Tutto era tranquillo e non potevo essere più contento.
«Kira-chan!».
Ovviamente, doveva andare tutto a puttane.
Voltai la testa di lato in direzione di quella fastidiosa e famigliare voce, reprimendo un brivido di terrore e impallidendo quando, a poca distanza da me, intravidi quel dannato coso, completo di carrozzina, cappello e sorriso da un orecchio all’altro, dirigersi verso di me con determinazione e allarmante allegria. 
«Stavo giusto venendo a trovarti!» dichiarò, raggiungendomi, «Come stai? Dove stai andando?».
Sbuffai, ignorandolo e guardando altrove, sperando che il medico alle mie spalle tenesse la bocca cucita e non osasse fare un fiato. Speranze infrante, dato che il piccoletto si rivolse direttamente a lui, ottenendo tutte le risposte che voleva sentir dire da me. Addio alla mia giornata rilassante.
«Posso accompagnarti! Vedrai, sarà più divertente avere qualcuno che conosci al tuo fianco!».
«Non credo si possa fare» borbottai con malcelato nervosismo, desideroso solo di togliermelo di torno e arrivare a destinazione sano e salvo. Cosa avevo fatto di male per meritarmi quella sanguisuga? Non bastava essermi rotto le gambe e il braccio, vero?
Come se tutto l’universo si fosse coalizzato contro di me, quell’idiota ottenne il permesso di farmi compagnia, visto e considerato che da quelle parti esisteva la credenza che le ossa si aggiustassero prima se l’infortunato aveva qualcuno con cui condividere il dolore e i problemi che lo affliggevano. Che stronzata colossale, mi sarei riaggiustato comunque, non avevo mica bisogno che qualcuno venisse a farmi la predica e a spargermi coriandoli colorati attorno per sollevarmi l’umore. Se ero scontroso la colpa era unicamente di quel… Quel…
«Mi chiamo Penguin. Ripeti, su: Pen-guin» iniziò a spiegarmi, non contento di sentirsi chiamare continuamente con nomignoli poco cordiali. Da me, doveva metterselo in testa, avrebbe ricevuto solo quelli.
Alzai gli occhi al cielo, coprendomi il viso con la mano buona e pregando ogni Santo affinché mi desse la forza di sopportare quelle prossime due ore che avrei dovuto passare a stretto contatto con lui. Fortuna che non avremo rischiato di rimanere da soli, altrimenti non sapevo quanto avrei resistito prima di eliminarlo completamente dalla faccia della terra.
«Per oggi può bastare. Riposati dieci minuti, poi ritornerai nella tua stanza. Non scoraggiarti, è la prima volta, è normale che ci voglia un po’ di tempo prima di riprendere completamente tutte le funzioni».
Le buone speranze e l’allegria con cui mi ero svegliato quella mattina erano andate in fumo nel giro di pochissimo tempo. Quella prima visita era andata male, malissimo. Non riuscivo nemmeno a trovare una parola per esprimere quanto schifo avesse fatto e quanto ridicolo mi fossi sentito nel ritrovarmi impossibilitato a muovermi. Nonostante mi fossi sforzato oltre ogni limite, non ero riuscito ad attivare nemmeno un muscolo e di alzarmi in piedi non se ne parlava proprio. Sarei stato costretto alla sedia a rotelle ancora per molto tempo e questo bruciava più del resto. Almeno quel piccoletto aveva avuto la decenza di restarsene zitto durante tutta la seduta, emarginato in un angolo della stanza a torturarsi le mani per l’ansia e la preoccupazione. Per qualche assurda ragione, però, l’avevo odiato in quelle due ore. Non sapevo bene perché, ma lui, a differenza mia, sembrava non dispiacersi più di tanto della sua condizione, decisamente peggiore, e guardava al futuro con speranza e un sorriso in faccia. Perché tutto quell’entusiasmo? Era uno storpio e non avrebbe più potuto essere normale, quindi a cosa serviva tutto quel buon umore? E poi aveva assistito al mio primo fallimento, motivo in più per detestarlo.
Il medico uscì dalla sala con l’intento di lasciarmi qualche attimo per sbollire la rabbia e la delusione di quella giornata e, nel frattempo, Penguin approfittò del momento libero per avvicinarsi indisturbato a me con uno sguardo amichevole e, ne ero certo, le migliori intenzioni del mondo per rincuorarmi. Il punto era che non ne avevo bisogno, non volevo la sua pietà, non sapevo proprio che farmene se non potevo tornare ad usare le mie gambe.
«Ehi, non essere triste, sei andato bene, sai?». Ecco, esattamente ciò che volevo evitare. Frasi di consuetudine, già programmate e che non sarebbero servite a nulla. Inoltre erano false, false e insulse, soprattutto non richieste. Avevo fatto schifo, lo sapeva, quindi ero doppiamente infastidito dal suo tentativo di sdrammatizzare. Non gliel’avevo chiesto.
«La prossima andrà ancora meglio, ne sono certo, potresti persi…». Ero troppo arrabbiato per lasciargli continuare quella sua impresa da buon samaritano, perciò lo interruppi bruscamente, desideroso di farlo stare zitto e di spedirlo altrove, lontano da me e dai miei problemi.
«Piantala con queste stronzate, non ho bisogno di essere compatito».
«M-ma io non intendevo…» iniziò a dire interdetto, cercando di scusarsi e di farmi ragionare.
«Senti, vattene, lasciami solo. Ne ho avuto abbastanza di te e di questa merda per oggi!» sbottai. No, non andava per niente bene ma, anche se sapevo che quello non era affatto il modo migliore per affrontare la situazione, non mi fermai e non mi calmai. Ero stanco, frustrato, ne avevo avuto abbastanza di quell’ospedale e di quelle facce fintamente interessate e preoccupate per i pazienti, quindi sfogarmi mi sembrava la cosa migliore che potessi fare, oltre che la più soddisfacente. Sbollire la rabbia mi avrebbe ridato la stabilità, anche se ciò significava prendersela con chi non aveva nessuna colpa.
«Ascolta, so che non deve essere facile, ma se lasci che ti aiuti magari…». Cercava davvero di fare del suo meglio, ci teneva a darmi una mano ad affrontare tutto ciò, si capiva, ma ai miei occhi stanchi appariva tutto così pietoso, come se lui mi vedesse sotto una luce sbagliata. Ero sempre stato in grado di arrangiarmi e trovarmi nella condizione di avere bisogno degli altri mi faceva imbestialire oltre ogni limite. Accettare l’aiuto di un moccioso, poi, era fuori discussione.
Ero ancora seduto sul lettino utilizzato per gli esercizi, mentre lui si era avvicinato nel tentativo di parlarmi ed essere gentile, seduto su quella carrozzina e per niente disturbato da ciò, come se si fosse dimenticato di essere invalido, come se non gli importasse di non poter camminare. Era quello che mi infastidiva: era ridotto a muoversi con le rotelle e non ne veniva minimamente scalfito. Era pazzo, Kidd aveva ragione, dovevano tenerlo in un manicomio quello.
«Aiutarmi? Non ti ho chiesto niente e mai lo farò! Non capisci che così peggiori solo le cose? Guarda, sono bloccato qui e le mie gambe non rispondono ai miei comandi. Come dovrei sentirmi? Eh, come?». Mi rendevo vagamente conto di stare alzando la voce, ma contemporaneamente mi sembrava di sentirmi anche più leggero così, incurante del disappunto e della delusione sulla faccia del ragazzino li accanto, continuai con la mia sfuriata che avevo il diritto di fare. «Non puoi nemmeno immaginare come ci si sente, dovrò spostarmi usando una cazzo di sedia a rotelle come fai tu e ridurmi a chiedere aiuto quando mi troverò davanti a delle scale o a qualsiasi altro intoppo. Forse sarà per poco tempo, o peggio, per sempre, resta il fatto che questa condizione fa davvero schifo e tu sei solo uno sciocco ad accettare tutto questo con il sorriso in faccia!».
Fu questione di un paio d’attimi. Quello prima stavo urlando e inveendo contro di lui e quello dopo me l’ero ritrovato davanti a me, in piedi e con un’espressione seria e adulta, le labbra tirate in una linea sottile e dall’aria amareggiata. Ci misi poco a comprendere che stava in equilibrio su una gamba sola, le braccia lungo i fianchi e le mani chiuse a pugno. Si era alzato nonostante ciò gli costasse una certa fatica, fronteggiandomi e zittendomi come meritavo dopo il mio comportamento esagerato e arrogante. Ovvio che per lui dovesse essere difficile, dopotutto, io le gambe le avevo ancora entrambe.
Ritrovarmelo in quelle condizioni mi stupii nel rendermi conto che era più alto di quanto avessi immaginato e, per quanto ne sapevo, avrebbe potuto persino essere più vecchio di me e Kidd, anche se non ero certo. Indugiai con lo sguardo sulla stoffa del pantalone del pigiama annodata appena sotto al ginocchio dove il suo arto mancava, decidendomi a smetterla di sentirmi a disagio e costringendomi ad alzare la testa e a ricevere un’ondata di insulti che sapevo di meritare pienamente. Quel piccoletto aveva dimostrato di essere migliore di me sotto molti aspetti, il minimo che potevo fare era starmene zitto e ammettere il mio sbaglio.
Contrariamente alla sfuriata che mi aspettavo, saltellò fino al bordo del lettino e si issò con le braccia, sedendosi vicino a me e iniziando a slegare il nodo del pigiama, arrotolandolo fino a scoprire il moncherino e restando impassibile sotto al mio sguardo stupito e dispiaciuto, ma che non riuscivo a spostare, come se fossi rimasto ipnotizzato da quello spettacolo macabro. Una scossa di brividi mi corse lungo la schiena e mi venne la pelle d’oca, ma fu nulla in confronto a ciò che accadde dopo.
Penguin, con calma e fermezza, mi afferrò il polso, guidando la mia mano tremante a sfiorargli la pelle appena sopra l’amputazione, lasciandola scorrere prima qualche centimetro sopra e facendola scendere poi, fino a che non fu a contatto con la ferita ormai ricucita e chiusa. Si poteva anche dire guarita, ma non ero certo che fosse il termine esatto. La pelle era tesa e un po’ ruvida sotto al ginocchio e mi faceva un certo senso sfiorare quel punto dove avrebbe dovuto esserci la continuazione delle ossa, ma non rimasi schifato o inquietato. Anzi, forse tutto ciò mi fece aprire gli occhi e capire quanto quel ragazzo fosse maturo e non idiota come avevo creduto. Lui si che aveva tutto il diritto di lamentarsi, io potevo solo che tapparmi la bocca e vergognarmi.
«Ovvio che non è facile» iniziò a dire pacato, lasciandomi libero il polso e dandomi la possibilità di ritrarmi, ma non lo feci, incuriosito da ciò che mi aveva mostrato. Avevo però paura di sembrare indiscreto, così evitai di lasciar vagare le dita all’altezza del moncherino, spostandomi un po’ di lato e cercando di non essere troppo invasivo.
«E non dico di essere felice della situazione in cui sono ora. Anche a me piacerebbe poter camminare, correre, saltare, fare le cose che facevo prima, ma non posso, non più. All’inizio è stato difficile anche per me: non ero al settimo cielo all’idea della sedia a rotelle e non volevo nemmeno l’aiuto di nessuno, ma dimmi, cosa posso farci? Cambierebbe qualcosa se mi tenessi tutto dentro e se iniziassi ad essere scorbutico e arrabbiato col mondo?».
Sorrisi sconfitto. Colpito e affondato. Quella frecciatina me l’ero meritata, eccome.
«Sorrido e sono allegro perché sono contento di essere vivo, dopotutto poteva andarmi peggio. Invece non solo posso ancora respirare, parlare, cantare, muovermi e giocare d’azzardo con i miei amici, ma ho persino salvato la vita di una persona a me cara. Avrò perso una gamba, ma dall’altra parte ho risparmiato molto dolore ad altra gente. Un buon motivo per essere felici, non trovi?».
Alzai lo sguardo sul suo viso e lo ritrovai di nuovo sorridente e per nulla turbato. Sembrava non fare caso alla mia curiosità e alle mie occhiate interrogative, ma ebbi modo di saperne di più sul suo conto quando riprese a spiegarmi quello che gli era accaduto per ritrovarsi lì in quel momento, lasciandomi a bocca aperta e facendomi sentire un completo coglione, immeritevole di essere consolato da lui.
«Ero uscito con il mio migliore amico, sai, per me lui è come il fratello che non ho mai avuto, e stavamo passeggiando per le strade del centro. Ad un certo punto Shachi ha voluto rischiare di attraversare vicino ad una curva con scarsa visibilità e, mentre si affrettava a passare per primo, un camioncino è sbucato dal nulla. L’autista ha frenato, ma ho capito subito che non avrebbe fatto in tempo ad inchiodare, così ho agito d’istinto, lanciandomi verso di lui e spingendolo via appena in tempo. Siamo caduti a terra lungo il ciglio della strada e il furgone si è fermato poco dopo, ma la mia gamba non è riuscito a evitarla».
Calò il silenzio, spezzato soltanto dal chiacchiericcio contenuto che proveniva dai corridoi esterni e dal rumore delle macchine elettroniche all’interno della stanza. Il respiro di Penguin era leggero, silenzioso si poteva dire, mentre il mio era inesistente. Quella storia, quella confessione, mi aveva lasciato letteralmente spiazzato. Aveva praticamente rischiato la vita per salvare quel suo amico e ci aveva rimesso una gamba. Una gamba per una vita. Non ero del tutto sicuro dei pensieri contorti che stavano vagando per la mia testa a briglia sciolta, ma ero certo che il suo gesto fosse stato qualcosa di coraggioso, quasi eroico. Si era volentieri sacrificato per aiutare qualcuno e aveva preso la cosa con filosofia, imparando a conviverci e trovando il modo di essere ugualmente felice per ciò che aveva fatto, piuttosto che piangersi addosso come stavo facendo io. In confronto a lui non ero niente e avevo ancora entrambe le gambe, non c’era nessuno che diceva che non avrei più camminato, semplicemente ci voleva tempo e questo io non l’avevo capito. Lui, invece, non aveva alternative, ma si era adattato molto più in fretta di me.
Mosse l’arto per scuotermi dai miei pensieri e automaticamente spostai la mano, lasciandolo libero di riannodare il pantalone e di rialzarsi, avvicinandosi poi alla sedia a rotelle con calma e senza vergogna, sedendosi e sospirando stancamente. Era forte, sorrideva e cercava di infondere allegria agli altri, ma ero certo che tutto ciò gli costasse comunque un certo sforzo. Nessuno poteva essere così accomodante con la vita.
Nonostante tutto non si abbatté e mi rivolse un sorriso gentile e un po’ timido, portando le mani sulle ruote, pronto per partire.
«E’ giusto arrabbiarsi e innervosirsi, fa parte della convalescenza e se vuoi prendertela con qualcuno ne hai tutto il diritto» disse, tentennando un istante nel continuare la frase, «Ma se un giorno vorrai parlarne, beh, sai dove trovarmi». Così dicendo si avviò verso l’uscita, non mancando di rivolgermi un ultimo sguardo amichevole, lasciandomi da solo a riflettere su quello che era appena successo. Mi ero comportato malissimo e gli avevo urlato in faccia il problema che già sapeva di dover affrontare tutti i giorni e con cui avrebbe dovuto convivere fino alla fine ma, nonostante i miei insulti, non si era perso d’animo e si era messo a nudo nel tentativo di sostenermi e di farmi capire che c’erano cose peggiori.
Sospirai, sentendomi tremendamente in colpa. Forse aveva ragione; forse era vero che avendo qualcuno a proprio fianco gli ostacoli erano meno duri da superare.
 
* * *
 
«Ace? Sei sveglio? Lo spero. Sai, ora che so che puoi sentirmi mi sento meno stupido a parlarti. Prima era un bel dilemma e tu non sei certo di grande aiuto» scherzò Marco, sedendosi sul bordo del letto. Me lo immaginavo benissimo: le mani abbandonate in grembo, le spalle rilassate e la testa rivolta verso il soffitto con gli occhi socchiusi, intento a riflettere e a pensare, scegliendo con cura le parole. A giudicare dal tono scherzoso doveva avere un piccolo sorriso sulle labbra.
Quanto avrei voluto aprire gli occhi e rispondergli.
«Te l’ho detto mille volte» fece ad un tratto, cambiando drasticamente umore. Sembrava triste, dispiaciuto.
Disperato.
«Prima non ero certo che riuscissi a comprendere le mie parole, ma adesso è diverso e voglio essere chiaro, senza parlare a vanvera come ho fatto i primi mesi» spiegò, facendo un respiro profondo.
Seguì una breve pausa durante la quale avrei tanto voluto stringergli una mano, assicurargli che andava tutto bene, che non doveva preoccuparsi o sentirsi in colpa, che quello che era accaduto non era dipeso da lui, ma unicamente da me. Però non potevo. Non ce la facevo.
«Ace, quel giorno sono stato un idiota. Non dovevo reagire in quel modo, non avrei dovuto andarmene e non avrei dovuto lasciarti sulle spalle la custodia e la responsabilità di tutti quei piccoletti dell’orfanotrofio. Non quando tutti i nostri fratelli erano altrove e non quando l’unico ad essere maggiorenne eri tu. Sono stato sciocco ed egoista».
Quel discorso l’aveva fatto mille volte ormai in quei sette, lunghi mesi e avrei voluto rispondergli che non volevo le sue scuse, che non ce n’era bisogno, ma puntualmente lui me le ripeteva, facendomi sentire sempre peggio e incolpandosi inutilmente. Lui non c’entrava, non l’aveva fatto apposta, ero io quello che aveva esagerato e che era andato troppo oltre, scombussolando tutto e costringendolo ad allontanarsi quel pomeriggio.
Conoscevo Marco da un sacco di tempo; eravamo cresciuti insieme, fianco a fianco, contando l’uno sull’altro, sempre, e condividendo qualsiasi cosa, emozione o esperienza che fosse. Quando qualcosa non andava in me sapevo che in lui avrei trovato un sostegno, che mi avrebbe sempre aiutato e capito e quando era lui ad avere bisogno allora mi sdebitavo e facevo di tutto per essergli utile. La sua grande famiglia mi aveva accolto a braccia aperte come aveva sempre fatto con tutti e ritrovarmi ad essere circondato da una dozzina e più di fratelli da un giorno all’altro era stata una piacevole novità dopo che ero diventato orfano. Avevo trovato qualcuno che si sarebbe preso cura di me e un sacco di amici pronti a starmi vicino e a volermi bene. Ero affezionato ad ognuno di quei ragazzi, ormai cresciuti e scapestrati, con la testa sempre tra le nuvole e con la capacità di cacciarsi sempre nei guai ogni volta che si presentava loro l’occasione. Adoravo l’uomo che mi aveva dato una nuova vita e che aveva reso migliore la mia esistenza, amavo la mia casa e tutti coloro che la abitavano.
Marco, all’inizio, se ne era stato per le sue, mostrandosi presuntuoso ed arrogante fin da piccolo, facendomi i dispetti e venendo ricambiato con la stessa moneta, dato che ero sempre stato un ragazzino pestifero, ma col tempo le cose erano cambiate. Forse in meglio, forse in peggio, in ogni caso avevamo iniziato a stringere una serie di accordi e tregue, rivolgendo i nostri scherzi, non sempre molto divertenti, verso gli altri, scatenando il putiferio tra gli orfanelli e dando inizio ad un periodo niente affatto tranquillo, soprattutto se i ragazzini stavano tutti attraversando quella fase delicata dell’adolescenza. Le femmine, sotto quell'aspetto, erano state le artefici degli scherzi peggiori. Nonostante tutto, il nostro rapporto, col passare degli anni e costretti a vivere a stretto contatto, si era rafforzato e ci eravamo inevitabilmente avvicinati, scoprendoci un giorno migliori amici e inseparabili fratelli, pronti a tutto per sostenerci. In sua compagnia non ci si annoiava mai, nonostante la calma che la maggior parte del tempo lo caratterizzava e la tendenza a mitigare la mia indole più attiva e irrequieta. Eravamo quasi l’uno l’opposto dell’altro, ma ero certo che questo servisse in parte a renderci affiatati. In qualche modo ci completavamo.
Marco era più grande di me, ma quegli otto anni di differenza non avevano mai influito sulla nostra amicizia e sul rapporto che si era creato, come se fossero inesistenti e non contassero minimamente. Eravamo in sintonia, difficilmente ci trovavamo in disaccordo e a noi bastava. Inizialmente si divertiva a rinfacciarmi quell’aspetto, non perdendo l’occasione per sfottermi e sfidarmi, mettendomi puntualmente al tappeto e le cose non erano cambiate da allora, semplicemente, se da piccoli i nostri dibattiti erano solo innocenti scaramucce, a quell’età e con qualche muscolo in più, ci capitava anche di prenderci a pugni. Tutto normale, diceva il babbo, a detta sua un po’ di sana competizione tra fratelli ci stava, poco importava che alla fine mi ritrovasi scaraventato a terra e con lui seduto bellamente sopra la mia schiena con l’aria vittoriosa e imbattuta. Quegli anni passati a tessere i legami del nostro rapporto erano stati i migliori della mia vita.
Era stato inevitabile, per me, innamorarmi di lui.
Non me ne ero reso conto fino a otto mesi prima, quando, dopo uno dei nostri classici litigi senza senso, ormai ritenuti all’ordine del giorno, avevo zittito le sue sciocche e stupide lamentele sul mio conto. Stupidaggini che si divertiva a rinfacciarmi, ma che mi irritavano sempre e comunque così, dopo avergli intimato per tre volte di chiudere il becco e animato da quel non so cosa del momento, gli avevo semplicemente tappato la bocca con la mia. Era durato un istante, un misero ed effimero attimo, ma sufficiente per scottare entrambi. Quello che era accaduto dopo era stato a dir poco catastrofico e, forse, esagerato, ma ormai era successo. Non serviva a nulla piangere sul latte versato e se c’era qualcuno da biasimare, beh, quello ero io.
Dopo quel mio gesto mi era sembrato che tutto quello che eravamo stati si fosse irrimediabilmente incrinato, addirittura spezzato. Non sapevo nemmeno perché avevo agito in quel modo, me ne ero reso conto solo durante quei mesi di silenzio a cui ero stato costretto. L’unica compagnia, quando non avevo visite, erano i miei ricordi e me stesso. Le cose avevo dovuto affrontarle, alla fine.
Dopo il bacio, Marco era come impazzito. Mi aveva aggredito, spingendomi addosso alla parete della sua stanza e gridandomi contro, accusandomi di aver appena rovinato la nostra amicizia. Mi aveva ripetuto che lui ed io eravamo fratelli.
Fratelli, fratelli, fratelli. Nel giro di poco tempo ero finito per odiare quella parola che tanto avevo amato e che nella mia mente suonava così dolce e piena di significato. Come poteva esserci qualcosa tra due fratelli? Due persone dello stesso sangue non potevano volersi bene in quel modo, era un controsenso. Era sbagliato e quel concetto me l’aveva fatto chiaramente capire. C’era una cosa da dire, però. Marco ed io, a conti fatti, non eravamo fratelli di sangue. Eravamo semplicemente stati raccattati dallo stesso uomo e cresciuti assieme, vicini. Non c’era niente di strano o insolito in tutto ciò e i miei sentimenti verso di lui erano più che giusti. Tutto quello, purtroppo, l’avevo capito solo dopo l’incidente, quindi alle sue parole così dure e taglienti non avevo saputo ribattere.
Dopo avermi rifiutato se ne era andato, uscendo di casa per allontanarsi da me e lasciandomi solo a darmi dello stupido e in preda ai sensi di colpa e al terrore di aver perso il mio migliore amico, nonché mio fratello maggiore, il mio punto di riferimento, colui al quale chiedevo tutto e da cui mi rifugiavo quando qualcosa andava male, sapendo che avrebbe sistemato le cose. In preda al panico non mi ero accorto che in casa era appena scoppiato un incendio.
Il temporale che oscurava il sole quel giorno, rendendo doppiamente tetro il mio umore, aveva fatto saltare la corrente e un fulmine di troppo aveva mandato in tilt la centralina. In qualche modo la corrente era venuta a contatto con una diavoleria dentro la casa che aveva fatto da conduttore, facendo così saltare alcuni contatti e causando lo scoppio di alcune scintille nel grande salotto dove i mobili erano principalmente di legno. Inutile dire che la tenuta si era trasformata in un inferno nel giro di poco tempo. Quando me ne ero reso conto era troppo tardi per sperare di domare le fiamme, perciò mi ero dato da fare per assicurarmi che tutti i piccoletti uscissero in giardino, passando in rassegna tutte le stanze e avvisando i ragazzi più grandi di venire ad aiutarci. Per qualche scherzo del destino, quel giorno la responsabilità era caduta tutta sulle mie spalle, essendo l’unico maggiorenne e gli altri miei fratelli o fuori a lavorare nel secondo orfanotrofio affiliato o a casa del babbo. Non dubitavo che sarebbero arrivati, ma sapevo che ci avrebbero messo un po’ prima di raggiungerci e lo stesso valeva per i soccorsi.
Nell’attesa mi ero messo a contare mentalmente tutti i presenti, sperando di non aver dimenticato nessuno all’interno, quando il telefono nelle mie tasche aveva preso a squillare incessantemente fino a che non ebbi risposto. Dall’altro capo c’era Marco che, ordinandomi di non muovermi e di non fare cazzate, mi pregava di restarmene fermo dov’ero e di aspettare il suo arrivo. A detta sua non era molto lontano ed era già di ritorno. L’avrei ascoltato, sul serio, ero deciso a farlo, dopotutto aveva sempre avuto una certa influenza la sua parola su di me, ma uno dei bambini mi aveva reso noto, tra le lacrime, che mancava uno di loro all’appello. Non appena fece il nome della vittima, non ci pensai due volte a riattaccare il telefono, ignorando gli avvertimenti, e fiondarmi dentro la casa ormai completamente avvolta dalle fiamme nel tentativo di salvare il piccolo Rufy, l’ultimo arrivato che era entrato nel cuore di tutti, del mio soprattutto. Mi ricordava me alla sua età e nella sua stessa situazione, oltre che a lasciarmi davanti alla sua infinita sbadataggine e alla dolcezza che a volte mi disarmava. Non l’avrei lasciato morire in un modo così brutale, dovevo pur fare qualcosa per aiutarlo.
Il seguito non era stato dei migliori, ma almeno col mio corpo ero riuscito a proteggerlo dalle fiamme, dalle macerie e dalla cenere, accantonandomi in un angolo, dato che non avevamo più vie d’uscita, e aspettando e pregando. L’ultima cosa che avevo fatto era stato rassicurarlo, promettendogli che non l’avrei abbandonato o lasciato solo, sentendomi sollevato davanti al timido sorriso di ringraziamento che mi aveva rivolto. Dopotutto, era mio fratello, tutti lo eravamo. Poi era calato il buio ed io non ero più riuscito a fare altro se non dormire.
Forse le cose sarebbero andate diversamente se non fossi stato tanto impulsivo o disattento, forse a quell’ora non avrei vissuto la mia prima delusione amorosa e Marco non si sarebbe ritrovato rinchiuso in ospedale per un trauma cranico che necessitava di essere tenuto sotto costante controllo fino a che le sue ricadute non fossero cessate. Quel testardo era entrato a cercarmi non appena era arrivato, rischiando seriamente che una trave del soffitto lo schiacciasse uccidendolo. Quel casino era accaduto solo per colpa mia e per i miei stupidi sentimenti. E non poter parlare e chiarire mi stava lentamente uccidendo.
Mi dispiace tanto Marco, non avrei dovuto baciarti, pensai tristemente.
«Perdonami Ace, non avrei dovuto respingerti».
Il mondo sembrò fermarsi e il dolore che quelle parole mi causarono si fece strada dentro di me così velocemente che se non fossi stato in quelle condizioni pietose probabilmente mi sarei sentito male o altro.
Avrei voluto fare così tante cose, prima tra tutte prenderlo a pugni, urlargli contro qualsiasi tipo di insulto esistente, alzarmi e correre via, ma più di tutto volevo disperatamente piangere. Era così stupido da parte mia, così poco virile, ma mi sentivo maledettamente uno straccio. Era ingiusto tutto ciò e, per quanto mi dispiacesse ammetterlo, Marco non aveva il diritto di parlare in quel modo, non dopo quello che era accaduto, non dopo che ero finito in coma, senza una certa speranza di risvegliarmi. Non poteva dopo otto dannatissimi mesi confessarmi una cosa del genere, non dopo avermi rifiutato e avermi sbattuto in faccia quanto il mio interesse nei suoi confronti fosse impossibile. Avrei anche potuto sopportarlo, se non fosse stato per l’orribile sensazione che il suo discorso fosse dettato più dal senso di colpa che da una vera riflessione profonda e sentita. Se avesse reagito diversamente al mio approccio, probabilmente non sarei stato da solo a salvare la vita di tutti quei bambini e magari non ci saremmo scordati di Rufy, ma chi poteva dirlo? Non era certo e ritrovarmi in un letto d’ospedale, incapace di muovermi e di sottrarmi a quella conversazione, mi stava straziando.
Non volevo ascoltarlo, non più; fino a che si trattava di scuse e di frasi dispiaciute potevo reggere, ma non a quello. Era troppo e non volevo convivere giorno dopo giorno con la consapevolezza di poter essere ricambiato da lui. Se prima l’avevo desiderato, in quell’istante ne ebbi paura, paura perché non sarebbe cambiato niente nello stato in cui mi trovavo, tanto valeva che continuasse a ritenermi solamente un fratello o un amico.
«So che potrà sembrarti strano detto così, dal nulla, ma tu hai avuto il coraggio di fare quello che avrei dovuto fare io da tempo» sussurrò, immobile e sempre affianco a me.
Ti prego smettila!
Se da fuori il mio corpo poteva sembrare rilassato e impassibile, dentro di me urlavo.
Non voglio sentirti! Vattene, vattene via! Come puoi essere così ingenuo? Non capisci che mi fai stare peggio? Cosa posso fare in queste condizioni? Non posso muovermi, ne alzarmi per ucciderti. Non posso baciarti, Marco, non posso urlarti in faccia quanto ti sto odiando ora. Non riesco nemmeno a piangere. Quanto vorrei farlo, tu non hai idea. Ti dispiace? TI DISPIACE? E’ tardi, è troppo tardi ormai. Stai zitto, stai zitto! Penguin? Penguin, se mi senti vieni qui, ti prego, ti prego!
«Davvero, Ace, tu non puoi nemmeno immaginare quello che, insomma… Quanto male mi sento. Non avresti dovuto essere da solo, non avrei dovuto lasciarti. Se sei qui è solo colpa mia».
Marco, stai zitto. Ti supplico, fa male, dannazione! Risparmiami tutto questo. Sei così egoista da non capire che dirmi queste cose adesso mi renderà la vita sempre più dura? Non posso reagire, non posso sperare di avere di più, ho perso praticamente tutto. Non voglio sentire più niente. Basta, smettila, smettila, smettila!
«Vorrei tanto poter tornare indietro per…».
BASTA!
«Marco è meglio che tu vada».
Grazie al Cielo, Penguin mi aveva udito, in qualche modo eravamo davvero collegati e ciò mi rese così sollevato che per un attimo sentii gli occhi inumidirsi. Volevo stare da solo per un po’, volevo riposare e dimenticare tutti quei problemi. Per la prima volta non volevo avere Marco vicino a me.
«Uh? Penguin. Che ci fai qui? Che stai dicendo?». Potevo sentire mio fratello farsi sempre più curioso e interdetto e il ragazzo che era arrivato appena in tempo, dopo avermi chiesto il permesso di rispondere sinceramente, gli riferì nel modo più gentile e delicato possibile, che non era il caso di turbarmi con tutti quei pensieri tristi di occasioni perdute.
«Non voglio intromettermi, ma sta soffrendo ed è emotivamente a pezzi. Lascialo riposare e torna domani, per favore. Vieni, ti accompagno così avrà del tempo per sé».
Sentii Marco sospirare tristemente. Mi dispiaceva saperlo in quello stato, ma ero passato sopra ai miei sentimenti troppo a lungo e non riuscivo sentirmi dalla parte del torto. Avevo davvero bisogno di una pausa.
Grazie Penguin, pensai, sicuro che il mio messaggio arrivasse a lui e ascoltandoli lasciare la stanza in silenzio.
Ah, Pen? quasi mi dimenticai, tentennando un altro istante, assicurati che Marco stia bene. Dopotutto, é pur sempre mio fratello.
 
