Serendipity

di asia_mia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1° ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2° ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3° ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4° ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5° ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6° ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7° ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8° ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9° ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10° ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11° ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12° ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13° ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14° ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15° ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16° ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17° ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18° ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19° ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20° ***
Capitolo 22: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


“Cosa ti manca?”
“Le sensazioni che non provo. Le cose che non faccio. Le persone che non incontro. Le vite che non ho.”
 (A. De Carlo)
 
 
«Io credo tu lo stia davvero troppo idealizzando, secondo me neanche ti piace. Tu non lo conosci poi così tanto.»

Eccolo il suo inconfutabile ed incontrollabile lato da psicologa che sbuca fuori ogni volta ed è più forte di lei, come il suo giudizio, non richiesto e che pesa, per me, come un mattone nello stomaco.
Sottolinea quel “tu” con un certo tono di possesso, di rivendicazione, la mia Caroline, perché è lei che lo conosce il suo Damon e lo so che, dal suo punto di vista, lo fa per spronarmi ma mi infastidisco lo stesso.
Lo so che lo conosce da quando erano bambini, che lei stravede per lui e lui lo stesso, che sono molto simili, che attaccano e si difendono allo stesso modo. So che io e lui siamo i suoi due migliori amici e che, forse, quello che non dice è che un po’ le da fastidio il rapporto che sta nascendo tra me e lui, perché si sente un po’ lasciata fuori, un po’ spettatrice invece che protagonista come è sempre stata tra di noi.
Poi continua, come se il suo tono freddo, stanco, quasi irritato dalla mia solita aria da donzella innamorata che si limita a sognare in silenzio e non ha il coraggio di vivere le sue storie e andare mai fino in fondo, non fosse abbastanza.

«Scusa cosa ti piace di lui, Elena?»

E io non lo so, mi si annebbia il cervello quando me lo chiede, o forse lo avevo già spento da quando ha intrapreso quel discorso, mentre mi riaccompagna a casa in macchina, all’una di notte, dopo un compleanno di un nostro amico a cui eravamo state invitate.
Perché come si fa, come si fa a spiegarle quello che provo quando lui mi guarda con quegli occhi di ghiaccio che mi entrano dentro e invece mi scaldano, come faccio a spiegarle cosa mi succede dentro quando mi sfiora la guancia con le labbra per salutarmi e fa scivolare un braccio intorno alla mia vita in una stretta naturale ma voluta, quelle fitte al cuore e allo stomaco quando mi sfiora per caso o lo vedo arrivare e mi sorride appena, imbarazzato ma con quella sua aria spavalda che usa sempre per mascherare le emozioni, perché noi non ci tocchiamo mai davanti agli altri, se non per caso, non ci baciamo mai, se non sulla guancia, non esprimiamo niente, se non in quel modo. O magari è lui che non esprime niente, perché non prova niente, mentre io, io esprimo tutto.
Come faccio però a spiegare cosa ho provato quando sul divano di casa sua, dopo il nostro primo bacio, mi ha abbassato il vestito che aveva scoperto gran parte della mia coscia, sistemandolo, in modo da segnare un confine che al momento sapeva di non poter oltrepassare, non con me.
Come faccio a dirle che mi piace come mi fa sentire, che mi piace il suo modo di fare, di giocare, di scherzare con me e anche di prendermi in giro, come si fa a spiegare una sensazione, un’emozione del genere?
Non si può e se si può, io non ne sono in grado in questo momento.
Per questo resto in silenzio, dandole la sensazione di aver ragione e forse ce l’ha davvero.
In fondo, non lo conosco bene, so di lui tramite ciò che lei mi ha sempre raccontato, tramite ciò che ho visto e vissuto in questi pochi mesi, da quando Klaus l’ha lasciata e abbiamo iniziato ad uscire con Damon e il loro gruppo di amici d’infanzia.
Non lo conosco come lo conosce lei, non lo so com’è quando si arrabbia con qualcuno, quando lavora, quando guida, quando parla al telefono con i suoi genitori, quando accompagna a calcio il suo fratellino, quando ha avuto una brutta giornata o ha ricevuto una bella notizia.
Non lo so com’è quando è a casa da solo e si annoia, non lo so cosa fa per ingannare il tempo, cosa guarda in tv, che musica ascolta, che posti frequenta, se è gentile con gli estranei.
So solo che a me piace lui, con me.
Mi piace come mi sento quando c’è lui, cosa scatena dentro di me, ciò che mi provoca, mi piace la sensazione di essere viva, di essere vista, mi piace lui quando è con me, solo con me, in quei pochi giorni in cui lo siamo stati, prima di arrivare a baciarci e nei giorni successivi, in cui ci siamo visti e sentiti, seppur saltuariamente.
Tutto questo però probabilmente non basta per dire che mi piace davvero, per scacciare via l’incertezza che mi piaccia solo quello che potrei avere e le sensazioni che mi da, perché lo so che lui non vuole una storia, mi è stato chiaro dall’inizio e allora cosa sto facendo, chi sto rincorrendo?
Abbasso lo sguardo e sospiro confusamente.

«Non lo so…» rispondo solamente.





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Salve a tutti!
Eccolo qui.. quello che è uscito fuori dalle mie dita e dalla mia testa dopo mesi che seguo le vostre storie e vivo delle loro emozioni.
Volevo restare spettatrice e ho impiegato molto tempo per familiarizzare con tutto questo, per trovare lo spunto che desse il via alla mia avventura, che forse resterà in questo prologo o forse andrà avanti.. ho attinto in me e ogni parola è venuta fuori da sola e di getto nel giro di pochissimo tempo.
E' una piccola parte che dentro di me ha già una storia e spero di riuscire a portarla avanti, anche con il vostro sostegno!

Intanto, Grazie a chiunque dedicherà anche solo un minuto del proprio tempo.

Ale_

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Capitolo 2
*** Capitolo 1° ***


"Avevo fame di cose vere, naturali, primordiali; avevo fame di amore. L'avrebbero mai capito gli altri?"
(Alda Merini)





Damon

 
 Infilo il casco e abbasso la visiera mentre salgo svelto sulla mia moto, nel garage sotto casa.
Questa mattina ho voglia di correre, di oltrepassare qualche limite che, in questi giorni, sto rispettando fin troppo diligentemente. Ho bisogno di sentire il vento sbattermi addosso e aprirsi al mio passaggio.
Non ho voglia di starmene chiuso nella mia seppur fantastica Camaro color azzurro e poi, la Pacific Coast, è bella da morire a 150 chilometri orari mentre l’Oceano ti sfreccia accanto.
Ho un appuntamento a San Diego, per chiudere un contratto con una nuova agenzia di viaggi che ho appena assorbito ed ero già in ritardo da quando ho messo piede fuori casa.
La mia domestica non arrivava e ho dovuto lasciare le mie chiavi di casa a Caroline, mentre mi urlava contro che sarebbe dovuta uscire anche lei tra breve e che dovevamo parlare.
Mi sono defilato velocemente, lasciandole un bacio sulla fronte e un sorriso colpevole ma sincero, lo so che ha un paziente tra poco e deve correre allo studio, ancor di più so di cosa vuole parlare, però non ho tempo, non ho voglia, non so cosa dirle, perché non so neanche io cosa stia succedendo, per questo le sto sfuggendo e lei lo sa.
Lei sa sempre tutto, sa anche quello che non dico e mi capisce meglio di chiunque altro, perché siamo simili io e lei, abbiamo gli stessi muri e gli stessi occhi per analizzare il mondo.
Non so cosa farei senza di lei, sarei davvero perso. Almeno così non sono solo con le mie stranezze, siamo in due ed è più facile.
Arrivo in ritardo all’appuntamento ma il tipo con cui devo firmare il contratto non me lo fa pesare, sa di non essere nella posizione adatta per farlo, mi fa accomodare sulla poltrona del suo ufficio, davanti a lui, il quale resta però dietro la scrivania, come a voler conservare almeno un po’, almeno fino alla fine, la sua autorità in quel posto e io lo lascio fare.
Ci accordiamo sulle ultime pratiche burocratiche, gli spiego ancora qualche dettaglio sulla nostra nuova collaborazione di cui sarò io a tenere le redini, poi firmiamo entrambi tutti i fogli che gli avevo già inviato per poterli leggere e concludiamo con una energica stretta di mano.
Mi passa simbolicamente il testimone per gestire questa sua, ora mia, agenzia di viaggi, che sarebbe altrimenti colata a picco, se non avessi deciso di investirci sopra ed ampliarmi in questa nuova zona di San Diego.
Esco da lì e faccio qualche passo in direzione della mia moto, che ho lasciato parcheggiata sul marciapiede. Respiro quella nuova aria di conquista, chiudendo gli occhi e allentandomi quella cravatta che mi sta soffocando.
Cerco il telefono che continuava a vibrare nella mia giacca da quando ero in moto, prima di arrivare.
Tre chiamate perse da Stefan, ovviamente.
Quando imparerà che lavoro sul serio io, non sto dietro una scrivania a non fare nulla tutto il giorno, o a rispondere di tanto in tanto al telefono, come fa lui, smistando telefonate per il suo capo e rintracciando fornitori per qualche pezzo di computer da riparare.
Salgo sulla mia moto e prima di infilarmi il casco lo richiamo.

«Hey, mi rispondi finalmente!» mi urla dall’altro capo del telefono.
«Stavo lavorando Stef. Che succede?»
«Ci vediamo da te stasera?»

Ero certo mi avesse chiamato per qualche stupidaggine di poco conto.
«Io stacco tardi e Ric forse torna dopo cena, quindi se vuoi venire da me, portati la cena, ho il frigo vuoto e non ho tempo di fare la spesa!»
«Ok! Sento le ragazze allora e ti aggiorno! Buona giornata!»
Mormoro qualcosa mentre lui ha già attaccato, lasciandomi con il telefono a mezz’aria.
Lo ripongo nella tasca della giacca che uso per andare in moto e che ora ho infilato e do gas, pronto a ripartire verso la mia di agenzia, stavolta.
 
 
«Ti ricordi Elena, vero Damon?» mi chiede Caroline entrando in casa mia con qualche birra in mano, che berremo solo io e Stefan, perché a lei non piace, con un Elena sorridente e ancora sulla porta, al seguito.
«Certo! Vieni, entra.»
La saluto con un bacio sulla guancia e noto quanto sia cambiata dall’ultima volta, non la vedo da un anno circa, da quando Caroline si è messa con Klaus e ha iniziato ad uscire con lui e i suoi amici, disertando un po’ me e le nostre serate a casa mia a non fare niente.
Ha i capelli più lunghi ora, più mossi, un fisico più longilineo e pieno e un’aria più matura, meno infantile ed insicura.
Ricambia tranquilla il mio sguardo e il mio sorriso, poi passa a salutare Stefan, allontanandosi da me.
Trascorriamo la serata a chiacchierare e a ricordare i vecchi tempi, di quando scendevamo giù nel giardino condominiale a giocare a calcio, a nascondino, a citofonare ai vari condomini e scappare subito dopo, non capendo che il videocitofono avrebbe rivelato comunque la nostra identità. Ridiamo a crepapelle ricordando uno dei tanti pomeriggi senza i miei genitori in casa, in cui io e Stefan chiudemmo Caroline e Bonnie a chiave nella mia camera da letto e le lasciammo lì, per più di tre ore. E’ Caroline a ricordarmi di quando mi trovò dietro al nostro palazzo, nascosto tra i cespugli con una ragazzina della palazzina di fronte, intento a sperimentare i primi approcci con l’altro sesso.
Mi ero dimenticato di quanto mi prese in giro e dei miei tentativi di vendicarmi, affibbiandole una storia con il ragazzino del secondo piano che, ignaro, veniva deriso da tutti non sapendone neanche il motivo.
Avevo scordato quanto ridessi insieme a loro, quanto non avessi preoccupazioni, quanto la mia vita fosse una strada immensa e fosse tutta lì, davanti a me e non dietro, come invece la sento ora.
Non ricordavo quanto volessi bene a quei due e a quel nostro gruppo, al cui appello stasera mancavano altre due o tre persone, tra cui Ric, che alla fine è venuto a vivere con me, quando ho deciso di non seguire i miei a Malibù e affittare il nostro vecchio appartamento per restare qui, e quanto, nonostante non glielo dica mai, loro lo sappiano e lo sentano quel mio bene.
Lo vedo dai loro gesti, dai loro sguardi, dal loro sentirsi a casa, in casa mia.
Volto lo sguardo per poggiare la mia birra, ormai vuota, sul tavolo alle mie spalle e quando torno a sprofondare sul mio divano, trovo lo sguardo di Elena, seduta sulla poltrona davanti a me, che mi fissa ma che ora sposta velocemente gli occhi su Stefan, che sta raccontando qualche altro aneddoto, di cui ignoro il ricordo.
Sono io questa volta a fissarla, di nascosto, curioso, divertito, guardo le sue gambe accavallate strette nei jeans e il suo modo di stare seduta, di lato, su un fianco, con un gomito poggiato sul bracciolo della poltrona e il mento sopra la mano.
Osservo la sua aria interessata, allegra, per le parole di Stefan, il suo sguardo vivo ma timido, il suo modo di toccarsi i capelli, scompigliandoseli e come le riscendono sul viso, dandole fastidio, tanto che è costretta a spostarli, distratta, con un cenno della mano.
Vedo il suo sorriso aperto e i suoi occhi, così diversi dai miei e mi rendo conto di non sapere quasi nulla di quella ragazza, se non le cose che mi racconta Caroline. So che è la sua migliore amica, che si sono conosciute a lezione di pilates, circa dieci anni fa, so che da allora hanno stretto un rapporto quasi simbiotico, che ora è diventato più maturo ma non si sono mai allontanate, se non per le loro solite e incomprensibili discussioni di amore e odio, volte a spronarsi l’un l’altra.
Penso al mio, invece, di rapporto con Caroline e a quello con gli altri due miei migliori amici, Stefan e Ric, che conosco da quando eravamo ragazzini, perché ho vissuto praticamente insieme a loro, all’interno di queste palazzine e di questo parco condominiale, che ne avrebbe di cose da raccontare, se solo potesse parlare.
Mi sorprendo a sorridere anch’io, al pensiero di tutte le marachelle che abbiamo combinato e che ancora ci legano, alla soglia dei ventisette anni.
«Allora, deciso per domenica?»
Caroline interrompe le mie riflessioni, cogliendo in flagrante il mio aver perso completamente metà della loro conversazione.
Quand’è che hanno cambiato discorso?
«Damon?»
«Non ho la più pallida idea di cosa stavate dicendo, ma sarà abolita qualsiasi attività proposta di domenica e in particolare di domenica mattina!»
«Sei il solito guastafeste!» mi ammonisce Stefan allargando le braccia, mimando un atteggiamento seccato che non gli appartiene.
«La mostra,» interviene Caroline notando la mia aria davvero confusa, che ho cercato di dissimulare con la mia reticenza.
«Ne avevamo parlato anche qualche giorno fa, vogliamo andare a vederla domenica!» mi spiega finalmente.
«No, no e ancora no! Una mostra, di domenica oltretutto! Mai e poi mai.»
Scuoto la testa in modo secco e deciso, non ho la minima intenzione di giocarmi il mio unico giorno libero per alzarmi presto, vestirmi e andare ad una mostra di cui non mi interessa nulla e di cui non capirò altrettanto niente.
La domenica per me è imprescindibilmente giorno di riposo, al massimo il giorno che dedico per andare a pranzo dai miei e stare con mio fratello.
«Ti prego Damon, fallo per me!»
E poi è lei ad intervenire e stavolta a puntare i suoi occhi castani dentro i miei, con una finta e divertita aria di supplica.
«Ultimamente Caroline è diciamo… un tantino intrattabile ed ha bisogno di svagarsi! Dammi una mano per favore o mi farà impazzire!»
Aggiunge un sorriso complice a quelle parole e ai suoi occhi di prima, che continuano a fissarmi, senza timore né imbarazzo.
Alzò gli occhi al soffitto con fare teatrale, più per toglierli da dentro i suoi.
«Non assicuro niente.»
Cedo, solo un po’, forse solo perché me lo chiede lei, con quel tono e con quello sguardo lì ma non lo ammetto e non glielo dico.
 
 
Non lo so perché mi vengono in mente questi pensieri in questo momento, mentre ancora sfreccio su questo asfalto rovente, all’una meno un quarto e il mio stomaco inizia a brontolare per la fame. Forse per le parole di Stefan al telefono, per il tono che ha usato dicendo sento le ragazze, così confidenziale e naturale, come se fosse scontato che fossero invitate anche Caroline ed Elena, perché in realtà da quella sera, ogni volta che ci siamo visti, c’erano anche loro due, quindi sì è un tono adeguato e che non stride.
Mi viene da sorridere al pensiero che, alla fine, non ci siamo più andati a quella mostra, che ci siamo visti nel pomeriggio in spiaggia e abbiamo giocato a beach volley. Li ho convinti ad andare un altro giorno, uno in cui non c’era un così bel sole nel cielo, tanto da rendere un sacrilegio restare al chiuso, anche per la mostra fotografica del secolo!
Non lo so se poi ci sono andati nei giorni successivi, loro non mi hanno più detto nulla e io mi sono ben guardato dal chiedere.
Arrivo nella mia agenzia e sprofondo sulla mia poltrona, dando un morso al panino che avevo comprato prima di entrare, nel bar accanto, dove pranzo tutti i giorni. Oggi, però, ho un bel po’ di lavoro da sbrigare e non ho tempo per intrattenermi con il proprietario, che ormai conosco bene e le cameriere.
 
 
 
 
Elena
 
 
Stamattina neanche il caffè è riuscito a svegliarmi, continuo a sbadigliare su questi libri che ho preso in prestito nella biblioteca in cui lavoro, per preparare il mio ultimo esame di lettere.
Dovrebbe essere l’ambiente ideale questo per studiare, lo è sempre, tranne oggi. Eppure passerei la mia vita qui dentro, con questo odore inconfondibile di libri usati, con questo silenzio, con il mondo a portata di mano se solo ci si prendesse la briga di curiosare tra questi scaffali.
Passerei la mia vita a studiare, fare ricerche, aggiornarmi, continuerei a riempirmi di nozioni, se non fosse che prima o poi dovrò metterle in atto, dovrò scegliere cosa farne.
Questo pomeriggio però, proprio non riesco a concentrarmi e questo ambiente proprio non mi aiuta. Ho passato la notte a pensare, rimuginare, fare riflessioni che ovviamente appena aperto gli occhi questa mattina, avevo già dimenticato e so che non dovevo, che non mi avrebbe fatto bene, né fisicamente, né moralmente. So che ne avrei pagato le conseguenze oggi e il mio stato in questo momento, è la mia punizione.
Mi sento spenta, confusa, assonnata e non posso chiudere gli occhi neanche per un secondo, perché se li chiudo, se mi distraggo anche solo per un attimo, lui mi esplode dentro. Inizio a vedere i suoi occhi, a sentire il calore che proviene dal mio cuore e dal mio stomaco e sale fino alle guance, inizia a mancarmi l’aria e non posso permetterlo.
Non posso permettergli di entrare così tanto, perché non ha senso, non ne ho diritto. Perché ho accettato questa relazione che non è neanche una relazione, ho accettato di vederci ogni tanto, quando lui ne ha voglia, perché io vorrei vederlo ogni santo giorno. Ho detto che mi andava bene, perché neanche io volevo una storia, ho ammesso che mi faceva piacere passare del tempo con lui e non volevo altro al momento, lui mi ha creduta, anche se è rimasto incredulo all’inizio, o forse ha solo fatto finta di credermi, perché un po’ mi conosce.
Mi sono mostrata per come non sono, io sono una da storie, da relazione, anche se ne ho avuta solo una nella mia vita, per qualche anno e poi niente, neanche piccole relazioni occasionali, mentre lui, lui ha avuto solo quelle.
L’ho accettata questa situazione che ha imposto lui implicitamente, perché ho bisogno di sciogliermi, di godermi un po’ questa vita che mi sta sfuggendo dalle mani, di fare esperienze, l’ho accettata perché ho paura di perdere anche lui e ritrovarmi di nuovo, come sempre, da sola.
Mi sforzo quindi di essere leggera e spensierata, per non cadere nelle mie profondità che non ho mai saputo gestire e che non mi hanno portato a niente fino adesso.
Per fortuna ho Caroline a distrarmi dai miei pensieri, con i suoi messaggi a tutte le ore ultimamente.
 
“Stasera ceniamo da Damon! ;) Vieni prima da me che prepariamo qualcosa da mangiare! Bacio!”
 
Come non detto.
Chiudo il libro che ho davanti agli occhi da mezz’ora ormai e lo ripongo nello scaffale.
Manca ancora un’ora alla fine del mio turno, quindi opto per un caffè e una passeggiata nel corridoio, forse un po’ d’aria mi farà bene.
Arrivo da Caroline poco prima delle otto, con due buste della spesa, contenenti sfoglia fresca, carne, patatine, bibite e verdure varie.
Prepariamo un po’ di lasagna in bianco, con pesto e zucchine, insalata di pollo e qualche stuzzichino veloce.
Posizioniamo tutto in contenitori di plastica e ci prepariamo per uscire e dirigerci nella palazzina di fronte, appartamento 2B, primo piano.
Non tiriamo fuori nessun discorso, nessuna domanda a cui io non saprei rispondere.
Solo un suo sguardo, prima di suonare il campanello, che mi fa capire che lei c’è, che dietro a quella superficialità con cui abbiamo preparato la cena per i suoi amici e per il mio amico un po’ particolare, dietro a quelle risate fresche e genuine, lei è comunque con me e mi sostiene.
Le sorrido, perché lo apprezzo e perché in fondo noi due non abbiamo bisogno di molte parole, ci sentiamo dentro, io, lei, ce l’ho legata addosso.
«Qualcuno ci aiuti per favore!»
Caroline è entrata con entrambe le mani impegnate a sostenere il contenitore con la pasta e le bibite, mentre a me è toccata l’insalata di pollo e gli stuzzichini.
Stefan si prodiga subito per aiutarla e portare la pasta in cucina, Damon aiuta me.
Ci dirigiamo tutti e tre in cucina e quando Caroline si affaccia per entrare anche lei, mi guarda incerta e fa marcia indietro, trascinando Stefan con sé con la scusa di sistemare le bibite sul tavolo.
Io e lui restiamo soli e solo adesso riesco a guardarlo finalmente negli occhi, quegli occhi così tanto azzurri che mi investono.
E’ un istante, lui si avvicina un po’ troppo, con il suo sorriso pieno, che sto imparando a riconoscere quando è per me, perché mi manda completamente in confusione e con i suoi occhi, che mi entrano dentro disorientandomi e non so di chi sia stata l’iniziativa, se sua o mia che ho azzerato la distanza con un passo, ma mi ritrovo a cercare le sue labbra, in un bacio veloce, rubato ma che brucia dentro come fuoco.
Solo un attimo, tanto per uscire da quella cucina con addosso un sorriso che sa di lui e che so dovrò farmi bastare per il resto della serata.
«I miei complimenti alle cuoche! Anche se non sono davvero così sicuro che sia stata tutta farina del vostro sacco!»
Damon si complimenta con noi a fine cena, alla quale si sono poi aggiunti anche Bonnie e Ric, arrivati insieme mezz’ora fa, ostentando la sua solito sarcasmo che non tarda ad emergere.
«Sei un cafone! Ti abbiamo sfamato e metti anche in dubbio la nostra arte culinaria!» lo rimprovera piccata la mia amica.
«Se non vedo non credo, lo sai Care. Ciò non toglie che il risultato fosse comunque ottimo!»
«Siamo perfette donne da sposare, ammettilo!»
Caroline gli fa una smorfia divertita e io rido a quella battuta, gettata lì neanche tanto per caso, anche Damon ride e le stampa un bacio sulla guancia, passandole un braccio intorno al collo.
«Te l’ho sempre detto che se a trent’anni sei ancora single ti sposo io! Così i nostri genitori saranno felici e contenti e la smetteranno di assillarci su quando abbiamo intenzione di mettere su famiglia!»
Un po’ mi infastidisco a quella battuta, forse mi secca il suo tono, i suoi atteggiamenti amorevoli con lei, perché li vorrei per me, la loro complicità, il loro legame e la loro storia, in cui io non posso entrare e mi si spengono un po’ il sorriso sulle labbra.
Li osservo un attimo prima di voltare lo sguardo su Ric che sta iniziando a sparecchiare.
«Per me va benissimo! Posso addirittura lavare, cucinare e mettere in ordine, sono bravissima, neanche sporco più di tanto! E hai il mio permesso per frequentare chiunque tu voglia, ovvio!
Sarà un matrimonio assolutamente libero! Meglio di così!»
Ed eccola la mia Caroline che c’è, che mi spiana la strada e mi fa l’occhiolino maliziosa, riappropriandosi del mio sguardo e della mia attenzione. Io le sorrido complice.
Ci trasferiamo tutti sul divano per il resto della serata, dopo quella cena in cui mi sono sentita un po’ a disagio, perché non riesco ad essere me stessa, perché ciò che provo e la parte che sono costretta a recitare, non collimano, eppure ci provo lo stesso, ci provo ad apparire adulta e sicura di me.
Nel frattempo, Stefan e Ric, ignari di tutto il doppio senso che aveva preso la conversazione poco fa, insistono per organizzare un week end al mare, nella casa a Santa Monica di Caroline, cosa già avvenuta circa un mese fa, in cui ho segnato l’inizio delle mie elucubrazioni su Damon.
«Ragazzi per me va bene! Ma dobbiamo fare i conti con i miei, in fondo la casa è loro.»
«Vediamo se c’è qualcosa in programma a Santa Monica per il prossimo week end! Dai Damon prendi quel portatile!»
Bonnie prende in mano la situazione, incitandolo a rendersi operativo e lui la asseconda, seppur svogliatamente, così lei comincia a cercare qualche mostra, intrattenimento o concerto in quei giorni, con un Damon che continua a blaterare sul perché non si possa restare tranquillamente in casa o in piscina!
Finalmente trovano qualcosa, Caroline e Bonnie sono accanto a Damon, seduto sulla poltrona di pelle nera, una a destra l’altra a sinistra e sembrano entusiaste. Mi avvicino anch’io per curiosare e faccio il giro della poltrona, decidendo di prendere posto dietro di lui, in modo da dovermi sporgere in avanti per guardare sul suo portatile posizionato sulle sue gambe.
 
 
 
 
Damon
 

Non so se l’abbia fatto volontariamente ma mi sta sfiorando il viso con i suoi capelli, sento il suo braccio poggiarsi sulla mia spalla in modo naturale, disinvolto e premere leggermente per sporgersi in avanti. Il suo viso è tanto vicino al mio che, se mi voltassi appena, lo urterei e lei sembra non accorgersene, non mi rivolge mai lo sguardo, inizia a parlare con le sue due amiche, ignorandomi.
Per tutta la sera mi ha quasi evitato, ha scherzato con tutti, si è mostrata gentile e disponibile, ha anche sorriso insieme a me ma mai a me.
E non lo capisco se davvero le va bene così, come ha affermato la sera dopo a quella in cui l’ho baciata, per quel poco che la conosco non è una da portare a letto ogni tanto, cosa che non ho neanche fatto ancora, o da chiamare quando si ha voglia di uscire, solo perché non si ha niente da fare. E’ più una ragazza da storia seria e io, sinceramente, non so proprio neanche come si inizi una storia così, quindi, egoisticamente, non me la pongo proprio la questione e, in fondo, se anche a lei vada bene così oppure no, non è un mio problema.
Solo che adesso, è un mio problema il fatto che mi sia così vicina, che continui a parlare e a sfiorarmi, che continui ad emanare quel suo odore di vaniglia misto a quello dello sciampo al cocco che usa per i capelli, perciò sono costretto ad alzarmi, con una scusa e defilarmi in cucina.
Devo riappropriarmi di quella lucidità che lei è riuscita a far perdere al mio corpo e ai miei sensi nel giro di cinque minuti.
Apro il frigo e vorrei infilarmici dentro, ne resto ad osservare l’interno, come se potessi trarne una qualche ispirazione o soluzione al mio sconvolgimento fisico, quando sto per richiuderlo la mia situazione peggiora.
«Hey…»
Elena è lì, con in mano il vassoio delle patatine, vuoto.
«Hey.»
Prendo tempo, afferro una birra e chiudo lo sportello del frigorifero.
«Che fai?»
Sto raffreddando i miei ormoni per colpa tua che, tra parentesi, continui ad indossare quest’aria ingenua che non so quanto ti si addica davvero.
«Sto prendendo un’altra birra, ne vuoi?»
«No, grazie. Non amo la birra.»
«Elena Gilbert, non bevi, non fumi, non dai confidenza agli sconosciuti… ce l’hai qualche difetto?»
Le sorrido con il mio sorriso impertinente e provocante ma lei mi ricambia con uno vero, pulito.
«Forse, però se te li svelo poi non vorrai più vedermi.»
E’ maliziosa mentre me lo dice e mi piace, tanto da concludere quella inutile conversazione e andare dritto al sodo.
«Resti da me stasera? Ric dovrebbe dormire fuori.»
La spiazzo, lo vedo dal suo sguardo che cambia, si irrigidisce, si allontana, anche se non si è mossa di un millimetro, anche se non stacca i suoi occhi dai miei.
«Domattina devo attaccare presto.»
Non mi risponde, so che è un no, però non riesce a dirmelo, non riesce a correre il rischio di essere sincera, preferisce essere gentile e nascondersi dietro la sua aria perfetta, questo l’ho capito fin troppo bene.
Tuttavia non la capisco, non lo capisco cosa vuole da me, mentre invece io lo so cosa voglio da lei e lo sa anche lei.
Le faccio un cenno di assenso col capo, resto al suo gioco, accetto quel suo rifiuto e lo mando giù con un sorso di birra.
Me ne sto per andare, per tornare in salone dagli altri quando la sento continuare.
«In caso domani…»
Ci prova, ci prova a rimediare, con un tono quasi di scuse ed insicuro, come se sentisse di dovermelo, non so per quale motivo.
«Non so se ci sono, ci sentiamo se mai.»
La tengo sospesa, voglio farla sentire respinta anch’io, poco importante e sono più distante e freddo di quanto vorrei, di quanto lei meriti, perché in fondo è solo il mio orgoglio che continua a ferirsi con lei, io resto integro.
Torno dai miei amici, lasciandola lì e vedendoli già pronti per tornare a casa. Mi sono perso tutta l’organizzazione del fine settimana al mare e so già che me ne pentirò amaramente perché, mentre mi salutano, Caroline mi ricorda di non prendere impegni e di non fare il guastafeste come sempre.
La schiena, le lunghe gambe strette in quegli stessi jeans che indossava quando l’ho rivista la prima volta dopo tanto tempo e i suoi capelli un po’ scompigliati, sono l’unica cosa che vedo di Elena, prima di chiudere la porta di casa e restare da solo nel mio appartamento.







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Di nuovo qui, anzi, inizio da qui.. perché ormai tutte quelle immagini e dialoghi non riuscivo proprio più a contenerli!
Per prima cosa vorrei ringraziare le parole meravigliose con cui sono stata accolta e ammettere di aver sottovalutato da lettrice il potere di recensioni, visioni e quant'altro. Danno emozioni davvero intense ed è davvero bello leggervi.. quindi ancora Grazie.

Passando alla storia, è un inizio breve, leggero in qualche modo, in cui si intravede un minimo di rapporto, che però ancora non spiega come ci sia arrivato lì, ci sono pensieri, scorci sulla vita personale di entrambi e sulla loro visione della relazione - non relazione. Ma vorrei lasciar parlare loro, presentarsi da soli, nei prossimi capitoli.
Riguardo location e parentele forse dovrei precisare che siamo a Los Angeles (perchè adoro la California) e che sono tutti amici, Damon e Stefan non sono fratelli ma migliori amici. Damon ha un fratellino più piccolo che non fa parte della serie tv, mentre Elena ha Jeremy che apparirà in seguito.
Uso i nomi e i loro volti ma nella storia, le loro vite sono completamente diverse, così come in parte i loro rapporti e le età.

Per ora credo di aver concluso...anche questo capitolo è venuto fuori di getto, forse non è completamente legato al prologo ma è consecutivo e di passaggio. Ve lo lascio quindi così..per poter lavorare su quello successivo.

A presto.
Ale_

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Capitolo 3
*** Capitolo 2° ***


“L'anima vola
le basta solo un po' d'aria nuova..
Se mi guardi negli occhi
cercami il cuore, non perderti nei suoi riflessi.
Non mi comprare niente,
sorriderò se ti accorgi di me fra la gente...
 
Un bacio è come il vento,
quando arriva piano però muove tutto quanto.
E un'anima forte che sa stare sola
quando ti cerca è soltanto perché lei ti vuole ancora…”
 
(Elisa_L’anima vola.)

 
 
 
 
 

Damon

 
 
«Cioè ti ho appena baciata e già pensi di voler scappare?»
Lei mi guarda con i suoi occhi grandi, che ora lo sono forse ancora di più, perché ci leggo dentro tutte quelle emozioni che lei non vuole farmi vedere ma che riesco a vedere lo stesso, la paura, la confusione, la sorpresa.
«Non lo sto pensando, ho solo detto che faccio sempre così.» mi dice ma io la guardo con il suo stesso sguardo confuso.
«Quando qualcuno si avvicina troppo a me, scappo.»
Io sorrido per la sua schiettezza e per l’ingenuità con cui mi dice quelle parole, con cui si difende e mette le mani avanti, dopo un momento del genere.
In genere sono io quello che scappa, che non ha mai avuto relazioni, che non le cerca e non le vuole, come in questo caso, però mi piace stare in sua compagnia, ci divertiamo e stasera mi andava di baciarla.
Perché è bella in quel suo vestito di lana grigio che la avvolge e non lo sa, non ne è consapevole di quanto sia donna ed è diversa da tutte quelle che ho sempre frequentato, è intelligente, forte quando vuole, capace ed ingenuamente seducente, forse per questo mi fa piacere, ogni tanto, averla intorno.
«Non ti ho mica chiesto di sposarmi Elena!» le dico per smorzare in qualche modo la sua ansia e la tensione in cui è caduta, di nuovo.
Lei sorride, con quel suo sorriso aperto e sincero ma non mi guarda, non ce la fa, però capisco che ha abbassato di qualche metro il muro che aveva alzato.
Così mi avvicino di nuovo, le volto il viso verso di me poggiandole un dito sulla guancia e ritrovo i suoi occhi. E’ lei stavolta ad avvicinarsi di più e a sfiorarmi le labbra.
Mi porto sopra di lei, stendendola sotto di me, sul mio divano, continuando a baciarla piano e a non toccarla come invece vorrei, come avrei già fatto se fosse stata un’altra.
Perché lei è la migliore amica della mia di migliore amica e non posso fare casini, non avrei dovuto fare neanche questo di casino, eppure è stata lei a lasciarmi il suo numero la prima volta, per gioco, però l’ha fatto e io l’ho chiamata per uscire una sera, dopo cena.
L’ho chiamata il giorno di Natale, perché non avevo più voglia di stare con i miei, di stare a casa a giocare con mio fratello al nuovo gioco della Xbox che gli avevo regalato, volevo andare a fare un giro, magari con lei. Solo che lei ha una famiglia che è davvero famiglia e il giorno di Natale lo trascorrono insieme, fino a notte tarda, giocando a carte, mangiando, scartando regali, vedendo quei film natalizi che a me, invece, fanno venire le bolle. E’ stata lei la prima a dare buca a me, proponendomi però di vederci la sera dopo, cosa che abbiamo fatto e poi ancora qualche sera dopo, fino a questa.
Ed è stata ancora lei a proporre di restare a casa mia questa sera, perché non le andava di uscire, aveva avuto una brutta giornata e voleva solo guardare un film. Le ho proposto un’intera memoria esterna piena di film scaricati e ne abbiamo scelto uno, di cui lei aveva visto solo l’inizio e io solo la fine. Ci siamo seduti su questo divano, uno vicino all’altra, con gli occhi fissi sul teleschermo fino quasi alla fine del film, commentando di tanto in tanto qualche scena.
Poi un’enorme nuvola di fumo, proveniente da fuori la mia finestra, ha attirato la nostra attenzione e ci siamo alzati per capire da dove arrivasse. Lei sembrava davvero preoccupata mentre a me di quel fumo non importava nulla, volevo solo trovare un pretesto per avvicinarmi a lei.
Le ho passato un braccio intorno ai fianchi mentre guardavo fuori, fingendomi preoccupato anch’io e l’ho sentito quando impercettibilmente si è tirata indietro.
E’ bastata la mia mano per farla allontanare e risedersi sul divano, simulando una tranquillità che non provava.
Io non sapevo se lei fosse consapevole di cosa sarebbe successo proponendomi di restare a casa, se fosse intenzionale la sua richiesta, se sapeva a cosa saremmo andati incontro o se davvero fosse solo stanca e non le andasse di stare fuori.
Lo sguardo che aveva, però, scostandosi da me, credo fosse la risposta alla mia seconda ipotesi.
Ormai però eravamo qui, lei è una donna, anche se non si sente ancora tale, io sono un uomo che non si è mai lasciato sfuggire un’occasione del genere. Come se non bastasse lo sa lei e lo so anche io che siamo attratti l’uno dall’altra, almeno quel poco che serve da voler approfondire un po’ di più il nostro contatto, così decido di spingerla ad oltrepassare un po’ quel limite che sembra essersi imposta da sola e ad andare quel po’ oltre, per sbloccare una situazione che vuole sciogliere anche lei, anche se non lo ammetterà mai.
E’ per questo che mi sono seduto vicino a lei e le ho passato un braccio intorno alla testa, posandolo sulla spalliera del divano a cui eravamo poggiati.
Lei è rimasta a fissare quel film, di cui ormai avevamo completamente perso il filo, ferma ed immobile, come se stesse decidendo cosa fare di me e di quella situazione che, forse, davvero non aveva ingenuamente previsto. E’ stata lei però subito dopo a spiazzarmi, a voltare il viso verso di me alzandolo per potermi guardare fisso negli occhi e io non ho resisto, non ho resistito più dal non baciarla.
Non ho approfondito il bacio, un po’ perché lei non me lo ha permesso, un po’ perché sapevo che avrei potuto perdere anche quello di contatto, facendola di nuovo tirare indietro.
Sa di buono, di fresco, di morbido, Elena.
Quando mi allontano leggermente per studiare la sua reazione, lei con ancora il suo respiro addosso a me, se ne esce con la storia delle sue paure.
Mi dice di aspettare, di aver paura di aver fatto un casino, che adesso rovinerà tutto perché si allontanerà.
Per un attimo ho pensato di star sognando, di aver perso qualche pezzo, come il mio solito. Sono rimasto allibito dalla sua reazione, ci ho messo un attimo in più per riprendermi dalla sorpresa e riuscire a concentrarmi su di lei.
L’unica domanda che mi è venuta da farle, era quella che mi frullava per la testa da quando ha iniziato a parlare.
Per fortuna, probabilmente, il mio tono e il suo essersi resa conto che, forse, quella conversazione non era con me che doveva farla e sicuramente non in quel momento, l’hanno riportata a me e a questo bacio che sono riuscito a rubarle, sdraiandola su questo divano.
E ora sono sopra di lei, inizio a sentire com’è il suo corpo sotto al mio, come risponde alle mie mani che lo sfiorano, come i suoi occhi si riempiono di desideri che non osa confessare neanche a se stessa.
Approfondisco di più quei baci prima leggeri ora più intensi che ci stiamo rubando, che lei ruba a me perché davvero non credeva di poter arrivare ad uno come me e io, li rubo a lei, che non mi aspettavo me lo avrebbe mai concesso. Non così velocemente, non ubbidendo a questa chimica che entrambi abbiamo sentito esplodere dal primo istante in cui i nostri occhi si sono incontrati, a cui sono sinceramente rimasto sorpreso anche io, perché non me lo aspettavo, non mi aspettavo che una come lei, potesse volere uno come me.
Continuo a muovere le mie mani su di lei, sulle sue gambe, sui suoi fianchi, scivolando sulla sua schiena, che lei inarca leggermente per permettermi di muovermi liberamente.
Lei mi circonda il collo con le sue braccia e le infila fra i miei capelli, ai quali ogni tanto sento che si aggrappa quasi a volersi controllare.
Quando sono io a non riuscire più a farlo, rallento, mi fermo piano, regolarizzo i miei respiri restando tra l’incavo del suo collo e la sua spalla, lei mi accarezza leggera.
Mi sposto da sopra il suo corpo e mi sdraio accanto a lei, lei ha gli occhi vivi, pieni, le gote ancora rosse e una gamba piegata che le ha fatto salire ancora di più quel suo vestito, che sono certo non abbia indossato a caso.
Se c’è una cosa che ho imparato sulle donne è che tutto ciò che indossano, non è mai per puro caso, soprattutto se hanno un appuntamento o devono vedere un uomo, amico, amico con benefici, amante, o fidanzato che sia.
Glielo abbasso con un gesto intenzionalmente studiato, riportando a coprire la sua coscia, che poi le accarezzo distratto prima di staccare la mano da lei e portarla distesa lungo il mio fianco.
Non parliamo, restiamo così, con lei sdraiata sul mio braccio dietro la sua schiena e io con la mia poggiata sui cuscini del divano, lo sguardo basso, un sorriso appena accennato, rilassato.
«Mi piacciono questi quadri, li hai scelti tu?»
Non lo so se lo fa perché realmente le interessa o per riempire quel silenzio che si era creato e che a me, non dispiaceva.
«Li hanno lasciati qui i miei, quando si sono trasferiti a Malibù.»
«Perché non sei andato con loro?»
Si volta completamente verso di me, poggia la testa sul mio braccio, che lascio scivolare un po’ più in alto per accoglierla.
Si rannicchia un po’ mentre punta i suoi occhi, adesso dolci e meno spaventati, su di me. Io resto fermo, con la schiena ora completamente poggiata sul divano e il viso rivolto verso il soffitto.
«Perché avevo appena iniziato ad ingranare con la mia agenzia e non volevo lasciarla.»
«Soltanto per lavoro, quindi?»
Solo a quel punto mi volto, ruoto la testa verso di lei, mantenendo distanza con il mio corpo che invece resta al suo posto. Ritrovo il suo sguardo a pochi centimetri da me e sento il suo respiro arrivarmi addosso, mi fa uno strano effetto averla così vicina.
Uno strano effetto di intimità che non conosco.
«Forse è meglio se ti riaccompagni a casa, prima che si faccia tardi.»
Dico, cancellando quelle sensazioni e quella domanda che ha colto nel segno ma a cui preferisco non rispondere, perché dal tono in cui la pone, so che non ci crede neanche lei che sia stata solo una scelta lavorativa.
Mi sforzo di dare alle mie parole un tono gentile, accompagnandole con un sorriso sincero, per compensare il modo in cui la ignoro.
Lei mi sorride di rimando, comprensiva.
Annuisce lieve e si sposta da me, inizia ad alzarsi, lasciando il mio braccio in cui poggiava la sua testa, vuoto.
«Ok, andiamo.»
 
 
 
Ripenso a quella sera per provare a darmi una spiegazione per quei suoi sbalzi d’umore, per quei cambiamenti repentini, per quell’incongruenza tra i suoi desideri e le sue parole. Ci penso per provare a capire il perché dei nostri incontri successivi, a casa mia, in cui lei, dopo qualche ora passata a chiacchierare davanti a programmi televisivi che non interessavano a nessuno dei due, ogni volta, si tirava indietro. Tirava fuori la scusa che doveva tornare a casa, che doveva alzarsi preso il mattino dopo o che semplicemente, non poteva. Allora io dovevo sforzarmi di riprendere il controllo di me, di ingoiare quei desideri, quelle reazioni del mio corpo che mi stavano mandando fuori di testa e lasciarla andare.
Ci ripenso anche per provare a dare una risposta alla domanda della mia migliore amica che, in questo istante, mi sta guardando con i suoi grandi occhi, color del mare, sgranati e puntati in attesa su di me.
Mi ha incastrato, presentandosi a casa mia, questa sera, con una birra per me, una coca cola per lei e una busta di cioccolatini, che abbiamo quasi finito ancor prima di sederci su questo divano e iniziare a parlare.
«Allora, cosa sta succedendo tra te e Elena?» mi ripete, bevendo un sorso della sua coca cola.
«Se dobbiamo affrontare questo discorso, preferisco un bicchiere di bourbon!» le dico alzandomi, prendendo tempo.
Apro la credenza, di fronte al divano, in cui tengo le bottiglie degli alcolici e verso del bourbon in un bicchiere, infine torno a sedermi, portando la bottiglia con me.
«Non lo so, Care. Io non la capisco e sicuramente è colpa mia, non dovevo baciarla ma…»
«Damon non cominciare.» mi ammonisce subito.
«Non cominciare a fare cosa?»
«A darti colpe. Elena non ha cinque anni, se si è spinta fino a qui vuol dire che lo voleva anche lei, non l’hai costretta a fare nulla.»
«Ok, però allora, se non vuole spingersi oltre, perché continua a venire da me? Perché non me lo dice chiaro e tondo?»
«Damon a te piace stare con lei?» mi rigira la domanda, ignora le mie, non vuole rispondere, non vuole prendere le parti di nessuno, né darmi risposte che dovrebbe darmi lei, usa le mie stesse tecniche e non posso non avere un moto di orgoglio per la mia amica.
«Certo, altrimenti non ci starei lo sai, mi fa piacere passare del tempo con lei, però… ho la sensazione che si sia impuntata, che sia un puntiglio il suo, un principio da mantenere per non scalfire questa aria da brava ragazza, come se fare qualcosa di istintivo e coraggioso per seguire quelli che sono anche i suoi di desideri, sia per lei sinonimo di sgualdrina. O sia necessariamente sbagliato e non vada bene.»
E stavolta vedo Caroline titubare, sorpresa. L’ho spiazzata dalla mia analisi, lo vedo dal suo sguardo che si allarga, sa che ho ragione, che sono arrivato prima di lei ad una conclusione su quella che è, invece, la sua di migliore amica.
«Che fai mi rubi il mestiere?» mi risponde divertita ma consapevole di quanto io abbia centrato il punto.
«Ha solo paura Damon,» continua in tono più delicato. «E’ qualcosa di nuovo anche per lei, che sta imparando a gestire e capire. Neanche lei sa davvero bene cosa vuole.»
«Si ma lei mi chiede cose che io non so dare e lo sento. Lo sento che vuole altro, lo capisco da come si allontana, da come ha paura anche di toccarmi, dalle cose che dice. Lei vuole sicurezza, vuole un rapporto da costruire, io non sono capace.»
Continuo a ribattere, nello stesso modo in cui mi incalza lei ma, stavolta, abbasso lo sguardo, quasi ferito, so di potermelo permettere con lei, perché li ha già visti i miei occhi scurirsi, mi ha già visto anche molto peggio di così.
Sono però consapevole, forte della mia sicurezza, della mia solitudine, della mia decisione di voler stare da solo.
«Io non lo so fare il fidanzato.»
Mi sento un bambino quando le dico queste parole e forse lo sono. Lei mi sorride dolce, amorevole, si avvicina di più a me e mi fa una carezza sulla guancia.
«Senti, viviti questa cosa fino a che ti fa piacere e ti fa stare bene. Senza dargli nessuna accezione, senza chiamarla in nessun modo e se non capisci qualcosa chiediglielo, affrontala, non difenderti attaccando e basta, o diventando impenetrabile. Siete entrambi abbastanza maturi da poter avere una conversazione del genere!»
Non serve stavolta che le risponda, i nostri sorrisi complici e consapevoli sciolgono quella tensione e chiudono quell’argomento, permettendoci di passare finalmente a discorsi meno impegnativi.
Prima di andarsene mi ricorda di Santa Monica, mi dice che lei partirà già il venerdì con gli altri, quindi mi prega di raggiungerli sabato dopo il lavoro, senza discutere. Io accetto, con finta rassegnazione.
 
 
 
 
 
Elena
 
 
Cretina. Cretina. Cretina. Cretina.
Questo continuo a ripetermi da due giorni, da quella sera a casa di Damon quando ho rifiutato di restare da lui. Ma che cos’ho che non va?
Diamine se non lo volessi, se non volessi restare con lui, se non volessi quel contatto che ho cercato di evitare fino alla fine, fino a quando non ho più resistito dal non toccarlo, sfiorarlo, provocarlo.
Eppure me ne sono andata, con una scusa deplorevole, che non era neanche una scusa, perché era vero che l’indomani avrei dovuto lavorare, ciò non toglie che non sarei di certo morta per qualche ora di sonno in meno e per aver seguito quelli che erano anche i miei desideri.
Eppure ho avuto paura.
Quella maledetta paura che mi blocca.
Mi annebbia.
Mi congela.
Mi fa scappare.
Mi fa mentire.
Mi fa fare cose di cui mi pento immediatamente, eppure sono troppo codarda per non farle. Cerco di rimediare poi meglio che posso, ma ciò che ne esce fa acqua da tutte le parti. Mi arrabatto chiedendo seconde possibilità per prendere tempo, per prepararmi e ovviamente faccio casini. Le cose mi scivolano addosso, da sole e non posso fare niente per fermarle.
Imparerò mai prima o poi? Imparerò a lasciarmi andare, a seguire i miei impulsi, i miei istinti? Imparerò mai ad essere sincera, coraggiosa, a non aver paura di essere me? A non voler essere sempre e costantemente approvata da tutti?
Non ne ho idea… dicono che sbagliando si impari, eppure io, qui, di sbagli ne ho la vita piena.
Vorrei solo essere felice, vorrei solo sentirmi viva.
Damon lo fa, Damon mi ci fa sentire,viva. Mi fa provare sensazioni che non ho mai provato, solo che, forse, i miei muri sono troppo alti anche per lui, che giustamente ha già i suoi e non ci pensa proprio a prendersi la briga di scalarli, dato che io non faccio neanche niente per aiutarlo.
Dato che neanche l’ho richiamato, il giorno dopo, cosa che neanche lui ha fatto, ovviamente, perché non sapevo cosa dirgli, non sapevo come giustificare la mia fuga.
Per questo è da un’ora che sono seduta dietro la mia scrivania, in biblioteca, con il telefono davanti agli occhi e un messaggio che non riesco ad inviare.
Vorrei chiedergli di andare insieme domani, a casa di Caroline, a Santa Monica, perché lei è già partita con Stefan e gli altri e io dovevo lavorare oggi, quindi non mi sono potuta muovere.
Continuo a guardare incerta e nervosa quel telefono, quando è questo a sorprendere me, a squillare.
Esco di corsa nel corridoio della biblioteca per poter rispondere.
La sua voce mi travolge.
«Ciao.»
«Damon, ciao…»
«Ti disturbo? Stai lavorando?»
«No tranquillo, ho quasi finito.»
«Beata te, io sto aspettando ancora un cliente, che è in ritardo!»
«Bè caro il mio imprenditore, sono i rischi del mestiere!»
Lui ride, la sua risata è fresca, divertita.
Respiro profondamente, mi poggio sul muro del corridoio piegando una gamba e poggiando il piede contro di esso. Mi distendo anche io, rasserenata dalla sua risata e dalla sua voce.
Lo sento prendere fiato, esitare un attimo e poi riprendere a parlare.
«Ti ho chiamato per domani, Care mi ha detto che loro sono già andati. Se vuoi, noi, possiamo andare insieme.»
Il mio cuore ha un sussulto, per le sue parole, la sua richiesta, quella che voleva essere anche la mia, per quel suo noi, che mi destabilizza, mi disorienta.
La sua voce però non ha nessuna inclinazione particolarmente maliziosa o con secondi fini, è quasi gentile.
Chiudo gli occhi, inspiro, li riapro ed espiro.
«Sì per me va bene, ti avrei voluto chiamare anch’io per dirti la stessa cosa.»
«Non l’hai fatto però.» mi provoca, tranquillo, deciso, costatando una realtà oggettiva più che rimproverarmelo.
«Non me ne hai dato tempo.»
Mento e lui sorride, perché lo sa.
«Ho un cliente fino a mezzogiorno domani, poi ho finito. Vieni da me, puoi lasciare la macchina qui e andiamo con la mia.»
«Ok, a domani allora.»
Ci salutiamo e attacco.
Evito di chiedergli se stasera avesse da fare, se volessimo vederci, evito perché non sono pronta, non sono pronta a lasciarmi andare, né a rifiutarlo di nuovo.
Torno a casa e nel tragitto parlo con Caroline, mi faccio accompagnare dalla sua voce mentre guido, dal suo tono caldo che mi spinge a vivermela, fino a che mi fa stare bene. Mi dice che ha parlato con lui, eppure non mi rivela nulla, io non glielo chiedo, so che non sarebbe giusto, che non posso metterla in mezzo, il mio rapporto con lei deve restarne fuori da quello con Damon.
Giro le chiavi nella serratura e apro la porta del mio appartamento, nel quale vivo da un paio d’anni, con la mia gatta, Amélie, che trovai una sera vicino ad un secchione dell’immondizia, in uno scatolone sporco e bagnato, mentre cercava di uscirne e miagolava per la fame. Aveva al massimo un paio di settimane, mi disse il veterinario, io ero andata a vivere da sola da più o meno lo stesso tempo, perciò lo considerai un segno, quel nostro incontro e la presi con me.
E’ lei ora che mi accoglie nella nostra casa, si struscia intorno alle mie gambe, facendomi le fusa, in attesa di carezze e cibo!
La accontento e finito di cenare anch’io, mi infilo sotto la doccia, per cancellare quei pensieri grigi e prepararmi a quel lungo fine settimana.
Arrivo da Damon all’una e un quarto.
Parcheggio la mia macchina e lo chiamo per dirgli di scendere.
«Puoi salire un attimo, sto finendo una cosa.» mi chiede invece.
Sospiro e salgo al primo piano, la sua porta è aperta, entro incerta e lo vedo sulla sua poltrona, con il portatile sulle gambe e fogli sparsi sul tavolino basso di fronte.
Non mi accoglie in casa, non mi invita ad entrare, non mi saluta, non ci riesce, non lo fa mai, è più forte di lui, neanche con i suoi amici lo fa, lascia che siano gli altri ad avvicinarsi, lui resta al suo posto, sempre.
«Hey, non sei pronto ancora?»
Non mi risponde, continua a scrivere, fa solo un cenno della mano, che nel suo linguaggio dovrebbe essere un cenno di saluto o un segno di aspettare.
Mi avvicino, lo osservo, è concentrato, ha la fronte corrugata, gli occhi piccoli e più scuri, seri, sta scrivendo dei dati, che non capisco, su una tabella, ha ancora dei jeans scuri e la camicia bianca che usa per il lavoro, ma che ha sbottonato fino al terzo bottone.
Mi perdo un attimo ad ammirarlo, a gustare quella sua aria professionale che non gli si addice, perché lui è bello al naturale, con la sua solita aria trasandata, i capelli un po’ scompigliati, la sua tuta e la sua maglia a mezza manica che lascia intravedere il suo fisico scolpito.
Non l’avevo mai visto in questa veste ma devo ammettere che, nonostante preferisca l’altra, anche questa non mi dispiace, anzi in questo momento, sto cercando una ragione per cui ancora non gli sia saltata addosso.
Scaccio quei pensieri, riprendendo il controllo di me, mi siedo sul divano e aspetto, aspetto che si renda conto che sono qui.
Qualche minuto dopo è lui ad alzare finalmente il suo sguardo su di me. I suoi occhi si aprono un po’ e ci ritrovo l’Oceano dentro, chiaro e limpido.
«Ciao… scusa, sono un maleducato! Ho finito, sono pronto. Ora chiudo e andiamo.»
«Ok.» gli dico solamente, risultando forse un po’ troppo dispiaciuta, in fondo, da questa mancanza di considerazione calcolata.
«Non mi offendo sai, puoi dirmelo!»
Non so perché voglia sempre apparire per quello che non è, né perché voglia che gli altri gli facciano notare i suoi difetti, lo fa come se ne avesse bisogno, come se altrimenti non si sentisse riconosciuto. Non si sentisse Damon. O forse lui è davvero così e io lo sto idealizzando troppo.
«Sì, un po’ lo sei, maleducato.» glielo dico mentre gli faccio una smorfia e sorrido, per quella richiesta auto celebrativa, risultando ovviamente poco credibile. Mi sorride anche lui, adesso è completamente se stesso, quel Damon che un po’ conosco anche io. Ha abbassato le sue barriere.
Se c’è una cosa in cui io e lui siamo complementari è proprio questa, lui che si chiude all’inizio, io alla fine.
Mi alzo sorridendo ancora, stavolta per questa nuova consapevolezza, faccio il giro del tavolino e mi avvicino alla sua poltrona, aspettando che spenga quel portatile e si prepari ma lui non si muove.
Scorre con lo sguardo su di me, addosso a me, indugiando un po’ troppo sul mio seno, coperto da una maglia di cotone leggerissima e sulle mie labbra, che inumidisco involontariamente.
Si ferma poi sul mio braccio e mi sfiora con una mano, piano, dolce, leggero. Un brivido mi sale dal braccio alla schiena, scendendo fino alla punta dei piedi, blocco lo sguardo sulla sua mano, fino a che non scende sulle mie dita, le accarezza, gioca con loro, facendo rabbrividire la mia pelle sotto il suo tocco, infine ci incastra le sue. Stringe pianissimo e solo allora io alzo lo sguardo su di lui. I suoi occhi sono più intensi, più profondi, più blu, mi fissa con un misto di richieste che conosco e di timore che invece mi è nuovo.
E’ titubante, lo capisco da come fa scivolare via la sua mano dalla mia, ha paura che lo rifiuti di nuovo e in quel momento mi sento un mostro. Mi sento in colpa per non riuscire a rispondere alle sue richieste, lecite e naturali, né alle mie, nuove e istintive. Mi faccio rabbia perché continuo a restare aggrappata alla mia paura, di espormi, di buttarmi in qualcosa che non conosco, che in questo momento mi sta solo limitando, non mi aiuta affatto, non mi protegge da niente. Non voglio proteggermi da lui, qualunque cosa lui abbia da offrirmi, perché lo voglio, lo voglio con tutta me stessa.
Mi sento male per quel suo sguardo che ora forse è rassegnato, che si abbassa per perdersi in un punto indefinito del tavolino.
Sono io allora ad afferrare la sua mano, prima che scivoli via del tutto dalla mia. Incastro di nuovo le mie dita alle sue, appropiandomi di nuovo di quel contatto e mi avvicino di un passo.
Lui chiude il portatile e lo poggia a terra, mi tira di più a sé, forte della mia iniziativa, e mi ritrovo seduta sulle sue gambe.
Mi accarezza la guancia con un dito della mano libera, io inclino la testa leggermente per assecondare il suo gesto e far scivolare una ad una le sue dita su tutta la mia guancia. Lui prende allora più sicurezza e la apre completamente, facendo aderire il suo palmo al mio viso. Gli sorrido non staccando mai i miei occhi dai suoi, reggendo quello sguardo, che mi guarda con un’intensità tale da farmi bruciare dentro.
Si avvicina di più alle mie labbra, sento il suo respiro confondersi con il mio, ho una voglia incredibile di ritrovare il suo sapore e lui mi accontenta, poggia le sue labbra sulle mie, cerca la mia lingua che stavolta gli è complice e lo asseconda.
Affondo le mie mani tra i suoi capelli, lui mi attira di più a sé, fa scivolare un braccio intorno alla mia vita e mi stringe, mentre con l’altro mi carezza la schiena, sale verso la base della mia testa e incastra la mano tra i miei capelli, facendo una leggera pressione per non lasciarmi andare, per non perdere le mie labbra.
Il mio cuore sta per esplodere e mi meraviglio che lui non senta quei battiti che mi stanno rimbombando in tutto il corpo.
Riprendo fiato quando ci stacchiamo per un attimo, ansimanti, guardandoci negli occhi carichi di desiderio.
«Ok, prima che lo dica tu…» mi dice, «Ti anticipo io, credo che forse sia meglio andare.»
Io sgrano gli occhi perplessa e reprimo a stento una smorfia di protesta.
Lui ride divertito, con una risata aperta, spontanea, tira indietro la testa portandosi una mano sul petto e socchiude gli occhi, ride di me, della mia espressione. Ride per aver ristabilito chi comanda.
Io metto il broncio e gli do un leggero pugno sul petto.
«Smettila! Non sei per niente divertente!»
Mi fa l’occhiolino e sorrido anch’io, non riesco a resistere a quegli occhi, non riesco mai a risultare davvero arrabbiata con lui e lo sa, purtroppo, lo usa a suo favore.
«Su, miss perfettina sei comunque sempre in vantaggio tu!»
Mi schiocca un bacio sulla guancia e ci alziamo entrambi da quella poltrona.
Dieci muniti dopo siamo già in macchina a litigare su che musica ascoltare.
E’ piacevole stare con lui, anche il silenzio è confortante, mi piace ridere con lui, parlare delle nostre vite, ascoltare i suoi racconti sui suoi innumerevoli viaggi, sulle sue esperienze.
E’ lui che parla molto di più tra noi, nonostante non sia un tipo del genere, non è un tipo socievole, uno che ama fare conversazione o che si espone ma con me lui è così, non so se perché i miei silenzi lo spingano a farlo, o perché si senta a suo agio tanto da potersi aprire in questo modo.
In ogni caso mi piace e mi fa trovare il coraggio per fare altrettanto.
 
 
«Sei strana, va tutto bene?»
«Non proprio, ho discusso con Care.» glielo dico tutto d’un fiato, dopo aver risposto al telefono con un tono distratto, assente, mentre guido per tornare a casa, che lui ha colto immediatamente.
Mi ha chiamata inaspettatamente, per chiedermi di vederci, per la seconda volta da quando abbiamo iniziato questo nostro strano rapporto fatto di sguardi, prese in giro, confessioni amichevoli e chimica.
«Perché?»
«Perché sono un’idiota. Perché non riesco ad essere come vorrei, ad espormi, mi chiudo e non parlo. Perché lo faccio sempre e non imparo mai.»
«Con me non lo fai, con me non sei così.»
Non lo sono fino a che tu non ti avvicinerai troppo. Non glielo dico, troppo spiazzata per quella sua rivelazione su di me, sul nostro legame e voglio conservare quella sua immagine di me per lui, ancora un po’, ancora fino a che non rovinerò tutto allontanandomi.
 
 
Sorrido pensando che ci ho provato a rovinarla, quando mi ha baciato, quando quel bacio mi ha scosso dentro tutta quella serie di paure che non sono riuscita a controllare e gliele ho riversate addosso, disorientandolo.
Ci provo anche adesso a danneggiare la mia immagine, rifiutandolo, allontanandolo, evitandolo. E forse un po’ l’ho scalfita.
Ora, però, ripenso a quel noi quando c’era ancora soltanto quell’inizio di amicizia, quando parlavamo anche di cose serie, quando uscivamo con gli altri per andare al cinema e ci mandavamo messaggi la notte, perché io non riuscivo a dormire a causa di qualche scena inquietante e lui mi prendeva in giro. Quel noi che non si era ancora lasciato trasportare dalla chimica, quando ancora non cercavamo, né volevamo nulla, ci bastava davvero quello che avevamo, o forse bastava solo a me, perché era più facile.
Perché adesso lo rivedo quello sguardo, quello sguardo che mi ha fatto titubare all’inizio, che mi fa pensare che mi piaccia più di quanto dovrebbe, che me lo fa sentire vicino, che mi tocca l’anima. Quello sguardo che mi scruta, mi osserva, mi studia, mi imbarazza e mi da la sensazione che mi sfidi, che voglia arrivare dentro di me, per scardinare lucchetti che tengo chiusi da troppo tempo, scovare cose che io non voglio vedere riflesse nei suoi occhi.
Quello sguardo che mi cerca il cuore.
Quello sguardo che mi fa sentire viva.
Quello sguardo che ora mi guarda di traverso, studiandomi, perché ha colto qualcosa di strano nei miei silenzi, eppure non dice niente, torna a guardare la strada e io sospiro rincuorata, gliene sono grata.
 
Arriviamo alla casa al mare e, mentre scendiamo per prendere i borsoni con le nostre cose, siamo entrambi consapevoli che ciò che è accaduto fino a quel momento, non accadrà più nei prossimi giorni finché saremo insieme a tutti gli altri.
 



____________________________________________________________

Eccoci al secondo capitolo..
Scusate non riesco mai a pubblicare ad un orario più decente!

Ho poche cose da spiegare stavolta, ho voluto che fossero loro a raccontare.. stiamo entrando in quella che è la loro relazione ora, con flash su cosa sia accaduto prima.
Ho lasciato parlare molto soprattutto Elena perché mi serviva per spiegare meglio il suo punto di vista, che per me è quello in realtà più complesso.

Fatemi sapere cosa ne pensate.. fa sempre piacere e mi aiuta!
Grazie a tutte in ogni caso!
Alla prossima.

_Ale

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3° ***


“Non sono pazzo, fratello. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci. Siamo astuti come animali affamati. Non c’entra la pazzia. E’ genio, quello. E’ geometria. Perfezione.”
 
(A.Baricco – Novecento)

 

 
 
 
 
 

Elena

 
 
«Finalmente siete arrivati!»
La voce di Caroline ci investe come un uragano quando ci apre il cancello della sua casa e ci spinge dentro, abbracciandoci.
E’ in costume ed è bagnata fradicia, appena uscita dalla grande piscina, sul retro della casa, per venire ad accoglierci.
Le sorrido, nonostante mi abbia inzuppato e alzo gli occhi per bearmi della vista.
Quella casa che ha per me milioni di ricordi, in cui ci ho trascorso dieci anni della mia vita, nei week end, durante le fughe mie e di Caroline nei nostri giorni liberi, in quelle vacanze che ci prendevamo senza dover rendere conto a niente e nessuno.
Quella casa che sento anche un po’ mia, perché l’ho aiutata io, la mia amica, a scegliere quelle sdraio in legno con i cuscini bianchi che circondano la piscina, quel gazebo nel giardino, ho scelto il divano – letto, di stoffa bianca anche quello, che prende posto nell’enorme sala, abbiamo deciso insieme il quadro con i colori dell’Oceano all’alba e la spiaggia vuota, appeso sul camino.
C’ero, quando lei e sua madre hanno comprato l’enorme tavolo in legno in sala da pranzo, quando abbiamo appeso lo scacciapensieri sulla porta d’entrata.
L’ho vista nascere quella casa e crescere insieme a noi.
E’ bella, bella da togliere il fiato, ed è bianca, bianca da far male agli occhi ma dar pace al cuore, con un odore inconfondibile di mare e salsedine. Con un profumo inconfondibile di noi.
E blu, blu come l’Oceano, come i cuscini sul divano, i teli per la piscina, i quadri appesi, il tavolino vintage basso ai piedi del divano, gli occhi di Caroline.
Ed è fresca, come l’aria al mattino presto, come una boccata d’ossigeno dopo un’apnea, come l’acqua che bagna la pelle dopo una giornata di sole, come le risate che ci concedevano per fuggire all’inferno che ci investiva.
E’ il nostro rifugio, la nostra salvezza, la nostra aria.
Mi piace stare qui, mi sento a casa, mi sento bene.
Mi sento al posto giusto.
E mi piace essere lì ora, insieme alla mia amica e a quelle nuove persone che sto imparando a conoscere e che mi fanno ridere, divertire, mi fanno sentire leggera, respirare aria nuova, pulita, genuina.
Mi fanno pensare che è proprio questa la vita che vorrei, la sensazione che vorrei provare ogni giorno aprendo gli occhi.
Mi investono di sorrisi entusiasti e vivi.
Dio, quanto mi sento viva qui. Con loro, in questo posto, con Damon.
E’ frizzante anche l’aria, luminosa, con questo sole che mi scalda e già mi scotta un po’ la pelle.
Alzo gli occhiali da sole che non avevo ancora mai tolto da quando me li sono infilati prima di salire nella macchina di Damon, per godermi appieno quel calore e farmi riscaldare anche gli occhi, lo sguardo. Come se la visione di Damon in macchina, mentre guidava con i capelli arruffati e mossi dal vento, un braccio rilassato poggiato sul finestrino abbassato e il suo sguardo, con dentro lo stesso Oceano che ci sfrecciava affianco, che ogni tanto mi squadrava dietro i suoi ray – ban neri, non mi avesse già procurato abbastanza calore e le mie guance non avessero già cambiato mille colori, senza dover imputare questo a nessuna abbronzatura.
Eppure, il modo in cui mi riscalda il sole, in questo momento e in questo posto, non ha ancora rivali.
Forse ero una lucertola che viveva in un posto caldissimo e con il mare ai suoi piedi, nella mia vita passata. Lo penso davvero, altrimenti non riuscirei a spiegarmi come possa amare così tanto il sole cocente, che mi brucia addosso, né il perché resterei ore ed ore sotto di lui fino a sentirlo dentro le ossa, fino a lasciarmi riempire di quel calore che non ho mai provato in nessun’altro modo e che mi mancava da un bel po’.
Quel calore che devo andarmi a prendere ogni tanto, di cui ho bisogno, che mi fa tornare viva, calda, mi riscalda il sangue e lo fa tornare a circolare.
E’ per questo che accetto immediatamente l’invito di Caroline a lasciare le mie borse, le nostre borse, in pieno soggiorno, infilarmi il primo costume che riesco a trovare e buttarmi in piscina insieme a tutti loro, per godermi il contrasto tra l’acqua fredda e l’energia del sole che mi riscalda subito dopo.
Damon preferisce sdraiarsi su una sdraio all’ombra del gazebo, forse stanco per la mattinata di lavoro e il viaggio.
Trascorriamo il pomeriggio lì, mangiando qualcosa, ridendo e scherzando, mettendo su un’improvvisata partita di pallavolo in acqua, un pomeriggio tra acqua e sole, tra vita e spensieratezza.
Anche il programma che Bonnie ha iniziato ad esporci, travolgendoci appena siamo tutti fuori dall’acqua e ci stiamo asciugando al sole, a parte Damon che è rimasto in piscina per quasi tutto il pomeriggio, è pieno di vita e piuttosto allettante: barbecue serale, passeggiata sul molo di Santa Monica e l’indomani mare, piscina e aperitivo con concerto in un locale jazz.
Damon odia il jazz e sta già sbuffando ma a me non importa, non voglio pensare a lui in questo momento, non voglio pensare a quanto sarebbe bello poterlo toccare, potermi sdraiare accanto a lui e lasciarci riscaldare insieme dal sole, odorare la sua pelle abbronzata, sfiorare le sue labbra salate, no, non posso farlo.
Voglio essere felice, per due giorni, solo due giorni, voglio godermi la mia vita da venticinquenne senza obblighi e responsabilità.
Voglio essere libera per quarantotto ore, voglio essere me.
 
 
 
 
 
Damon
 
 
Sono finalmente riuscito a rilassarmi, dopo una mattinata faticosa, tra il lavoro e il viaggio con Elena al mio fianco, che continuava a sistemarsi i capelli che il vento le scompigliava, a sedersi con le gambe incrociate e una serie di cd sparsi sopra di lei, per cercare qualche canzone decente da ascoltare, con le sue gambe snelle e lunghissime che i suoi pantaloncini corti, alzandosi, lasciavano scoperte del tutto.
Con quel sorriso felice e i suoi occhi nascosti dietro gli occhiali da sole, che la rendevano ancora più provocante, rendendo difficile gestire la voglia di immergere una mano sulle sue cosce, accarezzarle, sentirne il calore, inchiodare in mezzo alla strada la mia macchina e approfondire quel contatto.
Ho dovuto distaccarmi un attimo, ritrovare il mio autocontrollo, lasciar evaporare il calore che ho iniziato a provare nella parte bassa del mio corpo da quando siamo saliti, avevo bisogno di ombra, di buio, non avrei sopportato quel sole, non avrei sopportato altro calore.
Cosa che invece a lei non dispiace affatto, si è buttata in acqua con quel suo costume color arancio, che le accarezza le forme e le rende ancora più evidenti e poi si è sdraiata a bordo piscina, chiudendo gli occhi, con un braccio immerso in acqua, che muoveva piano, sfiorando il filo dell’acqua e disegnando forme astratte.
Dannazione quanto è bella appena uscita dall’acqua e stesa al sole.
Io invece sono rimasto all’ombra del gazebo, forse per un’ora, fino a che Caroline non è venuta a trascinarmi in acqua, costringendomi a prendere parte ad una stupida partita di pallavolo.
Da quel momento sono rimasto in piscina, il freddo dell’acqua mi piace, scioglie le mie tensioni, congela pensieri e sensazioni che non voglio provare, mi riporta alla mia temperatura ideale, mi disseta da quel caldo che proprio non sopporto.
Quando iniziamo ad organizzarci per il barbecue di questa sera, sono ancora in acqua, con le braccia intrecciate poggiate a bordo piscina e il viso posato sopra.
Guardo Stefan di traverso che si improvvisa grande chef, proponendo un menù di antipasti, verdure grigliate, bruschette al pomodoro e una strana salsa, da cospargere sulla carne che io avrei dovuto cuocere, di cui però tutti ignoriamo gli ingredienti.
«Tu e la tua salsa non vi avvicinerete mai alla mia bistecca, sappiatelo.» gli dico schernendolo, prendendomi un po’ gioco di lui, perché mi piace farlo arrabbiare, vederlo diventare rosso, guardarmi con la sua aria da bambino imbronciato, neanche avesse più due anni e poi ridere di lui, con lui.
«Dai Damon, non offendere la sua strepitosa salsa – conquista – ragazze!» incalza Ric, dandomi man forte e sghignazzando di soppiatto.
«Sì, sì, ridete pure! Me lo ricorderò, quando mi implorerete di farvela assaggiare!» mi fa una smorfia e scoppiamo a ridere tutti quanti.
«Ok, ok! Forse è ora di iniziare a prepararci!»
Caroline prende in mano la situazione e data quasi l’ora di cena, iniziamo ad essere tutti più operativi.
Ci ricomponiamo recuperando i nostri abiti sparsi per la piscina, io mi asciugo alla meglio con il telo e me lo lego intorno ai fianchi, mentre torno ad alzare lo sguardo vedo un Elena infilarsi i pantaloncini, con una lentezza e un modo così provocante da togliermi il fiato. Lo fa distratta, mentre parla sicura con Bonnie e Caroline del programma per domani, per questo penso sia ancora più seducente, perché non se ne rende conto. Li fa scivolare tra le gambe, impiega un attimo in più per togliermi la vista del suo sedere che mi sta mandando al manicomio, poi allaccia, lenta, i tre bottoni.
Devo assolutamente andarmi a fare una doccia fredda.
Sono il primo ad approfittare della grande doccia nel bagno al piano superiore, apro l’acqua e mi infilo veloce sotto il getto.
Quando esco, la casa è invasa dalle risate di Ric che sta prendendo in giro Stefan per qualche altra stana iniziativa.
Li raggiungo al piano di sotto per prendere la mia borsa, che ho lasciato lì questo pomeriggio, con solo un asciugamano legato in vita e i capelli che sgocciolano sul pavimento, cosa che Caroline odia ma fortunatamente non vedo la sua presenza intorno a me.
Mi defilo immediatamente tornando al piano di sopra e mi chiudo nella camera degli ospiti, quella con due lettini singoli e un divano letto, la camera che stanotte toccherà a noi, la camera che ogni volta che veniamo qui, Caroline ci assegna perché è ampia, ci permette di dormire tutti e tre insieme, senza dover condividere letti o camere con loro, le donne, e perché odora di legno e brezza marina, a causa del grande armadio in legno chiaro sulla parete di fianco la porta e delle candele che lei si ostina a tenere. Secondo la mia amica il legno e la brezza marina sono odori maschili, mentre l’altra camera, con due letti singoli, profuma di lavanda, per le altrettante candele sparse sulla scrivana e sulle mensole. Quella di solito è la sua camera e quella di Elena quando vengono qui, che stanotte però sarà di Bonnie, mentre loro due dormiranno in quella dei suoi genitori.
E’ la stessa camera in cui hanno dormito quando abbiamo passato, per la prima volta, un fine settimana insieme, noi tre più Stefan. Quel fine settimana in cui ho finito per rompere l’ultimo elastico che Elena aveva a disposizione per legarsi i capelli e lei è entrata nel panico, così sono uscito, alle sette e mezza di sera, andando alla ricerca di un negozio qualsiasi che li vendesse. Mi sono sentito così in colpa che gliene ho comprati due e lei mi ha guardato incredula, come una bambina che riceve un regalo inaspettato in un giorno che non è né Natale, né il suo compleanno, né nessuna altra ricorrenza. E mi ha abbracciato.
Mi ha davvero abbracciato per degli stupidi elastici.
Un abbraccio amichevole ma stretto, con il suo profumo, un profumo di vaniglia che mi è rimasto addosso ed ha segnato l’inizio del mio, e forse anche del suo, rapporto complicato tra noi.
Quella sera mi ha anche rivelato, davanti agli altri, mentre eravamo tutti un po’ brilli e ci stavamo dibattendo sulla difficoltà dei ragazzi di abbordare ragazze sconosciute, che io sarei stata l’unica persona a cui avrebbe lasciato il suo numero di telefono, solo per il gesto che avevo compiuto. E l’ha fatto davvero! Me l’ha lasciato, per scherzo ma l’ha fatto. Ovviamente non me lo sono lasciato scappare e ho colto l’occasione per dare il via ad una serie di scambi telefonici tra di noi.
Mentre esco, stavolta vestito, per tornare in bagno ad asciugarmi con un asciugamano i capelli, vedo Elena uscire dal bagno della camera dei genitori di Caroline, proprio di fronte a me.
E’ avvolta in un telo blu che le lascia scoperte una grande porzione di gambe e le stringe il petto, facendolo sembrare ancora più abbondante, i capelli bagnati sono raccolti da un lato, su una spalla, lasciandole scoperto il collo e una parte di schiena.
E’ morbida Elena, il suo corpo non ha spigolature, è uniforme, longilineo, tanto che vorrei affondarci le mani, la bocca, i denti, se solo lei me lo permettesse.
La vedo sistemarsi meglio l’asciugamano, uscire dalla stanza e dirigersi verso la sua camera, prendere dei vestiti dal borsone sul suo letto, uscire e a metà corridoio tornare indietro.
Torna indietro, traffica di nuovo nella borsa, esce per la seconda volta dalla stanza, senza nient’altro che quei vestiti che già aveva e si chiude finalmente nella camera dei genitori di Caroline.
Finalmente, perché sentivo già premere la parte bassa del mio corpo contro i miei jeans, finalmente, perché non avrei resistito un secondo di più a quella vista, finalmente, perché altrimenti ce l’avrei chiusa io, lì dentro, infischiandomi del rispetto e delle sue paure.
Scendo al piano di sotto dopo una lunga seduta di auto – controllo e trovo Bonnie, già pronta, che consegna subito a me e Ric carbonella, giornali e accendino.
«Avanti maschietti tocca a voi! Preparate la brace!» ci ordina e sparisce in cucina.
Io e Ric ci guardiamo complici, pronti per questo sporco lavoro che tocca sempre a noi e che siamo diventati molto bravi a svolgere.
Neanche dieci minuti dopo, infatti, un fuoco si alza dal braciere in giardino, ai lati della piscina, io e Ric iniziamo a smuovere la brace che inizia a formarsi, per poi lasciar calare le fiamme e creare la base su cui cuoceremo le nostre bistecche.
Nel frattempo Stefan è all’opera con la creazione della sua grande e segreta salsa che, spiando quelli che sono alcuni ingredienti che sta usando, curry, aglio, succo di pomodoro, cipolle, senape, non intendo assolutamente neanche assaggiare.
Ceniamo sotto al gazebo, intorno al tavolo in legno, le donzelle sono comodamente sedute tutte da una lato del tavolo, quello rivolto alla casa, mentre noi uomini duri e puzzolenti, per colpa del fumo e della brace, facciamo avanti e indietro con bistecche, salsicce, pane e verdure grigliate.
«Inutile che guardi, non intendo fartela assaggiare!» mi ammonisce Stefan, subito pronto a raccogliere il mio sguardo, concentrato su un Elena che ha versato un po’ della sua salsa sulla sua bistecca e la sta per assaggiare.
I miei pensieri però non erano di certo rivolti a quella stupida salsa ma al decolté del suo vestito bianco, che si stava abbassando leggermente.
«Non voglio assaggiarla, voglio solo essere pronto nel caso dovremmo accompagnare Elena al pronto soccorso per una lavanda gastrica!»
Rido e ride anche lei che mi guarda allegra ma poi mi stupisce.
«E’ buona!» urla, sorpresa anche lei dal suo commento.
Stefan sogghigna soddisfatto e lei ne versa un'altra po’ sulla carne.
Allora mi avvicino, mi chino verso di lei, arrivandole alle spalle, le poggio una mano sulla schiena, poco sopra il sedere e la sento sussultare, muoversi sulla mia mano, afferro la sua forchetta e infilo il pezzo di carne che aveva già pronto, nella mia bocca.
Lei mi guarda sbalordita e quasi imbarazzata, deve mordersi il labbro e abbassare lo sguardo per non arrossire, io rimetto a posto la forchetta e mi allontano, lasciandola in preda delle sue emozioni.
«Damon, non vale così!»
«Stefan che vuoi farci, mi sono lasciato convincere dal giudizio di Elena! E devo ammettere che ha ragione!»
Do una pacca sulla spalla al mio amico e poi lo abbraccio divertito, mentre lui fa finta di divincolarsi, imbronciato e sconfitto come al solito.
Trascorriamo la serata a prenderci in giro, a ricordare aneddoti scolastici e a fare programmi per il giorno dopo, rimandiamo la passeggiata sul molo di Santa Monica all’indomani a causa del cibo che ancora abbiamo da mangiare e alle risate che non si lasciano interrompere per nessuna proposta al mondo.
Sono le dieci quando sento vibrare il telefono nella mia tasca, leggo il nome sul display ed entro in casa per avere un po’ di privacy.
Preparo la mia solita aria strafottente ed infastidita, indurisco la mascella, faccio scivolare il dito sull’Iphone per accettare la chiamata e mi porto il telefono all’orecchio.
«Mamma.»
«No, Damon sono io, Jaxon.»
Mi ritraggo per un secondo, colpito da quella voce dolce a cui non ero pronto.
«Piccolino, ehi. Come stai? Come mai sei ancora sveglio?»
Addolcisco la voce, lo sguardo, il corpo. Mi poggio contro il tavolo della sala da pranzo e do le spalle ai miei amici, in giardino.
Mio fratello prende un sospiro incerto e poi continua.
«Sto bene, non riuscivo a dormire perché ti stavo aspettando…»
Ad un tratto ho un’illuminazione, mi ricordo di avergli promesso che forse sarei passato quel fine settimana, che lo avrei portato ad una partita di calcio e di non essermi più fatto sentire per smentire la mia promessa, rimandarla.
«Jaxon hai ragione, mi dispiace tantissimo, ho avuto degli impegni e ho dimenticato di avvertirvi che non sarei venuto. Scusa, mi dispiace davvero.»
Sono sincero, mi sento in colpa sul serio verso di lui, perché non ha nessuna responsabilità della mia lontana, eppure in parte ne sta pagando le conseguenze.
«Verrai la prossima settimana?»
«Te lo prometto. Vengo e ce ne andiamo da qualche parte, io e te. Ok?»
«Non te ne dimenticare stavolta.»
Un tocco al cuore, uno ago che mi punge ma me lo merito, glielo prometto, non me ne dimenticherò di nuovo.
«Non lo farò. Ti chiamo domani. Ora vai a dormire.»
«Ok, buonanotte Dam.»
Sto per contraccambiare, quando sento trafficare con il telefono, sento confusione e poi silenzio subito dopo.
La voce di mia madre mi arriva come un tornado, dritta, potente, dura, pronta a farsi paladina per difendere i sentimenti dell’altro, di suo figlio.
«Sei il solito menefreghista, incurante di tutto e tutti.»
Si è chiusa in camera per non avere testimoni mentre mi fa a pezzi.
«Eccoti, mi domandavo quanto avresti aspettato prima di insultarmi.»
«Togliti questo tono arrogante e dammi una spiegazione per il aver illuso tuo fratello.»
In quel momento inizio ad agitarmi, mi ridesto, inizio a camminare per la sala e a passarmi una mano tra i capelli, seccato.
«Non credo di doverti niente, mamma. Ho già chiarito con Jaxon. Illuso, credo sia una parola grossa perfino per te. Mi dispiace, ho avuto un imprevisto e ho dimenticato di avvertire.» non lo so perché lo faccio ma non riesco a mantenere il mio tono adulto e sprezzante, mi giustifico e torno ad essere un ragazzino adolescente che viene sgridato da sua madre.
«Un imprevisto che era più importante di tuo fratello a quanto pare, che te lo ha fatto addirittura dimenticare! Damon ma che persona sei? Non ti ho cresciuto in questo modo, possibile che non riesci mai a mantenere un impegno, a fare la cosa giusta?»
Eccolo quel suo tono accecato d’amore per il secondo dei suoi figli, è più forte di lei, non ce la fa a fare altrimenti.
«Senti, non ho intenzione di ascoltare una parola di più, se devi continuare ad insultarmi in questo modo per me questa telefonata può concludersi qui.»
«Insultarti? Damon tu sei mio figlio, ho il dovere di dirti quando sbagli e ti comporti da immaturo.»
«Ho i miei dubbi su quelli che pensi siano tuoi doveri, tanto più su quelli che sono i tuoi diritti. Mi stai sparando addosso e dovrei anche ringraziarti?»
Sono duro, inizio ad alzare la voce e non mi interessa, lei mi fa perdere la pazienza, il controllo, mi scuote dentro e mi irrita più di chiunque altro.
Mi scaraventa addosso quelli che, secondo lei, sono i miei difetti, le mie mancanze, me li rinfaccia, li usa contro di me, per farmi sentire in colpa verso mio fratello, come se non mi ci sentissi già, mi ricorda di essere una persona brutta, sbagliata, immatura, che non fa mai la cosa giusta e non merita niente e poi se ne va’. Mi toglie la sua voce, la sua presenza, le sue cattiverie e mi lascia lì, a raccogliere i pezzi da solo, mentre lei se ne torna alla sua vita perfetta, quella che ha scelto, lontano da me.
«Certo! Dovresti ritenerti fortunato che qualcuno ti dica queste cose, che te le faccia notare, invece di voltarti le spalle o prenderti in giro.»
«Tu sei una pazza! Sei completamente fuori di testa! Ma che diavolo stai dicendo? Torna da tuo figlio e tuo marito e lasciami in pace!»
Stavolta grido, incurante di tutto, ho bisogno di alzare la voce per far tacere la sua dentro di me, dentro le mie orecchie, il mio stomaco, il mio cervello.
«Non azzardarti Damon, sono tua madre, non ti permettere di trattarmi in questo modo!» urla anche lei, ci gridiamo addosso, giochiamo a chi fa la voce più grossa, gareggiamo da una vita ma nessuno ha ancora mai segnato il punto finale. Nessuno ha mai vinto e nessuno si è mai arreso.
Io serro i pugni e vorrei spaccare questa finestra che ho davanti e che riflette un’immagine di me che ora è esattamente quella che mia madre sta dipingendo, si è infilata fin dentro i miei occhi tanto da non riuscire più a riconoscermi.
Poi la vedo, lontana, immobile, riflessa nello specchio.
Elena.
Resto fermo, perso in quei due occhi da cerbiatta che mi guardano, sgranati, impauriti, perplessi, due occhi che non mi riconoscono neanche loro.
Non so da quanto tempo sia qui, da quanto tempo stia ascoltando la mia rabbia, stia guardando un’immagine di me che non ha mai visto, che pensava non potesse appartenermi.
Forse la sua presenza, i suoi occhi, forse la rabbia che nel frattempo è sbollita, forse il tono di mia madre con cui si ricompone e mi domanda il perché arriviamo sempre a questo punto, in ogni caso mi calmo, prendo un respiro e sospiro.
«Senti, ci sentiamo in un altro momento, ora devo andare.» dico, senza tono, senza inclinazioni, senza espressione.
Attacco e rimettendo il telefono nella tasca dei jeans mi volto, lentamente, con timore, ma lei non c’è, sta già tornando in giardino, con un vassoio in mano, la testa bassa e il passo svelto.
Ci metto un po’ per tornare in me, per riprendermi da quella telefonata, da quelle parole, quelle urla, quei sentimenti che mi sono esplosi dentro e ora non so che farci.
Resto ancora da solo, fino a che il mio respiro non si regolarizza e la mia maschera spavalda e sicura di sé non torna ad appropriarsi di me.
Quando torno dai miei amici, non ho il coraggio di guardarla, di cercare quegli occhi che poco fa mi hanno inevitabilmente giudicato, senza sapere, senza capire, mi siedo vicino a Caroline, sicuro che la sua sola presenza e il sorriso che mi sta regalando incondizionatamente, possa in qualche modo riscaldarmi e cancellare tutto.
 
 
 
 
 

Elena

 
 
E’ notte fonda e non riesco a chiudere occhio, sarà perché ho mangiato troppo, sarà stata quella strana salsa di Stefan poco invitante ma molto buona, sarà perché Damon dorme nella stanza accanto e io vorrei solo andare da lui, infilarmi sotto le lenzuola e addormentarmi tra le sue braccia, il suo profumo, i suoi sogni.
Sarà che sono ancora scossa dagli eventi di questa giornata, dalla telefonata che ho inavvertitamente ascoltato, dal tono di Damon, dalla sua rabbia, dal suo dolore.
Forse sarà per la sua mano appena sopra il mio fondoschiena mentre usava la mia forchetta per assaggiare la mia carne, per il suo corpo che ho avuto davanti per tutto il giorno senza poterlo toccare, se non per caso.
Sarà perché non ho resistito dal passargli davanti con solo l’accappatoio stasera, due volte, per provocarlo, per vendicarmi di averlo dovuto vedere a petto nudo, sgocciolare per le scale e il pavimento fino a raggiungere la sua camera, mentre io entravo nel bagno dei genitori di Caroline.
E non può farmi questo, non può andarsene in giro in quel modo pensando di non provocare nessuna reazione, perché il mio viso è esploso con dei rossi che non avrei assolutamente saputo come camuffare se fossi stata in mezzo ai nostri amici, non può smuovermi tutto quel calore e quell’agitazione dentro e poi semplicemente, andarsene.
Non può restare in acqua tutto il giorno, con l’acqua che gli scivola addosso e guardarmi di tanto in tanto, con quegli occhi che riflettevano l’azzurro limpido dell’acqua, lanciandomi occhiate che non sono riuscita a decifrare ma che mi divampavano un fuoco dentro.
Non lo può fare eppure l’ha fatto e io ho reagito di conseguenza, così come tutto il mio corpo. E forse non lo conoscerò del tutto ma, finora, mi piace tutto ciò che vedo e sento.
Decido finalmente di alzarmi e scendere al piano di sotto per un bicchiere d’acqua, magari da buttarmi addosso o di limonata, nel caso fosse il mio stomaco il colpevole di questa insonnia.
Apro il frigo e quando lo richiudo, dopo aver preso la bottiglia della limonata, dalla finestra a vetri che da sulla piscina, vedo un ombra sulla sdraio, in giardino.
E riconoscerei quel profilo tra mille, quei capelli scompigliati, quell’aria da duro e misterioso, quell’aria imbronciata che però non avevo mai visto.
Esco piano in giardino, attenta a non far rumore, richiudendo la porta scorrevole dietro di me, per tenere fuori, o meglio dentro, i nostri amici che dormono, ignari di noi.
Resto sulla porta, intimorita se intromettermi o no nei suoi pensieri, nella sua solitudine, nel suo mondo.
Poi lo faccio, lo metto quel piede nel vuoto, senza avere vie di fuga, senza appigli o paracadute.
«Contempli le stelle?»
Lo dico, tutto d’un fiato, prima che quell’indecisione mi congeli del tutto, non lasciandomi scampo, né alternative, se non quella di rendermi invisibile, rientrare in casa e lasciarlo solo.
Cosa che forse avrebbe preferito, dato il modo in cui mi sta guardando in questo momento.
E’ sorpreso, stupido dalla mia presenza, quasi sobbalza nell’udire la mia voce.
Mi fa un sorriso a metà, alzando solo la parte destra delle labbra, è un sorriso di circostanza, senza espressione, senza emozioni.
E’ illuminato lievemente dallo spicchio di luna che è in cielo, il resto, intorno a noi, è completamente al buio.
«Non riesci a dormire?» mi chiede.
Io scuoto la testa con una smorfia e alzo lo sguardo anch’io, su quel cielo limpido e scuro, con quel manto di stelle che lo ricoprono.
«Neanche io.» dice solo, piano, atono.
Il suo sguardo è accigliato, pensieroso, i suoi occhi sono scuri e non è per colpa della notte.
So che c’entra quella telefonata, quella litigata e vorrei aiutarlo, credo. Vorrei farlo sfogare un po’, vorrei che non si tenesse tutto dentro, vorrei che condividesse qualcosa, con qualcuno, che non si costringesse a mantenere quella sua aria da duro, vorrei che capisse che non succede nulla, che va bene lo stesso essere fragili, per un attimo, si può cadere e poi rimettersi in piedi.
Non toglie niente al suo essere forte, perché lui lo è, non importa il modo in cui l’ho sentito urlare, la rabbia e il gelo che gli uscivano fuori, non importa neanche l’immagine di lui che non avevo mai visto.
Lui è coraggioso, lui è quello che ha iniziato ad abitare da solo a diciotto anni, quando i suoi si sono trasferiti dopo la nascita di suo fratello, lui è quello che è vissuto da solo per quasi nove anni fino ad oggi e forse lo era già da prima.
Forse la sua decisione di non seguire la sua famiglia ha a che fare con questo ma non se sono sicura, lui non ha voluto dirmelo e a Caroline non ho voluto chiedere.
Non riesco ad immaginare come un ragazzo di diciotto anni riesca a vivere da solo, a gestire l’ultimo anno di scuola, il lavoro, la casa, le responsabilità, il diventare un uomo senza nessuno. So solo che Caroline e sua madre gli sono state molto vicine, il resto non mi è dato saperlo.
Non mi era mai interessato, la vita di Damon, come migliore amico della mia migliore amica, mi riguardava solo in parte, ho sempre saputo il minimo indispensabile, un po’ perché lui è sempre stato molto riservato, un po’ perché Caroline l’ha sempre tenuto per sé, come ha tenuto per sé quella che è la mia di vita.
Ora invece vorrei proprio capirlo da dove gli viene quella tristezza che leggo nei suoi occhi, quel senso di non essere all’altezza che non gli ho mai visto e che non pensavo, uno come lui, potesse mai provare.
Invece è lì, ad echeggiare sul suo viso, sul suo corpo immobile, sdraiato, con le braccia serrate sul petto, la mascella contratta e i muscoli tirati.
Vorrei avvicinarmi ma ho ancora quella paura di dargli fastidio con la mia presenza, di invaderlo in un momento e uno spazio che è suo e in cui non mi ha dato il permesso di entrare.
Così resto lì, poggiata sullo stipite della porta, le mani nelle tasche dei pantaloncini e lo sguardo al cielo, rivolto a quelle stelle che spero di veder cadere, per affidargli qualche desiderio nascosto.
Gli do tempo, mi do tempo.
Poi, improvvisamente, sospirando, si ridesta e sembra prendere coscienza della mia presenza ancora lì, in piedi ed immobile.
Si volta verso di me e mi sorride, stavolta le sue labbra si aprono in un riso caldo, dolce, con entrambi gli angoli della bocca e anche i suoi occhi si schiariscono, tornano un po’ più blu, come l’acqua in alto mare.
«Che fai, rimani lì impalata?» mi sussurra e fa un cenno con la testa, sposta leggermente le gambe, le tira di più a sé e si raddrizza leggermente per farmi posto.
Io mi avvicino, adagio, attenta a non invaderlo, mi siedo ai suoi piedi, sul bordo della sdraio e gli sorrido di rimando.
Non so quanto lui voglia concedermi eppure ci provo, titubante e delicata.
«Tutto ok?»
Lui mi sorride di nuovo, di un sorriso stanco, che non ce la fa a fissarsi ma ci prova, mentre i suoi occhi ci riescono benissimo, si incastrano nei miei e ci restano per un tempo interminabile, che inizia a riscaldarmi dentro, anche se è lui che vorrei provare a riscaldare ora.
Vorrei togliergli quel gelo che sente dentro.
«Più o meno.»
«Problemi con i tuoi?»
«In un certo senso.»
«Sei sempre così enigmatico?» glielo dico per smorzare quella sua aria distante e, in effetti, gli rubo un sorriso sincero.
«Solo quando si tratta di me!»
Me lo dice spavaldo come al solito, misterioso, inarcando il sopracciglio e guardandomi di traverso.
Io sospiro divertita per quel suo tono ora, che sembra tornato un po’ il Damon che conosco e allora resto in silenzio, per non spingermi oltre, dove non vuole arrivare neanche lui.
Torniamo a guardare il cielo ma è lui a rompere il silenzio, a parlare senza guardarmi, con lo sguardo rivolto ancora verso l’alto.
«Avevo detto a mio fratello che sarei andato da lui questo fine settimana ma non l’ho fatto e mi sono dimenticato di avvertire che non potevo. C’è rimasto male e ho finito per litigare come al solito con mia madre.» mi spiega, veloce, con pochi fiati tra una parola e l’altra, come se prendere un respiro lungo o fermarsi, potesse impedirgli di continuare.
Io lo guardo stupita, per quella rivelazione, quel tono neutrale, a cui si è sforzato di non dare un’accezione di nessun tipo ma che è evidente gli faccia male, che la storia con la sua famiglia bruci su una ferita ancora aperta.
Sale sugli occhi, sulla pelle, sul cuore.
«Te lo sei dimenticato, non è la fine del mondo, non l’hai fatto apposta, rimedierai. Sono sicura che ti avrà già perdonato e anche tua madre, non sempre si pensano davvero le cose che si dicono mentre si litiga.» azzardo, provando a ridefinire quella situazione, a fargliela vedere sotto un’altra luce, una luce in qualche modo positiva.
Lui mi fissa con sospetto e in un attimo crolla il mio coraggio, ho timore di aver detto qualcosa di sbagliato, di essermi intromessa troppo.
«Invece quelli sono gli unici momenti in cui si dice la verità.»
Mi penetra le ossa con il suo tono freddo, duro, quasi arrabbiato, io abbasso lo sguardo mordendomi il labbro inferiore e stringendo le mani tra le gambe accavallate, pur di non incontrare il suo.
«Scusa…» si affretta però a dire, a rimediare, a ritrovare i miei occhi, a cambiare tono, voce, sguardo.
Lo fa immediatamente, non come me che devo cercare prima tutte le uscite d’emergenza per sentirmi al sicuro e poi offrire una seconda possibilità. Che devo calcolare le conseguenze, le alternative, che devo avere sotto controllo tutto.
Non come me che fuggo ancor prima di capire se c’è realmente un pericolo, mi creo vie di fuga prima ancora di averne bisogno, sempre piena di inutili difese contro non so neanche io chi o cosa. Damon non fugge, o meglio lo fa ma in un modo più forte, più evidente, lui attacca quando si sente messo allo scoperto e alle strette, eppure subito dopo, nell’attimo successivo, rimedia, si pente, cura le ferite che lascia. E’ schietto e non ha paura di esserlo.
Io mi nascondo, copro le mie fughe con false tracce.
Il risultato però è lo stesso, fuggiamo entrambi da noi stessi e vogliamo la stessa cosa, abbiamo le stesse paure e gli stessi desideri.
«E’ un rapporto complicato, quello con i miei.» continua, distraendomi dai miei pensieri e riportando la mia attenzione a lui.
Io tiro su le gambe e le stringo al petto, poggiandovi sopra il mento, mi volto completamente verso Damon e verso quella fessura sulla sua vita che mi sono forse guadagnata e mi sta concedendo.
«E’ per questo che non sei andato con loro, quando si sono trasferiti?» chiedo, esitante, consapevole che potrebbe richiudere quello spiraglio in qualsiasi momento, a qualsiasi gesto, parola o tono sbagliato.
Per questo misuro le parole, la mia voce e resto ferma. Sto attenta perfino a respirare.
Lui mi lascia ancora intravedere qualcosa, mi lascia spiare dalla porta.
«Diciamo che non ho avuto scelta.»
«Una scelta c’è sempre..»
«Dipende da quel che costa.»
Sposta lo sguardo dai miei occhi e lo fa vagare nella piscina, specchiandosi in quell’azzurro che i suoi occhi non riescono a trattenere questa notte.
«Quando qualcuno ti dice che ha già preso una decisione, che preferisce far crescere il proprio figlio in un posto migliore di quello in cui sei cresciuto tu, quando quel figlio è la loro seconda opportunità di essere felici, di essere dei bravi genitori e tu gli ricordi soltanto uno sbaglio adolescenziale. Allora non hai scelta, devi scegliere te. Ti devi salvare da solo.»
Io sono paralizzata, ho smesso di respirare, non riesco a muovere un muscolo, tanto sono spiazzata dalla sua confessione.
E’ lui a ridarmi il fiato, riportando i suoi occhi nei miei e regalandomi un sorriso sarcastico, quasi indifferente, senza emozioni. Ma io lo so che le ha, le vedo, le sento addosso ed è straziante vederlo in quel modo, pensare che abbia dovuto spingere nel fondo più lontano della sua anima i suoi sentimenti, li abbia dovuti nascondere e trasformare in beffa, distacco, corazze.
Non lo merita, qualunque cosa sia accaduta tra tutti loro, non lo merita.
Nessun figlio merita di sentirsi colpevole e non all’altezza delle mancanze e degli errori dei propri genitori, a nessun figlio andrebbero addossate responsabilità troppo grandi e che non sono sue, solo per pulirsi la coscienza, per averla più leggera e far finta di ricominciare, credere che sia possibile rimediare, avere una seconda possibilità, senza curarsi delle conseguenze che le loro azioni lasciano sulla strada.
E sulla strada ci hanno lasciato un figlio, ci hanno lasciato un uomo che si è fatto da solo eppure non si sente all’altezza di sé, non si riconosce se non nei suoi errori e mancanze. Un uomo che non riesce a legarsi a niente e nessuno perché non sa come si fa, perché nessuno glielo ha mostrato. Nessuno si è mai davvero legato a lui talmente tanto da fargli vedere com’è, cosa si prova, come si sta in quell’amore incondizionato.
Su quella strada ci hanno lasciato Damon, che ora è qui, davanti a me, a struggersi per una discussione di cui non aveva colpa.
Mi si spezza il cuore vedere come i suoi genitori non ricambino quell’amore che lui, invece, umanamente prova e nasconde sotto la sua armatura, che loro non riescano a vederlo, quando al contrario mi sembra così evidente, così tangibile, tanto da sentirlo anche addosso alla sua pelle mentre gli sfioro il ginocchio con la mano.
«Mi dispiace…»
Damon rilassa lo sguardo, la fronte, la mascella, il cuore.
«Non è mica colpa tua! Mia madre si attaccherebbe a tutto pur di difendere mio fratello..»
«No, non per il litigio…»
Indietreggia la testa impercettibilmente, per osservarmi meglio e studiarmi, cercando il senso di quelle mie parole, di quel mio sguardo deciso, amareggiato, accogliente.
Lo trova, lo capisce, perché fa un cenno di assenso con la testa, sorride in un sospiro.
«Grazie.» me lo sussurra appena e glielo leggo negli occhi che è sincero.
Si alza un po’ di più con il busto, punta i gomiti sul cuscino della sdraio e cambia espressione.
E’ più rilassato ora, più caldo forse e mi sorride, finalmente, anche con gli occhi, che si aprono un po’ di più.
Quei meravigliosi occhi che mi entrano dentro e mi mandano in confusione ed è lui ora che vuole spingersi un po’ dentro di me, vuole sbirciare dietro il mio muro, dentro la soglia della mia di casa.
Per questo mi passa la palla.
«E tu miss perfettina, tutti arcobaleni ed unicorni con i tuoi?»
«Non proprio. Mio padre è morto circa due anni fa, in un incidente d’auto.»
 
 
 
 
 
Damon
 
 
Mi paralizzo. Tentenno, allargo lo sguardo, disorientato, spiazzato, in colpa.
Non lo sapevo, Caroline non me l’ha mai detto, glielo avevo chiesto ingenuamente per smorzare la mia tristezza che lei è stata così brava a cogliere e portarsi via, volevo portare un po’ d’allegria e spensieratezza che la sua famiglia, che è così tanto famiglia, pensavo potesse avere. Invece mi spiazza e non so come reagire, ho paura di averle fatto male nel ricordarglielo e nell’averglielo tirato fuori così, senza preavviso, senza delicatezza.
E penso che sono un idiota nel credere che lei avesse potuto dimenticarlo, nel credere che una cosa del genere possa dimenticarsi ad un certo punto della vita e aver supposto che la storia della mia vita potesse essere più triste, sbagliata, complicata della sua.
Penso a quanto paziente sia stata nell’ascoltarmi, a quando dolore abbia dovuto mettere da parte, lei che una famiglia ce l’ha solo a metà. Mi sento in colpa per essermi impadronito del diritto di soffrire per una stupida discussione, quando lei di sofferenza ne è invasa, ne ha piena la pelle.
«Io.. mi dispiace Elena.» le dico anch’io, toccato e mortificato.
«Non è mica colpa tua!»
Mi fa l’occhiolino sorridendo con lo stesso sorriso sarcastico che avevo usato io, poco fa, ma io sono più bravo, lei non lo sa tenere ed infatti le sue labbra si trasformano in un sorriso triste.
Sospira, mi guarda soltanto adesso, senza barriere e capisco che si è lasciata toccare dal mio dispiacere, che l’ha fatto entrare.
«Per questo sei andata a vivere da sola?» le chiedo perché adesso anch’io comincio a ricomporre i pezzi di una vita che conosco a metà.
«Esatto. Non riuscivo a stare più in una casa dove respiravo la sua presenza ovunque. Mi sentivo soffocare da tutto e tutti. Non riuscivo ad andare avanti e ne avevo estremo bisogno.»
«Ti sei salvata da sola anche tu.»
Non è una domanda, è una constatazione la mia, che vuole restituirle un po’ di forza che non crede di avere, per questo non risponde, si ferma a rifletterci su e forse, in fondo, sta pensando anche lei che in questo siamo uguali.
Che ci stiamo salvando da soli. Per motivi diversi, con un percorso diverso ma abbiamo fatto la stessa scelta, lo so io e, ora, so che lo sa anche lei quanto coraggio ci voglia per farlo.
Per mettersi alla prova, per crescere, per vivere davvero, senza scuse. Per non scegliere di restare incastrati in legami che ti annientano, ti soffocano, ti fanno male, ti tagliano le ali, ti riportano indietro, sempre, come fossero catene ma sono sicuri.
Ci vuole forza per scegliere l’indipendenza invece della sicurezza, per andare invece di restare.
Vorrei dirglielo che è forte e coraggiosa, perché ora mi sta guardando con uno sguardo un po’ più fiero, rincuorato, però piccolo, indifeso, quasi si sentisse in colpa per quella decisione che ha preso.
Infatti me lo conferma senza che glielo chieda.
«E’ difficile però… andare avanti a salvarsi, quando tua madre ti chiede costantemente il perché tu te ne vada in una casa vuota e abitata da un gatto, quando potresti stare lì, in compagnia, a cena, a dormire, a chiacchierare, quando ti chiede cosa tu ci vada a fare in quel posto. Quando non vede quanto ti stai sforzando per crescere. Fa male leggerle nello sguardo il dolore che le dai lasciandola sola, con tuo fratello che c’è e non c’è e dover gestire i sensi di colpa che tutto questo ti provoca. Perché sarebbe davvero facile restare, scegliere di far male a me e non a lei, ancora.»
Me lo dice ferita, con gli occhi grandi che brillano un po’, non so se per il riflesso delle stelle o delle lacrime che le sono salite ma a cui non permette di scivolare giù.
Io ho sempre creduto che si debba pensare prima a sé, non importa quanto faccia male per gli altri, noi veniamo prima di qualsiasi altra cosa. Il senso di colpa è qualcosa che non mi appartiene, a parte rari casi, verso mio fratello che è complice di un gioco che non ha iniziato lui e a volte verso i miei amici, ma  verso gli altri non lo conosco, non lo provo, figuriamoci verso i miei genitori. Loro non lo provano con me, non vedo perché dovrei provarlo io per loro.
Per cui non lo immagino cosa lei possa sentire dentro, quanti conflitti abbia nella sua testa, quante paure, quanto la voglia di essere adulta sia in contrasto con il suo bisogno di essere ancora figlia, di non perdere quel ruolo, quella sicurezza, quell’approvazione, quell’amore.
Non la capisco perché io quell’amore, non l’ho mai conosciuto.
«Pensi che sia un’egoista? Perché in fondo non mi costerebbe nulla tornare a vivere con mia madre e mio fratello, farla felice ed essere comunque autonoma e adulta.» lo chiede come se davvero ci si sentisse un’egoista, come se il mio parere fosse per lei fondamentale per avvalorare o screditare la sua scelta.
Lo chiede perché si sente in colpa, per cercare una sicurezza che le manca.
«Il fatto che tu me lo chieda e che dopo due anni non sia ancora tornata da loro, non ti rende molto credibile!»
Non voglio risponderle, voglio solo farle vedere che, se ancora non è tornata indietro, forse è ora di lasciarsi alle spalle tutti quei sensi di colpa e quei dubbi, tutte quelle insicurezze e andare davvero avanti.
«E’ che mi sento incastrata. Non so cosa fare.»
«Io credo che tu lo sappia Elena ma ti spaventa farlo. Ti spaventa dover contare soltanto su di te e hai paura di perdere anche l’amore di tua madre, così la usi come scusa..»
Come al solito, nonostante il distacco che volevo mantenere mi ritrovo a dar fiato alla bocca e sbattergli in faccia, seppur nel modo più gentile che conosco e con un sorriso caldo, quella che secondo me è la verità.
E capisco che lo è, perché indietreggia, si stringe ancora di più le gambe al petto e distoglie lo sguardo, abbassandolo. Non si muove, non porta dietro l’orecchio neanche quella ciocca che le è scesa sul viso e le sta dando fastidio.
Fragile e di cristallo Elena, eppure dura come il marmo.
Resta in silenzio e non parlo neanche io, pensando di aver fatto una cazzata a dirle quelle cose, perché magari non le voleva ascoltare, magari la sua domanda non voleva davvero una risposta sincera. Forse avrebbe preferito una risposta di circostanza, che le desse quel coraggio e quella sicurezza che non ha, eppure io non riesco a fingere come lei, se mi fa una domanda io le rispondo, con tutte le conseguenze del caso, che poi starà a lei gestire come vuole.
Invece torna ad alzare lo sguardo, mi sorride, quasi sollevata, spiazzata dalla mia schiettezza e probabilmente grata.
Io le faccio un cenno del capo, come a dirle ‘non c’è di ché’ e lei lo interpreta come la conclusione di quella nostra lunga e profonda conversazione, che non avrei mai immaginato di poter fare, di riuscire a sostenere.
Si alza, piano e ancora con le labbra incurvate in un riso ora più dolce, mi passa accanto, per rientrare in casa.
Io però le blocco il polso, la riavvicino a me, di nuovo, mi scosto un po’ per farle posto.
Voglio sentirla ancora un po’, accanto a me, vicino a me.
Non sono pronto a lasciare andare, a lasciar andare questo momento, a lasciarla in balia di se stessa, a restare solo.
Si sdraia affianco a me, io le passo un braccio intorno al collo e restiamo lì, senza toccarci ulteriormente, senza accendere una miccia che forse, in questo momento, non sento il bisogno di innescare.
Ci sfioriamo appena, con il corpo, con la pelle, con il cuore.
 
 
 
 
 



____________________________________
 
Ciao a tutte!
 
Spero siate arrivate fino alla fine senza annoiarvi perché si è un po’ più lungo questo capitolo ma stiamo entrando nella storia e avrei voluto pubblicarlo molto prima, solo non riuscivo ad interrompermi e a concluderlo, quindi ve lo lascio così, tutto, ora!
Ho iniziato con quella leggerezza che volevo mantenere, con cui volevo vestire Elena, per concludere invece con quelle che sono ombre in entrambi.
Spero non sia risultata pesante l’ultima parte.. ma a parte la dimensione di ciò che entrambi raccontano, si sono scoperti molto più vicini di quanto pensassero e si sono “toccati”  in modo diverso.
E’ un capitolo di luci ed ombre se volete!


Buona domenica a tutte!
E a presto, spero. Un bacio!

_Ale

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Capitolo 5
*** Capitolo 4° ***


Davanti a una pagina bianca, davanti a tutto quello che manca.
E con in testa un pensiero solo, un pensiero disteso, raso al suolo.
Come una specie di telecomando per tornare a dove, tornare a quando…
L'aria sul viso pungeva e la terra sotto ai piedi scottava e a me davvero non importava,
Era tutto perfetto, sognare in un letto e…
Non volere niente… Non cercare niente…
Davanti a qualche sogno di un altro, davanti a una centrale d’asfalto,
con gli occhi aperti, spalancati, in cerca di qualche meta.
Con quella voglia di tornare a casa e stavolta fargliela vedere, pagare.
Con quella voglia di girare i piedi e trovare la forza, il coraggio di andare!
 
