How To Train Your Sherlock

di Tomi Dark angel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Questa è Londra! ***
Capitolo 2: *** La Furia Buia ***
Capitolo 3: *** Dimentica Il Dolore ***
Capitolo 4: *** Mani Che Ricordano ***
Capitolo 5: *** Un Mondo Svelato ***
Capitolo 6: *** Affrontare Il Dolore ***
Capitolo 7: *** Per una tazza di tè ***
Capitolo 8: *** Salvare Una Vita ***
Capitolo 9: *** La Donna ***
Capitolo 10: *** Grandi Re Del Passato ***
Capitolo 11: *** Suona Per Me. Suona Per Il Mondo ***
Capitolo 12: *** Porta Sigillata ***
Capitolo 13: *** Anima Di Fuoco ***
Capitolo 14: *** Grazie, John ***
Capitolo 15: *** Lezioni Di Volo ***
Capitolo 16: *** Riconquista La Tua Vita ***
Capitolo 17: *** Sacrificio ***
Capitolo 18: *** La Via Degli Spiriti ***
Capitolo 19: *** Legittimo Erede ***
Capitolo 20: *** Cielo Stellato, Incanto Spezzato ***
Capitolo 21: *** Un Segreto Celato Tra Le Fiamme ***
Capitolo 22: *** Per Giungere Al Mattino, Bisogna Affrontare L'Oscurità Della Notte ***
Capitolo 23: *** Guerrieri Del Domani ***
Capitolo 24: *** Comandante ***
Capitolo 25: *** La Caduta ***
Capitolo 26: *** Rinascita ***
Capitolo 27: *** L'Alba Di Una Nuova Era ***



Capitolo 1
*** Questa è Londra! ***


Salve a tutti. No, non mi sono presentato, e di certo mi pare maleducato rifiutarmi di farlo. Mi chiamo John Watson. Sì, avete letto bene: nome comunissimo, altrettanta comunissima vita in una comunissima città. Bene, fantastico. O forse non è propriamente così. Insomma, c’è un motivo che mi spinge a scrivere qui. Ho bisogno di raccontare, così come voi necessitate di sapere. La mia è una storia un po’… curiosa. Ma chi non direbbe così, trattandosi di faccende personali? Chiunque cerca di rendersi interessante, chiunque vorrebbe attirare l’attenzione. Io non sono mai stato così, ma credetemi se vi dico che questa… sì, questa storia è diversa. Questa è la mia vita, questa è la storia di come sono morto e infine rinato tra le zampe, o le mani, della più maestosa delle creature.
Vivo a Londra. È dodici giorni a nord di disperazione e pochi gradi a sud di piogge torrenziali. Si trova esattamente sul meridiano della miseria. La mia città, in una parola è… solida. Ed è qui da parecchio, a giudicare dalle numerose storie di guerre barbariche, invasioni e battaglie che hanno condotto all’edificazione di tutti questi edifici ultramoderni e altrettanto resistenti. In effetti, sono tutti piuttosto nuovi. Abbiamo gli autobus, il palazzo reale, il Big Ben e un magnifico tramonto. L’unico problema sono le infestazioni: in alcuni posti hanno topi o zanzare. Noi invece abbiamo…


Dragon Trainer


-I DRAGHI!!!-
Qualcuno urla in lontananza, ripete le stesse parole fin quasi allo sfinimento delle corde vocali. È un istante, un battito di ciglia: il cielo si oscura velocemente mentre qualcosa di immenso lo copre di una massa di scaglie e artigli micidiali. No, non è uno… sono più creature.
La gente scappa, grida impazzita e come formiche in fuga verso il formicaio sicuro, si rifugia negli edifici più solidi nella speranza che questi reggano, che mantengano quel brandello di speranza per la sopravvivenza. Se le mura crollano, è la fine.
I bambini gridano, uomini armati sbucano dai vicoletti, abbandonano le postazioni di sorveglianza con la paura negli occhi e false voci di coraggio sulle labbra. Nessuno si sente al sicuro, nessuno lo è dall’era antica, ormai. La morte cala di continuo, piove dall’alto e si porta via uomini, donne e bambini, senza distinzioni d’età o razza. Non risparmia nessuno, non guarda in volto coloro che hanno perso familiari e amici a causa sua.
E adesso, la morte attacca di nuovo.
Membrane gigantesche d’ali traslucide oscurano il cielo, ruggiti talmente possenti da scuotere di minuscoli terremoti ogni singolo palazzo riempiono l’aria. Draghi. Bestie magnifiche, gigantesche, armate d’artigli e squame taglienti. Migliaia di razze diverse, chi con due teste, chi col muso più corto, chi ancora con la coda irta d’aculei. Tutte distinzioni, tutti micidiali armi di distruzione.
Ed è lì, tra i militari che puntano fucili e svariate armi da fuoco al cielo, che sbuca un uomo. Giovane, con una massa scompigliata di capelli biondo cenere, gli occhi di un azzurro sgargiante che spiccano inquieti sul viso sporco e coperto di tagli e lividi. Avanza zoppicando, la mano stretta a un bastone, ma conosce bene la sua meta. È zoppo, ma non stupido.
I militari non andranno da nessuna parte con quelle stupide armi da fuoco. Nonostante i mirini luminosi, è notte, e i draghi non sempre hanno le squame chiare e lucenti. Alcuni possiedono la pelle coriacea e scura, impossibile da vedere e da colpire al buio. Oltretutto, sono incredibilmente resistenti e l’unico modo per abbatterli è colpire le ali con qualcosa di pesante.
John cade, si rialza faticosamente dalla polvere e dal fango. Ha le mani sporche di sangue. Qualcuno gli urla di tornare a casa, di rifugiarsi, ma non può farlo: è un soldato, lo è sempre stato e come tale morirà se dovrà morire. Riprende a zoppicare affaticato, la ferita alla spalla bruciante come fuoco. Digrigna i denti ma non si ferma: raggiunge un edificio disabitato ma piuttosto in alto. È rischioso salire, si esporrebbe al fuoco nemico… eppure, deve farlo. Lì c’è il suo lavoro, l’unica possibilità di abbattere un drago con metodi antichi, utilizzati dagli antichi vichinghi.
Sale le scale, aggrappato al corrimano per combattere il peso morto della gamba che si trascina dietro. Striscia, stringe i denti. Le mani si sbucciano contro il ferro rovente del corrimano. Forse qualche drago l’ha scaldato all’inizio dell’attacco. Ma anche questo dolore è sopportabile, e John quasi se ne dimentica quando raggiunge il terrazzo e oltrepassa la porta ormai ridotta in cenere.
È uno spettacolo bellissimo è terribile quello che gli si para dinanzi: gigantesche bestie ruggenti, con enormi code che scudisciano, colpiscono anche solo di striscio il palazzo più vicino e lo abbattono con la facilità di un castello di carte. In lontananza, alcuni draghi piombano dall’alto, talmente veloci che è quasi impossibile vederli e risalgono in cielo in ampie spirali, stringendo tra gli artigli povere vittime urlanti, per le quali c’è ben poco da fare.
-Coraggio, John.-
John raggiunge la catapulta, ne accarezza il metallo ormai rovente che all’istante gli ustiona la mano. È un meccanismo complesso, che ha richiesto mesi di studi e l’aiuto di Molly Hooper e Mike Stamford per essere costruito, ma il risultato è eccezionale: un intreccio di ferro, legno e rame che uniscono due tenaglie a una grossa rete di acciaio legata a dei pesi massicci.
John siede alla postazione di lancio, chiude un occhio e mira al cielo. Attende in pace, appellandosi alla calma serafica del soldato, ascoltando i suoi stessi battiti cardiaci e il respiro tranquillo del guerriero che è sempre stato in lui. Non teme le fiamme dei draghi, non teme il mondo che poco a poco gli crolla intorno.
Semplicemente, attende. L’ha fatto per una vita, continuerà a farlo se necessario. Ma alla fine, anche il suo momento arriva.
Un lampo oscuro, fruscio d’ali enormi che tagliano il vento a una velocità spaventosa.
John fa scattare i meccanismi, la rete spicca il volo sibilando minacciosa, i pesi massicci talmente grossi da poter abbattere un camion senza sforzo semplicemente schiantandovisi contro. John non lo vede subito, ma la rete incappa in qualcosa.
Qualcosa di enorme, più grosso degli altri draghi, incespica in aria, sbatte le ali in lontananza e sfonda un palazzo nel tentativo di usarlo come rampa di lancio per riassestare la traiettoria di volo. Fallito il tentativo, il drago crolla insieme a quello stesso palazzo, emettendo un ruggito intriso di disperazione quasi umana, che fa accapponare la pelle di John. Eppure, l’ex soldato è sicuro di ciò che ha visto: di draghi neri ne esiste un’unica razza, un solo esemplare forse in tutto il mondo. La più potente delle bestie, la più pericolosa, talmente veloce che nessuno l’ha mai vista: la Furia Buia.
 
-John, dannazione! Potevi farti ammazzare, lo sai?- grida Lestrade, inferocito.
John lo capisce, sa bene di aver corso un rischio salendo su quel terrazzo, così come sa che agli occhi dei suoi stessi ex commilitoni lui è ormai nient’altro che uno scarto, un rimasuglio della grande battaglia che quasi distrusse totalmente Londra e che lui, John, pagò con la zoppia eterna e l’espulsione dall’esercito.
Un tempo era un grande, il miglior uccisore di draghi. Adesso, non è più niente.
-Lo so, Greg.- risponde pacato, portandosi alle labbra la tazza sbeccata di the fumante che gli ha preparato la signora Husdon, la padrona di casa. È sempre stata sua amica, ma da due anni a quella parte è nient’altro una delle tante persone che lo trattano come un infermo, una bomba a orologeria pronta a esplodere nella follia più nera. A volte, John si chiede chi la gente tema di più, tra lui e i draghi.
-Lo dici tutte le volte, ma non mi dai ascolto! Non lo fai mai!- abbaia Greg, dando un pugno al muro. John apre il giornale bruciacchiato davanti al viso e nasconde il sorriso malcelato che poco a poco gli stira le labbra. Non ha intenzione di dirgli dell’accaduto, non parlerà della Furia Buia. Ma quando tornerà a casa con la testa del bestione alle spalle, allora dovranno riconoscerlo e lo stesso Greg tornerà a guardarlo con occhi nuovi. È l’opportunità di una vita, è la possibilità che ha sempre aspettato.
Attende in silenzio che Greg se ne vada, poi scatta in piedi e, afferrato il bastone, si precipita giù per le scale consumate dalle fiamme, oltre la porta sradicata, verso il suo futuro. Attraversa le strade deserte a testa bassa, sfilando come unica anima in pena tra i fumi e i cadaveri della devastazione. C’è silenzio, c’è morte. Di qui sono passati i draghi.
Da qualche parte, una donna piange. Poco lontano, un uomo si lamenta. Sangue, silenzio, giudizio del domani che poco a poco sopprime vite e ne risparmia altre. È il cerchio della vita, ma i draghi non dovrebbero farne parte.
John incespica e per poco non cade: una grossa squama color smeraldo giace abbandonata al suolo. John penserebbe che è bellissima se non appartenesse al più spietato degli assassini. Non ha mai guardato veramente un drago, non ha mai fissato in viso la furia omicida di quelle bestie senza pace, senza pietà. I draghi ammazzano, i draghi l’anima non ce l’hanno.
John avanza ancora, scavalca faticosamente le macerie di tanti palazzi distrutti e troppi corpi abbandonati al suolo. Maledice la sua stessa gamba, ma non si ferma. Lo ricorda bene, la Furia Buia dovrebbe trovarsi proprio lì: quei ruderi abbattuti sono gli stessi che il bestione si è trascinato dietro cadendo. Non è possibile che si sia rialzato… o sì? No, i militari l’avrebbero visto volare via, per quanto fosse possibile con quei pesi addosso.
John calpesta le macerie, si inerpica sbuffando tra di esse. Le unghie si spezzano, le ferite alle mani bruciano da morire, ma John non si ferma. Un passo, poi un altro. Deve cercare, deve trovare. La sua possibilità di riscatto è lì.
Il piede scivola, John rotola rovinoso sul vetro di finestre infrante e macerie affilate che incidono la carne, la graffiano, la lacerano di ferocia animale. Ma qualcosa di liscio passa sotto la sua mano, lo protegge per qualche istante dal dolore e lascia che urti il suolo con minor ferite di quante potrebbe trovarsene addosso. Quando John, ancora stordito, leva lo sguardo, lo posa su una grossa ala traslucida. Nera.
-Furia Buia…- sibila, indietreggiando velocemente. Ed è nello stesso istante che l’ala si muove, solleva la sua gigantesca massa chilometrica per scansare quasi infastidita la metà delle macerie. È un’ala gigantesca, di quelle che ricoprirebbero metà del mondo per abbracciarlo e chiuderlo in una cappa di oscurità. Eppure… c’è qualcosa di diverso. John non ha mai visto un drago da vicino, ma quell’ala non è esattamente come la immaginava.
La membrana è sottile, percorsa da profondi riflessi di zaffiro. Pare venata di prezioso splendore e luminosità nascosta che s’inerpica tra le ossa sottili che separano le larghe vele dell’ala spiegata, su fino all’osso massiccio quanto la testa di John stesso. È… bellissima.
Ma la vera sorpresa giunge dopo, quando le ultime macerie si scansano e poco a poco rivelano il proprietario dell’ala maestosa e ricoperta di ferite.
Si sarebbe aspettato di tutto, tranne quello.
E mentre il mondo pare capovolgersi, sconvolgere ogni suo equilibrio di purissima logicità, davanti agli occhi dell’ex soldato una nuova realtà lascia cadere i suoi veli, scopre la raccapricciante novità che nessuno, umano o onnipotente Dio, avrebbe mai potuto concepire.
 
Angolo dell’autrice:
Dunque, parliamone. Sì, sono impazzita, non voglio negarlo. Come al solito, il mio cervello lavora per fatti suoi e i personaggi fanno lo stesso… per la miseria. Ammettendo che ho voluto intrecciare Dragon Trainer, uno dei miei film preferiti, con lo splendido Sherlock e… il risultato è un disastro. TA DAAAAAA!!! Ma! Signori e signori, oggi abbiamo una grande offerta! Al costo di una recensione, che includa anche insulti o minacce di morte, avrete la possibilità di vincere la gamba ferita di John! No, il resto è rimasto alla BBC, altrimenti non possono riciclare l’attore in una delle prossime serie tv… ma accontentatevi della gamba, su! A prestissimo per il prossimo (disastrosissimo) capitolo!!!
Tomi Dark AngelSalve a tutti. No, non mi sono presentato, e di certo mi pare maleducato rifiutarmi di farlo. Mi chiamo John Watson. Sì, avete letto bene: nome comunissimo, altrettanta comunissima vita in una comunissima città. Bene, fantastico. O forse non è propriamente così. Insomma, c’è un motivo che mi spinge a scrivere qui. Ho bisogno di raccontare, così come voi necessitate di sapere. La mia è una storia un po’… curiosa. Ma chi non direbbe così, trattandosi di faccende personali? Chiunque cerca di rendersi interessante, chiunque vorrebbe attirare l’attenzione. Io non sono mai stato così, ma credetemi se vi dico che questa… sì, questa storia è diversa. Questa è la mia vita, questa è la storia di come sono morto e infine rinato tra le zampe, o le mani, della più maestosa delle creature.
Vivo a Londra. È dodici giorni a nord di disperazione e pochi gradi a sud di piogge torrenziali. Si trova esattamente sul meridiano della miseria. La mia città, in una parola è… solida. Ed è qui da parecchio, a giudicare dalle numerose storie di guerre barbariche, invasioni e battaglie che hanno condotto all’edificazione di tutti questi edifici ultramoderni e altrettanto resistenti. In effetti, sono tutti piuttosto nuovi. Abbiamo gli autobus, il palazzo reale, il Big Ben e un magnifico tramonto. L’unico problema sono le infestazioni: in alcuni posti hanno topi o zanzare. Noi invece abbiamo…
Dragon Trainer
-I DRAGHI!!!-
Qualcuno urla in lontananza, ripete le stesse parole fin quasi allo sfinimento delle corde vocali. È un istante, un battito di ciglia: il cielo si oscura velocemente mentre qualcosa di immenso lo copre di una massa di scaglie e artigli micidiali. No, non è uno… sono più creature.
La gente scappa, grida impazzita e come formiche in fuga verso il formicaio sicuro, si rifugia negli edifici più solidi nella speranza che questi reggano, che mantengano quel brandello di speranza per la sopravvivenza. Se le mura crollano, è la fine.
I bambini gridano, uomini armati sbucano dai vicoletti, abbandonano le postazioni di sorveglianza con la paura negli occhi e false voci di coraggio sulle labbra. Nessuno si sente al sicuro, nessuno lo è dall’era antica, ormai. La morte cala di continuo, piove dall’alto e si porta via uomini, donne e bambini, senza distinzioni d’età o razza. Non risparmia nessuno, non guarda in volto coloro che hanno perso familiari e amici a causa sua.
E adesso, la morte attacca di nuovo.
Membrane gigantesche d’ali traslucide oscurano il cielo, ruggiti talmente possenti da scuotere di minuscoli terremoti ogni singolo palazzo riempiono l’aria. Draghi. Bestie magnifiche, gigantesche, armate d’artigli e squame taglienti. Migliaia di razze diverse, chi con due teste, chi col muso più corto, chi ancora con la coda irta d’aculei. Tutte distinzioni, tutti micidiali armi di distruzione.
Ed è lì, tra i militari che puntano fucili e svariate armi da fuoco al cielo, che sbuca un uomo. Giovane, con una massa scompigliata di capelli biondo cenere, gli occhi di un azzurro sgargiante che spiccano inquieti sul viso sporco e coperto di tagli e lividi. Avanza zoppicando, la mano stretta a un bastone, ma conosce bene la sua meta. È zoppo, ma non stupido.
I militari non andranno da nessuna parte con quelle stupide armi da fuoco. Nonostante i mirini luminosi, è notte, e i draghi non sempre hanno le squame chiare e lucenti. Alcuni possiedono la pelle coriacea e scura, impossibile da vedere e da colpire al buio. Oltretutto, sono incredibilmente resistenti e l’unico modo per abbatterli è colpire le ali con qualcosa di pesante.
John cade, si rialza faticosamente dalla polvere e dal fango. Ha le mani sporche di sangue. Qualcuno gli urla di tornare a casa, di rifugiarsi, ma non può farlo: è un soldato, lo è sempre stato e come tale morirà se dovrà morire. Riprende a zoppicare affaticato, la ferita alla spalla bruciante come fuoco. Digrigna i denti ma non si ferma: raggiunge un edificio disabitato ma piuttosto in alto. È rischioso salire, si esporrebbe al fuoco nemico… eppure, deve farlo. Lì c’è il suo lavoro, l’unica possibilità di abbattere un drago con metodi antichi, utilizzati dagli antichi vichinghi.
Sale le scale, aggrappato al corrimano per combattere il peso morto della gamba che si trascina dietro. Striscia, stringe i denti. Le mani si sbucciano contro il ferro rovente del corrimano. Forse qualche drago l’ha scaldato all’inizio dell’attacco. Ma anche questo dolore è sopportabile, e John quasi se ne dimentica quando raggiunge il terrazzo e oltrepassa la porta ormai ridotta in cenere.
È uno spettacolo bellissimo è terribile quello che gli si para dinanzi: gigantesche bestie ruggenti, con enormi code che scudisciano, colpiscono anche solo di striscio il palazzo più vicino e lo abbattono con la facilità di un castello di carte. In lontananza, alcuni draghi piombano dall’alto, talmente veloci che è quasi impossibile vederli e risalgono in cielo in ampie spirali, stringendo tra gli artigli povere vittime urlanti, per le quali c’è ben poco da fare.
-Coraggio, John.-
John raggiunge la catapulta, ne accarezza il metallo ormai rovente che all’istante gli ustiona la mano. È un meccanismo complesso, che ha richiesto mesi di studi e l’aiuto di Molly Hooper e Mike Stamford per essere costruito, ma il risultato è eccezionale: un intreccio di ferro, legno e rame che uniscono due tenaglie a una grossa rete di acciaio legata a dei pesi massicci.
John siede alla postazione di lancio, chiude un occhio e mira al cielo. Attende in pace, appellandosi alla calma serafica del soldato, ascoltando i suoi stessi battiti cardiaci e il respiro tranquillo del guerriero che è sempre stato in lui. Non teme le fiamme dei draghi, non teme il mondo che poco a poco gli crolla intorno.
Semplicemente, attende. L’ha fatto per una vita, continuerà a farlo se necessario. Ma alla fine, anche il suo momento arriva.
Un lampo oscuro, fruscio d’ali enormi che tagliano il vento a una velocità spaventosa.
John fa scattare i meccanismi, la rete spicca il volo sibilando minacciosa, i pesi massicci talmente grossi da poter abbattere un camion senza sforzo semplicemente schiantandovisi contro. John non lo vede subito, ma la rete incappa in qualcosa.
Qualcosa di enorme, più grosso degli altri draghi, incespica in aria, sbatte le ali in lontananza e sfonda un palazzo nel tentativo di usarlo come rampa di lancio per riassestare la traiettoria di volo. Fallito il tentativo, il drago crolla insieme a quello stesso palazzo, emettendo un ruggito intriso di disperazione quasi umana, che fa accapponare la pelle di John. Eppure, l’ex soldato è sicuro di ciò che ha visto: di draghi neri ne esiste un’unica razza, un solo esemplare forse in tutto il mondo. La più potente delle bestie, la più pericolosa, talmente veloce che nessuno l’ha mai vista: la Furia Buia.
 
-John, dannazione! Potevi farti ammazzare, lo sai?- grida Lestrade, inferocito.
John lo capisce, sa bene di aver corso un rischio salendo su quel terrazzo, così come sa che agli occhi dei suoi stessi ex commilitoni lui è ormai nient’altro che uno scarto, un rimasuglio della grande battaglia che quasi distrusse totalmente Londra e che lui, John, pagò con la zoppia eterna e l’espulsione dall’esercito.
Un tempo era un grande, il miglior uccisore di draghi. Adesso, non è più niente.
-Lo so, Greg.- risponde pacato, portandosi alle labbra la tazza sbeccata di the fumante che gli ha preparato la signora Husdon, la padrona di casa. È sempre stata sua amica, ma da due anni a quella parte è nient’altro una delle tante persone che lo trattano come un infermo, una bomba a orologeria pronta a esplodere nella follia più nera. A volte, John si chiede chi la gente tema di più, tra lui e i draghi.
-Lo dici tutte le volte, ma non mi dai ascolto! Non lo fai mai!- abbaia Greg, dando un pugno al muro. John apre il giornale bruciacchiato davanti al viso e nasconde il sorriso malcelato che poco a poco gli stira le labbra. Non ha intenzione di dirgli dell’accaduto, non parlerà della Furia Buia. Ma quando tornerà a casa con la testa del bestione alle spalle, allora dovranno riconoscerlo e lo stesso Greg tornerà a guardarlo con occhi nuovi. È l’opportunità di una vita, è la possibilità che ha sempre aspettato.
Attende in silenzio che Greg se ne vada, poi scatta in piedi e, afferrato il bastone, si precipita giù per le scale consumate dalle fiamme, oltre la porta sradicata, verso il suo futuro. Attraversa le strade deserte a testa bassa, sfilando come unica anima in pena tra i fumi e i cadaveri della devastazione. C’è silenzio, c’è morte. Di qui sono passati i draghi.
Da qualche parte, una donna piange. Poco lontano, un uomo si lamenta. Sangue, silenzio, giudizio del domani che poco a poco sopprime vite e ne risparmia altre. È il cerchio della vita, ma i draghi non dovrebbero farne parte.
John incespica e per poco non cade: una grossa squama color smeraldo giace abbandonata al suolo. John penserebbe che è bellissima se non appartenesse al più spietato degli assassini. Non ha mai guardato veramente un drago, non ha mai fissato in viso la furia omicida di quelle bestie senza pace, senza pietà. I draghi ammazzano, i draghi l’anima non ce l’hanno.
John avanza ancora, scavalca faticosamente le macerie di tanti palazzi distrutti e troppi corpi abbandonati al suolo. Maledice la sua stessa gamba, ma non si ferma. Lo ricorda bene, la Furia Buia dovrebbe trovarsi proprio lì: quei ruderi abbattuti sono gli stessi che il bestione si è trascinato dietro cadendo. Non è possibile che si sia rialzato… o sì? No, i militari l’avrebbero visto volare via, per quanto fosse possibile con quei pesi addosso.
John calpesta le macerie, si inerpica sbuffando tra di esse. Le unghie si spezzano, le ferite alle mani bruciano da morire, ma John non si ferma. Un passo, poi un altro. Deve cercare, deve trovare. La sua possibilità di riscatto è lì.
Il piede scivola, John rotola rovinoso sul vetro di finestre infrante e macerie affilate che incidono la carne, la graffiano, la lacerano di ferocia animale. Ma qualcosa di liscio passa sotto la sua mano, lo protegge per qualche istante dal dolore e lascia che urti il suolo con minor ferite di quante potrebbe trovarsene addosso. Quando John, ancora stordito, leva lo sguardo, lo posa su una grossa ala traslucida. Nera.
-Furia Buia…- sibila, indietreggiando velocemente. Ed è nello stesso istante che l’ala si muove, solleva la sua gigantesca massa chilometrica per scansare quasi infastidita la metà delle macerie. È un’ala gigantesca, di quelle che ricoprirebbero metà del mondo per abbracciarlo e chiuderlo in una cappa di oscurità. Eppure… c’è qualcosa di diverso. John non ha mai visto un drago da vicino, ma quell’ala non è esattamente come la immaginava.
La membrana è sottile, percorsa da profondi riflessi di zaffiro. Pare venata di prezioso splendore e luminosità nascosta che s’inerpica tra le ossa sottili che separano le larghe vele dell’ala spiegata, su fino all’osso massiccio quanto la testa di John stesso. È… bellissima.
Ma la vera sorpresa giunge dopo, quando le ultime macerie si scansano e poco a poco rivelano il proprietario dell’ala maestosa e ricoperta di ferite.
Si sarebbe aspettato di tutto, tranne quello.
E mentre il mondo pare capovolgersi, sconvolgere ogni suo equilibrio di purissima logicità, davanti agli occhi dell’ex soldato una nuova realtà lascia cadere i suoi veli, scopre la raccapricciante novità che nessuno, umano o onnipotente Dio, avrebbe mai potuto concepire.
 
Angolo dell’autrice:
Dunque, parliamone. Sì, sono impazzita, non voglio negarlo. Come al solito, il mio cervello lavora per fatti suoi e i personaggi fanno lo stesso… per la miseria. Ammettendo che ho voluto intrecciare Dragon Trainer, uno dei miei film preferiti, con lo splendido Sherlock e… il risultato è un disastro. TA DAAAAAA!!! Ma! Signori e signori, oggi abbiamo una grande offerta! Al costo di una recensione, che includa anche insulti o minacce di morte, avrete la possibilità di vincere la gamba ferita di John! No, il resto è rimasto alla BBC, altrimenti non possono riciclare l’attore in una delle prossime serie tv… ma accontentatevi della gamba, su! A prestissimo per il prossimo (disastrosissimo) capitolo!!!
Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 2
*** La Furia Buia ***


A volte, il mondo gira in maniera diversa, anomala rispetto al corrente pensiero. Alcuni credono che il pianeta ruoti tranquillo su un’asse precisa, lineare nella sua perfezione. Eppure, non è sempre così: per alcuni, il mondo smette di ruotare all’improvviso, dinanzi all’enormità di qualcosa che neanche la vita stessa può concepire. Alcuni guardano il tempo bloccarsi, alcuni respirano aria rarefatta di pianeta cristallizzato che trattiene il respiro e osserva.
È così anche adesso, al tramonto di un crepuscolo dorato, mentre la città distrutta e fumante di ruderi in pezzi e cadaveri sanguinanti, poco a poco si rilassa. Eppure, essa  inconsapevole di ciò che cova, dell’avvenimento storico che, per la prima volta da secoli, cambierà un minuscolo, importantissimo pezzo di storia.
Nella sua piccolezza di giovane uomo, John osserva e quasi dimentica di respirare.
Ha creduto di trovarsi davanti a un drago. Ha creduto di poter guardare il più grosso e orribile ammasso di squame annerite dai fumi dell’inferno. Eppure… quello non è un drago. Ma non è neanche umano.
Quello che John ha davanti è un uomo nudo, che si copre dalla vita in giù con l’unica ala sana e non imprigionata nella rete che gli ingabbia anche una spalla e parte del collo. Ha i capelli corvini e ricci, dai quali sbucano imponenti delle corna ondulate di purissimo argento screziato d’anelli neri. A delineare la linea della mascella c’è una fila di punte affilate ma piuttosto piccole, che poco a poco, a partire dai lati del collo, si convertono in squame taglienti, nere come la più lucente delle stelle oscure, ma attraversate da cangianti riflessi arcobaleno, come uno spettro adamantino che respira e muove i suoi passi all’interno di ogni tassello squamato. Queste due linee di squame compongono una perfetta V che si unisce alla base del collo e si divide in due ali perfette che ricoprono le spalle larghe, percorrono le braccia moderatamente muscolose, che culminano in mani artigliate, squamate solo sulla parte superiore, lasciando il palmo liscio di pallida pelle umana, la stessa che si allarga sul petto scolpito e sul ventre liscio, piatto. John non ha bisogno di guardare per sapere che quelle immense ali nerastre, grandi almeno venti volte il corpo del loro minuscolo proprietario, sbucano dalla schiena, squarciandola in due perfetti tagli. Più in basso, John vede la coda squamata di nero e riflessi arcobaleno sbucare dalle macerie.
La creatura dorme, forse è morta per le ferite sanguinanti che gli percorrono il corpo. John non capisce perché, ma quel pensiero gli infonde una profonda tristezza. Non ha mai visto qualcosa di così… bello. E triste.
Bello? È un drago, dannazione! Riprenditi, Watson.
Con cautela, John si avvicina, il bastone conficcato tra le macerie. Cerca di inginocchiarsi davanti alla creatura, silenzioso in ogni suo gesto. Pare che non respiri, ma lui che ne sa dell’anatomia di un… drago? Uomo? Oddio.
Eppure, non è la sopravvivenza che gli interessa adesso. Non pensa nemmeno di dover decapitare la creatura per portarsi a casa un trofeo che l’avrebbe reintegrato. Non pensa a niente che non sia lo splendore possente di quella figura longilinea baciata dalla luce del sole morente. No, quella creatura non è baciata dalla luce. Quella creatura è la luce. Non la riflette, essa la crea.
Lentamente, John tende una mano verso quella squamata della creatura, ma in un istante, l’incantesimo si rompe.
La bestia apre un occhio dalla pupilla verticale, realizza la situazione e la pericolosa vicinanza del nemico.
Di cose inquietanti e altrettanto spaventose, John ne ha viste così tante da perderne il conto. Ma l’incubo vero è quello, quella bestia inferocita che in un battito di ciglia sfodera una forza sovrumana e con un ruggito che fa tremare il mondo intero fa a pezzi la rete di ferro e scatta in avanti, la coda scudisciante che nell’urtare la fiancata rimasta del palazzo in rovina la sbriciola con facilità. John si trova lungo disteso per terra, gli occhi sbarrati di un terrore mai provato mentre l’ombra mefitica e splendida di immense ali vendicatrici oscura totalmente il cielo e il quartiere ancora addormentato.
Una mano artigliata stringe il collo di John, due piedi in tutto e per tutto simili a zampe di drago, si piantano ai lati del suo corpo e un ginocchio squamato preme sul ventre.
John si trova il viso della creatura a pochi centimetri dal suo. Si specchia in quegli occhi felini dal colore indefinito, come di punta di diamante che ricopre coi suoi colori l’intero spettro dell’arcobaleno. A seconda della luce che li colpisce, essi mutano, si trasformano, e trovano nuovi brillanti colori che forse l’uomo stesso non ha mai scoperto. Il viso è pallido, deformato da un ringhio che snuda i denti bianchissimi, perfetti, da predatore. È…
-Bellissimo.-
John se lo lascia sfuggire inconsapevolmente, il corpo rilassato e d’improvviso, in presenza della magnifica bellezza della creatura, anche il terrore svanisce.
La bestia sbarra appena gli occhi, inclina appena il capo, come in cerca di risposte che non arrivano. Si riflette negli occhi azzurrissimi dell’ex soldato, gli scava l’anima, lo legge lentamente, con cautela. E alla fine, John vede lo sguardo della creatura mutare, farsi dubbioso, stranito.
Come in un sogno, i passi dei militari in avvicinamento rompono l’idillio, facendo voltare entrambi verso la strada principale. La bestia abbandona la presa su John, e adesso che gli da le spalle, l’ex militare può vedere la fila di squame che scende in un’unica linea a V verso il fondoschiena alto e tonico, dal quale sbuca una coda lunga circa quattro metri, massiccia e terribile. Le ali nascondono quasi del tutto la sua figura ma quando la creatura salta e le spiega, incidendo profondamente i palazzi abbandonati nei dintorni, John non può fare altro che trattenere il respiro e ammirare.
Ma qualcosa non va.
La bestia sbatte velocemente le ali, manda in frantumi le macerie e ne spazza via altre col suo vento profumato di… aghi di pino? Così pare.
Ma un’ala non sta bene. Il sangue nero venato d’argento, tipico dei draghi, schizza ovunque, sporca il viso di John, il terreno, le mura circostanti. La creatura perde quota, sbatte contro la fiancata di un palazzo abbandonato, cerca di scalarlo con gli artigli poderosi, ma è troppo debole e l’evidente squarcio che separa una delle vele dell’ala destra lascia filtrare l’aria, impedendogli di prendere quota. La bestia cade con un ruggito d’impotenza e i militari si avvicinano, John sente le loro voci. Se lo trovano, lo uccideranno.
-Entra lì.- sussurra, indicando l’entrata decadente di un magazzino in rovina. La bestia lo guarda, si chiede se sia giusto fidarsi. È una scelta complicata.
Vita o morte.
Lotta o fuga.
Fiducia o sfiducia.
Ma alla fine, qualcosa in lui si muove e la creatura sparisce, velocissima come sa esserlo soltanto una Furia Buia. Di lui non restano tracce, ma John sa che è lì.
-John?-
Lestrade lo raggiunge di corsa, fissa stralunato le chiazze di sangue di drago che sporcano gli abiti di John, il suo viso, il collo e le mani. Poi, Lestrade si guarda intorno.
-Stai bene?- chiede, tornando a fissare l’amico. John annuisce, costringendosi a non guardare la rimessa abbandonata dove ha visto sparire la Furia Buia.
-Benissimo. Devo smetterla di gironzolare così.-
-John, sei sporco di sangue di drago.-
-Ho urtato le pietre sottostanti. Se guardi in giro, ce n’è parecchio di sangue e io ci sono finito sopra. Una delle bestie deve essersi ferita mentre passava di qui.-
Lestrade lo fissa dubbioso, poi scruta nuovamente l’ambiente circostante. Ha gli occhi sbarrati, è molto pallido, e da questo John capisce che ha avuto paura, che si è spaventato quando l’ha visto solo e ricoperto di sangue. E lui? Ha avuto paura lui, che ha toccato la morte in persona, che l’ha guardata negli occhi?
Eppure… quella stessa morte l’ha risparmiato. Perché?
 
-Uccidere a vista, uccidere a vista, uccidere a vista… e accidenti!-
John scaglia il libro dall’altra parte della stanza con un gemito esasperato. Si prende la testa tra le mani, dondola sul posto pur combattendo il dolore alla gamba. Ha trascorso una notte insonne a leggere nozioni inerenti ai draghi, e ogni pagina, ogni annotazione, ogni parola, ha specificato un unico significato: uccidere a vista. Nessuna possibilità di uscita, nessuna possibilità di stabilire un contatto con almeno una delle bestie. Sono tutte feroci, tutte pazze assassine. Eppure… una di loro l’ha risparmiato.
Proprio la pagina inerente alla Furia Buia, priva di raffigurazioni o specificazioni su capacità e aspetto fisico, era totalmente occupata da un’unica, imponente scritta, diversa dalle altre ma altrettanto terrificante: Fuggi e prega di non essere trovato.
Insomma, come dire che John ha appena salvato la vita al principe delle bestie assassine. Fantastico.
-Tutto bene, John caro?- chiede la signora Hudson, entrando con cautela, tra le mani il vassoio sbeccato e una tazza di the fumante che non gli nega mai, specialmente dopo una brutta esperienza come quella narratale da Lestrade.
-Lei cosa farebbe se… se le fosse data la possibilità di cambiare qualcosa? L’occasione di risparmiare una vita?-
-Ma?-
-Ma se dall’altra parte, in cambio di quella vita, vi fosse offerta la possibilità di riscattare la vostra reputazione?-
Mrs Hudson inclina appena il capo, lo guarda con quei suoi occhi piccoli, ma anche tanto grandi nella loro saggia anzianità. Gli porge la tazza di the fumante e si inginocchia, le mani posate sulle sue ginocchia come quelle di una madre che carezza le effimere ferite del figlio, caduto mentre imparava a camminare. Lo guarda dal basso, umile.
-Stiamo parlando di una vita?-
-Sì.-
-Parliamo di qualcosa che respiri, che abbia una coscienza?-
John ci pensa: la Furia Buia può avercela una coscienza? Ha almeno l’anima? John chiude gli occhi, ricostruisce minuzioso i riflessi cangianti di quegli occhi pericolosi e bellissimi, che hanno saputo imprigionare i colori del mondo intero. Occhi traboccanti d’emozioni, occhi vivi… occhi intrisi d’anima quasi umana.
-Sì.- E la risposta arriva anche prima che lui possa concepirla, prima che possa rendersi conto di averla pronunciata. Ma John sa che è vera: la risposta è sì.
Mrs Hudson sorride, trasmette luce in quegli occhi anziani di sopravvissuta ai peggiori attacchi dei draghi. Lei spera ancora, lei crede in un domani per John ormai dimenticato. Non dice altro l’anziana padrona di casa: semplicemente, si alza ed esce dalla stanza, i passi felpati e l’inconfondibile scia di the che ormai impregna la sua pelle appena incartapecorita. E John adesso, ha la sua risposta. Sa cosa deve fare… sa di doverci almeno provare.
-Mrs Hudson… avrei bisogno del suo aiuto.-
 
-Ehm… ehilà?- grida John, entrando cautamente nella rimessa. C’è buio, c’è silenzio. E questo fa paura.
Si guarda intorno e avanza ancora, zoppicando ferito, ma con l’altra mano stretta a sostenere una grossa busta che appoggia al suolo ed apre lentamente, ben sapendo di essere osservato, studiato, giudicato. Non fa neanche in tempo a rialzarsi che qualcosa gli sfiora la caviglia.
-Oh, no…-
Uno strattone, e il mondo si capovolge. John si trova appeso a testa in giù, le braccia penzoloni, il bastone abbandonato al suolo, accanto alla busta. Una coda massiccia, irta di aculei sul dorso, gli avvolge caviglia e polpaccio, tenendolo sollevato senza sforzo. Dall’ombra emerge una figura nuda, con solo un’ala gigantesca ad abbracciarla. L’altra striscia nella polvere alle sue spalle, come uno splendido drappo di sogni e oscurità intrecciati.
La Furia Buia appare scompigliata, ricoperta di sangue rappreso, l’ala sana così grande da abbracciare da ripiegata almeno metà della gigantesca rimessa. Fissa John con sguardo indagatore, appena incuriosito. Gli occhi si fermano qualche istante sulla medaglietta che penzola adesso dal collo di John come un cappio, e l’ex militare si maledice per non essersela tolta.
La coda si piega, accosta il viso di John a quello bellissimo e spaventoso della Furia Buia. Ha il naso appena arricciato, come se trattenesse un ringhio, e questo John lo apprezza. Cerca di mantenere un contegno e scopre che in qualche modo non è difficile: se la Furia Buia avesse voluto ucciderlo, l’avrebbe fatto tempo prima.
-Puoi mettermi giù?- chiede pazientemente, fissando la bestia negli occhi. Quella assottiglia lo sguardo e lo scuote con energia, facendolo sballottare a destra e a sinistra. John impreca.
-Sono un amico! Ti ho portato da mangiare e… un abito. Dovrebbe andarti bene.-
La Furia Buia sembra capirlo, occhieggia la busta. Senza liberare John, si inginocchia e cautamente la apre. Ne osserva il contenuto, poi fissa John, che imbarazzato abbassa lo sguardo (o meglio, lo alza, dalla posizione rovesciata in cui è costretto).
-Non puoi mica stare qui nudo, no? Non dico che tu possa avere freddo, ma quantomeno… ok, hai capito. O almeno, lo sper…-
La coda molla la presa, John si schianta al suolo con un gemito. La Furia Buia non c’è più, ma John intravede le ombre muoversi velocissime alle sue spalle e tutto intorno. È diffidente, la bestia si chiede se fidarsi. Così, John fa l’unica cosa che sente sia giusto fare: si siede.
Con un gemito di dolore, incrocia le gambe e resta immobile. Fissa il vuoto davanti a sé, poi comincia a parlare: -Io mi chiamo John Watson. Sono un ex soldato, sai? Ho combattuto la tua gente in Afghanistan, immagino che questo tu l’abbia capito. Insomma, ho la medaglietta e sono coperto di ferite di guerra. Non sei stupido, sono certo che puoi capirmi… tu mi hai capito sin da subito, vero? Mi hai guardato negli occhi, avevamo lo stesso sguardo: entrambi disperati, entrambi pronti a morire per gli obbiettivi prefissatici. Forse è per questo che non ho cercato di ammazzarti da subito… in qualche modo, io e te ci somigliamo.-
E poco a poco, le ore passano. John racconta della sua vita, di sua sorella alcolista, sparita nel nulla dopo una litigata, dei genitori morti durante un attacco dei draghi. Sono le bestie che ritornano in ogni suo argomento, in ogni suo orribile ricordo, eppure non ne fa una colpa alla Furia Buia. È assurdo pensare che sta parlando amorevolmente col più feroce degli assassini, ammettendo di aver detestato e attentato alla vita dei suoi simili. È pericoloso, è malato. Eppure… lo rilassa. E John, da bravo soldato, non si rilassa mai. Da quanti anni non assaporava quel silenzio, misto alla sensazione di essere ascoltato?
La notte cala, John a stento se ne accorge. Poi guarda fuori, nota l’oscurità ormai avanzata che ha risucchiato l’oro del giorno. Si alza lentamente, gemendo per il dolore alla gamba.
-Allora io vado… e… grazie per…-
Ma improvvisamente, John urta qualcosa di duro, si immobilizza appena avverte tra i capelli lo sbuffo profumato ma rovente di polmoni enormi, pressati in un corpo umanoide. John non si volta, resta immobile, ma occhieggia incantato i bordi slabbrati e ancora sanguinanti dell’ala ferita. Ha un aspetto orribile: forse, la Furia Buia non volerà mai più.
-Oddio, cosa ho fatto?- mormora John, un groppo in gola. –Mi dispiace. Mi dispiace, davvero.-
E d’improvviso, la presenza alle sue spalle svanisce. La Furia Buia si è nascosta di nuovo, ma senza ringhiare. In qualche modo, ha accettato al sua presenza, la sua voce, per un giorno intero. Ed è quel piccolo barlume di fiducia, quell’insignificante permesso di restare che gli lascia intravedere la scintilla di luce che cerca, qualcosa che in qualche modo risolleva il suo cuore distrutto di uomo impotente, azzoppato.
Senza saperlo, John Watson ha aperto un portale.
Senza saperlo, John Watson ha riscoperto qualcosa di grande ormai da tempo scordato dagli uomini.
Senza saperlo, John Watson vive di nuovo e ha un obbiettivo che lo tiene in piedi, che innalza le sue monotone giornate: rimediare al danno causato e ricondurre la creatura in cielo, dove è giusto che stia. Tra le stelle, accanto alla luna, dove potrà brillare in tutto il suo gelido splendore.
 
Angolo dell’autrice:
E rieccomi per il secondo capitolo. Sì, sono impazzita e sì, ho appena ammazzato Sherlock descrivendolo così. Ma suvvia, è un drago, no?
Ora, passiamo alle cose importanti: ringrazio e dedico con tutto il cuore colei che ha reso possibile la pubblicazione di un secondo capitolo anziché la cancellazione della storia: Bbpeki. Come sempre un tesoro e come sempre magnifica in ogni suo commento. A te che recensisci tutte le mie fatiche e a te un ringraziamento di cuore per le soddisfazioni che regali con le tue parole. Grazie.
A prestissimo, fatemi sapere che ne pensate!

Tomi Dark Angel

 

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Capitolo 3
*** Dimentica Il Dolore ***


Cari lettori,
ancora una volta, torno a scrivere i miei pareri su questo blog. Non sapete chi sono davvero, non sapete quanti anni ho, non conoscete nulla di me. Sono soltanto un’entità virtuale che pubblica sotto falso nome pareri discordi rispetto al pensiero comune. Eppure, siete qui a leggere ciò che scrivo, mi date retta. Nonostante i vostri nasi arricciati, il vostro sconcerto nel leggere le mie parole, continuate a seguirmi. Vi chiedete perché? Dovreste.
Oggi ho fatto visita al mio amico. Sì, come già scritto in precedenza, è un drago. No, non dirò una parola su dove trovarlo e sì, avete tutto il diritto di pensare che stia inventando tutto. Fatto sta, che oggi sono andato a fargli visita dopo due giorni di assenza. Come al solito, sono rimasto seduto per terra, al gelo, con addosso soltanto maglione e cappotto. Eppure, non ho sentito freddo. Gli ho raccontato la mia giornata e lui ha ascoltato. Gli ho parlato di me, e lui è rimasto in silenzio, invisibile agli occhi, ma presente intorno a me, mai abbastanza fugace da convincermi di essere rimasto solo.
Mi è stato accanto, anche se in maniera diversa da quella immaginata. Non è rumoroso, non ha altro da fare che ascoltarmi e non mi trovo quasi più a testa in giù una volta varcata la soglia del suo nascondiglio. Certo, ha ancora problemi a fidarsi di me, ma si abituerà alla mia presenza. Ogni giorno cerco di avvicinarmi, di guarirlo, di aiutarlo a capire, ma lui si mantiene a distanza e semplicemente ascolta la mia voce. È strano, è bello. Non so voi, ma io sento che qualcosa sta cambiando. Non abbiamo mai guardato da vicino un drago, non abbiamo mai abbassato le armi. Io ho corso il rischio e ho scoperto un mondo diverso da quello conosciuto. Vi invito a farlo.
Parlo a voi, che avete perso come me dei parenti a causa loro.
Parlo a voi, che avete perso casa o amici.
Parlo a voi che soffrite, che vivete gli orrori di una guerra insensata, respirate aria rarefatta di sangue e fumo di terra bruciata.
Parlo a tutti voi. Alzate gli occhi al cielo anziché le armi. Alzate le mani, attendete che giunga una stretta di zampa. Attendete, abbiate fiducia come ne sto provando io. Fate come me e tornate ad avere un obbiettivo, dono che solo un drago è stato capace di farmi.
A presto,
Hound.
 
John chiude il pc, si passa una mano tra i capelli. È stanco, esausto. Per due settimane ha trascorso tutto il suo tempo alla rimessa, impegnato a raccontare le sue giornate, le sue esperienze, le sue sensazioni. La Furia Buia l’ascolta sempre ma non si avvicina mai. È come una presenza costante, un’ombra che muove i suoi passi tutto intorno, ma non si arrischia a toccarlo. John lo sente respirare, ascolta e rilassa le membra. Annusa il suo profumo, lotta ogni giorno contro il bisogno di toccare quelle squame taglienti e bellissime che si convertono in carne liscia di giovane uomo. La Furia Buia non si fa vedere quasi mai, ma ormai John non ha bisogno di chiamarlo per capire di essere osservato, ascoltato, capito.
È una routine, è… è pace. E lui la pace non la provava da quando era bambino.
Non sa cosa l’ha spinto a creare quel blog, non sa cosa lo spinge a provocare anonimamente l’intero mondo in lotta contro i draghi. Non lo sa, ma continua perché qualcuno deve sapere, perché i draghi sono diversi da come chiunque li ha mai immaginati.
Occhieggia il pc spento, si alza faticosamente in piedi. Stiracchia le ossa indolenzite, afferra il bastone e nuovamente, si dirige alla rimessa. Conosce a memoria la strada, la percorre ogni giorno a testa bassa, muovendosi nell’ombra e nel silenzio. Per una volta, essere poco più che una nullità agli occhi della gente è un vantaggio.
Quel giorno piove a dirotto, e l’acqua scivola aggressiva sul corpo tremante di John, gli infradicia i vestiti, si introduce sinuosa nelle ossa scricchiolanti. John ha freddo, combatte il ruggire del vento, ma non si ferma. La Furia Buia è lì, a pochi metri di distanza. Sa bene di avere la febbre alta, sa di essere fisicamente e psicologicamente instabile al momento, ma il suo amico lo aspetta e lui stesso ha bisogno di sentire la sua presenza, di avere qualcuno accanto. Deve vederlo, l’ha quasi raggiunto…
Ma alla fine, a pochi passi dalla rimessa e sotto la pioggia battente, qualcosa cede. John cade in ginocchio, si accascia poco a poco nel fango e nella pioggia. Tende impotente una mano verso la meta, implora un ultimo sforzo al suo corpo bruciante di febbre. Ma esso non risponde, non si muove più e lentamente, John perde conoscenza, chiude gli occhi e anche adesso, nel dolore e nella solitudine, prega di poter vedere almeno un’ultima volta i bellissimi occhi della Furia Buia.
 
Calore, silenzio. C’è serenità, pace. Forse è morto, ma la cosa gli interessa ben poco. Galleggiare nel vuoto, sentirsi libero dal dolore, dalle grida dei suoi incubi di soldato, è bello.
Eppure, c’è un profumo familiare nell’oscurità, il suono calmo di un respiro profondo che ha ripulito i suoi incubi, trasformandoli in sogni adamantini di magnifiche bestie alate, ma gentili. Non angeli, né fate. No, le bestie sono un’altra cosa. E lui… lui ne conosce una.
John socchiude lentamente gli occhi, sbatte le palpebre sulla cappa di semioscurità venata d’aurora boreale che l’avvolge. Si muove appena, mette a fuoco l’ambiente. È tutto nero, ma di un nero trasparente, che lascia intravedere mille riflessi cangianti di luce che illuminano venature zaffiro e arcobaleno. Lui conosce quella membrana, l’ha guardata per settimane, studiata, quasi dipinta nella retina degli occhi.
Poi, la sua mano tocca qualcosa di caldo, duro, che profuma di aghi di pino. Una coda gigantesca, da rettile, lo circonda senza stringere. John sta attento a non ferirsi con le punte acuminate, sulle squame taglienti che sporgono ferine e bellissime. L’emozione di aver toccato finalmente la Furia Buia, dio aver assaporato il suo calore rigenerante, è troppa e quasi lo fa ridere di gioia. Da quanto tempo il suo cuore non trovava quella leggerezza, quel calore?
Lentamente, John accarezza le squame, lascia scivolare le dita tra un tassello e l’altro. Gli sembra di affondare la mano in una particella d’astro, un piccolo pezzo di stella rigida e splendente, bella e terribile. Nei suoi occhi, sente riflettersi l’immensità dello stesso universo contenuto in quelle squame.
Ma l’incanto si spezza quando la coda si scosta, scioglie le spire senza sfiorarlo e le ali si muovono, annientano il loro cielo di aurora boreale per rivelare un tetto alto e sfatto di rimessa abbandonata. L’aria calda e profumata sparisce, si lascia sostituire dal gelo e dall’odore di muffa.
John pare svegliarsi da un sogno, fissa stordito la schiena eretta della Furia Buia. La vede muoversi, alzarsi per sparire di nuovo, lontano, indistinguibile, ma perennemente al suo fianco.
-Mi hai salvato la vita…- mormora John, ancora rannicchiato su se stesso, e la Furia Buia volta appena il capo, lo guarda con un brillante, gelido occhio di cristallo. Muove qualche passo verso l’oscurità, ma la voce dell’ex soldato lo ferma ancora. –Non andartene. Lascia che ti guardi, almeno.-
La Furia Buia non lo fissa più, non dice niente, ma alla fine siede, dandogli la schiena. La lunga coda si attorciglia in larghe spirali intorno al suo corpo, come uno scudo protettivo e inviolabile che John rispetta.
Stavolta, non parla. Semplicemente ascolta il respiro della Furia Buia, interpreta il suo silenzio, ma soprattutto, osserva: guarda le larghe spalle muoversi appena, scopre che è sua abitudine giungere le mani sotto il mento e fissare il vuoto davanti a sé, oppure chiudere gli occhi. Sono piccole cose che raccontano, che aiutano John a capire, a studiarlo, a decifrarlo.
-Grazie.- dice all’improvviso. –Per avermi ascoltato, per avermi salvato. Grazie. Ma ho bisogno di aiutarti, devo ricambiarti il favore, fosse pure per principio. Ma devo farlo.-
Si accosta leggermente, gattona verso la Furia Buia con cautela, per non spaventarlo. -Per favore, non ti muovere, sono un medico.-
Ma quando è ormai vicino a sfiorargli l’ala ferita, la Furia Buia sparisce. John si guarda intorno, cerca affannato e alla fine lo vede, seduto sul corrimano arrugginito  delle scale che conducono al piano superiore.
-Oh, stavolta non te la svigni così.- si impunta John, scattando in piedi. Corre verso la Furia Buia, tende una mano, ma quella si sposta di nuovo e riappare alle sue spalle, dall’altra parte della rimessa. John lo insegue ancora, come in un gioco da bambini. Scivola un paio di volte, ma ridendo si rialza e torna a correre, quasi si getta sulla Furia Buia per coglierlo di sorpresa e abbatterlo col suo peso.
Un paio di volte si nasconde, striscia nell’ombra con l’illusione di non essere notato, ma tutte le volte il drago sfugge come aria leggera e inafferrabile. John capisce che la Furia Buia si sta divertendo quando gli fa lo sgambetto con la coda massiccia prima di scappare di nuovo, questa volta meno velocemente. John scivola, cade sulla schiena e scoppia in una risata vera, di pancia. Da qualche parte, ode un brontolio che associa incredibilmente allo sbuffare divertito della Furia Buia.
-Oh, vedrai se ti prendo!-
E la corsa ricomincia, la stanchezza sparisce e restano soltanto le risate di John e gli sbuffi divertiti della Furia Buia. John quasi gli afferra la coda quando questa guizza derisoria a pochi millimetri dal volto mentre con due balzi eleganti e una leggera spinta dell’unica ala sana, la Furia Buia si allontana di nuovo. John lo insegue, ride forte adesso. Lo guarda balzare come una lepre, non sparisce quasi più alla vista.
Ma all’improvviso, succede. La Furia Buia viene inghiottita dalle ombre, John non ne avverte più nemmeno la presenza. Si allarma subito, sbarra gli occhi e si guarda in giro, dimentico delle risate e della leggerezza provata in precedenza. Adesso, l’assenza della Furia Buia pesa come catene di piombo ai polsi, preme per schiacciarlo a terra e lui incespica all’indietro, si sente indifeso e vulnerabile come mai prima d’ora.
Non è normale che l’assenza di qualcuno lo faccia sentire così.
John continua a guardare in giro, un groppo in gola. Cade all’improvviso, inciampando nei suoi stessi piedi, ma qualcosa gli impedisce di cadere: una membrana di oscuro arcobaleno lo accoglie morbida, si piega come zucchero filato sotto il suo peso e lo culla per qualche istante prima di spingerlo gentilmente in piedi.
John resta allibito, fissa l’ala spiegata per metà che invade totalmente la rimessa e la ridipinge di riflessi cangianti di puro sogno variopinto. Poi, un fiato caldo e profumato gli scompiglia i capelli. John alza timoroso lo sguardo, incrocia gli occhi giudiziosi della Furia Buia. Non si accorge che il drago ha in mano qualcosa, non si accorge di nient’altro che non siano quegli occhi da rettile, quel volto pallido e bellissimo, quei capelli ricci, quelle corna brillanti. Tutto ciò che desidera è toccarle, lasciar scivolare le dita giù, fino alla massa disordinata di chioma corvina.
Tende una mano tremante, trattiene il respiro per restare immobile, per non allarmare la creatura. La fissa negli occhi, non batte le palpebre, ma quella arriccia il naso in un principio di ringhio e si ritrae appena. Non và via, vuole dargli un’altra possibilità.
Così, John pensa. I suoi ricordi ricostruiscono memorie antiche, dove sua madre lo aiuta ad accostarsi a un cane abbandonato, ma anche terribilmente restio a stringere amicizia con chiunque. Ha paura l’animale, ma sua madre si inginocchia, afferra la mano del figlio ancora ragazzino e la stringe delicata.
“Non guardarlo negli occhi, tesoro. Non si fidano se lo fai. Dagli fiducia e aspetta”.
Così, John chiude gli occhi, china il capo e lo volta dall’altra parte. Aspetta. Respira piano, con cautela, la mano ancora tesa sul vuoto che non può stringere.
Passano i secondi, i minuti, forse le ore, ma John non si stanca mai e la mano resta lì, sospesa nel vuoto, tremante di freddo. Ma alla fine, qualcosa cambia. Il fruscio di piccoli passi dubbiosi, lo strusciare d’ala ferita nella polvere. E alla fine, la mano di John scivola sul profilo di un naso, lungo una guancia di liscio granito, su fino alla tempia, oltre la splendida pelle priva d’imperfezioni per finire ai capelli di seta, morbidi come piume d’uccello del paradiso, fluenti e freschi come acqua tra le dita. È un sogno tangibile, ad occhi chiusi, e John lo vive attraverso i sensi rimasti, acutizzati dal suo essere soldato.
Le dita sfiorano le corna ad anelli, ne accarezzano delicate la base rocciosa prima di scendere lungo il cranio, sul collo, dove aggancia la magia delle squame lucenti, lisce ma affilate lungo i bordi leggermente rialzati. È come accarezzare il metallo levigato ad arte, è come riscoprire un nuovo materiale che si costruisce di perfezione divina e indistruttibile.
Qualcosa tocca il suo polso, lo avvolge con gentilezza e stringe leggermente. John riapre gli occhi, ma fa attenzione a non guardare il drago in viso. Al contrario, fissa la sua mano, le dita lunghe cosparse di piccole squame sul dorso. Gli stringe il polso, ma la pelle che tocca la sua è liscia, levigata, quasi principesca. Solo gli atroci artigli ricurvi pizzicano appena la sua carne, ma non vi affondano.
John sbarra gli occhi, guarda l’altra mano della Furia Buia sollevarsi e… porgergli il bastone.
-Cosa…-
John abbassa lo sguardo, fissa le sue gambe distese, appena doloranti per il troppo tempo trascorso a correre. Ma sane. Sane. Ha corso per ore intere senza accorgersi di aver dimenticato il bastone nel fango, esattamente dove la Furia Buia l’ha trovato. Non ha zoppicato, è caduto e si è rialzato senza provare dolore.
-Disturbo psicosomatico.-
La voce. Profonda, baritonale, tranquilla come le acque di un lago mai sfiorato dalle intemperie. Per un attimo, John teme che qualcuno l’abbia seguito, che abbiano visto la Furia Buia, ma poi i suoi occhi si levano, fissano in volto il drago e lo vedono… sorridere. È solo l’arricciare di un angolo delle labbra, ma per John significa molto.
-Tu…-
-Io.-
-Parli?!-
John urla, incespica e cade, urtando il sedere al suolo. La Furia Buia intreccia le mani dietro la schiena, continuando a fissarlo, il bastone ancora stretto tra le dita.
-Elementare, ma immagino che tu abbia dato per scontato la mia incapacità di parola. Dopotutto, quelli come voi ci reputano poco più che bestie.-
John deglutisce, china lo sguardo a terra: non se la sente di negare, non sarebbe giusto farlo. La Furia Buia ha ragione, e lui si è dimostrato stupido. Non ha mai pensato che oltre la parzialità dell’aspetto, quella creatura di umano possedesse anche le facoltà. Diamine, parla meglio di lui. Non è una sorpresa che abbia cercato di nascondersi ai suoi occhi, di non attirare l’attenzione.
-Hai ragione. Ti chiedo scusa.- ammette infine con un sospiro. –Come hai capito che il mio era… insomma…-
-Disturbo psicosomatico? Cambia analista, te lo consiglio. Ti tocchi continuamente la il deltoide destro, tendi a spostare la spalla stessa dei tuoi orribili maglioni per allontanare il tessuto dalla pelle, segno che il tocco ti infastidisce. Più volte hai spostato inconsapevolmente il peso del corpo sulla gamba che credevi azzoppata, ma ogni qualvolta te ne rendevi conto, entrava in gioco il disturbo psicologico. In quel frangente, erano ben chiare le piccole rughe d’espressione intorno agli occhi, sinonimo di fastidio, ma non di dolore, il che implica la quasi totale assenza di sofferenza fisica. Ergo, il disturbo è soltanto psicologico. E preferisco non parlare della spalla. Braccio poco utilizzato, unghie più curate e meno danneggiate delle loro gemelle, consumate dall’utilizzo; dita callose, ma solo sulla mano sinistra. Sei ambidestro, spesso tendi a voler utilizzare la mano sinistra, ma poi il dolore alla spalla ti coglie e cambi idea.-
John boccheggia, stupito. –Straordinario.- ammette infine, e la Furia Buia sbarra appena gli occhi, lo fissa con rinnovato interesse misto ad altrettanto stupore.
-Sul serio?-
-Sul serio.-
E allora John sorride genuino, ritrova quella leggerezza di poche ore prima. Si sente sereno, non più invalido. La sua gamba funziona, lui cammina. E dopo quelli che sembrano secoli di morte apparente vissuta respirando, John vive di nuovo.
-L’hai fatto apposta.- dice dopo un po’, senza abbandonare il sorriso. –La mia gamba. Hai fatto in modo che dimenticassi la zoppia psicosomatica…-
La Furia Buia non risponde, continua a fissarlo. Lentamente, gli dà le spalle e siede compostamente, l’ala sana ancora per metà avvolta intorno al corpo nudo. Non ha indossato i vestiti, non si è ripulito dal sangue rappreso. È sempre uguale, come il primo giorno. Eppure, qualcosa è cambiato.
-Come ti chiami?-
-Adesso pensi che io abbia un nome? Non mi credevi neanche in grado di parlare.-
John si tocca la gamba risanata, ma non distoglie lo sguardo da lui.
-Ti ripeto le mie scuse.-
-Il mio nome non ha importanza, così come per me non ne ha il tuo.-
La Furia Buia si alza di nuovo, svetta su John in tutta la sua altezza, accentuata dalla massa soverchiante di ali ripiegate. L’ex soldato vorrebbe allungare una mano, toccare ancora quella pelle liscia mista a squame coriacee di puro e indistruttibile metallo, ma si trattiene. Non approfitta della situazione, non è giusto che lo faccia.
-Lascia che ti guarisca l’ala.- dice allora, ma la Furia Buia lo fissa con freddezza.
-Hai già fatto abbastanza.- lo fredda in risposta, ma John non vuole arrendersi.
-Io di tempo a disposizione, ne ho molto. Quanto ne hai, tu?-
-Dimmelo tu, sono in campo nemico. Chi tra i tuoi finirà il lavoro da te iniziato? Non volevi un trofeo da portarti a casa? La mia testa ti sarebbe bastata dall’inizio.-
-Io non ho mai detto ques…-
-Non ho bisogno che tu mi dica le cose per capirle. Ho dedotto il tuo disturbo psicosomatico, ho capito dal primo istante la tua posizione di ex soldato, il tuo stato sociale, i problemi di famiglia che assillano stupidamente il tuo già disturbato cervello umano. Ora, pensi davvero che non capisca perché mi hai abbattuto? Non era un atto di altruismo verso i civili, era una faccenda personale.-
E in un attimo, John si trova a terra, l’ala ferita della Furia Buia addossata al corpo. Preme così forte che per un attimo l’umano pensa che sia la fine, che da un momento all’altro quel debole arto squarciato riveli abbastanza forza per spezzargli la cassa toracica e infossarlo nel pavimento.
-Coraggio, fallo.- esorta allora. –Vendicati, fammi a pezzi. Io non posso difendermi, non voglio farlo. È vero, volevo la tua testa e ancora adesso faccio fatica a pensare che i draghi siano diversi dai mostri che credevo. Non so nemmeno cosa mi spinge a venire qui ogni volta, a costo di farmi scoprire e giustiziare! Qui non rischi solo tu, ricordalo; sei abbastanza intelligente per farlo! Ma se questo non è abbastanza, se non vuoi tornare a volare, allora annienta la tua unica possibilità di tornare quello di prima.-
La Furia Buia si blocca, la pressione s’allenta. Adesso sono occhi negli occhi, caldo azzurro mare e gelido color ghiaccio in continuo mutamento. Si studiano, si conoscono davvero. Sì, perché John ha guardato quel drago negli occhi ben poche volte, ma ogni volta che lo fa, per lui è una scoperta nuova.
Di colpo, la pressione sparisce, la Furia Buia non c’è più. Eppure… John non si sente molto bene. C’è il vuoto dell’assenza in lui, il peso di qualcosa che dovrebbe esserci ma non c’è. Significa così tanto per lui la creatura? La risposta la conosce bene, ma la rifiuta.
Si alza, poggia ancora allucinato il piede sul solido pavimento. La gamba non fa male. Niente, funziona benissimo. È servito un drago per capirlo. Ma non un drago qualunque, no: quella è per John la promessa che lo incita a non mollare mai, a camminare di nuovo. Quello è il volto che inizia qualcosa, che muove le pedine di una scacchiera di bianchi e neri separati e distinti.
E se ci fosse qualcosa di più? E se oltre quel mondo privo di colori esistesse altro? John non lo sa, ma l’uomo i colori, li ha semplicemente dimenticati. Tuttavia, adesso che davanti ai suoi occhi l’oscurità si tinge di scaglie nere screziate d’arcobaleno, i colori tornano a popolare il suo mondo di non più invalido e qualcosa si spalanca nel destino dell’uomo, che si tratti della fine o di un nuovo inizio.
E intanto, oltre la porta, un’ombra si muove, qualcosa osserva interessato, spia l’oscurità che si tinge di scaglie e ali di drago. Qualcuno li ha visti.
 
Angolo dell’autrice:
Oddio, questa non me l’aspettavo. Davvero vi piace questa… cosa? O____o e io che mi aspettavo di trovarmi i sicari in casa. Ok, niente panico! Dopo questo capitolo del cavolo potrete anche ripensarci e i sicari li troverò davvero… sì, sto per creare un casino, ma chi mi conosce come autrice sa che ha ben poco da temere… ehm… sì, assolutamente nulla… dicevo? Ah sì, spazio ai ringraziamenti per gli splendidi angeli che hanno reso possibile questa pubblicazione!
Kimi o Aishiteiru: ehi, scusa per cosa? (scusati tu, piuttosto! Mi hai bruciato la riserva di marshmallow! Nd Gabriel)( Riserva un cavolo! L’avevi allestita nel mio armadio! Sto ancora pulendo i vestiti dallo zucchero, per non parlare di quando me l’hai rovesciato in testa! Sembra che ho la forfora!!!) Wow, anche tu adori Dragon Trainer? Abbiamo troppe cose in comune, secondo me abbiamo qualche parentela… controllerò il mio albero genealogico. Scusati con le tue amiche da parte mia, non volevo traumatizzarle! Ma allo stesso tempo mi fa più che piacere che ti sia piaciuta l’idea, spero solo di svilupparla bene… a presto, e grazie!
FKk: eheh, anche io adoro i draghi, per non parlare di Sherlock. L’idea mi è venuta guardando tutte le fan art che lo rappresentavano intrecciato alle sembianze di Smaug de “lo Hobbit” e alla fine è saltata fuori questa… cosa. Ecco a te il nuovo capitolo! Spero solo che ti sia piaciuto, ma aspetto il tuo commento, eh! A prestissimo e grazie per la recensione!
Tony Stark: da… davvero ti piace Sherlock descritto così? (si nasconde in un angolino) Avevo un po’ paura di azzardare, lo ammetto. Ma comunque… be’?! Qui si disegna Sherlock drago e io nemmeno posso vederlo? Mi rifiuto! Trova il modo di inviarmi quel disegno, fosse anche con un piccione viaggiatore! Lo esigo! Altrimenti Sherlock non volerà mai più! Anzi, gli strapperò anche l’altra ala! Muahahahahahahh!!! Grazie per il commento, splendido come al solito! A presto!
Bbpeki: be’, se può consolarti, sappi che anche io aspetto con trepidazione ogni tuo commento. Le tue parole mi danno la fiducia per scrivere ciò che tanto ti fa sognare, quindi ringrazia te stessa. Eheh, sì, riguardo al profumo di aghi di pino ho voluto collegare le due storie, anche perché di questo passo, prima o poi mi troverò a scrivere un cross-over di questa e di “Dal Sole e Dalla Luna Nacque L’Alba”. Sai che casino XD In realtà la descrizione di Sherlock è saltata fuori così perché l’ho disegnato. Studio illustrazione e mi occupo più specificamente dei disegni in stile fantasy. Quindi ho dovuto studiare fisicamente entrambi, e alla fine è uscita una cosa del genere. Ma comunque sappi che una cosa del genere sapresti scriverla anche tu, chiunque può farlo. Mi ci gioco qualsiasi cosa! Eh, in realtà una situazione come quella descritta all’inizio di Dragon Trainer non sarebbe tanto divertente illustrata nella realtà. Draghi che ammazzano la gente e abbattono le strade sarebbero terrificanti, non divertenti, no? Coooomunque, la gamba di John alla fine come puoi leggere si è scoperta funzionante, ma appena si distrae lo sedo e gliela stacco, così te la invio per posta. A presto, e grazie!
Toru85: eccoti il seguito! Spero che ti sia piaciuto, e in caso contrario, ti do il numero di un buon killer da assoldare per impedirmi di partorire altri orrori simili XD grazie per la recensione, aspetto di conoscere il tuo parere anche stavolta! Grazie ancora!
Saphi5f: sì, Dragon Trainer è anche uno dei miei film preferiti. Sto aspettando il seguito da tantissimo tempo, e sapere che sarà una trilogia mi ha fatto urlare di gioia. Eh, in realtà lo Sherlock-FuriaBuia di questa storia fa più paura che tenerezza. Prova a dirglielo, e spera di non finire a terra come il più che maltrattato John. Stupidi draghi con la superforza… comunque, ecco a te il seguito, nella speranza di non averti deluso. Aspetto di sapere che ne pensi, a presto!
Ccc94: ecco a te il seguito. Mi chiedevi come avrebbero iniziato a rapportarsi Sherlock e John? Non nel migliore dei modi, come puoi leggere. E ne hanno ancora da suonarsele di santa ragione. Qui John rischia davvero di perdere la gamba, e stavolta parlo dell’amputazione a opera di un morso di drago incazzato. Eheh, grazie per il commento, a prestissimo!

Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 4
*** Mani Che Ricordano ***


-Si può sapere dove cazzo sparisci, ultimamente? Ogni volta che vengo a trovarti non ti trovo, e adesso ti incontro solo per un colpo di fortuna!-
Lestrade urla, gesticola, sfoga la frustrazione delle ultime settimane. Gli pare d’aver perso un amico, di non capire più chi ha davanti. Quel John è un estraneo, una novità non richiesta. Sparisce di continuo, quando si vedono appare distratto, parla poco. Da giorni si vocifera che non porti più il bastone, e adesso che Gregory ha incontrato John mentre correva verso il suo appartamento, il bisbiglio trova conferma.
-Come hai fatto a guarire?- aggiunge l’ispettore dopo poco, fissando le gambe di John. Lui sorride, un sorriso vero, sereno, che Greg non gli vede da anni.
-Disturbo psicosomatico. Chiamalo miracolo, se vuoi.- risponde, battendo un piede a terra per accentuare il concetto. Ha le guance rosse per il freddo e gli occhi brillanti per motivi a Greg ignoti. È strano, è diverso dal solito.
-Vuoi entrare?- domanda John, accennando alla porta. Oltrepassa Greg, entra in casa con calma moderata, la schiena dritta, fiera, non più pesante di vergogna e infermità fisica. John è fiero adesso, non china più lo sguardo, non è più uno dei grigi, ma al contrario è un colore, ormai se ne accorge anche Greg.
Raggiungono la porta di casa, John la spalanca sull’ordine perentorio, da soldato, che ostenta sui pochi oggetti che si concede di possedere. Non vi sono foto incorniciate in giro, nulla che lo ricolleghi a una famiglia o a un passato che abbia preceduto il suo arruolamento in guerra. Agli occhi di Greg, la vita del suo amico appariva iniziata e conclusa nell’esercito. Era così, lo è sempre stato. Adesso però, qualcosa cambia.
Greg siede sulla poltrona più vicina, osserva John imitarlo e fare lo stesso, emettendo uno sbuffo di stanchezza. Non ha rughe sul volto, è così rilassato che i suoi stessi occhi da mare tempestoso appaiono adesso come la più placida delle bisacce.
-John?-
-Mh?-
-Sicuro di star bene?-
John annuisce, sorridendo. –Più che bene.- Si schiarisce la gola, distrae Greg dall’argomento. –Tu, piuttosto: sembri molto stanco.-
Ed è vero: Lestrade appare quasi fragile. Occhiaie profonde, pallido, i capelli più grigi che mai, come un vecchio rifugiatosi dietro sembianze di uomo adulto. I suoi abiti sono sgualciti, le mani callose come mai prima d’allora.
A conferma delle parole di John, Greg si passa una mano sul viso e sospira. –Sì, John. Sono stanco. A volte penso di essere troppo vecchio per fare l’ispettore.-
-Perché parli così?-
Greg tentenna qualche istante, conta i suoi stessi respiri, li regolarizza faticosamente come bestia in trappola che ansima in cerca di vie di fuga. Giocherella per diversi minuti col piccolo anello di metallo che gli fascia l’indice. John aspetta, come ha sempre fatto. È un tipo paziente, come lo è stato al cospetto della Furia Buia e degli stessi uomini. E alla fine, la ricompensa arriva.
-In due settimane abbiamo contato cinque omicidi efferati. Arma da taglio, più precisamente un coltello da cucina, il che ci conferma che non possa essere stato un drago a compiere l’atto. Il colpevole sparisce ogni volta e le porte sono sempre chiuse dall’interno, come se ogni vittima conoscesse il volto e le motivazioni del suo carnefice. Brancoliamo nel buio, e i continui attacchi a opera dei draghi non ci aiutano a ragionare… se non trovo il colpevole in fretta, rischio il posto di lavoro.-
Greg si strofina la fronte, respira a fondo per calmarsi. Poche volte, in tanti anni di amicizia, John l’ha visto in questo stato. Sa che Greg è affezionato al suo lavoro: lo priva del tempo per pensare, lascia che la sua mente scivoli via dal sozzume del mondo che la imprigiona. Greg ha perso la famiglia a causa dei draghi. Aveva una sorellina, un fratello più grande. Adesso non ci sono più, il crollo di un palazzo se li portò via.
Bella situazione del cavolo, ma John non può aiutarlo. Non è un genio a risolvere delitti, per quello ci vorrebbe una gran bella testa, e di certo John ha ben altri pensieri per la testa, primo fra tutti la situazione creatasi con la Furia Buia…
-John, ti senti bene? Hai uno sguardo str…-
-Forse posso aiutarti.-
John lo guarda in viso, gli occhi brillanti d’un idea folle ma fattibile, rischiosa ma geniale. È un pensiero pericoloso, ma se John avesse ragione, se un briciolo delle sue osservazioni fossero esatte, allora non si sbroglierebbe soltanto la matassa di Greg, ma anche quella dell’ex soldato.
-Greg, puoi scrivermi esattamente tutti i dati riguardanti le indagini? Includi i nomi dei sospettati, i loro interrogatori trascritti e le foto di volti, scene del delitto, luoghi e quanto hai a disposizione.-
Greg corruga le sopracciglia, lo fissa stranito.
–John, è roba top secret, non posso…- 
-Vuoi il tuo colpevole? Lo avrai, ma ho bisogno di quella roba.-
Greg ragiona, temporeggia, scandendo i secondi col battito insistente dell’indice contro il bracciolo consumato della poltrona. Sa bene che esporre le prove a un civile, sarebbe perseguibile per legge, o peggio. Al momento, lui è poco più che un equilibrista sul filo del rasoio, e mai come in quel momento, sa di pendere pericolosamente dalla parte sbagliata. Senza il suo lavoro, non ha il diritto di impugnare una pistola. Senza il suo lavoro, non può combattere i draghi.
Non ha nulla da perdere, Gregory Lestrade.
-E sia.-
 
John  cammina lentamente, ancora poco abituato a non zoppicare, e stringe al petto un fascicolo, l’insieme di prove che voleva. Avanza con cautela sul lurido pavimento della rimessa abbandonata, cerca di penetrare l’oscurità con gli occhi chiari in cerca della familiare sagoma alata, massiccia, con la lunga coda scudisciante come frusta. È un’immagine familiare, che lo abbraccia di calore rassicurante.
-Furia Buia, ti ho port… che accidenti hai fatto alla parete?!-
John strabuzza gli occhi, fissa stralunato la parete affumicata, dove un gigantesco smile buca l’intonaco e fa risaltare candido lo stucco sottostante. La Furia Buia siede a gambe incrociate poco distante, le mani giunte sotto il mento e gli occhi chiusi in un’espressione di puro relax che quasi non riflette i complessi ragionamenti che s’inalberano dietro le palpebre, oltre lo spazio che quel corpo massiccio occupa incurante. È un volto bellissimo e oscuro quello che John sta osservando: dipinto d’ombre demoniache, che generano contrasti quasi scultorei sul volto di candida porcellana, sulle squame variopinte che al contrario colorano di scintille luccicanti il pavimento. Ancora non indossa gli abiti che John gli portò durante il loro primo incontro, e stavolta l’ex soldato non riesce a trattenere lo sguardo dallo scivolare giù per il fisico scolpito della creatura, lungo le spalle larghe coperte di squame, sul torace ampio, dai pettorali pronunciati, che precedono fianchi più stretti d’addominali appena accennati, eleganti nel loro pallido occhieggiare leggero.
-Mi annoiavo.- spiega la Furia Buia, interrompendo i pensieri di John.
-E ti pare normale dare fuoco al muro?-
-Non mi occupo di ciò che è normale. Nel caso non te ne fossi accorto, io non rientro nel vostro concetto di normalità.-
Punto a suo favore, questo John deve concederglielo. Sospira pesantemente, ma quasi subito s’accorge del sorriso che gli bagna le labbra. Buffo che trovi divertente un comportamento tanto anomalo, ma non c’è che dire: la Furia Buia è… diversa, come una ventata di profumata aria fresca dove stantio e rarefatto hanno regnato anche troppo a lungo. Non è come gli altri, non rispecchia neanche un briciolo del normale genere umano con il quale John ha a che fare da una vita.
Siede compostamente alle spalle della Furia Buia, ma mantiene le distanze per non allarmarlo.
-Ho qualcosa per te.-
Poggia per terra il fascicolo, poi lo spinge con forza per farlo scivolare verso la Furia Buia, fino ad urtargli un ginocchio. Lo vede inclinare appena il capo, ma quasi non presta attenzione alla busta. John si avvicina lentamente, striscia le ginocchia sul pavimento fino a sbucciarsele, ma si sforza di non fare rumore. Si aspetta di tutto, ormai: dal trovarsi a testa in giù, trascinato in aria da una coda, all’essere scaraventato per terra da una grossa ma più che sufficiente ala nera.
Ma la Furia Buia non si muove, e immobile continua a pensare. Lentamente, John si accosta ancora, estrae dalla tasca una pomata e delle fasciature massicce. Spera di aver fatto bene i calcoli, o rischia di vedersi staccare la testa dal collo.
-Potresti prestare attenzione alla busta, per favore?- chiede, sudando freddo. Solo allora la Furia Buia tende una mano, stringe i fascicoli e li sparpaglia davanti al viso.
-Un caso.-
-Sì….-
-Ti aspetti che lo risolva? Che aiuti quelli come voi?-
-Be’… in realtà è solo un modo per passare il tempo, no?-
John resta rigido, attende timoroso una risposta che non giunge. Semplicemente, la Furia Buia piega appena la schiena squamata e fissa con occhi di diamante il contenuto del fascicolo, sparso per terra: e il silenzio, cala di nuovo.
Minuti, minuti interminabili trascorsi nella totale immobilità. John aspetta che il drago si rilassi, che la mente svolga il suo lavoro d’insensibilità fisica, come l’umano spera che accada.
Tic toc, tic toc.
Lentamente, John allunga una mano, ripercorre a menadito l’arco dei suoi sogni mai realizzati e li guarda avverarsi. Sfiora dolcemente la sottilissima membrana alare, scorre le dita lungo lo squarcio, timoroso di risvegliare nel drago un moto di dolore e furia. Tuttavia, la creatura resta immobile e ragiona, scorre i fogli, le foto, senza muovere un muscolo. Non concepisce più alcuna sensazione che si allontani appena dal suo filo di ragionamento. È una macchina, soltanto cervello che lavora. Ed è bellissimo.
John trattiene il respiro, vorrebbe pizzicarsi per ricordare a se stesso di star vivendo una realtà assurda e bellissima, magnifica come acqua fresca su ferita atrofizzata.
Muoviti, John…
E lentamente, il medico militare si mette al lavoro. Passa ore a ricucire lo squarcio con rudimentale ago e filo, ripulisce dolcemente la ferita, lascia che le mani si muovano sui ricordi di una vita condotta a sanare ferite con successo. È memoria quella che sfiora di delicatezza ogni centimetro di membrana alare, è affetto inconsapevole quello che muove ogni gesto, ogni istante donato alla stanchezza e allo sforzo. Ma John non potrebbe essere più felice di così: è come tornare a respirare, vivere un’esperienza molto al di sopra di ogni sua passata aspettativa. Sta toccando il fuoco, sta toccando il vento.
Non rallenta, nemmeno quando il gelo comincia a penetrare nelle ossa e poco a poco lo lascia tremante e fradicio di brina. Vorrebbe essersi coperto di più, ma non se ne cura al momento: potrà morire di freddo, a patto che quell’opera di Dio sia sana. Potrà andarsene quando la più elegante delle bestie tornerà a solcare il cielo.
Un colpo di tosse, un fremito simile a uno spasmo. Ma John non si ferma.
Il dolore lancinante delle dita prossime a spezzarsi per il gelo. Ma John continua.
Il sole tramonta, anche al buio John avanza sicuro nei suoi gesti, gli occhi socchiusi e cerchiati di nero, le mani tremanti di dolore. Continua, lavora incessante. Non si accorge che la Furia Buia si muove appena, volta il capo verso di lui e lo fissa in silenzio con un ferino occhio di ghiaccio, punto luce nelle tenebre che avanzano.
Poi, quando l’alba è ormai prossima al suo sorgere, John cede. Sorride leggermente, soddisfatto del suo operato e infine china il capo, lascia scivolare le mani al suolo e poco a poco s’accascia. Sa di essere prossimo all’urtare il pavimento, prossimo a ferirsi contro i detriti della rimessa abbandonata… ma l’urto non giunge.
Due braccia forti lo sostengono, come in un sogno gli stringono la vita, lasciano che il suo viso poggi delicato su un petto nudo e piacevolmente caldo. Mani d’angelo risalgono la spina dorsale, sfiorano la base del collo con leggerezza di farfalla.
-Il figlio.- mormora una voce gentile e profonda come canto armonioso di cori del paradiso. –L’assassino è il figlio della prima vittima.-
John quasi non l’ascolta, ma si abbandona docilmente allo sfiorare di dita sulla guancia, sul naso, sulle labbra. È un sogno, è il più bello mai vissuto. L’ha sempre desiderato, lo vuole ardentemente.
-Dormi, John.-
John annuisce appena, piega le ginocchia e intreccia le gambe con quelle squamate della creatura. Ha ancora il viso poggiato contro il suo petto, e solo adesso scopre che il cuore dei draghi è al centro esatto della cassa toracica. Ne ascolta il battito, lentissimo e irregolare, ma per lui è il suono più bello mai udito. Inala il profumo speziato della pelle, così diverso da quello fresco d’aghi di pino che ricopre le ali. Sa di familiarità, sa di sicurezza.
E finalmente, John si sente a casa.
 
Non sempre le persone riaprono gli occhi, quando è giorno. Alcuni non possono più svegliarsi, altri si cristallizzano in uno stato di stasi, un’impasse dove il corpo è ancora leggero e il mondo assente, oscuro è pacifico in ogni sua invisibile sfaccettatura. Ma c’è un altro mondo, oltre quello del sereno dormiveglia, ed è quello dei sogni. Lì, anche la più distorta delle fantasie si munisce di respiri e fisicità reale, palpabile, viva. Il protagonista ascolta il battito cardiaco del suo mondo, lo rimodella con dita d’artista, ed è proprio quello che accade adesso a John Watson.
Giace su una morbida coperta di seta, che si compone d’ali oscure distese tutto intorno a lui, volte a racchiuderlo in un prezioso bozzolo di cupo arcobaleno. Al suo fianco, una splendida creatura umanoide, maschio, più ammaliante di qualsiasi angelo, più pericoloso del demonio stesso. Riposa silenzioso, poggiato contro il muro alle sue spalle, il capo inclinato e il volto pacifico, spinto giù dal paradiso. Respira a labbra schiuse, rilasciando sottili volute di fumo argentato che giocano lungo la pelle levigata, la accarezzano e ci giocano in una danza ipnotica.
È un sogno bellissimo. Mai fatti di così realistici.
John si raddrizza e allunga una mano, vicino alla Furia Buia come mai in vita sua. Gli sfiora arditamente l’ansa della gola, tocca venerante il pomo d’Adamo, risale alle labbra schiuse e lascia che il fumo gli si incastri tra palmo e falangi, fino al polso.
-Possibile che siate voi i mostri che popolano i nostri incubi?-
John osserva, scruta ciò che fa urlare i bambini di notte e tremare gli uomini di giorno. Quello non è un incubo… o sì?
È così preso dai suoi pensieri, che non si accorge di un cambiamento: pallidi raggi di luce filtrano dall’alto, gli bagnano i capelli d’oro pallido mentre tutto intorno a lui il mondo si sposta, perde la preziosità del suo arcobaleno variopinto e si solidifica, spaccando l’incanto del sogno apparente divenuto realtà.
Ali immense, oscure, brillanti di riflessi d’aurora boreale abbracciano l’ambiente, si spiegano gemelle, simmetriche, maestose. John ha appena il tempo di levare gli occhi prima che le immense membrane sbattano una volta, sprigionando un vento possente che quasi lo spazza via. D’istinto, John si aggrappa alla coda squamata, lascia che le scaglie penetrino nella carne, facendogliela a brandelli, ma il dolore non sovrasta lo stupore dello spettacolo che improvvisamente gli si para dinanzi.
La Furia Buia è in piedi, eretto in tutto il suo splendore di muscoli delineati e scaglie d’oscuro arcobaleno. Ha il corpo in tensione, le cosce contratte, i tendini gonfi. Solleva il viso per scrutare attentamente il soffitto con occhi rapiti, i capelli scossi dal vento, il collo pallido e longilineo, dai muscoli in rilievo.
John lo guarda flettere le gambe, contrarre ogni muscolo nello sforzo supremo, e solo allora capisce cosa sta per accadere.
-Non vorrai mica…-
Un risucchio alla bocca dello stomaco, lo sbattere possente d’ali massicce e la Furia Buia s’innalza, solleva la piccola mole umanoide verso il soffitto resistente della rimessa. A John non resta che urlare e chiudere gli occhi in un’ultima disperata preghiera di pietà.
 
Angolo dell’autrice:
Ehm… no, fermi. In realtà questo è un… guaio di capitolo. No, è anche peggio. Ammetto di averci faticato parecchio, non è facile seguire gli studi e allo stesso tempo la storia, ma cerco sempre di non aggiornare troppo tardi, perciò chiedo anticipatamente perdono per gli errori che sicuramente troverete, visto che come al solito non ho minimamente controllato la grammatica. E ora, passiamo ai ringraziamenti degli splendidi angeli che mi hanno spinta, coi loro commenti, a pubblicare prima del previsto!
Bbpeki: ok, riguardo al cross-over ci penserò, promesso. Ammetto di avere già la trama a portata di zampa, ma non so se riesco a seguire tutti i personaggi, rischio poi di fare un guaio come al solito XD Oddio, credo che Gabriel finirebbe con l’adottare draghi come Behemah… oddio, casa mia incendiata non la voglio! Sto ancora rimuovendo lo zoo che mi ha portato l’ultima volta! Sciò, termiti, pussate viaaa!!! Coff coff… dicevo? Ah, sì! Comunque, la Johnlock si allarga lentamente, e a breve avremo un macell… una bellissima, felicissima coppia, per nulla mutilata, fatta a pezzi, bruciata e demotivata sotto qualsiasi punto di vista. Felicità! Sono una persona generosa, io! Eheh, io scrivo libri da quando avevo otto anni. In realtà ne avrò scritti una marea, ma non avrò mai il coraggio di pubblicare, pazienza… comunque, come al solito sei dolcissima in ogni tuo commento, e contribuisci con le tue parole alla realizzazione di un nuovo capitolo. Grazie di cuore.
Tony Stark: sì, te lo immagini se Sherlock non parlava? Non sarebbe lui, lo stesso John lo chiama spesso “Mister Ultima Parola”, e questo riassume tutto. Il nostro drago per il momento non è molto eloquente, ma impedire a Sherlock di parlare significherebbe privarlo di una parte di sé, probabilmente quella più irritante XD Oddio, adesso mi odierai per come ho concluso il capitolo. Mi dispiace, dovrai aspettare il prossimo per vederlo volare, ma spero che ne varrà la pena… e, volendo essere pignoli, io sto ancora aspettando il tuo disegno, eh! Inviamelo per posta, o via drago! Legalo a una freccia e scocca, lo prendo al volo! (si prepara alla parata) Grazie mille per il bellissimo commento, come sempre non mi deludi e non manchi mai di incitarmi a continuare. Grazie di cuore, davvero. Grazie.
Little Fanny: oddio, non so cosa dire. Cominciamo dalla splendida pazienza che hai dimostrato nel recensire tutti i capitoli. Ben pochi lo farebbero, e per la tua costanza non posso che esserti grata con tutto il cuore. Eheh, scrivendo sul blog John cerca di convincere la gente a riflettere, ma bisogna anche capire le persone: hanno perso amici e familiari a causa dei draghi, non sarà facile convincerli a ragionare. Ma si sa, se c’è Sherlock di mezzo, altro che blog! John è capace di appendere i cartelloni per strada. Comunque, sono felicissima che Sherlock!Drago ti sia piaciuto. Wow, credevo che avrebbe fatto schifo a tutti, e invece… scusa, ancora ho difficoltà a convincermi che veramente piace tanto XD in realtà mi è difficile credere che piaccia tutta la storia, sai? In ogni caso, sì, Sherlock ha aspettato a parlare perché John doveva meritarlo. Ma sappiamo bene che il nostro soldato sa essere infinitamente paziente. In ogni caso, spero di averti fatto un regalo facendo sì che John fasciasse l’ala di Sherlock, così come spero di non averti deluso con questo capitolo. Spero tanto di leggere ancora i tuoi splendidi commenti. Grazie di cuore per la pazienza che hai dimostrato recensendo tutto e facendomi sapere che la storia ti piace davvero. Mi hai aiutato molto nella scrittura di questo capitolo. Grazie.

