Diari di un onesto Assassino -il Templare, la Francese e il Profeta.

di Mirin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** “La luna se n’è andata, la mamma si è svegliata, la luce si è alzata, inizia la mattinata”. ***
Capitolo 2: *** Caino et Abele ***
Capitolo 3: *** Cosa sono io. {prologo - parte prima} ***



Capitolo 1
*** “La luna se n’è andata, la mamma si è svegliata, la luce si è alzata, inizia la mattinata”. ***


I’ll show you why
You won’t survive at the night
Just before you die
Look in my eyes and see the lights


Marcello sorrise alla sua cliente mentre le porgeva una pesca matura.
L’estate di Firenze tinteggiava di verde brillante le foglie degli alberi di melo che costeggiavano la piazza, un sole incredibile splendeva sull’acqua della fontana di marmo che per chissà quale incantesimo divino sgorgava torrenti dalle bocche delle statue di cui era adorna, i bambini in calzoni corti si divertivano rincorrendo i loro coetanei, le donne camminavano in gruppi ciarlieri, alcuni commedianti rileggevano alcune pagine del loro ultimo canovaccio, gli uccelli volteggiavano senza peso nel cielo smaltato di blu.
Il giovane si asciugò il sudore dalla fronte e chiese alla donna anziana di fronte a lui: «Questo è di vostro gradimento, madonna?»
La signora lo guardò con aria acida e corrucciò le labbra, insoddisfatta. «Avanti Marcello, non farmi perdere tempo! Sono appena tornata da Napoli e la frutta era più che perfetta, profumava! Cerchi per caso di rifilarmi quella caduta dal carro?»
Il ragazzo sospirò. «Nossignora! Non mi vedrete mai protagonista di questi atti villani e fallaci, d’altro canto, chi mai potrebbe ingannare il vostro naso?»
La donna sorrise: «Dunque, hai ciò che cerco?»
Marcello meditò per un attimo, poi chiese alla donna di aspettarlo lì. Corse in mezzo alla piazza, dritto verso la fontana che ne era il centro, e passò in mezzo ad un folto ammasso di piccioni che beccavano le molliche lanciate dalle bambine, i quali si sollevarono in volo turbati. Raccolse le gambe e atterrò sul bordo della vasca, dopo la superò con un balzo prima di ricominciare a correre attraverso un vicolo stretto che venne d’improvviso imboccato da due uomini, portavano in spalla una lunga asse. Con una scivolata vi passò sotto e girò a destra, arrivando in un grosso viale gremito di gente. Scusandosi per le varie spinte che rifilava ai passanti, si arrampicò sul cornicione di un palazzo per arrivare ad un ballatoio. Da lì si inerpicò direttamente su un tetto dal quale si spinse fino alla strada parallela. Con un gran schianto toccò terra e si avvicinò alla bancarella del suo migliore amico: Enzo.
Questi si voltò verso di lui con un sorriso furbo e consapevole.
«Auditore.»
«Servo tuo, amico» Marcello si inchinò con il fiatone «se mi fai un favore.»
Enzo alzò un sopracciglio. «Con che coraggio ancora abusi della mia pazienza, Auditore? Ordunque ancora mi credi tuo debitore? Ti ho ripagato con tutti i miei servigi ed ancora ti ostini a ritenerti superiore? Qual inciviltà, qual ombra è caduta sulla nobile famiglia dei banchieri di Firenze!»
«Abbassa la voce, stupido esibizionista! Vuoi che Firenze intera ti senta? Ce l’hai qualcosa da appioppare alla Megera?» gli intimò Marcello, che si guardava nervoso le spalle. Due ragazze ridacchiavano mentre li osservavano.
«La vecchia? È la rovina di noi fruttivendoli! Sì, credo di avere qualcosa… se stavolta mi giuri sui coglioni che divideremo a metà la vendita!» Enzo si fece minaccioso.
Marcello ridacchiò: «Amico mio, credi mai che ti imbroglierei? Il mio onore non me lo permetterebbe!»
«La tua coscienza non è cresciuta assieme ai peli del tuo pube, Marcello» ribatté «mi hai già imbrogliato più volte di quante le dita possano contare.»
«Avanti, Enzo! Sono il figlio di Messer Ezio Auditore da Firenze, un po’ di rispetto!» egli gonfiò il petto e sventolò l’indice contro l’altro.
«Certo, certo» lasciò perdere il secondo «prendi questa. È frutta spagnola» il ragazzo alzò le sopracciglia e Marcello rise, cogliendo l’antifona. Prese il cestino offerto dall’amico e fece un cenno sbarazzino verso le due donne che lo guardarono con occhi languidi.
«Figlio d’un banchiere» borbottò Enzo.



Non era l’unico a chiamarlo così, bensì tutta Firenze.
Era un bravo ragazzo, di sicuro, ma non era di gran lunga simile al padre Ezio. Colui che a trent’anni era stato l’Assassino più famoso della penisola non aveva vissuto abbastanza a lungo da insegnare al figlio maschio i dogmi del vivere secondo giudizio: onestà, sprezzo del pericolo e astensione dal vizio.
Il banchiere è la figura che più si avvicinava a lui: oculato, donnaiolo e senza spina dorsale. Non si faceva scrupoli a ricattare le persone che chissà come gli dovevano un favore, Enzo per primo, e per lui le donne esistevano soltanto per togliere loro la dote.
Si portava sulle spalle vent’anni di mediocrità, e Claudia si chiedeva cosa Ezio avrebbe detto -se fosse stato vivo- di un figlio educatamente degenere come Marcello. Non avrebbe di certo desiderato che intraprendesse la carriera distruttiva di Assassino, ma nemmeno che perdesse i cardini del gentiluomo, dei quali Messer Ezio Auditore da Firenze era stato il convinto propagandista.
«Oh Signore, aiutalo tu» la zia lo rimetteva sempre alle cure di Dio poiché soltanto l’Onnipotente avrebbe potuto educare quel dirittone. In fin dei conti quasi sorrideva mentre osservava i vispi occhi azzurri del nipote: così diversi da quelli di suo fratello, eppure così simili; vivi, allerta, scherzosi. Sembrava quasi di vedere l’Ezio Auditore innamorato di Cristina, il ragazzo spensierato che se ne andava smargiasso per le vie di Firenze esibendo il suo cognome quasi fosse un blasone reale. Certo, se da un lato Ezio era più valoroso, Marcello era senza dubbio più cauto, Claudia doveva concederglielo, e un migliore giocatore di scacchi. Marcello era uno stratega, un comandante, un manovratore, ed invero avrebbe avuto successo in politica se non avesse dovuto portarsi dietro l’appellativo di “figlio dell’Assassino”.
La donna, d’altronde, sapeva che la morte di Ezio attirava sulla sua casa sventure invisibili e minacce remote. Ormai morto da vent’anni, i suoi tesori facevano ancora gola -e non si parla delle sue ricchezze materiali, ma della documentazione dettagliata sulla Gilda ancora nascosta nella Villa. Lei faceva quanto poteva, ma non aveva il potere di custodire ancora a lungo l’Ordine degli Assassini, e le scelte per un nuovo Mentore erano diventate ormai ristrette ed oscurate da varie ambizioni dai parti dei candidati. Voleva tanto che il potere continuasse a scorrere nella Famiglia Auditore, ma non se la sentiva di affidare a nessuno dei figli di Ezio un tale peso, soprattutto perché il padre sarebbe stato di certo poco contento di ciò.
Morto ormai da un anno il caro Ludovico, Claudia conservava -per discendenza- il titolo spettato prima allo zio e poi al fratello, ma in cuor suo sapeva che entro poco il suo tempo limite sarebbe scaduto e nell’Ordine sarebbe scoppiato il caos; dunque, qual’era la persona giusta a cui affidare questo incarico?
«Signora Auditore?» una guardia bussò alla porta del suo studio.
«Avanti» rispose Claudia, un sospiro rassegnato nella voce roca d’anziana.
Egli entrò con un gran sferragliare e si inchinò alla donna. Dopo la morte del marito si era trasferita in via definitiva a Firenze, per stare vicina alla cognata e consolarsi a vicenda della perdita dei rispettivi consorti. Dopo aver capito di essersi stabilita sulle ceneri di una polveriera, aveva deciso di munirsi di un manipolo di fidati soldati che proteggessero la sua incolumità; uno di questi era Saverio, il capo della guardia.
«Buongiorno, signora» esordì con voce limpida Saverio, rimettendosi dritto. «C’è una donna che desidera vederla.»
Claudia sbuffò, irritata. La sua ricchezza, la sua vecchiaia e la sua mancanza di eredi le portavano sotto al portone decine e decine di mendicanti -tra i quali la maggior parte parlava un eccellente fiorentino- in cerca di danaro facile. Non aveva mai sopportato gli avvoltoi e la sua amata Firenze, per quanto traboccasse di pregi -dal vino all’arte-, ne era piena.
«E chi dunque stavolta desidera servirsi delle mie monete d’oro? Un onesto mendicante, un volgare straccione o un morto di fame? Quanti di loro ogni giorno bussano alla mia dimora chiedendo denaro, quando questa vecchia signora sa da che ambienti essi provengano! Usurai, nobili, titolati, avvocati, magistrati! Questa storia debba un giorno aver punto di fine, lo giuro sulla testa dei miei nipoti!» sbottò inviperita, ma il giovane con un rossore d’imbarazzo frenò la sua invettiva: «oh madonna, vi prego, aspettate! C’è un imbroglio! La donna si è appellata come La Fransese.»
«La Français?» Claudia subito corresse il tiro. Se avesse saputo la verità, avrebbe preferito illudersi fosse davvero un ruffiano, l’avrebbe accolto con un sorriso ed invitato lieta ad entrare.
Perché lei? Perché adesso? Da Nord giungevano sempre cattive notizie, Claudia lo sapeva per esperienza, e La Francese era una cattiva notizia già di per sé senza un messaggio funesto.
Si morse il labbro. Se il Mentore francese si scomodava a mandare un Maestro in Italia, di certo quello che portava non era un semplice resoconto delle attività europee, Claudia ne era consapevole, ma non riusciva a scacciare il cattivo presentimento annidatosi nella sua mente.
«Falla entrare, Saverio» si arrese Claudia per poi sprofondare in una poltrona rossa di velluto. Le tende cremisi erano spalancate come le ante del grande finestrone che riparavano, e la luce dorata del meriggio si infilava prepotente nella stanza lussuosa, adorna di tanti tipi di legno pregiatissimi.
Un dolce profumo di margherite si innalzava dall’aiuola del giardino proprio sotto l’apertura e Claudia sentì alcune bambine ridere, intente a coglierle.
«La roscia, la roscia!»
«No, Maria, la bianca!»
«Guardate quella, che insolita tinta!»
«Si dice che Madonna Auditore l’abbia presa da Costantinopoli durante uno dei viaggi del fratello!»
Un improvviso scattare della serratura la destò. La porta si aprì con lentezza mentre una donna incappucciata scivolava nell’ambiente. Aveva una spessa e robusta toga di tessuto chiusa da una serie di bottoni a pressione in ottone sul davanti, completamente bianca, lunga fino alle caviglie, oltre la quale sbucavano un paio di stivali comodi ed eleganti. Assomigliava ad uno spettrale fantasma, la forma svasata del vestito, la larghezza delle maniche, e il cappuccio creava un forte contrasto: fine, leggero, accompagnava la forma piccola di una testa femminile e sembrava non essere attaccato alla toga stessa, piuttosto a qualcosa al di sotto.
Non sembrava portare armi ma Claudia sapeva che le avrebbe trovato ai polsi le sue famose Lame Celate al Profumo di Artemisia, pugnali a scatto imbevuti di uno speciale veleno floreale dalla soave fragranza ma letale per infusione o assunzione orale.
«Madame Auditore.» Madame Auditovre.
«Chantal» -Claudia abbassò il capo alla riverenza della donna- «cosa fai nell’abitazione di una vecchia signora in un bel giorno d’estate?»
«Sono pavrtita diesci giovrni fa, madame, e a Paris fasceva molto fvreddo» la sua voce sembrava sempre canzonatoria, Claudia se ne ricordava bene, e la sua sfrontatezza era uno dei motivi per il quale non la sopportava. Non faceva altro che pavoneggiarsi con quella sua voce dall’armoniosa melodia, con il suo accento romantico e con la figura esile dalle curve generose, l’antitesi dell’Assassino. Sapeva, però, perché Jean-Paul se la teneva così stretta: niente uccideva con più velocità di Chantal -a parte la buonanima di Ezio. Aveva visto molti Assassini correre sui tetti, ma Chantal ci volava, era come una palla lanciata in discesa, più agile di un gatto e quando scendeva in picchiata era letale. Seduttrice nata, era un’ottima spia, sapeva come raccogliere appoggi ed informazioni tramite coercizione, tortura, minaccia e favori sessuali; parlava di lei il suo cognome, Foncé, oscuro.
«E con quali intenzioni, Chantal?» chiese Claudia con una punta di impazienza.
«Sono venuta a ritirar les affaires di Messer Essio» mormorò infine con una palesemente finta smorfia di contrizione. Claudia scattò subito e, senza potersi trattenere, si alzò in piedi.
«E con quale coraggio ti arroghi questo diritto?» Claudia proruppe minacciosa «gli oggetti di Ezio sono patrimonio unico della sua famiglia ed appartengono ai suoi eredi secondo testamento!»
«Non mi interessa il denavro» ribatté secca «l’Ovrdine desidevra sue mappatuvre, suoi codisci.»
«I suoi più preziosi tesori» chiarì inacidita Claudia senza giri di parole.
«Il  era un Mentovre, e come tale il suo patvrimonio appartiene a-» «A coloro a cui lo ha assegnato! Ezio ha guidato per anni l’Ordine italiano e per tanto quel materiale verrà custodito in Italia! Saremo lieti di ospitare i nostri collaboratori francesi, qualora ne sentissero il bisogno.»
Chantal si sporse sulla scrivania di Claudia con il chiaro intento di intimidirla, ma gli occhi pronti della donna orlati da ciglia grigie non diedero alcun sentore di paura; anzi, sembravano sfidare lo sguardo blu di Chantal sotto il cappuccio.
«L’Ovrdine franscese sente la nescessità di davre a quella pressiosa evredità una protescione più sicuvra» Claudia capì che Chantal stava nascondendo un segreto.
«Perché adesso?» ma non appena fece quella fatidica domanda ad alta voce, tutto le si delineò nella mente con precisione millimetrica e le si accapponò la pelle.
«Cosa scende con te dalla Francia, Chantal?»
«Quelque chose che desidevra i tesovri di Essio e che ha valicato i Pivrenei per ottenevrli.»
«I Borgia e la loro discendenza sono distrutti» mormorò Claudia senza voce.
«Non l’Ovrdine dei Templavri» le ricordò Chantal «e la lovro nuova roccafovrte è in Spagna. Sono guidati da colui che si fa chiamavre Carlo V.»
«L’Asburgico?» bisbigliò Claudia scioccata «Il Re di Sicilia è un Templare?»
Chantal annuì grave ed aprì la bocca per dire qualcosa ma venne interrotta dall’entrata di un ragazzo con i capelli neri ed un sorriso divertito sul volto.
«Zia!» esordì con calore «si sente la vostra mancanza su a Villa Auditore! Quando…»
Marcello si interruppe allo scrutare il viso dell’adorata zia, angoscioso ed afflitto da chissà quali pene.
«Zia!» ripeté allarmato e fece per sporgersi verso di lei, ma solo dopo si accorse di una terza presenza nella stanza, con il cappuccio calato ed una lunga tunica di stoffa ruvida che la ricopriva per intero.
«Tu es qui?» nel suo tono c’era un sorriso di retorica che Marcello non colse, o forse ignorò.
«Marcello Auditore, madamigella, figlio di Ezio Auditore da Firenze e Sofia Sartor» lo disse con quell’odiosa superiorità, tipica di un cane che si pavoneggi tra i suoi pari per l’importanza del proprio collare.
«Vi vontate di natali di cui non conoscete il vevro valovre» rispose la donna, altera e tagliente.
Marcello si sentì tremendamente offeso da quella straniera: come osava prendersi gioco di lui in quel modo? Una donna che osava insultarlo? E con che diritto? Qual onta, qual vilipendio, quello di sporcare il nome dei grandi Auditore!
«Signorina, vi prego di rispettare il mos di Firenze!» ringhiò, ma ella scoppiò a ridere con gusto.
«E quindi il seme del gvrande Essio Auditovre ha scenevrato sciò? Sacrebleu! Non valete neanche un’unghia di vostvro padvre!» lo accusò ferina, facendo schioccare la lingua.
«Adesso basta! Voi vi beffate dell’onore mio e di quello dei miei antenati! Con che coraggio entrate in una dimora degli Auditore senza chinare il capo a coloro che la abitano? Siamo stati, anzi siamo, i padroni di Firenze!» Marcello gridò, furioso.
«Voi stesso siete il danno e la beffa del vostvro casato, Mavrscello» pronunciò la donna e sbiadì, almeno così gli parve.
Un secondo più tardi si ritrovò piegato con le braccia sullo stomaco, quando la straniera l’ebbe colpito forte in pancia. Non ebbe modo di pararsi dalla seconda gomitata, tirata forte sulla testa, ma schivò il calcio diretto alla caviglia. Così conciata, ingombrata dalla pesane tunica di stoffa, non si muoveva con molta agilità, ma l’effetto sorpresa aveva ingannato in modo meschino l’Auditore.
Marcello cercò di arretrare ma la donna lo afferrò per un polso e lo trascinò in avanti, facendolo cadere lungo disteso sul pavimento.
«Chantal!» Claudia esclamò, inorridita. La francese la ignorò, quindi appoggiò un piede sulla testa dell’uomo e la tenne ben ancorata al suolo.
«Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.»
In un fruscio di tessuto, si ritrovò sulla soglia della finestra aperta, dando le spalle alla via esterna.
«Riflettete bane su sciò che ho detto, Madame Auditovre. Avete poco tempo» affermò Chantal Foncé, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi cadere a braccia aperte.



