L'Asso nella manica

di lucatrab_99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Driiiin!
"Sono in ritardo, maledizione!" imprecò Leo, poi affrettò il passo e salì i gradini della scuola a due a due, per fare prima. Arrivato sulla soglia della sua classe, il professore di inglese gli sbattè la porta in faccia, letteralmente. "Entri alla prossima ora, Jones! E si vergogni della sua condotta!". Sconsolato, Leo si sedette sulle scale in fondo al corridoio, e approfittò dell’ ora libera per ripetere.
Un’ ora dopo fece il suo imbarazzante ingresso in classe e si andò a sedere all’ unico posto rimasto vuoto: quello di fronte alla cattedra.
Quattro ore sembrarono interminabili, e quando finalmente suonò la campana della mensa, tirò un sospiro di sollievo. Lo raggiunsero i suoi amici Theo, mago del computer e campione nazionale di marcia, e Alex, che era nel suo stesso corso a judo, e per la sua bellezza era il ragazzo più desiderato della scuola. Stanchi per le quattro ore di lezione, si sedettero senza dire una parola e mangiarono poco e malvolentieri, pensando alle altre due ore di lezione che li attendevano.
Cadeva una pioggia sottile e fastidiosa, simile a nevischio, quando Leo si avviò verso casa, naturalmente senza ombrello. Per fare prima tagliò per Hide Park, e nel giro di un quarto d’ ora fu a casa, completamente zuppo.
"Sono a casa, mà!" gridò aprendo la porta. Nessuna risposta. "Mamma?" riprovò. Ancora nessuna risposta. Allora andò in cucina, e trovò attaccato al frigo un bigliettino, su cui una grafia sottile ed elegante aveva scritto: sono fuori per sbrigare alcune commissioni, torno presto. Baci, mamma.
Si sfilò le scarpe, lasciandole nel bel mezzo del salone, lanciò il cappotto su una sedia e si stravaccò sul divano, con tanto di vestiti bagnati addosso. Accese la TV con disinteresse, e scorse i programmi in onda: un documentario sui marsupiali, un talent-show e un noiosissimo programma di cucina etnica, che probabilmente aveva due telespettatori in tutto il Regno Unito. Annoiato, guardò il notiziario, che annunciava neve per il fine settimana, imbastiva assurde congetture su uno scandalo politico, e mandava in onda gli ultimi goal dell’ Arsenal. Ancora più annoiato, spense il televisore e salì in camera sua. Qui accese lo stereo, si cambiò e diede un’ occhiata al telefono, rispondendo a un paio di messaggi, poi aprì un fumetto e si mise a sfogliarlo.
Quando sua madre finalmente tornò a casa, era ora di cena. Sasha Jones era una donna alta, pienotta, e con una vera ossessione per la pulizia. La classica madre iperprotettiva che chiama il figlio ormai sedicenne ancora “bambino mio”. Leo ne era profondamente imbarazzato. Preparò un’ ottima cena, che fu pronta giusto in tempo per il rientro a casa di David Jones. Anzi, dell’ ispettore capo, David Jones.
Il signor Jones era un uomo imponente: un metro e novanta, cento chili, spalle larghe e folti favoriti. Con l’ uniforme e l’ impermeabile sembrava quasi minaccioso. Era ispettore capo a Scotland Yard, e nessuno poteva dire che non si fosse meritato quel posto. Aveva fatto tutta la gavetta da poliziotto, fino a essere promosso, ormai cinquantenne, a ispettore capo. Era un uomo di grande e meritata fama, indiscussa moralità, e grande carisma, che in poco più di cinque anni da ispettore capo aveva messo in ginocchio la malavita londinese, soprattutto quella organizzata, facendosi non pochi nemici.
Cenarono tutti insieme nella grande stanza da pranzo, attorno allo spesso tavolo di mogano, chiacchierando del più e del meno. Intanto la neve aveva iniziato a cadere lentamente, posandosi sui tetti e sui comignoli, sulle auto e sui balconi, ammantando di una coltre bianca Londra.
Dopo cena, si sedettero tutti e tre davanti al camino, vicino all’ albero di Natale, addobbato pochi giorni prima. Mancava infatti poco meno di una settimana a Natale, e Leo non vedeva l’ ora che le scuole chiudessero.
A rompere la quiete familiare fu un rumore sordo, poi la finestra andò in frantumi, e il commissario Jones crollò a terra. Una macchia rossa dilagò per terra, inzuppando il tappeto, e tutto avvenne in pochi secondi: la signora Jones urlò, slanciandosi per soccorrere il marito, e Leo si accovacciò accanto al padre, gli occhi pieni di lacrime, e disse soltanto "Papà…". Il poliziotto, morente, girò la testa e guardò il figlio negli occhi, poi disse, con le ultime forze "Leo, figlio mio, stanne lontano". Poi chiuse gli occhi.