Tomi Dark Angel

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Capitolo 5
*** Un Mondo Svelato ***


-Molly, che succede?-
-Gregory? Grazie al cielo ti ho trovato. John è con te?-
-No, perché?-
-Be’… la signora Hudson è preoccupatissima, dice che non torna da ieri pomeriggio e… insomma… pensavo fosse con te.-
-No, io non lo vedo da ieri mattina.-
-Oh, cielo…-
-Molly… vuoi forse dirmi che John è scomparso?-
-…………………-
 
Quando si sta per morire, capita a molti di rivivere a grandi linee la propria vita: alcuni rimpiangono, altri semplicemente ricordano e sorridono. Altri ancora, come John, sono soddisfatti solo per metà.
Una vita da soldato, studi insistenti per imparare a salvare vite e tutto finì per un incidente e una maledetta zoppia psicosomatica. Adesso, come ciliegina sulla torta, sta per morire schiantato contro un muro grazie all’unica vita che è riuscito a salvare davvero, ma che al contrario avrebbe dovuto sopprimere. La fortuna dello sfigato.
Il muro si avvicina, veloce come non mai. Al contrario, la Furia Buia accelera, sbatte le ali con tanta forza da incidere i muri laterali con l’implacabilità di magnifica creatura alata. John chiude gli occhi, prega il cielo di avere la benché minima speranza di rivedere il sole, respirare aria pulita e riabbracciare i suoi amici.
Vorrebbe scusarsi con Greg per averlo fatto preoccupare.
Vorrebbe scherzare con Molly Hooper, sua amica da sempre.
Vorrebbe fare tanto, ma non può.
Il suo ultimo pensiero lo affida alla Furia Buia, al profumo fresco che emana, alla sua magnifica voce, all’eleganza di ogni suo gesto. Prima di rendersene conto, John pensa che se avesse dovuto scegliere qualcuno a cui affidare la sua stessa vita, qualcuno con il quale trascorrere tempo e spendere sorrisi… avrebbe scelto la stessa creatura che adesso lo conduce alla morte.
Ma qualcosa non và come John immaginava.
La Furia Buia schiude le labbra, tira indietro il capo e poi tende il collo. Dalle labbra si sprigiona la sua arma più letale, ciò che ha reso il suo nome temibile più di qualsiasi altro incubo mai esistito in Terra: una sfera di brillante oscurità repressa esplode dalle fauci umanoidi, si schianta sul muro e lo sfonda con un’esplosione tanto potente da sbriciolare la pietra.
John socchiude le palpebre, si stupisce della finissima polvere che gli carezza il viso mentre raggi solari di dorato mezzodì gli bagnano la pelle, i capelli, gli abiti come impalpabile cascata.
Un altro battito, e la Furia Buia si leva sempre più su, sempre più leggero, sempre più libero. E John, ancora aggrappato alla coda, con mani sanguinanti e viso stravolto, non può fare a meno di sentirsi parte di un miracolo: davanti ai suoi occhi stanchi di giovane uomo, le fatiche di una notte prendono consistenza, trovano ricompensa in grandi ali simmetriche che catturano l’aria, spingono verso il basso per sottometterla e infine si sottomettono a loro volta alle correnti ascensionali.
John fissa quel corpo leggero, la sinuosità con la quale ogni arto longilineo trova il giusto, aggraziato movimento da seguire. È un padrone del vento, la macchina perfetta che nessun uomo potrebbe eguagliare in millenni di studi e ingegno. La membrana alare sbatte, i fianchi si contraggono appena, le braccia aderiscono leggermente al corpo mentre capelli corvini carezzano un viso che John vorrebbe guardare con tutte le sue forze.
Poco a poco, mentre salgono ancora verso il cielo, verso il sole, John trova il coraggio di guardare in basso. Se non avesse ancora la stoffa del soldato, probabilmente urlerebbe a pieni polmoni. Sono in alto, troppo perché Londra possa essere concepita come una grande città.
Da lì, il mondo si srotola ai loro piedi, stende le sue propaggini di natura e artificialità intrecciate, in lotta sempiterna tra loro. C’è grigio, dove l’uomo ha steso mano: chiazze larghe di terra bruciata, scurita da palazzi abbattuti e macerie che poco a poco si convertono in case sane, laddove l’attacco dei draghi non ha ancora disteso le sue conseguenze. Ma più in là, a ovest, dove nemmeno gli uomini si avventurano, la natura si appropria della sua terra: lo smeraldo brillante d’erba e alberi si propaga a chiazza d’olio, riflesso di bagliori lucenti che lentamente si tuffano in un grande fiume snodato, azzurro come nastro dipinto da mani d’artista, luminoso come scia di polvere di stelle. Prosegue oltre, verso il mare, dove si tuffa con eleganza, unendosi alla ben più grande distesa d’acqua, striata di luce, da essa stessa composta. Se non fosse per le montagne che mastodontiche si ergono all’orizzonte, John potrebbe vedere cielo e mare fondersi, abbracciarsi come amanti.
-È bell…-
La Furia Buia sbatte ancora le ali, strattona John verso l’alto. E all’improvviso, l’aria comincia a mancare, la pressione schiaccia i polmoni dell’umano con mano implacabile. John cerca di parlare, di chiedere aiuto, ma non ha fiato per esprimersi. Tossisce, annaspa disperato prima che la presa venga a mancare e, con una scia di gocce insanguinate al seguito, lui scivoli via, abbandonato al traditore abbraccio del vento, alla velocità esagerata che l’avrebbe visto schiantarsi su terra troppo dura per lasciarlo in vita.
John chiude gli occhi, ascolta il suo stesso battito cardiaco. Ma qualcosa cambia, perché… lui non ha paura: sente che il drago arriverà, che saprà aiutarlo come l’ultima volta. Stranamente, si fida di lui.
E la Furia Buia non lo delude.
Da sotto le palpebre appena schiuse, John quasi non vede l’ombra nera che lo affianca, lo supera e lascia che l’umano atterri dolcemente su qualcosa di duro e frastagliato.
John annaspa, a stento si rende conto che qualcosa gli urta ripetutamente le ginocchia. Respira a pieni polmoni, le mani insanguinate strette su squame taglienti, la guancia appena graffiata abbandonata sulla schiena della Furia Buia. Sorride dolcemente, ma ancora stordito.
-Sapevo che mi avresti salvato.- mormorò, sperando che il drago lo sentisse. –In fondo… tu non sei cattivo.-
 Gli accarezza la spalla con un coraggio che normalmente non avrebbe mai dimostrato e sorprendentemente, la Furia Buia non pare infastidito. Non reagisce, non lascia nemmeno che John lo guardi in viso. Sbatte le ali più lentamente e il vento si calma, da graffiante creatura inafferrabile diventa carezzevole, gentile e profumato. John si accorge di non avere freddo, nonostante la temperatura bassa che ha lasciato a Londra: in effetti, se in città è facile trovarsi sotto un acquazzone o con le caviglie immerse nella neve, al di fuori… è tutto diverso. Sono due mondi a confronto. Il grigio dell’uomo non s’intreccia col variopinto tingersi luminoso della natura, territorio dei draghi. E fa male capire che le bestie, così terribili, così feroci, così abominevoli, considerino la vita del pianeta molto più di quanto non abbia mai fatto l’avaro essere umano.
-Dammi la mano.-
John sussulta, ancora poco abituato alla voce profonda della Furia Buia.
-Co… come?-
Il drago sospira, calando ancora di quota con dolcezza aggraziata. –Vi è così difficile comprendere la vostra stessa lingua? Non dovrebbe essere difficile per i vostri piccoli cervelli…-
-Hai finito di insultarmi?-
-No.-
John sospira, ma lentamente e con attenzione, lascia scivolare una mano timorosa lungo il fianco caldo e teso della creatura. Con stupore, vede una grande mano artigliata stringere la sua, più piccola, fredda e insanguinata. C’è così tanta differenza, come un divario che tuttavia non si dimostra insormontabile.
Due mani intrecciate, dita umane e dita umanoidi.
Unghie spezzate da lavoratore e artigli ferini da bestia selvaggia.
Artificialità e natura.
Umano e drago.
Eppure, le dita si intrecciano, si sfiorano gentili. Nonostante le squame taglienti che ricoprono il dorso della mano della Furia Buia, John non ha paura di tagliarsi. Si affida a quel calore, al tocco delicato di falangi abituate a ghermire carne umana, a fendere l’aria di ferocia.
Lentamente, la Furia Buia tira la mano ferita di John verso il basso, spingendolo a sporgersi oltre la sua schiena. E allora l’ex soldato incontra lo sguardo luminoso del suo riflesso, specchiato nell’acqua. Sono vicinissimi alla superficie salata del mare, tanto che ad ogni battito d’ali, queste affondano per metà nell’oceano e, risalendo bruscamente, dipingono in cielo un arco di goccioline cristalline, brillanti come frammenti di cristallo frantumato.
John le sente bagnargli gli abiti, il viso, i capelli, ma è una sensazione piacevole, bellissima. Stranamente, l’acqua stessa profuma di mare misto all’aroma di aghi di pino. È come un sogno, come attraversare un arcobaleno di cristalli variopinti che dura solo un attimo, ma abbastanza per incantare gli occhi e il mondo.
E gli uomini perdono davvero tanto tempo a edificare edifici, quando invece possono avere questo?
I pensieri di John si interrompono quando un dolore lancinante alla mano gli fa digrignare i denti. La Furia Buia l’ha immersa nell’acqua salata e bruciante, insensibile ai disperati tentativi di John di ritrarsi. Il freddo atrofizza quasi subito il dolore, intrecciandosi all’adesso tiepido tocco di pelle di drago.
-Dio, se fa male…-
-Dovevi pensarci prima di aggrapparti alle mie squame in quel modo.-
-Non potevo lasciarti andare, accidenti!-
La Furia Buia rallenta bruscamente, John trattiene il respiro. Non voleva dirlo. Ha reagito d’istinto, si è aggrappato all’unica cosa che avrebbe impedito al vento delle ali di spazzarlo via, magari spedendolo a sfracellarsi contro un muro. È stata tutta una questione di autoconservazione… vero?
-L’altra mano.- dice soltanto la Furia Buia, e John ubbidisce. Ritrae velocemente la mano fradicia e ormai insensibile a causa del freddo e lascia che il drago gli afferri l’altra per spingerla in acqua.
È in quel momento che John ode dei fruscii familiari, terrificanti, misti ai ruggiti di qualcosa in avvicinamento, qualcosa col quale non vorrebbe mai avere a che fare.
Come frecce scagliate da un arco, sei draghi li raggiungono. Sono piuttosto piccoli, della grandezza di massicci elefanti, ma è la prima volta che John li vede da vicino. Sono belli, deve ammetterlo. Non quanto la Furia Buia, ma sono belli.
Ognuno ricoperto di scaglie variopinte, ognuno attraversato da riflessi d’acciaio luminoso, simile a cristalli d’arcobaleno che strisciano lungo i corpi longilinei di rettili per niente umanoidi. I colli sono lunghi, le teste tutte diverse. Uno di loro ne ha addirittura due!
John li osserva intimorito mentre questi affiancano la Furia Buia, fissando l’umano con occhi brillanti di rettili. Appaiono incuriositi, interessati, ma per niente inferociti come John è abituato a vederli. In effetti, coi musi rilassati e le scaglie lucenti baciate dal sole, sembrano molto lontani dai mostri che popolano gli incubi delle persone. Uno di loro, un maschio dalle scaglie violacee striate di bianco e lilla, si avvicina più degli altri alla Furia Buia, che in quella forma appare minuscolo e inoffensivo, rispetto alle mastodontiche moli di quelli che, John capisce, sono poco più che cuccioli.
Il drago allunga il muso piatto e allungato, le narici dilatate all’interno delle quali danzano riflessi rossi di fiamma covante. John resta immobile, rigido, fidandosi della Furia Buia che non appare per niente allarmato dalla vicinanza del piccolo drago.
John lascia che questo lo annusi, che gli scompigli i capelli col fiato bollente e poi, incredibilmente… starnutisca. Piccole lingue di fuoco danzano a pochi centimetri dal viso di John, che quasi si sbilancia e cade in acqua mentre il drago arretra velocemente, continuando a starnutire in maniera così buffa che John sorride divertito.
Lentamente, la Furia Buia cala ancora di quota, e all’improvviso John avverte uno strattone all’altezza della caviglia.
-Non di nuovo…-
La coda della Furia Buia lo tira giù, lascia che rotoli sulla sabbia, tra i granelli d’oro pallido. Quando John si ferma con un’imprecazione e solleva la testa, pronto a scagliarsi contro il drago, vede la Furia Buia camminare lentamente verso l’orizzonte dell’oceano, con l’acqua che gli abbraccia i polpacci da rettile e ad ogni passo continua a salire.
Sulle squame luminose, il sole picchia forte, tanto da far sì che queste rispecchino tutto intorno piccoli cristalli di luce variopinta, come di cristallo bagnato dalla luce. Sulla pelle, giochi di luce ed ombre che accentuano l’armonioso intrecciarsi di umano e bestia, il confondersi di squame e pelle, il brillare delle corna ad anelli, appena simili a quelle dell’antilope.
John ne resta affascinato, senza fare rumore siede sulla sabbia e osserva l’acqua tagliarsi all’affondare delle squame, il dolce riflesso delle membrane alari, gigantesche come ombre soverchianti.
Tre dei “piccoli” draghi che poco prima volavano con loro, atterrano sulla spiaggia. John chiude subito gli occhi quando li sente avvicinarsi, per ripararsi dalla tempesta di sabbia che lo investe e quasi lo scaglia via. Si aggrappa forte al suolo, irrigidisce i muscoli, ma non si sposta, nemmeno quando piccoli passi si avvicinano… passi umani.
John apre subito gli occhi, incontra quelli lilla di un bambino dai corti capelli viola scuro, in tutto e per tutto simile a Sherlock: anche lui ha file di piccole punte acuminate che ne delineano la mascella, ma le corna sono appena visibili e le scaglie molto meno evidenti. Dimostra otto anni.
È questo che combattiamo? Dei bambini?
Davanti a quella consapevolezza, John si sente male: quelle creature sono così simili a lui, così vive, così… umane. Hanno occhi intelligenti d’umano pensante, non di bestia accecata dalla perenne ferocia. E quelle sono mani di bambino, pelle ricoperta da cicatrici. Appena sotto l’occhio luminoso del cucciolo, John scorge la cicatrice lasciata da un arpione che avrebbe potuto accecarlo.
Alle spalle del bambino, anche gli altri due diventano umani. John guarda le moli diminuire, le scaglie ritrarsi nella pelle, le ossa spostarsi e armonizzarsi a un funzionale fisico umanoide, che faticosamente si allarga, respinge i musi lunghi e affusolati nel cranio, lascia emergere capelli colorati del colore stesso delle squame. I visi emergono, le braccia rimpiccioliscono, piccoli nasi all’insù si arricciano dal fastidio. Solo le ali restano immutate. Rimpiccioliscono appena, ma non si armonizzano granché alla piccolezza di quei corpi così facili per il vento da trascinare via.
Gli occhi di John si posano sul bambino che un tempo era stato un drago verde smeraldo: ha due teste identiche, così come le aveva la sua forma da rettile. Non è brutto, solo… insolito.
I bambini lo circondano, quello con due teste gli gira intorno incuriosito. Uno lo annusa, facendogli il solletico al collo. John ridacchia, e subito il bambino dai capelli viola siede al suo fianco e lo guarda, cercando di imitare la sua posizione. Alle sue spalle, i suoi amici hanno ormai perso interesse per John e corrono spensierati sulla sabbia, inseguendosi e ridendo divertiti, come normalissimi bambini.
Guardandoli, John ripensa al libro sui draghi che ha letto qualche settimana prima. “Uccidere a vista”. Dei bambini. Vivi, pensanti, che ridono e giocano come piccoli umani.
-Tutto quello che sappiamo su di voi… è sbagliato.- mormora infine, gli occhi sbarrati e il cuore a mille.
Sposta lo sguardo sulla Furia Buia, immerso nell’acqua fino alla cintola, col capo inclinato che fa scivolare i capelli sul viso, nascondendolo alla vista. I muscoli sono delineati, appena in tensione, e le ali appena spiegate. La fasciatura bianca, che John capisce ha tappato fin troppo bene il taglio che lasciava passare l’aria, permettendo al drago di volare di nuovo, è rosata dal sangue.
A John si forma un groppo in gola al pensiero che ormai, la Furia Buia è libero. Adesso può volare, riprendere la sua vita, solcare il vento come è sempre stato. E questo è… terribile.
John ripensa alla sua vita prima dell’incontro col drago: grigia, buia, soffocante. Poi, improvvisamente, i colori sono tornati, riflessi negli occhi di diamante del drago, e l’aria pulita ha soffiato di nuovo laddove stantio e rarefatto cercavano di soffocarlo. Ma deve lasciarlo andare. Ha fatto tanta fatica per allontanarlo dal pericolo, per rinunciare ai suoi sogni di grandezza tra gli esseri umani, e adesso non può ripensarci. Ha scelto, ha perseguito il suo obbiettivo. È giusto così.
-Piangi?-
Una voce sottile e cristallina lo fa sussultare. Il bambino al suo fianco, ora sollevato sulle ginocchia, allunga appena una mano piccola e squamata sul dorso per toccargli la guancia con un indice. Ritira il dito, osservando la minuscola, inaspettata lacrima alla luce brillante del sole, poi torna a fissare John con l’insistenza che solo i bambini possiedono.
-Perché piangi?- chiede ancora, ma John scuote il capo. Non conosce risposta, rifiuta ogni possibile probabilità e semplicemente sorride, asciugandosi gli occhi con la manica sbrindellata del maglione.
-Niente, mi è andato qualcosa nell’occhio.-
E allora il bambino sorride, facendo brillare i denti bianchissimi. –Forse Sherlock ti ha fatto volare dritto in una tempesta di sabbia! Sarebbe da lui, sai? A proposito, sei suo amico?-
-Sherlock?-
John sbatte le palpebre, fissa il bambino come se lo vedesse per la prima volta. Lui restituisce lo sguardo, incuriosito.
-Sì, Sherlock.- dice, poi indica la Furia Buia, ancora immobile con l’acqua che si apre lucente intorno alla sua figura longilinea. John gli fissa la schiena e fa il possibile per non scivolare con lo sguardo più in basso, mentre le labbra ripetono armoniose l’intricata parola che ora l’umano sa essere il nome della Furia Buia.
-Sherlock. Sherlock.-
E allora, complice l’udito sopraffino, la Furia Buia lo sente e volta appena il capo per fissarlo con un affilato occhio cristallino. Lo giudica, lo studia diffidente, ma stavolta John non ha paura e sorride.
-È un bellissimo nome.- dice senza timore, alzandosi in piedi. Incurante dell’acqua ghiacciata, affonda nell’oceano, cammina finché non ha i fianchi bagnati e finalmente raggiunge il drago. Quello distoglie lo sguardo da lui, fissa l’orizzonte, ma John non può non notare l’ombra d’aurora boreale che oscura il cielo sopra la sua testa: una gigantesca ala lo copre dal picchiare insistente del sole, dipingendo l’acqua tutta intorno di un oceano di riflessi, brandelli d’arcobaleno strappati al cielo e piovuti in terra, laddove soltanto a un unico uomo è concesso di guardarli.
E improvvisamente, John si rende conto del percorso apparentemente breve che ha percorso faticosamente, del suo vecchio ego che l’ha quasi spinto a decapitare quella creatura forgiata dal cielo e dal fuoco. Avrebbe volentieri ammazzato quei bambini, in passato. Avrebbe ucciso Sherlock, se solo qualcosa non gli avesse fermato la mano.
E adesso, Sherlock non si fida.
-Hai ragione.- dice. –Sono stato egoista e stupido. È vero, pensavo solo a me stesso quando… quando ti ho ferito. Volevo riaffermarmi tra la gente, riavere indietro il nome al quale mi ero tanto affezionato. Capitano, generale. Soldato. Ma ora so che mi sbagliavo. In realtà, nel profondo del cuore, l’ho sempre saputo. Se solo avessi guardato indietro, se solo avessi capito che la terra da noi fatta a pezzi, dilaniata, estirpata dalla sua stessa natura… era vostra. Voi la rispettate, la aiutate a rinascere, a guarire dalle sue stesse ferite, mentre noi sappiamo solo appassirla. Io…-
-Non tutti.-
John fissa Sherlock, si riempie gli occhi dell’immagine fiera del drago, delle sue pupille verticali improvvisamente fisse su di lui.
-Non sono tutti così.-  
All’istante, il cuore di John fa un balzo, si gonfia a dismisura, dilatato da emozioni indescrivibili che quasi gli ostruiscono le vie respiratorie.
Sherlock non lo guarda, non pare imbarazzato dalle sue stesse parole. Forse non sa neanche il valore che hanno per John, ma… è la totale naturalezza con cui le ha dette. Non è abituato a esprimere i suoi sentimenti, non l’ha mai fatto. È sempre apparso come una macchina gelida, un robot senza emozioni, calcolatore in ogni suo gesto. Eppure, adesso è diverso, John lo capisce. Quelle parole, per quanto apparentemente insignificanti, valgono più di tutto l’oro del mondo.
Facendosi coraggio e rispondendo a un istinto mai provato prima, John allunga una mano ferita e dolorante per toccare gentilmente quella del drago. Intreccia le loro dita, ignorando la totale rigidità che ha pervaso il corpo di Sherlock, facendogli sbarrare appena gli occhi e scudisciare nervosamente la coda.
-Siete diversi. Forse non tutti, ma… insomma, è come con gli uomini. Ci sono buoni e cattivi, no? Per i draghi è lo stesso.-
Adesso John lo fissa, si riempie gli occhi del nervosismo di Sherlock, delle sue pupille esageratamente ristrette, dei tendini del collo così in rilievo a causa della tensione. È bellissimo, intelligente e magnificamente arrogante. Tante caratteristiche che compongono tasselli importanti, preziosi, utili a un unico, grande disegno.
John vorrebbe parlare, dirgli quanto è cambiato per lui il mondo, una volta scoperti gli occhi del drago che ha dinanzi. Ma le parole non bastano, non basteranno mai. È qualcosa che striscia sulla pelle, che muove le sue appendici fino all’animo e lo dilata, ne espande la leggerezza.
Senza pensare, John si piazza davanti alla Furia Buia, gli appoggia una mano sulla base del collo squamoso. Sherlock lo guarda incerto, non comprende dove voglia concludersi quel percorso fisico che personalmente non capisce, che lo innervosisce e riempie di fuoco assopito la bocca sigillata. Semplicemente, fissa quel piccolo, coraggiosissimo umano e senza sapere perché, risponde alla sua gentile pressione, che lo spinge a chinare il busto su di lui.
Sherlock non capisce certe cose.
Sherlock non ha mai vissuto un contatto diverso da uno scontro fisico.
Nel suo Palazzo Mentale, alcuni dati riguardanti le relazioni civili mancano, come falle incolmabili che non si è mai preoccupato di riempire. Non è mai stato un problema suo, non gli è mai interessato. Eppure adesso, un campanello d’allarme lampeggia nel suo cervello, lo avverte che qualcosa sta per cambiare, che per la prima volta, sarà sua l’esperienza della totale assenza di ragionamenti.
E così accade.
Il cervello si spegne, il Mind Palace cade momentaneamente nel vuoto mentre labbra morbide di giovane uomo si appoggiano esitanti e gentili sulle sue.
 
Angolo dell’autrice:
E adesso attendiamo la reazione di Sherlock. Premetto che io stessa non so come reagirà, ma spero, almeno per ora, di non aver sforato dal personaggio. In effetti, Sherlock è un carattere difficile da gestire, ma non posso farci niente… è sempre un amore, anche quando insulta le persone. Comunque, devo scusarmi per il ritardo, ma lo studio mi sta lentamente ammazzando, e spesso per non mancare l’aggiornamento scrivo anche di notte. Purtroppo stavolta non ce l’ho fatta, perdono! Ma ora passiamo ai ringraziamenti per i bellissimi angeli… anzi no, per gli splendidi draghetti che mi aiutano sempre a combattere il mio continuo calo di autostima, spingendomi a pubblicare ogni volta capitoli nuovi e (spero) apprezzati! Un ringraziamento dal profondo del cuore a:
Kimi o Aishiteiru
Swindle
Little Fanny
Tony Stark (iron man per gli amici!)
Bbpeki
NTonks

A voi dedico ogni mia fatica e a voi rivolgo il ringraziamento più grande del mondo. Grazie, spero vivamente di leggere ancora i vostri pareri su questo nuovissimo scritto!

Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 6
*** Affrontare Il Dolore ***


Di cosa sono fatte le emozioni? Di palpabile materia fatta di lacrime e sorrisi, o di silenziosi sentimenti trattenuti, invisibili? Sherlock se lo chiede da sempre, ma non ha mai ottenuto la risposta che cerca. Ha fatto esperimenti, ha testato instancabilmente su soggetti diversi, ma l’unica cosa che è stato in grado di realizzare, è che quella delle emozioni non è una scienza esatta. Anzi, non è neanche una scienza. E Sherlock odia tutto ciò che fuoriesce dalla sua comprensione.
Hanno sempre lottato, lui e i sentimenti. Solitamente vince lui… ma le emozioni adesso si rivelano infine più potenti di quanto Sherlock stesso abbia mai immaginato. Si sente schiacciato, in subbuglio, col petto gonfio di qualcosa che non riconosce mentre quel contatto caldo, piacevole e inaspettato lentamente si sottrae alle sue labbra. John rilassa il corpo, fino a quel momento rimasto in tensione per raggiungere il volto del drago. Socchiude gli occhi lucidi d’emozione e sorpresa per il suo stesso gesto, e Sherlock quasi non lo vede, quasi non lo sente mentre John lo chiama preoccupato.
Qualcosa è cambiato, qualcosa si muove nel Mind Palace del drago. Un interruttore scatta, tutto si riattiva e i pensieri tornano, affollano le stanze, ricoprono le pareti, e improvvisamente, l’ordine maniacale che ha sempre costruito il Mind Palace, crolla di schianto.
La reazione è istintiva, dettata dall’insano dominio del panico. Le ali si spalancano, artigli d’acciaio afferrano John per le braccia e in un unico, possente balzo, Sherlock si leva in volo, sfreccia più veloce della luce attraverso le nubi, tagliando l’aria, spaccando la barriera del suono.
Ogni suo arto si trasforma in purissima macchina aerodinamica, i polmoni si dilatano, la ferita all’ala brucia come fuoco sulla pelle, ma Sherlock non si ferma. Accelera ancora, spinge i muscoli al massimo, attraversando miglia e miglia in pochi nanosecondi, tanto che l’intera traversata che all’andata è costata per loro ore intere, è ormai percorsa in un istante.
La Furia Buia atterra di schianto, spacca facilmente il pavimento sottostante con artigli ricurvi che per il nervoso affondano ancora mentre John crolla bocconi al suolo e si volta appena, ancora sconvolto fissa il drago con occhi sbarrati.
Si sarebbe aspettato di trovarci un mare di odio in quegli occhi, l’implacabilità soverchiante di un drago infuriato, di una creatura irraggiungibile malauguratamente toccata da riverenti labbra umane. Ma non va a finire così: è uno sguardo nuovo, quello nel quale si specchia John, qualcosa di inaspettato che lo sconvolge ancora di più e gli rovescia le interiora in un capovolgimento violento come di uragano passeggero.
Lo sguardo di Sherlock è lucido, intriso di emozioni che evidentemente, il drago cerca di combattere. La confusione di chi ha a che fare con qualcosa di nuovo e sconosciuto, John la conosce bene. Si sentiva così, quando approdò per la prima volta in guerra. Ma questa non è una guerra… o sì? Quale battaglia interiore sta combattendo Sherlock lì, davanti ai suoi occhi?
John tende una mano pentito, socchiude gli occhi in vana ricerca di perdono. Ha paura di perderlo, paura di vederlo sparire una volta per tutte. Adesso che l’ala è sana e che lui ha ormai consumato in un colpo la già vacillante fiducia che Sherlock gli aveva affidato, non c’è niente che trattiene il drago lì. E questo fa paura, John teme la decisione dell’unica tangibile ragione di vita che lo aiuta a restare in piedi, a camminare eretto, fiero, senza più bastone. Perché ormai, John lo sa: Sherlock gli ha restituito ciò che mai nessun essere umano avrebbe potuto donargli.
Ha osato troppo, ha agito d’istinto quando non doveva.
-Sherlock, mi disp…-
Ma le ali si spalancano come oscure cappe da boia, una folata di vento lo spazza via, mandandolo a schiantarsi di schiena contro il muro e all’improvviso, la Furia Buia non c’è più: John non ha bisogno di chiedersi quando tornerà, né se è nelle vicinanze come al solito, come è sempre stato. Il freddo che avverte l’ex soldato, segnala la ritrovata solitudine, l’insano peso della sofferenza che poco a poco lo assale, gli schiaccia il petto sotto macigni di piombo.
E all’improvviso, John sente di non poter quasi più respirare. Si porta le mani al petto, tossisce, lotta efferato contro un dolore soverchiante che s’insinua sotto la pelle, oltre le ossa, fino al cuore, dove il battito impazzito segnala l’ansia di bestia ingabbiata.
Per molti, ci sono momenti in cui il mondo dovrebbe interrompere la sua corsa. Alcuni pensano che chiunque dovrebbe fermarsi a guardare, a pensare, ad ascoltare. Ma il mondo gira, continua incurante la sua corsa e, nella sua onnipotente grandezza, non s’accosta a guardare le sofferenze dei suoi abitanti.
John si chiede perché. L’ha sempre fatto, se lo domanda anche adesso. Ha freddo, è abbandonato, dilaniato e a stento respira. Dov’è il mondo, adesso? Gira ancora o si è fermato? John non lo sa, forse non gli interessa più saperlo.
Continua a rivedere quegli occhi. Come in un incubo, gli basta sbattere le palpebre per poterli ricostruire con precisione minuziosa, quasi malata. Quante volte l’ha osservato? Tante, troppe. Potrebbe disegnare ad occhi chiusi quelle labbra, quel volto, il pallore lunare della pelle che dal bianco madreperlaceo si converte poi in possente arcobaleno oscuro riflesso su scaglie d’acciaio. È un pezzo di vita che sparisce, che a ragione gli volta le spalle. E a John non resta che accasciarsi senza però spezzarsi, fiero della sua stoica resistenza di soldato. Deve soltanto aspettare che il respiro torni, che quel momento si aggiunga al forziere sigillato dei ricordi spettrali che popolano ormai gran parte della sua misera vita.
Combatte, John, ma stavolta non si rialza in fretta come vorrebbe. Fa perno sulle gambe per rimettersi in piedi, digrigna i denti per gli spasmi di dolore che dalla spalla scivolano giù, fino alla coscia. È un dolore nuovo, più forte del precedente, ma John non si arrende. Ha strisciato più volte per le macerie di una vita lasciata a metà, e non si è mai fermato. Non comincerà adesso.
John si raddrizza, strizza forte gli occhi per schiarirli dall’opacità che li offusca. Poi, cautamente ma a testa alta, si dirige verso l’uscita della rimessa. Se la lascia alle spalle, non guarderà più indietro. È un pezzo di storia, un frammento quasi insignificante di tempo prezioso più del diamante, più di una vita intera. Ma è giusto lasciarlo andare, è giusto superare… se sarà mai possibile superarlo. John sa di illudersi, ma ignora la realtà.
Zoppica ancora, avanza tra la gente smagrita, con occhi sbarrati di troppi orrori visti e vissuti. C’è grigio ovunque, grigio nell’anima delle persone stesse. Eppure i colori, John li ha visti. Dov’è adesso quell’intreccio d’arcobaleni e aurore boreali? Dove sono i cristalli intangibili di luce screziata, lo splendore di squame variopinte e la freschezza dell’acqua sulla pelle?
La mano brucia, gli ricorda che manca qualcosa. Abbassando lo sguardo, John la vede sanguinare e tremare. Per brevi istanti, compare l’immagine di un altro palmo che si sovrappone al suo, gli sfiora le dita con artigli d’acciaio che tuttavia non feriscono.
Ora quegli artigli non ci sono più.
Manca quella coda longilinea, che sapeva avvolgergli le caviglie e rovesciarlo senza sforzo.
Nessun’ala ferita, nessuna voce petulante che giudica, che insulta velatamente, che culla inconsapevolmente le sue giornate.
Niente. Adesso c’è silenzio nella sua testa, nella sua vita: tutto tace, e il buio rientra.
Qualcuno lo guarda di sfuggita, altri lo fissano con compatimento, osservano comprensivi la sua gamba abbandonata. Giudicano, pensano di sapere. Ma loro non sanno niente. Sono persone, creature misere fatte di carne e sangue. Non concepiscono il valore della vita, né tantomeno quello della morte. Per loro uccidere è semplice, ma morire appare impossibile. Poi, quando accade l’impossibile e il cuore di un caro si ferma, allora un’ombra scende sui loro volti, nel loro sguardo.
Sono sempre stati vuoti, gli occhi della gente? Perché appaiono così diversi da quelli vivi e lucenti dei draghi? Solo adesso John capisce quanto l’ha cambiato quel banale incontro, quello sguardo luminoso di cristallo brillante che ha saputo scavargli l’anima, ascoltare la sua voce, vivere attraverso di essa la sua intera esistenza.
La porta di Baker Street si apre, John la spinge con fatica da anziano. Entra in casa dopo quelli che sembrano secoli, respira quell’aria rarefatta che sa di umano, di artificiale. Di grigio. È come la fine di un sogno, che riconduce infine all’atroce ritorno alla realtà.
-John?-
Mrs Hudson compare sulla soglia, lo fissa con occhi sbarrati di lucide lacrime. Le tremano le mani, le labbra strette di chi ha paura di lasciarsi andare al pianto. Non si muove, non si azzarda, ma il suo sguardo scivola sulla mano massacrata di John, appoggiata al muro per sostenere il peso di un corpo improvvisamente troppo pesante. Lo fissa poi in viso, e l’ex soldato la vede rabbrividire, quando scorge nei suoi occhi qualcosa che non dovrebbe esserci.
Si accorge soltanto adesso che è quasi sera. È mancato per quanto? Una notte di sicuro. Un giorno, anche. E chi manca per tanto tempo a Londra, solitamente viene poi bollato come disperso o, più probabilmente, ucciso dai draghi. Si sente egoista, stupido, incosciente come mai è stato in vita sua, neanche da bambino. Ha considerato soltanto Sherlock e il suo viaggio verso il cielo, senza pensare a coloro che restavano a terra.
-Mrs Hudson, io…-
Ma Mrs Hudson non parla, non gli lascia neanche il tempo di finire la frase. Rientra in casa di corsa e ne esce subito dopo con qualcosa stretto tra le mani. Con la tipica dolcezza della madre che non è mai stata, avvolge le spalle di John in una coperta profumata, morbida di bucato, e infine lo abbraccia. Non c’è bisogno di parlare, perché entrambi sanno che quella semplice stretta, vale dieci volte qualsiasi discorso potrebbe uscire dalle loro labbra.
È un abbraccio di madre che consola il figlio.
È un abbraccio di amica che ricuce in piccoli gesti le ferite del compagno.
È un abbraccio di speranza ritrovata, fatta di mani tremanti e gracili braccia di donna anziana che lo toccano, lavano via un po’ del dolore e fanno sentire John più leggero.
Ed è abbandonandosi a quella stretta così familiare, che respinge il grigio dell’umana esistenza, che John si lascia andare. Le restituisce l’abbraccio con mani insanguinate, così diverse da quelle curate e pulite di Mrs Hudson e, poggiata la fronte sulla sua gracile spalla, John singhiozza.
 
-John!!!-
Gregory Lestrade spalanca la porta di schianto, così forte che per poco non crepa la parete. Alle sue spalle, Mike Stamford e Molly Hooper, vecchi amici d’infanzia che John ricorda improvvisamente d’aver dimenticato. Quanto si è lasciato alle spalle del suo vero mondo per inseguire quello dei draghi? Ne è mai valsa la pena?
Guardando i volti preoccupati dei suoi amici, di coloro che hanno ribaltato la città come un guanto pur di ritrovarlo, John sente di conoscere la risposta. Loro ci sono. Sherlock non più.
-Oddio…- Molly oltrepassa un ancora stordito Greg per raggiungere John e buttargli le braccia al collo, stringendolo a sé come ha sempre fatto nei momenti difficili, quando erano bambini e lei non mancava mai di sostenerlo.
Lo strinse quando entrambi persero i loro genitori durante un attacco nemico.
Lo strinse quando John scelse di partire come soldato per salvare delle vite.
Lo stringe adesso che John si sente a pezzi, che frammenti di vita ancora una volta si sparpagliano intorno a lui e poco a poco tornano a raccogliersi tra le braccia dei suoi cari, che ad ogni stretta lo aiutano a rimettere tutto a posto.
 -Scusa, Molly… perdonami.-
John mormora, sfiora le labbra di parole sincere, intrise di un dolore reale, tangibile attraverso gli occhi improvvisamente anziani, sul viso stanco d’uomo che ha vissuto anche troppo.
-Non ho guardato indietro, e di questo mi pento. Alle mie spalle ci siete sempre stati voi, con le vostre preoccupazioni, le vostre voci perennemente colme d’ansia per ciò che vedevate della mia misera vita. Ho lottato come soldato, ho difeso le persone… alcune però, le ho viste morire. E nei loro occhi c’era solitudine, una solitudine che non vorrei mai provare, ma che inizialmente, nella mia stupidità, insistevo a paragonare alla mia. Mi sentivo solo, quando invece alla fine di tutto bastava semplicemente guardarmi indietro per contraddirmi. Voi ci siete sempre stati, e io vi sputo in faccia ogni volta coi miei atteggiamenti, con la mia diffidenza. Se volete arrabbiarvi adesso, fatelo, perché ne avrete ogni ragione. E se ancora vorrete andarvene, non vi fermerò… perché sarebbe giusto.-
Cade il silenzio, solo pallidi rintocchi d’orologio scandiscono il trascorrere dei secondi, dei minuti, forse delle ore. John respira piano, ma ormai non si aspetta più niente: ha sperato in Sherlock, e l’ha visto andar via. Non crederà ancora in qualcuno, perché sarebbe erroneo concedersi speranze immeritate. Semplicemente, John aspetta di sentire il tonfo della porta che si chiude.
-Sei veramente un coglione.-
Greg entra nella stanza, gli rifila un veloce scappellotto dietro la nuca. John sobbalza, lo fissa con occhi sbarrati di stupore mentre l’amico incrocia le braccia al petto e lo fissa di sbieco. Al suo fianco, sopraggiunge Mike, col suo tipico sorriso bonario, d’uomo che non conosce odio, ma soltanto caritatevole gentilezza. Mrs Hudson compare, li supera, si inginocchia. Poggia una mano su quella martoriata di John e sorride.
-John caro, puoi davvero aver dimenticato? Noi siamo sempre stati qui, e qui resteremo. I tuoi amici sono dei tali testoni, non si stancano mai di venire qui, fosse anche per chiedermi soltanto come ti senti. Nella tua forzata solitudine, hai voluto vedere ciò che gli occhi ti concedevano, ma questo soltanto perché ti ostinavi a fissare un muro vuoto, senza considerare che al tuo fianco qualcuno c’è sempre stato.-
Mrs Hudson si specchia nei suoi occhi, gli carezza una guancia con dolcezza di madre.
-Qualunque cosa sia successa, qualunque sia il problema da affrontare… tu combattilo. Sei il miglior soldato del mondo, John caro, e ti conosco da tanto tempo: non spezzarti proprio adesso. Se devi piegarti sotto il peso di qualcosa più grande di te, ricorda che qui c’è qualcuno disposto a rialzarti.-
 E infine, davanti a quelle parole, a quel calore che John scopre appartenere all’uomo quanto ai draghi, i piccoli frantumi d’esistenza scivolano al loro posto. Ancora crepati, ancora traboccanti di danni e dolore… ma almeno, uniti come prima. Magari basterà un po’ di colla di speranza, o la pazienza che solo i suoi cari lì presenti hanno sempre saputo dimostrare, ma forse non tutto è perduto. Da qualche parte nel mondo degli uomini, da qualche parte in lui, c’è speranza, e John non può che sentirsi sollevato, ricostruito, anche se ancora zoppo e mal funzionante. Ma, almeno per ora, sa di essere integro.
-Ah, Greg?-
-Mh?-
-L’assassino che cercavi. So chi è.-
§§§§
-Sherlock.-
Una voce di bambino, grandi occhi violetti che lo fissano. Sherlock non ci fa caso, lo ignora deliberatamente. Continua a fissare il mare, l’andamento sicuro delle onde che, pur scontrandosi contro la riva, non si stancano mai di ripetersi. Mormorano, si schiantano, insistono. E agli occhi del drago appaiono instancabili.
Non riesce a pensare bene, non collega logicamente gli ultimi avvenimenti. Le sue stesse decisioni appaiono anomale, come prese da uno sconosciuto impossessatosi del suo corpo. Il Mind Palace vibra di disordine, di confusione, di tasselli mancanti che poco a poco lo deteriorano. E Sherlock sente che qualcosa và in pezzi, che quei tasselli mancanti non gli appartengono nemmeno. Vuole ritrovarli, ne ha bisogno. Ma dove cercare?
-Sherlock!-
Il bambino gli tocca leggermente un braccio, guadagnandosi un’occhiata infastidita. A Sherlock non piace essere toccato, lo sanno tutti. Chiunque lo evita, chiunque sa che lui non è un soggetto socialmente trattabile. Ma ai bambini non interessa, finché gli presti un briciolo di attenzioni. Agli occhi dei piccoli si è sempre interessanti, sempre piacevoli, come giocattoli nuovi e coloratissimi che si tingono di parole e gesti sempre inaspettati.
Sherlock non li capisce, lui bambino non lo è mai stato davvero. Se la ricorda, l’infanzia. Grigio totale, dove un piccolo drago troppo veloce, troppo intelligente e troppo petulante finiva sempre in un angolo mentre gli altri bambini giocavano, ridevano, vivevano. E nessuno si interessò mai a quel bambino, neanche quando diventò ragazzo e infine giovane uomo. Il suo essere velocissimo, oscuro e schivo, aiutò soltanto il tempo a trasformarlo in creatura fugace come aria, inafferrabile come il tempo che scorre.
Ma poi… c’è un punto della storia che si interrompe, che cambia. È lì si forma il nodo che Sherlock non è capace di sbrogliare.
Quell’umano. John. Comune, comunissimo bipede. Forza praticamente nulla, senza ali, grandi occhi azzurri che nella loro luminosità appaiono punti luce nel grigio artificiale della sua razza. Non è come gli altri, Sherlock lo sente.
Ha tanta pazienza, John. Tanta testardaggine, un’infinita dose di pietà. Ed è questo che Sherlock ha visto in lui. Questo, e molto altro. Neanche i membri della sua razza sono così comuni, così anomali. E John è stato un colpo di forza che ha fatto tremare la sua intera logica, la sua freddezza. Cosa è cambiato davvero, Sherlock non sa dirlo. Ma di una cosa è certo: i cambiamenti non gli piacciono.
Giunge le mani sotto il mento, chiude gli occhi e ascolta le onde del mare. Le sente urtargli l’anima, carezzare il suo Mind Palace. Il mare può ripararlo, può restituirgli i pezzi mancanti?
-Il tuo amico tornerà?-
Sherlock apre un occhio spazientito, fissa di sbieco l’irritante bambino che lo fissa con quattro incuriosite iridi violette. Sherlock lo studia.
Cicatrici alle ginocchia, sui gomiti: scavezzacollo.
Macchia d’erba sull’orecchio destro: ha corso nella prateria poco distante, Sherlock lo riconosce dall’odore particolarmente forte, tipico dei fili verdi che la popolano.
Taglio da artigli sulla guancia: azzuffatosi da poco con qualcuno della sua età.
Deduzioni, deduzioni, deduzioni. Ne ha altre mille a disposizione, ma niente di interessante. Quel bambino è ordinario, come tutti gli altri.
-No, non tornerà. Ora, sparisci.-
Ma il bambino non si arrende, incrocia le gambe squamate e continua a fissare Sherlock.
-Perché no?-
Sherlock si sforza di mantenere la calma, anche se la coda freme per scaraventare via quel moscerino che gli impedisce di chiudersi a doppia mandata nel suo Mind Palace.
-Perché ho deciso così.-
-E perché hai deciso così?-
-Torna a correre nella prateria qui vicino, non ho tempo da perdere con chi come te possiede un quoziente intellettivo così basso.-
-Oh… allora quel signore doveva essere davvero intelligente.-
Il bambino si alza sotto lo sguardo adesso attento di Sherlock. Entrambe le teste sorridono, una piccola mano squamata si posa senza timore sulla sua spalla. Sherlock la guarda, si sente strano. Nessuno l’ha mai toccato, nessuno ci prova mai. Solitamente gli basta uno sguardo per mettere in fuga chiunque e scongiurare qualsiasi tentativo di approccio. Eppure, quel bambino non ha paura di lui, delle sue deduzioni. Somiglia molto a…
-Come ti chiami?- domanda Sherlock, e il bambino sorride.
 
Angolo dell’autrice:
Allora, posso spiegare. In realtà il bambino a due teste NON dovrebbe essere un personaggio principale, ma ho notato che molti l’hanno apprezzato particolarmente. Ora, lascio a voi la decisione: vi piacerebbe vedere il fantomatico bamboccio diventare parte integrante della storia?
Sherlock: no. Dite di no o vi riempio le pareti di casa di pallottole.
Silenzio, tu! E torna a indossare il costume da drago!
Sh: ma le squame prudono. E trovo altamente illogico che debba recitare mezzo nudo. Insomma, non potevo avere le squame anche sul davanti?
John: non ti permettere.
Sh: ma John…
John: te lo spiegherò quando sarai più grande…
La finite?! Tornate a litigare nell’altra stanza! E intanto ricostruitemi la parete, maledetti schizzoidi!!!
Ehm, dicevamo? Ah, sì! Spazio ai ringraziamenti per gli splendidi draghetti che hanno avuto la pazienza di commentare e l’ardire di leggere questo schifo! XD
Sparrow: tranquilla, non ho accelerato i tempi. Se per John le cose cominciano a chiarirsi, per Sherlock è l’esatto opposto. Lascerò che si ammazzino ancora un po’ prima di unirli a dovere, promesso. Comunque, grazie davvero per il commento e per i complimenti. Spero vivamente che questo capitolo ti sia piaciuto. A prestissimo!
Little Fanny: ed ecco la reazione che aspettavi. Insomma, Sherlock non è esattamente il tipo che si butta a capofitto in una relazione, specialmente se il suo incubo sono proprio i sentimenti. Ma, ehi! Possiamo biasimare John per aver tentato? Stiamo parlando di un signor figo straintelligente, strabello, stratutto! E sì, chi non lo vorrebbe John come dottore? Sicuramente il lavoro non gli mancherebbe… comunque, spero di aver mantenuto decentemente il carattere di entrambi che, lo ammetto, in questo capitolo si è rivelato veramente difficile. Ma ehi, ci ho provato! E per farti un regalo, rieccoti il bambino a due teste. Spero di non aver fatto un guaio inserendolo… grazie ancora per la splendida recensione, come al solito non manchi mai di commentare e di darmi quella piccola spinta in più per scrivere ancora. A presto!
Swindle: ehm… in realtà il Mind Palace di Sherlock si spegne perché baciandolo, John ha toccato un tasto sbagliato. E come hai potuto vedere, si è scatenato il panico. Insomma, è Sherlock! Coi sentimenti ci fa a cazzotti tutti i giorni. Ma spero di non aver esagerato facendolo reagire così… grazie per il commento e per la pazienza che impieghi ogni volta per leggere i capitoli! A presto!
Bbpeki: ehi, un po’ di ecologia in ogni capitolo non fa mai male! E comunque, anche io vorrei un cucciolo di drago, ma sono piuttosto difficili da accudire, specialmente quando hanno il raffreddore. Io sto ancora finendo di spegnere incendi, qui. E Gabriel non aiuta! GABE, POSA QUEI PEPERONCINI!!! NON E’ UNA GARA A CHI SPUTA PIU’ FUOCO!!! Sì, ti ho distrutto la parte del bacio, vero? Non sono cattiva, è che mi disegnano così! Ma mi farò perdonare, promessissimo! Ehi, è un piacere faticare tanto per scrivere, se poi alla fine trovo commenti come il tuo. E tranquilla, una volta finita questa storia e se sarà fattibile, scriverò un cross-over tra: “Dal cielo e dalla terra nacque l’alba”, “How to train your Sherlock” e “Tic Toc, the death’s a clock”. Se sarà possibile XD oddio, la trama ce l’avrei già… comunque, lasciamo perdere. Concludo col ringraziarti per lo splendido commento, che come al solito non delude mai! A presto!
_Jatto_: allora, prima di tutto, ciao anche a te. XD e non posso che ringraziarti per il commento. Le tue parole sono… commoventi. Il fatto che tu riesca a vedere i personaggi così come li descrivo; questo mi fa piangere. Cerco tutte le volte di impegnarmi al massimo, ma ho sempre l’impressione che il risultato non sia dei migliori. Le tue parole mi smentiscono. E per questo, ti ringrazio col cuore. Grazie. Ah sì, in realtà io studio illustrazione, quindi anche se non disegno benissimo, un paio di linee dovrei saperle fare… credo. Spero. E sì, prima di iniziare a scrivere ho fatto diversi schizzi di Sherlock, che mi aiuteranno anche per i prossimi capitoli. Poi capirai come. Se riuscirò a postare uno dei disegni, lo farò! A presto!
Neryssa: oddio, innanzitutto auguri per i nipoti in arrivo! E tranquilla, i capitoli sono sempre qui e non scappano. Leggi con calma se hai voglia e tempo e sempre se hai voglia e tempo recensisci. Ehm… cosa avevi detto riguardo a Sherlock? Quella cosa del NON farsi prendere dal panico… ecco, sì… fingi che ti abbia ascoltata. E… aspetta, i cuccioli di Sherlock??? Mio dio, no! Ce lo vedi a sostenere una gravidanza? Sarebbe il peggiore dei genitori, credo. Comunque, per farti felice ti ripropongo il bambino a due teste, spero che sia piaciuto. Ma ti ringrazio per l’incoraggiamento finale, mi auguro che tu non debba rimangiartelo dopo questo capitolo del cappero XD a prestissimo e grazie mille!
FKk: oddio, io spero sempre che di errori nei miei capitoli non ce ne siano, ma non ho mai il tempo di ricontrollarli. Ma il tuo commento è incoraggiante! Comunque, che idea hai avuto? Devo sapere, sono curiosa!!! Comunque tranquilla, il nuovo capitolo è qui e ti aspetta. A prestissimo, e grazie!

Tomi Dark Angel
 
 
 

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Capitolo 7
*** Per una tazza di tè ***


-Ecco a voi. Bevete con calma, o vi scotterete la lingua.-
Mrs Hudson poggia il vassoio sul tavolino, porge due identiche tazze fumanti a John e Molly.
-Grazie.- sorride la ragazza, afferrando la tazza a due mani, come se temesse di frantumarla. Abbassa timidamente gli occhi, dolce come John la ricorda, riservata come l’ha conosciuta. È cambiata molto, Molly, ma nonostante il dolore vissuto e le debolezze affrontate, non ha mai perso il suo sorriso di bambina. È come un piccolo sole, un germoglio rigoglioso laddove arido deserto dimora.
-Ahi!-
John si lamenta, incastra tra i denti la punta ustionata della lingua mentre Mrs Hudson si imbroncia e assume un cipiglio severo di madre. –Ti avevo detto di bere piano. Sei peggio di un bambino.- sbotta, trattenendo faticosamente un sorriso.
John espira rumorosamente dal naso e rilassa i muscoli, allentando la presa delle mani ferite sui braccioli della poltrona. Mrs Hudson gli carezza un avambraccio, evita di sfiorare le bende appena cambiate e ancora candide, calde di pelle umana. Non le tocca mai, non accetta il silenzio che sigilla le labbra di John ogni qualvolta l’argomento cade sul perché di quelle ferite. Restano un mistero, oscura realtà nascosta che erige un nuovo muro, un nuovo divario che nasconde la figura già perennemente in ombra dell’ex soldato.
-Vi lascio soli.- mormora, raddrizzandosi. Esce dalla stanza a piccoli passi, silenziosa si chiude la porta alle spalle e allora è solo silenzio, pace, tranquillità.
John osserva Molly, la guarda bere lentamente dalla tazza. Ha gli occhi bassi, luminosi e dolci come quelli di un’amante. John adora quegli occhi perché durante i periodi più neri, lo hanno aiutato a schiarirsi le idee, a illuminare l’oscura via che era diventata la vita. Sono occhi di amica, occhi di giovane donna in sboccio.
-Allora, vuoi dirmelo?- domanda lei dopo un poco. John solleva un sopracciglio, beve cautamente un sorso di tè. Molly si sporge verso di lui, le mani giunte in grembo, la tazza ormai abbandonata sul tavolino davanti a loro. Lo fissa da vicino, come fa sempre quando vuole concentrarsi sulle reazioni dell’amico.
-Il nome della persona che ha salvato il lavoro di Greg.-
John tossisce, combatte strenuamente il sorso di tè andato di traverso. Sputacchia, si dà un piccolo pugno sul petto che s’alza e s’abbassa velocemente, come dopo una lunga corsa. Ha gli occhi pieni di lacrime e la mano usata per colpirsi adesso brucia da morire.
-Che… che razza di domande sono?- sbotta, tra un colpo di tosse e l’altro. Molly sorride genuina, per nulla sorpresa dalla reazione dell’amico.
-Ti ho fatto una semplice domanda. Greg vorrebbe ringraziarla, ma tu non vuoi parlarne.-
-Perché dovrei?-
Molly sospira, appoggia i gomiti sulle ginocchia e posa il mento sulle mani in una posa da bambina curiosa e fintamente innocente.
-Perché ci tieni molto, a quella persona.-
Per brevi istanti, John trattiene il respiro. Ha gli occhi sbarrati, fissi sul tavolino e nelle venature del legno, nel delicato intreccio di riflessi che lo colorano, lui ricorda qualcosa. Quelle venature sottili, potrebbe scambiarle per vene vere e proprie, abitanti di grosse membrane alari e visibili solo alla brillante luce del sole.
Le ha toccate, quelle vene.
Ha toccato il suo proprietario.
Ha baciato le sue labbra.
John chiude gli occhi, inconscio del piccolo sorriso che gli rischiara il volto di una serenità raramente provata. Ricorda quella voce, ne ricostruisce le sfumature variopinte come onde cristalline sulla pelle.
John”. Quella voce lo chiamò, una volta. Disse il suo nome, e in quel momento tanto piccolo, tanto insignificante, John amò in silenzio quell’agglomerato di lettere.
-John?-
Crack. Incantesimo spezzato, la voce non c’è più. John ritorna bruscamente alla realtà, realizza che a guardarlo non ci sono due affilati occhi di cristallo, ma bensì pupille di ragazza, scure, ordinarie. Niente ali, niente coda scudisciante. Niente corna, niente scaglie. Niente.
-Io… sì, scusa. Dicevi?-
Molly gli tocca un braccio, preoccupata.
–Sicuro di sentirti bene? Sei sbiancato…-
-Sì, sto bene.-
John si alza e zoppica faticosamente fino alla finestra. I suoi amici non fanno che domandarsi perché la lasci sempre aperta. Anche quando piove e il vento graffia col suo gelo, John preferisce avvolgersi in una coperta e bloccare le imposte per far sì che non si chiudano. Mrs Hudson cerca sempre di serrarle quando pensa che John stia dormendo, ma lui finisce sempre con lo svegliarsi di soprassalto, fissando il vetro esterno con occhi sbarrati, speranzosi; sulle labbra, sempre un’unica parola, un unico nome al quale si ancora, che custodisce gelosamente sulla punta della lingua senza dirlo mai per intero.
-Dovresti chiudere le imposte, John. Tra poco pioverà.- avvisa Molly, ma John non la ascolta. Guarda in alto, verso il cielo, verso le nuvole. Sa che dietro quella nera cappa di grigio, si celano i colori di ali variopinte e scaglie baciate dalla luce. Forme sinuose di magnifiche bestie che solcano i venti, padroni del mondo, padroni delle ere. Eppure, agli occhi dell’uomo, i draghi sono sempre stati nient’altro che incubi. Se solo avessero vissuto l’esperienza di John, se solo avessero guardato veramente, toccato con mano, teso un braccio amico anziché un’arma… tutto sarebbe diverso.
-Perché combattiamo i draghi, Molly?- domanda spontaneo, le mani appoggiate al davanzale e il viso ancora alto. Molly attende qualche istante prima di rispondere.
-Perché… perché loro uccidono la nostra gente. Distruggono i nostri palazzi, rovinano le nostre vite. Credo.-
-Non pensi che forse… siamo noi a rovinare loro? Non pensi che la nostra sia un’invasione in piena regola? I draghi popolano il mondo da sempre, si dice che siano più anziani anche del pianeta stesso… questo significa che col nostro arrivo è cambiato qualcosa, che il loro territorio si è ristretto.-
-Parli come se ti piacessero, John. Non sarai membro di uno di quei gruppi “salviamo i draghi”, vero?-
John sorride appena, scuote il capo. –No, io… niente, Molly. Niente.-
 
Caro Sherlock
Dio, mi sento così stupido a scrivere qui. Ora tutti possono leggermi, ma la mia speranza è che tu, ovunque ti trovi, con la tua intelligenza sopraelevata… che ne so, spero tu abbia costruito un computer, o cose così. La cosa non mi stupirebbe. Già, non mi stupirebbe affatto. Ma, sono qui per parlare d’altro, prima che ti monti la testa e torni a insultare la mia ordinaria intelligenza che non mancavi mai di rinfacciarmi.
Sai, quando ti conobbi, pensai di aver tirato giù una stella dal cielo. Lo so, è patetico, ma è così. I tuoi occhi, Sherlock. Io guardavo i tuoi occhi e vi scorgevo i meandri del mondo, laddove mano umana non è ancora giunta. Colori. Colori ovunque, brillanti, vivi, come vivo era il tuo sguardo. Credevo di averti salvato, curandoti l’ala, riconducendoti in cielo, dove meritavi di stare, ma… la verità è che io non posso salvare nessuno. Io ero già morto quando ti conobbi. Eppure, sei riuscito a cambiarmi, a scuotermi l’anima così forte da risvegliarmi, da ricondurre in me un soffio di vita, un respiro vivo, e felice di esserlo. E improvvisamente, con tutti i suoi orrori, le sue imperfezioni, i suoi grigi… il mondo non sembrava più tanto brutto. Lo guardavo grazie a te, attraverso i tuoi occhi. E c’erano tanti colori, così tanti che quasi non potevo crederci.
Ho faticato a rimettermi in piedi, è vero. Mi trascinavo per le strade, capo chino e unghie spezzate per il troppo brancolare nell’ombra. Poi qualcuno mi ha afferrato, e giocando mi ha ricordato che ero sano, che alla fine è sempre possibile ricominciare. Ricordi quella volta? Non parlavi ancora con me, ma correvi, sfuggivi alla mia presa per spingermi a rialzarmi. E io non capivo, non osservavo. Semplicemente, ti seguivo, perché era qualcosa che scoprii di saper fare bene, immensamente bene. Oltre i cieli, oltre i mari e la terra: io saprei trovarti, se volessi. Se tu avessi bisogno di me, se solo cadessi di nuovo dal cielo, io sarei lì, a terra, per afferrarti e ricondurti su ancora una volta, verso l’infinito. Ti guarderei sedere al fianco del sole e della luna, col tuo drappo di arcobaleno personale che già una volta usasti per proteggermi dalle intemperie, e lì resterei. Ai tuoi piedi, dove nulla avrebbe potuto ferirti. E, sai una cosa? In cambio, io non chiederei niente. Non un ringraziamento, non una carezza. Mi basterebbe guardarti da lontano e ricordare che tu, con la tua arroganza, la tua astuzia, la tua testardaggine… hai saputo ridarmi la vita.
Ti aspetterò, se vorrai. Ti aspetterò, se avrai bisogno di me. Ma sii libero e ancora una volta, vola alto, verso un cielo che saprebbe accoglierti meglio di me. Vola alto, splendida creatura alata. Vola alto, ma ti prego… non dimenticarmi.
Hound.
 
John chiude il pc, si passa una mano sul viso esausto. Sono le quattro del mattino ormai, e Molly giace addormentata sul divano. John l’ha coperta con delicatezza, troppo intenerito per svegliarla. Gli ricorda una bambina, un piccolo cucciolo spaurito. Ma è meglio che non sappia mai chi è realmente Hound. Ormai la polizia lo cerca, Greg lo cerca, e John non sa cosa accadrebbe se qualcuno scoprisse che è lui l’incitatore delle folle, colui che attraverso un banalissimo blog domanda alla gente se sia giusto o no combattere i draghi. Alcuni dubitano adesso, alcuni si fermano a pensare grazie a lui. E questo gli fa credere che ci sia ancora speranza.
John si alza, raggiunge nuovamente la finestra aperta. Ha tirato vento per tutta la notte, e adesso lui è stanco e infreddolito, ma non chiuderebbe quelle imposte per nulla al mondo. Al contrario, raggiunge il bollitore ormai ricolmo d’acqua bollente, prepara il tè e lo versa in due identiche tazze. Una la appoggia sul davanzale, la lascia lì, insieme alle sue speranze.
-Ti aspetterò.- mormora John con un debole sorriso. E in quel momento sa che sì, lo aspetterà davvero.
 
I giorni scorrono come acqua, e John quasi non se ne accorge. Esce di casa insieme al suo amico Mike, lo ascolta lamentarsi della moglie che probabilmente lo tradisce col vicino. All’occorrenza, passano da Greg, che non manca mai di chiedere aiuto a John: dopo la più che corretta soluzione dell’ultimo caso, l’ispettore non fa che chiedere del detective che l’ha risolta. John non risponde mai, trattiene i suoi segreti e i suoi silenzi. Dopo svariati tentativi e l’intervento tempestivo di Molly, Greg smette finalmente di domandare e semplicemente ignora tutto, aiuta John a distrarsi, gli parla di sciocchezze sempre diverse.
E John pian piano rinasce dalle ceneri, ritrova un sorriso quasi dimenticato. Respira di nuovo aria pulita, ascolta il suo cuore pulsante e ringrazia ogni singolo battito. Eppure, non si arrende. Ogni giorno, con pazienza e prima di andare a letto, prepara due tazze di tè. Una la appoggia sul davanzale, davanti alla finestra aperta. Non se ne dimentica mai, è forse uno dei momenti più preziosi della giornata.
Mrs Hudson ormai ha capito, non domanda più. Quando trova John addormentato sulla sedia della cucina, fermo lì come in perenne attesa di qualcosa, si limita a coprirgli le spalle con una coperta. Gli accarezza il capo, gli bacia la fronte, ma non dimentica l’espressione di serenità che gli dipinge il volto in quei momenti. Mormora a bassa voce, Mrs Hudson lo sente, e riconosce il principio di quel nome tanto importante e altrettanto trattenuto. E prega ogni notte che qualcosa cambi, che qualcuno intervenga per sollevare l’animo del figlio che non ha mai avuto. Giunge spesso le mani, vi appoggia la fronte disperata e a mezza voce esprime una piccola richiesta, un brandello di pietà per un uomo logorato, dal passato lacero e dal futuro incerto.
Dio, se solo esisti… aiutalo.
E infine, non Dio ma qualcun altro, pone un cambiamento.
-John, caro, quanto tè hai bevuto stanotte?-
La voce di Mrs Hudson sveglia John di soprassalto, gli fa sbarrare gli occhi sulla luce troppo forte del sole. John impreca e si copre il viso di slancio, prima di cadere dalla sedia sulla quale si è addormentato.
-Ahia! Mrs Hudson, perché mi avete svegliato?!- esclama, massaggiandosi la testa dolorante. Senza alzarsi, la fissa dal basso, ancora abbigliata in vestaglia e con in mano una tazza vuota. John sbatte le palpebre, cerca di realizzare da dove provenga quella tazza. Fissa la sua, ancora appoggiata sul tavolo, poi quella in mano a Mrs Hudson. E d’improvviso, capisce.
-Mrs Hudson… ha bevuto lei quel tè?- chiede con voce tremante, gli occhi sbarrati ancora fissi sulla tazza vuota.
-Certo che no, John caro. Non sei stato tu?-
John balza in piedi, afferra la tazza e la accosta al viso. Passa un dito sul bordo, inala l’odore mai dimenticato che riconoscerebbe tra mille. Lui quel profumo, l’ha assaporato di persona. E d’improvviso, è proprio quell’aroma a rischiarare la giornata, a far sì che il sole di tinga di sfumature d’oro colato. Il mondo ricomincia a girare, la gamba non fa più tanto male.
Mrs Hudson guarda John, vede i suoi occhi rischiararsi di una luce felice, serena, che non gli ha mai visto in volto. È come fissare lo sboccio accelerato di un fiore, il distendersi di petali variopinti che sostituiscono il pallido quanto monotono bocciolo.
-John caro?-
John alza gli occhi, la guarda col volto del bambino che non è mai stato. E sorride.
-Io… credo di aver bevuto parecchio tè, stanotte. Mi dispiace.-
Balza in piedi, abbraccia di slancio Mrs Hudson e le schiocca un bacio sulla guancia. Non è un atteggiamento da John, non gli si addice affatto. Eppure allo stesso tempo, l’anziana donna sente che è lui, lo riconosce. Il muro divisorio si riempie di crepe, vacilla appesantito. E attraverso quelle fessure luminose, Mrs Hudson può vederlo, il vero John, quel John rimasto bambino che vive di sorrisi e di presente rischiarato.  
Dio, se esisti…
Mrs Hudson abbraccia John, chiude gli occhi e appoggia il viso sulla sua spalla. Non lo sente vacillare, vede entrambi i piedi poggiare sicuri sul pavimento. E dolcemente, l’anziana donna sorride a sua volta.
… grazie.
§§§§
-Perché hai bevuto quella cosa? Ne volevo un po’ anche io!- dice Noah, appollaiato al suo fianco, all’ombra di un vicoletto adiacente al 221B. Ha le ali ripiegate, troppo lucenti anche nella penombra, e quasi non si preoccupa di nascondere lo splendore delle scaglie. Al contrario, Sherlock è tornato indietro, ha indossato ciò che doveva, ciò che porta ancora il profumo di John e il segno di dita esperte, da sarta paziente. Non ci vuole molto per capire che per cucire quel bizzarro ma interessante cappotto, John abbia chiesto aiuto alla padrona di casa.
Come l’ha chiamata? Mrs Hudson? Bene.
Mind Palace, stanza 356, nomi. Memorizzato.
-Allora?- insiste Noah, fissandolo con quattro paia d’occhi violetti. Sherlock contrae la mascella.
-Non credo di essere tenuto a risponderti. In realtà, mi domando perché sei qui, quando potresti essere in giro a importunare qualcuno. Tua madre, per esempio.-
Noah sorride, non si sente offeso. È come una porta chiusa, un muro che Sherlock non riesce a sfondare: non si offende, non si convince ad andarsene. Per lui è tutto normale, tutto interessante. Resta al suo fianco, lo segue come un cane fedele che Sherlock non sopporta. Piccolo, goffo, irritante. Ma anche così umano, così… piccolo.
Sherlock si odia solo per averlo pensato. Quella è una distrazione, un maledettissimo incidente di percorso. Non lo lascia ragionare, lo tocca mentre si aggira per il suo Mind Palace, parla sempre. E Sherlock odia i bambini, odia quel bambino.
-Torna a casa, prima che perda la pazienza. Vai a importunare qualche serpente velenoso.-
Ma Noah siede nella polvere e nei detriti, incrocia le gambe e, guardandolo dal basso, sorrise di nuovo.
-Avrai bisogno di me.-
-Io non ho bisogno di nessuno.-
-Lo so. Ma allora perché non mi mandi via?-
Porca miseria.
Sherlock inspira bruscamente, troppo vicino all’esplosione. Sente il fumo inondargli la bocca, fuoriuscire in piccole volute dalle labbra appena schiuse, ma Noah non si spaventa e al contrario, sbatte una volta le piccole ali che nella loro piccolezza, riempiono tutto il vicoletto.
-Non si fuma.-
Ma il fumo è l’ultimo dei loro problemi, lo capiscono quando un boato assordante pervade l’aria e da qualche parte, una donna urla: -DRAGHI!!!!-
 
Angolo dell’autrice:
E qui abbiamo… sì, credo sia un altro capitolo. O un agglomerato senza senso di parole buttate giù a casaccio.
Sherlock: no, per sapere. Eri ubriaca quando l’hai scritto?
No, perché?
Sher: mi hai affiancato un… bambino. La cosa è disgustosa. E ti sta incendiando la cameretta, se vuoi saperlo.
Non è disg… NO, LA CAMERA NO!!!
Sher: …………………………………………………………
Ehm, scusate… dicevo? Ah, giusto. Tornando a noi… spazio ai ringraziamenti per gli più che splendidi draghetti che hanno commentato il precedente capitolo e ai quali dedico ogni mio sforzo. Vi ringrazio di cuore, poiché ogni vostra parola mi risolleva l’autostima quel po’ che basta per scrivere ancora. Questo capitolo, così come i precedenti, si costruisce dei vostri commenti, che hanno aiutato la sua crescita e la mia voglia di continuare a scrivere. Perciò vi ringrazio, e a voi dedico un fortissimo abbraccio virtuale.
Ringrazio quindi:
Little Fanny
Bbpeki
Sonia_0911
Sparrow
Tony Stark
Kimi O Aishiteiru
Grazie ancora e a prestissimo!

Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 8
*** Salvare Una Vita ***


È un unico grido che si sospende in aria, un unico urlo di donna che preannuncia la catastrofe: -Draghi!-
Una parola, un significato in grado di scuotere gli animi e impennare l’ansia verso picchi mai ragionati. L’effetto è devastante, si riscuote per le strade e a macchia d’olio si allarga mentre le persone lentamente realizzano, cominciano a gridare e a spintonarsi. C’è chi cade, chi si abbandona cadavere al calpestio impietoso della folla impazzita. Alcuni gridano, un uomo piange isterico in un angolo.
Dal nulla, compaiono i militari: armati, rumorosi, urlanti. Alcuni guidano, altri seguono obbedienti come segugi addestrati. E insieme, corrono incontro alla morte, armati della vana  convinzione di poterla respingere. Sono umani, sono deboli e spaventati. Moriranno tutti.
-Mrs Hudson, esca di qui.- ordina John senza perdere la calma. La afferra per un braccio, la spinge verso la porta.
-Ma… il piano d’emergenza ordina di restare in casa, e…-
-E io dico che deve uscire. Subito!-
John la spinge ancora, stavolta verso le scale. Mrs Hudson incespica mentre un boato fa tremare le pareti, il soffitto, il pavimento. Alcuni quadri cadono di schianto, una cornice si rompe, un tavolo vibra pericolosamente. E poco a poco, i muri si coprono di crepe profonde come ferite, minacciose come sinistri avvertimenti.
Dall’alto, un’ombra nera scende sulla città. Una muraglia di ali oscurate, gigantesche, ferine, piove sugli uomini, sulle loro effimere esistenze. Sono membrane poderose collegate a corpi possenti, massicci, micidiali. Corna e artigli, squame e punte acuminate. Bastano soltanto i ruggiti a scuotere la terra dalle fondamenta, a rompere i vetri e le ceramiche, a trapassare i timpani della gente che cade in ginocchio e si copre le orecchie.
Draghi.
Adesso John li guarda intimorito, ma non spaventato. Li conosce, li ha toccati con mano, ci ha parlato. Ma in quella forma di rettili primitivi, di magnifiche bestie senz’anima… sono diversi. John avverte la loro furia omicida, la loro rabbia, la frustrazione emanata dalle code scudiscianti.
Uno di loro scende dall’alto, urta con l’ala un palazzo vicino. E quel semplice tocco, quello sfiorare d’ossa massicce e membrane alari, basta a schiantare l’abitazione. Le mura esplodono, lasciano passare l’ala come coltello che taglia il burro. E dall’alto, piovono detriti, macerie che rotolano sulle strade, schiacciano persone, le feriscono a morte.
-Fuori, esca di qui!-
John spinge ancora Mrs Hudson, cerca di seguirla per le scale mentre un’ombra oscura piove dall’alto, s’aggrappa di artigli d’incubo alla fiancata della casa.
John sente i muri tremare, alcuni detriti si staccano dal soffitto, le poche finestre rimaste intatte esplodono, sparpagliando in aria un mare di schegge che gli feriscono il viso e quasi lo accecano a un occhio. Barcolla, cade in ginocchio. Si abbandona per qualche istante ai rumori tutti intorno, al frastuono di grida, di folla in fuga come formiche impazzite.
È l’inferno così come l’uomo dovrebbe immaginarlo. Qualcosa di più grande, di immensamente terribile e implacabile giunge dall’alto di entità superiori per stendere mano sui peccati di chi irragionevolmente ha voluto plagiare il pianeta, soffocarlo, denudarlo di ogni sua nobile spoglia. John li sente gridare, vittime colpevoli e innocenti. Non vi è distinzione, non vi è pietà, poiché nessun dio vendicatore risparmierebbe pochi illibati certamente prossimi a sporcarsi.
E John le ascolta, quelle preghiere. Sente la gente morire, la vede attraverso i suoi ricordi di soldato. Lui prima le proteggeva, quelle persone. Ma adesso?
Riapre gli occhi, si aggrappa al suo stoico coraggio di soldato. Deve prendere tempo, deve concedere a Mrs Hudson di lasciare l’edificio. Ma ogni proposito sparisce quando i suoi occhi si posano sulla creatura aggrappata come una splendida statua all’intero edificio.
Il drago è così grande da poter toccare terra con le zampe posteriori, mentre quelle anteriori affondano artigli di bronzo spaccato in mura morbide come carne. John è grande poco più del muso stretto e affusolato, così piccolo, così fragile e indifeso al cospetto di quella creatura, figlia del cielo e del fuoco.
Scaglie di un vermiglio brillante la ricoprono totalmente, risplendono come magnifica corazza lungo il muso, intorno agli occhi di un azzurro chiarissimo, privo di sfumature, come vetro mai toccato da brandelli di luce. Le corna sono nero carbone, da stambecco, che agganciano imponenti sulla sommità del capo per sfogare una fila di punte acuminate che seguono la nuca, scivolano lungo il collo stretto e affusolato, giù per la spina dorsale e lungo la coda chilometrica che attraverso il varco apertosi nella parete sfondata, si intravede scudisciare sinuosa. Le ali sono chiuse, il corpo più affusolato, più longilineo… una femmina?
 John indietreggia contro la parete, fissa ad occhi sbarrati il muso della bestia spalancarsi, mostrare le zanne poderose, micidiali, che risplendono di riflessi argentini. John non osa muoversi, sa che al primo accenno di movimento, incentiverà una reazione. Questo lo blocca, lo rende vulnerabile, ma non ha altre opzioni a disposizione, se non quella di prendere tempo e pregare.
Mantieni la calma.
Respira.
Impasse. Situazione senza via d’uscita, pericolosa immobilità laddove il gatto punta il topo impaurito, fermo.
Gli artigli affondano ancora di più, scuotono il palazzo come madre infuriata che sbatacchia il figlio disobbediente qua e là. John sa che a breve potrebbe cadergli il tetto sulla testa, ma questa opzione è sicuramente migliore rispetto alla vampata d’inferno che scatenerebbe scappando. È un soldato, lui i draghi li combatte da sempre… quasi.
Non tutti. Non sono tutti così.
E mentre la bestia incunea il muso nella frattura aperta nel muro, John si costringe a non chiudere gli occhi. Vuole guardare la morte in faccia, non si piegherà per così poco. Se deve morire, lo farà proteggendo le persone.
Estrae la pistola dalla fondina appesa al fianco, spara contro l’ugola vibrante della bestia, che grugnisce infastidita e dimena la coda, abbattendo una strada. La bocca si copre di fumo, fa emergere un vibrare di fiamme rosse e oro pronte a eruttare, a scatenare un reale inferno così come l’uomo lo ha sempre immaginato. Grida, dolore, fuoco.
Ma proprio quando John si convince di essere prossimo alla dipartita, qualcosa muta, una mano cala pietosa sul destino e lo plasma, rimuove i suoi eccessi e i suoi difetti.
Il drago serra la bocca, sbarra gli occhi per fissare qualcosa al fianco di John.
Uno due, uno due. Tic tac, tic tac.
Qualcosa oscilla lentamente, in maniera monotona e costante, riflettendo a intermittenza vaghi bagliori di luce. E gli occhi inespressivi del drago seguono quei movimenti con attenzione quasi passionale, interessata, curiosa.
-Movimenti oscillatori.-
Quella voce. John la conosce, l’ha sognata, l’ha inseguita attraverso sogni e incubi. È come una guida, un manto di seta che lo abbraccia e avvolge di sicurezza l’ex soldato, sciogliendo l’impasse e reimpostando lo scorrere del tempo.
Sulla soglia della porta, sotto lo stipite cadente di polvere e piccoli detriti d’avvertimento, c’è Sherlock.
Immobile, con indosso il lungo cappotto nero che John gli aveva regalato all’inizio di tutto. Completamente tagliato in due sulla schiena per lasciar passare ali, coda e scaglie, esso è tenuto insieme da due identiche cinghie all’altezza della nuca e della base della spina dorsale. Sul davanti, giace aperto e mostra il petto nudo e pantaloni classici neri, dal taglio perfetto e allungato sulle estremità più basse per adattarsi ai piedi da rettile. La coda li lacera posteriormente, sbuca da sotto il cappotto sventolante, classico.
John lo fissa, si riempie gli occhi di quella pelle pallida, del viso fiero, della lucentezza arcobaleno delle scaglie che esplodono nel loro oceano di colori. Le ali ripiegate coprono interamente la parete, la tingono come di lucente carta da parati. È lui. Sherlock.
John respira di nuovo, il dolore alla gamba sparisce del tutto. E d’improvviso, la frustrazione, la rabbia e la tristezza di tutta una vita spariscono, vengono assorbite dal luminoso arcobaleno che sprigiona dita d’incanto dagli occhi vitrei del drago.
Sherlock fa oscillare monotonamente il pendolo che stringe tra l’indice e il pollice, muove con calma il polso, indifferente al caos di grida ed esplosioni che provengono dall’esterno. John lo guarda spostarsi lentamente, affiancarlo fino a poterlo avvolgere in un’ala possente, calda, accogliente. Quella è casa sua… finalmente, ha ritrovato il suo posto. E d’un tratto, con Sherlock al suo fianco, John può guardare la dragonessa minacciosa, lucente di scaglie sanguigne, e pensare che dopotutto, non fa poi così paura.
-Stai pronto.- dice Sherlock, e automaticamente, John gli stringe una mano, la incastra perfettamente, palmo contro palmo, come se non avesse mai fatto altro nella vita se non abbracciare quelle scaglie miste a morbida pelle.
È pronto a seguirlo, adesso lo sa. Qualunque sia il piano, qualunque sia la scelta di Sherlock, John si fida.
-Andiamo.- sorride l’ex soldato, e in quel momento avverte la stretta di Sherlock farsi più accentuata, marcarsi dolcemente, senza far male. Non è molto, ma John sa che nella sua lingua, quello è il gesto più bello che possa concedergli.
Un’esplosione di vampe infuocate colpisce la dragonessa alla schiena, abbraccia le sue scaglie di possenti riflessi dorati. Lo schianto riverbera nell’aria in un vibrare cristallino che John non si sarebbe mai aspettato, sostituito un istante dopo dal ruggito di dolore, talmente forte da assordare l’intero quartiere e da costringere John in ginocchio, tremante, con le mani premute sulle orecchie pulsanti.
Una mano cala tiepida su di lui, gli copre gli occhi con gentilezza.
John avverte un istante dopo l’esplosione di calore, subito seguita da uno schianto più forte, assordante quanto il ruggito della dragonessa ma talmente potente da scuotere il  palazzo con semplicità disarmante.
Ogni cosa è caos, confusione, grida e rumore. Fa caldo, troppo caldo. E la pelle di John si accappona sinistra, reagisce alla vicinanza del pericolo come bestia selvaggia e impaurita.
Poi, d’improvviso, il cambiamento. Qualcosa risveglia i suoi sensi annebbiati dalla confusione, le mani stringono forte i detriti sottostanti. John assapora il calore di quella mano ancora premuta dolcemente sui suoi occhi, ne inala il profumo pungente di aghi di pino, si accorge della liscia membrana alare poggiata su di lui come uno scudo invalicabile.
Adesso.
John si raddrizza, afferra forte la mano di Sherlock e ancora barcollante, fa ciò che ha scelto di fare dall’inizio: lo segue.
Entrambi scattano verso lo squarcio che ha sfondato la parete. John si accorge che è stato allargato da un’esplosione e che… semplicemente, la dragonessa non c’è più.
John capisce, ma non si ferma. Corre, vola lungo la sua strada con invisibili ali d’albatro, sicuro ad ogni passo vacillante, sicuro di non poter mai cadere. Si aggrappa a quella mano tanto calda, tanto forte da avergli restituito la vita poco a poco, imboccandolo, riplasmandolo a nuova nascita.
Si fida di Sherlock.
-John!-
E a quel richiamo, John risponde automaticamente, senza pensarci. Lascia andare la mano di Sherlock, lascia che lui lo superi un istante prima di saltare nel vuoto, entrambi liberi, entrambi angeli nell’oceano d’inferno che scuote la città dalle fondamenta.
Le braccia di John scivolano intorno al collo di Sherlock, vi si aggrappano con naturale agilità mentre le ali si spalancano schioccando e catturano la luce delle vampe di fuoco, delle pallottole esplose dalle armi circostanti, del mondo intero. Sbattono una volta, possenti muscoli e membrana sottile, fragile, ma allo stesso tempo micidiale come lama di spada.
I corpi sono sbalzati verso l’alto, il vento li trascina su, nel cielo, incontro alle nuvole plumbee, pesanti di pioggia e fumo che dal basso sale e sporca la volta un tempo celeste.
Il vento taglia la pelle di John, lo aggredisce come bestia infuriata mentre Sherlock sale in strettissime e altrettanto veloci spirali, le ali strette al corpo, i muscoli contratti.
Su, ancora più su, come frecce scagliate dal vento stesso.
I colori si confondono, il diapason di voci si spezza e d’improvviso, mentre Sherlock acquisisce la sua regolare velocità, John sente il respiro mancargli. Troppa aria, troppa velocità. Annaspa, si aggrappa forte al collo del drago, quando all’improvviso questo gli afferra i polsi, preme i pollici artigliati contro la sua pelle e lo costringe facilmente a mollare la presa.
John urla, sente il vento strapparlo alla stretta di Sherlock come figlio bruscamente separato dalla madre. E il tempo sembra rallentare, il mondo si ferma.
John tende una mano verso la freccia scura che si allontana, sa che Sherlock stavolta non tornerà a riprenderlo. Finirà così?
No, non ancora.
Qualcosa gli artiglia la vita, blocca la discesa così bruscamente da strappargli il poco fiato rimasto.
Artigli poderosi premono contro la sua maglia, la lacerano e vi incidono piccoli tagli involontari, di bestia troppo goffa per trattare qualcosa di tanto fragile. John alza gli occhi, incontra la figura massiccia di un drago enorme, ma troppo piccolo per essere un adulto. Riconosce all’istante le due teste, poste su colli lunghi e longilinei di squame violette, brillanti alla luce delle esplosioni sottostanti.
Noah sbatte forte le ali, leva più in alto la quota già vertiginosa, al punto che Londra comincia ad allontanarsi troppo, ad apparire irraggiungibile per John lì, al sicuro tra le zampe di una bestia figlia del cielo mentre in terra, la gente muore e grida il suo dolore di perdita.
Poco più in basso, quasi invisibile agli occhi, una minuscola freccia nero carbone zigzaga tra le case, le urta involontariamente con la coda massiccia e distruttiva. Non si ferma, continua la sua folle corsa, e guardando indietro, John ne rileva il motivo: la dragonessa vola basso sulla gente, la spina dorsale annerita dal fumo e dal sangue che sgorga come fonte d’acqua tra le squame. Ha gli occhi iniettati di sangue, le zanne in vista, l’espressione assassina, quasi umana.
E d’improvviso, John ha paura di nuovo. Non per se stesso, ma per Sherlock, per la gente che potrebbe morire laggiù, a causa di un maledetto scatto d’ira.
John tende una mano verso il basso, verso Sherlock. Anche da quell’altezza, può vederlo brillare come autentica pietra preziosa tra banale bigiotteria di scaglie non abbastanza lucenti, prive di arcobaleni e riflessi d’aurora boreale. Lo guarda sfilare tra i palazzi, saettare con agilità felina tra le macerie in caduta libera e i proiettili troppo lenti anche solo per poterlo sfiorare. Sherlock è aria inafferrabile, ferina, tagliente e invisibile agli occhi che non sanno cosa cercare.
Ma la dragonessa non è altrettanto aggraziata e con la sua immensa mole abbatte palazzi, taglia in due le strade con la coda mastodontica, fa a pezzi monumenti con gli artigli poderosi. Appare instabile, ancora sofferente per il colpo ricevuto e il sangue che copioso continua a scivolare lungo il corpo serpentino, ma non demorde.
-Dobbiamo scendere!- urla John, quando vede la dragonessa avvicinarsi pericolosamente a Sherlock.
-Fossi matto!- risponde Noah, guardando in basso con una delle due teste. –Quelli hanno gli arpioni!-
-Ma Sherlock si ammazzerà!-
-Non l’hai mai visto darle di santa ragione, vero?-
E non sbaglia.
All’improvviso, quando la dragonessa spalanca le fauci sull’indifeso, minuscolo corpo di Sherlock, lui… semplicemente sparisce. La sua figura si sfuoca, poi come vento fugace si dissolve e le zanne della dragonessa sbranano il nulla, masticano furiose aria inconsistente.
Poi Sherlock riappare all’improvviso, per nulla affannato e con ali spalancate che occupano metri e metri di larghezza, come immense vele d’oscuro arcobaleno. Gonfia il petto, schiude appena le labbra nello stesso istante in cui la dragonessa volta il capo di scatto e si prepara ad eruttare una vampa di fiamme infernali dal fondo della gola.
Una sfera informe di pura oscurità esplode dalla bocca di Sherlock, sfreccia quasi invisibile tra le fauci spalancate della dragonessa che sbarra gli occhi. Si ode un’esplosione, un bagliore come di fulmine ruggente erutta dalla bocca della creatura, spandendo nell’aria un flash allucinante, che pare voler abbracciare tutta la città. La dragonessa sbatte forte le ali, scuote il capo impazzita, poi atterra stramazzante tra le macerie, dove i soldati le arpionano le ali, sparano a vista contro gli occhi e il naso. Dalla bocca erutta sangue, troppo sangue. Pare sul punto di soffocare, di sputare la sua stessa ugola, e dai suoni strozzati che emette, John capisce che la dragonessa non può sputare fuoco.
Un tocco fugace all’altezza della nuca distrae John, lo fa sussultare e stringere forte la pistola che si rende conto, non ha mai lasciato andare.
-Stai bene.-
E improvvisamente, John incontra gli occhi di Sherlock, quel viso pallido e appena graffiato, i capelli morbidi scompigliati dal vento. Sulla sommità del capo, le corna ad anelli splendono di una luce riflessa, morbida, come d’acciaio baciato dal sole. Vederlo, sentirlo al suo fianco ancora una volta, per John equivale a respirare di nuovo dopo un lungo periodo di apnea. Si sente completo, leggero, quasi capace di volare con le sue sole forze, senza ali. Il suo vento ormai è Sherlock, le sue ali sono lì al suo fianco.
John tende una mano prima di poterselo impedire, si irrigidisce e immobilizza i muscoli mentre Sherlock lo fissa, studia il suo viso. Lo guarda negli occhi, scava a fondo la sua anima e ne trae le risposte, le emozioni, esercitando al massimo tutte le sue potenzialità deduttive.
Sherlock non capisce i sentimenti, non li ha mai capiti. Esso stesso si ritiene quasi incapace di provarne. Ma… insomma, è John. Un umano talmente ordinario, talmente potente nella sua piccola fragilità. Ha sparato alla dragonessa, è rimasto alla sua mercé per lasciare a Mrs Hudson il tempo di allontanarsi. Nella sua incoscienza, è stato un grande.
Sherlock ha sempre pensato che gli eroi non esistano o che, se anche esistessero, lui non sarebbe uno di loro. Eppure, aver salvato quella vita, aver lottato al solo scopo di sapere John in salvo… lo fa sentire un eroe vero.
Lentamente, senza rendersene conto, anche Sherlock leva una mano, la tende verso quella aperta di John. È come un’ancora, una salvezza che solo uno Sherlock bambino, una volta, si azzardò a chiedere. Nessuno gli concesse mai niente, nessuno guardò alla sua solitudine, al suo essere alieno. Adesso però, c’è qualcuno che lo fa.
-Grazie.- mormora John, sorridendo dolcemente mentre le loro dita si sfiorano, corrono lungo i palmi per poi sfiorarsi a vicenda i polsi così diversi, così simili. È un intreccio, un dolce amalgamarsi di due mondi.
Terra e aria.
Umanità e bestialità.
Luce e pallida ombra.
Essere umano e drago.
Ma qualcosa cambia, un urlo raggiunge le orecchie fini di Sherlock, gli fa spalancare le ali e fermarsi lì, a mezz’aria. Si guarda intorno, cerca affannato la fonte del rumore.
Dal basso. Viene dal basso.
Lui quella voce l’ha già udita. Dove?
Mind Palace, corridoio undici.
Sherlock apre frettolosamente tutte le porte, le spalanca senza cura, a due a due, semplicemente spalancando le ali e sfondandole. Eccola. Stanza centoventuno. Voci. Esperienze recenti.
Sherlock sfoglia, cerca, fiuta. Classifica i toni, il timbro, la profondità, separando i maschi dalle femmine. Donna, sui ventisei anni. Collegata a John.
-Molly Hooper.-
Sherlock fissa Noah, lo vede studiare, comprendere, annuire. Qualcosa non và, là sotto. Ma perché sacrificarsi per una donna? Ne muoiono a decine, durante l’attacco dei draghi, e a Sherlock non è mai interessato.
-Sherlock?-
Poi, la motivazione. John lo guarda, sbarra gli occhi spaventato. Ha visto sul suo viso qualcosa che non dovrebbe esserci, Sherlock lo sa. Molly Hooper è amica di John, è parte della sua felicità. Può essere questo un incentivo valido a rischiare tanto?
-Vai.- dice Noah in un basso ruggito che solo Sherlock comprende.
E per la prima volta in vita sua, Sherlock obbedisce. Chiude le ali sul corpo, aderendole ad esso come una seconda pelle mentre come lampo caduto dal cielo, si abbandona alla forza di gravità. Piove verso il basso, sfreccia a una velocità irraggiungibile anche per i suoi stessi simili.
Figlio del vento, figlio della velocità.
Poi, le ali si spalancano di botto, tendono al massimo ogni muscolo, gonfiano le vele e la fasciatura arrossata che John tempo addietro gli ha applicato. In un riflesso di arcobaleno oscuro e cristalli di scaglie colpite dalla luce, Sherlock si incunea sotto la fiancata di palazzo in caduta libera. Affianca Molly, le fa lo sgambetto con la coda e con essa la avvolge stretta, bloccandola al suolo. Si inginocchia al suo fianco, la accosta al suo corpo e la cinge con le braccia.
Tre, due, uno.
Il detrito li ha quasi raggiunti. Sherlock copre gli occhi della ragazza con una mano artigliata, tira indietro la testa e fa esplodere una sfera di lucente materia oscura, mista alla potenza del fulmine.
Un’esplosione, un flash allucinante che scuote l’intera città e fa indietreggiare i draghi che la attaccano. È caos, è luce e rumore.
Poi, il fumo e la pioggia di piccoli detriti che piove dall’alto, che esplode in ogni direzione come una granata micidiale.
Sherlock pone il mento sul capo di Molly, chiude le ali su di loro come uno scudo indistruttibile, invalicabile, guardiano di un tesoro ben più prezioso. E nulla in effetti, riesce a lacerare la membrana. I detriti la graffiano, schizzano piccole gocce di sangue tutto intorno, ma non possono penetrarla.
E mentre all’esterno fumo, fiamme e confusione giocano ogni carta dei rispettivi mazzi, all’interno del piccolo bozzolo d’oscuro arcobaleno Molly si riprende, respira a fondo l’aria profumata, pulita, racchiusa nel piccolo mondo che momentaneamente l’ha accolta. È confusa, trema come scossa da crisi epilettiche.
Poi, facendosi coraggio, solleva timorosa lo sguardo, pianta gli occhi in quelli serpentini della creatura più bella che abbia mai visto. E, inspirando tutta l’aria che i polmoni le concedono, Molly urla.
 
Angolo dell’autrice:
Sono in ritardo. Sono in ritardo? Sherlock, quando è stata l’ultima pubblicazione… e togliti quel costume da coniglietta playboy!
Sherlock: non posso, sto indagando.
Non ti chiedo dove…
Sher: è il mio lavoro. Io sono sposato col mio lavoro. Il mio lavoro e io.
John: aaaaah, il lavoro di Sherlock, il lavoro progettato appositamente per occupare Sherlock, Sherlock è il suo lavoro…
John, chi ti ha fatto vedere le “Follie dell’Imperatore”?!
John: Greg. Continua a dire che Mrs Hudson sia uguale ad Izma…
Ma che cazz… ok, sparite. Tutti e due! E fatemi tornare ai ringraziamenti! Dunque, dov’ero rimasta? Ah, giusto. Considerando che sono incastrata tra un esame e l’altro, purtroppo non ho il tempo per ringraziarvi individualmente come meritate, mi dispiace… però! Saprò sdebitarmi, la prossima volta lo farò, promesso! Ma, non mancherò di elencare qui sotto gli splendidi draghetti che hanno reso possibile il continuo di questa storia! Un ringraziamento e una dedica speciale a:
Little Fanny
Fatelfay
Kimi o aishiteiru
Sparrow
Ashley Snape
Sonia_0911
FKk
Tony Stark
AsfodeloSpirito17662
Bbpeki

Grazie ancora e a prestissimo!

Tomi Dark Angel

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Capitolo 9
*** La Donna ***


-Ehi, Sherlock, lo sai che la tua coda si è portata dietro una ragazza?-
-Non fare domande scontate, ragazzino. So bene cosa mi porto dietro.-
-Ah… quindi è tutto normale? Oh, è svenuta.-
-Sherlock!-
-John, non potevo lasciarla lì.-
-Meglio trascinarla a metri e metri d’altezza tenendola appesa a testa in giù?!-
-Decisamente.-
-Ma brutto…-
Sherlock sbatte le ali, cattura il vento con le immense vele di oscuro arcobaleno. Ha il corpo teso, le mani giunte sotto il mento e gli occhi socchiusi in ragionamenti noti a lui e a lui soltanto. Respira a fondo l’aria pulita dell’altezza sopraelevata, la sua freschezza, il profumo che essa gli porta.
Parla di tante cose, il vento. Attraverso le sue carezze, gli conduce odori sempre diversi, sempre nuovi, grazie ai quali Sherlock riesce a dedurre, a percepire storie e creature nelle vicinanze.
A conferma di ciò, un gruppo di albatros li affianca, sfiora le loro ali con piume di candida seta, li affianca faticosamente, come figli che si sforzano d’imitare il genitore. Emettono suoni fastidiosi, ma stranamente, a Sherlock non danno fastidio. Li fissa rapito, negli occhi un barlume d’emozione che John cattura interessato. Guarda il suo viso dipingersi di nuova bellezza, le scaglie riflettere sulle ali degli albatros un oceano di cristalli variopinti. È uno Sherlock nuovo, quello che sta guardando. Ed è bellissimo.
-Ti piacciono gli albatros?- trova il coraggio di chiedere, mentre uno dei volatili gli passa accanto, così vicino da potergli carezzare il viso con le ali.
E allora John capisce, nota che gli albatros in realtà sono abituati alla presenza di Sherlock, alla sua possanza, allo sbattere energico di ali maestose. Non hanno paura di lui come dovrebbe essere. Loro lo… conoscono.
-Ci conosciamo bene.- si limita a rispondere Sherlock, allontanandosi appena da loro. Piega appena un’ala, lascia che il corpo si abbandoni da un lato e cada appena più in basso, lontano da domande, lontano da curiosità scomode.
John non parla più.
-E perché ti piacciono?- chiede invece Noah, poco sensibile all’umore di Sherlock.
-Non ho detto che mi piacciono. La tua capacità di comprensione è…-
-Non l’hai detto, ma l’hai pensato.-
John sorride, guarda Sherlock trattenere faticosamente uno sbuffo.
Volano a sud, verso l’oceano, verso il telo azzurro dorato che stende braccia liquide per ogni dove. John si chiede dove finisca quella distesa d’acqua, ma forse non è necessario saperlo davvero. Basta immaginarlo, basta pensare che forse dall’altra parte ci sono creature meravigliose come i draghi, o terribili come gli uomini. O splendidamente insolite come Sherlock.
John guarda il corpo penzolante di Molly, il viso rosso, le braccia abbandonate verso il basso.
-Sherlock, sul serio: raddrizzala, o le andrà il sangue al cervello.-
-No.-
-Sherlock!-
Stavolta, Sherlock non trattiene lo sbuffo di impazienza. Lascia andare il corpo di Molly nello stesso istante in cui Noah si catapulta verso il basso, le ali sottili strette al corpo e i due colli tesi nello sforzo. Molly atterra tra le braccia di John, abbandonata come una marionetta ma totalmente illesa. È sporca da capo a piedi, ha gli abiti stracciati… ma sta bene. E tutto grazie a Sherlock.
John la stringe a sé, bacia la fronte di quella che è stata sorella e amica, confidente e coscienza. Ha rischiato di perderla, di non sentire più la sua voce, il suo calore. Ma Sherlock era lì, bellissimo e terribile come il più possente degli angeli custodi. L’ha protetta, ha rischiato tutto pur non conoscendola, pur cosciente del rischio che avrebbe comportato. Ha tentato, è riuscito. E John sa perché l’ha fatto.
-Grazie.- mormora a bassa voce, ben sapendo che Sherlock può sentirlo. Sorride dolcemente, gli occhi lucidi, il volto affondato nei capelli della sua Molly Hooper. È felice, John. Adesso sa di aver trovato un angelo vero, diverso e bellissimo, ma pronto a vegliare su di lui quanto su coloro che ama.
Sherlock non risponde, cala ancora un po’. Noah lo imita, tende entrambi i colli verso la stessa meta che seguono gli albatros. E improvvisamente, davanti ai loro occhi, Sherlock si lascia andare.
Il corpo si ammorbidisce, gli occhi si socchiudono in un’espressione quasi rilassata mentre, con totale naturalezza, le ali si chiudono sul suo corpo, lo circondano come di un bozzolo lucente per lasciarlo precipitare verso il basso, freccia arcobaleno scagliata da invisibile arco.
Il vento lo accoglie, lo spinge più giù, lo aiuta. Esso è amico e fratello per Sherlock.
Gli albatros lo seguono, piovono dall’alto come luminose gocce bianche. Scendono giù, verso il mare, verso la solida distesa d’acqua che tuttavia, a un passo dallo schianto, si arresta. Sherlock spalanca le ali, le tende al massimo, respira a fondo la salsedine prima di lasciarsi cadere. L’acqua lo abbraccia, stringe di dolce coperta i suoi ricci neri, scorre nei polmoni, ripulisce gli abiti e la pelle mentre tutto intorno, gli albatros si tuffano, nuotano e poi risalgono in superficie.
Sherlock no, lui non ha bisogno di aria per respirare: scende più giù, tocca il fondale con un piede artigliato e si accuccia a metri e metri di profondità, dove pace e silenzio impediscono al mondo di intralciare quella serenità passeggera, effimera, ma anche tremendamente bella. Quello è il suo mondo. Pacifico come il Mind Palace, altrettanto volto a cambiare, altrettanto vivo. Quel mondo respira senza infastidire, vive senza intralciare.
Sherlock respira a fondo, lascia che l’acqua lavi via il sangue e la terra. Adesso è pulito, adesso è sereno. John sta bene, lo ha ringraziato come mai nessuno in vita sua ha mai fatto.
E lentamente, i piccoli pezzettini mancanti, ricostruiscono il suo Mind Palace. Sherlock li sente rotolare mesti verso i fori vuoti, li ascolta ricostruire pezzo dopo pezzo stanze distrutte, piani scomparsi. È una vita che riprende, un perché che lentamente si dissolve. C’è silenzio adesso. L’ordine è tornato, ogni danno è ricostruito. E Sherlock finalmente, si sente di nuovo tutto intero.
 