La luce aranciata del tramonto colorava le cime dei cipressi del colore dell’oro fuso, alcuni uccelli notturni già stridevano, le mamme sgridavano i bambini per non essere ancora rientrati e gli arrivava lontano l’eco di risate virili.
Virile. Aggettivo derivato dal sostantivo latino “vir” che, a differenza di “mas” significante il generico maschio, indicava l’uomo forte e pieno di convinzioni, deciso a lottare per i propri ideali e incapace di provare paura, l’eroe per eccellenza.
Marcello, in ginocchio davanti alla tomba di suo padre, si chiedeva cosa lui fosse; il vir o il mas?
Molti gli avevano detto di usare i suoi avi come scudo per le sue incapacità, e lui mai aveva capito dove fosse il problema: c’era qualcosa di sbagliato ad avere avuto straordinari parenti? Doveva vergognarsi delle proprie origini? Giammai! Quello che avevano fatto i grandi Auditore riecheggiava nella storia moderna e di certo sarebbe rimasto vivo nelle ere.
Eppure dunque perché era lo zimbello della città? Cosa dettava la compassione negli sguardi della gente? Il fatto che fosse rimasto orfano da bambino turbava le menti dei fiorentini? Eppure erano passati dieci anni dall’accaduto, ormai sapeva badare a sé stesso.
Era una delle cose che più detestava, ad essere onesti. Quel nome, quell’appellativo: figlio di un banchiere. Sapeva cosa significasse ed aveva imparato a convivere con quell’imposizione, ma ora più che mai gli andava stretto, colpa di quella dannata donnaccia. Tutta Firenze lo chiamava così, in quel modo, figlio del banchiere, come se suo padre fosse stato famoso per le sue attività di contabile! Tutti sapevano qual’era stato per secoli il mestiere degli Auditore, e di certo non quello di revisori di conti! Sapeva che suo padre aveva lasciato moltissimi documenti alla Villa, accuratamente nascosti, ma lui non aveva mai avuto il coraggio di dare loro uno sguardo: troppi intrighi, troppi segreti nascondevano quelle carte, e lui non aveva la minima intenzione di dedicare la propria vita all’Ordine come aveva fatto il genitore.
Gli Auditore avevano pagato il loro tributo alla Causa degli Assassini, era ora di voltare pagina.
Però un dubbio lo assaliva in quelle ore: fosse il suo rifiuto per la cappa la vera origine della sua codardia? Perché evitare quell’indumento, se ogni volta vi si nascondeva dietro evocando il nome dell’invincibile padre?
Le tombe spesse di pietra creavano ombre scure sul prato, con il sole all’orizzonte. Marcello fu inghiottito da quella di suo padre, la lapide più alta del cimitero.
Si rese conto che ciò accadeva da vent’anni. Aveva vissuto per vent’anni all’ombra del padre, delle sue gesta, del cognome da lui ereditato: ciò che fino al pomeriggio aveva creduto essere una benedizione, ora si rivelava la sua condanna. Non era possibile per lui vivere con quel peso, con il peso di essere un Auditore e di non essere all’altezza del proprio predecessore, di non essere all’altezza del proprio padre.

 
Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.

E se quindi non poteva campare della vanagloria per gli atti di Ezio, perché continuare a ricordarlo? Era stanco di essere paragonato a lui, di avere lui come esempio, un uomo che aveva passato l’intera vita ad uccidere, a rubare, a mentire.
Lui era il vir. Marcello era il mas.
Non ne era sorpreso: era troppo prudente e coscienzioso per poter mai essere un vir. Aveva accettato il fatto di non avere abbastanza fegato per sfidare a mani nude masnade di nemici armati fino ai denti, ma aveva sale in zucca, tanto quanto bastava per non farsi uccidere da innumerevoli rivali. Come? Non facendoseli.
Il suo eroismo era dettato da puri interessi personali, e se davvero esiste il confine tra meschinità e proprio tornaconto, Marcello non ne aveva mai compreso l’importanza. Perché limitarsi a stare bene, se si può stare meglio adottando semplici stratagemmi?
L’uomo si rialzò e guardò con uno strano sentimento di mancanza il nome inciso sulla lastra. Era la seconda volta che perdeva suo padre, eppure solo in quel momento capiva quale era il distacco definitivo, proprio mentre gli voltava le spalle.
Ezio Auditore da Firenze era stato un grande Assassino.
Marcello Auditore sarebbe stato un onesto Fiorentino.
“La strada verso casa è lunga” ricordò con un sorriso, mentre si caricava in spalla il sacco pieno di frutta.
La scelta di fare il fruttivendolo era dettata da una necessità caratteriale e uno sfruttamento di materie prime: poiché abitavano in campagna e possedevano un grande podere, si producevano da soli la maggior parte dei viveri e ciò che rimaneva in più lo vendevano al mercato. Marcello era un ottimo diplomatico, e grazie al suo bell’aspetto riusciva in più di un affare. Era un ammaliatore, un dirittone, un furbastro, e sua madre sospirava spesso che il figlio non aveva nulla da invidiare a suo padre.
Sofia amava coltivare le piantagioni di meli, aranci, peschi, albicocchi, diceva che il loro buon profumo le ricordava suo marito, e spesso Flavia le dava ragione, che l’essenza dalle note dolci del melograno assomigliava a quella di Ezio.
Marcello non riusciva a capire come la sorella se ne ricordasse così vividamente: avevano soltanto un anno di differenza, eppure Flavia parlava di Ezio quasi ci avesse vissuto un’intera vita assieme. Riusciva a descrivere le abitudini dell’uomo come se ce l’avesse davanti, cosa gli piaceva mangiare, il tono roco della sua voce, le sensazioni che la sua mano ruvida le dava tra i capelli, come la chiamava, cosa gli piaceva che lei indossasse, il colore della sua risata, il taglio degli occhi, la robustezza del mento. Lui non ricordava nulla del padre, se non che fosse sempre chiuso nello studio e che avesse un’onnipresente tosse da cani.
Riflettendoci bene, lui non aveva mai conciliato la figura del padre sessantacinquenne con quella dell’Assassino d’Italia. Ezio Auditore e suo padre non erano la stessa persona, nella sua mente.
Come poteva, d’altronde, il vecchio che camminava con la schiena curva aver sterminato i Templari di Italia? No, non era possibile.
Aveva sempre visto Ezio come un’entità astratta. Certo, lo identificava come padre, eppure pensava a lui soltanto come grandezza, e non come umanità. A dirla tutta, stimava più le azioni gloriose che la sua quotidianità: capiva la grandiosità che stava nell’aver sgominato i Borgia, ma non quella dell’aver messo al mondo due figli. Non aveva ricordi di suo padre, se non quello dell’averlo disprezzato già da un anno a partire dalla sua morte, né di Ezio, al quale aveva appena dichiarato un divorzio di rispetto.
Mentre risaliva la collina, si accorse di non sentirsi in pace.
Qualche secondo dopo, capì di non essere solo.
Si aggiustò meglio il sacco sulla spalla sinistra, nel frattempo gettava un’occhiata nella direzione opposta. Le foglie di un cespuglio nella macchia frusciavano in maniera innaturale, quindi Marcello decise di tenersi contro gli alberi più lontani a quella parte di vegetazione. Si sentiva spiato, assalito, sotto la lente di ingrandimento di invisibili nemici, nervoso ed al contempo eccitato a causa dell’adrenalina che gli scorreva nelle vene.
Se qualcuno gli era davvero alle calcagna non poteva permettersi di portarlo a Villa Auditore, da sua madre, da Flavia e Fiorella, doveva cercare di seminarlo prima di ritirarsi a casa in tutta fretta.
Si diresse verso est, in una villa di campagna appartenente al padre di suo cognato, Davide Beccaccia, fuori per un viaggio a Napoli. Oltre ad essere vuota, era anche provvista di una stalla che ospitava i cavalli più veloci dell’intera Firenze.
Passo dopo passo, risalì il pendio e a sorpresa si inerpicò attraverso una fitta sterpaglia, piena di rovi spinosi e zone paludose, ostica anche per i più esperti. Conosceva il sentiero, incastrato tra alberi frondosi e caterve di acquitrini infestati, già per lui era difficile arrivarci, figurarsi per gli eventuali assalitori.
Il buio lo inghiottì da ogni direzione, lui silenzioso come una volpe iniziò a muoversi attraverso le foglie sfilacciate che creavano il tappeto interno della foresta. Attorno a lui sentiva lo sciaguattare nel fango stagnante degli uccelli marini venuti in cerca di pesci e rane, i grilli che frinivano sui rami più alti delle querce, passi umani che si muovevano impacciati su un territorio sconosciuto. Sorrise: sprovveduti.
Si permise di accelerare, silenzioso come un’ombra nel sottobosco, si arrampicò sul busto sottile di un pino marittimo, nascosto dai castagni limitrofi, e studiò la zona circostante. Pur non vedendoli, percepiva la posizione dei nemici rispetto alla propria, ed anche la distanza dal sentiero, di circa una ventina di metri più a sud.
Non sapeva come, ma riusciva sempre a trovare la strada: era un dono naturale, un suo personale fiuto speciale; anche quando la sorella da piccola gli nascondeva le scarpe, i vestiti, i giochi, lui ritrovava il perduto in meno di dieci minuti. Flavia si arrabbiava tanto da picchiarlo e si lamentava con Sofia che il figlio maschio imbrogliasse.
Scese dall’albero fino a terra con rapidità, sfruttando le scanalature dell’arbusto, e sfrecciò verso la via maestra, sottile come un ramo di salice fra le erbacce che la dominavano da entrambi i lati. Sentiva le lamentele sommesse e lontane degli assalitori -“lo hemos perdido!”- ma cercava di non dare loro peso, con il cuore che gli batteva a mille per la fatica e la paura cieca che gli era salita dopo aver sentito il rumore di ferro di spade sguainate.
Quasi mancò di girare a destra al bivio, ma dopo un’imprecazione imboccò la strada giusta. Più avanzava, più la luce scemava, e ben presto si sentì soffocare dal nauseante colore verde scuro dei pochi raggi che trapelavano dalle foglie spesse ed umide. I piedi faticavano a mantenere il ritmo della sua corsa, infatti inciampò in molte radici e rischiò di cadere così tante volte da dover prestare attenzione unicamente al suolo ed isolarsi dalle voci esterne che si avvicinavano leste.
Era scuro il cielo sopra la sua testa, prima che riuscisse a distinguere in lontananza un’abitazione al limitare degli alberi, e poté fare ciò soltanto perché il bianco della casa brillava nel buio. Si sforzò per compiere l’ultimo scatto, ma una pietra infame gli tranciò la corsa, mandandolo a sbattere sull’erba incolta; l’impatto fu talmente duro da fargli sanguinare il naso e provocare un rumore sordo che si propagò nell’aria a distanza di metri. D’improvviso tutto tacque, mentre Marcello capiva di essere morto, morto stecchito.
«¿Auditor Marcelo?» una voce austera si alzò dalla macchia, un tono di imperioso comando verso il quale provava un disgusto ed un rifiuto radicato nel proprio essere.
“Auditore”.
«¿Tu eres Auditor Marcelo?» si avvicinava, Marcello avvertiva il sangue scorrergli nella bocca che aveva spalancato a metà respiro, confuso e spaventato.
“Io sono Marcello.”
«¡Auditor Marcelo!» altre persone si unirono alla prima, forse due, oppure tre. Sembravano tutti avere lo stesso tono freddo e tagliente, roco e forte.
“Non Auditore. Solo Marcello. Marcello. Marcello.”
«¿Dónde eres tu, hijo de puta ?» quasi urlavano. Marcello sentiva il nervosismo e la brama di autoconservazione scavare nel suo spirito, dilaniato a sua volta da due lame.
Scappa. Scappa e non voltarti indietro diceva il mas.
Uccidi. Uccidi e difendi il tuo onore diceva il vir.
“Marcello. Io sono Marcello. Un onesto fruttivendolo. Figlio di Ezio Auditore e Sofia Sartor, appartenente alla stirpe degli assassini di Firenze, figlio del più grande Mentore esistito nella storia corrente. Io non so uccidere. Io non so rubare. Io non sono capace di mantenere la calma. Ma posso imparare. Non riuscirò mai ad avere la meglio su dei mercenari. Ce l’ho nel sangue. Io sono questo. Non so giocare a fare l’eroe. Non è più un gioco. Adesso non posso più nascondermi.
Qualcosa lo prese per i capelli neri raccolti, rivelando alle luce della stelle pallide il suo volto coperto di una vischiosa sostanza rossa. Aprì di qualche centimetro gli occhi azzurri brillanti di una luce particolare, e ci vide riflessa la faccia rotonda, floscia e sdentata di un uomo calvo con una croce al collo. La persona che lo aveva afferrato per la coda, in quel momento spostò l’attenzione sulle sue mani che vennero torte dietro la sua schiena. All’uomo che gli stava di fronte, se ne aggiunse un altro.
«¡Un guapo, igual que su padre!» disse il calvo al suo compagno, dandogli di gomito. Al loro fianco, penzolavano spade leggere, ma fuori dalla portata di Marcello.
«Pero toda esta sangre lo desfigura» rispose l’uomo che gli tratteneva le mani, le quali perdevano rapidamente di sensibilità.
Doveva agire in fretta. Il corpo dei tre bravi era coperto da un’armatura pesante, l’unico punto scoperto era la testa. L’agilità era l’unico punto a favore per quel combattimento. E pensare che le scuderie erano così dannatamente vicine! L’uomo lo spinse in avanti con uno strattone, cosicché Marcello per inerzia abbassò il capo.
«¡Dónde están los documentos de tu padre!» non conosceva lo spagnolo, ma non c’era bisogno di parlarlo per capire cosa l’uomo desiderasse.
“La documentazione sull’Ordine. Vogliono i segreti della mia famiglia.”
«Guadagnateli» sibilò Marcello.
«¿Qué?» affannò uno dei mercenari.
Marcello alzò la testa di scatto con un movimento così repentino e furioso da far schizzare il sangue dalla bocca dell’uomo che lo teneva fermo. Questi lo lasciò così di scatto da farlo parere incandescente e Marcello, senza neanche voltarsi, gli rubò la spada corta dal fodero.
Prima che il calvo comprendesse di essere in pericolo, venne trafitto allo stomaco.
Marcello spinse il cadavere gorgogliante dell’uomo e cominciò a correre come mai in tutta la sua vita. Sentiva alle spalle lo sferragliare delle armature, lo sguainare dei ferri, il sangue sulle dita, sul volto, nel cuore, negli occhi, ma ciò non gli impediva di correre. Più correva, più capiva che avrebbe dovuto correre per tutta la vita. Scappare. Con ogni mezzo che gli si presentava.

 
Agiamo nell’ombra per servire la luce.

Suo padre glielo aveva detto, mostrandogli una pergamena dagli strani disegni.
Ora che si era macchiato dell’uccisione di un altro essere umano, come doveva sentirsi?
Non pensarci diceva il mas.
Non dimenticare mai di aver rubato una vita, e rispetta la memoria di colui che hai ucciso diceva il vir.
Marcello spinse la porta della stalla con forza e si diresse verso il primo cavallo che gli si era parato davanti. Sciolse con le unghie sporche il nodo alla staccionata fatto con le redini del destriero, che nitrì di sorpresa. Marcello non ci fece caso e salì immediatamente in groppa alla bestia prima di dargli un colpo con il tacco degli stivaloni. Il cavallo impennò, proprio appena i mercenari fecero il loro ingresso. La furia animale puntò direttamente su di loro, che si tirarono da parte, mentre l’ultimo Auditore solcava la notte intrisa di mistero.
 
