Chi non muore si rivede. di ___Ace (/viewuser.php?uid=280123)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. ***
Capitolo 1.
Era assurdo. Era
completamente, assolutamente e decisamente assurdo tutto
ciò. Non poteva stare
capitando sul serio e proprio a me.
Io, il Capitano della squadra, il Boss della scuola,
l’indiscussa celebrità
dell’anno, passato e futuro. Insomma, quanto poteva odiarmi
Dio lassù per
decidere di farmi ricevere una punizione del genere? Quanto
l’avevo offeso o
fatto vergognare di una sua creazione col mio comportamento? Forse ero
stato un
po’ miscredente, eretico e ateo, ma, che cazzo,
c’era gente peggiore al mondo!
Quel
pomeriggio stava
filando tutto bene, nella norma, eravamo in vantaggio tre a zero contro
quei
perdenti dell’università avversaria ed io mi stavo
preparando per segnare il
quarto punto di fila, roba da mandare in visibilio i presenti e
spianarmi la
strada verso una carriera d’oro, quando un fulmine a ciel
sereno mi aveva fatto
impallidire e barcollare. Che sensazione tremenda era stata: un
sussulto al
cuore, poi uno scossone più forte, seguito da una sorta di
gelo nelle vene e
poi il sangue. Caldo e denso, uscitomi dalla bocca e corso a macchiare
il
prato. E dopo? Ricordavo solo di essermi accasciato a terra mentre un
centinaio
di voci iniziavano a urlare e preoccuparsi. Forse ero rimasto cosciente
fino
all’arrivo dell’ambulanza e dei soccorsi, alla fine
mi avevano ficcato una
mascherina sul muso e la testa aveva cominciato a girare. Poi il buio.
Ed ora mi
ritrovavo li,
in una stanzetta dalle pareti bianche e anonime, le lenzuola del
medesimo
colore, smorte e i mobili in ferro, a parte un misero armadietto dove
avrei
sistemato la mia roba visto che, stando a sentire le parole di quel
vecchio
dottore, sarei rimasto in compagnia dei medici e delle infermiere per
un po’. L’unico
colore vivo e acceso che avrebbe rallegrato quel mortorio,
probabilmente,
sarebbe stato quello dei miei capelli rossi.
«Il
suo cuore è
arrivato al limite» stava dicendo, «Ha subito
troppi sforzi negli ultimi anni
da quel che ho sentito, o sbaglio?».
Limite
un paio di palle, pensai,
rivolgendogli un’occhiata torva, io
sto
benissimo!
«La
terremo in
osservazione e la sottoporremo ad una serie di esami del sangue, ma
devo metterla al corrente che la situazione non è rosea, anzi, molto
complicata e seria da
quanto risulta nelle analisi. Mi stupisce, di solito in ragazzi giovani
della
sua età non dovrebbero svilupparsi tali anomalie, ma temo
comunque di doverla
avvisare che…».
Bla,
bla, bla, ma questo quanto parla? Tutte stronzate, si sta solo
inventando
grossi paroloni per mettermi in soggezione. Ah, quanto vorrei essere
fuori di
qui, chissà i ragazzi quanto staranno festeggiando per la
vittoria riportata!
Fiumi di alcool, maledizione!
«In
caso di
peggioramento dovremo procedere con un trapianto di cuore».
Silenzio,
non un fiato,
non un movimento, persino la mia mente si scollegò
nell’udire quelle parole.
Quell’uomo non poteva stare parlando sul serio. Aveva una
vaga idea di chi ero,
per caso? Ero sempre stato sano come un pesce, nulla fuori posto, non
mi ero
mai nemmeno beccato una fottuta influenza, e adesso veniva a dirmi che
potevo
aver bisogno di un cuore nuovo? Appartenuto ad un morto magari? Mai.
Dovettero
aspettare una
buona mezz’ora prima di riprendere con le spiegazioni
perché non fu affatto
facile mettermi a tacere e farmi comprendere la gravità
della situazione. Non
ne volevo sapere e, se non fossi stato nel reparto di cardiologia,
probabilmente mi avrebbero ficcato senza dubbio in quello di
psichiatria con i
matti. Certo, ma cosa pretendevano? Che sorridessi e che facessi buon
viso a
cattivo gioco? Loro venivano a dirmi che, con ogni
probabilità, mi avrebbero
fatto un buco sul petto e ci avrebbero infilato le loro manacce
sterilizzate ed
io non dovevo protestare?
La
verità era che avevo
paura. Si, paura di cosa sarebbe successo dopo. Avrei dovuto fare
costantemente
dei controlli, fare attenzione all’alimentazione, al bere,
all’attività fisica
e, di certo, non mi avrebbero più permesso di giocare. La
mia passione era
finita quel giorno in campo, in quell’attimo dove avevo
raggiunto l’apice del
benessere. Tutto si era ribaltato nel giro di un istante ed era andato
in
malora, a puttane, per la precisione. E cosa mi sarebbe rimasto? Solo
un ricordo.
Un ricordo e tanti rimpianti, tante opportunità buttate al
vento.
«Ora
la lasciamo
riposare. Passeremo più tardi per farle firmare alcuni
documenti e illustrarle
la procedura».
Non li
ascoltai
minimamente e continuai a mantenere fisso lo sguardo verso la finestra,
intento
a catturare quei pochi raggi di sole che per molto non avrei rivisto;
almeno
non nel modo che intendevo io.
Dopo un
tempo che parve
infinito mi riscossi dai miei pensieri e mi guardai attorno alla
ricerca di
qualcosa che potesse almeno un po’ distrarmi e tirarmi su il
morale. Di solito,
le rare volte in cui mi capitava di essere triste, bevevo come un
dannato in
compagnia di amici, ma dubitavo che un malato, per giunta dentro un
ospedale,
potesse organizzare festini alcolici, quindi alzai gli occhi al cielo e
mi
decisi ad alzarmi per fare quattro passi. Tra tutte le opzioni di
scelta,
quella era la migliore. L’obitorio l’avrei visitato
un altro giorno.
Non ero
il tipo da
lasciarmi scoraggiare per così poco e nemmeno
l’idea di ulteriori complicazioni
mi metteva in soggezione, dopotutto nulla poteva anche solo minimamente
scalfirmi e avrei affrontato tutto a testa alta, come sempre e con le
sole mie
forze. Mi sarei rimesso, avrei fatto vedere a quei bastardi che, anche
senza il
loro aiuto, sarei stato meglio e avrei ripreso ad allenarmi, a tornare
in campo
e a stracciare gli avversari a suon di menate e pugni, conquistando
l’intero
corpo studenti che già mi adorava. Quell’ipotetico
trapianto era un nemico, era
la squadra avversaria e l’avrei battuta ad occhi chiusi. Ne
sarei uscito
vincitore anche quella volta, sarei arrivato in cima alla vetta e con
il mio cuore avrei fatto scintille.
Non
ci sarà bisogno di nessuna operazione,
pensai, incamminandomi verso quella che sembrava l’uscita per
il reparto in cui
mi trovavo, ho sempre retto benissimo a
qualsiasi sforzo fisico, sto meglio di un atleta e non ho bisogno dei
loro
cazzo di contr…
«Ehi,
ma guarda dove
vai con quella carretta!» sbottai in direzione di un pazzo
che mi era appena
sfrecciato accanto sulla sedia a rotelle, rischiando di investirmi in
pieno. Il
diretto interessato, di sicuro senza la patente, inchiodò
bruscamente e voltò
la testa nella mia direzione, girando poi tutto il suo baldacchino di
fili e
ruote per poi ritornare indietro, giusto a pochi passi da me.
«Per
tua informazione
ti ho avvisato due volte di spostarti» spiegò,
guardandomi dall’alto in basso
come se fossi stato una specie di esperimento genetico mai visto,
soffermandosi
più del dovuto, ne ero certo, sui miei capelli,
«Ma tu continuavi a guardarti i
piedi!».
«Avresti
anche potuto
rallentare» gli feci notare a quel punto, ottenendo uno
sbuffo scocciato in
risposta e iniziando a provare una strana voglia di appendere quel
piccoletto
al muro. E poi, a dirla tutta, permettevano sul serio ai pazienti di
andare in
giro con cappelli assurdi come quello che aveva lui? Quale deficiente
si
farebbe chiamare Penguin? Robe
dell’altro mondo.
Mi
sondò per qualche
altro istante, borbottando qualcosa di incomprensibile tra
sé e sé, iniziando a
girarmi attorno con quell’affare con le rotelle. Ignorando il
mio fastidio e la
mia faccia corrucciata continuò indisturbato quello che
stava facendo anche
quando persi la pazienza e mi allontanai a passo spedito lungo il
corridoio,
diretto chissà dove, ovunque pur di togliermelo dai piedi.
Se c’era una cosa
che non sopportavo erano gli idioti. Nonostante tutto, però,
me lo ritrovai
puntualmente alle calcagna e con un sorriso sbieco stampato in quella
sua
faccia da ebete mezza nascosta dal frontino del berretto.
«Sei
nuovo di queste
parti, vero? Non ti ho mai visto prima» mi chiese,
illuminandosi quando gli
feci un cenno di assenso, «Sei in cardiologia, hai problemi
di cuore?».
«Tu
ne avrai
sicuramente se continui a seguirmi» risposi secco,
adocchiando una sala
d’attesa vuota e fiondandomici dentro, sperando che lo spazio
tra le due porte
fosse abbastanza stretto affinché lui non potesse passarci.
Tutto fu vano
perché l’impiastro, con
un’abilità piuttosto notevole per uno nelle sue
condizioni, riuscì a entrarci senza enormi sforzi,
posizionandosi di fronte a
me.
Restammo
a fissarci per
un lungo istante, durante il quale mi chiesi cosa diavolo volesse
quell’esserino minuto e dall’aria curiosa e scassa
cazzo. Pregai che non si
trattasse di uno dei soliti buonisti sempre alla ricerca di fare nuove
amicizie
per non perdere la speranza e tirarsi su il morale.
Alla fine
mi stancai di
averlo attorno, soprattutto se mi continuava a fissare in quel modo
sfacciato e
privo di vergogna. Insomma, un minimo di buona educazione, anche se io
ero
l’ultimo che poteva parlare, visto e considerato che il mio
vocabolario era
costituito per la maggior parte da insulti. Se non avessi temuto di
essere
incolpato di aggressione, gli avrei rotto anche l’altra gamba
visto che una già
gliel’avevano amputata.
«Senti,
dimmi cosa vuoi
e poi lasciami in pace» dissi, sedendomi su una delle sedie
scomode in plastica
e passandomi stancamente una mano sul viso. Quella si che era proprio
una
giornataccia. Prima facevo un mezzo infarto e poi un coglione in
carrozzina mi
seguiva senza sosta.
«Mi
sei simpatico»
annunciò, dopo essersi afferrato il mento con le dita con
fare pensieroso,
«Certo, sei un po’ scorbutico, ma dovresti andare
bene».
«Bene
per fare cosa?».
Immaginai
di vedere i
suoi occhi brillare sotto al cappello dato che il suo sorriso si
allargò da un
orecchio all’altro in modo contorto, «Per formare
un gruppo, ovvio!» fece
entusiasta, come se avessi dovuto pensare subito ad una prospettiva del
genere.
L’unica cosa che mi stavo chiedendo, invece, era da che
reparto provenisse
quello lì.
Probabilmente
in psichiatria ci stanno quelli come lui. Si, decisamente, è
uno sbandato. Per
forza, altrimenti perché girare con uno schifo in testa?
«Un
gruppo?» domandai
scettico, inarcando un sopracciglio e cercando un modo per chiamare la
sicurezza. Un pazzo mi stava importunando, non c’era da
scherzare.
«Esatto!
Una compagnia,
una squadra, chiamala come vuoi. Saremo amici e assieme sarà
più facile
superare i nostri problemi. Sempre meglio che essere soli, non
trovi?».
Bene,
è un buonista del cazzo, senza dubbio.
«Scusa
marmocchio, ma
non ho tempo da perdere. Solo a un idiota può venire in
mente di fare una cosa
del genere» brontolai, grattandomi distrattamente i capelli e
sbadigliando
sonoramente. Che cazzata, credeva di poter alleviare il dolore
parlandone con
qualcuno. Illuso, nessuno avrebbe mai potuto capire, eravamo tutti
diversi uno
dall’altro, perciò mettere i propri guai nelle
mani altrui era inutile e
sbagliato, tanto non sarebbe cambiato niente, no? Cosa avrei guadagnato
a
dargli retta? Semplice, il mio cuore non avrebbe sopportato tanta
stupidità e
sarebbe esploso prima del tempo. Quindi no, grazie.
«Veramente
l’idiota che
ha ideato il tutto è un altro» mormorò
senza la minima traccia di abbattimento,
«In questo momento sta facendo un esame, ma più
tardi te lo farò conoscere, non
temere!».
Alzai gli
occhi al
cielo, «Ti ho detto che non mi interessa» ripetei,
scoccandogli un’occhiata
torva. Di solito funzionava per zittire quelli che mi intralciavano la
strada.
Con lui, però, l’effetto fu neutralizzato
completamente e il mio astio gli
scivolò addosso senza toccarlo. Quel sorriso rimase immutato
sulla sua faccia
da schiaffi.
«Su,
su, non fare il
difficile! Ti prometto che non te ne pentirai e mi faresti un enorme
favore se
accettassi, sul serio. Siamo in due a portare avanti questa cosa e ho
un
disperato bisogno di un’altra persona» si
inalberò, aggrappandosi come una
sanguisuga ad una mia gamba e non dando segno di volersi staccare tanto
facilmente, nemmeno quando mi alzai e iniziai a camminare, rischiando
di inciampare.
Continuò ad artigliarmi il polpaccio, lasciandosi trascinare
su e giù per la
stanza.
«Anche
se accettassi
non sarebbe mai un vero gruppo. Per questo bisogna essere almeno in sei
e tre
non mi pare una compagnia molto numerosa» gli spiegai,
saltellando su una gamba
sola e perdendo una pantofola.
«Ma
se ti arruoli
automaticamente diventeremo quattro!» precisò in
tono lamentoso per poi
riprendere a supplicarmi. Dio, ma in ospedale accadevano cose del
genere?
Perché non rinchiudevano i malati di mente da qualche parte,
magari in una
stanza insonorizzata e senza porte per entrare e uscire, ne finestre? A
quello,
poi, avrebbero dovuto mettere per legge una camicia di forza. Superava
il
limite della sopportazione.
«Sai
contare almeno?
Due più uno fa tre!».
«Un
altro si unirà a
noi quando arriveremo a contare almeno tre partecipanti. Quindi, testa
rossa,
fa quattro. Ti prego, dì di si!».
«Chiedilo
a qualcun
altro. E non chiamarmi testa rossa!».
«E
come devo chiamarti,
allora?».
«Sono
Kidd. Eustass
Kidd».
Mi
guardò stranito per
un secondo, così approfittai per liberarmi dalla sua presa e
rimettermi dritto
in posizione eretta. Avevo fatto più fatica quel giorno che
durante i vari
allenamenti settimanali. Avrei potuto persino rimanere su una gamba
sola per
ore, ne ero certo, e avrei addirittura vinto un primato.
«Molto
piacere, io sono
Penguin» sorrise allora, porgendomi la mano che afferrai dopo
un attimo di
esitazione, stringendola con decisione e stupendomi nel sentirmi
ricambiato
allo stesso modo. A quanto pareva il ragazzino aveva un carattere
determinato e
sicuro di sé, quindi non avrebbe mollato tanto facilmente.
«Che
nome stupido»
commentai, incapace di starmene zitto.
«Anche
il tuo è molto
presuntuoso» ribatté saccente, tanto che mi venne
voglia di prenderlo e
sbattergli la testa addosso al muro. Era inutile, non lo sopportavo a
pelle e
avevo la vaga sensazione che quello era l’inizio di una lunga
serie di guai e
complicazioni. Dovevo sbarazzarmene al più presto.
«Ti
va di fare un giro?
Prima stavo andando a trovare una persona quando ci siamo incrociati,
mi accompagni?».
«Ho
scelta?».
Ghignò,
negando con il
capo e facendomi segno di seguirlo così, sbuffando
sonoramente, mi incamminai
dietro di lui e mi fece strada per una serie di corridoi, ascensori e
reparti
dai nomi strani e impronunciabili, studiando il luogo e stando a
sentire a
volte si e a volte no i suoi sproloqui sul tempo, sui medici, sulle
infermiere,
sui medicinali e sui pazienti del posto che, praticamente, lo
conoscevano
tutti.
«Posso
sapere perché
prima sei passato in cardiologia se la tua destinazione era due piani
più
sopra?» gli chiesi, sinceramente incuriosito.
Si
strinse nelle
spalle, dicendomi che era una scorciatoia che aveva imparato nel tempo
trascorso tra quelle mura che, a detta sua, era tanto, e una volta
imparate le
piantine dei piani e dell’intero edificio, tutto era
più facile e orientarsi
era un giochetto da ragazzi. Infatti, come a dimostrare il tutto,
arrivammo a
destinazione senza giri alternativi, quando io mi sarei perso centinaia
di
volte se fossi stato da solo.
«Ecco,
qui c’è la
terapia intensiva» spiegò, parlando a bassa voce e
rallentando la sua andatura,
affiancandomi e scortandomi lungo un corridoio silenzioso con le porte
delle
stanze tinte di blu. I medici che giravano erano pochi e nessuno
sembrò
interessarsi ad un idiota in sedia a rotelle e ad un colosso di due
metri
dall’aria poco cordiale e con un incendio in testa.
«Ci
siamo. Qui c’è il
tipo che si unirà a noi» fece, animandosi e
mettendosi quasi a saltellare. Lo
guardai torvo, pronto a riferirgli che non sarebbe mai accaduto, dato
che io no
avevo accettato, ma quello aprì la porta senza esitare
oltre, e senza bussare,
ed entrò in una stanzetta singola dove, incollato ad un
letto e ricoperto di
bende, stava un ragazzo addormentato con i capelli di un biondo chiaro
e
piuttosto lunghi.
Rimasi
piuttosto
stupito alla vista di quello spettacolo raccapricciante: praticamente
gli unici
arti che non erano ingessati erano il braccio destro e la schiena,
busto
compreso. Quelli forse poteva anche muoverli, ma le gambe erano tenute
inclinate da una serie di aggeggi di metallo, mentre una benda era
stretta
attorno alla sua fronte.
Mi
lasciai scappare un
fischio di stupore, provando ad immaginare cosa diavolo avesse
combinato per
ridursi in quel modo esagerato. Di conseguenza il nanerottolo mi diede
un
pizzicotto al braccio, intimandomi di fare silenzio mettendosi un dito
davanti
alla bocca e zittendo per un pelo un mio insulto.
Un
fruscio di lenzuola
arrivò alle nostre orecchie, seguito da un sospiro stanco e
da qualcuno che si
schiariva la voce per parlare.
«Penguin?
Sei di nuovo
tu?» domandò il poveraccio in modo arrendevole,
alzando un braccio per
afferrare una cordicina penzolante sopra di lui e issandosi un
po’ per mettersi
seduto e guardare in faccia il suo ospite. Ovviamente non si aspettava
di
trovare anche me e ciò gli fece corrugare le sopracciglia
con aria
interrogativa e sorpresa.
«Fammi
indovinare»
disse subito dopo, riferendosi direttamente a me con fare esasperato,
«Ha
provato a infinocchiare anche te con la storia del gruppo?».
Sogghignai,
per la
prima volta sinceramente divertito, quel tipo mi era già
simpatico. Ecco, forse
con lui avrei potuto fare amicizia, non con quel microbo che girava su
quattro
ruote.
«Kira-chan,
ora siamo
in tre, quindi sono venuto a darti il benvenuto nella nostra compagnia!
Con te
fanno quattro!» batté le mani Penguin,
avvicinandosi poi al bordo del letto e
poggiando i gomiti sul materasso per poi alzarsi un poco il frontino
del
cappello e guardare in faccia il suo obbiettivo raggiunto.
«Sei dei nostri,
finalmente» mormorò in un modo che, per qualche
assurdo motivo, mi fece venire
la pelle d’oca. Era come se stesse tramando qualcosa dietro
quella facciata da
stupido che aveva mostrato fino a poco prima. L’espressione
che fece, poi, fu
tutto, tranne che tranquillizzante. La stessa cosa sembrava pensarla
anche il
biondo perché, facendo forza sul braccio buono, si
spostò di lato per prendere
le distanze da quell’essere.
«Ehi,
non mi pare di
aver detto di essere dei vostri» mi sentii in dovere di
sottolineare, per
l’ennesima volta, ottenendo uno sguardo carico di gratitudine
da parte
dell’imbalsamato, il quale sembrò riacquistare un
briciolo di speranza nel
sentire quella confessione.
«Non
fare il difficile,
Eustass, vedrai che ci divertiremo. E poi, più siamo meglio
é». Era ritornato a
comportarsi come un moccioso, ridacchiando spensierato e facendomi
segno di
prendere una sedia pieghevole e avvicinarmi a loro per fare quattro
chiacchiere. Sembrava non preoccuparsi affatto dell’orario di
visite ormai
terminato e iniziò a parlare senza sosta, presentandomi il
ragazzo che
rispondeva al nome di Killer, Killer e basta a detta del diretto
interessato.
Viva
la fantasia, avevo
pensato, stando a sentire come fosse finito ingessato dalla testa ai
piedi. Un brutto
incidente in moto durante una corsa clandestina, quindi, oltre ai danni
fisici subiti,
si era beccato anche una denuncia, ma aveva fortunatamente evitato la
galera
per qualche anno. Per quanto mi riguardava, avrei preferito finire al
fresco
che starmene in un letto d’ospedale senza vie di fuga.
Scoprii anche che tutte
quelle informazioni non era stato lui stesso a fornirle a Penguin, ma
che
quest’ultimo fosse andato a ficcanasare sulla sua cartella
clinica per saperne
di più in proposito.
«Lui
non voleva
dirmelo» si giustificò, come se ciò
fosse abbastanza per giustificare un’azione
del genere, «Così mi sono arrangiato come ho
potuto».
«Lo
sai che potrei
denunciarti?» gli fece notare l’altro con calma e
con un sorriso sinistro che
apprezzai parecchio. Mi piacevano le persone subdole, anche se
ciò avrebbe
voluto dire che, automaticamente, anche Penguin, con quel suo modi di
fare
sinistro, entrava nelle mie grazie. Probabilmente lui costituiva
l’eccezione.
«Non
dire sciocchezze»
sbuffò il ragazzino, «Non hai prove e non lo
faresti».
«Non
sfidarmi».
Incredibilmente
il
tempo volò e quando un’infermiere fece il suo
ingresso, trovandoci ammassati
attorno al povero infermo, ci chiese, non senza una certa irritazione
nella
voce, di uscire e lasciar riposare il paziente, ricordandoci che, se
volevamo
venirlo a trovare, l’orario era segnato fuori,
all’ingresso del reparto.
Penguin non lo ascoltò minimamente e, prendendosi un momento
prima di andarsene,
ricordò a Killer che da quel giorno faceva parte della
squadra.
«Solo
se ci sta anche
lui» chiarì a quel punto, indicandomi con un dito
e aspettando una mia
risposta.
Li
guardai leggermente
schifato, riflettendo sul da farsi. Di certo avrei passato un
po’ di tempo tra
quelle mura e le giornate sarebbero state lunghe e infernali. Forse, se
avessi
avuto qualche passatempo, avrei sopportato meglio il tutto e quello
scapestrato
sembrava proprio il tipo di persona spericolata che faceva al caso mio.
E poi
non mi stava in culo, cosa che raramente accadeva quando conoscevo
nuovi
elementi, quindi aveva già un punto a suo favore. Magari
assieme avremo potuto
trovare il modo di mettere fuori gioco quel nanerottolo asfissiante.
Alla fine
sospirai
sconfitto, scuotendo il capo e accettando quell’assurda
proposta.
«E
sia» decretai, «Ma
voglio avere io il comando» chiarii. O a quella condizione o
non se ne faceva
niente.
A quelle
parole Penguin
sembrò farsi dubbioso, tanto che iniziò a
mordersi un labbro con indecisione,
asserendo infine che di ciò se ne poteva discutere.
Dopodiché salutammo Killer e
uscimmo dalla stanza, diretti verso il decimo piano.
«Posso
sapere perché ci
tenevi tanto ad averlo in squadra?» chiesi, ritrovandomi in
qualche strano modo
a spingere la carrozzina di quell’impiastro che,
massaggiandosi le braccia
doloranti per lo sforzo e il movimento, salutava gente a destra e a
manca,
indicandomi quando serviva la strada da prendere per raggiungere
l’ala Nord
dell’ospedale dove, stando alle sue parole, si trovava
l’ideatore di quella
commedia. Un altro squinternato insomma.
Si
zittì per un momento
e ringraziai il Cielo per quei pochi minuti di quiete, giusto il tempo
di un
viaggio in ascensore, quando poi riprese a parlare, guardandomi in
faccia e
mostrandomi per la prima volta i suoi occhi scuri che luccicavano di
meraviglia
ed emozione. Cosa che mi spiazzò, dato che io non mi
comportavo mai in quel
modo e non esprimevo assolutamente nessun tipo di sentimento.
«Ma
dico, l’hai visto?»
fece sognante, aspettando che gli dessi ragione. Invece aggrottai la
fronte e
lo guardai come se avessi avuto davanti un completo idiota. Che, in
poche
parole, era esattamente la realtà.
«Ehm,
si? E’
distrutto».
«E’
bellissimo!».
Parlammo
all’unisono,
scambiandoci poi delle occhiatacce per il nostro disaccordo. Come
poteva dire
una cosa del genere se il ragazzo riusciva a malapena a muoversi?
Inoltre,
imbottito in quel modo, non era di certo un bello spettacolo, per
quanto
potessi essere gentile nel giudicarlo.
Alla fine
decisi di
lasciar perdere, stringendomi nelle spalle e girando a sinistra dentro
un’enorme sala illuminata e tranquilla dove si aggiravano
pazienti in vestaglia
e medici indaffarati. Non era male come posto, forse, tra tutti, era il
migliore la dentro.
«Ci
siamo, continua da
quella parte» stava dicendo Penguin, dimenticatosi del suo
sogno ad occhi
aperti e fattosi
attento e vigile, come
se fosse alla ricerca di qualcosa.
Ci
aggirammo per quelle
stanze per una decina di minuti e, dopo aver sbirciato dentro una
camera e
averla trovata vuota, fummo costretti a tornare indietro. A quanto
pareva il
suo compare non c’era e non era ancora tornato dalla visita
che aveva in
programma.
«E’
malato anche questo
qui?» domandai, seduto su un tavolino con le gambe a
penzoloni e sgranocchiando
un pacchetto di praline al cioccolato che il nanerottolo aveva
acquistato alle
macchinette per entrambi. Inutile dire che avevo monopolizzato la
merenda e che
glie offrivo un boccone ogni cinque. Dopotutto, era troppo divertente
vederlo
dimenarsi sulla sedia a rotelle e protestare per
l’ingiustizia sulla sua
immobilità. Cosa potevo farci io? Ognuno aveva i propri
problemi e il suo non
mi riguardava.
«Non
è il termine
esatto definirlo malato» iniziò a dire,
interrompendo la frase per
maledirmi, «E’ difficile da spiegare, ma sono certo
che te lo vedrai da te».
Mi feci
pensieroso,
mettendogli il sacchetto a portata di mano, giusto per evitare di
attirare
l’attenzione dei presenti e di venire ripreso, vagliando nel
frattempo varie
alternative nella mia mente. Ero curioso di sapere il problema di quel
tizio ignoto.
Sicuramente, sopra ogni altra cosa, era un completo stupido per avere
un
piccoletto invalido con una gamba sola come amico, ma il resto restava
un
mistero che volevo scoprire. In un certo senso, la cosa si stava
facendo
interessante, anche se assurda.
«Le
stai finendo
tutte!» protestò di nuovo, «Almeno
lasciamene un po’!».
Alzai gli
occhi al
cielo senza prestargli attenzione e allontanando dalla sua portata la
merenda,
tenendola più in alto e sfottendo i suoi patetici tentativi
di afferrarla e di
appropriarsene. Poveretto, un po’ di pena me la faceva, ma
non ero incline a
fare il buon samaritano; nella vita quelli che sopravvivevano erano i
forti,
per i deboli non c’era il minimo spazio e se voleva tirare
avanti avrebbe
dovuto imparare a essere più bastardo e stronzo, esattamente
come me. Chissà,
magari avrei potuto renderlo mio allievo e insegnargli qualcosa.
Probabilmente
l’avrei fatto, ma non sapevo ancora che quello un maestro ce
l’aveva già, e non
uno qualsiasi, ma il peggiore sulla faccia della terra.
«Non
lo sai che è da
maleducati farsi beffe di chi è meno abile degli
altri?» mi sentii chiedere ad
un certo punto, adocchiando di sfuggita un sorriso di adorazione sulla
faccia
del pinguino e voltandomi in direzione della voce del nuovo arrivato.
Accanto a
noi,
appoggiato con un fianco al bordo del tavolo e le braccia incrociate,
se ne
stava un ragazzo piuttosto alto e smilzo, il quale mi fissava con
l’aria
sfacciatamente divertita, o lo sarebbe stato se non avesse sfoggiato un
fastidiosissimo ghigno di sufficienza.
Le
persone con cui
andavo d’accordo erano poche e quelle che mi piacevano ancora
meno. Quello lì
sentivo di odiarlo a pelle, anche senza conoscerlo.
Lo fissai
per qualche
altro istante, alzando infine le spalle e ignorando il suo commento,
«E tu
impara a farti i cazzi tuoi». Ma se credevo di potermi
liberare di lui facendo
la voce grossa mi sbagliavo di grosso.
«Credi
così poco in te
stesso che devi sottomettere i deboli per sentirti forte?».
Gli
scoccai un’occhiata
omicida e in un attimo gli fui di fronte a nemmeno un passo di
distanza. La cioccolata
abbandonata sul tavolo e i pugni stretti lungo i fianchi. Era
più basso di una
decina di centimetri, ma mi fronteggiava senza la minima ombra di
paura, al
contrario, sembrava che la situazione lo divertisse assai.
«Ripeti
se hai il
coraggio» ringhiai tra i denti, iniziando lentamente a
flettere il braccio per
colpirlo dritto in faccia e cancellargli quell’espressione da
superiore che stava
mostrando con fierezza.
«Come
siamo scorbutici»
sfotté, arricciando le labbra e gettando uno sguardo veloce
al deficiente in
carrozzina, «Ehi, Penguin, da dove l’hai
raccattato?».
«Viene
da cardiologia»
rispose l’altro a bocca piena, «E’ dei
nostri adesso e anche Kira-chan».
«Capisco.
Quindi sei
riuscito a convincere Killer-ya» mormorò il
bastardo, passandosi una mano fra i
capelli neri e fregandosene altamente del mio sguardo omicida. Quando
cercai di
afferrarlo per la collottola dell’orrenda felpa che indossava
si scansò
velocemente, facendo un passo indietro e alzando un dito verso di me,
come a
volermi dare un
avvertimento.
«Calma
capelli di
fuoco, sappi che ci sono delle regole» disse infatti, senza
perdere quell’aria
ghignante, «Intanto qui comando io…».
«Oh
no» lo interruppi,
avvicinandomi di un passo e coprendo nuovamente la distanza, sbattendo
violentemente un pugno sul tavolo, «Ho espressamente detto al
nanerottolo che
mi sarei sottoposto a questa stronzata solo se fossi stato io a
dirigere i
giochi» chiarii categorico, «Se non vi sta bene
potete anche dimenticarvi di
me».
«Ma
guarda, qui
qualcuno vuole dettare legge, eh?» mi prese in giro, per
nulla impressionato
dal mio sfogo, rimanendo impassibile e composto, «E va bene,
sarai il leader se
lo desideri tanto, ma sia chiaro fin da subito: la
responsabilità per qualsiasi
guaio è tua e tua soltanto».
«Ci
sto» risposi secco.
Ci avrei pensato più tardi ai problemi che avrei potuto
rischiare di avere
accettando quell’aspetto, ma ciò mi premeva di
essere al di sopra degli altri,
soprattutto al di sopra di quello stronzo con il pizzetto e il sorriso
da
volpe. L’idea di poterlo zittire e rimettere al suo posto
rendeva il tutto più
allettante e divertente, anche ritrovarmelo in ginocchio davanti a me
in uno
sgabuzzino non era male come prospettiva.
Quello
allora sorrise
in maniera contorta e sadica, facendomi temere di aver appena firmato
la mia
condanna. Di certo aveva qualcosa in mente, qualcosa di poco carino nei
miei
confronti, ma riacquisii la mia spavalderia e mi preparai ad
affrontarlo. Se
era la guerra che voleva allora l’avrebbe avuta e gli avrei
fatto capire fin da
subito che io non perdevo mai.
«D’accordo.
Ultima
cosa: io non prendo ordini da nessuno, chiaro?».
Scordatelo
moccioso, così non mi sta bene.
«Io
sono il Capitano,
ergo io decido e do gli ordini. Questi sono i patti» sibilai
minaccioso. Prima
accettava e poi metteva delle condizioni? Assolutamente no, non
gliel’avrei
permesso.
«I
tuoi patti, vorrai dire»
mi corresse, «Ti ricordo che questa cosa è
partita da me, quindi mi merito una parte del comando. Ergo»
ripeté, con l’intento di beffeggiarmi, «Tu non mi
ordini un emerito cazzo».
«Sai
dove te lo metto
sto cazzo?».
«Sono
curioso di
saperlo» mi sfidò, sostenendo il mio sguardo e
dando inizio ad una gara
silenziosa fatta di fulmini e antipatia reciproca. Era un osso duro, ma
ci
avrei pensato io a fargli abbassare la cresta e a ridimensionare il suo
ego
smisurato. Come si permetteva di intralciarmi in quel modo? Nessuno
osava, nessuno, perciò
chi era lui per avere
tutto quel fegato di tenermi testa?
Finalmente
qualcuno con le palle,
trovai il tempo di pensare. Almeno ci sarebbe stato da divertirsi.
«Quindi
dovrò
sottostare a Eustass d’ora in poi?» si intromise
Penguin, riportandoci alla
realtà e facendo si che la smettessimo di scannarci con gli
occhi. Con un
grugnito mi voltai dalla parte opposta, stizzito e incazzato, mentre
quella
piaga si interessava al piccoletto invalido.
«Esatto,
spero che Sua
Maestà sia soddisfatto di questo».
«Chiudi
il becco,
qualunque sia il tuo nome».
«Mi
chiamo Trafalgar
Law» sospirò rassegnato, «E ti ho detto
di non darmi ordini, Signor…?».
«Si
chiama Eustass
Kidd, ha ventuno anni e studia all’Università di
Ingegneria Meccanica. E’ un
novellino ed è arrivato qui oggi trasportato
d’urgenza per un malfunzionamento
cardiaco, per il resto basta guardarlo, insomma, non è molto
socievole, ma non
penso sia cattivo, sai? Mi ha anche portato a spasso con la sedia a
rotelle».
Fissai
allibito
l’idiota col cappello, passando dall’essere
sorpreso al sentirmi spiato.
Com’era venuto a conoscenza di tutte quelle informazioni sul
mio conto, quel
bastardo infame? Eppure ero certo di non avere cartellini addosso o
stupidaggini del genere che indicassero qualcosa sul mio conto.
«E
tu come sai tutto
questo, di grazia?» sbottai, trattenendo a stento la rabbia.
Prima avrei atteso
una risposta plausibile che spiegasse l’accaduto, poi
l’avrei gettato dalla
finestra, carrozzella compresa.
«Ho
un’amica addetta
agli archivi; sai com’è, le ho mandato un
messaggio» si strinse nelle spalle,
sorridendomi gioviale, come se la cosa fosse ovvia e chiara come il
sole.
Peccato che sul mio carattere ci avesse azzeccato: io ero scontroso e
poco
paziente, quindi non mi calmai affatto.
«Eustass-ya,
ma allora
sei davvero un mocciosetto».
Voltai il
capo quel
tanto che bastava per inquadrare quel Trafalgar, dedicandogli
un’occhiata truce
che prometteva prossime e terribili torture e sofferenze se avesse
anche solo
osato aprire bocca per ripetere una cosa del genere.
«Ha
parlato l’uomo
vissuto, immagino» mormorai velenoso.
Quello si
concesse una
breve risata di sufficienza, mentre Penguin si calcò meglio
il cappello in
testa nel tentativo di nascondere il suo sorrisetto. Dovevano per forza
essere
a conoscenza di qualcosa che a me sfuggiva, ne ero certo, e
ciò li faceva
divertire parecchio.
«In
effetti, piccolo Eustass, io ne ho
ventiquattro»
chiarì soddisfatto, godendosi il mio smarrimento e la mia
espressione arcigna.
La cosa, ovviamente, non mi faceva affatto piacere e sapere di avere
tre anni
in meno in confronto a lui mi faceva parecchio incazzare. Ad ogni modo,
se non
volevo perdere la testa e rodermi troppo l’anima, tenni conto
che, a parte quel
minuscolo e insignificante particolare dell’età,
in confronto a lui io ero il
doppio e avrei potuto schiacciarlo in ogni momento. Inoltre sarebbe
bastato un
giorno o due per fargli capire chi era migliore tra di noi. Un paio di
insulti
e qualche pugno avrebbero chiarito la situazione e garantito il mio
indiscusso
dominio.
Trafalgar
sfoggiò un
ghigno altezzoso e si permise di guardarmi dall’alto in
basso, come a voler
sottolineare più volte la differenza abissale tra di noi,
calcando sul fattore
età e facendomi ribollire il sangue nelle vene. Me
l’avrebbe pagata e gli avrei
fatto rimangiare ogni attimo di quella sua arroganza, poco ma sicuro.
«Un
marmocchio come
Capitano» borbotto fra sé, ridacchiando
sommessamente e ignorando il mio
ringhio decisamente poco umano, «Andrà
bene» dichiarò infine, guardandomi con
la coda dell’occhio senza smettere di ghignare. Cosa cazzo
ero diventato, un
fottuto pagliaccio? Io incutevo timore e ispiravo rispetto,
nonché sesso
selvaggio, invece lui che faceva? Se ne sbatteva altamente e rideva.
«Ora
ne mancano due e
poi saremo un gruppo a tutti gli effetti!» strillò
Penguin con entusiasmo,
alzando i pollici e aspettando una qualche reazione positiva da parte
mia e
dello stronzo, ma non avevo la minima intenzione di entusiasmarmi per
boiate
del genere. Per quanto riguardava, non avrei nemmeno mai pensato di
accettare
se non mi fossi fatto impietosire dallo sguardo speranzoso di Killer. E
poi,
ormai, quella storia era diventata una sorta di sfida con Trafalgar so-tutto-io Law e non mi sarei mai fatto
scappare l’occasione per metterlo alle strette e fotterlo.
«Ci
sono altri dementi
come voi in giro, per caso?» mi premurai di chiedere, giusto
per sapere cosa
dovevo aspettarmi da quel soggiorno in ospedale oltre a una serie
infinita di
esami, test clinici e stranezze inquietanti varie.
«In
effetti al quarto
piano c’è uno a cui potremo chiedere. Se ne sta
sempre per conto suo» spiegò
Penguin con fare dispiaciuto.
«Ha
capito tutto dalla
vita» commentai. Se voleva mantenersi sano di mente il modo
migliore era
tenersi alla larga da quelle due mine vaganti.
«E’
per questo che sei
senza amici, Eustass-ya?».
«Cosa
te lo fa pensare?»
ribattei stizzito e con i nervi a fior di pelle. Che ne sapeva lui
della mia
vita? Io ne avevo di amici, a bizzeffe per sua informazione.
Si
strinse nelle
spalle, «Non mi sembra di vedere qualche tuo conoscente qui
in giro. Nessuno ha
pensato di venirti a fare visita?».
A
quell’affermazione
non trovai nulla da ribattere e uno strano senso di comprensione si
fece strada
in me. Quel pomeriggio avevamo vinto una partita piuttosto importante
per
l’istituto e per la nostra squadra e, come ogni volta, era
prevista una festa
con i fiocchi a cui tutti avrebbero partecipato. Con tutto quel casino
successo
me ne ero scordato e non ci avevo fatto caso, ma possibile che tutti
avessero
preferito non rinunciare a un po’ d’alcool e musica
per passare a vedere come
stavo?
Guardai a
terra,
corrugando la fronte e ignorando la preoccupazione negli occhi di
Penguin che,
mordendosi le unghie delle dita, era indeciso se confortarmi o
lasciarmi in
pace.
Pensandoci
bene, un po’
me l’ero aspettato e non ero poi tanto stupito. Dopotutto non
ero altro che uno
spaccone montato, pieno di sé e alla maggior parte dei miei
compagni stavo
parecchio sulle scatole, solo quelli che volevano farsi un nome e avere
una
reputazione mi seguivano come discepoli, facendo tutto quello che
dicevo e
sostenendo ogni mia assurda idea. Nessuno mi contraddiceva, nessuno si
metteva
contro di me, pena un naso rotto o un braccio lussato, magari qualche
livido
quando mi sentivo magnanimo. A conti fatti ero un figlio di puttana,
quindi,
perché preoccuparsi tanto per la mia salute?
«Forza
Penguin, è ora
che tu vada» fece il ragazzo pelle e ossa, zittendo le
proteste del piccoletto
con uno scappellotto ben mirato sulla nuca, assicurandogli che il
giorno dopo
avremo fatto visita all’ipotetico quinto elemento della
compagnia.
«D’accordo.
Allora a
domani ragazzi!» ci salutò sorridente, dandoci le
spalle e avviandosi con la
sua sedia a rotelle verso gli ascensori. Non mi resi conto della sua
assenza
fino a che non mi sentii picchiettare una spalla, riscuotendomi dai
miei
pensieri e riflessioni che, invece di farmi sentire meglio, mi avevano
lasciato
addosso un senso di nausea e di ribrezzo per la mia vita
all’apparenza
perfetta, ma contaminata dallo schifo più totale.
Guardai
Trafalgar con
aria interrogativa, «Che vuoi?».
Mi
sondò per qualche
secondo, osservandomi attentamente per capire in che condizioni fosse
il mio umore
in quel momento. Alla fine decise di infischiarsene e di punzecchiarmi
ugualmente. «Non ti metterai mica a frignare spero»
fece con una smorfia di
disgusto.
Lo
spintonai lontano da
me, stupendomi della facilità con cui riuscii a spostarlo e
notando come iniziò
a massaggiarsi il braccio. Eppure non ero stato così brusco
come mio solito.
«Forza,
ti riaccompagno
in cardiologia». Così dicendo mi voltò
le spalle, affondando le mani nelle
tasche dei jeans dannatamente stretti che mettevano in risalto la sua
figura
magra e, accidenti, davvero troppo magra, tanto che rimasi immobile al
mio
posto, stranito da tutto ciò. Come cazzo faceva a reggersi
in piedi con quelle
gambe così fini?
Lasciai
scorrere lo
sguardo verso l’alto, soffermandomi sul fondoschiena che si
portava appresso e
il mio viso mutò in un’espressione di
apprezzamento.
Certo
che gli stronzi hanno sempre un culo da favola, altro che storie, pensai,
sorridendo leggermente e
mordendomi un labbro, inclinando il capo. Nemmeno
davanti sembra essere messo male.
«Eustass-ya».
I miei
occhi
incontrarono i suoi e mi resi conto di essere stato colto in flagrante,
ma la
cosa non mi preoccupò affatto. Figuriamoci, ci voleva ben
altro per mettermi in
imbarazzo e lui sembrò capirlo così, ricambiando
il sorriso, non perse tempo
per mettermi alla prova.
«Mi
trovi così
attraente?» domandò con un tono canzonatorio, al
che il mio ghigno si allargò.
«Non
essere così
presuntuoso, apprezzo solo il culo che ti ritrovi».
Alzò
gli occhi al
cielo, borbottando qualcosa riguardo ai mocciosi irriverenti e,
facendomi segno
di sbrigarmi, si diresse verso le scale, commentando sul fatto che, se
aveva
fortuna, lo sforzo fisico mi avrebbe fatto schiattare.
«Ci
vuole ben altro per
liberarsi di me, Trafalgar» mi premurai di fargli sapere,
guardandolo torvo ed
elaborando un piano per farlo scivolare sui gradini e mirare a
rompergli l’osso
del collo con una brutta caduta. Se era davvero così magro
la percentuale di
successo era piuttosto alta.
«Non
preoccuparti,
Eustass-ya, ci penserò io a farti fuori»
sogghignò lo stronzo con fare sadico e
con uno sguardo da folle che per poco non mi fece rabbrividire.
«Allora
è guerra»
ribattei, digrignando i denti e mostrandogli i canini come se fossi
stato un
predatore letale.
«Guerra
aperta» sibilò
maligno.
Era il
primo giorno, ma
già sapevo che sarebbe stato l’Inferno.
Angolo
Autrice:
Buonasera
gente ^^
Sono
certa che in questo
momento vi state facendo la stessa mia domanda: Cosa cazzo mi sono
messa in
testa di fare quando devo finire due long?
Eh, non
lo so proprio a
dire il vero, ma l’altra sera stavo passando in rassegna i
canali in tv e ho
beccato il film Braccialetti Rossi,
così ho un po’ storpiato la trama, rendendola
decisamente molto più scurrile e
con personaggi veramente bastardi. Che vergogna di ragazza che sono ^^
A ogni
modo sappiate
che non lascerò nulla di incompiuto e che con questa nuova
fic non ho
intenzione di tirarla per le lunghe, anche perché i capitoli
saranno abbastanza
corposi, quindi rilassatevi!
Alcune
paroline
sull’inizio di questa storia. Dunque, tutto ruota attorno
all’ospedale dove
Kidd è stato trasportato d’urgenza per un problema
grave, stando a sentire i
medici, e questo da inizio ad una vicenda che lo
accompagnerà nel suo soggiorno
in cardiologia. A quanto pare non è l’unico
ragazzo con problemi, infatti
abbiamo un Penguin invalido senza una zampetta, ma molto allegro e
abbastanza
spensierato. Soprattutto innamorato di un certo Kira-chan, scapestrato
e
devastato, imbalsamato dalla testa ai piedi. Si rimetterà
presto, dopotutto
dovrà pur riprendere le sue gare clandestine, no? Si, con la
sedia a rotelle
però! E poi arriva Law. Ow, dannazione a te e al tuo culo!
Lui e Penguin, più
l’ultimo che il primo, ma andando avanti lo
spiegherò meglio, vogliono riunire
un gruppetto di ragazzi per affrontare il loro soggiorno tra quelle
mura piene
di sofferenza e dolore. E non è nemmeno una brutta idea,
insomma, non deve
essere facile trovarsi rinchiusi in un luogo così cupo ed
essere soli. Quindi
la loro idea è quella di passare il tempo e divertirsi il
più possibile.
Due
ragazzi sono stati
nominati e nel prossimo capitolo ve li presento, ma penso che, se mi
conoscete,
possiate benissimo immaginare di chi sto parlando :3
Ace e
Marco!
Ok,
l’ho detto, mi
spiace, non ho resistito!
Che dire,
spero che
abbiate apprezzato questo inizio ^^
Ora vado,
per qualsiasi
cosa sapete dove trovarmi e se mi fate sapere cosa ne pensate ve ne
sarò grata
^^
Grazie a
tutti i nuovi
lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. ***
Capitolo 2.
Uh?
Ma dove sono finito? Aspetta, che piano è questo? Che, il
decimo? No, no, no,
ho sbagliato proprio! Va bene, fa nulla, adesso torno indietro, magari
per
strada incontro qualcuno che vuole aggregarsi a me. Certo che Kidd
poteva anche
accompagnarmi invece che restarsene a dormire. Dannazione, dovevamo
andare alla
ricerca del quinto elemento un fottuto mese fa e nessuno si
è ancora deciso a
prendere parte attiva nel gruppo. Insomma, che egoisti! Prima
perché devono
litigare, poi perché uno deve fare gli esami e
l’altro rintanarsi in camera, ma
che diavolo! L’avrei chiesto a Kira-chan, ma lui non
può ancora camminare. Che
peccato, sono mesi che ha quei maledetti affari a ingessargli le gambe,
si può
sapere quando si decidono ad iniziare con la sua riabilitazione?
Poveretto, di
questo passo difficilmente l’avrò affianco tanto
presto. Mhm, bene, da quella
parte dovrebbero esserci gli ascensori. Toh, ma guarda! Quei muri sono
tutti
colorati e dipinti! Che bello! Voglio vederli meglio, non sapevo si
potessero
imbrattare le pareti! Devo farlo anche io!
Mi
diressi verso quella
che sembrava una sala d’attesa trasformata in
un’insolita sala giochi, anche se
il silenzio che vi regnava stonava molto con l’allegria che i
colori
infondevano alla prima occhiata. Mani, scritte, auguri, battute e
disegni di
ogni genere erano raffigurati su quattro pareti e mi facevano sentire
come se
fossi appena capitato dentro un asilo pieno di bambini, anche se non
c’era
anima viva in quel momento. In particolare, il muro rivolto verso nord
era
completamente dedicato a un dipinto che mi mozzò il fiato,
tanto era bello e
particolareggiato. Per non parlare dei colori e del significato che
poteva
avere. Un’enorme e imponente fenice con le ali spiegate si
alzava in volo
proprio sopra alla testa del letto di un paziente che notai solo
allora,
stupendomi non poco e incuriosendomi l’attimo dopo, tanto che
mi avvicinai per
scoprire di chi si trattasse. La sedia a rotelle cigolò, ma
il rumore non
sembrò destare sospetti nel ragazzo che sembrava
profondamente addormentato.
Aveva l’aria rilassata e il volto coperto di lentiggini lo
faceva sembrare un
ragazzino. Probabilmente doveva essere appena maggiorenne, o
giù di lì, e un
groviglio di capelli corvini era sparpagliato sul cuscino immacolato.
Respirava
regolarmente e alcuni fili collegati ad una macchina accanto a lui
sparivano
sotto alla maglia del pigiama, utili a tenere sotto controllo il
battito
cardiaco e pronti ad annunciare qualsiasi cambiamento. Li conoscevo
bene, anche
Law era stato sottoposto a quegli affari quando aveva avuto una
ricaduta.
Poco
distante dal letto
vi era un comodino con alcuni oggetti personali, tra cui una bottiglia
d’acqua,
un calendario con i giorni passati segnati e una foto che ritraeva un
gruppo di
mocciosi sorridenti e sghignazzanti in mezzo ad un prato. Guardandola
meglio
potei distinguere quello che doveva essere il tizio sdraiato a letto in
quel
momento.
Un
fruscio di coperte
attirò la mia attenzione e mi voltai a guardare il viso del
poveretto sotto e
lenzuola.
«Come
sono maleducato»
iniziai a dire, «Io sono Penguin, piacere di conoscerti. Tu
come ti chiami?
Ace? Che bel nome, mi piace! Sai, lascia che te lo dica, la tua stanza
è una
bomba e quel disegno è fantastico! Chi l’ha fatto?
Un tuo amico, capisco. Beh,
deve essere bravo, dico davvero, e dov’è adesso?
Ah, anche lui sta qui in
ospedale? Meglio così, magari lo becco in giro. In che
reparto? Sul serio? Ma
allora lo conosco! Cioè, l’ho visto gironzolare da
quelle parti, se ne sta
sempre da solo e per conto suo. Ha l’aria un po’,
come dire, triste? Apatica?
Oh, se è come dici capisco perché è in
quello stato, mi dispiace molto. E loro
chi sono?» chiesi, indicando la foto di poco prima,
«I tuoi fratelli? Così
tanti? All’orfanotrofio? Dunque tu sei stato adottato, ma hai
comunque
continuato a seguirli e a stargli accanto in questi anni? Sei
così altruista, i
miei complimenti. Come sono carini e ce ne sono anche di più
grandi, sembrano
simpatici. Il primo ha un ciuffo assurdo, senza offesa. Thatch, che
strano
nome, quasi quanto i capelli. Quello accanto con i baffi, invece?
Vista? Fa a
fette qualsiasi cosa, interessante, cioè, forte,
è un bel passatempo, credo. E
quel maschiaccio davanti a lui? Una femmina! Scusami, non volevo
offenderla, ma
non mi ero reso conto che… Oh, d’accordo, allora
sto tranquillo se a prima
vista si confondono tutti. Ma guarda, questo deve essere il ragazzo dei
graffiti di cui mi hai parlato. Quindi è qui che
l’hai conosciuto, tutto
chiaro. Ah, ehm, vive con te? Non pensavo foste… ah, certo,
certo, tuo fratello
acquisito pure lui. Scusami, ma sai com’è,
insomma… beh, lasciamo perdere. Dai,
non ridere, ho fatto una figuraccia, lo so, dimentichiamolo. Hanno
dipinto loro
la tua stanza, immagino. Ma si, ovvio, dovevo capirlo. Un augurio di
pronta
guarigione. Come sono stati dolci, vorrei anche io una famiglia come la
tua, si
preoccupano molto per te. Ma che dici? Vedrai che andrà
tutto bene e sono
sicuro che li riabbraccerai tutti molto presto, fidati, me lo sento.
Hai una
volontà forte, non ti abbattere. Figurati, ricordati che
sono gli ottimisti a
fare il mondo, i pessimisti non ci provano nemmeno. Senti, mi sei
simpatico,
Ace, quindi te lo chiedo: ti va di fare parte di un gruppo? Siamo in
quattro per
ora e qui ci sono solo io, ma tra noi abbiamo uno che vuole diventare
chirurgo;
un motociclista spericolato, e bellissimo, lasciamelo dire…
Cosa? N-no, c-che
ti salta in mente? Non mi piace, e-ecco, è
complicato… Basta, andiamo avanti!
Dicevo, lui e poi una specie di Drag Queen con il ciclo, si, parlo di
un
maschio. Conto di arruolare altre due persone per completare
l’opera. Sai, se
si hanno degli amici su cui contare è più facile
affrontare la vita, non ti
pare? Vedo che siamo d’accordo, quindi accetti? Si? Wow, sono
contentissimo!
Devo dirlo agli altri! Se più tardi ripasso a salutarti
è un problema? Magari
trovo anche questo tuo amico. Come hai detto che si chiama? Marco,
molto bene.
Ah, non sai quanto mi ha fatto piacere incontrarti, e pensare che sono
capitato
da queste parti per caso! Che fortuna ho avuto. Tu da quanto sei qui?
Cosa? Quasi
otto mesi? Accidenti, sono parecchi; io sono qui da tre e
già non ne posso più,
ma non posso farci nulla, vedi?». Gli indicai la mia gamba
mutilata, alzando un
po’ la stoffa del pigiama per evidenziare il moncherino,
«Me l’hanno tagliata.
Buffo vero? Che? Ma no, figurati, ci ho fatto l’abitudine,
più o meno. Non è
così male e la sedia a rotelle è un ottimo mezzo
di trasporto quando impari
come sfruttarla al meglio, sono serio. Non provo dolore e poi
l’ho persa
facendo una buona azione, quindi sono in pace con me stesso, che
è la cosa più
importante. Uh? Ma dai, non farmi ridere, non sono un eroe, ho solo
evitato ad
un mio amico un brutto incidente, infatti ne è uscito
illeso. Smettila, mi fai
arrossire, non sopporto i complimenti. Certo, va bene, ti lascio
riposare
adesso e ripasso più tardi come promesso con gli altri,
sempre se riesco a
recuperarli. Ti avviso, sembrano avanzi di galera, ma quando impari a
conoscerli non sono male, maleducazione a parte. Allora ciao Ace, a
dopo! Sono felice
di averti come compagno!». Così, ammiccando e
salutandolo con la mano, uscii da
quella che era la sua stanza e mi avviai verso gli ascensori tutto
allegro e
sorridente. Avevo appena reclutato un nuovo componente grazie ad un
colpo di
fortuna e questo sembrava anche simpatico e gentile. Certo, bisognava
essere
bravi per capirlo, ma non era male, anzi, molto tranquillo e loquace.
Chissà
cosa avrebbero detto gli altri.
Mentre
riflettevo con
entusiasmo su tutto ciò, il ragazzo nella camera, sorrise
nel sonno.
*
Sbuffai
seccato,
alzando gli occhi al cielo e voltandomi dall’altra parte del
letto, rivolgendo
il mio interesse alla parete spoglia e fissando un punto indefinito
fuori dalla
finestra, tappandomi le orecchie e coprendomi la testa con il cuscino.
Tutto
pur di estraniarmi dal mondo e ridurre al minimo la voce di quel
saccente
mucchio d’ossa.