Per non riaprirli più.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


In seguito Leo non ricordò, o non volle ricordare, ciò che successe dopo la morte del padre. Immagini sfocate di ambulanze, agenti e il vice-ispettore, George Brown JR che cercava di consolarlo con risultati piuttosto scadenti. Il funerale fu la cosa peggiore di tutte: centinaia di persone, tutte in nero, si radunarono per dare il loro ultimo saluto all’ eroe che aveva dato la vita per combattere il crimine. Questo pareva abbastanza chiaro, infatti: chi aveva sparato all’ ispettore Jones lo aveva fatto per saldare un conto in sospeso, o per impedire che venisse a conoscenza di fatti segreti. La signora Jones pianse per una settimana ininterrottamente, e per Leo fu certamente il peggior Natale che avesse mai passato. Si chiuse in camera, troppo triste per festeggiare, troppo stanco anche per piangere. L’ unico conforto che ebbe fu la visita inaspettata di Theo e Alex, che fecero del loro meglio per consolare l’ amico, e Leo fu immensamente grato a loro. I due ragazzi si congedarono prima di sera, e Leo si coricò presto, saltando anche la cena. Erano giorni che aveva sonni irrequieti, tormentati dagli incubi, ma finalmente la notte di Natale riuscì a dormire. O per lo mano così credette, fino a che la polizia non lo svegliò nel sonno alle quattro del mattino, con una notizia di vitale importanza. Il killer era stato fermato ad un posto di blocco, e nonostante avesse fatto esistenza, era stato arrestato e condotto in centrale. Qui era stato messo sotto interrogatorio già da due ore, ma si rifiutava di parlare. Leo non perse tempo: si vestì alla meglio e con sua madre e due agenti saltò su una volante di polizia, che li condusse immediatamente a Scotland Yard. Quando finalmente arrivarono, a Leo e sua madre fu concesso di vedere il killer solo protetti da uno spesso vetro oscurante antisfondamento. La signora Jones scoppiò nuovamente a piangere, e si dovette sedere, mentre Leo rimase impassibile, guardando stupefatto il folle omicida, l’ uomo che aveva ucciso suo padre. Era un ragazzo sui diciott’anni, alto, muscoloso, i capelli biondo pallido tagliati corti, e una brutta cicatrice sulla guancia, sbarbato e vestito on una canotta nera, nonostante il freddo di dicembre e un paio di pantaloni militari. Al fianco aveva il fodero vuoto di un coltello da caccia. Sul volto aveva un’espressione tranquilla, nonostante la sua colpevolezza fosse dimostrata da prove schiaccianti, quali l’arma che portava nel bagagliaio della sua auto. Grazie alla matricola della pallottola estratta da corpo del commissario, si era risaliti ad un fucile Tikka T3 Tactical comprato sul mercato nero, la cui immatricolazione risaliva al maggio dell’anno precedente. Leo non sapeva se essere furioso o provare compassione per quel ragazzo, che aveva suppergiù due anni più di lui. Quando la polizia gli chiese se lo conoscesse, Leo negò, e anche sua madre disse che il volto del misterioso assassino le era del tutto nuovo. Vennero dunque riaccompagnati a casa con un sostanziale nulla di fatto, e non rividero il killer per tre giorni, quando la polizia decise di avviare il processo anche senza che l’imputato avesse detto niente. La cosa che creava più sgomento, tuttavia, era che il ragazzo non compariva negli archivi della polizia, né risultava registrata la sua nascita. Era praticamente un fantasma. Il giorno dopo Capodanno Leo ricevette una visita inaspettata da parte di Alex e Theo, che fecero un po’ di compagnia all’ amico, risollevandogli decisamente il morale. Quando chiesero qualcosa circa il prosieguo delle indagini, Leo scosse la testa. Non gli importava poi tanto che quel ragazzo, all’apparenza così innocente, finisse in galera o meno. Avrebbe invece voluto vedere il vero colpevole, il mandante dell’omicidio, finire dietro le sbarre. Al giovane senza nome venne assegnato un avvocato d’ufficio, giovane e inesperto, che chiese il rinvio del processo di sei mesi, ma non riuscì a evitare la custodia cautelare in carcere al suo cliente. Il ragazzo, durante il processo a cui parteciparono anche Leo e la madre come parte lesa, si rifiutò di parlare anche quando interpellato. Tornarono dal processo in taxi, e Leo passò l’intero viaggio a