Flavia ordinava le messi in fasci chiusi da nastri robusti, mentre Sofia spazzava il pavimento con la scopa di frassino.
Fiorella, seduta sul prato candido di margherite con il suo vestito azzurro dall’ampia gonna, intrecciava fiori per fare una ghirlanda. Aveva i capelli della madre e gli occhi verdi del padre, ma la nonna diceva che il suo sorriso era sempre stato quello di Ezio. Sapeva che Ezio era stato un grande uomo, e che era il papà di sua mamma Flavia. Era morto tanto tempo prima, non l’aveva mai visto, quindi spesso saliva su una sedia e si metteva davanti alla finestra per osservare il suo bel sorriso.
Quella sera, aspettava il caro zio che ritornava dalla città. Quando alla mattina si era svegliata con i primi raggi di sole, Marcello era già fuori e sua madre dormiva ancora. Odiava alzarsi quando lui usciva, perché voleva che lui la svegliasse, in quel modo tutto speciale; si avvicinava a Fiorella, le mordeva le guance, poi le sussurrava nell’orecchio “la luna se n’è andata, la mamma si è svegliata, la luce si è alzata, inizia la mattinata”.
Non vedeva suo zio dal pomeriggio precedente, perché era uscito a fare spese dal calzolaio, e quando si era ritirato Fiorella dormiva di sasso.
«Fiorella!» la chiamò la nonna, ma la bambina fece orecchie di mercante nel frattempo che teneva gli occhi fissi sui fiori.
“Tio Maccello, dove sei?” si crucciava invece la bimba, scrutando il buio oltre il grano alto che la nascondeva alla vista.
«Fiorella, entra!» alla nonna, si aggiunse anche Flavia con tono minaccioso.
La bambina sospirò: avrebbe spiato il varco tra i cereali dalla finestra in attesa del suo adorato zio.
«Ah, le mani tutte sporche di terra! Come devo fare con te? Non toccarti il vestito, che me lo sporchi! E sul visino, che ti sei fatta? Oh, Fiorella, sei una monellaccia!» l’apostrofò la madre. Le tolse senza garbo il vestito azzurro e prese una vecchia camicia di cotone che apparteneva allo zio, che la nonna le abbottonò.
«Stai calma, Flavia. Tra poco Giacomo sarà qui» Giacomo era il padre di Fiorella. Ubriacone, lestofante e con una palese attinenza verso il gioco d’azzardo e il bere, l’unico pregio che aveva era l’adorazione che provava verso la bella Flavia e la figlioletta Fiorella. Inutile dire che Sofia lo mal tollerava in casa propria solo perché così aveva la figlia e la nipote sotto il suo tetto.
Ciononostante, Marcello e Giacomo Beccaccia litigavano come due cani: per il denaro, per il cibo, per Fiorella, per il rispettivo casato, per l’affidabilità di entrambi, per la loro capacità di essere “gli uomini di casa”. Marcello non lo sopportava perché lo riteneva una sanguisuga, un vile ed un codardo, Giacomo d’altro canto lo reputava un arrogante doppiogiochista, malizioso e approfittatore.
«Si sarà fatto un altro debito, quel disgraziato!» sbraitò Flavia, immergendo l’abitino della fanciullina in una tinozza d’acqua, «è creditore dell’intera Firenze e dintorni!»
«Sai che Marcello non glielo permetterebbe mai» rispose Sofia, bonaria ed accondiscendente. Al solo sentire il nome di Marcello, Sofia si ricordò degli affari lasciati in sospeso.
«Marcello ne è un altro, che Iddio l’abbia in gloria! Oh, se lo avessi tra le mani… Andare con la figlia del fornaio? Ma gli par questo costume?! Che si trovasse una moglie, ha vent’anni ormai, è ora che metta la testa sulle spalle, là dove deve stare!» Flavia batté con veemenza la racchetta sul vestito di Fiorella.
«Anche suo padre è stato una bella testa calda a suo tempo» Sofia rispose, piegando gli abiti da lavoro.
«Papà a vent’anni combatteva i Templari, mamma! Non usarlo sempre come scudo per le sue carognate! Marcello non è un unghia di-» «TIO!»
Flavia e Sofia si girarono entrambe verso la finestra, dove Fiorella batteva eccitata le mani.
Sofia sorrise felice, pronta ad accogliere il figlio, ma Flavia era già corsa fuori per abbracciare il nuovo venuto. Eppure, rimuginava la donna, Marcello era così strano… non era partito a cavallo, la mattina, adesso invece… e perché stava curvo?
«Tio?» sussurrò Fiorella, mentre l’uomo scivolava dalla groppa non sellata del destriero e sbatteva sul terreno.
«MARCELLO!» gridarono le due donne all’unisono, gettandosi all’esterno e correndo verso di lui.
Lo aiutarono a rimettersi in piedi e lo portarono all’interno, con Fiorella che trottava terrorizzata alle loro spalle. Non appena fu sotto la luce della lampada ad olio, a Sofia venne un colpo: era del tutto coperto di sangue sul volto.
«Nel nome del Signore Iddio, Marcello, cos’hai combinato?» mormorò Flavia, portandosi le mani alla bocca. Suo fratello non era un guerrigliero, era un fiorentino onesto, di certo non cercava guai a differenza dei perdigiorno che giravano in piazza. Lui lavorava, si faticava il denaro, non avrebbe fatto del male ad una mosca!
«Cercano… Ezio…» riuscì solo a mormorare.
«Ezio?» ripeté senza parole Sofia. Si scambiò uno sguardo con la figlia maggiore: stava forse delirando?
Al nome Ezio, qualcosa scattò nel cervello del ragazzo. Scattò in piedi e uscì di corsa, si diresse verso il casolare attiguo che un tempo era servito a suo padre come studio. L’antro era completamente buio, se non per la luce della luna che fioca entrava da una fessura sul lato del tetto in legno. Il pavimento era coperto di luridume e sporcizia, ma sapeva che nel lato destro della stanza era addossato un forziere di legno, che conteneva tutti i risparmi degli Auditore negli ultimi trentasette anni e tutti i documenti riguardo all’ordine degli Assassini. Marcello si chinò sul baule, puntò per bene i piedi per terra e diede una poderosa spinta, cosicché esso si muovesse di un’abbondante decina di centimetri.
«Marcello, cosa stai facendo?» gridò sconvolta Sofia.
«Lascialo al suo posto!» fece eco Flavia.
Marcello era sordo ai richiami, continuava a spingere il contenitore fuori dalla porta di legno.
«Fiorella, prendi le chiavi della cantina» ordinò invece alla nipote, che felice di poter aiutare lo zio rientrò in casa.
Non appena ottenne le chiavi dalla bambina, aprì una botola nascosta  tra l’erba, dove erano conservati i vini più pregiati della casa. Marcello cercò di tirare a forza il baule sulle scale strette che portavano al livello inferiore e, dopo essersi quasi azzoppato ed aver gridato di dolore, riuscì a farlo passare. Un po’ zoppicante, trascinò il forziere lungo il corridoio di pietra costruito tempo addietro dal padre fino alla sala circolare con le fiaccole alle pareti.
Lì nascose il baule sotto ad un manto nero trovato per caso e cadde, stremato, sul pavimento.
Non li avrebbero trovati, mai. Quella cantina era stata costruita dal padre anche come rifugio in caso di emergenza, era nascosta troppo bene per poter essere individuata. Nessuno all’infuori di lui, Sofia e Flavia ne conosceva l’esistenza.
I segreti di suo padre erano al sicuro.
Si chiese se anche la famiglia di suo padre lo fosse, prima di svenire.



 
 
 
 
Marcello Auditore si svegliò tre ore dopo, nel proprio letto.
Non seppe se a destarlo era stata la scossa ricevuta sulla spalla, oppure il calore della fiamma che gli aveva scottato la guancia.
 
 
ladie’s a gentleman! (author’s corner):
Un parto.
Non ho mai scritto un primo capitolo COSI’ LUNGO in tutta la mia vita. Sono soddisfatta di me stessa, anche se non mi piace: credo di aver donato quasi tutti gli elementi che potevano intrigare di questa storia -L’Assassina e il Profeta. Manca solo il Templare ma lui entrerà in scena un po’ più tardi.
Chantal Foncé è un mio vecchissimo personaggio di un GDR (il cui background era molto ripreso da AC), del quale nel prossimo capitolo vi accluderò il prestavolto. Non so perché Marcello abbia gli occhi azzurri, ma mi piaceva immaginarlo così, non volevo che fosse troppo simile ad Ezio, ma neanche troppo diverso dal padre.
Adoro fare Flavia nervosa che se la prende con tutti e l’immagine di Marcello che si prende cura della bambina era troppo radicata in me per poterla soffocare, quindi è nata Fiorella. Oh, e Claudia la amo troppo per non inserirla.
Spero che questo primo capitolo possa piacervi e che ai pochi superstiti delle seimilasettecentouno parole faccia piacere lasciarmi un commento, grazie mille!
Lasciatemi fare, però, un paio di ringraziamenti: ringrazio Bianca per l’aiuto con il francese e lo spagnolo, Stefania per l’aiuto con lo spagnolo e Francesca per il GRANDISSIMO AIUTO con il contesto storico (ringraziate lei per aver scelto come cattivone Carlo V! Che fissa!) e lo spagnolo (eggià, lo spagnolo dà tanti grattacapi).
[La canzone da cui è ripresa la frase a fronte è The Hooded Assassin]
Kiss,
la vostra oziosa ed eziosa Ladie.

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Capitolo 2
*** Caino et Abele ***


La notte nera di stelle si stendeva nel cielo infinito come il mantello sulla schiena dell’uomo alto dal naso aquilino che osservava la distesa di alberi sotto di lui.
Gli occhi dal taglio europeo parevano ardere del calore che hanno le ceneri carbonizzate della legna, quel caldo residuo che in verità niente è se non un’illusione, un ricordo dell’umanità.
Una bestia, ecco cosa rappresentava quell’uomo.
«Ve lo dirò un ultima volta, Giacomo. Dove si trova la famiglia Auditore?»
Alle sue spalle, due uomini robusti trattenevano per le spalle un terzo, che frignava come un bambino. Questi era inginocchiato e le due guardie premevano duramente sulle sue caviglie con gli stivali, provocandogli un dolore oltre l’atroce. Tirato per i capelli, era costretto a tenere la testa rivolta verso l’alto e alla sua gola splendeva la lama di un coltello dall’aria micidiale. Aveva paura persino di deglutire, convinto che, se lo avesse fatto, il filo dell’arma gli avrebbe assottigliato il collo.
L’uomo si portò una mano inguantata a giocherellare con il pendente della sua collana, una croce nera spessa, grigia e nera. Rifletteva sul da farsi, ponderava al millimetro ogni sua futura azione: gli Assassini di Firenze erano stati allertati da Chérie, ogni sua mossa poteva essere spiata in qualunque momento, e quegli idioti mandati in avanscoperta non avevano fatto altro che combinare guai; se persino il figlio dell’Auditore -che, da quanto gli era stato riferito, era più sprovveduto di un cucciolo di leone nell’oceano- era riuscito a tirar fuori gli artigli e a trapassare da parte a parte qualcuno, c’era parecchio da meditare.
«Avete dunque deciso di morire, Giacomo? Rifletteteci bene. Il mio Signore non è un uomo a cui si rifiuta un favore, ed è notoriamente generoso» mormorò l’uomo col mantello, girandosi verso il quadretto deprimente.
Afferrò Giacomo per la mascella e lo costrinse a guardarlo dritto negli occhi neri come la pece.
«Sapete chi sono io?»
«N-no… ugh… nossignore, mio signore.»
«Mi chiamano Caino. Come il Caino della Genesi, io sono un servitore di Dio e sono il servitore di coloro che lo rappresentano in Terra; il mio compito è quello di sterminare l’Ateismo prima che possa porre fine alla Cristianità e alla Sacra Missione che i suoi protettori vogliono compiere» sibilò sul suo volto, con una calma ed una sicurezza che fecero sgorgare lacrime ancora più disperate dagli occhi di Giacomo.
«Caino?» domandò, disorientato. Aveva letto la Bibbia, e a quanto ne sapeva Caino aveva ucciso Abele perché i sacrifici di quest’ultimo erano più graditi al Signore.
«La Storia cerca di farmi passare per un mascalzone, per un delinquente, per un… assassino. Mais je ne suis pas ce. Io sono un cristiano e compio solo la volontà di Cristo» rispose l’altro, adornato di un sorriso così gelido da ghiacciare la lingua di Giacomo ed impedirgli di ribattere.
L’uomo rilassò le labbra. Anche quella preda era conquistata, vedeva zampillare dai suoi occhi pianto e paura. Non poteva rifiutargli nulla, era come un serpente con il suo incantatore.
«Dove si trova la famiglia Auditore?» lo incalzò. Fece un cenno alle due guardie, che lasciarono andare il prigioniero. Giacomo singhiozzò di sollievo.
«Io… non posso… mia figlia, mia moglie…» balbettò Giacomo, asciugandosi il volto bagnato.
«Non torceremo loro un capello, ve lo garantisco» annuì l’uomo, ma Giacomo non riusciva a credergli. Eppure, che speranze aveva? Se non avesse parlato, Caino l’avrebbe ucciso, e avrebbe torturato un altro, poi un altro ancora, fin quando non avesse saputo l’informazione che bramava.
E forse… forse… in fondo, cosa c’entrava la sua Fiorella? Era una bambina splendida ed innocente, niente a che vedere con la malvagità dell’uomo che gli stava di fronte. Persino lui sarebbe stato mosso dalla pietà all’osservare il viso placido della sua bambina mentre dormiva. Non avrebbe ucciso la sua Fiorella.
“Non puoi fidarti della parola di qualcuno che ha adottato come nome quello di un fratricida!”
Non aveva altra scelta. Era solo, completamente, ed era circondato solo da minacce armate di spade e di parole suadenti nella loro crudeltà.
Avrebbe soltanto desiderato poter stringere la sua amata ancora una volta, baciarla sulla bocca, dirle che l’amava. In quel momento null’altro aveva senso se non il cullarsi nei ricordi di una vita che gli sarebbe stata negata. Qualunque fosse stato l’andazzo, ormai il suo destino era segnato assieme a quello della sua famiglia.
«Il colle più a est. Bisogna attraversare Fonte Santa. Seguite il sentiero fino alla Villa dei Papaveri, poi tenete la sinistra e risalite il pendio. È il primo campo che cattura il vostro occhio.»
Caino annuì e agitò la mano. Un drappello di manigoldi scivolò nella scena, catturato dalla luce della luna.
«¿Que hacémos con él?» esclamò con voce rozza una delle due guardie. “Cosa ce ne facciamo di lui?”
«Átenlo y agáis lo que os parece más justo» replicò Caino, impassibile. “Legatelo e fatene ciò che vi pare più adatto”.
«¿Podemos matarlo?» chiese l’altro mercenario. “Possiamo ucciderlo?”
«Sólo si os aburrís demasiado» rise l’uomo, nascondendo la croce sotto i vestiti.
“Solo se vi annoiate troppo.”



Caino e i suoi uomini cercarono fino all’esaurimento, negli armadi, nelle ceste, negli anfratti, negli sgabuzzini, nelle stanze, nei cassetti, persino sotto i materassi. Non c’era traccia di una sola riga vergata da Ezio Auditore, né di una pagina del Codice. Nulla, tutto sparito.
«E dunque, una falsa pista» affermò l’uomo, soffocando la stizza. Un mese di preparazione, un viaggio interminabile oltre i Pirenei e le Alpi, l’uccisione di decine di innocenti ed il massacro di infiniti Assassini per giungere a cosa? Ad un filo di fumo.
Eppure un tarlo lo rodeva. Se Chérie era arrivata prima di lui a Firenze, era molto probabile che avesse fatto piazza pulita di tutte le informazioni che lui ed i suoi confratelli desideravano e che gli Assassini desideravano rimanessero segrete. Doveva aver portato via tutto all’insaputa degli Auditore; se le cose fossero andate in quel modo, doveva aver già preso la via per la Francia.
«E così sei stata più veloce di me, Chérie» mormorò. Chérie era arrivata prima di lui, aveva fatto scomparire ogni traccia del passato da quella villa, ne aveva fatto una roccaforte priva di segreti, aveva rubato la gallina più grassa dal pollaio e vi aveva lasciato solo i pulcini.
Caino sorrise.
Le avrebbe reso pan per focaccia.
Voleva la Mela? Che li avesse! Non avrebbe potuto di certo comprenderla, senza Abele.
«Fuego» ordinò ai soldati «bruciate tutto fino alle fondamenta.»
«Ma signore» protestò scandalizzato uno degli sgherri «rischieremmo di dare fuoco anche agli oggetti che Sua Maestà desidera!»
La lama dello stiletto che Caino portava legato alla vita disegnò una linea netta orizzontale sul collo del ragazzo, che schizzò sangue per quasi tre secondi prima che egli si afflosciasse al suolo.
«Bruciate tutto» bisbigliò mortifero.
E così venne fatto. Le fiamme divorarono tende, soprammobili, lenzuola, divani, tavoli, vetrine.
Caino osservò l’inferno di fuoco che aveva scatenato. Il ruggito delle fiamme avanzava come l’Inferno dietro la Morte e il suo cavallo verdastro, mentre lui era Michele e lottava contro il serpente antico.
«Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada» recitò, facendosi il segno della croce, prima di voltare le spalle all’apocalisse di cui era stato il fautore.
 
Un’energica scossa alla sua spalla. Una preghiera dalla dolce voce e dall’accento transalpino.
La seconda cosa che Marcello registrò era la puzza di zolfo esasperante che pareva essersi diramata persino nel suo cervello.
La terza cosa che Marcello comprese era il logorante calore che provava sulla guancia sanguinante.
La quarta cosa che Marcello capì era che tutto ciò non era normale.
La quinta cosa che Marcello carpì erano i colori rosso e giallo che divoravano la sua casa, non appena fu capace di aprire gli occhi.
Marcello registrò.
Marcello comprese.
Marcello capì.
Marcello carpì.



La fine.