Da quando
l’avevo
conosciuto, un mese prima, mi aveva letteralmente rovinato
l’umore e tutte le
giornate seguenti. Non avevo mai conosciuto nessuno di più
insopportabile,
pungente, menefreghista e irriverente come lui. Invece di spegnere la
fiamma
della mia rabbia con le sue battutine, la alimentava ed era sempre una
lotta
accesa per aggiudicarsi l’ultima battuta o il dominio
l’uno sull’altro. Certo, trenta
giorni erano relativamente pochi per dire di conoscere una persona, ma
sentivo
che non saremo mai e poi mai andati d’accordo, anzi, nemmeno
volevo provarci.
Non aveva niente di interessante e non valeva la pena perdere tempo
prezioso
per uno con il suo caratteraccio. Per non parlare
dell’aspetto inquietante, dannazione!,
uno zombie era meno pauroso
e di sicuro più sorridente. Me lo ritrovavo tra i piedi
senza nemmeno
accorgermene, sbucava all’improvviso, silenzioso e con quel
ghigno a
storpiargli le labbra che lo rendeva ancora più sinistro e
cupo. E quello
sguardo. Dio, a volte mi era sembrato di avere accanto il Diavolo in
persona.
Con quegli occhiacci grigi e freddi da fare invidia addirittura alla
stagione
invernale stessa. Gli occhi erano il male minore e potevo sorvolare
persino
sulle occhiaie profonde e sui capelli scuri, anzi, dire scuri
era dire poco perché questi erano di un nero talmente
nero che non ero più tanto
sicuro che il colore stesso potesse essere quello più scuro
nella scala
cromatica. Doveva per forza essercene uno che descrivesse meglio quella
sua
tonalità, tipo qualcosa come nero
notte
o, che cazzo, nero Trafalgar, ecco.
Insomma, se avesse voluto avrebbe persino potuto sembrare appena passabile, ma aveva dovuto per
qualche contorta ragione rendersi
ancora più tetro. Seriamente, chi andava in giro con la
scritta ‘death’
tatuata sulle nocche delle dita?
Assurdo, semplicemente assurdo e non gli avrei mai creduto se mi avesse
detto
che l’aveva fatto per seguire uno stile di vita o un genere
musicale. A me
piaceva il metal pesante, ma andiamo, mica mi vestivo come uno
sbandato; borchie,
catene, vestiti bucati e capelli a parte. Quello era pazzo come il suo
amichetto. Dovevano stare in psichiatria o in manicomio, ne ero certo.
«Eustass-ya,
mi stai ascoltando?»
fece con voce infastidita dal mio poco interesse, «Guarda che
sto parlando
della tua situazione e dovresti fare attenzione. Non tutti hanno un
cuore
debole come il tuo».
Chiusi
gli occhi e
iniziai a contare fino a dieci, conscio che avrei dovuto continuare
almeno fino
a cento dato che per calmarmi e ignorare le insinuazioni di quel
bastardo
dovevo impegnarmi fino in fondo. In qualche contorto modo
quell’impiastro di
Trafalgar era riuscito ad appropriarsi di una copia della mia cartella
clinica
e mi era piombato in stanza, Dio solo sapeva come, con tutte le
scartoffie in
mano e, senza chiedere il permesso, si era accomodato su una sedia,
troppo
vicino al mio letto e alle mie orecchie, e aveva iniziato a leggere
ogni riga
di quelle pagine, facendo commenti, insinuazioni e dicendomi cosa
secondo lui
andava fatto. Ma chi cazzo si credeva di essere? Il mio medico
personale?
Infermiera sarebbe stato meglio, almeno l’avrei sbattuto al
muro senza tante
cerimonie.
«Possibile
che tu non
ti sia mai fatto qualche esame per controllare la tua salute?
Tralasciare così
il tuo organismo, che spreco!» stava commentando, per
l’ennesima volta. L’avrei
scannato vivo, senza dubbio, poi l’avrei nascosto
all’obitorio assieme al resto
dei morti. Quello era il suo posto.
«Questo
si che è
divertente» sghignazzò dopo alcuni minuti di
silenzio, durante i quali avevo
iniziato a sperare che gli fosse venuto un qualsiasi malore e che
l’avesse
stroncato sul posto, «Alla prova dello sforzo hai resistito
davvero così poco?
Che delusione».
«Chiudi
quella
boccaccia!» ringhiai, mettendomi seduto con uno scatto e
cercando di
strappargli di mano tutti i documenti riguardanti la mia situazione,
senza però
riuscirci e rischiando di sbilanciarmi e cadere dal letto. Per tutta
risposta,
l’altro si allontanò di qualche centimetro per
assicurarsi di essere fuori
dalla mia portata e, sfoggiando un ghigno sadico, gettò il
tutto ai suoi piedi,
incrociando le braccia dietro la testa e allungando le gambe per posare
i piedi
sul materasso.
«Come
sei irascibile,
Eustass-ya» sfotté, «Stavo solo cercando
di aiutarti».
«Al
diavolo, non ho
bisogno del tuo aiuto. Io sto benissimo e se mi verrà un
infarto sarà solo
colpa tua!» lo accusai, fulminandolo con lo sguardo per poi
scacciare i suoi
piedi con una manata infastidita.
«Ma
dai, ti faccio
battere così forte il cuore? Come sei romantico»
ironizzò soddisfatto,
facendomi arrossire per la rabbia.
Rimasi a
fissarlo a
bocca aperta per qualche secondo, incapace di ribattere prontamente.
Come si
permetteva quello stronzo di prendersi gioco di me in quel modo e senza
la
minima preoccupazione? Infame, lo odiavo con tutto me stesso!
Stavo
valutando le
possibilità che avevo di saltare giù dal letto e
acciuffarlo per sbattergli
quella testaccia di cazzo contro il muro, quando decise di fare il suo
ingresso
il rompi coglioni per eccellenza. Sul serio, quel piccoletto superava
addirittura Trafalgar, anche se il suo livello di stronzaggine era
impossibile
da battere.
«Oh,
Penguin, giusto in
tempo. Eustass-ya stava per commettere un omicidio» lo
salutò a quel punto
quella piaga che aveva rimesso le sue zampacce sotto al mio naso,
approfittando
della mia distrazione. Gli rivolsi un’occhiata di fuoco.
«Eustass-ya può ucciderti lo
stesso e poi eliminare il testimone» lo
ammonii minaccioso, ma il mio intento di impaurirlo scemò
quando l’invalido di
turno iniziò a parlare a voce alta e con entusiasmo
malcelato. Ero certo che,
se avesse potuto, si sarebbe messo a saltare e ad abbracciarci.
«Non
indovinerete mai
cosa è successo! Sono così contento e anche voi
dovreste esserlo!».
«Cosa
gli hanno dato?»
farfugliai, più a me stesso che ad altri, ma Trafalgar
sembrò credere che gli
avessi appena rivolto la parola di mia spontanea volontà.
«Facci
l’abitudine,
tende ad essere molto espansivo quando è di buon
umore».
«Neanche
avesse scopato
con Killer!» sbottai, stupendomi non poco nel sentire il moro
accanto a me
sbuffare divertito, trattenendo una risata e voltandosi da un'altra
parte per
non essere notato. Ma pensa, allora aveva anche lui i suoi punti
deboli, buona
a sapersi.
Tornai a
fissare il
moccioso che non aveva smesso un attimo di ululare allegro, blaterando
frasi
senza senso e tirando in ballo la stronzata di formare un gruppo,
argomento che
mi aveva assillato da un mese a quella parte e sapere che avrei dovuto
averci a
che fare tutti i giorni fino a quando non mi avrebbero dimesso mi
faceva
sentire male, malissimo. Quell’idiota era davvero convinto
che io facessi parte
di quella combriccola di matti e che fossi loro amico e pretendeva che
gironzolassi per l’ospedale con loro, anche se uno si faceva
vedere solo quando
voleva e un altro non poteva muoversi, ingessato dalla testa ai piedi.
Risultato? Dovevo sorbirmi Penguin da solo e la cosa non mi andava
affatto.
Fortunatamente in quelle ultime settimane ero stato sottoposto ad un
mucchio di
esami e così avevo perso tempo, inoltre, ogni volta che
vedevo il brutto muso
di Trafalgar, mi sentivo ribollire il sangue e finivo per incazzarmi
per un
nonnulla con lui, così me ne andavo da un’altra
parte per non averlo intorno.
Funzionava, solo che me lo ritrovavo puntualmente fra le palle in ogni
caso.
«Abbiamo
un nuovo
componente!» esultò infine, avvicinandosi
pericolosamente al bordo del mio
letto, «Sta al decimo piano e si chiama Ace! Alzatevi adesso,
così andiamo a
salutarlo e ve lo presento!». Così dicendo mi
afferrò per un braccio e fece
forza nell’intento di tirarmi su. Inutile dire che non mi
spostò di un
centimetro e che sulle mie labbra fece capolino un sorrisetto
soddisfatto.
Povero illuso.
«Sparisci
microbo»
mormorai annoiato e, con uno spintone, spedii la sua carrozzella
all’indietro,
facendola cozzare contro il muro, tanto che il piccoletto
rischiò di sbalzare
per terra con tutto il peso. Fortunatamente per lui ciò non
accadde e sul
pavimento ci finì solo il suo stupido cappello.
«Bravo,
ti senti
potente adesso?» mi sfotté Trafalgar, battendo le
mani in modo sarcastico e
scuotendo il capo esasperato, facendomi alzare gli occhi al cielo per
chiedere
la grazia di vederlo scomparire il più presto possibile.
Penguin,
invece, non
dava segno di volersi arrendere e ritornò alla carica,
stavolta attaccandosi al
braccio del suo compare e iniziando a tirarlo verso di sé.
Inaspettatamente a
quello che credevo, il ragazzo si alzò di sua spontanea
volontà, stiracchiandosi
inarcando la schiena e raccogliendo le scartoffie riguardanti la mia
salute,
riordinandole e premendosele al petto come a voler far intendere che
non se ne
sarebbe separato.
I loro
occhi si
posarono su di me nella muta richiesta di seguirli e rimasero a
fissarmi per
una decina di minuti, persino quando decisi, con un grugnito stizzito,
di
alzarmi e infilarmi i pantaloni della tuta abbandonati ai piedi del
letto. Non mi
vergognai di mostrarmi mezzo nudo, non ci feci caso, non ero uno timido
e
pudico, per quanto mi riguardava potevano guardare e rodere, uno
spettacolo del
genere non si vedeva tutti giorni, soprattutto in ambienti come quello.
Quando
fui pronto
rivolsi loro un ghigno carico di aspettativa che venne però
smontato nel giro
di qualche secondo da entrambi perché Penguin
sembrò non averci fatto caso e
schizzò fuori dalla porta iniziando a parlare
d’altro, mentre Trafalgar aveva
l’espressione da perfetto indifferente e, con
un’alzata di spalle, si avviò
verso l’uscita, iniziando a sfogliare la mia cartella e
mandandomi in bestia. ‘Fanculo,
non sapevano apprezzare un capolavoro quando lo vedevano.
«Annotazione
personale:
abbassare l’ego smisurato di Eustass-ya».
«Cosa
hai detto?»
sibilai velenoso, ottenendo in cambio un sorriso tanto falso quanto
viscido.
«Niente».
Giuro
che ti sopprimo, maledetto bastardo. Hai poco da fare quella faccia
soddisfatta, tanto prima o poi ti darò una lezione che non
dimenticherai tanto
facilmente, parola mia! Te le faccio ingoiare quelle scartoffie, poi ti
sbatto
al muro e ti faccio urlare in tutte le lingue del mondo e solo allora
ti
spezzerò le ossa. Dannato pezzo di…
«Kira-chan!».
Mi
riscossi dai miei
pensieri non appena i miei timpani esplosero a causa
dell’urlo disumano che
fece Penguin, alzando le mani verso il cielo come se davanti a lui
fosse appena
apparsa la Santa Vergine. Sbigottito guardai nella direzione in cui
prese a
lanciarsi a tutta birra con la sedia a rotelle, notando un tizio pieno
di bende
a fasciature che, accortosi della minaccia che incombeva su di lui,
tentava
disperatamente di fare marcia indietro per svignarsela. Peccato che non
sembrava avere molta dimestichezza con quella carretta, quindi non
riuscì a
fare molto, soprattutto con solo un braccio libero, e venne
inevitabilmente
investito dalla felicità del piccoletto che, in un moto di
confidenza e
fratellanza, accostò la sua vettura
a
quella del biondo e lo abbracciò di slancio, facendomi
ridere di fronte alla
smorfia di dolore che fece l’altro per la stretta subita.
Evidentemente le sue
condizioni non erano così rosee, ma almeno poteva uscire da
quella sua stanza
anonima e silenziosa.
«Kira-chan
che bello
vederti! Puoi uscire, quindi? Eh, puoi? Vuol dire che da oggi in poi
potremo girare
per l’ospedale assieme! Vedrai, ti insegnerò tutte
le scorciatoie, come curvare
senza perdere la stabilità, come andare più
veloce e tutti trucchetti simili!
Ci divertiremo un sacco ne sono cer…».
«Frena,
frena, frena!»
lo apostrofò Killer, impallidito per l’orrenda
notizia che aveva appena
ricevuto, «Non ho la minima intenzione
di…».
«Così
è questo
Killer-ya?» si intromise Trafalgar quando li raggiungemmo,
seguito a ruota
dalla mia espressione divertita e incuriosita da tutto ciò.
Mi stava simpatico
Killer, forse era stato la prima persona sulla faccia della terra a non
infastidirmi appena l’avevo conosciuto e mi dispiaceva
davvero molto che avesse
una palla al piede come spasimante, ma la cosa aveva un che di
estremamente
assurdo, quindi avevo deciso che mi sarei goduto un po’ le
loro scenate per poi
intervenire e salvarlo da quel tipetto soffocante.
Penguin
si voltò verso
di noi annuendo convinto e con gli occhi che brillavano per
l’emozione. «Si,
si! Hai visto, Law? Te lo dicevo che si sarebbe unito a noi molto
presto!
Giusto in tempo per andare a trovare Ace».
«Vedo»
mormorò solamente
Trafalgar, superandoci e dirigendosi verso le scale,
«Prendete gli ascensori,
ci vediamo al decimo piano e poi ci farai strada,
d’accordo?» sentenziò, mentre
l’espressione sul viso di Penguin si faceva sempre meno
affidabile e quella di
Killer sempre più preoccupata. Probabilmente il piccoletto
non stava nella
pelle per passare qualche minuto completamente solo con il suo sogno ad
occhi
aperti. Quest’ultimo, per tutta risposta, sembrava preso dal
panico e cercava
invano di trovare qualche scusa per defilarsi. Tutto fu inutile
perché la sua
sedia a rotelle fu arpionata da quel pazzo col cappello che lo
trascinò tutto
raggiante verso la sua meta, più che deciso ad ottenere
quello che voleva.
Repressi
un brivido
iniziando a seguirli. Forse dovevo davvero fare qualcosa per aiutare
Killer.
«Eustass-ya,
non prendi
le scale? Ti facevo più sportivo e intrepido».
Strinsi i
denti,
deviando dagli ascensori e superando quell’impiastro,
iniziando a salire i
gradini velocemente. Se credeva che mi sarei tirato indietro davanti a
quella
sua sfida si sbagliava di grosso. Anzi, sarei persino arrivato per
primo!
Erano
solo quattro
piani, potevo farcela benissimo.
*
«Va
meglio adesso?».
Credo
di si, avrei voluto
dire, ma rimasi in silenzio e risposi con un sospiro profondo, tenendo
ancora
la testa tra le ginocchia e la schiena appoggiata al muro freddo che,
in
qualche modo, calmava il bollore che mi era corso lungo le vene qualche
attimo
prima.
Avevamo
da poco
superato gli ascensori del nono piano ed ero arrivato fin lì
senza il minimo
sforzo, seguito a ruota da Trafalgar che, anche se qualche scalino
più
indietro, sembrava intenzionato a non mollare. Stava andando tutto
bene, stavo
pure vincendo, quando un violento capogiro mi aveva fatto vacillare e
perdere
il controllo del mio corpo, mentre un violento tremore mi aveva fatto
sussultare
e ritrovare accasciato carponi a terra e con il fiato corto. Le mani mi
tremavano e mi sembrava che l’aria che inalavo non arrivasse
in modo preciso ai
polmoni. Tra tutto quel casino, avevo creduto per un attimo che il
cuore
potesse scoppiarmi da un momento all’altro.
Non
l’avrei mai
ammesso, ma era stato solo grazie a Trafalgar se ero riuscito a
calmarmi e a
riprendere il controllo. Si era accovacciato accanto a me e mi aveva
fatto
sedere sulle scale, con calma e senza fretta, facendomi piegare le
ginocchia
verso il petto e, con delicatezza, guidando la mia testa a contatto con
esse in
modo da fermare le vertigini e il tremore. Il marmo freddo e le pareti
avevano
contribuito a tranquillizzarmi e un’invitante bottiglietta
d’acqua che avevo
svuotato per metà era magicamente apparsa sotto al mio naso.
Mentre
aspettava che mi
calmassi era andato alle macchinette del nono piano per prendermi
qualcosa da
bere, tornando alla velocità della luce per assicurasi che
le mie condizioni
non fossero peggiorate e sorridendo soddisfatto quando avevo
riacquistato un
colorito più intenso, nonostante avessi la carnagione chiara
di mio.
«Da
ora in poi basta
scale» fece categorico, ma con un tono di voce meno astioso
del solito e quasi
ironico, «La morte sarebbe una liberazione per te ed io non
ho intenzione di
lasciarti andare in pace tanto presto». Una frase del genere
poteva assumere
tante sfumature e significati diversi, ma detta da lui appariva in un
solo e
unico modo plausibile. «A meno che tu non sia così
debole».
Ghignai
involontariamente, incapace di trattenermi, «Mi stai
minacciando, sfidando o
cosa?» gli chiesi, divertito dall’idea di aver
appena trovato il mio personale
tormento.
«Ti
sto dando un motivo
per combattere» dichiarò, sghignazzando a sua
volta e allacciando il suo
sguardo al mio quando decisi finalmente di alzare il capo.
«Anche se non ha un
briciolo di moralità, è sempre meglio di
niente».
La
determinazione nei
miei occhi lo fece sorridere ulteriormente e, in quel momento, sancimmo
il
nostro silenzioso accordo. Nessuno dei
due sarebbe morto, pena la consapevolezza di essere stati vinti
dall’altro.
«Avanti»
disse dopo
qualche attimo di stallo, porgendomi la mano per aiutare ad alzarmi,
«Gli
ascensori sono laggiù, l’ultimo piano lo faremo
con quelli».
Ignorando
la sua mano
tesa mi rialzai da solo, spolverandomi distrattamente i pantaloni e
respirando
prontamente, felice di constatare che l’aria arrivasse
dritta, dritta nei miei
polmoni, donandomi sollievo, mentre il mondo era ritornato immobile,
smettendo
di girare su se stesso come una trottola. Trafalgar sbuffò
per poi precedermi e
farmi strada.
Lo
affiancai,
affondando le mani nelle tasche e notando con immenso piacere che ero
più alto
di lui nonostante la differenza di età che, se solo ci
pensavo, ancora mi
infastidiva. Dopotutto, nonostante rimanesse un autentico stronzo, mi
aveva
aiutato. Chissà, forse sul suo conto mi ero sbagliato e
l’avevo giudicato
troppo in fretta. Magari, da qualche parte nel suo animo, era gentile e
altruista.
Una volta
all’interno
dell’ascensore mi appoggiai stancamente alla parete, mentre
lui premette il
pulsante con il numero dieci. Le porte si chiusero automaticamente,
lasciando
che il silenzio ci avvolgesse e dandomi modo di riflettere e decidere
se avessi
dovuto ringraziarlo, dandogli una seconda possibilità, o
fare finta di nulla e
fingere che non fosse accaduto nulla.
«Eustass-ya,
piantala
di fissarmi» sbuffò, voltandosi a guardarmi e
facendomi rendere conto che
l’avevo osservato per tutto quel tempo senza nemmeno
accorgermene, facendogli
così intendere cose sbagliate e fuori luogo, «Non
avrai mica intenzione di
baciarmi come fanno nei film, spero» dichiarò,
accompagnando il tutto con un
ghigno canzonatorio. Ovviamente doveva rovinare tutto e mandare a
puttane la
sua reputazione e l’idea di bravo ragazzo che per un misero
istante mi aveva
dato.
No,
questo qui è uno stronzo e io col cazzo che lo ringrazio. Al
diavolo lui e la
sua gentilezza.
Mi
imbronciai,
voltandomi dall’altra parte e ignorando la risata che mi
giunse alle orecchie
poco dopo e che mi fece sentire ulteriormente idiota. Andiamo, mica
l’avevo
guardato perché volevo baciarlo.
Come
gli é venuta in mente un’idea simile? Nemmeno
sotto tortura! Nemmeno per un
culo così… Oh, maledizione, perché ci
sto pensando adesso? Per quale assurdo
motivo? Lo odio, lo odio, lo odio!
Strinsi i
pugni,
nascondendo le mani dietro alla schiena, e mi imposi di non aggredirlo,
avrei
solo contribuito a divertirlo ulteriormente e avrei fatto esattamente
il suo gioco.
Dovevo calmarmi, invece, e essere superiore, allora avrebbe smesso di
infastidirmi e se ne sarebbe andato con la coda tra le gambe.
«Dì
un po’» disse ad un
tratto, facendomi sussultare nel ritrovarmelo accanto, anche lui
appoggiato
alla parete dell’ascensore che, invece di salire, stava
scendendo.
Probabilmente qualcuno lassù
aveva
deciso di punirmi e di lasciarmi più tempo del previsto in
compagnia di quel
demonio.
«Che
vuoi?» borbottai,
guardandolo con la coda dell’occhio.
«Non
vorresti
baciarmi?» domandò schietto, fissando un punto
dritto davanti a sé e parlando
con tranquillità, come se la sua fosse una domanda
qualsiasi, come se mi avesse
appena chiesto di che colore erano i miei calzini. Mi stupì
un poco, ma decisi
di prenderlo sul serio e pensai seriamente di poterlo fare. Dopotutto,
cosa
importava? Quello che mi trattenne, però, fu il mio
fortissimo senso
dell’orgoglio. Non potevo di certo dargliela vinta
così facilmente.
«Quindi
vuoi un bacio».
Non era una domanda la mia, solo una semplice constatazione che mi fece
gongolare. Per una volta avevo io il coltello dalla parte del manico e
l’avrei
punzecchiato un bel po’ prima di accontentarlo.
«Non
ho intenzione di
pregarti, caro Eustass, quindi rispondi alla mia domanda: si o
no?».
«Non
così in fretta, Trafalgar»
lo avvisai, sorridendo e chiudendo gli occhi come riflesso
involontario,
alzando poi il capo verso l’alto godendomi
quell’attimo di pace, dimenticando i
miei problemi. Sembravamo due ragazzini.
«Molto
bene, in questo
caso…». E mi fu addosso, le mani fra i miei
capelli e le sue labbra sulle mie,
leggere, quasi come un soffio.
Si
allontanò l’istante
dopo, tornando ad appoggiarsi alla parete, ma più vicino,
tanto che le nostre
spalle si sfioravano. Restammo in silenzio per un altro po’,
ognuno perso nei
propri pensieri, e le porte dell’ascensore fecero in tempo ad
aprirsi per poi
richiudersi senza che nessun altro salisse, riprendendo a salire verso
la
nostra destinazione.
Alla fine
sospirai,
spostando il peso da una gamba all’altra e notando di
sfuggita Trafalgar
voltarsi a guardarmi con un sopracciglio sarcastico inarcato.
«Che
dolce, sospiri
addirittura con aria sognante» sfotté, scoccandomi
un’occhiata malandrina.
Sbuffai,
scocciato questa
volta, roteando gli occhi e allontanandolo da me con una spinta, senza
metterci
però tanto impegno, sentendolo ridere vittorioso subito
dopo.
Che
razza di impiastro.
*
Sette
mesi e diciotto giorni,
pensai, sospirando amareggiato e segnando per l’ennesima
volta un altro giorno
andato a vuoto sul calendario che tenevo a portata di mano sopra al
comodino.
Era
diventata ormai
un’abitudine passare le giornate in quel modo, ovvero vagare
per l’ospedale
come un fantasma nell’attesa di un qualche cambiamento che, a
discapito di
tutte le mie preghiere, non avveniva mai. I giorni passavano,
diventando mesi e
avevo il terrore che presto si sarebbero trasformati in anni.
Mi imposi
di sorridere,
voltandomi verso il ragazzo addormentato lì accanto,
lasciando scorrere lo
sguardo sul suo viso e sui capelli sbarazzini, tentando in tutti i modi
di
riportare alla mente le immagini della sua risata e della sua
spensieratezza
che tanto mi mancavano in quei momenti. Era passato troppo tempo e, per
quanto
mi ostinassi a sperare, l’ansia e la paura, purtroppo, si
erano insinuate nelle
mie viscere, facendomi dormire male la notte e lasciandomi un senso di
impotenza addosso. Non potevo fare nulla, non ne ero stato capace
nemmeno
all’inizio e se adesso le sue condizioni erano
così ignote era solo colpa mia.
«Perché
hai dovuto fare
di testa tua? Ti avevo detto di startene al sicuro, invece tu dovevi
fare
l’eroe, come tuo solito, vero?» mormorai per la
milionesima volta. Quelle
domande ormai mi giravano per la testa da tempo e speravo sempre di
ottenere
una risposta plausibile ma, puntualmente, mi arrivava alle orecchie
solo il rumore
dei macchinari e il silenzio opprimente che i primi mesi aveva
rischiato di
farmi impazzire.
Lasciai
vagare lo
sguardo sul dipinto che gli avevo fatto per il suo compleanno un mese
addietro,
con la speranza che anche lui, come una fenice, potesse risvegliarsi,
risorgere, riprendere a vivere. Andavo da lui tutti i giorni, passavo
ore e ore
accanto al suo capezzale, parlando, dormendo, passeggiando, facendo
qualsiasi
cosa, a volte anche piangendo, e aspettando che aprisse gli occhi e che
riprendesse a sfottermi per la mia assurda pettinatura o per il mio
fastidioso
menefreghismo.
Sospirai,
poggiando i
gomiti sul materasso e scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte,
conscio
di quanto lo potessero infastidire mentre dormiva.
Ace,
ti prego, apri gli occhi.
Un
baccano che non
avrebbe dovuto esserci nei corridoio suscitò la mia
attenzione e impedì alla
tristezza di travolgermi, facendomi corrugare la fronte quando le voci
si
fecero più alte e vicine, fino a che la porta non si
aprì, rivelando la figura
di un tizio con un cappello piuttosto eccentrico, seguito da un altro
nelle sue
condizioni per quanto riguardava il trasporto, ma messo decisamente
peggio per
le gambe completamente ingessate. Dietro di loro, successivamente,
apparvero
due ragazzi dalle differenti espressioni: uno incazzato e
l’altro con un
sorrisetto beffardo sul viso, sordo agli insulti che il primo gli stava
dirigendo, con tanto di gestacci e minacce di morte.
Non li
avevo mai visti,
nemmeno all’orfanotrofio, ed ero molto restio nel credere che
Ace conoscesse
davvero gente come quella, insomma, erano uno diverso
dall’altro ed ero certo
che non fossero nemmeno tanto raccomandabili a giudicare dal loro stato
di
salute. Quello biondo con i capelli lunghi, poi, doveva di certo essere
uno
spericolato.
«Ti
uccido nel sonno,
Trafalgar!» stava dicendo l’energumeno rosso,
stringendo i pugni e incenerendo
con lo sguardo quello che gli stava a qualche centimetro di distanza,
il quale
aveva l’aria rilassata e per niente preoccupata, anzi,
pensò bene di mandarlo a
quel paese alzando il dito medio nella sua direzione, cosa che non
servì
affatto a calmare gli animi.
«Si
può sapere che fine
avevate fatto? Mezz’ora per fare quattro piani! Persino io
sono più veloce con
le stampelle!» si stava lamentando il primo che era entrato,
mentre l’altro suo
compare in sedia a rotelle si grattava la testa perplesso, indeciso se
intervenire
a frenare le ire del rosso o lasciare che si arrangiassero da soli.
Il
ragazzino che recava
la scritta Penguin sul frontino del
cappello sembrò accorgersi solo allora di me e, con un
sorriso da un orecchio
all’altro, tanto grande e genuino da ricordarmi terribilmente
quello di Ace, mi
venne incontro porgendomi amichevolmente la mano.
«Tu
devi essere Marco,
giusto?» esultò, sorprendendomi e dando inizio ad
una serie di curiosità su di
lui e su come fosse a conoscenza della mia identità. Ero
certo di non conoscere
nessuno la dentro, a parte, ovviamente, il ragazzo sul letto di fianco.
Gliela
strinsi, ma non
dissi nulla e non accennai ad un sorriso. Non lo facevo mai nemmeno
quando
rivedevo una persona cara dopo tanto tempo, semplicemente era nel mio
carattere
e aspettai che continuasse, lasciandogli intendere che non avevo la
minima idea
di chi lui potesse essere.
«Sono
contento di
conoscerti, finalmente, io sono Penguin» si
presentò puntandosi il cappello e
ridacchiando per la mia espressione stupita, «Speravo di
trovarti qui, Ace mi
aveva detto che saresti passato».
Non fu il
fatto che
conoscesse il nome di mio fratello a togliermi il respiro, ma le parole
che
aveva usato in seguito alla sua spiegazione. Era impossibile, Ace non si era svegliato e non
parlava da mesi. Era in coma.
«Scusami»
sussurrai,
sentendo il sangue gelare nelle vene e stringendo le mani sulla stoffa
dei miei
pantaloni, «Tu hai parlato
con Ace?».
Dietro di
lui gli altri
tre ospiti si erano fatti silenziosi e, osservando prima le pareti, poi
il
paziente a letto, poi noi due, ascoltavano interessati la
conversazione,
curiosi quanto me di capire cosa stesse succedendo.
«Beh,
non ci ho proprio
parlato» ammise Penguin, torturandosi le mani con fare
nervoso, «E’ difficile
da spiegare. Vedi, io posso sentire quello che pensa, di conseguenza
riesco a…
Ehi, ehi aspetta! Che fai? Stai calmo!».
«Andatevene,
tutti»
dissi, senza voler ascoltare oltre quella farsa e alzandomi in piedi,
pronto a
buttarli fuori con la forza se fosse stato necessario. Non dovevano
permettersi
di prendersi gioco in quel modo di persone nelle condizioni di Ace.
Nessuno
doveva azzardarsi a farsi beffe di lui, non dopo quella che aveva
passato e che
era ancora costretto a sopportare, non dopo che aveva salvato la vita a
tutti
quei ragazzini. Non dopo che si era sacrificato per me.
«Calma
amico, abbassa i
toni» sbottò a quel punto il tizio con i capelli
rossi, facendo un passo avanti
e affiancando Penguin, il quale, alzando le mani in segno di difesa, si
mise
tra me e lui per calmare gli animi, assicurando che andava tutto bene e
che
poteva spiegarsi meglio.
«Marco»
fece,
rivolgendosi direttamente a me e, dopo aver deglutito a fatica
prendendo
coraggio, iniziò ad avvicinarsi lentamente, aggirandomi e
recuperando dal
comodino la foto della mia famiglia, quella dove Ace era tanto felice.
Provai
un moto di fastidio nel vedere come la teneva con sicurezza tra le
mani, dopotutto,
quello era uno dei miei ricordi più cari e non mi andava di
condividerlo con
gli estranei, ma quello che fece dopo mi lasciò senza
parole, stordito a più
non posso.
«Questo
è Thatch,
giusto?» domandò, indicando un tipo
dall’aria beffarda nella fotografia e con
un ciuffo castano di dimensioni alquanto discutibili. Notando il mio
sgomento,
continuò a fare i nomi dei miei fratelli, fermandosi persino
a elencarmi i loro
gusti e passatempi, facendomi mancare le forze e costringendomi a
rimettermi
seduto, sentendomi oppresso da tutte quelle sensazioni contrastanti.
Com’era
possibile che
sapesse tutte quelle cose e quei particolari? Era impossibile che
avesse tirato
a indovinare, anche perché i miei famigliari erano persone
piuttosto bizzarre.
Nessuno, a parte chi li conosceva bene, poteva dire di sapere qualcosa
sul loro
conto, perciò la possibilità era una e una
soltanto: quel piccoletto aveva
davvero detto la verità, ma come fosse riuscito a parlare
con Ace ancora non mi
era chiaro. Come poteva pretendere che credessi sul serio che lui
potesse comunicare o leggergli il
pensiero?
Andiamo, rasentava l’impossibile!
Decisi
allora di
metterlo alla prova, alzando lo sguardo su di lui e fissandolo truce,
pronto a
prenderlo a pugni se mi avesse mentito o anche solo preso in giro.
«Se
è vero che puoi
sentirlo, allora rispondi a una domanda» proposi, iniziando a
pensare a
qualcosa di cui solo Ace fosse stato a conoscenza. Volevo chiedergli se
avesse
saputo dirmi a che età ero stato adottato, ma pensai che
poteva aver spiato
nella mia cartella clinica e essersi imparato per bene i miei dati e
informazioni personali, così cercai più a fondo,
trovando infine quello che mi
serviva.
«Questo
lo sa solo lui»
mormorai, indicando con un cenno del capo il ragazzo che dormiva
profondamente,
«E’ una domanda che mi piace porre alle persone e
solo lui mi ha dato una
risposta accettabile e ricca di significato. Sono certo che se la
ricorda,
quindi non avrai problemi a riferirmela, no?» feci
sarcastico, facendogli
intuire quanto poco credessi alla sua versione, ma vedendolo
determinato ad
andare fino in fondo a suo rischio e pericolo, continuai.
«Dimmi: cosa ci
uccide e cosa ci rende eterni?».
Penguin
rimase in
silenzio, voltandosi di poco verso Ace per osservarlo meglio, come se
lo stesse
guardando negli occhi, mentre, alle sue spalle, i suoi compagni
osservavano scettici
quanto me la scena. Tutti tranne quello che rispondeva al nome di
Trafalgar, il
quale, con le braccia incrociate al petto e un ghigno di vittoria sulle
labbra,
aspettava la risposta. Sul serio credeva a quelle stronzate? O stava
solo
reggendo il gioco all’amico?
In quel
momento il
ragazzino mi rispose, freddandomi e facendomi venire la pelle
d’oca, mentre un
brivido di freddo mi correva lungo la schiena. Il mio mondo, per un
istante,
vacillò.
«Nessun
uomo lo sa, ma
sono sicuro che siano la stessa cosa».
Se fossi
stato in piedi
probabilmente a quell’ora mi sarei ritrovato a terra, tanto
era forte l’emozione.
Non c’erano più dubbi, nessun altro avrebbe potuto
pronunciare quelle esatte
parole. Quindi era per forza vero; poteva percepire quello che pensava
Ace; poteva
comunicare con lui; poteva… Poteva…
Alzai gli
occhi,
incollandoli ai suoi e guardandolo implorante. «Ti
prego» lo supplicai senza
ritegno, «Ti prego, dimmi cosa sta pensando. Ti
prego!».
Mi
sembrava che il
cuore potesse scoppiarmi da un momento all’altro nel petto e
l’ansia, l’aspettativa,
un miscuglio indistinto di sensazioni mi aggrovigliava lo stomaco,
togliendomi
persino il respiro. l’unica cosa a cui pensavo era il
desiderio di poter
sentire Ace ancora una volta, godere delle sue battute, dei suoi
discorsi,
delle sue follie. Lo volevo disperatamente.
Penguin
sorrise
dolcemente, guardando di nuovo il moro che dormiva solo in apparenza,
rivolgendomi subito dopo uno sguardo divertito.
«Ha
detto, o meglio, ha
pensato che dovresti smetterla di essere così paranoico.
E’ stanco di sentire
le sue lamentele». Arrossì un poco nel
rispondermi, forse per paura di
offendermi, invece scoppiai a ridere, trattenendo a stendo le lacrime e
passandomi una mano sul viso, sentendo tutta l’ansia scemare
e provando una
strana e insana gioia in tutto ciò. Ace non si era
svegliato, era vero, ma
almeno avevo trovato un metodo, anche se incredibile, per parlargli,
per
riuscire a capirlo. Fino a quando non si fosse espresso di nuovo da
solo, mi
sarebbe andato bene.
«Non
ci credo» disse
una voce infondo alla stanza, ma non feci caso a chi l’avesse
detto.
«Penguin
è pieno di
sorprese, Eustass-ya, non te lo dimenticare».
«Può
davvero percepire
i suoi pensieri? Come è possibile?».
«Killer
ha ragione. Come
fa?».
«Chi
può dirlo? Ha un’inclinazione
particolare a capire gli stati d’animo delle persone.
E’ sempre stato bravo in
questo».
«Lui
mi sente quando
parlo? Mi capisce?» chiesi al ragazzino che era appena
diventato la mia
salvezza. Non gli sarei mai stato grato abbastanza.
«Certo!»
annuì
convinto, «Ti ascolta sempre e, aspetta, mi ha appena chiesto
se per favore
puoi smetterla di disturbarlo la notte. Dice ch se tu non riesci a
dormire non è
un problema suo. Ti consiglia anche qualche calmante o
sonnifero».
Risi di
nuovo, dando un
buffetto sulla spalla a Ace, «Sei sempre il solito, non
cambierai mai». Per un
istante mi sembrò di vederlo sorridere leggermente e
ciò riaccese la speranza
di poterlo riabbracciare molto presto.
«A
quanto pare devi un
favore a Penguin» constatò il ragazzo con il
pizzetto, Trafalgar, avvicinandosi
e sedendosi sul bordo del letto, sorridendo in modo ambiguo.
«Oh,
certo, tutto
quello che vuole» dichiarai, non capendo gli sbuffi
esasperati del rosso e dell’altro
in sedia a rotelle, il quale sembrò voler sbattere la testa
contro il muro.
«Ecco
che ricomincia»
borbottò disperato.
Nel
frattempo Penguin
si schiarì la voce e, con una cerca solennità, mi
chiese se volevo entrare nel
loro gruppo, informandomi che Ace ne faceva già parte e
spiegandomi anche che
grazie a me sarebbero stati al completo, nonché un sostegno
l’uno per l’altro.
«E
non preoccuparti di
Kidd» aggiunse poi, indicando il rosso che, con una smorfia
sul viso, osservava
il tutto con disgusto, «E’ maleducato, ma infondo
ha un cuore d’oro».
Trafalgar
scoppiò a
ridere senza ritegno e, se il biondo non si fosse posizionato davanti a
lui,
sarebbe sicuramente finito in rianimazione a giudicare
dall’espressione omicida
che gli rivolse quel temerario Kidd.
«Finiremo
per
ammazzarci tutti».
«Via,
via, Killer, sii
ottimista» lo rimbeccò Penguin, facendolo sbuffare
e scuotere il capo con fare
arrendevole. Quest’ultimo si rivolse poi direttamente a me,
«Sei
ancora in tempo
per salvarti» mi avvisò, ma ero in debito con il
suo compagno e se voleva che
mi aggregassi a loro, allora l’avrei fatto più che
volentieri. Dopotutto, ero
stanco di restarmene da solo ad affrontare quei giorni lunghi e
difficili. Magari
era vero che, assieme, le cose sarebbero migliorate.
Perciò
sorrisi
gioviale, guardando prima Ace e poi quel gruppetto di sconosciuti che
erano
entrati per caso nella mia vita, ribaltandola totalmente e dandomi una
nuova
speranza. Erano strambi, certo, ma, per qualche strano motivo, mi
ispiravano
fiducia.
«Sono
dei vostri»
dichiarai con convinzione, stringendo la mano a Penguin che
iniziò ad esultare,
congratulandosi con me e facendo spuntare l’ombra di un
sorriso anche sulle
facce burbere degli altri.
Mi
rivolsi allora a
Ace, sfiorandogli una mano e guardandolo dolcemente.
Mi
sei mancato tanto, fratello.
Angolo
Autrice.
Buonasera
a tutti ^^ so
che è tardi, ma mi sono impegnata tanto per finirlo e
correggerlo, quindi ve lo
beccate a queste ore, LOL.
Mi sono
resa conto che
oggi è lunedì e, anche se non sono ancora sicura
della tempistica di questa
storia, ovvero non so quando e come aggiornerò, ho deciso
che per oggi avrei
aggiunto un capitolo, anche perché erano un paio di giorni
che covavo l’ispirazione,
quindi ecco qui, spero sul serio di aversi incuriositi, soddisfatti,
fatti
sospirare, piangere, ridere, quello che volete, insomma.
Che dire?
Beh,
ovviamente l’ospedale non è un ambiente
così carino e simpatico, ma le sorprese
non mancano, soprattutto le situazioni ambigue, come avrete notato.
Oggi si
parte con
Penguin che, dopo essersi perso per i corridoi, capita per caso nella
stanza di
Ace, il bello addormentato per eccellenza, e si mette a chiacchierare
con lui del più e del meno, stringendo subito
amicizia e arruolandolo nella sua ciurma. Praticamente, a occhi
sconosciuti,
sembra parlare da solo, ma la cosa è molto più
complicata e stupefacente. Ripeto,
questa long l’ho tratta da una serie televisiva, Braccialetti Rossi, e
anche lì un ragazzino poteva sentire i
pensieri del suo compagno in coma da mesi, così non ho
potuto non inserirlo. Ma
di questo parleremo tra poco, volevo solo essere chiara. Ah, e no, non
seguirò
in modo preciso la trama del film, penso che il resto lo
inventerò di sana
pianta, solo mi era piaciuta l’idea dell’essere collegati mentalmente e del gruppo di
amici in ospedale, tutto qui.
Penguin
mi è sembrato
il più adatto per interpretare la parte del sensitivo,
è il più allegro,
socievole e spensierato. Ho anche accennato a come ha perso la gamba,
ma lo
spiegherò meglio più avanti, praticamente
è un piccolo eroe **
Il
bellissimo dipinto
sulla parete nella stanza di Ace lo immagino così:
http://static2.wikia.nocookie.net/__cb20111115211548/onepiece/it/images/5/5a/Marco_trasformato.jpg
‘Sono
gli ottimisti a fare il mondo, i pessimisti non ci provano
nemmeno’. L’ho
letta in una rivista, la frase,
se non ricordo male, viene niente meno che dal personaggio della
Marvel, ovvero
il fantastico Iron Man. Ritengo il tutto una vera e propria filosofia
di vita.
E poi
arriva uno
sbuffante Kidd, costretto a sorbirsi Trafalgar, il quale sembra
divertirsi ad
infastidirlo con la sua presenza. Bene, noi siamo contenti, vero?
Soprattutto quando
litigano e si scannano vivi, sono così perfetti, un mix
esplosivo, non c’è che
dire. I due passano il tempo assieme, non sempre, ma quando possono e
quando
capita e non perdono l’occasione per beccarsi, neh? Mi pare
giusto u.u allora,
andiamo con ordine perché faccio confusione.
A parte
il
punzecchiarsi a vicenda, vorrei parlare della salute di Kidd. La
spiegherò
andando avanti, ma, a quanto pare, il suo cuore inizia a non reggere
più molto
bene, infatti, facendo le scale, si sente male e Trafalgar lo aiuta
senza
pensarci due volte, mostrandoci che, forse, non è
così insensibile, soprattutto
verso chi sta male. Lo scambio di battute che avviene tra i due non
è inteso in
senso romantico o affettivo, è, come dice Law, un incentivo
per far si che Kidd
continui a lottare senza cedere. Magari, col tempo, potrebbe diventare
qualcosa
di più, ma per adesso no. Nemmeno il bacio a fior di labbra
che si scambiano in
ascensore. Non volevo metterlo, ma non ho resistito e, anche se la cosa
sembra
ambigua o stonata, il tutto avviene in modo molto ‘sciallo’,
ossia tranquillo, senza impegno. E’ stato un momento
così, un battito d’ali, un soffio. Personalmente
lo trovo tanto carino e
ruffiano :3
Ad ogni
modo passiamo
ora a Marco.
Marco,
splendore. Voglio
più Marco/Ace in giro, sia chiaro, e anche più
Penguin/Killer. Avanti, sono
coppie adorabili!
Dunque,
Marco gironzola
per l’ospedale ed è lui che segna i giorni sul
calendario. Non sappiamo ancora
cosa sia successo a lui e a Ace, ma lo scopriremo, anche
perché devo ancora
deciderlo anche io ^^
Ace in
ogni caso, è in
coma da otto mesi, quasi, e non si sveglia. La fenice, ovviamente,
è un augurio
di pronta guarigione, basta pensare alla leggenda legata ad essa. Ed
ecco la
sorpresa: Penguin sente i suoi pensieri, si. Con stupore di tutti, il
piccoletto si fa valere ancora e lascia gli altri a bocca aperta,
soprattutto
il povero Marco che a momenti sviene. Più avanti
parlerò meglio del suo
rapporto con Ace, ma credo si possa intuire che i due sono molto, molto
legati
e, ommioddio, mi sento male, non si
parlano da mesi e uno combatte tra la vita e la morte! Piango!
‘Cosa
ci uccide e cosa ci rende eterni?
Nessun
uomo lo sa, ma sono sicuro che siano la stessa cosa’.
Onore e
gloria all’uomo/donna
che ha fatto questo discorso. Purtroppo non conosco il proprietario, ma
tutti i
diritti vanno a lui.
Concludo
che sono
stanca morta!
Spero
vivamente che
questo capitolo vi sia piaciuto e che la storia sia apparsa
già più
interessante, in ogni caso accetto qualsiasi critica o consiglio
costruttivo ^^
giuro che risponderò alle recensioni, se ce ne saranno, lo
giuro e chiedo
umilmente perdono per qualsiasi ritardo, ma sono incasinata oltre ogni
dire.
Grazie
come sempre a
tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. ***
Capitolo 3.
Quel giorno era
un giorno
molto importante per me e dire che non stavo più nella pelle
per l’eccitazione
era dire poco. Per quel motivo non riuscii a dormire per tutta la notte
e mi
ritrovai alle sette del mattino già alzato e in attesa di
cominciare la mia
riabilitazione. Diavolo, ero rimasto steso sul quel letto troppo a
lungo e
quando mi avevano dato il permesso di usufruire della sedia a rotelle
per
muovermi un po’, anche se lentamente, mi era sembrato un
miracolo. Imprevisti e
impiastri a parte, tutto era andato
bene e il mio umore si era un po’ sollevato. Alla notizia che
avrei ripreso a
camminare, a piccoli passi s’intende, ero scoppiato dalla
gioia e molto
probabilmente il mio grido euforico aveva raggiunto persino il piano di
Kidd.
Per l’appunto, era capitato nella mia stanza una
mezz’ora dopo, chiedendomi se
avessi udito anche io delle urla selvagge. Avevamo riso come degli
idioti
quando gli avevo spiegato che la colpa di ciò era mia e mi
aveva fatto i suoi
migliori auguri di pronta guarigione per le mie povere gambe ingessate.
Kidd non
era un cattivo
ragazzo, l’avevo capito subito, solo bisognava sapere come
prenderlo e,
soprattutto, cosa più importante, non fargli perdere la
pazienza e non farlo
arrabbiare, per nessun motivo. Sotto questo aspetto mi andava piuttosto
bene,
lui sembrava avermi preso in simpatia ed io ero sempre stato un tipo
socievole
e più portato a riappacificare gli animi, per questo non mi
risultava difficile
tenerlo calmo e mitigare quel suo carattere irascibile e dalla
bestemmia
facile. Tra tutti quelli che giravano in quell’ospedale, lui
era l’unico che mi
andava a genio. Eravamo molto simili, sia per lo stile di vita che per
i gusti
in fatto di cibo, musica, sport, e altre futilità varie.
Chiacchieravamo per
ore senza rendercene conto e quando passava a salutarmi il tempo volava
e ciò,
per me, era un toccasana. Almeno non rischiavo di annoiarmi o
deprimermi e lui
riusciva a ricavarsi uno spazio di tranquillità, levandosi
di torno la sua,
parole testuali, più grande
maledizione.
A quanto
pareva, quel
tale, Trafalgar Law, l’amichetto della mia
maledizione personale, sembrava averlo preso di mira e c’era
da dire che tra i
due non correva affatto buon sangue. Mi era bastato uno sguardo per
capire che
era meglio stare alla larga da quel tipo; aveva una strana luce sadica
e
minacciosa negli occhi che mi faceva accapponare la pelle ogni volta
che lo
incontravo, per cui preferivo starmene in disparte e non attirare
l’attenzione.
Ad ogni
modo, per quel
giorno almeno, non avrei avuto nessuna seccatura tra i piedi, dato che
un
infermiere piuttosto gentile ed educato mi stava scortando nella sala
dove
avrei iniziato i miei esercizi per riattivare in modo corretto il
funzionamento
delle mie gambe. Tutto era tranquillo e non potevo essere
più contento.
«Kira-chan!».
Ovviamente,
doveva
andare tutto a puttane.
Voltai la
testa di lato
in direzione di quella fastidiosa e famigliare voce, reprimendo un
brivido di
terrore e impallidendo quando, a poca distanza da me, intravidi quel
dannato coso, completo di
carrozzina, cappello e
sorriso da un orecchio all’altro, dirigersi verso di me con
determinazione e
allarmante allegria.
«Stavo
giusto venendo a
trovarti!» dichiarò, raggiungendomi,
«Come stai? Dove stai andando?».
Sbuffai,
ignorandolo e
guardando altrove, sperando che il medico alle mie spalle tenesse la
bocca
cucita e non osasse fare un fiato. Speranze infrante, dato che il
piccoletto si
rivolse direttamente a lui, ottenendo tutte le risposte che voleva
sentir dire
da me. Addio alla mia giornata rilassante.
«Posso
accompagnarti!
Vedrai, sarà più divertente avere qualcuno che
conosci al tuo fianco!».
«Non
credo si possa
fare» borbottai con malcelato nervosismo, desideroso solo di
togliermelo di
torno e arrivare a destinazione sano e salvo. Cosa avevo fatto di male
per
meritarmi quella sanguisuga? Non bastava essermi rotto le gambe e il
braccio,
vero?
Come se
tutto
l’universo si fosse coalizzato contro di me,
quell’idiota ottenne il permesso
di farmi compagnia, visto e considerato che da quelle parti esisteva la
credenza
che le ossa si aggiustassero prima se l’infortunato aveva
qualcuno con cui
condividere il dolore e i problemi che lo affliggevano. Che stronzata
colossale, mi sarei riaggiustato comunque, non avevo mica bisogno che
qualcuno
venisse a farmi la predica e a spargermi coriandoli colorati attorno
per
sollevarmi l’umore. Se ero scontroso la colpa era unicamente
di quel… Quel…
«Mi
chiamo Penguin. Ripeti, su:
Pen-guin» iniziò a
spiegarmi, non contento di sentirsi chiamare continuamente con
nomignoli poco
cordiali. Da me, doveva metterselo in testa, avrebbe ricevuto solo
quelli.
Alzai gli
occhi al
cielo, coprendomi il viso con la mano buona e pregando ogni Santo
affinché mi
desse la forza di sopportare quelle prossime due ore che avrei dovuto
passare a
stretto contatto con lui. Fortuna che non avremo rischiato di rimanere
da soli,
altrimenti non sapevo quanto avrei resistito prima di eliminarlo
completamente
dalla faccia della terra.
«Per
oggi può bastare.
Riposati dieci minuti, poi ritornerai nella tua stanza. Non
scoraggiarti, è la
prima volta, è normale che ci voglia un po’ di
tempo prima di riprendere
completamente tutte le funzioni».
Le buone
speranze e
l’allegria con cui mi ero svegliato quella mattina erano
andate in fumo nel
giro di pochissimo tempo. Quella prima visita era andata male,
malissimo. Non
riuscivo nemmeno a trovare una parola per esprimere quanto schifo
avesse fatto
e quanto ridicolo mi fossi sentito nel ritrovarmi impossibilitato a
muovermi.
Nonostante mi fossi sforzato oltre ogni limite, non ero riuscito ad
attivare nemmeno
un muscolo e di alzarmi in piedi non se ne parlava proprio. Sarei stato
costretto alla sedia a rotelle ancora per molto tempo e questo bruciava
più del
resto. Almeno quel piccoletto aveva avuto la decenza di restarsene
zitto
durante tutta la seduta, emarginato in un angolo della stanza a
torturarsi le
mani per l’ansia e la preoccupazione. Per qualche assurda
ragione, però,
l’avevo odiato in quelle due ore. Non sapevo bene
perché, ma lui, a differenza
mia, sembrava non dispiacersi più di tanto della sua
condizione, decisamente
peggiore, e guardava al futuro con speranza e un sorriso in faccia.
Perché
tutto quell’entusiasmo? Era uno storpio e non avrebbe
più potuto essere normale,
quindi a cosa serviva tutto
quel buon umore? E poi aveva assistito al mio primo fallimento, motivo
in più
per detestarlo.
Il medico
uscì dalla
sala con l’intento di lasciarmi qualche attimo per sbollire
la rabbia e la
delusione di quella giornata e, nel frattempo, Penguin
approfittò del momento libero
per avvicinarsi indisturbato a me con uno sguardo amichevole e, ne ero
certo,
le migliori intenzioni del mondo per rincuorarmi. Il punto era che non
ne avevo
bisogno, non volevo la sua pietà, non sapevo proprio che
farmene se non potevo
tornare ad usare le mie gambe.
«Ehi,
non essere
triste, sei andato bene, sai?». Ecco, esattamente
ciò che volevo evitare. Frasi
di consuetudine, già programmate e che non sarebbero servite
a nulla. Inoltre
erano false, false e insulse, soprattutto non richieste. Avevo fatto
schifo, lo
sapeva, quindi ero doppiamente infastidito dal suo tentativo di
sdrammatizzare.
Non gliel’avevo chiesto.
«La
prossima andrà
ancora meglio, ne sono certo, potresti persi…».
Ero troppo arrabbiato per
lasciargli continuare quella sua impresa da buon samaritano,
perciò lo
interruppi bruscamente, desideroso di farlo stare zitto e di spedirlo
altrove,
lontano da me e dai miei problemi.
«Piantala
con queste
stronzate, non ho bisogno di essere compatito».
«M-ma
io non
intendevo…» iniziò a dire interdetto,
cercando di scusarsi e di farmi
ragionare.
«Senti,
vattene,
lasciami solo. Ne ho avuto abbastanza di te e di questa merda per
oggi!»
sbottai. No, non andava per niente bene ma, anche se sapevo che quello
non era
affatto il modo migliore per affrontare la situazione, non mi fermai e
non mi
calmai. Ero stanco, frustrato, ne avevo avuto abbastanza di
quell’ospedale e di
quelle facce fintamente interessate e preoccupate per i pazienti,
quindi
sfogarmi mi sembrava la cosa migliore che potessi fare, oltre che la
più
soddisfacente. Sbollire la rabbia mi avrebbe ridato la
stabilità, anche se ciò
significava prendersela con chi non aveva nessuna colpa.
«Ascolta,
so che non
deve essere facile, ma se lasci che ti aiuti
magari…». Cercava davvero di fare
del suo meglio, ci teneva a darmi una mano ad affrontare tutto
ciò, si capiva,
ma ai miei occhi stanchi appariva tutto così pietoso, come
se lui mi vedesse
sotto una luce sbagliata. Ero sempre stato in grado di arrangiarmi e
trovarmi
nella condizione di avere bisogno degli altri mi faceva imbestialire
oltre ogni
limite. Accettare l’aiuto di un moccioso, poi, era fuori
discussione.
Ero
ancora seduto sul
lettino utilizzato per gli esercizi, mentre lui si era avvicinato nel
tentativo
di parlarmi ed essere gentile, seduto su quella carrozzina e per niente
disturbato da ciò, come se si fosse dimenticato di essere
invalido, come se non
gli importasse di non poter camminare. Era quello che mi infastidiva:
era
ridotto a muoversi con le rotelle e non ne veniva minimamente scalfito.
Era
pazzo, Kidd aveva ragione, dovevano tenerlo in un manicomio quello.
«Aiutarmi?
Non ti ho
chiesto niente e mai lo farò! Non capisci che
così peggiori solo le cose?
Guarda, sono bloccato qui e le mie gambe non rispondono ai miei
comandi. Come
dovrei sentirmi? Eh, come?». Mi rendevo vagamente conto di
stare alzando la
voce, ma contemporaneamente mi sembrava di sentirmi anche
più leggero così,
incurante del disappunto e della delusione sulla faccia del ragazzino
li
accanto, continuai con la mia sfuriata che avevo il diritto di fare.
«Non puoi
nemmeno immaginare come ci si sente, dovrò spostarmi usando
una cazzo di sedia
a rotelle come fai tu e ridurmi a chiedere aiuto quando mi
troverò davanti a
delle scale o a qualsiasi altro intoppo. Forse sarà per poco
tempo, o peggio,
per sempre, resta il fatto che questa condizione fa davvero schifo e tu
sei
solo uno sciocco ad accettare tutto questo con il sorriso in
faccia!».