(Elisa_Pagina Bianca)
 
 
 
 
 
 
Elena
 
 
Quando ero piccola mi piaceva entrare nel grande armadio dei miei genitori, chiudermi lì dentro e rannicchiarmi tra i vari abiti appesi di mia madre e le giacche di mio padre.
Mi piaceva l’odore che potevo respirare lì dentro, mi sembrava di essere avvolta e abbracciata costantemente dai miei genitori, mi sembrava di poter fermare il tempo, sentire la loro presenza, il loro amore, qualunque cosa fosse accaduta fuori, qualunque ragione mi avesse spinta ad entrare lì.
Ne respiravo l’essenza, chiudevo gli occhi e non avevo più paura.
La prima volta che l’ho fatto avevo litigato con mio padre, avevo sei anni.
Me lo ricordo perché io e lui non avevamo mai discusso, d'altronde di cosa si può discutere davvero con una bambina così piccola? Eppure, quella volta, mio padre si arrabbiò moltissimo, mi guardò con degli occhi di fuoco e le mani che pulsavano, era immobile e io lo ero di riflesso, davanti a lui.
Ci guardavamo sfidandoci, io tenevo il suo sguardo con sfrontato coraggio, che ora come ora non saprei dove ritrovare, lui con ira funesta.
Non aveva mai alzato le mani su di me, mai, neanche una sculacciata sul sedere per qualche mia marachella, niente di niente ma quella volta, quella fu l’unica volta che mi diede uno schiaffo.
Avevo distrutto un lavoro che stava portando avanti da mesi, un modellino in scala per un progetto di ristrutturazione di un palazzo, era un architetto mio padre, un bravo ed esigente architetto.
L’avevo distrutto volontariamente, non per caso o per distrazione. Proprio intenzionalmente.
Lui mi aveva messo in punizione per aver risposto male a mia madre, per averle urlato che la odiavo, che era una pessima mamma, che sarebbe stato meglio se morisse, non ricordo neanche il perché di quell’odio in quel momento con lei, visto che di comprensioni tra di noi ce ne sono state a bizzeffe, ma ricordo di aver detestato anche mio padre per aver preso le sue difese.
Ricordo di essere salita nel suo ufficio, al secondo piano della nostra casa, aver visto quel modellino sul tavolo della sua scrivania e averlo scaraventato in terra frantumandolo in mille pezzi.
Volevo punirlo per non avermi difeso, volevo fargli male per la delusione che lui aveva provocato in me.
Quando mio padre mi raggiunse attirato dal rumore, io me ne ero già pentita ma orgogliosa com’ero e come sono, l’ho fronteggiato, rimediandomi un sonoro schiaffo sulla guancia destra.
E’ allora che sono entrata nel loro armadio a muro, mi sono rannicchiata e ho iniziato a piangere, non l’ho fatto davanti a lui, non gli avrei mai concesso di vedermi piangere, io così dura e già donna, ho resistito fino alla fine poi, nel buio, da sola, sono scoppiata.
Ho singhiozzato fino a non riuscire più a respirare, poi, quando ho ispirato profondamente per calmarmi, ho inalato tutto il loro odore, tutta la loro essenza, tutto il profumo che veniva dalle loro cose. Ossigeno per l’anima e per quelle mie lacrime amare.
Ho ispirato la loro presenza, mi erano vicini, addosso, il loro odore mi aveva cosparsa in ogni mia cellula.
Mi sono sentita accolta, contenuta, nonostante tutto, nonostante i miei errori, le mie sfide, le mie rivalse, le mie gelosie, nonostante i miei capricci, i miei difetti, il mio orgoglio, mi sono sentita amata nonostante me.
Essere amata, nonostante.
Questo ho imparato da loro. Questo mi ha lasciato mio padre.
E l’ho imparato perché nonostante tutto quello che avevo combinato, quando ho alzato finalmente gli occhi, nascosti tra quelle braccia che stringevano fortissime le mie gambe raggomitolate, ho trovato lui.
Ho trovato i suoi occhi di nuovo pieni di me, le sue mani, il suo sorriso dolce, il suo amore, che era ancora tutto lì, non un po’ di meno o incrinato, tutto, intatto e profondamente lì.
Ho trovato la forza di chiedere scusa, tra le mille lacrime che avevano ricominciato a scendere, su di me, su di lui, che ora mi stringeva forte. Arrabbiato ancora, ma pentito per quel gesto, per quella violenza che mi aveva spezzato il cuore, per quell’ira che aveva avuto il sopravvento su entrambi, in colpa per quelle mani che mi avevano fatto crescere all’improvviso, sbattendomi addosso la parte oscura di ognuno di noi, facendomi entrare di diritto nel mondo e in quella paura di perdere l’amore di chi si ama, di rovinarlo. Di vedermelo sbattere addosso ed infrangersi insieme alle mie illusioni ed aspettative.
Ho trovato la sua voce che mi chiamava principessa e più lui stringeva, più mi sentivo sbagliata e accolta nello stesso momento. Accolta per quel mio essere sbagliata. In colpa per tutto quell’amore che non sentivo più di meritare così tanto. Arrabbiata per quel suo venirmi a riprendere, a riprendersi il suo amore e anche il mio, per non avermi lasciato lì, da sola, con tutti i miei sbagli e tutto il mio orgoglio, perché me lo meritavo.
Invece lui era lì, ad amarmi, nonostante.
Me lo ricordo perché ho iniziato ad amarlo ancora di più, da quel giorno.
E da quel giorno ho imparato anche cosa significasse ricostruire.
Un legame, un amore, un modellino.
Ho passato la notte, quella sera, ad aiutare mio padre a ricostruire quel progetto, a rimettere insieme i pezzi, a ricucire quegli strappi, miei, suoi, nostri.  Mi sono addormentata alle quattro del mattino sulla sua poltrona e mi sono risvegliata nel mio letto, al caldo, mentre lui ha continuato a lavorare, tra il sonno e i caffè.
Mi ha insegnato cosa significa impegnarsi per ricostruire qualcosa che si è rotto. Ho imparato che non si può tornare indietro dopo un errore, ci si può solo rimboccare le maniche per andare avanti, per rimediare dove è possibile o costruire qualcosa di nuovo.
Ho imparato che il dolore non si cancella, non svanisce, solo perché hai rimesso insieme i pezzi, o quel rossore se ne è andato, ma si cura.
Si cura, nonostante.
Quando lui se ne è andato, d’improvviso, in una mattina normale, in un giorno normale, anonimo, mentre andava al lavoro, con un camion che gli è andato addosso non rispettando uno stop, ho sentito di nuovo quello schiaffo.
Ma lo schiaffo, quel giorno, me l’ha scagliato il mondo intero.
E in quel momento non c’era nessuno che sarebbe venuto a riprendermi. Che avrebbe curato con l’amore quel dolore.
Quella mattina ho imparato cosa significasse perdere quell’amore davvero. Senza via di fuga, senza scampo, senza premi di consolazione.
Ho imparato cosa significhi perdere se stessi. Perdere la propria vita, non riconoscersi più, non sapere più chi si è, né come ritrovarsi. Perché tutto ciò che eri prima, tutto ciò che facevi, tutte le cose che vivevi anche con altre persone, erano in qualche modo legate a quell’amore, a quella persona che te lo dava.
Perdere lui ha significato perdere anche tutto questo.
Significa non sapere più come ritrovare questo, né quelle persone.
Ho perso tutto e tutti quando lui se ne è andato, non riuscivo ad afferrare più niente e nessuno e sapevo che non le avrei mai più ritrovate quelle cose, sapevo di aver perso anche una parte di quelle persone che erano legate a me tramite quell’amore. Sapevo, di aver perso quei sorrisi complici che io e mia madre ci scambiavamo quando gli nascondevamo un segreto e lui faceva finta di arrabbiarsi. Sapevo, di aver perso lo sguardo di Jeremy che lo guardava orgoglioso quando vinceva una partita di football e alzava gli occhi per incontrare quelli di nostro padre, sugli spalti, che riflettevano la stessa emozione.
Non le avrei più riviste quelle cose, più rivissute.
Ho visto la mia vita interrompersi, lasciandomi senza nessuno strappo da riparare, senza pezzi da poter rimettere insieme, rincollare.
Ho imparato cos’è il vuoto quando si trasforma in assenza incolmabile.
Ho perso il fiato, versato tutte le lacrime che avevo in corpo, ho sentito il bisogno di esplodere, di strapparmi di dosso quel corpo che mi stava limitando, perché tutto quel dolore non riuscivo proprio a contenerlo, a controllarlo, non sapevo dove metterlo e allora doveva buttarlo fuori in qualche modo, come un bicchiere troppo pieno che alla fine strabocca inevitabilmente. Solo che da me, più acqua usciva e più ce n’era e non c’era nessun recipiente che potesse raccoglierla, mi ritornava dentro lasciandomi affogare.
Perdere una delle persone che più hai amato in tutta la tua vita è un dolore devastante, che ti annienta, ti spezza le gambe, il fiato, ti cancella e se riesci, per caso, a restare ancora vivo dopo tutto questo, ti lascia nudo, con le spalle al muro. Perché non puoi andare avanti dopo un dolore del genere, non puoi essere così sciocco da pensare che passerà, che andrà meglio, che ti farà meno male e ti abituerai, no, non passa niente, il dolore resta ed è esattamente lo stesso, solo che alla fine, sei troppo stanca. Il corpo si adatta a quel vuoto, si modella sopra di esso, inizi a costruirci intorno, di lato, trovi altro spazio per quel mare che continua a straboccare ma che pian piano il tuo corpo assorbe, perché ormai fa parte di te.
Allora o ti lasci annegare davvero o cerchi di ritornare a riva, viva possibilmente e ricominciare da capo, nonostante.
 
Ci ho provato a ricominciare da capo, ci ho provato a costruirmi una nuova vita, ci ho provato quando ho deciso di andare via di casa, di uscire da quel dolore e provare a vedere se ero in grado di imparare a nuotare.
Ci sono sere, in cui ancora mi dimentico che non devo respirare quando sono sott’acqua e finisco per bere, l’acqua salata finisce per entrarmi in gola, farmi tossire, uscirmi dal naso, dagli occhi e lasciarmi quella sensazione di quando qualcosa ti va di traverso e no riesci a liberartene, ti brucia dentro.
Sono io che mi vado di traverso, è di me che non riesco a liberarmi, che invece di ricominciare, torno indietro.
Così come sono tornata indietro ora, mentre mi ritrovo davanti a questo armadio in camera di mia madre, che ora è diventato solo suo, nonostante ancora ci sia un piccolo angolo con i vestiti di papà, quelli che lei non è riuscita a dare via.
Sono tornata indietro, restando a dormire in questa casa, al ritorno da questo strano week end appena passato, in questa casa che è stata la mia per ventitre anni, prima che iniziassi a vivere da sola.
Avevo bisogno di calore, di certezze, di ritrovare me, una qualsiasi versione di me, perché non lo so chi sto diventando, non lo so cosa sto cercando, né chi sto rincorrendo.
 
 
«Scusa perché, non ho la faccia da bravo ragazzo?»
Damon ci sta rifilando la sua aria da finto angioletto, sta sbattendo le palpebre come un cerbiatto innamorato e ha un sorriso tirato in una smorfia più che in sorriso vero, ma ovviamente non riuscirebbe ad abbindolare nessuno.
Quella da bravo ragazzo, non è di certo la faccia che più gli si addice.
Siamo a cena in un ristorante sul mare, a due passi dal molo di Santa Monica, l’Oceano davanti a noi è immenso, rumoroso, di un blu che non ti da scampo, ti attira senza possibilità di scelta.
Io fatico a staccare gli occhi e fissare l'attenzione sugli altri, a concentrarmi su Damon che mi siede accanto, fatico perché se lo faccio, poi, non ho più difese per proteggermi da lui e da ciò che mi sta provocando.
Era un altro quando si è svegliato questa mattina, era tornato ad alzare le sue barriere, aveva indossato di nuovo i suoi occhi di ghiaccio e la sua facciata inarrivabile.
Lo è stato per tutto il giorno, seppur ogni tanto lo vedevo che non ce la faceva più e allora si rilassava, si lasciava andare e ritornava il Damon che conosco, il Damon che mi piace, che mi stuzzica, che rende intenso e profondo anche un semplice sguardo, quello che ti guarda e non esiste più niente.
E stasera è decisamente più rilassato, forse stanco, ha abbassato di qualche metro le sue barriere ma sta riservando tutto se stesso alla cameriera che ci sta servendo e io non riesco a guardarlo, non riesco neanche a voltarmi verso di lui, gli do quasi le spalle fingendo di trovare interessante i discorsi tra Bonnie e Caroline sull’arredamento, raffinato e ricercato, di questo posto.
A Damon piace provocare, non riesce proprio a farne a meno, anche soltanto mentre le chiedeva quale fosse la loro specialità del giorno, la guardava con i suoi occhi azzurri, sicuri, seducenti, fissi in quelli anonimi di lei che, piuttosto narcisista ed esibizionista, non ha potuto che accrescere il suo già enorme ego.
Per questo Caroline l’ha ammonito con una battuta, non tanto involontaria, per quel suo modo di fare e lui le ha rifilato quella domanda, a cui non crede ovviamente neanche lui.
«Damon, la tua faccia non ha neanche un pelo del sopracciglio del bravo ragazzo!» lo incalza Ric, alzando un bicchiere di vino e facendo un finto brindisi in aria, verso di lui, che di tutta risposta gli fa l’occhiolino, ammiccando e alzando proprio il sopracciglio.
«Ecco, direi che hai più una faccia accattivante, da uomo misterioso, che sa di piacere, ma finge di non saperlo e ci gioca a suo piacimento!» conclude Caroline, incrociando le braccia sotto al petto e guardandolo come se lo stesse studiando.
Lui ride, inclinando la testa indietro e portando una mano sul petto, come l’ho visto fare già una volta mentre si prendeva gioco di me, poi lo fa.
Si volta, ancora con il sorriso sulle labbra, su di me, che, per un momento, mi ero rilassata sullo schienale della sedia e non mi aspettavo questo suo cambio repentino di rotta, quindi resto disarmata.
Poggia il gomito sul tavolo, porta la mano chiusa a pugno sotto il mento, il labbro inferiore girato in un broncio e il viso proteso verso di me.
«Avanti, puoi infierire anche tu se vuoi! Che faccia avrei?»
Una faccia che mi piace un po’ troppo, che mi sta facendo impazzire, che mi sta facendo arrossire e non ho la più pallida idea di come nasconderlo.
Sento il cuore arrivarmi in gola, il suo odore addosso, i suoi occhi dentro i miei e il respiro spezzarsi fin dai polmoni. Devo spostare lo sguardo, provare a ricompormi, sistemarmi in modo più eretto sulla sedia, mordermi un labbro e spostarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima di rispondere.
Apro la bocca per provare ad inventare qualcosa, una cosa qualsiasi, una cosa che possa lontanamente essere plausibile, senza svelare ciò che penso davvero.
Non la trovo, non so assolutamente cosa rispondere a quella domanda, a quei suoi occhi, non ce la faccio a pensare mentre devo sfuggire al suo sguardo, mentre me lo sento scivolarmi addosso.
Sono spiazzata, le mie emozioni vincono di nuovo sul mio cervello, che si annebbia e mi sento una stupida, una ragazzina che arrossisce davanti alla sua cotta adolescenziale.
Lui lo vede, lo so che lo vede perché è ad un palmo da me, mi strizza l’occhio e mi sorride dolce, veloce, di sfuggita, prima di essere interrotto dall’arrivo della tronfia cameriera che gli porge il piatto con un altrettanto sorrisetto, che di dolce non ha un bel niente.
Io mi spalmo sullo schienale della mia sedia, con le braccia lungo i fianchi, sfinita, come se avessi dovuto sostenere un eruzione di calore ed emozioni dentro di me e ora mi stesse scivolando via dal corpo.
Non ho idea di quanto sia durata quella cena, di cosa i nostri amici abbiano visto o capito, di cosa abbiano parlato, di quale sia stata la mia espressione per tutto il resto della serata.
Ho provato a fingere, dopo aver ripreso il controllo di me, di essere insensibile a lui, alle sue battute, alle sue occhiate a me, alla cameriera, agli incoraggiamenti di Ric che lo spingeva a farsi lasciare il numero da lei.
Me lo sono chiesta come facesse, come riuscisse a provocarmi e poi a tirarsi indietro, mi sono chiesta se fossi solo io a provare certe cose, se per lui fosse davvero solo un gioco, perché sapeva di piacere.
Mi sono chiesta perché mi sfiorasse la schiena, distrattamente, mentre gli davo le spalle per l’ennesima volta, perché avesse poggiato il braccio sulla mia sedia.
Me lo chiedo chi sia il vero Damon Salvatore, se questo che mi accarezza, se quello di ieri notte che mi trattiene con sé nel buio della notte, se quello che mi sfiora le labbra imbarazzato quando nessuno ci guarda, o se quello distante, inarrivabile, con lo sguardo di ghiaccio che aveva oggi mentre eravamo al mare tutti insieme, mentre flirta con una cameriera come se non esistessi.
Ma non riesco a darmi una risposta, mi spiazza, mi confonde, mi fa sentire la donna più desiderata al mondo e quella più invisibile, non riesco a definirlo, a congiungere le sue due parti, nonostante tutto.
Non lo so neanche io cosa voglio da lui, vorrei una relazione, vorrei un uomo perfetto, che mi capisse, mi facesse sentire amata ma non soffocata, vorrei un uomo che c’è.
Vorrei toccarlo, vorrei potermi poggiare sullo schienale di questa sedia e lasciare che il suo braccio mi circondi, vorrei poggiargli una mano sul ginocchio e sfiorargli la gamba, mentre parlo con qualcun altro. Solo per il bisogno di avere un contatto con lui, di sentirlo, di sapere che c’è, che ci siamo.
Vorrei delle sicurezze, vorrei chiarezza, ma forse le vorrei prima da me queste cose, che da lui.
Il mio eterno bisogno di avere le cose sotto controllo per non perderle, di definire ogni cosa per non averne paura, di vedere bianche o nere per non perdermi nelle sfumature.
Eppure, se davvero voglio tutto questo, se è questo che sto cercando, devo decidermi a mettermi in gioco, devo scegliere di buttarmi invece che continuare a calarmi, con tanto di corda e imbracature, da questi muri che mi circondano, pronta a risalire su se un sassolino mi scivola da sotto i piedi.
Possibile che non abbia ancora imparato a contare su di me? Che stia scegliendo di volere tutto questo da una persona che so che non lo vuole, solo per far finta di buttarmi e poi dirmi ‘brava, almeno ci hai provato, è lui che non era pronto!’? Possibile invece, che sia io, quella non ancora pronta? Che poi, pronta per cosa… per vivere, per crescere, per lasciarmi amare di nuovo?
 
 
Afferro un cappello di mio padre, un panama color avana con una fascia nera intorno, lo indosso e mi osservo allo specchio facendo le mie solite facce buffe, prendendomi un po’ in giro, smettendo un attimo di prendermi sempre così sul serio. Poi lo tolgo, ci infilo il viso per respirarne l’odore e chiudo gli occhi.
Scendo al piano di sotto con ancora il cappello tra le mani, trovo Jeremy sul divano, davanti alla tv, che litiga con qualche strano zombie, mentre gioca alla sua Xbox, gli sorrido e posando su un mobiletto il cappello, raggiungo mia madre in cucina.
«Lena, ti fermi a pranzo?»
Mi chiede subito, con quella sua solita ansia che cerca di nascondere, per timore che me ne vada, che si ritrovi sola da un momento all’altro.
Per il mio aspetto inarrivabile ed inafferrabile.
«Si mamma, resto ancora un po’ e poi torno a casa.»
«Bè la tua camera è sempre disponibile, come hai potuto vedere! Puoi restare anche stanotte se vuoi.»
Me lo dice con il sorriso, è sottile il suo sguardo ma io lo so cosa le si muove dentro e so cosa si muove in me, il senso di colpa.
Quel senso di colpa che Damon ha ben identificato come una scusa, come una coperta che mi porto dietro, non decidendomi a lasciarla e so che aveva ragione, so che in fondo, nonostante davvero mi ferisca ferire lei, sono io che non voglio crescere davvero, che non voglio lasciare andare le mie certezze per l’incertezza, che mi nascondo qui, in questa casa, per difendermi da me e dal mondo intorno.
Ogni volta è una lotta, per me, con me e con lei.
Resto altre tre ore, pranzo con mia madre e con Jeremy che, inaspettatamente felice di vedermi, mi bombarda di notizie sulla scuola, sul football, sulla sua imminente partita e su quella che capisco essere la fonte di quella strana felicità, la nuova cheerleader della sua squadra.
Mi piace vederlo così, sereno, spontaneo, radioso, sorridente, perché lo merita, lo merita forse anche più di me, che di nostro padre ho potuto godere per quattro anni in più, prima che lui nascesse.
Gli do un bacio sulla guancia e gli scompiglio i capelli mentre lo saluto prima di andare via, do un bacio anche a mia madre e le sorriso dicendole che l’avrei chiamata stasera, poi afferro quel cappello che avevo tirato fuori dall’armadio, lo indosso e mi chiudo la porta alle spalle.
Guido fino alla mia di casa e appena varco la soglia, il contrasto con l’allegria, il calore, l’amore, che mi sono appena lasciata dietro, mi assale senza scampo.
Per fortuna, Caroline sta arrivando.
 
 
 
 
 
 
Damon
 
 
Finalmente anche l’ultimo cliente con cui avevo appuntamento questa mattina se ne è andato, gli ho appena venduto i diritti per un pacchetto sul nord Africa, da proporre nella sua agenzia, comprensivo di volo, soggiorno ed escursioni tra mare e deserto.
Mi rilasso sulla mia poltrona, che si inclina un po’ all’indietro quando poggio i piedi sulla scrivania.
Stiro le braccia per sgranchirle e chiudo gli occhi sbadigliando.
Sono stremato, questo fine settimana non mi ha rilassato granché, ho ancora in mente la voce delusa di mio fratello, l’amaro in bocca di quel senso di colpa che ho provato e negli occhi il riflesso di quel me che mia madre continua a dipingere e io a vedere.
Vorrei andarmene lontano, lasciare tutto e tutti, non parlare più con nessuno, riposarmi e basta.
Dal mondo, dai miei pensieri, da me.
Vorrei prendermi una pausa da me, ricominciare da un’altra parte, dove nessuno mi conosce e poter essere ciò che voglio.
Se solo bastasse scappare e ricominciare per poter essere diverso, migliore, lo farei anche adesso. Purtroppo l’ho capito da quando i miei si sono trasferiti che scappare non migliora niente, bisogna restare e pagare tutte le schifezze che si è.
Solo così ci si salva.
Quando riapro gli occhi scorro con lo sguardo sul depliant accanto al mio computer, quello che ormai conosco a memoria, quello sulla Scandinavia, perché ce l’ho lì da un mese circa e nonostante non voglia davvero scappare lì, per qualche mese mi ci perderei volentieri.
Ogni volta che vedo quelle distese di neve, prati, rocce, fiumi, laghi, montagne che scendono a picco sul mare, sogno di respirarne l’aria, un giorno.
Io, che di posti nel mondo ne ho visitati tantissimi, per lavoro e non, desidero andarmene lì, arrivare a Copenaghen, che seppur fuori dalla Scandinavia vorrei comunque vedere, e risalire su, fino a Capo Nord, con la mia moto magari o con una macchina affittata e lo zaino in spalla, passando per i fiordi della Norvegia, scendendo per le vallate verdi della Svezia e arrivare nella fredda Finlandia, che però mi riscalderebbe gli occhi e l’anima con i suoi paesaggi innevati e le sue atmosfere d’altri tempi.
Ci andrò, prima o poi.
Per il momento, dato che non ho più lavoro per oggi e quel senso di colpa invece è sempre lì, mi decido a sfruttare il resto della giornata per andare a prendere mio fratello a scuola e passare il pomeriggio con lui.
Prendo il casco, le chiavi della moto, il giubbotto ed esco, chiudendo a chiave l’agenzia.
 
«Damon Salvatore?»
Giro appena il viso verso la voce alle mie spalle, ancora con le chiavi nella serratura.
Un uomo elegante, in giacca e camicia, con i capelli pettinati, che neanche il leggero vento di questo momento gli scompone, un atteggiamento fiero, sicuro, come la sua voce, è proprio ad un passo da me.
«In persona, chi lo desidera?»
«Sono Elijah Mikaelson.  Dovrei parlarle.»
Alzo un sopracciglio e mi volto del tutto per squadrarlo meglio.
Mi sta porgendo la mano e sembra determinato nel non lasciarmi fuggire, come invece avevo preventivato.
Tuttavia ci provo, stringendogli comunque la mano in modo deciso.
«Mi spiace signor Mikaelson ma stavo andando via. Se vuole possiamo risentirci e prendere un appuntamento.»
Lui non si scompone, come previsto.
«Mi creda signor Salvatore, è qualcosa di importante e che la riguarda personalmente.»
«Lei chi è mi scusi?»
«Sono un ispettore, mi sto interessando di un caso che la riguarda.»
Non ho scampo e sono anche piuttosto incuriosito e preoccupato, quindi giro di nuovo le chiavi nella serratura e riapro la porta che avevo appena chiuso.
Gli faccio cenno di accomodarsi e lo seguo, buttando sul divano in pelle accanto alla porta giubbotto, casco e chiavi, lì dove erano fino ad un attimo prima.
Lui si accomoda senza permesso sulla sedia davanti alla mia scrivania, poggia accuratamente la sua giacca sulla spalliera della sedia accanto ed inizia a cercare e tirare fuori, dalla sua cartellina, fogli che non capisco.
Faccio il giro della scrivania e mi siedo anch’io, sulla mia poltrona, incrociando le braccia, per mettere distanza e una barriera a questa atmosfera che si sta facendo pesante.
Lui ancora non parla, ha gli occhi fissi su quei fogli in cerca di qualcosa e io inizio ad essere più inquieto che curioso.
«Che succede? Sono nei guai per qualcosa che non ricordo di aver fatto?»
Provo a fare del sarcasmo per rompere un po’ il ghiaccio, per smorzare la mia tensione, ma non sembra produrre alcun effetto, lui mi ignora ancora.
Finalmente, dopo aver trovato ciò che cercava, alza lo sguardo su di me.
«Signor Salvatore, due mesi fa lei ha acquistato dei pacchetti di viaggio dalla Brook’s Company, per la somma di cinquantamila euro e li ha poi rivenduti ad altre agenzie.»
Io annuisco, lento, corrugando la fronte, quando lui mi fa vedere il contratto di vendita firmato da me e dal titolare della compagnia.
«Ora, le due agenzie che hanno acquistato da lei, hanno sporto denuncia perché questi pacchetti risultano inattendibili. Abbiamo perciò effettuato delle verifiche e scoperto che la compagnia con cui lei ha stipulato il contratto, aveva dichiarato fallimento da più di due anni ma ha continuato a svolgere la propria attività, vendendo pacchetti e non solo, che non possedeva.»
Si ferma un attimo, per cercare un altro foglio, mentre io ho smesso di respirare da quando ho sentito la parola denuncia.
«Al momento c’è un inchiesta per bancarotta fraudolenta verso i due imprenditori della compagnia, tutte le loro azioni sono per ora congelate e fino a che il processo non volgerà al termine, non si possono quantificare né certificare gli eventuali risarcimenti. In ogni caso siamo obbligati ad effettuare dei controlli anche su di lei, come possibile complice di truffa. Ogni suo movimento sarà registrato, quindi non può né vendere, né utilizzare in nessun modo ciò che ha acquistato, né lasciare il Paese.»
«Sta scherzando? Io non avevo assolutamente idea di tutto ciò.»
Sono esterrefatto. Sgrano gli occhi automaticamente per metterlo di più a fuoco.
Mi altero leggermente, incredulo e spiazzato, ma cerco di non andare nel panico, di restare calmo e non pensare che sono stato coinvolto, a mia insaputa, in una truffa milionaria e che ho appena perso cinquantamila euro, che di sicuro non mi ridarà nessuno.
«Le sembro uno che sta scherzando? Stiamo appunto facendo delle indagini per venire a capo di questa faccenda, se lei è pulito non avrà nulla da temere.»
Mi guarda ancora senza scomporsi, increspando lievemente le labbra.
La sua aria tranquilla e il suo tono pacato mi stanno innervosendo più delle notizie che mi sta dando. Il modo che ha di sottintendere che io sia in qualche modo colpevole, mi sta facendo ribollire il sangue nelle vene, vorrei prenderlo a pungi ma farei solo il suo gioco, mi renderei ancora più sporco.
Mi passo nervoso una mano tra i capelli e deglutisco, torturandomi le labbra che serro e le mani che stringo a pugno, cercando una quiete che non ho.
«Attestato il fatto che sia pulito e che sia stata una truffa, cosa succederà?»
«Bisognerà valutare. Per il momento dovrà risarcire le agenzie che hanno acquistato da lei, in seguito, a processo concluso, il giudice stabilirà come e se è possibile risarcire anche lei e le altre compagnie che si trovano nella sua stessa posizione.»
«Io sono stato truffato e devo anche pagare?»
«Purtroppo è la legge.»
«Quanto ci vorrà?»
«Non è possibile al momento quantificarlo.»
E’ perentorio e capisco che non è il momento, né la persona adatta a cui fare domande.
«Non posso crederci…»
Sospiro davvero sconvolto, mi lascio cadere sullo schienale della poltrona, inerme.
La mia espressione è vuota, il mio sguardo è fisso su un punto indefinito di quel volto candido, lo guardo ma non vedo niente, non sento più niente.
«Signor Salvatore, mi dispiace molto. Se intanto vuole contattare un legale, credo sia la soluzione migliore.»
Cambia espressione anche lui, trovo quel po’ di comprensione e compassione che ancora non aveva mostrato e che nonostante tutto non mi deve, perché sta facendo il suo lavoro, ma sarebbe opportuno in una situazione del genere.
Fa un leggero sorriso rammaricato e sospira anche lui.
Mi lascia una lettera per una convocazione alla centrale di polizia e per una prima udienza con il giudice.
Firmo qualche foglio, di cui non leggo neanche l’oggetto in alto, sto attento solo a non firmare al posto della data.
Lui si alza, mi raccomanda ancora alcune cose a cui io rispondo solo con un cenno del capo, poi raccoglie le sue cose e piano si allontana.
Io non lo accompagno neanche alla porta, non riesco a muovermi, capisco che è uscito perché la sento sbattere.
Poi il silenzio.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
 
«Elena lui è così! E lo capisco che per me, da amica, è più facile accettarlo ma fidati, lui con te si è aperto molto più di quanto abbia mai fatto con altre!»
Caroline è sul mio divano, con le gambe incrociate e la tazza di thè alla vaniglia tra le mani, è voltata verso di me e mi guarda con uno sguardo un po’ severo e un po’ compassionevole.
E’ da un’ora e mezza che è qui, abbiamo parlato del suo lavoro, di un paziente che le sta creando alcuni problemi, le ho raccontato dell’esame che non riesco a dare e dei problemi con il mio relatore per la tesi.
Poi, una volta abbassate le mie barriere, che in parte ho comunque anche con lei, per il suo giudizio a cui da’ forma inevitabilmente e che riesco ormai a leggere nei suoi occhi, anche se non lo esprime, le ho rivelato che ho dormito da mia madre, perché ero confusa e lo sono ancora. E alla fine, dopo esserci preparate del thè, abbiamo finito per arrivare a lui.
All’uomo che in questo momento mi sta sconvolgendo la vita.
Che sta facendo tornare a galla le mie paure, le mie incertezze, le mie insicurezze.
Le ho raccontato di quella notte, di quella telefonata a cui avevo assistito, le ho rivelato le sue parole e parte della nostra conversazione, trattenendo per me quegli sguardi, quel suo mi dispiace, quelle mie emozioni, quel cuore che non sapevo più contenere.
Ho trattenuto anche quel mio bisogno di essere rassicurata, di ricevere risposte diverse da quelle che volevo, quel mio bisogno di ascoltare una bugia che mi permettesse di tornare indietro e non sentirmi in colpa con me stessa, per le scelte che avevo fatto. Damon però conosce solo la verità, ha quella sensibilità fine, che non lascia scampo, che ti scruta, capisce e ti spiazza, ti lascia nuda davanti a te stesso, senza scuse, senza ma.
Le ho parlato dei miei dubbi derivati dal suo comportamento del giorno dopo, da quei cambi di umore, da quel dare e riprendersi.
Ci ho provato ad essere sincera, a mettermi a nudo con lei, eppure quando si tratta di Damon, ho sempre la sensazione che in un modo o nell’altro sia sempre a lui a vincere per lei, che sia sempre io la bambina tra noi tre, mentre loro sono i grandi. Ho sempre la sensazione di essere l’intrusa, quella  che si è messa in mezzo, quella che non c’entra niente, quella che non sa niente.
Forse, è davvero così.
«Io sono felice che lui si sia aperto, mi va bene il rapporto che abbiamo, quando lo abbiamo, ma vorrei qualcosa di continuativo, di stabile, di chiaro…»
«Di sicuro.» conclude lei, centrando il punto.
Mi sento sempre più piccola, abbasso lo sguardo, sprofondando ancora di più tra i cuscini del divano e nascondendo il viso nella tazza di thè ancora caldo.
«Elena io lo capisco…» continua poi, addolcendo la voce e tornando ad essere la mia di migliore amica.
«Lo so che fa paura buttarsi, mettersi in gioco, che le situazione indefinite ti creano ansia. Anche a me fanno paura, ma ci provo! Mal che vada mi sbuccio le ginocchia e mi rialzo, perché so di trovare la tua mano. Tu hai me, lo sai che hai me, che puoi tornare da me ma devi rischiare di farti male, le devi esorcizzare queste paure! Devi vivere Elena!»
Mi sprona, mi sprona sempre anche quando non voglio, anche quando non voglio ascoltare, anche quando non voglio sapere. Anche quando ho solo bisogno di essere rassicurata e abbracciata.
E’ schietta, mi attacca, mi mette al muro e poi mi lascia lì, lasciandomi la scelta se cadere a terra o rimettermi a camminare.
E’ sempre stato così il nostro rapporto, un amore che spesso è duro, sincero, diretto, un amore che ci fa male, che mette in discussione.
E mi chiedo se sia davvero un’amicizia sana oppure no, se sia necessario buttarci addosso certe cose, così profonde, così pesanti, in un modo che taglia il respiro. Eppure lei mi mette davanti a me stessa, sempre e comunque, mi mette davanti ad uno specchio e non posso oltrepassarla senza affrontarla, non posso scavalcarla senza affrontare me. Non posso vincere, nascondendomi.
E solo ora capisco perché Damon le piaccia tanto, perché si rispecchi così tanto in lui, perché si capiscano senza bisogno di parole, perché siano così simili.
«Caroline lo so questo, ma io non so mai cosa gli passi per la testa, se sia o meno un rapporto il nostro, vorrei viverlo alla luce del sole, vorrei condividere le mie cose con lui, poterlo chiamare, vedere.»
«Elena ma tu puoi farlo, puoi chiamarlo se ti va di andare a prendere un caffè o al cinema! Non è un mostro, è comunque un essere umano con cui puoi avere qualunque tipo di rapporto!»
«Per ora lo sta decidendo lui che tipo di rapporto vuole…» ammetto rassegnata.
«Perché glielo stai permettendo! Elena se lui ti cerca solo quando vuole, tu puoi dirgli di no. Deve imparare che non gli è tutto dovuto, che non ha davanti una ragazzina di tre anni!»
E invece mi ci sento una ragazzina di tre anni, una ragazzina che farebbe carte false per uno sguardo,  una ragazzina a cui qualcuno le sorride di sfuggita e lei si sente una principessa. Una ragazzina che non riusciva ad amare così tanto se stessa e non sapeva ancora bene chi fosse, a tal punto da non permettere all’indifferenza o all’approvazione di qualcuno di distruggere o tenere a galla la sua stessa esistenza.
Una ragazzina che vorrebbe essere amata, nonostante, e allo stesso tempo non si sente meritevole di esserlo.
«Ma a me va bene perché lo voglio vedere anche io.» mormoro infatti, portandomi le ginocchia al petto e stringendole con le braccia.
«Ok Elena, ma allora devi essere coerente!» mi interrompe prima di costruirmi altre scuse, «Ti ricordi che faccia avevi quando sei venuta da me il giorno dopo il vostro primo bacio? Eri terrorizzata! Avevi la faccia di una che era stata appena aggredita da qualcuno! Dio, l’uomo che volevi ti aveva baciato e tu eri sconvolta!»
Ci mette tanta di quell’enfasi nel parlare, nel muovere le braccia per accompagnare le sue parole, che fa cadere qualche goccia di thè sul tavolino davanti al divano, mentre cercava di poggiarci la tazza.
Si agita ancora, si passa una mano tra i capelli, allibita per quella mia reazione che secondo lei non aveva senso, non poteva esistere.
Per me, invece, esisteva eccome e ne aveva mille di sensi e contraddizioni.
Era la sorpresa per quei desideri inaspettati, per quel qualcuno che si era accorto di me, che si era avvicinato, era il timore di essere stata vista, di poter deludere, di non essere all’altezza delle aspettative. Era la gioia per quel posto da protagonista che non avevo mai avuto, per quel posto in prima fila, per quel biglietto vincente, per quella storia che avevo sempre sognato.
Era l’incertezza di non sapere come sarebbe andata, come sarebbe finita.
Non era senza senso e, se davvero si fosse messa un attimo nei miei panni, se si fosse concentrata su di me, invece che su ciò che avrebbe provato o pensato lei, avrebbe capito, le avrebbe colte quelle sfumature che mi fanno perdere, le avrebbe prese, rimesse insieme e mi avrebbe riportato sulla strada giusta.
O forse no, forse è giusto così, perché su quella strada mi ci devo rimettere da sola, con le mie gambe, sono io che devo sceglierla la strada giusta per me, non posso sempre delegare, quello, non sarebbe giusto.
E’ incredibile come diventi insicura e titubante davanti a Caroline e di riflesso, quindi, anche di fronte a Damon.
Come riesca a mettere in dubbio certezze che per me erano inconfutabili fino ad un attimo prima e che, sotto il loro sguardo, si disintegrano, diventano polvere che viene spazzata via.
Non riesco a spiegarmelo come facciano, come sia possibile perdere completamente il contatto con se stessi e non riuscire a pensare, sentirsi vuoti, vaganti, in balia di un Oceano che ti spinge sempre più a largo, senza nessun salvagente.
 
Sono distrutta quando lei se ne va’, distrutta emotivamente, stanca, di me, di lei, di lui.
 
Vorrei solo silenzio, nella mia testa, vorrei solo silenzio.
 
Lascio che l’acqua calda faccia scivolare via dal mio corpo tutto ciò che non voglio ascoltare, tutto ciò che non voglio trattenere, che se lo porti con sé fin dentro lo scarico della doccia.
Che tolga questa pesantezza e mi lasci leggera, coraggiosa, viva. Che mi porti lontano da qui, lontano da me.
Forse lo fa, o forse l’ha fatto Caroline con i suoi schiaffi sul cuore, perché quando mi guardo allo specchio, in quello specchio appannato, che riflette perfettamente l’immagine che ho di me, mi sento più forte, di decisa, più sicura.
Sicura di cosa voglio ancora no ma forse, ora, più che sapere questo voglio godermi solo quel che ho. Voglio reagire a quegli schiaffi, non voglio più girarmi dall’altra parte e nascondermi in un armadio.
Voglio di più, voglio andare a vedere cosa ci sia dall’altra parte.
Accada quel che accada.
 
 
 
 
 
 
Damon
 
 
Sono seduto da quasi un’ora sulla poltrona di casa mia, con l’Iphone in mano e il dito che non riesce a scivolare per far partire la telefonata a mio padre.
Mio padre che è un avvocato, mio padre che può aiutarmi a capirci qualcosa di tutta questa situazione che mi è precipitata addosso. Mio padre che ha scelto di accontentare mia madre e ricostruirsi una vita lontano da me.
Mi sono trascinato via dall’ufficio ancora senza fiato e con la terra sotto la mia moto che si sbriciolava sempre più veloce al mio passaggio. Sono entrato in casa, nel silenzio di questa casa quando non c’è Ric e sono sprofondato su questa poltrona.
So che qualunque azione ora compia, ormai ho perso, sono dalla parte sbagliata, sono sempre e comunque l’irresponsabile, coglione, immaturo che per le sue smanie di grandezza ed espansionistiche si fa raggirare per curare la sua inadeguatezza.
Non ho idea di dove trovare quei soldi per pagare le agenzie a cui avevo venduto quella roba, non ho la più pallida idea di come andrà e di come riuscirò a portare avanti la mia di agenzia, con un ammanco di cinquantamila euro, ma so, e lo so per certo, quali saranno le parole esatte che mio padre mi dirà non appena gli racconterò quello che è successo.
Non ho alternative, non conosco nessun altro che possa aiutarmi e in fondo, nonostante tutto, non mi fido di nessuno a parte lui.
 
«Ma come diavolo hai fatto Damon? Sei un’irresponsabile! Perché non hai controllato? Ti sei fidato di una compagnia che neanche conoscevi e questo è il risultato! Ti rendi conto in che diamine di situazione ti sei infilato?»
Esattamente le parole che mi aspettavo.
Sorvolo su queste, sul suo tono preoccupato, arrabbiato, deluso, rassegnato, perché ero già pronto.
«Papà possiamo saltare tutta questa parte del come e perché sia tanto inadeguato a gestire me e il mio lavoro e mi aiuti a capirci qualcosa?»
Lo sento sospirare dall’altra parte del telefono, lo immagino quasi passarsi una mano tra i capelli, neri come i miei, scompigliarseli e affondare nella poltrona del suo ufficio.
«Damon non c’è molto da capire…» torna ad essere più calmo, assume un tono quasi professionale, quello che usa con i suoi clienti.
«Da quanto mi hai detto, questa compagnia ha continuato a svolgere la propria attività probabilmente sotto falso nome, o con dei presta nome, ti ha venduto questo pacchetto inesistente, avendo degli agganci che lo hanno però fatto risultare effettivo e tu l’hai rivenduto, il che ti rende un possibile complice.»
Annuisco senza rispondere e lui continua.
«Dovrei leggere il contratto che hai firmato e quello con cui hai rivenduto questi pacchetti. Sta di fatto che le agenzie che hanno acquistato da te dovranno essere risarcite, da te.»
«Io non ce li ho cinquantamila euro e oltre per risarcirle! Mi sembra assurdo che debba pagare per essere stato coinvolto in una truffa in cui non c’entro niente! Dove diavolo li trovo tutti quei soldi?»
Mi altero, ora posso farlo, ora posso buttare fuori la mia rabbia, perché nonostante tutto, lui è mio padre e so che mi capisce.
E’ un po’ come me lui, mi tiene testa, non mi insulta in modo gratuito, non mi attacca ciecamente come fa mia madre per difendere un’illusione di perfezione. Mio padre lo sa che c’è del marcio sotto i loro tappeti, lo sa che non mi merito sempre e comunque quegli assalti, quell’amore sbagliato, preteso, eppure non riesce a fare niente, non vuole, non ha potere.
Preferisce dimostrare e prendersi il suo potere in un aula di tribunale, dove perdere non gli costa quasi nulla, invece che nella sua casa, nella sua famiglia, in cui gli costerebbe troppo, gli costerebbe alternative che non ha, perdite che non saprebbe colmare.
Ormai si è uniformato a quello stampo.
«Damon lo so, calmati. Fammi avere quei contratti, dammi anche il numero di questo Mikaelson e vedo che posso fare. Quando hai la convocazione alla centrale e dal giudice?»
«Domani pomeriggio, alla centrale e la prossima settimana dal giudice.»
«Ok ti accompagno. Domattina vieni qui allo studio e portami tutto, poi andiamo insieme. Il numero invece mandamelo adesso che provo a chiamarlo.»
«Va bene.»
«Damon…»
Il suo tono cambia, torna ad essere mio padre, quel padre deluso, rassegnato ad un figlio che tutto sommato non gli piace, che forse gli ricorda in parte se stesso.
Un figlio per cui avrebbe volto di più, o forse che non avrebbe voluto proprio.
«Come diamine hai fatto non me lo so proprio spiegare.»
«Neanche io papà, neanche io.»
Scuotiamo la testa insieme, stanchi e rassegnati.
«A domani.»
Attacco e chiudo gli occhi.
Me le faccio entrare dentro quelle parole, quel modo di trattare una situazione come questa, me la ingoio quella mancanza di comprensione, quell’appoggio smisurato e senza riserve che non trovo.  e penso che me lo meriti, perché non ho mai conosciuto altro, non so com’è dall’altra parte.
Posso solo sognarlo, immaginarla una vita perfetta, in cui non hai bisogno di lottare continuamente, di guardarti le spalle, in cui non hai bisogno di volere niente, perché hai tutto lì, a portata di mano.
Invece sono qui, a chiedermi se sia possibile che non ne faccia mai una giusta, che non vinca mai, che non riesca a farglielo vedere quanto valgo!
Glielo invio quel numero, umiliato dall’aver dovuto ammettere la mia inadeguatezza e sconfitto che debba essere lui, forse, a salvarmi.
Mi infilo sotto la doccia per lavarmi via di dosso questa giornata, questa frustrazione.
Eppure, il mio inferno continua a bussare, a suonare, ad interrompere la mia quiete, il mio bisogno di silenzio, a distrarmi dal mio lasciarmi affondare.
Afferro il telo bianco attaccato dietro la porta del bagno e me lo avvolgo intorno alla vita.
Un altro suono mi richiama al qui ed ora.
Sgocciolo fino all’ingresso, non mi importa, non mi importa di nulla.
Apro senza nemmeno vedere chi è.
 
«Damon…»
Un odore di vaniglia e Argan mi investe, facendomi fare un passo indietro e sgranare gli occhi.
Lei e i suoi profumi speziali che le ricordano le terre calde del deserto.
Elena è davanti a me, con un sacchetto di carta in mano, una maglia morbida che le cade su una gonna un po’ troppo corta.
Spalanca gli occhi anche lei, forse perché non si aspettava che le aprissi in questo stato, con questa noncuranza, senza darle modo di prepararsi, di annunciarsi da dietro una porta chiusa.
«Scusami, ti ho disturbato?» mi chiede infatti.
«Ero sotto la doccia, vuoi unirti a me?»
Faccio del sarcasmo per non rispondere alla sua domanda per coprire la mia stanchezza e le rifilo un mezzo sorriso malizioso e un occhiolino, poggiando una mano allo stipite della porta. Torno però subito serio quando lei mi guarda interrogativa, come se mi stesse studiano, come se leggesse qualcosa che non voglio far vedere, così sorvolo sulla mia battuta, abbasso lo sguardo e il braccio e le faccio un cenno con la testa.
«Vuoi entrare?»
Lei fa un passo avanti, varca la soglia che ci separa, entra in casa mia e mi da le spalle dirigendosi verso il divano.
«Dammi un minuto, arrivo.»
Non credo sia il caso, dopo una giornata del genere, restare soltanto con un telo addosso, davanti a lei, perché potrei non riuscire a rispondere di me, a controllarmi.
Per questo entro nella mia camera e mi cambio, indossando un pantalone di una tuta e una maglia grigia a mezza manica.
La raggiungo in sala, frizionandomi i capelli, ancora bagnati, con il telo e mi siedo sulla poltrona accanto al divano.
La osservo prima di interrompere il silenzio, è seduta con i gomiti raccolti, si sta torturando il labbro inferiore e non mi guarda.
«A cosa devo questa visita?»
«A niente in particolare…» mente, lo so, lo capisco perché mi sfugge con lo sguardo.
«Ho riaccompagnato Caroline a casa e volevo farti un saluto. Non ti ho più sentito..»
Lo dice con una punta di rimprovero, che colgo ma non ce la faccio a stare al gioco, a fare il ragazzino.
«Ho avuto un po’ di cose da fare.»
«Sei strano, tutto ok?»
«Si, solo un po’ di problemi a lavoro.»
Solo a quel punto alza gli occhi e li posa dentro i miei, un po’ interrogativa ed intimorita, prende un respiro e socchiude le labbra.
«Vuoi che me ne vada?»
«Vuoi andartene?»
«No.»
«Allora non voglio che te ne vada.»
E’ sicura mentre mi dice quel no, nessun cenno di insicurezza, di timore, la ragazzina di qualche minuto fa è scomparsa, ha lasciato il posto alla donna che è in lei, i suoi occhi da cerbiatta non sfuggono, sono al loro posto, dentro i miei e non si muovono da lì.
Non stacco neanche i miei, mi avvicino sedendomi anch’io sul divano, le passo un dito su quelle labbra che si stava martoriando, da quello superiore a quello inferiore e lei le socchiude leggermente.
Ho bisogno di lasciarmi alle spalle questa giornata, di distrarmi, di non pensare.
Lei si sta rivelando la mia via di fuga, il mio ossigeno, la mia boccata d’aria fresca, la mia sbronza. Ha scelto lei di venire qui, di restare, ha preso lei l’iniziativa, io non l’ho cercata, non le ho chiesto niente, non l’ho spinta, né costretta.
Ha fatto tutto da sola e non posso non approfittare di questo biglietto di prima classe per andarmene, lontano da qui, lontano da me.
Ho bisogno di alzare la musica per non sentire più niente.
Forse l’inferno non è così mostruoso come pensavo.
Mi avvicino di più e lei è ancora immobile, con uno sguardo ora più dolce e malizioso.
Sento il suo respiro accelerare, vedo il suo petto gonfiarsi e sgonfiarsi più velocemente, il suo odore entrarmi dentro.
«Ti ho portato dei cornetti…»
«Mhm – mhm…»
Grugnisco per dirle che ho sentito ma non me ne frega niente.
Lascio scivolare quello stesso dito sul suo collo, sulla spalla e poi giù lungo il braccio, tralascio la sua mano, perché ho sempre creduto che prendere la mano di una donna fosse un gesto profondo, un gesto che in questo momento non voglio compiere, un’intimità che non voglio avere.
Glielo poso quindi sull’orlo della gonna e scendo giù, sulla carne della sua coscia che si contrae appena.
«Sono al cioccolato e alla crema…»
Ha la voce incrinata, affannata ma è testarda, vuole continuare ad avere lei il controllo della situazione, è una donna – bambina.
Per questo inizio ad accarezzarle l’interno coscia, sempre sfiorandola con quel dito e con il dorso della mano.
La vedo tentennare e iniziare ad assecondarmi.
Apre leggermente le gambe e socchiude di più le labbra per prendere aria, un aria che le sto togliendo, ad un palmo dalla sua bocca.
In tutto ciò, non ha mai staccato gli occhi dai miei, neanche per un secondo e lo so perché neanche i miei si sono mai allontanati.
Ci stiamo perdendo l’uno nello sguardo dell’altro, eppure il nostro mondo, stasera, non coincide, io sono su una terra che mi si sta sbriciolando sotto i piedi, lei forse neanche li sta poggiando i piedi a terra, ha deciso di arrampicarsi sul suo muro e scavalcarlo.
Non so perché abbia scelto proprio oggi per farlo, non mi interessa saperlo.
Sono un incosciente e non penso mai alle conseguenze delle mie azioni, è la storia della mia vita.
«Damon…»
«Elena, smettila di parlare.»
E non ce la faccio più, non resisto più, spengo tutto e perdo il controllo di me.
E’ istinto, urgenza, bisogno, cura, appiglio.
Le prendo il viso tra le mie mani e la tiro a me.
La bacio.
Finalmente trovo le sue labbra, le tolgo definitivamente il respiro, la parola.
Premo di più e lei risponde, mi fa entrare, trovo la sua lingua già pronta che mi accontenta.
Si aggrappa ai miei capelli, alla mia maglia, mi trattiene a sé e poi fa una cosa che mi costringe a lasciare la sua bocca e a guardarla sorpreso, per un secondo, infila le mani sotto la mia t-shirt e me la sfila.
Decisa, con un gesto secco.
Le sorriso malizioso inarcando un sopracciglio e la spingo, con il peso del mio corpo, a distendersi sotto di me.
Ritrovo le sue labbra, la sua lingua e mi prendo il diritto di giocare con il suo corpo, di risalire dal suo ginocchio alla sua coscia che scopro, alzandole la gonna. Mi intrufolo sotto la sua maglia, apro la mano e faccio pressione quando le accarezzo la pancia e arrivo al reggiseno.
Mi decido a sfilarle la maglietta e a staccarmi dalle sue labbra e dalla pelle del suo collo per andare in avanscoperta un po’ più giù.
Le lascio una scia di baci e scivolo con la lingua fino al suo petto, le scosto leggermente il reggiseno con la mano libera e ne scopro un capezzolo, lo copro con le labbra e ci gioco, fino a sentirla inarcare la schiena ed emettere un gemito strozzato.
La guardo per un istante, trovandola a torturarsi il labbro ma con gli occhi languidi, fissi su di me.
La prendo come una sfida e portandole una mano dietro la schiena, sgancio il reggiseno e me ne libero, trovando i suoi seni pieni, sotto di me.
Lei mi tira ancora verso di sé, verso le sue labbra e stavolta sono io ad accontentarla, mentre mi muovo sopra di lei e sono già pronto per prendere tutto il piacere e l’annebbiamento che mi serve.
Continuo a torturarle il seno, stringendolo completamente dentro la mia mano e poi scendo ancora, le stringo la coscia e faccio pressione, passando la mano all’interno, per chiederle di aprirla ancora un po’.
Lei lo fa, piega di più il ginocchio e mi lascia spazio.
Supero la barriera del suo intimo e mi accorgo che il suo corpo è nelle mie stesse condizioni, è pronta anche lei e non fatico, né trovo impedimenti quando decido di entrare in lei con un dito e poi con due.
Voglio portarla al limite, per non darle modo di avere la forza di fermarmi.
Lei si muove sotto di me, inarca ancora di più la schiena e preme con il bacino sulla mia mano, per darsi piacere con i suoi tempi. Ma io le blocco i fianchi, voglio essere io a farlo, sfilo le dita e lei trattiene a stento un gemito di protesta.
Scendo con le labbra, con la lingua, passo sul suo seno, sul suo ombelico, le lascio piccoli morsi sulla pancia e nell’interno coscia, stringo ancora di più le mie mani sul suo sedere.
Lei preme le sue sulla mia schiena, sul mio sedere, oltrepassa l’elastico della tuta per raggiungere la mia carne.
Il suo seno preme contro il mio petto, è caldo e morbido e io non resisto quasi più, sono al limite, non riesco a pensare, a fermarmi.
Voglio solo averla, voglio dare sfogo ai miei bisogni, voglio non avere più davanti gli occhi quel tizio, composto e pettinato, che mi ha sbattuto in faccia stamattina di aver perso cinquantamila euro, voglio non sentire più la voce di mio padre, che mi ripete che sono un’incosciente, voglio cancellare quel tono di delusione che aveva, lo stesso che ho io.
Voglio solo non sentire più niente, il fatto che sia Elena a liberarmi da tutto questo forse non è così fondamentale, in questo momento avrebbe potuto essere chiunque.
Non mi interessa ora di doverle rispetto, di avere quella sensibilità nel capire che probabilmente non è giusto, che ce ne pentiremo entrambi domani, non mi interessa essere consapevole che domani non la chiamerò per sapere come sta, perché io starò molto peggio.
Sarò di nuovo con i piedi in un mondo in cui non voglio stare, che mi è crollato addosso e non mi ha lasciato nessun appiglio, che mi ha costretto ad abbassare la testa, a chiedere aiuto all’ultima persona a cui avrei voluto chiederlo.
Io, che mi guardo le spalle da quando sono nato, sono andato a sbattere. Sono ad un vicolo cieco.
Ho perso e deve beccarmi pure l’umiliazione di ammettere di non essere davvero all’altezza.
Di essere sbagliato, di commettere errori troppo grandi per poter essere pagati senza feriti.
Sono furioso, con me, con mio padre, con il mondo, con lei.
Lei che, con i suoi grandi occhi e le mani gentili e decise, sta curando una stanchezza che non conosce, riempiendo un vuoto che mi ha inghiottito, senza che nessuno glielo avesse chiesto.
Senza permesso si sta prendendo ancora qualcosa di me, mi sta baciando, sta cercando il mio sguardo, sta ricevendo quel piacere che dovrebbe essere il mio.
Ha gli occhi chiusi, la testa inclinata all’indietro, i pugni stretti aggrappati alle mie spalle, ai miei capelli.
E io invece gli occhi ce li ho aperti, devo tenerli bene aperti per non andare di nuovo a sbattere contro un muro o precipitare in un burrone.
Devo tenerli aperti per non perdermi, per non commettere errori.
Ma vorrei perdermi anch’io, sotto di lei. In quel corpo che mi attrae come una calamita.
E me la vorrei mangiare tutta quella carne che freme sotto di me, che mi chiede di più, vorrei farla mia e la mordo, la stringo più forte.
Lei geme e si contrae e io mordo e stringo.
Pelle bianca e pura contro denti affilati e avvelenati.
Bisogno e urgenza. Piacere e dolore.
Spingo di più, di nuovo con le dita in lei, più forte, più esasperato.
Dentro e fuori. Con rabbia.
«Damon…»
Le mordo il labbro, premo una mano sulla sua bocca e faccio pressione affinché inclini la testa e mi lasci scoperta più pelle da baciare, da succhiare.
«Damon, ehi…»
La sua voce mi arriva lontana, ovattata, ansimante.
Continuo ad accarezzarla ovunque, senza controllo.
Le mie mani non sono più dolci, sono mani che pretendono, che stringono.
Il suo corpo si contrae, ma è una contrazione che non mi asseconda più, mi rema contro, mi toglie invece di riempirmi.
Scivola in su, via da sotto il mio corpo, verso i cuscini sotto la sua testa, indietreggia.
«Damon mi fai male così…»
 
Ora mi arriva limpida la sua voce.
Mi blocco.
Mi blocco per il tono, più che per le parole.
Mi blocco per quella voce incrinata, in cui non c’è più piacere.
Mi blocco per quel tono intimidito, per quello sguardo quasi spaventato, più da me che da se stessa.
Mi blocco perché mi rendo conto che sotto di me c’è Elena, non una donna qualsiasi.
Mi blocco perché all’improvviso mi sento un coglione, uno stupido, un verme. Mi sento sporco, nudo e non perché lo sia, ma perché lei mi sta fissando con quegli occhi, con quella che ora è diventata dolcezza, preoccupazione.
Io stacco le mani da lei, le tolgo quel blu in cui si era specchiata e le blocco l’accesso dentro di me.
Cerco di rimettermi seduto, tento di alzarmi da quel corpo, da quel seno che preme ancora su di me ma lei mi trattiene.
Blocca il mio polso e posa una mano leggera sul mio viso, delicata e profonda è la sua carezza mentre cerca di nuovo i miei occhi.
Cerca una spiegazione, un perché di quella mia rabbia, di quella foga, di quel volere a tutti i costi.
Un motivo per quel mio sguardo, un po’ più duro, freddo, lontano.
Vorrebbe dire qualcosa, apre la bocca ma non le esce nulla.
 
«Forse è meglio se torni a casa.»
Sono io a parlare, o meglio a non voler parlare.
Questa giornata è durante anche troppo, ho toccato il fondo e voglio solo andare a dormire.
Sono tremendamente stanco, voglio solo chiudere gli occhi e non sentire più.
Elena abbassa lo sguardo, incrocia le braccia sopra il suo seno, lo copre, si copre da me, sentendosi improvvisamente nuda anche lei, fredda, sbagliata ma per motivi diversi.
Le tolgo completamente il calore del mio corpo, mi alzo e con tutto il garbo possibile che mi resta, recupero il suo reggiseno e la sua maglia, porgendoglieli.
Lei li afferra senza guardarmi, senza dire niente. Si riveste e io faccio lo stesso, cercando di recuperare un contegno che ormai ho perso chissà dove e chissà quando.
Elena raccoglie la sua borsa, sistema quei capelli arruffati e mi raggiunge alla porta, che ho già aperto per farla uscire da qui, da me.
Ci prova ad alzare lo sguardo su di me, una volta oltrepassata la soglia di casa, stenta, socchiude le labbra e di nuovo non le esce nulla, ha il respiro strozzato e non ci riesce a guardarmi.
Non posso darle torto, non ci riesco neanche io.
Mi da le spalle, muove un passo e si ferma quando sente arrivarle la mia voce, frettolosa, riparatrice.
«Buonanotte Elena.»
Non risponde, non si volta.
Muove un altro passo e se ne va.
Io la guardo scendere le scale, con la consapevolezza di aver fatto, ancora, una immensa ed enorme cazzata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 ___________________________________
 
Eccomi qui…
 
Mi dispiace per il lungo periodo di assenza, sono stati giorni non buonissimi, lavorativamente e non, giorni di problemi che ti investono, un po’ come a Damon e vuoi solo non sentire e lasciarti trasportare.
Forse ho riversato tanto in questo capitolo e mi spiace se non è come ve lo aspettavate! Potete dirmelo davvero!
 
A parte lo sfogo personale, di parole credo di averne scritte tante.
I mondi di Damon ed Elena si sono incontrati e scontrati, per motivi diversi, per bisogni diversi.
La mia Elena è piena di ambiguità e contraddizioni, anche nel suo rapporto con Caroline e proprio nel momento in cui decide di buttarsi, deve ritrarsi. Damon, è Damon… e non conosce nessun altro modo per esserlo. E la batosta subita non lo aiuta, al momento!
 
Vi ringrazio come sempre..
E per ora vi saluto, spero di aggiornare presto stavolta, se vorrete seguirmi!


Un bacio a tutte!!
E soprattutto...
Buon TVD’s day!
(Da Delena accanita, spero di poter urlare e piangere come ho fatto vedendo solo quei due secondi di promo, che ho consumato! Anche se non so perché ho un po’ di paura!)

 
A presto!

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Capitolo 6
*** Capitolo 5° ***


“Comunicare.
È la prima cosa che impariamo davvero nella vita. La cosa buffa è che più noi cresciamo, impariamo le parole e cominciamo a parlare e più diventa difficile sapere cosa dire, o peggio ottenere quello che davvero vogliamo. [...]
E alla fine della giornata ci sono delle cose delle quali non si può fare a meno di parlare. Certe cose semplicemente non vogliamo sentirle e altre le diciamo perché non possiamo più tenerle dentro. Per certe cose non servono parole, certe cose si fanno e basta. Alcune cose si dicono perché non si ha altra scelta. E alcune cose le lasciamo dentro noi stessi. E non accade molto spesso ma, di tanto in tanto, alcune cose, semplicemente parlano da sole.

(Grey’s Anatomy _ Meredith Grey)







Damon


Queste poltrone nella sala d’aspetto dell’ufficio di mio padre, sono sempre state terribilmente scomode.
Cigolano, hanno i cuscini consumati, di un pessimo color ocra e queste impronte del sedere della gente che ci si è seduta, si potrebbero delineare in ogni dettaglio, tanto sono evidenti.
Quelle riviste inoltre, ordinate su questo tavolino in legno di fronte a me, sono vecchie e consumate, piene di pieghe e frivolezze che sembra vendano più di qualunque altra cosa.
Dovrebbero servire a distrarre le persone dai propri problemi facendole, per qualche minuto o ora, pensare a quelli degli altri, immaginare altre vite, fantasticare su coppie famose che si sposano, si lasciano, si tradiscono, vanno al mare con i figli, su uno yacht o su isole sperdute.
Dovrebbero consigliarti come vestirti, che colori usare la prossima estate, che taglio di capelli va ora di moda o quali scarpe sono in o out.
Dicono che le donne impazziscano per questo genere di cose, a me fanno solo tristezza.
Neanche la segretaria che mi ha fatto entrare e accomodare, un quarto d’ora fa, con la sua gonna al ginocchio, una giacca anonima e il suo aspetto antico e un po’ trasandato, vale la pena per posarci lo sguardo.
Mi sto decisamente annoiando.
L’unica cosa degna di questa stanza è la vista dell’Oceano in lontananza, che arriva dall’enorme finestra centrale, la luce che entra e i quadri di pittori emergenti, con un gusto decisamente impressionistico, appesi alle pareti.

«Damon, eccomi scusa l’attesa.»
Finalmente mio padre esce dal suo studio, con ancora il cellulare in mano, illuminato per la chiamata che stava facendo e mi raggiunge.
E’ in giacca, con una camicia bianca sotto, aperta nei primi tre bottoni, elegante e contenuto come al solito.
Trovo ironico come, in tutta la mia vita e in ogni occasione, debba sempre aspettare che lui sia disponibile per me.

«Dovreste cambiare queste poltrone, ci si affonda dentro! E anche quelle riviste, sono terribili!» gli dico come se davvero ne fossi turbato.
«Lo so, me lo dici sempre.»
«Ma sono ancora qui.»
«Non abbiamo mai avuto tempo per farlo.»
«Lo so, me lo dici sempre!» ricalco le sue parole, schioccando la lingua e guardandolo ironico.
«Vieni dentro Damon.» lui invece cambia tono e mi fa un cenno con la testa per indicarmi il suo ufficio.

Io lo precedo ed entro, sedendomi sulla poltrona davanti alla sua scrivania, mentre lui chiude la porta alle nostre spalle.
Si siede davanti a me, al suo posto.
Il suo ufficio è decisamente più elegante e curato, ogni cosa è al suo posto, c’è perfino una foto della nostra famiglia sulla sua scrivania e di lui e mia madre, in uno dei loro innumerevoli viaggi. C’è una pianta che non avevo mai visto, sul davanzale della finestra dietro di lui, che di certo non ha scelto di sua spontanea volontà, perché è una bella pianta, un edera di un verde intenso e lui odia le piante ed ha un pessimo gusto. Di certo è opera di mia madre.
Mentre la libreria alla mia sinistra, piena di libri ordinati e gingilli dei nostri e loro vari viaggi per il mondo, è sicuramente farina del suo sacco. Così come quel piccolo mappamondo, costruito con i puzzle, che abbiamo comprato insieme e che io mi sono rifiutato di esporre nella mia agenzia, è al suo posto su una mensola accanto a libri di diritto internazionale, ed è davvero tremendo.
Ha anche delle targhe con il suo nome e dei riconoscimenti appesi alle pareti, tanto per ricordare a tutti che lui è un grande avvocato.

«Dunque Damon, la situazione è piuttosto complicata.»

Interrompe così la mia carrellata del buono e cattivo gusto del suo ufficio, andando dritto al punto e assumendo il suo tono perentorio, che mi costringe a concentrarmi su di lui.

«Ho parlato con l’ispettore Mikaelson e mi ha spiegato cosa sta succedendo. Ci sono altre compagnie coinvolte nella truffa, di cui una sembra esserne complice. Ora, stanno facendo delle indagini e verificando i tabulati anche telefonici per avere maggiori informazioni.»
«Cioè mi stanno spiando?»
«No Damon, stanno verificando che non ci siano altri rapporti tra te e loro, al di fuori di questa vendita.»
«Quindi, che devo fare?»
«Niente. Non puoi fare niente al momento.»

Sospiro, poggiando completamente le spalle sulla spalliera della sedia e i gomiti sui braccioli.

«E per il risarcimento che devo alle due agenzie?»
«Quello possiamo patteggiarlo e vedere se riusciamo a diluirlo o posticiparlo. In ogni caso non possiamo evitarlo.»
«Ma è assurdo! Io non so dove prenderli quei soldi! Se non posso neanche toccare quelli della vendita perché li hanno congelati, sono nella merda. Non posso neppure pagare gli stipendi alle persone che lavorano con me!»

Mi alzo in piedi, facendo balzare indietro la poltrona e allargo le braccia per buttare fuori un’ira mista a paura, che mi sta annebbiando il cervello da ieri pomeriggio.

«Damon cercheremo delle alternative, ma purtroppo non possiamo fare niente riguardo a questo…»
«Papà ma mi stai ascoltando? Non so come pagare neanche gli stipendi! Che cazzo dovrei fare secondo te ora?»
«Damon cerca di calmarti. Non sono stato io a mettermi in questo casino.»

Mi chiedevo quando sarebbe venuto fuori questo suo tono accusatorio e sminuente, lo stava celando da troppo tempo ma finalmente eccolo qui, pulito, chiaro, intatto.
Mi rassicura quasi. Così so di essere sempre io, quello che non ne fa mai una giusta, che non pensa alle conseguenze e agisce d’istinto, anche quando si tratta d’affari. Sono quello su cui non si può fare affidamento e che ferisce.. sempre e chiunque ruoti, anche per caso, intorno alla sua orbita.
Mi risiedo, punto i gomiti sulle ginocchia e nascondo il viso tra le mani, imponendomi una quiete che non sento.

«Il tuo più grande difetto è quello di essere impulsivo Damon, di non riflettere mai e pensare solo a te stesso.»

Alzo piano la testa e posiziono il mio sguardo freddo dentro al suo, serio e tranquillo.

«E queste sono le conseguenze. Te l’ho sempre detto di non investire in continuazione, di tenere da parte quel minimo che in questo caso ti parerebbe il culo ed invece no. Non ascolti mai e ti sei cacciato in una situazione del genere solo per le tue manie di espanderti!»
«Hai finito?»
«Si Damon, ho finito anche le parole, dato che con te sono sempre le stesse.»
«Dovresti avere un vocabolario un po’ più ampio per insultarmi, ne va della tua fama di grande avvocato!»

Lui scuote la testa, con un mezzo sorriso rassegnato, stanco.
Mi alzo di nuovo, lentamente, stavolta mantengo il controllo perché altrimenti dovrei prenderlo a pugni e con la voglia che si ritrova di farmela pagare, troverebbe il modo di mandarmi dritto in prigione, senza neanche darmi il tempo di rendermene conto.
Proprio e nonostante sia suo figlio.
Gli volto le spalle, incamminandomi verso la porta chiusa, esausto e pronto ad andarmene di lì.

«Dove vai?»
«Ho sbagliato, non dovevo chiamarti, non dovevo coinvolgerti in questa cosa. Me la vedrò da solo, non ho bisogno di te.»
«Non fare lo stupido Damon, hai bisogno di un avvocato e non puoi permetterti nessuno al momento. Lo sai.»

Mi volto ancora, per un quarto, verso di lui, inclino la testa per guardarlo di traverso, con uno sguardo impenetrabile.
E’ un bastardo mio padre quando vuole, lo è nel privato come nel suo lavoro. E’ forse anche peggio a volte di mia madre, da lei me lo aspetto sempre che mi attacchi, è istintiva, come me.
Lui invece agisce quando meno te lo aspetti, è pungente e non urla. Mantiene quella calma e fermezza che lo rende inattaccabile e ti fa sentire piccolo e disarmato.
Colpisce i punti giusti, i nervi scoperti, come faccio io, in questo gli somiglio.
Ci prova a difendermi, ad aiutarmi, lo sa che non sono del tutto marcio come mi dipingono tutti, ma poi scivola sempre verso l’indisponibilità, è così che mi sconfigge.
Eppure so di aver bisogno di lui, è questo che mi spinge a non potermene liberare.
Non posso agire d’impulso questa volta, devo pensare alle conseguenze, lo devo a me stesso.

«Limitati ad essere solo questo allora. Faremo tardi alla centrale, ti aspetto in macchina.»

Non gli do il tempo di rispondere, di fermarmi, apro la porta e me la richiudo alle spalle.





Elena


«Signorina Gilbert è tutto chiaro? Ce la fa a consegnarmi tutto entro la prossima settimana?»

Il professor Noah si è finalmente degnato di ricevermi e di darmi degli spunti da correggere e da introdurre per la tesi del mio ultimo esame.
Lo rincorrevo da due settimane e, calcolando che dovrò consegnare tutto tra meno di un mese per concludere il mio master in arte e comunicazione di massa, sono sollevata che abbia fatto il suo dovere di relatore e abbia per lo meno dato un’occhiata a ciò che ho scritto, tanto da riuscire a darmi dei suggerimenti e sapere di cosa tratti!
Il problema però è che, al momento, sono io a non sapere dove mi trovi, né di cosa mi stia parlando da più di mezz’ora.
Osservo distratta le sue labbra muoversi, ma al mio cervello non arriva nessun suono.

«Signorina mi sta ascoltando?»

No professore, non la sto ascoltando.

Non sento niente, non sento più niente da quando sono caduta di sotto e mi si è rotto il cuore.
Da quando ho messo quel piede nel vuoto per vedere se sarei stata in grado di imparare a volare, o se sarei precipitata giù, in caduta libera.
Non sento più niente da quando sono uscita da quell’appartamento con le lacrime che mi avevano annebbiato la vista, tanto non farmi riuscire ad alzare lo sguardo verso di lui, tanto da non permettermi di voltarmi quando l’ho oltrepassato per uscire di lì, tanto da non riuscire a rispondere quando la sua voce mi è arrivata alle spalle, calda, forse con un leggero senso di colpa ma già lontana, nonostante fosse a pochi centimetri da me.
Lontana da me, lontana dal Damon che conosco, da quel Damon che avevo scelto di raggiungere, da cui volevo farmi prendere, da cui non volevo più fuggire.
Volevo davvero provare a lasciarmi andare, andare oltre, scavalcare il mio muro, concedermi la possibilità di essere felice, per un momento.
Perché lo so che la felicità non è un’opportunità, ma una scelta. E io l’avevo scelta, avevo scelto di viverla.
Eppure, ero troppo concentrata su di me, su ciò che volevo io, sul tenere a bada i miei timori, per vedere i suoi.
Sentivo che c’era qualcosa di strano, l’ho visto nel suo sguardo che qualcosa non andava, l’ho capito da quando mi ha aperto d’istinto, a petto nudo, facendomi sussultare, l’ho colto dalla sua ironia, che stava nascondendo qualcosa.
Ma non sono stata attenta.
Ero distratta da lui, dall’effetto che quegli occhi troppo azzurri hanno sempre su di me, dal suo petto che volevo toccare, sfiorare, baciare, dai brividi che percorrevano ininterrottamente la mia schiena, la mia pancia, le mie gambe.
Ero persa dal piacere che mi stava dando, dalla barriera dell’intimo che aveva per la prima volta oltrepassato, dalle sue mani su di me e dentro di me, dalle emozioni che mi esplodevano dentro e che non ce la facevo più a contenere.
Ma poi, ho iniziato a non riconoscerlo più, a non riuscire più ad avvicinarmi a lui, ad avere un contatto con i suoi occhi, sempre più lontani, a dargli quello stesso piacere che lui stava dando a me.
Non riuscivo più a raggiungerlo, a stargli dietro.
Non sapevo più cosa fare, come farlo tornare a me, come farmi vedere, come dirgli di aspettare, di fermarsi, senza ferirlo.

«Signorina Gilbert?»

La prego professore, la smetta di parlare.

Ho sentito fin troppo.
Le sento ancora le sue mani addosso, la sua urgenza, il suo bisogno.
Ce l’ho addosso.
Ce li ho addosso i suoi denti che quasi si nutrivano di me. Li porto su di me quei piccoli segni, che somigliano più a dei lividi ora, a delle impronte visibili che mi ha lasciato, come se tutti i segni che avevo già nel cuore non bastassero a renderlo evidente.
Me lo vorrei lavare via di dosso adesso questo dolore, questo odore che mi si è impresso sulla pelle, nelle narici e non mi lascia in pace.
Me la vorrei strappare via questa rabbia di essere stata usata, questa delusione di non essere bastata per contenerlo, per trattenerlo e farlo tornare a me.
Questa sensazione di essere sbagliata, di non essere riuscita a capire.
Questa paura di avergli fatto io del male, di averlo ferito, tirandomi ancora indietro.
Ed era ormai troppo tardi quando ho provato ad entrare fino in fondo ai suoi occhi, per tranquillizzarlo, per fargli vedere che ero lì, che ero io, che andava tutto bene, che non gli stavo sfuggendo perché non volessi, che me ne fregavo di quei segni, di quel dolore che non riuscivo più a non sentire e a tenermi dentro, ci ho provato a dirglielo, ma lui non c’era già più.
E poi il suo rifiuto, il gesto secco con cui si è staccato da me, con cui mi tolto tutto, il suo mandarmi via, mi ha fatto sentire sporca, nuda, più di quanto non fossi.
Mi ha fatto sentire una sgualdrina, un corpo con cui soddisfarsi e basta, una donna senza importanza, senza valore. Una delle tante.
Ho sentito il gelo dentro di me, dove prima c’era solo calore.
Il vuoto, dove prima c’era lui.
Il mio bisogno di caldo e la sua voglia di freddo che ancora una volta ci divideva, ci contrapponeva.
Ero in imbarazzo per una situazione che avevo creato io.
Perciò ora non sento più niente, sono disarmata, congelata e ho già dato fuoco a tutta la legna che avevo, per ripararmi, per riscaldarmi.
Sono pelle esposta, senza più barriere.

«Mi scusi professore, sì, è tutto chiaro. Le consegnerò tutto al più presto.»

Mi alzo, raccolgo le mie cose, la copia spiegazzata della mia tesi, gli stringo la mano e me ne vado.
Do le spalle anche a lui, inerme e vuota.
Scendo le enormi scalinate di questo imponente edificio che mi ha visto arrivare sperduta, incespicare, chiudermi nelle sale studio, sdraiarmi all’ombra dei giganteschi alberi, a studiare ore ed ore, perdermi tra le aule, dare esami su esami, seguire seminari su seminari, scrivere articoli, partecipare alla creazione, redazione e pubblicazione del giornale universitario.
Mi ha visto lavorare come capo redattore negli anni della laurea in giornalismo, fare interviste ed inchieste, montare in video ed esporli pubblicamente in progetti di ricerca.
Mi ha incitato a collaborare con giornali locali, con i quali ancora coopero e lavorare nell’immensa e strabiliante biblioteca universitaria.
Mi ha osservato tentennare per un anno circa, dopo la morte di mio padre, ma non mi ha mai abbandonato.
E’ stata la mia unica certezza da quando ho deciso di voler fare la giornalista.
E mi ha accompagnato, fino alla fine, nel mio percorso verso l’ultimo passo per specializzarmi a tutti gli effetti.
Io, che bramo per scrivere di quella realtà da cui mi nascondo, di quella verità che non dico. Perché scrivere esorcizza tutte le mie paure, è la mia unica fonte di vita vera.
Il mio unico contatto con la realtà. Mi rende partecipe, senza partecipare. Mi fa essere dentro, restandone fuori. Mi fa vedere, toccare, riconoscere, senza vivere, senza farmi toccare.
Scrivendo evado da tutto ciò che mi incatena, posso essere vera, spietata, oggettiva e nascondermi allo stesso tempo.
E’ una sensazione rassicurante.
Così com’è rassicurante questo posto ormai, questo prato su cui mi sono sdraiata, ai piedi di questo grande albero che mi fa ombra e lascia che solo alcuni spicchi di luce lo oltrepassino, per toccarmi.
Mi protegge anche da me.
Mi protegge da tutto quello che vorrei dire e mi si ferma in gola, si perde nella mia mente e svanisce, lasciandomi solo quella alienante sensazione di quando apri gli occhi dopo un lungo sogno e non riesci a ricordare niente ma sai che è lì, da qualche parte, dentro di te.
E’ così che mi sento ora e so che se provo a farne uscire anche solo una di parola, non resterà più niente.

«Elena! Ti sto cercando da questa mattina!»

Ed è così che mi sveglio completamente e lascio andare tutto.
Sto salendo in macchina, ho la borsa sottosopra per aver recuperato sul fondo quelle chiavi che non trovo mai, la tesi sotto il braccio, una mano sulla portiera e il telefono incastrato tra la spalla e l’orecchio.
Butto tutto sul sedile accanto al mio e mi siedo chiudendo lo sportello prima di risponderle.

«Scusa Care… sono in facoltà, dovevo parlare con il mio relatore. Che succede?»
«Volevo chiederti di accompagnarmi a fare il regalo per Stefan, ma ho risolto!»
«Ah, ok.»
«Com’è andata con la tesi?»
«Bene, credo… devo modificare alcune cose, ma sostanzialmente è finita.»
«Fantastico! Non sei contenta?»
«Si, si…»
«Allora stasera festeggiamo! Passiamo da Damon dopo cena, sei dei nostri?»
«Veramente… sono un po’ stanca Care.»

Mento. Ovviamente.

«E dai, avrai una vita per riposarti!»

Sorrido e lei lo prende come un segno di assenso.

«Davvero forse, non è il caso…»

Ammetto, incerta.

«Che è successo?»

Io mi zittisco, aspetto che scatti il verde del semaforo a cui mi sono fermata, appena uscita dall’università e intanto gioco con una ciocca di capelli.
Non so come farlo uscire lo sporco che sento dentro.
Da dove iniziare a pulire.
Non so come fare a non provare quella vergogna e questo rancore che ora non mi da tregua.

«E’ che…»
«Elena scusa, mi sta squillando l’altro telefono! Ti posso richiamare tra poco?»
«Sì tranquilla, torno a casa intanto.»

La sento armeggiare e togliermi di netto la comunicazione con lei.
Caroline e i suoi mille numeri di telefono! Come se non avesse una vita abbastanza impegnata per star dietro a tutto!
Chiunque fosse a chiamarla, in ogni caso, lo ringrazio mentalmente, per lo meno mi ha dato un po’ di tempo per capire cosa sia davvero successo e tornare a non sentire niente.





Damon


Accompagno mio padre di nuovo al suo ufficio, di ritorno dalla centrale della polizia, ci salutiamo e ci accordiamo sulle prossime mosse.
Come se ce ne fossero.
Ho dovuto testimoniare la mia innocenza e firmare la denuncia verso la Brook’s Company, il poliziotto ha scosso la testa furioso quando mi ha consegnato i fogli, poi ha sorriso amaramente, dicendomi che non ero purtroppo il solo ad averlo fatto quel giorno. Ha ammesso che la situazione è piuttosto ingarbugliata e che la stessa compagnia ha dei debiti anche in altri Stati, il che non rende semplici le indagini, né gli eventuali risarcimenti.
Mi ha rassicurato che stanno facendo il possibile.
Il possibile però, per me, non basta.
Non basta a coprire ora il debito che ho, né ad andare avanti con il mio stesso lavoro.
Sono in mutande e vedo completamente nero alla fine del tunnel.
Mio padre mi ha suggerito di mandare in ferie o licenziare un paio di dipendenti, di vendere pacchetti su cui avevo depositato i diritti.
Di trovare liquidi nel più breve tempo possibile, almeno per tamponare il tamponabile.
Non so da dove inizierò ma credo, questo, sia l’unico modo per sopravvivere.

Me ne vado a casa, stanco, rassegnato, spento.
Mentre giro la chiave nella serratura della porta, mi vibra l’Iphone.
Ne ho abbastanza di problemi per oggi, non voglio essere disturbato ulteriormente, eppure quel telefono nella tasca dei jeans continua a vibrare, quindi mi decido per lo meno a vedere chi sia a non darmi pace.

Una chiamata e un messaggio.

Stasera siamo da te! Passiamo dopo cena! Stef.

Non ho voglia di vederli, non ho voglia di vedere nessuno, sono intrattabile da ieri mattina, anzi lo sono da una vita, ma da quarantotto ore ho alzato decisamente il mio record.
E poi..

Siamo.. chi?

Degli occhi cerbiatto mi appannano la vista ma resto ancora quel tanto lucido per non lasciare che mi offuschino completamente.
Vorrei rispondergli che ho un impegno, che sono stanco, ma nel primo caso Ric scoprirebbe che me lo sono inventato e dovrei dare ulteriori spiegazioni di cui non sono in vena, nel secondo, verrei ignorato completamente, quindi qualunque scusa inventassi, non reggerebbe.
E, dato che non sono capace a costruire menzogne, lascio che il mio silenzio sia per loro un assenso e facciano ciò che vogliono.
Ho tempo almeno per farmi una doccia e mangiare qualcosa prima che le loro voci invadano interamente la mia casa e la mia testa.
Ho il tempo di lavarmi via di dosso questa sensazione di inadeguatezza che mi rimane sempre quando ho a che fare con la mia famiglia. Vorrei riuscire a slegarmi completamente da loro, a non dargli tutto questo potere su di me, vorrei non essere così tanto ricattabile emotivamente, eppure non ci riesco, in un modo o nell’altro le loro parole e la visione che hanno di me, mi ferisce sempre. Sempre nello stesso punto. Sempre vicino al cuore.

Sono sulla mia poltrona ad inviare le ultime e – mail della giornata, per un lavoro che forse, tra poco, non avrò più, quando Ric, appena rientrato, accoglie in casa i nostri amici.
Io non mi volto, faccio un cenno con la mano per un saluto generale.
Loro si siedono sul divano, Ric apre il mobiletto degli alcolici e tira fuori il bourbon, dandomene un bicchiere, che accetto volentieri.
Stefan si serve da solo direttamente in cucina, prende due birre, una per sé e una per Bonnie e una coca cola per Caroline.

Non c’è.

Tiro un codardo sospiro di sollievo e allento la tensione che per un attimo mi aveva immobilizzato.
Ce li ho tutti intorno, che chiacchierano e si prendono ormai confidenze con la mia casa, come se fosse la loro, eppure nessuno sa nulla di ciò che mi sta accadendo.
Meglio così, penso.
Almeno per il momento.
Non sono pronto a vedere lo sconforto anche nel riflesso dei loro sguardi.
Poggio il portatile sul tavolino davanti a me e inizio a sorseggiare il bourbon, affondando completamente nella mia poltrona.
Il mio sguardo però non riesce a fissarsi e una strana inquietudine inizia a darmi fastidio.
Stefan si guarda intorno incuriosito e poi fissa lo sguardo su Caroline.

«Scusa ma Elena?»

Eccola qui.
Eccola la domanda che mi frullava per la testa ma non osavo rendere cosciente nemmeno a me stesso.
Eccola la domanda a cui credo di sapere già la risposta.

«Non poteva venire…»

Sfuggo allo sguardo di Caroline, non glieli faccio trovare i miei occhi quando prova ad alzare i suoi su di me, non lo voglio anche il peso del suo di giudizio addosso.
Non ce la faccio ad affrontare anche lei in questo momento, perché sicuramente Elena le avrà raccontato qualcosa e il fatto che stasera lei non sia qui, è la prova di quanto sia grande la cazzata che ho fatto.
E’ la prova di quanto mi sia rovinato con le mie stesse mani, di quanto le abbia fatto male e non tanto fisicamente, ma dentro.
In un’altra situazione, con un’altra donna, mi sarebbe dispiaciuto, avrei trovato delle scuse di circostanza e sarei andato oltre, non mi sarebbe più interessato. Probabilmente avrei cancellato il suo numero di telefono e mi sarei concentrato su qualcuna di più disponibile.
Invece, con lei non ci riesco, non posso.
E questa inquietudine, forse, non è soltanto per queste terribili giornate che sto vivendo, per questa situazione al lavoro che mi sta logorando, forse, in parte, c’entra anche un senso di colpa che ha iniziato a muoversi senza permesso.
E’ tutto il giorno che, nonostante tutto, penso a quelle parole che le sono uscite dalla bocca, quasi con la paura di essere lei quella sbagliata.
Lei, a cui non dovevo avvicinarmi dall’inizio.

Damon mi fai male così.

Ed è vero Elena, io faccio male, io non vado bene, io sono sbagliato, faccio scelte sbagliate che feriscono e anche quando penso di fare una cosa giusta, una cosa buona, alla fine si rivela sempre e comunque negativa.
E mi dispiace Elena, mi dispiace che tu ti sia dovuta imbattere in me, che di tante persone che Caroline conosca, ti abbia presentato proprio me e che io ti abbia coinvolto in questa storia, che tu neanche volevi, che tu non sai gestire, perché non fa parte di te.
Tu a letto ci lasci il cuore Elena, ora lo so, tu su quel divano c’eri con tutta l’anima, io no.
Per te va bene uno come Stefan, lui sì che è giusto, gentile, educato, lui non farebbe male ad una mosca, è ingenuo e non ci pensa a portarsi a letto una donna solo per il gusto di farlo, solo per scappare via dalla sua vita per un po’.
Lui è un uomo d’altri tempi, uno che ti apre la porta di casa e ti accoglie, uno che ti porta a cena a lume di candela, uno che ti dice sempre ciò che vuoi sentirti dire, perché è buono, non ce la fa a ferire le persone con verità che non vogliono ascoltare.
Io no, io non accolgo nessuno, posso offrirti al massimo una cena rimediata perché ciò che mi interessa è il dopo, io sono schietto, ho bisogno della verità, anche se fa male, anche se non richiesta.
Ci provo ad essere diverso, ad essere un po’ di più come lui ma alla fine sbaglio lo stesso, perché non lo so fare, non so come si faccia il principe azzurro.
Come si viva in quei vecchi tempi, quando i miei sono tutti sbagliati.
Io vivo d’istinti, tu di emozioni.
E so che dovrò rivederti, so che non posso cancellare il tuo numero e far finta che tu non sia mai esistita, perché sei la migliore amica della mia migliore amica e ogni volta che guarderò negli occhi lei, vedrò anche un po’ te, vedrò quegli occhi impauriti e sfuggenti che mi si sono tatuati addosso. Sentirò il suo giudizio, per il mio comportamento ignobile e dovrò giustificarmi anche con lei, per aver fatto male a te e deluso lei.
Perciò scusami Elena, scusami per non essere all’altezza neanche di dirti queste cose, di dirtelo quel mi dispiace che vorresti sentire e che ti dovrei.
Scusami se non mi alzo da questa poltrona per venirti a cercare ma davvero, probabilmente, anche questo, è meglio così, è meglio per te.
Sono un codardo quando si tratta di emozioni e sentimenti e un egoista, per questo preferisco indossare la mia solita faccia sarcastica e il mio sorriso storto, prendendo in giro un po’ il mio amico d’altri tempi che domani compie gli anni.

«Allora, musica, alcool e spogliarelliste per domani giusto?»

Stefan spalanca gli occhi come se avesse visto un fantasma, possibile che un uomo di ventisette anni preferisca leggere e camminare a piedi nudi nel parco piuttosto che concedersi una notte senza freni ed inibizioni? Mi domando davvero come faccia ad essere mio amico, uno così!

«Si ho già confermato tutto! Ci vediamo alle 22 al solito posto!»

Ric mi fa da spalla scioccandomi un intesa complice e io annuisco abbastanza seriamente da sembrare convinto.

«No dai ragazzi! Non facciamo scherzi… ne abbiamo già parlato, voglio una cosa tranquilla!»
«Più tranquilla di così! Fidati dopo sarai così rilassato che non ti ricorderai di niente!»

Gli do una pacca sulla spalla e lui si scansa infastidito.

«Dico sul serio Damon!»
«Anch’io Stef!»
«Ci ringrazierai credimi!»
«E dai piantatela! Ha detto che non vuole perciò smettetela!»

E’ Caroline ad interromperci, con un tono leggermente più grave di quanto ci aspettassimo.
Era ovvio a tutti, compreso a Stefan, che stavamo scherzando.

«Care stavamo giocando… credo, spero, che stessero scherzando!»

E’ lui infatti a prendere le nostre difese e scagionarci, le sorride e noi ci uniamo alla sua spiegazione.

«Certo che scherzavamo. Al nostro reverendo Stefan non faremmo mai una cosa del genere a sua insaputa!»

Congiungo le mani a mo’ di preghiera e fingo un inchino con la testa che produce una fragorosa risata di Ric e Bonnie, ma fa infuriare ancora di più Caroline che mi lancia un’occhiata che non riesco a decifrare, i suoi occhi sono lontani come non li vedevo da tanto tempo.

«Vado a prendermi qualcosa da mangiare…»

Si alza dal divano e sparisce in cucina, lasciandoci in un silenzio colpevole, che fatichiamo a spezzare e toglierci da dosso.
La conosco da troppo tempo per non capire che c’è qualcosa che non va’ e forse ne conosco anche il motivo.
Per cui mi immolo per la causa e la raggiungo.

Me lo vado a prendere il mio rimprovero, come un bambino che sa di dover esser punito ma l’attesa di esserlo gli da la speranza che la sua marachella si dissolva nella memoria.

«Avanti, lo so che vuoi insultarmi da tutta la sera.»

Lei sussulta, colpita dalla mia voce alle sue spalle.
Mi squadra per un attimo inclinando la testa, mi guarda fisso negli occhi corrugando la fronte.

«Perché dovrei?»

Me lo chiede seria e non so se lo fa perché è arrabbiata e vuole che mi scopra fino in fondo o se davvero non ne capisca il motivo.

«Per quello che è successo ieri sera con Elena.»

Lei si avvicina di un passo, ancora in silenzio scrutandomi.
Blu nel blu.
Oceano nell’Oceano.
E io non ce la faccio più, non ce la faccio ad aspettare il suo giudizio tagliente, preferisco darle anche la mia di versione, per disegnarmi un po’ meno stronzo di quanto in realtà già sia.

«Senti, era stata una pessima giornata, ho un problema enorme con il lavoro, per una truffa in cui sono stato coinvolto. Ho dovuto chiedere aiuto a mio padre e tu lo sai quanto mi sia costato. E poi lei si è presentata da me, di sua spontanea volontà, non se ne sarebbe andata stavolta e io volevo solo distrarmi un attimo, cancellare quella giornata…»
«Damon, ma che diamine stai dicendo?»

Vomito fuori ogni parola senza controllo, senza rendermi conto del suo sguardo perplesso, sbalordito, preoccupato, che vedo solo adesso, quando mi rendo conto che davvero lei non ha la più pallida idea di cosa io stia dicendo.

«Non… non hai parlato con Elena?»
«No, l’ho sentita stamattina, avrei dovuto richiamarla ma non ho potuto, le ho mandato un messaggio per sapere se dovevo passare a prenderla ma mi ha detto che era stanca… ecco perché era strana al telefono… perché mi ha detto che forse non era il caso. Ecco perché non è venuta…»

Inizia un interminabile monologo con se stessa, agitando le sue mani davanti a me, per poi fermarsi e riportare lo sguardo serio e un po’ troppo freddo, adesso, su di me.

«Tu. Che cavolo è successo?» mi chiede ancora, agitata, preoccupata, incerta se prendersela subito con me oppure darmi una chance.

Io però, adesso, non intendo raccontarle nulla, dopo aver appurato che non è questa la causa della sua irrequietezza e che Elena non le ha detto niente, voglio tenere questa storia per noi.
Cambio idea perché non voglio esporla e farla sentire di nuovo nuda davanti agli occhi giudicanti di qualcun’altro, come se i suoi non bastassero già.
Non voglio pulirmi la coscienza in questo modo.
Se non l’ha fatto avrà un motivo valido e almeno questa volta voglio darle il rispetto che meritava, lo spazio che ha deciso di prendersi, da me, da Caroline, da questa storia, anche se con i tempi sbagliati.
Mando giù un giudizio che sento già salire nei suoi occhi azzurri che mi fissano, in attesa e faccio un respiro profondo.

Cosa è successo Caroline?

Ho fatto male alla tua migliore amica che finalmente aveva deciso di buttarsi, di oltrepassare le sue paure, i suoi muri, di venire incontro ai miei. Mi sono spinto dove non dovevo, con una rabbia che non meritava, non conosceva e non avevo diritto di riversare su di lei.
L’ho trattata come una delle tante che mi porto a letto per dimenticarmi di me.
Ecco cosa è successo ma questo non te lo posso dire, Caroline.
Mi odieresti anche tu e ho bisogno di te in questo momento, di te che sei l’unica persona che crede in me, che crede sia migliore di così, che possa farcela a salvarmi davvero.

«Ci siamo visti e mi sono fatto prendere un po’ troppo dai miei problemi… ho un po’ perso il controllo ma non è successo niente di ciò che pensi.»

Le dico solo quello, perché so che un semplice “niente” non le sarebbe bastato, ma resto volontariamente sul vago.

«Damon…»

Mormora il mio nome e il suo tono è più dolce ora, sbatte le palpebre e quando le riapre, riportandole su di me, è tornata ad essere la mia Caroline, mi fissa con tenerezza, increspando le labbra e inclinando la testa da un lato.
Mi guarda come una mamma guarderebbe un bambino che ha appena confessato di aver rotto un vaso prezioso ma si è pentito.
Me lo mormora come per dirmi ‘so che sei migliore di così’, per farmi tornare in me, al me che lei conosce e che non è capace di fare del male, al me che prova dei sentimenti, ma li nasconde.
Perché è più facile e più comodo far finta di non provare niente.
Io stacco gli occhi dai suoi, passo una mano tra i capelli, ancora inquieto e frastornato da queste ultime quarantotto ore e metto la distanza di un passo tra noi.

«Lo so, lo so Care…»

Non abbiamo bisogno di aggiungere altro, lei sembra farsela bastare quella mia finta spiegazione, forse perché non vuole immischiarsi, anche se continua a guardarmi di traverso, giustamente confusa e preoccupata.
Ma non chiede, né dice più altro e io le sono grato.
Sono io però ad accorciare di un passo la distanza che ci separa, preoccupato ora davvero per le sue reazioni, di cui ho accertato non conoscere la causa.

«Se non sei arrabbiata con me… che cos’hai? Cos’è successo?»

Lei abbassa gli occhi, fissando la punta dei suoi stivaletti di pelle.

«Mi ha chiamata Klaus…»

Dice con un unico fiato.
Io spalanco gli occhi incredulo, pensavo di non dover più sentir nominare quel bastardo, eppure eccolo ancora che si materializza tra di noi e sconvolge la vita di Caroline.

«Che diavolo voleva?»
«Dirmi che gli mancavo… che sa di aver fatto un errore enorme e vorrebbe vedermi per parlarmi.»
«Spero tu gli abbia detto di andarsene al diavolo!»

Lei alza solo gli occhi posandoli nei miei, senza rispondere e poi li riabbassa.

«Caroline!»

Alzo la voce più del dovuto, allargando le braccia, infuriato per quella risposta negativa a cui non è riuscita a dare voce.

«Damon lo so, non dire niente ti prego!»
«Caroline lui ti ha tradita e poi lasciata dicendoti che forse non ti amava più!»
«Me lo ricordo! C’ero purtroppo quando me l’ha detto!»
«Ecco e allora? Che altro deve dirti?»
«Io… sono ancora innamorata di lui Damon… purtroppo e nonostante tutto. E’ inutile che finga di essere distante o di averlo dimenticato, non è così.»
«Care…»

Il mio tono è più tenero ora, è lei la bambina ed è la mia mano che le sfiora una guancia in una carezza mentre lei chiude gli occhi e si avvicina al mio petto abbracciandomi.

«Sei un disastro.»

Le mormoro mentre le accarezzo i capelli e la sento sorridere all’altezza del mio cuore.
Quando si allontana, sospira e mi colpisce piano con entrambe le mani per spostarmi e farmi un cenno per tornare dai nostri amici.
Devo ammetterlo, questi miei strani amici che mi porto dietro da sempre, che riempiono la mia casa e la mia vita, che la colorano di risate, chiacchiere e grandi sogni, sono la mia famiglia, noi siamo una solida famiglia.
E’ insieme che, alla fine della giornata, ci aiutiamo a superare anche quelle più brutte.
Noi ci spingiamo a sopravvivere.
E’ a loro che penso quando voglio sentirmi a casa.
Ed è quando se ne vanno che il silenzio che lasciano mi conforta e non mi fa sentire solo.
Neanche quando mi ci ritrovo davvero, seduto su questo divano, con un bicchiere di bourbon tra le mani, i piedi poggiati sul tavolino e la testa all’indietro, sullo schienale, che punta al soffitto.
Forse perché in fondo, nonostante tutto, non sono così male come credo, forse riesco a mostrarlo anch’io qualche sentimento, anche se non lo esplicito, o forse, si sono semplicemente abituati a me e prendono quel che possono, senza chiedere nulla in cambio.
Vorrei davvero guardarmi come mi vedono loro.
Al momento però, mi sento a terra, pieno di cose che non vanno, con errori dappertutto e un fallimento che incombe sulle mie spalle.
E questo ghiaccio che mi si sta sciogliendo nel bicchiere, annacquando il mio alcolico, non mi sta aiutando un granché.

«Stanco?»

E’ la voce di Ric che mi riporta a casa, la percepisco ma non mi muovo.
Sento il sedile del divano sprofondare, accanto a me.
Ric imita la mia posizione, alza le gambe poggiandole anche lui sul tavolino, accanto alle mie e piega la testa all’indietro sullo schienale.
Restiamo così per qualche minuto, in silenzio.
Lui aspetta, io lotto per controllarmi.
Sospiro di nuovo e solo a quel punto volta la testa verso di me.

«Avanti, me lo vuoi dire che stai combinando?»

Mi conosce come le sue tasche, in più vive con me quasi ventiquattro ore su ventiquattro, il che gli da la possibilità di percepire ogni mio minimo cambiamento.

«Sono in gran casino Ric.»

Vuoto il sacco, finalmente.
Fino in fondo, fino all’ultimo brandello, perché non ce la faccio più a sentirmi da solo in questa situazione, a nascondermi anche da lui.
Gli racconto del lavoro, della truffa, di quei soldi che non so come trovare, dell’aiuto che ho dovuto chiedere a mio padre, dell’umiliazione che provo e che non va via.
Della paura di perdere tutto ciò che ho costruito da solo, con le mie mani.
Tutto ciò che mi dava la forza per pensare di avercela fatta, di essermi salvato, è andato vanificandosi.
Aver fallito è una bastonata che non riesco a curare, che lascia un segno troppo grande, un livido troppo esteso.
Lui mi ascolta, mi consiglia, prova a tirarmi su, è pronto anche ad offrirmi perfino un lavoro da lui, nel suo studio pubblicitario, io gli sorrido e lui mi da una pacca sulla spalla.
E’ amico, padre, fratello.
E’ la sicurezza di avere una mano, quando le tue non bastano.
Ripiombiamo nel silenzio,senza guardarci ma stavolta è un silenzio più consapevole, un silenzio confortante, un peso che posso condividere.
Beve un sorso del suo bicchiere e io faccio lo stesso, poi torna a guardarmi.

«E con Elena invece, che stai combinando?»

Mi spiazza.
Mi costringe a voltarmi sorpreso, ad indietreggiare lievemente la testa per metterlo completamente a fuoco.

«Damon viviamo sotto lo stesso tetto, lo capisco quando c’è odore di donna in casa. E poi… l’ho vista mentre usciva da qui ieri sera, con le lacrime agli occhi. Ho visto i vostri sguardi in questi giorni… e ho fatto due più due!»

Io sospiro ma il fiato mi si spezza per una manciata di secondi al pensiero dei suoi occhi lucidi, per causa mia, scuoto la testa e torno a fissare il soffitto sopra di me.

«Non lo so Ric. Ho combinato un casino, credo.»
«Damon lei non fa per te. Non è una da una botta e via.»
«Pensi sia così stronzo e senza cuore?»
«Io no, tu sì.»

Bastarda schiettezza amicale.

«Touché.»
«Damon lei cerca una storia seria.»
«Lo so.»
«Lo sapevi dall’inizio eppure hai fatto un casino…»
«Senti è lei che continua a venire da me, che mi ha detto che le sta bene così. Non l’ho costretta a fare niente! E’ lei che si è presentata da me ieri sera, io non l’ho cercata, non le ho chiesto niente!»

Mi agito perché sono stanco di considerarmi l’unico responsabile di questa situazione, come se fossi una magnate e lei non avesse potere decisionale.
E’ adulta Elena, forte, sa cosa vuole e sono stanco di doverla difendere perfino da se stessa.
Non è una bambolina senza cervello.

«Questo non ti rende meno colpevole. Dovevi essere meno egoista, almeno in questo caso. Almeno con lei.»
«Non ci sono riuscito ok? Vuoi ammazzarmi?»

Sbuffo e lui sorride scotendo la testa.
E’ mio amico e può permettermi di trattarmi in questo modo. E’ l’unico che può permettersi di scuotermi così, senza farmi sentire uno stronzo o un immaturo, perché lui lo sa cosa c’è dietro al mio egoismo, cosa c’è dietro al mio non volere nessuno.

«Cosa pensi di fare?»
«Scusarmi, credo, in qualche modo.»
«E poi?»
«Cancellare il suo numero?»

Gli faccio una smorfia, increspo le labbra in un sorriso storto e malizioso ma lui torna serio.

«Lasciala stare Damon.»
«Non ci riesco.»

Mi stupisco più io nel lasciarmi andare a quella confessione che lui. Lui lo vede già il fondo del dirupo, io sono ancora sull’orlo.

«Non venirmi a dire che non te lo avevo detto.»

Mi lancia uno sguardo guardingo, poi piano si alza e dandomi le spalle, se ne va’ a letto, nella sua camera.
Io resto di nuovo da solo, stavolta lo sono davvero.
E ora questo silenzio è altamente più pericoloso.
E’ turbolento, confuso, carico di impulsi e incatenato da consapevolezze.
Sono troppo stanco e forse anche troppo poco sobrio per resistergli.
Sfilo l’Iphone dalla mia tasca, digito veloce un messaggio e con la stessa rapidità, senza riflettere, lo invio.




Elena



Abbasso gli occhi e contemporaneamente la maglietta che lui mi aveva alzato.
Damon sospira e si allontana da me, poco, lo spazio necessario per sdraiarsi completamente sulla schiena e portare un braccio sotto la sua testa.
Mi sono fermata, gli ho chiesto di aspettare mentre mi stava baciando, quando ho sentito il rumore della cinta dei suoi jeans che si slacciava.
Io mi abbraccio il petto, voltandomi invece verso di lui, piegando un po’ le gambe, per proteggermi, per creare un’ulteriore barriera tra di noi.
E’ la seconda volta che lo faccio, che mi fermo.
La prima volta non siamo neanche arrivati al letto, non sono riuscita ad andare neanche oltre la sua maglia, né lui oltre la mia. Siamo rimasti entrambi vestiti e appena ho avvertito la sua mano che cercava la mia pelle, mi sono tirata indietro e me ne sono andata.
Stavolta no, la mia maglia è sul pavimento della camera da letto, la sua è ancora a metà ma se ne sarebbe liberato a breve, solo che il rumore della sua cinta mi ha riportato alla realtà. Ad una realtà in cui io non sono niente, se non la soddisfazione di qualche desiderio, mio e suo, una realtà in cui non posso toccarlo, al di là di questa casa, al di là della nostra solitudine.
Mi ha riportato con tutte le scarpe dietro i miei muri, quelli che ho costruito per non espormi, per non farmi vedere, per non sentire di nuovo dolore e delusione.
E forse sono davvero una ragazzina, che non sa godersi la vita, che non la conosce e fa di tutto per nascondersi. O probabilmente ha troppo timore di fare quel passo avanti, attratta da desideri che non aveva mai avuto.

«Perché?»

Me lo chiede così, senza guardarmi, sinceramente incuriosito.
Me la dovevo aspettare la sua domanda, giusta, lecita. Me la sarei dovuta preparare già dalla prima volta una risposta, perché adesso non ce ne ho neanche mezza.
Raccolgo ancora di più le gambe verso il petto e infilo le mani sotto il cuscino, per riuscire ad avere un rialzo da cui guardarlo meglio.
Lui si volta, attirato dal mio silenzio, preme una mano leggera sulle mie ginocchia per farmele stendere, per farsi spazio, per sciogliere quelle mie difese e io lo lascio fare.
Si avvicina al mio corpo e al mio viso ma mantiene una certa distanza di sicurezza, che serve a me per non indietreggiare e a lui per riprendere il controllo del suo corpo.

«Qual è il problema? Davvero perché io non lo capisco proprio come ci si possa fermare così… per me non è proprio umanamente possibile!» mi chiede di nuovo, stavolta guardandomi negli occhi, confuso e interessato.

Non mi azzardo a dirgli ‘non lo so..’ perché sono certa che mi butterebbe fuori da questo letto e da questa casa in mezzo secondo. Cerco quindi di trovare quelle parole che non vogliono uscire e di essere per lo meno sincera, ma ci metto troppo.

«Ho capito, non ti piaccio proprio!»

Sgrano gli occhi per quel pensiero che ha esternato e che per un momento, seppur coperta dal suo solito sarcasmo, gli conferisce un’aria da bambino sconfitto, un’insicurezza che lo costringe a sdraiarsi di nuovo sulla schiena, con un braccio sotto la testa, allontanandosi da me, dal mio sguardo, dal mio silenzio che forse lo stava ferendo più del dovuto.
Io allungo una mano, la poso sul suo viso, frettolosa, impaurita, cerco di recuperare i suoi occhi azzurri, di riportarli dentro i miei, di andarlo a riprendere.
L’unica certezza che ho, è quella che lui mi piaccia, anche se nessuno sembra credermi.

«No, no! Non è questo!»

Mi affretto a rassicurarlo, svelta, sicura, prima che lui possa distanziarsi completamente.
Lo accarezzo e sembra tranquillizzarsi, mi sorride, si volta di nuovo verso di me e stavolta aspetta che sia io a parlare.

«E’ che ho un grande autocontrollo!» ammetto sorridendogli piano.
«Per me è qualcosa di molto intimo, ho bisogno di tempo, di sentirmi sicura di potermi mostrare. Io non ho mai avuto avventure da una notte e basta…»

Gliela mormoro quest’ultima frase, con un tono incerto, nascondendo un po’ il viso, riconoscendo a me stessa che è questo il rapporto che abbiamo in questo momento.
Lui però cerca di nuovo il mio sguardo, poggia il dorso di un dito sulla mia guancia e preme leggermente per farmi alzare il viso.

«Non voglio che tu faccia niente che non ti vada di fare.»

Mi spiazza per un attimo, perché ero pronta ad una reazione diversa, ero rassegnata ad essere mandata via, con gentilezza, ma via. Ci metto quindi un po’ di più per reagire, per rispondere.

«Non sto facendo niente che non voglia…»

Lo rassicuro ancora, dandogli la certezza anche di un mio desiderio.
Restiamo entrambi in silenzio, guardandoci e basta.
Terra e mare, caldo e freddo. Paura e istinto.
C’è qualcosa nei suoi occhi che mi fa sentire viva, che mi entra dentro e non riesce a farmi nascondere, mi scopre, mi mette davanti a me stessa, mi fa mettere in discussione ogni cosa, ogni timore, ogni certezza.
Quando lui mi guarda così io mi sento donna, mi sento vista, desiderata, mi sento bella come non ho mai creduto di poter essere.
Quando lui mi guarda in questo modo, io non mi sento perfetta, non mi sento amata, mi sento adatta, adeguata, giusta.
Giusta perché mi sembra di essere esattamente nel posto in cui devo essere.
Vado bene, in ogni caso e nonostante le mie incertezze.
Lui mi vede ed è proprio me che sta cercando.
Non posso essere qualcun altro, non posso mostrarmi per ciò che non sono, non posso fingere, lui vuole proprio me e io non riesco a capirne il perché.
Mi fa sentire importante con un solo sguardo.
E’ qualcosa, questa, che non riesco a controllare.
Così come non riesco a controllare il mio sguardo, che si abbassa e cerca un’intimità che ci accomuni. La trovo sull’elastico stretto intorno al suo polso, lo accarezzo, ricordando che è stato proprio lui a sfilarmelo e non ha voluto più ridarmelo, nonostante le mie proteste, perché secondo lui sto meglio con i capelli sciolti, mi donano un’aria più da donna.
Quell’elastico ci unisce, crea un ricordo che mi fa sorridere.
Salgo con le dita a sfiorargli il braccio, la spalla, il petto, arrivo fino all’altezza del cuore, dove apro la mano e mi fermo.

«Forse, è meglio se torno a casa.»

Glielo dico piano, delicata, per non fargli male.
So di non riuscire ad andare oltre, neanche stasera e non voglio prolungare ulteriormente la sua aspettativa né la mia rinuncia.
Mentre faccio per alzarmi però, sentiamo la serratura della porta di casa scattare, io mi blocco e lui per un attimo smette di respirare.
Ric che è tornato.

«Aspetta un attimo.»

Mi afferra per un polso, quello che avevo ancora vicino al suo cuore e torno a sdraiarmi.
Seguiamo i rumori nel bagno, l’acqua che scorre nel lavandino, lo sciacquone del bagno, i passi nel corridoio e infine la porta della camera di Ric che si chiude.
Mi sento una ladra, una rifugiata che non deve essere scoperta, una prostituta che non ha diritto di essere lì.
Mando giù questa immobilizzante sensazione, aspetto ancora un istante, per essere sicura che non esca di nuovo dalla stanza, poi ritento, mi alzo e lui mi lascia fare.
Recupero le mie cose, Damon apre la porta della sua stanza, mi cede il passo fino all’ingresso e mi precede per aprire le mandate della porta che Ric aveva messo.
Io lo guardo imbarazzata e lui si avvicina lentamente, poggia un dito sotto il mio mento e mi alza il viso, lasciandomi, leggero, un bacio sulle labbra. Poi si allontana ma ancora con il respiro contro il mio, mi sorride beffardo.

«Dritta a casa e non dare confidenza agli sconosciuti!»
«Vedrò cosa posso fare… buonanotte Damon.»

Mi fa un cenno della testa, lo supero e, sorridendogli per l’ultima volta, scendo le scale mentre sento la porta di casa sua chiudersi di nuovo a chiave.


Mi sveglio di soprassalto, scosto leggermente il lenzuolo che mi copriva fin sopra la testa, arranco con una mano in cerca del telefono, sperduto nel letto, che continua a vibrare.
L’illuminazione del display mi costringe a strizzare gli occhi e socchiuderli per non farmi invadere dalla troppe luminosità, quando lo avvicino a me.
Me li stropiccio con la mano libera e apro il messaggio che ha appena interrotto il mio sonno.

“Non sono uno che si scusa… né tanto meno che rincorre qualcuno. Ma so capire quando faccio una cazzata e ieri sera l’ho fatta. Mi dispiace sul serio… non volevo e non dovevo. Non ti meriti uno come me. Buonanotte Elena.”

Damon.









__________________________________________

Buonasera a tutte!
Stasera vi lascio solo il capitolo con poco commento, perché sono un pochino di fretta..
Ovviamente questa è la prima parte della reazione al capitolo precedente.. c'è tanta riflessione in Elena.. un flashback che fa da contrapeso se volete a quello che è accaduto.. e delle parole e pensieri di Damon che proprio non poteva più tenere dentro.. incluse confessioni che non si sarebbe mai aspettato..
E poi c'è Caroline e Klaus.. che vedranno un po' più posto nel prossimo capitolo!

Un bacio a tutte intanto!!
E buona TVD's night!!

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Capitolo 7
*** Capitolo 6° ***


 “A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri.
Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran.
Non c'è una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran.
Cos'è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C'ha un'anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un'ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall'inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d'accordo, allora buona notte, 'notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran.

Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all'Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: "A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave". Ci rimasi secco. Fran.
 
(Alessandro Baricco_Novecento)
 

 
 
 
 
 
Elena
 
 
Ore 12:10.
Tre chiamate e un messaggio.
 
Caroline mi sta assillando da questa mattina, mi ha chiamata alle nove e mezza, poi alle dieci, mi ha mandato un messaggio chiedendomi se stavo bene e che aveva bisogno di parlarmi e infine mi ha richiamata a mezzogiorno.
Non so cosa sia venuta a sapere, non so cosa voglia dirmi ma al momento non ce la faccio ad ascoltare niente.
Non riesco a toccare quel telefono perché contiene il motivo per cui ho ancora gli occhi rossi, stanchi e gonfi di insonnia, le occhiaie viola che non hanno la minima intenzione di andarsene dal mio viso.
Quel telefono che si è messo a vibrare questa notte, è il motivo per cui non sono più riuscita a chiudere occhio, il motivo per cui ho continuato a girarmi e rigirarmi nel letto senza concludere nulla.
Né riaddormentarmi, né rispondere, né tantomeno alzarmi.
Ho letto e riletto quel messaggio un’infinità di volte, l’ho imparato a memoria, ne conosco le pause, i sospiri, il numero dei puntini di sospensione, gli spazi, i punti.
Ne conosco le intenzioni.
Soprattutto quelle.
E mi ha spiazzata perché non è da lui, non è da lui venire a pagare in questo modo i suoi conti in sospeso, lui è uno che cura le ferite che lascia ma quando è con le spalle al muro, quando gli si toccano i sentimenti, la vita privata e non lo fa sempre e neanche con tutti.
Non si scusa per i suoi istinti, non si sente in colpa per qualcosa che volevamo entrambi, si scusa per la sua mancanza di autocontrollo, non per ciò che desiderava.
Si scusa per la forma, non per il contenuto.
E si scusa con me, si mette a nudo, espone la sua parte fragile, ammette la sua imperfezione, è sincero e non ha paura di esserlo.
Non ha paura con me ma continua a nascondersi, a tirarsi indietro.
E c’è quel ‘non ti meriti uno come me.’, che continua a frullarmi per la testa, come un insegna al neon che lampeggia tutta la notte, perché presuppone un pensiero dietro, implica un’idea di noi che si è fatto anche lui, che per lo meno ha immaginato per vedere come potrebbe essere.
Non mi ha detto ‘finiamola qui’ o ‘è stato bello, ma ho capito che non fai per me’, poteva usare mille altre parole per dirmi che era meglio non vederci più, eppure non l’ha fatto.
Ha usato la parola meritare.
Meritare qualcosa significa essene degno, all’altezza, esserselo guadagnato.
Il merito è sostanza, stima, riconoscimento, è un diritto che si acquisisce.
Pensare di meritare qualcosa prevede una solida base sotto i propri piedi, che lui evidentemente non ha.
E’ un problema di fondo, non di intenzione.
E’ un problema d’amore.
E l’amore non si merita, caro Damon.
L’amore è libero, è gratuito, l’amore non è qualcosa che si conquista perché finalmente si è all’altezza, l’amore è qualcosa che si libera.
E’ qualcosa che c’è già.
Altrimenti si da’ agli altri un controllo troppo grande, un potere che ci innalza o ci schiaccia al suolo con il minimo battito di ciglia.
E io lo so bene, io che mi lascio ferire da tutto, io che rincorro tutti, che dono a chiunque per non fermarmi a prendere, perché quello, prendere e trattenere, non ho idea di come si faccia.
Quindi ti capisco Damon e so che non dovrei cercarti più, che non posso fare nulla contro di te, contro le tue porte chiuse, contro un pensiero che ti annienta, che ti fa fare sempre le stesse scelte, che ti fa vedere costantemente in bianco e nero, solo che, in questo momento, vorrei accarezzarti il viso, vorrei prenderlo tra le mani e riempirlo di baci leggeri, vorrei fartelo sentire un po’ di quell’amore che non ha a che fare con il meritare ma solo con il cuore.
Ed è una stupida speranza quella che ho letto fra le righe del tuo messaggio, so che non dovrei avere, eppure sta lì, sotto la pelle, insieme a quel rispetto che mi doveva e che mi ha restituito, per lo meno in parte, con quelle parole.
 
Sto bene Care?
 
Non lo so, non so cosa pensare, non ho più pensieri lineari da quando ho a che fare con Damon.
Lo dimostrano queste mie elucubrazioni, lo testimonia la nottata in bianco e il fatto che sia ancora in pigiama, quando è quasi ora di pranzo.
Mi decido a fare un ennesimo caffè, mi lascio accarezzare dalla mia gatta, che è stata l’unica a dormire questa notte, dentro al mio letto ed esco in balcone, a godermi un alto e caldo sole.
Siedo sulla sedia in legno accanto al piccolo tavolino, dove ogni tanto mi piace mangiare o scrivere, raccolgo le gambe e, senza indugiare oltre, scorro con il dito sulla rubrica del mio telefono e faccio partire la chiamata.
 