guardare Londra correre veloce fuori dal finestrino, lo sguardo vuoto, la testa che sembrava voler esplodere, tanto era piena di preoccupazioni. Fu una giornata piatta, quel cinque di gennaio, finché Leo non ricevette una telefonata da Gwen. Gwen era amica di Leo fin dai tempi delle scuole elementari, e anche se non voleva ammetterlo neanche a se stesso, Leo era segretamente innamorato della ragazza. Gli avvenimenti concitati degli ultimi giorni lo avevano costretto a metterla un po’ in disparte, ma non se ne era certo dimenticato. Passarono un’ ora la telefono, e quando chiusero la conversazione, sul volto del ragazzo comparve un mezzo sorriso, cosa che non succedeva da tanto, troppo tempo. Si sentirono anche il giorno successivo, e quello ancora, e Leo decise che forse Gwen gli piaceva davvero. Si incontrarono sulla soglia della scuola, l’otto di gennaio, e Gwen gli si sedette addirittura accanto. Il vuoto che suo padre aveva lasciato, seppur incolmabile, era marginato dalla presenza di quella ragazza così splendida, si ritrovò pensare Leo, di ritorno da scuola, ma tornato a casa ebbe una notizia che lo lasciò atterrito. Il killer di suo padre era stato trovato morto nella sua cella, avvelenato dal pranzo del carcere, che era stato riempito di stricnina. Il vice-ispettore Brown stava facendo del suo meglio per risalire all’avvelenatore, ma il cibo era consegnato da una ditta di ristorazione, e decine di persone potevano aver manomesso il piatto. Sua madre era sollevata, in qualche modo, che fosse stata fatta giustizia, ma non capiva, o forse fingeva di non capire, la gravità della situazione: con l’unico testimone morto, risalire al colpevole era ormai impossibile, e la polizia brancolava nel buio.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Le indagini proseguirono per circa un mese, ma il vice-ispettore Brown, vuoi per mancanza di prove, vuoi per sua incapacità non cavò un ragno dal buco. Leo e Gwen si sentivano ormai quasi tutti i giorni, e Leo arrivò al punto di arrossire violentemente ogni volta che la salutava. Decise di confidarsi con Alex, che era decisamente più esperto di lui in fatto di ragazze, forse perché la sua bellezza lo rendeva il ragazzo più desiderato della scuola. Quando ne parlarono, seduti di fronte a un caffè bollente in un bar di Chelsea, Alex rimase impassibile. Poi un mezzo sorriso affiorò sulle sue labbra, e finalmente parlò: "Gwen è una bravissima ragazza, e forse è la persona giusta per aiutarti a superare questo momento" bevve un lungo sorso del suo caffè, poi continuò, misurando le parole "io dico di provare, chissà! Fra due settimane si va tutti al teatro con la scuola, magari uscendo potresti farti avanti" Leo ci pensò su a lungo, bevendo l'ultimo fondo del suo caffè, poi ringraziò l'amico e andarono al solito allenamento di basket, prendendo un taxi. Uscito dalla palestra, si accorse di non avere abbastanza soldi per un biglietto del bus, e dovette tornare a casa a piedi, nonostante piovesse a dirotto. Le strade erano semideserte e Leo, immerso nei suoi pensieri, non si rese neanche conto di dove metteva i piedi: sbatté violentemente contro un ragazzo che aspettava alla fermata del bus. "Mi dispiace tantissimo, io non..." farfugliò Leo, a mò di scusa, poi guardò meglio chi aveva di fronte: un ragazzo alto, muscoloso, un filo di barba bionda e una cicatrice sulla guancia. "Tu dovresti essere morto!" urlò, ma al posto di parole gli uscì un verso strozzato, e anche l'altro lo riconobbe. Il killer di suo padre sbarrò gli occhi, impallidì e corse a rotta di collo giù per la strada deserta. Leo rimase lì fermo, a guardarlo scappare. Avrebbe voluto inseguirlo, ma le gambe non gli rispondevano. Passarono alcuni minuti, sempre impalato alla fermata dell'autobus, incurante della pioggia, prima che si decidesse ad andarsene. Si toccò il volto, incredulo, e non seppe dire se a bagnarlo fosse stata la pioggia o le sue lacrime. In un attimo, tutto perse di importanza: Alex, il basket, persino Gwen scomparve dai suoi pensieri, e nella sua testa si fissò il volto del suo nemico senza nome, prima triste, poi con un sorriso folle che sembrava dire "si, l'ho ucciso io". Tornò a casa, si mise sotto la doccia, e l'acqua calda che gli scendeva lungo la