Fu
questione di un paio
d’attimi. Quello prima stavo urlando e inveendo contro di lui
e quello dopo me
l’ero ritrovato davanti a me, in piedi e con
un’espressione seria e adulta, le
labbra tirate in una linea sottile e dall’aria amareggiata.
Ci misi poco a
comprendere che stava in equilibrio su una gamba sola, le braccia lungo
i
fianchi e le mani chiuse a pugno. Si era alzato nonostante
ciò gli costasse una
certa fatica, fronteggiandomi e zittendomi come meritavo dopo il mio
comportamento esagerato e arrogante. Ovvio che per lui dovesse essere
difficile, dopotutto, io le gambe le avevo ancora entrambe.
Ritrovarmelo
in quelle
condizioni mi stupii nel rendermi conto che era più alto di
quanto avessi
immaginato e, per quanto ne sapevo, avrebbe potuto persino essere
più vecchio
di me e Kidd, anche se non ero certo. Indugiai con lo sguardo sulla
stoffa del
pantalone del pigiama annodata appena sotto al ginocchio dove il suo
arto
mancava, decidendomi a smetterla di sentirmi a disagio e costringendomi
ad
alzare la testa e a ricevere un’ondata di insulti che sapevo
di meritare
pienamente. Quel piccoletto aveva dimostrato di essere migliore di me
sotto
molti aspetti, il minimo che potevo fare era starmene zitto e ammettere
il mio
sbaglio.
Contrariamente
alla
sfuriata che mi aspettavo, saltellò fino al bordo del
lettino e si issò con le
braccia, sedendosi vicino a me e iniziando a slegare il nodo del
pigiama,
arrotolandolo fino a scoprire il moncherino e restando impassibile
sotto al mio
sguardo stupito e dispiaciuto, ma che non riuscivo a spostare, come se
fossi
rimasto ipnotizzato da quello spettacolo macabro. Una scossa di brividi
mi
corse lungo la schiena e mi venne la pelle d’oca, ma fu nulla
in confronto a
ciò che accadde dopo.
Penguin,
con calma e
fermezza, mi afferrò il polso, guidando la mia mano tremante
a sfiorargli la
pelle appena sopra l’amputazione, lasciandola scorrere prima
qualche centimetro
sopra e facendola scendere poi, fino a che non fu a contatto con la
ferita
ormai ricucita e chiusa. Si poteva anche dire guarita,
ma non ero certo che fosse il termine esatto. La pelle era
tesa e un po’ ruvida sotto al ginocchio e mi faceva un certo
senso sfiorare
quel punto dove avrebbe dovuto esserci la continuazione delle ossa, ma
non
rimasi schifato o inquietato. Anzi, forse tutto ciò mi fece
aprire gli occhi e
capire quanto quel ragazzo fosse maturo e non idiota come avevo
creduto. Lui si
che aveva tutto il diritto di lamentarsi, io potevo solo che tapparmi
la bocca e
vergognarmi.
«Ovvio
che non è
facile» iniziò a dire pacato, lasciandomi libero
il polso e dandomi la
possibilità di ritrarmi, ma non lo feci, incuriosito da
ciò che mi aveva
mostrato. Avevo però paura di sembrare indiscreto,
così evitai di lasciar
vagare le dita all’altezza del moncherino, spostandomi un
po’ di lato e
cercando di non essere troppo invasivo.
«E
non dico di essere
felice della situazione in cui sono ora. Anche a me piacerebbe poter
camminare,
correre, saltare, fare le cose che facevo prima, ma non posso, non
più.
All’inizio è stato difficile anche per me: non ero
al settimo cielo all’idea
della sedia a rotelle e non volevo nemmeno l’aiuto di
nessuno, ma dimmi, cosa
posso farci? Cambierebbe qualcosa se mi tenessi tutto dentro e se
iniziassi ad
essere scorbutico e arrabbiato col mondo?».
Sorrisi
sconfitto.
Colpito e affondato. Quella frecciatina me l’ero meritata,
eccome.
«Sorrido
e sono allegro
perché sono contento di essere vivo,
dopotutto poteva andarmi peggio. Invece non solo posso ancora
respirare,
parlare, cantare, muovermi e giocare d’azzardo con i miei
amici, ma ho persino
salvato la vita di una persona a me cara. Avrò perso una
gamba, ma dall’altra
parte ho risparmiato molto dolore ad altra gente. Un buon motivo per
essere
felici, non trovi?».
Alzai lo
sguardo sul
suo viso e lo ritrovai di nuovo sorridente e per nulla turbato.
Sembrava non
fare caso alla mia curiosità e alle mie occhiate
interrogative, ma ebbi modo di
saperne di più sul suo conto quando riprese a spiegarmi
quello che gli era
accaduto per ritrovarsi lì in quel momento, lasciandomi a
bocca aperta e
facendomi sentire un completo coglione, immeritevole di essere
consolato da
lui.
«Ero
uscito con il mio
migliore amico, sai, per me lui è come il fratello che non
ho mai avuto, e
stavamo passeggiando per le strade del centro. Ad un certo punto Shachi
ha
voluto rischiare di attraversare vicino ad una curva con scarsa
visibilità e,
mentre si affrettava a passare per primo, un camioncino è
sbucato dal nulla.
L’autista ha frenato, ma ho capito subito che non avrebbe
fatto in tempo ad
inchiodare, così ho agito d’istinto, lanciandomi
verso di lui e spingendolo via
appena in tempo. Siamo caduti a terra lungo il ciglio della strada e il
furgone
si è fermato poco dopo, ma la mia gamba non è
riuscito a evitarla».
Calò
il silenzio,
spezzato soltanto dal chiacchiericcio contenuto che proveniva dai
corridoi
esterni e dal rumore delle macchine elettroniche all’interno
della stanza. Il
respiro di Penguin era leggero, silenzioso si poteva dire, mentre il
mio era
inesistente. Quella storia, quella confessione, mi aveva lasciato
letteralmente
spiazzato. Aveva praticamente rischiato la vita per salvare quel suo
amico e ci
aveva rimesso una gamba. Una gamba per una vita. Non ero del tutto
sicuro dei
pensieri contorti che stavano vagando per la mia testa a briglia
sciolta, ma
ero certo che il suo gesto fosse stato qualcosa di coraggioso, quasi
eroico. Si
era volentieri sacrificato per aiutare qualcuno e aveva preso la cosa
con
filosofia, imparando a conviverci e trovando il modo di essere
ugualmente
felice per ciò che aveva fatto, piuttosto che piangersi
addosso come stavo
facendo io. In confronto a lui non ero niente e avevo ancora entrambe
le gambe,
non c’era nessuno che diceva che non avrei più
camminato, semplicemente ci
voleva tempo e questo io non l’avevo capito. Lui, invece, non
aveva
alternative, ma si era adattato molto più in fretta di me.
Mosse
l’arto per
scuotermi dai miei pensieri e automaticamente spostai la mano,
lasciandolo
libero di riannodare il pantalone e di rialzarsi, avvicinandosi poi
alla sedia
a rotelle con calma e senza vergogna, sedendosi e sospirando
stancamente. Era
forte, sorrideva e cercava di infondere allegria agli altri, ma ero
certo che
tutto ciò gli costasse comunque un certo sforzo. Nessuno
poteva essere così
accomodante con la vita.
Nonostante
tutto non si
abbatté e mi rivolse un sorriso gentile e un po’
timido, portando le mani sulle
ruote, pronto per partire.
«E’
giusto arrabbiarsi
e innervosirsi, fa parte della convalescenza e se vuoi prendertela con
qualcuno
ne hai tutto il diritto» disse, tentennando un istante nel
continuare la frase,
«Ma se un giorno vorrai parlarne, beh, sai dove
trovarmi». Così dicendo si
avviò verso l’uscita, non mancando di rivolgermi
un ultimo sguardo amichevole,
lasciandomi da solo a riflettere su quello che era appena successo. Mi
ero
comportato malissimo e gli avevo urlato in faccia il problema che
già sapeva di
dover affrontare tutti i giorni e con cui avrebbe dovuto convivere fino
alla
fine ma, nonostante i miei insulti, non si era perso d’animo
e si era messo a
nudo nel tentativo di sostenermi e di farmi capire che
c’erano cose peggiori.
Sospirai,
sentendomi
tremendamente in colpa. Forse aveva ragione; forse era vero che avendo
qualcuno
a proprio fianco gli ostacoli erano meno duri da superare.
* * *
«Ace?
Sei sveglio? Lo
spero. Sai, ora che so che puoi sentirmi mi sento meno stupido a
parlarti.
Prima era un bel dilemma e tu non sei certo di grande aiuto»
scherzò Marco,
sedendosi sul bordo del letto. Me lo immaginavo benissimo: le mani
abbandonate
in grembo, le spalle rilassate e la testa rivolta verso il soffitto con
gli
occhi socchiusi, intento a riflettere e a pensare, scegliendo con cura
le
parole. A giudicare dal tono scherzoso doveva avere un piccolo sorriso
sulle
labbra.
Quanto
avrei voluto
aprire gli occhi e rispondergli.
«Te
l’ho detto mille
volte» fece ad un tratto, cambiando drasticamente umore.
Sembrava triste,
dispiaciuto.
Disperato.
«Prima
non ero certo
che riuscissi a comprendere le mie parole, ma adesso è
diverso e voglio essere
chiaro, senza parlare a vanvera come ho fatto i primi mesi»
spiegò, facendo un
respiro profondo.
Seguì
una breve pausa
durante la quale avrei tanto voluto stringergli una mano, assicurargli
che
andava tutto bene, che non doveva preoccuparsi o sentirsi in colpa, che
quello
che era accaduto non era dipeso da lui, ma unicamente da me.
Però non potevo.
Non ce la facevo.
«Ace,
quel giorno sono
stato un idiota. Non dovevo reagire in quel modo, non avrei dovuto
andarmene e
non avrei dovuto lasciarti sulle spalle la custodia e la
responsabilità di
tutti quei piccoletti dell’orfanotrofio. Non quando tutti i
nostri fratelli
erano altrove e non quando l’unico ad essere maggiorenne eri
tu. Sono stato
sciocco ed egoista».
Quel
discorso l’aveva
fatto mille volte ormai in quei sette, lunghi mesi e avrei voluto
rispondergli
che non volevo le sue scuse, che non ce n’era bisogno, ma
puntualmente lui me
le ripeteva, facendomi sentire sempre peggio e incolpandosi
inutilmente. Lui
non c’entrava, non l’aveva fatto apposta, ero io
quello che aveva esagerato e
che era andato troppo oltre, scombussolando tutto e costringendolo ad
allontanarsi quel pomeriggio.
Conoscevo
Marco da un
sacco di tempo; eravamo cresciuti insieme, fianco a fianco, contando
l’uno
sull’altro, sempre, e condividendo qualsiasi cosa, emozione o
esperienza che
fosse. Quando qualcosa non andava in me sapevo che in lui avrei trovato
un
sostegno, che mi avrebbe sempre aiutato e capito e quando era lui ad
avere
bisogno allora mi sdebitavo e facevo di tutto per essergli utile. La
sua grande
famiglia mi aveva accolto a braccia aperte come aveva sempre fatto con
tutti e
ritrovarmi ad essere circondato da una dozzina e più di
fratelli da un giorno
all’altro era stata una piacevole novità dopo che
ero diventato orfano. Avevo
trovato qualcuno che si sarebbe preso cura di me e un sacco di amici
pronti a
starmi vicino e a volermi bene. Ero affezionato ad ognuno di quei
ragazzi,
ormai cresciuti e scapestrati, con la testa sempre tra le nuvole e con
la
capacità di cacciarsi sempre nei guai ogni volta che si
presentava loro
l’occasione. Adoravo l’uomo che mi aveva dato una
nuova vita e che aveva reso
migliore la mia esistenza, amavo la mia casa e tutti coloro che la
abitavano.
Marco,
all’inizio, se
ne era stato per le sue, mostrandosi presuntuoso ed arrogante fin da
piccolo,
facendomi i dispetti e venendo ricambiato con la stessa moneta, dato
che ero
sempre stato un ragazzino pestifero, ma col tempo le cose erano
cambiate. Forse
in meglio, forse in peggio, in ogni caso avevamo iniziato a stringere
una serie
di accordi e tregue, rivolgendo i nostri scherzi, non sempre molto
divertenti,
verso gli altri, scatenando il putiferio tra gli orfanelli e dando
inizio ad un
periodo niente affatto tranquillo, soprattutto se i ragazzini stavano
tutti
attraversando quella fase delicata dell’adolescenza. Le
femmine, sotto quell'aspetto, erano state le artefici degli scherzi peggiori. Nonostante
tutto, il
nostro rapporto, col passare degli anni e costretti a vivere a stretto
contatto, si era rafforzato e ci eravamo inevitabilmente avvicinati, scoprendoci un giorno
migliori
amici e inseparabili fratelli, pronti a tutto per sostenerci. In sua
compagnia
non ci si annoiava mai, nonostante la calma che la maggior parte del
tempo lo
caratterizzava e la tendenza a mitigare la mia indole più
attiva e irrequieta.
Eravamo quasi l’uno l’opposto dell’altro,
ma ero certo che questo servisse in
parte a renderci affiatati. In qualche modo ci completavamo.
Marco era
più grande di
me, ma quegli otto anni di differenza non avevano mai influito sulla
nostra
amicizia e sul rapporto che si era creato, come se fossero inesistenti
e non
contassero minimamente. Eravamo in sintonia, difficilmente ci trovavamo
in
disaccordo e a noi bastava. Inizialmente si divertiva a rinfacciarmi
quell’aspetto, non perdendo l’occasione per
sfottermi e sfidarmi, mettendomi
puntualmente al tappeto e le cose non erano cambiate da allora,
semplicemente,
se da piccoli i nostri dibattiti erano solo innocenti scaramucce, a
quell’età e
con qualche muscolo in più, ci capitava anche di prenderci a
pugni. Tutto
normale, diceva il babbo, a detta sua un po’ di sana competizione tra fratelli ci stava,
poco importava che alla
fine mi ritrovasi scaraventato a terra e con lui seduto bellamente
sopra la mia
schiena con l’aria vittoriosa e imbattuta. Quegli anni
passati a tessere i
legami del nostro rapporto erano stati i migliori della mia vita.
Era stato
inevitabile,
per me, innamorarmi di lui.
Non me ne
ero reso
conto fino a otto mesi prima, quando, dopo uno dei nostri classici
litigi senza
senso, ormai ritenuti all’ordine del giorno, avevo zittito le
sue sciocche e
stupide lamentele sul mio conto. Stupidaggini che si divertiva a
rinfacciarmi,
ma che mi irritavano sempre e comunque così, dopo avergli
intimato per tre
volte di chiudere il becco e animato da quel non so cosa del momento,
gli avevo
semplicemente tappato la bocca con la mia. Era durato un istante, un
misero ed
effimero attimo, ma sufficiente per scottare entrambi. Quello che era
accaduto
dopo era stato a dir poco catastrofico e, forse, esagerato, ma ormai
era
successo. Non serviva a nulla piangere sul latte versato e se
c’era qualcuno da
biasimare, beh, quello ero io.
Dopo quel
mio gesto mi
era sembrato che tutto quello che eravamo stati si fosse
irrimediabilmente
incrinato, addirittura spezzato. Non sapevo nemmeno perché
avevo agito in quel
modo, me ne ero reso conto solo durante quei mesi di silenzio a cui ero
stato
costretto. L’unica compagnia, quando non avevo visite, erano
i miei ricordi e
me stesso. Le cose avevo dovuto affrontarle, alla fine.
Dopo il
bacio, Marco
era come impazzito. Mi aveva aggredito, spingendomi addosso alla parete
della
sua stanza e gridandomi contro, accusandomi di aver appena rovinato la
nostra
amicizia. Mi aveva ripetuto che lui ed io eravamo fratelli.
Fratelli,
fratelli,
fratelli. Nel giro di poco tempo ero finito per odiare quella parola
che tanto
avevo amato e che nella mia mente suonava così dolce e piena
di significato.
Come poteva esserci qualcosa tra due fratelli? Due persone dello stesso
sangue
non potevano volersi bene in quel
modo, era un controsenso. Era sbagliato
e quel concetto me l’aveva fatto chiaramente capire.
C’era una cosa da dire,
però. Marco ed io, a conti fatti, non eravamo fratelli di sangue. Eravamo semplicemente stati
raccattati dallo stesso uomo
e cresciuti assieme, vicini. Non c’era niente di strano o
insolito in tutto ciò
e i miei sentimenti verso di lui erano più che giusti. Tutto quello, purtroppo,
l’avevo capito solo dopo
l’incidente, quindi alle sue parole così dure e
taglienti non avevo saputo
ribattere.
Dopo
avermi rifiutato
se ne era andato, uscendo di casa per allontanarsi da me e lasciandomi
solo a
darmi dello stupido e in preda ai sensi di colpa e al terrore di aver
perso il
mio migliore amico, nonché mio fratello maggiore, il mio
punto di riferimento,
colui al quale chiedevo tutto e da cui mi rifugiavo quando qualcosa
andava
male, sapendo che avrebbe sistemato le cose. In preda al panico non mi
ero
accorto che in casa era appena scoppiato un incendio.
Il
temporale che
oscurava il sole quel giorno, rendendo doppiamente tetro il mio umore,
aveva
fatto saltare la corrente e un fulmine di troppo aveva mandato in tilt
la
centralina. In qualche modo la corrente era venuta a contatto con una
diavoleria
dentro la casa che aveva fatto da conduttore, facendo così
saltare alcuni
contatti e causando lo scoppio di alcune scintille nel grande salotto
dove i
mobili erano principalmente di legno. Inutile dire che la tenuta si era
trasformata in un inferno nel giro di poco tempo. Quando me ne ero reso
conto
era troppo tardi per sperare di domare le fiamme, perciò mi
ero dato da fare
per assicurarmi che tutti i piccoletti uscissero in giardino, passando
in
rassegna tutte le stanze e avvisando i ragazzi più grandi di
venire ad aiutarci.
Per qualche scherzo del destino, quel giorno la
responsabilità era caduta tutta
sulle mie spalle, essendo l’unico maggiorenne e gli altri
miei fratelli o fuori
a lavorare nel secondo orfanotrofio affiliato o a casa del babbo. Non
dubitavo
che sarebbero arrivati, ma sapevo che ci avrebbero messo un
po’ prima di
raggiungerci e lo stesso valeva per i soccorsi.
Nell’attesa
mi ero
messo a contare mentalmente tutti i presenti, sperando di non aver
dimenticato
nessuno all’interno, quando il telefono nelle mie tasche
aveva preso a
squillare incessantemente fino a che non ebbi risposto.
Dall’altro capo c’era
Marco che, ordinandomi di non muovermi e di non fare cazzate, mi
pregava di
restarmene fermo dov’ero e di aspettare il suo arrivo. A
detta sua non era
molto lontano ed era già di ritorno. L’avrei
ascoltato, sul serio, ero deciso a
farlo, dopotutto aveva sempre avuto una certa influenza la sua parola
su di me,
ma uno dei bambini mi aveva reso noto, tra le lacrime, che mancava uno
di loro
all’appello. Non appena fece il nome della vittima, non ci
pensai due volte a
riattaccare il telefono, ignorando gli avvertimenti, e fiondarmi dentro
la casa
ormai completamente avvolta dalle fiamme nel tentativo di salvare il
piccolo
Rufy, l’ultimo arrivato che era entrato nel cuore di tutti,
del mio
soprattutto. Mi ricordava me alla sua età e nella sua stessa
situazione, oltre
che a lasciarmi davanti alla sua infinita sbadataggine e alla dolcezza
che a
volte mi disarmava. Non l’avrei lasciato morire in un modo
così brutale, dovevo
pur fare qualcosa per aiutarlo.
Il
seguito non era
stato dei migliori, ma almeno col mio corpo ero riuscito a proteggerlo
dalle
fiamme, dalle macerie e dalla cenere, accantonandomi in un angolo, dato
che non
avevamo più vie d’uscita, e aspettando e pregando.
L’ultima cosa che avevo
fatto era stato rassicurarlo, promettendogli che non l’avrei
abbandonato o
lasciato solo, sentendomi sollevato davanti al timido sorriso di
ringraziamento
che mi aveva rivolto. Dopotutto, era mio fratello, tutti lo eravamo.
Poi era
calato il buio ed io non ero più riuscito a fare altro se
non dormire.
Forse le
cose sarebbero
andate diversamente se non fossi stato tanto impulsivo o disattento,
forse a
quell’ora non avrei vissuto la mia prima delusione amorosa e
Marco non si
sarebbe ritrovato rinchiuso in ospedale per un trauma cranico che
necessitava
di essere tenuto sotto costante controllo fino a che le sue ricadute
non
fossero cessate. Quel testardo era entrato a cercarmi non appena era
arrivato,
rischiando seriamente che una trave del soffitto lo schiacciasse
uccidendolo.
Quel casino era accaduto solo per colpa mia e per i miei stupidi
sentimenti. E
non poter parlare e chiarire mi stava lentamente uccidendo.
Mi
dispiace tanto Marco, non avrei dovuto baciarti, pensai
tristemente.
«Perdonami
Ace, non
avrei dovuto respingerti».
Il mondo
sembrò fermarsi
e il dolore che quelle parole mi causarono si fece strada dentro di me
così
velocemente che se non fossi stato in quelle condizioni pietose
probabilmente
mi sarei sentito male o altro.
Avrei
voluto fare così
tante cose, prima tra tutte prenderlo a pugni, urlargli contro
qualsiasi tipo
di insulto esistente, alzarmi e correre via, ma più di tutto
volevo
disperatamente piangere. Era così stupido da parte mia,
così poco virile, ma mi
sentivo maledettamente uno straccio. Era ingiusto tutto ciò
e, per quanto mi
dispiacesse ammetterlo, Marco non aveva il diritto di parlare in quel
modo, non
dopo quello che era accaduto, non dopo che ero finito in coma, senza
una certa
speranza di risvegliarmi. Non poteva dopo otto dannatissimi mesi
confessarmi
una cosa del genere, non dopo avermi rifiutato e avermi sbattuto in
faccia
quanto il mio interesse nei suoi confronti fosse impossibile. Avrei
anche
potuto sopportarlo, se non fosse stato per l’orribile
sensazione che il suo
discorso fosse dettato più dal senso di colpa che da una
vera riflessione profonda
e sentita. Se avesse reagito diversamente al mio approccio,
probabilmente non
sarei stato da solo a salvare la vita di tutti quei bambini e magari
non ci
saremmo scordati di Rufy, ma chi poteva dirlo? Non era certo e
ritrovarmi in un
letto d’ospedale, incapace di muovermi e di sottrarmi a
quella conversazione,
mi stava straziando.
Non
volevo ascoltarlo,
non più; fino a che si trattava di scuse e di frasi
dispiaciute potevo reggere,
ma non a quello. Era troppo e non volevo convivere giorno dopo giorno
con la
consapevolezza di poter essere ricambiato da lui. Se prima
l’avevo desiderato,
in quell’istante ne ebbi paura, paura perché non
sarebbe cambiato niente nello
stato in cui mi trovavo, tanto valeva che continuasse a ritenermi
solamente un
fratello o un amico.
«So
che potrà sembrarti
strano detto così, dal nulla, ma tu hai avuto il coraggio di
fare quello che
avrei dovuto fare io da tempo» sussurrò, immobile
e sempre affianco a me.
Ti
prego smettila!
Se da
fuori il mio
corpo poteva sembrare rilassato e impassibile, dentro di me urlavo.
Non
voglio sentirti! Vattene, vattene via! Come puoi essere così
ingenuo? Non
capisci che mi fai stare peggio? Cosa posso fare in queste condizioni?
Non
posso muovermi, ne alzarmi per ucciderti. Non posso baciarti, Marco,
non posso
urlarti in faccia quanto ti sto odiando ora. Non riesco nemmeno a
piangere.
Quanto vorrei farlo, tu non hai idea. Ti dispiace? TI DISPIACE?
E’ tardi, è
troppo tardi ormai. Stai zitto, stai zitto! Penguin? Penguin, se mi
senti vieni
qui, ti prego, ti prego!
«Davvero,
Ace, tu non
puoi nemmeno immaginare quello che, insomma… Quanto male mi
sento. Non avresti
dovuto essere da solo, non avrei dovuto lasciarti. Se sei qui
è solo colpa
mia».
Marco,
stai zitto. Ti supplico, fa male, dannazione! Risparmiami tutto questo.
Sei
così egoista da non capire che dirmi queste cose adesso mi
renderà la vita
sempre più dura? Non posso reagire, non posso sperare di
avere di più, ho perso
praticamente tutto. Non voglio sentire più niente. Basta,
smettila, smettila,
smettila!
«Vorrei
tanto poter
tornare indietro per…».
BASTA!
«Marco
è meglio che tu
vada».
Grazie al
Cielo,
Penguin mi aveva udito, in qualche modo eravamo davvero collegati e
ciò mi rese
così sollevato che per un attimo sentii gli occhi
inumidirsi. Volevo stare da
solo per un po’, volevo riposare e dimenticare tutti quei
problemi. Per la
prima volta non volevo avere Marco
vicino a me.
«Uh?
Penguin. Che ci
fai qui? Che stai dicendo?». Potevo sentire mio fratello
farsi sempre più curioso
e interdetto e il ragazzo che era arrivato appena in tempo, dopo avermi
chiesto
il permesso di rispondere sinceramente, gli riferì nel modo
più gentile e
delicato possibile, che non era il caso di turbarmi con tutti quei
pensieri tristi
di occasioni perdute.
«Non
voglio
intromettermi, ma sta soffrendo ed è emotivamente a pezzi.
Lascialo riposare e
torna domani, per favore. Vieni, ti accompagno così
avrà del tempo per sé».
Sentii
Marco sospirare
tristemente. Mi dispiaceva saperlo in quello stato, ma ero passato
sopra ai
miei sentimenti troppo a lungo e non riuscivo sentirmi dalla parte del
torto.
Avevo davvero bisogno di una pausa.
Grazie
Penguin, pensai,
sicuro che il mio messaggio arrivasse a lui e ascoltandoli lasciare la
stanza
in silenzio.
Ah,
Pen? quasi mi
dimenticai, tentennando un altro istante, assicurati
che Marco stia bene. Dopotutto, é pur sempre mio fratello.
* * *
Il
cuore è diviso in quattro cavità: gli atri,
destro e sinistro, posti
superiormente e i ventricoli, anch’essi destro e
sinistro, posti inferiormente. L'atrio
e il ventricolo destro sono in continuità tra di loro,
formando il cuore
destro, il quale pompa il sangue
venoso, ossia povero di
ossigeno, così come
comunicano le due cavità sinistre, formando il cuore
sinistro che, appunto,
pompa il sangue arterioso, cioè ossigenato…
«Ah,
eccoti. Così è qui
che nascondi le tue quattro ossa, eh?».
Non mi
preoccupai
nemmeno di alzare gli occhi dal libro di medicina su cui ero stato
concentrato
fino a pochi secondi prima, capendo immediatamente chi era
l’idiota che aveva
osato interrompere i miei studi, decidendo che no, non valeva la pena
perdere
tempo con lui e le sue stupide domande, perciò lo ignorai e
continuai con la
mia lettura leggera, sperando che se ne andasse al più
presto.
«Ehi
stronzo, dico a
te».
Dunque,
dov’ero rimasto? Allora: dopo la nascita
non persiste alcuna comunicazione tra la parte destra e quella sinistra
del
cuore; questa condizione è garantita dai setti interatriale
e interventricolare
che dividono il cuore nel…
Un
peso estraneo piombò sul materasso e il letto
dell’ospedale,
nonostante fosse di ferro, cigolò rumorosamente mentre un
paio di mani mi
afferravano per la collottola della maglia e mi trascinavano in piedi
in modo
rude e fastidiosamente maleducato. Eustass-ya, a volte, era proprio un
animale.
«Non
ignorarmi» ringhiò rabbioso, strattonandomi
ulteriormente ed
evidenziando quanto quell’indumento mi andasse largo. La
cosa, infatti, non
sfuggì alla sua attenzione e, con una smorfia schifata alla
quale risposi con
un ghigno di puro menefreghismo, pensò bene di dare aria
alla bocca con i suoi
commenti inutili e scontati.
«Sei
magro da fare ribrezzo, Trafalgar».
«E
tu hai un piede nella fossa, caro Eustass».
«Ehi,
questo è tutto da vedere» mi avvertì,
ricordandomi la nostra
scommessa, o meglio, la nostra sfida all’ultimo respiro: chi moriva per primo, perdeva. Faceva
ridere vista in quel modo.
«Sappi che non ti lascerò la soddisfazione di
venire al mio funerale».
«Hai
paura che ti metta in imbarazzo anche quando sarai
sottoterra?»
ironizzai, approfittando del fato che mi avesse liberato dalla sua
presa per
rimettermi seduto e richiudere il libro, sicuro che non mi avrebbe
lasciato in
pace tanto presto.
Mi
rivolse un’occhiata sarcastica, mettendosi a gironzolare per
la
stanza e curiosando sulle mensole che avevo montato per riporre i miei
libri,
nonostante le lamentele del personale.
«No,
semplicemente voglio avere la soddisfazione di seppellirti
personalmente, così, giusto per sfotterti».
Ebbi
la tentazione di ridacchiare, ma poi mi ricordai che avevo davanti
a me il mio peggior nemico, il mio avversario e con lui non dovevo
fraternizzare, perciò mi limitai a seguirlo con lo sguardo,
attento a qualsiasi
suo movimento e pronto a cacciarlo fuori di lì a calci se
avesse iniziato a
farsi gli affari miei, toccando tasti dolenti. Per quanto mi scocciava
ammetterlo, la mia camera era una fonte inesauribile di indizi sulla
mia vita e
sul mio conto e a me non piaceva che la gente si intromettesse in cose
che non
la riguardavano.
«Cos’è
quella roba?».
Mi
rilassai non appena capii che stava puntando il dito contro un
vassoio adagiato sopra al tavolino accanto al letto.
«Uh,
è la colazione» dissi semplicemente, ignorando la
quantità di cibo
intoccato che faceva bella mostra di sé. Più
tardi l’avrei consumato, sempre se
me ne fossi ricordato e se ne avessi avuto voglia.
«Quindi
deduco che l’altro piatto sia il pranzo. Non lo
mangi?» domandò,
più sorpreso che interessato, avvicinandosi e prendendosi la
libertà di sedersi,
osservando le vivande.
Mi
strinsi nelle spalle, incrociando le gambe e afferrando il cuscino
per stringermelo al petto nel tentativo di mettermi comodo, attendendo
la sua
prossima mossa. Eustass-ya era stupido, ma non cieco, doveva per forza
aver
capito qual’era il mio problema, anche se non ne aveva mai
fatto parola in quei
suoi primi mesi all’ospedale. Miracolosamente il suo cervello
aveva capito che
non avrei mai risposto alle sue domande se non avessi deciso di
confidarmi a
lui di mia spontanea volontà. Ero convinto che non
l’avrei mai fatto, ma il suo
comportamento, stranamente meno balordo del solito, mi portò
a concedergli il
beneficio del dubbio.
«Ti
dispiace se…». Lasciò in sospeso la
frase, indicando il vassoio, al
che feci un cenno affermativo, assicurandogli che non mi creava nessun
fastidio, e lo guardai spezzare una brioche a metà che
avrebbe dovuto
rappresentare la mia colazione, iniziando a mangiare il primo pezzo con
gusto e
appetito.
Repressi
un brivido di disgusto e rabbia. Perché a lui risultava
così
semplice mettere in bocca quella schifezza e a me no? Possibile che
fosse così
difficile?
«Come
mai non l’hai nemmeno toccato? Non ti piace come
cucinano?»
domandò a bocca piena.
Ci
riflettei per un attimo, indeciso se rispondere o meno e intento a
studiare quella sua espressione mezza inebetita e mezza interrogativa
che aveva
assunto nel rivolgermi quella domanda. Guardarlo mangiare con
quell’aria inaspettatamente tranquilla,
quasi
soddisfatta di aver trovato lo spuntino pronto, con quei capelli
disastrati e
innaturalmente rossi era quasi, come dire…
Non
so proprio come descriverlo questo idiota,
pensai
divertito.
«Non
avevo fame» risposi infine, restando sinceramente stupito
quando
scoppiò a ridere subito dopo, mentre tutto il resto del
mondo avrebbe tentato
di incitarmi a mettere qualcosa sotto ai denti e a non lasciarmi morire
in quel
modo così misero e irrispettoso nei confronti del mio
organismo. Alla fine,
nonostante io ci provassi, non capivano mai quello che spiegavo loro.
Non era
vero che non mi rispettavo, anzi, io amavo il corpo umano,
l’anatomia, i vasi
sanguigni e tutta la complessità di ogni essere vivente;
tutti quei muscoli
così delicati e facili da distruggere, tutti quei
collegamenti perfetti e
intricati. Non per niente approfittavo del tempo che passavo in
ospedale per
studiare da vicino ogni caso contorto, rubando le cartelle cliniche dei
pazienti e imparando molte più cose lì che
all’università. Io amavo la
medicina, amavo la vita che scorreva nelle vene, davvero, solo ritenevo
che ci
fossero cose più importanti a cui prestare attenzione,
bisogni molto più
necessari oltre al dormire e al nutrirsi. Per andare avanti mi bastava
poco,
giusto qualcosa una volta ogni due giorni, magari anche tre e
dell’acqua. Se mi
sentivo motivato mangiavo addirittura un pasto completo, anche se poi
ne facevo
a meno per troppo tempo, fino a che non mi sentivo mancare e svenivo in
mezzo
ai corridoio, allarmando Penguin e tutto il personale. Ma, sul serio,
non mi
serviva, stavo bene e potevo farcela, lo sapevo. C’erano cose
più importanti,
come la mia sete di conoscenza e la mia voglia di imparare. Peccato
che, fino a
che non mi avessero ritenuto guarito e mentalmente stabile, non avrei
potuto
riprendere i corsi. Questo, all’inizio, aveva rappresentato
un motivo per
decidermi a mangiare quella roba inutile, ma alla fine avevo capito
che, se
rimanevo tra quelle quattro mura, licenza di chirurgo o meno, avrei
comunque
imparato e assimilato più informazioni di quanto avessi mai
potuto sperare.
Perciò, che senso aveva curarsi, se stavo bene?
«Sei
un coglione» disse invece Eustass-ya, scuotendo il capo e
continuando a mangiare tranquillo, ridacchiando ogni tanto tra
sé e sé e
innervosendomi.
«Cosa
vorresti insinuare?» chiesi guardingo, fulminandolo con lo
sguardo
e sperando che gli andasse di traverso il boccone.
«Quello
che ho detto: che sei un coglione. Ho capito che sei anoressico,
non sono così ignorante, quindi puoi anche dirmelo che sei
terrorizzato dal
cibo».
Forse
fu la consapevolezza di sapere che mi aveva capito meglio di chiunque
altro, forse fu il tono derisorio e saputello con cui parlò,
forse fu
semplicemente il mio orgoglio o la pretesa di non farmi mettere i piedi
in
testa da uno come lui, in ogni caso scattai in piedi, guardandolo
dall’alto in
basso e digrignando i denti davanti alla sua espressione compiaciuta e
vittoriosa. Sapeva di aver toccato i tasti giusti e la mia reazione
l’aveva
soddisfatto oltre ogni limite.
«Io
posso mangiare quando voglio, solo che non lo faccio»
dichiarai, più
per dimostrargli che aveva torto che per verità. In effetti
quella mia
affermazione era una balla colossale e lui, purtroppo, lo sapeva
benissimo.
«Allora
fallo» fece con aria innocente, spingendo verso di me il
piattino con la metà restante della brioche integrale,
«Mangia. Dimostrami che
hai ragione» mi sfidò, ghignando e incrociando le
braccia al petto. Per un
attimo ebbi la tentazione di uscire dalla stanza, dimenticandomi di lui
e
ignorando quella sua provocazione, ma fu più forte di me e
il desiderio di
contraddirlo vinse, obbligandomi a sedermi di fronte a lui e a mettere
le mani
su quella pasta, staccandone un pezzetto e portandomelo alle labbra
lentamente.
Tentennai un istante, mordendomi l’interno di una guancia e
prendendo tempo,
studiato attentamente dagli occhi di Eustass che non mi abbandonarono
un
istante, sfidandomi chiaramente ad andare fino infondo.
Deglutii
a fatica, abbassando le palpebre e addentando la colazione che
avevo volutamente saltato, alternando smorfie di disgusto a respiri
profondi.
Nonostante tutto, masticai e ingoiai, rivolgendogli un ghigno altezzoso
e
gongolando davanti a lui.
«Non
male, ma scommetto che non la finisci» mi sfotté
con un’alzata di
spalle e sbadigliando annoiato. Non tollerai quel suo comportamento,
solo io mi
potevo permettere di giocare con i guai degli altri e non gli avrei mai
regalato la vittoria senza prima combattere. Avrebbe pagato quella sua
insolenza, poco ma sicuro.
Così,
animato dalla rabbia, finii la brioche, addentai una mela e
prosciugai addirittura il bicchiere con la spremuta abbandonato poco
lontano
senza staccare un attimo gli occhi dai suoi e fulminandolo con lo
sguardo
quando finii quella tortura che, per la cronaca, per lui doveva essere
stata un
vero spettacolo.
«Hai
altro da ribattere?» sibilai, fissandolo con astio malcelato.
Non
era una novità, entrambi ci odiavamo.
Un
sorrisetto canzonatorio apparve sulle sue labbra, dopo di che si
alzò
con calma, spolverandosi distrattamente i pantaloni della tuta e
aggirando il
tavolo per avvicinarsi a me. Credevo che volesse superarmi e riprendere
a
curiosare in giro per evitare battutine sulla sconfitta che aveva
appena
subito, perché la sfida l’avevo vinta io,
quando invece me lo ritrovai chinato su di me, una mano sullo schienale
della
mia sedia e l’altra sul ripiano vicino al vassoio
miracolosamente quasi vuoto.
«Per
oggi no» ammise ghignando, «Ma ora ammettilo, sono
riuscito a farti
magiare più io con i miei metodi che i medici di questo
posto».
La
sua osservazione fu uno schiaffo in piena faccia, comprese le parole
che seguirono. Certo che quel bastardo non era per niente
così stupido come
credevo.
Si
abbassò ulteriormente, sfiorandomi il naso con il suo e
causandomi
una scarica elettrica lungo la spina dorsale che mascherai
magistralmente,
«Dimmi un po’: non
vorresti baciarmi?».
Sorrisi
involontariamente. Che razza di moccioso impertinente.
«Non così in fretta,
Eustass-ya» lo citai, sapendo benissimo come sarebbe andata a
finire.
Uno
scappellotto sulla nuca, però, non era quello che mi ero
aspettato
in quell’attimo così maledettamente eccitante.
Quando
aprii bocca per insultarlo se ne stava già andando,
sghignazzando
per avermi fregato.
«Perché?»
gli chiesi allora, fermandolo sulla soglia e costringendolo a
voltarsi per rispondermi. Non ero arrabbiato, solo curioso. A lui cosa
importava se non mangiavo e se andavo avanti a furia di flebo e
pastiglie?
«Faccio
quello che fai tu: ti
do un motivo per combattere».
Angolo
Autrice.
L’ho
finito, l’ho finito! Tardi, come sempre, ma ce l’ho
fatta!
Applausi, sono una donna di parola. No, non è vero, sono
dannatamente
ritardataria, ma comprendetemi, questa cosa è un parto,
davvero. Attenzione a
non sbagliare i termini, a non esagerare con gli incidenti, a metterci
dentro
un po’ di allegria, pensare alle vite alternative dei
protagonisti, decidere i
diversi punti di vista, sclerare male. Ah, che disastro! Spero almeno
che ne
valga la pena e che la storia vi piaccia, sul serio ^^
Oggi
arriva Killer, per la gioia dei suoi fan! Per lui si è
trattato di
un giorno importante, l’inizio della riabilitazione dopo
essere stato fermo a
lungo. Ho immaginato che non avesse potuto ottenere subito dei
risultati e, per
calmare la sua rabbia e il suo disappunto, ho pensato di aprirgli gli
occhi
inserendo Penguin che, ammettiamolo, si è comportato da vero
adulto. Non so
voi, ma ho adorato tanto il suo gesto di scoprirsi la gamba mutilata.
Cioè, ci
vuole coraggio a fare una cosa del genere, inoltre lui la teneva ben
nascosta
dai pantaloni del pigiama, quindi si presume che, anche se è
sempre allegro,
meno pensa alla sua condizione, meglio sta. Vi ho anche raccontato come
è
finito in sedia a rotelle, so che alcuni di voi adorano il pairing
Penguin/Shachi quindi, anche se qui avremo una Pen/Killer (sono
fissata), ho
voluto descrivere lo stesso il rapporto dell’altra coppia
come una bella
amicizia.
Come
vi sono sembrati i due oggi? Penguin, oltre ad essere lo scemo del
villaggio, ha anche il suo lato serio e determinato, mentre Kira-chan
ha avuto
un po’ la parte della donna col ciclo povero :D
Passiamo
a colui che ha rischiato di farmi deprimere sul serio.
Ultimamente sto facendo penare Ace e Marco, ma chi mi conosce bene sa
che li
amo alla follia e che non potrei MAI essere troppo crudele con la loro
sorte.
Ad ogni modo ecco come se la passa Ace e cosa gli è capitato
per finire in
coma. Vuoi una botta in testa, vuoi le ustioni, vuoi chissà
cosa, adesso si
ritrova in un letto d’ospedale ad aspettare un miracolo.
Allora,
delucidazioni sul tragico accaduto: Barbabianca (il babbo)
gestisce due orfanotrofi, di cui uno ha preso fuoco per questo
temporale, fili
elettrici scoperti, tende, legno, fuoco e si, ho fatto un casino, ma la
dentro
era impossibile far sì che dei ragazzini fumassero e si
dimenticassero le
sigarette accese in giro, e che cazzo u.u
A
parte l’azzardo del brutto tempo, io spero vivamente che il
rapporto
tra i due ragazzi sia uscito bene perché ci ho passato mezza
serata a
scriverlo. Ace si è innamorato, caro, piccolo mio, e
come biasimarlo! Inconsciamente
e senza rendersene conto, durante una scaramuccia, bacia Marco e questo
reagisce in modo sbagliato. Certo, immaginate: vostro fratello viene la
e vi
bacia. Cioè, un trauma. Dietro poi c’è
tutto il discorso dell’essere stati
addottati, ma subito i due non ci pensano e mettono in primo piano i
problemi
che possono derivare da quel contatto. Che poi Marco abbia fatto il
coglione è
un altro discorso. Fatto sta che decide di confessare a Ace i suoi non
ancora chiari e definiti sentimenti, scombussolandolo e
facendogli così più
male di quanto crede. Ora, qualcuno potrebbe rimanere perplesso, quindi
vi
spiego il perché della reazione di Ace: voi siete in come e
non potete fare niente.
L’ultima volta che avete parlato
con la persona che amate questa vi ha respinti e non potete fare altro
che
accontentarvi del suo supporto e della sua presenza accanto a voi
durante il
ricovero. Questa si scusa mille volte e la colpa può essere
anche di entrambi,
ma ad un certo punto passa anche in secondo piano. Come potete
sopportare di
sentirvi dire che anche lei vi corrisponde? Dopo che vi ha sbattuto in
faccia
l’impossibilità di una relazione e dopo mesi di
infermità? Insomma, Marco dice
a Ace che non avrebbe dovuto respingerlo, quando invece l’ha
fatto. Il moro non
gli aveva dato nessuna colpa, figuriamoci, e Marco aveva fatto
altrettanto, ma
dichiarandosi ha complicato le cose. Ace, per quanto lo desideri, non
può farci
niente. Non può gioire, non può alzarsi e, come
dice, non può baciarlo. Non può
ricambiarlo, non più. Marco ha perso la sua occasione e
questo a Ace fa
tremendamente male perché si sente quasi inutile. Oltre alla
paura che tutto
ciò sia dettato dal senso di colpa. Spero di essermi
spiegata.
Poi
arriva Law e qui apriti cielo. Ecco cos’ha lui che non va:
non
mangia.
Chi
l’aveva creduto anoressico si mangi un biscotto, aveva
indovinato. Certo,
magro come non so cosa, fermo all’ospedale, mucchio
d’ossa, la cosa era ovvia e
per i tragici no, non li faccio venire un cancro! Non ce la faccio,
avrei
voluto, ma farlo lottare contro la morte a furia di chemioterapie e
roba varia
non me la sentivo, inoltre la storia si sarebbe allungata e conto di
non
tirarla per le lunghe. Sempre se non ci prendo la mano, LOL.
Ditemi
voi, cosa ne pensate del metodo di Kidd? Sfidare Trafalgar,
facendo leva sul suo orgoglio, per obbligarlo, anzi, convincerlo a
mangiare. mi
sembra molto scaltro da parte sua, infatti ci riesce e, per concludere,
cita due
frasi fatte da Law nel capitolo precedente, ovvero una in ascensore e
l’ultima
per spronarlo a non lasciarsi andare come aveva fatto lui quando
Eustass aveva
avuto quel mancamento.
E
ora, se permettete, chiudo perché sono morta. Spero vi sia
piaciuto,
davvero, perché è stato uno dei capitoli
più difficili che abbia mai scritto. Portate
pazienza, ho ancora tanto da imparare. In ogni caso, accetto qualsiasi
critica
o consiglio costruttivo ^^
Grazie
come sempre a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori e restate
sintonizzati.
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4. ***
Braccialetti
Rossi-Io non ho finito:
http://www.youtube.com/watch?v=a0Uu4bGejaM
Capitolo
4.
«Vedi
la vita è una piuma, si balla e si trema
amore mio. Oh oh, oh oh. Io non ho finito».
«Vorresti
smetterla? Mi sta venendo il mal di testa».
«Non
sono per niente vicino a un addio. Non essere triste, amore mio».
«Penguin».
«Va
bene, va bene, la smetto. Andiamo a fare colazione? Ho detto agli
altri che ci saremo trovati giù alla caffetteria. Dai,
muoviti Law!».
Odiavo
che la gente, soprattutto i mocciosetti, mi si aggrappasse
letteralmente alle braccia per convincermi a fare qualcosa che non
avrei mai e
poi mai acconsentito a fare, ma si trattava di Penguin e ciò
influiva
leggermente sulla rigidità delle mie decisioni.
Così, sbuffando sonoramente per
evidenziare il mio malcontento, mi lasciai trascinare per una manica
della
felpa lungo il corridoio, mettendo il broncio e alzando gli occhi al
cielo. Era
inutile, ma a quel piccoletto non riuscivo proprio a dire di no e come
riuscisse sempre a convincermi a fare quello che voleva davvero non mi
era
chiaro. Era persino riuscito ad infinocchiarmi con
quell’assurda storia di
creare un gruppo dove tutti si sarebbero voluti bene e aiutati a
vicenda. L’avevo
assecondato e avevo preso il comando. fino a quando eravamo stati solo
lui ed
io per un po’ era andata bene, dargli ordini era uno spasso,
ma da quando si
erano uniti a noi altre persone le cose non solo erano cambiate, ma
addirittura
migliorate! Si trattava per lo più di idioti, anzi, forse di
idiota ce nera
solo uno, infatti il diretto
interessato credeva davvero di avere il controllo supremo sul gruppo,
ma non si
era ancora accorto che, da dietro le quinte, ero io a manovrare
l’intera
baracca. Povero stolto con i capelli rossi, raggirarlo era troppo
facile e
divertente. Per quanto riguardava gli altri, invece, erano abbastanza a
posto a
detta mia. Killer-ya mi lasciava ancora un po’ basito per il
suo stile di vita
spericolato, ma apprezzavo la sua infinita pazienza e il carattere
silenzioso e
asociale. Del ragazzo in coma, poi, non mi potevo lamentare. Era il mio
preferito, intendiamoci, non disturbava mai e non dava nessun tipo di
problema.
Forse ero indelicato, ma la sua condizione era una benedizione per i
miei
nervi. Marco-ya sembrava tranquillo, cattivo umore a parte, sembrava
sempre sul
punto di scattare da un momento all’altro e lui e Kidd si
contendevano il
primato per l’arroganza.
«Ci
sarà anche Eustass-ya?» chiesi ad un certo punto.
«L’ha
deciso lui di fare colazione assieme a noi».
Ci
guardammo in silenzio perplessi per qualche istante, assimilando
entrambi l’informazione ed elaborando bene cosa significava
quella frase.
Successivamente sul mio volto apparve un ghigno poco elegante, mentre
Penguin
faceva di tutto per contenere le risate in modo da non attirare troppo
l’attenzione
degli infermieri. Si era reso conto pure lui
dell’assurdità che aveva appena
detto.
«Sul
serio, lui che decide di
fare una cosa così poco virile?» feci con
sarcasmo, iniziando ad incamminarmi
verso gli ascensori. Niente più scale dopo
l’ultimo incidente.
«Mi
sono stupito pure io, ma non si discutono gli ordini del
leader»
fece convinto, premendo il bottone del piano terra e rilassandosi sulla
sedia a
rotelle.
Decisi
di ignorare quel suo commento e attesi che il viaggio in
ascensore finisse, spingendo fuori Penguin quando le porte si aprirono
e, senza
bisogno di dire nulla e dandogli modo di riposare le braccia, lo guidai
per il
resto del tragitto fino al bar dell’ospedale, quello
più carino dove, ogni
volta che ci andavamo, non ci facevano pagare il prezzo pieno. Non che
io
avessi bisogno di prendere qualcosa. Ad ogni modo non era un ambiente
così
ostile e notai con piacere che quelli che erano già arrivati
avevano preso
posto accanto alle finestre. Poco importava che avessi dovuto litigare
con uno in
particolare di loro per accaparrarmi il posto al sole.
«Buongiorno
a tutti!» fece il ragazzino in carrozzella, salutando i
presenti con un sorriso grande da un orecchio all’altro che
mise piuttosto in
imbarazzo Eustass-ya e Killer, presi alla sprovvista dal suo buonumore.
Alla
fine, però, non ebbero abbastanza sfrontatezza di
rispondergli con insulti e si
limitarono a sventolare la mano con un lieve cenno del capo sotto il
mio
sguardo divertito. Che carini, non avevano avuto cuore di infrangere
l’allegria
del piccoletto. Allora non erano così bastardi e crudeli
come credevo.
Marco,
invece, sempre con quei capelli che mi imponevo di non guardare
per non risultare offensivo o sfrontato, non si fece problemi a
mostrarsi
amichevole e si spostò per farci spazio, chiedendoci come
stessimo e se fosse
tutto a posto. Alla fine non dovetti fare a botte con nessuno per il
posto a
sedere perché il biondo mi lasciò il suo,
esattamente sotto i raggi caldi di
quella giornata, Eustass Kidd accanto a parte. Tra tutti, era stato il
più
gentile, ma non si poteva subito pretendere troppo dal resto del gruppo.
«Stiamo
benissimo!» attaccò Penguin, «E ho una
bellissima notizia da
darvi: stanotte ci saranno i fuochi d’artificio, quindi tutti
sul tetto a
vederli!».
A
qualcuno andò di traverso la colazione e un’onda
anomala di caffè
investì la superficie del tavolo.
«Killer-ya,
vuoi forse annegarci?» domandai cinico, inarcando un
sopracciglio e fissandolo storto. Avevo notato che, per qualche strana
ragione,
lo intimidivo. Infatti mi dovetti trattenere dal ridere quando
abbassò il capo
mortificato, borbottando delle scuse sommesse e iniziando ad asciugare
con le
salviette di carta.
«Stronzate»
esordì a quel punto Kidd con la sua solita finezza,
«Perché
dovremo andare a vederli? E’ roba da poppanti».
«Anche
ritrovarsi a fare tutti colazione assieme come se fossimo amici
per la pelle lo è, eppure lo stiamo facendo». Fu
più forte di me quella
frecciatina e non riuscii proprio a starmene zitto. La faccia burbera
che mi si
piazzò davanti, poi, mi fece ghignare come non mai per la
soddisfazione di aver
toccato il punto giusto.
Come
di consuetudine gli altri presero ad ignorarci, sapendo già
che
avremo continuato a bisticciare tra noi per un bel po’. Era
diventata una
specie di routine: andava bene per i primi dieci minuti, ci
sopportavamo e ci
comportavamo civilmente, ma poi tutto degenerava. E la colpa, ne ero
certo, era
solo sua. Mi rendeva impossibile
fare
finta di niente quando dalla sua boccaccia uscivano solo ed unicamente
sciocchezze, insomma, riprenderlo e sfotterlo era più forte
di me, ma si poteva
anche dire che mi offriva le battute su un piatto d’argento.
Se non l’avessi
inquadrato come idiota montato, probabilmente avrei sospettato che lo
facesse a
posta per stuzzicarmi. Tutto ciò era impensabile, comunque,
perciò avevo
semplicemente dedotto che il suo problema non fosse di origine
cardiaca, ma
mentale. Eustass-ya era un completo deficiente.
Restammo
a fissarci per qualche minuto in una di quelle sfide silenziose
a colpi di occhiate malefiche e minacciose. Ero deciso a non cedere e
avrei
potuto benissimo continuare a sondare le sfumature di quelle iridi di
un colore
improponibile come quello dei suoi capelli, quando notai un sorrisetto
calcolatore farsi strada sulle sue labbra, seguito da
un’espressione che aveva
un che di strategico, segno che stava mettendo in moto quel cervello
bacato che
si ritrovava. Le sue idee, però, non erano mai buone come
credeva.
«A
proposito di colazione» iniziò a dire, mettendomi
davanti un piattino
con una brioche troppo grande per i miei gusti, «Non hai
ancora mangiato nulla»
mi fece notare.
Guardando
schifato quella cosa ricoperta di cioccolato mi uscì un
lamento che avrei preferito tenere per me così, fregandomene
degli sguardi
sorpresi e speranzosi di Penguin e Marco, i quali, da quando avevano
preso a
fare comunella, non la smettevano di assillarmi con la storia del cibo,
nonché
quelli curiosi di Killer-ya. Allontanai il piatto con una smorfia: non
avevo la
minima intenzione di mangiarla e non avevo affatto fame. Se proprio
dovevo
preferivo un frutto a quella roba piena di grassi e calorie.
«Sono
a posto così, grazie del pensiero» mormorai atono,
guardando
altrove.
Con
la coda dell’occhio lo vidi annuire, mentre riavvicinava a me
la
colazione, prendendo la brioche e dividendola a metà.
Iniziò a mangiucchiare il
primo pezzo, porgendomi l’altro. Che diavolo aveva in mente
di fare?
«Forza,
mangia».
Incrociai
le braccia al petto e lo guardai ostile. «Non darmi
ordini»
sibilai, facendogli alzare gli occhi al cielo. Quello che
più mi infastidiva
era il silenzio che era calato attorno a noi: praticamente sei occhi
puntati
addosso!
«Un
po’ per ciascuno, mi sembra equo. Non vorrai mica tirarti
indietro,
vero?» mi sfotté con aria altezzosa, «Ti
facevo meno debole».
Gli
tolsi dalle mani quell’insulso dolce e lo finii in pochi
bocconi,
sfidandolo con lo sguardo a ripetere quello che aveva detto, se ne
aveva il
coraggio. Non doveva nemmeno lontanamente pensare di avercela vinta con
me,
perché aveva perso in partenza. Non gli avrei permesso di
superarmi,
assolutamente, e la scommessa che avevamo fatto l’avrei
sicuramente vinta io,
anche se ciò avesse significato mangiare tre pasti al giorno.
«Non
ci credo» sussurrò Penguin. Mi sbagliavo, o aveva
davvero le
lacrime agli occhi? «Sei riuscito a farlo mangiare».
«E
non è la prima volta» sogghignò Kidd,
guardandomi in modo complice e
facendomi intendere che da lì in poi avrei dovuto spiegare
io tutta la
situazione ai nostri amici, o meglio, compagni di sventure. Forse, a
pensarci
bene, solo conoscenti.
«Va
avanti da un paio di settimane» borbottai controvoglia e solo
per
mettere a tacere quell’ossesso che aveva preso a farmi
domande su domande,
pretendendo delle risposte esaurienti, «Eustass-ya
è così gentile da
presentarsi da me a colazione, pranzo e cena per farmi
mettere qualcosa sotto ai denti. E’ così nobile
da parte sua». La dose di veleno che misi nelle parole era
puramente casuale,
ovviamente.
Quello
che accadde dopo avrei preferito non vederlo, ma ero incastrato
tra Kidd e Penguin, per cui fui costretto a restarmene seduto e ad
ascoltare i
ringraziamenti che il tizio in sedia a rotelle fece
all’altro. Se non fosse
stato invalido, probabilmente si sarebbe inginocchiato davanti al suo
cospetto.
Ciò non fece affatto bene all’ego già
troppo smisurato del caro Eustass, perché
iniziò a vantarsi di essere il migliore, assicurando che
nessuno gli resisteva
e accompagnando il tutto con una grossa risata isterica che mi
infastidì non
poco. Era meglio rimetterlo subito in riga prima che si esaltasse
troppo.
