James Cameron & Neill Blomkamp's WEIJI

di Kapitan Kefiah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Casa è dov'è il Cuore(Parte 1, POV Leon) ***
Capitolo 2: *** Casa è dov'è il Cuore (Parte 2, POV Leila) ***
Capitolo 3: *** Casa è dov'è il Cuore(Parte 3, POV Leon) ***
Capitolo 4: *** Solcata ho Fronte(Parte 1, POV Leon & Leila) ***
Capitolo 5: *** Solcata ho Fronte(Parte 2, POV Leon) ***
Capitolo 6: *** Solcata ho Fronte(Parte 3, POV Leila) ***
Capitolo 7: *** Solcata ho Fronte(Parte 3, POV Leon) ***
Capitolo 8: *** Una Nuova Vita(Parte 1, POV Leon) ***
Capitolo 9: *** Una Nuova Vita(Parte 2, POV Leila & Leon) ***



Capitolo 1
*** Casa è dov'è il Cuore(Parte 1, POV Leon) ***


Capitolo 1: Casa è dov’è il Cuore

(POV: Leon)

I primi Raggi del Sole spuntarono oltre l' orizzonte illuminando la città di Sidney, spesse nuvole grigie coprivano quasi interamente un cielo di poco più chiaro. I grattacieli di vetro e acciaio proiettavano immense ombre sulle strade, illuminate dalle gelide luci al neon, quelle bianche dei lampioni e quelle multicolori delle insegne e dei pannelli olografici. Le strade erano asfaltate di fresco, e la grande massa di persone le attraversava, la quasi totalità era a piedi ma sulle piste ciclabili ai lati della strada alcuni passavano in bicicletta, altri su segway telescopici che avanzavano pigramente trasportando i loro utilizzatori stanchi di camminare. Al di sopra delle strade, sostenuti da impalcature di acciaio e cemento, si trovavano ferrovie sopraelevate per i trasporti pubblici, sei piani di tram magnetici. Oltre le piattaforme, l' aria era solcata da elicotteri di pattuglia e da trasporto.

Sotto la strada si estendevano i sei piani della metropolitana.

 

“Wow, non solo c'è poca gente ma ho pure trovato un posto libero per sedermi, forse è una bella giornata!”

Leon uscì accovacciato dal vagone, si incamminò attraverso la folla in direzione delle scale. Abbassò la testa e fece rapidamente le sei rampe di scale, fino a spuntare sulla strada, appena fuori si stiracchiò, scrollandosi di dosso l' indolenzimento di tutto il viaggio passato piegato, poi scrollò la polvere dai suoi jeans neri e dalla sua giacca grigio scuro. Un freddo soffio di vento lo fece tremare, allora chiuse la giacca. Intorno a lui tutta la gente era vestita pesante. era Aprile, ma a Sidney era da tempo che ad Aprile non faceva più caldo.

Cavò da una tasca della giacca gli occhiali da sole e li inforcò mentre i suoi occhi si riabituavano alla luce naturale e si sistemò i lacci della maschera filtrante che gli copriva la metà inferiore del volto, poi si guardò intorno. Vide infine le scale metalliche che permettevano l' accesso alle piattaforme dei trasporti pubblici.

Si incamminò in quella direzione, rallentò il passo mentre si infilava tra la folla. Si guardò intorno. Come sempre spuntava in mezzo alla folla, più alto di chiunque altro, notò che diversa gente lo stava guardando, alcuni solo uno sguardo distratto, altri lo fissavano più a lungo. Guardò avanti e continuò a camminare, non era la prima volta che si sentiva degli sguardi addosso, avevano smesso da tempo di imbarazzarlo.

Alla sua destra vide una serie di stretti vicoli con dei contenitori per l'immondizia oramai sepolti sotto una moltitudine sacchi, molti di quei sacchi erano squarciati e il contenuto riverso fuori sulla strada. Nonostante la maschera filtrante potè sentire il fetore alla perfezione. In mezzo ai sacchi c'erano un paio di dingo intento a rovistare in cerca di cibo, più in là un ratto enorme schizzava fuori da in mezzo ai sacchi e veniva azzannato al volo e trascinato nell' ombra da un varano acquattato dietro un cassonetto, più in là un gruppo di barboni stava cuocendo del cibo su un falò.

Mentre procedeva la sua attenzione fu attratta, in mezzo alle insegne al neon e olografiche che balenavano, da un grande olopannello posto su un palazzo al lato opposto della strada, sotto di esso tre grandi porte di vetro con tende rosse e un' insegna al neon che recitava 'Cinema dell' Opera'.

L' olopannello era un rettangolo di vetro e fibre ottiche lungo sei metri e alto due, incorniciato da due sostegni di acciaio cromato. Trasmetteva un trailer, a giudicare dagli hanzi cinesi e dai kana giapponesi nei sottotitoli un film asiatico: un ridicolmente gigantesco dinosauro umanoide coperto di scaglie grigio scuro e con spuntoni argentei sulla schiena, realizzato con una tuta sorprendentemente realistica, emergeva dall'oceano e vomitava un accecante raggio di energia azzurrina, distruggendo navi portaerei cariche di attori bianchi, o asiatici truccati da bianchi, con l' abbronzatura spray, capelli ossigenati ed enormi nasi finti, vestiti di uniformi da soldati americani della seconda guerra mondiale, che urlavano parole in inglese a caso; cambio di scena e dal cielo in tempesta discendeva un gigantesco drago cinese dalle scaglie scarlatte, fatto in CGI, che sorvolava una giungla e faceva piovere fulmini distruggendo carrarmati ed elicotteri, sul campo soldati cinesi corazzati nelle loro armature in ceramite si gettavano contro il nemico attraverso fiamme e esplosioni, poi un muscoloso soldato indiano e un altrettanto ben piazzato soldato cinese combattevano schiena contro schiena su un campo di battaglia desertico, falciando con due fucili d' assalto ognuno e colpi di kung fu un' orda di asiatici lampadati, vestiti da soldati cubani ma con enormi baffi posticci e sombrero, nonché altri attori vestiti da indiani d' america dipinti di blu e ingranditi in CGI.

Poi fu il turno di un film atlantico: un culturista oliato su un elicottero d' assalto Goliath Mk-04 sorvolava una giungla e falciava con un mitragliatore pesante un' orda di asiatici, e bianchi truccati da asiatici, con dentoni e orecchie a punta posticci, poi un nugolo di soldati italiani e britannici si apriva la strada attraverso quella che sembrava una città araba del medioevo, un numero imprecisato di arabi, e bianchi truccati da arabi, con enormi barbe posticce e turbanti si gettavano contro di loro ululando e mulinando scimitarre chiaramente di plastica, venivano falciati dalle fucilate ed esplodevano in una sanguinolenta palla di fuoco, poi dietro i loro spuntava un bianco con parrucca riccioluta, orecchie giganti e naso adunco posticci, e una stella di david in fronte, che cercava di pugnalare alle spalle il capo ma veniva prontamente incenerito da una scarica di lanciafiamme di un soldato tedesco spuntato dal nulla, poi il culturista di prima affrontava un gigantesco tizio russo con una svastica al braccio e quattro neri in gonnellino di leopardo al guinzaglio, che si gettavano schiumanti all' attacco prima di essere maciullati a mani nude dal culturista, seguiti da mostruosi insetti umanoidi in CGI.

Poi fu la volta di un film orientale: un gruppo di soldati del corpo Mujaheddin Hunters correva tra una copertura e l' altra in una palude devastata da esplosioni, a volte sparando qualche raffica da dietro una copertura, poi attivarono i jetpack e sfrecciarono attraverso la battaglia, ingaggiando a suon di scariche di fucile d'assalto e lanciamissili un'orda di attori mediorientali con baffi posticci alla Fu Manchu e con cappelli di paglia, che si gettavano in carica urlando come scimmie e mulinando delle katana, in un'altra scena una bella donna dai tratti semiti e una kefiah bianca con motivi azzurri al collo combatteva a colpi di Kung Fu dei bianchi, e arabi truccati da bianchi, vestiti da Waffen SS e con baffi alla Hitler, poi d'improvviso i suddetti si bloccavano e crollavano a terra tagliati a pezzi in fiotti di sangue in CGI, rivelando dietro un muscoloso uomo arabo dal volto avvolto da uno shemagh che ondeggiava drammaticamente al vento e con una sciabola yatagan insanguinata in una mano, poi era il turno di un soldato arabo con attrezzatura subacquea che sfrecciava nelle gelide acque oceaniche sparando con un fucile subacqueo, si aggrappava al dorso di una sorta di mostruoso cetaceo umanoide con quattro braccia e più denti di una motosega, e dopo una rapida lotta lo finiva aprendolo dal collo all'inguine con un coltello da combattimento, riversando una nube di sangue e organi...

Leon continuò a camminare, fissando l'olopannello, fino a raggiungere l' imboccatura delle scale a chiocciola delle piattaforme, distolse lo sguardo e prese di faccia un lampione.

“Mapporcadiquellamiserialadracaneeputrida...”

il dolore gli esplose dalla fronte e gli rimbombò per tutta la testa, indietreggiò di qualche passo massaggiandosi la fronte con la mano destra superiore, tentando di rimanere in equilibrio agitò le altre braccia e la coda, che sferzò l' aria un paio di volte e colpì un passante, staccandogli la maschera filtrante dal volto. Leon si riprese e si accorse del danno, raccolse la maschera dell' uomo annaspante e gliela porse, aiutandolo a rimetterla.

“Mi scusi signore, non l' avevo vista...”

“Sta' più attento con quella cosa negro spaziale!” l' uomo, un bianco di mezza età in completo marrone, lo spinse via.

Leon lo fulminò con un'occhiata “ 'negro spaziale' lo dici a tua sorella!”.

“Tua sorella lo succhia ai gamberoni, puffone!” gli gridò una anziana donna vestita di nero dietro di lui.

Leon si voltò di scatto e alzò la mano destra superiore, ma si bloccò. La donna si buttò a terra.

“Ehi, fermi tutti!” squillò una voce da un megafono.

Leon si voltò. Un agente di polizia, vestito di uniforme rinforzata dal pattern mimetico Urban Camo, protetto da ginocchiere e gomitiere, guanti rinforzati, anfibi, corpetto protettivo e casco, il volto coperto da una balaklava. L' agente si avvicinò fino a fermarsi davanti a Leon, e con uno scatto del braccio il manganello elettrificato che aveva in mano si estese, flebili scariche bianche lo percorsero seguite da un flebile ronzio.

“E allora?” l' agente si girò a destra e sinistra, guardando i presenti “che sta succedendo qui?”

“Questo alieno mi ha aggredito agente” l' uomo di prima si mise davanti all'agente “e stava per fare lo stesso con questa signora! Lo arresti prima che possa ferire qualcun' altro!”

“Questo non è vero agente” intervenne Leon “sono andato a sbattere contro quel lampione e mentre ero intontito ho colpito di coda quell' uomo, ma non era mia...”

“Sta mentendo! I negri spaziali fanno sempre le vittime!” urlò la donna mentre si rialzava.

“Signora si calmi prima di farsi venire un infarto” l' agente indicò Leon “in ogni caso alieno, vedi un po' di favorire i documenti!”

“Si, subito” rispose Leon, estraendo dalla tasca la sua tessera d' identità. La porse, l' agente passò la tessera in un lettore del suo computer da polso e analizzò i dati.

“mmmh...Leon Van Niekerk, nato su Pandora nel 2149, immigrato sulla Terra nel 2161...trasferitosi a Sidney nel 2169...diploma di scuola media e superiore...laureando? Signore e signori abbiamo un puffone intellettuale! Comunque...fedina penale pulita...bene, sembra tutto in regola.”

“Che sta facendo agente? Lo arresti!” tuonò l'uomo.

“Lei per caso è un ufficiale delle Forze dell' Ordine? O ha qualche altra autorità che le permette di insegnarmi a fare il mio lavoro?” l' agente puntò il manganello elettrificato contro l' uomo, che subito si irrigidì “No? Bene, allora veda di stare al suo posto, che di imbrattare carte per ore ogni volta che un fottuto alieno alza un braccio mi sono rotto le palle tempo fa...”

Si fece avanti un altro uomo, sulla quarantina, con una giacca di lucido cuoio marrone, jeans sbiancati, un cappello da ranger e una folta barba.

“Con tutto il rispetto agente, il ragazzo dice la verità” disse con accento australiano indicando il lampione “l' ho visto io stesso prendere di faccia quel lampione, non si è accorto dell' uomo dietro di lui...”

un altro uomo, un bianco sulla ventina con la testa rasata e una giacca di pelle nera borchiata, si intromise.

“Che cazzo ti impicci comunista?” urlò con vago accento russo mentre spintonava l' uomo “sei uno di quelli che ci vogliono tutti schiavi dei tuoi amici alieni!?”

“Tieni le mani a posto, prima che ti ci costringa io!” intervenne Leon.

“Tu non costringi proprio nessuno alieno!” l' agente gli piazzò il manganello elettrificato a un millimetro dal mento, il ronzio della corrente ce lo percorreva lo fece bloccare di colpo.

“Vai a farti esplodere nel nome del tuo Eya, non ti vogliamo qui!” si sgolò lo skinhead mentre continuava a spintonare l' australiano.

“Giù le mani dal mio amico, mozzarella!” un altro ragazzo, un aborigeno ben piazzato in t shirt bianca e pantaloni di tuta, si mise in mezzo e piantò un gancio sinistro in faccia allo skinhead, facendolo cadere a terra, questi strillò di rabbia e gli saltò addosso.

Con uno scatto l'agente fu su di loro, e sferrò un fendente col bastone elettrificato nella nuca dello skinhead, quando questi crollò a terra ne sferrò un altro sul collo dell' aborigeno, poi percosse ripetutamente entrambi, scariche bianche crepitarono a ogni colpo, finché i due rimasero a terra inerti e fumanti.

“Molto liberatorio” l' agente si chinò e ammanettò i due, poi si rialzò e indicò Leon “e ora alieno, chinati!”

Leon si chinò, l'agente gli diede una pacca in fronte, prendendo in pieno dove Leon aveva picchiato.

Leon ringhiò di dolore.

“La tua versione è confermata alieno” l’agente disattivò il manganello elettrificato e lo richiuse “e ora sparisci prima di causare altri casini!”

“Si agente” replicò atono Leon, che salì rapido le scale della piattaforma.

Dietro di sé, senti perfettamente il vociare.

“Questi negri spaziali vengono qui e credono di poter fare quel che gli pare!”

“Non bastavano i gamberoni, i cosi striscianti, i pollosauri e le scimmie lucertola, ora dobbiamo averci anche i puffoni tra le palle!”

“É una fottuta invasione!”

“Ci vorrebbe Master Chief!”

“Macché, ci vorrebbe Hitler!”

“Dovremmo nuclearizzarli tutti, ma i politici sono delle fighette!”

“Ma non l'ha fatto apposta!”

“Chissenefrega!”

 

Sulla piattaforma, Leon si guardò in giro, finché vide il cartello illustrativo della fermata, alla sua destra il tram era appena arrivato e la gente stava salendo.

Nuovo Quartiere Est, Linea Verde, Numero 2.

Tirò fuori dalla tasca un foglio piegato, lo aprì e consultò.

Arrivato alla fermata del Nuovo Quartiere Est, aveva percorso 500 metri e aveva raggiunto le piattaforme dei bus magnetici. Ora doveva prendere il Numero 2 della linea Verde fino a Piazza Ricostruzione, 10 fermate da lì. La piattaforma di imbarco della Linea Verde era al sesto piano.

Si incamminò di nuovo verso le scale, e si accinse a salire.

“Talion! Talion!”

Talion?

“Dice a me?” disse lui girandosi.

Si trovò di fronte una giovane donna di colore, alta e magra, con i capelli acconciati in corte trecce, indossava occhialetti da sole tondi, una felpa di paille verde, un top bianco, e jeans sbiancati dall' uso.