Il suo corpo intero scattò. Si lanciò fuori dal letto e caracollò verso il pianerottolo in fiamme. Una trave cadde dal soffitto e si schiantò sul corrimano, si trascinò dietro un pezzo di muratura e venne rimasticata dal fuoco che si elevò sopra essa e lambì la caviglia di Marcello, lanciato in corsa verso la prima camera del corridoio, quella di Sofia.
«MAMMA! MAMMA! MAMMA!» gridò. Sentì i timpani spaccarsi dalla forza della sua stessa voce, ma Sofia non rinvenne. Marcello la scosse, la scosse come si era sentito scuotere per la spalla pochi secondi prima, ma Sofia caparbia teneva gli occhi chiusi.
«SVEGLIATI! SVEGLIATI! TE NE PREGO, SVEGLIATI!» aveva raggiunto il limite del disumano, sentiva la gola lacerata a metà dal fumo e dalle lacrime, piangeva, e le lacrime cadevano sul volto cereo di Sofia. Stava facendo un bel sogno, Sofia, Marcello vedeva il suo sorriso.
«Non sta dormendo, Marcello. Non sta dormendo.»
Avrebbe voluto onorare la memoria della madre, sdraiarsi accanto a lei e lasciarsi prendere anche lui, ma un rumore lo destò dai pensieri più oscuri.
Un piccolo, leggero, microscopico, sottile, innocente, flebile, incredibile, commovente colpo di tosse.
Fiorella.
Marcello non corse. Marcello probabilmente si materializzò, fra le fiamme e le ceneri, fra le ferite e le scottature, fra i dolori e la vista torbida di fumo, nella stanza di sua sorella.
Flavia era sveglia.
«FLAVIA!» si gettò al suo capezzale, baciandola sulle guance.
«no… no… Marcello… porta via Fiorella» lo implorò. Lo guardò negli occhi con una tale decisione che Marcello non poté esimersi dal fare ciò che le aveva ordinato.
Flavia Auditore era stata la più straordinaria tra le donne, la più meravigliosa tra le madri, la più splendida tra le sorelle, la più forte tra i suoi pari. Marcello non si sentì uomo ad osservare quello sguardo così fiero, così prezioso, come un topazio grezzo incastonato nelle sue orbite, non avrebbe mai avuto la sua stessa fermezza, la sua stessa inflessibilità mentre diceva a qualcuno “lasciami morire, salva mia figlia”.
«Ti voglio bene, amica mia» la salutò Marcello. Poggiò la bocca sulla sua testa, una bocca impastata di lacrime e saliva, e le tracciò tre croci sul cuore, sulle labbra e sulla fronte.
«Sei un grande uomo, Marcello Auditore. Non te ne scordare mai» si raccomandò Flavia, prima di chiudere gli occhi.
Marcello afferrò Fiorella con un urlo. La bambina era svenuta, quindi non si destò, e Marcello prese a correre.
La pavimentazione incandescente cedeva sotto il suo peso, sentì le piante dei piedi nudi andare a fuoco, ma nonostante tutto continuava a correre.
Il muro d’Inferno rendeva piatto tutto attorno a lui, non ricordava dove fosse l’uscita, la testa gli girava e sentiva il sapore acido del rigetto sulla lingua, ma non era una scusa sufficiente a fermarsi.
Il calore delle vampe lo aveva ustionato, si sentiva legato ad una pira, reo di aver creduto di non appartenere alla realtà nella quale era incatenato, il suo corpo chiedeva pietà, aveva una caviglia slogata, ma non era abbastanza per smettere.
Marcello correva, senza una direzione, soltanto lontano, lontano dal fuoco, lontano dalla sua vita, lontano dal suo nome.
Marcello non poteva più esistere.
Aveva perso tutto.
Gli rimaneva solo una cosa ormai.
Non seppe mai come valicò la solida parete di fiamme che ostruiva il varco nella parete. L’aria era un balsamo sul suo corpo ustionato. Non la percepiva sul lato destro del volto, che sanguinava abbondantemente, non aveva sensibilità e quindi certamente mai più avrebbe sentito la mano di una donna accarezzarlo. Immaginò il suo volto strinato da una cicatrice indelebile e non riuscì a trattenere il vomito, colpa delle esalazioni, del dolore e della paura folle che gli avevano attanagliato lo stomaco.
Cadde in ginocchio e la bambina gli scappò dalle mani, poiché già era steso sull’erba bruciata e il suono dell’incendio gli crepitava nelle orecchie.
Non poteva dormire, ma il suo corpo rifiutava di andare avanti.
Scavò nel terreno con le unghie e guadagnò il territorio centimetro per centimetro. Non sapeva quale Dio gli stava dando la forza di trascinarsi, sapeva solo che in quel momento la sua esistenza erano quei centimetri che gli parevano invalicabili quanto montagne.
Insanguinato, distrutto, dilaniato, Marcello Auditore continuava ad avanzare.
Basta, ti prego diceva il mas.
Non smettere mai diceva il vir.
Fece leva sui polsi per alzarsi in piedi. Agguantò Fiorella per un braccino e se la trascinò in spalla, quasi fosse il suo sacco pieno di frutta. Era iniziato un nuovo giorno di lavoro, e Fiorella era la sua preziosa merce, ciò che avrebbe dovuto conservare a tutti i costi.
I suoi piedi si trascinavano spossati nei campi che venivano distrutti nella sua totale indifferenza. Era estraneo persino al suo stesso corpo, non capiva, procedeva meccanicamente attraverso la morte e la perdita.
Inciampò in un quadrato di legno nascosto tra la sterpaglia.
Il rifugio.
Con rinnovato vigore, posò delicatamente a terra la piccola e si chinò sulla botola. Infilò le dita nell’invisibile fessura e tirò. Le sue unghie si lacerarono e cominciarono a sanguinare copiosamente, sentì il medio della mano sinistra rompersi con uno schiocco, ma non gli importava.
Più morto che vivo, entrò nella cantina assieme a Fiorella, chiudendosi l’anta e la vita alle spalle.
 
Steso sul pavimento, Marcello si svegliò di botto con un dolore inconcepibile nell’intero corpo.
Rannicchiata contro di lui c’era Fiorella, Marcello l’accarezzò con la mano sporca di sangue.
«Amore mio» bisbigliò «amore mio.»
Riuscì ad alzarsi su un fianco con qualche difficoltà, dopodiché tirò via i capelli di Fiorella dalla sua fronte e le morse le guance.
Aveva la voce afona per il fumo, quindi parve più una minaccia quella che scaturì dalle sue labbra appena dischiuse.
«La luna se n’è andata, la mamma si è svegliata, la luce si è alzata, inizia la mattinata.»
Fiorella si girò nella sua presa: «no, tio, mamma non si vveglia più.»
Marcello chiuse gli occhi alla coltellata che le sue parole infantili gli avevano inferto.
La lasciò andare ed attraversò il corridoio illuminato da fiaccole. Ormai detestava il fuoco, non sopportava niente che lo riguardasse, era il suo personale Anticristo.
Dalle profondità più recondite della cantina soffiava una gelida brezza. Marcello si chiese cosa avesse provocato quell’improvviso vento, ma una volta arrivato a destinazione non ebbe motivo di domandarselo ulteriormente: il peso di un albero caduto e il calore del fuoco avevano aperto un minuscolo varco sul tetto del sotterraneo, tappato da un ramo sottile dello stesso arbusto.
Marcello provvide a staccarlo e lo utilizzò per forzare il baule al centro della stanza.
Conficcò, prepotente, il ramo tra le catene che proteggevano il baule e tirò con tutta la forza che aveva in corpo. Un grido sfuggì dalle sue labbra mentre applicava tutti i suoi muscoli su quell’unico scopo: aprire quel maledetto baule. Ormai era una questione personale, Ezio glielo doveva.
Ezio Auditore aveva cancellato Marcello Auditore con la sua ombra.
Marcello Auditore avrebbe spento per sempre il manto di luce che circondava Ezio Auditore.
Il primo tentativo non andò a buon fine, infatti l’uomo cadde sul pavimento per il contraccolpo.
«Andiamo, Ezio, non fare il difficile» ringhiò.
Due volte tentò nello stesso modo, due volte il baule rimase ostinatamente chiuso. Si ritrovò a rovesciarlo con un calcio, frustrato: non era abbastanza nemmeno per quello? Per forzare un maledetto baule?
Un altro colpo si infranse sul legno, seguito da un secondo e poi da un terzo ancora, mentre Marcello sfogava tutta la rabbia covata nel cuore. Se lui fosse stato suo padre… poi si ricordò che era stato suo padre, il padre di Flavia e il marito di Sofia, la causa per cui erano morte.
Suo padre e i maledetti segreti che teneva segregati in quel baule.
Si rifiutava di accettarlo. Niente era tanto prezioso da richiedere il sacrificio di due vite innocenti. Come aveva potuto Ezio correre così irresponsabilmente un pericolo tale? Se lui era il custode di cotanta potenza, con quanta irresponsabilità si era lasciato circondare dall’amore?
Mai come in quel momento, sperò che ci fosse un aldilà. Soltanto perché Ezio soffrisse dei peccati che persino da morto continuava a perpetrare.
Quando stava per rifilare l’ennesimo calcio alla cassa, si accorse di una piccola sagoma scavata nel legno, sul fondo della cassa. Marcello si inginocchiò ed accarezzò quel segno, che era freddo sotto i polpastrelli e probabilmente nascondeva un marchingegno meccanico.
“Una serratura?”
Spezzò la punta di uno dei bozzi presenti sul suo piede di porco improvvisato. Con una mano tenne ferma la cassa, così iniziò a girare la punta nella serratura. Era ossessionato, si capiva dagli occhi sporgenti, dalla bocca aperta in modo maniacale, dai movimenti nervosi delle sue dita.
Aveva in pugno Ezio. Gli avrebbe fatto sputare la verità, a quell’ignobile uomo.
Dopo dieci minuti buoni, qualcosa scattò. Le catene caddero con uno schianto a terra e il rivestimento esterno si spezzò in lunghe crepe, che nascondevano un’anima di ferro all’interno; questo spiegò a Marcello come mai aveva trovato così difficoltoso spostarlo la sera precedente.
Provvide a rimettere dritta la cassa, ma mentre stava per aprirla, si accorse che non avrebbe potuto ancora farlo: c’era una seconda serratura; sotto di essa, al centro della cassa, una scritta in foglia d’oro. Marcello impiegò alcuni minuti a leggerla, essendo vergata da destra a sinistra.

 
Si deve guardare più il basso che l’alto.

Cosa significava quell’enigma?
Forse è un allusione alla posizione della serratura nascosta sotto al baule, pensò Marcello. Poteva essere una frase filosofica che inneggiava alla pratica dell’umiltà. Qualunque fosse la soluzione, ciononostante, non risolveva il più fondamentale interrogativo: perché quell’incisione esisteva? Se Ezio era stato tanto ostinato a proteggere i suoi segreti, di certo non si aspettava che qualcun altro aprisse il suo forziere; eppure, si era preoccupato di lasciare quell’indizio, anche se nascosto sotto forma di indovinello… ma era inutile! Se pure qualcuno ne avesse scoperto l’esistenza, era inutile, poiché tale persona aveva già guardato il basso!
Scosse la testa: troppi pensieri. Doveva agire e basta.
Analizzò la seconda serratura, quella sopra la scritta. Aveva una strana forma, di fiamma, ed era di oro rosso e giallo. Aveva un solo minuscolo foro, più piccolo di qualunque chiave esistente. Tentò di infilarci il rametto, poi un dito, nulla era abbastanza sottile da passarci, probabilmente soltanto l’aria. Il suo sguardo si perse nella contemplazione dello strano simbolo, preda di ricordi lontani.
Ripetilo, papà!
Oh, Flavia…
Per favore, una volta sola!
Nulla è reale, tutto è lecito.
Aaaaw! Mi fa venire i brividi! Avresti dovuto fare lo scrittore, le tue storie sono così avvincenti! Vero, Marcello?
Una forza superiore spinse la bocca del ragazzo contro il freddo metallo. Il suo respiro si infilò in quella complessa armonia di ingranaggi come l’olio che fa muovere le ruote.
«Nulla è reale, tutto è lecito» sussurrò alla fiamma che parve crepitare di vita, accendersi di rosso brillante. Prima che potesse capire cosa stava accadendo, la fiamma ruotò sui cardini e si girò a testa in giù con un rumore di sblocco.
Marcello aprì la chiusa del baule e si chinò ad osservare al suo interno cosa ci fosse con occhi spenti, cadaverici.
Un piccolo scrigno dall’aria preziosa, una trentina di pagine sciolte dall’aria antica, un’uniforme bianca ed un bracciale da polso.
E Flavia e Sofia erano morte per questo.
«DAVVERO, EZIO? MI PRENDI IN GIRO? TUTTO QUESTO SANGUE VERSATO PER UN DANNATO COFANETTO ED UN PAIO DI MALEDETTISSIME PAGINE VECCHIE QUANTO IL MONDO? TUA FIGLIA E TUA MOGLIE SONO MORTE  PER QUESTO! MORTE! E A TE IMPORTA QUALCOSA? NO! TE N’È MAI IMPORTATO, LURIDO BASTARDO? NO! CI HAI LASCIATI NEL PERICOLO, NELLA SVENTURA, CON L’UNICA CERTEZZA DI AVERE LA MORTE FIN DENTRO LE OSSA! QUANTO DESIDEREREI UCCIDERTI IO STESSO, CON LE MIE MANI, E LIBERARMI DEL TUO SANGUE CHE MI SCORRE NELLE VENE! BASTARDO, SCHIFOSO MALEDETTO BASTARDO! E COSA DOVREI FARE IO ADESSO, EH? TUTTA FIRENZE MI RITERRÀ MORTO ORMAI, MORTO! NON POSSO SCAPPARE, NON POSSO PIÙ TIRARMI INDIETRO, C’È FIORELLA, C’È ZIA CLAUDIA… GAAAAAAAAH!» Marcello cadde in ginocchio, portandosi le mani alla testa e trattenendo lacrime di disperazione.
Cosa doveva fare? Che cosa doveva fare?
La sua mente era il caos più totale. Paura, sofferenza, agonia, angoscia, tutte si rimescolavano nel suo petto e gli facevano salire il mal di mare. Schiarirsi la mente era un’utopia, non ricordava più cosa fosse la serenità, si sentiva terribilmente debole ed invecchiato. Era solo, solo e senza aiuti. Tutta la sua famiglia era morta, gli era rimasto l’ultimo fardello -nonché la sua consolazione più dolce-: Fiorella. Lei non doveva subire gli orrori dei quali era stata partecipe, Marcello aveva giurato a Flavia di portarla in salvo, e non intendeva tradire la parola data. Non osava immaginare cosa sarebbe successo non appena fosse riuscito ad adempiere alla sua missione, era già difficile pensare al presente senza tormentarsi per il futuro, però non poteva impedirsi di affrontare la realtà ineluttabile che le loro strade si sarebbero divise.
Ciò che doveva fare, in quel momento, era trovare una sistemazione alla sua nipotina.
«Zia Claudia?» mormorò sovrappensiero «a Firenze?»
Non c’era alcuna soluzione. L’unica loro salvezza era Claudia, lontanissima, a Firenze. Come arrivarci, era il quesito giusto da porsi. Affrontare tanto cammino nelle sue condizioni era impossibile: aveva dolori alla schiena, al volto, alle gambe e alle braccia.
A cavallo? E con quale cavallo?
Forse quello che aveva rubato la sera precedente era ancora vivo. Al vedere le fiamme poteva essere corso nella foresta; ipotesi remota quanto improbabile, ma alla fine era l’unico piano che aveva in mente e che potesse attuare.
Si alzò, pronto ad imboccare la via esterna, prima di rendersi conto del fatto che non poteva uscire. Se la notizia dell’incendio di Villa Auditore era trapelata sul serio fino a Firenze, lui era considerato morto, non stava bene che camminasse per i boschi a viso scoperto.
La sua mano s’impregnò del tessuto del manto immacolato. Era la divisa degli Assassini, l’Ordine che Ezio aveva mandato avanti per anni. Metterla significava diventare un adepto delle convinzioni di quello scellerato, dell’uomo che lui più disgustava.
“È solo per praticità. La getterò non appena saremo arrivati a Firenze” si disse.
Con un gesto nauseato, raccattò la tenuta bianca e la indossò, lento.
Marcello Auditore da Firenze alzò il cappuccio sulla propria fronte.
La caccia -fuga lo corresse il mas- era iniziata.
 
La luce era strana da percepire, Marcello se ne avvide non appena uscì all’aria aperta.
Aveva detto a Fiorella di aspettarlo nella sala dei tini e di non uscire per nessun motivo, poi si era incamminato nel mezzo della foresta alla ricerca del suo cavallo.
Per centinaia di metri, il Bosco di Fonte Santa era stato completamente raso al suolo. I cadaveri degli alberi giacevano storti nel terreno, abbattuti su un fianco oppure dilaniati. Il terreno era bruciato, di verde nemmeno l’ombra, e corpi di animali piccoli si riscontravano qua e là. Era uno spettacolo lugubre e ripugnante.
Nonostante non sapesse quale fosse la sua applicazione, si era portato dietro il bracciale da polso. Non aveva armi, quindi poteva rivelarsi un vantaggio nel corpo a corpo visto che pareva essere molto robusta.
Dopo parecchio viaggio, si ritrovò nel folto della foresta che non era stata intaccata dall’incendio. I rumori che solitamente gli parevano benigni e piacevoli, erano cupi e minacciosi: ognuno di essi poteva coprire un passo, un nitrito, una voce, uno sguainare di ferro, elementi che lui aveva la necessità più che urgente di cogliere. Piano, si mosse verso la concentrazione più fitta di flora, nascondendosi in mezzo ai tronchi più grossi.
Il cuore gli balzò in gola quando udì una voce rozza dal forte accento spagnolo a pochi metri da lui.
Le sue membra si irrigidirono dalla paura, e qualcosa gli graffiò il palmo della mano, lo capì dal sangue che gli scorreva fra le dita.
Alzò il polso per esaminarlo: dal cuoio era spuntata una lama aguzza, sottile, piccola e discreta, ma dall’aria letale. Provò a rilassare il braccio e questa si ritrasse, tornando invisibile come prima. Verificò alcune volte lo stesso sistema, irrigidire e rilassare il braccio, e il meccanismo funzionava perfettamente, senza perdere colpi. Era un’arma perfetta per un assassinio silenzioso, proprio quello di cui lui aveva bisogno.
Si sporse dal suo nascondiglio e vide due guardie discutere vicino ad un cavallo nero bardato di tutto punto. Necessitava di quel destriero, e se il Fato aveva deciso di metterci di mezzo anche due manigoldi da assassinare, non poteva tirarsi indietro.
Sempre rannicchiato, superò con la gamba sinistra la radice massiccia dell’albero, mentre tendeva al massimo la destra. Fece scattare la lama e inquadrò per bene il suo bersaglio. Una minuscola porzione di collo era lasciata scoperta dall’elmo corredato di pennacchio rosso, quindi avrebbe colpito proprio in quel punto. Se fosse stato abbastanza veloce, avrebbe potuto ucciderli entrambi senza che nemmeno se ne accorgessero: la tempistica era tutto.
Appena la guardia con l’armatura scoppiò in una risata grossa, Marcello agì. Si slanciò, veloce come una pantera, e colpì la guardia alla nuca. Prima che la seconda potesse solo dire “ah”, Marcello ritirò la mano dal corpo della guardia, allungò il braccio e affondò la lama nel petto dell’altro, dritta nel cuore.
Con ai piedi i cadaveri dei suoi nemici, sorrise di un sorriso cupo: cosa non si fa, guidati dalla vendetta e dall’autoconservazione?
 