«Elena! Finalmente! Ma che fine hai fatto
 
La voce preoccupata e acuta di Caroline mi si infila nelle orecchie tanto forte, che devo allontanare leggermente l’Iphone dall’orecchio.
 
«Scusami Care… non sto tanto bene e non avevo molta voglia di parlare.»
«Cos’è successo?Mi stavo iniziando a preoccupare!»
 
Esito un momento, giusto il tempo di chiudere gli occhi e sospirare.
 
«Presuppongo tu abbia parlato con Damon ieri sera…»
«Perché continuate a chiedermelo! No, non so niente, lui mi ha detto solo che vi siete visti e ha perso un po’ il controllo… ma non so cosa sia successo. Perché non mi hai detto niente?»
 
Me lo chiede dolcemente, anche se nel suo tono c’era una vena di insicurezza e risentimento.
Per una volta è lei a non sapere qualcosa che riguarda me e lui e lo so che non dovrei, ma sento un pizzicore nello stomaco che mi fa piacere.
C’è qualcosa di mio e di Damon che è solo nostro e che, per motivi diversi, nessuno ha voluto condividere.
C’è un noi, che è nostro e di nessun altro.
Solo che, aggrapparsi a questo noi, dopo il suo messaggio di questa notte, dopo il suo “non ti meriti uno come me”, che presuppone una sua ritirata, mi sembra una credenza e un’aspettativa eccessivamente illusoria, perfino per me.
Forse per questo e per liberarmi, in parte, di un senso di vergogna e confusione, che decido di cedere al bisogno di lasciarne andare una parte di questo noi, svanito già prima di potersi definire.
Ho bisogno che qualcuno mi aiuti a mettere ordine, lì dove io continuo ad ingarbugliarmi e ad inciampare.
 
«Sono stata da lui la scorsa sera, dopo averti riaccompagnata a casa ed ero decisa, davvero, ad andare oltre… e non lo so cosa sia successo, lui non era completamente in sé, sembrava arrabbiato, inquieto e mi sono tirata indietro, di nuovo..»
 
Glielo dico così, lo butto fuori per cercare una via d’uscita, una luce nella sua voce che mi tolga dal buio.
Non glielo dico che mi sono ritratta perché mi stava facendo male, perché stava diventando troppo, perché non era più lui, perché mi stava usando senza rendersi conto che c’ero io, sotto i suoi denti e le sue mani.
Voglio proteggerlo, da lei, nonostante tutto. Non voglio che il loro rapporto si incrini in nessun modo, preferisco omettere parte della verità, se questo significa lasciarle intatta l’opinione che lei ha di lui.
Non voglio fare questo a nessuno dei due.
Mi preparo perciò al suo rimbeccarmi, per il mio essermi ritratta, per aver trovato, di nuovo, secondo lei, la strada più semplice.
Contrariamente, invece, la sento sospirare e restare in silenzio per quell’attimo in più che mi fa titubare.
 
«Care…»
«Elena, non ho ben capito cosa sia accaduto e non credo di volerlo sapere… ma penso tu abbia avuto la sensazione giusta. So che è successo qualcosa di grave al lavoro e ovviamente non è una giustificazione ma sì, non credo lui fosse completamente in sé.»
 
Sorrido piano, apprezzando la sua onestà e il suo appoggio, ad entrambi, nonostante tutto.
Allungo le gambe, stirandole e poggiandole sul bordo della ringhiera, un po’ più leggera, un po’ meno sola.
 
«Cos’altro volevi dirmi?»
 
Cambio discorso per un momento, lasciando Damon e i suoi tormenti in sospeso tra di noi.
Lei smette improvvisamente di respirare, colta alla sprovvista dalla mia domanda, poi espira sonoramente e prende un lunghissimo fiato prima di parlare.
 
«Ho sentito Klaus.»
 
Io spalanco gli occhi e quasi cado all’indietro dalla sedia, per il balzo istintivo con cui ho ritratto le gambe e le ho poggiate a terra.
 
«Cosa? Perché?»
«Mi ha chiamato lui… Elena io non so cosa fare! Mi ha detto che vorrebbe vedermi, che gli manco, che non fa che pensare a me, che è stato tutto un errore…»
«Anche tradirti?»
 
Sono cinica e gelida perché lui se lo merita.
L’ho odiato dall’inizio, da quando ha iniziato a portarmi sempre un po’ più via la mia Caroline, da quando ha iniziato a metterla alla prova continuamente, nelle parole, nei gesti, nelle azioni, nei sentimenti.
Lei, che ha faticato tantissimo per lasciarsi anche solo corteggiare e lui, che è riuscito a tirarle fuori tanto di quell’amore che sarebbe potuto bastare per entrambi, non è mai riuscito a crederci davvero.
C’ero io quando lei gli urlava contro, al telefono, durante le loro innumerevoli litigate, quando lui metteva in dubbio anche i suoi sospiri, quando le prometteva il mondo e la lasciava con le briciole. C’ero quando lei piangeva per lui e si sentiva in colpa, sbagliata, quando mi urlava che sarebbe stato meglio non averlo mai conosciuto ma che non riusciva ad odiarlo.
C’ero quando si è presentata a casa mia, una notte, in lacrime, perché aveva scoperto che l’aveva tradita, dopo che lei gli aveva chiesto tempo, per sé, per loro, per lasciarsi andare o ritrovarsi.
Sono stata io a consolarla, anche quando lui le ha confessato che forse, se era arrivato a tanto, era perché non era più innamorato di lei.
C’ero e ho fatto una fatica disumana per sostenerla, per tirarla su, per ridarle una speranza, seppur minima, per continuare a sorridere ed è stata bravissima a rialzarsi da sola.
Per questo adesso ho il sacrosanto diritto di odiare quell’uomo e di essere cinica e gelida.
 
«Tecnicamente non mi ha tradita… ci eravamo presi una pausa, gliel’avevo chiesta io. Avevamo discusso quella sera, lui era ubriaco ed è andato a letto con un’altra.»
«E poi ti ha detto che l’ha fatto perché forse non ti amava più!»
«Sì... ma c’è stato tutto quel casino con la sua famiglia, lui non era in sé…»
«Care tu non sei obiettiva quando si tratta di lui! Ti ha fatto male e i suoi casini non sono una giustificazione!»
 
Ci metto più enfasi di quanto mi aspettassi, ci metto dentro anche qualcosa di mio, qualche sentimento che appartiene a me.
 
«Che devo fare?»
 
Ha una voce piccola, supplichevole, ferita.
Lui riesce a toglierle tutta la forza e la sicurezza che possiede. La fa titubare e le fa mettere in dubbio ogni cosa.
Sentimenti e ragione corrono su binari sempre differenti e ciò che si prova, non è ciò che si pensa……..
 
Vero Elena? Non ti suona tutto un po’ familiare?
Scuoto la testa e torno a concentrarmi solo su di lei.
 
«Care lo sai ciò che penso. Non mi piace, non mi piace che lui ti sconvolga in questo modo. Non mi piace che abbia questo potere su di te. Tu sei migliore di lui, sei forte e mi fai rabbia perché non ti accorgi che lui continua a manovrarti e tenerti in pugno come una marionetta. Non te lo meriti il modo in cui ti ha trattata!»
 
Le getto in faccia quelle carte con violenza e con tutto l’amore e il senso di protezione che ho verso la mia migliore amica.
Non lo perdono chi fa del male a chi amo.
Sono una delle persone più comprensive e accondiscendenti che conosca, giustifico sempre tutto, in parte anche per la mia incapacità di prendere posizione, per la mia paura di perdere chi amo e per il mio senso di inferiorità e inadeguatezza ma, se qualcuno prova anche solo a sfiorare una persona a cui tengo, divento una bestia.
Ogni mia convinzione ed insicurezza svanisce in un istante e sono pronta a fare di tutto per difenderla.
Un leone con i suoi cuccioli, pronta ad azzannare chiunque, al minimo passo falso.
 
«Lui non è solo il male che mi ha fatto… e io non sono un angelo in confronto a lui.»
 
Ammette piano, seria e io lo so che è vero, ma non voglio che continui a giustificarlo.
 
«Lui è anche questo.»
«Quindi?»
«Quindi devi scegliere qual è la parte per te che pesa di più. Sei disposta a continuare a farti fare del male, a farti mettere alla prova, per avere un po’ d’amore?»
 
Lei non mi risponde, la sento muoversi, la immagino camminare per la camera, con lo sguardo basso e i denti che massacrano le unghie delle sue mani.
Mi alzo anche io dalla sedia, mi sporgo un po’ dal balcone e stacco alcune foglie secche dalla mia edera, che cresce a dismisura, incatenandosi ed intrecciandosi alla ringhiera.
Forse dovrei riflettere anch’io sulle parole che sono appena uscite dalla mia bocca, eppure sono sempre stata molto brava a dissociare emozioni e ragione, situazioni e sentimenti, dentro e fuori.
 
«Tu che pensi di fare con Damon?»
 
Mi rigira in qualche modo la domanda, forse più lucida di me nel comprendere che questa situazione, ci accomuna entrambe e che ci siamo dentro con tutte le scarpe.
 
«Non lo so.. lui non mi ha mai promesso niente Care, è stato corretto, sempre. Quello che è successo l’altra sera o quello che stava per succedere, non significa niente…»
«Non sei obiettiva neanche tu mia cara quando si tratta di lui, lo sai vero?»
 
Rido, finalmente, in una risata vera e piena e sento anche lei sorridere, genuina e serena.
 
«E’ per questo che ho te! E che tu hai me!»
«Ci vediamo stasera tesoro! Ti passo a prendere per le dieci! Puntuale!»
 
 
 
 
 
 

Damon

 
 
Ho appena detto ad un ragazzo di ventiquattro anni che dovrò licenziarlo.
Era l’ultimo arrivato, l’unico a non avere una famiglia, un affitto, un mutuo da pagare, l’unico con le spalle ancora coperte dalla famiglia.
Ho raccolto tutti i miei dipendenti stamattina, ho richiesto una riunione per chiarire loro la situazione, li ho preparati, gli ho raccontato i fatti, senza indorare la pillola, senza promesse che non potrò mantenere. Ho detto loro di questo enorme problema economico, che non mi permetterà di pagare a tutti lo stipendio e che non so neanche se mi consentirà di continuare a tenere in piedi questa agenzia.
Tutti loro si sono mostrati solidali, dispiaciuti, qualcuno ha avuto parole di conforto, altri sono rimasti in silenzio, eppure negli occhi di tutti, di alcuni in particolare, ho letto lo smarrimento e l’angoscia più totale.
Dover perdere un lavoro sicuro, dover ricominciare da zero, con una famiglia sulle spalle, dei figli da crescere, le bollette che incombono, è terrorizzante per chiunque, figuriamoci per chi ci sta davvero in queste condizioni.
Essere d’improvviso inutile, impotente, è una sensazione che ti devasta, che ti colpisce senza avvertirti, senza darti modo di difenderti in nessun modo.
Ti investe e ti lascia con le ginocchia a terra.
Per questo ho ponderato bene la mia decisione, ho voluto condividere con tutti i miei sei dipendenti quale fosse la situazione, ho riflettuto su chi poter mandare via senza troppi effetti collaterali.
Il mio commercialista mi ha consigliato di licenziarne almeno la metà.
Lui mi ha salvato la vita in svariate occasioni e ovviamente l’ho chiamato immediatamente dopo aver saputo della truffa, gli ho spiegato la situazione e si è messo subito a studiare soluzioni per recuperare ogni minimo centesimo.
Lo conosco da anni Mark, il mio commercialista, eravamo compagni di liceo e siamo rimasti abbastanza amici, è lui che mi ha aiutato quando ho aperto la mia attività cinque anni fa, mi ha seguito dal principio ed ha sempre fatto un ottimo lavoro, mi fido di lui, anche perché io, in materia di soldi, contratti, leggi, utili e perdite, non saprei proprio dove mettere le mani.
E’ lui che mi tiene con i piedi ben ancorati a terra, che mi ricorda le scadenze, mi consiglia su investimenti più o meno fruttiferi, mi ferma la mano quando il gioco non vale la candela, altrimenti sarei andato in bancarotta già dopo il primo anno.
Eppure, nessuno dei due era preparato a questa sconfitta, nessuno dei due aveva fiutato l’inganno e previsto questo baratro.
Ci siamo buttati entrambi e abbiamo fallito.
Forse, si sente anche lui un po’ in colpa, per questo si sta dando così tanto da fare.
Ma il lavoro sporco, come sempre, tocca a me.
Ho iniziato a sporcarmi le mani nel modo più facile, con un ragazzo che non avrà apparentemente nessun danno, gli altri due, so già che mi spezzeranno il fiato, perché lavorano con me ormai da due anni e hanno rispettivamente un bambino e una moglie con mutuo a carico.
Vorrei riuscire a non farmi toccare, a restare quel po’ distaccato che mi permetterà di uscire emotivamente indenne da qui, ma ormai ci sono dentro con tutte le scarpe e qualsiasi passo faccia, questo schifo mi si attaccherà addosso, senza scampo.
Ed infatti lo fa, lo vedo arrivare quando scorgo quell’amarezza, quella delusione, quello sconcerto nei loro occhi, quando vedo i loro occhi abbassarsi, le loro mani stringersi a pugno, le loro labbra contrarsi e il silenzio calare tra di noi.
Ho dovuto farlo, devo farlo, devo essere egoista anche questa volta, devo pensare a me, alla mia sopravvivenza, nonostante lo stomaco che si contorce e la rabbia che mi sale in gola.
Ha un sapore amaro, un sapore di disperazione, di disgusto, di disprezzo, lo stesso che provo io per me, lo stesso che provano loro, ora, per me.
Esco dalla mia agenzia distrutto, colpevole, sotto terra.
E non so perché mi venga in mente anche quel messaggio, che forse non dovevo mandare, che forse non è arrivato a destinazione o che forse, semplicemente, non merita risposta, né attenzione, come me.
Forse perché me la merito, anche questa indifferenza.
 
Butto giù un bicchiere pieno di bourbon prima di uscire di casa e andare a prendere Stefan, insieme ad Alaric, per festeggiare il suo compleanno.
Spero di riuscire a staccare la spina per qualche ora e concentrarmi solo sul mio amico, stasera è la sua serata e ci voglio essere al cento per cento.
Arriviamo in macchina sotto casa sua, intorno alle dieci, scendiamo perché Alaric vuole fumarsi una sigaretta e proprio mentre la sta accendendo, Stefan esce dal portone e io mi lancio immediatamente una fragorosa risata, seguito da Alaric, che per poco non si da fuoco con l’accendino.
 
«Ma che diavolo ti sei messo?»
«Perché? Non va bene?»
 
Mi sembra un ragazzino, con il suo sguardo titubante che scorre sui suoi pantaloni scuri e le sue mani che si aggiustano il colletto di una giacca gessata, troppo formale e borghese anche per uno come lui.
Gli manca solo la cravatta e poi è pronto per andare a sposarsi!
 
«Dai Stef, la camicia no!»
 
Alaric continua a ridere a crepapelle, mentre io cerco di fargli dare un contegno, o per lo meno fargli capire che non è l’abbigliamento adeguato per il posto in cui stiamo andando, che tra l’altro è un discopub, né noi, siamo gli amici ideali per andarsene in giro con giacca e camicia.
 
«Togli almeno la giacca se vuoi tenere la camicia! Oppure lascia entrambe ma cambiati quei pantaloni da frate!»
 
Dio, mi sembra di dovergli fare da padre in continuazione!
Incrocio le braccia sul petto e mi appoggio sul cofano della macchina, guardandolo con uno sguardo perentorio, che non gli lascia scampo.
 
«Sei un rompipalle Damon, sarà libero di vestirmi come mi pare?»
«Non quando esci con me. Cambiati, muoviti.»
 
Gli indico con l’indice il portone, intimandogli ancora di fare dietrofront, mi inchiodo lì e aspetto. Lui bofonchia qualcosa, agita teatralmente le braccia, poi si volta e continuando a parlottare risale in casa a cambiarsi.
Alaric scuote la testa disperato, si porta una mano sulla fronte e sospira senza riuscire a smettere di ridere.
Finalmente riscende indossando un abbigliamento più consono a lui, a noi e alla serata.
Siamo pronti a partire.
 
Il posto in cui lui, spinto alla fine da Caroline, ha deciso di festeggiare la mezzanotte, è un discopub a pochi passi dalla spiaggia di Venice beach, una stradina ci separa dal lungomare e dalla calca di persone che passeggia, torna a casa o inizia la sua serata nei molteplici locali adiacenti al nostro.
Oltrepassiamo il cancello d’entrata e ci ritroviamo in un giardino pieno di gazebi, poltroncine bianche e tavolini bassi, ospitanti lanterne e candele profumate.
Il gioco di luce che offrono queste ultime creano ombre e riflessi sulle cortecce degli alberi e sulla fontana accanto all’entrata principale.
E’ lì che ci aspettano i nostri amici e qualche collega di lavoro di Stefan che io non conosco.
E’ lì che la prima persona che riconosco è Elena.
Ha un vestito blu, leggero, senza spalline, lungo fino ai piedi, con dei ricami bianchi e dorati e una cinta sotto il seno, che ne esalta la forma e la prosperità, dei saldali con un tacco alto che la rendono troppo donna per una serata come questa, troppo attraente per costringermi a staccargli gli occhi di dosso.
 
«Finalmente siete arrivati! Vi stiamo aspettando da mezz’ora!»
 
E’ Caroline a rimproverarci mentre bacia prima me e poi Stefan e Alaric.
 
«Prenditela con fratello Stefan!»
 
Lei mi guarda interrogativa e Alaric ricomincia a ridere, piegandosi in avanti con una mano sulla pancia.
 
«Pensava di dover andare a qualche matrimonio! Forse il suo! O a celebrare Messa!»
 
Stefan mi da un pugno sulla spalla e io rido divertito fingendo un inchino con la testa.
 
«Sei un cretino!»
«Però ci sei andato a cambiarti!»
«Certo, perché altrimenti mi avresti ammorbato per tutta le sera!»
«Scusate per il ritardo!»
 
Alaric ritorna in sé e sono sollevato finalmente di sentire di nuovo la sua voce, pensavo morisse soffocato dalle sue risate.
Stefan ci lancia un’ultima occhiata di disapprovazione e, non degnandoci più di uno sguardo, inizia a salutare tutti i presenti.
Bonnie lo abbraccia stampandogli un sonoro bacio sulla guancia e poi gli offre il braccio per entrare insieme.
Io ho ancora un sorrido irriverente sulle labbra, quando mi volto per presentarmi ai colleghi di Stefan ma mi scontro con il solito profumo speziato, che ormai riconosco.
Elena si è avvicinata con fare disinvolto, per salutare Alaric alla mia destra, ha fatto un passo indietro per non inciampare sul brecciolino e mi è venuta addosso.
Mi guarda appena, mi fa un sorriso veloce, imbarazzato e fa un passo avanti per andarsene, ma io ricalco le sue mosse e torno a toglierle quella distanza, le passo un braccio intorno ai fianchi e le lascio un bacio leggero sulla guancia.
Lei resta immobile, sorpresa, indecisa.
 
«Ciao.»
«Devo tenerti d’occhio o ce la fai a non inciampare su quei tacchi per questa sera?»
«Credo di farcela, puoi considerarti libero.»
 
Lei sorride, scioglie le braccia che aveva raccolto sotto il seno, abbassa le sue barriere e stavolta ci riesce a sostenere il mio sguardo.
Io vorrei toccarla, vorrei portarla via da qui, da tutti questi occhi e trascinarla su quel divano incriminato, per scusarmi davvero con lei, nel solo modo che conosco, nel solo modo in cui so di essere all’altezza.
Invece lei si muove, la sua mano si alza istintivamente per sfiorarsi un punto preciso del corpo, l’incavo tra la clavicola e la fine del collo, lo copre, eppure riesco a vederlo quel piccolo segno, bluastro, irregolare.
Mi irrigidisco e trattengo il fiato.
Lei nota il mio sguardo sulla sua mano, su quel livido, la porta via velocemente e fa un passo avanti, provando a tenderla verso di me, ma restando a metà.
Io mi allontano, faccio un passo indietro e ad occhi bassi alzo un angolo della bocca, per un sorriso che voleva essere ironico, ma non mi viene.
 
«Damon…»
«Entriamo?»
 
Le apro la porta d’entrata del locale e le cedo il passo, lei abbassa lo sguardo e non parla più.
Quando raggiungiamo gli altri, li troviamo già seduti e con il menù in mano in cerca di qualcosa da ordinare.
Io mi faccio spazio tra Alaric e Stefan, lei va a sedersi vicino a Caroline, di fronte a me.
Ricerco il mio proposito iniziale, di concentrarmi solo sul mio amico e cerco di portarlo avanti per il resto della serata.
Iniziamo a bere, la cameriera addetta al nostro tavolo, ci porta un cestello con una bottiglia di spumante e delle ciotoline con frutta fresca.
Stefan stappa la bottiglia e versa il contenuto nei calici, assolutamente di plastica, consegnandocene uno per uno.
La musica di sottofondo è ancora troppo bassa per coprire i pensieri, così come l’alcol in circolo, ma non mi dispiacciono queste risate e queste chiacchiere che vedono Stefan protagonista.
E’ piacevole la vita che lo circonda, sono piacevoli i suoi colleghi, è piacevole questo Enzo che continua a provocarlo, raccontando aneddoti sul loro lavoro insieme, è leggero il suo mondo e di riflesso, quando sto con lui, sono leggero anch’io.
Trascorriamo circa un’ora circa in questo modo, fino a che a pochi minuti dalla mezzanotte, Caroline ed Elena si alzano e scompaiono tra i banconi in fondo alla sala.
Lo ammetto, continuo a guardarla di soppiatto, a spiare tutti i suoi movimenti, non riesco a farne a meno, a trattenermi, nonostante quello che le ho fatto, nonostante ne porti addosso i segni.
Riappaiono entrambe in tempo per lo scoccare dell’ultima lancetta sulle dodici, con una torta in mano, illuminata da ventisette candeline e un pacco enorme.
Stefan spegne una ad una quelle candele, provando a schivare le nostre mani che continuano a rubare fiocchi di panna e spalmargliela sul viso, poi apre finalmente il suo regalo.
Dallo scatolone esce fuori un vecchio giradischi d’epoca e un paio di cd in vinile dei suoi gruppi preferiti.
Lui esplode di felicità e tutti noi ci guardiamo soddisfatti per aver decisamente azzeccato il regalo.
 Adesso però, è indiscutibilmente il momento di movimentare questa serata.
 
«Bene, propongo un giro di shot per tutti! Per movimentare un po’ questo compleanno! Non vorrai mica ricordarli così i tuoi ventisette anni?»
 
 
 
 
 
Elena
 
 
Ero certa che Damon se ne sarebbe uscito con qualche idea strampalata, non ce la fa a fare il serio, a starsene al suo posto per una volta.
A godersi semplicemente Stefan e questa serata in compagnia, così come sto cercando di fare io, per costringermi a non pensare a lui, al suo sguardo che mi tormenta da quando, d’istinto, ho provato a coprire le sue colpe, nascondendo i suoi denti sulla mia carne.
Sto fingendo, sto clamorosamente fingendo, eppure lo evito, perché avrei voluto che mi concedesse un secondo per spiegargli, per rassicurarlo sull’aver ricevuto il suo messaggio, di aver accettato le sue scuse.
Avrei voluto entrare con il suo braccio intorno ai miei fianchi, avrei voluto sentire la mia pelle continuare a bruciare sotto quel tocco, sedermi accanto a lui, sfiorarlo, abbracciarlo e lasciami guardare, esplicitamente, allo scoperto, non di nascosto, provocandomi e rubandomi i gesti e l’ossigeno da respirare.
 
«Francamente… sì.»
«Avanti Stefan non fare il vecchietto!»
 
Anche Bonnie lo incita, con in mano ancora il suo bicchiere di Martini, che ha ordinato dopo lo spumante. Stefan continua a fare cenno di no con la testa e a me fa teneramente sorridere.
 
«Io ci sto!»
 
Caroline alza la mano, sbracciandosi per enfatizzare ancora di più la sua partecipazione a questa malsana idea, io mi volto stupita verso di lei, lei che non beve neanche una goccia di vino, ma ricambia il mio sguardo con complicità e un velo di frustrazione che vuole mandare via, per questo le sorrido comprensiva.
Anche Damon la osserva e le lancia un sorriso accattivante, alzando solo un angolo della bocca.
 
«E brava Care! Avanti o tutti o nessuno!»
«Tutti!»
 
Sono io stavolta ad intervenire, perché lui mi sta scagliando occhiate provocatorie da quando se ne è uscito con questa proposta. E io sono una molla pronta a saltare quando qualcuno mi sfida, scatto immediatamente, senza riflettere, solo per un gusto di rivalsa. Mi sento punta nell’orgoglio e sono vendicativa, un po’ come quando devo proteggere chi amo.
In questo caso poi, la sfida è partita da una persona con cui, in qualche modo, voglio prendermi un pizzico di rivincita, anche se so che non servirà, perché questo mio lato istintivo e selvaggio non regge, non ce la fa a scavalcare del tutto le mie sicurezze, non ce la fa a cancellare il suo sguardo colpevole.
 
«Dai Stef, se lo faccio io, puoi farlo anche tu!»
 
Mi concentro solo su Stefan adesso, lo incoraggio anch’io, guardandolo decisa e complice, lui tituba ancora un attimo ma continuo a sorridergli e i suoi occhi verdi si aprono un po’, concedendomi la vittoria.
 
«Andata! »
 
Enzo ha già avvistato una cameriera e le ha fatto cenno di portarci da bere, lui e Alaric erano ovviamente d’accordo dall’inizio, Damon li aveva già convinti alla parola shot.
Quella stessa cameriera arriva con una cinta in vita, in cui sono cucite delle tasche con dentro dei bicchierini, ce ne passa uno ciascuno, tira fuori sale, fette di limone e una bottiglia di tequila.
Riempie tutti i bicchierini e resta in attesa per godersi lo spettacolo.
 
«Allora: sale, tequila tutta d’un fiato e limone, chiaro?»
 
Damon ci guarda, a me e Caroline, per illustrarci la procedura, parlandoci piano e con calma, come si fa con dei bambini, che non hanno la più pallida idea di cosa stanno per fare.
 
«Risparmia il fiato bamboccio! Non siamo mica nate ieri!»
 
Lo rimbecco e nello stesso istante sistemo il sale nel lembo di pelle fra il pollice e l’indice, lui fa lo stesso, non staccando gli occhi quasi fieri e ammirati, da me e, a ruota, ci segue tutto il gruppo. Afferriamo con la stessa mano la fettina di limone e con la mano libera prendiamo il bicchierino.
 
«Pronti?»
 
Un ultimo sguardo complice che unisce tutti e via.
Tequila alla goccia e limone.
Compiamo gli stessi movimenti all’unisono e all’unisono stropicciamo gli occhi, stringendoli per far scendere il sapore aspro del limone, che ha però stemperato quello forte della tequila.
Quel liquido mi scende nella gola e infiamma lo stomaco, propagando il calore in tutto il corpo, mi fa irrigidire i muscoli e stringere le mani, mi serve un attimo in più per tornare in me.
 
«Di nuovo!»
 
Caroline è fuori controllo stasera e non so se sia un bene o no.
Damon fa cenno alla cameriera di servire un altro giro e ci prepariamo per la seconda dose.
Per un attimo mi fisso su di lui, sul suo modo di inumidire con le labbra e con la lingua la curva della sua mano, con gli occhi socchiusi e le spalle alte e leggermente incurvate, come a voler proteggere quell’operazione. Distribuisce poi un po’ di sale sull’umido della mano e dandoci di nuovo il segnale, prima lecca quel lembo di pelle, poi beve d’un sorso la tequila, inclinando indietro la testa ed infine succhia il limone, strizzando leggermente gli occhi, che i trasformano in piccole fessure e poi si riaprono potenti, di un azzurro incontrastato.
E’ uno spettacolo perdersi nei suoi dettagli, nel suo mondo.
E’ bello anche solo da ammirare, mi piacciono i suoi gesti, le sue espressioni, il modo in cui ride piegando la testa all’indietro, il modo che ha di fissare le persone, di guardare me, come se mi volesse spogliare ed accarezzare, senza muovere nessun muscolo.
Non riesco ad essere lucida quando ce l’ho davanti, la tequila è una dilettante al suo confronto.
 
«Elena manchi tu!»
 
Stefan mi riporta alla realtà, sorprendendomi ancora con il bicchiere alzato per metà.
Ripeto tutti i movimenti e butto giù, lasciandomi infuocare per la seconda volta.
Ci concediamo un altro cocktail a testa e cominciamo ad alzare la voce, a ridere e scherzare tra di noi, segno che l’alcol sta già prendendo il sopravvento.
Finalmente questo posto si popola di gente, la musica pop – commerciale si propaga e il centro del locale, se pur piccolo, comincia ad affollarsi di persone che hanno solo voglia di lasciarsi andare.
Stefan continua a ridere e a bere il suo Cuba Libre, lo stesso che ho ordinato io e Damon continua a provocarlo, ficcandogli l’idea di provarci con la cameriera che ci ha appena servito quegli alcolici. Lui continua ad assecondarlo e cerca di richiamare l’attenzione della malcapitata ma la voce acuta, gli si spezza in una risata, provocando l’ilarità di tutti gli altri.
Non ho mai visto Stefan in questo stato, probabilmente non era questo che intendeva per serata tranquilla, non credo volesse davvero svegliarsi domattina con un gran mal di testa e dei vaghi ricordi di questa nottata, eppure sembra felice e, di conseguenza, credo di esserlo anch’io per lui.
Se la merita un po’ di spensieratezza!
Oppure è solo l’alcol che mi fa provare sensazioni così amorevoli e arcobaleniche.
Di certo, lo sguardo di Damon che continua a fissarmi di soppiatto non mi aiuta minimamente, né a far scemare il calore che provo sulla pelle e sul viso, né a smettere di bere.
La musica si alza, così come l’adrenalina che sento salire dentro di me.
Bevo un altro lungo sorso del mio bicchiere, pieno a metà e con il ghiaccio che pian piano si sta sciogliendo, rendendo il mio delizioso Cuba Libre, un composto di coca cola annacquata!
Guardo Stefan davanti a me che fa lo stesso con il suo, mimandomi un cin cin immaginario.
Ho una voglia incredibile di lasciarmi andare e non provare più niente, voglio ridere e ballare!
 
«Avanti Stef! Buttiamoci!»
 
Mi alzo dal mio divanetto, lo afferro per la camicia e lo trascino in pista, non facendo assolutamente attenzione né al mio, né al suo, di bicchiere, che infatti tentenna e sgocciola a terra, scivolando sulle nostre mani e rendendole appiccicose.
Mi infilo tra la calca di gente che si è alzata per ballare e lo lascio soltanto quando sono certa che non tornerà indietro.
Tengo sollevato il braccio con il bicchiere, mentre inizio a muovermi a tempo di musica davanti a lui, che mi osserva ridendo e poi mi asseconda, accennando qualche movimento.
Lo sento biascicare qualcosa, lo vedo muovere le labbra ma sono troppo brilla per capire cosa sta dicendo e lui lo è abbastanza da non saperlo ripetere.
Ridiamo entrambi e chiudo gli occhi, lasciando andare indietro la testa e dondolando i capelli da una parte all’altra.
Voglio ballare, voglio sentire solo la musica che rimbomba dentro il mio corpo e lo riempie.
Quando riapro gli occhi i nostri amici ci hanno già raggiunti, Caroline sta ballando strusciandosi su Alaric e Stefan, Bonnie ha inscenato invece un duetto con Enzo, trasformando i propri bicchieri in microfoni.
Solo Damon è rimasto seduto sulle poltroncine, ha le braccia conserte e ci scruta da lontano, con la testa inclinata e lo sguardo assorto.
Incrocio per un secondo i suoi occhi, ma non riesco a sostenerli, gli sfuggo e gli do le spalle, continuando a muovere il corpo senza tregua. I capelli iniziano ad appiccicarsi alla fronte e al collo, il mio vestito scivola su e giù, i tacchi cominciano a torturarmi ma non mi interessa, mi avvicino a Caroline con fare sensuale, scivolando con una mano intorno alla vita di Stefan, che balla davanti a lei, lo sorpasso e dirigo lo sguardo verso la mia amica.
Agito i fianchi e rido per i movimenti goffi e sopra le righe di Alaric ed Enzo, che si stanno prendendo in giro a vicenda.
Chiudo gli occhi e bevo ancora il mio drink, che tengo alto sopra la mia testa e che ormai è più acqua che rum.
Quando li riapro Caroline si è allontanata e io mi ritrovo a ballare con Bonnie, che sta impartendo lezioni a quei due stoccafissi. E’ bellissima vederla muovere, è sensuale e sembra avere il ritmo nel sangue, il suo corpo si muove autonomamente ed è morbido, senza stonature.
Mi volto appena, attirata dal fragore della mia amica che sta cercando di trascinare anche Damon nella mischia, nonostante i suoi tentativi di sfuggirle e tornare indietro.
Lo sento imprecare ma Alaric ed Enzo lo accerchiano e non gli danno scampo.
E’ troppo vicino a me, per questo mi allontano da loro e continuo a ballare per conto mio.
Gli do le spalle eppure sento i suoi occhi addosso, correre su di me, scivolarmi dentro, non mi da respiro.
La sua risata mi rimbomba nelle orecchie, non lo guardo ma li vedo nitidamente gli angoli della sua bocca alzati, le piccole increspature intorno ai suoi occhi socchiusi, le sue labbra piene, i denti bianchi, la testa leggermente inclinata e lo sento il suo odore, quell’odore che ho ancora addosso e non riesco a mandare via.
Lui mi guarda e io mi volto dall’altra parte, io lo cerco e lui non si fa trovare.
Non ne posso più, non resisto più, ho bisogno di aria, ho bisogno di uscire di qui.
 
 
 
 
 
 

Damon

 
 
La seguo con lo sguardo mentre si allontana, l’ho seguita con lo sguardo da quando si è alzata e ha trascinato Stefan a ballare. L’ho tenuta d’occhio per tutta la sera, mi ha piacevolmente stupito, mi ha rivelato una parte di sé che non conoscevo e che devo ammetterlo, mi piace.
Mi piace la sua leggerezza, quando viene da una profondità come la sua, la sua prontezza nel raccogliere le sfide, il suo sorriso quando si apre e le illumina lo sguardo.
Mi piace quel suo modo di muoversi, sensuale, elegante, seducente ma non provocante, né tantomeno volgare, mi piace perché è donna, anche quando fa la bambina.
L’ho osservata ballare con i nostri amici, l’ho vista completamente a suo agio, senza incertezze, senza insicurezze, libera dalle sue paure, dalle barriere che si costruisce da sola.
E’ viva stasera, nonostante non sia, con me, la solita Elena.
Ma d'altronde non posso darle torto, non posso recriminare nulla, né tantomeno prendermela per il modo in cui mi evita.
Mi libero dalla presa di Caroline, cerco di non urtare questi idioti di ragazzini, che hanno appena accerchiato una ragazza troppo ubriaca per capire cosa le sta accadendo, sgattaiolo via verso l’entrata principale, da cui è appena uscita Elena.
La cerco e la trovo poggiata con la schiena contro un albero, nella parte più in penombra del giardino, i capelli sciolti che le nascondono il viso, lo sguardo che attraversa la recinzione del locale e arriva al lato opposto della strada, le braccia strette, a toccare i gomiti raccolti.
E’ lontana.
Indecifrabile.
Intoccabile.
Prendo ancora un respiro prima di interrompere i suoi pensieri e togliermi questo fardello, che porto dentro da due giorni.
Faccio un passo, poi un altro.
Le arrivo ad un soffio ma mi manca il coraggio di allungare quella mano che ho alzato per sfiorarle la pelle del braccio nudo, per questo mi poggio contro un altro tronco d’albero, alla sua destra, senza dire niente, con le braccia incrociate e lo sguardo nella sua stessa, vuota, direzione.
 
«Ehi…»
 
E’ lei a sussultare e a voltare leggermente la testa per guardarmi, rivolgendomi la parola per prima.
 
«Ehi.»
 
Accenna un leggero sorriso, che è più una smorfia con cui arriccia le labbra e non mi guarda più.
 
«Stai bene?»
«Adesso sì.»
«Dovresti andarci piano con l’alcol, astemia che non sei altro!»
«Già.»
 
Lo sospira senza nessuna inclinazione, senza guardarmi, senza spostare lo sguardo dal niente davanti a lei. Ma io non voglio perdere quel contatto che è stata lei la prima a creare, per questo cerco una strada per arrivare a lei, una qualsiasi, per spezzare questa tensione che mi sale dalle viscere.
 
«Stefan è uno spettacolo da ubriaco! Come te del resto… potreste fare grandi cose insieme!»
«Già, potremmo.»
 
E’ monosillabica stasera, o forse lo è perché ci sono io qui fuori con lei, eppure il suo tono non è arrabbiato, non è distante, è solo stanco, consapevole, che è anche peggio.
Non so come avvicinarmi senza farle ancora male.
 
«Ho letto il tuo messaggio.»
 
Poi mi sorprende, è ancora lei che si avvicina a me, che muove un passo per prima, eppure ciò che mi spiazza è il suo andare dritta al punto, senza giri di parole, senza esitazione, senza nascondersi, né difendersi.
Dritta e decisa.
 
«Mi dispiace Elena, davvero.»
 
Riesco solo a dirle questo, a dare voce a qualcosa che avevo pensato bastasse solo scrivere.
Glielo dico tutto d’un fiato, prima che questa mia inquietudine mi sovrasti, lo ammetto senza muovere un muscolo, soffiando fuori solo la mia voce, come si soffia fuori il fumo tossico di una sigaretta, come qualcosa che non vuoi più avere dentro.
 
«Damon io non sono arrabbiata con te, non ti sto evitando per quello…»
«E allora per cosa?»
«Perché io non ce la faccio.»
 
Si volta del tutto verso di me ma ancora non si avvicina, io sfilo le mani dalle tasche dei jeans, le lascio cadere lungo i fianchi e la osservo attento, senza parlare.
 
«Io non ce la faccio a starti accanto e non poterti toccare, non poterti abbracciare. Dovermi controllare continuamente, dover controllare i miei sguardi, i miei desideri… io non ce la faccio.»
 
Non lo so se è veramente lei a parlare o l’alcol in circolo nel suo corpo, che le ha abbassato le barriere, so soltanto che per la prima volta, forse, riesce ad essere davvero sincera.
La calma e la lentezza con cui ha pronunciato quelle parole sono segno che, probabilmente, siamo arrivati alla resa dei conti, il gioco sta per finire, le luci stanno per spegnersi.
E’ come quando sai che sta per succedere una catastrofe, non puoi più fermare le cose, perché ti sono scivolate talmente rapidamente addosso, che aspetti soltanto il tonfo finale.
Ero certo sarebbe arrivato, ero certo che mi avrebbe messo con le spalle al muro. 
 
«Fallo. Potrebbe essere divertente vedere la faccia stupefatta di Stefan e Ric!»
 
Mi nascondo ancora, non ci riesco a dargliela vinta, la pungo dove so che sta il suo punto debole, nel coraggio e nell’esporsi, perché non voglio essere io quello sconfitto, anche se entrambi ne siamo fin troppo consapevoli.
Lei mi guarda giustamente perplessa, apre la bocca per dire qualcosa ma la richiude, scuote piano la testa, amara, disincantata.
 
«Elena io non riesco ad avercela una relazione, non so come si faccia ad averla.»
«Il fatto che tu non sappia come si faccia ad averla, non significa che non la voglia.»
 
Mi fermo un attimo, disarmato, a riflettere sulle sue parole, su questa nuova visione di me che mi sta offrendo.
Che io la voglia o no, che sappia o meno come averla, non cambia il fatto che non ho alcuna intenzione di ottenerla, di mettermi in gioco, di sentirmi dire ancora che non vado bene, di dare in pasto il mio cuore a qualcuno, solo per vederlo sgretolare.
Ritrovarmi già una famiglia, di cui non posso liberarmi, con cui lottare per tenerlo integro, con colla e scotch, mi sembra più che sufficiente. Andare anche a scegliere qualcun altro a cui affidarlo proprio per questo compito, è oltremodo masochista, anche per uno come me.
 
«Vero. Ma questo non cambia niente.»
 
Ammetto.
 
«Damon se è solo questo che vuoi da me, se il tuo scopo è solo portarmi a letto, considerati libero di andartene. Senza spiegarmi niente, senza nessun tipo di scuse. Non te le chiederò, non ti chiederò niente, davvero.»
«Il mio scopo non è portarti a letto, Elena. Non la metterei così, mi fa piacere stare con te, indipendentemente da quello
 
Ammetto anche questo, schietto, esposto.
Lei sgrana impercettibilmente gli occhi ma non li stacca dai miei.
Fa’ un lungo sospiro e si abbraccia stringendosi i gomiti.
 
«Che ti è successo?»
 
Mi chiede più dolce, preoccupata e ancora senza muoversi.
Mi guarda con lo stesso sguardo di quando ha preso il mio viso tra le mani, l’altra sera, ma non è riuscita a dire niente, tanto ero lontano da lei.
 
«Prima che venissi da te, che ti è successo
 
Lo ripete avvicinandosi stavolta, di un passo e io poggio istintivamente una mano sul tronco contro il quale sono poggiato, per constatare di non poter indietreggiare, di non avere altre vie di fuga per i suoi occhi da cerbiatto che ora mi hanno incatenato.
 
«Ho avuto un problema al lavoro.»
«Questo me lo hai già detto.»
«Cos’altro vuoi sapere?»
«Cosa è successo a te, prima che arrivassi io.»
 
Non riesco ad afferrare il senso delle sue parole, non capisco cosa voglia davvero, non può davvero voler entrare così tanto dentro di me, volermi giustificare, dopo ciò che ho fatto, dopo la mia indifferenza, dopo il modo in cui la tratto davanti a tutti, il modo in cui la sfioro, solo perché non posso farne a meno, la provoco e mi ritraggo, lasciandola in balia di se stessa.
Eppure i suoi occhi profondi, fissi, sinceri, sicuri di sé e di me, del fatto che non riuscirei a mandarla via in questo momento, a scappare lontano, muovono un senso di giustizia e comprensione che non merito.
Ci provo a sfuggirle un’ultima volta, a difendermi dentro un mondo in cui non voglio farla entrare.
 
«Vediamo… ho fatto una doccia?»
 
Lei non si lascia intimidire, è ferma e il mio sorrisetto sprezzante si spegne a metà.
 
«Lascia stare Elena, fidati è meglio se ne resti fuori.»
«Parlami Damon… Parlami, perché sto cercando di trovare un senso a quello che è successo l’altra sera tra di noi e Dio solo sa quanto io volessi andare fino in fondo e quanto tu mi abbia fatto male e non fisicamente.»
 
Resto interdetto mentre ascolto quelle parole, mentre si avvicina ancora e cerca di mantenere un controllo e una sicurezza che inizia ora a vacillare.
 
«Parlami Damon, perché io non ci credo che tu mi abbia fatto male volontariamente o per punirmi di qualcosa.»
«Elena ma che dici…»
 
Le prendo il viso tra le mani sconcertato per quel suo pensiero sbagliato, colpevole.
 
«Non è colpa tua chiaro? Tu non c’entri assolutamente niente! Sono uno stronzo, sono stato un coglione perché ho discusso con mio padre, ho dovuto chiedere aiuto a lui per una truffa in cui sono stato coinvolto e in cui ho perso un mucchio di soldi che non so come recuperare.»
 
Lo butto fuori e le lascio piano il viso, scivolando via con le mani mentre le accarezzo i capelli. Indietreggio di un passo, lo stesso che avevo fatto per rincuorarla, per cancellare quei sentimenti che non doveva provare.
Inizio ad essere inquieto, ad agitarmi, sento di non riuscire più a trattenere tutto dentro, dopo il graffio che lei ha creato, le cose si infilano tra le crepe e scivolano all'esterno da sole.
 
«Mi dispiace Elena! Mi sento un fallito, continuo a sbagliare e non pensare alle conseguenze delle mie azioni. Agisco d’impulso e faccio cazzate che continuo a pagare e pagare, senza arrivare mai alla fine. Senza mai risarcire tutti come dovrei. Sono stanco, non ce la faccio più a dovermi giustificare, a dover lottare contro tutto e tutti e…»
 
Alzo la voce più del dovuto, allargo le braccia stanco, arrabbiato ma non riesco a continuare, un odore prepotente di vaniglia mi investe disorientandomi, il corpo di Elena stretto a me, le sue braccia intorno al mio collo, le sue mani tra i miei capelli mi spiazzano, mi disorientano ed irrigidiscono.
Mi sta abbracciando…
Elena mi sta abbracciando?
Perché?
 
«Elena…»
«Sta zitto Damon.»
 
Stringe più forte, si alza sulle punte dei piedi per avvolgermi meglio, io ho ancora le braccia lungo i fianchi, incapace di contraccambiare, di prendermelo quell’abbraccio spontaneo che le è nato dal cuore.
Il contatto con la sua pelle sulla mia mi da i brividi, mi scalda e si propaga in tutto il corpo quasi con un potere calmante.
Il battito del suo cuore sul mio petto, mi aiuta a regolarizzare i miei, a rallentarli, a sciogliere le tensioni che solo in questo momento, mentre sono immobile, con addosso un altro corpo che mi avvolge, scopro di avere.
Anche il mio respiro si placa, lei lo sente e rallenta anche il suo.
Finalmente riesco ad alzare lentamente un braccio intorno alla sua vita e uno sulla sua schiena, stringo, piano, con il timore di farle male, se solo lo facessi come sento di volerla stringere a me.
Resta addosso a me, fino a che i miei muscoli non si rilassano del tutto e, senza più pensare alle mie mani, inizio ad accarezzarle la schiena.
Le restituisco in parte quel calore che non meritavo. Contraccambio quel contatto che ora sento sotto la pelle.
Lei si scosta, adagio, gentile, scivola con le braccia fino alle mie spalle ma non lascia la presa.
Le sue mani restano in contatto con me, stavolta non mi lascia andare, non me lo permette.
 
«Non è colpa tua.»
 
Mi sussurra guardandomi dritto negli occhi, scandendo bene le parole, con un tono sicuro, candido.
 
«La truffa, il non essere come gli altri ti vorrebbero, non è colpa tua
 
Arriva dentro, mi colpisce al cuore, consapevole.
Mi dice l’unica cosa che avrei voluto sentirmi dire, che ho bramato da quando sono nato. Me lo dice lei, che ha iniziato a conoscermi meglio solo da qualche mese, lei, che non è la mia famiglia, che non può considerarsi neanche una mia amica, o la mia ragazza.
Lei, che riesce a vedermi senza sapere niente.
Lei, che mi carezza il cuore e mi fa sentire giusto con un solo sguardo.
Lei, che l’anima ce l’ha attaccata alla pelle.
 
E io mi lascio toccare, senza riuscire a fiatare.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
 
Mi sta guardando con degli occhi azzurri pieni, profondi, immobili, intimoriti.
Non riesco a leggergli dentro, ma qualunque cosa lui stia provando in questo momento non intendo lasciarlo andare, non con questo peso addosso, non con questa colpa.
Voglio che stia bene, che mi sorrida, che torni a respirare.
Qualunque sia il rapporto tra di noi, il legame che ci unisce, in qualunque direzione andranno le nostre strade, ora ho bisogno che lui mi creda, che la smetta di tormentarsi e di accusarsi per non essere all’altezza.
Lui ha un mondo dentro, di cui io ne ho visto solo una piccolissima parte ma ho bisogno che almeno lui lo veda tutto, che ne sia consapevole.
Non lo so cosa mi spinge a volere che lui sia felice, a volerlo rassicurare, a dargli quell’appoggio e quella comprensione che so non riesce a trovare neanche in sé stesso, non lo so cosa sia, eppure voglio tutto questo per lui.
E’ qualcosa che si accende da dentro, che sale dallo stomaco, qualcosa che è chimica, istinto, passione.
E’ verità, è fame, è terra, fondamenta, origini, è la prima cosa che vuoi vedere quando smetti di coprirti gli occhi, la prima da cui scappi ma la sola da cui torni.
E’ fuoco che ti attira ma ti brucia.
E’ Damon.
E’ Damon con me.
 
E’ lui che mi accarezza una guancia, me la sfiora con le dita e si incanta a guardare le sue mani che scivolano sui miei occhi, sugli zigomi, sulle labbra, come se fossi di cristallo, come se non fossi reali, se non fossi lì.
Arriva sotto il mio mento e me lo alza con due dita per cercare il mio sguardo, perso sulla sua bocca.
Io sono senza fiato, il mio cuore ha ricominciato ad esplodermi dentro.
Non ce la faccio a raccordare tutte le emozioni che mi fa provare, a decifrarle, contenerle, lasciarmi sfiorare da una per volta, non ce la faccio perché mi arrivano addosso lasciandomi senza respiro, stancando la mia ragione che si arrende e lascia le porte aperte all’istinto.
E’ l’istinto che mi avvicina a lui, alle sue labbra e me le lascia toccare, sfiorare, con le mie.
Lui mi sorride addosso e il mio cuore si spacca ancora un po’.
Io e le mie stupide convinzioni, io e il mio voler aspettare il momento giusto, l’uomo giusto, io e il non saper vivere d’istinto, perdendomi tutto.
Spaventata dalla grandezza, dal non essere all’altezza, dalla paura di ciò che non conosco, di andare oltre i limiti, cercando per forza sicurezza e stabilità.
Io, spaventata dai miei stessi desideri, dalla potenza dei miei sentimenti, dal mio stesso essere donna, mi sto perdendo lui, che spaventato quanto me, percorre però una strada piena di istinti appagati e verità sudate.
Lui se lo prende il rischio di essere com’è, di essere se stesso e si sente pure in colpa per non essere diverso. Io, fingo di essere diversa da come sono, da come vorrei e mento e arranco, per non sentirlo quel senso di colpa di essere me.
Lui, che ora sta baciando proprio me, sta cercando il mio sapore, si sta prendendo un po’ di quella verità, di quel calore, che anche stavolta ha pagato caro.
E io voglio darglielo, voglio che lo senta nelle mie mani strette intorno al suo collo, nel mio corpo attaccato al suo, nel mio odore di alcol e autenticità, nella mia spasmodica voglia di lui.
Perché nonostante tutto, nonostante i miei e i suoi sbalzi d’umore, i nostri sguardi bassi, le nostre provocazioni, il suo allontanarmi, il mio sfuggire, il nostro riprenderci, il mio chiedere di più e il suo darmi di meno, io ho costantemente voglia di lui e questo non muta neanche di un millimetro.
E vorrei davvero che ora mi portasse via da qui, per farglielo capire.
 
«Damon!»
 
Stacco di getto le braccia, le labbra, faccio un passo indietro e lui fa lo stesso.
Mettiamo distanza istintivamente, entrambi, colpiti da una voce che riconosciamo ma io non ne vedo il proprietario, perché ho il corpo di Damon che mi fa da scudo.
Lui si volta, con cautela, con gli occhi spalancati e fingendo una disinvoltura che stavolta, gli va stretta, lo sento dal suo tono, dalla mascella ancora contratta, dal respiro che è tornato accelerato.
 
«Stefan…»
«In questo posto non si respira! Ho bisogno di un po’ d’aria..»
 
Stefan biascica ancora mentre parla, i suoi occhi sono socchiusi e si muove scoordinato, impacciato.
Si avvicina a noi e Damon si sposta leggermente, per assecondarlo nel suo tentativo di poggiare la schiena contro il tronco dell’albero, nella stessa posizione in cui ero io, fino a che Damon non è arrivato a prendersi tutto.
Lo accompagna e stacca le mani solo quando lui è abbastanza stabile da riuscire a reggersi sulle sue gambe, senza crollare a terra.
 
«Ma quanto diamine hai bevuto!»
«Solo un po’…»
 
Inclina la testa, accompagna le sue parole con il pollice e l’indice che si avvicinano al suo viso e mimano quel po’ che la sua percezione distorta, fa apparire quasi insignificante, quando in realtà il suo corpo è pieno d’alcol fino al midollo.
Mi chiedo come faccia io ad essere così lucida, nonostante non beva mai e lui, che non disdegna ogni tanto qualche alcolico, non si regga in piedi!
 
«E meno male che volevi una cosa tranquilla!»
«E’ stata colpa tua, sei tu che hai iniziato a… Elena!»
 
Solo ora si accorge di me, ora che ha spostato uno sguardo semi minaccioso su Damon, per accusarlo di averlo fatto bere.
Io gli sorrido appena, titubante ma abbastanza sollevata che non abbia capito, né visto nulla.
 
«Anche tu a riprendere aria?»
«Già»
«Scusa, mi dispiace di averti trascinata in questa gabbia di matti! E.. di averti fissato il seno!»
«Non preoccuparti Stef…»
 
Sorrido imbarazzata, Damon scocca un’occhiata tra l’incredulo e l’orgoglioso al suo amico e Stefan non ha minimamente idea di cosa gli sia uscito di bocca.
Io mi sistemo i capelli per uscire dall’impaccio e mi riavvicino al mio albero, che mi aveva sostenuto così bene fino a pochi minuti fa.
 
«Forse è il caso che concludiamo qui questa serata, non credi Stef? Ti accompagno a casa!»
«Perché? Sto bene!»
«Certo, ridimmelo domattina!»
«Sei il solito guastafeste! Mi sto divertendo!»
«Ti divertirai anche mentre mi vomiterai in macchina, se non la pianti di bere.»
 
Stefan si stropiccia gli occhi, inclina la testa, per poggiarla contro la corteccia e li chiude, respirando lentamente.
Damon torna con lo sguardo su di me, mi sorride leggero e mi strizza l’occhio, in un’occhiata complice.
 
«Il dovere mi chiama.»
«Vai, riportalo a casa!»
 
Stefan apre gli occhi di nuovo, si muove ma Damon lo afferra prontamente, cingendogli il fianco e alzandogli il braccio, se lo incastra intorno al collo.
Mi guarda un’ultima volta, poi mi da le spalle iniziando a camminare, con Stefan inerme addosso.
 
«Damon!»
 
Lo fermo con la mia voce, colta da un istinto supplichevole e bambino, volta appena la testa e mi guarda interrogativo.
 
«Quindi… come rimaniamo?»
 
Non ci posso credere.
Non ci posso credere che l’ho detto davvero.
Non ci posso credere che ho aperto la bocca e la mia voce ha dato corpo a questa frase idiota, inutile, insicura.
Ma che ti dice il cervello Elena?
Ma che diavolo di problema hai?
Hai venticinque anni o dodici?
Sei un’idiota, stava andando tutto bene e tu come al solito ti fai prendere dall’ansia di definire le cose per paura di perderle.
Non ti sopporto quando fai così!
Ovviamente te lo meriti adesso il suo sguardo confuso, stupito, anche un po’ divertito.
Sta ridendo di te e credimi, quando lui sarà uscito da questo posto, ti scaverò una buca tanto profonda da sotterrartici dentro, te lo giuro Elena Gilbert!
 
«Ne possiamo riparlare domani?»
 
Mi chiede, tenero, forse fin troppo comprensivo, per quella mia richiesta piombata senza senso, a togliermi ogni centimetro di credibilità che mi ero dignitosamente guadagnata.
Accenno un sì con la testa e ho, per lo meno, la decenza di stare zitta.
 
 
 
 
 
Damon
 
 
Controllo di nuovo se Stefan stia ancora dormendo o inizi a dare segni di nausee improvvise, che possano ritorcersi sui tappetini della mia macchina, abbasso ancora un po’ il finestrino, sperando che l’aria fresca possa farlo rinsavire.
Apre e chiude gli occhi da quando siamo partiti, dopo aver salutato tutti, compreso Ric, che è andato a dormire da una nuova fiamma, conosciuta qualche sera fa.
Lo sto portando a casa mia, per assicurarmi che domattina abbia qualcuno con cui prendersela, per l’atroce mal di testa che lo colpirà. Mi odierà lo so, a lui non piace bere fino a ridursi in questo stato, per lui bere è più un piacere, non un modo per evadere o liberarsi di qualcosa.
Lui è pulito e puro, come un torrente che comincia a scendere dalla cima della montagna, non c’è sporcizia, nessun ciottolo che viene trascinato dalla corrente, è trasparente come l’acqua.
E neanche gli anni lo scalfiscono, è giovane d’animo, mentre io, mi sento sempre più carico e vecchio mentre scendo giù verso il mare. Mi sento pesante dentro.
Di quella pesantezza che accade, che ti coglie alla sprovvista e non puoi farci niente.
 
«Damon…»
«Hei ti sei svegliato!»
«Non sto dormendo.»
«Come stai?»
«Meglio, credo. Ma inizio ad odiarti.»
«Sono felice di sentirlo, vuol dire che stai tornando in te!»
 
Lui si sistema meglio sul sedile accanto al mio, si arruffa un po’ i capelli e arriccia il naso in un gesto di disgusto, probabilmente per il sapore di alcol che ha ancora dentro.
Respira piano, allunga una mano fuori dal finestrino, la apre stirandone le dita e la lascia in balia del vento e della velocità.
Poi torna nell’abitacolo, tira fuori il telefono dalla tasca dei pantaloni, risponde ad un paio di messaggi e, infine, frena le dita che scivolano sulla tastiera e resta con lo sguardo basso.
Tentenna, incerto, ma poi da fiato a qualcosa che lo sta turbando.
 
«Damon…»
«Dimmi.»
«Che ne pensi di Elena?»
 
Me lo chiede distrattamente, mentre torna a cercare qualcosa di indistinto sul cellulare, che poi ovviamente blocca e ripone in tasca.
Io sussulto lievemente, colto alla sprovvista.
 
«In che senso?»
«Come persona, come ragazza…»
 
Distolgo lo sguardo dalla strada per un attimo, quello che mi serve per guardarlo di traverso, confuso e agitato. Lui ricambia il mio sguardo, serio, senza perplessità ma con un filo di disagio ed imbarazzo.
 
«Penso sia una bellissima persona e una ragazza molto in gamba.»
 
Stefan annuisce e volta lo sguardo fuori dal finestrino, in questo buio che stiamo attraversando per tornare a casa.
 
«Credo proprio che mi piaccia.»

 
Fran.








_____________________________

Ce l'ho fatta!
Tardissimo, ma riesco finalmente a pubblicare questo lunghissimissimo capitolo!
Mi spiace davvero per la lunghezza ma non sono proprio riuscita ad accorciarlo in nessun modo! :-(
In compenso c'è tanto Delena.. anche se, ovviamente, era troppo bello per durare senza nessun intoppo..
Ma data l'ora tarda, lascio i commenti al prossimo capitolo..

Un bacio a tutte!!
Ale

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Capitolo 8
*** Capitolo 7° ***


E la luna bussò, alle porte del buio.
’Fammi entrare..’

Lui rispose di no.
E la luna bussò, dove c’era il silenzio,

ma una voce sguaiata disse
‘Non è più tempo..’
Quindi spalancò le finestre del vento e se ne andò,
a cercare un po' più in là
qualche cosa da fare,
dopo avere pianto un po',
per un altro no, per un altro no,
che le disse il mare.

 
 
(Loredana Bertè _ E la luna bussò)
 

 
 



Damon
 
 
«Damon! Damon! Sei arrivato!»
 
La voce di mio fratello mi arriva forte ed entusiasta, prima ancora di scendere dalla mia Camaro.
Mi ha visto entrare dal cancello principale e ha spalancato la porta dell’ingresso, per correre sul vialetto in mia direzione.
Devo ancora spegnere il motore e lui è già schiacciato sul mio finestrino che mi guarda con i suoi occhi vivi, spalancati, entusiasti.
Glielo avevo promesso, che sarei andato a trovarlo, glielo dovevo, dopo l’ultima volta.
Mi è mancato, sono felice di passare del tempo con lui e di prendermene un po’ per me.
 
«Ciao campione!»
 
Gli scompiglio i capelli con una mano, mentre chiudo lo sportello della macchina, lui me la scansa infastidito e poi mi tende le braccia.
Mi abbasso sui talloni, per essere alla sua altezza, lo guardo finalmente in quegli occhi pieni e lo abbraccio.
Lui stringe forte, poi si scansa e mi avvicina un pugno vicino al viso, io alzo la mia mano, la chiudo anch’io e avvicino le nostre nocche facendole scontrare.
Questo è il nostro saluto segreto, il nostro saluto da veri uomini.
Mi sorride, io prendo la mia borsa sul sedile posteriore, con dentro qualche vestito che mi sono portato dietro e, seguendo i passi di mio fratello, entro in casa.
La villa che si sono costruiti i miei genitori, a due passi dal mare, è decisamente molto di più di quanto abbiano mai offerto a me, di quanto io abbia potuto godere da ragazzino.
Basterebbe che cedessero una parte di questo giardino, cosparso di alberi e piante tropicali che mia madre ama follemente, al nostro vicino che li invidia da tempo, basterebbe che vendessero una delle loro macchine o questo televisore al plasma che svetta nel grande salone, per sanare gran parte dei miei debiti.
Ma giustamente, quei debiti sono i miei e l’ho imparato a causa loro che devo vedermela da solo, sempre e comunque, in ogni situazione.
 
«Damon finalmente. Ti aspettavamo per pranzo, ma ormai abbiamo finito.»
 
Il solito saluto di mia madre.
Lei e mio padre sono sdraiati sul divano a vedere un film in quel grande televisore, mi rivolgono cenno e un saluto con la mano, il massimo che possano fare.
 
«Non preoccuparti ho già mangiato, grazie.»
«Tutto bene?»
«Sì mamma. Vado a posare la borsa in camera.»
 
Salgo al primo piano ed entro in quella che dall’inizio è stata attrezzata per essere la mia camera, quando sarei venuto a fargli visita, è luminosa, essenziale, con un gran letto in legno e un armadio semivuoto, usato solo per la biancheria e gli asciugamani in più, presumibilmente per gli ospiti, come me.
Poggio la borsa ai piedi del letto e mi lascio cadere con un tonfo su di esso.
Chiudo gli occhi e porto entrambe le mani dietro al collo, incrociando i piedi, caviglia contro caviglia.
Mi lascio andare per un attimo e la prima cosa che vedo, nel buio dei miei occhi chiusi è lui, è Stefan.
Le sue reazioni post sbronza e le sue ammissioni, lucide e consapevoli.
L’ho riaccompagnato a casa sua, il giorno dopo, prendendomi ovviamente i suoi insulti per averlo fatto bere e ridotto in quello stato e beccandomi anche un’ulteriore confessione, su un invito a cena, che vorrebbe proporre a quella che fino alla sera prima stava abbracciando e baciando me.
L’ho incoraggiato a farlo, non so se per autolesionismo o se per l’affetto che ho per lui, non gli ho mentito sul rapporto che ho con lei, ho solo omesso le parti che lo avrebbero frenato dal provarci.
Mi sono tirato indietro, se poi davvero intravedessi una minima intenzione di andare avanti.
Lui non ci proverebbe mai con lei se sapesse di noi, se sapesse che ci stavo andando a letto, non si metterebbe mai in mezzo, non ce la farebbe mai a reggere un confronto che, secondo le sue stupide convinzioni, perderebbe in partenza.
E io non potrei mai fargli una cosa del genere.
Per una volta che si è invaghito di una persona seria, adulta, con un cervello che funziona e anche bene, ora che si sente pronto a rimettersi in gioco, ora che potrebbe finalmente riceverlo un po’ di quell’amore che lui cerca e che Elena è così brava a far sentire, non sarò io a fermarlo.
Lui ha avuto solo un paio di storie, finite oltretutto malamente, che gli hanno segnato l’autostima e la voglia di innamorarsi di nuovo.
Eppure ci crede nell’amore, è convinto che per ognuno esista una persona fatta apposta per noi, che ci completi, compensi le nostre mancanze ed esalti le nostre uguaglianze.
La cerca, la aspetta, ci spera, se ne innamora.
Si innamora come una donna Stefan, forse è per questo che poi le ragazze lo mollano, perché ammettiamolo, tutte cercano un principe che più azzurro non si può, ma poi si stancano al secondo giro di ruota panoramica.
E’ un romantico e un sentimentale, Stefan, è uno che prima di provarci con una donna deve consultare tutte le possibili congiunzioni astrali, deve aspettare il momento perfetto, curare ogni dettaglio. E’ uno che corteggia ancora con fiori e lume di candela, con passeggiate mano nella mano e sotto cieli stellati.
E’ attento, protettivo, comprensivo, gentile, altruista, paziente.
E’ tutto ciò che io non sono.
Ha la sensibilità che scorre sulla pelle.
Se la merita una come Elena.
Potrebbero davvero funzionare insieme, sono davvero delle belle persone e non si farebbero mai del male a vicenda.
Sarebbero la perfetta rappresentazione di due cuori e una capanna ma al posto di questa, loro, riuscirebbero a costruire enormi castelli con torri d’avorio.
E’ questo che auguro ad entrambi, è per questo che non posso essere egoista con nessuno dei due.
Lui non deve sapere.
Non deve assolutamente sapere niente di me ed Elena.
 
«Damon! Ma dove sei?»
«Sto andando dai miei, sono in macchina.»
«Non ti ho più sentito dalla festa, tutto ok? Il problema al lavoro?»
«Per ora è tutto stabile, aspettiamo e vediamo che succede.»
 
Lei sospira forte e sento il suo respiro arrivarmi alle orecchie come una carezza delicata.
 
«Senti Care, ti ho chiamato per un favore…»
«Dimmi… che succede?»
«La sera della festa, Stefan mi ha detto una cosa.»
 
Ancora un sospiro ma spezzato, che le si blocca in gola, in attesa.
 
«Cosa?»
«Mi ha detto che è interessato ad Elena e la mattina dopo, riparlandone, ha ammesso di volerla invitare a cena.»
 
Sono io stavolta a sospirare e trattenere quel respiro che mi esce poi tutto insieme, spossato, amaro.
 
«Lui… non sa niente di me ed Elena e non voglio che lo sappia. Se la merita un po’ di felicità Care e se sapesse come stanno le cose, rinuncerebbe fin da subito. Elena è ingenua, non conosce bene Stefan e potrebbe sfuggirle qualcosa...»
«Non capisco dove vuoi arrivare Damon…»
«Puoi chiederle di non dire niente?»
 
Caroline non parla più, la sento solo respirare e immagino la sua fronte corrugata per cercare un senso a questa mia richiesta, per trovare una conseguenza a questo nuovo cambio di rotta.
 
«Damon, forse dovresti farlo tu…»
«E dirle cosa? Non capirebbe lo sai e non voglio che sia Stefan a rimetterci.»
«E cosa dovrei dirle io scusa?»
«Tu sei sua amica, sai come prenderla, magari puoi tralasciare il fatto che te l’abbia chiesto io e suggerirle che forse non è il caso di mettere in mezzo me o quello che ‘non c’è’ tra di noi.»
«Sei un bastardo a dirmi queste cose e a chiedermelo, lo sai questo vero?»
 
E’ un rimprovero ostile il suo, di una che è appena stata messa con le spalle al muro e sa di non poterne uscirne indenne.
Mi punge nel cuore il suo giudizio, perché so di meritarmelo.
 
«Lo so, ma non te lo chiederei se non fosse davvero importante.. e non posso parlarne con lei, perché è troppo… coinvolta.. e fraintenderebbe.»
«Non mi piace tutto questo Damon.»
«Per favore Care.»
 
So di chiederle più di quanto dovrei, di metterla in mezzo in una situazione che non dovrebbe riguardarla, so di essere un codardo.
Eppure so che non può resistere alle mie preghiere, al mio tono supplichevole e a questo sorriso amaro, che non può vedere, ma conosce alla perfezione.
Scelgo di vincere facile, nonostante i danni collaterali.
 
«D’accordo. Vedrò cosa posso fare, ma non le mentirò e non voglio più essere messa in mezzo a queste cose!»
 
Butta fuori un’accettazione e un’intimazione dura, tassativa, guidata da un amore troppo forte per riuscire a negarsi.
 
«Grazie..»
«Da’ un bacio a Jaxon per me.»
«Lo farò.»
 
La sento aprire le labbra in un leggero sorriso, in cui ci leggo mille sfumature che entrambi percepiamo e riaggancia.
‘Ho fatto la cosa giusta’, penso, sforzandomi di crederci realmente.
 
Mio fratello bussa alla porta della mia camera, la apre tanto da riuscire ad infilare la testa tra questa e lo stipite che la sorregge e aspetta.
Io gli sorrido, gli faccio un cenno con la testa per permettergli di avvicinarsi e lui corre verso di me, si getta sul letto al mio fianco, facendomi sobbalzare.
Mi volto su un fianco, punto il gomito sul materasso e poggio la testa sulla mano, guardandolo di traverso.
 
«Allora campione, che programmi abbiamo per oggi? Vai, spara, sono tutto tuo.»
 
Jaxon mi sorride soddisfatto e si tira un po’ più su, verso i cuscini.
 
«Dunque! Prima cosa: partita di football, seconda: bagno in piscina, terza: merenda, quarta: partita all’Xbox, quinta: cena in giardino!»
 
Accompagna le parole con i gesti delle mani che segnano i numeri che elenca, ha pensato a tutto, non lascia niente al caso, non mi lascia un secondo per allontanarmi da lui.
Gli sorrido e gli scompiglio ancora i capelli, che avrà passato ore a sistemare davanti allo specchio, con pettine e gel.
Lui riallontana la mia nuova, sbuffando ancora.
Lo ha sempre infastidito questo gesto ma è talmente buffo quando si innervosisce, che ormai per me è un’abitudine, non riesco a frenare questo contatto.
 
«Affare fatto. Ho solo una domanda. Nel tuo programma è previsto anche il tempo per andare al bagno? O è contro le regole?»
«E’ contro le regole!»
 
Afferma convinto puntandomi un dito contro, come per minacciarmi.
Io alzo le mani in segno di resa, annuendo sottomesso e lui mi salta addosso iniziando una lotta, tra pugni affettuosi e cuscinate in faccia, che finisce come ogni volta con risate e con uno dei due che resta senza fiato per il troppo solletico.
Stavolta è lui a vincere e io sono felice di concederglielo, di perdere con lui.
 
«Mi arrendo, mi arrendo! Basta ti prego! Farò tutto ciò che vuoi!»
 
Lui ride e io mi inebrio del suono delle sue risate, cancellando quel senso di colpa che portavo scritto dentro il cuore.
Nel ‘tutto ciò che vuole’, è ovviamente compreso tutto il pacchetto che mi ha così tanto ben esposto un attimo prima, trascorriamo quindi tutto il resto del pomeriggio insieme, completando diligentemente l’intero programma.
Mi ha distrutto, stare dietro ad un bambino di dieci anni, che non si ferma mai e richiede continue attenzioni, è fisicamente devastante ma ciò mi ha permesso di evitare i nostri genitori per quasi tutto il tempo, quindi credo di dovergli essere grato.
Resto solo con loro soltanto a fine cena, dopo aver accompagnato al letto Jaxon e avergli promesso di andarlo a prendere a scuola, la prossima settimana.
I miei genitori sono ancora sul portico davanti la porta di casa, dove li avevo lasciati, mia madre è sul dondolo con un libro tra le mani, mio padre è seduto su una sedia in legno, accanto al piccolo tavolino dello stesso materiale, a fumare un sigaro, di fronte a lei.
Stanno discutendo sotto voce e quando li raggiungo, entrambi si zittiscono.
 
«Continuate pure, tranquilli, tanto me ne sto andando. Sono venuto a salutarvi.»
 
Glielo dico apparendo sulla soia di casa.
Mio padre abbassa gli occhi, fissando il sigaro, sospeso, tra il suo indice e il suo anulare.
Mia madre abbassa sulle sue gambe il libro e mi fronteggia, guardandomi fissa.
 
«Stavamo parlando di te, Damon.»
«L’avevo immaginato.»
«Tuo padre mi ha raccontato quello che è successo.»
«Non avevo dubbi.»
 
Avanzo e raggiungo il primo dei tre scalini del portico, quelli che mi permetterebbero di scendere in giardino e raggiungere la mia macchina parcheggiata nel vialetto.
Mia madre si alza improvvisamente dal dondolo e mi blocca un polso, afferrandolo con la sua mano. Io abbasso gli occhi per osservare le sue dita strette intorno a me, poi li alzo su di lei.
 
«Sei un irresponsabile e questo credo tu lo sappia.»
 
Sorrido amaro, con le labbra tirate e gli occhi socchiusi. Mi stavo quasi preoccupando di non averglielo ancora sentito dire.
Provo a voltargli le spalle e liberarmi della sua presa, mentre scendo un altro gradino.
 
«Ma non fare anche l’idiota e togliti questo orgoglio dalla faccia. Se hai bisogno di soldi, se non sai come trovarli, me lo devi dire.»
 
Io la guardo confuso, non so se essere più curioso o stupito.
Torno con lo sguardo su di lei, corrugando la fronte e aspettando di decidere se mettermi a ridere o andarmene del tutto.
 
«Tuo padre non è d’accordo ma lui non è il solo ad avere voce in capitolo. Perciò dimmelo se hai bisogno di aiuto.»
«Lo fai per salvare le apparenze?»
«Lo faccio perché sono tua madre.»
 
Un po’ tardi, mamma.
Me la caverò da solo, come sempre, come mi hai insegnato tu.
 
«Non ho bisogno di niente.»
«Damon.»
«Tranquilla, riuscirò a pagare tutti i miei debiti da solo.»
 «Lo so, solo non arrivare a dover chiudere l’agenzia.»
«Perché?»
«Perché è l’unica cosa che hai costruito da solo, con le tue mani e sarebbe un peccato. E’ l’unica cosa che hai.»
 
Io ho una famiglia mamma.
Ce la dovrei avere.
Il mio lavoro dovrebbe essere solo un in più, invece a quanto pare, è il mio unico sostegno.
 
«Me la caverò, non preoccuparti.»
 
Le volto le spalle, di nuovo, come lei le ha voltate a me, da sempre.
Non li voglio i suoi soldi, non voglio doverglieli chiedere, non voglio essere io ad andare incontro a lei.
Scendo l’ultimo gradino, faccio un cenno con la mano ad entrambi e salendo in macchina, percorro il vialetto di casa per scomparire al di là del cancello.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
 
Questo sole caldo, che si infiltra tra i rami di questo albero, sotto il quale sono seduta, alle nove e mezzo di lunedì mattina, in questa facoltà semi deserta, dopo aver finalmente dato l’ultimo esame del mio curriculum e aver accettato un voto alla soglia della sufficienza, è l’unica cosa che riesce a riscaldarmi e rasserenarmi.
Il senso di liberazione che dovrei provare dopo aver terminato tutti gli esami, la leggerezza che provavo dopo ognuno di questi, soprattutto dopo quelli che mi avevano dato tanto filo da torcere, stamattina non c’è.
Stamattina il mio stomaco è pesante, così come la mia mente.
Lo sono da qualche giorno in realtà, dalla sera dopo la festa di Stefan, dopo la quale Damon è sparito e io non so se devo cercarlo o no, se posso farlo, se ne ho diritto o meno.
Sono preoccupata per lui, per i casini con il lavoro e con se stesso, sono delusa per non averlo sentito, per il fatto che non mi abbia cercata, dopo il nostro ultimo incontro.
Pensavo di aver scalfito qualcosa, di aver aperto un piccolo, invisibile, varco dentro di lui, invece non gli ho lasciato neanche il desiderio di sapere che fine abbia fatto.
Ho sentito tutti dopo la sera della festa, Caroline mi ha chiamata, ho chiesto a Stefan se si fosse ripreso, gli ho augurato di nuovo buon compleanno, ho perfino massaggiato con Bonnie e Alaric per sapere se fossero riusciti ad alzarsi il giorno dopo, per andare a lavorare ma lui no, di lui non ho notizie.
E forse sta ridendo ancora di me, per quella richiesta infantile con la quale me ne sono uscita, con quel ‘come rimaniamo’ che non ho mai usato neanche alle medie!
Vorrei sotterrami e scomparire dal mondo per la vergogna, eppure lui mi rende insicura e bramosa a tal punto da farmi perdere la ragione, la lucidità, da rendermi donna e bambina nello stesso momento.
Mi fa fare cose, che mai avrei pensato potessero appartenere ad una come me.
Mi da il coraggio per attraversare i miei muri, perché so di trovarci lui al di là, ad aspettarmi, lo fa con un solo unico sguardo, ci riesce con il desiderio che accende in me e che divampa in un istante.
E’ talmente grande ciò che smuove che al tempo stesso, mi fa paura, proprio perché non lo riesco a controllare.
Sono inquieta e anche assonnata, per le ore piccole che mi ci sono volute in questi due giorni, per preparare questo ultimo esame e modificare la mia tesi, non ancora pronta e sparsa in fogli volanti davanti ai miei piedi, sul prato.
Sbadiglio ancora, per l’ennesima volta, senza portarmi la mano davanti la bocca, continuo a cancellare e appuntarmi pensieri, note, modifiche ai lati dei fogli scritti al computer, quando un ultimo sbadiglio mi si spezza tra le labbra e ritorna dentro la gola, gonfiandomi le guance.
 
«Posso offrirti un caffè?»
 
Alzo lo sguardo imbarazzata, con una mano sulla bocca e un paio di occhi scuri, su un viso dolce e accattivante, incorniciato da una leggera rasatura di qualche giorno e dei capelli chiari, arruffati dal vento, mi scrutano divertiti.
 
«Scusami… sono… pensavo non ci fosse nessuno intorno…»
 
Lui sorride ancora, per il mio impaccio e pensando, probabilmente, che in genere sia così maleducata dall’usare le buone maniere solo in presenza di persone che possano giudicarmi.
 
«E così sei tu la pupilla del professor Noah!»
«Bè pupilla non direi proprio, dato che ho dovuto letteralmente inseguirlo per fargli correggere la mia tesi.»
«A quanto pare gli deve essere piaciuta parecchio, se ha pensato addirittura di chiedere ad un suo assistente di seguirti.»
 
Io spalanco gli occhi e mi alzo in piedi, per trovandomi finalmente alla sua altezza, lo guardo confusa e mi vergogno ancora di più per questa mia indegna presentazione.
 
«Sei un suo assistente?»
«Diciamo di sì, lo assisto negli esami e collaboro con lui per dei progetti di scrittura creativa. Noah mi ha chiesto di seguirti perché hai degli spunti interessanti, sui quali si potrebbe lavorare anche in futuro.»
«Oh… capisco, scusami ancora allora per prima, io…»
«La vuoi smettere di scusarti?»
 
Faccio un passo indietro, per mettere una distanza minima che mi permetta di osservarlo meglio e di ritrovare quel contegno, che mi faccia sembrare all’altezza di un rapporto professionale maturo e dignitoso.
Indossa jeans e una camicia chiara a mezza manica, mi sorride con lo stesso sorriso, divertito e pulito, che non ha mai tolto e mi porge una mano.
 
«Sono Mattew Lockwood.»
«Elena Gilbert, ma credo tu lo sappia già!»
 
Gli sorrido anch’io ora, un po’ più distesa e adulta, mentre stringo la sua mano forte e sicura.
 
«Allora Elena Gilbert, posso offrirtelo adesso quel caffè?»
«Decisamente sì.»
 
Mi aiuta a raccogliere i miei fogli e i miei libri sparsi sul prato, li infilo nella cartellina e, poggiando la tracolla sulla spalla destra, lo seguo verso la caffetteria più vicina.
 
Passiamo un’ora a discutere dei miei vecchi lavori sul giornale universitario, delle mie ricerche sull’impatto delle nuove tecnologie sul mondo letterario e sull’argomento della mia tesi, rispetto al cambiamento di comunicazione tra gli adolescenti.
Lui mi chiede del campione che ho racconto nelle scuole, della griglia che ho utilizzato per raccogliere informazioni, mi propone di allargare in futuro il campione a ragazzi ancora più piccoli e ci ritroviamo a fantasticare su idee e ricerche da poter pubblicare.
Ha un modo di guardarmi e di rapportarsi a me, che mi fa sentire adulta, sono completamente a mio agio mentre gli parlo del mio lavoro, delle mie idee, di quella che è stata, fino ad oggi, la mia vita professionale.
Lui mi ascolta attento, interessato, mi sorride sincero, prende appunti sui miei fogli, sparsi ora, di nuovo, sul tavolino della caffetteria in cui siamo seduti, consumando del caffè ormai freddo.
Io lo ascolto entusiasta, orgogliosa, parlo a ruota libera e mi lascio andare raccontandogli dei miei progetti post – laurea, dei giornali in cui vorrei lavorare e del mio sogno di girare per il mondo facendo ricerche sui diversi modi di comunicare delle popolazioni.
E’ strano e misterioso quanto la comunicazione e la verità delle cose mi appassionino, mi attirino, quando io invece, nella mia vita privata, abbia così tante resistenze.
Forse è proprio per questo, proprio perché io non ce l’ho queste cose, che le cerco negli altri.
Forse è la mia solita ambivalenza.
 
«Sono certo che ci riuscirai.»
 
E’ Mattew ad interrompere i miei pensieri, con un presagio sincero, che non ammette repliche, né incertezze.
Io gli sorrido, piano, toccata, mi tiro indietro, lasciando che lo schienale della sedia mi sorregga completamente. Ci metto un attimo per rispondere, un attimo in cui abbasso lo sguardo sulle mie mani strette tra le mie gambe, fasciate nei jeans, e poi lo rialzo, posandolo sui suoi occhi, scuri come la notte.
 
«Magari un giorno…»
 
Lui fa un cenno di assenso con il capo e poi stiracchia, alza le braccia sopra la sua testa, tirandole verso l’alto e si lascia cadere contro la sedia.
Io lo guardo divertita.
 
«Ti ho stancato abbastanza per oggi con i miei appunti e i miei sogni?»
«Assolutamente no, Gilbert. Anzi, mi hai ricordato cosa significhi avere ancora dei progetti.»
«Non dirmi che non ne hai più e che ti sei già arreso!»
 
Lui non mi risponde, ruota lo sguardo verso un gruppo di ragazzi che sta discutendo su chi dovrà pagare il conto, poi lo riporta su di me con una nuova espressione, più leggera e serena.
 
«Elena Gilbert, sono contento di averti finalmente conosciuta e mi dispiace dirlo ma il professor Noah adesso mi sta proprio aspettando.»
«Nessun problema. E’ stato un piacere anche per me.»
«Ci vediamo presto. Ti lascio il mio biglietto, chiamami quando hai ampliato le parti di cui abbiamo parlato o se hai bisogno di qualcosa..»
 
Si alza lentamente, mi allunga sul tavolo il suo bigliettino da visita e poggia entrambe le mani sul tavolo, si sporge leggermente verso di me, guardandomi con una certa malizia.
 
«Anche solo di un caffè.»
 
Aggiunge e poi mi lascia lì, senza aspettare una mia risposta, con il mio telefono che vibra nella mia tasca da stamattina.
Lo seguo con lo sguardo mentre si allontana e resto immobile, stordita, stranamente confusa e lievemente imbarazzata.
 
 
 
 
 
 
Damon
 
 
«Damon Salvatore, mi sto stancando di rincorrerti.»
«Andie!»
«Non provare ad andartene di nuovo!»
 
Sono dietro la scrivania del mio ufficio quando la vedo entrare, con il suo immancabile tailleur, la sua ventiquattro ore nella mano destra e il suo sguardo sicuro.
Sono giorni che le sfuggo perché non posso pagare un pacchetto viaggio che ho acquistato dalla sua agenzia.
Le ho firmato due assegni che, ovviamente, sono andati a vuoto, l’ho lasciata in attesa al telefono finché stanca ed irritata ha attaccato spontaneamente, me ne sono andato con la scusa di un incontro con il mio avvocato, quando si è presentata ancora, in carne ed ossa, davanti la porta della mia agenzia.
Collaboriamo da anni, ci conosciamo da quando ho avviato la mia attività, abbiamo sempre lavorato bene insieme, c’è sempre stato rispetto e stima reciproca.
A dire il vero c’è stato anche altro, ci siamo dimostrati quello stesso rispetto in un feeling che andava oltre il lavoro, ma che è sempre iniziato e finito in una camera da letto.
Non è mai entrato nei nostri affari, non è mai uscito dalla nostra vita privata e neanche dalle lenzuola.
Adesso mi sta giustamente perseguitando e in un’altra occasione sarebbe anche una situazione piacevole ma in questa no.
Non quando ho debiti che non so come saldare, non quando viene per avere qualcosa che non posso darle.
Non ho vie di fuga e non so come uscirne.
 
«Andie, ho avuto un problema, lo sai, ma sto risolvendo tutto… è solo questione..»
«Non azzardarti a dirmi che è solo una questione di tempo, Damon. E’ da mesi che dovevamo concludere questo pagamento, hai rimandato e io te l’ho lasciato fare, adesso dobbiamo chiudere.»
 
Sono un idiota, dovevo pagare quando ce li avevo ancora i soldi per farlo, invece di continuare ad investire in aria fritta.
 
«Non accetterò altre scuse, a costo di accompagnarti a rapinare un supermercato per avere i miei soldi.»
«Andie li ho persi, ho perso una marea di denaro. Sono stato coinvolto in una truffa e non ho più liquidi per pagare nessuno!»
 
Lo ammetto perché glielo devo, perché mi conosce e so che non riuscirei a mentirle ancora, né lei ad accettare altro.
Lei ammutolisce, si lascia cadere sulla poltrona davanti alla mia scrivania e mi fissa immobile.
Nessuno di noi riesce a dire una sola parola.
Andie continua a guardarmi passando dallo stupore alla preoccupazione, io contraccambio il suo sguardo, inespressivo.
 
«Con quale compagnia?»
 
Mi chiede dopo un tempo infinito, atona, ma iniziando ad alzare il velo della titolare di agenzia in veste di riscossore, per lasciare spazio alla titolare – amica.
 
«La Brook’s Company.»
«Non aveva chiuso da anni?»
«Già, ma a quanto pare ha continuato a lavorare diciamo… in privato. E ovviamente ero quasi l’unico a non saperlo.»
«Damon come diavolo…»
«Ti prego Andie, non dire niente.»
 
Alzo una mano con il palmo contro di lei, per bloccarla, per frenare i suoi rimproveri, lei socchiude gli occhi e scuote la testa, passandosi una mano tra i capelli castani, che le ricadono leggeri sul viso.
E’ sempre stata bella Andie, con questa sua aria da donna di cui è estremamente consapevole e che emana in ogni dettaglio.
Ci ha sempre saputo fare, l’ha sempre saputa sfruttare al meglio questa sua qualità.
Eppure, anche lei, come tante altre, non è mai stata più di una distrazione per me, così come io per lei, ci ritroviamo in questo rapporto – con benefici, con l’aggravante però che dobbiamo collaborare prima ancora nel lavoro.
Finora tuttavia non abbiamo mai lasciato che le cose interferissero, né che si mescolassero o creassero problemi.
Siamo bravi entrambi a mantenere le distanze.
 
«Ti ridarò tutto, fino all’ultimo centesimo te lo assicuro. Ma ho davvero bisogno di tempo.»
 
Lei sospira, scuote ancora la testa, apre la bocca e la richiude, non sa come prendermi, cosa aspettarsi.
Sa di potersi fidare ma sa anche che gli affari sono affari e le scadenze non guardano in faccia nessuno.
 
«Damon mi metti in una posizione davvero complicata, lo sai questo?»
 
Io annuisco, è la seconda volta, in questi ultimi giorni, che metto due donne con le spalle al muro, in una posizione scomoda, che cozza con i loro principi e le loro priorità.
 
«Andie, sei libera ovviamente di muoverti come ritieni più opportuno per te e la tua agenzia. Lo so che gli affari vengono prima di qualunque altra cosa. Ma se potessi aspettare anche solo un mese..»
 
Lo so che il mio sorrisino da cucciolo di panda non funziona con lei, per questo neanche glielo propino.
Sono serio, le parlo in un certo senso da uomo a uomo, da adulto ad adulto, voglio davvero pagare i miei debiti ma spero ci sia un margine in lei che posso sfruttare, che mi dia uno spiraglio.
 
«Un mese Damon. Non un giorno di più.»
 
Lo trovo e sospiro sollevato.
Lei è dura, determinata, non si scompone e le sue parole suonano come un ultimatum, che incasso e mi ci tengo stretto.
 
«E mi devi un favore, sappilo.»
 
Il suo tono cambia, come il mio sguardo e il sorriso che finalmente posso lasciarmi sfuggire.
 
«Puoi venire a riscuoterlo quando vuoi, lo sai.»
 
Do alle mie parole una vena di malizia, che lei coglie perché mi sorride piano, provocante, socchiude gli occhi e si sporge sulla scrivania, punta i gomiti sul vetro che la ricopre e poggia il viso sulle mani aperte.
 
«Ci vediamo presto Damon Salvatore.»
 
Mi lancia un’occhiata complice, mi sorride ancora, stavolta comprensiva e sincera, poi si alza e torna sui suoi passi, lasciandomi al mio lavoro.
 
Direi che, dopo la storia di Stefan, la giornata con i miei e un’ennesima spada di Damocle sulle spalle, che mi è piombata addosso questo pomeriggio ed ha la consistenza, a questo punto, di oltre cinquantamila euro, se ci aggiungo tutti i vari debiti che ho sparsi per la costa Californiana, posso ritenermi soddisfatto di non essere ancora preda di un attacco nevrotico.
Sono ancora in piedi e questo mi rincuora.
Mi rincuorano queste quattro mura del mio ufficio, queste foto di me e dei miei amici in giro per il mondo, questo sorriso di Caroline e Stefan davanti alla Statua della Libertà, di cui imitano goffamente la posa, mi rincuora perfino questa maschera di legno africana, che mio padre mi ha riportato da uno dei loro viaggi e mi ha costretto a tenere in ufficio al posto di quel mappamondo, che ho invece propinato a lui. Questi atlanti, questi libri sulle città europee, questa palla da baseball che mio fratello mi ha regalato, per ricordarmi le nostre partite nel giardino di casa e la sua passione che è nata proprio lì, prima di svilupparsi in una vera e propria squadra scolastica.
Tutto questo mi da sicurezza, mi fa sentire ancora a casa, anche se queste pareti iniziano a sbriciolarsi e da questo tetto iniziano a precipitare gocce di acqua piovana.
E’ ancora rassicurante essere qui, nonostante tutto, solo che ora, voglio andarmene a casa, perché inizio ad accusare i colpi, a sentire qualche dolore in più nelle ossa.
Per questo esco dalla mia agenzia, saluto l’ultimo dei miei collaboratori che è ancora lì a lavorare, pur sapendo che forse a fine mese, non potrò neanche pagarlo, infilo il casco e dando gas alla mia moto, mi lascio andare in una corsa liberatoria.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
 
‘Mi è tornato in mente qualcosa di piuttosto imbarazzante, che credo di averti detto mentre ero talmente sbronzo da aver bisogno di un albero per sorreggermi! Penso che offrirti una cena a questo punto, sia il minimo per potermi sdebitare! Giuro che ti lascerò vendicare! :)’
 
Continua a venirmi in mente il messaggio di Stefan di questa mattina, a cui ho sorriso mentre lo leggevo in macchina, tornando a casa dall’università, ma a cui ancora devo rispondere e che ora assume tutto un altro significato.
Mi lampeggia negli occhi mentre sono in piedi, al centro del salone di casa mia, con una mano sulla bocca per tenere a freno parole che non vorrei davvero far uscire e un’altra che sorregge il telefono, attraverso il quale sto urlando, per essere sicura che tutta la mia frustrazione arrivi forte e chiara, alle orecchie di Caroline.
Tutto avrei pensato, tutto avrei giustificato, ma non questo, non una vigliaccheria come questa e neanche un’intromissione del genere da parte della mia amica, che è stata delegata per tapparmi gli occhi e fingere che ci sia il buio della notte intorno a me, non questo sole lucente.
Ci ha provato a mentirmi, ci ha provato a dirmi che aveva percepito delle avance di Stefan nei miei confronti, durante la festa del suo compleanno, che forse sarebbe stato meglio non dirgli nulla di me e Damon, almeno finché le cose non si fossero chiarite e definite.
Ha provato anche a dirmi che non posso restare ancorata agli umori di Damon, che devo scegliere cosa voglio io, devo farmi valere e forse Stefan potrebbe essere davvero la persona ideale per me.
Mi ha spinto verso Stefan per volontà di un altro, rifilandomi la storia che se non ero interessata a lui, non era giusto raccontargli la balla che c’era un altro di mezzo, perché non lo stavo rifiutando per Damon, ma semplicemente perché non vedevo una possibile relazione tra di noi. Tanto valeva perciò non coinvolgerlo in nessun tipo di confronto.
E io stupida che le ho perfino creduto, che mi sono fatta imbambolare come sempre dalle sue parole, che ho pensato avesse ragione perché Stefan è così buono da non meritare un rifiuto così diretto, un paragone così inarrivabile.
Eppure Caroline non è capace di mentire, non lo sa fare, non sa tenere il punto fino in fondo e al mio dubbio: ‘chissà se Damon gli ha raccontato qualcosa, o se pensa di dirglielo..’ lei è crollata.
L’ho sentita titubare, cambiare tono e ammettere ‘Damon non vuole che lui sappia niente… E ok, mi dispiace, so che non dovevo farlo, ma mi ha domandato se potevo chiederti di non dire niente…’
In quell’istante sono schizzata in piedi, lasciando il divano su cui ero comodamente seduta, ho preso possesso del centro del salone e ho capito.
Ho collegato il silenzio di Damon di questi giorni, il messaggio di Stefan, la chiamata di Caroline, la sua insistenza nello spingermi al silenzio, spacciandolo per cosa buona e giusta, arrivando a quella che sono certa sia stata una richiesta da parte del suo migliore amico di farmi stare zitta, di tapparmi la bocca.
E’ per questo che le sto urlando contro da mezz’ora ed è per questo che lei sta provando a calmarmi, a giustificarsi, affondando sempre di più.
 
«Non ci posso credere che tu abbia acconsentito a questa pagliacciata!»
 
Continuo a ripeterle andando avanti e indietro, dal divano al tavolo da pranzo, con una mano nei capelli e l’altra che stringe il telefono che vorrei scaraventare dalla finestra.
 
«Elena mi dispiace, ti prego credimi! Io non ero d’accordo, non volevo farlo e non ce l’ho fatta a non dirti niente, come mi aveva chiesto lui.. ma tutto sommato la sua richiesta mi è sembrata giusta.
 
Non so se mi fa infuriare di più il tono supplichevole che sta usando o il fatto che non capisca il senso della mia rabbia. Non è il contenuto a farmi incazzare, non è il tutelare Stefan che mi irrita, è la forma, è il modo in cui ci è arrivata, è il tempo che ha impiegato per raggirarmi.
E’ lei, che ha scelto deliberatamente di mentirmi per più di venti minuti prima di confessasse tutto, di prendermi in giro, di inondarmi di belle parole, di mettersi in mezzo, quando poteva dirmi dall’inizio, semplicemente, ‘Damon vuole che tu non dica niente a Stefan.’
Stop. Pulito. Fine della chiamata.
Io mi sarei incazzata lo stesso ma con lui, con lui che ha scelto un tramite per fare il lavoro sporco, con lui che si è tirato indietro coprendosi dietro al suo amico, con lui che è un codardo, non con lei, non con quella che credevo fosse la mia migliore amica.
 
«Caroline sai cosa mi ferisce di più…»
 
Le mormoro stanca, atona, dopo un silenzio che non trovava più le parole.
 
«Cosa?»
«Pensare che se fossi stata io a chiederti una cosa del genere, se io ti avessi chiesto di fare questo per me, tu non l’avresti fatto. Tu mi avresti preso a schiaffi, pur di farmi affrontare i miei problemi e le mie difficoltà da sola. Invece con lui non l’hai fatto. Hai accettato di coprirlo, di agire al posto suo e non è giusto.»
 
Abbasso il tono, mi fermo, sono razionale ora, ferita, delusa.
Quando la delusione ti arriva così diretta, così in piena faccia, da qualcuno che non ti aspetti e a cui vuoi bene, assume tutto un altro sapore.
Sa di inganno, di cuori che si spaccano, di terra che ti frana sotto i piedi, sa di beffa, di umiliazione, di tradimento, sa di offesa.
E la consapevolezza che lei non avrebbe fatto lo stesso per me, mi annienta ancora di più.
Mi fidavo di lei, ma forse, come al mio solito, sopravvaluto le persone e le idealizzo, finendo inevitabilmente per sbattere con il muso a terra quando tutto, inevitabilmente, mi crolla addosso.
 
«Elena lo sai che non è vero.. ti ho coperta molte e molte volte.. ma forse sì, in questo caso, se me lo avessi chiesto tu, non l’avrei fatto
 
Ammette senza esitazioni e poi continua.
 
«Solo perché sarebbe servito a te scontrarti con lui, affrontare questa situazione con le tue gambe…»
«Grazie per la sincerità.»
 
Vorrei attaccare, vorrei che tutti mi lasciassero in pace, vorrei che le cose fossero più semplici, che non dovessi lottare continuamente anche con le persone che più amo al mondo.
Quelle persone che dovrebbero proteggermi, farmi sentire al sicuro, non espormi continuamente.
 
«Elena mi dispiace per aver acconsentito a questa cosa, davvero. Gliel’ho detto che non ero d’accordo, che non volevo. Gli ho detto che non voglio più essere messa in mezzo. Non ho preso le sue parti, non ho fatto un torto a te per fare un favore a lui.. e ti ho confessato la sua richiesta proprio perché non ti avrei mai mentito. Lui sapeva che non poteva chiedermi di farlo.»
«Però ci hai provato.»
«Ho solo pensato a Stefan, a non metterlo in mezzo tra di voi, perché non è Damon il motivo per cui non vuoi dargli una possibilità
«Non riuscirei mai a stare con Stefan… lui è una persona meravigliosa Care, ma.. come amico.»
«Lo so, ma sarebbe proprio l’uomo ideale, se solo non fossimo così masochiste!»
 
Mi risiedo sul divano, porto le gambe al petto e mi rannicchio tra i cuscini, con ancora l’orecchio attaccato al telefono, da cui ora mi arrivano i respiri di Caroline, lenti, profondi, colpevoli.
 
«Elena…»
«Cosa?»
«Ti prego dì qualcosa, qualsiasi cosa..»
«Perché?»
«Perché, cosa?»
«Perché non mi vuole..?»
 
Mi esce piano quella domanda, in un sussurro triste, sottile, come un pensiero rassegnato, che non si da pace, facendomi ancora più piccola tra questi cuscini.
Mi aggrappo a lei, di nuovo, nonostante tutto, perché il mio bisogno di rassicurazione, la mia paura di cadere è più forte di tutto, perché il nostro rapporto è così.
Perché lei, è la mia verità e la verità fa male.
 
«Perché è un emerito coglione!»
 
Mi urla Caroline dall’altra parte, facendomi allontanare l’Iphone dall’orecchio per non stordirmi e rubandomi una risata sincera, complice, condivisa.
Lei mi parla ancora, rassicurandomi, prima di agganciare, la sua voce mi carezza, mi entra dentro, mi accompagna lieve mentre chiudo gli occhi e mi lascio andare ad una tristezza che pesa, che mi chiude lo stomaco.
Mi sento una stupida per aver dato a Damon tanto potere, per essermi illusa così tanto di valer la pena di infrangere le sue barriere, di farmi entrare.
Avevo paura che chiedendogli di scegliere, che dicendogli che volevo altro, che volevo stare con lui alla luce del sole, lui indietreggiasse, mi togliesse anche quel poco che abbiamo, che mi da, che ho di lui e così è stato.
Quel ‘come rimaniamo’ era la paura di una verità che conoscevo già, la bugia a cui mi stavo aggrappando.
Ho perso tutto, ho puntato i piedi e mi sono ritrovata con un rifiuto arrivatomi per conto di terzi.
Mi ha deluso anche lui, lui che pensavo di conoscere un po’, che mi aveva aperto un pezzo di cuore, che proclamava il coraggio di essere sé e la verità, le sue uniche grandi certezze.
Invece mi ha presa in giro, mi ha umiliato e non si è preso neanche la briga di sprecare un secondo del suo tempo per chiudere questa storia, che a quanto pare volevo e vedevo solo io.
Non me lo merito e lui non merita di passarla liscia, di andarsene in silenzio.
Senza rendersi conto delle conseguenze che ha procurato.
Senza almeno guardarli questi cocci sopra ai quali sta camminando, facendo finta di niente.
Non ci sto.
Almeno questo, me lo deve.
 
 
 
 
 
 
Damon
 
 
Sono a casa da neanche un’ora, ho mangiato qualcosa, mi sono sdraiato sul divano sperando in qualche programma demenziale che mi intrattenesse per questa serata.
Alaric è di nuovo dalla sua, a questo punto non più nuova, fiamma, sono tre sere di seguito che va da lei, due che dorme anche lì.
Glielo ripeto da anni ormai che dormire a casa di una donna non va bene, dopo il sesso si torna a casa, ognuno nel proprio letto.
Tassativo.
Dormire con qualcuno è qualcosa di troppo intimo, non si fa, non se si vuole conservare un distacco emotivo, che a quanto pare lui non vuole mantenere.
E’ una regola che anche i bambini conoscono e io, al contrario di Alaric, non ho mai voluto infrangere.
Scuoto la testa pensando alla sua irresponsabilità, bevo un sorso dal mio immancabile bicchiere di bourbon e continuo a fare zapping in cerca di distrazione, senza l’intenzione di muovere altri muscoli, se non quelli delle dita.
Sobbalzo tutto d’un tratto invece, quando il campanello di casa inizia a suonare.
Uno, due, tre volte, insistentemente, mi alzo, sicuro che Stefan sia venuto a rinfacciarmi qualcos’altro che gli è tornato alla mente dalla sera del suo compleanno.
Apro la porta senza neanche guardare e devo smetterla di farlo, perché ogni volta, a quanto pare, ci trovo dietro una Elena che ha deciso di piombare a casa mia senza preavviso.
Stavolta però non si tira indietro, non è sorpresa, non le interessava annunciarsi o prepararsi.
Stavolta mi guarda con uno sguardo fiero, dritto, incrollabile.
Ha le braccia incrociate sotto al petto, quasi con aria di sfida.
Sono io che traballo un momento, per la sua presenza e la sua sicurezza.
Provo a spostarmi per lasciarla entrare ma lei non si scompone, resta ferma sul pianerottolo a lanciarmi fulmini di ghiaccio.
Non mi da tempo di chiedere niente.
 
«Cos’è questa storia?»
 
Anche la sua voce è ghiacciata, non è arrabbiata, almeno non lo sembra in questo momento, è solo forte e determinata.
 
«Ciao anche a te.»
«Che significa ‘puoi chiederle di non dire niente’
 
Lo sapevo.
Sapevo che ne avrei pagato le conseguenze, sapevo che non l’avrei passata liscia, che non sarebbe stato così facile uscirne pulito.
Sapevo che con lei non si scappa.
Sapevo di non poter chiedere questo, a Caroline.
 
«Significa che non chiederò mai più un favore a Caroline!» rispondo sarcastico, ma neanche tanto.
«Sei uno stronzo Damon.»
 
Il suo tono non ammette ironia, lei non accetta scappatoie, va dritta, come ha già fatto qualche sera fa.
Lo so che non capirà mai, che vede solo una parte della situazione, intuisce soltanto la superficie delle mie motivazioni, vede solo il mio rifiuto, eppure va bene così, solo vorrei evitare di essere continuamente insultato, il mio autocontrollo non ne può più e l’ultima volta, non è finita molto bene.
 
«Possiamo entrare? O vuoi continuare ad infierire su di me sul pianerottolo?»
 
Cerco di trovare un tono gentile, calmo, leggero, per poter continuare questa discussione all’interno, senza dover far sapere a tutto il palazzo che bastardo io sia.
Come se non lo sapessero già!
La faccio entrare in casa, ma non in me.
Lei mi supera senza rispondere, mi da le spalle e arriva fino al divano, getta la sua borsa lì sopra e si volta verso di me, incrociando di nuovo le braccia.
Alza il viso e inclina leggermente la testa nella mia direzione, per poter essere alla mia altezza, serra le labbra e corruga la fronte.
E’ in attesa ed è calma, troppo calma.
Io mi avvicino cauto, lascio che la distanza di qualche passo ci separi, che questo spazio tra di noi mi protegga e si riempia di tensione, invece di colpirmi senza attutirne i colpi.
Decido per lo meno di essere sincero, non perché glielo debba ma perché non riesco a fare altrimenti quando mi incatena con i suoi occhi profondi.
 
«Elena, è meglio così, credimi.»
«Ma la smetti? La smetti di pensare che sia meglio così? Forse lo è per te, quindi perché non tiri fuori le palle e mi dici le cose come stanno?»
«Dimmelo tu come stanno, dato che sembri avere tutte le risposte.»
 
Mi innervosisco, inizio a tirare fuori il mio essere cinico e pungente, non sono abituato ai suoi attacchi, non li so gestire e non so gestire me, con lei.
Per questo rigiro le mie colpe e la mia mancanza di coraggio su di lei, investendola con una rabbia che provo esclusivamente verso di me.
Anche Elena perde dei tasselli di calma che stava cercando di mantenere incollati tra loro, ci scivola sopra e la sua voce si incrina leggermente, diventando più acuta e irritata.
 
«Stanno che a te non importa assolutamente niente di me e che avevo ragione io..»
«Riguardo cosa?»
«Che volevi portarmi al letto e basta.»
«Adesso sei ingiusta.»
 
Mi trapassa con uno sguardo gelido.
Mi colpisce sapendo bene dove e come farlo. Non mi piace che si prenda queste libertà, non mi piace che pensi di poterlo fare, né mi piacciono le sue pretese.
Non ho mai solo voluto portarmela a letto e basta, altrimenti, intuendo l’andazzo già dalla prima volta, l’avrei scaricata immediatamente.
E lei lo sa, anche se fa finta di rinfacciarmelo.
 
«Lui è un mio amico Elena. So che si tirerebbe indietro, nonostante non ci sia mai stato davvero niente tra di noi.»
 
Ora sono io ferirla, a riprende in mano quel coltello che mi sta agitando contro.
Apre la bocca per dire qualcosa ma non ce la fa, abbassa gli occhi colpita, incassa il colpo con una grazia che le fa onore.
 
«Sei così sicuro che togliendoti di mezzo io scelga lui? Sei un po’ troppo egocentrico Damon non ti pare?»
«Forse.»
 
Lei resta in silenzio, sospira, sciogliendo le braccia che teneva ancora strette sul petto, percependo probabilmente che attaccarmi in questo modo diretto, non serve, non mi scalfisce, mi fa solo reagire per coprire il silenzio, per non farglielo sentire.
Forse per questo cambia espressione, discorso e tono.
 
«Io non voglio una relazione con lui…»
 
Alza lo sguardo e lo posa ancora su di me, stavolta è fragile, incerta, si morde il labbro inferiore e trattiene il respiro, non lo aggiunge eppure glielo leggo in faccia che ciò che pensa è ‘…voglio una relazione con te’.
 
«Elena..»
 
Scuoto la testa e mi allontano di un altro passo, lascio che un Oceano inondi lo spazio tra di noi, lascio andare zattere nel blu più profondo, senza provare minimamente a lanciargli un’àncora con cui restare aggrappate alla terra ferma.
Mi allontano e non ci sono già più.
Lei però è ancora lì, dall’altra parte della riva.
 
«Non dire niente per favore. Ho capito, tu non sei in grado e anche se lo volessi, questo non cambierebbe le cose.»
«Vedo che siamo d’accordo.»
«C’è solo una cosa che ti sfugge.»
«Quale?»
 
Fa un passo avanti, si butta in mare aperto e io resto a guardarla dalla mia sponda, sicura e conosciuta.
 
«Io non sono una bambolina nelle vostre mani. Non potete decidere al posto mio. Tu non puoi controllare me, cosa faccio o con chi voglio stare.»
«Ma posso controllare me, ed è quello che ho intenzione di fare.»
 
Nessun intenzione di lanciarle nessuna corda.
 
«Quindi?»
«Come rimaniamo?»
 
Mi scappa di bocca quella domanda, insieme ad un sorriso divertito che forse non dovrei avere, ma quel ‘come rimaniamo’ mi è rimasto addosso, dietro le spalle, mentre me lo appiccicava senza darmi modo di fermarla.
Nessuna donna mi aveva mai chiesto ‘come rimaniamo’, forse alle medie le ragazzine usano ancora questa frase ma mi fa troppo ridere la dolcezza e l’imbarazzo con cui l’ha detto, l’insicurezza che ha rivelato e il bisogno di certezze che non le do.
Vorrei darle la risposta che vorrebbe, vorrei davvero prendermelo quel ‘come rimaniamo’ e toglierla dall’incertezza, eppure è un peso troppo grande per me quello che lei vuole darmi, mi sento soffocare dall’aspettativa, non voglio la  responsabilità del suo equilibrio e forse Stefan, in realtà, è la mia perfetta via di fuga.
E’ un alibi pulito, inattaccabile.
Lei arrossisce appena, strizza leggermente gli occhi e trattiene un sorriso imbarazzato che vorrebbe uscirle dalle labbra ma non ci riesce.
Lo controlla.
E’ fiera Elena ed orgogliosa, quasi quanto me.
 
«Elena tu vuoi altro, lo sai, me lo hai detto anche tu e io non posso dartelo, quindi indipendentemente da Stefan, io non posso essere un’opzione, né una scusa.»
 
Voglio toglierla dall’imbarazzo ma la colpisco involontariamente, cerco per lo meno di modulare il tono, per non farlo sembrare troppo freddo o perentorio. Non voglio però darle la sensazione che sia una scusa la mia, o che io sia una vittima da salvare da se stessa, semplicemente voglio farle vedere la realtà, senza fronzoli, senza castelli da costruire, che non starebbero mai in piedi.
Io ho scelto questa strada.
Facile.
Semplice.
Indolore.
 
Fine.
Non voglio tornare indietro, né deviare.
Voglio andare dritto e, se per farlo investo qualcuno, mi dispiace, ma ho l’alibi di essere stato chiaro dall’inizio.
Elena continua a guardarmi, è passata dal gelo alla rabbia, dalla fragilità alla confusione ed imbarazzo, ora mi sta scrutando in cerca di qualcosa che non riesco a capire e che non riesce a trovare.
Sospira, non riuscendo a parlare.
Io faccio un passo verso di lei, l’ho lasciata affogare e ora mi sento inaspettatamente in colpa, vorrei come minimo accertarmi che respiri ancora, lei però alza le mani davanti al mio e al suo petto.
Mi tiene a distanza lei ora, non vuole che mi avvicini, che la salvi.
Abbassa gli occhi sulla barriera delle sue mani e le lascia cadere lungo i fianchi, seguendole con lo sguardo.
Respira e sospira ancora.
 
«Posso almeno chiamarti, ogni tanto?»
 
E’ dolcissima, le esce una voce piccola, imbarazzata, quasi quanto quella richiesta infantile che le ho rigirato contro poco fa.
Mi spiazza il suo essere donna – bambina, mi spiazza questa ennesima richiesta, di cui ha bisogno per rassicurarsi.
Questa volta la raccolgo e sciolgo le sue paure, insieme al mio senso di colpa.
Faccio un altro passo avanti e lei mi lascia avvicinare.
 
«Certo che puoi farlo! Non cambia nulla tra di noi..»
 
Lei alza finalmente lo sguardo su di me, uno sguardo che ora posso vedere annebbiato, languido, chiude gli occhi un istante per trattenere le mie parole e poi li riapre, sapendo che è già cambiato tutto.
Mi fa un sorriso tirato, malinconico, che non riesce a fissarsi, ingoia quelle lacrime che si rifiuta di far scendere e quella che, alle sue orecchie, sembra solo una bugia, poi si avvicina, lasciando lo spazio di un passo.
Alza il viso senza guardarmi, poggia delicata una mano sulla mia guancia e nell’istante in cui percepisco il suo respiro addosso, sento le sue labbra poggiarsi sulle mie.
Mi bacia leggera, morbida, si prende un ultimo contatto, che non le nego e che sa di addio.
Mi graffia il cuore sapere di averle fatto male, di nuovo.
Mi toglie il respiro sapere che sta piangendo per me, di nuovo.
Così come si è avvicinata, si allontana, in silenzio, senza guardarmi, raccoglie la sua borsa sul divano e mi lascia da solo.
Chiude la porta nell’istante esatto in cui io chiudo gli occhi, dandole le spalle, per non vederla andare via.
 
E’ nell’istante successivo, quando finalmente sono riuscito a sedermi inerme sulla mia poltrona, che il mio campanello suona di nuovo, ma stavolta sul pianerottolo c’è una distrazione che forse in questo momento non vorrei, ma che non mi lascia il tempo di rifiutare.
Andie* entra e senza dire niente, si prende, in un altro modo, una parte di quel favore che le devo.
 
Io la lascio fare, sporco e vigliacco, senza riuscire a reagire.








_________________________

Buonasera a tutte!
Ci sono, con un giorno di anticipo! :)
Spero non mi stiate odiando per questo capitolo.. ma serve!

Accadono un po' di cose, c'è uno sprazzo della vita privata di Damon con suo fratello, c'è la sua richiesta che sembra una fuga ma, dal suo punto di vista contorto, è un atto di generosità.. Ci sono due personaggi nuovi che mettono ancora più carne sul fuoco.. (Il cognome Lockwood mi piaceva un sacco, più che Tyler, volevo ricordasse Mason più che altro e avrei usato il suo nome, se non avesse avuto anche lui gli occhi chiari!)
C'è uno scontro tra Caroline ed Elena che mostra ancora la loro strana, complicata ma vera amicizia e poi ci sono loro, Damon ed Elena, che si scontrano, si incontrano, si sfidano e si riallontanano...

Ancora un capitolo lungo, non credo di riuscire a fare diversamente! ;)

Per ora vi auguro una buona notte e ringrazio le persone che mi lasciano le loro parole ed opinioni, chi preferisce, chi segue, chi ricorda, chi mi manda messaggi in privato, che legge in silenzio.. è in ogni caso tutto assolutamente prezioso.

*ps.Grazie ilaria per avermi segnalato l'errore!!!
A presto.
Ale

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Capitolo 9
*** Capitolo 8° ***


Un passo, me ne vado per sempre.
Un passo grande, un passo così importante.
Due passi senza guardarti,
due passi avanti, due passi, per dimenticarti.
 
Quando tornerai (No che non tornerò)
Quando tornerai (Lontano da qui sarò)
Quando tornerai (Un giorno, forse mai)
 
Quando tornerai (Ho fatto un passo ormai)
Quando tornerai (Così lontani sai)
Quando tornerai (Un giorno, forse mai.)
 
Quattro passi, voglio ricordarti, rivedo i nostri sguardi,
quattro passi forse è già tardi.
Cinque passi, senza cadere, continuo a camminare,
cinque passi per perdonare.
Mille passi senza voltarmi, non voglio più contarli,
mille passi per guardare avanti.
(…)
Quando tornerai (Un passo via da noi)
Quando tornerai (Siamo lontani ormai)
Quando tornerai (Un giorno, forse mai)
 
 
(Mille passi _ F.Mannoia, Chiara Galiazzo)
 
 
 
 
 
 

Un mese dopo.