Aveva orecchini con piume multicolore, e una colllana di ossicini lucidati, e dei tatuaggi simili a striature sulla fronte e sulle guance.

Ho un orrido presentimento...

“Talion, avresti dovuto fargliela vedere a quei bastardi, ma ti sei comportato bene”

Leon notò una sigla sul top, scritta in nero e sormontata dalla silhouette un seme pandoriano:

N.E.T.

Na'vi Earth Tribe.

No cazzo, non il Na'vi Earth Tribe!

“So che la Gente del Cielo dovrebbe imparare a stare al suo posto” continuò lei “ma hai agito con saggezza, e Eywa apprezza...”

“A Eywa non potrebbe fregargliene di meno!” replicò gelido lui mentre si voltava di scatto e saliva le scale a passo spedito.

 

Arrivato al sesto piano camminò in direzione della zona di imbarco, c'erano due binari, uno per verso, e ai lati le piattaforme d' imbarco. Lui si fermò prima della linea gialla.

Si guardò intorno, ai lati della piattaforma c'erano delle panchine coperte, al centro una fila di lampioni neon a circa un metro l' uno dall' altro, in mezzo ad essi erano proiettati spot pubblicitari olografici. oltre le ringhiere d' acciaio della piattaforma poteva vedere la strada, le luci di lampioni e insegne, e la folla che la attraversava.

Una goccia di pioggia gli cadde su un orecchio, lo scosse.

sentì il ronzare del tram magnetico, e lo vide fermarsi davanti alla piattaforma di imbarco. Leon fece per salire, ma notò che la scritta olografica sulla porta diceva 'Linea Verde Numero 4', e si fermò.

 

Aspettò.

Guardò l' orologio: 06:41.

si diresse verso le panchine alla sua destra e si sedette.

Aspettò.

Passò un altro tram, ma dall'altro verso.

Aspettò.

Arrivò un altro tram, Numero 1.

guardò di nuovo l'orologio: 06:52.

 

Guardò di nuovo l' orologio, ma prima che potesse leggere vide arrivare il tram: Numero 2.

Balzò in piedi, e raggiunse la linea gialla.

Si pose di lato alla porta, e non appena i passeggeri in discesa furono defluiti abbassò la testa e salì.

Si guardò intorno, niente posti liberi.

Sbuffò, e si sedette sul pavimento.

“Scusatemi” disse mentre un paio di passeggeri si spostavano per fargli posto.

Notò una sigla sull'interno della porta: RDA.

 

“...Siamo in arrivo alla fermata di...”

Leon si scosse dal dormiveglia, guardo la fermata: Martin Place.

Ancora una fermata.

Leon si alzò accovacciato, e guardò fuori dal finestrino.

Vide il vecchio porto, una massa di edifici diroccati, e più in là i resti di un grande edificio, lo scheletro collassato di ciò che un tempo erano volte di calcestruzzo. Un tempo, lui sapeva, quell'edificio era il fiore all'occhiello della città.

Il tram si fermò: Piazza Ricostruzione.

 

Leon percorse rapidamente la rampa di scale fino a terra, una volta arrivato si guardò intorno. Davanti a lui c'era il Nuovo Parco Botanico Regale, un immenso giardino recintato, la strada era gremita e molta gente era già a passeggiarci, l'entrata era gremita.

Leon procedette, passando di fianco alla recinzione, all' altro lato della strada c'erano negozi, ristoranti, alberghi e bar.

Guardò l' orologio: 07:15.

Attraversò la strada, mentre camminava diede un' occhiata ai chioschi.

L' insegna al neon del primo che notò recitava 'Bushmeat Galore, Shaw & Figli', sul bancone c'erano tagli di varia carne, e altra carne già cotta. Piccione, wallaby, coniglio, gatto e altra 'bushmeat' non meglio identificata, venduta arrosto, bollita in brodo, cotta allo spiedo, soffritta a dadini nel sugo, il profumo che proveniva fu inebriante, addocchiò una serie di conigli che cuocevano su una serie di spiedi, fumanti e grondanti grasso, poi notò che venivano 20 crediti l'uno.

Proseguì, e vide un chioschetto, l' insegna olografica mostrava il logo di un cucchiaio fumante, e recitava 'Imboccati[marchio RDA]: Zuppe'. Dietro il bancone erano al lavoro cinque cuochi. Diede un' occhiata ai prezzi: 5 crediti una zuppa liscia.

Si avvicinò al bancone.

“Salve”

“Salve alieno” replicò uno dei cuochi, un bianco sulla trentina dalla pelle scura, basso ma massiccio, vestito di una divisa da lavoro marrone con un grembiule e cappello bianchi con il logo del chiosco sopra “come posso servirla?”

“Vorrei due zuppe”

“Alghe, insetti, funghi o tuberi?”

“Una alle alghe, l' altra agli insetti”

“Vuole degli extra?”

“Cosa avete?”

“Cipolla, pollo o pesce a tocchetti, piselli, fagioli di soia, spezie, formaggio, magari degli additivi”

“Un po' di formaggio, un pochino di cipolla e piselli”

“Sei fortunato alieno” disse il cuoco “oggi parte una promozione di un mese sui formaggi e offriamo formaggio d'importazione DOP! Formaggio vero, fatto alla maniera tradizionale, non il solito ricostituito industriale”

“a-ah” commentò Leon appoggiandosi al bancone “e cosa avete?”

“Roquefort francese a 40 crediti, Parmigiano italiano 38 crediti, Cheddar inglese 25 crediti, Panir indiano 26 crediti, Philadelphia americano 29 crediti, Tofu cinese 12 crediti”

“...un po' troppo, non fa niente” rispose Leon.

“Va bene, vada per le due zuppe”

“Grazie...può per favore mixarle? E non troppa cipolla, la mia gente...non la regge bene”

Il cuoco lo guardò stupito “...va bene”

Il cuoco mise una pentola sul fuoco, tirò fuori dal refrigeratore una cipolla e una scatola di piselli, li buttò nella pentola e aggiunse da una tanica dell' olio, mentre il tutto soffriggeva prese due barattoli da mezzo litro, uno con etichetta verde e l' altro con etichetta beige, e li vuotò nella pentola, dopo circa 5 minuti prese un frullatore a immersione e amalgamò il composto, poi dalla pentola lo versò in due ciotole di cartamela compressa, le chiuse, le piazzò in un sacchetto biodegradabile e le porse a Leon.

“Ci vuole qualcosa da bere?”

“No grazie” Leon tirò fuori la carta di credito “...quanto?”

“10 crediti per le zuppe, 6 per la cipolla e 4 per i piselli, fanno 20 crediti”

Merda.

“...va bene” Leon passò la carta sul sensore della cassa, salutò e ripartì.

Finì di trangugiare al volo la prima zuppa, un pasto completo per un umano ma giusto una portata per lui. Si pulì la bocca con un braccio, e senza smettere di camminare buttò la ciotola in un cassonetto.

Notò una serie di manifesti cartacei posti in teche di vetro, adiacenti al muro alla sua sinistra.

Raffiguravano tutti lo stesso soggetto: una landa ghiacciata squassata da fiamme e esplosioni, in primo piano un comandante del Corpo Speciale Spetznaz, in uniforme tattica e cappotto termico al vento, con placche di ceramite a proteggere spalle, avambracci, stinchi e petto, calcava il piede su una pila sanguinolenta di soldati nemici morti, con una mano impugnava un fucile d'assalto ferromagnetico con mirino telescopico, lanciagranate e baionetta grondante sangue, con l'altra puntava il dito verso lo spettatore, sopra e sotto vi erano, in russo e inglese, le scritte 'Proteggi la VERA Libertà...' e '...Dai anche TU il Tuo Contributo nell' Esercito dell' International Nation Consortium!'. Nella parte inferiore del manifesto vi erano affiancati slogan più piccoli, ognuno con approfondimento, quali 'Ottimo stipendio mensile', 'Accesso a qualifiche specializzate', 'Agevolazioni economiche', 'Possibilità di carriera prestigiosa', e 'Non si accettano non-umani'.

Arrivò infine in Piazza Ricostruzione, immensa e gremita di gente, circondata di grattacieli lustri, al centro del grande viale c'erano una serie di aree verdi, erba e alberi, e delle panchine. Molta gente sostava in esse, seduta sulle panchine o sull' erba. Su uno dei grattacieli, più basso degli altri, costruito a pianta esagonale e dotato di piattaforma d' atterraggio per aeronavi, attirò la sua attenzione:

Sede Interspecies Commonwealth Administration di Sidney.

Leon attraversò la piazza, e arrivò davanti all' ingresso, vi erano due soldati in armatura in kevlar, che comprendeva elmetto, maschera, corpetto, spallacci, bracciali e schinieri con colorazione Urban CAMO, a guardia, armati con elettrofucili venusiani modificati, sul corpetto la scritta 'Security'. Uno gli diede solo uno sguardo, l' altro lo guardò con più interesse. Leon attraversò le porte a fotocellula, ed entrò nell'edificio.

All' interno vi era una grande sala, il pavimento era in mattonelle esagonali bianche, le pareti erano grigie, e al centro della sala vi era una fontana composta da una vasca interrata dal fondo nero con molte piccole luci LED, disposte in costellazioni, e al centro una colonna in marmo composta di astronavi, sopra la colonna una grande sfera che rappresentava la Terra, con fibre ottiche luminose che delineavano i continenti. L'acqua che sgorgava dalla sommità della colonna faceva ruotare la sfera.

Intorno alla fontana vi erano una decina di panchine, dove alcuni impiegati stavano seduti a riprendere fiato. Gli uffici erano disposti in circolo su ogni piano. Al centro vi era il vuoto, e su ognuno dei sei angoli un ascensore.

Leon proseguì.

“Ehm, scusi signore” gli fece una guardia di sicurezza alla sua sinistra “non può proseguire senza perquisizione!”

Leon tornò indietro, la guardia gli indicò due suoi colleghi con dei detector.

“Si, subito” li raggiunse.

“...si metta in ginocchio e alzi le mani”

Leon eseguì, le guardie gli passarono intorno i detector. Uno di essi si illuminò di rosso.

“Tiri fuori qualsiasi oggetto metallico per favore” gli intimò la guardia.

Leon tirò fuori dalla tasca un paio di posate da campo, poi passò di nuovo, niente luce rossa.

“Va bene” la guardia si mise in tasca le posate “passi al guardaroba del piano terra per riavere queste”

“Ok...una domanda: sa a che piano si trova l' Ufficio Assunzioni?”

la guardia si grattò il mento, riflettendo “Ufficio Assunzioni...ah si!” indicò in direzione delle scale con un dito “Decimo Piano, Ala Est, Ufficio 14, chieda di Grigori Dolzaev”

 

Salite le scale, Leon si fermò a riprendere fiato, poi camminò lungo il corridoio, alla sua sinistra gli uffici e alla sua destra la ringhiera che si affacciava sull' interno dell' edificio. Dopo qualche metro trovò una porta: Ufficio 14 – Assunzioni.

Entrò, si trovò in una sala d' aspetto, con circa una ventina di sedie tutte occupate, ogni cinque un tavolinetto con delle riviste stropicciate, su un lato c'era una grande finestra che si affacciava su un grande balcone, da cui si aveva una panoramica della città. Fuori il sole era sorto del tutto, ma il cielo era comunque scuro e nuvoloso. Ai lati della finestra delle piante in vaso, un ficus benjamin e una palma.

Leon notò con piacere che riusciva a stare in piedi senza battere la testa contro il soffitto, fece qualche passo e si inginocchiò sul pavimento, di fianco a un tavolinetto.

Guardò l' orologio: 07:58

il suo appuntamento era alle 08:10.

Prese una rivista, quella meno malconcia, era un giornale di gossip risalente al mese scorso, l' aveva già letto a casa di Leila.

La ripose, volò fuori un foglio, che atterrò vicino al suo piede destro.

L' articolo sulle ultime scelte di vestiario formale di Xi Zhaoqian, attuale Imperatrice della Nuova Monarchia Popolare Cinese. Leon raccolse il foglio con il piede, e lo piegò fino ad ottenere un origami, poi lo pose sul tavolinetto.

Una donna aborigena vestita da motociclista, che stava seduta sulla sedia adiacente, lo guardò incuriosita.

“Carino” prese in mano l' origami e lo squadrò “è forse un Banshee?”

“No” replicò Leon “una più umile gru”.

Si appoggiò alla parete, guardò fuori dalla finestra.

Qualche goccia di pioggia contro le pareti.

Una parte della città era nuova, con i grattacieli di vetro e acciaio lustri, un' altra era più antica, di palazzi e grattacieli più piccoli, la città vecchia non devastata dagli tsunami della Grande Catastrofe.

Dalle guglie di un grattacielo vide qualcosa sfrecciare fuori, guardò con più attenzione.

Un falco, che volò in direzione della città vecchia.

Poi qualcosa di più grosso discese in picchiata da un grattacielo più in alto, afferrò il falco nel becco, cambiò direzione e atterrò sul bordo del balcone. Era un grande volatile dalle ali membranose che si aprivano per almeno sei metri, slanciato e muscoloso, coperto di sottile peluria sul corpo e di scaglie sul resto, camminava sulle dita delle ali ripiegate indietro. La testa alla fine del lungo collo era corta e dotata di becco, con grandi occhi da uccello e una grande cresta rossa striata di scarlatto. Un tapejara, un piccolo pterosauro.

Il tapejara guardò verso la sala, quasi tutti si girarono a guardarlo mentre ingoiava il falco.

Leon lo guardò un attimo, poi distolse lo sguardo.

“Il signor Van Niekerk?” gli disse una voce dallo strano timbro.

“Sono io” disse lui voltandosi.

Si trovò di fronte un uomo alto e proporzionato, vestito di completo formale blu scuro e con lunghi capelli bianchi acconciati in una coda di cavallo. La pelle lattea composta di placche in polimero sotto le quali si vedevano meccanismi in movimento, giunture coperte da plastica nera protettiva e occhi secchi con lucide pupille azzurre, dentro le quali si riconoscevano microscopici movimenti meccanici, lo identificavano come un sintetico.

“Il Signor Dolzaev ha finito ora il suo colloquio in anticipo” disse il sintetico in una voce dal suono metallico “e ha incaricato questa unità di controllare se il Signor Van Niekerk era già arrivato”

“Molto bene...può condurmi da lui?” chiese Leon.

“Questa unità è stata mandata appositamente” replicò il sintetico “mi segua”

Il sintetico si avviò verso l' ufficio, Leon lo seguì.

 

L' ufficio, di circa sei metri per cinque, era ben tenuto, senza sporcizia di sorta, a sinistra un grande armadio metallico con cartelle e cassetti per le schede di memoria, a destra una grande finestra, e una pianta pandoriana, simile a una palma, con moltissime piante 'orecchia di gatto' che crescevano su un lato, le lunghe foglie emettevano una lieve luminescenza. Sul muro davanti vi erano un affresco venusiano raffigurante una scena di caccia, e uno scudo di vimini di fattura pandoriana, e una foto della Cattedrale di San Basilio.

Alla scrivania, dotata di computer olografico e pianta di melograno da frutto, stava un uomo sulla quarantina, caucasico, con una folta barba e capelli castani ben curati, larghe spalle e un fisico possente, indossava un completo formale umano di colore bianco bordato di nero, sul taschino davanti un simbolo nero composto da tre esagoni disposti a piramide.

Il simbolo dell' ICA.

L' uomo si alzò, rivelandosi alto almeno due metri.

Sorrise “Ah, Mr, Van Niekerk, Non troppo difficile da distinguere!” commentò “scusi per battuta idiota ma io non avevo mai visto famigerato 'Talion', e scusi mio inglese, appena trasferito da sede di Mosca, ancora non abituato usare tutto il giorno”

“Nessun problema” strinsero la mano, il signor Dolzaev per poco non gliela stritolò.

“Strano cognome il suo...” gli fece l'uomo “forse olandese?”