«Ehi,
Cuor Leggero, vacci
piano. Non vorrai rischiare un collasso, spero».
«Tappati
quella boccaccia, Trafalgar!» si irritò,
digrignando i denti.
«Calmati,
o ti salirà la pressione». Che infantile.
«Parla
quello che ha bisogno di me per nutrirsi!».
«Io
posso mangiare quando voglio!». E, nell’affermare
ciò, misi in bocca
pure il muffin che Marco aveva ordinato, finendolo tutto e da solo.
«Visto?».
«Ma
bravo! Vuoi un applauso adesso?». Eustass-ya, per tanto,
sembrava starsi
divertendo un mondo, mentre io ero troppo impegnato a fargli rimangiare
ogni
singola parola che mi stava rivolgendo. Nessuno più di lui
riusciva a farmi
prudere le mani e se solo avessi potuto l’avrei riempito di
pugni.
«Già
che ci sei sbatti anche la tua testaccia addosso al muro. Sarebbe
una goduria» mi premurai di precisare con un sorriso beffardo
sulle labbra. Sotto,
sotto, però, anche se lo nascondevo piuttosto bene, anche a
me quei battibecchi
piacevano, ma solo perché mi davano modo di vederlo perdere
le staffe quando lo
mettevo alle strette, sia chiaro.
«Trafalgar»
mi richiamò.
«Che
vuoi?».
«Potresti
lasciarmi andare la mia maglia? Sai, la gente ci fissa». E
sorrise come se niente fosse, mentre io mi rendevo conto che,
inconsciamente,
la mia mano era corsa a stringergli il colletto e che, attorno a noi,
clienti e
pazienti facevano finta di nulla, mormorando comunque e guardandoci
incuriositi. A proposito, che fine avevano fatto Penguin, Killer e
Marco?
Non
volendo ammettere di essermi fatto prendere dal momento, tornai a
fissarlo, alzando un po’ il capo visto e considerato che era
più alto di me e
rispondendo con un sorriso che di amichevole non aveva proprio niente,
come il
suo del resto. Sembravano più i ghigni di due animali
feroci, pronti ad
azzannarsi alla gola al primo cenno di distrazione da parte
dell’altro.
«Ti
vergogni, Eustass-ya?» gli chiesi malizioso.
«Io
non di certo, dovresti saperlo» chiarì con
un’alzata di spalle. Ero
curioso di vedere fino a che punto si sarebbe spinto in quella
situazione così
nuova e strana. Perché era strano essere così
vicini senza prendersi a
schiaffi.
«Dì
un po’…» iniziai, lasciando in sospeso
la frase e capendo dal suo
sguardo che aveva intuito benissimo dove volevo andare a parare.
«Non
vorresti baciarmi?» mi precedette, concludendo prima di me e
sentendosi soddisfatto per aver posto la domanda, mettendomi
così nella
condizione di dovergli dare una risposta che avrebbe significato
ammettere che
si, maledizione!, avevo una voglia
fottuta di baciarlo. Ma no, non gliel’avrei resa
così facile come sperava.
Lasciai
andare la presa su di lui, guardandolo con sufficienza,
«No»
sillabai vittorioso.
Era
un mese e mezzo che quel giochetto andava avanti. Dopo quel misero
attimo che ci eravamo ritagliati in ascensore non era più
successo che ci
ritrovassimo ad essere così vicini, ma aveva dato inizio ad
una gara all’ultimo
sangue. Oltre a mantenerci in vita dovevamo pure guardarci le spalle e
stare
attenti a non venire sopraffatti dall’altro.
Perché, se io non volevo cedere,
nemmeno lui era intenzionato a farsi sottomettere da me. Per cui
continuavamo a
farci la guerra, approfittando di ogni occasione per metterci alle
strette e
vedere chi dei due avrebbe ceduto per primo. Inutile dire che, fino ad
allora,
nessuno ne era uscito vincitore. Al diavolo, non riuscivo a credere che
un
moccioso avesse così tanta influenza su di me.
«La
prossima volta non ti andrà così bene»
mi avvisò, alzandosi per
andare a pagare. Lo imitai, aspettandolo poi all’uscita della
caffetteria e
affiancandolo verso la via del ritorno. Dovevamo trovare quei tre
idioti che
erano spariti senza avvisare. Avevano preso a farlo un po’
troppo spesso per i
miei gusti.
«Eustass-ya,
tu dici che lo facciano di proposito?».
«Cosa?».
«Lasciarci
da soli».
Si
strinse nelle spalle, mordendosi le labbra per l’indecisione.
Forse non
ne aveva la minima idea nemmeno lui. «Uhm, secondo me non
riescono a sopportare
la tensione» dichiarò infine.
«Quale
tensione?» chiesi stranito.
«Lo
sai, quella tensione»
disse con malizia guardandomi dall’alto della sua stazza e,
dandomi una lieve
spallata per coinvolgermi, beccandosi un’occhiata che dire
sarcastica era dire
poco. Sperai che non si stesse veramente riferendo alla tensione di
tipo sessuale, perché
aveva toppato in pieno.
«Eustass-ya»
sbuffai esasperato, «Fammi un piacere: piantala con le
cazzate».
Tutto
quello che volevo era camminare affianco a lui in silenzio e senza
venire disturbato. Era chiedere troppo?
Un’altra
spallata, questa volta più forte, mi fece barcollare e,
quando
mi voltai con l’intento di uccidere il mio aggressore, lo
vidi già in fondo al
corridoio, intendo a sfottermi dicendo che non l’avrei mai
raggiunto. Poi
quello infantile era Penguin.
Razza
di idiota.
*
«Marco,
scusa la franchezza, ma non sono per niente d’accordo con te.
Certo, l’hai fatto con le migliori intenzioni e volergli far
sapere quello che
provi per lui è stato molto, ehm, carino
da parte tua. Killer, smettila di ridacchiare, non sei
simpatico… Cosa? Vedi di
smetterla o racconterò a tutti del tuo primo giorno di
riabilitazione. Ecco,
molto meglio. Dicevo: Ace non si sveglia da otto mesi ormai e sei stato
piuttosto egoista nel sbattergli in faccia la verità.
Insomma, cosa hai
risolto? Lui è ancora in coma e tu hai ancora i tuoi sensi
di colpa. Certo, ora
sa che non lo odi come credeva, ma secondo me, e anche secondo lui,
così è
peggio. Crede che tu gli abbia detto tutte quelle cose solo per
toglierti un
peso dal petto. So che non è così, ma per una
persona che non può alzarsi dal
letto e prenderti a schiaffi è difficile capirlo».
Sospirai
amareggiato. Penguin aveva ragione, ero stato un completo
idiota e non avevo fatto altro che scaricare su Ace tutte le mie
preoccupazioni, come se lui non ne avesse avute già
abbastanza. Ero stato un
egoista e un insensibile.
«Volevo
solo che sapesse che anche io, insomma… che
lui…».
«Ti
capisco, davvero. Io sbavo dietro a Killer dal primo giorno che
l’ho
visto ridotto ad un ammasso di bende e gessi, ma ancora non ho ottenuto
neanche
un appuntamento» mi confessò il ragazzino,
parlando tranquillamente e con
disinvoltura, incurante del fatto che la persona di cui era innamorato
gli
stava seduta accanto e lo stava guardando con gli occhi sgranati e la
bocca
aperta per lo stupore. Tutto ciò mi strappò un
piccolo sorriso. A volte avrei
tanto voluto avere il suo coraggio e la sua allegria. E
perché no, magari anche
un po’ di quella forza d’animo che tanto gli
invidiavo.
«Ma
sai cosa? Devi solo avere pazienza. Io, ad esempio, sono
convintissimo che alla fine riuscirò a portarmelo a
letto».
«Come
si è fatto tardi! Devo andare a cenare, ci vediamo dopo sul
tetto.
Ciao!». Fu così che, con un certo imbarazzo
malcelato, Killer si volatilizzò il
più in fretta possibile, per quanto il suo unico braccio
sano potesse essere
veloce nel guidare la sedia a rotelle lontano da noi, lasciando dietro
di sé un
Penguin piuttosto soddisfatto e ghignante. A volte era davvero troppo
simile al
suo compagno, Law.
«Non
hai paura di spaventarlo?» gli chiesi curioso. Al suo posto
non
avrei mai agito in un modo tanto schietto e diretto. Infatti avevo
dovuto
rischiare di perdere il mio migliore amico prima di accorgermi di
ciò che
provavo ed erano passati otto mesi prima che mi decidessi ad accettarlo.
Alzò
le spalle con indifferenza, «Ce l’ho in pugno
ormai, è questione di
tempo. Comunque alla tua domanda rispondo: no, non ho paura. Io sono
fatto così
ed è meglio che si innamori di come sono, piuttosto che di
un’illusione. Sei
d’accordo?».
Sbattei
le palpebre con sorpresa. Non mi aspettavo di certo che un
ragazzo giovane come lui potesse essere tanto saggio e intelligente.
Certo, le
sue trovate e il suo comportamento lasciavano intendere altro,
sinceramente, ma
alla fine annuii, dandogli pienamente ragione.
«Ora
vado, voglio proprio vedere come Kidd convince Law a mangiare. Io
ho sempre fallito e non ti dico gli infarti che ho rischiato quando lo
vedevo
svenire per la stanchezza! Ci vediamo dopo e sii puntuale!».
«Si,
contaci» risposi, salutandolo con la mano e guardandolo
uscire
dalla mia stanza. Di lì a poco sarebbero arrivati gli
infermieri con il pasto
serale che tanto detestavo e poi li avrei rivisti. Solo un paio
d’ore mi
separavano dalla loro compagnia e ciò mi lasciò
addosso un senso di tristezza
infinito. In poche parole, da quando mi avevano fatto entrare in quel
gruppo,
che all’inizio credevo una sciocchezza, avevano completamente
stravolto le mie
giornate in modo positivo. Se prima la depressione mi assaliva dal
mattino alla
sera, costantemente, in quelle ultime settimane mi ero sentito molto
meglio,
soprattutto non ero più da solo e avevo meno tempo libero da
passare ripensando
alla disgrazia che mi era capitata. I problemi non erano scomparsi,
ovviamente,
ma avevo notato che sembravano meno difficili da superare e il fatto
che
Penguin riuscisse a comunicare, a sentire
Ace mi dava un grande sollievo. Almeno avevo la certezza che era ancora
con
noi, anche se dormiva.
A
proposito di lui, non lo vedevo da una settimana. Dopo che Pen-chan mi
aveva chiesto di lasciarlo in pace non avevo più avuto il
coraggio di tornare
da lui come avevo fatto ogni giorni da otto mesi a quella parte. Temevo
di
farlo stare ancora peggio e, se per aiutarlo era meglio che me ne
stessi in
disparte, allora l’avrei fatto, nonostante ciò mi
risultasse difficile e
dannatamente doloroso.
Era
il mio migliore amico, mio fratello ed ero abituato a passare ogni
ora di ogni giorno con lui alle calcagna. Quando,
all’orfanotrofio, gli dicevo
che ne avevo abbastanza della sua compagnia non era mai vero e,
puntualmente,
si faceva ancora più vicino per irritarmi, anche se alla
fine scoppiavamo a
ridere spensierati. Mi mancavano quei momenti, mi mancava tutto di lui.
Mi mancavano
le nottate con i nostri fratelli, mi mancava bisticciare con lui, mi
mancava
abbracciarlo e, anche se era successo solo una volta, anche se non
avevo avuto
modo di godermi il momento, mi mancavano le sue labbra. Ma dovevo
rassegnarmi
ad aspettare, Penguin aveva ragione. Non mi rimaneva altro da fare.
Dopo
cena mi infilai i primi abiti che trovai: una felpa pesante e un
paio di scarpe da ginnastica piuttosto usurate, ma andavano benissimo
per
passare una serata sul tetto. Non sapevo se avevamo il permesso per
farlo, ma a
nostro vantaggio avevamo l’età giusta: eravamo
tutti maggiorenni e se consideravamo
che io ero il più grande, praticamente un adulto, la
situazione non era poi
così pericolosa.
Dovevamo
trovarci tutti all’ultimo piano, il tredicesimo,
perciò fu più
forte di me schiacciare il bottone per i decimo piano, quello in cui si
trovava
Ace, per fermarmi a salutarlo. Non avevo dimenticato che lui amava i
fuochi
d’artificio e andarli a vedere senza di lui non sarebbe mai
stata la stessa
cosa, ma ero conscio del fatto che non potesse alzarsi,
perciò pensai che
passare dalle sue parti e scostargli le tende affinché
potesse in qualche modo vederli mi
sembrava un gesto carino.
Non
bussai prima di entrare, non lo facevo nemmeno quando vivevamo sotto
lo stesso tetto, ritrovandomi spesso davanti a scene comiche o
imbarazzanti.
Quei pensieri mi aiutarono a sorridere e con pochi passi raggiunsi il
suo
letto, ingoiando il groppo di tristezza che sentivo in gola ogni volta
che la
speranza di trovarlo sveglio si spezzava. E in otto mesi era successo
infinite
volte, ma non ci avevo ancora fatto l’abitudine.
«Ace?»
sussurrai a bassa voce, non sapendo bene se fosse sveglio o se
stesse proprio dormendo. Quel discorso per me era ancora un
po’ complicato, ma
se stava riposando non volevo disturbarlo, perciò mi limitai
a bisbigliare,
restandomene a debita distanza e non andando oltre come al solito.
Sapere che
l’avevo ferito più di quanto non avessi
già fatto quando l’avevo rifiutato mi
aveva fatto sentire un completo bastardo insensibile, nonché
immeritevole di
stargli accanto e fargli compagnia, ma non avevo intenzione di
ritirarmi del
tutto, assolutamente. Avevo capito che praticamente chiunque pensava
che i miei
sentimenti fossero dovuti dal senso di colpa e dalla voglia di scusarmi
e farmi
perdonare da lui, ma si sbagliavano, davvero. Se solo avessero saputo
cosa
provavo per lui; se solo avessi potuto dimostrarglielo.
Aspetta!
Un’idea
mi balenò in mente e, una volta afferrato il cellulare,
mandai
un messaggio veloce a Penguin, spiegandogli il piano e chiedendogli
gentilmente
di avvisare anche gli altri e sentire il parere di Kidd, il quale si
era
autoproclamato capo indiscusso, nonostante io preferissi seguire i
consigli di
Law. Lo trovavo più maturo e meno sprovveduto.
La
risposta positiva che ottenni mi fece tornare il buonumore e,
nell’attesa, mi misi all’opera, staccando i ganci
che collegavano il letto di
Ace al muro e coprendolo con alcune coperte che trovai infondo
all’armadio. Se
dovevo portarlo fuori all’aperto era meglio arrangiarsi in
modo che non
prendesse troppo freddo.
«Spero
tu sia sveglio» iniziai a dire con un tono un po’
più alto,
«Stiamo per uscire. Ti portiamo a vedere una bella cosa. Ti
piacerà, vedrai».
Ormai parlare con lui non mi sembrava più strano.
All’inizio forse mi metteva
un po’ a disagio, ma col tempo avevo imparato ad essere
speranzoso e a credere
che mi capisse. Penguin ne era stata la conferma e da allora, ogni
volta che mi
rivolgevo a lui, mi sentivo bene.
«Eccoci!
Hai avuto un’idea magnifica, Marco! Oh? Davvero?
Perché non gli
hai detto dove andiamo?». Vedere quel ragazzino con quel
buffo cappello parlare
con un paziente in coma sarebbe sembrato da pazzi a chiunque, ma ero
sempre più
convinto che lui, grazie alla sua semplicità e alla
spensieratezza con cui
vedeva il mondo, riuscisse a percepire cose che a me potevano solo
sembrare
impossibili. Infatti doveva aver appena parlato con Ace
perché intervallava
frasi a momenti di silenzio.
«Vorrei
che fosse una sorpresa» spiegai, chiedendo poi anche agli
altri
di non dire nulla e ringraziandoli quando mi assicurarono che avrebbero
mantenuto il segreto, sghignazzando e aiutandomi a spostare il letto
che,
grazie al cielo, era mobile in caso ci fossero state complicazioni e si
fosse
presentato il bisogno di spostarlo il prima possibile in sala
operatoria.
Killer
ci precedette in modo da controllare che non ci fosse nessuno in
giro. Quell’ala dell’ospedale, dove risiedevano i
pazienti in osservazione o in
coma, come lo era appunto Ace, era sempre poco controllata essendo
provvista di
allarmi collegati alla guardiola, così non fu un problema
raggiungere uno degli
ascensori adibiti per ospitare una barella o un letto. Penguin apriva
la
strada, seguito dall’altro ragazzo in sedia a rotelle che
ormai si muoveva
abbastanza velocemente anche con un solo braccio, mentre Law si era
accomodato
a gambe incrociate sul materasso accanto a Ace e controllava che
quest’ultimo
non cadesse. Kidd e io, invece, spingevamo il pacco completo essendo i
più
robusti.
«Eustass-ya,
attento al cuore» lo beccò ad un certo punto il
moro,
ghignando apertamente e scambiando con me un’occhiata
complice alla ricerca del
mio supporto. Non volendo incappare nelle ire del rosso,
però, mi limitai solo
a sorridere mestamente, così che solo lui riuscisse a
vedermi.
«Il
tredicesimo piano è abbastanza alto per buttarti
giù o sei immortale
come il Diavolo?» ribatté l’altro
acidamente proprio quando ci infilavamo
nell’ascensore.
A
parte qualche incidente di percorso, raggiungemmo il tetto senza dover
essere costretti a tornare indietro. Spostare un paziente senza
permesso non
era possibile, ma Ace era rimasto in quella stanza troppo a lungo.
Un’uscita
all’aperto se la meritava e non me lo sarei mai perdonato se
avessi avuto
l’occasione di vedere i fuochi d’artificio da solo,
sapendolo chiuso dentro
all’ospedale.
«Qui
è perfetto! Dovrebbero iniziare tra poco». Come
Penguin fosse
venuto a conoscenza di quello spettacolo pirotecnico ancora non mi era
chiaro,
ma l’importante era essere riusciti ad arrivare in tempo,
così sistemammo il
letto in modo che fosse rivolto verso il giardino che confinava con
l’ospedale,
sistemandoci poi accanto ad esso e formando un semicerchio.
Killer
e Penguin erano già comodi sulle loro carrozzine, mentre io
mi
sedetti sul bordo del lettino, sistemando i cuscini di Ace e
sollevandogli la
schiena aiutato da Law, il quale poi rimase in piedi a fissare il
panorama
davanti a lui. Dato che avevo avuto modo di conoscerli meglio e di
farmi
un’idea sul loro carattere, non mi stupii quando vidi Kidd
accostarsi a lui per
iniziare a battibeccare l’istante dopo. Non sarebbe stato
educato dirglielo, ma
dovetti almeno ammettere che mi divertiva molto vederli bisticciare.
«Ragazzi,
finché aspettiamo che ne dite di raccontarmi qualcosa sulla
vostra vita? A parte Law e le informazioni di base che abbiamo letto
sulle
vostre cartelle cliniche, io non so molto altro su di voi».
«Cos’è
che hai fatto?».
«Non
ti agitare, Killer-ya, Penguin non è uno stalker a discapito
di
quello che puoi pensare» sghignazzò Law,
appoggiandosi al parapetto in ferro e
regalando a tutti noi un’espressione piuttosto inquietante,
come se ci stesse
immaginando tutti morti.
Kidd
grugnì qualcosa di indistinto, mentre io mi stringevo nelle
spalle,
assicurando loro che per me non c’era problema parlare del
mio passato. L’avevo
sempre trovato rilassante, anche se preferivo ascoltare e non essere al
centro
dell’attenzione.
«Bene!
Allora uno alla volta diremo qualcosa che ci riguarda» decise
il
ragazzino entusiasta, facendo un giro su di sé con la
carrozzina che sembrava
ormai un’estensione del suo corpo. «Comincia tu
Kira-chan». I cuoricini sui
suoi occhi me li immaginai solo io?
«Non
mi va molto» ammise quello, imbronciandosi.
«Avanti,
non essere timido!».
«Killer,
accontentalo o giuro che lo faccio volare giù dal
tetto» lo
ammonì Eustass.
«E
va bene!» sbuffò allora il biondo, «Mi
piacciono le moto».
Seguì
una discussione sul fatto che non aveva detto niente di nuovo e
che tutti si aspettavano qualcosa di più personale e
difficilmente intuibile,
ma alla fine si accordarono che quando sarebbe toccato di nuovo il suo
turno
avrebbero scelto loro una domanda da porgli. Inutile dire che in poco
tempo il
gioco si trasformò in un vero e proprio bagno di sangue, o
meglio, di imbarazzo
e frecciatine maliziose. Nonostante tutto, però, mi ritrovai
più volte piegato
in due dalle risate.
«Mi
rifiuto di crederci!» stava dicendo Kidd, scuotendo il capo e
coprendosi il viso con le mani.
«E’
successo sul serio, invece! Sono rimasto scandalizzato.
All’epoca
avevo circa dieci anni e ritrovarmi bloccato in ascensore con una donna
incinta
alla quale si erano pure rotte le acque mi ha profondamente segnato! Da
quel
momento ho avuto la conferma che le femmine fanno schifo»
affermò sicuro
Penguin, facendomi ricominciare a ridere, soprattutto dopo aver visto
le facce
allibite di Killer e Kidd.
«Basta,
non voglio sapere altro. Marco, tocca a te».
«Certo,
chiedete pure» feci allegramente.
Law
fu sul punto di chiedermi qualcosa, ma Penguin lo interruppe
l’attimo prima che iniziasse a parlare, facendoli segno di
aspettare e fissando
un punto indefinito sopra la sua testa mentre aspettava. Stava di nuovo
parlando con Ace e il sorrisetto perturbante che comparve sul suo volto
non mi
piacque per niente.
«Qualcuno vuole sapere
perché…» iniziò a dire,
facendomi salire la pressione, ma uno scoppio
improvviso sopra le nostre teste lo fece distrarre dal suo intento e
tutti ci
voltammo a guardare il cielo dove una miriade di fuochi esplodevano
colorati
uno dietro l’altro. Sorrisi inconsciamente: Ace di certo non
se lo aspettava.
«Quello
era una bomba!» gridò Kidd, sporgendosi dal
parapetto e
ammirando una grande cascata di scintille rosse.
«Moccioso»
lo prese in giro Law, ma sul suo viso non c’era traccia della
solita sufficienza che usava per commentare ogni cosa che riteneva
insulsa.
«Guarda
che cosa mi tocca: cucirmi la pelle poi la bocca .Con gli occhi da
grande, più
grandi di me. Vinciamo ai rigori io e te».
Killer
sondò con sguardo interrogativo Penguin, il quale, accortosi
del
suo interesse, gli sorrise felice, afferrandogli la mano libera e
sollevandola
in aria, come se avessero appena vinto una partita, rimettendosi a
cantare.
«Io non ho finito, perché ho sete
ancora. Io non ho finito, fuori è primavera. Io non ho
finito, non ti lascio
ora. Io non ho finito!».
«E’
da manicomio, te lo dico io» borbottò Kidd,
scambiandosi un’occhiata
col suo vicino che, scuotendo il capo, si lasciò scappare
una risata
cristallina che stupì pienamente il rosso che gli stava
affianco, ma che alla
fine si unì a lui.
Quella
era proprio una serata fuori dal comune. Eravamo su un tetto di
un ospedale a guardare fuochi d’artificio esibiti per qualche
sconosciuta
ragione; due ragazzi, un sensitivo senza una gamba e un motociclista
mancato,
che stavano improvvisando un concerto, Killer canticchiava
sommessamente
nell’intento di imparare le parole; un fan del rock con i
capelli di fuoco e un
anoressico. Per non parlare del ragazzo in coma e di me, con un trauma
cranico
ancora sotto osservazione. Eravamo tutti completamente diversi
l’uno
dall’altro, con problemi e storie differenti, ma in quel
momento mi sembrò di
conoscerli da una vita. Eravamo così rilassati, come se
tutte le preoccupazioni
se ne fossero andate e, solo per un unico e mero istante, mi
sembrò di vedere
Ace sorridere, ma bastò a ridarmi la speranza e a scaldarmi
l’anima.
«Ehi,
Marco, Ace mi sta stressando da mezz’ora. Gli ho detto di
aspettare perché mi sto godendo il mio momento con
Kira-chan, ma non lo capisce».
Puntualmente, Killer sciolse il contatto, fulminando con lo sguardo il
suo
amico Eustass che si era messo a ridacchiare per la scena.
«Quindi te lo dico:
ti ringrazia davvero tanto e… aspetta, questa non
l’ho capita bene, ma
pazienza, é contento come se fosse capodanno. Ha detto che
tu avresti capito».
Poi tornò a cantare la sua canzoncina, riacciuffando il
braccio di Killer e
iniziando a muoverlo a tempo sotto gli occhi umidi per le risate degli
altri
due.
Incapace
di dire altro mi voltai verso Ace, provando l’istinto di
abbracciarlo forte. Proprio come facevo l’ultimo
dell’anno, quando, sparando
fuochi d’artificio in cielo nel giardino dietro casa,
festeggiavamo il suo
compleanno. In quei momento ero sempre il primo a corrergli incontro e
a farlo
rotolare a terra, augurandogli i miei migliori auguri. Ogni volta che
ciò
succedeva, mi sussurrava all’orecchio un grazie un
po’ impacciato, aggiungendo
anche non vedeva l’ora di compiere di nuovo gli anni
perché quello, per lui,
era il momento in cui era più felice.
«Sono
felice anche io, Ace».
«Anche
con la gioia di sapere che dovunque ce ne andremo non ci lasceremo mai.
Io non
ho finito».
*
«Eustass-ya,
piantala di ridere!».
«Smettila
tu, piuttosto! Sveglierai l’intero ospedale».
«Oh,
andiamo, daranno la colpa a quelli di psichiatria, non
c’è da
preoccuparsi». Liquidò la faccenda come se niente
fosse con un cenno della mano
e con un sorriso sornione sulle labbra.
«A
volte mi chiedo come mai tu non sia con loro a fargli
compagnia»
dissi con sincerità, scuotendo il capo e raggiungendo
assieme a lui la fine del
corridoio dove c’era la sua stanza.
Avevamo
aiutato Marco a riportare il letto di Ace e il suo legittimo
paziente dove doveva stare, ovvero al decimo piano e ci eravamo fermati
nella
sua stanza per una buona mezz’ora a chiacchierare e a
sfottere i medici di
guardia che non avevano notato l’assenza del ventenne. La
prossima volta lo
avremo portato a fare una passeggiata in giardino, visto che problemi
non ce
n’erano stati. Poi avevamo salutato i due ragazzi, lasciando
a Marco il tempo
di salutare suo fratello, o fidanzato, o quello che era e avevamo preso
l’ascensore con Penguin e Kira-chan,
come avevo preso a chiamarlo per prenderlo in giro e infastidirlo. Sul
serio,
vederlo nelle grinfie della piccola peste mi aveva letteralmente fatto
morire
dal ridere, soprattutto perché Trafalgar non aveva smesso un
attimo di fare
battutine e commenti decisamente poco gentili, ma comunque divertenti,
quindi
la cosa era stata doppiamente comica. Quando poi era scoppiato a ridere
pure
lui quando gli avevo detto che secondo me il piccoletto doveva stare in
manicomio, ero rimasto completamente di stucco. Insomma, non ero
affatto
preparato all’evenienza che anche quello stronzo potesse
ridere. E quanto poi! Mi
era sembrato così assurdo che alla fine avevo finito per
sotterrare,
momentaneamente, l’ascia di guerra e mi ero unito a lui. Una
tregua poteva
starci ogni tanto, no?
Avevamo
appena salutato Penguin e augurato la buonanotte a Killer, quando,
rimasti soli, Trafalgar ebbe la brillate idea di chiedermi se fossi
stanco o
meno. Per non risultare troppo rammollito gli avevo detto che me ne
sarei
tornato in camera a pianificare il suo omicidio perché non
c’era nessuno più
sveglio di me in quel momento. A giudicare dalla sua faccia non
l’avevo
convinto nemmeno un po’, ma non aveva obbiettato e mi aveva
invece proposto di accompagnarlo
e fargli compagnia nel frattempo. Avevo chiarito subito che non mi
andava
proprio di sopportare la sua fastidiosa presenza anche la notte, come se il giorno non bastasse!, ma non
mi aveva ascoltato, dandomi le spalle e sbuffando, chiedendomi con tono
fintamente cortese di smetterla di comportarmi come un moccioso.
Ingoiando
improperi e insulti che non mi ero messo a urlargli dietro per
non rischiare di attirare l’attenzione, gli ero andato
dietro, le braccia
incrociate dietro la testa e l’aria annoiata.
Quell’idiota era davvero
insopportabile e se c’era qualcuno che avrei voluto ammazzare
più dell’invalido
in sedia a rotelle, quello era lui. Era esattamente al primo posto
della mia
lista nera che riportava solo il suo nome e una serie di torture che mi
sarebbe
piaciuto provare. Ovviamente, dopo avergli fatto capire in tutti i modi
e sensi
possibili chi comandava.
«Siamo
arrivati» dichiarò pacato, appoggiandosi alla
porta chiusa e
nascondendo le mani dietro alla schiena, rivolgendomi
un’occhiata di sottecchi.
Restammo a fissarci per un po’, studiandoci a vicenda, ognuno
perso nei propri
pensieri. Non conoscevo i suoi, e nemmeno mi interessava, ma per quanto
riguardava i miei, mi stavo chiedendo come sarebbe stato togliermi la
soddisfazione di vederlo abbassare la guardia.
«A
cosa pensi?» mi chiese a bruciapelo, cogliendomi alla
sprovvista.
Che
cazzo, non dirmi che anche lui può leggere
nella mente come l’altro matto!
Ad
ogni modo fui sincero. Le cose che pensavo ero abituato a dirle in
faccia senza farmi troppi problemi. «Penso che mi piacerebbe
fotterti fino a
farti svenire». Mi stupii persino io delle mie parole anche
troppo veritiere,
ma ciò che mi sorprese di più fu la sua reazione.
«Che
tenero, vorresti portarmi a letto» cantilenò nel
tentativo di
mettermi in imbarazzo.
«Ho
detto che mi piacerebbe,
non che vorrei» chiarii.
Se fosse
stato come diceva lui avrebbe voluto dire che lo volevo, insomma, che
lo desideravo. Invece no, il mio
era solo
un pensiero come un altro. Se mi toglievo uno sfizio bene, altrimenti
chi se ne
importava.
«E
cosa ti impedisce di farlo, Eustass-ya?» domandò
ghignando.
Inarcai
un sopracciglio, «Me lo lasceresti fare?».
Sorrise,
«Certo che no, razza di idiota».
Alzai
gli occhi al cielo, pronto per ribattere, ma mi precedette,
concludendo il suo discorso. «Ma potresti sempre provarci e
vedere come va».
Lo
guardai sorpreso, rendendomi conto che riusciva sempre a girare la
situazione a suo vantaggio. Secondo lui dovevo essere io
a provare, a fare il primo passo, magari beccandomi una
ginocchiata sulle palle come rifiuto. Che stronzo.
Imprecando
sottovoce gli diedi le spalle, lasciandolo con le sue
convinzioni e le sue macchinazioni. Non gli avrei dato la soddisfazione
di
avere un altro motivo per punzecchiarmi e prendersi gioco di me, ne
aveva già
troppi, a cominciare dalla condizione del mio cuore e del mio stato di
salute.
Ignorai anche la strana e sconosciuta sensazione che sentivo di provare
all’altezza del petto, probabilmente un’altra fitta
dovuta alla stanchezza.
Dover stare continuamente attento a come mi muovevo per non stancarmi o
affaticarmi troppo era uno schifo; mi aveva fatto diventare cauto
quando una
volta nulla mi spaventava.
A
quel pensiero mi fermai in mezzo al corridoio, paragonando
inevitabilmente la mia paura di schiattare con quella di Trafalgar per
il cibo.
Per farlo mangiare mi toccava minacciarlo o dargli del debole.
Quello lo motivava e si metteva a spazzolare buona parte
del suo pranzo o cena che fosse. Tra noi era in corso una sfida
all’ultimo
respiro e, se fossi stato furbo, l’avrei lasciato al suo
destino, aspettando
che la Morte se lo venisse a prendere nel sonno, dato che, con quelle
quattro
ossa che si ritrovava, non sarebbe passato molto prima che schiattasse,
ma la
verità era che non mi andava di restare a lottare da solo.
Se lui moriva con
chi mi sarei confrontato poi? Soprattutto, chi mi avrebbe infastidito a
tal
punto da spronarmi ad andare avanti e a non mollare? Quella nostra
scommessa
avrebbe stabilito chi dei due era il migliore, perciò non mi
sarei mai ritirato
e, se non lo facevo io, non l’avrebbe fatto nemmeno lui.
Mi
voltai a controllare se fosse ancora fuori dalla stanza e notai che
non si era mosso di un millimetro, solo aveva appoggiato la testa alla
porta,
chiuso gli occhi e sembrava stare canticchiando quella stupida canzone.
La luce
tenue dei lampioni all’esterno filtrava dalle finestre,
evidenziando il suo
profilo mingherlino e i vestiti un po’ larghi, come quei
pantaloni della tuta
che, puntualmente, gli ricadevano sui fianchi, facendomi venire voglia
di
sfiorarglieli durante orari improponibili della giornata. Da un
po’, però,
quell’evento aveva preso a ridursi. Che stesse mettendo su
qualche kilo,
finalmente?
In
silenzio tornai indietro, affiancandolo e, probabilmente, si accorse
di me solo quando gli afferrai delicatamente il mento tra le dita,
alzandoglielo verso l’alto, verso il mio. Non mi sarei
controllato tanto se non
avessi temuto di fargli male. Da quando poi mi preoccupassi della
salute degli
altri era un mistero, ma non avevo dimenticato come mi aveva aiutato a
superare
quell’attacco di non so cosa che mi aveva messo in ginocchio
sulle scale circa
un mese prima. Mi sembrava giusto ricambiare.
I
nostri occhi si incontrarono e fremettero per un istante e
l’attimo
dopo le mie labbra erano sulle sue e si muovevano calde e impazienti.
Con
una braccio mi appoggiai allo stipite della porta, facendo aderire i
nostri corpi e lasciando vagare l’altra mano seguendo il
profilo dl viso
piccolo e regolare, finendo tra i suoi capelli e scompigliandoli
leggermente.
Dopo un attimo di stupore smise di opporre resistenza, una misera
resistenza
per la precisione, e mi permise di baciarlo più a fondo,
lasciandosi andare con
un sospiro e passandomi le braccia attorno alle spalle, avvicinandomi
ancora di
più. Diamine!, quello si
che era un
bacio decente.
Lo
baciai a lungo, trattenendolo a me mentre il contatto si trasformava
via, via in una specie di lotta senza esclusione di morsi che non avevo
intenzione di perdere.
«Dimmi:
un po’ di voglia di baciarmi ce l’avevi»
mormorò, staccandosi da
me per rivolgermi uno di quei suoi ghigni altezzosi, riprendendo anche
fiato.
Ridacchiai
mestamente, mantenendo salda la presa su di lui, «E tu non
vedevi l’ora che lo facessi».
«Uh?
Cosa te lo fa pensare?».
«Questo».
E lo baciai di nuovo, spostando l’attenzione dai suoi capelli
a quei fianchi che da tanto avevo adocchiato, stringendo
impercettibilmente le
dita attorno ad essi e godendomi la sua reazione. Anche
se non l’avrei mai ammesso ad anima viva e nemmeno sotto
tortura, sbattere quel
bastardo di Trafalgar contro il muro per poi azzannargli le labbra, la
gola, il
collo o qualsiasi altro lembo di pelle e sentirlo trattenere
inutilmente il
piacere che ciò gli provocava mi mandava fuori di testa.
In
quel momento no che non avevo sonno, affatto.
«Eustass-ya,
fa piano» disse ad un tratto, spostando il viso per
riuscire a parlare e nascondendolo comodamente sul mio petto, come in
un
abbraccio.
Mi
accigliai e per un secondo mi sentii, come dire, preoccupato?
«Perché?».
Fece
un respiro profondo prima di rispondere, come se fosse stato
indeciso, stringendomi ulteriormente e accomodandosi addosso a me.
«Mi stavi
schiacciando».
Non
ne capii il motivo, non mi fermai nemmeno troppo a riflettere, sicuro
che mi sarei posto mille domande alle quelli sarebbe stato difficile
rispondere,
ma mi ritrovai a rispondere al gesto con disinvoltura, dimenticandomi
del bacio
e di tutto quello che stavamo provando un attimo prima. Come se quel
contatto
fosse migliore, il che aveva dell’incredibile,
cos’era un abbraccio in
confronto a una sana scopata?
«Scusa»
sussurrai oltretutto, appoggiando il mento sulla sua testa e
mordendomi le labbra. Quello non ero io, decisamente e sperai vivamente
che il
calore che sentivo irradiarsi nelle guance fosse dovuto al caldo o a
qualsiasi
altra reazione del mio corpo, perché no, non poteva essere
imbarazzo o, peggio,
rossore.
«Oh,
come siamo dolci».
«Smettila
di sniffarmi il collo, sei fastidioso».
«Eustass-ya?».
«Che
c’è ora?».
«Dormi
con me?».
Mi
scostai quel tanto che bastò per guardarlo negli occhi
nell’intento
di capire se stesse scherzando o se fosse veramente convinto di quello
che
aveva appena detto. L’espressione seria che mi rivolse mi
lasciò completamente disarmato,
tanto che tentennai parecchio prima di sciogliere l’abbraccio
e lasciare che mi
guidasse nella sua stanza. Non accese le luci, non ce n’era
bisogno, e mi scortò
sicuro in mezzo al casino che regnava e davanti al quale mi trovavo
ogni giorno
quando andavo da lui per vendicarmi delle sue frecciatine assicurandomi
che
mangiasse. Raggiungemmo il letto senza molti intoppi, togliendoci poi
le scarpe
e infilandoci sotto le coperte. O meglio, io non ebbi problemi a
restare con i
miei vestiti, ma Trafalgar dovette indossare il pigiama, dandomi le
spalle, ma
non potendo comunque nascondere la sua figura magra. Troppo magra e
maledettamente fragile. Non faceva
impressione, non era brutto da vedere, solo mi fece sentire in qualche
modo
ansioso. Sulla schiena si poteva notare benissimo la curva della
spina
dorsale e, nonostante la sua anoressia non fosse poi tanto accentuata,
vedere
come la pelle aderiva allo scheletro mi fece comunque rabbrividire.
Doveva
mangiare, quel bastardo doveva assolutamente prendere peso e se fosse
stato
necessario gli avrei ficcato io stesso il cibo in gola. Insomma, come
poteva
pretendere che me lo scopassi con tutte quelle ossa senza un filo di
carne? Poi
indossò il pigiama e mi raggiunse a letto in silenzio e col
capo chino. Forse
anche un po’ a disagio e in imbarazzo per essersi lasciato
guardare nonostante
la scarsa luce.
Tutto
ciò aveva un che di innaturale, completamente, e mi stavo
sentendo
un vero idiota, in tutto e per tutto, ma ero come bloccato. Per qualche
arcana
ragione non riuscivo a decidermi ad alzarmi e andarmene. A lui cosa
importava
se restavo o no? Cosa cambiava? Potevo filarmela, sapevo che non me
l’avrebbe
impedito, ma mi chiesi se effettivamente fosse quello ciò
che volevo.
«Non
sei costretto a restare» mormorò piano,
sprofondando la testa nel
cuscino e tirando le lenzuola fino a coprirsi il naso, lasciando fuori
solo gli
occhi chiari e attenti.
Mi
strinsi nelle spalle, voltandomi su un fianco per fronteggiarlo,
«No,
va bene così» dissi solamente. E, per una volta,
sentivo davvero che andava
bene.
«Non
dovevi sbattermi al muro?» chiese gongolando.
«Potrei
ucciderti nel sonno» lo minacciai, assottigliando lo sguardo.
Inutile dire che infranse le mie barriere come accadeva ogni giorno.
«Certo,
certo» sussurrò, sbadigliando assonnato e
avvicinandosi fino a
poggiare il capo sul mio petto, rimanendo lì, immobile e
raggomitolato come un
bambino, incurante della rigidità che avevo assunto davanti
a quella sua
disinvoltura. Decisamente non mi riconoscevo più, tanto che
mi chiesi se non
fossi anche io destinato al manicomio come tutti la dentro.
«Buonanotte
Eustass-ya» sussurrò ormai già mezzo
addormentato.
Assurdo.
Non ci credo, qualcuno mi uccida adesso.
Non sono davvero nello stesso letto di questo impiastro. Sparatemi
prima che lo
soffochi col cuscino.
«’Notte»
grugnii, rilassandomi e circondandogli la vita con un braccio
con fare un po’ impacciato.
Faceva
freddo ed ero stanco, solo per quello. Lo stavo facendo solo per
quello. E per potermi sbarazzare di lui indisturbato.
Solo
perché lo vuoi uccidere Kidd, mi
ripetei, solo per questo.
Angolo
Autrice:
Oh,
salve gente, mi scuso per non aver aggiornato ieri sera, ma erano le
undici e ancora non l’avevo riletto, quindi ho voluto evitare
per presentarvi
un lavoro pieno di errori e cavolate, quindi arriva oggi e facciamo che
in
futuro, se dovessi ritardare ancora, vorrà dire che la
storia sarà pubblicata o
il lunedì sera, o il martedì ^^
Anche
qua non riesco a non mettere le canzoni, ma stavolta ce ne
sarà
solo una per tutta la storia. E, visto che la fic si rifà
leggermente al film Braccialetti Rossi,
vi propongo la
colonna sonora per la quale sono morta. Si, insomma, le canzoni in
lingua
inglese hanno sempre tutto un altro effetto, ma questa mi è
piaciuta molto
anche per il testo non insulso, a detta mia. Poi dipende dai punti di
vista,
ovvio, e potete sempre evitare di ascoltarla ^^
Allora,
oggi abbiamo un Law incapace di dire di no e golosone, visto che
mangia solo dolci ultimamente, ma a quello ci arriverò nel
prossimo capitolo,
LOL :D Killer che sputa il caffè dovevo metterlo.
Cioè, immaginatelo con la
maschera: la bevanda sarebbe uscita da tutti i forellini come tante
fontanelle.
Sto rotolando, ma ora basta. Sul serio, BASTA.
E
si, mio caro Trafalgar, pensa quello che vuoi, ma io SO che hai
artigliato la maglia di Kidd solo per levargliela, ammettilo.
E
poi arriva Marco. Ora, questa povera anima, è presa di mira
dal mondo
intero. Ma i mi chiedo: perché ce l’avete con lui?
Perché? Insomma, anche io
adoro Ace, anche io faccio il tifo per lui e anche io sto morendo per
la
condizione in cui si trova, ma non accanitevi così tanto sul
povero pennuto. Da
notare che anche lui ci sta male e sta aspettando da OTTO FOTTUTI MESI
che Ace
si risvegli, abbiate un po’ di cuore anche per lui. Tra
parentesi oggi dice
anche che quello che prova per suo fratello non è dovuto ai
sensi di colpa,
quindi iniziate ad apprezzare i suoi sforzi, povero Cristo. E poi,
vogliamo
parlare del gesto che fa per lui? Lo porta a vedere i suoi amati fuochi
d’artificio! Ma- ma, tesoro! Si, il letto ha le ruote
incorporate, si esistono
cose del genere, guardate Grey’s
Anatomy,
non sto scherzando. Mi documento sulla maggior parte delle cose per non
essere
incoerente u.u
E
chissà cosa stava per chiedergli Penguin su richiesta di
Ace, mah!
E
Ace che è felice a capodanno quando gli fa gli auguri e lo
abbraccia,
sto dicendo la frase con le lacrime e i coriandoli che mi escono dalle
orecchie, è tutto troppo cdhyuwvify **
Mica
si vede che come personaggio Marco mi piace tanto, eh? ^^
Anyway,
andiamo avanti.
Oh,
ciao Kidd.
Adesso,
io lo so che non spettate altro che questi due si rinchiudano in
una stanza e facciano le loro cose e inizialmente ero partita con
quell’idea,
ma alla fine non ce l’ho fatta. Insomma, Trafalgar, per
quanto forte possa
sembrare, è malato. Come Eustass, del resto. Quindi,
metterli li, in una
stanza, con un letto e loro due da soli mi sembrava primo: scontato, secondo:
forzato e terzo: banale.
Potrei sbagliarmi, ma personalmente ho preferito descrivere
le sensazioni di Kidd alla vista dell’anoressia di Law (anche
perché così ho avuto
la folgorazione per quando concluderanno
le loro faccende arrivando al punto, if
you know what I mean). Che poi, spero di averla resa bene,
non sono molto
ferrata in materia, quello che scrivo cerco di renderlo nel miglior
modo
possibile.
Altra
cosa: l’IC. Ora, conoscendoli, si, sarebbe stato da loro
passare
una nottata di sesso, ma dopo? Cosa sarebbe successo? Insomma, sarebbe
stata
sempre la solita trama, ecco. A mio avviso, in questo modo, Kidd si
è trovato a
cimentarsi un po’ con l’imbarazzo, infatti era
impacciato e incredulo; mentre
Law si presenta a lui com’è realmente: disarmato.
E fragile, aggiungerei. Il
fatto che gli abbia chiesto di dormire con lui, poi, ha ammazzato
persino me.
E’ dolce, è normale volere qualcuno affianco
quando si è stanchi, perché Law
tra le righe lo dice anche: ’Mi
stavi
schiacciando’. Non è così
forte come sembra, ripeto che è pur sempre
malato.
Fatemi
comunque sapere, ci tengo a tenere i personaggi in linea col loro
vero carattere.
Sarò
noiosa e ripetitiva, ma preferisco precisare le cose anche per
chiarire qualsiasi vostro dubbio, spero di agire nel modo giusto.
Insomma,
in conclusione, Kidd è imbarazzato e io stra adoro
immaginarlo
con una smorfia in faccia e il rossore sulle guance, indeciso su come
agire e
impacciato. Ma caro, Eustass-ya che non sa che fare :D e Law che in un
attimo
di stupidità chiede al suo nemico di condividere il letto.
Pazzo, sono tutti da
manicomio, ma non pensiate che non si sia sentito in qualche modo a
disagio.
Poveri, poveri, poveri ragazzi!
Ultima
cosa:
in questa fic tratto
tematiche abbastanza delicate, come l’anoressia, i problemi
di cuore,
l’invalidità, coma e incidenti di vario genere.
E’ un bel groppo da mandare
giù, ma sto cercando di renderlo leggero e non troppo
pesante e opprimente, in
questo Penguin aiuta tanto, comprese le scene ilari tra Killer, Kidd e
Law,
spero. Quello che voglio dire è che non
voglio in alcun modo offendere nessuno, anzi, cerco
invece di far
capire che con gi amici, con qualcuno accanto, è
più facile superare gli
ostacoli. Se Kidd qualche volta offende
l’invalidità di Penguin è
perché fa
parte del suo carattere, ma in nessun modo penso che chi sta in una
sedia a
rotelle meriti di venire criticato o beffeggiato, assolutamente. E non
voglio
giudicare nemmeno chi ha problemi peggiori.
Giusto
per essere chiari ^^
Perdonate gli errori di formattazione del testo. Grazie
come sempre a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori e restate
sintonizzati.
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5. ***
Mentre
la marea saliva,
l’Olandese dei Tulipani fronteggiò
l’oceano: “Unisce, ricongiunge, avvelena,
occulta, rivela. Guarda mentre sale, ridiscende, porta con
sé ogni cosa.”
“Che
cos’è?” domandò Anna.
“L’acqua”
disse l’Olandese
dei Tulipani. “Bé, e il tempo.”
-Peter
Van Houten,
Un’imperiale afflizione.
Capitolo
5.
(Il
mattino seguente).
«Eustass-ya?».
«Che
c’è ora?».
«Dormi
con me?».
Mi
ero morso la lingua non appena quelle parole avevano abbandonato la
mia bocca, pentendomene subito dopo. Cosa diavolo mi era saltato in
mente?
Che
razza di idea malsana e stupida quella di chiedergli di dormire.
Sarebbe stato meno strano e imbarazzante se gli avessi chiesto di
scopare, ne
ero certo. Il punto era che l’avrei fatto, davvero, senza
troppi problemi e
peli sulla lingua, ma il fatto era che mi sentivo così
stanco in quel momento e
le sue braccia mi erano sembrate tanto, insomma, non avevo fatto altro
che
chiedermi come sarebbe stato accoccolarsi su di lui e dormire fino al
giorno
dopo, dimenticando tutto il resto per qualche ora.
Che
cosa schifosamente sdolcinata da parte mia, ma ormai non mi stupivo
nemmeno più e preferivo fingere e passarci sopra, piuttosto
che fermarmi a
riflettere, dopotutto era un mese che mi ero ritrovato capace di
mettere
qualcosa sotto ai denti. Non molto, giusto alcuni bocconi e solo grazie
all’intervento di quello svitato. Mi costava davvero molto
ammetterlo e ogni
volta che scendevo a patti con me stesso era un pugno dritto al mio
orgoglio.
Stare in quella gabbia di matti a contatto con degli stupidi mi stava
rammollendo, sul serio.
Mi
ero sentito un po’ strano quando avevo dovuto cambiarmi e
infilarmi
il pigiama. Non era imbarazzo, non me ne fregava proprio niente se
quell’idiota
mi guardava il culo, che facesse pure e che rodesse, modestie a parte,
semplicemente non mi piaceva mettere in mostra il mio problema,
nonostante
fosse palese e chiara a tutti la mia anoressia. La gente mi credeva
addirittura
pazzo e mi guardava con pietà, compassione, dispiacere,
persino disgusto, a
volte, e ciò mi faceva incazzare. Non avevo visto lo sguardo
di Eustass-ya,
avevo preferito dargli le spalle e risparmiarmi la delusione di vedere
nei suoi
occhi le stesse sensazioni di tutti e avevo cercato di fare in fretta
per non
lasciare troppo allo scoperto le mie ossa, infilandomi poi sotto alle
coperte
come se non fosse accaduto niente, come se fosse normale dividere il
letto con
qualcuno il cui cuore avrebbe potuto esplodere da un momento
all’altro.
Era
tremendamente, come dire, eccitante?
Ma
ero troppo stanco, scombussolato e sfinito per pensare anche a quello, inoltre quel rosso irascibile
era sembrato sul punto di morire per l’imbarazzo, era stata
quindi la scelta
migliore darsi una calmata e mettersi a dormire.
Se
me l’avessero chiesto, però, avrei negato fino
alla morte di essermi
sentito bene quando, quella
mattina,
mi svegliai sepolto sotto a mezzo busto di Eustass e bloccato dal suo
braccio
che mi teneva la schiena inchiodata al materasso mentre la sua mano
affondava
sotto al cuscino al lato del mio viso.
Lo
sentivo russare piano, profondamente addormentato e tranquillo,
aggettivo che mai mi sarei aspettato di poter usare per descrivere un
tipo come
lui, eppure in quell’attimo di calma appariva proprio in quel
modo, anche se il
fatto di ritrovarmi intrappolato non mi faceva tanto piacere. Anzi,
tutto ciò
mi fece venire un’idea piuttosto maligna nei suoi confronti,
ma estremamente
divertente per me.
Mossi
con un po’ di difficoltà un braccio sepolto sotto
al suo peso e
arrivai a poggiare la mano esattamente sul suo petto,
all’altezza del cuore,
provando una sensazione strana quando lo sentii battere
impercettibilmente sul
palmo, attraverso la stoffa della maglia. Era strano pensare che
avrebbe potuto
fermarsi in qualsiasi momento.
Strinsi
le dita e sentii il battito più definito. Dio, avrei dato
qualsiasi cosa per poter tenere un cuore tra le mani.
«Eustass-ya?»
cantilenai, avvicinandomi al suo viso per farmi sentire.
Per
tutta risposta affondò ulteriormente la faccia sul cuscino,
nascondendola nell’incavo della mia spalla a facendomi
sospirare esasperato,
tanto che riprovai, parlando un po’ più forte, non
ottenendo ancora risultati
soddisfacenti.
«E
svegliati idiota!».
Quello
si funzionò alla grande e godetti come un bastardo nel
sentire il
battito cardiaco aumentare all’inverosimile quando Kidd
aprì i suoi occhi
assonnati, spalancandoli subito dopo per la sorpresa quando
incrociò i miei.
Si
alzò di colpo, puntellando le braccia ai lati dei miei
fianchi per
prendere le distanze e trattenendo il respiro, guardandomi come se
fossi stato
un’allucinazione o un qualcosa di terrificante. Facevo
così impressione appena
sveglio? Eppure non avevo bisogno di struccarmi come le ragazze.
«Buongiorno
Eustass-ya, dormito bene?» ghignai, notando come la sua
espressione tornava, a poco a poco, corrucciata e infastidita per il
brusco
risveglio che gli avevo causato. Era stato più forte di me,
davvero.
«Buongiorno
un cazzo, Trafalgar!» sbottò nervoso,
«Non smetti di rompere
i coglioni nemmeno mentre dormi!».
«Disse
quello che russa come un treno».
«Che?
Non è vero!».
«Si
invece».
«Beh,
non mi pare che tu ti sia lamentato molto» ribatté
piccato. Era
peggio di un bambino, a volte.
«Lo
sto facendo adesso» gli feci notare con divertimento. Solo
lui
poteva mettersi a battibeccare alle otto di mattina senza battere
ciglio.
Certo, anche io non ero da meno e lo assecondavo ben volentieri, ma
qualcosa mi
diceva che il suo carattere fosse incline al litigio, anche se contro
di me
speranze di vittoria non ne aveva.
«Stronzo».
«Mi
insulti pure?» scherzai. Ma da quando scherzavo? Io lo odiavo
sul
serio.
«Baciami».
Lo
fissai imbambolato e per un secondo il mio sguardo sfuggì al
mio
controllo e si posò sulle sue labbra, svelando la piega poco
casta dei miei
pensieri.
Perché
no?,
mi dissi, ma l’orgoglio fu
più forte e mi fece dare una risposta diversa da quella che
spiccava nella mia
mente. Non volevo essere io ad abbassarmi a tanto e non permettevo a
nessuno di
dirmi quello che dovevo fare.
«Non
darmi ordini» dissi per l’appunto, inclinando il
capo e
accomodandomi meglio sotto di lui che, per la cronaca, non si era
ancora
spostato e continuava a tenermi inchiodato al letto.
«Tra
poco arriverà qualche idiota a portarti la
colazione» mormorò, «Poi
non ci saranno altre occasioni».
«Vorrei
capire perché ci tieni così tanto»
parlai tra me e me,
ricordando tutte le volte in quei mesi che avevamo passato a
punzecchiarci a
vicenda.
Si
strinse nelle spalle, sospirando stancamente, come se la
consapevolezza di quello che stava per dire gli costasse cara.
«Non sappiamo
quanto tempo abbiamo ancora. Stando qui ho imparato che non
c’è mai niente di
certo nella vita».
Fu
uno schiaffo in piena faccia, tanto che mi ritrovai senza parole e
senza un qualcosa con cui ribattere. Aveva ragione, dopotutto, per
quelli come
noi le speranze erano sempre un terno alla lotteria e un rischio che
pochi si
azzardavano a correre. Lui non aveva più avuto attacchi
nelle ultime settimana,
ma non era certo di essere fuori pericolo; io avevo iniziato a
mangiucchiare
qualcosa durante i pasti, piccole porzioni s’intende e sempre
poco, ma meglio
di nulla, ma chi mi dava la sicurezza che avrei continuato a farlo? Era
tutto
in bilico, tutto in confusione e, come aveva detto, niente di certo.
Feci
un respiro profondo e, guardandoci negli occhi, cercammo entrambi
di supportarci a vicenda in quel momento così difficile per
entrambi.
L’accettazione dei propri problemi era sempre la parte
peggiore da affrontare.
«Voglio
prima specificare una cosa» chiarii ad un tratto, alzando un
dito nella sua direzione e vedendolo aggrottare la fronte, incuriosito.
«Spara».
«Siamo
scesi a patti entrambi, nessuno ha sopraffatto l’altro. Tutto
chiaro?».
Increspò
le labbra in un sorriso, mettendo in mostra una fila di denti
bianchissimi e un po’ inquietanti se abbinati a quella chioma
fulva e
indomabile. Lui non aveva di certo bisogno di indossare un costume ad
Halloween, faceva già paura di suo.
«Mi
sembra un ottimo accordo».
«Mi
hai appena dato ragione. Ho vinto di nuovo» evidenziai con
altezzosità, puntellandomi sui gomiti e sollevandomi con il
busto per
avvicinarmi a lui che, con aria fiera e intoccabile come un leone, se
ne stava
fermo ad osservarmi senza muovere un muscolo, aspettando che fossi io a
fare la
prima mossa e spingendomi ad eseguire la sua richiesta di poco prima.