 
 

Elena

 
 
Questa mattina ha un colore spento.
Di quelli grigi, come quando fuori piove ed è nuvoloso e tutto intorno ha un aspetto monocolore, solo che qui, a Los Angeles, non piove quasi mai, se non pochi giorni l’anno.
Neanche questi ultimi due mesi d’inverno sono stati così tanto piovosi o grigi, da dover restare in casa per ripararsi da temperature leggermente più basse, quindi a parte alcune piogge che marzo porterà, per quest’anno, in questa città, non c’è spazio per giorni bui.
Non ci sono giorni grigi qui, non c’è posto per la tristezza là fuori.
Ma qui dentro, dentro questa casa e dentro di me, questa mattina è tutto spento.
Non ho proprio voglia di alzarmi, né di vestirmi e neanche di correre all’università, per leggere la data in cui dovrò discutere la mia tesi, che sarebbe stata affissa proprio oggi.
E’ una di quelle mattine in cui lo stomaco è tornato pesante e il cuore batte impercettibilmente, come fosse stretto in una morsa.
Mi capita ancora, ogni tanto, di alzarmi con questo peso addosso, non più così pressante come i primi giorni, quando non riuscivo proprio a muovere un passo, non riuscivo a respirare per quanta pressione sentissi, come quella notte in cui sono tornata a casa in lacrime, rischiando di investire innocenti per strada a causa della vista annebbiata. Quella notte in cui non ho chiuso occhio e ho pianto fino allo sfinimento, fino a non avere più lacrime da versare, fino ad avere gli occhi talmente tanto gonfi che non riuscivo più a tenerli aperti ed ho finito per addormentarmi alle primi luci dell’alba, sul divano, tra i cuscini e i mille fazzoletti bagnati.
Quando ho riaperto gli occhi è stato, forse, ancora peggio di quando ero riuscita a chiuderli.
Con i raggi di sole che filtravano dalla tenda del terrazzo, è penetrata anche una rassegnata consapevolezza.
La consapevolezza di cosa fosse accaduto, del rifiuto, di quegli occhi incuranti che mi hanno lasciato naufragare, di quella delusione che marcisce ancora un po’ dentro il mio stomaco.
Il giorno dopo un dolore, ha una risonanza differente, più potente, mentre la prima arriva dritta, la seconda ristagna e ti costringe a farci i conti.
Conti che sto facendo da un mese, con me stessa, con lui, con la mia vita.
Ovviamente non l’ho più cercato, non l’ho più chiamato, come gli avevo chiesto, stupidamente, quella sera.
Ho sperato mi cercasse lui, ci ho sperato fino allo stremo delle mie forze.
Mi sono illusa di avergli lasciato qualcosa, qualcosa che valesse la pena, qualcosa che gli ricordasse me e il nostro tempo insieme, qualcosa che lo scalfisse.
Pensavo di valerne la pena.
Di potergli bastare, nonostante il niente che forse gli avevo dato, di poter entrare in qualche modo dentro di lui, pensavo che il mio coraggio mi premiasse, ma sono una stupida.
La solita stupida, ingenua, sentimentale ragazzina.
Non mi verrà a riprendere, né a salvarmi da me stessa.
Non mi costruirà sicurezze che non so mettere insieme neanche da sola.
Le fiabe non esistono Elena, le principesse devono svegliarsi da sole, andare alla ricerca della propria scarpetta, scassinare con una forcina la porta chiusa a chiave della propria torre d’avorio e salvarsi da sole.
Nessun principe all’orizzonte, nessun cavaliere con il cuore spezzato si farà salvare da te, né ti verrà a cercare, solo perché tu agiti la tua bella manina o il tuo bianco fazzoletto.
Smettila di credere che se fai un passo avanti ti si debba spalancare il paradiso solo perché l’hai deciso tu, solo perché tu ti sei buttata.
Scendi dal piedistallo.
Impara piuttosto a cadere e rialzarti e anche in fretta.
Impara a vivere Elena, a vivere sul serio.
Non nasconderti dietro tempi affrettati o storie impossibili.
Lo sapevi che sarebbe finita, anzi sapevi benissimo che non sarebbe mai neanche iniziata.
Te la sei giocata male, potevi prenderti tutto, potevi mettere insieme quelle esperienze che ti mancano ma hai voluto affrettare i tempi a favore di sicurezze che ti hanno spezzato le gambe, non sei riuscita a godertela quando era il momento, ti sei tirata indietro, gli hai offerto solo la tua parte amica ed infantile, quando lui voleva anche altro.
Lui è un uomo e di una bambina non sapeva giustamente che farsene.
 
Per questo è sparito, per questo l’ho fatto anch’io, da lui, da me, dai nostri amici.
Avevo bisogno di starmene da sola, di concentrarmi sulla mia tesi, di lavorare in biblioteca e per la rivista online che, qualche settimana fa, mi ha offerto uno stage, dandomi la possibilità di scrivere di attualità.
Non volevo vedere, né parlare con nessuno.
Per una settimana e mezza ho evitato ogni tipo di relazione che mi costringesse ad investire anche una minima parte emotiva. Amélie è stato l’unico essere vivente a mantenere un rapporto con me, ma solo perché continuava a strusciarsi tra le mie gambe e a farmi le fusa mentre piangevo tra le lenzuola del mio letto, stringendole tra le mani e premendole sulla mia bocca, per non urlare di rabbia.
Non ho voluto vedere neanche Caroline che continuava a chiamarmi e mandarmi messaggi costantemente, l’ho pregata di smetterla, le ho chiesto di lasciarmi da sola e lei ha capito.
Ha capito che non la stavo mandando via, ma avevo bisogno di tempo.
Tempo per capire, curare le mie ferite e ricomporre la mia già fragile autostima, insieme ai miei pezzi rotti.
E’ stato Stefan a farmi sorridere, per la prima volta, dopo una settimana e mezza di vuoto e luci spente.
Non mi ha chiesto come stavo, non ne aveva bisogno, non sapeva nulla, forse aveva capito che non ero molto disponibile in questo periodo, forse Caroline gli aveva raccontato una balla per tenerlo buono, probabilmente il mio ringraziarlo per la cena con cui voleva farsi perdonare e l’averla però rimandata per impegni vari, non l’hanno fermato.
Mi ha mandato un messaggio scrivendo teneramente: ‘Appurato che Elena Gilbert non si nutra, c’è una mostra di Pollock che nessuno vuole venire a vedere con me. So che tu puoi capirmi. Non si può dire di no a Lui.’
Ho sorriso con tanto di denti che mi spuntavano tra le labbra, ho respirato aria pura, aria diversa, sana, fresca. Mi ha fatto sorridere la sua ironia, la sua complicità per una passione, quella dell’arte, che ci accomuna da sempre, mi ha fatto evadere, mi ha riempito la mente di altro, ha illuminato una strada che non avevo visto, ha alleviato un po’ quel peso che mi portavo addosso, mi ha gettato un’àncora senza neanche saperlo.
‘Lo faccio solo per Lui. ;)’ gli ho risposto e, due giorni dopo, sono uscita dalla gabbia in cui mi ero rifugiata ed ho affrontato il mondo fuori, andando alla mostra insieme a lui.
Quella sera, dopo quello stesso messaggio, mentre tornavo a casa dall’università, ho trovato anche un’altra persona, venuta ad interrompere il mio ritiro solitario.
Caroline mi stava aspettando, seduta sui gradini del portone del mio palazzo, con le braccia conserte, la schiena poggiata al muro e un’aria preoccupata, ansiosa, spaventata dalla paura di essere mandata via.
So che vuoi stare da sola, non dirò nulla lo giuro, starò zitta e non ti chiederò niente, ma dovevo vederti. Mi manchi e voglio accertarmi che tu stia bene.’
Queste sono le uniche parole che mi ha rivolto in quel momento e nelle due ore successive, quando sono crollata.
Per questo non volevo vederla, perché sapevo che affrontarla significava affrontare il mio dolore e non ero pronta, non ero pronta ad andare avanti, avevo ancora troppa rabbia e troppe ferite dentro.
Lei però, le ha raccolte, le ha curate tutte, fino all’ultimo graffio, fino all’ultimo nervo scoperto.
Mi sono lasciata andare tra le sue braccia, mi ha dato quell’abbraccio che volevo ma non riuscivo a chiedere. Mi ha abbracciata, forte, stretta e in silenzio.
Mi ha tenuta tra le sue braccia per tutta la sera, mi sono rannicchiata sul divano, stretta a lei che ha asciugato le mie lacrime, mentre scorrevano a fiumi sopra la sua maglietta a fiori.
Non ha detto davvero neanche più una parola, anche se glielo leggevo negli occhi che moriva dalla voglia di farlo, ha spento il telefono e mi ha dato il tempo di calmarmi, di tornare a respirare, di essere io ad iniziare a parlare.
L’ha fatto con tutto l’amore di cui avevo bisogno, con tutta la dolcezza che in quei giorni mi era mancata, con tutta la fiducia e l’amicizia che avevo visto tradita e messo in discussione.
Mi ha ripreso per mano e mi ha raccolta come, nonostante tutto, solo lei riesce a fare.
L’ho visto nei suoi occhi lucidi, che alla fine brillavano un po’, quanto in fondo fosse anche fiera di me, della rabbia che avevo mostrato, del coraggio che avevo tirato fuori, anche nell’affrontare lei, anche nel metterla al muro.
Era orgogliosa dei passi che avevo deciso di fare, anche sbagliando, inciampando, tirandomi indietro, per affermare me stessa, per difendermi.
Lo sono tutt’ora anch’io.
Ora che il dolore c’è un po’ meno, ma c’è ancora la consapevolezza di essere stata rifiutata, che in qualunque modo la guardi, in qualsiasi modo la si voglia raccontare, è lì, ferma in fondo allo stomaco.
Pesante, indistruttibile.
Eppure ho provato ad andare avanti, a mettere un piede davanti l’altro, mandando sempre più a fondo quella delusione e quella tristezza che mi avevano annebbiato i pensieri e disarmato le emozioni.
Ho ricominciato a respirare, ho rimosso la polvere che si era accumulata sopra i mobili, ho fatto entrare il sole dentro di me, sono andata al mare, ho scalato i miei capelli, dandogli una nuova piega, tagliandomi via di dosso quell’immagine da bambina, per appiccicarmi invece quella di donna.
Immagine che ora inizio a sentire sempre più mia.
Ho ripreso le mie lezioni di yoga, a casa e nella palestra a tre isolati da qui, due volte a settimana saluto il Sole, eseguendo tutte le dodici posizioni che ormai il mio corpo conosce a memoria, medito e ripeto le āsana di cui io e il mio fisico abbiamo bisogno. Mi rilassa, mi svuota la mente, mi fa concentrare sul qui ed ora, sul lasciare andare, mi insegna che stare ‘meglio’, non è stare ‘bene’ e io merito di stare bene, senza condizioni.
Sì, a volte, dopo sere come quella precedente, in cui sono uscita con Caroline e abbiamo incrociato Damon e Ric nel cortile di casa loro, mentre rientravano a casa, torna a cogliermi quella pesantezza che mi toglie un po’ il respiro, che non mi fa alzare da questo letto ma poi, penso ai passi fatti, al sole che c’è fuori e che voglio anche dentro, al bene che merito e trovo la forza per scendere e farne un altro di passo avanti, senza cadere.
Dopotutto, non c’è mai stato davvero niente tra di noi.
 
 
 
 
 
 

Damon

 
 
Dodicimila seicentotrentadue euro.
Questo il mio debito con Andie che ho appena saldato, consegnandole un assegno, stavolta coperto.
Un mese esatto, non un giorno di più.
Ho mantenuto la mia parola, lei si è fidata di me, mi ha lasciato tempo e io, nonostante ciò che si pensi, sono un uomo di parola.
Ci metto la faccia e faccio di tutto pur di mantenerla.
Come vendere i diritti di un pacchetto viaggi ad un’agenzia concorrente, ad un prezzo assolutamente stracciato e licenziare un altro dipendente.
Il quarto.
Anzi, la quarta.
Una ragazza, madre di una bambina di cinque anni, il cui papà non ha voluto sapere di riconoscerla, che si è ritrovata a dover vivere con i suoi genitori, perché potessero badare a sua figlia e andare a prenderla all’asilo, mentre lei era a lavoro.
Una ragazza che lavorava con me da quattro anni, una certezza per me e anche per lei, che però è crollata una settimana fa, quando mi sono ritrovato con l’acqua alla gola, senza possibilità di redenzione.
L’incontro con il giudice mi ha tagliato le gambe più di quanto non avesse già fatto la notizia della truffa.
Mi ha fatto capire chiaro e tondo che ci sono scarsissime probabilità di essere risarcito, la truffa è troppo estesa per poterla chiudere in poco tempo, circoscrivere complici e truffati e riuscire a calcolarne i danni. Ci vorranno mesi, forse anche anni.
Nel frattempo, chi si è ritrovato in mutande, deve solo riuscire a capire come poter sopravvivere e non farsi togliere anche quelle.
Ho messo in vendita la mia moto e l’ho fatto con il cuore in mano e gli occhi lucidi, perché quella moto è la mia libertà, la mia evasione ma in questo momento sono in trappola e non voglio scappare.
Voglio restare e pagare le mie schifezze, voglio rimetterci anche io, personalmente, così come i miei dipendenti. Sono io che ho creato questo casino e non posso permettere che altri continuino a perderci a causa mia.
Chiedere aiuto a mia madre, non è neanche un’opzione, non lo è perché dovrei darle la soddisfazione di vedermi strisciare, di dare credito all’opinione che ha di me, oltretutto dovrei metterla in una posizione scomoda con mio padre, che mi ha chiaramente fatto capire che non ha intenzione di prestarmi neanche un centesimo.
Me lo ha dimostrato quando mi ha accompagnato dal giudice, quando mi sono incazzato alla fine dell’incontro e mentre uscivamo ho scagliato il telefono contro il muro del tribunale, la sua voce mi ha raggiunto le spalle e raggelato con la sua frase ‘calmati, o dovrai trovare i soldi anche per ricomprarti quel telefono!’
Non me lo aspettavo questo suo voltafaccia, pensavo fosse più mia madre a voler tenere il punto, credevo di poter aver più margine con lui, invece hanno ribaltato i ruoli.
Lui si è rivelato un perfetto uomo tutto d’un pezzo, che ti ascolta, ti consiglia se vuoi, ma non si mette in mezzo nel risolverti i guai, ti guarda dall’alto della sua superbia e realizzazione. Fa finta di essere quello buono, ma è il più meschino di tutti.
Mia madre invece forse vuole solo pulirsi la coscienza, probabilmente non ha riflettuto su quello che comporterebbe aiutarmi economicamente, si è fatta solo prendere un po’ troppo la mano, così da poter avere qualcos’altro da potermi rinfacciare, eppure è coerente, è istintiva lei e agisce di pancia, sempre.
Se la vera natura delle persone si vede nei momenti di difficoltà, stavolta mi è abbastanza chiara la meschinità della loro.
 
Chiudo l’agenzia in pieno pomeriggio, dato il poco lavoro di questi giorni e nessun dipendente che ha scelto giustamente di prolungare l’orario oltre la mattina, l’unica che riesco ancora a coprire nel loro stipendio e me ne torno a casa.
Sono le cinque e io sono già sul mio divano, con i piedi sul tavolino e un bicchiere di bourbon tra le mano.
Caroline ha deciso di passare da me, non avendo più pazienti per oggi e avendo visto la mia macchina parcheggiata nel parcheggio condominiale, mi ha citofonato e si autoinvitata per rifilarmi di nuovo le sue ramanzine su questa storia del lavoro, che alla fine ho dovuto raccontarle per filo e per segno.
Oltre ad averle dovuto raccontare cosa fosse accaduto tra me ed Elena, considerato che la sua migliore amica non voleva né sentirla né vederla ed essermi subito la sua sfuriata per averla coinvolta nella storia di Stefan.
Ci ho messo due ore, una bottiglia di alcolico, per me, due coca cola e un’intera busta di liquirizie e caramelle mou, per lei, per spiegarle tutto, riuscire a farle capire il perché mi fossi tirato indietro e scusarmi per aver mandato avanti lei.
Dopo la furia con cui si è presentata, anche lei, a casa mia, senza avvertire, la rabbia che mi ha riversato addosso per la discussione che aveva avuto con la sua amica, per colpa mia, si è pian piano calmata, consapevole che era stata lei a scegliere cosa farne della mia richiesta e che la colpa, forse, non era solo mia.
Credo mi abbia perdonato ma fosse, in ogni caso, triste e delusa per aver fatto male ad Elena, anche a causa mia, per essere stata messa in una posizione scomoda e aver visto infrangersi il suo sogno di vedere i suoi due migliori amici finalmente insieme.
Non so se si sia o meno rassegnata, ma so che capisce la mia posizione e che, in fondo, anche lei preferisce stare da sola.
Meno problemi, meno dolore, più autonomia, più libero arbitrio.
Forse è per questo che non ha ancora rivisto Klaus, né ha voluto ancora parlargli, intimandogli di non cercarla e di darle tempo. Lo farà, so che lo rivedrà, ma non so quando, non so che tipo di tempo sta prendendo.
E’ tornata la Caroline di sempre, quella che mi pungola, mi fa riflettere e cerca sempre una ragione a tutto.
Si è perfino riappropriata del mio frigo e del mio gelato al limone e cioccolato, che sta mangiando a grandi cucchiaiate direttamente dal barattolo.
 
«Damon ma perché non chiedi una mano a loro, tua madre si è perfino offerta.. non essere orgoglioso.. si tratta di te, della tua vita adesso, non è più una ripicca contro di loro..»
«Proprio perché è la mia vita me la voglio gestire io, come ho sempre fatto. Lei si è offerta solo per pulirsi la coscienza.»
«E’ un po’ più complicato di così non pensi..»
«Non direi..»
«Damon loro ti hanno lasciato scegliere.. te lo hanno chiesto se volevi andare anche tu, tu hai dato di matto quando hai saputo che volevano trasferirsi..»
«Certo! Avrei dovuto lasciare tutto e seguirli solo perché volevano offrire ad un bambino appena nato un futuro migliore del mio! Mi hanno messo sul fatto compiuto, non mi hanno coinvolto in niente! E alla fine si sono presentati da me dicendomi ‘sai, abbiamo deciso di trasferirci, vuoi venire con noi?’»
 
Mi alzo dal divano per avvicinarmi alla finestra, imitando il tono e l’espressione di circostanza della faccia di mia madre quando è entrata in camera mia, insieme a mio padre, per gettarmi addosso quella decisione, già presa da mesi.
 
«Vuoi venire con noi? Ma che è una cosa da dire ad un figlio?!»
 
Spalanco le braccia per dare più adito alle mie parole, allargo le mani in cerca di una spiegazione che non c’è e per raccogliere quell’aria, che inizia a mancarmi ogni volta che affrontiamo questo discorso.
 
«Lo capisco Damon, lo sai che sono dalla tua parte in questa storia e sai che secondo me sono persone incapaci di amare, ma capisco in parte il loro punto di vista, l’hanno fatto per non farsi odiare ancora di più.»
«Care ci sono cose in cui il libero arbitrio va a farsi fottere. Non si può lasciar scegliere ad un ragazzino di diciotto anni che ha appena finito la scuola, non vuole andare al college ma vuole aprire un’agenzia di viaggi e vivere da solo per non lasciare i suoi amici d’infanzia!»
«Ce l’hai fatta però.»
«Sì e ora ne pago le conseguenze! No Care, non si può! Un ragazzino così lo prendi e lo rinchiudi in camera sua, legandolo a letto, fino a che non la smette con queste idee del cazzo!»
«Damon se ti avessero costretto ad andare con loro, li avresti comunque odiati per il resto della tua vita.»
«Loro non mi hanno voluto. Fine delle interpretazioni. La realtà è questa.»
 
La liquido perché non ne posso più di questa storia.
Ci sono cose che si commentano da sole, le parole sono importanti, a volte più delle intenzioni e possono fare male tanto quanto queste.
Specialmente se arrivano da quelle che dovrebbero essere le persone più significative della tua vita.
Se sono loro i primi a deluderti, a metterti da parte, allora sei fregato, sei marchiato a vita. Se proprio loro, proprio la tua famiglia, può fare a meno di te, vuol dire che vali proprio meno di niente.
 
«Ok, cambiamo argomento. Basta depressione. Preparati, che stasera ce ne andiamo al cinema!»
 
Taglia corto anche lei, si alza, lasciando il barattolo di gelato quasi finito sul tavolino, mi arruffa i capelli e posa un bacio fresco e veloce sulla mia fronte, mentre io socchiudo gli occhi.
Fa per andarsene, poi si volta esitante, apre la bocca per dirmi qualcosa che non riesce a far uscire, intimorita dalla mia reazione e da una mia probabile rinuncia a quell’uscita che mi ha appena strappato senza chiedermelo, è indecisa, tira in dentro le labbra e allora capisco.
Capisco che nonostante il suo non voler essere messa in mezzo, Elena è e resterà sempre tra me e lei.
C’è nella sua vita e anche nelle nostre uscite.
Non voglio costringerla a scegliere tra di noi, non voglio comportarmi come un bambino che non sa prendersi le sue responsabilità.
 
«Non preoccuparti, non è un problema per me. Ci vediamo lì.»
 
Lei allarga le labbra in un sorriso orgoglioso e sollevato, mi manda un bacio che resta nell’aria e se ne va, felice di avermi, nonostante tutto.
Lascio cadere la testa all’indietro su questo divano e chiudo gli occhi sospirando.
Un cinema non potrà certo sconvolgermi la vita più di quanto lo sia già.
Non potrà farlo neanche la presenza di Elena, che non ho quasi più visto, se non sporadicamente, incrociandola per pochissimi minuti, senza che nessuno dei due riuscisse ad alzare gli occhi l’uno nell’altro.
Non ci riuscirà neanche quello sporco e quel senso di colpa con cui mi sono svegliato la mattina dopo, nudo, con il letto sfatto e il vuoto lasciato da una donna, che ha le mie stesse regole sul dormire con qualcuno, ma che è diventata piuttosto costante in questo mese.
Mi dispiace che lei sia stata male, mi si chiude lo stomaco pensare di averglielo provocato io quel dolore, aggiungendoci quella delusione che Caroline non ha tardato a rinfacciarmi.
Tutto questo, ha però dato ancora più credito alla mia decisione di chiudere.
Non vado bene, non lo so fare il fidanzato, non so neanche relazionarmi con quella che dovrebbe essere la mia famiglia o mandare avanti un’agenzia senza fare danni, figuriamoci una storia d’amore.
Confido quindi nel buio della sala cinema per non incontrare lo sguardo di Elena, nell’odore di popcorn per coprire il suo profumo di vaniglia e Argan, nel silenzio a cui saremo costretti, per non dover dire niente e non dover ascoltare la sua voce.
Sono pronto ad indossare la mia solita maschera di sarcasmo per coprire schifezze ed umiliazioni, subite e inferte.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
 
18 marzo 2014
 
I miei occhi si spalancano e sussulto nel costatare che davanti a me, su questa bacheca universitaria, scritto su un foglio ufficiale, con tanto di timbro e nomi della commissione d’esame, c’è la data della fine del mio percorso universitario.
Diciotto giorni a partire da oggi.
Diciotto giorni per chiudere definitivamente la mia vita da studentessa e lanciarmi finalmente nel mondo adulto.
Diciotto giorni per temporeggiare ancora e scacciare via ogni insicurezza.
Ansia e felicità. Paura e libertà.
Timore di sicurezze che finiscono e curiosità di nuove esperienze che iniziano, di un mondo che mi si sta aprendo davanti e che ha iniziato a farlo già da un bel po’.
La solita ambivalenza, le mie solite contraddizioni.
Ma va bene così, stavolta la dicotomia è giustificata, stavolta il passo è grande e io ne sono all’altezza.
Sorrido e mi godo ancora la mia sensazione di formicolio e benessere che mi riempie completamente, come il panico che ti investe prima di salire sulle montagne russe e poi si trasforma in adrenalina e liberazione, tanto che alla fine del giro vorresti rifarlo ancora e ancora. E non hai più paura, ti resta l’emozione del fine viaggio e ti godi le salite e le discese perché sai che ne uscirai viva.
E’ così che mi sento, è così che voglio ricordare tutto il mio percorso, tutte le mie sfide, i timori negli occhi di una me bambina, che si trova davanti una strada lunghissima che non ha la più pallida idea di come affrontare né di come finire, occhi che scrutano in silenzio, mani che ardono di vita e verità.
Non è ancora finita, ho un ultimo enorme lunghissimo passo da fare, un ultimo altissimo gradino da scalare, ma ho diciotto giorni per prepararmi e adesso voglio solo sentire questo stomaco vuoto e le mie spalle, finalmente, leggere.
 
«Diciotto giorni è?»
 
Due occhi neri e profondissimi mi colgono di sorpresa e con ancora il sorriso sulle labbra e gli occhi chiusi.
Mi volto riconoscendo un volto e una voce che in questo mese è divenuta piuttosto familiare.
Familiare nelle mie chiamate a tutte le ore per chiedere consigli, leggere commenti e proporre spunti da poter inserire nella mia tesi, prima di consegnarla.
Familiare nel suo tono caldo, potente, con il quale mi rassicurava, tra un caffè e un panino consumato veloce tra una parola e l’altra, tra un confronto e un’opinione condivisa.
Un tono che mi coglieva quasi sempre impreparata, ma toccava delle corde che scuotono la mia parte adulta, quella che sogna una vita al di fuori di questa università, quella che ha delle aspirazioni e vuole gettarsi nella mischia, forte e pronta a tutto.
La voce di un uomo che ha iniziato e continua ad essermi piacevolmente intorno.
Eppure, finché si trattava di parlare di tesi e si restava nell’ambito universitario andava bene, ero al sicuro e potevo tirarmi indietro in qualsiasi momento, ma adesso che è quasi tutto finito, questa sua presenza ha un qualcosa di diverso, ha un sapore un po’ più forte del semplice rapporto lavorativo.
 
«Mattew.»
«Felice di essere alla fine, finalmente?»
«Felice e impaurita.»
«Come è giusto che sia.»
 
Io gli sorrido, risistemando la tracolla sulla spalla e spostando dietro l’orecchio una ciocca di capelli che si è messa tra lui e il mio sguardo.
 
«Come va’ con i dubbi del post consegna, sono passati?»
 
Rido al ricordo di una imbarazzante telefonata, alle sette di sera, di una settimana fa, colta da mille insicurezze sulla banalità delle mie ricerche, errori di dicitura e frasi sconnesse.
Lui si è lasciato sfuggire la stessa risata divertita e dolce, che ora io sto offrendo a lui, mentre sento le guance riscaldarsi leggermente, ma mi ha ascoltata e tranquillizzata, abbastanza da lasciarlo continuare in pace la sua serata.
 
«Credo ormai sia inutile continuare a farseli venire!»
«Mi sembra un’ottima conclusione. Come stai? Ti vedo un po’ meglio..»
«Un po’. Ho passato un momentaccio ma va meglio. Ho lavorato tanto e mi sono concentrata molto sulla tesi, per questo..»
«Fammi compagnia per pranzo, così mi racconti di questa nuova rivista online per cui lavori!»
 
Non mi lascia finire e io faccio un piccolo passo indietro, colpita dalla sua richiesta così spontanea quanto inaspettata.
La sua voce e il suo sguardo sono così naturali ed interessati, senza nessuna ombra di malizia, da confondermi. E’ un ordine, più che una richiesta, che non mi lascia tempo di pensare, tanto lui è veloce ad offrirmi il braccio piegato, che afferro piano e amichevole, e a condurmi fuori l’edificio.
 
Ci ritroviamo seduti uno di fronte l’altro, nello stesso tavolo della prima volta, a bere della coca cola senza ghiaccio, mentre scorriamo con gli occhi un menù che conosciamo a memoria.
Non abbiamo smesso un secondo di parlare, lui continua a farmi domande sul mio nuovo lavoro, un po’ per distrarmi dall’ansia pre – discussione, un po’ perché davvero incuriosito, io sfrutto le sue pause per chiedere di lui, dei suoi progetti e di come ci sia finito qui, a fare da assistente ad un professore con una cultura e delle capacità eccellenti ma che, con tutto il rispetto, non è proprio tagliato per insegnare.
 
«Ho lavorato per un progetto a cui lui ha partecipato, recensendo alcune sue mostre e facendo alcune interviste ai visitatori. Gli ho consegnato tutto su un video, montato in modo impeccabile aggiungerei, e ci siamo messi a collaborare per varie cose, fino a che mi ha chiesto di fargli da assistente.»
«Wow.. lui quindi si occupa anche di mostre?»
«Diciamo, che la sua attività principale è fare il giornalista ma nel tempo libero dipinge e si occupa anche di allestimenti vari e io gli do una mano.»
«Mi piacerebbe vedere una sua mostra..»
«Domani sera ce n’è una, al Getty Museum, qui a Los Angeles.»
«Oh quant’è meraviglioso quel posto! Ci sono stata la scorsa settimana a vedere la mostra di Pollock con un mio amico!»
«Anche quella l’abbiamo curata noi.»
 
La mia faccia deve aver assunto l’espressione ebete di una ragazzina, che ha appena realizzato di avere davanti a sé un componente del suo gruppo di cantanti preferito e non averlo riconosciuto prima, perché Mattew mi guarda e scoppia a ridere forte, lasciandosi cadere all’indietro sulla sedia.
Si porta perfino una mano sulla pancia, per non rischiare di esplodere e io abbasso lo sguardo rossa come il ketchup che sta uscendo dal mio panino e cerco di ricompormi meglio che posso.
 
«Scusami, è che.. non mi aspettavo voi..»
«Fossimo così bravi?»
«Vi occupaste anche di queste cose…»
 
Mattew mi sorride più paziente ora, leggo nel suo sguardo una punta di orgoglio e forse un pensiero di quanto io mi sia rivelata, ai suoi occhi, una ragazzina oltremodo infantile.
Questa idea mi turba un po’, mi inquieta e mi fa ritrarre fino a toccare lo schienale della sedia e smalmarmici addosso.
Lui smette di sorridere e torna serio.
 
«Se ti va di venire a vederla domani, io sono lì dal pomeriggio..»
«Se ci sono sì, vengo volentieri.»
 
La mia voce è leggermente incrinata ma non voglio farglielo notare, così continuo a sorridere e a sistemarmi i capelli che neanche gli occhiali, usati come cerchietto, riescono a tenere a bada con questo vento che mi sta spettinando.
 
«Mi farebbe piacere. Magari riusciamo a prenderci un caffè o qualcosa di commestibile anche al di fuori di questo posto!»
 
Io trattengo il fiato, sgrano appena gli occhi e li abbasso imbarazzata, sento le guance infuocarsi e vorrei scappare. Non so mai bene come gestire o come comportarmi quando qualcuno ci prova in modo così gentile, sottile, velato, tanto da risultare maleducata se rifiutassi e illusa se accettassi solo per questa strana idea di approfondire il nostro rapporto, che mi sta e gli sta, forse, frullando per la testa.
Probabilmente, è tempo di fare un passo un più.
Eppure, ogni volta che ci provo, ogni volta che provo a lasciarmi andare in qualcosa che non sia lavoro con lui o amicizia con Stefan, sento una morsa allo stomaco che mi stringe e non mi fa respirare, vedo quegli occhi, azzurri come l’Oceano e come il cielo in questo momento, libero da qualsiasi nuvola e mi ritraggo.
Non ci riesco, non riesco a perdermi dentro la profondità e l’oscurità dello sguardo di Mattew, nonostante lui sia indiscutibilmente un uomo molto affascinante, così come non riesco a farmi corteggiare dal romanticismo e dalla dolcezza di Stefan, che anche durante la mostra si è mostrato così tanto attento e tenero.
Forse sono io quella sbagliata, che desidera sempre ciò non può avere, perché è proibito, perché è più comodo.
 
«Esistono altri bar al di fuori di questo?»
 
Scelgo l’ironia per sciogliere il mio imbarazzo, prendendo in prestito ciò che ho imparato dal proprietario di quei grandi occhi azzurri, sfacciatamente perfetti.
Gli sorrido e lui mi strizza l’occhio, cambiando espressione, torna ad essere naturale e assume quel distaccato amichevole che mi rimette a mio agio.
 
«Scusa, ora devo proprio andare. Il lavoro chiama anche me..»
 
Decido di chiudere qui questo incontro, piacevole ma a tratti imbarazzante, con una scusa che in verità è solo un’anticipazione della realtà.
Devo lavorare in biblioteca, ma tra un paio d’ore, solo che ora voglio allontanarmi di qui, la mia parte ancora ferita, non ce la fa a sostenere altri graffi sulla pelle.
 
«Ci vediamo domani allora, se riesci a liberarti!»
 
Mi saluta circondandomi con un braccio intorno alla vita e un bacio sulla guancia, dolce e non poi così innocente, tanto da procurarmi un brivido quando stacca le labbra dalla mia guancia e mi lascia andare.
Io gli offro un sorriso tirato e volto le spalle, sparendo veloce tra i viali dell’università.
 
 
 
 
 
 
Damon
 
 
Parcheggio la mia moto nel viale di fronte il cinema, ho deciso di prenderla per quello che potrebbe essere uno degli ultimi giri. Voglio godermela ancora un altro po’, voglio sentirlo ancora quel vento che mi si infrange addosso e si apre per farmi spazio, quella barriera compatta dentro la quale sfrecciare, che non perdona movimenti scomposti, che potrebbe scagliarti via in un lampo, voglio sentirla addosso quella libertà che solo l’asfalto che brucia sotto le mie ruote, mentre supero le altre macchine lasciandomele alle spalle, riesce a darmi.
Voglio tempo, tempo per me, per sentire che c’è ancora qualcosa in grado di riempirmi dentro.
Di darmi emozioni forti, possibilmente piacevoli.
E non lo faccio apposta, ma appena arrivo di fronte l’entrata del cinema e vedo i miei amici in un angolo della strada, in cerchio, che già discutono su che film vedere, una sensazione che mi monta dentro la sento. La sento non appena il mio sguardo si posa prima distratto, poi più attento, su un sorriso spontaneo e luminoso che risuona facendo luce tutto intorno e appartiene ad un Elena diversa, cambiata.
I suoi capelli sono diversi, li ha sciolti e la frangetta le scende continuamente sul viso, ma lei non si nasconde, la scaccia con la mano e la rimette al suo posto, dietro l’orecchio.
Anche i suoi gesti sono più sicuri, nel modo in cui poggia il peso su un unico piede, fiera, sopra quei tacchi che non indossa mai, se non in particolari serate, e in cui lascia l’altra gamba morbida, appena accavalla davanti.
Si stringe leggermente nella giacca nera che le avvolge il busto e lascia scoperte le sue lunghissime gambe fasciate dai jeans, ride, ride ancora, forse per una battuta di Stefan, il che mi stupisce non poco, ma lei lo guarda e gli sorride come se non volesse fare nient’altro per il resto della sua vita che ridere e puntarti addosso quegli occhi che ti fanno sentire l’unico uomo al centro del mondo.
E’ bella, dannazione, da invaderti dentro.
 
«Damon!»
 
E’ Alaric a notarmi per primo, mentre sono ancora immobile ed imbambolato appena sotto lo scalino del marciapiede, a pochi passi da loro.
Scuoto la testa per fare uscire i pensieri e faccio un passo per raggiungerli.
Lui poggia una mano sulla mia spalla e noto che l’altra ce l’ha incastrata tra le dita di una ragazza piuttosto affascinante, che a quanto pare, dopo settimane di incontri segreti, ha deciso di fare uscire allo scoperto.
 
«Lei è Meredith!»
 
Me la presenta immediatamente, io allungo la mano per stringere quella che lei è già pronta ad offrirmi.
Ha un bel sorriso, i lineamenti marcati, gli zigomi alti e dei boccoli castano scuro che le incorniciano uno sguardo profondo, che quasi mette in soggezione.
 
«Sono Damon! Finalmente ci conosciamo!»
«Il piacere credo sia mio! Ric mi ha parlato molto di te!»
«Bè dato che sono già famoso, possiamo passare subito ad una cosa a tre.»
«Scusalo, è più forte di lui fare il coglione!»
 
Alaric mi interrompe con uno sberla sulla spalla e io gli lancio un’occhiata fintamente offesa, che viene da liquidata immediatamente da uno sguardo ammonente ma affettuoso.
Noto che a questa serata si è unito anche Enzo e mi fa piacere, era l’unico dei colleghi di Stefan che avevo trovato particolarmente divertente ed interessante la sera della festa.
Faccio un cenno del capo anche a lui per salutarlo, che ricambia da sotto il berretto che indossa.
 
«Allora, che film mi avete costretto a venire a vedere?»
 
Bonnie mi da una gomitata e Caroline sbuffa, sventolandosi con il volantino dei film in programma.
Non la guardo, non ci provo neanche a spostare lo sguardo su di Elena, mi blocco sulla mia amica, se non quando, solo per un attimo, la sua voce si fa spazio e rompe il silenzio.
 
«Veramente c’era una diatriba proprio su questo!»
 
E’ allegra, spontanea, senza esitazioni o insicurezze.
Alzo gli occhi per incontrare i suoi, che mi guardano dolci e fieri, poi me li toglie e torna a rivolgersi a Caroline e a Stefan, che, da quanto ho capito, sono i protagonisti di uno scontro dal quale si decideranno le nostri sorti per le prossime due ore e mezzo.
 
«Mi rifiuto di andare a vedere un documentario sulla terra, orsi e creature animali! Per quanto meraviglioso possa essere!»
«E io non intendo vedere un film drammatico su un ragazzino malato che entra in contatto con entità sovrannaturali!»
 
Sono irremovibili entrambi, Caroline ha addirittura le mani puntate sui fianchi e la sua aria da maestrina, Stefan è più disgustato invece e preoccupato, perché sa che sarà difficile spuntarla con lei.
Per questo sfilo dalle mani della mia amica il volantino con la programmazione e leggo con estrema cura.
 
«Io andrei a vedere Capitan America!»
 
Me ne esco nel silenzio generale, ritrovandomi addosso tutti i loro occhi perplessi.
 
«Che c’è? E’ un bel film!»
«Genio! Lo sapevo che non mi sbagliavo su di te! Approvo in pieno!»
 
Enzo alza una mano nella mia direzione per permettermi di battere un sonoro cinque con il mio palmo contro il suo, io lo faccio e gli lancio uno sguardo d’intesa.
 
«Vuoi vederlo solo perché c’è Scarlett Johansson!»
«No Care, voglio vederlo perché mi interessa la trama!»
 
Ovvio che non sono convinto neanche io della verità delle mie parole, per questo lei sbuffa ancora e mi ignora completamente, tornando a guardare Stefan e ad arricciare le labbra in attesa della vittoria.
 
«Bè neanche il protagonista è male… anch’io voto per Capitan America!»
 
Elena prende posizione e mi spalleggia nella scelta, cogliendomi di sprovvista, tanto da sgranare gli occhi per metterla a fuoco e realizzare che non me la sto immaginando.
Mi chiedo per un attimo chi sia questa nuova donna davanti a me.
 
«Ragazzi ci dobbiamo spicciare, non possiamo stare qui tutta la sera! Allora, vada per Capitan America?»
 
Bonnie prende in mano la situazione e mentre parla indica Caroline e Stefan con l’indice e fa due passi indietro, già in direzione dell’entrata.
Entrambi alzano le spalle e annuiscono sconfitti.
Io sorrido trionfante e lancio un’occhiata alla mia complice, che però non mi guarda più e sta già seguendo Bonnie dentro il cinema.
Sconfitto, stavolta da lei, mi avvicino anch’io e qualche minuto dopo prendo posto in sala, tra i sedili della terzultima fila, il più lontano possibile da Elena e il più vicino possibile a Enzo, che mi sembra la spalla migliore per questa serata.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
 
Ricordarsi di uccidere Caroline.
 
Devo appuntarmelo sull’Iphone, scriverlo a caratteri cubitali sulla lavagnetta vicino ai fornelli della cucina, appiccicare un post-it sul frigorifero, imprimerlo nella mente.
Me lo devo ricordare quando finirà questa serata, o domani o quando verrà a cena a casa mia, per tutelarmi dalla sua voce ingenua che mi supplica, proponendomi in una sera qualunque, di uscire per un cinema, un gelato, una pizza in un nuovo ristorante biologico o una passeggiata sul lungomare, dicendomelo solo alla fine, certa del mio consenso, chi altro ci sarà con noi.
La devo uccidere perché non riesco a resistere quando, dopo i miei silenzi, mi dice ‘no Elena, non puoi farti limitare da lui! Non puoi dargli questo potere!’ e io penso che abbia ragione, ma vorrei strozzarla lo stesso.
Per questo lo devo fare, perché ricapiterà in futuro e io devo essere pronta a toglierla di mezzo prima.
Poi però, nonostante il dolore che ho ancora dentro e che mi esce fuori dalla pelle anche solo mentre lui mi sta a due metri di distanza e respira la stessa aria che respiro io, penso che davvero non posso e non voglio dargli questo potere, perché non se lo merita.
E allora tiro fuori tutta la forza che ho, tutta la sicurezza che ho acquisito fino ad oggi, mi ci aggrappo con le unghie e con i denti, le tiro giù dalle tende sopra le quali si sono arrampicate, per nascondersi. Ordino al mio cuore di tacere, ingoio i battiti che mi sono arrivati in gola, stringo i muscoli delle gambe per non crollare, sciolgo i capelli, perché so che lui li preferisce così, mi mostro leggera, allegra, anche se dentro sto esplodendo.
Mi mostro per quella che sono adesso, una donna e un’adulta.
Non glielo mostro il dolore che mi ha provocato, non glieli voglio far vedere i lividi che mi ha lasciato, lo guardo negli occhi sostenendo il suo sguardo come se non fosse mai successo nulla tra di noi, sorrido e lo sostengo anche.
Gli do l’apparenza che ha sempre voluto davanti gli altri, gli rendo il niente che c’è stato.
Mi siedo vicino a Stefan anche, non perché voglio illuderlo o darla vinta a Damon, ma perché ormai davvero io e lui stiamo diventando amici e mi piace passare del tempo insieme, nonostante i suoi sentimenti che probabilmente non sono neanche così forti, come tutti pensavano.
Una donna lo capisce quando un uomo ci sta provando, anche se lo fa in modo sottile e questo le permette di cambiare atteggiamento, di passare dall’ingenua provocatrice, alla fidata amica.
Sto provando a concedergli il mio lato esclusivamente amicale e non so se gli sto facendo male, se mi sto comportando da egoista, fatto sta che voglio iniziare ad agire, a fare ciò che sento, invece di rimuginare e restare ferma.
Ci sono riuscita fino a questo momento, finché le luci in sala illuminavano ancora tutto quanto.
Ma ora, nel buio e nel silenzio, davanti a questo film di cui seriamente non mi interessa nulla, se non per la piacevole visione della bellezza del protagonista, proprio adesso, posso mollare la presa.
Posso respirare a pieni polmoni, rilassare i muscoli che ho continuato a contrarre per non sciogliermi sull’asfalto, lasciare che il mio cuore si calmi da solo, accarezzare quelle ferite che hanno ripreso a pulsare, chiudere gli occhi per non vederlo.
Lascio che la poltrona sorregga completamente il mio peso, avvicino le ginocchia al petto e le circondo con le braccia, in una morsa delicata, distratta.
Sono comoda nella mia chiusura.
Mi godo il film nel totale silenzio, sorridendo a qualche battuta di Caroline e Bonnie sulla bellezza spropositata di Chris Evans, il protagonista e strizzando l’occhio a Stefan quando è lui a perdersi tra lo sguardo e le forme di un’attraente Scarlett.
Siamo quasi alla fine, sciolgo le mie gambe e inizio a riappropriarmi della me donna e adulta, prima che le luci svelino la parte bambina che ho lasciato andare nel buio.
Lascio scivolare le gambe giù dalla poltrona e nello stesso istante le sento vibrare, insieme alla borsa a terra.
Allungo una mano e a tentoni la afferro, lasciando che l’illuminazione del display del cellulare me ne indichi la posizione.
Lo trovo ovviamente l’attimo successivo la fine della chiamata.
 
Una chiamata persa: Mattew.
 
Resto a guardare quel nome inerme, sorpresa e indecisa su cosa fare, poi veloce digito un messaggio, scusandomi di non poter rispondere perché sono al cinema.
Non trascorre neanche un minuto che già ricevo la sua risposta.
 
‘Scusami tu, non volevo disturbare, solo ho appena finito di parlare di te con il professor Noah, mi è sembrato molto entusiasta del tuo lavoro. Volevo solo rassicurarti. Buona serata. Spero di vederti domani. Un bacio M.’
 
Arrossisco appena e sono felice che il buio sia ancora mio complice in questa strana e lunga serata.
Raddrizzo la schiena e mi sento più alta di qualche centimetro, mi viene da sorridere e un velo di orgoglio inizia a brillarmi negli occhi.
Un secondo dopo sento una pressione sul mio braccio, alla mia destra, una cascata di boccoli biondi mi scivolano sulla spalla e due fanali azzurri si intrufolano prima nella mia borsa, dove ancora tengo nascosto il telefono per non illuminare l’intera sala e poi si piazzano nei miei occhi.
 
«Chi è questo M.? E’ lui vero? E’ l’assistente del tuo professore?»
 
Prova a sussurrare ma Caroline non è mai riuscita ad essere discreta e la sua voce risulta più alta del previsto, tanto da beccarsi un ammonimento perfino da Alaric, tre posti oltre il mio.
 
«Shh… sì è lui, ma non urlare! Ti racconto fuori..»
 
La rincuoro bisbigliando e lei sorride soddisfatta, tornando al suo posto, immaginando già scenari e finali da favola.
 
Titoli di coda, fine del film e, perplessa, mi rendo conto di non averci capito quasi nulla, né di averne visto la conclusione.
Per questo non apro bocca mentre usciamo, né dopo, quando ci ritroviamo sul marciapiede all’aria aperta e tutti continuano a commentarne alcune scene, con tanto di fantomatico finale.
Mi chiudo nella giacca, serrando le braccia intorno al seno, colta da un improvviso brivido di freddo, nonostante l’aria sia nella media di questo periodo.
 
«Freddo?»
 
Una voce calda mi coglie di sorpresa, mi irrigidisco istintivamente e non mi volto, perché lo riconosco il proprietario.
Non mi ero accorta di essere ad un passo da Damon, non l’ho visto uscire davanti, né dietro di me, non lo so come abbia fatto a finirmi accanto, dato che in sala aveva scelto il posto più lontano dal mio.
Eppure ora è qui e devo fare appello a tutto il mio coraggio per mantenere fede all’immagine che voglio dargli stasera di me.
 
«No, è solo questo vento…»
 
Non riesco a concludere la frase che mi muore in bocca, mentre osservo la sua giacca sfilarsi dalle sue braccia e poggiarsi sulle mie spalle, con un gesto veloce, caldo, sicuro.
Solo in quel momento lo guardo attonita, incapace di stringermi di più dentro quella giacca, né di ridargliela.
Damon mi sorride appena, gentile, complice, quasi imbarazzato e io abbasso lo sguardo, arrossendo, di nuovo, stavolta alla luce del lampione che mi illumina completamente.
Respiro e cerco una compostezza che sto perdendo, sento il cuore salirmi di nuovo in gola e premere per balzare fuori. Stringo i denti e serro la mascella per non farlo muovere da lì, ma tutto ciò che sento è il suo odore addosso a me.
Il suo incontrastato, indimenticabile profumo di erba appena tagliata misto all’odore di dopobarba che, dalla sua barba lunga di almeno un paio giorni, non credo abbia usato di recente.
Se questo è il suo modo di provocarmi e prendersi una rivincita, ci sta riuscendo benissimo.
 
«A te non è piaciuto un gran ché mi sa, vero Elena?»
 
E’ Stefan a rivolgermi la parola, riportandomi alla realtà di una conversazione e di un film che ho completamente perso.
 
«Bè no, è stato carino..»
«E’ un modo per dire che l’ha odiato e che la prossima volta vi conviene dare retta a me!»
«Diciamo che eri un po’ distratta!»
 
Caroline cerca di difendermi ma Alaric mi punzecchia, memore della battuta della nostra amica a fine film, sul messaggio che avevo appena ricevuto, io impallidisco e lei lo fulmina con lo sguardo.
 
«Da cosa?»
 
Trovo la dolcezza e l’ingenuità di Stefan deliziosa, ma in questo momento vorrei strozzare anche lui, che non si rende conto di aver dato il primo colpo di pala, per scavare una fossa in cui cadrò io ma trascinerò anche lui e il suo amico.
 
«Dal messaggio dell’assistente del suo professore..»
 
Alaric continua tranquillamente, non riflettendo su cosa in questa situazione si possa dire o non dire, o forse lo fa ed è consapevole di ciò che sta facendo, tuttavia io sprofondo sempre di più.
 
«Quale assistente?»
«Nessuno d’importante Stef, non gli dare retta!»
 
Cerco di sviare e sminuire il rossore che mi sta letteralmente inondando il viso ma credo con scarsi risultati, visto il sorrisetto che mi sta rifilando Bonnie, ignara di tutto e Alaric, che probabilmente invece sa più di quanto vuole far credere.
Faccio un passo indietro, per prendere una distanza per lo meno fisica da una situazione che mi sta smuovendo fin troppo emotivamente, non doveva andare così, non erano questi i miei piani.
Cerco di assumente uno sguardo indecifrabile e un sorriso di circostanza, che non saprei neanche identificare, perché non so come si possa uscire da questo baratro in cui sto scivolando.
 
«Davvero eri distratta da questo tizio?»
 
Stefan mi guarda sorridendo e affettuosamente interessato, il che mi intenerisce e un po’ mi fa sentire in colpa.
 
«Ma no piantatela, era distratta dall’indubbio splendore protagonista!»
«Veramente.. non amo particolarmente i biondi stile principe azzurro..»
 
E non finisco neanche di parlare che vorrei mordermi la lingua, per il riferimento ad entrambi gli uomini che sono rispettivamente alla mia destra e alla mia sinistra e che so che almeno uno, quello alla mia sinistra che mi ha gentilmente offerto la sua giacca, ha colto perfettamente.
Caroline mi guarda disarmata, con le braccia che le cadono lungo i fianchi e negli occhi l’espressione di una che ci ha provato a difendermi ma che la mia ingenuità l’ha sconfitta miseramente.
Questa serata sta andando sempre peggio, non ho assolutamente idea di come recuperare le cose, credo sia ora di togliere le tende e tornarcene tutti a casa, mentre siamo ancora apparentemente sani e salvi.
Caroline mi legge nel pensiero e con la sua solita voce stridente di quando vuole attirare l’attenzione, invita tutti a seguirla, in direzione delle macchine posteggiate.
Solo Damon resta fermo, lui ha la moto dalla parte opposta al nostro marciapiede.
Io mi volto appena, insicura ed impacciata, ma lui guarda fisso davanti a sé, ha lo sguardo perso, vuoto.
 
«Ehi..»
«Mi ha fatto piacere rivederti.»
 
Mi dice poi, all’improvviso, in un sussurro, atono, lontano, come se mettere una qualche inflessione alla voce lo facesse crollare a pezzi.
 
«Anche a me..»
 
Solo a quel punto si volta, con tutto il corpo e con gli occhi troppo azzurri dentro i miei, troppo poco sicuri e forti per sorreggerli.
 
«Stai bene?»
«S-si..» mormoro, senza troppa convinzione.
 
I suoi occhi mi riportano a me, al dolore che ho provato quando mi guardavano affogare senza fare niente, mi riporta ai nostri sguardi dati senza testimoni, ai lunghi silenzi, uno dentro l’altro, ma anche all’indifferenza che ci ho letto troppe volte dentro.
Mi sale una rabbia e un’insofferenza che iniziano ad infastidirmi, per questo riprendo un controllo che mi era completamente sfuggito e continuo, stavolta certa delle mie parole.
 
«Sto bene, ora.»
«Bene, sono contento per te.»
 
Eppure lo vedo che non lo è, che lui non c’è, non è con me, è lontano, arrabbiato forse, stranito, freddo, senza nessun diritto di esserlo.
Mi fa un cenno con il capo e arriccia le labbra in una smorfia amara, indecifrabile, mi volta le spalle e attraversando la strada, si dirige verso la sua moto.
Solo quando non è più davanti a me, mi accorgo di sentirlo ancora, di avere ancora il suo odore, proprio addosso a me.
 
«Damon, aspetta... la giacca!»
«Tienila.»
 
Me lo dice lasciandomi a guardare la sua schiena, con una strada a doppia corsia che ci divide, non si volta, sale sulla sua moto, infila il casco e corre via, mentre io mi sento irrazionalmente e furiosamente in colpa.







___________________________________


Ci sono!!
Finalmente riesco a pubblicare!
Mi scuso ancora tantissimo per l'assenza e il lungo ritardo...
Una concomitanza di fattori, uno dei quali è relativo proprio al capitolo precedente! E ve lo svelo subito..

Vengo immediatamente al punto.

Un mese dopo.
Sì è trascorso del tempo ed è trascorso perché alla fine dello scorso capitolo mi sentivo anch'io così tanto svuotata, che non riuscivo a scrivere.. sentivo di aver perso anch'io Damon e la mia migliore amica, mi sentivo un po' troppo come Elena ed ho avuto bisogno di tempo, anch'io.
Ho dovuto voltare pagina insieme a lei, ricominciare quasi, seppur mantenendo un filo con lo scorso capitolo.
Alcune cose accadute in questo mese sono state spiegate, altre man mano le capirete..
Ma in ogni caso mi è servito per poter permettere ad Elena di cambiare, di iniziare a ricominciare e a Damon, di essere sempre Damon, ma di rendersi conto di alcune cose, anche se può sembrare che gli stia crollando tutto addosso..
Troviamo qualche new entry, qualcuno che diventerà un po' un personaggio fisso e scombinerà un po' di cose ;).. vediamo l'evolversi della 'relazione' tra Elena e Stefan.. fino ad arrivare ad un primo incontro post rottura tra lei e Damon..

Spero almeno un po' di essere riuscita a ripagarvi per l'attesa e a farmi perdonare!

Ps. Il J. Paul Getty Museum esiste davvero ed è meraviglioso.. e davvero in questo periodo accoglie una mostra di Pollock. Vorrei postarvi il link ma non credo di esserne capace! Sorry.. (anzi se qualche anima pia è così gentile da aiutarmi in queste cose le sarei infinitamente grata! Grazie! )

Un bacio a tutte!
E buonanotte o buongiorno a seconda di quando leggerete! :-)
Ale



   

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Capitolo 10
*** Capitolo 9° ***


«Ma perché vive così? Scusi se sono indiscreto…»
«Non è indiscreto. Vivo così perché lo voglio. Vivo così perché non voglio vivere in un altro modo. La vita come la intendono gli altri per me non ha valore. Non mi piace essere intrappolato e la vita è un polpo dai mille tentacoli. Uno solo basta per imprigionare un uomo. Quando mi sento imprigionato, io taglio il tentacolo. A volte fa male, ma non c’è altro modo. Capisce?»
«Capisco benissimo. Ma questo non porta a niente di utile.»
«L’utilità non mi preoccupa.» […]
«È duro!»
«Duro? No. Sono fragile, mi creda. Ed è la certezza della mia fragilità che mi porta a sottrarmi ai legami. Se mi abbandono, se mi lascio catturare, sono perduto.»
«Finché un giorno… io sono vecchio. Ho una certa esperienza…»
«Anche io.»
«Ma la mia è l’esperienza di anni…»
«E che cosa le dice?»
«Che la vita ha molti tentacoli, come ha detto lei poco fa. E per quanti se ne taglino, ce n’è sempre uno che resta e che finisce per acchiapparla».
 
(Lucernario _ José Saramago)
 
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Il Getty Museum ha una vista mozzafiato da sopra questa terrazza.
Si possono ammirare in completa solitudine i meravigliosi e circolari giardini, che formano un cerchio circoscritto da alberi, al cui interno vi è un laghetto che a sua volta ospita delle verdissimi siepi, disposte per creare un labirinto.
Il colore e l’odore dei fiori di bouganville spezzano questo bianco incontrastato dell’enorme edificio e il verde degli alberi, profumando l’aria e rendendola dolce e leggera.
Questo vastissimo museo si snoda in un semicerchio imperfetto che ospita milioni di stanze e di arte, da poterci vivere una vita dentro.
Amo infinitamente passeggiare fuori o all’interno di questo posto, mi fa sentire parte di qualcosa di più grande di me, qualcosa che esiste da secoli e secoli, qualcosa di futilmente essenziale, di profondo, puro, primitivo. E’ qualcosa che ha a che fare con i sentimenti, con l’anima, con quelle sfumature che a volte non vorrei proprio vedere ma che sono tutta la mia vita, sono l’unico modo in cui riesco a guardare il mondo.
Qui, mentre cammino su questo terrazzo, tra quei giardini, dentro la purezza di tutto questo bianco, mentre mi perdo tra le numerose opere che questo posto ospita, mi sento a casa e il mio modo di vedere, mi sembra l’unico possibile.
Tutto questo bianco, però, sopra il quale si riflettono i raggi di un sole quasi al tramonto, oggi fa quasi male agli occhi.
Devo socchiuderli, nonostante gli occhiali scuri, per non farmi abbagliare.
Mi guardo intorno, intenta ad osservare le persone che entrano ed escono dal museo, quelle che passeggiano, quelle sdraiate sui prati o sedute sull’enorme scalinata, sempre bianca, che si snoda dal grande piazzale principale.
Inizio a muovere qualche passo e a scendere verso l’entrata, utilizzando le scale alla mia destra, cerco con lo sguardo di riconoscere qualche volto noto e scruto ogni ragazzo, con i capelli chiari e vestito elegantemente, per scovare lui.
Sono venuta qui volutamente per Mattew.
Dopo il suo messaggio ho continuato a pensare a lui e all’effetto che mi hanno provocato le sue parole e il ricordo dei suoi occhi scuri e grandi.
Mi sento di nuovo viva e, con le luci del nuovo giorno, questa mattina, ho deciso che era tempo di buttarmi, di disfarmi della vecchia me e lasciarmi andare senza troppi dubbi o insicurezze.
Volevo essere leggera, profonda, ma leggera.
L’ho deciso mentre i primi raggi di sole colpivano il mio letto, gettando luce su un’ennesima notte irrequieta e agitata.
Incontrare Damon mi ha stravolto ancora, leggere nel suo sguardo quella durezza mi ha infastidito ancora una volta, mi ha messo con le spalle al muro senza neanche saperne il perché, mi ha tolto anche quel poco che pensavo restasse, tra noi, nonostante tutto.
Mi ha messo in discussione per l’ennesima volta, mi ha fatto sentire in colpa per averlo forse in qualche modo ferito, infastidito da un discorso che non avevo neanche tirato fuori io, mi ha fatto arrabbiare perché stavolta non c’entro niente.
Lui ha fatto la sua scelta e io sono semplicemente andata avanti.
Non sono stata petulante, non l’ho cercato, non sono andata sotto casa sperando di incontrarlo per caso, non ho costretto Caroline ad organizzare uscite tutti insieme, non gli ho mandato messaggi, non l’ho soffocato, sono andata via, come mi aveva chiesto di fare.
Non l’ho neanche messo in mezzo tra me e Stefan, non gli ho raccontato niente a lui, nonostante mi pesi non potergli dire niente, dover fingere quando mi parla di lui, di quanto abbia un effetto non indifferente sulle donne, di come ci sappia fare, mi sento sporca, mi sembra di mentirgli e non mi piace, tuttavia lo faccio, per non compromettere niente.
Gli ho retto il gioco e mi sono allontanata dalla sua vita.
Fine della storia, obiettivo raggiunto.
 
Quindi, perché quel cambiamento?
Dov’è andato a finire quel Damon che un attimo prima mi aveva coperto dal freddo che avevo dentro? Quello che mi aveva offerto la sua giacca, senza neanche chiedermelo?
Quella giacca che ho lasciato cadere sul bracciolo del divano ieri sera e non ho avuto il coraggio neanche di guardare stamattina, mentre uscivo per andare a lavoro, quella giacca che mi sono costretta ad ignorare mentre tornavo a casa per cambiarmi e uscire di nuovo per venire qui.
Quella giacca che ho evitato con lo sguardo, ma che ha invaso la mia casa di un odore inconfondibile, che mi fa sentire la sua presenza ovunque, me lo fa immaginare in giro per la cucina, la mia camera da letto, il bagno, me lo fa sentire anche adesso, sulla mia pelle, dentro le mie narici, sui miei vestiti, mentre gli ultimi raggi di sole mi colpiscono la pelle e l’aria fresca mi avvolge.
Perché lui è così, entra senza chiedere il permesso, da’ e prende tutto ciò che vuole e poi resta lì, inaccessibile, inarrivabile, senza prendersi alcuna responsabilità, scegliendo quali feriti curare dai graffi che infligge e quali lasciare sanguinare.
Questa volta però sono stanca di implorare guarigione a chi non può salvare neanche se stesso, stavolta la scarpetta torno indietro da sola a riprendermela, non aspetto più nessuno che mi rincorra per calzarmela.
Ho perfino imparato a camminare scalza, a piedi nudi e ci sto perfettamente.
 
«Ce l’hai fatta!»
 
La voce entusiasta di Mattew, il suo sorriso, il suo abbigliamento curato, la sua giacca aperta su una camicia bianca e dei pantaloni scuri, interrompono i miei pensieri, sciolgono le mie inquietudini e mi costringono a scendere gli ultimi gradini per avvicinarmi a lui, che mi lascia subito un bacio sulla guancia.
Io ricambio leggermente imbarazzata e mi lascio guidare dalla sua mano sulla mia schiena, all’interno dell’edificio.
Entriamo nella sala color glicine e con il parquet chiaro, che ospita la mostra del mio professore e mi sorprendo nell’osservarne l’indubbia bravura e la bellezza dei suoi dipinti.
Sulle tre pareti intorno a noi, sono affissi quadri su tela di diversa grandezza, che ritraggono paesaggi, ma in un modo astratto, in un modo che ti fa cogliere solo i contorni, che ne sfuma il contenuto eppure te ne fa cogliere l’essenza.
Resto ammaliata e sorpresa da doti di cui non avevo la minima conoscenza, scopro leggendo alcune biografie appese accanto ai quadri, che queste opere hanno attraversato gli Stati Uniti, sono state nei musei di New York, Miami, Atlanta, Chicago, Phoenix.
Hanno vinto riconoscimenti e affiancato mostre autorevoli e di elevato spessore.
Mattew mi illustra ogni minimo quadro, me ne indica i dettagli, le sfumature, mi fa notare lo spessore delle pennellate, i contrasti, mi racconta le molteplici recensioni che ha scritto e che sono state raccolte da i più svariati giornalisti per ognuno di essi.
Mi sembra di essere appena stata inglobata in un mondo nuovo, parallelo, in cui tutto ciò che c’era prima, tutto ciò che ero abituata a vedere e sapere è scomparso, lasciando il posto solo a ciò che ho sempre desiderato.
Mi sembra di camminare fuori dal mondo reale, o forse è proprio questo il mondo vero, quello che cercavo, che volevo.
Parlo con gli organizzatori della mostra, mi confronto con alcuni giornalisti presenti, discuto con Mattew e con il mio professore delle sue opere, non da alunna a maestri, o da bambina ad adulti, ma da adulta, da donna, da giornalista.
La mia tesi con lui è diventata piccolissima in confronto a tutto questo, appartiene già al passato, è solo un passo in più, non quello decisivo, solo un gradino da salire che ora mi sembra meno alto, meno sdrucciolevole.
E’ il mio posto, questo è esattamente il posto che voglio.
Non so dove mi porterà questa nuova esperienza, queste nuove conoscenze che sto facendo, ma mi piace, lo sento mio, mi ci sento assolutamente a mio agio, mi sento esattamente dove ho sempre voluto essere.
E poi mi piace la presenza di Mattew che, anche se lontano o dall’altra parte della sala, continua a cercarmi con lo sguardo, ad approvarmi, sorridermi, felice della mia felicità e della mia sicurezza.
Mi fa sentire importante, adulta e più lui mi guarda in questo modo, più lo divento.
Prendo tutto il tempo che mi occorre, per perdermi in queste nuove sensazioni, non ho fretta, non devo andare da nessuna altra parte, non c’è nessuno che mi aspetti fuori.
A parte Mattew, che è uscito per prendere un po’ d’aria, dopo un lunghissimo pomeriggio e una serata già abbastanza inoltrata e quasi finita.
Attraverso i giardini di fronte a me e mi avvicino all’enorme scalinata, che porta alla strada e lo trovo seduto sul primo scalino, ad ammirare le statue poste su quei gradini, sculture che avrà visto milioni di volte, che conoscerà a memoria ma che continua ad ammirare come fosse la prima.
Mi siedo senza far rumore accanto a lui, portando lo sguardo nella sua stessa direzione.
Lo sento sorridere ma continuiamo a guardare fisso davanti a noi, fino a che avverto un fruscio e la sua gamba che sfiora la mia, segno che si è voltato e mi sta guardando.
 
«Allora, ne valeva la pena?»
«Eccome.. tutto questo è molto di più di quanto credessi!»
«Ne sono felice. Sapevo che avresti apprezzato.»
 
Mi sorride entusiasta e con un filo di orgoglio, io ricambio e poi abbasso lo sguardo, non riuscendo a sostenere i suoi profondi occhi scuri che mi scrutano.
 
«Sono felice che tu sia passata...»
 
Il suo tono ora più basso e profondo, mi costringe a tornare con gli occhi dentro i suoi, scuri, intensi, sicuri, mentre i miei lo sono un po’ meno, traballano, si dilatano eppure non mostrano segni di imbarazzo o indecisione.
Lui mi scruta, attendendo una mia reazione, chiedendomi il permesso per entrare un po’ più a fondo, io mi ci perdo per quell’attimo che basta a lui per avvicinarsi a me, fino a lasciare uno spazio di pochi centimetri tra noi.
Sorrido piano, spostando lo sguardo sulle sue labbra ma resto immobile, perdendo qualche battito e respirando a fatica quando lo sento avvicinarsi ancora e poggiare quelle stesse labbra sulle mie.
Piano, dolce, delicato, senza pretese.
Mi bacia accarezzandomi lievemente una guancia e io lo lascio fare, consapevole di volere la stessa identica cosa.
Per una volta i miei desideri e quelli della persona che ho davanti, coincidono perfettamente.
 
«Volevo farlo dalla prima volta in cui ti ho vista..»
 
Mi rivela ancora sulle labbra, io sorrido di nuovo, con gli angoli della bocca che si allargano imbarazzati ma maliziosi, sono io a cercare adesso la sua bocca, avvolgo le braccia intorno al suo collo per un bacio più intenso, per un contatto più intimo.
Inizio a scoprire come reagisce il mio corpo alle sue mani, al suo odore, alle sue carezze e come il suo chiama il mio e ha voglia di me.
Lascio che il calore mi inondi lo stomaco e si infiltri in ogni fessura, che ne prosciughi quel mare che fino a stanotte mi ha sommerso.
Restiamo a scoprirci su questi gradini bianchi, lasciando che i nostri corpi facciano conoscenza e le nostre parole diventino rivelazioni dolci e sussurrate.
 
 
 
 
 
 

Damon

 
 
Se dovessi darmi un punteggio per il mio grado di maleducazione di ieri sera, sarebbe un bel dieci, con tanto di lode.
Non lo so cosa mi sia preso, ero riuscito a tranquillizzarmi dopo il film, a distogliere l’attenzione dalle sensazioni che mi provocava, l’avevo seguita, mentre usciva dal cinema, per riuscire ad avere un contatto amichevole con lei, per provare a recuperare qualcosa, nel caso ci fosse qualcosa da recuperare. Volevo scambiare qualche parola con lei, perché in fondo siamo entrambi adulti e non era neanche davvero iniziato niente tra di noi, quindi potevamo benissimo trovare un tacito accordo per mantenere un rapporto qualsivoglia civile.
Volevo per una volta, fare la cosa giusta anche con lei, redimermi in qualche modo.
Mi ero mostrato gentile, attento, le avevo coperto le spalle con la mia giacca, lasciando alla mia sola maglia grigia a girocollo l’incombente compito di riparami dal vento, le avevo strappato un sorriso e un momento di delizioso imbarazzo, mentre le sue guance arrossivano violentemente.
Ero perfino felice del suo nuovo rapporto con Stefan, ero orgoglioso nel vedere lui così sereno e a suo agio con una donna, erano carini insieme e non voglio dire che avevo ragione a volermi togliere dai piedi, ma avevo fottutamente ragione.
Eppure
Eppure quella morsa all’improvviso allo stomaco ha distrutto tutti i miei piani.
Non c’era più posto per una razionalità controllata, per un’accettazione a mani basse, quel pugno in pieno petto che Ric mi ha scagliato con le sue insinuazioni, che sono certo non si sia lasciato scappare per puro caso, mi hanno annebbiato il cervello.
Non ho capito più niente, non ho visto più nessuno intorno a me, tanto meno Elena, che sentivo indietreggiare e cercare parole che non le venivano per uscire da quella situazione.
Non capisco da dove sia sbucato questo tizio, cosa voglia da lei, da me.
Come abbia fatto ad avvicinarsi così tanto a lei, da farla arrossire in quel modo, da entrare così tanto dentro ai suoi occhi bassi e imbarazzati, dopo così poco tempo dal nostro ultimo incontro, dopo le sue insicurezze, dopo… me.
Non mi sono tirato indietro per questo assistente, sbucato da non si sa dove, io l’ho lasciata andare per Stefan, perché lui potesse provarci, perché entrambi potessero capire quanto facciano bene l’uno all’altra, quanto la loro purezza possa mescolarsi e dare vita ad unicorni ed arcobaleni.
Sono certo che Stefan la meriti più di me, che possa offrirle tutto ciò che io non ho, che io non sono, che possa amarla con il rispetto, la sicurezza, la dolcezza di cui è degna.
E’ lui che deve entrarle così dentro, perché lui saprebbe proteggerla, anche da se stessa.
Io finirei solo per farle del male con le mie insicurezze, che poi sono anche le sue, mi sentirei soffocare dal suo bisogno di certezze, la allontanerei continuamente e lei mi metterebbe alla prova costantemente.
Ci massacreremo a vicenda e forse, in fondo, farebbe più male a me che a lei tutto questo, perché lei sa difendersi, è più forte di quanto crede, ci sa fare con le emozioni, con i sentimenti, io, invece, cadrei a picco al primo soffio di vento, mi lascerei ingoiare dalle prime onde venute ad infrangersi contro la mia nave.
Voglio di più per lei, voglio di più per me.
Non mi lascerò affondare.
Resisterò fino alla morte dentro il mio bunker, sono disposto a tutto, anche ad accettare l’idea di questo tizio, che non conosco eppure già non mi piace, anche a dover consolare Stefan, nel caso non riuscisse a spuntarla.
E’ per questo che ho scelto la strada più facile, è per questo che nel mese in cui non ci siamo visti Andie è stata sempre più presente nel mio privato e nel mio letto e lo è stata molto di più in quest’ultima settimana, dalla sera del cinema, forse per reazione o per dimostrare a me stesso che posso non provare niente.
Per dimostrare che posso avere una storia senza una vera relazione, che possiamo vederci, fare sesso e tornare ad essere amici, siamo riusciti perfino a vederci al di fuori delle nostre camere, per una passeggiata, per bere qualcosa, senza compromettere niente.
E’ una distrazione piuttosto piacevole, di cui posso mantenerne il controllo, mi fa sentire al sicuro, mi lascia spazio e non mi incatena.
Andie è perfetta per me e io sono perfetto per lei.
Non mi ha mai voluto raccontare il perché dopo la rottura con l’uomo che ha amato per otto lunghi anni, non abbia mai più voluto avere una relazione seria, non mi ha mai voluto far entrare così in profondità, come io non ho voluto fare con lei, spiegandole perché invece io non ce l’avessi mai avuta una storia seria.
Non c’è stato bisogno di regole e limiti tra di noi, è stato da subito tutto fin troppo chiaro, ci siamo avvicinati perché cercavamo le stesse cose, la stessa distanza, lo stesso niente.
E continuiamo a darcelo.
Continuiamo a darcelo mentre le nostre bocche avide cercano l’una il corpo dell’altro, mentre le mie mani la spogliano, mentre la sua lingua assaggia il mio sapore, mentre la costringo a sdraiarsi sotto di me e le blocco i fianchi che cercano spasmodicamente un piacere che sono io a voler controllare.
Mettiamo distanza anche mentre sono dentro di lei e spingo fino a farla urlare tra i gemiti e quando lei ribalta i ruoli, portandosi sopra di me e prendendo in mano la situazione. Ci diamo quel niente anche mentre raggiungiamo l’orgasmo insieme e ci lasciamo andare stanchi e sudati, ognuno dalla sua parte del letto.
E’ questo che voglio, è così che voglio vivere.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
 
«Sicura che non vuoi che ti accompagni a casa, tra poco?»
 
Sono quasi l’ultima ad andare via dalla mostra, Mattew deve restare ancora per dare una mano a riordinare e raccogliere il materiale.
Io ho continuato a girargli intorno, ad essere avvolta dal suo braccio intorno la vita, a ricevere sguardi diversi, che hanno mutato intenzioni ed emozioni nel giro di un paio d’ore.
Mi sento ancora strana, stralunata, confusa, per questo ho aspettato fino la fine della serata, ma ora vorrei tornare a casa.
Mi sono avvicinata a lui e posandogli una mano sulla spalla, per avvertirlo della mia presenza mentre sistemava delle carte, gli ho sussurrato che stavo andando via. Si è voltato, mi ha guardato teneramente, ha lasciato tutto ciò che stava facendo e mi ha accompagnato fuori, fino alla mia macchina.
Quella domanda me l’ha mormorata a tre centimetri dalle labbra, dopo un altro interminabile bacio.
 
«Sono sicura. Grazie..»
 
La mia voce è calda e leggermente affannata, le sue mani che si staccano piano dai miei fianchi spostano la mia attenzione esattamente nel punto in cui erano poggiate, facendomene sentire immediatamente la mancanza.
 
«Ti chiamo domani.»
 
La sua voce è invece sicura, tassativa. Nessuna incertezza nelle intenzioni.
Lo guardo in quegli occhi scuri come la notte che ci circonda e accenno un sorriso che sa di rassicurazione, assenso, sicurezza.
 
«Sarà meglio per te.»
 
Lo prendo un po’ in giro, puntandogli il dito contro il petto e lasciando che lui mi afferri completamente la mano, la volti e mi lasci un bacio delicato sul dorso di essa, come un galantuomo.
Sgrano appena gli occhi per la sorpresa, mi divincolo piano dalla sua presa e gli poggio quella stessa mano sul petto, mentre mi avvicino ancora.
Cerco un’ultima volta un contatto con lui, mi concede un ultimo bacio, più intenso stavolta, che mi scuote il cuore e me lo fa sobbalzare, poi faccio un passo indietro. Gli sorrido e salgo in macchina, per tornare in una casa da cui questo pomeriggio, sono uscita con uno stato d’animo del tutto diverso.
 
In questa settimana e mezza ci siamo visti quasi ogni giorno, sono tornata alla mostra il giorno dopo e quello dopo ancora, ci siamo finalmente presi un caffè fuori dall’università, nel mondo reale, mi ha offerto una cena in un posto bellissimo in riva all’Oceano, su una terrazza da cui se ne poteva ammirare la vastità e percepire l’odore di salsedine, quello che ti si attacca alla pelle e non ti lascia più.
Il profumo di salsedine e di dopobarba pungente di Mattew, sta pian piano sostituendo quello fresco di erba appena tagliata che avevo ancora impresso sulla pelle.
Quella giacca sul mio divano è scomparsa, come l’odore che emanava, l’ho riposta in un angolo nascosto dell’armadio, lontano dalla portata di tutti i giorni, è giusto che resti lì, che abbia un posto definito, che non resti in attesa, anche lei.
Avrei potuto chiedere a Caroline di consegnarla al legittimo proprietario eppure sarebbe stato scorretto, infantile, avrei dovuto delegare anch’io e non voglio. Non lo voglio più fare, voglio prendermi le mie responsabilità e affrontare il mondo e i sentimenti che ancora provo, a testa alta, senza nascondermi.
Così come sto affrontando queste nuove sensazioni che mi fa provare Mattew.
Mi fa ridere, mi fa confrontare su temi che condividiamo, mi fa crescere professionalmente, mi intriga mentalmente, mi rassicura emotivamente e nonostante solo ora iniziamo a conoscerci davvero, ad approfondire le nostre telefonate, rendere più espliciti i nostri desideri, io mi sento bene. Un po’ in imbarazzo ancora ma a mio agio, forte sulle mie gambe.
Caroline dice di essere orgogliosa di me, mi sta torturando per conoscere Mattew, per vederlo anche solo una volta, in foto o di sfuggita mentre mi viene a prendere o prendiamo un caffè, come se vederlo, vederne i modi o l’aspetto fisico, le permettesse di fare un quadro chiaro e inequivocabile della sua persona.
Mi fa sorridere il suo entusiasmo, la sua felicità, che contiene tutti i momenti bui e terribili che mi hanno investita in questi ultimi mesi e io sono felice che lei non c’entri nulla con Mattew, per poter parlare liberamente con lei, senza dovermi censurare per non rischiare di rovinare qualcosa.
Mi sento più leggera.
So che dovrò affrontare Damon prima o poi, che dovrò restituirgli la sua giacca, insieme a tutto ciò che per me c’è stato, sostenere il suo sguardo senza crollare, riuscire a passare tranquillamente una serata insieme ai nostri amici, solamente, non pensavo di doverlo fare così presto.
 
«Enzo mi ha chiesto di dirlo anche a te e a chi vuoi! Quindi volendo potresti portare Matt!»
 
Caroline mi ha chiamata mentre tornavo a casa, dopo un pomeriggio con Mattew e con la sua voce squillante ed entusiasta mi ha annunciato di questa uscita, programmata per domani sera, per festeggiare la promozione di Enzo da semplice segretario a vice – capo nell’azienda in cui lavora con Stefan.
Per Caroline è l’occasione perfetta per conoscere questo assistente che mi sta rubando giornate lontano da lei, per me invece è la prova del nove per mettermi alla prova.
 
«Perché Enzo ha chiesto proprio a te, di dirlo a me? Quando l’hai visto?»
«Ieri sera, sono passata da Damon e ho trovato loro due e Stefan, che parlavano di questa promozione. Gli ho fatto le congratulazioni e mi ha detto di domani sera, chiedendomi di dire anche a te e a chi vuoi di venire!»
 
Mi spiega precisa e accurata, con il suo tono da maestrina, sottolineando implicitamente che sia stato un puro caso, mentre io prendo ancora tempo per darle una risposta e la stuzzico.
 
«Sono contenta per lui e non era un’accusa la mia, mi farebbe piacere se tu lo vedessi.»
«Cosa?? Elena non diciamo fesserie per favore!»
«Non ci sarebbe niente di male, è un tipo piuttosto intrigante..»
«Tu sei fuori di testa! E’ così.. così.. egocentrico e narcisista!»
 
Sorrido per la sua deformazione di analizzare sempre tutto e tutti e quasi mi spaventa che, ad una sola occhiata, riesca ad avere già un così indiscutibile giudizio.
 
«Ti ricordo che l’ultima persona con cui sei stata era proprio così..»
«Appunto! E guarda com’è andata! No, no, so già come finirebbe e non mi va di ripetere la storia.»
«A proposito di questo.. che intenzioni hai con Klaus? Non mi hai più detto nulla...»
 
La sento esitare, sospirare e poi spezzare il fiato prima di parlare, mi siedo sul divano, portando le gambe al petto, le do tempo di elaborare i pensieri.
 
«Ho bisogno di chiarire con lui, Elena. Lo so che tu lo odi ma io vorrei vederlo, so di averne bisogno, anche solo per…»
«Andare avanti.»
«Già.. lui è ancora una persona molto importante per me, il fatto che mi sconvolga così, non è normale e non è giusto.»
 
Sospiriamo insieme stavolta, restando in silenzio per alcuni secondi, ognuna persa nei suoi pensieri, nelle proprie verità, che in fondo sono le stesse per entrambe.
In fondo, qualcosa di così profondo, che ti è entrato tanto dentro e ti ha spogliato di tutte le tue certezze e sicurezze, non è semplice da mandare via, non si può semplicemente tagliare via dalla propria vita, lavare via dalla pelle, sperando che non torni più, che non porti più conseguenze.
Ci si deve fare i conti, sempre.
 
«Comunque, non mi hai risposto cara mia! Porterai Matt domani?»
«Non lo so Care, non lo so.»
 
 
 
 
 
 

Damon

 
 
Stasera posso finalmente cenare a casa, in pace, da solo, senza preoccuparmi dell’arrivo imminente di Ric, che resta per cena o passa a cambiarsi per poi riuscire con la sua ragazza.
Praticamente in questa settimana l’ho visto solo di sfuggita, in parte perché era sempre da lei, in gran parte, perché ero io a non volerlo vedere.
Non posso fare a meno di essere distante, sto fuori praticamente quasi tutto il giorno, quando so che lui c’è, torno solo per dormire e me ne rivado.
Sono perfino tornato a trovare mio fratello, pur di non incontrare il mio amico che al momento, forse perché è innamorato, forse per ragioni che non conosco, non è più la persona che conoscevo.
Da quando sta con questa Meredith, trascorre la maggior parte del tempo con lei, dorme a casa sua e il mattino dopo l’accompagna addirittura al lavoro, nell’ospedale appena fuori Los Angeles in cui fa l’infermiera, torna a casa nostra e poi la va a riprendere, fermandosi di nuovo da lei.
Io e lui non parliamo quasi più e ci vediamo ancora meno, mi manca il mio compagno di bevute, lo ammetto, mi manca il rapporto esclusivo che avevamo, so che lui è più un tipo da relazione seria e che sarebbe durata poco la nostra libertà, eppure quando siamo insieme lui è la mia spalla perfetta e io sono la sua.
Adesso però, dopo il suo comportamento la sera del cinema, non lo riconosco davvero più.
Mi sono sentito tradito da lui, ha buttato quelle carte in faccia a me, prima ancora che ad Elena, tirando fuori la storia del messaggio, senza nessun ritegno, nessuna cura.
Non perché non potesse farlo o ci fosse qualcosa di male, semplicemente non me lo aspettavo, non da lui, pensavo che un amico dovesse in qualche modo proteggerti, anche quando sei tu a chiudere una storia – non storia, anche quando sei tu ad esserti comportato da idiota.
Lui non l’ha fatto e io sono un orgoglioso del cavolo che non perdona, non così facilmente almeno.
Quindi stasera me ne sto su questo divano, a lavorare per quel che posso, approfittando che lui non ci sia e autocommiserandomi un altro po’.
Se non fosse per la chiave che sento girare nella serratura della porta di casa, che sento aprire, richiudere e per i passi che si avvicinano a me.
 
«Sei assolutamente prevedibile amico, lo sai?»
 
La voce di Alaric mi colpisce come un proiettile alle spalle, io sussulto leggermente ma lascio che la mia finta indifferenza assorba il colpo.
Non ruoto neanche la testa per guardarlo, continuo a fissare il mio portatile e a spedire la mail che ho appena finito di scrivere.
Lui è costretto a fare il giro della poltrona e pararsi davanti a me, mi toglie il pc dalle mani e lo posa sul tavolino, sul quale poi si siede, incrociando le braccia e puntando i suoi occhi scuri dentro i miei, chiari e di ghiaccio.
Io lo fisso indecifrabile, sentendomi tradito anche dalla sua presa in giro.
Sì, forse mi sto comportando da ragazzino, ma non riesco e non voglio fare altrimenti.
 
«Stasera non torno, è bastato a non farti scappare di nuovo, vedo.»
«Non afferro, amico.»
«Oh, sì invece e lo sai. Mi stai evitando da più di una settimana, torni solo per dormire, ti chiudi in camera e non dici niente.»
«Ho casini al lavoro lo sai, non ci sto molto con la testa.»
«Fai colazione fuori!»
«Preferisco il caffè del bar.»
«Sei andato a cena da Caroline, per due sere consecutive.»
«Il cibo precotto che abbiamo nel congelatore non credo se la prenderà a male.»
«Sei andato a trovare i tuoi!»
«Sono andato a trovare mio fratello.»
«Damon.»
«Cos’è sono già agli arresti domiciliari e non lo sapevo? Hai finito di pedinarmi?»
«E tu hai finito con le scuse?»
 
Lo guardo con uno sguardo duro, non so perché ma in questo momento la mia rabbia verso di lui si sta moltiplicando, vorrei tirargli un pugno sul naso per costringerlo a smetterla di guardarmi con le sopracciglia alzate e la testa inclinata, come se fossi un idiota.
Sembriamo una coppia di fidanzati che litiga per qualche assurdo ed inesistente motivo, ma in questo caso sono io la donna che si chiude e si stranisce mettendo il broncio, mentre lui è l’uomo che cerca di chiarire e dare un senso alla situazione.
 
«Nessuna scusa.»
 
Alaric prende un respiro, scioglie le braccia e poggia le mani sul vetro del tavolino, ai lati delle ginocchia, si protende verso di me e raddrizza la testa, addolcendo lo sguardo, che mi arriva dritto, come le sue parole.
 
«L’ho fatto apposta Damon.»
 
Sono io stavolta ad inclinare la testa e guardarlo interrogativo, aggrottando le sopracciglia.
 
«Tirando in ballo la storia del messaggio di quell’assistente..»
«Continuo a non capire.»
«Guardati Damon, sei nervoso, irascibile, non mi parli dalla sera del cinema, ce l’hai con me perché pensi me ne sia fregato di te, che abbia voluto provocarla o prendermi gioco di lei e di te.»
 
Accompagna le sue parole con gesti ampi di mani e braccia, mi indica quando mi dice guardati e io quasi lo faccio, abbasso gli occhi per osservarmi le gambe tese, le braccia incrociate, i pugni chiusi.
Non la vedo ma la sento la mia mascella contratta e i denti stretti.
 
«Stavo provocando te, Damon, non lei, proprio perché non posso fregarmene di te.»
«E quale sarebbe il risultato di questo tuo esperimento, indubbiamente scientifico?»
 
Lo guardo ancora di traverso, diffidente, iniziando però a cogliere quelle intenzioni che avrei preferito mi tenesse nascoste.
 
«Che lei ti interessa ancora.»
«Sei sicuro che quella dottoressa sexy non sia una psicopatica, che fa esperimenti con il tuo cervello? Magari di notte, quando dormi nel suo letto..»
«Piantala di fare l’idiota Damon!»
«Ric se fosse così, lo sarei sul serio un idiota! Sono stato io a lasciarla andare, per lasciare campo libero a Stefan!»
«L’hai fatto solo perché eri certo che non avrebbe avuto alcuna possibilità con lei.»
 
Sgrano gli occhi, indietreggio con la testa e perdo il respiro per un attimo.
Resto interdetto per un tempo indefinibile.
Poi mi alzo dalla poltrona, inizio a camminare avanti e indietro per la stanza, sudando freddo e agitando le braccia per immagazzinare aria, mi scompiglio i capelli, lo guardo, cammino di nuovo, gli do le spalle e mi arruffo ancora i capelli con una mano.
 
«L’ho fatto per Stefan.»
 
Cerco una giustificazione che al momento mi appare solo una scusa, davvero mi sono tirato indietro perché lui ci provasse, per non inibirlo, per non costringerlo ad un paragone con me, davvero ci credo che loro possano essere felici… davvero credevo che non avesse alcuna possibilità?
 
Cazzo, è esattamente così.
 
«L’hai fatto anche per Stefan.»
 
Si alza anche lui dal tavolino su cui era ancora seduto, mi si avvicina e poggia le sue mani sulle mie spalle, per obbligarmi a fermarmi e guardarlo, senza sfuggire.
 
«Damon, che ti sta succedendo?»
«Sta’ tranquillo Ric, come vedi me ne sono tirato fuori, come mi avevi suggerito tu.»
 
Cerco di svincolarmi dalla sua presa, ma lui è più forte e continua a tenermi bloccato.
 
«Mi spiace per le cose che ti ho detto, non avevo capito…»
«Cosa? Cosa non avevi capito Ric?»
«Quanto tenessi ad Elena.»
 
Solo a quel punto mi lascia andare, solo quando pronuncia il nome di Elena, che era rimasto ad aleggiare fino a quel momento tra di noi e che solo ora ha preso, prepotentemente e materialmente, corpo in questa stanza.
 
«E’ meglio così, hai ragione tu.»
«Damon smettila di lasciare andare le persone come se non ti importasse niente e piantala di pensare di non meritarle.»
 
Mi allontano di un passo da lui, continuo a rispondere al suo sguardo di sfida con il mio, indifferente e a tratti impertinente e ferito.
L’aver scoperto quanto, in fondo, questa ragazza dagli occhi cerbiatto riesca a riempirmi dentro e sia in grado di darmi emozioni così forti e contrastanti, mi confonde, mi rende vulnerabile, mi mette in una posizione in cui non voglio stare.
Per questo mi siedo di nuovo sulla mia poltrona, per trovare un sostegno sicuro e conosciuto, che in questo momento ho perso.
Mi lascio andare contro lo schienale e sospiro inerme.
Ric si avvicina alla credenza degli alcolici, tira fuori la nostra bottiglia di bourbon e due bicchieri. Poggia tutto sul tavolino di fronte a me, versa quel liquido ambrato fino a metà di ogni bicchiere, poi si risiede, sempre davanti a me, sul tavolino e allunga una mano per offrirmi da bere.
Io alzo un braccio con una fatica immane, afferro il bicchiere e ne bevo un sorso, continuando a fissare il vuoto davanti a me.
Solo dopo un lungo silenzio, mentre lui ha già finito il suo bourbon e se ne sta versando dell’altro, trovo la forza di guardarlo, con la fronte aggrottata e il mio solito sguardo di traverso, per chiedere soccorso a quello che ora è tornato ad essere il mio amico.
 
«Che dovrei fare allora?»
«Prenditi la ragazza.»
 
Me lo dice in un soffio, con un tono gentile e uno sguardo rassicurante, fermo, socchiudendo appena gli occhi e stirando leggermente le labbra in un lieve sorriso. Io raddrizzo di colpo la testa e ci metto un secondo per perdermi dentro quel volto, poi abbasso gli occhi a terra, storcendo le labbra in quello che voleva essere un sorriso, ma è più una smorfia rassegnata.
Lotto contro me stesso, non so se per lasciarmi andare o resistere.
Cedo alla seconda, inevitabilmente.
 
«E’ complicato e non avrei niente da offrirle.»
«Sei Damon Salvatore, complicato è il tuo mestiere. E molte delle persone che conosciamo, non sarebbero d’accordo con il niente da offrire
 
Scuoto la testa in un sospiro e mi lascio sfuggire un sorriso, stavolta reale e sincero. Mi alzo di nuovo e lui fa lo stesso, ci ritroviamo uno di fronte l’altro, io con le spalle al muro, lui a sventolare la bandiera della vittoria.
 
«C’è stata un po’ troppa compassione e redenzione per oggi, non trovi? Preferivo quando ti ignoravo!»
 
Ric mi da un pugno sul petto all’altezza della spalla e io indietreggio, portandomi la mano sul punto colpito ed esibendomi in un teatrale dolore.
Mi sorride e io di riflesso glielo restituisco quel sorriso complice e quell’occhiolino schioccato, che sa di verità sigillate e segreti condivisi.
Sono io il primo ad allontanarmi per farmi una doccia, mentre lui resta solo nel salone e si sdraia finalmente sul divano, accendendo la tv e aspettando il mio ritorno per una delle nostre, familiari e da tempo assenti, serate senza far niente.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
 
«Dai, ho bisogno di distrarmi questi ultimi giorni.. vieni con me.»
«Ma ci sono i tuoi amici, non so se sia il caso… siamo già a questo punto?»
«Perché dobbiamo per forza definire a che punto siamo.. io so che voglio stare con te stasera e con i miei amici e con Caroline, che non vedo da una settimana. Non voglio dover scegliere…»
 
Lo sto pregando, sto decisamente pregando Mattew al telefono di venire con me stasera, al locale in cui Enzo, o meglio Caroline, ci ha invitato.
Ho deciso di accettare alla fine, di cedere alla richiesta della mia amica di venire con lui, perché in fondo credo di aver bisogno di un’àncora di salvataggio e lui in questo momento riesce ad appagare i miei bisogni.
Lo sto pregando perché ho voglia di vederlo, ho voglia di distrarmi da questi otto giorni che mi separano dalla mia laurea, ho voglia di lasciarmi abbracciare da lui mentre guarderò Caroline riempirmi di sguardi furbi e allusivi a cui non potrò rispondere, ho voglia di guardare i suoi occhi neri e nascondermi nella loro oscurità per non perdermi in mare aperto, in quell’azzurro che mi toglie il fiato ogni volta e scava dentro, infilandosi in fessure che solamente l’acqua riesce ad inondare.
Ho bisogno di espormi senza perdermi, di restare al sicuro, dove l’acqua mi arriva alle caviglie e io sono ancora in grado di tornare a riva sana e salva e voltargli le spalle.
E per una volta, voglio non dover definire niente, sono io stavolta quella che non vuole sentirsi soffocare, che vuole andarci piano, che non ha bisogno di certezze per rassicurarsi, forse perché lui me le da senza che io le chieda e probabilmente, in una piccola parte, perché ho imparato la lezione.
Voglio vivermela così come viene, senza rimanere in nessun modo.
Quella ragazzina impaurita è affogata nell’istante esatto in cui ha dato corpo alle sue paure e si è vista precipitare in mare aperto, senza alcun appiglio.
 
«Va bene… passo a prenderti stasera alle dieci
«Perfetto.»
 
 
Un ultimo tocco di lucidalabbra, che presto tanto sparirà di nuovo, un’occhiata veloce allo specchio della mia camera e al tubino prugna, che continuo a tirare giù dall’orlo della gonna, illudendomi che possa così coprirmi porzioni di pelle maggiore, invece di fermarsi a metà coscia, giacca in mano, mia e in una busta quella di Damon, e via.
Mattew è davanti a me, sul mio viale, mi sta aspettando, io scendo i gradini che separano il portone dalla strada, stando attenta a non inciampare su questi sandali e questi tacchi, sui quali sto imparando sempre di più a sorreggermi, offrendo un’immagine di donna quasi fiera e disinvolta.
Appena mi vede, scende dalla macchina, fa il giro e mi si para davanti osservandomi stupito e visibilmente colpito.
 
«Sei bellissima… credo avrò dei seri problemi a staccarti gli occhi di dosso stasera…»
 
Io gli sorrido imbarazzata, lui mi cinge la vita con un braccio, mi attira a sé e mi bacia piano, rispettoso, mentre io sento scorrere dei piccoli brividi in prossimità della sua mano sulla mia schiena.
 
«Chi ha detto che dovrai farlo?»
 
Lo guardo maliziosa stavolta, gioco una partita di cui non conosco le regole, mi fingo donna quando nascosta c’è ancora l’ombra di una bambina, ma lui non la vede, mi sorride di rimando e mi apre lo sportello per lasciarmi salire in macchina.
E’ elegante anche lui, con la sua immancabile giacca stavolta grigia e la camicia bianca, aperta nei primi bottoni, mi tiene la mano mentre attraversiamo le strade silenziose del mio quartiere, che diventano più vive e trafficate appena imbocchiamo il lungo mare di Venice Beach.
Continua a parlarmi, a raccontarmi della sua giornata e io della mia, fino a farmi dimenticare dell’agitazione e dell’ansia che ho provato mentre mi preparavo per questa serata, della certezza di incontrare Damon e di volermi mostrarmi disinvolta, del dover presentare Mattew alla mia amica e a tutti gli altri.
Mi dimentico di tutto questo, fino a che non arriviamo al locale e lui spegne la macchina, dopo aver parcheggiato.
In quel momento esatto sento salire di nuovo l’agitazione e cerco istintivamente la mano di Mattew per sorreggermi, mentre entriamo.
 
Enzo ci accoglie con un sorriso splendente e fiero, è in giacca anche lui ma si intravede senza ombra di dubbio la sua t-shirt nera, che lo rende decisamente più sportivo e trasgressivo.
Io e Mattew ci avviciniamo a lui, io lo saluto complimentandomi e lasciandogli un bacio sulla guancia, mentre gli passo un braccio intorno le spalle.
Presento finalmente Mattew a lui e a Stefan e Caroline, che ci hanno raggiunti immediatamente appena ci hanno visti arrivare.
Mattew gli porge la mano, si congratula a sua volta con Enzo e rivolge un’occhiata dolce a quella che sa essere la mia migliore amica, che lei ricambia con un sorriso aperto ed entusiasta, riservando per me il suo sguardo fino e malizioso.
Io alzo gli occhi al cielo, dedicandole una smorfia divertita e tutti insieme raggiungiamo un angolo del locale, in cui, intorno ad un tavoli, sono già seduti alcuni amici di Enzo, presumibilmente colleghi suoi e di Stefan, Alaric e Meredith al suo fianco e Bonnie, che stasera mi sembra piuttosto interessata ad intrattenere scambi di sguardi guardinghi con uno dei camerieri.
 
«Propongo un brindisi!»
 
Enzo si alza, quando finalmente tutti abbiamo ricevuto la nostra ordinazione, slaccia l’ultimo bottone di quella giacca nera che indossa, porta in alto il bicchiere e socchiudendo leggermente gli occhi, con un mezzo sorriso furbo, guarda Stefan e i loro colleghi.
 
«Al vostro nuovo vice – capo! State in campana signori, i giochi sono appena iniziati!»
 
Simula un cin – cin immaginario con loro e con noi, porta il bicchiere alle labbra e beve quello che presumo essere un Mojito.
Confabula ancora qualcosa con Stefan e con i loro amici, poi si lascia scivolare sul divanetto accanto a lui, accavalla una gamba sull’altra e stende le braccia lungo lo schienale, fino a sfiorare la spalla di Caroline, che si volta contraendosi per il solletico.
 
«Scusa Blondie.»
 
Lei spalanca gli occhi e apre la bocca per farsi uscire qualche insulto ma l’occhiolino che lui le lancia e quel mezzo sorriso, la lasciano interdetta. Richiude le labbra e lo guarda di traverso, socchiudendo gli occhi, poi scrolla le spalle, sospira e torna a concentrarsi su di me e soprattutto su Mattew.
Lo guarda, lo studia, ne osserva i movimenti, analizza il modo in cui poggia la sua mano sulla mia gamba, su come io l’accarezzo piano, gentile. Gli fa domande, gli chiede del lavoro, di come ci siamo conosciuti, come se non lo sapesse già, ma so che vuole ascoltare anche la sua versione per vedere come la racconta e se entrambe combacino.
Avrebbe dovuto fare il detective, oltre alla psicologa.
Io continuo a guardarmi intorno e a stringere la mano di Mattew, in preda a quell’ansia che mi chiude lo stomaco e che non vorrei provare, eppure più mi costringo a non pensarci, più lei si impossessa di me.
Trascorre un quarto d’ora, poi ancora un altro, io mi convinco che forse per questa sera posso ritenermi al sicuro, che magari Damon abbia avuto un contrattempo e non sia potuto venire, mi concentro su Caroline e Mattew che ora stanno chiacchierando amichevolmente, fino a che vedo lo sguardo della mia amica oltrepassarmi le spalle, spegnersi e sgranarsi in un batter di ciglia.
E’ immobile e ha smesso di respirare.
Io chiudo consapevolmente gli occhi appena la voce di Damon mi arriva alle orecchie, mi volto appena preparandomi alla sua visione, lasciando leggermente andare, inconsapevole, invece, la mano di Mattew che ho stretto mentre giocava con le mie dita, sulla mia gamba scoperta.
Quando i miei occhi incontrano la sua figura, scura ma allegra, che da una pacca sulla spalla ad Enzo e gli sorride, capisco immediatamente il perché dello sguardo tramortito di Caroline.
C’è una donna, c’è una donna al suo fianco.
Una donna che sorride, bellissima nel suo abito blu a fiori, che le arriva alle ginocchia, nel suo blazer dello stesso colore, nei suoi tacchi altissimi. Una donna sicura nello sguardo, nella postura, nella mano che poggia sulla spalla di Damon, in un gesto naturale, familiare, come se l’avesse già fatto milioni di volte.
Una donna donna, che mi rende istintivamente bambina.
 
Stefan si alza per andarli a salutare, urtando la mia sedia ed interrompendo la mia caduta libera verso un vuoto che conosco già.
Alzo la testa, raddrizzo le spalle, indosso una, a questo punto finta, aria matura e sorridente e butto fuori l’aria che avevo trattenuto.
Anche Mattew si alza, prima di me, forse per raccogliere quello sguardo interrogativo che Damon gli ha lanciato mentre si avvicinava, gli porge la mano e si presenta da solo.
Io gli offro un mezzo sorriso, l’unico che mi viene fuori mentre i nostri sguardi si incontrano e non riesco a leggere nulla nel suo, se non indifferenza e compiaciuta tranquillità.
 
Andie.
 
E’ questo il nome della donna che ha accompagnato Damon stasera e che ora gli siede affianco con aria disinvolta e allegra.
Non capisco chi sia, in che rapporti siano, non posso credere sia venuto con qualcuna, non riesco a capacitarmi che lei gli stia accarezzando la schiena e lui la lasci fare, non riesco a capire come lui sia voluto uscire allo scoperto con una donna.
Mi sento umiliata, presa in giro per l’ennesima volta.
Non perché mi dovesse qualcosa, è stato lui a lasciarmi andare, ha tutto il diritto di rifarsi una vita, come me del resto ma non mi aspettavo questo, soprattutto perché il nostro problema è stato proprio uscire allo scoperto.
Ci provo a spostare lo sguardo, a non notare quei piccoli dettagli che ora non vorrei assolutamente vedere, a non fissarmi sul modo tranquillo e per niente imbarazzato o infastidito con cui lei poggia una mano sulla sua gamba, gli sorride, gli parla accanto l’orecchio, sfiorandogli appena il lobo con le labbra.
Stanno insieme, mi sembra evidente, come mi sembra evidente a questo punto che il problema della nostra non – relazione non fosse lui, ma io.
Ero io che non andavo bene, era me che non voleva, era una relazione con la sottoscritta che non gli interessava, mi ha rifilato la stronzata del voler stare da solo, dell’essere incapace di avere relazioni, del non voler avere storie, mi ha pure fatto pena, lui e quello sguardo da ragazzino fragile e bisognoso d’amore, quando invece eccolo qui, davanti a me, con una donna che di certo non sono io.
Ci sono cascata con tutte le scarpe, cretina, cretina che non sono altro.
Ed incazzata, sì sono oggettivamente incazzata ma cerco di non far pesare questo su Mattew e neanche su Caroline che mi lancia sguardi preoccupati, sconcertata e confusa quanto me, quando invece io provo a rassicurarla, a dirle che va tutto bene, che sì sono sorpresa, ma sto bene, voglio stare con Mattew, voglio andare avanti.
 
«Allora Blondie, non mi fai compagnia per un altro giro di bevute?»
 
Enzo ci distrae, si riappropria dello sguardo risentito di Caroline e scioglie in parte la mia tensione.
 
«Non ci penso proprio, dovrei essere astemia!»
«Oh bè, non è quello che si racconta!»
 
La mia amica diventa paonazza, gonfia le guance e gli lancia un’occhiataccia infastidita e di rimprovero.
E’ tutta la sera che la stuzzica e le lancia sguardi che a me, come a lei, non sono assolutamente sfuggiti.
 
«Dovresti vederla quando inizia a ballare sui tavoli!»
 
Damon si intromette spalleggiando quello che ormai è diventato un suo amico, divertito anche lui dalle provocazioni che Enzo le sta lanciando.
Caroline spalanca la bocca e rifila uno schiaffo sulla spalla di Damon, alzandosi infastidita.
 
«Voi due insieme mi fate paura!»
 
Damon sorride furbo e poi si lascia andare sul divanetto, passando distrattamente un braccio intorno ad Andie, che lo guarda divertita.
Io ho un sussulto al cuore e cerco istintivamente la mano di Mattew, che me la stringe, continuando a parlare con Stefan della mostra a cui abbiamo assistito insieme e di quelle di cui lui sta curando l’allestimento.
Stefan è assolutamente rapito da Mattew e questo mi da’ la possibilità di poter essere a tratti assente, senza creare dubbi o sospetti.
 
«E dai non te la prendere, non ti dona questo broncio.»
 
Caroline arriccia le labbra e sfida Enzo con lo sguardo, che invece la guarda in modo sottile, provocante e lei si volta dandogli le spalle, ma io lo vedo quell’angolo della sua bocca che si alza leggermente e quel bagliore negli occhi che non vedevo da tanto, troppo, tempo.
Sceglie però di ignorarlo e di sedersi accanto ad Andie, per iniziare una conoscenza, vagamente interessata e per niente casuale.
Non riesco ad ascoltare cosa le chieda, né cosa lei le risponda, a causa della musica alta, ma riesco a sentire indiscriminatamente Damon che ora si rivolge a Stefan, scegliendo con cura le parole.
 
«Sembra che tu abbia trovato un nuovo migliore amico!»
 
Stefan si volta verso di lui, alzando le sopracciglia, imbarazzato per il suo tono diretto, in cui sento quel velo di strafottenza che mi fa ribollire il sangue.
 
«Stefan ha sempre avuto un certo buon gusto con le persone!»
«Tranne con te.»
 
Lo provoco anch’io, non capendo se fa sul serio oppure no e restando su una superficie fintamente ilare ed ironica, ma lanciandogli uno sguardo che di leggero, non ha proprio un bel niente.
Lui alza gli occhi al cielo, mima una resa con i palmi delle mani aperti davanti il petto e inclinando leggermente la testa.
 
«Mason, vero?»
«Mattew.»
 
Lui gli tiene testa tranquillamente, senza lasciarsi scalfire, rispondendo in modo gentile, educato, adulto, probabilmente non cogliendo neanche tutta la conversazione, fatta di sguardi e battute sottili, che sta avvenendo sotto quella resa esplicita dalle parole.
 
«Giusto, Mattew. Scusa se il mio amico ti sta monopolizzando, sicuramente è molto più piacevole farsi monopolizzare da Elena, che da lui.»
«Non è un problema, ho tutto il tempo che vuole per lei.»
 
Nel dirlo si volta verso di me, che sono rimasta interdetta e mi bacia piano sulle labbra, rubandomi quel sorriso che non mi aspettavo di riuscire a tirare fuori. Io porto automaticamente una mano sulla bocca, non so se per imbarazzo o per coprire quel gesto intimo e familiare che non volevo mostrare.
Damon continua a provocarlo, per tutta la serata, in modo sottile, infastidendomi in modo eccessivo.
Non capisco il suo comportamento, non mi piace, non voglio che Mattew venga esposto in questo modo, né messo in mezzo ad una situazione che doveva essere chiusa da un pezzo.
Approfitto della confusione di questo posto, di Caroline che ha trascinato Bonnie e Meredith a ballare, seguita da Enzo e un suo collega, di Stefan che chiacchiera distrattamente con Alaric, stranamente silenzioso stasera, di Andie che è in bagno e di  Mattew che è uscito per rispondere al telefono, per alzarmi, andare verso Damon e dare un taglio a questa storia.
 
«Ti ho riportato la giacca.»
 
Gli dico con un tono fermo, irritato, parandomi davanti a lui.
Damon mi guarda dal basso verso l’alto, seduto sul suo divanetto, con una gamba accavallata e un braccio steso sullo schienale.
 
«Avevi paura che restassi nudo? Potevi tenertela, non credo di essere tanto male solo con una t-shirt.»
«Non voglio niente di tuo.»
 
Sono calma, non voglio fare il suo gioco, non voglio lasciarmi coinvolgere, eppure so che lo coglie il senso delle mie parole, il significato vero, perché lo vedo il modo in cui socchiude gli occhi colpito, come inclina leggermente la testa e la tira indietro, impercettibilmente.
 
«Mi piace quel Mattew. Ci sa fare e ti sta spogliando con gli occhi da tutta la sera.»
«Perché ho l’impressione che tu lo stia sfidando e ti senta in dovere di approvarlo, quando non dovresti avere nessuna voce in capitolo?»
 
Incrino la voce ma non riesco a fare altrimenti, mi ferisce questo suo tono distante e provocatorio, questo suo giocare sui miei sentimenti, come se per lui fosse normale discutere di queste cose, se non gli provocasse nulla, se fosse davvero felice di aver testato il mio accompagnatore e aver dato la sua benedizione.
 
«Come sei acida stasera, rilassati Elena. Forse dovresti concederti di più, fidati può essere un vero toccasana.»
 
Sbatto le palpebre più e più volte per mettere a fuoco lui e le sue parole di cui non mi capacito, faccio un passo indietro e lui si rende conto, probabilmente, di aver esagerato, di aver toccato un punto debole e ancora scoperto tra di noi, di avermi rinfacciato il non essermi concessa a lui, si alza e prova ad allungare una mano sul mio polso, che gli nego e mi avvicino al petto.
Alzo invece lo sguardo, lo poso nel suo mare azzurro, alla ricerca di quel po’ di lui che mi ha donato più di quanto avesse voluto e che so di poter ancora trovare.
Gli offro un’àncora che non sapevo di possedere, né di voler gettare.
 
«Perché fai così.. che ti prende?»
«Scusa Elena, un problema di lavoro
 
Mattew è alle mie spalle, è rientrato dalla sua telefonata e non può vederlo il mio sguardo che ora si ritrae, tornando ad essere basso ed umiliato.
Damon cerca di rimediare, continuando però ad infliggermi bastonate su bastonate.
 
«Non dovresti lasciarla sola, c’è un sacco di gente malintenzionata.»
«Me lo ricorderò, grazie del consiglio amico.»
«Noi non siamo amici.»
 
Damon ci volta le spalle, dirigendosi fuori dal locale, io resto immobile, disarmata dal suo comportamento e in imbarazzo verso Mattew, non so cosa dire, non so come muovermi.
Lui se ne accorge perché mi passa un braccio intorno alla vita e mi chiede dolcemente se sto bene, io riesco solo a fare cenno di sì con la testa, alzandola e abbassandola una sola volta, poi sento la sua mano scivolare via e lo vedo essere trascinato via da Caroline per ballare, mentre fa cenno anche a me di seguirli.
Non ci riesco, non riesco a raggiungerli, ho solamente rabbia ora dentro, che ho bisogno di far esplodere in faccia al responsabile di tutto questo.
Volto le spalle ai miei amici, a Mattew, che suo malgrado e per causa mia, si è ritrovato in mezzo ad una mareggiata, che sta producendo più feriti del previsto e mi avvio verso l’uscita, da dove ho visto andare via Damon.
Lo raggiungo fuori, stanca e furiosa per il modo in cui ha trattato Mattew, di nuovo, per come mi ha umiliata e si è preso gioco di me, presentandosi con Andie, per le sue parole, per il modo pretenzioso ed arrogante che ha assunto, per le sue verità buttate addosso senza cura.
Continuo a rincorrerlo per riuscire a respirare aria che mi sta togliendo deliberatamente.
 
«Si può sapere che diavolo di problemi hai?!»
 
 














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Ormai è una certezza il mio pubblicare ad orari sempre più improbabili, ma sono gli unici momenti in cui riesco paradossalmente ad avere tempo!

Lo so, non odiatemi, ma ho dovuto per forza di cose spezzare il capitolo, perché era davvero troppo, troppo, troppo lungo!! Quindi lascio al prossimo il confronto (omicida?) tra Damon ed Elena.. e vi dico solo alcune cose su questo..
Elena è pronta a voltare pagina, l'ha fatto, non sa dove la porterà tutto questo e per la prima volta non vuole definire nulla, un po' per paura, un po' perché non ne sente il bisogno, ha voglia di viversela e basta.
Damon ha preso consapevolezza, grazia ad Alaric, di alcuni suoi sentimenti, finalmente! Ci ha provato a far finta di niente, a concedersi una 'piacevole distrazione' ma non funziona come avrebbe dovuto.. E sì, porta Andie alla festa per la promozione di Enzo, ma ovviamente non sta con lei, come invece Elena pensa. Perché lo fa? Bè il fatto che Enzo abbia chiesto a Caroline, davanti a lui, di invitare anche Elena e di dirle di portare chi vuole, dovrebbe darvi una piccola risposta..

Per il momento vi saluto.. e vi aspetto alla prossima!

Un bacio grande a tutte voi!
E grazie per il sostegno e le parole meravigliose che mi avete riservato, non solo qui, in questa settimana!

Ale






 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10° ***


 
Sì vai via,
senza di me, tu vai via.
Non puoi aspettare tanto tempo inutile.
 
Sì che vai via, ma che freddo fa se tu vai via.
Non vuoi aspettare neanche il tempo utile,
perché da me lo so, si va soltanto via..
 
Via le mani dagli occhi, che senso ha se poi ti tocchi i pensieri,
ancora lontani, lontani, lontani, lontani..
 
Strana magia, in un istante tu vai via,
non vuoi leccarmi tutte le ferite,
è così, che tu vai via,
ma da quando in qua, no, non sei più mia?
Tu sola che hai leccato tutte le ferite.
Lo sai da me tu non puoi proprio andare via…
 
Via le mani dagli occhi, che senso ha se poi ti tocchi i pensieri, ancora lontani e vai via,
via le mani, via gli occhi, che senso ha se poi mi blocchi le mani
e rimandi a domani, domani, domani, domani…
 
(Via le mani dagli occhi _ Negramaro)
 
 
 
 

 

 

Damon

 
 Bellissima.
 
Penso solamente questo quando, sorpreso, me la ritrovo davanti, con respiro corto, gli occhi furiosi spalancati dentro i miei, la fronte arricciata, le guance rosse, di un rosso che con l’imbarazzo non c’entra un bel niente, le labbra contratte, i capelli sciolti e scompigliati dal vento che non le da pace, le braccia strette sotto al petto, quel tubino prugna che le stringe il corpo e che vorrei strapparle di dosso in questo preciso istante.
 
Disarmato.
 
Questo sono io davanti a lei, questo è l’effetto che mi provoca il solo vederla mentre sono qui, poggiato sul muro di questo locale, a fissare questo cielo troppo stellato per questa notte così buia, lontano dal resto della gente che continua ad entrare ed uscire da questo posto. Mi basta un attimo, un attimo in cui incrocio i suoi occhi rabbiosi ma vivi, per perdere completamente la lucidità e l’autocontrollo.
Devo voltare la testa, distogliere lo sguardo per toglierlo da addosso a lei, da sopra le sue labbra arricciate, che vorrei disperatamente coprire, abbassarlo, in un punto impreciso del terreno, mentre sento i suoi passi avvicinarsi, netti, decisi.
 
«Che diavolo di problemi hai?»
 
Me lo ripete, stavolta scandendo bene le parole, come se avessi potuto non sentirlo la prima volta che me l’ha urlato, come fosse un problema di volume o di comprensione.
La sua voce mi trafigge il petto e arriva dritta, precisa, allo stomaco, dove fa un buco e fuoriesce materializzandosi davanti a me.
Non mi muovo e sono anche così codardo da non riuscire a guardare quella rabbia che merito, a raccogliere ancora la sua frustrazione e lasciarmela scivolare addosso.
Stavolta sono io quello all’angolo, quello che non ha vie di fughe, quello con il coltello puntato sul cuore, che non sa come difendersi, che è in balia di lei.
Lei che fa un altro passo avanti, sicura, io che ne faccio d’istinto uno indietro, colpevole.
Scivolo su questo muro per pararmi le spalle, per avere un riparo e non essere attaccato da tutti i lati possibili.
So già di avere torto, di non poter recuperare niente, di essermi comportato da vero stronzo, so di dover chiedere scusa e basta, con tanto di occhi bassi e coda tra le gambe.
Ma la rabbia che provo anch’io è intensa, forse, quanto la sua. E non lo so perché, ma vorrei urlargliela contro, ferirla come ferito mi sento io.
Da lei, da me, dalle mie scelte, dalle sue, da noi.
Da quel noi che non c’è mai stato e che adesso invece vedo, ma lo vedo frantumarsi sotto i nostri piedi, essere calpestato dai suoi tacchi che fanno un altro passo mentre io indietreggio ancora.
E più lei si avvicina, più vorrei mandarla via.
Tanto via c’è già andata, tanto mi ha già dimenticato, tanto avanti c’è già andata, senza di me.
Ha fatto una scelta, mi ha sostituito come si sostituiscono gli asciugamani sporchi, con noncuranza, gettandoli nella biancheria insieme a tutto lo sporco.
Se ne è andata e allora cosa ci fa ancora qui?
Che altro vuole da me?
Me lo chiedo mentre provo a nascondere dietro la mia indifferenza, la sorpresa di trovarmela qui, dove non ho diritto che sia, mentre non ho più scampo, mentre sono all’angolo di questo muro e dietro di me ho solo la recensione del giardino del locale.
Lei si blocca e mi fermo anche io. Non la vedo ma la sento puntare i piedi a terra e incrociare ancora di più le braccia, respirando a fatica, in un’attesa furibonda.
Non ho niente da dirle, non ho nulla da ascoltare.
 
