After the fall - Road in the Desert

di AxXx
(/viewuser.php?uid=218778)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuga dal Buio ***
Capitolo 2: *** Nuovo Mondo ***
Capitolo 3: *** Annabeth ***



Capitolo 1
*** Fuga dal Buio ***


                         Fuga dal Buio

 

 

 

 

 

 

 

Salve, io sono Percy Jackson.

Questa è la mia storia: la storia di come mi sono salvato e di come, forse, vi siete salvati molti di voi.

Sono nato nell’anno duemila. Un comune ragazzo di una comune cittadina della California dove vivevo con mia madre, Sally Jackson. Mio padre era un soldato di marina morto un anno dopo la mia nascita. Mia madre non ama parlarne, ma gli manca molto. La verità è che, con tutto quello che ci è accaduto, non ci pensiamo più molto, soprattutto perché a me non interessa.

Crebbi in questa cittadina dove andai a scuola insieme a decine di miei coetanei, fino ad otto anni.

Era il diciotto dicembre quando mia madre tornò a casa con due biglietti aerei per Dallas, dove mio zio Ade di Angelo lavorava. Con lui non avevo buoni rapporti, ma io adoravo un sacco i miei cugini: Nico di Angelo di sette anni e la piccola Bianca di sei. Partimmo il giorno dopo con i nostri bagagli pieni di vestiti e qualche stuzzichino. Era un epoca difficile e fare lunghi viaggi era molto costoso, ma mia mamma aveva un lavoro rispettabile e conservavamo sempre dei soldi per andare dai nostri cugini.

Il viaggio durò poche ore e quando arrivammo capii subito che non mi sarei mai dimenticato di quella vacanza, anche se non sapevo cosa sarebbe successo. Maria, Nico e Bianca vennero a salutarci e io abbracciai i miei cuginetti. La piccola Bianca mi strinse in un abbraccio caloroso, mentre Nico mi si aggrappò alla schiena per fare cavalluccio. Mio zio era a lavoro: era l’amministratore di un impianto petrolifero a sud di Dallas.

Arrivato alla loro casa, una semplice abitazione stile americana, mia zia ci promise una visita al nuovo impianto di Ade, cosa che, però, non suscitò per nulla il mio entusiasmo, al contrario di quello di Nico e Bianca che adoravano il loro papà.

Passai un giorno intero a giocare con Nico a Mitomagia, un gioco di carte e miniature che adoravamo entrambi, anche se, per me era solo un passatempo, mentre lui era un vero patito. Ogni tanto Bianca ci rubava qualche miniatura e ci costringeva a inseguirla per tutto il giardino ridendo come dei pazzi.

Quanto eravamo ingenui, all’epoca.

Era la sera del ventuno dicembre del duemiladodici quando arrivammo allo stabilimento di mio zio, sorvegliato dai militari che dovevano tenere la zona sotto controllo a causa delle minacce della C.A.O.S.

Ah, scusate, non sapete cos’è la C.A.O.S. è un acronimo che sta per Comitato Abbattimento Organizzato degli Stati: un’associazione terroristica che minacciava tutti i governi del mondo. Un anno prima si erano impossessati di un carico di venti testate nucleari minacciando di lanciarle su tutte le capitali del mondo, ma fin’ora non si erano fatti sentire.

Comunque gli impianti erano considerati dei bersagli a rischio e  soldati dell’L.D.M. (Lega per la Difesa Mondiale) avevano messo tutto sotto chiave, ma una volta appurati i documenti e i permessi che mia zia si era procurata ci lasciarono passare.

Dovetti ammettere che gli impianti si estendevano u un’area vastissima ed erano completamenti automatizzati ed autosufficienti. Un pozzo centrale collegava tutti i livelli sotterranei dell’impianto che ospitavano officine, laboratori e raffinerie per lavorare il prezioso elemento del petrolio, trasformandolo in benzina. C’erano persino due dormitori e un magazzino sotterraneo. Di solito ospitava gli operai che lavoravano lì, ma con le vacanze di natale era rimasto solo mio zio che controllava quotidianamente gli impianti per assicurarsi che funzionassero bene.

Zio Ade ci stava spiegando come funzionava quello stupefacente impianto, quando la terra iniziò a tremare.

All’inizio pensai ad un terremoto, ma solo quando uscii associai quell’esplosione alla bomba che la C.A.O.S. aveva sganciato. Tutti gli stati dell’Europa e degli Stati Uniti erano stati attaccati, colpendo le zone più popolose o centrali nucleari, in modo da creare un effetto a catena ancora più devastante di quello principale della singola bomba.

La galleria principale crollò e noi rimanemmo bloccati all’interno dell’impianto. Nostro zio fu positivo, nonostante la situazione difficile. Non conoscendo la vera situazione eravamo certi che i soccorsi fossero già in arrivo, quindi, inizialmente non ci preoccupammo molto. Al massimo saremmo rimasti intrappolati per una settimana o due. I magazzini sotterranei erano adatti ad ospitarci: c’era cibo e acqua in grado di sostenere più di trecento persone per tre mesi, potevano benissimo bastare per noi.

Ma non arrivò mai nessuno.

Nessun rumore dalla superficie, nemmeno un urlo.

Dopo un mese avevamo accettato il fatto che nessuno sarebbe venuto ad aiutarci. I giorni passavano lenti, sotto le fredde luci elettriche che illuminavano i corridoi dell’impianto sotterraneo. Eravamo sprofondati in un profondo, disperato mutismo. Pregavamo e speravamo di sentire un rumore, una scavatrice o una voce che ci mettesse in contatto, dalla radio con la superficie. Ma l’unico rumore che sentivamo erano le scosse delle tempeste elettrostatiche che bombardavano il terreno sopra di noi.