«Non
hai ancora vinto la guerra, ricordatelo» sibilò
acido, ma iniziando
a calmarsi sfiorandomi una guancia con la punta del naso.
«Vincerò
anche quella» aggiunsi distrattamente, voltando il viso quel
tanto che bastava per permettergli di poggiarmi un casto bacio a fior
di
labbra.
Alla
fine era stato un gesto compiuto da entrambi, no?
*
(All’incirca
tre mesi dopo).
‘L’osteosarcoma
ha ripreso a crescere. Possiamo
tenerlo sotto controllo, ma non le assicuriamo di riuscire a fermarlo e
a farlo
regredire. Avrebbe dovuto scomparire già mesi fa con la
terapia’. Eppure
l’osteosarcoma è tuttora altamente curabile,
pensai, ricordando le
parole dei dottori.
«E
il mio domani intero è questo tempo mezzo rotto, ma
nonostante tutto…
Tutto…».
‘Ci dispiace molto, faremo del
nostro meglio’. Il che equivale a dire che ho i minuti
contati, ad ogni modo anche
a me dispiace, ovvio, sono il diretto interessato.
«Io
non ho finito».
Canticchiare
mi aiutava a scacciare i cattivi pensieri e mi permetteva
di riuscire a tenere il dolore dentro gli argini del mio essere. A
volte temevo
di scoppiare, ma poi mi ricordavo che Trafalgar aveva bisogno di non
restare da
solo per non lasciarsi morire; Marco doveva pur comunicare con Ace in
qualche
modo; a Kidd serviva un capro espiatorio su cui sfogare la rabbia e a
Killer, oh Kira-chan!, necessitava
di un esempio
per credere in se stesso e ritornare a camminare.
Non
avevo tempo di pensare ai miei problemi, c’era chi stava
peggio ed
era mio compito aiutare come potevo il prossimo, soprattutto se si
trattava di
elementi del genere. Chissà cosa avrebbero fatto senza di
me.
Meglio
che non me lo chieda,
sospirai, dirigendomi con la sedia a rotelle verso la mia stanza,
più che
intenzionato a riposare un po’.
Era
da qualche giorno che sapevo che qualcosa non andava.
All’inizio la
terapia aveva funzionato, il cancro si era ridotto e sembrava in via di
sparizione, anzi era sparito proprio, ma nell’ultimo periodo
avevo ripreso a
sentirmi stanco e spossato e mantenere il ritmo frenetico che avevo
sempre
avuto mi costava un po’ di fatica. Il sorriso,
però, non lo avevo perso. Avevo
sempre saputo che nulla mi dava la certezza che sarei guarito del
tutto, quindi
una piega negativa, diciamo, me l’ero aspettata. Andava bene,
ci stava, e avrei
accettato la mia sorte senza rancori e rimpianti. Mi rimaneva ancora un
po’ di
tempo e non l’avrei sprecato per nessun motivo
perché avevo ancora un po’ di
cose da fare e motivi per ridere e divertirmi. Non potevo lasciarmi
abbattere
da uno stupido tumore alle ossa.
Entrai
in camera a testa bassa, pensando al modo migliore che avevo per
dare la notizia ai ragazzi, quando notai qualcosa di particolarmente
curioso e
sorprendente.
In
piedi al centro della stanza c’era Killer, girato di spalle e
rivolto
verso il mio comodino. Stava guardando qualcosa verso il basso, ma
nulla
importante. Le stampelle che aveva iniziato ad usare per muoversi mano
a mano
che la riabilitazione procedeva erano appoggiate al mio letto e non
riuscii a
trattenere un urlo di gioia, prendendo a girargli attorno, ridendo
contento e
rendendo noto il mio arrivo facendolo sussultare per la sorpresa.
«Non
ci credo! Non ci credo!» ripetevo, alternando momenti di
ammirazione a veri e propri scoppi di felicità. Nel giro di
tre mesi, da quando
aveva iniziato la terapia di riabilitazione, aveva fatto enormi
progressi e,
anche se era ancora costretto ad alternare la carrozzina alle
stampelle, si
stava impegnando seriamente e con grinta per riuscire a rimettersi nel
minor
tempo possibile.
Nonostante
il mio buonumore, però, non spuntò nessun sorriso
sul suo
volto e continuò a mantenere fisso lo sguardo su un
mucchietto di fogli
posizionati con cura sul comodino disordinato e macchiato di
caffè, bevanda
della quale ero dipendente. Forse si sentiva stanco e aveva bisogno di
riposare, così mi calmai e mi avvicinai per aiutarlo in caso
di bisogno, quando
iniziò finalmente a parlare.
«Volevo
farti vedere che ora riesco a stare in equilibrio per un po’
senza cadere» disse serio, la voce che sembrava lontana anni
luce dalla terra,
«Dopotutto sei stato tu a spronarmi».
Non
potevo dirgli che quella sua confessione mi aveva appena fatto
sussultare il cuore, ma mi permisi di esultare dentro di me e sentirmi
contento
per i suoi progressi e per le ottime prospettive di guarigione che
aveva. Se lo
meritava quel ragazzo.
«Sono
davvero, davvero orgoglioso di te, Kira-chan! Così devi
fare, mai
perdere la speran…».
«Ero
venuto a cercarti, ma non trovandoti stavo per andarmene, quando
poi ho visto questi» mi interruppe cupo e, nel dirlo,
afferrò le carte e si
voltò a guardarmi, porgendomele e facendomi vedere di cosa
si trattava. Erano
gli ultimi esami riguardanti le condizioni del mio cancro. Aveva
scoperto
tutto.
«Dimmi
che non lo sapevi» sussurrò poi, ma potei
benissimo percepire la
rabbia che cercava di tenere a bada dal modo in cui stringeva
convulsamente i
pugni, «Dimmi che non ti sei inventato quella storia sul tuo
amico e
sull’incidente; dimmi che quei risultati sono
sbagliati».
Ero
zittito e per la prima volta avevo perso la voglia di muovermi, di
saltare, di sprizzare gioia da tutti i pori. Per la prima volta mi
sentivo come
un malato terminale quale ero.
«Dimmi
che non stai per morire». Fu quasi una preghiera, quella.
Oh,
in quel momento avrei tanto desiderato poterlo fare, avrei voluto
accontentarlo, dirgli tutto quello che voleva sentirsi dire,
tranquillizzarlo,
spiegarli che i medici si erano confusi, che stavo bene, che non avevo
nessuna
malattia che mi stava corrodendo le ossa, volevo con tutto me stesso
potergli
fare sapere che avrei continuato a girargli attorno.
«Non
posso» sospirai infine dopo una lunga pausa di tensione,
«Killer,
te l’avrei detto…».
«Quando?» sbottò,
facendo un
passo avanti e dimenticandosi di essere in costante bilico con le sue
gambe,
«Quando avevi intenzione di farmi sapere che hai un tumore
alle ossa che ha
ripreso a crescere, eh? Quando ormai non avresti più potuto
parlare?».
«Ascolta,
capisco che tu sia arrabbiato» provai a dire, alzando i palmi
in alto per cercare di farlo ragionare,
«Ma…».
«Ma
un cazzo! Gli altri lo
sanno?».
Non
risposi.
«Allora?».
Era sempre più arrabbiato e nervoso.
«No»
confessai con un sussurro impercettibile, ma che a lui
arrivò
chiaro e tondo come un urlo, o un secchio d’acqua fredda in
faccia, dipendeva
dai punti di vista. Certo, l’unico che ne era a conoscenza
era Law, ma a quello
non si poteva tenere nascosto nulla, quindi non valeva la pena
nominarlo. La
storia di Shachi aveva un che di vero, solo che il camioncino non ci
aveva
investiti. La notizia dell’osteosarcoma era arrivata quel
giorno, però, dopo
che l’ambulanza ci ebbe portati al pronto soccorso per dei
controlli di
sicurezza. Qualche esame del sangue, una TAC e via, ecco trovate le
metastasi
in fase di sviluppo. La settimana successiva mi avevano amputato la
gamba, ma
in quel lasso di tempo sembrava che la chemio avesse funzionato e che
la
malattia fosse regredita. Ma l’osteosarcoma si comportava in
quel modo: si
prendeva un arto, assaggiandolo, per metterti alla prova e, se gli
piacevi, ti
mangiava il resto.
Rimase
in silenzio per alcuni minuti, fissandomi dall’alto della sua
stazza e respirando velocemente fino a quando, con movimenti bruschi,
non
recuperò le sue stampelle, avviandosi subito dopo verso la
porta e lasciandomi
con un mare in tumulto dentro di me.
«Killer,
per favore». Non volevo che se ne andasse, non volevo
litigare
con lui, non era mai successo e non volevo iniziare proprio quando
avevo
iniziato a piacergli. Perché passare dal non essere
minimamente calcolato al
venire ringraziato per il sostegno morale per me significava qualcosa e
se non
gli avevo detto della mia condizione era perché non volevo
ferirlo più del
dovuto. L’avevo fatto con le migliori intenzioni.
«Penguin.
Tu hai un tumore e non mi hai detto niente, mai,
nemmeno una parola. Hai mentito
tutti questi fottuti mesi parlando di essere forti, di speranze e
stronzate
varie, ma non ti sei mai fermato a pensare che, forse,
ai tuoi amici faceva piacere sapere della tua condizione».
Abbassai
il capo, colpevole. «Mi dispiace». Non sapevo che
altro dire,
magari non c’erano nemmeno parole per esprimersi.
Lo
sentii sbuffare amaramente prima di udire il rumore di una porta che
veniva aperta e dei passi incerti che avanzavano allontanandosi.
«Si,
anche a me per essermi fidato di un bugiardo». Poi Killer
uscì ed
io rimasi da solo a fissare il vuoto e a sentire il peso opprimente di
tutta
quella schifosa situazione schiacciarmi senza pietà.
«A-anche
con i crampi, c-con la fine sulla faccia»
mormorai, tirando sul col naso e asciugandomi una piccola e solitaria
lacrima
che era riuscita a scivolare lungo la mia guancia con la manica della
maglia, «Col
dolore che mi schiaccia e non lo sai». Non avevo mai pianto,
non mi ero mai
lasciato abbattere. Ero sempre stato una roccia intoccabile e sorda ai
tentativi delle onde che mi sbattevano contro. Ma si sapeva,
l’acqua, come il
tempo, corrodeva e, alla fine, era riuscita a scavare in
profondità fino a
scalfirmi e a farmi vacillare.
Avevo
passato troppo
tempo in un mondo di cattiveria, crudeltà,
falsità e bugie. Tutto quello avevo
cercato di reprimerlo, evitarlo, nasconderlo in profondità
per evitare di esserne
contaminato e perdermi per sempre, ma continuare a tenere assopiti
tutti quei
sentimenti stava diventando arduo, parecchio arduo.
Ero
sopravvissuto a
parecchi morsi del serpente Vita, andando avanti e curandomi le ferite
da solo,
ma il veleno era troppo e non ero più sicuro di potercela
fare con le mie
forze. Continuavo a combattere senza gettare mai la spugna, ma la
verità era
che mi sentivo così stanco e inadatto a tutto
ciò. Non ero forte abbastanza per
riuscirci, l’avevo sempre saputo, solo avevo preferito vivere
un sogno che
adattarmi alla triste e cruda realtà. Almeno ero riuscito a
capire l’importanza
delle piccole cose, la fortuna immensa che avevo ogni giorno nel
potermi ancora
muovere ed essere autosufficiente, vivevo ogni attimo come se fosse
stato l’ultimo
e tutto valeva la pena di essere preso in considerazione, ogni minima
cosa era
degna di importanza. D’altronde, quando la tua vita era una
costante
incertezza, imparavi a vedere tutto sotto una luce diversa dalle
persone
normali.
«Anche
con la g-gioia di sapere c-che…». Ormai
singhiozzavo e frenare la voglia di piangere diventava sempre
più difficile.
«Che dovunque ce n-ne andremo non ci lasceremo mai».
La
porta si aprì di nuovo, ma non ne ero così sicuro
dato che accadde
nello stesso istante in cui gli esami e la mia cartella clinica caddero
a terra
con un tonfo, aprendosi a ventaglio e sparpagliandosi a terra. Per
sicurezza,
comunque, mi coprii il viso nel tentativo di darmi un contegno e di non
mostrare a nessuno quello che stavo vivendo. C’erano cose
peggiori, c’era chi
stava peggio ed io non avevo nessun diritto di potermi lamentare.
Quando
un paio di braccia mi sollevarono di peso, tirandomi in piedi, e
mi avvolsero in un abbraccio stretto e disperato, però, la
mia barriera di
vetro si incrinò pericolosamente e quasi si
spezzò. Se non iniziai a piangere e
a urlare fu solo per il bacio che ricevetti l’istante
successivo, il bacio che
desideravo e che speravo di provare da mesi interi.
Era
umido e sapeva di sale, ma le labbra di Killer, come mi ero
aspettato, erano morbide e mi piacevano tanto. A parere mio, anche se
non ero
un esperto, fu tutto perfetto, meraviglioso e giusto.
«Non
puoi assillarmi fino all’esaurimento per poi, una volta
avermi
conquistato, dovertene andare. Non puoi, non è
giusto».
«Credimi,
coinvolgerti in questa storia era l’ultima cosa che
volevo»
gli dissi, aggrappandomi alle sue spalle e lasciandomi cullare da
quell’abbraccio traballante e instabile. Il mio obbiettivo
l’avevo raggiunto,
avevo ottenuto le attenzioni di Kira-chan, ero riuscito a farmi
guardare, a
farmi apprezzare e sembravo pure piacergli. In quell’ultimo
periodo avevamo
condiviso tanto con la scusa della sua riabilitazione e parlarci era
diventato
sempre più facile e spontaneo. All’inizio era
stato reticente e scontroso,
nonché burbero e capriccioso, ma le cose si erano sistemate
col passare dei
giorni e l’amicizia che era nata mi aveva fatto vivere i
momenti migliori di
sempre. Una ricaduta non l’avevo affatto prevista e, se solo
ne fossi stato in
grado, non l’avrei mai avvicinato rischiando di ferirlo con,
beh, con la mia
scomparsa. In quel modo, invece, ero appena diventato una granata e,
quando
sarei esploso, avrei lasciato delle profonde cicatrici a molte persone.
Quello
era ciò che più avevo voluto evitare, ma non ci
ero riuscito.
«Non
importa Penguin» disse, donandomi un altro bacio e facendomi
dimenticare per quell’istante tutti i miei problemi,
«Sarebbe un privilegio
ritrovarmi il cuore spezzato da te».
*
(Dodici
giorni dopo).
«Prima
mi ha chiamato Thatch e mi ha detto di salutarti. Beh, veramente
mi ha passato mezzo orfanotrofio e tutti ti salutano. Rufy, in
particolare, ti
manda un abbraccio grande» disse Marco, sfogliando un libro.
Sapevo che stava
leggendo perché sentivo il rumore delle pagine che girava
con costanza ogni
cinque o sei minuti. Gli era sempre piaciuto leggere ed era anche
sempre stato
un tipo abbastanza riflessivo e pensieroso. Ovviamente aveva anche i
suoi lati
da perfetto sbandato e giovane scapestrato, ma in quel momento era
calmo e,
come faceva da una vita ormai, se ne stava rannicchiato ai piedi del
letto con
il naso appiccicato al suo libro preferito, ovvero un tomo di circa
quattrocento pagine che io non avrei mai letto, nonostante il film
tratto mi
fosse piaciuto molto.
«Il
babbo ha detto che passerà stasera assieme a Vista e Haruta.
Lei non
vede l’ora di vederti» aggiunse e potei immaginare
benissimo il suo solito
sorrisetto divertito affiorargli sulle labbra. Mia sorella ed io
eravamo sempre
andati d’accordo. Lei era un maschiaccio fatto e finito, le
mancavano solo gli
attributi, anche se ero certo che ormai li avessi sviluppati dato che
riusciva
a tenere testa ad un branco di mocciosi troppo cresciuti e con fattezze
da
uomini. Ad ogni modo la adoravo, era la mia migliore amica e mi mancava
molto.
Sapere quindi che sarebbe passata a salutarmi mi fece piacere.
Ad
ogni modo, nonostante Marco stesse cercando di distrarmi, e distrarsi
a sua volta, sentivo che era preoccupato, lo percepivo dal tono di voce
leggermente ansioso e fermo. Il motivo lo conoscevamo entrambi e non
era facile
pensare ad altro quando uno dei nostri amici era sotto ai ferri in
quell’esatto
momento a combattere contro la morte.
Law
era venuto a dircelo circa una decina di giorni prima. Era entrato
nella mia stanza salutando Marco e me, non mancando di chiamarmi con il
soprannome delizioso che mi avevano affibbiato, ovvero Bell’Addormentato,
e trascinò dietro di sé l’energumeno
Kidd,
almeno, io lo immaginavo grosso e palestrato, magari anche un
po’ schizzato,
visti i modi grezzi e rudi con cui spesso si rivolgeva a tutti.
Trafalgar aveva
poi aspettato che i due ragazzi si mettessero seduti e aveva sganciato
la
bomba: Penguin non era un eroe di guerra, ma un malato di osteosarcoma,
ovvero
cancro alle ossa. A quella notizia Marco e Kidd erano rimasti
pietrificati,
mentre io riuscii, grazie alla mia condizione, a salvarmi dalla loro
ira.
Perché
io lo sapevo da tempo ormai, Penguin me l’aveva detto in una
delle nostre chiacchierate da pazzi, come le chiamavamo. Come era ovvio
che
fosse avevo mantenuto il segreto e avevo cercato di sostenerlo come
potevo.
Secondo il mio parere aveva fatto la cosa giusta, insomma, la terapia e
le
chemio sembravano funzionare, l’avevano addirittura
dichiarato NEC (nessuna evidenza di
cancro) e
condividevo il pensiero che non aveva senso allarmare tutti se non
esisteva
alcun problema. Il fatto era che, purtroppo, le cose si erano
drasticamente
complicate nel giro di pochissimo tempo e le metastasi avevano ripreso a crescere, o erano
rispuntate, non avevo
capito bene, sapevo solo che avrei tanto voluto essere sveglio per
aiutarlo,
invece in quel momento lo stavano operando per salvarlo, per dargli
altro tempo
e non avevamo idea di come sarebbe andata a finire.
Iniziai
ad avere sonno. Era complicata da spiegare la mia condizione
perché effettivamente dormivo, ma ero anche sveglio.
Insomma, riuscivo a
sentire e a capire quello che mi succedeva intorno, ma non potevo
interagire
con le persone. Quando, invece, dormivo profondamente ero proprio
addormentato,
come le persone normali. Non mi capivo nemmeno io, quello era il
massimo che
ero riuscito a spiegarmi. Nemmeno Penguin aveva raggiunto una qualche
conclusione più dettagliata.
Nel
giro di qualche minuto la voce di Marco si fece ovattata e sempre
più lontana, lui non sapeva mai quando ero sveglio o meno, e
mi addormentai,
riprendendo il sogno che facevo sempre.
Dormendo
mi ritrovavo in una specie di altra dimensione, un paesaggio
che conoscevo bene, ovvero il giardino dell’orfanotrofio del
babbo e, davanti a
me, sotto un cielo azzurro, la costruzione che bruciava tra le fiamme,
ricreando l’incendio del giorno in cui ero caduto in coma.
Nel sogno osservavo
il tutto con i miei occhi, seduto a gambe incrociate
sull’erba, aspettando
qualcosa, ma senza mai decidermi ad alzarmi e affrontare quel baratro
fatto di
fuoco. Mi bloccava la paura di non sapere cosa avrei trovato una volta
entrato.
Quella
volta, però, non ero solo.
«Ciao
Ace» fece una voce alle mie spalle, cosicché mi
voltai e sorrisi
nel capire di chi si trattasse.
«Penguin!».
Era impossibile non riconoscerlo con quel cappello in testa.
Il
ragazzo saltellò su una gamba sola fino a me per poi sedersi
sul
terreno con un po’ di difficoltà e imprecando
quando il sedere attutì la
caduta.
«Come
ti va?» chiese subito dopo, sorridendo allegramente.
Mi
strinsi nelle spalle, sospirando, «Il solito. Tu? So che sei
in sala
operatoria adesso». Ero contento di poterlo finalmente
vedere; era proprio come
me l’ero immaginato: un po’ mingherlino, uno
sguardo attento e furbo, gli occhi
grandi e vivaci, l’espressione spensierata e la voglia di
vivere che gli
scorreva nelle vene rendendolo iperattivo e incapace di stare fermo un
attimo.
«Si,
infatti. Appena mi hanno sedato sono capitato qua. Sai mica dirmi
che posto è? Sembra il purgatorio».
«Quella
è casa mia» iniziai a spiegare, «Quando
dormo profondamente
vengo qui e aspetto di svegliarmi, di svegliarmi per davvero intendo,
ma non
succede mai».
«Oh»
fece pensieroso, aggrottando la fronte e osservando le fiamme,
«Forse
non devi startene con le mani in mano» ipotizzò,
«Magari c’è qualcosa che devi
fare».
«E
cosa?» domandai. Me l’ero chiesto mille volte e non
avevo mai trovato
una risposta a quella domanda.
«Qui
è dove hai avuto l’incidente, vero? Secondo me
è la tua prova da
affrontare. Pensaci: l’ultima volta non hai retto e sei
finito in coma, ma se
riesci a superare l’incendio potresti risvegliarti. Ha senso,
non credi?».
«E
se non ce la dovessi fare?».
«E
se non lo facessi affatto?» ribatté con un
sorriso. «Sai, stai vivendo
in modo passivo, amico mio. Dovresti andarti a riprendere la tua
vita».
«Penguin».
«Si?».
«Te
ne stai andando, vero?».
Ci
fu un breve silenzio durante il quale ebbi modo di capire tra le
righe la risposta: Pen-chan non sarebbe ritornato indietro con me.
«Questa
non è la mia prova, Ace, ma la tua. Io sono qui
perché devo
andare in un altro posto, credo. Sai, non ci capisco molto di queste
cose, non
sono mai stato un convinto credente, ma ho come la sensazione di
sentirmi
chiamare. Mi capisci?».
A
dire il vero lo capivo poco ma, ehi, era lui quello che sentiva la
voce di coloro che stavano in stato comatoso, quindi il fatto che
provasse
quella sensazione ultraterrena non mi stupiva minimamente.
«Ad
ogni modo si, me ne sto andando. Sono passato per di qua per
salutarti, non mi piaceva l’idea di non incontrarti nemmeno
una volta. Ohi, che
fai, piangi?» chiese stupito, poggiandomi una mano sulla
spalla scossa dai
singhiozzi.
Avevo
provato a trattenermi ma non piangevo da così tanto tempo!
Non me
ne ero nemmeno reso conto all’inizio, l’avevo
capito colo quando la vista aveva
iniziato ad offuscarsi, rendendomi difficile distinguere il profilo
della casa
e quello del meraviglioso ragazzo che mi stava accanto.
Perché Penguin era una
persona speciale, unica nel suo genere, e gli volevo molto bene. Era un
amico,
un amico vero, che si preoccupava per gli altri e metteva i bisogni del
prossimo davanti ai suoi. Lui era quello che più di tutti
meritava una seconda
possibilità, invece era costretto ad andarsene. Non era
giusto, non lo era per
niente.
«Scusami»
feci, non sapendo bene cosa dire. Quella parola suonò
tremendamente stonata infatti, ma Penguin non ci diede peso e mi
tirò a sé,
abbracciandomi e confortandomi. Assurdo, lui stava morendo e quello che
si
disperava ero io.
«Va
bene, è normale» mormorò, «Il
dolore esige di essere sentito, quindi
sfogati».
«Combatti»
mugugnai, tirando su col naso, «Sei forte, ce la puoi fare.
Tu sei…».
«No,
Ace» mi fermò, scuotendo il capo e allontanandomi
per guardarmi
negli occhi, «Questa volta non posso farlo. Credimi,
l’ultima cosa che vorrei è
abbandonare voi deficienti, Dio solo sa come vi ridurrete senza di me,
ma non
posso più combattere. L’osteosarcoma ha sviluppato
metastasi nei polmoni. E’
solo questione di tempo ormai». Lo disse con calma, con
accettazione e con un
sorriso, il suo solito sorriso, tranquillo e genuino sulle labbra.
Inutile
dirlo, erano sempre i migliori ad andarsene, troppo preziosi per
rimanere in un
posto schifoso come il mondo dei vivi.
«Forza!»
esordì quando mi fui calmato, tirandosi in piedi e
porgendomi
una mano per invitarmi a fare altrettanto, «E’ ora
che tu apra gli occhi, non
credo che Marco e la tua famiglia sopporteranno di vederti in quello
stato
vegetativo ancora per molto. E poi, siamo sinceri, chi dirà
a quella testa
d’ananas di chiudere il becco quando non ci sarò
più?» scherzò, lasciandomi
allibito. Come poteva ironizzare sulla sua morte? Quel ragazzo sarebbe
sempre
stato un mistero. Non ero nemmeno più tanto sicuro che fosse
umano. Chissà, se
gli avessi alzato la maglia avrei scoperto delle ali sulla schiena?
«Penguin,
che dovrei fare?» feci dubbioso mentre lui mi spingeva, come
poteva, era pur sempre privo di una gamba, verso la casa in fiamme.
«Entra
e… Che ne so? Fa qualcosa. Supera le tue paure e
lotta» rispose
con un’alzata di spalle, mantenendosi in equilibrio su un
piede solo e
incrociando le braccia al petto.
Feci
un respiro profondo e avanzai di qualche passo verso
l’ingresso,
sentendo via, via sempre più caldo mano a mano che mi
avvicinavo. Quando
mancava poco più di un metro da quell’inferno mi
voltai a guardare Penguin,
trovandolo ancora lì dove l’avevo lasciato. Mi
sorrideva e mi incoraggiava.
«Non
sarai solo. Io non mi muoverò da qui» mi promise,
saltellando sul
posto come a voler enfatizzare la sua frase e facendomi quasi ridere.
«Mi
mancherai, Penguin». Mi sarebbe mancato tutti i giorni un
amico come
lui.
«Piantala
con i sentimentalismi, ragazzino» mi prese in giro, alzando
gli occhi al cielo. «Pensa piuttosto a tirare fuori le palle
e a prenderti ciò
che ti spetta». Avevo come la vaga sensazione che si stesse
riferendo in
particolare modo a Marco, ma lasciai perdere perché avevo
altre cose che mi
premeva sapere e che volevo dirgli.
«Grazie
per, insomma, per tutto».
«Grazie
a te, Ace. E’ stato un onore conoscerti e parlare con
te»
ammise, abbassando il capo in segno di rispetto ed io feci altrettanto.
Non
volevo andare avanti e inconsciamente stavo anche temporeggiando, ma
avevo
paura di voltarmi e dargli le spalle. Temevo quella separazione, era
dolorosa e
straziante, ma mi spaventava anche l’ignoto che mi aspettava
dietro la porta.
Le fiamme, il fuoco, la fine dei miei giorni e il buio del coma. Come
avrei
fatto ad affrontare tutto quello da solo?
«Ace?».
«Si?»
dissi, alzando lo sguardo da terra e puntandolo su di lui,
ritrovandolo a pochi centimetri da me.
Mi
diede un pugnetto affettuoso sul petto. «Non ti lascio
ora»
canticchiò, ricordandomi la canzone che sempre accompagnava
le sue entrate
nella mia stanza e le sue lunghe corse per i corridoi di cui spesso e
volentieri mi raccontava e allora capii che lui ci sarebbe stato sempre
e che,
dall’altra parte, molte altre persone mi stavano aspettando
da troppo tempo.
Toccava
a me lottare, in quel momento, e l’avrei fatto per loro e per
Penguin, glielo dovevo.
Respirai
profondamente e annuii deciso, mettendo mano alla maniglia e
inclinandola per aprirla, quando un pensiero mi attraversò
la mente.
«Penguin!»
lo chiamai, «E Killer?».
Lui
si calò il cappello sugli occhi per nascondere un velo di
tristezza
che però non mi sfuggì, mordendosi un labbro e
pensando a cosa dire. Alla fine
tornò a guardarmi; un sorriso da innamorato cotto sulla
bocca.
«Alla
fine sono riuscito a portarmelo a letto, sai?»
scherzò e la
tristezza sembrò scemare improvvisamente, «A parte
questo, fammi un favore
quando ti sveglierai, perché so che accadrà,
digli che dia un occhiata all’ultimo
cassetto del suo comodino e che non si azzardi a disperarsi».
Deglutii
a fatica, ma gli assicurai che l’avrei fatto di certo.
«Ah,
Ace? Ancora una cosa. State vicino al mio Kira-chan, il mio ricordo
all’inizio non sarà sufficiente».
Lo
guardai per un lungo istante fino a quando non fu lui a mandarmi via,
minacciandomi di picchiarmi con il moncherino, così mi
godetti per l’ultima
volta il suo sorriso, imprimendomelo nella mente e raggiunsi
l’uscio della
porta, fissando il fuoco davanti a me che divorava le pareti.
«Ace?
Ace!».
Marco?
«Spero
che tu possa sentirmi, razza di idiota, questa è la tua
parte
preferita anche se non lo vuoi ammettere.
Sentivo
la sua voce chiamarmi in mezzo a tutto quel caos, così
strinsi i
denti e feci il respiro profondo prima del balzo. Per lui, per i miei
amici e
per la mia famiglia. Per Penguin. Per me e per la vita che dovevo
vivere.
Mossi
qualche passo e il fuoco mi inghiottì.
«’Così
Gollum sibilò: “Radici invisibili ha,
più in alto degli alberi
sta, lassù fra le nuvole va e mai tuttavia
crescerà”. “Facile!” disse
Bilbo. “E’
la montagna, penso”.”Indovina cosssì
facilmente? Deve fare a gara con noi,
tesssoro mio!”».
La
voce di marco era particolarmente più nitida, anche se il
modo in cui
imitava la parlata di Gollum mi faceva venir voglia di scoppiare a
ridere senza
ritegno. Inconsciamente e senza rendermene conto, infatti, piegai le
labbra.
«“Se
il tesoro domanda e lui non risponde, lo mangiamo, tesssoro
mio”»
continuava a leggere il biondo con un’aria divertita e
allegra, mentre scorreva
le pagine de Lo Hobbit, il libro
che
gli avevo regalato il natale scorso e che aveva letto qualcosa come una
decina
di volte. Sempre meglio di Izou che aveva consumato la biblioteca di
casa
leggendo una saga trentasette volte contate.
Marco
si interruppe un attimo per sbadigliare, cosa che faceva spesso, e
notai con piacere che i suoi occhi chiari erano rimasti come me li
ricordavo,
azzurri come il cielo. Anche la pettinatura improponibile non era
cambiata di
una virgola, ma a quella ero abituato.
Ad
un certo punto si immobilizzò del tutto per fissare un punto
alle mie
spalle e capii che qualcosa non andava, ma quando pronunciò
il mio nome notai
che, effettivamente, stava guardando me.
Ed
io stavo guardando lui, non lo stavo sentendo o percependo.
Lo
vedevo.
Solo
allora capii di aver appena aperto gli occhi.
Angolo
Autrice.
SONO.
IN. UN. TERRIBILE. RITARDO.
CHIEDO.
UMILMENTE. SCUSA.
Davvero,
so che non basterà dopo il capitolo, ehm, tragico? Ma
cercate
di capirmi, dovevo seguire in qualche modo, anche se non alla lettera,
la trama
di Braccialetti Rossi e, beh,
ovviamente questa fiction non può finire tutta rose e fiori.
Lo so cosa state
pensando, perché proprio Penguin. Eh, me lo sto chiedendo
anche io e mi sono
sentita malissimo a scrivere queste pagine, giuro, ma l’idea
dell’osteosarcoma
mi piaceva tantissimo e calzava a pennello con la situazione.
Per
chi avesse delle perplessità sulla malattia, ecco qualche
informazione: colpisce più spesso soggetti di sesso maschile
con due picchi di
incidenza: tra i 10 e i 30 anni e negli anziani, le sedi più
frequenti sono le
metafisi delle ossa lunghe, soprattutto attorno al ginocchio: il femore, la tibia e l’omero. Si manifesta con dolore intenso,
tumefazione, cute calda
spesso con reticolo
venoso. Ne esistono due varietà:
quella centrale e quella periferica. Le varietà centrali
hanno un comportamento
molto aggressivo in quanto crescono rapidamente e presentano una
spiccata
tendenza a dare metastasi ai polmoni e ad altri organi. Le
varietà periferiche sono invece
generalmente meno aggressive. (Info by wikipedia, spero non ci siano
troppi
errori).
Ecco
come il tumore ha raggiunto i polmoni di Penguin, la cosa non era
quindi impossibile.
Se
volete dare la colpa a qualcuno per la piega drastica degli eventi
prendetevela con John Green, autore di Colpa
delle Stelle, libro che sto rileggendo perché
bellissimo e veramente
profondo. Lo consiglio a tutti perché è un
qualcosa di unico a mio avviso,
infatti alcune frasi e piccole chicche, come la citazione iniziale, le
ho prese
dal libro.
Per
fare alcuni esempi:
-E’
questo il problema del dolore, esige di
essere sentito.
-Oh
a me non importerebbe. Sarebbe un privilegio
ritrovarmi il cuore spezzato da te.
Io
non posso farcela a finire di nuovo questo libro che già una
volta mi
ha uccisa, ma sono masochista e lo farò. I libri migliori
secondo me andrebbero
riletti all’infinito.
Passando
ad altro…
Credo
che da questo capitolo in poi evidenzierò gli sbalzi di
tempo che
anche in precedenza avevo messo, lasciando passare settimane e mesi. Il
fatto è
che i personaggi sono malati e non posso permettermi di far scorrere il
tempo
in modo lento, rischierei di perdermi troppo. In più ho
detto già all’inizio
che non avevo intenzione di tirarla per le lunghe, infatti credo che
ancora
qualche capitolo e la storia si concluderà. Spero di non far
passare un eternità
perché in questo periodo ho avuto un blocco per questa
serie, davvero. Oggi,
non lo so, è successo il miracolo praticamente.
Allora,
Law ha ammesso che si, mangia, ma non tantissimo, ovviamente,
perché, come qualcuno ha notato, se si riprende a nutrirsi
troppo velocemente
si rischia di fare peggio e lo stomaco rifiuta il cibo. Procede a
piccoli passi
insomma, mentre Kidd brancola nell’incertezza, ma sembra
voler in continuazione
baciare Trafalgar. Nel prossimo capitolo vedremo cosa è
successo in questi tre
mesi dopo il loro piccolo accordo e dopo, beh, la vicenda di Penguin.
Parlare
di Killer prossimamente sarà uno strazio, ma farò
del mio
meglio.
Ciliegina
sulla torta: Ace si è svegliato.
Su
Braccialetti Rossi, Rocco,
il bambino in coma, il personaggio a cui fa riferimento Ace, mentre
dormiva si
trovava in una piscina pubblica, il luogo dove aveva perso i sensi dopo
essersi
tuffato da un trampolino molto alto che gli aveva dato le vertigini. Mi
è sembrato
bello fare lo stesso per Ace e riprodurre l’incendio come il
suo blocco mentale, la prova che
doveva
superare e che, alla fine, affronta con successo.
Bene,
è tardi e quindi non mi dilungo oltre, domani
vedrò di rispondere
una volta per tutte alle recensioni e vi chiedo scusa di nuovo per il
ritardo. Vi
ringrazio però per la pazienza e per il fatto che
continuiate a seguirmi. sul
serio, grazie, siete fantastici e spero di non avervi delusi :3
Dopotutto
la vita è così, niente è certo e,
insomma, non è facile
nemmeno per me trattare argomenti del genere, ma faccio del mio meglio,
poi sta
a voi giudicare.
Gente,
buonanotte e un abbraccio a tutti. Ci si sente domani, per chi ha
voglia, con l’inizio di Portuguese
D.
Ace.
Un
abbraccio enorme e restate sintonizzati.
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6. ***
Capitolo
6.
(Lo
stesso giorno).
Ciao
Kira-chan,
Probabilmente
quando leggerai questi scarabocchi
incomprensibili (non ho mai avuto una bella scrittura) io non
sarò lì con te e
nemmeno in giro per l’ospedale a far impazzire le infermiere,
ma l’idea di
andarmene senza poterti nemmeno spiegare quanto mi hai fatto sentire
vivo mi
sembrava un torto nei tuoi confronti.
Quando
mi hanno diagnosticato l’osteosarcoma non
puoi nemmeno immaginare come mi sono sentito. Tu mi hai visto sempre
sorridente, ma la verità è che
all’inizio avevo desiderato tanto di poter
morire, o scomparire, soprattutto quando mi hanno amputato la gamba.
E’ stato
come se la mia vita fosse stata bloccata, insomma, non avrei
più potuto fare
determinate cose e per uno col mio carattere e
l’incapacità di stare fermo
anche quando dormo è un brutto colpo da incassare, un
boccone amaro da
digerire.
Dicevo,
credevo davvero che avrei finito i miei
giorni incazzato col mondo, inavvicinabile, burbero e scontroso. Ti
confesso
che per un po’ sono riuscito a tenere testa persino alla
bastardaggine di
Trafalgar, non so se rendo. Lui è l’icona della
stronzaggine, eppure lo tenevo
a bada. Ero convinto che nessuno potesse capirmi, che nessuno riuscisse
anche
solo a immaginare quello che stavo provando, la mia guerra interiore e
tutto il
casino che mi ero ritrovato ad affrontare da solo.
Poi
ti ho visto e mi sono sentito investire da
un’ondata di vergogna per me stesso e per il mio egoismo.
Sei
arrivato in ospedale in condizioni pietose,
eri ridotto ad un ammasso di carne, ossa e sangue. Lo so
perché stavo passando
casualmente per il pronto soccorso quel giorno e vederti messo
così male è
stato uno schiaffo in piena faccia.
Ho
chiesto in giro e sono riuscito a scoprire
dove ti tenevano; volevo rivederti, ne avevo bisogno per fare chiarezza
nei
miei pensieri. Non capivo il perché, ma sentivo che dovevo
assolutamente trovarti.
Eri
incosciente la prima volta che sono passato
in camera tua, incosciente e irriconoscibile. Eri ricoperto di bende
dalla
testa ai piedi, non un lembo di pelle libero, forse solo il viso
all’altezza
degli occhi, quei tuoi meravigliosi occhi. Solo allora mi sono reso
conto di
quanto ero fortunato ad avere ancora una gamba, braccia e tutto il
resto. Io
potevo muovermi e tu lottavi tra la vita e la morte. Io avevo ancora
tempo,
potevo guarire, tu eri un’incognita.
Capii
che non ero stato privato di nulla di
essenziale; mi resi conto che al mondo c’erano cose peggiori;
le persone
soffrivano e si disperavano tutti i giorni, perciò che
diritto avevo io di
lamentarmi e pretendere di essere l’unico meritevole di
attenzioni, pietà e
compassione?
A
volte siamo così ciechi che non ci rendiamo
conto di tutti i tesori che possediamo e cerchiamo di avere sempre di
più senza
mai accontentarci, ma sono grato al Cielo di aver aperto gli occhi.
Sei
stato la mia illuminazione, anche se non ne
eri consapevole, mi hai salvato da un baratro, Kira-chan, e non so come
descriverti tutta la felicità che ho provato in questi
lunghi mesi.
So
che ti ho fatto incazzare, dannare,
bestemmiare e maledire il mondo con i miei modi di fare, con il mio
continuo
cercare di abbordarti, ma non potevo farci nulla. (A dire il vero mi
divertivo
da impazzire, ma questi sono particolari).
Volevo
davvero essere tuo amico e il modo
migliore per riuscirci era formare un gruppo in modo da poterti vedere
sempre.
L’idea non è stata tutta di Trafalgar, lo ammetto,
è nata da me e dal desiderio
di poterti stare accanto (quello di volerti portare a letto si
è sviluppato col
tempo).
Ad
ogni modo ci sono riuscito, hai visto? Siamo
diventati amici e alla fine mi hai davvero permesso di insegnarti tutte
le
scorciatoie dell’ospedale con la sedia a rotelle. E poi
dicevi che non mi
sopportavi e che non avresti mai passato le giornate da solo con me.
Non
preoccuparti, ho capito che lo dicevi solo
perché eri timido.
Sono
stato felice per te quando hai ripreso a
camminare e quella volta, durante la tua prima seduta per la
riabilitazione, mi
hai fatto sentire come tutti gli altri ragazzi normali. Non te
l’ho mai detto,
ma è stato così. Non sei inorridito davanti al
moncherino, non hai fatto
smorfie schifate, non sei scappato via (e come potevi? Eri invalido
quanto me),
sei semplicemente rimasto lì ad ascoltarmi. Potrà
non avere senso per te, ma
per me è stato davvero importante e ti ringrazio per avermi
portato con te le volte
successive; per avermi permesso di saltellarti accanto mentre provavi
le
stampelle; grazie anche per non avermi ammazzato di botte quando ti ho
fatto
perdere l’equilibrio (anche se ti sei trascinato dietro pure
me, brutto
idiota); grazie per avermi fissato in quel modo così intenso
e maledettamente
dolce quando ci siamo ritrovati sul pavimento spiaccicati
l’uno contro l’altro;
per essere stato mio amico; per esserti innamorato di me
(perché lo so che è
così, nega quanto vuoi) e per avermi perdonato quando hai
scoperto del mio
cancro.
Non
sarebbe dovuta andare a finire così la nostra
storia, ma nessuno aveva previsto una ricaduta; immagino che avessi
dovuto
metterla in conto, ma non sono stato così bravo,
perciò scusami. Sai, avrei
voluto dirtelo, davvero, pensavo di farlo, ma non sapevo come
l’avresti presa e
non volevo farti preoccupare per nulla. Credimi, l’ultima
cosa che volevo era
ferirti, Killer, non avrei mai, mai, lo giuro, voluto farlo.
Forse
è un po’ pretenzioso da parte mia credere
che sentirai la mia mancanza ma, se così sarà, ti
prego di non essere triste.
So che queste ti sembreranno solo lettere scritte con
l’inchiostro su un misero
pezzo di carta, so che all’inizio sarà difficile e
so che, molto probabilmente,
il dolore non se ne andrà mai, ma nemmeno io lo
farò.
E’
una promessa, questa.
Ci
sarò sempre per te, magari non mi vedrai e nei
momenti peggiori ti sembrerà tutto una grande stronzata, una
balla, ma io sarò
lì con te, in qualsiasi momento e in ogni dove, non me ne
andrò mai.
Potrei
persino farti qualche scherzo. Pensa, Dio
potrebbe permettermi di vagare come un fantasma tra i vivi, sono sicuro
che gli
starò simpaticissimo, oppure semplicemente lo
porterò all’esasperazione,
costringendolo a rispedirmi sulla terra. Che ne pensi? Più
probabile la
seconda?
E’
quasi ora di andare.
Accidenti,
prima avevo così tante idee su cosa
scriverti, mentre adesso ho la mente bloccata.
Uhm,
vediamo, beh, già che ci sono ti chiedo
qualche piccolo favore: prima di tutto tieni d’occhio Kidd.
So che siete molto
amici e lui, sembra strano dirlo, ti vuole bene. Andate
d’accordo, siete
completamente degli sbandati, ma assieme sarete abbastanza forti per
superare
qualsiasi cosa. Lui non ti abbandonerà, me l’ha
promesso. Ah, se guardi negli
altri cassetti troverai alcune carte riguardanti la donazione degli
organi.
Falli avere a chi di dovere e a quelli che seguono il caso di quel
rosso
isterico; dì loro che, in caso di trapianto, possono usare
il mio cuore, va
bene?
Kira-chan,
non fare quella faccia, sarei più che
felice di aiutare più di una persona. Dopotutto, che me ne
faccio io di un paio
di polmoni? E a che mi servono i reni, il fegato e il resto?
C’è chi rischia
grosso e io potrei essere decisivo per le loro condizioni, mi sembra un
bel
modo di andarsene, no?
Altra
cosa, so che Trafalgar può sembrare
spacciato, ma non è così. Assicurati che non si
abbatta, che non abbia una
ricaduta come me, che continui a lottare perché, cazzo si,
sono certo che lui
può farcela. Quello la farà strada, fidati.
E
non dimenticarti di Marco e di Ace! Oh, avrei
tanto voluto salutarli di persona, soprattutto Ace. Sai, è
adorabile, un
piccolo moccioso pestifero, sul serio. Ti piacerà da matti,
è simpatico e
allegro, un po’ come me. Sicuramente andrete
d’accordo e potrete salire di nuovo
all’ultimo pian per vedere i fuochi d’artificio. Ti
ricordi l’ultima volta come
è stato divertente? Oh, ero così felice di essere
riuscito a trascinarti fin
lassù, era tutto così romantico. Lo ammetto,
avevo un po’ premeditato tutto, ma
alla fine è andata alla grande, non ti pare? Ti sei persino
messo a
canticchiare, pazienza che dopo hai fatto il sostenuto per non
permettere a
Kidd di sfotterti.
Ho
davvero poco, pochissimo tempo ora, ma vedrò
di riuscire a scrivere tutto.
Killer,
ti voglio forte e senza alcuna paura,
chiaro? Non fuggire dalla vita, non aver paura di combattere, non aver
paura di
osare, di provare. Non avere paura perché tu non hai finito.
La fine non esiste
e sarai grande, un giorno, lo sento. E io non sbaglio mai. Insomma,
sono un
sensitivo e parlo con i morti, a momenti, quindi fidati di me.
Non
so bene cosa scrivere. Vorrei avere più tempo
da dedicarti, più giorni da vivere, più anni da
passare, ma non si può avere
tutto. Eppure non chiederei altro, solamente un attimo di tempo in
più.
Ma
nonostante tutto sono qui, ci sarò sempre,
Kira-chan. Solo, puoi non dimenticarmi?
Devo
andare.
Ti
auguro il meglio, spero che tu guarisca presto
e che ritorni a correre in moto, ma senza cercare di ammazzarti questa
volta. Fallo
per me, per favore, mi sentirei terribilmente inutile se dovessi
incontrarti in
Paradiso prima del previsto. Uno si fa in quattro per aiutare la gente
e poi
questi si suicidano, accidenti. Tu non farlo, guai a te. Ma che dico,
ci
penserà Kidd a tenerti buono, me l’ha assicurato.
Killer,
grazie. Grazie per tutto, tu più di
chiunque altro, mi hai fatto sentire vivo.
Sempre
tuo,
Penguin.
*
(Tre
giorni dopo).
«Quel
nanerottolo era un completo idiota. Sul serio, lo detestavo oltre
ogni limite. Sempre a girarmi intorno, sempre sorridente e allegro,
sempre con
quel maledet… Ehm, benedetto
cappello
in testa. Se voleva una cosa ti esasperava fino
all’esaurimento per ottenerla. Ora
andrà a rompere le pal… volevo dire,
andrà a disturbare tutti
i Santi del Paradiso, ne sono certo e, beh, sono
passati solo tre giorni, e odio doverlo ammettere, ma penso che alla
fine
avesse ragione lui quando mi ripeteva che mi sarebbe mancato. Gli ho
promesso
che non mi sarei rammollito con la sua assenza, gli ho detto che sarei
stato
forte, che senza lui in mezzo sarei finalmente stato in pace, ma non
è così. Mi
mancherà, mi mancherà davvero».
«Penguin
era una persona dall’indole piuttosto particolare. Ho
conosciuto
tante persone, chi migliore di altre e chi peggiore, ma mai nessuno
come lui. Era
così preoccupato e interessato a fare del bene agli altri
che si trascurava,
mettendosi sempre in secondo piano e facendo prima il suo dovere verso
il
prossimo. Era un altruista, una brava persona. Non stava mai fermo e
pensava a
talmente tante cose che spesso confondeva discorsi con altri. E poi,
quando
stava zitto, aveva sempre il sorriso in faccia, non si abbatteva mai,
nonostante le martellate che riceveva in continuazione dalla vita
ingiusta. Tutto
quel suo buonumore mi infastidiva all’inizio, ma alla fine
è riuscito a
coinvolgere persino me, che di sorrisi non sono avvezzo. Credo che da
ora in
poi non passerà giorno senza che io non sorrida almeno una
volta. Lo farò per
te, amico mio».
«Se
oggi sono qui è solo grazie a lui. Sono stato in coma fino a
tre
giorni fa e se Penguin non mi avesse spinto a prendere in mano la mia
vita,
probabilmente non mi sarei più svegliato. Sono stato in coma
per quasi un anno,
da solo, senza nessuno che mi capisse. La mia famiglia è
stata fantastica, mi
hanno tutti sempre assistito, ma era uno strazio non poterli
confortare. E poi è
arrivato questo ragazzo che, come per magia, riusciva a sentire i miei
pensieri, riuscivamo a comunicare, capite? Pazzesco, so che sembra
assurdo, ma mi
ha aiutato tanto. Era bello poter parlare di nuovo con qualcuno,
tranquillizzare i miei parenti o anche semplicemente sfogarmi. Penguin
è stato
fantastico e non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi
sostenuto nell’affrontare
la mia prova decisiva. Ti voglio bene amico mio, non ti
dimenticherò mai».
«Questo
ragazzo mi ha insegnato tante cose che uno della mia età
avrebbe
dovuto già sapere, invece è riuscito a farmi
aprire gli occhi su molti aspetti.
Posso dire che mi è stato di grande aiuto e gliene sono
grato dal profondo del
cuore. Una volta stavamo chiacchierando e gli ho chiesto come faceva ad
essere
così aperto, sincero ed espansivo senza preoccuparsi di
quello che gli altri
potevano pensare di lui. Mi ha risposto con un sorriso, dicendomi che
lui era
fatto in quel modo ed era giusto che le persone lo accettassero per
quello che
era, non per un’ipotetica idea sul suo conto. Mi ha fatto
capire che ognuno di
noi è speciale, anche se continuo ad essere convinto che lui
lo fosse più di
tutti, e mi ha anche fatto imparare che quello che vogliamo dobbiamo
prendercelo senza timore perché la vita è troppo
breve e tutti meritiamo di
essere felici. Lui lo era, lo è sempre stato e bastava
incontrarlo una volta
per sentirsi subito meglio. Sei il migliore, Penguin, e grazie, grazie
infinite
fratello».
Stringevo
la lettera di Penguin tra le mani come se fosse stata l’unica
cosa che mi poteva tenere ancorato alla vita, impedendomi di gettarmi
nella
disperazione più totale e di lasciarmi avvolgere dalla
tristezza e dal dolore
che minacciava di invadermi da un momento all’altro. Sentivo
che non ce l’avrei
fatta, per quanto i ragazzi mi stessero vicino e per quanto la loro
presenza mi
infondesse coraggio. Non glielo dicevo, ma per me non erano altro che
ombre,
così come tutti gli altri. C’ero solamente io e la
bara in legno chiaro e
lucido al centro della chiesa piena zeppa di fiori. A cosa servissero
non
riuscivo a capirlo, dopotutto era un funerale, ai funerali si celebrava
la
morte di un defunto, quindi se il presunto defunto era effettivamente
morto, a
che gli serviva avere un sacco di fiori attorno? Non lo capivo e non
concepivo
nemmeno il motivo di tanti presenti, gente che mai avevo visto girare
per l’ospedale
in cerca di lui per un saluto, eccetto i famigliari e quel suo amico,
Shachi,
il quale sembrava davvero sconvolto per la perdita del suo migliore
amico. Forse
lui era l’unico che non stonava in mezzo a tutta quella
situazione.
Uno
alla volta avevano tutti fatto il loro discorso, elogiando il
ragazzo a modo loro e insinuando sempre più a fondo la lama
che da giorni mi
trafiggeva il petto.
Lui
se ne era andato e non l’avrei più rivisto.
«Killer,
solo se te la senti» sussurrò Kidd affianco a me
con calma. Aveva
sempre saputo cosa dire e come comportarsi nei miei confronti. Dopo la
notizia
della morte di Penguin era piombato in camera mia e mi aveva trascinato
di
forza sul tetto per farmi ubriacare.
Feci
un respiro profondo e, nonostante non ne avessi affatto voglia, mi
alzai dal banco freddo come un automa, avviandomi lungo il corridoio
ricoperto
da un tappeto rosso, superando la bara e ignorando il fremito lungo
tutto il
corpo per poi salire gli scalini e arrivare al leggio dove tutti
avrebbero
potuto vedermi e fingere di ascoltarmi.
La
verità era che non avevo la minima idea di cosa dire e,
anche se ce l’avessi
avuta, non mi andava affatto di condividere i miei sentimenti con il
mondo. L’unica
persona con cui mi andava di parlare e di confidarmi non
c’era e non ci sarebbe
più stata, inoltre sapeva già quanto la ritenessi
coraggiosa, unica e
inimitabile. E sapeva anche quanto contasse per me.
Alla
fine feci l’unica cosa che mi sembrava giusta e spontanea.
«Vedi
la vita è una piuma, si balla e si trema amore mio. Non sono
per
niente vicino a un addio, non essere triste amore mio».
Volevo fargli sapere
che avevo imparato la canzone e che non era vero che non mi piaceva
perché
quella sera sul tetto mi era entrata nell’anima come un
uragano.
«E
il mio domani intero è questo tempo mezzo rotto, ma
nonostante tutto,
tutto…».
«Io
non ho finito, perché ho sete ancora. Io non ho finito,
fuori è primavera.
Io non ho finito, non ti lascio ora».
Piano
piano anche gli altri iniziarono a canticchiare e Law pensò
bene
di avvicinarsi e far partire la canzone dal suo cellulare
posizionandolo accanto
al microfono, in modo che tutti potessero ascoltare
quell’ultimo nostro addio.
«Anche
con i crampi, con la fine sulla faccia, col dolore che mi schiaccia e
non lo
sai. Anche con la gioia di sapere che dovunque ce ne andremo non ci
lasceremo
mai».
Nella
mia testa scorrevano tutti i nostri discorsi, tutti i ricordi e le
immagini di quei mesi vissuti intensamente. Penguin che faceva
irruzione per la
prima volta nella mia stanza, presentandosi e tendendomi la mano,
ritirandola
subito dopo nel rendersi conto che le mie erano fasciate e che non
potevo
muoverle; lui che mi infastidiva con la sue avances e che mi faceva il
filo
spudoratamente; la sua faccia e l’espressione sognante che
faceva ogni volta
che gli apparivo davanti; i sospiri che si lasciava scappare quando gli
davo le
spalle; il sorriso solare e allegro che mi rivolgeva più
volte durante il
giorno; gli incoraggiamenti; la prima volta che mi mostrò la
gamba amputata;
gli scherzi e le battute; la paura per le condizioni dei suoi amici;
l’affetto
verso Law che considerava come un fratello; la simpatia per Kidd; la
venerazione per Ace e Marco e… E… tutto quello
che provava per me, anima
dannata. Mi aveva chiesto di continuare a lottare per lui, di vivere,
di stare
bene, ma come avrei potuto andare avanti da quel momento in poi? Come
poteva
pretendere che non mi sentissi solo, abbandonato, sperduto.
Kira-chan.
Fu
solo un sussurro che mi fece sobbalzare e notando lo sguardo stupito
e incredulo di Law capii che l’aveva sentito anche lui e che
non me l’ero
immaginato. Penguin c’era, era ancora lì con noi.
Come aveva promesso,
dopotutto.
«Io
non ho finito» mormorai, prima che le ultime note della
canzone
finissero, lasciando l’intero edificio nel più
completo silenzio.
Era
solo l’inizio, ma faceva così male.
*
(Alcuni
giorni dopo).
L’ospedale
era sempre stato un luogo abbastanza smorto, tranquillo,
quasi inanimato; un posto di passaggio dove la gente finiva per
trascorrere gli
ultimi giorni di vita, eppure, durante la mia permanenza, non mi ero
mai
sentito depresso. Tutti i giorni, senza rendermene conto, mi alzavo con
l’ombra
di un sorriso sulle labbra e non mi pesava passare le giornate chiuso
in quella
struttura, affatto, perché sapevo che non mi sarei mai
annoiato, che avrei
sempre trovato qualcuno con cui passare il tempo, anche se sarei finito
per
perdere la pazienza. Ero arrivato a definire quel luogo addirittura
divertente.
Da
una settimana, però, non era più così.
Tutti sembravano aver perso
quel barlume di allegria e vitalità che era corso fra i
corridoi in quei mesi. Era
come se la vita se ne fosse andata assieme a Penguin e ciò
non faceva altro che
peggiorare le cose.