«Sto aspettando
«Torna dentro Elena.»
 
Glielo dico senza riuscire ancora a guardarla, facendo vagare lo sguardo oltre le sue spalle, ma lei non si muove da lì.
Dio, quanto è cocciuta.
 
«Guardami
 
Me lo ordina, categorica, perché sa che non potrei mentirle occhi negli occhi, sa che sarebbe in vantaggio.
Fa un altro passo e stavolta sento il suo odore che si avvicina, per questo mi schiaccio sulla recensione, torno a mettere la stessa distanza di sicurezza che mi sta togliendo, mi riprendo il mio vantaggio, la mia aria.
 
«Scusa, ma preferisco guardare le stelle, non sia mai che una di queste si decidesse a cadere proprio su di me, per togliermi di mezzo..»
«Guardami
«Va’ via.»
«Dio, Damon. Guardami
 
Urla, stavolta grida, stanca, infuriata e mi afferra il colletto della maglia tirandolo con forza verso di sé, per costringermi finalmente ad alzare lo sguardo su di lei.
Trattengo il respiro quando me la trovo davanti, di nuovo, di nuovo con quei grandi occhi da cerbiatta che non lasciano scampo, che ti costringono ad abbassare il fucile che le avevi puntato addosso.
Lo vedo luccicare il suo sguardo, aprirsi ancora di più dentro di me, arrivarmi nello stomaco e posarsi lì, con un tonfo sordo ed opprimente.
Se ha deciso di attaccarmi, deve saperlo che mi difenderò con le unghie e con i denti, non sono disposto a cedere contro di lei.
 
«Credo ci sia qualcuno, dentro questo locale, che ti guarderebbe molto più da vicino, quindi perché non torni da lui, Elena? »
 
La sua mano arriva precisa, forte, decisa contro la mia guancia sinistra, il suo schiaffo mi fa voltare la testa, mi brucia sulla pelle e dentro gli occhi, che sono costretti a socchiudersi.
Alzo istintivamente una mano sul dolore inaspettato che le sue dita hanno lasciato su di me, resto senza fiato, incapace di reagire o di parlare.
La guardo per un tempo interminabile, inebetito, incredulo, massaggiandomi la guancia.
E’ la prima volta che una donna mi da’ uno schiaffo ed è la prima volta che me lo merito tutto.
Le punto contro il mio sguardo che, nel momento in cui però realizzo cosa sia realmente accaduto, diventa furente, mentre lei, ancora con il braccio alzato a metà, lo sostiene con la stessa forza e audacia.
 
«Non provarci mai più.»
 
Le intimo, abbassando la mano dalla guancia, ma le mie parole sono già una resa, quando lei sbatte le ciglia e abbassa gli occhi sulla sua mano ancora rossa che le scivola giù e si chiude in un pungo, che lei porta sulle sue labbra, sbalordita quanto me.
 
«Mi… mi dispiace..»
 
Me lo mormora in un soffio, tremando, con le parole che le muoiono tra le mani ed è talmente vicina a me ora che riesco a sentirla anche respirare.
 
«Ehi..»
 
Stavolta sono io a fare un passo avanti, per trattenerla, per prenderla e non lasciarla affogare nello spazio di mare tra di noi ma lei ne fa uno indietro, non vuole che la tocchi, lo capisco da come alza le mani davanti a sé, per distanziarmi, per tenermi al mio posto, per non contaminare la sua aria.
Poi le abbassa, piano, lungo i fianchi, io le seguo fino alla fine, fino a che non si decide finalmente ad alzare ancora i suoi occhi su di me.
Mi guarda ferita, si morde il labbro, contrae le spalle, chiudendosi di nuovo in se stessa, abbracciandosi i gomiti e resiste, sta lottando contro se stessa e io vorrei solo sciogliere il suo nodo e stringerla a me ma lei non mi da tempo, non mi aspetta più.
Pretende la parte nascosta di me che ha imparato a riconoscere.
 
«Tu non sei così…»
 
Ha lasciato andare la sua rabbia, i suoi occhi sono più limpidi adesso e mi sembra di sentirla la sua voce che mi accarezza il cuore, che cura le mie ferite, quella voce che mi riscalda e mi fa tremare dentro.
Eppure, forse per questo, io torno a mettere distanza, faccio un passo indietro per non bruciarmi, per sentire quel freddo che ora mi ha lasciato addosso ma in cui sono comodo, in cui trovo conforto e sicurezza.
 
«Hai un’aspettativa troppo grande su di me.»
«No, io non mi aspetto niente, da te.»
«Che ci fai con lui?»
 
Gliele getto in faccia quelle carte, sprezzante, ferito e sulla difensiva.
Lei sbarra gli occhi sorpresa, ci mette un attimo per capire a chi mi riferisca, perché poi scuote la testa più e più volte e sorride amara, facendo un passo indietro e voltandosi di tre quarti.
 
«E tu che ci fai con lei?»
 
Rilancia e carica la posta in gioco.
 
«Divertimento, sesso, piacere.»
«Che vorresti dimostrare?»
«E tu che vuoi dimostrare?»
 
Non ha senso e non ho nessun diritto, lo so, come non ne ha lei e lo sa benissimo.
Lo ammetto, ho portato Andie stasera per ripicca, perché sapevo che lei sarebbe venuta con quel bell’imbusto, che gli avrebbe fatto gli occhi dolci per tutta la sera e avrei dovuto assistere alle loro effusioni, come oltretutto è stato e volevo farle male, volevo mostrarle cosa si era persa e io avevo bisogno di un sostegno, di una via di fuga.
Non volevo stare a guardare, dopo tutto quello che Ric mi ha costretto ad ammettere e non erano di certo questi i miei piani ma sapevo che non avrei avuto alcuna possibilità di riprendermi Elena, sapevo che sarebbe stata meglio senza di me, l’ho lasciata andare anche per questo e ne sono ancora convinto, per questo non ho il diritto di farle questa domanda.
Dovrei essere felice per lei e basta, senza condizioni, ma lei mi rende le cose difficili, lei e i suoi occhi mi fanno impazzire, mi fanno sragionare, me la fanno sentire più mia adesso che quando lo era davvero.
 
«Tu mi hai lasciata andare..»
«Io ti ho lasciato andare per stare con Stefan! Non con elegant man!»
 
Spalanca la bocca, gli occhi, lascia andare le braccia che cadono con un tonfo lungo i suoi fianchi, indietreggia, mi volta ancora le spalle, incredula, passandosi una mano tra i capelli che il vento continua a spettinarle, allibita, come me, dalle parole che mi sono uscite di bocca.
 
«Tu sei fuori di testa…»
«Elena...»
 
Vieni qui, resta qui…
Resta con me che sono così codardo da non riuscire a chiedertelo, ti prego non andartene anche tu, lo so che da me si va soltanto via ma tu resta qui, resta a fare ordine nei miei pensieri, nella mia confusione, aiutami a non farti male, aiutami ad allontanarmi da te.
Provo a prenderla, ad afferrarla, a sfiorarle il braccio per farla voltare, per bloccare i suoi passi ma lei si scansa con uno scatto nervoso.
 
«Lasciami…»
«Dio, fermati! Io… non ci sto capendo più niente!»
 
Glielo grido allargando le braccia, spalancando le mani, aprendo le spalle per farle vedere quanto sia disarmato, quanto non abbia difese o armi nascoste.
Cerco aiuto, chiedo aiuto a lei, che è la mia àncora e il mio limite più grande. Le affido la mia fragilità, i miei dubbi, le mie insicurezze.
Le offro la mia vulnerabilità.
E lei la calpesta, con un passo avanti, sfidandomi con lo sguardo e colpendo il mio petto con le sue mani aperte, per farmi indietreggiare, cosa che faccio per non perdere un equilibrio che già non ho più.
 
«Ok, ti rendo le cose più chiare, allora. Tu non volevi una storia, tu mi ha rifilato questa stronzata e poi ti sei presentato con Andie, tu mi hai mandato via perché eri convinto di potermi controllare, tu sei così orgoglioso e codardo che hai continuato a tenermi a distanza perché non ce la fai ad affrontare il vero problema!»
 
Mi colpisce ogni volta che pronuncia quel tu, forte e chiaro, con una rabbia che le esce anche dai respiri.
Io indietreggio fino a non avere di nuovo più vie di fuga e sono costretto a bloccarle i polsi e a stringerli quel poco che mi permette di contrastare la sua forza.
Cerco una calma che mi sta togliendo.
Le abbasso le braccia, la sfido con lo sguardo, fino a distenderlo completamente dentro di lei e quando sento i suoi muscoli sciogliersi e distendersi, sicuro che non possa tornare all’attacco, mollo lentamente la presa.
 
«Adesso, basta.»
«Perché non la pianti di nasconderti e non mi dici la verità.»
«Non c’è nessuna verità Elena, ci siamo detti tutto, mi pare.»
«No, io ti ho detto tutto.»
«Non ho altro da aggiungere.»
 
E’ stanca, sopraffatta dalla mia resistenza, ha la voce rotta, eppure non accenna ad arrendersi.
Ci prendiamo un minuto di silenzio per darci spazio, per rallentare i nostri spiriti, per trovare una via d’uscita.
Mi poggio alla recinzione, provato, sfinito, porto le mani in tasca e torno a far vagare lo sguardo, stavolta a terra, fino a che la sua voce non mi riporta ancora su di lei, la sua tenacia mi sta snervando.
Non ho più le forze per contrastarla, per difendermi da lei, non posso fare altro che cedere, farla sparare e sperare di non morire sotto i suoi colpi.
 
«Perché ti comporti così?»
«Perché avevi ragione Elena, sono uno stronzo, volevo solo portarti al letto e non l’ho fatto per il rispetto che ti dovevo, che devo a Caroline, ti avrei fatto del male come te ne sto facendo adesso e non ti avrei dato niente di ciò che meriti.»
«Ma sei arrabbiato con me.»
«Certo che sono arrabbiato con te!»
«Perché? Dimmelo Damon! Dimmi quale diavolo è il problema!»
«Sei tu! Sei tu il mio problema Elena! Stare con te mi fa impazzire e non stare con te mi fa impazzire!»
 
E glielo urlo addosso, sovrastando la sua voce, allargando le braccia, perché non ne posso più di questo dito puntato contro, di questa colpa che sembra essere solo la mia, non ne posso più di difendermi e di nascondermi, non ne posso più di mentire.
Non ne posso più di impazzire da solo.
E lei è lì basita, con gli occhi spalancati dentro i miei, increduli e terrorizzati, non parla più, non grida più, io la fisso immobile, con le labbra tirate in dentro a rimangiarmi questa confessione, uscita allo scoperto in un buio che però fa luce ai pensieri.
Restiamo in un silenzio senza fiato, ci allontaniamo di un passo, con lo sguardo l’uno dentro l’altro, a cercare reazioni che stentano ad arrivare.
La vedo perdersi nei miei occhi, socchiudere le labbra e cercare risposte che non le concedo.
 
«Ok… adesso sono davvero confusa…»
 
So che fare un passo significa non tornare più indietro, significa togliere la benda che mi copre gli occhi, deporre le armi, posare le carte e chiudere la partita. So quanto sia giusto lasciarla andare, lasciarle respirare quell’aria che si è presa, darle quella libertà di cui ha bisogno per crescere, toglierle le sicurezze su cui sta di nuovo poggiando i piedi.
So di essere un egoista ma per quanto so che io non faccia bene a lei, so che lei fa bene a me e non ce la faccio più, non ce la faccio più a stringere questa mano in un pugno chiuso, a conficcarmi le unghie nel palmo pur di controllarmi.
E’ l’attimo in cui sciolgo le dita, in cui le lascio andare che si annebbia tutto intorno a me e l’unica verità è lei, qui davanti a me, immobile ed incredula e io che, liberato finalmente dalle mie catene, mi scaglio su di lei per afferrarle il viso tra le mani e chiuderle la bocca con la mia.
Le mangio l’aria, la bacio rubandole una cura che mi prendo senza chiederle il permesso, cercando un sapore che mi era mancato fino a farmi impazzire, la tengo stretta per paura che possa allontanarmi, che possa andare via, ancora.
Le lascio sulle labbra l’urgenza che non riesco più a negare, le parole che non riesco più a trovare.
Stringo il suo volto e premo le mie labbra sulle sue, fino a non avere più fiato, fino a doverlo riprendere insieme a lei.
Allontano la mia bocca dalla sua, piano, continuando a stringerle il viso tra le mie mani, la osservo per un attimo, le labbra socchiuse, con gli occhi chiusi, confusa, impreparata, in cerca di ossigeno e di parole che non hanno più senso.
Ci respiriamo addosso e lei cerca i miei occhi, incerta, cerca un senso che non so spiegarle e un permesso che non riuscirei a negarle neanche se volessi.
E io non posso far altro che lasciarla entrare, a mani basse, con un tormento che mi segna il volto, a cuore aperto, senza limiti, senza ripari.
Allora cede.
Mi asseconda.
Si lascia guidare.
Porta le sue mani sul mio viso, mi tiene saldo, abbandona i miei occhi per posare lo sguardo sulle mie labbra, respira, cerca di nuovo me, vuole essere certa che io sia lì, con lei, come lei è qui, con me e finalmente alza piano il mento, per coprire la distanza tra di noi, tra le nostre labbra che tornano a cercarsi, a lasciarsi parole che non riusciamo più a dire.
Mi tira contro di sé, stringe il colletto della mia maglia e mi attira con una foga e un’intensità che mi spiazzano, che mi fanno esplodere un cuore che non voglio avere, che non voglio sentire.
E mentre le nostre mani scorrono dappertutto su di noi, scopro un bisogno che non conoscevo, una voglia di lei che non sapevo di avere, mi lascio avvicinare concedendole di bruciarmi la pelle, di prendersi un pezzo di me che non ho mai dato a nessuna, che nessuna ha mai desiderato con così tanta forza e rabbia.
Mi lascio sfuggire il suo nome sulle sue labbra, sul suo collo, sull’orlo della scollatura del vestito di cui vorrei sbarazzarmi immediatamente, la chiamo per essere sicuro che sia qui con me, che io non stia sognando.
Cerco ancora le sue labbra, le porto via i passi avanti con cui mi aveva messo all’angolo, la costringo ad indietreggiare fino al muro, la spingo contro di esso, una mano contro questo e un braccio attorno ai suoi fianchi per attirarla ancora di più verso di me, fino a sentirla addosso, fino a sentirle il cuore esplodere dentro.
Il desiderio che ho di lei preme sulla sua gamba e le mie mani si muovono da sole sotto l’orlo della sua gonna, risalgono fino al limite del suo intimo e scivolano dietro, sui suoi glutei, stringendoli in una morsa.
Sento la mia maglia alzarsi e riabbassarsi per nascondere le sue di mani che continuano a tirarmi e trattenermi, ad accarezzarmi la schiena, le spalle, il petto, scendere nei pantaloni ed insinuarsi oltre un limite che lei invece ha scelto di oltrepassare.
Mi sento esplodere mentre la sento muoversi lenta ed esperta e devo costringermi ad aprire gli occhi per ricordarmi dove sono e ricordarlo anche a lei, persa contro il muro, ad occhi chiusi, nascosta nell’incavo della mia spalla, che mi bacia, mi morde le labbra, che preme una mano sulla mia guancia ancora rossa, mi accarezza, cura il dolore della sua rabbia e si lascia toccare senza timori, senza resistenze.
Respiro e nell’istante in cui allento leggermente la presa su di lei, sul suo seno che, seppur coperto dalla barriera del vestito, riesco a sentire lo stesso morbido, pieno sotto la mia mano e scivolo giù, sul suo fianco, lei apre gli occhi, liquidi e spaventati.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
«Damon…»
 
Ansimo, ho la voce rotta e ancora invasa da quel piacere che le sue mani e la sua bocca mi stanno dando. Devo obbligarmi a respirare, socchiudo le labbra per fare entrare più aria, come se bastasse a spegnere il fuoco che si è acceso dentro di me e sta divampando, incendiando ogni possibile barriera.
Perché ce l’avevo, l’avevo costruita con chiodi e martello per difendermi da lui, dalle sue inondazioni, l’avevo alzata fin troppo bene quando ho deciso di corrergli dietro, di rincorrerlo, per metterlo all’angolo, per riversargli addosso la mia rabbia, per vederlo farsi piccolo.
Mi ci sono coperta dietro quando ho sentito il suo disprezzo spezzarmi le gambe e togliermi le parole dalle mani, per sbatterle sulla sua guancia.
Ma lui le ha abbattute pezzo per pezzo, palizzata dopo palizzata. 
Con il suo sguardo, i suoi silenzi, le sue verità buttate addosso come fossi l’unica cosa che potesse salvarlo e l’unica cosa che potesse limitarlo. Come fosse colpa mia e basta.
Come se il suo problema.. fosse solo il suo.
E mi ha spiazzato, mi ha dato fuoco spargendo benzina sul mio steccato, mi ha fatto entrare ed ha acceso la scintilla. Mi ha portato in un mondo in cui non esiste nient’altro, in cui ci bastiamo a vicenda, in cui ci diamo aria per vivere e non abbiamo bisogno di nulla, se non di noi stessi.
Ci siamo mischiati i pensieri, ce li siamo lasciati sulle labbra, sulle mani, con la rabbia di chi sa di non potergli dare voce.
Ho ceduto a lui, alla sua sincerità urlata senza più riuscire a contenerla.
Mi sono arresa a me, al mio cuore, che era tutto lì, sulle mie labbra, mi sono piegata a tutto quello che avevo creduto di poter cancellare, al suo odore, che avevo nascosto in fondo ad un armadio e che invece è ancora tutto qui, tra di noi.
Ho preso tutto ciò che lui ha voluto darmi, dall’inizio, indiscriminatamente.
Solo che adesso, non basta più, non dopo i suoi occhi che mi hanno chiesto di restare.
Non ce la faccio a staccarmi da lui, ad allontanarlo, a distogliere lo sguardo da quel mare in cui siamo affogati insieme ma è lui a darmi di nuovo la spinta per farlo.
Scivola via le mani dal mio viso che era tornato ad accarezzare, per calmarmi, per trattenermi ancora, le fa scendere lento, fino alle punte dei miei capelli e poi mi lascia andare.
 
«Scusa, io… non so cosa…»
«Io sto con Mattew.»
 
Lo dico a bassa voce, tornando alla lucidità che avevo perso, alle ragioni per cui gli sono corsa dietro, sfruttando di nuovo il suo rifiuto, le sue incertezze.
Allontano le mani da lui, mi schiaccio ancora di più contro il muro abbracciandomi i gomiti e metto distanza con un solo respiro.
Lui fa un passo indietro, confuso e disorientato da tutto quello che è successo e dalle confessioni che gli sono costate maschere che ha dovuto togliere.
Ci prova a riprendermi, anche se non si muove.
 
«Elena…»
«No, ora sono io che non voglio sentire niente Damon.. perché non è giusto, non è giusto per me. Tu non puoi, non puoi entrare e prenderti tutto, tu non puoi.. baciarmi così e poi domani sparire di nuovo, io non posso.. non posso lasciarti questo potere..»
 
Abbassa lo sguardo, si morde le labbra, serra la mascella e stringe i pugni, sa che si merita la mia rabbia, il mio dolore, mi fa male riversarglieli contro, mi trafigge il cuore, ma non posso non farlo.
Non posso restare, non così.
Scivolo via, di lato, nello spazio tra il muro e il suo corpo, lo guardo per l’ultima volta, in uno sguardo di una rabbia disperata.
E’ a pezzi, lo vedo, lo sento da come respira, stanco, rassegnato ma riesce lo stesso a ricambiare il mio sguardo e concedermi il suo mezzo sorriso, che di sorriso non ha niente, è più una consapevole rassegnazione.
Sa che deve scegliere, sa che non intendo rendergli le cose facili, sa che le cose a metà non fanno per me, non ci so stare, mi fanno male e non le riesco a gestire.
Mi allontano con una fatica smisurata, che mi fa tremare le gambe e che rende i miei passi sempre più pesanti, gli volto le spalle prima di pentirmi di tutto, prima di mandare all’aria il rispetto che ho scelto di meritarmi, prima di chiedere alla mente di tacere per dar retta al cuore.
 
 
Lo cerco con lo sguardo, tra la folle di persone che ormai ha riempito questo locale, lo vedo in piedi, di spalle, con lo sguardo rivolto verso il gruppo musicale che ora sta suonando musica rock.
E’ accanto a Stefan e a quelle poltroncine dove ero seduta anch’io fino a..
Quanto? Dieci, venti, cinquanta minuti fa?
Non ho idea di quanto tempo sia trascorso, ne ho perso completamente la cognizione e mi spavento al pensiero di aver lasciato Mattew, qui, da solo, con i miei amici mentre io rincorrevo un uomo che mi fa perdere il controllo e la lucidità.
Un uomo che mi fa agire d’istinto, a me, che gli istinti li ho sotterrati strada facendo.
Mi sento in colpa, mi sento sporca e io non sono così, non faccio queste cose, non ho mai perso la testa e il cuore in questo modo, non posso farlo, non me lo posso permettere.
Raggiungo Mattew, gli poso una mano sulla spalla sinistra e mi poggio contro di lui, con il petto contro la sua schiena e il mento a sfiorargli il collo.
Lui sussulta leggermente, preso alla sprovvista, ma mi riconosce, lo sento sorridere e alzare una mano per coprire la mia su di lui.
 
«Portami via…»
 
Glielo mormoro in un soffio, con le labbra a sfiorargli l’orecchio, una voce stanca, graffiata, stonata.
Lui si volta verso di me, con i suoi grandi occhi scuri, mi studia per un secondo, confuso, pensieroso, poi sospira, addolcisce lo sguardo, alza gli angoli delle labbra e mi fa segno di sì con la testa, una volta sola.
Prendiamo le nostre giacche, lui cerca la mia mano che trova senza resistenze, io faccio un cenno di saluto a Caroline, che si è avvicinata vedendomi arrivare e andiamo via, senza dire niente, senza salutare nessun altro, senza dover spiegare niente.
Lascio alla mia migliore amica il compito di scusarmi.
 
 
 
 
 
 

Damon

 
 Ho accompagnato Andie a casa sua, l’ho lasciata lì e sono tornato nel mio appartamento, da solo.
Me lo ha chiesto, giustamente, se volessi salire, ricordandomi di avere un favore in sospeso, che con i soldi non c’entrava più nulla, c’entrava invece con l’avermi accompagnato stasera e recitato una parte che entrambi sapevano sarebbe stata solo finzione, lo sapevo io e lo sapeva lei, che ha perfettamente capito le mie intenzioni e il perché del mio strano comportamento, ma ho preferito non complicare ulteriormente le cose.
Mi ha chiesto anche che fine avessi fatto e se ne fosse valsa la pena, lasciarla lì da sola, per tutto quel tempo, io le ho sorriso malizioso, pronto a dirle di no, che non avevo concluso niente, che anzi avevo soltanto peggiorato la situazione, eppure tutto ciò che è uscito dalla mia bocca è stato ‘Donne come Elena sono uno dei motivi per cui i paesi fanno la guerra..’
Il flusso di sincerità bastarda che mi sta investendo questa sera avrebbe potuto causarmi ulteriori problemi, per questo ho scelto di tornare a casa mia e mettermi a dormire, per questo non sono riuscito a guardare negli occhi Caroline, quando sono rientrato e ho visto Elena andare via con quel tipo. Anche per questo non ho spiccicato parola neanche con Ric, che invece si è semplicemente avvicinato e mi ha poggiato una mano sulla spalla, guardandomi con quel suo sguardo da fratello maggiore che mi sgretola il cuore.
Mi aveva avvertito, me lo aveva detto, prima di andare al locale, che stavo facendo una stronzata a portare Andie, che avrei dovuto semplicemente comportarmi come avevo sempre fatto, magari cercando un pretesto per avvicinare Elena e parlarle, chiederle come stava, come procedeva la sua vita, mostrarmi interessato. Invece ho voluto proteggermi ancora una volta e ne ho pagato le conseguenze.
Se ne è andata, lasciandomi più perso e confuso che mai, con un piacere insoddisfatto e il suo sapore ancora sulle labbra e tra le mani.
Non basta, non basta neanche tutto il buio della mia stanza, il lenzuolo tirato su fino alla testa, le tapparelle abbassate, gli occhi chiusi, il silenzio di questo quartiere, a spegnere quel sorriso che le ho visto affiorare sereno e puro mentre guardava l’uomo con cui ha deciso di voler stare, quel sorriso che non ha mai riservato a me, perché in quelli che faceva a me, c’era sempre un velo di insicurezza, di timore di essere mandata via, di non bastare e di essere troppo al tempo stesso.
Non ho mai visto neanche tutta quella rabbia che mi ha scagliato contro stasera, troppa per poterla gestire e contenere tutta in una volta, troppa per non lasciarmi ferire e abbassare le difese, troppa, perfino per me.
Non basta niente stanotte, ma soprattutto non basta a cancellarla dalla mia mente, dai miei pensieri,
non basta a mandare via il suo profumo, le sue mani dalla mia pelle, a smettere di sentire ancora addosso i suoi baci. Non basta a coprire la sua voce e quel suo ‘non puoi entrare e prenderti tutto, non puoi baciarmi così e poi domani sparire di nuovo, io non posso lasciarti questo potere..’.
Questo è invece il potere che hai tu su di me Elena, quello di impedirmi di dormire, di lasciarti scivolare addosso, quello di pensare che domani avrei voluto farlo di nuovo, baciarti ancora, ancora e ancora, fino a farti perdere la ragione, il controllo e non per portarti al letto, ma per permetterti di sentirti viva, di vivere quegli istinti che neghi di avere, per abbattere i tuoi muri, per farti scoprire che a me vai bene anche così, nonostante tutto.
Eppure non posso dirtelo, perché tu hai scelto di non ascoltare, il bisogno di andartene è stato più forte di quello di trattenermi, nonostante me.
Quindi va bene così..
Va bene passare una notte in bianco, se è per te.
Va bene immaginarti con lui, se è per curare i tuoi graffi.
Va bene lasciarti andare, se è per non ferirti.
Va bene dirti a domani, se non puoi sentire.
Va bene pensare che oggi, è già il domani in cui sparirò di nuovo.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
 Apro gli occhi confusa, con la testa vuota e stanca, riconosco il mio letto, il mio cuscino, la mia camera, la mia finestra a vetrata da cui entrano alcuni raggi di sole che iniziano ad illuminare i miei piedi, nudi e fuori dal lenzuolo, che invece mi stringo ancora intorno al corpo.
Respiro a fondo, apro e chiudo le palpebre una, due, tre volte, per svegliarmi del tutto e prendere coscienza di me, di ciò che è successo.
Provo a muovermi e a voltarmi dall’altra parte del letto ma il lenzuolo con cui copro il mio corpo nudo è impigliato e trattenuto da un altro corpo che ho cercato e voluto trattenere.
Gli occhi di Mattew sono ancora chiusi, il suo viso è disteso, rilassato, vedo il suo petto alzarsi e abbassarsi, posso sentire il suo respiro profondo e ancora addormentato, osservo le sue labbra lievemente socchiuse e la sua mano aperta, sul mio cuscino.
Mi prendo il tempo per metabolizzare, per guardare l’uomo che questa notte mi ha annebbiato i pensieri, ha placato il mio bisogno di rivalsa, alleviato la mia colpa, messo ordine nel disordine che mi era esploso dentro.
Non ce la facevo a restare da sola, a trascorrere un’ennesima notte insonne, con lo stomaco sottosopra, catatonica, in balia di sentimenti che né io, né Damon siamo stati in grado di contenere e razionalizzare.
Mi ha accompagnato sotto casa, subendosi un tragitto in silenzio, con il mio sguardo fuori dal finestrino, a guardare un cielo che era già troppo buio e senza più stelle. Gliel’ho chiesto io di salire, forse per pulirmi la coscienza, forse per lasciarmi andare sapendo di poter essere presa, di non poter essere mandata via, forse per allontanare ogni pensiero e lui ha accettato.
 
 
«E’ finita?»
 
Me lo chiede ad un palmo dalla bocca, senza toccarmi, in piedi davanti a me, al centro del mio soggiorno, guardandomi fisso negli occhi, deciso, sicuro della sua domanda e delle conseguenze della mia risposta.
 
«Fra te e.. il tuo amico?»
 
Dovevo aspettarmelo, dovevo prevederla la sua perspicacia, il suo bisogno di chiarimento, dopo un fine serata trascorso da solo, a parlare con Stefan, che seppur una presenza piacevole, non ero io, non era quella che dovrebbe essere la sua ragazza, o un inizio di ciò, eppure sussulto, sgrano appena gli occhi e mi rendo conto di essere impreparata.
Come se non avessi capito, se avessi bisogno che lui specificasse, enfatizzasse la parola ‘amico’ dandogli un accento tagliente, beffardo.
Io apro la bocca per rispondere ma la richiudo prendendo secondi preziosi per placare la mia mente e il mio cuore.
 
Sì.. no.. non lo so..
Sì, perché non è mai neanche iniziata, perché non voglio farmi più male, no, perché pensavo di essere riuscita ad andare avanti invece lui è ancora qui, non lo so, perché so cosa provo ma non so cosa fare, sto andando alla deriva ed ho bisogno di un appiglio.
 
«Sì.»
 
Scelgo la risposta facile, la stessa che si aspetta lui, quella forse più semplice anche per me da gestire.
Lui mi sorride e alza una mano per accarezzarmi una guancia a cui io mi lascio andare, chiudendo gli occhi, per sentire subito dopo le sue labbra che si poggiano sulle mie, dolci, delicate           e le sue mani che scivolano tra i miei capelli, sulle spalle e dietro la schiena, attirandomi sempre di più.
Assaggio il suo sapore che si mischia al mio e a quello che sto cercando di mandare via.
Ci ritroviamo nella mia camera prima che possa realizzare di essere coperta solo dall’intimo e di aver tolto maglia e pantaloni anche a lui, che mi spinge contro il letto con il suo corpo e si distende sopra di me.
Lo sa fare il suo dovere, ha mani esperte e labbra infuocate che sa come muovere, che sa dove poggiare, mi lascia brividi in ogni angolo della pelle, scopre il mio corpo come io scopro il suo, mi lascio andare al suo contatto, al suo desiderio di me, alla sua lingua che gioca con il mio seno, alla sua dolcezza quando entra in me e mi chiede se mi sta facendo male.
Sono piena del piacere che mi sta dando, del buio dentro i suoi occhi che però mi sta facendo luce, mi muovo sotto di lui per prendermi tutto ciò che posso, tutto ciò che vuole darmi, lo assecondo e provo a restituirgliene una parte, invertendo i posti e portandomi sopra di lui.
Mi muovo lenta finché lui non aumenta il ritmo e io lo seguo, con le sue mani sui fianchi che mi guidano e il mio petto che si alza e si abbassa sopra il suo.
Ed è quando stiamo per raggiungere insieme il culmine che lui torna sopra di me, mi guarda negli occhi e mi bacia, cancellando ogni altra cosa intorno e dentro di me.
Chiudo gli occhi, nascosta contro la sua spalla, protetta dalle sue braccia, sapendo di riaprirli, domattina e trovarlo ancora qui.
 
«Buongiorno…»
 
Mattew mi sorride, ancora con gli occhi socchiusi, mi accarezza piano una guancia e si avvicina a me, raggomitolata di lato verso di lui.
Gli sorrido anche io, ancora disorientata, sciogliendo le mie difese e lasciandomi accarezzare una spalla nuda, uscita fuori dal lenzuolo bianco che ci avvolge.
 
«Buongiorno a te…»
«Sei bellissima di prima mattina..»
«Piantala! Ho un aspetto orribile lo sento!»
 
Mi copro il viso con entrambe le mani, imbarazzata, con la sensazione di voler scivolare via dal suo sguardo e da questo letto.
Lui mi scansa le mani e io gli lascio un bacio veloce sulle labbra, prima di alzarmi e voltargli le spalle in cerca della mia biancheria e di una t-shirt abbastanza larga da coprirmi fino a metà coscia.
Mattew mi raggiunge quando sono già in cucina, a versare il caffè in due tazze, una delle quali la offro a lui che la prende e si siede su una sedia, poggiando i gomiti sul tavolo.
 
«Sei una mattiniera a cui non piace restare al letto, vero?»
«Non amo perdere tempo a dormire!»
«Non ti avrei mai fatta riaddormentare..»
 
Ha una voce maliziosa che mi imbarazza e mi fa abbassare lo sguardo, sorridendo nella tazza del mio caffè. Mi avvicino a lui e mi ci siedo di fronte, portando le ginocchia al petto e poggiandoci la tazza sopra.
 
«Devi lavorare oggi?»
 
Glielo chiedo per cambiare argomento, con un filo di speranza che dica di sì.
Non perché non lo voglia intorno, o mi sia pentita di ciò che ho fatto, semplicemente ho bisogno di restare da sola e metabolizzare tutto. Non posso più far finta di non sentire questo peso sullo stomaco e seppur il mio cuore è tornato a battere un po’ più regolarmente, porta ancora segni che ho bisogno di curare.
 
«Devo essere a San Diego questo pomeriggio. Resterò un paio di giorni per monitorare un video a cui ho collaborato.»
«Ricordati che tra una settimana devi essere qui..»
«Non credo di poter perdere neanche volendo la tua laurea.. dato che ho avuto il privilegio di collaborarci.»
 
Strizza un occhio nella mia direzione e sorride soddisfatto, lasciandomi inebetita dalla stima e dall’affetto che ha per me, dopo poco più di un mese di conoscenza.
Poi, nel modo in cui ruota lo sguardo, distogliendolo da me, mi viene in mente una sua frase, del nostro primo incontro e mi rendo conto di non sapere un granché dell’uomo con cui mi sono svegliata questa mattina.
 
«Perché una volta mi hai detto che ti ho ricordato cosa significhi avere ancora dei progetti
 
Lui mi guarda, sorpreso dalla mia domanda uscita fuori da chissà dove, beve un altro sorso di caffè e giocherellando con la tazza sospira.
 
«Perché un tempo mi sarebbe piaciuto partire per l’Africa e fare il corrispondente di guerra, come mi era stato offerto.»
«Un lavoro difficile… perché hai rifiutato?»
«Perché ero giovane, mi sono lasciato convincere che sarebbe stato pericoloso, ho iniziato a guadagnare i primi soldi e non ho avuto il coraggio di mollare tutto.»
«Puoi ancora farlo…»
«Elena, all’età di trentadue anni e con una carriera ormai già più o meno avviata sarei uno stupido a ricominciare da capo, senza nessun aggancio ormai! E poi il lavoro che faccio qui, tutto sommato mi piace.»
 
Mi sorride, in fondo rasserenato dalla sua vita di adesso e io finisco di bere il mio caffè, con un tassello in più nel quadro di questo uomo che sto disegnando nella mia mente, che senza neanche aspettarmelo, mi fa bene.
E mi fa bene ancora di più, quando un’ora dopo, prima di salutarmi, mi abbraccia e mi bacia in un modo così dolce ed intenso da lasciarmi per un attimo senza fiato.
E’ solo nel momento in cui, finalmente, resto da sola e mi infilo sotto la doccia, che i pensieri che avevo rimandato e i sentimenti che avevo chiuso in un cassetto del mio cuore, tornano vivi e pulsanti dentro e fuori di me, lasciandomi ancora una volta in balia di qualcosa che non riesco, assolutamente e disperatamente a controllare.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Ok, non odiatemi…
 
Questa è praticamente la seconda parte del capitolo precedente, che capite bene ho per forza dovuto dividere.. è un capitolo per questo più corto, anche perché non ho voluto contaminarlo con altro..al momento non essenziale!

Inizio dal principio..
Ed inizio senza parole, perché credo di averne fatte dire e pensare soprattutto, un bel po’, in particolare a Damon che si ritrova davanti un Elena che lo spiazza, si arrabbia, chiede, pretende e lui non la sa gestire.. se non nel modo che conosce meglio, agendo d'impulso.
E chiedo scusa, o forse no ;), per aver mescolato una parte della 5x20 in questo loro scontro.. (e ringrazio Lapam8842 che me l'ha fatto venire in mente!) e scusate anche se l’ho un po’ rivoluzionata, mettendoci dentro anche tanto altro Delena, ma un finale come quello proposto in TVD non sarebbe stato per me adatto in questo momento.. perché Elena lo sa perché Damon l'ha baciata, non ha bisogno di chiedergli 'per cos'era questo..' e non glielo avrebbe mai chiesto perché dopo le parole di lui, ora ha paura della risposta, ma al tempo stesso è così in balia di lui, dei suoi istinti, di ciò che scuote in lei, che non ce la fa a resistere e cede, lo cerca e lo vuole.
Solo che.. poi, alla fine, si ricorda che è andata avanti, che non vuole stare male per lui, che non vuole dargli questo potere, sa che lui non è ancora disposto a mettersi in gioco completamente, per questo va via, anche se non del tutto.
E non odiatela per quello che succede dopo.. ho immaginato, neanche tanto ;), una possibile conseguenza di tutto questo sconvolgimento, e lo so che per lei andare a letto con qualcuno è qualcosa di molto intimo, ma vedetela come una rivalsa, un bisogno di controllo, di sicurezza.. di seguire un istinto, ma in una direzione leggermente diversa! ;) Se avete dubbi..sono a disposizione!
Ho voluto mostrarvi anche il 'dopo' di Damon, che invece è l'opposto, per una volta i loro ruoli si sono capovolti, e non è un male aggiungerei..

Ok, la smetto prima di dilungarmi troppo.. ma spero di non avervi annoiate con tutte quelle riflessioni, solo che più scrivevo, più avevo la sensazione di non riuscire a fargli dire o provare tutto ciò che volevano dire e provare.. spero di esserci riuscita, almeno un po'!

Grazie ancora alle fantastiche donne che mi hanno lasciato i loro commenti e che mi hanno fatto sentire appoggiata! E a tutte voi che leggete in silenzio!

Un bacio grande!
Buonanotte.. o buongiorno! E buon TVD's day! :-)

Ale

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Capitolo 12
*** Capitolo 11° ***


“Poi non è che
la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada. Così… Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo… salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l’ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti male. E’ lì che salta tutto, non c’è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce.”
 
(Oceanomare _ A. Baricco)

 
 
 
 
 
 
 
Elena

 
«Che cosa hai fatto??»
 
Sono al telefono con Caroline da circa un’ora e dopo averle raccontato, previe sue minacce, per filo e per segno cosa fosse accaduto la sera dei festeggiamenti per la promozione di Enzo, tra me e Damon e poi tra me e Mattew, mi ha svelato quelle che invece è stata la sua di serata, lasciandomi completamente basita, come io ho lasciato lei.
Non ci siamo più sentite, se non tramite messaggi, lei è partita per un convegno, io sono stata qualche giorno da mia madre e mio fratello, sono tornata da loro per riuscire a fare dei pasti decenti, in vista delle ore di assoluto ritiro ed estraniamento che mi prepareranno all’esame finale. Preparazione che so già di avere, perché so perfettamente ogni parola e ogni virgola della mia tesi, eppure l’ansia delle possibili domande che potrebbero farmi mi rende totalmente insicura e bisognosa di concentrazione e isolamento.
Isolamento che ho adottato con tutti, a parte con Mattew che tornato da San Diego, mi ha portato una sera a cena e poi riaccompagnato subito a casa, capendo l’inquietudine che muoveva i miei pensieri.
L’ho sentito per telefono, così come ho sentito Caroline, alla quale avevo solamente accennato qualcosa tramite messaggio, ma che ora, in una pausa dallo studio di questa domenica pomeriggio, ho deciso di chiamare per farmi distrarre dalla sua voce e dai suoi pettegolezzi.
 
«Possibile che non posso lasciarti da sola per un attimo?!»
«Un attimo? Elena sei stata via per quasi un’ora quella sera! E comunque, ero un po’ alticcia e oltre al fatto che dovreste piantarla di farmi bere, mi avete lasciata lì, senza macchina e senza sapere come tornare a casa!»
«Scusa non eri venuta con Bonnie?»
«Appunto, ero. Dato che alla fine invece, lei è andata via con quel tipo del locale!»
«E non c’era nessun altro che poteva riaccompagnarti?»     
«Ovviamente no Elena! Altrimenti secondo te avrei accettato di salire in macchina con Enzo?!»
 
Mi viene da ridere per il suo tono acidulo e scontato e immagino i suoi occhi sgranati, come a voler sottolineare l’evidenza della sua scelta e l’impossibilità di compierne altre.
 
«Ok, vada per il passaggio.. ma come sei arrivata da questo a… baciarlo??»
«Te l’ho detto ero ubriaca! E poi lui si è messo a raccontarmi i suoi problemi con la sua ex, che non era neanche una ex, io gli ho raccontato i miei.. ed è successo!»
«Quindi? Questo che significa?»
«Niente Elena, non significa assolutamente niente! E’ stato un errore che al momento non intendo ripetere! Non prima di…»
«Di?»
 
La sento sospirare, restare in silenzio per qualche secondo e poi mormorare, decisa e risoluta.
 
«Rivedere Klaus, domani sera
 
Io spalanco la bocca e gli occhi restando sbalordita per la sua decisone che vagava nell’aria da qualche tempo e che ora ha deciso di prendere corpo.
Mi inquieta, mi agita il pensiero che lei riveda l’uomo che le ha distrutto la vita, mi mette ansia immaginare tutte le debolezze della mia amica che lui saprà sfruttare perfettamente, il senso di protezione che ho verso di lei non mi permette di lasciarla fare, di restarne fuori.
 
«Quindi hai deciso alla fine? Sei certa che sia una buona idea? Insomma perché devi per forza vederlo.. non puoi parlarci per telefono?»
«No Elena, ci sono cose che voglio dirgli guardandolo negli occhi, cose che ho bisogno di sapere.. e non riuscirò ad andare avanti se non lo faccio
«E se lui si scusasse per tutto e ti chiedesse di riprovarci?»
 
Lei esita e questo mi porta a credere che cederebbe, non riuscirebbe ad opporsi, per questo apro la bocca pronta a ricordarle chi sia l’uomo di cui forse è ancora innamorata, ma lei è più veloce e mi zittisce.
 
«Non tornerò con lui Elena. Questa è l’unica cosa di cui sono certa. E non c’entra Enzo o altre persone, c’entro io, che per quanto possa ancora amare quello c’è stato tra me e lui, so che è finito. So che non si può fingere di ricostruire qualcosa che ormai si è rotto. E so di meritare di più.»
 
E’ rassegnato, malinconico, triste il suo tono, la sua voce bassa, consapevole, la sento sospirare, restare in silenzio e io vorrei solo chiudere gli occhi e raggiungerla, abbracciarla e trattenerla qui, invece di sentirla già lontana mille miglia.
E’ forte Caroline, molto più di me.
Sa quando è il momento di andarsene, anche senza nessun posto in cui andare.
Sa fare i conti con i suoi desideri, senza nascondersi.
 
«Posso fare solo un ultimo appunto?»
 
La sua voce torna allegra, ha scacciato via la tristezza e cambiato tono e sicuramente espressione, lasciando ad un tempo già passato tutti i suoi turbamenti.
 
«Me lo stai seriamente chiedendo?»
«Ehmm.. no, in realtà no!»
 
Ovviamente.
Rido e neanche rispondo perché so che sta per continuare e che l’argomento della conversazione si è spostato su di me.
 
«Vorrei solamente sottolineare che sono d’accordo con te con l’andare avanti, con il non voler soffrire… ma forse a volte vale la pena buttarsi fino in fondo.. farsi anche un po’ male per un bene superiore!»
«Caroline lui non vuole stare davvero con me. Ha paura perfino di se stesso, di ciò che prova.  Sì, ho anch’io la mia parte di colpe e di paure e lo ammetto sono attratta incredibilmente da lui… solamente, non la voglio più fare tutta questa fatica.. non ce la faccio, non in questo momento.»
 «Quindi stai con Mattew perché è più facile?»
 
Un secondo di interdizione, mi si blocca il respiro che poi esce tutto insieme, in un unico sospiro.
 
«Care io sono attratta da Damon in parte proprio perché mi sfugge, non mi sta addosso e non mi soffoca. Sarebbe lui la scelta più facile. Perciò no, non sto con Matt per questo..»
«Non ‘facile’ in termini di presenza…»
 
Lo so, l’ho capito il senso.
 
Ho capito la domanda Care e so che sai anche la risposta, la conosci meglio di me ma vuoi sentirmelo dire e io non sono pronta, sai anche questo.
 
«Non sei tu quella che mi invitava a fare nuove esperienze?»
«Va bene, va bene, ho capito! Sorvoliamo..»
 
Sorrido, grata per il tempo che mi concede e per il non voler indagare oltre.
Prima di salutarla e tornare al mio ritiro, le ricordo che dopodomani ho bisogno di lei, che non mi importa se sarà distrutta emotivamente dopo l’incontro con Klaus, io ho bisogno che sia con me, che mi calmi mentre sarò in preda al panico per un Master su cui ho investito tutto il mio futuro.
Ci sarò.
Me lo dice in un modo che non ammette intromissioni.
 
 
 
 
 
 
Damon

 
Chi ha coniato l’espressione ‘peggio di così, non può andare’, dovrebbe essere preso a calci nel culo!
Utopista che non è altro e portatore sano di illusioni, che ha fatto però ammalare tutti i suoi discendenti.
Non bastava tutto il casino emotivo che mi ha assalito in questi ultimi giorni, non bastava la storia della truffa, il dover sborsare milioni che non ho e dover licenziare i miei dipendenti, ci mancava solo l’intera agenzia completamente in perdita.
Perché è ovvio, se non posso acquistare, non posso neanche rivendere e guadagnare e se non offro nulla di nuovo, sarò costretto ad abbassare drasticamente i prezzi di vendita di ciò che mi resta o ad aumentarli eccessivamente, ottenendo in ogni caso lo stesso risultato: una perdita.
Questo è alla base della legge della domanda e dell’offerta e ovviamente, non fa una piega.
E’ un circolo vizioso, una concatenazione di eventi che seppur prevedibili, non possono essere fermati.
Alcune volte le cose rotolano, scivolano via e non si può far più niente per fermarle, si può solamente prepararsi ad assistere allo schianto inevitabile, possibilmente senza farsi troppo male e raccogliendo alla fine tutti i pezzi rimasti.
 
E’ questo che sta provando a spiegarmi il mio ormai amico commercialista, in un modo semplice, diretto e senza troppi giri di parole.
E’ per questo che sono completamente schiacciato sullo schienale della sedia di fronte alla sua scrivania, atterrito, privo di qualsivoglia energia o speranza.
L’impulso incessante che ho di vendere tutto, chiudere baracca e burattini e dichiarare fallimento, mi spaventa ma è l’unica soluzione che al momento mi sembra la più fattibile. La più giusta, la più onesta, per me e per tutti.
E anche se non lo ammetterà mai, anche Mark è d’accordo.
 
«Damon la situazione è abbastanza grave.. non so per quanto tempo puoi ancora tenere in piedi l’agenzia, con queste condizioni.»
«Tu che mi consigli?»
«Non so, forse provare a chiedere un prestito, ovviamente facendo fare da garante a tuo padre o a qualcuno che abbia le spalle coperte.»
«Non se ne parla.»
 
Mi alzo di scatto e la poltroncina a rotelle su cui ero seduto, scivola indietro e sbatte contro il muro alle mie spalle.
La guardo per un attimo, cercando parole che però non arrivano.
 
«Damon qui non si tratta solo di te, hai delle persone che dipendono dalla tua scelta.»
«Se vendessi tutto ad un’altra agenzia, pagando i debiti almeno della truffa, potrei fissare la clausola di assorbire tutto il personale?»
«Damon…»
«Potrei?»
 
Non cerco sconti, né pietà o soluzioni alternative, sono solo e non voglio dover ringraziare nessuno per avermi salvato la vita.
 
«Sì, potresti.»
 
Mark mi guarda con uno sguardo preoccupato, cosciente delle mie intenzioni e delle sorti di quella che è stata fino a questo momento la mia agenzia di viaggi, l’unica cosa che mi sia mai costruito con le mie mani.
L’unica cosa di cui andavo fiero e che mi dava un sostegno, un appiglio per quel fallimento con cui sono stato sempre dipinto e che ora appare chiaro, visibile, disegnato, sul mio volto e sulla mia anima.
 
«Ma Damon potrebbero esserci altre soluzioni, altri…»
«No, basta così, è deciso.»
 
Scuoto la testa per non sentire più niente, mi allontano dalla sua scrivania, da lui, da me, metto quella distanza che mi permette di non crollare adesso, lo saluto a denti stretti e occhi bassi ed esco da lì.
 
Non mi importa se dovrò pagare qualche multa per l’alta velocità, non mi importa di superare i limiti, non mi importa se mi schianterò sull’asfalto, voglio solamente correre, bruciare l’asfalto sotto le ruote della mia moto, che questo fine settimana dovrò vendere ad un tizio che non ha la più pallida idea di cosa significhi guidare una Karizma, ma che sborserà molti più soldi di quanto credevo di poterci fare.
Voglio solo sentire l’aria schiacciarsi sulla mia faccia, farmi lacrimare gli occhi per la visiera alzata e sentirmi ancora, per queste poche ore, padrone di scegliere il mio destino, di decidere dove andare e volendo di non tornare più.
Ora potrei farlo, potrei davvero finalmente andarmene da qui, partire per quel viaggio in Norvegia che vorrei tanto fare, mollare tutto, dimenticarmi di tutti e non ricominciare da capo, in un posto in cui sono ancora Damon Salvatore, senza nessuna etichetta.
Potrei vendere l’agenzia ad Andie, chiedere di assorbirla nella sua compagnia, con tutti i dipendenti che ancora vi ci lavorano e assumendo magari quelli che sono stato costretto a mandare via. So che sarebbe al sicuro con lei, che la gestirebbe nel modo giusto, che farebbe fruttare ogni mio investimento fatto in precedenza.
So che ci penserebbe sul serio a rilevarla, se solo glielo proponessi.
Poi partirei in pace, senza alcun impedimento.
Se non fosse…
 
Si bè, se non fosse che non ho neanche un centesimo per pagarmi il viaggio!
Do gas, continuando a sfrecciare ancora più lontano, senza meta e senza pensieri.
 
E’ finita.
 
 
 
 
 
Elena

 
La mia vita adulta inizia da qui.
 
So che dovrei concentrarmi su queste poche ore che mi separano dalla mia libertà universitaria e mi catapultano completamente nel mondo adulto, eppure, il modo in cui Mattew mi sta accarezzando la mano, piano e giocando con le mie dita, mentre mi accompagna al campus in macchina, mi distrae.
Mi distrae e per questo forse mi disturba e non so come chiedergli di smettere perché non voglio ferirlo, non è lui, è che ora non voglio nessun diversivo.
Voglio restare nella mia bolla.
Nella bolla che mi permette di non sentire, né provare niente, che mi fa galleggiare nel vuoto, trattenendo tutte le informazioni che ho accumulato in questi ultimi giorni prima dell’esame finale e aspettando di poter aprire bocca e farle uscire tutte insieme, come un fiume in piena. So che se mi faccio deconcentrare, se inizio a pensare ad altro, se do fiato a qualunque pensiero, potrei perdere tutto e vedere tutta la mia fatica svanire nel nulla.
Per questo sono inquieta e non so più cosa sto facendo, non so neanche perché ho chiesto a lui di accompagnarmi, invece di chiedere alla mia migliore amica. Anzi sì, lo so, è perché Caroline ha passato la notte da Klaus, è perché lui la sta accompagnando da me, questa mattina, per assistere alla mia laurea. Sono perciò irritata anche con lei, oltre che con Klaus ovviamente, perché non riesco a non pensare a cosa sia successo tra loro, non riesco ad ignorare il suo messaggio di qualche ora fa in cui ha chiesto perdono nel caso avesse ritardato ed ha aggiunto con fare innocente ‘Giuro che abbiamo solamente parlato..’. Non ci credo neanche fosse Dio in persona a garantirmelo, perché conosco la mia amica che, per quanto sia forte e riesca a tenere il punto, non può niente contro i modi galanti e astuti di Klaus.
Ci è ricascata lo sento e io non ho potuto nulla per evitarlo.
Sono una pessima, pessima amica e tutto ciò perché ero distratta.
Dalla mia laurea, da Mattew, da Damon.
Damon che continua a sbucare fuori dall’angolo più nascosto della mia mente, quello più buio, dove lo sguardo non riesce ad arrivare, ma il cuore sì e mi scruta, mi consuma, mi spoglia, con i suoi enormi, profondi, potenti occhi di un colore troppo azzurro da sembra finto e messo apposta su quel viso e su quel corpo, per rendere ancora più disumano andare via.
Via da lui, che vicino a me non c’è mai stato.
Forse allora devo rivalutare la posizione dell’uomo che invece ora sta parcheggiando e per un attimo mi ha lasciato la mano.
Perché lui invece c’è.
Di certezze me ne da’.
E mi fa sentire finalmente adeguata, non nei miei confronti ma in quelli del resto del mondo.
Mi fa sentire appropriata, rispetto una società bigotta che ti costringe a non sentirti all’altezza neanche di cenare da sola al ristorante, o di sdraiarti in spiaggia da sola senza essere guardata in modo sospetto.
Mi fa sentire rassicurata verso mia madre che ha paura che dopo la mia unica relazione di anni e anni fa, con un tipo di cui in fondo non sono mai stata realmente innamorata e soprattutto dopo la morte di mio padre, io resti da sola.
Ha timore che io non riesca più a buttarmi, a mettermi in gioco, a lasciarmi andare, senza sapere che in realtà non l’ho mai fatto.
 
Non l’ho mai fatto davvero, mamma.
 
Non ho mai permesso a nessuno di entrarmi così dentro da farmi vedere nuda nell’anima, da fargli vedere tutti i miei difetti e sentirmi giusta lo stesso. Non ho mai permesso a nessuno di amarmi, nonostante.
Eppure l’ho cercato, lo volevo e lo voglio con tutta me stessa e forse sono più bigotta di tutto il resto delle persone da cui mi sento giudicata, perché ora mi sento all’altezza, sento di avercelo anche io il mio posto nel mondo.
Ora posso fare tutto quello che ho sempre voluto, posso passare ore a scegliere cosa indossare, solo perché voglio sentirmi apprezzata, posso permettermi di finire di truccarmi in macchina, perché non sono io che devo guidare, posso farmi venire a prendere e farmi riaccompagnare, posso non tornare a casa da sola, al buio, di notte, con gli occhi bassi, i passi svelti e le chiavi del portone strette in mano. Posso scegliere come trascorrere il fine settimana, coinvolgendo qualcuno che non può dirmi di no, posso fare tutte le passeggiate che voglio, andare alle mostre, condividere il mio lavoro, andare a cena fuori, cercare offerte di viaggio per due.
Posso non dover scegliere, cosa fare, dove andare, cosa mangiare, posso lasciar fare a qualcun altro.
Posso sentirmi libera… da imposizioni e aspettative. Posso perfino sdraiarmi al sole, in spiaggia, da sola, perché sono a posto con il mondo, l’ho pagato anch’io il biglietto, posso partecipare allo spettacolo.
Posso prendermela quella rivincita con quel mondo che si è preso gioco di me, che mi ha mostrato come si dovrebbe amare, me l’ha fatto cercare in ogni uomo che ho incontrato e poi me l’ha tolto, mi ha preso a schiaffi e mi ha lasciata con mille armature inutili.
Per questo ho bisogno di certezze, di rassicurazioni, per questo nelle situazioni ambigue non ci so stare, mi fanno paura, mi disorientano, mi costringono ad uscire allo scoperto, a prendere posizione e io non voglio prendermela questa responsabilità.
Non voglio prendermi la responsabilità di perdere qualcuno per come sono.
Voglio la leggerezza di una vita facile, per una volta.
 
Sì Care, ora lo so, è più facile stare con lui, perché non devo investire nulla di me.
Lui basta per tutti e due.
 
«Sei pronta?»
 
Mattew mi riporta alla realtà, mi sfiora la schiena e mi cede il passo per lasciarmi varcare la soglia dell’edificio in cui ho trascorso gli ultimi anni della mia vita.
Un edificio che ora riconosco come casa, che conosco in ogni angolo, in cui mi sento a mio agio, in cui mi muovo sicura.
Un edificio che non mi fa più paura.
Faccio un passo ed entro nel grande androne dal pavimento in marmo grigio, avanzo verso il centro e salgo l’enorme scalinata alla nostra sinistra per salire al primo piano, verso l’aula magna, in cui a breve si siederà la commissione d’esame.
In cui tra breve inizierà la mia agonia e Caroline è ovviamente in ritardo.
 
 
 
 
 
 
Damon

 
«Che fai ancora qui?»
«Perché? Dove dovrei essere?»
 
Ric mi guarda di traverso, con uno sguardo di rimprovero, entrando in cucina in pigiama, mentre ripongo nel lavello la tazza della colazione che ho appena finito.
 
«Non è stamattina che Elena si laurea?»
 
Io alzo le spalle indifferente, provandoci almeno un po’ a far finta che non mi interessi e che non lo sappia.
Lui mi colpisce la testa con una sberla e continua ad ammonirmi con gli occhi e con le braccia che ora ha incrociato sotto il petto.
 
«Non credo sarei ben voluto.»
«Piantala di fare la vittima! Sii uomo per una volta!»
 
Io lo guardo di sbieco, con un sorrisetto furbo e il sopracciglio alzato, uomo è l’unica cosa che so di sapere essere.
 
«Maturo! Un uomo maturo intendo!»
 
Si corregge specificando un’intenzione che avevo colto e mollandomi un'altra sberla, che stavolta fa un po’ più male perché colpisce lo stesso punto e mi costringe a massaggiarmi la testa con una mano e fare un passo indietro, per evitare altri colpi molesti ma decisamente non gratuiti.
 
«Ahi! Ti spezzo il collo se ci riprovi!»
«Vai da lei!»
«Non ci penso proprio.»
 
Glielo scandisco bene, parola per parola, con le labbra a pochi centimetri dal suo volto, per essere certo che le comprenda a pieno, poi lo supero per andarmi a vestire e mettere fine anche alla mia vita lavorativa, oltre che relazionale.
Se così poi può essere definita, dato che di relazione non c’era un bel niente, se non un’attrazione, evidente per entrambi, che però non può portare a nulla di buono.
Alla fine è stata lei la più forte, come avevo previsto, ha preso la decisione più giusta per entrambi.
 
«Sei un codardo.»
 
Mi blocca con le sue parole sussurrate, basse, sincere.
Io mi fermo ad un passo dalla porta che mi divide dal corridoio, sospiro lento e stanco, consapevole di esserlo, di non meritare tutto l’amore che nonostante tutto, nei nostri incontri rubati agli occhi del mondo, lei mi ha regalato.
C’è sempre stata, nonostante la cercassi solo quando ne avessi voglia, nonostante la respingessi in continuazione, nonostante l’avessi costretta ad un rapporto in cui non credevo neanche io.
Ero forte prima, forte di me, della mia posizione, di essere nel giusto, di seguire un istinto che non aveva niente a che vedere con i desideri e con i sentimenti, andavo dritto per la mia strada, invece lei, lei mi ha fatto inciampare. E qualunque passo faccia, in qualsiasi direzione, il mio cammino non è più così lineare, così libero dal cuore che lei mi ha donato prima ancora che glielo chiedessi.
 
«Non ho più niente Ric…»
«Hai me, hai i nostri amici e puoi avere lei.»
«Perché? A che scopo? Tu staresti mai con un fallito come me?»
«A dir la verità preferisco i capelli lunghi, possibilmente mossi, gambe longilinee e qualche forma al punto giusto!»
«Sei un coglione!»
«E tu lo se di più.»
 
Ridiamo insieme, come due cretini, prendendoci a pugni sul petto e mimando una lotta che finirà pari come tutto il resto delle volte.
Riprendiamo fiato e ancora con un mezzo sorriso sulla bocca, lo spintono appena per farlo indietreggiare.
 
«Ci provo, giuro che ci provo ad andarmi a congratulare con lei. Devo risolvere prima questa situazione in agenzia.»
«Stai scappando.»
 
Stringo le labbra e socchiudo gli occhi pronto per farmi uscire una battuta o una bugia, che però resta incastrata in gola, lasciandomi un sapore amaro di vergogna.
Maledetto Ric che mi mette sempre con le spalle al muro e maledetto me che non l’ho ancora cacciato di casa.
 
«Voglio per lo meno liberarmi da qualche casino, prima di farmi squarciare volontariamente il cuore, almeno questo… glielo devo.»
 
L’ho ammesso, con un tono sarcastico e ilare, con un alzata di spalle e un cenno della testa, ma l’ho fatto e lui lo sa. Non può pretendere di più, sa che manterrò la mia parola, per questo ora mi sorride soddisfatto, ancora un po’ titubante, ma orgoglioso.
 
«Se fai altre cazzate, giuro che ti ci spedisco io in Europa! A calci nel sedere!»
 
Me lo urla quando sono già in bagno e sto per chiudermi dentro, strappandomi un sorriso sincero che sono felice di nascondere dietro questa porta.
 
Mezz’ora dopo sono pronto per uscire e me lo ritrovo ancora a gironzolare per casa, in pigiama!
Deduco che Meredith abbia il doppio turno oggi e che lui non debba lavorare.
 
Bella la vita quando è così facile e lineare..
 
Un po’ lo invidio mentre afferro il casco e la giacca per la moto, ma la sua voce perentoria e un po’ troppo paterna mi ferma di nuovo.
 
«Puoi evitare di continuare a prendere la moto e rischiare di distruggerla ancora prima di venderla?»
«Dammi tregua.»
 
Gli intimo alzando entrambi gli indici verso di lui e minacciandolo con lo sguardo.
 
«Solo pochi giorni e poi non sarà più mia. Me la voglio godere fino alla fine.»
 
Non gli lascio il tempo di rispondere e filo via, diretto da Andie a concludere il nostro affare.
 
 
 
 
 
 
Elena

 
Mia madre è qui, in piedi accanto alla grande finestra che illumina questo piano, Jeremy è seduto sui gradini della scalinata e tamburella nervoso le mani sulle sue ginocchia, Stefan e Bonnie sono arrivati trafelati ma in tempo, prendendosi una mattinata di permesso per essere con me in questo giorno.
Mattew mi ha salutata e augurato un dolcissimo in bocca al lupo prima di entrare in aula e sedersi al suo posto, vicino al mio relatore.
Io cammino avanti e indietro per questo lungo corridoio, picchiettando con i tacchi su questo antichissimo e sfarzoso marmo, con la tesi stretta tra le dita, il mio tailleur blu notte e la camicia a fiori color pastello che Caroline mi ha aiutato a scegliere.
Continuo a mordermi le labbra, contrarre i muscoli, inspirare ed espirare, immaginare campi di grano, prati in fiore, deserti, montagne innevate, uccellini e chi più ne ha più ne metta, per cercare di mantenere la calma.
Mi concentro sul vuoto, sul respiro, sulla mano di Bonnie che ora sta stringendo la mia, sullo sguardo dolce e amorevole di Jeremy che mi rassicura, su l’ansia di mia madre che continua a guardare quella porta chiusa, in attesa che qualcuno esca ed annunci il mio nome. Mi fisso su Stefan che invece si guarda intorno, preoccupato e in attesa, forse della nostra amica che ha deciso di farmi impazzire e lasciarmi da sola.
Glielo rinfaccerò a vita questo ritardo e sarà un'altra delle mille ragioni da aggiungere ad una lista già infinita dei motivi per cui odio Klaus.
Scorro ancora gli occhi sul foglio accartocciato che ho in mano, con appuntata la scaletta da seguire, lo guardo senza più riuscire a leggerlo, sono satura, non entra più niente nonostante abbia la sensazione che tutto il resto ora stia uscendo fuori.
Non ricordo più niente.
Scaccio con la mano la carezza sulla testa di mia madre che cerca di rassicurarmi, mentre poggiata al muro di questo edificio inspiro ed espiro come un automa e la minaccio con lo sguardo.
Che nessuno mi tocchi.
 
«Signorina Gilbert.»
 
Una donna appare sulla porta, con una cartellina in mano e degli occhiali che avvicina al viso per leggere il mio nome e poi abbassa, per cercarmi con lo sguardo.
Non c’è più tempo, non c’è più tempo per timori, ripassi dell’ultimo secondo, tentennamenti, ansie, tachicardie.
In piedi, testa alta, spalle dritte, sorriso sulle labbra, un ultimo respiro e via.
Andiamo a crescere.
Andiamo a diventare finalmente e completamente adulti.
 
Non so quanto tempo sia durata, cosa sia uscito dalla mia bocca, chi sia entrato alla fine ad assistere, che domande mi abbiano fatto, cosa abbia risposto, che sguardo avessi, che sicurezza mostrassi, so soltanto di aver parlato, parlato, parlato come un fiume in piena, di non aver ripreso fiato neanche per un secondo, di aver risposto a tutto con una fierezza e naturalezza che non credevo di riuscire a tirare fuori.
E’ finita, finita davvero.
Appena esco sono le braccia di mia madre le prime che cerco e tra cui mi getto per lasciarmi stringere e coccolare, libera finalmente e leggera da un peso sorretto per più di cinque anni.
Mi sento svuotata e felice.
Felice, senza nessun altro pensiero, senza nessuna angoscia.
Lascio che tutti mi abbraccino e si congratulino con me, lascio che mio fratello mi scapigli la cipolla che avevo tentato di fare, per risultare più professionale, permetto a Mattew, uscito anche lui a complimentarsi, di stamparmi un bacio sulle labbra, orgoglioso e fiero di me.
Sono carica di adrenalina, sento le gambe ancora tremare e il cuore ora esplodere di gioia, potrei mettermi a ballare e saltare come una ragazzina tanto sono eccitata, tanto sono felice.
E un po’ saltello e rido come fossi in estasi quando scendiamo le scale, dirigendoci fuori.
Usciamo tutti dall’edificio e prima di chiudermi la porta principale alle spalle, mi volto solo per un momento, guardo questo posto, osservo questi uffici, pieni di scartoffie, queste persone che vanno e vengono, questi studenti seduti per terra con i libri aperti sulle gambe incrociate, intenti a ripassare,
questa scalinata imponente, queste bacheche piene di esami, comunicazioni, informazioni, stanze in affitto.
Guardo tutto questo e ripenso al primo giorno in cui sono entrata qui, impaurita e persa in qualcosa di troppo grande, di irraggiungibile, desiderosa di una vita che forse è proprio quella che ho raggiunto.
E per la prima volta, per la prima volta in tutti questi anni, lo guardo e non mi fa più paura.
Me la chiudo dietro quella porta, alzando gli occhi al cielo quando finalmente sono fuori, cercando quel sole che mi riscalda e respirando a pieni polmoni.
Lo spruzzo di una bottiglia di spumante aperta e spruzzata, mi raggiunge, obbligandomi a voltare lo sguardo verso mio fratello che la sta agitando e sta ci sta bagnando tutti.
Io d’istinto mi allontano e mi volto per cercare lo sguardo della mia migliore amica, che ancora non è qui e quello di un uomo, che non è quello che ora sta stringendo la mano a mia madre.
Sono tutti felici e io d’un tratto, non lo sono più.
Mi guardo intorno persa, bisognosa degli unici due paia di occhi azzurri, appartenenti a due persone diverse, che invece sono i soli che mancano.
Sposto l’attenzione al di là di tutti loro, nella speranza di scorgerli da qualche parte, invece il mio sguardo viene catturato soltanto da Stefan.
E’ di spalle, nel giardino di fronte a noi, sta parlando al telefono, è agitato, cammina avanti e indietro, si passa una mano tra i capelli, poi la agita in aria e la riporta sulla testa, facendola scendere sulla bocca che copre del tutto.
Mi faccio spazio tra la folla di persone che mi circonda, punto lo sguardo soltanto su di lui, cancellando tutto ciò che mi circonda. Mi avvicino, un passo dopo l’altro, fino a raggiungerlo del tutto e sfiorargli delicatamente una spalla per farlo voltare.
Lui lo fa, si gira piano verso di me, abbassa il cellulare, insieme alle braccia e mi guarda con uno sguardo perso, spaventato, impietrito.
Il mio cuore perde un battito.
 
«Elena…»
«Che è successo?»
 
Pronuncia solo un nome dopo.
E io sento le gambe farsi molli e gli occhi annebbiarsi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
************************
 
Lo so, un po’ sadica lo sono.. a lasciarvi così!
Ma è un capitolo di passaggio, anche piuttosto breve! In cui Elena finalmente si laurea! Eppure gli eventi più importanti, per me sono altri. Sono la chiacchierata con Caroline, nel loro strano modo di esserci l'una per l'altra, nella decisione di Care di affrontare finalmente i suoi scheletri nell'armadio, nella decisione di Damon, di vendere la sua agenzia e nello scoprire, (sempre grazie a Ric!) che in fondo, la vuole davvero questa Elena, ma prima vuole pulire le sue schifezze..
E poi l'evento forse più importante, che collega anche il prossimo capitolo e che segna più o meno un giro di boa, è l'ultima parte..
E' quel nome che Elena ha sentito pronunciare da Stefan, ma voi no..
E allora vi lascio con questo dubbio.. ma per farmi perdonare vi svelo che il prossimo capitolo è in parte già scritto, quindi non dovrete aspettare molto!

Un bacio a tutte!
E buon TVD's day...e che la Plec ce la mandi buona... anche se ho un brutto, bruttissimo presentimento.....

Ale

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12° ***


“Le avversità assomigliano a un forte vento che non soltanto ci tiene lontani dai luoghi in cui altrimenti saremmo potuti andare, ma ci strappa anche di dosso tutto il superfluo, cosicché in seguito ci vediamo come realmente siamo, e non come ci piacerebbe essere.”
 
(Memorie di una geisha _ Arthur Golden)
 
 
 
 
 
 

Elena

 
«Dov’è?»
 
Entro nel pronto soccorso senza neanche aspettare che la porta a vetri si apra del tutto.
Mi precipito dentro, seguita da Stefan e Bonnie, continuando a ripetere la mia domanda tipo mantra, sprezzante del medico che ora sta cercando di fermarmi e farmi abbassare il tono di voce.
 
«Dov’è?»
 
Il medico mi guarda non avendo la minima idea di chi io stia cercando, è intento principalmente ad impedirmi di oltrepassare le porte che portano ai reparti e alle sale operatorie.
Sono nel panico, non so neanche come ci sia arrivata qui, come abbia fatto a non svenire e salire in macchina di Stefan, lasciando mia madre, mio fratello e Mattew nel bel mezzo dei festeggiamenti di quello che sarebbe dovuto essere uno dei giorni più importanti della mia vita.
Ho ancora questo stupido tailleur e queste scarpe con il tacco che mi stanno massacrando i piedi e che toglierei all’istante, per colpire questo insulso medico che non mi fa oltrepassare questa inutile porta e mi invita a calmarmi.
Non lo sa cosa sta succedendo dentro di me, non lo sa che il cuore mi si è fermato, che il sangue non sta circolando più nel mio corpo, che sto diventando fredda come un pezzetto di ghiaccio, che il cervello mi si è annebbiato e il respiro sta diventando sempre più spezzato e faticoso.
Non lo sa che mi sento morire, che ho lasciato libero accesso a tutte le mie paure più nascoste e più temibili, non lo sa che sono terrorizzata dall’idea di perdere la mia migliore amica, per un incidente che forse ha causato il suo, non so più se ex, fidanzato.
Non lo sa tutto questo, perché altrimenti mi lascerebbe raggiungere Caroline e stringerle la mano per assicurarmi che stia bene.
 
«Signorina non può entrare qui, la prego.»
 
«Elena…»
 
La mamma di Caroline è alle mie spalle, in piedi e con gli occhi gonfi e rossi di lacrime, mi blocca sfiorandomi il braccio. Io mi volto e l’abbraccio con tutta la forza che ho, la sento trattenersi e poi piangere addosso a me, stringermi forte come volesse appendersi alle mie spalle per non crollare a terra.
La lascio fare e continuo a stringerla, finché non la sento calmarsi quel tanto che basta a scostarmi leggermente.
 
«Liz… cos’è successo? Come sta?»
 
Lei si asciuga le lacrime con il palmo della mano, cerca di respirare profondamente e poi fa un passo indietro, cercando di recuperare un po’ di quella compostezza che non ha più da quando l’hanno chiamata per dirle che stavano portando sua figlia al pronto soccorso.
 
«E’ ancora in sala operatoria, è arrivata con un trauma cranico e priva di conoscenza… non so altro, non mi dicono niente…»
 
Le si spezza la voce e le salgono di nuovo le lacrime mentre si porta una mano alla bocca per coprire un singhiozzo.
Anche le mie mani salgono da sole verso la mia bocca, bloccandomi l’accesso per l’aria che tanto non riuscirei ad ingoiare in nessun modo, spalanco gli occhi che mi si annebbiano per le lacrime che sento salire e scendere piano sulle mie guance.
Stefan mi passa un braccio intorno alle spalle stringendomi a sé e con l’altra mano accarezza il braccio di Liz, allibito e spaventato anche lui.
Bonnie è impietrita ed immobile dietro di me, con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo perso, vuoto.
Il medico ci invita di nuovo ad allontanarci da lì, assicurandoci che appena ci saranno notizie verrà fuori ad informarci. E’ così che ci avviciniamo alla saletta d’aspetto alla nostra sinistra ed è così che allargo la mia visuale sulle persone che sono in questa stanza e lo vedo.
 
Klaus è proprio davanti a me, in piedi, con la schiena poggiata sul muro e lo sguardo basso, colpevole.
Ha un braccio fasciato e delle escoriazioni sul viso e sul labbro, il volto contratto e un livido sulla tempia destra, non capisco cosa ci faccia qui, in piedi, mentre la mia amica è in sala operatoria.
Lui alza la testa mentre io faccio un passo avanti e lo trapasso con lo sguardo.
 
«Elena…»
 
Si raddrizza, stacca la schiena dal muro e mi guarda incerto, con un misto di sorpresa e timore, fa un passo avanti anche lui, diminuendo quella distanza di sicurezza che dovrebbe mantenere, per il suo bene.
Non lo voglio qui, non ha diritto di esserci, né tanto meno di guardarmi con quegli occhi che ora cercano una complicità che non deve neanche permettersi.
I miei occhi sono gelidi e non mi importa se sia o meno colpa sua, Caroline non doveva entrare nella sua vita dal principio e lui non sarebbe dovuto mai tornare.
Se potessi disintegrarlo con uno sguardo lo farei all’istante, perché è proprio quello che sto cercando di fare, vorrei prenderlo a pugni, strappargli quei punti che gli hanno messo sulla fronte e lasciarlo dissanguare.
La rabbia che provo è troppa per riuscire a trattenerla per questo annullo la distanza, mentre lui resta immobile.
 
«Tu… se non ne uscirà viva sappi che sarà solo colpa tua.»
 
Sono cattiva e ne sono consapevole.
Non mi interessa.
L’Elena buona e compassionevole non c’è più, non c’è più l’Elena pronta a giustificare tutti e a trovare una spiegazione ad ogni cosa, ad ogni comportamento. A quell’Elena hanno spezzato il cuore, l’hanno umiliata, presa in giro, l’hanno delusa, le hanno rovinato il giorno della propria laurea. Quell’Elena non è più disposta a scendere a patti con niente e nessuno, non le interessa più essere approvata o giudicata.
 
«Elena è stato un incidente… un camion ha sbandato e ci è venuto addosso… io non…»
«Non ci provare Klaus. Non ci provare neanche a difenderti. Non voglio sentire niente che esca dalla tua bocca.»
 
Mi si incrina la voce che mi esce grave, dura, spezzata.
Lui non si muove e io continuo a guardarlo ad un metro di distanza, sperando che gli esploda la testa da un momento all’altro.
 
«Elena…»
 
Stavolta la voce è di qualcun altro, la riconosco perché è calda, profonda e accompagnata da due occhi troppo azzurri, che adesso appaiono più scuri e che mi scaldano dentro, sciolgono un attimo quel gelo che provo e mi fanno pizzicare gli occhi.
Damon mi accarezza piano la schiena per calmarmi e ora sento anche il suo odore addosso a me.
 
«Elena mi dispiace… la stavo accompagnando da te, volevo solo darle un passaggio per fare più in fretta.»
 
Di nuovo la sua voce e di nuovo i miei occhi che tornano di ghiaccio.
 
«E perché tu sei qui e lei no?»
 
E’ gelido il mio tono, freddo, non urlo, non mi muovo, lo guardo solamente. E lo so che non si augura niente del genere a nessuno, che in fondo non è davvero colpa sua, ma non mi importa. Quelle parole mi escono senza controllo, voglio fargli del male, voglio che provi il dolore che la mia amica sta provando in questo momento.
E ho bisogno di prendermela con qualcuno, ho bisogno di incazzarmi per le scelte di Caroline, per me, per Damon, per questa impotenza che mi sta distruggendo, per questa rabbia che mi sta esplodendo dentro e che fa male, fa troppo male e non mi lascia respirare.
Lui prova ad allungare una mano verso di me, verso il mio braccio per cercare un contatto, un qualcosa per avvicinarsi a me, in qualche modo, io abbasso lo sguardo verso la sua mano e poi lo rialzo piano su di lui, minacciosa.
Capisce, si ferma ed interrompe quel gesto, tornando al suo posto.
Non le voglio le sue mani addosso, non voglio le mani di nessuno addosso in questo momento, se non quelle di Damon.
E’ solo lui che voglio ora, nonostante tutto, nonostante lui, nonostante me.
E’ lui che mi da la forza per sostenere un confronto che non intendo perdere, che mi sorregge per non farmi annegare nel mare di emozioni e paure che mi si sono scatenate dentro.
 
«Vattene, nessuno ti vuole qui.»
«Elena, calmati dai.»
 
Ci riprova ancora a toccarmi e a quel punto esplodo. Lo scanso bruscamente, lo spingo, gli sbatto i pugni contro.
 
«Non osare toccarmi. Vattene, vattene da qui.»
 
Urlo, scandendo ogni minima parola, ogni minimo colpo, infischiandomene delle persone che ci stanno osservando, che hanno abbandonato i loro telefonini, hanno smesso di parlare, di passeggiare avanti e indietro per alzare lo sguardo su di noi e prestarci attenzione.
 
«Elena, mi fai male al braccio!»
 
Una leggera smorfia di dolore gli contorce il viso, socchiude gli occhi e arriccia la bocca, il che mi da la forza per continuare a fargli male.
 
«Io ti odio, ti ho sempre odiato!»
 
Lo colpisco ancora e lui cerca di schivare i miei colpi, senza reagire. Potrebbe davvero farmi male se volesse, lo so io e lo sa anche lui che contrae la mascella controllandosi più che può.
Forse lo sto sfidando, per vedere fino a che punto sia davvero così bastardo, per vedere se davvero oserebbe mai toccarmi, per spingerlo realmente a farlo, così da poter avere un’altra cosa da rinfacciargli, così da assicurarmi un perdono che Caroline non potrebbe mai concedergli.
Continuo a sbattere i miei pugni sul suo petto, voglio che sparisca definitivamente dalla sua e dalla nostra vita.
 
«Sei un bastardo, le hai rovinato la vita!»
«Adesso basta piantala!»
 
Klaus blocca il mio polso con la sua mano, prima che il mio pugno lo colpisca ancora, stringe appena, senza farmi realmente male ma è abbastanza forte da non darmi la possibilità di liberarmi.
Io lo sfido con lo sguardo, resto in attesa a scrutare la sua reazione che stenta ad arrivare, per questo lo incalzo ancora.
 
«Lasciami immediatamente.»
«Tu smettila di colpirmi.»
«Mollala Klaus
 
La voce di Damon si intromette di nuovo, ma stavolta lo fa con tutto il suo corpo, che prepotente si para improvvisamente davanti a me, nello spazio libero tra me e Klaus. Non riesco a scorgere l’espressione di Damon, ma vedo gli occhi di Klaus che si allargano leggermente, la sua testa che indietreggia e si inclina e un sorriso insolito che si apre leggermente.
Sento le sue dita allargarsi e mollare un po’ la presa, quel tanto che mi basta per liberarmi e portarmi il polso al petto, per massaggiarlo con l’altra mano.
Lo sguardo di Klaus è ancora in quello di Damon, che non si muove, ha i pugni stretti lungo i fianchi, le mani talmente chiuse che ne riesco a distinguere le vene che pulsano e il colorito roseo che diventa quasi bianco.
D’impulso gli sfioro un pugno, per calmarlo, per farglielo distendere, lui lo ritrae istintivamente, come se a toccarlo fosse stato uno spillo affilato e si fosse appena punto, ma poi respira, lo sento buttare fuori l’aria e lo vedo sciogliere quella mano, aprirla e fare un passo indietro.
 
«Ecco, bravi, non mi sembra il caso di dare spettacolo qui.»
 
Klaus sospira soddisfatto, come se entrambi ci fossimo arresi ed è proprio questa la vittoria che non voglio dargli, per questo mi avvento di nuovo su di lui, superando la barriera che Damon ha costruito davanti a me, lo colpisco di nuovo con i pugni, vivida ancora di rabbia.
 
«La pagherai Klaus! Pagherai per tutto sappilo!»
 
E’ Damon stavolta a toccarmi, di nuovo, a fermarmi, mi afferra da dietro, mi blocca le braccia e mi tira indietro, sul suo petto, trattenendomi.
 
«Ehi, ehi. Calmati, basta. Usciamo un attimo da qui.»
 
Mi porta via, senza darmi il tempo di replicare, senza lasciarmi finire di insultare e aggredire quel bastardo che ora abbassa lo sguardo impregnato di una tristezza che mi fa salire il veleno ancora di più.
Mi trascina nel giardino dell’ospedale, lontano da tutti, lontano da Klaus, lontano da me, dalla mia rabbia che ora si sta trasformando in paura, angoscia, dolore.
Si ferma quando raggiunge un muretto, vicino ai parcheggi, isolato dall’entrata principale.
Solo a quel punto allenta la presa, allarga le braccia con le quali ancora mi teneva stretta, mi da spazio, mette quella distanza che io non gli ho mai chiesto ma che mi permette di respirare.
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Elena ha il fiato corto, le guance livide di rabbia, gli occhi infuocati, le labbra che tremano e i gomiti stretti sotto al seno, i capelli sciolti che le cadono ribelli sulle spalle, non l’ho mai vista in questo stato, neanche quando la sua rabbia aveva deciso di scagliarla addosso a me.
Glielo leggo nello sguardo, che ora cerca il mio, che stavolta è diverso, che le si sta sgretolando il terreno da sotto i piedi, che si regge in piedi per miracolo, per quell’adrenalina che le circola nel sangue, un po’ per la paura, un po’ per la giornata, di cui porta ancora i vestiti addosso e che la rendono perfettamente donna e assolutamente irresistibile.
 
Si è laureata.
 
Si è laureata poco più di un’ora fa e adesso è qui, a piangere, urlare, prendere a pugni Klaus, terrorizzata e spaventata dal perdere la sua migliore amica, la nostra migliore amica.
E non c’è modo per sorreggerla, per toglierle un po’ di questo peso che la sta distruggendo dentro, non c’è niente che si possa fare per toglierle il dolore dagli occhi, dalla pelle, dalle labbra che si sta torturando, che si morde, si bagna, tira in dentro, apre, chiude, tiene serrate per non far uscire quell’urlo che le sbatte tra i denti e le torna in gola.
Averla davanti a me, in queste condizioni, nuda nelle sue emozioni fino al midollo, scioglie irrimediabilmente ed incondizionatamente ogni armatura, ogni barriera che mi sono incollato addosso per tenerla lontana.
Non regge più nulla, non ha senso più niente, non me ne frega più niente dell’agenzia, del sentirmi inadeguato, fallito, non all’altezza. Non me ne frega più niente se lei è qui e mi chiama con lo sguardo, con questi occhi da cerbiatto terrorizzato, traballanti, in cerca di un appiglio che non so come darle, che non so dove trovare.
Vorrei cercare di essere forte per lei, per dirle che andrà tutto bene ma non ci credo neanche io, ho la sua stessa paura negli occhi, nel cuore, tra le mani.
Mi sento impotente e disarmato davanti a lei.
 
«Come è possibile… come diavolo è potuto succedere Damon?»
 
Interrompe i miei pensieri con una voce bassa, disperata e supplicante, scuotendo la testa, incapace di dare un senso a tutto questo.
Io non so risponderle, non ce l’ho neanche io una spiegazione, un senso, riesco solo ad avvicinarmi a lei, alzare una mano e accarezzarle la guancia con il dorso della mano, mentre le sistemo i capelli dietro l’orecchio.
Lei segue i miei movimenti con la coda dell’occhio, asseconda i miei gesti inclinando leggermente la testa e socchiudendo gli occhi, poi riporta lo sguardo su di me, con il respiro che si spezza.
 
«Shh… non piangere ti prego, non vorrai rovinare tutto questo bel trucco..»
 
Un po’ ci prova a trattenere quel sorriso dispettoso e spontaneo che le sta nascendo tra le labbra, che per lei non ha diritto ad essere lì, mentre per me è l’appiglio che cercavo per sorreggere entrambi.
Le prendo il viso tra le mani e le parlo piano, sicuro di avere la sua completa attenzione.
 
«Concentriamoci solo su Caroline adesso, ok? Lasciamo fuori Klaus, non ne vale la pena.»
«Non lo voglio vedere mai più..»
 
Sento la sua testa scuotersi tra le mie mani, vedo i suoi occhi allontanarsi di nuovo e faccio ancora più pressione sulle sue guance, per farla tornare da me.
 
«Lo so, neanche io Elena, ma devi stare calma. Caroline avrà bisogno di te quando uscirà di lì e a lui ci penso io, d’accordo?»
 
Annuisce piano, una volta sola, respira profondamente, senza spezzare il fiato, non staccando mai gli occhi da dentro i miei, così allento la presa e la lascio andare.
Resto immobile a ricambiare il suo sguardo per tutto il tempo che le serve per calmarsi e regolarizzare l’aria che entra ed esce dal suo corpo.
Le do tempo, strappiamo minuti neutrali da questa giornata che ha preso una curva inaspettata e ci ha scagliato entrambi sull’asfalto rovente.
 
Solo che, quando rientriamo, lei con le braccia strette al petto ed io, con le mani in tasca, la realtà ci travolge di nuovo, Liz piange seduta su una poltroncina grigia e traballante e Stefan sta cercando di consolarla.
Vedo Elena prima immobilizzarsi, poi precipitarsi da lei, piegarsi sulle ginocchia e portarsi alla sua altezza.
La mamma di Caroline le sussurra qualcosa e l’abbraccia stretta.
Un nodo allo stomaco mi blocca il respiro, il mio cuore si ferma e il fiato si spezza, non oso raggiungerle, non oso sapere.
Non riesco neanche ad immaginarla la mia vita senza la mia migliore amica rompiscatole, che bussa alle dieci di sera alla porta di casa mia, si impossessa del mio gelato, del mio divano, del mio televisore e si addormenta mentre ancora racconta qualcosa che io, ovviamente, non ascolto mai.
Te lo giuro Care,
quando uscirai di qui non mi perderò più una sola tua parola, mi farò sanguinare le orecchie pur di sentire ancora la tua voce, che adesso mi sembra quasi di non ricordare più, di non ritrovare più dentro di me.
La paura di non ricordare quand’è l’ultima volta che ti ho vista o che abbiamo parlato, mi paralizza, mi fa restare fermo, immobile, al centro di questa stanza, finché non è Bonnie a venirmi incontro, a sfiorarmi il braccio con una carezza delicata.
 
«E’ in terapia intensiva, l’intervento è andato bene, ma ancora non si è svegliata… dobbiamo aspettare per avere notizie certe..»
 
Mi parla con un tono delicato, mi spiega il perché di quelle lacrime, cariche di paura, gioia e tensione.
Mi fa tirare un sospiro che si era bloccato a metà e tornare a far battere lentamente il cuore, un colpo dopo l’altro, ridandomi stabilità e accendendo una scintilla di speranza di rivedere i suoi occhi così uguali ai miei.
Alzo lo sguardo verso Elena, ancora accovacciata sui talloni e con le mani strette in quelle di Liz, che ora mi guarda e nei suoi occhi, invece così diversi, leggo tutto ciò che non riesce a dirmi con le parole.
Paura.
Sollievo.
Angoscia.
Attesa.
Complicità.
Domande.
Tante domande, a cui non so rispondere e alle quali lei non cerca davvero risposta, quanto la sicurezza che andrà tutto bene.
E la vuole da me, perché pensa che sia più forte di lei, più controllato e distaccato, quando invece è da sempre lei, quella più brava a gestire le emozioni.
Io sono solo un fiume in piena che travolge ogni cosa, senza barriere, senza argini, dritto verso il mare, lei no, lei è quella che si lascia investire, che vive nelle praterie, sicura dentro le sue mura, che brama la vista dell’oceano, ma non osa avvicinarsi. Lo spia di nascosto, di notte, quando nessuno può vederla, apre la finestra e poggia i gomiti sul davanzale, ne respira l’odore, poi, quando è piena, richiude il vetro, tira giù la tenda a fiori e si rinfila sotto le lenzuola.
Lei scruta il mondo restando al riparo, gioendo segretamente quando la sua casa e le sue cose vengono spazzate via dalla piena, io non conosco sbarramenti, il mare mi chiama e non posso far altro che esplodere, travolgendo tutto.
Nascondo con la piena, il mio bisogno di confini.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Sono rimasta seduta su questa orribile sedia grigia della sala d’aspetto, per circa tre ore, non mi sono mossa, se non per prendere una bottiglietta d’acqua dal distributore di bibite in fondo alla stanza e per andare in bagno.
Mia madre e Jeremy mi hanno raggiunta in ospedale per starmi vicino e avere notizie, visto che non rispondevo al telefono e che non avevo la minima idea di dove fosse finita la mia borsa, finché Stefan non me l’ha riportata, ritrovandola sul sedile posteriore della sua macchina.
Dieci chiamate e cinque messaggi sul mio telefono.
Tra cui anche quelli di Mattew.
Mattew che ho piantato lì, nel mezzo del giardino del campus, a spiegare al mio relatore il perché fossi scappata in quel modo e a raccogliere i complimenti per le mie ricerche e il mio elaborato.
Mattew che è dovuto restare fino al tardo pomeriggio all’università per assistere alle altre tesi a cui aveva collaborato.
Mattew che avrebbe voluto essere con me ma che doveva lavorare.
E forse è meglio così, forse è stato meglio sentirlo solo per telefono, lasciarmi rassicurare con la sua voce calda e un po’ metallica, proveniente dall’altro capo dell’Iphone. Forse va bene così, perché non capirebbe.
Non capirebbe il mio stato, la mia paura, la mia angoscia, il mio vuoto, il mio silenzio, il mio essere una bambina spaventata, non capirebbe perché in questo momento ho solo bisogno di persone intorno a me che sappiano, che conoscano Caroline come la conosco io, che abbiano condiviso qualcosa con lei, tanto quanto l’abbia fatto io.
Ho bisogno di sentirmi al sicuro tra queste persone, di sapere che se alzo lo sguardo, so di trovare occhi che provano ciò che provo io, che sanno come mi sento perché si sentono allo stesso modo.
Ho bisogno di non dover parlare, spiegare, raccontare.
Ho bisogno di silenzi che parlano da soli, di sguardi che capiscono, di gesti che rassicurano.
Per questo gli ho chiesto di non venire, nonostante le sue proteste, per questo ho abbracciato mia madre, mio fratello, mi sono fatta portare un paio di jeans, di scarpe da ginnastica e una maglia per cambiarmi e l’ho mandati via.
Non volevo che vivessero la mia angoscia con me, non volevo perdere questo controllo traballante, che sto cercando di mantenere, e mi facessero crollare tra le loro braccia.
Non ancora, non è ancora il momento di lasciarmi andare.
Voglio stare qui, seduta, ferma, con le gambe raccolte al petto, le braccia strette intorno ad esse, la testa poggiata su questo muro giallo sbiadito e gli occhi chiusi, ad aspettare che Caroline si svegli. Aspettare che esca di qui, che sia sana e salva.
Non la prendo neanche in considerazione la possibilità che non sia così, non ci penso neanche a tutte le cose che ho ancora da dirle e da condividere con lei, non è minimamente in discussione l’eventualità di perdere la mia migliore amica.
Mi si lacererebbe il cuore, non ci proverei neanche ad andare avanti, di nuovo, dopo un dolore del genere, non li raccoglierei proprio i cocci per terra, li lascerei lì, mi lascerei affogare, senza assolutamente provarci a raggiungere la riva.
Non posso perderla, non posso perdere l’unica persona che mi conosce più di me stessa, che mi ama così tanto da farmi male a volte, che mi scuote e mi tratta da adulta, senza vie di fuga.
La sorella che non ho mai avuto e che avrei tanto voluto.
Il mio specchio, la mia verità, la mia sicurezza, nonostante tutto.
Non così, non prima di averla ascoltata per ore ed ore raccontarmi di Klaus e analizzare con lei ogni più piccolo dettaglio del loro chiarimento, non prima di averle confessato che non so più dove sto andando, cosa sto facendo con la mia vita sentimentale, non così.. non adesso. 
Sto cercando di contenermi, di restare calma per lei, come mi ha chiesto Damon, perché avrà bisogno di me, perché sua madre crollerà tra le lacrime quando lei si sveglierà e sarò io poi a dover tenere su entrambe.
Non posso e non devo esplodere.
E un po’ mi ha aiutato che Damon abbia mandato via Klaus, che l’abbia portato fuori di qui, gli abbia detto non so cosa e l’abbia costretto ad andarsene, promettendogli forse di fargli sapere appena ci saranno novità. L’ho visto tornare da solo, Damon, con lo sguardo duro, affaticato, con i pugni ancora stretti e sedersi di fronte a me, sull’altra fila di panchine grigie unite e fissate al muro, calarsi gli occhiali scuri sugli occhi e tirare la testa indietro, in un lunghissimo sospiro.
Vorrei abbracciarlo, vorrei tanto accarezzare i suoi occhi, il suo volto contratto, tenere le sue mani tra le mie, vorrei dirgli che non è solo, che io ci sono, comunque, anche con il cuore a pezzi, anche senza parole e con gli occhi gonfi e che non deve per forza fare l’eroe, che può mostrare qualche emozione, può andare oltre i limiti senza distruggersi e senza distruggere ciò che è intorno a lui.
Adesso però non riesco a muovermi, a trovare quel coraggio per alzarmi e andare da lui, adesso, con il buio che ormai è calato da ore, dopo aver salutato Stefan e Bonnie che sono tornati a casa per ripassare domattina ed essere rimasta qui, senza muovermi, senza mangiare, insieme a Damon e alla mamma di Caroline, adesso, sento gli occhi chiudersi da soli, il corpo diventare pesante e la tensione di tutta questa giornata prendere il sopravvento.
Mi muovo in completo silenzio e, con tutta la lentezza che mi ritrovo, mi stendo su queste sedie, piegando un braccio sotto la testa per farmi da cuscino, rannicchiando le gambe per quanto posso verso il petto e allontanando tutti i rumori presenti, fino a non sentire più niente, se non il mio respiro pesante e profondo.
 
«Ehi…»
 
Una voce lontana ed ovattata prova a svegliarmi, dopo non so quanto tempo che lotto con queste sedie per trovare la giusta posizione, ma non ce la faccio ad aprire gli occhi e continuo solo a respirare, calma, lenta.
 
 
 
 
 
 

Damon

 
«Elena..»
 
Ci riprovo a chiamarla, piano, delicato, mentre intorno a noi non c’è quasi più nessuno, neanche Liz, che grazie forse alla pietà di un dottore è riuscita ad entrare nel reparto di terapia intensiva, dove è ancora Caroline, priva di coscienza e imbottita di farmaci, senza però poterla vedere, ma ad un passo dalla sua stanza.
Non ci sono più neanche Ric ed Enzo, che erano passati per avere notizie, c’è solamente un ragazzo, che continua a fare avanti e indietro tra questa stanza e il pronto soccorso, nervoso e sfinito anche lui.
Sono le due di notte e da più di un’ora e mezza Elena si sta contorcendo su queste panchine scomodissime, provando a dormire un po’, stremata da questa lunghissima e pesantissima giornata.
Voglio portarla via di qui, voglio portarla a casa sua, per questo mi sono avvicinato e sto provando a svegliarla.
Si muove appena con la mia voce che le soffia vicino il viso e con il dorso del mio dito che prova a sfiorarle una guancia, che ne segna il profilo fino a sotto il mento, per poi tornare sullo zigomo.
Le accarezzo la pelle olivastra, morbida come seta, e lei trasale leggermente.
Arriccia il naso, la fronte, si stropiccia gli occhi con il dorso della mano chiusa a pugno, sembra una bambina, svegliata da una luce prepotente entrata nella sua cameretta.
 
«Damon..»
 
Finalmente mi sente, mi riconosce, socchiude un occhio per guardarmi, biascica qualcosa di incomprensibile e poi lo richiude, scacciandomi via con la stessa mano ma prima che io provi ad insistere ancora, lei spalanca gli occhi dentro i miei, scatta seduta e mi guarda terrorizzata.
 
«Caroline!»
«No, no, va tutto bene, non ci sono novità, voglio solo portarti a casa.»
 
Le stringo appena le spalle per calmarla e bloccare la sua ansia, lei si divincola pigramente e si stende di nuovo sulle sedie, col braccio sotto la testa per continuare a farle da cuscino e i capelli sparsi sul sedile.
 
«Elena, ehi no, guardami.. dai alzati, andiamo via di qui.»
 
La scuoto leggermente, provando a farla risedere, lei mi scaccia ancora con la stessa mano con cui si è strofinata gli occhi e che ora tiene raccolta vicino al viso, solo che è ancora assonnata e il gesto risulta troppo debole per opporsi davvero.
 
«Damon no, voglio restare qui, lasciami qui..»
«Elena sono andati via tutti. Liz ci chiamerà se ci saranno notizie e torneremo immediatamente.»
«Damon no.. lasciami stare.»
«Elena hai bisogno di dormire, in un letto possibilmente. Ti riaccompagno qui domani mattina, te lo prometto. Dai andiamo via, non serve restare qui.»
 
Non so se è il mio tono deciso, la mia presa ferma sulle sue spalle, la sua stanchezza che le rallenta i riflessi e le abbassa le barriere, impedendole di ribattere, ma si alza, piano, poggia la testa sulla mia spalla e raccoglie un mano sotto il mento, nella stessa posizione di quando era sdraiata. Io le passo un braccio intorno alla vita per sorreggerla e la sento abbandonarsi completamente su di me.
Lentamente mi avvicino all’uscita, mi assicuro che i suoi passi seguano i miei, uno dopo l’altro, un piede davanti all’altro.
Raggiungiamo il parcheggio principale e la mia moto, con la quale stamattina sono sfrecciato qui dopo la chiamata della mamma di Caroline e prima di poter raggiungere Andie per concludere l’accordo, e solo in questo momento mi accorgo che ha richiuso gli occhi.
 
«Elena, devi salire in moto, ce la fai a restare sveglia?»
 
Lei annuisce sommessamente, senza aprire gli occhi.
Io le alzo il viso poggiandole due dita sotto il mento e la costringo a guardarmi, soffiandole a pochi centimetri.
 
«Elena guardami. Devi restare sveglia, per favore
 
Lei fa uno sforzo enorme per aprirli, se li stropiccia ancora e finalmente li posa dentro i miei, respirando forte.
 
«Ok..»
 
Le sorrido dolcemente e allontano per un attimo il braccio che tenevo ancora intorno ai suoi fianchi, la vedo traballare per un momento e poi stringersi alla tracolla della borsa, come per ritrovare l’equilibrio.
Sono costretto ad infilarle il casco che è enorme sulla sua testa e la fa sembrare ancora più piccola ed esile, mi assicuro che si allacciato bene e togliendo il cavalletto dalla moto, salgo e la aiuto a montare.
Si sistema dietro e solo quando sento le sue braccia stringersi attorno a me, do gas e parto.
Non corro, controllo costantemente la pressione con cui mi stringe, ho paura che si addormenti ancora, per questo appena sento che allenta leggermente la presa, tolgo una mano dal manubrio e la stringo intorno al suo polso, per scuoterla ed impedirle di mollare.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Sento la pressione delle mani di Damon che mi costringe a restare sveglia, a tenerlo saldo, a non lasciarmi andare.
E sarebbe tanto facile, sarebbe semplicissimo mollare i suoi fianchi, allontanare la mia testa e il mio petto dalla sua schiena e scivolare indietro, facendomi spingere dal vento sull’asfalto.
Solo che lui non me lo permette.
Mi lascia andare solamente quando ormai siamo sotto casa mia ed è obbligato a fermarmi e staccarsi da me per farmi scendere.
 
«Arrivati..»
 
La sua voce mi riporta ad una realtà da cui ero riuscita a distaccarmi, mi fa tornare in mente che la mia amica ancora non si è svegliata e che io sto morendo di paura.
Non parlo e non mi muovo.
Lui mette il cavalletto alla moto, mi chiede qualcosa su dove abbia le chiavi di casa, mi guarda, mi domanda se sono sveglia.
Ma io non parlo e non mi muovo ancora.
 
«Elena..»
 
Mi alza di nuovo il mento con due dita, stavolta mi osserva preoccupato, perché lo sa che sto per cedere, lo sa che sto mollando la presa e mi sto lasciando annegare.
Sollevo lentamente gli occhi, senza muovere nessun altro muscolo e lo guardo per un secondo prima di riabbassarli, non ce la faccio a tenerli su di lui, a specchiarmi dentro il suo mare, ma in quell’attimo lo so che scorge la stessa inquietudine e paura che attanaglia lui.
So che la vede quella leggera patina che sta iniziando ad inondarmi lo sguardo.
 
«Ehi.. no, ti prego Elena non piangere..»
«Damon..»
 
Aiutami.
 
«Sono qui.»
«Damon..»
 
Non lasciarmi andare.
 
«Elena guardami, sono qui.»
 
Fa un passo mangiandosi ogni più piccola distanza tra di noi, mi stringe il viso tra le mani, mi incatena a lui, ai suoi occhi, ferma i miei pensieri, calma il mio cuore, mi accarezza con i pollici le guance, cattura la mia attenzione e io mi lascio salvare.
Alzo le mie mani poggiandole sopra le sue, incastro le nostre dita e stringo un po’ di più.
Lo imploro con lo sguardo.
 
«Resta con me, per favore..»
 
Mi esce così quella richiesta, svincolata da barriere che sono troppo stanca per tenere su, mischiata a sentimenti semplici eppure complicati, perché complicata sono io, complicato è lui, complicato è il nostro rapporto, complicati siamo noi due insieme.
Lui è spiazzato, come lo sono io, indietreggia leggermente la testa e mi scruta, dall’azzurro intenso delle sue iridi al marrone incerto delle mie.
Non si aspettava la mia resa, il mio volerlo qui, il mio trattenerlo, con mani, parole e occhi, dopo tutto quello che c’è stato o non stato tra di noi, dopo essermene andata via da sotto il suo corpo che mi schiacciava contro il muro, dopo aver messo le mani avanti, dopo il suo riprendermi e il mio sfuggirgli.
E’ titubante e ci mette quell’attimo di troppo per rispondere, quell’attimo che mi sembra interminabile perché ci leggo dentro tutte le sue chiusure e tutte le mie paure, mi preparo alla freddezza con cui credo stia preparando la sua risposta.
Me la meriterei, non potrei rinfacciargli nulla.
 
«Resto finché vuoi.»
 
Alla fine me lo sussurra in un sospiro, facendomi spalancare gli occhi e riuscendo ad allargarmi le labbra in un piccolo, silenzioso, triste sorriso.
 
Quando saliamo la mia gatta mi accoglie come non ha mai fatto, quasi sapesse che giornata devastante sia stata la mia, si struscia tra le mie gambe, mi fa le fusa, si alza sulle gambe posteriori per giocare con i lacci delle mie scarpe e poi torna a strusciarsi sui miei jeans.
Damon ci guarda sorridendo, si scompiglia leggermente i capelli e si accoccola sui talloni, allungando il dorso della mano verso Amélie per lasciarla avvicinare e annusarlo. Appena lei inizia a dare dei leggeri colpi con la testa sotto la sua mano, accennando delle piccole fusa, lui capisce che può accarezzarla senza farla scappare.
Alzo gli occhi al cielo, rassegnata alla facilità con cui anche la mia gatta ha ceduto inevitabilmente a lui e scioccata per il modo con cui Damon le da tempo e ne comprende i bisogni.
Li lascio da soli, andando a cercare tra i cassetti del mio armadio qualcosa che possa somigliare ad un pigiama per lui e trovo una vecchia maglia e un vecchio pantaloncino di mio fratello, che usa quando viene a dormire da me.
Dovrebbe andargli bene, lo prendo e glielo porgo mentre lui mi ha già raggiunta in camera.
Damon guarda con sospetto quei vestiti ma non fa domande, li prende e mi chiede dove sia il bagno per andarsi a cambiare.
Mentre lui è dentro, mi cambio anch’io, indosso la mia canottiera e i pantaloncini, senza curarmi di riporre niente al proprio posto, mi getto sfinita sul mio letto, raggomitolandomi sotto il lenzuolo e lasciando solo un accenno di testa che sbuca fuori per respirare.
E’ stata una giornata infinita, tra qualche ora ne inizierà un’altra altrettanto sfiancante e io non sono decisamente pronta.
Quando questa mattina ho aperto gli occhi mi si prospettava una mattinata sfavillante, fatta di emozioni intense, di paure che sarebbero state scacciate via in un lampo, ricompensate dalla felicità di essere finalmente grandeall’altezza, pronta per il mondo. Invece quelle paure sono diventate terrore, si sono trasformate in lacrime, angoscia, rabbia, dolore.
Di nuovo il mondo che si prende gioco di me.
Di nuovo quello schiaffo di cui porto ancora i segni.
Di nuovo il cuore che si spezza e il vuoto che mi stringe lo stomaco.
E proprio adesso, quando sono finalmente nel mio letto, tra le mie cose, tra le mie sicurezze, il terreno si apre ancora sotto di me per risucchiarmi giù, nel nero più nero.
E allora ripenso a mio padre che non c’è più, all’impotenza che ho provato e che provo tutt’ora, all’ira che mi esplode dentro, al dolore che è venuto fuori dal giorno alla notte, senza preavviso, senza preparazione, al vuoto che rimane.
I miei occhi iniziano ad annebbiarsi e più sento freddo nel cuore, più il mio corpo si raggomitola su se stesso in cerca di calore, di protezione.
E non lo sento neanche Damon che si avvicina al letto, non voglio sentire più niente, vorrei addormentarmi e basta, vorrei che questa giornata finisse e che domani tutto questo fosse solo il ricordo di un bruttissimo incubo.
Vorrei svegliarmi domattina con la voce squillante di Caroline che non può aspettare che io sia completamente sveglia per avere la mia attenzione, vorrei raccontarle di aver sognato di correre in ospedale per lei, proprio il giorno della mia laurea, a causa di un incidente avvenuto mentre lei era in macchina con Klaus. Vorrei che lei ci analizzasse le mie paure, le mie ansie riguardo la sua storia con lui, vorrei che si mettesse a ridere, dandomi della sciocca sentimentale e mi dicesse ‘va tutto bene tranquilla, sono qui, l’ho mandato a quel paese, non lo rivedremo mai più’.
Vorrei chiamarla adesso, solo per dirle che le voglio bene, solo per avere la certezza che lo sappia.
Sono un’egoista ma sono io ad aver bisogno di lei, mi sento precipitare e non so come trattenermi, non so dove aggrapparmi.
Non sono forte io.
Sono un’immagine sfocata, sono un’apparenza che non sa di niente, una bugiarda che si illude che la sua vita vada bene così, che non le manchi niente, sono un’ingenua che si accontenta di qualcuno al suo fianco solo per non restare da sola, quando invece sola lo è dentro, sola lo sarà se la sua migliore amica non si sveglierà più.
Non sono forte io.
Sono un velo di seta, un lampo che appena lo vedi non c’è già più, un granello di polvere che viene spazzato via da qualsiasi alito di vento.
Non sono forte io.
Sono un’egoista che ama perché ha troppa paura di non riuscire a lasciarsi amare e una codarda che ha troppa paura di mostrare chi sia davvero.
Sono una ragazzina, sveglia, alle tre di notte, che non sa più come tornare a galla, se non strappando il cerotto da quella ferita che non aveva mai smesso di sanguinare e lasciare che il rosso del sangue, mischiandosi con l’azzurro del mare, attiri l’attenzione di qualcuno e lo lasci avvicinare.
Sono una donna che nel buio di questa camera sta chiedendo ad un uomo che l’ha mandata via, di andarla a riprendere perché da sola non ce la fa, perché ha troppo bisogno che qualcuno le menta e le dica che andrà tutto bene…
E allora sanguino e lascio che il mio cuore sia sulla mia pelle.
Non ce la faccio ad essere forte da sola.
Non ce la faccio stavolta a salvarmi da sola.
Non sento più niente, solo l’odore di Damon che si avvicina e che vorrei mi portasse via dal mio dolore lancinante.
 
«Puoi abbracciarmi?»
 
 
 
 
 
 
Damon
 
«Puoi abbracciarmi?»
 
Me lo sussurra appena, in un soffio, con una voce dolcissima e piccola, quasi si vergognasse di quel bisogno e quella richiesta a cui è riuscita a dare voce.
Si nasconde ancora, non si muove, ha ancora il viso immerso tra le lenzuola, il corpo chiuso in se stesso e il respiro lento, spezzato.
Io mi avvicino, piano, attento a non far rumore, a non respirare quasi, per non spaventarla, per non rompere la delicatezza della sua voce, del suo tono, di quel momento, per non lasciare impronte su quel contorno pulito e perfetto che ora è rannicchiato di fronte a me.
Mi stendo accanto al suo corpo che mi da le spalle, le passo un braccio intorno ai fianchi e lo incastro tra le sue braccia, mentre l’altro non so dove metterlo, non so come fare ad abbracciarla, non so come si abbraccia una donna che ti chiede di abbracciarla con quella tristezza.
Non so dove mettere le mani.
Ho paura di farle male, di sbagliare, di essere incompleto, anche solo sfiorandola.
Poi è lei che si muove, indietreggia leggermente, per far aderire di più la sua schiena al mio petto, afferra con la sua mano il polso del braccio che le ho passato intorno ai fianchi e lo fa scivolare verso il suo seno, fino a sotto il suo mento, dove posso sentire il suo respiro sfiorarmi la pelle delle dita.
Alza lievemente la testa e la muove verso il cuscino e sulla mia spalla, cercando l’altro mio braccio per poggiarcisi. Io la assecondo, incastro il mio braccio sotto di lei e lo piego verso le nostre mani incrociate, per avvolgerla completamente.
Restiamo immobili, stretti l’uno nell’altro, lei che si lascia prendere, io che non voglio scappare.
Passano minuti, silenzi, vite, quando finalmente la sento respirare profondamente e posso lasciarmi andare anch’io, posso chiudere gli occhi e provare a dormire per qualche ora, prima che i primi raggi di sole inizino ad invadere la stanza.
 
Un sussulto che le parte dallo stomaco e io apro gli occhi spaventato.
Lo sento perché ce l’ho addosso Elena, ce l’ho incastrata in me, dentro di me, ogni suo respiro lo sento sul mio petto che aderisce alla sua schiena, ogni suo minimo movimento del corpo riesco a percepirlo, come questo nuovo singhiozzo.
Sta piangendo.
Dio, no.
Non sono mai stato in grado di consolare una donna che piange, non so proprio come diamine si faccia, cosa si debba dire. Nessuna ha mai pianto davanti a me, non in questo modo, non addosso a me, non per qualcosa di cui non fossi io la causa. Non per qualche problema che non fosse legato al mio essere uno stronzo, a qualche battuta che avrei potuto risparmiarmi, a qualche illusione che avevo spinto a costruire e che ho poi deluso inevitabilmente. Nessuna ha mai cercato me per piangere, per farsi consolare, per farsi abbracciare. Nessuna si è mai affidata così a me, non sono bravo a farlo, non so da dove cominciare.
Nessuna, tranne Caroline, che davanti e addosso a me ha pianto molte volte ma lei è brava, lei sa consolarsi anche da sola, lei lo sa come si fa, io lei, l’ho solo lasciata piangere su di me, offrendole le mie spalle, le mie braccia, il mio cuore.
Lei non mi ha mai chiesto di più, ma con Elena, io non so che fare.
Non so come consolarla mentre piange per quella che è la nostra migliore amica, non lo so perché dovrebbe esserci lei a farlo, a stringerla tra le braccia e dirle che andrà tutto bene. Dovrebbe esserci la sua migliore amica che sa come si fa, che sa come si fa ad abbracciare Elena, perché ha bisogno di lei e io non lo so prendere il suo posto.
Io non voglio prenderlo.
Io voglio che Caroline esca da lì e la abbracci. Voglio che esca di lì e mi abbracci e mi insegni a farlo, perché ora non riesco a muovermi, né ad essere all’altezza.
 
«Io…non posso perdere anche lei
 
E poi mi spiazza, è ancora lei a muovere un passo, ad aiutarmi ad aiutarla.
Solo allora torno in me e riprendo in mano la situazione.
Capisco che Elena sta pensando a suo padre, è terrorizzata dall’idea che anche la sua migliore amica la abbandoni, che se ne vada lasciandola da sola e io non voglio che lo faccia, non voglio che abbia paura.
Non con me qui, accanto a lei.
 
«Ehi…»
 
La chiamo dolcemente ma con tono fermo, deciso. Lei non si muove, continua a singhiozzare, piano, composta, nonostante stia morendo dentro.
Allora mi decido a voltarla, la faccio girare verso di me, sempre stringendola, non lasciando mai la presa su di lei.
Mi copre ancora il viso, si nasconde sul mio petto, sotto il mio mento, inumidendo la mia maglia con le sue lacrime, come se farle vedere a me, riflettersi nei miei occhi, le rendesse troppo reali.
Sono costretto però a farle alzare la testa, ho bisogno dei suoi occhi per scacciare la sua paura, ho bisogno che lei mi guardi per trovare la forza di farlo, ho bisogno di lei che ha bisogno di me.
Le prendo il volto tra le mani e copro quelle guance umide, asciugando con i pollici le sue lacrime, lo alzo appena e mi abbasso leggermente per poter finalmente incontrare il suo sguardo.
Gli occhi di una donna che piange sono spiazzanti, terrorizzanti, tanto più quando non sai gestire quel suo dolore, tanto più quando sono quelli di Elena.
Ha gli occhi più grandi che abbia mai visto, languidi, rossi, pieni di lacrime che scendono senza sosta e che le fanno però luccicare lo sguardo.
E’ bellissima, anche quando piange.
 
«Elena.» ripeto, stavolta occhi negli occhi. «Andrà tutto bene, è chiaro?»
«Io, ho così paura Damon… non posso sopravvivere anche a questo.. non posso perderla.. Damon…»
 
Di nuovo una supplica nella sua voce, di nuovo i suoi singhiozzi che le spezzano il fiato, le parole, le richieste.
 
«Non perderai nessuno Elena, noi non perderemo nessuno. Andrà tutto bene.»
 
Adesso sono pronto per dirglielo, per rassicurarla come mi sta chiedendo di fare da questa mattina, per darle la sicurezza che andrà bene, qualsiasi cosa accada, andrà bene.
Lei mi guarda stupita, forse più di me, per quel mio tono deciso, sicuro, accogliente. Poi espira, mentre le si spezza un po’ il respiro e annuisce, piano, lenta, senza staccare gli occhi dai miei, quasi ipnotizzata.
 
«Promettimelo..»
«Te lo prometto. Te lo prometto Elena.»
 
Sono di nuovo io a stupirmi di me, mi avvicino di più al suo viso, faccio una pressione maggiore sul suo viso che ho ancora tra le mani e lo alzo leggermente, ritrovandomi a premere le labbra sulla sua fronte, mentre lei chiude gli occhi.
Lo faccio in modo istintivo, dolce, definitivo e torno a stringerla tra le braccia, restando immobile con il suo respiro addosso e il mio tra i suoi capelli, mentre fuori inizia a piovere, goccia dopo goccia, lampo dopo lampo, tuono dopo tuono.
 