Ade aveva trovato una radio per mettersi in contatto con la superficie, ma le radiazioni bloccavano qualsiasi comunicazione con l’esterno.

Eravamo prigionieri di quelle gallerie.

Avevo nove anni quando tentammo di uscire in superficie, liberando la strada ostruita. Avremmo dovuto scavare per oltre cento metri in verticale, cosa pericolosissima, visto che rischiavamo di farci crollare una valanga di macerie e travi d’acciaio addosso, anche se era l’unico modo per risalire.

Nonostante le proteste di mia madre, capii che non potevo rimanere con le mani in mano, così, per quanto giovani, io e Nico decidemmo di aiutarlo nella sua pericolosa impresa. Era faticoso, pericoloso e molto, forse troppo, lento, ma almeno avevo uno scopo per andare avanti, qualcosa su cui concentrarmi per non impazzire, anche se non volevo immaginare la desolazione all’esterno.

Per due anni continuammo a scavare in verticale, puntellando ogni singolo centimetro che liberavamo. Un paio di volte rischiò, persino, di crollarci addosso tutto, ma Ade ebbe sempre tutto sotto controllo e riuscì, con la sua abilità da ingegnere ad evitare il disastro.

A dodici anni, finalmente, riuscimmo a vedere l’uscita.

Il problema era che le radiazioni erano ancora troppo intense e così decidemmo di rintanarci sottoterra, fino a che la situazione non fosse migliorata.

Nel sottosuolo io, Nico e Bianca fummo istruiti dalle nostre madri che ci insegnarono, non solo le lezioni base, ma anche le loro conoscenze in infermieristica e medicina. Dopotutto mia mamma era un medico e mia zia un’infermiera, insomma, una fortuna per noi. Nostro zio ci insegnò come estrarre l’acqua dalle rocce e a raffinare il petrolio grezzo per poterlo usare come alimentazione per i motori automatici che accendevano le luci e tenevano in funzione alcuni macchinari.

E così andò per dodici lunghi anni.

 

 

 

 

Mi svegliai ad un’ora imprecisata della mattina che dovevano essere, secondo l’orologio, le dieci. Sbuffai e mi levai a sedere. Da quando era accaduto il disastro dormivo in un vecchio dormitorio, su un materasso distrutto e sotto una coperta sfatta e vecchia.

Mi alzai e presi l’acqua dal secchio vicino, sciacquandomi la faccia. Il liquido increspato mi rimandò il mio riflesso: un ragazzo di vent’anni, leggermente emaciato, pallido, con i capelli castano scuro mossi e gli occhi verde mare. Ero magro, anche se non ero tutto pelle ed ossa grazie alle fatiche degli anni passati che mi avevano mantenuto i muscoli allenati. Sbuffai e mi vestii con un paio di jeans da lavoro ed una camicia sudicia. La stessa da chissà quanti anni.

“Ehi…” Mi salutò Nico, stropicciandosi gli occhi. Lui aveva capelli mossi neri e occhi dello stesso colore, come le nere profondità in cui eravamo prigionieri. Era molto più magro di me, e molto più minuto.

“Buongiorno… come va’?” Chiesi, con un sorriso triste. Come doveva andare? Eravamo imprigionati lì sotto da anni e le cose, tra noi, erano un po’ strane. Ormai eravamo praticamente fratelli, dato che dormivamo insieme e condividevamo tutto.

L’unico nostro passatempo erano gli unici due mazzi di mitomagia che ci eravamo portati dietro dal giorno in cui eravamo stati imprigionati. Anche Bianca era stata coinvolta, ogni tanto, ma lei era molto più studiosa e rimaneva sempre in disparte.

“Sto bene… solo un po’… stanco di stare qui.” Rispose Nico, con lo sguardo triste.

“Dai… un giorno usciremo.” Lo rassicurai, dandogli una pacca sulla spalla.

Lui sorrise e io lo lasciai solo a prepararsi, mentre uscivo, seguendo il corridoio scavato nella roccia.

“Buongiorno Percy.” Mi salutò Bianca, passandomi accanto con aria abbattuta.

“Ciao.” Fu la mia laconica risposta. Avrei voluto parlarle di più, ma di cosa cavolo dovevamo parlare? Eravamo imprigionati.

Arrivati al pozzo centrale salutai Maria e mia mamma e mangiai. Da molto avevamo razionato il cibo, per assicurarci che durasse abbastanza da mantenerci in vita. Così ero magro e mangiavo poco, se fosse dipeso da mia mamma, avrei dovuto mangiare tre volte tanto, ma non potevamo permetterci razioni normali.

“Vado ad aiutare zio.” Borbottai, masticando la merendina che mi sarebbe dovuta bastare per mezza giornata come se fosse cartone.

“Stai attento, tesoro.” Mi raccomandò mia madre Sally, dandomi un bacio sulla fronte.

Le sorrisi, incapace di essere triste con lei, e mi avviai verso il pozzo centrale, dove mio zio stava calando un secchio verso l’oscuro pozzo nero sotto di noi. Era diventato molto magro, gli occhi scuri erano infossati e aveva una corta barba nera come i capelli mossi. Il viso era magro ed emaciato più del mio, tanto da dargli l’aspetto di uno scheletro.

“Ehi, ragazzo. Come va’?” Mi salutò affaticato, mentre tirava su il secchio pieno del prezioso e viscoso liquido nero che ci permetteva di avere un minimo di condizioni di vita decenti, lì sotto.

“Come sempre… siamo intrappolati qui.” Risposi seccamente.

Ormai le conversazioni erano quelle: nulla di più, nulla di meno. Nessuno di noi aveva argomenti su cui parlare, a meno che non comprendesse un altro modo per estrarre acqua dalla pietra calcarea o la colorazione dei muschi nell’area ristoro ad ovest.