Io
non ero mai stato molto socievole, ma ebbi modo di scoprire che
esistevano elementi più schizzati e scontrosi di me come, ad
esempio, Killer. Le
persone verso le quali nutrivo un certo rispetto erano poche e gli
amici che
avevo si contavano sulle dita di una mano, ma lui faceva parte di
queste poche
eccezioni, perciò mi si straziava il cuore vederlo preda
della disperazione. Era
inavvicinabile e spesso si chiudeva in camera a chiave, tanto che
più di una
volta ero stato costretto, su richiesta dei medici, a sfondare la
porta. E poi
dicevano che rischiavo di avere un infarto.
Non
parlava con nessuno, si era chiuso in se stesso e l’ultima
volta che
ero riuscito a stare con lui era accaduto quando l’avevo
portato sul tetto per
farlo ubriacare su consiglio di Trafalgar. Cosa che aveva funzionato
alla
grande e che l’aveva reso, almeno per qualche ora, immune al
dolore che la
perdita gli aveva causato. Peccato che all’interno
dell’ospedale fossero
vietati gli alcolici e che non potessi renderlo un alcolizzato,
facendolo
ubriacare tutti i giorni.
Alla
fine ero giunto a credere che avesse solo bisogno di tempo e che
sarebbe venuto a cercarmi lui quando ne avrebbe avuto bisogno. Doveva
aspettare
che la ferita si rimarginasse almeno un po’ e
perché ciò accadesse occorreva
tempo, quello che Penguin non aveva avuto per dirci addio in un modo
meno
drastico.
Sospirai
e mi passai una mano sul viso stanco, massaggiandomi gli occhi
e finendo per passarmi le dita fra i capelli per ravvivarli,
incontrando poi lo
sguardo vuoto del ragazzo che mi stava di fronte. Anche lui, come
tutti, stava
soffrendo nonostante mantenesse sempre una facciata intoccabile e
seria, quasi
innaturale.
«Forza,
finiscilo» mormorai con poca convinzione, sperando che
bastasse
comunque per convincerlo a mettere in bocca qualcosa. Il mio timore
più grande
era che Trafalgar smettesse di mangiare a causa di quel brutto colpo
che aveva
toccato tutti con la stessa intensità.
«Non
ne ho molta voglia» sussurrò infatti,
giocherellando con il riso e
la verdura sparsi nel piatto e guardandoli con una smorfia. Non era
nemmeno più
capace di ghignare e si limitava a espressioni apatiche o poco convinte.
«Solo
un altro po’, per favore». Io, invece, mi ero
proprio rammollito,
tanto che avevo iniziato a concludere le frasi con grazie,
prego e per favore.
Intuendo
il mio stato d’animo e probabilmente sperando di risollevarmi
in parte l’umore tetro, Trafalgar fece uno sforzo e mise in
bocca altri due
bocconi della sua cena per poi spingere il piatto verso di me, come a
voler sottolineare
che per quel giorno ne aveva avuto abbastanza e non avrebbe
più toccato altro.
Sollevai
un angolo della bocca per mostrargli il mio apprezzamento, di
più non riuscivo a fare, e finii gli avanzi in silenzio
totale. Quando riposi
il piatto nel carrello che gli infermieri lasciavano sempre nella
stanza,
Trafalgar si alzò con calma dalla sedia, aggirando il tavolo
e venendo a
piazzarsi in braccio a me senza dire una parola, accoccolandosi sul mio
petto e
appoggiando la testa nell’incavo della mia spalla. Poi chiuse
gli occhi e si
lasciò avvolgere dalle mie braccia.
Da
quando avevamo dormito assieme per la prima volta erano cambiate
molte cose. In quegli ultimi mesi era stato tutto un rincorrersi tra i
corridoi,
baci rubati negli ascensori, insulti gratuiti ad ogni ora del giorno,
frecciatine maligne e allusive e tanto, tanto sano sesso. Dio, ancora
mi
chiedevo perché avessimo aspettato tutto quel tempo prima di
darci dentro. Inoltre,
in quel modo, avevo la possibilità per stargli alle calcagna
durante i pasti e
obbligarlo a mangiare, infatti aveva iniziato pure a prendere peso e,
da quando
avevo iniziato a stargli dietro, aveva messo su circa tre kili, una
vera
soddisfazione per i medici che lo curavano. Continuava a fare i
capricci e a
non volersi ingozzare troppo, ma sbocconcellava già di
più. La mattina era il
momento migliore, finiva la colazione da solo e a volte si divertiva a
rubarmi
il caffè. Il mio smisurato ego mi diceva che il suo appetito
veniva tutto dalla
fatica che gli facevo fare sotto le coperte, ma quello, ne ero certo,
il
bastardo non l’avrebbe mai e poi mai ammesso.
Non
era una novità ritrovarmelo spiaccicato addosso ma, se prima
si
avvinghiava a me alla ricerca di qualche bacio passionale, da qualche
giorno non
faceva altro che nascondere il viso sul mio petto e parlare, lasciando
correre
i suoi pensieri a briglia sciolta e svelando tutto il dolore che la
morte di
Penguin gli aveva causato. Non voleva mostrarsi triste e debole davanti
agli
altri, preferiva fingere di essere forte per infondere loro un
po’ di coraggio,
ma sapevo che dentro di lui soffriva. Così, quando
gliel’avevo fatto notare,
era bastato girarci un po’ attorno per rompere quella sua
barriera di finzione
e offrirgli un po’ di conforto quando altrimenti
nessun’altro l’avrebbe fatto
per lui.
«E’
sempre più difficile» sussurrò
sommessamente.
«Lo
so» risposi, accarezzandogli distrattamente la schiena.
«Mi
sembra impossibile e non riesco ancora a crederci. Credo sempre di
vederlo sfrecciare per i corridoi con quella stramaledetta sedia a
rotelle»
confessò, riuscendo a strapparmi un ghigno con quella
affermazione. La carrozzina
di Penguin l’avevamo comprata per evitare che venisse
riutilizzata. Per noi era
davvero importante conservarla.
«A
volte mi chiedo se ne valga davvero la pena» aggiunse poi con
un tono
sommesso, quasi come se volesse evitare di farsi capire, ma il
significato che
potevano avere quelle parole non mi piacque per niente, tanto che mi
irrigidii
sulla sedia.
«Cosa
intendi?» domandai serio.
«Sarebbe
tutto più facile se smettessimo di lottare,
Eustass-ya».
Non
gli lasciai aggiungere altro perché, senza rendermene conto,
o forse
sapevo quello che stavo facendo, solo che non volevo fermarmi, lo
colpii in
viso con un pugno, facendolo ribaltare sopra al tavolo davanti a noi e
alzandomi in piedi di scatto con la rabbia che mi esplodeva nelle vene.
Lui
intanto si massaggiò lo zigomo e si rialzò come
meglio poté,
guardando a terra e arricciando le labbra per le fitte che gli
provocava il
colpo subito.
«Penguin
non ha mai nemmeno pensato di gettare la spugna!» urlai,
facendolo sobbalzare e obbligandolo a guardarmi negli occhi con stupore
misto a
senso di colpa. Poco importava, quello stronzo mi aveva davvero fatto
incazzare
ed io non avevo ancora sfogato il dolore per la perdita del
nanerottolo. «Sai
cosa mi ha chiesto il giorno prima che lo operassero? Mi ha implorato
di non
abbandonarti nemmeno un secondo e poi mi ha fatto promettere che non ti
avrei
lasciato solo ad autodistruggerti perché per lui eri come un
fratello. E ora
che vorresti fare, eh? Mandare a puttane i tuoi miglioramenti solo
perché sei
un debole? Sai che ti dico allora? Fai quel cazzo che vuoi,
vorrà dire che la
scommessa la vincerò io!».
Fu
una liberazione sbattergli in faccia la realtà nella
speranza che si
desse una svegliata. Era più furbo, sadico, stronzo e
intelligente di me, ma in
questioni di vita era davvero un ignorante.
Uscii
dalla stanza dandogli le spalle e dirigendomi verso il piano dove
era stato spostato Killer. Avevo ancora qualche bottiglia di vodka di
riserva e
quella notte non ci sarebbe stata nessuna porta chiusa ad intralciarmi
perché l’avrei
sicuramente sfondata per afferrarlo per i capelli e obbligarlo a
seguirmi sul
tetto. Probabilmente quello di cui tutti avevano bisogno era una bella
sbronza
ed io ero stato il primo a capirlo.
Angolo
Autrice:
Oui,
sono qui, esattamente dopo una settimana. Beh,
meglio dell’ultima volta, non credete? Okay, okay, andiamo
avanti che è meglio.
Stavolta
non ho ritardato, ma non avete idea del magone, della tristezza
e dello strazio che mi hanno investito mentre scrivevo il capitolo.
Davvero,
continuavo a chiedermi perché mai ho dovuto far morire un
personaggio così, a
detta mia, meraviglioso. Ormai è fatta e spero comunque di
non aver deluso
nessuno con la svolta dei fatti.
Oggi
abbiamo la lettera che Penguin ha lasciato a Killer (mi
sto sentendo male), cosa che è stato
difficilissimo scrivere, lo ammetto, e non sono ancora sicura di averla
resa al
meglio, ma mi affido al ostro impeccabile e sacro giudizio, dopotutto
ho ancora
tanto da imparare! Un giorno, in futuro, magari vi farò
annegare nelle vostre
lacrime, ma per adesso andiamo con calma e un po’ di
commozione (almeno quella, lol).
E
poi Killer al funerale. All’inizio ho voluto mettere i
pensieri dei
ragazzi. Vi scrivo i nomi in ordine per ogni evenienza: Kidd, Law, Ace
e Marco.
Avrei voluto far dire qualcosa di epico e strappalacrime al biondo, ma
poi ho
pensato che fosse giusto che tenesse per se i suoi sentimenti e mi
è sembrato
carino far sì che salutassero Penguin con la sua canzone che
canticchiava
costantemente. Ovviamente è distrutto e non sarà
facile per lui riprendersi,
ma, come ha notato Kidd, per certe cose ci vuole tempo e alcune ferite
sono più
dure a guarire.
E
a proposito di Kidd, solo io lo trovo tanto maturato, cambiato e meno
stupido? Ci vuole un punto fermo, ogni tanto, e lo trovo adatto nel
ruolo di,
come dire, persona mentalmente stabile?
Insomma, credo che Law, oltre ad essere un bastardo sadico, in questa
storia ha
un problema abbastanza serio, dopotutto è finito
all’ospedale perché permetteva
al suo corpo di non nutrirsi e di morire lentamente, per cui mi
è sembrato
logico il suo pensiero di arrendersi anche se, come vedremo
prossimamente, le
sue parole sono state dettate solo dalla tristezza e dal dolore per la
morte di
Penguin. Kidd l’ha capito, ma vuole anche assicurarsi che il suo ragazzo non faccia
sciocchezze e smetta di nuovo di mangiare.
Una
bella botta da superare, insomma, credo che non sia facile per
nessuno la morte di un amico. E’ una cosa che non auguro a
nessuno di provare.
La
prossima volta troveremo Ace, Marco e Law e, beh, se riesco ad
organizzarmi bene e se sono brava vedrò di lasciarvi tutti
sorpresi e a bocca
aperta.
Mi
pare che sia tutto chiaro e approfitto per ringraziare di cuore
tutti, recensori e lettori, e vi mando un abbraccione grande, grande!
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7. ***
Capitolo 7.
(Dopo due
settimane).
«Non
pensi che sia ora
di andare a dormire?».
«Vuoi
scherzare? Ho dormito
per quasi un anno e adesso non voglio fare altro che stare
sveglio!».
«I
medici hanno detto
che…».
«Si
fottano i dottori.
Si fottano le loro cartelle cliniche e le loro medicine. Si fottano
tutti!».
«Ace…».
«Che
c’è? Io sto
benissimo, non vedi?» risposi, forse un po’
più istericamente del previsto.
«Lo
vedo» sospirò
Marco, alzando il capo per guardarmi dato che ero scattato in piedi
come una
molla per evidenziare il mio stato di buona salute, «Ma non
dovresti tirare
troppo la corda. Devi rimetterti passo dopo passo»
spiegò pacato, con lo stesso
tono paziente che usava sempre quando ero più piccolo e
doveva farmi entrare in
testa il perché non potessi fare tutto quello che volevo.
Repressi
l’istinto di
prenderlo a schiaffi e mi accucciai accanto a lui per essere alla
stessa
altezza, guardandolo con un sorrisetto un po’ pestifero e
appoggiandogli una
mano sulla spalla in modo confidenziale. «Ho perso un sacco
di tempo e non ho
intenzione di perderne altro, chiaro?». Non avevo bisogno di
una vera risposta
da parte sua, avevo già preso la mia decisione e non avevo
alcuna intenzione di
controllarmi solo perché nessuno credeva possibile che mi
fossi svegliato da un
coma ormai quasi irreversibile. Temevano tutti una ricaduta, ma io
sapevo che
non sarebbe successo. Mi sentivo benissimo e pieno di vita, inoltre me
l’aveva
detto Penguin. Lui non mi avrebbe permesso di ritornare in quelle
condizioni.
Scossi il
capo per
scacciare via i pensieri tristi e la malinconia che la morte di quel
ragazzo
portava con sé. Era ancora una ferita aperta e ogni giorno
sentivo la mancanza
delle sue chiacchiere, come tutti del resto, ma mi sforzavo di essere
forte e
di andare avanti per lui, sorridendo il più possibile e
immaginandomelo sempre
a trotterellarmi accanto. Era una misera consolazione, ma almeno in
parte
funzionava e leniva un po’ il dolore.
«Sei
più schizzato del
solito da quando ti sei svegliato, ragazzino» disse Marco ad
un certo punto. Si
era scostato un po’ da me e aveva ripreso a guardare il
panorama di cui si
godeva dal tetto dell’ultimo piano.
Inarcai
un
sopracciglio, sfoggiando un’espressione scettica e curiosa.
Non avevo ben
capito a cosa si stava riferendo di preciso, ma sapevo che avrebbe
continuato
il suo discorso, così mi limitai a fargli sentire addosso il
peso del mio
sguardo, ghignando quando sbuffò, alzando gli occhi al cielo
e rivolgendomi
un’occhiata esasperata.
«Cambi
umore da un
momento all’altro» chiarì, «Un
attimo prima sei tranquillo e allegro, mentre
quello dopo rispondi male o ti arrabbi. E’ stressante cercare
di capirti».
Riflettei
sulle sue
parole, pensandoci su per qualche istante e raggiungendo una sola e
unica
conclusione, anch’essa riguardante tutto il tempo perso a
stare in coma.
«Sai,
forse mi comporto
così perché per tanto tempo non ho potuto farlo.
Devo solo ambientarmi,
riprendere confidenza con le emozioni, poi
passerà» decretai e fui contento di
vederlo annuire, d’accordo con quello che avevo detto. Erano
poche le volte in
cui mi dava ragione, di solito ero sempre io quello che aveva bisogno
di
risposte, illuminazioni o perle di
saggezza, come le chiamava scherzosamente Thatch.
Attorno a
noi calò il
silenzio e l’unica cosa che ci faceva compagnia, oltre a noi
stessi, erano i
rumori tipici del centro città in lontananza e i suoni
notturni provenienti dal
giardino sul retro dell’ospedale. La lampadina fissata sopra
alla porta delle
scale antincendio si spense per alcuni istanti, tremolando e
riprendendo ad
illuminare fiocamente il cemento attorno a noi, probabilmente il
generatore
doveva avere qualche intoppo.
Non
faceva tanto
freddo, sebbene fosse arrivato l’inverno, inoltre ci eravamo
ben coperti prima
di uscire in terrazzo. Io ero ancora in convalescenza, mentre Marco
avrebbe
potuto tornare a casa quando avrebbe voluto. Tuttavia, sembrava deciso
a non
lasciare il resto dei ragazzi e me in quelle quattro mura a guarire da
soli.
Guardai
intensamente il
cielo scuro, buio e senza nemmeno una luce. Non c’erano
stelle quella sera, ma
non importava, a me andava bene ugualmente perché tutto
aveva molto più senso
da quando avevo riaperto gli occhi. Ogni cosa, anche la più
insignificante, era
degna di attenzione e mi ritrovavo spiazzato e imbambolato di fronte a
qualsiasi oggetto, colore, costruzione o persona. Non avevo visto nulla
per
mesi e mesi ed era come se fossi appena nato, tanto ero pieno di
curiosità e
meraviglia.
Quando
avevo riaperto
gli occhi non me ne ero nemmeno reso conto, sinceramente,
perché ormai mi ero
abituato ad immaginare le cose basandomi sui rumori attorno a me e
sulle parole
che mi venivano rivolte e che riuscivo a percepire, perciò
l’immagine di Marco
era già chiara e nitida nella mia mente anche senza che io
l’avessi vista.
Quando poi mi ero ritrovato i suoi occhi fissi e fermi nei miei mi era
sembrato
impossibile che fosse vero. Avevo creduto che si trattasse di
un’illusione, ma
era uno sguardo troppo carico e vivo
perché potesse trattarsi solo di un’allucinazione
o di uno scherzo dei farmaci.
La prova che tutto ciò era reale, comunque, era arrivata non
appena mi ero
ritrovato soffocato dalle sue braccia in un turbinio di pagine
svolazzanti e
lenzuola aggrovigliate alle gambe. Probabilmente ero scoppiato a
piangere
perché ricordavo vagamente di aver avuto la vista appannata
e le guance umide,
poi c’era stato il sapore salato sulle labbra, quindi si,
dovevo per forza
essermi lasciato un po’ andare alle emozioni. Marco, invece,
mi aveva stretto
forte, fortissimo, a sé, inghiottendomi con la sua stazza ed
io mi ero
accontentato di nascondere il viso sul suo petto, circondandolo con le
braccia
che ero riuscito a muovere, anche se deboli e tremanti. Ero stato
troppo
impegnato a rendermi conto del miracolo che mi era stato concesso per
ascoltare
quello che aveva mormorato in quell’attimo. Per quanto ci
avessi ripensato,
proprio non riuscivo a rievocare le sue parole sommesse.
Poi
c’era stato tutto
un via vai confuso di dottori, infermieri e pazienti curiosi che
spiavano dalla
porta il miracolo, ovvero la mia ritrovata capacità di
intendere e di volere.
Erano seguite delle ore infinite di controlli, domande e sciocchezze
simili,
quando io avevo solo voglia di starmene tranquillo con la mia famiglia.
Alla
fine avevo avuto il mio momento di pace che, però, avevo
passato nella
tristezza più totale a causa della morte di Penguin. Un
po’ me l’ero aspettato
visto il discorso che mi aveva fatto nei miei sogni, ma avevo sperato
fino
all’ultimo che stesse scherzando, che fosse riuscito a
superare l’intervento.
Le cose non erano andate come volevo e mi ero chiesto più
volte se la sua
dipartita fosse dipesa dal mio risveglio. Una vita per una vita, questo
avevo
sentito dire molte volte e l’idea di aver privato quel
ragazzo così solare dei
suoi anni migliori mi logorava. Ad ogni modo, il malessere era passato
in
fretta perché, in quelle settimane, soprattutto dopo il
funerale, avevo
continuato a rivederlo quando mi addormentavo e una di quelle volte mi
aveva
riferito che se la stava spassando e che andava tutto bene.
Aveva ripetuto quella parola fino a che non mi ero svegliato.
In certi
momenti mi sentivo
uno svitato, un pazzo a credere a cose del genere, ma la
verità era che mi
facevano sentire meglio, perciò me ne fregavo del giudizio e
del parere dei
medici e degli scettici e mi aggrappavo a quelle piccole cose e
sensazioni con
tutto me stesso. Ne avevo bisogno, erano il mio antidolorifico.
In quelle
due ultime
settimane, poi, mi avevano spostato in riabilitazione, lo stesso piano
di
Killer, ma lui l’avevo visto solo di sfuggita
perché non si faceva avvicinare
da nessuno. Solo Kidd riusciva a parlargli, o meglio, urlargli dietro.
Diceva
che era l’unico modo efficace per calmarlo. Ad ognuno la sua
croce, in poche
parole.
«Ace,
cosa sentivi
quando dormivi?».
Sobbalzai
e diedi la
colpa di quella reazione alla domanda improvvisa e inaspettata che mi
aveva
rivolto Marco e non al fatto che mi avesse chiamato per nome. Poteva
sembrare
strano, ma lui aveva sempre avuto un modo tutto suo di pronunciarlo.
Dall’intonazione
della voce riuscivo a capire se era stanco, contento oppure arrabbiato.
Tutto
ciò era frutto di anni e anni passati a stretto contatto ed
era inutile dire
che l’ultimo era il mio preferito. In quel momento,
però, era solo curioso.
«Uhm,
nel senso cosa
udivo o cosa provavo?» chiesi dubbioso, non avendo capito a
fondo la domanda.
Si
strinse nelle spalle,
come se fosse indifferente. «Tutti e due».
«Oh,
allora, vediamo…
Beh, penso che potrei diventare uno psicologo dato che mezzo mondo
veniva a
confidarsi con me, comprese le infermiere! Mi raccontavano dei loro
problemi
amorosi, capisci? Non ridere, non immagini il supplizio! Che vuoi che
m’importi
a me di tutti quei casini! Ah!». Alzai le braccia al cielo
con fare scocciato.
In quei mesi ne avevo passate di tutti i colori. «Mi
innervosivano, non
facevano altro che chiedermi consigli e pormi quesiti ai quali si
rispondevano
da sole. E mi ringraziavano pure per la chiacchierata!».
Così,
mentre
quell’idiota accanto a me se la rideva, io gli elencavo tutti
i discorsi più
assurdi, insulsi e stupidi che mi era capitato di ascoltare durante il
coma.
«Ma
per fortuna
c’eravate voi a darmi un po’ di sollievo. Non ci
crederai, ma indovina chi
passava a vedere come stavo ogni tanto. Trafalgar, si, proprio lui. Si
fermava
anche per un pomeriggio intero e si sedeva sulla sedia a leggere non so
bene
cosa, un libro di anatomia credo. Alcune volte faceva anche delle
ricerche, mi
spiegava che stava cercando una seconda
chance per un nostro amico in comune».
Marco
fece un mezzo
sorriso al quale non potei fare a meno di rispondere nella stessa
maniera.
Sapevamo entrambi per chi era la cura e speravo davvero che riuscisse
nel suo
intento perché Eustass Kidd mi piaceva. Era uno stronzo
indelicato, certo, ma
aveva carattere e lo ammiravo. E poi aveva contribuito a portarmi sul
tetto a
vedere i fuochi d’artificio, quindi mi stava simpatico per
principio.
«Penguin
passava
sempre, invece» mormorai, facendo un respiro profondo per non
lasciarmi
abbattere e stringendo i denti. Era sempre più difficile
nominarlo, ma dovevo
essere forte. Glielo dovevo. «Lui e Killer non mancavano mai
di farmi visita e
ogni tanto anche Kidd li seguiva. Bestemmiava e li minacciava di morte
per metà
del tempo, ma almeno mi distraeva dalla monotonia».
«Lui
ha un modo tutto
suo di relazionarsi con gli altri» commentò Marco.
«Comunque direi che te la
sei passata bene tutto sommato».
«Il
merito è anche tuo»
aggiunsi sincero e senza volerlo.
«Si,
beh, sei in debito
a vita, ricordalo» scherzò, dandomi una spallata
per tormentarmi.
«Sicuramente
non avrei
resistito senza la tua presenza» lo imitai con finta
gratitudine e iniziando a
ridere.
«Ovvio,
immagina che
palle senza me a tirarti su di morale».
«Tsé»
sbuffai con
sarcasmo, «Se non c’eri tu con i tuoi sensi di
colpa e i tuoi complessi probabilmente
sarei morto dalla noia». Stavo scherzando, sul serio, non
l’avevo detto per
offenderlo, ma fraintese le mie parole e si fece serio, bloccandomi il
polso
prima che gli tirassi uno scappellotto sulla testa per vendicarmi.
«Scusami,
non volevo
dire…» iniziai subito, intenzionato a rimediare
alla mia lingua troppo lunga.
«Oh
si, invece lo
volevi proprio» disse, liquidando qualsiasi mio tentativo di
riparazione con un
tono freddo e distaccato che mi infastidì un poco. Aveva
ragione, ero piuttosto
suscettibile in quegli ultimi tempi. E d’accordo, forse
quello era proprio ciò
che volevo dire. Perché, se volevamo essere pignoli, era
vero, era tutto vero.
Mi
studiò per qualche
istante durante il quale io non mossi un muscolo e non feci nulla per
negare
l’evidenza, poi si decise a parlare e, quando lo fece, fu
dannatamente serio.
«Ace, tu non hai la minima idea di cosa ho passato e di come
mi sono sentito. Non
puoi immaginare quan…».
No,
un’altra volta queste cazzate no. Non le voglio
più sentire, non ne posso più!, pensai, sentendo
montare la rabbia.
Finiva sempre in quella maniera: tutto girava attorno a lui e non
c’era mai
posto per gli altri. Non era stato lui quello che aveva dovuto salvare
dei
bambini e assicurarsi che stessero bene; non era lui quello che aveva
rischiato
di morire prima in un incendio e poi per un coma senza via di scampo.
Non era
stato lui quello a cui si era spezzato il cuore. A lui non era toccato
niente!
«Si
che posso» lo
interruppi glaciale e scoccandogli un’occhiataccia gelida che
andò a scontrarsi
con il suo sguardo severo e offeso. Ero stato a sentire per un anno
ogni sua
parola, ogni discorso, ogni maledetto pensiero e dispiacere che aveva
provato.
Era stato tutto un insieme di scuse, sensi di colpa, rimpianti e, dannazione!, avevo creduto di impazzire.
Sapevo benissimo quello che aveva passato e lo capivo, ma se
c’era qualcuno che
non sapeva nulla, quello era lui.
«Tu
parli di come ti
sei sentito, di quello che hai provato e della tristezza, ma a conti
fatti non
sai niente, Marco, proprio niente!» dissi tra i denti e
alzando un poco la
voce. «Sono io quello che
è rimasto
da solo quel giorno; io ho dovuto
affrontare quell’inferno; io
ho
affrontato le fiamme e sempre e solo io
sono stato costretto a restarmene fermo in un letto ad aspettare
qualcosa,
qualsiasi cosa, mentre tu non hai saputo fare altro che ripetermi che
ti
dispiaceva. Ma ora dimmi: cosa,
esattamente, ti tormentava? Perché non
l’ho mai capito!». Controllarmi era
sempre più difficile, ma ogni parola che mi usciva di bocca
mi faceva sentire
leggero come non mai, inoltre la stretta sul mio polso aumentava e
ciò non
faceva altro che innervosirmi e darmi la spinta per continuare.
«Non
sapevo se ti
saresti svegliato o no!» ribatté lui,
trattenendosi a stento dall’urlare. La
sua risposta sembrò più un ringhio che altro.
Poteva quasi fare concorrenza a
Kidd.
«E
a te cosa sarebbe
cambiato?». Sarcasmo pesante.
«Cosa
mi sarebbe…? Che
cazzo dici? Sei mio fratello!».
Quell’affermazione
fu
come una doccia d’acqua fredda. Eccolo il problema,
l’ostacolo più grande. Per
quanto ci provassi, però non riuscivo a disprezzare
ciò che per me
rappresentava la cosa più importante, ovvero
l’affetto, quel bene
incondizionato che solamente i fratelli riuscivano ad avere. Era stato
tutto
nella mia vita e avrebbe continuato ad esserlo, anche se faceva male.
«Se
non sbaglio
l’ultima volta che ci eravamo parlati avevi detto che ormai
il nostro rapporto l’avevo
rovinato, no?». Non ragionai e fu la rabbia a parlare, ma mi
pentii di quelle
parole quando ormai era già troppo tardi. Se gli avessi
tirato un pugno gli
avrei fatto meno male, quello era certo.
Infatti
Marco si
immobilizzò e rimase a bocca aperta. Sugli occhi un velo di
dolore.
Mi
dispiace, avrei
voluto dirgli, ma mi morsi un labbro per non cedere. Era giusto che lo
sapesse,
era giusto che capisse che non girava tutto attorno a lui, che non era
il solo
ad avere sofferto per tutto quel tempo che mai avremo riavuto indietro.
Probabilmente avevo scelto il modo peggiore per aprirgli gli occhi, ma
quello
era anche il più diretto ed efficace, a mio avviso.
Mollò
la presa e si
alzò all’istante, spolverandosi le ginocchia e
dandomi le spalle per dirigersi
verso le scale e rientrare. Una scena del genere l’avevo
già vista e la
sensazione di sentirmi sbagliato e stupido tornò a farsi
viva nel mio essere
com’era successo in passato. Se ne stava andando, di nuovo,
come aveva fatto
l’ultima volta. Solo che, da quel giorno di quasi un anno fa,
le cose erano
cambiate e non mi andava più di rodermi l’anima
solo perché lui non
riusciva a mettere ordine sulla sua
testa.
«Lo
vedi? Non sai fare
altro che andartene» sputai con ira. Ero stato proprio un
idiota a credere di
contare qualcosa per lui. Mi voleva bene, ovvio, ma nulla di
più, su quel punto
era stato chiaro, ma avrei preferito che me lo sbattesse in faccia,
piuttosto
di continuare a venire respinto con quel comportamento che mi feriva
più delle
parole.
Si
voltò all’improvviso
e mi afferrò per la collottola della maglia, strattonandomi
fino ad essere a un
centimetro dalla mia faccia. «Non ti permettere! Non hai
alcun diritto di
giudicarmi!» fece con astio.
«No,
appunto, le tue
azioni sono anche troppo chiare!» risposi sarcastico.
«Ace
mi stai incolpando
per cose che non stanno né in cielo, né in
terra».
«E’
proprio questo il
bello: io non ti ho incolpato di nulla! Sei tu che ogni giorno venivi
da me a
dirmi quanto ti dispiacesse di non essere rimasto
all’orfanotrofio e stronzate
varie! La verità, vecchio mio, è che tu ti
senti in colpa, ma per un motivo ben diverso
dall’incidente e dal mio
coma!».
Mi
guardò allibito e
sorpreso per qualche secondo prima di ribattere. Pure io ero rimasto
stupito
dalle mie risposte e dal mio nuovo coraggio. A quanto pareva, sembrava
che
avessi imparato un po’ dei modi bruschi di Kidd e altri
più diretti e senza
mezzi termini che spesso usava Law. Penguin me l’aveva detto
che quei due erano
dei pessimi esempi da cui trarre ispirazione, ma la cosa si stava
dimostrando
molto utile perché non avevo mai tenuto testa a Marco come
quella sera. Lui era
sempre stato quello più grande e più maturo,
quello bravo in tutto, quello
saggio e sveglio, mentre io ero l’ultimo della cucciolata,
quello da crescere e
da istruire, quello che ne combinava di tutti i colori e che poi veniva
strigliato a dovere. Mai, nemmeno una volta, avevo ribattuto alle sue
parole ma,
prima o poi, avrei dovuto crescere ed era arrivato il momento per farlo.
«Tu,
piccolo
insolente!» sbottò, stringendo la presa sul
colletto e assottigliando gli
occhi, «Non capisci un cazzo!».
«Cosa non capisco?» urlai,
liberando tutta la frustrazione che avevo
accumulato, «Che non riesci più a guardarmi in
faccia solo perché ti ho
baciato?» trovai il coraggio di dire. Non avevo
più niente da perdere, la
nostra amicizia se ne era già andata a puttane tempo fa.
«Perché quella è
l’unica cosa che sei riuscito a rendere chiara, fratello».
Il pugno
arrivò
all’improvviso e fu talmente veloce e inaspettato che mi
ritrovai col culo per
terra senza nemmeno accorgermene. Il dolore, però, fu niente
in confronto a
quello che stavo già provando a causa di tutta quella
schifosa situazione. Non
avrei mai dovuto tirare fuori l’argomento, anzi, non avrei
mai dovuto baciare
Marco. Mai. Le persone normali non
baciavano i propri fratelli.
«Maledizione,
Ace!»
inveì, attirando la mia attenzione su di sé,
«Va bene, hai ragione tu. Quando
mi hai baciato ti ho respinto perché… Cazzo, non
lo so nemmeno io il perché,
okay? E si, non c’è stato giorno senza che non mi
sia pentito di averlo fatto».
Respirò profondamente, chiudendo gli occhi e stringendo i
pugni lungo i
fianchi. Gli tremavano le spalle. «La verità
è che avevo paura che non ti
saresti più svegliato» ammise, «Avevo
paura di perderti, capisci? Avevo
paura. Avevo solo tanta paura!».
«Quello
non era un buon
motivo per dirmi che ti dispiaceva, razza di idiota! Non volevo farti
pietà,
non volevo essere compatito». Non dovevo piangere.
«E non volevo che ti
scusassi solo perché io rischiavo di morire e tu di vivere
col tormento!».
«E’
questo che pensi di
me? Mi credi così vile?».
«Non
fare la vittima
adesso, è quello che mi hai fatto intendere con i tuoi
modi» affermai una volta
rialzatomi, pulendomi le mani sui pantaloni felpati del pigiama.
«Vuoi sapere
cosa sentivo quando ero in coma? Beh, ho creduto di impazzire. Prima
avevo gli
incubi sull’incendio e poi c’eri tu che ti sentivi
in colpa e cercavi conforto
nello scusarti direttamente con me, facendomi sentire peggio. Dici di
aver
passato l’inferno, ma hai la vaga idea di cosa ho sopportato
io? Non potevo
prenderti a schiaffi, non potevo dirti di smettere e non sapevo se
avrei mai
più potuto parlarti o guardarti in faccia». Mi
sarei volentieri fermato lì se
un pensiero assurdo non mi fosse passato per la mente facendomi
scoppiare a
ridere, ma senza divertimento. Una risata senza anima, ecco.
«E’ così buffo,
sai? La volta che ho deciso di baciarti è stata anche la
prima e l’ultima. Deve
essere un segno del Destino» conclusi con un sorriso amaro.
«Non
pensavo di essere
la fonte di così tanto dolore» disse. Sembrava
volersi scusare, ma
l’intonazione era completamente sbagliata e dava ad intendere
tutt’altra cosa.
«Io
volevo solo che
fossi sincero» sussurrai a testa bassa, «Non volevo
stare a sentire discorsi su
un futuro incerto e che non sapevo nemmeno se mi sarebbe stato
concesso. Mi
sentivo impotente, non riuscivo a… A fare niente, Marco. E
ascoltare te mi
faceva male perché non sapevo se mi sarebbe stata concessa
la possibilità di
darti ancora un bacio, uno solo. Io non
lo sapevo» gemetti. Ero esausto e sfinito, quel
confronto mi aveva
distrutto psicologicamente e se prima non avevo sonno, dopo quello
scontro non
desideravo altro che dormire.
«Non
ti ho detto di
essermi pentito solo perché eri in coma e non avevo altro da
fare se non
piangermi addosso» fece dopo interminabili minuti di
silenzio, tanto lunghi che
avevo creduto che la cosa sarebbe finita lì e basta.
«L’ho fatto perché era
vero. E’ tutto
dannatamente vero e se
solo potessi tornare indietro io…».
«Ma
non puoi» chiarii
con calma e con un sospiro che sapeva tanto di rassegnazione,
massaggiandomi
distrattamente lo zigomo dolorante. Quel bastardo ci era andato
giù pesante,
non si era ricordato che ero ancora sotto osservazione?
«Già»
sussurrò senza
staccare gli occhi dai miei, «Ma posso rimediare.
Posso…».
«Lascia
stare» mormorai
stanco. Qualcosa nelle sue parole mi aveva fatto attorcigliare lo
stomaco,
mozzandomi il respiro, ma evitai con cura i suoi occhi, voltandomi da
un’altra
parte e muovendo qualche passo per aggirarlo e raggiungere le scale.
Attorno a
noi l’atmosfera era carica di scuse, disperazione e parole
non dette.
«Voglio
solo andare a
dormire, Marco».
Non
ricevetti risposta
e solo quando arrivai nella mia stanza, da solo, mi permisi di lasciare
andare
tutta la tristezza e la frustrazione.
Avere
fratelli faceva
schifo.
*
(La stessa sera,
qualche piano più sotto).
Le luci
tremolarono per
un istante, spegnendosi e riaccendendosi l’attimo dopo,
ridando stabilità a
tutto l’ospedale. Avrebbero dovuto mettere mano a quel
problema al più presto
se non volevano ritrovarsi al buio durante un’operazione
importante.
Cosa
aspettano per sistemare quell’affare?
Pensai furente, trattenendo a stento la calma.
«Ti
odio».
«Hai
voluto fare quello
che volevi? Bene, ora non lamentarti se hai rischiato un collasso e ti
tocca
restartene qui legato al letto».
«Me
ne frego del
collasso, fammi alzare!».
«Scordatelo»
sibilai,
scoccando a quella maledetta testaccia rossa un’occhiata
ammonitrice che
prometteva terribili torture se non si fosse calmato
all’istante.
Quell’idiota,
che razza
di idee malsane gli erano passate per la testa quando aveva deciso di
punto in
bianco di lasciare l’ospedale senza il permesso dei medici?
Nelle sue
condizioni aveva seriamente rischiaro di restarci secco per strada. E
Killer,
pure lui si era comportato da perfetto incosciente! Mi era sembrato che
avesse
più sale in zucca, ma a quanto pareva mi ero sbagliato. Due
pazienti nelle loro
condizioni non sarebbero mai arrivati tutti interi fino al porto.
‘Volevamo
fare un giro al mare’, ma vaffanculo!,
pensai con stizza, sfogliando malamente le pagine del libro che stavo
leggendo
mentre tenevo d’occhio quel coglione debole di cuore, sono mezzi morti e se ne fregano. Stupidi, stupidi,
stupidi!
«Ehi,
Trafalgar!».
«Cosa
cazzo vuoi?»
sbottai acido.
«Vedi
di darti una
calmata» mormorò a denti stretti e fissandomi
malamente, lasciando da parte
quello che voleva dirmi. «Quel tono non mi piace».
«Quale
tono, quello tu
che usi sempre con tutti?» sfottei.
«Sei
per caso
incazzato?».
«Incazzato,
io?
Vediamo, non ti sei fatto vivo per due settimane, sono venuto a sapere
da un
infermiere che te ne eri andato e poi ti vedo uscire
dall’ascensore caricato su
una barella con un sacco di tubi che ti uscivano dal corpo
perché, da bravo
coglione quale sei –mi premurai di sottolineare- ti sei
andato a compromettere
la stabilità che avevi raggiunto. Quindi dimmi: perché mai dovrei essere incazzato?».
Mi
fissò con una faccia
da schiaffi per qualche istante prima che sul suo viso facesse capolino
un
sorrisetto che non fece altro che irritarmi ulteriormente.
«Ho capito, allora
sei solo preoccupato».
«Cosa?».
Sbattei terra il
libro senza nemmeno rendermene conto
e, quando Eustass-ya me lo fece notare con un’occhiata
saccente, ebbi la
tentazione di soffocarlo con un cuscino.
Forse ero solo un
po’ arrabbiato, potevo
concederglielo, ma non preoccupato, affatto. Se moriva non me ne poteva
fregare
di meno. Lui e i suoi insulsi capelli rossi.
«Sta
tranquillo, non lo
dirò a nessuno» ghignò, calmandosi e
dimenticandosi per un attimo la sua voglia
di scendere dal letto per tornare a fare disastri in giro.
Sospirai
esasperato,
raccogliendo il volume da terra e posandolo con poca grazia sul tavolo
poco
lontano dove faceva bella mostra di sé la cena di
quell’invasato. Una
minestrina e un po’ di pane dal sapore di plastica. Che bello
schifo. Ovvio che
poi io mi rifiutavo di mangiare quello che mi portavano.
Kidd
intercettò il mio
sguardo e pensò bene di uscirsene con un’altra
delle sue cazzate di cui, per
quella sera, ne avevo avuto anche abbastanza. Ormai, però,
lo conoscevo piuttosto
bene da sapere che non avrebbe mai smesso di deliziarmi della sua
compagnia,
avrebbe di certo continuato ad assillarmi solo per il gusto di farmi
impazzire.
«Hai
fame? Mangiala
pure, io non ne ho voglia».
«Si
sono invertiti i
ruoli adesso, Baka-stass?»
domandai
scettico, giocherellando con il cucchiaio e rimescolando quella
brodaglia
dall’aria acquosa e schifosa.
L’altro
sbuffò seccato,
«Come siamo simpatici stasera».
«La
colpa è solo tua
perché sei un’emerita testa di cazzo»
gli resi noto tranquillamente.
«Ha
parlato…».
«Dannazione,
Eustass-ya, chiudi il becco per una volta!».
Passarono
alcuni
pesanti minuti di silenzio, interrotti solo dal rumore fastidioso e
tipico dei
monitor che controllavano il battito cardiaco del rosso per tenerlo
sotto
stretto controllo in caso di anomalie e solo dopo quando mi fui calmato
Kidd
riprese a parlare, più contenuto e attento di prima.
«Questo
ospedale sta
facendo male a tutti» notò con stizza, ma con un
sospiro quasi arrendevole.
Sapevo cosa intendeva, si riferiva alla nostra prigionia e
all’impossibilità di
potercene andare una volta per tutti. Lui e Killer ci avevano provato e
avevano
ottenuto solo guai, invece che la libertà agognata. Aveva
ragione, dopotutto,
stare lì faceva davvero poco bene alla salute.
«A
te soprattutto. Sul
serio, tenerti rinchiuso è dannatamente difficile»
confessai, sedendomi
stancamente sul bordo del letto e spostando con un gesto stizzito i
suoi piedi
per farmi spazio e acciambellarmi meglio tra le lenzuola.
Kidd fece
uno dei suoi
tipici sorrisetti da cattivo ragazzo, quelli che facevano parte del suo
repertorio quando, secondo lui, qualcuno gli faceva un complimento. A
mio
parere gli davano un’aria da completo bastardo, ma credo che
lo sapesse.
«Non
è facile tenermi
buono» affermò, dedicandomi un’occhiata
eloquente che voleva andare ad unirsi
ai pensieri che mi si stavano formulando nella testa.
Sorrisi
di rimando. A
volte era incredibile come riuscisse a capire al volo quello che stavo
pensando
ancora prima che lo dicessi.
«Ti
è mancato il sesso
selvaggio?» chiese di botto, «Per questo sei
incazzato e frustrato? Perché se
vuoi io posso benissimo sbatterti al muro anche adesso,
intendiamoci».
«Non
vorrei che ti
venisse un infarto» sibilai malefico, freddandolo con uno
sguardo minaccioso e
poco divertito. I suoi modi rozzi mi avrebbero sempre spiazzato, ne ero
certo.
«Non
hai risposto alle
mie domande» sottolineò, ghignando soddisfatto.
«Oh,
temo di doverti
deludere» feci, fintamente dispiaciuto, «Qualcun
altro è stato così gentile da
sostituirti».
Il
ragazzo si fece
serio all’istante e un’aria assassina si
impadronì del suo volto,
costringendomi a mordermi un labbro per non scoppiare a ridere. Kidd
era così
facile da mettere nel sacco e così credulone. La cosa bella
era che, in quel
modo, riuscivo a capire perfettamente quanto fosse sentimentale.
Infatti, quale
altra emozione poteva rappresentare quel cambio repentino del suo
umore? Si
trattava di gelosia, pura e meravigliosa gelosia.
«Tu
cosa? Rognoso figlio
di…».
Non
resistetti oltre ed
iniziai a ridere come un completo idiota, passandomi una mano sul viso
quando
la testaccia rossa aprì la bocca con aria stupita e
sconcertata, nonché offesa.
Aveva capito di essere stato fregato e, come da programma, non
mancò di
maledirmi con una serie di insulti originali e mai sentiti prima. Il
cuscino in
faccia che mi arrivò poco dopo, però, non lo
gradii affatto.
«Infantile!
–una
cuscinata sulla testa- Razza di idiota! –ecco che
cercò di contraccambiare- Ti
ammazzo!».
«Ma
che vuoi fare? Sei
più rachitico di mio nonno!» ribatté,
bloccandomi il braccio che reggeva il
cuscino e approfittando di quella mossa per colpirmi per primo.
Il colpo
mi fece
storcere il naso per l’impatto, ma riuscii a riprendermi
abbastanza in fretta
per sfuggire a quello seguente, piegandomi all’indietro con
uno scatto e
finendo con la schiena sul materasso dopo aver perso
l’equilibrio.
«Maledizione»
imprecai
a denti stretti, non appena Kidd mi sovrastò, gongolando
vittorioso e
sogghignando come un ebete.
«Adesso
sei ancora
arrabbiato?» domandò con tono scherzoso,
riferendosi al discorso precedente e
mettendosi comodo, puntellando i gomiti ai lati del mio viso per
sostenersi e
guardarmi in faccia.
Mi
imbronciai, evitando
i suoi occhi volutamente e incrociando le braccia al petto, per quanto
la sua
mole me lo permettesse.
«No,
non mi interessa
se vuoi ammazzarti da solo» dissi stupidamente, irritandomi
non poco quando lo
sentii ridacchiare di fronte al mio cipiglio da superiore.
«Volevo
solo tirare su
il morale a Killer» confessò infine, abbandonando
per un istante il
divertimento.
«E
ci sei riuscito?» mi
accertai.
Sorrise.
«Un po’».
«Potevi
chiamarmi»
borbottai, «O almeno dirmelo. Oppure, che ne so, fare
qualcosa. Sei sparito,
cazzo».
«Te
lo meritavi, lo
sai».
Lo
guardai torvo, punto
nel vivo del mio orgoglio e infastidito dal fatto di non essere
riuscito a far
passare lui dalla parte del torto. La cosa peggiore era che sapevo di
essermi
meritato quel comportamento distaccato nei miei confronti. Avevo detto
una cosa
assurda e priva di senso, forse anche un po’ egoista dato che
uno dei nostri amici
era appena morto, perciò alla fine ero arrivato a capire
dove avevo sbagliato,
ma sentirmelo dire espressamente da lui e doverlo ammettere ad alta
voce
bruciava. Soprattutto per uno come me che era abituato a prevalere su
tutti ed
avere sempre l’ultima parola.
«Vaffanculo,
Eustass-ya» mormorai, deciso a non dargliela vinta e a
mantenere una briciola
di amor proprio intatta. Non potevo lasciare che quel moccioso
iniziasse a
credere di avere tanta influenza su di me, assolutamente.
«Stronzo
psicopatico».
«Non
sprecare il fiato,
potrebbe servirti».
«Per
rianimarti quando
crollerai a terra senza energie?».
«O
per avere una
riserva quando starai per tirare le cuoia».
«Datti
fuoco» sbottò.
Fu il mio
turno di
ghignare, felice di essermi ripreso una soddisfazione personale che era
quasi
come una rivincita su tutto quello che era successo. Quando Kidd
rispondeva ad
una frecciatina con un insulto voleva dire che non aveva più
nulla da usare per
ribattere aspramente. Ciò, ovviamente, mi dava un immenso
piacere.
Stupidamente
mi
ritrovai a pensare che mi era mancato quello scambio di battute, quella
sua
faccia incazzata e l’espressione burbera, i capelli
disastrati e i modi poco
cordiali e bruschi. Erano state due settimane insulse, vissute in modo
passivo
senza uno scopo o un obbiettivo. Non mi ricordavo nemmeno come ero
solito
vivere quando ancora non avevo incontrato quel coglione di Eustass-ya.
Cosa
facevo per non morire dalla noia durante il giorno? Chi mi infastidiva
tanto?
Con chi è che sfogavo il mio sadico umorismo? Era assurdo,
lo sapevo e me ne
rendevo conto, eppure non ne avevo la minima idea. Pensarlo era
già abbastanza
difficile, ma dirlo sarebbe stata una vera e propria eresia, ma, ad
ogni modo,
Kidd aveva praticamente fatto un miracolo, distraendomi, tormentandomi
e, soprattutto,
sfidandomi a mangiare. Aveva capito che bisognava mettermi alla prova,
darmi
una scusa per mostrarmi migliore degli altri, e aveva usato tutto
ciò a suo
vantaggio solo per non lasciarmi morire di stenti.
Cazzo,
a questo qua devo quasi la vita,
pensai controvoglia, fissandolo storto e con una smorfia sulle labbra.
Lui stava
facendo lo
stesso, guardandomi schifato e studiandomi attentamente, pronto a
difendersi se
mai lo avessi attaccato verbalmente. Sembravamo quasi due persone che
si
incontravano per la prima volta e che capivano di detestarsi alla prima
occhiata.
Diciamo
che per noi era
andata proprio in quel modo.
«Che
hai da guardare?»
disse acido, assottigliando lo sguardo.
Sbuffai
seccato,
«Guardo quanto sei ridicolo con quei capelli».
«Capelli
che non ti
dispiace accarezzare quando scopiamo, vero?»
sussurrò malizioso, avvicinandosi
di qualche centimetro e non lasciandomi nemmeno il tempo di ribattere
per le
rime a quell’affermazione falsa
e assurda che non aveva niente di vero.
A volte
desideravo
davvero che tutto finisse per non dover più soffrire, ma poi
arrivava lui con
qualche stronzata, un bacio che sapeva di buono e un cuore da guarire.
Come
potevo, allora,
smettere di esistere?
Sciolsi
le braccia che
tenevo incrociate e gli passai le mani tra quella zazzera infuocata,
sentendolo
sorridere soddisfatto.
«Non
dire nulla» lo
minacciai, prendendo fiato per ricominciare poi da dove avevo
interrotto.
Volevo solo che stesse un po’ zitto, poi avrebbe potuto dire
tutto quello che
voleva, ma solo dopo, quando avremo
finito di consumarci a vicenda la bocca e tutto il resto di noi che
bruciava e
ardeva allo stesso tempo.
Grazie al
Cielo non si
sognò nemmeno di controbattere.
*
Qualcosa
non andava.
Era notte
fonda,
Trafalgar si era addormentato da un pezzo ormai sulla poltrona accanto
a me e
in corridoio non si sentiva volare una mosca. Allora cos’era
quel fastidioso
fischio che mi stava rimbombando nelle orecchie incessantemente?
Feci per
muovermi con
l’intento di mettermi seduto e accendere la luce, ma una
fitta allucinante al
petto mi mozzò il respiro e mi fece rendere conto che il
sibilo che sentivo era
quello emesso dal mio respiro ansimante, confuso con quello tipico del
monitor
che sembrava stare impazzendo accanto al mio letto.
Una luce
inondò la
stanza e rumori di sottofondo misti a una voce ovattata mi diedero la
conferma
che c’era davvero qualcosa che non andava e, purtroppo,
sapevo anche di cosa si trattava.
Il
problema era il mio
cuore.
Stava
cedendo.
Mi sentii
quasi
sollevato all’idea, me l’ero anche aspettato che
sarebbe successo a breve,
dopotutto aveva retto abbastanza a lungo da permettermi di godermi gli
ultimi
mesi in santa pace.
Beh,
magari pace era una parola grossa,
visto e
considerato che ero stato circondato da idioti assillanti e pazzi, ma
dovevo
anche ammettere che non era andata tanto male ed ero soddisfatto del
risultato.
Non
potevo nemmeno
lamentarmi, soprattutto perché mi era persino stata concessa
un’ultima notte
con quel bastardo saccente di Trafalgar. Dovevo quindi mettermi il
cuore, anzi,
l’anima in pace e
accettare quel
destino.
Avrei
potuto
combattere, non ero mai stato tipo da gettare la spugna, ma i medici
erano
stati chiari su quel punto: se il cuore cedeva, voleva dire che non
c’erano speranze.
Prima di
morire, però,
avrei dovuto sopportare il dolore, la sensazione di annegare e cadere
nell’oblio e il respiro che mi moriva in gola per quanto male
mi faceva il
petto.
Davanti a
me
intravvedevo un’unica figura indistinta che parlava, o
urlava, a vanvera, iniziando
a inserire tubi nelle mie vene per tentare di stabilizzarmi e facendo
un casino
assurdo per quanto mi riguardava. Gli unici colori che riuscivo a
distinguere
erano quelli della maglia che portava, giallo e nero, poi
nient’altro, il viso
non riuscivo a focalizzarlo.
Intuii
vagamente che ci
stavamo muovendo quando le pareti della stanza scomparirono, sostitute
da un
lungo corridoio poco illuminato e da una serie di porte chiuse che mi
sfrecciavano ai lati velocemente.
Non avevo
idea di dove
quell’idiota mi stesse portando, ma me ne feci una quando
riconobbi le porte
dell’ascensore chiudersi alle nostre spalle.
«D-dove…»
provai a
dire, cercando inutilmente di muovermi e venendo subito bloccato.
«Sta
zitto e fermo. Ti
porto in sala operatoria».
Quel
coglione, cosa
aveva in mente di fare? Perché, anche se non ero ferrato in
materia, ero certo
che fosse compito dei dottori operare, ma non avevo le forze per
contestare e
tutto si stava facendo vagamente buio e scuro, perciò lo
lasciai fare, standomene
zitto a sopportare il dolore e ad attendere che i battiti impazziti
rallentassero fino a smettere.
Sarebbe
potuta andare a
finire bene la storia, sarei potuto arrivare in sala operatoria in
tempo per
ricevere un miracolo o per dare la possibilità ai medici di
fare il possibile,
anche se alla fine me ne sarei andato. Tutto avrebbe potuto svolgersi
diversamente,
invece, per qualche strano scherzo del Destino, il generatore
dell’ospedale
decise che doveva guastarsi proprio in quel momento, togliendo la
corrente a
tutto l’edificio e lasciando Trafalgar e me al buio e
bloccati in un fottuto
ascensore con un collasso in corso.
«Merda!»
urlò Law,
tirando un pugno alla parete e cercando a tentoni il tasto giusto da
premere
per dare l’allarme. Fortunatamente avevano provveduto a
inserire una luce di
riserva che si accendeva in momenti critici per non lasciare nel panico
i
poveri disgraziati che si trovavano nei guai, così
riuscì a schiacciare il
bottone giusto, rivelando così la nostra posizione a chi
sorvegliava l’ospedale
quella notte.
Non
sapevo quanto tutti
fossero nel panico, troppo impegnato a tenere sotto controllo il mio, e
non mi
resi conto della voce di Trafalgar che, dopo aver passato parecchi
minuti a
inveire contro Dio solo sapeva chi e a riversare i suoi insulti
sull’unica
persona presente assieme a lui, ovvero me, aveva preso a discutere
animatamente
con qualcun altro.
Con
fatica riaprii gli
occhi, individuando alcune facce sopra le nostre teste che agitavano le
braccia
e calavano qualcosa affinché Law potesse afferrarla e farne
buon uso.
«Siete
pazzi? Morirà
dissanguato nel giro di un minuto!» sbraitava con rabbia,
senza nemmeno degnare
i presenti di uno sguardo e mantenendo i suoi occhi gelidi, o forse erano terrorizzati?, nei miei,
mentre si infilava distrattamente dei guanti di lattice.
Non stavo
capendo
proprio un bel niente e mi sembrava di non avere nemmeno più
la forza per
respirare e restare sveglio.
«Non
dormire, non
dormire!».
L’ultima
cosa che vidi
fu la lama di un bisturi che scintillava alla luce delle torce
artificiali.
Non
appena riaprii gli
occhi mi stupii della strana luce chiara e azzurrognola che circondava
ogni
cosa, soprattutto non riuscii a spiegarmi che cosa ci facessi sdraiato
per
terra sul pavimento non proprio caldo e accogliente. Sopra di me vedevo
delle
strane macchie di luce gialla e accecante e potevo vagamente intuire
che c’era
qualcuno che si muoveva in modo frenetico nel tentativo di fare
qualcosa di
eroico, o di stupido, dipendeva dai
punti di vista.
«Ehi,
guarda chi si
vede!».
«Uh?
Tu? Che
diavolo…» iniziai a dire a bocca
aperta per lo stupore.
«Che
fai a terra?
Alzati, così vedi meglio!» disse il ragazzino con
il solito insulso cappello
calcato in testa, porgendomi una mano e aiutandomi a tirarmi su,
dandomi poi
un’amichevole pacca sulla spalla. «Ti trovo bene,
Kidd».
«Penguin?
Sono morto,
per caso?» gli chiesi, passandomi una mano fra i capelli per
spostarmeli dalla
faccia e ritrovandomi le mani rosse e umide. «Cosa
cazzo…?» mi allarmai.
«No»
disse l’altro,
scuotendo il capo e guardando davanti a sé con aria allegra.
«O meglio, non ancora».
Seguii il
suo sguardo e
rimasi sconvolto dalla scena che mi si presentò di fronte:
che stava combinando
quel pazzo?
Trafalgar
Law, con
un’espressione che non gli avevo mai visto sul volto, fissava
concentrato e con
l’aria indistruttibile e tesa il mio torace aperto e
trafficava con le mani
insanguinate nel tentativo di fare qualcosa. Accanto a lui alcuni
bisturi e
altri oggetti diabolici e freddi facevano mostra di sé,
venendo usati e poi
riappoggiati al loro posto dal ragazzo che tentava disperatamente
di… far
battere un cuore?
Aspetta, pensai
l’istante dopo con sconcerto,
sentendo montare la rabbia, mi sta
operando in ascensore?