Nella sera delle strade deserte di Firenze l’aria era gelida e il capo di Marcello ciondolava, distrutto. Fiorella, seduta con la schiena contro il suo petto, dormiva già da ore e non aveva pianto per tutto il viaggio.
Il viaggio, già. Durato l’intera giornata, era stato stancante come niente in tutta la sua breve vita; aveva i nervi a pezzi, i dolori che aveva in corpo si erano amplificati, la mano sinistra si era completamente bloccata e pulsava di dolore, l’ustione che aveva al volto continuava a bruciare come se fosse di fiamma e la caviglia gonfia gli impediva di camminare.
Sui merli delle fortificazioni e dei palazzi importanti, soldati osservavano stanchi l’atmosfera sotto di loro, senza notare un cavallo che avanzava nell’ombra.
Si era infilato oltre le porte dopo aver ucciso le guardie che le controllavano e i mercenari spagnoli che si aggiravano per le vie non si azzardavano a fermare un cavallo che portava l’insegna di Carlo V, anche se il suo cavaliere era un tipo losco.
Marcello, con le poche forze rimastogli, guidò il cavallo attraverso passaggi secondari che soltanto i fiorentini conoscevano, depistando i vari coscritti che lo osservavano con troppa curiosità, prima di incontrare un sentiero troppo ripido che l’animale si rifiutava di imboccare.
Scese da cavallo e lo legò con le redini ad una decorazione uncinata, prese in braccio Fiorella e proseguì a piedi.
La Villa di Zia Claudia non era lontana, ma anche se lo fosse stata, Marcello non avrebbe demorso: il desiderio di mettere al sicuro la nipotina era più forte della stanchezza e della sofferenza fisica e morale che provava.
C’erano innumerevoli persone che giravano armate con lo stemma degli Asburgo ricamato sul mantello, Marcello se ne accorse aggirandosi negli anfratti ombrosi delle case e delle piazze. La notte tranquilla di Firenze era bucata da voci spagnole e tedesche, che si mescolavano assieme a quelle degli ubriaconi toscani.
“Se non è in programma nessuna visita da parte del Re di Sicilia, come possono tollerare i Medici questa intrusione?”
Marcello ritirò la testa al passare di una ronda. Quella storia non gli piaceva affatto, avrebbe chiesto a Claudia spiegazioni.
Si aggiustò meglio la bambina tra le braccia e sfrecciò silenzioso attraverso la piazza. Si nascose contro la fontana ed aspettò che la masnada si spostasse verso est, poi continuò in direzione nord fino ad un bivio pattugliato da due agenti asburgici, spalla contro spalla. Depositò Fiorella nella rientranza buia di un portone e attaccò i nemici, trapassando la gola di uno e accoltellando la schiena dell’altro con un paio di movimenti lesti. Senza fare rumore, caddero al suolo.
Girò a sinistra, zoppicante, ed arrivò davanti alla villa borghese di zia Claudia. Stremato, bussò e dopo pochi secondi sentì Saverio, il capo della guardia, mormorare: «Marcello?»
«Sì, ti prego, siamo feriti» rispose senza voce, scivolando con la spalla lungo il muro.
Le mani robuste dell’uomo afferrarono Marcello per la divisa e lo trascinarono all’interno.
«Sia lodato l’Altissimo» sospirò, prendendo in braccio Fiorella «madonna Claudia stava impazzendo.»
«Perché? Dovremmo essere morti» ribatté Marcello, che seguiva Saverio lungo la scala a chiocciola che portava allo studio della zia.
«Lascerò che sia vostra Zia a dirvi cosa sta accadendo» si congedò il capitano. Bussò alla porta d’acero e sussurrò qualcosa, cosicché immediatamente Claudia venisse ad aprire.
«Oh Marcello, nipote mio adorato, grazie a Dio!» singhiozzò prima di abbracciarlo stretto «sei solo? Flavia? E la mia adorata cognata? E Fiorella?»
«Fiorella è con me. Mia madre e mia sorella sono perite nell’incendio» rispose con tono grave.
«Che il Misericordioso ne abbia cura» bisbigliò con voce soffocata «entrate dentro, entrate! Ho molte cose da dirvi.»
«Sì Zia, tante» rincarò Marcello. Claudicante, si appoggiò su una poltrona e si sciolse contro la comodità dello schienale. Saverio poggiò Fiorella sul divano e premette gentilmente una mano contro le sue ossicina.
«La bambina sta bene, è stanca, ma non sembra avere nulla di rotto» concluse «voi, messer Marcello, sembrate stare molto peggio.»
«Non è importante adesso!» ringhiò contro i due «ditemi cosa accade! Perché è stato appiccato l’incendio alla mia casa? Cosa ci fanno tutti questi mercenari del Sacro Romano Impero? Chi cerca i documenti di Ezio?»
Claudia sospirò, poi con lentezza si sedette.
«Ti dirò tutto, Marcello. Abbi solo pazienza. Prima di tutto, tu ormai non sei più Marcello Auditore.»
Marcello boccheggiò: «Cosa?»
«Il nome Auditore ti porterà soltanto sventure, d’ora in poi» spiegò Claudia «e il Medici ti hanno dichiarato morto assieme alla tua famiglia. Tu non esisti, per loro.»
«Sarò il fantasma che tormenterà i loro incubi, allora!» dichiarò Marcello, animato da collera ed odio folle.
«Non siate precipitoso, c’è ancora tanto da dire. Il Duca non è nient’altro che un fantoccio nelle mani dei Templari» s’intromise Saverio «avrete di certo notato le guardie spagnole in città.»
«Ovviamente. Perché Carlo V manda le sue truppe in Italia? Capisco l’alleanza sua e del Moro, ma Firenze non è stata così tranquilla dai tempi del Magnifico!» sbottò Marcello, livido di rabbia e dolore.
«Carlo V è il capo dell’Ordine Templare riformato» affermò Claudia «i Compagni francesi hanno ritenuto necessario informarci di ciò.»
«E questo cosa vorrebbe significare?» Marcello si stava scaldando.
«Che il sovrano sul cui regno non tramonta mai il sole vuole i tesori di tuo padre, e non si fermerà fin quando non saranno suoi!» Claudia si alzò in piedi con un movimento repentino.
«Per adesso, non è lui il vostro problema, Marcello, ma il suo mastino: Jacques, detto il Caino o L’Espagnol» soffiò sprezzante Saverio «un fanatico religioso che uccide, distrugge e marchia innocenti in nome di Cristo. Come se non fosse risaputa la sua pazzia!»
«Pazzo oppure no, questo Jacques è un avversario temibile quanto i Borgia» mediò Claudia, tornando comoda «e sta cercando i documenti di Ezio. Ora che sono nelle sue mani, gli Assassini subiranno un grande ridimensionamento dei propri poteri.»
«Perché? Cosa c’è nei suoi documenti?» domandò esasperato Marcello.
«Ezio scoprì, a suo tempo, l’ubicazione di un’altra Mela, che poteva essere utilizzata soltanto da un Eletto della Prima Civilizzazione, una persona che lui chiamava Abele» disse la vecchia signora, che guardava fisso Marcello negli occhi «loro vogliono cercare e distruggere quella Mela per impedire ad Abele di utilizzarla.»
«Mela? Prima Civilizzazione? Di cosa state parlando?» a Marcello stava scoppiando la testa.
«Ezio, dopo essersi ritirato dalla carriera di Assassino, scrisse un diario, che chiamò Codice del Profeta» esplicò «ed è estremamente prezioso sia per noi Assassini che per i Templari, poiché contiene i segreti del suo incontro con gli antenati della Prima Civilizzazione.»
«Ferma! Chi ha parlato di noi Assassini?» Marcello era sulla difensiva «noi chi, se posso chiedere?»
«Non vuoi entrare nell’Ordine?» Claudia era scioccata.
«L’ORDINE È IL MOTIVO PER CUI LA MIA FAMIGLIA È MORTA!» gridò Marcello. Scattò all’impiedi ma fu costretto a sedersi: non riusciva a stare alzato, la caviglia gli faceva troppo male.
«Sono stati i Templari ad uccidere la tua famiglia, Marcello» rispose gelida «Caino ha appiccato l’incendio.»
«Come fai a saperlo?»
«Perché Jacques fu cacciato di casa a diciotto anni appunto per averle dato fuoco. Il fuoco è la sua firma.»
«Allora ucciderò questo Jacques» latrò Marcello «e vendicherò la morte di Sofia e Flavia.»
«Auguri» disse sarcastica «è da quando è entrato nell’Ordine dei Templari che ci stiamo provando. Ha ucciso persino Ludovico. E se pure tu fossi convinto della tua scelta, come credi di fare? Non hai intenzione di unirti a noi, a quanto hai detto.»
«Non condivido il vostro Credo, ma condivido il vostro obiettivo» affermò con voce fonda «ritenetemi un vostro non-nemico, fin quando i nostri obiettivi saranno comuni.»
«E sia, allora» Claudia accettò con un sorriso «messer…?»
«Francesco. D’ora in poi, chiamatemi Francesco.»
«Va bene, Francesco, per questa notte potete restare da me. Lascia pure Fiorella qui da me, domattina scendi in piazza e fatti un’idea della situazione» gli consigliò Claudia.
«Vi ringrazio, madonna Auditore. Ah, e già che ci siamo, ci terrei ad informare gli Assassini che i documenti di Ezio Auditore sono ancora in mano loro» Marcello sorrise «li ho nascosti prima che i Templari facessero irruzione.»
«Oh, che Iddio ti abbia in gloria, dirittone di uno! Come diavolo ti è venuto in mente?» Claudia annaspò, una mano sul petto.
Marcello spiegò tutti gli accaduti della sera precedente alla zia: la sua fuga attraverso Fonte Santa, l’attacco dei mercenari spagnoli, il suo tentativo di nascondere la cassa e poi l’esodo attraverso l’inferno di fuoco. Tacque, invece, i misteri riguardo la cassa.
«Grazie a Dio siete lungimirante, Francesco» disse Saverio alla conclusione del suo racconto «l’Ordine è salvo, grazie a voi.»
«Ora devi dormire» ordinò Claudia, imperiosa «ti fascerò le ferite e poi andrai filato a letto.»
«Pensiamo noi a recuperare i manoscritti» aggiunse Saverio, accomiatandosi dall’ufficio «voi pensate a riposare.»
 
Una notte sul materasso di Claudia e Marcello si sentì rinascere.
Non avvertiva più dolori alla schiena, la caviglia era molto meno gonfia e riusciva a compiere i minimi movimenti con la mano sinistra.
«Mi sembri molto più in forma» lo salutò la zia in soggiorno, e lui annuì mozzo. Fremeva dalla voglia di uscire a fare qualcosa, non sopportava l’idea di stare chiuso in casa. Sul lungo tavolo da pranzo era poggiato il suo bracciale da polso e un pugnale.
«Ho oleato la tua Lama Celata -sì, è così che si chiama-, ora dovrebbe funzionare meglio. E porta con te anche quel pugnale, non si sa mai» si raccomandò Claudia, osservandolo nella sua interezza.
«Cosa ti tormenta, nipote?» mormorò a Marcello che le dava le spalle, intento ad osservare dalla finestra Firenze inondata di sole.
«Quella donna» disse Marcello «anche lei è un’Assassina?»
«Sì» rispose Claudia.
«Come si chiama?»
«Chantal, Chantal Foncé.»
«È molto forte.»
«Ha un grado molto alto nell’Ordine Francese.»
«Anche lei ha provato ad uccidere Caino?»
«Sì e no.»
Marcello si voltò verso la zia: «Che intendi?»
«Chantal è una donna molto complicata, Francesco. Per quanto insopportabile, è un peccato affermare che non sia grande» rispose Claudia. «Ha lottato contro Caino, ma non è mai riuscita ad ucciderlo. Se è per questo, però, è ancora viva, il che è un grande risultato.»
Marcello rimase in silenzio. Lei, una donna, aveva lottato contro quel mostro di Caino, un mostro che aveva distrutto le fondamenta della sua vita; era prova di un coraggio immenso, un coraggio che lui non sentiva di possedere. Si sentiva molto meno sicuro e rabbioso della notte precedente: il ricordo di aver perso le due donne della sua vita era ancora impresso in lui, però sapeva di non essere abbastanza per poter arrivare ad uccidere Caino. Aveva bisogno di diventare più forte, ma sprovveduto com’era, l’avrebbero ucciso non appena avesse messo piede fuori di casa. Aveva bisogno di qualcuno che lo guidasse, di un maestro.
«Anche tu lo sei» disse Claudia dolcemente. Marcello si voltò verso di lei, confuso.
«Anche tu sei vivo dopo aver lottato contro Caino; è simbolo di grandezza.»
Marcello sorrise.
«Spero un giorno di potergli rendere pan per focaccia» disse.
«Lo vedo già, nipote mio. Vedo già quel giorno.»
Dieci minuti più tardi, Marcello uscì di casa. La zia gli aveva detto di recarsi a Piazza della Signoria per ottenere alcune informazioni da un suo collaboratore -presentandosi sotto le mentite spoglie di Francesco-, quindi si affrettò verso il punto d’incontro. In strada c’era più gente del solito, si creavano ingorghi come se nulla fosse, e Marcello si chiese cosa ci fosse di così importante da vedere.
Se lo spiegò due minuti più tardi, quando una folla di persone era riunita attorno ad una piattaforma di legno che svettava sopra le teste degli spettatori. Quattro uomini stavano su di essa: uno era un agente del Duca, Messere Ferdinando di Altamura, l’altro era un boia, ed un terzo stava in ombra con un cappuccio sulla testa. Questi si rigirava nella mano inguantata un rosario prezioso, di argento ed ossidiana.
«CITTADINI DI FIRENZE!» gridò Ferdinando, a cui rispose un boato assordante «SIAMO QUI PER ESPRIMERE LA NOSTRA INDIGNAZIONE NEI CONFRONTI DI QUESTO VILE CANE!»
Puntò il dito contro un uomo dagli occhi verdi, sul suo corpo erano visibili i segni di una tortura atroce.
Con un sussulto, Marcello riconobbe Giacomo Beccaccia, suo cognato, il padre di Fiorella.
«COLUI CHE HA BRUCIATO PARTE DEL NOSTRO AMATO BOSCO DI FONTE SANTA VERRÀ OGGI PUBBLICAMENTE GIUSTIZIATO, CON L’ACCUSA DI INFEDELTÀ AL DUCATO DI FIRENZE!» il popolo rispose con urla belluine.
Il boia trascinò avanti Giacomo, tirandolo per i capelli.
Dalla folle saliva il grido ”a morte il traditore”, Marcello lo sentiva echeggiare dappertutto, e per quanto spintonasse la calca non riusciva a liberarsi dalla morsa in cui era costretto.
Avrebbe voluto chiamare Giacomo, dirgli che anche lui era vivo, che avrebbero lottato insieme, ma non riusciva ad andare avanti.
Mentre il boia stava legando il cappio attorno al collo di Beccaccia, cadde con il viso sul pavimento, rivelando un coltello conficcato nella schiena.
I tre uomini si girarono verso Palazzo della Signoria, dove una figura spettrale ammantata teneva fra le mani una sottile lama sprovvista di manico. Alcuni uomini la braccavano, così quella lanciò l’arma contro uno dei suoi inseguitori che rotolò sul tetto e prese a correre. Nonostante fosse velocissima, gli inseguitori guadagnavano terreno ed uno di essi allungò la mano per afferrare il suo manto bianco di tessuto. Essa con un solo movimento aprì i bottoni della toga e si rivelò in una divisa dai colori bianchi e rossi, corta, con una calzamaglia dai rinforzi in ferro. Sprovvista del suo mantello, era la cosa più veloce che Marcello avesse mai visto, correva come una pantera sul tetto di tegole.
Arrivò alla sporgenza ultima del tetto, una strettissima passatoia di legno.
«Victoire aux Assassin!» gridò, prima di lanciarsi nel vuoto a braccia aperte.


ladie’s a gentleman! (author’s corner):
Seimilaquattrocentosessantasei.
Non ho mai scritto neanche una ONESHOT così lunga in tutta la mia vita! Mio Dio, il fandom di Assassin’s Creed mi rende logorroica! E menomale che avevo detto che non avrei scritto cose lunghe come quelle del primo capitolo! Scusatemi tantissimo per la lunghezza eccessiva, prometto che dalla prossima volta cercherò di contenermi ç___ç
Ok, signori, questo è quanto. Vediamo entrare in scena anche il Templare, il misterioso Jacques/Caino, un avversario temibile per il nostro Marcello -o meglio, Francesco. A proposito: il nome Francesco è un gioco di parole con il soprannome di Caino (L’Espagnol, che in francese significa Lo Spagnolo) perché Francesco significa “proveniente dalla Francia”, e come sappiamo molto bene la Francia e la Spagna erano in conflitto, proprio come Caino e Francesco.
Allego alcune foto che avevo promesso dal capitolo precedente e ne approfitto per far notare a tutti i lettori il tag INCEST che mi ero scordata di mettere quando ho pubblicato la storia; sì, fra parecchio la storia scoprirà risvolti incestuosi (non fra Marcello e Fiorella, potete stare tranquilli su questo) che caratterizzano il background di Chantal, non avranno influenze sul presente vissuto dai personaggi, però a qualcuno potrebbe dare fastidio la cosa.
Prestavolto di Chantal, interpretata da Kate Beckinsale in Underworld, cosa non è quella donna.
La collana di Caino, che a mio parere è fighissima.
La divisa di Chantal, quella che porta sotto la toga. Ovviamente non ha le gambe nude ma -come descritto sopra- porta una calzamaglia rossa rinforzata da placche di metallo. Quando ho visto questo cosplay, il mio corpo mi ha presentato la necessità fisica di darlo ad un personaggio femminile, quindi arrangiatevi se la realisticità va bellamente a farsi fottere, ma è troppo bello, TROPPO.
Ringrazio Bianca per l’aiuto con il francese e Stefania per l’aiuto con lo spagnolo!
Ora Ladie deve studiare per il compito di greco di domani, assolutamente, oppure è fregata.
Kiss,
la vostra disperatissima per il compito prossimo e felicissima per aver concluso il secondo capitolo Ladie.