* * *
 
Il cuore è diviso in quattro cavità: gli atri, destro e sinistro, posti superiormente e i ventricoli, anch’essi destro e sinistro, posti inferiormente. L'atrio e il ventricolo destro sono in continuità tra di loro, formando il cuore destro, il quale pompa il sangue venoso, ossia povero di ossigeno, così come comunicano le due cavità sinistre, formando il cuore sinistro che, appunto, pompa il sangue arterioso, cioè ossigenato…
«Ah, eccoti. Così è qui che nascondi le tue quattro ossa, eh?».
Non mi preoccupai nemmeno di alzare gli occhi dal libro di medicina su cui ero stato concentrato fino a pochi secondi prima, capendo immediatamente chi era l’idiota che aveva osato interrompere i miei studi, decidendo che no, non valeva la pena perdere tempo con lui e le sue stupide domande, perciò lo ignorai e continuai con la mia lettura leggera, sperando che se ne andasse al più presto.
«Ehi stronzo, dico a te».
Dunque, dov’ero rimasto? Allora: dopo la nascita non persiste alcuna comunicazione tra la parte destra e quella sinistra del cuore; questa condizione è garantita dai setti interatriale e interventricolare che dividono il cuore nel…
Un peso estraneo piombò sul materasso e il letto dell’ospedale, nonostante fosse di ferro, cigolò rumorosamente mentre un paio di mani mi afferravano per la collottola della maglia e mi trascinavano in piedi in modo rude e fastidiosamente maleducato. Eustass-ya, a volte, era proprio un animale.
«Non ignorarmi» ringhiò rabbioso, strattonandomi ulteriormente ed evidenziando quanto quell’indumento mi andasse largo. La cosa, infatti, non sfuggì alla sua attenzione e, con una smorfia schifata alla quale risposi con un ghigno di puro menefreghismo, pensò bene di dare aria alla bocca con i suoi commenti inutili e scontati.
«Sei magro da fare ribrezzo, Trafalgar».
«E tu hai un piede nella fossa, caro Eustass».
«Ehi, questo è tutto da vedere» mi avvertì, ricordandomi la nostra scommessa, o meglio, la nostra sfida all’ultimo respiro: chi moriva per primo, perdeva. Faceva ridere vista in quel modo. «Sappi che non ti lascerò la soddisfazione di venire al mio funerale».
«Hai paura che ti metta in imbarazzo anche quando sarai sottoterra?» ironizzai, approfittando del fato che mi avesse liberato dalla sua presa per rimettermi seduto e richiudere il libro, sicuro che non mi avrebbe lasciato in pace tanto presto.
Mi rivolse un’occhiata sarcastica, mettendosi a gironzolare per la stanza e curiosando sulle mensole che avevo montato per riporre i miei libri, nonostante le lamentele del personale.
«No, semplicemente voglio avere la soddisfazione di seppellirti personalmente, così, giusto per sfotterti».
Ebbi la tentazione di ridacchiare, ma poi mi ricordai che avevo davanti a me il mio peggior nemico, il mio avversario e con lui non dovevo fraternizzare, perciò mi limitai a seguirlo con lo sguardo, attento a qualsiasi suo movimento e pronto a cacciarlo fuori di lì a calci se avesse iniziato a farsi gli affari miei, toccando tasti dolenti. Per quanto mi scocciava ammetterlo, la mia camera era una fonte inesauribile di indizi sulla mia vita e sul mio conto e a me non piaceva che la gente si intromettesse in cose che non la riguardavano.
«Cos’è quella roba?».
Mi rilassai non appena capii che stava puntando il dito contro un vassoio adagiato sopra al tavolino accanto al letto.
«Uh, è la colazione» dissi semplicemente, ignorando la quantità di cibo intoccato che faceva bella mostra di sé. Più tardi l’avrei consumato, sempre se me ne fossi ricordato e se ne avessi avuto voglia.
«Quindi deduco che l’altro piatto sia il pranzo. Non lo mangi?» domandò, più sorpreso che interessato, avvicinandosi e prendendosi la libertà di sedersi, osservando le vivande.
Mi strinsi nelle spalle, incrociando le gambe e afferrando il cuscino per stringermelo al petto nel tentativo di mettermi comodo, attendendo la sua prossima mossa. Eustass-ya era stupido, ma non cieco, doveva per forza aver capito qual’era il mio problema, anche se non ne aveva mai fatto parola in quei suoi primi mesi all’ospedale. Miracolosamente il suo cervello aveva capito che non avrei mai risposto alle sue domande se non avessi deciso di confidarmi a lui di mia spontanea volontà. Ero convinto che non l’avrei mai fatto, ma il suo comportamento, stranamente meno balordo del solito, mi portò a concedergli il beneficio del dubbio.
«Ti dispiace se…». Lasciò in sospeso la frase, indicando il vassoio, al che feci un cenno affermativo, assicurandogli che non mi creava nessun fastidio, e lo guardai spezzare una brioche a metà che avrebbe dovuto rappresentare la mia colazione, iniziando a mangiare il primo pezzo con gusto e appetito.
Repressi un brivido di disgusto e rabbia. Perché a lui risultava così semplice mettere in bocca quella schifezza e a me no? Possibile che fosse così difficile?
«Come mai non l’hai nemmeno toccato? Non ti piace come cucinano?» domandò a bocca piena.
Ci riflettei per un attimo, indeciso se rispondere o meno e intento a studiare quella sua espressione mezza inebetita e mezza interrogativa che aveva assunto nel rivolgermi quella domanda. Guardarlo mangiare con quell’aria inaspettatamente tranquilla, quasi soddisfatta di aver trovato lo spuntino pronto, con quei capelli disastrati e innaturalmente rossi era quasi, come dire…
Non so proprio come descriverlo questo idiota, pensai divertito.
«Non avevo fame» risposi infine, restando sinceramente stupito quando scoppiò a ridere subito dopo, mentre tutto il resto del mondo avrebbe tentato di incitarmi a mettere qualcosa sotto ai denti e a non lasciarmi morire in quel modo così misero e irrispettoso nei confronti del mio organismo. Alla fine, nonostante io ci provassi, non capivano mai quello che spiegavo loro. Non era vero che non mi rispettavo, anzi, io amavo il corpo umano, l’anatomia, i vasi sanguigni e tutta la complessità di ogni essere vivente; tutti quei muscoli così delicati e facili da distruggere, tutti quei collegamenti perfetti e intricati. Non per niente approfittavo del tempo che passavo in ospedale per studiare da vicino ogni caso contorto, rubando le cartelle cliniche dei pazienti e imparando molte più cose lì che all’università. Io amavo la medicina, amavo la vita che scorreva nelle vene, davvero, solo ritenevo che ci fossero cose più importanti a cui prestare attenzione, bisogni molto più necessari oltre al dormire e al nutrirsi. Per andare avanti mi bastava poco, giusto qualcosa una volta ogni due giorni, magari anche tre e dell’acqua. Se mi sentivo motivato mangiavo addirittura un pasto completo, anche se poi ne facevo a meno per troppo tempo, fino a che non mi sentivo mancare e svenivo in mezzo ai corridoio, allarmando Penguin e tutto il personale. Ma, sul serio, non mi serviva, stavo bene e potevo farcela, lo sapevo. C’erano cose più importanti, come la mia sete di conoscenza e la mia voglia di imparare. Peccato che, fino a che non mi avessero ritenuto guarito e mentalmente stabile, non avrei potuto riprendere i corsi. Questo, all’inizio, aveva rappresentato un motivo per decidermi a mangiare quella roba inutile, ma alla fine avevo capito che, se rimanevo tra quelle quattro mura, licenza di chirurgo o meno, avrei comunque imparato e assimilato più informazioni di quanto avessi mai potuto sperare. Perciò, che senso aveva curarsi, se stavo bene?
«Sei un coglione» disse invece Eustass-ya, scuotendo il capo e continuando a mangiare tranquillo, ridacchiando ogni tanto tra sé e sé e innervosendomi.
«Cosa vorresti insinuare?» chiesi guardingo, fulminandolo con lo sguardo e sperando che gli andasse di traverso il boccone.
«Quello che ho detto: che sei un coglione. Ho capito che sei anoressico, non sono così ignorante, quindi puoi anche dirmelo che sei terrorizzato dal cibo».
Forse fu la consapevolezza di sapere che mi aveva capito meglio di chiunque altro, forse fu il tono derisorio e saputello con cui parlò, forse fu semplicemente il mio orgoglio o la pretesa di non farmi mettere i piedi in testa da uno come lui, in ogni caso scattai in piedi, guardandolo dall’alto in basso e digrignando i denti davanti alla sua espressione compiaciuta e vittoriosa. Sapeva di aver toccato i tasti giusti e la mia reazione l’aveva soddisfatto oltre ogni limite.
«Io posso mangiare quando voglio, solo che non lo faccio» dichiarai, più per dimostrargli che aveva torto che per verità. In effetti quella mia affermazione era una balla colossale e lui, purtroppo, lo sapeva benissimo.
«Allora fallo» fece con aria innocente, spingendo verso di me il piattino con la metà restante della brioche integrale, «Mangia. Dimostrami che hai ragione» mi sfidò, ghignando e incrociando le braccia al petto. Per un attimo ebbi la tentazione di uscire dalla stanza, dimenticandomi di lui e ignorando quella sua provocazione, ma fu più forte di me e il desiderio di contraddirlo vinse, obbligandomi a sedermi di fronte a lui e a mettere le mani su quella pasta, staccandone un pezzetto e portandomelo alle labbra lentamente. Tentennai un istante, mordendomi l’interno di una guancia e prendendo tempo, studiato attentamente dagli occhi di Eustass che non mi abbandonarono un istante, sfidandomi chiaramente ad andare fino infondo.
Deglutii a fatica, abbassando le palpebre e addentando la colazione che avevo volutamente saltato, alternando smorfie di disgusto a respiri profondi. Nonostante tutto, masticai e ingoiai, rivolgendogli un ghigno altezzoso e gongolando davanti a lui.
«Non male, ma scommetto che non la finisci» mi sfotté con un’alzata di spalle e sbadigliando annoiato. Non tollerai quel suo comportamento, solo io mi potevo permettere di giocare con i guai degli altri e non gli avrei mai regalato la vittoria senza prima combattere. Avrebbe pagato quella sua insolenza, poco ma sicuro.
Così, animato dalla rabbia, finii la brioche, addentai una mela e prosciugai addirittura il bicchiere con la spremuta abbandonato poco lontano senza staccare un attimo gli occhi dai suoi e fulminandolo con lo sguardo quando finii quella tortura che, per la cronaca, per lui doveva essere stata un vero spettacolo.
«Hai altro da ribattere?» sibilai, fissandolo con astio malcelato. Non era una novità, entrambi ci odiavamo.
Un sorrisetto canzonatorio apparve sulle sue labbra, dopo di che si alzò con calma, spolverandosi distrattamente i pantaloni della tuta e aggirando il tavolo per avvicinarsi a me. Credevo che volesse superarmi e riprendere a curiosare in giro per evitare battutine sulla sconfitta che aveva appena subito, perché la sfida l’avevo vinta io, quando invece me lo ritrovai chinato su di me, una mano sullo schienale della mia sedia e l’altra sul ripiano vicino al vassoio miracolosamente quasi vuoto.
«Per oggi no» ammise ghignando, «Ma ora ammettilo, sono riuscito a farti magiare più io con i miei metodi che i medici di questo posto».
La sua osservazione fu uno schiaffo in piena faccia, comprese le parole che seguirono. Certo che quel bastardo non era per niente così stupido come credevo.
Si abbassò ulteriormente, sfiorandomi il naso con il suo e causandomi una scarica elettrica lungo la spina dorsale che mascherai magistralmente, «Dimmi un po’: non vorresti baciarmi?».
Sorrisi involontariamente. Che razza di moccioso impertinente.
«Non così in fretta, Eustass-ya» lo citai, sapendo benissimo come sarebbe andata a finire.
Uno scappellotto sulla nuca, però, non era quello che mi ero aspettato in quell’attimo così maledettamente eccitante.
Quando aprii bocca per insultarlo se ne stava già andando, sghignazzando per avermi fregato.
«Perché?» gli chiesi allora, fermandolo sulla soglia e costringendolo a voltarsi per rispondermi. Non ero arrabbiato, solo curioso. A lui cosa importava se non mangiavo e se andavo avanti a furia di flebo e pastiglie?
«Faccio quello che fai tu: ti do un motivo per combattere».
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
L’ho finito, l’ho finito! Tardi, come sempre, ma ce l’ho fatta! Applausi, sono una donna di parola. No, non è vero, sono dannatamente ritardataria, ma comprendetemi, questa cosa è un parto, davvero. Attenzione a non sbagliare i termini, a non esagerare con gli incidenti, a metterci dentro un po’ di allegria, pensare alle vite alternative dei protagonisti, decidere i diversi punti di vista, sclerare male. Ah, che disastro! Spero almeno che ne valga la pena e che la storia vi piaccia, sul serio ^^
Oggi arriva Killer, per la gioia dei suoi fan! Per lui si è trattato di un giorno importante, l’inizio della riabilitazione dopo essere stato fermo a lungo. Ho immaginato che non avesse potuto ottenere subito dei risultati e, per calmare la sua rabbia e il suo disappunto, ho pensato di aprirgli gli occhi inserendo Penguin che, ammettiamolo, si è comportato da vero adulto. Non so voi, ma ho adorato tanto il suo gesto di scoprirsi la gamba mutilata. Cioè, ci vuole coraggio a fare una cosa del genere, inoltre lui la teneva ben nascosta dai pantaloni del pigiama, quindi si presume che, anche se è sempre allegro, meno pensa alla sua condizione, meglio sta. Vi ho anche raccontato come è finito in sedia a rotelle, so che alcuni di voi adorano il pairing Penguin/Shachi quindi, anche se qui avremo una Pen/Killer (sono fissata), ho voluto descrivere lo stesso il rapporto dell’altra coppia come una bella amicizia.
Come vi sono sembrati i due oggi? Penguin, oltre ad essere lo scemo del villaggio, ha anche il suo lato serio e determinato, mentre Kira-chan ha avuto un po’ la parte della donna col ciclo povero :D
Passiamo a colui che ha rischiato di farmi deprimere sul serio. Ultimamente sto facendo penare Ace e Marco, ma chi mi conosce bene sa che li amo alla follia e che non potrei MAI essere troppo crudele con la loro sorte. Ad ogni modo ecco come se la passa Ace e cosa gli è capitato per finire in coma. Vuoi una botta in testa, vuoi le ustioni, vuoi chissà cosa, adesso si ritrova in un letto d’ospedale ad aspettare un miracolo.
Allora, delucidazioni sul tragico accaduto: Barbabianca (il babbo) gestisce due orfanotrofi, di cui uno ha preso fuoco per questo temporale, fili elettrici scoperti, tende, legno, fuoco e si, ho fatto un casino, ma la dentro era impossibile far sì che dei ragazzini fumassero e si dimenticassero le sigarette accese in giro, e che cazzo u.u
A parte l’azzardo del brutto tempo, io spero vivamente che il rapporto tra i due ragazzi sia uscito bene perché ci ho passato mezza serata a scriverlo. Ace si è innamorato, caro, piccolo mio, e come biasimarlo! Inconsciamente e senza rendersene conto, durante una scaramuccia, bacia Marco e questo reagisce in modo sbagliato. Certo, immaginate: vostro fratello viene la e vi bacia. Cioè, un trauma. Dietro poi c’è tutto il discorso dell’essere stati addottati, ma subito i due non ci pensano e mettono in primo piano i problemi che possono derivare da quel contatto. Che poi Marco abbia fatto il coglione è un altro discorso. Fatto sta che decide di confessare a Ace i suoi non ancora chiari e definiti sentimenti, scombussolandolo e facendogli così più male di quanto crede. Ora, qualcuno potrebbe rimanere perplesso, quindi vi spiego il perché della reazione di Ace: voi siete in come e non potete fare niente. L’ultima volta che avete parlato con la persona che amate questa vi ha respinti e non potete fare altro che accontentarvi del suo supporto e della sua presenza accanto a voi durante il ricovero. Questa si scusa mille volte e la colpa può essere anche di entrambi, ma ad un certo punto passa anche in secondo piano. Come potete sopportare di sentirvi dire che anche lei vi corrisponde? Dopo che vi ha sbattuto in faccia l’impossibilità di una relazione e dopo mesi di infermità? Insomma, Marco dice a Ace che non avrebbe dovuto respingerlo, quando invece l’ha fatto. Il moro non gli aveva dato nessuna colpa, figuriamoci, e Marco aveva fatto altrettanto, ma dichiarandosi ha complicato le cose. Ace, per quanto lo desideri, non può farci niente. Non può gioire, non può alzarsi e, come dice, non può baciarlo. Non può ricambiarlo, non più. Marco ha perso la sua occasione e questo a Ace fa tremendamente male perché si sente quasi inutile. Oltre alla paura che tutto ciò sia dettato dal senso di colpa. Spero di essermi spiegata.
Poi arriva Law e qui apriti cielo. Ecco cos’ha lui che non va: non mangia.
Chi l’aveva creduto anoressico si mangi un biscotto, aveva indovinato. Certo, magro come non so cosa, fermo all’ospedale, mucchio d’ossa, la cosa era ovvia e per i tragici no, non li faccio venire un cancro! Non ce la faccio, avrei voluto, ma farlo lottare contro la morte a furia di chemioterapie e roba varia non me la sentivo, inoltre la storia si sarebbe allungata e conto di non tirarla per le lunghe. Sempre se non ci prendo la mano, LOL.
Ditemi voi, cosa ne pensate del metodo di Kidd? Sfidare Trafalgar, facendo leva sul suo orgoglio, per obbligarlo, anzi, convincerlo a mangiare. mi sembra molto scaltro da parte sua, infatti ci riesce e, per concludere, cita due frasi fatte da Law nel capitolo precedente, ovvero una in ascensore e l’ultima per spronarlo a non lasciarsi andare come aveva fatto lui quando Eustass aveva avuto quel mancamento.
E ora, se permettete, chiudo perché sono morta. Spero vi sia piaciuto, davvero, perché è stato uno dei capitoli più difficili che abbia mai scritto. Portate pazienza, ho ancora tanto da imparare. In ogni caso, accetto qualsiasi critica o consiglio costruttivo ^^
Grazie come sempre a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


Braccialetti Rossi-Io non ho finito: http://www.youtube.com/watch?v=a0Uu4bGejaM

 

Capitolo 4.

 

«Vedi la vita è una piuma, si balla e si trema amore mio. Oh oh, oh oh. Io non ho finito».
«Vorresti smetterla? Mi sta venendo il mal di testa».
«Non sono per niente vicino a un addio. Non essere triste, amore mio».
«Penguin».
«Va bene, va bene, la smetto. Andiamo a fare colazione? Ho detto agli altri che ci saremo trovati giù alla caffetteria. Dai, muoviti Law!».
Odiavo che la gente, soprattutto i mocciosetti, mi si aggrappasse letteralmente alle braccia per convincermi a fare qualcosa che non avrei mai e poi mai acconsentito a fare, ma si trattava di Penguin e ciò influiva leggermente sulla rigidità delle mie decisioni. Così, sbuffando sonoramente per evidenziare il mio malcontento, mi lasciai trascinare per una manica della felpa lungo il corridoio, mettendo il broncio e alzando gli occhi al cielo. Era inutile, ma a quel piccoletto non riuscivo proprio a dire di no e come riuscisse sempre a convincermi a fare quello che voleva davvero non mi era chiaro. Era persino riuscito ad infinocchiarmi con quell’assurda storia di creare un gruppo dove tutti si sarebbero voluti bene e aiutati a vicenda. L’avevo assecondato e avevo preso il comando. fino a quando eravamo stati solo lui ed io per un po’ era andata bene, dargli ordini era uno spasso, ma da quando si erano uniti a noi altre persone le cose non solo erano cambiate, ma addirittura migliorate! Si trattava per lo più di idioti, anzi, forse di idiota ce nera solo uno, infatti il diretto interessato credeva davvero di avere il controllo supremo sul gruppo, ma non si era ancora accorto che, da dietro le quinte, ero io a manovrare l’intera baracca. Povero stolto con i capelli rossi, raggirarlo era troppo facile e divertente. Per quanto riguardava gli altri, invece, erano abbastanza a posto a detta mia. Killer-ya mi lasciava ancora un po’ basito per il suo stile di vita spericolato, ma apprezzavo la sua infinita pazienza e il carattere silenzioso e asociale. Del ragazzo in coma, poi, non mi potevo lamentare. Era il mio preferito, intendiamoci, non disturbava mai e non dava nessun tipo di problema. Forse ero indelicato, ma la sua condizione era una benedizione per i miei nervi. Marco-ya sembrava tranquillo, cattivo umore a parte, sembrava sempre sul punto di scattare da un momento all’altro e lui e Kidd si contendevano il primato per l’arroganza.
«Ci sarà anche Eustass-ya?» chiesi ad un certo punto.
«L’ha deciso lui di fare colazione assieme a noi».
Ci guardammo in silenzio perplessi per qualche istante, assimilando entrambi l’informazione ed elaborando bene cosa significava quella frase. Successivamente sul mio volto apparve un ghigno poco elegante, mentre Penguin faceva di tutto per contenere le risate in modo da non attirare troppo l’attenzione degli infermieri. Si era reso conto pure lui dell’assurdità che aveva appena detto.
«Sul serio, lui che decide di fare una cosa così poco virile?» feci con sarcasmo, iniziando ad incamminarmi verso gli ascensori. Niente più scale dopo l’ultimo incidente.
«Mi sono stupito pure io, ma non si discutono gli ordini del leader» fece convinto, premendo il bottone del piano terra e rilassandosi sulla sedia a rotelle.
Decisi di ignorare quel suo commento e attesi che il viaggio in ascensore finisse, spingendo fuori Penguin quando le porte si aprirono e, senza bisogno di dire nulla e dandogli modo di riposare le braccia, lo guidai per il resto del tragitto fino al bar dell’ospedale, quello più carino dove, ogni volta che ci andavamo, non ci facevano pagare il prezzo pieno. Non che io avessi bisogno di prendere qualcosa. Ad ogni modo non era un ambiente così ostile e notai con piacere che quelli che erano già arrivati avevano preso posto accanto alle finestre. Poco importava che avessi dovuto litigare con uno in particolare di loro per accaparrarmi il posto al sole.
«Buongiorno a tutti!» fece il ragazzino in carrozzella, salutando i presenti con un sorriso grande da un orecchio all’altro che mise piuttosto in imbarazzo Eustass-ya e Killer, presi alla sprovvista dal suo buonumore. Alla fine, però, non ebbero abbastanza sfrontatezza di rispondergli con insulti e si limitarono a sventolare la mano con un lieve cenno del capo sotto il mio sguardo divertito. Che carini, non avevano avuto cuore di infrangere l’allegria del piccoletto. Allora non erano così bastardi e crudeli come credevo.
Marco, invece, sempre con quei capelli che mi imponevo di non guardare per non risultare offensivo o sfrontato, non si fece problemi a mostrarsi amichevole e si spostò per farci spazio, chiedendoci come stessimo e se fosse tutto a posto. Alla fine non dovetti fare a botte con nessuno per il posto a sedere perché il biondo mi lasciò il suo, esattamente sotto i raggi caldi di quella giornata, Eustass Kidd accanto a parte. Tra tutti, era stato il più gentile, ma non si poteva subito pretendere troppo dal resto del gruppo.
«Stiamo benissimo!» attaccò Penguin, «E ho una bellissima notizia da darvi: stanotte ci saranno i fuochi d’artificio, quindi tutti sul tetto a vederli!».
A qualcuno andò di traverso la colazione e un’onda anomala di caffè investì la superficie del tavolo.
«Killer-ya, vuoi forse annegarci?» domandai cinico, inarcando un sopracciglio e fissandolo storto. Avevo notato che, per qualche strana ragione, lo intimidivo. Infatti mi dovetti trattenere dal ridere quando abbassò il capo mortificato, borbottando delle scuse sommesse e iniziando ad asciugare con le salviette di carta.
«Stronzate» esordì a quel punto Kidd con la sua solita finezza, «Perché dovremo andare a vederli? E’ roba da poppanti».
«Anche ritrovarsi a fare tutti colazione assieme come se fossimo amici per la pelle lo è, eppure lo stiamo facendo». Fu più forte di me quella frecciatina e non riuscii proprio a starmene zitto. La faccia burbera che mi si piazzò davanti, poi, mi fece ghignare come non mai per la soddisfazione di aver toccato il punto giusto.
Come di consuetudine gli altri presero ad ignorarci, sapendo già che avremo continuato a bisticciare tra noi per un bel po’. Era diventata una specie di routine: andava bene per i primi dieci minuti, ci sopportavamo e ci comportavamo civilmente, ma poi tutto degenerava. E la colpa, ne ero certo, era solo sua. Mi rendeva impossibile fare finta di niente quando dalla sua boccaccia uscivano solo ed unicamente sciocchezze, insomma, riprenderlo e sfotterlo era più forte di me, ma si poteva anche dire che mi offriva le battute su un piatto d’argento. Se non l’avessi inquadrato come idiota montato, probabilmente avrei sospettato che lo facesse a posta per stuzzicarmi. Tutto ciò era impensabile, comunque, perciò avevo semplicemente dedotto che il suo problema non fosse di origine cardiaca, ma mentale. Eustass-ya era un completo deficiente.
Restammo a fissarci per qualche minuto in una di quelle sfide silenziose a colpi di occhiate malefiche e minacciose. Ero deciso a non cedere e avrei potuto benissimo continuare a sondare le sfumature di quelle iridi di un colore improponibile come quello dei suoi capelli, quando notai un sorrisetto calcolatore farsi strada sulle sue labbra, seguito da un’espressione che aveva un che di strategico, segno che stava mettendo in moto quel cervello bacato che si ritrovava. Le sue idee, però, non erano mai buone come credeva.
«A proposito di colazione» iniziò a dire, mettendomi davanti un piattino con una brioche troppo grande per i miei gusti, «Non hai ancora mangiato nulla» mi fece notare.
Guardando schifato quella cosa ricoperta di cioccolato mi uscì un lamento che avrei preferito tenere per me così, fregandomene degli sguardi sorpresi e speranzosi di Penguin e Marco, i quali, da quando avevano preso a fare comunella, non la smettevano di assillarmi con la storia del cibo, nonché quelli curiosi di Killer-ya. Allontanai il piatto con una smorfia: non avevo la minima intenzione di mangiarla e non avevo affatto fame. Se proprio dovevo preferivo un frutto a quella roba piena di grassi e calorie.
«Sono a posto così, grazie del pensiero» mormorai atono, guardando altrove.
Con la coda dell’occhio lo vidi annuire, mentre riavvicinava a me la colazione, prendendo la brioche e dividendola a metà. Iniziò a mangiucchiare il primo pezzo, porgendomi l’altro. Che diavolo aveva in mente di fare?
«Forza, mangia».
Incrociai le braccia al petto e lo guardai ostile. «Non darmi ordini» sibilai, facendogli alzare gli occhi al cielo. Quello che più mi infastidiva era il silenzio che era calato attorno a noi: praticamente sei occhi puntati addosso!
«Un po’ per ciascuno, mi sembra equo. Non vorrai mica tirarti indietro, vero?» mi sfotté con aria altezzosa, «Ti facevo meno debole».
Gli tolsi dalle mani quell’insulso dolce e lo finii in pochi bocconi, sfidandolo con lo sguardo a ripetere quello che aveva detto, se ne aveva il coraggio. Non doveva nemmeno lontanamente pensare di avercela vinta con me, perché aveva perso in partenza. Non gli avrei permesso di superarmi, assolutamente, e la scommessa che avevamo fatto l’avrei sicuramente vinta io, anche se ciò avesse significato mangiare tre pasti al giorno.
«Non ci credo» sussurrò Penguin. Mi sbagliavo, o aveva davvero le lacrime agli occhi? «Sei riuscito a farlo mangiare».
«E non è la prima volta» sogghignò Kidd, guardandomi in modo complice e facendomi intendere che da lì in poi avrei dovuto spiegare io tutta la situazione ai nostri amici, o meglio, compagni di sventure. Forse, a pensarci bene, solo conoscenti.
«Va avanti da un paio di settimane» borbottai controvoglia e solo per mettere a tacere quell’ossesso che aveva preso a farmi domande su domande, pretendendo delle risposte esaurienti, «Eustass-ya è così gentile da presentarsi da me a colazione, pranzo e cena per farmi mettere qualcosa sotto ai denti. E’ così nobile da parte sua». La dose di veleno che misi nelle parole era puramente casuale, ovviamente.
Quello che accadde dopo avrei preferito non vederlo, ma ero incastrato tra Kidd e Penguin, per cui fui costretto a restarmene seduto e ad ascoltare i ringraziamenti che il tizio in sedia a rotelle fece all’altro. Se non fosse stato invalido, probabilmente si sarebbe inginocchiato davanti al suo cospetto. Ciò non fece affatto bene all’ego già troppo smisurato del caro Eustass, perché iniziò a vantarsi di essere il migliore, assicurando che nessuno gli resisteva e accompagnando il tutto con una grossa risata isterica che mi infastidì non poco. Era meglio rimetterlo subito in riga prima che si esaltasse troppo.
«Ehi, Cuor Leggero, vacci piano. Non vorrai rischiare un collasso, spero».
«Tappati quella boccaccia, Trafalgar!» si irritò, digrignando i denti.
«Calmati, o ti salirà la pressione». Che infantile.
«Parla quello che ha bisogno di me per nutrirsi!».
«Io posso mangiare quando voglio!». E, nell’affermare ciò, misi in bocca pure il muffin che Marco aveva ordinato, finendolo tutto e da solo. «Visto?».
«Ma bravo! Vuoi un applauso adesso?». Eustass-ya, per tanto, sembrava starsi divertendo un mondo, mentre io ero troppo impegnato a fargli rimangiare ogni singola parola che mi stava rivolgendo. Nessuno più di lui riusciva a farmi prudere le mani e se solo avessi potuto l’avrei riempito di pugni.
«Già che ci sei sbatti anche la tua testaccia addosso al muro. Sarebbe una goduria» mi premurai di precisare con un sorriso beffardo sulle labbra. Sotto, sotto, però, anche se lo nascondevo piuttosto bene, anche a me quei battibecchi piacevano, ma solo perché mi davano modo di vederlo perdere le staffe quando lo mettevo alle strette, sia chiaro.
«Trafalgar» mi richiamò.
«Che vuoi?».
«Potresti lasciarmi andare la mia maglia? Sai, la gente ci fissa». E sorrise come se niente fosse, mentre io mi rendevo conto che, inconsciamente, la mia mano era corsa a stringergli il colletto e che, attorno a noi, clienti e pazienti facevano finta di nulla, mormorando comunque e guardandoci incuriositi. A proposito, che fine avevano fatto Penguin, Killer e Marco?
Non volendo ammettere di essermi fatto prendere dal momento, tornai a fissarlo, alzando un po’ il capo visto e considerato che era più alto di me e rispondendo con un sorriso che di amichevole non aveva proprio niente, come il suo del resto. Sembravano più i ghigni di due animali feroci, pronti ad azzannarsi alla gola al primo cenno di distrazione da parte dell’altro.
«Ti vergogni, Eustass-ya?» gli chiesi malizioso.
«Io non di certo, dovresti saperlo» chiarì con un’alzata di spalle. Ero curioso di vedere fino a che punto si sarebbe spinto in quella situazione così nuova e strana. Perché era strano essere così vicini senza prendersi a schiaffi.
«Dì un po’…» iniziai, lasciando in sospeso la frase e capendo dal suo sguardo che aveva intuito benissimo dove volevo andare a parare.
«Non vorresti baciarmi?» mi precedette, concludendo prima di me e sentendosi soddisfatto per aver posto la domanda, mettendomi così nella condizione di dovergli dare una risposta che avrebbe significato ammettere che si, maledizione!, avevo una voglia fottuta di baciarlo. Ma no, non gliel’avrei resa così facile come sperava.
Lasciai andare la presa su di lui, guardandolo con sufficienza, «No» sillabai vittorioso.
Era un mese e mezzo che quel giochetto andava avanti. Dopo quel misero attimo che ci eravamo ritagliati in ascensore non era più successo che ci ritrovassimo ad essere così vicini, ma aveva dato inizio ad una gara all’ultimo sangue. Oltre a mantenerci in vita dovevamo pure guardarci le spalle e stare attenti a non venire sopraffatti dall’altro. Perché, se io non volevo cedere, nemmeno lui era intenzionato a farsi sottomettere da me. Per cui continuavamo a farci la guerra, approfittando di ogni occasione per metterci alle strette e vedere chi dei due avrebbe ceduto per primo. Inutile dire che, fino ad allora, nessuno ne era uscito vincitore. Al diavolo, non riuscivo a credere che un moccioso avesse così tanta influenza su di me.
«La prossima volta non ti andrà così bene» mi avvisò, alzandosi per andare a pagare. Lo imitai, aspettandolo poi all’uscita della caffetteria e affiancandolo verso la via del ritorno. Dovevamo trovare quei tre idioti che erano spariti senza avvisare. Avevano preso a farlo un po’ troppo spesso per i miei gusti.
«Eustass-ya, tu dici che lo facciano di proposito?».
«Cosa?».
«Lasciarci da soli».
Si strinse nelle spalle, mordendosi le labbra per l’indecisione. Forse non ne aveva la minima idea nemmeno lui. «Uhm, secondo me non riescono a sopportare la tensione» dichiarò infine.
«Quale tensione?» chiesi stranito.
«Lo sai, quella tensione» disse con malizia guardandomi dall’alto della sua stazza e, dandomi una lieve spallata per coinvolgermi, beccandosi un’occhiata che dire sarcastica era dire poco. Sperai che non si stesse veramente riferendo alla tensione di tipo sessuale, perché aveva toppato in pieno.
«Eustass-ya» sbuffai esasperato, «Fammi un piacere: piantala con le cazzate».
Tutto quello che volevo era camminare affianco a lui in silenzio e senza venire disturbato. Era chiedere troppo?
Un’altra spallata, questa volta più forte, mi fece barcollare e, quando mi voltai con l’intento di uccidere il mio aggressore, lo vidi già in fondo al corridoio, intendo a sfottermi dicendo che non l’avrei mai raggiunto. Poi quello infantile era Penguin.
Razza di idiota.
 
*
 
«Marco, scusa la franchezza, ma non sono per niente d’accordo con te. Certo, l’hai fatto con le migliori intenzioni e volergli far sapere quello che provi per lui è stato molto, ehm, carino da parte tua. Killer, smettila di ridacchiare, non sei simpatico… Cosa? Vedi di smetterla o racconterò a tutti del tuo primo giorno di riabilitazione. Ecco, molto meglio. Dicevo: Ace non si sveglia da otto mesi ormai e sei stato piuttosto egoista nel sbattergli in faccia la verità. Insomma, cosa hai risolto? Lui è ancora in coma e tu hai ancora i tuoi sensi di colpa. Certo, ora sa che non lo odi come credeva, ma secondo me, e anche secondo lui, così è peggio. Crede che tu gli abbia detto tutte quelle cose solo per toglierti un peso dal petto. So che non è così, ma per una persona che non può alzarsi dal letto e prenderti a schiaffi è difficile capirlo».
Sospirai amareggiato. Penguin aveva ragione, ero stato un completo idiota e non avevo fatto altro che scaricare su Ace tutte le mie preoccupazioni, come se lui non ne avesse avute già abbastanza. Ero stato un egoista e un insensibile.
«Volevo solo che sapesse che anche io, insomma… che lui…».
«Ti capisco, davvero. Io sbavo dietro a Killer dal primo giorno che l’ho visto ridotto ad un ammasso di bende e gessi, ma ancora non ho ottenuto neanche un appuntamento» mi confessò il ragazzino, parlando tranquillamente e con disinvoltura, incurante del fatto che la persona di cui era innamorato gli stava seduta accanto e lo stava guardando con gli occhi sgranati e la bocca aperta per lo stupore. Tutto ciò mi strappò un piccolo sorriso. A volte avrei tanto voluto avere il suo coraggio e la sua allegria. E perché no, magari anche un po’ di quella forza d’animo che tanto gli invidiavo.
«Ma sai cosa? Devi solo avere pazienza. Io, ad esempio, sono convintissimo che alla fine riuscirò a portarmelo a letto».
«Come si è fatto tardi! Devo andare a cenare, ci vediamo dopo sul tetto. Ciao!». Fu così che, con un certo imbarazzo malcelato, Killer si volatilizzò il più in fretta possibile, per quanto il suo unico braccio sano potesse essere veloce nel guidare la sedia a rotelle lontano da noi, lasciando dietro di sé un Penguin piuttosto soddisfatto e ghignante. A volte era davvero troppo simile al suo compagno, Law.
«Non hai paura di spaventarlo?» gli chiesi curioso. Al suo posto non avrei mai agito in un modo tanto schietto e diretto. Infatti avevo dovuto rischiare di perdere il mio migliore amico prima di accorgermi di ciò che provavo ed erano passati otto mesi prima che mi decidessi ad accettarlo.
Alzò le spalle con indifferenza, «Ce l’ho in pugno ormai, è questione di tempo. Comunque alla tua domanda rispondo: no, non ho paura. Io sono fatto così ed è meglio che si innamori di come sono, piuttosto che di un’illusione. Sei d’accordo?».
Sbattei le palpebre con sorpresa. Non mi aspettavo di certo che un ragazzo giovane come lui potesse essere tanto saggio e intelligente. Certo, le sue trovate e il suo comportamento lasciavano intendere altro, sinceramente, ma alla fine annuii, dandogli pienamente ragione.
«Ora vado, voglio proprio vedere come Kidd convince Law a mangiare. Io ho sempre fallito e non ti dico gli infarti che ho rischiato quando lo vedevo svenire per la stanchezza! Ci vediamo dopo e sii puntuale!».
«Si, contaci» risposi, salutandolo con la mano e guardandolo uscire dalla mia stanza. Di lì a poco sarebbero arrivati gli infermieri con il pasto serale che tanto detestavo e poi li avrei rivisti. Solo un paio d’ore mi separavano dalla loro compagnia e ciò mi lasciò addosso un senso di tristezza infinito. In poche parole, da quando mi avevano fatto entrare in quel gruppo, che all’inizio credevo una sciocchezza, avevano completamente stravolto le mie giornate in modo positivo. Se prima la depressione mi assaliva dal mattino alla sera, costantemente, in quelle ultime settimane mi ero sentito molto meglio, soprattutto non ero più da solo e avevo meno tempo libero da passare ripensando alla disgrazia che mi era capitata. I problemi non erano scomparsi, ovviamente, ma avevo notato che sembravano meno difficili da superare e il fatto che Penguin riuscisse a comunicare, a sentire Ace mi dava un grande sollievo. Almeno avevo la certezza che era ancora con noi, anche se dormiva.
A proposito di lui, non lo vedevo da una settimana. Dopo che Pen-chan mi aveva chiesto di lasciarlo in pace non avevo più avuto il coraggio di tornare da lui come avevo fatto ogni giorni da otto mesi a quella parte. Temevo di farlo stare ancora peggio e, se per aiutarlo era meglio che me ne stessi in disparte, allora l’avrei fatto, nonostante ciò mi risultasse difficile e dannatamente doloroso.
Era il mio migliore amico, mio fratello ed ero abituato a passare ogni ora di ogni giorno con lui alle calcagna. Quando, all’orfanotrofio, gli dicevo che ne avevo abbastanza della sua compagnia non era mai vero e, puntualmente, si faceva ancora più vicino per irritarmi, anche se alla fine scoppiavamo a ridere spensierati. Mi mancavano quei momenti, mi mancava tutto di lui. Mi mancavano le nottate con i nostri fratelli, mi mancava bisticciare con lui, mi mancava abbracciarlo e, anche se era successo solo una volta, anche se non avevo avuto modo di godermi il momento, mi mancavano le sue labbra. Ma dovevo rassegnarmi ad aspettare, Penguin aveva ragione. Non mi rimaneva altro da fare.
Dopo cena mi infilai i primi abiti che trovai: una felpa pesante e un paio di scarpe da ginnastica piuttosto usurate, ma andavano benissimo per passare una serata sul tetto. Non sapevo se avevamo il permesso per farlo, ma a nostro vantaggio avevamo l’età giusta: eravamo tutti maggiorenni e se consideravamo che io ero il più grande, praticamente un adulto, la situazione non era poi così pericolosa.
Dovevamo trovarci tutti all’ultimo piano, il tredicesimo, perciò fu più forte di me schiacciare il bottone per i decimo piano, quello in cui si trovava Ace, per fermarmi a salutarlo. Non avevo dimenticato che lui amava i fuochi d’artificio e andarli a vedere senza di lui non sarebbe mai stata la stessa cosa, ma ero conscio del fatto che non potesse alzarsi, perciò pensai che passare dalle sue parti e scostargli le tende affinché potesse in qualche modo vederli mi sembrava un gesto carino.
Non bussai prima di entrare, non lo facevo nemmeno quando vivevamo sotto lo stesso tetto, ritrovandomi spesso davanti a scene comiche o imbarazzanti. Quei pensieri mi aiutarono a sorridere e con pochi passi raggiunsi il suo letto, ingoiando il groppo di tristezza che sentivo in gola ogni volta che la speranza di trovarlo sveglio si spezzava. E in otto mesi era successo infinite volte, ma non ci avevo ancora fatto l’abitudine.
«Ace?» sussurrai a bassa voce, non sapendo bene se fosse sveglio o se stesse proprio dormendo. Quel discorso per me era ancora un po’ complicato, ma se stava riposando non volevo disturbarlo, perciò mi limitai a bisbigliare, restandomene a debita distanza e non andando oltre come al solito. Sapere che l’avevo ferito più di quanto non avessi già fatto quando l’avevo rifiutato mi aveva fatto sentire un completo bastardo insensibile, nonché immeritevole di stargli accanto e fargli compagnia, ma non avevo intenzione di ritirarmi del tutto, assolutamente. Avevo capito che praticamente chiunque pensava che i miei sentimenti fossero dovuti dal senso di colpa e dalla voglia di scusarmi e farmi perdonare da lui, ma si sbagliavano, davvero. Se solo avessero saputo cosa provavo per lui; se solo avessi potuto dimostrarglielo.
Aspetta!
Un’idea mi balenò in mente e, una volta afferrato il cellulare, mandai un messaggio veloce a Penguin, spiegandogli il piano e chiedendogli gentilmente di avvisare anche gli altri e sentire il parere di Kidd, il quale si era autoproclamato capo indiscusso, nonostante io preferissi seguire i consigli di Law. Lo trovavo più maturo e meno sprovveduto.
La risposta positiva che ottenni mi fece tornare il buonumore e, nell’attesa, mi misi all’opera, staccando i ganci che collegavano il letto di Ace al muro e coprendolo con alcune coperte che trovai infondo all’armadio. Se dovevo portarlo fuori all’aperto era meglio arrangiarsi in modo che non prendesse troppo freddo.
«Spero tu sia sveglio» iniziai a dire con un tono un po’ più alto, «Stiamo per uscire. Ti portiamo a vedere una bella cosa. Ti piacerà, vedrai». Ormai parlare con lui non mi sembrava più strano. All’inizio forse mi metteva un po’ a disagio, ma col tempo avevo imparato ad essere speranzoso e a credere che mi capisse. Penguin ne era stata la conferma e da allora, ogni volta che mi rivolgevo a lui, mi sentivo bene.
«Eccoci! Hai avuto un’idea magnifica, Marco! Oh? Davvero? Perché non gli hai detto dove andiamo?». Vedere quel ragazzino con quel buffo cappello parlare con un paziente in coma sarebbe sembrato da pazzi a chiunque, ma ero sempre più convinto che lui, grazie alla sua semplicità e alla spensieratezza con cui vedeva il mondo, riuscisse a percepire cose che a me potevano solo sembrare impossibili. Infatti doveva aver appena parlato con Ace perché intervallava frasi a momenti di silenzio.
«Vorrei che fosse una sorpresa» spiegai, chiedendo poi anche agli altri di non dire nulla e ringraziandoli quando mi assicurarono che avrebbero mantenuto il segreto, sghignazzando e aiutandomi a spostare il letto che, grazie al cielo, era mobile in caso ci fossero state complicazioni e si fosse presentato il bisogno di spostarlo il prima possibile in sala operatoria.
Killer ci precedette in modo da controllare che non ci fosse nessuno in giro. Quell’ala dell’ospedale, dove risiedevano i pazienti in osservazione o in coma, come lo era appunto Ace, era sempre poco controllata essendo provvista di allarmi collegati alla guardiola, così non fu un problema raggiungere uno degli ascensori adibiti per ospitare una barella o un letto. Penguin apriva la strada, seguito dall’altro ragazzo in sedia a rotelle che ormai si muoveva abbastanza velocemente anche con un solo braccio, mentre Law si era accomodato a gambe incrociate sul materasso accanto a Ace e controllava che quest’ultimo non cadesse. Kidd e io, invece, spingevamo il pacco completo essendo i più robusti.
«Eustass-ya, attento al cuore» lo beccò ad un certo punto il moro, ghignando apertamente e scambiando con me un’occhiata complice alla ricerca del mio supporto. Non volendo incappare nelle ire del rosso, però, mi limitai solo a sorridere mestamente, così che solo lui riuscisse a vedermi.
«Il tredicesimo piano è abbastanza alto per buttarti giù o sei immortale come il Diavolo?» ribatté l’altro acidamente proprio quando ci infilavamo nell’ascensore.
A parte qualche incidente di percorso, raggiungemmo il tetto senza dover essere costretti a tornare indietro. Spostare un paziente senza permesso non era possibile, ma Ace era rimasto in quella stanza troppo a lungo. Un’uscita all’aperto se la meritava e non me lo sarei mai perdonato se avessi avuto l’occasione di vedere i fuochi d’artificio da solo, sapendolo chiuso dentro all’ospedale.
«Qui è perfetto! Dovrebbero iniziare tra poco». Come Penguin fosse venuto a conoscenza di quello spettacolo pirotecnico ancora non mi era chiaro, ma l’importante era essere riusciti ad arrivare in tempo, così sistemammo il letto in modo che fosse rivolto verso il giardino che confinava con l’ospedale, sistemandoci poi accanto ad esso e formando un semicerchio.
Killer e Penguin erano già comodi sulle loro carrozzine, mentre io mi sedetti sul bordo del lettino, sistemando i cuscini di Ace e sollevandogli la schiena aiutato da Law, il quale poi rimase in piedi a fissare il panorama davanti a lui. Dato che avevo avuto modo di conoscerli meglio e di farmi un’idea sul loro carattere, non mi stupii quando vidi Kidd accostarsi a lui per iniziare a battibeccare l’istante dopo. Non sarebbe stato educato dirglielo, ma dovetti almeno ammettere che mi divertiva molto vederli bisticciare.
«Ragazzi, finché aspettiamo che ne dite di raccontarmi qualcosa sulla vostra vita? A parte Law e le informazioni di base che abbiamo letto sulle vostre cartelle cliniche, io non so molto altro su di voi».
«Cos’è che hai fatto?».
«Non ti agitare, Killer-ya, Penguin non è uno stalker a discapito di quello che puoi pensare» sghignazzò Law, appoggiandosi al parapetto in ferro e regalando a tutti noi un’espressione piuttosto inquietante, come se ci stesse immaginando tutti morti.
Kidd grugnì qualcosa di indistinto, mentre io mi stringevo nelle spalle, assicurando loro che per me non c’era problema parlare del mio passato. L’avevo sempre trovato rilassante, anche se preferivo ascoltare e non essere al centro dell’attenzione.
«Bene! Allora uno alla volta diremo qualcosa che ci riguarda» decise il ragazzino entusiasta, facendo un giro su di sé con la carrozzina che sembrava ormai un’estensione del suo corpo. «Comincia tu Kira-chan». I cuoricini sui suoi occhi me li immaginai solo io?
«Non mi va molto» ammise quello, imbronciandosi.
«Avanti, non essere timido!».
«Killer, accontentalo o giuro che lo faccio volare giù dal tetto» lo ammonì Eustass.
«E va bene!» sbuffò allora il biondo, «Mi piacciono le moto».
Seguì una discussione sul fatto che non aveva detto niente di nuovo e che tutti si aspettavano qualcosa di più personale e difficilmente intuibile, ma alla fine si accordarono che quando sarebbe toccato di nuovo il suo turno avrebbero scelto loro una domanda da porgli. Inutile dire che in poco tempo il gioco si trasformò in un vero e proprio bagno di sangue, o meglio, di imbarazzo e frecciatine maliziose. Nonostante tutto, però, mi ritrovai più volte piegato in due dalle risate.
«Mi rifiuto di crederci!» stava dicendo Kidd, scuotendo il capo e coprendosi il viso con le mani.
«E’ successo sul serio, invece! Sono rimasto scandalizzato. All’epoca avevo circa dieci anni e ritrovarmi bloccato in ascensore con una donna incinta alla quale si erano pure rotte le acque mi ha profondamente segnato! Da quel momento ho avuto la conferma che le femmine fanno schifo» affermò sicuro Penguin, facendomi ricominciare a ridere, soprattutto dopo aver visto le facce allibite di Killer e Kidd.
«Basta, non voglio sapere altro. Marco, tocca a te».
«Certo, chiedete pure» feci allegramente.
Law fu sul punto di chiedermi qualcosa, ma Penguin lo interruppe l’attimo prima che iniziasse a parlare, facendoli segno di aspettare e fissando un punto indefinito sopra la sua testa mentre aspettava. Stava di nuovo parlando con Ace e il sorrisetto perturbante che comparve sul suo volto non mi piacque per niente.
«Qualcuno vuole sapere perché…» iniziò a dire, facendomi salire la pressione, ma uno scoppio improvviso sopra le nostre teste lo fece distrarre dal suo intento e tutti ci voltammo a guardare il cielo dove una miriade di fuochi esplodevano colorati uno dietro l’altro. Sorrisi inconsciamente: Ace di certo non se lo aspettava.
«Quello era una bomba!» gridò Kidd, sporgendosi dal parapetto e ammirando una grande cascata di scintille rosse.
«Moccioso» lo prese in giro Law, ma sul suo viso non c’era traccia della solita sufficienza che usava per commentare ogni cosa che riteneva insulsa.
«Guarda che cosa mi tocca: cucirmi la pelle poi la bocca .Con gli occhi da grande, più grandi di me. Vinciamo ai rigori io e te».
Killer sondò con sguardo interrogativo Penguin, il quale, accortosi del suo interesse, gli sorrise felice, afferrandogli la mano libera e sollevandola in aria, come se avessero appena vinto una partita, rimettendosi a cantare.
«Io non ho finito, perché ho sete ancora. Io non ho finito, fuori è primavera. Io non ho finito, non ti lascio ora. Io non ho finito!».
«E’ da manicomio, te lo dico io» borbottò Kidd, scambiandosi un’occhiata col suo vicino che, scuotendo il capo, si lasciò scappare una risata cristallina che stupì pienamente il rosso che gli stava affianco, ma che alla fine si unì a lui.
Quella era proprio una serata fuori dal comune. Eravamo su un tetto di un ospedale a guardare fuochi d’artificio esibiti per qualche sconosciuta ragione; due ragazzi, un sensitivo senza una gamba e un motociclista mancato, che stavano improvvisando un concerto, Killer canticchiava sommessamente nell’intento di imparare le parole; un fan del rock con i capelli di fuoco e un anoressico. Per non parlare del ragazzo in coma e di me, con un trauma cranico ancora sotto osservazione. Eravamo tutti completamente diversi l’uno dall’altro, con problemi e storie differenti, ma in quel momento mi sembrò di conoscerli da una vita. Eravamo così rilassati, come se tutte le preoccupazioni se ne fossero andate e, solo per un unico e mero istante, mi sembrò di vedere Ace sorridere, ma bastò a ridarmi la speranza e a scaldarmi l’anima.
«Ehi, Marco, Ace mi sta stressando da mezz’ora. Gli ho detto di aspettare perché mi sto godendo il mio momento con Kira-chan, ma non lo capisce». Puntualmente, Killer sciolse il contatto, fulminando con lo sguardo il suo amico Eustass che si era messo a ridacchiare per la scena. «Quindi te lo dico: ti ringrazia davvero tanto e… aspetta, questa non l’ho capita bene, ma pazienza, é contento come se fosse capodanno. Ha detto che tu avresti capito». Poi tornò a cantare la sua canzoncina, riacciuffando il braccio di Killer e iniziando a muoverlo a tempo sotto gli occhi umidi per le risate degli altri due.
Incapace di dire altro mi voltai verso Ace, provando l’istinto di abbracciarlo forte. Proprio come facevo l’ultimo dell’anno, quando, sparando fuochi d’artificio in cielo nel giardino dietro casa, festeggiavamo il suo compleanno. In quei momento ero sempre il primo a corrergli incontro e a farlo rotolare a terra, augurandogli i miei migliori auguri. Ogni volta che ciò succedeva, mi sussurrava all’orecchio un grazie un po’ impacciato, aggiungendo anche non vedeva l’ora di compiere di nuovo gli anni perché quello, per lui, era il momento in cui era più felice.
«Sono felice anche io, Ace».
«Anche con la gioia di sapere che dovunque ce ne andremo non ci lasceremo mai. Io non ho finito».
 