«Figlio
di puttana!»
sbottai, sferrandogli d’istinto un pugno dritto alla
mascella, ma la cosa bella
accadde dopo, quando rischiai di inciampare, dato che il colpo
andò a vuoto,
trapassando Trafalgar e facendomi capire che quello non ero io, almeno,
non con
il mio corpo.
Penguin
lesse il mio
panico negli occhi e, scuotendo il capo con un sorrisetto beffardo,
probabilmente aveva immaginato una reazione del genere e aveva
preferito
godersi la mia scenata invece di avvisarmi, mi afferrò per
un braccio,
trascinandomi più indietro per farmi vedere bene lo
svolgersi della scena.
«Sei
in un’altra
dimensione, non puoi interagire con lui» mi spiegò
pacato, nascondendo le mani
nelle tasche e guardando con ammirazione quello che era stato uno dei
suoi
migliori amici.
«Posso
sapere cosa
significa tutto questo?» chiesi scocciato, «Se non
sono morto perché mi trovo
qui, per giunta con te che, scusa la franchezza, sei sottoterra da un
pezzo?».
Penguin
scoppiò a
ridere di gusto e per niente toccato dalle mie frecciatine macabre.
«Mi eri
mancato testa rossa, davvero!».
Alzai gli
occhi al
cielo, convinto che quello fosse drogato, o qualcosa del genere.
«E’
successo anche a
me» disse, una volta calmatosi, «Quando mi hanno
operato mi sono trovato in un
luogo diverso, con Ace, credo te l’abbia raccontato, e
lì sono rimasto ad
aspettare».
«Aspettare
cosa?».
Si
strinse nelle
spalle. «Aspettare di vivere. Aspettare di morire. Che
differenza fa? Ad ogni
modo, adesso tocca a te».
«Che
dovrei fare
esattamente? Sono in un ascensore con il petto aperto e un matto mi sta
spappolando gli organi» evidenziai con sarcasmo, fissando
malamente Trafalgar e
le sue manacce, accorgendomi subito dopo che la cosa umida che sentivo
sulle
mani era il mio sangue.
Penguin
iniziò a
ridacchiare e, davanti alla mia faccia interrogativa, indicò
il moro a pochi
passi da noi che lavorava stringendo i denti e sussurrando di tanto in
tanto
qualche parola verso il mio corpo steso inerme su una barella.
«Lui
era il migliore
del suo corso» disse con ammirazione, «Anche quando
si è ammalato non ha smesso
di studiare e di curiosare in giro. Sai, da quando è venuto
a sapere del tuo
problema ha iniziato a fare ricerche e a consultare vari specialisti
del posto
per trovare una soluzione. Credo che sia più informato lui
che tutti coloro che
hanno condotto i tuoi esami» ammise e, sbirciando da sotto il
cappello la mia
faccia, sorrise.
Non so
perché lo fece,
forse perché la mia reazione lo lasciò
soddisfatto, dopotutto, chi mai si era
preoccupato tanto per la mia salute? In quel momento avrei voluto
sminuire il
suo gesto con disinteresse, magari insultandolo o disprezzandolo,
invece mi
sentivo spiazzato, sorpreso, forse anche un po’ lusingato.
Come ci si sentiva
quando qualcuno mostrava interesse e premura senza
l’obbiettivo di ottenere in
cambio qualcosa? Senza nemmeno conoscere chi si aveva di fronte?
Di
qualunque cosa si
trattasse, io non ero contento,
affatto.
«Sei
stato fortunato ad
averlo avuto vicino questa notte» proseguì
Penguin, «Se così non fosse stato,
probabilmente saresti già al piano superiore e credimi,
allora mi avresti avuto
alle costole non solo per pochi minuti, ma per molto, molto
tempo».
Repressi
un brivido di
inquietudine e deglutii a fatica, incapace di spostare gli occhi
dall’impegno
che Trafalgar stava impiegando per rianimarmi e tenermi in vita fino a
quando
non avrebbero riavviato il generatore, permettendo così ai
medici di portarmi
in sala operatoria e finire il lavoro.
Mi aveva
intubato senza
ascoltare il consiglio degli esperti e poi aveva proceduto senza
ripensamenti,
aprendomi il torace con un’ampia incisione a livello
intercostale, in modo da
poterci infilare tutte e due le mani e raggiungere la zona interessata.
Quello
era stato l’inizio e poi, seguendo alcune istruzioni
impartitegli da uno dei
primari arrivato sul posto che gli parlava da una fessura aperta sul
soffitto,
aveva rimosso un coagulo che ostruiva la circolazione del sangue,
sospirando
sollevato per poi riprendere da dove aveva lasciato.
«Avanti
Eustass-ya»
sussurrava, «Guai a te se osi morire. Giuro che ti
raggiungerò all’altro mondo
solo per tormentarti».
Ghignai,
quel bastardo
non sarebbe mai cambiato.
Ad un
tratto, quando
sembrava che sarei ritornato nel mio corpo prima del previsto, il volto
di Law
si contrasse in una smorfia arrabbiata e, imprecando a bassa voce,
urlò ai
presenti di portargli una pinza dal nome impronunciabile
perché si era creata
un’emorragia e doveva assolutamente fermarla.
«Mi
sento girare la
testa» mormorai, appoggiandomi alla parete
dell’ascensore.
«E’
normale» mi
assicurò Penguin, sostenendomi e impedendomi di scivolare
sul pavimento,
«Potresti morire da un momento all’altro».
Lo
guardai spaesato,
desiderando di poterlo prendere a pugni ma, per fortuna, si corresse e
cercò di
tranquillizzarmi. «Ma non accadrà, fidati di lui.
Non ti lascerà andare».
Furono
dei lunghissimi
e interminabili minuti in cui il tempo parve fermarsi. Law
afferrò la pinza che
gli porsero dall’alto, infilando una mano nel buco sul mio
petto e tastando
alla ricerca di qualcosa, sorridendo impercettibilmente quando
trovò quello che
stava cercando, ovvero l’aorta. E, accanto ad essa, ecco che
lo vidi sospirare.
«Ho
trovato
l’emorragia! Ma la vena è troppo lontana, non
riesco a suturarla in questo
stato» urlò, mordendosi un labbro.
«Quanto
è grande?»
domandò qualcuno.
«Come
una moneta».
«Mettici
il dito e
tappa il buco».
Vidi
Trafalgar alzare
gli occhi al cielo e chiuderli per un attimo, prendendo fiato e
tastando la
carne, riaprendoli prima di parlare.
«Trovata»
fu quasi un
sussurro. Si schiarì la voce. «Credo…
Credo che si sia fermata e… -poi più
forte- E il cuore sta ricevendo sangue, si sta
stabilizzando!».
Mi sentii
come se mi
fosse stato tolto un peso dal petto, forse era andata proprio in quel
modo, ma
ne ebbi la conferma solo quando vidi Penguin sorridere e scherzare come
aveva
sempre fatto, scompigliandomi i capelli e ignorando le mie minacce,
sostenendo
che nel suo stato non avrei potuto di certo ucciderlo.
«Mi
sento pesante, che
vuol dire?» gli chiesi, guardando le mie mani ritornare
pulite e sentendomi
trascinare verso la barella dove Law stava respirando profondamente per
rilassarsi nell’attesa che lo tirassero fuori
dall’ascensore.
«Sei
salvo, vecchio
mio. Tra poco vi tireranno fuori e ti ricuciranno. Magari, chi lo sa,
tra
qualche giorno potrebbe presentarsi un donatore con un cuore tutto per
te»
ammiccò e, per qualche motivo, mi immaginai lui che andava
in giro a smistare
carte e a mettere insieme i pezzi di un puzzle immaginario per farmi
ottenere
ciò che mi serviva per stare bene.
Il tempo
iniziava a
stringere e mi sentii in dovere di ringraziarlo, ma non ero avvezzo di
certe
cose e le parole mi rimasero incastrate in gola, non dette.
«Lo
so, non
preoccuparti. E’ stato un piacere» annuì
Penguin, intuendo quello che volevo
dirgli e salutandomi con la mano. «Hai delle maniere che
lasciano a desiderare,
ma sei uno dei migliori amici che ho mai avuto, Kidd».
«Piantala
di essere
smielato, nanerottolo, dimmi cosa posso fare per sdebitarmi e
facciamola
finita». Tutto sommato, però, non riuscii a
risultare brusco o scocciato.
«Fammi
un favore
soltanto: dì a Killer che, ogni volta che gli sembra di
cadere, ci sarò io a
sorreggerlo».
Sorrisi e
ci scambiammo
uno sguardo d’intesa mentre il mondo tremava e tutto svaniva.
Il migliore tra
tutti e il più coraggioso era stato lui e lui soltanto e mai
lo avrei
dimenticato, nonostante la lingua lunga e la tendenza a far impazzire
le
persone.
«Eustass-ya,
ora
andiamo in sala operatoria» disse Trafalgar, chinandosi su di
me per
rassicurarmi e trattenendo a stento il tremolio della voce. Poi
sospirò.
«Grazie
per non avermi
fatto vincere la scommessa».
Angolo
Autrice:
Ehm.
Buongiorno?
*si
prepara ad
affrontare la terza guerra mondiale fatta di insulti e frutta marcia*
Lo so,
credetemi, lo
so. LO SO. Va bene? E’ passato, quanto? Un casino di tempo,
si, ehm, non so da
dove iniziare.
Le idee
c’erano, ma era
complicato metterle per iscritto, quindi ho lasciato scorrere il tempo
fino a
che non ho capito che mi stavate chiedendo in troppi se avessi
abbandonato la
storia, così mi sono detta che dovevo smettere di poltrire e
finire questo
capitolo lasciato a metà!
Signore,
ce l’ho fatta.
E’ stato un calvario.
Insomma,
tra Marco che
non capisce un cazzo, tra Ace che sembra avere il ciclo, Kidd e Killer
che
scappano per andare al mare, Law che opera in via eccezionale in
ascensore e
Penguin che fa il fantasma, beh, è un bel mattone da
digerire.
Che dire,
partiamo dai
primi: Ace e Marco. sapete, volevo farli litigare per poi concludere
con una riappacificazione,
ma ho cambiato idea e voglio dare a Ace modo di sfogarsi ed essere
incazzato perché
ne ha tutto il diritto. Marco è pentito, gli dispiace
davvero, non fa finta, e
ha capito che prova qualcosa di bhufhuafjdukvhe
per Ace, ma il ragazzo è ancora troppo scosso e
non gli permetterà di
rimediare, non subito almeno u.u
Law
è incazzato come
una belva dato che Kidd ha fatto una grandissima cazzata, ovvero ha
tentato di
andare al mare con Killer. Aveva un buon motivo, certo, ma immaginatevi
la
preoccupazione, awww ** basta, quei due si amano. Poi, ovviamente,
bisognava
pur fare pace, no?
Giustamente,
niente può
andare rose e fiori, quindi evvai, una complicazione e un blocco in
ascensore. Riguardo
a questo posso dirvi che mi ha ispirato una scena che ho visto seguendo
il
telefilm di Grey’s Anatomy, 2x05, se siete interessati ^^
avviene una cosa del
genere e mi sembrava bello che fosse Law a stabilizzare Kidd prima
dell’arrivo
dei medici **
Che cosa
romantica
;_____________;
ciao
Penguin, non posso
dimenticarti ;________;
Anyway,
vi prometto che
tornerò presto, davvero, e non ho intenzione di lasciarla
incompleta, anche
perché mancheranno si e no due capitoli ^^
Bene, per
oggi è tutto
e vi ringrazio immensamente per la pazienza e la fiducia!
Un
abbraccio enorme e
scusatemi ancora.
Ace.
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8. ***
Capitolo 8.
(Il pomeriggio
seguente).
Fissai il vuoto
per una
buona decina di minuti, elaborando la spiegazione che mi era stata data
e
cercando di connettere bene tutti i dati per non fraintendere nulla.
«Quindi
è vivo?»
domandai, forse per l’ennesima volta nel giro di
un’ora. Qualcuno avrebbe
dovuto dare un premio a Trafalgar per l’immensa pazienza che
aveva portato quel
pomeriggio, dopo che avevano appena trasferito Kidd in osservazione a
operazione finita e che era durata la bellezza di una notte intera,
mattina
compresa.
Law
assentì,
massaggiandosi le palpebre pesanti per il sonno perso. Da quello che
avevo
capito non si era mai allontanato dalla sala d’attesa mentre
il nostro amico
era sotto ai ferri. «Si, se la caverà».
A
qualsiasi altro il
tono di voce che usò sarebbe parso piatto e senza il minimo
sentimento, ma
avevo passato abbastanza mesi in sua compagnia per capire che era
sollevato.
Semplicemente faceva di tutto per non darlo a vedere e mascherava le
sue
emozioni con la spossatezza che il nervosismo accumulato gli aveva
lasciato
addosso. Era un miracolo che non avesse ancora avuto un crollo di nervi
o del
fisico.
«Ce
l’ha fatta davvero»
mormorai, tornando ad osservare la porta chiusa in fondo al corridoio
dove Kidd
riposava in quel momento, ancora sotto anestesia e sedativi. Ma,
nonostante
tutte quelle difficoltà, si sarebbe svegliato. Dovevo
aggrapparmi a quella
consapevolezza e tenermi stretto ad essa perché, se solo
l’idea di perdere
anche il mio migliore amico oltre che a Penguin mi sfiorava, il mondo
sembrava
crollarmi addosso. Invece dovevo stare tranquillo e concentrarmi sui
giorni a
venire. Sicuramente Kidd avrebbe avuto bisogno di compagnia e di
qualche goccio
di alcool per mandare giù la nottataccia che aveva passato.
Non sapevo
spiegarmi come, ma avevo la netta sensazione che il rosso sarebbe stato
piuttosto irascibile e intrattabile dopo aver saputo ciò che
gli era successo.
Feci un
respiro
profondo, schioccandomi le nocche e prendendo a tamburellare le dita
sul
ginocchio. La riabilitazione stava andando bene, il fisioterapista
sembrava un
tipo abbastanza sveglio da capire che non doveva urtarmi i nervi con
troppe
domande o incitamenti e aveva pure imparato a sue spese che, quando non
mi
riusciva di compiere bene un movimento, non doveva compatirmi e dirmi
che
sarebbe andata meglio una delle prossime volte. Ad ogni modo, me la
stavo
cavando e le stampelle non le usavo quasi più. Certo, mi
sentivo ancora un po’
instabile se provavo a correre, ma la buona notizia era che avevo
superato bene
il primo ciclo di sedute e presto mi avrebbero dimesso, a patto che
continuassi
a farmi visitare almeno una volta a settimana fino a che non fossi
guarito del
tutto.
La
verità era che le
ferite peggiori non erano quelle fisiche, non erano le ossa rotte,
quelle
potevano riaggiustarsi; non erano i graffi e le cicatrici, quelli
scomparivano
con disinfettante e punti di sutura; non era nemmeno il trauma
dell’incidente,
quello lo avevo superato; no, era qualcosa di peggiore, una perdita che
non si
poteva recuperare, un vuoto impossibile da colmare. Di dimenticare non
se ne
parlava, tutto tra quella pareti mi ricordava quel ragazzo disabile, ma
iperattivo. Forse uscire dall’ospedale mi ci voleva, sarebbe
servito ad
alleviare almeno un po’ la sofferenza.
Quando
Kidd ci aveva
provato, convincendomi ad andare al mare, durante il tragitto verso il
porto mi
ero sentito quasi rinnovare. Respiravo aria diversa che non sapeva di
chiuso,
di dolore e di morte, e potevo percepire chiaramente la forza scorrermi
nel
sangue, rianimandomi.
Non mi
sarei lasciato
Penguin alle spalle, quello mai, sarebbe sempre rimasto con me, nel
cuore, ma
sentivo che dovevo andarmene, ormai era giunto il momento. Dovevo
andare avanti
e riprendere in mano le redini della mia esistenza e decidere di farne
qualcosa
di costruttivo, di soddisfacente e di bello.
Dovevo
farlo, dopotutto
l’avevo promesso a Penguin.
«Ragazzi!»
chiamò
qualcuno con il fiatone. Mi voltai dalla parte opposta e vidi Ace
avanzare
verso di noi, le mani tra i capelli corvini scompigliati,
più simili ad un nido
di uccelli che ad altro, dei pantaloni da tuta grigi, troppo larghi per
lui
dato che gli ricadevano sui fianchi e doveva continuamente tirarli su
per
evitare di perderli e una maglia arancione un po’ sbiadita.
Sembrava essersi
appena svegliato.
«L’ho
appena saputo.
Quegli stronzi dei dottori in reparto hanno preferito lasciarmi dormire
invece
che svegliarmi per avvisarmi. Come se non avessi dormito
abbastanza!» spiegò
stizzito, sedendosi scompostamente accanto a Law e mettendosi una mano
sul
petto per calmare il respiro ansante e affaticato.
«Non
esagerare» lo
ammonì il moro con un’occhiataccia storta,
«Ti ricordo che tu sei il miracolo
del decimo piano che si è svegliato da un coma
irreversibile. Vedi di non farti
venire un infarto per lo sforzo».
Ace
alzò gli occhi al
cielo. «Che palle! Non fate altro che ripetermelo».
Il
riferimento al
plurale che fece e il tono irritato che usò mi diedero ad
intendere che doveva
essere successo qualcosa a causa di quel discorso che Trafalgar aveva
appena
fatto sulla sua condizione di salute, ma non era il momento migliore
per fare
domande. Infatti, pochi istanti dopo, il ragazzino volle subito essere
informato
nei minimi particolari sulle condizioni di Kidd, costringendo
così Law a dover
raccontare la storia del salvataggio in ascensore daccapo, sotto lo
sguardo
ammirato del moccioso. Venne poi definito un eroe, ma
liquidò il suo gesto come
un nonnulla, sminuendo l’importanza e non volendosi prendere
nessun merito.
«Ho
fatto solo quello
che dovevo» disse serio, non staccando gli occhi
dall’ultima stanza infondo al
corridoio.
Avrei
voluto dirgli
grazie in quel momento, grazie per non aver permesso che anche Kidd ci
abbandonasse. Lo aveva salvato e non sarei mai stato in grado di
sdebitarmi,
anche se non voleva sentir parlare di gratitudine, complimenti e altro.
Non
voleva il merito di nulla, come se la cosa non gli importasse, ma avevo
chiaramente capito che anche a lui bastava solo sapere che Eustass Kidd
presto
sarebbe tornato a riempire l’ospedale di bestemmie e insulti
coloriti. Senza di
lui sarebbe stato davvero un mortorio.
Passammo
le ore
successive del pomeriggio in quel modo, dandoci il turno per andare
alle
macchinette per prendere qualcosa: un caffè per Law; una
barretta di cioccolato
per Ace e una bottiglietta d’acqua per me. Quando fu il turno
del Bello Addormentato Miracolato,
il
soprannome era passato di grado al suo risveglio, lo vidi fare ritorno
con
qualcosa in più che riconobbi come la merenda preferita del
rosso.
«Così
quando si sveglia
trova qualcosa di buono, no?» fece Ace con fare innocente,
sembrando un bambino
contento per aver avuto una trovata geniale.
Law
represse uno
sbadiglio e si stiracchiò come un gatto, lasciando che le
ossa della schiena
scricchiolassero come assi di legno. Quel suono mi fece venire la pelle
d’oca.
«Perché
non vai a
dormire un po’?» gli proposi, «Se ci sono
novità sarai il primo a saperlo» gli
assicurai subito dopo, conscio di quanto ci tenesse ad essere presente
al
risveglio del suo…
A
proposito, suo cosa?
Escono ufficialmente assieme o scopano e
basta? mi domandai, attendendo una risposta che
arrivò glaciale e
irremovibile.
«No».
Non
cercai più di
suggerirgli di fare il suo bene e lasciai perdere. Fin
dall’inizio era stato
chiaro che Trafalgar non avrebbe mosso nemmeno un muscolo per
allontanarsi da
lì, piuttosto si sarebbe fatto trascinare via a forza, non
senza prima aver
combattuto, urlato e lottato.
Ace
intanto, il quale
aveva preso a sgranocchiare cioccolata rumorosamente guardandosi
attorno alla
ricerca di qualcosa da fare per passare il tempo, quasi
rischiò di strozzarsi
per le risate alla vista di qualcosa che per lui doveva essere molto
buffo.
«Ehi,
guardate lì»
disse, tossendo e indicando qualcuno al banco informazioni,
«Mai vista una roba
del genere!».
Si
riferiva senza ombra
di dubbio all’unica cosa assurda, appariscente ed eccentrica,
ovvero una giacca
di piume rosa, indossata da un uomo piuttosto alto e biondo che
gesticolava
tentando di spiegare qualcosa ad una delle infermiere di turno. Accanto
a lui,
un altro uomo, vestito con pantaloni, camicia con le maniche arrotolate
fino ai
gomiti e le bretelle, restava impassibile, guardando ovunque tranne che
verso i
due vicino a lui, quasi come se volesse scomparire dalla scena.
Inarcai
un sopracciglio
in modo curioso. «Sono piuttosto particolari, si».
«Quella
roba» si fece sentire Law,
«Sono gente
che conosco».
Mi voltai
a guardarlo
con sorpresa. In quell’arco di tempo non lo avevo mai visto
in compagnia di
nessun adulto, genitore, amico o tutore che fosse. «Sul
serio?» domandai
stupito. E chi se ne fregava del mio commento di prima. Nemmeno lui
poteva dire
che non fossero almeno un po’ strani.
«Certo»
affermò con
calma, sospirando stancamente e alzandosi dalla sedia per andare
incontro ai
due sconosciuti che lo notarono solo in quell’istante. Quello
con la giacca
rosa alzò una mano in un gesto di saluto, affrettando il
passo e dirigendosi
sparato verso il ragazzo davanti a me che, chiudendo gli occhi, si
preparava
mentalmente ad affrontare quel momento.
«Sono
i miei papà»
dichiarò, prima di incamminarsi lungo il corridoio e facendo
si che Ace
sputasse nelle mani quello che stava mangiando, mentre io sbiancavo.
«Ah»
dissi, dopo attimi
di silenzio, guardando come Law scompariva, sommerso dal piumaggio
dell’abito e
sovrastato dalla mole del primo genitore. «Buona a
sapersi».
«Quanto
vorrei che
Marco potesse vedere tutto questo» sentii borbottare da Ace
che, quasi con fastidio,
si puliva le mani con un fazzoletto, scagliandolo malamente nel cestino
e
facendo centro. Ma che diamine avevano combinato quei due?
Sono
stato troppo tempo chiuso in camera,
pensai malinconico, decidendo di alzarmi e andare a prendermi qualcosa
da
mangiare, lasciando così a Trafalgar un po’ di
tempo da solo con i suoi
parenti, i quali sembravano davvero felici di vederlo, dato il modo
amorevole
con cui lo riempivano di attenzioni e la reazione non
del tutto affettuosa
con cui il figlio li respingeva, insistendo nel dire che stava bene e
che non
era più un bambino.
Raggiunsi
le
macchinette con tutta calma, scegliendo cosa prendere e optando per un
sacchetto misero di patatine che avrei finito nel giro di qualche
secondo.
Pazienza, avevo già deciso che ne avrei preso un altro per
sicurezza.
Fu mentre
inserivo gli
spiccioli che mi accorsi di che qualcuno mi stava osservando dal punto
in cui
due corridoi facevano angolo, unendosi e dando su un’altra
ala dell’ospedale.
Fissai
quel ragazzino imbottito
dal giaccone e con una tracolla marrone che fungeva da borsa
improvvisata; i
ciuffi castano ramati gli ricoprivano la fronte scomposti, mentre gli
occhiali
da sole dalle lenti nere gli ricadevano sul naso. Reggeva tra le mani
un
cappellino verde e lo stringeva in modo nervoso mentre si mordicchiava
le
labbra, abbozzando un sorriso timido e indeciso su cosa dire.
Lo
riconobbi subito,
sentendo le pareti che avevo innalzato nel mio animo per combattere la
tristezza e la mancanza di Penguin cedere inevitabilmente alla vista di
quel
piccoletto.
«Tu
sei Killer»
mormorò. Non era una domanda.
Feci un
respiro
profondo, ricambiando lo sguardo abbattuto e scostandomi un poco la
frangia.
«Ciao
Shachi».
*
(Nello stesso
momento, in sala d’attesa).
«Appena
l’abbiamo
saputo siamo saltati in macchina e siamo corsi qui».
«Non
oso immaginare il
calcolo dei rilevatori di velocità al vostro
passaggio» risposi sarcastico, scostandomi
di dosso la mano di mio padre che si era immersa nei miei capelli per
carezzarli. Detestavo quando facevano così, per la
precisione sempre,
riempiendomi di attenzioni che non
volevo davanti a chiunque. Non erano capaci di trattenersi almeno un
poco?
«Suvvia,
non potevamo
certo restare indifferenti» si difese l’uomo,
accomodandosi sulla sedia dove
fino a pochi secondi prima era stato seduto Ace, il quale se
l’era data a gambe
levate per non venire immischiato in una riunione di famiglia. Per
quanto ne
sapevo, ne aveva già una abbastanza numerosa da bastargli
per tutta la vita ed
ero certo che nessuno volesse avere a che fare con un rompi coglioni
come
Donquixote Doflamingo.
Mio
padre per disgrazia.
Lui e
papà Vergo erano
le persone più strane che avessi mai incontrato,
quell’aspetto un po’ spiegava
anche i miei comportamenti scostanti, ma ciò lo sapevo
soltanto io e alle altre
persone la cosa poteva risultare difficile da capire. Mi avevano
adottato
quando ero ancora in fasce, un minuscolo cosino rosa appena nato che
aveva la
meravigliosa caratteristica di non piangere durante la notte. Ogni
volta che mi
obbligavano ad ascoltare tutta la storia, che per me era un supplizio
di nervi,
mi spiegavano come fosse stato per loro amore a prima vista davanti al
mio faccino dolce e ai miei occhioni glaciali. Reprimevo conati di
vomito ogni santa volta.
Mi
avevano così portato
a casa loro, una villa lussuosa in uno dei quartieri più
privilegiati della
città, e mi avevano cresciuto con tanto amore paterno per
tutti quegli anni. Ad
anima viva, o a loro stessi, non l’avrei mai detto, ma erano
stati dei bravi
genitori.
Nonostante
gli impegni
lavorativi trovavano sempre il tempo di passare con me i momenti
principali
della giornata, come la colazione, il pranzo e la cena. La sera, poi,
mi
tenevano compagnia in salone, si interessavano della scuola, dei miei
amici,
dello sport, insomma, si tenevano aggiornati su tutta la mia vita. Le
feste le
passavamo assieme e mai avevano provato a scambiare l’affetto
con regali o
altre sciocchezze per compensare la loro assenza. Non era mai successo
e, per
quanto odiassi ammetterlo persino a me stesso, non avevo nulla di che
lamentarmi. L’unica cosa che, a ventiquattro anni compiuti,
stonava in tutto
quel quadretto, era il fatto che continuassero ad essere
così ruffiani e
attaccati a me, tanto da mettermi sempre in imbarazzo tentando di
stritolarmi,
invece che abbracciarmi.
«Il
nostro bambino
ormai è cresciuto, Doffy».
«Già,
ha eseguito il
suo primo intervento e per giunta in un ascensore!» si
inorgoglì il biondo,
guardandomi fiero.
Strinsi i
denti e
sospirai pesantemente. «Non era un intervento»
tentai di spiegare, ma fu tutto
inutile. Quei due idioti continuarono a blaterare sciocchezze per una
buona
mezz’ora, ripetendo quanto fossero orgogliosi, contenti e
felici di sapermi in
forma e in buona salute. Erano, inoltre, stati informati dei miei
progressi e
del mio ormai insperato aumento di peso, tanto che sentirono il bisogno
di
saltarmi di nuovo addosso. Fortunatamente per me, riuscii ad evitare la
cosa.
«E’
gratificante vedere
come l’amore riesca a sistemare tutto, non trovi
Vergo?» fece papà Doffy ad un
tratto, incuriosendomi. A cosa diavolo si stava riferendo?
«Sono
d’accordo» disse
l’altro, concentrandosi poi su di me e guardandomi attraverso
le lenti scure
degli occhiali, «Devi essere proprio innamorato di quel
ragazzo, Law».
Mi
ghiacciai
all’istante e li guardai entrambi allibito, chiedendomi se
per caso non si
fossero fermati a casa del loro collega di lavoro, Kaido, per fumarsi
qualcosa
di illegale in allegra compagnia. Più volte era capitato che
tornassero a casa
sfatti come melanzane e che iniziassero a parlare di discorsi assurdi,
arrivando persino ad insultarsi in ricordo degli anni passati al liceo,
durante
i quali si erano fatti un sacco di dispetti prima di arrivare a
concludere
qualcosa di più soddisfacente per loro. Che poi, dopo aver
sbraitato per
qualche ora, prendessero a scambiarsi effusioni amorose in qualsiasi
stanza
capitassero, a me poco importava, purché stessero lontani
dalla mia camera.
Certo, se avessero iniziato a farlo in ospedale sarebbe stato
complicato da
spiegare ai presenti.
«Datemi
un motivo per
non richiedere l’intervento degli assistenti
sociali» li minacciai,
fulminandoli con lo sguardo. Quello sembrò calmarli e
rimetterli in riga, così,
dopo qualche altra risata a cui non mi unii, mi fecero sazio tra di
loro e mi
invitarono a sedergli accanto, come ai vecchi tempi.
Sbuffando
decisi di
assecondarli solo per evitare altri fastidi e, dopo averli
accontentati,
iniziai a spiegare come erano andate le cose, partendo
dall’inizio e arrivando,
passo dopo passo, a raccontare di tutta la gente che avevo conosciuto
in
quell’anno, delle loro stranezze, dei molteplici
difetti e dei pochissimi pregi che
avevano. La questione di Penguin fu parecchio difficile da
rispolverare, ma la
affrontai a testa alta e fui grato per le pacche confortevoli che
ricevetti
come sostegno. Vollero poi sapere tutto sul cretino che aveva sbandato
con la
moto rompendosi tutte le ossa, di quello con la stanza dipinta e di
come avesse
ricevuto il miracolo, dell’altro tizio con l’aria
da pollo e dell’irascibile
rosso.
«Eustass-ya
è un
completo deficiente, papà» affermai convinto,
sfoggiando la mia solita
espressione di sufficienza mentre Doflamingo rideva sotto i baffi.
Vergo,
intanto, sorseggiava un caffè, ascoltando attento ogni
parola.
«Come
avete fatto ad
andare d’accordo?» chiese Doffy curioso.
«Non
andiamo d’accordo,
semplice» dissi con un’alzata di spalle.
«Deve
per forza essere
un selvaggio a letto» concluse lui per me, intuendo benissimo
quello che non volevo dire.
«Doffy,
così imbarazzi
il ragazzo» lo riprese Vergo, che tra i due era sempre stato
quello più
delicato e calmo, anche se a natale, davanti alle mie espressioni
felici, si
scioglieva come un pupazzo di neve al sole.
Alzai gli
occhi al
cielo e mi passai una mano sul viso con fare esasperato. Ancora mi
domandavo
come avevo fatto a sopportarli durante tutto quel tempo.
Trascorremmo
il resto
della giornata a chiacchierare della mia permanenza
all’ospedale, passando poi
al loro lavoro. Li ascoltai volentieri mentre mi rendevano partecipe
delle
ultime novità, dei contratti firmati,
dell’espansione dell’azienda di famiglia
che stavano progettando e di un nuovo tipo di erba che un loro compare
gli
aveva promesso di fargli provare.
I miei
papà avevano un
lavoro che rendeva abbastanza bene nel mondo del commercio ed erano ben
lontani
dall’avere problemi con la legge di qualsiasi tipo,
solamente, di tanto in
tanto, si toglievano qualche sfizio e andavano a fare baldoria con
amici di
vecchia data immischiati in chissà quali affari. E, fino a
che non creavano
problemi, a me andava bene.
«Tornando
alla tua
stabilità riacquistata, figliolo»
iniziò a dire Vergo, mettendo fine a quella
tranquillità famigliare che si era creata con le
chiacchiere, «I medici hanno
detto che sono disposti a concederti di tornare a casa.
Perché non ce lo hai
detto?».
Non
risposi. Era ovvio
che prima o poi sarebbero venuti a scoprirlo, tenendoglielo nascosto,
però
avevo guadagnato qualche mese. Ma, da quel momento, capii subito che il
mio
soggiorno all’ospedale stava per volgere al termine.
«Touché»
sussurrai,
volgendo lo sguardo alla porta dell’ultima stanza del
corridoio, dando in quel
modo a intendere l’unica vera risposta che potevo dare ai
miei genitori, i
quali capirono all’istante il motivo esatto.
«Devi
riprendere gli
studi, lo sai» mi ricordò Vergo, sospirando
dispiaciuto e giocherellando con il
bicchierino di plastica per il caffè vuoto.
«L’università
è
lontana» mormorai, sapendo benissimo che quella era solo una
scusa inutile. Non
mi ero mai lamentato di dover soggiornare fuori città per
studiare, tornando a
casa i week-end, o restando via anche un paio di settimane per non
dover sempre
fare avanti e indietro per la strada.
Doflamingo
mi passò un
braccio attorno alle spalle con fare paterno e, per una volta, non
smielato.
«Law, siamo stati tanto in pena per te ed è stato
una prova difficile da
superare, ma tu ce l’hai fatta. Ora vogliamo solo il tuo bene
e sappiamo quanto
tu ci tenga a fare medicina, l’hai dimostrato anche salvando
la vita a quel
ragazzo. Potrai venire a trovarlo ogni volta che vorrai, non deve per
forza
essere un addio».
Annuii
silenzioso,
mordendomi un labbro e abbassando il capo. Loro rimasero a coccolarmi,
non in
modo esagerato si intende, per un po’, lasciandomi poi il
tempo di assimilare
la notizia e assicurandomi che sarebbero tornati dopo cena per
salutarmi prima
di tornare a casa.
Rimasto
solo ebbi modo
di rendermi conto quanto poco desiderassi andarmene e lasciare soli
quei poveri
idioti. Chi avrebbe detto loro cosa fare e come non rischiare di morire
ogni
giorno? Chi li avrebbe ripresi quando cercavano di combinare guai,
minando alla
loro salute? I medici e gli infermieri non avevano nessun controllo su
di loro
e ascoltavano solo me. Come si sarebbero ridotti?
No, la
domanda giusta
da pormi era: che avrei fatto io? Come sarei riuscito a tornare alla
mia solita
routine dopo quasi un anno rinchiuso all’ospedale? Con che
faccia avrei detto a
quel montato di Eustass-ya che lo avrei lasciato a combattere da solo?
«Trafalgar
Law?» mi
chiamò qualcuno e, quando alzai gli occhi
sull’infermiera che teneva aperta una
porta, invitandomi a raggiungerla, mi sentii mancare.
«Si
è svegliato».
*
(Nello stesso
momento, sul tetto dell’ospedale).
Ero seduto sul
cornicione da ore ormai, fissando prima il vuoto, poi il giardino sul
retro,
poi le figure delle persone che, da quell’altezza, sembravano
formiche e,
infine, il panorama. Il sole stava tramontando all’orizzonte
e potevo benissimo
vederlo scompare come se fosse inghiottito dal mare con il quale la
città
confinava. Faceva un po’ freddo e l’inverno era
alle porte, così mi strinsi
nella felpa per riscaldarmi un poco, sentendo le braccia intirizzite e
azzardandomi allora a muovere le gambe. Le trovai indolenzite, essendo
rimaste
costrette in una posizione rannicchiata per quasi tutto il pomeriggio,
così le
allungai davanti a me per stirarle quel tanto che bastava per mettere
fine al
formicolio fastidioso che provavo.
Per tutta
la notte
passata avevo cercato di darmi delle risposte, di trovare le parole
adatte che
sembravo aver perso da tempo, sperando di poterle trovare per non
perdere un
rapporto durato anni, un fratello e me stesso compreso.
Avevo
combinato un
casino dopo l’altro. Mi ero comportato come uno stupido
quando Ace mi aveva
baciato la prima e ultima volta, ed ero certo che, chi mi conosceva, se
l’avesse saputo sarebbe rimasto stupito dalla mia reazione
esagerata. Forse
nessuno, però, mi conosceva così bene, o nemmeno
io sapevo bene com’ero
realmente, ma ciò, ormai, non aveva più
importanza. Come se non fosse stato
abbastanza lo avevo lasciato solo, voltandogli le spalle e uscendo
dall’orfanotrofio. Non ero andato via per cercare di
calmarmi, la verità era
che ero scappato come un codardo, preferendo lasciare tutto sulle sue
spalle,
invece che affrontare la cosa con il buon senso come avevo sempre fatto
davanti
ai problemi che mi si erano presentati nel corso degli anni. Lo avevo
abbandonato, quello avevo fatto, e non potevo fare a meno di sentirmi
in colpa.
Mi
avvolsi le braccia
attorno al petto, un vano tentativo di sentirmi meno solo. Quella
sensazione
portò a galla ricordi dell’infanzia,
più precisamente quando Ace era capitato
alle porte dell’orfanotrofio, dove poi era cresciuto con me e
tutti gli altri.
Quando eravamo diventati amici ci eravamo promessi che lo saremo stati
per
sempre e che ci saremo sempre sostenuti, non lasciando mai che uno dei
due
rimanesse senza una spalla su cui appoggiarsi e fare riferimento.
«Dimmi
che sarà per sempre»
aveva detto Ace quel giorno di tanti anni fa, guardandomi con un
espressione
speranzosa e felice, mentre io, più grande di
età, ma affezionato a quella
piccola peste, gli davo la mia parola. Poi, a distanza di tempo, ero
riuscito
ad infrangerla.
Sussultai
e feci un
respiro profondo per calmarmi, sentendomi sempre più uno
schifo e convinto di
meritarmelo. Ace aveva ragione ad avercela con me, dopotutto. Mi ero
reso conto
di cosa gli avevo fatto passare solo la sera precedente, quando mi
aveva
sbattuto in faccia tutto quello che aveva provato, tutta la
verità e tutti i
tormenti che gli avevo causato credendo di fare del bene. Sarebbe stato
meglio
per lui se non gli avessi mai tenuto compagnia, si sarebbe sentito
più a suo agio
e, probabilmente, si sarebbe anche risvegliato prima.
Invece
avevo dovuto
rovesciargli addosso tutti i miei sensi di colpa, le mie preoccupazioni
e i
miei problemi, non preoccupandomi dei suoi. Ero stato un vero egoista e
non
avevo scuse. Credevo di essere stato l’unico ad aver perso
qualcosa, l’unico
che non sorrideva più, l’unico ferito in tutta
quella faccenda. Mi sentivo
vuoto, incapace di esprimermi, circondato da pareti troppo strette. Per
un
momento avevo perso la speranza. Credevo di aver perso tutto, invece
c’era chi
stava peggio e quella persona altri non era che Ace, il mio migliore
amico, mio
fratello, la prima cosa che mi veniva in mente quando ricordavo
l’infanzia,
l’adolescenza, gli anni all’orfanotrofio. Se dovevo
raccontare un avvenimento
particolare, lui c’era; se parlavo dei corsi a scuola, lui
c’era; se descrivevo
un’esperienza assurda o una rissa, lui c’era; se
parlavo della mia famiglia,
lui c’era. Ace c’era sempre stato e continuava ad
esserci, sempre, ogni giorno,
ogni ora, ogni respiro.
Guardai
il cielo,
notando come le nuvole si muovessero veloci, portate dal vento. Erano
le stesse
che vedevo da bambino, anche se ormai ero cresciuto.
Non ero
più un ragazzo
immaturo, i tempi dei giochi erano terminati quando Ace mi aveva
baciato, ma
non era un male perché, in quel modo, si era chiuso un
capitolo e ne era
iniziato un altro, forse persino migliore, solo che non
l’avevo capito subito.
Avevo rischiato di uccidere tutti i miei sogni scappando dalla
verità e non
avevo nessuna intenzione di rischiare di perdere tutto
un’altra volta.
Me ne ero
andato perché
la sorpresa era stata davvero grande e inaspettata. Prima Ace ed io
stavamo
litigando e l’attimo dopo mi ritrovavo con le sue labbra
sulle mie. E il gesto
era stato così spontaneo, così naturale e
dannatamente giusto che non ero stato
capace di accettarlo, troppo preso dal fare le cose per bene senza
uscire dalle
regole. Pensandoci con il senno di poi: chi se ne fregava se eravamo
fratelli?
Cosa cambiava? Il giudizio degli altri?
In quel
momento, seduto
fuori a parecchi metri di altezza come se fossi stato sul tetto del
mondo, mi
resi conto che avevo perso un sacco di tempo a farmi domande e a pormi
problemi
che non esistevano. Non potevo nemmeno immaginare di vivere un giorno
in più
lontano da mio fratello, avevo fatto a meno delle sue stronzate troppo
a lungo
ed era arrivato il momento di chiarire le cose a recuperare il tempo
perso una
volta per tutte.
Era ora
di crescere.
Saltai in
piedi,
respirando profondamente e lasciando che un piccolo sorriso deciso
affiorasse
sulla bocca. Iniziai a camminare verso la porta, affrettando sempre di
più il
passo fino a che non mi ritrovai a correre giù per le scale,
ogni passo tre
gradini e buttando fuori tutto il male, deciso a raggiungere il piano
dove
avevano spostato Ace per non dover sprecare altri minuti preziosi.
Doveva
sapere che ero stanco
di scusarmi, stanco di parlare, stanco di rigirare il dito nella piaga
e stanco
di fargli male, facendone anche a me stesso. Volevo dirgli, anzi,
volevo
dimostrargli che era finita, che avevo capito, che non c’era
più bisogno di
preoccuparsi perché niente era tanto importante per
impedirci di iniziare
qualcosa di più dell’amicizia e della fratellanza.
Volevo che sapesse che aveva
ragione, che ce l’aveva sempre avuta e che io ero stato un
emerito coglione a
non accorgermene prima. Ma non mi sarei scusato, no, l’avrei
solo obbligato a
sopportare la mia presenza per il resto della vita e non me ne sarei
andato per
nessuna ragione al mondo. Non l’avrei più
abbandonato.
Raggiunsi
la sua stanza
ed entrai senza bussare, richiudendomi la porta alle spalle e
lasciandola
sbattere. Questo fece si che il ragazzo stravaccato sul letto con il
viso
rivolto verso il soffitto e i piedi adagiati in modo scomposto sul
cuscino sobbalzasse
per lo spavento, rovesciando la testa all’indietro stupito e
scattando a sedere
come una molla non appena mi riconobbe.
L’occhiata
torva e
infastidita che mi rivolse non fu piacevole, ma non bastò
per scalfire la mia
decisione e le mie intenzioni, così sostenni il suo sguardo,
riempiendomi la
vista di quegli occhi scuri e profondi che mi erano stati celati troppo
a
lungo. Mi era sempre stato facile leggere le sue emozioni e capire cosa
c’era
dietro, perciò sapevo bene che la sua espressione severa
nascondeva uno stato d’animo
triste e ferito.
«Che
vuoi?» sbottò,
trattenendosi a stendo dallo sbattermi fuori dalla stanza personalmente.
Non mi
intimidì
minimamente; ero fuggito per tutto quel tempo e non lo avrei rifatto
ancora,
non mi avrebbe più visto dargli le spalle e mai
più lo avrei lasciato ad
affrontare la fine da solo.
Feci un
passo verso di
lui, poi un altro e un altro ancora, arrivando al bordo del letto e
chinandomi
per appoggiare le mani sul materasso, esattamente ai lati dei suoi
fianchi per
essere faccia a faccia con lui.
Non si
mosse e non si
allontanò, forse smise persino di respirare, ma non
importava, avevo ben altro
a cui prestare attenzione, anche se il lieve rossore che apparse sulle
sue
guance mi distrasse per qualche secondo dal mio intento.
«Dimmi
che sarà per
sempre» mormorai, sentendomi scoppiare il petto a causa del
battito accelerato,
forse per la corsa o per la tensione che mi causava l’attesa
di una risposta.
Ace
sembrava essersi
perso totalmente: sbatteva le palpebre come a volersi accertare che
fossi
realmente lì, gli occhi fissi nei miei e il respiro corto.
Probabilmente stava
pensando che avrebbe voluto ricadere in coma in quell’esatto
istante.
Fui io a
baciarlo, quel
giorno. Era l’unica cosa da fare, l’unica giusta
che potesse compensare le
parole che avrei voluto dire, ma che sarebbero solo risultate superflue
e
forzate. Così baciai Ace, esattamente come aveva fatto lui
con me, all’improvviso
e senza aspettare altro tempo.
E quando
mi allontanai,
imprecando per la fitta al labbro che mi aveva morso, mi ritrovai di
fronte il
suo solito ghigno divertito, quello che gli compariva quando sapeva di
averne
combinata una delle sue, andandone fiero.
Mi passai
il pollice
sulla bocca, fissandolo dall’alto e meditando vendetta.
«Felice
di vedere che
sei sempre il solito, Ace» ironizzai, scompigliandogli i
capelli già disastrati.
«Volevo
solo farti
capire chi comanda» ammiccò.
*
(Quella stessa
sera).
«Mi
hanno operato d’urgenza
e non me ne sono nemmeno reso conto?».
«Eri
incosciente,
Eustass-ya, ovvio che tu non te ne sia accorto».
«E
non c’è stato
nemmeno un imprevisto? Nessuna complicazione?» domandai,
inarcando un
sopracciglio e guardandolo dubbioso. Sapevo la verità, ma
vedere come quel
saccente tentasse di infinocchiarmi senza esporsi e ammettere che mi
aveva
strappato alla Morte era troppo divertente. Già immaginavo
la sua faccia
stupita quando lo avrei smascherato.
«Che
vuoi dire?»
domandò perplesso con una perfetta faccia innocente. Quella
volta, però, non mi
avrebbe fregato.
«Oh,
non lo so. Sai, di
solito capita che qualcosa vada storto».
«Tu
sei stato fortunato»
mormorò con un’alzata di spalle, non cogliendo le
mie allusioni e ignorando il
mio ghigno sprezzante.
«Trafalgar».
«Mhm?».
«So
dell’ascensore. So che
se sono vivo lo devo solo al tuo intervento».
Non
rispose e lasciò
che il silenzio riempisse la stanza. Avrei dovuto iniziare a
sghignazzare per
essere riuscito a fregarlo e a metterlo nel sacco, ma mi accorsi solo
in quel
momento che qualcosa non andava. Quelle parole non dette stridevano
nell’aria,
rendendola pesante e irrespirabile.
Non si
trattava del mio
cuore, non era solo una reazione postoperatoria, ma altro di
spiacevole. Si trattava
di un qualcosa non detto e che, ne ero certo, lui stava cercando di
evitare.
Se ne
stava seduto
sulla sedia accanto al letto, i gomiti appoggiati sulle gambe e le mani
incrociate. Fissava il pavimento e, a parte quando era entrato, non
aveva più
alzato lo sguardo per lanciarmi occhiatacce come al solito.
«Cos’hai
combinato?»
chiesi, anche se non ero certo di volerlo sapere perché
temevo una risposta
spiacevole.
Alla fine
quella arrivò
come uno schiaffo e, per quanto provai ad ignorarla e a dirmi che non
aveva
alcuna importanza, fece male.
«Mi
dimettono» disse in
un sussurro, quasi si rifiutasse pure lui di volerlo ammettere,
«Me ne vado tra
qualche giorno».
Angolo
Autrice.
Questo
è spuntato oggi
dal nulla. Ho messo mano alla tastiera e si è creato da
solo. Spero non ci
siano troppi errori perché ho un po’ sonno
sinceramente e ho paura di aver
dimenticato qualcosa o non essermi accorta magari di alcuni intoppi. Ad
ogni
modo spero che lo gradiate perché, rullo di tamburi, il
prossimo sarà l’ultimo
capitolo. Si, avete capito bene.
Dio,
questa ff doveva
durare poco invece, causa problemi e mancanza di ispirazione (detta
anche
pigrizia) l’ho tirata per le lunghe. Sono felice
però di aver visto che molti l’hanno
apprezzata nonostante le brutte notizie, come la fine del povero
Penguin
;______; per la quale mi sto ancora odiando, e le novità in
quest’ultimo.
Oggi
abbiamo quattro
protagonisti. Il primo è Killer che, povera anima, era
sparito per un po’, ma
eccolo che ritorna con i suoi pensieri e il sollievo di non aver perso
pure
Kidd. Cioè, che sfiga sarebbe stata D: ad ogni modo anche
lui aspetta il
risveglio del rosso, ma qualcosa sembra andare diversamente, dato che
all’ospedale
fa la sua comparsa qualcuno che era finito nel dimenticatoio (?)
Buongiorno a
te adorabile Shachi, come staaai? ** Se qualcuno si stesse domandando
se tra i
due verrà fuori una specie di crack-pairing, beh, ammetto
che non lo so. Lo vedremo
nella prossima puntata. Magari fatemi sapere che ne pensate,
così vedo come
regolarmi.
E poi
c’è Law. Law con
papà Doffy e papà Vergo. No, non uccidetemi,
dovevo farlo. Ho letto alcune
fiction con loro due come genitori adorabili e visto alcune immagini
che se riesco
a trovare vi propino la prossima volta ed erano dolcissime. E poi, dai,
non ve
li immaginate tutti coccolosi nei confronti del dolce
bebé-Law? ** Awwwwww!
Comunque,
ecco che
arriva la mazzata: Trafalgar deve tornare a studiare perché
ormai sta bene,
anche se l’ha tenuto nascosto per allungare la sua permanenza
all’ospedale SOLO
per una cerca persona che noi conosciamo bene.
E poi
c’è anche Marco.
Oggi vediamo un po’ la panoramica dei suoi pensieri e del suo
complesso e a
volte insulso cervello. Si, lui è quello delle pare mentali,
ma ci sta perché
mi sembra un tipo riflessivo e attento a ciò che fa.
Nonostante tutto, alla
fine, capisce che deve smetterla di stare la a pensare e a chiedere
scusa, così
decide di agire. FINALMENTE, DIO GRAZIE. Il resto viene da
sé ^^ inoltre Ace ha
pensato bene di fargli capire chi comanda perché il
ragazzino non è uno che si
fa tanto comandare, intendiamoci. Ma non è figo quando
ammicca? LOL ;D
La parte
con Kidd l’ho
fatta corta di proposito. Non mi andava di girarci troppo attorno e
Trafalgar,
poi, non era dell’umore per chiacchierare come si
è visto. Cosa dite? Un brutto
colpo per Kidd, vero? Chissà cosa salterà fuori
nel prossimo e ultimo capitolo
;D
Vi lascio
due immagini
giusto per farvi contenti ^^
https://upload.facebook.com/1453193458232825/photos/pcb.1499169113635259/1499164450302392/?type=1
https://upload.facebook.com/1453193458232825/photos/pcb.1499169113635259/1499169046968599/?type=1
Ma caro
Shachi ** e
Vergo con le bretelle l’ho amato ^^
Siamo
alla fine anche
oggi, gente, colgo l’occasione per ringraziare tutti e, come
ho già detto,
questo periodo è un casino, ma spero di riuscire a
rimettermi in pari con
tutto, recensioni comprese, molto presto. Sappiate comunque che leggo
tutto e
che non smetterò ma di amarvi perché siete
fantastici, davvero. E non vi
merito, ma grazie di cuore.
Informazioni:
-Capitolo
8 di Portuguese D. Ace in
produzione. Tempo qualche
giorno e arriverà;
-One-shot
What the Hell pubblicata, per chi
volesse farci un salto.
Un
abbraccio infinito a
tutti.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 9. ***
Capitolo 9.
(Una settimana e
mezza più tardi)
Vedi,
la vita è una piuma. Si balla e si trema amore mio.
Aprii
l’ultimo cassetto
dell’anonimo comodino in legno bianco e antiestetico che
tanto avevo odiato
durante quei due mesi passati in osservazione. Mordicchiandomi
distrattamente
un labbro, iniziai ad estrarre tutto quello che vi era
all’interno, come
calzini, una bottiglietta d’acqua, un peluche che mi avevano
portato i bambini
dell’orfanotrofio, un paio di disegni di quella piccola peste
di Rufy, un quaderno,
il libro de Lo Hobbit e una
maglietta
a maniche corte che avevo rubato a Kidd che usavo per dormire la notte.
Buttai
tutto sul letto per poi iniziare a riempire l’ultimo zaino,
gettando dentro la
roba in disordine e faticando alla fine per farci stare tutto.
Una volta
finito,
poggiai le mani sul materasso del letto ancora sfatto nel quale avevo
dormito
fino a poco prima e sospirai abbassando il capo, godendomi il silenzio
e la
tranquillità della stanza, pensando al casino che avrei
ritrovato una volta
tornato a casa.
Mi
avevano dimesso il
giorno prima, dicendomi che stavo bene, che gli ultimi esami erano
risultati
positivi e che nulla mi tratteneva più
all’ospedale. Mi avevano stretto la mano
e augurato buona fortuna e poi mi avevano lasciato a rielaborare la
notizia e a
fare le valigie, dandomi un giorno, al massimo due, per organizzare il
trasferimento e ritornarmene a casa mia. Avrei potuto benissimo
schizzare fuori
da quell’edificio non appena mi avevano parlato delle mie
dimissioni, ma la
verità era che quelle parole mi avevano fatto sentire
pesante, come se fossi
stato ancorato al suolo.
Faticavo
ancora a
crederci: era tutto finito, potevo ritornare alla mia vita di prima,
potevo
rivedere tutta la mia famiglia e riprendere a stare con loro senza
separarmi
mai più. Avevo lottato e avevo vinto. Ero uno di quelli che
ce l’avevano fatta.
Deglutii
rumorosamente
e alzai gli occhi sulle pareti della stanza, lasciandoli scorrere sui
molteplici disegni raffigurati e sulle frasi di incoraggiamento per poi
fermare
la loro corsa sul dipinto che svettava sopra alla testiera del letto.
Osservai
ogni dettaglio di quella fenice azzurra, imprimendola nella mente e
ragionando
sul fatto che, alla fine, ero stato davvero molto fortunato.
Respiravo
ancora; il
mio cuore batteva e pompava sangue e vita; le mie gambe si muovevano
agili e
rispondevano ai comandi; la mia testa funzionava ed io esistevo. Vivevo.
Ed ecco
che l’ondata di
senso di colpa mi investì come un uragano. A me era andato
tutto bene, ero
fuori pericolo, ma quanti altri sarebbero dovuti rimanere
all’ospedale in
attesa che qualcosa cambiasse? Quanti altri sarebbero morti? Chi altro
sarebbe
rimasto solo, quando invece a me veniva concessa
l’opportunità di uscire, ricominciare
a vivere ed essere felice? Tutto ciò mi faceva sentire
così male. Era ingiusto,
inadeguato, era da egoisti. Me l’aveva detto anche Kidd,
quella mattina, quando
ero andato a dargli la notizia e a salutarlo. Ero entrato nella sua
stanza con
la testa bassa, quasi come un cane bastonato. Gli era bastato
un’occhiata alla
mia espressione dispiaciuta per sospirare e recepire la notizia.
‘Un
altro che ci abbandona’
aveva detto. Ed era sembrato così solo, così
piccolo, nonostante l’aspetto e il
carattere burbero. In quel momento, Kidd era apparso esattamente come
tutti gli
altri: malato, indifeso e senza speranze.
Mi ero
sentito un
verme, non solo per la mia condizione, ma anche per Trafalgar. A dire
la
verità, tutti ce l’avevamo un po’ con
lui. Una settimana prima ci eravamo
svegliati e non l’avevamo più trovato. Era sparito
nel nulla, senza salutare e
senza lasciare un biglietto o qualcosa del genere. Solo Eustass
sembrava
conoscere la realtà dei fatti, ma non aveva detto niente e
noi non avevamo insistito
per saperne di più. Ad ogni modo, non riuscivo a non
sentirmi male: rimanevano
solo lui e Killer a sostenersi. Come avrebbero fatto, quando la
maggior parte
di noi se ne era andata, o lo stava per fare?
Qualcuno
bussò
lievemente alla porta che poi si schiuse fino a rivelare
l’identità del nuovo
arrivato. Non mi voltai a controllare chi fosse, non ne avevo bisogno.
«Sei
pronto?» mi chiese
Marco una volta che ebbe azzerato le distanze, raggiungendomi e
affiancandomi.
Corrugai
un po’ la
fronte, indeciso su cosa dire. «Se ti dicessi che non ne sono
sicuro ti
stupiresti?» domandai infine, continuando a rimirare il muro
colorato.
«No»
sussurrò, «No, non
mi stupirei affatto» affermò pacato, affondando le
mani nelle tasche dei
pantaloni e guardandosi attorno.