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Capitolo 3
*** Cosa sono io. {prologo - parte prima} ***


La vita è una rosa dove ogni petalo è un'illusione e ogni spina una realtà.
Alfred de Musset
Caino faceva ondeggiare il vino rosso nel suo calice, pensieroso.
«E dunque, la Diable Ange ti ha fermato» nel tono del suo Signore c’era un tono quasi di sardonico divertimento.
«Me l’ha fatta sotto il naso» confermò. Si portò il calice alle labbra e degustò il buon vino delle cantine del Duca: aveva lo stesso colore del sangue. Un sangue che aveva fatto versare ma che invero era scorso dai suoi alleati.

Un uomo la baciò forte sulla bocca e le tastò la coscia, mentre la sbatteva di prepotenza contro un muro della stanza. Con sguardo maniacale le accarezzò il petto rigonfio dopo averle staccato senza troppe cerimonie la toga, con addirittura un rivolo di bava che gli colava dal mento.
«Non siate tvroppo esubevrante, monsieur!» la donna rise, cristallina e divertita.
«Sì, sì, sì» accondiscese l’uomo, morboso «è che adoro le ragazze generose come te, Madeleine.»
La donna sorrise: adorava i tocchi di classe ed usare come pseudonimo Madeleine era uno di questi. Indossare il nome della prostituta più famosa della storia le dava un brivido immenso, sicuramente più intenso di quello che la mano rozza e poco abile della preda adescata le regalava.
«Sciratevi, monsieur. Vi favrò vedevre una cosa che ho impavrato in Spania» mormorò Chantal Foncé, suadente e incantatrice. L’uomo, la bocca stolidamente aperta come quella di un pesce rosso, annuì e le diede la schiena, cosicché Chantal potesse pugnalarlo alle reni con la sua speciale Lama Celata.
«Achèves la dernière étape dans le vide» mormorò, chiudendogli gli occhi.
Secondi dopo, Chantal Foncé scendeva dalla camera del figlio della Guardia Ducale con in mano una pergamena dall’aria ufficiale e un vestito che le dava un’aria nobile. Uscì dall’abitazione principesca e si diresse con aria sfacciatamente superiore verso Piazza della Signoria, senza dimenticarsi di dare tocchi altezzosi alla chioma dorata della sua parrucca.
«Non si entra senza permesso» le guardie incrociarono le alabarde davanti a Chantal.
«¿Cómo os atrevéis bloquear a la doña favorita de Antonio de Altamura?» sbraitò in perfetto accento spagnolo, sventolando davanti ai due soldati il documento « Me mandó para deponer unos documentos en su lugar, una enfermedad lo cogió esta mañana
«Compriendo» dissero i soldati in coro, che in verità non capivano poiché non parlavano lo spagnolo e nemmeno potevano leggere ciò che era scritto sulla carta, dato che anch’esso era in spagnolo. In verità, nient’altro era se non un passo tradotto de la Commedia di Dante per un milite particolarmente amante della cultura, ma Chantal sapeva sfruttare le sottigliezze e i trucchi subdoli meglio di chiunque.
Camminò lungo i corridoi marmorei del Salone dei Cinquecento, vuoto dalle consuete guardie: lospettacolo era fuori, non dentro. L’esecuzione pubblica riuniva sempre una folla di  persone inferocite ed esaltate, quindi le forze armate erano dispiegate all’esterno nel tentativo di contenere le risse che si formavano nel mezzo dei gruppi più agguerriti e fanatici. Chantal sorrise, spogliandosi della seta con un solo gesto. Nel corpetto del vestito teneva
nascosti i suoi abiti da Assassina, che indossò in un paio di secondi, quindi si sfilò la parrucca
bionda dalla testa e si allacciò ai polsi i bracciali d’oro delle sue Lame Celate. Si arrampicò su una
statua di gesso e con un salto aggraziato fuori dalla stretta finestra cadde su uno dei balconi di
Palazzo della Signoria, pattugliato da due guardie appoggiate sul parapetto. Scivolò alle loro
spalle e recise loro la gola con un coltello. Il sangue delle sue vittime si incanalò negli intarsi della
lama e disegnò il simbolo della Confraternita Francese: la chiave, segno di apertura e
conoscenza. Spinse i corpi giù dal parapetto e questi caddero sulla piazza lastricata con uno
schianto di ossa disgustoso. Diede un’occhiata alla scena antistante: un confessore stava
perdonando gli ultimi peccati commessi dal condannato, il quale non pareva ascoltare le parole
del prelato. Le sue labbra recitavano parole che a Chantal parevano “perdonami amore,
perdonami amore”.
Proseguì lungo la balconata ed entrò in una stanza che fungeva da raccordo comunicativo fra le
sentinelle del tetto e quelle interne. A parte la rientranza del muro immediatamente vicino
all’entrata e quella di fronte alla scala a chiocciola, la sala presentava un solo locale aperto,
stretto ed ostico al combattimento, soprattutto per i quattro soldati bardati di corazza che
stavano sotto i gradini e si lamentavano del Moro. Chantal si infilò nell’anfratto buio più lontano
dalla scala ed aspettò che due dei soldati corazzati salissero i gradini, poi si avventò sui due
rimanenti e li sgozzò senza fare rumore. Dalla cintura che portava in vita estrasse alcune lame
sottili quanto foglie, dello spessore di un millimetro, più accuminate e taglienti di qualunque arma
al mondo. Avevano forma ovale che si stringeva in punta, e ciò le faceva assomigliare
tantissimo a delle foglie color ferro, prendevano nome -per l'appunto- dalla loro inconsueta
sagoma: Feuille.
Scagliò le sue Feuilles contro i soldati che avevano appena salito le scale, la snellezza permise
loro di colpire la fessura piccolissima tra il collo e la schiena lasciata scoperta dall’elmo, poi corse lungo il tetto alla ricerca di un buon punto d’osservazione,  le urla si facevano sempre più estatiche, quindi di sicuro l’ora dell’impiccagione era quasi scoccata. Chantal era veloce e si muoveva lesta come una pantera, non incontrò resistenza, perciò si ritrovò al cospetto della scena in meno del tempo sperato. Con la mano libera estrasse ancora il coltello, quello usato per uccidere le due guardie, e calibrò il colpo contro il boia.
Sorrise. «Adieu
 
Marcello si svegliò confuso in una stanza che gli pareva di aver abbandonato di recente. Con un sussulto, riconobbe il rosso veneziano delle pareti come quello utilizzato da zia Claudia per tinteggiare la sua casa.
«No! Le guardie! Giacomo!» saltò su, tentando di uscire dal letto, ma una mano robusta gli schiacciò il petto.
«Riposa, figlio di un banchiere» borbottò «hai fatto fin troppo, oggi.»
«Enzo?»
 
Marcello vide la bellissima donna spiccare un volo aggraziato, fare una capriola a mezz’aria ed atterrare su un fascio di tende lacere. Dovunque, attorno a lui, spuntarono figure dalle vesti bianche e rosse. Tutte portavano una collana con un ciondolo a forma di chiave, dalle diverse tonalità, e su questo era dipinto uno strano simbolo nero.
«Victoire aux Assassins!» gridavano «Victoire aux Assassins!»
Ben presto, il rumore di ferro sguainato echeggiò dappertutto. Gli Assassini si prepararono a combattere, mentre i Templari ancora cercavano di capire le ragioni di quell’improvviso voltafaccia. Prima che potessero realmente comprendere la gravità della situazione, metà di essi erano morti.
Gli Assassini francesi avevano uno stile di combattimento aggraziato, quasi femmineo, erano un turbine di colori e movimenti, somigliavano a delle farfalle in procinto di attaccarsi ad un fiore ricco di polline. Le loro lame affondavano e sgusciavano via dai petti dei nemici come lo schiudersi delle crisalidi e i fiori di sangue che nascevano sulle loro vesti immacolate sbocciavano nel profumo di un conflitto dimenticato quanto immemore. Erano brutali nella loro gentilezza, sanguinosi nel loro contegno, inflessibili nella loro grazia.
D’improvviso, sentì un dolce profumo accanto a sé. Non si era nemmeno accorto che Chantal Foncé avesse preso parte al conflitto e quasi non vide il suo corpo muoversi mentre accoltellava i due Templari alla gola.
La schiena gli si ghiacciò: era nel bel mezzo delle ostilità. Poteva morire da un secondo all’altro. Desiderava scappare, allontanarsi, ma non gli era concesso muoversi perché era marcato stretto dalle guardie. Chantal gli vorticava attorno come un turbine di petali di rosa, fili di sangue la circondavano senza sfiorarla, la bestialità dei suoi colpi non faceva altro che renderla più bella, più pura nella sua natura selvaggia. Marcello la vide salire sulle ginocchia di un nemico e tagliargli la gola, poi darsi la spinta con i piedi e cadere alle spalle di un altro per conficcargli lo stiletto tra le scapole, dopo con un movimento rotatorio estrarlo dalla schiena di questi per colpire alla pancia un terzo mentre estraeva la Lama Celata e la conficcava sotto il mento del quarto.
Istinto animale, inumanità e armonia erano tutt’uno in lei, era l’acqua che batte sulle rocce durante una tempesta: piacevole e poetica alla vista, così tanto da annullare il pensiero dell’inciviltà dei suoi gesti.
«Tu es survivant» mormorò al suo orecchio, con il suo accento transalpino dalla soave musicalità.
Dove l’aveva già sentito?
«Tu! Sei stata tu a svegliarmi!» boccheggiò Marcello, ma prima che le parole potessero davvero affiorargli alle labbra fu spinto all’indietro, via dalla guerra che infuriava. Fu travolto da un gruppo di persone in fuga che lo trascinava lontano dalla piazza, ma Marcello se ne distaccò: con la coda dell’occhio aveva visto suo cognato scappare dal luogo della battaglia, così si mise a rincorrerlo. Due Templari tentarono di sbarrargli la via, ma Marcello estrasse il coltello dalla cintura e lo piantò nel petto di uno dei due senza ritirarlo, senza fermare la sua corsa. La caviglia gli doleva ma credeva potesse sorreggere il suo peso; fu smentito due minuti più tardi, dove un sonoro schiocco gli annunciò che ormai era persa. Rotolò per terra e sbatté la testa, un rivolo di sangue gli scese lungo il mento.
La sua vista fu accecata da un raggio di sole particolarmente intenso, che pure non gli impedì di notare due guardie Templari che gli si avvicinavano minacciose.

Marcello provò a ritirare la gamba per toccarsi la caviglia, ma un dolore lancinante lo colse e lo costrinse a cadere nelle sue coltri.
«Cosa ci fai qui?» sussurrò con un filo di voce.
«Volevo ringraziare di persona il salvatore della mia Famiglia» ribatté gioviale, una risata stanca nella voce.
«Sei orfano, Enzo.»
«Hai ragione. La nostra Famiglia.»

Enzo Innocenti, il bastardo, correva sui tetti ed osservava la scena sotto di lui. I Confratelli Francesi avevano sguainato le armi contro i Templari e si battevano in modo feroce e violento, gli Italiani invece tentavano di avvicinarsi con scarso successo. Non era proprio messa in preventiva un’occasione di conflitto aperto, ma La Français non perdeva mai una chance per aizzare le fiamme della rivolta.
Eccola là, in mezzo all’orda più caotica e selvaggia, uccidere a destra e a manca con la stessa velocità di un uccello che batte le ali. Era una furia incontenibile, qualcosa di mortalmente bello ed incomprensibile.
«ENZO!» gridò dal basso Saverio, il capitano della guardia di madonna Auditore, «HO BISOGNO DI TE!»
Enzo si gettò con grazia innata giù dal cornicione di una casa, dritto su un tendone che si sfasciò sotto il suo peso. Si rialzò e corse dall’uomo con gli occhi grigi: «che comanda il Mentore?»
«Oggi dovevi incontrarti con una persona per conto di madonna Claudia, non è vero?» chiese, stralunato. Sanguinava da un fianco, ma non appariva troppo grave.
«Sì, però nessuno si è presentato» osservò Enzo, tenendo sottocchio la situazione. Un distaccamento di Templari si era gettato verso i vicoli ad est della piazza, alcuni manti bianchi li inseguivano, ma la battaglia serrata diventava sempre meno agguerrita, complice e causa la caduta di quasi tutti i nemici ostili. Riversi per terra, c’erano anche tanti corpi della sua fazione, ma in piedi c’era ancora gente abile a combattere. Gli adepti prima di Ezio, poi di Ludovico, erano entrati in scena e davano man forte ai loro confratelli; non esistevano barriere linguistiche o di costumi quando si combatteva tutti sotto la bandiera degli Assassini.
«No, qualcuno c’era, ma tu non l’hai notato» ribatté Saverio, parando il colpo di un soldato lanzichenecco che si era spinto contro di loro. E menomale che il Medici avrebbe dovuto preservare il suo popolo!, pensò Innocenti, prima di trapassare la gola del mercenario con il suo gladio.
«Esiste qualcuno in grado di nascondersi alla mia vista?» inorridì lui, prima di scoppiare a ridere: ovvio che no, non esisteva!
«Non c’è cosa meno evidente di ciò che abbiamo ad un palmo dal naso» recitò Saverio «ho bisogno che porti immediatamente quell’uomo al sicuro, io devo tornare a Villa Auditore.»
«Chi cerco?»
«Marcello Auditore, detto Francesco.»
Enzo lo guardò con tanto d’occhi. Marcello? Marcello era vivo?
«Il Duca lo ha dichiarato morto ieri mattina, assieme alla sua famiglia» non poteva crederci. Il cuore gli balbettava nel petto: il suo migliore amico respirava ancora. Marcello Auditore, quel dirittone, il figlio del banchiere, era vivo, si era salvato. Come? Era possibile che i suoi geni di Assassino si fossero palesati in questione di vita o di morte?
«La Fransese ci ha riferito diversamente, alla stessa ora del discorso in piazza del Duca. L’ho visto con i miei occhi assieme alla bambina, Enzo, è vivo, ma non lo resterà a lungo se continui a cincischiare! Corri, trovalo!» gridò Saverio, nel frattempo altri due lanzichenecchi si buttavano su di lui.
Enzo puntò il muro di Tribunale della Mercanzia e vi corse contro. Sfruttando la spinta datosi con la punta dei piedi, compì tre passi in verticale, poi si gettò verso il bordo di una finestra e ne risalì gli infissi prima di infilare le dita nelle fessure tra i mattoni e la calce. Si mosse in orizzontale alla ricerca di una appiglio posto più in alto e l’asta di uno stemma dei Medici ammainato si rivelò per lui di fondamentale importanza. Si lanciò verso di questa, che si abbassò spaventosamente sotto il suo peso, inclinandosi a novanta gradi, quindi vi salì e continuò la sua scalata. Passò vicino ai ventuno stemmi delle Arti di Firenze prima di arrivare sul tetto. Si sporse alla spasmodica ricerca della figura più impacciata di un Assassino, ma in Piazza non c’erano altro che cadaveri, sangue e morte; non contemplava nemmeno l’ipotesi che Marcello potesse essere annoverato tra i caduti, era troppo sveglio per morire in quel modo.
Nel portico di Loggia della Signoria stavano i civili, spaventati e turbati. Molti bambini avevano il viso nascosto nelle gonne delle madri e gli anziani si reggevano sulle spalle degli uomini, i quali guardavano la scena con disgusto misto ad adorazione, quasi esaltazione. Credevano, forse, che questi mercenari dai cappucci bianchi li avrebbero liberati dall’oppressore Medici? Enzo, in quanto fiorentino, si preoccupava anche di questo aspetto, però sapeva che il bambolotto di Carlo V non era la priorità dell’Ordine Italiano; il cuore pulsante degli Assassini d’Italia non era più Firenze, ma la magica Venezia, e la Serenissima, dopo i tanti conflitti con gli spagnoli ed il Papato, non aveva intenzione di inimicarsi nessuno dei due e non contribuiva di certo alla scacciata dei Medici dal nuovo Ducato, fortemente voluto da Leone X e dallo stesso monarca asburgico.
Vide un uomo correre via dalla piazza e lo riconobbe come Giacomo Beccaccia, il figlio del suo Maestro nonché il condannato a morte della giornata. Dietro di lui arrancava una figura in bianco, vistosamente claudicante, la cui corsa venne bloccata da due uomini dei Templari. Enzo stava per entrare in azione, ma l’Assassino fu più veloce di lui nel piantare un coltello nel torace di uno dei soldati senza nemmeno fermarsi, un’azione degna di Ezio Auditore.
Cazzo! Marcello!
Enzo corse parallelamente a lui sul tetto del Tribunale, osservandolo in apprensione: la sua andatura era zoppa, curvilinea, la schiena inclinata e la velocità irrisoria, perlomeno rispetto a quella di cui di solito faceva sfoggio. Proprio quando stava per scendere ed aiutarlo, Marcello si rese protagonista di un’orrenda piroetta a mezz’aria, preceduta dal rumore agghiacciante di ossa rotte: doveva essersi fratturato la caviglia, sicuramente. Ruzzolò in avanti per qualche metro e del sangue iniziò a scorrere lungo la sua tempia, dove si era formata una ferita superficiale. Due Templari si avvicinavano al corpo esanime di Marcello, così Enzo si gettò in picchiata su di loro e li uccise in un solo colpo conficcando la Lama Celata nella nuca di uno ed uno stiletto appuntito nella schiena dell’altro.
Giacomo inciampò e cadde sulla pietra della Piazza, scoppiando in singhiozzi di dolore interiore più che fisico. Enzo lo capiva dalle sue grida disperate: «FLAVIA! FIORELLA! FLAVIA!»
Enzo, disgustato e intriso di odio, si accostò a lui e lo aiutò a rimettersi in piedi.
«Ho ucciso mia moglie» bisbigliò Giacomo, aggrappandosi a lui «ho ucciso mia figlia».
«Fiorella è ancora viva» tuonò con voce fonda «si trova a Villa Auditore sotto le cure di Madonna Claudia Auditore, la sua prozia.»
«La mia bambina è sopravvissuta?» negli occhi di Giacomo c’era quasi un barlume di follia, tanta era la gioia di quel momento.
«Sì. Ed ora dammi una mano a mettere al riparo il suo salvatore.»