*
 
«Eustass-ya, piantala di ridere!».
«Smettila tu, piuttosto! Sveglierai l’intero ospedale».
«Oh, andiamo, daranno la colpa a quelli di psichiatria, non c’è da preoccuparsi». Liquidò la faccenda come se niente fosse con un cenno della mano e con un sorriso sornione sulle labbra.
«A volte mi chiedo come mai tu non sia con loro a fargli compagnia» dissi con sincerità, scuotendo il capo e raggiungendo assieme a lui la fine del corridoio dove c’era la sua stanza.
Avevamo aiutato Marco a riportare il letto di Ace e il suo legittimo paziente dove doveva stare, ovvero al decimo piano e ci eravamo fermati nella sua stanza per una buona mezz’ora a chiacchierare e a sfottere i medici di guardia che non avevano notato l’assenza del ventenne. La prossima volta lo avremo portato a fare una passeggiata in giardino, visto che problemi non ce n’erano stati. Poi avevamo salutato i due ragazzi, lasciando a Marco il tempo di salutare suo fratello, o fidanzato, o quello che era e avevamo preso l’ascensore con Penguin e Kira-chan, come avevo preso a chiamarlo per prenderlo in giro e infastidirlo. Sul serio, vederlo nelle grinfie della piccola peste mi aveva letteralmente fatto morire dal ridere, soprattutto perché Trafalgar non aveva smesso un attimo di fare battutine e commenti decisamente poco gentili, ma comunque divertenti, quindi la cosa era stata doppiamente comica. Quando poi era scoppiato a ridere pure lui quando gli avevo detto che secondo me il piccoletto doveva stare in manicomio, ero rimasto completamente di stucco. Insomma, non ero affatto preparato all’evenienza che anche quello stronzo potesse ridere. E quanto poi! Mi era sembrato così assurdo che alla fine avevo finito per sotterrare, momentaneamente, l’ascia di guerra e mi ero unito a lui. Una tregua poteva starci ogni tanto, no?
Avevamo appena salutato Penguin e augurato la buonanotte a Killer, quando, rimasti soli, Trafalgar ebbe la brillate idea di chiedermi se fossi stanco o meno. Per non risultare troppo rammollito gli avevo detto che me ne sarei tornato in camera a pianificare il suo omicidio perché non c’era nessuno più sveglio di me in quel momento. A giudicare dalla sua faccia non l’avevo convinto nemmeno un po’, ma non aveva obbiettato e mi aveva invece proposto di accompagnarlo e fargli compagnia nel frattempo. Avevo chiarito subito che non mi andava proprio di sopportare la sua fastidiosa presenza anche la notte, come se il giorno non bastasse!, ma non mi aveva ascoltato, dandomi le spalle e sbuffando, chiedendomi con tono fintamente cortese di smetterla di comportarmi come un moccioso.
Ingoiando improperi e insulti che non mi ero messo a urlargli dietro per non rischiare di attirare l’attenzione, gli ero andato dietro, le braccia incrociate dietro la testa e l’aria annoiata. Quell’idiota era davvero insopportabile e se c’era qualcuno che avrei voluto ammazzare più dell’invalido in sedia a rotelle, quello era lui. Era esattamente al primo posto della mia lista nera che riportava solo il suo nome e una serie di torture che mi sarebbe piaciuto provare. Ovviamente, dopo avergli fatto capire in tutti i modi e sensi possibili chi comandava.
«Siamo arrivati» dichiarò pacato, appoggiandosi alla porta chiusa e nascondendo le mani dietro alla schiena, rivolgendomi un’occhiata di sottecchi. Restammo a fissarci per un po’, studiandoci a vicenda, ognuno perso nei propri pensieri. Non conoscevo i suoi, e nemmeno mi interessava, ma per quanto riguardava i miei, mi stavo chiedendo come sarebbe stato togliermi la soddisfazione di vederlo abbassare la guardia.
«A cosa pensi?» mi chiese a bruciapelo, cogliendomi alla sprovvista.
Che cazzo, non dirmi che anche lui può leggere nella mente come l’altro matto!
Ad ogni modo fui sincero. Le cose che pensavo ero abituato a dirle in faccia senza farmi troppi problemi. «Penso che mi piacerebbe fotterti fino a farti svenire». Mi stupii persino io delle mie parole anche troppo veritiere, ma ciò che mi sorprese di più fu la sua reazione.
«Che tenero, vorresti portarmi a letto» cantilenò nel tentativo di mettermi in imbarazzo.
«Ho detto che mi piacerebbe, non che vorrei» chiarii. Se fosse stato come diceva lui avrebbe voluto dire che lo volevo, insomma, che lo desideravo. Invece no, il mio era solo un pensiero come un altro. Se mi toglievo uno sfizio bene, altrimenti chi se ne importava.
«E cosa ti impedisce di farlo, Eustass-ya?» domandò ghignando.
Inarcai un sopracciglio, «Me lo lasceresti fare?».
Sorrise, «Certo che no, razza di idiota».
Alzai gli occhi al cielo, pronto per ribattere, ma mi precedette, concludendo il suo discorso. «Ma potresti sempre provarci e vedere come va».
Lo guardai sorpreso, rendendomi conto che riusciva sempre a girare la situazione a suo vantaggio. Secondo lui dovevo essere io a provare, a fare il primo passo, magari beccandomi una ginocchiata sulle palle come rifiuto. Che stronzo.
Imprecando sottovoce gli diedi le spalle, lasciandolo con le sue convinzioni e le sue macchinazioni. Non gli avrei dato la soddisfazione di avere un altro motivo per punzecchiarmi e prendersi gioco di me, ne aveva già troppi, a cominciare dalla condizione del mio cuore e del mio stato di salute. Ignorai anche la strana e sconosciuta sensazione che sentivo di provare all’altezza del petto, probabilmente un’altra fitta dovuta alla stanchezza. Dover stare continuamente attento a come mi muovevo per non stancarmi o affaticarmi troppo era uno schifo; mi aveva fatto diventare cauto quando una volta nulla mi spaventava.
A quel pensiero mi fermai in mezzo al corridoio, paragonando inevitabilmente la mia paura di schiattare con quella di Trafalgar per il cibo. Per farlo mangiare mi toccava minacciarlo o dargli del debole. Quello lo motivava e si metteva a spazzolare buona parte del suo pranzo o cena che fosse. Tra noi era in corso una sfida all’ultimo respiro e, se fossi stato furbo, l’avrei lasciato al suo destino, aspettando che la Morte se lo venisse a prendere nel sonno, dato che, con quelle quattro ossa che si ritrovava, non sarebbe passato molto prima che schiattasse, ma la verità era che non mi andava di restare a lottare da solo. Se lui moriva con chi mi sarei confrontato poi? Soprattutto, chi mi avrebbe infastidito a tal punto da spronarmi ad andare avanti e a non mollare? Quella nostra scommessa avrebbe stabilito chi dei due era il migliore, perciò non mi sarei mai ritirato e, se non lo facevo io, non l’avrebbe fatto nemmeno lui.
Mi voltai a controllare se fosse ancora fuori dalla stanza e notai che non si era mosso di un millimetro, solo aveva appoggiato la testa alla porta, chiuso gli occhi e sembrava stare canticchiando quella stupida canzone. La luce tenue dei lampioni all’esterno filtrava dalle finestre, evidenziando il suo profilo mingherlino e i vestiti un po’ larghi, come quei pantaloni della tuta che, puntualmente, gli ricadevano sui fianchi, facendomi venire voglia di sfiorarglieli durante orari improponibili della giornata. Da un po’, però, quell’evento aveva preso a ridursi. Che stesse mettendo su qualche kilo, finalmente?
In silenzio tornai indietro, affiancandolo e, probabilmente, si accorse di me solo quando gli afferrai delicatamente il mento tra le dita, alzandoglielo verso l’alto, verso il mio. Non mi sarei controllato tanto se non avessi temuto di fargli male. Da quando poi mi preoccupassi della salute degli altri era un mistero, ma non avevo dimenticato come mi aveva aiutato a superare quell’attacco di non so cosa che mi aveva messo in ginocchio sulle scale circa un mese prima. Mi sembrava giusto ricambiare.
I nostri occhi si incontrarono e fremettero per un istante e l’attimo dopo le mie labbra erano sulle sue e si muovevano calde e impazienti.
Con una braccio mi appoggiai allo stipite della porta, facendo aderire i nostri corpi e lasciando vagare l’altra mano seguendo il profilo dl viso piccolo e regolare, finendo tra i suoi capelli e scompigliandoli leggermente. Dopo un attimo di stupore smise di opporre resistenza, una misera resistenza per la precisione, e mi permise di baciarlo più a fondo, lasciandosi andare con un sospiro e passandomi le braccia attorno alle spalle, avvicinandomi ancora di più. Diamine!, quello si che era un bacio decente.
Lo baciai a lungo, trattenendolo a me mentre il contatto si trasformava via, via in una specie di lotta senza esclusione di morsi che non avevo intenzione di perdere.
«Dimmi: un po’ di voglia di baciarmi ce l’avevi» mormorò, staccandosi da me per rivolgermi uno di quei suoi ghigni altezzosi, riprendendo anche fiato.
Ridacchiai mestamente, mantenendo salda la presa su di lui, «E tu non vedevi l’ora che lo facessi».
«Uh? Cosa te lo fa pensare?».
«Questo». E lo baciai di nuovo, spostando l’attenzione dai suoi capelli a quei fianchi che da tanto avevo adocchiato, stringendo impercettibilmente le dita attorno ad essi e godendomi la sua reazione. Anche se non l’avrei mai ammesso ad anima viva e nemmeno sotto tortura, sbattere quel bastardo di Trafalgar contro il muro per poi azzannargli le labbra, la gola, il collo o qualsiasi altro lembo di pelle e sentirlo trattenere inutilmente il piacere che ciò gli provocava mi mandava fuori di testa.
In quel momento no che non avevo sonno, affatto.
«Eustass-ya, fa piano» disse ad un tratto, spostando il viso per riuscire a parlare e nascondendolo comodamente sul mio petto, come in un abbraccio.
Mi accigliai e per un secondo mi sentii, come dire, preoccupato? «Perché?».
Fece un respiro profondo prima di rispondere, come se fosse stato indeciso, stringendomi ulteriormente e accomodandosi addosso a me. «Mi stavi schiacciando».
Non ne capii il motivo, non mi fermai nemmeno troppo a riflettere, sicuro che mi sarei posto mille domande alle quelli sarebbe stato difficile rispondere, ma mi ritrovai a rispondere al gesto con disinvoltura, dimenticandomi del bacio e di tutto quello che stavamo provando un attimo prima. Come se quel contatto fosse migliore, il che aveva dell’incredibile, cos’era un abbraccio in confronto a una sana scopata?
«Scusa» sussurrai oltretutto, appoggiando il mento sulla sua testa e mordendomi le labbra. Quello non ero io, decisamente e sperai vivamente che il calore che sentivo irradiarsi nelle guance fosse dovuto al caldo o a qualsiasi altra reazione del mio corpo, perché no, non poteva essere imbarazzo o, peggio, rossore.
«Oh, come siamo dolci».
«Smettila di sniffarmi il collo, sei fastidioso».
«Eustass-ya?».
«Che c’è ora?».
«Dormi con me?».
Mi scostai quel tanto che bastò per guardarlo negli occhi nell’intento di capire se stesse scherzando o se fosse veramente convinto di quello che aveva appena detto. L’espressione seria che mi rivolse mi lasciò completamente disarmato, tanto che tentennai parecchio prima di sciogliere l’abbraccio e lasciare che mi guidasse nella sua stanza. Non accese le luci, non ce n’era bisogno, e mi scortò sicuro in mezzo al casino che regnava e davanti al quale mi trovavo ogni giorno quando andavo da lui per vendicarmi delle sue frecciatine assicurandomi che mangiasse. Raggiungemmo il letto senza molti intoppi, togliendoci poi le scarpe e infilandoci sotto le coperte. O meglio, io non ebbi problemi a restare con i miei vestiti, ma Trafalgar dovette indossare il pigiama, dandomi le spalle, ma non potendo comunque nascondere la sua figura magra. Troppo magra e maledettamente fragile. Non faceva impressione, non era brutto da vedere, solo mi fece sentire in qualche modo ansioso. Sulla schiena si poteva notare benissimo la curva della spina dorsale e, nonostante la sua anoressia non fosse poi tanto accentuata, vedere come la pelle aderiva allo scheletro mi fece comunque rabbrividire. Doveva mangiare, quel bastardo doveva assolutamente prendere peso e se fosse stato necessario gli avrei ficcato io stesso il cibo in gola. Insomma, come poteva pretendere che me lo scopassi con tutte quelle ossa senza un filo di carne? Poi indossò il pigiama e mi raggiunse a letto in silenzio e col capo chino. Forse anche un po’ a disagio e in imbarazzo per essersi lasciato guardare nonostante la scarsa luce.
Tutto ciò aveva un che di innaturale, completamente, e mi stavo sentendo un vero idiota, in tutto e per tutto, ma ero come bloccato. Per qualche arcana ragione non riuscivo a decidermi ad alzarmi e andarmene. A lui cosa importava se restavo o no? Cosa cambiava? Potevo filarmela, sapevo che non me l’avrebbe impedito, ma mi chiesi se effettivamente fosse quello ciò che volevo.
«Non sei costretto a restare» mormorò piano, sprofondando la testa nel cuscino e tirando le lenzuola fino a coprirsi il naso, lasciando fuori solo gli occhi chiari e attenti.
Mi strinsi nelle spalle, voltandomi su un fianco per fronteggiarlo, «No, va bene così» dissi solamente. E, per una volta, sentivo davvero che andava bene.
«Non dovevi sbattermi al muro?» chiese gongolando.
«Potrei ucciderti nel sonno» lo minacciai, assottigliando lo sguardo. Inutile dire che infranse le mie barriere come accadeva ogni giorno.
«Certo, certo» sussurrò, sbadigliando assonnato e avvicinandosi fino a poggiare il capo sul mio petto, rimanendo lì, immobile e raggomitolato come un bambino, incurante della rigidità che avevo assunto davanti a quella sua disinvoltura. Decisamente non mi riconoscevo più, tanto che mi chiesi se non fossi anche io destinato al manicomio come tutti la dentro.
«Buonanotte Eustass-ya» sussurrò ormai già mezzo addormentato.
Assurdo. Non ci credo, qualcuno mi uccida adesso. Non sono davvero nello stesso letto di questo impiastro. Sparatemi prima che lo soffochi col cuscino.
«’Notte» grugnii, rilassandomi e circondandogli la vita con un braccio con fare un po’ impacciato.
Faceva freddo ed ero stanco, solo per quello. Lo stavo facendo solo per quello. E per potermi sbarazzare di lui indisturbato.
Solo perché lo vuoi uccidere Kidd, mi ripetei, solo per questo.
 
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Oh, salve gente, mi scuso per non aver aggiornato ieri sera, ma erano le undici e ancora non l’avevo riletto, quindi ho voluto evitare per presentarvi un lavoro pieno di errori e cavolate, quindi arriva oggi e facciamo che in futuro, se dovessi ritardare ancora, vorrà dire che la storia sarà pubblicata o il lunedì sera, o il martedì ^^
Anche qua non riesco a non mettere le canzoni, ma stavolta ce ne sarà solo una per tutta la storia. E, visto che la fic si rifà leggermente al film Braccialetti Rossi, vi propongo la colonna sonora per la quale sono morta. Si, insomma, le canzoni in lingua inglese hanno sempre tutto un altro effetto, ma questa mi è piaciuta molto anche per il testo non insulso, a detta mia. Poi dipende dai punti di vista, ovvio, e potete sempre evitare di ascoltarla ^^
Allora, oggi abbiamo un Law incapace di dire di no e golosone, visto che mangia solo dolci ultimamente, ma a quello ci arriverò nel prossimo capitolo, LOL :D Killer che sputa il caffè dovevo metterlo. Cioè, immaginatelo con la maschera: la bevanda sarebbe uscita da tutti i forellini come tante fontanelle. Sto rotolando, ma ora basta. Sul serio, BASTA.
E si, mio caro Trafalgar, pensa quello che vuoi, ma io SO che hai artigliato la maglia di Kidd solo per levargliela, ammettilo.
E poi arriva Marco. Ora, questa povera anima, è presa di mira dal mondo intero. Ma i mi chiedo: perché ce l’avete con lui? Perché? Insomma, anche io adoro Ace, anche io faccio il tifo per lui e anche io sto morendo per la condizione in cui si trova, ma non accanitevi così tanto sul povero pennuto. Da notare che anche lui ci sta male e sta aspettando da OTTO FOTTUTI MESI che Ace si risvegli, abbiate un po’ di cuore anche per lui. Tra parentesi oggi dice anche che quello che prova per suo fratello non è dovuto ai sensi di colpa, quindi iniziate ad apprezzare i suoi sforzi, povero Cristo. E poi, vogliamo parlare del gesto che fa per lui? Lo porta a vedere i suoi amati fuochi d’artificio! Ma- ma, tesoro! Si, il letto ha le ruote incorporate, si esistono cose del genere, guardate Grey’s Anatomy, non sto scherzando. Mi documento sulla maggior parte delle cose per non essere incoerente u.u
E chissà cosa stava per chiedergli Penguin su richiesta di Ace, mah!
E Ace che è felice a capodanno quando gli fa gli auguri e lo abbraccia, sto dicendo la frase con le lacrime e i coriandoli che mi escono dalle orecchie, è tutto troppo cdhyuwvify **
Mica si vede che come personaggio Marco mi piace tanto, eh? ^^
Anyway, andiamo avanti.
Oh, ciao Kidd.
Adesso, io lo so che non spettate altro che questi due si rinchiudano in una stanza e facciano le loro cose e inizialmente ero partita con quell’idea, ma alla fine non ce l’ho fatta. Insomma, Trafalgar, per quanto forte possa sembrare, è malato. Come Eustass, del resto. Quindi, metterli li, in una stanza, con un letto e loro due da soli mi sembrava primo: scontato, secondo: forzato e terzo: banale. Potrei sbagliarmi, ma personalmente ho preferito descrivere le sensazioni di Kidd alla vista dell’anoressia di Law (anche perché così ho avuto la folgorazione per quando concluderanno le loro faccende arrivando al punto, if you know what I mean). Che poi, spero di averla resa bene, non sono molto ferrata in materia, quello che scrivo cerco di renderlo nel miglior modo possibile.
Altra cosa: l’IC. Ora, conoscendoli, si, sarebbe stato da loro passare una nottata di sesso, ma dopo? Cosa sarebbe successo? Insomma, sarebbe stata sempre la solita trama, ecco. A mio avviso, in questo modo, Kidd si è trovato a cimentarsi un po’ con l’imbarazzo, infatti era impacciato e incredulo; mentre Law si presenta a lui com’è realmente: disarmato. E fragile, aggiungerei. Il fatto che gli abbia chiesto di dormire con lui, poi, ha ammazzato persino me. E’ dolce, è normale volere qualcuno affianco quando si è stanchi, perché Law tra le righe lo dice anche: ’Mi stavi schiacciando’. Non è così forte come sembra, ripeto che è pur sempre malato.
Fatemi comunque sapere, ci tengo a tenere i personaggi in linea col loro vero carattere.
Sarò noiosa e ripetitiva, ma preferisco precisare le cose anche per chiarire qualsiasi vostro dubbio, spero di agire nel modo giusto.
Insomma, in conclusione, Kidd è imbarazzato e io stra adoro immaginarlo con una smorfia in faccia e il rossore sulle guance, indeciso su come agire e impacciato. Ma caro, Eustass-ya che non sa che fare :D e Law che in un attimo di stupidità chiede al suo nemico di condividere il letto. Pazzo, sono tutti da manicomio, ma non pensiate che non si sia sentito in qualche modo a disagio. Poveri, poveri, poveri ragazzi!
Ultima cosa: in questa fic tratto tematiche abbastanza delicate, come l’anoressia, i problemi di cuore, l’invalidità, coma e incidenti di vario genere. E’ un bel groppo da mandare giù, ma sto cercando di renderlo leggero e non troppo pesante e opprimente, in questo Penguin aiuta tanto, comprese le scene ilari tra Killer, Kidd e Law, spero. Quello che voglio dire è che non voglio in alcun modo offendere nessuno, anzi, cerco invece di far capire che con gi amici, con qualcuno accanto, è più facile superare gli ostacoli. Se Kidd qualche volta offende l’invalidità di Penguin è perché fa parte del suo carattere, ma in nessun modo penso che chi sta in una sedia a rotelle meriti di venire criticato o beffeggiato, assolutamente. E non voglio giudicare nemmeno chi ha problemi peggiori.
Giusto per essere chiari ^^
Perdonate gli errori di formattazione del testo. Grazie come sempre a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. ***


Mentre la marea saliva, l’Olandese dei Tulipani fronteggiò l’oceano: “Unisce, ricongiunge, avvelena, occulta, rivela. Guarda mentre sale, ridiscende, porta con sé ogni cosa.”

“Che cos’è?” domandò Anna.

“L’acqua” disse l’Olandese dei Tulipani. “Bé, e il tempo.”

-Peter Van Houten, Un’imperiale afflizione.

 

Capitolo 5.

 

(Il mattino seguente).

«Eustass-ya?».
«Che c’è ora?».
«Dormi con me?».
Mi ero morso la lingua non appena quelle parole avevano abbandonato la mia bocca, pentendomene subito dopo. Cosa diavolo mi era saltato in mente?
Che razza di idea malsana e stupida quella di chiedergli di dormire. Sarebbe stato meno strano e imbarazzante se gli avessi chiesto di scopare, ne ero certo. Il punto era che l’avrei fatto, davvero, senza troppi problemi e peli sulla lingua, ma il fatto era che mi sentivo così stanco in quel momento e le sue braccia mi erano sembrate tanto, insomma, non avevo fatto altro che chiedermi come sarebbe stato accoccolarsi su di lui e dormire fino al giorno dopo, dimenticando tutto il resto per qualche ora.
Che cosa schifosamente sdolcinata da parte mia, ma ormai non mi stupivo nemmeno più e preferivo fingere e passarci sopra, piuttosto che fermarmi a riflettere, dopotutto era un mese che mi ero ritrovato capace di mettere qualcosa sotto ai denti. Non molto, giusto alcuni bocconi e solo grazie all’intervento di quello svitato. Mi costava davvero molto ammetterlo e ogni volta che scendevo a patti con me stesso era un pugno dritto al mio orgoglio. Stare in quella gabbia di matti a contatto con degli stupidi mi stava rammollendo, sul serio.
Mi ero sentito un po’ strano quando avevo dovuto cambiarmi e infilarmi il pigiama. Non era imbarazzo, non me ne fregava proprio niente se quell’idiota mi guardava il culo, che facesse pure e che rodesse, modestie a parte, semplicemente non mi piaceva mettere in mostra il mio problema, nonostante fosse palese e chiara a tutti la mia anoressia. La gente mi credeva addirittura pazzo e mi guardava con pietà, compassione, dispiacere, persino disgusto, a volte, e ciò mi faceva incazzare. Non avevo visto lo sguardo di Eustass-ya, avevo preferito dargli le spalle e risparmiarmi la delusione di vedere nei suoi occhi le stesse sensazioni di tutti e avevo cercato di fare in fretta per non lasciare troppo allo scoperto le mie ossa, infilandomi poi sotto alle coperte come se non fosse accaduto niente, come se fosse normale dividere il letto con qualcuno il cui cuore avrebbe potuto esplodere da un momento all’altro.
Era tremendamente, come dire, eccitante?
Ma ero troppo stanco, scombussolato e sfinito per pensare anche a quello, inoltre quel rosso irascibile era sembrato sul punto di morire per l’imbarazzo, era stata quindi la scelta migliore darsi una calmata e mettersi a dormire.
Se me l’avessero chiesto, però, avrei negato fino alla morte di essermi sentito bene quando, quella mattina, mi svegliai sepolto sotto a mezzo busto di Eustass e bloccato dal suo braccio che mi teneva la schiena inchiodata al materasso mentre la sua mano affondava sotto al cuscino al lato del mio viso.
Lo sentivo russare piano, profondamente addormentato e tranquillo, aggettivo che mai mi sarei aspettato di poter usare per descrivere un tipo come lui, eppure in quell’attimo di calma appariva proprio in quel modo, anche se il fatto di ritrovarmi intrappolato non mi faceva tanto piacere. Anzi, tutto ciò mi fece venire un’idea piuttosto maligna nei suoi confronti, ma estremamente divertente per me.
Mossi con un po’ di difficoltà un braccio sepolto sotto al suo peso e arrivai a poggiare la mano esattamente sul suo petto, all’altezza del cuore, provando una sensazione strana quando lo sentii battere impercettibilmente sul palmo, attraverso la stoffa della maglia. Era strano pensare che avrebbe potuto fermarsi in qualsiasi momento.
Strinsi le dita e sentii il battito più definito. Dio, avrei dato qualsiasi cosa per poter tenere un cuore tra le mani.
«Eustass-ya?» cantilenai, avvicinandomi al suo viso per farmi sentire.
Per tutta risposta affondò ulteriormente la faccia sul cuscino, nascondendola nell’incavo della mia spalla a facendomi sospirare esasperato, tanto che riprovai, parlando un po’ più forte, non ottenendo ancora risultati soddisfacenti.
«E svegliati idiota!».
Quello si funzionò alla grande e godetti come un bastardo nel sentire il battito cardiaco aumentare all’inverosimile quando Kidd aprì i suoi occhi assonnati, spalancandoli subito dopo per la sorpresa quando incrociò i miei.
Si alzò di colpo, puntellando le braccia ai lati dei miei fianchi per prendere le distanze e trattenendo il respiro, guardandomi come se fossi stato un’allucinazione o un qualcosa di terrificante. Facevo così impressione appena sveglio? Eppure non avevo bisogno di struccarmi come le ragazze.
«Buongiorno Eustass-ya, dormito bene?» ghignai, notando come la sua espressione tornava, a poco a poco, corrucciata e infastidita per il brusco risveglio che gli avevo causato. Era stato più forte di me, davvero.
«Buongiorno un cazzo, Trafalgar!» sbottò nervoso, «Non smetti di rompere i coglioni nemmeno mentre dormi!».
«Disse quello che russa come un treno».
«Che? Non è vero!».
«Si invece».
«Beh, non mi pare che tu ti sia lamentato molto» ribatté piccato. Era peggio di un bambino, a volte.
«Lo sto facendo adesso» gli feci notare con divertimento. Solo lui poteva mettersi a battibeccare alle otto di mattina senza battere ciglio. Certo, anche io non ero da meno e lo assecondavo ben volentieri, ma qualcosa mi diceva che il suo carattere fosse incline al litigio, anche se contro di me speranze di vittoria non ne aveva.
«Stronzo».
«Mi insulti pure?» scherzai. Ma da quando scherzavo? Io lo odiavo sul serio.
«Baciami».
Lo fissai imbambolato e per un secondo il mio sguardo sfuggì al mio controllo e si posò sulle sue labbra, svelando la piega poco casta dei miei pensieri.
Perché no?, mi dissi, ma l’orgoglio fu più forte e mi fece dare una risposta diversa da quella che spiccava nella mia mente. Non volevo essere io ad abbassarmi a tanto e non permettevo a nessuno di dirmi quello che dovevo fare.
«Non darmi ordini» dissi per l’appunto, inclinando il capo e accomodandomi meglio sotto di lui che, per la cronaca, non si era ancora spostato e continuava a tenermi inchiodato al letto.
«Tra poco arriverà qualche idiota a portarti la colazione» mormorò, «Poi non ci saranno altre occasioni».
«Vorrei capire perché ci tieni così tanto» parlai tra me e me, ricordando tutte le volte in quei mesi che avevamo passato a punzecchiarci a vicenda.
Si strinse nelle spalle, sospirando stancamente, come se la consapevolezza di quello che stava per dire gli costasse cara. «Non sappiamo quanto tempo abbiamo ancora. Stando qui ho imparato che non c’è mai niente di certo nella vita».
Fu uno schiaffo in piena faccia, tanto che mi ritrovai senza parole e senza un qualcosa con cui ribattere. Aveva ragione, dopotutto, per quelli come noi le speranze erano sempre un terno alla lotteria e un rischio che pochi si azzardavano a correre. Lui non aveva più avuto attacchi nelle ultime settimana, ma non era certo di essere fuori pericolo; io avevo iniziato a mangiucchiare qualcosa durante i pasti, piccole porzioni s’intende e sempre poco, ma meglio di nulla, ma chi mi dava la sicurezza che avrei continuato a farlo? Era tutto in bilico, tutto in confusione e, come aveva detto, niente di certo.
Feci un respiro profondo e, guardandoci negli occhi, cercammo entrambi di supportarci a vicenda in quel momento così difficile per entrambi. L’accettazione dei propri problemi era sempre la parte peggiore da affrontare.
«Voglio prima specificare una cosa» chiarii ad un tratto, alzando un dito nella sua direzione e vedendolo aggrottare la fronte, incuriosito.
«Spara».
«Siamo scesi a patti entrambi, nessuno ha sopraffatto l’altro. Tutto chiaro?».
Increspò le labbra in un sorriso, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi e un po’ inquietanti se abbinati a quella chioma fulva e indomabile. Lui non aveva di certo bisogno di indossare un costume ad Halloween, faceva già paura di suo.
«Mi sembra un ottimo accordo».
«Mi hai appena dato ragione. Ho vinto di nuovo» evidenziai con altezzosità, puntellandomi sui gomiti e sollevandomi con il busto per avvicinarmi a lui che, con aria fiera e intoccabile come un leone, se ne stava fermo ad osservarmi senza muovere un muscolo, aspettando che fossi io a fare la prima mossa e spingendomi ad eseguire la sua richiesta di poco prima.
«Non hai ancora vinto la guerra, ricordatelo» sibilò acido, ma iniziando a calmarsi sfiorandomi una guancia con la punta del naso.
«Vincerò anche quella» aggiunsi distrattamente, voltando il viso quel tanto che bastava per permettergli di poggiarmi un casto bacio a fior di labbra.
Alla fine era stato un gesto compiuto da entrambi, no?
 
*

 

(All’incirca tre mesi dopo).

‘L’osteosarcoma ha ripreso a crescere. Possiamo tenerlo sotto controllo, ma non le assicuriamo di riuscire a fermarlo e a farlo regredire. Avrebbe dovuto scomparire già mesi fa con la terapia’. Eppure l’osteosarcoma è tuttora altamente curabile, pensai, ricordando le parole dei dottori.
«E il mio domani intero è questo tempo mezzo rotto, ma nonostante tutto… Tutto…».
Ci dispiace molto, faremo del nostro meglio’. Il che equivale a dire che ho i minuti contati, ad ogni modo anche a me dispiace, ovvio, sono il diretto interessato.
«Io non ho finito».
Canticchiare mi aiutava a scacciare i cattivi pensieri e mi permetteva di riuscire a tenere il dolore dentro gli argini del mio essere. A volte temevo di scoppiare, ma poi mi ricordavo che Trafalgar aveva bisogno di non restare da solo per non lasciarsi morire; Marco doveva pur comunicare con Ace in qualche modo; a Kidd serviva un capro espiatorio su cui sfogare la rabbia e a Killer, oh Kira-chan!, necessitava di un esempio per credere in se stesso e ritornare a camminare.
Non avevo tempo di pensare ai miei problemi, c’era chi stava peggio ed era mio compito aiutare come potevo il prossimo, soprattutto se si trattava di elementi del genere. Chissà cosa avrebbero fatto senza di me.
Meglio che non me lo chieda, sospirai, dirigendomi con la sedia a rotelle verso la mia stanza, più che intenzionato a riposare un po’.
Era da qualche giorno che sapevo che qualcosa non andava. All’inizio la terapia aveva funzionato, il cancro si era ridotto e sembrava in via di sparizione, anzi era sparito proprio, ma nell’ultimo periodo avevo ripreso a sentirmi stanco e spossato e mantenere il ritmo frenetico che avevo sempre avuto mi costava un po’ di fatica. Il sorriso, però, non lo avevo perso. Avevo sempre saputo che nulla mi dava la certezza che sarei guarito del tutto, quindi una piega negativa, diciamo, me l’ero aspettata. Andava bene, ci stava, e avrei accettato la mia sorte senza rancori e rimpianti. Mi rimaneva ancora un po’ di tempo e non l’avrei sprecato per nessun motivo perché avevo ancora un po’ di cose da fare e motivi per ridere e divertirmi. Non potevo lasciarmi abbattere da uno stupido tumore alle ossa.
Entrai in camera a testa bassa, pensando al modo migliore che avevo per dare la notizia ai ragazzi, quando notai qualcosa di particolarmente curioso e sorprendente.
In piedi al centro della stanza c’era Killer, girato di spalle e rivolto verso il mio comodino. Stava guardando qualcosa verso il basso, ma nulla importante. Le stampelle che aveva iniziato ad usare per muoversi mano a mano che la riabilitazione procedeva erano appoggiate al mio letto e non riuscii a trattenere un urlo di gioia, prendendo a girargli attorno, ridendo contento e rendendo noto il mio arrivo facendolo sussultare per la sorpresa.
«Non ci credo! Non ci credo!» ripetevo, alternando momenti di ammirazione a veri e propri scoppi di felicità. Nel giro di tre mesi, da quando aveva iniziato la terapia di riabilitazione, aveva fatto enormi progressi e, anche se era ancora costretto ad alternare la carrozzina alle stampelle, si stava impegnando seriamente e con grinta per riuscire a rimettersi nel minor tempo possibile.
Nonostante il mio buonumore, però, non spuntò nessun sorriso sul suo volto e continuò a mantenere fisso lo sguardo su un mucchietto di fogli posizionati con cura sul comodino disordinato e macchiato di caffè, bevanda della quale ero dipendente. Forse si sentiva stanco e aveva bisogno di riposare, così mi calmai e mi avvicinai per aiutarlo in caso di bisogno, quando iniziò finalmente a parlare.
«Volevo farti vedere che ora riesco a stare in equilibrio per un po’ senza cadere» disse serio, la voce che sembrava lontana anni luce dalla terra, «Dopotutto sei stato tu a spronarmi».
Non potevo dirgli che quella sua confessione mi aveva appena fatto sussultare il cuore, ma mi permisi di esultare dentro di me e sentirmi contento per i suoi progressi e per le ottime prospettive di guarigione che aveva. Se lo meritava quel ragazzo.
«Sono davvero, davvero orgoglioso di te, Kira-chan! Così devi fare, mai perdere la speran…».
«Ero venuto a cercarti, ma non trovandoti stavo per andarmene, quando poi ho visto questi» mi interruppe cupo e, nel dirlo, afferrò le carte e si voltò a guardarmi, porgendomele e facendomi vedere di cosa si trattava. Erano gli ultimi esami riguardanti le condizioni del mio cancro. Aveva scoperto tutto.
«Dimmi che non lo sapevi» sussurrò poi, ma potei benissimo percepire la rabbia che cercava di tenere a bada dal modo in cui stringeva convulsamente i pugni, «Dimmi che non ti sei inventato quella storia sul tuo amico e sull’incidente; dimmi che quei risultati sono sbagliati».
Ero zittito e per la prima volta avevo perso la voglia di muovermi, di saltare, di sprizzare gioia da tutti i pori. Per la prima volta mi sentivo come un malato terminale quale ero.
«Dimmi che non stai per morire». Fu quasi una preghiera, quella.
Oh, in quel momento avrei tanto desiderato poterlo fare, avrei voluto accontentarlo, dirgli tutto quello che voleva sentirsi dire, tranquillizzarlo, spiegarli che i medici si erano confusi, che stavo bene, che non avevo nessuna malattia che mi stava corrodendo le ossa, volevo con tutto me stesso potergli fare sapere che avrei continuato a girargli attorno.
«Non posso» sospirai infine dopo una lunga pausa di tensione, «Killer, te l’avrei detto…».
«Quando?» sbottò, facendo un passo avanti e dimenticandosi di essere in costante bilico con le sue gambe, «Quando avevi intenzione di farmi sapere che hai un tumore alle ossa che ha ripreso a crescere, eh? Quando ormai non avresti più potuto parlare?».
«Ascolta, capisco che tu sia arrabbiato» provai a dire, alzando i palmi in alto per cercare di farlo ragionare, «Ma…».
«Ma un cazzo! Gli altri lo sanno?».
Non risposi.
«Allora?». Era sempre più arrabbiato e nervoso.
«No» confessai con un sussurro impercettibile, ma che a lui arrivò chiaro e tondo come un urlo, o un secchio d’acqua fredda in faccia, dipendeva dai punti di vista. Certo, l’unico che ne era a conoscenza era Law, ma a quello non si poteva tenere nascosto nulla, quindi non valeva la pena nominarlo. La storia di Shachi aveva un che di vero, solo che il camioncino non ci aveva investiti. La notizia dell’osteosarcoma era arrivata quel giorno, però, dopo che l’ambulanza ci ebbe portati al pronto soccorso per dei controlli di sicurezza. Qualche esame del sangue, una TAC e via, ecco trovate le metastasi in fase di sviluppo. La settimana successiva mi avevano amputato la gamba, ma in quel lasso di tempo sembrava che la chemio avesse funzionato e che la malattia fosse regredita. Ma l’osteosarcoma si comportava in quel modo: si prendeva un arto, assaggiandolo, per metterti alla prova e, se gli piacevi, ti mangiava il resto.
Rimase in silenzio per alcuni minuti, fissandomi dall’alto della sua stazza e respirando velocemente fino a quando, con movimenti bruschi, non recuperò le sue stampelle, avviandosi subito dopo verso la porta e lasciandomi con un mare in tumulto dentro di me.
«Killer, per favore». Non volevo che se ne andasse, non volevo litigare con lui, non era mai successo e non volevo iniziare proprio quando avevo iniziato a piacergli. Perché passare dal non essere minimamente calcolato al venire ringraziato per il sostegno morale per me significava qualcosa e se non gli avevo detto della mia condizione era perché non volevo ferirlo più del dovuto. L’avevo fatto con le migliori intenzioni.
«Penguin. Tu hai un tumore e non mi hai detto niente, mai, nemmeno una parola. Hai mentito tutti questi fottuti mesi parlando di essere forti, di speranze e stronzate varie, ma non ti sei mai fermato a pensare che, forse, ai tuoi amici faceva piacere sapere della tua condizione».
Abbassai il capo, colpevole. «Mi dispiace». Non sapevo che altro dire, magari non c’erano nemmeno parole per esprimersi.
Lo sentii sbuffare amaramente prima di udire il rumore di una porta che veniva aperta e dei passi incerti che avanzavano allontanandosi.
«Si, anche a me per essermi fidato di un bugiardo». Poi Killer uscì ed io rimasi da solo a fissare il vuoto e a sentire il peso opprimente di tutta quella schifosa situazione schiacciarmi senza pietà.
«A-anche con i crampi, c-con la fine sulla faccia» mormorai, tirando sul col naso e asciugandomi una piccola e solitaria lacrima che era riuscita a scivolare lungo la mia guancia con la manica della maglia, «Col dolore che mi schiaccia e non lo sai». Non avevo mai pianto, non mi ero mai lasciato abbattere. Ero sempre stato una roccia intoccabile e sorda ai tentativi delle onde che mi sbattevano contro. Ma si sapeva, l’acqua, come il tempo, corrodeva e, alla fine, era riuscita a scavare in profondità fino a scalfirmi e a farmi vacillare.
Avevo passato troppo tempo in un mondo di cattiveria, crudeltà, falsità e bugie. Tutto quello avevo cercato di reprimerlo, evitarlo, nasconderlo in profondità per evitare di esserne contaminato e perdermi per sempre, ma continuare a tenere assopiti tutti quei sentimenti stava diventando arduo, parecchio arduo.
Ero sopravvissuto a parecchi morsi del serpente Vita, andando avanti e curandomi le ferite da solo, ma il veleno era troppo e non ero più sicuro di potercela fare con le mie forze. Continuavo a combattere senza gettare mai la spugna, ma la verità era che mi sentivo così stanco e inadatto a tutto ciò. Non ero forte abbastanza per riuscirci, l’avevo sempre saputo, solo avevo preferito vivere un sogno che adattarmi alla triste e cruda realtà. Almeno ero riuscito a capire l’importanza delle piccole cose, la fortuna immensa che avevo ogni giorno nel potermi ancora muovere ed essere autosufficiente, vivevo ogni attimo come se fosse stato l’ultimo e tutto valeva la pena di essere preso in considerazione, ogni minima cosa era degna di importanza. D’altronde, quando la tua vita era una costante incertezza, imparavi a vedere tutto sotto una luce diversa dalle persone normali.
«Anche con la g-gioia di sapere c-che…». Ormai singhiozzavo e frenare la voglia di piangere diventava sempre più difficile. «Che dovunque ce n-ne andremo non ci lasceremo mai».
La porta si aprì di nuovo, ma non ne ero così sicuro dato che accadde nello stesso istante in cui gli esami e la mia cartella clinica caddero a terra con un tonfo, aprendosi a ventaglio e sparpagliandosi a terra. Per sicurezza, comunque, mi coprii il viso nel tentativo di darmi un contegno e di non mostrare a nessuno quello che stavo vivendo. C’erano cose peggiori, c’era chi stava peggio ed io non avevo nessun diritto di potermi lamentare.
Quando un paio di braccia mi sollevarono di peso, tirandomi in piedi, e mi avvolsero in un abbraccio stretto e disperato, però, la mia barriera di vetro si incrinò pericolosamente e quasi si spezzò. Se non iniziai a piangere e a urlare fu solo per il bacio che ricevetti l’istante successivo, il bacio che desideravo e che speravo di provare da mesi interi.
Era umido e sapeva di sale, ma le labbra di Killer, come mi ero aspettato, erano morbide e mi piacevano tanto. A parere mio, anche se non ero un esperto, fu tutto perfetto, meraviglioso e giusto.
«Non puoi assillarmi fino all’esaurimento per poi, una volta avermi conquistato, dovertene andare. Non puoi, non è giusto».
«Credimi, coinvolgerti in questa storia era l’ultima cosa che volevo» gli dissi, aggrappandomi alle sue spalle e lasciandomi cullare da quell’abbraccio traballante e instabile. Il mio obbiettivo l’avevo raggiunto, avevo ottenuto le attenzioni di Kira-chan, ero riuscito a farmi guardare, a farmi apprezzare e sembravo pure piacergli. In quell’ultimo periodo avevamo condiviso tanto con la scusa della sua riabilitazione e parlarci era diventato sempre più facile e spontaneo. All’inizio era stato reticente e scontroso, nonché burbero e capriccioso, ma le cose si erano sistemate col passare dei giorni e l’amicizia che era nata mi aveva fatto vivere i momenti migliori di sempre. Una ricaduta non l’avevo affatto prevista e, se solo ne fossi stato in grado, non l’avrei mai avvicinato rischiando di ferirlo con, beh, con la mia scomparsa. In quel modo, invece, ero appena diventato una granata e, quando sarei esploso, avrei lasciato delle profonde cicatrici a molte persone.
Quello era ciò che più avevo voluto evitare, ma non ci ero riuscito.
«Non importa Penguin» disse, donandomi un altro bacio e facendomi dimenticare per quell’istante tutti i miei problemi, «Sarebbe un privilegio ritrovarmi il cuore spezzato da te».
 