-Perché non risale?- si allarma John, tendendo il collo verso l’acqua, dalla quale gli albatros entrano ed escono come candide perle sputate dalle ostriche.
Noah emette un basso ringhio gutturale, che John interpreta poco dopo come una risata. Sbatte le ali lentamente, lascia che la sua immensa mole cali sinuosa verso il basso, verso l’acqua luminosa come di piccoli cristalli danzanti. Una zampa enorme affonda, ricopre le scaglie di nuova lucentezza, nuove sfaccettature di viola e lilla in continuo mutamento. Una delle due teste piega il collo di lato, fissa John con un brillante occhio serpentino. John lo fissa, capisce, sorride.
Appoggia Molly con dolcezza, si assicura che il corpo non cada. Poi, anche John si lascia andare e con fare da ragazzino rinato, salta giù, permette al corpo di abbandonarsi verso l’acqua, verso Sherlock.
Lo schianto è duro, freddo, inaspettato. John resta rigido, gli occhi stretti, il cuore a mille. Non lo ricordava così gelido, il mare.
Ma all’improvviso, qualcosa di familiare lo sfiora, gli circonda la vita con gentilezza. John sente le scaglie dure ma calde aderire alla pelle senza graffiarla, la coda salire in morbide volute verso il torace. John sorride, accarezza quelle squame d’acciaio luminoso con dedizione, serenità, affetto. Passa le dita tra un tassello e l’altro, ne assapora l’andamento liscio e regolare come di specchi incastrati sapientemente tra loro. Vuole conoscerle una ad una quelle scaglie, vuole passare il resto della vita davanti ai loro riflessi d’arcobaleno, sorridere quando le vede e intristirsi quando le sente allontanarsi. Quelle scaglie riflettono un calore benigno, che sa di casa. E John non ha mai amato tanto essere dedito all’ambiente casalingo.
Con cautela, combattendo il bruciore del sale negli occhi, John solleva le palpebre. Sherlock è lì, poco distante da lui, con ali totalmente distese, rilassate, come gigantesche vele di sogno spiegate sulla più fervida immaginazione di qualsiasi essere vivente. Baciate dall’acqua, esse riflettono tutto intorno un nuovo oceano, un mare di riflessi di cristalli spaccati, di diamanti sfiorati dal sole. E d’improvviso, anche l’alga più insignificante, si tinge d’aurora boreale.
John tende inconsapevolmente una mano verso quel torace nudo, visibile attraverso il bottoni slacciati del cappotto ondeggiante come oscura presenza intorno a un corpo che mai andrebbe coperto. Sente Sherlock irrigidirsi, lo vede stringere i pugni e combattere strenuamente contro la sua testa, contro qualsiasi campanello d’allarme. John sa che neanche l’acqua spegnerebbe lo sputo di fulmini e materia oscura che rende una Furia Buia tanto micidiale, ma non ha paura: sente che può farlo, sente di potersi fidare.
Annaspa appena per mancanza d’aria, la testa gli gira, i polmoni gridano pietà, ma John li ignora, ignora tutto. Conta solo l’ostacolo che ha davanti, gli occhi di cristallo liquido che lo osservano curiosi, che studiano atteggiamenti mai visti prima. Fissa quei ricci corvini, li guarda giocare col viso pallido di Sherlock, urtargli gli zigomi alti e le labbra piene.
Un altro piccolo passo, un altro centimetro in più teso verso quel torace. La mano di John scivola, lascia che le dita sgancino le asole più alte del cappotto. Appoggia il palmo contro la pelle bollente, ne assapora la consistenza liscia, surreale. Risale verso le spalle, laddove uomo e drago s’incontrano in una danza armonica tra carne soffice e squame d’acciaio.
John sorride inconsciamente, guarda Sherlock in viso e ciò che vi legge è tensione, confusione, agitazione mal trattenuta. Cerca un perché a tutto questo, Sherlock, ma non lo trova. Non sa cosa sente, non sa cosa spinge quel bizzarro umano a toccarlo in quel modo. Nessuno l’ha mai fatto, nessuno ha mai teso una mano aperta e diversa da un pugno verso di lui. Quel tocco è nuovo.
In quale stanza del suo Mind Palace deve cercare? Quale porta deve aprire?
Ce n’è una, al novantaquattresimo piano, all’inizio del corridoio. Sherlock la apre, la stanza è vuota. C’è muffa ovunque, ricordi sbiaditi, non importanti. Il sorriso di una madre, la carezza di un padre? Mai avuti, o mai classificati. Ma adesso qualcosa c’è. Una mano grande e callosa, di giovane uomo, che gli sfiora il torace e le spalle. È qualcosa di gentile, tiepido, che non fa male come ferirebbe un pugno.
La mano sale lungo il collo, le dita esplorano i muscoli in rilievo, evidenti anche sotto la massa ordinata e luminescente di squame, fino a raggiungere il mento. John sfiora le piccole punte acuminate, sottili e micidiali, amandole una ad una. Vorrebbe salire più su, vorrebbe esplorare ogni angolo di quel viso, ma d’improvviso, i polmoni paiono collassare e John tossisce, emettendo l’ultima riserva di bollicine. Cerca di risalire verso l’alto, ma i muscoli non si muovono e restano intorpiditi, inanimati. L’aria è mancata troppo a lungo.
Ma Sherlock è lì, al suo fianco: lo afferra per un braccio, strattona forte verso l’alto e in un attimo, due teste infrangono la superficie, espandendo nell’aria un’esplosione di goccioline variopinte.
John tossisce, si aggrappa inconsciamente al braccio di Sherlock, che non gli nega l’aiuto ma anzi, lo sostiene.
-Trovo altamente illogica la tua mancanza di spirito d’autoconservazione, John.-
-F… fottiti!-
Sherlock si volta dall’altra parte per nascondere il sorriso che gli stira le labbra.
-Disturbo?- dice una voce sensuale dall’alto delle loro teste.
Una donna bellissima vola placidamente a pochi centimetri dall’acqua, le ali che ad ogni battito affondano e risalendo schizzano cristalli liquidi tutto intorno. Ha i capelli lunghi d’ebano e gli occhi da predatrice. La pelle morbida del corpo nudo e sinuoso si converte in squame rosso sangue, che come ferite emergono dalla carne, ricoprono i lati del collo, le spalle, parte delle braccia e la schiena, giù fino alla coda sinuosa da rettile. Sulla sommità del capo, sbucano grandi corna ricurve, come di ariete.
John si irrigidisce, fissa Noah che, indeciso sul da farsi, si mantiene a debita distanza e sbatte nervosamente le ali, il corpo contratto e pronto alla fuga. Entrambi fissano Sherlock, lo vedono sollevare lentamente le ali, che come inquietanti masse di petrolio variopinto emergono dall’acqua.
-Irene. Credevo che gli umani ti avessero presa.- dice con un sorriso di scherno.
Il cuore di John salta un battito, i suoi occhi corrono subito ai fianchi squamati della donna. Adesso lo vede, il sangue fresco e rappreso che gocciola dalla ferita alla schiena. Non sembra soffrire granché, visto il sorriso  aggressivo che sfoggia e gli occhi gelidi, adesso troppo simili a quelli della bestia assassina che per poco non ammazzava Mrs Hudson.
-Non sapevo che te lo saresti portato dietro.- dice lei, accennando a John. Sherlock non reagisce, i suoi occhi restano inespressivi, ma John sa che la sta studiando, sa che al primo accenno di pericolo, la Furia Buia sarà il primo ad accorgersene.
-Umano interessante, il tuo.- continua Irene. –Ma non pensavo che potessero essere addomesticati.-
-Ci sono troppe cose che non sai, Irene.-
-Ad esempio, dolcezza?-
-Ad esempio, ti è ignota la capacità di giudizio in situazioni che non puoi superare. A quanto mi risulta, hai attaccato John perché sapevi del suo… legame… con me. Grosso sbaglio.-
Irene scende ancora, affonda i piedi nudi nell’acqua, si lascia scivolare giù, finché questa non raggiunge metà coscia. Si piega in avanti, con una mano artigliata accarezza la guancia di Sherlock e accosta il viso al suo. Sorride ferina, giocando con le punte acuminate della mascella.
-Adoro quando fai così.-
Sherlock non risponde, ma s’impegna a calcolare la distanza che corre tra Irene e John. Noah non è in pericolo: per colpirlo, Irene dovrebbe voltarsi o quantomeno contrarre il corpo, esponendolo troppo alla reazione di Sherlock stesso. Scavezzacollo, sì. Stupida, mica tanto.
Trentaquattro centimetri. I due distano trentaquattro centimetri l’uno dall’altra. Se Irene voltasse il capo ed eruttasse una vampa di fuoco, potrebbe ustionare John a vita.
-Oh, e che coraggioso umano ti sei trovato. Un bel passatempo, non c’è che dire, ma non dimenticare da che parte giochi.- sussurra Irene a un centimetro dalle sue labbra, l’alito bollente e la mano scivolata sulla nuca di Sherlock, dove gli artigli tentano invano di incidere le squame.
-Io gioco dalla mia parte, Donna. Ho i miei pezzi sulla scacchiera, so che movimenti faranno, e scommetto che i miei grigi avranno la meglio sia sui vostri bianchi, che sui neri degli umani.-
-Oh, e anche il tuo umano è un pezzo della scacchiera, allora?-
-Lui non c’entra.-
-Allora cos’è? Un divertimento passeggero? Non è da te, Sherlock.-
E d’improvviso, gli occhi di Sherlock si assottigliano, paiono ricoprirsi di un ghiaccio spaventoso, il naso si arriccia appena, dalle labbra schiuse cominciano a fuoriuscire morbide volute di fumo argentato.
John non l’ha mai visto così, non ha mai avuto paura di lui. Eppure in quel frangente, sente che Sherlock è inavvicinabile, lontano dalla sua parte umana e ben più vicino a quella bestiale che potrebbe ridurlo in cenere semplicemente sbuffando dal naso.
-Non giudicarmi, Donna.- ringhia con voce improvvisamente non sua, gutturale, più simile a quella di un rettile dalla gola arsa di fiamme infernali.
Improvvisamente, l’acqua intorno a John comincia a riscaldarsi, gli stringe il corpo di un abbraccio serrato, che lo fa sentire piccolo come agnello in presenza del cacciatore. Stringe i denti, respira a fondo e combatte l’ansia, appellandosi al suo coraggio di soldato.
-Credo che faresti meglio ad andartene.- dice improvvisamente, prima di riuscire a trattenersi. La Donna lo guarda, restringe le pupille per vederlo meglio, ma in quel momento le ali di Sherlock sbucano dall’acqua con uno scatto maestoso che oscura il cielo, tagliando l’aria di lame affilate. I muscoli si distendono, le vele tendono i loro arcobaleni personali che riflettono la luce del sole.
Irene indietreggia, sbatte nevriticamente le ali.
-Fai sul serio.-
-Mai affermato il contrario, Donna.-
Lei arriccia un labbro, innervosita. –Dobbiamo parlare.-
Prima che John abbia il tempo per protestare, Sherlock gli circonda la vita con un braccio e, in un possente battito d’ali, estrae entrambi dall’acqua. John si trova premuto per brevi istanti contro un corpo bollente, profumato, scolpito, ma un istante dopo Sherlock gli stringe i fianchi con entrambe le mani e lo scaglia in aria, verso l’alto, dove Noah lo afferra con gli artigli.
-Andate.- dice, fissando Noah attraverso la massa di capelli appiccicati al viso.
-Cosa? NO!!! SHERLOCK!!!-
John si dimena, tende una mano verso di lui, ma Sherlock si limita ad arricciare un angolo delle labbra in una parvenza di sorriso forzato. Cerca di rassicurarlo, cerca di classificare quel viso nel suo Mind Palace perché ne ha bisogno, perché vuole colmare quello spazio. Si crea allora una nuova stanza, altro spazio da colmare, nuova porta proibita, che Sherlock non si azzarda ad aprire. Ma la sente, sa che è lì: altre mura, un nuovo tassello piccolo, prezioso, umano. Quella stanza, si chiama “John Watson”.
E d’improvviso, Sherlock sorride davvero.
 
Angolo dell’autrice:
Ehm… ciao? Ok, sono in ritardassimo, ma ho delle giustificazioni! Esame, problemi col cosplay da portare al comicon e…
Sher: e fino a ieri eri convinta di aver aggiornato due giorni fa.
Zitto, tu! Non è vero! E’ colpa tua e dei tuoi esperimenti! Perché secondo te siamo tutti rintanati in uno sgabuzzino? La casa è ricoperta di muffa viola. Viola! Come hai fatto? E John, toglimi quel piede dal coccige, porco pino!
John: non sono io!
Moriarty: scusate… oh, Sherly! Non palparmi il sedere in questo modo, certe cose si fanno in privato!
John: SHERLOOOOOCK!!!
Sher: John, ragiona. Io sono dall’altra parte della stanza.
John: ah, già. Ma allora chi…
Mrs Hudson: oooh, Jim caro, ce l’hai sodo proprio come quello del mio defunto marito!
Tutti: …………………………………………….
Porco gatto. Scusate, dov’eravamo rimasti? Ah, sì! Dunque, parliamo di cose serie: so che probabilmente la reazione rabbiosa di Sherlock alla fine del capitolo potrebbe risultare OOC, ma teniamo in considerazione che il nostro colsunting detective è per metà animale, e questo và tenuto in considerazione. In secondo luogo, vi annuncio che nel prossimo capitolo faremo un tuffo nel passato di Sherlock e conosceremo meglio quel bambino che non è mai stato. E sì, alla fine il drago rosso è Irene! Sì, è proprio la nostra Donna pazza. E indovinate quanto romperà le scatole in futuro? Tanto. Tantissimo. Troppo. Ora la ammazzo, ci ho ripensato.
Irene: guarda che ci sento.
Chi se ne frega! Mi stai sui palloni da basket, non è colpa mia. Ora basta, spazio ai ringraziamenti!
FKk: ehi, tranquilla. La vecchia recensione è bellissima come sempre, già mi stupisce che trovi la pazienza di leggere e commentare ogni volta, perciò non scusarti proprio di niente. Anzi, mi scuso io per il ritardo. Eeeeehi, guarda che ci riesci di sicuro a descrivere draghi e ambienti in questo modo, ci scommetto. Se hai la pazienza di leggere questa… cosa… hai anche la pazienza di elaborare una descrizione fatta bene, ci scommetto! E riguardo Molly, ci faremo i conti nel prossimo capitolo, e non sarà piacevole. Ohohoho, come sono cattiva! A prestissimo e grazie!
AsfodeloSpirito17662: l’azione non mancherà, tranquilla. Non è facile catturare un drago, specie se quel drago si chiama Irene Adler. Gli umani l’hanno arpionata e tirata giù, ma come lo trattieni un drago adulto quando la sua sola apertura alare è più ampia di quella di uno pterodattilo? Suvvia, ho lasciato sognare un po’ le persone che l’hanno tirata giù dal cielo! XD anche se non dico poi quelle stesse persone che fine hanno fatto… coff coff… comunque, Molly non è stata salvata da un semplice drago, ma da QUEL drago! E chi non vorrebbe farsi un volo con Sherlock… comunque, grazie per l’augurio riguardante l’esame, ha funzionato! Grazie ancora e a presto!
Sonia_0911: Sherlock non lo ammetterebbe mai, ma è un tenerone. Fa tanto il duro, ma quando c’è di mezzo John la sua parte razionale parte per una vacanza a lungo termine. Ci metterà un po’ ad accettarlo, ma ehi! John sa essere paziente! Grazie per il commento e a prestissimo! Buona fortuna con gli esami!
Bbpeki: non sai quanto mi è costato non uccidere nessuno! In realtà questo capitolo doveva finire con una scazzottata tra Irene e Sherlock, ma non volevo mettere già la nostra Furia Buia nei guai. Adesso i loro casini hanno un nome, e si chiamano “Molly Hooper”. Buona fortuna a loro XD be’? Tu scrivi e io non vengo avvertita? Si muova a pubblicare, signorina! Qui c’è una fila che aspetta. No Gabe, tu no. Torna a leggere i tuoi porno! Comunque, no, la dragonessa ha una ben diversa identità. Spero di averti sorpresa con questa rivelazione. (Non ci sperare. Nd Gab)( fottiti!) Ehm… diciamo che Molly è l’ultimo dei problemi per Sherlock e John. Adesso abbiamo una ben più pericolosa Irene. Comunque, grazie per la recensione e per gli auguri riguardanti gli esami, hanno funzionato alla grande! Grazie!!!
Little Fanny: eheh, sotto questo aspetto mi sono voluta un po’ aggrappare ai rispettivi ruoli di Sherlock e John. Il primo risulta intelligente e all’occorrenza veloce, mentre il secondo è forza e carattere. Spero di essere riuscita a rispettare questa cosa… comunque, la nostra dragonessa è ben più che un semplice micetto. È Irene! E questo fa paura. Tanta. Buona l’ultima, Sherlock si porta dietro Molly. Solo che non urla, è svenuta. C’è da aver paura per quando si riprende… comunque, grazie mille per il commento, spero vivamente che anche questo capitolo ti piaccia. A presto!
Tony Stark: ehm… non è che il ritardo me lo perdoni anche adesso? No, perché io seriamente ero convinta di aver aggiornato due giorni fa… comunque, adesso che sai la vera identità della dragonessa, hai ancora voglia di definirla “povera”? Io non ne avrei molta, Irene è tutto fuorché povera! Grazie per il commento, a prestissimo!
Swindle: non so come ringraziarti per il commento e per le tue parole. Mi impegno sempre al massimo per scrivere qualcosa di decente, ma penso sempre di aver sbagliato tutto! Maledetta autostima sotto le scarpe! No, non ci sono esattamente delle fazioni tra draghi. Irene è… Irene. Ma ha i suoi motivi per aver attaccato John, anche se insomma, il cervello della Donna lavora in modi tutti suoi. Sì, Sherlock sta cominciando ad accettare la nuova stanza formatasi nel Mind Palace, ma i problemi per loro non sono finiti. In realtà, il loro primo problema è che hanno una bastarda per scrittrice, ma sorvoliamo. Comunque, grazie mille per il commento, spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento! A presto!
Kimi o aishiteiru: dai, per ora Molly l’ho tenuta priva di sensi, ma nel prossimo capitolo dovrà svegliarsi. Porca miseria, poverini quei tre… o poverini soltanto John e Noah… o povera Molly. Poveri, insomma. E piantala di dire che non sai scrivere, sei bravissima! Dillo ancora e non pubblico più! E ti sguinzaglio Irene alle calcagna. Dopo, capperi tuoi, eh! Comunque, come sempre i tuoi complimenti sono… troppo! Insomma, io non sono brava. Quella lo sei tu. Però spero che tu non debba rimangiarti tutto dopo questo capitolo… porca miseria, ho creato un mostro di scritto. Vabbé, ormai il danno è fatto. Grazie ancora, saluti a sorella e amiche e a prestissimissimo!
Sparrow: sono felice che le descrizioni abbiano sortito il loro effetto. In realtà mi sono trovata parecchio in difficoltà perché non è facile gestire il comportamento dei draghi. Quello degli umani sì, è prevedibile, ma quello dei serpentoni alati… cavolo. Comunque, se riesco a ritrovare il disegno di Sherlock con soprabito lo pubblico, ma devo raccattarlo in mezzo al mare di fogli sparsi in giro per casa. Sempre che non sia finito in bocca al cane. Incrocia le dita! Grazie e a presto!

Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 10
*** Grandi Re Del Passato ***


-Noah, dobbiamo tornare indietro!-
John si dimena, forza disperato gli artigli ferrei di Noah. Lo sente sbuffare infastidito, grugnire qualcosa in lingua straniera, ma non se ne cura. Sherlock è solo contro la stessa creatura che ha tentato di ucciderlo. Lui è forte, John lo sa bene, ma può difendersi adesso, dopo una battaglia estenuante combattuta tra palazzi in caduta libera e umani che sparavano a vista su di lui?
Ognuno ha un limite, ognuno combatte la sua linea di rottura, ma spesso è meglio non forzarla. John ha toccato quel confine tante volte, l’ha superato, l’ha scavalcato con le sue sole forze. E ancora adesso, se ci pensa, fa male. Ricorda il dolore più di ogni altra cosa, le urla, le lacrime trattenute. Un soldato deve imparare a valicare i propri limiti, nell’esercito è la prima cosa che insegnano, ma John si rifiuta di pensare che Sherlock voglia farlo. Non è logico, non è razionale. Rischiare tutto per cosa? Per proteggere lui? Non ne vale la pena, non per John.
-METTIMI GIÙ!!!-
Ma Noah non ascolta e anzi, con un possente battito d’ali accelera, slancia il corpo verso l’orizzonte dorato di crepuscolo morente. Respira a fondo l’aria pulita delle terre ancora libere dal grigiore umano, i giovani polmoni di bambino dilatati, limpidi. Quella distesa, dove mare e terra s’incontrano in dolci abbracci di sabbia umida e ciuffi d’erba smeraldina, è tutto ciò che rimane del loro dominio. Noah conosce bene quelle zone, così come gli è nota la giusta strada da percorrere.
Piega appena un’ala, vira leggermente a destra e sale su, verso il cielo, verso le nuvole. Respira il vento, si fonde con esso e fuggevole, sguscia tra mulinelli d’aria e raggi di sole dorato.
John si dimena ancora per un po’, si ferisce le mani a furia di sbatterle contro l’acciaio di scaglie affilate. Alla fine però, il corpo cede alla stanchezza e gli occhi si abbassano esausti, ma non sconfitti. È allora che poggiano lo sguardo sul nuovo mondo, sulle terre sempre immaginate e mai viste davvero.
Da bambino, John amava fantasticare. Immaginava che oltreoceano si stendessero magnifiche terre verdeggianti, draghi gentili e luna park pieni di giocattoli. Col passare del tempo, gli ultimi due elementi sparirono dalla sua testa, per lasciare il posto a nuove fantasie più realistiche, più dolorose, maggiormente impossibili. Eppure, non ha mai smesso di pensarci.
Adesso però, la realtà è davanti ai suoi occhi, respira, vive… ed è molto più bella di quanto abbia mai immaginato.
Laddove Dio non ha posto mano per realizzare il perfetto intreccio di terra, acqua e cielo, lì hanno operato i draghi. Il nastro d’acqua tinta d’oro che sboccia dalla cascata più grande che John abbia mai visto, cade a strapiombo verso il basso, tuffa i suoi rami liquidi in uno spumeggiare di cristallo che poi sfocia in un fiume sinuoso, volto ad allontanarsi indisturbato tra piccole rapide e mulinelli indomiti che baciano l’erba, sfiorano i fiori che ne emergono e abbracciano le radici sporgenti di alberi massicci, dai tronchi d’argento. Il muro che erige la cascata si inerpica verso l’alto in un intrecciarsi di rocce, erba e fiori selvatici, svetta contro le nuvole, alta come una montagna, possente come il più immenso dei mastodonti.
E proprio in contrapposizione all’aggraziarsi dell’acqua gorgogliante, alle spalle della cascata vi è un vulcano immenso, ribollente di lava trattenuta, ma ricoperto di salici piangenti. È strano, è bellissimo. L’intero distendersi del panorama si srotola in una lotta infinita tra fuoco e acqua che si intrecciano, danzano, si respingono.
Poi, ci sono i draghi.
Possenti, armoniosi, come splendidi angeli travestiti intenti a solcare i venti, i cieli, il mondo intero. Al bacio gentile del sole, le squame variopinte rispondono con il più strabiliante spettro di luci e colori che John abbia mai visto. Il risultato è che ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, appare dipinta di cristalli adamantini, preziosi e sempre in movimento.
-Dio mio… è questa casa vostra?- chiede John, guardando verso Noah. Lo vede annuire prima di slanciarsi verso il punto più alto della cascata, oltre le nuvole. I draghi fin lassù non giungono quasi mai. È un posto isolato, un punto cieco dovuto al muro che le nubi costruiscono radente il gettarsi della cascata. Ma è lì che la casa di Sherlock prende vita.
Gigantesca, a due piani. Ha il tetto spiovente e il porticato esterno sorretto da colonne bianche, di gusto antico. Sembrerebbe un tempio, se non fosse per le finestre aperte e la porta sradicata. Ma è umana. Quella casa è artificiale.
Noah atterra dolcemente, tiene sollevata la zampa stretta intorno a John per darsi il tempo di lasciarlo andare e tenerlo d’occhio mentre barcolla, colto dalle vertigini. Poi, le scaglie cominciano a ripiegare, gli organi si spostano per lasciare spazio a una dimensione ridotta, controllata, umanoide. È un processo veloce, accurato, che accartoccia l’immensità di una mole bestiale in un corpo piccolo, fragile di bambino.
Noah lo guarda, sostiene con entrambe le braccia il corpo abbandonato di Molly, che improvvisamente appare più grosso e ingombrante.
-Ehm… aiuto.-
John sorride e corre a soccorrerlo. Stringe a sé il corpo dell’amica, le bacia la fronte con dolcezza e si assicura che stia bene. Respira con calma, ancora un po’ pallida, ma illesa. Tutto grazie a Sherlock.
-Non finirò mai di ringraziare quel pazzo esibizionista del tuo amico.- ammette infine. Sorride, stringe a sé il prezioso regalo che Sherlock gli ha concesso. Una vita, un’amica, una sorella.
-Eh? Che significa esi… esbizista?-
John ride, si inginocchia per portare il viso a poca distanza da quello di Noah. Vorrebbe scompigliargli i capelli, ma servirebbero entrambe le mani per due diverse piccole teste.
-Esibizionista. Significa che gli piace stare al centro dell’attenzione.-
Noah batte le mani, ride spensierato.
-Ah! È proprio Sherlock!-
John ricambia il sorriso e annuisce gentilmente prima di tornare a rivolgere l’attenzione alla casa, squadrandola con attenzione, le pupille ristrette per la troppa luce.
-Che posto è questo?-
Noah saltella verso la porta sradicata e la spinge di lato per lasciare spazio a un John sempre più interdetto.
-La casa di Sherlock, è ovvio.-
L’interno della casa è… bizzarro. Sembra l’antico rimasuglio di una casa un tempo bellissima. Adesso però, le scale che si addossano alle pareti circolari dell’androne per condurre al piano superiore, sono cadenti, fatte a pezzi da ali troppo grosse e artigli troppo affilati. Il lungo tavolo d’ebano che un tempo doveva occupare maestoso metà sala giace a terra rovesciato, il pavimento è cosparso di cocci di vetro, i muri graffiati. Dalle finestre filtra una luce chiara, tranquilla e morbida come drappo di seta, ma niente riuscirebbe a sottrarre il macabro da quell’atmosfera devastata. John non può credere che un tipo elegante come Sherlock viva lì.
-Ma cosa… che è successo qui?- domanda titubante, fissando i muri anneriti. Noah non risponde, ma afferra il tavolo e lo ribalta senza sforzo, piccolo ma forte. Sbatte appena le ali, graffiando i muri, e spazzola dal vetro la superficie legnosa, incisa da profondi graffi.
-Ecco fatto.- Scende con un balzo e fa segno a John di appoggiarvi Molly. Se non cominciasse a pesare, gettata a peso morto tra le sue braccia, John non lo farebbe. Quel tavolo è sporco, graffiato, instabile. Eppure, John si fida del giudizio di Noah, sente che sotto quell’aspetto da bambino si nasconde qualcosa di più, qualcosa di troppo.
Gli occhi di chi è cresciuto troppo presto, John li conosce bene. Il suo sguardo di bambino era identico a quello di Noah, con la sua quasi mancanza di innocenza, con la sua stanchezza, con il suo eccesso di comprensione. I bambini non dovrebbero crescere presto, mai, ma questo al mondo non interessa. Un’innocenza compromessa è quasi invisibile agli occhi di chi non l’ha mai provata sulla propria pelle. Purtroppo, dall’alba della guerra tra umani e draghi, troppi bambini hanno assunto quello sguardo, troppi bambini hanno imparato a non versare più una lacrima per qualcosa che non sia un cadavere amico. Mai pianto per un giocattolo, mai pianto per un ginocchio sbucciato. Mai più.
-Dov’è la tua famiglia, Noah?- domanda John d’impulso, ma Noah non risponde. Gli fa segno di seguirlo, sfila con eleganza felina tra i frammenti scricchiolanti, con ali troppo grandi per quel corpo minuto. La coda violetta striscia sinuosa alle sue spalle, sgomberando il cammino dai detriti per far sì che John non si faccia male.
Oltrepassano il soggiorno, superano una cucina devastata, inutilizzata da anni, finché non raggiungono l’unica stanza in ordine.
È grande, immensa. Ha il tetto a cupola, le pareti ricoperte da librerie alte fino al soffitto, il parquet graffiato leggermente da artigli che con attenzione hanno calcato quel pavimento. In un angolo, incastrato tra i libri, sbuca un camino sagomato da morbide volute e incisioni antiche, incomprensibili. Al suo interno vi arde una fiamma nera e viola, sospesa a pochi centimetri dai ceppi immacolati. Getta tutto intorno un danzare di luci ed ombre, misti alle tinte arcobaleno del guizzare lucente delle lingue roventi impazzite, mai immobili.   
Davanti al camino vi è un tappeto enorme, di velluto, dove giace abbandonata la custodia di un violino.
-Siediti sul tappeto, ma ti consiglio di non toccare la custodia del violino. Ah, togliti le scarpe.-
John obbedisce e si sfila lentamente le scarpe, ipnotizzato da tutti quei libri antichi, giovani, grandi e piccoli. È come guardare in viso entità anziane o ancora bambine, abbigliate in pelle o stoffa, carta o altri materiali sconosciuti. Sono colorati, consunti, nuovissimi, arrecanti lettere e simboli arcani. John non ha mai visto un così vasto assortimento di tomi.
 -Meglio?- chiede Noah, accennando ai piedi nudi di John, ancora posati sul parquet. Solo allora l’ex soldato si accorge che il pavimento è caldo, piacevole come una carezza sulla pelle.
-Come… come fa ad essere così caldo?-
-Il fuoco.- Noah indica la fiamma fatua che danza lenta e pacifica nel camino. –Trasmette calore al resto della casa. Le Furie Buie possono farlo, sai? Il loro fuoco può ardere per secoli, se così desiderano.-
-Aha… e perché non abbiamo portato Molly qui?-
-Perché Sherlock andrebbe in bestia. Non accetta estranei, in questa stanza. In effetti, anche io ci sono entrato solo una volta.-
John siede cautamente sul tappeto, fissa incantato le fiamme danzanti, sinuose come serpi intrecciate. Sono bellissime e pericolose, proprio come il loro proprietario.
Ipnotizzato, John allunga una mano verso il camino, si bea del calore sempre più intenso che gli sfiora le dita, affondandovi gli artigli in profondità, sempre più in profondità. Comincia a far male, ma non gli interessa. Toccare quelle splendide lingue di fuoco sarebbe come toccare le scaglie acuminate di Sherlock? John è curioso di scoprirlo.
-No.- Noah gli afferra il polso, spinge la mano ad allontanarsi e improvvisamente, l’incanto si spezza. John sbatte le palpebre, fissa stordito Noah, specchiandosi nei felini occhi lilla.
-Che… che è successo?-
Noah lo lascia andare, si alza in piedi. –Non si guarda mai troppo a lungo una fiamma eterna. In ognuna di esse c’è anche un pezzo dell’anima del suo creatore. Non si fa. È una cosa privata.-
Improvvisamente, Noah sbatte appena le ali, sforzandosi di aprirle quel minimo necessario a slanciare il piccolo corpo in alto, verso i libri più vicini alla cupola. Si aggrappa agli scaffali come un pipistrello, spinge con la coda per aiutarsi a salire ancora finché non raggiunge un tomo specifico. Lo sfila con dolcezza, le piccole dita strette sulla copertina in velluto dorato prima di lasciarsi cadere e allargare appena le ali per attutire la caduta elegante, da felino. Rilassa gli arti e raggiunge John, che ancora si sforza di non fissare troppo a lungo le fiamme ardenti nel camino.
-Tieni.- dice Noah, tendendogli il tomo. John lo afferra titubante, accarezza la copertina sulla quale spicca il disegno astratto di un drago eretto sulle zampe posteriori, le cui ali intrecciate davanti al ventre s’incontrano con la coda e formano un simbolo simile a un pentagono.
-Cos’è?- domanda John, aprendo il libro con timore reverenziale.
-Uno dei tomi più vecchi che siano mai esistiti. Io non so leggere molto bene, ma guardo le figure e capisco. Se vuoi te lo spiego, questa storia me la raccontava sempre mamma.-
John annuisce intenerito e gli scompiglia i capelli arruffati, prima a una testa, poi all’altra.
Comincia a sfogliare le pagine ingiallite, fragili di troppe ere trascorse. E improvvisamente, per John è come entrare in un altro mondo.
Quelle raffigurazioni… sono splendide. Sembrano disegni, ma non possono esserlo. Nessun pittore rinascimentale potrebbe eguagliare tanta bravura, tanta accuratezza di dettagli. Ogni pagina è decorata ai bordi da arabeschi vermigli, che contengono simboli neri ed eleganti, collegati come creature inafferrabili che tuttavia sanno tenersi per mano. Non ci vuole un genio per capire che ogni parola è scritta a mano. Ma mentre da un lato la pagina si compone di elegante scrittura, dall’altro vi sono le raffigurazioni.
La prima indica un drago informe che faticosamente si arrampica fuori da un vulcano, le ali incartapecorite come fogli accartocciati, il muso arricciato, la testa troppo grande.
-I primi draghi nacquero direttamente dal nu… nu… nuvelo terrestre.-
John sorride. –Parli del nucleo terrestre?-
Noah annuisce energicamente. –Sì, quella cosa lì. Si scavarono la strada attraverso il cuore della terra finché non raggiunsero la superficie. La loro mole era tanto grande che per uscire, essi spinsero la terra in alto, sempre più su, e ne bucarono la sommità. Così, insieme ai draghi, nacquero i vulcani. Pensa quanto erano grossi! Anche più grandi di adesso!-
John volta la pagina, osserva incantato l’immagine di un drago che, seguito da altri, annusa l’aria e cerca di spalancare le ali informi. Alle sue spalle, alcuni draghi strisciano esausti verso l’acqua per lavarsi dalla lava, altri spariscono tra gli alberi.
-La secessione… scessione…-
-Scissione.-
-Sì, l’ho detto prima io! La scississione… non ridere… comunque, quella cosa, consisté nella separazione dei draghi. Alcuni scelsero di abitare l’acqua, altri la terra, il che gli fece perdere le ali, e altri ancora il cielo.-
-Cosa… ci sono draghi anche in acqua?-
-Oh, sì. Sono pochissimi, ma ci sono. Posso continuare?-
-Sì, scusa.-
-Dicevo… ah, sì! Col tempo i draghi si evolsero, impararono a covare il fuoco nei ventri e a crescere insieme alla natura, a rispettare il mondo, a viverlo anziché sopravvivergli. Videro una benedizione nelle ali che catturavano il vento e negli occhi adattati a vedere qualsiasi cosa. Fu allora, secoli dopo, che conobbero l’uomo. Fu paura dal primo istante, sai? I draghi non erano cattivi, volevano conoscerli… mamma diceva che gli uomini all’inizio scappavano e basta, ma poi con l’avanzare delle ere costruirono delle armi. I draghi impararono a tenersi a distanza, a volte rispondevano al fuoco quando gli uomini esageravano, ma non attaccavano mai. Fu nel 1512 che ci fu la svolta vera e propria. Leonarvo Da Rici…-
-Leonardo Da Vinci.-
-Sì, proprio lui… costruì una macchina. Non so come era fatta, ma… era brutta. Mamma diceva che somigliava a un grosso arpione contornato dall’inferno. Incoccava frecce enormi, cattive, che poi esplodevano, e nessuna sa come facevano. Leonardo ne lanciò una soltanto, ma ben mirata… uccise Nevora. Era il drago più saggio, il più buono di tutti noi. Mamma diceva che non aveva mai ucciso nessuno e che, se possibile, aiutava anche le altre creature. Era grazie a lei se i draghi di tutti gli elementi restavano uniti, nonostante le loro divergenze. Ma con la sua morte…-
-Si separarono.-
-Sì. Questa fu l’ultima grande scissione della nostra storia. Molti di loro persero amici e parenti in un solo colpo. A quanto ne so, i draghi d’acqua s’inabissarono e nessuno li vide più, e quelli di terra sparirono nel cuore delle montagne. Si dice esistano anche quelli di ghiaccio e di tuono, ma di questi ultimi ci sono rimaste solo le Furie Buie. O meglio, gli Holmes.-
-Holmes?-
Noah sorride, con la punta degli artigli afferra tre pagine insieme e le gira contemporaneamente. È allora che gli occhi di John si posano sulla raffigurazione più bella che abbia mai visto.
Una famiglia: aristocratica, elegante, bellissima. L’uomo dai capelli castani, lunghi, legati dietro la nuca da un impeccabile nastro d’argento, ha un viso sottile, gli occhi azzurri, penetranti, intelligenti. Le corna da ariete che sfondano la massa di morbida chioma lucente in due diversi punti, si ripiegano argentate e sfiorano gli zigomi pronunciati in una ruvida carezza. Le squame che dal collo scendono e infine spariscono sotto il colletto della splendida veste di seta, sono color del bronzo, brillanti come preziose pietre variopinte. Si riaffacciano sui polsi e sulle mani, di cui una stretta sullo schienale della poltrona sulla quale siede una donna bellissima, al punto che Irene appare misera e quasi insignificante se paragonata a tanta eleganza, a tanta gentilezza.
Ha i capelli neri e lisci, che come morbida cascata scendono fluenti ai lati del viso pallido, importante, che sovrasta un corpo asciutto, dal seno pronunciato ma pudicamente coperto dalla veste. Sulla sommità del capo emergono le corna ricurve, ad anelli, screziate di nero e argento che riflettono bagliori di luce sulle squame d’oscuro arcobaleno visibili anche in questo caso a partire dall’attaccatura della testa, lungo il collo longilineo e sulle mani intrecciate in grembo. Guardando meglio, John si accorge che in basso, oltre la poltrona e ai piedi dell’uomo, la coda della donna s’intreccia con quella di bronzo in un gesto d’affetto quasi inconscio, pulito.
Ai due lati della coppia, stanno due ragazzi. Ancora giovani, appena sorridenti di una serenità genuina, che John non riconosce. Il primo ha folti capelli castani, corna d’ariete, un viso paffuto e scaglie di bronzo. Intreccia le mani dietro la schiena, fissando l’inquadratura con occhi all’apparenza scuri, ma in realtà specchiati d’azzurro intenso. L’altro ragazzo invece è più magro, e sorride di una tranquillità quasi disarmante. Posa una mano sulla spalla della madre. Ha capelli ricci e neri, occhi cristallini, viso pallido e squame d’oscuro arcobaleno.
Non vi è traccia delle ali ma, abbigliati in quelle veste eleganti di seta, lunghe, aderenti e luminose come fatte di polvere di stelle, appaiono più belli di un sogno. John osserva le maniche ampie, i colletti rigidi che avvolgono i colli degli uomini e quello morbido che stringe quello della donna. Poi, i suoi occhi si posano sulle iridi cristalline di quest’ultima e del secondo ragazzo. Pupille identiche, da gatto. Pupille mai viste, di un colore cristallino, limpido, che potrebbe penetrare gli abissi del tempo e delle ere, scrutando in ogni anima, in ogni avvenimento.
-Sì.- dice Noah tristemente, accarezzando la pagina con dolcezza non più infantile. –Questa è la famiglia Holmes, l’unica grande famiglia decaduta, i grandi sovrani rinnegati della nostra storia. Qui abbiamo il padre, Odirian… e sua moglie, Nevora. Ai due lati ci sono i figli, Mycfort e… Sherlock. Sherlock Holmes.-
 
Angolo dell’autrice:
Un giorno o l’altro, il cast della storia si dimetterà, lo sento. Ammazzo gente senza neanche rendermene conto! Ok, questo potrebbe diventare il nuovo “Trono di Spade”.
Sher: Ha chiamato il signor George R. R. Martin. Vuole un colloquio. Credo abbia bisogno di qualche consiglio su come ammazzare la gente…
Zitto tu, e torna a ricostruire il set che hai bruciato con un esperimento!
Sher: non era un esperimento, tentavo di scappare da Mrs Hudson. Sembra che abbia affinato una particolare propensione al palpeggio dei posteriori altrui e… sinceramente, John non è molto contento di questa cosa. Ma niente la ferma, non so come abbia fatto a sopravvivere all’esplosione che ho causato…
Ma porco… ok, sono calma. Torniamo a noi… dicevo? Ok, spazio ai ringraziamenti, ma prima voglio dirvi una cosa: all’inizio, questa storia è nata come un tentativo, un piccolo esperimento. In realtà, ero abbastanza certa di dover cancellare la storia dopo il primo capitolo, vista la mia scarsa autostima. Tuttavia, i vostri commenti mi hanno concesso di arrivare fin qui. Ho pubblicato nuovi capitoli e ne pubblicherò altri. E tutto grazie a voi. Grazie di cuore. Grazie.
 Sonia_0911: oddio, speriamo che con questo capitolo tu non debba rimangiarti il precedente commento! Forse ho azzardato troppo con tutta questa storia della famiglia Holmes, ma quando scrivo non mi accorgo neanche io di quali tasti premo… i personaggi fanno quello che vogliono, insomma. Eheh, Irene sarà un personaggio abbastanza importante in tutta questa storia, ma più in là vedremo come. In realtà, io avrei più paura che sia John a rompere la nostra cara dragonessa, se allunga un altro artiglio su Sherlock. Ok, ti saluto e ti ringrazio per la solita pazienza che dimostri recensendo ogni volta! A presto!
Sparrow: allora, signore e signori, per impugnare un idrante antiIrene o un forcone stile folla inferocita, girare a destra. Lo so, non la adoro neanche io, ma mi serviva! Lo so che scassa parecchio le arance, ma che ci vuoi fare? I personaggi antipatici devono esserci, altrimenti su chi sfoghi la tua rabbia, di tanto in tanto? Vedrò come sistemarla, ma non sarà facile XD a presto e grazie!
FKk: grazie, ma il nobel lasciamolo a chi lo merita davvero XD descrivo una schifezza in realtà, ma quella roba che Sherlock ha sciolto nel caffè di ognuno di voi sta facendo effetto. Evvai! Allucinazioni! Eh, Irene in un modo o nell’altro doveva sbucare per frantumare i cosiddetti al prossimo. Poteva mai essere il contrario? Dannata sadica… grazie ancora per il commento e a presto!
Bbpeki: no, andrò al comicon di Napoli, e no, non penso che tu sia una stalker. Ho già incontrato allo stesso evento una mia lettrice e mi regalò un disegno bellissimo dei personaggi di “Dal Sole e Dalla Luna Nacque L’Alba” che tengo sempre nel portafogli. XD Irene fa paura in qualsiasi forma, anche in quella di invertebrato. L’ho sempre trovata piuttosto… ambigua. Insomma, se io ero al posto di Sherlock le sparavo un colpo in testa e me ne scappavo. Fa paura! Eheh, attenta a ciò che dici, forse quella odiata potrebbe non essere proprio Molly. E poi scusa, chi non ci proverebbe con Sherlock? non incrociare le dita dietro la schiena e rispondi sinceramente! Comunque, appena ho il tempo per respirare correrò a leggere le tue storie. Purtroppo non ho neanche le vacanze di Pasqua, quindi sto incasinata fino al midollo. Comunque, un consiglio: quando scrivi, non rileggere. Io i miei capitoli non li ho mai corretti, altrimenti cancellavo tutto. Scrivi, affidati alla mano e alla tua testa e vedrai che andrai benissimo. A presto!!!
Kimi o Aishiteiru: ma quale autostima finita! Io trovo i miei capitoli uno più brutto dell’altro! Questo non volevo neanche pubblicarlo, pensa te… sì, in realtà Sam è rimasto incastrato tra i braccioli della MIA sedia… non guardarmi così, ti avevo detto di non sederti, Bigfoot… comunque, è rimasto lì. E adesso il lavoro sporco lo fa lui muahahahahaha!!! Tra Irene e Molly non so chi sta ricevendo più maledizioni, oddio XD romperanno entrambe, stanne certa. E come disse Ron Wesley: “Soffrirai… ma poi ne sarai felice, vedrai”. Comunque, Molly continua a restare svenuta, dovrò ricordarmi di svegliarla… cacchio. E sì, Sherlock e Irene sono difficili da relazionare, ma non impossibili… sono uno l’opposto dell’altra a tratti, quindi avrò serie difficoltà a gestirli, me lo sento. In che guaio mi sono cacciata… ok, lasciamo stare. A prestissimo e grazie!!!

Tomi Dark Angel

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Capitolo 11
*** Suona Per Me. Suona Per Il Mondo ***


Quando era piccolo, John amava le storie. Come tutti i bambini, sognava di principi e principesse, di draghi cattivi e bestie fantastiche. Poi, crescendo, John scopre che le storie sono sbagliate. Si trova tra le mani un libro, un racconto nuovo, reale, distinto. E improvvisamente, i principi non combattono più i draghi. I principi sono i draghi.
 Sherlock è un drago.
Sherlock è un principe decaduto.
E improvvisamente, la bellezza appassita della casa, l’eleganza innata di Sherlock e i suoi modi di fare acquistano un senso. Ogni gesto, ogni parola, hanno sempre traspirato antichità, storie mai narrate, ere distrutte e dimenticate. Adesso, John pensa a lui in maniera diversa, ed è strano. Non riscontra somiglianza tra il viso rilassato del giovane illustrato sul libro e lo Sherlock tenebroso che conosce. Eppure, entrambi sono la stessa creatura, ma con storie diverse. Manca un pezzo.
John accarezza la pagina, scorre gli occhi sulla maestosità della donna, identica a Sherlock. Si specchia nei suoi occhi di vetro e si chiede quanto siano stati fragili, quanta luce abbiano perso quando si sono spenti definitivamente, andando in frantumi. John non può pensare che gli umani abbiano ucciso una creatura tanto bella. La guarda, e legge nel suo sguardo una dolcezza dimenticata, pura, incorruttibile.
Forse è vero che questo mondo non merita d’accogliere la reale purezza.
-E… Sherlock?- domanda John titubante, senza distogliere gli occhi dall’immagine. Noah distende le gambe, flette le dita artigliate dei piedi squamati e rovescia il capo all’indietro.
-Era lì quel giorno. Vide la madre cadere, alcuni dicono che riuscì ad afferrarla e a volatilizzarsi con lei. Quando riuscirono a trovarli, lei era morta e Sherlock non era più lo stesso: alcuni lo accusano di averle inferto il colpo di grazia, perciò fecero a pezzi questa casa e dispersero la famiglia. Da allora, Sherlock ha ricevuto più attentati che sguardi, ma non uccidi facilmente una Furia Buia. Sono l’arma più potente dei cieli e della terra, l’unica razza in grado di racchiudere in sé le qualità di tutti i draghi. Hanno l’agilità dei loro parenti di terra, respirano sott’acqua, volano, sputano fulmini. No, le Furie Buie non si uccidono.-
-Eppure la madre di Sherlock è morta…-
-Sì, ma fu uno scherzo del destino. Non doveva morire, lei era buona… perché i buoni muoiono, John?-
John lo guarda, si specchia nell’innocenza dei suoi occhi lilla. Non sa cosa rispondere, non vuole rispondere. Perché i buoni muoiono sempre? Perché non c’è posto per loro, qui. Perché sono sbagliati, nella loro purezza, laddove marcisce insano il seme dell’odio. I buoni muoiono perché sono buoni.
Improvvisamente, Noah solleva lo sguardo, quattro occhi sbarrati di paura e trattiene il respiro.
Una mano artigliata, coperta sul dorso d’inconfondibili scaglie oscure, afferra delicatamente il libro, lo sfila con lentezza dalle mani improvvisamente sudate di John. L’umano solleva gli occhi, guarda in viso uno Sherlock i cui capelli ricci, lucidi come piume di corvo, cadono a coprire gli occhi. Ha il capo chino, le labbra appena serrate come unico gesto di tensione e le ali troppo grandi per non apparire adeguate in quel luogo così umano, così inadatto a contenerle.
Eppure, adesso che lo vede, John non può impedirsi di paragonare quel viso così adulto, così inespressivo, a quello sereno del giovane illustrato sul libro. Adesso Sherlock è cresciuto, è diventato adulto e bellissimo, ma in lui manca qualcosa, un tassello importante che John non ha mai guardato. La sofferenza celata di quegli occhi, la solitudine autoimposta che l’ha sempre contraddistinto, adesso acquistano un senso.
-Sherlock… scusami, non volevo…- cerca di spiegare Noah, ma Sherlock si volta, raggiunge la libreria e solleva lo sguardo verso il punto più alto, laddove giace ormai vuoto il tassello del libro mancante.
-Se prendete un libro, poi dovete rimetterlo a posto.- dice soltanto. Trattiene ogni deduzione, si impone di chiudere e sigillare qualsiasi porta del Mind Palace. Nessun dato, assenza totale di informazioni. Non vuole guardare John, non vuole guardare Noah. Semplicemente, si limita a saltare, ad aggrapparsi agilmente agli scaffali per raggiungere il loro punto più alto. Fa scorrere il libro al suo posto, si impone di non accarezzarne la copertina. Quell’ammasso di fogli è nient’altro che spazzatura, sentimenti racchiusi tra pagine maledette. Non gli servono, sono una distrazione.
Sherlock si lascia andare e atterra con grazia, piegando le ginocchia per non danneggiare il parquet col suo peso eccessivo.
-Tu… sei un… principe?- mormora John, con la gola secca. Adesso Sherlock lo guarda, e il suo è uno sguardo talmente glaciale che John deve costringersi a non abbassare gli occhi, a sostenere quella terribile occhiata. Ha davanti lo sguardo di ere trascorse e dolore asfissiante, uno sguardo antico, senza tempo, che fa sentire John piccolo e indifeso.
Lentamente, con calma, Sherlock si china, accosta il viso a quello di John, che trattiene il respiro, ascolta i battiti impazziti del suo stesso cuore. Si costringe a non guardarlo negli occhi, a non inspirare il suo profumo, a non andare nel panico. Sente di non doversi tradire, perché quello che sta vivendo è un momento raro, prezioso, inaspettato.
La guancia di Sherlock accarezza la sua, i capelli corvini gli solleticano il mento in una carezza perversa che gli ricopre la pelle di brividi angosciati e sudore gelato. Un fiato bollente gli sfiora l’orecchio, soffia l’inferno fin dentro il suo animo, portandovi scompiglio e confusione.
-Non fare domande stupide, John.- mormora Sherlock con voce morbida, pericolosamente sensuale. E improvvisamente, le mani di John si chiudono a pugno, i muscoli si tendono nello sforzo di restare immobili, la mente vola verso scenari sensuali, a luci rosse, che allarmano l’umano più di ogni altra cosa. Immagina quegli artigli piantati nella sua schiena, quella pelle mista a squame sotto le dita, quella voce che più e più volte mormora il suo nome…
Improvvisamente, un urlo. Sherlock si ritrae lentamente mentre John al contrario si volta di scatto, rosso in viso e col fiatone. Noah lo imita, irrigidendo la coda e le ali, pronto a scattare.
-Oh, a proposito: la tua amica si è svegliata.- comunica Sherlock con calma. John sbarra gli occhi.
-Da quanto?!-
-Da circa cinque minuti.-
-E tu non me lo dici?! Già è qualcosa se non è scappata?-
-Come sempre, parli prima di ragionare, John. Ogni essere umano reagisce in maniere differenti allo shock: fuga, caduta in stato confusionale o delirante, isteria, paralisi. Respiro affannoso, occhi sbarrati, battito cardiaco in pressante aumento e sudorazione della pelle, sono tutti sintomi di uno stato di paralisi. In effetti, immaginavo che ci avrebbe impiegato di più a riprendersi, ma in ogni caso sarebbe risultato da escludersi la fuga dalla zona, considerata l’altezza della cascata e i miei simili ben visibili anche ad occhi umani. Credo appunto che sia uscita e poi rientrata urlando.-
John mastica un’imprecazione e corre nella stanza adiacente, dove una Molly terrorizzata preme la schiena contro la parete più lontana, gli occhi sbarrati, il cuore a mille. Ansima, si sente prossima ad un attacco di panico. Poi, quando vede Noah e le sue due teste, la reazione non si fa attendere.
Un altro urlo, un'altra scarica di tensione. Molly si afferra la testa tra le mani, si raggomitola, dondola sul posto. Vorrebbe svegliarsi, vorrebbe uscire da quell’incubo.
-Molly, calmati. Sono io.-
John non si avvicina, ma lascia che le ginocchia poggino terra, che il corpo si accucci per sembrare meno minaccioso, meno torreggiante. Molly non lo guarda, scuote convulsamente la testa, emettendo un affanno violento, sempre più pesante.
-Rischia un infarto, se continuiamo così.- mormora John, ma poi qualcosa lo distrae. Vede gli occhi di Molly saettare su Sherlock, dilatare la pupilla. John quello sguardo lo conosce bene: probabilmente anche lui lo guardava così, all’inizio. È un piccolo indizio, ma può aiutarlo a sbloccare la situazione prima che diventi disastrosa.
-Sherlock, fai un passo avanti. Lentamente.-
-Cosa? John, non essere illogico…-
-Sono un medico, e ti dico che rischia un infarto se non la calmiamo. Forse in te riconosce l’identità del suo salvatore, perciò al momento tu sei l’unico punto fermo che ha.-
Sherlock sbuffa scocciato prima di avanzare di un passo. John vede le ali contorcersi nel vano tentativo di schiacciarsi tra loro, di risultare più piccole. Anche se lontana, la parte più sensibile di Sherlock adesso lampeggia, si sforza di capire, di studiare le illogiche reazioni umane. Paragona gli occhi scuri di Molly a quelli di John, così vivi, così lucenti, come zaffiri affondati nell’insignificante bigiotteria. Si costringe a sostituirli, a rimodellare il viso di Molly. È tutto un esperimento, una prova.
Vuole capirsi, Sherlock.
John. Come reagirebbe se in quella situazione ci fosse John?
Attraversa i corridoi, apre le stanze più importanti. Dodici, quarantotto, sessantadue. Quelle porte non le spalanca quasi mai, solitamente non gli servono.
-Vieni.-
Molly smette di ansimare, ancora stordita solleva lo sguardo sulla mano tesa. È pallida, artigliata, coperta sul dorso da micidiali scaglie luminescenti. Eppure, è anche umana, come prova la pelle pallida che si tende sul palmo.
-Vieni.-
Molly ascolta quella voce calma, profonda come gli abissi della terra. Chiude inconsciamente gli occhi, inconsapevolmente calma il respiro e il battito rallenta, la sudorazione diminuisce. Le fa male tutto, ma adesso è calma, serena. Come animata di vita propria, la sua mano si tende, sfiora timorosa gli artigli, le squame, per poi scivolare sul palmo morbido di seta. Tocca l’incavo del polso, scopre timorosa l’abbraccio tra squame e pelle. È bello. Bellissimo. Sono questi i veri draghi? Molly non riesce a paragonare quel volto d’angelo, quelle corna ad anelli, quegli occhi consapevoli, intelligenti e anziani, a quelli delle bestie che attaccano la città.
Guarda John, studia i suoi occhi, lo sguardo di totale dolcezza che posa sulla creatura. Lo fissa con affetto e fedeltà incondizionati, un intreccio paradisiaco di totale fiducia e… amore. Quelli sono gli occhi di chi è pronto a sacrificare tutto pur di proteggere il destinatario di tale sguardo. E lentamente, davanti ad esso, tutti i pezzi scivolano al loro posto: il caso risolto di Lestrade, le continue sparizioni di John, la sua depressione e il persistente bisogno di lasciare sul davanzale una tazza di tè caldo. Non era pazzo. Era… innamorato. È innamorato.
-Mio Dio.-
John sorride. –Sei al sicuro.- dice.
Ma Molly non lo ascolta. Fissa ancora la sua mano, poggiata su quella di Sherlock così grande, così diversa dalla sua. È un incontro, un morbido abbracciarsi di due diversità allo stesso tempo così simili. D’improvviso appare tutto stupido, insensato, grigio. Morti inutili, paura immotivata, guerra malata. Per cosa lottano da così tanti anni? Per quale motivo lei ha perso amici e famiglia?
-Voi siete… diversi.- mormora con voce roca, gli occhi improvvisamente lucidi, il cuore palpitante. Sherlock annuisce, sente di dover trattenere qualsiasi inumana risposta perché questo è un momento importante, il segno che qualcosa alla fine si muove per il bene.
-Voi siete… semplicemente diversi.- Molly si ripete, guarda John con occhi sbarrati d’improvviso rancore. –Perché?-
Così Sherlock sente che il suo ruolo è finito, che adesso è il momento di John. Ha fatto abbastanza.
Si raddrizza lentamente sotto gli occhi attoniti di Molly, indietreggia di cinque passi per condursi accanto a John. Si volta, lo guarda di sfuggita. Poi, fa un cenno a Noah ed entrambi si allontanano, varcano la porta ed escono.
 
-Non posso crederci. Non voglio crederci.-
Adesso, Molly singhiozza apertamente. Si preme una mano sulla bocca, stringe forte gli occhi mentre gocce di cristallino dolore le scivolano sul viso ancora sporco di fuliggine. John le passa un braccio intorno alle spalle, le bacia i capelli, ma non può fare nulla per alleviare la sua sofferenza. L’ha affrontata anche lui, e non è facile pensare che per tutta una vita hanno lottato contro un nulla di fatto. I draghi agiscono in nome di una sovrana defunta, gli uomini a causa della loro ignoranza. Ormai, il dilagarsi dell’odio ha radici ben più profonde di quelle storiche.
Forse nessuno ricorda perché tutto è iniziato, forse a nessuno interessa davvero più. Adesso si combatte, si uccide, e questo è tutto ciò che conta. È la guerra. Funziona così.
-Puoi piangere, se vuoi.- si limita a rispondere John, e allora Molly lo accontenta. Artiglia il suo maglione sbrindellato, affonda il viso nell’incavo della sua spalla e rilascia un grido sofferente, liberatorio, rivolto al cielo dei draghi e alla terra degli uomini. Piange lacrime innocenti, che nessuno vedrà mai, delle quali nessuno saprà interessarsi.
Ha visto troppo, Molly.
Ha perso troppo.
Ha sempre pianto troppo poco.
John le accarezza la schiena, anche lui stringe forte gli occhi per trattenere altre lacrime: ricorda i visi della sua famiglia, i momenti trascorsi tra le braccia di sua madre e le carezze di suo padre. Litigava spesso con sua sorella Harry, ma era divertente. Adesso però, intorno a lui c’è silenzio. Li ha visti morire tra le macerie di un palazzo caduto, ha ascoltato gli ultimi gemiti di sua madre.
“Sta bene tua sorella?”, era riuscita a chiedere mentre moriva. Non poteva vedere John, che stringeva a sé il corpo di Harry appena un metro più su, oltre i detriti dove erano rimasti bloccati tutti loro. Harry aveva il collo spezzato e la colonna vertebrale in frantumi. Quando l’avevano tirata fuori dalle macerie, era ridotta a un informe ammasso di carne.
“Sì, sta bene. Stiamo bene tutti, anche papà”, aveva risposto John. Ancora oggi si illude di averle donato quel po’ di serenità che le mancava, ma sa bene l’ormai giovane uomo che le madri sentono i figli morire. È una sensazione che riconoscono, un vuoto che invade il ventre, come se portassero ancora in grembo i loro bambini.
-Non le ho mai detto la verità, sai?- mormora alla fine. –Non le ho mai detto che Harry era morta. Sarebbe stato come ucciderla due volte.-
Molly smette di singhiozzare, leva su di lui due grandi occhi brillanti di lacrime. Capisce di cosa parla John, trattiene il respiro perché lui della morte della sua famiglia, non parla mai. È la prima volta, e per Molly è come avere davanti un John nuovo, ritornato bambino. Per un attimo fissa l’uscio di casa, sorride appena e silenziosamente, ringrazia Sherlock Holmes per quel miracolo.
 
È quasi sera quando John esce dalla casa. Varca la porta timoroso, forse aspettandosi di trovare un drago nemico pronto a sputargli in faccia l’inferno dei suoi polmoni. Ma non accade niente del genere. Al contrario, ciò che si stende dinanzi agli occhi di John, è una nuova, splendida facciata di paradiso.
È calata la notte, ormai. Il cielo dovrebbe essere blu scuro, forse punteggiato da sporadiche stelle. Ma non è così.
Sulla sua testa si stende la più gloriosa delle aurore boreali. Danza nel cielo, scuro di un delicato blu cobalto, distende le sue appendici, graffia la continuità del colore base per tingerlo di sfumature nuove, in continuo mutamento, come pelle di camaleonte. A intervalli, la lucentezza esagerata delle stelle fisse, così come delle continue ma fugaci comete, buca la coltre boreale nei suoi punti più sottili per illuminare il terreno di sottili fasci di diamante. 
La luna appare gigantesca, grande più dei draghi, come un enorme tramonto, e affonda le sue radici all’orizzonte, nella terra che, spaccata a metà dalle acque della cascata, si tuffa in ogni direzione coi suoi fiori, la sua erba di smeraldo, i suoi sporadici ma insoliti alberi secolari.
Ed è proprio dinanzi all’acqua che si erge Sherlock: non indossa più il cappotto, ma John è lieto di notare che almeno i pantaloni non li ha dimenticati. Ha un braccio alzato, impugna un violino trasparente, di cristallo forse. Alla luce della luna, le sue squame… semplicemente non hanno un colore. Sono punti luce, come se diamanti splendenti sporgessero dal corpo pallido e delineato, dipinto d’ombre che evidenziano ogni muscolo, ogni vena e arteria sporgente. Il palco di corna pare illuminato d’argento purissimo misto a screziature d’oscurità laddove la luce non tocca, e gettano sul viso rilassato l’ennesima ombra, l’ennesimo mistero che pone ancora più antichità in quegli occhi lontani secoli e secoli, invecchiati, tanto intelligenti quanto stanchi.
Le ali sono chiuse ma chine a terra, come drappi di pregiata seta oscura che si aggrappano alla schiena e scivolano di morbido mantello sull’erba, oltre la coda avvolta in larghe spirali intorno al corpo.
-Non suoni?- chiede John, incuriosito. Nota infatti che Sherlock impugna il violino, ma l’archetto non si sposta. Vede il drago sbattere le palpebre, riprendersi dai suoi intricati pensieri. Appare un po’ scosso, ma John non sa perché.
-No.-
Sherlock abbassa il violino mentre John si avvicina cautamente, costringendosi a non fissare il torace scolpito dell’altro. Raggiunge la sommità della cascata, si sporge appena per fissare in basso, verso il vertiginoso tuffo che le acque compiono contro le nubi, giù fino alla terra adesso invisibile agli occhi di John.
-Fossi in te, mi sposterei, John.-
-Perc…-
Ma Sherlock compare al suo fianco, gli cinge la vita con un braccio, facendo urtare l’archetto contro il ginocchio di John, e con una spinta possente li fa arretrare entrambi. In quello stesso istante, la sporgenza di roccia scricchiola, si ricopre di crepe e và in frantumi, piovendo verso la sua fine.
John fissa il punto ormai vuoto dove fino a poco fa stazionava. Non si accorge che Sherlock l’ha lasciato andare.
-Come… come l’hai capito?-
-C’erano già delle crepe in quel punto. Roccia graffiata, scricchiolante, in diversi punti è incisa da artigli di drago. L’ultimo che si è lanciato da quassù, l’ha fatto un istante prima che la roccia cominciasse a cedere. Probabilmente è il tentativo imbecille di un ritardato che sperava di vedermi precipitare dalla sommità della cascata dopo essermi spezzato un’ala sbattendo contro la sua fiancata.-
Sherlock sbuffa, sposta l’archetto nella stessa mano che stringe già il violino. John lo fissa, cerca di scavare in quegli occhi così freddi, così lontani.
-Tu non… hai mai pensato di andartene?-
-A che pro? Mi verrebbero a cercare, e non è nel mio stile vivere da reietto.-
-Ma allora perché non ti difendi? Perché non dici a tutti che non hai colpa per… insomma, per…-
-Per la morte di mia madre?-
John si irrigidisce, pensa di aver esagerato. Quelli non sono affari suoi, dopotutto.
Ma Sherlock non pare infastidito. Lo fissa con una strana, nuova morbidezza nello sguardo. Certamente ha notato il suo nervosismo, e forse questo lo diverte almeno un po’.
-Mi dispiace per tua madre.- dice improvvisamente Sherlock, e John lo guarda con occhi sbarrati.
-E tu che ne sai?- risponde bruscamente, pentendosene subito. Dopotutto, ha iniziato lui con l’invadere la privacy di Sherlock.
-Ho sentito tutto. Al contrario di voi bestioline con scarse capacità fisiche e intellettive, noi ci sentiamo benissimo.-
John non risponde. Fissa lo scorrere delle acque, si chiede quanto ascoltare la sua storia lo abbia cambiato agli occhi di Sherlock. Forse adesso gli sembra più debole del solito, troppo soggetto ai sentimenti e alle lacrime. Non vuole che Sherlock lo creda un debole, ma non ha la forza per smentirlo o continuare a parlarne.
-Potresti… potresti suonare?- chiede John alla fine, senza guardarlo negli occhi. Siede sull’erba, si abbraccia le gambe come un bambino che tenta di proteggersi dal mondo. Cala le palpebre, aspetta paziente che qualcosa cambi, che anche stavolta Sherlock lo aiuti a uscire dall’inferno che è diventata la sua testa.
Poi, d’improvviso, l’ennesimo miracolo si manifesta. La musica lo abbraccia come una coperta, spazza con dolcezza ogni grinza di dolore, ogni fosso di sofferenza, appianando la sua mente. È una melodia gentile, antica, malinconica, che narra con voce arcana di una storia lontana, dimenticata. John non ha mai sentito un suono così delicato, come canto di mille sirene. Chiude gli occhi, affonda tra le pieghe della musica, dimenticandosi di se stesso, dimenticando i ricordi e il dolore.
Improvvisamente, la sua mente si affolla di draghi maestosi che solcano i cieli. Li immagina danzare, sovrani del loro elemento, della loro grandezza. Poi, dall’affollarsi di splendide creature, ne emerge un’altra più grande, più gentile, diversa. Nera, dipinta di oscuro arcobaleno, con grandi corna ad anelli. John non fatica a pensare che possa essere la madre di Sherlock, quella.
Sorride, si perde nell’immaginazione, tra le onde della musica. Segue la sua narrazione, il suo sinuoso racconto di storie dove draghi splendenti dipingono i cieli e nel mondo, la guerra non esiste.
Il corpo si rilassa, John quasi non si accorge di dormire. Crolla all’indietro, senza peso, perso tra i racconti, tra le pieghe del canto di violino. Ad accoglierlo, c’è un’immensa ala di seta, più morbida dell’erba, più morbida di qualsiasi coperta. Lo abbraccia, ripiega su di lui in un abbraccio protettivo.
Sherlock passerà la notte a suonare. Per John, per le vittime della guerra, per la sua famiglia devastata. Chiude gli occhi, immaginando la voce di sua madre intonare quella stessa melodia ora inalberata da archetto e violino. Non era così. Quando cantava lei, il mondo si fermava. E lui, Sherlock, trovava quella pace che da secoli non ricorda neanche più.
Eppure, la melodia funziona ancora. Pone mano su John, lo rassicura, lo accarezza, e d’improvviso il suo volto ringiovanisce, si rilassa, scala gli anni dalla sofferenza che adesso appare assopita.
Sherlock invece no: lui ingabbia la sofferenza, la domina, la schiaccia in una stanza sicura del suo Mind Palace. Ha chiuso la porta a chiave, a doppia mandata. Non la aprirà mai, mai più: una volta sola gli è bastata.
Mai più.
 
Angolo dell’autrice:
Ta-daaaan!!! Coraggio signori, ora tutti insieme ad augurare un’ottima Pasqua ai nostri magnifici lettor… Sherlock? Che stai facendo!
Sherlock: Moriarty.
Che c’entra?!
Sher: mi ha sfidato.
Non mi interessa! Ti avevo detto di vestirti da coniglietto, non da ippocampo! Da dove l’hai preso quel costume?!
Sher: me l’ha prestato Mrs Hudson.
Quella donna fa sempre più paura… comunque. Passiamo alle cose serie. Comincio con l’augurare la più splendida Pasqua del mondo ai miei lettori, specialmente ai miei bellissimi draghetti recensori.
Vi auguro di trovare la pace interiore, così come l’ha trovata John.
Vi auguro di trovare il vostro Sherlock, il vostro drago protettore.
Specialmente, vi auguro la serenità. E non perché sia Pasqua. Vi auguro questo perché in certi momenti, anche quando la pace vacilla e tutto crolla intorno a voi, è giusto ricordare che prima o poi, che lo vogliate o no, le cose cambiano. Ogni tempesta passa, ogni mare agitato alla fine trova la sua tranquillità nel costante infrangersi delle onde contro la costa. Quando il dolore è troppo forte e vi sentite deboli, ricordatevi di voi stessi. Ognuno può affrontare la propria sofferenza, così come fanno Sherlock e John. Trovate il vostro pilastro, appoggiatevi ad esso, e andate sempre avanti. Che queste piccole feste, oltre che una pancia piena, vi portino pace e conforto, così come meritate tutti voi.
Un abbraccio speciale e un ringraziamento dal profondo del cuore, oltre il mio più grande augurio a:
Bbpeki
FKk
Sonia_0911
Little Fanny
Kimi o Aishiteiru
Sparrow
Auguri. E grazie per il sostegno che mi date, questa storia è dedicata a tutti voi.
Sherlock: eh? Perché mi guardi? Ah, sì. Auguri. E no, tu quella foto non la metti sul web. No, non prov…

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Tomi Dark Angel

 

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Capitolo 12
*** Porta Sigillata ***


Passi. Passi attutiti, lenti, misurati. Una figura longilinea sfila rilassata tra due ali ordinate di porte chiuse, aperte, accostate allo stipite. Alcune risultano blindate, ricolme di lucchetti, sigillate nella loro consistenza di forziere sacro, importante. Sherlock Holmes le conosce tutte, quelle porte. Le ha create lui stesso, le ha manipolate con le sue mani, mattone dopo mattone ha eretto il suo Mind Palace. È luogo di pace, è luogo di serenità e ragionamento.
Corridoio uno, primo giorno di vita: risulta vacuo, quasi assente. Sherlock non ci è mai tornato, le sue prime impressioni di bambino sono nient’altro che macchie di colore e vortici insignificanti di lacrime ed emozioni. No, decisamente no: non sta cercando niente del genere. Anzi, non sta cercando affatto. O forse sì?
Lui non cerca mai, non ne ha bisogno. Conosce a menadito il suo Mind Palace, i morbidi fiumi dei suoi ragionamenti, i loro andamenti tranquilli e mai instabili.
Avanza ancora, sfilando lungo le pareti bianche, oltre porte bianche, su un pavimento bianco. Ogni cosa è incolore, ogni cosa è calma e purissimo ragionamento. Sherlock cammina sulla logica, muove i passi su ragionamenti, dati, informazioni.
È sempre stato tutto bianco, qui.
Adesso no. C’è qualcosa di diverso, qualcosa di strano. Ripassa a mente tutti i corridoi che conosce, tutti quelli che ha percorso nello scorrere dei secoli. Sì, li riconosce tutti.
Eppure, sente che il Mind Palace è cambiato. La luce pare diversa, le pareti appena più sbiadite. Si è mosso un tassello, qualcosa che Sherlock non ha realmente toccato. Non è normale, non è sano. Il Mind Palace è suo e suo soltanto. L’ha costruito lui, l’ha edificato con mani di logica e mattoni d’intelligenza. Ne conosce ogni stanza, ogni dato.
Ma d’improvviso, un ammiccare di luce fuori posto, un sinistro scintillio alla sua destra. Qualcosa che prima non c’era, adesso si palesa ai suoi occhi. Alla fine del corridoio, dinanzi a lui, vi è una porta sconosciuta. Non l’ha mai edificata, non l’ha mai sentita innalzarsi. L’ipotesi più plausibile è che sia sempre stata lì, ma Sherlock si sente stupido solo a pensarlo: se ne sarebbe accorto, ovviamente. Ovviamente. O forse no.
Avanza lentamente, squadra la porta con diffidenza. Venticinquesimo piano. Non ci sono porte del genere al venticinquesimo piano.
Gli occhi scivolano, studiano, capiscono.
Superficie graffiata: qualcuno (chi?) ha cercato di aprirla senza successo.
Graffi non troppo in alto e poco profondi: bassa statura, debole, unghie corte.
Sangue raggrumato: vecchio di anni, causato dalla foga dei graffi.
Questi dati non dicono niente. Questi dati dicono tutto. Nessuno entra nel Mind Palace. In quel posto, le regole le stabilisce Sherlock, e lui non ha mai graffiato quella porta.
Allunga una mano rigida, tesa, pallida. Le dita si avvolgono intorno alla maniglia arrugginita, stringono convulse mentre forzano la porta ad aprirsi. Niente. Non che Sherlock si aspettasse il contrario. Ma non è normale, qualcosa sta andando storto. Le porte non si creano da sole, né tantomeno si sigillano in quel modo. Solo lui può farlo.
Perché ha sigillato quella porta? Agire inconsciamente non è da lui, non è logico, non è… normale.
Ma qualcosa lo distrae. Un rumore, la sensazione di qualcosa che gli sfiora il viso. Guarda in alto, verso il soffitto che poco a poco si fa trasparente mentre il Mind Palace scompare e, per ordine di Sherlock e Sherlock soltanto, la mente ritorna alla realtà.
 
Alcuni dicono che il sonno equivalga a una situazione di stasi, un limbo senza nome ove solo l’inconscio stende la mano, plasma i desideri, li realizza sottoforma di sogni… o di incubi. A volte però, quel limbo si svuota, s’appiana di tranquillità e d’improvviso finanche l’inconscio riposa. È una sensazione bella, di leggerezza. John Watson la prova in quell’istante, sulla pelle, tra i capelli, lungo ogni singola vena.
Nessun incubo, nessun sogno.
Vuoto, silenzio.
Poi, il sottile manto di pace sussulta, si contorce infastidito. John avverte uno strano fastidio agli occhi, ascolta il pulsare del battito cardiaco nelle orecchie. E d’improvviso, il mondo ricomincia a scorrere.
Come dipinto a pezzi da un pittore esperto, il mondo riprende a respirare poco a poco, attraverso i sensi di John. È un mondo strano, diverso… forse sta sognando davvero, stavolta.
Tatto: c’è calore. Un calore piacevole, non esagerato, ma abbastanza dolce da trasmettergli la temperatura perfetta. Tutto intorno, sotto i polpastrelli che timidi cominciano a muoversi, qualcosa di sottile ma talmente morbido da sembrare splendida seta, la più soffice che John abbia mai toccato.
Olfatto: profumo. Aghi di pino? Sì. Profumo speziato? Anche. Aroma di fiori selvatici? Decisamente.
Udito: mormorio d’acqua che s’infrange contro… cosa? Massi? Sì, parecchi, a giudicare dal fragore. Non è fastidioso, solo… rumoroso.
Lentamente, con cautela, John solleva le palpebre, le sbatte più volte per abituarsi al bacio dorato del sole. Osserva il completarsi di quel nuovo, splendido mondo che soltanto nei sogni può edificarsi. Respira i suoi profumi, tocca le sue appendici di soffice erba,  osserva il danzare di scaglie e ali lontane lì, nel cielo dipinto di pallida aurora boreale, visibile poco più dell’arcobaleno che, più vicino, s’inarca proprio sulla testa di John per poi tuffarsi giù dalla cascata, compagno delle acque.
John si muove, sposta le mani dall’erba soffice di seta per toccare qualcos’altro, una coperta tanto sottile da apparire quasi inconsistente tra le dita, ma tiepida e profumata più dei fiori sottostanti. Lo abbraccia senza stringere, poco invadente, gentile, inarcata su di lui come involucro materno, dolce di un tocco fugace. John riconoscerebbe quell’ala d’oscuro e variopinto arcobaleno ovunque.
Volta appena il capo, posa strabiliato gli occhi sul suo proprietario. Non ha mai visto Sherlock così da vicino. Lo fissa dormire, le palpebre calate, l’espressione appena contratta, la pelle luminosa come preziosa madreperla. Ha i capelli scompigliati, morbidi sulla fronte mentre scendono giù, lungo le guance, fino ad adagiarsi sull’erba sottostante. Le corna affondano nella terra, rilanciano lucenti riflessi cristallini tutto intorno, sulla pelle scoperta del collo e del torace, dove le squame ripetono il gioco di luce in un eterno, incantevole cerchio infinito. È un sogno, è il sogno più bello che John abbia mai fatto.
Non sa cosa lo muove, non sa cosa lo spinge ad agire, a rischiare. Timoroso, allunga una mano, sfiora con cautela i ricci scombinati, soffici come nuvole. Vi affonda la mano come ha sempre sognato di fare, si bea delle carezze che scivolano gentili lungo la pelle. Vuole osare di più, ha bisogno di sentirlo, di toccare Sherlock e sapere che no, non l’ha immaginato.
John si accosta al suo corpo, scivola silenzioso al suo fianco, timoroso di svegliarlo, di cadere di nuovo in quell’inferno senza di lui, come è stato l’ultima volta. Di nuovo, torna a muovere le dita, le lascia scendere lungo l’orecchio, sul collo, leggere come ali di farfalla. Poi risale, e ad ogni tocco, ad ogni sfiorare di soffice striscia di pelle, John si sente completo, sereno. Sta toccando un sogno, sta vivendo una rarità unica.
I polpastrelli viaggiano, osano, azzardano nuovi tocchi gentili. John non ha mai accarezzato qualcuno così. È un ex soldato, sin da ragazzo ha sempre impugnato armi, ha sempre chiuso le mani in pugni serrati, volti solo ed unicamente all’autodifesa. Adesso però, quelle stesse mani ruvide si fanno gentili, leggere come mai in vita loro.
Il corpo di John reagisce, s’accosta silenzioso e inconsapevole all’ottava meraviglia del mondo.
Le dita continuano la loro esplorazione, muovono sapienti su quei tratti che gli occhi hanno ammirato, studiato, memorizzato. Infine, i polpastrelli s’adagiano sule labbra a cuore, appena schiuse in un soffio di respiro profumato. John le fissa, deglutisce a stento.
Può osare?
Merita seriamente d’accostarsi dall’angelo più bello che la storia abbia mai avuto modo di ospitare?
S’azzarderebbe a chinarsi su un principe decaduto, parte vivente di quelle favole che ascoltava da bambino?
John pensa, si pone tante domande, e nel mentre, non s’accorge di essersi chinato. Le labbra posano leggere e fuggevoli su quelle di morbida seta di Sherlock. Se quello è veramente un sogno, John decide che è suo e suo soltanto. Vuole viverlo, almeno per una volta, almeno nella sua testa.
Poggia una mano sul collo morbido di Sherlock, l’altra si adagia sulla sua guancia. Muove appena le labbra, schiude quelle della splendida creatura per insinuarvi la lingua, toccare la sua, così calda, così morbida. Le labbra di Sherlock hanno un sapore speziato, che si mescola perfettamente al profumo.
Morbide volute di fumo argentato, dolce di vaniglia, riempiono la bocca di John, giocano col palato, fuoriescono dalle labbra ancora schiuse, che lasciano passare la lingua esploratrice, azzardata.
È un sogno, è il più bel sogno che John abbia mai fatto. Vorrebbe non svegliarsi mai, vorrebbe che anche nella realtà fosse così facile osare, accostarsi a Sherlock per baciarlo. È come affondare tra acque calde, piacevoli, appena sgorgate da una purissima sorgente. È come varcare le soglie del Paradiso. John non avrebbe mai immaginato di poter provare sensazioni del genere.
La lingua si ritrae, gli occhi di John si schiudono un’ultima volta sul viso dormiente del suo angelo. E all’istante, l’incanto si spezza: Sherlock ha gli occhi socchiusi. È sveglio… e quello decisamente non è un sogno.
John si ritrae di scatto, preme una mano sulla bocca chiedendosi cosa ha fatto. Ha osato troppo, ha azzardato un passo troppo lungo, troppo invadente. Sherlock volerà via di nuovo, lo lascerà lì: sarà Inferno un’altra volta.
Ma niente di tutto questo accade. Semplicemente, Sherlock lo fissa ancora stordito e si gira su un fianco, verso di lui. Chiude nuovamente gli occhi, non lo rifiuta né lo respinge. Piega un braccio per adagiarvi la testa e si rilassa di nuovo, affonda tra le pieghe del suo Mind Palace.
John non sa cosa fare: osare ancora o alzarsi?
-Sei sveglio?- si accerta, più per rompere il silenzio.
Sherlock apre un occhio di vetro, lo fissa sollevando un sopracciglio: -Non fare domande stupide, John.-
Solo allora però, John si accorge che Sherlock ha un pugno serrato e la coda contratta. Si sta sforzando di non muoversi, si sta sforzando per lui. John lo guarda trattenere il respiro, costringendosi a restare immobile e a fingersi tranquillo. Quella scena lo intenerisce, espone la parte più sensibile di uno Sherlock più umano degli umani stessi.
E allora, sorridendo, John gli afferra una mano. Gli accarezza il palmo, costringe le dita a distendersi a scatti, ancora nervose. Gli artigli brillano minacciosi alla luce del sole mentre Sherlock contrae gli addominali, irrigidisce ogni arto, osserva interdetto i gesti dell’umano. Con dolcezza, John tira la mano di Sherlock, lo costringe a distendere il braccio sotto i suoi occhi vigili di predatore, finché il palmo non posa sul collo dell’umano, laddove la vena pulsa vitale, accelerata dall’emozione, calda di vita.
Sherlock trattiene il respiro, assapora quel calore, quella sensazione. Ha tra le mani un’anima, il pulsare di una creatura che potrebbe spezzarsi con facilità impressionante. Eppure, John non è spaventato e anzi, lo guarda con estrema fiducia, senza timore, senza indecisioni. Al contrario, sorride.
-Fai quel che ti dice l’istinto. Io sono qui, Sherlock: non scapperò.-
Sherlock lo guarda negli occhi, si accorge soltanto in quel momento che le iridi di John sono più belle di quanto abbia mai notato in precedenza. Hanno riflessi cangianti, che dall’azzurro danzano al verde. Lo conosce così poco? Ha osservato così poco di lui?
Sherlock non ha mai avuto paura in vita sua, quella porta è chiusa da anni ormai, e il Mind Palace quasi non la conta più. Eppure, all’improvviso il lucchetto scatta, schiude l’uscio, lascia filtrare quel po’ di luce soffusa che proviene dall’interno.
Ossa rotte. Sarebbe così facile spezzarle a John, adesso. Sherlock potrebbe piegare le falangi, stringergli appena il collo.
Contusioni. Un colpo di coda, una pressione di troppo.
Tagli. Squame, troppe. Se incidessero quella pelle così morbida, così umana, potrebbero tagliarla come foglie fatte a pezzi da artigli di iena.
Sherlock cerca di ritrarre la mano, ma John glielo impedisce, stringe con forza le sue dita, si avvicina a lui fino ad accostare il viso al suo.
-Mi hai salvato la vita, mi hai restituito la mobilità fisica. Credi veramente di potermi ferire?-
-Non essere stupido. Ti ho fatto a pezzi le mani, John.-
-Mi aggrappai alle tue squame, non fu colpa tua.-
John si appoggia su un fianco, accosta il viso a quello di Sherlock, che studia ogni sua mossa, preparandosi a scattare via, ad allontanarsi. Il suo Mind Palace freme, apre troppe porte, e d’improvviso i dati gli affollano la mente, strane sensazioni lo pervadono.
-Sono qui.-
Quegli occhi sono così dolci, così gentili… hanno uno sguardo strano, che al drago ricorda qualcosa di dimenticato.
Dio, no.
Sherlock sbatte le palpebre, cerca di calmare il caos che poco a poco si ammucchia nel Mind Palace, tingendo le pareti di colori indesiderati, scombussolanti, caotici. Poi, all’improvviso, la porta sigillata trema.
La serratura vibra, il lucchetto rischia di scattare. Dall’interno, Sherlock sente una voce indesiderata, un timbro che conosce bene e che tutt’oggi popola ogni incubo, ogni brandello di emozione che ancora sopravvive in lui.
D’improvviso, l’ala che abbraccia John scatta, facendolo rotolare di lato, sull’erba. L’umano perde la presa sulla mano di Sherlock mentre quest’ultimo si alza a sedere, afferrandosi la testa tra le mani.
Il Mind Palace trema, vibra di lampeggianti rossi. L’unica cosa che Sherlock capisce, è che quella maledetta porta deve chiudersi di nuovo.
Serra le palpebre, il tempo smette di scorrere mentre nella sua testa, tutto accade troppo velocemente.
-Che stai facendo?-
Nel Mind Palace, Noah compare alle sue spalle, pallido come non mai, privo d’ali e coda. Lo fissa con quattro grandi occhi di bambino, che tuttavia, nella testa di Sherlock esprimono una piccola scheggia razionale della sua intelligenza.
-Chiudi quella porta.- dice un’altra voce, e Irene Adler compare, lo fissa con occhi incolori, privi d’emozione. –Chiudila subito.-
Sherlock si volta, improvvisamente la porta appare troppo alta, troppo grande per lui. Si fissa le mani, e le vede rimpicciolite, appena più paffute, con dita corte e artigli appena accennati. Si tocca i capelli; sono troppo lunghi. Si sfiora il naso; troppo inarcato, troppo sottile.
È uno Sherlock bambino quello che corre verso la porta, è un bambino che graffia la sua superficie nel disperato tentativo di forzare la maniglia a non abbassarsi.
-Ti prego, ti prego!- urla Sherlock con voce acuta, fragile. –Chiuditi, resta sigillata! Ti prego!-
Ma la porta non lo ascolta, e rischia di spalancarsi. Sherlock sente il Mind Palace tremare, scricchiolare minaccioso come castello di carte in procinto di cadere.
-Non riuscirai a chiuderla semplicemente forzandola a farlo.- dice allora una voce ragionevole, una voce fredda come il ghiaccio. Una terza persona compare, Sherlock non lo guarda in viso perché sa bene di chi si tratta.
-Cosa devo fare?!- urla allora, nel panico. Si guarda intorno alla disperata ricerca di qualcosa che blocchi quella porta, qualcosa che sigilli ciò che preme per uscire.
-Devi calmarti. Trova qualcosa che ti calmi.-
-NON CI RIESCO!!!-
E d’improvviso, Sherlock riapre gli occhi sulla realtà. Ha le labbra sigillate, che trattengono a stento il fumo che le dilania e la sfera di oscura materia che gli lacera il palato e ustiona la gola.
Sherlock scatta in piedi, si stringe la gola mentre dalle labbra fuoriesce un fiotto di sangue. Spalanca le ali, schizza in volo ancora instabile, sforzando i muscoli per salire di quota. Poi, d’improvviso, leva il capo e rilascia il getto di materia oscura, che schizza velocissima in lontananza e più in là, quasi invisibile agli occhi, esplode in un terribile boato che fa tremare terra e cielo, acqua e fuoco.
Tossisce forte, lascia scorrere lungo il mento un nuovo, corposo fiotto di sangue. Vorrebbe allontanarsi, vorrebbe nascondere la sua debolezza, ma anche adesso, qualche ragionamento logico riesce a farlo.
-Torna indietro.- dice l’Irene nella sua testa. –Torna indietro adesso.-
-Fallo, o cadrai.- ribadisce Noah con freddezza calcolatrice.
E Sherlock ubbidisce, piega un’ala e si abbandona a una corrente ascensionale che lo accosta al terreno, abbraccia ogni sua cellula, come una madre cullerebbe affettuosa il figlio addormentato.
Le ali sbattono un’ultima volta, Sherlock cade carponi al suolo e tossisce, la testa pulsante, gli occhi serrati. La porta sta per aprirsi.
-Sherlock.-
Poi, una voce. No, non una voce: La Voce.
John si inginocchia davanti a lui, non pare disgustato dal suo mento sudicio di sangue e saliva, né dall’espressione per la prima volta sofferente, quasi umana. John lo guarda come al solito, coi suoi grandi occhi colorati, traboccanti di un umanità che Sherlock credeva scomparsa. Lo lascia fare mentre si copre una mano con la manica del maglione e gli accarezza il mento, ripulendolo con cura, facendo emergere le dita per sfiorargli le labbra, per toccarlo senza paura.
È un tocco gentile, che Sherlock non riconosce, che non riesce a classificare. Nessuno l’ha mai toccato così… no, mai.
John continua a pulirlo, con affetto sfiora i suoi zigomi, la mandibola possente da predatore, la bocca schiusa. Gli occhi di Sherlock seguono ogni suo movimento, studiano, incapaci cercano di carpire ciò che mai nella loro vita hanno avuto modo di classificare.
-Chiudiamo quella porta.- dice John alla fine. Si sporge, intreccia una mano con la sua e appoggia l’altra sulla sua guancia, facendo combaciare affettuoso le loro fronti. Respira calmo, fa in modo che automaticamente, Sherlock lo imiti.
Entrambi chiudono gli occhi, entrambi inconsapevolmente accostano i visi fino a mescolare i respiri, ormai totalmente identici, ormai perfettamente calibrati l’uno sull’altro.
Nel Mind Palace, Sherlock bambino allunga ancora la mano, contrae il viso disperato alla consapevolezza che la maniglia è ancora troppo alta e la porta troppo grande.
Ma qualcosa cambia, e improvvisamente il suo Mind Palace smette di tremare. Una mano si appoggia sulla sua, un braccio gli circonda la vita e lo solleva da terra.
-Chiudiamo quella porta.- sussurra John mentre Sherlock sorride, allunga la mano intrecciata alla sua e si appoggia alla maniglia. C’è una chiave dorata, nella toppa. Non l’aveva notata prima.
-Chiudila, sciocco ragazzino.- dice l’uomo alle loro spalle, colui che Sherlock riconosce ma che stavolta ha la forza di ignorare. Non è solo. C’è una mano che lo sostiene, c’è un uomo abbastanza forte e paziente da stargli vicino senza pretese.
Afferrano insieme la chiave, la girano senza paura, insieme.
E infine, la porta si chiude, il Mind Palace smette di tremare. Nella realtà, Sherlock rilassa i nervi, combatte paziente il pulsare alla testa finché non si calma. Si affida al respiro di John, al suo calore, alla stretta gentile di quella mano sulla sua. Ogni cosa scivola al suo posto, riempie di aria pulita i polmoni feriti di Sherlock, ormai luridi di sangue.
Tutto ciò che resta è John Watson, col suo piccolo sorriso, col suo calore, con la sua umana pazienza. Non lo respinge, non fa domande. Semplicemente, si allontana appena da lui e, fissandolo in volto chiede: -Tutto bene?-
Sherlock annuisce e basta, le labbra serrate e una strana sensazione all’altezza del petto. Non è qualcosa di spiacevole, e in ogni caso, Sherlock è troppo stanco per opporsi.
Semplicemente, si abbandona al suolo, ansima appena per il dolore alla bocca. Erano anni che non si sentiva così debole, fragile come il cristallo. Non lo ammette a se stesso, ma è in procinto di rompersi sul serio, stavolta.
-Non muoverti.-
John si allontana, si sfila il maglione sotto gli occhi vigili, diffidenti di Sherlock. Adesso che è ferito, tiene maggiormente d’occhio qualsiasi cosa si muova. Eppure, qualcosa lo distrae: John è solito indossare maglioni larghi e sformati, orribili secondo i gusti di Sherlock, quindi nessuno indovinerebbe il fisico che l’ex soldato nasconde quasi vergognoso sotto la stoffa.
Adesso Sherlock lo vede, e si pente di non averlo guardato meglio dall’inizio, di non aver dedotto prima il vero aspetto di John, il suo vero essere, il colore dei suoi occhi così come la bellezza del suo corpo.
John è un ex-soldato, è vero, però la guerra continua, e lui la combatte ogni giorno, senza mai stancarsi. Questo ha fatto sì che il suo fisico di militare non scivolasse nella morbidezza. Ha addominali appena accennati, braccia nerborute, spalle larghe. Al contrario di Sherlock, alto e slanciato, il corpo di John è più massiccio, ma appare comunque armonioso nel suo complesso.
Sherlock non gli toglie gli occhi di dosso mentre l’umano si inginocchia, accosta  un angolo del maglione intriso d’acqua corrente al suo viso. Piccole gocce trasparenti si mescolano al sangue, ripuliscono affettuose ogni sozzura, ogni scintilla di dolore. Sulla pelle di Sherlock, quelle gocce appaiono preziose come cristalli frantumati. John segue con gli occhi il corso di una scia d’acqua che gli bagna le labbra e fuoriesce da un angolo, scivola lungo la mandibola e piove infine sull’erba. Vorrebbe toccarla, ma non osa. Adesso Sherlock è instabile, gli deve un po’ di tranquillità.
-Riposa.- mormora. –Riposa, e prenditi i tuoi tempi.-
Ma è con sorpresa di entrambi, che Sherlock solleva improvvisamente una mano. Sulla punta di un artiglio, si trattiene una piccola, scintillante goccia d’acqua che drago e uomo osservano incantati. È John che tuttavia non riesce a trattenersi dal piegare il busto in avanti e posare le labbra su quella goccia, bagnandole, ferendosi appena contro l’artiglio acuminato. Si ritrae all’istante, con lentezza studiata, ma all’improvviso qualcosa lo ferma.
Quella stessa mano artigliata, quella stessa mano di creatura fantastica, adesso poggia sui suoi pettorali.
John fissa Sherlock, scopre i suoi occhi luminosi intenti a studiare interessati quella pelle così morbida, così fragile.
La mano scivola lungo gli addominali, su un fianco, risale accarezzando senza malizia le costole. John trattiene il respiro, resta immobile per non spaventare quella meraviglia rarissima, unica nel suo genere, che improvvisamente sceglie di prestare attenzioni a lui, di guardare lui. Sherlock non capisce, non sa cosa scatena in John con quel tocco puramente incuriosito, ma all’umano va bene così.
È bello vedere quegli occhi di vetro rianimarsi.
È bello sottostare a quello sguardo.
È bello sentire la mano quasi bollente di Sherlock su di sé.
-Sei… fragile.- dice Sherlock, e John non riesce a trattenere un sorriso intenerito.
-Più di quel che sembro, ma meno di ciò che pensi.-
-Questo lo so. Hai sparato a Irene.-
-Non ci tenevo a diventare la sua cena.-
-Non gliel’avrei permesso, quindi non dire assurdità.-
John lo guarda, e capisce che è vero: Sherlock non l’avrebbe abbandonato in nessun caso, in nessun momento. Sarebbe arrivato al momento giusto, come sempre, e gli avrebbe salvato la vita.
John sa, capisce. Perché improvvisamente, ai suoi occhi, Sherlock diventa un angelo. Perché improvvisamente, quella splendida creatura si rende reale, tangibile, soltanto per lui. Ha dormito stringendolo tra le ali, l’ha protetto dal mondo anche durante il sonno.
-Grazie.- mormora John. Sorride, gli occhi lucidi di lacrime trattenute. –Sembrerò monotono, ma grazie.-
Sherlock smette di accarezzarlo, solleva gli occhi su di lui e lo fissa senza dire niente, senza smentirlo. Semplicemente, capisce e accetta.
-Siamo sentimentali.-
John si raddrizza, velocemente estrae dalla tasca posteriore dei jeans la pistola che non ha mai abbandonato da quando Sherlock l’ha salvato dall’attacco di Irene. Probabilmente, se il meccanismo all’interno non è asciutto il grilletto non scatterà, ma John deve almeno bluffare… per quanto non ce ne sia bisogno.
Di tutti i draghi che ha visto fino a quel momento, quello è decisamente il più bizzarro: moro, coi capelli ordinatamente pettinati all’indietro e gli occhi felini di un blu scuro, quasi nero. Le scaglie che partono dai lati del collo, ricoprono la coda, il dorso delle mani strette intorno a un ombrello e le zampe, sono di un bronzo lucente come pietra preziosa e le corna sulla sommità del capo appaiono ricurve, da ariete. John pensava che i draghi non indossassero vestiti. Eppure, quello lì veste tranquillamente un completo nero di giacca e cravatta. Le ali non si vedono.
-Che c’è, Mycroft?- chiede Sherlock, scocciato. Ancora disteso al suolo, rovescia il capo all’indietro per guardarlo dal basso della sua posizione. Mycroft storce la bocca.
-Che hai fatto alla faccia?-
-Niente.-
-Non dirmi idiozie, Anthea ti ha visto esplodere a mezz’aria come un dilettante. Non voglio chiederti cosa penserebbe nostra madre se ti vedesse così.-
-Parliamo invece di cosa direbbe del tuo doppio mento… riuscirai a ingrassare ancora o hai intenzione di abbandonare la tua poltrona da governante della nazione per fare un po’ di ginnastica?-
Mycroft contrae le labbra, stringe appena le dita intorno al fragile ombrello nero, che sotto i suoi terribili artigli appare più come una farfalla ingabbiata tra le zampe di un giaguaro.
-Allora è vero: hai portato un umano qui.-
-Fino a prova contraria, questa è casa mia. E visto che Anthea passa tutto il tempo a seguirmi, ordinale anche di tenermi alla larga gli idioti che tentano di ammazzarmi. Li trovo noiosi.-
-Non ti starebbe male una bella lezione, fratellino.-
E allora John guarda meglio il nuovo arrivato, abbassa la pistola mentre lo stupore si dilata nei suoi occhi. Anche se ingrassato e con meno capelli, Mycroft Holmes è decisamente il ragazzo raffigurato sul libro di storia. John sente di avere davanti un altro principe, un altro erede decaduto, che tuttavia non trasuda la dignità e l’eleganza di Sherlock.
-Se scoprono questi umani, darai agli altri una buona scusa per attaccarli.-
-Ce l’hanno già da secoli, ma nessuno di loro trova il coraggio per fronteggiarmi apertamente. Quindi puoi anche sparire, Mycroft. E portati dietro Anthea: se la rivedo nelle vicinanze, le do fuoco.-
Mycroft non reagisce, non si muove. Attende qualche istante prima di parlare ancora: -Ero venuto soltanto per avvertirti, Sherlock. Se continui così, scatenerai una sommossa contro gli Holmes.-
-Holmes? Quali Holmes?-
Sherlock lo guarda, pare non capire davvero. Lì, davanti ai loro occhi, egli rinnega il suo essere, la sua carica. Non sarà sovrano, non sarà nulla. Per lui, Holmes è solo una parola.
-Attento, fratellino…-
Ma Sherlock si alza, col petto ancora intriso di sangue e le labbra bagnate. Si avvicina a lui di tre passi, lo fronteggia senza paura, senza rabbia. Semplicemente, lo guarda e attende finché Mycroft non si volta con un sospiro.
-Mi dispiace che tu debba soffrire così, Sherlock.-
-Io non soffro.-
Ma Mycroft si volta appena, gli sorride da sopra la spalla. –No? Credevo che il tuo Mind Palace avesse traballato, ma forse mi sbagliavo.-
Mycroft Holmes raggiunge il bordo del precipizio e salta con grazia, l’ombrello chiuso e la coda rigida per mantenere l’equilibrio. Sparisce oltre le nubi, bucandole con la sua mole insignificante e lasciandosi alle spalle il silenzio e il peso di una realtà non tanto lontana.
-John.-
Sherlock si alza in piedi, stiracchia gli arti senza fatica sotto gli occhi ammirati di John.
In quello stesso momento, la porta si apre e Molly esce, accompagnata da Noah, che si guarda intorno circospetto.
-Ho sentito male io, o c’era tuo fratello qui, Sherlock?-
-Non piazzare ipotesi stupide, Noah. Sai benissimo che c’era, i tuoi gesti ti tradiscono.-
Sherlock si volta verso la cascata, fissa il precipitarsi dell’acqua, la danza del vento che sferza impetuoso i cristalli liquidi, trasparenti come vetro.
-Andiamo. Vi riportiamo a casa.-
 
Angolo dell’autrice:
Ok, forse questo capitolo è un po’ lunghetto… volevo dividerlo in due parti, ma non sapevo in che punto spaccarlo. Ma! Passiamo ad alcune puntualizzazioni: sì, il John Watson riportato in questa storia, ha un fisico tendente a quello del soldato che era. Non dimentichiamo che in questo scritto, Londra è continuamente sottoposta agli attacchi e, per quanto il ruolo di John in questa lotta sia stato, dopo la ferita alla spalla, marginale, egli ha comunque contribuito a modo suo a combattere i draghi. Quindi diciamo che il John descritto è più o meno così: http://intryck.deviantart.com/art/Army-Doctor-289646570
Ma non è finita. Orrore degli orrori, ho cercato di disegnare almeno il volto della madre di Sherlock: volevo pubblicarlo, ma a quanto pare al sito non piace il mio disegno. Ha ragione, vi ha appena salvato la vita! E ora, spazio ai ringraziamenti!
FKk: eheh, anche il violino qui avrà una sua importanza, eh! Mai sottovalutare un oggetto del genere, specie se impugnato da Sherlock Holmes. Per quanto ne sappiamo, potrebbe esserci una bomba, lì dentro XD No, l’assassino nominato da Sherlock all’inizio non è comparso e probabilmente non comparirà. Mi serviva per uno scopo ben preciso, ma CREDO che non sia necessario farlo comparire. Credo. Insomma, non fidarti delle mie risposte. Ehi, io il mio disegno l’ho messo. Adesso tocca a te, voglio vederlo!!! Altrimenti niente capitolo nuovo! A prestissimo!
Fatelfay: no, scusa! Non volevo farti piangere! No dai, non scrivo bene. Pensa che io non ragiono proprio quando lo faccio, quindi sono più che certa di aver scritto certe cretinate allucinanti, ma preferisco sempre non rileggere, altrimenti cancello tutto… eheh, riguardo al finale felice… vedremo. Muahahahah sono tutti nelle mie mani! Temete, lettori! A presto e grazie mille e mille volte per il bellissimo commento!
Sonia_0911: in effetti, Molly è parecchio maltrattata… povera. Anzi, no: poveri tutti loro. Si licenzieranno tutti, me lo sento. Sherlock ci ha già provato, ma ho in ostaggio le sue sigarette, quindi non può fuggire. In realtà, tendo a basare tutte le mie storie sulle mie correnti di pensiero. Ai miei occhi, qualsiasi guerra nasce per un motivo che poi, tuttavia, a lungo andare si dimentica. La gente muore, e chi uccide non ricorda neanche più perché lo fa. È una realtà triste, ma vera. Ora, lasciando perdere la mia deficienza e tutte le cretinate che scrivo, grazie mille per il commento e a prestissimo!
Kimi o Aishiteiru: Molly FORSE non darà problemi ai due piccioncini. In realtà, per ora ci sta pensando Sherlock, ma John è una testaccia dura, quindi la nostra cara Furia Buia può provare a fare il signorino quanto vuole, ma non ci riuscirà. Qui ho già degli striscioni appesi con su scritto “FORZA JOHN”. (Sono bellissimi, vero? nd Gabriel)(no, Gabe. Sono terrificanti. E cosa sono quegli scarabocchi?!)(non si capisce? Ho disegnato quei due che copulano come conigli! Devono accoppiarsi! Ora! Lo aspettano tutti, parlo a favore delle folle! Nd Gabriel)( cos… E TU APPENDI IN GIRO I DISEGNI DI GENTE CHE SI ACCOPPIA?! Che poi non sembrano neanche Sherlock e John! Li avevo scambiati per due gibboni paralitici!)( fingerò di non essere offeso… nd Gabriel). Non ci vuole tanto per scrivere meglio di prima, eh! Eee comunque, Irene spunterà di nuovo, ma un po’ più in là. Avrà il suo ruolo, stanne certa. Moriarty… silenzio stampa, non anticipo niente. E, come ultima cosa: come al solito, grazie dal profondo del cuore e saluti ad amiche e splendida sorellina!
Sparrow: nnnnooooo non morire! Visto? Stavolta John si è preso la sua rivincita, togliendosi il maglione davanti a Sherlock. E mica può girare solo lui a torso nudo, il pubblico reclama. Eh, credo che più in là la storia di John tornerà a farsi presente, ma per ora ci occupiamo di quella di Sherlock. Grazie per il commento e per la pazienza dimostrata nel leggere ogni volta i capitoli che pubblico. Grazie di cuore, a presto!