«Non te ne andare…»
 
Me lo sussurra con una voce minuscola e smorzata dalla mia spalla, contro cui ha nascosto la testa e a me sembra di avere una bambina stretta tra le braccia, così piccola e così forte.
Non mi occorre risponderle, non serve neanche a lei avere il mio assenso, mi basta stringere di più le mie braccia intorno al suo corpo, tenerla ancora più addosso per farle capire che non intendo muovermi di qui.
Niente e nessuna persona sulla faccia della terra, compreso me stesso, mi spingerebbe ad allontanarmi da lei.
Non c’è nessun altro posto al mondo in cui vorrei essere in questo momento.
 
 
 
 
"Mentre dormi ti proteggo
e ti sfioro con le dita..
ti respiro e ti trattengo
per averti per sempre,
oltre il tempo di questo momento..
Arrivo in fondo ai tuoi occhi
quando mi abbracci e sorridi..
se mi stringi forte fino a ricambiarmi l'anima..
Questa notte senza luna adesso vola..
tra coriandoli di cielo
e manciate di spuma di mare..
Adesso vola.
 
Sta arrivando il mattino
stammi ancora vicino,
sta piovendo
e non ti vuoi svegliare.
Resta ancora resta per favore..
"

(Mentre dormi _ Max Gazzè)


 
 
 
 
 
 
 ____________________________

Eccomi qui..
Con un capitolo lunghissimo, lo so, perdonatemi.. ma stavolta volevo regalarvelo tutto, senza interruzioni.
Una lunghissima giornata, in cui scopriamo che è Caroline quella coinvolta in un incidente, non me ne vogliate.. e non me ne vogliate neanche per la tristezza, forse eccessiva, del capitolo.. ma vengo, come tutte voi, da una settimana di pura devastazione emotiva per l’ultima puntata di TVD, da cui ancora devo riprendermi!
Spero di non aver peggiorato la vostra situazione.. e mi spiace se il tutto risulta un po’ pesantino..
Ma tanta parte di questo capitolo era già scritto da tempo, volevo arrivare qui per unire Damon ed Elena in qualcosa che li riguardasse da vicino e nel profondo.. e chi se non la loro migliore amica?
E cosa, se non le avversità per eliminare il superfluo?
E basterà tutto questo per andare definitivamente avanti? O passato il momento, rialzate le barriere?

Vedremo..
Intanto grazie a chi trova il tempo per lasciarmi i suoi pensieri e scusate per la non risposta agli ultimi commenti, ma veramente la devastazione mi ha immobilizzata!!

Buonanotte o buongiorno..
Ale

 
 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13° ***



Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.
Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.

 
(Kafka sulla spiaggia _ Haruki Murakami)
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Quattro volte.
Quattro sono le volte in cui provo a scacciare con la mano questo strano prurito sul naso, più lo strofino più lui si ripresenta, leggero, costante.
Sono ancora troppo insonnolita per muovermi e voltarmi dall’altra parte, troppo protetta dal buio delle mie palpebre chiuse, per aprire gli occhi, troppo vuota e con la mente annebbiata per darmi una spiegazione ragionevole, di prima mattina, su cosa mi stia svegliando in questo modo.
Non sento alcun ronzio, né nessun altro rumore ed è inspiegabile come questa cosa si poggi sempre sullo stesso punto, sulla punta del mio naso.
Eppure non è fastidiosa, è più un solletico, un formicolio che si propaga poi, come un brivido, su tutto il mio viso.
Qualcosa di lento, regolare, come un respiro.
Sì, ecco, proprio un respiro…
 
Un respiro?
 
Di certo non il mio…
 
Damon.
 
Spalanco gli occhi nel momento esatto in cui realizzo che sono nel mio letto e che Damon sta dormendo accanto a me, mentre io sono sul suo cuscino, ad un palmo da lui, con la testa esattamente sotto il suo naso, dal quale proviene quel prurito che mi solletica la pelle.
E’ disteso sulla schiena, con la testa voltata verso di me, i capelli scuri arruffati sul cuscino bianco, le labbra contratte, le palpebre chiuse, una piccola ruga che ogni tanto appare sotto il suo occhio e sulla fronte, a causa di piccole smorfie, forse causate da qualche sogno o incubo che gli sta attraversando la mente. Ha ancora un braccio sotto ed intorno al mio fianco e io sono rannicchiata su di lui, con le gambe che sfiorano le sue, una mano accanto al suo viso, sul suo cuscino e l’altra chiusa sul suo petto, all’altezza del cuore.
Damon che questa notte si è preso cura di me, che anzi l’ha fatto per tutto il giorno.
Damon che mi ha salvata, mi ha impedito di affondare, mi ha tenuta stretta per tutto il tempo che mi è servito per piangere tutte le mie lacrime, mi ha rassicurata, abbracciata con una dolcezza e una sicurezza che non sapevo gli appartenessero.
Damon che è rimasto con me, si è addormentato accanto a me, mi ha protetta e sostenuta senza chiedere niente in cambio, senza volere niente per sé.
Damon che ora odora di me e il mio letto che ora profuma di lui.
 
Damon che è ancora qui… nonostante tutto.
 
E io, che non riesco a muovermi, persa dalla visione di lui che dorme accanto a me, spaventata dalla giornata che ci aspetta, preoccupata per come abbia trascorso la notte Caroline, spossata per tutte le lacrime che ho versato, con un mal di testa atroce per le poche e agitate ore di sonno, ma in pace, per essermi svegliata qui, nel candore del mio letto, tra le sue braccia, mentre fuori ancora piove.
In pace sì e forse anche felice.
Ma questo non posso dirlo, né tantomeno pensarlo, non dovrei, non potrei, non sarebbe giusto.
Eppure quella sensazione è qui, dentro di me, da qualche parte nel mio cuore e io, non vorrei più scendere da questo letto.
Vorrei allungare una mano per restituirgli quella carezza che mi ha posato sulla guancia prima di addormentarmi, vorrei accarezzargli i pensieri, tanto da distendere questa sua fronte che continua a corrugarsi nel sonno.
Vorrei posargli un bacio sugli occhi, chiusi ad arginare un mare che mi inonda dentro e che solo lui riesce a placare, ricambiare quella promessa che sono riuscita a strappargli, a tirargli fuori, solo per me, solo per riuscire a farmi calmare.
Se non lo faccio, se sto attenta perfino a respirare e a non fare alcun rumore, è solo per prolungare il più possibile il suo momento di incoscienza.
E’ solo per goderne ancora anche io. Perché quando lui aprirà gli occhi, quando non potrò più fingere di aver fermato il tempo in questa stanza, lasciando il mondo fuori, allora sarà davvero mattina, lui scenderà da questo letto e non saremo più insieme.
La sua fronte che si acciglia di nuovo, però, mi costringe a muovermi, a placare la sua ansia che non vuole saperne di lasciarlo stare perfino nel sonno.
Ed è così che lo faccio, alzo lenta una mano, quella che gli poggiavo sul cuore, per posarla delicata sulla sua guancia.
La tengo lì, sulla sua barba di qualche giorno, che lo rende dannatamente trasandato ed irresistibile, per far abituare la sua pelle a quel nuovo contatto.
Quando lui respira un po’ più forte, espirando in un lungo sospiro e io inizio a sfiorargli piano, con i polpastrelli delle dita, la guancia, il mento e poi le labbra, che si schiudono appena, al mio passaggio, fino a risalire su, verso la fronte, accarezzando e distendendo quelle rughe che non gli danno pace.
E’ nella mia carezza che si sveglia, è tra le mie mani che schiude gli occhi.
Piano, prima socchiudendoli, poi richiudendoli e infine aprendoli completamente dentro i miei, che sono già lì ad aspettarli.
Mi guarda e respira forte.
Azzurro, limpido, come il mare dopo la tempesta.
Ci guardiamo e basta, respirandoci ancora addosso.
Io non mi muovo, resto lì, con la mia mano sulla sua guancia a dirgli tutto ciò che a parole non riesco a fare, con il suo sguardo che mi arriva fin dentro lo stomaco.
Neanche lui si muove, aspetta, mi scruta, immobile, prende tempo per abituarsi a me, per prendere coscienza e me ne concede altrettanto per fare lo stesso.
Aspetta, continuando a respirare.
Mi lascia inspirare quel suo odore di erba appena tagliata, mischiato al profumo buono della sua pelle appena sveglia e restiamo a scegliere se avvicinarci o fuggire via.
Occhi negli occhi.
E poi lo fa, nel momento esatto in cui capisce che non intendo muovermi o sgattaiolare via, che mi fido di lui, nello stesso modo in cui l’ha fatto la mia gatta ieri sera lasciandosi accarezzare, mi sorride.
Alza un angolo della bocca, quello non schiacciato sul cuscino, e mi concede un sorriso buono, dolce, che non ha nulla di sfrontato, ironico o malizioso.
E’ semplicemente Damon, senza maschere, senza fronzoli.
E io non posso far altro che restituirglielo, alzando totalmente il viso su di lui, facendo sfiorare i nostri nasi, mentre lui mi guarda titubante e tormentato, ancora, quanto me.
Lo so che non dovrei, non potrei e non sarebbe giusto, però lui è qui, davanti a me, è rimasto qui e io non ci riesco a non scendere con lo sguardo sulle sue labbra, ancora schiuse dalla mia carezza.
Basterebbe un accenno di movimento, un respiro più intenso che porterebbe lui ad inclinare un po’ di più la testa o me ad alzare leggermente il mento, per sfiorarci anche con le labbra, oltre che con gli occhi.
Ma restiamo fermi, immobili.
A studiarci e odorarci come felini.
Alla fine sono io a fare un passo lontano da lui, scivolo via la mano dalla sua guancia, in ritirata, debole, razionale, graffiandomi appena con la sua barba.
Soltanto che è lui stavolta a farne un altro di passo, verso di me, mi blocca la mano con la sua, fermandola all’altezza del collo, prima che io possa allontanarla del tutto e la riporta lì, sulla sua guancia, aprendo la sua mano tra le mie dita.
Ci specchiamo occhi dentro occhi, ci riflettiamo paure e desideri che ci appartengono e che sono sempre rimasti lì, nello spazio vuoto tra di noi.
Tutto dentro ed intorno a me mi urla che non è giusto, che dovrei preoccuparmi della mia amica, dovrei chiamare sua madre e chiedere notizie, ma non riesco a muovermi perché lui me l’ha promesso.
Me l’ha promesso che sarebbe andato tutto bene, che non l’avremmo persa e io gli credo.
Ed è proprio perché gli credo, ed è proprio perché lui è ancora qui, ed è proprio perché lui non mi lascia andare via, mai, neanche quando ci prova con tutte le sue barriere e con tutte le mie paure, che mi sporgo appena verso di lui e copro con le mie labbra lo spazio vuoto che ci separa e che sa terribilmente di noi.
Lui si lascia baciare, si lascia avvicinare, mi lascia scavalcare i miei confini, tenendomi stretta tra le dita. E io gli lascio a fior di labbra quel grazie che non riesco a dirgli, perché scoprirebbe richieste e bisogni che non voglio mostrare, perché forse non dirlo li può tenere ancora nascosti, come fossero un segreto tra di noi, come se niente fosse mai accaduto per davvero.
Per questo glieli lascio lì, sulla bocca, in un bacio piccolo, dolce, che uso per esaminare le nostre reazioni e apro gli occhi, staccandomi appena di un soffio, alzandoli nei suoi ancora chiusi.
Quando l’azzurro del suo sguardo si dilata nel mio, indietreggio appena con la testa e lui ne approfitta per tirarsi un po’ su, puntellandosi con il gomito sul materasso.
Io torno d’istinto al mio posto, schiacciandomi con la testa sul cuscino, mentre lui continua a guardarmi dall’alto della sua posizione, con il suo corpo che ora è disteso completamente sopra il mio e mi impedisce di muovere anche solo un muscolo.
Non parliamo.
Continuiamo a guardarci e testarci senza dire una sola parola.
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Non l’ho mai fatto.
Non mi sono mai svegliato accanto ad una donna la mattina dopo.
Non ho mai solamente dormito con una donna.
E lo so che la situazione è confusa, drammatica, assolutamente non prevista, lo so che veniamo entrambi da uno sconvolgimento emotivo non indifferente, ma so che siamo qui adesso, mentre fuori inizia a gocciolare sempre meno e il cielo grigio, come la notte appena trascorsa, si schiarisce sempre di più, e vogliamo entrambi la stessa cosa.
Glielo leggo negli occhi, nelle labbra socchiuse in cerca di aria, nel petto che si alza e si abbassa con sempre maggiore frequenza, nelle guance rosse e nel labbro che ora sta stringendo tra i denti.
Solo che io voglio ancora continuare a guardarla e basta, senza toccarla.
Voglio prendermi il mio tempo stavolta, voglio che lei mi restituisca quella promessa, che calmi la mia anima come io ho fatto con la sua, voglio che mi lasci ancora le sue carezze sulla pelle e il suo sapore sulle labbra.
Distribuisco il peso sul mio gomito poggiato un po’ sul materasso e un po’ su di lei, ma solo quel tanto che basta per non farla andare via stavolta, poi la sfioro, come lei ha fatto con me, perché non ce la faccio più, perché voglio farglielo sentire cosa ha scatenato in me.
Le passo il dorso di due dita sulla guancia, accarezzo il suo contorno, giù fino al mento e sul collo nudo e poi torno su, fermandomi sul suo zigomo, mentre lei si lascia toccare ad occhi chiusi, con la testa che accompagna ancora i miei gesti.
Elena è qui, è qui con me, in questo letto, tra le mie mani, sotto il mio corpo, lei c’è, come c’era tra le mie braccia questa notte.
E sono io stavolta ad avvicinarmi alle sue labbra, a poggiare la mia bocca sulla sua e a cercarla in un bacio altrettanto piccolo e lieve, però è lei ora a volerlo approfondire, prendendosi il mio sapore e circondandomi il collo con le braccia per trattenermi su di lei.
Mi cerca e mi stringe e io mi lascio trovare e arginare.
E ora non so più chi cerca chi, chi cura chi, non so più se è lei a trattenermi o se sono io a non volermi staccare, non so più se sono le sue mani quelle che mi stringono i capelli, che mi accarezzano la schiena o se me le sto immaginando.
Non so se è la paura che muove i nostri corpi, le nostre bocche, i nostri pensieri, o se siamo noi, noi e basta.
Non so cosa stia facendo lei, con me, né io con lei, non so se ci stiamo usando a vicenda, ma non importa, non importa se questo significa sentire ciò che sento adesso.
Lei è mia, adesso, ha implorato me di restare, ha chiesto a me di prendermi cura di lei, tra tutte le persone a cui poteva chiedere, lei ha scelto me, si è affidata e io sono restato.
Per questo voglio riempirla di baci, voglio coprire la sua pelle con il mio sapore, voglio accarezzarle la pelle nuda del collo, infilare una mano sotto la sua maglia, voglio lasciarglielo addosso il mio odore quando la notte avrà paura e non saprà dove cercarmi, voglio tatuarmelo addosso il suo corpo che cerca il mio, il suo profumo di sapori orientali, le sue gambe che si intrecciano con le mie, voglio…
 
Cosa?!
Che diamine succede ora?
 
Elena mi toglie la sua bocca, allontana le sue mani dalla mia pelle, la vibrazione del suo telefono la riporta alla realtà e il suo brusco cambiamento ci riporta me.
Allunga d’istinto una mano sul comodino per afferrare quell’aggeggio infernale, scruta quel nome che lampeggia e io le lascio spazio, torniamo a mettere distanza tra di noi, scivolo di lato, adagiandomi completamente con la schiena sul materasso.
Devo respirare un attimo, devo calmare il mio corpo e i miei pensieri.
Devo ritrovare l’autocontrollo per affrontare questa giornata che ha inizio esattamente in questo istante.
 
«Matt…»
 
Chiudo gli occhi al suono della sua voce, al suono dell’unica parola che le sento pronunciare da quando la sua carezza mi ha svegliato e ha disteso i miei pensieri, quell’unica parola che chiama un nome che non vorrei più sentire e che invece è più presente di me.
Lei si tira su con la schiena, porta le ginocchia al petto, le circonda con una mano e con l’altra tiene premuto il telefono sull’orecchio sinistro, quello più lontano da me.
Lascia che i suoi capelli le scivolino sulla spalla, coprendomi la sua visuale.
Si nasconde da me.
Per questo mi alzo, senza più guardarla, la lascio sola con quello che dovrebbe essere il suo ragazzo, prendo i miei vestiti, lasciati la notte su una sedia accanto all’armadio e, a piedi nudi, raggiungo il bagno, chiudendomici dentro.
 
Quando, un quarto d’ora dopo, esco, la trovo già vestita, in cucina, con lo sguardo basso, la caffettiera in mano con il caffè già pronto e due tazze in cui sta versando quel liquido scuro.
Non appena ne raggiunge il limite, posa la caffettiera sul quadratino poggia pentola a pallini colorati, afferra entrambe le tazze e me ne porge una, alzando appena lo sguardo su di me, per poi allontanarsi imbarazzata ed incerta e sedersi su una sedia accanto al piccolo tavolino.
Io porto quel caffè caldo e amaro alla bocca ma resto in piedi.
 
«Ho chiamato la mamma di Care. Dice che ha passato la notte senza problemi, i valori sono buoni e i medici sono ottimisti. Le stanno abbassando i farmaci per provare a svegliarla.»
 
Me lo dice veloce, quasi tutto d’un fiato, come se potesse rimediare a quell’impaccio e coprire quel silenzio con pezzi che non combaciano, che non si incastrano.
Io annuisco e basta, senza considerarla.
Non so perché mi infastidisca così, ora, averla davanti a me, lo so che in fondo stavamo facendo qualcosa di sbagliato, per la situazione, perché lei sta con un altro, perché io l’ho mandata via, perché poi ho voluto riprenderla.
Eppure non riesco a guardarla, a perdonarla.
Perché lei mi ha chiesto di restare, mi ha chiesto di abbattere le mie difese e io l’ho fatto, l’ho fatto per lei, sono stato forte per lei, l’ho abbracciata, l’ho lasciata piangere non avendo la più pallida idea di come contenerla, se non nel modo in cui, poi, mi ha insegnato lei.
Ha tirato fuori tutto e ora l’ha lasciato lì, a terra, nello spazio di questa cucina, tra queste mattonelle chiare che ci separano, in questi occhi bassi, in queste mani che stringono tazze invece che i nostri corpi o le nostre mani. E io non so cosa farci, non so dove metterlo tutto questo, non so come gestirlo.
 
«Damon…»
 
Lei ci prova a raccogliere qualche pezzo, con la sua voce bassa e titubante ma è già troppo tardi per me.
 
«Se sei pronta, torniamo in ospedale.»
 
Tento anch’io, controllando la voce e sforzandomi per lo meno di non imporre un tono duro e ghiacciato, come invece vorrei.
Non mi sembra il caso, né il momento adatto.
Lei mormora un ‘vado un attimo in bagno’ senza rivolgermi ancora lo sguardo e io seguo con la coda dell’occhio la sua schiena che raggiunge la porta e ci scompare dietro.
Dieci minuti dopo siamo fuori, lei è già stretta intorno ai miei fianchi, in sella alla mia moto, con il mio casco, le nostre parole non dette e lasciate a metà.
Do gas e procedo velocemente tra le strade di questa Los Angeles appena sveglia, senza controllare la sua presa stavolta, perché so che c’è, so che è tornata in sé e nonostante tutto, non si lascerebbe mai andare.
 
Nel momento in cui arriviamo in ospedale, Liz ci corre incontro abbracciandoci entrambi, senza neanche darci tempo di varcare completamente la soglia della sala principale.
 
«È sveglia! E’ sveglia! E’ sveglia…»
 
La sua voce rotta da lacrime di gioia ci arriva nitida, inconfondibile, scioglie in un attimo tutte le nostre paure, tutta l’angoscia di queste ultime ore, si mischia ai singhiozzi di Elena che ora piange anche lei tra le sue braccia.
Si abbracciano, Liz mi abbraccia, piangono entrambe e se non fosse per le poche ore di sonno e lo sconvolgimento fisico dell’ultima ora, giurerei che anche i miei occhi si stanno inumidendo e pizzicano, pizzicano tanto da costringermi a chiuderli e sollevare la testa verso l’alto, per cercare aiuto in questo soffitto bianco, sotto il quale ne sono passate a bizzeffe di scene come queste e ormai non ci fa più caso.
 
«Potete vederla se volete, uno alla volta però!»
 
Liz mi riporta con lo sguardo su di lei, asciuga le sue lacrime e ci sorride piena di gratitudine per l’amore che abbiamo dimostrato e il sostegno che le abbiamo dato, mi stringe con una mano una spalla strappando uno sguardo d’intesa al mio volto incrinato dall’emozione.
Io mi volto automaticamente verso Elena, perché so che muore dalla voglia di abbracciare la sua migliore amica e lei è già lì, con gli occhi dentro i miei, fremente, come fosse in attesa del mio permesso per andare per prima.
Le faccio solo un cenno con la testa e lei capisce, mi sorride felice e corre via, seguendo Liz che la conduce nella stanza di Caroline.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Abbasso la maniglia di questa porta chiusa davanti a me, la apro piano, senza far rumore, faccio un passo, esitante, impaurita quasi, infilo la testa all’interno della camera con l’unica raccomandazione di non restare troppo e di non agitarla.
E finalmente, la vedo.
Sdraiata su un fianco, sopra un lettino con una orrenda copertina a righe bianche e verdi che la avvolge, dei tubicini attaccati al braccio che salgono fino ad una flebo e dei macchinari al suo fianco, che continuano a scandire i battiti regolari e lineari del suo cuore.
Si accorge da un respiro un po’ più forte, della mia presenza e lentamente, si volta completamente con tutto il corpo nella mia direzione.
Mi rivolge uno sguardo stanco e poi, pianissimo, le sue labbra si aprono in un sorriso piccolo, dolcissimo. Un sorriso che sa di noi, di me e di lei, sa di amicizia che va’ oltre tutto, sa di un cuore che torna a battere, di una vita trascorsa insieme e di un dolore che ora non c’è più, che è stato spazzato via, ma mi ha spezzato le gambe.
 
«Ciao.. dottoressa…»
 
I miei occhi si riempiono di lacrime, la raggiungo e mi accascio al bordo del suo letto, con entrambe le mani premute sulla bocca e lo sguardo annebbiato, perso nei suoi grandi occhi azzurri.
Singhiozzo mentre le lacrime bagnano le mie guance, le mie mani schiacciate sulla bocca e scendono giù sulle braccia, fino a raggiungere la coperta del suo letto e macchiarla in una pozza umida.
Quanto mi è mancata la sua voce, quanta paura di non sentirla più...

E che emozione sentirle dire quel ‘dottoressa’ con cui nessuno mi aveva ancora chiamata, e sì, è una stupidaggine, ma sono quelle cose piccole che ti aspetti senza saperlo e se mancano le noti.
Lei è la mia ‘piccolezza’, lei che nonostante tutto si è ricordata di me, del mio giorno.
 
«Che fai piangi tu? Sono io quella con una cera orribile, su un tristissimo letto d’ospedale!»
 
Prova a sorridermi ma tutto ciò che le esce è una smorfia piccola e un sospiro carico di affetto.
 
«Mi hai fatto spaventare a morte…»
«Lo so… mi dispiace.. per tutto.»
«Non lo fare mai più.»
«Sono qui ora. Sono qui…»
 
Mi accarezza la testa con una mano, come farebbe una mamma con la propria bambina, sorridendo lievemente, mentre io me ne sto lì, accasciata sul bordo del suo letto, con le mani nelle sue e gli occhi rossi e tremanti a prendermi il suo amore, la sua capacità di calmarmi e consolarmi.
Resto qui con lei e avrei mille cose da dirle, da chiederle, da ascoltare, ma il mio unico desiderio in questo momento è stare qui, con lei, sentendola respirare e accertandomi che quel macchinario che conta i battiti del suo cuore, faccia bene il suo dovere.
Voglio essere sicura della sua presenza davanti a me e del fatto che stia bene, solo così posso far tornare a posto il mio mondo, i miei quadri, il terreno sotto i miei piedi, le mie pareti, la mia tenda a fiori, tutto può tornare ad avere un senso, le stelle, il cielo, il sole, il gelato, la coca cola light, le liquirizie, il cuore.
Siamo insieme, ora tutto il mondo può continuare a girare.
 
«Dov’è quel testone?»
 
Me lo chiede in un sorriso, con un tono ancora fiacco e so che si riferisce al suo amico e al mio.. al mio?
Non lo so, non so più niente.
 
«E’ qui fuori. Ha sentito anche lui la tua mancanza… anche se non te lo dirà mai!»
«Fallo entrare.»
 
Io mi alzo, l’abbraccio forte prima di uscire, lei ci prova a ricambiare ma è debole mentre mi circonda con le braccia e a me non importa, voglio che senta la mia presenza e basta, avrà tempo per recuperare le forze, avremo tempo
 
 
 
 
 
 

Damon

 
Elena esce dalla stanza di Caroline e si avvicina a me, che sono seduto su una poltroncina, in questo bianco corridoio di terapia intensiva e ho appena finito di parlare con Stefan, per avvertirlo che la nostra amica si è svegliata e ci sta aspettando.
Mi rigiro il cellulare tra le mani, con lo sguardo su di esse e lei avanza ancora, fino ad accucciarsi sui talloni proprio davanti a me e poggiare le mani sulle mie ginocchia.
Sono inquieto, proprio ora, adesso che è tutto finito, che lei sta bene, è fuori pericolo, mi sembra di star crollando.
Sono fatto al rovescio, ho le emozioni al contrario.
 
«Va’ da lei…»
 
La voce dolce di Elena e la pressione delle sue dita su di me, mi fanno tirare su la testa e posare gli occhi dentro i suoi, velati e ancora più grandi di sempre.
Prendo un lunghissimo respiro e mi lascio convincere dal sorriso gentile e rassicurante che ora sta prendendo un posto da protagonista indiscusso sul suo viso.
Mi alzo, infilo l’Iphone nella tasca dei jeans e mi avvicino alla camera di Caroline.
 
Resto sulla porta, con le braccia incrociate sotto il petto e la testa leggermente inclinata per poter sbirciare all’interno ma restare comunque fuori.
Ha gli occhi chiusi, una cascata di boccoli, biondi e spettinati, aggrovigliati sul cuscino avana, è pallida e con il respiro a tratti affannato.
 
«Vuoi giocarti tutto il tempo a disposizione per farmi visita, restando a guardarmi sullo stipite della porta
 
E poi la sento, finalmente, la sua voce, che però è un po’ meno acidula e acuta del solito.
Apre gli occhi mentre mi sorride, per rifilarmi uno sguardo ammonente e fintamente minaccioso.
 
«Sto aspettando di veder tornare l’infermiera sexy che è passata poco fa in corridoio. Sai, non vorrei rischiare di perdermela, per far visita alla mia amica tanto egocentrica da inscenare un trauma cranico!»
 
Le faccio l’occhiolino e nonostante cerchi di essere sarcastico e distaccato, la mia voce è bassa e calda e il sorriso che mi sale dallo stomaco è assolutamente vero e sincero.
Caroline spalanca leggermente gli occhi e arriccia il naso in una smorfia, fingendosi offesa, ma poi sospira e lo vede tutto l’affetto incastrato dentro di me, capisce tutto ciò che vorrei dirle, sotto le righe, sotto le mie battute, sotto la pelle e ricambia il mio sorriso, che su di lei, sta decisamente meglio.
 
«Mi preoccuperò di darle il tuo numero quando verrà a visitarmi. Ora puoi avvicinarti? Altrimenti il mio ego ne soffrirà irrimediabilmente.»
 
Io sciolgo le mie barriere ad ogni passo verso il suo letto, cauto, mi siedo sulla sediolina lì accanto e poggio un gomito sulla coperta a righe, per lasciar cadere il mento sulla mano e inclinare la testa.
 
«Come stai?»
«Come se mi fosse venuto addosso un camion…»
 
Sorride ancora in un sospiro, ma stavolta il suo viso è più scuro, le sue labbra sono tirate e la sua ironia è amara e non è tanto velata.
Abbassa lo sguardo per un attimo, lo fa vagare sulla coperta e poi lo rialza su di me, guardandomi fissa ed interrogativa.
 
«Che fine gli hai fatto fare?»
«A chi?»
«A Klaus.»
 
Io allontano la testa dalla mano, mi gratto la testa e poggiandomi sullo schienale della sedia, scrollo le spalle con un sorriso sarcastico.
 
«Diciamo, che ha preferito andarsene quando aveva ancora gambe e braccia attaccate al corpo.»
 
Caroline scrolla la testa alzando gli occhi al cielo, lo fa con le labbra che si tirano un po’ su e lo leggo nel suo sospiro che è felice che sia andata così, che lui non ci sia. Lo so, come lei sapeva che sarei stato io ad occuparmi di lui e forse è addirittura stupita perché si aspettava di peggio.
 
«Dovresti ringraziare anche la tua amica comunque.. »
«Per cosa?»
«Per il fatto che io non l’abbia preso a pugni. Ci aveva già pensato lei e devo ammettere, che ci sa fare!»
 
Lei sgrana gli occhi incredula e confusa, portandosi una mano alla bocca, io rido e, involontariamente, mi gratto appena la stessa guancia su cui avevo ricevuto un grosso ceffone non tanto tempo fa e proprio da lei.
Non ce la facevo Elena così focosa e manesca, invece mi sono dovuto ricredere.
In realtà mi sono dovuto ricredere su molte cose che riguardano Elena, ma non mi sembra il caso di tirarle fuori, né tanto meno di pensarci.
Il tempo a mia disposizione sta per finire, un medico è appena entrato in camera per visitarla e io aspetto che Caroline finisca di dirmi che è felice di vedermi, di essere qui, per alzarmi, scostarle qualche ciocca di capelli dalla fronte e poggiare le labbra proprio lì, mormorandole un ‘ricordati dell’infermiera..’ appena mi allontano.
Ci sorridiamo prima che io esca, consapevoli di tutta la conversazione sottile che abbiamo avuto tra i nostri silenzi e le nostre battute e con l’anima un po’ più leggera, lei, per essere sopravvissuta alla tempesta, io, per aver scoperto quanto un cuore possa diventare grande, quando si allarga per qualcuno che avevi paura di non trovare più.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
Abbiamo trascorso quasi tutta la giornata qui, in questo ospedale, tra i corridoi della sala d’aspetto del pronto soccorso e quelli della terapia intensiva.
Tutti i nostri amici sono venuti a trovare Caroline, Stefan le ha portato dei cioccolatini, che ovviamente ci siamo mangiati noi, ogni volta che entravamo nella sua stanza per farle una visita, è venuta Bonnie, Ric e Meredith, che, seppur non avendo visitato la nostra amica, è riuscita a sbirciare qualcosa nella sua cartella clinica e a parlare con qualche medico per avere alcune informazioni in più, che ci hanno rassicurato maggiormente sul suo stato.
E’ venuto Enzo, che con la sua aria da bullo dal cuore tenero, l’ha presa in giro dicendole che si riteneva offeso per essere stato già tradito, dopo solo un bacio e che l’universo l’aveva punita per questo.
E’ tornata anche mia madre, che ha abbracciato la mamma di Care come fossero stati anche i suoi il dolore di ieri e la gioia di adesso, come se un po’ fosse anche figlia sua.
E un po’ lo è, Caroline, figlia sua. Perché l’ha vista crescere, le ha preparato pranzi, cene, l’ha accompagnata a casa quando ancora né io né lei avevamo la patente, ha assistito ai suoi monologhi a causa di fidanzati inadatti, lavori poco gratificanti e mal pagati, ha sorriso con lei delle sue gioie, ha trascorso del tempo con noi, mentre studiavamo nella mia camera ed ha origliato i nostri segreti, l’ha abbracciata quando i suoi genitori si sono separati e si è lasciata abbracciare quando mio padre è morto e lei è rimasta a dormire da noi per una settimana intera.
Caroline c’era sempre nella nostra casa, nelle nostre vite, nella mia, come io ero nella sua e mia madre le vuole bene in modo incondizionato, come fosse parte della nostra famiglia.
Anche Klaus è passato in ospedale.
Io non ho voluto incontrarlo, sono scesa giù al bar per non incrociarlo, per non respirare la sua stessa aria, non so se l’abbia vista, se le abbia parlato, non so cosa le abbia detto, so solo che dopo un po’ se ne è andato, perché Bonnie è venuta a chiamarmi e io sono tornata al mio posto, sulla poltroncina della sala d’aspetto.
Klaus è un argomento che affronteremo quando uscirà di qui, così come Damon.
Per ora voglio solo che si riprenda, che non pensi a niente e che esca da qui sulle sue gambe.
Tutto il resto non importa, tutto il resto può aspettare.
Soltanto una persona non è venuta a trovarla, suo padre.
Liz l’ha avvertito dell’incidente, ma lui era all’estero e ha preferito continuare a godersi le sue ferie, piuttosto che prendere il primo aereo e venire da sua figlia.
Una figlia che in ogni caso non vede più da anni.
Caroline se lo aspettava, non ha fatto domande, non ha detto niente, eppure l’ho visto quel velo di tristezza che le attraversava lo sguardo quando le ho elencato la schiera di persone che erano di sotto, in sala d’aspetto e che volevano salutarla. Si è morsa appena il labbro, ha abbassato lo sguardo ma poi è tornata sorridente e mi ha chiesto di recuperare i suoi trucchi nella sua borsa, prima di far salire Enzo.
Siamo stati tutti insieme a lei, fino a che il sole non si è portato dietro un po’ di questo cielo azzurro senza nuvole, lasciando spazio a luna e stelle.
Solo in quel momento, quando la notte ha coperto il mondo, la mia mente ha iniziato a vagare, persa nel buio e senza più un orientamento.
E non mi è bastata la voce felice e rassicurante di Mattew che mi ha cercata per tutto il giorno, che ha gioito con me per il risveglio di Caroline, per togliermi questo peso che si è incastrato nel mio stomaco da questa mattina. Un peso che, un po’, sa anche di richieste soffocanti, di Mattew che continuava a chiedermi di poter venire da me e di mani avanti per difendermi e lasciarlo al suo posto. Sa di una consapevolezza che non sta più in piedi, di desideri che contrastano con le sicurezze.
Sa molto di più di passi che vanno via, di una schiena che mi lascia da sola, sul letto della mia camera, sa di Damon che non è più qui.
E lo so che ho fatto finta di niente per tutto il giorno, lo so che la telefonata di Mattew stamattina ha interrotto qualcosa che stava nascendo senza più barriere, lo so che mi illudevo che non pensandoci sarei riuscita a cancellarlo, eppure non è successo.
Ci siamo sfuggiti per quasi tutto il giorno, troppo presi da Caroline e dai nostri amici e l’abbiamo fatto in modo sottile, ma codardo e consapevole.
Codardo, per quello che c’è stato tra di noi in questi giorni, per le carezze e i baci che ci siamo lasciati addosso, per gli occhi bassi con cui ci siamo ignorati in queste ultime ore.
Consapevole, per la verità che c’è sotto tutto questo e che volenti o nolenti stiamo usando per farci male a vicenda, per attirarci e allontanarci in un gioco al massacro che non ha mai avuto un vero inizio né una vera fine.
Perciò tutto questo, ora, non può più aspettare per esplodermi dentro come una bomba ad orologeria.
Adesso che non c’è, adesso che non so dove sia, cosa stia facendo, se sia tornato a casa oppure sia fuori al buio, adesso che non devo più preoccuparmi di Caroline e posso tornare a concentrarmi su di me, mi sento spaesata, vuota, a metà.
Mi sento colpevole, di qualcosa che non so neanche cosa sia, lui è tutto ciò che non ho mai voluto, è l’insicurezza che ho sempre evitato, ma allo stesso tempo è tutto ciò di cui ho bisogno.
Lo sento arrivare e continuo a mandarlo via, nascondendomi dietro il suo rifiuto, lo vedo spingermi al limite e mollarmi lì, ce l’ho addosso e non riesco a percepire più le mie mani, le mie labbra, la mia pelle solo perché lui le ha sfiorate.
E’ troppo tutto insieme, mi fa spostare ogni volta i miei limiti sempre un po’ più in là, sempre un po’ più vicini a lui, mi costringe ad essere vera e a spiarlo di nascosto per non farmi travolgere dal mare che si porta dentro.
Non sono disposta a rinunciare a lui, ma neanche a farmi spingere ancora nel fondo del burrone.
I miei piedi si muovono da soli fuori da questo pronto soccorso che non ce la faccio più a sopportare.
Mi faccio spazio tra un gruppo di persone venute a trovare chissà chi e mi avvicino al parcheggio per controllare se almeno la sua moto sia ancora qui.
Invece, qualche metro prima di raggiungerla, riconosco la figura di Damon, seduta scomposta su una panchina, con le gambe semi accavallate, le braccia lungo le stecche dello schienale e la testa alta, a scrutare un cielo che sembra non essergli mai stato amico.
 
«Aspetti ancora che qualche stella cadente ti cada addosso, per toglierti di mezzo?»
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Non mi volto perché riconosco questa voce, ormai ho imparato a conoscerne anche le sfumature, come questa lieve e finta ironia, che assesta un colpo basso, rifilandomi una domanda che era la mia risposta indifferente alla sua rabbia di giorni fa.
Alzo un angolo della bocca senza che lei possa vedermi, assegnando un altro punto alla lista di cose su cui mi sto ricredendo.
Sento i suoi passi avvicinarsi, vedo le sue gambe piegarsi e il suo corpo sedersi accanto al mio, con i piedi sulla panchina, le braccia che circondano le ginocchia e la sua testa che si alza, ad osservare il cielo, in perfetto silenzio.
Non parla e respira appena, senza farsi sentire, come a voler riequilibrare le emozioni che ha tirato fuori la notte scorsa, come a voler zittire il più possibile i pensieri che le stanno esplodendo dentro.
La conosco ormai, so che non si sarebbe mai avvicinata a me, non mi avrebbe mai seguito qui fuori,  al buio, se non fosse inquieta, se non avesse qualche verità da tirarmi fuori o se non volesse aiuto per dare voce alle sue.
Lo capisco, lo capisco anche dal modo in cui respira, dopo averla tenuta addosso a me, per tutta la notte, riconosco perfino il ritmo del suo cuore.
E mi preparo ad accogliere i colpi che vorrà infliggermi, cercando di ricordare a me stesso che sono io quello in qualche modo ferito, rifiutato, sono io ora quello che non vuole più giocare.
Per quanto lei possa mentire a se stessa, nascondersi da ciò che prova e annullare i suoi istinti, c’è qualcosa che la spinge costantemente da me e niente di ciò che Elena Gilbert ha fatto finora è stato contro la sua volontà. Non è accaduto niente che lei non volesse far accadere.
Quindi, che ora nasconda dietro il suo sguardo l’indifferenza di essere qui per caso, non regge più.
 
«Sei di nuovo arrabbiato con me?»
 
Parla, ancora una volta, consapevole che forse neanche adesso, proprio adesso, ho intenzione di renderle le cose facili.
Decido di scoprirmi del tutto e portarmi dietro anche lei, prima di lasciarla andare, sincerità per sincerità, cuore rotto per cuore rattoppato.
 
«Hai risposto al telefono.»
 
Elena si volta di scatto, presa alla sprovvista, abbassa le gambe poggiando i piedi a terra e mi guarda con un’aria confusa, disorientata.
 
«Quando? Cosa…»
 
Apre la bocca per far uscire un’altra domanda ma la incalzo prima di perdere la lucidità necessaria, prima che la sua voce sottile smorzi la mia.
 
«Mentre baciavi me, hai risposto a lui.»
 
E allora capisce, tira indietro la testa, distoglie lo sguardo e lo abbassa sui suoi piedi, resta ferma mordendosi il labbro e facendo scivolare ancora i suoi capelli sul suo viso, per nascondersi da me, da una verità che la rende nuda e la mette a disagio.
 
«Io sto con lui.»
 
Vigliacca e ingiusta e lo sa anche lei.
 
«Dov’è lui in questo momento? Perché non c’è lui qui con te?»
«Perché doveva lavorare e perché gli ho chiesto di non venire..»
«Perché?»
«Che importanza ha? Perché vuoi sentirmelo dire?»
 
Si agita e cerca una posizione su questa panchina per sentirsi meno in difficoltà, meno scomoda, ma scomoda è la situazione tra di noi, scomodo è ciò che sono io, scomoda è la verità che preme per uscire e lei che continua a tapparsi la bocca per tenerla dentro.
 
«Perché voglio che te lo ricordi di aver cercato me ieri sera, di aver pianto addosso a me stanotte, di aver baciato me stamattina.»
«Vuoi un grazie?»
 
Non molla, è testarda fino alla fine, si tiene stretto quel lenzuolo per coprirsi più pelle scoperta che può. I suoi occhi però la tradiscono, iniziano a traballare nel momento esatto in cui sceglie consapevole di incastrarli nei miei.
 
«Ci tengo a te Damon, l’ho sempre fatto, sei tu che mi hai lasciata andare e nonostante tutto volevo che fossi tu. Eri l’unica persona che volevo avere vicino.»
 
Nessuna incertezza, nessun silenzio tra una parola e l’altra, nessun ripensamento.
Diretta, intensa, sincera. Tutta la verità che volevo è qui, tra queste parole, nel suo tono piccolo ma sicuro, nel sospiro finale, nei suoi occhi che mi chiamano ancora e che vacillano tra la paura di un nuovo rifiuto e la sorpresa di un’ammissione che non si aspettava.
Era esattamente ciò che volevo e lo so che non cambierà niente, perché lei vuole sicurezze e io posso darle solo me, e che forse sono ancora troppo egoista, ma voglio essere certo che lei abbia sentito ciò che ho sentito io, che avesse avuto bisogno di me quanto io di lei, che insieme, il dolore che abbiamo provato è stato meno dolore. Voglio avere la certezza che quello che è successo questa mattina, prima che quel telefono squillasse, non fosse un modo per consolarci o distrarsi da ciò che stava accadendo fuori, ma una necessità che rendeva quella stessa realtà un contorno insignificante.
Forse sono io che cerco sicurezze da lei e lei, al contrario di me, me le da.
 
«Perfetto. Grazie.»
 
Elena si alza, mi da le spalle, si abbraccia i gomiti, fa qualche passo avanti e poi si ferma.
Si volta piano e torna indietro, fino ad arrivare ad un passo da me e guardarmi dall’alto verso il basso.
 
«Perché mi fai questo? Che vuoi da me?»
 
Non c’è cattiveria nella sua voce, è sinceramente attratta da qualcosa che non riesce a capire, a spiegarsi, è diversa, non precipita in mare aperto, ha imparato a nuotare, è disposta a bagnarsi completamente per un briciolo di onestà che ora è lei a chiedere a me.
Mi occorre del tempo per rispondere, mi serve un momento per riconoscere la paura di Elena dietro quelle domande, perché in fondo sono le stesse che provo io.
Nessuno dei due ci crede davvero di poter andare bene, di poter essere amato nonostante tutto e forse è proprio quel nonostante che ci spaventa, quel sentirci giusti, l’uno per l’altra, a discapito di tutto, a dispetto di noi e dei nostri tentativi di allontanarci e riprenderci.
E più va avanti questo gioco, più è forte la mia voglia di averla.
E lei lo vuole quanto me, essere mia, mi vuole quanto io voglio lei e adesso l’abbiamo capito entrambi, eppure non riusciamo a dircelo.
Lei non riesce a scavalcare del tutto il suo recinto bianco, io non riesco a farmi arginare dai suoi confini.
La sua insicurezza fa barcollare anche me.
Eppure mi alzo in piedi anch’io, costringendola ad un passo indietro per non trovarsi senza scampo, le prendo il viso tra le mani e la vedo, con gli occhi tra la paura e il desiderio, tra l’istinto e il senso di colpa.
Rispondo alle sue paure con le mie.
 
«Se io volessi te, se io fossi disposto a stare con te, se non sfuggissi più, tu saresti certa di voler stare con uno come me?»
 
La prendo in contropiede, lei resta immobile e per un momento non sento più il suo respiro arrivarmi addosso, è basita e so che non si aspettava questo, so che pensava di essersi messa in vantaggio con la sua finta sicurezza, passandomi la patata bollente.
Invece no, le restituisco tutto, egoista ancora, continuando a respirarle a pochi centimetri dal viso senza staccare gli occhi da lei, senza toccarla, senza riuscire nemmeno a muovermi o ad allontanarmi di un millimetro.
 
«Damon…»
 
Non le esce nient’altro, solo il mio nome mentre mi guarda come se mi vedesse per la prima volta, incapace di rispondere, di darmi quella certezza che lei sta chiedendo a me.
 
«Lo so.»
 
Lo so che hai paura, lo so che forse non è davvero ciò che vuoi, lo so che ti sto chiedendo più di quanto sei disposta a concedere, lo so che è stata una giornata pesante e vuoi solo tornare a casa.
Lo so che non puoi rispondere, per questo provo a scivolare via con le mani dal suo volto, ma Elena si aggrappa istintivamente ai miei polsi, per lasciarle lì, su di lei, replicando il mio gesto di quella stessa mattina.
Il suo corpo mi parla in tutti i modi in cui non riesce a farlo lei, le sue mani aggrappate alle mie, il suo sguardo che scivola sulle mie labbra, spinta da un desiderio più forte di lei, il suo respiro che accelera.
E allora non lo so più, o forse sì, lo so ancora di più.
E allora per questa volta le concedo il vantaggio, le faccio vincere una battaglia a mani basse, le lascio l’unica certezza che riusciamo a condividere.
Le alzo il viso verso il mio e, mentre lei chiude gli occhi, la bacio forte, in modo pieno, catturando le sue labbra e premendoci contro le mie, incapace di trattenere tutto l’amore folle che forse ho iniziato a provare da prima che lei me lo tirasse fuori e tutto il nostro incastrarci alla perfezione, nonostante noi.
E allora, forse, tutto questo è giusto, ma non è ancora il nostro tempo.
Per questo la lascio andare.
 
Sì, la lascio andare.
 
 
 
 
 
 
C'è qualcuno là fuori?
Qualcuno sta ascoltando?
Qualcuno sa se questa è davvero la fine dell'inizio?
Un grido, la fretta di un respiro,
è tutto ciò che stavamo aspettando.
Qualche volta ciò che scegliamo di prendere
cambia tutto ciò che c'era prima.
 
E' tutto ciò che volevi, è tutto ciò che non vuoi,
è una porta che si apre e una porta che si chiude.
Alcune preghiere trovano una risposta,
alcune non la conosceranno mai.
Noi ci stiamo tenendo e ci stiamo lasciando andare.
 
A volte abbracciamo degli angeli
e nemmeno non lo sappiamo mai.
Non sappiamo se lo rifaremo mai,
ma lo sappiamo, noi non possiamo proprio mostrarlo.
 
E' tutto ciò che volevi, è tutto ciò che non vuoi,
è una porta che si apre ed una che si chiude.
Alcune preghiere trovano risposta,
altre non la conosceranno mai.
Ci stiamo tenendo e lasciando andare
Si, lasciando andare…
 
 (Holding on and letting go _ Ross Copperman)
 
 






 
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Non ci credo di esssere riuscita a pubblicare in un orario decente!
E ovviamente chiedo perdono per la lunghezza!!
Ma è venuto fuori giorno dopo giorno e non sono riuscita a fermarmi..

Sarò breve..credo!
Uno perché questo capitolo mi ha risucchiata e rivoltata.. in un modo che non so spiegare.. un po' come Damon fa con Elena e poi la lascia andare.. 
Due, perché non credo ci sia bisogno di molte spiegazioni! Spero..
Come spero si capiscano le menti contorte di entrambi..

C'è un risveglio, che per me era inevitabile.. con tutti i loro pensieri confusi che cercano una spiegazione nei loro desideri e nel modo in cui l'uno cerca l'altro..
C'è il risveglio di Caroline, che mi fa piacere la troviate così adorabile e che vi siate preoccupate per lei! Sta bene! Damon ha mantenuto la promessa.. ;-)
Ci sono le reazioni di Elena e Damon a Caroline.. perché in parallelo, per me, questa, è una storia d'amicizia, di un legame che esiste oltre quello d'amore e che in qualche modo lo sostiene, seppur su fronti diversi.
E poi la loro resa finale.
Una resa non più confusa ma razionale.
Il loro volersi è chiaro per entrambi, ma adesso che anche Damon è dentro, Elena ne ha paura.. ha paura di se stessa, di essere lei quella che fugge. Lei lo vuole, ma lui lavora proprio sulle sue paure mettendoci le proprie e non è proprio semplice la cosa!
Per questo lui poi la lascia andare.. per dare tempo ad entrambi..
Per me era la cosa più giusta da fare...

Riguardo la canzone!! Io ascoltavo questa mentre scrivevo questa ultima parte e mi sono accorta quasi alla fine che sarebbe stata perfetta per loro e da lasciare anche a voi..
SPERO si senta perché non so se sono riuscita a caricarla... (e per questo ringrazio infinitamente Simo/Misiamis che mi ha spiegato diligentemente come fare, quindi incrocio le dita!)

Infine, grazie davvero con tutto il cuore per il tempo, l'affetto e i pensieri meravigliosi che mi avete regalato nello scorso capitolo.. so che è difficile trovare soprattutto il primo, quindi è veramente bello quando ci si riesce!

E poi niente, non ci riesco mai ad essere breve come vorrei, scusate! ;-p

Un bacio grande a tutte,
Ale
 
 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14° ***



“C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità.”
 
(Castelli di rabbia _ A. Baricco)
 
 
 
 
 
 
 
Elena
 
Sono qui da Caroline da quasi più di un’ora.
L’hanno spostata di reparto, non è più in terapia intensiva, adesso è sotto controllo ma per fortuna è fuori pericolo.
Il trauma cranico si è riassorbito e lei grazie a Dio non ha riportato danni.
Ora ha perfino ritrovato il suo aspetto composto ed impeccabile, i suoi boccoli sono tornati alla loro morbida forma, il suo volto, su cui è riuscita a passare un leggero velo di trucco, è di nuovo roseo e sorridente.
In questi ultimi due giorni ho praticamente passato quasi tutto il mio tempo qui con lei, a parte la parentesi di Mattew e del lavoro che avevo lasciato da parte, non voglio lasciarla da sola neanche un attimo, non voglio restare da sola neanche un minuto.
Ho bisogno di lei, come lei ha bisogno di me.
Abbiamo bisogno di mettere ordine e di prenderci il nostro tempo, quello che ci stavano strappando via ed è ora di farci quelle domande che ci sono rimaste sulla punta della lingua.
 
Sono qui, quindi, seduta su questa sedia accanto al suo letto, da quasi un’ora e la sto ascoltando mentre mi racconta cosa sia accaduto davvero tra lei e Klaus, mentre mi dice che ‘sì, ci siamo baciati e stavamo per andare oltre, ma io mi sono fermata.
Perché era una storia che già conosceva, un libro che aveva già letto, un film di cui già aveva visto il finale, è riuscita a spezzare la catena, a scendere da quella giostra che continuava a girare solo in tondo.
Non ha avuto paura di ammettere di amarlo ancora, neanche davanti a lui, non ha esitato un attimo a chiedergli il perché di quel tradimento, di quel comportamento, l’ha guardato dritto negli occhi quando lui le ha rivelato che l’aveva fatto per farle male e non si è scomposta di un millimetro mentre lui le chiedeva di perdonarlo, di cancellare tutto e tornare insieme.
Egoista e presuntuoso come al solito.
Solamente che Caroline è stata più forte, per una volta non si è fatta sconfiggere e lui l’ha lasciata vincere.
E’ rimasta a dormire lì per concedersi un’ultima notte in cui sentirlo addosso, ma poi, quando ha aperto gli occhi la mattina dopo, ha scelto se stessa, il suo bene, la sua libertà, al posto di una storia faticosa ma sicura.
 
Ora invece è il mio turno, il mio turno di piangere, di sfogarmi, di raccontare, di essere capita.
Perché sono stata mandata via, di nuovo, perché sto con una persona e non dovrei provare tutto questo dolore per qualcun altro, per uno che avrei dovuto lasciarmi alle spalle.
Invece ci sono ricaduta, l’ho cercato, l’ho voluto, l’ho sperato e ne ho avuto paura.
Sì, Damon è un uomo che fa paura, è uno che ti costringe ad esporti, a parlare, ad essere te stessa e io non sono fatta per essere così, per essere me.
Mi spaventa e mi attrae allo stesso tempo. Forse perché ho bisogno di qualcuno che mi induca a tirarmi fuori, perché di gente che mi assecondi, che mi ami a priori, senza sapere quasi chi io sia, di uomini che danno tutto senza lasciarti neanche un po’ il gusto di conquistarli, non so cosa farmene.
Damon è impegnativo, ti mette a nudo, ti porta a tirare fuori qualcosa, qualcosa di vero, qualcosa di profondo, ti sveste senza toccarti, solo con uno sguardo, solo con la sua assenza.
Lui si sente stretto nell’essere compiaciuto, è uno che ti sfida e ti lascia libera, sta al suo posto, ti guarda da lontano, ti vede e solo quando stai per annegare interviene, quando capisce che non ce la puoi proprio fare da sola. Soltanto in quel momento ti da la sua mano, ma ti lascia fare fino all’ultimo.
Lui non ti sta addosso, non ti controlla, non ti soffoca, non anticipa i tuoi passi.
Damon da’ ciò che vuole per sé, libertà di andare per poter tornare.
Questo lo so, so tutto ciò che serve su di lui.
Allora perché non sono riuscita a rispondergli?
Perché non sono riuscita a dire nulla quando, forse, preso dall’euforia del risveglio di Caroline, si è lasciato sfuggire quelle supposizioni, quel ‘se io volessi te, se io fossi disposto a stare con te, se non ti sfuggi più, tu saresti certa di voler stare con uno come me..’?
Perché, se quelle erano le uniche cose che avrei voluto sentir uscire dalla sua bocca, da quando lo rincorro, non sono riuscita a dirgli che ‘sì, sono assolutamente certa di voler stare con uno come te Damon’?
Perché.. invece l’unica cosa che è uscita dalla mia di bocca è stato solo il suo nome?
 
Perché?
 
Perché sì Damon, uno come te quando ce l’hai fa paura, ecco perché.
E forse sono io a non essere alla tua altezza stavolta.
 
«Sei arrabbiata perché ti ha lasciata andare.. di nuovo?»
 
Caroline interrompe il mio monologo riportandomi da lei, che mi guarda, dopo aver ascoltato tutta la storia, tutto, quasi tutto, ciò che è successo mentre lei era qui dentro e con la sua voce dolce e carezzevole mi chiede il perché della mia rabbia e tristezza.
Sentimenti che ha letto in me, prima ancora che io riuscissi a renderli consapevoli a me stessa.
 
«Sono arrabbiata perché non avrei potuto trattenerlo, stavolta.»
 
Lei mi sorride piano, comprensiva, mi accarezza la mano che ho posato distrattamente sulla sua copertina, posando i suoi occhi azzurro cielo dentro i miei, che ora mi sembrano grigi e spenti.
 
«Devi scegliere da che parte stare Elena, se dentro o fuori.»
 
 
 
 
 
 

Damon

 
Vent’anni, capelli biondi, occhi scuri, una pelle liscia e rosea senza il minimo cenno di barba, jeans stropicciati e strappati sulle ginocchia, una polo azzurra e un giacchetto di pelle scura.
Questa l’immagine del nuovo proprietario della mia moto.
Un figlio di papà, che non ha mai dovuto chiedere niente, ma chissà perché ha scelto di comprare una moto usata, ribadisco la mia moto, invece che una nuova.
‘Mio padre vuole che impari a cavarmela da solo per un po’..’ mi ha rivelato con la sua aria da fighetto strafottente, poi ha firmato un assegno, ha infilato il casco e salendo sulla sua moto, è andato via, portandosi dietro un pezzo enorme di me.
Mentre torno a casa, a piedi, costeggiando tutto il lungo mare di Venice Beach, facendomi spazio tra turisti e passeggiatori, mi sento vuoto, mi sembra di aver perso metà della mia vita, quella più vera, più libera, più intima e di non poterla rivivere più.
E’ vero, ho ancora la mia Camaro, ma quella, la mia moto, è tutta un’altra storia..
 
Non sono uno che rimugina sulle cose, né che trattiene il passato, per questo, un’ora dopo, riprendendo l’unico mezzo di locomozione che mi è rimasto, ho raggiunto Andie nella sua agenzia e mi sono seduto sul divanetto del suo piccolo ufficio, in attesa che si liberi da quel telefono che non smette di squillare e mi dedichi attenzione.
Sa già tutto, le avevo già esposto i miei piani, ogni dettaglio e ogni limite e richiesta, le ho dato il tempo di riflettere e questa mattina mi ha chiamato per chiedermi di passare in agenzia.
C’è qualcosa di stranamente familiare in questo posto, e non è perché ci abbiamo trascorso ore ed ore chiusi a chiave a soddisfarci le voglie, è qualcosa di più intimo, forse l’arredamento essenziale, senza orpelli, quasi asettico, con poche tracce di vita vissuta, di vita vera fuori di qui, i colori tenui e l’odore di sudore buttato a costruirne ogni minimo centimetri.
 
«Sono tutta per te.»
 
Finalmente attacca, distraendomi dai miei pensieri, devia le chiamate in entrata ad una sua dipendente, si ravviva i capelli, schiaccia la schiena sulla sua poltrona e, incrociando le braccia sul suo blazer, mi guarda da sotto le sue lunghe ciglia.
 
«Allora, che ne pensi?»
 
Vado dritto al sodo, senza far sprecare tempo inutile ad entrambi, che con i tempi giusti abbiamo già perso l’intera guerra.
Lei però sembra avere ancora qualche colpo in canna, sembra volersi prendere una rivincita e girare in tondo prima di decidere di svelarmi la sua risposta. Mi osserva con le labbra serrate e la testa inclinata, socchiude gli occhi come per studiarmi, poi respira forte e si alza, per venire a sedersi vicino a me, su questo divanetto blu.
 
«Perché vuoi farlo?»
 
Me lo chiede con un tono da amica, gentile, spogliandosi dei panni professionali e lavorativi, mettendo da parte il rischio di veder sfumare un buon affare.
 
«Perché non ho altra scelta.»
«Sai che non è vero.»
«Non voglio chiedere niente a nessuno.»
«Per orgoglio, rinunceresti a tutto ciò che sei riuscito a costruirti da solo in questi anni?»
 
Andie mi conosce, conosce la mia parte ribelle, testarda, il mio bisogno di farcela da solo, di ottenere qualcosa perché sono stato io a realizzarla, perché me la merito, non perché la vita me l’ha resa facile.
Lei è un po’ come me, si è fatta da sola, si è rimboccata le maniche senza chiedere nulla e conosce la sensazione di fierezza che c’è dietro.
Capisce cosa significhi sentirsi orgogliosi di sé e all’altezza di qualcosa. Sentire di meritarlo.
Per questo me lo chiede e per questo non si aspetta davvero una risposta, perché sarebbe la stessa che darebbe lei, ma mi da il tempo per ripensarci, mi offre l’opportunità per godere ancora di questa effimera e sfuggente sensazione.
 
«Sono uno a cui piace rinnovarsi!»
 
Andie si alza, scuote la testa con un sorriso rassegnato e se lo fa bastare il mio sfuggire.
Torna a riappropriarsi del suo ruolo e della sua posizione, sedendosi dietro la scrivania e guardandomi adesso con un’aria categorica e sicura.
 
«Ho letto tutti i documenti che mi hai mandato Damon, li ho spediti al mio commercialista e ne abbiamo discusso insieme..»
 
Io mi avvicino a lei, mi siedo sulla sedia davanti alla scrivania e punto i gomiti su di essa, poggiando il mento sulle mani chiuse a pugno, in attesa dell’epilogo finale.
 
«Ci sono alcune clausole di cui dovremmo parlare.. ma credo di poterti confermare che va bene, accetto la vendita Damon.»
 
Io mi lascio scivolare sulla sedia, schiudo gli occhi e sospiro, rendendomi conto di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo, mi faccio sfuggire un mezzo sorriso che sa di espiazione, di schifezze pagate, di sollievo e tristezza insieme.
Un sorriso a metà, così come mi sento io.
Dolce amaro.
Vivo e morto.
 
«Grazie Andie. Sono certo che saprai gestire il tutto molto meglio di me.»
«Hai sempre avuto stoffa da vendere Damon, sei stato la mia spina nel fianco fin dall’inizio.»
«Ti ho dato un bel po’ di filo da torcere!»
 
Le schiocco un’occhiata complice e beffarda, cercando di restare impassibile alla tristezza che sento assalirmi.
 
«Non è finita Damon. Uno come te non si arrende così facilmente.»
 
Ha un tono stranamente dolce e malinconico, è protesa verso di me mentre me lo dice e mi guarda fissa negli occhi, impedendomi di fuggire via, eppure lo faccio, abbasso gli occhi e quando li rialzo, non sono già più in me, o forse ci sono tornato.
 
«Dove devo firmare?»
 
Andie mi consegna dei moduli provvisori, intimandomi di non sparire e di rivederci per chiarire alcuni punti e concordare pagamenti e clausole. Non lo farò, sa che non lo farò.
Firmo quei documenti e appena esco di lì, mi sembra di aver sancito la fine della mia indipendenza, mi sembra di tornare a non avere più niente, di non meritare più nessuno.
 
Nemmeno lei.
 
Già, lei.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
«Non avrai mai una relazione vera con nessuno Elena, se non accetti di condividere qualcosa di sincero con qualcuno.»
 
Le parole di Mattew mi rimbombano nella testa e nello stomaco da questo pomeriggio, mentre me ne sto su questo letto, con la faccia schiacciata sul cuscino, a lasciar scorrere tutte le mie lacrime.
La sua voce strozzata, ferma, impostata e il suo sguardo duro mentre mi vomitava addosso lo schifo che provava per me quando ho deciso che sarebbe stato molto più giusto, per me e per lui, farla finita, mi hanno spiazzata e annientata, più di quanto non fossi già.
 
«Tu non sei mai stata felice con me Elena. Ammettilo e facciamola finita.»
 
Mi era venuto a prendere, dopo essere tornata a casa dall’ospedale, per portarmi a pranzo fuori, sul lungomare, ma poi mi ha riaccompagnata a casa perché non avevo voglia di mangiare niente, né di passeggiare tra coppie innamorate, con le sue mani tra le mie e il suo odore su di me, visto che mi sento tanto distante da loro, quanto sento lui esserlo ormai da me.
 
«Forse vogliamo cose diverse..»
«No Elena, vogliamo le stesse cose. Solo che tu preferisci qualcuno che ti faccia male, che ti tenga sul filo del rasoio. Ti racconti di volere delle sicurezze e quando ce l’hai ti senti soffocare e mi mandi via.»
 
Ha iniziato lui questa conversazione, ovviamente, codarda che non sono altro, mentre eravamo sotto casa mia, in macchina, chiusi in quello spazio minuscolo e soffocante che ha iniziato a starmi stretto, a mettermi con le spalle al muro.
Ho continuato ad incassare i colpi che aveva deciso di infliggermi esattamente nei graffi delle mie ferite sempre aperte. Ho ingoiato colpe che mi stavano divorando l’anima e che avevo ancora sulla bocca.
Eppure volevo farla finita, volevo che questa farsa finisse al più presto, prima di farci male più del dovuto.
Questa è la cosa di cui sono più sicura in questo momento.
Non volevo più tenerlo legato a me in un modo così egoistico, non se lo meritava, non era giusto per nessuno ma di certo non si meritava neanche la mia ingenua e meschina sincerità, venuta fuori proprio nel momento meno opportuno.
 
«Io non lo so se stavo con te, perché mi piaci tu.. o per la sensazione che mi da.. stare con qualcuno.»
 
Cattiva, egoista, con un tempismo di verità decisamente da schifo.
Eppure non sono riuscita a fermarle quelle parole, a tenermele dentro, così come non sono riuscita a non rinfacciargli di non essere venuto in ospedale, perché se ci avesse tenuto davvero a me, se ne sarebbe fregato delle mie richieste, mi avrebbe ignorato e si sarebbe presentato lì. Poi mi sarei sentita soffocare lo stesso, mi sarei infastidita, non mi sarei sentita rispettata, probabilmente avrei anche finito per urlargli contro e cacciarlo via, ma almeno lui avrebbe seguito i suoi istinti, invece di lasciar scegliere a me, non prendendosi la responsabilità di contraddirmi.
 
«Tu non sei venuto…»
«Tu mi hai chiesto di non farlo.»
«Sì, ma tu non sei venuto.»
 
Alla fine lui ha scosso la testa infastidito, da me, dalla mia caparbietà, dal mio modo ambiguo di esprimere i miei desideri. L’ha fatto perché non è riuscito a cogliere la sfumatura della mia voce, quella che avrebbe voluto fargli capire la differenza tra il bisogno celato e una richiesta esplicita, tra l’esserci e l’invadere, tra il rispetto e l’incapacità di rischiare.
Lo sapevo che non avrebbe capito, lui che è così razionale, che è riuscito a farmi sentire donna, viva, nuova, lui che mi ha dato la forza di rialzarmi e lasciarmi andare, ma che non mi ha mai vista davvero e fino in fondo, non ha mai accettato la mia parte infantile ed io ho cercato di dominarla, illudendomi di poterla cancellare.
Non mi ha mai fatto.. paura.
 
«Sei una bambina Elena. Impara a crescere un po’ prima di decidere di stare con qualcuno.»
 
E’ stato crudele, ma forse me lo meritavo, forse aveva ragione, forse sono io che non vado bene, che non sono giusta per nessuno, né per lui, né per Damon.
Sono io che non riesco ad avere una relazione vera perché ho troppa paura di scoprirmi, perché mi sento stretta e soffocata dallo stesso amore che tanto cerco.
 
Possibile che sia tutto qui?
 
E’ il mondo che non vuole farsi vedere da me, o sono io che mi ingarbuglio sempre e solo nelle stesse identiche paure?
Forse semplicemente non sono fatta per stare con qualcuno.
 
Le mie lacrime scendono giù da sole, silenziose, amare, incorniciano il mio volto, scendono sulle guance, sul mento e si allargano sul cuscino, senza che io riesca a muovermi. 
Mi tremano le gambe, le mani, le labbra, il cuore, non riesco a alzare neanche un muscolo.
Immobile, pesante, vuota.
Vorrei soltanto dormire, chiudere gli occhi e basta, dimenticarmi di me, del mondo, della vita fuori da questa camera.
Vorrei per una volta fare le valigie ed andarmene senza dover rendere conto a nessuno.
Ricominciare senza sentirmi in colpa per le persone che ho lasciato qui.
Vorrei pensare a me, a me e basta.
E smetterla di volere sempre quello che non ho, di voler essere sempre ciò che non sono.
Mi manca sempre qualcosa, manca sempre qualcosa per essere felice.
Ed è solo con me che dovrei prendermela.
 
Eppure, io non ci riesco ad accontentarmi, non ci riesco a credere che davvero sia solo tutto qui.
 
Io lo voglio un uomo che si accorga di me, che resti al suo posto ma ci sia, che si preoccupi per me, non che si occupi di me, che mi abbracci quando ne ho veramente bisogno.
Lo voglio qualcuno che mi chieda se sto bene, che riesca a leggere a tal punto dentro di me da non aver bisogno di una risposta.
E probabilmente sto vaneggiando, forse non mi rendo conto che, questa immagine di uomo perfetto che vorrei per una bambina dai grandi sogni come me, non esiste, che è tutto frutto di illusioni e fantasie infantili. Eppure ho la sensazione di conoscerlo già questo uomo e di non essere riuscita a dargli ciò che merita.
Probabilmente dovrei crescere davvero e fare finalmente i conti con me stessa, senza finzioni, senza steccati bianchi, o tende dietro le quali nascondermi.
Dentro o fuori.
Adesso che tutto mi scivola via, la finta storia che mi ero costruita per sentirmi adeguata, gli istinti ai quali ho pericolosamente ceduto e che non mi hanno portato a niente, la stupida, maledetta, inutile paura di lasciarmi vedere che mi taglia le gambe e mi blocca le parole, adesso, adesso non ho davvero più niente da perdere, perché ho perso tutto.
 
Perfino Damon.
Soprattutto Damon.
 
 
 
 
 
 

Damon

 
Prendere in giro il ciuffo perfettamente pettinato di Stefan, è assolutamente tutto ciò di cui avevo bisogno questa sera.
Per fortuna che ho lui, la sua ingenuità, la sua leggerezza a tenermi compagnia, per fortuna che c’è lui stasera a tirarmi un po’ su.
Perché dopo una giornata del genere, l’unica soluzione, che non preveda il correre a 150 chilometri orari con la mia moto che non ho più, è irrimediabilmente ubriacarmi con Ric ed Enzo o stare con Stefan.
Mi si è presentata la seconda e non me la sono lasciata sfuggire.
Ad essere sincero ce ne sarebbe anche una terza di soluzione, che forse potrebbe slittare in vetta a tutte le altre. Una soluzione che ha due grandi occhi da cerbiatta e un profumo buono, orientale, che non so come ha iniziato a piacere anche a me, da quando ce l’ho addosso. Da quando ho avuto lei addosso.
Però non posso andare da lei, non posso chiamarla, non posso cercarla, né capitare per caso sotto casa sua, perché l’ho lasciata andare.
Di nuovo.
E di nuovo sono arrabbiato con lei, di nuovo mi sta facendo impazzire.
Perché la capisco, la vedo, la sento, la voglio, eppure non riusciamo a prenderci, ad avere lo stesso tempo.
Lei così bella ed insicura, io che sto sgretolando me stesso e non riesco più a darmi importanza davanti a lei.
Ho perfino messo lei, le sue paure, davanti alla mia delusione ed umiliazione, le ho lasciato addosso la mia voglia di stare con lei, ma non l’ha saputa trattenere.
L’ho sfidata perché la voglio sicura.
Non voglio essere un fiume che la travolge e la lascia senza fiato, voglio che il mio sia un letto sicuro dentro il quale scorrere, volevo darle tutto ciò che meritava.
Volevo, perché adesso non so più se ne sono in grado, né se lo sono mai stato.
Adesso che non ho più niente, che dovrò ricominciare tutto da capo, non so se sia giusto sconvolgere ancora la sua vita.
 
«Dai Damon spicciati che vorrei arrivare ad un orario decente!»
 
Stefan mi sta torturando da quando è arrivato per accompagnarlo all’inaugurazione di un nuovo caffè letterario a Malibù.
Mi ha preso in contropiede, addolcendomi la pillola con la scusa di una folla di ragazze, che si materializzeranno lì per conoscere uno scrittore di cui ignoro l’esistenza, il fatto che io poi abbia accettato, senza quasi obiettare, è la prova di quanto sia privo di difese e di forze.
Nonostante questo, sto volontariamente perdendo tempo, mentre mi allaccio le scarpe, per prenderlo un po’ in giro e lasciarmi andare a risate a cuore aperto.
 
«Devo sistemarmi il ciuffo Stef, non posso mica sfigurare davanti a te!»
 
Stefan mi rifila una spallata appena mi alzo dal divano, facendogli una smorfia e fingendo di imitare le sue mosse, che prevedono anni e anni di preparazione per pettinare in quel modo preciso e accurato i suoi capelli, ma con il contraccolpo ripiombo sui cuscini, provocando un ulteriore sbuffo da parte sua.
 
«Damon!»
 
La vena che pulsa sulla sua fronte, aggrottata in modo minaccioso, è il segnale che devo piantarla sul serio e decidermi ad assecondarlo, dato che è lui stasera che sta facendo un favore a me, anche se non lo sa.
Per questo alzo le mani in un segno di resa, mi tiro su dal divano e prendendo le chiavi della macchina, mi avvio verso la porta, seguito a ruota da uno Stefan finalmente compiaciuto.
 
Solo che..
 
«Elena…»
 
Elena è qui, davanti a me, sul pianerottolo, con il braccio alzato a mezz’aria e il pugno chiuso, bloccato un attimo prima di bussare.
 
«Ciao…»
 
E’ pallida, sembra stravolta, ha gli occhi rossi, il labbro inferiore che le trema e la voce bassa e sottile.
E’ talmente piccola e stretta nella sua giacca, che ho paura che crolli sul pavimento dell’androne da un momento all’altro.
 
«Che succede? Stai bene?»
«Io.. non.. non proprio… stavi uscendo…»
 
Non faccio in tempo a formulare una risposta, il mio corpo si sposta automaticamente per lasciarle lo spazio sufficiente a superarmi ed entrare e lei non ha bisogno di ascoltare niente, né di attendere un invito, capisce da sola che voglio che resti qui.
 
«Elena..»
 
Stefan alza gli occhi appena in tempo per ritrovarsela davanti ed è costretto ad indietreggiare per non andarle addosso, mentre lei attraversa la porta e mi supera per entrare.
 
«Stefan..»
 
Elena sgrana appena gli occhi, trattiene il fiato per un momento e poi mi guarda, come a voler cercare un aiuto, una via di fuga, a questa presenza che non si aspettava, che forse non aveva previsto.
 
«Tutto ok? Caroline sta bene?»
«Sì... sì, tutto ok.. scusate io.. forse è meglio se…»
«Cavolo scusa Stef, me l’ero assolutamente dimenticato! Elena è passata per me, le avevo chiesto un favore per questa sera. Mi dispiace, non posso proprio accompagnarti..»
 
Stefan mi guarda un po’ amareggiato, guarda lei confuso e alquanto preoccupato, ma poi si fida di me, annuisce e lei spalanca leggermente i suoi occhi grandi, grata e forse anche sorpresa del mio intervento.
 
«Va bene, vorrà dire che dovrò gestire tutta quella folla di donne da solo!»
«Fatti lasciare qualche numero di telefono anche per me!»
 
Gli lancio un’occhiata furba e maliziosa mentre lo accompagno alla porta e lui mi fa un cenno con la mano prima di voltarmi le spalle e scendere le scale, lasciandomi da solo con la mia soluzione numero uno.
 
 
 
 
 
 
 

 
“So che l'amore è come le dighe: se lasci una breccia dove possa infiltrarsi un filo d'acqua, a poco a poco questo fa saltare le barriere. E arriva un momento in cui nessuno riesce più a controllare la forza della corrente.
Se le barriere crollano, l'amore si impossessa di tutto.”
 
(Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto _ P.Coelho)









 
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Sono imperdonabile, lo so.
E sono in ritardissimo.

Ho avuto giorni incasinitissimi e forse ne avrò ancora, ma ci sono.
Ci sono e mi stavo mangiando le mani per non riuscire a concludere il capitolo e aggiornare..

Ero e sono, un po' titubante in realtà, per come è scritto e perché c'era un'altra idea dietro, ma questo capitolo si è infilato in mezzo ed è uscito da solo..
E' un passaggio, molto (troppo?) introspettivo, più corto del previsto, (ho preferito interromperlo, prima di non riuscire più a farlo, allungando ulteriormente i tempi di pubblicazione!), che però chiarisce definitivamente, spero, i pensieri e le 'paure' di entrambi, di Elena soprattutto.
La vediamo chiudere (finalmente! non lo sopportavo più neanche io!!) con quel Mattew perché ha deciso per lo meno di essere 'fuori' con lui, e portarsi dietro strascichi di discussioni, dubbi e analisi su se stessa e sull'uomo che vorrebbe.. e a fine giornata, l'unica persona che vuole e da cui va a cercare sostegno, è sempre lui, nonostante tutto.
Damon che invece ha chiuso con la sua agenzia, purtroppo.. ma da testardo e fin troppo leale che è, ha scelto l'unica strada possibile.

Non aggiungo altro per ora e spero - provo  - per chi segue - ad aggiornare al più presto!

Un bacio a tutte!
Ale

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15° ***



“Pazzo, pazzo, pazzo...
 
Io non riesco a togliermi questi ricordi dalla testa.
E’ una specie di follia che ha cominciato a svilupparsi
io ho cercato con tutto me stesso di lasciarti andare..
ma c'è una specie di follia che mi sta mangiando vivo.
 
Ho finalmente visto la luce,
e ho finalmente realizzato
cosa sei per me.
 
E adesso ho bisogno di sapere
se questo è vero amore,
o se è solo la follia che ci sta mantenendo a galla,
ma quando mi volto e vedo tutti
i litigi stupidi che abbiamo avuto, capisco che
era questa specie di follia che prendeva il controllo.
 
Ho finalmente visto la luce,
e ho finalmente realizzato
di cosa hai bisogno.
 
Pazzo, pazzo, pazzo...
 
E adesso ho finalmente visto la fine
e non mi aspetto che a te interessi
e ho finalmente visto la luce
e ho finalmente realizzato
che ho bisogno del tuo amore,
che ho bisogno del tuo amore.
 
Vieni da me, in sogno
vieni e salvami.
Sì, lo so, non posso sbagliarmi
e forse sono troppo testardo,
il nostro amore è...
 
follia.”

 
(Madness _ Muse)
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Quando mi volto, dopo aver chiuso la porta alle spalle di Stefan, sono ancora indeciso se pentirmi per aver rinunciato a questa uscita con lui, che forse poteva risparmiarmi un ennesimo faccia a faccia con Elena, in uno spazio troppo piccolo per non straripare, o sentirmi sollevato e lasciarmi salvare dalla mia soluzione numero uno, dopo questa giornata infernale.
Non avrei neanche voluto mentire a Stefan, non di nuovo visto che si tratta di lei e mi sento un po’ sporco, non mi piace più questa situazione, perché lo so che ora sono amici, che non c’è mai stato niente tra di loro, eppure non so cosa provi lui davvero e mi sento comunque in colpa per il fatto che lei sia qui adesso, per qualcosa che non ha nulla a che vedere con un favore che le avevo chiesto.
Ma è proprio nell’istante in cui alzo lo sguardo su di lei, che mando a monte tutti i miei sentimenti contrastanti e trovo la mia risposta.
E’ quando la scopro schiacciata nell’angolo più lontano del divano, con le gambe raccolte e strette tra le braccia, il mento poggiato sulle ginocchia e la frangetta che le scende sul viso, coprendole quegli occhi bassi, che capisco che non mi importa nient’altro se non lei e il motivo del suo stato.
E sono disorientato, confuso dalla sua presenza in casa mia, dal suo essermi venuta a cercare, mi spaventa anche un po’ ma esito perfino ad avvicinarmi, per timore che possa ripensarci, che possa sgattaiolare via con una scusa qualsiasi, che ormai riuscirei a riconoscere ad un miglio di distanza.
Per questo la lascio un po’ lì, da sola con i suoi pensieri, mentre io sto con i miei e le do tempo di mettere ordine e tornare da me, che sono ancora qui.
Mi avvicino alla credenza dove tengo gli alcolici, tifo fuori una bottiglia di bourbon, ne verso un po’ in un bicchiere e lascio Elena fisicamente da sola, solamente per andare a prendere una lattina di coca cola nel frigo. Bevanda che io assolutamente non bevo e che ho comprato raccontandomi che fosse per Caroline, così da fargliela trovare quando sarebbe tornata a trovarmi,  ma sapendo benissimo, anche, che Elena beve quasi unicamente questa.
Torno in soggiorno con la lattina in una mano e lei è ancora lì, sul divano, nella stessa posizione di quando l’ho lasciata.
Mi volto per afferrare il mio bicchiere di bourbon, lasciato sul piano dello scaffale ed è solo allora che finalmente parla.
 
«Io e Matt ci siamo lasciati
 
Sono felice di essere ancora di spalle, perché così non può vederli i miei occhi che si aprono un po’ di più, la mia mascella che si contrae, la mia mano che esita ad afferrare quel bicchiere, non può sentirlo il mio respiro che si ferma e il ghiaccio intorno al mio cuore che si incrina leggermente.
Sapevo che sarebbe successo, non poteva continuare a mentire così a lui e a se stessa, perché sì lo so io e lo sa pure lei che quel tizio non c’entrava niente con lei, non c’entrava con la pelle, solo che ci ha voluto provare, si è messa in gioco, perciò va bene così.
Va bene, però non capisco allora a cosa sia dovuto il suo stato.
E’ troppo turbata, triste, per essere una sicura della sua scelta, per una storia che non avrebbe dovuto portare conseguenze.
Per questo decido di voltarmi, avvicinarmi al divano e sedermi accanto a lei, vicino ma non troppo da sfiorarla, schiaccio la schiena sul divano e alzo le gambe per poggiarle sul tavolino di fronte a me. Quando lo faccio lei sussulta leggermente, non si sposta, non si chiude ancora di più, resta lì, ferma, con lo sguardo basso e le labbra contratte e io le concedo ancora tempo, per essere pronta, per spiegarmi perché è qui.
 
«Posso chiederti una cosa?»
 
Risponde alle domande che mi stanno passando per la testa con una richiesta, lo sussurra quasi imbarazzata, si morde il labbro e io annuisco, una volta.
 
«Secondo te sono una bambina immatura che non riuscirà mai ad avere una relazione vera e sincera con qualcuno?»
 
Sono costretto a voltarmi verso di lei, per guardarla di traverso, preso alla sprovvista dalla timidezza della sua domanda e dal carico della risposta che si aspetta.
L’angoscia che leggo sul suo volto, le labbra tirate in dentro, la fronte corrugata, gli occhi piccoli, traballanti, colpevoli, mi montano una rabbia che mi fa impazzire.
Non ho bisogno di chiederle da chi venga questa insinuazione che le si è appiccicata addosso, faccio due più due e il risultato mi sembra fin troppo chiaro.
Quel Mattew è un vero stronzo.
Neanche io sarei mai arrivato a scaraventare in faccia ad una donna una cattiveria del genere, solo perché mi sta lasciando, solo per farla sentire inadatta, quando quello meno adatto di tutti qui è solo lui.
Vile, insensibile, bastardo.
Se ce l’avessi qui davanti lo prenderei a pugni fino a fargli sanguinare il cervello, che a quanto pare non sa usare, gli farei rimangiare tutto, parola per parola, fino a cancellare questo sguardo basso e umiliato dal volto di Elena.
Non sopporto che qualcuno la metta in dubbio in questo modo, che le tolga il sorriso, lei che dovrebbe solo imparare vivere un po’ di più, che ha imparato a camminare sui tacchi alti per sentirsi all’altezza di essere donna. Invece c’è ancora qualcuno che continua a farsi forte e a sentirsi superiore sul dolore e l’umiliazione degli altri.
Non lo accetto, non quando si tratta di lei, non lo merita, non merita niente di tutto questo, se è questo che c’è fuori, se sono questi gli uomini per cui l’ho lasciata andare, tanto valeva che stesse con uno come me.
La osservo ancora ed è così piccola, chiusa in se stessa ma con gli occhi grandi fissi nei miei a cercare una risposta, un’àncora che sa che non riuscirei a negarle.
Ed infatti non intendo lasciarla affogare stavolta.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Il volto di Damon è passato dallo stupore alla rabbia in un battito di ciglia e ora ha uno sguardo indecifrabile, mi osserva con una strana espressione accesa negli occhi, qualcosa che non avevo mai scorto prima.
Non sono riuscita a fare a meno di precipitarmi qui, da lui, dopo aver pianto tutte le mie lacrime per un uomo che ha colpito esattamente le mie ferite scoperte, i miei punti deboli, quelli per cui continuo a mentire, a voler essere qualcun'altra, qualcuna un po’ più donna, un po’ più sicura, un po’ meno bambina, qualcuna che non si porta dietro le sue paure di non essere come dovrebbe.
Non sono riuscita a fare a meno di precipitarmi qui, da lui, che mi conosce più di quanto pensi, che ha smosso un mare dentro di me, che ha paura di me, come io di lui, che mi attrae e mi respinge, come io faccio con lui, ma riesce a vedermi come nessun altro uomo, riesce ad entrarmi dentro e a vedermi nuda senza che io gli dica niente, senza che lui pronunci una sola parola.
 
«Dimmi una cosa che nessuno sa.»
 
Damon interrompe i miei pensieri costringendomi a guardarlo confusa, frastornata. Sbatto le ciglia per metterlo a fuoco e rendermi conto di cosa mi stia domandando, cercando un senso che non trovo.
 
«Cioè?»
«Una cosa qualsiasi, anche stupida, che non hai mai raccontato a nessuno, nemmeno a Caroline.»
 
Continuo a non capire, a non sapere dove voglia arrivare, cosa c’entri questo con la domanda che io ho rivolto a lui, ma alla fine decido di smetterla di voler trovare una spiegazione ad ogni cosa e mi fido, allento leggermente la presa dalle mie gambe e abbandono il suo sguardo per farlo ruotare verso il soffitto.
Provo a raccogliere i ricordi, arriccio la bocca e porto un dito sulle labbra, soprappensiero.
Ce l’ho, finalmente la trovo una cosa che nessuno sa, nemmeno Caroline.
 
«Ho rubato un braccialetto ad una mia amica, quando avevo sette anni..»    
 
Torno con gli occhi su di lui, assumendo uno sguardo un po’ colpevole e un leggero sorriso furbo e infantile.
 
«Lei l’ha cercato per più di una settimana, ha pianto tantissimo, io l’ho consolata con tutte le mie forze, ma non gliel’ho mai restituito.»
 
Damon mi guarda incredulo, spalanca la bocca teatralmente e apre la mano, libera dal bicchiere, sul suo petto a fingere un colpo che non pensava potesse infliggergli l’immagine, fintamente perfetta, che ho finora provato a dare di me.
 
«Bugiarda e ladruncola che non sei altro!»
 
E’ ironico, lo capisco dal suo tono alto e costruito con cui si prende gioco di me, eppure un po’ è lui a colpire me, a scalfire un pezzo della mia corazza.
 
«Ehi! Me l’hai chiesto tu!»
«Si ma pensavo a qualcosa come.. dormo ancora con una bambola o una volta ho finto un orgasmo! Ci credo che non l’hai mai detto neanche a Caroline! Non ti avrebbe per nessuna ragione al mondo lasciato avvicinare a lei e alle sue cose!»
 
Io arrossisco violentemente e intanto lo colpisco con dei piccoli pugni sulla spalla mentre continuo a ripetergli che è uno stupido, stupido, stupido!
Lui ride cercando di schivare al meglio i miei colpi, che però lo centrano lo stesso e io metto il mio solito broncio, incrociando le braccia sotto il petto.
 
«Avanti allora, mister ‘correttezza e perfezione’ dimmelo tu un segreto di te che nessuno sa!»
«Non ci penso proprio!»
«Dai, io te l’ho detto ora devi fare lo stesso!»       
 
Lo so che risulta un tono da bambina implorante, ma ora che mi sono un po’ scoperta, non voglio essere lasciata da sola a sentir freddo, voglio che anche lui condivida una cosa stupida e che nessuno sa, con me.
Voglio avercelo anch’io qualcosa di lui, che sia solo mio.
Damon sbuffa sonoramente e alza gli occhi al soffitto caricando il gesto con la sua testa che si scuote da una parte all’altra.
Alla fine però, mi fa un sorriso storto e abdica, concedendomi una piccola vittoria.
 
«Va bene, va bene. Solo perché sei tu.»
 
Sorrido trionfante e sono pronta a continuare a pungolarlo nel caso mi stia prendendo ancora in giro.
Lui però ci pensa per qualche secondo, beve un sorso del suo liquore, socchiude gli occhi, fa una smorfia con la bocca e si gratta una guancia in modo distratto, poi blocca lo sguardo in un punto indefinito del salone.
 
«Nell’ultimo cassetto dell’armadio, ho una foto di me da bambino in braccio ai miei genitori. L’ho infilata lì quando loro si sono trasferiti e non l’ho mai più tolta.»
 
 
 
 
 
 

Damon

 
Elena mi guarda con ancora il suo sorriso vincente sul viso, la bocca socchiusa e le proteste bloccate sulle labbra, che non avrebbe avuto intenzione di far cessare, se non mi fossi deciso a parlare.
Le sue braccia sciolgono il nodo che aveva stretto per fingere un’aria minacciosa che non le si addice proprio, cadono sulle sue ginocchia che intanto si sono spostate verso di me, come tutto il suo corpo, sfiorando la mia gamba destra.
Anche il suo sguardo si addolcisce e le sue labbra si distendono, aprendosi in un sorriso piccolo, buono, tenero.
Apre appena una mano che ha poggiato sulla pelle delle sue gambe avvolte solo da degli short, vorrebbe toccarmi, avvicinarsi, dire qualcosa di dolce, ma non lo fa. E’ disorientata dalla mia confessione sincera e profonda, che racchiude un pezzo di me che lei può finalmente vedere e che io le concedo senza troppa fatica.
 
«Questo sì che è un vero segreto..»
 
Dice solo, io scrollo le spalle e finisco il liquido ambrato all’interno del mio bicchiere, prima di poggiarlo sul tavolino davanti a me. Lo bevo tutto d’un sorso e lo lascio scivolare amaro giù in gola, per compensare la tenerezza della mia ammissione.
Elena continua a fissarmi senza parlare, stupita e con quello sguardo da cerbiatta che mi sta mettendo davvero in difficoltà, che non so più come gestire, come allontanare.
All’improvviso poi, raddrizza la schiena e si sistema meglio sulle ginocchia, prendendo più spazio su questo divano e dentro di me, mi guarda decisa e si abbraccia di nuovo i gomiti ma stavolta con fare determinato e risoluto.
 
«Voglio cambiarla.»
«Cosa?»
«La cosa che nessuno sa, voglio cambiarla!»
 
Io la guardo perplesso mentre lei mi sfida sicura.
 
«Elena mica è una gara!»
«Lo so, ma voglio cambiarla lo stesso!»
 
Io assumo un’espressione rassegnata, scuoto la testa per dare più forza al mio essere contrariato, e per prendermi ancora un po’ più gioco di lei, prolungando il suo broncio, talmente adorabile che non riesco a farne a meno.
Le concederei tutto questa sera.
 
«Ok. Avanti, spara.»
 
Lei mi sorride soddisfatta, annuisce con un sorriso vittorioso e poi torna seria, prende un respiro, abbassa lo sguardo sulle sue mani strette l’una nell’altra, resta in silenzio per alcuni secondi, come a raccogliere il coraggio e poi torna a posare gli occhi dentro i miei.
 
«Ogni tanto mi nascondo ancora nell’armadio dei miei genitori, come facevo quando ero piccola, per sentire ancora l’odore di mio padre.»
 
Lo dice tutto d’un fiato, con un velo di tristezza che mi arriva sulla pelle e mi fa rabbrividire.
Sono io stavolta a restare senza parole, a guardarla con lo stesso sguardo tenero che lei mi ha concesso pochi minuti fa.
Si è scoperta, mi ha mostrato un pezzo di quella pelle che continuava a nascondere sotto il lenzuolo, è riuscita ad essere sincera, a non aver paura, a scavalcare quel recinto senza sentirsi costretta o giudicata. E l’ha fatto istintivamente e genuinamente, come fosse la cosa più naturale al mondo, per questo adesso le sorrido alzando soltanto un angolo della bocca, per non spaventarla proprio ora.
E’ bella Elena, è bella da morire quando sceglie di essere vera.
 
«Dai, ora tocca di nuovo a te.»
 
Recupera un pizzico di lucidità, che le colora lo sguardo di divertimento e competitività, e mi sfida di nuovo.
 
«Cosa? No! Già è tanto che te ne abbia detta una!»
«Damon!»
 
Mi ammonisce con lo sguardo e con la voce, gonfiando le guance, ritornando a mettere il broncio e alzando il mento e le labbra strette più vicino a me.
 
«Non è giusto che tu sappia due cose di me e io solo una!»
«Sei tu che hai voluto cambiarla! La decisione era a tuo rischio e pericolo!»
 
Provo ad alzarmi, più per ritrovare quell’ossigeno che lei, troppo vicina a me, mi sta togliendo ma Elena è più veloce, mi afferra la maglia per farmi risedere sul divano e si avvicina ancora, ordinandomi con un solo sguardo, di svelarle un altro segreto.
Stringe forte la stoffa tra le sue mani e io sono completamente inerme sotto la sua presa, riuscirei tranquillamente, se solo volessi, a liberarmi delle sue dita su di me e ad alzarmi da questo divano, eppure non lo faccio.
Resto qui, con lo sguardo leggermente alzato, per incontrare il suo che mi sovrasta, insieme a tutto il suo corpo e mi intima di concederle un’altra piccola vittoria e io lo vorrei.
Vorrei tanto concedergliela.
Vorrei davvero dirle una cosa che nessuno sa.
Vorrei farglielo vedere come il mio mare ora scorra quieto e lineare nei suoi confini, come il mio orgoglio, le mie ferite, addirittura quelle che lei ha volontariamente deciso di infliggermi, umiliandomi e respingendomi, le mie stesse tempeste, riescano a curarsi e placarsi sotto un suo unico, profondo, delicato, sguardo.
Perché tutto quello che sono, tutto ciò che non merito, tutta la mia libertà che ora non c’è più, che mi ha lasciato perso, adesso è qui, nei suoi occhi grandi, nel modo in cui lei si fida di me, nella dolcezza con cui mi restituisce alla mia, nelle sue paure che sono pure le mie.
E allora, mi chiedo come sia possibile..
Chi sia stato l’artefice di un trucco del genere.. perché io non mi sono mai distratto, non le ho mai, mai, perse di vista le carte che avevo ben strette tra le mani, le ho sempre tenuto sotto controllo, invece, qualcuno me le ha scambiate da sotto il naso.
Ha invertito le mie con quelle di Elena, io ho le sue e lei ha le mie.
Io ora sono sicuro di me e di ciò che voglio e lei no, lei ha ancora paura che tutto questo sia ancora troppo grande per lei, che io sia troppo, nonostante mi senta niente.
Lei è il fiume in piena e io la casa dal recinto bianco.
C’è qualcosa che non va’.
C’è uno scambio di ruoli e di emozioni che non era previsto.
C’è che..
 
Credo di essermi innamorato di te Elena.
 
Ecco cosa c’è.
Ecco il mio segreto che nessuno sa e che vorrei poterti dire ma tu non sei ancora pronta a sentirlo.
E io sono ancora troppo traumatizzato dalle mie emozioni e dai miei pensieri per rovesciarti addosso tutto questo mare, in cui annegheresti e in cui io non riuscirei a salvarti stavolta, pur volendo.
Ecco perché l’unica verità insignificante che riesco a dire è questa.
 
«Sono stato picchiato da un bambino molto più piccolo di me quando avevo dieci anni, ma ho sempre raccontato di essere caduto dalla bici.»
 
Eccola un’altra cosa che nessuno sa Elena, un’altra cosa che ora condividiamo insieme ma che ci tiene ancora lontani, per darci tempo, per darne a te, per farti abituare alla mia verità, per darmi la possibilità di fare spazio in me e farti entrare come meriti, come merito, come solo tu sapresti fare.
Lei scoppia a ridere, riportandomi alla realtà, staccando le mani da me in un gesto naturale, che però mi fa male alla pelle, per avvicinarne una alla bocca a coprire quel meraviglioso sorriso che ora c’è lì proprio sulle sue labbra.
 
«Io sarò anche una ladruncola.. ma tu sei proprio un pappamolla!»
 
E’ lei stavolta a prendermi in giro, a ridere di me, a farmi sentire un bambino di dieci anni che ancora una volta viene messo a tappeto da qualcuno che non si aspettava, che non avrebbe mai pensato potesse avere la minima chance.
Mai fidarsi di occhi innocenti e di anime che sembrano pure.
 
«Finirai per slogarti la mascella se non la pianti!»
«Scusa.. scusa..»
 
Ci prova a ridarsi un contegno, a controllare quelle smorfie della bocca che vorrebbero esplodere ancora in altre mille risate, si mangiucchia perfino un labbro per mantenersi seria ma non ci riesce, i suoi occhi che brillano e sorridono continuano a tradirla e a mandarmi in confusione.
Ed è così libera, così vera, così sincera e bella, che non posso non sorridere anche io e concederle finalmente la risposta alla domanda con cui si era presentata qui stasera, da me.
 
«Vedi, quando vuoi e con chi vuoi, ce l’hai una relazione vera e sincera..»
 
 
 
 
 
 
Elena
 
«Vedi, quando vuoi e con chi vuoi, ce l’hai una  relazione vera e sincera..»
 
Le risate che ho cercato di frenare fino a questo momento, muoiono sulle mie labbra che si schiudono non riuscendo però a far entrare aria. Anche i miei occhi si allargano un po’ e si specchiano in quelli di Damon che ora sono dolci, trasparenti, di un azzurro vivo che mi spoglia senza mettermi in imbarazzo.
Mi vede.
Io mi sono fatta vedere.
Lui mi ha guidata fin qui, forse consapevole, forse no, ha cancellato la mia tristezza, mi ha presa per mano per tutto il tragitto e solo adesso che ha risposto alla mia domanda, mi sono accorta della sua mano sulla mia, che mi ha accompagnato e tenuta salda per non farmi annegare.
Mi ha salvata, di nuovo e come solo lui riesce a fare, quando sceglie di farlo, mi fa perdere nelle sue oscure mareggiate e poi mi riporta fuori, lasciandomi la mano quando il pericolo è finito.
Per farmi camminare da sola e prendersi cura di me, ad un passo di distanza.
Più mi avvicino a lui, più lo conosco, meno lo idealizzo, più mi rendo conto che ha ragione, che a volte non si ha altra scelta che essere se stessi, non si può fare altro che straripare e inondare tutto ciò che ci circonda solamente perché ci si sente in trappola, stretti in qualcosa che ci soffoca.
La facciata perfetta che volevo mantenere si è sporcata di colore. Si è macchiata di leggerezza.
 
Ma perché devo nascondermi?
A chi importa se nessuno me lo fa pesare?
 
Il sorriso che gli regalo e che si allarga piano, stupito, è il mio grazie per tutto questo.
E’ un grazie che mi sale dalla pancia ed esce dalle labbra ancora socchiuse, fino a farmele aprire in modo autentico, pulito perché sporco di me.
E forse lui può capirlo, può vederlo quanto sia profondo, quanto le sue parole, il gioco che ha costruito per arrivare a ridarmi fiducia, a pensare che forse non serve sforzarsi di essere all’altezza, forse lo sono e basta, mi abbiano toccato, fino a lasciarmi senza niente da dire, vuota e riempita.
Ora non ne ho più bisogno.
Lui vede quello che cerco di nascondere, me lo tira fuori, lui sa chi sono, prima ancora di me e gli sta bene.
 
Damon inclina la testa guardandomi di sbieco, alza un angolo della bocca e mi fa tremare il cuore per quel suo modo di accennare un inchino, di dirmi ‘non c’è di che’, senza dirmelo.
So che mi ha concesso una pausa, una parentesi a causa del mio stato d’animo, ma si aspetta ancora una risposta a quella provocazione che mi ha lasciato sulle labbra e sulla pelle qualche sera fa.
Perché lui dovrebbe essere ancora arrabbiato, deluso, da me, dal mio comportamento, dalle mie incertezze, perché sono io adesso che gli sto scivolando via, che ho messo dei paletti alla sicurezza che avevo di voler stare con lui.
Ma adesso, di quei paletti, non ne scorgo la minima traccia.
Siamo così vicini eppure non riusciamo a toccarci.
Lui abbassa lo sguardo, mi concede un ultimo sorriso, che stavolta è più una smorfia e si raddrizza per potersi allontanare, alzandosi da questo divano.
Sono sempre io però che lo trattengo ancora, che afferro di nuovo la sua maglia e lo costringo a risedersi, portandomi ad un soffio dal suo viso, sono io che adesso lo guardo negli occhi con l’unico scopo di farmi perdonare, di restituirgli quella parte di sé, che ha lasciato su di me.
 
«Non andartene di nuovo.»
 
La mia voce ha un tono diverso, più duro, secco, deciso.
Anche lui mi guarda in modo diverso, ha capito che la parentesi è finita, che siamo tornati quelli di quella sera nel parcheggio, lui è ancora quello che mi lascia andare e io sono quella che non riesce a dargli quella risposta a cui lui non crede neanche.
 
«Sei tu che sei lontana.»
«Sono qui adesso.»
«E’ tardi Elena..»
«Non mandarmi via.»
 
Scuote la testa, debole, controllato.
 
«Ne riparliamo domani..»
«Questo significa che posso restare qui?»
«No..»
«Perché?»
«Perché domani potresti aver cambiato idea e io non voglio essere responsabile di nessun senso di colpa.»
«Sono io che sto scegliendo di restare, tu non mi stai obbligando a fare niente.»
«Non voglio incasinare la vita di nessuno.»
«Smettila di decidere per me. Non puoi essere così presuntuoso da credere di sapere cosa sia giusto per me.»
 
Lo guardo immobile, con la voce che si alza leggermente per essere certa che la mia determinazione gli arrivi chiara e precisa, una mano sul suo cuore e una sulla sua guancia, che ancora graffia per questa sua barba trascurata che gli segna il viso stanco e provato e gli fa apparire lo sguardo ancora più azzurro e profondo, eppure non riesco ad entrare del tutto, manca quel qualcosa che non riesco ad afferrare.
Ho la sensazione che si stia trattenendo, c’è che qualcosa che non so, qualcosa che tiene per sé ma che mi lega a lui e non riesco ad allontanarmi nemmeno di un millimetro, perché ogni passo indietro, è un passo lontano da lui e fa male, male da non riuscire a respirare.
 
«Elena..»
 
Lo sento che è bloccato, lo so che vuole cedere, lo vedo il suo sguardo che vaga dai miei occhi alle mie labbra e poi si sposta sul soffitto e su quel bicchiere vuoto, poggiato sul tavolino accanto alla mia coca cola, che so che ha comprato per me ma non me lo dirà mai.
Vedo le sue mani che si contraggono, che resistono all’impulso di toccarmi, di sfiorarmi il viso, le guance, i capelli.
 
Fidati di me, Damon.
Guardami e fidati di noi.
 
Premo un po’ di più la mano che ho sulla sua guancia, per farlo girare nella mia direzione, per bloccare i suoi occhi dentro i miei e lui mi lascia fare.
Si lascia sfuggire un sospiro stanco, arreso. Poggia la testa, voltata verso di me, sullo schienale del divano e mi guarda immobile, senza più sfuggire.
E quando lui punta i suoi occhi dentro di me in questo modo, io mi sento imprevedibile, come se fossi libera.
Libera di essere me, di avvicinarmi a lui, poggiare la testa ad un palmo dalla sua, sullo schienale di questo divano, accoccolarmi accanto al suo corpo, bloccare i miei respiri e respirare la stessa aria che mantiene in vita lui.
Restiamo occhi negli occhi, cuore dentro cuore, con la mia mano sui battiti del suo e le sue immobili, strette in un pugno.
Quando scivolo via quella che premevo sulla sua guancia, per coprire quei pugni chiusi, lui ne segue il tragitto con lo sguardo, schiude piano le mani e si lascia accarezzare.
Mi lascia giocare con le sue dita, incastrare le mie dentro le sue e mentre lo faccio, mentre mi ancoro a lui, sciolgo le mie incertezze e non ho più paura.
 
«Sono certa Damon…»
 
Torna a guardarmi, sorpreso e confuso da quel sussurro che mi esce dalla bocca e gli arriva sulle labbra.
 
«Se tu volessi me, se tu fossi disposto a stare con me, se non sfuggissi più, sarei certa di voler stare con uno come te.»
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Il mio cuore si ferma, il mio respiro si interrompe, l’espressione del mio viso si apre in un misto di stupore, sconcerto e paura.
Il modo in cui riprende le mie parole, risponde alla mia provocazione, mi spiazza e non mi lascia il tempo di pensare, di decidere, di oppormi.
Elena si avvicina ancora di più a me e con gli occhi incatenati sulle mie labbra, arriva a sfiorarmele e a farmi godere del suo sapore buono, dolce, vero.
E’ sicura ora, è lei a decidere per me, a scegliere per entrambi e per una volta, per la prima volta, sono stanco di resistere.
Ho bisogno di lei, ho bisogno che sia lei stavolta a salvarmi da me.
Voglio solo che lo sappia a cosa sta andando incontro, voglio gettare sul tavolo le mie carte, mandare a monte la partita, farglielo vedere che non ho nessun punto in mano.
 
«Ho venduto la mia agenzia. Non ho più niente Elena.»
 
Glielo sussurro sulla bocca, mentre lei apre i suoi occhi dentro i miei.
Schiude le labbra per dire qualcosa, aggrotta la fronte per rimproverarmi di non averglielo detto all’inizio, per averle rivelato segreti insignificanti che nessuno sa e non averle detto una cosa così importante, non essermi scoperto fino a questo punto, mentre lei invece l’ha fatto.
Sono pronto alle sue domande, alla sua predica, perfino ai suoi pugni e al suo alzarsi e andarsene, invece non fa niente.
Non dice niente.
Mi guarda e basta.
Lo fa per un tempo interminabile e io mi sento infinitamente nudo sotto quello sguardo, tanto che sono costretto ad allontanare i miei occhi da lei e lasciarmi sfuggire un sorriso sarcastico, che non sa di niente, se non di me.
 
«Fa’ l’amore con me.»
 
E poi me lo chiede, sottovoce, piccola, risoluta, imbarazzata, mi concede in cambio del mio niente, l’unica cosa che l’ha sempre tenuta al riparo, al sicuro, al coperto.
L’unica cosa che non la scopriva del tutto con me.
Mi costringe a spalancare gli occhi dentro i suoi, sorpreso dalla sua richiesta, dalla sicurezza della sua reazione, dal suo essere tutto, tranne che una bambina immatura.
Dal suo essere pronta a darmi ogni parte di sé.
Dal suo seguire, per una volta, i suoi istinti.
Indietreggio appena con la testa ma lei resta lì, senza scappare, senza venire a riprendermi.
 
«Alla faccia del non riuscire ad avere una relazione vera e sincera!»
 
Minimizzo perché mi ha letteralmente preso alla sprovvista e lei esplode in un sorriso dolce ed impacciato, bellissimo, come lei, come tutto di lei.
Mi colpisce appena con un pugno sul petto, facendo spuntare sul suo viso un piccolo broncio mentre mi dà del cretino e inclina la testa per nascondermi lo sguardo imbarazzato.
Voglio godermi ancora un attimo questo suo essere una donna – bambina, questo suo delizioso imbarazzo mentre dà voce ai suoi desideri, mentre si nasconde da loro ma non da me.
E lo so che probabilmente domani uno dei due farà un casino per allontanarsi, per difendersi da questa follia che ci sta consumando, che ci sta salvando, ma adesso siamo qui e non c’è nessun altro posto in cui vorrei essere.
Le prendo il viso tra le mani, lo alzo su di me e le sfioro la pelle con i polpastrelli dei pollici e poi, mentre lei chiude gli occhi assaporando i miei gesti, poso le mie labbra sulla sua fronte, sugli occhi socchiusi, sulle guance rosate, sul naso ed infine sulle sue labbra.
Quelle labbra calde e morbide che mi fanno definitivamente crollare.
Copro completamente la sua bocca con la mia, le tolgo quell’adorabile imbarazzo e le restituisco la sicurezza che i suoi desideri coincidano esattamente con i miei.
Quello che accade dopo, non riesco a distinguerlo.
Elena che si aggrappa al colletto della mia t-shirt e mi tira verso di sé, premendo ancora di più la sua bocca sulla mia.
Io che faccio pressione con il mio corpo sul suo, fino a farla distendere con la schiena sui cuscini.
Lei che schiude le labbra per cercare il mio sapore, io che glielo concedo e che scivolo con la mano dal suo viso al collo, accarezzandole la clavicola, il seno, la pancia, il fianco e premerla sulla sua gamba che si apre appena, lo spazio necessario per incastrarmi perfettamente sopra di lei.
Poi risalgo, con la stessa mano e mi insinuo sotto la sua maglia, che lei mi aiuta a sfilare, inarcando automaticamente la schiena.
E’ lei a liberarsi della mia e a conficcarmi le unghie sulla schiena mentre scendo a baciarle il collo e le scosto il reggiseno per coprire con le labbra il suo seno.
Le passo una mano dietro la schiena, supero la barriera dell’intimo e la apro sulla sua pelle, librandomi di quell’accessorio, che ormai non serve più a coprire alcun segreto.
Ormai l’ho già vista nuda.
L’ho vista dentro e non ho mai visto niente di più bello.
Lei non lo sa, non lo può sapere quant’è bella quando si sente guardata, quando sente che qualcuno sta vedendo proprio lei.
Non sa neanche cosa significhi per me, averla qui, senza il bisogno di fuggire, di mettere maschere o tirare sù barriere, di scoprire ogni centimetro del suo corpo e impararlo a memoria, impararne i desideri e le reazioni più profonde.
Il sorriso malizioso con cui mi richiama a sé, il mio nome che le esce dalle labbra, il suo sguardo languido e acceso dal desiderio, mi riportano su di lei, a ricercare il suo sapore, a perdermi nei suoi occhi.
Le mangio l’aria, la stessa che si è presa da me, perché lei è il mio respiro in questa giornata in apnea, percorro con la bocca quei pezzi di pelle su cui mesi fa avevo lasciato l’impronta dei miei denti, della mia rabbia, glieli accarezzo con il dorso della mano, proprio lì, nell’incavo del collo, giù sulla pancia e nell’interno coscia.
Lei mi lascia fare senza resistenze, senza scivolare via, senza mollare la presa dalla mia schiena, che continua a stringere contro di sé, contro il suo seno, come se stavolta, fosse lei ad aver paura di un mio cedimento, di un ripensamento.
Come se potessi fermarmi dopo la sua richiesta, dopo ciò che ha acceso dentro di me.

 
 
 
 
 
 
Elena
 
Le mani di Damon sono dappertutto, le ondate di piacere che mi avvolgono mi fanno perdere lucidità, mi lasciano brividi su tutto il corpo, fino alla punta dei piedi, che sono costretta ad arricciare quando una sua mano slaccia i miei short e mi libera di tutto, insinuandosi oltre ogni barriera.
Mi accarezza e mi bacia senza mai fermarsi, senza mai darmi modo di respirare, non so più dove trovare ossigeno per farlo, ansimo al solo contatto delle sue mani su di me.
Mani che mi erano mancate da morire, che avevano lasciato i loro segni su di me e che ora li stanno curando, ora si stanno riprendendo lo spazio che meritano e che si erano conquistate.
E ad ogni carezza il mio cuore sbatte sempre di più sulla mia pelle per poter schizzare fuori e io mi sento sempre più viva, più vera, più donna, più me e più vicina a lui.
E’ da togliere il fiato Damon quando mi guarda, quando i suoi occhi liquidi di piacere incontrano i miei e mi sommergono con tutto quell’azzurro, quando ricambiano qualcosa che è solo nostro e di nessun altro.
E’ disarmante il modo in cui mi bacia il collo mentre la sua mano si perde tra le mie gambe facendomi gemere, spalancare la bocca in cerca di un’aria che mi sembra di non trovare più dentro questa stanza e stringere con forza una mano sul cuscino sotto la mia testa, incastrando l’altra tra i suoi capelli.
Ma lo è ancora di più quando risale con la mano libera, facendo pressione sul fianco, sulla pancia, tra il mio seno, quando arriva sul mio collo e mi afferra il viso per cercare ancora le mie labbra come se la sua aria fosse lì, sulla mia bocca, come se il suo ossigeno fossi io.
E poi mi chiama, con la sua voce roca ed impaziente, mi chiama per tenermi lì con lui, mi chiama quando sente che non ce la fa più.
E allora gli slaccio i jeans, lui mi aiuta a sfilarli e, mentre gli mordo il labbro inferiore per trattenerlo su di me, sento il suo sorriso malizioso aprirsi nella mia bocca.
Schiudo ancora di più le gambe per accoglierlo e sono già pronta per lui, non ha bisogno di fare nient’altro, il suo solo respiro irregolare e accelerato, il suo cuore che batte dentro il mio, le sue mani su di me, mi bastano per lasciarlo entrare senza difficoltà.
Lui mi guarda per un istante quando si accorge che non c’è più nessun ostacolo tra me e lui, quando capisce qual è la reazione del mio corpo al suo. Mi bacia ancora, con quel sorriso provocante, copre completamente le mie labbra e un gemito strozzato mi esce dentro la sua bocca quando si decide finalmente ad entrare in me, in modo secco, sicuro, per poi fermarsi e darmi modo di abituarmi a lui, dentro di me, completamente dentro di me.
Mi mordo il labbro per trattenere un altro gemito e un altro ancora quando ricomincia a muoversi, piano, con una pazienza e una lentezza calcolata, che mi annebbia il cervello e mi porta a superare il limite prima ancora che possa rendermene conto.
Quando riapro gli occhi, trovo ancora i suoi sopra di me, ad un centimetro di distanza, che mi guardano con quell’azzurro così potente con cui non si sono mai colorati, con un desiderio che io gli ho sempre negato, ma che ho provato dalla prima volta in cui mi ha sfiorato la pelle.
Posa una mano sulla mia guancia e mi accarezza lieve, dolcissimo, mentre si muove esperto e deciso ed ancora spinge dentro di me, più regolare e più forte e io lo assecondo, mentre ondate di piacere continuano ad invadermi e cerco ancora le sue labbra e quel sapore buono ed inconfondibile che solo uno come Damon ha.
Quel sapore che ora è il nostro segreto che nessuno sa.
Il mio e quello di Damon, che raggiunge il piacere insieme a me, mentre io chiudo gli occhi ed inarco la schiena per prolungarlo il più possibile e lui crolla addosso a me, nascondendo il viso tra i miei capelli e respirando a fatica.
Tutto ciò che vedo quando riapro gli occhi sono un soffitto bianco, una massa di capelli corvini e il candore di un corpo roseo e sudato che respira insieme a me.
Con il mio stesso tempo.
Con le mie stesse voglie.
Nudo, come nuda mi sento io adesso, non solo perché lo sono davvero, ma perché finalmente l’ho sentita la sua mano che si allungava per afferrarmi il cuore e non farlo cadere.
Ed ho fatto l’amore con lui in mille modi diversi fino a questo momento, l’ho fatto mentre il suo mare mi inondava e io non riuscivo a respirare, l’ho fatto mentre lasciavo che i suoi occhi mi entrassero nelle viscere, l’ho fatto mentre gli chiedevo di abbracciarmi, mentre gli urlavo addosso che diavolo di problemi avesse.
Ho fatto l’amore con lui ogni volta che lui riusciva a vedermi dentro e ogni qualvolta il suo mare scavava tra le fessure delle mie barriere.
E' meraviglioso fare l’amore con lui in questo modo, ma per la prima volta lo è molto di più perdersi così, l’uno dentro l’altro, senza fiumi che fanno affogare o recinti che ci tengono lontani.
Ed è bello, è stupendo averlo scoperto in questo modo, adesso, senza preavviso, dando voce a desideri che avevo mandato giù fin dentro lo stomaco per non sentirli più.
Rispondendo all’istinto più che alla ragione, come fa lui, come mi ha insegnato lui.
Adesso che sono sicura di potermi mostrare, non mi importa più di essere giusta, adeguata, adatta, non mi importa più se lui mi guarda in quel modo, se per lui vado bene comunque, nonostante tutto.
Per questo stasera ho voluto ridargli tutto, per questo ho voluto colmare il suo sentirsi niente e la sua insicurezza con l’unica cosa di me che ancora non aveva, con l’unica certezza di me che potessi dargli.
E ora non posso far altro che far scivolare le mie braccia su di lui e stringerle intorno al suo corpo, affondare una mano tra i suoi capelli ed accarezzarli, piano, fino a far tornare regolari i nostri respiri.
Fino a far rientrare il resto del mondo in questa stanza e sperare che domani arrivi il più tardi possibile.
 
 












****************************************

Ta - ta - ta - tan!!

Siete vive?
Spero non siate state investite dai troppi unicorni che correvano liberi tra i prati in fiore!
Battete un colpo se ci siete.. 