«Tu, per tutto questo tempo…» Marcello era senza parole.
Enzo annuì, piano.
«Non credevo che fossi un Assassino» bisbigliò.
«Diciamo che il mio impiego da fruttivendolo è solo uno svago, concessomi da mio cugino coltivatore» chiarì .
«Se non fosse stato per la Fratellanza, a quest’ora sarei già morto. Di fame, di freddo o di canapa» scherzò, negli occhi tristi un passato tanto lontano che Marcello non poteva ricordare.
«I miei genitori furono uccisi dai Templari» gli confessò «ma nessuno me l’aveva mai detto fino a quando non compii dieci anni. Quel giorno, entrai nell’Ordine.»
«Hai trent’anni, ormai» gli fece notare «ed hai sprecato il meglio della tua vita per inseguire una favola.»
«Hai ragione: non mi sono sposato, non ho avuto figli, non mi sono ritirato in campagna» accondiscese Enzo «ho preferito servire, affinché fossero altri a compire questi sogni. L’unica mia consolazione è stata quella favola, come la chiami tu.»
Marcello non aveva le forze per ribattere al sarcasmo nella sua voce. Era stanco, tutto ciò che desiderava era poter finalmente riposare e rifuggire alle tenebre che
circondavano la sua veglia.

«Hai perso il Codice, hai leso alle mie truppe in modo grave e pure mi hai fatto fare una figuraccia contro Francesco» il tono di Carlo d’Asburgo era tremendamente divertito. L’occasione di potersi prendere gioco del suo migliore luogotenente era più unica che rara e di certo lui non se la sarebbe fatta sfuggire. Non era affatto turbato dal disastro combinato da Caino in Italia, ne era intrattenuto.
«Rimedierò al mio errore, ve lo prometto, Vostra Maestà» Caino sorseggiò il suo vino con sguardo assente. Se Chérie aveva portato via i documenti, come mai era rimasta a Firenze? La sua priorità era quella di tenerli il più lontano possibile dalle loro mani, eppure aveva corso il grave rischio di non procurare loro una sistemazione più sicura rimanendo in Italia al solo fine di infliggere una sconfitta incerta fino alla sua conclusione ai Templari. Perché?
Le risposte potevano essere varie. Un trucco? Una trappola? Una vendetta? Una provocazione? O forse… lui aveva sbagliato i calcoli?
Aveva cercato i documenti in tutta l’abitazione e si era persino preso il disturbo di drogare gli Auditore -uccidere nel caso della madre, che gli era sembrata un po’ troppo sveglia-, aveva svolto un lavoro da certosino, era più che certo che la casa fosse sgombra dalle carte di cui tanto necessitavano. E se non fosse stata Chérie a portarle via, ma gli stessi Auditore? Nessuno sapeva quando di preciso i Templari sarebbero giunti, quindi avrebbero dovuto agire per tempo. Come uno stupido si era mosso in modo superficiale, senza soffermarsi a riflettere, troppo preso dal timore di venire scoperto per poter osare di più.
Aveva voluto lanciare un messaggio agli Assassini incendiando l’abitazione, cosa che gli si era ritorta contro, visto l’esito delle sue gesta in Italia. Ora la Chiave si era allontanata di diversi passi ed ancora più soffocata nelle mani ansiose dei suoi rivali.
«Di cosa ti occuperai adesso, Jacques?» Carlo passeggiava quietamente verso l’uscita della grande sala. Era un uomo che amava prendersi i propri tempi, poiché in quelli i frutti avevano la capacità di maturare e diventare succosi; non c’era gusto nel spolpare una preda magra, era molto meglio banchettare con le carni di un maiale grasso.
«L’Originale di Leonardo è un altro pezzo molto importante nella corsa alla Mela di Eva» mormorò Caino, gli occhi che sciabordavano i colori della bella Toledo notturna.
«Tienilo lontano dalle mani di Michelangelo» suggerì Carlo d’Asburgo con una risatina soppressa «potrebbe dargli fuoco.»
Caino sorrise: «Non oserebbe mai rubarmi il mestiere.»
 
L’estate morente risorse in un autunno freddo e pungente mentre Marcello Auditore rimaneva a letto, fermo ed immobile sotto imperioso comando di zia Claudia, che ad ogni sua richiesta di movimento lo freddava con un’occhiata assassina -la zia era una di quelle persone che aveva la professione incollata addosso.
Era settembre inoltrato, quando finalmente poté muovere i primi passi. Si sentiva un pulcino appena uscito dall’uovo, camminava in modo strano, soprattutto a causa di quello stivaletto da deambulazione in cui il cerusico l’aveva costretto.
«È medicina francese, di alta qualità.»
«Sentito, messer Francesco? Il buon uomo dice il vero, ora non mettete su il broncio, per carità divina!»
Passeggiava attorno al laghetto artificiale nel giardino, osservava le oche prendere il volo verso sud, meta calda e lontana. Sentiva anche il suo pensiero iniziare a volteggiare nel vento, ritrovandosi a rimuginare su fatti accaduti nel breve passato.
Il suo breve faccia a faccia con Giacomo non era stato dei più felici, complice il fatto che Enzo avesse vuotato il sacco sulla cospirazione avvenuta la sera dell’attentato. Se si era fratturato la caviglia per l’empatia nei confronti del cognato, adesso avrebbe volentieri spezzato a lui qualche osso, a mani nude. Vendere ai mercenari la propria famiglia per aver salva la vita? Marcello non lo concepiva.
Sarebbe morto, morto, piuttosto che lasciarsi sfuggire una parola di bocca.
Ed era ciò che Marcello aveva gridato a Giacomo quello stesso mattino prima di uscire.
«DANNATO FIGLIO DI PUTTANA!» si era slanciato contro il cognato con tutto l’impeto, dandogli un pugno al lato del viso e facendogli sputare sangue «HAI VENDUTO TUA MOGLIE AI MERCENARI, PEZZO DI STERCO? VIGLIACCO, VILE, TRADITORE, LURIDO SORCIO! NEMMENO I CANI AVREBBERO IL CORAGGIO DI SBRANARE LE TUE LURIDE CARNI PERMEATE DI INFAMIA!»
Lo aveva ridotto ad un ammasso di brandelli umani, prima che Enzo potesse soltanto avvicinarsi per staccarlo da lui. Solo in quel momento, Marcello si era reso conto che Fiorella li stava guardando con le guance rigate di lacrime.
Sospirò. Era stato troppo avventato, non aveva affatto pensato a Fiorella. La sua adorata nipote aveva perso la madre nell’incendio, Flavia, ed in quel momento aveva appena ritrovato il padre, che per quanto ignobile e sleale, era comunque un genitore. Lui non comprendeva a fondo la figura paterna, non ne aveva mai beneficiato in tutta la sua vita -Ezio si era dimostrato distante, non lo aveva coccolato come con Flavia, ed inoltre era morto prima che potesse insegnargli a radersi da solo-, però almeno capiva l’affetto che Fiorella provava per Giacomo, lo stesso che lui nutriva per Sofia.
Che fare, allora? Fiorella aveva bisogno di suo padre, anche se suo padre era un traditore. Oh, lo odiava così tanto! Se solo non ci fosse stata la bambina di mezzo, lo avrebbe trapassato da parte a parte!
Questo pensiero rapì Marcello verso un’altra ansia: Enzo.
Non appena saputo che messer Francesco non si sarebbe unito all’Ordine, Innocenti era uscito fuori dai gangheri.
«È LA TUA STRADA, NON PUOI TIRARTI INDIETRO!» aveva esclamato, furioso.
«Non commetterò gli errori di Ezio. Non mi sacrificherò per qualcosa che non vale» aveva affermato Marcello, serafico.
«Non mordere la mano che ti ha nutrito, Auditore» Enzo era scuro in volto.
«Fino a qualche giorno fa non sapevo che cosa fosse in realtà Ezio Auditore!» Marcello scoprì i denti: non voleva in alcun modo essere accoppiato a quell’essere, tantomeno per il cognome che sfortunatamente condividevano.
«Un uomo migliore di suo figlio, ecco cos’è stato» Enzo lo lasciò con la glacialità e l’amarezza che ha una bufera di neve in un giorno di festa.
Dopo che Claudia gli aveva rivelato le grandi abilità in combattimento di Enzo -quando l’Auditore le aveva confessato di desiderarlo come insegnante-, Marcello sperava di poter beneficiare del suo addestramento, ma essendoci in corso tale diatriba gli pareva assurdo chiedergli il suo aiuto poiché egli si sarebbe di certo rifiutato.
Come fare, dunque? Cosa fare?
Sentiva la testa più gonfia di un pallone, l’allettamento gli aveva dato troppo tempo per pensare ed al contempo così poco. Non aveva ancora metabolizzato la morte di Flavia e Sofia, non gli pareva ancora vero che non fossero più con lui. Spesso si svegliava in un bagno di sudore, quasi stesse ancora nel fuoco rovente. La voce di Flavia gli arrivava ovattata alle orecchie, fumo di un pensiero, fumo di un ricordo arso dalle fiamme. La mattina scivolava fuori dal letto per andare a svegliare Fiorella, ma lei dormiva stretta al petto del padre.
Era solo.
Possibile che il cappuccio lo avesse già segnato? O forse il fatto che lui era segnato lo aveva spinto a trovare riparo sotto di esso?
Rientrato nella dimora, la sua attenzione fu catturata da una conversazione ostentatamente silenziosa al piano di sopra.
Salì la scala a chiocciola di soppiatto e spiò dalla fessura della porta lo studio di Claudia: Cesare Beccaccia, Enzo e sua zia stavano parlando fitto fitto.
Marcello si pose in ascolto.
«Dunque sapevate già di Carlo V» Cesare disse.
«Jean-Paul ci ha riferito tutto tramite un suo subordinato qualche giorno prima del processo in piazza» confermò Claudia.
«Chi? La puttana?» il tono di Cesare era irriverente e spregiudicato.
«Chiunque fosse, non cambia il contenuto veritiero ed importantissimo dell’informazione» lo freddò madonna Auditore, altera «hai avuto conferma dei tuoi sospetti?»
«Sì» mormorò «il caro Alessandro è in combutta con Napoli. Vuole invadere la Toscana per farne un unico regno.»
«Non potrà!» Enzo era scandalizzato.
«Oh, lo farà» ribatté Cesare «se avrà i Lanzichenecchi al suo fianco, dubito che possa mai fallire. Il Re è d’accordo: un solo regno, un solo problema. Arezzo non è intenzionata a far passare le sue truppe, ma fintantoché Firenze non la supporta, è da considerarsi persa.»
«Aretino dov’è? A farselo venire duro con quelle porcherie che lui chiama sonetti?» Enzo sputò, sprezzante.
«Non possiamo contare su un solo uomo per salvare la città, Enzo» Claudia cerco di farlo venire a più miti consigli.
«Bene, allora parto subito per Arezzo!» saltò su Innocenti.
«Tu non ti muovi di qui!» Claudia era infuriata «ho bisogno di te a Firenze!»
«Perché? Avete tutta la protezione necessaria, voi e il popolo!» rispose Enzo, frustrato.
«Io sì, e pure i fiorentini. Marcello no» Claudia era gelida, dopo l'accusa velata nelle parole del suo Guerriero.
«Marcello? Il fratello di madonna Flavia Auditore?» Cesare era sospettoso «credevo che se ne occupasse mia nuora.»
«Non può più» c'era un estremo dolore nelle parole di Enzo.
Marcello ricordava che un vecchio pettegolezzo li voleva amanti in una relazione segreta -per quanto possa essere segreta una relazione giovanile-, prima che Flavia scoprisse di essere incinta. Sparsa la voce secondo la quale lei era da sempre innamorata di un altro uomo, sposò il figlio del vicino Cesare, messer Giacomo.
Cesare era ereditiere di una straordinaria ricchezza, ma Giacomo, diseredato dal padre quando Fiorella aveva un anno, era stato depennato dal testamento per aver messo incinte due gemelle appena sedicenni, entrambe di ottima famiglia borghese. Non appena Sofia ebbe saputo di questa cosa, Marcello dovette trattenerla per i gomiti affinché non si scagliasse contro il genero. Straccione, morto di fame e pidocchioso taccagno, Marcello provava solo tenerezza nei suoi confronti: un tale personaggio non era niente di meno che un verme strisciante, era compito di un buon cristiano proteggere gli indifesi.
«Cos'è accaduto a madonna Flavia? E a sua madre, la splendida Sofia?» Cesare era allibito.
«Incendio» la "o" finale della parola venne inghiottita dalla voce di Cesare: «Come può Caino averli trovati? Scelsero appositamente la collocazione, mio padre ed Ezio, in modo che fosse invisibile, ma non isolata.»
«La regina dei boschi, soprattutto da giovane, canta» Claudia era sardonica.
Marcello singhiozzò: pura genialità.
La beccaccia era un uccello diurno, conosciuto appunto come "regina dei boschi", un semplice quanto intelligente gioco di parole.
«Flavia e Sofia, morte? Le nostre migliori Assassine? Per colpa di quel bastardo?» era chiaro come il sole che Cesare, ad una risposta affermativa, avrebbe attraversato la stanza ed ucciso il figlio maggiore.
«Così va il mondo. O almeno, il mondo alla fine del mondo» negli occhi di Claudia era spuntata una lacrima, ben nascosta dalla traccia di cinismo al limite del cattivo gusto nella sua voce.
Era visibile dal solo volto di Cesare l'astio e la vergogna ribollenti nel suo sangue.
«Lo ucciderò, lo ucciderò! Giuro su Dio che stavolta non-» «Fermatevi, messer Cesare.»
Marcello era entrato nella stanza, sbarrando il passo all’uomo che tentava di uscire.
«Marcello!» esclamò spiazzata la donna «nel nome del Signore, avresti anche potuto riposarti ancora, ti sei da poco ripreso!»
«No» la contraddisse, veemente «non sopporto più di stare incatenato. Credevo che fossimo d’intesa, zia.»
Claudia lo guardò con aria di sfida: «non appartieni a questo tipo di riunioni, messer Francesco
«Né accetto che una banda di sovvertitori parli di me alle mie spalle» ringhiò «se avete qualcosa da dire, ditela a me.»
«La solita arroganza» rise sprezzante Cesare «sei rimasto lo stesso figlio di un banchiere.»
«E voi non siete da meno in quanto arroganza, Cesare Beccaccia» soffiò sul suo volto «a causa della vostra stirpe, la mia si è quasi spenta.»
«Se mi lasciassi passare, non esiterei a mettere fine alla mia stirpe» Cesare lo guardò dritto negli occhi, nascosti nell’ombra del cappuccio.
«Non voglio che Giacomo venga compromesso in modo alcuno» Marcello chiarì a denti stretti.
«Come puoi dire questo? Lui vi ha venduti ai Templari!» sbottò Cesare. La mano inguantata del Beccaccia si chiuse attorno al lembo di stoffa che avvolgeva il petto di Marcello e lo tirò verso di sé.
«Decido io come vedermela con la mia famiglia, sei pregato di non intrometterti» mormorò mortifero.
«Credevo che fosse stato eliminato dall’albero genealogico. E vi ricordo che Fiorella Auditore è figlia di mia sorella, quindi fa parte della mia famiglia, pertanto è mio compito decidere quale debba essere la sua educazione. Voglio che rimanga col padre, sotto la tutela di madonna Claudia, e che tutte le sue passioni artistiche, quando sarà grande, vengano assecondate» Marcello spinse via Cesare e voltò le spalle al terzetto.
«Tutti i bambini dovrebbero crescere con i propri genitori» disse «non lascerò che anche su Fiorella venga impresso il marchio sanguinoso della solitudine.»