Tomi Dark Angel
 

 

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Capitolo 13
*** Anima Di Fuoco ***


A volte è così strano tornare alla realtà, poggiare i piedi su quella che fino a quarantotto ore prima era stata una vita integra, reale, sana. Adesso però, il 221B di Baker Street appare desolato, oscuro, soffocante. John si guarda intorno, penetra l’oscurità con occhi che poco a poco si adattano. Vede brandelli d’esistenza, anni trascorsi in solitudine, a trascinare una gamba mai realmente ferita su quello stesso pavimento, adesso squarciato da terribili segni di artigli.
John si lascia scivolare attraverso la parete distrutta, accompagnato dalle mani delicate di Sherlock: le sente intorno ai fianchi, calde mentre lo aiutano a toccate terra con cura, sottraendolo a qualsiasi eventuale caduta.
-Molly sarà al sicuro?- dice John, voltandosi verso Sherlock. Lo vede accucciato sul bordo del pavimento, le ali appena spalancate per mantenere l’equilibrio, ma abbastanza grandi da coprire la fiancata dell’intero palazzo. John ringrazia che sia notte, che la luna baci grata quegli zigomi aristocratici, eleganti, senza imperfezioni. Lei almeno, può toccarlo liberamente. John no, e questo fa male.
-Molly starà bene?-
-Sì. Noah l’ha accompagnata a casa… quella risulta ancora integra, a quanto mi risulta.-
John annuisce lentamente, non chiede a Sherlock come faccia a sapere dove abita Molly. Non si arrischia ad aprire, bocca, perché sa che la voce gli tremerebbe. Ha davanti i resti di una vita distrutta, anni ed anni trascorsi in quella casa, improvvisamente spazzati via. È questo che si prova quando la tua casa va in pezzi e tu non puoi far altro che osservarla, pregare che non si porti dietro troppi ricordi, troppi cadaveri di giorni trascorsi a calcare quel pavimento.
Sherlock osserva, scava ancora con cautela nel suo Mind Palace per capire, per decifrare gli occhi lucidi di John, la sua rigidità fisica.
Stanza novecentosessantuno. Corridoio settecentodue. Sherlock cammina, sfila tra le porte ancora pericolanti, ancora instabili per l’ultimo terremoto che ha devastato il Mind Palace. Quelle soglie, lui non le attraversa mai. Il corridoio appare polveroso, abbandonato.
Perché lui non ha bisogno di queste cose.
Perché lui, certi dati non dovrebbe nemmeno incanalarli nella sua testa.
Lui non necessita di niente. John invece sì.
La porta si apre, Sherlock, assorbe il suo contenuto, vaga tra parole, significati, azioni. E improvvisamente, ricorda.
Il corpo scivola verso John, cammina sulla polvere senza lasciare impronte. Le ali si stringono, tentano invano di rimpicciolirsi nello spazio ristretto della casa distrutta.
Poi, Sherlock allunga le braccia tremanti, insicure. Si appella a tutti i suoi dati, a tutto ciò che non avrebbe mai pensato di utilizzare in vita sua. È una categoria estranea, quella che sta sfogliando. È qualcosa di arcano, che non capisce, ma di cui John ha bisogno. Questo almeno, Sherlock lo sa. Glielo deve.
Le braccia circondano la vita di John, si piegano ad intrecciare le mani artigliate all’altezza di quel petto così fragile, così umano. Sherlock appoggia la fronte sul suo capo, respira piano, assapora quel calore e quel profumo che raggiungono sicuri la nuova stanza creatasi poco tempo fa nel Mind Palace.
Le ali si piegano, strisciano sui muri, fanno cadere impacciate qualche quadro, ma alla fine circondano John e Sherlock, li abbracciano in un bozzolo di sicurezza, protezione, calore profumato.
John trattiene il respiro, si paralizza davanti all’ennesimo miracolo. Poi, poco a poco, come mosso da mano invisibile, le sue mani trovano quelle di Sherlock, si intrecciano alle sue, e d’improvviso ogni cosa pare sgusciare al suo posto: quel luogo desolato si riempie di piccoli cristalli luminosi che scaglie lucenti proiettano ovunque, l’aria profuma di aghi di pino e spezie orientali, il suono morbido di un respiro rimpiazza gentile il silenzio opprimente.
Sherlock lo stringe, respira la sua aria, i suoi spazi. E John vive di quella pace, della serenità così facilmente raggiunta: è bastato un tocco, un semplice abbraccio, e il mondo intero è cambiato. John capisce all’improvviso fino a che punto Sherlock riesca a plasmare il suo universo, a modellarlo, a sottrargli e addizionargli luce come e quando vuole. Gli basta un gesto, un sorriso o un abbraccio, e gli occhi di John ritrovano il sole.
Che cosa mi hai fatto?
-Non… non rischi che apra di nuovo la porta di cui parlavi prima?- mormora John, odiandosi per aver spezzato l’idillio del momento. Ma si sbaglia. Sherlock non si allontana, non prende le distanze come farebbe normalmente. Al contrario, preme il corpo contro il suo, aderisce dolcemente ogni arto, ogni arteria, incastrandola con quelle di John. Ricrea allora due perfetti pezzi di puzzle, due naturali intrecci creati da Dio stesso per accoppiarli allora e in eterno.
-Ci saresti tu, a chiudere quella porta.- mormora Sherlock contro i suoi capelli, e John allora rabbrividisce, stringe con forza le due dita, si abbandona grato al calore di quel corpo così vicino, così bello. Così reale.
Ma come tutte le cose belle trovano inizio dal nulla, così nel nulla esse ricadono quando si concludono.
Sherlock allenta la presa, si allontana appena e John sente quasi freddo per l’orribile sensazione di vuoto che prova al pensiero che la Furia Buia debba andar via. Non è giusto. Non lo è e basta.
Non ha fatto niente di male, ma gli uomini lo ucciderebbero se lo vedessero.
Ha salvato una vita di giovane donna, ma la gente continuerebbe a temerlo senza conoscerlo, senza sapere.
D’improvviso, John si chiede che senso abbia quella casa, quegli oggetti. È tutto così umano, così sbagliato. In un angolo, per terra, distingue qualcosa di luccicante, una medaglietta che conosce bene.
Con lentezza, come rispondendo a un impulso irresistibile, John scioglie l’abbraccio di Sherlock e avanza lentamente, si inginocchia nella polvere e afferra la catenella di quel ciondolo così leggero, eppure così pesante. Lo guarda, affidando gli occhi alla luce argentata della luna che, traditrice, bagna di gelidi bagliori la medaglietta militare.
Quante vite ha richiesto il reale significato di quell’oggettino? Quanti morti umani, quanti draghi feriti? Una piccola medaglietta tanto insignificante, tanto luminosa, avrebbe decretato negli anni passati la sua carta d’identità nel caso fosse morto. C’è soltanto un nome, là sopra. Un nome e poche scritte ancora, ma tutte quelle parole non significano niente. Quando entrò a far parte dei militari, John la sfoggiava quasi con fierezza, lo sguardo alto e le mani sporche di sangue nemico. Adesso invece, essa rappresenta nient’altro che dolore e umana stupidità.
-Perché non mi odi, Sherlock?- mormora con voce spezzata. Stringe la medaglietta nel pugno, serra le labbra e i denti fino a farsi male. Male.
Perché è male ciò che merita, come ex soldato.
Perché è male ciò che merita, per aver anche solo pensato di poter annientare il più splendido dei draghi.
Perché è male ciò che sin dalla nascita hanno visto i suoi occhi chiari, anziani di troppe morti vissute e poche vite salvate.
Una mano artigliata posa gentile sulla sua, lo costringe con una semplice carezza ad allentare la presa, a lasciarsi scivolare la medaglietta tra le dita. John la guarda cadere al suolo, urtarlo tintinnando per poi restare immobile, abbandonata, derisoria. Misero pezzo di metallo.
-Voglio distruggerla.- dice John, levando lo sguardo su Sherlock, incontrando i suoi occhi così vicini, così… umani. Non l’ha mai visto così, o forse è solo una sua impressione. Alla luce fredda della luna, ombre anziane, monito di dolori celati e mai espressi, danzano nelle sue pupille di vetro. John le guarda, conosce così bene quegli occhi da poterne rappresentare ogni sfaccettatura, ogni minuscola espressione a stento trattenuta. Capisce che Sherlock è fatto così, dopotutto: si compone di dettagli piccoli, all’apparenza insignificanti. Se li si impara a cogliere, un mondo di vita, di emozioni rinasce sul suo viso, in ogni tratto del corpo.
Adesso Sherlock è calmo, ma il labbro inferiore gli trema appena, come se si stesse sforzando di essere gentile, di seguire un percorso prefissato dalla pura illogicità delle emozioni. Non ci è abituato, ma fa del suo meglio. Per John, sempre per John.
-E sia.- dice alla fine.
Si inginocchia alle spalle di John, preme il petto contro la sua schiena tremante di emozione e gli afferra le mani, facendo combaciare i suoi palmi coi dorsi morbidi di pelle umana dell’ex soldato. Intreccia le loro dita, fa attenzione a non ferirlo con le squame taglienti, luminose di piccole sfaccettature brillanti.
Lentamente, Sherlock spinge le dita di John ad afferrare la medaglietta per poi poggiarla sui palmi, adesso sovrapposti a formare una piccola coppa. Sherlock se la accosta al viso, stira il collo finché le loro guance non si allineano, accarezzandosi in un bacio silenzioso e senza labbra.
-Guarda.-
Sotto gli occhi emozionati di John, che lo guarda senza muoversi come farebbe con qualsiasi splendido animale selvatico, Sherlock schiude le labbra e soffia un danzare di scintille bluastre miste alle fantasiose volute di fumo argentato, che gli accarezza gli zigomi e sale in alto fino a dissiparsi. Le scintille al contrario, si posano sulla medaglietta, sui palmi intrecciati di John, che comincia a sudare freddo. Teme di ferirsi, teme di bruciare. Tuttavia non si muove, perché si fida di Sherlock.
La sua scelta si rivela infine più che giusta.
Sherlock soffia di nuovo, altre scintille raggiungono le gemelle, brillanti come stelle tirate giù dal cielo e d’improvviso la fiamma scatta, blu e nera come i fulmini misti a materia oscura che ha sempre contraddistinto le Furie Buie.
Le fiamme guizzano senza ferire John, s’inerpicano lungo i polsi, accarezzano le dita e ci giocano intorno, come splendidi nastri dai riflessi cangianti. All’inizio apparivano semplicemente blu e nere, ma adesso… adesso un colore, non ce l’hanno. Non esattamente. C’è qualcosa in quel fuoco, qualcosa che brilla, che danza colorato d’arcobaleno e tinge ogni guizzare di nuove sfumature.
E intanto, tutto intorno, il mondo cambia.
La luce si espande, si riflette in fasci d’aurora boreale sui muri, sulle poltrone rovesciate, sugli oggetti sparsi in giro. John sente il corpo di Sherlock farsi più caldo, come se bruciasse di febbre. Trova il coraggio di voltare il capo, di guardare il viso della creatura che… sta cambiando. Adesso le scaglie gli ricoprono le guance, le tempie, le braccia e le mani sempre più diverse, sempre più simili a zampe. Eppure, anche con quell’aspetto bestiale, che lascia intravedere una dentatura da predatore sottostante le labbra, Sherlock mantiene un’umanità marcata, tangibile, elegante.
John combatte l’impulso di appoggiare le labbra su quelle scaglie per saggiare la loro consistenza di diamante, calda più del fuoco. Le guarda crescere, sbocciare dalla pelle come germogli di cristallo, ricoprire interamente il volto. Con grande sorpresa di John, esso non appare grottesco, né terrificante. Al contrario, le scaglie si sovrappongono, armoniose come piume di un’ala, lucenti come pietre preziose, senza sottrarre a quel viso la grazia dei suoi zigomi alti, delle labbra cesellate, degli occhi maestosi, dal taglio quasi orientale.
D’improvviso, John ricorda le parole di Noah, riascolta la sua voce, il suo timbro acuto di bambino: “Non si guarda mai troppo a lungo una fiamma eterna. In ognuna di esse c’è anche un pezzo dell’anima del suo creatore”.
E allora John capisce, trema al pensiero che per sua scelta, Sherlock gli sta mostrando un pezzo del suo reale essere, una scintilla d’anima vera, viva, pulsante. Sovrappone il calore delle sue fiamme alla medaglietta che lentamente si scioglie, scivola stranamente tiepida tra le loro dita. È fuoco pulito, quello che l’ha distrutta. È un’anima, una promessa silenziosa, tangibile, che presenta a John una nuova fonte di energia, un nuovo filtro di coraggio. Si sente forte allora perché Sherlock è con lui, perché il calore della sua anima non lo abbandona neanche quando il fuoco rimpicciolisce e poco a poco sfuma, si sgretola, evapora in morbide volute argentate, preziose ed eleganti come il loro creatore.
Anche quando la luce si spegne, Sherlock non lo lascia andare. Alla penombra della stanza, bagnata dall’argento della luna, scaglie e ali gettano su di loro uno spettro di cristalli in continuo movimento.
E allora John si chiede cosa siano realmente i draghi, da dove nasca quella guerra. Dai cuori, dalle anime? O dal nulla. L’umano conosce la risposta, ma si rifiuta anche solo di pensarla.
Deve finire. Deve finire tutto, così come è iniziato. L’odio può morire se, come la medaglietta liquefatta dalla dolcezza di un’anima fiammante, le mani chiuse a pugno si distendono in palmi tesi per aiutare.
-C’è un modo per fermarla?- mormora John, il capo chino e le dita intrecciate a quelle di Sherlock. Si rilassa contro il suo petto, come se fosse la cosa più naturale del mondo, il posto giusto. –C’è un modo per fermare la guerra?-
Attende una risposta, respira piano nell’attesa. Ma la voce di Sherlock non giungerà alle sue orecchie, non in quel momento: al contrario, la pressione del suo corpo svanisce all’improvviso, i cristalli di luce dettati da scaglie e ali muoiono nel buio e John si ritrova solo, nell’oscurità di una vita distrutta, con mani ancora calde e sporche di ciò che resta della sua vita andata in pezzi. Non urlerà, non si volterà per cercarlo. Semplicemente, chinerà il capo e passerà la notte in solitudine, ascoltando i suoi pensieri e il silenzio mortifero che soltanto la guerra sa portare.
 
John Watson non ha molti amici, questo l’ha sempre saputo. Ha trascorso una vita di guerra e rimpianti che non gli ha mai concesso di instaurare solidi rapporti sociali. Eppure, mai come quella volta si convince che i suoi amici, quelli veri, siano più preziosi di qualsiasi oro mai posseduto in Terra.
Quando Lestrade entra nel suo appartamento e lo vede lì, seduto tra le macerie, come vomitato dalla terra, non fa domande. Semplicemente, si sfila la giacca e gliela appoggia sulle spalle prima di recarsi verso ciò che resta della cucina per preparare un tè caldo. Il suo silenzio vale oro, e John lo pesa con cura, misurandolo in istanti preziosi, sereni, che sanno di casa.
Respira piano, ascolta l’urtare del bollitore contro il fornello e il basso sospiro di Greg. Sarebbe bello dirgli tutto, sarebbe bello confessare e basta, rivelargli la verità sul mancato perché di quell’assurda guerra. Ma reagirebbe bene? John l’ha visto perdere moglie e amici, disperdere sorrisi, dissotterrare corpi sepolti di bambini morti. Piangerebbe anche lui alla notizia di aver sofferto per nulla? Piangerebbe anche lui al pensiero di aver combattuto draghi bambini, creature innocenti che impazzite hanno sempre e soltanto reclamato la vita di una sovrana ingiustamente massacrata?
-Tieni.-
John solleva gli occhi, incontra quelli sinceri di Greg, che gli tende una tazza sbeccata di tè fumante.
-Grazie.- mormora John, afferrandola con entrambe le mani. È calda, profuma di buono. Ma non sa di spezie, non si accosta all’aroma di aghi di pino e vento pulito, libero, indomito. Vorrebbe essere di nuovo con Sherlock.
-Mrs Hudson è salva.- esordisce Greg, sedendosi per terra davanti a lui. –L’abbiamo raccolta dalla strada; non smetteva più di urlare. Però sta bene, a parte lo shock subito.-
-È una donna forte, si riprenderà.-
-Lei sì. Ma tu?-
John lo guarda, gli occhi appena sbarrati. Cerca di filtrare il significato di quelle parole, annusa una strana sensazione di pericolo che irrigidisce i suoi muscoli e gli fa stringere le mani sulla tazza. Si guarda intorno, cerca frenetico il suo laptop, o almeno, ciò che ne rimane. Non lo vede.
-Hound.- dice Greg, e quella parola per John è una doccia fredda. Lo fissa senza timore, si prepara quieto a veder entrare altri poliziotti dalla porta scardinata di casa sua. Ma ciò non accade.
Greg si sporge, appoggiando i gomiti sulle ginocchia piegate. –Non voglio spedirti al fresco, John, ma devi piantarla di lavorare così tanto di fantasia, o finirà male: ho fatto sparire il tuo pc, l’ho strappato dalle mani di Donovan quando siamo venuti a cercarti. Però non posso proteggerti all’infinito, e ormai Hound è un nome pericoloso.-
-Non ho intenzione di abbandonarlo, Greg. Se con quel nome posso cambiare qualcosa, se posso muovere anche solo un parere, un animo in grado di pensarla diversamente dal fare violento tipico di questa maledetta guerra, allora lo farò. Una guerra non si compone soltanto di armi, Gregory. Una guerra si compone di idee, di scelte. Se ci sono due fazioni, allora la guerra è inevitabile, e sarà facile iniziarla… ma se la fazione diventa una? Se le idee combaciassero, se la gente fosse stanca di uccidere e chiedesse soltanto un po’ di pace?-
Greg lo fissa aggrottando le sopracciglia, non lo giudica per le sue parole. Eppure, John vede qualcosa cambiare sul suo viso, come una scintilla di comprensione o uno sguardo di stanchezza, di anzianità prematura. È stanco anche lui, ma non può mollare. È stanco, ma a morire in guerra sono i suoi ragazzi, e senza una guida, per loro sarebbe il caos. È stanco. Ma lui è uno dei capi, e contribuisce alla guerra come tanti altri.
-Hai letto tutto ciò che ho scritto, Greg?-
-Non tutto, no…-
-Non mentirmi. Te lo leggo in faccia.-
Benedetto Sherlock e le sue deduzioni contagiose.
Greg tentenna, trattiene il respiro. Appare indeciso, si guarda intorno come un animale braccato. E John capisce che lui è il primo ad essere stanco, a voler spezzare il filo di quella guerra. Però, odia ancora. Però, ai suoi occhi non esistono innocenti tra i draghi. Sono bestie, e come tali saranno trattate.
-Mi dispiace, John. Ma se scriverai ancora quei post, sarò costretto a intervenire.- decreta infine Lestrade. Si alza in piedi, raddrizza la schiena e si volta, dando le spalle al suo amico, dando le spalle alla stanchezza e a qualsiasi idea di pace. Si volta, volgendo il viso all’odio perpetrato nei secoli, senza motivo e senza storia.
Semplicemente, Greg si volta.
 
-Ti prego, dimmi che almeno ci hai provato a sbattertelo selvaggiamente contro i muri!-
-Piantala, Irene. Già non so perché ti ho fatta entrare in casa mia, perciò almeno sii educata.-
-Non che tu avessi tutte queste possibilità di respingermi, dolcezza.-
-No, ma posso sempre spararti di nuovo in faccia.-
Irene lo guarda, scruta ferina attraverso i brillanti occhi da serpe. Muove dolcemente la coda, non la ferma mai. In effetti, agli occhi di John appare parecchio snervante, ma si trattiene dal farglielo notare. Sa che non servirebbe a niente. Già è tanto che Greg l’abbia convinto a trasferirsi in un attico poco lontano da Baker Street, altrimenti al 221B, ancora a pezzi e senza una parete, Irene l’avrebbero notata tutti.
-Allora? Ci hai provato?-
-No Irene, no. E non intendo farlo.-
John accavalla le gambe, affonda silenzioso nella poltrona senza perdere d’occhio la Donna, che sinuosa gli gira intorno come iena predatrice, famelica, affamata. John sente la sua coda sfiorargli le caviglie in una perversa carezza, vede le sue ali fremere. Si domanda come abbia fatto a raggiungerlo, seppur nel cuore della notte, senza essere vista. Quelle squame sono lucenti come rubini, punti luce nell’oscurità. In effetti, John ancora non capisce perché Irene sia lì, perché lo aggira con fare da predatrice, perché non gli stacca gli occhi di dosso. Non gli fa paura, ma lo inquieta: sa bene che da un momento all’altro, la donna potrebbe trasformarsi nella più bella e terrificante delle creature.
-Seriamente, Irene: cosa vuoi da me?-
Irene si ferma alle sue spalle, si china su di lui, inspira rumorosamente il suo odore. Pare volerlo memorizzare, pare volerlo assimilare negli angoli più reconditi della sua mente.
-Cosa voglio?- gli sussurra all’orecchio. –Voglio aiutarti, dolcezza. Voglio aiutarci tutti.-
John stringe i pugni, non stacca gli occhi dalla pistola. Si sente pronto a usarla, sa che in qualsiasi istante potrebbe scatenarsi l’inferno, o peggio, che Irene potrebbe sgozzarlo prima che lui formuli una semplice idea per reagire.
-Hai presente il bimbetto che vi portate sempre dietro, tesoro?-
-Noah?-
-Sì, credo di sì. Che nome ridicolo.-
-Irene, dimmi ciò che devi e poi sparisci.-
Irene gli appoggia le mani sulla base del collo, accarezza lasciva la pelle tesa sui tendini, la risveglia con tocco di donna. John rabbrividisce appena, stringe i pugni per combattere ogni umano istinto, ogni pallida reazione animalesca che quel corpo così bello, così morbido, scatena in lui.
Eppure, per quanti istinti riesca a stuzzicare Irene, a John basta guardarla davvero, ascoltarla, percepire realmente il suo tocco per capire che c’è qualcosa di sbagliato in lei, qualcosa di diverso.
Ha begli occhi, ma le sue iridi sono troppo materiali, troppo lontane dal cristallo fragile, brillante e colorato d’arcobaleno.
Ha scaglie simili a rubini, ma non riflettono la luce come specchi, né paiono assorbirla per poi espellerla in ogni sfaccettatura di aurora boreale.
Ha capelli morbidi, mossi, ma non sono ricci, e John non riuscirebbe a stringerli, ad affondarvi le mani come toccherebbe una nuvola di sogno.
Semplicemente, lei non è Sherlock.
-Irene, no.-
John si alza in piedi, si sottrae al tocco lascivo di Irene e la fronteggia, fiero come è sempre stato, fiero come sarà sempre.
E intanto, Irene giudica, fissa lo sguardo su di lui, scava il suo volto, i suoi occhi. E infine, sorride di un sorriso vero, quasi umano, di giovane donna.
-Lo ami?- domanda senza malizia. Ha il capo inclinato, le scaglie lucenti di rubini e nessuna presuntuosaggine sul viso. Vuole soltanto sapere, vuole soltanto capire. Ha i suoi motivi.
John ragiona. Un tempo non si sarebbe neanche posto un quesito del genere, perché Sherlock è un maschio e perché lui adora le donne, con la loro sensibilità e la loro morbidezza. Ma adesso, adesso qualcosa è cambiato.
John chiude gli occhi, si porta inconsciamente una mano al petto. Ragiona, domanda, chiede risposta a se stesso.
Pensa a una vita senza Sherlock, una vita senza… colori. Non sentirebbe più il suo respiro così caldo, così profumato. Non vedrebbe più le sue ali così grandi, così gentili, che sempre l’hanno protetto. Non toccherebbe più quella pelle così morbida, come di purissima seta. Non vedrebbe più i suoi occhi. Vetro, anima, cristalli. È tutto racchiuso in lui, nel suo sguardo. E John capisce che respirare sarebbe inutile se Sherlock venisse a mancare nella sua vita.
Ripensa al suo calore, all’abbraccio faticoso che gli ha riservato l’ultima volta che si sono visti. Si sacrificava per lui, si sforzava di essere… umano.
E mentre John ricorda le luci di quella stessa, splendida fiamma travolgente, calda, gentile da lui toccata come anima di antica Furia Buia, di principe decaduto… di creatura nata dio e faticosamente costrettasi ad adottare pacifica umanità, la risposta gli sale alle labbra, diventa tangibile, reale e ricopre la sua pelle, così come la sua anima di una serenità antica, mai provata.
-Sì, lo amo.-
 
Note dell’autrice:
Sono in ritardo? Sono in ritardo. Ehm, il problema è che il Napoli Comicon è un casino, specie se ci vai in cos play, e…
Sherlock: non interessa a nessuno.
Stai zitto, Sherlock, e… che accipigna ci fai dietro una trincea di cuscini?
Sher: Mrs Hudson. John dice che è diventata peggio di Saw l’Enigmista, ma non so cosa significhi…
Quella vecchietta dovrà andare in pensione, prima o poi… potrei ammazzarla nel prossimo capitolo.
Sher: se lo fai, potrei regalarti un cadavere.
Che schifo! Già ne ho l’armadio pieno, grazie a te! Sgombralo subito! Ehm, torniamo a noi. Spazio ai ringraziamenti!
Sonia_0911: sì, ho ripreso qualche immagine dalla 3x3, ma non credo che siano veri e propri spoiler… o sì? Ora comincia a sorgermi il dubbio, non era in programma quella scena… in realtà non era in programma niente di ciò che ho scritto, i capitoli dovevano essere tre. Eh, per te la scena di John che bacia Sherlock è stata dolce, ma per John è diventato un incubo quando si è accorto che il draghetto era sveglio. Credo si sia immaginato alla brace, ma non ne sono sicura… comunque, ti ringrazio per la bellissima recensione e ti saluto. A prestissimo!
FKk: il disegno l’ho già commentato, e il commento lo rinnovo. È bellissimo! E sì, alla mancanza di ali di Mycroft c’è una spiegazione, ma ne parleremo più in là. E no, Anthea senza il suo lavoro sarebbe presa d’assalto dagli ictus. Quando si dice “dipendenza da lavoro”… comunque, per rispondere alla tua ultima domanda… non risponderò, perché sono cattiva e perché dovete restare col dubbio fino alla fine muahahahah! A presto!
Kimi o Aishiteiru: che è successo. CHE E’ SUCCESSO??? Tua sorella? Una delle tue amiche? Tu?! Oddio, state bene? Sherlock, vola da loro, salvale! No, molla qui gli esperimenti, non puoi entrare in ospedale con un barattolo pieno di occhi umani in tasca! John… oh John, dovevo farlo spogliare, prima o poi. Se continuiamo così però, dovrò alzare il raiting della storia…coff coff... ok, torniamo a noi. Recensione breve ma bellissima come al solito. Non farmi stare in ansia, aspetto notizie! A presto, e grazie!
Bbpeki: ehi, quale ritardo? Purtroppo il disegno della madre di Sherlock è pubblicato solo sul mio profilo facebook, non sono riuscita a metterlo qui, per quanto ci abbia provato. No, il mio spacciatore è Moffat (musichetta tragica). Quindi SAI BENE cosa succede a chi fuma la stessa roba di Moffat, vero? ehi, perché scappate tutti? Bah. Ehi, non ti lamentare! Vorrei vedere quanto poco apprezzeresti la vista di Sherlock e John mezzi nudi che ti passano davanti. Su, dici che non li guarderesti nemmeno un pochino. Abbi il coraggio! E… ah, ecco dove era finito il Dottore. Credo abbia anche portato John in vacanza nella Terra di Mezzo, sono tornati blaterando di draghi, tesori e nani… dovrò indagare. Coooomunque, grazie per la splendida recensione e a presto!
_RockEver_: non sai quanto mi abbia fatto piacere leggere una recensione del genere. Sì, Dragon Trainer è anche uno dei miei film Dreamworks preferiti, ma forse con una Furia Buia come questa sarebbe anche meglio. E chi lo seguirebbe il film, dopo. Eheh, in realtà io stessa non so come finirà, ma mi sforzerò di non ammazzare troppa gente… forse. Muahahahah! Mi sa di sì, forse alzerò il raiting, ma non arriverà al rosso. Le storie a luci rosse non fanno per me. Grazie per il commento e a presto!

Tomi Dark Angel
 

 

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Capitolo 14
*** Grazie, John ***


La guerra è una creatura capricciosa. Non sta agli ordini di nessuno, non ascolta il grido dei moribondi né il pianto dei vivi. Semplicemente, essa fa ciò che più gli interessa fare, sta ai suoi stessi comodi e nessun mortale sa piegarla al proprio volere. Fu così allora, è così anche adesso.
Quando la terra comincia a tremare, è notte fonda. John leva lo sguardo sul soffitto, studia senza timore il vibrare spaventato della terra sotto i suoi piedi. Questo non lo preoccupa, lui della guerra non si preoccupa mai. Eppure, ci sono persone all’esterno che la temono, gente che non sa respirarla, che da essa si sente avvelenata. Il suo pensiero trova conferma nell’istante in cui un unico grido, un’unica parola, ha il potere di scatenare il caos.
-DRAGHI!!!-
Di nuovo. È passato troppo poco tempo dall’ultimo attacco. Non va bene, non va bene per niente.
Fuori, oltre la finestra, la porta e le mura del palazzo, esplode il panico. La gente comincia a urlare, si scaglia per strada, sviene, si immobilizza. Altri ancora cadono in ginocchio, si coprono la testa come se questo potesse fermare le fiamme delle bestie o addirittura respingerle.
Il primo assassino dell’uomo, si conferma infine l’uomo stesso: non sono i draghi a calpestare i caduti tra la folla fino ad ammazzarli. Le prime vittime, le mietono gli uomini, e il panico che essi non sanno controllare.
John afferra la pistola, infila la giacca appesa allo schienale della poltrona ed esce. La gente cerca di travolgerlo, non guarda in faccia nessuno che non sia una vana ancora di salvezza. John li schiva tutti, li oltrepassa, balza oltre i corpi massacrati dei caduti. In strada, che cerca di sfilare tra le auto impazzite, vede un bambino: sta attraversando, ma i pochi stupidi che hanno scelto di cercare di allontanarsi dalla città in macchina, non rallentano davanti a niente. È per questo che quando un’auto corre incontro al bambino, tamponando gli altri mezzi di trasporto, John si sorprende già fisicamente pronto ad aiutarlo.
Si getta in strada, afferra il piccolo per i fianchi e scatta di lato, ruotando su se stesso per sottrarre il piede alla morsa delle ruote stridenti sull’asfalto accidentato. Sono azioni precise, moderate, da soldato. Sa bene cosa fare e sa come farlo.
John si ferma, volta le spalle all’auto che sbanda e va a schiantarsi contro un muro.
-Vai a nasconderti.- ordina al bambino,e  per un attimo si sente nuovamente soldato. Non ne è felice. Essere soldati è sbagliato. Uccidere è sbagliato. Combattere un’inutile guerra è sbagliato.
Il bambino scappa e la sua piccola figura si oscura, sparisce insieme al resto della strada mentre un’ombra si propaga sulla città, la soffoca di buio e la inghiotte senza fatica.
John solleva lo sguardo, fissa senza timore le bestie gigantesche che calano sulla città. Le vede sfrecciare raso terra, brillanti di squame preziose più dei diamanti, per poi risalire aggraziate, padrone del loro cielo, della loro battaglia senza senso. John li ammira tutti, osserva i draghi incantato dalla loro fluidità, dalla loro grandezza. Ma sono sempre stati questo, dopotutto. Hanno sempre vinto loro, hanno sempre spezzato vite. Sono stati padroni una volta di troppo… e adesso che John li conosce, sa cosa fare. Non combatterà per assoggettarli, ma per respingerli.
Scatta agile, balza sul tettuccio di un auto e lo oltrepassa. Sopra di lui, un lampo vermiglio che ammicca e poi scompare. Irene?
Più veloce, John.
Il corpo si sforza, le gambe gonfiano i muscoli. E d’improvviso, John si sente vento. Non ascolta più le grida, non vede più i feriti. Ora osserva soltanto il suo obbiettivo, lo persegue senza sosta, come schiavo che insegue il padrone. È agile, forte, preciso. Sa dove mettere i piedi, sa dove svoltare per raggiungere il palazzo ancora integro e più alto della città.
Scarta di lato, schiva un palo in caduta libera. È veloce come una pantera, assiduo come una iena, possente come un leone. D’improvviso, senza rendersene conto, è soldato un’altra volta.
Con un balzo oltrepassa il corrimano smantellato, sale le scale, sfila per i corridoi. Scavalca piani e piani, sale sempre più su finché non sfonda la porta del terrazzo con una banalissima spallata.
E adesso?
Non è una domanda semplice da affrontare, non davanti allo spettacolo che gli si pone dinanzi: i draghi stavolta, sono così tanti da oscurare totalmente il cielo, come immenso sciame di insetti. Alcuni sono piccoli come elefanti, altri giganteschi e con uno sguardo assassino negli occhi. Appaiono come bestie vendicatrici, dei di antica era pronti a punire i mortali per non averli adorati come dovevano.
D’improvviso, uno di loro cala, fa sgusciare l’immensa mole verso terra. A metà strada, piega le ali e si raddrizza, poi si lascia andare finché le zampe poderose, massicce come colline non si schiantano al suolo, annientando l’asfalto, le persone e qualsiasi ostacolo cerchi invano di intralciarle.
Il drago ha le ali che abbassandosi poggiano sui tetti delle case tutto intorno, il corpo muscoloso ricoperto di scaglie d’opale e la testa grossa come un palazzo, col muso ricoperto di creste e la parte posteriore del cranio ornata di membrane traslucide e punte acuminate. È bellissimo, terrificante. Appare agli occhi degli uomini come la più potente macchina da guerra mai concepita da madre natura.
Ma la parte più terribile, sono gli occhi: antichi, quasi bianchi, folli di una rabbia incontrollabile, apocalittica, senza freni né coscienza. Occhi immensi, che hanno visto e giudicato lo scorrere di ere, il nascere degli uomini.
Quello è un drago vero.
Quello è un drago nato e rimasto bestia, senza coscienza né principi.
John si immobilizza, per la prima volta dopo tanti anni sente la paura strisciargli sotto la pelle, attraverso i muscoli, fin dentro le ossa. Trema dinanzi al tempo racchiuso in quegli occhi. Trema dinanzi alla mole inarrestabile di quella bestia. Trema e basta, perché lui è poco più di un neonato, perché è debole, perché non merita di fronteggiare quella creatura. 
Il drago inarca il lungo collo longilineo, accosta il muso al corpo di John così umano, così piccolo, così insignificante. Alla bestia basterebbe uno scatto del cranio, un vibrare di mascelle, e John sarebbe morto.
“John?”
 John guarda in alto, distratto da un barlume arcobaleno. L’ha visto brillare per un istante oltre le nuvole, ne è certo. E quel brillio gli ricorda qualcosa, qualcuno. Ricordi felici. Profumo di vento. Libertà. Vita. Sherlock. Sherlock Holmes.
-Sherlock… Holmes…-
E d’improvviso, la mente di John si riattiva. Scuote la testa, indietreggia di un passo. Qualcosa gli urta il fianco, ticchetta lento e scoordinato contro la pelle.
Non distogliere gli occhi, mai. Se lo fai sei morto.
John mantiene il contatto visivo, lentamente fa scivolare una mano nella tasca del giubbotto. Le dita sfiorano qualcosa di duro e freddo, qualcosa di pulsante, come un glaciale cuore di metallo.
John ha appeso quel giubbotto allo schienale della poltrona… quando? Il giorno prima forse, quando è rientrato nel suo nuovo appartamento. Sì, è così. E la notte prima, Irene gli ha fatto visita, gli ha girato intorno come una gatta, si è piegata su di lui tenendosi alle sue spalle, non vista.
Gli ha fatto scivolare qualcosa in tasca. Assurdo, ma probabile. E se è così, allora John sa già di cosa si tratta.
Lentamente, le dita accarezzano la catenella collegata all’orologio a cipolla, lo stesso che Sherlock ha fatto ondeggiare davanti al muso della stessa Irene quando tentava di sbranare John. Ora, l’umano lo riconosce. Ricorda quel ticchettio così rassicurante, che sa di salvezza. In effetti, si stupisce che le lancette girino ancora.
Davanti agli occhi attenti del drago, John estrae l’orologio e lo spinge di lato, tenendolo per un’estremità della catenella. Lo fa ondeggiare una, due, tre volte. Respira a fondo, prega un Dio nel quale non crede che funzioni, che un miracolo intervenga.
E il miracolo avviene.
Il drago posa gli occhi sull’orologio, fissa come ipnotizzato l’oscillare del corpo massiccio, ticchettante. La testa gigantesca di muove, ondula sincronizzata con esso mentre velocemente, gli occhi di John studiano l’ambiente circostante, cercano invano una via d’uscita. Sta guadagnando tempo, sta rallentando il tempo che la morte lascia scorrere nell’accostarsi all’umanità del suo fragile corpo.
Al drago basterà uno scatto della testa, una zampata, e John morirà lì, sepolto nella miseria di una guerra maledetta, antica e senza più volto.
Un lampo di luce, un sfrecciare di scaglie d’acciaio. Qualcosa piove dall’alto, una familiare sfera oscura intrisa di elettricità si schianta sulla schiena del drago e un’esplosione talmente possente da far vibrare la terra sotto i loro piedi si spande nell’aria, percuote il pianeta stesso, prostra i miseri umani alla potenza di creature ultraterrene, figlie del cielo.
Il drago s’inarca, ruggisce di dolore. La coda si dimena, abbatte tre palazzi in rapida successione con la facilità di miseri castelli di carte. Gli artigli, ancora arpionati al palazzo dove John rimane in precario equilibrio, dilaniano la pietra, stringono la presa fino a sbriciolarla.
Il palazzo trema, John cade carponi e leva lo sguardo sulla creatura. Farà a pezzi il palazzo, ne è certo.
Si rialza, affronta barcollando la realtà dei fatti, che lo vedrà sepolto sotto un mare di macerie. Non ha paura, non ha motivo di provarne. In effetti, se ci si perde ad osservare la reale bellezza dei draghi, le sfaccettature adamantine delle loro scaglie e la grandezza dei loro sguardi, non è poi così male morire.
-Che stai facendo?- chiede una voce alle sue spalle, e voltandosi, John incontra lo sguardo del piccolo Noah, fermo dietro di lui, con le teste inclinate e quattro occhi fissi sul suo volto.
Un’altra percossa, il palazzo comincia a cedere.
-Andiamo!- esclama Noah, battendo le mani con entusiasmo, e John conosce ormai così bene i suoi atteggiamenti, i suoi modi di fare, che non esita neanche un istante: scattano entrambi verso il drago, veloci più del vento, liberi più di un’aquila.
E saltano.
Oltre la gigantesca unghia del drago, oltre la fiammata che gli erutta dalla bocca schiusa di rabbia e dolore repressi. Oltre qualsiasi cosa, perché loro possono farlo.
John allarga le braccia, si abbandona al vuoto mentre al suo fianco, Noah spalanca le ali, cattura il vento con gigantesche vele violette e si solleva, sparisce in un battito di ciglia. John rimane da solo, ma di nuovo, non ha paura.
-Sherlock?-
E come in risposta a quella bassa quanto gentile chiamata, Sherlock compare. Schizza sotto di lui, lascia che John si aggrappi al suo collo senza ripetere l’errore di artigliare le squame taglienti come rasoi. Il corpo del giovane umano aderisce alla schiena del drago, ritrova familiarità e incastro perfetto tra l’attacco delle ali, sui muscoli contratti. È abbracciando quel calore che John si sente a casa, è annusando quel profumo di vento e aghi di pino che si sente libero.
Adesso però, entrambi si uniscono, reincarnano una perfetta macchina da guerra senza imperfezioni, senza guasti. Funzionano insieme e soltanto insieme sapranno lottare al massimo delle proprie forze.
John lascia scivolare un braccio intorno al collo di Sherlock e libera l’altro. Porta la mano al fianco, intorno all’impugnatura della pistola che non dimentica mai di legarsi alla cinta. È un soldato, e tale rimarrà fino alla fine.
Si volta di scatto, punta al drago che lentamente si rialza, schiacciando mezza città con la sola forza delle zampe posteriori. Li guarda con odio, rabbia e dolore. Parla con gli occhi, è una creatura intelligente, che li capisce, che non appare tanto diversa da loro. E per questo, John esita a sparargli. Ferirebbe un altro essere umano? Ferirebbe un uomo che per semplice dolore agisce in maniera sbagliata? La risposta è no.
-Punta agli occhi.-
-No.-
Sherlock ammutolisce, sale di quota con un battito d’ali. Non pone domande perché lui le risposte le conosce bene. Sa di John, del suo senso d’umanità e lo rispetta. Sente che è la cosa giusta da fare, nonostante la ragione gli suggerisca il contrario.
-Sherlock!-
Noah li affianca, sbatte forte le ali per non farsi seminare. Il vento gli scompiglia i capelli e un solo paio d’occhi fissa Sherlock mentre l’altra testa rivolge tutte le attenzioni alla traiettoria da intraprendere.
-Ci verrà dietro!-
-Lo so.-
-Che facciamo?-
Sherlock non ha bisogno di rispondere. Piega un’ala, ruota a mezz’aria con tanta violenza da sballottare John di lato. Lo sente gridare, sente le sue dita graffiarsi contro le squame quando perdono la presa.
Noah lo afferra per un polso, sbatte faticosamente le ali per non perdere quota. Ma adesso Sherlock è fermo, dà loro le spalle.
-Dottor Watson, credo che a terra ci sia bisogno di lei.-
-Cosa?-
-Dovete atterrare, all’altro ci penso io.-
Ma John scuote il capo, si ribella. Non lascerà che Sherlock rischi di nuovo, non lascerà che gli accada qualcosa per un suo errore. Doveva sparare al drago quando poteva, e non l’ha fatto. Per rispettare la sua scelta, ora Sherlock paga.
-Non te lo lascio fare, Sherlock.-
-Non hai scelta.-
-Invece sì!-
Sherlock respira a fondo, John lo guarda meglio e nota nei suoi occhi qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era. Uno stralcio di debolezza, una scintilla di dolore. Sherlock soffre?
Plic, plic, plic.
Dall’alto, sulle loro teste, il cielo piange. L’acqua piove, si mescola al sangue degli uomini e alla rabbia delle bestie assassine. È un tocco gelido, ma gentile. Consola, accarezza, abbraccia di bagnato le loro vesti.
-Sherlock? Che è successo?-
Ma Sherlock non risponde, gli volta le spalle. Ha i capelli appiccicati alla testa, lucidi come piume di corvo e la pelle pallida, brilla di riflessi madreperla. Le squame, rilucono cristalline, limpide, brillanti.
-Andate. Adesso.-
E questo è un ordine fisso, perentorio, senza revoca. Noah indietreggia, allontana John da Sherlock mentre dal basso, l’immensa massa del drago si solleva, sbatte le ali immense, spazzando via mezza città.
-Sherlock… - mormora John, ma il resto delle sue parole cade nel vuoto, piove insieme alle lacrime del cielo, annega nel dolore di chi, in basso, ancora agonizza per le ferite.
Sherlock non lo guarda, non si azzarda. Ascolta il suo Mind Palace, cammina tra i corridoi nuovamente ordinati, bianchi di un candore pulito, ridipinto di logica e pace interiore.
Corridoio sessantaquattro, porte nove, undici, ventidue, quarantotto.
Sherlock le spalanca una ad una, rovista, assorbe. E intanto, osserva il drago innalzarsi con possenti battiti d’ali, gli occhi fissi sulle loro piccole sagome, grandi appena quanto una delle sue scaglie.
-Noah.-
E Noah, fedele e intelligente, risponde. Si allontana, stringe forte John che ormai conosce bene l’inutilità del divincolarsi tra artigli così resistenti. Semplicemente, l’umano osserva e in lontananza, scorge la sagoma di Sherlock sparire tra le nubi, oltre il creato, dove forse le stelle, sapranno dargli una mano.
 
-Insomma, mi rispondi?!-
Greg tamburella nervosamente un piede sulle macerie, le mani scorticate a sangue e una miriade di tagli sul viso. Ha profonde occhiaie sotto gli occhi e l’espressione esausta, ma John non si preoccupa: non è la prima volta che lo vede in quelle condizioni.
-John Hamish Watson!-
John sospira, stringe forte la fasciatura intorno alla gamba della donna. La sente gemere nell’incoscienza, preda di un dolore che da sveglia l’avrebbe fatta contorcere e urlare, ma deve bloccare l’emorragia ora, sul posto, o i soccorsi non arriveranno in tempo.
Va avanti così da ore, da quando i draghi si sono ritirati. John non ha perso tempo, si è gettato a capofitto tra la sua gente, tra le macerie di quella maledetta guerra. Ha stretto la mano ai moribondi, ha chiuso gli occhi ai morti, ha curato i feriti. Si è scorticato le mani, spezzandosi le unghie e mordendosi a sangue il labbro inferiore, ma non si è mai fermato, nemmeno per bere o mangiare qualcosa. Si nutre del sorriso di chi si sente meglio, beve i respiri di coloro che si sentono vivi e lo guardano con riconoscenza. È la sua ricompensa, il suo premio d’oro.
Adesso però, al peso della stanchezza, si aggiunge il mal di testa causato da Greg. Non gli dà un minuto di tregua, gli sta addosso da quasi un’ora. E John non può rispondere chiaramente senza tradirsi.
-John, ti hanno visto affrontare quel drago enorme. Gli hai impedito di attaccare e poi… chissà come, l’hai respinto. Voglio soltanto sapere se è vero e come hai fatto.-
John scuote il capo, si raddrizza e raggiunge esausto il ferito più vicino, un uomo di mezza età con un braccio ridotto a brandelli. Ha gli occhi socchiusi, lo sguardo stordito. Meglio così.
-La gente parla, John… io sono tuo amico, devo sapere se è vero.-
Ma John si prende il suo tempo, finisce di bendare con cura le ferite dell’uomo prima di alzarsi e fronteggiare Greg, eretto, fiero, soldato adesso più delle altre volte.
-Ti proposi la verità già una volta, Gregory. Ti dissi dei draghi, scrissi ciò che realmente ho vissuto, ciò che è stato e ciò che è. Non hai voluto guardare, né vedere. Dovrei quindi proporti nuovamente una verità che non accoglieresti? Sii mio amico quando ti chiedo sostegno, non solo quando ti necessita conoscere la realtà riguardo pettegolezzi che ti interessano.-
Detto ciò, John lo oltrepassa, gli rifila una spallata e procede la sua giornata: perché lì c’è gente che paga per la cecità di persone come Greg. Perché lì c’è dolore malato, di quelli folli che gridano all’intervento di un medico vero, che la pietà ancora la conosce.
Forse l’uomo non vedrà mai la luce del vero. Forse, tutti loro sono destinati all’estinzione.
 
Quando John tornò a casa, era esausto. Stava cominciando a diluviare e fortunatamente il suo buonsenso gli aveva impedito di continuare a lavorare sotto la pioggia, correndo il rischio di ammalarsi lui stesso.
Adesso, all’asciutto e abbracciato dal calore di casa sua, John si sente vuoto. Per la prima volta, ha paura.
Perché pensa a Sherlock e non sa se sta bene.
Perché lì è buio e ovunque si volti, vede i visi dei cadaveri che ha avuto il coraggio di toccare, di spostare, di accarezzare con dolce umanità. Gli ricordano la sua famiglia, e per questo li rispetta.
Si lascia cadere sulla poltrona, si copre gli occhi con una mano perché è stanco, perché si sente anziano.
Poi però, un fruscio. Un’ombra nera, dipinta di sottili cristalli di luce si dilata contro le pareti, sul pavimento, sugli oggetti sparsi in giro. John la riconosce perché è alta, slanciata, elegante.
Scatta in piedi, si volta verso la finestra e allora lo vede. A capo chino, grondante d’acqua che come diamante gli accarezza la pelle. Ha i pugni serrati, le corna e le scaglie scintillanti. Appare forte e bellissimo, creatura ultraterrena, intoccabile, lontana. Quando solleva lo sguardo però, Sherlock appare stranamente… fragile? Forse. Forse no.
Ha occhi luminosi, il viso contratto, cinereo di stanchezza mai dimostrata. E improvvisamente, Sherlock Holmes si rivela vivo, quasi umano nelle sue reazioni così difficili da trattenere, così soverchianti. John non ha intenzione di chiedergli come sia messo il Mind Palace perché sa che sarebbe una domanda sbagliata. In effetti, qualsiasi quesito lo sarebbe.
Perciò, John si avvicina, lo prende per mano senza domandare, senza aprir bocca. Sa che Sherlock ha bisogno di pace, silenzio, serenità. Ed è venuto da lui. Ha bisogno di lui.
John lo tira dolcemente verso il bagno, accompagna al ticchettare della pioggia il fruscio dei loro passi, lo strusciare delle ali di Sherlock contro le pareti.
Il bagno è la stanza più grande della casa, con la sua ampia vasca di ceramica e il pavimento di legno caldo sotto i loro piedi nudi.
John si ferma, non lascia la mano di Sherlock neanche quando si allunga per chiudere le tende a coprire il vetro della finestra, luminoso d’acqua. Adesso il mondo esterno non esiste, non ha bisogno di esistere. Ci sono loro, c’è Sherlock e la sua richiesta di aiuto.
Col calma, John gli lascia la mano, piega il busto per aprire l’acqua del rubinetto e cominciare a riempire la vasca d’acqua bollente.
-Ora devi fidarti di me, va bene?- sussurra mentre con mani tremanti fa scorrere le dita lungo gli avambracci della creatura, su fino ai bicipiti, le spalle, la nuca. Lì affonda le dita di una mano tra i ricci ancora umidi di pioggia, mentre l’altra scende sul petto, scorre con leggerezza di ali di farfalla sul fianco per poi risalire lungo la schiena, fino alle cinghie che legano il giubbotto a quel corpo così bello, così elegante.
-Fidati di me.-
La cinghia scatta, la mano di John scivola in una carezza verso il basso, alla base inferiore delle ali, dove è l’altro aggancio: fa saltare anche quello.
-Fidati di me.-
Con più azzardo di quanto abbia mai osato, John appoggia la fronte sulla spalla di Sherlock, fa scivolare il viso verso il suo collo e inspira il suo profumo che, mescolatosi al bagnato della pioggia, appare più forte e ammaliante che mai.
Le sue mani, insieme, scorrono in basso, al bordo sottile dei pantaloni classici. Glieli sfila senza sforzo, aiutato dalla coda della creatura stessa, che non si muove né si oppone.
John cerca di non guardarlo, cerca di non incantarsi fino a questo punto, perciò si distrae, gli afferra nuovamente la mano e lo conduce verso la vasca. Lo guarda scivolare nell’acqua, nudo, coperto di scintillanti gocce cristalline che come diamanti sfaccettati accarezzano la pelle di mille scie sinuose, morbide, lucenti. La coda sguscia invadente fuori dalla vasca, le ali ancora ripiegate ricoprono tre pareti su quattro, oscure e bellissime.
John guarda quel viso ancora inespressivo, ancora spento. Lo accarezza, ricerca in quegli occhi una luce dispersa, ma per lui pesantemente necessaria. Non è arrivato fino a quel punto per vederlo soffrire in silenzio. Non glielo permette.
Afferra una spugna, la bagna nell’acqua bollente, scottandosi la mano, e con calma e dolcezza adoranti, comincia ad accarezzare quella pelle, quel viso, quelle scaglie. Fa scorrere la spugna fin sopra le corna, lascia che l’acqua scivoli tra gli anelli fin dentro i capelli e giù, sul viso, sulle palpebre abbassate, per morire tra le labbra.
John non ha mai visto in vita sua qualcosa di così bello e prezioso. Ha davanti una benedizione, un angelo caduto dal cielo. Perché in realtà Sherlock, è più umano di chiunque altro. Lui la pietà, la ricorda bene, e l’ha dimostrato quando ha scelto di salvare Molly, di combattere un suo stesso simile per aiutare la gente che le sue gigantesche zampe mortifere calpestavano. Sherlock non appartiene a nessuno, perché aiuta incondizionatamente entrambe le parti. Lui non è guerra… lui è pace.
-Sherlock, guardami.-
E Sherlock solleva il viso, lo fissa con calore ritrovato. Ha occhi brillanti, umidi di una luce nuova, serena, quasi felice. Lì, in quel piccolo anfratto di mondo, ha trovato la sua pace. Non l’ha mai cercata, ma è stata essa a venire da lui, con occhi di soldato e mani di guerriero.
Ed è per questo che nuovamente, quella porticina maledetta nel suo Mind Palace si schiude, forza la serratura che serra ogni rischio d’apertura. Ma Sherlock non può curarsene, non adesso. Di quella porta ora, gli interessa poco e niente. Perché è con John, perché guardare in quegli occhi ricostruisce in lui ogni brandello di pace, ogni scintilla di serenità.
Gli afferra un polso con dolcezza, ascolta il battito delle vene sotto le dita. È così fragile, così morbido. Quello è calore umano.
-Vieni.- dice soltanto, e per un momento teme che John si rifiuti, che fissando l’acqua bollente si tiri indietro. Sherlock si stupisce quando nota che non è così.
Con dolcezza, John si lascia trascinare nella vasca. Si sfila soltanto le scarpe, senza paura né timore. Semplicemente, lo segue, si affida totalmente a lui.
Quando affonda nell’acqua, John la scopre piacevolmente calda anziché bollente. Non c’è molto spazio, e non sa fino a che punto azzardare con Sherlock così vicino, così scoperto, così… bello.
Ma Sherlock non gli concede altre domande, non lascia spazio a parole. Lo fa voltare con dolcezza, lascia che la schiena di John aderisca al suo petto. Quando le mani artigliate scendono fino al bordo del maglione, John trattiene il fiato, si irrigidisce, non crede al miracolo che sta accadendo. Sente gli artigli penetrare la stoffa senza graffiarlo per aprire un unico, grande squarcio sul davanti.
-Mi piaceva, quel maglione.- sorride John senza riuscire a trattenersi. Se lo sfila con più calma di quanta realmente se ne senta addosso e getta il maglione fuori dalla vasca.
-A me no. I tuoi maglioni sono orribili.-
-Non è vero!-
-Sì che lo è. Lo pensa anche Molly, ma non te lo dice.-
-Come hai fatto a… non dirmelo, non ti darò questa soddisfazione.-
Nascosto agli occhi di John, Sherlock sorride appena. Stavolta lascia parlare i gesti, imita coloro che ha guardato tante volte da lontano, quando era bambino. Ricorda suo padre e sua madre, ricorda i loro gesti, i loro sguardi. E per la prima volta, qualcosa di nuovo accade, scuote il Mind Palace di un brivido profondo. Per la prima volta, tutte le porte sono chiuse.
-Sherlock?-
Sherlock passa un braccio intorno alla vita calda e solida di John, lo tira più vicino, incastra i loro corpi di una perfezione delicata, infrangibile, bellissima. Appoggia il mento sulla sua spalla ferita, fa scorrere l’altra mano su quella stessa cicatrice che tante volte ha immaginato, che poche volte ha osservato. E John rovescia il capo all’indietro, porta una mano ai suoi capelli per giocarci dolcemente, senza pretese, senza malizia.
-John?-
-Mh?-
-Grazie.-
 
Angolo dell’autrice:
Coff coff… in ritardo come sempre. Ma anche stavolta non è colpa mia.
Sherlock: che c’è? Stavolta non ho fatto niente.
No Sherlock, ma c’è un ritrovo di hobbit nella mia stanza. E vogliamo parlare dei nani che mi hanno sfrattato dal salotto?! Chi li ha invitati?!
Sherlock: non io. La Signora Hudson ha organizzato un casinò direttamente in casa tua. Se fossi stato io, non sarei bloccato CON TE nello sgabuzzino.
Oh…
Sherlock: già. Oh.
Ehm… torniamo a noi. Ringrazio come al solito gli splendidi draghetti recensori che hanno resto possibile il nuovo capitolo! Grazie alle vostre parole, io sono andata avanti, ho scritto più di quanto mi aspettassi io stessa e… be’, grazie di cuore. Davvero. Quindi, dedico il capitolo a:
Sonia_0911
Bbpeki
Kimi o Aishiteiru (rimettiti presto!)
FKk
Sparrow
Grazie ancora, e a prestissimo!

Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 15
*** Lezioni Di Volo ***


Non tutti conoscono la felicità. Alcuni pensano di averla abbracciata, di abbracciarla tuttora, ma non è così. Felicità è una parola difficile, un concetto osticamente realizzabile. In molti si sentono parte di essa, in molti si sentono in potere di assorbirla, di capirla.
Sbagliato. Errore.
La felicità non và capita. La felicità non và cercata.
Essa giunge e basta, abbraccia, accarezza, bacia ogni anfratto di corpi abbandonati al suo tocco gentile. E chi sa capirlo, chi sa accettare che un giorno, attraverso circostanze totalmente ignote e sorprendenti, la felicità arriverà, allora quell’uomo, quell’uomo sarà felice davvero.
Ed è proprio su chi come John Watson non cerca costantemente la felicità… è proprio lì che la felicità pone le sue mani. Le distende, allunga le dita, tocca la sua piccola essenza di fragile umano e, gentile, gli concede una fortunata possibilità.
John capisce che qualcosa è cambiato quando schiude le palpebre, infastidito da un brillante riflesso di luce. C’è profumo nell’aria, e comincia a far caldo.
Si accorge di essere disteso tra morbide coperte, agglomerati di scaglie e drappeggi alari più preziosi dell’oro, più morbidi di qualsiasi seta pregiata. Non si arrischia a muoversi, non schioderebbe un muscolo da lì, perché quello è il suo paradiso.
Si guarda intorno, penetra con gli occhi l’oscurità soverchiante per scoprire che forse, infondo, non è poi così buio: l’intera stanza è percorsa da cristalli di luce, riflessi da scaglie brillanti e corna luminose lì, dalla penombra dello stesso letto in cui John si è risvegliato.
Sherlock Holmes siede con la schiena poggiata contro il muro, la testa china a causa delle corna che spingono contro la parete, forandola, il viso pallido come madreperla. Ha i capelli scombinati che gli cadono preziosi sulla fronte e intorno al viso, le labbra schiuse, le ciglia nere corvino per cui qualsiasi essere umano ucciderebbe. È una bellezza irraggiungibile, principesca, ma inconsapevole. Sherlock non sa di essere splendido, non si cura granché del suo aspetto. Eppure, nella sua distratta eleganza, sa essere più bello di qualsiasi drago, più affascinante di qualsiasi essere umano.
John si accorge di avere il capo adagiato sulla sua coscia coperta dal lenzuolo. Le braccia di Sherlock lo circondano, lo proteggono, gli promettono serenità. E John ci crede, perché si fida di Sherlock.
-So che sei sveglio.- mormora Sherlock così all’improvviso che John sussulta. Sarebbe caduto dal letto se le braccia della Furia Buia non l’avessero trattenuto.
-Sherlock! Da quanto sei…-
-Da sempre. Non ho dormito.-
John si raddrizza imbarazzato, si volta a guardarlo per incrociare l’occhiata dell’unico brillante occhio che Sherlock si concede di aprire. Vorrebbe accarezzargli il volto, vorrebbe baciarlo. Ma ha capito ormai, che deve aspettare, che sarà Sherlock a venire da lui al momento giusto.
-Perché non hai dormito? Ero così scomodo?- sorride, cercando di non fissargli l’ampio petto scoperto, gli addominali appena pronunciati e i fianchi duri che sinuosi si tuffano tra le coltri, strette intorno alla sua vita.
Sherlock contrae appena le sopracciglia in un accenno di espressione infastidita.
-Il sonno rallenta i ragionamenti. E poi, noi non siamo fragili come voi: possiamo astenerci dalle funzioni vitali per circa sei giorni, se così desideriamo.-
John annuisce, abbassa gli occhi perché non sa cosa dire. Vorrebbe ringraziarlo per averlo trasportato dalla vasca da bagno (dove si era addormentato) al letto. Vorrebbe ringraziarlo per essere venuto da lui proprio la sera in cui gli incubi si erano fatti soverchianti. Vorrebbe ringraziarlo perché adesso, John è certo di avere un angelo a guardargli le spalle. E quell’angelo ha due ali da drago.
-Perché io, Sherlock?- chiede all’improvviso. – Perché sei venuto da me?-
Alza gli occhi, incrocia quelli limpidi del drago. Per la prima volta, una minuscola seppur sfuggente scintilla di dolcezza gli illumina il viso, distende i suoi tratti, lo trasforma nella creatura caritatevole più bella che luce abbia mai avuto modo di toccare.
-Non lo so.- risponde lentamente, e sputa quelle parole con disgusto, come se  assaporasse l’asprezza in ogni lettera. –E odio non sapere le cose. Mi disturba. Io non ti conosco, John. Perché sei umano, perché sei l’umano così come doveva essere all’inizio. Sei… sei quel tipo d’umano in cui credeva mia madre.-
Sherlock distoglie lo sguardo, pare innervosito. Ha le labbra tirate, sigillate con forza, segno che sta trattenendo faticosamente le argentate volute di fumo che rischiano di palesarsi all’esterno.
Ma John non ha paura. John non potrebbe temerlo, mai.
Allunga una mano, la appoggia su quel viso tanto prezioso, tanto… umano. Ed è caldo. Caldo di vita, caldo d’emozioni mai espresse.
-Com’era tua madre?-
-Cosa c’entra, adesso?-
-Parlamene, Sherlock. Parlamene e… non so, cosa vorresti in cambio?-
Sherlock distoglie il viso, sfugge alla presa di John. Chiude gli occhi, ricorda, affonda nelle pieghe dei giorni passati. Camminando tra i corridoi del Mind Palace, comincia ad aprire le porte necessarie. Non l’ha mai fatto, non s’è mai azzardato a schiuderle. Eppure adesso, lo fa. Per John, sempre per John.
-Era bella.- mormora infine. –Profumava di… vento, credo. E di girasoli. Sorrideva sempre.-
Parla così dal suo Mind Palace, finché non ascolta le sue stesse parole fuoriuscire timide dalle labbra vere, materiali. Accarezza un’immagine di sua madre, rivede il suo sorriso, la sua grandezza nel saper perdonare ogni sbaglio altrui. Conosceva bene il mondo, sua madre. Lo conosceva, e lottava per curarlo di ogni insana ferita. Ogni giorno, ogni ora. Voleva soltanto un posto migliore dove crescere i suoi figli. Un posto amichevole, senza guerra. Non è andata così.
-Lei voleva la pace. Più di chiunque altro, lei voleva la pace.-
Sherlock stringe forte gli occhi aridi, asciutti. Non crede di aver mai avuto lacrime da versare. Pianse una sola volta, secoli addietro, e non lo farà mai più.
All’interno del Mind Palace, tutte le porte si chiudono di schianto, si lasciano sigillare e rimangono in silenzio, ricolme di un nuovo ricordo, di un nuovo momento prezioso e memorizzato.
-Sherlock, non…-
Toc toc.
La porta. Qualcuno bussa due volte, velocemente, spezzando l’incanto dell’atmosfera.
Sherlock e John si voltano di scatto, fissano la porta di legno come se potesse esplodere da un momento all’altro. Immobile per alcuni istanti, John sceglie di saltare giù dal letto di scatto, rischiando di inciampare e rompersi l’osso del collo contro la poltrona.
-Dio santo!-
Sherlock si sporge dal letto, lo fissa senza capire.
-Sherlock, devi uscire di corsa! Muoviti!-
E senza aspettare risposta, John corre ad aprire la porta. Confida nella velocità della Furia Buia nel dileguarsi, nel suo essere silenzioso, nella sua discrezione.
-Mrs Hudson! Che piacere.- esclama quando vede la piccola signora in piedi sull’uscio. Sorride, ha qualche lieve graffio in viso, ma sta bene. Come sempre, come John ha sempre voluto che fosse.
-John caro, come stai?- domanda lei, guardandolo con occhi luminosi, comprensivi. Occhi da madre.
Lui la abbraccia di slancio, stringe a sé quel corpo fragile, ma allo stesso tempo forte come un uragano. È Mrs Hudson, è parte della sua famiglia: sua madre, sua amica.
-Non doveva venire qui, vi avrei raggiunta io.-
-Oh, certo. Ma sei così impegnato John… Gregory mi ha detto cosa hai fatto.-
John scioglie l’abbraccio, la guarda in viso preoccupato. –Cosa ha detto?- domanda, ma nell’istante in cui Mrs Hudson apre bocca per rispondere… la catastrofe.
-John.-
E John raggela, perché quella voce proveniente dalla sua stanza, lui la conosce bene. È calda, morbida, profonda. Sherlock.
Si volta di scatto, intravede lo sprazzo di un’ala oltre la porta socchiusa. Perché accidenti non si è allontanato?
-John, c’è qualcuno con te?- domanda appunto Mrs Hudson e John comincia a sudare freddo. No, con lui non dovrebbe esserci nessuno. Perché Sherlock doveva sparire, perché Sherlock ha sempre fatto così: adesso però, è diverso.
-Io…-
Uno schianto, il rumore di qualcosa che esplode. Poi fumo leggero, grigiastro, sporco. E Mrs Hudson tossisce.
Sherlock!
Gettando all’aria ogni precauzione, John corre nella sua stanza, seguito da Mrs Hudson. Spalanca la porta, quasi la sfonda nell’impeto d’urgenza che lo spinge a cercare la Furia Buia. Si aspetta di trovarlo nei guai, si aspetta di vederlo avvinghiato a un suo simile in un corpo a corpo pauroso. Ma non è così.
Sherlock siede ancora sul letto, le coperte tirate fin sopra il mento, la schiena aderente al muro e la testa dritta, che incassa quasi completamente le corna nel muro. Le ali non si vedono e la coda, se John ci fa caso, occupa arrotolata lo spazio in ombra che passa sotto il letto.
Sherlock ha gli occhi socchiusi, e grazie a Dio è in penombra e Mrs Hudson non ci vede bene, altrimenti si accorgerebbe sia degli occhi serpentini, sia delle punte acuminate che gli delineano la mandibola.
-Lei deve essere la proprietaria dell’ex appartamento di John.- dice Sherlock.
Memorizzare.
Porta ottocentouno, corridoio quarantasei. Donna divorziata, il marito la tradiva. Casalinga, pochi amici, casa distrutta, famiglia defunta. Ha bevuto un tè caldo ma scadente poche ore fa.
-Oh… oh!-
Mrs Hudson si copre la bocca con una mano, passa lo sguardo da John a Sherlock. Al primo occorrono due secondi di panico e confusione per capire cosa sta pensando.
-No… no, Mrs Hudson, lui è… un… mio paziente.-
-Oh John, dovevi dirmelo. Ecco perché eri così scostante ultimamente.-
-Scost… no! Non capisce, Mrs Hudson, io…-
-John.-
John si volta, incrocia lo sguardo urgente di Sherlock: cerca di dirgli qualcosa, cerca di spiegargli perché è ancora lì. E John vorrebbe saperlo. Veramente. Ma non con Mrs Hudson davanti.
-Ehm… Sherlock, credo sia ora di cambiarti le fasciature.-
Sherlock lo guarda, inarca un sopracciglio. Stringe le labbra per trattenere o il fumo o una rispostaccia, ma non replica.
-Oh, certo. Un tuo paziente. Nel tuo letto.- Mrs Hudson fissa John con occhi scintillanti che non promettono nulla di buono. Sorride come sorriderebbe lo Stregatto di “Alice nel Paese delle Meraviglie”, e questa non è una buona cosa. John preferirebbe affrontare un altro drago piuttosto che avere a che fare con una Mrs Hudson in procinto di trasformarsi in una fan sfegatata dello slash.
-Io…-
-John.-
-Sherlock! Piantala di chiamarmi, conosco il mio nome!-
-A me non sembra, o mi daresti retta.-
Mrs Hudson batte le mani con tanta forza che John sobbalza e Sherlock tossisce, lasciandosi sfuggire dalle labbra una nuvoletta (fortunatamente quasi invisibile) di fumo argentato.
-Oh, siete meravigliosi, cari! Tranquillo Sherlock, vi lascio da soli. John è un po’ tardo in certi casi, ma ti assicuro che è un bravo ragazzo.-
-Mrs Hudson!!!-
Ma Mrs Hudson non lo ascolta e anzi, lo abbraccia velocemente e fa lo stesso anche con Sherlock. John lo vede irrigidirsi, stringere le labbra ai limiti del possibile mentre anche dalle narici comincia a fuoriuscire il fumo. È a un passo dall’esplosione quando Mrs Hudson lo libera e, voltatasi, esce di casa in fretta, senza salutare. John è certo che a breve quella storia la conoscerà tutto il quartiere, e questo è un guaio.
-CHE CAZZO FAI?!- esplode appena la porta si chiude. –Dovevi sparire, l’hai sempre fatto! Come ti salta in mente di…-
-Non potevo uscire.-
-Come no?! E accidenti, dopo tutto questo tempo, potevi far sparire le ali e non l’hai mai fatto?-
-Non posso farlo, infatti.-
-Non raccontarmi storie, cornuto di un rettile!-
-John.-
-E adesso Mrs Hudson andrà in giro a distribuire volantini da fan girl assatanata, e…-
-John.-
-Fammi finire! La mia vita è rovinata, te ne rendi conto?! Neanche andassi a prostitute, dannazione! Io…-
-JOHN!!!-
-CHE C’È!!!-
Sherlock inspira profondamente, lottando quasi disperato contro il fumo che spinge per fuoriuscirgli dalle labbra. Deglutisce una, due, tre volte, e alla fine, nonostante la gola a pezzi, si sente in grado di respirare dalla bocca.
Non vuole pensare di essere stato così imbecille. Non vuole pensare di aver raggiunto un tale picco di stupidità. Proprio lui, Sherlock Holmes, principe decaduto e mente brillante, forse una delle più brillanti del mondo.
Ma…
-Sono incastrato.-
Silenzio. John lo guarda, pare trattenere il respiro.
-Sei… cosa?-
Sherlock sbuffa, stringe i pugni sotto le lenzuola per nascondere il nervosismo e la rabbia verso se stesso.
-Incastrato. Sono incastrato, John.-
E per dimostrare la sua affermazione, muove appena la testa per mostrare la piccola porzione di corna non ancora affondata nell’intonaco.
-Oh, e hai bisogno di un muro nuovo.-
Inarca la schiena, mostra le ali che hanno sfondato la parete alle sue spalle e adesso invadono totalmente la cucina.
È un istante, un altro attimo di silenzio. Poi, John scoppia a ridere. Si piega in due, appoggia una mano al materasso mentre con l’altra si tiene lo stomaco dolente. Ha le lacrime agli occhi e il viso rosso.
-John! Non ridere!-
Ma John ride più forte, cade in ginocchio e si accascia a terra, dove rotola sulla schiena nel disperato tentativo di respirare.
-JOHN!!!-
-Che succede?-
Noah sbuca dal bagno, sbatte le palpebre nell’oscurità per vederli meglio. Alle sue spalle c’è Molly, e questo annienta lentamente la risata di John.
-Hai finito?- sbuffa Sherlock, piccato. Non si preoccupa di essere praticamente nudo, coperto solo da un lenzuolo in presenza di una ragazza che lo guarda con fin troppo interesse. A John questo non piace.
-Molly- dice, alzandosi a sedere col fiatone e il viso bagnato di lacrime. –che ci fai qui?-
Lei si riscuote, sussulta e pare sforzarsi pesantemente per distogliere gli occhi da Sherlock, ancora immobile contro il muro. Noah lo raggiunge sorridendo e lo aiuta a liberarsi, lottando contro gli sbuffi della Furia Buia, le sue rispostacce, l’intonaco e le ali che, ingombranti, sembrano poco intenzionate a lasciare la cucina adiacente.
Intanto, Molly si inginocchia al fianco di John, volta faticosamente le spalle a uno Sherlock ormai libero dal lenzuolo e quindi gloriosamente nudo. John stringe i pugni, spera che la sua amica se ne vada all’istante.
Non riconosce quella sensazione di rancore mai covato nei confronti della dolce e gentile Molly. In effetti, un’emozione del genere riferita alla sua persona, appare quasi anomala, insana, malata. E John si sente malato, perché Sherlock è nudo e lei si sforza di non guardarlo quando in realtà vorrebbe girarsi, stringerlo a sé, toccarlo. No, a John non va bene. Ma deve controllarsi. Deve…
-Abbiamo… be’, in realtà io ho pensato che… potresti volare.-
-Eh?-
-Sì, ti ho visto. Quando hai affrontato quel drago enorme e… e ti facevi sballottare a destra e a sinistra mentre volavi a dorso di drago. Insomma, non sei abituato. E se invece lo fossi?-
John sbatte le palpebre, non capisce. Poco distante da loro, Sherlock si immobilizza. Fissa Molly con rinnovato interesse, corruga le sopracciglia, scava ogni informazione utile dagli angoli del suo Mind Palace per decifrare, per capire.
Stanza undici, corridoio settantasei.
-Volete fare un test di volo.- deduce infine, e Molly annuisce, le mani strette in grembo, la postura rigida. Si sforza ancora di non muoversi.
-Eh?! Ma siete impazziti?- esclama John, sbarrando gli occhi. Ma Sherlock la pensa diversamente.
-Non è una cattiva idea.-
-Sherlock!-
-John, hai rischiato di ucciderti l’ultima volta. E io non posso sballottarti a destra e a sinistra come un inutile sacco di sabbia. Usa il cervello, se impari ad adattarti alle nostre movenze, anche io saprò combattere meglio di conseguenza.-
John fissa Sherlock, legge nei suoi occhi uno scintillio di… fiducia? No, non Sherlock, non è possibile. Eppure, John sente che qualunque decisione prenda, Sherlock la rispetterà.
Lo farà perché Sherlock rispetta lui.
Lo farà perché è Sherlock.
Lo farà perché così è giusto.
-John?-
Molly lo richiama alla realtà, lo costringe a distogliere faticosamente lo sguardo da quello magnetico del drago, ancora seduto sul letto.
Adesso tutti lo guardano, tutti lo studiano. Ma soltanto Sherlock sa vedere, sa capire. Soltanto lui ci riesce, semplicemente perché è Sherlock.
E John si fida, farebbe qualsiasi cosa per lui. È diventato parte del suo universo, forse ne ha conquistato il centro con la sua freddezza, con la sua… umanità. Perché più di tutti loro, il vero umano così come doveva essere all’inizio, così come lo vorrebbe ogni favola mai narrata, è proprio lui.
-Ci sto.-
 
-Ho detto una stronzata. Non ci sto affatto!-
John si agita, stringe forte una delle punte cervicali di Noah mentre il drago svetta maestoso sui miserabili resti dello stesso edificio che un tempo era stato il più alto della città. Al loro fianco, Sherlock si erge alto e bellissimo, coi capelli scompigliati dal vento e gli occhi limpidi che saettano, studiano, cercano. Alla luce tenue della luna, la sua pelle pare composta di madreperla.
-Forse non è stata una buona idea aspettare la notte per farvi spiccare il volo. Qualcuno potrebbe vedervi.- dice Molly, aggrappata convulsamente a John. Forse ha più paura di lui, forse teme il vuoto e la morte, ma nulla le ha impedito di accompagnarli. Ha scelto di dare ai draghi una possibilità, ha scelto di pensare con la sua testa. Ha scelto di seguire Hound e le sue preghiere di pace.
-Gli edifici della zona sono tutti evacuati. Questo è il punto in cui l’ultimo attacco si è intensificato, perciò si temono crolli edilizi o sprofondamento di qualche tratto stradale. Teorie sorprendentemente esatte, considerate le crepe che circondano il palazzo poco più a nord di qui e i crolli generatisi sotto alcuni tratti di strada.- spiega Sherlock, guardando in basso. Si accovaccia, artiglia i miseri resti del cornicione per guadagnare equilibrio mentre dilata le narici e annusa l’aria, in cerca di odori allarmanti.
Nulla.
Stanza dodici, corridoio novantanove. Odori.
-Possiamo andare.- conferma, raddrizzandosi.
-Non potremmo aspettare…-
Ma improvvisamente, Molly perde la voce.
Noah piega le cosce possenti e spinge forte sulle zampe, gonfiando ogni singolo muscolo. Si getta nel vuoto con leggerezza, senza peso, come se il suo corpo massiccio non pesasse affatto. Nel momento stesso in cui si affida all’aria, egli diventa aria stessa.
Le ali si spalancano, schioccano sorde allo schiaffo del vento che le accoglie, ne gonfia le vele e sforza muscoli e tendini in un unico assemblaggio di creatura padrona dell’aria.
John si abbandona alle movenze di Noah, cerca di assecondarle. Tuttavia, quando il drago interrompe la caduta per risalire in morbide spirali, John si sente sballottare di lato. Si aggrappa forte alle punte cervicali del drago, stringe i denti per non cadere. Contro le ginocchia, sente urtare le ali possenti di Noah, ampie come vele di tre navi messe insieme, abbastanza audaci da sfidare il vento. Lo catturano, lo rimescolano, lo riutilizzano a piacimento come spinta suprema verso un cielo più alto, più lontano.
-John.-
E John, ormai in procinto di vomitare, si volta. Lo fa perché non può farne a meno, lo fa perché quella voce è per lui un richiamo, un ordine, un bisogno di rispondere.
Incrocia lo sguardo di Sherlock, lo vede volare senza sforzo accanto a Noah. Non sbatte quasi le ali, non sforza alcun muscolo. Semplicemente, si affida al vento, lo sfrutta, lo domina più di qualsiasi altro drago. Lui è una Furia Buia, lui è fuoco, aria e tempesta. Lui è velocità, e volare, è nel suo sangue come lo sarebbe il nuotare per un pesce.
John guarda le sue ali, si lascia ammaliare dai riflessi cangianti che emettono. E d’improvviso, la nausea sparisce.
John quasi non se ne accorge ma lentamente, con calma, i suoi riflessi di soldato si risvegliano. Poco a poco, le sue occhiate ammirate si trasformano in studi accurati del corpo che ha davanti, delle ali che osserva interessato. Le studia mentre si piegano, facendo virare il corpo verso destra e sinistra, le guarda sbattere e salire, o piegarsi in avanti per scendere.
Poco a poco, John capisce, imita, studia. E quasi senza accorgersene, adatta il corpo a quello di Noah, piegandosi di lato quando lo sente virare o appiattendosi in avanti quando il drago scende in picchiata. Cerca armonia, sincronizzazione, equilibrio.
Sorride, assapora il vento che gli schiaffeggia il viso. E improvvisamente, per lui è come guardare il mondo con occhi non suoi.
Qualcosa cambia, il suo sguardo pare mutare ogni cosa, ogni angolatura. John non combatte più il vento, perché ormai il vento lo possiede, lo aiuta, lo spinge sempre più su, sempre più lontano. E grazie ad esso, John si sente libero.
Sfrecciano sotto un mare di stelle cadenti, più giù della luna, sotto una cappa di sfumato blu cobalto. Il mondo si prostra ai loro piedi, si stende come minuscola coperta dove i fiumi diventano nastri e le foreste a nord, nella terra dei draghi, si trasformano in distese puntinate di svariate tonalità smeraldine. Londra, con la sua grigia miseria e il suo lurido odio malato, è ormai lontana, racchiusa nel suo terrore che impedisce ai suoi abitanti di esporre il naso oltre la soglia sicura di una porta di casa perennemente sigillata.
Sorridendo in preda all’euforia, John spalanca le braccia e urla. Felice, libero, non più uomo ma drago. Potrebbe avere ali e coda, corna e scaglie, e non cambierebbe niente. Perché adesso conosce la libertà, adesso si sente leggero come l’aria e amico di quest’ultima.
-Ottimo lavoro.- mormora Sherlock, improvvisamente vicinissimo. Si è accostato a Noah per un istante, prima di oltrepassarlo e tuffarsi in basso, verso il fiume. Rimpicciolisce, sparisce alla vista con uno scintillio, ma quando ricompare, svariati minuti dopo, è affiancato dagli albatros.
John li vede posizionarsi intorno a Sherlock, inglobarlo nello stormo come farebbe una famiglia. Ed è bellissimo.
Noah vira a destra, sbatte forte le ali, s’innalza appena verso il cielo. Adesso vola più lentamente, in maniera pacata, serena. E John non ci mette molto a capire che in realtà, Noah e Sherlock li stanno conducendo da qualche parte.
-Dove andiamo?-
Sherlock evita il suo sguardo, irrigidisce i muscoli del viso e del corpo. Se John non lo conoscesse bene, penserebbe che ha… paura.
-A est. C’è una cosa che dovete vedere.-
 
Note dell’autrice:
Eeee tanto per cambiare sono in ritardo. Tanti auguri a me!
John: tanti auguri un cavolo! C’è un rodeo di struzzi in corridoio! Mrs Hudson è ingestibile ormai, non posso…
Irene: ihaaaaaaaaa!!!
…………………………………………………………………………..
John: perché Irene cavalcava uno struzzo rosso?
Colpa mia, credo che la storia delle scaglie vermiglie le abbia dato alla testa…
John: sicuramente è una visione migliore di Mrs Hudson in perizoma… torno a tentare il suicidio.
Ok, a dopo! Dunque, spazio ai ringraziamenti!!!
Come sempre, dedico ogni mio sforzo e ogni più sentito ringraziamento a coloro che più di tutti meritano ogni parola di questa storia e ogni ora passata a scrivere. Grazie a voi, draghetti recensori, che non mancate mai di commentare, di farmi sorridere e di aiutarmi a scrivere ancora e ancora. A voi:
Kimi o Aishiteiru
FFk
Sparrow
Fatelfay
Sonia_0911
Bbpeki
Grazie a tutti e a presto!