*

 

(Dodici giorni dopo).

«Prima mi ha chiamato Thatch e mi ha detto di salutarti. Beh, veramente mi ha passato mezzo orfanotrofio e tutti ti salutano. Rufy, in particolare, ti manda un abbraccio grande» disse Marco, sfogliando un libro. Sapevo che stava leggendo perché sentivo il rumore delle pagine che girava con costanza ogni cinque o sei minuti. Gli era sempre piaciuto leggere ed era anche sempre stato un tipo abbastanza riflessivo e pensieroso. Ovviamente aveva anche i suoi lati da perfetto sbandato e giovane scapestrato, ma in quel momento era calmo e, come faceva da una vita ormai, se ne stava rannicchiato ai piedi del letto con il naso appiccicato al suo libro preferito, ovvero un tomo di circa quattrocento pagine che io non avrei mai letto, nonostante il film tratto mi fosse piaciuto molto.
«Il babbo ha detto che passerà stasera assieme a Vista e Haruta. Lei non vede l’ora di vederti» aggiunse e potei immaginare benissimo il suo solito sorrisetto divertito affiorargli sulle labbra. Mia sorella ed io eravamo sempre andati d’accordo. Lei era un maschiaccio fatto e finito, le mancavano solo gli attributi, anche se ero certo che ormai li avessi sviluppati dato che riusciva a tenere testa ad un branco di mocciosi troppo cresciuti e con fattezze da uomini. Ad ogni modo la adoravo, era la mia migliore amica e mi mancava molto. Sapere quindi che sarebbe passata a salutarmi mi fece piacere.
Ad ogni modo, nonostante Marco stesse cercando di distrarmi, e distrarsi a sua volta, sentivo che era preoccupato, lo percepivo dal tono di voce leggermente ansioso e fermo. Il motivo lo conoscevamo entrambi e non era facile pensare ad altro quando uno dei nostri amici era sotto ai ferri in quell’esatto momento a combattere contro la morte.
Law era venuto a dircelo circa una decina di giorni prima. Era entrato nella mia stanza salutando Marco e me, non mancando di chiamarmi con il soprannome delizioso che mi avevano affibbiato, ovvero Bell’Addormentato, e trascinò dietro di sé l’energumeno Kidd, almeno, io lo immaginavo grosso e palestrato, magari anche un po’ schizzato, visti i modi grezzi e rudi con cui spesso si rivolgeva a tutti. Trafalgar aveva poi aspettato che i due ragazzi si mettessero seduti e aveva sganciato la bomba: Penguin non era un eroe di guerra, ma un malato di osteosarcoma, ovvero cancro alle ossa. A quella notizia Marco e Kidd erano rimasti pietrificati, mentre io riuscii, grazie alla mia condizione, a salvarmi dalla loro ira.
Perché io lo sapevo da tempo ormai, Penguin me l’aveva detto in una delle nostre chiacchierate da pazzi, come le chiamavamo. Come era ovvio che fosse avevo mantenuto il segreto e avevo cercato di sostenerlo come potevo. Secondo il mio parere aveva fatto la cosa giusta, insomma, la terapia e le chemio sembravano funzionare, l’avevano addirittura dichiarato NEC (nessuna evidenza di cancro) e condividevo il pensiero che non aveva senso allarmare tutti se non esisteva alcun problema. Il fatto era che, purtroppo, le cose si erano drasticamente complicate nel giro di pochissimo tempo e le metastasi avevano ripreso  a crescere, o erano rispuntate, non avevo capito bene, sapevo solo che avrei tanto voluto essere sveglio per aiutarlo, invece in quel momento lo stavano operando per salvarlo, per dargli altro tempo e non avevamo idea di come sarebbe andata a finire.
Iniziai ad avere sonno. Era complicata da spiegare la mia condizione perché effettivamente dormivo, ma ero anche sveglio. Insomma, riuscivo a sentire e a capire quello che mi succedeva intorno, ma non potevo interagire con le persone. Quando, invece, dormivo profondamente ero proprio addormentato, come le persone normali. Non mi capivo nemmeno io, quello era il massimo che ero riuscito a spiegarmi. Nemmeno Penguin aveva raggiunto una qualche conclusione più dettagliata.
Nel giro di qualche minuto la voce di Marco si fece ovattata e sempre più lontana, lui non sapeva mai quando ero sveglio o meno, e mi addormentai, riprendendo il sogno che facevo sempre.
Dormendo mi ritrovavo in una specie di altra dimensione, un paesaggio che conoscevo bene, ovvero il giardino dell’orfanotrofio del babbo e, davanti a me, sotto un cielo azzurro, la costruzione che bruciava tra le fiamme, ricreando l’incendio del giorno in cui ero caduto in coma. Nel sogno osservavo il tutto con i miei occhi, seduto a gambe incrociate sull’erba, aspettando qualcosa, ma senza mai decidermi ad alzarmi e affrontare quel baratro fatto di fuoco. Mi bloccava la paura di non sapere cosa avrei trovato una volta entrato.
Quella volta, però, non ero solo.
«Ciao Ace» fece una voce alle mie spalle, cosicché mi voltai e sorrisi nel capire di chi si trattasse.
«Penguin!». Era impossibile non riconoscerlo con quel cappello in testa.
Il ragazzo saltellò su una gamba sola fino a me per poi sedersi sul terreno con un po’ di difficoltà e imprecando quando il sedere attutì la caduta.
«Come ti va?» chiese subito dopo, sorridendo allegramente.
Mi strinsi nelle spalle, sospirando, «Il solito. Tu? So che sei in sala operatoria adesso». Ero contento di poterlo finalmente vedere; era proprio come me l’ero immaginato: un po’ mingherlino, uno sguardo attento e furbo, gli occhi grandi e vivaci, l’espressione spensierata e la voglia di vivere che gli scorreva nelle vene rendendolo iperattivo e incapace di stare fermo un attimo.
«Si, infatti. Appena mi hanno sedato sono capitato qua. Sai mica dirmi che posto è? Sembra il purgatorio».
«Quella è casa mia» iniziai a spiegare, «Quando dormo profondamente vengo qui e aspetto di svegliarmi, di svegliarmi per davvero intendo, ma non succede mai».
«Oh» fece pensieroso, aggrottando la fronte e osservando le fiamme, «Forse non devi startene con le mani in mano» ipotizzò, «Magari c’è qualcosa che devi fare».
«E cosa?» domandai. Me l’ero chiesto mille volte e non avevo mai trovato una risposta a quella domanda.
«Qui è dove hai avuto l’incidente, vero? Secondo me è la tua prova da affrontare. Pensaci: l’ultima volta non hai retto e sei finito in coma, ma se riesci a superare l’incendio potresti risvegliarti. Ha senso, non credi?».
«E se non ce la dovessi fare?».
«E se non lo facessi affatto?» ribatté con un sorriso. «Sai, stai vivendo in modo passivo, amico mio. Dovresti andarti a riprendere la tua vita».
«Penguin».
«Si?».
«Te ne stai andando, vero?».
Ci fu un breve silenzio durante il quale ebbi modo di capire tra le righe la risposta: Pen-chan non sarebbe ritornato indietro con me.
«Questa non è la mia prova, Ace, ma la tua. Io sono qui perché devo andare in un altro posto, credo. Sai, non ci capisco molto di queste cose, non sono mai stato un convinto credente, ma ho come la sensazione di sentirmi chiamare. Mi capisci?».
A dire il vero lo capivo poco ma, ehi, era lui quello che sentiva la voce di coloro che stavano in stato comatoso, quindi il fatto che provasse quella sensazione ultraterrena non mi stupiva minimamente.
«Ad ogni modo si, me ne sto andando. Sono passato per di qua per salutarti, non mi piaceva l’idea di non incontrarti nemmeno una volta. Ohi, che fai, piangi?» chiese stupito, poggiandomi una mano sulla spalla scossa dai singhiozzi.
Avevo provato a trattenermi ma non piangevo da così tanto tempo! Non me ne ero nemmeno reso conto all’inizio, l’avevo capito colo quando la vista aveva iniziato ad offuscarsi, rendendomi difficile distinguere il profilo della casa e quello del meraviglioso ragazzo che mi stava accanto. Perché Penguin era una persona speciale, unica nel suo genere, e gli volevo molto bene. Era un amico, un amico vero, che si preoccupava per gli altri e metteva i bisogni del prossimo davanti ai suoi. Lui era quello che più di tutti meritava una seconda possibilità, invece era costretto ad andarsene. Non era giusto, non lo era per niente.
«Scusami» feci, non sapendo bene cosa dire. Quella parola suonò tremendamente stonata infatti, ma Penguin non ci diede peso e mi tirò a sé, abbracciandomi e confortandomi. Assurdo, lui stava morendo e quello che si disperava ero io.
«Va bene, è normale» mormorò, «Il dolore esige di essere sentito, quindi sfogati».
«Combatti» mugugnai, tirando su col naso, «Sei forte, ce la puoi fare. Tu sei…».
«No, Ace» mi fermò, scuotendo il capo e allontanandomi per guardarmi negli occhi, «Questa volta non posso farlo. Credimi, l’ultima cosa che vorrei è abbandonare voi deficienti, Dio solo sa come vi ridurrete senza di me, ma non posso più combattere. L’osteosarcoma ha sviluppato metastasi nei polmoni. E’ solo questione di tempo ormai». Lo disse con calma, con accettazione e con un sorriso, il suo solito sorriso, tranquillo e genuino sulle labbra. Inutile dirlo, erano sempre i migliori ad andarsene, troppo preziosi per rimanere in un posto schifoso come il mondo dei vivi.
«Forza!» esordì quando mi fui calmato, tirandosi in piedi e porgendomi una mano per invitarmi a fare altrettanto, «E’ ora che tu apra gli occhi, non credo che Marco e la tua famiglia sopporteranno di vederti in quello stato vegetativo ancora per molto. E poi, siamo sinceri, chi dirà a quella testa d’ananas di chiudere il becco quando non ci sarò più?» scherzò, lasciandomi allibito. Come poteva ironizzare sulla sua morte? Quel ragazzo sarebbe sempre stato un mistero. Non ero nemmeno più tanto sicuro che fosse umano. Chissà, se gli avessi alzato la maglia avrei scoperto delle ali sulla schiena?
«Penguin, che dovrei fare?» feci dubbioso mentre lui mi spingeva, come poteva, era pur sempre privo di una gamba, verso la casa in fiamme.
«Entra e… Che ne so? Fa qualcosa. Supera le tue paure e lotta» rispose con un’alzata di spalle, mantenendosi in equilibrio su un piede solo e incrociando le braccia al petto.
Feci un respiro profondo e avanzai di qualche passo verso l’ingresso, sentendo via, via sempre più caldo mano a mano che mi avvicinavo. Quando mancava poco più di un metro da quell’inferno mi voltai a guardare Penguin, trovandolo ancora lì dove l’avevo lasciato. Mi sorrideva e mi incoraggiava.
«Non sarai solo. Io non mi muoverò da qui» mi promise, saltellando sul posto come a voler enfatizzare la sua frase e facendomi quasi ridere.
«Mi mancherai, Penguin». Mi sarebbe mancato tutti i giorni un amico come lui.
«Piantala con i sentimentalismi, ragazzino» mi prese in giro, alzando gli occhi al cielo. «Pensa piuttosto a tirare fuori le palle e a prenderti ciò che ti spetta». Avevo come la vaga sensazione che si stesse riferendo in particolare modo a Marco, ma lasciai perdere perché avevo altre cose che mi premeva sapere e che volevo dirgli.
«Grazie per, insomma, per tutto».
«Grazie a te, Ace. E’ stato un onore conoscerti e parlare con te» ammise, abbassando il capo in segno di rispetto ed io feci altrettanto. Non volevo andare avanti e inconsciamente stavo anche temporeggiando, ma avevo paura di voltarmi e dargli le spalle. Temevo quella separazione, era dolorosa e straziante, ma mi spaventava anche l’ignoto che mi aspettava dietro la porta. Le fiamme, il fuoco, la fine dei miei giorni e il buio del coma. Come avrei fatto ad affrontare tutto quello da solo?
«Ace?».
«Si?» dissi, alzando lo sguardo da terra e puntandolo su di lui, ritrovandolo a pochi centimetri da me.
Mi diede un pugnetto affettuoso sul petto. «Non ti lascio ora» canticchiò, ricordandomi la canzone che sempre accompagnava le sue entrate nella mia stanza e le sue lunghe corse per i corridoi di cui spesso e volentieri mi raccontava e allora capii che lui ci sarebbe stato sempre e che, dall’altra parte, molte altre persone mi stavano aspettando da troppo tempo.
Toccava a me lottare, in quel momento, e l’avrei fatto per loro e per Penguin, glielo dovevo.
Respirai profondamente e annuii deciso, mettendo mano alla maniglia e inclinandola per aprirla, quando un pensiero mi attraversò la mente.
«Penguin!» lo chiamai, «E Killer?».
Lui si calò il cappello sugli occhi per nascondere un velo di tristezza che però non mi sfuggì, mordendosi un labbro e pensando a cosa dire. Alla fine tornò a guardarmi; un sorriso da innamorato cotto sulla bocca.
«Alla fine sono riuscito a portarmelo a letto, sai?» scherzò e la tristezza sembrò scemare improvvisamente, «A parte questo, fammi un favore quando ti sveglierai, perché so che accadrà, digli che dia un occhiata all’ultimo cassetto del suo comodino e che non si azzardi a disperarsi».
Deglutii a fatica, ma gli assicurai che l’avrei fatto di certo.
«Ah, Ace? Ancora una cosa. State vicino al mio Kira-chan, il mio ricordo all’inizio non sarà sufficiente».
Lo guardai per un lungo istante fino a quando non fu lui a mandarmi via, minacciandomi di picchiarmi con il moncherino, così mi godetti per l’ultima volta il suo sorriso, imprimendomelo nella mente e raggiunsi l’uscio della porta, fissando il fuoco davanti a me che divorava le pareti.
«Ace? Ace!».
Marco?
«Spero che tu possa sentirmi, razza di idiota, questa è la tua parte preferita anche se non lo vuoi ammettere.
Sentivo la sua voce chiamarmi in mezzo a tutto quel caos, così strinsi i denti e feci il respiro profondo prima del balzo. Per lui, per i miei amici e per la mia famiglia. Per Penguin. Per me e per la vita che dovevo vivere.
Mossi qualche passo e il fuoco mi inghiottì.
 
«’Così Gollum sibilò: “Radici invisibili ha, più in alto degli alberi sta, lassù fra le nuvole va e mai tuttavia crescerà”. “Facile!” disse Bilbo. “E’ la montagna, penso”.”Indovina cosssì facilmente? Deve fare a gara con noi, tesssoro mio!”».
La voce di marco era particolarmente più nitida, anche se il modo in cui imitava la parlata di Gollum mi faceva venir voglia di scoppiare a ridere senza ritegno. Inconsciamente e senza rendermene conto, infatti, piegai le labbra.
«“Se il tesoro domanda e lui non risponde, lo mangiamo, tesssoro mio”» continuava a leggere il biondo con un’aria divertita e allegra, mentre scorreva le pagine de Lo Hobbit, il libro che gli avevo regalato il natale scorso e che aveva letto qualcosa come una decina di volte. Sempre meglio di Izou che aveva consumato la biblioteca di casa leggendo una saga trentasette volte contate.
Marco si interruppe un attimo per sbadigliare, cosa che faceva spesso, e notai con piacere che i suoi occhi chiari erano rimasti come me li ricordavo, azzurri come il cielo. Anche la pettinatura improponibile non era cambiata di una virgola, ma a quella ero abituato.
Ad un certo punto si immobilizzò del tutto per fissare un punto alle mie spalle e capii che qualcosa non andava, ma quando pronunciò il mio nome notai che, effettivamente, stava guardando me.
Ed io stavo guardando lui, non lo stavo sentendo o percependo.
Lo vedevo.
Solo allora capii di aver appena aperto gli occhi.
 
 
 
Angolo Autrice.
SONO. IN. UN. TERRIBILE. RITARDO.
CHIEDO. UMILMENTE. SCUSA.
Davvero, so che non basterà dopo il capitolo, ehm, tragico? Ma cercate di capirmi, dovevo seguire in qualche modo, anche se non alla lettera, la trama di Braccialetti Rossi e, beh, ovviamente questa fiction non può finire tutta rose e fiori. Lo so cosa state pensando, perché proprio Penguin. Eh, me lo sto chiedendo anche io e mi sono sentita malissimo a scrivere queste pagine, giuro, ma l’idea dell’osteosarcoma mi piaceva tantissimo e calzava a pennello con la situazione.
Per chi avesse delle perplessità sulla malattia, ecco qualche informazione: colpisce più spesso soggetti di sesso maschile con due picchi di incidenza: tra i 10 e i 30 anni e negli anziani, le sedi più frequenti sono le metafisi delle ossa lunghe, soprattutto attorno al ginocchio: il femore, la tibia e l’omero. Si manifesta con dolore intenso, tumefazione, cute calda spesso con reticolo venoso. Ne esistono due varietà: quella centrale e quella periferica. Le varietà centrali hanno un comportamento molto aggressivo in quanto crescono rapidamente e presentano una spiccata tendenza a dare metastasi ai polmoni e ad altri organi. Le varietà periferiche sono invece generalmente meno aggressive. (Info by wikipedia, spero non ci siano troppi errori).
Ecco come il tumore ha raggiunto i polmoni di Penguin, la cosa non era quindi impossibile.
Se volete dare la colpa a qualcuno per la piega drastica degli eventi prendetevela con John Green, autore di Colpa delle Stelle, libro che sto rileggendo perché bellissimo e veramente profondo. Lo consiglio a tutti perché è un qualcosa di unico a mio avviso, infatti alcune frasi e piccole chicche, come la citazione iniziale, le ho prese dal libro.
Per fare alcuni esempi:
-E’ questo il problema del dolore, esige di essere sentito.
-Oh a me non importerebbe. Sarebbe un privilegio ritrovarmi il cuore spezzato da te.
Io non posso farcela a finire di nuovo questo libro che già una volta mi ha uccisa, ma sono masochista e lo farò. I libri migliori secondo me andrebbero riletti all’infinito.
Passando ad altro…
Credo che da questo capitolo in poi evidenzierò gli sbalzi di tempo che anche in precedenza avevo messo, lasciando passare settimane e mesi. Il fatto è che i personaggi sono malati e non posso permettermi di far scorrere il tempo in modo lento, rischierei di perdermi troppo. In più ho detto già all’inizio che non avevo intenzione di tirarla per le lunghe, infatti credo che ancora qualche capitolo e la storia si concluderà. Spero di non far passare un eternità perché in questo periodo ho avuto un blocco per questa serie, davvero. Oggi, non lo so, è successo il miracolo praticamente.
Allora, Law ha ammesso che si, mangia, ma non tantissimo, ovviamente, perché, come qualcuno ha notato, se si riprende a nutrirsi troppo velocemente si rischia di fare peggio e lo stomaco rifiuta il cibo. Procede a piccoli passi insomma, mentre Kidd brancola nell’incertezza, ma sembra voler in continuazione baciare Trafalgar. Nel prossimo capitolo vedremo cosa è successo in questi tre mesi dopo il loro piccolo accordo e dopo, beh, la vicenda di Penguin.
Parlare di Killer prossimamente sarà uno strazio, ma farò del mio meglio.
Ciliegina sulla torta: Ace si è svegliato.
Su Braccialetti Rossi, Rocco, il bambino in coma, il personaggio a cui fa riferimento Ace, mentre dormiva si trovava in una piscina pubblica, il luogo dove aveva perso i sensi dopo essersi tuffato da un trampolino molto alto che gli aveva dato le vertigini. Mi è sembrato bello fare lo stesso per Ace e riprodurre l’incendio come il suo blocco mentale, la prova che doveva superare e che, alla fine, affronta con successo.
Bene, è tardi e quindi non mi dilungo oltre, domani vedrò di rispondere una volta per tutte alle recensioni e vi chiedo scusa di nuovo per il ritardo. Vi ringrazio però per la pazienza e per il fatto che continuiate a seguirmi. sul serio, grazie, siete fantastici e spero di non avervi delusi :3
Dopotutto la vita è così, niente è certo e, insomma, non è facile nemmeno per me trattare argomenti del genere, ma faccio del mio meglio, poi sta a voi giudicare.
Gente, buonanotte e un abbraccio a tutti. Ci si sente domani, per chi ha voglia, con l’inizio di Portuguese D. Ace.
Un abbraccio enorme e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. ***


Capitolo 6.

 

(Lo stesso giorno).

Ciao Kira-chan,
Probabilmente quando leggerai questi scarabocchi incomprensibili (non ho mai avuto una bella scrittura) io non sarò lì con te e nemmeno in giro per l’ospedale a far impazzire le infermiere, ma l’idea di andarmene senza poterti nemmeno spiegare quanto mi hai fatto sentire vivo mi sembrava un torto nei tuoi confronti.
Quando mi hanno diagnosticato l’osteosarcoma non puoi nemmeno immaginare come mi sono sentito. Tu mi hai visto sempre sorridente, ma la verità è che all’inizio avevo desiderato tanto di poter morire, o scomparire, soprattutto quando mi hanno amputato la gamba. E’ stato come se la mia vita fosse stata bloccata, insomma, non avrei più potuto fare determinate cose e per uno col mio carattere e l’incapacità di stare fermo anche quando dormo è un brutto colpo da incassare, un boccone amaro da digerire.
Dicevo, credevo davvero che avrei finito i miei giorni incazzato col mondo, inavvicinabile, burbero e scontroso. Ti confesso che per un po’ sono riuscito a tenere testa persino alla bastardaggine di Trafalgar, non so se rendo. Lui è l’icona della stronzaggine, eppure lo tenevo a bada. Ero convinto che nessuno potesse capirmi, che nessuno riuscisse anche solo a immaginare quello che stavo provando, la mia guerra interiore e tutto il casino che mi ero ritrovato ad affrontare da solo.
Poi ti ho visto e mi sono sentito investire da un’ondata di vergogna per me stesso e per il mio egoismo.
Sei arrivato in ospedale in condizioni pietose, eri ridotto ad un ammasso di carne, ossa e sangue. Lo so perché stavo passando casualmente per il pronto soccorso quel giorno e vederti messo così male è stato uno schiaffo in piena faccia.
Ho chiesto in giro e sono riuscito a scoprire dove ti tenevano; volevo rivederti, ne avevo bisogno per fare chiarezza nei miei pensieri. Non capivo il perché, ma sentivo che dovevo assolutamente trovarti.
Eri incosciente la prima volta che sono passato in camera tua, incosciente e irriconoscibile. Eri ricoperto di bende dalla testa ai piedi, non un lembo di pelle libero, forse solo il viso all’altezza degli occhi, quei tuoi meravigliosi occhi. Solo allora mi sono reso conto di quanto ero fortunato ad avere ancora una gamba, braccia e tutto il resto. Io potevo muovermi e tu lottavi tra la vita e la morte. Io avevo ancora tempo, potevo guarire, tu eri un’incognita.
Capii che non ero stato privato di nulla di essenziale; mi resi conto che al mondo c’erano cose peggiori; le persone soffrivano e si disperavano tutti i giorni, perciò che diritto avevo io di lamentarmi e pretendere di essere l’unico meritevole di attenzioni, pietà e compassione?
A volte siamo così ciechi che non ci rendiamo conto di tutti i tesori che possediamo e cerchiamo di avere sempre di più senza mai accontentarci, ma sono grato al Cielo di aver aperto gli occhi.
Sei stato la mia illuminazione, anche se non ne eri consapevole, mi hai salvato da un baratro, Kira-chan, e non so come descriverti tutta la felicità che ho provato in questi lunghi mesi.
So che ti ho fatto incazzare, dannare, bestemmiare e maledire il mondo con i miei modi di fare, con il mio continuo cercare di abbordarti, ma non potevo farci nulla. (A dire il vero mi divertivo da impazzire, ma questi sono particolari).
Volevo davvero essere tuo amico e il modo migliore per riuscirci era formare un gruppo in modo da poterti vedere sempre. L’idea non è stata tutta di Trafalgar, lo ammetto, è nata da me e dal desiderio di poterti stare accanto (quello di volerti portare a letto si è sviluppato col tempo).
Ad ogni modo ci sono riuscito, hai visto? Siamo diventati amici e alla fine mi hai davvero permesso di insegnarti tutte le scorciatoie dell’ospedale con la sedia a rotelle. E poi dicevi che non mi sopportavi e che non avresti mai passato le giornate da solo con me.
Non preoccuparti, ho capito che lo dicevi solo perché eri timido.
Sono stato felice per te quando hai ripreso a camminare e quella volta, durante la tua prima seduta per la riabilitazione, mi hai fatto sentire come tutti gli altri ragazzi normali. Non te l’ho mai detto, ma è stato così. Non sei inorridito davanti al moncherino, non hai fatto smorfie schifate, non sei scappato via (e come potevi? Eri invalido quanto me), sei semplicemente rimasto lì ad ascoltarmi. Potrà non avere senso per te, ma per me è stato davvero importante e ti ringrazio per avermi portato con te le volte successive; per avermi permesso di saltellarti accanto mentre provavi le stampelle; grazie anche per non avermi ammazzato di botte quando ti ho fatto perdere l’equilibrio (anche se ti sei trascinato dietro pure me, brutto idiota); grazie per avermi fissato in quel modo così intenso e maledettamente dolce quando ci siamo ritrovati sul pavimento spiaccicati l’uno contro l’altro; per essere stato mio amico; per esserti innamorato di me (perché lo so che è così, nega quanto vuoi) e per avermi perdonato quando hai scoperto del mio cancro.
Non sarebbe dovuta andare a finire così la nostra storia, ma nessuno aveva previsto una ricaduta; immagino che avessi dovuto metterla in conto, ma non sono stato così bravo, perciò scusami. Sai, avrei voluto dirtelo, davvero, pensavo di farlo, ma non sapevo come l’avresti presa e non volevo farti preoccupare per nulla. Credimi, l’ultima cosa che volevo era ferirti, Killer, non avrei mai, mai, lo giuro, voluto farlo.
Forse è un po’ pretenzioso da parte mia credere che sentirai la mia mancanza ma, se così sarà, ti prego di non essere triste. So che queste ti sembreranno solo lettere scritte con l’inchiostro su un misero pezzo di carta, so che all’inizio sarà difficile e so che, molto probabilmente, il dolore non se ne andrà mai, ma nemmeno io lo farò.
E’ una promessa, questa.
Ci sarò sempre per te, magari non mi vedrai e nei momenti peggiori ti sembrerà tutto una grande stronzata, una balla, ma io sarò lì con te, in qualsiasi momento e in ogni dove, non me ne andrò mai.
Potrei persino farti qualche scherzo. Pensa, Dio potrebbe permettermi di vagare come un fantasma tra i vivi, sono sicuro che gli starò simpaticissimo, oppure semplicemente lo porterò all’esasperazione, costringendolo a rispedirmi sulla terra. Che ne pensi? Più probabile la seconda?
E’ quasi ora di andare.
Accidenti, prima avevo così tante idee su cosa scriverti, mentre adesso ho la mente bloccata.
Uhm, vediamo, beh, già che ci sono ti chiedo qualche piccolo favore: prima di tutto tieni d’occhio Kidd. So che siete molto amici e lui, sembra strano dirlo, ti vuole bene. Andate d’accordo, siete completamente degli sbandati, ma assieme sarete abbastanza forti per superare qualsiasi cosa. Lui non ti abbandonerà, me l’ha promesso. Ah, se guardi negli altri cassetti troverai alcune carte riguardanti la donazione degli organi. Falli avere a chi di dovere e a quelli che seguono il caso di quel rosso isterico; dì loro che, in caso di trapianto, possono usare il mio cuore, va bene?
Kira-chan, non fare quella faccia, sarei più che felice di aiutare più di una persona. Dopotutto, che me ne faccio io di un paio di polmoni? E a che mi servono i reni, il fegato e il resto? C’è chi rischia grosso e io potrei essere decisivo per le loro condizioni, mi sembra un bel modo di andarsene, no?
Altra cosa, so che Trafalgar può sembrare spacciato, ma non è così. Assicurati che non si abbatta, che non abbia una ricaduta come me, che continui a lottare perché, cazzo si, sono certo che lui può farcela. Quello la farà strada, fidati.
E non dimenticarti di Marco e di Ace! Oh, avrei tanto voluto salutarli di persona, soprattutto Ace. Sai, è adorabile, un piccolo moccioso pestifero, sul serio. Ti piacerà da matti, è simpatico e allegro, un po’ come me. Sicuramente andrete d’accordo e potrete salire di nuovo all’ultimo pian per vedere i fuochi d’artificio. Ti ricordi l’ultima volta come è stato divertente? Oh, ero così felice di essere riuscito a trascinarti fin lassù, era tutto così romantico. Lo ammetto, avevo un po’ premeditato tutto, ma alla fine è andata alla grande, non ti pare? Ti sei persino messo a canticchiare, pazienza che dopo hai fatto il sostenuto per non permettere a Kidd di sfotterti.
Ho davvero poco, pochissimo tempo ora, ma vedrò di riuscire a scrivere tutto.
Killer, ti voglio forte e senza alcuna paura, chiaro? Non fuggire dalla vita, non aver paura di combattere, non aver paura di osare, di provare. Non avere paura perché tu non hai finito. La fine non esiste e sarai grande, un giorno, lo sento. E io non sbaglio mai. Insomma, sono un sensitivo e parlo con i morti, a momenti, quindi fidati di me.
Non so bene cosa scrivere. Vorrei avere più tempo da dedicarti, più giorni da vivere, più anni da passare, ma non si può avere tutto. Eppure non chiederei altro, solamente un attimo di tempo in più.
Ma nonostante tutto sono qui, ci sarò sempre, Kira-chan. Solo, puoi non dimenticarmi?
Devo andare.
Ti auguro il meglio, spero che tu guarisca presto e che ritorni a correre in moto, ma senza cercare di ammazzarti questa volta. Fallo per me, per favore, mi sentirei terribilmente inutile se dovessi incontrarti in Paradiso prima del previsto. Uno si fa in quattro per aiutare la gente e poi questi si suicidano, accidenti. Tu non farlo, guai a te. Ma che dico, ci penserà Kidd a tenerti buono, me l’ha assicurato.
Killer, grazie. Grazie per tutto, tu più di chiunque altro, mi hai fatto sentire vivo.
Sempre tuo,

Penguin.

 

*

 

(Tre giorni dopo).

«Quel nanerottolo era un completo idiota. Sul serio, lo detestavo oltre ogni limite. Sempre a girarmi intorno, sempre sorridente e allegro, sempre con quel maledet… Ehm, benedetto cappello in testa. Se voleva una cosa ti esasperava fino all’esaurimento per ottenerla. Ora andrà a rompere le pal… volevo dire, andrà a disturbare tutti i Santi del Paradiso, ne sono certo e, beh, sono passati solo tre giorni, e odio doverlo ammettere, ma penso che alla fine avesse ragione lui quando mi ripeteva che mi sarebbe mancato. Gli ho promesso che non mi sarei rammollito con la sua assenza, gli ho detto che sarei stato forte, che senza lui in mezzo sarei finalmente stato in pace, ma non è così. Mi mancherà, mi mancherà davvero».
«Penguin era una persona dall’indole piuttosto particolare. Ho conosciuto tante persone, chi migliore di altre e chi peggiore, ma mai nessuno come lui. Era così preoccupato e interessato a fare del bene agli altri che si trascurava, mettendosi sempre in secondo piano e facendo prima il suo dovere verso il prossimo. Era un altruista, una brava persona. Non stava mai fermo e pensava a talmente tante cose che spesso confondeva discorsi con altri. E poi, quando stava zitto, aveva sempre il sorriso in faccia, non si abbatteva mai, nonostante le martellate che riceveva in continuazione dalla vita ingiusta. Tutto quel suo buonumore mi infastidiva all’inizio, ma alla fine è riuscito a coinvolgere persino me, che di sorrisi non sono avvezzo. Credo che da ora in poi non passerà giorno senza che io non sorrida almeno una volta. Lo farò per te, amico mio».
«Se oggi sono qui è solo grazie a lui. Sono stato in coma fino a tre giorni fa e se Penguin non mi avesse spinto a prendere in mano la mia vita, probabilmente non mi sarei più svegliato. Sono stato in coma per quasi un anno, da solo, senza nessuno che mi capisse. La mia famiglia è stata fantastica, mi hanno tutti sempre assistito, ma era uno strazio non poterli confortare. E poi è arrivato questo ragazzo che, come per magia, riusciva a sentire i miei pensieri, riuscivamo a comunicare, capite? Pazzesco, so che sembra assurdo, ma mi ha aiutato tanto. Era bello poter parlare di nuovo con qualcuno, tranquillizzare i miei parenti o anche semplicemente sfogarmi. Penguin è stato fantastico e non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi sostenuto nell’affrontare la mia prova decisiva. Ti voglio bene amico mio, non ti dimenticherò mai».
«Questo ragazzo mi ha insegnato tante cose che uno della mia età avrebbe dovuto già sapere, invece è riuscito a farmi aprire gli occhi su molti aspetti. Posso dire che mi è stato di grande aiuto e gliene sono grato dal profondo del cuore. Una volta stavamo chiacchierando e gli ho chiesto come faceva ad essere così aperto, sincero ed espansivo senza preoccuparsi di quello che gli altri potevano pensare di lui. Mi ha risposto con un sorriso, dicendomi che lui era fatto in quel modo ed era giusto che le persone lo accettassero per quello che era, non per un’ipotetica idea sul suo conto. Mi ha fatto capire che ognuno di noi è speciale, anche se continuo ad essere convinto che lui lo fosse più di tutti, e mi ha anche fatto imparare che quello che vogliamo dobbiamo prendercelo senza timore perché la vita è troppo breve e tutti meritiamo di essere felici. Lui lo era, lo è sempre stato e bastava incontrarlo una volta per sentirsi subito meglio. Sei il migliore, Penguin, e grazie, grazie infinite fratello».
Stringevo la lettera di Penguin tra le mani come se fosse stata l’unica cosa che mi poteva tenere ancorato alla vita, impedendomi di gettarmi nella disperazione più totale e di lasciarmi avvolgere dalla tristezza e dal dolore che minacciava di invadermi da un momento all’altro. Sentivo che non ce l’avrei fatta, per quanto i ragazzi mi stessero vicino e per quanto la loro presenza mi infondesse coraggio. Non glielo dicevo, ma per me non erano altro che ombre, così come tutti gli altri. C’ero solamente io e la bara in legno chiaro e lucido al centro della chiesa piena zeppa di fiori. A cosa servissero non riuscivo a capirlo, dopotutto era un funerale, ai funerali si celebrava la morte di un defunto, quindi se il presunto defunto era effettivamente morto, a che gli serviva avere un sacco di fiori attorno? Non lo capivo e non concepivo nemmeno il motivo di tanti presenti, gente che mai avevo visto girare per l’ospedale in cerca di lui per un saluto, eccetto i famigliari e quel suo amico, Shachi, il quale sembrava davvero sconvolto per la perdita del suo migliore amico. Forse lui era l’unico che non stonava in mezzo a tutta quella situazione.
Uno alla volta avevano tutti fatto il loro discorso, elogiando il ragazzo a modo loro e insinuando sempre più a fondo la lama che da giorni mi trafiggeva il petto.
Lui se ne era andato e non l’avrei più rivisto.
«Killer, solo se te la senti» sussurrò Kidd affianco a me con calma. Aveva sempre saputo cosa dire e come comportarsi nei miei confronti. Dopo la notizia della morte di Penguin era piombato in camera mia e mi aveva trascinato di forza sul tetto per farmi ubriacare.
Feci un respiro profondo e, nonostante non ne avessi affatto voglia, mi alzai dal banco freddo come un automa, avviandomi lungo il corridoio ricoperto da un tappeto rosso, superando la bara e ignorando il fremito lungo tutto il corpo per poi salire gli scalini e arrivare al leggio dove tutti avrebbero potuto vedermi e fingere di ascoltarmi.
La verità era che non avevo la minima idea di cosa dire e, anche se ce l’avessi avuta, non mi andava affatto di condividere i miei sentimenti con il mondo. L’unica persona con cui mi andava di parlare e di confidarmi non c’era e non ci sarebbe più stata, inoltre sapeva già quanto la ritenessi coraggiosa, unica e inimitabile. E sapeva anche quanto contasse per me.
Alla fine feci l’unica cosa che mi sembrava giusta e spontanea.
«Vedi la vita è una piuma, si balla e si trema amore mio. Non sono per niente vicino a un addio, non essere triste amore mio». Volevo fargli sapere che avevo imparato la canzone e che non era vero che non mi piaceva perché quella sera sul tetto mi era entrata nell’anima come un uragano.
«E il mio domani intero è questo tempo mezzo rotto, ma nonostante tutto, tutto…».
«Io non ho finito, perché ho sete ancora. Io non ho finito, fuori è primavera. Io non ho finito, non ti lascio ora».
Piano piano anche gli altri iniziarono a canticchiare e Law pensò bene di avvicinarsi e far partire la canzone dal suo cellulare posizionandolo accanto al microfono, in modo che tutti potessero ascoltare quell’ultimo nostro addio.
«Anche con i crampi, con la fine sulla faccia, col dolore che mi schiaccia e non lo sai. Anche con la gioia di sapere che dovunque ce ne andremo non ci lasceremo mai».
Nella mia testa scorrevano tutti i nostri discorsi, tutti i ricordi e le immagini di quei mesi vissuti intensamente. Penguin che faceva irruzione per la prima volta nella mia stanza, presentandosi e tendendomi la mano, ritirandola subito dopo nel rendersi conto che le mie erano fasciate e che non potevo muoverle; lui che mi infastidiva con la sue avances e che mi faceva il filo spudoratamente; la sua faccia e l’espressione sognante che faceva ogni volta che gli apparivo davanti; i sospiri che si lasciava scappare quando gli davo le spalle; il sorriso solare e allegro che mi rivolgeva più volte durante il giorno; gli incoraggiamenti; la prima volta che mi mostrò la gamba amputata; gli scherzi e le battute; la paura per le condizioni dei suoi amici; l’affetto verso Law che considerava come un fratello; la simpatia per Kidd; la venerazione per Ace e Marco e… E… tutto quello che provava per me, anima dannata. Mi aveva chiesto di continuare a lottare per lui, di vivere, di stare bene, ma come avrei potuto andare avanti da quel momento in poi? Come poteva pretendere che non mi sentissi solo, abbandonato, sperduto.
Kira-chan.
Fu solo un sussurro che mi fece sobbalzare e notando lo sguardo stupito e incredulo di Law capii che l’aveva sentito anche lui e che non me l’ero immaginato. Penguin c’era, era ancora lì con noi. Come aveva promesso, dopotutto.
«Io non ho finito» mormorai, prima che le ultime note della canzone finissero, lasciando l’intero edificio nel più completo silenzio.
Era solo l’inizio, ma faceva così male.