schiena sembrò finalmente svegliarlo da quell'assurdo stato di trance. Cosa mi passa per la testa, maledizione a me! Quell'uomo è morto e sepolto, l'ho certamente scambiato per qualcun altro. Eppure quello sguardo... Passarono i giorni, e Leo decise di non fare parola con nessuno di quanto era successo, nemmeno con sua madre, che da un po' di tempo sembrava stare meglio, nonostante piangesse ancora per motivi all'apparenza sciocchi. La polizia aveva messo il caso Jones in archivio, incapace di continuare le indagini in assenza di prove, e il vice-ispettore Brown si stava rivelando un incapace di prima categoria: in due mesi appena, la microcriminalità aveva preso piede come mai prima di allora. Febbraio passò in fretta, e marzo si preannunciava un mese piovoso e umido. Leo conduceva una vita piatta, in cui i massimi sfoghi erano il basket e le interminabili chiacchierate al telefono con Gwen. Era un giovedì pomeriggio, e Leo si trovava in palestra per il solito allenamento di pallacanestro, ma era distratto più del solito, sbagliava in continuazione, e il coach decise di non convocarlo neanche per la partita della domenica. Alex si accorse della situazione, e venne in soccorso dell'amico. "Che hai?" gli chiese, una volta usciti dalla palestra "Tutto bene? Hai cambiato idea su Gwen?" "E' proprio quello a darmi da pensare" rispose Leo "tu mi consigliasti di farmi avanti, e che se il sette di marzo avessimo deciso di andare a teatro con la scuola, avrei avuto una buona occasione. Ma il sette di marzo è domani, e io non ho ancora preso una decisione. Che ne pensi?" Alex non rispose subito, ma ci pensò un po', giocherellando distrattamente con la cerniera del borsone: "Io penso che se ci tieni davvero, valga la pena tentare. Comunque vada, avrai la tua conferma". Si salutarono scambiandosi il cinque, ma dopo pochi passi Alex lo richiamò: "Leo!" il ragazzo si girò "Buona fortuna capo" e gli fece l'occhiolino. La mattina successiva, Leo non fece nulla di particolare per cercare di sembrare più attraente, si mise una felpa nera e un paio di jeans e andò a teatro insieme a Theo, anche lui informato delle intenzioni dell'amico. Lo spettacolo fu noioso in modo quasi deprimente, una rappresentazione dell'Otello vecchia e stantia. Quando uscirono, Leo si sentì insicuro come non lo era mai stato in vita sua. Chiamò Gwen in disparte e le disse: "Ti va un gelato?" Lei quasi soffocò dalle risate: "Un gelato? A marzo?" Leo si maledisse mentalmente per la sua prima figuraccia. Forse Gwen capì che Leo era a disagio, e si corresse dicendo: "Perché no? Dopotutto, nessuno ha mai detto che il gelato si debba mangiare solo d'estate!" Gli fece un gran sorriso, e i due si incamminarono verso Hyde Park, chiacchierando del più e del meno. Stavano per separarsi e tornare ognuno verso casa sua, quando Leo la trattenne. "Possiamo parlare?" chiese con un filo di voce. Lei sembrò perplessa, poi rispose "Certamente! Andiamo a sederci sotto quell'albero?" e indicò una grossa quercia, grande abbastanza per poterci poggiare la schiena in due. Si sedettero, e Leo si decise a vincere la sua assurda timidezza. Dopotutto, era la prima ragazza a cui diceva una cosa del genere, e si vergognava un po'. "Ho sempre pensato che fossi una brava ragazza, e ti ho sempre voluto bene" iniziò a dire. Ogni parola seguiva l'altra come un fiume in piena, e ad ogni parola detta Leo si sentiva più leggero "Ti ho voluto bene prima come un ragazzo vuole bene ad una sua amica, poi come un fratello vuole bene ad una sorella, e credo Gwen, di volerti bene anche come un uomo che ama una donna" Si fermò, e poggiò la testa contro il tronco della quercia, aspettando una risposta, che però non ebbe. Girò lo sguardo, e vide che Gwen stava piangendo. Un pianto silenzioso, una sola lacrima le rigava il volto. "Io...mi dispiace Leo" lo guardò dritto negli occhi "non è come sembra" aggiunse poi "Noi non possiamo stare insieme. Un giorno, forse, ti dirò il perché" gli poggiò le labbra sulle sue, un bacio leggero, come il vento che soffiava in quel momento. Poi si girò, e andò via.