“Te la sentiresti di venire su con me?”

Ecco, questa domanda mi lasciò di stucco, tanto che rischiai di far cadere il secchio di sotto.

“Cosa!?” Chiesi stupito, guardandolo negli occhi incavati. “Sei impazzito, zio? Lo sai che se le radiazioni sono forti come l’anno scorso rischiamo di scioglierci.”

Già l’anno prima infatti, avevamo tentato qualcosa di simile, ma le radiazioni erano ancora così forti che fummo costretti ad abbandonare l’impresa, prima di morire dolorosamente.

“Ho già controllato, il livello di radiazioni è basso, credo possiamo tentare.” Disse lui, senza troppa convinzione.

Io sospirai: quando prendeva una decisione era difficilissimo fargli cambiare idea. Ci volle molto tempo per convincere mia madre e mia zia a farci andare, soprattutto mia mamma che si mise ad urlare istericamente che non intendeva farmi correre un rischio simile. Ade, però, fu molto persuasivo e mostrò più volte i dati che aveva raccolto: le radiazioni si dovevano essere diradate da tempo ed infine, riuscì a convincerle a farmi andare di sopra.

 

 

 

 

Nella mia stanza osservai il mio mazzo di mitomagia sospirando ansioso. Benché l’idea di tornare in superficie mi allettasse, temevo di non riuscire più a tornare. Quella prigione, che ormai sapeva di casa.

“Cavolo Percy! Potremmo riuscire ad uscire, questa volta!” Esclamò Nico, entrando di corsa, scostando la lacera tenda che era la nostra porta. Di solito non c’era mai entusiasmo la sotto, ma di notizie di questo tipo ne ricevevamo pochissime.

“Già… che bello.” Mormorai, osservando i vestiti che mi erano stati dati per uscire.

“Sembri… preoccupato.” Osservò mio cugino, sedendosi accanto a me.

“Lo sono… se tuo padre si sbaglia… attraversare quella porta mi ucciderebbe. Un po’ d’ansia c’è.” Ammisi sospirando, osservando con intensità quel mazzo di carte dello stupidissimo gioco che mi aveva fatto compagnia per dodici anni di solitudine.

“Mio padre è sicuro. Ce la faremo e torneremo a vedere il sole.” Sorrise all’idea di poter uscire di lì.

“Già… senti, Nico, se non dovessi tornare giù… ti voglio bene, cugino.” Lo abbracciai commosso e lui fece altrettanto.

“Tornerai, Percy, ne sono certo.”

Quando uscii abbraccia Bianca che mi sorrise incoraggiante e mi dette un bacio sulla guancia.

“Cerca di tornare vivo, cugino, voglio rivederti.” Mi augurò, appoggiando la testa al mio petto, quasi temesse di non vedermi più (Cosa altamente probabile.)

“Non preoccuparti, Bianca. Tornerò.” Promisi, accarezzandole i lunghi capelli neri.

 

 

 

Davanti a noi c’era la scaletta metallica che portava in superficie. Era talmente incrostata che non rifletteva nemmeno la luce delle torce con cui ci facevamo strada. Anche se era caldissimo indossavamo enormi giacconi, guanti, pantaloni spessi, scarpe pesanti e due passamontagna con una mascherina che copriva bocca e naso.

Il massimo della protezione contro le radiazioni, dandoci al massimo tre secondi in più di vita, rispetto agli abiti normali.

“Pronto?” Chiese mio zio avvicinandosi toccando il metallo con cautela, per poi issarsi lungo la scaletta che ci avrebbe portato fuori.

“Ti sono alle spalle.” Borbottai, stringendomi il giaccone, tremando, nonostante il caldo tremendo.

Ci arrampicammo veloci fino in cima, dove la grotta si aprì in un corridoio non molto lungo, con in fondo una pesante porta metallica. Il contatore Geiger emetteva un flebile e ritmico suono che indicava il fatto che non c’erano molte radiazioni.

“Pronto?” Chiese mio zio, mettendo mano sulla maniglia della porta. “Se dovesse aumentare troppo, corri verso le scale e forse, non morirai.”

“Ottimo.” Biascicai, con tutti i muscoli tesi nello sforzo di non darmela subito a gambe.

“Allora andiamo.” E detto questo, aprì la porta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

[Angolo dell’autore]

Benvenuti ad After the Fall, la mia personale storia AU post-apocalittica di Percy Jackson. Un’idea un po’ “Alternativa” che spero vi piaccia. Questa storia è una Percabeth mooooolto lunga e molto avvincente, dove il nostro adorato protagonista si ritroverà a doversi mettere alla prova in tutti i sensi.

Ce la farà a sopravvivere nel mondo post apocalittico che gli si presenta davanti?

Spero che voi tutti mi recensite perché la storia è particolare.

AxXx

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Nuovo Mondo ***


                                                 Il Nuovo Mondo

 

 

 

 

 

Quello che accadde dopo?

Be’, direi che, all’inizio, non morimmo sciolti dalle radiazioni e già questo era un passo avanti. La cosa che ci attese, fuori, fu un terribile paesaggio desolato, distrutto e devastato. Era come camminare sulla superficie di un altro pianeta.

I vecchi macchinari di estrazione erano stati smantellati, i magazzini scoperchiati dalle onde d’urto e gli edifici crollati. Io e mio zio controllammo il contatore geiger e le radiazioni erano molto diminuite, così ci liberammo dei pesanti abiti e iniziammo a setacciare ciò che rimaneva dell’impianto. Per rendere le cose più veloci vi dirò che, in uno dei garage sotterranei riuscii a trovare un vecchio furgone abbastanza ben messo da ospitarci tutti, mentre mio zio riuscì ad impossessarsi di una radio meglio abbastanza bene da funzionare.