Sono un po' in ansia.. perchè non è così che doveva andare, avevo piani leggermente diversi, ma questi due hanno preso il sopravvento e mi hanno messo all'angolo! Se lo sono scritti da soli questo capitolo, lunghissimo e dove i protagonisti sono soltanto loro - egoisti che non sono altro! ;-)
Quindi.. non credo ci sia molto da dire..
Finalmente accade.
Lui si rende conto, per primo, di cosa prova, mette da parte i suoi meravigliosi difetti che tengono fuori le persone e lei non ha più paura, si lascia vedere, cede al gioco che Damon mette in atto per farla fidare di lui e le tira fuori il suo essere vera, senza forzarla, senza neanche chiederglielo.. si lascia guidare fino a volersi mostrare del tutto, rendendo insignificante la sensazione di non avere più niente che prova Damon.
Vedremo cosa accadrà quando dovranno fare i conti con la razionalità e come gestiranno la loro nuova "relazione - non relazione".

Intanto un bacio a tutte!
E grazie davvero con il cuore per ogni vostro commento...

Ale

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16° ***



Ho pensieri blu cobalto
Se mi guardi, cado giù
Io che un tempo ero altro
Ora vedo a macchie blu.
 
Blu e ti sembra d'impazzire
Blu e vorresti solo urlare
Blu..
 
Ho parole blu cobalto
Se ad un tratto manchi tu
Io che tengo stretto il nodo dell'orgoglio
Quello che è
Blu e ti sembra d'impazzire
Blu e vorresti solo urlare
Blu e non chiedi proprio altro che blu
Anche il cielo ormai spento si tinge di un nuovo colore
che non ho mai visto se non dentro gli occhi tuoi
 
Diamanti blu
 
Questo sono e nient'altro di più
E non vedo colore che blu.
 
 
(Blu cobalto _ Negramaro)
 
 
 
 
 
 
Elena
 
«Ehi.. ti stai addormentando..»
 
La voce di Damon mi arriva flebile alle orecchie e il suo respiro che si disperde sul mio viso mi solletica la pelle, obbligandomi ad aprire gli occhi assonnati e ad alzare leggermente la testa dal suo petto, per poter incontrare il suo sguardo.
Dio, quanto mi piace quello sguardo.
Quanto amo questo mare calmo, che scorre quieto e mi bagna piano, che non mi sommerge, né mi lascia affogare.
Questo blu che a tratti è cielo trasparente, altri mare limpido, così tanto da poterti vedere riflessa e riuscire a guardare oltre, oltre il cielo, oltre il mare, oltre te, arrivando a lui.
Occhi blu da renderti piccola e grigia al solo confronto.
Occhi che ti chiamano, ti accarezzano dentro, come la brezza marina quando in spiaggia la mattina non c’è ancora nessuno e tu sei lì, con i piedi nella sabbia ancora umida, a disegnare segni indefiniti e il mare ti sorprende le dita, i talloni, le caviglie, ti sfiora e se ne va’, cancellando quei segni scomposti e lasciandoti un brivido fresco che sale su, fino ai tuoi occhi, che si spalancano appena.
Occhi che ti spogliano e ti spezzano il fiato.
Occhi che ti fanno dimenticare tutto il resto del mondo, ti fanno scordare perfino di te stessa e se non stai attenta ti fanno perdere e…
 
Innamorare.
 
Sì, questi occhi qui, questo sguardo qui, questo occhio sinistro che si socchiude appena un po’ di più di quello destro, in un imperfezione che su di lui è soltanto un valore aggiunto, ti fanno desiderare di averne sempre di più e di essere completamente in balia di loro.
Avida, drogata, ipnotizzata.
Da lui, da questo blu che squarcia il nero corvino delle sue sopracciglia, dei suoi capelli, della barba, da questo azzurro così vicino a me, da riuscire a scorgere delle leggere pagliuzze dorate che illuminano il suo mare, che ora è anche un po’ il mio.
 
Innamorata…
 
Di quel colore puro, buono, indefinito.
Che ti coglie alla sprovvista e ti cattura, rendendo insignificante tutto il resto dell’universo.
Occhi dentro i quali puoi finalmente respirare.
Un mare dopo il quale non potrai più essere la stessa, non potrai più uscirne, se non viva o morta.
Quegli occhi che quando li guardi ci lasci il cuore.
E io l’ho fatto, ci ho lasciato quello e pure tutto il resto del corpo.
 
«Alla fine sarò costretto a farti restare qui..»
 
E’ dolce e lieve il suo tono, mi accarezza i capelli con una mano e con l’altra disegna dei piccoli cerchietti sulla mia spalla nuda.
Sono completamente stesa su di lui, con le gambe intrecciate alle sue, avvinghiata al suo corpo con il mio, nello spazio limitato di questo divano che però mi sembra così grande da aver paura di disperderci.
Ma Damon non mi lascia andare, mi tiene stretta e mi sorride con quel suo sorriso storto e furbo, che contiene tutte le parole che non riuscirà mai a dirmi e scopre tutte le maschere che io ho imparato a riconoscere e lui a togliere.
 
«Giuro che non lo dirò a nessuno.. la tua immagine da playboy resterà completamente intatta.»
 
Il suo dito che mi sfiora il naso e si sposta sotto il mio mento per alzarlo, mi fa socchiudere leggermente gli occhi e quando li riapro, trovo ancora il suo blu pieno ed immenso ad accogliermi e la sua bocca che si avvicina alla mia e mi lascia un piccolo bacio, dolcissimo, che sigilla una promessa che non serve più.
E’ ancora buio intorno a noi, c’è ancora la complicità della notte che custodisce segreti e sembra aver fermato il tempo, sembra aver chiesto al giorno di ritardare la sua luce.
Siamo soli, siamo solo io e lui.
Siamo quel noi che non c’è mai stato ed ora è qui.
Un ‘noi’ forte, fragile, devastante, autentico, inevitabile.
Siamo Elena e Damon senza barriere, senza recinzioni, senza bisogno di argini.
Siamo il nostro limite più grande, ma anche l’unico per cui lottare, per cui vale la pena sentirsi liberi.
Siamo ad un passo dal traguardo, dobbiamo solo avere il coraggio di coprire l’ultima piccola distanza.
E’ nel silenzio dell’oscurità che per ora muoviamo i nostri passi, che mi infilo una sua t-shirt, mentre lui indossa solo un paio di pantaloncini, rendendomi impossibile l’impresa di non raggomitolarmi su di lui, sotto le lenzuola, sul suo letto che sa di lui e che ora, sa anche un po’ di noi.
 
 
Allora è questo che si prova.
 
E’ questo che si sente quando si è… felici.
Sì ecco, felici.
 
E’ questa sensazione che non se ne va’ da tutto il giorno, neanche ora, mentre provo inutilmente a lavorare da casa e riprendere le fila dei miei articoli da inviare al giornale.
E’ questo sapore di buono sulle labbra, questo vuoto leggero che sento nello stomaco, questo cuore che batte regolarmente, né forte, né piano, ma con il giusto tempo, con i giusti respiri.
Sono le sue carezze di questa notte sulla pelle scoperta delle mie braccia, mentre credeva che dormissi già. Sono il dorso delle sue dita che scivolano sulla mia guancia e si staccano piano, come avessero paura di farmi male, di lasciarmi troppo cuore addosso.
E’ il sorriso che è rimasto sulle mie labbra, dopo lo smarrimento iniziale, quando ho trovato il suo biglietto, stamattina, mentre allungavo una mano verso il lato sinistro del letto, sul suo cuscino, ancora con gli occhi chiusi per difendermi dal giorno, trovandolo vuoto.
E’ l’intenzione dietro quel suo..
 
‘Buongiorno piccola ladruncola.. sono dovuto scappare per un appuntamento. In cucina c’è del caffè e se sei fortunata anche qualche biscotto. Ti ho rubato un bacio, te lo restituisco stasera. D.’
 
E’ l’istinto con cui porto due dita sulle labbra per accarezzarle e mi sembra così di toccare le sue e di avere addosso qualcosa di prezioso, che sa di lui e di me, di lui su di me.
E’ l’immagine di lui mentre cerca un post-it e ha l’accortezza di lasciarmelo, di non farmi svegliare completamente da sola.
E’ il suo non riuscire a svegliarmi, per vedere la consapevolezza farsi spazio tra i dubbi, rimandando tutto ad un nuovo buio, per celare verità che forse nessuno di noi è ancora in grado di guardare.
E’ il coraggio che si è fatto spazio da solo, l’amore che è esploso all’improvviso, perché non ne poteva più, non c’entrava più dentro di me, è il bisogno di curare le sue ferite, scoprendo le mie.
E’ l’amore che non si merita, ma si regala.
E’ lui che è agli antipodi di tutte le sicurezze che ho sempre voluto, ma è l’unico che mi ha fatto di nuovo sentire vera, viva, che ha strappato via tutte le mie certezze e mi ha insegnato a buttarmi.
E’ l’unico a cui vado bene nonostante.
 
Si, è questo che si sente.
E’ questo che si prova quando si è felici.
 
 
 
 
 
 
 
Ricordati sempre: quando un uomo esce da una stanza, si lascia alle spalle tutto quel che c’è dentro, - le ha detto la sua amica Marie Mandelson. – Una donna, invece, si porta appresso tutto quel che c’è avvenuto.
 
Alice Murno
 
 
 
Damon
 
Forse è un bene che, questa mattina, Andie mi abbia chiesto di passare in agenzia per firmare gli ultimi documenti della vendita e prendere gli accordi finali con il suo avvocato, forse è un segno del destino che vuole concedermi tempo, per non farmi completamente perdere il senno ed aiutarmi a metabolizzare l’uragano che mi ha investito, mentre lei straripava e io scorrevo tranquillo nei suoi confini.
Forse un passo di distanza, prima che sia troppo tardi, se già non lo è, devo metterlo.
Forse è così che funzionano le cose.
E’ così che vanno dritte, senza continue deviazioni.
Senza casini nel mezzo.
 
«Dunque signor Salvatore, ho preso visione del contratto di vendita..»
 
L’avvocato di Andie, con tanto di doppiopetto, voce impostata e occhialini sul naso sopra i quali mi guarda con i suoi occhi piccoli e scuri, è seduto di fronte a me, nell’ufficio di quella che diventerà la proprietaria della mia agenzia, e sta sfogliando decine di fogli di cui ignoro il contenuto.
 
«Tenendo conto degli ultimi fatturati, delle spese, dei debiti che si andranno a saldare con il passaggio di proprietà, credo non ci siano ostacoli per quanto riguarda l’acquisto. Per i pagamenti, scegliete voi la soluzione più consona, a patto che lei riesca a versare la somma che copra i suoi debiti entro sei mesi dalla cessazione.»
 
Si sfila gli occhiali, li poggia alla sua destra, sulla scrivania, e torna a fissarmi con uno sguardo anonimo, forse pensando che questo sia l’ennesimo contratto da valutare e di cui avere piene le tasche.
Lo capisco che per lui è semplicemente lavoro, ma per me è tutta la mia vita e gradirei un po’ di coinvolgimento in più.
 
«Ci vede bene con quegli occhialetti così piccoli?»
 
Glielo chiedo mentre scruto quelle lenti tonde e minuscole, beccandomi uno scappellotto sulla spalla da Andie che è alle mie spalle e ottenendo però l’attenzione dell’avvocato, che è costretto a spalancare gli occhi su di me, per la prima volta da quando sono qui e ad accorgersi di avere davanti una persona viva e vegeta, non un cliente invisibile.
 
«Mi scusi?»
«Nulla, sono un egocentrico narcisista. Ok, sei mesi. Capito.»
 
Mi puntello con i gomiti sulla scrivania e ricambio il suo sguardo, costringendolo a non sfuggire via da me.
 
«Riguardo invece le altre di condizioni, quelle sull’integro del personale, pensa sia fattibile? Altrimenti per me possiamo chiudere tutto e tornarcene a casa.»
«Questo dipende da Andie, bisogna tener conto di ciò che lei vorrà farne dell’agenzia.»
 
Ruoto appena la testa alla mia sinistra, quel poco che basta per osservarle il profilo, serio e risoluto, in attesa di una risposta che mi aspetto e un po’ sono sollevato forse di conoscere.
Lei però resta in silenzio, con lo sguardo dritto davanti a sé, persa in chissà quali pensieri e per un attimo mi sento vacillare.
 
«Ho una condizione anch’io.»
 
Dice ad un certo punto, rompendo il silenzio che si era creato nell’attesa di un suo cenno.
Io inclino la testa e aggrotto la fronte, preoccupato e confuso.
Era tutto definito, tutto predisposto, avevo già firmato tutti i documenti necessari, mi sembrava avessimo chiarito ogni punto e che questa di incontrarci fosse solo una formalità, un autenticare firme che avevo già posto, invece lei sembra mettere un freno.
Mi spaventa il suo sguardo deciso, la vittoria che pensavo di avere già in tasca, lo sgambetto finale che potrebbe farmi inciampare, mi spaventa perché la conosco questa tecnica.
Fai credere al cliente di avere tutto sotto controllo, di essere lui a muovere i fili, a dettare le condizioni e poi, alla fine, quando è sazio e troppo sicuro di sé, dai un colpo secco e gli infili l’amo dritto dentro la mandibola.
 
«Quale?»
 
Il suo avvocato a quanto pare è sorpreso e ignaro quanto me.
 
«Rileverò l’agenzia, acconsentirò a tutte le condizioni, a patto che Damon accetti un vincolo.»
 
Andie si volta a guardarmi, sfila le mani da dentro le tasche della sua giacca beige e mi fa un piccolo, complice e sincero sorriso.
 
«Voglio che continui a lavorare lì dentro, a coordinare l’agenzia, voglio che collaboriamo insieme, non che tu sia un mio dipendente. Ho bisogno di qualcuno che se ne occupi, io non riuscirei a stare dietro a tutto e quando avrò riguadagnato il denaro della vendita, voglio che tu ti riprenda l’agenzia.»
 
La mia bocca si schiude da sola, così come i miei occhi si allargano fino a dilatarsi nei suoi, che restano fermi e luminosi.
Sono spiazzato, sono effettivamente, decisamente, spiazzato.
Non mi aspettavo una richiesta del genere da lei, non credevo tenesse così tanto a me da farmi questo, non pensavo di meritare una così grande fiducia da parte sua, non perché non ritenessi che ne avesse nel privato, ma nel lavoro è tutta un’altra faccenda.
Un comandante che fa colare a picco la sua nave non lo fai navigare di nuovo, non gli proponi di ripartire immediatamente, sulla stessa nave, recuperata e rimessa in sesto.
E assolutamente una volta salvata da se stessa, quella nave te la tieni stretta.
Lei lo sa come funziona, lo so che lo sa.
Allora perché..
Perché mi chiede questo adesso?
E soprattutto, sarei davvero disposto a lavorare in un posto che ho messo in piedi da solo, dovendo sottostare a qualcun altro? Anche se momentaneamente?
 
«Dov’è la fregatura?»
«Nessuna fregatura Damon, tu resti a lavorare lì, fai quello che hai sempre fatto, io mi occupo della gestione e intanto prendo gli utili a fine mese. Dopodiché, se potrai permettertela, te la rivenderò.»
 
La guardo di traverso, continuo a non capacitarmi di ciò che mi sta chiedendo, ha cambiato le carte in tavola e mi costringe ad un gioco che non conosco.
 
«Non… non so cosa dire.»
«Puoi pensarci se vuoi.»
«Non puoi chiedermi davvero una cosa del genere.»
«L’ho appena fatto.»
 
Lo sa che il mio orgoglio cadrebbe in mille pezzi, che potrei impazzire sotto una condizione del genere ma sa anche che l’agenzia è tutta la mia vita e senza, starei in mezzo ad una strada, forse è questo che muove i suoi pensieri.
Fatto sta, che al momento non riesco a darle una risposta, non so essere il Damon istintivo, menefreghista e noncurante che tutti conoscono.
E non riesco a capire se il suo sia un bluff oppure no.
Sono affari e negli affari i sentimenti e la compassione devono restare fuori, è così che ci hanno sempre insegnato.
 
«Hai un paio di giorni di tempo, alla fine dei quali se non ti sento o rifiuti, tutto l’accordo per me salta.»
«Perché?»
 
Non posso fare altro che chiederglielo, scoprirmi e sperare in qualche sincera verità, che mi spinga ad accettare.
 
«Perché non avrei più nessuno con cui competere.. e mi annoierei a morte!»
 
Come non detto.
Bugiarda che non è altro, lo sappiamo entrambi che ciò che spinge un discorso del genere, nel lavoro, non è puro spirito agonistico.
Essere professionali e sguazzare nell’espansionismo, come siamo e facciamo noi da anni, non prevede assolutamente niente del genere e un po’ mi sento in colpa per averla spinta a questo, per non averle dato altra scelta.
E forse avrei fatto lo stesso, perché è l’unica persona nell’ambito lavorativo che non vorrei mai veder affondare.
 
«Bene, mi sembra che al momento non se ne faccia niente, la questione è rimandata a data da destinarsi.»
 
L’avvocato di Andie inizia a raccogliere i suoi fogli sparsi sulla scrivania, infila gli occhialetti nel taschino della giacca e si alza, facendo scricchiolare lievemente la sedia. Io ed Andie restiamo in silenzio, lei con le braccia incrociate e lo sguardo sicuro, io schiacciato sullo schienale della mia poltroncina e con i pensieri annebbiati.
Quando lui se ne va, Andie raggiunge la sua postazione al di là della scrivania, si siede e accende il computer per rimettersi a lavorare.
E’ tranquilla, con una sicurezza matura e indifferente.
Non mi guarda neanche, potrei anche non essere più qui e lei non se ne accorgerebbe.
Non la capisco, per questo la osservo ancora qualche momento prima di decidermi a salutarla e ad andarmene, so che non potrei mai estorcergliela una risposta sincera, non in questo momento, non su intenzioni che non vogliono essere rivelate.
 
Mi ritrovo a girare a vuoto per il lungomare di Venice Beach, tra ragazzini che fanno acrobazie sullo skate, gente che corre come se ne valesse la propria vita, uomini palestrati e a petto nudo che passeggiano abbordando ragazze, con costumi talmente risicati che non lasciano immaginare un bel niente.
Sono stanco di tutto questo, di tutte queste persone intorno a me, di questi cambi di programma, di queste carte che vengono cambiate all’ultimo secondo e non ti danno il tempo di prepararti. Non ero pronto, mi vedevo già sul divano, con del bourbon in mano a deprimermi ed incupirmi per il resto dei miei giorni, invece adesso potrei essere costretto a cambiare piano e non so se esserne scocciato o sollevato.
Credo per il momento, sia meglio tornare a casa mia ed evitare ulteriori sconvolgimenti.
Ma è proprio quando apro la porta di casa e il suo odore mi investe, che capisco di essere dentro un altro, immenso ed incasinato cataclisma, da cui sono volontariamente voluto scappare.
Adesso però, l’unica cosa che sento è lei.
E’ un odore che riconoscerei tra mille.
E’ vaniglia e Argan, è odore di spezie.
E’ Elena, che ha lasciato in giro il suo profumo per ricordarmi che è stata qui.
Per impedirmi di dimenticare e far finta di niente.
L’unica cosa su cui i miei occhi si poggiano è la mia maglia, quella che lei ha usato per dormirmi addosso mentre io glielo lasciavo fare, piegata e poggiata ai piedi del letto.
Mi fa sorridere che l’abbia fatto, che abbia tirato su le lenzuola ma abbia abbandonato nel lavandino la tazzina del caffè, per lasciare una sua traccia ed informarmi che è disposta a mettere ordine in quello che c’è stato ma non a lavarlo via.
La mia donna – bambina.
Quella che questa notte mi ha donato tutta se stessa, senza sconti, vera come non era mai stata.
Quella bambina che ho stretto a me e a cui ho concesso tutto.
Quella donna che sono rimasto ad osservare dal momento in cui il sole ha iniziato a sorgere, che ho sfiorato perché non riuscivo a trovare un motivo sufficiente per non farlo, per non sentirla sotto di me, sotto le mie mani che avevano bisogno della sua pelle.
Sono rimasto immobile mentre le sue labbra morbide poggiavano sul mio petto e il suo fiato mi finiva addosso, inebriandomi e risvegliando istinti che mi chiedevano di capovolgere la posizione e farle aprire gli occhi con me dentro di lei.
Mi sono dovuto controllare, ho dovuto pensare a tutte le cose più viscide, stupide, immorali e anti – sesso che mi sono venute in mente e poi sono dovuto scivolare fuori dal letto, entrare nella doccia e restarci fino a sentire l’Iphone vibrare e assicurarmi una via di fuga.
Perché sì sono scappato, da me più che da lei, l’ho lasciata qui, dentro il mio letto, dentro la mia casa, dentro la mia vita, e me ne sono andato.
Ma, se non fossi stato sicuro di ciò che sto iniziando a provare e ad averne una fottuta paura, me ne sarei andato senza lasciare tracce, senza darle un motivo per aspettare il mio ritorno, senza aver bisogno di prendere qualcosa di lei, da portare con me.
Per questo motivo adesso non ho la più pallida idea di cosa fare, non lo so più come farmi prendere, so solo che ho una maledetta voglia di vederla.
 
Sono proprio nella merda.
 
 
 
 
 
 
Elena
 
 «Ma sì, stai tranquilla, ti ho detto che sto bene, i medici sono d’accordo nel farmi uscire!»
 
Caroline ha riacquistato la sua voce squillante e sta provando a rincuorarmi e calmare la mia ansia, spiegandomi che le hanno dato l’autorizzazione per essere dimessa.
Sono felice che esca, che torni alla sua vita, che torni a casa, da sua madre, da me, da tutti noi, ma sono ancora titubante sul fatto che stia completamente bene.
Ha avuto un trauma cranico e ha rischiato di non svegliarsi.. mi sembra il minimo provare un filo di angoscia e preoccupazione.
 
«Va bene, ma quando sarai a casa non voglio che tu muova un dito! Devi riposare ancora!»
«D’accordo mammina, c’è altro?»
 
Sì, ho fatto l’amore con il tuo amico.
E da questa mattina ancora non ho sue notizie.
 
«Nient’altro.»
 
Non so perché non le dico niente, forse per mantenere ancora un segreto che è mio e di Damon, una cosa che nessuno deve ancora sapere, forse perché dovrei spiegarle troppe cose, dovrei raccontarle come ci sono arrivata, cosa è successo prima, come mi ha presa per mano e mi ha raccolto il cuore. Dovrei dirle che non riesco a respirare in questo momento, che mi sembra di impazzire nella sua assenza, che vorrei chiamarlo ma ho paura di farlo, di non trovare più il mio Damon.
Vorrei spiegarle perché nei miei pensieri adesso c’è solo ed esclusivamente lui, così come nei miei occhi ora non c’è più nessun cerbiatto ma solo mare e cielo, distese infinite di mare e cielo.
Vorrei sapesse che ho scelto da che parte stare, che sono dentro ma che ho timore di ritrovarmi fuori senza averlo deciso.
Non lo faccio, è ancora giorno e c’è ancora troppa luce per certe ombre.
 
Due ore dopo, mi ritrovo a guidare, diretta a casa di Damon.
Caroline mi ha richiamato, una volta arrivata finalmente a casa, mi ha detto che sua madre sarebbe dovuta tornare a lavoro e che Damon l’ha praticamente costretta ad andarsi a sdraiare sul suo divano, per tenerla d’occhio e controllare che non faccia sforzi.
E’ stata Caroline a chiedermi di venire.
 
Caroline.
 
Non Damon.
Caroline.
 
Ma lo faccio, sto andando lì per lei, perché ho voglia di abbracciarla fuori da quella stanza grigia e da quel letto con la coperta a righe e poi, sì, sto andando lì anche per lui, perché sarei un’ipocrita a sostenere il contrario.
Appena salgo gli ultimi scalini e mi avvicino alla sua porta sento un gran vociare all’interno del suo appartamento. Probabilmente Caroline ha chiamato anche tutti gli altri, che sono già qui, si saranno accomodati e staranno bevendo e chiacchierando allegramente come al solito raccolti intorno al divano e a lei.
Mi tremano leggermente le gambe, ho la gola che si sta asciugando e le labbra che quasi sanguinano per quanto le sto stringendo tra i denti.
E poi, ho una leggera sensazione di fastidio che mi stringe un po’ lo stomaco, perché volevo essere io.. la prima.
Volevo arrivare per prima, prima ancora di Caroline, avrei voluto sentire Damon in un momento qualsiasi di questa giornata, vederlo da sola, prima di doverlo condividere con tutti gli altri, prima di dover di nuovo.. fingere.
Nonostante questo, questa è la serata di Caroline e non permetterò a nessuno dei miei pensieri di rovinarla.
Metto i piedi sullo zerbino di Damon, butto giù il nodo che mi è salito in gola e sto per suonare il campanello ma, come se mi avesse sentito o si aspettasse il mio arrivo proprio in questo momento, Damon apre la porta sorprendendomi per l’ennesima volta e costringendomi ad abbassare la mano, che torna nella tasca dei miei short.
 
«Ehi..»
«Ehi tu
 
Vorrei dire qualcosa ma il sorriso storto che mi fa, furbo e accattivante, che scopre parte dei suoi denti perfettamente bianchi e forma una piccola ruga all’angolo della bocca, mi spezza il fiato e ho bisogno di deglutire a vuoto per tornare cosciente a me stessa.
 
«Come facevi a..»
«Riconosco il tuo odore.. ed ero in balcone quando ti ho vista arrivare!»
 
Io gli sorrido ammonendolo teneramente e lui mi strizza l’occhio schioccando la lingua, poi fa un minuscolo passo indietro per scostarsi e farmi entrare, ma io voglio prolungare quanto più possibile il mio momento da sola con lui, voglio trattenerlo più che posso, per questo non mi muovo.
 
«Mi hai lasciata sola stamattina.»
 
Glielo dico con un leggero tono di rimprovero, misto ad imbarazzo, misto a desiderio, misto a paura di essere respinta e voglia di non esserlo più.
 
«Ti ho lasciato il caffè..»
«Non era abbastanza..»
«Ah no?»
«No..»
 
Non ci riesco a dirglielo che volevo lui addosso a me, che avrei voluto trovare lui di fianco a me prima ancora di aprire gli occhi, che volevo vedesse nei miei occhi la felicità che lui è in grado di provocarmi.
Lui continua a guardarmi, a passare lo sguardo dai miei occhi alle mie labbra, al mio seno, alle mie gambe, per poi risalire come se mi stesse spogliando e stesse assaporando centimetro per centimetro il mio corpo, che stanotte ha avuto sotto il suo, sotto le sue mani che sono rimaste addosso a me.
Io riesco solo a costringermi a respirare, annaspando, deglutendo e pregando che le mie guance non esplodano per quanto sono infuocate.
Il sorriso malizioso che le mie labbra avevano provato ad accennare muore immediatamente dentro il suo sguardo blu che mi fissa e sbaraglia tutte le mie paure, di nuovo. Il suo corpo si avvicina e il mio inizia istantaneamente a bruciare, devo allontanare per un attimo il mio viso dal suo, che ora è a un soffio da me e le mie labbra dalle sue, per catturare la sua attenzione e prendere fiato.
Raccolgo tutta la mia lucidità e razionalità per riuscire a farlo.
Damon inclina la testa osservandomi di traverso, con un’espressione smarrita ma un angolo della bocca leggermente alzato, come a sorridere del mio rifiuto che in qualche modo prevedeva e si aspettava.
 
«Dove sei finito?»
 
Ho bisogno di chiederglielo, di sapere se sono stata la sola ad impazzire per tutto il giorno. Non è un rimprovero, non sono infastidita, sono solo confusa forse quanto e più di lui e ho bisogno di sapere se in questa cosa ci siamo insieme.
 
«A comprare le sigarette..»
«Tu non fumi..»
«E tu sei bella da morire di prima mattina..»
 
Divampo in un millesimo di secondo.
Mi odio per questo e lo odio per l’effetto che sa di procurarmi e che sfrutta a suo favore, per non rispondermi.
Abbasso lo sguardo imbarazzata e raccolgo dietro l’orecchio le ciocche di capelli che mi sono scivolate sul viso.
Solo lui riesce a farmi sentire così insicura e desiderata allo stesso tempo, così bella e donna da esserne appagata. Solo lui riesce a spiazzarmi in questo modo, a girare intorno ai discorsi costringendomi a leggere tra le righe, a rispondere non rispondendo direttamente, senza darmi possibilità di replica, senza aver bisogno di chiedere altro.
Damon è faticoso, ma è una fatica che voglio compiere.
Un suo dito sotto il mio mento mi chiama e mi spinge a rialzare il viso, tornando a posare i miei occhi dentro i suoi, come se non li vedessi ormai anche ad occhi chiusi.
 
«Damon..»
 
Non so bene cosa dirgli, non so bene come farlo.
 
«Devo restituirti un bacio. E io sono uno che mantiene le promesse.»
«E allora fallo.»
 
Allontano i miei occhi da lui solo per poggiarli sulle sue labbra che si avvicinano e nell’attimo di un respiro, coprono le mie, facendomi perdere quella lucidità e quella confusione che ho provato fino a che la distanza tra noi non è tornata a scomparire.
La sua mano sostiene la mia testa e l’altra è avvolta attorno ai miei fianchi, altrimenti sarei già svenuta a terra per il modo in cui sta mantenendo la sua promessa, per la foga, l’urgenza e il bisogno che sento sulla sua bocca, che avverto sul suo corpo.
E’ quasi paura la sua, lo sento che sta combattendo contro se stesso, che mi sta cercando e sta provando a mandar via le ombre. E allora, non ho bisogno di altre parole o spiegazione per capire che sì, qualunque cosa lui stia provando, in questa cosa, ci siamo insieme.
 
 
 
 
 
Damon
 
Da quando siamo entrati in casa, Elena è raggiante.
Ha gli occhi che le brillano e le sorridono, in un modo che non ho mai visto, non ho mai conosciuto nessuna che riesca a sorridere anche con gli occhi e ad illuminare tutta la stanza con un solo sguardo.
E’ felice Elena.
E ride, ride forte, libera.
Un po’ per Caroline, che continua ad abbracciarla e a poggiare la testa sulle sue spalle, un po’ per Stefan che ci sta raccontando di come ha abbordato una certa Haley, conosciuta ieri sera all’inaugurazione che lei mi ha costretto a perdere, un po’, forse, anche per me.
E mentre sono allibito dal racconto di Stefan, dal modo gentile e galante con cui le ha offerto da bere e si è messo a parlare di arte e letteratura, dalla sua indifferenza al mio sarcasmo, non riesco a non fissarla, a non passarle accanto, sfiorarla, respirarne l’odore, prenderla un po’ in giro.
Non riesco a restare insensibile alla naturalezza con cui abbraccia Stefan dicendogli che è felice per lui, agli sguardi che gli concede con quella punta di orgoglio, perché vorrei esserci io al suo posto.
Vorrei mandare via tutti, prenderla, portarla in camera da letto e non uscirne più.
Mi basterebbe solo lei, solo lei e il suo modo dolce e inconfutabile di raccontarmi ed insegnarmi l’amore.
Tuttavia, per quanto voglia farlo, per quanto lo desideri, io lo so che ad un certo punto, mi sentirei mancare l’aria anche sotto le lenzuola, anche con lei addosso.
Non voglio farle male ma non voglio lasciarla andare, non ancora.
So di continuare a sfuggirle, so che c’è qualcosa che ancora non capisce del tutto, so che un po’ ha ancora paura, come ne ho io, perché lo sa che io non sono fatto per restare nei confini, per i recinti bianchi e le case con le tende a fiori.
Io sono uno che esplode, ad un certo punto, che cerca un puntiglio a cui appellarsi per mandare tutto all’aria, uno che ha bisogno di sentirsi libero.
Nella vita, nel lavoro, nell’amore.
Ma adesso, sono anche uno che non ci riesce a cedere ad istinti egoistici e spera che l’amore di una donna, possa guarirlo, possa salvarlo, contenerlo ed insegnargli a restare.
 
Sono uno che stasera, ringrazia l’universo per avergli concesso 24 ore di tregua.
 
 
 
 
 
 
“Per favore, addomesticami.”





 
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Spero di non essere troppo in ritardo..!!
E so che forse vi aspettavate qualcosa di diverso.. o forse speravate di no!
Ma loro continuano a voler lottare, ognuno a suo modo e con i suoi tempi e io continuo ad assecondarli! :-)

Stasera purtroppo (o per fortuna per voi!) vi lascio solo un piccolo commento perchè sono un bel po' incasinata in questi giorni, anche per questo sono in ritardo.. ma spero di ritrovarvi lo stesso, meravigliose come sempre..
Grazie con tutto il cuore.. davvero.

Un bacio a tutte,
Ale

 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17° ***


Sembrava l’inizio di una qualche felicità. Poi si sa come vanno le cose: scivolano sempre,  impercettibili, non c’è verso di fermarle, se ne vanno, semplicemente se ne vanno.
 
(Alessandro Baricco _ Barnum 2)

 
 
 
 
 
 
 
Damon
 
«Damon ma che stai dicendo..»
 
Elena mi blocca il viso tra le sue mani, mi guarda con due occhi spaventati e confusi, due occhi che mi fanno un male cane ma a cui in questo momento non riesco a cedere.
E’ troppo forte la rabbia che provo, il dolore che sento, il dubbio che si è insinuato in me, il senso di tradimento che si fa largo e mi affonda sempre di più.
Non ce la faccio a guardarla, a farla entrare, a lasciarmi prendere.
Non stavolta, non dopo questa giornata.
 
«Cos’è successo? Damon parlami, per favore..»
 
Sono venuto qui, a casa sua, con la scusa di riportarle la borsa che stamattina ha lasciato da me, dopo essersi fermata stanotte, ma con il chiaro intento di prendermela con lei, per quella chiamata che ho lasciato svanire tra le mie mani mentre il suo telefono squillava, di sfogarmi e rinfacciarle un consiglio che ho scelto di accettare e di cui dovrei addossarmene la piena responsabilità, invece di dargliene la colpa.
Lo faccio perché questa è stata una giornata emotivamente devastante e non ci riesco a lottare anche con lei.
Perciò sradico i confini, invado i campi, inondo ogni cosa mi capiti a tiro, compresa lei e la sua casa dal recinto bianco. Assecondo quel meccanismo perverso che mi fa buttare all’aria tutta la pace e l’incoscienza che mi aveva anestetizzato, mi lascio convincere che tutto il buono che lei ha visto in me e che io questa mattina ho difeso con tutte le mie forze, in realtà non esista e io non lo potrò mai offrire a nessuno perché nessuno lo vorrà mai veramente.
Elena continua a parlarmi, ad implorarmi, a trattenermi con le sue mani sul mio viso, sul collo, sulla stoffa della mia t-shirt che stringe e tira verso di sé, ma più lo fa più io cerco di divincolarmi e spingerla via.
Non la ascolto più, i miei occhi vagano oltre le sue spalle, la mia mascella è contratta, conto e controllo il respiro e mi odio per quello che le sto facendo, per quello che mi sto facendo.
Come si fa a mandare tutto così a puttane nel giro di dodici ore?
 
 
 
 
 
La sera precedente.
 
«Voglio portarti in un posto.»
«Dove?»
 
Elena mi guarda con i suoi grandi occhi da cerbiatto, che ormai non hanno più paura di niente, neanche di me, inclina la testa e corruga la fronte in una smorfia incuriosita.
E’ seduta sul mio divano, ha accompagnato Caroline mezz’ora fa a casa sua, ha aspettato che tutti i nostri amici se ne andassero e poi è tornata qui, rivelandomi di aver dimenticato la borsa, ma con un sorriso che non lasciava dubbio a fraintendimenti e svelava ogni intenzione.
Era tornata per me.
E io volevo che restasse.
Per la prima volta, volevo soltanto che fosse qui, che girasse per casa mia a piedi nudi, che toccasse le mie cose, accendesse il mio televisore, si sedesse sul divano accanto a me, con le gambe incrociate, la vaschetta di gelato al cioccolato in bilico sulle cosce scoperte e quella frangia che spostava di volta in volta per potermi guardare e non nascondersi più.
Volevo che mi raccontasse di Caroline ed Enzo, di quella strana e assolutamente impensabile relazione che stava nascendo tra loro, desideravo mi parlasse di quelle piccole frivolezze che la rendono vera, leggera, che nascondono il suo mare, quello che anche lei ha dentro e di cui a volte ha paura.
Avevo bisogno del suo profumo non solo sopra di me, ma vicino, come fosse qualcosa di naturale, un odore che diventa consuetudine, a cui ti abitui senza neanche accorgertene.
Volevo che la sua presenza divenisse un’abitudine.
Le stavo rubando il gelato dal suo stesso cucchiaio e, mentre mi lanciava un ennesima occhiataccia di ammonimento, mi è venuto in mente un posto che mi sarebbe piaciuto farle vedere.
 
«Damon? Mi stai ascoltando? Dove vuoi andare a quest’ora? E’ mezzanotte passata..»
 
Io la ignoro, mi alzo, le tolgo la vaschetta di gelato dalle gambe e le prendo la mano, senza darle modo di replicare o fare altre domande. Forse per la repentinità con cui l’ho fatto o per il fatto che si fida di me, non replica e mi lascia fare, io afferro le chiavi della Camaro e in un attimo siamo già partiti.
Per tutto il tragitto Elena resta in silenzio, ma volta continuamente la testa per carpire indizi sulla strada che stiamo facendo e intuirne la destinazione. Intorno a noi è buio, solo il neon dei lampioni ci fa luce e ci accompagna. Los Angeles sembra essere deserta stasera ed è proprio in questi momenti che questa città mi piace da impazzire, quando è solo tua, quando ciò che ne fai dipende soltanto da te.
Io mi ritrovo a sogghignare per l’espressione, titubante e ancora più confusa, che ha messo su appena lasciata la strada principale e imboccata una secondaria, con ancora meno lampioni ad illuminarla e capisco che non ha la più pallida idea di dove stiamo andando.
Quindici minuti dopo siamo nei pressi di un piccolo promontorio.
Parcheggio e le faccio cenno di scendere.
Elena fa qualche passo guardandosi attorno e io le indico con un gesto della mano un sentiero che si apre alla nostra sinistra, dal quale la invito a scendere. Lei spalanca gli occhi e prende fiato per fare uscire dalle sue labbra qualche insulto o protesta, meritatissima, ma io sono più veloce, alzo entrambe le mani davanti a me e sbarro gli occhi intimandole di trattenersi e fidarsi di me. Lo fa, espira e richiude la bocca, iniziando cautamente a seguirmi tra le scalette che si snodano fino al mare.
Stavolta è solo la luna piena ad illuminare i nostri passi, io procedo sicuro, facendomi strada tra i rami di alberi che ci chiudono il passaggio e tenendomi al corrimano fissato alla roccia, mentre Elena mi stringe un angolo della maglia, seguendomi con passi cauti e insicuri.
Ormai lo conosco a memoria questo posto, potrei arrivarci ad occhi chiusi, ci venivo sempre fino a qualche anno fa, quando volevo stare da solo e nascondermi da tutto, quando avevo delle decisioni importanti da prendere o semplicemente avevo bisogno di un po’ di pace, è stato da sempre il mio rifugio, il mio punto di arrivo e di ripartenza.
Capisco che lo è ancora, che è ancora in grado di darmi la stessa sensazione di essere fuori dal mondo, rendendo insignificante e lontano tutto quello che accade intorno a me, lo intuisco mentre i miei piedi incontrano il fresco della sabbia e i miei occhi si alzano sul riflesso della luna che si specchia nel mare.
                       
«Ora puoi lasciarmi fifona, siamo arrivati.»
 
Sento le sue mani che si staccano da me e poi tornano a colpirmi con un piccolo scappellotto che mi piazza sulla spalla destra.
 
«Ci vuoi per caso fare ammazzare? E’ buio e ripido e isolato.. dove diavolo siamo?»
«Nel mio posto nel mondo.»
 
Elena mi guarda perplessa, muta leggermente l’espressione, schiude le labbra e i suoi occhi si rischiarano un po’.
Io le do le spalle, mi tolgo le scarpe e mi avvicino al bagnasciuga, tanto da sentire l’acqua fredda lambirmi i piedi nudi e arrivarmi alle caviglie.
E’ tutto esattamente come me lo ricordavo.
La piccola insenatura, la roccia a strapiombo dietro di me, la piccola barca capovolta e abbandonata qui da anni e anni, di cui si scorge ancora una riga rossa che spezza il bianco della carena e ne circonda la superficie, ormai segnata dal tempo e dalla salsedine.
E quel piccolo faro, che si scorge in lontananza, illumina interrottamente e costantemente, con un fascio di luce azzurra, questo pezzo di spiaggia incustodita.
Non la vedo arrivare, ma le sento le sue braccia che mi circondano e si stringono sui miei fianchi, lo sento il suo petto che si avvicina alla mia schiena e il suo profumo che mi arriva alle narici.
 
«Che cosa…»
«Shhh… stai zitto tu ora.»
 
Obbedisco e me ne resto in silenzio, mentre lei prende piede ed entra di diritto nel mio posto nel mondo.
Volevo portarla qui, concederle un mio piccolo ma importante segreto, condividere con lei una parte di me che nemmeno Caroline conosce, e che scopre un altro grande pezzo di me.
Ho trovato questo posto il giorno in cui i miei si sono trasferiti, mentre vagavo come un fantasma senza più alcuna emozione, sono rimasto qui per tutta la notte, mi sono sdraiato ai piedi di quella barca e mi sono addormentato, risvegliandomi con i colori dell’alba.
Il sole che pian piano sorgeva ha iniziato a riscaldarmi dentro e lentamente mi ha dato il coraggio di alzarmi e tornare in una casa ormai vuota e piena solo di me e dei miei ricordi lì dentro.
Ora quello stesso calore me lo sta trasmettendo Elena.
Non l’avevo programmato, volevo solo schiarirmi un po’ le idee, capire cosa fare di me e della, non più mia, agenzia.
Ciò che sta succedendo ora, lei che mi abbraccia senza sapere neanche il perché, io che mi volto per incontrare il suo sguardo, che al buio brilla ancora di più, lei che alza il viso verso di me e io che la bacio piano, è solo colpa sua, dell’effetto che lei fa su di me.
Lei che sa di acqua di mare, di sale e coraggio, di brezza e possibilità.
Lei che fa scivolare le sue braccia intorno al mio collo e si alza sulle punte dei piedi per stringermi e baciarmi forte, io che la spingo con il mio corpo ad indietreggiare, lei che mi asseconda.
Ed è solo quando raggiungiamo il muro di roccia e lei ci preme contro la schiena, che si scosta delicatamente da me e riprendiamo fiato entrambi.
 
«Dobbiamo smetterla di farlo.»
 
Mi dice con un filo di voce.
 
«Cosa?»
«Questo.. io.. perdo il controllo quando sono con te.»
«Ed è un male?»
 
Siamo al buio ma lo intravedo il suo sorriso imbarazzato, lo capisco dal modo in cui abbassa gli occhi e si nasconde da me, che sta arrossendo e ha timore che lasciarsi andare completamente sia sbagliato, anche se ormai l’ha fatto, anche se ormai mi ha affidato tutto ciò che aveva e nessuno dei due è ancora scappato.
 
«Perché mi hai portata qui?»
 
Sorrido al modo in cui glissa sulla mia domanda e cambia argomento, girandomene un’altra, intima allo stesso modo, riposando gli occhi dentro i miei e trovandoci l’ombra di un ghigno che ho ancora sulle labbra.
Faccio un passo indietro, scivolo via le mani dai suoi fianchi, indugiando appena sul bordo di pelle scoperta della sua pancia e il suo corpo si protrae istantaneamente verso di me, come a voler mantenere quel contatto che le ho appena tolto.
Poggio le spalle sulle rocce e scivolo a terra, sedendomi sulla sabbia umida, con i gomiti sulle ginocchia piegate.
Lei ricalca i miei movimenti, si siede accanto a me, ma non raccoglie le gambe avvolgendosele con le braccia come di solito fa, le incastra tra le mie, in un gesto naturale, consueto, che fa scontrare il suo corpo con il mio, portandomi inevitabilmente ad accarezzarle le gambe nude e a sentire il suo petto alzarsi e abbassarsi all’altezza della mia spalla sinistra.
Alzo gli occhi al cielo, prima di rispondere, in cerca di un sostegno da queste stelle che ci osservano e ci scrutano in silenzio.
 
«Ho bisogno di un consiglio.»
 
Le rivelo all’improvviso, sorprendendo sia me che lei, che spalanca gli occhi e blocca le dita che avevano preso a disegnare dei cerchietti sul mio braccio.
Mi guarda curiosa, spiazzata, perplessa, poi prende un respiro e mi fa un cenno con la testa come a dire ‘sono pronta, spara.’
Non sono così sicuro di volerlo fare, di volermi affidare a lei, tanto da condividere un dubbio che mi sta martoriando, ormai però sono qui, siamo qui, tanto vale concederle tutto me.
 
«Ti ricordi la storia di aver venduto l’agenzia e non avere più niente?»
 
Un cenno con la testa e un attesa attenta.
 
«Bè potrebbe non essere più così..»
 
Lo capisco da come corruga la fronte che è confusa e vorrebbe saperne di più, per questo le spiego tutta la faccenda, le racconto del perché l’altra mattina si è svegliata da sola, nel mio letto, senza di me, del mio appuntamento con Andie, dell’avvocato menefreghista e tutto d’un pezzo, dei miei vincoli che potrebbero essere fattibili, a patto di quello posto proprio da colei che potrebbe diventare la nuova proprietaria della mia agenzia.
Le svelo i miei dubbi, le mie titubanze e resistenze, la mia difficoltà nel dover essere alle dipendenze di qualcuno, in un posto che prima era mio e potevo gestire come volevo.
Lei mi ascolta, con un’attenzione che a tratti mi mette a disagio e mi turba, non dice una parola, mi guarda con degli occhi che mi incitano a continuare e accolgono ogni mia emozione.
Solo alla fine lo fa, si ravviva i capelli, raccoglie le gambe portandosele vicino al petto e prende un lungo respiro.
 
«Credo che dovresti accettare..»
 
E’ il mio turno di stare in silenzio, lo so, ma avrei già qualcosa da obiettare, lei però non me lo permette. Porta un dito sulle mie labbra, che si erano appena schiuse e continua.
 
«Damon, a volte bisogna accettare dei compromessi, per andare avanti e raggiungere un obiettivo, anche se lontano. E’ questo che ci spinge ad alzarci la mattina, altrimenti che senso avrebbe?»
 
Alza le spalle per dare più tono alle sue parole e io resto zitto, col suo dito che ora è scivolato sul mio petto e io non riesco a staccarci gli occhi.
 
«Adesso non hai nulla e dovresti ricominciare da capo, chissà come, chissà quando o con quali soldi, perciò intanto potresti provarci.. vedere come va, magari non è così male come pensi. E quando Andie coprirà tutte le sue spese, avrai di nuovo la tua agenzia.»
 
Non so se è la fiducia che mi trasmette, l’ingenuità e la genuinità che la contraddistingue, la positività con cui pronuncia quelle parole, ma  mi sento un po’ più leggero e un po’ meno solo.
E mi fa sorridere e tenerezza il modo in cui pronuncia il nome di Andie, veloce, distaccata, come se non avessi colto il suo respiro che si è interrotto quando ho pronunciato il suo nome, come se non la sentissi l’agitazione nella sua testa e le sue paure tornare a galla.
Passarle un braccio sulle spalle e lasciarle un bacio forte tra i capelli, mentre lei si accuccia sul mio fianco, mi sembra il minimo da fare, per coprire l’assenza di parole con cui non so rispondere.
 
 
«No, no. Damon, no ti prego. So cosa stai per fare ma ti prego non farlo.. non farlo di nuovo, ti scongiuro
 
Le lacrime di Elena iniziano a scendere da sole, silenziose, con una dignità che mi fa invidia, si tiene aggrappata alla mia maglia, mi tiene stretto per paura che possa andarmene, ma io l’ho fatto già.
 
«Ho bisogno di stare da solo Elena, ti prego non rendiamo le cose più difficili.»
 
 
 
 
 
 
Elena
 
Damon mi guarda con uno sguardo di ghiaccio, con sfumature che non avevo mai visto dentro gli occhi suoi.
Mi da le spalle, si è avvicinato alla finestra per guardare fuori, in cerca di non so quale appiglio o via di fuga, lasciandomi da sola, in mezzo al salone, con le mani aggrappate a mezz’aria.
E’ qui da neanche mezz’ora, ha suonato il campanello e l’ho capito subito, dal modo in cui è entrato, con il volto scuro e contratto, il pugno stretto intorno alla cinta della mia borsa, mentre me la restituiva incurante, lo sguardo freddo e lontano, che c’era qualcosa che non andava.
Solo che lui non è uno che esprime le proprie emozioni, è uno che si auto sabota, che pur di non spiegare e rivelare ciò che lo tormenta, preferisce scappare, dare addosso alle persone che più ha vicino e rovinare tutto.
Perché è più facile così, più comodo e non gli costa niente.
Non gli costa neanche se si tratta di me.
E questo mi ferisce più di ogni altra cosa, perché potrei accettare tutto, la sua rabbia, le sue paure, i suoi dubbi, il suo volermi tenere distante, il suo riprendermi, se questo avesse un senso, se ci fosse una ragione dietro a tutto questo, ma stavolta non riesco a trovarla e lui non vuole farmela vedere.
Non la capisco la sua distanza, non ci arrivo ad interpretare i suoi pensieri masochisti e non ci credo che siamo di nuovo a questo punto.
Pensavo l’avessimo superato, pensavo avessimo iniziato a costruire qualcosa, qualcosa di stabile, di nascosto, di protetto, ma di solido, di nostro, qualcosa che condividiamo entrambi perché abbiamo scelto di farlo, perché abbiamo deciso di esserci insieme in questa cosa, che qualunque cosa fosse mi piaceva, mi faceva stare bene.
Invece la sua instabilità mi confonde, mi fa perdere l’equilibrio, mi costringe a continui aggiustamenti, a repentini cambi di programma, mi disarma e non so come difendermi.
Lo sto pregando, sto cercando di non perdere la ragione e restare concentrata sul cercare la motivazione intrinseca che lo sta spingendo a ferirmi in questo modo, che l’ha spinto a dirmi che ‘forse, sarebbe meglio fermarci un attimo..’, tuttavia non la trovo, non l’accetto.
 
«Damon…»
 
Lo chiamo ancora e mi trema la voce, perché non so come raggiungerlo, non so come prenderlo e lasciarlo avvicinare senza farmi respingere.
Mi batte il cuore e il suo odore mi cammina dentro, sotto la pelle, bruciando ad ogni centimetro.
Lui non si volta, resta fermo, rigido, con gli occhi lontani e l’ombra di torture di cui vedo i segni ma non l’origine.
 
«Io non posso Elena.. non posso.. non lo vedi?»
«Cosa? Cosa non vedo?»
«Tutto Elena!»
 
Mi grida contro, voltandosi verso di me e allargando le braccia per mostrarmi quel tutto che vede solo lui, tutto lo sbaglio che crede ancora di essere e io lo faccio, scorro con lo sguardo su di lui e poi torno nei suoi occhi più confusa e spaventata di prima.
 
«Io non voglio essere sotto il controllo di nessuno! Sono già sbagliato di mio Elena! Non sarei mai dovuto essere neanche al mondo! E non ho bisogno di qualcuno che aspetti un mio passo falso per farmelo notare! Sono stanco di dover lottare e per quanto mi sforzi, non riesco a cancellare questa sensazione! Tu ed io.. non possiamo Elena.»
 
Non l’ho mai visto così, così devastato e sconvolto, non riesce neanche a guardarmi, sento la sua rabbia anche nei miei confronti e non so cosa fare, non so cosa ho fatto.
Ci provo ad avvicinarmi, cauta e con passi lenti, come se facendo meno rumore possibile lui potesse non accorgersi che lo sto facendo e io avessi almeno un po’ di tempo, prima di essere mandata via di nuovo.
Provo a sfiorargli un braccio, ad accarezzarlo, a fargli sentire che sono qui, che sono io, che siamo ancora noi. Lui però sembra non voler permettere nessun tipo di contatto, mi scansa in modo brusco, con gesto secco della spalla e io ritiro il braccio, chiudendo la mano in un pugno e portandomela all’altezza della pancia, dove il dolore mi sta lacerando la pelle, esattamente dove lui stanotte mi ha lasciato i suoi respiri.
 
 
«Non ti facevo una che scappa, la mattina dopo!»
 
Riconosco la sua voce roca, bassa e maliziosa, che mi provoca un brivido lungo la schiena, prima ancora di voltarmi e vedermelo davanti, con il petto nudo e i pantaloncini scuri che ha appena infilato per alzarsi dal suo letto.
Un letto dentro il quale questa notte ho perso definitivamente il controllo di me, delle mie emozioni e paure.
Mi sono lasciata guidare da lui, dal suo bisogno di me e dal mio desiderio di lui, ho sentito le sue mani premere sulla mia pelle e stringere le mie, ho aspirato il suo odore, asciugato il suo sudore con il mio corpo, mischiandolo col mio. Ho rubato la sua aria dalla sua bocca, mentre lui mangiava la mia, mi sono resa complice di quell’intensità che ci stavamo scambiando, che era perfettamente in sintonia con ciò che entrambi volevamo e sentivamo.
Lo so che certe cose non riusciamo ancora a dirle, a chiederle, a prendercene la responsabilità, ma stanotte, su quelle labbra, dentro i nostri occhi, c’erano tutte le parole che entrambi conosciamo e che non siamo ancora pronti ad ascoltare.
Questa notte, mentre facevamo l’amore nel suo letto, tra le sue lenzuola, mentre il mio odore si mischiava definitivamente al suo, mentre le sue mani accarezzavano dolcemente il mio viso, il mio collo, i miei fianchi, il mio corpo, tutto il mio corpo, l’ho sentito.
Ho sentito lui che cercava me, che voleva proprio me, ho sentito il suo bisogno di me e per un attimo, dopo l’ennesimo piacere che abbiamo raggiunto insieme, in cui lui è crollato sul mio seno e con il respiro che mi sfiorava la pancia, ho sentito un angolo della sua bocca aprirsi in un sorriso.
Piccolo, quasi impercettibile, ma un sorriso vero e proprio.
Di quelli che mi fa quando mi lascia vincere, quando metto il broncio e poi non resisto e gli do un pugno per coprire l’imbarazzo, uno di quei sorrisi che mi conoscono, che mi rassicurano e lo scoprono, che lo fanno fidare di me, che lo tengono al sicuro.
Quel sorriso che, quando lo fa, mi rende imperfetta, umana e proprio per questo mi lascia vedere e sentire tutto, perfino quell’amore che dice di non essere in grado di provare.
E io l’ho sentito, mentre gli accarezzavo piano i capelli, cercando di regolarizzare i battiti che invece non ne volevano sapere di calmarsi, ma non ho detto nulla, non ho fatto nulla per timore che lui me lo togliesse, che si spaventasse.
Mi sono tenuta quel solletico che i suoi respiri mi procuravano intorno all’ombelico, ho trattenuto quei brividi caldi che scendevano giù, tra le gambe e mi sono morsa le labbra pur di non perdere quell’attimo di intimità, di verità, che per me valeva di più di qualsiasi futile confessione.
Anche stamattina ho cercato di trattenere il mio istinto di sfiorargli quella barba che inizia di nuovo ad intravedersi e quei capelli arruffati, mi sono lasciata andare solamente in un sorriso, lo stesso che lui mi aveva nascosto, poi sono scivolata fuori dal letto e mi sono diretta in cucina, per preparargli quel caffè che lui aveva lasciato anche per me la prima volta, ma non ha avuto il coraggio di dirmelo.
E’ pieno di cose nascoste tra di noi, di gesti che nessuno forse vedrà mai, di parole che abbiamo timore di ascoltare, ma forse è proprio questo che ci rende più vicini, che rende più reale quella cosa che c’è tra noi.
Siamo pieni di imperfezioni noi, di difetti, di verità tirate fuori per gioco o buttate addosso perché non possiamo più farne a meno ma, per la prima volta, mi sento viva e non mi interessa dove stiamo andando, quante cose ancora dobbiamo obbligarci a negare o quanto lui mi scopra difettosa, è vivere che voglio.
E’ con lui che sto scegliendo di farlo.
 
«Abbiamo molte più cose in comune di quanto tu creda..»
 
Gli faccio l’occhiolino mentre lui si avvicina sempre più pericolosamente a me, fino a farmi indietreggiare e scontrare con il bancone della cucina, imprigionandomi tra le sue braccia, che sfiorano i miei fianchi e mi superano, poggiandosi sul bordo del lavello.
Io alzo il mento per posare i miei occhi nei suoi e perdo di nuovo l’aria che stavo respirando, devo aprire la bocca per far entrare più ossigeno, perché lui, quando mi guarda con questo sguardo provocante, furbo e tentatore e mi sorride solo con un angolo della bocca, mi spezza il respiro e mi fa tremare le gambe.
Non capisco più niente, perdo completamente il controllo e tutte le mie barriere non esistono più.
 
«Che ci fai qui?»
 
Ecco, alla lista delle cose che mi annebbiano il cervello aggiungerei anche la sua voce bassa, roca, che gli fa vibrare la gola e a me annienta i battiti del cuore.
 
«Volevo portarti il caffè..»
 
Provo a tirare fuori un qualche contegno e un barlume di razionalità, ma ciò che esce dalla mia bocca è unicamente una voce tremante e infantile, che lo fa sogghignare ancora di più.
E’ ormai perfettamente in grado di leggere tutto ciò che accade dentro di me, non riesco più a nascondermi, non sono più in grado di guardarlo, anche in mezzo alla gente e non lasciar trapelare il mare che mi esplode dentro ogni volta. Non sono più brava a mentire, neanche sui miei desideri e sulle mie paure e quando provo a farlo, lui mi smaschera e mi fa sentire terribilmente nuda e disarmata.
 
«Pensavo te ne fossi andata.»
«Avresti voluto che lo facessi?»
 
Glielo sussurro quasi sulle labbra, mentre mi alzo appena sulla punta dei piedi e gli passo le braccia intorno al collo. Stavolta sono io a volerlo mettere un po’ in difficoltà, a scoprirlo un po’.
Lui sorride appena, incassando il colpo e continua a guardarmi negli occhi senza muovere un muscolo, senza parlare, stringendo appena le braccia che mi tengono bloccata tra lui e il bancone della cucina.
Non c’è più spazio tra noi, se non quello dei nostri respiri.
Il suo corpo ce l’ho completamente addosso e lo sento sulla mia coscia nuda l’effetto che io ho su di lui. La sento la sua erezione che preme su di me e, ancora in attesa di una sua risposta, lo provoco un po’ di più, prima che possa rifilarmi una delle sue battutine sarcastiche.
Per questo faccio scivolare una mano dai suoi capelli al suo petto, lo accarezzo piano fino a scendere sui fianchi ed intrufolarmi nei suoi pantaloncini.
Damon sgrana appena gli occhi, stordito e colto di sorpresa, si lascia sfuggire un leggero rantolio ed è costretto a spalancare un po’ la bocca per incamerare ossigeno.
Mi muovo lenta su di lui, ma quando lo vedo inclinare la testa all’indietro e socchiudere gli occhi, sfilo la mano e la riporto lentamente tra i suoi capelli, ripercorrendo piano tutto il tragitto.
 
«Sei scorretta.»
 
Non ha ancora riaperto gli occhi mentre me lo dice e a me nasce un sorriso vittorioso, che mi riporta in una posizione di assoluta parità, se non di vantaggio.
 
«Tu non mi rispondi...»
«Tu non hai capito granché allora, se hai bisogno che lo faccia..»
 
Io socchiudo appena le labbra per questa ulteriore confessione a cui si lascia andare, non faccio in tempo a dire nulla, a dire che non mi interessano più quelle certezze sulla carta, che poi si sporcano di inchiostro e si mescolano con le lacrime per chi non l’ha sapute mantenere, non riesco neanche a trovare qualcosa di coerente da obiettare, perché sento le sue labbra che affondano sulla pelle scoperta del mio collo e le sue mani che dal bancone si staccano e si infilano sotto la mia maglia, dove trovano solo gli slip a limitargli le porzioni nude del mio corpo.
Decisamente, non ho bisogno di altre parole, né di alcuna risposta.
E dimentico perfino qualsiasi domanda mi sia venuta in mente, quando le sue mani mi afferrano per i glutei e mi alzano da terra per farmi sedere sul piano della cucina. Il mio corpo risponde da solo alle sue richieste, le mie gambe si aprono per fargli spazio e si avvinghiano intorno ai suoi fianchi, accompagnate da una sua mano che mi chiede di stringere ancora di più.
Le sua bocca e la sua lingua continuano a giocare con la pelle del mio collo, con il lobo del mio orecchio, con le mie labbra, che mordicchia e sembra voler mangiare per quanta foga e passione mi sta chiedendo.
Non ne posso più, lo imploro con lo sguardo, con i respiri mozzati, con le gambe che sono ancora incrociate sul suo bacino e lo spingono di più contro di me, lo supplico di mettere fine a questa tortura, di sbarazzarsi dei miei slip e dei suoi pantaloncini, ma ovviamente dovevo aspettarmelo.
Damon si ferma.
Non so con quale forza fisica e mentale, ma si ferma.
Allontana le mani dal mio seno che stava torturando, scivola sui miei fianchi, sulle mie cosce, fino a raggiungere le mie caviglie dietro la sua schiena, che stringe appena.
Non cerca neanche di nasconderlo quel sorrisetto beffardo che gli sta spuntando sulle labbra, ad un soffio dalle mie che sono costretta a mordere per bloccare una protesta che aveva tutto il diritto di uscire fuori.
 
«Sei un bastardo.»
«E tu una dilettante.»
 
Mi lascia un ultimo bacio sulle labbra e mette qualche centimetro di troppo tra noi, lasciandomi un vuoto allo stomaco e un formicolio al basso ventre che solo lui potrebbe colmare e calmare.
E lui lo sa.
E io lo dovevo prevedere che non posso vincere con lui, non a questo gioco.
Bastardo che non è altro.
 
«Devo passare in ufficio da mio padre, poi sono libero. Se vuoi possiamo replicare un paio di cose che mi sembrava ti fossero piaciute stanotte.»
 
Me lo dice con ancora addosso il suo sorrisetto furbo e maliziosamente attraente che, nonostante tutto quello che è appena successo, mi fa arrossire vergognosamente e abbassare lo sguardo.
Questi discorsi mi imbarazzano, un conto è lasciarmi andare all’istinto e spegnere la ragione, un conto è ripercorrere quegli stessi istinti e portarli alla luce, scoprendomi completamente e inchiodandomi ad essi.
Damon lo capisce, poggia un dito sotto il mio mento e lo alza, facendo incontrare i suoi occhi con i miei.
 
«Abbiamo entrambi i nostri punti deboli no?»
 
Ora lo capisco l’effetto delle mie domande, del mio provocarlo e del volergli tirare fuori qualche stralcio di sicurezza. Lo capisco l’imbarazzo nell’affrontare e far venire a galla certi discorsi, ora mi è chiaro ciò che prova e quali sono le sue difficoltà.
Lui ha scoperto il mio punto debole e io il suo, o meglio, l’avevamo scoperto fin da subito, da quando abbiamo iniziato la nostra non – relazione, ma solo adesso ne colgo la profondità e decido di non usarlo contro di lui.
 
«Ci vediamo più tardi..»
 
Lo lascio con un ultimo, leggero e morbidissimo bacio e torno in camera per recuperare i miei vestiti, finiti chissà dove.
 
 
«Io non ti lascio andare stavolta e non me ne vado. Parlami, dimmi cos’è successo e perché sei arrabbiato con me..»
 
Ci provo di nuovo, ancora e ancora.
Lui mi guarda per un tempo interminabile, come se mi vedesse per la prima volta, come se solo adesso avesse capito che sono io, che è a me che sta gridando addosso.
 
«Perché? Perché tu non hai idea ora delle conseguenze del tuo stupido consiglio! E di tutta questa situazione tra noi! Tu e le tue dannate sicurezze!»
 
Damon si è voltato verso di me, costringendomi ad indietreggiare di due passi per non ritrovarmi la sua ira che mi rimbalza addosso.
Mi butta addosso una colpa che non ho, con una freddezza che non mi aspettavo, mi rinfaccia una sua debolezza, mi accusa per qualcosa che evidentemente ha scelto di fare e ora se ne sta pentendo.
Vuole addossarmi responsabilità che non mi appartengono e questo è assolutamente meschino e vigliacco.
Non comprendo la motivazione reale, né a cosa si riferisca,  cosa dovrebbe entrarci questa situazione tra noi, non so cosa sia cambiato da quando me ne sono andata da casa sua stamattina, non capisco come abbia potuto cancellare tutto l’amore che ci siamo scambiati stanotte, senza neanche chiedercelo, né pretenderlo.
Mi spaventa ma ho imparato a memoria i suoi trucchi.
So vincere anch’io, pur non conoscendo le sue carte, eppure nonostante tutto non ci riesco, l’unico desiderio che ho in questo momento è quello di volerlo abbracciare e contenere.
Ho bisogno che lui si lasci toccare da me, ma lui non lo fa, continua a difendersi da me.
Allora inizio a ricomporre alcuni pezzi e a mettere insieme gli unici elementi che ho a disposizione.
Il consiglio che mi ha chiesto ieri sera, mettendosi a nudo con me, mentre sedevamo l’uno accanto all’altro nel suo posto nel mondo.
L’incontro di questa mattina con suo padre.
E forse, il mio bisogno di avere sicurezze da lui?
Perché se è quest’ultima la causa della sua agitazione, io voglio dirglielo che non voglio più niente da lui, non voglio più fare progetti, stavolta davvero voglio vivermelo e basta, anche al buio, anche protetti e nascosti da tutto il resto dell’universo.
Non mi importa più dell’apparenza, voglio quello che c’è dietro, quello che c’è in mezzo.
Voglio perdermi e ritrovarmi dentro di lui, dentro i suoi occhi che vedono me, tutta me.
Non mi interessa più niente, perché quando il tuo mondo non è un posto ma una persona, non hai bisogno più di altro, neanche di quelle stupide e dannate sicurezze.
Vuoi solamente che stia bene.
 
«Vuoi sapere cos’è successo? E’ successo che avrei preferito perdere tutto, invece di dover dipendere da qualcuno, che può permettersi di giudicare se vado bene o no! O che può entrare ed uscire dalla mia vita infischiandosene delle conseguenze. Io non voglio sentirmi così, io voglio essere libero! Lo capisci che mi sento soffocare così? Come hai potuto chiedermi di accettare un compromesso del genere?»
 
Non so più di cosa stia parlando, né di chi.
Agita le mani, si muove avanti e indietro, si passa le mani tra i capelli, mi sfida con i suoi occhi di ghiaccio, in cui non trovo più il blu di cui pensavo di essermi innamorata.
Mi pizzicano gli occhi e anche il cuore e lo stomaco, sento delle minuscole lame infilarsi veloci e precise nella pelle, lasciandomi immobile e ferita.
Non voglio cedere al mio dolore, non così, non senza sapere quale sia in tutto questo la mia inaccettabile e gravissima colpa.
Raccolgo tutte le mie forze per cercare di tenergli testa e non apparire una ragazzina fragile ed immatura, nonostante le lacrime iniziano ad inondarmi lo sguardo.
 
«Ok adesso basta. Io non ti ho obbligato a fare niente! Né sul lavoro, né su altro. Tu sei sempre stato libero di fare le tue scelte, su tutto. Io sono soltanto stata.. me. E tu potevi benissimo restare te. Con le tue convinzioni e il tuo modo di fare.»
«Tu… tu non…»
 
Non ci riesce a fare uscire la sua rabbia, la sua inquietudine, non riesce neanche ad iniziare e a terminare la frase.
Lo vedo stringere i pugni e strozzare la voce per controllarsi, lo sento lottare contro se stesso e contro il mondo intero.
Vorrei dirglielo che può smetterla, che non ce n’è bisogno con me, che va bene lo stesso, che può anche non farlo l’eroe.
A me lui va bene in ogni caso, ammaccato, stanco, imperfetto, dolorante.
Ma forse è lui che, così, si sente indegno e io sono solo uno specchio da fare a pezzi per non vedere.
 
«Io non… cosa? Damon, ti prego, dimmi che diavolo è successo da quando ci siamo salutati stamattina..»
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Appena Elena ha chiuso la porta di casa mia, dimenticando davvero stavolta la sua borsa qui, ho preso il telefono e ho mandato un messaggio ad Andie dicendole che accettavo di restare a lavorare in agenzia.
Forse ha ragione, forse davvero può essere un modo per prendere tempo e vedere come si evolvono le cose, magari non sarà così male come immagino.
Forse avevo sottovalutato la difficoltà di trovare un nuovo lavoro, di ricominciare da capo, senza nessun appiglio.
In fondo, in questo modo, continuerò comunque a fare un lavoro che ho scelto, mi piace e so fare, devo solo mantenere a freno la mia natura e imparare ad agire con il cervello oltre che con l’istinto.
Eppure, ciò con cui ancora non avevo fatto i conti e che ora mi stanno presentando il conto, sono un padre e una madre che ti mettono all’angolo ed infieriscono su di te, senza neanche chiederti il perché delle tue scelte.
 
«Ma ti ha dato di volta il cervello?!»
«Tu e il tuo stupido orgoglio!»
 
Una pugnalata dietro l’altra, precisa, dolorosa, in pieno petto e senza darmi tempo di respirare o riprendere fiato.
Ero venuto qui, nello studio di mio padre, a portargli dei documenti per la causa di risarcimento e per spiegargli come ho risolto la faccenda, invece qualcuno mi aveva preceduto, dannati avvocati che tra di loro si conoscono tutti e parlano, parlano e si raccontano cose che non dovrebbero.
E maledetto mio padre che, non solo è venuto a conoscenza di tutta la faccenda dal suo amico, l’avvocato di Andie, ma ha anche spifferato tutto a mia madre, che, ovviamente, stamattina si è presentata qui come una furia, riversandomi addosso tutto il disprezzo che prova per me.
La durezza di mio padre.
La frustrazione di mia madre.
Mi sembra una combinazione perfetta per dare una sterzata irrimediabilmente disastrosa alla mia malsana pace interiore.
 
«Pensavo di dover essere io a prendere decisioni riguardanti la mia vita! Non credevo di dover chiedere un permesso, ancora!»
 
L’arroganza e la spavalderia che cerco di mantenere, stanno subendo una brutta piega sotto i loro colpi, eppure non voglio e non posso concedergliela questa vittoria.
Resto calmo, in piedi, in mezzo alla stanza, mentre mio padre, seduto dietro la sua scrivania, scuote la testa e si passa le mani tra i capelli mentre mi ripete che dovevo avvertirlo, che questo è un ennesimo casino e che ho davvero qualcosa che non va’ nel cervello.
E mia madre, che avrà percorso chilometri e chilometri camminando andando avanti e indietro nello spazio di questo ufficio e calpestando queste piastrelle di marmo grigio, agitando le braccia e alzando gli occhi al cielo.
 
«Damon qui non si tratta solo della tua vita! Che farai adesso? Resterai davvero a lavorare lì dentro? Dio, non ci posso pensare!»
 
Non mi guarda neanche mentre continua a ripetere, più a se stessa che a me, le sue imprecazioni e a buttare fuori la sua ansia e la sua incredulità di fronte ad un figlio che è tutto, tranne ciò che lei avrebbe voluto.
 
«Damon, ti rendi conto o no che vendendo tutto, stai creando un ulteriore dubbio riguardo la tua possibile complicità con la compagnia che ti ha messo nei casini?»
 
Mio padre è più razionale, più nel qui ed ora e sinceramente no, non avevo pensato a niente, se non a pagare i debiti di cui ero responsabile.
 
«Che dovevo fare? Lasciare che tutti i miei dipendenti perdessero il lavoro e l’agenzia colasse a picco? In questo modo ho potuto pagare tutti i debiti e tutelare almeno quelle poche persone rimaste!»
 
Inizio ad agitarmi perché sono stanco del suo dito puntato contro, del suo non capire e del mio dover spiegare ogni santa volta. Ignoro invece completamente mia madre, la lascio affogare da sola.
Riesco a gestire un genitore per volta.
 
«Avremmo trovato una soluzione Damon. Avrei diluito i tempi, chiesto un patteggiamento. Invece hai voluto fare di testa tua, senza neanche consultarmi e se adesso ci saranno altri casini, ti ci tirerai fuori da solo, visto che sei tanto bravo nel farlo. Io non sono più disposto a mettere il mio nome in questa storia.»
«E’ questo che ti brucia papà? Che il tuo nome venga associato ad una truffa? Hai paura di uscirne sporco, di perdere la tua credibilità?»
 
Lo provoco spazientito e in modo infantile, lo capisco da come mi sorride amaro, alzando solo un angolo della bocca, in un espressione che vuole prendersi gioco di me e del mio essermi reso ridicolo ai suoi occhi. La conosco perché, quella stessa espressione, l’ho imparata da lui e la uso anch’io.
 
«Tu proprio non vuoi capire.»
«Io capisco invece papà. Capisco un sacco di cose e sono stanco! Sono fottutamente stanco delle vostre insinuazioni, della vostra mancanza di fiducia e del disprezzo che mi dimostrate. Sono vostro figlio dannazione!»
 
Urlo, grido con tutto il fiato che ho, con tutta la rabbia di cui sono capace sento le vene del collo e delle tempie pulsarmi quasi a voler esplodere.
Allargo le braccia, stiro le mani fino a sentire i lembi di pelle ad un passo dalla lacerazione, prendo a calci la poltroncina davanti a me che si scaglia contro la parete e cade a terra con un gran fracasso.
Respiro a fatica, non controllo più niente, né gesti né parole, soffio fuori la mia ira con la stessa intensità con cui mi riversano la loro. Non ce la faccio più a subire, a sentirmi perennemente non all’altezza, a dover lottare ogni santo giorno per un briciolo di approvazione, per un po’ di quell’amore che mi devono, che mi merito.
Mi sfinisce dovergli ricordare ogni attimo che hanno anche me di figlio e sono stanco di vedermi rinfacciare che non sono stato scelto, che era troppo tardi per scegliere cosa fare di me.
Non è colpa mia dannazione, non ho deciso io di venire al mondo.
L’errore l’hanno fatto loro e non è giusto che continui a pagarlo io.
 
«Calmati Damon…»
 
Mia madre ci prova ad avvicinarsi, ci prova nel silenzio che è calato in questa stanza, ci prova ma non ci riesce, non la poggia sulla mia spalla quella mano che ha alzato ad un passo di distanza da me. La distende di nuovo lungo il suo fianco e posa solamente i suoi occhi azzurri, amareggiati e fintamente compassionevoli, nei miei.
Inclina la testa e sospira stanca, se non la conoscessi davvero bene potrei bermi tutta la sua aria colpevole, invece la sua espressione mi incendia ancora di più, perché mostra quanto io ai suoi occhi sia sbagliato, quanto le cose che le ho appena urlato addosso siano solo frutto della mia immaginazione.
 
«Non mi sembra il caso di fare certe allusioni Damon, il discorso qui è un altro. Se tu fossi un po’ meno arrabbiato con noi e con l’intero universo, forse lo capiresti.»
«Se voi faceste almeno un po’ più finta di tenere a me, non avrei bisogno di esserlo.»
 
Volto le spalle ad entrambi e la sento, ma scelgo di ignorarla, la voce incredula e leggermente incrinata di mia madre che mi chiede cosa sto dicendo e mi assicura che loro mi vogliono bene, che io non capisco.
Mi chiudo la porta alle spalle, faccio un passo, poi un altro e un altro ancora, fino ad uscire dall’ufficio, scendere le scale e risalire in macchina, schiacciandomi inerme sul sedile e chiudendo gli occhi.
Non sai cos’è che ti manca fino a quando qualcuno non ti fa provare come dovrebbe essere, non ti mostra cos’è che meriti, allora la senti l’assenza e quando non ce l’hai brucia, brucia da impazzire. E impari a pretendere.
Impari a volere tutto.
Impari ad andartele a prendere certe cose e io sto proprio facendo questo.
Sto andando da lei, ho messo in moto la mia macchina e senza neanche rendermene conto sto attraversando la città per correre da lei, perché ho bisogno di vederla, ho bisogno di lei, della sua forza nel curare le mie ferite, di leggere nei suoi occhi che ho fatto la scelta giusta, che andrà tutto bene, anche se non ci credo. Anche se per fare questo devo annullare una parte di me.
Non so cosa sia questa sensazione che provo, perché più mi avvicino a casa sua, più la mia determinazione, la mia impulsività e il mio orgoglio nel tenere testa ai miei genitori e nello sbattergli contro le loro colpe, vengono meno.
Più mi avvicino, più mi ferisco e voglio stare da solo.
E poi succede.
Il suo telefono, nella sua borsa che ho lasciato sul sedile posteriore e che le sto riportando, inizia a squillare.
Allungo una mano per accertarmi semplicemente che non sia qualcuno di importante, tipo Caroline, non risponderei mai, non mi intrufolerei così nella sua privacy, ma quel nome, che mi lampeggia tra le mani, mi provoca uno moto e un groppo alla gola, che vorrei scaraventare questo telefono fuori dal finestrino per frantumarlo sul marciapiede.
 
 
«Perché Mattew ti stava chiamando?»
 
E glielo chiedo così.
Le lancio addosso un’ennesima colpa, solo per ferirla più di quanto non sia io, sapendo benissimo che lei non ne ha nessuna, ma sono un bastardo impulsivo e non voglio cambiare.
Ci ho provato ad allontanarmi senza farle del male, senza far ricadere la responsabilità su di lei, ma Elena è ostinata, testarda e vuole rendermi le cose davvero difficili.
Perciò adesso sono stanco di essere preso in giro, di valere meno di zero.
Adesso davvero voglio tutto e di sconti non ne ho più bisogno.
Non voglio essere la seconda scelta di nessuno, voglio tutto da lei, non voglio che nessuno si azzardi a mettersi in mezzo, né voglio essere io a finire tra storie chiuse a metà, mi sento tradito, preso in giro, umiliato.
Di nuovo. Anche da lei.
Per questo è meglio se me ne sto da solo.
Lei mi fa male, mi fa volere cose che non sono abituato a chiedere, a desiderare.
Mi fa sentire come non mi sono mai sentito.
Mi fa urlare contro mio padre chiedendo rispetto e amore.
Questo non sono io.
Elena indietreggia di un passo, sbatte le palpebre più volte e sbarra gli occhi, cacciando indietro quelle lacrime che le stavano per scendere e riemergendo dalla patina che le iniziava ad invadere gli occhi.
Apre la bocca ma è troppo sbigottita per trovare qualcosa da dire, fa un altro passo indietro e lentamente raggiunge il divano, sul quale si lascia sprofondare, raccogliendo le gambe e poggiando il mento sulle ginocchia.
Io resto fermo, mentre lei si lascia implodere dentro.
Non mi guarda più.
Il suo silenzio, le sue bugie, i piedi che sono sicuro abbia lasciato in due scarpe, mi fanno solo desiderare di  andarmene via e restare da solo, come sono sempre stato e come dovrei continuare ad essere.
E più lei sta zitta e si lascia ferire da me, più io mi sento colpevole, sbagliato e soffocato.
Io che ho preteso tutto e ora lo esigo anche da lei, perché è lei che me lo ha insegnato e me lo ha fatto vedere.
Sono stanco delle mezze misure e delle mezze verità.
Voglio tutto oppure niente.
Voglio la verità anche se fa male.
 
«Devo tirare ad indovinare? Magari ti sei resa conto che..»
«Sta’ zitto Damon.»
 
Elena torna a posare gli occhi dentro i miei, stavolta mi guarda fisso e sicura, con una determinazione che mi trafigge e mi fa sentire in colpa.
Tira su con il naso e si passa il dorso della mano sugli occhi, per cancellare i segni delle lacrime che inevitabilmente le sono scese sulle guance, finendole sulle ginocchia
 
«Tu non hai proprio capito niente…»
«E’ ironico come tu sia la seconda persona oggi che me lo faccia notare e la seconda a cui dica che ho capito, ho capito fin troppo.»
«E cosa? Cosa avresti capito sentiamo!»
«Che vuoi tenerti buono quell’idiota e stai aspettando solamente un mio passo falso per correre da lui! Stai aspettando di aver bisogno di sicurezze, che io non ti darò mai, per andartene!»
 
Lei scuote la testa e sorride amara, ferita, stanca.
Forse anche di me, delle nostre innumerevoli e distruttive discussioni.
 
«Non ho idea di cosa volesse Mattew.»
 
Mi dice poi, dura e atona, come se non avesse ascoltato una sola parola di quelle che le ho urlato contro, come se avesse deciso di ignorarmi.
 
«Io ho scelto te. A me non interessa nessuna sicurezza se non posso stare con te. Non voglio niente se non posso avere te. E decisamente sono assolutamente certa di non volere lui.»
 
Questa volta è lei a colpire me, a riportare la conversazione su toni più calmi, seppur piatti.
Il distacco con cui mormora quelle parole, mi fa traballare, non sono certo dell’esito, né della sua prossima mossa.
Mi ha spiazzato e confuso.
E’ riuscita a riprendesi il coltello che le stavo puntando contro e a posarlo sul tavolo di fronte a noi, scegliendo di non usarlo contro di me. Non so come ci riesca, non capisco come faccia ad essere così sicura di sé, di me.
E solo adesso mi chiedo come possa chiederle di amare davvero uno come me, uno che le fa questo, ogni volta che si sente insicuro. Non posso neanche chiederle di accettare ciò che sto diventando da quando c’è lei nella mia vita. Perché non mi piace, non mi piace non essere più in grado di prendere una decisione e subirne da solo le conseguenze, non mi piace doverla coinvolgere nella mia follia e non voglio neanche che mi faccia sentire così imprigionato e dipendente da lei.
Mi sembra che un tornado mi stia travolgendo e non so se voglio aggrapparmi a qualcosa per resistergli o se preferisco lasciarmi spazzare via.
Provo a fare un passo verso di lei, ad avvicinarmi, lasciando che il mio corpo si muova da solo, colto dalla tenerezza della sua verità, ma lei alza una mano per bloccarmi.
Non vuole che mi avvicini, non vuole che invada il suo spazio, che la tocchi.
 
«Voglio che tu te ne vada.»
 
Un colpo al cuore, dritto e che mi esplode nello stomaco, bucandomi da parte a parte.
 
«Elena mi dispiace, io non volevo davvero…»
«Va’ via Damon.»
 
Una paura inaspettata, un’ansia che mi travolge e mi spinge a rimediare, a riprenderla, un dolore che mi fa avvicinare a lei, fino ad abbassarmi sui talloni per cercare uno sguardo che lei mi toglie, voltando la testa in un'altra direzione.
 
«Perché?»
 
Riesco solo a chiederle questo, vigliacco che non sono altro.
 
«Perché per quanto tu possa ferire me, io non ferirei mai te il doppio solo per sentirmi meglio o essere quella che soffre meno. Io non riuscirei mai a mettere tutto in dubbio per uno stupido malinteso e non ti rinfaccerei mai una mia decisione solo perché non la so gestire.»
 
Sono io a non riuscire a guardarla ora, ad essere allibito, ad ingoiare respiri e parole che la ferirebbero ancora di più, più di quanto non sia riuscito a fare già.
 
«Voglio restare da sola io adesso Damon. Per favore…»
«Elena forse abbiamo esagerato, io sono scattato per altre cose, non volevo…»
 
Lei mi blocca le parole posandomi due dita sulle labbra, ma poi le ritrae immediatamente, come se solo sfiorarmi le bruciasse sulla pelle.
Solamente adesso capisco che forse mi sono lasciato prendere dal panico, dalla paura di non saper gestire le cose, di fare passi avanti che non ho mai fatto.
Non sono pronto e, ironia della sorte, voglio lei, l’ho voluta dall’inizio ma non sono in grado di gestire me insieme a lei.
 
«Ti prego Damon…»
 
Il modo in cui mi supplica e stringe la voce facendola uscire piccola e controllata, mi stringe il cuore e mi spinge ad alzarmi, fare un passo indietro e guardarla un’ultima volta prima di aprire la porta di casa sua, chiudermela alle spalle e andare via.
 
 
 
 
 
 
 
 
Era una specie di lancinante, dolorosa meraviglia. […] Ti senti una specie di consolazione, dentro, quasi una rivelazione, che ti spalanca l'anima, per così dire, ma contemporaneamente senti una specie di fitta, come la sensazione di una perdita irrimediabile, e definitiva. Una dolce catastrofe. Credo che c'entri il fatto di essere sempre fuori, in quei momenti lì, sei sempre lì che li guardi da fuori. Non ci puoi entrare, […] è qualcosa che rimane lì, […] e tu sei irrimediabilmente davanti, la guardi ed è tutto quello che puoi fare. […] È una cosa strana. Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei mai.
 
(A. Baricco _ City)







 
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Imperdonabile.
Sono assolutamente imperdonabile per il mio ritardo.
Lo so! Mi dispiace tantissimo... ho cercato in tutti i modi di pubblicare prima ma non ce l'ho fatta..
Chiedo perdono davvero..
Spero di ritrovarvi ancora e non avervi perso un po' per strada..
In ogni caso, un capitolo lunghissimo!!
Non ho potuto/voluto tagliarlo e spero non risulti pesante o complicato.. soprattutto per i flashback che dovrebbero farvi scoprire cosa è accaduto prima e spiegare in qualche modo la litigata che fa da sottofondo a tutto il capitolo.. e le reazioni di Damon, complicate e contraddittorie.
Spero davvero sia abbastanza chiaro e di non avervi ammorbate, nè di essermi fatta odiare, per il ritardo e l'esito del capitolo!! :-)
Resistete vi prego! E non disperate!

Piccola anticipazione: mancano due capitoli alla fine!

Intanto vi mando un bacio enorme... e Grazie davvero per gli scorsi messaggi!

Ale

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18° ***


 
Ricomincia nella notte questa storia troppe volte
e ha tirato botte
colpi bassi mentre vivo
che mi tolgono il respiro
e mi danno la certezza che mi ostinerò a mancarti senza raddrizzare il tiro.
 
Quante volte avremmo detto con fermezza che tra noi era finita
da domani ricomincia un’altra vita
tranne poi tornare dove siamo stati sempre certi di trovarci.
Siamo sempre stati forti
A lasciarci negli abbracci
A proteggerci dai sassi
A difenderci dagli altri
A lasciarci i nostri spazi
A toccare con un dito questo cielo che spalanca l’infinito,
quante volte ci ha deluso
e quante volte ci ha sorriso.
 
Come te che mi hai dato
Il mio giorno più bello nel mondo
l’ho vissuto con te.
 
Solo tu mi hai donato
un sorriso che nasce anche quando un motivo non c’è
e da quando c’è stato sembra schiudere tutte le porte
sembra schiuderle tutte le volte
che sto con te.
 
Non lasciamo che sia il tempo a cancellarci senza un gesto
far la fine dei graffiti abbandonati alle pareti
lentamente sgretolati dalla pioggia e dal calore
fino a quando c’è uno stronzo che passando li rimuove
senza avere la certezza di aver dato tutto
prima di mollare, di tagliare corto
di imboccare quella strada senza più un rimorso.
Fino a quando arriverà qualcuno che starà al mio posto..
 
E’ con te che è iniziato
Il mio viaggio più bello nel mondo io l’ho fatto con te
è un sorriso che è nato
sembra schiudere tutte le porte
sembra schiuderle tutte le volte
che sto con te.
 
Eravamo solo due perduti amanti
Quando l’universo ha ricongiunto i punti
Sole luna, caldo freddo, in un secondo solo.
Quando finalmente riprendiamo il giro
è una sensazione che mi sembra innata come se con me fossi sempre stata
come se ti avessi sempre conosciuta..
Ma la meraviglia è che ti ho incontrata.
 
E sei tu che mi hai dato
I miei giorni più belli nel mondo li ho vissuti con te
solo tu mi hai donato un sorriso che nasce anche quando un motivo non c’è.
Sembri schiudere tutte le porte
sembri schiuderle tutte le volte che sei con me
sembri schiuderle tutte le volte
che sto con te.
 
(Il mio giorno più bello nel mondo _ F. Renga)
 
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Anche se volessi scusarmi..
Tu non riusciresti a sentirmi, né vorresti ascoltarmi, in questo momento.
Quindi, non lo farò.
E non ti darò mai neanche questa lettera, che non ho la più pallida idea del perché stia scrivendo.
Non so come io sia potuto arrivare qui.
E’ tardi, fuori è buio e io non riesco a dormire dopo essermene andato da casa tua, lasciandoti in quello stato, chiusa in te, inavvicinabile e con il cuore a pezzi.
Un cuore che sono stato io a spaccare in due, ancora, senza alcun rispetto per te e… per me.
E adesso non posso toccarti, non posso vedermi nei tuoi occhi da cerbiatto, non posso sentire la tua voce che trema e mi urla addosso o il tuo respiro mentre resti in silenzio, dentro quel mondo in cui mi hai coraggiosamente fatto entrare. Quel mondo che per te era spaventoso ma per me era un dono.
Adesso che sei stata tu a mandarmi giustamente via, non posso biasimarti, non posso trovare nessun appiglio per incazzarmi, perché me la sono cercata, sono stato io il primo a metterti in dubbio – ancora – ad attaccarti – ancora – a volerti allontanare da me – ancora.
 
E sai perché?
 
Perché sono un egoista Elena.
Perché faccio scelte pessime che ti feriscono.
Perché io sono fatto così e non cambierò.
E allora perché non scappi via da me e te ne vai il più lontano possibile?
Perché ti incaponisci per riprendermi ogni volta, per difendermi, per perdonarmi?
Perché?
Perché non te ne vai e basta, come fanno tutti, come faccio io?
Perché ti ostini a completare le mie mancanze?
 
Tu, tu sei la persona più ostinata e testarda che abbia mai incontrato.
A volte penso tu lo sia molto più di me e sì, lo ammetto, questo mi piace e mi spaventa perché penso che sia colpa mia, che sia stato io a cambiarti così, a renderti così simile a me.
Ho cercato, lo sai, di evitarti, ci ho provato con tutto me stesso, ti ho distrutta, cacciata, attaccata, mandata via.
Ma tu sei rimasta lì… e io ho continuato a venirti a riprendere.
Perché avevo bisogno di aria, di respirare ossigeno davvero puro, invece di quello che mi soffocava sotto il mio mare, mi hai costretto ad essere più forte delle mie resistenze.
Ma lo sapevi che le relazioni mi distruggevano, che non le volevo.
Lo sai che mi faccio distruggere dalle insicurezze, che mi fanno sentire ancora più sbagliato, inadeguato e inadatto di sempre, per questo motivo ho sempre pensato che sarebbe stato meglio per me stare da solo.
Non ce la faccio a portare il peso di un amore addosso. Né tantomeno quello di un’aspettativa.
Io, non sono abituato ad avere qualcuno accanto.
Non ho mai tenuto conto di un’altra persona.
Non è mia abitudine dire le cose, spiegarle, condividerle.
Non voglio parlare di me, di quello che provo, voglio o faccio.
Non ci riesco a sentirmi amato, in modo puro, senza voler nulla in cambio, senza che qualcuno me lo faccia pesare.
Mi infastidisco quando qualcuno fa qualcosa per me, quando mi da attenzioni, non riesco a respirare, è troppo per me, mi chiede uno sforzo disumano, mi carica di un peso troppo grande, che non so come tenere, dove mettere. Mi spaventa. E non ne vale la pena.
Io ho bisogno di distanza, mi serve mantenerla, mi serve perché ho bisogno di una via d’uscita, sempre. Non voglio essere messo con le spalle al muro. Sfuggendo mi sembra di mantenere la situazione sotto controllo.
Non ho nessuno da deludere, né da cui sentirmi giudicato.
Preferisco il “niente” al poco e al troppo. E la mezza misura, non so quale sia, come sia fatta.
 
Il gioco per me non è mai valso la candela.
 
Ma poi sei arrivata tu.
Tu mi hai messo con le spalle al muro, mi hai spiazzato, riempito, confuso. Tu che ti allontani solo per farti riprendere, che mi rincorri solo per non sentire l’angoscia di essere abbandonata.
 
Maledetta te Elena.
 
Te che sei rimasta ferma davanti a me e, allontanandoti, mi hai lasciato avvicinare.
E quando ero io a fermarmi, c’eri tu che ricoprivi i miei passi.
E io ti ho sfidata, ti ho messo alla prova, ti ho spinta al limite, fino a farti scoprire del tutto, fino a renderti tanto vera da farmi male, da renderti più forte di me, fino a farmi respingere solo per potermi dire che avevo ragione.
Sono l’artefice della realizzazione delle mie paure. Sono la profezia che si auto avvera.
Volevo vedere quanto saresti rimasta, volevo capire se davvero una come te potesse amare uno come me.
Ti sei lasciata guidare, ti sei fidata, con una dolcezza e un’ingenuità disarmante, come se non avessi mai conosciuto nessun tipo di cattiveria o meschinità in tutta la tua vita.
E io sono perfettamente consapevole che tu potresti amarmi con tutta te stessa, senza giudicarmi mai, senza mai rinfacciarmi di essere imperfetto, so che tu potresti curare, senza neanche esserne cosciente, quella parte ferita di me, perché le tue sicurezze combaciano perfettamente con le mie paure.
Perciò lo so di aver fatto una cazzata, di essermela cercata la tua distanza, di meritarmi tutto quello che deciderai per me.
Solo, per favore, decidi in fretta, metti fine a questo tormento, a questi dubbi.
Usa il mio mare per affogarmi.
Fallo tu perché io non ci riesco.
Non ci riesco a prendere una decisione.
Mi sento incastrato in un limbo in cui mi sembra di non riuscire a stare né con te, né senza di te.
E allora qual è la soluzione? Me la sapresti dire se solo te la chiedessi?
Se solo ti chiedessi ancora un consiglio?
Uno stramaledetto stupido consiglio.
 
Dio, Elena, tu sei troppo per me.
 
Sei troppo tutto insieme e io non so dove mettere le mani, ancora una volta.
Non so come prenderti.
Sei troppa testa, troppa pancia, troppo cuore. E sei talmente imperfetta a volte, che ti incastri perfettamente con le mie incompletezze.
Mi rendi bambino con un solo sguardo.
A me che sono un uomo e che non ho mai scritto una lettera a nessuno in tutta la mia vita.
Ma tu mi fai venire voglia di vivere, di essere migliore, mi fai venire voglia anche di lasciarmi amare.
Tu mi stai insegnato cos’è veramente l’amore…
Quello che fa male, quello per cui saresti disposto a tutto.
Quello che ti sale dallo stomaco e ti esplode addosso.
Quello che ti da la forza per alzare la testa.
Tu, tu sei di gran lunga la cosa migliore che mi sia capitata su questa terra.
E il fatto che tu abbia scelto me, che tu voglia stare con me, proprio con me, con tutto lo schifo che sono e che mi porto addosso, il fatto di essere “amato” non da chiunque, ma da te, Elena Gilbert, è l’esempio perfetto di una vita piena.
Non avrei mai potuto avere di meglio.
Ho avuto il massimo.
Anche solo per un momento, ce l’ho avuto, tu me lo hai fatto sentire.
Tu mi hai fatto sentire tutto.
Tu mi sei entrata nelle vene, nella pelle, tra i pensieri, nelle intenzioni.
E non hai idea di quanto tutto ciò che sono mi faccia paura quando sto con te, in ogni istante del tempo che trascorriamo insieme io ho il terrore di rovinare tutto, di farti male.
E mi spaventa tutto questo perché, nonostante ciò, quando tu sei con me, tutto il resto del mondo scompare.
Io non sono più niente senza di te.
Non ho bisogno più di niente se tu sei con me.
E non lo capisco come questo sia possibile, come possiamo reggerci ed incastrarci perfettamente, senza mai scivolare, quando siamo insieme.
Come possa il mio mondo non esistere più se sorridi tu.
Come riesca semplicemente a diventarlo tu.
 
Vieni qui Elena, vieni a prendimi, anche se so che dovrei essere io a farlo, ma fammi perdere ancora una volta nel tuo mare.
Troviamolo insieme un confine da costruire per non strariparci addosso.
Riusciresti a perdonarmi?
Ci riusciresti se solo te lo chiedessi?
 









**********************************

Avevo aperto word per scrivervi una nota.
Per scusarmi di questi ritardi, per tanti di quei motivi per cui non sto qui a tediarvi!
Volevo farlo perché siete davvero meravigliose, tutte, sia quelle che lasciano commenti, pubblici o privati, che si entusiasmano, che hanno dei dubbi, sia quelle che leggono in silenzio ma aumentano sempre di più.. perché meritate davvero tanto.
E non volevo lasciarvi qualcosa che ancora per me non era completo, che non sentivo, che faceva un po' a cazzotti con me e con la mia idea. Non volevo neanche prendere il sopravvento sui miei e anche vostri Damon ed Elena, volevo che fossero loro a scrivere la loro storia.. per questo, perché ancora non c'era questo, non avevo pubblicato niente.
E volevo davvero scrivervi tutto ciò e salutarvi augurandovi una bellissima estate, per ritrovarci, se aveste voluto, a settembre..

Poi invece, è uscita questo.

Non era così che avevo immaginato questo capitolo, ma forse avevo bisogno di spiegare ciò che provava Damon, di metterlo su carta, anche prendendo in prestito parole già usate, proprio da lui, che a me fanno venire i brividi ogni volta.. e allora è venuta fuori questa lettera.
Sono poche righe, ma spero che un pochino possano alleviare e ricompensarvi un po' per l'attesa..

Grazie, grazie, grazie a chiunque trovi un po' di tempo per lasciare un pensiero e scusate se non ho risposto a quelli nello scorso capitolo.. li ho letti tutti e chi per un motivo, chi per un altro, mi avete davvero toccata tanto.. Grazie.

Vi auguro davvero Buone vacanze!!
E mi preparo a partire anch'io, ma un pezzetto di me vi porta comunque con me!

Un bacio,
Ale



 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19° ***



E' come quando si gioca a scacchi e non appena si solleva il dito dal pezzo ci si accorge dell'errore, e si viene assaliti da una sensazione di panico poiché non si è certi della gravità del disastro a cui si va incontro.
 
(Non lasciarmi _ Kazuo Ishiguro)
 
 
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Il cuore, quando si spezza, lo fa in assoluto silenzio.’
 
Questo è ciò che mi rimbomba nel cervello da quando Damon è uscito da casa mia, un paio di giorni fa.
Queste parole, questo silenzio.
Mi aspetto da un momento all’altro di esplodere, di andare in mille pezzi, di disintegrarmi senza più lasciare tracce di me, di scomparire, eppure, non accade niente.
Sono inerme, ferita, spenta.
Vago da una stanza all’altra, con la polvere che ormai si è stratificata sulle mensole bianche della mia camera, con il lavoro che preme ma su cui non riesco a concentrarmi e con un buco nel petto, lì dove, imperturbabile, continua a battere un cuore.
Ed è frustrante come continui a farlo, incessantemente, incurante di tutto, anche di me, anche del mondo fuori che si spezza e si sgretola sotto i miei piedi.
Lui se ne sta lì, a fare il suo dovere e lascia a me il lavoro sporco, quello di raccogliere i pezzi e andare avanti, nonostante tutto, nonostante me.
Di nuovo.
 
Era questo che volevi Damon?
Davvero le tue insicurezze, il tuo stupido ed egoistico bisogno di conferme, vengono ancora prima di tutto quello che avevamo?
Davvero non ti basto?
Davvero valgo così poco?


Dimmelo Damon, dimmelo tu, perché io non ci credo.
 
Io non ci credo che tu sia davvero questo.
Non ci credo che tu volessi davvero mandarmi via, perché altrimenti non avresti provato a riprendermi quando sono stata io a mettere distanza, mi avresti lasciato fare, non avrei letto paura nei tuoi occhi, ci avrei trovato sollievo, invece c’era solo il buio e il grigio che spengeva tutto quel blu.
E io lo so che non dovrei stare qui a pensare a te.
Dovrei ridere, ridere e basta.
Perché mi sono appena laureata, la mia migliore amica, che ho rischiato di perdere, ora sta bene, è sana e salva sul divano di casa sua, ho un lavoro, un lavoro per cui ho studiato, ho una famiglia che mi ama, forse troppo, ma mi ama e in qualche modo compensa tutto l’amore che a volte io non ho per me e mi aiuta a rialzarmi.
Dovrei uscire, andare a ballare, ubriacarmi e tornare alle sei di mattina, distrutta, senza la minima memoria dell’intera serata, sudata, con un odore addosso che è il mio, non quello di un uomo che non si cancella, che non se ne va mai.
Un uomo che mi ha stravolto dentro, che ha strappato via, a forza di provocazioni, il mio bisogno di sicurezze, mi ha sfinita e invasa con il suo fascino maledetto, facendomi provare tutto e portandoselo via.
E io, che non aspettavo altro che qualcuno mi travolgesse così, che non pensavo fosse possibile, che non credevo potesse accadere ad una come me, gliel’ho lasciato fare.
Sono solo una bambina, che è cresciuta troppo in fretta ed è diventata donna proprio tra le braccia di quell’uomo.
Per questo adesso sento questo dolore e questo bisogno irrazionale, totalizzante, che sta lì qualunque cosa faccia, qualsiasi cosa pensi, che si è appropriato di me, di tutta me e mi ha fatto completamente dimenticare come fosse la mia vita prima, prima di te.
Tu mi ha insegnato a vivere, mi hai insegnato a prendere ciò che volevo, hai sradicato i miei principi e le mie insicurezze e me li hai fatti mettere in discussione. Non ti sei accontentato della bella bambolina che tutti vedevano, sei andato dentro, sotto la pelle, hai visto lo sporco, ma non hai giudicato mai, non ti sei mai permesso di farmi sentire sbagliata, inadeguata.
Mi hai spinta a scegliere, ad essere vera.
E io l’ho fatto, mi sono messa a nudo, sono diventata donna davanti ad un uomo che non mi hai mai fatto sentire bambina. Mi sono resa impotente, ho giustificato, difeso, capito, amato.
Per un amore così ho venduto cara la pelle.
E Dio quanto ti odio Damon, quanto odio amarti così tanto.
Perché sì, io non ho nessun dubbio, nonostante tutto, su questo e forse è proprio quel nonostante che mi fa capire quanto sia vero e profondo ciò che sento.
Perché va oltre la rabbia, oltre il dolore, le urla, le distanze, le imperfezioni, va perfino oltre me per arrivare a te.
E possiamo gridarci contro e mandarci via quanto vogliamo, mettere distanza per respirare, per riprenderci i nostri spazi, ma alla fine è sempre da noi che torniamo. E’ sempre sotto la pelle e negli occhi bassi che ci troviamo.
Ci allontaniamo per non soffocare, ci aggrediamo prima di poter essere feriti e, per quanto contorto e malato questo sia, è ciò che ci rende simili, che ci garantisce gli stessi bisogni e ci da le stesse sicurezze.
Io lo so che sei come me, hai le mie stesse paure, vuoi le mie stesse distanze e io ho il tuo stesso mare dentro. Ora lo vedo.
Solamente, lo gestiamo in modo differente.
Nessuno dei due è disposto a cedere e continuiamo a ferirci, sempre nello stesso punto.
Quello più vicino al cuore.
Ma per quanto tu voglia isolarti e fermarti a ricucire i pezzi, il mondo non ti aspetta Damon.
Le scelte si pagano, così come gli sbagli, al di là delle intenzioni.
Il cuore continua a battere per ricordarti che la vita va avanti, nonostante te.
 
E ciò mi è estremamente chiaro stamattina, mentre leggo l’e – mail del mio capo che mi incita ad inviargli un articolo sui cambiamenti generazionali che non ho ancora neanche iniziato.
Ho ignorato le sue ultime due chiamate per non affrontarlo, per non dovergli dire che non ho niente di pronto e sto entrando nel panico, ho messo al repentaglio il mio lavoro e, molto di più, rischio l’umiliazione di non essere riuscita a portare a termine un compito, perché mi sono lasciata sopraffare dai miei problemi personali.
Stupida, ingenua e bambina che non sono altro.
Perciò adesso l’unica cosa su cui devo concentrarmi è questo articolo, me le devo legare sulla tastiera del computer queste mani che continuano a scorrere sul display del cellulare, con la voglia di chiamare Damon e dirgli di tornare qui, me lo devo imprimere nel cervello di essere io quella ferita, quella che lui stava buttando via.
Me lo devo stampare bene a mente di avere un valore e una dignità e di doverli difendere.
Lo devo fermare questo cuore che continua a tremare.
Ci provo a buttar giù qualcosa, a riesumare vecchi scritti, vecchie ricerche che avevo svolto all’università e a dare un senso a parole che proprio non sento mie in questo momento, impiego tre ore per riuscire a fare uscire qualcosa di decente. Rileggo il pezzo almeno una decina di volte, correggendo errori, frasi e punteggiature, prima di decidermi ad inviarlo al giornale, con tanto di scuse sul ritardo e dita incrociate.
Un’ora dopo sono fuori da questa casa, in cerca di un’aria pulita che non so più dove trovare.
 
 
 
 
 
 
 

Damon

 
«Si può sapere che hai Damon?»
 
Per la seconda volta Stefan sposta gli occhi dal dibattito politico che stanno trasmettendo in televisione, la mia televisione, di cui si è arbitrariamente impossessato appena messo piede in casa mia, così come del mio divano e del mio bourbon, e li posa su di me con un’espressione un po’ incuriosita e un po’ confusa.
Probabilmente, il mio vagabondare avanti e indietro per il salone, dal divano al tavolo, dalla poltrona alla credenza degli alcolici, passando costantemente per il tavolinetto, su cui è poggiato il mio telefono, che da un paio di giorni non da’ alcun segno di vita, non è passato inosservato.
La prima volta ho completamente ignorato la sua domanda, rifilandogli un’anonima alzata di spalle e uno sbuffo veloce, adesso che invece non si decide a distogliere lo sguardo da me, mi decido a lasciarmi cadere sulla poltrona e a sprofondarci dentro, con un sospiro profondamente stanco.
Stefan passa una mano sui suoi capelli che ricadono perfettamente in ordine e poi incrocia le braccia sul petto, fissando, stavolta divertito, la mia aria imbronciata e agitata.
 
«C’è una cosa che dovresti sapere.»
 
Non penso di avere scampo, né alternative, devo dirgli la verità, ho bisogno di parlare con qualcuno, l’unico con cui potevo farlo, senza troppe conseguenze, era Ric ma non è in casa e quando Stefan mi ha informato che sarebbe passato da me, raccontargli di Elena e di tutto il casino che ho fatto, mi è sembrata l’unica possibilità.
Stefan ha però cambiato espressione, ha inclinato la testa e incupito lo sguardo, sempre più confuso da me e dalla mia strana e inaspettata agitazione.
 
«Qualcosa di grave? Cos’è successo?»
«Si tratta… di Elena
 
Lo guardo fisso negli occhi per cercare di cogliere qualche segno di fastidio, una smorfia che mi indichi di fermarmi, di dissimulare, di salvare il salvabile, invece Stefan piega appena un angolo della bocca in su, in un piccolissimo e per me disorientante sorriso, poggia un gomito sul bracciolo del divano e il mento sul suo pugno chiuso, guardandomi con negli occhi l’espressione di chi ha finalmente indovinato l’ultima parola di un cruciverba che non riusciva a completare.
 
«Sono tutto orecchie.»
«Potrei prenderti a pugni se non la pianti di guardarmi così!»
«Così come?»
«Così… soddisfatto
 
Serro infastidito la mascella e gli propino uno sguardo minaccioso che gli fa alzare entrambe le mani in segno di resa, ma sorride appena, ancora. E un po’ mi disarma, mi solleva per un attimo ma poi mi fa piombare in un imbarazzo che non credevo di poter avere davanti a lui.
Ora che intuisco i suoi pensieri, che sento il suo appoggio, in parte mi sento alleggerito, ma dall’altra parte inizia a salirmi un nodo in gola che stenta a fare uscire quella spavalderia con cui avevo iniziato a parlare.
Lui non dice niente, mi da il tempo che mi occorre per essere pronto a far luce su qualcosa che è stata da sempre nascosta nell’ombra.
Cerco una posizione comoda su questa poltrona diventata istantaneamente di una scomodità unica.
Provo a prendere fiato e ad aprire la bocca ma non riesco a fare uscire niente, anche il sarcasmo mi ha abbandonato.
 
«Tu muovi la bocca e io provo a metterci le parole?»
 
Grugnisco a Stefan guardandolo in cagnesco.
Da dove gli esce questa vena umoristica?
Lui mi sorride con un guizzo negli occhi e un’aria beffarda che non gli si addice proprio, poi mi osserva con il suo solito sguardo complice e fraterno, lui che è il mio opposto ma che sento vicino più di un vero fratello.
Mi sforzo di tirare fuori le parole, mi fermo solo un attimo per studiare ancora il suo volto ma poi decido di buttare fuori tutto.
La vada o la spacca.
In qualsiasi caso, non potrà odiarmi per sempre per essermi innamorato di una ragazza che piaceva anche a lui.
Non c’è mai stato niente tra loro, lui è anche andato avanti con questa Haley, perciò non ho nulla da temere.
 
«Ok, mi arrendo. C’è qualcosa.. tra me ed Elena. O meglio.. c’era.. credo. Di certo c’è stato, ma ho fatto una casino.. come al solito! E adesso non so più niente. Non so più a che punto siamo.»
 
Stefan non parla.
Resta in silenzio per qualche secondo che mi inquieta, mi guarda con un’espressione indecifrabile, facendomi sentire nudo e vulnerabile.
Poi mi dice qualcosa che mi spiazza, che non mi aspettavo, che mi smaschera ancora di più.
 
«Avevo capito che c’era qualcosa tra voi. E qualunque cosa fosse mi piace ciò che ti ha fatto diventare. Sei meno incazzato con il mondo, sembri più.. felice. Qualsiasi cosa sia successa tra te ed Elena… devi risolverla. Lei è la miglior cosa che ti sia mai capitata.»
 
Solo a questo punto mi accenna un sorriso e uno sguardo complice, poi torna a ruotare il bicchiere di bourbon, che gli avevo offerto, tra le mani, facendo tintinnare il ghiaccio sul bordo del vetro.
 
«Pensi che non lo sappia? Non credo di poter vivere senza di lei.»
 
Mi esce d’istinto, forte delle sue parole. Tiro fuori quella verità senza accorgermene, senza che ne senta il peso addosso.
Stefan mi guarda come fosse una verità inconfutabile questa e riporta lo sguardo davanti a sé, annuendo solennemente.
Solo a questo punto mi rendo conto del perché titubassi nel raccontargli tutto. Mi torna in mente la sua confessione, in macchina, la notte del suo compleanno e per un attimo mi sento terribilmente in colpa. Anche se forse ormai, non dovrei più.
 
«Mi dispiace. Non l’avevo programmato. Non avrei mai voluto mettermi in mezzo tra…»
«Nessun problema.»
 
Stefan mi blocca, anticipa le mie intenzioni e scuote la testa vistosamente.
Poggia il bicchiere vuoto sul tavolino di fronte a noi, scrolla le spalle e mi guarda fisso, paziente.
 
«Avevo capito di non avere alcuna possibilità da quando ho visto il modo in cui vi siete punzecchiati, la sera in cui abbiamo festeggiato la promozione di Enzo.»
 
Provo a fare mente locale, a tornare indietro in un tempo che ora mi appare lontanissimo, quasi una vita fa, ma di quella sera ricordo solamente quanto lei fosse irresistibile, stretta in quel suo tubino, con i capelli arruffati e le guance rosse di rabbia mentre urlava contro di me.
Dovevo fermarmi in quel momento, chiederle scusa per il mio comportamento da stronzo e lasciarla andare davvero.
Non dovevo spingerla contro un muro.
Lei non doveva ricambiare il mio bacio.
Avremmo dovuto immaginarlo che sarebbe andata a finire così.
Dovevamo fermarci finché eravamo in tempo.
Ma forse, già era troppo tardi.
 
«Non volevo che andasse così..»
 
Non volevo farti questo, Elena.
Non volevo soffiartela da sotto il naso, Stefan.
 
«Sono felice adesso Damon. Elena è una ragazza fantastica, ma mi piace Haley. Stiamo davvero bene insieme.»
 
C’è convinzione e sicurezza nella sua voce, non me lo dice ma lo sento che è stato un duro colpo per lui, però capisce, continua a proteggermi, a non farmi pesare niente, come forse io ho cercato di fare con lui.
E allora mi sento ancora più in colpa.
Mi alzo di scatto dalla sedia per cercare di togliermi di dosso questo peso e inizio a girovagare per la stanza, inquieto, ripensando che lui si sarebbe sicuramente rivelato migliore di me, per Elena, non l’avrebbe di certo fatta soffrire in questo modo. E non solo lui.
Adesso che lui sa, iniziano a tornare ad invadermi tutti i dubbi che lei aveva sciolto, uno per uno, con una pazienza e un amore infinito.
Inizio ad avere paura, paura di perderla e di non riuscire più a vivere senza.
Perché una donna non può infilarsi in questo modo sotto la pelle di un uomo.
Non può cambiarlo e andarsene, pensando che poi quell’uomo sarà lo stesso.
Perché io stavo bene prima, convivevo tranquillamente con il mio essere solo al mondo, ero rassegnato all’idea che non avrei mai avuto legami, adesso, invece, io non so più difendermi.
Lei è arrivata, mi ha cambiato e poi mi ha chiesto di andarmene.
Lei!
Lei che, all’inizio, mi supplicava con i suoi occhi da cerbiatta per farla restare.
E io me ne sono andato, perché la colpa era ancora mia e restare significava farle male ancora di più.
Quanto potremo resiste in questo gioco al massacro?
 
«Se ci pensi bene, io non sono migliore neanche di quel coglione con cui stava. Elena sarà più felice senza di me.»
 
Lo dico ad alta voce, perso nel flusso dei miei pensieri, cercando di convincere anche me stesso e appena mi volto per trovare conferma in Stefan, mi trovo davanti il suo volto con un espressione fintamente indifferente, in cui ci leggo però tutta la sua disapprovazione. Sa che contrastandomi mi rifugerei ancora più in me stesso e nelle mie ormai stupide e comode convinzioni.
Mi lascia il dubbio se siano giuste o sbagliate, senza supporto né opposizione.
Si fida di me, del mio istinto.
Della mia voce interiore che mi urla di star facendo una ennesima cazzata.
Eppure ci provo a restare ancora nei miei confini e a fingere che tutto questo lo sto facendo per lei.
 
«Che c’è? Sono altruista non guardarmi così!»
«Non ti sto guardando in nessun modo!»
 
Fa una smorfia scuotendo la testa, ancora fintamente indifferente, ostentando quella sicurezza che dovrei provare io nel lasciarla davvero andare, ma che non ho.
E lui lo sa, lo sa che mi sto coprendo dietro la paura.
Per questo mi fa un sorriso piccolo, con un angolo della bocca, prendendosi gioco di me e delle mie resistenze.
E allora cedo, non ho più scampo ed ho finito le scuse.
 
«Va bene, va bene. Ma quando e se riavrò Elena e l’interno universo impazzirà, compresa lei, ricorda che sei stato tu ad incoraggiarmi a non fare la cosa giusta!»
 
Finisco il bourbon che è nel mio bicchiere, scolandolo tutto d’un sorso e sentendolo bruciare mentre scende nella gola e cerca uno spazio per espandersi che non sia già stato occupato da Elena.
 
«Lo terrò a mente.»
«Fallo.»
 
Lui sorride, con un animo rilassato e sereno, sicuro che andrà tutto bene, io non lo guardo, continuo a tenere lo sguardo fisso davanti a me e a respirare a malapena. Non c’è un muscolo, un nervo, un pensiero, che non sia in tensione.
Ho messo tutta la mia fragilità nelle mani di Elena, le ho dato il potere di farmi e disfarmi, non ho più il controllo di niente, nemmeno di me.
Ed è di me che ho paura. E’ di come lei mi fa sentire.
 