 

*

 

(Alcuni giorni dopo).

L’ospedale era sempre stato un luogo abbastanza smorto, tranquillo, quasi inanimato; un posto di passaggio dove la gente finiva per trascorrere gli ultimi giorni di vita, eppure, durante la mia permanenza, non mi ero mai sentito depresso. Tutti i giorni, senza rendermene conto, mi alzavo con l’ombra di un sorriso sulle labbra e non mi pesava passare le giornate chiuso in quella struttura, affatto, perché sapevo che non mi sarei mai annoiato, che avrei sempre trovato qualcuno con cui passare il tempo, anche se sarei finito per perdere la pazienza. Ero arrivato a definire quel luogo addirittura divertente.
Da una settimana, però, non era più così. Tutti sembravano aver perso quel barlume di allegria e vitalità che era corso fra i corridoi in quei mesi. Era come se la vita se ne fosse andata assieme a Penguin e ciò non faceva altro che peggiorare le cose.
Io non ero mai stato molto socievole, ma ebbi modo di scoprire che esistevano elementi più schizzati e scontrosi di me come, ad esempio, Killer. Le persone verso le quali nutrivo un certo rispetto erano poche e gli amici che avevo si contavano sulle dita di una mano, ma lui faceva parte di queste poche eccezioni, perciò mi si straziava il cuore vederlo preda della disperazione. Era inavvicinabile e spesso si chiudeva in camera a chiave, tanto che più di una volta ero stato costretto, su richiesta dei medici, a sfondare la porta. E poi dicevano che rischiavo di avere un infarto.
Non parlava con nessuno, si era chiuso in se stesso e l’ultima volta che ero riuscito a stare con lui era accaduto quando l’avevo portato sul tetto per farlo ubriacare su consiglio di Trafalgar. Cosa che aveva funzionato alla grande e che l’aveva reso, almeno per qualche ora, immune al dolore che la perdita gli aveva causato. Peccato che all’interno dell’ospedale fossero vietati gli alcolici e che non potessi renderlo un alcolizzato, facendolo ubriacare tutti i giorni.
Alla fine ero giunto a credere che avesse solo bisogno di tempo e che sarebbe venuto a cercarmi lui quando ne avrebbe avuto bisogno. Doveva aspettare che la ferita si rimarginasse almeno un po’ e perché ciò accadesse occorreva tempo, quello che Penguin non aveva avuto per dirci addio in un modo meno drastico.
Sospirai e mi passai una mano sul viso stanco, massaggiandomi gli occhi e finendo per passarmi le dita fra i capelli per ravvivarli, incontrando poi lo sguardo vuoto del ragazzo che mi stava di fronte. Anche lui, come tutti, stava soffrendo nonostante mantenesse sempre una facciata intoccabile e seria, quasi innaturale.
«Forza, finiscilo» mormorai con poca convinzione, sperando che bastasse comunque per convincerlo a mettere in bocca qualcosa. Il mio timore più grande era che Trafalgar smettesse di mangiare a causa di quel brutto colpo che aveva toccato tutti con la stessa intensità.
«Non ne ho molta voglia» sussurrò infatti, giocherellando con il riso e la verdura sparsi nel piatto e guardandoli con una smorfia. Non era nemmeno più capace di ghignare e si limitava a espressioni apatiche o poco convinte.
«Solo un altro po’, per favore». Io, invece, mi ero proprio rammollito, tanto che avevo iniziato a concludere le frasi con grazie, prego e per favore.
Intuendo il mio stato d’animo e probabilmente sperando di risollevarmi in parte l’umore tetro, Trafalgar fece uno sforzo e mise in bocca altri due bocconi della sua cena per poi spingere il piatto verso di me, come a voler sottolineare che per quel giorno ne aveva avuto abbastanza e non avrebbe più toccato altro.
Sollevai un angolo della bocca per mostrargli il mio apprezzamento, di più non riuscivo a fare, e finii gli avanzi in silenzio totale. Quando riposi il piatto nel carrello che gli infermieri lasciavano sempre nella stanza, Trafalgar si alzò con calma dalla sedia, aggirando il tavolo e venendo a piazzarsi in braccio a me senza dire una parola, accoccolandosi sul mio petto e appoggiando la testa nell’incavo della mia spalla. Poi chiuse gli occhi e si lasciò avvolgere dalle mie braccia.
Da quando avevamo dormito assieme per la prima volta erano cambiate molte cose. In quegli ultimi mesi era stato tutto un rincorrersi tra i corridoi, baci rubati negli ascensori, insulti gratuiti ad ogni ora del giorno, frecciatine maligne e allusive e tanto, tanto sano sesso. Dio, ancora mi chiedevo perché avessimo aspettato tutto quel tempo prima di darci dentro. Inoltre, in quel modo, avevo la possibilità per stargli alle calcagna durante i pasti e obbligarlo a mangiare, infatti aveva iniziato pure a prendere peso e, da quando avevo iniziato a stargli dietro, aveva messo su circa tre kili, una vera soddisfazione per i medici che lo curavano. Continuava a fare i capricci e a non volersi ingozzare troppo, ma sbocconcellava già di più. La mattina era il momento migliore, finiva la colazione da solo e a volte si divertiva a rubarmi il caffè. Il mio smisurato ego mi diceva che il suo appetito veniva tutto dalla fatica che gli facevo fare sotto le coperte, ma quello, ne ero certo, il bastardo non l’avrebbe mai e poi mai ammesso.
Non era una novità ritrovarmelo spiaccicato addosso ma, se prima si avvinghiava a me alla ricerca di qualche bacio passionale, da qualche giorno non faceva altro che nascondere il viso sul mio petto e parlare, lasciando correre i suoi pensieri a briglia sciolta e svelando tutto il dolore che la morte di Penguin gli aveva causato. Non voleva mostrarsi triste e debole davanti agli altri, preferiva fingere di essere forte per infondere loro un po’ di coraggio, ma sapevo che dentro di lui soffriva. Così, quando gliel’avevo fatto notare, era bastato girarci un po’ attorno per rompere quella sua barriera di finzione e offrirgli un po’ di conforto quando altrimenti nessun’altro l’avrebbe fatto per lui.
«E’ sempre più difficile» sussurrò sommessamente.
«Lo so» risposi, accarezzandogli distrattamente la schiena.
«Mi sembra impossibile e non riesco ancora a crederci. Credo sempre di vederlo sfrecciare per i corridoi con quella stramaledetta sedia a rotelle» confessò, riuscendo a strapparmi un ghigno con quella affermazione. La carrozzina di Penguin l’avevamo comprata per evitare che venisse riutilizzata. Per noi era davvero importante conservarla.
«A volte mi chiedo se ne valga davvero la pena» aggiunse poi con un tono sommesso, quasi come se volesse evitare di farsi capire, ma il significato che potevano avere quelle parole non mi piacque per niente, tanto che mi irrigidii sulla sedia.
«Cosa intendi?» domandai serio.
«Sarebbe tutto più facile se smettessimo di lottare, Eustass-ya».
Non gli lasciai aggiungere altro perché, senza rendermene conto, o forse sapevo quello che stavo facendo, solo che non volevo fermarmi, lo colpii in viso con un pugno, facendolo ribaltare sopra al tavolo davanti a noi e alzandomi in piedi di scatto con la rabbia che mi esplodeva nelle vene.
Lui intanto si massaggiò lo zigomo e si rialzò come meglio poté, guardando a terra e arricciando le labbra per le fitte che gli provocava il colpo subito.
«Penguin non ha mai nemmeno pensato di gettare la spugna!» urlai, facendolo sobbalzare e obbligandolo a guardarmi negli occhi con stupore misto a senso di colpa. Poco importava, quello stronzo mi aveva davvero fatto incazzare ed io non avevo ancora sfogato il dolore per la perdita del nanerottolo. «Sai cosa mi ha chiesto il giorno prima che lo operassero? Mi ha implorato di non abbandonarti nemmeno un secondo e poi mi ha fatto promettere che non ti avrei lasciato solo ad autodistruggerti perché per lui eri come un fratello. E ora che vorresti fare, eh? Mandare a puttane i tuoi miglioramenti solo perché sei un debole? Sai che ti dico allora? Fai quel cazzo che vuoi, vorrà dire che la scommessa la vincerò io!».
Fu una liberazione sbattergli in faccia la realtà nella speranza che si desse una svegliata. Era più furbo, sadico, stronzo e intelligente di me, ma in questioni di vita era davvero un ignorante.
Uscii dalla stanza dandogli le spalle e dirigendomi verso il piano dove era stato spostato Killer. Avevo ancora qualche bottiglia di vodka di riserva e quella notte non ci sarebbe stata nessuna porta chiusa ad intralciarmi perché l’avrei sicuramente sfondata per afferrarlo per i capelli e obbligarlo a seguirmi sul tetto. Probabilmente quello di cui tutti avevano bisogno era una bella sbronza ed io ero stato il primo a capirlo.

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
Oui, sono qui, esattamente dopo una settimana. Beh, meglio dell’ultima volta, non credete? Okay, okay, andiamo avanti che è meglio.
Stavolta non ho ritardato, ma non avete idea del magone, della tristezza e dello strazio che mi hanno investito mentre scrivevo il capitolo. Davvero, continuavo a chiedermi perché mai ho dovuto far morire un personaggio così, a detta mia, meraviglioso. Ormai è fatta e spero comunque di non aver deluso nessuno con la svolta dei fatti.
Oggi abbiamo la lettera che Penguin ha lasciato a Killer (mi sto sentendo male), cosa che è stato difficilissimo scrivere, lo ammetto, e non sono ancora sicura di averla resa al meglio, ma mi affido al ostro impeccabile e sacro giudizio, dopotutto ho ancora tanto da imparare! Un giorno, in futuro, magari vi farò annegare nelle vostre lacrime, ma per adesso andiamo con calma e un po’ di commozione (almeno quella, lol).
E poi Killer al funerale. All’inizio ho voluto mettere i pensieri dei ragazzi. Vi scrivo i nomi in ordine per ogni evenienza: Kidd, Law, Ace e Marco. Avrei voluto far dire qualcosa di epico e strappalacrime al biondo, ma poi ho pensato che fosse giusto che tenesse per se i suoi sentimenti e mi è sembrato carino far sì che salutassero Penguin con la sua canzone che canticchiava costantemente. Ovviamente è distrutto e non sarà facile per lui riprendersi, ma, come ha notato Kidd, per certe cose ci vuole tempo e alcune ferite sono più dure a guarire.
E a proposito di Kidd, solo io lo trovo tanto maturato, cambiato e meno stupido? Ci vuole un punto fermo, ogni tanto, e lo trovo adatto nel ruolo di, come dire, persona mentalmente stabile? Insomma, credo che Law, oltre ad essere un bastardo sadico, in questa storia ha un problema abbastanza serio, dopotutto è finito all’ospedale perché permetteva al suo corpo di non nutrirsi e di morire lentamente, per cui mi è sembrato logico il suo pensiero di arrendersi anche se, come vedremo prossimamente, le sue parole sono state dettate solo dalla tristezza e dal dolore per la morte di Penguin. Kidd l’ha capito, ma vuole anche assicurarsi che il suo ragazzo non faccia sciocchezze e smetta di nuovo di mangiare.
Una bella botta da superare, insomma, credo che non sia facile per nessuno la morte di un amico. E’ una cosa che non auguro a nessuno di provare.
La prossima volta troveremo Ace, Marco e Law e, beh, se riesco ad organizzarmi bene e se sono brava vedrò di lasciarvi tutti sorpresi e a bocca aperta.
Mi pare che sia tutto chiaro e approfitto per ringraziare di cuore tutti, recensori e lettori, e vi mando un abbraccione grande, grande!
See ya,
Ace.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. ***


Capitolo 7.

 

(Dopo due settimane).

«Non pensi che sia ora di andare a dormire?».
«Vuoi scherzare? Ho dormito per quasi un anno e adesso non voglio fare altro che stare sveglio!».
«I medici hanno detto che…».
«Si fottano i dottori. Si fottano le loro cartelle cliniche e le loro medicine. Si fottano tutti!».
«Ace…».
«Che c’è? Io sto benissimo, non vedi?» risposi, forse un po’ più istericamente del previsto.
«Lo vedo» sospirò Marco, alzando il capo per guardarmi dato che ero scattato in piedi come una molla per evidenziare il mio stato di buona salute, «Ma non dovresti tirare troppo la corda. Devi rimetterti passo dopo passo» spiegò pacato, con lo stesso tono paziente che usava sempre quando ero più piccolo e doveva farmi entrare in testa il perché non potessi fare tutto quello che volevo.
Repressi l’istinto di prenderlo a schiaffi e mi accucciai accanto a lui per essere alla stessa altezza, guardandolo con un sorrisetto un po’ pestifero e appoggiandogli una mano sulla spalla in modo confidenziale. «Ho perso un sacco di tempo e non ho intenzione di perderne altro, chiaro?». Non avevo bisogno di una vera risposta da parte sua, avevo già preso la mia decisione e non avevo alcuna intenzione di controllarmi solo perché nessuno credeva possibile che mi fossi svegliato da un coma ormai quasi irreversibile. Temevano tutti una ricaduta, ma io sapevo che non sarebbe successo. Mi sentivo benissimo e pieno di vita, inoltre me l’aveva detto Penguin. Lui non mi avrebbe permesso di ritornare in quelle condizioni.
Scossi il capo per scacciare via i pensieri tristi e la malinconia che la morte di quel ragazzo portava con sé. Era ancora una ferita aperta e ogni giorno sentivo la mancanza delle sue chiacchiere, come tutti del resto, ma mi sforzavo di essere forte e di andare avanti per lui, sorridendo il più possibile e immaginandomelo sempre a trotterellarmi accanto. Era una misera consolazione, ma almeno in parte funzionava e leniva un po’ il dolore.
«Sei più schizzato del solito da quando ti sei svegliato, ragazzino» disse Marco ad un certo punto. Si era scostato un po’ da me e aveva ripreso a guardare il panorama di cui si godeva dal tetto dell’ultimo piano.
Inarcai un sopracciglio, sfoggiando un’espressione scettica e curiosa. Non avevo ben capito a cosa si stava riferendo di preciso, ma sapevo che avrebbe continuato il suo discorso, così mi limitai a fargli sentire addosso il peso del mio sguardo, ghignando quando sbuffò, alzando gli occhi al cielo e rivolgendomi un’occhiata esasperata.
«Cambi umore da un momento all’altro» chiarì, «Un attimo prima sei tranquillo e allegro, mentre quello dopo rispondi male o ti arrabbi. E’ stressante cercare di capirti».
Riflettei sulle sue parole, pensandoci su per qualche istante e raggiungendo una sola e unica conclusione, anch’essa riguardante tutto il tempo perso a stare in coma.
«Sai, forse mi comporto così perché per tanto tempo non ho potuto farlo. Devo solo ambientarmi, riprendere confidenza con le emozioni, poi passerà» decretai e fui contento di vederlo annuire, d’accordo con quello che avevo detto. Erano poche le volte in cui mi dava ragione, di solito ero sempre io quello che aveva bisogno di risposte, illuminazioni o perle di saggezza, come le chiamava scherzosamente Thatch.
Attorno a noi calò il silenzio e l’unica cosa che ci faceva compagnia, oltre a noi stessi, erano i rumori tipici del centro città in lontananza e i suoni notturni provenienti dal giardino sul retro dell’ospedale. La lampadina fissata sopra alla porta delle scale antincendio si spense per alcuni istanti, tremolando e riprendendo ad illuminare fiocamente il cemento attorno a noi, probabilmente il generatore doveva avere qualche intoppo.
Non faceva tanto freddo, sebbene fosse arrivato l’inverno, inoltre ci eravamo ben coperti prima di uscire in terrazzo. Io ero ancora in convalescenza, mentre Marco avrebbe potuto tornare a casa quando avrebbe voluto. Tuttavia, sembrava deciso a non lasciare il resto dei ragazzi e me in quelle quattro mura a guarire da soli.
Guardai intensamente il cielo scuro, buio e senza nemmeno una luce. Non c’erano stelle quella sera, ma non importava, a me andava bene ugualmente perché tutto aveva molto più senso da quando avevo riaperto gli occhi. Ogni cosa, anche la più insignificante, era degna di attenzione e mi ritrovavo spiazzato e imbambolato di fronte a qualsiasi oggetto, colore, costruzione o persona. Non avevo visto nulla per mesi e mesi ed era come se fossi appena nato, tanto ero pieno di curiosità e meraviglia.
Quando avevo riaperto gli occhi non me ne ero nemmeno reso conto, sinceramente, perché ormai mi ero abituato ad immaginare le cose basandomi sui rumori attorno a me e sulle parole che mi venivano rivolte e che riuscivo a percepire, perciò l’immagine di Marco era già chiara e nitida nella mia mente anche senza che io l’avessi vista. Quando poi mi ero ritrovato i suoi occhi fissi e fermi nei miei mi era sembrato impossibile che fosse vero. Avevo creduto che si trattasse di un’illusione, ma era uno sguardo troppo carico e vivo perché potesse trattarsi solo di un’allucinazione o di uno scherzo dei farmaci. La prova che tutto ciò era reale, comunque, era arrivata non appena mi ero ritrovato soffocato dalle sue braccia in un turbinio di pagine svolazzanti e lenzuola aggrovigliate alle gambe. Probabilmente ero scoppiato a piangere perché ricordavo vagamente di aver avuto la vista appannata e le guance umide, poi c’era stato il sapore salato sulle labbra, quindi si, dovevo per forza essermi lasciato un po’ andare alle emozioni. Marco, invece, mi aveva stretto forte, fortissimo, a sé, inghiottendomi con la sua stazza ed io mi ero accontentato di nascondere il viso sul suo petto, circondandolo con le braccia che ero riuscito a muovere, anche se deboli e tremanti. Ero stato troppo impegnato a rendermi conto del miracolo che mi era stato concesso per ascoltare quello che aveva mormorato in quell’attimo. Per quanto ci avessi ripensato, proprio non riuscivo a rievocare le sue parole sommesse.
Poi c’era stato tutto un via vai confuso di dottori, infermieri e pazienti curiosi che spiavano dalla porta il miracolo, ovvero la mia ritrovata capacità di intendere e di volere. Erano seguite delle ore infinite di controlli, domande e sciocchezze simili, quando io avevo solo voglia di starmene tranquillo con la mia famiglia. Alla fine avevo avuto il mio momento di pace che, però, avevo passato nella tristezza più totale a causa della morte di Penguin. Un po’ me l’ero aspettato visto il discorso che mi aveva fatto nei miei sogni, ma avevo sperato fino all’ultimo che stesse scherzando, che fosse riuscito a superare l’intervento. Le cose non erano andate come volevo e mi ero chiesto più volte se la sua dipartita fosse dipesa dal mio risveglio. Una vita per una vita, questo avevo sentito dire molte volte e l’idea di aver privato quel ragazzo così solare dei suoi anni migliori mi logorava. Ad ogni modo, il malessere era passato in fretta perché, in quelle settimane, soprattutto dopo il funerale, avevo continuato a rivederlo quando mi addormentavo e una di quelle volte mi aveva riferito che se la stava spassando e che andava tutto bene. Aveva ripetuto quella parola fino a che non mi ero svegliato.
In certi momenti mi sentivo uno svitato, un pazzo a credere a cose del genere, ma la verità era che mi facevano sentire meglio, perciò me ne fregavo del giudizio e del parere dei medici e degli scettici e mi aggrappavo a quelle piccole cose e sensazioni con tutto me stesso. Ne avevo bisogno, erano il mio antidolorifico.
In quelle due ultime settimane, poi, mi avevano spostato in riabilitazione, lo stesso piano di Killer, ma lui l’avevo visto solo di sfuggita perché non si faceva avvicinare da nessuno. Solo Kidd riusciva a parlargli, o meglio, urlargli dietro. Diceva che era l’unico modo efficace per calmarlo. Ad ognuno la sua croce, in poche parole.
«Ace, cosa sentivi quando dormivi?».
Sobbalzai e diedi la colpa di quella reazione alla domanda improvvisa e inaspettata che mi aveva rivolto Marco e non al fatto che mi avesse chiamato per nome. Poteva sembrare strano, ma lui aveva sempre avuto un modo tutto suo di pronunciarlo. Dall’intonazione della voce riuscivo a capire se era stanco, contento oppure arrabbiato. Tutto ciò era frutto di anni e anni passati a stretto contatto ed era inutile dire che l’ultimo era il mio preferito. In quel momento, però, era solo curioso.
«Uhm, nel senso cosa udivo o cosa provavo?» chiesi dubbioso, non avendo capito a fondo la domanda.
Si strinse nelle spalle, come se fosse indifferente. «Tutti e due».
«Oh, allora, vediamo… Beh, penso che potrei diventare uno psicologo dato che mezzo mondo veniva a confidarsi con me, comprese le infermiere! Mi raccontavano dei loro problemi amorosi, capisci? Non ridere, non immagini il supplizio! Che vuoi che m’importi a me di tutti quei casini! Ah!». Alzai le braccia al cielo con fare scocciato. In quei mesi ne avevo passate di tutti i colori. «Mi innervosivano, non facevano altro che chiedermi consigli e pormi quesiti ai quali si rispondevano da sole. E mi ringraziavano pure per la chiacchierata!».
Così, mentre quell’idiota accanto a me se la rideva, io gli elencavo tutti i discorsi più assurdi, insulsi e stupidi che mi era capitato di ascoltare durante il coma.
«Ma per fortuna c’eravate voi a darmi un po’ di sollievo. Non ci crederai, ma indovina chi passava a vedere come stavo ogni tanto. Trafalgar, si, proprio lui. Si fermava anche per un pomeriggio intero e si sedeva sulla sedia a leggere non so bene cosa, un libro di anatomia credo. Alcune volte faceva anche delle ricerche, mi spiegava che stava cercando una seconda chance per un nostro amico in comune».
Marco fece un mezzo sorriso al quale non potei fare a meno di rispondere nella stessa maniera. Sapevamo entrambi per chi era la cura e speravo davvero che riuscisse nel suo intento perché Eustass Kidd mi piaceva. Era uno stronzo indelicato, certo, ma aveva carattere e lo ammiravo. E poi aveva contribuito a portarmi sul tetto a vedere i fuochi d’artificio, quindi mi stava simpatico per principio.
«Penguin passava sempre, invece» mormorai, facendo un respiro profondo per non lasciarmi abbattere e stringendo i denti. Era sempre più difficile nominarlo, ma dovevo essere forte. Glielo dovevo. «Lui e Killer non mancavano mai di farmi visita e ogni tanto anche Kidd li seguiva. Bestemmiava e li minacciava di morte per metà del tempo, ma almeno mi distraeva dalla monotonia».
«Lui ha un modo tutto suo di relazionarsi con gli altri» commentò Marco. «Comunque direi che te la sei passata bene tutto sommato».
«Il merito è anche tuo» aggiunsi sincero e senza volerlo.
«Si, beh, sei in debito a vita, ricordalo» scherzò, dandomi una spallata per tormentarmi.
«Sicuramente non avrei resistito senza la tua presenza» lo imitai con finta gratitudine e iniziando a ridere.
«Ovvio, immagina che palle senza me a tirarti su di morale».
«Tsé» sbuffai con sarcasmo, «Se non c’eri tu con i tuoi sensi di colpa e i tuoi complessi probabilmente sarei morto dalla noia». Stavo scherzando, sul serio, non l’avevo detto per offenderlo, ma fraintese le mie parole e si fece serio, bloccandomi il polso prima che gli tirassi uno scappellotto sulla testa per vendicarmi.
«Scusami, non volevo dire…» iniziai subito, intenzionato a rimediare alla mia lingua troppo lunga.
«Oh si, invece lo volevi proprio» disse, liquidando qualsiasi mio tentativo di riparazione con un tono freddo e distaccato che mi infastidì un poco. Aveva ragione, ero piuttosto suscettibile in quegli ultimi tempi. E d’accordo, forse quello era proprio ciò che volevo dire. Perché, se volevamo essere pignoli, era vero, era tutto vero.
Mi studiò per qualche istante durante il quale io non mossi un muscolo e non feci nulla per negare l’evidenza, poi si decise a parlare e, quando lo fece, fu dannatamente serio. «Ace, tu non hai la minima idea di cosa ho passato e di come mi sono sentito. Non puoi immaginare quan…».
No, un’altra volta queste cazzate no. Non le voglio più sentire, non ne posso più!, pensai, sentendo montare la rabbia. Finiva sempre in quella maniera: tutto girava attorno a lui e non c’era mai posto per gli altri. Non era stato lui quello che aveva dovuto salvare dei bambini e assicurarsi che stessero bene; non era lui quello che aveva rischiato di morire prima in un incendio e poi per un coma senza via di scampo. Non era stato lui quello a cui si era spezzato il cuore. A lui non era toccato niente!
«Si che posso» lo interruppi glaciale e scoccandogli un’occhiataccia gelida che andò a scontrarsi con il suo sguardo severo e offeso. Ero stato a sentire per un anno ogni sua parola, ogni discorso, ogni maledetto pensiero e dispiacere che aveva provato. Era stato tutto un insieme di scuse, sensi di colpa, rimpianti e, dannazione!, avevo creduto di impazzire. Sapevo benissimo quello che aveva passato e lo capivo, ma se c’era qualcuno che non sapeva nulla, quello era lui.
«Tu parli di come ti sei sentito, di quello che hai provato e della tristezza, ma a conti fatti non sai niente, Marco, proprio niente!» dissi tra i denti e alzando un poco la voce. «Sono io quello che è rimasto da solo quel giorno; io ho dovuto affrontare quell’inferno; io ho affrontato le fiamme e sempre e solo io sono stato costretto a restarmene fermo in un letto ad aspettare qualcosa, qualsiasi cosa, mentre tu non hai saputo fare altro che ripetermi che ti dispiaceva. Ma ora dimmi: cosa, esattamente, ti tormentava? Perché non l’ho mai capito!». Controllarmi era sempre più difficile, ma ogni parola che mi usciva di bocca mi faceva sentire leggero come non mai, inoltre la stretta sul mio polso aumentava e ciò non faceva altro che innervosirmi e darmi la spinta per continuare.
«Non sapevo se ti saresti svegliato o no!» ribatté lui, trattenendosi a stento dall’urlare. La sua risposta sembrò più un ringhio che altro. Poteva quasi fare concorrenza a Kidd.
«E a te cosa sarebbe cambiato?». Sarcasmo pesante.
«Cosa mi sarebbe…? Che cazzo dici? Sei mio fratello!».
Quell’affermazione fu come una doccia d’acqua fredda. Eccolo il problema, l’ostacolo più grande. Per quanto ci provassi, però non riuscivo a disprezzare ciò che per me rappresentava la cosa più importante, ovvero l’affetto, quel bene incondizionato che solamente i fratelli riuscivano ad avere. Era stato tutto nella mia vita e avrebbe continuato ad esserlo, anche se faceva male.
«Se non sbaglio l’ultima volta che ci eravamo parlati avevi detto che ormai il nostro rapporto l’avevo rovinato, no?». Non ragionai e fu la rabbia a parlare, ma mi pentii di quelle parole quando ormai era già troppo tardi. Se gli avessi tirato un pugno gli avrei fatto meno male, quello era certo.
Infatti Marco si immobilizzò e rimase a bocca aperta. Sugli occhi un velo di dolore.
Mi dispiace, avrei voluto dirgli, ma mi morsi un labbro per non cedere. Era giusto che lo sapesse, era giusto che capisse che non girava tutto attorno a lui, che non era il solo ad avere sofferto per tutto quel tempo che mai avremo riavuto indietro. Probabilmente avevo scelto il modo peggiore per aprirgli gli occhi, ma quello era anche il più diretto ed efficace, a mio avviso.
Mollò la presa e si alzò all’istante, spolverandosi le ginocchia e dandomi le spalle per dirigersi verso le scale e rientrare. Una scena del genere l’avevo già vista e la sensazione di sentirmi sbagliato e stupido tornò a farsi viva nel mio essere com’era successo in passato. Se ne stava andando, di nuovo, come aveva fatto l’ultima volta. Solo che, da quel giorno di quasi un anno fa, le cose erano cambiate e non mi andava più di rodermi l’anima solo perché lui non riusciva a mettere ordine sulla sua testa.
«Lo vedi? Non sai fare altro che andartene» sputai con ira. Ero stato proprio un idiota a credere di contare qualcosa per lui. Mi voleva bene, ovvio, ma nulla di più, su quel punto era stato chiaro, ma avrei preferito che me lo sbattesse in faccia, piuttosto di continuare a venire respinto con quel comportamento che mi feriva più delle parole.
Si voltò all’improvviso e mi afferrò per la collottola della maglia, strattonandomi fino ad essere a un centimetro dalla mia faccia. «Non ti permettere! Non hai alcun diritto di giudicarmi!» fece con astio.
«No, appunto, le tue azioni sono anche troppo chiare!» risposi sarcastico.
«Ace mi stai incolpando per cose che non stanno né in cielo, né in terra».
«E’ proprio questo il bello: io non ti ho incolpato di nulla! Sei tu che ogni giorno venivi da me a dirmi quanto ti dispiacesse di non essere rimasto all’orfanotrofio e stronzate varie! La verità, vecchio mio, è che tu ti senti in colpa, ma per un motivo ben diverso dall’incidente e dal mio coma!».
Mi guardò allibito e sorpreso per qualche secondo prima di ribattere. Pure io ero rimasto stupito dalle mie risposte e dal mio nuovo coraggio. A quanto pareva, sembrava che avessi imparato un po’ dei modi bruschi di Kidd e altri più diretti e senza mezzi termini che spesso usava Law. Penguin me l’aveva detto che quei due erano dei pessimi esempi da cui trarre ispirazione, ma la cosa si stava dimostrando molto utile perché non avevo mai tenuto testa a Marco come quella sera. Lui era sempre stato quello più grande e più maturo, quello bravo in tutto, quello saggio e sveglio, mentre io ero l’ultimo della cucciolata, quello da crescere e da istruire, quello che ne combinava di tutti i colori e che poi veniva strigliato a dovere. Mai, nemmeno una volta, avevo ribattuto alle sue parole ma, prima o poi, avrei dovuto crescere ed era arrivato il momento per farlo.
«Tu, piccolo insolente!» sbottò, stringendo la presa sul colletto e assottigliando gli occhi, «Non capisci un cazzo!».
«Cosa non capisco?» urlai, liberando tutta la frustrazione che avevo accumulato, «Che non riesci più a guardarmi in faccia solo perché ti ho baciato?» trovai il coraggio di dire. Non avevo più niente da perdere, la nostra amicizia se ne era già andata a puttane tempo fa. «Perché quella è l’unica cosa che sei riuscito a rendere chiara, fratello».
Il pugno arrivò all’improvviso e fu talmente veloce e inaspettato che mi ritrovai col culo per terra senza nemmeno accorgermene. Il dolore, però, fu niente in confronto a quello che stavo già provando a causa di tutta quella schifosa situazione. Non avrei mai dovuto tirare fuori l’argomento, anzi, non avrei mai dovuto baciare Marco. Mai. Le persone normali non baciavano i propri fratelli.
«Maledizione, Ace!» inveì, attirando la mia attenzione su di sé, «Va bene, hai ragione tu. Quando mi hai baciato ti ho respinto perché… Cazzo, non lo so nemmeno io il perché, okay? E si, non c’è stato giorno senza che non mi sia pentito di averlo fatto». Respirò profondamente, chiudendo gli occhi e stringendo i pugni lungo i fianchi. Gli tremavano le spalle. «La verità è che avevo paura che non ti saresti più svegliato» ammise, «Avevo paura di perderti, capisci? Avevo paura. Avevo solo tanta paura!».
«Quello non era un buon motivo per dirmi che ti dispiaceva, razza di idiota! Non volevo farti pietà, non volevo essere compatito». Non dovevo piangere. «E non volevo che ti scusassi solo perché io rischiavo di morire e tu di vivere col tormento!».
«E’ questo che pensi di me? Mi credi così vile?».
«Non fare la vittima adesso, è quello che mi hai fatto intendere con i tuoi modi» affermai una volta rialzatomi, pulendomi le mani sui pantaloni felpati del pigiama. «Vuoi sapere cosa sentivo quando ero in coma? Beh, ho creduto di impazzire. Prima avevo gli incubi sull’incendio e poi c’eri tu che ti sentivi in colpa e cercavi conforto nello scusarti direttamente con me, facendomi sentire peggio. Dici di aver passato l’inferno, ma hai la vaga idea di cosa ho sopportato io? Non potevo prenderti a schiaffi, non potevo dirti di smettere e non sapevo se avrei mai più potuto parlarti o guardarti in faccia». Mi sarei volentieri fermato lì se un pensiero assurdo non mi fosse passato per la mente facendomi scoppiare a ridere, ma senza divertimento. Una risata senza anima, ecco. «E’ così buffo, sai? La volta che ho deciso di baciarti è stata anche la prima e l’ultima. Deve essere un segno del Destino» conclusi con un sorriso amaro.
«Non pensavo di essere la fonte di così tanto dolore» disse. Sembrava volersi scusare, ma l’intonazione era completamente sbagliata e dava ad intendere tutt’altra cosa.
«Io volevo solo che fossi sincero» sussurrai a testa bassa, «Non volevo stare a sentire discorsi su un futuro incerto e che non sapevo nemmeno se mi sarebbe stato concesso. Mi sentivo impotente, non riuscivo a… A fare niente, Marco. E ascoltare te mi faceva male perché non sapevo se mi sarebbe stata concessa la possibilità di darti ancora un bacio, uno solo. Io non lo sapevo» gemetti. Ero esausto e sfinito, quel confronto mi aveva distrutto psicologicamente e se prima non avevo sonno, dopo quello scontro non desideravo altro che dormire.
«Non ti ho detto di essermi pentito solo perché eri in coma e non avevo altro da fare se non piangermi addosso» fece dopo interminabili minuti di silenzio, tanto lunghi che avevo creduto che la cosa sarebbe finita lì e basta. «L’ho fatto perché era vero. E’ tutto dannatamente vero e se solo potessi tornare indietro io…».
«Ma non puoi» chiarii con calma e con un sospiro che sapeva tanto di rassegnazione, massaggiandomi distrattamente lo zigomo dolorante. Quel bastardo ci era andato giù pesante, non si era ricordato che ero ancora sotto osservazione?
«Già» sussurrò senza staccare gli occhi dai miei, «Ma posso rimediare. Posso…».
«Lascia stare» mormorai stanco. Qualcosa nelle sue parole mi aveva fatto attorcigliare lo stomaco, mozzandomi il respiro, ma evitai con cura i suoi occhi, voltandomi da un’altra parte e muovendo qualche passo per aggirarlo e raggiungere le scale. Attorno a noi l’atmosfera era carica di scuse, disperazione e parole non dette.
«Voglio solo andare a dormire, Marco».
Non ricevetti risposta e solo quando arrivai nella mia stanza, da solo, mi permisi di lasciare andare tutta la tristezza e la frustrazione.
Avere fratelli faceva schifo.
 

*

 

(La stessa sera, qualche piano più sotto).