Lo revisionammo, controllammo le batterie e il motore, assicurandoci che fosse a posto, e tanto bastò. Era messo bene.

All’inizio pensai che eravamo gli unici ad essere sopravvissuti, ma fui felice di sbagliarmi, quando mio zio riuscì a controllare un suo vecchio amico: Gioven Grace che viveva in un ranch a nord di Dallas. A quanto pare lui, sua moglie Ann e i suoi figli Talia e Jason erano sopravvissuti e avevano iniziato a radunare superstiti nel loro ranch, in modo da creare una piccola comunità, per difendersi e condividere le poche risorse.

Fu una bella notizia per noi e tornai subito giù, per informare mia madre della lieta notizia.

Fu la cosa più simile ad una festa che vedevo da almeno una decina d’anni. Nico saltò in piedi, urlando per l’entusiasmo, Bianca corse ad abbracciarmi, mia madre e Maria si abbracciarono con le lacrime agli occhi e si misero a lavoro con rinnovata energia.

Facemmo un catalogo di ciò che avevamo e iniziammo a caricare il furgone con casse di cibo e, soprattutto, taniche di benzina. Facemmo gli straordinari e per due giorni non dormii. Estraemmo intere secchiate di petrolio, raffinandolo per poi usarlo in seguito, dato che era qualcosa di importantissimo.

Alla fine del terzo giorno avevamo riempito il furgone di viveri e benzina, facendo anche il pieno. Io, Bianca e Nico fummo messi dietro, nel cassone posteriore, mentre Ade guidava e Maria e Sally gli stavano accanto.

Stavamo caricando le ultime casse quando Bianca indicò qualcosa al limitare dell’impianto.

“Là c’è un uomo!” Urlò, indicando una sagoma, avvolta dalla sabbia e dal vento che avanzava barcollando verso di noi.

Al mio orecchio arrivava un rantolo dolorante, più animalesco che umano e sembrava provenire da quella persona. Guardai mio zio dubbioso e lui si accarezzò la barba indeciso.

“Bianca! Torna qui.” Ordinò, dopo un attimo di esitazione. C’era una nota di paura, nella sua voce che non riuscii a capire, all’inizio.

“Ma non possiamo lasciarlo lì! Morirà!” Protestò Bianca, con gli occhi tristi, avviandosi verso la figura.

Era a metà strada tra noi e l’uomo quando mi resi conto di cosa aveva spaventato mio zio: la figura stessa era troppo gobbuta e deforme per essere quella di una persona. Un braccio era sproporzionatamente grande rispetto al corpo, mentre l’altro sembrava penzolare floscio da un lato, quasi non avesse ossa.

“Bianca, torna indietro!” Urlai, correndo verso di lei, mentre mio zio correva nell’abitacolo a prendere qualcosa.

Anche lei doveva essersi resa conto del pericolo perché si fermò esitante, mentre la figura si faceva più vicina.

Poi lo vidi per intero.

Quello che un tempo era umano, si era trasformato, come se il corpo si fosse disidratato in un colpo solo, lasciando solo pelle attaccata allo scheletro, gli occhi erano fosse cave spalancate su un abisso di nera morte, la bocca aperta, irta di zanne troppo acuminate per essere umane rilasciava zaffate di alito putrescente e saliva. Il corpo era ricoperto di ferite, scottature, cicatrici e bolle di cui non volevo conoscere la provenienza e allungava la sua unica gigantesca mano verso Bianca che indietreggiò spaventata, lanciando un grido terrorizzato.

“BIANCA!!!”

L’urlo era venuto da tutti e Nico mi corse dietro a ruota, mentre lei cercava di tornare indietro. Il panico, però, la distrasse e lei scivolò a terra iniziando a strisciare verso di noi finché la creatura non le afferrò una caviglia.

“Aiuto! Aiutatemi, vi prego!” Strillò terrorizzata, iniziando a scalciare.

Mi gettai sul mostro umanoide con tutto il mio (poco) peso e riuscii a farlo barcollare, liberando Bianca che corse tra le braccia del fratello piangendo spaventata.

Il mostro, però, mi aveva afferrato.

Non ebbi il tempo di capire come facesse ad essere così forte, pur essendo scheletrico, perché mi ritrovai con le gambe all’aria, gettato a due metri di distanza, buttato come uno straccio o un pallone da basket.

Strisciai via, cercando di allontanarmi, ma un boato mi paralizzò.

Zio Ade aveva in mano un revolver a canna lunga e aveva sparato, colpendo il mostro al petto che barcollò, ma non cadde.

“Come diavolo fa ad essere ancora in piedi!?” Chiesi, approfittandone per alzarmi e correre via.

Mio zio non rispose e puntò alla testa.

Il secondo sparò abbatte quella bestia umanoide che crollò a terra come un burattino senza fili.

“Che cavolo era!?” Domandai, strisciando nella sabbia, osservando il sangue scuro che fuoriusciva dalle ferite, bagnando il suolo.

“Credo sia colpa delle radiazioni. Non ho idea di cosa abbia fatto alla gente che non era al sicuro come noi.” Rispose, mio zio, tornando al furgone.

Avrei voluto che le sorprese finissero lì, invece, dovetti sorbirmene un’altra a poca distanza di tempo. Dopo quell’episodio Bianca si era rintanata spaventata nel furgone, insieme al fratello che la stringeva a se. Io ero davanti a loro e li guardavo ancora sconvolto per quello che avevo visto.

Ogni tanto lanciavo occhiate fuori dal finestrino per trovarmi davanti qualcosa che poteva benissimo essere scambiato per la superficie di marte.