“Sudafricano”

“Ah si giusto, lei è da Johannesburg...si sieda, da poco introdotto sedie per sua gente!”

Leon prese la sedia, allargata e rinforzata, e sedette.

“Allora” mr. Dolzaev si appoggiò sui gomiti “lei scritto in sua mail che desidera entrare in nostro recente progetto, da?”

“Sì” replicò Leon “negli ultimi mesi mi sono informato sugli ultimi progetti dell' ICA, quelli riguardanti la salvaguardia degli ecosistemi planetari”

“mh-h, e lei a quale ecosistema sarebbe interessato” chiese mr. Dolzaev “la Terra? Venere? Marte? Yilkthan? Rhakasha? Pandora?”

“Pandora” rispose Leon “mi sono trasferito qui a Sidney da Johannesburg per frequentare presso l' Università ICA, un mese fa ho completato gli studi di Xenobiologia Applicata, o meglio quelli li avevo già completati, ho completato la mia specializzazione in quella pandoriana, ho partecipato ad alcuni stage sia nelle Riserve Centrali qui in Australia che in alcuni bioparchi in Sudafrica, e ho frequentato i corsi dell'attuale direttore degli studi di biologia pandoriana, il Dottor Spellman”

“Spellman? Da, Grande scienziato! Degno successore di sua maestra, Da!” commentò Dolzaev.

“Inoltre” continuò Leon “ho una seconda laurea, non specialistica, in Storia delle Relazioni Interspecifiche” tirò fuori una scheda di memoria e una cartelletta “A riguardo ho qui con me delle fotocopie degli accertati e del mio curriculum, e gli stessi su una scheda di memoria

li porse a mr. Dolzaev, il quale inserì la scheda nel computer e controllò i dati.

“...mmmh...nato su Pandora presso Clan di Tsyalankang, trasferitosi sulla Terra, a Johannesburg e poi a Joburg... diploma di scuola superiore presso Liceo Jean Claude Van Gogh di Johannesburg, Indirizzo Scientifico, Lauree presso Università ICA confermate in archivio...lavorato come commesso, cameriere e in nettezza urbana...Da, un po' carente da punto di vista lavorativo, ma competenze accertate possono essere molto utili, Mr Anderson e nipote fatto bene a raccomandarla...lei fortunato Mr. Van Niekerk, quasi sicuro che lei assunto in nostro progetto, nel caso invieremo biglietto prepagato per raggiungere Sistema Alpha Centauri, decideremo in circa una settimana”

“La ringrazio”

mr. Dolzaev tirò fuori un documento di assunzione da un cassetto della scrivania e lo porse a Leon.

“Firmi qui, qui e qui prego”.

Leon prese una penna firmò.

 

Spuntò fuori da un lato di servizio dell' edificio, su una piattaforma collegata a una scala antincendio.

Guardò la città, i palazzi e le strade, poi alzò lo sguardo verso il cielo.

Pandora.

Una vibrazione partì da una tasca della sua giacca, lui tirò fuori il NeoCell e verificò il segnale: Samuel Anderson.

Premette il pulsante blu del piccolo dispositivo ovoidale, tre proiettori olografici si attivarono manifestando il monitor, Leon aggiustò la dimensione e la risoluzione del monitor e attivò la videocamera.

Sul monitor apparvero il timer e l' indicatore di segnale, e poi il volto di un poleepkwa, dall' esoscheletro scuro chiazzato e gli occhi chiari, i tentacoli facciali si muovevano ritmicamente mentre parlava.

“Ciao Sam, da dove mi chiami?”

“< Ciao Leon >” rispose Samuel, sul monitor del NeoCell apparvero i sottotitoli “< ti chiamo dalla stazione spaziale ICA numero 25, quindi perdonami ma dovro fare in fretta, queste comunicazioni Iperluce costano un occhio della testa >”

“Non ti preoccupare, vedrò di non rubarti molto tempo” replicò Leon “cosa devi dirmi?”

Samuel tentennò “ < per prima cosa, com'è andato il tuo colloquio di assunzione? >”

“Bene” replicò Leon “forse tra un paio di mesi ci vedremo!”

“< Già... >” Samuel tentennò di nuovo “< ...ascolta, devo darti una brutta notizia >”

Leon fu interdetto “perchè? Che è successo?”

“< Qualche giorno fa, io e mio zio siamo stati mandati in ispezione per monitorare l'attività presso il Clan dei Ka’li... >”

“...Ka’li di Metallo?” intervenne Leon “Intendi il mio...”

“< Certo che lo intendo, è proprio per questo che ti chiamo! >” rispose Samuel “< stavamo seguendo una delle ultime operazioni, riguardava tagliare alcuni alberi per allargare il quartiere abitativo, ma mentre la squadra stava lavorando è avvenuto l' attacco di un thanator, ha aggredito i nostri operatori e i nostri contatti locali e...>” Samuel si fermò.

“...'E' cosa?”

“< ...Ci sono stati dei feriti...tra cui i tuoi zii, Leon >”

Leon sussultò.

“...i...miei zii?”

“< Si, i medici che li hanno in cura stanno facendo il possibile >” continuò Samuel “< ma sai com'è, tra i danni e il deterioramento fisico, non gli danno molte speranze, forse un anno, forse meno... >” si fermò “< ...mi dispiace tanto >”

“...non hai motivo di dispiacerti, non è colpa tua...se potrò arriverò il prima possibile”

“< Nel mentre, mandami i soldi e farò il possibile per trovarti una sistemazione, ok? >”

Leon abbassò lo sguardo. Non rispose.

“< ...Leon? >”

“...Io...ti ringrazio Samuel” rialzò lo sguardo “sei un vero amico”

“< è doveroso>” Samuel fece un cenno di saluto “< spero di rivederti presto >”

“Anch'io lo spero...ciao!”

“< Ciao! >” Samuel premette un pulsante e la comunicazione si interruppe, il monitor olografico divenne bianco.

Leon premette il pulsante rosso del NeoCell e il monitor scomparve.

Una goccia di pioggia gli prese in pieno l' orecchio destro.

Poi la pioggia si intensificò.

Grandioso.

Si tirò su la giacca per coprirsi la testa, e si rimise in marcia sotto all'acquazzone.

 

Guardò fuori dalla finestra, il sole era già calato. Non che la città fosse più buia, le fredde luci neon dei lampioni illuminavano ogni strada e si mescolavano al balenare multicolore delle insegne olografiche.

Attraversò il corridoio e arrivò davanti a una porta: Appartamento 114.

Leon tirò fuori dalla tasca una chiave, e la inserì nella serratura, la porta lesse la chiave e sbloccò la serratura, lui girò la chiave e la porta si aprì.

Entrò e si ritrovò nell'anticamera. Alla sua destra una cassapanca sovrastata da uno specchio, alla sua sinistra un attaccapanni con altre tre giacche, davanti a lui un'altra porta. Infilò la chiave e gli occhiali da sole nella tasca della giacca e la appese all'attaccapanni.

In mezzo alle sue giacche ce ne era una che non ricordava. Era una felpa di tuta grigia, con cappuccio, ed era chiaramente troppo piccola per lui.

Captò qualcosa.

“Che è questo odore nauseabondo?”

fece guizzare la lingua biforcuta dall'apertura sul labbro superiore.

Un odore dolciastro, pungente, che gli ricordava le cimici.

Drizzò le orecchie.

“In nome di Eywa, usa ancora quel profumo?”

 

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Capitolo 2
*** Casa è dov'è il Cuore (Parte 2, POV Leila) ***


(POV: Leila)
La porta del vagone si aprì, lei si fece strada a spallate e saltò giù.
La ragazza si cavò fuori dalla folla, si sistemò la giacca grigia con cappuccio e si spolverò con le mani guantate i pantaloni di jeans, poi diede un'occhiata alla mappa della fermata. Per il Front imboccare il corridoio a sinistra.
 
Le luci neon del corridoio erano vecchie e emettevano una luce giallastra, un paio erano fuori uso, il soffitto lasciava filtrare acqua ed era coperto di una immensa macchia di muffa verdognola, i muri coperti di macchie e buchi nell'intonaco, il pavimento incrostato quasi uniformemente di sporcizia e gomme da masticare fossilizzate, le panchine coperte di macchie e scritte, una a tal punto che le scritte sovrapposte erano del tutto incomprensibili. Su un lato vi erano le entrate di alcuni bagni pubblici, dalle porte aperte poteva vedere le piastrelle bianche delle pareti completamente annerite di scritte e cazzetti e il pavimento coperto di macchie e pozze, ma la cosa spettacolare era che non era solo da lì che veniva il fetore di piscio.
Kak, lo sapevo che sarei dovuta scendere dopo!
Si guardò intorno.
...Vabbè, il Front è vicino, ormai tanto vale proseguire.
Strinse le spalle e continuò a camminare.
L' unico rumore era quello delle pale dei condotti di areazione del corridoio, vide che una delle ventole era rotta e un paio di tecnici erano al lavoro per sostituirla.
Passò oltre, svoltò a destra e si trovò di fronte una grande scala. La salì di corsa e proseguì dritto.
Il corridoio si incrociava con altri tre, e lo stile architettonico non era spigoloso e scarno come il resto della metropolitana, il soffitto era a cupola, e coperto di mattonelle sbiancate dal tempo, così come i muri imbrattati di murales e scritte. C'era un forte odore di muffa.
Un suono di passi era l'unico rumore.
Quattro passi alla volta.
Si fermò, nella tasca destra della giacca mise mano allo spray irritante e si voltò.
Davanti a sé vide un uomo di colore che la superava di tutta la testa, con spalle larghe e braccia possenti, aveva i capelli tagliati molto corti e i lati della testa rasati a zero, il suo volto era tatuato in stile moai, uno dei suoi occhi era un innesto eyeborg e emanava una fioca luce rossa, la sua bocca era aperta in un sorriso che mostrava denti dritti e puliti, il cui bianco quasi splendeva in contrasto con la pelle ebano. Indossava un gilet giallo oro imbottito, una t-shirt bianca sotto, pantaloni da lavoro rattoppati e scarpe da trekking, al collo una collana di denti umani.
“Mbeh?” gli fece lei “che vuoi?”
“Buonasera signorina” rispose lui “scusi il disturbo ma durante l'ultima rissa tra bande mi si è rotto l' orologio” alzò il braccio sinistro mostrando al polso un orologio dal display a pezzi “potrebbe dirmi l'ora?”
Lei alzò un sopracciglio.
“Dammi un secondo...” guardò l' orologio “...sono le 19:38”
“Oh bene!” commentò l'uomo mentre si detergeva il sudore dalla fronte con un braccio “faccio ancora in tempo a comprare il pane!” si voltò e procedette “grazie mille, e attenzione che qua sotto girano brutti ceffi!”
Leila lo guardò allontanarsi, poi fece spallucce e proseguì.
Cinquecento metri più in là salì un'altra scala, e si ritrovò in un corridoio diverso: era più alto il soffitto, i muri erano stati ridipinti di fresco, così che c'erano meno murales- lo stile dei murales non era solo umano, alcune scritte erano geroglifici poleepkwa, altre in lingue che lei non comprendeva. Vicino ai muri c'erano vecchie casse metalliche, bidoni dell' immondizia e barili usati come falò. Appoggiati ai muri c' erano diverse persone, umani ma anche poleepkwa e na'vi.
Un suono attirò la sua attenzione.
Era il suono di uno strumento, come una chitarra.
Alla propria destra vide la fonte: una creatura bipede, avvolta in una mantella marrone dai motivi geometrici bianchi e con un cappello di paglia di forma romboidale, sotto questi indumenti la creatura era coperta di piume argentee, aveva gambe digitigrade da uccello, braccia terminanti in mani a quattro dita, una lunga coda con un ventaglio di piume rosse iridescenti sulla punta, e una testa da uccello con muso dentato da rettile, i suoi occhi erano grandi e di un verde brillante. Il dinosauroide stava seduto su un consumato tappeto di iuta, e suonava uno strumento musicale, composto da un corpo centrale romboidale cavo in legno con tre fori centrali, alle due estremità delle mezzelune di legno collegate da sottili corde metalliche, che esso pizzicava con un plettro tenuto tra i denti mentre modulava la tensione con le mani.
La ragazza si avvicinò, tirò fuori dalla tasca un po' di moneta, e lasciò vicino al suonatore tre crediti. Questi cinguettò per ringraziamento, poi riprese a suonare.
Raggiunse l' uscita della metropolitana, ed emerse nella zona sotterranea del quartiere alieno di Sidney.
Ai due lati del grande viale gli edifici abitativi, per ognuno dei sei piani vi era un balcone collegato a quello del piano opposto mediante ponti, sotto i balconi tutto era illuminato da luci neon. Al piano terra vi erano negozi e ristoranti contrassegnati da insegne olografiche, e in mezzo la strada, gremita di gente di tutte le razze, era divisa a met' da una lunga serie di aiuole con panchine.
Lei si incamminò attraverso la folla, d' improvviso un gruppo di bambini, tre umani, un poleepkwa  con un sacco di plastica e un kothrah, le si avvicinarono e le saltellarono intorno.
“Ehi! Ehi!” fece uno “come stai?”
“È un sacco che non venivi qui!” le fece un altro.
“Sai, è che sono stata impegnata” rispose lei senza smettere di camminare.
“dove-vai?” le cinguettò il piccolo kothrah.
“vado a trovare un amico” rispose lei.
“< a proposito >” il piccolo poleepkwa le tirò la giacca “< mio papà mi ha detto di darti questa! >”
“Cosa?” chiese lei.
Il piccolo le porse la borsa di plastica “< voleva ringraziarti per averlo aiutato a iscriversi alle serali!>”
“Oh, non dovevate!” lei prese la borsa e guardò dentro: cibo avvolto in un panno “ora scusatemi ma devo andare”
li distanziò mentre loro la salutavano.
Quando fu abbastanza lontana si frugò nella tasca della giacca, le sue mani trovarono il portafoglio.
Tirò un sospiro di sollievo.
Raggiunse una rampa di scale. Salì di corsa e raggiunse il sesto piano, camminò fino a un'ascensore, premette il pulsante e attese.
 
Uscì dall'ascensore, si ritrovò in un corridoio. Il pavimento di linoleum era lindo, le pareti bianche erano coperte di scritte e murales, l' intonaco del soffitto era pieno di crepe, le lampade neon emanavano una calda luce bianca. Lei si incamminò, tenendo d' occhio i numeri delle porte metalliche alla sua destra, alla sua sinistra c' erano delle finestre con sbarre che si aprivano sulla strada, la strada era più in alto rispetto al pavimento, rivelando il seminterrato.
Finalmente notò il numero che cercava: 114.
tirò fuori la chiave magnetica, la inserì nella serratura e questa scattò.
La ragazza entrò, ritrovandosi in un' anticamera, alla sua destra una cassapanca sovrastata da uno specchio, alla sua sinistra un attaccapanni con altre tre giacche, davanti un'altra porta. Rimise in tasca la chiave, si drizzò in punta di piedi per appendere la giacca e attraversò la porta.
Si ritrovò nel salotto, una stanza di otto metri per cinque con un soffitto alto poco più di tre metri, dalle pareti grigio chiaro illuminata da una bajour al neon, alla sua sinistra un piano cucina con lavandino, forno e fornelli elettrici, frigo e una porticina per la dispensa, due metri più in là una porta si apriva sulla camera da letto. Alla sua destra c' era la porta del bagno, un divano-letto foderato marrone con motivi argyle e due armadi metallici a sei piani con dei libri e dei cassetti per le schede di memoria, in mezzo ai due un televisore appeso al muro, sotto un tavolinetto metallico con dei giornali. Tutto il mobilio era proporzionato in modo strano, più grande del normale ma ancora utilizzabile da un umano.
Non è ancora arrivato...va be', rilassiamoci un po'!
Lei si incamminò fino al piano cucina, tirò fuori dalla borsa di plastica il contenuto e svolse il panno: da una parte dieci pagnotte sferiche avvolte in una pastella beige, poco più piccole di un pugno, dall'altra una ampolla sferica di liquido argenteo alta circa una spanna.
La ragazza prese da un cassetto un piatto fondo di plastica e ci mise cinque delle pagnotte, prese il piatto e l'ampolla, li poggiò su un mobiletto di fianco al divano e si sedette.
Prese una delle pagnotte e la addentò, il sapore della pastella di farina di lichene di Yilkhann, del pane e della carne  di wallaby le invasero la bocca. Masticò e mandò giù.
Tirò fuori dalla tasca il Pad, e accese il display. Apparve la foto di una iena maculata, dai grandi occhi neri e dal manto maculato color corniola, che stava seduta in una cuccia rossa. Lei premette una delle icone della schermata e si aprì la casella di posta elettronica. Selezionò l'ultimo messaggio:
“...Comunichiamo che la Sig.ra Leila Heiderose Nomusa Pfeiffer, dottoressa in Xenobiologia Applicata con specializzazione nella biologia pandoriana, è stata assunta dalla Divisione di Ricerca Pandoriana dell' Interspecific Commonwealth Administration, ed è invitata al trasferimento presso il centro di ricerca dell' Installazione 44, Arcipelago Orientale, Pandora...”
 