Lei mi toglie ossigeno e razionalità, lei ha il cuore che io vorrei indossare.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Lo ammetto.
Pensavo che Enzo fosse il classico dongiovanni, un ennesimo bullo, egoista, innamorato di se stesso e che non potesse provare sentimenti benevoli neanche per il suo pesce rosso.
Mi sbagliavo.
E l’ho capito mentre l’ho visto sfiorare la spalla nuda di Caroline, in una carezza piccola, leggera, mentre la salutava e usciva da casa sua.
Ero venuta a prenderla per portarla a fare finalmente una passeggiata all’aria aperta, i medici le avevano accordato il permesso, a patto di non stancarsi e di fermarsi al primo segnale di affaticamento, ero salita nel suo appartamento e li ho visti.
Lui la guardava con un’insicurezza e un timore di essere rifiutato che non avevo mai visto dentro gli occhi di un uomo.
Uno di quegli sguardi che ti fanno vacillare e sentire un’intrusa nel mondo che si è materializzato come una fortezza intorno a loro.
Uno di quegli sguardi che ti fanno sentire l’inizio e la fine di quel mondo per lui.
 
La conosco quella sensazione.. lo riconosco quello sguardo.
 
E l’ho visto anche negli occhi di Enzo.
Caroline invece è frastornata, titubante, eppure lui è l’unico che riesce ad infastidirla e a farla ridere così tanto in egual misura.
Lui è un cagnolino che abbaia ma non morde di fronte a lei, non ha paura di mostrare dei sentimenti, fa il duro ma ama e ha amato tanto.
Non ha difese in questo e non vuole averle.
Caroline sì, almeno adesso.
E’ fragile ancora e non sa fino a che punto può lasciarsi andare, fino a dove poter arrivare prima di ferirsi di nuovo. Eppure i suoi occhi brillano, hanno quella luce del mattino che pian piano si insinua in tutta la stanza, se lasci una tenda socchiusa.
Lei non lo sa, è convinta di non potere e volere più niente, ma quel piccolo riflesso sta già diffondendosi nel suo cielo blu.
Lo vedo chiaramente, anche in questo momento che siamo sedute su questa panchina grigia, davanti all’enorme spiaggia di Venice Beach, all’ombra di un’enorme palma, per far sì che lei riprendesse quel po’ di fiato ancora debole.
I boccoli scompigliati dal vento, il petto che si alza e si abbassa per respirare, le guance leggermente rosate e gli occhi che luccicano, mentre invece prova a concentrarsi su di me.
Non le dico, né le chiedo niente, perché so come reagirebbe, so com’è fatta.
E’ della stessa sostanza con cui è fatto il suo amico. Scapperebbe se si sentisse scoperta. Minimizzerebbe e si chiuderebbe a riccio. Cercherebbe di apparire più dura e fredda di quello che è, per questo devo prenderla in contropiede, metterla all’angolo quando le cose saranno talmente evidenti da non permetterle di costruire scuse o razionalizzare.
Avrebbe troppa paura della sua parte oscura, dei suoi istinti e li caccerebbe via, fino ad anestetizzarli completamente, perciò non è ancora il momento.
Tutto questo però, aggiunto al mio stato d’animo e al mio viso per niente riposato e sorridente, ci ha messo me con le spalle al muro, costringendomi a vuotare un po’ quell’enorme sacco che continuavo a portare segretamente sulle spalle.
Le racconto di quanto fossi felice prima di essere mandata di nuovo via e di quanto mi sia sentita ferita mentre lo pregavo di fare altrettanto.
Le mostro il mio cuore rotto, cerca che lei possa aiutarmi a rattopparlo.
 
«Senti, io sono la tua migliore amica e anche la sua, non mi schiererei mai, né vorrei influenzare nessuno dei due, ma… sei sicura che sia questo ciò che vuoi?»
 
Me lo chiede con quei suoi grandi occhi supplicanti, da cagnolino che implora una briciola di pane e io contraccambio con i miei che la ammoniscono e le chiedono pietà.
 
«Damon è un codardo, agisce di pancia e non pensa alle conseguenze. E più tiene a qualcuno più lo allontana per paura di fargli male, ottenendo esattamente questo risultato.»
 
Si ferma un attimo, come a raccogliere le idee e trovare le parole giuste per farmi luce e accogliere comunque il mio dolore.
 
«E’ assolutamente comprensibile che tu abbia delle riserve su questo e che non lo accetti. Non devi farlo, non sarebbe giusto per nessuno dei due..»
 
Si sistema le pieghe della gonna blu che le svolazza scoprendole le gambe e torna a fissarmi con occhi imploranti.
 
«Ma, io non l’ho mai visto così e non ho mai visto così neanche te. Non arrenderti Elena, tu sei l’unica persona al mondo che l’abbia spinto fino a questo punto, non si è mai lasciato andare così, non ha mai…»
 
Non posso più ascoltare.
Alzo una mano rivolgendole il palmo, le blocco le parole, le tolgo quello sguardo dagli occhi, la lascio in silenzio per qualche istante.
Ogni sua parola mi scava dentro, mi chiude lo stomaco, perché lo so che è così.
So che nessun’altra è mai stata in grado di entrargli così dentro la pelle, di metterlo così tanto in discussione, di farlo sentire amato senza neanche aver bisogno di sentirselo dire, lo so perché è la stessa cosa che lui ha fatto con me. E non ho paura di ammetterlo, non ho timore di essere il suo mondo, di essere tutta la sua vita.
Ci siamo lasciati liberi di crescere, ci siamo regalati ossigeno senza soffocarci, siamo stati l’uno il confine dell’altro, abbiamo scalato montagne per rendere il nostro un amore possibile, ci siamo aspettati per così tanto tempo.. ed è proprio perché so tutto questo che mi fa male ancora di più, non mi capacito di come sia possibile allora cedere ancora all’istinto, alle paure e perché dovrei essere io quella che lo rincorre e trova un modo per gestire entrambi.
 
«Scusa. Mi sto schierando e ti sto influenzando.»
 
Lo capisce dal mio sguardo, perso nel vuoto, dalla mia mano, ancora a mezz’aria, dal mio silenzio, pieno e chiassoso, che non può chiedermi questo, non adesso, non dopo tutto quello che ho fatto.
 
«Io smuoverei le montagne per Damon, Caroline. Quando sono con lui mi sento.. imprevedibile.. come se fossi libera. Ma mi spaventa questo suo lato, ho paura di ciò che potrebbe fare, soprattutto per proteggere me. E non voglio dover mettere da parte me, il mio dolore, perché lui non riesce a lasciarsi amare..»
 
Caroline stringe la mia mano, quella che le avevo alzato contro e avevo poi abbassato, per nasconderla nell’altra, stringe forte e annuisce piano, sento i suoi occhi addosso, che cercano i miei, fissi su questo mare di fronte a me che mi attrae e mi respinge con la stessa intensità.
 
«Sarò con te. Qualunque sia la tua decisione.»
 
Non dice più niente.
Continua a stringere la mia mano, cercando, in questo mare davanti a noi, appigli e risposte che nessuna delle due vede arrivare.
 
Si può insegnare a sentirsi amati?
 
O davvero ognuno accetta l’amore che crede di meritare?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
…potessi trattenere il fiato prima di parlare,
avessi le parole quelle giuste per poterti raccontare
qualcosa che di me poi non somigli a te…
 
…potessi trattenere il fiato prima di pensare,
avessi le parole quelle grandi
per poterti circondare
di quello che di me
bellezza in fondo poi non è…
 
…potresti raccontarmi un gusto nuovo per mangiare giorni
avresti la certezza che di me in fondo poi ti vuoi fidare.
Quel posto che non c'è
ha ingoiato tutti tranne me.
 
(Quel posto che non c’è _ Negramaro)
 
 
 
 
 
 
 
***************************

Sono tornata!
In un mega mostruoso ritardo... ma ci sono!
E sono anche estremamente sollevata per questo capitolo.. perché - non so come - era andato COMPLETAMENTE perso!!! Dopo il panico e la disperazione iniziale sono invece riuscita a ritrovarlo nei meandri della memoria tecnologica.. ed eccolo finalmente qui!
Non succede molto e in realtà questo e il prossimo capitolo sono nati insieme, ma per non rendere questo troppo lungo, li ho divisi per farvi 'godere' meglio il finale....
Stefan sa finalmente tutto! E mi piaceva riprendere un momento tra loro due, che abbiamo anche già visto dal vivo! ;-)
Anche Caroline sa e spinge, suo malgrado, verso l'happy ending..
Vedremo...

Senza aggiungere altro, spero che la vostra estate - se mai ci sia stata un'estate! - sia andata meravigliosamente e spero di ritrovarvi ancora qui..
Risponderò ad ogni commento precedente giuro! Ve lo devo e ve lo meritate davvero.. perché se sono arrivata qui è esclusivamente merito vostro.. GRAZIE.

Un bacio grande,
Ale

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20° ***


 
 
“Sarebbe bello… che almeno una volta, almeno ogni tanto, in questo dannatissimo mondo, qualcuno che cerca qualcosa avesse in sorte di trovarla, così, semplicemente, e dicesse l’ho trovata, con un lievissimo sorriso, l’avevo persa e l’ho trovata – sarebbe poi un niente la felicità.”
 
(Castelli di rabbia _ Baricco)
 
 
 
 
 
 
Elena
 
«Signorina Gilbert, questo non è un giornale scolastico. Qui scriviamo articoli che potenzialmente potrebbe leggere il presidente degli Stati Uniti D’America, nonché l’intero pianeta terra. Lo capisce che errori grammaticali, di sintassi o ipotesi supportate dal niente, non sono tollerabili?»
 
Ero passata al lavoro con il solo scopo di raccogliere dei documenti che mi sarebbero serviti per il prossimo articolo. Mi ero alzata presto, ero andata a correre e prima di andare a lezione di yoga, con ancora la tuta addosso, le scarpe da ginnastica e i capelli raccolti in una coda ormai completamente spettinata, avevo fatto una piccola deviazione. Volevo entrare, prendere quello che mi occorreva e scappare via, con la speranza di essere il più trasparente possibile, quello che di certo non mi aspettavo era di imbattermi, letteralmente, contro il mio capo, che non tanto gentilmente, mi ha invitato ad accomodarmi nel suo studio.
E’ da quel momento che sono calata in un silenzio umiliante, con tanto di testa bassa e mani che si torturano a vicenda sotto la sua scrivania.
Me lo merito, mi merito tutto il suo disappunto.
 
«Ha ragione. Mi dispiace molto signor Farwell..»
 
Non so cos’altro dire, non ci provo neanche a giustificarmi, a spiegargli come sono andate le cose, non cerco neppure di rivendicare il mio diritto a compiere errori e al suo dovere di controllare ciò che viene pubblicato nel suo giornale.
Sto zitta e basta.
Dopotutto che dovrei dirgli?
Dovrei raccontargli che quell’ultimo articolo è stato un lavoro svolto in fretta e furia? Che la mia vita ultimamente sta andando a rotoli, proprio adesso che pensavo potesse andare finalmente come sognavo?
Dovrei dirglielo che sono trascorsi altri due giorni senza che Damon si sia fatto sentire, mi cercasse, provasse a recuperare qualcosa? Che sentisse la mia mancanza?
 
Due giorni, due lunghissimi giorni.
 
Dentro i quali, l’unica cosa che ho ottenuto è silenzio e frustrazione.
Perché cavolo mica ci voleva un genio per capire che stavo soffrendo quando gli ho chiesto di andare via, che mi aveva ferita ancora e volevo solamente che lui tornasse da me, perché ne valevo la pena.
Non volevo punirlo o non vederlo mai più, volevo tempo e volevo darlo anche a lui.
Invece dovevo aspettarmelo, lui è troppo orgoglioso per tornare, è troppo impaurito per ammettere di aver sabotato le cose e avermi spinta esattamente dove voleva lui.
Troppo istintivo per essere almeno un minimo lungimirante.
E non c’entra l’ennesima litigata con i suoi o la gelosia per una telefonata di un uomo, che poi alla fine voleva davvero semplicemente scusarsi, c’entra lui e l’amore che gli fa paura perfino pensare di meritare.
Io la conosco quell’ansia che ti stringe lo stomaco, che ti fa minimizzare e allontanarti per non farti cogliere alla sprovvista quando quella felicità svanirà in un secondo, la comprendo, e se solo lui mi desse un segno, azzardasse un gesto, mi inondasse con uno solo dei suoi sguardi pieni di me e di quell’amore che ormai gli scivola via da ogni parte, io sarei pronta a scacciarla via. Mi servirebbe una sola di queste cose per continuare a lottare per noi, per tutti e due.
Eppure in questo momento, tra le mie mani che si stringono e le unghie che si conficcano nella pelle, ho l’assoluto niente.
E stavolta non mi basta più.
Voglio di più, voglio di più per me.
Volevo lui per me e ce l’avevo, abbiamo lottato con le unghie e con i denti per arrivare fin qui, ma ancora non riusciamo a tenerci.
Se lui fosse un po’ meno orgoglioso, un po’ meno impulsivo, un po’ meno…
 
Un po’ meno cosa?
 
Se lui fosse anche solo un briciolo un po’ meno qualcosa, non me ne sarei innamorata così tanto, così prepotentemente, così disperatamente.
Perciò no, non ho nessun diritto di lamentarmi o difendermi, di sperare che le persone siano come le vorrei solo perché mi spaventa l’imprevedibilità.
Non sono più una ragazzina che ha bisogno di rivalse o di essere protetta, sono una donna a cui gli errori non spaventano più, che ha accettato la sua imperfezione e anche quella degli altri.
Sono una donna che ha imparato a scegliere le battaglie per cui lottare.
 
«Non succederà più glielo assicuro.»
«Signorina Gilbert le ricordo che lei è ancora nel periodo di prova, sono stato io a volerla per collaborare con noi, proprio perché durante il suo percorso universitario ha realizzato articoli e ricerche interessanti.»
 
Fa una pausa, si riposiziona davanti gli occhi gli occhiali che gli erano scivolati sul naso, mi guarda di traverso da dietro di essi e si accarezza i folti baffi sopra le labbra con la stessa mano.
Io ricambio il suo sguardo, un po’ timorosa e un po’ fiduciosa nel poter ottenere una seconda possibilità.
 
«Le garantisco che ho mandato via persone estremamente in gamba per molto meno, perciò spero vivamente che non si ripeta nulla del genere, altrimenti potrà considerarsi libera di tornare ai suoi giornaletti scolastici.»
 
La sua arroganza e la strafottenza con cui pronuncia queste parole mi fanno rabbrividire e gelare il sangue, vorrei alzarmi, scaraventargli addosso questa scrivania intrisa di fogli e ritagli di giornale, sbattere la porta e andare via per non tornare mai più.
Vorrei, invece abbasso gli occhi, annuisco mestamente e ricordo a me stessa che ho bisogno di questo lavoro e che la responsabilità di quell’articolo scritto superficialmente è solo mia.
Non del tempo che non ho avuto, non di Damon che non si è più fatto sentire, mia, mia e di nessun altro. Perciò non darò la colpa a niente e nessuno, non mi infurierò scaricando la mia rabbia ed impotenza addosso a persone innocenti, non farò… come lui.
 
«La terrò d’occhio Gilbert, un altro passo falso ed è fuori.»
 
Come se tutta l’ansia che fin’ora mi ha messo addosso non fosse abbastanza, decide di aggiungerne altra, ricordandomi che non posso più permettermi errori e questo, lo ammetto, mi paralizza e un po’ ritorna a smuovere quella sensazione di perfezione che dovrei al mondo.
Quell’immagine di ragazzina impeccabile che mi ero tolta, che Damon era riuscito a farmi dimenticare, a sporcare, rendendomi ciò che sono, semplicemente umana.
Ed è qui, mentre stringo la mano del mio capo e lascio il suo ufficio per tornare a casa, che come un uragano torna a farsi sentire il bisogno che ho di lui, la mancanza che non riesco a colmare con niente, e mi investe in pieno, senza nessuna possibilità di fuga.
E un po’ lo odio per questo, per ciò che mi ha fatto diventare, per il muro dentro di lui che pensavo di aver scalfito ed invece me lo ritrovo sempre più alto e impenetrabile, per la mano che non gli riesco a tenere, e un po’ invece lo amo per le sensazioni che mi fa provare, per i pezzi di me che non sapevo neanche di possedere, per l’amore reale che mi ha fatto provare, per quegli argini che ha imparato a costruire solo per non farmi affogare.
Per l’amore che non si sceglie.
Non si sceglie chi amare, non si decide di amare qualcuno perché ti fa sentire al sicuro, perché ti da l’immagine che si aspetta il mondo. Non si ama la scelta giusta, quella che sei costretto a prendere. Non si può, non si può se si sceglie di essere autentici. Di seguire i propri istinti.
E Damon mi hai resa viva ad ogni costo, mi ha fatto sentire tutto, mi ha svegliata dal mio niente e fa male.
 
Dio se fa male Damon vivere come fai tu.
 
Io ero così sicura di ciò che volevo dalla vita, di ciò che cercavo, vivevo nell’illusione di dover essere adatta, invece lui mi hai resa giusta.
Perciò adesso non lo so come si fa a rimettermi insieme da sola, a sopravvivere dopo uno come lui, non lo so com’è il mondo senza di lui dentro di me, dentro la testa, dentro le ossa, dentro il cuore, sotto la pelle.
Non lo sa, lui, com’è pensare al mio futuro e trovarcelo costantemente dentro.
Ma dovrò scoprirlo come si vive senza di lui, che odore hanno gli altri intorno a me.
Perché lui non c’è e io non riesco nemmeno ad odiarlo.
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Dopo quest’ultima firma i giochi saranno conclusi.
Ormai non posso più tirarmi indietro, non posso rimangiarmi la parola con Andie, né posso fare la figura del coglione che non sa scegliere cosa sia giusto o sbagliato per se stesso e si lascia influenzare da chiunque esprima la propria opinione intorno a lui.
Ormai ho preso un impegno e non intendo tirarmi indietro.
Mi padre può fare ciò che vuole, per quanto mi riguarda può lasciarmi da solo a gestire l’intera faccenda della denuncia, non ho più paura, sono pulito e so di essere in parte coperto dal buon nome che mi sono fatto tra tutti i miei clienti e in tutti questi anni. Mia madre invece, beh, lei ha già scelto da che parte stare, è troppa pancia per poter essere un minimo lucida e lungimirante, in questo è troppo come me, come il me che ero prima. Il problema è che lei non si è sforzata di cambiare, non ha lottato per qualcuno, con qualcuno, si è semplicemente ripresa la vita che voleva da ragazzina, eliminando gli errori di percorso.
Vorrebbe per me la vita perfetta che immaginava per lei, così da non avere sotto gli occhi quanto uno sbaglio possa macchiarti la coscienza e non pulirsi mai più.
Che vadano al diavolo.
Che vadano al diavolo tutti. Pure io e le mie smanie di essere un uomo libero ed indipendente. Tanto non lo sono più, non lo sono più da quando Elena mi ha sporcato l’anima.
Che si fotta anche tutto il mio orgoglio, sono un uomo che ama adesso, senza più barare o scappare via e anche questo, anche il voler restare dentro l’agenzia che ho costruito, continuando ad occuparmene semplicemente con qualche limite in più, lo faccio per lei.
E spero che basti, spero che tutti i miei sforzi possano essere utili per farmi perdonare, per farla tornare da me, nonostante me.
Eppure è trascorso un altro giorno e di lei non ho ancora nessuna traccia.
La mia lucidità e la pazienza che non pensavo mi appartenesse, stanno per essere clamorosamente surclassate dalla brama che ho di lei e dalla frenesia di andarmela a riprendere.
Sto finendo le scuse per non fare la cosa sbagliata che ho promesso di fare perfino a Stefan.
E so che se non la farò, avrò una schiera di persone pronte ad impalarmi senza pietà prima ancora che riesca ad aprire bocca.
Forse è per questo che sto fremendo dalla voglia di andare da lei, fregandomene dei paletti che ora ha fissato e della visita di Andie che, con questi ultimi documenti da firmare, è solamente un impedimento in più, al quale tutto sommato mi aggrappo per avere un’ultima illusoria distrazione.
 
«Credo di aver esagerato a presentarmi a casa tua.. qualcuno potrebbe equivocare.»
 
Andie è seduta accanto a me, sul mio divano, sta riordinando l’atto di vendita e lo sta riponendo nella sua cartellina. Cambia espressione mentre parla, si spoglia dai panni professionali e torna l’amica che è sempre stata.
 
«Nessun problema. Mi piacciono le donne che sanno cosa vogliono.»
 
Le rifilo uno dei miei soliti sorrisetti furbi e ammiccanti, tanto per non perdere l’abitudine di abbordare donne dal fascino inequivocabile e per sentirmi ancora un po’ l’uomo libero e senza limiti che non sono già più.
Andie contraccambia il mio sguardo e il mio sorriso stando al gioco e ringraziandomi con un cenno della testa, poi si siede sul mio divano e accavalla le lunghe gambe che sbucano da sotto la gonna del suo immancabile tailleur.
 
«Invece tu cosa vuoi signor alto bruno e bello? Oltre alla mia ormai agenzia?»
«Non sono così alto e la tua agenzia è decisamente un colpo basso.»
 
Andie alza entrambe le mani davanti al petto in segno di resa e accompagna il gesto inclinando la testa, porgendo delle scuse che mi fanno scuotere la testa e passarmi una mano tra i capelli.
Sfinito e senza scampo, cerco un time out almeno per cinque minuti.
 
«Mi serve una distrazione.»
«Puoi chiamarmi per fare sesso ogni volta che vuoi.»
 
Mi scappa una risata a cuore aperto per la libertà e la disinibizione che finora avevo conosciuto solo in me, ma che invece appartiene anche a lei e continua a spiazzarmi. Mi è sempre piaciuto questo suo aspetto, questo essere donna e sapersi prendere ciò che desidera, in tutti i sensi e in tutti i modi.
Mi sarei potuto innamorare di una come lei, di una in fondo come me, mi sono sempre chiesto perché il nostro rapporto andasse bene così ad entrambi e forse la risposta è proprio nel nostro essere così tanto uguali in alcune parti, in quelle parti che però non si incastrano.
O forse sono le mie che non si incastrano con le sue.
 
«Sto scherzando Damon. Avanti, raccontami. Cosa c’è che non va? E non dirmi questo lavoro o i tuoi, perché so che non è così.»
«Sono innamorato di una donna che mi sta facendo impazzire.»
 
Avevo aperto la bocca per dare la colpa al karma o allo stupido universo, invece la mia coscienza ha deciso di lasciarsi sfuggire una verità che ora non posso più nascondere. Lo dico così, in una confessione con gli occhi bassi e la voce stanca, lascio che le parole mi scivolino via senza riflettere, senza pensare alle conseguenze.
 
«Lo sapevo..»
 
La vedo dal respiro che le muore in bocca che vorrebbe aggiungere qualcosa, eppure non lo fa, manda giù il fiato e scaccia via i pensieri, il suo sguardo basso e vagante torna su di me, si riappropria della donna che è, forte e al riparo dalle emozioni. Mi studia per un attimo, insicura su quanto terreno possa guadagnare, prima che io la fermi.
 
«Allora, perché ti sta facendo impazzire?»
«Perché la amo e quando sono insieme a lei perdo il controllo.»
 
Mi sembra così semplice ora ammettere queste cose, che non capisco cosa ci faccia io ancora qui.
 
«Non ti fidi di te quando si tratta di lei?»
«Non mi fido di me quando si tratta di chiunque, Andie.»
 
Mi lascio scivolare sullo schienale del divano, accavallando le gambe e torturandomi i capelli con una mano che si impiglia tra di essi, fin dentro i pensieri.
Mi sento incastrato, in desideri che non sono miei, in istinti che sto ancora imparando e non riesco a controllare.
Vecchio e nuovo si scontrano, si mescolano ma non legano.
La parte di me che continua a fare cazzate traballa e si incrina ma forse non mollerà mai del tutto.
 
«Faccio cose che feriscono Andie. Mi lascio sopraffare dall’istinto, amo in modo egoista, o forse sono egoista e basta, senza capacità amatorie! È nella mia natura. E’ ciò che sono. Ma poi devo controllarmi per proteggere lei e perché lei vede cose in me,  che io non so dove siano. Mi spinge ad essere migliore, il che significa che devo cambiare ciò che sono. Lo capisci qual è il problema Andie?»
 
Lei mi guarda con uno sguardo che giurerei sia intriso di pena, da quando in qua sia diventato un cane abbandonato che implora briciole dai passanti, non ne ho la più pallida idea. Forse ero troppo occupato a sentirmi stretto nel letto del mio fiume, per rendermi conto di aver perso la strada anche di quello.
 
«Beh forse questo è quello che sei ora.»
 
Diretto ed inespugnabile il suo tono, il suo sguardo, il suo corpo che si protrae verso di me, i capelli che le scendono di lato, accompagnando il suo viso che si inclina e incorniciando l’accenno di sorriso che si irradia sul suo viso.
 
«Solo l’amore ci cambia Damon. Solo l’amore
 
E poi mi guarda con quello sguardo che invece riconosco, pieno ed intenso, complice e amico, fatto di intimità condivise e giochi sotto il tavolo, dove nessuno può vedere, che però buca lo stomaco perché riscopre un vuoto che dovrebbe occupare Elena.
 
«L’amore è un sentimento sopravvalutato.»
 
Quel tono ironico che provo a far uscire fa sorridere sia me che lei, perché non ci crede nessuno, non inganna nemmeno quella parte egoista che mi ostino a tirare fuori come scudo, che continua a non voler meritare niente.
Non ho più scelta, non lo so quand’è l’istante esatto in cui mi sono innamorato di lei, il cui lei è diventata l’ago della mia bilancia, fatto sta che è il suo pensiero a muovere le mie azioni, perfino quelle più egoistiche.
E’ lei che mi spinge ad essere migliore, lei che mi da il senso della mia stessa realtà, che mi fa decidere cosa sia giusto e cosa sbagliato.
Se non mi lascio andare al buio, se non mi lascio trascinare dalla marea, è solo perché so che lei non lo vorrebbe, che a lei farebbe troppo male.
Come se il merito di questo amore fosse il suo e di nessun altro.
Non lo so cosa lei veda in me, non lo capisco perché lotti così disperatamente per tenermi, mi fa paura.
Perché ne ho bisogno.
Perché non riesco a sentirmi all’altezza.
In qualunque caso, ormai, sono decisamente sotto il suo controllo.
Le lunghe gambe scoperte di Andie che mi passano davanti gli occhi, mi distraggono decisamente dalle mie considerazioni su quanto mi sia rammollito, ma il soffermarmi più del dovuto su queste, mi da per lo meno la sensazione di non essere del tutto irrecuperabile.
Mi alzo anch’io, seguo i suoi passi mentre raccoglie le sue cose e, sfilandomi davanti, si avvicina alla porta per tornare al suo lavoro.
Quando mi rendo conto che sta per andarsene, che nel momento in cui uscirà da questa casa tornerà ad essere la professionista che non è mai riuscita ad essere con me, che indosserà i panni della mia responsabile e non potrò più chiederle nulla, non posso lasciarmi sfuggire la possibilità di avere una conferma che forse, la parte narcisista di me, conosce già.
 
«Perché mi hai chiesto di restare a lavorare in agenzia?»
 
Non ho bisogno che lei mi risponda per capirlo.
E’ solo quando la mia domanda prende corpo che riesco a coglierne la risposta, a leggerci tutto ciò che lei non è mai stata in grado di dirmi.
Andie respira forte e mi guarda con uno sguardo che non le ho mai visto, uno di quegli sguardi che ti riscaldano e che ho conosciuto solamente negli occhi di Elena. In quegli occhi che regalano amore senza il bisogno di avere nulla in cambio.
Mi sorride amara, consapevole che non sia necessario rispondermi davvero e io sento una fitta in quello che giurerei sia un cuore, un cuore ormai spappolato e senza alcuna possibilità di redenzione.
Non me lo dice, non mi dice niente di ciò che le leggo dentro, mi infilo negli intarsi dei suoi occhi cioccolato e resto lì, fermo a ringraziare, sotto il peso di una scelta che ho influenzato io e di cui ora mi sento colpevole.
Lentamente, mi avvicino, lei socchiude gli occhi e io le lascio un ultimo piccolo bacio sfiorandole la guancia, proprio in quell’istante, Andie decide di voltare appena il viso e mi ritrovo a coprire un angolo della sua bocca.
Sento il suo sorriso che piano si allarga acquistando porzioni di pelle e di labbra.
Se me lo avessero raccontato qualche mese fa, se mi avessero detto che avrei rifiutato una donna mozzafiato, forte, intraprendente, una delle poche persone di cui mi fido professionalmente e che per giunta temo, mi sarei fatto una grande e grossa risata.
Gli avrei dato dell’idiota e l’avrei ignorato, come si fa con questo tipo di gente.
Adesso invece, mentre mi tiro indietro, mentre allontano la mia bocca dalla sua pelle, sono io il primo a rendermi conto che, invece, è la scelta più giusta che possa mai fare.
La sola ed unica possibile.
Per questo arretro di un passo, scivolo via la mano che era salita tra i suoi capelli, soffio fuori l’ultimo fiato che un po’ mi si era incastrato in gola e la vedo. Ferma e con un piede ancora indeciso se salire l’ultimo gradino o scenderli tutti insieme.
 
Elena è qui.
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Mai, mai avrei potuto immaginare che me la facesse pagare in questo modo.
Mai avrei creduto che si odiasse fino a questo punto.
Mai, mai e poi mai avrei pensato che venire qui, solo perché il bisogno di lui era più forte di ogni scelta sbagliata, unicamente per cercare una via d’uscita insieme, fosse un ennesimo errore di cui pentircene.
Invece tutte le risposte che volevo, tutte le decisioni che dovevo ancora prendere, ora le ho trovate, adesso le ho prese.
Mi basta questo, questo bacio, questo contatto sporco e vigliacco, per arrendermi all’evidenza di un uomo che continua a non voler scendere a compromessi, di un uomo che quando ama, ama in modo assoluto e con la stessa intensità ti può distruggere. 
Come se non bastasse il male che ci siamo già fatti.
Come se il limite si spostasse sempre un po’ più in là.
Come se volesse spremere fino all’ultima goccia l’amore che chiunque prova per lui e non riesce ad assaporare. Fino a non farne restare niente.
Ed è come se non avessi davvero più niente, non sentissi più niente, braccia, gambe, testa, cuore, amore, come se tutto il mio corpo non fosse più il mio.
Damon è immobile.
Continua a fissarmi, con gli occhi sgranati, disorientati, gli stessi che ho io e che sciolgono in lui l’illusione di non aver visto ciò che invece è appena accaduto.
Non dice una parola, non muove un muscolo, annuso la paura che ha di vedermi scappare via.
E io continuo a non riuscire a staccare gli occhi dai suoi, dimenticando tutto, anche il motivo per cui ero venuta qui.
Non riesco a capacitarmene.
Non posso credere di essermi sbagliata fino a questo punto.
 
«Elena… possiamo spiegarti
 
E non è la voce di Damon quella che mi arriva lontanissima ed ovattata.
Appartiene alla donna con cui, da sempre, la parte insicura di me si sentiva in competizione e in perenne svantaggio.
E’ lei che cerca di rimediare, di spiegare, di giustificare un gesto ingiustificabile.
Non ci riesco a spostare lo sguardo su di lei, non la voglio guardare quell’immagine perfetta che emana anche solo stando ferma.
Le mie mani si stringono ancora di più sulla cinghia della mia borsa e il mio corpo cerca una distanza di sicurezza da lei, da lui.
La punta del mio piede si sposta indietro, trovando quel gradino che avevo appena finito di salire e sul quale ero in bilico, solo a quel punto, solamente quando si rende conto che stavolta me ne sto andando senza possibilità di ritorno, Damon spezza l’immobilità nella quale anche lui era precipitato e fa un passo verso di me.
Ma più lui si avvicina più io indietreggio, uno, dieci, cento, mille passi, fino a dargli completamente le spalle, correre via, aprire il portone del palazzo e sentirlo sbattere con un tonfo rimbombante dietro di me.
Voglio andare via, voglio tornare a casa mia e restarci per il resto della mia vita.
Non mi interessa più niente, non voglio saperlo perché Andie era con lui, non mi importano le sue scuse, le sue spiegazioni, voglio solo essere lasciata in pace, voglio dimenticare tutto, perfino l’amore che ho per lui e non sentire più niente.
Perché adesso fa male, fa male dover provare questo dolore per il resto della mia vita.
Mi fa male, mi fa male e basta e stavolta non c’è nessuna via di fuga che possa alleviarlo.
Le lacrime che inondano i miei occhi mi offuscano la vista, attraverso la strada in fretta e furia e non la vedo neanche la macchina che inchioda rumorosamente e sbanda per non investirmi, ma la sento la sua mano che mi blocca un braccio, mi strattona tirandomi indietro e il suo petto che si scontra con la mia schiena per la forza con cui mi ha strattonata via.
 
«Vuoi farti ammazzare??»
 
Grida, è spaventato, nudo, esposto.
E io non gli do neanche il tempo di riprendere fiato, né do a me quello necessario per rendermi conto che mi è corso dietro, mi libero della sua presa, lo allontano e lo spingo via, con entrambe le mani.
Perché non lo voglio vedere. Non lo voglio ascoltare. Non voglio neanche che mi tocchi.
Se si è sentito in diritto di fare una cosa del genere dopo il modo in cui mi ha trattata, non ci deve neanche provare ad avvicinarsi ancora a me.
 
«Elena! Aspetta non è come pensi…»
«No! Non ci provare Damon! Non provare a dire niente!»
«Ascoltami.. io.. Andie mi stava solamente..»
 
Non ci riesce a fermare nessuna parola, è spaventato e disorientato quanto me, le mie lacrime continuano a scorrere e si mescolano con la mia rabbia che lo atterrisce e che raccoglie facendosi scudo con il corpo, non indietreggia, non si ritrae, è completamente in balia di me.
 
«Tu la stavi baciando!»
 
Glielo urlo addosso, sperando che la mia voce copra i battiti del mio cuore, letteralmente a pezzi e fuori controllo.
 
«Tecnicamente, è lei che ha baciato me.»
 
Lo schiaffo che gli arriva mi brucia la pelle e gli fa voltare la testa, senza avere neanche la possibilità di rendersene conto.
Sento solo il suo respiro che si blocca e il mio che invece accelera.
La sua aria fintamente spavalda dura il tempo di un secondo, quando l’azzurro prepotente dei suoi occhi si sgrana dentro i miei, ha già lasciato il posto allo smarrimento e alla colpa.
Ci fissiamo senza dire una sola parola, io con ancora la mano a mezz’aria, lui fermo, immobile, non ci prova neanche a massaggiarsi la guancia.
Stringe i pugni e serra la mascella, lasciando che il rossore che le mie dita hanno lasciato su di lui resti allo scoperto.
E’ la seconda volta che lo faccio, la seconda volta che i miei sentimenti si scontrano con i suoi e con l’ironia con cui continua a non prendersi la responsabilità di nulla.
Non avrei mai voluto questo, è il senso di colpa che si mischia alla rabbia quello che mi fa allontanare da lui, attraversare la strada e raggiungere la mia macchina parcheggiata, ma lui rincorre i miei passi e incurante di tutto, mi blocca, afferrandomi per un polso.
 
«Non è successo niente.. lo sai Elena, sai che non ho fatto niente! Sai che non ti farei mai questo!»
 
Lo so.
 
Lo so, lo capisco dal modo sincero e terrorizzato con cui calca le parole che pronuncia, lo vedo nei suoi occhi che mi sfidano, lo sento dal mio cuore che sbatte all’impazzata contro le mie costole e vorrebbe esplodere ma sono troppo ferita per calmarmi, per razionalizzare qualunque cosa. E il suo non capirne il motivo mi fa infuriare ancora di più.
 
«Certo che lo so! E lo sai perché? Perché mi fido di te, nonostante te!»
 
Lo sento tentennare, vacillare, sento il terreno sotto i suoi piedi che trema e lo sento perché sono sulla sua stessa traiettoria, ma mentre il suo sta per crollare, il mio sta per esplodere.
La mia rabbia non ce la fa più a restarmi dentro, quello che provo ci sta per scoppiare addosso.
E più lui alza la voce più devo urlare per farglielo sentire cosa provo dentro.
Se lui vuole tapparsi occhi e orecchie, se ancora vuole illudersi di essere lo stronzo che non merita niente, o l’egoista che tanto decanta, io non ne posso più.
Io l’ho visto chi è Damon Salvatore, l’ho sentito quel cuore che batte dentro le sue paure, l’ho stretto tra le mani, ce l’ho addosso e mi rifiuto di pensare di nasconderci ancora per non farci del male.
 
«E’ per questo? Sei arrabbiata con me perché io invece non mi sono fidato di te?»
«Sono arrabbiata con te perché ti amo stupido idiota!»
«Bè forse è questo il problema..»
 
Per un istante, per un lunghissimo istante nessuno dei due respira più.
Il mio cuore si ferma.
Il mio corpo si congela.
I miei occhi si sgranano dentro i suoi che, appena mi vomita addosso le sue parole dopo la mia confessione, capisce di aver fatto uno sbaglio madornale.
Capisce che non era quello che è arrivato a me, il senso delle sue parole.
Apre la bocca ma non riesce a dargli fiato, è muto ed immobile.
Io paralizzata e senza respiro.
Siamo sconvolti entrambi per questa eruzione che non ce la faceva più ad aspettare, che premeva da tutte la parti per uscire fuori.
E’ la prima volta in tutta la mia vita che lo dico, che provo qualcosa di così forte, puro, limpido, viscerale per qualcuno. Ma non faccio neanche in tempo a metabolizzarlo perché Damon me ne fa pagare subito le conseguenze.
 
«No io.. non intendevo questo..»
 
Cerca di alzare una mano, di dire qualcosa, di sfiorarmi, di riprendermi.
Ma non sa come fare, la distanza che si è alzata come un muro invalicabile fa tremare lui e congelare me.
E lo so che non è ciò che intendeva, lo so, altrimenti saremmo due pazzi qui in mezzo alla strada che si urlano addosso senza ragione, invece siamo reali, tutto questo è reale, anche l’amore e il rifiuto che nonostante tutto adesso sento scorrermi nelle vene.
 
«Elena…»
 
Io non gli ho mai chiesto niente che non voleva, mi sono fatta piccola per restare in sua adorazione e guardarlo dal mio angolo di privilegio. L’ho amato silenziosamente, anche quando non voleva, gli ho affidato il mio cuore senza che facesse nulla per possederlo, gli ho consegnato tutta me, lentamente, un pezzetto dopo l’altro per non fargliene sentire il peso e lui mi hai raccolta, non avvertendomi che per custodirmi si sarebbe fatto male anche da solo.
L’ho amato anche quando avrei dovuto odiarlo, anche quando mi mandava via, lo amo perfino adesso.
Eppure lui ha buttato tutto all’aria, ha preso questo amore che gli ho sbattuto in faccia e lo ha distrutto, ha scelto per tutti e due e a me non resta altro che andarmene e scoprirlo da sola che odore ha il mondo senza di lui.
 
«Per favore aspetta..»
 
Non serve neanche che cerchi di trattenermi il polso mentre salgo in macchina, non serve che continui a chiamare il mio nome, a chiedermi di restare. Non serve che si trasformi nella persona insicura e dipendente che ero io accanto a lui. Solo perché non se lo aspettava, solo perché ora gli è franato il terreno da sotto i piedi e non sa a cosa aggrapparsi.
Solo perché ha bisogno di avere il controllo su tutto, perché ha paura di perdere il suo.
 
Stavolta è finita, è davvero finita.
 
 
 
 
 
 
 

Damon

 
Say Something..
 
 
Il sole è tramontato da più di due ore.
Il vento si è alzato leggermente e il calore che mi riscaldava fino a poco fa, è ormai completamente svanito.
Mi stringo un po’ di più in questa giacca di pelle e, per l’ennesima volta, cerco di sistemarmi meglio su questi gradini davanti al portone di Elena, sui quali sono seduto da non so più quante ore ormai.
Raccolgo le gambe, abbandono le braccia sopra le ginocchia, mi distraggo a scrutare un cielo buio, senza luna e senza nuvole.
Fin da quando ero un moccioso piagnucoloso, avevo assolutamente chiaro quale sarebbe stato il mio futuro. Ero totalmente certo che sarei restato da solo e me ne sarei andato in giro per il mondo per il resto della mia vita, ne ero sicuro da quando ho iniziato a capire come funzionavano certe cose. Non la volevo fare la fine dei miei genitori che litigavano chiusi in camera e si ignoravano poi per giorni, fingendo di amarsi profondamente davanti a me o di fronte a qualche loro amico.
Non l’ho mai sopportata la finzione.
Tanto più non avrei mai incolpato segretamente un figlio di tenere insieme due parti che non appartenevano alla stessa mela, né ne avrei messo al mondo un altro, solo per sforzarmi di farle combaciare.
L’apparenza l’ho sempre odiata e temuta.
Per questo ho preferito vestire i panni dello stronzo egoista che professa la verità, nuda e cruda.
Ma in tutto questo mio geniale piano, dentro tutte queste mie ferme convinzioni, ho fatto dei piccoli errori di percorso.
 
I miei sbagli sono i miei amici.
Il mio ostacolo più grande si chiama Elena Gilbert.
 
Perché lei, soprattutto lei, non lo sa com’è sapere di essere la scelta sbagliata, essere quello che non si sceglierebbe mai, l’egoista, quello che ti farà del male, non lo immagina com’è doversi confrontare costantemente con l’immagine che tutti hanno di te, e che hai finito per avere anche tu. Non sa com’è vivere con questo senso di colpa e sapere di essere amato nonostante tutto.
Non lo sa che mi fa paura guardare ciò che sono diventato.
Non lo sa com’è ascoltare un ‘ti amo’ urlato in quel modo e poi vederselo sgretolare tra le mani perché tu sei quello che distrugge sempre tutto.
Perché hai paura, perché non vuoi esserne responsabile, perché non ci pensi neanche che possa averlo detto davvero, che possa averlo detto davvero a te.
Perché hai alle spalle una montagna di errori e non sai come smettere.
E’ come aver iniziato a togliere pezzi fondamentali da un castello fatto di carte, cerchi di addrizzare gli altri pezzi, di spostarli un po’ per renderlo stabile, eppure dovunque tiri, dovunque tocchi, c’è una parte che piano piano cede, fino a che non hai più mani né più carte per tenerlo su. E allora sei nudo, vedi i tuoi errori, li vedi chiari, vedi perfettamente quali erano le carte che non dovevi togliere ma l’hai fatto ed è crollato tutto.
In un attimo.
Un altro pezzo e non hai più niente.
Per questo adesso sono qui.
A chiedere nuove carte, nuove mani, nuovi castelli.
Ad aspettare il suo ritorno.
Ad implorare il suo aiuto.
A riprendermi il suo amore, perché senza non sono più niente.
Ora lo so cosa si sente, quando qualcuno vede tutto il buio che c’è in te e nonostante tutto continua a sceglierti. Continua a tornare da te, anche se l’hai ferita a morte, anche se ti ha chiesto di andare via.
Anche quando ti ama pure se non vuoi, anche se sei faticoso, anche se glielo rinfacci.
Anche se ne hai disperatamente bisogno.
Il problema sono io, è il suo amore e tutto quello che c’è in mezzo.
Ed è masochista, contorto, paradossale, ma non c’è nessun altro posto al mondo in cui vorrei essere. Come la notte in cui l’ho tenuta stretta tra le braccia dopo l’incidente di Caroline, come la sera in cui mi ha chiesto di fare l’amore con lei, con una passione e una dolcezza che mi hanno spiazzato e mi hanno mostrato tutto quello che c’era dentro.
Come ogni santo giorno che sento il suo respiro o vedo un suo sorriso e so di esserne responsabile.
E’ lei il mio posto nel mondo.
E non mi importa quanto tempo ci vorrà, se una notte, un giorno, un mese, un anno, non mi importa di sembrare un debole davanti a lei, non mi importa di tutte le paure e di tutto il mio dolore, resto qui e per una volta, per una sola volta in tutta la mia vita, me lo voglio meritare.
Me lo voglio meritare questo amore che non ho mai saputo gestire, che mi ha lanciato addosso, che le è esploso da dentro e che forse adesso non prova neanche più.
Voglio fare l’unica cosa giusta che abbia mai fatto.
Nonostante non sia pronto, nonostante non mi senta all’altezza, nonostante la pelle bruciata da quel ‘ti amo’ che se ne n’è andato prima ancora di poterlo sentire dentro, prima ancora di sapere che sapore avesse.
La allontanavo nel vano tentativo di tenerla al sicuro e diventare nel frattempo migliore, non volevo sporcare niente.
Incredibile come non avessi capito nulla.
Ironico come più la tenessi a distanza più lei si innamorasse di me.
Spaventoso quanto avessi bisogno della sua umanità per ritrovare la mia.
E’ ciò che ho sempre temuto, quello da cui sono sempre fuggito.
E se lei non mi vorrà davvero più, non potrò recriminarle niente.
Se lei crederà di essere più felice senza di me, la lascerò andare.
Lascerò a lei la scelta stavolta, perché voglio che ne sia responsabile.
Voglio che mi guardi negli occhi e mi dica che riuscirà a dimenticarmi, che sarà felice e si ricostruirà una vita senza di me, buttandosi fino in fondo, come ha fatto con me.
Voglio che cresca senza rimpianti, con tutto il coraggio che serve.
Voglio che sbagli, che si sbucci le ginocchia, che rida per la sue figuracce. Voglio che se ne freghi di chi la giudicherà, di chi le dirà che non va bene, che poteva fare di meglio.
Voglio che scelga, che non si scusi, che urli, che la graffi questa vita, prendendosi la parte che le spetta, quella che le è sempre mancata.
Voglio che non si accontenti e non ci creda alle persone che le diranno di dover accettare dei compromessi per poter vivere. Sono persone invidiose, è gente che si è arresa, che ha perso quello slancio e quella brama che invece lei ha sempre avuto dentro.
Ci doveva solo credere, doveva solo pensare che fosse possibile.
Voglio che se ne vada, che se ne vada anche da me se necessario, se ne ha bisogno per crescere, per diventare la donna che per me già è.
 
Non voglio essere il suo limite, voglio essere la sua scelta.
 
Voglio le sue urla se servono a svegliare me, voglio la verità piuttosto che una finta apparenza.
Voglio i denti, le unghie e anche i graffi sulla pelle.
Voglio gli errori Elena, le mancanze che poi si riempiono, voglio le tue risate che salgono dalla pancia e voglio pure le mie lacrime trattenute.
 

Voglio…

 
Voglio che tu chiuda gli occhi e ti senta invincibile perché ci sono a proteggerti.
Voglio che tu sia felice, con me.
E allora ama Elena, ama tanto, ama forte e non ti arrendere mai, non ti arrendere mai… con me.
Io farò di tutto per ricordartelo, per ricordarti ogni singolo momento insieme, ogni brandello di felicità che abbiamo vissuto.
Smuoverò il mondo per te.
Forse non riuscirò a restare, ma tornerò, tornerò sempre da te.
Anche adesso, anche mentre fuggo dal bisogno di scappare, anche mentre mi sistemo di nuovo su questi freddi e scomodissimi scalini e riconosco i suoi passi avvicinarsi, prima ancora che svolti l’angolo.
Sono tornato, sono corso da lei, da questo amore che è un problema perché chiede e io non so come dare, questo amore che pesa e non mi fa scappare via come ho sempre fatto.
E lei, come se mi avesse fiutato, se riconoscesse il mio odore, il mio bisogno di rubare ancora un po’ di tempo, rallenta il ticchettio dei suoi tacchi e la sento respirare prima di voltare l’angolo del palazzo e materializzarsi finalmente sul fondo di questa strada.
Nel buio, vedo solo la sua figura avvicinarsi lentamente e i suoi occhi freddi – ma vivi e sorpresi – scorrermi addosso.
Solo quando è a metà strada e riesce a mettermi a fuoco, come io faccio con lei, si blocca fissandomi come fossi uno sconosciuto, come se non mi riconoscesse più.
 
Muta ed immobile.
Piena e stanca.
Vera e lontana.
Confusa e sollevata.
Bellissima e ferita.
Ammaccata ed imperfetta.
Mi guarda e vedo tutto ciò che è diventata.
Mi guarda e vedo tutto ciò che lei mi ha fatto diventare.
 
Poi, lentissimamente, riabbassa lo sguardo, stringe appena la cinghia della sua borsa e riprende a camminare.
Si avvicina e non mi guarda.
Si avvicina e io la guardo.
La seguo mentre mi ignora e prova ad aggirarmi, passandomi accanto e schiacciandosi contro il muro del palazzo per poter salire i tre gradini e sorpassarmi.
La vedo frugare nella borsa in cerca presumibilmente delle chiavi e allora mi alzo e decido che sì, sono un’idiota, ho rovinato di nuovo tutto, ma sto rimediando.
Sono qui e stavolta non me ne andrò.
 
Ci sto provando Elena, giuro che ci sto provando.

 
 
Dì qualcosa, sto rinunciando a te.
Sarò la persona giusta, se mi vuoi.
Ovunque, ti avrei seguito..
Dì qualcosa, sto rinunciando a te.

E mi sto sentendo così piccolo…
E io inciamperò e cadrò,
sto ancora imparando ad amare
semplicemente iniziando a gattonare.

Dì qualcosa, sto rinunciando a te.
Mi dispiace di non essere riuscita ad arrivare a te..
Ovunque, ti avrei seguito..
Dì qualcosa, sto rinunciando a te.

E ingoierò il mio orgoglio,
tu sei la persona che io amo
e ti sto dicendo addio.

Dì qualcosa, sto rinunciando a te.
Mi dispiace di non essere riuscito ad arrivare a te..
Ovunque, ti avrei seguito.

Dì qualcosa, sto rinunciando a te..
Dì qualcosa.
 
 
(Say Something _ A Great Big World)
 
 
 
 
 
 

Elena

 
Non lo so cosa ci faccia qui.
Non lo so con quale coraggio si sia presentato sotto casa mia.
Non lo so e non mi interessa.
Non sento niente.
Non sento più niente.
Non so più chi sia questo uomo che mi sta davanti.
Volevo solo stare da sola, rimettere insieme tutti i miei pezzi rotti, passeggiare sul bagnasciuga fregandomene di tutto e tutti. Non volevo ascoltare più niente per oggi, non volevo lottare più, non volevo più nessuno che mi accusasse, che mi ricordasse che ho fallito nel mio lavoro e pure nella mia vita privata.
Volevo tornare a casa, al buio e addormentarmi.
Non volevo lui.
Non ora.
Non lo voglio qui, non voglio guardarlo, né ascoltarlo, né tanto meno voglio parlargli.
Non ho mai conosciuto nulla di più complicato e storto e viscerale in tutta la mia vita.


Non ho mai avuto niente…

Voglio dimenticare lui, i suoi occhi blu cobalto, il suo sorriso ammaliante, il suo odore di erba appena tagliata, la sua verità che si nasconde tra le pieghe di un’ironia che ormai conosco.
Voglio che vada via, qualsiasi cosa abbia da dire, qualsiasi giustificazione voglia trovare, è troppo tardi.
Mi ha umiliata e allora mi lasci leccare le mie ferite, da sola possibilmente.
 
«Elena…»
«Va’ via Damon. Voglio andare a casa.»
 
Non ci riesco a guardarlo, so che non posso permettermi di farlo, per questo evito anche solo di sfiorarlo passandogli accanto ed oltrepassandolo.
Controllo il tono e non lascio trapelare nulla a cui lui possa aggrapparsi.
Cerco le mie chiavi e maledico la mia borsa troppo grande e troppo incasinata, come me.
 
«Dove sei stata? Stai bene?»
 
Smettila Damon.
Smettila e va’ via da me.
 
«Elena...»
 
Il mio nome tra le sue labbra ha sempre avuto una profondità disarmante.
Ha una vena agrodolce, una sfumatura che ti graffia il cuore.
Mi chiama per chiedermi di tornare da lui, per rendermi presente a me stessa.
Come se non lo fossi, come se non lo fossi stata abbastanza.
Non posso concedergli nulla, non voglio farlo, non devo.
 
Ma tu vieni a prendermi Damon, ti prego.
 
«Ti prego, dì qualcosa..»
 
Non basta?
Non basta tutto quello che ti ho detto?
Vuoi davvero ancora sentirtelo dire che ti amo e ti odio da morire Damon?

Vuoi davvero ascoltare questo?

 
«Elena per favore.. non possiamo lasciare le cose così.»
 
La sua voce mi arriva stavolta più vicina, alle spalle, preoccupata, colpevole, tanto che mi fa sussultare appena e senza rendermene conto monta una rabbia che ero riuscita a placare.
 
«Così come Damon? Così come
 
Non mi curo di essere l’Elena a cui l’ho abituato.
Sono gelida e lontana, non gli concedo sconti per le sue colpe.
 
«Così, con te arrabbiata.»
«Non sono arrabbiata.»
 
Sono ferita.
Ferita, Damon, che è anche peggio.
 
«Possiamo entrare?»
«No.»
«Elena…»
«Damon.»
«Non fare così. Mi dispiace… non era quello che intendevo.»
«Non mi interessa, non mi devi niente.»
«Non è vero. Sai che non è vero.»
 
Frugo nella mia borsa, iniziando a tirare fuori cellulare, fazzoletti, burrocacao, frugo per mantenere distanza, frugo per continuare ad avere una scusa per voltargli le spalle.
Respiriamo e restiamo in un’attesa finta e sterile.
Senza guardarci.
Senza toccarci.
 
«Ti prego guardami
«Smettila di pregarmi.»
«E tu smettila di fare così.»
«Che diavolo dovrei fare Damon secondo te?»
 
E poi non ce la faccio più.
Urlo e mi volto. 
Urlo e lascio cadere a terra tutto ciò che avevo in mano, con un tonfo che fa strizzare gli occhi ad entrambi.
Urlo e gli chiedo aiuto perché non ne posso più di ignorarlo.
 
«Ascoltarmi.»
 
Per un solo secondo vedo i suoi occhi, imploranti e dannatamente colpevoli, che un po’ si dilatano e cercano i miei.
Per un solo secondo, lo lascio di nuovo entrare dentro di me, poi torno a mettere il mio muro che sono stanca di alzare e abbassare a suo piacimento.
 
«Non voglio più sentire niente.»
 
Ma la mia voce è già traballante e lui lo sa.
Lui sente tutto di me e lo sa che gli ho dato tutta me, che mi sono spogliata di me, di tutte le mie resistenze e paure e sicurezze e l’ho fatto per lui. Così come sa anche che ora mi ci aggrapperò con le unghie e con i denti a quell’angolo di lenzuolo che mi è rimasto, per non scoprirmi più.
 
 «Per favore..»
 
Aspro e duro il mio tono, contro una dolcezza che mi spezza il fiato e mi stringe lo stomaco.
Odio i suoi occhi quando mi fissano così, quando mi chiedono perdono e implorano briciole per non morire sotto i morsi di un senso di colpa e di un amore troppo grande che non sa meritare.
 
«Perché? Perché ti ho detto che sono innamorata di te? Pensi di poterti arrogare ogni diritto ora? Notizia flash, non esisti solo tu! Ho avuto una giornata di merda e tu sei l’ultimo dei miei pensieri adesso.»
«Che altro succede?»
«Non è affar tuo.»
«Hai problemi a lavoro?»
«Non è affar tuo, cosa non ti è chiaro di questa frase?»
«Sei snervante quando fai così.»
«Pazienza. Sarà un altro dei miei problemi anche questo.»
 
E’ un colpo basso che si merita e non intendo sentirmi in colpa o continuare a proteggerlo.
Mi volto e torno a dargli le spalle mentre raccolgo la borsa e i miei oggetti sparsi per il marciapiede.
Sono ferita e mentre con gli altri abbasso la testa e resto zitta, con lui no, lui smuove il mio coraggio e la mia autenticità. E’ l’unica persona al mondo con cui riesca ad urlare in mezzo alla strada o davanti un portone chiuso senza sentirmi giudicata o fuori luogo.
Lo so che vorrebbe recuperare eppure non ci riesco, adesso l’orgoglio e l’egoismo che lui ha tanto sventolato in questi mesi, facendomici scontrare, sono passati a me e non li mollerò tanto facilmente.
 
«Elena… mi dispiace
«Va’ a casa Damon.»
«No.»
«E allora resta qui fuori, fai come vuoi.»
 
Il tintinnio del metallo tra le mie mani infilate nella borsa, mi fa capire di aver finalmente trovato le chiavi, le tiro fuori e le infilo nella serratura facendola scattare.
Damon è immobile.
Spingo il portone con entrambe le mani, faccio un passo avanti entrando nell’androne e poi, i miei piedi non si muovono più, il mio corpo si irrigidisce e d’istinto mi blocco.
 
Stupida, persa, innamorata.
 
Mi fermo e lo spio con la coda dell’occhio.
Ha lo sguardo basso, fisso sulla linea di confine che delimita il marciapiede dall’androne come a decidere se attraversarlo o no, le spalle contratte, le mani in tasta e le vene delle braccia in rilievo, coperte solo da una maglia nera a mezza manica.
E’ fermo, con il respiro stanco e io non ci riesco a lasciarlo davvero qui fuori, non ci riesco a fare un altro passo senza che lui mi segua.
Non riesco a tornare a casa con la paura che mi lasci veramente andare.
Per una volta sta rispettando la mia decisione e solo adesso capisco che non è ciò che voglio.
 
Stupida, stupida che non sono altro.
 
Mi volto appena verso di lui, indugio qualche secondo senza ancora il suo sguardo addosso, il tempo che serve a me per studiare lui.
E poi scelgo di aiutarlo anche adesso.
Scelgo di offrirgli almeno la possibilità di spiegare cose che ormai non mi serve neanche più sapere.
Scelgo di essere forte per tutti e due.
 
«Perché sei qui?»
 
Alza gli occhi su di me e io mi sento istantaneamente impacciata e in imbarazzo per avergli mostrato quanto in realtà abbia paura che se ne vada realmente.
 
«Per te
 
Il mio cuore perde un battito e devo sforzarmi di respirare e di restare lucida per affrontarlo fino in fondo stavolta.
 
«Io non ho bisogno di te.»
 
E’ la verità quella che mi esce dalle labbra, delicata, senza rabbia né distanza.
Io non ho bisogno di lui, io da sola ci so stare molto meglio di lui e avevo imparato a starci anche piuttosto bene, sono molto più forte di lui in quanto a stabilità ed equilibrio. Posso benissimo andare avanti anche da sola, male, rimettendo insiemi pezzi che non combaceranno mai più, ma posso riuscirci, nonostante tutto posso farlo.
Posso avere un po’ di luce anche nel buio.
Dopotutto mi ha svegliato lui dal mio niente, l’ha riempito, togliendomi certezze e rendendomi forte e sicura anche da sola.
Quindi sì, ora non ho bisogno di lui.
 
«Lo so.»
 
Un’ammissione e una verità condivisa, che sa di autenticità sudata e conquistata.
 
«E allora perché sei qui?»
«Perché ho bisogno io di te.»
 
E tutto ciò che c’è invece non c’era nella mia voce e nel mio di bisogno, c’è nel suo.
Tutta la consapevolezza che avevo io è pura confusione e terrore tra le sue labbra.
E’ una verità che non ha niente a che fare con la dipendenza.
E’ uno sguardo, il suo, che si allarga piano, imbarazzato, deciso, che mi scava dentro a cercare quella parte di lui che ha lasciato dentro di me.
Mi guarda come fossi il suo peccato e la sua redenzione.
Guarda le mie labbra come se ne avesse un bisogno fisico e poi torna nei miei occhi, inchiodandomi e senza lasciarmi la possibilità di muovere un solo muscolo.
Cauto, lento, senza che io me ne renda conto, fa un passo e si avvicina a me, alza piano una mano che sento poggiarsi delicata sulla mia guancia, in una carezza che non è neanche una carezza, ma un contatto che serve a lui per prendere le misure e vincere una battaglia che ho già perso in partenza.
Lo lascio fare solo fino a che il mio cuore non decide che è troppo, che sta per esplodere ancora, che ha bisogno di mantenere ancora una distanza perché altrimenti potrebbe non reggerla più la sua assenza.
Mi ribello alla sua mano che ha attraversato ancora le mie mura, lo faccio perché il modo in cui mi ha ricordato che tutto ciò che provo e proviamo, per lui è solo un problema, mi riaffiora violentemente. Una coltellata precisa e profonda fino a dentro al cuore.
 
«Lasciami andare..»
«Hai sentito quello che ti ho detto?»
 
Non ce la faccio a combattere questa guerra, non ho armi per difendermi, né altre strade per scappare via da lui.
Come si fa a fuggire da un uomo che ti guarda così?
Davanti ad un uomo che per te ha scelto di riprendersi la sua umanità, di smetterla di essere da solo, un uomo che non sfiorava neanche le mie mani all’inizio, perché era un contatto troppo intimo, più del venire a letto con me, un uomo che quelle mani me le ha tenute, toccate e accarezzate e che ora mi sta chiedendo di prendere le sue.
Mi sta chiedendo di salvarlo.
Lo leggo nei suoi occhi.
La vedo nel suo riflesso, la paura che ha che io lo lasci affogare.
Nonostante questo ho un terrore incontrollabile che tutto questo sia solo l’effetto del momento, che mi stia illudendo ancora.
 
«Mi fai male. Tu continui a farmi male.»
«Lo so. Possiamo entrare, per favore
 
 
 
 
 
 
 

Damon

 
Non ho mai pregato così tanto qualcuno, tanto meno una donna, nessuno è mai stato così ostinato da costringermi a farlo.
Io non sono mai stato così sicuro e in bilico da volerlo fare.
Non sono uno da grandi discorsi o da gesti romantici, non lo so fare il fidanzato e non so scusarmi in modo convenzionale, questo lei l’ha sempre saputo, come io ho sempre saputo che non sarebbe stato semplice arrivare a lei, che avrei dovuto scavare a fondo per farla fidare di me, avrei dovuto sfidarla per farla scoprire. E lo so che il suo limite è stato sempre un po’ più malleabile del mio, per questo adesso sono terrorizzato all’idea di non avere più margine.
Elena lo sa.
Lo sente. Così come io sento la sua paura di perdermi e di essere ferita ancora.
Restiamo in assoluto silenzio mentre lei si volta, avvicinandosi al suo appartamento. Cammina due passi avanti a me, infila le chiavi nella serratura e apre la porta, stando attenta a non far uscire la sua gatta.
Io la seguo da lontano, spiandone i movimenti troppo precisi per non farne trapelare un controllo fin troppo forzato, entro in casa dopo di lei, senza che mi inviti ad entrare, senza un cenno.
Sparisce in camera lasciandomi da solo al centro del suo salone troppo buio, troppo in disordine per essere davvero quello che ricordavo quando l’ho accompagnata a casa dopo l’incidente di Caroline, fatico anche a ritrovare il suo odore in mezzo ai piatti da lavare nel lavello, ai libri sparsi e accatastati sul tavolo e a qualche vestito buttato tra la sedia e il divano.
Forse è questo l’effetto che ho su di lei.
Le incasino la casa, la vita, il cuore.
Ma adesso che la vedo tornare, a piedi scalzi, con i capelli sciolti e spettinati, mentre si sforza di evitare il mio sguardo e mi sfugge in tutti i modi possibili, il mio ego e la mia speranza che mi spingono a credere di essere almeno un po’ il responsabile di tutto quel disordine, crollano in un istante.
Mi fa paura il suo silenzio, perché ci leggo dentro tutte le mie paure.
La osservo mentre si dirige verso una maglia poggiata sulla sedia accanto a lei, è una canottiera rosa chiaro, con il merletto bianco e un fiocco viola scuro sul davanti, me la ricordo perché è l’ultima cosa che le ho visto addosso. La prende, la piega, la poggia sul tavolo sopra un libro di antropologia culturale che, a giudicare dal volume e dal possibile peso, potrebbe tranquillamente essere usato come arma, se decidesse di scaraventarmelo addosso. Raccoglie una cinta che era buttata ai piedi della sedia, la arrotola nervosamente girandosela intorno alla mano e la posa sopra la canottiera piegata. Quando la vedo direzionarsi verso un foulard steso sul divano, mi decido a rompere l’immobilità che si è appropriata di me, togliendomi subito questo maledetto dente.
 
«E’ vero? Quello che mi hai detto.. è vero?»
 
Lo so è da stronzo insicuro, ma per lo meno ho ottenuto la sua attenzione.
Il suo corpo fa un sobbalzo, si ferma e si lascia scivolare tra le mani il foulard che aveva appena raccolto.
Sento il suo respiro che accelera e la vedo tentennare, in dubbio se aggredirmi ancora o concedermi la grazia.
 
«Secondo te?»
 
La sua voce è dura, con un retrogusto di sfida e dolcezza tutta insieme.
Si volta piano, cauta, bucandomi lo stomaco con il suo sguardo diretto e profondo.
Non ha bisogno di rispondere, non ho bisogno di sentire nient’altro da lei, un accenno di sorriso mi si dipinge sul volto senza che io possa farci nulla.
Sono definitivamente inerme e senza difese davanti a lei, di fronte al suo amore così potente da rendermi debole ed insicuro ed è qualcosa con cui non ho mai fatto i conti fino ad oggi.
Mi fa formicolare il cuore.
 
«Perché mi hai detto quelle cose?»
 
E poi è lei a parlare, a chiedere, a volere una risposta di cui sa di non aver bisogno, perché in fondo la conosce già.
 
«Secondo te?»
 
Ed infatti lascia andare un sospiro, scuote la testa ed arriccia le labbra, le basta guardarmi negli occhi per capirlo. Mi fissa per un tempo lunghissimo, scava in fondo alle mie intenzioni, cerca una spiegazione e, tra tutte le mille domande e offese che potrebbe buttarmi addosso in questo momento e che meriterei, pensa ancora a me, a cercare una giustificazione che possa scagionarmi.
Non ha bisogno di chiedermi cosa intendessi, vuole solo sentirmelo dire.
 
«Non mi basta.»
 
Lo dice in un unico fiato, mentre i suoi occhi ardono da sotto quelle lunghe ciglia scure, le sue guance sono di un rosso fuoco che non ha nulla dell’imbarazzo che la contraddistingueva quando l’ho conosciuta.
 
«Tu mi hai mandato via.»
 
Lo dico solo perché mi esce spontaneo, solo perché le mie reazioni vanno di pari passo alle sue, non perché voglia darmi intenzionalmente e continuamente la zappa sui piedi.
Il problema continuo ad essere io, continua ad essere la sua presenza dentro di me.
Il suo sguardo cambia espressione, capisce qual è il punto che ha innescato la miccia, indurisce lo sguardo, vorrebbe sfidarmi, glielo leggo dentro, dal respiro che cerca di dominare, dalla bocca stretta e imbronciata.
Ma poi, nell’istante in cui si specchia dentro di me, lascia andare un fiato più forte, liberatorio.
Scioglie le braccia che ancora stringeva duramente e fa un passo verso di me.
Io la seguo con lo sguardo, immobile di fronte a tanta determinazione e inchiodato dalle mie stesse insicurezze, seguo le sue braccia che scivolano su quella maglia di velo azzurro e fanno un leggero attrito su di essa, sollevandola leggermente. Sono ancora perso su quel movimento delicato quando la sua voce mi arriva piano, risoluta, ad un palmo di distanza.
 
«E quindi saboti le cose? Pensi di non meritare qualcosa e allora rovini tutto? Io ti ho chiesto di andare via in quel momento Damon... non ho detto di non volerti vedere mai più e anche se l’avessi fatto, le persone litigano, si urlano addosso, ma restano
 
Non ho mai visto i suoi occhi così veri, intensi.
La mia donna bambina è sbocciata in una donna che profuma di me.
L’incertezza ha lasciato posto ad una sicurezza che non la fa più tremare, che non le fa più abbassare la testa, non la fa più mentire o apparire costantemente perfetta.
Non ha più belle parole per coprire ciò che è, per nascondersi.
Adesso è sporca Elena.
 
E’ sporca a causa mia, è sporca di me.
 
E mi sfida, come io ho sempre fatto con lei, scopre il bluff, mi smaschera, capisce le mie paure e prova ad anticipare le mie mosse.
Chiude la partita senza avermi dato possibilità di fare più alcuna mossa e sarebbe un niente darle ragione, ammettere di essere io la parte sbagliata in tutta questa storia, voltare le spalle e andarmene per sempre da qui.
Di nuovo.
Per il suo bene.
Ma purtroppo per me, il suo bene, è diventato il mio e sarebbe stupido, inutile ed assolutamente presuntuoso, anche per uno come me, pensare di poterla influenzare o cambiare, sarebbe comodo credere di poterla allontanare per proteggerla da me, quando mi ha ampiamente dimostrato che non ha bisogno di essere difesa, né da me, né da nessun altro.
Sarebbe da vigliacchi non ammettere quanto lei abbia invece già cambiato me.
 
«Tu, mi rendi vulnerabile.»
 
Scelgo la strada forse più contorta, ma è l’unica più vera per me.
Respiro forte e faccio finalmente un passo verso di lei che, al contrario, stavolta è immobile e sul punto di attaccare se sbaglio anche solo una parola.
 
«Tu, mi fai provare cose che non ho mai provato. Mi fai sentire responsabile. Tu, mi fai paura, perché non sono più da solo.»
«Stai peggiorando la tua posizione.»
 
Lo capisco dalla sua fronte che si contrae, dai suoi occhi che diventano piccoli e mi scrutano, dalla sua voce piccola, piena di paura e distanza, che non capisce, che non è ciò che si aspettava.
Ma prima che possa fare anche solo un minimo movimento lontano da me, riempio lo spazio vuoto tra di noi avvicinandomi fino a prenderle il viso tra le mani e sfiorarle il corpo con il mio.
 
«Io, non sono uno che resta Elena. Ma tu, tu mi fai tornare
«Perché?»
«Perché preferirei darti tutte le sicurezze di questo mondo pur di non farti ancora così male. Perché sono la scelta più sbagliata, ma l’unica che vorrei tu facessi. Perché sei la cosa migliore che mi sia mai successa. Perché fai venire fuori la parte migliore di me. E io ho bisogno di te. Tu sei il bene e io ho bisogno di questo bene nella mia vita!»
 
Sono senza fiato quando sento le sue lacrime cominciare a scorrermi tra le mani e il mio cuore si blocca istantaneamente.
Non dice niente, piange, piange e basta.
E io non so che altro fare, cos’altro dire, per chiederle di perdonarmi.
Non ce la faccio a vederla così, a sapere di esserne responsabile, a guardare i suoi occhi languidi e profondissimi che mi guardano pieni e disperati.
Di una disperazione che ora sono io a non capire.
 
 
Ma poi, d’improvviso, nel suo silenzio e tra le mille lacrime che le scendono ancora e bagnano le mie mani, sento le sue guance aprirsi in un piccolo, timido e incredulo sorriso. Un sorriso che mi esplode dentro lo stomaco, tornando a far battere il mio cuore e allora capisco che forse, non sono completamente irrecuperabile ed imperdonabile, forse, solo lei potrebbe davvero amare uno come me.
Non mi interessa sapere perché, mi basta sentire di meritarlo.
Come se l'amore si dovesse davvero meritare.
E allora non ce la faccio più a tenerla a distanza, a non poterla toccare come vorrei, a non poterla baciare, a non riprendermi quella dolcezza che mi ha fatto capire che lei era quella perfetta per me e che l’ha esposta fino a scoprirsi del tutto.
 
«Fa’ l’amore con me.»
 
 
 
 
Unbreakable.
 
 

 

Elena

 
«Fa’ l’amore con me.»
 
Bassa e roca è la sua voce, come piace a me, come solo lui riesce a smuovermi dentro, arrivandomi nei polmoni e sbattendomi sul cuore.
Piccolo e consapevole è il suo sorriso che reagisce al mio.
Io che vivo di emozioni, lui di istinti.
Io che gli ho urlato di amarlo e lui che mi ha lasciato finalmente leggerglielo addosso.
Noi che finalmente siamo noi.
Noi che questa non sarà la prima e nemmeno l’ultima.
E’ una danza silenziosa, la nostra, iniziata molto tempo fa, quando ancora i nostri passi erano un camminare indeciso, uno scappare senza meta.
Quando i nostri passi erano soli e noi eravamo spaventati anche dalla nostra stessa ombra.
Non erano un venire a riprenderci, torturarci, amarci, allontanarci.
Quando le mie lacrime erano solo mie, per causa sua, mentre adesso si mescolano con i nostri sorrisi, si asciugano tra le sue dita.
Mi basta.
Tutto questo è più di quanto volessi, è più di un ti amo detto perché non ne potevo più.
Più di un perdono che in confronto non ha più nessun senso.
E’ la riva dopo una tempesta in alto mare, il pozzo in mezzo ad un deserto senza confini, un’àncora dentro la piena del suo fiume.
E’ la cura che lenisce le ferite, ma non le cancella.
 
«Fa’ l’amore con me.»
 
Tutto torna tra di noi, tutto si chiude, in un cerchio che non pensavamo neanche di voler disegnare.
Me lo soffia ancora, ad un centimetro di distanza, con lo stesso tono irrinunciabile con cui io l’ho mormorato a lui tempo fa.
Con la stessa voce profonda con cui si è esposto fino alla carne viva.
E io resto inerme, immobilizzata dal suo tornare, frastornata dalle sue parole, con il cuore esploso in mille pezzi e la sua fronte poggiata sulla mia.
Sconfinato è il mare che gli leggo dentro e che scende dai miei occhi.
 
Incredula, soddisfatta, amata.
 
Questo sento, questo sono mentre scelgo di lasciarmi trasportare dalla corrente, certa, assolutamente certa, che riusciremmo a nuotare insieme, che il suo lasciarsi amare e il mio coraggio erano le uniche cose che mancavano per non farci affogare.
E vorrei vedesse nei miei occhi che ciò che sono diventata è solo per merito suo.
Vorrei sentisse che non ho più paura di amarlo, né di essere l’unica ragione che lo tiene a galla, perché lui, solo lui, mi ha dato quello che disperatamente cercavo.
 
Nonostante.
 
Quell’essere amata nonostante tutto, nonostante fossi chiusa in un armadio, nonostante non avessi niente, nonostante avessi bisogno di tutto, nonostante cercassi tutto il contrario.
E’ proprio questo che adesso mi spinge però a metterlo in guardia, come non ho mai fatto, come farò altre mille e mille volte, perché non saremmo noi, lui non sarebbe Damon e io non sarei io, se non lo facessi.
 
«Il fatto che tu sia tornato, non significa che io debba restare..»
 
Lo sussurro con un tono diretto che gli fa allentare la pressione con cui mi tiene il viso tra le mani, d’istinto le abbassa e prova a scivolare via, ma sono io a riprenderlo adesso e non aver più intenzione di lasciarlo andare.
 
«Se devo farlo, me lo devi chiedere.»
 
Lo dico talmente sottovoce che mi costringo a staccare leggermente la mia fronte dalla sua, posare i miei occhi dentro i suoi e studiare la sua reazione alle mie parole, perché non sono certa gli siano arrivate.
Ma Damon è ad un soffio da me e respira piano, lento, su di me, non le vedo, eppure me ne accorgo dai suoi occhi che si fanno più piccoli e dalle piccole rughe intorno ad essi, che le sue labbra si sono aperte in un leggero sorriso, mentre le mie lacrime hanno finalmente smesso di scendere.
E’ l’unica sicurezza che voglio da lui. L’unica di cui ho bisogno per non farmi ancora male.
Damon riporta cauto il palmo della mano su di me, mi sfiora, mi accarezza, apre completamente le sue dita sulla mia guancia e io lo lascio fare, chiudo gli occhi e mi lascio prendere senza più riserve.
Non mi importa più nulla delle litigate, degli sbagli, della notte, del mio lavoro che non è ancora come vorrei, di quanto dovremmo entrambi rimboccarci le mani per questo futuro dentro cui vediamo solo noi.
La sola e unica cosa che sento adesso sono le sue labbra che piano, delicate, sfiorano le mie.
Una volta, due, tre, quattro volte, pianissimo, dolci, lasciandomi piccoli baci morbidi con i tempi di un respiro, che mi fanno impazzire e quando non le sento più, sollevo lo sguardo e trovo il suo, ad aspettarmi.
E lo fa, mi guarda negli occhi in un modo così intenso da togliermi il fiato, in un modo in cui non mi aveva mai guardato, come se il suo mondo fosse tutto davanti a lui, mi respira sulle labbra e con una voce dolcissima, bassa, imbarazzata, ma sicura e ferma, placa le mie residue insicurezze e mi da l’unica che cerco.
 
«Resta con me Elena, resta e prenditi tutto di me.»
 
E non mi serve più altro.
Non mi serve sentire più nient’altro per aggrapparmi alla sua t-shirt e tirarlo a me, stringerlo e baciarlo dappertutto.
Ed è istinto, urgenza, desiderio, bisogno, amore.
E’ il sapore dell’amore quello che sento sulla sua bocca, tra le sue mani, sulla mia pelle.
 
Non ne uscirai più viva Elena.
 
Non indietreggerò più Damon, resterò qui e ti lascerò libero di andare se vorrai.
Ma promettimelo Damon, promettimi che tornerai sempre da me.
Promettimelo mentre mi baci dappertutto, mentre i nostri vestiti sono già sul pavimento.
Promettimelo mentre le tue mani stringono le mie, mentre il tuo corpo mi spinge sul divano e tu entri dentro di me.
Promettimelo che resisterai per me.
Promettimelo, mentre il desiderio di te diventa più forte del mio bisogno di certezze.
Fa’ l’amore con me Damon.
Fallo e sii consapevole che questo amore ha cambiato entrambi.
Senza limiti, senza condizioni.
Io che amavo con moderazione, con la testa infarcita di regole e aspettative.
Tu che raccoglievi l’amore che pensavi di meritare.
 
Promettimelo e resterò Damon.
Resterò, perché tu mi rendi infrangibile.
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 ******************************
 
Ce l’ho fatta…
 
Non posso credere di essere riuscita a concludere questa storia.. e se voi siete arrivate fino a qui, dopo tutta questa lunghissima assenza, dopo tutte queste lunghissime e forse anche un po’ pesanti pagine, non posso che esserne orgogliosa e onorata.
Perché questa storia è nata da un bisogno, dalla voglia che leggere voi aveva trasmesso a me, dalla possibilità di mettermi in gioco ed esorcizzare esperienze ed emozioni.. e poi è proseguita grazie a voi, a tutte tutte voi, ed è finita soprattutto GRAZIE a voi.
Perché quando la realtà entra prepotentemente dentro una passione, è difficile riuscire a gestire entrambe.. ma con le unghie e con i denti ho voluto farlo e dare a voi e a questi miei Damon ed Elena la giusta conclusione.
Ed è stato difficile, questo è stato per me il capitolo più complicato, perché ero insicura, lo sono ancora, perché avevo mille finali, non tutti positivi in realtà, e forse qualcuno si è pure mischiato, ma alla fine, come al solito, loro hanno scelto per me.. Quindi nonostante le mie aspettative, la loro realtà ha nuovamente preso il sopravvento!
 
Non vorrei essere prolissa, anche perché capisco che non ne potete più di leggere! ;) perciò l’unica cosa che ancora voglio dirvi è GRAZIE… per il viaggio, la compagnia, il sostegno, la pazienza. Per quelle persone che mi hanno incoraggiata e per quelle che in qualche modo ho ‘conosciuto’ qui.. meravigliose, che porto dentro e continuerò a seguire a tutti i costi, anche se un po’ ‘lontana’.
 
Forse, se vorrete, se riuscirò, mi piacerebbe un epilogo..
Intanto vi abbraccio e vi ringrazio ancora ancora ancora con tutto il cuore.
 
Ale

Ps.Avevo delle immagini per voi.. ma non sono riuscita a caricarle.. chiedo venia! Se qualcuno sa come fare.. magari ne terrò conto se ci saranno prossime volte... :-)

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Capitolo 22
*** Epilogo ***



 

‘Quando non sei abituato a chiedere a nessuno di restare nella tua vita
 non è detto che tu non abbia una disperata voglia che qualcuno ci resti.
È che forse hai imparato a tue spese che non serve chiedere di rimanere.
Chi vuole restare
 c’è già ancor prima che tu lo trovi e resta senza che glielo chiedi.’
 
Massimo Bisotti
 
 
 
 
 
Elena

Lascio che le mie dita scorrano sulla tastiera del portatile, in bilico sulle mie gambe incrociate, cercando di ignorare, almeno per questa volta, la mia schiena seminuda poggiata sul petto di Damon e le sue braccia che mi circondano, continuando ad accarezzare la pelle delle mie braccia, su e giù, senza darmi tregua.
Sono due ore, due lunghissime ore, che siamo su questo letto, sul suo letto, a cercare di definire gli ultimi dettagli per un viaggio che alla fine abbiamo deciso di fare insieme.
Un viaggio che era il suo sogno, una meta che desiderava da una vita e che a me affascinava molto ma, in questo momento, dopo aver visto gli appena 15° a cui andrò incontro, rispetto ai caldi e piacevoli 28° di questa città, non mi sovviene più alcun motivo valido per concludere questo benedetto check-in on line che stiamo, anzi sto, cercando di effettuare senza ancora nessunissimo successo.
Tra meno di ventiquattro ore saremo a Copenaghen, prenderemo una macchina e inizieremo a salire, verso nord, attraverseremo i fiordi norvegesi fino al sole di mezzanotte, che faremo appena in tempo a vedere in questo periodo di inizio agosto, fuggiremo dalle spiagge affollate di Los Angeles per approdare nelle verdi e isolate vallate scozzesi. Ammireremo quel cielo d’Irlanda che sembra essere così lontano e diverso dal nostro, guideremo dall’altro lato della strada sperando di non ammazzarci, dormiremo in hotel preventivamente prenotati da me e ostelli di fortuna voluti da lui. Toccheremo appena le nevi finlandesi e respireremo un’aria di Natale che, fosse per me, respirerei per tutto l’anno poi, da Helsinki, torneremo a casa.
Un viaggio di dodici giorni, tre in meno di quanti Damon ora può permettersi di prendersene di ferie, sfruttando il vantaggio di essere dipendente di un’agenzia che è passata nelle mani di Andie, ma che ci rimarrà ancora per poco, conoscendo lui.
Un viaggio per me anche di lavoro, da quando il direttore del giornale on line con cui lavoravo ha deciso di mettere fine, con esito positivo, al mio periodo di prova e commissionarmi lavori per me più stimolanti, invece del solito ‘cosa andrà di moda il prossimo autunno – inverno’, garantendomi anche maggiore autonomia.
Ho azzardato la richiesta e lui l’ha accettata, di poter produrre un resoconto di viaggio, su tutti gli aspetti positivi e negativi di un turista alla scoperta di in un paese così distante dal nostro, nella cultura, nell’arte, nel clima e nelle risorse ambientali.
Quindi in realtà, metà del mio viaggio è pagato dal giornale per cui lavoro, anche per questo ce lo possiamo permettere altrimenti, con Damon che sta appena uscendo dal suo momento di crisi e io che non ho mai navigato nell’oro, un viaggio del genere sarebbe rimasto unicamente nei nostri sogni.
Ho la speranza in questo modo di riuscire ad aprirmi qualche strada in più, iniziare magari a viaggiare, preferibilmente in qualche posto un po’ più caldo e scrivere maggiormente di arte e cultura.
Lo spero.
Ho sempre studiato e lavorato per questo.
Intanto, i miei desideri, stavolta più carnali, mi porterebbero a voltarmi e fare per l’ennesima volta l’amore con l’uomo che mi tiene tra le braccia, intento a provocarmi, sfiorarmi, abbassarmi la bretella della canottiera, togliermi dalle mani il portatile e baciarmi, baciarmi dappertutto. Come se non fosse mai sazio di me, come fossi io la sua riserva di ossigeno.
Eppure, cerco di resistere, con una fatica disumana, ai brividi sulla pelle che le sue mani mi accendono mentre mi sfiora i capelli, spostandoli sulla spalla destra e liberando porzioni di pelle e di collo che subito vengono prese d’assalto dalla sua bocca, dalla sua lingua, dai suoi denti, che finiscono per lasciare piccoli segni sulle mie clavicole.
Come a segnare il territorio, un limite per il resto del mondo, un confine che nessuno potrà più permettersi di oltrepassare.
Sono sua, me l’ha fatto capire in ogni modo possibile ed immaginabile.
Sono totalmente, definitivamente sua. Ogni centimetro della mia pelle, del mio cuore, della mia mente è suo. Ho abdicato senza alcuna resistenza e senza alcun dubbio.
Damon è ancora il Damon di quattro mesi fa, quello istintivo, quello da moto e zaino in spalla, quello che si è presentato a casa mia con la coda tra le gambe e si è fatto riprendere con tutta la verità di cui è stato capace. E’ ancora quello che mi fa impazzire di rabbia a volte, ma ora modula i suoi istinti sulla soglia del mio dolore, non mi lascia andare mai, neanche quando so che vorrebbe mandare tutto all’aria e andarsene.
Ha imparato a restare senza che io glielo chieda, ad accorciare i tempi.
L’ultima volta che abbiamo litigato è uscito sbattendo la porta di casa mia e io, non ho fatto neanche in tempo a lanciargli addosso la bottiglietta d’acqua che avevo in mano, perché lui ha suonato il campanello implorandomi di aprirgli. Io l’ho fatto e me lo sono ritrovato davanti con la testa poggiata allo stipite e la mano ancora sul pulsante, gli occhi bassi di chi sceglie di mettere da parte l’orgoglio ma non riesce a dirtelo. E’ sgusciato dentro non riuscendo quasi neanche a guardarmi negli occhi e, se non fossi stata tanto vicina a lui, non sarei neanche riuscita a sentirlo quel mi dispiace che è uscito appena dalle sue labbra, né sarei stata in grado di ripredermelo con tutta la rabbia che avevo ancora in corpo e farci l’amore per tutta la notte.
Forse anch’io sono cambiata, sono cresciuta, andandomi a modellare attorno ai suoi bisogni, prevedendoli e stabilendo anche i miei.
L’ho sempre capito, c’era una parte di me che sapeva perfettamente quali fossero le sue difficoltà, cosa provasse e sentisse, capivo perfino se stesse bene o male, se fosse vicino o lontano da me, lo sentivo dentro.
Sentivo perfino le sue intenzioni.
Capivo che voleva prendermi per mano quando uscivamo le prime settimane dopo quella sera, lo capivo perché iniziava a gesticolare con le mani e poi se le metteva in tasca insicuro, allora lasciavo andare la cinghia della borsa a cui ero aggrappata e scivolavo piano nella sua tasca, a sfiorare le sue dita incastrandole con le mie. Lui si irrigidiva disorientato per una frazione di secondo, e poi sorrideva, senza farsi vedere da me, senza alzare lo sguardo da terra, continuando a camminare con quella solita aria da spavaldo, sporcata da un sorriso piccolo, storto, pieno di me.
Sentivo tutto, fin dal principio, solamente, non sapevo come gestire me, dove trovarlo in me il coraggio per compensare lui.
Abbiamo sempre avuto le stesse paure, gli stessi bisogni, le stesse incertezze, tuttavia adesso, la certezza che ho di lui rende, paradossalmente, più forte me e più vulnerabile lui.
Non ho più paura di amare uno come Damon, non indietreggerò più dalla consapevolezza che ho di lui, da quel futuro che vedo solo quando sto con lui, perché adesso è solo.. Damon.
Il mio Damon.
Quello per cui ho lottato e che ha scelto me. Tra mille, lui ha scelto me.
 
 
«Sto.. sto cercando Damon.»
 
Cerco di non far trapelare nella mia voce l’incertezza e il tumulto che sento divamparmi dentro, quando attraverso la porta dell’agenzia di Damon e mi ritrovo davanti un Andie sempre più impeccabile.
E’ la prima volta che vengo qui da quando questo posto non è più di Damon, da quando lui lo gestisce e basta, dopo averci lasciato il cuore e pure tutto il suo tempo.
Non pensavo di incontrarla, non sapevo fosse qui, eppure dovevo immaginarlo, ormai è sua questa agenzia, è autorizzata ad entrare e uscire quando vuole, solamente, speravo di potermi evitare questo tipo di incontri.
Controllo il respiro e cerco di sostenere il suo sguardo, forte di me e certa di quello che ora è il mio uomo.
Sposto la frangia dietro l’orecchio per non avere barriere tra me e lei ma la mia sicurezza traballa davanti al piccolo, consapevole e tenero sorriso che si apre piano sulle sue labbra.
Mi guarda come fossi una bambina che sta rivendicando qualcosa che è suo di diritto e non so come faccia, scopre proprio quella parte insicura ed infantile di me che inconsapevolmente sta tornando fuori.

Prende un respiro, si sistema l’orlo della giacca che nell’incrociare le braccia le si era leggermente alzato e fa un passo verso me, costringendomi ad indietreggiare impercettibilmente.
E’ oggettivamente bellissima e ha una tranquillità nello sguardo che mi disorienta e allo stesso tempo mi fa sentire una stupida.
Capisco perché Damon fosse così attratto da lei.
 
«E’ nel suo ufficio.»
«Bene, grazie.»
 
Faccio per oltrepassarla, senza neanche rivolgerle lo sguardo o salutarla mentre le do già le spalle e mi affretto a raggiungere la porta di fronte a me, quando la sua voce mi buca da parte a parte.
 
«Sei sempre stata solo tu, Elena.»
 
Me lo dice nello stesso modo tranquillo e determinato, con cui mi ha osservato per tutto il tempo senza dire niente, obbligandomi ad immobilizzarmi al centro della stanza, spalancare leggermente gli occhi e sentire il mio cuore perdere un battito.
Mi restituisce ciò che è mio con una grazia e una dignità che non mi aspettavo e che mi fanno sussultare il cuore per quella verità che in fondo sapevo, ma avevo paura a credere.
E’ riuscita a vedere al di là delle apparenze, cogliendone le paure, senza utilizzarle a suo favore.
Mi volto piano, prendendo tempo per prepararmi a questa, non so neanche se opportuna, conversazione.
 
«Non ha mai neanche provato a volere me.»
«Perché sei rimasta allora?»
 
Glielo chiedo, voltandomi di tre quarti, perché ormai non ho più niente da perdere, né nulla da spartire con lei, voglio tutta la verità a questo punto, anche se fa male.
 
«Perché ciò che si dovrebbe, non è sempre ciò che si vorrebbe.»
«Sei innamorata di lui?»
 
La vedo sussultare improvvisamente, colta di sorpresa dalla mia domanda e dal tempo presente con cui gliela rivolgo.
 
«Un tempo lo sono stata. Ma non devi preoccupartene Elena, non sarò in nessun modo una minaccia. Lui e’ innamorato di te, lo è da sempre.»
 
Mi fa uno strano effetto sentirglielo dire, forse perché non l’ho ancora mai sentito uscire dalla bocca di Damon.
Non credo ci riuscirà mai, piuttosto preferirebbe passare un’intera domenica a pranzo con mia madre e mio fratello, a discutere delle sue intenzioni, sarebbe più facile per lui, resterebbe nel suo territorio, scherzerebbe, li ammalierebbe come al suo solito, come fa con tutti. Quelle parole invece lo trascinerebbero sul mio di territorio, quello dei sentimenti e lui non ce la fa proprio.
Ma io lo sento, lo so che è così e mi va bene, non mi serve saperlo, se lo sento, se me lo dimostra nei dettagli, nelle intenzioni.
Eppure, con questa verità addosso non posso che sciogliere ogni nodo e ogni barriera davanti ad Andie, ci sorridiamo appena, complici nell’essere riuscite a leggere e cogliere sfumature, dentro l’anima di un uomo che vantava di non averne.
Sto per voltarmi di nuovo e andarmene, quando d’improvviso riconosco il tocco della mano di Damon a metà schiena.
Non so quando sia arrivato, non ho sentito nessun passo e neanche Andie l’ha visto arrivare, tanto che sussulta anche lui alla sua visione. E’ questione di qualche secondo, poi si ricompone, fa un cenno della mano per salutarci e prima di aprire la porta ed uscire da qui, si volta un’ultima volta.
 
«E’ stato un piacere Elena.»
«E’ stato un piacere anche per me, Andie.»
 
Damon mi guarda confuso, osserva me, la porta che si è appena chiusa davanti a noi e poi di nuovo me, disorientato, quasi allarmato.
 
«Stai bene?»
 
Io faccio solo un cenno con la testa, non riuscendo ad articolare niente, non sapendo neanche se la confusione che mi ha mosso questo breve incontro con lei, sia positiva o meno.
Lui arriccia leggermente la fronte, non soddisfatto del tutto e lascia scivolare via la mano ancora poggiata sulla mia schiena.
 
«Che ti ha detto Andie?»
«Delle..cose..»
 
Finalmente esco dal mio stato di immobilità e volto la testa verso di lui, accennando un sorriso leggero perché consapevole. Lui sembra tirare appena un sorriso di sollievo, abbassa le spalle e mi guarda interrogativo.
 
«Si possono sapere o vanno dirette nella zona top secret delle comunicazioni tra donne?»
«Vanno dirette in quella zona lì!»
 
Gli sorrido sulle labbra, lasciandogli un bacio veloce, piccolo, a cui ne segue un altro e un altro ancora, fino a che non sento il suo viso rilassarsi sotto le mie mani, le sue braccia avvolgermi completamente e la sua voce roca sussurrarmi nelle orecchie.
 
«Nel mio ufficio, ora, di corsa.»
 
 
«Smettila di toccarmi, di baciarmi e pure di guardarmi con quel sorrisetto!»
 
Sono due ore e ventitre minuti adesso che siamo su questo letto, con questo portatile in bilico su di me, che ha rischiato più e più volte di finire a terra, mentre mollavo tutto e mi lasciavo andare alle sue provocazioni e ai miei desideri. Adesso però sono ferma e convinta, ho incrociato le gambe, serrato le braccia e sono decisa a non concedergli neanche un piccolo, minuscolo, bacio a stampo se non ci garantiamo almeno il posto su quell’aereo.
Damon mette il broncio con il suo solito fare da cucciolo indifeso, che però non attacca più, mi guarda di sbieco, malizioso, per testare la mia risolutezza e il mio autocontrollo e quando capisce che stavolta sono davvero seria, che ho davvero paura di non riuscire a prendere quell’aereo, ride. Ride di una risata profonda, allegra, portandosi una mano sul petto e inclinando indietro la testa mentre socchiude gli occhi e a me verrebbero in mente mille altri motivi invece per tornare sui miei passi, fregarmene di garantirmi quei dodici giorni che ci aspettano per passarli tutti nella sua camera da letto.
 
«Come vuole signorina, ma non sa cosa si perde!»
 
Si avvicina, senza toccarmi, sfiorarmi o baciarmi, sento solo il suo respiro sul mio collo e i suoi capelli che mi solleticano l’orecchio, mentre mi mormora quelle parole che me lo fanno maledire ancora di più, perché sa che effetto ha lui su di me. Mi muovo appena assecondando i brividi del mio corpo e guardo riapro gli occhi Damon è già lontano, sta aprendo il primo cassetto dell’armadio per tirare fuori una maglia verde scuro e dei boxer.
 
«Se cambi idea, sono a fare una doccia.»
 
Mi fa l’occhiolino mentre scompare dietro la porta del bagno, lasciandola intenzionalmente e provocatoriamente socchiusa.
Ho bisogno di aria, ci metto qualche attimo in più per tornare in me, alla lucidità di cui ho bisogno per calmare il fremito che sento scorrere velocissimo su tutto il corpo, implorare pietà  al mio ventre che brucia ed alzarmi da questo letto.
 
«Mi serve il tuo passaporto!»
 
Glielo urlo da dentro la camera, consapevole di dover mantenere una distanza di sicurezza da lui e dal suo corpo, nudo, sotto la doccia.
 
«Sulla scrivania! O nell’ultimo cassetto dell’armadio!»
 
Grida anche lui di rimando e ciò che mi arriva è un misto tra l’eco della sua voce e il rumore scrosciante dell’acqua.
Mi sforzo di ignorare qualsiasi altra cosa e mi dirigo verso la piccola scrivania in legno scuro di fronte il letto. E’ piena di fogli, documenti, in un disordine tale che rispecchia perfettamente il suo modo di vivere e di essere, lasciando a me la difficoltà nel metterci le mani, come sempre.
Sparso tra mille fogli trovo perfino il contratto con cui ha ceduto la sua agenzia, la prima pagina è sfuggita dalle graffette in alto a sinistra ed è tutta stropicciata sotto una pila di libri, lascio tutto lì, senza toccare nulla, dando una rapida occhiata a tutto il resto. Mi sposto a sinistra, accoccolandomi sui talloni per aprire invece l’ultimo cassetto dell’armadio in cerca del passaporto che, secondo me, non ha idea nemmeno lui di dove sia finito.
C’è un disordine incredibile, maglie ammucchiate, calzini, scontrini, cartine di viaggi, c’è perfino un cioccolatino, chissà da quanto tempo sepolto qui dentro.
Tiro fuori un paio di maglie per avere più visuale e nel farlo scopro il viso di un bambino dolcissimo, raffigurato in una foto assieme a quelle che si presume essere i suoi genitori.
 
‘Nell’ultimo cassetto dell’armadio, ho una foto di me da bambino in braccio ai miei genitori. L’ho infilata lì quando loro si sono trasferiti e non l’ho mai più tolta.’
 
Sento il cuore sciogliersi nel ricordare le sue parole di quella sera e nel trovarmi di fronte lo sguardo azzurro e limpidissimo di un bambino di tre o quattro anni al massimo, che stringe il collo della sua mamma e lei che gli sorride mentre abbraccia suo marito.
E’ una foto meravigliosa e capisco perché Damon l’abbia nascosta qui dentro, ricordi come questi fanno male, soprattutto sapendo come sono finite le cose tra loro. Se si riuscissero a cancellare le tracce dentro di sé, con la stessa facilità in cui si sotterrano, sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo a volte si può solo scegliere come andare avanti.
Passo un’ultima volta il pollice sul volto di quel piccolino, con lo stesso sorriso pieno e fiducioso che concede a pochi e che nasce per riflesso anche dalle mie labbra, sto per richiudere il cassetto, se non fosse che in quella che sembra essere la sua scrittura, su un foglio accartocciato, scorgo il mio nome e il mio cuore si blocca istantaneamente.
 
‘Maledetta te Elena.’
 
Tutto il calore che ancora sentivo dentro il mio corpo e sulla mia pelle svanisce in un istante.
Mi sento un verme ad invadere la sua privacy ed ho sempre odiato che qualcuno lo facesse con me, ma questo riguarda decisamente me, per questo mando al diavolo il mio buonismo e la mia integrità e afferro decisa quei tre fogli iniziando a leggere, infischiandomene perfino di restare attenta ad ogni rumore o silenzio proveniente dal bagno.
 
‘Anche se volessi scusarmi..
Tu non riusciresti a sentirmi, né vorresti ascoltarmi, in questo momento.
Quindi, non lo farò…’
 
 
 
 
 
 
Damon
 
Non credo che fischiettare sotto la doccia sia considerato altamente virile o seducente, per questo mi blocco appena il suono della mia voce mi arriva senza ombra di dubbio alle orecchie e alla coscienza.
Il rumore dell’acqua mi isola dal resto della casa, ma sono abbastanza sicuro che Elena possa sentirmi, perciò, per mantenere ancora un po’ il mio inutile ruolo da bello e maledetto, preferisco concentrarmi sulla tensione e sul calore che ancora sento su tutto il corpo e cercare di mandarli via.
Perché farei l’amore con lei per il resto della mia vita e mi è terribilmente, davvero terribilmente, difficile allontanarmi fisicamente da lei.
E’ una tensione, un’attrazione, un’alchimia che mi spinge verso di lei e che ha sempre mosso i miei passi e le mie intenzioni.
Fin dal principio.
 
‘Ti ricordi Elena, vero Damon?’
 
E’ da questa mattina che mi tornano in mente le parole di Caroline, di quella sera a casa mia, quando ho rivisto Elena dopo tanto tempo, quando è tornata nella mia vita e c’è restata.
E mi ricordo i suoi occhi, così timidi ma così tanto vivi, la sua risata allegra, quel modo scomposto di stare seduta. Quel velo di imbarazzo che ha acceso in me, nel rivolgermi la sua finta e divertita supplica e nel guardarmi senza sotterfugi o malizia.
La mia donna, che prima era solo una bambina.
La mia Elena, che ora profuma anche di me.
E tutte le persone che sono cresciute insieme a noi, amici e non, ruotando intorno al nostro asse, che non hanno fatto altro che spingerci l’uno contro l’altra, sempre, andando avanti pure con le loro di vite, ma senza mai uscire dalle nostre.
 
 
«Allora.. adesso non sei più soltanto mio...»
 
Profuma di fiori di pesco la mia Caroline mentre si siede accanto a me, sul mio divano, si fa spazio da sola alzandomi il braccio e poggiando la testa sulla mia spalla. Si avvolge tra le mie braccia e io la stringo un po’ di più quando mi mormora con la sua voce un po’ piccola ed infantile una verità che un po’ le monta sentimenti contrastanti.
La sento respirare mentre volta piano la testa verso di me e mi osserva con quegli occhi così tanto simili ai miei. Quegli occhi con cui ci siamo letti così tante volte..
Ci guardiamo e basta, senza riuscire a dire niente, consapevoli di quante cose siano cambiate intorno a noi, di quanto grandi siamo diventati, da quando eravamo soltanto io e lei.
Da quando giocavamo in cortile tirandoci palloncini pieni d’acqua e farina, da quando passavamo interi pomeriggi a guardare i cartoni animati, che ovviamente sceglieva lei, tiranna anche a sette anni, sdraiati su questo stesso divano, nell’attesa che i miei genitori tornassero per cena.
Ne abbiamo fatta di strada da quando la difendevo dai bulletti del palazzo che la prendevano in giro e lei mi guardava con il labbro che tremava, gli occhi umidi, le lentiggini e le trecce biondissime che le cadevano sulle spalle e poi mi abbracciava, nascondendosi dietro di me.
Sembra trascorsa una vita intera da quando si è presentata a casa mia, la prima notte in cui i miei si sono trasferiti, entusiasta di prepararmi la cena, che ha poi bruciato e finendo per addormentarsi nel mio letto, dopo avermi abbracciato come un bambino che non riusciva a chiederlo.
Solo io e lei, senza nessun altro sentimento di mezzo.
La cosa per me più vicina ad una famiglia, ad una.. sorella.
Ed è strano ora per lei dovermi dividere con una delle parti più importanti della sua vita, è strano, perché ora c’è qualcun’altra che mi sente e mi vede come ha sempre avuto il privilegio di fare lei, è stramo ma è tutto ciò che ha sempre sognato per me.
Come io per lei.
Ho sempre saputo che quel Klaus l’avrebbe fatta solo soffrire, le avrebbe offerto castelli dorati che l’avrebbero abbagliata per un po’, facendole credere di essere l’unica cosa di cui aver bisogno a questo mondo. Ad un certo punto però, sapevo e lo sapeva pure lei che si sarebbe svegliata dalla bella favoletta e avrebbe preteso di essere vista per ciò che era, non per quello che appariva.
Enzo ci è riuscito, l’ha disarmata, l’ha spogliata di tutte le sue costruzioni, ha saputo capire le sue continue polemiche fino a zittirle e prevederle. L’ha smascherata, non dandole la possibilità di attaccarsi a nulla per allontanarlo.
Sono felice, per lei, per il mio amico.. per me.
Perfino per Stefan che finalmente si è svegliato, finalmente ha smesso di prendersi così tanto sul serio, adesso ride, scherza, fa battute. Mi piace questa Haley, credo in gran parte sia merito suo, della sua risata a cuore aperto, dei suoi occhi vivi, del suo modo di fare che lo rende imperfetto, umano, gli toglie quell’aria da supereroe per cui l’ho sempre sfottuto e mi piace.
Mi piace lui con lei.
E mi piace anche questa donna, con gli occhi grandi da cerbiatto, che mentre chiacchiera con Haley, lontano da noi, ha spostato lo sguardo su me e Caroline, abbracciati sul divano di casa mia e mi ha sorriso con quel modo dolce e sottile che mi fa impazzire, perché ha capito e non vuole intromettersi.
Caroline sospira ancora, più leggera, meno inquieta.
 
 «Hai ancora una copia delle mie chiavi di casa?»
«Certo!»
«Tienile. Quelle saranno sempre tue.»
 
Caroline mi guarda spiazzata per un attimo, mi sorride e io le scompiglio un po’ i capelli con la mano libera, solo per infastidirla, quel poco che basta per stamparle un bacio sulla fronte e darle la certezza di avere ancora tutta quella parte di me, che sarà sempre un pezzetto solo sua.
 
«Hey, dovrei essere geloso di tutto questo?»
 
Anche Enzo, capisce, ma è molto meno discreto di Elena, tanto da conquistarsi l’appellativo di ‘idiota’, che esce prontamente dalla bocca di Caroline mentre lui le sorride provocandola e prendendosi gioco di lei e di me.
 
«Bè a me va bene anche la tua di ragazza, se ogni tanto vogliamo fare a cambio!»
«A me basta il mio, di ragazzo, grazie!»
 
Elena anticipa una Caroline che stava per riservargli qualche altro insulto e spiazza entrambi, compreso me, con la sicurezza con cui interviene e la naturalezza con la quale tiene testa ad Enzo, rivendicando me.
Ammicco nella sua direzione, regalandole un sorriso complice e malizioso e lei ritorna tranquilla alle sue chiacchiere.
Caroline resta ancora un po’ accanto a me, forse per bisogno, forse per paura di andare avanti ed essere davvero felice, forse per ritrovare un po’ quel noi che le mancava, poi si alza, mi sorride e si allontana, silenziosa come era arrivata.
 
Quella notte ho fatto l’amore con Elena come mai prima.
L’ho baciata per un’ora intera prima di andare oltre, l’ho accarezzata, l’ho tenuta stretta fino a non sapere più dove finiva lei e iniziavo io. Lei mi ha tenuto il viso tra le mani baciandomi con tutta la dolcezza e il trasporto che aveva, ha fatto l’amore con me come avrebbe voluto fare da sempre.
Con tutta se stessa, senza freni, senza timori, senza fretta, senza l’insicurezza di dover essere all’altezza.
Ci siamo amati con una complicità e un’intesa che era molto più forte delle prime volte, con una lentezza e una tenerezza che puoi permetterti solamente quando sei certo di non poter più venir ferito.
Elena è restata anche con tutte le cose sbagliate, lei c’è nonostante io non vada bene del tutto.
Io lo so che è molto più forte di me, lo capisco da come gestisce me, dal modo in cui mi sdrammatizza, da come ha preso le mie difficoltà e le ha rese leggere, senza farmele pesare.
E’ brava Elena, è bravissima con me.
Sa che se scherzo sui suoi capelli con la piega appena fatta dicendole che sembra una donna d’altri tempi, è perché voglio farle sapere che li ho notati ma non riesco a dirle che è bellissima. E allora lei ride e scuote la testa per ravvivarli e mi fa una smorfia mentre mi guarda di soppiatto da sotto la lunga frangia, non si lascia più ferire, non ha più bisogno di conferme.
Eppure qualcosa ancora sento di doverglielo.
 
Quando finalmente esco dalla doccia, non sento alcun rumore e anche il portatile ha smesso di suonare l’intero cd di Jamie Scott che Elena mi ha costretto a scaricare.
Varco la soia del bagno, lasciando scie di impronte bagnate su tutto il corridoio e mi dirigo verso la camera in cui l’ho lasciata.
La vedo lì, seduta sul bordo del letto, con i capelli sciolti a coprirle il volto, le spalle che si alzano e si abbassano con uno ritmo innaturale e le sue mani che tremano.
Fogli sparsi sul pavimento.
L'ultimo cassetto dell'armadio aperto per metà.
E’ nell’istante esatto in cui sento Elena tirare su con il naso e la vedo asciugarsi le mille lacrime che le stanno scorrendo sul viso che collego tutto.
La notte in cui volevo lasciarla. La mia discussione con i miei. Quel suo telefono che non smetteva di suonare. Le sue lacrime. La mia ostinazione. La sua paura. Lei che mi chiede di andarmene. Io che la imploro di poter restare. E poi un foglio stropicciato e una penna in mano.
Capisco che ha letto quella lettera che non ho mai avuto intenzione di darle e che ormai sono definitivamente allo scoperto.
I miei piedi si muovono da soli, incerti se farmi avvicinare o lasciarle tempo, confuso sul modo in cui interpretare quelle lacrime e quei singhiozzi.
Ma poi è lei che sente i miei passi e alza piano il volto.
Gli occhi che spuntano da sotto quelle lunghe ciglia e mi guardano da dietro quella lunga frangetta che non ha fatto in tempo ad accorciare, sono la cosa più bella e devastante che abbia mai visto.
Il modo che ha di tirare su con il naso.
Il dorso della mano che si passa sugli occhi per asciugare tutte quelle lacrime.
Lo sguardo di incredulità e rabbia – forse – e meraviglia – spero.
Il modo in cui entra in casa, ogni volta, trovando la porta leggermente aperta, senza aspettare che sia io ad accoglierla, senza farmelo pesare, perché sa che non ce la faccio a farlo.
 
«Elena...»
 
Il sapore del suo nome nella mia bocca.
Lei che mi guarda e apre la bocca per prendere aria e riuscire a dire qualcosa senza nessun risultato.
Io che mi avvicino fino a sfiorare le sue ginocchia con il mio corpo e mi piego sulle gambe per poter essere alla sua altezza.
Lei che mi fissa senza riuscire a dire una parola.
E allora un po’ imbranato e un po’ imbarazzato, sorrido, di un sorriso piccolo, che è lo stesso che ha lei ma che ha paura di lasciarsi uscire.
Sorrido perché è bella, quanto ingenua.
Sorrido perché è mia, e di nessun altro.
Sorrido perché non ho più nessun segreto addosso.
Le accarezzo piano una guancia con il dorso della mano, scivolando poi sotto il suo mento per alzarle appena la testa, quel tanto che basta per poterla guardare ancora negli occhi, gonfi e liquidi.
 
«Fai uscire qualcosa ti prego da quella bella testolina..»
«Avresti dovuto… perché non…»
 
Esce solo confusione dalle sue labbra e sorrisi e respiri interrotti dalle lacrime.
 
E io vorrei solo che lo sapesse.. che ne avesse sempre avuto la certezza.
 
«Avresti.. sei.. tu sei..»
 
E poi un altro singhiozzo le blocca le parole e sono costretto a fermarle le mani, che continuano ad asciugarsi le lacrime e coprirsi la bocca per non esplodere in mille singhiozzi, per avvicinarmele al cuore e farle sentire quanto velocemente stia battendo in questo momento.
 
«Un idiota, lo so me lo hai già detto!»
«Quando volevi lasciarmi.. l’hai scritta quella sera vero? Dopo.. dopo che ti ho mandato via?»
 
Non le serve una risposta, le serve solo sentire tutto.
E io, lei lo sa, sono sempre lo stesso, non sono diverso, sono solo innamorato.
 
«Elena…»
«Perché hai aspettato che fossi io a tornare da te? Perché non sei tornato subito da me se.. sentivi tutto questo?»
«Perché non riesco ad essere egoista con te, perché mi avevi chiesto di andarmene e io sono un insicuro del cazzo e non ho nessuna attenuante..»
«Damon…»
 
Le sue mani tremano e le sento provare a scivolare via dalle mie mentre mi guarda ancora meravigliata e disarmata, per questo rafforzo la presa e non le permetto di allontanarsi per alcun motivo.
 
«Hai sempre fatto tutto tu Elena e questa è la cosa più egoistica o altruista forse che abbia mai detto, ma voglio che ascolti bene..»
 
Lascia scivolare le ultime lacrime sulle guance senza asciugarle, sgrana gli occhi dentro i miei e mi guarda con quello sguardo da cerbiatto indifeso ma pieno di tutto l’amore che si può contenere.
Quegli occhi grandi, liquidi, trasparenti, occhi che quando ti entrano dentro non sei più niente, se non te stesso.
Senza maschere, né orpelli.
Nudo, nello stesso modo in cui ti vede lei, prima ancora che te ne renda conto.
 
«Ti amo Elena Gilbert e non ho la minima intenzione di andarmene, né di lasciarti andare da nessuna parte senza di me, ti è più chiaro adesso?»
 
E lo dico, così tutto d’un fiato.
Mantenendo gli occhi dentro i suoi, con la voce secca e decisa, mentre dentro un moto di imbarazzo mi ferma il respiro e mi fa sputare fuori tutto il cuore che ho e che le dovevo.
E lei mi fissa, spalancando la bocca come se davvero tutto l’ossigeno di questa stanza fosse stato risucchiato via e l’unica fonte possibile sia io.
Ricomincia a piangere riportandosi una mano sulle labbra a coprire quei singhiozzi che invece adesso sono forti e netti, e poi d’impulso, senza neanche darmi il tempo di prepararmi, si getta su di me stringendomi fino a farmi sentire le sue ossa, il suo seno, il suo bacino, le sue gambe, completamente addosso.
Mi abbraccia e piange, mi accarezza e mi bacia su tutto il viso. E ride.
Ed è un miscuglio di lacrime e labbra, di salato e dolce, che si mescolano, si confondono mentre mi tiene stretto su di sé e si prende tutto quello che è suo.
Tutto ciò che di me, è suo.
Se lo merita, si merita tutto quello che non sono riuscito a darle prima, si merita che io asciughi tutte le sue lacrime, una ad una, si merita tutti i sorrisi e tutte le sicurezze che vuole.
Se li merita per quello che è riuscita a fare con me, per la consapevolezza di poter essere amato, per l’amore che mi ha tirato fuori, per quello vero, quello dopo le litigate e le urla, per l’amore che fa tornare e per quello che fa restare.
Stavolta, siamo davvero solo io e lei, con tutte le parole che mancavano e quei silenzi che non potevano più bastare.
Siamo l’inizio che doveva arrivare.
Il compromesso che non fa più titubare.
Un sapore nuovo nel fare l’amore.
Siamo io e lei, con tutto ciò che questo voglia dire.
 

 
 
 
 
Ho aspettato cento anni
ma per te ne aspetterei ancora un milione.

 
Niente mi aveva preparato al privilegio di essere tuo.
Se solo avessi sentito il calore nel tuo tocco,
se solo avessi visto come sorridi quando arrossisci,
o come arricci le labbra quando ti concentri,
avrei saputo la ragione per cui stavo vivendo,
avrei saputo la ragione per cui stavo vivendo.
 
Il tuo amore è il mio voltare pagina,
rimangono solo le parole più dolci.
 
Rinuncio a quello che ero per quello che sei.
Niente mi rende più forte del tuo fragile cuore,
se solo avessi sentito come ci si sente ad essere tuo,
avrei saputo la ragione per cui stavo vivendo tutto questo tempo,
avrei saputo la ragione per cui stavo vivendo
 
Siamo legati alla storia che dobbiamo raccontare..
quando ti ho vista, beh, sapevo che l’avremmo raccontata bene.
 
Turning page _ Sleeping at last
 






 
********************************
Ebbene sì.
Sono di nuovo qui! Per chi lo aveva chiesto, per chi si era dimenticata giustamente di questa storia, per chi ogni tanto ci pensava ancora..
Avevo in mente questo epilogo da quando ho pubblicato l'ultimo capitolo, ci stavo già lavorando ma solo adesso sono riusicta a concluderlo e finalmente tornare a pubblicare.
'Concludere' è una parola enorme perché avrei voluto metterci mille altre cose.. (magari lo farò in un epilogo 2.0!) per ora questo è ciò che volevo regalarvi.. e che in fondo dovevo a voi, a me e a questi due, ma soprattutto ad Elena! Che con tutta la fatica che ha fatto, almeno questo doveva sentirselo dire.
La verità però, nuda e cruda, è che mi mancavate voi proprio tanto, mi mancava scrivere e pubblicare.. perciò sono tornata anche per farvi un salutino! Spero stiate bene e di ritrovarvi ancora anche qui!

Un bacio enorme a tutte!!!

Ale


Piccola NOTA: la lettera che ovviamente Elena trova e legge, è quella che Damon ha scritto in un impeto di follia (mia!) e potete trovarla nel capitolo 18°. Non ho voluto ripubblicarla perché chi ha seguito la storia la conosce bene, credo, o comunque può andarla a rispolverare, chi invece si è imbattutto per la prima volta in questa storia e gli è venuta una minuscola voglia di leggerla, non ho voluto rovinare le cose!
 
 











 






 

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