Tomi Dark Angel
 

 

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Capitolo 16
*** Riconquista La Tua Vita ***


Toccare il cielo come un dito, dicono in molti, è soltanto un detto. Spesso e tutt’oggi, i bambini tendono a distendere gli arti verso il cielo, verso l’infinito azzurro che si stende sulle loro teste. Allungano le dita, si sollevano sulla punta dei piedi. Vorrebbero toccare la volta celeste così come sentono di poter fare, ma nessuno di loro ci riesce.
Poi però, qualcuno compare, li raggiunge e dice che toccare il cielo è possibile. E quel qualcuno, è un ex-soldato. Ricolmo di ferite, stanco, prematuramente invecchiato dalla guerra vissuta e da una famiglia devastata. Eppure, sorride.
John Watson, così si chiama il soldato.
John Watson, colui che adesso il cielo non solo lo tocca, ma riesce ad attraversarlo più veloce delle meteore, più libero di qualsiasi gabbiano. È una stella cadente, è vento che soffia sul mondo, tra scorci di giorno e scintille di notte. Vola libero su possenti ali di drago, a cavallo di un sogno di scaglie violette e artigli argentati.
Sovrastano imponenti una pianura sconfinata, a tratti ingioiellata d’alberi e fiori selvatici. Dall’alto, John vede delle piccole macchioline sfrecciare sull’erba, veloci e fugaci come ombre, compatti come unico essere. Conigli? Cervi? Da quell’altezza non saprebbe dirlo.
Noah sbatte le ali. Sollevandole, taglia in due una nuvola sospesa a pochi centimetri dalle loro teste, spargendo nell’aria un fluire scomposto di frammenti bianchi come fumo magico. Molly solleva una mano, la affonda nei poveri resti della nuvola e subito ritrae le dita fredde e bagnate per accostarle alla lingua come una bambina. Ride, i capelli scompigliati dal vento e il viso rilassato come mai lo è stato prima di allora.
Oltrepassano la pianura, sorvolano una distesa sconfinata di boschi che, baciati dalla luna, appaiono argentati laddove luce tocca e neri invece dove tutto è oscuro. A est, più vicine che mai, si stendono le montagne. Non sono le stesse che ospitano i draghi, poiché appaiono più selvagge, più indomite, con picchi di neve sulle punte acuminate. Dove dimora Sherlock, pare sempre primavera.
-John.-
John si volta, incontra lo sguardo di Sherlock, che adesso vola vicinissimo a loro. Ha i capelli scompigliati, morbidi d’onde mosse dal vento e la pelle candida, lunare, lucente come di riflessi perlacei. Le squame, catturano la luce argentata della luna per poi espellerla in un nuovo spettro di colori luminoso, bellissimo, perennemente in movimento come spirito vegliante.
-Trattieni il respiro.- dice, poi fissa anche Molly, ammaliata dalla leggerezza oscura della sua figura baciata da luna e tenebre. –Trattenetelo entrambi. Farà un po’ male.-
Noah sbatte forte le ali una, due, tre volte. Sale sempre più su, sempre più affaticato, sempre più goffo. Al suo fianco, Sherlock pare non sforzarsi affatto per salire quasi in verticale verso il cielo.
John e Molly si aggrappano con forza alle punte cervicali di Noah, stringono i denti,  si allarmano quando la pressione comincia a premere contro le gabbie toraciche. Annaspano, Molly tossisce, ma Noah sale ancora, sempre più su, come se volesse sfondare il cielo.
John cerca di chiamarlo, ma non ci riesce. Trema di freddo, gli manca il respiro e la pressione gli schiaccia le costole, gli arti, le vene.
-Dalla bocca. Respirate dalla bocca e non andate in panico.- dice Sherlock, affiancandoli. Una delle sue ali, quella più vicina, sbatte e sfiora gentile il ginocchio di John, facendolo trasalire. Pare quasi una carezza, un tocco a suo modo gentile, confortante. Sherlock gli ricorda semplicemente che non è solo.
Fidati di lui. Se cadi, saprà prenderti.
E allora John si accovaccia, chiude gli occhi e calma i nervi. Ricorda i suoi momenti di soldato, quando negli istanti di maggiore panico si accucciava in un angolo, tappandosi le orecchie per ascoltare soltanto il suo respiro, il suo cuore battente. Funzionava allora, funziona ancora adesso.
Respira lentamente, con calma. Schiude le labbra come suggerito da Sherlock, gonfia faticosamente il petto schiacciato.
Ma d’improvviso, la pressione scompare.
Noah sfonda la cappa di nuvole sulle loro teste, ricopre d’umido i suoi passeggeri. Eppure, quando John solleva lo sguardo, il freddo e la stanchezza improvvisa sono l’ultima delle sue preoccupazioni.
Se credevano di aver visto di tutto in passato, John e Molly si sbagliano, e di grosso.
Se qualcuno gli avesse detto che un’immensa piattaforma di diamante galleggiante staziona perennemente sulle loro teste, nessuno dei due ci avrebbe creduto.
Se qualcuno gli avesse detto che quella stessa piattaforma è tanto grande da occupare metà del cielo intero, John e Molly avrebbero riso e basta.
Invece, adesso ci credono perché quel sogno ad occhi aperti, quel racconto di bambino, è davanti ai loro occhi. Quello è l’apice del più grande impero mai esistito, l’apice di ogni meraviglia mai concepita da memoria umana. Quello è l’impero dei draghi.
Gigantesca oltre ogni dire, la piattaforma di diamante si stende a vista d’occhio come mare cristallino, trasparente, ricolmo di sfaccettature che rigettano tutto intorno un mondo di arcobaleni e aurora boreale puntinata di schegge di luce. All’interno di essa, si intravedono delle sagome informi, intrappolate nel diamante come bellissime statue ancora incomplete.
Sopra la piattaforma però, si stende l’ennesimo sogno. Il diamante è liscio, levigato come specchio e decorato d’arabeschi antichi, che sembrano intrecciarsi in un unico, grande disegno che John non riesce a decifrare. A intervalli, giganteschi salici piangenti, i più strani che l’ex soldato abbia mai visto, affondano radici fino al cuore del diamante. Sono alberi massicci, con tronchi lucenti di zaffiro, opale, ambra, smeraldo e mille altri colori e foglie d’argento, intrecciate a rami così lunghi da toccare terra.
È un ambiente bellissimo, silenzioso, baciato dallo sguardo di Dio stesso. Ma non è un feudo, e John se ne accorge quando Noah atterra. Quelli intrappolati nel diamante, esattamente sotto i loro piedi… sono draghi. Accovacciati, le ali ripiegate intorno ai corpi come gusci protettivi, i lunghi colli ritorti a poggiare le teste sui petti ampi e ormai immobili. Splendono come punti luce all’interno del diamante, cristallizzati eternamente nella loro grandezza mai dimenticata, mai seppellita agli occhi. Ed è lì, da ognuno di quei corpi, che germoglia un salice dello stesso colore delle scaglie che ricoprono il proprietario defunto.
Quello non è un feudo: quello è un cimitero.
-Mio Dio…-
John vorrebbe scendere dal dorso di Noah, vorrebbe poggiare i piedi sullo splendore di quelle anime assopite, pacifiche, giganti nella loro nobiltà. Ma non osa. Perché quelli che osserva sono i draghi più grandi che abbia mai visto, perché quelle che osserva sono bestie immense e senza tempo.
-Che posto è questo?- sussurra Molly sottovoce. Trema visibilmente, non osa guardare i draghi sottostanti per più di qualche secondo. Vibra di un timore reverenziale, vivo, che John condivide pienamente.
Solleva lo sguardo, vede la figura si Sherlock sfilare elegantemente tra i salici senza toccarli. Ci si aspetterebbe che urtando il diamante con gli artigli, essi lo incidano profondamente, ma non è così: nessun rumore, nemmeno l’ansito di un respiro scuote l’immobilità fresca dell’aria.
C’è silenzio, c’è pace. Lì dormono i defunti.
Noah accenna un basso brontolio che nella tranquillità dell’ambiente, pare possente come un ruggito. Li invita a scendere, accenna un piccolo movimento col cranio.
John e Molly ubbidiscono, entrambi scossi. Poggiano i piedi sul diamante, gli arti rigidi e tremanti.
D’improvviso, John pensa che le sue scarpe sono sporche e che lui è in disordine. Potrebbe insozzare l’ambiente immacolato col fango o sporcarlo col suo semplice caos esteriore. Non merita di stare lì, quello non è il suo posto.
Indietreggia e quasi inciampa su Noah, che intanto si è ritrasformato e, in forma semiumana, lo affianca e gli prende una mano, dolce come solo un bambino sa esserlo.
-Venite con me.-
Tira gentilmente la mano di John, che a sua volta si trascina dietro Molly. La sente incespicare, trattenere un’imprecazione dettata dal nervosismo. Anche le parolacce inquinerebbero l’aria lì, dove l’equilibrio con suoni, colori e odori trova il suo culmine paradisiaco.
Camminano tra gli alberi con passi di velluto, gli occhi bassi per non restare ipnotizzati dalla bellezza dei tronchi lucenti più delle stelle. È come camminare su territorio di paradiso senza tuttavia arrischiarsi a toccarlo davvero. John e Mary sono umani, e come tali, dovranno fare un passo indietro rispetto alla grandezza dei giganti che anche nel sonno, li giudicano, li osservano, guardiani delle loro stesse tombe.
-Qui.-
Noah si ferma, John quasi gli sbatte contro un’altra volta.
E quando solleva lo sguardo, di nuovo le parole gli muoiono in gola.
Davanti ai loro occhi, si stende l’albero più grande e bello di tutti. Alto almeno quindici metri, col tronco nero ricoperto del più splendido arcobaleno mai dipinto in cielo. È attraversato da venature biancastre, pulsanti di cristalli d’aurora boreale, e stende i suoi rami verso l’alto, quasi toccando l’universo che si srotola oltre il blu del cielo. Le foglie sono cristalline, appena trasparenti, come entità gentili e bellissime che s’inerpicano ai lunghi rami, giù fino a sfiorare il terreno.
Senza accorgersene, John cade in ginocchio. Ha gli occhi sbarrati, le labbra schiuse a dispetto del fiato trattenuto come mozzatosi in gola.
È questa una delle tante meraviglie che l’uomo non sa vedere, è questa una delle tante meraviglie che l’uomo combatterebbe, così come combatte i draghi. Purezza, pace, serenità. I draghi sono questo. Ma l’uomo sa portare soltanto il caos.
-State bene?- mormora Noah preoccupato. Si inginocchia accanto a John mentre, al suo fianco, Molly trema visibilmente e si copre la bocca con una mano, gli occhi pieni di lacrime.
-S… sì, Noah. Tranquillo.- sorride faticosamente John, e Noah ricambia genuino, spensierato.
-Questa è la mamma di Sherlock.-
D’improvviso, Molly smette di piangere, John abbassa gli occhi sulla figura massiccia della dragonessa.
È una delle creature più grandi che abbia mai visto. Sarà grossa almeno cinque volte il drago combattuto da John nell’ultimo scontro a Londra. Eppure, nella sua stazza spropositata, non perde la sua grazia. Ha arti longilinei, non esageratamente muscolosi e corna ricurve, ad anelli. John non riesce a vederla bene perché il diamante ne distorce la forma e le ali chiuse intorno al corpo delicatamente accovacciato la nascondono alla vista. Eppure, anche così deformata, appare bellissima e irraggiungibile come il figlio.
Già, suo figlio.
John solleva faticosamente lo sguardo e vece Sherlock, eretto dinanzi alle radici dell’albero, le mani in tasca e il capo chino che permette ai capelli di nascondergli il viso. Pare una bellissima, elegante statua inchinata a chi è più grande di lei, ma fiera nella sua sottomissione onesta, vera.
-Si dice che ci abbia parlato, sapete?- mormora Noah, così piano che John deve accucciarsi alla sua altezza per sentirlo meglio. –Si dice che soltanto lui fosse presente quando è morta… e lei gli ha parlato. Nessuno sa cosa gli disse, ma Sherlock cambiò da quel giorno. Fu l’unica volta in cui suo fratello lo vide piangere. E questo cambiò le loro vite. Sherlock fu accusato di averle inferto il colpo di grazia, Mycroft non lo difese e loro padre sparì, esiliandosi per combattere il dolore. Sherlock fu solo.-
John solleva nuovamente lo sguardo, incrocia la figura in ombra di Sherlock.
Una folata di vento li accarezza, spezza la staticità del cimitero e d’improvviso, il cappotto di Sherlock svolazza all’indietro, i capelli si spostano dal viso, le membrane alari ondeggiano, rigettando riflessi di cristallo tutto intorno.
Ha lo sguardo fisso, inespressivo, che posa sul tronco dell’immenso salice piangente. Pensa tanto, Sherlock, ma John non riesce a decifrarlo. Non sapeva di quel posto, non sapeva che un tempo, Sherlock era diverso. Non sapeva che dopo la morte di sua madre, non solo gli altri draghi ma anche la sua stessa famiglia gli voltarono le spalle.
D’improvviso, John pensa che non lo conosce affatto.
-Non gli avete mai chiesto cosa gli disse sua madre?- chiede Molly, ma Noah scuote la testa, facendo ondeggiare i brillanti capelli viola.
-Non risponde, si rifiuta. E più và avanti, più l’avversione degli altri draghi nei suoi confronti aumenta…-
Noah si avvicina a una delle radici, posa le piccole mani umanoidi su una violenta scheggiatura che incide nel profondo la pianta. John non vuole pensare che qualcuno abbia levato mano su una scultura così bella, ma ha un brutto presentimento in merito.
-Sono stati i draghi.- dice con voce tremante di rabbia. Noah non nega, non annuisce. Chiude gli occhi e volta il capo dall’altra parte, giustificando allora il comportamento di Sherlock quando è corso da John, tremante e ricolmo di tristezza malcelata.
Non doveva essere triste, no. John pensa che Sherlock deve covare rabbia. Perché in una guerra, almeno i morti si rispettano. Perché qualunque sia la giustificazione inalberata, niente può scusare un atto del genere. I morti non si toccano. I morti sono sacri.
John si inginocchia, posa una mano sulla radice più vicina dell’albero e chiude gli occhi, il capo chino, le dita strette in un pugno rabbioso.
-No.- mormora, tremante di rancore. –I morti non si toccano. Che ne è stato del passato, dei draghi che ho imparato a conoscere? Irene mi ha aiutato, Sherlock mi ha ridato una vita e tu Noah, mi hai salvato molteplici volte: questi sono i draghi che conosco, coloro che scelgo di aiutare, di salvare se ho la forza per farlo. Ma loro? Quale bestia alza mano sui morti che da vivi rispettavano profondamente? Quale abominio può partorire un’idea tanto malata? Nessuno di loro lo merita, perché la madre di Sherlock era buona, era giusta. Ha dato alla luce il più caritatevole dei suoi figli, ha protetto ciò che di bello ha mai guardato questo pianeta fatto a pezzi… e loro l’hanno ferita. Non importa che sia morta, perché questa creatura aveva idee che ancora vivono nell’anima di chi riesce a crederci. E io ci credo, io voglio… voglio realizzare il mondo che meritava di guardare. Voglio…-
Voglio amare suo figlio.
-… voglio che niente di tutto questo accada ancora… voglio salvare i vivi e proteggere i morti, poiché finché c’è giustizia, allora forse… forse qualcosa andrà a posto e potremo migliorare.-
D’improvviso, Molly trattiene il fiato e Noah zittisce ogni risposta.
Una mano artigliata si appoggia sulla sua, stretta a pugno, e quando John solleva gli occhi, incrocia quelli magnetici di Sherlock.
Incontra allora i colori dell’universo, il morbido alternarsi d’arcobaleno e aurora boreale. Il tutto in due iridi chiare, cangianti, uniche molto più che rare.
Trema John, trema perché sta guardando gli abissi del tempo e del dolore. Trema perché Sherlock ha visto così tanto e, nella sua antichità, ha saputo lottare, sostenere paziente ogni giorno di dolore, ogni lacrima mai versata. Ciò lo rende quasi umano, ciò lo rende un grande.
-Perché, Sherlock?- mormora John, gli occhi lucidi e il pugno ancora stretto. –Perché… non ti ribelli?-
Ma Sherlock non risponde. Semplicemente, senza parlare, lo circonda con le braccia e preme il suo petto contro la schiena rigida di John.
Porta novantasei, corridoio settecentodiciotto.
Lui quella porta, non l’ha mai aperta. Non ne ha mai avuto bisogno, non l’ha mai realmente voluta nella sua testa. Ma c’è, e per John, ancora una volta, si spinge a fare ciò che per nessuno ha mai fatto.
Affonda il viso nell’incavo del suo collo, gli sfiora la guancia con le corna imponenti. Respira la sua aria, i suoi pensieri, la sua rabbia. Li assorbe per poi rigettarli lontano, dove non possono sporcare quell’uomo così gentile, così… pulito.
-Cosa vuoi che faccia, John?-
John intreccia le dita con le sue e torna a stringere il pugno, costringendo anche Sherlock a farlo. Si ferisce il palmo coi suoi artigli, trema ancora di rabbia repressa.
-Voglio che riprendi in mano la tua vita. Voglio che combatti.-
La mano di Sherlock sparisce all’improvviso, l’assenza del suo corpo contro quello di John provoca nel soldato un brivido di freddo e mancanza.
-Non posso farlo, John. Non mi interessa regnare sugli stupidi.- dice Sherlock, adesso in piedi davanti a loro, con i piedi piantati su una delle radici più alte dell’albero. Li fissa dall’alto, imponente e nobile come soltanto un futuro sovrano senza trono sa essere.
-Ma ti interessa la pace!- esclama Noah, sorprendendo tutti. Per la prima volta, contrasta Sherlock, lo fronteggia come adulto responsabile, forte di convinzioni giuste. E di nuovo, nei suoi occhi di bambino torna l’anzianità, la stanchezza di chi ha vissuto troppo. Ha un viso rabbioso, i pugni stretti contro i fianchi magri.
-Non parlare di cose che non conosci, ragazzino.- ribatte Sherlock con freddezza.
D’improvviso, dalle narici di Noah comincia a fuoriuscire il fumo. Scuro, malato di rabbia e frustrazione. Quando apre bocca per parlare, tra le labbra del drago si scatenano lingue di fuoco che gli accarezzano il naso e il mento, illuminandogli entrambi i visi di ombre spettrali.
-E tu non giudicare ciò che non riesci a dedurre! Hai perso tua madre, ma non essere così arrogante da crederti unico nell’aver vissuto questa esperienza! So cosa significa! La mia mamma era una delle sue lungo… lungoterienti… lungotenenti! E credeva in Nevora più di chiunque altro! Ha perseguito i suoi ideali, le sue leggi, e ti difendeva anche se non te ne rendevi conto! Eri così chiuso in te stesso da non riuscire neanche a guardare quando l’hanno uccisa!-
Cade il silenzio, Sherlock non cambia espressione. Lo fissa incolore, senza parlare. E Noah piange, ma con fierezza, senza singhiozzi. Lascia che le lacrime sgorghino, che dimostrino il peso di una vita vissuta in solitudine, nel dolore. E quando parla di nuovo, la sua voce non trema nemmeno.
-Ho vissuto da solo. Papà seguì la stessa sorte di mamma, perché anche lui sapeva da che parte schierarsi. E gli altri draghi me li hanno ammazzati entrambi davanti agli occhi, mentre cercavano di proteggere me, così inutile da non riuscire ancora a sputare fuoco. Io guardavo e basta, perché ero un cucciolo e non potevo fare altro che pregare che tutto finisse. Ma io andai avanti, io sopravvissi in solitudine, perché bollato come figlio dei traditori, figlio di coloro che credevano in una pace che ci aveva soltanto portato alla diaspora del nostro popolo. Ho sofferto e sono andato avanti perché era giusto così, perché credevo in te… perché in te, io ci credo ancora.-
Noah avanza lentamente, strascicando la coda e le ali ormai afflosciate, senza forze. D’improvviso, fermo ai piedi di Sherlock, si mostra nuovamente bambino, nuovamente fragile nella sua età. Poi lentamente, Noah si inginocchia ai piedi dell’albero, ai piedi di Sherlock. Ai piedi degli unici due Holmes che abbiano mai vissuto la speranza di una guerra senza fine.
Noah si prostra, perché è tutto ciò che può fare.
Noah prega, perché la sua speranza è Sherlock, perché senza Sherlock, lui non ha scopo.
Noah parla. A nome della sua famiglia, a nome del suo passato e di ogni lacrima ingiustamente versata.
-Abbi pietà. Sii pietoso nei miei confronti, nei confronti di chi è morto in nome tuo, di tua madre. Tu sei più caritatevole di chiunque altro, perché l’hai dimostrato: mi hai portato con te, mi hai voluto bene, anche se non lo ammetti. Insieme a voi, io ho ritrovato una famiglia.-
E d’improvviso, mentre il sole sorge a bagnare d’aurora il mondo, a riempire di riflessi mai visti la piattaforma di diamante, tinta d’alberi preziosi, accade qualcos’altro.
Altre due persone s’inginocchiano lì, alle spalle di Noah, rivolti verso l’unica creatura che abbia mai posseduto una scintilla di potere, una scintilla di umanità reale laddove l’umanità pare mai esistita.
-Riprendi il tuo trono.- mormora John, il capo chino e la schiena curva di fatica. –Riprenditelo, Sherlock. Non sei solo, non lo sei mai stato… io ti ho aspettato per tanto tempo, ho avuto pazienza quando mi scansavi, quando mi mettevi a testa in giù per minuti interi, facendomi salire il sangue alla testa. Ho avuto pazienza per una vita intera, e tu arrivi soltanto adesso. Sei in ritardo, e per questo dovrei arrabbiarmi, ma non posso. Perché si tratta di te, perché se dipendesse da me… ti aspetterei dieci volte tanto. E sarei presente in qualsiasi istante, se soltanto lo vorrai. Sarei al tuo fianco se scegliessi di combattere. Io credo in te, nelle tue idee. Seguiamo il percorso di tua madre… fermiamo questa guerra. Insieme.-
Molly solleva lo sguardo, fissa Sherlock con devozione, con… amore. Ma sorride, riconoscendo le parole di John, riconoscendo l’amore che le pervade. E infine china il capo, riconosce la sconfitta di una battaglia mai avvenuta. Perché infondo, Sherlock è sempre stato di John e John appartiene a Sherlock. Lo legge nei loro occhi, nella profondità delle emozioni appena visibili nello sguardo di Sherlock.
-Non siete soli.- dice Molly.
Il sole sfonda la cappa di nubi sottostante, e John immagina che a Londra, per una volta il tempo sia limpido.
Una pioggia dorata ricopre gli alberi, esplodendo nell’aria lo spettro di colori più radioso che il mondo abbia mai visto. È immenso, lucente, massiccio abbastanza da ricoprire l’intera volta celeste.
Dal basso, draghi e umani sollevano lo sguardo, sbarrano gli occhi alla meraviglia intrecciata di tavolozza variopinta che rimescola ogni tonalità, cambiandola, mutandola, reinventandola. È uno spettacolo mai visto, mai concepito. Uno spettacolo talmente grande, da ristrutturare il cielo di nuovi colori, nuovi cristalli di luce.
E i draghi, riconoscono d’improvviso la presenza dei defunti.
Qualcosa sta cambiando.
John solleva lo sguardo, incontra quello lucente di Sherlock. Lo vede tremare impercettibilmente, stringere a sua volta i pugni contro i fianchi.
-Non sei solo.- mormora ancora John. Tende una mano, ancora in ginocchio, ancora in preghiera silenziosa. –Io sono sempre stato qui.-
-John, non…-
-Oh, suvvia, dolcezza.- dice una voce alle loro spalle. –Non farmi pentire di aver aiutato la tua… dolce metà.-
Irene avanza con fare morbido, sensuale. Nella sua pericolosa nudità, appare arrogante e spigliata come sempre, ma nei suoi occhi, John distingue una nuova emozione che non riesce tuttavia a decifrare.
-È una stupidaggine, Sherlock.- dice un’altra voce, stavolta maschile. Mycroft Holmes li raggiunge a testa, vestito impeccabilmente, con un ombrello stretto tra le mani. Alle sue spalle, c’è una donna con scaglie rosa perla e corna da stambecco. Ha lunghi capelli scuri e brillanti occhi da serpe, che preannunciano una personalità che è meglio non provocare. John capisce che probabilmente, quella è Anthea.
-È stupido, fratellino.- afferma Mycroft, fronteggiando suo fratello. È più basso e quasi misero in confronto alla bellezza aristocratica di Sherlock, ma i suoi occhi mandano lampi d’intelligenza spropositata capace di fronteggiare anche una Furia Buia. –C’è un ostacolo ben più grande della guerra da affrontare. Lui non ti cederà il trono, lo sai.-
-Lui?-
John si raddrizza, imitato da Molly e Noah. A rispondere, è Irene.
-Sì, lui. Hanno qualcosa da farvi vedere, temo.-
-Non se ne parla.- interviene Sherlock, e la sua voce è ferma, inamovibile come un macigno.
Li oltrepassa, fa segno a Noah di raggiungerlo. Seguono soltanto Molly e John, ma gli altri non si muovono.
-John, Molly: vi riportiamo a casa.-
E detto ciò, Sherlock salta all’indietro, si abbandona alla luce dei colori che ricoprono il cielo. Spalanca le ali, cattura il vento e si solleva, libero e senza vincoli. Ma adesso, di nuovo quella porta maledetta e ancora sigillata, scuote il suo Mind Palace. Vuole aprirsi, vuole parlare. Ma Sherlock non glielo permette, non adesso.
La porta si risigilla di schianto, spandendo per l’intero Mind Palace il rumore di calcinacci e chiavi che girano nelle toppe.
Alle sue spalle, Noah si tuffa, spalanca le ali gigantesche e distende i muscoli da drago mentre sulla sua groppa, John urla di adrenalina.
Affiancano Sherlock, e per raggiungerlo, Noah sbatte velocemente le ali nel vortice di colori boreali che li attorniano. Vuole mettersi in pari, vuole meritare di affiancare una Furia Buia. È giovane, insicuro, ma ricorderà gli ideali della sua famiglia.
-Noah.- chiama allora Sherlock, e Noah si volta, risponde al richiamo di colui che seguirebbe e seguirà in capo al mondo. Si sorprende quando lo vede arricciare un angolo delle labbra a cuore in una parvenza di sorriso vero, privo di cattiveria. Un sorriso che vale più dell’oro.
-Ottimo lavoro.-
E finalmente, Noah si sente di nuovo felice.
 
Angolo dell’autrice:
Allora, premettendo che probabilmente, a breve questa storia giungerà al termine, annuncio di avere in serbo una nuova storia. Johnlock, ma… sugli egizi. Ce lo vedete Sherlock come Anubis, il dio sciacallo? Con le orecchie da canide, a torso nudo, gonnellino…
Sher: non se ne parla. Dopo tutto questo mi licenzio. In questa storia sembro un imbecille sentimentale!
Suvvia, lo sappiamo tutti che sei un tenerone! Avevi gli occhi lucidi quando ti ho fatto vedere Titanic.
Sher: era allergia…
Non ti giustificare!
John: ehm… guarda che era allergia per davvero. L’ho imbottito di medicinali. E, a titolo informativo e se QUALCUNO chiedesse la mia opinione… a me andrebbe benissimo vedere Sherl… ehm… partecipare a questa storia. A patto che Irene stia dall’altra parte dell’emisfero: se continua a toccare il sedere di Sherlock implodo.
Ehm… ok? Vaaaaaa bene, torniamo a noi. Cosa ne pensate del capitolo? E… chi è secondo voi LUI? Un biscottino a chi indovina! Sto cercando di farvi felici tutti quanti, perciò all’appello manca soltanto un personaggio… (musichetta tragica).
Ma, adesso spazio ai ringraziamenti! Come al solito, scappo di nuovo e non ho il tempo di ringraziarvi individualmente come meritate. Ma, a costo di essere monotona, dedico ogni sforzo, ogni ora di sonno persa per scrivere decentemente e non farvi aspettare troppo, a voi. Voi che recensite, voi che sognate anche grazie a questa storia e vi premurate di ricordarmelo, facendomi quasi piangere. A voi ogni sforzo, a voi ogni più sentito ringraziamento:
Kimi o Aishiteiru
Sparrow
FKk
_RockEver_
Sonia_0911
Bbpeki
Grazie di cuore e a presto!

Tomi Dark Angel
 

 

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Capitolo 17
*** Sacrificio ***


John Watson: quinto fuciliere di Northamberland.
John Watson: soldato, assassino, medico.
John Watson: umano.
Dati, indizi. Il Mind Palace di Sherlock Holmes non ha mai ospitato tanto in un’unica stanza. Ma non può dividere quei dati, non può spargerli nelle apposite sezioni. Si tratta di John, si tratta di un soggetto importante. Deve conoscerlo, deve studiare meglio perché, nella sua semplicità, appare a volte disarmante e difficile da decifrare.
Ha sorpreso tutti, inginocchiandosi ai piedi di Sherlock. Ha sorpreso tutti promettendogli molto più della banale fedeltà. In qualsiasi momento, in qualsiasi sfaccettatura delle sue possibili scelte, John ci sarà. E questo è strano, perché nessuno è mai stato al suo fianco a parte sua madre.
Lui non vuole il trono, non gli interessa. Non sa governare, non è la creatura adatta a impugnare un simbolico scettro di potere. A lui interessano la sua tranquillità e i suoi esperimenti, nient’altro.
Però… qualcosa è cambiato, da allora. Non sa esattamente cosa, lui certi argomenti non li capisce. Eppure, è certo di non essere lo stesso Sherlock di prima: si è lasciato avvicinare da un umano, gli ha concesso di toccarlo, di manipolarlo psicologicamente. E adesso, il suo Mind Palace è stravolto, trema di emozioni mai viste, ma così potenti da percuoterlo dalle fondamenta. Cos’è la logica, se messa a soqquadro dalle emozioni? Nulla. John gli ha sottratto… tutto. Eppure, Sherlock non si arrabbia. Dovrebbe? Sì. Lo fa? No. Perché adesso, al posto di quella stessa, vitale logica, c’è un pezzo nuovo, una pietra angolare che sostiene faticosamente ma senza vacillare il suo Mind Palace.
È una pietra forte, è una pietra importante. È una pietra… d’emozioni? Non ha senso.
Sherlock accelera, li oltrepassa come freccia scoccata dal suo arco. Ogni battito d’ali, dissipa per brevi istanti la coltre di colori che lo accerchia riempiendola di nuove sfaccettature di oscuro arcobaleno.
Più veloce.
Il vento diventa un muro, e Sherlock lo sfonda senza fatica. Perfora aggraziato la velocità del suono, la oltrepassa sinuoso, inarrestabile, figlio del vento e dell’inafferrabilità del suo essere. Si trasforma in soffio sfuggente di luce, in alito impalpabile di essenza. Ed è lì che Sherlock Holmes ritrova la sua libertà. In quei brevi momenti di potenza, in quei momenti a stento concessi in cui le ali si tendono al massimo, distendono le vele traslucide e variopinte come sottilissima seta stellata. I muscoli si gonfiano, si adattano alla velocità inafferrabile che il corpo ha raggiunto finché la Furia Buia non spalanca le ali, stiracchia le ossa e lascia che il vento lo raggiunga, rincorrendolo affaticato laddove l’unica creatura più veloce del mondo ha scelto di fermarsi.
È salito di quota, molto più di quanto abbia mai fatto in precedenza. E lo ha fatto perché ha bisogno di pace, perché ha bisogno di pensare.
Chiude gli occhi, ascolta rasserenato i suoi stessi passi che riecheggiano tra i corridoi del Mind Palace. Quali porte aprire? Non lo sa, non ha mai preso seriamente in considerazione l’idea di riprendersi il trono. Quello appartiene ai suoi genitori, loro sapevano regnare. Adesso però, quello scranno di potere è vuoto, e ai suoi piedi si scatena il caos.
Porta quindici, corridoio sessanta.
Sherlock spalanca l’anta senza neanche toccarla, fissa inespressivo le conseguenze della caduta al trono degli Holmes: diaspora, guerra, carestie. Morte.
La porta si chiude, Sherlock avanza ancora. Porta sedici.
Al suo interno, c’è la devastazione. Un tappeto di morti, sangue, corpi riversi al suolo. Non hanno anima, non hanno vita. Sbarrano gli occhi senza vedere, spalancano le bocche senza parlare. E su di essi, oscurati dalla morte e dalla loro stessa umana miseria, cala un’altra ombra. Sherlock riconosce le ali immense, i colli lunghi, i variopinti quanto folli occhi di bestie impazzite. Non saprebbe dire chi, tra draghi infuriati e cadaveri distrutti, appaia più morto.
La porta si chiude, Sherlock avanza. Porta diciassette.
Grida, sangue, luccicare ferino di denti e artigli che lacerano, dilaniano, annientano. Nessun’anima negli occhi dei draghi, nessuna giustizia, nessuna pietà. Soltanto dolore e follia.
-Basta così.- dice Sherlock ad alta voce, mentre anche nei corridoi del Mind Palace si spande il suono profondo della sua voce.
Con un gesto della mano, chiude tutte le porte, annienta il rumore, i suggerimenti, le grida di esperienze vissute e consigliere. Non ne ha bisogno, non ancora.
-Che stai facendo?-
Irene si avvicina, sguscia sinuosa fino a raggiungerlo. Lo fissa con occhi intelligenti, da gatta, che Sherlock conosce bene.
-Fuori dalla mia testa, Irene.-
-Non posso. Non se tu lo vuoi davvero.-
Sherlock sbuffa, le volta le spalle. Si allontana mentre un muro s’innalza, frapponendosi tra loro come barriera protettiva.
E intanto, Sherlock Holmes continua a camminare, risuona di passi l’intero palazzo, ascolta i mormorii dei suoi stessi pensieri confusi, aggrovigliati. Ma dov’è il centro della matassa? Qual è esattamente il nodo che la genera?
Non vuole essere re, questo è chiaro. In effetti, non si ritiene nemmeno un principe. Eppure, poco fa le sue scelte hanno vacillato. Ha visto tre persone prostrarsi, tre… conoscenti… cadere ai suoi piedi con preghiere, suppliche, accorate parole d’affetto. Affetto. Nei suoi confronti. Non esiste, non è naturale.
È tutto sbagliato, ecco qual è il nodo. Nessuno reagisce come Sherlock si aspetterebbe. Le sue deduzioni… stanno fallendo. No, che stupidità.
-Sherlock.-
Una morbida voce di donna lo chiama e d’improvviso, Sherlock si irrigidisce. Conosce quella voce, conosce il frusciare quasi impercettibile di quei passi. Non vuole voltarsi, non vuole guardare. E si odia profondamente quando parla, permettendo alla voce di tremare.
-Non dovresti essere qui. Da quale porta sei uscita?-
Ma la donna non ascolta. Si ferma a poca distanza da lui, attende un segno che non arriva. Respira piano, di quel respiro calmo e profumato che Sherlock ancora ricorda grazie a miserabili memorie di bambino.
-Da quale porta mi hai fatta uscire?- risponde invece lei, e per la prima volta, Sherlock si sente piccolo, indifeso, con le spalle al muro. Non può voltarsi, non può reagire. La sua testa gli sta facendo questo. Perché?
-Non dovresti essere qui.- continua la donna. –Devi riaprire gli occhi.-
-Non darmi ordini, donna.-
Ma la donna sospira. –John Watson.-
E quel nome lo riscuote, innesca un allarme naturale che illumina di rosso le pareti del Mind Palace. Le porte tremano, Sherlock riapre gli occhi, sbarrandoli sulle nubi sottostanti.
Annusa l’aria, non avverte la presenza di Noah. Riconoscerebbe i loro odori ovunque, e un secondo controllo conferma che effettivamente, la rotta che Noah stava percorrendo, doveva intrecciare l’attuale posizione di Sherlock proprio in quel momento. Qualcosa l’ha deviata. Cosa?
Una porta del Mind Palace si apre di schianto, facendo vibrare le pareti. Contiene un ricordo, un avvenimento recente che Sherlock ha quasi involontariamente incanalato. Suo fratello che gli parla, John e Molly che si rialzano, Noah che subito dopo lo segue in volo.
“Lui. Hanno qualcosa da farvi vedere, temo”.
E d’improvviso, Sherlock capisce il motivo della presenza di Irene nel suo Mind Palace. Inconscio. È stato quello a lavorare al posto della fluida forza del ragionamento. Era un avvertimento, e Sherlock non l’ha ascoltato.
-John.-
Si getta a capofitto tra le nuvole, attraversa sfrecciando un’intera prateria, sorvola le terre dei draghi a una velocità inconcepibile. Concentra adesso ogni suo pensiero su John, sulla sensazione che sia in pericolo. I muscoli si gonfiano, le ali si tendono e d’improvviso, Sherlock è così veloce che il panorama circostante si trasforma in una macchia di pallida luce bianca. Sfonda le barriere del suono e della luce, sparisce alla vista di chiunque sia diverso da Dio stesso.
Semplicemente, Sherlock diventa vento. Implacabile come un tornado, invisibile come un soffio d’aria sfuggente, incolore. Perché lui è una Furia Buia, un figlio della velocità e del cielo.
Piove a capofitto verso la grotta scolpita nel fianco della montagna più grossa del mondo, ma altrettanto inesplorata dagli uomini. Alla bestia naturale che imponente svetta contro il cielo, bucandone la volta, non ci si reca mai nessun bipede. È sbagliato, è pericoloso. E per quanto stupidi, gli umani il pericolo sanno riconoscerlo.
Sherlock sbuca nel cuore della montagna, dove migliaia di draghi si arrampicano come giganteschi insetti lungo le fiancate interne, scoscese, ricolme di massi e stalattiti. Alcuni mettono una zampa in fallo, lasciando piovere dall’alto pezzi di roccia che annegano nel crepaccio aperto al centro della caverna, talmente profondo da vomitare bracieri di lava dettati dal cuore stesso del globo terrestre.
Da quel punto, i draghi si tengono a distanza. Da quel punto, nessuno fa mai ritorno. Perché c’è qualcosa lì dentro, qualcosa che sonnecchia antico nel centro del mondo, con ali richiuse lungo il corpo e occhi intelligenti, folli, di bestia senz’anima. Sherlock ha incontrato quell’animale più di una volta, ed è sempre scappato. Codardia? No. Spirito di sopravvivenza.
John.
Sherlock sbatte le ali, evita gli sguardi giudici degli altri draghi che, immobili, lo studiano dalle loro posizioni. Alcuni ringhiano, altri agitano la coda, ma nessuno s’arrischia ad attaccare. Non si provoca una Furia Buia, specie se ha lo sguardo che esprime totale concentrazione. Distraila, e sei morto.
Sherlock si guarda intorno, annusa l’aria e classifica gli odori. Apre frettoloso tutte le porte del Mind Palace, studia ogni aroma, ogni più piccolo cambiamento che potrebbe rivelarsi utile. Poi, lo sente.
Odore d’uomo, profumo di John. Gli basta aprire la porta dell’unica stanza dedicata interamente all’umano per trovare conferma.
Si lascia cadere silenziosamente verso una sporgenza rocciosa, nascosta da una parete scoscesa, incisa di graffi profondi che la rendono palesemente instabile. Sherlock non può atterrare, o crollerebbe tutto.
-Non dovreste essere qui.- dice soltanto, chiudendo le ali quando mano e piede destri si aggrappano agili alla parete rocciosa. Arpiona la pietra con gli artigli, non fatica molto per reggersi a mezz’aria, elegante come un principe, agile come una belva selvatica.
Noah è lì, accucciato dietro la sporgenza rocciosa con le ali ripiegate sulla schiena e lo sguardo colpevole. Sulla sua groppa, Molly e John si guardano in giro, studiano l’ambiente come incoscienti cuccioli appena venuti al mondo.
-John.-
John lo guarda, si specchia negli occhi di Sherlock, e quasi si sente male quando legge in quelle iridi chiare una scintilla di accusa. Sherlock lo fissa in silenzio, parlando con lo sguardo, come ha sempre fatto e come sempre farà. Non parla, non si arrabbia, e John non ha bisogno di spiegare che si trovano lì perché ha scelto di convincere Noah ad accompagnarlo nel cuore del pericolo. Nessuna spiegazione: Sherlock sa già tutto.
-Sherlock, io…-
Ma d’improvviso, un rombo. Qualcosa scuote le pareti della grotta, fa irrigidire tutti i draghi. Muovendosi all’unisono, guardano in basso, scrutano le profondità ora rombanti del crepaccio. Qualcosa si muove, qualcosa incide la roccia con artigli d’acciaio per risalire in superficie strisciando mefitico, dannoso come morbo infetto.
Si scatena il caos.
I draghi ruggiscono spaventati, spalancano le ali gigantesche per fuggire, i riflessi rossastri che tingono come di sangue le loro squame non più colorate ma più simili a ferite ancora aperte, squarciate. Un getto di lava si leva dal basso, investe un cucciolo di drago sullo stomaco, scagliandolo contro una parete. Tenta di aggrapparsi alla roccia, sforza i piccoli muscoli per risalire, ma perde la presa all’improvviso e precipita ruggendo.
Molly grida, si copre la bocca con le mani mentre intorno a loro il caos aumenta e i draghi si dirigono disperati verso l’uscita. Alcuni urtano le pareti, altri placcano per sbaglio un loro simile, spingendolo a vacillare o a schiantarsi contro stalattiti di roccia. Gli spuntoni cominciano a cadere dall’alto come pioggia assassina, appuntita.
Noah si ritrae e comincia a tremare. Le sue due teste guardano in basso, attendono che il mostro salga definitivamente. È paralizzato, non riesce a muoversi. Non ha mai visto la bestia da vicino, e il solo sentirne l’odore pungente lo terrorizza.
-Noah!-
John estrae la pistola e spara ai suoi piedi, poco distante dalla zampa di Noah. Lo vede riscuotersi, spalancare le ali con uno schiocco. Sherlock li segue levandosi in volo con eleganza, le ali che come un’ombra guardiana li coprono di riflessi cristallini.
Potrebbe superarli, sparire all’orizzonte semplicemente sbattendo le ali una volta di troppo. Ma si rifiuta. Perché lì c’è John, perché lasciarlo significherebbe abbandonarlo alla morte. Perciò lo affianca, fissa di sfuggita il suo viso impassibile, da soldato. Ha paura, ma la tiene a bada col coraggio che l’ha sempre contraddistinto.
Ma niente può prepararli a ciò che accade.
Un’esplosione di lava, un ruggito talmente forte da far tremare il mondo intero. Qualcosa emerge dalle profondità della Terra, si slancia con un salto verso di loro. Punta Noah perché è piccolo, rallentato dal terrore e… odora di umani. Non è un aroma che giunge spesso lì, e questo attira la bestia più di ogni altra cosa.
Le fauci si spalancano, John si volta appena in tempo per notare la dentatura pronta a chiudersi su di loro. La zanna più piccola, è lunga almeno un metro, e guardare le profondità di quel muso bestiale è come fissare la bocca stessa dell’inferno.
Per la prima volta, John si sente piccolo e insignificante. Per la prima volta, si sente preda e nient’altro. Per la prima volta, John capisce di essere spacciato.
Stringe Molly a sé, chiude forte gli occhi per proteggersi invano, vittima innocente di fame animale. Ripensa alla sua vita, alle troppe cose non dette. Pensa a Sherlock, all’ultima volta che per puro miracolo l’ha stretto a sé. Profumava di buono e pareva così fragile, così bello… così vivo.
-Sherlock…-
John si rilassa, quasi sorride al pensiero del suo tocco. Ma non è ancora giunto il suo momento.
Qualcosa spinge Noah verso l’uscita, quasi gli fa perdere l’equilibrio e sbattere contro una parete rocciosa.
John si volta appena in tempo per incrociare gli occhi sbarrati di Sherlock, ancora col braccio teso, ancora coi muscoli tesi nello sforzo appena compiuto di scagliare lontano due quintali di cucciolo di drago.
Poi, le fauci della bestia si chiudono sul suo fianco, e un canino gli perfora la pelle da parte a parte. Sherlock urla, e per John il mondo comincia a rallentare la sua corsa, a tingersi di rosso.
Vede soltanto Sherlock che si lascia trascinare urlando verso il crepaccio.
Vede soltanto Sherlock che si volta a mezz’aria e con un pugno spacca il dente della bestia, facendola ringhiare di rabbia e frustrazione.
-Andatevene!- urla Sherlock mentre cerca di liberarsi. Ha gli occhi lucidi di dolore, il volto sbiancato più del solito, le labbra sporche di sangue. John non ha bisogno di sapere perché non riesce a sputare una delle sue invincibili sfere oscure: il dente della bestia gli ha perforato un polmone.
Non riesce a gridare, non riesce a distogliere lo sguardo. Per gli anni a venire, John avrà gli incubi. Sempre sulla stessa scena, sempre sullo stesso istante in cui Sherlock lo guarda e… sorride.
Sporco di sangue, ferito a morte, senza più forza per sbattere le ali. Sorride per lui, per rassicurarlo esattamente come fece John quando era piccolo, mentendo alla madre sulla sorte di Harry. E Sherlock gli mente, perché il suo viso si distende in un’espressione forzata di benessere, di serenità. Il suo ultimo pensiero è per John, sempre per John.
John, l’umano. Chi l’avrebbe mai detto.
La bestia scivola in basso, trascinando Sherlock con sé. Lo spinge verso la lava, dove non potrà più respirare.
E dall’alto, John non ha neanche la forza per gridare. A stento schiude le labbra, a stento capisce ciò che è accaduto. Ma gli pare di sbattere semplicemente le palpebre quando Sherlock scompare e lui, John, tocca terra, cade in ginocchio e vomita, vomita tutto ciò che ha mangiato.
Quanto tempo è passato? Non ricorda di esserci arrivato, su quella spiaggia.
Avverte la sabbia sotto le dita. Un tempo sarebbe apparsa soffice, ma adesso… adesso graffia, fa male. E il vento. Il vento ferisce, soffia aggressivo contro di lui, contro John. Che posto è quello?
Poi la riconosce: è la stessa spiaggia dove ha baciato Sherlock, la stessa spiaggia dove ha conosciuto Noah. Quella è la spiaggia dell’inizio.
John si rovescia su un fianco, con occhi sbarrati che guardano il cielo senza vederlo realmente. Respira piano, e ci sarebbe silenzio se non fosse per l’improvviso urlo che rompe la calma.
Molly cade in ginocchio, stringe a sé il piccolo corpo umanizzato di Noah. Il bambino ha lo sguardo fisso, vitreo e trema violentemente. Vorrebbe spiegarsi, vorrebbe giustificare l’incidente, ma non può. È colpa sua. Doveva ubbidire a Sherlock come si era promesso di fare. E adesso, un banale errore ha disfatto di nuovo la sua famiglia: per proteggere lui, qualcun altro è morto.
È un peso troppo grande per un bambino. Ha commesso un errore, ma non ha sbagliato davvero. La curiosità è normale, è tipica per quelli della sua età. Ma John doveva fidarsi di Sherlock, doveva farsi riportare a casa e basta. Chi ha sbagliato?
Quando era piccolo, John cadde e si sbucciò un ginocchio. Non era una ferita grave, sanguinava appena, ma il bambino piangeva come se gli avessero strappato un arto. Faceva male, certo. Tuttavia, ogni lacrima cessò di esistere quando arrivò sua madre, coi suoi sorrisi e le sue mani gentili che, per il piccolo John, avevano un che di miracoloso.
Gli applicò un cerotto, baciò il piccolo taglietto e, sorridendo, gli prese il viso tra le mani, dolce come soltanto una mamma sa esserlo.
“Sai, tesoro” aveva detto. “non sempre è giusto piangere per ciò che ti fa male: a volte un dolore ti fortifica, a volte ti annienta e basta, ma sta a te decidere quali saranno gli effetti che gli permetterai di applicare sul tuo essere. Ricorda di lasciare che ti insegni. Il dolore non è cattivo, ma è un maestro pericoloso… se saprai rialzarti ogni volta, assorbendo tuttavia ciò che avrà da insegnarti, allora sarai di un passo più vicino alla reale saggezza”.
Quelle parole, John le ricorda bene. Ne ha seguito il consiglio, ha vissuto combattendo, affrontando il dolore, assorbendolo anziché respingerlo e basta. Ha cercato di imparare, di capire. Ma cosa si impara da un’esperienza del genere? Cosa si impara quando un pezzo d’anima viene a mancare, sbranato dalla più feroce delle bestie?
John rivive quei momenti, rivede Sherlock e il suo sorriso. L’ultimo gesto, l’ultima parola, l’ultimo respiro, li ha dedicati a lui, a John. Non si è preoccupato di aver paura, non ha pensato a se stesso. Guardare John un’ultima volta, questo è stato importante davvero. E John si sente logorato da questa verità, perché l’ultima occhiata di Sherlock… quello era uno sguardo innamorato.
Forse è questa consapevolezza, forse il troppo dolore per l’improvvisa mancanza di ossigeno dovuta all’assenza di Sherlock… ma improvvisamente, John si accascia piangendo sulla sabbia, pregando un Dio in cui non crede di riunirlo in qualche modo a ciò che in vita ha amato veramente.
 
Respirare è così difficile a volte. Per molti appare come una funzione meccanica, scontata, quasi stupida da eseguire. Ma non sempre è così: a volte si ha un peso sul petto, un macigno che schiaccia di forza la gabbia toracica, e allora riempire d’aria il torace diventa difficile, quasi doloroso. Sherlock Holmes se ne accorge esattamente in quel momento.
Dove sono?
Sherlock schiude le palpebre, respira faticosamente l’aria rarefatta, che sa di polvere e sangue. Non ricorda quel posto, né gli è chiaro come sia arrivato lì.
Macerie. Ovunque si volti, vede soltanto macerie nerastre, abbattute, frantumate dal più feroce dei colpi. Alcune appaiono annerite dalle fiamme, altre ancora fatte a pezzi da armi da fuoco o artigli animali. Per quanto si sforzi tuttavia, Sherlock non capisce cosa renda tanto agghiacciante quel posto. C’è qualcosa di sbagliato, qualcosa di terribilmente malsano.
Conosce quel posto? È già stato lì?
Sherlock si tocca la testa, ritrae la mano insozzata d’argento scurito,  sporco, malato. Sangue. Sta sanguinando. Come ha fatto a ferirsi? Questo non lo ricorda.
Come in trance, si alza in piedi, facendo perno sulle macerie sottostanti che gli incidono i palmi morbidi delle mani, stridendo con violenza contro le scaglie. Sherlock non ci bada.
Si raddrizza tossendo, barcolla e poi cade in ginocchio. Non ce la fa. Non riesce a rimanere eretto.
Sbatte le palpebre stordito, mette a fuoco un detrito ligneo che gli trapassa il palmo della mano con facilità quasi diabolica. Riconosce allora quel pezzo, quel piccolo frammento di porta.
Sherlock rialza il capo, scorre lo sguardo sull’ambiente. Adesso capisce, adesso sa.
Quello è il Mind Palace. Quelli sono… i resti di una vita studiata, seguita, classificata. E lui è accasciato lì, sui frammenti di dati distrutti, fatti a pezzi.
-Non è possibile…-
-Tu dici?-
Sherlock alza il capo, incontra la figura di Mycroft Holmes. Non l’ha mai visto così malmesso: ha i capelli spettinati, il viso coperto di tagli e sangue, i miseri resti dell’ombrello stretti in una mano mutilata e dagli artigli spezzati.
-Stai morendo, stupido che non sei altro. E io ti avevo avvertito.-
Sherlock fissa Mycroft, lo vede tremare impercettibilmente. Non di dolore, no: lui è… preoccupato? Può una proiezione mentale preoccuparsi per lui?
-Dovevo salvare John.-
-E l’hai fatto. Ma a che prezzo?-
-Al prezzo che sembrava giusto.-
Sherlock e Mycroft si fissano, fronteggiandosi. Sono due fratelli, due diversi modi di guardare il mondo, due entità diametralmente opposte. Entrambi appaiono dotati di un cervello sopraffino, ma nonostante ciò, non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro: Mycroft è sempre stato una macchina, un’accozzaglia di doveri e responsabilità alle quali Sherlock ha sempre voltato le spalle.
-Dovevi essere come me, fratellino: a quest’ora, staremmo bene entrambi.- afferma Mycroft con la sua tipica freddezza. Barcolla, quasi cade in ginocchio, ma non accenna a spezzarsi definitivamente.
Mycroft non si spezza mai, Mycroft è il reale che si aspetterebbe chiunque. Eppure, non può reclamare il trono perché troppo umiliato dalla caduta della sua famiglia, perché troppo vigliacco per farsi avanti, rischiando di inimicarsi il mondo intero. Se lui chiamasse, gli altri draghi non risponderebbero, e questo i loro genitori l’hanno sempre saputo. Per questo il loro ultimo atto è stato nominare Sherlock come unico erede al trono.
I due fratelli sono diversi, ma fino a quel momento Sherlock non ha mai capito distintamente cosa li ha sempre contraddistinti. Adesso però, qualcosa s’inceppa nel suo cervello, un nuovo pensiero interviene, dandogli la forza di contrastare il maggiore degli Holmes.
“Sherlock”.
Quella voce. Quella voce lui la conosce bene.
-No.- dice. Punta i piedi contro le macerie, gonfia i muscoli per condurli a uno sforzo sovrumano, per spingerli al limite della sopportazione e costringerli a reagire. Il Mind Palace trema, vibra di potenza repressa.
Sherlock non è così: non sarà mai come Mycroft perché non hanno nulla in comune. Mycroft è un drago, lo è sempre stato. Freddo, calcolatore, bestiale. E per quanto anche Sherlock sappia essere implacabile, qualcosa li separa nettamente, pone un muro tra i due fratelli.
E alla fine, Sherlock capisce. Lui ha conosciuto l’umanità vera, l’ha apprezzata così com’è. Non gli è mai importata la violenza, quella il mondo la conosce bene. Ma la speranza… quella è un qualcosa ormai dimenticato da Dio stesso. Chi spera più, ormai? Nessuno, perché nessuno ha più la forza per sperare.
A parte lui.
Non Sherlock, non Mycroft. Il primo credeva di sapere tutto, di conoscere bene il mondo e le sue funzioni. Studiava gli umani, imparava a capirne meccanicamente i gesti, i sentimenti, ma non c’è mai riuscito davvero. La teoria non spiega tutto. Eppure, qualcuno è riuscito a schiarirgli le idee, a piantarne di nuove, a rimuoverne altre.
Un umano. Fragile, piccolo, insignificante. Purissima carne è sangue, preda innocente come agnello in presenza del più bestiale dei predatori. Ossa sottili, che si spezzano facilmente, lacerando carne e organi. Eppure, qualcosa di così piccolo, di così fragile, è riuscito a rivoluzionare il mondo.
Barriere di diversità si sono spaccate in sua presenza.
La violenza s’è inginocchiata laddove quel piccolo umano ha scelto di gettare a terra la pistola.
Il mondo intero ha messo in dubbio il suo perché, il motivo di tanti respiri spezzati.
Esiste davvero qualcuno che la pace riesce ancora a sognarla? Sherlock ha guardato in quegli occhi, vi ha scavato come ha sempre scelto di fare, e infine la risposta è arrivata.
L’umanità esiste ancora. E in essa, dimora la speranza che Sherlock ha sempre cercato.
-Ti sbagli.- ringhia, alzandosi in piedi. Il Mind Palace trema, vibra di energia repressa mentre tutto intorno, la terra assorbe i detriti, li inghiotte, ripulisce minuziosa ogni brandello di distruzione, ogni residuo di debolezza.
-Oh, povero Mycroft.- sbotta con un sorriso di scherno. Dall’alto, piovono altri detriti, il terremoto aumenta e la terra pare voler assorbire anche i due draghi. Ma Sherlock non si preoccupa perché nella sua testa, anche in punto di morte, le regole le imposta lui. –Cosa ti aspetti da me? Un discorsetto da personaggio buono o un cedimento psicologico tipico di qualsiasi ordinario soggetto in punto di morte? Non dimenticare che io non sono un soggetto ordinario e no, non sono un buono. Se i supereroi esistessero, io non sarei uno di loro. Ho voltato le spalle agli ideali di nostra madre, sono rimasto a guardare mentre la mia gente si gettava a testa bassa in una guerra senza capo né coda. E sai una cosa? Lo farei di nuovo. Perché sono un codardo, perché ai miei occhi i nostri simili sono nient’altro che lucertole cresciute, ma assolutamente prive d’intelletto. Non avrei mai pensato tuttavia, che esistesse al mondo qualcuno in grado di sbattermi in faccia i miei stessi errori.-
Rinascita.
Sherlock si raddrizza mentre tutto intorno la terra si gonfia, germoglia nuovi tasselli di Mind Palace, corridoi puliti, bianchi, che come scatole si intrecciano, si chiudono, si appoggiano l’uno all’altro per rigenerare ciò che in precedenza andò distrutto. I tasselli distrutti delle porte si ricompongono diligenti, silenziosi, saldandosi uno dopo l’altro senza il minimo sforzo finché le lastre di legno non si sollevano, raddrizzandosi e incastonandosi nei muri ormai ricostruiti. È come guardare un processo accelerato, creazione e crescita di pensieri, memorie, stabilità. Nulla cambia, tutto si ricompone.
E d’improvviso, torna l’ordine. Perché Sherlock vuole che l’ordine ci sia, perché è giusto che quel posto sia gestito così come il suo proprietario decide di gestirlo.
-Capire di aver sbagliato, ammetterlo a me stesso… alla fine, ho dovuto farlo. Non perché voglia professarmi buono, la bontà non interessa a nessuno. Semplicemente, ho visto le conseguenze dei miei errori negli occhi di un piccolo, misero umano. Lui sapeva, capiva chi ero, ma non ha mai alzato un’accusa contro di me.-
Sherlock avanza di un passo, si trattiene dal crollare di nuovo. Glielo deve. Lo deve a John, alla sua pazienza, ai suoi sorrisi. Ogni sforzo, ogni goccia di sudore versato, sono per lui, per la felicità che merita ma che non ha mai ottenuto.
Sherlock è colpevole, questo lo sa bene. Ha ucciso i genitori di John, la famiglia di Molly, i loro amici caduti in battaglia. Per pura codardia, si è ritirato da una guerra in procinto di scoppiare ma possibile da stroncare sul nascere. Scelse per se stesso, così come Mycroft gli insegnava. Codardo, bestia.
Ma adesso, qualcosa è cambiato.
C’è un tassello in più, una minuscola pietra angolare che sostiene fiera il suo Mind Palace, le sue convinzioni, i suoi ricordi. E a quella pietra, Sherlock deve ogni cosa. Perché grazie ad essa, lui ha scoperto che da qualche parte nel mondo e nei cuori di chi sa ascoltare davvero il respiro della speranza, l’umanità vive ancora. L’ha toccata con mano, l’ha baciata, l’ha protetta. L’umanità è racchiusa nel più piccolo e insignificante umano che il mondo abbia mai visto. L’unico soldato che abbia mai lottato per curare, l’unico soldato che abbia mai lottato per la pace.
-Gli devo un favore, sai?- mormora, mentre Mycroft indietreggia ancora, fino a urtare la schiena contro il muro del corridoio ormai risaldato.
-Mi ha salvato la vita e mi ha accolto con sé, rischiando ogni cosa. Odio essere in debito con qualcuno, specie se questo qualcuno è rappresentato dal più ordinario degli esseri umani. È una noia, Mycroft. E io cerco sempre di eliminare la noia, in un modo in un altro. Be’, se per farlo dovrò seguire quell’umano, ricostruire il mondo, risanarlo dalle sue ferite… così sia. Io non sono un guaritore, ma John è medico e Noah e Molly… conoscono l’innocenza e sono capaci di trasmetterla a chi è in grado di accoglierla. Come sempre, sarò egoista, come sempre combatterò per ciò che mi interessa. E sai cosa mi interessa, fratello?-
Mycroft si raddrizza faticosamente finché i loro visi non si fronteggiano fieri, fratelli, nemici. Un ultimo fremito, lo scorrere dell’unico respiro che passa tra loro. Poi, il verdetto.
-Mi interessa John. E se per sdebitarmi dovrò riunificare i draghi e restituirgli la stessa vita che lui ha restituito a me, allora così sia. Che il mondo rinasca.-
Nuove stanze germogliano, porte sane, pulite, luminose, emergono massicce dalle pareti, incidendole di nuovi ricordi, nuovi pensieri.
-Che l’uomo rinasca.-
Sbam, sbam, sbam. Dieci, cento, mille porte si spalancano. Da esse emergono voci, parole, grida e sussurri. Qualcuno soffre da qualche parte, altri pregano, altri ancora ridono. Sono brandelli di vita, scintille d’umanità incisa nel più piccolo e insignificante degli atteggiamenti.
-Che rinascano i draghi.-
D’improvviso, il Mind Palace si copre di ruggiti, del vibrare di passi giganteschi su terra morbida che Sherlock e Mycroft non possono vedere. Da quelle memorie emergono i draghi veri, che ancora ricordano un passato luminoso di pace e che lo perseguono per semplice bisogno di serenità. Bestie senzienti, caritatevoli, pietose. Non più semplici animali, ma draghi veri, di quelli che anche nelle favole infine sanno piegarsi alla bontà di chi sa scegliere una via di giustizia.
Mycroft si guarda intorno, gli occhi sbarrati e iniettati di sangue. –Non puoi! Gli Holmes non possono regnare, non potranno mai più farlo! Siamo decaduti nella vergogna, Sherlock, e tu stai morendo. L’ultimo tassello, l’ultimo erede al trono, cadrà!-
E d’improvviso, Sherlock barcolla di nuovo. Il mondo pare ingrandirsi, espandersi, stiracchiarsi mentre il drago rimpicciolisce e di nuovo osserva l’ambiente circostante con occhi immaturi di bambino.
-Io non voglio morire.- dice, e si stupisce egli stesso quando capisce che è vero.
Nato nel cinismo, nell’indifferenza cresciuto e nella solitudine maturato, Sherlock non ha mai guardato alla morte con timore. L’ha sempre attesa, l’ha sempre vista come una sorta di salvezza da ciò che nel profondo lo faceva soffrire. Vivere abbastanza da imparare ad odiare la vita stessa, è una maledizione. Ha visto troppo, ha sopportato troppo e a volte, anche il geniale Sherlock Holmes si è sentito stanco, quasi umano. Non lo ammetterebbe a se stesso ma, in certi frangenti, è stato debole a sua volta.
Adesso però, sente di essere cambiato, di essere… come appena venuto al mondo: ha bisogno di scoprirlo, di capirlo davvero come mai ha realmente fatto. Ha bisogno di John, della sua pazienza, del suo affetto genuino. Lui le cose potrà spiegargliele e Sherlock ascolterà per ore, studierà in silenzio, pur esprimendo a tratti qualche battuta che farà innervosire John.
Questa è l’unica vita che vorrebbe vivere. Ascoltare John, seguirlo. Ma forse, non potrà farlo.
-Nessuno te lo impedirà, invece.- dice una voce gentile di donna.
Nevora Holmes lo affianca, s’inginocchia al suo fianco e gli posa materna una mano sulla piccola, fragile spalla di bambino. Lo guarda con occhi di cristallo, così simili a quelli di Sherlock, ma umani come quelli di John.  Sorride, perché è ciò che sua madre sapeva fare meglio: rischiarare il mondo col brillio di una risata, cominciare un nuovo giorno con la positività di una bambina.
Così pura, così innocente.
Sua madre, il suo punto debole. E Sherlock l’ha sempre celata dentro di sé, l’ha sempre incatenata in stanze proibite, sigillate… stanze come quella celata da una porta pericolosa, mai aperta, ma che adesso Sherlock ricorda. Sa perché quei lucchetti non vanno fatti scattare, sa perché non vuole aprirla.
-Sono qui, tesoro.- mormora Nevora, posandogli una mano sulla guancia. Sorride, si specchia negli occhi confusi di suo figlio, del suo bambino. L’ha donato al mondo, l’ha visto crescere in silenzio finché i suoi occhi di madre non sono caduti nell’oscurità. Non conoscerà mai l’uomo che è diventato, l’uomo che è adesso. Eppure, pur non essendoci davvero non lo abbandona mai. Come quieto spirito guardiano, lo affianca, lo scruta in viso con gentile orgoglio di madre e rivive attraverso i suoi occhi tutti gli anni perduti, tutti i ricordi dimenticati. Dopotutto, Nevora è sempre stata lì, e adesso Sherlock lo sa. Forse, un punto debole non è poi così lontano dal mutarsi in punto di forza.
-Segui la tua strada, tesoro.- mormora lei, accarezzandogli le guance coi pollici.  Sorride ancora di un sorriso orgoglioso, sereno anche nella morte.
Era così anche quel giorno. Sorrideva anche allora.
-Conosci la tua forza, conosci l’anima delle persone. E non dimenticare, piccolo mio, che non sei mai stato solo.-
Si allunga, gli bacia la fronte. È calda, morbida come il più dolce dei ricordi. Profuma di vaniglia, questo Sherlock lo ricorda bene. Sa di casa. Quella è casa. E finalmente, la serenità sboccia, stabilizza il Mind Palace, facendo accasciare Mycroft su se stesso, misero come la più malata delle tentazioni.
-Sparisci.- dice Sherlock, e alla fine, Mycroft è costretto a piegarsi, ad ubbidire a regole non sue. Si lascia assorbire dal pavimento, abbandonato come un cadavere, lurido di oscurità finalmente espulsa, dissipata nel vento di ricordi puliti, sinceri, genuini. Alla fine, Sherlock scopre di avere un’anima. Ma nonostante questo, non sa come svegliarsi.
-Basta volerlo, tesoro.- asserisce Nevora, scostandogli i capelli dal piccolo viso. Sherlock singhiozza puerile, stringe forte le sue vesti di giovane donna.
-Non voglio vederti andar via.-
Ma Nevora lo abbraccia, gli bacia i capelli, accarezza caritatevole la pelle morbida del bambino. Si bea di quel calore dimenticato, di quei singhiozzi che tante volte ha placato cantando, curando, sorridendo. Lo fa ancora, lo farà sempre: dopotutto, è sua madre.
-E dove dovrei andare? Sono sempre qui, tesoro, ci sarò sempre. Svegliati ora, figlio mio, perché il mondo ha bisogno di te. Di morti ce ne sono stati abbastanza e chi rimane, prega ancora la pace. Sii il loro angelo, sii il loro custode. Sii te stesso, Sherlock.-
Sherlock chiude gli occhi, crede in quelle parole. Nevora non gli ha mai mentito, non ha mai osato dire bugie. È sincera, è pulita. E nella sua purezza, Sherlock sa di potersi fidare come ha sempre fatto. Se Nevora dice che non è solo, allora così sarà.
Ci crede, Sherlock.
Crede in John, crede in Noah, crede in Molly.
Crede in se stesso.
E grazie a questo, avrà inizio una nuova era. Grazie a questo, i draghi rinasceranno dalle ceneri per abbracciare il mondo di riflessi cangianti di pace.
-Mamma… come mi sveglio?-
Lei sorride, ammicca complice di rinata speranza. –Oh, credo che ti basterà aprire una porta.-
 
Angolo dell’autrice:
Ritardo. Ritardo? Ehm… posso giustificarmi dicendo che sono nel bel mezzo del matrimonio di mia sorella?
Sher: non interessa a nessuno. E perché indosso un gonnellino egiziano? È ridicolo.
Zitto, che in questa storia hai recitato anche nudo, quindi non mi dire che il gonnellino ti infastidisce.
Mrs Hudson: si potrebbe toglierlo, no?
Sher: ………………………………….
……………………………………………………
Sher: posso cambiarmi?
Ho pietà di te, ma chiuditi a chiave nel bagno mentre lo fai. E tappa pure il buco della serratura. Io intanto scrivo i ringraziamenti.
Dunque, torniamo a noi. Come al solito, sono incasinata fino al midollo e questo capitolo è scritto totalmente di notte, quindi potrebbero esserci errori piuttosto madornali. Chiedo perdono come al solito, e come al solito (quante volte ho scritto “come al solito”?) devo ringraziarvi in maniera piuttosto spiccia. Meritate ringraziamenti individuali, ma purtroppo sono un tantino a pezzi, quindi già è tanto che abbia la forza per scrivere almeno di notte… ma! Cercherò in tutti i modi di rispettare i tempi di pubblicazione. In ogni commento leggo tanta fiducia per il capitolo che verrà, perciò è sempre giusto che mi impegni. Il traguardo di tanti capitoli scritti finora è stato raggiunto grazie grazie a tutti voi. Grazie a:
FKk
Sparrow
_Jatto_
Sonia_0911
Bbpeki
Kimi o Aishiteiru
Grazie ancora e a presto!

Tomi Dark Angel

 

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Capitolo 18
*** La Via Degli Spiriti ***


Ci sono momenti nella vita in cui il mondo perde ogni colore. Sfuma con lentezza, sbiadisce, perde le sue luci finché di esse non resta che ombra scura, mefitica, soffocante. Gli occhi cercano di abituarsi al buio, la gente si arrampica disperata verso il più piccolo brandello di colore, di cambiamento luminoso che sa di vita laddove la vita non è neanche contemplata.
Lentamente però, anche la gente perde i suoi colori, le sue emozioni, i suoi respiri volenterosi. Poco a poco ci si accascia, si diventa marionette dai fili recisi, come recisa sarà ogni volontà di andare avanti, di vivere ancora.
Una volta, quando era piccolo, John vide un gatto piangere accanto ai miseri resti della sua compagna, rimasta schiacciata da un’auto capovolta. L’unico sopravvissuto guardava, allungava le zampe per toccare il pelo freddo di un corpo svuotato, che non sapeva più reagire. John ricorda ancora i miagolii disperati del gatto rimasto in vita, ricorda i suoi occhi quasi umani, lucidi di lacrime vive, spezzate di dolore. Allora, quel gatto pregava, chiedeva pietà. Non per se stesso, ma per la compagna fatta a pezzi dal mondo, massacrata da una guerra senza volto. Nei giorni che seguirono, John trovò quello stesso gatto sopravvissuto ancora lì: semplicemente, si lasciò morire di stenti, ma mai abbandonò il corpo martoriato di una compagna di vita, di emozioni, di respiri non più utili.
Allora John non capiva il peso di quelle lacrime, il senso di quei lamenti distrutti, di vita lasciata a metà. Adesso sa, capisce, piange a sua volta. Si sente spezzato, abbandonato come giocattolo rotto e ormai inutilizzabile. Si è frantumato qualcosa in lui, adesso mancano dei tasselli. Non sa che farsene dei tanti frammenti lasciati in giro dal suo animo fatto a pezzi.
Ha combattuto la più grande guerra mai partorita dal mondo, ha ucciso, salvato, lottato con unghie e denti per restare in piedi. Quanti fratelli d’arme schiacciati, arsi vivi, fatti a pezzi. John guardava, piangeva, soffriva. Eppure, nessuno di quei dolori sorpassa questo. Perché allora, la sua anima perdeva soltanto minuscoli pezzettini. Perché allora, il mondo non poteva ingrigirsi: a quel tempo, John i colori veri, vivi, non li conosceva ancora. Adesso sì, e ogni riflesso di felicità, di luce… gli è stato portato via. Ha guardato mentre una bestia assassina senz’anima trascinava giù quel pezzo di serenità così difficilmente conquistato, ha guardato mentre il suo unico e vero amore moriva.
John si rannicchia su se stesso, vomita di nuovo succhi gastrici. Non mangia da due giorni, non riesce a toccare nulla di diverso a qualche goccia d’acqua da mandar giù. Se Sherlock è morto, lui merita di vivere, di nutrirsi, di respirare liberamente? È come avere il cuore strappato a metà, e John lo sente faticare ad ogni insulso battito.
Due mani calde, di giovane donna, gli afferrano la testa e gliela mantengono. Quando è arrivata Molly? Quando è tornato a casa? Quando ha raggiunto il bagno in cui vomita adesso?
-John, devi mangiare qualcosa.- dice lei preoccupata, ma John non ascolta e continua a vomitare. Affronta i suoi mali, cade in ginocchio davanti ad ogni incubo. Forse ha le allucinazioni, perché gli pare di sentirlo, di sentire la voce morbida di Sherlock che lo chiama.
Ma lui non c’è. E John si sente sostituito a quel gatto morto di stenti, a quell’anima ormai serena che per fedeltà mai abbandonò quanto di più prezioso il mondo gli concesse allora.
Intanto, poco a poco, John Watson lascia quasi inconsapevolmente che quel corpo si deteriori. Intanto, John Watson aspetta semplicemente di morire.
 
Tic tac, tic tac. C’è un orologio, da qualche parte. Ticchetta in maniera insistente, fastidiosa, martellante. Il piccolo Sherlock non lo sopporta. Quel rumore gli impedisce di pensare, di concentrarsi. Oltretutto, esso si aggiunge soltanto al mormorio cupo dei centinaia di ricordi che bussano per uscire, che urtano le lastre sicure di ogni porta sigillata.
Dopotutto, camminare tra i ricordi, è un po’ come camminare su un sentiero di fantasmi.
Li senti mormorare, muoversi, spostare oggetti di origine ignota, ma non puoi vederli. Normalmente, non potresti.
Una serratura scatta, spezza i lucchetti sicuri che la sigillano. L’uscio si schiude proprio mentre Sherlock (ancora bambino e con addosso soltanto un lungo lenzuolo avvolto intorno al corpo magro, con ali adesso accartocciate, come qualsiasi cucciolo della sua giovane età) ci passa davanti.
Fuoriesce del fumo sottile, nebuloso, morbido di volute argentate che sinuose s’attorcigliano intorno al piccolo corpo, lo solleticano, si levano intorno a lui e poco a poco, si dispongono sulle pareti rimodellandole, dilatandole, reinventandole.
Le statue emergono dal pavimento che lentamente si tinge d’oro e cristalli preziosi, abbracciato da pareti circolari percorse da un intreccio fitto di edera sconosciuta agli umani, ma da Sherlock mai dimenticata. Ha foglie trasparenti, quasi di cristallo, e steli azzurrine, che morbide s’avvolgono tra loro, sbocciando a tratti in fiori dai petali arcobaleno.
Al centro della sala c’è una statua di marmo bianco alta almeno dieci metri, raffigurante un magnifico drago seduto compostamente, fiero d’antichità e bellezza aristocratica, con una clessidra stretta nella zampa destra, sollevata davanti al muso. Sherlock ricorda bene quella statua e il significato racchiuso in essa: le ere trascorrono e preziose vanno preservate dai draghi, figli dell’antichità e del tempo.
Preservare. Non è un significato che i draghi conoscono, ormai.
Sherlock alza lo sguardo, fissa la splendida cupola di cristalli che dall’alto di una volta così gigantesca da apparire mastodontica, rilanciano sul pavimento di pietre preziose un mare di riflessi arcobaleno, dai colori sempre in movimento, sempre in continua danza tra loro.
Lungo il bordo delle pareti corrono due scale, una per lato, che salgono a collegarsi dinanzi all’accesso al secondo piano, preannunciato da un portico sporgente, sostenuto da statue di draghi che percorrono tutto il perimetro della sala. È in cima a quella scala che sta un pendolo. Decorato in volute zaffiro e rubino, con due draghi d’argento che ne sostengono la base. Dietro il pannello di cristallo, oscilla il pendolo argentato, metallico, insistente. È quella la fonte del ticchettio che infastidisce Sherlock, è quello il portatore di secondi che scorrono, volano, avanzano implacabili verso nuove ore, nuovi giorni, nuovi anni.
Sherlock si ferma, osserva il pavimento che come madre incinta, partorisce germogli di figure fumose, che poco a poco si formano, si solidificano, acquistano volumi e colori trasparenti di fantasmi ricreati dai ricordi lontani.
Sherlock quel ballo se lo ricorda bene. L’organizzò sua madre poco prima di morire in quella che era casa loro, ancora armoniosa e germogliata da natura serena, solida, che morbida s’intrecciava con ogni banale costruzione. La casa dei cristalli, così la chiamavano.
Gli altri draghi si raddrizzano, quasi inconsapevoli d’esser poco più che meri spiriti, cominciano a danzare per la sala. Si stringono in coppie, eleganti di vesti setose, drappeggiate, con maniche larghe e strascichi morbidi. Ali, code, scaglie e corna, rilanciano ai cristalli tutto intorno nuovi riflessi da assorbire, nuovi colori da germogliare e rilasciare come diamanti sui loro volti aristocratici, negli occhi brillanti di serpenti.
Ognuno di loro appare nobile, antico, prezioso più dell’oro. Eppure, Sherlock sa che quelle sono le stesse creature che a breve si trasformeranno in assassini furiosi e senz’anima.
Li guarda danzare, volteggiare con eleganza innata, quasi senza peso, e si chiede se già allora fossero così, se già allora le loro menti si preparassero a una guerra sanguinosa. Hanno artigli, zanne, corna. Sono bestie. Eppure, danzano come dei e respirano come uomini.
Dalla folla emerge una donna affascinante dai lunghi capelli viola, il viso affilato pallido come la neve e grandi occhi verde smeraldo. Si aggrappa serena al braccio del marito, un uomo corpulento con spalle larghe e due teste separate ma identiche. Ha scaglie violette e occhi dello stesso colore. Sherlock non ha bisogno di deduzioni per capire che quelli sono in realtà i genitori di Noah, gli stessi che daranno la vita per sostenere una causa persa, uccisa insieme a una freccia scagliata da un banalissimo quanto incosciente umano.
-Nevora!- esclama la dragonessa mentre un’altra donna emerge dalla calca, danzando col marito. Se cercassero di mescolarsi tra la gente, ci riuscirebbero assai poco: visti da quella prospettiva, appaiono come diamanti gettati in mezzo alla bigiotteria.
Entrambi bellissimi come dei scesi in terra, entrambi trasudanti un’eleganza aristocratica fuori dal comune anche per i parametri dei draghi. La donna è alta e slanciata, con indosso un abito dai curiosi riflessi arcobaleno che le fascia il busto sottile di giunco aggraziato, scivolando poi sulle gambe nascoste da una gonna decorata di cristalli, preziosa come abito da sposa. Sulle spalle poggia un mantello quasi trasparente che come spirito sfiora i guanti preziosi e il collo sottile, coperto di scaglie d’oscuro arcobaleno. Le ali sono nascoste, ritirate nel corpo come qualsiasi drago piuttosto controllato sappia fare, ma la coda sguscia fuori da sotto lo strascico di seta. Le corna ad anelli brillano in cima all’acconciatura sofisticata, impreziosita di diamanti.
Al suo fianco sta un uomo dal torace ampio, con indosso una lunga veste d’argento decorata anch’essa di cristalli preziosi. Ha i capelli legati in un’elegante codino impreziosito d’edera che morbida s’avvolge intorno al collo e ai polsi lasciati scoperti dalle maniche larghissime della veste.
-Healdrea, che piacere.- dice lui con voce profonda, così simile a quella di Sherlock. tende una mano la poggia su quella squamata dell’altra dragonessa in segno di saluto. Lei sorride gentile, ripete il gesto con Nevora, poi volge lo sguardo oltre le sue spalle, verso un bambino minuscolo, con ali ancora accartocciate e incapaci di spiegarsi. Non ride come gli altri, non pare divertirsi. Sta seduto in un angolo e rivolge tutta la sua attenzione al libro che poggia in grembo. Ha uno sguardo troppo intelligente, troppo sveglio per uno della sua età. Per questo, gli altri bambini si tengono alla larga, lo fissano da lontano.
-Cresce bene, vostro figlio.- sorride Healdrea.
Nevora si volta, sorride all’inconsapevole bambino ancora immerso nella lettura.
-Sì, è vero.-
-Ma non sarà giovane per sempre.-
Nevora sospira appena, stringe forte la mano del marito che silenzioso, si allontana per sparire tra la folla.
È allora che il tempo si ferma.
I ballerini si cristallizzano, splendide statue d’abiti irrigiditi e capelli rimasti abbandonati all’abbraccio dell’aria. Ogni goccia, ogni sfaccettatura di diamante, ogni battito di ciglia si blocca, resta immutato e bloccato nel suo tempo improvvisamente immobile, come bestia che trattiene il respiro prima del balzo.
Il pendolo smette d’oscillare, blocca le lancette, pone un freno all’avanzare di quei ricordi antichi, quasi dimenticati. Eppure, qualcuno a parte il giovane Sherlock si muove ancora.
-Non dovresti essere ancora qui, tesoro.- mormora Nevora, guardandolo. Non sorride più, ma il suo sguardo resta sereno, immutato. –Questa non è la strada giusta.-
Sherlock si avvicina timoroso come bambino solleva lo sguardo, la fissa negli occhi.
-Esiste una strada?- mormora, e allora Nealdrea gli tende una mano, sfodera il suo splendido sorriso.
-C’è sempre una strada. La stai soltanto evitando, ma abbi il coraggio di affrontarla. Vagare tra i ricordi t’invecchierà soltanto, perciò guarda avanti, segui la tua via e sii fiero delle scelte che compi. Io non posso aiutarti ad aprire la porta giusta, ma qualcun altro può farlo.-
-Sherlock.-
Quella voce. Sì, Sherlock la conosce bene. È nella sua testa da mesi, riempie il Mind Palace di rinnovata solidità, lo dipinge di pace e incanto.
Un uomo avanza tra i ballerini cristallizzati. Indossa un orribile maglione, zoppica appena, ma sorride di un amore incondizionato che Sherlock non ha mai visto. Non somiglia all’amore di una mamma.
Vorrebbe ricordare il nome di quell’uomo, ricondurre a un’unica parola l’immagine di quel volto sereno, gentile. Non ci riesce. Sherlock è soltanto un bambino, e i bambini non sono bravi a ricordare.
-Sherlock.- ripete l’uomo, inginocchiandosi davanti a lui. Gli sorride ancora, scosta un ricciolo scuro che osa coprire uno degli occhi brillanti di diamante.
-Chi sei?- domanda Sherlock con voce di bambino.
-Non lo ricordi?- sorride l’altro, inclinando il capo da un lato.
No. Sherlock non lo ricorda, ma vorrebbe ricordare, vorrebbe chiamarlo per nome perché sente che quell’uomo è importante.
-Come ti chiami?-
-Questo non posso dirtelo, Sherlock. Però, posso condurti dove vuoi andare. Guidarti è il mio compito.-
Gli tende una mano, lo fissa con fare fedele, innamorato, fiducioso. È amore ciò che distende quei tratti di giovane uomo. È amore ciò che lo fa sorridere, che lo fa respirare. E quell’amore… appartiene a lui, a Sherlock.
-Andiamo, Sherlock. Ti riporto a casa.-
E Sherlock finalmente tende la mano, intreccia le dita con quelle callose dell’uomo. Soldato, medico militare. Sherlock lo deduce solo adesso. Gli ricordano qualcosa, quei dati? Forse, forse no.
Ma Sherlock riconosce quella mano, quelle dita forti, sicure. E si fida ciecamente, perché quell’uomo è un angelo, perché quell’uomo è forse la strada che Sherlock deve seguire.
-Andiamo.-
L’uomo lo tira a sé, avvolge un braccio intorno alla vita sottile di bambino e lo solleva. Appena si volta, Sherlock si scopre a fissare da vicino una porta sigillata, coperta di catenacci e chiusa a chiave. Appare sgangherata, fragile, ma abbastanza forte da contenere il mostro racchiuso al suo interno.
Non vuole aprirla, non ci riesce.
-Non voglio.- dice all’improvviso, schiacciandosi contro il torace dell’uomo. Lui sorride, rafforza la stretta su di lui e gli bacia i capelli.
-Lo so. Non vorrei nemmeno io che ti esponessi a questi ricordi, ma ne hai bisogno.-
-Ho paura. Non voglio.-
-Ma non sei solo, Sherlock.-
L’uomo flette le spalle, si fa piccolo per appoggiare il mento sulla spalla di Sherlock e guardarlo da vicino con occhi brillanti, giocosi, che tentano di confortarlo.
-Ho avuto tanta pazienza con te, sai? All’inizio mi aggredivi, appendendomi a testa in giù per quelle che sembravano ore. Poi mi giravi intorno, o addirittura mi atterravi e poi scappavi via. Eri una bestia selvatica e bellissima, una creatura tanto eterea da risultate irraggiungibile. Eppure… eppure hai saputo dimostrare un’incredibile umanità. Eri caritatevole, ti lasciavi avvicinare, proteggevi anziché distruggere. Sei sempre stato un guerriero di pace, un punto luce fisso in questa guerra. Nessuno lo vedeva, ma io… io sono riuscito a farlo. E non perché lo volessi. Io ti vidi perché tu mi concedesti di guardare. E per questo, Sherlock Holmes, ti sarò eternamente riconoscente. Per questo io ho rivisto la luce, per questo io… io ti amo.-
Click. Qualcosa scatta nel cervello di Sherlock, richiama antiche voci, antichi ricordi, antichi tocchi che non avrebbe mai pensato di racchiudere in quel palazzo di così gelida logica. C’è calore adesso, c’è sole. E soltanto una persona riesce a ricondurre quella dolcezza nel suo mondo.
-John.-
John lo guarda, sorride quasi sorpreso. Si specchia negli occhi di Sherlock perché attraverso quelle iridi riesce a sentirsi nuovo, completo, bellissimo. Quelli sono occhi che sanno guardare il marciume del mondo e riconvertirlo in bene, in bellezza. E adesso John si sente riplasmato da essi, rinato in essi.
Quello è il suo posto, quella è la sua storia. Quello è il suo futuro.
-Ciao, Sherlock.-
E allora, per la prima volta, Sherlock lascia cadere il lucchetto della porta tanto temuta, spalanca di schianto porte mai conosciute, mai aperte. Ne ricorda ogni contenuto, ogni dato, ogni memoria. E a quelle memorie si abbandona, affidandosi a ciò che i suoi occhi videro e studiarono con malsana logica cose che non andrebbero capite ma semplicemente provate e basta.
Si allunga verso John che ancora lo sostiene. È un gesto che faceva la mamma con suo padre.
Gli poggia una mano sulla guancia calda di fragile carne umana. È un gesto che faceva il papà.
Adesso però, deve ricordare il dopo. Non è bravo in questo.
-Ci sono io, Sherlock. Sono solo io.- mormora John, e allora Sherlock si abbandona, lascia scivolare le labbra verso le sue finché non coincidono in un contatto gentile, quasi impacciato ma bellissimo come carezza di petali di rosa sulla pelle.
La luce esplode, la porta si spalanca di schianto mentre Sherlock cresce, si raddrizza, trascinando John con lui. D’improvviso è più alto, più forte, più vivo. Ha corna imponenti, scaglie brillanti come pezzi di cielo notturno e muscoli sviluppati d’uomo vissuto.
Avvolge un braccio intorno alla vita di John, approfondisce il bacio così come il corpo gli suggerisce, così come la logica non saprà mai consigliargli. Non ragiona più, non sa come giustificare quell’umano comportamento, ma stavolta si fida di John: Sherlock non scapperà di nuovo.
Le regole possono essere riscritte.
Le convinzioni possono cambiare, mutare, trasformarsi.
Il mondo può rinascere da un bacio, da una porta spalancata laddove la fiducia sa unire due creature diverse, figlie di cielo e terra, ma abbastanza speranzose da trovare infine sulle labbra dell’altro un reale punto d’incontro.
La porta si apre, li avvolge entrambi di luce abbagliante, ma Sherlock non lascia andare John. Lo protegge, lo stringe, abbraccia i loro corpi con le ali poderose. Sa di essere nella sua testa, sa di aver baciato un semplice ricordo. Ma non è certo che il vero John Watson lo accetti, che sappia capire ciò che lo stesso Sherlock non sa spiegarsi. Eppure, baciando anche solo quel piccolo rimasuglio di memoria, Sherlock Holmes rivoluziona la sua vita e capisce che sì, è pronto a seguire John, a ridargli ciò che gli fu tolto.
E finalmente, attraversando quella soglia mano nella mano col suo unico punto di forza, Sherlock Holmes capisce cosa deve fare.
 
Respira piano, faticosamente.
I polmoni sono schiacciati, compressi di pressione e fumo trattenuto troppo a lungo. Eppure, a dispetto di quanto si aspettasse, l’aria che respira è pulita, fresca, sgombra di fiamme e lava incandescente.
I rumori che ascolta non appartengono a un vulcano, né allo stomaco della bestia che l’ha trascinato giù, verso l’abisso della morte: da qualche parte, un gufo emette il suo verso basso e gorgogliante. Più lontano, a est, l’acqua scorre sul letto di un ruscello e gli alberi di una foresta abbastanza fitta da essere riconosciuta, mormorano la loro melodia di foglie in movimento.
Sherlock collega i rumori, il tatto che gli suggerisce d’essere adagiato su un letto di roccia appena levigata da… colpi d’artigli? Di coda? Entrambi.
Faticosamente solleva le palpebre, tossisce un grumo di sangue che malato gli scorre lungo la guancia, fino all’attacco della mandibola. La pressione all’altezza del petto aumenta, i polmoni faticano a dilatarsi per facilitare la respirazione. Da questo e da altri dolori, Sherlock capisce di avere diverse ossa incrinate o fratturate e come minimo un polmone perforato. Deve aver sbattuto contro una roccia particolarmente appuntita che gli ha perforato la carne fino all’organo. Bene o male però, è una fortuna che i draghi riescano anche a fare a meno della respirazione profonda, almeno per un po’. Ha tempo, e il tempo è ciò che gli occorre per rimettere le cose a posto.
Si guarda intorno, capisce di aver dedotto correttamente l’ubicazione della sua persona. Si trova in una grotta parecchio a nord di Londra e poco più a sud della terra appartenente ai draghi. Quelle sono terre selvagge, quel territorio è neutrale per chiunque.
Sherlock si alza a sedere con braccia che tremano e sangue che cola dalla bocca, dal naso, dalle orecchie. Non sta bene, ma non gli interessa. L’importante è che riesca a volare.
-Non muoverti troppo, Sherlock: se continui così, ti ammazzerai.-
Quella voce. Così roca, così profonda. Sherlock ha creduto di non poterla udire mai più. Eppure, paradossalmente l’ha udita pochi istanti prima.
Sposta gli occhi sulla figura alta, dalle spalle larghe e dai lunghi capelli striati d’argento. I draghi non invecchiano così velocemente. Eppure, se sottoposti a stress continuo e depressione ingente, possono appassire, affievolirsi. È ciò che è successo a quell’uomo un tempo così elegante, così bello. Adesso appare appena invecchiato, con occhi tristi e corna d’ariete sbeccate, di cui una spezzata alla punta. Le scaglie sono ricoperte di graffi profondi che le incidono di ferite non sanguinanti e il codino, una volta così ordinato, così bello, adesso è arrangiato con un nastro che un tempo sarà stato di uno splendido blu cobalto.
Sherlock quel drago lo conosce bene.
Sherlock quel drago l’ha visto sorridere.
Sherlock da bambino, quel drago l’ha abbracciato.
-Padre?-
 
Angolo dell’autrice:
Ritardo. Lo sapevo.
Sherlock: lo sapevano tutti.
No, lo sapevo soltanto io, visto che qualcuno ha cominciato a fare esperimenti sui confetti che abbiamo comprato per il matrimonio.
Sh: esagerata.
Gli sono spuntate le corna! Sembrano il patronus di Harry Potter, che cavolo!
Sh: quello è stato un piccolo incidente, ma con l’abito da sposa di tua sorella non fallirò.
Abito da sp… noilvestitonochecavolo!!!
Comunque… passiamo ai ringraziamenti prima che il prossimo capitolo venga annullato causa morte improvvisa di uno dei protagonisti. Grazie a coloro che come al solito rendono possibile il continuo di questa storia. Grazie alla pazienza che dimostrate nel leggere, nel recensire, nell’aspettare con calma i nuovi capitoli nonostante i ritardi più che irritanti. Grazie quindi a:
Kimi o Aishiteiru
FKk
Neryssa
Bbpeki
Grazie di cuore e a presto!
Tomi Dark Angel
 
 

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Capitolo 19
*** Legittimo Erede ***


-Che diavolo fate? Lasciatemi, lasciatemi subito!-
Rumori. Suoni insignificanti, privi di senso, vita, colori. Che se ne fa il mondo di essi quando finanche le più piccole parole smettono ogni significato, ogni senso logico? Della logica ormai, la Terra non se ne fa più niente. Il suo fulcro è sparito, spento dalla sua stessa grandezza, affogato nel mare di lava che impersonava colpe altrui.
La logica non ha mai salvato nessuno, Sherlock forse lo sapeva. La logica non salvò lui, così stupido da frapporsi tra John e la morte. E adesso, anche lo stesso John non riesce a riemergere, a sentirsi bene. Gli pare che il mondo sia finito lì, col morire di quegli occhi di cristallo così fragili, così preziosi.
-John! Lasciatemi!-
Molly?
John apre gli occhi, respira affannato per la stanchezza e la mancanza di cibo e acqua che ormai persiste da circa due giorni. Perché ancora vive? Se lo chiede esattamente da poco più di quarantotto ore.
Troppo tempo. Troppo tempo.
-JOHN!!!-
Qualcuno lo afferra, John vede sfocato e a stento ricorda dove si trova. Come ci è arrivato in quel letto? È a casa sua? No, forse no. Oppure sì?
-Alzati!-
Lo strattonano, fanno sbatacchiare la sua testa abbandonata avanti e indietro. John non reagisce, non ne ha la forza. Vede sfuocato, è stanco, ha fame. Non importa, non si interessa più di niente ormai. Il mondo gira quando non dovrebbe, avanza quando in verità gli sarebbe concesso soltanto di fermarsi. John non è d’accordo col mondo: lui si blocca e basta, perché è giusto così, perché almeno a lui interessa ciò che la Terra ha perduto.
-JOHN!!!-
Molly urla, Mrs Hudson lo chiama per nome. Da qualche parte, si odono rumori di lotta e gemiti soffocati che spingono John a sforzarsi per mettere a fuoco l’ambiente.
È circondato dai militari. Lui quei ragazzi li ha visti combattere, gli ha salvato la vita, li ha ricuciti pezzo dopo pezzo senza mai abbandonarli. Loro lo riconoscevano fedeli, sorridevano alla sua presenza e mai gli voltavano le spalle.
Adesso non è così: quegli stessi volti così cresciuti, così diversi, appaiono feroci, meschini, come cani soliti da troppo tempo alla ferocia delle lotte in gabbia. Hanno occhi infuriati, folli, così simili a quelli dei draghi che sempre più spesso attaccano la città, recidendo vite e sbocciando grida di dolore e sangue.
Malati. Sono tutti malati.
Senza più anima, senza più emozioni. Non si preoccupano neanche di loro stessi perché ai loro occhi è giusto combattere, uccidendo finanche i propri simili. La pietà non la ricorda più nessuno, perché nessuno si sforza di ricordarla.
John distoglie lo sguardo da quei volti, da quei fucili puntati in tanti mirini rossi dritti al suo petto. Si aspettano che reagisca? Forse, ma se è così, allora non hanno notato davvero lo stato pietoso in cui verte il suo corpo, la sua anima devastata.
Mrs Hudson, Molly e Mike Stamford sono premuti contro il muro, deboli alla stretta soffocante d’uomini che di umano non possiedono neanche più l’essenza. Nessun rispetto per l’anzianità della donna che quasi soffoca, con quel braccio nerboruto schiacciato sulla gola; nessuna pietà per la giovane ragazza che fragile, tenta d’accasciarsi ai piedi dei militari insensibili, senza morale.
I tempi sono cambiati, da quando John combatteva. Adesso è evidente, adesso è chiaro quanto lo stesso ex soldato sia stato stupido anche solo al provare il desiderio di tornare tra quelle fila di dannati sopravvissuti. Se un tempo sopravvivevano ideali, umanità e rispetto tra le forze armate, adesso è soltanto la violenza l’unico linguaggio comprensibile ai loro occhi.
John vorrebbe reagire, ribellarsi, ma si sente così pesante, così vuoto… non riesce nemmeno a sollevare la testa.
-Sei tu Hound?- domanda una voce di donna che John riconosce.
Sally Donovan è stata uno dei suoi diretti sottoposti, in passato. John le salvò il braccio destro, ricucendolo prima che perdesse totalmente funzionalità lasciando come ultima scelta l’amputazione. Era una brava ragazza, Sally. Piena di ideali, di sorrisi e di speranza. Non ha somiglianze con la donna rigida e senz’anima che adesso emerge dalla calca di soldati come malata ombra del passato.
Indossa la divisa da ispettore e un distintivo un tempo appartenuto a Lestrade. Questo sveglia John un po’ di più.
-Che fine ha… fatto Lestrade?- domanda con voce roca, gracchiante per il continuo inutilizzo.
Donovan sorride di un sorriso ferino, aggressivo, malato. È predatrice dinanzi alla preda, è fame dinanzi a cibo ancora fresco.
-Il detective Lestrade è stato… sì, licenziato. Non ha nascosto bene le prove della sua collaborazione col fuorilegge numero uno al mondo. Peccato.-
John sbatte le palpebre, si raddrizza mentre la mano rude del soldato più vicino ancora gli serra la spalla ferita. Fa male, ma nessun dolore supera ciò che malsano striscia al suo interno schiacciandogli l’anima, le interiora, il respiro. Potrebbero staccargli la testa con un’accetta, ma non lo ferirebbero quanto la morte di Sherlock.
-Non collaborava con me. E sì, Hound sono io.-
-Magnifico. Arrestatelo.-
Mani nerborute lo afferrano in malo modo, lo scaraventano giù dal letto. John cade carponi, si rialza in ginocchio ma i soldati gli premono sulle spalle per non permettergli di raddrizzarsi ulteriormente. Anche in quella posizione sottomessa, John appare fiero come un leone, coraggioso come il più potente dei re. Colui che ha combattuto i draghi, colui che ha abbattuto la bestia più grande mai vista nei pressi di Londra semplicemente ipnotizzandola e poi facendole esplodere una granata addosso. Così si narra, così la pensano tutti. Nessuno vide la Furia Buia che guardiana piovve giù dal cielo, nessuno giustificò diversamente l’esplosione di fulmini e materia oscura sulle squame del drago grigio. È John la leggenda tra i soldati, tra la gente, e neanche lo sa.
-Credi che arrestarmi serva a qualcosa? Se avete tanta paura di me, significa che per la gente i miei scritti significano davvero qualcosa. E sai cosa ho imparato col tempo? Che le persone possono riprovarci, che possono sempre rimediare agli errori, se soltanto lo desiderano. Io sono soltanto una voce, un mediatore che grida al deserto affinché nessuno lo ascolti. Credevo d’essere solo, credevo che il mondo non fosse pronto ad andare avanti. Ma voi siete qui, e questo mi conferma soltanto che c’è ancora speranza, che il mondo vive ancora, che vuole perdonare, dimenticare. E, con o senza di me, so che potrà farlo.-
Donovan serra la mascella, disperata cerca di mantenere il sorriso traballante che da ferino passa a fragile. China il busto per accostare il viso alla faccia di John, inclina la testa, torna a sorridere faticosamente, ma con rabbia rappresa.
-Tu non significhi niente per loro. I draghi sono nemici da secoli e tu, omuncolo da due soldi, non smantellerai la più grande guerra mondiale che uomo abbia mai visto.-
John sorride affabile. –Hai detto bene. L’uomo non conosce pace, non la ricerca perché non ha mai respirato aria pulita, priva del puzzo di fumo e sangue. I nostri bambini crescono nel terrore, giocano con le armi piuttosto che con le bambole. Non conoscono colori, non conoscono domani perché nascono e vanno avanti con la convinzione che per loro, l’alba del giorno dopo potrebbe non nascere affatto. Siamo noi che glielo ricordiamo, siamo noi che cerchiamo rassicurazioni da chi è troppo piccolo per concedercele. Non conosciamo la pace, quindi non ci è dato cercarla. Adesso però, io ho illuminato una nuova prospettiva, una nuova possibilità che possa condurre persone innocenti a un domani sicuro, tangibile, che risplende di colori dimenticati. Parlare con le armi non serve a nulla e, se hai letto almeno in parte i miei scritti, saprai che per conoscere la realtà dei fatti, per accostarmi a quello che voi chiamereste meramente bestia senz’anima, ho semplicemente dovuto gettare a terra la pistola. Se non siete disposti a farlo, tutto è perduto. Ma se qualcuno ci prova ancora, se qualcuno ha ascoltato almeno in parte il mio grido… allora non morirò invano.-
-Morte? Chi ha parlato di morte?-
John respira a fondo, ascolta la pace scorrergli nelle vene.
-Io. Non mi lascerete in circolazione e le vostre carceri non esistono più: l’ultimo attacco ha abbattuto le poche celle rimaste in piedi, lo so bene. Il che ci conduce a un’unica soluzione. Per voi sono troppo pericoloso, troppo difficile da contenere. Come morirò, Sally?-
-È ispettore Donovan!-
-Come morirò, Sally?-
Donovan stringe i pugni, digrigna i denti senza più volontà di trattenersi. Poi sorride di un sorriso sanguinario, rappreso di rabbia e piacere perverso. Accosta il viso a quello di John, gli sfiora l’orecchio con le labbra.
Quel gesto gli ricorda qualcosa. Un paradiso celato, labbra cesellate da angeli, tocco gentile di giovane innamorato. Bizzarro come un atteggiamento tanto delicato possa trasformarsi in puro inferno se mosso dalla persona sbagliata.
-Oh, non sono così gentile da rivelartelo. Sappi soltanto che i tuoi… amici, diverranno a breve i tuoi peggiori incubi.-
 
Sherlock Holmes la sua infanzia, la ricorda bene. Ogni volto, ogni voce, ogni tocco. Tutto è classificato lì, nella sua testa, nelle sue memorie. Non ha mai tralasciato niente, non ha mai dimenticato i dettagli. Quelli sono importanti.
Eppure, adesso quegli stessi dettagli ricordati, quegli stessi volti che memorizzò tanto bene… ogni cosa è cambiata. Sherlock odia i cambiamenti quasi quanto odia i sentimenti.
Cambiare significa memorizzare tutto daccapo.
Cambiare significa aprire vecchie porte per stravolgere il contenuto delle stanze sigillate e poi crearne di nuovo.
Noioso, faticoso.
Eppure, Sherlock quel volto non lo ricorda. Altra stanza, altre cose da memorizzare. Suo padre non era così vecchio, ma adesso dimostra pressappoco l’età di un umano sessantenne. Sempre bellissimo, sempre affascinante, ma diverso.
Stanza sessantanove, corridoio cinquantuno. Modifiche.
Zigomi alti, ma più taglienti. Capelli scompigliati, striati di grigio. Occhi chiari, limpidi, ma stanchi come non mai.
-Ciao, figliolo.-
Voce. Stanza ottantanove, corridoio novantasette. Memorizzato.
Un’altra porta si apre, affonda Sherlock tra pieghe di ricordi.
L’ultima volta che vide suo padre, la mamma era appena morta…
 
-Padre?-
Sherlock è ancora un ragazzo. Alto, allampanato, che avanza barcollando nell’oscurità della casa. Nessuna luce gli dona il beneficio di una via illuminata, nessun rumore gli segnala di non essere solo, almeno per una volta.
Gli tremano le mani, ogni parte di lui è argentata del sangue innocente di sua madre, morta tra le braccia di un ragazzo troppo giovane per guardare in faccia la morte.
Se il mondo fosse giusto, sua madre sarebbe sopravvissuta.
Se il mondo fosse giusto, adesso quegli occhi di cristallo non sarebbero neri di paura e dolore.
Ha tanti sentimenti, il piccolo Sherlock: che peccato. Provare dolore fa così male, è così soffocante da togliergli il respiro. È sempre apparso troppo umano, troppo vivo agli occhi di chi si aspettava un erede vero, freddo e calcolatore.
Lui non è un animale. Lui le emozioni, le sente ancora.
-Papà?-
Chiama di nuovo, il piccolo Sherlock. Spera ancora in un barlume di pietà, prega ancora per un domani sicuro, felice, dove almeno suo padre saprà capirlo, sostenerlo, consolarlo.
-Papà?-
Continua a chiamare, lo fa per tutta la notte. Girovaga per casa con passo malfermo e sangue ormai rappreso sulla pelle. Forse si è fatto male anche lui, ma non se lo ricorda. Lui non ricorda niente, perché la sua mente è bloccata, non gli permette di realizzare.
-Papà?-
Cerca Sherlock, cerca fino all’alba del giorno dopo. Eppure, anche quando il sole sorge e bagna d’oro le pareti della casa deserta, il bambino non riesce a vedere la luce. Tutto è sfuocato, tinto di un nero malato, spettrale.
Poi, cominciano gli incubi ad occhi aperti.
Una donna così simile a sua madre emerge dalle ombre. Sherlock la guarda, fissa la freccia gigantesca che sporge dal suo petto. Non può essere lei, non deve essere lei.
-Mi hai lasciata morire.-
La donna avanza, quasi incespica nei suoi stessi passi. Tende una mano artigliata verso di lui, sorride malsana e gli sputa addosso un grumo di sangue argentato.
Sherlock urla, cade all’indietro e si copre la testa.
-Mi dispiace! Mi dispiace, mamma!-
-DOVEVI PENSARCI PRIMA!!!-
La donna urla con voce spettrale, gracchiante. Solleva una mano, gli conficca gli artigli nel braccio, squarcia la fragile pelle di bambino.
Sherlock urla, piange, si raggomitola mentre lei lo prende a calci, sputando sangue e maledizioni.
La donna singhiozza, rancorosa continua a incidergli la pelle. C’è sangue, c’è odio, c’è dolore. Sherlock non sa di essere soltanto nella sua testa, non vede i suoi stessi artigli che stringendosi alle braccia, ne incidono la carne in tagli dilanianti. Si ferisce, piange, incappa nella sua stessa mente che improvvisamente gli si ritorce contro.
Grida per tutto il giorno, piange, si ferisce e invoca il nome di sua madre, suo padre, suo fratello.
È soltanto quando cala la notte e Sherlock non ha più voce che qualcuno sopraggiunge come ombra nascosta, oscura, mefitica.
-Ti sei ferito abbastanza, Sherlock.-
Sherlock alza lo sguardo, si accorge di avere un occhio fuori uso per un taglio particolarmente profondo alla palpebra.
Suo padre è lì, lo guarda dall’alto ma non appare preoccupato per lo stato pietoso in cui verte suo figlio. Non gli interessa, del sangue di Sherlock non se ne fa niente. Senza sua moglie, i loro figli andranno allo sbaraglio e lui non coprirà la parte del padre. Ha sofferto abbastanza, e il suo dolore è l’unica cosa che vede.
Non è giusto tuttavia che anche Sherlock soffra così.
Il dolore fa male, il dolore è una brutta cosa. Edarion Holmes se ne rende conto solo adesso. Lacerato, strappato a metà… senz’anima. Qualcosa si spezza nella sua mente, la spacca in due parti identiche, raggrinzite di ricordi improvvisamente pericolosi. Sua moglie era così giovane, così bella. Proprio come Sherlock. In effetti, madre e figlio si somigliano in maniera impressionante, davvero impressionante…
Edarion osserva quegli occhi di cristallo così limpidi, così intelligenti. Sono occhi intrisi d’umana umanità. Gli stessi occhi di sua moglie, lo stesso sguardo acuto e bellissimo.
Sherlock potrebbe essere lei, Sherlock… è lei.
Improvvisamente, agli occhi di Edarion le immagini si confondono. Basta uno sbattere di palpebre, e tutto cambia. Le fattezze di ragazzino che ha suo figlio mutano senza che Edarion se ne accorga e improvvisamente, sua moglie è lì, accovacciata a terra e coperta di graffi.
Non fa paura, non fa pena. È uno spirito, un ricordo. Edarion adesso, i ricordi li odia profondamente.
-Non dovresti stare qui.-
La donna non risponde ma si raggomitola di più, tremando convulsamente.
-Non dovresti stare qui. Sei morta, mi hai lasciato solo. Adesso dovrò accettarlo, quindi vedi di sparire.-
Sua moglie sbarra gli occhi, lo fissa allucinata.
-Papà? Di che parli?-
-Non sono tuo padre!- urla Edarion. -Sono tuo marito, colui col quale hai condiviso una vita! Sei morta, sparita, andata via! Io adesso sono solo, quindi lascia che resti tale! VAI VIA!!!-
Un lampo d’artigli, uno scudisciare di coda tagliente e la donna di accascia a terra con un profondo taglio poco sovrastante la clavicola sporgente. Il sangue zampilla, lei grida di dolore e tenta di portarsi una mano al collo, ma non ci riesce. Respira affannosa, cerca di sbattere le ali. Inutile.
Agonizza lì, ai piedi di Edarion mentre egli stesso, ormai impazzito, sorride soddisfatto. Ha riaggiustato lo scorrere degli eventi. È stato bravo, in effetti.
-Papà!!!- urla una voce di ragazzino, profonda ma ancora vagamente sottile. Edarion riconosce la voce di suo figlio, di Sherlock. Si guarda intorno invano, non ricorda perché si trova lì. Poi, i suoi occhi si abbassano, e l’orrore si palesa vivo ai suoi occhi.
Colpevole.
Sherlock è a terra, in lacrime, scosso dalle convulsioni. Lo guarda, chiede perché con un semplice sguardo. Ha bisogno di risposte, ma il padre non ne ha.
Ha ferito suo figlio. L’ha quasi ucciso. E come ultima colpa, si rifiuta di soccorrerlo, di affondare le mani nei suoi sbagli di bestia impazzita. Indietreggia, sbarra gli occhi alla vista del figlio che invano tende una mano verso di lui, cercando di strisciare, di toccarlo per ricevere mero conforto.
Chiede aiuto, Sherlock.
Urla in silenzio, Sherlock.
Ma nessuno lo aiuta perché nessuno a parte la madre ci ha mai provato davvero. Ancora una volta, rimane solo.
Edarion indietreggia si volta e con un balzo sfonda la finestra alla sua destra, spargendo nell’aria il terribile rumore di vetri in frantumi. Spalanca le ali , cattura il vento e gonfia i muscoli nello sforzo disperato di allontanarsi, di lasciarsi alle spalle il disastro e il puzzo di morte.
Sherlock Holmes resterà un giorno e una notte in quella condizione. Ferito gravemente, immerso nel suo stesso sangue. Non capirà mai cosa gli diede la forza per respirare ancora, per strisciare misero lungo il corridoio , verso una porta che non avrebbe mai raggiunto con le sue sole forze. Quando Mycroft Holmes lo troverà, salvandogli la vita prima di sparire, Sherlock avrà infine capito che il mondo non è buono, che non sa avere pietà neanche di un bambino. E qualcosa scatterà nel suo cervello, togliendogli il sorriso, donandogli l’unica fredda logica alla quale si aggrapperà disperatamente in futuro, forse fino alla fine dei suoi giorni.
 