Mise via il Pad, bevve un sorso dall'ampolla, assaporò il liquore cremoso.
Si tolse le scarpe e si distese sul divano.
Pandora.
Sei anni di università, sei anni di sogni e suggestioni, e ora non le sembrava vero che fosse così vicino.
Togliersi un peso dalle spalle.
'Una nuova vita su un nuovo mondo', un colpo di spugna, lasciarsi dietro tutto e ricominciare.
Lasciarsi dietro la vecchia Terra, le scaramucce delle Fazioni Umane, la rovina, il proprio dolore...
Guardò in direzione della parete davanti a lei, a destra del divano-letto: una serie di foto incorniciate era appesa alla parete, una in particolare, più grande delle altre, catturò la sua attenzione.
Era stata scattata in un giorno di sole, sulle scale dell'entrata del Liceo Jean Claude Van Gogh di Johannesburg, ritraeva tre figure sulle scale rivolte verso la fotocamera. al centro stava lei, di otto anni più giovane, con addosso un paio di jeans sbiancati con una spessa cintura di cuoio con borchia a forma di teschio, una bandiera del Sudafrica legata in vita, un tank top bianco con disegni geometrici multicolore e una felpa leggera a maniche corte blu mare, portava anche un paio di occhiali da sole tondi e degli orecchini circolari. A destra stava un giovane poleepkwa, con l' esoscheletro kaki che sfumava in verde o in bianco e chiazzato di verde scuro, gli occhi arancio chiaro e i tentacoli facciali neri; indossava un paio di pantaloni larghi di tuta rosso pompeiano con un grandi tasche rosse lunghi fino al ginocchio, una t-shirt arancio aragosta con una scritta bianca in geroglifici poleepkwa ricamata sopra, un gilet viola addobbo funebre con cappuccio, polsiere di stoffa viola, e un cappello con visiera blu tenebra dotato di elica e ventilatore a energia solare, la moda estiva 2166 della comunità poleepkwa sudafricana. A sinistra invece c' era un na'vi accovacciato, con i lunghi capelli bianchi tenuti in una treccia, lui indossava una felpa smanicata kaki con cappuccio e decorazioni tribali, una t-shirt grigia a maniche lunghe, bretelle nere, guanti senza dita kaki, larghi pantaloni militari con pattern Desert CAMO, in faccia aveva un paio di occhiali da sole dalla montatura metallica nera e lenti squadrate, in una mano teneva una maschera filtrante, in testa una bandana beige con motivi argyle.
God Vark, gli piaceva già allora quello schifo!
Accennò un sorriso, poi prese un altro panino, sentì un verso, un cinguettio acuto, provenire dalla stanza da letto.
Dalla porta fece capolino un muso massiccio e piatto, vagamente canino, con grandi orecchie tonde e grandi occhi neri, coperta di pelo color fango che sfumava in una mascherina nera. Era sostenuto da un collo possente percorso da una criniera di lucente pelo nero, mentre la pelliccia a macchie sfumava in un bianco crema sul fondo, intorno aveva un collare con medaglietta in stile militare e con cucita sopra una bandana rossa con disegni geometrici bianchi contornati di blu. Una delle due orecchie aveva un lobo sfregiato e cicatrizzato, con segni di cucitura.
La iena maculata la guardò, emise di nuovo il cinguettio e quasi sembrò sorriderle, con la lunga lingua penzoloni e i denti ricurvi in vista.
Tutti e cinquantanove.
“Ficus!” gridò lei con gioia “vieni qui bastardo!”
La iena di 65 kili quasi scardinò la porta schizzando fuori dalla stanza a tutta velocità, frenò a un millimetro dal divano, salì con le zampe anteriori su di esso e si sporse per annusarla e leccarle la faccia, lei riuscì a girare in tempo la testa in modo che le leccasse la guancia e non la bocca, poi la abbracciò e le grattò il fianco.
“Bello che sei, ti sei ripreso subito eh?” disse lei mentre la iena saltava sul divano e si sdraiava di fianco a lei, lei gli accarezzò la testa, giocando con le dita tra i peli della criniera, mentre la iena si strusciava e grugniva.
Riprese la birra e bevve un altro po’, guardando sul tavolinetto si accorse della presenza di un giornale.
Sfogliò qualche pagina.
Un resoconto delle operazioni dell'esercito INC contro l' Alleanza Atlantica e la Fratellanza Orientale nel Sud-Sahara e contro il Patto Asiatico in Madagascar.
Alcune news sull' aggiornamento dei nuovi sistemi di propulsione Wormhole di ultima generazione.
Un delitto passionale.
Altri scontri armati fra gli animalisti e gli attivisti per i diritti delle macchine, tredici morti e ventisette feriti.
Olga Canari intervista sé stessa.
Fok, no.
Si trattenne dal leggere oltre.
Pure l' intervista a sé stessa, ma si può cadere più in basso di così?
Cedette.
“...e ora basta con questi pseudo buonismi, il dialogo interspecifico è una stronzata e chiunque affermi il contrario è cieco sordo e muto di fronte all'innegabile interminabile indifendibile atrocità che la nostra specie è costretta a subire da più di tre secoli, come se ci fosse la possibilità di un 'dialogo' con queste masse di invasori, perché solo gli utili idioti non vedono che questa è un'invasione, ma nessuno ha le palle di dire le cose come stanno, l' infestazione di frocetti politically correct è troppo avanti, povera Terra ora martoriata dai supplizi dei negri spaziali e nessuno ha le palle di reagire...”
si morse il labbro.
“...perchè qui caro mio, quatto quatto zitto zitto qui è in corso un genocidio, il genocidio della razza umana, il genocidio della nostra civiltà, il genocidio della luce di sapere e gloria che ereditiamo dalla nostra cultura, la nostra civiltà è un faro di luce ineguagliato che illumina le tenebre del cosmo, e da queste tenebre emergono questi negri spaziali, un'orda di invasori mostri assassini, per depredare avvelenare uccidere, e distruggere la luce che noi rappresentiamo, che loro vogliono soffocare spegnere nullificare! Non c'è civiltà al di fuori della Terra, ci sono soltanto e solamente masse di droni automi di carne senza individualità né intelligenza come i gamberoni, i pollosauri e i puffoni, quello oppure puri e semplici nazisti come i cosi striscianti e le scimmie lucertola...”
Digrignò i denti.
“...che già chiamare queste bestie 'negri spaziali' è già un complimento, almeno i negri sono ancora esseri umani(che poi caro mio, ai miei tempi chiamare negro un negro non era mica razzista, via via via queste scempiaggini da effeminati politically correct!), questi non sono nemmeno quello, sono subumani, inumani, anzi disumani! C'è forse qualcosa di minimamente umano nei puffoni, un'infestazione di selvaggi zoticoni che non sono mai riusciti a creare una cultura, buoni solo ad urlare ammazzare scannare e sacrificare tutto quello che si muove nel nome del loro Eya Eya e del cieco fanatismo con cui perpetrano il terrore? E nei pollosauri, starnazzanti piratuncoli e assassini dal cervello di gallina che sanno solo uccidere e rapinare e saccheggiare i più deboli, non hanno mai creato nulla da soli e sanno solo copiare dagli altri disumani, il tarocco di un tarocco! E nei cosi striscianti? Un dittatoriale impero nazista che ha invaso il nostro sistema solare e ha saccheggiato come voleva e nessuno ha potuto fare niente, come dimenticare la loro invasione dell' America, di Gibilterra e della Terra Santa, le sacre radici della Nostra Civiltà distrutte e profanate impunemente, le nostre donne e i nostri bambini uccisi oppure catturati torturati e venduti schiavi negli zoo e negli harem? Come dimenticare le scimmie lucertola, i politically correct si son fatti revisionisti e ci hanno costretti a dimenticare quali eccidi, quali massacri, quali atrocità abbiamo subito da quei mostri bavosi durante la Guerra Venusiana, i bambini mangiati, le colonie bruciate, le navi abbattute, non sapremo mai quanti uomini, donne, bambini, vecchi, neonati, ragazzi e ragazze sono stati trucidati squartati ammazzati, quanti milioni, quante centinaia di milioni, ma è meglio così perché stoicamente almeno non daremo soddisfazione alle scimmie lucertola di saper quale dolorosa piaga ci hanno inferto, almeno non balleranno per le strade ubriachi marci di sete di sangue...”
“il bilancio della Guerra Venusiana, dal 2092 al 2106” pensò lei “è stato stimato a 140 milioni di vittime, di cui 20 umani, 80 h'yaech, 30 khral, 10 poleepkwa, più dell'80% delle vittime erano civili”
“...atrocità che oggi per colpa degli intralci creati da quei comunisti dell' ICA si ripeteranno tali uguali sputate anche su Pandora, che ora certi collaborazionisti senza palle col paraocchi inizieranno a sputazzare che  la-guerra-venusiana-e-la-guerra-pandoriana-sono-state-guerre-di-invasione-e-i-puffoni-e-le-scimmie-lucertola-avevano-diritto-di-difendersi, povera massa di lobotomizzati giovinastri senza voglia di lavorare, motivo di vergogna dei vostri padri nonni e antenati, il diritto alla patria va conquistato(e io glielo toglierei insieme alle corde vocali in modo che smettano di infastidire), e i puffoni e le scimmie lucertola non hanno mai fatto niente nulla e zero per conquistarlo, l' umanità aveva tutto il diritto di prendersi quei pianeti, la nostra unica colpa è stata dare ascolto a certi professorini idioti e non spezzargli subito le reni fin da subito! A loro io chiedo ancora di dirmi dove vedono umanità nella mela più schifosa marcia e puzzolente di tutte, in quei sudici gamberoni, che per secoli per averli accolti con tutti gli onori per ripagarci hanno infestato degradato e insozzato la povera Johannesburg un tempo fiore all'occhiello dell'Africa, nessuno con un po'  di cuore ma sopratutto di palle avrebbe potuto tollerare di vedere quelle bestie bercianti e i meravigliosi quartieri che sotto il loro assedio marcivano e degradavano come belle donne stuprate...”
le sue dita si chiusero sulla carta, le sue unghie la perforarono.
“...che te lo dico io caruccio come risolverei io questo problema: una spruzzata di napalm come se non ci fosse un domani e paf, problema risolto ! E questo mi ricorda i bei tempi del Secondo Conflitto del Sudafrica, quando a Johannesburg non c'era spazio per certe cretinate, al tempo Io ero proprio lì e intervistai il Lupo Nero(come lo chiamavano i figli di Abramo, che lo temevano assai), sergente dello Squadrone di Pronto Intervento Ratel sempre in prima linea per la difesa della Civiltà, un aitante e virile Mandingo dalla pelle nera come ebano e affascinanti occhi blu che parevano diamanti di sangue, un fulgido esempio di come l' unica vera Civiltà avesse elevato persino quel continente di trogloditi, ah come ripuliva lui le strade dalla sporcizia dei gamberoni con il lanciafiamme ben prima che riuscissero a venire al mondo nessuno...”
buttò in un angolo la rivista, poi si asciugò il bordo di un occhio.
Dieci anni fa era la giornalista che l'aveva spinta a essere donna di cultura, a proseguire gli studi e a impegnarsi.
Ora era un'altra fiera esponente della massa di scribacchini mercenari che in cambio della loro servitù i partiti delle Fazioni Umane rimpinguavano di comparsate televisive e seggi in parlamento.
Lei ne aveva letti a decine di articoli come quello, articoli tutti uguali, da otto anni li leggeva, e ogni volta non erano le falsità e la bile a ferirla, era il senso di tradimento.
Lo stesso che qualcun altro a lei caro le aveva riservato...
Scolò quel che rimaneva della birra, si toccò la spalla sinistra, la massaggiò, era una di quelle volte in cui le faceva ancora male.
Poi sentì la porta sbloccarsi.

Piccola nota Autoriale:
Leila è sudafricana, quelle che lei sfodera sono parolacce in Afrikaans.
# Kak: merda;
# God Vark: d*o maiale;
# Fok: cazzo.

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Capitolo 3
*** Casa è dov'è il Cuore(Parte 3, POV Leon) ***