Restammo
qualche minuto
in silenzio, poi la marea di frasi che mi premevano sulle labbra mi
sfuggì di
mano e mi ritrovai a dare voce ai pensieri che mi tormentavano da
quella
mattina. «E’ come se li tradissi tutti». Insomma, non era giusto nei
confronti dei miei
compagni: io ero libero e loro dovevano continuare a rimanere
imprigionati
dentro quelle quattro mura chissà ancora per quanto tempo.
La cosa
triste era che
non sarebbero più stati un gruppo; non avrebbero
più corso per i corridoi e non
avrebbero nemmeno passato le nottate svegli a chiacchierare seduti sul
mio
letto. Kidd non avrebbe più rischiato un infarto salendo le
scale; Law avrebbe
smesso di sogghignare malefico e lanciare il malocchio ai dottori;
Killer non
avrebbe mai più osato correre lungo i corridoi con la sedia
a rotelle e
Penguin… Beh, lui se ne era andato da un pezzo, ormai.
«Dispiace
anche a me»
confessò pure lui con lo sguardo perso nel vuoto.
«Eravamo
una bella
squadra» mormorai distrattamente, ricordando tutti i guai che
avevamo combinato
in quell’anno. «Non doveva finire
così».
Sentii lo
sguardo di
Marco addosso e fu allora che prese a ridacchiare. Poi mi diede una
leggera
spallata per attirare la mia attenzione su di sé e mostrarmi
il piccolo sorriso
rassicurante che stava sfoggiando. «Ma lo siamo
ancora» chiarì, «Non deve per
forza andare in questa maniera. Possiamo tornare tutte le volte che
vogliamo e quando
verranno dimessi inizieremo a combinare disastri in giro per il
mondo».
Lo
guardai come se
fosse pazzo. Certo, era una bellissima prospettiva, ma altamente
difficile da
compiere. Eppure sembrava sicuro e sincero, troppo per pensare ad uno
scherzo o
ad un misero tentativo di tirarmi su il morale. Perché Marco
non era mai stato
una persona che dava false speranze, no. Lui non parlava a vanvera per
il gusto
di farlo e non illudeva nessuno. Lui dava speranze, le alimentava e
aiutava
chiunque a portare a termine i propri obbiettivi. Marco era
così: un fratello
per tutti.
Mi
afferrò un braccio e
mi tirò su dal letto, rimettendomi dritto e recuperando lo
zaino con l’altra
mano. Sempre ridendo e senza lasciarmi il tempo di ribattere o di
soffermarmi a
pormi altri problemi o sensi di colpa, mi trascinò con
sé fuori dalla stanza e
lungo il corridoio fino alle scale che iniziammo a scendere
velocemente, due
gradini alla volta, tanto che rischiai più volte di perdere
l’equilibrio dato
che quello scemo non mi mollò nemmeno un istante fino a che
non raggiungemmo il
piano terra con il fiatone.
«Non
preoccuparti Ace,»
disse entusiasta, «Andrà tutto bene. Usciremo di
qui e andremo a riprenderci la
nostra vita. Poi arriveranno anche Kidd, Killer e quel sadico di
Trafalgar!».
Alzai gli
occhi al
cielo per non scoppiare a ridere, sentendo sempre meno dentro di me il
peso di
tutta la tristezza e della sofferenza che ognuno di noi aveva patito
stando
chiuso lì dentro. Non avrei mai dimenticato
quell’esperienza, era stata una
cosa troppo forte e burrascosa che aveva lasciato segni indelebili nel
mio
animo, ma avrei conservato il ricordo con affetto perché
avevo avuto l’opportunità
di trovare la mia luce nel buio, ovvero un sacco di persone speciali
alle quali
mai avrei voluto dire addio. Sarebbero rimasti nel mio cuore per sempre.
Raggiungemmo
le porte
scorrevoli che si aprirono al nostro passaggio e, quando mi ritrovai
fuori
dall’ospedale, lontano da quelle mura e all’aperto,
con un sole accecante che
mi fece chiudere gli occhi per un istante, percepii il cuore tremare
per
l’emozione.
Stavo
bene, ero vivo e
davanti a me c’era il mondo che mi aspettava.
«Vivremo
come vorremo,
saliremo sul tetto ogni notte per vedere le stelle, o i fuochi
d’artificio, e
sfideremo Kidd a chi beve di più senza svenire. Killer si
rimetterà in sesto e
lo inviteremo da noi a fare da baby-sitter ai mocciosi. Faremo tutto
ciò che
vuoi!» riprese Marco con i capelli scompigliati per via del
venticello
invernale e con gli occhi chiari che brillavano. Non era mai stato
così bello e
non gli avevo mai voluto così tanto bene. Mi sentivo quasi
scoppiare.
Fui
contagiato da quel
suo buonumore e lo ascoltai fino alla fine del suo discorso contorto e
dannatamente assurdo, ridendo e lasciando che la luce mi accecasse e
che l’aria
mi riempisse i polmoni fino a star male. Annuii più volte
davanti alle sue
proposte, scossi il capo con esasperazione nell’immaginarmi
le scene, pensai a
quanto mi sarebbe piaciuto vivere tutto ciò e condividerlo
con lui e il resto
dei nostri compagni.
Alla
fine, quando non
seppe più cosa dire, fece una pausa per riprendere fiato,
guardandomi negli
occhi senza nascondere la carica di affetto che mi sentii trasmettere
in
quell’istante.
«E,
se non hai nulla in
contrario, lo faremo insieme» promise, porgendomi la mano per
invitarmi a
seguirlo. Dopo di che sorrise divertito, guardandomi con sfida.
«Allora, ti va,
oppure preferisci tornare dentro?».
Lo fissai
per qualche attimo
senza sapere bene cosa dire. Forse non c’era nemmeno il
bisogno di parlare,
aveva già detto tutto quello di cui avevo bisogno per
svegliarmi dal mio coma e
prepararmi a riprendere a correre.
Una
folata di vento mi
investì in pieno viso, portando con sé
l’odore di erba appena tagliata, hot dog
e Penguin. Così chiusi gli occhi e me lo immaginai mentre si
sbracciava per
incitarmi a muovermi e a cogliere l’opportunità al
volo. Conoscendolo, avrebbe
ingranato la marcia immaginaria della sua sedia a rotelle e mi avrebbe
preceduto, sghignazzando come un pazzo e alzando le braccia al cielo,
felice.
Alla fine
sorrisi,
prima solo mestamente, poi scoppiando a ridere, afferrando la mano di
Marco e
lasciandomi accompagnare lungo il viale che portava lontano, verso un
nuovo
inizio.
«Si,
mi va».
E
c’era Marco.
E
c’ero io.
*
(Sei mesi dopo)
Non
sono per niente vicino a un addio. Non essere triste amore mio.
La
lancetta della
sveglia segnava le cinque del pomeriggio. Un orario assurdo e di
stallo,
decisamente quello che odiavo di più durante il giorno. Era
l’ora che passava
più lentamente delle altre e durante la quale non accadeva
mai niente. Zero.
nessuna visita, nemmeno un controllo da parte dei medici. Qualche volta,
in
corridoio, qualcuno suonava il campanello per ricevere attenzioni, o
semplicemente qualcun altro schiattava, ma quegli avvenimenti erano
così rari
che non facevo altro che annoiarmi a morte.
Me ne
stavo stravaccato
a letto, con le braccia incrociate dietro la testa, un ginocchio
piegato e una
gamba a penzoloni. Avrei potuto farmi un giretto per i piani, ma
l’ospedale lo
conoscevo così bene che ormai non c’era nessun
luogo che mi suscitasse un po’
di interesse. Sapevo che in qualche sgabuzzino avrei potuto trovare
qualcuno
intento a scopare, ma non mi andava di rovinare l’orgasmo a
nessuno quel
giorno, perciò lasciai perdere e mi preparai a spaccarmi i
timpani con la
musica a tutto volume nel mio lettore.
Misi le
cuffiette e
chiusi gli occhi, rilassandomi e sperando di assopirmi per risvegliarmi
magari
due ore dopo, almeno il tempo sarebbe volato in quel modo.
Mi resi
conto che
attivare la modalità di riproduzione casuale fu una pessima
idea quando
riconobbi le note di quella stupida e insulsa canzoncina che, a furia
di ripeterla,
Penguin mi aveva cacciato in testa mezzo anno prima. Non potevo
sopportarla e
mi domandai come mai non l’avessi ancora cancellata.
Sbuffai,
ma non mossi
un muscolo per cambiare con un altro brano, non ne avevo voglia e
volevo solo
estraniarmi dal mondo e dimenticare tutto. Era chiedere troppo non
pensare e
non sentire nulla per un minuto? Uno solo, non chiedevo altro.
Ci
metto il coraggio che è parte del tuo.
Coraggio.
Coraggio per
fare cosa? Io ne avevo di coraggio, e da vendere anche, infatti mi
trovavo
ancora li, rinchiuso in quello schifo di ospedale a lasciare che i
dottori
continuassero a fare test, esami e scemenze varie quando ormai era
chiaro a
tutti che stavo bene, che ero stabile e che il mio organismo non
avrebbe
rigettato quel cazzo di cuore nuovo che mi avevano dato.
Mi si
mozzò il respiro
a quel pensiero e a quello che avrebbe comportato se avessi continuato
a
ripetermi tutto ciò, così strinsi gli occhi,
scossi lievemente la testa e mi
concentrai, mio malgrado, sulla canzone, sperando di distrarmi un poco.
Riguardo
al coraggio, io sono un leone. Ho una folta criniera rossa, sono forte
e, ma
cazzo, che diavolo di discorsi sono?
Con
stizza cambiai
posizione e diedi le spalle alla porta chiusa, osservando come fosse il
tempo
fuori e sorridendo nel vedere che ormai le giornate avevano iniziato ad
allungarsi definitivamente. Fuori c’era il sole e il tempo
era abbastanza bello
per tenere aperta la finestra senza problemi. Davvero una bella
giornata,
peccato doverla sprecare in quello stato catatonico come facevo da
mesi, ormai.
Ero
rimasto l’unico
all’ospedale.
Il gruppo
si era
sciolto. Prima se ne era andato Penguin, poi Marco, seguito da Ace.
Killer era
stato dimesso circa quattro settimane prima ed ero stato davvero felice
quando
l’avevo visto entrare nella mia stanza, con i capelli tutti
arruffati e il
fiatone. Mi aveva guardato e mi aveva detto che aveva corso per
trovarmi. L’avevo
sondato da cima a fondo alla ricerca delle stampelle e, quando non le
avevo
trovate, avevo iniziato a ridere, rispondendo con calore
all’abbraccio quando
il ragazzo che era diventato il mio migliore amico mi si era gettato
addosso a
braccia aperte, scoppiando a singhiozzare.
Ne aveva
passate di
tutti i colori ed ero stato così contento quando mi aveva
dato la notizia delle
sue dimissioni che non aveva affatto pensato a quello che sarebbe
toccato a me.
La depressione era arrivata dopo la sua partenza, come mi ero
aspettato, ma
ormai avevo imparato abbastanza a lasciarmi scivolare tutte le brutte
esperienze addosso e ne ero uscito piuttosto illeso.
L’essermi ritrovato senza
nessuno accanto non si era dimostrato così terribile, alla
fine. Era bastato
smettere di pensare a quello che facevo prima quando erano ancora tutti
all’ospedale e la cosa aveva funzionato.
Ad ogni
modo, loro
cercavano di renderla meno dura possibile. E ciò, anche se
non volevo
ammetterlo, mi faceva piacere.
Era
strano e bello allo
stesso tempo sapere che non mi avevano dimenticato, nonostante il mio
caratteraccio e i miei modi che lasciavano spesso e volentieri a
desiderare.
Non ero mai stato troppo gentile nei loro confronti, ma nonostante
tutto,
continuavano a tenermi in considerazione e a rendermi partecipe della
loro
vita.
Killer
passava ogni
giorno, mattina e sera e rimaneva a tenermi compagnia fino a tardi,
fregandosene dell’orario. I medici, comunque, infermieri
compresi, lo
conoscevano tutti e, pur di evitare il mio malumore, preferivano
lasciarlo fare
senza sgridarlo o cacciarlo via.
Anche
Ace, nonostante
il modo egoista in cui lo avevo salutato quando era venuto da me per
dirmi che
se ne andava, non si era dimenticato. Non aveva un orario preciso
nel
farmi visita, lui, semplicemente, potevo aspettarmelo a qualsiasi ora
del
giorno e vederlo mi faceva pure piacere, dato che avevamo
più o meno la stessa
età. Un’altra cosa che mi piaceva di lui, era il
caratterino ribelle e la
propensione a combinare guai. Insomma, chi poteva essere tanto idiota
da rubare
un manichino, camuffarlo da Babbo Natale, assicurarlo ad una dozzina di
fuochi d’artificio
e spararlo in cielo la notte di Natale? Solo lui, perciò
aveva tutta la mia
stima. Inoltre mi ero fatto promettere che, quando sarei uscito,
avrebbe
rifatto una cosa simile, ma con un pollo o qualche altro essere
inutile. Volevo
vedere il botto, accidenti.
Per
quanto riguardava
Marco, beh, anche lui veniva a salutarmi parecchie volte durante la
settimana,
quando il lavoro glielo permetteva. Passava con Ace alle calcagna,
oppure anche
da solo, ad ogni modo mi portava sempre qualcosa di buono da mangiare,
come
torte o dolci. Diceva che a casa, all’orfanotrofio, uno dei
loro fratelli
passava le giornate a sfornare delizie e gli faceva piacere
condividerle con
me.
Io lo
ringraziavo e mi
tenevo tutto per la sera, dividendo il bottino anche con Killer e
adorando quel
personaggio che non conoscevo, ma al quale avrei voluto fare i
complimenti e
stringere la mano.
Non ero
solo, in fin
dei conti, ma era come se lo fossi.
A
volte ci perdiamo i sottotitoli del cuore.
E poi
c’era il mio
cuore.
Il
mio nuovo cuore, me lo devo mettere in testa, pensai, alzando
gli occhi al cielo. Alla fine, anche se
avrei preferito cavarmela da solo con le mie forze, ero stato costretto
ad
accettare di sottopormi ad un trapianto di cuore che, a detta dei
dottori, era
stato un successo.
Un
successo sto cazzo, io sto ancora qui!
L’operazione
era andata
a buon fine ma, secondo il loro parere professionale, era meglio essere
certi
della riuscita e tenere sotto controllo la mia situazione per evitare
ricadute
o complicazioni drastiche. Su quel punto erano stati molto chiari: se
il cuore
non risultava compatibile e veniva respinto, io ero finito.
La
fortuna, o il
Signore, dipendeva dai punti di vista, però, mi aveva
favorito, e mi trovavo
ancora sulla Terra a respirare, vivendo però in un mondo in
stallo. Non sapevo
che fare, non sapevo quando me ne sarei andato, non sapevo cosa ne
sarebbe
stato di me e non sapevo nemmeno più come sopportare tutta
quell’orrenda
situazione. Stavo aspettando qualcosa senza sapere cosa.
Parliamoci
chiaro, Kidd.
Ti senti una merda per essere stato abbandonato, ammettilo.
Una cosa
che odiavo era
che, stando tanto tempo in solitudine, avevo preso a parlarmi e a darmi
le
risposte da solo. Da un lato ciò poteva indicare un aumento
della mia
intelligenza mista a furbizia, ma dall’altro era una vera e
propria seccatura.
Io non mi
sentivo uno
schifo e non me ne poteva fregare di meno se quello stronzo saccente,
mezzo
morto, alla fine aveva deciso di voltare le spalle a tutto e tutti,
dimenticare
quello che aveva condiviso con i suoi compagni, per andarsene a fare in
culo
altrove. Per quanto mi riguardava poteva schiattare. Anzi, non si era
fatto più
sentire, quindi, probabilmente, era bello che morto.
Strinsi i
pugni sul
lenzuolo, intimandomi di calmarmi, ma la verità era che da
troppo tempo me ne
stavo tranquillo e buono, prima o poi sarei scoppiato, ne ero certo.
Non
riuscivo nemmeno a
pensarci: quel rognoso mi aveva salvato la vita, per quanto odiassi
ammetterlo,
e poi se ne era semplicemente andato come se niente fosse successo, come se
tutti i suoi
discorsi sul non gettare la spugna me li fossi sognati solo io e come
se il
resto dei ragazzi non fossero stati altro che cenere.
Come se
io non fossi
stato niente per lui.
Dopo
l’operazione
miracolosa in ascensore mi era stato accanto come al solito, nulla di
strano
dato che sembrava godere nel non lasciarmi mai il tempo e lo spazio per
respirare, ma avevo capito subito che qualcosa non andava. Inizialmente,
avevo
creduto che i medici gli avessero dato poco tempo da vivere, che si
fosse
ammalato, invece no.
Se ne
andava e basta.
Doveva
riprendere
l’università e concludere i corsi, fare il
tirocinio, laurearsi, vivere la sua
vita e coronare il suo sogno. Mi aveva persino chiesto se riuscivo a
capire
cosa intendeva, ma non avevo risposto. Non avevo aperto bocca per tutto
il
tempo successivo che aveva sprecato per spiegarmi la situazione e per
dirmi, in
poche parole, che lo avevano dimesso e che doveva tornare alla sua vita
andando
via.
Ovviamente
non l’avrei
trattenuto lì, avrei fatto lo stesso se fossi stato al suo
posto e mi ero
persino sentito sollevato nel sapere che era guarito e che non era
più a
rischio. Alla fine ce l’aveva fatta, aveva superato il suo
problema ed io avevo
mantenuto la promessa fatta a Penguin. Tutto era andato per il meglio
e, quando
me lo aveva detto, all’inizio ero persino stato tentato di
dirgli in faccia
che… beh, ormai erano passati la bellezza di sei mesi e lui
era sparito nel
nulla senza mai farsi sentire o scrivere. non mi importava se delle mie
condizioni
non gli interessava, non volevo essere compatito e, forse, era stato
meglio
così, ma le cose che mi faceva incazzare erano due. La prima
riguardava il
fatto che si fosse scordato degli altri, insomma, alla fine anche loro
lo
avevano aiutato e gli erano stati vicini, un po’ di
gentilezza nei loro
confronti avrebbe anche potuto dimostrarla; la seconda, invece, mi
faceva
davvero salire il crimine. Insomma, che cazzo pensava che me ne facessi
io dei
libri di medicina?
Si,
perché il coglione,
oltre a non farsi sentire, mi inviava ogni mese un volume sulla ricerca
o sul
corpo umano, o su qualsiasi altra cazzata biologica e medica. E sapevo
che era
lui, ne ero certo, dato che i sei libri che mi erano arrivati li avevo
tutti
visti nella sua stanza. Non mi ero mai sognato di leggerli o di
sfogliarli.
Cosa me ne poteva interessare? Preferivo tenerli rinchiusi
nell’armadio a
prendere polvere, quello era il loro posto.
Sospirai,
sentendo gli
occhi farsi leggermente più pesanti mentre quella stupida
canzoncina continuava
a strimpellarmi nella mente.
Ecco che
arrivavano i
cinque minuti di tristezza che, di tanto in tanto, mi facevano visita
quando
abbassavo le mie difese. Certo, ero una corazza d’acciaio, ma
anche io ce
l’avevo un cuore, pure nuovo, figuriamoci se non ero in grado
di provare almeno
un minimo di emozione.
Quando
avevo avuto
l’infarto all’università nessuno si era
più interessato a me, nessuno di quelli
che conoscevo era venuto a cercarmi. Mi avevano tutti messo da parte e
ricominciare era stata dura, soprattutto con i problemi che si erano
presentati, ma ce l’avevo fatta. E, per quanto mi costasse
ammetterlo, il
merito era di quei cinque idioti mezzi svampiti che avevo trovato in
giro per i
reparti. Uno più suonato dell’altro, ma era
ciò che li rendeva differenti e
speciali. Mi avevano fatto sentire bene quando ero malato, mi avevano
consolato
quando mi ero sentito uno straccio e mi avevano tenuto compagnia quando avevo creduto di
essere solo al mondo. Li consideravo miei amici, tutti, e continuavo a
farlo.
Non era
vero che lo
odiavo, semplicemente facevo fatica a sopportarlo, ma non avrei voluto
vederlo
scomparire così, senza poter fare nulla per impedirlo.
La nostra
uscita di
scena non era stata come me l’ero immaginata, ovvero tra
insulti, pugni e un
bacio, ma pazienza, ci avevo fatto l’abitudine e, prima o
poi, sarebbe passato.
Avevo
quasi preso sonno,
quando il rumore di una porta che sbatteva sovrastò la
musica, destandomi e
facendomi sussultare. Mezzo intontito tolsi con un gesto secco le
cuffiette
dalle orecchie e sbadigliai, convinto che fosse un medico o Killer
arrivato in
anticipo.
Guardando
l’ora mi resi
conto di aver effettivamente dormito un bel pezzo dato che erano le sei
e un
quarto. Che bellezza, potevo mangiare il dolce di Marco e sentire come
era
finito l’allenamento di Killer e Shachi quel giorno.
Stavo
appunto per
voltarmi con un sorriso allegro quando una voce interruppe ogni mia
azione e
frase, facendomi perdere un battito e gelare il sangue.
«Allora
è vero che chi
non muore si rivede, Eustass-ya».
*
Guarda
che cosa mi tocca: cucirmi la pelle e poi la bocca.
Dovetti
usare tutta la
mia buona volontà per non perdere la calma e iniziare a
urlare. Ero arrivato da
una mezz’ora buona e quel deficiente con i capelli rossi mi
aveva già fatto
incazzare. Da quando le persone si salutano con un pugno sullo stomaco?
Il
fatto che forse me lo ero meritato,
poi, non mi passò minimamente per la testa.
L’unico che meritava di essere
preso a sberle era solo lui!
«Cosa
cazzo ti dice il
cervello? Sparisci per sei mesi e poi ti rifai vivo come se niente
fosse?»
ripeté Kidd per la terza volta, alzando sempre di
più la voce e fissandomi
furente con una mano a mezz’aria pronta a colpirmi. Avevo
immaginato che non
sarebbe stato facile tenerlo buono, ma non mi ero di certo aspettato
un’accoglienza così pessima.
Così
non potei fare a
meno di ripagarlo con la stessa moneta, deliziandolo con uno dei miei
classici
sorrisetti di sufficienza e regalandogli una delle mie acidissime
battute. «Hai
contato pure il tempo? Che carino».
«Apri
ancora la bocca e
giuro che te la spacco» soffiò minaccioso e la
determinazione nella sua voce mi
fece intendere che non stava affatto scherzando e che
l’avrebbe fatto davvero.
Mi chiesi
il perché di
tutto quel comportamento. Anche io ce l’avevo con lui per non
aver mai risposto
a una delle mie lettere, eppure mi stavo facendo violenza per
comportarmi in
modo civile nell’attesa di una qualche spiegazione.
Sicuramente avrei
provveduto a vendicarmi in un secondo momento.
«Piantala
di fare la
voce grossa, Eustass-ya,» risposi, fulminandolo con
un’occhiataccia e
preparandomi ad uno scontro, «Se c’è
qualcuno che deve essere preso a calci,
tra i due, sei solo tu!».
«E
che cosa avrei fatto
io? Sentiamo!».
«Non
mi hai più
cercato!» sbottai.
Spalancò
gli occhi e mi
guardò come se avessi appena vomitato arcobaleni, ma si
riprese abbastanza in
fretta, tanto che finì per l’arrivarmi ad un
soffio dal naso, sovrastandomi.
Era diventato ancora più alto.
«Cos'é che ho fatto?»
sibilò con astio.
«Sei
sparito» dissi
apatico, permettendo solo alla rabbia e alla delusione di accecarmi, ma
stando
attento a tenere bene rinchiuse le emozioni come la tristezza, il senso
di
abbandono e solitudine che avevo provato in quei mesi. Io gli avevo
scritto
senza mai ricevere risposta e lui mi trattava in quel modo? Non
esisteva, se
era la guerra che voleva, allora l’avrebbe avuta.
Strinse
entrambe le
mani a pugno, forse per non lasciarsi prendere dal momento e colpirmi
in pieno
viso. «Stai scherzando spero».
«No,
razza di deficiente!
Ho capito che ci sei rimasto male quando mi hanno dimesso, ma mettermi
da parte
in quel modo potevi risparmiartelo. E adesso vuoi anche avere ragione
quando io
non ti ho fatto assolutamente niente!». Mi stavo lasciando
andare un po’
troppo, ma non importava. Fino a che non iniziavo ad urlare andava
tutto bene,
ma avrei continuato. Non poteva passarla liscia e credere che non gli
avrei
detto il fatto suo.
Kidd
alzò il viso verso
il soffitto e sospirò. «Te ne sei
andato» fece lapidario, tanto che riuscì per
la prima volta a zittirmi e a lasciarmi senza parole con cui ribattere.
Che
diavolo stava dicendo?
«Eustass-ya
ma che…».
«Non
mi importava se ti
dimettevano o meno, quello che non dovevi fare era sparire e
dimenticarti di
tutti. Come se noi non avessimo contato nulla per te, quando
è stato solo
merito nostro se non ti sei lasciato morire. Invece hai preso e ci hai
voltato
le spalle senza dire nulla, senza mai scrivere o chiamare. Niente,
Trafalgar.
Per sei, lunghi, maledetti e fottutissimi mesi».
Anche
con i crampi, con la fine sulla faccia, col dolore che mi schiaccia e
non lo
sai.
Rimasi in
silenzio a
guardare come sulle labbra del rosso apparisse una smorfia amara, che
sapeva
tanto di tristezza. Distrattamente notai anche come i capelli,
già folti, gli
erano cresciuti, ricadendogli più di frequente sugli occhi,
gli stessi che
avevano bruciato di rabbia e di passione mesi addietro, quando stavamo
assieme.
Assieme,
come? pensai,
lasciando subito perdere il discorso. Non mi ci volevo nemmeno
soffermare su
quel particolare. Eustass-ya non aveva contribuito ad aiutarmi, me
l’ero cavata
benissimo da solo.
E
quello che mi sto ripetendo per auto convincermi sono tutte balle.
Ad ogni
modo, capii che
qualcosa non andava. Kidd sembrava davvero stanco e abbattuto;
più precisamente
aveva l’aria di un animale che era stato abbandonato a se
stesso, lasciato solo
ad affrontare tutto, senza nessuno accanto. Per quello ringhiava, era
il suo
modo di difendersi dalle avversità e dagli estranei, peccato
che non fosse mai stato
bravo a nascondersi dietro al suo carattere da duro. Per me era sempre
stato
facile capirlo, era un libro aperto. Tutto di lui mi interessava e mi
incitava
a continuare a gravitargli attorno; poteva apparire banale, uno stupido
scimmione senza cervello, ma, in realtà, era pieno di
sorprese. Non reagiva mai
come mi aspettavo ed era un continuo evolversi di sensazioni,
espressioni,
emozioni e scene. A volte complicato, ma mai impossibile da capire, e
così fu
anche per quel particolare momento.
Abbassai
gli occhi,
riflettendo che, almeno in parte, aveva ragione. Me ne ero andato e lo
avevo lasciato
senza troppe cerimonie. Era stato un periodo difficile, quello, prima
la morte
di Penguin, poi il collasso, il trapianto in previsione e la mia
partenza. Era stato
un miracolo che non si fosse lasciato andare. La mia intenzione,
comunque, non
era mai stata quella di sparire nel nulla, assolutamente. Avevo
assistito
dall’alto dell’osservatorio la sua operazione prima
di partire e mi ero voluto
assicurare che fosse andato tutto bene, quindi, infine, avevo provato a
contattarlo. Infatti gli avevo spedito un sacco di libri, possibile che
non li
avesse ricevuti?
«Eustass-ya,
mi
dispiace» dissi sommessamente, spiando di sottecchi la sua
reazione e capendo
che avrei dovuto fare di più per sistemare le cose quando lo
sentii sospirare
frustrato e amareggiato. «So che non ho scelto il momento
migliore per tornare
all’università, ma non ho potuto fare altrimenti.
E non è vero che non volevo
avere più niente a che fare con te
–perché ero certo che gli altri non
c’entrassero, dicesse pure quello che voleva-
perché ti ho scritto volumi e
volumi di lettere» confessai a disagio e un po’ in
imbarazzo, sentendolo
trattenere il respiro e decidendo di alzare lo sguardo per incrociare i
suoi
occhi, lasciandogli intendere che non gli stavo mentendo.
Ebbi la
risposta ai
miei dubbi quando lo vidi corrugare la fronte confuso. C’era
stato un
malinteso.
Allora
sospirai,
incerto se porre la domanda o meno. «Dì un
po’, ti è mai arrivato qualche libro
di medicina in questo tempo?».
«Quella
merda? Si»
rispose subito, irritandomi un poco.
«E
immagino che tu non
abbia mai pensato di aprire quelle pagine, o sbaglio?»
domandai con un
sorrisetto sarcastico e per niente divertito.
Rimase a
fissarmi qualche
momento prima di dirigersi verso l’armadietto, aprendolo e
mettendosi a cercare
qualcosa sotto ad alcune coperte. Alla fine trovò quello che
stava cercando,
ovvero i miei volumi. Li sollevò tutti assieme e li
scaricò senza grazia sul
letto, mentre io mi maledicevo per aver consegnato dei tesori ad una
persona
che non ne aveva il minimo rispetto. Quando poi ne aprì uno
a caso e vi trovò
dentro una busta bianca ancora sigillata, mi venne una voglia matta di
prenderlo a ceffoni fino a farlo svenire.
Si poteva
essere così
idioti?
«Questa
cos’é?» ebbe il
coraggio di chiedere, rigirandola tra le mani per poi iniziare a
scartarla fulmineo,
come facevano i bambini con i regali di Natale, sotto il mio sguardo
assassino.
«Secondo
te?».
Quando si
ritrovò
davanti due fogli riempiti con la mia calligrafia il tempo
sembrò fermarsi.
Iniziò a leggere tutto quello che c’era scritto
con avidità, tanto velocemente
che mi chiesi se riuscisse almeno a capirci qualcosa, ma lasciai
perdere quasi
subito. Dopotutto, non le aveva mai lette e, se non
gliel’avessi detto, nemmeno
avrebbe scoperto l’esistenza di quelle lettere riempite per
metà di insulti
rivolti al fatto che non mi avesse degnato di risposta. Se
l’avesse fatto,
avrebbe saputo certamente dalla novità che ero venuto a
portargli.
Meglio
così, mi dissi sogghignando, mi godrò la sua
faccia sorpresa.
«Ehi,
Capelli Rossi» lo
chiamai, togliendomi la giacca leggera e sedendomi comodamente sul suo
letto.
Non
alzò nemmeno gli
occhi dal foglio e si limitò a rispondermi con un mezzo
mormorio
incomprensibile, segno che avevo la sua attenzione almeno per
metà.
Così
mi passai una mano
tra i capelli con disinvoltura, incapace di trattenere quel ghigno
carico di
aspettativa che, fortunatamente, non stava notando. Fu senza preavviso
che gli sganciai
la bomba.
«Sai,
svolgerò qui il
mio tirocinio».
I suoi
occhi saettarono
nei miei in quell’esatto istante e la sua faccia divenne, se
possibile, ancora
più pallida.
«Vuoi
dire che…»
sussurrò, senza finire la frase.
«Si,»
lo interruppi, «Sono
tornato per restare».
Anche
con la gioia di sapere che dovunque ce ne andremo, non ci lasceremo mai.
Non vidi
nemmeno i
fogli cadere per terra, mi importava solo di sapere che
quell’irascibile ragazzo
stava bene ed era vivo e mi stringeva con fare possessivo come se
volesse togliermi
tutta l’aria, ma era perfetto in quel modo. Era tutto
ciò di cui avevo bisogno
e, anche se non l’avrei mai ammesso ad alta voce, ero
contento che nessuno dei
due, alla fine, avesse vinto la scommessa. Un pareggio poteva bastare
per
soddisfare l’ego smisurato di entrambi. Come sarebbero andate
le cose in futuro
non aveva importanza; eravamo totalmente differenti ed ero certo che
non avremo
mai perso occasione per scannarci a vicenda, ma ero anche sicuro che
lui, come
me, non vedeva l’ora di riprendere da dove avevamo lasciato.
«Ehi,
Trafalgar» sussurrò
con le labbra già sul mio collo.
«Che
vuoi adesso?»
mormorai seccato. Gli pareva forse il momento per adatto per
chiacchierare?
Portò
il viso a pochi
centimetri dal mio per mostrarmi il ghigno bastardo che
esibì con orgoglio. No,
se me lo avessero chiesto, avrei risposto che non mi era mancato per
niente
quello stronzo.
«Ti
ricordi ancora chi
comanda?» ghignò.
Come
potrei dimenticarlo.
*
(Due anni dopo).
Io
non ho finito perché ho sete ancora.
La
spiaggia era quasi
deserta a quell’ora del mattino: pochissime persone
passeggiavano con calma sul
bagnasciuga, affondando i piedi nella sabbia fine, oppure lasciando che
le onde
li bagnassero, saltellando per il freddo contatto con essa. Il cielo
era di un
azzurro chiaro, sfumato all’orizzonte dai colori
dell’alba, mentre il sole,
lentamente, sorgeva.
Poggiai
le infradito
sulle assi di legno e mi sedetti sul pontile con le gambe a penzoloni
sul mare,
inspirando a pieni polmoni l’aria fresca e muovendo i piedi
sul bordo
dell’acqua, felice di aver riacquistato pienamente tutte le
facoltà motorie
dopo l’incidente, nonostante le aspettative non del tutto
rosee e tutte le
sofferenze che avevo dovuto sopportare oltre alla riabilitazione.
Alcune si
erano cicatrizzate bene, altre meno, altre ancora, invece, erano e
sarebbero
rimaste sempre aperte.
«Killer!».
Una
vocina dal timbro
alto e quasi infantile richiamò la mia attenzione e, con un
sorriso spontaneo
sulle labbra, uno di quelli che a fatica avevano ripreso a riapparire
sul mio
viso, voltai la testa di lato, poggiando il mento sulla spalla e
inquadrando il
ragazzino minuto che, con due borse per ciascuna mano e un ombrellone
sotto il
braccio, mi sorrideva allegro con gli occhiali da sole a specchio
calati sugli
occhi.
«Shachi»
lo salutai
allegro, «Ti vedo un po’ affaticato»
scherzai, indicando con un cenno del capo
il suo carico.
Con
un’alzata di spalle
e uno sbuffo mi diede ad intendere che per lui quella era roba da
niente, ma il
leggero tremolio delle braccia e il sudore sulla sua fronte dicevano il
contrario. Così mi alzai e mi diressi verso di lui per
prendere io le borse e
dargli il tempo di riprendere fiato. Quel moccioso voleva sempre
strafare per
non essere mai un passo indietro agli altri.
«Ce
la potevo fare
tranquillamente da solo» borbottò, iniziando a
seguirmi e dovendosi affrettare
per stare dietro alle mie falcate, inciampando di tanto in tanto.
Ghignai
poco convinto.
«Certo, certo».
«Solo
perché tu sei
tutto muscoli e niente cervello non significa
che…».
«Ehi,
che hai detto?»
chiesi, fermandomi all’improvviso, tanto che Shachi,
distratto come al solito,
mi venne addosso, sbattendo il naso contro la mia schiena.
Si
riprese subito e,
massaggiandosi la parte lesa facendo finta di nulla, mi
superò, diretto verso
lo zaino che avevo abbandonato sotto all’ombrellone che mi
ero offerto di
portare da casa.
«Niente»
esordì con
nonchalance, incrociando le braccia dietro la testa, «Devi
sicuramente aver
capito male!».
Roteai
gli occhi con
fare scocciato. A volte mi sembrava di aver a che fare con un bambino.
Scuotendo
la testa
esasperato e rassegnato a quel suo caratterino, lo raggiunsi e lasciai
cadere
gli zaini addosso a lui apposta, fingendomi sbadato o poco attento solo
per
farlo innervosire e vendicarmi della sua precedente frecciatina
sarcastica,
riuscendoci divinamente, ma beccandomi un pugnetto deciso sulla pancia.
Da quando
l’avevo
incontrato all’ospedale, Shachi era diventato
un’ancora di salvezza per la mia
sanità mentale. Anche lui, come me, era stato molto
affezionato a Penguin, ci
era cresciuto assieme, perciò mi era sembrato
l’unica persona capace di capirmi
davvero. Infatti avevamo passato ore e ore a parlare, a sfogarci, a
piangere e
a consolarci, ricordando i momenti migliori passati in compagnia del
nostro
amico speciale, felici di poter finalmente esprimere liberamente quello
che
sentivamo e che provavamo. Insieme ci eravamo sostenuti e avevamo
affrontato la
solitudine, contando l’uno sull’altro e
ricominciando da capo, con le nostre
sole forze.
Io
non ho finito, fuori è primavera.
«…
E poi le ho risposto
per le rime, citandole tutte le nozioni a memoria e beccandomi il mio
meritatissimo trenta e lode. Fanculo anche quella baldracca!»
stava dicendo
intanto Shachi, raccontandomi dei suoi ultimi esami
all’università.
«Ma
da quando sei
diventato così volgare?» mi premurai di
domandargli, ricordando di come, i
primi tempi, fosse un ragazzo così timido ed educato, sempre
rispettoso e
gentile con gli altri.
Mi
guardò come se fossi
scemo, ma alla fine decide di rispondermi lo stesso, forse per
pietà. «E’ l’influenza
di Eustass» usò come spiegazione, facendomi
sorridere.
A
proposito di lui.
«Ohi,
Kidd! Da questa
parte!» urlai in direzione del rosso che, accortosi della mia
mano alzata,
avanzava verso di me facendosi largo a forza tra il via vai di gente
che, approfittando
della bella giornata, aveva deciso di fiondarsi al mare, imitando
così la
nostra idea.
«Vorrei
sopprimerli
tutti, soprattutto i ragazzini» borbottò quando mi
fu vicino, fulminando con lo
sguardo un moccioso che gli aveva tagliato la strada, correndo come un
pazzo
con un cono gelato in mano, brandendolo come un trofeo.
Sorrisi e
mi strinsi
nelle spalle, incitandolo poi a seguirmi fino alla nostra postazione
dove
Shachi ed io avevamo piazzato un paio di ombrelloni abusivi proprio
sulla riva,
in modo da evitare scocciature come vicini rumorosi o anziani curiosi.
«Siamo
solo noi?»
chiese, dopo aver gentilmente salutato il ragazzino dai capelli ramati
stravaccato sulla sabbia. Per quanto il suo carattere fosse poco
avvezzo ad
apparire simpatico alle persone, con Shachi non riusciva ad essere
scortese.
Diceva che gli ricordava troppo Penguin.
Si tolse
la maglia e
poi la gettò malamente dentro lo zaino. La cicatrice
all’altezza del cuore si
era ridotta ad una piccola linea verticale rosa pallido e sarebbe
rimasta a
svettare sul suo petto come un segno, o un ricordo, indelebile della
sua
avventura.
«Per
ora, ma ho mandato
un messaggio agli altri. Tra poco dovrebbero arrivare»
spiegai, imitandolo e
stendendo poi a terra un asciugamano, litigando con le punte per
sistemarle ed
evitare che ci andasse sopra della sabbia.
I dieci
minuti
successivi li impiegammo mettendoci comodi. Kidd indossò un
paio di occhiali da
sole neri che, di tanto in tanto, sollevava sulla fronte per scostarsi
i ciuffi
vermigli dagli occhi, mentre io meditavo sull’idea di
tagliare i miei per non
dover soffrire il caldo. L’idea mi era venuta molte volte, ma
sapevo che non
l’avrei mai presa sul serio in considerazione.
«Che
mi venisse un
colpo se quello non è Ace!» disse ad un tratto
Kidd, mettendosi a sedere e
fissando un ragazzo in lontananza che, completo di costume arancione e
cappello
da cowboy, avanzava tranquillo con uno zaino verde in spalla. Dal
sorriso che
fece non appena ci notò, capimmo che doveva per forza
trattarsi del nostro
miracolato amico.
«Ciao
ragazzi! Era da
un po’ che non ci si vedeva!» esordì,
lasciando cadere la borsa sulla sabbia e
abbracciandomi, dato che mi ero alzato per andargli in contro. Fu poi
il turno
di Kidd che, allergico ai gesti affettuosi, si limitò ad una
virile pacca sulla
spalla che quasi mandò Ace per terra.
«E
Marco?» domandai,
non vedendolo da nessuna parte.
«Quell’idiota?
Non
preoccupatevi, è in arrivo» rispose con una faccia
strana.
«Ma
non vivete…» iniziò
a dire Kidd.
«Sotto
lo stesso tetto?
Si, ma stamattina uno dei nostri fratelli si è sentito male,
così lui lo ha
accompagnato dal medico» spiegò tranquillo.
Il moro
salutò Shachi,
con il quale andava molto d’accordo avendo entrambi la stessa
età, e si sedette
tra me e lui, iniziando a chiacchierare di un sacco di cose e saltando
da un
argomento all’altro senza una qualche connessione logica.
Pazienza, ormai ci
avevo fatto l’abitudine al suo modo di esprimersi: aveva,
semplicemente, tante
cose da dire.
Lo
osservai
attentamente e fui contento di trovarlo solare, sorridente e rilassato
come al
solito. Dopo il coma, da quello che avevo sentito dire da alcuni suoi
famigliari, era diventato iperattivo e raramente se ne restava fermo e
tranquillo, sentendo costantemente il bisogno di fare qualcosa e di non
fermarsi mai, ma era contento e in salute, ciò era
l’importante.
Non aveva
avuto altre
ricadute ed era stato uno dei più fortunati tra noi, povere
anime
dell’ospedale: quando lo avevano dimesso, lo avevano fatto
definitivamente.
Certo,
lui aveva continuato
a far visita a me, fino a quando non mi avevano mandato a casa, e a
Kidd.
Soprattutto
a Kidd.
Osservai
con la coda
dell’occhio il ragazzone dai capelli fulvi che stava
litigando con il lettore
musicale in quel momento, togliendosi le cuffiette che sembravano in
procinto
di esplodere per il volume troppo alto e spegnendo l’aggeggio
in un sottofondo
di parolacce e maledizioni. A quanto pareva aveva rischiato di perdere
l’udito.
Due anni
prima, quando
si era ritrovato da solo in reparto, dato che praticamente tutti
avevamo
ottenuto il permesso di passare la convalescenza a casa, avevo creduto
che non
ce l’avrebbe fatta. Non che non avesse avuto delle buone
possibilità,
semplicemente sembrava che avesse smesso di lottare come aveva fatto
costantemente per un anno.
E poi un
giorno accadde
il miracolo: era bastato che Trafalgar Law tornasse in città
durante una pausa
clandestina dall’università, passando a salutarlo,
e Kidd era resuscitato come
Lazzaro.
Certo,
era diventato
anche più scorbutico e irascibile, perché, da
quello che mi avevano raccontato
due infermieri che avevano avuto la sfortuna di ritrovarsi di turno
durante la
visita di Law al rosso, l’incontro non era stato affatto
dolce e commovente, al
contrario. Avevano descritto la cosa come uno scontro fra titani, fatto
di
urla, bestemmie, insulti e le peggiori minacce di morte che avessero
mai udito.
Comportamento tipico di entrambi, sarebbe stato strano se nulla di
tutto ciò
fosse avvenuto.
Io
non ho finito, non ti lascio ora.
«Guarda
chi arriva» sentii
dire da Ace, il quale aveva un tono parecchio divertito, tanto che mi
chiesi il
perché, almeno fino a quando non adocchiai Marco avanzare
con le mani nelle
tasche e la camicia sbottonata sul petto, mentre, accanto a lui, Law si
guardava attorno con fare curioso, come se stesse cercando qualcuno.
Noi, per
l’appunto.
Non feci
nemmeno in
tempo ad alzare un braccio per avvisarlo della nostra presenza che
qualcosa
alle mie spalle si mosse velocemente e, l’istante dopo, Ace
stava schizzando
veloce come una freccia nella sua direzione, riuscendo
nell’intento di
coglierlo alla sprovvista e rovesciandolo a terra quando gli
saltò addosso con
tutto il suo peso.
Alla
faccia degli abbracci,
pensai, scoppiando a ridere assieme a Kidd e facendo svegliare Shachi
di soprassalto
che si era appisolato sotto al sole.
«Brutto
idiota!» iniziò
ad inveire il biondo, tentando di spostare Ace che, nel frattempo, si
era
accomodato a gambe incrociate sopra al suo stomaco tutto ghignante e
soddisfatto. «Volevi rompermi l’osso del
collo?».
«Oh,
quante storie» lo
sminuì il più giovane, «Come se potessi
farlo». Detto questo lo vidi abbassarsi
sul viso di Marco con un sorrisetto malcelato.
Alzai gli
occhi al
cielo e prestai attenzioni alle lamentele di Shachi, il quale insisteva
per sapere
cosa si era perso e cercava di sovrastare la mia stazza allungando il
collo per
riuscire a vedere costa diavolo stessero facendo quei due.
«Che
domande! Scopano»
disse tranquillamente il rosso con fare malizioso, beccandosi
un’occhiata torva
da parte mia. C’era modo e modo per dire le cose e lui usava
sempre quello medo
adatto.
«Almeno
Ace non si fa
problemi ad esporsi» lo riprese Law, il quale ci aveva
raggiunti, ignorando
bellamente i due ragazzi che si erano appena sdraiati sulla sabbia.
«Ti
piacerebbe dare
spettacolo, ammettilo» fece Kidd con malizia.
«Non
lo nego. Immagina
le facce scandalizzate dei genitori qui attorno»
iniziò a dire il neo chirurgo
con fare macabro e inquietante.
«E
l’infanzia rovinata
dei loro bimbi» concluse il rosso per lui. Poi, sorridendosi
con fare poco
innocente, si scambiarono un’occhiata complice che mi diede
ad intendere che
non sarebbe seguito nulla di buono.
Sospirai
e piazzai una
mano fra i capelli del piccoletto, ricacciandolo al suo posto e
spiegandogli
con qualche giro di parole in più che stavano facendo i
piccioncini romantici.
«Bleah!»
mormorò con
una faccia schifata, sistemandosi gli occhiali e voltandosi a guardare
altrove,
deciso a non voler assistere a scene del genere.
Quel
comportamento mi
lasciò un po’ perplesso, tanto che mi ritrovai per
la prima volta a chiedermi
il perché di quella reazione. Insomma, la cosa aveva un che
di divertente, a
parte l’imbarazzo per i nostri amici che non perdevano mai un
momento per
infilarsi reciprocamente la lingua in bocca. Vederli era normale,
quindi: o il
ragazzino era esageratamente timido, o la sua era tutta una finta,
esattamente
come facevano i bambini da piccoli quando vedevano gli adulti
abbracciarsi.
«Shachi?»
lo richiamai,
ritrovandomi poco dopo i suoi occhi curiosi che mi fissavano al di
sotto delle
lenti scure.
«Che
c’è?».
«Faresti
lo schizzinoso
se qualcuno ti baciasse?».
Sbatté
le palpebre e mi
guardò interdetto per qualche istante, lasciando poi che
sulle sue labbra
spuntasse un ghigno degno di nota quasi quanto quelli subdoli di
Eustass Kidd.
«Chi
lo sa» rispose
vago, poggiando i gomiti sull’asciugamano e sollevando il
busto con
disinvoltura e guardando il mare.
Scossi il
capo,
lasciando perdere l’argomento. Sapevo che, se avessi
continuato, non avrebbe fatto
altro che rispondere in modo fastidiosamente malizioso e con una faccia
da
schiaffi con quegli occhiali che celavano la furbizia che spesso gli
leggevo
negli occhi.
«Tu
se vuoi provarci fa
pure» disse ad un tratto, cogliendomi impreparato e zittendo
nello stesso
istante pure il mio migliore amico, il quale era sembrato sul punto di
dire
qualcosa, «Magari sei fortunato».
Kidd
restò a bocca
aperta per circa dieci secondi prima di scoppiare a ridere
fragorosamente,
rotolandosi sull’asciugamano a faccia in giù per
trattenersi almeno un poco,
seguito a ruota da Shachi che, imitandolo e venendomi addosso, non
sembrava
essersi mai divertito così tanto. Law si finse al di sopra
di quelle scemenze,
ma non mi sfuggì il sorriso che gli si modellò
sulle labbra di fronte a quella
scena.
Sbuffai
esasperato. «Tu
hai qualche problema, te lo dico io».
Tutto
sommato avevo
delle cicatrici, vero, e le portavo ancora con me, solo che, a volte,
le
dimenticavo.
Io
non ho… Finito.
The Fucking End.
Angolo Autrice.
Buonasera
a tutti! Insomma,
è con immensa gioia e piacere e biscotti al cioccolato che
annuncio la fine di
questa fiction per la quale ho dato di matto l maggior parte del tempo.
da
notare la mia bravura: l’ho iniziata di lunedì e
l’ho terminata di lunedì, non
so se rendo. Dai, un po’ di applausi me li merito, su.
Scherzi a
parte, credo
di dovermi meritare solo pomodori, ma va bene, tralasciamo.
Prima di
passare alle
note finali voglio scusarmi ancora per l’immenso ritardo.
Un’estate di
silenzio, che vergogna, ma, come ho ribadito nelle varie altre
pubblicazioni,
il lavoro mi ha tolto un sacco di tempo e di energie e
l’ultimo capitolo è rimasto
in cantiere per molto. Due giorni fa, però, mi sono detta
che dovevo
ASSOLUTAMENTE terminarlo, così mi sono messa di impegno e,
beh, spero di non
aver deluso le aspettative di nessuno. Ad ogni modo, vi prego di
perdonarmi e
portare pazienza, e ancora mille scuse.
Dunque,
eccome come
tutto è bene quel che finisce bene, si dice così
no? Ace e Marco, Kidd e Law e
Killer. Vorrei tanto dire Killer e Shachi, ma il finale ho preferito
lasciarlo
un po’ nell’ambiguità. Chi vuole si
può immaginare un futuro tra i due, chi li
preferisce come amici se li tiene come sono, dato che avevo letto
alcuni
commenti a riguardo nelle recensioni. Non so voi, ma a me è
parsa la scelta
migliore per concludere tutto.
Killer ha
le sue ferite
e cicatrici che si porterà sempre appresso ma, ehi, come
dice anche lui, la
vita va avanti, nel bene e nel male, e lui ha trovato le persone giuste
con cui
condividere gioie e dolori.
Ace, la
mia ossessione,
lo giuro, è tornato ad essere lo scoppiettante ragazzo di
sempre, super sexy e
meraviglioso, lasciatemelo dire. Anche lui, nonostante i problemini
iniziali,
sembra scoppiare di salute e di entusiasmo, basti guardare come scatta
per
stendere il povero Marco. non sembra comunque dispiacergli di venire
buttato di
peso sulla sabbia, comunque, mlmlml ^^
Io non ho
resistito a
fare la sviolinata tra i due alla fine della storia, insomma, ce la
dovevo
mettere per forza, dovevo risollevare l’opinione pubblica del
biondo e renderlo
una specie di santo, mentre Ace doveva ritrovare il buonumore e un
morivo per
sorridere e, beh, ecco, ci stava secondo me. Vabbé, poco
importa che siano la
mia OTP e che li adoro alla follia, non sono stata di parte, proprio
no…
Andiamo
avanti.
Aperta
parentesi: la
frase finale ‘E c’era Marco. E c’ero
io.’ l’ho presa dal finale del libro ‘Io
non ho paura’ che consiglio a tutti,
bellissimo.
E poi
c’è Kidd. E poi c’è
Law. Insomma, non so più cosa dire di questi due. Assieme
credo che siano una
cosa assolutamente perfetta, senza se e senza ma. Sono fatti
l’uno per l’altro
e quando si vogliono ammazzate smatto. Kidd credeva di essere stato
abbandonato, povero, invece no! Trafalgar non lo aveva dimenticato,
come
avrebbe potuto, e alla fine ha colto la prima occasione per tornare da
lui e
adesso possono stare assieme, awawawawa **
Malintesi
e lettere non
lette a parte, si è risolto tutto per il meglio. Kidd alla
fine è stato dimesso
ed è nuovo di zecca, così Law potrà
strapazzarlo quando vuole, io di certo non
mi lamento.
Che altro
dire, non
saprei proprio. Sono felice di aver concluso questo racconto
perché ci tenevo
davvero tanto e, anche se è stato un calvario, ora posso
davvero mettere un
punto e la parola fine.
Un
po’ mi dispiace, ma
credo sia normale ;_____________;
Vi lascio
qualche
immagine per concludere in bellezza :3
Iniziamo
da Kidd e Law
che non si vedevano da taaaaaaanto:
https://fbcdn-sphotos-c-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xfa1/v/t1.0-9/10644798_674305575980322_6117127484379384326_n.jpg?oh=085b4a13d9cea71c4b60e486acf43e83&oe=5484130C&__gda__=1418798138_7fe182825d5670577179cd8c3a9b3b02
Poi Ace
che arriva
tutto tranquillo in spiaggia:
https://scontent-a-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/v/t1.0-9/10703548_674305765980303_1111789895067988311_n.jpg?oh=db89cb2ec1218c96699d8f234e6dd4ed&oe=5495D7E0
E arriva
anche Traffy,
non dimentichiamocelo:
https://scontent-a-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/1970566_674305762646970_3869882762713286188_n.jpg?oh=ab022dc1846f57513018f21b542c158c&oe=5492A6A1
E
passeranno una bella
giornata:
https://scontent-b-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/v/l/t1.0-9/10592700_674305889313624_3382684794312129037_n.jpg?oh=9a8e26fbb9056e7dcea52907f595cf60&oe=54A4937D
Tutti
assieme per
manina:
https://scontent-a-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xaf1/v/t1.0-9/10639366_674306055980274_8332699216228202093_n.png?oh=346d6788efd2b27e96d4e30eb50c53fe&oe=548324D6
Concludendo
con Shachi
curioso che vuole vedere cosa combinano i ragazzi:
https://fbcdn-sphotos-b-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xap1/v/t1.0-9/p526x296/10245280_674305985980281_5058904685773069015_n.jpg?oh=1a33b1d4b01cfc83704c5347986441eb&oe=5490CB7B&__gda__=1418408485_495b64504b580c2995f28cac932dc645
E adesso
mi pare giusto
RINGRAZIARE TUTTI.
Ringrazio
Okami D Anima, KillerxPenguen_93,TKJolly,
FlameOfLife, _Rouge (mia adorata), FemPhoe, An11na, Ikki, callas d
snape,
I_S_Acquamarine, Crazy demon e Incantatrice_Violeta per le
splendide
recensioni che mi avete lasciato e per avermi fatta sorridere e sentire
apprezzata, davvero. Siete state tutte gentilissime, dalla prima
all’ultima, e,
anche se non ho sempre potuto rispondere, sappiate che ho tutto nella
mia mente
e che avete contato molto per me. Perciò grazie ancora, un
abbraccione a tutte.
Ringrazio
in particolar
modo tutti i lettori silenziosi e tutti coloro che hanno iniziato,
continuato,
abbandonato, o pazientato per vedere la fine di tutto questo. Grazie
mille per
tutto, nessuno escluso.
Ora
scusate per le
smancerie, ma voglio prendermi, ora, un angolino per ringraziare una
ragazza
speciale solo per la pazienza che ha portato, e che sta portando, nel
seguirmi
e nel recensirmi nonostante io sia diventata un fantasma.
EmmaStarr.
Grazie di
cuore. Grazie
per tutto, ma aspetta che IO NON HO
FINITO.
In una
delle tue
recensioni mi hai detto che, leggendo questa fic, hai iniziato a
seguire anche
Braccialetti Rossi. Mi hai detto che la canzone e la serie ti sono
piaciuto un
sacco, che hai adorato Kidd e Law e, beh, mi hai pregato per avere
l’ultimo
capitolo proprio stasera ed io guarda cosa sto facendo. Lo sto
pubblicando
proprio ora e voglio solo dire, o annunciare, una cosa.
Dedico
tutta questa long a te, bellezza.
Spero
basti per
scusarmi della mia assenza e per ringraziarti di tutti i commenti, i
consigli e
i complimenti non meritati che mi hai lasciato. Mi sembra un bel modo
per
dimostrarti che ho apprezzato tutto tantissimo, sempre.
Quindi Grazie Infinite, per davvero.
Okay?
Okay.
Bene
signori, siamo
alla fine e io spero di aver soddisfatto tutte le aspettative e di non
aver
dimenticato nulla. Per qualsiasi cosa sapete dove trovarmi. LOL, sembra
una
barzelletta.
Anyway,
un dolce e un
abbraccio enorme a tutti e GRAZIE ancora per, beh, per tutto quello che
fate.
Spero di
riuscire a
finire presto ‘It’s alla
about you’ e
per ‘Portuguese D. Ace’
abbiate fede
che la porterò avanti, con calma, A
QUALSIASI COSTO, I promise.
E
insomma, a presto. Mi
sento male, davvero.
Vi voglio
bene, penso
di doverlo dire.
See ya,
Ace.
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