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Quella notte, Leo non riuscì a chiudere occhio. Non pianse, si impose di non piangere, e anche se avesse provato a farlo, non ci sarebbe riuscito. Aveva pianto tutte le sue lacrime già per suo padre. Invece, si rigirò nelle coperte per ore, ripensando a quello che era successo. Si sfiorò le labbra con la mano destra, come per paura che quel bacio, quell'unico bacio, potesse essere fuggito con Gwen. La mattina dopo, domenica, Leo si svegliò presto. Scese in cucina, mentre sua madre ancora dormiva, a prepararsi la colazione, ma scoprì di non avere fame. Verso metà mattina Alex gli mandò un messaggio: “com’è andata?”. Non rispose, e l’amico capì. Passò tutta la giornata a vagare per casa, con passo trasognato, ripensando a quello che era successo il giorno precedente. Le parole di Gwen gli rimbombavano in testa all’infinito, quel “noi non possiamo stare insieme” era ripetuto nella sua mente come un urlo che fa eco in una stanza vuota. Il giorno dopo andò a scuola in moto, non aveva voglia neanche di camminare, ma si ritrovò immobilizzato nel traffico londinese delle otto, e puntualmente arrivò in ritardo. Entrò in classe con lo sguardo basso, chiese scusa per il ritardo e neanche si curò di ascoltare i rimproveri dell’insegnante. Troppo tardi si rese conto che l’unico posto libero era accanto a Gwen. Imprecò mentalmente e si andò a sedere, sforzandosi di non guardarla, e rispondendo con un borbottio al suo saluto. Se pensava che non avrebbe potuto esserci giornata peggiore, ovviamente si sbagliava, perché uscito da scuola vide Gwen di nuovo. Abbracciata ad un altro ragazzo. Rimase impalato in mezzo al cortile della scuola, a guardarli: lei era così maledettamente bella, e sorrideva spensierata. Poi guardò lui, e il suo cuore perse un battito. Era un ragazzo alto, muscoloso e con un filo di barba bionda. A catturare la sua attenzione fu però la lunga cicatrice che aveva sulla guancia. Fece il cortile in quattro balzi, e gli si parò davanti con decisione. Gwen era visibilmente a disagio, ma il suo accompagnatore impallidì alla sola vista di Leo. “È tutto ok Fred?” chiese la ragazza. Ma il giovane, che a quanto pareva si chiamava Fred si sciolse dall’abbraccio della ragazza e fece due passi indietro, bianco in volto. Poi, con eleganza felina, estrasse dalla giacca una piccola semiautomatica, e gliela puntò contro. “Non muoverti” disse, ma gli tremava la voce, e la presa sulla pistola era insicura. Nel cortile calò un silenzio di tomba, nessuno dei ragazzi osava parlare, erano tutti troppo terrorizzati. Leo, al contrario, era lucidissimo, e la sua testa lavorava a velocità folle, ponderando tutte le possibilità. In un corpo a corpo, avrebbe anche potuto avere la meglio: era un metro e ottantatré di muscoli, cintura nera di judo. E soprattutto, era furioso. Ma contro una pistola non c’era storia. Avrebbe dovuto inventarsi qualcosa. Un attimo, e gli balenò per la testa un’idea folle, un vecchio trucco, che magari lo avrebbe colto impreparato. “Colpiscilo Theo!” urlò a qualcuno dietro le spalle del killer, che prontamente si girò, tenendo l’arma puntata contro il suo aggressore. Ma dietro di lui non c’era proprio nessuno: neanche il tempo di rendersene conto, e Leo gli fu addosso. Gli torse il braccio dietro la schiena con una violenza tale che quasi glielo spezzò, disarmandolo. Poi gli assestò un pugno in pieno volto: uno zampillo di sangue uscì dal naso di Fred, che provò a ricambiare il colpo, ma fu fermato facilmente. Leo lo afferrò per il braccio, poi piroettò su se stesso e gli sferrò un calcio all’altezza dell’addome. Il suo avversario fece un volo di almeno tre metri, e atterrò con un tonfo sordo. Proprio accanto alla pistola. Non fece neanche in tempo ad afferrarla, che Gwen la allontanò con un calcio verso Leo, che la impugnò con sicurezza. Tirò indietro il cane dell’arma, e il rumore metallico rimbombò per tutto il cortile: il primo proiettile era entrato in canna. Un click sul grilletto, e Leo avrebbe vendicato suo padre. Invece di sparare, abbassò l’arma.