(POV: Leon)
Leon aprì la porta ed entrò in salotto, sul divano davanti alla tv stava una ragazza.
Era una ragazza umana dal fisico slanciato, dalla pelle color caffelatte e gli scarmigliati capelli castano scuro lunghi fino al collo, vestita di un paio di jeans elasticizzati neri e un top bianco, era a piedi nudi ma di fianco al divano c'erano un paio di scarponi neri con lacci bianchi e un paio di calzini grigi che spuntavano.
Al suo fianco sul divano stava accucciata una iena maculata, con la criniera nera e il manto chiazzato color fango.
Lei lo guardò mentre lui si avvicinava e sorrise.
“Goeie Aand Leon” disse lei “finalmente sei arrivato!”
“Ciao Leila” fece lui mentre entrava “che ci fai qui?”
“Niente di che” si stiracchiò “ho saputo dai tuoi che oggi andavi alla sede ICA per discutere dell’ assunzione” incrociò le gambe “così, visto che riguarda anche me, ho pensato di venire di persona”.
Leon si avvicinò e si sedette, lei si spostò di lato. La iena saltò giu dal divano e si accucciò sul tappeto.
Dannata bestiaccia, ti sei mangiata il mio ultimo mobile!
Stando appollaiata sul divano lei riusciva a guardarlo negli occhi senza alzare troppo la testa. Effettivamente era alta per un’umana.
Lui espirò e si scrollò la pioggia di dosso.
“Ma che sei scemo?” sbottò Leila mentre si riparava con una mano “mi stai innaffiando!”
“Oh” lui abbassò le orecchie “scusa” si passò una mano sui capelli “quel profumo che usi, credo lo usassero gli italiani nel 2070 per gasare gli zingari”
“E quindi? Mica lo devi usare tu!” si stiracchiò “e poi tu non sei umano, non puoi capire…”
Lei lo guardò. I suoi capelli incorniciavano il suo volto rotondo, aveva una bocca piccola ma labbra carnose da nera, i suoi denti erano puliti anche se un po’storti, gli zigomi erano alti e il naso dritto da bianca ma con narici più larghe, la sua fronte era spaziosa e le sopracciglia arcuate. I suoi occhi lo inquietavano, dal taglio affilato e di un grigio chiaro che stonava completamente con i suoi tratti, e l’innaturale sclera nera invece che bianca le dava uno sguardo folle.
“…In ogni caso” riprese lei “quali buone nuove mi porti dalla sede dell’ICA?”
“Che sono molto soddisfatti della mia scarsa esperienza lavorativa, e che forse mi includeranno l’odontoiatrica”
“Quindi ti prendono?”
“Forse, ma ci sono buone probabilità di sì”
Leon notò che Ficus si era alzato a sedere, lo stava annusando e grugniva felice.
“Ciononostante” riattaccò Leila “non mi sembri saltare di gioia”
La fissò storto “…no?”
“Decisamente no”
Leon distolse lo sguardo, e fissò il pavimento.
“Allora, che c’è che non va?”
Lui non rispose.
“Sei in ansia per questa partenza?” continuò lei “e chi non lo sarebbe?”
“Non sono in ansia” replicò lui.
“E allora cos’è? Avanti, è dai tempi del secondo anno di liceo che ci conosciamo e dal quarto che siamo amici, lo sai che se hai qualcosa che ti turba io sono disponibile!”
“Scusa Leila, ma questa non è un qualcosa che la tua disponibilità può risolvere”
Leila lo fissò storto, poi si alzò “…e che cazzo, odio quando fai così!” si diresse a passo spedito verso la cucina.
Leon la seguì con lo sguardo, fissandola con aria di sufficienza.
“…Aspetta Leila, va bene” disse lui atono “se tanto ci tieni te lo dico”
Leila aprì il frigo.
Incrociò le braccia “Leila non cominciare a fare così!” disse alzando la voce “in questa casa a fare sceneggiate di questo genere basto già io!”
Leila tirò fuori dal frigo una birra.
“Leila piantala” continuò lui “ho detto che te lo dico!”
“Non sento” replicò lei senza degnarlo di uno sguardo.
Leon distolse lo sguardo, poi si alzò di scatto.
“Ah no? Bene, e io te lo dico lo stesso” le urlò “subito dopo che sono andato via dalla sede ICA Samuel mi ha contattato, e aveva ottime notizie, per la precisione i miei zii sono stati mangiati da un thanator!” ricadde sul divano, lo sentì scricchiolare “Contenta? Riuscirai a dormire la notte adesso?”
Dopo qualche secondo si girò, Leila si era bloccata nell’atto di stappare la birra, le era cascata la mascella.
Si era preparata un panino integrale da cui sporgevano due fette di salame e un paio di cetriolini sottaceto a fette, Ficus ne approfittò per sporgersi sul tavolo e servirsi.
“…Wat?” disse, con gli occhi sbarrati “My God scusami!”
Leon distolse lo sguardo, abbassò le orecchie e guardò il pavimento.
“…No, scusami tu, stavi cercando di aiutarmi e ho reagito da stronzo”.
“Non è quello” rispose lei stappando la birra “è che pensavo ti stessi facendo venire uno di quei tuoi raptus come al liceo, non ti si poteva rivolgere la parola a riguardo di cose che ti disturbavano senza che tu ci soffiassi contro,” la vide tornare al divano, seguita da Ficus che si leccava i baffi “come potevo immaginare fosse una cosa cosi!” si sedette di fianco a lui.
“In verità” continuò lui “non sono morti, non ancora almeno, ma da quel che mi ha detto Samuel non hanno molte speranze”
“I medici dell’ ICA? Ma dispongono di tecnologie mediche d’avanguardia, persino per le razze più avanzate!”
“Ho visto di persona come un leone di 200 kili può ridurre qualcuno abbastanza male che nemmeno la tecnologia medica poleepkwa può fare qualcosa, figurati un thanator di 2000...”
“Mi dispiace” Leila gli toccò la spalla “…stai molto in pena?”
Lui distolse lo sguardo “…sì, abbastanza, è che poi tutto questo salta fuori così…”
“…Ti capisco”Leila bevve un sorso “…anche quando nella mia vecchia…famiglia…sai già quel che è successo…è stato un periodo difficile, anche se Samuel e zio Lemuel mi erano vicini, io volevo tenere il dolore solo per me…” gli porse la bottiglia “Vuoi un sorso?”
Leon prese la bottiglia, la guardò un attimo e poi scolò, il sapore amarognolo della birra gli invase la bocca, il suo organo di jacobson fu solleticato dalle bollicine, poi le ridiede la bottiglia.
“…Meglio se ne vado a prendere un’altra…” disse Leila mentre si alzava “…a proposito, grazie per essere passato a prendere Ficus dal veterinario”
“Non ricordarmelo, ho portato quella bestiaccia a fare il giro del quartiere alieno minimo due volte” la iena salì sul divano al suo fianco “e quando siamo tornati a casa ha divorato metà dei croccantini che tenevo, ha riposato dieci minuti e poi era di nuovo a raspare alla porta, e quando non l’ho portato ha cominciato a mangiarsi il letto!”.
“È una iena” replicò lei “ha bisogno di fare molta fatica, comunque” si sedette di nuovo e porse la birra già iniziata a Leon “quando partiamo per Pandora?”
“Tra una settimana” disse mentre si distendeva “ma non da qui”
“In che senso? Che non partiamo dall’Australia?”
“No” Leon finì la birra “nel senso che i voli prepagati ICA per Pandora partono dalla Stazione 02, è quella nell’orbita di Venere”.

Piccole Note Autoriali:
Alcune aggiunte al Parolaio Afrikaans, cortesia di Leila.
# Goeie Aand: buonasera;
# Wat?: cosa?
# My God: mio dio

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Capitolo 4
*** Solcata ho Fronte(Parte 1, POV Leon & Leila) ***


Capitolo 2: Solcata ho Fronte
(POV: Leon)
Leon uscì dalla doccia, il vapore caldo si disperse e l'aria gelida lo avvolse, facendogli drizzare i capelli in testa e raggrinzire la pelle. Ingiuriando tra i denti afferrò rapidamente due asciugamani grandi, con le mani inferiori se ne avvolse uno intorno alla vita e con quelle superiori si strofinò vigorosamente. Finito di asciugarsi i capelli e la parte sopra del corpo si tolse l’altro asciugamano e si asciugo gambe e coda.
Li poggiò sul lavandino, poi prese dall' appendiabiti mutande e pantaloni.
Dopo averli infilati afferrò la spazzola e si diede una rapida pettinata, poi prese la t-shirt e uscì dal bagno, in un baleno i suoi occhi si abituarono alla penombra.
Si trovò in antibagno, la luce del bagno illuminava la penombra della stanzetta, dove c'era uno specchio abbastanza grande da  permettergli di specchiarsi da capo a piedi.
Distolse lo sguardo e si accorse che la porta dell'antibagno era semiaperta, al di fuori si apriva sul salotto, non vide la iena ma vide Leila che dormiva sul divano. Stava sdraiata a pancia in giù, rigirandosi aveva buttato a terra il lenzuolo, aveva la testa appoggiata sul cuscino, russava sonoramente e un grosso filo di bava le colava da un lato della bocca impregnando il guanciale.
Porca troia.
Si era tolta buona parte dei vestiti, aveva addosso solo un paio di mutande bianche e una canotta dello stesso colore. Sotto la sottile canotta non aveva il reggiseno, e rigirandosi nel sonno aveva spostato le mutande, e poteva vederle una fetta del fondoschiena.
Dal suo punto di vista Leila era troppo bassa e tarchiata, e aveva sempre trovato inquietante il fatto che gli umani mancassero di braccia inferiori e coda, ma si sorprese a chiedersi come sarebbe stato farlo con un'umana, come sarebbe stato sapendo che se si fosse lasciato andare troppo avrebbe potuto romperle le ossa, ma sopratutto se ci sarebbe stato lo stesso livello di unione come nel farlo con una sua simile, anche senza Tsaheilu...
 
(POV: Leila)
Leila scosse la testa, aprì a fatica gli occhi e si guardò in giro, il salotto era buio ma una luce da un'altra stanza, i suoi occhi si abituarono alla fioca luce e iniziò a vedere le sagome del mobilio, notò un'ombra nera ai piedi del divano, era Ficus. La iena uggiolò un paio di volte, forse stava sognando, Leila allungò lentamente il braccio e gli accarezzò la testa. Si rigirò nel divano, e una sensazione di freddo e viscido le invase la faccia, facendola uscire del tutto dal dormiveglia.
Schiesse.
Si pulì la guancia e la bocca con un braccio, girò il cuscino, ingoiò quel po' di saliva che aveva in bocca e si rigirò. I suoi occhi individuarono la fonte di luce: era la luce del bagno, vide che Leon era appena uscito dalla doccia e si stava asciugando.
Lei osservò la sua coordinazione tra braccia superiori e inferiori, i minimi movimenti dei suoi piedi digitigradi, il muoversi della sua coda, dei suoi neuroconnettori e delle sue orecchie che si muovevano come quelle di un gatto, la trama dei suoi muscoli alieni che si muovevano sotto la pelle la affascinava.
Leon era diverso dagli altri suoi simili, senza il blu tipico della sua specie sembrava quasi un umano mostruoso, ma quando lo vedeva con meno abiti addosso era ben chiaro che non lo era.
Poi Leon appoggiò gli asciugamani al lavandino, gli occhi di Leila strabuzzarono.
Schwantzstucker!
Leon era piuttosto basso per la sua specie, ed era più tarchiato, ma restava longilineo per gli standard umani, non era scolpito ma era comunque in pesoforma, e nonostante le braccia extra, la coda e le gambe da dinosauro Leila era stupita di quanto, nonostante senza vestiti fosse più che mani evidente che non lo fosse, in quel momento le sembrasse umano.
Leila era cresciuta tra due mondi in più di un modo, aveva avuto negli anni cinque fidanzati, quasi tutti umani anche se aveva avuto una fantasia o due su Samuel, ma a lui piacevano solo i poleepkwa.
Scivolando di nuovo nel dormiveglia pensò che magari, prima di morire, non sarebbe stato male provare a farlo con un na'vi, non con Leon perché sapeva di non interessargli, ma chissà com'era il tocco di quelle quattro mani, la sensazione di quella pelle liscia, i baci di quella lingua da serpente, ma sopratutto se sarebbe riuscita a prenderlo...
“Che vista ripugnante, proprio come un cane col Demonio!”
le risuonò nel cervello come un tuono, le sfuggì un gemito mentre si alzava di scatto, un brivido le correva attraverso la spina dorsale e sudava freddo.

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Capitolo 5
*** Solcata ho Fronte(Parte 2, POV Leon) ***


(POV: Leon)
...Leon scacciò quel pensiero, poi guardò nello specchio la propria immagine.
Capelli lisci lunghi fino alle spalle, due creste carnose mobili simili a foglie adornavano i lati della sua fronte, agli angoli superiori della fronte aveva due orecchie appuntite vagamente feline, due grandi occhi dalla pupilla verticale, due ocelli più piccoli e atrofizzati da cui percepiva solo luci e ombre sui lati degli zigomi, naso largo e piatto con una leggera gobba che ricordava quello di un felino, narici come quelle di un serpente, una bocca non molto larga, mandibola minuta e mento affilato, sulle guance aveva due cheliceri chitinosi e da appena sotto le tempie spuntavano due tentacoli lunghi circa un metro che terminavano in baccelli carnosi a quattro lobi, il suo collo era lungo e aveva quattro opercoli respiratori.
Aveva il petto slanciato, quattro braccia terminanti in mani a quattro dita con doppio pollice opponibile, una coda prensile lunga circa un metro e mezzo, gambe lunghe ma forti, piedi digitigradi con quattro dita di cui due opponibili, come le sue mani. Linee di punti bioluminescenti percorrevano le sue braccia, il suo corpo e il suo volto, e brillavano ancora di più nella penombra.
Un Pandoriano, un Na'vi.
Un puffone blu.
Perchè anche un cretino sapeva che i na'vi avevano la pelle blu, come quei mostriciattoli dei prodotti per bambini, persino gli altri alieni li chiamavano così oramai.
Pelle blu striata, capelli neri e occhi dorati, l'etnia na'vi più diffusa.
Non il suo caso.
La sua pelle era bianca con striature argentee, i suoi capelli bianco latte, e i suoi occhi rosso sangue.
Talion.
Il suo nome, il nome assegnatogli dal suo Clan.
Poteva significare tante cose.
Una meno piacevole dell'altra.
Bambino Vecchio, Nato Vecchio, Nato Morto, Morto Vivente...
...Albino.
Tutti gli albini in tutti i Clan erano sempre stati Talion.
Quelli che camminavano a metà tra i vivi e i morti.
Che camminavano tra due mondi…
D'improvviso un urlo soffocato risuonò dal salotto, Leon accese la luce e si precipitò là, Leila era seduta sul divano, con gli occhi sbarrati e pallida come un cencio, Ficus era saltato sul divano e le leccava una guancia, lei cingeva la iena con un braccio.
“Tutto bene Leila?”
Lei lo guardò con la coda dell’occhio.
“...Sì” replicò lei “solo un colpo di freddo”.
 
“Attenzione: ricordarsi di prendere tutti i propri effetti personali prima di scendere, si prega di camminare in una fila ordinata in direzione dell’ uscita passeggeri”
Leon si pulì con un tovagliolo i lati della bocca dal vomito, e si infilò di nuovo la maschera filtrante, poi si caricò in spalla il trolley e raggiunse Leila sulla passerella di discesa dello shuttle, infilandosi nella folla che scendeva.
Procedendo, Leon si spalmò la crema solare in faccia, inforcò gli occhiali da sole, uscendo guardò su, vide un cielo verde giallognolo, molti strascichi di nubi mossi dai forti venti e il sole, grande circa una volta e mezzo rispetto a come lo ricordava.
Si ritrovarono su una piattaforma di atterraggio ottagonale del diametro di circa 250 metri, in un enorme spiazzo che ne ospitava decine, su di esse gli shuttle atterravano e partivano, principalmente vedeva shuttle venusiani, riconoscibili per la loro forma appiattita e la pianta a ferro di cavallo con i motori principali all'interno, ma vi erano anche shuttle Valkirya di fattura terrestre, e alcuni shuttle ha-lyiss. Sopra di loro il cielo di Venere, un cielo giallastro tendente al verde solcato da grandi nubi bianche e grigie, in mezzo alle quali spuntava un disco solare grande una volta e mezzo rispetto alla terra. Oltre lo spiazzo una serie di sei edifici circondavano tre lati dello spiazzo, erano edifici simili a piramidi a gradoni del mesoamerica ma a pianta esagonale, collegati tra loro da ponticelli, da essi spuntavano le torri di controllo; i muri erano decorati da bassorilievi simili ad arabeschi, e finestre esagonali. Vide uno shuttle ha-lyiss partire, una splendente astronave rivestita di placche bianche con scritte in cuneformi ha-lyiss, dalla forma aerodinamica che ricordava un pesce spada, dotato di sei propulsori laterali e due di poppa, l'aria tremolò intorno ai motori che iniziavano a emanare una luce blu dalle bocche di scarico mentre i sospensori magnetici distaccavano la nave da terra in un orientamento diagonale, poi non appena lo shuttle fu circa a cinquanta metri da terra scariche di energia azzurrina scaturirono dai propulsori e lo shuttle salì rapidamente di quota, fino a sparire nel cielo lasciandosi dietro una scia bianca di luce.
I passeggeri sbarcavano e si imbarcavano in grandi file. Scendendo dalle piattaforme i viaggiatori venivano smistati in file precise un po' dalle indicazioni date dai pannelli olografici proiettati da pilastri metallici a pianta ottagonale, e un po' dal personale dello spazioporto, in buona parte h'yaech, ma anche alcuni umani e poleepkwa. Tutti quelli del personale portavano uniformi da lavoro, di fattura che variava in base alla specie, di colore verde-kaki con gilet rossi dotati di bande catarifrangenti bianche, sulle braccia e sugli scarponi avevano fasce dello stesso colore con le stesse bande, e portavano copricapi simili. Buona parte di loro erano appiedati, ma alcuni invece si spostavano da una zona all'altra dello spazioporto su affusolati veicoli a tre ruote, alcuni dei quali trainavano piccoli bus per il trasporto del personale e delle merci, e altri guidavano dei mech Rhal'khar MK2, un modello venusiano multifunzione di 4,5 metri simile a un AMP terrestre, tuttavia disponeva di quattro gambe mobili dotate di ruote, e di una articolazione extra nelle braccia, attraverso il vetro semisferico delle carlinghe si poteva vedere gli operatori, che impiegavano i mech per caricare e scaricare merci e bagagli dagli shuttle.
Sui pilastri oltre ai proiettori olografici erano presenti degli altoparlanti di forma romboidale, che trasmettevano a intervalli regolari messaggi in varie lingue.
“Attenzione: lo Shuttle 175-3 della Gilda Spaziale Venusiana con destinazione Terra partirà dalla Piattaforma 12 alle ore 23:35, si pregano i gentili viaggiatori di seguire i segnali rossi per raggiungere la piattaforma d'imbarco”.
Leon guardò l'orologio, segnava le 23.00, ma il sole splendeva. Splendeva da un mese e avrebbe continuato per un altro, poi sarebbero stati due mesi di notte.
Procedette al fianco di Leila attraverso la folla, seguendo le indicazioni blu verso l'uscita, il sole più vicino rispetto alla Terra  batteva senza pietà, sentì le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, la crema solare già iniziava a colare, la maschera filtrante accelerò automaticamente il funzionamento per far passare l'aria più velocemente e raffreddarla.
Si deterse la fronte con un braccio, poi si tolse la giacca e la legò in vita, rimanendo in t-shirt, poi tirò fuori il barattolo di crema solare e se ne spalmò un altra manciata sul collo e sulle braccia, il freddo della crema rinfrancò la sua pelle per un secondo ma questo non fece che fargli sembrare il sole ancora più caldo.
Leila non gli sembrava particolarmente toccata, lei vestiva un top, un gilet di denim sbiancato e un paio di jeans dello stesso colore, più degli scarponcini leggeri di cuoio e una bandana bianca per tenere indietro i capelli, in modo che non interferissero con la maschera exopack. Probabilmente c'entrava anche il fatto che lei aveva più pigmentazione in faccia che lui in tutto il corpo, e che mentre lui portava in spalla la saccoccia e si trascinava dietro un trolley che pesava come un'incudine lei si era fatta spedire un po' di soldi da Lemuel per il servizio di trasporto bagagli, e aveva solo uno zaino.
Che tre coglioni.
“Non trovi strano vedere il sole da una prospettiva diversa?” esordì lei riparandosi gli occhi con una mano mentre osservava il cielo “intendo, è sempre il nostro sole ma sembra comunque cambiato…”
Leon non guardò Leila, concentrandosi sulla fine della fila più avanti, dove i passeggeri venivano smistati in una decina di casse per il controllo dei documenti e dei bagagli.
“Ehi parlo con te!”
“Come?” Leon la guardò “oh si, è piuttosto...spiazzante...”
arrivarono al check-in, gestito da un poleepkwa di casta Ingegnere.
 