La sabbia ardeva sotto le nere nuvole radioattive che bombardavano il terreno con scariche elettriche inquietanti. I lampi illuminavano le carcasse delle auto, immobili da anni e i resti degli alti edifici di Dallas che si ergevano come antiche ossa del tempo passato.
Ai lati della strada arbusti velenosi, crescevano come scheletriche mani tra i sassi e l’asfalto.

Arrivati in periferia, a metà strada, notammo un gruppo di veicoli posti sulla strada a formare una sorta di blocco.

“Strano… è stato sicuramente fatto dopo l’esplosione… ma non si vede nessuno.” Commentò Ade, scrutando preoccupato le macchine.

All’improvviso, da dietro una di quelle uscì un uomo. Aveva una trentina d’anni e avanzava barcollando, tenendosi una mano sotto il giaccone pesante.

“È ferito, dobbiamo aiutarlo.” Dissi, subito, pronto ad aprire il portellone laterale, ma mio zio mi bloccò.

“Aspetta.”

“Aspetta cosa!? Non possiamo lasciarlo…” Mi fermai all’improvviso: non c’era sangue fresco sui suoi vestiti e gli edifici intorno a noi brulicavano di ombre, che sembravano umane.

“Un imboscata!” urlò mio zio, schiacciando l’acceleratore al massimo.

Il criminale che si fingeva ferito lanciò un imprecazione contro di noi ed estrasse la pistola, sparando un paio di colpi che frantumarono il parabrezza finché non sentii il peso del suo corpo fracassarsi sulla carrozzeria del furgone.

Mi accucciai a terra spaventato, mentre Nico e Bianca si stringevano spaventati. Altri spari esplosero intorno a noi e per un attimo il nostro veicolo sbandò un po’, ma riuscimmo a tenere la strada e Ade buttò giù la barricata spingendo al massimo il motore.

Una fortuna che non ci avessero bucato le ruote.

Dopo quella pericolosa avventura non ci fermammo più fino a raggiungere il ranch Grace, l’unico ancora in piedi. Tutti gli altri erano distrutti e saccheggiati, mentre quello sembrava più un fortino, con mura e torrette di avvistamento, cosa che non mi sorprese affatto, visti gli attacchi che avevamo subito lungo la strada.

Ad accoglierci trovammo i fratelli Talia e Jason Grace che furono felici di vederci tutti interi. La comunità ospitava circa una trentina di persone ed era diviso in una grande casa centrale ed erano stati costruiti anche un garage provvisorio e una zona medica dove conservavano i medicinali.

Arrivati iniziammo ad ambientarci: conoscemmo la famiglia Valdez, formata da Esperanza e suo figlio Leo, due validissimi meccanici, sopravvissuti nascondendosi nei sotterranei di un circolo di formula uno come, la famiglia Stoll, la giovane Rachel, sopravvissuta da sola, nascosta nei bassifondi di Dallas e molta altra gente.

Sotto gli insegnamenti di Gioven Grace, ex marine degli Stati Uniti, imparai a sparare, a ricaricare e fare manutenzione alle armi. Esperanza, invece, mi insegnò a riparare macchine truccate e a guidare a pieno regime.

In poco tempo iniziammo ad ambientarci fino a diventare parte integrante della comunità che noi chiamavamo GD1, cioè Gruppo Dallas uno. Addestrato per tre mesi, imparai a difendere il ranch dagli infetti e dai banditi che attaccavano il ranch per saccheggiarlo. Leo mi dette la possibilità di utilizzare un veicolo particolare: una specie di camioncino semi-scoperto, con un motore truccato, vetri blindati, ruote potenziati per essere più veloci su terreni accidentati e telaio rinforzato.

Non seppi perché, ma mi piaceva quel veicolo, così lo chiamai Blackjack.

Fu grazie a lui che potei pattugliare i dintorni di Dallas e altre zone circostanti per poter anticipare le bande che volevano attaccarci.  

Tutto andò bene per circa quattro mesi, finché non accadde il peggio: il nostro pozzo si prosciugò e rimanemmo a corto d’acqua e cibo.

Per alcuni giorni attendemmo notizie, finché Gioven Grace non ci informò di aver contattato un’altra comunità di sopravvissuti a Big Spring, guidata da Daiana Nightshilde e la figlia Zoe che si trovavano nella situazione opposta: avevano molti viveri e poco carburante. Inoltre erano, a loro volta, in contatto con una comunità di Tucson, che era riuscita a mettersi in contatto con il governo statunitense sopravvissuto: a quanto pareva la California, negli ultimi anni, era sopravvissuta, scampando alla distruzione nucleare grazie alle Montagne rocciose che le avevano bloccate, mantenendo vivibili le città sulla costa.

Decidemmo, così, di partire per un viaggio, alla ricerca della salvezza. La speranza di tornare a casa mi colpì in modo inatteso e fui così felice che non mi fermai nemmeno di notte, per aiutare nei preparativi.

Dopo due giorni di preparativi, Gioven ci riunì tutti, dicendo che, però, mancavano armi che ci sarebbero stati indispensabili per un viaggio così lungo.

Per fortuna Micheal Yew propose una soluzione: sua madre era una cantante, ma il padre aveva un negozio di articoli sportivi e armi a nord, nella cittadina di Sherman. Il negozio aveva uno scomparto blindato che, forse, non era stata saccheggiata.

“Allora faremo così, dormite tutti, domani, Yew, prenderai uno dei furgoni e cercherai le armi.” Annunciò infine, Gioven Grace, deciso.

Eravamo tutti eccitati per il viaggio imminente.

Non sapevo ancora che quel viaggio si sarebbe rivelato terribilmente pericoloso, più di quanto potessimo immaginare.