-Edarion.-
Sherlock fissa il padre senza emozione, incrocia i suoi occhi chiari, li vede inumidirsi fragili, vacillare, oscurarsi di comprensione quando Edarion comprende i pensieri di Sherlock e i ricordi che stanno risalendo a galla. Nota la mano del figlio sollevarsi a toccare lo stesso punto dove anni addietro artigli mefitici lo arpionarono, squarciandogli la pelle.
Non dimentica, Sherlock.
Ha tutto lì, scritto e registrato nel suo Mind Palace. Nessun dato esce, qualsiasi informazione entra.
Sherlock si alza faticosamente, fa perno sulla coda e sulle punte delle ali conficcate nel terreno. Alla fine, raddrizza la schiena, stiracchia i muscoli doloranti mentre la spalla totalmente forata ricomincia a sanguinare, arrossendo le bende che la avvolgono. Fa male, brucia da morire, eppure Sherlock non se ne cura. Non ha bisogno di sentirsi debole dinanzi a suo padre, considerato come è finita la volta precedente.
-Non ti farò del male, figliolo.-
-No?- Sherlock inclina il capo di lato, apparentemente calmo e rilassato. –Bizzarro. Da ciò che ricordo, provasti a staccarmi la testa l’ultima volta. Sbaglio?-
Edarion freme, stringe i pugni lungo i fianchi. Nonostante la magrezza esagerata del viso smunto ma ancora stranamente bellissimo, il corpo appare ancora massiccio, elegante e allenato.
-Non sbagli, Sherlock. So che è inutile domandarti perdono perché ormai il passato tale rimane, ma non posso impedirmi di chiederti aiuto adesso, in nome di tutto ciò che ho visto, delle troppe battaglie che ho combattuto. Ho viaggiato tanto, figlio mio, e altrettanto ho vissuto. Ho visto tante guerre. Troppe, in realtà. Nessuna di esse risparmiava morti, grida, sangue e nessuna di esse ha mai saputo risparmiare vite innocenti. La violenza è violenza, e resterà malata fino alla fine dei secoli, qualunque sia il motivo che ne spinge il principio. Eppure, di tante guerre vissute, nessuna è come questa. Con l’andare degli anni peggiora, e la gente muore senza perché, senza poter scegliere il suo destino. Guardo quei pochi che ancora vivono e rivedo mia moglie… guardo te, figlio mio, e in te rivedo lei.-
Edarion avanza di un passo, si accosta a Sherlock senza staccare gli occhi dai suoi.
-Tua madre è sempre stata l’unica in grado di fermare tutto questo. Quando l’ho persa, io… io credo di essere impazzito. Non sai cosa significa, prega di non saperlo mai…-
-Sbagliato.-
Edarion sbarra appena gli occhi, si immobilizza come statua di granito mentre il figlio lo oltrepassa, affacciandosi oltre la sporgenza rocciosa. Osserva il cielo terso, la sua variopinta tintura di blu cobalto, azzurrino, nero. Se non fosse per la luce argentata della luna piena, alta nel cielo, regnerebbe l’oscurità sul mondo intero.
Eppure, anche dal buio, la luce sboccia ancora, ogni giorno, ogni notte, senza stancarsi mai. Sarà sempre lì, così come sempre lì è stata anche l’oscurità.
Sherlock si sente quel cielo, adesso. Sa bene di essere rimasto al buio per molto tempo. Ha brancolato nell’oscurità, l’ha respirata, l’ha generata egli stesso. Poi però, insieme alla notte più nera è arrivata la luna col suo splendere intenso, instancabile, tenue ma gentile.
John.
Sherlock sa cosa intende dire suo padre. Ha memorizzato tutto lì, nel suo Mind Palace. Ricorda quegli ultimi momenti, il terrore di perdere John, così fragile, così umano.
Si sente fragile, Sherlock. Se gli portassero via John, sarebbe come perdere un pezzo d’anima, una parte importante del suo Mind Palace. Non sa cosa accadrebbe ai suoi ricordi, in caso di crollo psicologico. Ma dopotutto, senza John i ricordi non servono affatto.
-Sherlock?- chiama suo padre, e la sua voce appare morbida, nuovamente così simile a quella dell’Edarion giovane e felice che Sherlock ricorda.
La Furia Buia si volta, fissa suo padre con distacco, le mani intrecciate dietro la schiena e la spalla tremante di dolore.
-Cosa vuoi da me, Edarion?-
Edarion sospira, avanza quasi timido verso il figlio per esporsi alla luce argentata della luna. E lì, sotto le stelle, sotto la più cupa e lucente delle volte celesti, Edarion, re dei draghi e sovrano reale dell’ultima stirpe nobile rimasta al mondo, cede definitivamente ogni diritto di regalità. S’inginocchia, prostra il corpo e l’animo all’unico legittimo erede al trono che il mondo meriti, che il futuro implora ferito per poter germogliare sereno da un passato risanato.
Negli occhi di Nevora dapprima e così adesso negli occhi di suo figlio, Sherlock Holmes, la pace sboccia davvero, palesandosi serena nei cristalli trasparenti delle sue iridi. C’è speranza, c’è vita, e questo Sherlock lo ricorda. Può ricordarlo anche agli altri, se vuole.
Il mondo ne ha bisogno, la gente ne ha bisogno. C’è luce, se soltanto qualcuno sa dove trovarla.
Il vento si alza, gli alberi mormorano sereni, innalzano il loro inno di foglie fruscianti e scricchiolii tranquilli. Il pianeta benedice il futuro, respira la speranza, si aggrappa ad essa con forza.
E alla fine, il primo tassello scivola al suo posto.
-Io ti cedo ogni diritto di regno, Sherlock Holmes, figlio mio. Sii speranza laddove io ho saputo essere soltanto disperazione e disperato. Sii cura laddove ferite profonde ancora sanguinano. Sii luce e respingi le tenebre, tu che la luce l’hai cercata, trovata, toccata. Risana il mondo, risana il futuro e ciò che di buono ancora combatte e respira giorno dopo giorno, fiero, vivo, palpitante. Il pianeta ti è affidato, poiché dalle sue ferite preghiamo che possa sbocciare un giorno acqua limpida e non più sangue sporco. Salva il mondo, Sherlock, salva ciò che è realmente importante. Ricostruisci la casata degli Holmes, ricorda al mondo che sotto le ceneri della violenza, la nostra speranza respira ancora.-
Il vento cresce, la Terra si risveglia. Lontano, oltre le terre dei draghi, le case degli umani vengono scosse da un piccolo terremoto mentre il cielo del mondo si rischiara di un blu tinto di venature argentate. La luna si scurisce appena di un argento profondo, intenso come colata fusa e gli animali si bloccano, levano le teste verso l’alto, in attesa.
Vive ancora il mondo, e lo dimostra adesso.
Prega ancora il mondo, e lascia che chiunque ascolti.
Tutto è nelle mani di un semplice accenno, il futuro poggia fiducioso su spalle ferite, sanguinanti di giovane ma antica Furia Buia, razza meticcia di grandezza di drago e umanità di gente comune.
Sherlock capisce, ma non ha bisogno di ragionarci su perché le sue scelte le ha già fatte riemergendo dal suo Mind Palace, dall’ultima porta spalancata per passare dall’altra parte. Sa tutto, e tutto sarà fatto. Per John, per Noah e la sua famiglia.
Per il mondo intero, affinché torni a respirare.
-Così sia.-
 
Angolo dell’autrice:
Ritardissimo più del solito. Tanti auguri a me! No, in realtà ho dovuto affrontare una storia che sto scrivendo per il fandom di American Horror Story e il matrimonio di mia sorella. Ma nessuno ha capito quando da brava testimone della sposa ho cominciato a dire “ Let’s play murder… ”. Miscredenti! Credo di aver perso un bel po’ di parenti con questa uscita, ma è stata la cosa più figa del mondo… non provatelo a casa, bambini!
Sher: che cavolo stai dicendo? E poi che diamine hai scritto in questo capitolo? Io non sono così sentimentale.
Qui sì, e tu fai come ti dico io, altrimenti ti do fuoco ai capelli. Ora, torniamo a noi e spazio ai ringraziamenti!
Kimi o aishiteiru: non chiamarlo Johnny boy che attiri strani individui, eh. E no, John deve ancora patire, e di peggio anche. Nel prossimo capitolo vorrai ammazzarmi, quindi ti regalo un Gabriel nuovo nuovo di zecca per sfogare la tua frustrazione! Ecco a te il papà di Sherlock. Sì, da brava scrittrice bastarda gli ho quasi fatto ammazzare il figlio. Evviva me! Applausi! Ohohoh, grazie per la recensione e a prestissimo!
Sparrow: ecco a voi il padre di Sherlock Holmes. Pazzo, smagrito, con zero spina dorsale e che ama ammazzare i suoi stessi figli. Venghino signori, venghino! John deve ancora affrontare la sua prova, ma nel prossimo capitolo le cose precipiteranno un po’… un po’ tanto. Be’, da Donovan ci si può aspettare di tutto! A presto e grazie per il commento!
Wibbly Wobbly Timey Wimey: eh, dopo questa storia credo di aver rovinato per sempre il personaggio del papà di Sherlock. E sì, i genitori di Noah sono particolarmente belli e gentili. Li avesse avuti Sherlock così, almeno usciva normale! Guarda che se mi muori dopo la fine della storia smetto di scrivere così sopravvivi! XD grazie per il commento, a prestissimo!
Bbpeki: grazie per gli auguri! Ehm, scusa per i gatti maltrattati nel precedente capitolo, anche io sono stata un po’ male a scrivere quella parte… comunque, mi fa piacere che le descrizioni ti siano piaciute. In realtà per la scena del ballo mi sono ispirata a uno di quei balli veneziani che si tenevano almeno nell’antichità, in sale sfarzose. Mi sono soltanto limitata ad aggiungere il tocco dei draghi. E i nomi… bo’, li invento di sana pianta mentre scrivo. XD potrebbero saltare fuori veri mostri, attenzione! Il prossimo personaggio potrebbe chiamarsi Orsomariagildoannunziato. Suona bene? No? accidenti, a me piaceva… e no, Jim sbucherà poi e quando meno te lo aspetti. Eccoti il seguito e scusa per il ritardo, la prossima volta farò più presto! A presto e grazie!
Sonia_0911: sono felice che tu abbia recensito per entrambi i capitoli! Innanzitutto ti ringrazio per la pazienza, fa sempre piacere sapere che ciò che scrivi è apprezzato. Non ci spero mai, in realtà. Il padre di Sherlock è un personaggio abbastanza difficile da gestire, ma spero di poterlo definire meglio e per quanto riguarda John, anche io provo una stretta al cuore quando scrivo di lui. Sherlock lo sa, sente che John sta male, ma deve star meglio per potersi muovere… o forse no? eheh, lo scoprirai nel prossimo capitolo! A presto!

Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 20
*** Cielo Stellato, Incanto Spezzato ***


Molto spesso, l’uomo sa essere la creatura più egoista del mondo: dà per scontato benedizioni pulite come il tocco del vento sulla pelle o il bagnare della luce sul viso. Molti si lamentano, molti guardano altrove per pura pigrizia di alzarsi dal letto e sporgere la testa oltre l’oscurità mefitica di casa. Non apprezzano il poter respirare ogni mattina, non comprendono l’importanza della vita che tutti i giorni accarezza corpi nuovi o già anziani. Bizzarro.
John Watson non è mai stato molto fortunato, questo lo sa bene. Ha perso amici, famiglia, il suo unico amore. Sentirsi spezzato pesa da morire, l’assenza di un pezzo d’anima schiaccia ingombrante l’anima stessa. Adesso, una nuova assenza spinge in basso per piegarlo, per spezzarlo a metà.
Guarda le sbarre della prigione, e si accorge di quanto abbia dato per scontata la grandezza della libertà, il suo tocco sulla pelle che ogni giorno lo svegliava di nuovi respiri d’aria pulita e baci di sole sul corpo. Era bello potersi affacciare dalla finestra, posare gli occhi sul mondo, salutarlo, guardarlo dall’alto e sentirsi bene, nonostante il peso ingombrante della guerra. Adesso, quel privilegio non gli è più concesso, e John soffoca, si stringe la gola affannato, si piega in due come uccellino in gabbia che poco a poco spira.
Morire subito sarebbe troppo facile, troppo bello. Rivedrebbe Sherlock, potrebbe abbracciarlo, baciarlo e poi ridere quando la sua coda l’avrebbe capovolto a mezz’aria per punirlo di tanto azzardo. Tornerebbe indietro nel tempo, John, e direbbe mille e mille cose troppo a lungo taciute all’unica persona con la quale avrebbe mai voluto trascorrere l’eternità. Se il prezzo da pagare è la vita, sarebbe lieto di accontentare il destino. Non è poi così male morire. Dopotutto, lui la morte la conosce bene; ha camminato al suo fianco, l’ha sfiorata senza mai toccarla davvero, l’ha vista portare via tanti amici, tanti cari.
Non è cattiva, è soltanto il suo lavoro. Ma forse, è chiedere troppo che la Nera Signora intervenga ora, subito, prima dello svolgersi di una già atroce condanna. Possono ferirlo più di quanto abbia fatto la morte di Sherlock? No. Allora, perché aspettare? Semplice risposta: loro non lo sanno. Non sanno che significa, non sanno cosa vuol dire amare, donarsi a qualcuno, affidarsi totalmente al domani di quell’unica persona che ogni giorno fa sorgere e tramontare il sole e la luna.
L’uomo ha dimenticato. L’uomo. Non John Watson. Per ricordargli dell’umanità, è servita una bestia.
La porta della cella si apre cigolando, un uomo che John conosce come Anderson fa il suo ingresso a testa alta, con occhi che tuttavia tradiscono un barlume d’emozione, una scintilla di emotività che ai soldati manca.
John salvò la vita a quello stesso uomo. Gli ricucì con cura e dedizione  i bordi frastagliati di una schiena squarciata a metà. Si bagnò le mani del suo sangue, ascoltò i suoi pianti di dolore e asciugò dolcemente le sue lacrime, pietoso e caritatevole d’ogni atto di debolezza. La debolezza rende umani, questo non lo dimentica. E, nonostante tutto, Anderson è umano più degli altri.
-Dobbiamo andare.- dice bruscamente, affiancando John per poterlo scortare. Gli dà una piccola spinta, ma John è debole e barcolla, quasi cade a terra per il peso del dolore, dei due giorni sorbiti in totale prigionia.
È fragile, John. Come marionetta di porcellana, sa di potersi rompere da un momento all’altro. Basta una caduta o un altro minimo dolore e tutto finirà. In questo, lui ci spera.
Anderson lo guarda, fissa la schiena curva di quello che un tempo è stato soldato, eroe, leggenda. Ammirava gli ideali di John, la sua fermezza, la sua forza nel combattere ogni giorno al solo scopo di difendere la gente. È un soldato vero, di quelli che dovrebbero popolare il mondo per condurlo alla pace tanto agognata. Ma di John in realtà, non ce ne sono molti.
-Perché ti sei ridotto così?- domanda. –Avresti potuto negare, lavarti le mani di tutto, ma non l’hai fatto e adesso sei in questa situazione. È a questo che ti conduce la tua giustizia, John? Prima salvavi le vite, avevi pietà della gente. Adesso chi salverà te?-
John non risponde, continua a respirare lentamente per farsi forza e trovare l’energia per rialzarsi. Si sente vecchio e stanco, come se improvvisamente il peso della guerra si fosse appoggiato totale sulle sue deboli spalle umane.
Però, ha ancora la forza per sentirsi sereno. Conosce il domani, sa che dopo l’esecuzione potrebbe rivedere Sherlock ed essere felice, ridere con lui, stringerlo, accarezzare quella pelle mista a scaglie fino a ferirsi le dita. Sherlock lo riterrà illogico, ma John non saprà curarsene: continuerà, continuerà per ore finché non si sarà stancato, perché toccare Sherlock sarebbe come abbracciare un sogno, rivivere quei momenti di gioia che nemmeno da bambino ha saputo assaporare.
Nella morte, John respirerebbe di nuovo. Buffo. Splendido.
-Quanta gente muore ogni giorno, Philip?-
-Mh? Centinaia di persone, perché?-
John si raddrizza, lo guarda con gentilezza sincera, amorevole come quella di un padre. Non ha paura, Anderson glielo legge in faccia. È sereno, manterrà alto il capo anche dinanzi alla morte, e questo riconferma allora la sua grandezza, il suo essere soldato reale, di quelli che combattono veramente per la pace e non per la violenza.
Dinanzi a quegli occhi anziani, Philip Anderson si sente piccolo, misero, quasi fragile di una fragilità vitrea. Freme quasi piega la schiena in una sorta di istintiva riverenza.
-Sai dunque quante vittime ha portato questa guerra. Tu sei come me. So bene che la notte, quando sei da solo o semplicemente chiudi gli occhi per brevi istanti, senti ancora quelle grida, quel senso di impotenza che ti ha spinto a veder morire migliaia di innocenti. La gente muore tutti i giorni, ma non è questa la gravità della guerra. La speranza non esiste più, Anderson. È reputata ormai purissimo mito, lontano ricordo di una preistoria pacifica dove almeno gli homo sapiens sapevano impugnare le armi soltanto per cacciare selvaggina e non per il piacere di uccidere. Cos’è la soppressione della mia vita in confronto a questa devastazione? Sono soltanto un uomo, e come tale appaio fragile, spento, stanco. Tuttavia, c’è stato chi in mezzo a tutto questo, ha saputo ricordarmi che forse, un barlume di speranza esiste ancora, da qualche parte. Ho saputo cercarlo, ho saputo scavare con pazienza, e alla fine, il mio premio è giunto. Credi che la morte non sia una ricompensa? Forse no, ai tuoi occhi. Ma ai miei invece sì.-
John allunga un braccio, appoggia la mano smagrita sulla spalla di Anderson, i cui occhi si fanno improvvisamente fragili, lucidi di lacrime mai versate.
Guarda quell’uomo condannato a morte, Philip, e sente che nessuna giustizia interverrà a salvarlo.
Guarda quell’uomo condannato a morte, Philip, e sente che tutto questo è sbagliato. John è innocente.
-Ho vissuto abbastanza da capire che il mondo ha bisogno di un aiuto, Philip. Di armi ne abbiamo usate fin troppe, e se la mia morte ha la minima possibilità di convincere un millesimo di tutta quella gente a deporre le armi per allungare una mano in segno di pace, così sia.-
John sorride di un sorriso vero, emozionato, e allora due calde lacrime di commozione gli scivolano lungo le guance, bagnano di felicità e ricordi quella pelle d’uomo vissuto.
-Io li ho visti, Philip. Ho visto le loro scaglie riflettere la luce delle stelle, ho toccato con mano la forza inimmaginabile delle loro corna di diamante, ho accarezzato quelle ali che paiono pezzi di cielo strappati al creato e trascinati giù, sulla Terra. Non ci crederai, ma sanno essere più umani di noi. Sorridono, scherzano, vivono come se non vi fosse un domani. Pensa che un solo cucciolo di drago ha saputo trovare in se stesso una forza incredibile, che nessun uomo esporrebbe. Ha perso i genitori, il futuro, il suo stesso popolo… ma continua a sorridere, è stato il primo ad avvicinarmi e dopotutto, gli voglio bene come se fosse figlio mio. Per non parlare poi di tutti gli altri! Irene, con la sua sconsideratezza, ha voluto aiutarmi per amor della sua gente, perché in me aveva visto quel barlume di speranza che ha sempre cercato. Mycroft e Anthea, eleganti, freddi, ma difensori, hanno voluto accettarmi e trattarmi come un loro pari. E poi… poi c’è Sherlock.-
John chiude gli occhi, altre lacrime scorrono lungo le guance, giù fino al sorriso sereno di ricordi che gli stiracchia le labbra.
-Era così bello, Philip. Fu la prima cosa che gli dissi, quando lo conobbi. Tutta la bellezza della luna e delle stelle si rifletteva sul suo viso e le sue ali… oh, le sue ali! Erano talmente grandi da poter abbracciare il mondo intero non per soffocarlo, ma per proteggerlo. Questo lo lessi nei suoi occhi la prima volta che lo conobbi, e fu per questo che lo protessi. Sherlock era un difensore, un pacifico. Era il punto luce nel quale quella speranza nascosta aveva sempre scelto di nascondersi. Lo vidi allora, e lo so adesso. Muoio quindi per quegli stessi ideali, Philip. Muoio perché alla gente sia data quel piccolo barlume di domani che Sherlock ha saputo regalarmi ogni giorno, col suo immenso cuore di drago.-
Anderson non sa quanto tempo sia passato da quando, ancora bambino, perse sua madre. Ricorda la sua voce, ricorda il suo abbraccio… e ricorda di lei quella stessa speranza che ha sempre cercato, quella speranza che adesso, traspira viva dalle parole di John. Adesso capisce perché Sally teme Hound fino al punto di condannarlo a morte. Sa usare le parole più delle armi, e questa è una cosa rara.
Una lacrima scivola lungo il viso di Anderson, gli ricorda che è vivo, umano. L’aveva dimenticato. Da quanto tempo non piangeva?
Allora, dinanzi alla grandezza della speranza, della serenità e dell’umana pietà, la violenza si piega per la prima volta.
Philip Anderson affianca John, gli passa un braccio intorno alla vita e con dolcezza, lo aiuta a raddrizzarsi. Camminano fianco a fianco, come amici e compagni di vissute battaglie. Nessuna guardia, nessun prigioniero. Anderson sa che quel gesto potrebbe fruttargli il licenziamento, ma per una volta vuole essere giusto, vuole sentirsi pulito.
-Non è finita, John. C’è gente che in te ci crede davvero.-
John non risponde, è troppo stanco per aprir bocca. Mantiene il capo levato, ed è già uno sforzo enorme per lui.
Attraversano le strade deserte, dove la gente non s’azzarda più a camminare. È come percorrere un sentiero di fantasmi, dove soltanto spiriti invisibili muovono passi su una terra ormai sterile di sangue e aridità. Sono diretti… dove?
All’orizzonte si staglia un ammasso di ferraglia alto almeno venti metri e abbastanza massiccio da lasciare intendere che per costruirlo, è servito gran parte del ferro prodotto fino a quel momento. È  una gabbia, un intrecciarsi di fili spessi come nerborute braccia umane.
E lì, intorno a quella stessa recinzione abbastanza grande da stendersi a vista d’occhio, si ammassa l’intera città. Donne, uomini, bambini e anziani. Tutti in silenzio, tutti mortalmente uguali nel loro pallore, nelle loro labbra serrate, negli occhi spalancati di paura e aspettativa.
L’uomo è una bestia violenta. L’uomo gli spettacoli di sangue li adora, in passato così come nel presente, ma c’è qualcosa di diverso adesso.
La gente non incita, non urla, non si dimena come pubblico euforico e bramoso di violenza. Al contrario, ognuno sta in silenzio e al passaggio di John, chi ancora può farlo china il capo o quasi s’inginocchia. È come attraversare un corridoio di persone in vesti di re, ed è strano, sorprendente.
Silenzio. Nessuno giudica, nessuno gli urla contro come si aspettava John. Accade tutto nel rispetto, nella pace e nell’angoscia di veder morire una persona. Forse, l’uomo non ha veramente dimenticato la sua umanità.
-Fermi!-
Mrs Hudson urla tra la folla, si dimena tra le braccia nerborute di un soldato particolarmente irritato da tanta insistenza. L’anziana signora ha gli occhi sbarrati, la vestaglia stropicciata e i capelli sottosopra, ma non si cura di darsi una sistemata. Al contrario, urla più forte, chiama John, singhiozza come madre che guarda il figlio salire sul patibolo.
Al suo fianco, Molly, Mike e Greg non parlano, ma piangono in silenzio. La prima singhiozza sulla spalla di Mike, che la stringe come unica ancora di salvezza, mentre Greg ha lo sguardo basso, mortificato, che implorante chiede scusa al mondo per aver sbagliato una volta di troppo e aver fatto condannare a morte un innocente. Il suo distintivo da ispettore non c’è più.
Raggiungono il cancello, dove Donovan sorride compiaciuta.
-Benvenuto al capolinea, Hound.-
Lo afferra per il maglione, spinge forte verso il cancello aperto finché John non si accascia sull’erba bruciata, stanco e ferito.
-E adesso, saluta i tuoi migliori amici, figlio di puttana.-
Un ruggito, il crepitare di fiamme cocenti sulle loro teste. La gente urla, si ritrae, ma non fugge. Non ha motivo di farlo.
Secoli trascorsi a cercare di uccidere o catturare i draghi, e adesso eccone uno quasi adolescente, alto quasi cinque metri, dalla testa triangolare e il muso schiacciato. Ha scaglie color del fango, lucenti tuttavia come pietre preziose sotto il sole pomeridiano che brucia la pelle e irrita gli occhi.
John lo guarda in viso, osserva gli occhi d’ambra che appaiono sbarrati, vibranti d’orrore e paura folle mentre zampe, coda, ali e collo fanno crepitare ad ogni movimento le catene avvinghiate agli arti più pericolosi. Catene forti, aggressive, che stringono pelle e scaglie fino a inciderle di sangue argentato. John le guarda con odio, pensa a Noah, così piccolo e innocente: potrebbe esserci lui, al posto di quel cucciolo.
-Fermo.- dice John, avanzando cautamente verso il drago. Vede le sue ali vibrare ingabbiate, le corna ricurve splendere coriacee alla luce del sole. Sa che da un momento all’altro il drago potrebbe far scattare la testa e inghiottirlo. Cucciolo sì, ma abbastanza grosso da annientarlo con un colpo solo.
-Sono tuo amico. Non ti faccio niente… sono disarmato.-
Il drago lo fissa, pare capirlo. John allora ripercorre la via dei ricordi, torna indietro, laddove una splendida Furia Buia gli insegnava la pazienza, la speranza, la vita.
Allora, John ricorda.
“Uno strattone, e il mondo si capovolge. John si trova appeso a testa in giù, le braccia penzoloni, il bastone abbandonato al suolo, accanto alla busta. Una coda massiccia, irta di aculei sul dorso, gli avvolge caviglia e polpaccio, tenendolo sollevato senza sforzo.”
John sorride, lentamente avanza ancora verso il drago finché non vede in lui maggiore diffidenza. Lo osserva ritrarsi, schiacciarsi contro la grata senza azzardare attacchi. Forse capisce, forse aspetta il momento giusto.
“È diffidente, la bestia si chiede se fidarsi. Così, John fa l’unica cosa che sente sia giusto fare: si siede. Con un gemito di dolore, incrocia le gambe e resta immobile.”
John si siede, sorride al drago come sorriderebbe a un vecchio amico. Poi, comincia a parlare di se stesso, della sua storia, dei suoi momenti passati con Sherlock, Noah, Molly, Irene e tutti gli altri. Sono ricordi d’oro, lontani e bellissimi. Gli danno sicurezza perché fungono da scudo, da riparo sicuro anche dinanzi alla morte che da un momento all’altro potrebbe calare.
C’è silenzio, la gente ascolta, ma a John non interessa. Dopotutto, lui non è più lì: sta volando lontano, su possenti ali di Furia Buia, fino a raggiungere una spiaggia dove si azzarda a baciare la splendida creatura alata. Ripercorre sereno il dolore dei momenti che hanno seguito quel gesto azzardato, ma adesso che Sherlock non c’è più, anche quegli istanti appaiono sereni e bellissimi. Anche allora, John sapeva che da qualche parte nel mondo, il cielo si riempiva di splendide, possenti ali d’oscura aurora boreale. Allora, Sherlock respirava, e a John andava bene così.
Il drago ascolta, e con lui lo fanno anche le persone. Poco a poco, la creatura alata china il capo, accosta il muso a John. Forse è per mangiarlo, forse per sputargli in faccia un inferno di fuoco e lava bollenti, ma l’umano non ha paura.
Lui e la morte sono vecchi amici, ormai.
Prossimo passo. Altre memorie.
“ -Non guardarlo negli occhi, tesoro. Non si fidano se lo fai. Dagli fiducia e aspetta-. Così, John chiude gli occhi, china il capo e lo volta dall’altra parte.”
La mano è tesa, le palpebre calate. John aspetta, respira, non si muove. Ha tutta una vita per aspettare, ha tutta una vita per provare a liberare quel figlio del cielo. È soltanto un cucciolo, non merita di stare lì: cosa ne sanno i bambini della violenza? Quella guerra non li riguarda.
Poco a poco, il respiro del drago si fa più vicino, più insistente. John sente il fiato bollente sul corpo, e si bea di quella sensazione così bella, così familiare. È come avvicinarsi nuovamente a Sherlock, è come riscoprire quei momenti passati con lui. I draghi non sono cattivi, adesso la gente può vederlo.
Poi, l’inferno.
Sally estrae la pistola, con freddezza spara un colpo ben mirato al petto del drago. Il proiettile rimbalza, cade a terra inutilizzabile, ma ormai il danno è fatto. John riapre gli occhi per incontrare quelli sbarrati di terrore del drago. L’innesco di gelida furia scatta, le mascelle poderose schioccano a pochi millimetri dal braccio di John.
Una coda massiccia e irta di scaglie si infrange contro il suo petto, mozzandogli il fiato e scagliandolo in aria. Quando atterra, John tossisce, sputa sangue, e tutto intorno a lui, come viste attraverso un caleidoscopio, esplodono macchie bianche e nere.
La gente urla, indietreggia mentre il drago solleva il capo ed esplode una furiosa vampa di fuoco che incendia l’aria e poco a poco comincia a fondere il ferro sopra le loro teste. Se il drago esce, sarà una carneficina.
-No!- urla John. Si rialza faticosamente in piedi e con le sue ultime forze scatta verso il drago, diretto alle catene. Deve incastrarle da qualche parte per sottrarre libertà di movimento alla creatura.
John scatta, evita per puro miracolo un colpo d’artigli abbastanza massiccio da poterlo frantumare in migliaia di pezzi.
-John!-
Molly, Greg, Mrs Hudson e Mike entrano nella gabbia, spintonando via i fuggiaschi impazziti. L’ex ispettore impugna una pistola che non esita a puntare verso il muso del drago. Quello si volta, fissa allucinato la canna dell’arma e fa scattare il capo verso Greg, verso gli amici e famiglia di John.
-NO!!!-
Uno scintillio, il brillare di paradiso caduto in terra così velocemente da oltrepassare la sveltezza di qualsiasi cometa. La gabbia si sfonda, cede morbida allo schianto possente d’ali massicce, abbastanza forti da poter sorreggere il mondo e abbastanza ampie da poterlo abbracciare. Un corpo piccolo ma veloce si abbatte sul muso del drago, schiacciandogli il muso a terra col tallone nudo di un'unica zampa artigliata. Lo schianto è talmente violento da affondare di diversi metri l’intero cranio dell’animale nel terreno inaridito, lasciando al centro dell’arena un buco massiccio e ancora fumante.
Ali d’oscuro arcobaleno si spalancano, piantano senza sforzo le punte acuminate di ogni osso nelle inferriate e, sbattendo un’unica volta, le tranciano in due identiche metà.
A John pare un sogno, o forse è addirittura un’allucinazione. Lui non può essere lì. Lui non può essere… sopravvissuto a tanto. Eppure…
Corna ad anelli, massicce e ondulate.
Capelli corvini, ricci, neri come piume di corvo.
Cappotto lungo, mosso dal vento come oscura propaggine di mantello.
Infine, gli occhi. Bassi sul drago ancora infossato nel terreno, limpidi d’intelligenza e giustizia implacabile.
John quegli occhi li conosce talmente bene da poterli riconoscere da cieco, semplicemente toccandoli una volta e con la punta dell’indice. Sono parte di quel pezzo d’anima che lentamente scivola al suo posto, sono parte di quel cuore che poco a poco ritrova pace, battito, serenità. Quegli occhi sono luce. Quegli occhi sono mondo e colori.
Sherlock Holmes stiracchia le ali, le distende tanto da coprire il cielo di tutto Regent’s Park e improvvisamente, John si trova in paradiso, al cospetto di lucente aurora boreale e serenità ritrovata. Finalmente, può respirare di nuovo, avere fame, sete, sonno. La vita ricomincia da lì.
Sherlock s’inginocchia e afferra il cucciolo di drago per la nuca. Senza sforzo, gli solleva il capo ancora oscillante di stordimento e lo scuote, risvegliandolo.
Il drago sbatte le palpebre, fissa quella creaturina grande appena quanto il suo muso ma abbastanza forte da poterlo atterrare e risollevare dalla terra con una sola mano artigliata. Si guardano, parlano con gli occhi, silenziosi come solo splendide creature ultraterrene sanno essere. Alla fine, si capiscono, si accettano, e il cucciolo si quieta.
Sherlock lo lascia andare, con passo elegante raggiunge le catene e a una ad una, sotto gli occhi beati di John e quelli stupiti degli altri presenti, spezza le catene a colpi d’artigli, senza mai fermarsi, senza mai distogliere l’attenzione dal suo obbiettivo. È cauto, preciso, al punto da non scalfire nemmeno le scaglie del cucciolo immobile, fiducioso.
Concluso il lavoro, Sherlock si raddrizza e guarda in viso il drago, si specchia in uno dei suoi giganteschi occhi d’ambra.
-Torna a casa.- dice soltanto, e quella voce fa sospirare John, ricopre di invisibile balsamo le sue membra, il suo corpo provato, ferito, esausto ma infine rinato dalle ceneri come araba fenice.
Non avverte più la fatica, il dolore sparisce all’istante quando due gelidi occhi di cristallo lo fissano, vibrando di arcane emozioni nascoste. John freme, stringe i pugni e il mondo sparisce dinanzi a quegli occhi così belli, così vicini… così umani.
-John.-
John non crede ai suoi occhi quando Sherlock allarga seppur appena le braccia, aspettando immobile che il vuoto sia colmato. Arriccia appena un angolo delle labbra, appare sereno e bellissimo come angelo consolatore infine giunto a salvarlo dall’inferno.
John scatta, la stanchezza non c’è più: i piedi volano sull’asfalto, il sorriso sboccia come rosa preziosa sulle sue labbra, le braccia si allargano e con naturalezza, ritrovano il loro posto nel mondo. Lì, intorno a quella vita stretta e forte, morbida di pelle e dura di scaglie impenetrabili.
Il corpo di John preme contro quello di Sherlock, si incastra semplice e veloce con quegli arti tanto amati, tanto sognati, tanto implorati. Il viso dell’umano scivola sulla ferita bendata da chissà quale dio misericordioso, la bacia con dolcezza, vi appoggia la fronte senza abbandonarvela per non pesargli troppo. 
John inspira quel profumo, tocca quelle scaglie, accarezza quella pelle. Risale le dita tremanti d’emozione verso l’alto, lungo la spina dorsale, su fino alla nuca e ai capelli morbidi di sogno. Poi, singhiozza. Libera il dolore, la paura, il senso d’assenza e abbandono provati. Non ha mai pianto così, non ha mai pianto davvero in vita sua. La guerra insegna ai bambini che le lacrime non servono ma adesso, John piange di un pianto felice, liberatorio, che intreccia lacrime e sorrisi, passato e presente, fino a spalancare le porte di un ipotetico, radioso futuro.
-Se… sei in ritardo.- mormora tra i singhiozzi, e sente di aver detto la verità. È rimasto solo troppo a lungo, tanto da rischiare il soffocamento. Alla fine però, l’aria è tornata, ed è pulita, profumata di casa e vita.
Incredibilmente, Sherlock Holmes solleva le braccia, accoglie John con dolcezza, lo stringe a sé come tesoro prezioso di fragile cristallo. Il suo Mind Palace non trema più, adesso che sua madre lo aiuta a sostenerlo. Sherlock la sente camminare per i corridoi, spalancare paziente le porte giuste e quelle necessarie. È sempre stata madre, e lo sarà anche lì, nella testa del figlio.
“Sii sereno, figlio mio. Non sempre la logica sa spiegare ciò che accade, ma se qualcosa ti fa sentire bene, impara ad accettarla e basta”.
Per una volta, Sherlock non ha motivo di replicare. Finalmente, abbracciato al suo John, ritrova il suo posto nel mondo, si sente bene e felice. Inspira il suo profumo, vive del suo tocco e della sua voce. È tornato a casa.
-Sono stato trattenuto.-
John ride tra le lacrime, si allontana appena da lui  per guardarlo in viso. Non lo ricordava così bello ma, dopotutto, non ha di che stupirsi. Quello è il suo angelo.
-Puoi sempre rimediare.-
Sherlock lo guarda senza capire, disarmato dinanzi a qualsiasi allusione come soltanto lui sa essere. Corruccia le sopracciglia, si domanda cosa intenda dire John con quelle parole. Rimediare? Non può certo tornare indietro nel tempo.
-John, che stai…-
-Chiudi quel muso da rettile, per una volta. E dannazione, baciami.-
Sherlock non ha il tempo per replicare, ma ci prova lo stesso: ha appena schiuso le labbra quando John, con forza umana, viva, felice, lo attira a sé strattonandolo per il colletto del cappotto.
Le labbra coincidono, ogni pezzo scivola al suo posto. Chiudono gli occhi, John e Sherlock, e lentamente, schiudono insieme le porte del paradiso.
Con dolcezza, l’umano fa scivolare la lingua sulle labbra di Sherlock, attendendo paziente che i suoi tempi reagiscano, che si rivelino maturi. Intanto, assapora quelle labbra dal gusto speziato, le mordicchia finché Sherlock non le schiude con un piccolo ringhio animale che spinge John ad aderire maggiormente il corpo al suo. Lo stringe forte, fa danzare le loro lingue mentre sottili volute di fumo argentato che sa di vaniglia e spezie esotiche sgusciano da una bocca all’altra, calde e morbide di carezze gentili.
Le mani di Sherlock si risvegliano, salgono ad incorniciare il viso di John con dolcezza inaspettata. Gli artigli poggiano delicati su pelle morbida d’umano innamorato, che a quel tocco sorride tra lacrime che ancora piovono dagli occhi, incastrandosi tra le dita di Sherlock.
Siglano allora un patto silenzioso di saliva, fumo argentato e lacrime adamantine. Eliminano il mondo, riscoprono la grandezza di quell’amore che adesso anziché pesare, innalza entrambi verso il cielo, oltre l’universo, tra stelle, sole e luna.
Si separano appena per riprendere fiato e il drago fa scivolare le labbra su ogni lacrima d’umido cristallo, cancellandone la scia senza paura, senza fatica mentre John solleva una mano per stringere meravigliato una delle due corna ad anelli. Si sorprende di quel miracolo, si sorprende delle dita di Sherlock che scendono giù, lungo il suo collo, oltre le clavicole, fino alla vita. Lì le mani si appoggiano con dolcezza, assaporano quel piccolo brandello di pelle tiepida che il maglione ha lasciato scoperto stropicciandosi.
Infine, le ali si muovono. Come immense ombre cristalline, si ripiegano intorno a loro, chiudendoli in un bozzolo sicuro di seta e cielo stellato.
-Guarda in alto.- mormora Sherlock, e John ubbidisce senza abbandonare il sorriso.
Sulle loro teste, il creato intero pare dar spettacolo di sé. Per un attimo, John pensa che si sia fatta improvvisamente notte, ma nemmeno nei suoi sogni più sereni ha mai visto un cielo così bello. No, quello non è il cielo. Quelle sono le ali di Sherlock, e adesso che John le vede da vicino, capisce che non è mai stata soltanto sua sensazione quella di aurora boreale notturna che ha sempre visto danzare su ogni vela di luminosa membrana alare.
Quello che li ha abbracciati, è puro sogno. Brilla di stelle lucenti e colori morbidi che cambiano, mutano, si reinventano ad ogni più piccolo movimento di quelle ali dipinte da Dio in persona. C’è un cielo vero, vivo su quelle ali, e John non se n’è mai accorto davvero.
-Co… cosa…-
Abbassa gli occhi su Sherlock, e lo vede sorridere appena in quel suo modo enigmatico, antico, quasi arrogante. John ha imparato ad amare ogni sfaccettatura di quell’espressione.
-Sono una Furia Buia.- dice soltanto Sherlock, e John allora si fionda nuovamente sulle sue labbra, lo stringe forte, si bea delle braccia del drago che, insieme alla coda, gli circondano il corpo con gentilezza.
È il paradiso, quello. Finalmente sono felici.
Ma forse, il progetto di felicità non ha mai fatto per loro. Forse sfiorarlo è il massimo che gli sia concesso. Questo non lo sanno, ma se lo domandano allora, quando Sherlock improvvisamente richiude le ali con uno schiocco e spinge John con tanta violenza da sbalzarlo lontano, contro la grata distrutta della gabbia.
Una rete d’acciaio crolla dall’alto, migliaia di catene s’avvolgono aggressive intorno al corpo di uno Sherlock muto, silenzioso, che non si ribella.
Il sogno, se mai è esistito, viene infine spezzato.
 
Angolo dell’autrice:
Mi sento immortale. Sono riuscita a scrivere tra un esame e l’altro. Beccati questa, Sheakspeare!!!
Sher: che c’entra lui?
Non lo so, ma è uno scrittore.
Sher: e con questo?
Con questo… ma non avevi da fare, tu? Tieni, ecco una pistola nuova nuova, così puoi tornare a sparare ai muri.
Sher: sparare al muro è noioso…
Anderson: Tomi, perché mi hai chiamato?
Bersaglio mobile. Vai, Sherlock, e tieniti impegnato finché non gli spari almeno a una gamba. Sciò! Qui c’è gente che lavora!
Anderson: cos… aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhhh!
Ehm, torniamo a noi. Dunque, posso giustificare il personaggio di Anderson, almeno con chi ha visto la terza stagione, perciò SPOILER.
Allora, considerato il comportamento di Anderson dopo la morte di Sherlock, ho ritenuto che lui, più di ogni altro (John a parte, s’intende), ha saputo credere nel nostro investigatore. Chiamatelo senso di colpa, ma ai miei occhi è risultato umano, e abbastanza disperato da credere nel miracolo. Credo che, se preso da solo, ossia in assenza di Donovan, sia davvero un bel personaggio.
FINE SPOILER.
Torniamo a noi! Spazio ai ringraziamenti degli splendidi draghetti che non mancano mai di recensire, spingendomi a scrivere ancora!
Sonia_0911: sono felice che ti sia piaciuto il capitolo scorso. Spero di ottenere lo stesso risultato anche con questo. Comunque, ecco svelato il mistero! Sherlock torna direttamente da John, lo salva come al solito, ma… il copione di Dragon Trainer a questo punto fa deviare la storia verso una parte quantomeno oscura. Non li lascerò mai in pace, questi poveri ragazzi. Ahahah! Grazie per il commento, a presto!
Kimi o Aishiteiru: oh, ecco spiegato perché Castiel è saltato in aria. Ha le penne tutte bruciacchiate… e vabbé, problema suo. Da oggi tutti i pacchi li apre lui. È il decimo che arriva oggi, e continua a cascarci quando gli dico di vedere cosa contiene. Povero Babbano! (a chi hai dato del marrano?! Nd Dean)( tu che c’entri? Torna nella tua storia!) Dunque, credo che dopo questa più che pacco bomba, arriverai tu formato kamikaze e mi farai saltare in aria la casa. Non posso farci niente, Dragon Trainer continua così! E prossimamente potrei essere ancora più cattiva. Sì Cas, è la porta. Vai ad aprire… oh, un altro pacco… apri, vediamo che contiene. No, ho le mani impegnate, sto scriv… BOOOOOOOOM!!! Oddio, la mia stanza! Ok, vado a controllare se è rimasto qualche brandello di arcangelo, dall’altra parte. A presto!
Wibbly Wobbly Timey Wimey: il mondo intero vuole massacrare Sherlock. Colpa sua se si è messo nelle mani di un’autrice bastarda. E i nomi… dai una testata alla tastiera e vedi cosa esce scritto su Word. Una volta l’ho fatto, ed è andata bene… togliendo il mal di testa che è seguito, ma ho ottenuto un ottimo risultato. Anyway…  Donovan sta sul piffero un po’ a tutti, ma almeno ho recuperato un po’ Anderson in questa storia… spero. No, Mary non ci sarà perché sarebbe un personaggio in più da gestire, e un ostacolo in più tra John e Sherlock… se continuo così, la storia finirà tra qualche migliaio di capitoli. Quindi, la risposta è noneeee!!! Niente Mary! Detto ciò, ti ringrazio e ti saluto! A presto!
_RockEver_: dovrete preparare un club anti Donovan, visto tutte le maledizioni che le state lanciando… sarei la prima iscritta, comunque. E sì, Sherlock da bambino così come da adulto, ha sempre avuto il mondo contro. Ma adesso non è più solo, e la forza per contrastare la situazione la sta trovando alla grande. Un applauso a John, prego! Grazie per il commento, e a prestissimo!
Bbpeki: mi devi la tua colla di Doctor Who. Tutti vivi… più o meno. Riguardo al torturare… sono dettagli, suvvia! John sta benissimo! (mostra cadavere di John in stato di decomposizione) Visto? Scoppia di salute! Comunque, visto i pacchi bomba che le lettrici mi inviano e che mi hanno devastato la casa… al posto del set puliresti le rovine della mia modesta e ormai quasi inesistente abitazione? Se conosci qualche operaio bravo, mi fai un favore, Moriarty non è tanto utile. Continua a legare dinamite ai giubbotti delle persone, e quelle scappano sempre. Sherlock è traumatizzato da sempre, lo si nota anche nella serie tv. XD Coooomunque, eccoti il disastragico capitolo che come sempre finisce con “e vissero per sempre infelici e massacrati” e ti saluto! Grazie per il commento!

Tomi Dark Angel
 

 

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Capitolo 21
*** Un Segreto Celato Tra Le Fiamme ***


La vita a volte, sa essere davvero meravigliosa. Dipinge d’incanto ogni giorno, ogni momento, ogni respiro, amplificando un banale battito di palpebre al più maestoso dei gesti. Ci si sente grandi, puliti, onnipotenti. È vita, questa.
Poi però, la medaglia gira, ruota a mezz’aria e la parte sporca si rivela, schiaccia di prepotenza la grandezza della sua pulitissima gemella. D’improvviso, la vita si capovolge, raccapriccia ogni suo aspetto, tingendo di film horror un incantesimo di pura magnificenza. È allora che ci si piega in due dal dolore, dalla paura, rannicchiati su se stessi come piccoli insetti in presenza del più possente degli elefanti. Si diventa fragili, tremanti, deboli di grida sofferenti e lacrime versate.
John non ha la forza di urlare, stavolta. Semplicemente osserva, sbarra gli occhi, non si rialza nemmeno dal terreno sul quale si è rovinato dolorosamente, leggero come piuma e ormai fragile di porcellana. I suoni sono attutiti, il mondo pare ripiegarsi su se stesso, lasciando intatto nient’altro che quel corpo prostrato, pesante di catene e reti metalliche le quali, mefitiche, lo inchiodano al terreno.
Gli angeli non si ingabbiano. Gli angeli appartengono al cielo.
Ma l’uomo non rispetta nulla, neanche le meraviglie più lucenti dell’universo. Le uncina dolorosamente, le trascina giù senza pietà, senza curarsi di danneggiare di dolore ciò che di benefico ha sempre baciato la terra.
Come poteva John credere in qualcosa di buono per l’uomo quando l’unico male inquinante al mondo è l’uomo stesso? Ha voluto guardare oltre, ha voluto darsi una speranza illusionistica che sapeva di bisogno, di luce, di domani. Ha sempre necessitato di qualcosa, di un barlume di pace, e ha scelto di riporre fiducia in ciò che di malato ha saputo devastare il mondo.
L’uomo vero è già morto da tempo, e ai morti non si danno speranze.
Sherlock artiglia il terreno, serra le labbra per trattenere la sfera di oscura materia fulminante che rischia di esplodergli dalle labbra. John le vede sanguinare, ricoprirsi di tagli profondi ad ogni piccola scintilla che fuoriesce, scottandogli la pelle. Eppure, Sherlock insiste, si trattiene, non reagisce.
E allora, John esplode al posto suo.
-REAGISCI!!! COMBATTI, SHERLOCK!!!- urla devastato mentre le persone attorniano la Furia Buia, inchiodandolo al terreno con uncini e nuove catene. Sherlock si schiaccia al suolo, freme di dolore ad ogni peso che gli scaricano sulla spalla ferita, ma non emette un suono. Semplicemente, si volta, guarda John.
-Perché?- esala l’umano, tendendo una mano tremante verso di lui.
È allora che Sherlock sorride sbilenco, con la sua magnifica arroganza, col suo ammiccare lucente d’occhi cristallini. Sanguina, ha i capelli scompigliati e le labbra coperte di tagli, ma non riesce ad apparire meno bello di una divinità ultraterrena. John li vede nei suoi occhi, i momenti vissuti insieme.
Guarda quella coda immobile, incatenata al suolo, e ricorda tutte le volte che gli ha avvolto le caviglie, capovolgendolo a mezz’aria senza sforzo.
Guarda quelle corna ricoperte di corde e uncini, e ricorda quando si sono incastrate nel muro della sua stanza, bloccando Sherlock sul letto. John ha riso tanto, in quel frangente… si è sentito felice.
Guarda allora quelle mani, quel viso, quelle scaglie. Li ha toccati, li ha riscoperti, per brevi istanti li ha sentiti suoi. Poi, l’uomo ha calato su di loro la sua ombra malata, ferita di rabbia e odio represso, e tutto s’è frantumato.
L’uomo non merita pace. L’uomo non merita pietà.
-Perché…?-
Da sotto l’ammasso imponente di catene e calci che violenti cominciano a piovere sul suo corpo, Sherlock tende una mano artigliata verso di lui. Sorride ancora, fiducioso di una forza che non interverrà in suo aiuto, ma grande di una serenità intoccabile, che rivede finalmente un John sano e salvo.
Gli basta uno sguardo, un battito unisono di cuori così simili, così vicini, per lasciare che John capisca. Sherlock non combatterà. Ha tutta la forza per spaccare quelle catene, rimuovere quegli uncini, esplodere l’intera arena, ma non muoverà una zampa. Quello è il popolo del suo John. Quelle sono persone vive, figlie di una guerra cominciata secoli addietro. Forse, non tutte le colpe appartengono a loro. Forse, quelli sono soltanto colpevoli innocenti.
“Me l’hai insegnato tu”, dicono gli occhi di Sherlock, e John vorrebbe non averlo fatto. Se solo avesse lasciato al cielo la sua stella, adesso questa non sarebbe inchiodata a terra, circondata di misero marciume.
-Vi prego…- mormora impotente, troppo debole per reagire, ma nessuno lo ascolta. Poi, improvvisamente, la mano tesa di Sherlock si ricopre di guizzi luminosi, velocissimi come lingue di serpente. Poco a poco, quei fasci luminosi si materializzano, si solidificano nella loro essenza di fiamma oscura, intrisa di lingue bluastre e fumo argentato. S’avvolgono sinuose intorno a dita sottili di giovane re, s’inerpicano fino al polso, distendono le propaggini di fiamma verso John, bisognose come una richiesta di aiuto.
Sherlock soffia forte, agita appena la mano come per scrollarsi il fuoco di dosso… ed effettivamente, così accade. Le fiamme si rannicchiano in un’unica sfera infuocata, danzano maestose intorno a un concentrato fluttuante di nero e azzurro.
Sherlock lascia che cada per terra prima di schiacciare il suo operato con una mano artigliata. Mormora qualcosa, una preghiera forse, prima di abbandonare il capo al suolo e rovesciarsi su un lato. Chiude gli occhi, ma continua a sussurrare rivolto al cielo, al mondo.
-Prendete Watson!- grida Donovan con gli occhi fuori dalle orbite e il viso traboccante di graffi.
John indietreggia, ma non osa scappare. Sherlock è lì, e questo Donovan lo sa. Ha capito che senza il suo drago, John non vorrà allontanarsi.
È indifeso, debole, fragile di dolore. Guarda impotente alcuni soldati corrergli incontro ad armi spianate, i volti stravolti di rabbia e confusione. John non scappa, non ci riesce. Ha appena la forza per rialzarsi, ma i suoi occhi sono puntati su Sherlock, ormai immobile al suolo, ricoperto di catene e reti di ferro. Non si rialzerà per ora.
Poi d’improvviso, accade il miracolo.
Si ode uno scatto, il rumore dell’ultimo filo metallico che cede, e il pezzo di arena rimasto in piedi crolla tra John e i soldati, abbattendosi al terreno con tanta violenza da sollevare un imponente ondata di polvere nerastra.
-Watson, vada via!- urla qualcuno, e voltandosi, John vede una folla di persone gettarsi a capofitto nella mischia, frapponendosi tra lui e le forze armate. Uomini, donne, bambini, anziani. Tutti schierati, tutti pronti al sacrificio, al mondo che quel bizzarro scrittore di blog ha saputo promettere. Ognuno di loro spera, prega, lotta, ma nessuno si piega. Spalancano tutti le braccia, fieri come leoni, fermi come pilastri inamovibili. E si schierano dalla sua parte, soltanto per difendere l’unica speranza che forse ha la capacità di riportare indietro la vita, quella vera.
-Vada.- mormora qualcuno al suo fianco, e allora Philip Anderson lo affianca, rudemente gli urta una spalla per oltrepassarlo a testa alta. Non dice altro, non lo guarda, ma sorride. Ha in mano una pistola, e la userà per difendere la sua gente secondo i suoi ideali, secondo l’unico motivo che l’ha spinto ad essere lì.
Lui è un guerriero della pace, ma l’aveva dimenticato.
Lui è protettore e guardiano degli innocenti, e adesso lo ricorda.
La vita può riscattarsi, se qualcuno sa accoglierla e combattere per riaverla indietro. C’è speranza, c’è un domani se si impara a lottare per la pace e non per la violenza. Anderson adesso sa, e per questo si ritorce violento contro i suoi stessi compagni d’arme. Sarà affianco al suo popolo fino alla fine, ma lo proteggerà come ha sempre sognato di fare. Il suo posto è quello.
Sherlock socchiude gli occhi, quasi per caso li posa annebbiati sul viso di Anderson. Si squadrano con sospetto, si studiano. Poi, il cervello di Sherlock fa ciò che ha sempre fatto, e deducendo, studiando, memorizzando, capisce che entrambi appartengono alla stessa fazione. Non lotterà accanto a quel banale, fragile umano. Non gli piace. Però, Anderson difende John, e per questo, Sherlock può aiutarlo.
Un’ombra oscura il cielo mentre Mrs Hudson, Molly, Greg e Mike si stringono a John.
Grandi ali violette si distendono, stiracchiano fiere muscoli e tendini d’acciaio.
-Adesso!- urla Anderson, ed è allora che la folla carica i militari, li fronteggia senza paura, senza esitazioni. Ognuno lotta, ognuno si trasforma in arma per la pace.
È proprio quando i militari spianano le armi per sparare su innocenti che Sherlock fa la sua mossa: pianta le unghie nel terreno, sbuffa dalle narici e finalmente, risveglia ogni arto assopito.
Le ali si stiracchiano, sollevando senza sforzo il mare incessante di catene, reti e calcinacci. Gonfiandosi di possente splendore, le ali oscurano il cielo, ricoprono di mefitici avvertimenti i militari che d’improvviso, si voltano. Hanno appena il tempo di alzare gli occhi al cielo, quando Sherlock scrolla le ali e con un unico battito, rovescia sugli uomini ogni catena, ogni rete, ogni uncino. Li stordisce, li guarda accasciarsi e urlare mentre la marea montante di gente li coglie alle spalle, abbattendoli senza ucciderli. È Anderson a guidare la carica, è lui a difendere i suoi uomini da chiunque cerchi d’impugnar arma contro di loro. Non uccide mai, ma i suoi colpi precisi di proiettili fanno in modo che i suoi avversari non possano mai più sorreggere una pistola.
Intanto dal cielo piove un’ombra violetta, trascinando con sé le forze impetuose del vento che, ad ogni battito d’ali, spazzano via detriti, persone, erba bruciata. Noah s’accosta al suolo, sbatte le ali furiosamente per non atterrare definitivamente e stringere tra le zampe anteriori Mrs Hudson e Mike. Poi, ignorando gli altri, risale in veloci spirali. Non guarda John, ignora Sherlock: semplicemente, svolge il suo compito e si innalza al cielo, stringendo i fragili corpi di due persone urlanti di terrore che tuttavia non osano dimenarsi.
Noah sale ancora, poi si allontana senza voltarsi indietro, ma è in quel momento che dal nulla emergono altri due draghi, sfondando le nubi con masse gigantesche di rettili maestosi, padroni del cielo.
John riconosce subito le scaglie vermiglie di Irene, ma rivolge l’attenzione alla bestia che la affianca: massiccia, con gigantesche corna ricurve e squame di bronzo. È grande il quintuplo di Irene, e John crede di non aver mai visto una bestia così grossa, dopo quella che ha quasi ammazzato Sherlock.
Quel drago, i cui occhi serpentini rispecchiano chiari un colore indistinto, abbraccia l’intera Londra semplicemente stiracchiando le ali sottili, traslucide, ma possenti come un’eruzione vulcanica.
John non conosce quel drago, ma gli è familiare.
Indietreggia, cade di schiena e resta immobile mentre Irene cala su di lui e lo stringe delicata tra gli artigli, afferrando anche una Molly urlante e forse prossima a vomitare. Una volta risalita, l’altro drago cala semplicemente ripiegando appena le ali che, ad ogni piccolo movimento, spazzano vie intere aree della città. La sua zampa è grande quanto tutta l’arena, ma appare delicata quando, con estrema precisione, avvolge Lestrade con gli artigli, strappando insieme a lui anche una zolla di terra.
Sbatte le ali una volta, e metà della città vibra come scossa da una bufera improvvisa, violentissima, che spazza via alberi e persone.
Solo Sherlock Holmes torna ad accasciarsi al suolo esausto, con la ferita alla spalla che di nuovo sanguina. Respira piano, con serenità. John è al sicuro, adesso. Va tutto bene.
 
Non ha la forza di agitarsi, John. È stanco, abbandonato, come marionetta senza più fili. Non si bea della carezza del vento sulla pelle, del respiro lento e armonioso dei draghi che come scudo lo attorniano, volando pacifici e senza fretta verso l’unica meta disponibile: casa Holmes.
Quando atterrano, le creature mantengono le ali spalancate, ferme per contrastare il vento e mantenere l’equilibrio mentre depositano gentili i piccoli corpi umani al suolo.
John sente l’erba fresca di rugiada accarezzargli la guancia e le mani. È così diversa dalla terra bruciata che popola Londra. Quelle piante respirano, vivono e, nonostante siano circondate da draghi sputafuoco, non riportano il minimo segno di annerimento.
John respira piano, resta immobile finché mani gentili non lo afferrano delicatamente per le braccia e lo tirano a sedere.
-John caro… stai bene?- dice Mrs Hudson, studiandolo da vicino per cogliere il più basso segno di instabilità. Gli posa le mani sulle guance, gli accarezza le guance coi pollici callosi da donna anziana, matura. Mani da madre.
-John…- mormora Molly, inginocchiandosi al suo fianco. Lo stringe tra le braccia, e allora John cede: serra forte gli occhi e piange, singhiozzando contro i seni della sua più cara amica.
Ha toccato la felicità, l’ha abbracciata per qualche istante. Poi gliel’hanno portata via, hanno soffocato quanto di bello aveva rischiarato la sua oscurità. E nuovamente, John si sente lacerato, fatto a pezzi, senza più anima. Piange per se stesso, per Sherlock, per la disperazione che padrona dilaga nel mondo, negli animi di chi la accoglie pur dimenticando la speranza. Ha guardato l’uomo lottare, ribellarsi all’oppressione del buio, ma non è bastato. Senza Sherlock, John si sente inutile. Chi hanno protetto quei civili, esattamente? Una dannata marionetta, un corpo senz’anima? Dovevano liberare Sherlock, dovevano restituirlo al cielo. Almeno, qualcosa di bello e puro il mondo l’avrebbe ancora avuto.
-Signor Watson.-
Quella voce, John la conosce bene. Solleva gli occhi, incrocia quelli inespressivi di Mycroft, le cui ali ancora non si ritraggono nel corpo. Stringe tra le mani il suo fedele ombrello scuro e alle sue spalle, in tutta la sua bellezza, Anthea sta immobile, silenziosa come ombra guardiana. John si guarda intorno, ma non vede più draghi nelle vicinanze.
C’è solo Noah, tornato bambino e adesso inginocchiato al suo fianco.
C’è solo Irene, appoggiata all’albero più vicino, splendida nella sua sfacciata nudità.
Ci sono solo Mycroft e Anthea.
John ragiona, ricollega il muso schiacciato del drago di bronzo, i suoi occhi piccoli e inespressivi e le sue ali massicce a Mycroft. Tutto avrebbe pensato, fuorché quello: è stato Mycroft Holmes a salvarlo, ad avere pietà di lui. Ha abbandonato Sherlock al suo destino, gli ha voltato le spalle per l’ennesima volta. Forse per ereditare la sua carica, forse per appropriarsi di un trono che non gli appartiene. Ma l’ha lasciato solo.
-Tu…- ringhia John, alzandosi lentamente in piedi. Stringe i pugni, serra forte i denti per combattere una rabbia incontrollabile, animale, che ad ogni istante cresce, si dilata come veleno nel suo petto.
Avanza di qualche passo, fronteggia Mycroft Holmes con fierezza leonina, ferma, irta di rancore. Sta per levare un unico pugno ben mirato al naso, ma una voce lo ferma.
-Io non lo farei, se fossi in lei.-
Passi misurati , lenti, leggeri come d’elfo fluttuante. La porta di casa Holmes si spalanca lentamente, cigolando con forza per rivelare una figura alta ed elegante d’uomo fatto e finito. È magro, ben piazzato, con spalle larghe e fianchi stretti. Ha capelli lunghi legati in un codino, pelle pallida, occhi intelligenti di piccolo grande genio. John con quello sguardo ci ha avuto a che fare tante e tante di quelle volte da aver perso il conto. Lo ricorda bene, al punto da poterlo dipingere su tela, nonostante le sue scarse capacità da pittore.
Quello sguardo ha incarnato spesso la sua unica ragione di vita. Quello sguardo ha respirato attraverso i suoi sogni più beati, dove splendida Furia Buia ha saputo estrapolarlo dalle ombre per restituirlo alla luce.
John non può credere a ciò che sta per dire, ma c’è una sola creatura ancora in vita degna di possedere quello sguardo.
-Lei è… il padre di Sherlock?- domanda con voce appena insicura, e l’uomo sorride. Ha piccole rughe intorno agli occhi, ma anche quelle riescono ad apparire affascinanti. Avanza lentamente, muovendosi come un gatto, silenzioso ed elegante, quasi danzando nel suo incedere regale, da re.
Re.
È questo pensiero a scatenare in John delle domande. Dovrebbe inchinarsi? Che appellativo utilizzano i draghi riferendosi ai rispettivi sovrani?
Quasi cogliendo le sue insicurezze, Edarion Holmes solleva una mano per porre un freno alla confusione di John. Si fa da parte, lasciando libero accesso a casa propria.
Gli altri umani presenti, guardano John e chiedono conferme, permessi, sicurezza. Infondo, l’ex soldato può capirli almeno un po’: escludendo Molly, per gli altri è tutto nuovo. L’ambiente, i draghi, il mondo intero. Dopo una vita trascorsa a barricarsi tra le mura grigie della città, Greg e gli altri scoprono qualcos’altro, una terra nuova che sa ancora di vita, di luce e colori. Infine, i draghi tanto temuti, tanto reputati così simili a bestie e così poco umani, li salvano, parlano la loro lingua, palpitano di umanità.
-Dio mio…- mormora Mike, e la sua è forse la reazione più fredda che si possa avere. Al suo fianco, Mrs Hudson scoppia in lacrime e abbraccia forte Greg, che a stento trattiene il pianto. Solo Molly sorride timidamente, pur mantenendo gli occhi bassi così come ha sempre fatto.
È una vita riscoperta, quella. Adesso, tutti loro sanno che da qualche parte, oltre il nero della guerra, esiste la luce pacifica, serena, viva di palpitazioni all’apparenza quasi utopiche. Il mondo respira ancora, e loro lo scoprono dopo anni di sofferenze, lotte intestine e perdite immotivate.
-John… è questo che…- mormora Greg, e John sorride esausto. Gli poggia una mano sulla spalla, lo abbraccia forte, fedele d’amicizia così come è sempre stato.
Greg l’ha coperto fino all’ultimo, e a causa sua ha perso il lavoro.
Greg l’ha aiutato a crescere, a diventare un soldato vero, di quelli che combattono per la pace.
-Grazie… amico mio.- mormora John, ed è sincero, Greg lo sente. Si aggrappa al maglione dell’altro, soffoca i singhiozzi contro la stoffa. Piange per una vita sbocciata tra violenze e battaglie senza volto, senza motivo. Piange per tutti i giovani decaduti, per gli anziani sofferenti, per le famiglie devastate. Gregory Lestrade, piange per il mondo.
-Entrate, non c’è molto tempo.- dice allora Mycroft, e oltrepassandoli entra in casa, seguito dagli altri draghi. Solo Noah si attarda per arrampicarsi in braccio a John, che se lo stringe al petto e gli scompiglia i capelli sbuffando scherzoso dal naso. Noah è un pezzo di famiglia, il figlio che non ha mai avuto. Qualcosa di buono forse, gli è rimasto.
-John, dobbiamo parlare.- dice allora Greg. Ha la voce ferma, ma i suoi occhi non si staccano da Mycroft, intento a raggiungere il salotto con passo felpato. L’ambiente è pacifico, silenzioso, come addormentato. Attende paziente che qualcosa accada, che qualcosa cambi. Forse sarà così, ma John non può fare tutto da solo. Ha bisogno d’aiuto, e il sostegno più valido che abbia mai trovato è lì in quel momento, davanti ai suoi occhi: persone disposte a lottare, a mentire, a schierarsi per una pace reale, tangibile, che l’uomo pareva aver dimenticato.
-Sì, Greg… dobbiamo parlare.-
È allora che John si abbandona, parla liberamente e senza vergogna di come tutto è cominciato. Ricostruisce pazientemente quei momenti vissuti, quella storia all’apparenza così lontana, così irreale. Sembrano passati anni da quando un John diverso e ancora soldato così come lo voleva la società odierna, sparò a una splendida creatura talmente veloce da apparire e sparire in un battito di ciglia. A volte, John pensa che sia stata fortuna, destino forse: un colpo del genere non va a segno con tanta semplicità, non su un bersaglio così veloce. È stata fortuna, quella.
Poco a poco, con l’avanzare della storia, delle realtà più nere che hanno condotto a quel traguardo di pace ricercata, gli amici umani di John cominciano a capire. Poco a poco, le facce di Greg, Mrs Hudson e Mike si sconvolgono, contraendosi di dolore palpabile, reale, soverchiante. Adesso capiscono, adesso sanno di aver buttato via tempo, vite, momenti mai vissuti. Tutto per un malinteso che non li riguarda più da secoli.
Mrs Hudson scoppia in lacrime, non si contiene più: singhiozza forte, quasi urla di dolore per tutte le perdite subite, per tutto il sangue versato. Nessun domani assicurato, nessun barlume di luce. Lei è invecchiata così.
Greg si copre gli occhi con una mano, respira profondamente per mantenere il controllo. –Tutti quegli anni… tutte quelle vite. Dio santo, cosa abbiamo fatto?-
La voce gli trema, il corpo è scosso dai brividi. Capisce adesso i suoi errori, ma allo stesso tempo, comprende ciò che ha protetto. Hound non è mai stato un terrorista: Hound era speranza, e lo è ancora. Finché John vive, la gente crederà nel domani. Alcuni l’hanno ascoltato, hanno reagito difendendolo, proteggendo quell’unico barlume di vita che abbia mai rischiarato Londra da anni. C’è una possibilità, c’è una speranza. Forse.
Guarda Mrs Hudson, incontra gli occhi improvvisamente decisi di Molly e Mike. Gli parlano in silenzio, confermano le sue idee, decidono con lui come unico uomo.
Adesso basta. La guerra di vittime, ne ha già avute tante. Forse è ora che qualcuno tocchi la vita, quella vera. E se sacrificarsi in nome di una causa senza senso è ritenuto giusto, perché non dovrebbe esserlo credere in un’utopia lontanamente realizzabile?
Si raddrizzano tutti insieme, fieri come antichi eroi, decisi come vittime offertisi volontariamente al patibolo. Per i defunti, per i vivi, per chi ancora nel domani ci crede ancora. Si erigono adesso i grandi del presente, forti di convinzioni rinnovate e verità scoperte intorno a un unico fulcro di luce che si scopre in due grandi occhi di umano ex soldato.
-Cosa dobbiamo fare?- dice allora Molly, e la sua voce non potrebbe apparire più ferma di così. Ha il viso alto, la postura eretta, fiera di leonessa. Non si tirerà indietro, qualunque sacrificio richieda il futuro.
-Hai qualcosa nella tasca, John.- risponde invece Mycroft, fissando il diretto interessato con la solita aria di superiorità. John trasale appena, automaticamente appoggia una mano martoriata sulla tasca dei jeans… e la sente calda, quasi bollente. Eppure, la pelle sottostante non risente affatto di quel calore.
Intasca la mano, fruga, ma non trova nulla. Abbassa gli occhi nello stesso istante in cui ritrae il braccio, e subito i suoi occhi si spalancano di meraviglia e timore: si sarebbe aspettato di trovare qualsiasi cosa in tasca. Le chiavi di casa, il cellulare, qualche banconota. Tutto, tranne quello.
La sua mano è avvolta dalle fiamme. Azzurrine, morbide di carezze prima calde e poi tiepide. Guizzano di bagliori argentati, lucenti di riflessi arcobaleno tra lingue nerastre come diamanti oscuri.
John quelle fiamme le conosce bene, le ricorda. Chiude gli occhi, si bea del loro odore e di quel calore così simili a quelli di Sherlock.
Un pezzo d’anima, una scintilla di vita: le Furie Buie non se ne separano mai, così disse Noah. È una cosa personale.
-John…- dice infatti Noah, fissando come incantato le fiamme che gli abbracciano mano e polso. –quello è… insomma…-
-Mio figlio non smetterà mai di sorprendermi.- interviene Edarion. Ha le sopracciglia corrucciate e la bocca stirata in una linea tagliente. –Un pezzo d’anima, la parte più recondita di se stesso… l’ha donata a te. Tra tanti pezzi, tra tanti momenti, ha voluto regalarti questo.-
Tutti lo guardano, nessuno capisce, a parte Mycroft.
-Che… che vuole dire?-
-Non posso spiegarti ciò che non comprendo in prima persona, John. Sappi solo che hai tra le mani qualcosa di prezioso. Se avrai il coraggio di andare fino in fondo, affidati a mio figlio. Altrimenti, serra il pugno e le fiamme spariranno.-
Edarion lo fissa, con occhi intelligenti scava nella sua anima, nei suoi ricordi, nei suoi pensieri.
John tuttavia, non stacca gli occhi da quelle fiamme. Sono bellissime, morbide come seta, eleganti più della ballerina più aggraziata. Eppure, nascondono qualcosa di grosso, qualcosa di importante che Sherlock ha voluto affidare a lui e a lui soltanto. È un regalo, è un pezzo del puzzle. Forse, è ora che anche quello scivoli al suo posto.
-Mi chiede se mi fido di Sherlock, signore?- sorride allora John, alzando finalmente gli occhi dalle fiamme. Incrocia lo sguardo interrogativo di Edarion, la sua espressione corrucciata così simile a quella del figlio.
-Affiderei a Sherlock quanto ho di più caro al mondo. L’anima, il corpo… sono solo oggetti per me. In mano a lui però, sento di poter essere riplasmato. Perciò, egoisticamente forse, ogni più piccola parte di me l’ho posta nelle sue zampe, l’ho sentita rinascere, sbocciare di nuovo. Mi fido di Sherlock? La risposta è sì. E lo urlerei al mondo perché lui è quanto di più importante abbia mai sfiorato in vita mia. La risposta è sì perché semplicemente, io lo amo.-
 
Angolo dell’autrice:
Ritardo. Ancora. E porca miseria. Ok, chiedo venia, ma mia madre mi ha incollata al letto per due sere di fila perché voleva guardare Sherlock in mia compagnia. Valle a mascherare le faccine diaboliche ogni volta che la gente affermava quanto fossero gay Sherlock e John. La fatica del secolo.
Sher: non hai mascherato niente, hai indossato una maschera.
Non è vero!
Sher: non hai esattamente il naso di Alan Rickman, quindi sì.
Ehm… sì, dicevo? Ok, ringrazio velocemente causa mancanza di tempo gli splendidi angeli che hanno contribuito alla realizzazione di questo nuovo quanto faticoso capitolo. Dedicato a voi, che avete la pazienza e la gentilezza di leggere e recensire questi orrori. Mi date quel po’ di fiducia che non ho mai avuto, e ammetto che una volta conclusa la storia… sì, mi mancherete tutti. Grazie ancora, dal profondo del cuore a:
Kimi o Aishiteiru
Sonia_0911
Fatelfay
Wibbly Wobbly Timey Wimey

Grazie davvero e a prestissimo!

Tomi Dark Angel

 

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Capitolo 22
*** Per Giungere Al Mattino, Bisogna Affrontare L'Oscurità Della Notte ***


Affondare tra le pieghe del Mind Palace, è un po’ come sognare ad occhi aperti. John l’ha sentito nominare, immaginandolo come semplice tecnica mnemonica, una scaletta di pensieri e dati incanalati in una mente ben più che geniale. Semplice, coinciso. Ma non ha mai avuto a che fare con la mente di una Furia Buia.
John non sa quando ha chiuso gli occhi, non sa quando si è distaccato dalla materialità del corpo per giungere lì, attraverso voci sussurranti e ombre soffuse che come spiriti guardiani lo attorniano, camminando indisturbati nella pace di una mente placida, schematica, dove ogni ricordo, ogni dato, conosce bene la sua postazione.
Il corpo di John perde peso, s’alleggerisce come piuma trasportata dal vento mentre bassi sussurri arcani sibilano tutto intorno a lui, abbracciandolo di un mormorio segreto, nascosto come confidenza privata. Affonda tra le pieghe di migliaia di ricordi, ma John non ne riconosce nemmeno uno. Si accorge di galleggiare tra secoli e secoli di esperienze vissute che nell’oscurità muovono i loro passi, avanti nel tempo, trascinandolo al momento predestinato da Sherlock stesso.
L’oscurità si infittisce e John affonda ancora e ancora. Qualcuno grida da qualche parte, una donna piange, un bambino ride. Suoni, sensazioni che poco a poco vanno costruendosi.
Coi suoni, giunge in seconda entrata il tatto. Il vento soffia leggero su di lui, profumato d’erba fresca e umidità di rugiada. Odore di vento, profumo di migliaia di fiori, animali, creature sconosciute. Perfino l’acqua che scroscia in chissà quale ricordo ha un odore tutto suo. I piedi di John toccano qualcosa, un suolo liscio e levigato che nell’oscurità appare invisibile. La caduta finisce lì.
Gusto. Sulla lingua di John cominciano a susseguirsi sapori sconosciuti, differenti l’uno dall’alto: alcuni risultano amari, altri dolcissimi, altri ancora assurdamente disgustosi.
Ultimo senso. Vista.
John si trova su una grossa sporgenza rocciosa, sulla fiancata di una montagna. Dall’alto di quella posizione, riesce a vedere il mondo intero, con le sue propaggini verdeggianti punteggiate dell’oro di foglie avvizzite. Autunno.
A nord dovrebbe erigersi Londra, ma della massa grigiastra della città non vi è traccia. Soltanto la luna bacia d’argento il panorama, rischiarando di pallida luce le due figure che velocemente si avvicinano, sbattendo le ali immense, abbastanza ampie da coprire il cielo di metri e metri.
John indietreggia mentre le figure si avvicinano. Vorrebbe nascondersi, sparire, ma non sa quale sia il posto più giusto per passare inosservato. Guarda in alto, si prepara a combattere, a difendersi come il soldato che è sempre stato. Se non puoi evitare un pericolo, affrontalo frontalmente.
Ma non ce n’è bisogno.
John quelle ali gigantesche, intrise di luce oscura, le conosce bene. Le ha viste catturare il giorno e la notte, riflettere ogni bagliore nel più splendente degli spettacoli mai visti.
-Sherlock?-
John lo chiama più e più volte mentre la Furia Buia si avvicina, ma improvvisamente ammutolisce quando vede ciò che Sherlock si trascina dietro, sbattendo faticosamente le ali. All’inizio, John non l’ha notato, ma adesso che la luce della luna bacia con maggior forza quel corpo, una nuova realtà gli si palesa agli occhi.
E John Watson, improvvisamente capisce l’entità di quel pezzo di storia.
Non vuole guardare, non vuole sapere. Fa male, brucia come lava nelle vene. Ma guarderà, perché così Sherlock ha voluto, perché quello è forse il suo ultimo dono.
-Resisti! Starai bene, lo so… starai bene.-
Una voce bassa, profonda, tremante di dolore e maledetta consapevolezza. Sherlock Holmes atterra, incespicando sui suoi passi, trascinando i piedi di una debolezza soverchiante. Sembra più giovane, con quel viso meno spigoloso, le ali più sottili, le corna più piccole e gli occhi ancora da ragazzo, privi dell’antichità che lo Sherlock odierno ha sempre dimostrato. Zoppica vistosamente e il sangue argentato, prezioso più dell’oro gli imbratta il corpo nudo, le mani, il viso sconvolto.
-Tieni duro!-
Si trascina dietro un corpo abbandonato, dalle ali gigantesche, che piovono oltre il crepaccio come oscure cascate di meraviglia.
John è così preso dalla scena che a stento si accorge di essere invisibile ai loro occhi. Semplicemente, fissa ipnotizzato il piccolo Sherlock, lo guarda accasciarsi al suolo esausto, stringere al petto la madre sanguinante, che poco a poco rallenta il suo ansito affannato, traboccante di sofferenza. Si aggrappa alla vita, squarcia con artigli disperati quella piccola speranza per respirare ancora, per guardare il mondo, per abbracciarlo un’ultima volta.
Non lì, non davanti a suo figlio.
Non vuole morire tra le braccia di Sherlock, glielo si legge negli occhi chiari di cristallo. Sa che il suo bambino non andrà avanti senza di lei, sa che qualcosa nel suo piccolo petto andrà in frantumi insieme al giovane cuore di madre che guarderà spaccarsi, interrompere ogni battito.
Sherlock si accascia, già conosce il responso di quella ferita che fora il petto di sua madre da parte a parte. Non vuole crederci, non riesce ad accettarlo. È sbagliato, è tutto sottosopra. Non doveva andare così.
-S… er…-
Nevora chiama, implora al cielo il nome eternamente incompleto di suo figlio. Le manca il fiato, le forze scalano insieme al sangue che, velenoso, sottrae forze e respiri alla sua giovane esistenza. Le sembra così poco, il tempo trascorso lì, in quel mondo ancora giovane, ma già prossimo ad ammalarsi. Ha cercato di rattoppare il dolore che sarebbe seguito, ha provato ad arginarlo con tutte le sue forze.
È una lottatrice, Nevora. Lo è sempre stata. Dalla nascita, fino alla morte che di lì a poco sarebbe seguita. Ha riflesso la luce della pace, si è sforzata di indirizzare il mondo verso un cammino sereno, senza grida e sangue. Sa adesso, che quella via è sbarrata.
Il mondo cadrà, e ad ucciderlo saranno i suoi stessi compatrioti. Nessuno accetterà l’ipotesi del perdono, della pace, della speranza. Alla carezza verrà sostituito il pugno e allora, i draghi si trasformeranno in reali bestie da incubo, così simili a quelle che affollano le leggende più nere degli umani ancora primitivi. 
Una lacrima sfugge dalla gabbia delle lunghe ciglia nere e scivola lungo la guancia, sporcandosi di sangue e terra. Questo accadrà anche a suo figlio, al suo bambino. Sherlock non è pronto, non può combattere questa guerra da solo. È forte, Nevora lo sa bene, ma per quanto possenti, le sue ali non sosterranno il peso di una guerra mondiale. Cadrà in ginocchio, soffrirà senza versare una lacrima poiché quelle che vede adesso sul viso del figlio saranno le ultime gocce di dolore che Sherlock si consentirà di versare.
-Coraggio, mamma. Andrà tutto bene, posso guarirti… guarirai, e torneremo a casa, da papà, da quell’antipatico di Mycroft.-
-Non… par… lare così di tuo… fratello.- mormora Nevora con un sorriso che all’istante si riflette doloroso sul viso del figlio. Nei suoi occhi, Nevora legge ormai la morte. Nonostante la moribonda sia lei, sa bene che col suo ultimo respiro, si spegnerà l’intera famiglia Holmes.
Sarà Sherlock a cadere per primo, senza tuttavia spezzarsi del tutto. Arrancherà nel fango, ma non si lascerà andare, non totalmente. Come sua madre, lotterà fino alla fine.
-Tesoro… vieni qui.- mormora lei, e allora Sherlock la guarda con occhi di cristallo ancora giovani, ancora fragili e pronti a spaccarsi in mille incubi d’inferno. È soltanto un ragazzino, e vedrà morire sua madre.
-Vieni…-
L’ennesimo richiamo, l’ennesima preghiera. Nevora tende le braccia deboli, tremanti di dolore e sangue. Non piangerà più, davanti a suo figlio. Deve essere forte un’ultima volta, per tutti e due.
Alla fine, dopo istanti di esitazione, Sherlock si abbandona contro il suo petto. Abbraccia entrambi con le ali fragili, deboli di stanchezza, ma abbastanza grandi da coprirli, proteggendoli dal mondo, ma non dal tempo che infame continua a scorrere, a sbrindellare piccoli pezzi di quella famiglia ormai devastata.
Nevora è stanca, non ce la fa più: abbraccia suo figlio come ultimo atto, gli bacia i capelli e lascia che pianga sulla sua spalla, ripulendo il suo sangue sporco con lacrime di ragazzino innocente, troppo giovane per dover sopportare questo. Il mondo non è giusto, non si cura dei suoi figli. Continua a girare, va avanti e lascia che ogni storia compia il suo corso. Ormai, il libro della vita di Nevora è alle ultime pagine. Una matita invisibile sta già tracciando la parola “Fine”, ma lei non può abbandonare tutto al caso: non lascerà suo figlio, non così.
-Tesoro…- mormora con un filo di voce. -… guarda il cielo.-
Sherlock obbedisce perché non può fare altro, perché si sente inutile e ascoltare le ultime indicazioni di sua madre lo aiuterà forse a stare meglio. Egoista, inutile ragazzino. Mycroft direbbe così.
Entrambi osservano il cielo, lasciano che il bagliore delle stelle si specchi nei loro occhi di cristallo. Sono così simili, così vicini. Entrambi sudici di sangue e lacrime, entrambi deboli, feriti, ma ugualmente maestosi e tristi come splendidi angeli dalle ali spezzate.
-Sai cosa accadrà adesso, tesoro mio.-
Non è una domanda.
-Il mondo sprofonderà nel buio, dimenticherà i suoi valori, la sua luce. Sarà notte dopo il crepuscolo, ma sai… per giungere all’alba, non c’è altra via che l’oscurità. Basta solo saper affrontare il buio a testa alta, camminarci in mezzo, avanzare senza ostacoli, senza dubbi. So che non è facile, tesoro, ma spesso, la via più difficile è anche la più giusta. Abbi il coraggio di affrontare i tuoi demoni, e saprai ritrovare l’alba.-
Sherlock trema, singhiozza più forte. Si sente fragile, a pezzi, come se qualcosa di grosso e tagliente avesse spezzettato quanto c’era di sereno in lui per disperderlo al vento.
-Non posso farlo, mamma! Sono debole, Mycroft me lo dice sempre: affidati a lui, non a me. Non ho speranze di risollevare un regno in caduta libera.-
Nevora ridacchia dolcemente, gli scompiglia i capelli con quella gentilezza che solo una madre può esercitare. Ama suo figlio, ha fiducia in lui. Sherlock è quella parte importante della sua storia di sovrana che nei momenti più bui l’ha aiutata ad andare avanti, a lottare.
-Puoi farlo, tesoro. Sei un grande, e nemmeno lo sai. Puoi innalzarti al cielo e volare lassù, fino alla luna, mentre gli altri riuscirebbero a oltrepassare soltanto la prima stella più vicina alla Terra. Sei diverso, e questo lo sappiamo entrambi. Lo sono anche io, sai? Lo sono sempre stata. Però non è così brutto. Trova qualcuno che ti accetti, qualcuno che ti dia la forza.-
Sherlock singhiozza più forte, si raggomitola al punto di diventare piccolo, all’apparenza innocuo. Inspira il profumo della madre, memorizza quei piccoli momenti di serenità che nel giro di brevi istanti si frantumeranno in un fiume di dolore silenzioso, inascoltato, non visto. Crescerà Sherlock, e lo farà da solo. Andrà avanti, lotterà, ma lì muore un pezzo della sua stessa anima. Nevora è la sua famiglia, tutto ciò che possiede. Adesso, quell’unica ancora di salvezza, viene a mancare.
-Nessuno potrebbe accettarmi. Io sono un mostro!-
Allora, Nevora alza gli occhi e per brevi istanti, sofferma lo sguardo in quello spaventato e commosso di John. Lo guarda, scava nella sua anima al punto da farlo barcollare. Fissare negli occhi quella creatura è come osservare in un istante il veloce scorrere di interi millenni. È un peso enorme, che piega in ginocchio anche i più grandi re del passato.
Quando Nevora abbassa nuovamente lo sguardo, sorride di nuovo e John torna a respirare. La donna sembra aver visto in lui quella risposta a lungo cercata, quell’angolo di paradiso che l’umano risulterà per suo figlio. È serena adesso, sta bene. È ora di andare.
-Riprenditi il trono, tesoro.- mormora debolmente, e poco a poco la sua mano scivola via, esausta sbatterebbe contro il terreno se Sherlock, sollevatosi in ginocchio, non l’avesse afferrata.
-Mamma?-
Nevora tossisce un grumo di sangue argentato, ma non annulla il sorriso che gentile le stiracchia le labbra carnose, così simili a quelle del figlio. Labbra che hanno baciato, parlato, vissuto. Labbra che a breve, non si muoveranno più.
-Riprenditi il trono. Sei… l’unico che possa costruire il futuro.-
-Non posso! Non senza di te!-
Nevora gli stringe la mano, con le ultime forze fa un cenno che Sherlock interpreta giustamente. Singhiozzando, si china verso la madre e lascia che lei gli baci la fronte con dolcezza e amore incondizionati, senza tempo né storia.
-A te dono la successione del domani, Sherlock Holmes. Sia tuo il mio trono, sia tuo il domani del mondo. E, per ultimo, sia tua la mia benedizione di trovare la tua alba. Cercala a lungo, Sherlock, negli occhi di chi sa osservarti veramente. Capirai da solo quando sarà il momento di andare… ma solo non sarai quando verrà il momento di affrontare i tuoi demoni. Qualcuno al tuo fianco saprà rialzarti e amarti per ciò che sei sempre stato. Vivi, tesoro mio, e riporta la luce alla sua terra.-
Sherlock sbarra gli occhi mentre la luce della luna si riflette benigna sul viso della madre. John la guarda mentre cala le palpebre e stringe il figlio in un ultimo, dolce abbraccio che sa di fiducia, di amore ed estremo saluto. Va via serena, pacifica, col sorriso ancora sulle labbra. Quando appoggia definitivamente il capo al suolo e abbandona la mano che finalmente cala sul terreno, ogni cosa s’immobilizza. Gli alberi non frusciano più, i corsi d’acqua si interrompono, il vento smette di soffiare. Improvvisamente, il mondo intero s’inginocchia a una delle sue più grande perdite e in silenzio, piange l’avvenire distruttivo che l’aspetta.
-Mamma?- L’unica voce che squarcia il silenzio, l’unico richiamo ancora inconsapevole che qualcosa è cambiato, che Nevora non respira più. Sherlock la scuote con dolce insistenza, continua a chiamarla per ore, senza mai stancarsi. Non piange più, ma poco a poco sbarra gli occhi, capisce, realizza.
-Mamma… dobbiamo andare a casa. Mamma?- Sherlock si alza in piedi, la tira per un braccio inanimato, freddo come il ghiaccio. –Dai, Mycroft e papà ci aspettano. Mamma. Non scherzare, dobbiamo alzarci. Io ho freddo, e tu hai bisogno di riposare in un letto comodo. Mamma? Alzati. Mamma!-
Poco a poco, la voce di Sherlock cresce, muta, si fa più acuta e spaventata. Ignora l’immobilità della madre, il suo silenzio, il gelo del suo corpo. Insistente, continua a tirarla per tutta la notte, la spintona con le ali, la stuzzica con la coda come cucciolo incosciente che ancora non realizza l’accaduto.
John si accorge di piangere quando il primo singhiozzo gli sfugge prepotente dalle labbra. Si copre la bocca, combatte contro l’impulso di stringere Sherlock al petto con tutta la forza che possiede. Capisce adesso l’antichità di quegli occhi, la falsa giovinezza di quel viso che tanto ha vissuto e troppo ha sopportato. Solitudine, dolore. Poi, il peso del mondo intero.
Forse, non ha mai conosciuto Sherlock per davvero. Però, sente di amarlo sempre di più, ad ogni più piccolo pezzettino che scopre di lui.
Sherlock Holmes urlerà per tutta la notte, fino al mattino del giorno dopo. Con mani e viso imbrattati di sangue e lacrime, così lo troveranno i suoi simili. Nessuna pietà, nessun perdono per quella giovane anima che da sola sosterrà il peso del pianeta e di una responsabilità non sua, che non avrebbe mai dovuto appartenergli. Avrà le ali spezzate, pur continuando a volare, ma sigillerà quei ricordi dietro una porta per lungo tempo dimenticata, sigillata nella sua testa. Così sopravvivrà Sherlock Holmes.
-Sherlock…- John lo chiama, avanza di un passo. Poi, la testa comincia a girargli, gli manca l’aria e qualcosa lo afferra per un braccio.
-Basta così.- mormora una voce profonda che John riconosce e desidera più di ogni altra cosa. Si lascia strattonare e tra quelle braccia sicure sviene, perde i sensi e si abbandona all’oscurità.
 