“< Ok, documenti in regola >”
Leon proseguì insieme a Leila fino a uscire dall'edificio, non appena fuori furono accolti da una folata di vento che per poco non gli fece perdere l'equilibrio, aria secca.
Come era tipico su Venere soffiava un forte vento, che smorzava un po' l'afa.
Davanti a loro una scalinata larga circa quindici metri composta di piastrelle bianche esagonali, alcune sporche o rotte, dotata di corrimano di metallo ai lati e al centro, che scendeva cento metri più in là e cinquanta metri più in basso, ai lati di essa dei prati di muschio rosso scuro che sembrava ricoprire la collina su cui lo spazioporto era stato costruito, più giù la scala terminava su uno dei lati di una piazza ottagonale gremita di persone, intorno e oltre la piazza palazzi e grattaceli di vetro e acciaio la cui struttura a gradoni ricordava piramidi mesoamericane a pianta ottagonale o esagonale dalla cui sommità spuntava un grattacielo, ed erano collegati tra loro da ponti coperti. Alcuni di quei grattaceli sembravano più nuovi, e la loro struttura ricordava i grattaceli terrestri. Nelle larghe strade che si aprivano sulla piazza spuntavano file di colonne a pianta ottagonale che sosteneva un sistema a sei piani di trasporti pubblici a rotaia, e si estendeva sui piani più alti fino a collegarsi ai gradoni dei grattaceli, formando piattaforme di atterraggio per trasporti volanti, le basi allargate a tre piani delle colonne fungevano da panchine. Oltre la distesa di grattacieli della città poteva vedere una immensa distesa di praterie, rocce calcaree e altra vegetazione scarlatta con  qualche abitazione qua e là, oltre spuntava una catena montuosa, le cui cime erano avvolte da nuvole di tempesta.
Leon proseguì fino a raggiungere la piazza seguito da Leila, notò che lei si guardava intorno piena di meraviglia. La folla comprendeva molti poleepkwa e qualche umano, ma la buona parte delle persone nella piazza erano h'yaech, i principali nativi di Venere: variavano di altezza, da un metro e mezzo fino a oltre due metri, con larghe spalle, lunghi arti con doppia articolazione terminanti in mani e piedi a quattro dita dotate di piccoli artigli, pelle che variava dal rosso mattone al giallo senape, con alcuni verde giallastro, che sfumava in bianco sul ventre, e quattro arti extra simili a tentacoli che arrivavano fino ai ginocchi, alcuni li tenevano penzolanti e altri arrotolati dietro la schiena, quando non li usavano per afferrare; i loro volti erano tozzi e ricordavano un rettile, con scaglie inspessite sulla fronte dotata di tre narici e sulle sopracciglia dei quattro occhi a pupilla verticale e fauci dentate, oltre a una vera mandibola avevano altre due paia, due circondavano la mandibola e altre due la mascella, le mandibole di alcuni erano decorate da barbigli carnosi bianchi che sfumavano in colori vivaci sulle punte. Buona parte di loro indossava larghi pantaloni chiusi da legacci, fusciacche e camice coperte da tuniche o soprabiti di varia lunghezza, a quanto sembrava era lo stile di vestiario locale, ma altri vestivano di lunghe tuniche e mantelle con cappucci, altri corpetti e gonne di cuoio e pelle sopra pantaloni e tuniche, altri indossavano abiti umani riadattati al fisico h'yaech. Sulla faccia e sul corpo molti di loro avevano scarificazioni o tatuaggi, in particolare dei motivi intrecciati sulle braccia che rappresentavano l'appartenenza a un clan. Buona parte di loro era appiedata, ma alcuni si muovevano su segway, sia quelli a due ruote umani che quelli a tre h'yaech, oppure in sella a delle cavalcature. Erano creature esapodi di colore viola scuro a chiazze nere sul dorso che sfumava prima nello scarlatto e poi in bianco crema sul ventre, alte quanto un uomo al garrese, la struttura ricordava un misto tra una iena e un coccodrillo, con una corta coda, sei arti terminanti in zampe con quattro dita palmate, un corpo tozzo e massiccio da animale da soma, due tentacoli che spuntavano dai lati del garrese terminavano in due appendici artigliate prensili, un collo taurino sosteneva una testa tozza apparentemente senza occhi, con quattro orecchie simili a quelle di un pipistrello che si chiudevano come petali sulla parte superiore della testa, tre narici dotate di lembi cartilaginei che amplificavano la ricezione, e una grande bocca piena di denti, due paia di mandibole extra circondavano le vere fauci. Muovevano la testa a destra e a sinistra mentre avanzavano, emettendo serie ritmiche di ringhi e stridii, quando quei versi si facevano più irrequieti il cavaliere li calmava accarezzandoli sulla testa e sul collo.
“Ehi Leon” gli fece Leila “posso farti una domanda?”
“Dimmi”
“Ti ricordi come si chiamano quegli animali? A lezione dicevano che erano tipo l'equivalente dei cani e dei cavalli qui su Venere, ma non ricordo il nome...”
“...Mi pare li chiamino 'Screamer' o qualcosa di simile”

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Capitolo 6
*** Solcata ho Fronte(Parte 3, POV Leila) ***


(POV: Leila)
La città venusiana.
Lo sguardo di Leila schizzava dai palazzi di vetro e acciaio ai bus magnetici che sfrecciavano sopra di loro,poi alle impalcature di metallo che li sostenevano e alle strade gremite di gente. Sulle pareti delle abitazioni crescevano colture di muschio e rampicanti dalle sottili foglie rosso scuro, coltivate per riassorbire parte della CO2.
Osservava i cartelli esagonali e i proiettori olografici delle insegne dei locali sui due lati della strada, lei non conosceva le lingue venusiane ma quegli ideogrammi, che le ricordavano un po’ le rapide pennellate dei caratteri cinesi e un po’ le linee curve della scrittura araba, la affascinavano comunque.
Ai lati della strada c’erano carretti a tre ruote sormontanti da parasoli squadrati di tessuto, alcuni trainati a motore e altri da degli screamer, o da altre creature, animali grossi come bufali, dotati di otto zampe muscolose, un corpo tozzo, placche ossee sulla schiena e una grande testa che ricordava un misto tra una rana e una megattera, dotata di quattro piccoli occhi disposti ai lati e sul davanti del muso e una larga bocca di mandibole multiple, ai lati della quale spuntavano piccole zanne ricurve.
Sopra di lei, le nuvole bianche e grigie avanzavano, sospinte dai forti venti di Venere, che attenuavano l’afa, l’aria era calda come a Joburg ma anche più secca, e la maggiore densità rendeva il vento più forte, sulla pelle la sentiva strana, probabilmente a causa della diversa composizione.
Mentre proseguivano attraverso la folla, Leila portò le mani ai lacci della maschera Exopack e li allentò(LOL, Anacoluto!), poi chiuse gli occhi e si tolse la maschera.
L’aria calda e la luce del sole le solleticarono il volto, l’odore della città, delle persone e della polvere le riempirono i polmoni, seguiti da un vago bruciore alla gola.
Si guardò intorno, alcuni h’yaech in mezzo alla folla le avevano gettato uno sguardo stupito. Attraverso l’aria venusiana i colori sembravano più vividi, la sua vista più acuta.
Maggiore percentuale di ossigeno nell’aria.
Indossò di nuovo la maschera Exopack.
“Per il tuo bene spero tu non rifaccia lo stesso giochetto su Pandora” commentò Leon da dietro di lei.
“Tranquillo, l’atmosfera di Venere è in buona parte azoto con un po’ di gas nobili, e ha pure più ossigeno di quella terrestre” Leila si schiarì la gola, sentendola secca.
“Se è per questo ha anche molto più diossido di carbonio e non scherza neanche con l’anidride solforosa” ribattè lui mentre avanzava al suo fianco “ed è classificata come tossica per gli umani”
“Per uccidere un umano servono almeno sette ore di esposizione, non quattro minuti” Leila si schiarì la voce e attraverso la cannula della maschera bevve un sorso dalla riserva d’acqua “e comunque non dirmi che tu non hai mai provato a gustare una boccata di aria terrestre” ripose la borraccia “gli odori hanno una funzione insospettabilmente importante nella memoria, prova anche tu!”
“Grazie, ma micro-particolato e agenti patogeni non vanno d’accordo col sistema immunitario della mia gente”
“Lo dicevi anche quando sei passato dalla tuta ambientale alla maschera filtrante”
“E tu che ne sai, non ci conoscevamo all’epoca!”
“Me ne hanno parlato i tuoi”
“Si vabbè, pensiamo a prendere il trasporto piuttosto!”
Leila annuì, poi si diresse verso una delle colonne, salì le scale a chiocciola e raggiunse il primo piano delle piattaforme.
La piattaforma metallica si estendeva per una trentina di metri, alle due estremità c’erano altre scale a chiocciola per salire ai livelli superiori, ai lati vi erano ringhiere metalliche con sbarre avvolte da decorazioni floreali. Era gremita di gente.
Leila si fece strada attraverso la folla e arrivò alla zona di imbarco, un pannello olografico indicava la destinazione.
In caratteri h’yaech.
Prima venusiano standard e poi tre lingue minori.
Poi in cartigli khral.
Poi in geroglifici poleepkwa, riuscì a leggerli.
“Pianure di Gar Rashk”
No, dobbiamo raggiungere la riviera ovest.
Si incamminò, avvicinò uno h’yaech dalla pelle ocracea vestito di una tunica grigia di tessuto leggero e un mantello beige con cappuccio.
“Mi scusi”
La squadrò con i suoi quattro occhi.
“Parla una lingua umana?”
Lo h’yaech scosse la testa.
“Ok non importa” si girò, ma lo h’yaech le toccò la spalla.
Lei si voltò verso di lui.
“Wo Shuo” disse “Nin Xuyao Shenme?”
 Schiesse, ne trovo uno che parla una lingua umana e parla cinese!
“No importa” disse lei congedandolo.
Provò con un altro, uno dalla pelle rossastra vestito di un gilet e pantaloni larghi, entrambi verde scuro.
“Parla inglese?” chiese lei “Afrikaans? Tedesco?”
Lo h’yaech scosse la testa, ma in senso opposto al precedente.
“Lo prendo come un ‘no’…”
Provò di nuovo, stavolta una donna in tunica rosso scuro decorata di bianco.
“English? Afrikaans? Deutsch? Xhosa? Na’vi?”
“Deutsch!” rispose la donna.
“Bene!” disse lei in tedesco “può dirmi come si arriva alla riviera ovest?”
“Riviera Ovest? Non so, mai stata” fu la risposta.
“…Capisco” disse lei seccata.
Si allontanò.
“Ehi Leila!”
Si voltò, vide che Leon la chiamava dalla base della scala a chiocciola.
Lo raggiunse “Spero tu abbia avuto più fortuna di me!”
“Alquanto, ho incontrato un altro na’vi e mi ha detto che per la riviera ovest si deve prendere il trasporto aereo”
“Wundenbar!” commentò lei, poi lo seguì su per le scale e si trovarono su uno dei gradoni della base del grattacielo, c’era un giardino pensile di erba scarlatta e alberi alti e con fronde a coppa di foglie spinose viola scuro, con delle panchine di pietra. In quel raggruppamento c’ erano h’yaech, ma c’ erano anche umani e poleepkwa, c’erano dei khral, Leila non era ancora riuscita a vedere bene l’aspetto di quel popolo sotterraneo in quanto erano avvolti da mantelle, e indossavano visori riflettenti per proteggere pelle e occhi dal sole. C’era persino qualche ha-lyiss con schiavi. Molti si girarono in direzione di Leon, che spuntava di un mezzo metro abbondante in mezzo alla folla. Lui non sembrava stupito.
Più in là c’era una piattaforma esagonale, su cui stava scendendo un velivolo a quattro turbine grande circa come un autobus.
Leon le passò di fianco in corsa.
“aspettami!” gridò lei mentre si gettava all’inseguimento.
Cinquanta metri più in là Leila aveva raggiunto il velivolo ed era entrata, Leon era dietro di lei, ansimava e si trascinava dietro il trolley.
 