Le luci tremolarono per un istante, spegnendosi e riaccendendosi l’attimo dopo, ridando stabilità a tutto l’ospedale. Avrebbero dovuto mettere mano a quel problema al più presto se non volevano ritrovarsi al buio durante un’operazione importante.
Cosa aspettano per sistemare quell’affare? Pensai furente, trattenendo a stento la calma.
«Ti odio».
«Hai voluto fare quello che volevi? Bene, ora non lamentarti se hai rischiato un collasso e ti tocca restartene qui legato al letto».
«Me ne frego del collasso, fammi alzare!».
«Scordatelo» sibilai, scoccando a quella maledetta testaccia rossa un’occhiata ammonitrice che prometteva terribili torture se non si fosse calmato all’istante.
Quell’idiota, che razza di idee malsane gli erano passate per la testa quando aveva deciso di punto in bianco di lasciare l’ospedale senza il permesso dei medici? Nelle sue condizioni aveva seriamente rischiaro di restarci secco per strada. E Killer, pure lui si era comportato da perfetto incosciente! Mi era sembrato che avesse più sale in zucca, ma a quanto pareva mi ero sbagliato. Due pazienti nelle loro condizioni non sarebbero mai arrivati tutti interi fino al porto.
‘Volevamo fare un giro al mare’, ma vaffanculo!, pensai con stizza, sfogliando malamente le pagine del libro che stavo leggendo mentre tenevo d’occhio quel coglione debole di cuore, sono mezzi morti e se ne fregano. Stupidi, stupidi, stupidi!
«Ehi, Trafalgar!».
«Cosa cazzo vuoi?» sbottai acido.
«Vedi di darti una calmata» mormorò a denti stretti e fissandomi malamente, lasciando da parte quello che voleva dirmi. «Quel tono non mi piace».
«Quale tono, quello tu che usi sempre con tutti?» sfottei.
«Sei per caso incazzato?».
«Incazzato, io? Vediamo, non ti sei fatto vivo per due settimane, sono venuto a sapere da un infermiere che te ne eri andato e poi ti vedo uscire dall’ascensore caricato su una barella con un sacco di tubi che ti uscivano dal corpo perché, da bravo coglione quale sei –mi premurai di sottolineare- ti sei andato a compromettere la stabilità che avevi raggiunto. Quindi dimmi: perché mai dovrei essere incazzato?».
Mi fissò con una faccia da schiaffi per qualche istante prima che sul suo viso facesse capolino un sorrisetto che non fece altro che irritarmi ulteriormente. «Ho capito, allora sei solo preoccupato».
«Cosa?». Sbattei  terra il libro senza nemmeno rendermene conto e, quando Eustass-ya me lo fece notare con un’occhiata saccente, ebbi la tentazione di soffocarlo con un cuscino.
Forse ero solo un po’ arrabbiato, potevo concederglielo, ma non preoccupato, affatto. Se moriva non me ne poteva fregare di meno. Lui e i suoi insulsi capelli rossi.
«Sta tranquillo, non lo dirò a nessuno» ghignò, calmandosi e dimenticandosi per un attimo la sua voglia di scendere dal letto per tornare a fare disastri in giro.
Sospirai esasperato, raccogliendo il volume da terra e posandolo con poca grazia sul tavolo poco lontano dove faceva bella mostra di sé la cena di quell’invasato. Una minestrina e un po’ di pane dal sapore di plastica. Che bello schifo. Ovvio che poi io mi rifiutavo di mangiare quello che mi portavano.
Kidd intercettò il mio sguardo e pensò bene di uscirsene con un’altra delle sue cazzate di cui, per quella sera, ne avevo avuto anche abbastanza. Ormai, però, lo conoscevo piuttosto bene da sapere che non avrebbe mai smesso di deliziarmi della sua compagnia, avrebbe di certo continuato ad assillarmi solo per il gusto di farmi impazzire.
«Hai fame? Mangiala pure, io non ne ho voglia».
«Si sono invertiti i ruoli adesso, Baka-stass?» domandai scettico, giocherellando con il cucchiaio e rimescolando quella brodaglia dall’aria acquosa e schifosa.
L’altro sbuffò seccato, «Come siamo simpatici stasera».
«La colpa è solo tua perché sei un’emerita testa di cazzo» gli resi noto tranquillamente.
«Ha parlato…».
«Dannazione, Eustass-ya, chiudi il becco per una volta!».
Passarono alcuni pesanti minuti di silenzio, interrotti solo dal rumore fastidioso e tipico dei monitor che controllavano il battito cardiaco del rosso per tenerlo sotto stretto controllo in caso di anomalie e solo dopo quando mi fui calmato Kidd riprese a parlare, più contenuto e attento di prima.
«Questo ospedale sta facendo male a tutti» notò con stizza, ma con un sospiro quasi arrendevole. Sapevo cosa intendeva, si riferiva alla nostra prigionia e all’impossibilità di potercene andare una volta per tutti. Lui e Killer ci avevano provato e avevano ottenuto solo guai, invece che la libertà agognata. Aveva ragione, dopotutto, stare lì faceva davvero poco bene alla salute.
«A te soprattutto. Sul serio, tenerti rinchiuso è dannatamente difficile» confessai, sedendomi stancamente sul bordo del letto e spostando con un gesto stizzito i suoi piedi per farmi spazio e acciambellarmi meglio tra le lenzuola.
Kidd fece uno dei suoi tipici sorrisetti da cattivo ragazzo, quelli che facevano parte del suo repertorio quando, secondo lui, qualcuno gli faceva un complimento. A mio parere gli davano un’aria da completo bastardo, ma credo che lo sapesse.
«Non è facile tenermi buono» affermò, dedicandomi un’occhiata eloquente che voleva andare ad unirsi ai pensieri che mi si stavano formulando nella testa.
Sorrisi di rimando. A volte era incredibile come riuscisse a capire al volo quello che stavo pensando ancora prima che lo dicessi.
«Ti è mancato il sesso selvaggio?» chiese di botto, «Per questo sei incazzato e frustrato? Perché se vuoi io posso benissimo sbatterti al muro anche adesso, intendiamoci».
«Non vorrei che ti venisse un infarto» sibilai malefico, freddandolo con uno sguardo minaccioso e poco divertito. I suoi modi rozzi mi avrebbero sempre spiazzato, ne ero certo.
«Non hai risposto alle mie domande» sottolineò, ghignando soddisfatto.
«Oh, temo di doverti deludere» feci, fintamente dispiaciuto, «Qualcun altro è stato così gentile da sostituirti».
Il ragazzo si fece serio all’istante e un’aria assassina si impadronì del suo volto, costringendomi a mordermi un labbro per non scoppiare a ridere. Kidd era così facile da mettere nel sacco e così credulone. La cosa bella era che, in quel modo, riuscivo a capire perfettamente quanto fosse sentimentale. Infatti, quale altra emozione poteva rappresentare quel cambio repentino del suo umore? Si trattava di gelosia, pura e meravigliosa gelosia.
«Tu cosa? Rognoso figlio di…».
Non resistetti oltre ed iniziai a ridere come un completo idiota, passandomi una mano sul viso quando la testaccia rossa aprì la bocca con aria stupita e sconcertata, nonché offesa. Aveva capito di essere stato fregato e, come da programma, non mancò di maledirmi con una serie di insulti originali e mai sentiti prima. Il cuscino in faccia che mi arrivò poco dopo, però, non lo gradii affatto.
«Infantile! –una cuscinata sulla testa- Razza di idiota! –ecco che cercò di contraccambiare- Ti ammazzo!».
«Ma che vuoi fare? Sei più rachitico di mio nonno!» ribatté, bloccandomi il braccio che reggeva il cuscino e approfittando di quella mossa per colpirmi per primo.
Il colpo mi fece storcere il naso per l’impatto, ma riuscii a riprendermi abbastanza in fretta per sfuggire a quello seguente, piegandomi all’indietro con uno scatto e finendo con la schiena sul materasso dopo aver perso l’equilibrio.
«Maledizione» imprecai a denti stretti, non appena Kidd mi sovrastò, gongolando vittorioso e sogghignando come un ebete.
«Adesso sei ancora arrabbiato?» domandò con tono scherzoso, riferendosi al discorso precedente e mettendosi comodo, puntellando i gomiti ai lati del mio viso per sostenersi e guardarmi in faccia.
Mi imbronciai, evitando i suoi occhi volutamente e incrociando le braccia al petto, per quanto la sua mole me lo permettesse.
«No, non mi interessa se vuoi ammazzarti da solo» dissi stupidamente, irritandomi non poco quando lo sentii ridacchiare di fronte al mio cipiglio da superiore.
«Volevo solo tirare su il morale a Killer» confessò infine, abbandonando per un istante il divertimento.
«E ci sei riuscito?» mi accertai.
Sorrise. «Un po’».
«Potevi chiamarmi» borbottai, «O almeno dirmelo. Oppure, che ne so, fare qualcosa. Sei sparito, cazzo».
«Te lo meritavi, lo sai».
Lo guardai torvo, punto nel vivo del mio orgoglio e infastidito dal fatto di non essere riuscito a far passare lui dalla parte del torto. La cosa peggiore era che sapevo di essermi meritato quel comportamento distaccato nei miei confronti. Avevo detto una cosa assurda e priva di senso, forse anche un po’ egoista dato che uno dei nostri amici era appena morto, perciò alla fine ero arrivato a capire dove avevo sbagliato, ma sentirmelo dire espressamente da lui e doverlo ammettere ad alta voce bruciava. Soprattutto per uno come me che era abituato a prevalere su tutti ed avere sempre l’ultima parola.
«Vaffanculo, Eustass-ya» mormorai, deciso a non dargliela vinta e a mantenere una briciola di amor proprio intatta. Non potevo lasciare che quel moccioso iniziasse a credere di avere tanta influenza su di me, assolutamente.
«Stronzo psicopatico».
«Non sprecare il fiato, potrebbe servirti».
«Per rianimarti quando crollerai a terra senza energie?».
«O per avere una riserva quando starai per tirare le cuoia».
«Datti fuoco» sbottò.
Fu il mio turno di ghignare, felice di essermi ripreso una soddisfazione personale che era quasi come una rivincita su tutto quello che era successo. Quando Kidd rispondeva ad una frecciatina con un insulto voleva dire che non aveva più nulla da usare per ribattere aspramente. Ciò, ovviamente, mi dava un immenso piacere.
Stupidamente mi ritrovai a pensare che mi era mancato quello scambio di battute, quella sua faccia incazzata e l’espressione burbera, i capelli disastrati e i modi poco cordiali e bruschi. Erano state due settimane insulse, vissute in modo passivo senza uno scopo o un obbiettivo. Non mi ricordavo nemmeno come ero solito vivere quando ancora non avevo incontrato quel coglione di Eustass-ya. Cosa facevo per non morire dalla noia durante il giorno? Chi mi infastidiva tanto? Con chi è che sfogavo il mio sadico umorismo? Era assurdo, lo sapevo e me ne rendevo conto, eppure non ne avevo la minima idea. Pensarlo era già abbastanza difficile, ma dirlo sarebbe stata una vera e propria eresia, ma, ad ogni modo, Kidd aveva praticamente fatto un miracolo, distraendomi, tormentandomi e, soprattutto, sfidandomi a mangiare. Aveva capito che bisognava mettermi alla prova, darmi una scusa per mostrarmi migliore degli altri, e aveva usato tutto ciò a suo vantaggio solo per non lasciarmi morire di stenti.
Cazzo, a questo qua devo quasi la vita, pensai controvoglia, fissandolo storto e con una smorfia sulle labbra.
Lui stava facendo lo stesso, guardandomi schifato e studiandomi attentamente, pronto a difendersi se mai lo avessi attaccato verbalmente. Sembravamo quasi due persone che si incontravano per la prima volta e che capivano di detestarsi alla prima occhiata.
Diciamo che per noi era andata proprio in quel modo.
«Che hai da guardare?» disse acido, assottigliando lo sguardo.
Sbuffai seccato, «Guardo quanto sei ridicolo con quei capelli».
«Capelli che non ti dispiace accarezzare quando scopiamo, vero?» sussurrò malizioso, avvicinandosi di qualche centimetro e non lasciandomi nemmeno il tempo di ribattere per le rime a quell’affermazione falsa e assurda che non aveva niente di vero.
A volte desideravo davvero che tutto finisse per non dover più soffrire, ma poi arrivava lui con qualche stronzata, un bacio che sapeva di buono e un cuore da guarire.
Come potevo, allora, smettere di esistere?
Sciolsi le braccia che tenevo incrociate e gli passai le mani tra quella zazzera infuocata, sentendolo sorridere soddisfatto.
«Non dire nulla» lo minacciai, prendendo fiato per ricominciare poi da dove avevo interrotto. Volevo solo che stesse un po’ zitto, poi avrebbe potuto dire tutto quello che voleva, ma solo dopo, quando avremo finito di consumarci a vicenda la bocca e tutto il resto di noi che bruciava e ardeva allo stesso tempo.
Grazie al Cielo non si sognò nemmeno di controbattere.
 
*
 
Qualcosa non andava.
Era notte fonda, Trafalgar si era addormentato da un pezzo ormai sulla poltrona accanto a me e in corridoio non si sentiva volare una mosca. Allora cos’era quel fastidioso fischio che mi stava rimbombando nelle orecchie incessantemente?
Feci per muovermi con l’intento di mettermi seduto e accendere la luce, ma una fitta allucinante al petto mi mozzò il respiro e mi fece rendere conto che il sibilo che sentivo era quello emesso dal mio respiro ansimante, confuso con quello tipico del monitor che sembrava stare impazzendo accanto al mio letto.
Una luce inondò la stanza e rumori di sottofondo misti a una voce ovattata mi diedero la conferma che c’era davvero qualcosa che non andava e, purtroppo, sapevo anche di cosa si trattava.
Il problema era il mio cuore.
Stava cedendo.
Mi sentii quasi sollevato all’idea, me l’ero anche aspettato che sarebbe successo a breve, dopotutto aveva retto abbastanza a lungo da permettermi di godermi gli ultimi mesi in santa pace.
Beh, magari pace era una parola grossa, visto e considerato che ero stato circondato da idioti assillanti e pazzi, ma dovevo anche ammettere che non era andata tanto male ed ero soddisfatto del risultato.
Non potevo nemmeno lamentarmi, soprattutto perché mi era persino stata concessa un’ultima notte con quel bastardo saccente di Trafalgar. Dovevo quindi mettermi il cuore, anzi, l’anima in pace e accettare quel destino.
Avrei potuto combattere, non ero mai stato tipo da gettare la spugna, ma i medici erano stati chiari su quel punto: se il cuore cedeva, voleva dire che non c’erano speranze.
Prima di morire, però, avrei dovuto sopportare il dolore, la sensazione di annegare e cadere nell’oblio e il respiro che mi moriva in gola per quanto male mi faceva il petto.
Davanti a me intravvedevo un’unica figura indistinta che parlava, o urlava, a vanvera, iniziando a inserire tubi nelle mie vene per tentare di stabilizzarmi e facendo un casino assurdo per quanto mi riguardava. Gli unici colori che riuscivo a distinguere erano quelli della maglia che portava, giallo e nero, poi nient’altro, il viso non riuscivo a focalizzarlo.
Intuii vagamente che ci stavamo muovendo quando le pareti della stanza scomparirono, sostitute da un lungo corridoio poco illuminato e da una serie di porte chiuse che mi sfrecciavano ai lati velocemente.
Non avevo idea di dove quell’idiota mi stesse portando, ma me ne feci una quando riconobbi le porte dell’ascensore chiudersi alle nostre spalle.
«D-dove…» provai a dire, cercando inutilmente di muovermi e venendo subito bloccato.
«Sta zitto e fermo. Ti porto in sala operatoria».
Quel coglione, cosa aveva in mente di fare? Perché, anche se non ero ferrato in materia, ero certo che fosse compito dei dottori operare, ma non avevo le forze per contestare e tutto si stava facendo vagamente buio e scuro, perciò lo lasciai fare, standomene zitto a sopportare il dolore e ad attendere che i battiti impazziti rallentassero fino a smettere.
Sarebbe potuta andare a finire bene la storia, sarei potuto arrivare in sala operatoria in tempo per ricevere un miracolo o per dare la possibilità ai medici di fare il possibile, anche se alla fine me ne sarei andato. Tutto avrebbe potuto svolgersi diversamente, invece, per qualche strano scherzo del Destino, il generatore dell’ospedale decise che doveva guastarsi proprio in quel momento, togliendo la corrente a tutto l’edificio e lasciando Trafalgar e me al buio e bloccati in un fottuto ascensore con un collasso in corso.
«Merda!» urlò Law, tirando un pugno alla parete e cercando a tentoni il tasto giusto da premere per dare l’allarme. Fortunatamente avevano provveduto a inserire una luce di riserva che si accendeva in momenti critici per non lasciare nel panico i poveri disgraziati che si trovavano nei guai, così riuscì a schiacciare il bottone giusto, rivelando così la nostra posizione a chi sorvegliava l’ospedale quella notte.
Non sapevo quanto tutti fossero nel panico, troppo impegnato a tenere sotto controllo il mio, e non mi resi conto della voce di Trafalgar che, dopo aver passato parecchi minuti a inveire contro Dio solo sapeva chi e a riversare i suoi insulti sull’unica persona presente assieme a lui, ovvero me, aveva preso a discutere animatamente con qualcun altro.
Con fatica riaprii gli occhi, individuando alcune facce sopra le nostre teste che agitavano le braccia e calavano qualcosa affinché Law potesse afferrarla e farne buon uso.
«Siete pazzi? Morirà dissanguato nel giro di un minuto!» sbraitava con rabbia, senza nemmeno degnare i presenti di uno sguardo e mantenendo i suoi occhi gelidi, o forse erano terrorizzati?, nei miei, mentre si infilava distrattamente dei guanti di lattice.
Non stavo capendo proprio un bel niente e mi sembrava di non avere nemmeno più la forza per respirare e restare sveglio.
«Non dormire, non dormire!».
L’ultima cosa che vidi fu la lama di un bisturi che scintillava alla luce delle torce artificiali.
Non appena riaprii gli occhi mi stupii della strana luce chiara e azzurrognola che circondava ogni cosa, soprattutto non riuscii a spiegarmi che cosa ci facessi sdraiato per terra sul pavimento non proprio caldo e accogliente. Sopra di me vedevo delle strane macchie di luce gialla e accecante e potevo vagamente intuire che c’era qualcuno che si muoveva in modo frenetico nel tentativo di fare qualcosa di eroico, o di stupido, dipendeva dai punti di vista.
«Ehi, guarda chi si vede!».
«Uh? Tu? Che diavolo…» iniziai a dire a bocca aperta per lo stupore.
«Che fai a terra? Alzati, così vedi meglio!» disse il ragazzino con il solito insulso cappello calcato in testa, porgendomi una mano e aiutandomi a tirarmi su, dandomi poi un’amichevole pacca sulla spalla. «Ti trovo bene, Kidd».
«Penguin? Sono morto, per caso?» gli chiesi, passandomi una mano fra i capelli per spostarmeli dalla faccia e ritrovandomi le mani rosse e umide. «Cosa cazzo…?» mi allarmai.
«No» disse l’altro, scuotendo il capo e guardando davanti a sé con aria allegra. «O meglio, non ancora».
Seguii il suo sguardo e rimasi sconvolto dalla scena che mi si presentò di fronte: che stava combinando quel pazzo?
Trafalgar Law, con un’espressione che non gli avevo mai visto sul volto, fissava concentrato e con l’aria indistruttibile e tesa il mio torace aperto e trafficava con le mani insanguinate nel tentativo di fare qualcosa. Accanto a lui alcuni bisturi e altri oggetti diabolici e freddi facevano mostra di sé, venendo usati e poi riappoggiati al loro posto dal ragazzo che tentava disperatamente di… far battere un cuore?
Aspetta, pensai l’istante dopo con sconcerto, sentendo montare la rabbia, mi sta operando in ascensore?
«Figlio di puttana!» sbottai, sferrandogli d’istinto un pugno dritto alla mascella, ma la cosa bella accadde dopo, quando rischiai di inciampare, dato che il colpo andò a vuoto, trapassando Trafalgar e facendomi capire che quello non ero io, almeno, non con il mio corpo.
Penguin lesse il mio panico negli occhi e, scuotendo il capo con un sorrisetto beffardo, probabilmente aveva immaginato una reazione del genere e aveva preferito godersi la mia scenata invece di avvisarmi, mi afferrò per un braccio, trascinandomi più indietro per farmi vedere bene lo svolgersi della scena.
«Sei in un’altra dimensione, non puoi interagire con lui» mi spiegò pacato, nascondendo le mani nelle tasche e guardando con ammirazione quello che era stato uno dei suoi migliori amici.
«Posso sapere cosa significa tutto questo?» chiesi scocciato, «Se non sono morto perché mi trovo qui, per giunta con te che, scusa la franchezza, sei sottoterra da un pezzo?».
Penguin scoppiò a ridere di gusto e per niente toccato dalle mie frecciatine macabre. «Mi eri mancato testa rossa, davvero!».
Alzai gli occhi al cielo, convinto che quello fosse drogato, o qualcosa del genere.
«E’ successo anche a me» disse, una volta calmatosi, «Quando mi hanno operato mi sono trovato in un luogo diverso, con Ace, credo te l’abbia raccontato, e lì sono rimasto ad aspettare».
«Aspettare cosa?».
Si strinse nelle spalle. «Aspettare di vivere. Aspettare di morire. Che differenza fa? Ad ogni modo, adesso tocca a te».
«Che dovrei fare esattamente? Sono in un ascensore con il petto aperto e un matto mi sta spappolando gli organi» evidenziai con sarcasmo, fissando malamente Trafalgar e le sue manacce, accorgendomi subito dopo che la cosa umida che sentivo sulle mani era il mio sangue.
Penguin iniziò a ridacchiare e, davanti alla mia faccia interrogativa, indicò il moro a pochi passi da noi che lavorava stringendo i denti e sussurrando di tanto in tanto qualche parola verso il mio corpo steso inerme su una barella.
«Lui era il migliore del suo corso» disse con ammirazione, «Anche quando si è ammalato non ha smesso di studiare e di curiosare in giro. Sai, da quando è venuto a sapere del tuo problema ha iniziato a fare ricerche e a consultare vari specialisti del posto per trovare una soluzione. Credo che sia più informato lui che tutti coloro che hanno condotto i tuoi esami» ammise e, sbirciando da sotto il cappello la mia faccia, sorrise.
Non so perché lo fece, forse perché la mia reazione lo lasciò soddisfatto, dopotutto, chi mai si era preoccupato tanto per la mia salute? In quel momento avrei voluto sminuire il suo gesto con disinteresse, magari insultandolo o disprezzandolo, invece mi sentivo spiazzato, sorpreso, forse anche un po’ lusingato. Come ci si sentiva quando qualcuno mostrava interesse e premura senza l’obbiettivo di ottenere in cambio qualcosa? Senza nemmeno conoscere chi si aveva di fronte?
Di qualunque cosa si trattasse, io non ero contento, affatto.
«Sei stato fortunato ad averlo avuto vicino questa notte» proseguì Penguin, «Se così non fosse stato, probabilmente saresti già al piano superiore e credimi, allora mi avresti avuto alle costole non solo per pochi minuti, ma per molto, molto tempo».
Repressi un brivido di inquietudine e deglutii a fatica, incapace di spostare gli occhi dall’impegno che Trafalgar stava impiegando per rianimarmi e tenermi in vita fino a quando non avrebbero riavviato il generatore, permettendo così ai medici di portarmi in sala operatoria e finire il lavoro.
Mi aveva intubato senza ascoltare il consiglio degli esperti e poi aveva proceduto senza ripensamenti, aprendomi il torace con un’ampia incisione a livello intercostale, in modo da poterci infilare tutte e due le mani e raggiungere la zona interessata. Quello era stato l’inizio e poi, seguendo alcune istruzioni impartitegli da uno dei primari arrivato sul posto che gli parlava da una fessura aperta sul soffitto, aveva rimosso un coagulo che ostruiva la circolazione del sangue, sospirando sollevato per poi riprendere da dove aveva lasciato.
«Avanti Eustass-ya» sussurrava, «Guai a te se osi morire. Giuro che ti raggiungerò all’altro mondo solo per tormentarti».
Ghignai, quel bastardo non sarebbe mai cambiato.
Ad un tratto, quando sembrava che sarei ritornato nel mio corpo prima del previsto, il volto di Law si contrasse in una smorfia arrabbiata e, imprecando a bassa voce, urlò ai presenti di portargli una pinza dal nome impronunciabile perché si era creata un’emorragia e doveva assolutamente fermarla.
«Mi sento girare la testa» mormorai, appoggiandomi alla parete dell’ascensore.
«E’ normale» mi assicurò Penguin, sostenendomi e impedendomi di scivolare sul pavimento, «Potresti morire da un momento all’altro».
Lo guardai spaesato, desiderando di poterlo prendere a pugni ma, per fortuna, si corresse e cercò di tranquillizzarmi. «Ma non accadrà, fidati di lui. Non ti lascerà andare».
Furono dei lunghissimi e interminabili minuti in cui il tempo parve fermarsi. Law afferrò la pinza che gli porsero dall’alto, infilando una mano nel buco sul mio petto e tastando alla ricerca di qualcosa, sorridendo impercettibilmente quando trovò quello che stava cercando, ovvero l’aorta. E, accanto ad essa, ecco che lo vidi sospirare.
«Ho trovato l’emorragia! Ma la vena è troppo lontana, non riesco a suturarla in questo stato» urlò, mordendosi un labbro.
«Quanto è grande?» domandò qualcuno.
«Come una moneta».
«Mettici il dito e tappa il buco».
Vidi Trafalgar alzare gli occhi al cielo e chiuderli per un attimo, prendendo fiato e tastando la carne, riaprendoli prima di parlare.
«Trovata» fu quasi un sussurro. Si schiarì la voce. «Credo… Credo che si sia fermata e… -poi più forte- E il cuore sta ricevendo sangue, si sta stabilizzando!».
Mi sentii come se mi fosse stato tolto un peso dal petto, forse era andata proprio in quel modo, ma ne ebbi la conferma solo quando vidi Penguin sorridere e scherzare come aveva sempre fatto, scompigliandomi i capelli e ignorando le mie minacce, sostenendo che nel suo stato non avrei potuto di certo ucciderlo.
«Mi sento pesante, che vuol dire?» gli chiesi, guardando le mie mani ritornare pulite e sentendomi trascinare verso la barella dove Law stava respirando profondamente per rilassarsi nell’attesa che lo tirassero fuori dall’ascensore.
«Sei salvo, vecchio mio. Tra poco vi tireranno fuori e ti ricuciranno. Magari, chi lo sa, tra qualche giorno potrebbe presentarsi un donatore con un cuore tutto per te» ammiccò e, per qualche motivo, mi immaginai lui che andava in giro a smistare carte e a mettere insieme i pezzi di un puzzle immaginario per farmi ottenere ciò che mi serviva per stare bene.
Il tempo iniziava a stringere e mi sentii in dovere di ringraziarlo, ma non ero avvezzo di certe cose e le parole mi rimasero incastrate in gola, non dette.
«Lo so, non preoccuparti. E’ stato un piacere» annuì Penguin, intuendo quello che volevo dirgli e salutandomi con la mano. «Hai delle maniere che lasciano a desiderare, ma sei uno dei migliori amici che ho mai avuto, Kidd».
«Piantala di essere smielato, nanerottolo, dimmi cosa posso fare per sdebitarmi e facciamola finita». Tutto sommato, però, non riuscii a risultare brusco o scocciato.
«Fammi un favore soltanto: dì a Killer che, ogni volta che gli sembra di cadere, ci sarò io a sorreggerlo».
Sorrisi e ci scambiammo uno sguardo d’intesa mentre il mondo tremava e tutto svaniva. Il migliore tra tutti e il più coraggioso era stato lui e lui soltanto e mai lo avrei dimenticato, nonostante la lingua lunga e la tendenza a far impazzire le persone.
«Eustass-ya, ora andiamo in sala operatoria» disse Trafalgar, chinandosi su di me per rassicurarmi e trattenendo a stento il tremolio della voce. Poi sospirò.
«Grazie per non avermi fatto vincere la scommessa».
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Ehm.
Buongiorno?
*si prepara ad affrontare la terza guerra mondiale fatta di insulti e frutta marcia*
Lo so, credetemi, lo so. LO SO. Va bene? E’ passato, quanto? Un casino di tempo, si, ehm, non so da dove iniziare.
Le idee c’erano, ma era complicato metterle per iscritto, quindi ho lasciato scorrere il tempo fino a che non ho capito che mi stavate chiedendo in troppi se avessi abbandonato la storia, così mi sono detta che dovevo smettere di poltrire e finire questo capitolo lasciato a metà!
Signore, ce l’ho fatta. E’ stato un calvario.
Insomma, tra Marco che non capisce un cazzo, tra Ace che sembra avere il ciclo, Kidd e Killer che scappano per andare al mare, Law che opera in via eccezionale in ascensore e Penguin che fa il fantasma, beh, è un bel mattone da digerire.
Che dire, partiamo dai primi: Ace e Marco. sapete, volevo farli litigare per poi concludere con una riappacificazione, ma ho cambiato idea e voglio dare a Ace modo di sfogarsi ed essere incazzato perché ne ha tutto il diritto. Marco è pentito, gli dispiace davvero, non fa finta, e ha capito che prova qualcosa di bhufhuafjdukvhe per Ace, ma il ragazzo è ancora troppo scosso e non gli permetterà di rimediare, non subito almeno u.u
Law è incazzato come una belva dato che Kidd ha fatto una grandissima cazzata, ovvero ha tentato di andare al mare con Killer. Aveva un buon motivo, certo, ma immaginatevi la preoccupazione, awww ** basta, quei due si amano. Poi, ovviamente, bisognava pur fare pace, no?
Giustamente, niente può andare rose e fiori, quindi evvai, una complicazione e un blocco in ascensore. Riguardo a questo posso dirvi che mi ha ispirato una scena che ho visto seguendo il telefilm di Grey’s Anatomy, 2x05, se siete interessati ^^ avviene una cosa del genere e mi sembrava bello che fosse Law a stabilizzare Kidd prima dell’arrivo dei medici **
Che cosa romantica ;_____________;
ciao Penguin, non posso dimenticarti ;________;
Anyway, vi prometto che tornerò presto, davvero, e non ho intenzione di lasciarla incompleta, anche perché mancheranno si e no due capitoli ^^
Bene, per oggi è tutto e vi ringrazio immensamente per la pazienza e la fiducia!
Un abbraccio enorme e scusatemi ancora.
Ace.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. ***


Capitolo 8.

 

(Il pomeriggio seguente).

Fissai il vuoto per una buona decina di minuti, elaborando la spiegazione che mi era stata data e cercando di connettere bene tutti i dati per non fraintendere nulla.
«Quindi è vivo?» domandai, forse per l’ennesima volta nel giro di un’ora. Qualcuno avrebbe dovuto dare un premio a Trafalgar per l’immensa pazienza che aveva portato quel pomeriggio, dopo che avevano appena trasferito Kidd in osservazione a operazione finita e che era durata la bellezza di una notte intera, mattina compresa.
Law assentì, massaggiandosi le palpebre pesanti per il sonno perso. Da quello che avevo capito non si era mai allontanato dalla sala d’attesa mentre il nostro amico era sotto ai ferri. «Si, se la caverà».
A qualsiasi altro il tono di voce che usò sarebbe parso piatto e senza il minimo sentimento, ma avevo passato abbastanza mesi in sua compagnia per capire che era sollevato. Semplicemente faceva di tutto per non darlo a vedere e mascherava le sue emozioni con la spossatezza che il nervosismo accumulato gli aveva lasciato addosso. Era un miracolo che non avesse ancora avuto un crollo di nervi o del fisico.
«Ce l’ha fatta davvero» mormorai, tornando ad osservare la porta chiusa in fondo al corridoio dove Kidd riposava in quel momento, ancora sotto anestesia e sedativi. Ma, nonostante tutte quelle difficoltà, si sarebbe svegliato. Dovevo aggrapparmi a quella consapevolezza e tenermi stretto ad essa perché, se solo l’idea di perdere anche il mio migliore amico oltre che a Penguin mi sfiorava, il mondo sembrava crollarmi addosso. Invece dovevo stare tranquillo e concentrarmi sui giorni a venire. Sicuramente Kidd avrebbe avuto bisogno di compagnia e di qualche goccio di alcool per mandare giù la nottataccia che aveva passato. Non sapevo spiegarmi come, ma avevo la netta sensazione che il rosso sarebbe stato piuttosto irascibile e intrattabile dopo aver saputo ciò che gli era successo.
Feci un respiro profondo, schioccandomi le nocche e prendendo a tamburellare le dita sul ginocchio. La riabilitazione stava andando bene, il fisioterapista sembrava un tipo abbastanza sveglio da capire che non doveva urtarmi i nervi con troppe domande o incitamenti e aveva pure imparato a sue spese che, quando non mi riusciva di compiere bene un movimento, non doveva compatirmi e dirmi che sarebbe andata meglio una delle prossime volte. Ad ogni modo, me la stavo cavando e le stampelle non le usavo quasi più. Certo, mi sentivo ancora un po’ instabile se provavo a correre, ma la buona notizia era che avevo superato bene il primo ciclo di sedute e presto mi avrebbero dimesso, a patto che continuassi a farmi visitare almeno una volta a settimana fino a che non fossi guarito del tutto.
La verità era che le ferite peggiori non erano quelle fisiche, non erano le ossa rotte, quelle potevano riaggiustarsi; non erano i graffi e le cicatrici, quelli scomparivano con disinfettante e punti di sutura; non era nemmeno il trauma dell’incidente, quello lo avevo superato; no, era qualcosa di peggiore, una perdita che non si poteva recuperare, un vuoto impossibile da colmare. Di dimenticare non se ne parlava, tutto tra quella pareti mi ricordava quel ragazzo disabile, ma iperattivo. Forse uscire dall’ospedale mi ci voleva, sarebbe servito ad alleviare almeno un po’ la sofferenza.
Quando Kidd ci aveva provato, convincendomi ad andare al mare, durante il tragitto verso il porto mi ero sentito quasi rinnovare. Respiravo aria diversa che non sapeva di chiuso, di dolore e di morte, e potevo percepire chiaramente la forza scorrermi nel sangue, rianimandomi.
Non mi sarei lasciato Penguin alle spalle, quello mai, sarebbe sempre rimasto con me, nel cuore, ma sentivo che dovevo andarmene, ormai era giunto il momento. Dovevo andare avanti e riprendere in mano le redini della mia esistenza e decidere di farne qualcosa di costruttivo, di soddisfacente e di bello.
Dovevo farlo, dopotutto l’avevo promesso a Penguin.
«Ragazzi!» chiamò qualcuno con il fiatone. Mi voltai dalla parte opposta e vidi Ace avanzare verso di noi, le mani tra i capelli corvini scompigliati, più simili ad un nido di uccelli che ad altro, dei pantaloni da tuta grigi, troppo larghi per lui dato che gli ricadevano sui fianchi e doveva continuamente tirarli su per evitare di perderli e una maglia arancione un po’ sbiadita. Sembrava essersi appena svegliato.
«L’ho appena saputo. Quegli stronzi dei dottori in reparto hanno preferito lasciarmi dormire invece che svegliarmi per avvisarmi. Come se non avessi dormito abbastanza!» spiegò stizzito, sedendosi scompostamente accanto a Law e mettendosi una mano sul petto per calmare il respiro ansante e affaticato.
«Non esagerare» lo ammonì il moro con un’occhiataccia storta, «Ti ricordo che tu sei il miracolo del decimo piano che si è svegliato da un coma irreversibile. Vedi di non farti venire un infarto per lo sforzo».
Ace alzò gli occhi al cielo. «Che palle! Non fate altro che ripetermelo».
Il riferimento al plurale che fece e il tono irritato che usò mi diedero ad intendere che doveva essere successo qualcosa a causa di quel discorso che Trafalgar aveva appena fatto sulla sua condizione di salute, ma non era il momento migliore per fare domande. Infatti, pochi istanti dopo, il ragazzino volle subito essere informato nei minimi particolari sulle condizioni di Kidd, costringendo così Law a dover raccontare la storia del salvataggio in ascensore daccapo, sotto lo sguardo ammirato del moccioso. Venne poi definito un eroe, ma liquidò il suo gesto come un nonnulla, sminuendo l’importanza e non volendosi prendere nessun merito.
«Ho fatto solo quello che dovevo» disse serio, non staccando gli occhi dall’ultima stanza infondo al corridoio.
Avrei voluto dirgli grazie in quel momento, grazie per non aver permesso che anche Kidd ci abbandonasse. Lo aveva salvato e non sarei mai stato in grado di sdebitarmi, anche se non voleva sentir parlare di gratitudine, complimenti e altro. Non voleva il merito di nulla, come se la cosa non gli importasse, ma avevo chiaramente capito che anche a lui bastava solo sapere che Eustass Kidd presto sarebbe tornato a riempire l’ospedale di bestemmie e insulti coloriti. Senza di lui sarebbe stato davvero un mortorio.
Passammo le ore successive del pomeriggio in quel modo, dandoci il turno per andare alle macchinette per prendere qualcosa: un caffè per Law; una barretta di cioccolato per Ace e una bottiglietta d’acqua per me. Quando fu il turno del Bello Addormentato Miracolato, il soprannome era passato di grado al suo risveglio, lo vidi fare ritorno con qualcosa in più che riconobbi come la merenda preferita del rosso.
«Così quando si sveglia trova qualcosa di buono, no?» fece Ace con fare innocente, sembrando un bambino contento per aver avuto una trovata geniale.
Law represse uno sbadiglio e si stiracchiò come un gatto, lasciando che le ossa della schiena scricchiolassero come assi di legno. Quel suono mi fece venire la pelle d’oca.
«Perché non vai a dormire un po’?» gli proposi, «Se ci sono novità sarai il primo a saperlo» gli assicurai subito dopo, conscio di quanto ci tenesse ad essere presente al risveglio del suo…
A proposito, suo cosa? Escono ufficialmente assieme o scopano e basta? mi domandai, attendendo una risposta che arrivò glaciale e irremovibile.
«No».
Non cercai più di suggerirgli di fare il suo bene e lasciai perdere. Fin dall’inizio era stato chiaro che Trafalgar non avrebbe mosso nemmeno un muscolo per allontanarsi da lì, piuttosto si sarebbe fatto trascinare via a forza, non senza prima aver combattuto, urlato e lottato.
Ace intanto, il quale aveva preso a sgranocchiare cioccolata rumorosamente guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa da fare per passare il tempo, quasi rischiò di strozzarsi per le risate alla vista di qualcosa che per lui doveva essere molto buffo.
«Ehi, guardate lì» disse, tossendo e indicando qualcuno al banco informazioni, «Mai vista una roba del genere!».
Si riferiva senza ombra di dubbio all’unica cosa assurda, appariscente ed eccentrica, ovvero una giacca di piume rosa, indossata da un uomo piuttosto alto e biondo che gesticolava tentando di spiegare qualcosa ad una delle infermiere di turno. Accanto a lui, un altro uomo, vestito con pantaloni, camicia con le maniche arrotolate fino ai gomiti e le bretelle, restava impassibile, guardando ovunque tranne che verso i due vicino a lui, quasi come se volesse scomparire dalla scena.
Inarcai un sopracciglio in modo curioso. «Sono piuttosto particolari, si».
«Quella roba» si fece sentire Law, «Sono gente che conosco».
Mi voltai a guardarlo con sorpresa. In quell’arco di tempo non lo avevo mai visto in compagnia di nessun adulto, genitore, amico o tutore che fosse. «Sul serio?» domandai stupito. E chi se ne fregava del mio commento di prima. Nemmeno lui poteva dire che non fossero almeno un po’ strani.
«Certo» affermò con calma, sospirando stancamente e alzandosi dalla sedia per andare incontro ai due sconosciuti che lo notarono solo in quell’istante. Quello con la giacca rosa alzò una mano in un gesto di saluto, affrettando il passo e dirigendosi sparato verso il ragazzo davanti a me che, chiudendo gli occhi, si preparava mentalmente ad affrontare quel momento.
«Sono i miei papà» dichiarò, prima di incamminarsi lungo il corridoio e facendo si che Ace sputasse nelle mani quello che stava mangiando, mentre io sbiancavo.
«Ah» dissi, dopo attimi di silenzio, guardando come Law scompariva, sommerso dal piumaggio dell’abito e sovrastato dalla mole del primo genitore. «Buona a sapersi».
«Quanto vorrei che Marco potesse vedere tutto questo» sentii borbottare da Ace che, quasi con fastidio, si puliva le mani con un fazzoletto, scagliandolo malamente nel cestino e facendo centro. Ma che diamine avevano combinato quei due?
Sono stato troppo tempo chiuso in camera, pensai malinconico, decidendo di alzarmi e andare a prendermi qualcosa da mangiare, lasciando così a Trafalgar un po’ di tempo da solo con i suoi parenti, i quali sembravano davvero felici di vederlo, dato il modo amorevole con cui lo riempivano di attenzioni e la reazione non del tutto affettuosa con cui il figlio li respingeva, insistendo nel dire che stava bene e che non era più un bambino.
Raggiunsi le macchinette con tutta calma, scegliendo cosa prendere e optando per un sacchetto misero di patatine che avrei finito nel giro di qualche secondo. Pazienza, avevo già deciso che ne avrei preso un altro per sicurezza.
Fu mentre inserivo gli spiccioli che mi accorsi di che qualcuno mi stava osservando dal punto in cui due corridoi facevano angolo, unendosi e dando su un’altra ala dell’ospedale.
Fissai quel ragazzino imbottito dal giaccone e con una tracolla marrone che fungeva da borsa improvvisata; i ciuffi castano ramati gli ricoprivano la fronte scomposti, mentre gli occhiali da sole dalle lenti nere gli ricadevano sul naso. Reggeva tra le mani un cappellino verde e lo stringeva in modo nervoso mentre si mordicchiava le labbra, abbozzando un sorriso timido e indeciso su cosa dire.
Lo riconobbi subito, sentendo le pareti che avevo innalzato nel mio animo per combattere la tristezza e la mancanza di Penguin cedere inevitabilmente alla vista di quel piccoletto.
«Tu sei Killer» mormorò. Non era una domanda.
Feci un respiro profondo, ricambiando lo sguardo abbattuto e scostandomi un poco la frangia.
«Ciao Shachi».
 
*

 

(Nello stesso momento, in sala d’attesa).