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Leo insistette affinché lo facessero entrare nella cella senza scorta. “Non oserà farmi del male” disse alle guardie e a sua madre. L’ambiente era umido e stantio, arredato in modo semplice: un letto, una sedia e un bagno turco. Fred se ne stava seduto sul letto, lo sguardo basso, la cicatrice sulla guancia sembrava una lunga lacrima sottile. “Leonard Thomas Jones” disse Leo, tendendogli la mano. “Frederick Shark” rispose quello, stringendogli la mano. “Shark?” chiese Leo “che razza di cognome sarebbe?” “Shark” rispose quello, e per la prima volta lo guardò negli occhi. Poi gli indicò la sedia, facendo cenno di sedersi. “Abbiamo molto di cui parlare” continuò poi “io non ho niente da perdere, ormai. Dirò tutto quello che vorrai sapere. Ma parlerò con te, e con te soltanto” Leo rimase in silenzio per un po’. “Chi sei?” chiese. L’altro rispose scandendo bene le parole: “Sono nato il quattordici novembre 1996, nella periferia di Manchester. Un padre non l’ho mai avuto, mia madre beveva troppo. È morta quando avevo sei anni. Ho girato diversi orfanotrofi in tutta l’Inghilterra, prima a Manchester, poi a Liverpool. Sono arrivato a Londra due anni fa, ho vissuto lavorando come garzone in un’officina, facendo qualche furto di poco conto per arrotondare, finché lui non mi ha trovato. Mi ha offerto protezione, persino un buco in cui vivere, in cambio di qualche favore” “Lui chi?” lo spronò Leo. “Il vice-ispettore. Il dottor Brown” “Hai altre rivelazioni scottanti?” chiese il ragazzo in tono ironico. “Si” Fred fece una pausa, poi sorrise “non ho ucciso io tuo padre” Leo non sapeva se essere incredulo, o prendere a pugni il suo interlocutore. Decise di aspettare “Vai avanti” gli disse, e Fred proseguì, parlando piano. “Non so chi abbia ucciso tuo padre, ad ogni modo posso dirti come sono andate le cose. Il signor Brown è proprietario di un club molto esclusivo, il ‘Queen of the river Casinò’. All’apparenza questo è uno dei tanti casinò per gente facoltosa che si trovano sulle rive del Tamigi, ma la realtà è ben diversa: dietro una copertura inattaccabile, c’è un ritrovo sicuro per la malavita organizzata. Spaccio di stupefacenti, riciclaggio di denaro sporco, traffico illegale di armi, persone e documenti, spionaggio industriale e tutto ciò che di illegale esiste a questo mondo. Tuo padre aveva ricevuto una soffiata da uno dei tanti corrieri della droga alle dipendenze del signor Brown, e stava organizzando una grande operazione di polizia. Lavorando come vice-ispettore, però il dottor Brown sapeva di questo enorme spiegamento di forze, e si rendeva conto del fatto che nel processo seguente al blitz, si sarebbe fatto il suo nome. Spaventato a morte, aveva due possibilità: mettere tutti i suoi soldi su un conto bancario in Svizzera o Lussemburgo e fuggire all’estero, o togliere dalla scena l’ispettore Jones. Uccidere un uomo di quella posizione, però, non è cosa facile. Così è stato architettato questo piano: affidare ad un professionista l’esecuzione materiale, e far ricadere la colpa su una terza persona, che sarei io, in cambio della promessa di una rapida evasione e di una buona ricompensa. In questo modo, anche se avessi parlato, non avrei potuto dimostrare un bel niente contro il signor Brown, perché non conoscevo le modalità dell’omicidio! E anche se avessi fatto il nome del vice-ispettore, sarebbe stata la sua parola contro la mia, dal momento che io non avevo prove concrete. Sono stato fatto evadere con il camion della lavanderia del carcere, la mia morte attribuita ad un tentativo di zittirmi, il mio cadavere finito chissà dove. La mia identità è nascosta a tutti, quindi il mio decesso non sarebbe stato registrato sugli archivi di Stato, e io avrei potuto tranquillamente rifarmi una nuova vita. Gwen la conosco per il semplice fatto che abita nel mio stesso palazzo, ed è l’unica amica che io abbia. Ma tra noi non c’è assolutamente niente, te lo assicuro!” si affrettò ad aggiungere dopo aver visto l’espressione di Leo, che poi disse: “Dovrei crederti?” Un attimo dopo, la porta si aprì di schianto ed entrarono due secondini, pistole in pugno. Il primo sparò verso Fred, che fu svelto nel gettarsi a terra. Il ragazzo non rimase fermo ancora a lungo: afferrò la sedia e la fracassò in testa al suo aggressore, che svenne. Il secondo uomo fece una cosa ancora più strana, puntando l’arma verso Leo, che non fu abbastanza veloce da scansarsi. Un dolore lancinante, e una macchia rossa impregnò tutta la felpa in corrispondenza del fianco sinistro. Si udì un secondo sparo, e in