I sedili del trasporto aereo erano rigidi e non erano pensati per la schiena di un umano, ma se non altro erano puliti.
Diede un’occhiata fuori dal finestrino, sotto di loro scorrevano le vie e le strade della città, la megalopoli si estendeva a perdita d’occhio, tra gli agglomerati di edifici si notavano grandi buchi, alcuni erano piccoli ma altri parevano avere inghiottito interi quartieri, in alcuni dei crateri erano buttate le fondamenta e in altri erano in corso dei lavori, in altri c’erano già nuovi edifici.
Guardò Leon, lui si era dovuto sedere per terra. Da dietro gli occhiali da sole fissava il pavimento.
“Sai Leon” gli fece lei “dovrai rafforzarti un po’ prima di arrivare su Pandora!”
“Si certo, trascinati tu dietro uno zaino E un trolley di quasi 100 kili!” replicò lui mentre estraeva un panno dalla tasca “e poi, perché non continui a goderti il panorama locale invece di pensare a Pandora?”
“Oh beh frena l’entusiasmo mein freundin” rispose lei “forse per te non sarà poi quella gran cosa, ma sulla Terra noi cresciamo sentendo ogni genere di storie su Pandora, e la possibilità che l’ICA ci ha dato di poter vedere un pianeta simile con i nostri occhi non è certo robetta!”
“Come se non ci fosse bellezza in tutto il resto dell’universo” rispose Leon mentre si toglieva gli occhiali da sole “ho sentito che in questa stagione le formazioni naturali di ghiaccio su Acamhar riflettono la luce di Tau Ceti in modi spettacolari, e che le tempeste di fulmini dell’alta atmosfera venusiana nelle zone desertiche generano meravigliose aurore reagendo coi gas nobili, o perché non le foreste pluviali che i latini stanno piantando? e Samuel non ti ha mai parlato delle sette lune di Yilkhann?”
“Certo, come se in tutto il tempo in cui siamo stati qui tu non sia stato a fissarti i piedi!” replicò gelida lei “e poi in tutta sincerità, dovresti essere tu quello entusiasta” si sistemò sul sedile “io lascio la Terra per la prima volta in vita mia, siamo a più di quaranta milioni di kilometri dalla Terra, non ho ancora visto uno Yimir e già mi sento…alienata” prese la borraccia “e tra tre giorni saremo su una nave spaziale ipertecnologica, verremo sparati alla velocità della luce attraverso una deformazione del tessuto dello spazio con una tecnologia che a malapena comprendiamo e tra meno di un mese io mi ritroverò a sei anni luce di distanza dal pianeta su cui sono nata e cresciuta, forse non rivedrò mai più la Terra…tu invece” bevve un sorso “ci sei cresciuto a sei anni luce di distanza da quel mondo, e stai andando lì” ripose la borraccia “tornare a casa non ti tocca?”
“Dipende dai punti di vista” replicò lui secco.
“Capisco” Leila capì che c’era qualcos’altro a turbarlo, ma era meglio non insistere.
 
Il trasporto scese di quota, e atterrò su una piattaforma metallica rialzata.
Leila si alzò e rapidamente uscì dal velivolo, si sgranchì la schiena e guardò l’orologio: 01:28.
Si guardò intorno, i grattacieli avevano lasciato il posto a una marea di case e strade ghiaiate che si estendeva a perdita d’occhio, l’aria lì era umida e portava un odore che ricordava quello di fiume, da un lato le colline della città e dall’altro lato della strada una spiaggia rocciosa di un lago immenso, l’altra riva era oltre la linea d’orizzone, in corrispondenza di altre colline. Tra una roccia e l’altra spuntavano macchie di vegetazione dalle foglie rosse e viola, e alla spiaggia c’erano moltissime persone che nuotavano o prendevano il sole, altri invece erano locali intenti a lavare gli abiti. Più in là c’erano i punti di imbarco delle Salamandre: una decina di casse e cinque pontili metallici, lunghi venti metri circa e distanti ognuno altrettanto, percorsi da diverse persone che si muovevano in quattro file tra quelli che salivano e scendevano, pannelli olografici indicavano in tutte le lingue la destinazione in corrispondenza delle passerelle d’attracco. Andavano e venivano le Salamandre, creature serpentine lunghe circa quindici metri, dal dorso marrone rossastro chiazzato di nero, una lunga coda massiccia, piatta come quella di un ornitorinco, un lungo collo muscoloso con una gorgiera color crema, con solchi golari simili a quelli di una balena terrestre, che sosteneva una testa affusolata dotata di quattro occhi verdi infossati, posti in alto come quelli di un coccodrillo, sormontati da creste ossee. Una di quelle attraccate gonfiò la gorgiera, i solchi golari si dilatarono mostrando sacche rosso fuoco, poi emise un ringhio, aprendo le quattro mandibole esterne che circondavano la mandibola principale, un’altra estroflettè fuori da due  fori sul cranio delle proboscidi carnose lunghe più di un metro. Spuntavano dall’acqua circa un metro sotto il garrese, ognuna aveva legata alla schiena una piattaforma coperta dotata di posti a sedere, e alla base del collo stava la postazione del cavaliere.
Notò un altro animale che si trovava presso i pontili, nell’acqua bassa vicino alla riva.
Era una bestia quadrupede più piccola delle Salamandre, ma comunque grande almeno come un elefante, dal corpo affusolato coperto di scaglie irregolari marrone scurissimo, terminante in una curiosa coda biforcuta, le cui punte erano unite da una palmatura carnosa, si spostava su quattro massicce zampe palmate, lungo il dorso muscoloso una lunga chiazza arancione acceso chiazzata di nero, che continuava su quelli che sembravano cinque colli serpentini che spuntavano dalle spalle e terminavano in cinque teste.
Incuriosita, raggiunse correndo il pontile e osservò meglio.
Poi capì.
Dalle spalle della creatura spuntava un solo collo centrale, che terminava in una testa da serpente con una grande bocca piena di denti aguzzi tra cui zanne velenifere su ognuna delle mandibole, quattro occhi grandi e vispi con pupilla a mezzaluna e tre narici che si aprivano e chiudevano ritmicamente, sotto la mandibola aveva una gorgiera di un azzurro chiaro e brillante chiazzato di blu, e ai lati della testa vi erano pinne mobili dello stesso colore. Da ogni spalla spuntavano inoltre due tentacoli con lo stesso schema cromatico della testa, terminanti in finte teste dotate di una sacca che imitava la gorgiera, macchie ocellari che imitavano gli occhi e persino artigli che imitavano le zanne. Anche quella creatura aveva una bardatura ed era guidata da un cavaliere, insieme a degli operatori stava usando i suoi quattro tentacoli per spostare delle casse da una camionetta a sei ruote a una barca.
“Ehi Leon, quindi quelle sono le Salamandre?” disse lei indicando i pontili.
“Direi di sì”
“Beh, sono molto belle” scrocchiò il collo “ma penso che le Enydra siano più belle”
“Si vabbè” anche lui si sgranchì “ma dovevamo per forza scegliere le Salamandre? Con il trasporto aereo o con le barche ci voleva metà del tempo e dei soldi!”
“Perché con le Salamandre è compreso un tour attraverso la Riserva Naturale del parco di questa città, che caspita di domande” replicò lei “questa riserva l’ho sentita spesso decantare all’università, visto che ci passiamo vicino e abbiamo ancora diverse ore prima della partenza pensavo sarebbe stato edificante darci un’occhiata”
“Non so perché, ma con l’urbanizzazione selvaggia che ha seguito la Guerra Venusiana non mi stupisce che gli spazi verdi come questo siano rinomati…” Leon si voltò “…e poi, dopo la Catastrofe terrestre del 2129 i governi h’yaech hanno dato molto peso all’eco-compatibilità, gli piace far vedere che il loro pianeta è eco-friendly…” si voltò di nuovo verso di lei “…e comunque ci stiamo dirigendo su un pianeta che interamente così, persino le pozze dove cagano gli sturmbeest sono ‘Riserve’!”
“Vero, ma quello è Pandora, questo è Venere”
 “Yare Yare Daze…” troncò lui.
 
Arrivati ai pontili, Leila guardò nella direzione in cui aveva guardato Leon.
C’era una Salamandra nell’acqua bassa, solo in quel momento notava le otto zampe palmate, e il ventre color crema chiazzato di bianco. A quanto sembrava degli operatori le avevano tolto la bardatura e la piattaforma di dosso. Notò che la creatura aveva delle cicatrici dove le cinghie della bardatura stringevano, forse gli operatori la stavano medicando.
Più in là c’era una pozza semicircolare piena d’acqua.
Non sembrava una formazione naturale.
Intorno strane rocce semitrasparenti, alcune spezzate in spuntoni affilati.
Rocce di sabbia vetrificata.
Raggiunse Leon e si fece strada a spallate attraverso la folla sul pontile raggiunsero gli attracchi, in corrispondenza di ognuno vi erano pannelli olografici che indicavano, alternativamente in diverse lingue, la destinazione. Raggiunsero quello che recitava ‘Spazioporto ICA’.
 

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Capitolo 7
*** Solcata ho Fronte(Parte 3, POV Leon) ***


(POV: Leon)
Leon stava rannicchiato nei pressi dell’attracco della piattaforma, al suo fianco Leila stava appoggiata alla parete.
La salamandra su cui si trovavano procedeva lentamente, ma meno di quanto si aspettasse.
guardando indietro vide che nei pressi della spiaggia nuotavano degli ha-lyiss, scivolavano dentro e fuori dall’acqua a una velocità sorprendente, sospinti da lunghe code serpentine e da quattro braccia palmate.
“Strano che dei saurian si trovino da queste parti, pensavo che su Venere facesse troppo caldo per loro” intervenne Leila.
Leon la guardò “non chiederlo a me”
“Aha…ma poi perché li chiamano Saurian? Sono serpentini, ma solo nella forma, in realtà gli ha-lyiss sono mammiferi, anzi post-mammaliani!”
“Perché i rettili sono ripugnanti” rispose Leon seccato “me lo chiedi ogni volta”.
“Lo so, è che mi diverto!” rispose lei accennando un sorriso, poi incrociò le braccia dietro la schiena e si distese.
Lui distolse lo sguardo e guardò l’orologio:
fuori dalla finestra.
Il lago si estendeva a perdita d’occhio, la città si faceva più lontana e sfocata.
Nella zona paludosa spuntavano vaste isole di vegetazione, alberi semisommersi dai tronchi contorti e radici simili a mangrovie, con fronde filiformi come quelle dei salici terrestri ma coperte di fiori variopinti dalle foglie rosso scuro, e altri alberi più alti dalle fronde che crescevano a spirale le cui lunghe foglie spinose ricordavano le dionee terrestri, e in giro vi erano distese di microscopiche piante che coprivano la superficie dell’acqua. Un’infinità di piccoli animali volanti si muovevano tra le fronde degli alberi, notò che alcuni venivano catturati dalle foglie.
Si ricordò che su Venere ogni singola pianta era in qualche modo carnivora.
Nei pressi delle macchie di vegetazione c’erano branchi di salamandre selvatiche, stavano mangiando le foglie degli alberi e qualsiasi animale tra i rami che arrivasse a portata di fauci. Più in là tra gli alberi si spostavano rapide creature grandi come un cane di media taglia, simili a lucertole con sei zampe e due artigli simili a quelli delle mantidi, con una cresta di spine sulla schiena e la pelle grinzosa e striata per mimetizzarsi nella corteccia. Sulle rive delle isole prendevano il sole gruppi di quelle bestie simili a rospi grossi come un uomo, con sei zampe muscolose e due braccia terminanti in chele, con grandi fauci piene di denti seghettati. Altre creature nuotavano presso la riva, sembravano a prima vista tronchi morti coperti di muschio che galleggiavano ma quando uscivano dall’acqua si rivelavano quadrupedi massicci simili a coccodrilli, i lunghi corpi affusolati sostenuti da sei zampe, più due arti terminanti in chele e una testa tozza simile a quella di un alligatore, la lunga coda piatta terminava in due spuntoni ossei. Più lontano dalla riva nuotavano grandi pesci di forma serpentina, le cui spire variopinte di intravedevano nell’acqua torbida, e un banco di pesci fusiformi grossi come salmoni ma con sei lunghe pinne simili ad ali saltava fuori dall’acqua e partiva in un volo a formazione, la luce del sole fece risplendere le iridescenze delle loro ali trasparenti, uno degli ultimi venne afferrato da un tentacolo che lo trascinò sotto, dagli alberi un branco di creature alate dalle quattro ali bianche e quattro artigli ricurvi scese in picchiata e afferrò tra gli artigli altri dei pesci, uno sceso troppo di quota fu afferrato dalla lingua di un pesce color senape la cui testa tozza simile a quella di una cernia ma con quattro file di denti e quattro occhi neri era grossa come un uomo, e sparì nelle sue fauci mentre il pesce spariva sotto la superficie.
Poi le salamandre si bloccarono e nuotarono via, mentre faceva capolino tra gli alberi una bestia quadrupede grossa come un elefante, coperta di spessa pelle lucida di un marrone scuro chiazzato di nero e rosso. La struttura fisica era simile a quella di un gorilla, con zampe posteriori corte ma muscolose, un torso massiccio, due braccia terminanti zampe armate di tre artigli ricurvi, altre due braccia con cui camminava sulle nocche, altre due più piccole a metà tra bacino e primo paio di braccia, un collo taurino e una testa tozza dotata di fauci possenti multiple, quattro grandi occhi verdi scrutavano la zona, e una cresta di lunghe piume rosse partiva dalla nuca e correva fino alle punte della coda bifida.
Il famigerato Marauder, il predatore apex di Venere.
Leon distolse lo sguardo e guardò al proprio fianco, Leila osservava rapita fuori dal finestrino.
Poggiò la testa alla parete.
Pandora.
La sua gente.
La sua famiglia.
Cose che aveva dimenticato.
Che aveva voluto dimenticare.
Con la coda dell’occhio colse uno strano movimento nell’acqua.
Guardò meglio, qualcosa stava avanzando lentamente nell’acqua annaspando e schizzando.
Vide spuntare delle braccia e dei tentacoli, e poi una testa rettiloide con quattro occhi e le mandibole multiple spalancate in un disperato tentativo di prendere aria, per poi subito risprofondare.
Era uno h’yaech!
La salamandra si scosse mentre svoltava.
Leon si alzò e si diresse alla sezione scoperta della piattaforma, cercando di non urtare la gente, una volta raggiunta vide che Leila lo aveva preceduto e cercava di sporgersi verso il venusiano, che annaspava nella loro direzione, mentre la salamandra si fermava.
“Lasciate, ci penso io!” disse mentre si toglieva la giacca e la canotta e stringeva i pantaloni impermeabili.
Il venusiano d’improvviso sprofondò.
Porse i vestiti a Leila e si calò nell’acqua, era vagamente tiepida e gli riempì la maschera filtrante di un odore di decomposizione, sotto la pressione dell’acqua i pantaloni impermeabili si schiacciarono sulle sue gambe.
Sprofondò fino a toccare il fondo a malapena, con le mani destre e un piede si aggrappò all’imbracatura della salamandra e con le sinistre afferrò lo h’yaech per un tentacolo e lo trascinò su, lo vide alzare la testa al cielo e inspirare con tutte le mandibole aperte e lo sentì afferrargli le mani sinistre con entrambe le mani e i suoi tentacoli avvilupparsi intorno alle sue braccia, stringendo con tale forza da fargli male, sentì che le punte dei tentacoli e i palmi delle mani aderivano come ventose alla sua pelle.
Con tutte le sue forze di na’vi, Leon tirò e sollevò lo h’yaech fino alla piattaforma, questi lasciò andare le sue braccia e si trascinò sulla piattaforma aiutato da  Leila e da un drone poleepkwa dell’equipaggio. Lo h’yaech cadde stremato a terra ansimando e sputazzando acqua, poi fece per alzarsi e scosse la testa, farfugliò qualcosa.
Leon si accorse di qualcosa che galleggiava appresso. Un fagotto nero con delle cerniere, forse un borsone.
Allungò la mano per prenderlo.
Lo h’yaech urlò di nuovo.
Un umano dell’equipaggio tradusse.
“Dice di uscire dall’acqua!”