«Appena l’abbiamo saputo siamo saltati in macchina e siamo corsi qui».
«Non oso immaginare il calcolo dei rilevatori di velocità al vostro passaggio» risposi sarcastico, scostandomi di dosso la mano di mio padre che si era immersa nei miei capelli per carezzarli. Detestavo quando facevano così, per la precisione sempre, riempiendomi di attenzioni che non volevo davanti a chiunque. Non erano capaci di trattenersi almeno un poco?
«Suvvia, non potevamo certo restare indifferenti» si difese l’uomo, accomodandosi sulla sedia dove fino a pochi secondi prima era stato seduto Ace, il quale se l’era data a gambe levate per non venire immischiato in una riunione di famiglia. Per quanto ne sapevo, ne aveva già una abbastanza numerosa da bastargli per tutta la vita ed ero certo che nessuno volesse avere a che fare con un rompi coglioni come Donquixote Doflamingo.
Mio padre per disgrazia.
Lui e papà Vergo erano le persone più strane che avessi mai incontrato, quell’aspetto un po’ spiegava anche i miei comportamenti scostanti, ma ciò lo sapevo soltanto io e alle altre persone la cosa poteva risultare difficile da capire. Mi avevano adottato quando ero ancora in fasce, un minuscolo cosino rosa appena nato che aveva la meravigliosa caratteristica di non piangere durante la notte. Ogni volta che mi obbligavano ad ascoltare tutta la storia, che per me era un supplizio di nervi, mi spiegavano come fosse stato per loro amore a prima vista davanti al mio faccino dolce e ai miei occhioni glaciali. Reprimevo conati di vomito ogni santa volta.
Mi avevano così portato a casa loro, una villa lussuosa in uno dei quartieri più privilegiati della città, e mi avevano cresciuto con tanto amore paterno per tutti quegli anni. Ad anima viva, o a loro stessi, non l’avrei mai detto, ma erano stati dei bravi genitori.
Nonostante gli impegni lavorativi trovavano sempre il tempo di passare con me i momenti principali della giornata, come la colazione, il pranzo e la cena. La sera, poi, mi tenevano compagnia in salone, si interessavano della scuola, dei miei amici, dello sport, insomma, si tenevano aggiornati su tutta la mia vita. Le feste le passavamo assieme e mai avevano provato a scambiare l’affetto con regali o altre sciocchezze per compensare la loro assenza. Non era mai successo e, per quanto odiassi ammetterlo persino a me stesso, non avevo nulla di che lamentarmi. L’unica cosa che, a ventiquattro anni compiuti, stonava in tutto quel quadretto, era il fatto che continuassero ad essere così ruffiani e attaccati a me, tanto da mettermi sempre in imbarazzo tentando di stritolarmi, invece che abbracciarmi.
«Il nostro bambino ormai è cresciuto, Doffy».
«Già, ha eseguito il suo primo intervento e per giunta in un ascensore!» si inorgoglì il biondo, guardandomi fiero.
Strinsi i denti e sospirai pesantemente. «Non era un intervento» tentai di spiegare, ma fu tutto inutile. Quei due idioti continuarono a blaterare sciocchezze per una buona mezz’ora, ripetendo quanto fossero orgogliosi, contenti e felici di sapermi in forma e in buona salute. Erano, inoltre, stati informati dei miei progressi e del mio ormai insperato aumento di peso, tanto che sentirono il bisogno di saltarmi di nuovo addosso. Fortunatamente per me, riuscii ad evitare la cosa.
«E’ gratificante vedere come l’amore riesca a sistemare tutto, non trovi Vergo?» fece papà Doffy ad un tratto, incuriosendomi. A cosa diavolo si stava riferendo?
«Sono d’accordo» disse l’altro, concentrandosi poi su di me e guardandomi attraverso le lenti scure degli occhiali, «Devi essere proprio innamorato di quel ragazzo, Law».
Mi ghiacciai all’istante e li guardai entrambi allibito, chiedendomi se per caso non si fossero fermati a casa del loro collega di lavoro, Kaido, per fumarsi qualcosa di illegale in allegra compagnia. Più volte era capitato che tornassero a casa sfatti come melanzane e che iniziassero a parlare di discorsi assurdi, arrivando persino ad insultarsi in ricordo degli anni passati al liceo, durante i quali si erano fatti un sacco di dispetti prima di arrivare a concludere qualcosa di più soddisfacente per loro. Che poi, dopo aver sbraitato per qualche ora, prendessero a scambiarsi effusioni amorose in qualsiasi stanza capitassero, a me poco importava, purché stessero lontani dalla mia camera. Certo, se avessero iniziato a farlo in ospedale sarebbe stato complicato da spiegare ai presenti.
«Datemi un motivo per non richiedere l’intervento degli assistenti sociali» li minacciai, fulminandoli con lo sguardo. Quello sembrò calmarli e rimetterli in riga, così, dopo qualche altra risata a cui non mi unii, mi fecero sazio tra di loro e mi invitarono a sedergli accanto, come ai vecchi tempi.
Sbuffando decisi di assecondarli solo per evitare altri fastidi e, dopo averli accontentati, iniziai a spiegare come erano andate le cose, partendo dall’inizio e arrivando, passo dopo passo, a raccontare di tutta la gente che avevo conosciuto in quell’anno, delle loro stranezze, dei molteplici difetti e dei pochissimi pregi che avevano. La questione di Penguin fu parecchio difficile da rispolverare, ma la affrontai a testa alta e fui grato per le pacche confortevoli che ricevetti come sostegno. Vollero poi sapere tutto sul cretino che aveva sbandato con la moto rompendosi tutte le ossa, di quello con la stanza dipinta e di come avesse ricevuto il miracolo, dell’altro tizio con l’aria da pollo e dell’irascibile rosso.
«Eustass-ya è un completo deficiente, papà» affermai convinto, sfoggiando la mia solita espressione di sufficienza mentre Doflamingo rideva sotto i baffi. Vergo, intanto, sorseggiava un caffè, ascoltando attento ogni parola.
«Come avete fatto ad andare d’accordo?» chiese Doffy curioso.
«Non andiamo d’accordo, semplice» dissi con un’alzata di spalle.
«Deve per forza essere un selvaggio a letto» concluse lui per me, intuendo benissimo quello che non volevo dire.
«Doffy, così imbarazzi il ragazzo» lo riprese Vergo, che tra i due era sempre stato quello più delicato e calmo, anche se a natale, davanti alle mie espressioni felici, si scioglieva come un pupazzo di neve al sole.
Alzai gli occhi al cielo e mi passai una mano sul viso con fare esasperato. Ancora mi domandavo come avevo fatto a sopportarli durante tutto quel tempo.
Trascorremmo il resto della giornata a chiacchierare della mia permanenza all’ospedale, passando poi al loro lavoro. Li ascoltai volentieri mentre mi rendevano partecipe delle ultime novità, dei contratti firmati, dell’espansione dell’azienda di famiglia che stavano progettando e di un nuovo tipo di erba che un loro compare gli aveva promesso di fargli provare.
I miei papà avevano un lavoro che rendeva abbastanza bene nel mondo del commercio ed erano ben lontani dall’avere problemi con la legge di qualsiasi tipo, solamente, di tanto in tanto, si toglievano qualche sfizio e andavano a fare baldoria con amici di vecchia data immischiati in chissà quali affari. E, fino a che non creavano problemi, a me andava bene.
«Tornando alla tua stabilità riacquistata, figliolo» iniziò a dire Vergo, mettendo fine a quella tranquillità famigliare che si era creata con le chiacchiere, «I medici hanno detto che sono disposti a concederti di tornare a casa. Perché non ce lo hai detto?».
Non risposi. Era ovvio che prima o poi sarebbero venuti a scoprirlo, tenendoglielo nascosto, però avevo guadagnato qualche mese. Ma, da quel momento, capii subito che il mio soggiorno all’ospedale stava per volgere al termine.
«Touché» sussurrai, volgendo lo sguardo alla porta dell’ultima stanza del corridoio, dando in quel modo a intendere l’unica vera risposta che potevo dare ai miei genitori, i quali capirono all’istante il motivo esatto.
«Devi riprendere gli studi, lo sai» mi ricordò Vergo, sospirando dispiaciuto e giocherellando con il bicchierino di plastica per il caffè vuoto.
«L’università è lontana» mormorai, sapendo benissimo che quella era solo una scusa inutile. Non mi ero mai lamentato di dover soggiornare fuori città per studiare, tornando a casa i week-end, o restando via anche un paio di settimane per non dover sempre fare avanti e indietro per la strada.
Doflamingo mi passò un braccio attorno alle spalle con fare paterno e, per una volta, non smielato. «Law, siamo stati tanto in pena per te ed è stato una prova difficile da superare, ma tu ce l’hai fatta. Ora vogliamo solo il tuo bene e sappiamo quanto tu ci tenga a fare medicina, l’hai dimostrato anche salvando la vita a quel ragazzo. Potrai venire a trovarlo ogni volta che vorrai, non deve per forza essere un addio».
Annuii silenzioso, mordendomi un labbro e abbassando il capo. Loro rimasero a coccolarmi, non in modo esagerato si intende, per un po’, lasciandomi poi il tempo di assimilare la notizia e assicurandomi che sarebbero tornati dopo cena per salutarmi prima di tornare a casa.
Rimasto solo ebbi modo di rendermi conto quanto poco desiderassi andarmene e lasciare soli quei poveri idioti. Chi avrebbe detto loro cosa fare e come non rischiare di morire ogni giorno? Chi li avrebbe ripresi quando cercavano di combinare guai, minando alla loro salute? I medici e gli infermieri non avevano nessun controllo su di loro e ascoltavano solo me. Come si sarebbero ridotti?
No, la domanda giusta da pormi era: che avrei fatto io? Come sarei riuscito a tornare alla mia solita routine dopo quasi un anno rinchiuso all’ospedale? Con che faccia avrei detto a quel montato di Eustass-ya che lo avrei lasciato a combattere da solo?
«Trafalgar Law?» mi chiamò qualcuno e, quando alzai gli occhi sull’infermiera che teneva aperta una porta, invitandomi a raggiungerla, mi sentii mancare.
«Si è svegliato».
 
*

 

(Nello stesso momento, sul tetto dell’ospedale).

Ero seduto sul cornicione da ore ormai, fissando prima il vuoto, poi il giardino sul retro, poi le figure delle persone che, da quell’altezza, sembravano formiche e, infine, il panorama. Il sole stava tramontando all’orizzonte e potevo benissimo vederlo scompare come se fosse inghiottito dal mare con il quale la città confinava. Faceva un po’ freddo e l’inverno era alle porte, così mi strinsi nella felpa per riscaldarmi un poco, sentendo le braccia intirizzite e azzardandomi allora a muovere le gambe. Le trovai indolenzite, essendo rimaste costrette in una posizione rannicchiata per quasi tutto il pomeriggio, così le allungai davanti a me per stirarle quel tanto che bastava per mettere fine al formicolio fastidioso che provavo.
Per tutta la notte passata avevo cercato di darmi delle risposte, di trovare le parole adatte che sembravo aver perso da tempo, sperando di poterle trovare per non perdere un rapporto durato anni, un fratello e me stesso compreso.
Avevo combinato un casino dopo l’altro. Mi ero comportato come uno stupido quando Ace mi aveva baciato la prima e ultima volta, ed ero certo che, chi mi conosceva, se l’avesse saputo sarebbe rimasto stupito dalla mia reazione esagerata. Forse nessuno, però, mi conosceva così bene, o nemmeno io sapevo bene com’ero realmente, ma ciò, ormai, non aveva più importanza. Come se non fosse stato abbastanza lo avevo lasciato solo, voltandogli le spalle e uscendo dall’orfanotrofio. Non ero andato via per cercare di calmarmi, la verità era che ero scappato come un codardo, preferendo lasciare tutto sulle sue spalle, invece che affrontare la cosa con il buon senso come avevo sempre fatto davanti ai problemi che mi si erano presentati nel corso degli anni. Lo avevo abbandonato, quello avevo fatto, e non potevo fare a meno di sentirmi in colpa.
Mi avvolsi le braccia attorno al petto, un vano tentativo di sentirmi meno solo. Quella sensazione portò a galla ricordi dell’infanzia, più precisamente quando Ace era capitato alle porte dell’orfanotrofio, dove poi era cresciuto con me e tutti gli altri. Quando eravamo diventati amici ci eravamo promessi che lo saremo stati per sempre e che ci saremo sempre sostenuti, non lasciando mai che uno dei due rimanesse senza una spalla su cui appoggiarsi e fare riferimento.
«Dimmi che sarà per sempre» aveva detto Ace quel giorno di tanti anni fa, guardandomi con un espressione speranzosa e felice, mentre io, più grande di età, ma affezionato a quella piccola peste, gli davo la mia parola. Poi, a distanza di tempo, ero riuscito ad infrangerla.
Sussultai e feci un respiro profondo per calmarmi, sentendomi sempre più uno schifo e convinto di meritarmelo. Ace aveva ragione ad avercela con me, dopotutto. Mi ero reso conto di cosa gli avevo fatto passare solo la sera precedente, quando mi aveva sbattuto in faccia tutto quello che aveva provato, tutta la verità e tutti i tormenti che gli avevo causato credendo di fare del bene. Sarebbe stato meglio per lui se non gli avessi mai tenuto compagnia, si sarebbe sentito più a suo agio e, probabilmente, si sarebbe anche risvegliato prima.
Invece avevo dovuto rovesciargli addosso tutti i miei sensi di colpa, le mie preoccupazioni e i miei problemi, non preoccupandomi dei suoi. Ero stato un vero egoista e non avevo scuse. Credevo di essere stato l’unico ad aver perso qualcosa, l’unico che non sorrideva più, l’unico ferito in tutta quella faccenda. Mi sentivo vuoto, incapace di esprimermi, circondato da pareti troppo strette. Per un momento avevo perso la speranza. Credevo di aver perso tutto, invece c’era chi stava peggio e quella persona altri non era che Ace, il mio migliore amico, mio fratello, la prima cosa che mi veniva in mente quando ricordavo l’infanzia, l’adolescenza, gli anni all’orfanotrofio. Se dovevo raccontare un avvenimento particolare, lui c’era; se parlavo dei corsi a scuola, lui c’era; se descrivevo un’esperienza assurda o una rissa, lui c’era; se parlavo della mia famiglia, lui c’era. Ace c’era sempre stato e continuava ad esserci, sempre, ogni giorno, ogni ora, ogni respiro.
Guardai il cielo, notando come le nuvole si muovessero veloci, portate dal vento. Erano le stesse che vedevo da bambino, anche se ormai ero cresciuto.
Non ero più un ragazzo immaturo, i tempi dei giochi erano terminati quando Ace mi aveva baciato, ma non era un male perché, in quel modo, si era chiuso un capitolo e ne era iniziato un altro, forse persino migliore, solo che non l’avevo capito subito. Avevo rischiato di uccidere tutti i miei sogni scappando dalla verità e non avevo nessuna intenzione di rischiare di perdere tutto un’altra volta.
Me ne ero andato perché la sorpresa era stata davvero grande e inaspettata. Prima Ace ed io stavamo litigando e l’attimo dopo mi ritrovavo con le sue labbra sulle mie. E il gesto era stato così spontaneo, così naturale e dannatamente giusto che non ero stato capace di accettarlo, troppo preso dal fare le cose per bene senza uscire dalle regole. Pensandoci con il senno di poi: chi se ne fregava se eravamo fratelli? Cosa cambiava? Il giudizio degli altri?
In quel momento, seduto fuori a parecchi metri di altezza come se fossi stato sul tetto del mondo, mi resi conto che avevo perso un sacco di tempo a farmi domande e a pormi problemi che non esistevano. Non potevo nemmeno immaginare di vivere un giorno in più lontano da mio fratello, avevo fatto a meno delle sue stronzate troppo a lungo ed era arrivato il momento di chiarire le cose a recuperare il tempo perso una volta per tutte.
Era ora di crescere.
Saltai in piedi, respirando profondamente e lasciando che un piccolo sorriso deciso affiorasse sulla bocca. Iniziai a camminare verso la porta, affrettando sempre di più il passo fino a che non mi ritrovai a correre giù per le scale, ogni passo tre gradini e buttando fuori tutto il male, deciso a raggiungere il piano dove avevano spostato Ace per non dover sprecare altri minuti preziosi.
Doveva sapere che ero stanco di scusarmi, stanco di parlare, stanco di rigirare il dito nella piaga e stanco di fargli male, facendone anche a me stesso. Volevo dirgli, anzi, volevo dimostrargli che era finita, che avevo capito, che non c’era più bisogno di preoccuparsi perché niente era tanto importante per impedirci di iniziare qualcosa di più dell’amicizia e della fratellanza. Volevo che sapesse che aveva ragione, che ce l’aveva sempre avuta e che io ero stato un emerito coglione a non accorgermene prima. Ma non mi sarei scusato, no, l’avrei solo obbligato a sopportare la mia presenza per il resto della vita e non me ne sarei andato per nessuna ragione al mondo. Non l’avrei più abbandonato.
Raggiunsi la sua stanza ed entrai senza bussare, richiudendomi la porta alle spalle e lasciandola sbattere. Questo fece si che il ragazzo stravaccato sul letto con il viso rivolto verso il soffitto e i piedi adagiati in modo scomposto sul cuscino sobbalzasse per lo spavento, rovesciando la testa all’indietro stupito e scattando a sedere come una molla non appena mi riconobbe.
L’occhiata torva e infastidita che mi rivolse non fu piacevole, ma non bastò per scalfire la mia decisione e le mie intenzioni, così sostenni il suo sguardo, riempiendomi la vista di quegli occhi scuri e profondi che mi erano stati celati troppo a lungo. Mi era sempre stato facile leggere le sue emozioni e capire cosa c’era dietro, perciò sapevo bene che la sua espressione severa nascondeva uno stato d’animo triste e ferito.
«Che vuoi?» sbottò, trattenendosi a stendo dallo sbattermi fuori dalla stanza personalmente.
Non mi intimidì minimamente; ero fuggito per tutto quel tempo e non lo avrei rifatto ancora, non mi avrebbe più visto dargli le spalle e mai più lo avrei lasciato ad affrontare la fine da solo.
Feci un passo verso di lui, poi un altro e un altro ancora, arrivando al bordo del letto e chinandomi per appoggiare le mani sul materasso, esattamente ai lati dei suoi fianchi per essere faccia a faccia con lui.
Non si mosse e non si allontanò, forse smise persino di respirare, ma non importava, avevo ben altro a cui prestare attenzione, anche se il lieve rossore che apparse sulle sue guance mi distrasse per qualche secondo dal mio intento.
«Dimmi che sarà per sempre» mormorai, sentendomi scoppiare il petto a causa del battito accelerato, forse per la corsa o per la tensione che mi causava l’attesa di una risposta.
Ace sembrava essersi perso totalmente: sbatteva le palpebre come a volersi accertare che fossi realmente lì, gli occhi fissi nei miei e il respiro corto. Probabilmente stava pensando che avrebbe voluto ricadere in coma in quell’esatto istante.
Fui io a baciarlo, quel giorno. Era l’unica cosa da fare, l’unica giusta che potesse compensare le parole che avrei voluto dire, ma che sarebbero solo risultate superflue e forzate. Così baciai Ace, esattamente come aveva fatto lui con me, all’improvviso e senza aspettare altro tempo.
E quando mi allontanai, imprecando per la fitta al labbro che mi aveva morso, mi ritrovai di fronte il suo solito ghigno divertito, quello che gli compariva quando sapeva di averne combinata una delle sue, andandone fiero.
Mi passai il pollice sulla bocca, fissandolo dall’alto e meditando vendetta.
«Felice di vedere che sei sempre il solito, Ace» ironizzai, scompigliandogli i capelli già disastrati.
«Volevo solo farti capire chi comanda» ammiccò.
 
*

 

(Quella stessa sera).

«Mi hanno operato d’urgenza e non me ne sono nemmeno reso conto?».
«Eri incosciente, Eustass-ya, ovvio che tu non te ne sia accorto».
«E non c’è stato nemmeno un imprevisto? Nessuna complicazione?» domandai, inarcando un sopracciglio e guardandolo dubbioso. Sapevo la verità, ma vedere come quel saccente tentasse di infinocchiarmi senza esporsi e ammettere che mi aveva strappato alla Morte era troppo divertente. Già immaginavo la sua faccia stupita quando lo avrei smascherato.
«Che vuoi dire?» domandò perplesso con una perfetta faccia innocente. Quella volta, però, non mi avrebbe fregato.
«Oh, non lo so. Sai, di solito capita che qualcosa vada storto».
«Tu sei stato fortunato» mormorò con un’alzata di spalle, non cogliendo le mie allusioni e ignorando il mio ghigno sprezzante.
«Trafalgar».
«Mhm?».
«So dell’ascensore. So che se sono vivo lo devo solo al tuo intervento».
Non rispose e lasciò che il silenzio riempisse la stanza. Avrei dovuto iniziare a sghignazzare per essere riuscito a fregarlo e a metterlo nel sacco, ma mi accorsi solo in quel momento che qualcosa non andava. Quelle parole non dette stridevano nell’aria, rendendola pesante e irrespirabile.
Non si trattava del mio cuore, non era solo una reazione postoperatoria, ma altro di spiacevole. Si trattava di un qualcosa non detto e che, ne ero certo, lui stava cercando di evitare.
Se ne stava seduto sulla sedia accanto al letto, i gomiti appoggiati sulle gambe e le mani incrociate. Fissava il pavimento e, a parte quando era entrato, non aveva più alzato lo sguardo per lanciarmi occhiatacce come al solito.
«Cos’hai combinato?» chiesi, anche se non ero certo di volerlo sapere perché temevo una risposta spiacevole.
Alla fine quella arrivò come uno schiaffo e, per quanto provai ad ignorarla e a dirmi che non aveva alcuna importanza, fece male.
«Mi dimettono» disse in un sussurro, quasi si rifiutasse pure lui di volerlo ammettere, «Me ne vado tra qualche giorno».
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Questo è spuntato oggi dal nulla. Ho messo mano alla tastiera e si è creato da solo. Spero non ci siano troppi errori perché ho un po’ sonno sinceramente e ho paura di aver dimenticato qualcosa o non essermi accorta magari di alcuni intoppi. Ad ogni modo spero che lo gradiate perché, rullo di tamburi, il prossimo sarà l’ultimo capitolo. Si, avete capito bene.
Dio, questa ff doveva durare poco invece, causa problemi e mancanza di ispirazione (detta anche pigrizia) l’ho tirata per le lunghe. Sono felice però di aver visto che molti l’hanno apprezzata nonostante le brutte notizie, come la fine del povero Penguin ;______; per la quale mi sto ancora odiando, e le novità in quest’ultimo.
Oggi abbiamo quattro protagonisti. Il primo è Killer che, povera anima, era sparito per un po’, ma eccolo che ritorna con i suoi pensieri e il sollievo di non aver perso pure Kidd. Cioè, che sfiga sarebbe stata D: ad ogni modo anche lui aspetta il risveglio del rosso, ma qualcosa sembra andare diversamente, dato che all’ospedale fa la sua comparsa qualcuno che era finito nel dimenticatoio (?) Buongiorno a te adorabile Shachi, come staaai? ** Se qualcuno si stesse domandando se tra i due verrà fuori una specie di crack-pairing, beh, ammetto che non lo so. Lo vedremo nella prossima puntata. Magari fatemi sapere che ne pensate, così vedo come regolarmi.
E poi c’è Law. Law con papà Doffy e papà Vergo. No, non uccidetemi, dovevo farlo. Ho letto alcune fiction con loro due come genitori adorabili e visto alcune immagini che se riesco a trovare vi propino la prossima volta ed erano dolcissime. E poi, dai, non ve li immaginate tutti coccolosi nei confronti del dolce bebé-Law? ** Awwwwww!
Comunque, ecco che arriva la mazzata: Trafalgar deve tornare a studiare perché ormai sta bene, anche se l’ha tenuto nascosto per allungare la sua permanenza all’ospedale SOLO per una cerca persona che noi conosciamo bene.
E poi c’è anche Marco. Oggi vediamo un po’ la panoramica dei suoi pensieri e del suo complesso e a volte insulso cervello. Si, lui è quello delle pare mentali, ma ci sta perché mi sembra un tipo riflessivo e attento a ciò che fa. Nonostante tutto, alla fine, capisce che deve smetterla di stare la a pensare e a chiedere scusa, così decide di agire. FINALMENTE, DIO GRAZIE. Il resto viene da sé ^^ inoltre Ace ha pensato bene di fargli capire chi comanda perché il ragazzino non è uno che si fa tanto comandare, intendiamoci. Ma non è figo quando ammicca? LOL ;D
La parte con Kidd l’ho fatta corta di proposito. Non mi andava di girarci troppo attorno e Trafalgar, poi, non era dell’umore per chiacchierare come si è visto. Cosa dite? Un brutto colpo per Kidd, vero? Chissà cosa salterà fuori nel prossimo e ultimo capitolo ;D
Vi lascio due immagini giusto per farvi contenti ^^
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Ma caro Shachi ** e Vergo con le bretelle l’ho amato ^^
Siamo alla fine anche oggi, gente, colgo l’occasione per ringraziare tutti e, come ho già detto, questo periodo è un casino, ma spero di riuscire a rimettermi in pari con tutto, recensioni comprese, molto presto. Sappiate comunque che leggo tutto e che non smetterò ma di amarvi perché siete fantastici, davvero. E non vi merito, ma grazie di cuore.
 
Informazioni:
-Capitolo 8 di Portuguese D. Ace in produzione. Tempo qualche giorno e arriverà;
-One-shot What the Hell pubblicata, per chi volesse farci un salto.
 
Un abbraccio infinito a tutti.
See ya,
Ace.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. ***


Capitolo 9.

 

(Una settimana e mezza più tardi)
Vedi, la vita è una piuma. Si balla e si trema amore mio.
 
Aprii l’ultimo cassetto dell’anonimo comodino in legno bianco e antiestetico che tanto avevo odiato durante quei due mesi passati in osservazione. Mordicchiandomi distrattamente un labbro, iniziai ad estrarre tutto quello che vi era all’interno, come calzini, una bottiglietta d’acqua, un peluche che mi avevano portato i bambini dell’orfanotrofio, un paio di disegni di quella piccola peste di Rufy, un quaderno, il libro de Lo Hobbit e una maglietta a maniche corte che avevo rubato a Kidd che usavo per dormire la notte. Buttai tutto sul letto per poi iniziare a riempire l’ultimo zaino, gettando dentro la roba in disordine e faticando alla fine per farci stare tutto.
Una volta finito, poggiai le mani sul materasso del letto ancora sfatto nel quale avevo dormito fino a poco prima e sospirai abbassando il capo, godendomi il silenzio e la tranquillità della stanza, pensando al casino che avrei ritrovato una volta tornato a casa.
Mi avevano dimesso il giorno prima, dicendomi che stavo bene, che gli ultimi esami erano risultati positivi e che nulla mi tratteneva più all’ospedale. Mi avevano stretto la mano e augurato buona fortuna e poi mi avevano lasciato a rielaborare la notizia e a fare le valigie, dandomi un giorno, al massimo due, per organizzare il trasferimento e ritornarmene a casa mia. Avrei potuto benissimo schizzare fuori da quell’edificio non appena mi avevano parlato delle mie dimissioni, ma la verità era che quelle parole mi avevano fatto sentire pesante, come se fossi stato ancorato al suolo.
Faticavo ancora a crederci: era tutto finito, potevo ritornare alla mia vita di prima, potevo rivedere tutta la mia famiglia e riprendere a stare con loro senza separarmi mai più. Avevo lottato e avevo vinto. Ero uno di quelli che ce l’avevano fatta.
Deglutii rumorosamente e alzai gli occhi sulle pareti della stanza, lasciandoli scorrere sui molteplici disegni raffigurati e sulle frasi di incoraggiamento per poi fermare la loro corsa sul dipinto che svettava sopra alla testiera del letto. Osservai ogni dettaglio di quella fenice azzurra, imprimendola nella mente e ragionando sul fatto che, alla fine, ero stato davvero molto fortunato.
Respiravo ancora; il mio cuore batteva e pompava sangue e vita; le mie gambe si muovevano agili e rispondevano ai comandi; la mia testa funzionava ed io esistevo. Vivevo.
Ed ecco che l’ondata di senso di colpa mi investì come un uragano. A me era andato tutto bene, ero fuori pericolo, ma quanti altri sarebbero dovuti rimanere all’ospedale in attesa che qualcosa cambiasse? Quanti altri sarebbero morti? Chi altro sarebbe rimasto solo, quando invece a me veniva concessa l’opportunità di uscire, ricominciare a vivere ed essere felice? Tutto ciò mi faceva sentire così male. Era ingiusto, inadeguato, era da egoisti. Me l’aveva detto anche Kidd, quella mattina, quando ero andato a dargli la notizia e a salutarlo. Ero entrato nella sua stanza con la testa bassa, quasi come un cane bastonato. Gli era bastato un’occhiata alla mia espressione dispiaciuta per sospirare e recepire la notizia.
‘Un altro che ci abbandona’ aveva detto. Ed era sembrato così solo, così piccolo, nonostante l’aspetto e il carattere burbero. In quel momento, Kidd era apparso esattamente come tutti gli altri: malato, indifeso e senza speranze.
Mi ero sentito un verme, non solo per la mia condizione, ma anche per Trafalgar. A dire la verità, tutti ce l’avevamo un po’ con lui. Una settimana prima ci eravamo svegliati e non l’avevamo più trovato. Era sparito nel nulla, senza salutare e senza lasciare un biglietto o qualcosa del genere. Solo Eustass sembrava conoscere la realtà dei fatti, ma non aveva detto niente e noi non avevamo insistito per saperne di più. Ad ogni modo, non riuscivo a non sentirmi male: rimanevano solo lui e Killer a sostenersi. Come avrebbero fatto, quando la maggior parte di noi se ne era andata, o lo stava per fare?
Qualcuno bussò lievemente alla porta che poi si schiuse fino a rivelare l’identità del nuovo arrivato. Non mi voltai a controllare chi fosse, non ne avevo bisogno.
«Sei pronto?» mi chiese Marco una volta che ebbe azzerato le distanze, raggiungendomi e affiancandomi.
Corrugai un po’ la fronte, indeciso su cosa dire. «Se ti dicessi che non ne sono sicuro ti stupiresti?» domandai infine, continuando a rimirare il muro colorato.
«No» sussurrò, «No, non mi stupirei affatto» affermò pacato, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni e guardandosi attorno.
Restammo qualche minuto in silenzio, poi la marea di frasi che mi premevano sulle labbra mi sfuggì di mano e mi ritrovai a dare voce ai pensieri che mi tormentavano da quella mattina. «E’ come se li tradissi tutti».  Insomma, non era giusto nei confronti dei miei compagni: io ero libero e loro dovevano continuare a rimanere imprigionati dentro quelle quattro mura chissà ancora per quanto tempo.
La cosa triste era che non sarebbero più stati un gruppo; non avrebbero più corso per i corridoi e non avrebbero nemmeno passato le nottate svegli a chiacchierare seduti sul mio letto. Kidd non avrebbe più rischiato un infarto salendo le scale; Law avrebbe smesso di sogghignare malefico e lanciare il malocchio ai dottori; Killer non avrebbe mai più osato correre lungo i corridoi con la sedia a rotelle e Penguin… Beh, lui se ne era andato da un pezzo, ormai.
«Dispiace anche a me» confessò pure lui con lo sguardo perso nel vuoto.
«Eravamo una bella squadra» mormorai distrattamente, ricordando tutti i guai che avevamo combinato in quell’anno. «Non doveva finire così».
Sentii lo sguardo di Marco addosso e fu allora che prese a ridacchiare. Poi mi diede una leggera spallata per attirare la mia attenzione su di sé e mostrarmi il piccolo sorriso rassicurante che stava sfoggiando. «Ma lo siamo ancora» chiarì, «Non deve per forza andare in questa maniera. Possiamo tornare tutte le volte che vogliamo e quando verranno dimessi inizieremo a combinare disastri in giro per il mondo».
Lo guardai come se fosse pazzo. Certo, era una bellissima prospettiva, ma altamente difficile da compiere. Eppure sembrava sicuro e sincero, troppo per pensare ad uno scherzo o ad un misero tentativo di tirarmi su il morale. Perché Marco non era mai stato una persona che dava false speranze, no. Lui non parlava a vanvera per il gusto di farlo e non illudeva nessuno. Lui dava speranze, le alimentava e aiutava chiunque a portare a termine i propri obbiettivi. Marco era così: un fratello per tutti.
Mi afferrò un braccio e mi tirò su dal letto, rimettendomi dritto e recuperando lo zaino con l’altra mano. Sempre ridendo e senza lasciarmi il tempo di ribattere o di soffermarmi a pormi altri problemi o sensi di colpa, mi trascinò con sé fuori dalla stanza e lungo il corridoio fino alle scale che iniziammo a scendere velocemente, due gradini alla volta, tanto che rischiai più volte di perdere l’equilibrio dato che quello scemo non mi mollò nemmeno un istante fino a che non raggiungemmo il piano terra con il fiatone.
«Non preoccuparti Ace,» disse entusiasta, «Andrà tutto bene. Usciremo di qui e andremo a riprenderci la nostra vita. Poi arriveranno anche Kidd, Killer e quel sadico di Trafalgar!».
Alzai gli occhi al cielo per non scoppiare a ridere, sentendo sempre meno dentro di me il peso di tutta la tristezza e della sofferenza che ognuno di noi aveva patito stando chiuso lì dentro. Non avrei mai dimenticato quell’esperienza, era stata una cosa troppo forte e burrascosa che aveva lasciato segni indelebili nel mio animo, ma avrei conservato il ricordo con affetto perché avevo avuto l’opportunità di trovare la mia luce nel buio, ovvero un sacco di persone speciali alle quali mai avrei voluto dire addio. Sarebbero rimasti nel mio cuore per sempre.
Raggiungemmo le porte scorrevoli che si aprirono al nostro passaggio e, quando mi ritrovai fuori dall’ospedale, lontano da quelle mura e all’aperto, con un sole accecante che mi fece chiudere gli occhi per un istante, percepii il cuore tremare per l’emozione.
Stavo bene, ero vivo e davanti a me c’era il mondo che mi aspettava.
«Vivremo come vorremo, saliremo sul tetto ogni notte per vedere le stelle, o i fuochi d’artificio, e sfideremo Kidd a chi beve di più senza svenire. Killer si rimetterà in sesto e lo inviteremo da noi a fare da baby-sitter ai mocciosi. Faremo tutto ciò che vuoi!» riprese Marco con i capelli scompigliati per via del venticello invernale e con gli occhi chiari che brillavano. Non era mai stato così bello e non gli avevo mai voluto così tanto bene. Mi sentivo quasi scoppiare.
Fui contagiato da quel suo buonumore e lo ascoltai fino alla fine del suo discorso contorto e dannatamente assurdo, ridendo e lasciando che la luce mi accecasse e che l’aria mi riempisse i polmoni fino a star male. Annuii più volte davanti alle sue proposte, scossi il capo con esasperazione nell’immaginarmi le scene, pensai a quanto mi sarebbe piaciuto vivere tutto ciò e condividerlo con lui e il resto dei nostri compagni.
Alla fine, quando non seppe più cosa dire, fece una pausa per riprendere fiato, guardandomi negli occhi senza nascondere la carica di affetto che mi sentii trasmettere in quell’istante.
«E, se non hai nulla in contrario, lo faremo insieme» promise, porgendomi la mano per invitarmi a seguirlo. Dopo di che sorrise divertito, guardandomi con sfida. «Allora, ti va, oppure preferisci tornare dentro?».
Lo fissai per qualche attimo senza sapere bene cosa dire. Forse non c’era nemmeno il bisogno di parlare, aveva già detto tutto quello di cui avevo bisogno per svegliarmi dal mio coma e prepararmi a riprendere a correre.
Una folata di vento mi investì in pieno viso, portando con sé l’odore di erba appena tagliata, hot dog e Penguin. Così chiusi gli occhi e me lo immaginai mentre si sbracciava per incitarmi a muovermi e a cogliere l’opportunità al volo. Conoscendolo, avrebbe ingranato la marcia immaginaria della sua sedia a rotelle e mi avrebbe preceduto, sghignazzando come un pazzo e alzando le braccia al cielo, felice.
Alla fine sorrisi, prima solo mestamente, poi scoppiando a ridere, afferrando la mano di Marco e lasciandomi accompagnare lungo il viale che portava lontano, verso un nuovo inizio.
«Si, mi va».
E c’era Marco.
E c’ero io.
 

 

*
 
(Sei mesi dopo)
Non sono per niente vicino a un addio. Non essere triste amore mio.
 
La lancetta della sveglia segnava le cinque del pomeriggio. Un orario assurdo e di stallo, decisamente quello che odiavo di più durante il giorno. Era l’ora che passava più lentamente delle altre e durante la quale non accadeva mai niente. Zero. nessuna visita, nemmeno un controllo da parte dei medici. Qualche volta, in corridoio, qualcuno suonava il campanello per ricevere attenzioni, o semplicemente qualcun altro schiattava, ma quegli avvenimenti erano così rari che non facevo altro che annoiarmi a morte.
Me ne stavo stravaccato a letto, con le braccia incrociate dietro la testa, un ginocchio piegato e una gamba a penzoloni. Avrei potuto farmi un giretto per i piani, ma l’ospedale lo conoscevo così bene che ormai non c’era nessun luogo che mi suscitasse un po’ di interesse. Sapevo che in qualche sgabuzzino avrei potuto trovare qualcuno intento a scopare, ma non mi andava di rovinare l’orgasmo a nessuno quel giorno, perciò lasciai perdere e mi preparai a spaccarmi i timpani con la musica a tutto volume nel mio lettore.
Misi le cuffiette e chiusi gli occhi, rilassandomi e sperando di assopirmi per risvegliarmi magari due ore dopo, almeno il tempo sarebbe volato in quel modo.
Mi resi conto che attivare la modalità di riproduzione casuale fu una pessima idea quando riconobbi le note di quella stupida e insulsa canzoncina che, a furia di ripeterla, Penguin mi aveva cacciato in testa mezzo anno prima. Non potevo sopportarla e mi domandai come mai non l’avessi ancora cancellata.
Sbuffai, ma non mossi un muscolo per cambiare con un altro brano, non ne avevo voglia e volevo solo estraniarmi dal mondo e dimenticare tutto. Era chiedere troppo non pensare e non sentire nulla per un minuto? Uno solo, non chiedevo altro.
 
Ci metto il coraggio che è parte del tuo.
 
Coraggio. Coraggio per fare cosa? Io ne avevo di coraggio, e da vendere anche, infatti mi trovavo ancora li, rinchiuso in quello schifo di ospedale a lasciare che i dottori continuassero a fare test, esami e scemenze varie quando ormai era chiaro a tutti che stavo bene, che ero stabile e che il mio organismo non avrebbe rigettato quel cazzo di cuore nuovo che mi avevano dato.
Mi si mozzò il respiro a quel pensiero e a quello che avrebbe comportato se avessi continuato a ripetermi tutto ciò, così strinsi gli occhi, scossi lievemente la testa e mi concentrai, mio malgrado, sulla canzone, sperando di distrarmi un poco.
Riguardo al coraggio, io sono un leone. Ho una folta criniera rossa, sono forte e, ma cazzo, che diavolo di discorsi sono?
Con stizza cambiai posizione e diedi le spalle alla porta chiusa, osservando come fosse il tempo fuori e sorridendo nel vedere che ormai le giornate avevano iniziato ad allungarsi definitivamente. Fuori c’era il sole e il tempo era abbastanza bello per tenere aperta la finestra senza problemi. Davvero una bella giornata, peccato doverla sprecare in quello stato catatonico come facevo da mesi, ormai.
Ero rimasto l’unico all’ospedale.
Il gruppo si era sciolto. Prima se ne era andato Penguin, poi Marco, seguito da Ace. Killer era stato dimesso circa quattro settimane prima ed ero stato davvero felice quando l’avevo visto entrare nella mia stanza, con i capelli tutti arruffati e il fiatone. Mi aveva guardato e mi aveva detto che aveva corso per trovarmi. L’avevo sondato da cima a fondo alla ricerca delle stampelle e, quando non le avevo trovate, avevo iniziato a ridere, rispondendo con calore all’abbraccio quando il ragazzo che era diventato il mio migliore amico mi si era gettato addosso a braccia aperte, scoppiando a singhiozzare.
Ne aveva passate di tutti i colori ed ero stato così contento quando mi aveva dato la notizia delle sue dimissioni che non aveva affatto pensato a quello che sarebbe toccato a me. La depressione era arrivata dopo la sua partenza, come mi ero aspettato, ma ormai avevo imparato abbastanza a lasciarmi scivolare tutte le brutte esperienze addosso e ne ero uscito piuttosto illeso. L’essermi ritrovato senza nessuno accanto non si era dimostrato così terribile, alla fine. Era bastato smettere di pensare a quello che facevo prima quando erano ancora tutti all’ospedale e la cosa aveva funzionato.
Ad ogni modo, loro cercavano di renderla meno dura possibile. E ciò, anche se non volevo ammetterlo, mi faceva piacere.
Era strano e bello allo stesso tempo sapere che non mi avevano dimenticato, nonostante il mio caratteraccio e i miei modi che lasciavano spesso e volentieri a desiderare. Non ero mai stato troppo gentile nei loro confronti, ma nonostante tutto, continuavano a tenermi in considerazione e a rendermi partecipe della loro vita.
Killer passava ogni giorno, mattina e sera e rimaneva a tenermi compagnia fino a tardi, fregandosene dell’orario. I medici, comunque, infermieri compresi, lo conoscevano tutti e, pur di evitare il mio malumore, preferivano lasciarlo fare senza sgridarlo o cacciarlo via.
Anche Ace, nonostante il modo egoista in cui lo avevo salutato quando era venuto da me per dirmi che se ne andava, non si era dimenticato. Non aveva un orario preciso nel farmi visita, lui, semplicemente, potevo aspettarmelo a qualsiasi ora del giorno e vederlo mi faceva pure piacere, dato che avevamo più o meno la stessa età. Un’altra cosa che mi piaceva di lui, era il caratterino ribelle e la propensione a combinare guai. Insomma, chi poteva essere tanto idiota da rubare un manichino, camuffarlo da Babbo Natale, assicurarlo ad una dozzina di fuochi d’artificio e spararlo in cielo la notte di Natale? Solo lui, perciò aveva tutta la mia stima. Inoltre mi ero fatto promettere che, quando sarei uscito, avrebbe rifatto una cosa simile, ma con un pollo o qualche altro essere inutile. Volevo vedere il botto, accidenti.
Per quanto riguardava Marco, beh, anche lui veniva a salutarmi parecchie volte durante la settimana, quando il lavoro glielo permetteva. Passava con Ace alle calcagna, oppure anche da solo, ad ogni modo mi portava sempre qualcosa di buono da mangiare, come torte o dolci. Diceva che a casa, all’orfanotrofio, uno dei loro fratelli passava le giornate a sfornare delizie e gli faceva piacere condividerle con me.
Io lo ringraziavo e mi tenevo tutto per la sera, dividendo il bottino anche con Killer e adorando quel personaggio che non conoscevo, ma al quale avrei voluto fare i complimenti e stringere la mano.
Non ero solo, in fin dei conti, ma era come se lo fossi.
 