un attimo Leo capì. ‘Sono morto’ pensò. Ma a sparare fu Fred, che aveva tempestivamente raccolto la pistola del suo aggressore e l’aveva poggiata sulla tempia dell’altro poliziotto. Un colpo, e il cranio dell’uomo esplose letteralmente, disegnando un macabro graffito rosso sul muro. Leo non trattenne un conato, forse per la sua ferita, forse per lo spettacolo raccapricciante che aveva di fronte. Richiamati dagli spari, altri agenti accorsero, e trovando Leo ferito, i due secondini morti e il detenuto con la pistola ancora calda in mano, interpretarono a modo loro quello che era successo. Fred non fece resistenza, ma si fece ammanettare senza dire una parola. Il suoi occhi incontrarono quelli di Leo, e i due si guardarono per un lungo istante. Poi Fred annuì, mentre lo portavano in isolamento.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Leo fu portato di corsa in ospedale, la felpa era ormai zuppa di sangue, e quando la sfilò quasi svenne per il dolore. Fu operato subito, e il medico disse che siccome il proiettile gli aveva solo sfiorato il fianco senza causare danni gravi, nel giro di una settimana sarebbe potuto tornare a casa. Quella notte, solo nella sua stanza di ospedale, Leo ripensò a quanto accaduto in carcere. Fred non gli aveva mentito, altrimenti perché mandare due agenti a cercare di ucciderlo? E soprattutto, perché cercare di uccidere anche lui? Forse sospettavano che il carcerato avrebbe parlato, ma non potevano aver origliato, la cella era insonorizzata. Era chiaro che avrebbero cercato di far ricadere la colpa su Fred: il detenuto avrebbe nascosto una pistola nella cella, usandola prima per uccidere Leo, poi si sarebbe suicidato. Con questa ricostruzione dei fatti, il dottor Brown avrebbe di nuovo salvato la faccia, e le indagini si sarebbero nuovamente fermate. Leo ricapitolò tutto quello che Fred gli aveva detto, parola per parola, cercando di trovare un dettaglio, una frase, qualsiasi cosa che potesse essere usata contro il vice-ispettore, ma mancavano prove. La testimonianza di Fred sarebbe stata pressoché ridicola in un processo: un ragazzo orfano e senza nome, che non compare negli archivi di stato e che è dato per morto, che cerca di incarcerare il rispettato vice-ispettore di Scotland Yard. Patetico. Poi ebbe un’intuizione, ricordando una cosa a cui non aveva dato molto peso: Fred abitava nello stesso palazzo di Gwen. Fu dimesso dall’ospedale otto giorni dopo, e nel giro di due settimane fu in perfetta forma, grazie alle mille premure della madre. La scuola era ricominciata dopo il sequestro dell’edificio, che ovviamente non aveva portato a niente, e Leo colse al volo la prima occasione libera per chiamare Theo in disparte e chiedergli un favore. “Mi serve una mappa catastale dell’edificio all’angolo fra St. James’ Square e Charles II St” disse, e l’amico gli rispose, assumendo un’espressione pensosa “Non credo sia una cosa totalmente legale, ma se vuoi, cercherò di accontentarti”. Il giorno dopo, Leo aveva la sua mappa. Fece una rapida ricerca sull’elenco telefonico, per controllare a chi appartenessero gli appartamenti, e li segnò sul foglio con un pennarello, fino a che non rimase soltanto una soffitta di pochi metri quadrati, che identificò come la modesta casa di Fred. Restava ancora un problema da risolvere, ovvero come entrare. Scassinare la porta sarebbe certamente stato facile, pensò Leo, sicuramente la porta di un ripostiglio non era blindata, ma dove trovare attrezzi da scasso? Poi si ricordò della cassetta rossa che suo padre aveva dai tempi della polizia d’assalto, che certamente conteneva ogni genere di diavoleria. La trovò in soffitta, coperta da due dita buone di polvere, ma quando la aprì fu molto soddisfatto del contenuto: perfettamente ordinati c’erano oggetti che non si trovano in un normale supermercato, e che a Leo avrebbero fatto decisamente comodo. Un passe-partout magnetico, in grado di aprire qualsiasi serratura, un decodificatore Wi-Fi, un paio di occhiali con la visione termica, un sistema anti-intrusione a led luminosi e, sul fondo, una piccola pistola semiautomatica da nove millimetri, carica e funzionante. Leo sapeva che portarla con se non sarebbe stato legale, ma visto che era stato aggredito due volte in pochi