Atterrò di schianto su un tetto di tegole, che non cedette per miracolo. Rotolò lungo lo spiovente e si rialzò facendo leva sulle braccia, dandosi contemporaneamente la spinta per ricominciare a correre. Arrivò sul cornicione e spiccò un salto per raggiungere il ballatoio del palazzo di fronte, che attraversò e dal quale si lanciò per arrivare ad una scala. La salì e si ritrovò su uno degli edifici abitativi più alti di Firenze, dotato di una copertura piana di calce senza marsigliesi.
Da quel punto, l’aria della città era più limpida e celeste, portava il profumo del pane e dei pini, di tutto ciò che è autunno. Flavia gli aveva rivelato della sua esistenza, quando lui aveva quattordici anni. Diceva di salire lassù ogni volta che aveva da pensare, che quell’atmosfera trasparente la aiutava a schiarirsi le idee.
Marcello non aveva mai avuto molto su cui riflettere, nei precedenti venti anni di vita. Era sempre stato un ragazzo gioviale, allegro, un eterno fanciullo, la filosofia del carpe diem lo aveva accompagnato durante tutto il suo cammino. Si rendeva conto però che da quel momento non poteva più permettersi di giocare, in ballo c’erano grandi cose, e doveva iniziare ad allenare le spalle se aveva intenzione di reggerle. Caino era davanti ai suoi occhi, non sapeva che aspetto avesse, eppure riusciva a figurarselo; Saverio lo aveva definito “un pazzo”, eppure era un pazzo potente e con un arsenale indicibile dalla sua parte. Ciononostante, Marcello non pensava ad altro che alla sua vendetta: la morte di Caino era l’unica cosa che avrebbe riportato equilibrio nella sua vita, e non si sarebbe fermato mai, anche a costo di seguire gli ordini di quella Setta che lui tanto odiava.
Erano forti, forti abbastanza da poterlo addestrare.
«È forse questo un comune ritrovo di voi Auditore?» una voce echeggiò alle sue spalle.
Marcello si voltò, repentino, e fece scattare la Lama.
«Oh» mormorò «sei solo tu.»
Enzo Innocenti alzò un angolo della bocca. Quel figlio di un banchiere!
«Non mi è particolarmente piaciuto il modo in cui ci hai abbandonati, stamane» gli confessò, avvicinandosi alla sua figura.
«Scommetto che Cesare ha dato di matto.»
«Oh, avresti dovuto vederlo. Era furioso.»
«Perché me ne sono andato di punto in bianco o perché io sono riuscito a spaccare la faccia a quel bastardo di Giacomo?» chiese Marcello.
Enzo parve ponderare la risposta, prima di esalare: «entrambe.»
«Lo immaginavo» sorrise.
«Mi è piaciuto quello che hai detto prima di andartene, invece» riprese «è stato molto bello.»
«È solo quello che penso» ribatté asciutto «non ricamarci sopra.»
«Secondo madonna Auditore, sei molto cambiato in questi giorni» Enzo non parve ascoltarlo «per me, invece, non lo sei affatto.»
Un ghigno amaro si fece strada sul volto di Marcello.
«Da quant’è che ci conosciamo, Auditore? Sei anni?» chiese Enzo, retorico.
«Più o meno, credo di sì» rispose incerto.
«In questi sei anni sei sempre stato una gran bella testa calda. Un donnaiolo, un bevitore, un incosciente, uno scavezzacollo, un dirittone, un approfittatore, un codardo, ed un vero marrano» elencò Enzo, che ad ogni aggettivo aggiungeva un dito alzato «però mai un irresponsabile.»
Marcello osservò la Firenze che gli si stagliava davanti, si interrogava su cosa Enzo avesse voluto dire. Lui era il mas, non il vir.
«Per quanto fossi un mascalzone, non sei mai stato un cattivo. Sei buono, e i buoni sono destinati alla grandezza. Per te era solo questione di tempo.»
«Non la penso in questo modo. Ciò che mi spinge ad andare avanti, oltre al desiderio di proteggere Fiorella, è quello di vendicare la morte di mia madre e mia sorella» le punte tristi delle chiese di Firenze nel loro immacolato candore gli ispiravano cupi pensieri.
«La nobiltà d’animo è ciò che ti rende forte, è ciò che ti renderà invincibile» Enzo sorrise.
Marcello con la coda dell’occhio lo vide arretrare fino al limite estremo del tetto, poi cominciare a correre.
Prima che capisse le sue intenzioni, avvertì la sua grande mano scontrarsi con la sua schiena, spingendolo di sotto. Marcello gridò, pallido di paura.
Però quella sensazione di libertà…
E quell’incredibile senso del potere che scorreva nelle vene…
Enzo fece una giravolta a mezz’aria, così Marcello lo imitò senza pensare.
Il vento nei capelli lo faceva galleggiare come una bolla, senza peso.
Il sibilo dei vestiti sferzati dall’aria tagliente echeggiava come il rumore infernale di mille spade, ma non ne aveva paura.
Libero. Potente. Leggero. Impavido.
La sua schiena si scontrò contro un provvidenziale mucchio di fieno, proprio mentre Enzo atterrava al suo fianco. Lo sentì scoppiare in una grassa risata, teneva le mani incrociate sullo stomaco.
«PERCHÉ DIAVOLO STAI RIDENDO, SEI FUORI DI TESTA? POTEVAMO MORIRE!» le mani di Marcello non tremavano.
«Buon sangue non mente, figlio di un banchiere» Enzo ancora sghignazzava «e va bene, che un altro Auditore venga a succhiare il mio latte intriso di sapere e conoscenza assassina.»
Marcello arrossì: «La zia ha…?»
«Interceduto tra me e te, sì» confermò, spazzandosi gli abiti con una mano ed offrendola all’altro per alzarsi.
«Allora mi insegnerai a difendermi?» nei suoi occhi brillava una luce di gioia quasi infantile.
Enzo sorrise. Aveva già visto quella scena, tanto tempo prima.
«Allora mi insegnerai a difendermi?» negli occhi di Flavia brillava una luce di gioia quasi infantile. E del resto era normale, quella davanti a lui era poco più che una bambina.
«Va bene, figlio di un banchiere.»
«Va bene, fiorellino.»

La Villa di Claudia era stata costruita a modello della vecchia Villa Auditore di Monteriggioni.
Un enorme ed imponente edificio, raggiungibile tramite una fila di scale di quasi cinquanta gradini, si stagliava in una zona riparata di Firenze, a poco dal centro della vita cittadina, Piazza della Signoria.
Il cortile esterno era diviso in due da una strada di ciottoli che conduceva alla porta di legno a due battenti, sulla quale il simbolo della Famiglia era dipinto in rilievo con grande cura. Il primo locale che accoglieva l’ospite era un atrio dal pieno gusto rinascimentale, in marmo pregiatissimo e legno di betulla. Alle pareti erano appesi quadri di ben noti artisti fiorentini ed europei, tra cui quelli di un certo Giovan Battista di Jacopo, ora in Francia alla corte di Francesco I. A sinistra c’era l’ingresso aperto per la Sala delle Arti, dove Claudia poteva dar vita a tutti i suoi capricci da mecenate, mentre a destra una porta chiusa segnalava l’entrata riservata nel sancta sanctorum della Villa, dove erano conservati gelosamente tutti gli atti, i possedimenti e le risorse economiche di Claudia: era la Stanza del Tesoro, sorvegliata ventiquattr’ore su ventiquattro da una coppia di guardie bardate di corazza. Una sontuosa scala portava al piano superiore, sede delle stanze del Capitano Saverio Bianchi e di alcuni membri speciali della Guardia. Un’altra scala a chiocciola di ferro battuto al piano terra si avvitava fino ad arrivare al terzo piano della Villa -altrimenti raggiungibile dal secondo piano grazie ad un’ulteriore scalone di marmo-, sede dello Studio di madonna Auditore e di altre camere che non potevano essere visitate se non grazie a speciali permessi -come una piccola targa di ottone non mancava di sottolineare, la quale recitava “accesso riservato”-; un lunghissimo corridoio, ai cui capi c’erano altri gruppi di guardie armate alla leggera, portava ad un enorme cortile interno, circondato da alte mura, che era segretamente il campo di addestramento degli Assassini.
Un secondo fabbricato di materiale ignifugo e resistente fungeva da deposito ed armeria, una delle più grandi di Firenze, un atto di arrogante sfida di Claudia Auditore nei confronti del tiranno Alessandro de’ Medici.
Al tramonto, Marcello Auditore ed Enzo Innocenti salivano a Villa Auditore, dopo un’intera giornata passata tra i tetti di Firenze; Enzo aveva voluto mettere alla prova le abilità di scalatore di Marcello, che con il piede offeso aveva dovuto saltare, correre, arrampicarsi e fare acrobazie per compiacere il suo nuovo maestro. Marcello avrebbe tanto voluto riposarsi, ma non voleva sembrare debole ad Enzo, il quale nonostante i dieci anni a sfavore pareva fresco come una rosa.
La luce arancione bagnava la figura di una bambina che stava nel prato, sotto il distratto ed intristito sguardo del padre. Innocenti affrettò il passo per entrare nell’abitazione, Marcello si fermò a guardare Fiorella.
Ricordava che Fiorella amava i fiori. Ogni volta che tornava dal mercato, le portava sempre un mazzo di margherite bianche, le sue preferite. Lei squittiva ed iniziava subito ad intrecciarle.
Adesso la bambina sedeva in una macchia di fiori campestri, ma non li toccava. Non li guardava.
Teneva lo sguardo fisso sul rosso del calar del sole, una manina grassoccia sulla bocca e l’altra poggiata lungo il fianco. Una viola si posava sul suo vestito dai colori pallidi ed i lunghi ricci neri le cadevano sulle spalle piccole, mentre lei osservava la discesa del disco scarlatto come se questi fosse d’improvviso il suo più grande interesse.
Giacomo teneva le mani sotto il mento ed osservava Fiorella con sguardo assente.
«Non dovrà accaderle nulla» sibilò Marcello al padre, che gli prestò un’attenzione smunta «ti lascerò vivere soltanto perché tu possa prenderti cura di lei in mia assenza. Ma compi un solo passo falso e ti reciderò la gola, lo giuro sulla memoria della moglie che hai ucciso.»
«Continuerai a tenere questa spada di Damocle sulla mia testa per sempre? Potrebbe servire a qualcosa dirti che brucerò per sempre nelle fiamme per questa mia irrimediabile colpa?» sussurrò Giacomo. Sembrava sincero.
«Fa’ sì che torni ad amare la bellezza» rispose Marcello «ed un giorno avrai diritto al riscatto che agogni.»
«Sarà fatto, messer Francesco. Lo giuro sul mio onore.»
«Giuralo su qualcosa che vale.»
Giacomo lo guardò negli occhi, una scintilla di vita nelle iridi verdi.
«Sull’onore degli Assassini.»
Marcello chiuse gli occhi. Onore ed Assassino erano due parole che non coincidevano, nella sua mente. Un Ordine senza Dio e senza legge non era qualcosa da poter definire “onorevole”, ma sapeva che l’opinione comune era molto diversa, quindi accettò il voto di Giacomo come valido.
Lanciando un ultimo sguardo alla bambina non più bambina, anche l’Auditore varcò la soglia della Villa.
Enzo sedeva sulla scalinata di marmo, in sua attesa. Aveva una mela in mano, presa certamente dal cesto di frutta posato sul tavolino, e le dava piccoli morsi.
«È dissetante» disse a Marcello, invitandolo a servirsi. Marcello prese a sua volta una mela e la morse, il suo succo si spanse generoso nella sua gola e gli ridiede un minimo di energia.
«Avrai bisogno di forze, per compiere l’ultimo passo. Noi lo chiamiamo “il battesimo del fuoco”» gli spiegò Enzo «è una pratica che va avanti dall’inizio dell’Ordine e tutti gli iniziati che passano per questa via, quella di venire introdotti agli Assassini tramite un membro anziano, devono sottoporvisi.»
«Io non sono un Assassino, Enzo» affermò Marcello con durezza, scoccandogli un’occhiata gelida.
«Hai ragione. Non condividi il nostro Credo, ma condividerai parte della nostra forza» esclamò Claudia. Marcello si girò e la vide appoggiata alla balaustra del piano superiore, scrutarlo con sguardo divertito «è giusto che noi testiamo le tue capacità»
«E in cosa consistite questo battesimo del fuoco?» chiese Marcello, che pure non era capace di non dimostrarsi ostile.
«Per ogni iniziato, la prova è diversa. La tua è… interessante» disse madonna Auditore, maliziosa.
Marcello si sentì molto meno sicuro e diede un altro morso alla mela.
Enzo lo condusse lungo il corridoio di marmo al terzo piano e poi giù, al cortile interno.
La via dalla Villa all’Armeria era segnalata da fiaccole le cui fiamme si smuovevano nell’aria fredda.
Su tutte le facciate dell’Armeria, una pianta di rosa rampicante si avvitava fino al tetto. L’unica parte non coperta dai rami spinosi della pianta era la grande porta, che serviva alle guardie ed agli Assassini per portare dentro e fuori le armi.
Marcello aveva un orribile presentimento.
«Rosa!» dichiarò Saverio, che stava vicino alla via costeggiata di fiaccole.
«Rosa» ribadì Cesare, un sorriso sardonico nascosto nell’ombra.
«Rosa» mormorò Claudia «regina d’inganni e tessitrice di amori proibiti. Cosa ci viene in mente, d’altronde, quando pensiamo alla rosa? La bellezza.»
«Eppure non ci vedo alcuna bellezza in quelle lunghe spine» deglutì Marcello.
«Per giungere alla felicità si passa per il dolore» ribatté Enzo «anche se spesso non si smette mai di soffrire.»
«Spina etiam grata est si spectatur rosa, disse un noto scrittore latino» continuò, mentre lentamente attraversava quel corridoio nella luce sempre più buia «e noi aspettiamo il fiorire di questa rosa da immemori tempi.»
«Tutti noi abbiamo camminato tra i rovi. Il nostro sangue ha colorato i petali dei tanti fiori che abbiamo lasciato sbocciare, e la pace che cerchiamo si trova alla fine della lunga via che attraversiamo dall’origine dell’Universo.»
«Ciò che ti chiediamo di fare, Francesco, è attraversare quella via di sofferenza. Alla fine, troverai la rosa» disse Saverio «e ce la mostrerai.»
Non puoi farcela!, gridò il mas.
E perciò tenterai sempre più duramente, affermò il vir.
Marcello si avvicinò circospetto all’edificio, tremava di freddo e paura. La sua mano si chiuse attorno ad un pugno di spine, iniziando a sanguinare subito copiosamente.
La ritirò di scatto ed osservò i lunghi sfregi procuratisi per il contatto: ogni esitazione era fatale, fermarsi equivaleva alla morte.
È una sfida impossibile, te ne rendi conto?, diceva il mas.
È una sfida, te ne rendi conto?, diceva il vir.
Marcello afferrò una manciata di spine con entrambe le mani, poi altre, poi altre ancora. I bracci della rampicante non davano sostegno ai suoi piedi, si spezzavano non appena applicava un po’ di pressione per sollevarsi: non era mai al sicuro, era sempre esposto ai pericoli, stava a lui fuggire o affrontarli senza cadere.
Come può il dolore non piegarti?, chiedeva il mas.
Come puoi piegarti al dolore?, chiedeva il vir.
Marcello afferrò una delle poche rose non tagliate dai manutentori. Essa s’impregnò all'istante del suo sangue, ma gli forniva una dolce anestesia: il conforto giunge nei momenti più insperati da coloro che più di tutti si dimostrano coriacei alla sofferenza.
Fermati, lo implorava il mas.
Ora o mai più, lo spronava il vir.
Si sentì scivolare e quindi si aggrappò in modo più saldo alle spine che teneva nel pugno: anche se sono malvagi, anche se ispirano sofferenza, anche se più di tutto fanno colare lacrime e sangue, i ricordi sono l’unica cosa confortante a cui sai di poterti attaccare.
Perché lo stai facendo?, gli domandava il mas.
Perché è l’unica scelta che hai, rispondeva il vir.
Le sue dita insensibili si aggrapparono a qualcosa che non gli lacerava la pelle. Aprì gli occhi -quando li aveva chiusi?- e si accorse di aver scalato l’intero palazzo.
Come?, chiese il mas.
Con la tua forza, rispose il vir.
Salì sul tetto e vide uno spettacolo che gli allargò il cuore: in ogni angolo, rose damasco spandevano il loro delizioso profumo. Il rumore del sangue che cadeva a terra in piccole gocce seguiva i suoi passi verso la concentrazione maggiore di fiori. Tra di essi, spuntava una sola rosa bianca. Marcello si tirò la manica oltre la mano, che si sporcò di rosso, e colse quell’esemplare di bellezza indescrivibile: tra tanti esempi di effimere paci, come le paci umane, ne esiste una universale, che un giorno troverà risurrezione come il Sole che dopo tutte le notti torna a sorgere.
Per cosa combatti?
Lo vedo già, nipote mio. Vedo già quel giorno.
Nel buio, Marcello giurò di aver sentito un aquila gridare.
Corse lungo il tetto.
Per cosa resisti?
Sei un grande uomo, Marcello Auditore. Non te ne scordare mai.
Piegò le ginocchia.
Per cosa vale la pena la pena vivere?
È la tua strada, non puoi tirarti indietro.
Spiccò un salto a braccia aperte.
Per cosa vale la pena sentire qualcosa nel cuore?
Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.
Libero. Potente. Leggero. Impavido.
Marcello Auditore non aprì gli occhi.
Non li aveva mai chiusi.
ladie’s a gentleman! (author’s corner)
7690.
“Non mi ridurrò più a scrivere un capitolo di dieci pagine!”
Infatti l’ho scritto di undici. La coerenza, Ladie, la coerenza.
Ok, qui non è successo un granchè, nel vero senso di trama. Certo, abbiamo scoperto che Enzo è un Assassino, che TUTTI sono Assassini, però alla fine di concreti avvenimenti ce ne sono pochi, questa è l’introduzione al prologo, che dal prossimo capitolo entrerà nel vivo con la difesa di Arezzo.
Questo capitolo l’ho scritto “più lentamente” degli altri poiché ho passato una settimana in crociera -fuck yeah!-, nella quale ho comunque scritto (nei due giorni in cui non siamo scesi a terra e nei quali il pomeriggio non c’era NULLA da fare) le cose essenziali per la trama, che ho finalmente delineato in modo completo. Di personaggi storici ce ne sono un bel po’ da sfruttare, certo, pochi rispetto al vero Assassin’s Creed, ma inizieranno tutti a comparire dal primo vero capitolo di Diari di un onesto Assassino (contrassegnato, assieme ai capitoli facenti parti dello stesso gruppo, dalla dicitura La Ricerca), anticipato da alcune parti di prologo.
Ah, ma quanto è figo il “Requiescat in pace” di Chantal?
Ringrazio Bianca per l’aiuto con il francese e Francesca per l’aiuto con lo spagnolo, prima di chiudere vi accludo un altro paio di immagini:
Prestavolto di Caino 1, Prestavolto di Caino 2, dovete ovviamente immaginarlo con i capelli neri, purtroppo non ho trovato di meglio.
Chiave della Confraternita Francese.
Amore imperituro ai lettori e venerazione ai recensori.
Kiss,
la vostra SCONVOLTA PER MIDNIGHT DEI COLDPLAY Ladie.

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