A volte ci perdiamo i sottotitoli del cuore.
 
E poi c’era il mio cuore.
Il mio nuovo cuore, me lo devo mettere in testa, pensai, alzando gli occhi al cielo. Alla fine, anche se avrei preferito cavarmela da solo con le mie forze, ero stato costretto ad accettare di sottopormi ad un trapianto di cuore che, a detta dei dottori, era stato un successo.
Un successo sto cazzo, io sto ancora qui!
L’operazione era andata a buon fine ma, secondo il loro parere professionale, era meglio essere certi della riuscita e tenere sotto controllo la mia situazione per evitare ricadute o complicazioni drastiche. Su quel punto erano stati molto chiari: se il cuore non risultava compatibile e veniva respinto, io ero finito.
La fortuna, o il Signore, dipendeva dai punti di vista, però, mi aveva favorito, e mi trovavo ancora sulla Terra a respirare, vivendo però in un mondo in stallo. Non sapevo che fare, non sapevo quando me ne sarei andato, non sapevo cosa ne sarebbe stato di me e non sapevo nemmeno più come sopportare tutta quell’orrenda situazione. Stavo aspettando qualcosa senza sapere cosa.
Parliamoci chiaro, Kidd. Ti senti una merda per essere stato abbandonato, ammettilo.
Una cosa che odiavo era che, stando tanto tempo in solitudine, avevo preso a parlarmi e a darmi le risposte da solo. Da un lato ciò poteva indicare un aumento della mia intelligenza mista a furbizia, ma dall’altro era una vera e propria seccatura.
Io non mi sentivo uno schifo e non me ne poteva fregare di meno se quello stronzo saccente, mezzo morto, alla fine aveva deciso di voltare le spalle a tutto e tutti, dimenticare quello che aveva condiviso con i suoi compagni, per andarsene a fare in culo altrove. Per quanto mi riguardava poteva schiattare. Anzi, non si era fatto più sentire, quindi, probabilmente, era bello che morto.
Strinsi i pugni sul lenzuolo, intimandomi di calmarmi, ma la verità era che da troppo tempo me ne stavo tranquillo e buono, prima o poi sarei scoppiato, ne ero certo.
Non riuscivo nemmeno a pensarci: quel rognoso mi aveva salvato la vita, per quanto odiassi ammetterlo, e poi se ne era semplicemente andato come se niente fosse successo, come se tutti i suoi discorsi sul non gettare la spugna me li fossi sognati solo io e come se il resto dei ragazzi non fossero stati altro che cenere.
Come se io non fossi stato niente per lui.
Dopo l’operazione miracolosa in ascensore mi era stato accanto come al solito, nulla di strano dato che sembrava godere nel non lasciarmi mai il tempo e lo spazio per respirare, ma avevo capito subito che qualcosa non andava. Inizialmente, avevo creduto che i medici gli avessero dato poco tempo da vivere, che si fosse ammalato, invece no.
Se ne andava e basta.
Doveva riprendere l’università e concludere i corsi, fare il tirocinio, laurearsi, vivere la sua vita e coronare il suo sogno. Mi aveva persino chiesto se riuscivo a capire cosa intendeva, ma non avevo risposto. Non avevo aperto bocca per tutto il tempo successivo che aveva sprecato per spiegarmi la situazione e per dirmi, in poche parole, che lo avevano dimesso e che doveva tornare alla sua vita andando via.
Ovviamente non l’avrei trattenuto lì, avrei fatto lo stesso se fossi stato al suo posto e mi ero persino sentito sollevato nel sapere che era guarito e che non era più a rischio. Alla fine ce l’aveva fatta, aveva superato il suo problema ed io avevo mantenuto la promessa fatta a Penguin. Tutto era andato per il meglio e, quando me lo aveva detto, all’inizio ero persino stato tentato di dirgli in faccia che… beh, ormai erano passati la bellezza di sei mesi e lui era sparito nel nulla senza mai farsi sentire o scrivere. non mi importava se delle mie condizioni non gli interessava, non volevo essere compatito e, forse, era stato meglio così, ma le cose che mi faceva incazzare erano due. La prima riguardava il fatto che si fosse scordato degli altri, insomma, alla fine anche loro lo avevano aiutato e gli erano stati vicini, un po’ di gentilezza nei loro confronti avrebbe anche potuto dimostrarla; la seconda, invece, mi faceva davvero salire il crimine. Insomma, che cazzo pensava che me ne facessi io dei libri di medicina?
Si, perché il coglione, oltre a non farsi sentire, mi inviava ogni mese un volume sulla ricerca o sul corpo umano, o su qualsiasi altra cazzata biologica e medica. E sapevo che era lui, ne ero certo, dato che i sei libri che mi erano arrivati li avevo tutti visti nella sua stanza. Non mi ero mai sognato di leggerli o di sfogliarli. Cosa me ne poteva interessare? Preferivo tenerli rinchiusi nell’armadio a prendere polvere, quello era il loro posto.
Sospirai, sentendo gli occhi farsi leggermente più pesanti mentre quella stupida canzoncina continuava a strimpellarmi nella mente.
Ecco che arrivavano i cinque minuti di tristezza che, di tanto in tanto, mi facevano visita quando abbassavo le mie difese. Certo, ero una corazza d’acciaio, ma anche io ce l’avevo un cuore, pure nuovo, figuriamoci se non ero in grado di provare almeno un minimo di emozione.
Quando avevo avuto l’infarto all’università nessuno si era più interessato a me, nessuno di quelli che conoscevo era venuto a cercarmi. Mi avevano tutti messo da parte e ricominciare era stata dura, soprattutto con i problemi che si erano presentati, ma ce l’avevo fatta. E, per quanto mi costasse ammetterlo, il merito era di quei cinque idioti mezzi svampiti che avevo trovato in giro per i reparti. Uno più suonato dell’altro, ma era ciò che li rendeva differenti e speciali. Mi avevano fatto sentire bene quando ero malato, mi avevano consolato quando mi ero sentito uno straccio e mi avevano tenuto compagnia quando avevo creduto di essere solo al mondo. Li consideravo miei amici, tutti, e continuavo a farlo.
Non era vero che lo odiavo, semplicemente facevo fatica a sopportarlo, ma non avrei voluto vederlo scomparire così, senza poter fare nulla per impedirlo.
La nostra uscita di scena non era stata come me l’ero immaginata, ovvero tra insulti, pugni e un bacio, ma pazienza, ci avevo fatto l’abitudine e, prima o poi, sarebbe passato.
Avevo quasi preso sonno, quando il rumore di una porta che sbatteva sovrastò la musica, destandomi e facendomi sussultare. Mezzo intontito tolsi con un gesto secco le cuffiette dalle orecchie e sbadigliai, convinto che fosse un medico o Killer arrivato in anticipo.
Guardando l’ora mi resi conto di aver effettivamente dormito un bel pezzo dato che erano le sei e un quarto. Che bellezza, potevo mangiare il dolce di Marco e sentire come era finito l’allenamento di Killer e Shachi quel giorno.
Stavo appunto per voltarmi con un sorriso allegro quando una voce interruppe ogni mia azione e frase, facendomi perdere un battito e gelare il sangue.
«Allora è vero che chi non muore si rivede, Eustass-ya».
 
*
 
Guarda che cosa mi tocca: cucirmi la pelle e poi la bocca.
 
Dovetti usare tutta la mia buona volontà per non perdere la calma e iniziare a urlare. Ero arrivato da una mezz’ora buona e quel deficiente con i capelli rossi mi aveva già fatto incazzare. Da quando le persone si salutano con un pugno sullo stomaco? Il fatto che forse me lo ero meritato, poi, non mi passò minimamente per la testa. L’unico che meritava di essere preso a sberle era solo lui!
«Cosa cazzo ti dice il cervello? Sparisci per sei mesi e poi ti rifai vivo come se niente fosse?» ripeté Kidd per la terza volta, alzando sempre di più la voce e fissandomi furente con una mano a mezz’aria pronta a colpirmi. Avevo immaginato che non sarebbe stato facile tenerlo buono, ma non mi ero di certo aspettato un’accoglienza così pessima.
Così non potei fare a meno di ripagarlo con la stessa moneta, deliziandolo con uno dei miei classici sorrisetti di sufficienza e regalandogli una delle mie acidissime battute. «Hai contato pure il tempo? Che carino».
«Apri ancora la bocca e giuro che te la spacco» soffiò minaccioso e la determinazione nella sua voce mi fece intendere che non stava affatto scherzando e che l’avrebbe fatto davvero.
Mi chiesi il perché di tutto quel comportamento. Anche io ce l’avevo con lui per non aver mai risposto a una delle mie lettere, eppure mi stavo facendo violenza per comportarmi in modo civile nell’attesa di una qualche spiegazione. Sicuramente avrei provveduto a vendicarmi in un secondo momento.
«Piantala di fare la voce grossa, Eustass-ya,» risposi, fulminandolo con un’occhiataccia e preparandomi ad uno scontro, «Se c’è qualcuno che deve essere preso a calci, tra i due, sei solo tu!».
«E che cosa avrei fatto io? Sentiamo!».
«Non mi hai più cercato!» sbottai.
Spalancò gli occhi e mi guardò come se avessi appena vomitato arcobaleni, ma si riprese abbastanza in fretta, tanto che finì per l’arrivarmi ad un soffio dal naso, sovrastandomi. Era diventato ancora più alto.
«Cos'é che ho fatto?» sibilò con astio.
«Sei sparito» dissi apatico, permettendo solo alla rabbia e alla delusione di accecarmi, ma stando attento a tenere bene rinchiuse le emozioni come la tristezza, il senso di abbandono e solitudine che avevo provato in quei mesi. Io gli avevo scritto senza mai ricevere risposta e lui mi trattava in quel modo? Non esisteva, se era la guerra che voleva, allora l’avrebbe avuta.
Strinse entrambe le mani a pugno, forse per non lasciarsi prendere dal momento e colpirmi in pieno viso. «Stai scherzando spero».
«No, razza di deficiente! Ho capito che ci sei rimasto male quando mi hanno dimesso, ma mettermi da parte in quel modo potevi risparmiartelo. E adesso vuoi anche avere ragione quando io non ti ho fatto assolutamente niente!». Mi stavo lasciando andare un po’ troppo, ma non importava. Fino a che non iniziavo ad urlare andava tutto bene, ma avrei continuato. Non poteva passarla liscia e credere che non gli avrei detto il fatto suo.
Kidd alzò il viso verso il soffitto e sospirò. «Te ne sei andato» fece lapidario, tanto che riuscì per la prima volta a zittirmi e a lasciarmi senza parole con cui ribattere. Che diavolo stava dicendo?
«Eustass-ya ma che…».
«Non mi importava se ti dimettevano o meno, quello che non dovevi fare era sparire e dimenticarti di tutti. Come se noi non avessimo contato nulla per te, quando è stato solo merito nostro se non ti sei lasciato morire. Invece hai preso e ci hai voltato le spalle senza dire nulla, senza mai scrivere o chiamare. Niente, Trafalgar. Per sei, lunghi, maledetti e fottutissimi mesi».
 
Anche con i crampi, con la fine sulla faccia, col dolore che mi schiaccia e non lo sai.
 
Rimasi in silenzio a guardare come sulle labbra del rosso apparisse una smorfia amara, che sapeva tanto di tristezza. Distrattamente notai anche come i capelli, già folti, gli erano cresciuti, ricadendogli più di frequente sugli occhi, gli stessi che avevano bruciato di rabbia e di passione mesi addietro, quando stavamo assieme.
Assieme, come? pensai, lasciando subito perdere il discorso. Non mi ci volevo nemmeno soffermare su quel particolare. Eustass-ya non aveva contribuito ad aiutarmi, me l’ero cavata benissimo da solo.
E quello che mi sto ripetendo per auto convincermi sono tutte balle.
Ad ogni modo, capii che qualcosa non andava. Kidd sembrava davvero stanco e abbattuto; più precisamente aveva l’aria di un animale che era stato abbandonato a se stesso, lasciato solo ad affrontare tutto, senza nessuno accanto. Per quello ringhiava, era il suo modo di difendersi dalle avversità e dagli estranei, peccato che non fosse mai stato bravo a nascondersi dietro al suo carattere da duro. Per me era sempre stato facile capirlo, era un libro aperto. Tutto di lui mi interessava e mi incitava a continuare a gravitargli attorno; poteva apparire banale, uno stupido scimmione senza cervello, ma, in realtà, era pieno di sorprese. Non reagiva mai come mi aspettavo ed era un continuo evolversi di sensazioni, espressioni, emozioni e scene. A volte complicato, ma mai impossibile da capire, e così fu anche per quel particolare momento.
Abbassai gli occhi, riflettendo che, almeno in parte, aveva ragione. Me ne ero andato e lo avevo lasciato senza troppe cerimonie. Era stato un periodo difficile, quello, prima la morte di Penguin, poi il collasso, il trapianto in previsione e la mia partenza. Era stato un miracolo che non si fosse lasciato andare. La mia intenzione, comunque, non era mai stata quella di sparire nel nulla, assolutamente. Avevo assistito dall’alto dell’osservatorio la sua operazione prima di partire e mi ero voluto assicurare che fosse andato tutto bene, quindi, infine, avevo provato a contattarlo. Infatti gli avevo spedito un sacco di libri, possibile che non li avesse ricevuti?
«Eustass-ya, mi dispiace» dissi sommessamente, spiando di sottecchi la sua reazione e capendo che avrei dovuto fare di più per sistemare le cose quando lo sentii sospirare frustrato e amareggiato. «So che non ho scelto il momento migliore per tornare all’università, ma non ho potuto fare altrimenti. E non è vero che non volevo avere più niente a che fare con te –perché ero certo che gli altri non c’entrassero, dicesse pure quello che voleva- perché ti ho scritto volumi e volumi di lettere» confessai a disagio e un po’ in imbarazzo, sentendolo trattenere il respiro e decidendo di alzare lo sguardo per incrociare i suoi occhi, lasciandogli intendere che non gli stavo mentendo.
Ebbi la risposta ai miei dubbi quando lo vidi corrugare la fronte confuso. C’era stato un malinteso.
Allora sospirai, incerto se porre la domanda o meno. «Dì un po’, ti è mai arrivato qualche libro di medicina in questo tempo?».
«Quella merda? Si» rispose subito, irritandomi un poco.
«E immagino che tu non abbia mai pensato di aprire quelle pagine, o sbaglio?» domandai con un sorrisetto sarcastico e per niente divertito.
Rimase a fissarmi qualche momento prima di dirigersi verso l’armadietto, aprendolo e mettendosi a cercare qualcosa sotto ad alcune coperte. Alla fine trovò quello che stava cercando, ovvero i miei volumi. Li sollevò tutti assieme e li scaricò senza grazia sul letto, mentre io mi maledicevo per aver consegnato dei tesori ad una persona che non ne aveva il minimo rispetto. Quando poi ne aprì uno a caso e vi trovò dentro una busta bianca ancora sigillata, mi venne una voglia matta di prenderlo a ceffoni fino a farlo svenire.
Si poteva essere così idioti?
«Questa cos’é?» ebbe il coraggio di chiedere, rigirandola tra le mani per poi iniziare a scartarla fulmineo, come facevano i bambini con i regali di Natale, sotto il mio sguardo assassino.
«Secondo te?».
Quando si ritrovò davanti due fogli riempiti con la mia calligrafia il tempo sembrò fermarsi. Iniziò a leggere tutto quello che c’era scritto con avidità, tanto velocemente che mi chiesi se riuscisse almeno a capirci qualcosa, ma lasciai perdere quasi subito. Dopotutto, non le aveva mai lette e, se non gliel’avessi detto, nemmeno avrebbe scoperto l’esistenza di quelle lettere riempite per metà di insulti rivolti al fatto che non mi avesse degnato di risposta. Se l’avesse fatto, avrebbe saputo certamente dalla novità che ero venuto a portargli.
Meglio così, mi dissi sogghignando, mi godrò la sua faccia sorpresa.
«Ehi, Capelli Rossi» lo chiamai, togliendomi la giacca leggera e sedendomi comodamente sul suo letto.
Non alzò nemmeno gli occhi dal foglio e si limitò a rispondermi con un mezzo mormorio incomprensibile, segno che avevo la sua attenzione almeno per metà.
Così mi passai una mano tra i capelli con disinvoltura, incapace di trattenere quel ghigno carico di aspettativa che, fortunatamente, non stava notando. Fu senza preavviso che gli sganciai la bomba.
«Sai, svolgerò qui il mio tirocinio».
I suoi occhi saettarono nei miei in quell’esatto istante e la sua faccia divenne, se possibile, ancora più pallida.
«Vuoi dire che…» sussurrò, senza finire la frase.
«Si,» lo interruppi, «Sono tornato per restare».
 
Anche con la gioia di sapere che dovunque ce ne andremo, non ci lasceremo mai.
 
Non vidi nemmeno i fogli cadere per terra, mi importava solo di sapere che quell’irascibile ragazzo stava bene ed era vivo e mi stringeva con fare possessivo come se volesse togliermi tutta l’aria, ma era perfetto in quel modo. Era tutto ciò di cui avevo bisogno e, anche se non l’avrei mai ammesso ad alta voce, ero contento che nessuno dei due, alla fine, avesse vinto la scommessa. Un pareggio poteva bastare per soddisfare l’ego smisurato di entrambi. Come sarebbero andate le cose in futuro non aveva importanza; eravamo totalmente differenti ed ero certo che non avremo mai perso occasione per scannarci a vicenda, ma ero anche sicuro che lui, come me, non vedeva l’ora di riprendere da dove avevamo lasciato.
«Ehi, Trafalgar» sussurrò con le labbra già sul mio collo.
«Che vuoi adesso?» mormorai seccato. Gli pareva forse il momento per adatto per chiacchierare?
Portò il viso a pochi centimetri dal mio per mostrarmi il ghigno bastardo che esibì con orgoglio. No, se me lo avessero chiesto, avrei risposto che non mi era mancato per niente quello stronzo.
«Ti ricordi ancora chi comanda?» ghignò.
Come potrei dimenticarlo.

 

*
 
(Due anni dopo).
Io non ho finito perché ho sete ancora.
 
La spiaggia era quasi deserta a quell’ora del mattino: pochissime persone passeggiavano con calma sul bagnasciuga, affondando i piedi nella sabbia fine, oppure lasciando che le onde li bagnassero, saltellando per il freddo contatto con essa. Il cielo era di un azzurro chiaro, sfumato all’orizzonte dai colori dell’alba, mentre il sole, lentamente, sorgeva.
Poggiai le infradito sulle assi di legno e mi sedetti sul pontile con le gambe a penzoloni sul mare, inspirando a pieni polmoni l’aria fresca e muovendo i piedi sul bordo dell’acqua, felice di aver riacquistato pienamente tutte le facoltà motorie dopo l’incidente, nonostante le aspettative non del tutto rosee e tutte le sofferenze che avevo dovuto sopportare oltre alla riabilitazione. Alcune si erano cicatrizzate bene, altre meno, altre ancora, invece, erano e sarebbero rimaste sempre aperte.
«Killer!».
Una vocina dal timbro alto e quasi infantile richiamò la mia attenzione e, con un sorriso spontaneo sulle labbra, uno di quelli che a fatica avevano ripreso a riapparire sul mio viso, voltai la testa di lato, poggiando il mento sulla spalla e inquadrando il ragazzino minuto che, con due borse per ciascuna mano e un ombrellone sotto il braccio, mi sorrideva allegro con gli occhiali da sole a specchio calati sugli occhi.
«Shachi» lo salutai allegro, «Ti vedo un po’ affaticato» scherzai, indicando con un cenno del capo il suo carico.
Con un’alzata di spalle e uno sbuffo mi diede ad intendere che per lui quella era roba da niente, ma il leggero tremolio delle braccia e il sudore sulla sua fronte dicevano il contrario. Così mi alzai e mi diressi verso di lui per prendere io le borse e dargli il tempo di riprendere fiato. Quel moccioso voleva sempre strafare per non essere mai un passo indietro agli altri.
«Ce la potevo fare tranquillamente da solo» borbottò, iniziando a seguirmi e dovendosi affrettare per stare dietro alle mie falcate, inciampando di tanto in tanto.
Ghignai poco convinto. «Certo, certo».
«Solo perché tu sei tutto muscoli e niente cervello non significa che…».
«Ehi, che hai detto?» chiesi, fermandomi all’improvviso, tanto che Shachi, distratto come al solito, mi venne addosso, sbattendo il naso contro la mia schiena.
Si riprese subito e, massaggiandosi la parte lesa facendo finta di nulla, mi superò, diretto verso lo zaino che avevo abbandonato sotto all’ombrellone che mi ero offerto di portare da casa.
«Niente» esordì con nonchalance, incrociando le braccia dietro la testa, «Devi sicuramente aver capito male!».
Roteai gli occhi con fare scocciato. A volte mi sembrava di aver a che fare con un bambino.
Scuotendo la testa esasperato e rassegnato a quel suo caratterino, lo raggiunsi e lasciai cadere gli zaini addosso a lui apposta, fingendomi sbadato o poco attento solo per farlo innervosire e vendicarmi della sua precedente frecciatina sarcastica, riuscendoci divinamente, ma beccandomi un pugnetto deciso sulla pancia.
Da quando l’avevo incontrato all’ospedale, Shachi era diventato un’ancora di salvezza per la mia sanità mentale. Anche lui, come me, era stato molto affezionato a Penguin, ci era cresciuto assieme, perciò mi era sembrato l’unica persona capace di capirmi davvero. Infatti avevamo passato ore e ore a parlare, a sfogarci, a piangere e a consolarci, ricordando i momenti migliori passati in compagnia del nostro amico speciale, felici di poter finalmente esprimere liberamente quello che sentivamo e che provavamo. Insieme ci eravamo sostenuti e avevamo affrontato la solitudine, contando l’uno sull’altro e ricominciando da capo, con le nostre sole forze.
 
Io non ho finito, fuori è primavera.
 
«… E poi le ho risposto per le rime, citandole tutte le nozioni a memoria e beccandomi il mio meritatissimo trenta e lode. Fanculo anche quella baldracca!» stava dicendo intanto Shachi, raccontandomi dei suoi ultimi esami all’università.
«Ma da quando sei diventato così volgare?» mi premurai di domandargli, ricordando di come, i primi tempi, fosse un ragazzo così timido ed educato, sempre rispettoso e gentile con gli altri.
Mi guardò come se fossi scemo, ma alla fine decide di rispondermi lo stesso, forse per pietà. «E’ l’influenza di Eustass» usò come spiegazione, facendomi sorridere.
A proposito di lui.
«Ohi, Kidd! Da questa parte!» urlai in direzione del rosso che, accortosi della mia mano alzata, avanzava verso di me facendosi largo a forza tra il via vai di gente che, approfittando della bella giornata, aveva deciso di fiondarsi al mare, imitando così la nostra idea.
«Vorrei sopprimerli tutti, soprattutto i ragazzini» borbottò quando mi fu vicino, fulminando con lo sguardo un moccioso che gli aveva tagliato la strada, correndo come un pazzo con un cono gelato in mano, brandendolo come un trofeo.
Sorrisi e mi strinsi nelle spalle, incitandolo poi a seguirmi fino alla nostra postazione dove Shachi ed io avevamo piazzato un paio di ombrelloni abusivi proprio sulla riva, in modo da evitare scocciature come vicini rumorosi o anziani curiosi.
«Siamo solo noi?» chiese, dopo aver gentilmente salutato il ragazzino dai capelli ramati stravaccato sulla sabbia. Per quanto il suo carattere fosse poco avvezzo ad apparire simpatico alle persone, con Shachi non riusciva ad essere scortese. Diceva che gli ricordava troppo Penguin.
Si tolse la maglia e poi la gettò malamente dentro lo zaino. La cicatrice all’altezza del cuore si era ridotta ad una piccola linea verticale rosa pallido e sarebbe rimasta a svettare sul suo petto come un segno, o un ricordo, indelebile della sua avventura.
«Per ora, ma ho mandato un messaggio agli altri. Tra poco dovrebbero arrivare» spiegai, imitandolo e stendendo poi a terra un asciugamano, litigando con le punte per sistemarle ed evitare che ci andasse sopra della sabbia.
I dieci minuti successivi li impiegammo mettendoci comodi. Kidd indossò un paio di occhiali da sole neri che, di tanto in tanto, sollevava sulla fronte per scostarsi i ciuffi vermigli dagli occhi, mentre io meditavo sull’idea di tagliare i miei per non dover soffrire il caldo. L’idea mi era venuta molte volte, ma sapevo che non l’avrei mai presa sul serio in considerazione.
«Che mi venisse un colpo se quello non è Ace!» disse ad un tratto Kidd, mettendosi a sedere e fissando un ragazzo in lontananza che, completo di costume arancione e cappello da cowboy, avanzava tranquillo con uno zaino verde in spalla. Dal sorriso che fece non appena ci notò, capimmo che doveva per forza trattarsi del nostro miracolato amico.
«Ciao ragazzi! Era da un po’ che non ci si vedeva!» esordì, lasciando cadere la borsa sulla sabbia e abbracciandomi, dato che mi ero alzato per andargli in contro. Fu poi il turno di Kidd che, allergico ai gesti affettuosi, si limitò ad una virile pacca sulla spalla che quasi mandò Ace per terra.
«E Marco?» domandai, non vedendolo da nessuna parte.
«Quell’idiota? Non preoccupatevi, è in arrivo» rispose con una faccia strana.
«Ma non vivete…» iniziò a dire Kidd.
«Sotto lo stesso tetto? Si, ma stamattina uno dei nostri fratelli si è sentito male, così lui lo ha accompagnato dal medico» spiegò tranquillo.
Il moro salutò Shachi, con il quale andava molto d’accordo avendo entrambi la stessa età, e si sedette tra me e lui, iniziando a chiacchierare di un sacco di cose e saltando da un argomento all’altro senza una qualche connessione logica. Pazienza, ormai ci avevo fatto l’abitudine al suo modo di esprimersi: aveva, semplicemente, tante cose da dire.
Lo osservai attentamente e fui contento di trovarlo solare, sorridente e rilassato come al solito. Dopo il coma, da quello che avevo sentito dire da alcuni suoi famigliari, era diventato iperattivo e raramente se ne restava fermo e tranquillo, sentendo costantemente il bisogno di fare qualcosa e di non fermarsi mai, ma era contento e in salute, ciò era l’importante.
Non aveva avuto altre ricadute ed era stato uno dei più fortunati tra noi, povere anime dell’ospedale: quando lo avevano dimesso, lo avevano fatto definitivamente.
Certo, lui aveva continuato a far visita a me, fino a quando non mi avevano mandato a casa, e a Kidd.
Soprattutto a Kidd.
Osservai con la coda dell’occhio il ragazzone dai capelli fulvi che stava litigando con il lettore musicale in quel momento, togliendosi le cuffiette che sembravano in procinto di esplodere per il volume troppo alto e spegnendo l’aggeggio in un sottofondo di parolacce e maledizioni. A quanto pareva aveva rischiato di perdere l’udito.
Due anni prima, quando si era ritrovato da solo in reparto, dato che praticamente tutti avevamo ottenuto il permesso di passare la convalescenza a casa, avevo creduto che non ce l’avrebbe fatta. Non che non avesse avuto delle buone possibilità, semplicemente sembrava che avesse smesso di lottare come aveva fatto costantemente per un anno.
E poi un giorno accadde il miracolo: era bastato che Trafalgar Law tornasse in città durante una pausa clandestina dall’università, passando a salutarlo, e Kidd era resuscitato come Lazzaro.
Certo, era diventato anche più scorbutico e irascibile, perché, da quello che mi avevano raccontato due infermieri che avevano avuto la sfortuna di ritrovarsi di turno durante la visita di Law al rosso, l’incontro non era stato affatto dolce e commovente, al contrario. Avevano descritto la cosa come uno scontro fra titani, fatto di urla, bestemmie, insulti e le peggiori minacce di morte che avessero mai udito. Comportamento tipico di entrambi, sarebbe stato strano se nulla di tutto ciò fosse avvenuto.
 
Io non ho finito, non ti lascio ora.
 
«Guarda chi arriva» sentii dire da Ace, il quale aveva un tono parecchio divertito, tanto che mi chiesi il perché, almeno fino a quando non adocchiai Marco avanzare con le mani nelle tasche e la camicia sbottonata sul petto, mentre, accanto a lui, Law si guardava attorno con fare curioso, come se stesse cercando qualcuno. Noi, per l’appunto.
Non feci nemmeno in tempo ad alzare un braccio per avvisarlo della nostra presenza che qualcosa alle mie spalle si mosse velocemente e, l’istante dopo, Ace stava schizzando veloce come una freccia nella sua direzione, riuscendo nell’intento di coglierlo alla sprovvista e rovesciandolo a terra quando gli saltò addosso con tutto il suo peso.
Alla faccia degli abbracci, pensai, scoppiando a ridere assieme a Kidd e facendo svegliare Shachi di soprassalto che si era appisolato sotto al sole.
«Brutto idiota!» iniziò ad inveire il biondo, tentando di spostare Ace che, nel frattempo, si era accomodato a gambe incrociate sopra al suo stomaco tutto ghignante e soddisfatto. «Volevi rompermi l’osso del collo?».
«Oh, quante storie» lo sminuì il più giovane, «Come se potessi farlo». Detto questo lo vidi abbassarsi sul viso di Marco con un sorrisetto malcelato.
Alzai gli occhi al cielo e prestai attenzioni alle lamentele di Shachi, il quale insisteva per sapere cosa si era perso e cercava di sovrastare la mia stazza allungando il collo per riuscire a vedere costa diavolo stessero facendo quei due.
«Che domande! Scopano» disse tranquillamente il rosso con fare malizioso, beccandosi un’occhiata torva da parte mia. C’era modo e modo per dire le cose e lui usava sempre quello medo adatto.
«Almeno Ace non si fa problemi ad esporsi» lo riprese Law, il quale ci aveva raggiunti, ignorando bellamente i due ragazzi che si erano appena sdraiati sulla sabbia.
«Ti piacerebbe dare spettacolo, ammettilo» fece Kidd con malizia.
«Non lo nego. Immagina le facce scandalizzate dei genitori qui attorno» iniziò a dire il neo chirurgo con fare macabro e inquietante.
«E l’infanzia rovinata dei loro bimbi» concluse il rosso per lui. Poi, sorridendosi con fare poco innocente, si scambiarono un’occhiata complice che mi diede ad intendere che non sarebbe seguito nulla di buono.
Sospirai e piazzai una mano fra i capelli del piccoletto, ricacciandolo al suo posto e spiegandogli con qualche giro di parole in più che stavano facendo i piccioncini romantici.
«Bleah!» mormorò con una faccia schifata, sistemandosi gli occhiali e voltandosi a guardare altrove, deciso a non voler assistere a scene del genere.
Quel comportamento mi lasciò un po’ perplesso, tanto che mi ritrovai per la prima volta a chiedermi il perché di quella reazione. Insomma, la cosa aveva un che di divertente, a parte l’imbarazzo per i nostri amici che non perdevano mai un momento per infilarsi reciprocamente la lingua in bocca. Vederli era normale, quindi: o il ragazzino era esageratamente timido, o la sua era tutta una finta, esattamente come facevano i bambini da piccoli quando vedevano gli adulti abbracciarsi.
«Shachi?» lo richiamai, ritrovandomi poco dopo i suoi occhi curiosi che mi fissavano al di sotto delle lenti scure.
«Che c’è?».
«Faresti lo schizzinoso se qualcuno ti baciasse?».
Sbatté le palpebre e mi guardò interdetto per qualche istante, lasciando poi che sulle sue labbra spuntasse un ghigno degno di nota quasi quanto quelli subdoli di Eustass Kidd.
«Chi lo sa» rispose vago, poggiando i gomiti sull’asciugamano e sollevando il busto con disinvoltura e guardando il mare.
Scossi il capo, lasciando perdere l’argomento. Sapevo che, se avessi continuato, non avrebbe fatto altro che rispondere in modo fastidiosamente malizioso e con una faccia da schiaffi con quegli occhiali che celavano la furbizia che spesso gli leggevo negli occhi.
«Tu se vuoi provarci fa pure» disse ad un tratto, cogliendomi impreparato e zittendo nello stesso istante pure il mio migliore amico, il quale era sembrato sul punto di dire qualcosa, «Magari sei fortunato».
Kidd restò a bocca aperta per circa dieci secondi prima di scoppiare a ridere fragorosamente, rotolandosi sull’asciugamano a faccia in giù per trattenersi almeno un poco, seguito a ruota da Shachi che, imitandolo e venendomi addosso, non sembrava essersi mai divertito così tanto. Law si finse al di sopra di quelle scemenze, ma non mi sfuggì il sorriso che gli si modellò sulle labbra di fronte a quella scena.
Sbuffai esasperato. «Tu hai qualche problema, te lo dico io».
Tutto sommato avevo delle cicatrici, vero, e le portavo ancora con me, solo che, a volte, le dimenticavo.
 
Io non ho… Finito.
 
The Fucking End.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice.
Buonasera a tutti! Insomma, è con immensa gioia e piacere e biscotti al cioccolato che annuncio la fine di questa fiction per la quale ho dato di matto l maggior parte del tempo. da notare la mia bravura: l’ho iniziata di lunedì e l’ho terminata di lunedì, non so se rendo. Dai, un po’ di applausi me li merito, su.
Scherzi a parte, credo di dovermi meritare solo pomodori, ma va bene, tralasciamo.
Prima di passare alle note finali voglio scusarmi ancora per l’immenso ritardo. Un’estate di silenzio, che vergogna, ma, come ho ribadito nelle varie altre pubblicazioni, il lavoro mi ha tolto un sacco di tempo e di energie e l’ultimo capitolo è rimasto in cantiere per molto. Due giorni fa, però, mi sono detta che dovevo ASSOLUTAMENTE terminarlo, così mi sono messa di impegno e, beh, spero di non aver deluso le aspettative di nessuno. Ad ogni modo, vi prego di perdonarmi e portare pazienza, e ancora mille scuse.
Dunque, eccome come tutto è bene quel che finisce bene, si dice così no? Ace e Marco, Kidd e Law e Killer. Vorrei tanto dire Killer e Shachi, ma il finale ho preferito lasciarlo un po’ nell’ambiguità. Chi vuole si può immaginare un futuro tra i due, chi li preferisce come amici se li tiene come sono, dato che avevo letto alcuni commenti a riguardo nelle recensioni. Non so voi, ma a me è parsa la scelta migliore per concludere tutto.
Killer ha le sue ferite e cicatrici che si porterà sempre appresso ma, ehi, come dice anche lui, la vita va avanti, nel bene e nel male, e lui ha trovato le persone giuste con cui condividere gioie e dolori.
Ace, la mia ossessione, lo giuro, è tornato ad essere lo scoppiettante ragazzo di sempre, super sexy e meraviglioso, lasciatemelo dire. Anche lui, nonostante i problemini iniziali, sembra scoppiare di salute e di entusiasmo, basti guardare come scatta per stendere il povero Marco. non sembra comunque dispiacergli di venire buttato di peso sulla sabbia, comunque, mlmlml ^^
Io non ho resistito a fare la sviolinata tra i due alla fine della storia, insomma, ce la dovevo mettere per forza, dovevo risollevare l’opinione pubblica del biondo e renderlo una specie di santo, mentre Ace doveva ritrovare il buonumore e un morivo per sorridere e, beh, ecco, ci stava secondo me. Vabbé, poco importa che siano la mia OTP e che li adoro alla follia, non sono stata di parte, proprio no…
Andiamo avanti.
Aperta parentesi: la frase finale ‘E c’era Marco. E c’ero io.’ l’ho presa dal finale del libro ‘Io non ho paura’ che consiglio a tutti, bellissimo.
E poi c’è Kidd. E poi c’è Law. Insomma, non so più cosa dire di questi due. Assieme credo che siano una cosa assolutamente perfetta, senza se e senza ma. Sono fatti l’uno per l’altro e quando si vogliono ammazzate smatto. Kidd credeva di essere stato abbandonato, povero, invece no! Trafalgar non lo aveva dimenticato, come avrebbe potuto, e alla fine ha colto la prima occasione per tornare da lui e adesso possono stare assieme, awawawawa **
Malintesi e lettere non lette a parte, si è risolto tutto per il meglio. Kidd alla fine è stato dimesso ed è nuovo di zecca, così Law potrà strapazzarlo quando vuole, io di certo non mi lamento.
Che altro dire, non saprei proprio. Sono felice di aver concluso questo racconto perché ci tenevo davvero tanto e, anche se è stato un calvario, ora posso davvero mettere un punto e la parola fine.
Un po’ mi dispiace, ma credo sia normale ;_____________;
Vi lascio qualche immagine per concludere in bellezza :3
Iniziamo da Kidd e Law che non si vedevano da taaaaaaanto:
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Poi Ace che arriva tutto tranquillo in spiaggia:
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E arriva anche Traffy, non dimentichiamocelo:
https://scontent-a-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/1970566_674305762646970_3869882762713286188_n.jpg?oh=ab022dc1846f57513018f21b542c158c&oe=5492A6A1
E passeranno una bella giornata:
https://scontent-b-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/v/l/t1.0-9/10592700_674305889313624_3382684794312129037_n.jpg?oh=9a8e26fbb9056e7dcea52907f595cf60&oe=54A4937D
Tutti assieme per manina:
https://scontent-a-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xaf1/v/t1.0-9/10639366_674306055980274_8332699216228202093_n.png?oh=346d6788efd2b27e96d4e30eb50c53fe&oe=548324D6
Concludendo con Shachi curioso che vuole vedere cosa combinano i ragazzi:
https://fbcdn-sphotos-b-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xap1/v/t1.0-9/p526x296/10245280_674305985980281_5058904685773069015_n.jpg?oh=1a33b1d4b01cfc83704c5347986441eb&oe=5490CB7B&__gda__=1418408485_495b64504b580c2995f28cac932dc645
E adesso mi pare giusto RINGRAZIARE TUTTI.
Ringrazio Okami D Anima, KillerxPenguen_93,TKJolly, FlameOfLife, _Rouge (mia adorata), FemPhoe, An11na, Ikki, callas d snape, I_S_Acquamarine, Crazy demon e Incantatrice_Violeta per le splendide recensioni che mi avete lasciato e per avermi fatta sorridere e sentire apprezzata, davvero. Siete state tutte gentilissime, dalla prima all’ultima, e, anche se non ho sempre potuto rispondere, sappiate che ho tutto nella mia mente e che avete contato molto per me. Perciò grazie ancora, un abbraccione a tutte.
Ringrazio in particolar modo tutti i lettori silenziosi e tutti coloro che hanno iniziato, continuato, abbandonato, o pazientato per vedere la fine di tutto questo. Grazie mille per tutto, nessuno escluso.
 
Ora scusate per le smancerie, ma voglio prendermi, ora, un angolino per ringraziare una ragazza speciale solo per la pazienza che ha portato, e che sta portando, nel seguirmi e nel recensirmi nonostante io sia diventata un fantasma.
EmmaStarr.
Grazie di cuore. Grazie per tutto, ma aspetta che IO NON HO FINITO.
In una delle tue recensioni mi hai detto che, leggendo questa fic, hai iniziato a seguire anche Braccialetti Rossi. Mi hai detto che la canzone e la serie ti sono piaciuto un sacco, che hai adorato Kidd e Law e, beh, mi hai pregato per avere l’ultimo capitolo proprio stasera ed io guarda cosa sto facendo. Lo sto pubblicando proprio ora e voglio solo dire, o annunciare, una cosa.
Dedico tutta questa long a te, bellezza.
Spero basti per scusarmi della mia assenza e per ringraziarti di tutti i commenti, i consigli e i complimenti non meritati che mi hai lasciato. Mi sembra un bel modo per dimostrarti che ho apprezzato tutto tantissimo, sempre.
Quindi Grazie Infinite, per davvero.
Okay? Okay.
 
Bene signori, siamo alla fine e io spero di aver soddisfatto tutte le aspettative e di non aver dimenticato nulla. Per qualsiasi cosa sapete dove trovarmi. LOL, sembra una barzelletta.
Anyway, un dolce e un abbraccio enorme a tutti e GRAZIE ancora per, beh, per tutto quello che fate.
Spero di riuscire a finire presto ‘It’s alla about you’ e per ‘Portuguese D. Ace’ abbiate fede che la porterò avanti, con calma,  A QUALSIASI COSTO, I promise.
E insomma, a presto. Mi sento male, davvero.
 
Vi voglio bene, penso di doverlo dire.
See ya,
Ace.
 

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