 

 

 

 

 

 

 

 

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

[Angolo autore]

Scommetto che pensavate che avrei fatto uccidere Bianca, vero? Noooooooo, non sono così cattivo, lei vivrà… per ora.

Vediamo, quindi, il nuovo mondo devastato e creature nuove e orripilanti emergere dagli incubi dell’uomo per mangiarsi ciò che rimane della popolazione “viva”. Ma c’è anche la speranza di sopravvivere e tornare a casa.

Riusciranno i nostri protagonisti a salvarsi?

Grazie per tutte le recensioni iniziali e per avermi messo in così tanti tra le preferite in Senza Memoria fino a farla entrare nelle Più Popolari.

Grazie davvero, spero continuerete a seguire anche questa storia.

AxXx

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Annabeth ***


                                                Annabeth

 

 

 

 

Era il giorno del viaggio, le otto del mattino e stavo pilotando il mio fidato blackjack lungo la via ad ovest per pattugliarla in vista della partenza. Raggiunsi la collina all’estremo nord della città e mi fermai, prendendo il binocolo che portavo sotto il sedile. Uscii con il fucile e mi sdraiai a terra per osservare i silenziosi edifici della città, che ancora mi impressionavano.

Nell’auto avevo tutto il necessario per sopravvivere: pasti, un kit medico, una granata, un contatore geiger, gli attrezzi per riparare la macchina. Inoltre avevo con me un fucile di precisione ed una pistola, indispensabili per difendere me stesso da tutto ciò che si muoveva.

A distanza osservavo due gruppi di criminali si attaccavano a vicenda.

Accesi la radio.

“Nico? Mi ricevi?” Chiesi, dopo aver sintonizzato l’apparecchio sulla sua stessa frequenza.

“Percy, ti ricevo. La strada è libera, per domani?” Domandò, sollevato. Ogni volta che mi allontanavo di pattuglia lui e Bianca si preoccupavano da morire per me, così come mia madre.

Sorrisi, mentre rispondevo: “Certo, cugino. Due bande si stanno scontrando, presto torneranno a leccarsi le ferite, fino a domani la strada sarà libera.”

“Ottimo. Un ultima cosa: Michael non è ancora tornato, ma ha parlato di qualcosa, alla radio. Dice di aver incontrato gente.” Aggiunse. Lo sentii esultare piano dall’altra parte.

“D’accordo, vado a controllare.” Borbottai, fingendomi scocciato. “Saluta mia mamma per me.” Aggiunsi, prima di chiudere il contatto.

Scossi la testa.

Erano tredici anni che attendevamo di poter tornare a casa e godere di una vita degna di questo nome. Avrei fatto di tutto per portare la mia famiglia al sicuro.

Stavo per alzarmi quando un rantolo animalesco non mi trattenne.

I peli sulla mia nuca si rizzarono per il pericolo.

Con i miei riflessi, che negli ultimi mesi si erano sviluppati per i pericoli passati, estrassi il coltello da caccia che portavo alla cintura e lo piantai in testa all’infetto che stava per saltarmi addosso.

Ansimai per lo spavento e la scarica di adrenalina.

La creatura giaceva ai miei piedi senza vita, ma non mi sarei mai abituato all’idea che quello, un tempo, era un uomo.

Trattenni il vomito e mi misi alla guida di blackjack, controllando la mia scorta d’acqua, mentre percorrevo veloce al massimo la strada che separava Dallas da Sherman.

Nonostante il caldo, il vento che soffiava da ovest rendeva l’aria più respirabile e non soffocavo come al solito. La zona non era stata interessata dalle radiazioni come altre, quindi non rischiavo di morire a causa loro.

Nonostante il termometro mi disse che c’erano circa trentacinque gradi l’aria era fresca e non mi dispiacque abbassare il finestrino, mentre guidavo.  

Seguii l’autostrada per settantacinque chilometri a nord fino ad arrivare ad una cittadina in rovina, non diversa da molte altre che avevo visto. Gli edifici erano mezzi crollati, con colonne sventrate.

Seguendo la strada principale, raggiunsi la piazza principale ed individuai il negozio del padre di Micheal, dall’altra parte della strada. Stavo per scendere quando un colpo di fucile raggiunse il vetro corazzato del mio veicolo.

“Che cavolo!?” Strillai, riparandomi e afferrando la pistola, caricandola.

Avevo poche munizioni, ma non potevo non usarle.

Vidi Michael farmi dei cenni dal negozio: era armato, i capelli corti, neri, scompigliati e il viso da furetto, graffiato, come se fosse caduto su qualcosa di ruvido e duro. Indicò un edificio alla mia destra e lì vidi tre persone con in mano dei fucili.

‘Troppo lontani… dannazione.’ Sbuffai e presi la mia carabina.

Tre…

Due…

Uno…

Uscii dall’abitacolo rotolando sul terreno sabbioso e con una mossa velocissima puntai il fucile verso l’edificio e sparai.

Un corpo cadde in avanti mentre un urlo si disperdeva tra le strade.

‘Meno uno!’ Pensai, mettendomi a correre verso il negozio.

Alcuni proiettili aprirono i loro fori nell’asfalto, mentre passavo a tutta velocità. Fortuna che non avevano proprio una mira fantastica e io riuscii a sfuggirgli senza essere ferito. Sulla porta del negozio, però, rallentai e un braccio mi tirò di lato.

“Attento!!!”

Una ragazza dai lunghi capelli biondi mossi e gli occhi grigi mi aveva tirato di lato, proprio, pochi istanti prima che un proiettile mi si piantasse nella nuca.

“Grazie… ma tu chi sei?” Chiesi, sorpreso. Cavolo se era bella.