Silenzio, pace, serenità. C’è la luce, la si intravede adesso, attraverso le palpebre calate.
John spalanca gli occhi lentamente, quasi timoroso di ciò che potrebbe trovare. Sbatte le palpebre diverse volte, fatica a mettere a fuoco l’ambiente. Respira aria pulita, fresca, profumata di fiori selvatici appena sbocciati. È un odore forte, ma non fastidioso.
Gli basta un’occhiata per capire dove si trova: ha visto quel posto pochi istanti prima, certo, ma in condizioni decisamente differenti. Casa Holmes è forse, in quelle vestigia di splendore e grandezza, l’ottava meraviglia del mondo.
La biblioteca. È lì che è atterrato John. La guarda stendersi intorno a lui come un gigantesco mastodonte sconfinato di scaffali d’ebano, tavolini di cristallo e magnifici tomi dall’aria antica, giovane, fragile e possente. Se al vederla la prima volta nella realtà, John pensava che fosse della casa la sua parte più simile al vecchio splendore distrutto, adesso sa di sbagliarsi. Quella biblioteca è immensa, pulita, limpida di raggi solari che piovono come fasci dorati dal soffitto a cupola, incastonato di gemme preziose. Dall’alto, piove un gigantesco candelabro rifinito in una statua di drago che, contorto, spalanca ali gigantesche, di vetro, sull’intera biblioteca per rifletterla di minuscole sfaccettature colorate. Ha una zampa sollevata e, su di essa, appoggia una scintilla guizzante di fiamma bluastra che John conosce bene. Forse è stata quella particella a condurlo lì.
Lungo l’intero perimetro dei muri ricoperti di fiori rampicanti, stanno altre statue di drago. Marmoree, fiere, alte dieci metri, ossia fin quasi alla cupola di vetro sulle loro teste. Hanno il capo ritto, e tutte loro siedono composte, erette, immobili come creature reali pietrificate secoli e secoli addietro. L’unica cosa che le differenzia, sono le gemme incastonate sulle fronti. C’è chi arreca uno zaffiro, chi un diamante, chi ancora un rubino e così via. Probabilmente, ognuna di quelle gemme, grosse quasi quanto John stesso, valgono più dell’intera Londra.
-John?- chiama una voce, e allora John si immobilizza, irrigidisce i muscoli e quasi non crede alle sue orecchie. Si volta lentamente, con cautela, cercando di non spezzare con ansito affaticato d’emozione la pace serafica dell’ambiente.
Sherlock è lì, fermo dinanzi all’arco d’entrata dai bordi intarsiati d’oro e argento. John lo guarda, e il respiro gli si blocca in gola. Non avrebbe mai creduto che Sherlock potesse apparire ancora più bello, ancora più nobile e splendente, non più come una stella, ma come la luna stessa.
Quella è una versione sconosciuta di Sherlock Holmes, un pezzo inesplorato della sua vita trascorsa, dissipatasi al vento, che John aveva pensato di non vedere mai.
Sherlock indossa una lunga veste nera, percorsa da venature bluastre. È di seta, slacciata sul petto e abbastanza lunga da nascondergli i piedi. I bordi sono percorsi da intarsi argentati, le maniche larghissime, tagliate sulle spalle in modo da lasciar intravedere le squame splendenti come punti luce. Gli avambracci sono avvolti da bracciali argentati, finemente lavorati e sulle spalle poggia un mantello lieve come acqua, quasi trasparente, come tinto di pallido argento puro. In vita brilla una cintura fatta di curioso diamante nerastro, al cui centro s’intarsia un intrico di venature azzurrine che convergono verso un unico, grande zaffiro. Appare molto simile al collare sottile e poco invadente quanto al diadema che gli cinge la testa, impreziosendo la fronte di nere volute argentate che abbracciano armoniose un piccolo zaffiro centrale.
Quello Sherlock è così diverso, eppure così simile alla creatura conosciuta da John. Bello oltre ogni immaginazione, coi suoi capelli scompigliati ad arte che quasi coprono il diadema e quegli occhi penetranti, intelligenti, di purissimo cristallo lucente. La sua pelle pare rilucere di pallido bagliore soffuso e le corna sono cinte da anelli d’argento, due per parte. Infine le ali, massicce come cappa oscura alle sue spalle, sbucano invadenti da sotto il mantello, abbandonate al suolo come il più lungo e infinito degli strascichi preziosi.
-Ti consiglio di chiudere la bocca, John: rischi di sembrare più stupido di quanto già appari agli occhi del mondo.-
Sherlock avanza silenzioso, le mani giunte dietro la schiena e la postura eretta, aristocratica. Al suo accostarsi, John si sente piccolo, stranamente insignificante, come misero credente al cospetto del suo dio.
-Cosa… tutto questo è reale?- domanda allora, e Sherlock arriccia un angolo delle labbra in una parvenza di sorriso.
-Non fare domande stupide, John. Sei qui per mio volere, ma bada a non inquinare di stupidità la mia testa.-
-Vuoi dire che… sta accadendo davvero?-
-Questo ti sembra un ricordo?-
-Ehm… no, decisamente no. Però la casa…-
-L’ho ricostruita, è vero. Ma non racchiude stralci di memorie, come puoi vedere. È soltanto una biblioteca.-
Sherlock lo oltrepassa, lo sfiora con le immense propaggini delle ali, che invadono per intero tutto il corridoio alle sue spalle e si perdono a vista d’occhio come morbidi drappi nerastri.
-No, non lo è.-
 Sherlock si volta, fissa John con un sopracciglio inarcato e l’aria curiosamente interrogativa. Non è da lui porsi delle domande, ma John riesce a sorprenderlo ogni volta, in ogni istante della sua breve vita da umano. Anche in quel momento, mentre fa vagare gli occhi brillanti di emozione lungo la biblioteca, sui libri, sui tavolini di fragile cristallo. Appare rapito, lontano, come se stesse guardando qualcosa che Sherlock non riesce a vedere. E in effetti, è proprio così.
John fissa i tavolini, si immagina un piccolo Sherlock seduto su una delle eleganti sedie di cristallo. Lo vede col naso affondato tra le pagine di un libro, il capo chino e le piccole spalle ingobbite. Poi sposta gli occhi lungo gli scaffali e quasi lo vede camminare, già cresciuto, tra i tomi tanto amati come eterea presenza tangibile ma silenziosa. Quello Sherlock ancora giovane, stringerebbe tra le mani il suo violino e suonerebbe lì, solo perché Mycroft sarebbe nelle vicinanze, concentrato su qualche libro particolarmente impegnativo.
-Tu qui ci sei cresciuto.- afferma John con un sorriso rapito. –Hai ragione, è tutto nella tua testa… ma a questa biblioteca tu ci sei affezionato davvero. Lo capisco dai particolari. Solitamente, troveresti noioso inalberare uno scenario inutile allo scopo, se il tuo unico desiderio era quello di parlare con me. Eppure siamo qui.-
Sherlock corruga le sopracciglia, stringe forte le labbra per combattere il bizzarro impulso di avvicinarsi, di guardare più da vicino quello strano umano che ancora una volta osa leggergli il pensiero, che ancora una volta pretende di sapere… sapendo effettivamente.
Sherlock deve ancora abituarsi. Si è sempre ritenuto una macchina, frutto intramontabile di un passato senza pietà, senza famiglia. È sempre stato solo, e tale ha pensato di restare fino alla fine. Adesso però, quello strano umano si volta, lo guarda con occhi scintillanti d’ammirazione, fiducia e… cos’è quello scintillio? Affetto? Sherlock non se ne intende.
-Sherlock?-
-Mh?-
John si avvicina con cautela, fa scivolare le braccia intorno al torace della Furia Buia, lascia che le dita scorrano lungo l’attaccatura delle ali che squarcia la veste sulla schiena in due lacerazioni perfettamente simmetriche.
Sherlock si lascia sfuggire un sospiro, freme contro le dita dell’umano. John non ha mai sentito Sherlock emettere un suono del genere, così fuori controllo, così… vulnerabile. Eppure, quello è forse il verso più dolce che John abbia mai sentito.
Si scosta appena per guardarlo negli occhi, ma Sherlock evita il suo sguardo. John sa di averlo disarmato, messo in difficoltà. Non è abituato a certi atteggiamenti.
-Tutto questo è reale?-
-John, non farmi ripetere.-
-È reale, Sherlock? Ricorderemo entrambi, dopo?-
Sherlock lo guarda, un sopracciglio inarcato e lo sguardo leggermente confuso.
-Abbiamo entrambi un pezzo di questo posto. Quindi sì, ricorderemo.-
E John non ha bisogno di sentire altro: gli abbraccia la nuca con un’unica grande mano e spinge le loro labbra a coincidere, come due perfetti pezzi di puzzle. Non è un bacio pretenzioso, non si spinge troppo in là. Ma è personale, è bello, pulito come sorriso di neonato ancora in fasce.
John assapora quelle labbra, le sfiora gentile con la lingua per saggiarne il gusto speziato. Respira attraverso quel contatto, vive grazie ad esso e poco a poco, si sente completo, nuovo, ricostruito.
Lentamente, John si allontana, guarda negli occhi ancora confusi di Sherlock e gli accarezza i capelli, salendo con le dita fino all’attaccatura delle corna.
-Fidati di me. Puoi farlo?-
Sherlock attende qualche istante, per un po’ non risponde. John comincia a temere di aver sbagliato, ricorda con terrore il primo bacio donato a quella creatura schiva, difficile da accostare. Quella volta, Sherlock scappò via. Se lo facesse di nuovo?
-L’ho sempre fatto, John. Non fare domande stupide, te lo ripeto.- sorride infine la Furia Buia, e da quel momento, John slaccia ogni contatto con la realtà, col buonsenso, col pudore.
È gentile quando lascia che i loro corpi coincidano perfettamente, è gentile quando scivola un ginocchio tra le gambe di Sherlock e lo sente ringhiare piano, trattenuto. Gli bacia il collo, si abbandona al pavimento stranamente caldo di tepore quasi umano mentre poco a poco gli solleva la tunica, scorrendo le dita lungo le cosce, i fianchi, su fino al petto. Non inorridisce quando ode lo strappo d’artigli atroci che gli squarciano prima il maglione e poi i pantaloni. Sulla sua pelle non resta neanche un graffio, e John sorride per l’accortezza di ogni gesto, di ogni elegante movenza di Sherlock.
-Non mi farai del male: non l’hai mai fatto.-
Sherlock chiude gli occhi, abbandona il capo al suolo mentre con la coda, circonda entrambi all’altezza della vita, stringendoli in un unico, inscindibile abbraccio di squame e punte affilate. Chiude le ali sulle loro teste, abbracciando l’intera biblioteca, su fino al soffitto. Anche in uno spazio così ampio, le ali appaiono troppo grandi. Potrebbero stringere il mondo intero, circondarlo e proteggerlo, ma miracolosamente, hanno scelto di salvaguardare un solo, fragile umano.
John accarezza Sherlock, risveglia di tocco angelico ogni angolo del suo corpo, ogni millimetro di morbida pelle alternata a squame affilate. Si taglia più volte le dita, ma non si ferma mai: sfiora gentile il suo sogno più bello, si fonde con esso, respira dei suoi ansiti, dei suoi bassi ringhi animali. È qualcosa di magnifico, pulito. L’aria profuma di vaniglia mentre morbide volute argentate sfiorano i loro volti, sigillando le loro labbra coperte di baci, i loro corpi coperti di brividi.
Sulle loro teste, lungo le ali di Sherlock, si sprigiona il cielo che John ha visto poco tempo prima, nell’arena: costellato d’aurora boreale e stelle luminose come punti luce. Nessuno ha mai visto un cielo così bello, ma John non sa che quelle ali rispecchiano la volta celeste della Creazione del mondo stesso. È il primo umano a vederlo, l’unico al quale sia concesso questo privilegio. E a cedergli il consenso è la stessa creatura che adesso lo accarezza, che fa scorrere delicati artigli sulla schiena, causandogli brividi incontrollati, meravigliosi.
John si china di nuovo, bacia la spalla ferita di Sherlock e rabbrividisce al freddo dei bracciali metallici che ancora indossa all’altezza degli avambracci. Li sente scorrere sulla pelle, lungo la spina dorsale.
Con dolcezza, si separa appena da lui per guardarlo in viso. Sherlock ha la pelle quasi argentea a causa del sangue di drago che la percorre e gli occhi brillano lucidi di piacere pulito, meraviglioso.
-Sei… quanto di più bello mi sia mai capitato, Sherlock. Sei il mio presente, il mio futuro. In qualunque modo si risolva questa storia, io sarò con te, fino alla fine. Al tuo fianco, finché tu lo vorrai.-
Sherlock sorride appena, senza superbia stavolta. È il primo vero sorriso che si concede, l’unico che abbia mai svelato da quando era bambino.
-Lo so.-
E allora John unisce entrambi in un’unica danza di promesse, amore e nomi sussurrati sotto un cielo stellato tinto su ali di sogno che, anche se inizialmente ferite, hanno saputo trasportare entrambi lontano, in un mondo loro e loro soltanto, dove la guerra non esiste.
Tra gli ansiti, Sherlock rinasce.
Tra i brividi di piacere, John sigilla la sua promessa di fedeltà. Sarà mantenuta, fino alla fine.
Poi, tutto finisce e le ali si riaprono, rivelando il bagliore dei cristalli sulle loro teste.
John afferra il mantello abbandonato di Sherlock, avvolge entrambi e automaticamente, stringe a sé il corpo affusolato della Furia Buia, che docile appoggia il capo sul suo petto.
Respirano piano, abbracciati dalla tranquillità. John si sente completo, sicuro. E improvvisamente, realizza di aver abbracciato la speranza vera, palpabile, di un domani che ancora respira proprio lì, al suo fianco.
Finalmente, e almeno per ora, va tutto bene.
 
Angolo dell’autrice:
Dunque, momento di serietà: questo capitolo, in specie la parte dei ricordi del nostro giovanissimo Sherlock, è qualcosa di veramente importante per me. Da quasi un mese ormai, combatto contro un principio di depressione. Fatico molto a scrivere, a concentrarmi, ad andare avanti. Ma nella mia miserabile fragilità, abbandono ogni pensiero, ogni barlume di dolore o serenità faticosamente guadagnata qui, in questo scritto. Così come Sherlock ha trovato la forza per rialzarsi, così toccherà fare anche a me. Ora, io parlo di me stessa, è vero, ma voglio appellarmi ad ognuno di voi, a chiunque legga queste parole.
Combattete.
Fatelo per voi stessi, più che per gli altri. Andate avanti, cercate la vostra luce e, se faticate a trovarla… cercate ancora. Scrivo per inviarvi questi messaggi, per pregarvi di non mollare mai. E voi, pur inconsapevolmente, ricambiate con la gentilezza delle vostre recensioni, sempre bellissime, sempre immancabili. Per questo vi ringrazio di cuore. Grazie. E un ringraziamento speciale va a colei che con le sue parole mi ha fatta piangere nel cuore della notte, mentre leggevo la sua recensione: Bbpeki.
Spazio ai ringraziamenti, adesso!
Kimi o Aishiteiru: che è successo ora?! Ma stai facendo un abbonamento all’ospedale? Mi sa che ormai ti conoscono bene, dottori e infermieri/e. Seriamente, stai bene? Non farmi preoccupare. Ehi, guarda che Edarion un po’ cerca di aiutare. Un po’. Ma che vuoi farci, gli Holmes sono difficili nei rapporti sociali quanto in quelli familiari. XD ahahahaha! Mi raccomando, aspetto presto tue notizie! E grazie per il commento!
Bbpeki: che altro dovrei dire? I ringraziamenti generali te li ho già fatti e sì, ho pianto davvero leggendo il tuo commento. Ancora non capisco come i miei scritti possano piacere alle persone. Sinceramente, ho sempre paura di pubblicare perché credo che siano tutte stupidaggini. Però, se davvero le mie storie ti fanno sognare, se realmente ti piacciono e ti offrono un seppur misero angolo di serenità… allora sì, continuerò a scrivere. Lo faccio all’insaputa di chiunque da quando avevo otto anni e non credo di poter smettere tanto facilmente. A maggior ragione, leggendo le tue parole, non potrei fermarmi comunque. Per questo ti ringrazio di cuore, perché in un momento difficile mi hai aiutata, inconsapevolmente. Grazie davvero, e non smetterò mai di ringraziarti. A presto!
Sonia_0911: oddio, come è andato l’esame? Spero benissimo! Comunque, Sherlock e Anderson non potranno mai sopportarsi. Credo che sia una legge fisica, ormai. Posso ingentilire Anderson, ma non posso sperare che Sherlock lo sopporti come tutti speriamo. Sono troppo diversi ed entrambi troppo testardi per andare d’accordo. Non so se si riempiranno di mazzate entro la fine della storia, sai? XD sto considerando la cosa. A presto, e grazie per il commento!
Wibbly Wobbly Timey Wimey: John è sempre adorabile. È una sua prerogativa. Non per niente sembra un dolcissimo riccio XD comunque, a te è andata bene perché dopo la seconda stagione, mia madre ha dedotto tutto su come è sopravvissuto Sherlock. Da sola. Senza guardare la terza stagione. Mia madre è un fottuto detective, maledizione! Eheh, Donovan avrà quello che si merita. È l’unica che non ho mai mandato giù, di tutta la serie. Ma come si fa ad essere tanto imbecilli, dico io! Ok, mi sono sfogata. A presto, e grazie per il commento!

Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 23
*** Guerrieri Del Domani ***


-John? John! Ti senti bene?-
Una voce. Lontana, remota, senza tempo. Qualcuno lo chiama, qualcuno ha bisogno di lui. Ma chi è lui? Non lo ricorda.
Sbatte le palpebre, respira con calma. Sente la testa leggera, svuotata di ogni pensiero. Il suo cuore pulsa ancora, il che indica che non è morto. Strano. Per un attimo, ha creduto l’esatto opposto.
-John!-
Ancora quella voce, ancora un richiamo. Qualcuno lo tocca, scuotendolo per la spalla, e allora John inspira con più forza, realizzando poco a poco di non essere solo. La mente riavvolge ogni più piccolo ricordo, ogni momento vissuto prima di adesso. Ricorda, rivive quegli istanti di serenità con Sherlock in cui, entrambi nudi, danzavano insieme in un insieme di movenze, sussurri e sorrisi innamorati. È accaduto davvero, John lo sente. Non può averlo sognato. Eppure, adesso ha freddo. Non avverte più il calore di Sherlock contro il corpo, non avverte più il serafico silenzio della gloriosa biblioteca che li ha accolti, protetti, illuminati di cristalli variopinti.
È cambiato qualcosa, e fa male.
-John, adesso apri gli occhi.-
Una voce conosciuta, che John ricolloca lontanamente a Sherlock. Reagisce soltanto per questo: apre gli occhi lentamente, incrocia lo sguardo insofferente di Mycroft Holmes, adesso così vicino, così umano. Impugna ancora il suo ombrello, non lo abbandona mai. Chissà perché ci è tanto affezionato.
-Cosa…-
John ha la voce roca, come di chi non la usa da tanto tempo. Penserebbe di aver dormito a lungo se, guardandosi, non si rendesse conto di essere in piedi. Fissa la sua stessa mano, quel palmo che poco prima era avvolto dalle fiamme. Adesso il pugno è chiuso e il fuoco non c’è più.
Sparito. Come Sherlock, come la sua voce, come il suo calore.
John trema mentre il peso della realtà gli piove sulle spalle, schiacciandolo con forza, piegandogli il busto come fragile ramoscello d’ulivo. Sherlock non è lì, non ci è mai stato. Lo hanno portato via, gli hanno ingabbiato le ali, strappandolo all’abbraccio del cielo. Non volerà più.
John crolla, cade in ginocchio come bestia ferita. Ansima forte, colto da un attacco di panico. Improvvisamente, il paradiso dei loro ultimi momenti vissuti insieme si converte in terribile inferno. Nulla di tutto quello è accaduto realmente. John non ha mai toccato Sherlock in quel modo, non gli ha mai parlato. In realtà, capisce di non essersi mai mosso di lì.
-John?- Greg e Mike lo afferrano, cercano di rialzarlo. Ma John è come un peso morto, debole di dolore e stanchezza. Fissa il vuoto senza capire, senza vedere. Apre e chiude le dita di una mano, nella speranza di afferrare qualcosa, la sua ancora di salvezza.
Ha mai conosciuto la felicità, quella vera? Ha mai assaporato la pace, il silenzio, il piacere di una carezza reale sulla pelle? La risposta è no.
Guerra, sofferenza, sangue. Ha sempre vissuto soltanto questo. Niente di diverso, niente di sereno. La sua vita è una bugia, come lo sono stati i baci di Sherlock, la sua bellezza illusoria, il calore di fiamme gentili sulla pelle.
-John, devi rialzarti!- grida Greg, trascinandolo verso la poltrona più vicina. Quella biblioteca è così diversa, così spenta. Non brilla del bagliore di migliaia di cristalli, non è salvaguardata da serpentini occhi di pietra. Forse, l’ambiente che John ha visto, quello che ha accolto i suoi gemiti, i suoi sorrisi… semplicemente non esiste.
Bugia.
-John.- chiama allora Edarion, e la sua voce profonda riscuote John come una scossa, spingendolo a sollevare lo sguardo. Incrocia quel volto sconosciuto, lontano, provato da fatiche e anzianità. Lui quei tratti non li conosce. Però, c’è qualcosa. Una piccola ruga agli angoli degli occhi, il bagliore bianchissimo dei denti, la pelle liscia come pallida porcellana. Se John si concentra, riesce a ricordarla, la morbidezza di una pelle molto simile, più bella e attraversata dal bagliore lucente dei cristalli baciati dal sole.
“Tutto questo è reale”.
-Sherlock…-
“È reale, John”.
John si concentra, lascia che la mano calda di Edarion s’appoggi sulla sua guancia. Quel calore, quel profumo… John li riconosce. Ora che ci fa caso, anche lui stesso profuma di spezie e vaniglia. Ha ancora il fiatone, le guance calde, un sapore non suo sulle labbra.
“È reale”.
-John?- chiama Edarion. –Cosa hai visto?-
Quelle sensazioni, quei respiri. Non erano solo nella sua testa. Li ha vissuti veramente. Sherlock l’ha baciato, abbracciato, chiamato.
John solleva lo sguardo, fissa la biblioteca che lo attornia. Il soffitto sulla sua testa è nuovo, apparentemente appena costruito. Contro i muri s’intravedono degli scolorimenti, come se qualcosa di grosso avesse dimorato a lungo davanti alle pareti. Dal soffitto, pende il gancio inutilizzato di un grosso lampadario.
La biblioteca esiste. C’è sempre stata e John la vede soltanto adesso. La sente respirare attraverso le pareti, rivivere di quei ricordi mai dimenticati, mai spazzati via. Quella biblioteca… è viva.
-John, rispondimi. Hai parlato con Sherlock?-
John incrocia lo sguardo di Edarion, legge in esso tutto il dolore vissuto, assimilato, che poco a poco l’ha invecchiato e trascinato al suolo, debole di una sofferenza smisurata. Edarion è soltanto un lascito, un’ombra dimezzata di un antico intero. Ha perduto un pezzo importante, è rimasto da solo. Adesso, si trascina per il mondo, troppo debole per reagire, troppo spezzato per rialzarsi con le sue uniche forze. Nei suoi occhi, John legge un’ultima scelta. La guerra è l’unico fattore che lo tiene in vita: combatterà per realizzare l’ultimo desiderio di Nevora, poi potrà andare.
John osserva, capisce il reale significato della sua unione con Sherlock: perderlo significherebbe ridursi come Edarion. Nessuna luce, nessuno scopo.
Sherlock è il fulcro di tutto, John lo capisce solo adesso. È grazie a lui se i presenti, umani e draghi sono riuniti lì.
È grazie a lui se John respira, se vive davvero.
È grazie a lui se finalmente, qualcosa si muove.
Così come il mondo cambia al mutare del giorno, così infine la guerra freme, perché una scintilla di speranza sopravvive e s’accumula lì, negli occhi di pochi importanti soggetti raggruppatisi al cospetto di una realtà ben più grande. Appaiono tutti così piccoli, così insignificanti. Carne e ossa, pelle e squame. Eppure, niente li differenzia l’uno dall’altro. Non si guardano più con diffidenza, non mantengono le distanze. Al contrario, draghi e umani paiono mescolarsi lì, al cospetto della luce lunare che ha sempre irradiato da Sherlock.
Mycroft non s’allontana da Greg.
Molly e Irene si scambiano occhiate d’intesa, che soltanto donne simili, vicine, sanno capire.
Mrs Hudson stringe Noah tra le braccia, affettuosa come madre anziana, gentile come soltanto lei è sempre stata.
Mike, Edarion e Anthea non pongono distanze l’uno dall’altro, come se la reciproca vicinanza non li scottasse minimamente.
Secoli di battaglie, di odio, di rancori… dimenticati lì, nella stessa casa dove la guerra stessa è cominciata. Fu Sherlock l’accusato di aver assassinato definitivamente sua madre, e adesso da Sherlock irradia un nuovo giorno, una nuova possibilità di pace.
-John.- chiama Greg, e allora John reagisce. Leva lo sguardo lentamente, con calma moderata. Gli occhi di tutti, sono fissi su di lui. Attendono come soldati al cospetto del generale, credono in colui che lentamente si rialza senza spezzarsi, senza crollare.
Gregory, con la sua fedeltà di amico. Ha perso il lavoro di una vita, ha perso tutto a causa di John. Eppure, ai comandi di John si piega. Fa un passo avanti, lo guarda dritto negli occhi.
-Era Sherlock Holmes, dunque. Risolveva lui i casi più difficili. Se così è realmente, allora gli devo molto.-
E lentamente, dinanzi al sole che poco a poco cala in una lenta ascesa verso il crepuscolo, Greg prende le mani di John, le bacia e con eleganza s’inginocchia.
Molly Hooper, antica compagna d’avventure, donna sbocciata troppo in fretta, amica che con occhi di giovane donna ha guardato i draghi, accettandoli gentile, caritatevole come è sempre stata.
-Guidaci tu in sua assenza, John. Ricostruisci il mondo.- S’inginocchia anche lei, prostrata ai piedi di una speranza che poco a poco cresce, divampa nel mondo che finalmente, ricomincia a respirare.
-Sapevo che saresti diventato un grande, tesoro mio. Dopotutto… sei mio figlio.- Mrs Hudson sorride tra lacrime anziane di sollievo e anche lei, con fatica, si prostra, imitata da Mike. Lui non ha bisogno di parole. John sa già.
Come per incanto, dinanzi alla luce ambrata del crepuscolo ormai iniziato, i draghi avanzano. Insieme, coordinati come sol corpo. Si portano intorno a John, disposti in un unico, regale cerchio.
Noah, Irene, Edarion, Mycroft, Anthea. Lentamente, spiegano le ali verso l’alto. toccano il soffitto, spingono con forza. Una ragnatela di crepe si sprigiona sopra le loro teste e i detriti cominciano a piovere implacabili, senza ferire. Il soffitto si sfonda, libera di grazia le immense masse alari dei figli del cielo, padroni del vento e signori del fuoco.
La luce cade, bagna ogni squama, ogni vela alare. E improvvisamente, l’arcobaleno sboccia intorno a loro, lungo il cielo. Sale in alto, riflettendosi contro la pedana gigantesca che accoglie i draghi defunti. In un istante, il cielo del mondo si colora, bagna di aurora boreale ogni viso, ogni sguardo stupito, annunciando all’intero pianeta che sì, una nuova era sta per cominciare. E stavolta, si lotterà per guarire il mondo.
È una promessa, è un giuramento.
Per Sherlock, per coloro che, innalzati gli occhi al cielo, invocano speranza.
Finirà ogni cosa, in un modo o nell’altro. Un’ultima battaglia, un ultimo respiro profondo prima del balzo finale. È il momento di combattere davvero.
 
-Non se ne parla! Non ho mai cavalcato un cavallo, figurati un drago!- esplode Greg, gesticolando furiosamente. Indica il cielo, dove i draghi sono spariti qualche minuto prima. John li ha guardati innalzarsi nella notte, splendenti come diamanti, surreali come il più lontano dei sogni. Solo Anthea è rimasta al loro fianco per sorvegliarli come pallida guardiana silenziosa. Copre la sua nudità con le possenti ali di un rosa perlaceo, morbide come vesti di seta, eleganti come vestigia di madreperla.
-Posso farti una domanda?- chiede Mike, guardandola di soppiatto. Non pare volersi accostare troppo alla lontananza di quella bellezza elegante, ultraterrena, figlia del cielo e del fuoco. Però la guarda, non le stacca mai gli occhi di dosso. Al contrario, Anthea mantiene un profilo rigido, insensibile. Mike sa bene che non si farà accostare, ma la guarda lo stesso come si guarda un gioiello prezioso o una macchina costosissima.
-Mmm… sì, ma non ti assicuro una risposta.- ribatte lei senza staccare gli occhi da Greg e John che litigano.
-Quel drago… Mycroft Holmes. È enorme. Mentre voi siete più piccoli, mi è parso di vedere: come mai?-
Anthea sorride, il primo vero sorriso che Mike le vede sbocciare sulle labbra.
-In realtà, la grandezza dei draghi dipende dalla razza a cui appartengono. Noah ad esempio, non crescerà più di così. Io sono due volte più grossa, ma mi sono fermata. Oltretutto, i maschi sono più grandi delle femmine. La razza di Mycroft Holmes è molto rara, anche se meno di quella del fratello. Tuttavia… Mycroft e il padre sono grandi la metà di Sherlock.-
Improvvisamente, John e Greg si zittiscono e tutti gli occhi puntano su Anthea, ancora placidamente serena.
-Scusa?- mormora Greg.
-Cosa? Ho detto che Sherlock è grande il doppio. Che c’è?-
Nessuno parla, nessuno osa fiatare.
John ripensa a quando ha colpito Sherlock, il giorno in cui si sono conosciuti. Il cielo era oscurato dalle ali gigantesche dei draghi in attacco, ok. Ma, a pensarci bene… c’era qualcosa dietro le nuvole, come una massa gigantesca e abbastanza grande da occupare molto più dell’intero cielo di Londra. Si sta parlando di un drago grande quanto e più della stessa bestia che ha quasi ammazzato Sherlock.
Insomma, una creatura così grande avrebbe potuto annientare Londra semplicemente sbattendo le ali con più forza. Il solo vento di quelle immense vele avrebbe spazzato via persone, auto e palazzi. Invece, nessuno dei giganteschi Holmes è mai sceso in campo e, quando Sherlock è caduto su Londra, lo ha fatto in versione umanoide, come se…
-Lui non ha mai voluto distruggere gli umani.- soffia John, e in quel momento sente che è vero.
L’uomo ha sottratto a Sherlock la vita stessa. Ha perso la madre, la reputazione, gli amici e i parenti. Ha vissuto come un’eremita, chiuso in se stesso e nel suo Mind Palace, unico luogo di riposo che gli abbia mai concesso pace. Tutto, a causa di un piccolo, sciocco umano.
Eppure, Sherlock non ha mai cercato vendetta. La logica l’ha fermato, ha fatto sì che ogni sentimento di rabbia si racchiudesse in un’unica stanza dalle pareti d’acciaio. Lì forse, l’odio è morto definitivamente.
John ripensa alla sua, di storia. I draghi hanno ucciso la sua famiglia, distrutto la città, massacrato la sua gente. E lui… si è arruolato per vendicarsi. Non è mai stato un soldato. Non è mai stato veramente umano.
-E i draghi? Perché mutano aspetto?- domanda Mrs Hudson, interrompendo il filo dei pensieri di John.
Anthea incrocia le braccia al petto, chiude gli occhi in un’espressione concentrata.
-In realtà, nessuno di noi può saperlo. Evoluzione. O almeno, così la pensano Sherlock e Mycroft Holmes. Purissima evoluzione. Un po’ come quella che ha spinto gli esseri umani a diventare unicamente bipedi e fisicamente sviluppati. Il nostro è un meccanismo di autodifesa.-
John annuisce, comprensivo. Ma in quel momento, sopra le loro teste si sprigiona un arcobaleno di luci. L’aurora boreale rischiara la notte, spiega le sue appendici verso gli angoli dell’universo mentre, sotto gli occhi stupiti dei presenti, quattro splendide creature calano dal cielo, distaccandosi lucenti dalla volta celeste come bellissimi  astri caduti.
Per quanto possano splendere i draghi, nessuna lucentezza è imponente come quella, e in secondo luogo, John ne carpisce il motivo: armature. I draghi indossano le armature.
Splendide, di diamante, modellate alla perfezione sul fisico scolpito di ogni creatura. Si adattano ai petti, ai dorsi, lungo spalle e colli. Gli elmi ricoprono le parti superiori delle teste, lasciando libere mandibole possenti, irte di zanne atroci. Da massicci fori sagomati, sbucano occhi, creste e punte acuminate, micidiali.
Ogni armatura è incisa di simboli eleganti, longilinei, lucenti come polvere di stelle. Simboli che mormorano qualcosa, che narrano una storia, forse. Probabilmente, l’ultima storia che il suo proprietario porterà in battaglia.
John osserva meglio, e nota che soltanto le armature degli Holmes sono più brillanti degli altri. Ogni placca risplende di luce propria e si scolpisce di venature bronzee per padre e figlio, entrambi appartenenti alla stessa razza. Ogni linea converge al centro del petto e della fronte, dove, in entrambi i casi, spiccano lucenti enormi pietre di forma ellittica, ma che John non ha mai visto. Al loro interno si agita una nebbia dorata, lucente come polvere di diamante.
Mycroft porge un cenno ad Anthea, e anche lei si leva in volo verso il cielo, verso la sua armatura.
John non ha bisogno di chiedere da dove hanno preso quelle placche luminose. La pedana che sorregge i defunti draghi sopra le loro teste, è fatta dello stesso materiale delle armature.
John pensa a Sherlock, a come potrebbe essere la sua, di armatura. Non l’ha mai visto in forma di drago. Ha sempre avuto paura di chiederglielo, e adesso se ne pente.
Quanto tempo perso, quante cose non dette. Al solo pensiero, John si sente male.
-Oh, caro.-
Mrs Hudson gli accarezza il braccio, poi fa scivolare le mani sulle guance di John. Lo guarda da vicino, con occhi luminosi di madre orgogliosa. Sorride raggiante, annuisce, gli accarezza le guance coi pollici callosi.
-Lo troverai. E quando succederà, portalo da me. Voglio conoscerlo bene, riempirlo di domande. E, se ti farà soffrire, questa guerra gli sembrerà niente in confronto a ciò che gli farò passare io.-
John sorride a sua volta e la stringe con forza, figlio di sua madre, figlio dell’amore che nutre per lei. Mrs Hudson l’ha accolto, ascoltato, aiutato. Gli ha salvato la vita.
Forse John non tornerà, forse quello sarà il suo ultimo volo. Però vuole dirglielo, perché Mrs Hudson merita di sapere, merita di sentirsi madre così come ha sempre voluto essere.
-Ti voglio bene.-
Tre parole genuine, ingenue, leggere come carezza di bambino. Avvolgono Mrs Hudson, le riempiono gli occhi di lacrime commosse. Quello è suo figlio. Il suo John, il bambino che ha raccolto dalla strada per dargli una vita, un appartamento, degli amici. Ricorda le lacrime di quello stesso bambino quando, la notte, piangeva al ricordo della sua famiglia distrutta e Mrs Hudson non poteva fare altro che ascoltare e sentirsi impotente.
Adesso però, è cambiato qualcosa.
John è sbocciato, ha ritrovato un’alba tutta sua. E finalmente, si sente a casa, pronto ad abbracciare la famiglia che non ha mai creduto di avere.
Sherlock… chiunque tu sia, grazie per questo miracolo.
Si separano con calma, entrambi coi volti bagnati di lacrime. Mrs Hudson si solleva sulle punte dei piedi e bacia John sulla fronte. Profuma di pulito, di casa. Profuma di mamma.
-Salvalo, John. Se lui è davvero la tua alba, e sono certa che lo è… allora la sua salvezza rasenterà la tua, figlio mio.-
John annuisce, separandosi da lei. Le volta le spalle perché è l’unica cosa che può fare, perché sa che se la guardasse di nuovo, non andrebbe più via.
Noah china il capo e con calma, spalanca la bocca.
Le zanne atroci brillano candide alla luce della luna mentre la lingua guizza all’esterno, lasciando cadere quattro pistole cariche che ognuno raccoglie con cautela, storcendo la bocca al viscidume della bava che ricopre il metallo.
-Ehm… grazie, ma io non la so usare.- dice Mike, guardando Noah intimorito.
Il drago accosta entrambe le teste al gruppetto per squadrarli coi brillanti occhi violetti. Li giudica, li studia.
E improvvisamente, John carpisce l’avvertimento silenzioso, le parole non pronunciate ma importanti che sa di dover esprimere ad alta voce.
-Dovremo combattere, Mike. Nulla sarà come prima e… una volta saliti in groppa, non si torna indietro. O si vince o si muore, stavolta.-
I presenti trattengono il respiro mentre assimilano il significato di quelle parole. O morte, o vittoria. Nessuna via di mezzo. È un gioco pericoloso, forse l’ultimo al quale giocheranno tutti loro. Sono numericamente inferiori, più deboli, insignificanti. Eppure, nella loro piccolezza, si sono dimostrati un tangibile punto luce abbastanza luminoso da riunire le persone e spingerle a difendere la loro causa.
C’è chi ci crede, c’è chi ancora prega per loro.
Greg solleva lo sguardo e incrocia uno dei giganteschi occhi chiari di Mycroft Holmes. Si perde nell’antichità di quello sguardo, nella profondità di troppe esperienze vissute, respirate, accolte. Lascia che il drago lo giudichi, che studi ogni anfratto della sua anima. Per la prima volta, dinanzi a quell’unico, gigantesco occhio brillante, Greg si sente misero come granello di sabbia al cospetto di Dio stesso.
Mycroft sbatte gli occhi, poi china il capo e adagia la testa gigantesca, grande quanto mezza Londra, ai piedi di Greg. Continua a fissarlo, a chiedere. Lui, la sua scelta l’ha già fatta.
-Cosa aspettiamo?-
Greg balza verso Mycroft, intasca la pistola e con grazia si arrampica lungo il collo, sulle squame grosse più di lui, su fino alla testa, dove si accuccia accanto a una delle gigantesche corna di indistruttibile acciaio brillante. Sorride dall’alto con una vena di nervosismo mentre Mycroft solleva il capo e lo innalza verso il cielo, quasi oltre le nubi, vista la sua considerevole altezza. Greg urla, ma non è un grido di terrore: è un verso di pura adrenalina, di libertà, di leggerezza.
-Ehm… va bene, allora. Non posso essere da meno.- mormora Molly mentre Noah china il capo accanto alla sporgenza rocciosa per condurre una delle teste, coperta dall’elmo, all’altezza della ragazza.
Molly balza con agilità inaspettata e anche lei, scivolando sull’elmo, raggiunge finalmente il corno più vicino di Noah. Vi si aggrappa, stringe forte la pistola nell’altra mano e improvvisamente, nel suo sguardo cambia qualcosa. Ricorda i dolori della guerra, la sua famiglia devastata, le lacrime di John dinanzi ai corpi massacrati dei genitori e della sorella. Molly ricorda, si avvolge di quelle memorie. E improvvisamente, la donna che c’è in lei sboccia davvero, distende petali di decisione e scelta irremovibile verso lo stesso cielo in cui la innalza Noah, sollevando il capo.
Mai più violenza. Mai più guerre. Mai più.
-A… andiamo.- mormora Mike, e con difficoltà si arrampica sul capo di Anthea, che grugnisce infastidita. Scrolla la testa, facendo scivolare Mike verso il corno più vicino, al quale l’uomo si aggrappa disperato, sudando freddo e tremando di paura.
-È il mio turno, immagino.- sorride John, mentre Edarion china il capo e lo fissa con un brillante occhio chiaro. Sbatte le palpebre crepitanti di squame e annuisce appena.
John non ha bisogno di aiuto per arrampicarsi. Gli sembra di non aver fatto altro per tutta la vita.
Sherlock, sto arrivando!
 
Sherlock non può credere di essere stato così stupido. Ha camminato per ore lungo i corridoi del suo Mind Palace, vagando stordito da una stanza all’altra. Ricorda molto poco, di quegli istanti. Sua madre gli ha parlato, cercava di scuoterlo, ma lui non riusciva a schiarirsi le idee. Di riflesso, il Mind Palace non faceva che vibrare, sbiadirsi, vacillare instabile su fondamenta indebolite. Eppure, in quel caos confusionale, Sherlock ha vagato per ore. Non sa cosa cercava, e forse non lo capirà mai. Però non si è mai fermato, nemmeno quando sua madre ha cercato di farlo sedere e calmare.
Adesso Sherlock riapre gli occhi, respira a fondo per combattere il dolore. La vista si ricopre di puntini neri e bianchi, luminosi e in continuo movimento. Non è un buon segno.
Si guarda intorno, cerca di muoversi. Non ci riesce.
Sbatte le palpebre nel vano tentativo di schiarirsi le idee e finalmente realizza la situazione: spesse catene d’acciaio gli bloccano polsi, collo, caviglie, coda, corna e ali. In quella posizione, Sherlock è costretto in ginocchio, con braccia spalancate come innocente crocifisso e testa reclinata all’indietro, verso il cielo. La spalla ferita sanguina di nuovo e, a giudicare dal forte odore e dall’intero fianco già zuppo, Sherlock deduce di star velocemente dissanguando. Possibile che non se ne sia accorto? Da quanto tempo è incosciente?-
Annusa l’aria, tende l’orecchio al suono delle onde. Mare. Stanno virando a ovest, a giudicare dalla leggera inclinazione della nave.
Sherlock si concentra, sposta in giro lo sguardo annebbiato di dolore e stordimento. Conosce quella sensazione. O almeno, l’ha studiata bene sui libri. Lo stanno drogando pesantemente.
Udito. Olfatto. Voci. Odori. Ci sono… trentasei persone per nave. E in tutto, le navi sono circa quaranta. Insomma, buona parte dei sopravvissuti si è imbarcata, e lentamente, Sherlock capisce perché.
Annusa nuovamente l’aria, istintivamente volta appena la testa verso l’odore di draghi, di casa, di salvezza. E la nave vira.
Sherlock accusa il leggero urto contro la banchina di sabbia, trattiene il respiro quando capisce dove la sua stupida istintività li ha portati.
-Preparatevi. L’abbiamo trovato.- urla Donovan, ferma a pochi passi da Sherlock. Si volta a guardarlo, sorride ferina alla sua occhiata di gelida calma. –Grazie per averci condotto qui, bestiaccia.-
Stranamente, Sherlock sorride a sua volta con fare altezzoso, innervosendo Donovan.
-Aspetta a ringraziarmi.- risponde, dall’alto della testa sollevata e reclinata all’indietro.
Donovan si costringe a ignorare quelle parole intrise di sadico divertimento. Irrigidisce i muscoli, prova a distrarsi. Al contrario però, sente che c’è qualcosa di terribilmente reale in quella minaccia velata.
-Capitano!- urla l’uomo più vicino all’entrata della montagna. Indietreggia, sbarra gli occhi alla vista di un’ombra in movimento.
Il silenzio abbraccia l’ambiente, spinge ogni uomo a trattenere il respiro, a immobilizzarsi sul posto. Nessuno si muove, nessuno fiata. E paradossalmente, l’eco di passi leggeri sulla pietra appare forte come rumore di spari a raffica.
La montagna è in silenzio, placida come acqua immobile prima dello tsunami devastante. Istintivamente, Donovan stringe le dita intorno al calcio della pistola e sporge la mandibola, pronta alla battaglia. Qualunque cosa stia uscendo dalle ombre, non è loro amica.
La figura avanza, muove elegante ogni passo misurato, ogni battito d’umane palpebre. Poi, pochi istanti prima di emergere dalle ombre, la creatura parla con voce acuta, irrisoria, come verso d’un pazzo. E ogni uomo, ogni donna e anziano, capisce improvvisamente di aver compiuto il più grande sbaglio della sua vita.
-Jim Moriarty. Ciao.-
 
Angolo dell’autrice:
E finalmenteee… LUI E’ QUI!!! E non sto applaudendo perché ho un mirino da cecchino puntato alla tempia. No, affatto. Ehm… può bastare? Sì? Ok… spazio ai ringraziamenti!
Ringrazio dal profondo del cuore coloro che con semplici parole hanno saputo incitarmi a scrivere ancora e, specialmente, a non scoraggiarmi. È una salita ancora lunga da percorrere, ma scrivere mi aiuta, e voi… voi mi aiutate più di qualsiasi cosa. Quindi, a voi dedico ogni sforzo, sempre. Grazie a:
Kimi O Aishiteiru
Bbpeki
_RockEver_
Wibbly Wobbly Timey Wimey
Sonia_0911
Grazie ancora, e a prestissimo!

Tomi Dark Angel

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Capitolo 24
*** Comandante ***


Jim Moriarty. Parole così semplici, espresse con canzonante fermezza. Sono solo lettere, figlie di nome troppo ordinario, troppo normale per appartenere a un soggetto simile.
Se il Diavolo assumesse sembianze umanoidi, di certo avrebbe lo stesso aspetto di quella creatura. Elegante, impeccabile nella leggera andatura di fascino magistrale. Ondeggia appena il capo, guardandosi intorno con bizzarra sorpresa. Sembra capitato lì per caso, vittima di indicazioni sbagliate o distrazione involontaria. Vittima.
Jim Moriarty. Drago, umano? Demone? Forse, l’ultima parola vale più delle precedenti. Glielo si legge negli occhi scuri senz’anima, ove pupilla verticale è appena visibile. Avanza impettito, le labbra distese di perfido sorriso. Non parla più, non adesso. Due parole sono bastate, poche lettere per annientare perfino lo scorrere del tempo. Piega i rumori ad ogni passo, annienta respiri ad ogni soffio vitale. Semplicemente, Jim Moriarty uccide vivendo.
Poco a poco che la sua figura emerge dalle ombre, i presenti cominciano a scorgerne i dettagli. Corna appena ricurve da stambecco color bronzo lucente, scaglie di purissimo acciaio argentato, brillante, indistruttibile. Percorrono di protezione la pelle chiara di fantasma, affondando nel completo classico di camicia, giacca e cravatta. Oltre i bordi dei pantaloni, sbucano le zampe posteriori artigliate, ricoperte di scaglie tanto preziose quanto aggressivamente metalliche. Moriarty ha capelli neri pettinati all’indietro, coda scudisciante che emerge da un grosso buco sul retro dei pantaloni e ali tanto grandi da tappare quasi totalmente l’entrata della grotta semplicemente stando ripiegate. Morbide di vele argentate e ossa grigio scuro, possenti, vibranti di potenza. Brillano quasi di luce propria mentre rigettano riflessi sinistri sulle punte assassine che ricoprono il dorso della coda abbastanza lunga e massiccia da poter abbattere una nave con un colpo solo.
Moriarty avanza ancora, quasi raggiunge le persone più vicine che, paralizzate, lanciano occhiate intimorite alle corna micidiali e alla coda che minacciosa, sguscia come serpe in caccia alle spalle del drago. Si ferma. Moriarty non avanza più.
-Ma che bella accoglienza. Oh, che sbadato! Devo aver dimenticato che oggi è il mio compleanno! Tanti auguri a me! E grazie per questi splendidi doni!-
Moriarty allarga le braccia e sorride spavaldo, inchinandosi elegantemente ai presenti.   
-Specie per quel regalo laggiù. È un bellissimo giocattolo.- asserisce, indicando Sherlock con un cenno.
La Furia Buia non reagisce, non solleva lo sguardo. Non ne ha la forza. Ha perso troppo sangue e, di certo, la droga che gli iniettano in pesanti dosi attraverso l’ago infilato nel braccio, non aiuta.
-Oh, non ditemi che l’avete già rotto… -
Silenzio. Nessuno fiata, nessuno s’azzarda a rispondere. Moriarty rotea gli occhi, poi li sbarra all’inverosimile.
-Dovrete riparare i danni, sapete? O questo, o vi scuoio uno dopo l’altro.- Sorride amabilmente, oscillando velocemente la testa a destra e sinistra. –Ma sono generoso, quindi a voi la scelta. Scegliete? Io proporrei lo scuoiamento, ma stranamente nessuno sceglie mai questa opzione. Chi prima di voi l’ha provata tuttavia, non si è mai lamentato.-
Ancora una volta, nessuna risposta. Moriarty avanza di un passo e i più vicini stringono forte le armi, tremanti di sudori freddi e denti appena digrignati.
Il corpo avverte automaticamente il pericolo, si dice. È vero, è naturale. L’uomo dopotutto, è per metà bestia, e mai come in quel momento, i presenti si vedono costretti a lottare per combattere l’istinto di fuggire, di mettersi in salvo.
Moriarty trasuda pacifica furia omicida. Pericolo. Rabbia covata. Morte.
La gente indietreggia.
-Ve ne andate?- esclama Moriarty, trasalendo in maniera teatrale e assolutamente fasulla. Si porta le mani al petto, sbatta la bocca e gli occhi in un’espressione di assurda sorpresa. –Alla mia festa? Oh, non se ne parla proprio. Devo ancora scartare i regali.-
Piega la testa da un lato, flette gli angoli delle labbra verso il basso. Poi, improvvisamente, la sua falsissima espressione di tristezza si distende, muta. E poco a poco, assume il suo vero volto.
Sulle labbra di Moriarty sboccia un sorriso, gli occhi si spalancano, le ali lentamente si spiegano in metri e metri di terrificante cappa argentata.
-Comincerò a scartare voi.-
La gente ha appena il tempo di carpire il pericolo imminente, di voltarsi per fuggire, quando Moriarty spalanca la bocca ed esplode dalle umane fauci un inferno di fiamme. Lingue vermiglie s’allargano tutto intorno, distendendosi per metri e metri in un’esplosione di calore e grida sofferenti d’umani morenti. I diretti esposti alla fiammata, si consumano velocemente in carne rarefatta, ossa, convulsioni di nervi sciolti dal calore. In brevi istanti, di loro non restano nemmeno le armi, ormai fuse in mucchi ancora liquidi di metallo inutilizzabile.
La fiammata si estende in tutta la sua violenza e colpisce col fragore di un uragano la fiancata della nave più vicina. Quella esplode in un oceano di metallo e legno che inarrestabile si riversa nell’aria in un ventaglio di schegge.
Alcune trafiggono persone innocenti, altre ancora si riversano in mare, abbandonate di ricordi che le ricordano come parte d’una nave integra e perfettamente funzionante.
La gente urla, scappa, si getta in acqua. Non tutti riescono a fuggire.
Improvvisamente, Moriarty sbatte le ali gigantesche, scatenando un vento possente, intriso di violenti mulinelli e raffiche graffianti di artigli invisibili. Altre due navi si capovolgono, un’altra viene spazzata via e quasi si solleva dall’acqua, trascinata dall’uragano come piuma trasportata dal vento.
Un’altra vampa di fuoco, un altro inferno di fiamme brucianti, violente. Un’altra nave esplode, fragile come carta velina. Nessuna pietà, nessuna resistenza. La gente urla, brucia, implora pietà. Da quella nave, nessuna vittima riesce a scendere. Muoiono lì, mosche insignificanti al cospetto di una ben più grande minaccia assassina e senz’anima.
Moriarty avanza lentamente, le labbra socchiuse dalle quali fuoriescono volute di fumo nerastro, sporco come l’anima che lo produce. Cammina tra le fiamme, calpesta la terra bruciata senza scottarsi. Finanche i suoi abiti paiono assorbire il fuoco.
Intorno a lui, l’inferno. Corpi anneriti e ancora scossi dalle convulsioni, uomini e donne che impotenti si rotolano al suolo, ai suoi piedi, come schiavi insignificanti. Alcuni invocano aiuto, altri muoiono ancor prima di riuscire a farlo. Nell’aria si spande il puzzo di sangue e carne bruciata mentre poco a poco, l’erba che ricopre il terreno s’infiamma, da verde pare convertirsi al rosso cremisi e all’oro della devastazione.
Lentamente, Moriarty spalanca le ali, catturando metri e metri di larghezza. Le solleva sulle loro teste, inghiottendo il cielo, i colori, la luce. Improvvisamente, sui sopravvissuti cala un’ombra mortifera, giudiziosa, che implacabile calerà su di loro come scure di ghigliottina.
Moriarty solleva la coda, la fa ondeggiare allo stesso ritmo della testa che lentamente, oscilla come pendolo d’un orologio. Unisce le labbra e comincia a fischiettare, spensierato come un bambino. È un motivetto allegro, simile a orchestrale filastrocca d’infanzia. Accompagnata dalle grida sofferenti dei moribondi tuttavia, essa si tinge di mortifero avvertimento, venato d’orrore nauseante.
La coda s’abbatte, tranciando in due sette uomini che invano tentavano la fuga. Sherlock li sente gridare, li guarda dimenarsi e coprirsi d’ustioni mentre il fuoco divora anche loro. Soltanto tre muoiono sul colpo. Gli altri sopravvivono e poco a poco, con schiene spezzate e ossa frantumate, si coprono di spasmi e vesciche di carne viva, consumata di cadaveri.
Moriarty abbassa le ali, piantandone le punte ossee nel terreno fiammeggiante. Impala due cadaveri già consumati, ma ancora vittime di convulsioni nervose. Premendo su di esse, il drago si solleva e con grazia felina atterra sulla nave ancora integra dove giace Sherlock, affiancato da una Donovan tremante, indebolita, con occhi sbarrati d’orrore e consapevolezza d’aver condannato a morte inutili innocenti.
Moriarty la guarda col capo assurdamente inclinato. Sorride di un’allegria malata, figlia del dolore che tutto intorno si consuma in spirali di fumo annerite e corpi contratti di nervi bruciati. La luce rossa e oro che balugina sul suo viso, tinge di ombre demoniache i suoi zigomi e gli occhi, neri d’anima oscura.
-Cosa abbiaaaamo qui?- ride, strascicando la lettera “A” con fare teatrale. Donovan indietreggia scoraggiata, cade in ginocchio, trema dinanzi all’essenza stessa della devastazione.
Sono morti tutti.
I suoi uomini, i suoi soldati. Coloro che per brevi istanti hanno creduto in lei, affidandosi alle sue superbe decisioni. Adesso giacciono inermi su terra bruciata, senza più lacrime da versare, senza più grida da spendere. I pochi sfortunati ancora in vita, aprono e chiudono la bocca in cerca d’aria e con le ultime forze, rivolgono al loro capitano occhiate di sincera e disperata domanda: perché?
-Non dovevano morire… non dovevano morire così…-
Moriarty ride, una risata di gola, felice, che assorbe grata il puzzo di sangue e carne bruciata che infame si spande nell’aria.
-Oh, e come avresti preferito che morissero? Scegli, donna: come vuoi morire tu?-
La risposta, Donovan la conosce bene: non vuole morire. Ama la vita, il respiro che ansioso le riempie il petto d’aria malsana, la consapevolezza d’avere un corpo pulsante e ancora pienamente in funzione.
Indietreggia, incespicando impacciata nei suoi stessi piedi. Striscia come verme ai piedi del suo implacabile boia che annoiato distoglie gli occhi da lei per posarli su Sherlock.
-Oh, dolcezza.- mormora, afferrando delicato la siringa che sporge dal collo di Sherlock. –Che brutta bestia è la prigionia, vero? Così… soffocante. Però sai una cosa? Devo ammetterlo: vederti così, mi eccita terribilmente. Avrei voluto domarti personalmente, ma a quanto pare, le tue stesse manie di eroismo ti hanno tradito prima del mio arrivo. Peccato, cucciolo mio. Avrei voluto che Johnny-boy guardasse mentre ti uccido. E invece non lo farà. Dovrò improvvisare.-
 Lentamente, Moriarty fa scivolare una mano sul collo di Sherlock. Appoggia le dita con delicatezza di farfalla, solletica i suoi capelli con fare giocoso, morbido, quasi seducente.
Sherlock sa bene che quel gioco, potrà concludersi in un unico modo. Moriarty ama i giocattoli nuovi, li ha sempre amati. Ma lui è già vecchio, nel suo essere novità interessante agli occhi dell’altro drago.
Sherlock alza gli occhi al cielo. Lo vede scurirsi, tingersi di nuvole cariche di pioggia.
Piangerà il cielo, quando perderà uno dei suoi figli? Piangerà come quella notte, quando Sherlock perse sua madre, quando ogni cosa ebbe inizio? Sherlock non è abbastanza cosciente da dedurlo. È insensibile, stordito, pensa appena. Il suo Mind Palace è racchiuso in un bozzolo silenzioso, assopito, fragile di vulnerabilità.
Quando Moriarty solleva una mano artigliata, sorridendo amabilmente, Sherlock già non pensa più: abbandona il capo sul petto, respira lentamente. Non è il suo posto, quello. La terra, la prigionia. Lui morirà così. Misero, debole, spezzato. Forse, ha sempre meritato questo.
Qualcosa gli scivola intorno al collo, stringe d’implacabile morsa d’acciaio sulla giugulare. Sherlock socchiude gli occhi, incontra quelli rossi di fiamme di Moriarty.
-Affonda con la tua nave, capitano!- esclama, esibendosi in un grottesco saluto militare, che con l’inferno stesso che si scatena ardente alle sue spalle, appare minaccioso più di qualsiasi altro incubo mai partorito da mente umana e non.
Improvvisamente, Moriarty si solleva di nuovo. Affonda le punte delle ali nel terreno, innalzandosi come mefitico angelo della morte su Sherlock, sul mondo intero. Inspira a pieni polmoni, inalando l’aria putrefatta di cadaveri e carne ustionata dalle fiamme.
“Sherlock?”
Sherlock sorride di quel miraggio, s’abbraccia sereno di quella voce lontana, calda, profonda. Una voce umana, che dopotutto, gli appartiene. John.
La fiammata parte improvvisa, violenta come lama di falce assassina. Esplode dalle labbra di Moriarty, rovesciando altri riflessi demoniaci sui cadaveri contorti alle sue spalle, nei loro occhi vitrei, nelle orbite vuote ormai ospiti di sole ustioni laceranti.
Le lingue roventi si schiantano come macigno tangibile, massiccio, contro la nave.
Sherlock non sa cosa lo sbalza in acqua con violenza, non sa perché il suo udito ben più che sensibile sia improvvisamente ridotto a un fischio acuto e continuo, che annienta qualsiasi altro rumore. Non sa, non capisce. Non si accorge nemmeno dell’ancora che, arpionata alla catena che Moriarty gli ha stretto intorno al collo, lo trascina giù, verso il fondale.
Sherlock non ha la forza di annaspare, di analizzare la situazione. La stanchezza è troppa, e stringe la sua morsa ad ogni istante. Semplicemente, Sherlock Holmes non ce la fa più.
Inspira a fondo, inalando grato l’ultima boccata d’acqua coi suoi polmoni da Furia Buia. Una volta, sua madre gli disse che nuotare è un po’ come volare liberi nel cielo. Sherlock ci provò, e sentì che era vero.
Guarda in alto, verso la superficie arrossata di sangue e fuoco. Si rivede bambino, intento a danzare nell’acqua allora pulita, limpida come cristallo liquido. La fendeva con le ali, sgusciava la lunga coda serpentina per cambiare direzione. Sherlock amava nuotare, e lo ama tutt’ora. Tuttavia, adesso che la catena d’ancora si stringe poco a poco intorno al collo, soffocandolo, Sherlock sa di dover morire così, ingabbiato e misero nello stesso elemento che un tempo lo rendeva libero e glorioso come tsunami inarrestabile.
Le ali s’appesantiscono, la coda lo trascina giù. Improvvisamente, Sherlock appare pesante, abbandonato come corpo già defunto.
John.
Un ultimo sguardo alla luce, un’ultima preghiera all’unica persona che Sherlock abbia mai amato.
John.
Quella voce, quegli occhi cangianti, quelle mani di ruvido soldato. Quell’anima intrisa d’umana pietà.
John.
Era il suo John, il suo guardiano. Sarebbe rimasto con lui fino alla fine, disse, ma Sherlock è contento che non sia così: John vivrà, andrà avanti. Ma senza di lui.
Sherlock chiude gli occhi, lascia che gli ultimi rimasugli d’aria spariscano dai polmoni soffocati. S’abbraccia dei pochi ricordi felici mai vissuti, ricorda quegli istanti di pura libertà assaporata insieme a lui, insieme alla sua anima gemella. Sherlock avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto confessargli tutto. Ma per lui, c’è sempre stato tempo. Adesso però, il tempo non c’è più.
Sherlock si abbandona, abbracciato dal silenzio e dalla pace. Quasi sorride quando una voce lontana, così simile a quella di John, lo chiama dall’alto, invitandolo verso un paradiso così vicino, così prossimo.
Uno schianto, rumori violenti, grida. No, forse quello è l’inferno. Se solo l’inferno esistesse.
Qualcosa lo tocca, gli prende il viso tra le mani. Sherlock non reagisce, non ne ha la forza, ma lui… lui quel tocco, lo conosce bene. Se solo ricordasse il volto o il nome del suo proprietario.
“Sherlock?” chiama Nevora da molto lontano. Sherlock la sente camminare nella sua testa, sostituire le sue mani morbide di donna a quelle dell’uomo che gli solleva la testa. Sherlock resta immobile.
Devi aprire gli occhi, figlio mio.” dice lei, scuotendolo leggermente. Le sue mani, così come quelle dell’uomo, lo lasciano andare. Qualcosa intanto, tocca il collo martoriato di Sherlock.
“Devi concentrarti, Sherlock. Riattiva il Mind Palace, adesso!”
SHERLOCK!!!
“Concentrati!!!”
Con forza innaturale, Nevora lo schiaffeggia. Quattro profondi graffi gli si aprono sulla guancia, facendolo trasalire.
Qualcosa gli sfiora ancora il collo e improvvisamente, i polmoni di Sherlock bruciano, si gonfiano di respiri profondi. C’è aria!
“Concentrati!”
Un altro schiaffo, un’altra scossa di dolore.
Improvvisamente, la luce. Il Mind Palace trasale, vibra di pensieri e idee traboccanti. Dati, immagini, indizi. Colori, odori, sensazioni. Le porte si aprono una dopo l’altra, in rapida successione.
Suoni e ricordi visivi si riversano nei corridoi. Persone conosciute o solo minimamente studiate, piante, animali, ambienti. Tutta una vita di studio, di osservazione, rovesciata nella sua testa adesso che Sherlock ne ha bisogno, adesso che necessita di aiuto per rialzarsi, per risalire in superficie.
Sbarra gli occhi all’improvviso, tossendo e ansimando come fragile umano. Si guarda intorno, studia l’ambiente e la situazione.
L’ancora giace ai suoi piedi, abbandonata sul fondale dove due umani piedi poggiano precariamente, combattendo contro l’acqua che spinge in alto un corpo gonfio d’aria.
Sherlock solleva lo sguardo ancora annebbiato e incrocia gli occhi blu brillante di John Watson. Riscopre allora le profondità dell’oceano, in quello sguardo colmo di preoccupazione. Rivede lo stesso oceano che l’ha reso libero e leggero, fragile e potente come onda implacabile. Rivede la sua forza in quell’uomo che ancora gli stringe il volto tra le mani, fissandolo terrorizzato. È vita, quella che Sherlock sta guardando. È vita colui che gli tocca il viso, restituendogli il respiro, le emozioni, la speranza.
-John.- chiama Sherlock, espellendo dalle labbra centinaia di bollicine argentate. Sorride, lo abbraccia con forza e finalmente può baciarlo davvero, così come è accaduto nel suo Mind Palace.
Con dolcezza, affonda una mano nei suoi capelli, avvolge la coda intorno ai loro fianchi e chiude le ali in un bozzolo di stelle e aurora boreale. Schiude le labbra di John e gentile, soffia aria pulita di vaniglia e sapore speziato in quei polmoni così umani, ma anche così resistenti.
John inspira la sua aria, rivive, e finalmente, non ha più paura. Tocca il calore di Sherlock, abbraccia quel corpo così vivo, così amato. E alla fine, sa che Sherlock ricorda bene, sa che quell’incontro nel suo Mind Palace è presente nei suoi occhi, nella sua testa.
Con calma, Sherlock si allontana.
-Trattieni il respiro.- dice soltanto, e automaticamente, John si fida. Abbraccia forte il suo drago e stacca i piedi dal fondale mentre Sherlock batte le ali una sola volta, fendendo l’acqua con forza inaudita. Le loro teste infrangono la superficie del mare con violenza e in un istante, i loro corpi cono fuori, avvinti, intrecciati come pezzi d’unico puzzle.
Nel Mind Palace, Nevora sorride ferina, stringendo forte la spalla del figlio.
“Vinciamo questa guerra, figlio mio. Riprendiamoci il mondo!”
Dalle stanze, emergono d’improvviso persone, volti studiati almeno una volta e mai realmente conosciuti. Persone, dati, idee. Ognuno raggiunge Sherlock, ognuno si schiera alle sue spalle. Sono pronti, tutti loro.
Sherlock abbraccia forte John e spalanca le ali con tanta violenza da scatenare un’onda anomala che possente si riversa sulla terraferma, spegnendo gli incendi, spazzando via corpi ustionati e sangue. L’acqua pulisce, purifica, spazza via la crudeltà dell’omicidio per rimpiazzarla con la limpidezza dell’implacabile giustizia.
Sherlock si leva in volo, oscura il cielo con ali di oscura aurora boreale. D’improvviso, il grigiore di Moriarty retrocede ferito, con fatica si lascia rimpiazzare da un arcobaleno variopinto di colori e luce intensa, brillante come gocce di diamante che piovono dal cielo.
Alle spalle di Sherlock, giungono gli altri draghi. Noah, Irene, Mycroft, Anthea, Edarion. Ognuno abbigliato in tenuta da battaglia, ognuno fiero della sua scelta che forse condurrà alla morte. Tutti consapevoli, tutti così dannatamente giusti. Il mondo li osserva, giudica la loro grandezza. E alla fine, qualcosa cambia.
Edarion sbatte con forza le ali verso il cielo, spazzando via le nuvole cariche di pioggia. Improvvisamente, torna il sole.
Irene, Noah, Mycroft e Anthea oltrepassano Moriarty con battiti d’ali possenti e, artigliata la sommità della montagna, rifugio del male stesso, la spaccano in due, lacerandola, rivelandone il mefitico contenuto di lava bollente che tuttavia, dinanzi alle gelide raffiche di vento dettate da ali gigantesche, si raffredda e non cola lungo le crepe.
La storia può essere riscritta. La storia può cambiare.
-No!- ringhia Moriarty mentre gli umani ancora in vita applaudono, esplodendo in grida esaltate, vive, che rimpiazzano di respiri puliti l’aria intrisa di malefica morte.
Sherlock atterra sulla nave più vicina e lascia andare John. L’ex soldato lo guarda preoccupato, stringendo gli occhi per studiare profondamente quel volto intriso di gelida determinazione.
-Guidali, John. Guida il tuo popolo così come deve essere.- mormora Sherlock. Gli afferra il viso tra le mani e, piegato leggermente il busto, gli bacia la fronte in un gesto regale, fidato, che sa di ere passate e storia antica ma adesso viva grazie a quel contatto.
John sbatte le palpebre stordito, inebriato dal profumo di spezie e vaniglia che gli ricopre le narici. Guarda Sherlock negli occhi, poi lentamente si volta.
-John Watson.- chiama una voce dal nulla, e dalla folla, abilmente travestito con mantello e cappuccio, emerge Philip Anderson. Trascina Donovan per i capelli, e lei non ha neanche la forza di ribellarsi. Balbetta incontrollata, prossima alla pazzia, preda degli incubi più neri. –Cosa dobbiamo fare, capitano?-
 
Angolo dell’autrice:
Ok, il personaggio di Moriarty è più difficile di quanto avessi immaginato. Porco gatto.
Moriarty: lascia stare i gatti. Adoro i gatti.
E anche i pesciolini rossi. Sparisci, sto cercando di essere seria!
Mor: tu? Da quando?
JIM!!!
Mor: ho capito, ho capito. Sherlyyy!!! Giochiamo?!
E tanti saluti a Sherlock Holmes. Dunque, dove eravamo? Ok, sono in ritardo. Ho avuto qualche problemino più che serio, quindi… be’, ho fatto del mio meglio, abbiate pazienza. Ora, spazio ai ringraziamenti!
Wibbly Wobbly Timey Wimey: non mi sono ripresa del tutto, ma ti ringrazio per l’interessamento, mi fa piacere. Tantissimo! Comunque sì, Jim è arrivato. Ed è il solito figlio di… cagna. Allora, i capitoli non so a quanto ammonteranno, ma siamo vicini alla fine! Resisti!!! A presto, e grazie!
Kimi o Aishiteiru: mannaggia a te! Mi hai fatto riscrivere una parte del discorso di Moriarty per inserirci Johnnyboy! Ehi, Sherlock è tutto fuorché grasso. E credimi, nel prossimo capitolo si saprà com’è veramente. Tanti auguri a me. E no, ti hackererei l’account solo per avere il tuo indirizzo, prendere treno, nave, aereo o qualsiasi altra cosa, farmi trovare sotto casa tua e farti un regalo gigante per ringraziarti di tutti gli incitamenti che mi rivolgi! Detto questo, ti ringrazio ancora! A presto!
Sonia_0911: spero che la futura battaglia ti soddisfi come spero. Eheh, maestosità reverenziale? Devi ancora leggere di Sherlock e Moriarty versione draghi. Anche qui, spero di non deluderti. Le dimensioni saranno spropositate, ma spero di riuscire a muoverli a dovere. Be’, che dire? Grazie per il bellissimo commento e ti saluto! A presto!

Tomi Dark Angel

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Capitolo 25
*** La Caduta ***


Concepire scelte, non sempre è importante. L’uomo è una creatura effimera, che si tinge di bianco e nero, grigio e pallido argento. Poi, tra una fazione e l’altra, vi sono i colori: sottili, invisibili come piccole strisce di preziosità, ma vivi. Ognuno può cercarli, ognuno può afferrarne un filamento e tirare a suo rischio e pericolo. Potrebbe uscire il nero corvino, o il marrone sporco, ma qualcosa di diverso ci sarà. È una scelta, la possibilità di cambiare qualcosa.
Adesso, John Watson stringe tra le dita possenti di soldato tutti i filamenti possibili, tutte le scelte probabili. Ognuna di esse è una vita, un passato e un probabile futuro. E ognuna di esse, è legata alle persone che adesso lo fissano fedeli, ferme anche tra le fiamme divampanti e il puzzo di morte a stento ricoperto dal profumo d’acqua pulita.
Si fidano di lui. Si fidano delle sue scelte. Un filo, un solo filo. Una sola decisione.
-John.-
Qualcuno lo tocca, appoggiando mani leggere come ali di farfalla sui suoi avambracci fradici. Il corpo di Sherlock preme contro il suo, caldo e confortante, forte, vivo. Sopporterà con lui qualsiasi peso, qualsiasi scelta. È lì apposta. E John non ha bisogno di altre motivazioni per sentirsi forte.
Per Sherlock. Per il mondo intero.
-Combatteremo.- decide infine, e al suo più piccolo cenno, dalle navi si levano grida, incitamenti, scintillii d’armi luminose di rinascita. La gente si affida a lui, si schiera dalla sua parte. Per qualche motivo, ognuno di loro comprende, sa che il capo giusto da seguire è piccolo e gentile, con grandi occhi caritatevoli e mani grandi capaci di ferire e curare.
John si volta verso Moriarty, ancora fermo ai piedi della montagna distrutta, e urla. È un grido di battaglia, un grido di sfida, un incitamento alla rivolta che verrà. Nella sua piccolezza quasi insignificante di giovane umano, improvvisamente John Watson pare ingigantirsi, crescere, sbocciare in grandezza temibile, sovrastante. Moriarty si volta, incrocia furente lo sguardo di John.
Nero senz’anima e blu cobalto d’oceano inarrestabile.
Bestia assassina e uomo difensore, vivo di coscienza.
Rabbia omicida e bruciante fermezza.
Improvvisamente, tra le urla rinnovate dell’esercito che insorge e rinasce dalle ceneri, un’altra creatura si rivela: Sherlock Holmes avanza lentamente, raggiunge l’estrema prua della nave e si libera fluido del cappotto. Lo lascia cadere ai suoi piedi, esponendo al mondo il torso nudo, scolpito d’umana pelle e scaglie di oscuro diamante. Si accovaccia, artigliando bestiale la punta della nave ai suoi piedi, tra le ginocchia divaricate. Poi, senza preavviso, inspira a fondo e ruggisce al cielo.
Il suono è così forte, così terribile, che il mondo intero pare piegarsi. L’acqua vibra di potenza; in lontananza, ogni pianta si piega fin quasi a spezzarsi; il cielo trema intimorito, scuotendo finanche il sole calante non più alto sulle loro teste.
È un ruggito che scuote l’anima, che interrompe il corso del tempo e della vita stessi. Un verso bestiale, di gola, che nessuna creatura terrena riuscirebbe ad esternare.
Gli umani ammutoliscono e cadono in ginocchio, i draghi si voltano verso Sherlock e lo raggiungono in volo, imponenti come montagne, ma minuscoli al cospetto delle sue ali d’oscuro arcobaleno che improvvisamente si spalancano, inghiottendo cielo e terra, mare e sole.
Solo John trema appena, ma non di paura. Certo, non avrebbe mai creduto che Sherlock potesse esternare un suono simile, ma mai come in quel momento, ai suoi occhi, il suo drago appare nobile, vivo, possente. È l’ultima difesa, l’ultima sfida per la salvezza del mondo: stavolta, a scendere in campo non saranno i semplici draghi, ma gli dèi stessi.
Moriarty comprende allora la sfida, reagisce con tutta la rabbia che ha in corpo. Semplicemente, si sfila la giacca e ruggisce a sua volta, possente, inarrestabile, ma in qualche modo, non terribile come Sherlock.
C’è qualcosa di diverso in quel ruggito, qualcosa che lo distingue nettamente dall’altro, come cielo e terra, fuoco e acqua.
Uno spostamento d’aria. Un nuovo ruggito dall’alto, sulle loro teste. Poi, uno stormo di draghi compare dal nulla, sfondando le nuvole, oscurando il cielo. Bestie meravigliose, munite d’ali gigantesche e squame lucenti di zaffiri, rubini, diamanti. Colori luminosi che si riflettono su zanne snudate e artigli tesi nell’estremo attacco ai danni dell’umanità e della sua stessa salvezza.
Un esercito. Agli ordini di Jim Moriarty.
Sherlock lo guarda senza timore, giudicandone l’immensa grandezza, la pericolosità, la massiccia presenza di elementi abbastanza stupidi da desiderare la fine di ogni cosa.
Se Moriarty vince, il mondo muore.
Se Moriarty vince, le terre dei draghi cadranno insieme a quelle degli uomini.
Sherlock osserva, studia. Ogni anfratto del suo Mind Palace si risveglia, classificando in un millesimo di secondo ogni elemento, ogni abilità, ogni possibile debolezza. Sa allora che Mycroft e suo padre faranno lo stesso, sa che la possibilità di vincere esiste davvero.
-John.- chiama allora, raddrizzandosi. Non si volta a guardarlo, non azzarda occhiate che gli impedirebbero di allontanarsi da lui, lasciandolo indifeso e incustodito alla mercé di zanne e artigli inarrestabili. Si fida di John, si fida del suo cuore come del suo giudizio. Può farcela contro quelle creature alate, ma non contro Moriarty.
-Segui il tuo istinto.- dice alla fine, mentre un vento atroce sprigionato dalle ali delle bestie li travolge, scompigliando loro i capelli.
Sherlock resta immobile, statuario e bellissimo come è sempre stato. Incrocia allora gli occhi degli altri draghi suoi fedeli, riuniti in cerchio sulle loro teste. Sa che combatteranno fino alla fine, sa che forse non ne usciranno vivi. Due schieramenti, due diversi volti di una stessa scacchiera.
Noah. Così giovane, così adulto. Il più saggio di tutti loro, il più grande nella generosità del suo cuore sconfinato.
Irene. Felina, tentatrice. Sherlock la conosce da anni, e da anni si sottrae alle sue avances. Tuttavia, sa di potersi fidare di lei, sa che combatterà perché il futuro è ciò che le interessa.
Edarion e Mycroft. Ciò che resta della sua famiglia, ciò che l’ha spinto a recuperare quel brandello di razionalità ancora vacillante.
Anthea. Guardiana, fedele al suo unico padrone. Non gli volterà mai le spalle, non saprà mai tradirlo.
Tanti piccoli brandelli di vita, tanti piccoli pezzetti d’un unico grande specchio brillante che lo rappresenta, che lo compone. Sherlock sa chi è, e alla fine si accetta. Combatterà al loro fianco, vincerà quella guerra. Per loro, per John.
Andiamo”, mormora Nevora, affiancandolo evanescente come spirito guardiano. Gli stringe la mano, intreccia le dita con quelle del figlio così simili alle sue. Mani grandi d’uomo sbocciato e mani piccole di donna già cresciuta. “Riporta la pace, figlio mio. Proteggi il mondo, proteggi il futuro”.
È un istante, un respiro prima del balzo. Sherlock scatta, balza oltre la prua della nave con leggerezza di piuma abbandonata al vento. Spalanca le ali, le sbatte un’unica volta e s’innalza fiero verso il cielo, verso il creato.
I due eserciti si schierano, draghi solitari contro meticcia armata di bestie e uomini. Fianco a fianco, per la prima e ultima volta.
John solleva un pugno, stringe forte il calcio della pistola e con freddezza di soldato unisce indice e medio, indicando prima a destra e poi a sinistra. È un segnale, un ordine silenzioso ma abbastanza chiaro da spingere gli altri a reagire.
Greg, Molly e Mike balzano sulle navi. Le persone si sparpagliano, armate di uncini, cappi e catene. Balzano da una nave all’altra con agilità di pantere, veloci e precisi, rispondendo a un unico gelido comandante che lentamente carica la sua arma, pronto a sparare. Non fallirà, non ha mai fallito. Conosce il suo obbiettivo.
Irene spalanca le fauci ed erutta una possente fiammata di inferno dorato e scarlatto, direzionandola verso il nemico più vicino. Lui contraccambia e a sua volta, il drago marroncino esplode un turbine di fuoco che massiccio si schianta contro l’attacco di Irene. Il boato che si produce è così forte da scatenare violente raffiche di vento che spingono in acqua alcuni uomini e costringono alcuni draghi ad arretrare.
Ma Irene non è stupida. Folle sì. Sprovveduta, per niente.
Improvvisamente, dalla sua stessa, gigantesca fiammata emerge una figura. Il drago a due teste attraversa il fuoco amico senza sbattere le ali e come un proiettile si lascia cadere verso il nemico.
I due draghi si schiantano con la potenza di una valanga, emettendo ruggiti così forti da infrangere la barriera sicura del suono. Le pietre della montagna già devastata si coprono di crepe, piegate dalla potenza innata di quelle splendide bestie che feroci come non mai precipitano verso il suolo in un turbinio di ali, zanne e artigli.
Noah, così piccolo e delicato, diventa improvvisamente la peggiore macchina di morte che qualsiasi drago abbia mai visto. La rabbia esplode, la volontà di vendetta gli pervade gli occhi di una furia omicida inarrestabile.
Erutta una fiammata dritta sul muso dell’altro drago e, senza dargli il tempo di reagire, lo azzanna al collo. Il fuoco non smette di fuoriuscire dalla gola di Noah e, da quella vicinanza, fonde lentamente le squame del drago che sempre più debolmente si dimena. Noah lo artiglia ai fianchi e chiude le ali lungo il corpo, freddo e calcolatore quasi quanto Sherlock.
Entrambi cadono, si schiantano contro la montagna e procedono giù, verso il mare di lava ancora bollente sotto la gelida superficie raffreddata dalle raffiche di vento.
Noah sbatte le ali una volta, con la testa ancora libera spezza il collo del nemico e lascia cadere il corpo in basso, verso lo stesso inferno da lui scatenato ai danni degli uomini.
Risale in veloci spirali verso il cielo nello stesso istante in cui i due eserciti si schiantano con la potenza di una supernova esplosa.
Da tempi immemori, l’uomo si avvale di storie lontane che narrano di epiche battaglie e bestie mostruose abbastanza possenti da far tremare la terra ai loro piedi semplicemente sbattendo le ali. Storie, immaginazione. Ma nessun umano racconto equivarrebbe alla potenza scatenata lì, in quel momento.
Il cielo non esiste più.
Al suo posto, regna l’apocalisse. Il tetto del mondo intero si tinge di fiamme scarlatte, guizzanti, assassine. Dall’alto, piovono sangue e arti strappati, fatti a pezzi, consumati dalle fiamme. Squame lucenti si spaccano, cadono nel vuoto come pioggia preziosa, tagliente.
I ruggiti furiosi dei draghi sfondano qualsiasi barriera sonora, scuotendo il nucleo terrestre dalle fondamenta. È una guerra tra déi, uno scontro tra spietatissimi titani.
Cinque draghi e un’armata d’umani contro il più grande esercito che il mondo abbia mai visto. Non si sarebbe mai detto, ma quei pochi elementi insignificanti, sembrano avere la meglio.
Mycroft e suo padre combattono con velocità e precisione. Sgusciano tra i nemici, giganteschi ma inafferrabili come coperti d’olio. Non si lasciano toccare e all’ultimo momento schizzano di lato, si capovolgono a mezz’aria, spariscono nel nulla come spiriti intoccabili. Velocissimi, assassini.
D’improvviso, Mycroft appare alle spalle di un drago e gli azzanna la base del collo, bloccandogli qualsiasi movimento.
Punto sensibile.
Edarion compare dal nulla, ruota a mezz’aria e con un unico, implacabile colpo di coda, trancia in due il nemico.
È un attimo, il tempo di un breve respiro. Poi, un altro corpo cade al suolo, un’altra vittima ricopre il suolo intriso di sangue.
Anthea dimostra d’avere ali taglienti come rasoi, ampie e micidiali. Le usa come lame di spade, più veloci di qualsiasi cobra, più letali di qualsiasi altra arma. Ruota su se stessa, s’infila tra due draghi nemici e di scatto apre e chiude le ali. Una volta, una sola. Poi sparisce, lasciandosi alle spalle due identici corpi tranciati in due che inermi cadono verso il suolo.
Dal basso, gli uomini combattono come mai hanno fatto in vita loro. Uniti, come una macchina ben oliata. Lanciano arpioni, corde, catene, mirando alle fragili ali dei draghi più vicini. Li artigliano, poi tutti insieme strattonano, distraendo la bestia. In quel momento, veloci come saette, Irene e Noah compaiono dal nulla e spingono il drago al suolo, squarciandogli le ali. Se la bestia cade, gli umani lo finiscono mirando agli occhi o alla gola, dove le squame si fanno appena più rade.
È una carneficina, lo scontro frontale di due diverse forze della natura. Ognuno combatte, ognuno lotta con le unghie e con i denti, pronto a donare la vita per quell’ultimo sprazzo di speranza.
Il sangue piove incessante dal cielo, bagnando la terra e l’acqua di inguaribile malattia. Argento e cremisi, drago e uomo. Grida e ruggiti, ali e braccia.
Alcuni cadono, altri ancora si accasciano a terra tramortiti, implorando pietà al dolore che li assale. Il cielo si rivolta da cima a fondo, il pianeta intero trema come indemoniato e finanche gli elementi più inarrestabili si piegano all’implacabilità di bestie gigantesche che violente si scontrano frontalmente, squarciando e mordendo, bruciando e graffiando.
È lì, tra fiamme e grida disperate, che due identici soggetti si squadrano immobili, insensibili all’inferno scatenatosi tutto intorno.
Occhi puri di cristallo in occhi neri d’anima dannata.
Mani possenti di diamante contro artigli forti d’acciaio.
Nero arcobaleno contro grigio tempesta.
Sherlock Holmes non si muove. Adesso è immobile a pochi passi da Moriarty, col vento che gli scompiglia i capelli e il sangue che piove dall’alto, insozzandolo di rosso e argento. Guarda in viso la sua fine, osserva il traguardo del suo ultimo viaggio. È abbastanza intelligente da conoscere l’esito di quella battaglia: nessun vincitore, due morti.
“Sei sicuro, figlio mio?”, mormora Nevora, affiancandolo.
Sherlock distoglie appena lo sguardo per affilarlo sulla folla circostante. Vede John combattere schiena a schiena con Greg. Veloce, preciso come sicario addestrato, spara proiettili piccoli ma micidiali con sicurezza incalzante, da vero capitano. Non sbaglia mai il colpo, non fallisce nemmeno una volta.
Difficile sorprendersi.
Non ha fallito neanche con lui, dopotutto. Sherlock lo sente, lo sa. Lui rispecchia soltanto l’ennesimo miracolo di quel piccolo, insopportabile umano che con pazienza infinita l’ha riplasmato a nuova vita, donandogli quel sorriso che non ha mai creduto di avere, quel respiro che non ha mai assaporato profondamente e con gratitudine. Grazie a John, Sherlock ha scoperto il valore della vita.
Sì, lui combatte per questo. Non per il mondo, non per la sua famiglia o per il suo popolo. Questi sono soltanto fattori secondari. Ma lui andrà avanti per lui, per John. Quell’uomo merita tutta la pace che un mondo privo di guerre avrebbe da offrire.
Sherlock sceglie, sorride. Poi, scatta ferino, velocissimo come freccia scagliata dall’arco. Affonda un piede artigliato in una pozza di sangue argentato, sollevandone in aria un ventaglio di schizzi lucenti, preziosi come polvere di diamante.
Un respiro, la calma prima della tempesta.
Moriarty sorride, sbilanciando appena il peso del suo corpo all’indietro, quasi accennando un elegante passo di danza. Antepone un braccio, scudiscia la coda d’eccitazione malata.
Il mondo trattiene il respiro, per un attimo interrompe la sua corsa frenetica, sanguinante, violenta. I ruggiti sembrano placarsi, i morenti smettono di gemere, il sangue attende qualche istante in più per fuoriuscire da una ferita.
Poi, lo schianto arriva. Corpo contro corpo, anima pulita contro anima nera d’inferno.
Le ali si spalancano simultaneamente, talmente grandi da spazzare via draghi e umani nei dintorni. Il vento si sprigiona, profumato di vaniglia, spezie e zolfo mortifero. È abbastanza violento da scatenare uno tsunami inverso, che rovescia le barche rimaste in acqua e si schianta contro un drago abbastanza incauto da volare a bassa quota.
La terra trema, vacilla intimidita mentre Sherlock sbatte le ali una sola volta e spinge Moriarty in alto, verso il cielo, lontano da John. È lì che entrambi si trasformano.
Dapprima sottili corpi umani, longilinei, lisci di pelle vellutata e visi morbidi. Poi, d’improvviso, le scaglie sbocciano come rose preziose, ricoprendo di corazza ogni più piccolo millimetro di carne. Le ossa cominciano a spostarsi scricchiolando, le ali s’ingrandiscono, punte acuminate crescono come filamenti d’incubo. I colli si allungano, le teste si rimodellano in crani bestiali, giganteschi, che di umano non hanno più niente.
D’improvviso, i due corpi sembrano esplodere in un processo di crescita accelerata. S’ingigantiscono a dismisura, si rimodellano in forme massicce, più grandi di qualsiasi bestia abbia mai calcato l’universo. Le ali si spalancano, abbracciando il mondo intero, ricoprendo il cielo di ombre sinistre, vibranti di riflessi e in continuo movimento.
Quante umane leggende narrano di enormi bestie spaventose, abbastanza grandi da poter inghiottire un’intera città in un sol colpo; quanti principi hanno combattuto e vinto contro tali ferocissimi animali; e infine, quante creature alate si sono viste trafiggere da minuscole spade forgiate da semplici uomini abbastanza coraggiosi da provarci. Leggende, storie, fantasia. Di quest’ultima, l’uomo ne possiede tanta. Eppure, nemmeno i sognatori più sfrenati potrebbero mai immaginare una scena del genere.
Quelli non possono essere draghi. Assomigliano a tutto, fuorché a semplicissimi rettili sputa fuoco. Nessuna leggenda potrebbe descriverli, nessuna umana fantasia potrebbe semplicemente immaginarli.
Le bestie che adesso abbracciano il cielo, facendolo sembrare piccolo e puramente insignificante, sono più vicine a déi feroci, inarrestabili, giudiziosi. Al loro confronto, qualsiasi drago, qualsiasi uomo, qualsiasi guerra o catastrofe naturale parrebbe minuscola come fiammella di candela al cospetto del più grande incendio mai visto. 
La battaglia sottostante si interrompe e ognuno solleva gli occhi al cielo, lì dove gli déi, quelli veri, scendono finalmente in campo per fronteggiarsi, re dei rispettivi schieramenti. L’acqua si spiana silenziosa e quasi timida, la terra smette di tremare. Il mondo intero percepisce il cambiamento, il peso di due esseri implacabili, esterni agli schemi di Madre Natura stessa.
John solleva lo sguardo, incrocia stralunato la figura infinitamente gigantesca della bestia più grande e più bella che l’universo abbia mai visto: corpo squamato di nero arcobaleno, massiccio, muscoloso e longilineo. Ali gigantesche, le cui membrane non riflettono più la luce, ma anzi, la producono. Appaiono come squarci di cielo intrise di polvere di stelle e aurora boreale, più stupefacenti della vera volta celeste. Il collo lungo, sul cui dorso corre una fila acuminata di punte argentate, luccicanti come diamanti preziosi, culmina con corna ad anelli, ondulate, che sbocciano sulla sommità di un capo dal muso affusolato, con la mandibola possente contornata da due identiche file di punte sottili d’argento che percorrono la base delle corna stesse, scivolando intorno alla forma del cranio per poi morire in un’unica fila indiana sulla sommità della fronte, rimpicciolendosi al centro degli occhi, dove dimora incastonata una sola scaglia sporgente, di diamante, di forma romboidale.
Poi, ci sono gli occhi. Lucenti, affilati, intrisi di pallidi riflessi di cristallo. Non vi è più traccia di umanità in quelle pupille verticali, sottili, animali. Quegli occhi fissano il mondo dall’alto, giudicandolo secondo giustizia implacabile, senza possibilità di appello. Quel dio non perdona. Quel dio percuote le stelle con la sola forza dello sguardo, piega al suo volere il sole e può abbracciare la luna con la lunga coda squamata per strattonare e tirarla giù dal cielo. Nessuna legge naturale potrebbe fermarlo, nessuna forza sovrastante è ancora nata per vincere il suo giudizio.
Quella è una Furia Buia, una di quelle vere, grandi quanto dieci metropoli e possenti oltre ogni immaginazione. L’ultima Furia Buia, principe decaduto finalmente risalito al trono che l’ha sempre atteso. Sherlock Holmes.
Moriarty lo fronteggia, così simile a lui, gigantesco a sua volta, con corna ricurve d’ariete e punte acuminate che ricoprono la sommità del muso e la parte bassa della mandibola. Ha occhi neri, talmente bui da nascondere la pupilla verticale in un vortice di soffocante oscurità.
Così come Sherlock appare giudice di ineguagliabile giustizia, così Moriarty si contrappone a lui come figlio di caos e crimini efferati. Due facce della stessa medaglia, due diversi volti di un mondo in procinto di soffocare. Guerra e pace, luce e oscurità.
Sherlock s’impenna, affondando in acqua una zampa grossa quanto Londra stessa. Schiaccia residui di navi, affonda nella misera sabbia che collassa sotto un peso esorbitante, oltre ogni immaginazione.
Entrambi i draghi respirano a fondo, lentamente, inalando aria fresca per poi rigettarla fuori in soffi bollenti che bruciano l’aria, soffocandola, annerendola di fumo nero e argentato.
Dal basso, nessuno osa parlare. I draghi atterrano lentamente, rivolgendo occhiate intimorite ai grandi re del loro tempo. Nessuno fiata, nessuno vuole attirare l’attenzione. Semplicemente, i draghi sopravvissuti si rannicchiano e gli umani, quasi inconsapevolmente, si nascondono nelle ombre gigantesche di quelli che sono stati i loro stessi nemici.
D’improvviso però, la scacchiera si ribalta e i due re muovono simultaneamente la loro mossa.
Balzano entrambi, spalancando le ali immense, talmente grandi da stendersi a vista d’occhio come distese sconfinate d’oceano scuro. Le sbattono un’unica volta, spazzando via draghi e persone, terra e acqua. Il mare si rovescia in una possente onda inversa che fa arretrare la marea e la sabbia sottostante. La montagna viene spazzata via dal vento, ogni più piccolo incendio si spegne all’istante mentre due corpi giganteschi s’innalzano verso il cielo, confermando l’inizio di una nuova fase della battaglia.
Draghi e uomini si risvegliano. Ricominciano a combattere feroci, rinnovati dalla presenza dei rispettivi comandanti.
Greg balza sulla zampa di Mycroft e si lascia trasportare verso il cielo, in alto, dove lotta il drago più vicino. All’ultimo istante salta nel vuoto, atterra sul muso del nemico e gli spara in un occhio rosso cremisi.
La bestia ruggisce, si contorce e scaraventa Greg nel vuoto. L’umano grida, per poco lascia cadere la pistola, ma non toccherà mai il suolo: uno spostamento d’aria, una sagoma massiccia che lucente sfreccia sulla sua traiettoria. Lestrade atterra di schianto sul capo di Mycroft, stordito, sanguinante di graffi, ma vivo.
Allo stesso modo, Molly e Noah combattono in sincronia, eleganti come un sol corpo. La ragazza rimbalza agile tra le due teste del drago, sparando a raffica sui nemici, tramortendoli e poi lasciando che gli uomini sottostanti finiscano il lavoro.
Uomo e bestia, cielo e terra. Due diverse razze si avvicinano, due razze combattono fianco a fianco come meccanismo ben oliato.
Sherlock e Moriarty salgono verso il cielo, innalzandosi come comete inarrestabili, possenti di muscoli e arti contratti nello sforzo. Squarciano l’aria, disperdono le nuvole e, una volta abbastanza in alto, Sherlock accelera. Sforza al massimo le ali, i muscoli, ogni tendine del corpo. In un solo istante, semplicemente sparisce. Il cielo pare svuotarsi solo per metà mentre Moriarty raggiunge la pedana di diamante dei defunti e vi atterra sopra, facendo stridere gli artigli sulla superficie liscia.
Inarca il collo, gli occhi ridotti a fessure per sfondare la cappa di nubi che abbraccia l’ambiente. Ha i muscoli contratti, immobili mentre chiude le ali dietro la schiena, cauto in ogni movimento.
Intanto, più in alto, Sherlock si accovaccia, sbattendo le ali il meno possibile per non disperdere le nubi che lo proteggono.
Non può attaccarlo di sorpresa, non senza rischiare una contromossa particolarmente violenta. Moriarty lascerà scoperti alcuni punti deboli, nella speranza che il nemico colpisca lì, dove però sarà facile intercettarlo. Allo stesso tempo però, Sherlock non può neanche attaccare le parti maggiormente protette. In qualsiasi caso, non riuscirà ad abbatterlo al primo colpo.
Deve rischiare. Per John, per il mondo.
D’improvviso, Sherlock chiude le ali lungo il corpo e si lascia cadere in basso, più veloce della luce e del suono, più grosso di qualsiasi montagna.
Moriarty solleva la testa appena in tempo, un istante prima che lo schianto arrivi.
Col fragore di dieci supernove esplose, i due draghi si scontrano, facendo tremare l’universo intero. La pedana di diamante cede, e le due bestie precipitano in basso, ruggendo così forte da risuonare i loro versi nelle gabbie toraciche di ogni singolo essere vivente. Menano unghiate, morsi, colpi di coda intrisi di una violenza senza precedenti. Appaiono velocissimi, precisi e terribili. I loro corpi si tendono nello sforzo, le ali si spalancano all’ultimo minuto, sbattendo e spazzando via draghi e uomini per la seconda volta.
Risalgono in larghe spirali, intrecciandosi e sciogliendosi come in una danza arcana di fiamme e squame lucenti. Gli artigli guizzano, affondano, s’intridono di sangue argentato, copioso, intenso.
D’improvviso, Moriarty attacca di nuovo. Si catapulta su Sherlock, artigliandogli i fianchi e spingendolo in basso, verso l’oceano. Spalanca le fauci poderose ed erutta una fiammata d’inferno sulla sua gola, contro le scaglie, spingendolo a ruggire di dolore. Sherlock sbatte le ali furioso, indebolito, spossato. Chiude gli occhi, perdendo improvvisamente la presa mentre il suo Mind Palace collassa e le forze gli vengono meno.
Non ha fatto abbastanza. Non ha vinto, non ha indebolito decentemente il suo avversario.
Poco a poco, il vento li abbraccia, il sangue cola e le squame di Sherlock si spaccano ferite all’altezza della gola ormai ustionata a morte, consumata dalle fiamme. Moriarty molla la presa mentre il corpo di Sherlock si rimpicciolisce, nudo e fragile, ricoperto di ferite, dolore, abbandono. Si schianta contro il muro d’acqua che violento, appare solido come il cemento più duro.
Le ossa si spezzano, le ali schioccano dolorosamente… la colonna vertebrale va in frantumi.
Crack.
È un suono acuto, che riverbera nei cuori e negli animi dei presenti. Ognuno si volta, ognuno guarda la piccola figura nera che affonda in una pozza sempre più larga di sangue argentato.
È silenzio, è pace. La battaglia si ferma di nuovo, momentaneamente, al cospetto della sconfitta definitiva di un dio giusto, pulito, spezzato. I re non esistono più: l’ultimo è appena caduto di schianto, distrutto insieme al suo stesso trono.
Silenzio. Pace.
Poi, un grido lacerante, senza tempo, intriso di un dolore talmente lancinante da far rabbrividire chiunque nel raggio di chilometri: -SHERLOCK!!!-
 
Angolo dell’autrice:
Coff coff… va bene, sono in ritardo. Di nuovo. Cavolo. Ma non è colpa mia!
Moriarty: sì che lo è!
Zitto, tu! Mi hai riempito la stanza di strumenti di tortura! E Sherlock ha invitato tutti i senzatetto qui! È uno stramaledetto casino, dannazione!
Moriarty: be’? Gli strumenti di tortura mi servono.
Anche un ottimo psicologo, ma io non ti riempio la stanza di strizzacervelli. Comunque… passiamo ai ringraziamenti!
Kimi o Aishiteiru: Jim ringrazia per i tuoi apprezzamenti. Dice che ti invierà un pacco bomba formato regalo per dimostrarti la sua gratitudine. Ma valli a fare certi apprezzamenti… ce l’ho con te, Jim! Sparisci, Happy Feet! Comunque, spero che il capitolo ti sia piaciuto! Ti ringrazio di cuore per il commento, come al solito, e ti saluto! A prestissimo!
Sonia_0911: "abbandonate di ricordi che le ricordano come parte d’una nave integra e perfettamente funzionante." In questo passaggio mi riferisco alle parti ormai distrutte delle navi. Separate, esse ricorderanno soltanto di quando appartenevano a un’unica struttura perfettamente funzionante; ossia, a una nave integra. Spero di averti aiutata, e mi scuso per averti messo in difficoltà con il mio modo di scrivere. In ogni caso, mi fa piacere che il resto della storia ti sia piaciuto. Spero che risulti così anche stavolta! A presto, e grazie!
Wibbly Wobbly Timey Wimey: mi sto riprendendo in fretta, tranquilla. E la nuova storia è in fase di stesura! Sono sepolta da nozioni egizie, vocabolari di lingua, bestiari e roba varia, ma posso farcela! Comunque, grazie mille! Spero che questo capitolo ti piaccia! A presto!