giorni, decise di fare un’eccezione. Mise il tutto in un borsello e infilò la pistola in tasca. Alle sei di pomeriggio del sedici marzo a Londra pioveva e faceva freddo come se fosse dicembre. “Sai che novità” pensò Leo uscendo di casa. Prese un taxi, e in meno di venti minuti era in St. James’ Square. Per una fortuita coincidenza quando arrivò al palazzo dove abitava Fred, una vecchietta si trovava a uscire, e lui poté entrare nel portone indisturbato. Aveva imparato a memoria la mappa che Theo gli aveva stampato, e sapeva perfettamente come muoversi. L’unica cosa che lo turbava era che Gwen lo vedesse, chissà cosa avrebbe pensato. Salì le scale del palazzo a due a due, e arrivò in soffitta. Armeggiò per pochi secondi con la serratura, che alla fine si arrese con un debole click. Entrato, si diede una rapida occhiata in giro, e vide che l’arredamento era spartano, per non dire inesistente: un letto, una sedia, una credenza rosa dai tarli e un fornello da campo. Leo guardò ovunque, senza trovare nulla di utile. Frugò nella credenza, sotto il letto, batté addirittura il pugno contro il pavimento cercando un doppio fondo. Fu proprio quando aveva perso tutte le speranze di trovare uno straccio di indizio, che le cose iniziarono a prendere una brutta piega. La porta si aprì con uno scatto di chiavi. Leo si guardò disperatamente intorno, cercando un nascondiglio, ma l’arredamento non forniva ripari. Un attimo, ed estrasse la pistola. La vera sorpresa, però, fu vedere chi entrò nell’appartamento. “Che diavolo ci fai qui?” Fred quasi urlò dallo spavento. “Non so come ci sono arrivato – rispose – ho perso conoscenza mentre ero nella mia cella di isolamento, e mi sono svegliato sul tetto di casa mia, bagnato fradicio. Tu, piuttosto, che ci fai qui, in casa mia, e come sei entrato?” Leo decise di essere sincero: “Cercavo qualcosa, un collegamento con Brown, una qualsiasi prova utile per scarcerarti, e per entrare ho dovuto usare un passe-partout. Credi che ti abbiano fatto uscire di proposito? – chiese Leo – dopotutto dopo la sparatoria in prigione sarebbe stato aperto un nuovo processo, e allora si che avresti fatto il nome del vice-ispettore”. Fred annuì, serio, poi impallidì e gridò: “Il fornello da campo non è mio!” Leo non capì, ma Fred corse verso l’uscita gridando: “È una trappola, scappa Leo!”. A quel punto il ragazzo capì, e corse a rotta di collo giù per le scale. Neanche il tempo di uscire dalla porta, e si sentì un boato assordante, poi i vetri dell’intero edificio andarono in pezzi, Leo e Fred fecero un volo di cinque metri giù per le scale, atterrando con un tonfo sordo sul pianerottolo. “Stai bene?” chiese Fred. Le orecchie gli fischiavano dolorosamente, e Leo annuì, stordito dall’esplosione. Gli inquilini del palazzo si affrettarono verso la strada, alcuni erano anche feriti. “Maledizione, Gwen! – urlò Leo – è in casa a quest’ora!” un cenno del capo, e i due ragazzi si precipitarono verso l’appartamento dell’amica. La porta era stata completamente divelta dall’urto dell’esplosione, e adesso stava di traverso sull’uscio, ridotta ad una lamiera fumante. La scavalcarono e corsero dentro, urlando il nome dell’amica, ma nessuno rispose, e in casa non si trovava. “I suoi genitori saranno al lavoro – disse Fred – ma lei? Dovrebbe essere in casa, allora perché non la troviamo?”. Ricontrollarono tutta la casa, ma Gwen sembrava essersi volatilizzata. Fermo in cucina, il volto stravolto, Leo notò una cosa insolita: sul frigo c’era appeso un biglietto, scritto al computer con un carattere chiaro e leggibile. Solo la firma era fatta a mano, nera lucente sulla carta bianca. “Fred” chiamò Leo, e gli passò il biglietto. Il ragazzo lo lesse velocemente, poi sbiancò ulteriormente, se possibile. Sul foglio, con parole che non lasciavano spazio ad equivoci, qualcuno aveva scritto: I miei complimenti, Fred. Se stai leggendo queste righe, vuol dire che nemmeno la bomba è riuscita a zittirti. Chissà se consideri la tua amica più preziosa della tua vita, ma sono sicuro che sia così. Il parcheggio sotterraneo di King’s Cross non è un cattivo luogo per fare due chiacchiere, che ne dici verso le otto? I miei migliori saluti, l’Asso di Picche.

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