Negli ultimi tempi non ci avevo mai pensato che una ragazza fosse bella. Con tutto quello che dovevamo affrontare non mi ero soffermato sulla bellezza di Bianca o Rachel o Talia. Invece appena la vidi quel pensiero mi attraversò, quasi come se l’idea stessa di bellezza si condensasse nel suo viso.

Scossi la testa.

Non era il momento.

“Si chiama Annabeth Chase, era inseguita da questa banda di criminali.” Spiegò Michael, abbassandosi, mentre un colpo di fucile partiva dall’esterno per passargli sopra la testa.

“E scommetto che tu ne hai approfittato.” Commentai ironico, mentre, mi posizionavo accanto a lui.

Sentii uno sparo accanto a me e vidi Annabeth con una pistola in mano: aveva colpito un altro uomo e mi stava guardando in modo strano, come se mi stesse passando ai raggi X: “Ci siamo incrociati per caso.”

Deglutii.

Meglio non mettersi contro di lei, se la sua mira era così precisa.

“D’accordo.. . Mchael, hai quei fucili?” Chiesi, sparando un altro colpo più per distrarli che per colpirli. Contai i proiettili: solo altri dieci, non andava bene, dovevo lesinarli.

“Sì… ma il mio furgone ha le ruote a terra.” Rispose, stringendo il suo fucile.

 

Cercai di dire qualcosa, ma non ne ebbi il tempo: una vampata di calore ci travolse e la porta sul retro fu fatta saltare da una carica esplosiva. Un uomo enorme, dall’aria minacciosa si fece avanti impugnando un fucile a canne pozze, calpestando il legno distrutto.

Michael e Annabeth erano stesi a terra storditi e anche io non me la passavo bene: alcune schegge mi avevano ferito al petto, forandomi il giubbotto, ma almeno non ero morto. Questo, però, sarebbe stato, presto, portato a compimento da quel tipo che mi stava puntando l’arma contro con un sorriso crudele.

“Fermo!”

Michael si era ripreso e aveva impugnato un coltello, saltando contro l’avversario pronto a pugnalarlo. Senza quasi muoversi, però, quello cambiò la traiettoria del fucile e sparò. Una rosa di proiettili trapassò il mio amico da parte a parte che fu sbalzato indietro dalla potenza del colpo.

“Michael!” Urlai, estraendo la pistola.

Fu un attimo.

Le nostre armi si incrociarono.

Lui sorrise trionfante, mentre una scarica di adrenalina faceva apparire come se tutto il mondo fosse immerso in un mare di miele.

I colpi partirono insieme.

Chius gli occhi, spaventato all’idea di venire colpito.

Pregai mia madre, Nico, Bianca, i miei zii e la ragazza, speranzoso che si salvasse ed affidai la mira al caso.

Per un attimo non seppi dire se fossi vivo o no, poi riuscii a muovere i muscoli degli occhi e mi resi conto di esserlo.

Il cuore mi batteva all’impazzata e sudavo freddo dalla paura. La mano che reggeva l’arma tremava, come tutto il corpo, devastato dalla scarica di adrenalina che mi aveva attraversato poco prima di sparare. La nuvola di piombo mi aveva mancato di pochissimo, creando un nugolo di fori alla mia destra. Il mio avversario, invece, non era stato così fortunato.

Un foro si apriva proprio in mezzo alla sua fronte, da cui colava un lento rivolo di sangue.

Mentre crollava a terra, mi accorsi che Annabeth era affiancata al corpo di Michael che era steso morente, accanto al bancone del negozio.

“Amico, no…” Mi avvicinai, ancora tremante, stringendogli la mano, mentre sentivo le lacrime pungermi gli occhi.

Lui sorrise.

“Non… preoccuparti, Jackson… sapevamo… che era pericoloso.” Borbottò, tossendo, mentre si teneva la ferita, troppo grave per essere medicata.

“Posso provare.” Insistetti, provando a tamponarla, con poco successo. “Non intendo lasciarti qui.”

“Non… puoi… fare… nulla.” Mi interruppe, scuotendo piano la testa. “Salutami mia madre.”

Furono le sue ultime parole, prima che i suoi occhi si facessero vuoti e senza vita.

Scossi la testa, mentre le lacrime uscivano prepotenti, incapace di trattenerle. Sentii Annabeth piangere anche lei, per quel ragazzo che le aveva salvato la vita, ma non avevamo il tempo di trattenerci.

Nonostante le lacrime, riuscii ad alzarmi e vidi che i saccheggiatori guidati da quell’uomo si stavano ritirando. Probabilmente avevano perso coraggio quando avevano visto morire il loro capo, ma sapevo che sarebbero tornati all’attacco.

Presi le chiavi del seminterrato che Michael teneva in mano.

“Grazie amico.” Sussurrai, distogliendo lo sguardo dal suo viso.

Non volevo che il suo sacrificio fosse stato vano, così caricai le armi e il suo corpo su blackjack e ripartii con Annabeth che ancora piangeva, nonostante cercasse di trattenersi.

“Mi dispiace… per il tuo amico.” Sussurrò, tra un singhiozzo e l’altro.

Sospirai e mi voltai verso di lei, asciugandole una lacrima solitaria: “Non è colpa tua… è stato quel bastardo a sparare. Ma ora è morto.”

Lei annuii poco convinta, come se qualcosa la preoccupasse.

Infatti, poco dopo, si voltò verso di me: “Lo sai che hai ucciso Crios Castellan, vero?”

“Castellan? Chi è? Non mi sembra di conoscerlo…” Borbottai, indeciso. In effetti il nome Castellan mi ricordava qualcosa, ma non riuscivo a collegarlo a nessuno dei miei ricordi precedenti alla mia prigionia.