Tomi Dark Angel

 

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Capitolo 26
*** Rinascita ***


I sogni sono elementi fragili, volubili come vita d’effimera farfalla. Li si raccoglie con mani tremanti, li si protegge, si lotta per essi. Poi, d’improvviso, quelle stesse speranze potrebbero andare in pezzi lì, tra le dita del loro stesso creatore.
È stato così per secoli, ed è così adesso, mentre davanti agli occhi sbarrati dei presenti, l’ultima speranza della resistenza affonda nel sangue e nella miseria di un trono spezzato.
L’ultimo re, l’ultima Furia Buia. Morto lì, tra dolore d’impotenza e ossa spezzate, davanti agli occhi dell’unico uomo che l’abbia mai amato.
Sentire il cuore che va in pezzi, è terribile. John avverte il momento esatto in cui qualcosa nel suo petto si frantuma, disperdendosi impotente dinanzi all’ultima volta che i suoi occhi hanno incontrato quella figura longilinea, nuda, elegante come drappeggio di sogno. Sherlock è la sua metà, parte integrante della sua anima. John ha creduto di poter vincere, di poter guarire il mondo per renderlo vivibile, per stabilirvisi insieme a Sherlock, insieme alla sua reale famiglia. Ha osservato una vita nuova, pulita, dove l’inferno non esiste. Adesso però, il suo stesso, fragile paradiso si ribalta, chiudendogli in faccia ogni via d’accesso, ogni speranza di felicità. Insieme a Sherlock, sparisce infine l’unico sogno che John abbia mai avuto.
“Segui il tuo istinto”.
Perdita, decadimento. Il mondo si contrae sofferente dinanzi alla sua ultima e più importante perdita. La battaglia si ribalta, gli alleati dell’unica speranza decaduta s’indeboliscono.
Un drago artiglia Irene al collo e la schianta con forza contro il monte devastato; un altro atterra tra gli umani e cala il cranio gigantesco, facendo schioccare le mandibole poderose su corpi urlanti, impotenti, che deboli si lasciano sbriciolare come farfalle tra le fauci del più possente dei leoni. Mycroft viene attaccato da tre draghi. Essi lo artigliano alle ali e al collo, lacerandogli le membrane e incidendo con forza ogni scaglia, ogni punta acuminata. Dopo la sua caduta rovinosa, che schiaccia violenta altri innocenti sopravvissuti, seguono Edarion e Anthea, che tuttavia si lascia cadere su Mycroft per proteggerlo, per difendere il suo padrone fino all’ultimo. Gli ricopre le scaglie di sangue, appoggia delicata il capo sul suo, ma non si lamenta più, nemmeno quando alcuni lacerano impietosi ogni brandello di carne, ogni arto, spezzandole ossa e punte acuminate. Anthea tace e si lascia martoriare, immobile come agnello innocente.
Un inferno di fuoco si abbatte sui draghi nemici, disperdendoli momentaneamente. Noah cala dall’alto, atterrando gentile accanto ad Anthea. Debole istante di distrazione, fragile candidezza di bambino.
Moriarty lo artiglia sulla schiena, sollevandolo in aria come un’aquila reale s’impadronirebbe di un topo. Noah grida, scalcia, reagisce ai richiami disperati di John che vede martoriare colui che ha considerato un amico, un alleato… un figlio.
Noah lo sa, lo sente. Ascolta il grido di John, abbracciandosi dell’unica serenità che gli rimane: ha una famiglia anche lui, dopotutto. Lo pensa con fermezza, se ne convince anche quando Moriarty lo lascia andare, scagliandolo con violenza contro una distesa di alberi e uomini ridotti a vittime innocenti. Le ennesime.
Noah rotola nella terra e nel sangue, debole come fragile foglia, vittima del suo stesso coraggio. Abbandona il capo al suolo, sputa un grumo argentato e disperato tenta di rialzarsi. Non ci riesce, non ne ha la forza. Delude così le aspettative della sua famiglia, il suo futuro, tutto ciò in cui ha sempre creduto. È debole, non riuscirà a rialzarsi. Probabilmente, quelli sono i suoi ultimi respiri.
-NOAH!!!-
John grida, si ribella. Greg lo trattiene mentre John si dimena, tendendo le mani verso suo figlio, verso un’altra parte massacrata della sua anima. Sbatte le palpebre e solo allora cominciano ad affiorare lacrime cristalline, che poco a poco si sporcano di sangue e sudore, terra e disperazione. Nessuno sconto, nessuna possibilità d’appello. Il mondo è condannato, non può rialzarsi. Sono davvero così deboli, gli esseri umani? È davvero scomparsa, la speranza reale, viva, palpabile?
“Segui il tuo istinto”.
John trasale, improvvisamente s’immobilizza. Stringe forte i pugni, chiude gli occhi e lentamente, s’abbraccia dell’ultima occhiata che Sherlock ha saputo rivolgergli, della sua voce, del suo tocco sulla pelle.
Si è fidato di lui, si è abbandonato alle sue mani così grezze, così poco delicate. John è soltanto un umano. Nessun mortale potrebbe riplasmare la storia fino a quel punto, non… non da solo.
“Segui il tuo istinto”.
Sherlock già sapeva. Conosceva l’esito della battaglia, considerava ampiamente la sua stessa sconfitta. Eppure, le sue ultime parole non hanno accennato a nessun addio. Solo una raccomandazione, solo quattro semplici parole. Sherlock si è fidato di lui più di quanto John abbia immaginato.
Stupido imbecille…
John stringe i pugni, digrigna i denti con rabbia crescente. Se avesse Sherlock davanti, probabilmente gli darebbe un pugno sul naso. Doveva dirglielo, dovevano combattere insieme… dovevano… vivere insieme. Però, Sherlock si è lasciato alle spalle un’ultima eredità, un’ultima speranza. John. È John il suo lascito.
-No.-
Greg s’immobilizza e lo fissa come se fosse impazzito. –John?- chiama debolmente mentre l’amico solleva lo sguardo sui draghi che ancora martoriano i suoi amici, i suoi alleati, la sua famiglia.
Non è giusto. Non può finire così.
Velocemente, come cobra che attacca, John punta la pistola al cielo e spara.
Paradossalmente, il rumore del colpo appare più violento dei ruggiti dei draghi, delle grida degli uomini e del ribollire agitato del mare, scosso da sangue e corpi che affondano. Tutti ammutoliscono, tutti si fermano e lo guardano. Chi fugge, smette di correre e chi vola, si blocca a mezz’aria.
-Questo mondo non vi appartiene.- ringhia John, levando lo sguardo. Fissa i draghi che lo sovrastano, li sfida con gli occhi, lascia che tutta la sua rabbia emerga da lui come invisibile aura di potere. –Le nostre vite, il nostro futuro. Niente di tutto questo è vostro. Avete abbracciato una guerra che per voi non ha più volto. Perché combattete? Per paura, per rabbia? Spezzate vite ogni giorno senza conoscerne il motivo! Eppure, voi avete una coscienza, vi avvalete di un onore che erroneamente pensate ancora in piedi ma che in realtà voi stessi avete ammazzato insieme al primo omicidio immotivato che avete mosso sul prossimo. Ma vi guardate? Siete nient’altro che patetiche ombre, imitazioni beffarde dei grandi del passato! Lottavate al fianco degli Holmes, li proteggevate, credevate nella loro stessa giustizia. Cosa vi spinge adesso ad attaccarli? Dove sono le vostre coscienze?-
Lentamente, John si volta e guarda i suoi simili feriti, in prossimità di fuggire, esausti. Incrocia i loro occhi, poi posa lo sguardo sui draghi suoi alleati.
-Se molliamo adesso, il mondo è perduto. Londra cadrà. Cadranno i cieli, la terra marcirà, gli animali moriranno. Vi soddisfa questa prospettiva? Abbiate il coraggio di rimediare ai vostri errori! L’uomo ha contribuito a questa guerra, l’uomo ha ritratto la mano quando una zampa amica si è tesa per stringere alleanza! Noi non siamo i nostri avi, noi non ripetiamo i loro errori! Sherlock ha perso la madre a causa nostra, eppure ci ha difeso! Si è innalzato per proteggerci, e l’ha fatto fino alla fine! Seguiamolo, seguiamo i suoi ideali! C’è del buono in questo mondo, ve lo ricordate? Se non potete lottare per voi stessi, fatelo per questo! Ve la ricordate, la luce? Il sole esiste ancora, anche quando le nuvole lo coprono. Io l’ho scoperto, l’ho capito… sono stato felice.-
John abbassa lo sguardo e lentamente, altre lacrime affiorano sul suo viso, incontrando il debole sorriso che sboccia misericordioso sulle labbra sottili, vive di ricordi.
-Ma adesso forse, non potrò esserlo di nuovo. Non senza Sherlock. Eppure, non cambierei niente di ciò che ho fatto, niente di ciò che ho vissuto. La mia storia dovrà essere così, e sono fiero di questo, perché adesso, potrò narrare ad altri che il bene esiste davvero. Per questo, adesso vi chiedo: possiamo aiutarlo, quel sole nascosto? Possiamo dissipare le nubi e spingerlo a riemergere, a riportare la luce laddove la gente ne ha dimenticato il calore? Combattiamo per il nuovo giorno, combattiamo per il futuro di chi dopo di noi potrà nascere e crescere nella pace di una vita serena, viva. Combattiamo perché il futuro sopravviva e rinasca dagli albori di una nuova era!!!-
John solleva la pistola, gridando con quanto fiato ha in gola. Crede in ciò che dice, crede in ciò che fa. Per Sherlock, per il mondo. Se la guerra sarà persa, lui morirà insieme alla stessa speranza che lo tiene in vita.
Un altro grido, un'altra  voce che speranzosa s’innalza al cielo insieme alla sua. Gregory Lestrade urla, sorride, sconfigge le sue stesse debolezze per seguire i suoi ideali, per ricordarsi che la pace esiste davvero. Alle loro voci, si aggiungono Molly e Mike, sporchi di sangue, esausti, ma pronti a lottare per la vita.
Poco a poco, la terra pare animarsi, l’aria si satura di grida di battaglia. Gli umani tornano sui loro passi, si raccolgono al cospetto dell’unico comandante che possa guidarli. Gridano, scagliando i pugni insanguinati al cielo, scegliendo quella vita che si sono sempre visti negare. L’umanità si è finalmente risvegliata.
-CREDETE IN SHERLOCK HOLMES!!!-
Un rombo come di tuono fa tremare la terra, scuote dal profondo le membra dei presenti, facendoli barcollare e ammutolire nuovamente.
John non può credere ai suoi occhi: le foreste si muovono!
Gli alberi fremono, agitano le fronde, poi lentamente cominciano a… spostarsi. È come guardare un processo di crescita accelerato: i tronchi si scrollano, alcune foglie cadono, mentre altre si amalgamano a corpi sottili come ruscelli, con zampe corte e muscolose. I rami si contorcono, raccogliendosi in colli lunghi, sui quali il legno si sostituisce alle squame. Le punte acuminate sbocciano lungo le spine dorsali, mentre sui dorsi dei colli sottili di serpente s’inerpicano invece criniere verde smeraldo, che selvagge accarezzano il legno sottostante, morendo sulle sommità dei capi triangolati, dai musi affusolati. Le corna sono corte e numerose, tanto da ricoprire le sommità dei crani come aghi di porcospino. Gli occhi sono verde smeraldo, le zanne bianche come marmo.
“Alcuni draghi scelsero di perdere le ali e di abitare la terra…”
Dalle pietre sbocciano arti possenti, gonfi e muscolosi come quelli dei culturisti. John vede gli artigli d’acciaio piantarsi nel terreno per fare perno ed estrarre il resto dei corpi enormi, tanto muscolosi da impartire soggezione a chiunque li guardi. Questi draghi sono composti di roccia, hanno colli corti e teste massicce, ingombranti, con musi schiacciati e narici dilatate. I loro occhi non possiedono pupilla e, se le cornee non brillassero di un inquietante verde accecante, John penserebbe che siano statue.
Le montagne in lontananza fremono, si risvegliano, sbocciano dal terreno. John le vede muoversi, rinnovare la geografia del mondo intero, e freme di terrore al pensiero di aver camminato mille e mille volte sulle carni di draghi vivi e vegeti, ma ancora addormentati.
Quei giganti sono altissimi, massicci come rinoceronti, ma identici ai loro parenti rocciosi. L’unica differenza, è che la loro carne di pietra si ricopre ancora d’alberi ed erba.
-No, è impossibile…- mormora John, indietreggiando.
Le montagne avanzano verso di loro, sfondando imponenti le cappe di nubi sulle loro teste. Una, due, tre, dieci bestie. John li riconosce tutti, quei monti.
-John… se loro sono nemici…- balbetta Greg, ormai a un passo da un attacco isterico. John non sa rispondergli, non sa decifrare l’esito di quella situazione. Si sente così piccolo, così misero. Certo, Sherlock e Moriarty sono grandi il doppio di quei mastodonti, ma trovarsi tra simili giganti è destabilizzante, assurdo, come una favola narrata nella maniera sbagliata.
Lentamente, i draghi avanzano ancora. Tra le loro zampe, corrono velocissimi i draghi dei boschi. Sono così svelti che a John basta un battito di palpebre per vederli scomparire. Grandi come cavalli e agili come ghepardi, essi balzano per affondare nella terra, che si apre e chiude al loro passaggio, per poi risputarli fuori metri e metri più avanti.
I draghi montagna sono più lenti, ma decisamente più grossi. La terra si raccoglie intorno alle loro zampe massicce, che ad ogni passo si lasciano avvolgere da tralicci di vimini e rampicanti fugaci. È un esercito, una vera e propria distesa sconfinata di almeno ventimila draghi alberi e dieci bestie montagna. Il pavimento trema, l’erba sboccia laddove sangue e fuoco hanno annerito il terreno.
Il mondo si sta svegliando, e finalmente si ribella.
“Altri scelsero di abitare l’acqua…”
Un altro fremito, un’altra scossa violenta che scuote il nucleo terrestre, diramandosi ai quattro angoli del pianeta. Le acque si agitano, riversandosi in onde violente sulle coste del mondo intero.
Un ruggito unanime emerge dalle profondità marine mentre qualcosa di gigantesco si agita sotto i loro piedi, oltre le cascate, nei ruscelli e nei laghi più profondi.
“Con la morte di Nevora, ci fu l’ultima, grande scissione”.
Un rombo cupo, tonante. Poi, improvvisamente, dei profondi crepacci spaccano le profondità marine di tutto il mondo. Branchi di bestie ultraterrene fuoriescono dai nascondigli, si arrampicano feroci lungo i fondali rocciosi, frastagliati. Lunghe code frustano l’acqua, zampe palmate e munite d’artigli ricurvi arpionano alghe e pietra per risalire, per rivedere quel sole che secoli addietro hanno scelto di abbandonare.
“Tuttavia, qualcuno che può riunirli esiste ancora. Essi risponderanno a un’unica chiamata”.
Il mare esplode, riversando sui presenti secchiate d’acqua violenta, gelata, rinvigorente. È acqua pulita, cristallina, non più sporca di sangue e detriti.
Una testa grande quanto un palazzo emerge dalla superficie, innalzandosi al cielo grazie al collo lungo ricoperto di pelle iridescente, squamata di riflessi come membrana di un pesce. Le zampe palmate, gigantesche e munite di artigli si arpionano al suolo, issando sulla terra un corpo enorme, longilineo, brillante di pelle azzurrina, ma attraversata da riflessi di un giallo acceso. Lungo il dorso della schiena e del collo corre una membrana argentata massiccia, longilinea, intervallata da punte acuminate.
La coda è lunga tre volte il corpo, e alla sua fine sfoggia una gigantesca pinna morbida, argentata e quasi invisibile, come di pesce scorpione*.
Il drago abbassa appena il capo, esponendo un muso sottile, con due membrane ai lati della testa e corna piccole e appuntite sulla sommità del cranio. Ha occhi di un azzurro slavato, dalla pupilla verticale. Tuttavia, espongono uno sguardo gentile, caritatevole, quasi umano.
John aguzza la vista quando scorge qualcosa di lucente fermo lì, sulla sommità del muso massiccio.
“Così come una Furia Buia seppe dividere il suo popolo… così una Furia Buia saprà richiamarlo al suo cospetto”.
-Non è possibile…-
John sbarra gli occhi, stringe forte i pugni. Non vuole crederci, non può essere possibile.
-Ma che bastardo!- sorride Greg quando anche lui riconosce la figura in piedi sul muso del drago acquatico.
Brillante di umide squame oscure, coi capelli grondanti d’acqua appiccicati alla fronte e al volto pallido di luce lunare, Sherlock Holmes si erige dinanzi alle creature finalmente raccolte al suo cospetto. Lascia che altri draghi acquatici emergano alle sue spalle, lascia che i draghi di terra scaglino al cielo i loro versi profondi o striduli mentre i nemici cominciano a retrocedere preoccupati.
Moriarty fissa il suo nemico, lo scruta con assoluta assenza di emozioni. Lo sta giudicando, giudica la ferita ancora sanguinante che gli devasta la gola esposta.
Il drago marino abbassa il capo, lasciando che Sherlock tocchi terra con maestosità regale, accentuata dal fisico scolpito e ben esposto agli occhi di chiunque guardi. John vorrebbe coprirlo, vorrebbe che gli altri non lo vedessero nudo così come l’ha visto lui. Però, adesso non conta. Non conta più niente.
-John.-
Sherlock li raggiunge lentamente, ancora fradicio e sporco di sangue. Nonostante le ferite però, i suoi occhi brillano di luce viva, pulita, screziata di colori rinati ma che l’uomo ancora non conosce. Quelli sono gli occhi che John ha imparato ad amare, quelli sono gli occhi che hanno saputo giudicare il mondo e perdonarlo per ogni suo peccato.
Nella sua disumanità, Sherlock si è dimostrato più umano di chiunque altro.
-Hai creduto in me, John. Hai chiesto un miracolo a te stesso e al futuro. Hai pregato che io smettessi di essere morto.- Sherlock gli accarezza il viso, incrocia i suoi occhi lucidi di lacrime copiose, pulite, cristalline. Poi, sorprendentemente, il drago sorride. –Ti ho sentito.-
E allora John gli getta le braccia al collo, affonda il viso nei suoi capelli fradici ma ancora profumati di spezie. Inspira quell’odore familiare, splendido, che sa di casa. Sherlock lo stringe a sua volta, cingendogli la vita con le braccia squamate e ripiegando le ali verso di lui per abbracciarlo nel loro piccolo mondo stellato. È un istante, pochi secondi di rinata speranza. Poi, i due si dividono.
-Non combattere da solo, Sherlock… non andare dove non posso seguirti.- mormora John, appoggiando la fronte alla sua. Inspira i suoi ansiti bollenti, lascia che morbido fumo argentato sgorghi in piccole volute dalle labbra di Sherlock.
È tutto così familiare, così sereno.
-No.- sussurra Sherlock sulle sue labbra. –Non sarò solo, non di nuovo. Ho bisogno del mio blogger.-
E John allora scoppia a ridere, alternando risa e lacrime, felicità e paura. Saranno insieme, forse per l’ultima volta. Ma Sherlock non lo abbandonerà di nuovo.
-Vai, John.- dice Greg, fissandoli entrambi. –Noi ce la caveremo.-
Molly sorride, annuendo vigorosa. –Volate alto, e vinciamo questa guerra.-
John fissa Sherlock, giudicando i suoi occhi, il suo viso, i suoi capelli morbidi d’acqua gocciolante.
-Possiamo farlo?-
Per tutta risposta, Sherlock se lo carica in spalla con un unico gesto fluido, inaspettato, possente. Balza senza sforzo, sbatte forte le ali e d’improvviso, entrambi s’innalzano verso il cielo, più veloci della luce, più coordinati di un’unica coppia di arti.
John si aggrappa forte, serra i denti mentre il suo stomaco si rovescia, per poi scendere giù, forse all’altezza del bacino. Non è una bella sensazione, ma il soldato sa bene cosa aspettarsi. Si sono allenati, dopotutto.
Sherlock s’innalza, sale sempre più in alto, verso il cielo, verso Moriarty. Le ali catturano il vento con un rombo possente, violento, che cattura l’aria e la taglia più e più volte.
Moriarty tende i muscoli, digrigna i denti in uno sforzo che preavvisa un nuovo epico scontro, un impatto al quale John potrebbe non sopravvivere. Si sente così piccolo, così insignificante. È grande quanto il dente più piccolo del mastodonte che ha dinanzi, quindi cosa può fare contro di lui? A Moriarty basta un gesto per spazzarlo via.
“Non sei solo”.
D’improvviso, il corpo di Sherlock comincia a mutare sotto le sue dita. S’ingrandisce, si modella, rinasce in forma di gigante imparziale, bello come alba e tramonto, anziano quanto e più del pianeta stesso. Le sue zampe sono montagne, le sue ali ampie come un’infinita quantità di metropoli.
John si aggrappa forte alle squame, digrigna i denti per non cadere mentre il corpo di Sherlock cambia velocemente. Improvvisamente, l’umano scivola in alto, trascinato dalla minuscola porzione di pelle al quale è attaccato. La terra si allontana, le squame si spostano in alto e in un istante, John si trova aggrappato alla base del corno di Sherlock, adesso imponente e appuntito come la peggiore delle armi.
Sherlock sale ancora, mentre John scruta allucinato la distesa infinita di scaglie che si stende dinanzi ai suoi occhi. Taglienti, gigantesche come immensi piedistalli sagomati, percorse da riflessi iridescenti che richiamano un unico, infinito spettro di colori. È come poggiare i piedi su una liscia distesa di aurora boreale. Strano, terrificante, ma bellissimo.
Le ali sbattono, causando una moltitudine di uragani, ma non sono quelli a preoccupare John. Un fremito di avvertimento percorre il collo di Sherlock, distendendosi alla testa. Il drago inspira bruscamente nello stesso istante in cui John si tappa le orecchie con entrambe le mani, rischiando di perdere l’equilibrio.
Il ruggito è possente, tanto furioso da scuotere di terrore il mondo intero. Dall’altra parte dell’emisfero globale, gli animali si rifugiano, le creature marine si inabissano, le piante piegano gli arbusti.
È allora che la battaglia, quella vera, ha inizio.
I draghi rispondono al ruggito, impennandosi e distendendo i lunghi colli al cielo. Le bestie di pietra scalpitano, facendo tremare la terra mentre gli umani, incoraggiati dalla vicinanza dei ben più piccoli draghi albero, si arrampicano lungo i fianchi di corteccia per salire in groppa alle magnifiche bestie.
Greg si aggrappa alla criniera smeraldina della sua cavalcatura, imitato da Molly e Mike.
Poco distante, Irene scuote la grossa testa insanguinata e velocemente si rialza, gonfiando i muscoli per lo sforzo supremo. Anthea reagisce sputando, insieme a Mycroft, un micidiale inferno di fuoco che incenerisce i draghi nelle vicinanze.
Noah sbarra gli occhi, solleva entrambe le teste. Conficca gli artigli possenti nella roccia sottostante, issando l’immensa mole di squame e muscoli d’acciaio. Spalanca le ali con uno schiocco e un ventaglio di sangue argentato, s’innalza verso il cielo con un ruggito sfinito ma vivo.
“PER SHERLOCK!!!”
L’esercito di draghi d’acqua si immerge, sparendo alla vista. La terra trema, i detriti delle navi vibrano pericolosamente mentre il mare si ritira.
Le bestie di terra avanzano ancora, poi velocemente cominciano a balzare. I draghi albero spiccano salti altissimi, che li innalza verso il cielo, a metri e metri d’altezza. Velocissimi, si muovono in branco, coordinati come muscoli armonizzati di un unico corpo. Concentrano le forze su un unico possente drago e gli arpionano le ali coi piccoli ma micidiali artigli d’acciaio. Dilaniano, mentre i loro cavalieri sparano proiettili veloci, mirati agli occhi del nemico.
Alcuni draghi strillano, altri si scrollano di dosso i draghi albero. Sbandano ferocemente, sbattendo le ali disperati, ma è in quel momento che i draghi montagna li azzannano, trascinandoli giù con un unico, possente movimento delle teste mastodontiche. I draghi nemici cadono in acqua, spariscono tra mulinelli violenti e piccoli tsunami che li abbracciano, trascinandoli in basso, lontani da qualsiasi sguardo. Non riemergeranno mai più.
-Sherlock!- grida John, quando il suo drago e Moriarty sono a un passo dall’impatto. Lo vede sbattere le ali, tendere i muscoli, ma qualcosa non va. Sherlock è insicuro, John lo capisce.
Non possono affrontare Moriarty in uno scontro frontale, non in quelle condizioni. Sherlock è ferito, debole, esausto. Non vincerà quella battaglia. Però…
-Ok Sherlock, puoi sentirmi?-
Sherlock rallenta e Moriarty stringe gli occhi, studiandolo incuriosito. Sicuro di sé. Troppo.
John ripensa ai momenti trascorsi con Sherlock: lo rivede mentre spicca il volo, spalancando le ali immense, lo ricorda mentre combatte la prima volta contro Irene. In quel momento, John si era preoccupato anche troppo. L’aveva dato per morto, immaginando che la dragonessa chiudesse le fauci sul piccolo corpo della Furia Buia, ponendo un freno alla sua esistenza, alla sua vita più che preziosa.
Non andò così.
-Ci sono.- mormora infine, e allora un sorriso affiora sul suo volto. Si accovaccia, stringendo forte la pistola, digrignando i denti in un ultimo sforzo titanico. –Ok Sherlock: è ora di sparire.-
John non sa come faccia Sherlock a capirlo, a dedurre velocemente qualsiasi sottointeso di ogni sua frase. È una cosa sorprendente, strabiliante. Eppure, adesso John confida nella sua intelligenza, nei ricordi della Furia Buia, nel suo Mind Palace.
Anche stavolta, Sherlock non lo delude.
Spalanca le fauci poderose, inspirando aria così bruscamente che l’intera gola vibra di potenza. Poi, una sfera oscura grande quanto un piccolo sole si forma tra i vortici infernali della sua bocca, scatenando un uragano lungo i denti, sulla lingua, giù fino alla gola. Guizzi di oscurità accarezzano ogni anfratto di quella bocca gigantesca, fuoriuscendo poi in volute morbide, pericolose, intrise di veleno.
È un istante, come respiro prima del balzo.
Moriarty spalanca le fauci per rispondere al fuoco, ma John sorride ed, estratto dalla tasca un ormai ben noto orologio a cipolla, che già una volta incantò Irene, lo fa oscillare davanti al viso una, due, tre volte.
È un movimento calmo, regolare, che faticosamente combatte la spinta del vento. Ma come sempre, risulta infallibile.
Istinto.
Moriarty spalanca gli occhi e fissa ipnotizzato quell’oscillazione, quel morbido ondulare d’orologio maledetto, scintillante, traditore.
Sherlock lo sorpassa, veloce come una freccia. Gli urta il muso con un colpo di coda talmente forte da stridere contro le squame di Moriarty, strappandogliene alcune. Lo risveglia così, facendolo ruggire di dolore mentre un oceano di sangue argentato lo acceca, riversandosi negli occhi, nelle narici, lungo le zanne snudate di rabbia.
Moriarty si volta a mezz’aria e si scaglia all’inseguimento su, sempre più in alto, oltre la pedana di diamante. Fende l’aria con le ali gigantesche, innalzando l’immensa mole verso un cielo vicinissimo. Ruggisce di rabbia, fa schioccare le fauci col fragore di un uragano. Ogni zanna e grande quanto un albero, ogni artiglio luccica minaccioso, pronto a ghermire, fare a pezzi, vendicare…
Ma all’improvviso, Sherlock ruota su se stesso, tende ogni muscolo del corpo e lo guarda negli occhi.
“Questo è per mia madre. Questo è per il mondo. Questo è per John”.
I suoi occhi si assottigliano, il suo sguardo parla. Moriarty vi legge rancore, potenza, giudizio. Alle sue spalle, ancorato al suo corno, c’è un minuscolo umano fragile, insignificante, debole. Infine, quel gigantesco dio del cielo così possente, così terribile, risponde all’unica presenza di quella creaturina volta a plasmarlo, a redimerlo, a ripulirlo di ogni egoismo, di ogni colpa. Sherlock rinasce come dio giudizioso, giusto, che adesso trova in quel piccolo umano la forza per combattere.
Moriarty ha fatto male i calcoli.
Moriarty ha sbagliato.
Ma Moriarty non sbaglia mai. È impossibile, è innaturale… non ha senso.
Eppure, nella sua infinita arroganza, ha saputo prestare attenzione alla creatura più grande, più minacciosa, tralasciando il piccolo essere umano che tuttavia, ha ristabilito in Sherlock una pace duratura, serena, che l’ha spinto a sfidare la guerra stessa.
Sbagliato.
Errore.
Moriarty tende le ali, spalanca la bocca in un’ultima difesa disperata per eruttare l’ennesima vampata di inferno. Incenerirà quell’esserino che ha osato sfidarlo, schianterà Sherlock al suolo e si rotolerà nel suo sangue. L’avrà vinta ancora una volta, così come deve essere.
Non sempre le favole si avverano, nella realtà. A volte, a vincere sono i cattivi. Spazzano via gli eroi, li massacrano, vanno avanti al posto dei giusti. Tuttavia, l’ombra può essere sconfitta. Alla fine, la notte è solo una cosa passeggera: anche l’oscurità deve passare. E così come il sole nasce ogni giorno, vedendo morire la luna, così infine il giorno sboccia tra le ali della creatura più giusta, più umana, che il mondo abbia mai visto.
Il buio può essere battuto, e adesso, grazie a John, Sherlock lo sa.
Dalle sue fauci esplode la sfera oscura, immensa, distruttiva, che veloce sfreccia come saetta quasi invisibile nella bocca spalancata di Moriarty.
Un istante di quiete, l’attimo del respiro finale che vede il nemico con occhi spalancati, consapevoli, intrisi di terrore. L’attimo in cui Sherlock scuote violentemente il capo, facendo cadere John per afferrarlo tra gli artigli anteriori di una zampa. L’attimo ultimo, in cui Sherlock si volta e sale sempre più su, disperato, velocissimo ma troppo stanco per accelerare ancora mentre il corpo di Moriarty esplode in un oceano di fuoco infernale che inghiotte l’ultimo re dei draghi e il suo fidato, inseparabile compagno.
 
Angolo dell’autrice:
*Pesce scorpione
http://www.4together.it/wp-content/uploads/2013/07/Pesce-scorpione.jpg
Ok, qui ho sudato sette camicie per scrivere. Però ce l’ho fatta! Sì, il prossimo sarà l’ultimo capitolo, e questa è la mia risposta definitiva. Così finirà la nostra avventura! Ma, come direbbe Gandalf: “Non vi dirò non piangete, perché non tutte le lacrime sono un male”. Non ha tutti i torti, no? Tornerò prestissimo, e per settembre avrò un’altra storia pronta. In realtà, ho già in mente due one-shot che vedono un Bilbo Baggins e uno Sherlock!Elfo e un’altra in cui Sherlock è un gargoyle. Poi, per quanto riguarda la long… ricordate gli déi egizi? Be’…
Ora, tornando a noi: dedico questo capitolo alle due persone che hanno recensito pazientemente la storia, trasmettendomi un sorriso e tanta voglia di scrivere ancora: Sonia_0911 e Wibbly Wobbly Timey Wimey. A voi dedico i miei sforzi! Grazie dal profondo dell’anima! E a presto!

Tomi Dark Angel
 
 

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Capitolo 27
*** L'Alba Di Una Nuova Era ***


Un tempo, migliaia e migliaia di anni addietro, nacque la Terra. Era un pianeta ancora arido, incolore, disordinato. Del suo principio, si ricorda nient’altro che una massa informe di roccia e lande desolate. Nessuna forma di vita, nessun movimento. Tutto faceva pensare che la Terra fosse nient’altro che semplice stella marcita, astro privo di luce e calore, che ben presto sarebbe morto ripiegato sulle sue stesse miserie.
Poi, d’improvviso e senza apparente motivo, qualcosa cambiò. Una piccola chiazza di colore nacque dal nulla. Semplice, effimera, verdognola. Lì, in quel luogo inospitale, vita e colori non erano contemplati.
Però, quei sottili fili d’erba c’erano. Piccoli, innocenti, così fragili da poter essere distrutti dal primo violento soffio di vento. Sbagliato. Lì il vento non esisteva ancora, quindi la Terra risultava impotente dinanzi a quel cambiamento inappropriato, fastidioso, ma abbastanza minuscolo da non infastidire eccessivamente. Sì, forse il pianete poteva ignorarlo.
Tuttavia, col passare del tempo, dei giorni, delle ore, quella chiazza di verde si allargò poco a poco, sensibilmente, passando inosservata ad ogni aridità di quel pianeta inospitale. Da essa nacquero gli alberi, ruvidi arbusti possenti che distesero i rami per proteggere il nuovo nascituro, una novità che il pianeta non avrebbe mai accettato: un fiorellino piccolo, gentile, con minuscoli steli di timido smeraldo e petali di un bianco accecante, puro, candido d’infantilità.
Il pianeta rabbrividì dinanzi a quella nuova macchia di colore e luce. Non era naturale, assolutamente. Si infuriò a tal punto da annuvolare il cielo, tingendolo di nuove sfumature arrabbiate, di colore naturale, che precedettero lo sbocciare del primo, violento soffio di vento. Gli alberi furono spazzati via, gli steli d’erba si piegarono feriti e il fiore rabbrividì, ancorato alla vita con la stessa disperazione che l’aveva spinto a nascere lì, in quel territorio arido ma bisognoso di speranza.
Il mondo non era un posto ospitale, il mondo era violento. Quel fiore, unica macchiolina di bellezza, non sarebbe sopravvissuto.
Fu allora tuttavia, che qualcos’altro mutò: dalla terra cominciarono a sollevarsi le montagne, piccoli cumuli di terra che ad ogni colpo delle creature sottostanti s’innalzavano su, sempre più su, fino a svettare contro il cielo, oltre le nubi. Bestie meravigliose, colorate, brillanti di puro arcobaleno emersero ancora luride e informi dalla terra. Esauste, con le ali accartocciate e i lunghi colli ricurvi di stanchezza. Ognuna caracollò al suolo per riposare, per respirare aria pulita, viva, pulsante di luce ancora malsana.
Tuttavia, un solo drago si comportò diversamente dagli altri. Lottò contro le raffiche di vento, inchiodò gli artigli spezzati al suolo e lentamente, trascinando la mole gigantesca, avanzò. Ansimava forte dalla bocca e i suoi muscoli appena nati tremavano per lo sforzo. Le squame non ancora rafforzate si graffiavano, spezzandosi a contatto col suolo e la coda si trascinava nel fango e nel sozzume come peso morto, strascicato, inutile.
Eppure, la bestia tentò ancora, tentò di avanzare contro le raffiche di vento e l’aridità di un pianeta astioso, violento, marcio dalla nascita. Perse sangue, sforzò ogni cellula informe del corpo bitorzoluto, ancora informe, ma alla fine, raggiunse la sua meta. Proprio lì, quando il fiore stava per essere strappato, una gigantesca vela rattrappita, sporca di fango e lava, si piegò a suo indirizzo per coprirlo, per proteggerlo.
Il drago si accasciò soddisfatto, lasciò che la stanchezza gli scuotesse gli arti di un tremito feroce. Faceva male, tanto. Però, adesso c’era qualcosa di diverso. Il fiore, così piccolo e innocente, si appoggiava a lui, ringraziando la sua ala con piccole, infantili carezze di steli puliti e petali delicati.
Dinanzi a questa scena bizzarra, nuova… il mondo intero si fermò.
Accadde questo in passato, all’alba delle ere, e così segue adesso, nel futuro più lontano che essere vivente sia riuscito a raggiungere.
Una guerra. Sangue. Odio. Rabbia.
Tutti piegati, tutti spezzati dinanzi all’innocenza pulita di qualcosa più grande, più resistente di qualsiasi violenza. Un abbraccio. Tutto qui. Niente di più, niente di meno.
Il mondo si ferma, osserva dal basso la caduta di due piccole figure avvinghiate, consumate dalle fiamme e dal sangue rosso e argentato. Un uomo e un drago. Entità diverse, lontane, opposte. Cielo e terra, bestia e semplice umano. Piovono dal cielo lentamente, abbandonati, privi di forze mentre alle loro spalle la volta celeste sembra esplodere in un vortice di fiamme che avvampano, guizzano di violenti riflessi cremisi e dorati.
Una bestia gigantesca, padrona del cielo e figlia della lava più oscura, smette infine di respirare. Moriarty si spegne contorcendosi, oscurando il cielo con una gigantesca colonna di fuoco che lo abbraccia, turbina violenta e infine si scarica su, verso astri irraggiungibili, verso mete lontane che nessuno può immaginare.
Dove vanno i draghi quando muoiono? Il paradiso esiste anche per loro? C’è qualcuno che si prende cura di quelle anime bestiali, ma anche così terribilmente umane?
La battaglia sottostante si blocca e lascia che un fremito percorra ogni combattente, ogni singolo elemento. Ognuno percepisce il peso della scomparsa di Moriarty, ognuno comprende poco a poco che il re di una delle fazioni è finalmente caduto.
I draghi nemici atterrano e chinano il capo sconfitti. Altri si lasciano abbattere al suolo e chiudere i musi giganteschi da zampe possenti di creature vincitrici. L’acqua smette di agitarsi, la terra non trema più. Sgomberato il fumo nerastro grazie al possente vento smosso da ali gigantesche che sbattono, anche il cielo torna a respirare.
La battaglia è finita. Ma non è vinta.
-JOHN!!!-
Greg tende una mano verso le piccole figure che precipitano. Sente che Sherlock non riuscirà a spalancare le ali, né ad evitare l’impatto. Si schianteranno così, senza protezioni? L’urto col suolo potrebbe essere fatale, considerata l’altezza.
Però, forse, non è ancora il loro momento.
Un guizzo violetto, luccichio di artigli d’acciaio. Una grossa zampa squamata si chiude sui loro corpi, interrompendo la caduta con dolcezza.
“Io in te, ci credo ancora…”
Noah sbatte forte le ali per mantenere la quota. Stremato, sanguinante, prossimo al collasso, ma mai abbastanza debole da abbandonare la sua famiglia. S’impegna per non svenire, sbatte ripetutamente le palpebre per restare cosciente. L’ha promesso. Ha promesso di difendere Sherlock, di restare accanto a John. Sono stati gli unici a volergli veramente bene, gli unici disposti a occuparsi di lui con pazienza sempre rinata, instancabile, viva. Quelli sono i suoi genitori. Quella è la sua stessa vita, cominciata lì, tra mani di giovane soldato e zampe di re allora decaduto.
Improvvisamente, il dolore agli arti si fa troppo forte, troppo straziante. Noah ha perso troppo sangue, non ce la farà a restare in piedi ancora per molto. Tuttavia, a volte il futuro ha strani progetti. Cambia di continuo le carte in tavola, muta ogni suo aspetto e alla fine, muove le sue pedine più importanti. Così ha sempre fatto in passato, e così è anche adesso.
Qualcuno lo afferra dall’alto e strattona con forza, impedendogli di cadere. Un altro corpo gigantesco si appoggia al suo, sostenendolo con dolcezza quasi materna.
-Giusto in tempo, eh?- urla Greg dalla sommità del cranio di Mycroft.
-Rilassati, tesoro.- esclama Molly, arpionata a un corno di Irene.
Entrambi i draghi sostengono Noah, entrambi gli impediscono di cadere e muovono i loro artigli con cauta gentilezza, nonostante le moli imponenti, distruttive, che al contrario potrebbero schiacciarlo. Anche loro appaiono feriti, esausti, prossimi al crollo. Eppure, senza smentirsi, lasciano che Noah atterri dolcemente in riva al mare, laddove tutto è iniziato. Apre gli artigli mentre Greg e Molly smontano dai rispettivi draghi e affannati, raggiungono di corsa i piccoli corpo accasciati al suolo.
Gli umani tacciono, i draghi superstiti trattengono il respiro. Il mondo intero interrompe la sua corsa, fermando ogni orologio, ogni secondo di troppo.
-John! Sherlock!-
Greg si inginocchia accanto a uno Sherlock immobile, rannicchiato, appoggiato su un fianco, con le ali chiuse protettive intorno al corpo. Il suo corpo fuma, la sua gola perde troppo sangue. Non si muove, non dà segni di vita. Forse è troppo tardi.
Noah, Mycroft, Edarion, Irene e Anthea si trasformano in umani e avanzano lentamente verso il piccolo corpo martoriato del sovrano più giusto che il loro popolo abbia mai avuto.
Ha saputo riscoprire l’umanità laddove solo bestie assassine parevano governare.
Ha saputo proteggere il fiore della speranza dalla rabbia del mondo ancora arido, ancora marcio.
Ha saputo vedere il bene nei cuori di ognuno di loro.
Sherlock si è fidato del suo popolo, ha lasciato che si risvegliasse, che scegliesse. Libertà dopotutto, significa anche questo. Poter decidere la propria strada. E tutto questo, i sopravvissuti lo devono anche a John, alla sua pazienza, al suo amore. È stato lui a plasmare quel sovrano, è stato lui a spingerlo a risorgere.
-Sherlock?- chiama Noah debolmente. Si inginocchia tremante di dolore e stanchezza. Cerca John  con lo sguardo, poi torna a fissare il viso mortalmente pallido di Sherlock.
-Sherlock?-
Allunga una mano e lo tocca. Dolcemente, comincia a scuoterlo, e Mycroft spalanca gli occhi perché sa che quelli sono gli stessi gesti che compì suo fratello davanti al corpo della madre. L’ha dedotto anni fa, ed è certo di non sbagliarsi. Adesso che vede gli stessi avvenimenti accadere di nuovo, adesso che i due visi di Noah si trasformano dannati nella faccia di suo fratello allora così fragile, così piccolo… Mycroft sa cosa ha passato Sherlock. Adesso capisce.
-Sherlock… dobbiamo andare a casa.-
Mycroft trattiene il respiro, stringe i pugni. Gli uomini tutto intorno chinano il capo e incredibilmente, uno ad uno, cominciano a inginocchiarsi. Lentamente, con cautela, si prostrano fedeli ai piedi di coloro che hanno saputo guardare oltre la differenza razziale. Nessuna guerra si piega al cospetto di una falsa grandezza, e questo prova che Sherlock e John, erano grandi davvero.
I draghi acquatici emergono dolcemente e anche loro, imitando gli uomini, chinano le gigantesche teste iridescenti. Uno, due, dieci, cento. A loro seguiranno i draghi montagna, poi quelli rocciosi, quelli albero.
Irene poggia un ginocchio per terra, si copre gli occhi con una mano e lentamente, china il capo. La imitano subito Mike, Anthea, Greg, Edarion. Anche Mycroft si costringe a piegare il capo. Riconosce che suo fratello dopotutto, non è mai stato stupido come sembrava. Ha lottato contro se stesso, ha vinto ogni sua battaglia e alla fine, è risorto dalle ceneri.
I draghi nemici potrebbero scappare, adesso. Se solo si voltassero, potrebbero dileguarsi e riorganizzarsi per una sommossa, per ricominciare la guerra. Si guardano tra di loro, comunicando con gli occhi, parlando con sguardi intensi e assai chiari. Lanciano occhiate ai cadaveri che affollano il terreno e l’acqua, posano le iridi lucenti sul sangue che ricopre ogni centimetro di quella terra sporca, esausta, ma che miracolosamente ancora li sostiene.
La guerra si è portata via tante cose. Finanche i sopravvissuti non saranno più gli stessi, dopo quel giorno. La storia poteva cambiare dall’inizio, e i presenti lo capiscono solo adesso. Se non avessero attaccato anziché ragionare, se non avessero voltato le spalle alle loro stesse coscienze pur di sfogare stupidi eccessi di rabbia… sarebbe stato tutto diverso.
Mai più sangue, mai più violenza.
Mai più guerra.
Lentamente, uno dopo l’altro, i draghi nemici atterrano pesantemente, esausti, feriti, tremanti di debolezza. Nessuno li degna di uno sguardo, nessuno si preoccupa di loro. Tuttavia, pochi umani nelle vicinanze li fissano stralunati quando tutti insieme, i draghi si inchinano a loro volta.
“Il sole esiste ancora, anche quando le nuvole lo coprono”.
-Sherlock… John…-
Noah chiude gli occhi e singhiozza. Due grandi lacrime, una per viso, sgorgano dagli occhi serrati, esausti. Occhi di bambino cresciuto troppo in fretta, occhi di giovane saggio che più di ogni altro ha lottato contro il mondo intero per seguire i suoi ideali, per rispettarli, per vivere.
Ma ancora una volta, il destino mescola le carte, le riodrina… e ogni cosa sguscia al suo posto.
Tra le nubi si spalanca un varco piccolo, sottile, fragile, che lascia piovere dal cielo un piccolo nastro di sole dorato. Esso cade aggraziato, gentile, colpendo di morbide carezze le ali sigillate del drago più bello di tutti. Gli illumina il viso di carità gentile, gli riscalda la pelle di rinnovato tepore.
Lentamente, il corpo di Sherlock Holmes comincia a riscaldarsi.
Noah sbarra gli occhi, fissa speranzoso quel piccolo barlume di speranza. Non ha mai pregato in vita sua. In realtà, non sa propriamente a quale dio rivolgersi, né come fare per parlargli. Tuttavia, adesso ha bisogno di aiuto. Per Sherlock, per John.
Serra forte gli occhi, stringe con le piccole dita insanguinate la mano abbandonata di Sherlock.
“Ti prego. Ti prego, lasciali vivere. Portati via qualsiasi cosa, chiunque, ma non loro. Sono la mia famiglia… ti prego, chiunque tu sia. Se esisti, abbi pietà. Se esisti… ascoltami.”
Le nubi si intensificano di nuovo. Nere, soffocanti, aggressive. I draghi alzano lo sguardo mentre il raggio di sole si indebolisce, vibrando di stanchezza. Non scalderà a lungo il corpo di Sherlock.
Le bizzarrie della vita sono molteplici. Sembrano prenderci in giro, ingannarci, ridere di noi. E forse, è così adesso, mentre uno dei draghi nemici ha l’idea. Non Mycroft, così intelligente da risultare pari a suo fratello. Non gli uomini, inventori e grandi costruttori di soluzioni e comodità odierne.
No. Ad agire per primo, sarà un nemico anonimo, sopravvissuto, ma il cui petto ancora si scuote delle parole di John Watson.
“…vi avvalete di un onore che erroneamente pensate ancora in piedi ma che in realtà voi stessi avete ammazzato insieme al primo omicidio immotivato che avete mosso sul prossimo.”
Forse, John Watson aveva ragione. Ma forse, di nuovo, c’è un modo per rimediare.
Lentamente, quasi con cautela, il drago solleva il capo gigantesco verso il cielo. Inspira profondamente, a pieni polmoni, gonfiando d’aria ancora malsana il petto ampio di muscoli e scaglie corazzate. Infine, dopo ciò, il drago espira bruscamente verso il cielo. Piccoli fiotti d’aria colpiscono le nubi, smuovendole, facendole vibrare ferite.
Gli altri draghi lo fissano, sbattono le palpebre, capiscono. Uno dopo l’altro, per la prima volta d’accordo su qualcosa che non sia il muovere violenza sul mondo intero, essi imitano il loro ormai esausto fratello. Espirano bruscamente, sforzando i polmoni brucianti di ferite.
“Credete in Sherlock Holmes!”
Le nubi vibrano ancora. Indietreggiano ferrite, lentamente, con fatica. Ma alla fine, esse cominciano a dissiparsi.
Uno, due, tre raggi di sole piovono dal cielo. Ad essi, seguono altri nastri dorati, sottili, caldi. Alcuni colpiscono il viso di Sherlock, altri gli bagnano le ali, altri ancora le corna e i capelli.
Il calore ritorna, un pallido sboccio di rosa gli colora le guance. E intanto, Noah gli stringe più forte la mano. Prega ancora, sempre più forte, urlando silenziosamente le sue invocazioni al cielo.
“CHE DIO INTERVENGA!!! SE ESISTI, NON ABBANDONARCI!!!”
Un fremito, fruscio di qualcosa che si muove.
Le dita di Sherlock si piegano lentamente, con dolcezza quasi puerile stringono la mano di Noah che bruscamente solleva le palpebre e lo fissa. A rilanciargli lo sguardo, trova due brillanti occhi di cristallo. Esausti, lucidi di sofferenza… ma vivi, luminosi come polvere di stelle.
Noah sorride prima di lasciarsi sfuggire un singhiozzo. Si porta la mano di Sherlock alle labbra e la bacia con dolcezza, sporcandosi la bocca di sangue. Non gli importa, non è rilevante. Quelle dita adesso sono così calde, così morbide e vive…
-Sherlock…?- mormora Molly, sopraffatta dall’emozione. Non osa avvicinarsi, non osa alzare la voce per spezzare il precario equilibrio di magia che si è venuto a creare. –Jo… John è…?-
Ma inspiegabilmente, Sherlock sorride. Arriccia stancamente un angolo delle labbra, lasciando che gli occhi ammicchino luminosi, guizzanti, intelligenti. Lentamente, schiude le ali. Come guscio di aurora boreale, esse frusciano, allargano il varco d’aria e sangue che timidamente rivela un corpo rannicchiato, dai vestiti bruciacchiati… ma illeso.
John Watson riposa esausto nell’abbraccio protettivo di Sherlock. Nasconde il viso contro il suo petto, intreccia le gambe con le sue, lascia che la lunga coda squamata li avvolga in un unico inscindibile abbraccio. Sorride sereno, adesso, mentre stringe tra le dita quella pelle umana mista a squame di creatura corazzata. Il suo viso è rilassato, felice, puro. Quella non è la faccia di un soldato… quella è la faccia di un uomo finalmente tornato bambino.
-È vivo…- esala Greg mentre Molly si copre la bocca con entrambe le mani e scoppia in lacrime. L’amico la oltrepassa per raggiungere John e Sherlock. Tocca il collo di John, tasta la vena pulsante di energia che sporge appena dalla pelle sporca di terra e sangue non suo. Infine, Greg incrocia gli occhi di Sherlock e lo fissa impassibile mentre questo, dal basso, gli restituisce uno sguardo fermo, indecifrabile.
Alla fine però, Greg esplode.
–Me l’hai riportato vivo!-
Si china su Sherlock e abbraccia entrambi con forza, calore, riconoscenza. Si graffia appena contro le squame del drago, ignora a bella posta il sangue di Furia Buia che gli inzuppa le mani.
E, mentre tutto intorno a loro esplode un oceano di ruggiti, applausi e grida di gioia, finalmente anche Greg piange. 
John ha sempre avuto ragione, dopotutto: essere diversi non significa essere sbagliati. In ognuno di noi c’è il giusto e l’errato, il bianco e il nero. Tuttavia, sta a noi decidere quale strada scegliere. È questo dopotutto, che ci rende liberi. Non le armi, non la violenza. Qualsiasi scelta può essere giusta, qualsiasi guerra può cadere se soltanto si guarda alla pace. Il mondo intero può piegarsi se uno dopo l’altro, il mondo scegliesse di non lottare più con la violenza. Decidere la propria strada è impegnativo, Greg lo sa bene, ma John e Sherlock hanno insegnato a tutti loro che alla fine, se si gettano le armi e lentamente si sceglie una stretta di mano allo schiaffo, allora il mondo può cambiare davvero.
La diversità non esiste. E la prova lampante, viva, reale… sono quelle due piccole creature così differenti, così lontane. Eppure, nonostante questo, entrambi hanno un cuore, entrambi respirano, osservano, sorridono, vivono. Entrambi adesso si stringono reciprocamente in quell’abbraccio delicato che sa di amore, serenità e protezione. Lì, dove l’ultima violenza si è infine consumata, la speranza sboccia rosea, gentile e lentamente, emanata dal dolce abbraccio di due semplici esseri viventi, ripulisce il marcio del mondo.
 
John non ha mai amato dormire. Troppi incubi. Sogna la guerra, le urla, il sangue e il dolore. Fa un male insopportabile rivedere i suoi fallimenti, fissare le vite che debolmente sono scivolate tra le sue dita impotenti. Solitamente, John si sveglia di soprassalto, sudato e stanco più di prima. No, riposare non fa per lui.
È un soldato. Lui combatte, corre, spara. Ma non si ferma. Non può.
Tuttavia, adesso qualcosa è cambiato. Nessun incubo tormenta il suo riposo, e anche adesso, nel dormiveglia, John sente di non aver sognato niente di brutto. Non sa perché, non sa quale miracolo abbia mosso su di lui invisibili mani caritatevoli… ma è successo.
John si muove appena, desideroso di sapere, di scoprire, di conoscere l’ebbrezza di un risveglio lento, pulito, senza grida. Nessuno sparo gli rimbomba nella gabbia toracica, nessun urlo moribondo gli risuona nelle orecchie.
C’è silenzio. O quasi.
Un fruscio morbido lo riscuote dal torpore, facendogli schiudere gli occhi sulla luce di una stanza non sua. Inspira profumo di spezie e vaniglia, stringe debolmente le dita sul bordo ruvido di qualcosa che lo ricopre di seta e polvere di stelle. Riflessi cristallini gli illuminano il viso, emanati dalla bizzarra coperta che si riscopre essere semplicemente l’ala della creatura seduta su una sedia accanto al letto.
L’uomo che lo veglia siede a gambe accavallate, la schiena dritta, le mani artigliate strette con delicatezza attorno alla rigida copertina di un libro ingiallito dal tempo. Non sembra accorgersi del risveglio di John, il che lascia intendere che il drago sia momentaneamente rinchiuso nel suo Mind Palace. Poco male: John ha finalmente il tempo di guardarlo così come ha sempre voluto fare.
Lascia sfilare gli occhi sul profilo aristocratico, nobile, dal naso dritto e dalle labbra piene. La luce che viene dall’esterno, esattamente da una finestra poco distante, dipinge sugli zigomi affilati ombre che morbide, risaltano il pallore lunare della pelle priva di imperfezioni. Le ciglia sono lunghe e nerissime, i capelli lucidi come piume di corvo.
Al momento, Sherlock indossa soltanto i pantaloni, e certamente, a John non dispiace. Osserva i pettorali armoniosi, i muscoli lunghi e affusolati, il collo pallido come lucente madreperla. Quello è l’aspetto che qualsiasi splendido dio potrebbe avere. Quella è la creatura con la quale John sceglierebbe mille e mille volte di passare la vita.
Quello è l’inizio di un’ultima, grande avventura.
 
Sherlock cammina lentamente, sfilando leggero lungo il corridoio, tra le porte serrate, lungo un percorso che la sua stessa mente lo spinge a seguire. Non indossa abiti; lì non ne ha bisogno.
La luce filtra possente dagli usci, illuminando di candido pallore i muri bianchi, le porte lignee, il pavimento chiaro sul quale ticchettano come lancette d’orologio gli artigli ricurvi del drago che avanza lentamente.
Sherlock si guarda intorno, fissando ogni porta, ricordando ogni dato celato nella stanza che essa sigilla. Ma non sono le informazioni che sta cercando, adesso. Non questa volta.
-Per quanto ancora hai intenzione di cercarmi?- domanda una voce alle sue spalle.
Sherlock si volta lentamente, con calma, ma nulla può prepararlo alla mutazione che lo abbraccia improvvisamente: il panorama cambia, le porte spariscono. Sherlock non sa perché, ma succede. Egli stesso sente qualcosa scivolargli addosso, abbracciargli il torace e urtargli le gambe.
Una veste argentata, dal colletto rigido intarsiato di decorazioni zaffiro che morbide si ripetono lungo i bordi delle maniche larghissime. Sulla schiena vi sono due tagli per lasciare spazio alle ali, sulle spalle vi è un mantello di seta che scivola tra di esse per cadere come strascico azzurrino ai piedi della giovane Furia Buia. Intorno alla fronte vi è un cerchietto d’argento semplice, sottile, brillante come polvere di diamanti.
Ma è intorno a lui che il mondo cambia davvero.
Il tramonto splende di rosso e oro sulla distesa infinita di un oceano limpido come cristallo, pulito come anima di infante. Bianche sponde sia abbattono pacifiche sulla sabbia di una spiaggia coperta di polvere d’oro finissima, leggera, intervallata da brillii cristallini, come se qualcuno ci avesse cosparso dei diamanti.
E lì, sulle sponde del più bell’incontro di cielo, terra e acqua, svetta una figura alta e slanciata, abbracciata da una candida veste di regina.
L’acqua lambisce carezzevole i piedi nudi di Nevora, scivolando sulla coda e sul mantello di finissimo cristallo quasi invisibile ad occhi umani. L’abito la avvolge stretto, sinuoso, abbracciando i fianchi stretti e la vita appena più larga. I seni sono alti e pieni, il viso fiero, sorridente, pallido come quello del figlio. Ha lunghi capelli neri intrecciati finemente con steli di candida orchidea, occhi brillanti di cristallo e una corona da sovrana che svetta sul capo.
-Ce l’hai fatta, figlio mio.- sorride lei mentre Sherlock avanza lentamente sulla sabbia, trascinandosi alle spalle lo strascico del mantello. I suoi piedi nudi affondano, si colorano d’oro quando i granelli s’impigliano tra le scaglie e lungo gli artigli ricurvi. Sua madre sembra più giovane, più serena di quando era in vita.
-Ce l’abbiamo fatta, madre. Tu eri al mio fianco.- risponde lui, raggiungendola. Si inchina leggermente alla regina, riconoscendone il grado e la superiorità, ma ella scuote lentamente il capo.
-Non sono più una regina, Sherlock: adesso, il sovrano sei tu.-
Sherlock si raddrizza e intreccia le dita dietro la schiena, fissandola.
-La corona non mi serve. Ho fatto ciò che volevi, ma adesso lascerò il comando a mio padre.-
Ma Nevora scuote il capo.
-No, figlio mio. È a te che i nostri popoli devono fedeltà, è a te che gli uomini hanno affidato le loro speranze. Al tuo cospetto, essi hanno combattuto e, al tuo cospetto, essi si sono radunati. Hai risanato il mondo, figlio mio, e questo fa di te re più di qualsiasi grande ti abbia preceduto.-
Nevora distende un braccio e lentamente, appoggia una mano sulla guancia del figlio, costringendolo ad alzare lo sguardo per intrecciarlo al suo. Sorride benigna, fiera, materna.
-Dopo la mia morte, la nostra gente ha dimenticato i grandi delle epoche passate. Giustizia, pace, serenità. Ci vorrà ancora molto per riafferrare le redini di ciò che è stato, ma non è impossibile: hanno bisogno di una guida, figlio mio, e quella guida sei tu. Tu sai, tu ricordi. E, con John al tuo fianco, saprai essere il re di cui hanno bisogno. Non sarai solo, bada. Altri ti affiancheranno e sì, quando cadrai, essi sapranno sostenerti. Il male ci sarà sempre, e sulla tua strada dovrai affrontarne ancora parecchio. Presto, esso cercherà di piantar nuovamente radici nel mondo. Non dimenticare tuttavia, che anche tu hai uno scudo: quel giovane, John… il tuo scudo è lui. Lui ti spinge a rialzarti ogni volta, lui ti spinge a lottare e a credere nell’alba di un nuovo giorno.-
Nevora gli strizza l’occhio con fare complice.
-Forse, gli umani non sono poi così deboli, no?-
Inconsciamente, Sherlock si appoggia dolcemente alla sua mano e sorride appena, socchiudendo gli occhi.
-Tu lo sapevi.-
-Io l’ho sempre saputo, figlio mio… così come ho sempre saputo che il mio giusto successore saresti stato tu. Adesso, sta a te riportare la luce sul mondo. Regna come dovresti, Sherlock Holmes… e non dimenticare che insieme, tu e John potrete annientare qualsiasi oscurità. Riprendi il sentiero della giustizia, riprendi il sentiero della pace. Sii re.-
Detto questo, Nevora si solleva sulle punte delle zampe squamose e dolcemente, appoggia le labbra sulla fronte di Sherlock, benedicendolo, rassicurandolo, spingendolo lungo la strada che forse, l’ha sempre atteso.
-Buona fortuna, tesoro.- mormora, allontanandosi. Indietreggia di pochi passi, affondando nell’acqua fino a metà polpaccio.
-Dove vai?- chiede Sherlock, sbarrando appena gli occhi. Lei sorride ancora e distoglie lo sguardo, posandolo sul tramonto raggiante, dorato di aspettative e stanchezza per il giorno appena trascorso.
-Il mio posto non è più qui.- sorride infine, protendendosi affascinata verso l’orizzonte. –Hai trovato la tua strada, Sherlock, ma sta a te percorrerla adesso. Io… sì, io credo di poter andare, finalmente.-
-No, aspetta!-
Sherlock avanza ancora, fino a bagnarsi le zampe nell’acqua cristallina. Protende una mano verso sua madre, incapace di lasciarla andare ancora una volta. Sulla fronte ha ancora il calore di quel bacio e nell’aria, annusa nuovamente il profumo di sua madre, quell’aroma di sole e fiori di campo che ha creduto di aver dimenticato. Non vuole dimenticare di nuovo, non vuole lasciarla andare.
Lei lo guarda benigna, senza abbandonare il sorriso. Nell’acqua, la sua veste galleggia, urtandogli i polpacci, affondando e riemergendo come leggerissimo velo incantato. Il sole bagna d’oro il suo viso, rischiarandolo di elegante magnificenza.
-Sono stanca, tesoro. Per me, è ora di andare oltre.-
-Non voglio… perderti.-
Lei inarca un sopracciglio, piccata.
-Chi ti ha detto che mi perderai? Abbiamo vissuto tanto insieme, figlio mio. Ti ho insegnato a volare, a camminare, a parlare. I primi libri che hai letto, te li regalai io. Quindi, sì, credo di poter affermare con certezza che in te vivrà ogni mio gesto, ogni mio pensiero. Tu mi conosci, Sherlock: devo essere libera per sentirmi felice. Perciò, se vorrai credere in ciò che ti dico e seguire il tuo sentiero da solo, così come deve essere, devi lasciarmi andare.-
Madre e figlio si fissano, occhi negli occhi, affetto materno e amore di figlio. Infine però, Sherlock indietreggia. Chiude gli occhi, annuisce. Semplicemente, la lascia andare.
-Vai. Sii libera.-
-Oh, ma io lo sono già, ormai.- sorride Nevora, indietreggiando ancora verso il sole, verso il futuro. –E credo, Sherlock, che sia ora per te di trovare la tua, di libertà. Ti sta aspettando adesso, proprio qui fuori.-
Nevora spalanca le ali, le sbatte una volta sola. Le punte acuminate affondano nell’acqua, sollevando in aria due splendidi ventagli di schizzi adamantini mentre il suo corpo si innalza leggero, ancora fradicio ma regale così come è sempre stato.
-A proposito- dice lei prima di voltarsi. –John Watson è proprio un bell’uomo. Bel colpo.-
Gli strizza l’occhio un’ultima volta mentre Sherlock arrossisce appena, esclamando un puerile “MAMMA!!!” di ragazzino imbarazzato. Lei ride felice, libera, leggera. Poi, sale sempre di più, virando verso il sole, verso il cielo, sotto gli occhi lucidi del figlio ormai re.
Il drago solleva una mano in segno di saluto e spalanca le ali a sua volta, oscurando il cielo, facendo splendere d’oro le membrane d’aurora boreale. Non ruggisce, non si muove. Semplicemente, osserva l’ultima grande regina delle ere passate che si allontana, sparendo lucente nella luce accecante del tramonto.
Con la totale scomparsa di Nevora, si chiude un’era: l’era della grande sovrana gentile, figlia delle stelle e della pace. Ad essa, succederà Sherlock Holmes, figlio, uomo, drago, sbocciato dalle idee della madre, cresciuto dalla violenza del mondo… e infine, maturato tra le piccole mani innamorate di un insignificante essere umano.
Sherlock non la rivedrà mai più.
Eppure, quello non è un addio, ma un arrivederci. Si incontreranno ancora, dinanzi a quello stesso tramonto, sulle sponde pulite di quello stesso oceano incontaminato. Per l’ultima volta, Nevora gli tenderà la mano e Sherlock, ormai stanco di anzianità, la afferrerà per lasciarsi trasportare via, leggero di un ultimo volo che lo vedrà pesante di un’altra creatura che mai lo avrà abbandonato: John Watson sarà con lui allora, fino alla fine. E insieme, essi voleranno oltre, lasciandosi alle spalle l’ennesima era terminata. Ne inizierà un’altra, con l’arrivo del nuovo giorno… al trono questa volta, salirà un drago viola, a due teste. E, Sherlock lo sa, non potrà esserci scelta migliore di quella.
Arrivederci, mamma.
Arrivederci, figlio mio.
 
Un tocco fragile sul viso. Dita umane, morbide, delicate che accarezzano Sherlock con tanta devozione da sfiorarlo quasi timorose.
John affonda le mani nei capelli soffici di seta, scorre i polpastrelli lungo le tempie, gli zigomi, la mandibola coperta di piccoli spuntoni. Ripercorre manualmente quel viso elegante, baciato dalla luce, immobile come splendida statua michelangiolesca.
Quasi inconsciamente, sorride alla vista dello sguardo vacuo di Sherlock. Gli ricorda la prima volta che gli ha proposto un caso. Sembrano passati secoli da allora, ma in realtà è trascorso appena qualche mese dal loro primo incontro. Nonostante questo però, John sente che il suo posto è sempre stato quello: affiancare Sherlock, vivere dei suoi respiri, dei suoi sguardi, della sua voce. Del prima, John non vuole ricordare altro.
L’uomo passa troppo tempo a guardarsi indietro, col risultato di perdersi ciò che ha dinanzi. John ha consumato metà della sua vita a piangere le sue perdite, i suoi errori, il suo passato. Si è sempre rifiutato di avanzare, di cambiare il corso della sua storia. Poi, con l’arrivo di quella bizzarra quanto arrogante creatura alata, qualcosa è cambiato. La sua vita, il suo futuro… tutto. E John non può desiderare niente di più bello.
Una mano calda si appoggia sulla sua, ancora ferma sul collo di Sherlock. John sussulta e sbarra gli occhi, accorgendosi improvvisamente che sì, Sherlock si è svegliato. Lo fissa negli occhi, studiandolo col familiare sguardo di indecifrabile cristallo.
John si sente esposto, fragile, proprio come la prima volta che l’ha incontrato. L’effetto devastante di quelle iridi chiarissime non smetterà mai di stupirlo, dovesse passare un secolo. Saranno sempre nuove, sorprendenti, intelligentissime… e bellissime. Proprio come il loro proprietario.
-Io… scusami, ti ho… svegliato? Si dice così quando esci dal tuo Mind Palace?- esclama John, parlando velocemente. Vorrebbe ritrarre la mano da quel viso così bello, così familiare, ma Sherlock non glielo permette. Al contrario, continua a fissarlo intensamente con occhi che, John si accorge con stupore, brillano ancora di un velo di lacrime.
-Sherlock?- chiama stupito, ma lui non risponde. Al contrario, John lo vede respirare profondamente, a pieni polmoni per riprendere il controllo. John vorrebbe domandare, vorrebbe sapere cosa lo ha sconvolto, ma sente anche che non è il momento di chiedere. Quando Sherlock si sentirà meglio, glielo dirà.
Quella creatura impassibile, conosce in realtà le emozioni meglio di chiunque altro.
Per questo, John sorride dolcemente di un sorriso innamorato e, stiracchiando i muscoli, si china per stringerlo in un abbraccio gentile, affettuoso, traboccante di totale devozione. Gli accarezza la schiena squamata, fa scorrere le dita lungo le vele sporgenti delle ali gigantesche e dolcemente, inspira quel profumo magnifico che ha saputo estrarlo dall’inferno stesso.
Sorprendentemente, Sherlock lo strattona con gentilezza, lasciando che John sieda a cavalcioni sulle sue ginocchia. Poi, senza proferir parola, nasconde il viso contro il suo collo mentre una mano dell’umano sale da accarezzargli la base del corno sinistro.
Restano immobili, sereni, respirando l’uno l’aria dell’altro, ascoltando reciprocamente i cuori di entrambi che armoniosi, si sintonizzano su pulsazioni lente, sincronizzate, come palpiti d’unico essere. Sherlock chiude gli occhi, inspirando il profumo di John. Non somiglia per niente a quello di Nevora. Però è bello.
“E credo, Sherlock, che sia ora per te di trovare la tua, di libertà. Ti sta aspettando adesso, proprio qui fuori”.
Finalmente, Sherlock capisce il significato di quelle parole. La sua libertà, il suo futuro… li stringe adesso, tra le mani. Essi si racchiudono nell’unica creatura che Sherlock ha sempre amato, l’unico che gli ha dato la forza di rialzarsi, di vivere davvero.
Forse, Nevora ha ragione. È ora di andare avanti, è ora di proseguire per la strada che egli stesso ha scelto. Sherlock camminerà sulle sue gambe, seguendo i suoi principi, la sua giustizia, il suo futuro. Cadrà più volte, ma non sarà mai realmente solo.
-Sono qui.- mormora John, e Sherlock trattiene il respiro. Inconsciamente, un sorriso sboccia sulle sue labbra, stiracchiandole, illuminandogli il viso di luce nuova, viva, felice.
E, mentre il sole illumina con più forza il cielo, filtrando dalle finestre e bagnando la coppia di luce dorata, Sherlock allontana leggermente John da sé. Lo guarda negli occhi, studia con cura quel viso bagnato di sole.
Quel viso, lui lo ama da morire. Per quel viso così umano, così imperfetto, Sherlock tirerebbe giù il cielo intero.
-Che c’è?- sorride John imbarazzato, ma Sherlock scuote il capo, sorridendo ancora.
-Niente, John. Bentornato a casa.-
E allora Sherlock si china e lo bacia con dolcezza, gentile di amore, leggero di serenità mai provata prima. Gli morde dolcemente le labbra, lascia che morbido fumo argentato scaturisca dalla sua gola per sfiorare la lingua dell’altro mentre la intreccia alla sua.
Le mani corrono, esplorano, accarezzano. E Sherlock capisce che sì, con John al suo fianco, potrebbe accettare il trono offertogli da Nevora.
-JOOOHN!!!-
Qualcosa di pesante sfonda la porta, sradicandola dai cardini mentre una furia violetta attraversa la stanza e si scaglia di peso su John e Sherlock, abbracciandoli con forza erculea. L’umano annaspa spaventato mentre la Furia Buia pianta le punte delle ali nel pavimento per evitarsi di cadere.
-John! Sherlock! State bene?- esclama Noah, nascondendo i volti contro i colli di Sherlock e John. Respira velocemente, affannato, spaventato come il bambino che è sempre stato.
John ricorda la prima volta che l’ha visto. È stato Noah a insegnargli che tutto il suo sapere sui draghi era sbagliato. È stato Noah ad affiancarli, a seguirli ovunque andassero. Ha sempre nutrito una profonda fiducia in entrambi, pur conoscendoli poco. Non ha fatto domande, non si è impicciato nelle loro faccende personali o nel loro passato. Tuttavia, John ha sempre avuto la bizzarra sensazione che quel minuscolo bambino a due teste, in realtà lo conoscesse più di chiunque altro.
-Stiamo bene, Noah. Tutti e due.- sorride John, abbracciandolo forte. Accarezza i capelli del bambino, inspira il suo familiare odore di vento, tipico di tutti i draghi alati. Quello è il suo bambino, il suo Noah. Quel piccolo è parte della sua famiglia.
Lo allontana leggermente da sé per guardarlo in viso. Sorride, John, e pensa di non poter mai fare altro nella vita.
Quello è il suo posto.
Lì, seduto sulle gambe di Sherlock, con un piccolo draghetto a due teste in grembo e le ali della Furia Buia che lentamente si chiudono protettive su di loro, lucenti come polvere di stelle, grandi quanto un vero e proprio mondo personale.
John accarezza Sherlock in viso, facendo scorrere la mano sulla sua guancia, fino alle labbra cesellate. Intreccia gli occhi con i suoi, sorride di una felicità spensierata, viva, che per anni ha creduto irraggiungibile.
-Cosa ne facciamo di lui, Sherlock?- domanda scherzoso, alludendo al corpicino adesso minuscolo di Noah. Lo vede accovacciarsi, abbassare gli occhi, chinare il capo dispiaciuto. Forse, quella frase non è esattamente ciò che si aspettava di sentire.
Sherlock fissa Noah, lo giudica, studia ogni suo tratto somatico. Poi, sorprendentemente, gli cinge le spalle con un braccio e lo attira a sé, baciandogli con dolcezza entrambe le fronti. È un gesto nobile, affettuoso… paterno. John non l’ha mai visto fare una cosa del genere.
-Benvenuto in famiglia, figlio mio.- risponde infine, pensando a ciò che avrebbe detto sua madre. Ricorda i loro ultimi momenti, l’ultimo bacio benedetto che gli ha poggiato sulla fronte. E adesso, lui ripete il gesto lì, al cospetto dell’unica famiglia che ha sempre voluto e accettato.
Noah sbarra gli occhi, si copre la bocca con una mano tremante. Dopo la morte di sua madre, non ha più avuto una famiglia. Se l’è sempre cavata da solo, sopravvivendo alla giornata… senza nessuno ad occuparsi di lui. Adesso invece, quelle due splendide creature innamorate lo abbracciano come un figlio.
Singhiozza forte, lasciando libero sfogo alle lacrime e alla felicità. Poi, dolcemente, si aggrappa al collo di Sherlock mentre John gli accarezza la piccola schiena scossa dai singulti.
-Grazie… graziegraziegrazie.- mormora a ripetizione contro il collo del suo protettore più prezioso. Un sovrano, un drago, un padre. Finalmente, Noah ha trovato la sua famiglia.
-Andiamo, adesso.- dice Sherlock, raddrizzandosi. –John, devo farti vedere una cosa.-
John si alza, incespicando per un breve giramento di testa. Quasi cade per terra, ma un’ala gentile gli impedisce di urtare il suolo, così come ha sempre fatto dalla prima volta che lui e Sherlock si sono conosciuti.
Noah si aggrappa al collo di Sherlock mentre questi si alza lentamente in piedi, attento a non distruggere niente dell’appartamento spartano che li ospita momentaneamente.
-Vivrò qui, Sherlock?- chiede improvvisamente John, guardandosi intorno stranito. In effetti, non è certo che quel posto così piccolo possa ospitare un drago… per quando Sherlock verrà a fargli visita. Il pensiero di vederlo allontanarsi gli è così doloroso che per qualche istante, John trattiene il fiato e chiude gli occhi.
Una mano gentile, morbida di pelle umana e affilata di squame taglienti, scivola nella sua. Le dita si intrecciano, i palmi aderiscono con perfezione quasi impossibile e finalmente, John solleva lo sguardo.
-Casa mia può andar bene?- dice Sherlock con un mezzo sorriso.
Il cuore di John si gonfia improvvisamente, i suoi occhi splendono di nuove lacrime che tuttavia, non hanno il tempo di uscire. Sherlock si china e gli bacia gli angoli degli occhi come se fosse la cosa più naturale del mondo.
-S… sì.- sorride John, abbracciando lui e Noah. –Andrà benissimo.-
Ed è così che, mano nella mano o stretti in un piccolo abbraccio affettuoso, Sherlock, John e Noah escono finalmente all’aria aperta.
John si aspetta di tutto. Pace, tranquillità, silenzio dopo la battaglia devastante. Tutto, tranne quello.
Draghi. Lì, a Londra!
-Ma che…-
John li guarda gareggiare in cielo, fiere cavalcature di umani urlanti di felicità, o correre avanti e indietro, inseguiti da ben più minuti esseri umani che non smettono di ridere. Un drago roccia avanza incespicando mentre tre bambini gli si appendono giocosi alle sporgenze pietrose; un drago albero scorrazza avanti e indietro, trascinandosi dietro quella che sembra una slitta improvvisata stracolma di ragazzi scavezzacollo.
I detriti sono stati spazzati via, rimpiazzati da costruzioni solide, nuove, rinate dall’antichità: ogni casa è piccola, massiccia, elegante. L’edera avvolge gentilmente i muri, inerpicandosi fino ai tetti, e le strade sono punteggiate di alberi, erba e fiori. Ai lati della strada principale, vi sono gigantesche statue marmoree di draghi alte almeno sei metri che, impennate sulle zampe posteriori, sorreggono brillanti archi di vetro intagliato di arabeschi.
È una città nuova, sconosciuta, da favola. Non sembra Londra, ma John sa che quella è la città dove è nato, cresciuto, morto e resuscitato.
-Cosa… quanto ho dormito?- domanda stupito, mentre un gruppo di cuccioli di drago gli passa davanti di corsa, mulinando le pericolosissime code spuntonate. Costringono diverse persone ad abbassarsi, per poco non distruggono una delle statue, ma sembrano inarrestabili e anche terribilmente divertenti.
-Due giorni.- risponde Sherlock, avanzando al suo fianco. –Ma tutti noi abbiamo dato una mano.-
Al suo passaggio, diverse persone si girano e li salutano con sorrisi e sventolii di mano. Una bambina si aggrappa alla gamba di Sherlock, che incespica imbarazzato tra le risate di John e i brontolii gelosi di Noah.
-Ehilà, John!- esclama Greg, raggiungendolo di corsa. Lo abbraccia con forza, sollevandolo da terra e ignorando ogni sua fervida protesta. –Come stai? Meglio, vedo.-
Indossa nuovamente il distintivo da ispettore e sorride raggiante, sereno come John non l’ha mai visto.
Alle sue spalle sopraggiunge qualcun altro, una creatura abbigliata in abiti classici e con in mano il suo fedele ombrello nero.
-Vedo che ti sei rimesso, John.- saluta Mycroft, senza degnare il fratello di uno sguardo.
-Immagino di sì. Ma tu lo sapevi già, vero?- risponde John, e allora Mycroft si lascia sfuggire un mezzo sorriso. Annuisce e quasi distrattamente fa scivolare la mano in quella di Greg.
John sbarra gli occhi, fissandoli entrambi.
-No, siete seri?!- esclama mentre Sherlock si copre gli occhi con una mano.
-Vorrei essere cieco…- commenta, vibrante di disgusto mentre Greg scoppia a ridere, rosso in faccia e leggermente impacciato.
-Sì, noi… ehm…-
-John!-
Mrs Hudson compare all’orizzonte. Corre veloce, agile come una ragazzina, e il suo viso è così rilassato da sembrare seriamente ringiovanito. Abbraccia forte suo figlio, gli scompiglia i capelli, gli bacia la punta del naso mentre John arrossisce e imbarazzato cerca di richiamarla all’ordine.
-John!-
Molly, Irene e Mike li raggiungono di corsa. Sorridono, corrono agili tra i draghi che li sorpassano di tanto in tanto. Mike incespica e quasi rischia di cadere e i draghi ne approfittano per atterrarlo e rotolarsi nell’erba, trascinandoselo dietro.
Molly si slancia in avanti, leggera come gazzella, serena come bambino ancora in fasce e dolcemente, stringe Sherlock e John in un abbraccio soffocante. Non si preoccupa più dell’imbarazzo che ha sempre provato nei confronti di Sherlock, non si preoccupa più del passato, delle perdite, della sua vita vissuta a metà.
Il passato non potrà essere cancellato, questo mai. Ognuno ha perso un pezzo d’anima, ognuno ha sofferto le pene dell’inferno. Tuttavia, ormai è ora di andare avanti. Hanno pianto abbastanza, e abbastanza si sono voltati indietro, verso il passato, verso le troppe vite che hanno visto spegnersi. Forse però, non è tardi per ricominciare.
Molly ha perso tanto, in passato. La sua famiglia non c’è più, i suoi innocenti occhi di ragazza hanno visto troppa violenza. Tuttavia, adesso, Molly fissa John e Sherlock con rinnovata serenità, viva di sorrisi luminosi e occhi brillanti, fiduciosi nel domani.
-È finita.- mormora, esausta di felicità. Quasi piange nel guardarli, e John sa che la sua amica non smetterà mai di ringraziarli entrambi per ciò che hanno fatto. –È finita davvero.-
-A quanto pare sì.- aggiunge Irene, sorridendo sorniona a indirizzo di Sherlock. –Almeno per ora, dolcezze. È tempo di guardare avanti… è tempo che sul trono salga un nuovo re.-
Tutti fissano Sherlock, tutti annusano l’aria in cerca di un pericoloso rifiuto. Mycroft si appoggia all’ombrello, Greg serra forte i denti, Molly stringe i pugni. Sanno che un eventuale rifiuto di Sherlock potrebbe segnare altre scissioni.
Draghi d’acqua, di terra e di roccia, rispondono solo e soltanto a lui, adesso.
-Non è ancora il tempo per parlarne.- sopraggiunge Edarion. Avanza lentamente verso di loro, le mani intrecciate e una lunga veste indosso. Gentilmente, raggiunge il figlio e gli appoggia una mano sulla spalla, sorridendo appena.
-Noi due sappiamo già, Sherlock.- ammicca complice, e Sherlock annuisce. Ha la strana sensazione che Nevora non abbia parlato soltanto con lui.
-Sii deciso in ogni tua scelta, e ricorda che qualunque strada sceglierai, noi ti seguiremo.-
Uno dopo l’altro, i presenti annuiscono. Draghi e umani affiancati, simili, sicuri dei loro stessi legami. Differenze ormai, non ce ne sono più.
-Andate, adesso.- mormora Edarion, facendo un passo indietro, e gli altri lo imitano sorridenti, felici, attorniati da umani e draghi mescolati, uniti, che come bambini giocano tra loro, collaborano, si inseguono.
Quello è il loro mondo. Quella è pace.  
 -Andiamo? Dove?- chiede John, mentre Sherlock e Noah distendono le ali, stiracchiandole al cielo come distese setose di aurora boreale e lucente ametista.
Automaticamente, John allaccia le mani al collo di Sherlock e intreccia le gambe alle sue, rifiutandosi di separarsi da lui, di lasciarlo andare.
Non ce ne sarà bisogno. Mai più.
-A casa.-
Ultime parole, ultima promessa. John sorride e annuisce, appoggiandosi a lui con cieca fedeltà.
Sherlock sorride e spicca il volo, sbattendo le ali con forza, tagliando l’aria, issandosi nel cielo come lucente cometa oscura. Al suo fianco, vi è un umano piccolo e testardo. Si sono conosciuti così, dopotutto.
John Watson colpì Sherlock Holmes a un’ala, strappandolo al cielo, al suo popolo, alla sua libertà. Scelse poi di impegnarsi per restituire alla volta azzurra l’astro più brillante del creato, su accanto al sole e alla luna, più brillante di qualsiasi stella, più possente di qualsiasi montagna. John ci è riuscito. E, in cambio, quella stessa eterea creatura ha saputo dargli ciò che di più prezioso abbia mai sognato di possedere: la leggerezza del volo, la serenità dell’amore e le ali di un’indomita libertà.
 
Dunque, questa è la mia storia. La nostra storia. Così, amici miei, io chiudo il mio racconto. C’è altro da dire? Non molto, in realtà. So bene che la nostra avventura è appena iniziata, così come so che ben presto, dovremo affrontare guai ben più grossi di Jim Moriarty. Lo capisco da Sherlock, che col passare dei mesi pare innervosirsi ogni istante di più. Lo stesso Noah annusa l’aria spaventato, ma non voglio credere che esista davvero qualcosa capace di allarmare un drago, specie se il rettile in questione è una Furia Buia.
Oh, lasciamo perdere i nostri problemi. Io sono felice così, dopotutto: amo la mia casa, la mia famiglia, i miei amici che non mancano mai di invaderci casa alle ore più sconclusionate del giorno e della notte. È la mia vita, che vogliamo farci?
Ora, torniamo a noi. Sì, perché ho intenzione di concludere il racconto così come l’ho iniziato. Ha bisogno di un’aggiustatina, non vi pare?
Questa è Londra. Nevica per nove mesi all’anno, e negli altri tre grandina. Le cose da mangiare che crescono qui sono dure e insapore, e le persone che crescono qui lo sono ancora di più. L’unica cosa positiva, sono gli animali da compagnia: in molti posti hanno pony e pappagallini. Noi invece abbiamo:
I DRAGHI.
 
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Angolo dell’autrice:
Ebbene sì, ragazzi miei. Questa è davvero la fine. E, come sempre, devo tediarvi con uno dei miei piccoli discorsi da pazza furiosa. Forse sarò ripetitiva, è vero, ma non perderò mai l’occasione di dirvelo.
Viaggiate. Aprite le vostre menti e volate alto, sempre e comunque, qualsiasi cosa capiti. Leggete, scrivete, sognate. L’uomo migliore del mondo non sarebbe mai grande davvero se non inseguisse un sogno, un pensiero di libertà e un soffio di vita vera. Non sempre è facile realizzarsi, è vero, ma le cose veramente belle non sono mai semplici. Io ho combattuto contro me stessa, contro il mondo, e sto ancora lottando. Sono stata debole, ammalata, stanca. Tuttavia, non ho mai smesso di scrivere. Per me stessa, per voi. Leggere ci aiuta a tornare liberi, ad essere bambini di nuovo, e io voglio provare altre mille e mille volte che questa libertà esiste. Scriverò sempre, così come mi è stato chiesto di promettere, ma voi in cambio … vivete. Sognate. Siate bambini sempre e comunque, anche quando ogni cosa vi remerà contro. E leggendo, traete le vostre morali da ogni storia, da ogni personaggio, da ogni frase. Infine, applicate quanto di più giusto riuscite a carpire dai personaggi che vi appassionano:
Siate liberi come Sherlock.
Siate testardi come John.
Siate gentili come Molly e intelligenti come gli Holmes.
Siate tutti loro, siate voi stessi. E infine, abbiate sempre la forza di credere che da qualche parte, le fiabe esistono davvero. Guardate in alto, sulle vostre teste, e immaginate l’epica battaglia tra i draconici Sherlock e Moriarty. Guardate la vostra città e immaginatela sede di draghi e umani che si rincorrono ridendo. Guardate le vostre vite e rendetele avventure vere, così come hanno fatto i personaggi di questo racconto. Loro hanno sconfitto la guerra. Voi, potete sconfiggere qualsiasi orribile titano semplicemente credendo di poterci riuscire.
Noioso, vero? Probabilmente sì, e probabilmente, se qualcuno commenterà, lo farà per insultarmi a dovere dopo questo discorsetto da vecchiaccia precoce XD Ora, tornando a noi, annuncio che no, non vi libererete di me. In parte, questa storia resta aperta, e questo perché adesso esce Dragon Trainer 2. È vero, ho già in porto l’ennesima Johnlock, che stavolta li vedrà impegnati nella mitologia egizia, ma non è mai detta l’ultima parola!
Ora, passiamo ai ringraziamenti, e a un piccolo regalo: dopo aver elencato i nomi dei miei bellissimi draghetti recensori, troverete uno sprazzo della prossima storia, che dovrei pubblicare a settembre, se non mi dedicherò al sequel di questo scritto.
Ringrazio di cuore i miei angeli più belli. Coloro che hanno avuto la costanza di recensire, di leggere assiduamente, di ricordarmi che forse valeva davvero la pena pubblicare un altro capitolo. I vostri commenti, che mi hanno fatto piangere e ridere, sono i veri protagonisti di questa storia. È la vostra presenza a ricordarmi che posso scrivere sempre nuove avventure, e per questo non smetterò mai di ringraziarvi. Grazie di cuore. Grazie. E un abbraccio forte e speciale alle ultime persone che hanno recensito:

Kimi o Aishiteiru
Wibbly Wobbly Timey Wimey
Sonia_0911
GretaJackson16
Ari_in_wonderland
Fatelfay

Grazie ancora. E adesso, spazio al mio ultimo, piccolo regalo:
...Sono al buio, tutti e due. E, con un prigioniero svenuto tra le braccia, John non può difendersi. Non usciranno vivi di lì, a meno che gli alleati non raggiungano quella stanza per tirarli fuori.
Improvvisamente però, un flebile sussurro gli accarezza le orecchie. È una voce diversa da quella remota delle ombre, John lo riconosce. È viva, profonda come i più oscuri abissi della terra. Quella è una voce tranquilla, placida, capace di piegare i monti e le maree al suo semplice, egoistico volere.
Un oceano di brividi ricopre la pelle di John, facendolo sentire piccolo e indifeso come un bambino. Si accosta timoroso al viso del prigioniero per ascoltare, per seguire quella voce ovunque essa conduca.
Un lampo d’acciaio, il sibilo di lama che fende l’aria. D’improvviso, l’ultima corda cede, emettendo le ormai familiari scintille cremisi.
John sussulta e si volta, pronto a difendersi con pistola e coltello. Tende i muscoli, affila lo sguardo nella semioscurità, ma tutto ciò che vede è un’ombra corpulenta d’uomo altezzoso che lentamente rinfodera la spada. Si raddrizza, volta le spalle. Infine, torna a confondersi tra i suoi simili, sussurrando a bassa voce le sue frasi sconclusionate.
John realizza lentamente il vero potere di quelle ombre. Non sono impalpabili. Possono combattere, possono ucciderlo.
Lentamente, il prigioniero si risveglia. Muove gli arti, respira a fondo. John allunga una mano verso il suo viso, ma non lo trova, segno che… possibile? Quell’uomo ha veramente trovato la forza per alzarsi a sedere?
-Stai bene?- domanda lentamente, desideroso di ascoltare nuovamente quella voce. Stavolta infatti, la risposta non tarda ad arrivare.
-Non fare domande stupide, ragazzino. Sono più resistente di chiunque tu conosca, quindi non infastidirmi.-
Veloce, concitato. Arrogante. John respira profondamente per non prenderlo a pugni lì, sul posto, rischiando di stordirlo di nuovo.
-Sei Sherlock Holmes?-
-Altra domanda stupida. Non ci sono altri prigionieri qui.-
-Potresti rispondere senza insultarmi?-
-Potresti porre le giuste domande, almeno per impedirti di sembrare un imbecille?-
John stringe la presa sul coltello, poi lentamente si alza in piedi.
-Ottimo. Deduco che tu riesca ad alzarti con le tue sole for…-
-Stai giù.-
D’improvviso, Sherlock Holmes lo tira per un polso, costringendolo ad accovacciarsi…
Tomi Dark Angel

 

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