“Allora ripassati storia contemporanea. I Castellan erano i capi della C.A.O.S. Dopo il disastro hanno iniziato a comandare bande criminali in tutto il mondo e ora, il loro capo, Cronos Castellan e suo figlio Luke, sono a capo di una pericolosissima banda diretta proprio qui.” Spiegò lei, in ansia.

“Come fai a sapere tutto questo!?” Chiesi sorpreso, mentre tutti i pezzi si allineavano. Ecco come mai quei nomi mi ricordavano qualcosa.

“Sono stata loro prigioniera da quando sono uscita da New York otto mesi fa. Il loro capo uccise tutti i miei amici, ma Luke sembrava… interessato a me. Così ottenne di avermi come… premio per la scorreria che avevano compiuto.” Dal suo tono compresi che non erano ricordi di cui amava parlare. “Una settimana fa mi hanno lasciata sola il tempo sufficiente per rubare una moto e sono scappata verso sud, ma Luke e i suoi uomini mi hanno inseguita.”

Aveva ricominciato a piangere in silenzio e io mi sentii il cuore stretto in una morsa. Le misi una mano sulla spalla per rassicurarla e lei chiuse gli occhi, rilassandosi di colpo.

“Non preoccuparti, io e il mio gruppo stiamo andando ad ovest. Non è sulla loro strada, non dovrai più preoccuparti.” Dissi convinto. Dopotutto Luke non poteva essere così stupido da inseguirci solo per quella ragazza.

Una ragazza molto bella, però.

“Lo spero, Jackson… lo spero davvero.” Disse, poco convinta, mettendo la sua delicata mano sulla mia.

 

 

 

 

Tornammo al ranch abbattuti e tristi. Non fu facile dire a Samantha Yew, la madre di Michael, che i figlio don ce l’aveva fatta, ma non ce ne fu bisogno.

Appena vide il corpo del figlio disteso sul retro del mio veicolo lanciò un urlo disperato, stringendolo a se, mentre lacrime pungenti come punte di ghiaccio le rigavano ritmicamente il volto.

Non riuscii a parlare e mi diressi all’interno, per parlare con i Grace e i miei, lasciando la donna e l’altro figlio, Malcom soli con il loro dolore, intuendo che qualsiasi mia parola non sarebbe bastata ad alleviare il loro dolore.

Appena arrivammo nella sala comune, mia madre mi strinse in un abbraccio soffocante.

“Percy, figliolo! Sei ferito? Stai bene?” Chiese con le lacrime agli occhi, accarezzandomi i capelli.

“Mamma… non sono ferito.” E non sto bene, aggiunsi mentalmente, senza dirlo ad alta voce.

Presentai Annabeth ai miei zia e a Gioven Grace, che la accolsero senza troppi problemi.

“Benvenuta nel nostro gruppo, Annabeth, non preoccuparti, non siamo dei criminali, come quei pazzi che ti hanno presa, nessuno ti darà fastidio, finché rimarrai.” Disse mio zio, con gli occhi stretti, come se stesse trattenendo le lacrime.

La morte di Michael aveva colpito tutti: era uno dei nostri più abili difensori e mi aveva accompagnato in decine di pattugliamenti, quando dovevo uscire. Molti gli dovevano la vita e saperlo morto, era come se avessero ucciso una parte integrante del nostro gruppo. Come se da casa tua sparisse qualcosa di particolare che la rappresentava. Magari non ci avevi mai fatto caso, ma ci tenevi, perché era come una parte di te.

“Grazie… io… sono… sono molto dispiaciuta per la vostra perdita. Mi ha salvato la vita.” Disse, tenendo lo sguardo basso. Mi resi conto che stava tentando di mostrarsi forte, nascondendo le lacrime.

“Lui conosceva i rischi. Li conosciamo tutti. Di questi tempi i pericoli sono tanti, ma non possiamo piangerci addosso. Dispiace a tutti, ma in questo momento dobbiamo prepararci alla partenza. Abbiamo già preparato la carovana che ci guiderà ad ovest. Jackson, vorrei che tu aprissi la fila con il tuo veicolo di pattuglia. I miei figli ci difenderanno con la jeep corazzata.”

Gioven Grace aveva parlato in modo freddo e distaccato, ma non lo biasimai: darsi da fare per diminuire i morti e mettere al sicuro la gente era il suo modo per sfogarsi, cosa che lo rese ancor più determinato a metterci tutti in salvo.

“Signor Grace, se posso, vorrei andare in testa al gruppo con Percy. So che non sembra, ma so combattere e so cavarmela nelle situazioni difficili. Voglio rendermi utile.” Propose, all’improvviso, la bionda, alzando gli occhi, ora pieni di determinazione, nonostante fossero ancora umidi.

 

Lui sembrò sul punto di protestare, ma poi ci ripensò e si voltò verso di me.

“Tu che dici, Jackson? Vuoi che ti copra le spalle durante il viaggio?”

Io la osservai, ricordando come era stata la prima a prendere l’iniziativa per il contrattacco, quando eravamo a Sherman.

“Sì… vorrei che venga con me.”

 

 

 

 

 

 

 

 

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

[Angolo autore]

Sono cattivo, vero?

Sì, so di essere cattivissimo, vi prego, non mi uccidete!!!! *Sguardo implorante*

Comunque, è arrivata Annabeth e, ovviamente, appaiono anche i cattivissimi della storia che vorranno sicuramente fare il sedere al povero Percy (Come se, nella mia storia non avesse già abbastanza problemi.)

Riusciranno Annabeth e Percy a mettersi insieme e a salvarsi insieme ai loro amici, con una banda ti terroristi spietati alle calcagna?

AxXx

PS: Grazie ancora per l’ottima accoglienza, vi voglio bene a tutti!!!! <3 <3 <3

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2473374