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Capitolo 8
*** Una Nuova Vita(Parte 1, POV Leon) ***


Capitolo 3: Una Nuova Vita
(POV: Leon)
“Dice di uscire dall’acqua!”
“Ah Subit…”
Leon sprofondò.
Si ritrovò sul fondo, l’acqua gli invadeva la maschera filtrante e gli bruciava gli occhi, e una scarica di dolore gli pulsava attraverso la coda fino al cervello, come un centinaio di coltelli gelati piantati nella carne, che si ritraevano e si ripiantavano.
Paralizzato per il dolore e la sorpresa, urlò con tutto il fiato che aveva, ma uscì solo un gorgoglio di bolle attraverso la sua maschera.
Qualcosa lo aveva morso e lo stava trascinando giù.
Si contorse, la maschera filtrante quasi si staccò, e si spinse verso l’imbracatura della salamandra, ma un’altra fitta gli esplose nel braccio destro inferiore, lui scosse il braccio tentando di liberarsi ma fu inutile, allora colpì con il gomito del braccio destro superiore, impattò qualcosa di duro e scaglioso.
I polmoni iniziarono a bruciargli, gli sembrò di vedere qualcosa di lucido schizzare rapido in mezzo alle nubi di fango alzatesi dal fondale.
Tirò un calcio in quella direzione, toccò qualcosa e lo afferrò con il piede prensile, ma quel qualcosa reagì azzannandogli lo stinco, lui lasciò andare e calciò di nuovo.
Si accorse che la sua gamba reagiva lentamente, il dolore stava lentamente diminuendo, e non sentiva più la coda.
Veleno!
Colpì di nuovo col gomito la cosa che gli aveva azzannato il braccio, quel qualcosa allentò la presa.
Lui si contorse e si liberò, si spinse verso l’alto e afferrò l’imbracatura con tutte e quattro le braccia e si tirò su.
Si strappò la maschera dalla faccia e inspirò, cercò di rimettersela mentre con le altre due braccia si trascinava su, si voltò e vide l’acqua schiumante e la nube di icore luminescente che si diffondeva.
Il suo sangue.
Alla sua coda ormai flaccida stava aggrappata con denti e artigli una bestia serpentina, grande circa come un lupo vipera, coperta di viscida e scagliosa pelle verde marcio chiazzato sul dorso e bianca sul ventre, dalla testa rettiloide tozza con mandibole possenti, quelle esterne irte di grossi denti dritti come quelli di un coccodrillo, serrati sulla sua coda, e quelle esterne armate di diverse file di piccoli denti ricurvi e seghettati come quelli di un piranha, creste chitinose adornavano la testa e il dorso, dai lati spuntavano tozze zampe palmate e artigliate con cui si aggrappava, e quattro pinne carnose con disegni variopinti sulla parte inferiore, il suo corpo era come quello di un’anguilla ma più massiccio, e la lunga coda piatta sferzava. L’animale continuava a strattonare e poteva vederne altri più piccoli che nuotavano intorno, in attesa che risprofondasse.
Si tirò su con tutte le forze, ma le gambe non gli rispondevano più e il braccio destro inferiore reagiva a malapena.
Poi quattro braccia e quattro tentacoli lo afferrarono, lui reagì tirandosi su con le sue ultime forze e si ritrovò sulla piattaforma.
Vide Leila bloccare la testa dell’animale con un remo mentre lo h’yaech che avevano salvato afferrava le fauci e le forzava fino a fargli mollare la presa, l’animale soffiò e sferzò Leila con la coda, Leila fu presa in faccia e lasciò andare la presa, lo h’yaech balzò indietro mentre l’animale cercava di azzannarlo, poi l’animale si ritrasse indietro, soffiando e mostrando l’interno della bocca viola brillante.
Lo h’yaech prese il remo e colpì l’animale, questi soffiò di nuovo e cercò di azzannare il remo, ma mentre si alzava lo h’yaech piazzò il remo sotto di esso e fece leva fino a farlo cadere fuori bordo.
Riemerse poco dopo, ma lo h’yaech lo colpì in piena testa con il remo, balzò di nuovo fuori azzannando il remo.
Poi uno degli operatori, un drone poleepkwa, intervenì con un bastone metallico con uno strano marchingegno sulla punta, e colpì il fianco dell’animale.
A giudicare dall’irrigidimento e dagli spasmi doveva averlo colpito con un taser, l’animale mollò la presa e cadde, per poi sparire nell’acqua. 
L’operatore ripose il bastone taser, mentre la salamandra riprendeva la marcia.
Leon crollò del tutto a terra, ansimante per lo sforzo, non sentiva più le gambe né la coda, il braccio sinistro lo sentiva ma non si muoveva, e tutti i muscoli del corpo che poteva ancora sentire gli bruciavano per la fatica.
Con la coda dell’occhio vide Leila aprire il suo trolley e prendere il kit di pronto soccorso, poi tornare da lui.
“Capisci qualche lingua umana?” la sentì dire.
“Aff…Aff..” urlò lo h’yaech “Afrikanaas!”
Leon cercò di alzarsi, le tre braccia gli facevano male ma più o meno rispondevano ancora.
Vide le ferite dei morsi sul suo braccio e sulla sua coda, una serie di tagli profondi ancora stillanti sangue, piccoli brandelli di pelle si staccavano e si vedevano i fasci di carne viva.
“Grandioso!” rispose Leila “tienilo fermo!”
Lo h’yaech lo afferrò con braccia e tentacoli e lo placcò, Leon non riuscì a capire.
Poi urlò sentendo il dolore esplodergli dalle ferite, prima dalla coda, poi dal braccio e poi dal piede.
Mercurocromo concentrato, doloroso quanto l’alcool per i na’vi.
“Sta fermo!” gli gridò Leila “ora chiamiamo un ospedale!”
“Questo non farà bene alla nostra tabella di marcia…” ansimò Leon mentre la sua vista si annebbiava.
Poi crollò a terra e perse i sensi…

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Capitolo 9
*** Una Nuova Vita(Parte 2, POV Leila & Leon) ***


 (POV: Leila)
Leila si svegliò.
Stropicciò gli occhi, si sistemò i vestiti e scosse la testa.
Guardò l’orologio:
18:17.
Erano lì da più di dieci ore.
Si sorprese di non avere caldo, e sentì il condizionatore ronzare dietro di lei.
La clinica era una stanza larga sei metri e lunga quindici, l’alto soffitto bianco era illuminato da gelide luci neon, a intensità diminuita a causa della luce del sole che ancora entrava dalle grandi finestre della stanza. Erano presenti dieci letti, sei erano occupati.
Per Leon avevano dovuto mettere insieme tre letti.
Era lì disteso privo di sensi, la base della coda, il braccio destro inferiore e il piede destro erano fasciati, e aveva delle doppie flebo piantate nelle vene dei polsi di ogni braccio, le flebo si collegavano a un biodispositivo di filtraggio, nella parte inferiore vi erano i meccanismi e nella parte superiore un globo trasparente pieno di soluzione fisiologica, contenente un organo a forma di ferro di cavallo simile ad un rene, in cui il sangue veniva filtrato, al centro stava un organo pulsante, un piccolo cuore, che pompava a senso unico il suo sangue attraverso la sacca. Capillari di plastica iniettavano sostanze predigerite che nutrivano l’ organo.
Se non altro, ne avevano trovato uno compatibile con la biologia na’vi.
A fianco del letto c’era un marchingegno bianco e cilindrico che proiettava una HUD olografica, sul display erano indicate pulsazioni e attività neurale.
L’attività neurale era una linea blu che ondeggiava leggermente, bassa.
Le pulsazioni oscillavano tra 65 e 70, basse per un na’vi, Leon aveva perso molto sangue e per di più all’ospedale non erano riusciti a rimediare abbastanza sangue da riportarlo alla pressione ottimale, ma se non altro il ritmo era regolare.
Sentì il sudore freddo sul proprio corpo.
Quella cosa che lo aveva morso, aveva trovato informazioni sull’unico dei suoi testi di xeno biologia.
Un onnivoro predatore dal morso velenoso, causava paralisi e stordimento negli h’yaech e nei khral, invece causava nausea e spasmi violenti negli umani, ma non aveva trovato nulla riguardo agli effetti sui na’vi.
Quella roba poteva non fargli nulla come poteva ucciderlo.
“Non ci provare nemmeno a crepare qui!” gli disse “hai capito? Sei vissuto dieci anni a Johannesburg e ne sei uscito vivo, non puoi tirare le cuoia per un paio di morsi…”
“Non è andato in arresto cardiopolmonare” disse in afrikaans una voce dietro di lei “e non si è staccato la lingua per le convulsioni, quello è già un buon segno”.
Una voce ferma e baritonale, con un timbro metallico.
Le sembrava quasi familiare.
Si voltò.
Dietro di lei uno h’yaech alto quasi due metri e di corporatura robusta, con la pelle kaki scuro chiazzato di un seppia quasi nero, che sfumava nel crema sul ventre, una criniera nera acconciata in trecce gli ornava il collo, il suo tozzo volto da rettile era squadrato e segnato di cicatrici, di cui una che gli attraversava il lato sinistro della mandibola, gli spaccava le labbra scagliose e arrivava pericolosamente vicino a uno dei suoi quattro occhi verde acqua, attenti e infossati; dai lati della mandibola pendevano quattro barbigli bianchi simili a quelli delle triglie, le sopracciglia scagliose e la fronte erano inspessite dall’età.
Aveva addosso una vecchia tunica senza maniche a motivo CAMO  urbano piena di ricuciture, un soprabito con cappuccio a mezze maniche di tessuto beige quasi altrettanto rovinato, e pantaloni larghi rinforzati tenuti su da una cintura di cuoio e chiusi sui talloni da legacci, a uno dei polsi portava un computer da polso di fattura venusiana, un dispositivo nero di forma trapezoidale con una tastiera retrattile a mezzaluna, e all’altro un vecchio bracciale di bronzo decorato da arabeschi, le mani a quattro dita coperte da guanti fingerless neri, le braccia dello h’yaech erano segnate da altre cicatrici, tra cui una da taglio che percorreva l’avambraccio sinistro e tre da arma da fuoco sul mesobraccio destro.
“…Cosa? come lo sa?” chiese lei.
“Anni fa” disse lo h’yaech mentre prendeva una sedia “mi sono ritrovato tre settimane bloccato negli acquitrini dei Canyon Solforici di Assha’rai” si sedette “quei canyon sono ricchi di vita ma i corpi d’acqua sono infestati dalle Yim’arriksh, le specie dei canyon sono più piccole ma più velenose, ho visto tre tuoi simili morire tra gli spasmi, e se non fosse stato per una nave-soccorso un morso avrebbe ucciso anche me”.
“Capisco” Leila si sistemò per guardarlo meglio “ma lei chi è? e perché è qui?”
“Mi scusi” disse lui alzandosi, vide la sua pelle mutare colore, diventando più chiara “mi chiamo Khshar’Hal’Raed” le porse la mano destra “e vi devo la vita”.
Leila spalancò gli occhi.
“Ah! Lei è quel tipo della salamandra!” si alzò rapida “io sono Leila, Leila Pfeiffer” strinsero le mani, la sua mano era scagliosa come uno squalo sul dorso ma morbida sul palmo, i polpastrelli sembravano ventose “piacere di conoscerla”.
“Piacere mio, Leila’Pfeiffer!” rispose lui.
Lei si risedette, lo h’yaech afferrò la propria borsa con un tentacolo, la prese con le mani e fece per aprirla.
“Perdoni la domanda signor...”
Le si inceppò la lingua.
Schiesse, come cacchio funzionava l’onomastica h’yaech?Khshar…Hal…Raed…
“…Hal’Raed?” sparò alla fine.
“Prego, chiamami pure Khshar” rispose lo h’yaech mentre tirava fuori un sacchetto di plastica trasparente contenente quelli che sembravano dei gyoza.
“Khshar? Va bene…dicevo, come ci è finito in mezzo a quell’acquitrino?”
“Ero sulla mia Skuth e stavo macellando un paio di Esshaim quando…”
Leila alzò un sopracciglio.
“…Was?”
“Scusi” Khshar prese un paio di ‘gyoza’ dal sacchetto “ero sulla mia…diciamo ‘barca-casa’ e stavo macellando un paio di pesci quando uno Yimir, voi umani li chiamate ‘Marauder’ se non sbaglio, ha fiutato il sangue e distrutto la mia barca, sono riuscito a nuotare via con l’essenziale, ma non avevo contato le yim’arriksh…”
“Sarebbero quelle cose che si sono quasi mangiate…”
“Esatto, nella lingua h’yaech più diffusa si chiamano yim’arriksh, significa ‘Morte Saltante’…” Khshar avvicinò due dei ‘gyoza’ alla bocca, le quattro fauci esterne ai lati della bocca si aprirono rivelano le vere fauci irte di denti larghi e seghettati adatti alla masticazione, in contrasto con quelli lunghi e ricurvi delle fauci esterne.
Vide lo h’yaech mettersi in bocca i due ‘gyoza’, le sue fauci esterne si richiusero mentre quelle interne si muovevano per masticare.
Sentì lo stomaco gorgogliare.
“Ehm…potrei avere un paio di quei…cosi?”
Khshar guardò il sachetto e poi lei, poi deglutì.
“Meglio di no” disse “la carne di Qorrash è leggera ma le altre spezie ti torcerebbero le budella”
Kak.
“Capisco” replicò lei atona.
“…Senp…”
Con la coda dell’occhio notò un movimento al proprio fianco.
Guardò Leon, si muoveva e sussultava.
“Leon!” Leila balzò in piedi e gli si avvicinò “puoi sentirmi?”
Gli toccò la fronte, sentì le sue vene pulsare con forza e il sudore sulla sua pelle.
Si voltò verso Khshar “per favore cerca un medico!”
“Subito!” Khshar balzò in piedi.
Leon spalancò gli occhi e si alzò di soprassalto.
Leila cadde a terra, intontita dallo stupore e dallo spavento.
“PEHRR NGA TING MYKYUN NE OE SEMNA!?”
 
(POV: Leon)
Nero.
“…Ti prego basta!”
Bruciore alla gola.
“Taci!”
“Non continuare così! Ti ridurrai come…tuo fratello!”
Lacrime calde sulle guance.
“Cosa? COSA!? Osa ripeterlo e…”
Un brivido lungo la spina dorsale, le sue braccia scattarono.
Si aspettava il dolore dello schiaffo, invece nulla.
“…Sì, hai ragione…persino tu hai ragione…ma ormai che importa, ormai non c’è più motivo…”
“Ci sono io!”
“Che?”
“Ci sono ancora io! Farò tutto quello che posso!”
In lui una nuova forza, una forza disperata.
“Penserò io a portare avanti tutto! Sono in età da cacciatore, andrò dai tawute e farò qualcosa per cui mi paghino…vedrai, troverò qualcuno che ci aiuti, sistemeremo le cose…”
Lui lo fissava, con i soliti occhi secchi e stanchi.
“…Stupido bambino, se solo potessi crederti…”
Un tonfo al cuore, e una morsa allo stomaco.
E poi rabbia.
“PERCHÉ HAI SMESSO DI ASCOLTARMI ZIO!?”
 
La luce lo abbagliò, istintivamente si riparò con un braccio.
Vide il letto su cui era disteso, il muro bianco davanti a lui, le finestre esagonali.
Poi al suo fianco vide Leila, e uno h’yaech dalla pelle color seppia.
Sentì il sangue smettere di arrivargli alla testa, trattenne a stento il vomito e ricadde giù.
Il suo corpo era ancora intorpidito, il dolore gli pulsava dal braccio destro inferiore e dalla base della coda, la testa gli pulsava e sentiva un formicolio ai polsi.
Stropicciò gli occhi, si guardò i polsi e vide le flebo.
Avrebbe potuto alzarsi a sedere ma era troppo stanco per farlo.
“Finalmente!”
Sentì la mano di Leila stringerli la sinistra inferiore, la guardò.
Era in piedi di fianco a lui, aveva il volto contratto ma sorrideva.
“Come ti senti Leon?”
“Così su due piedi?”  replicò lui con un filo di voce “come una merda pestata…piuttosto siamo in un ospedale, giusto?” si guardò ancora intorno “da quanto sono qui?”
“Quasi 11 ore” rispose lo h’yaech.
“E quando posso andarmene?”
“Secondo la cartella clinica non sei in pericolo di vita, il veleno ha avuto poco effetto sulla tua biologia, tuttavia hai perso molto sangue e ti hanno imbottito di antibiotici” continuò lo h’yaech mentre leggeva la cartella clinica olografica al lato del letto “quindi non appena il biofiltro avrà finito di depurarti il sangue penso che potrai andartene”.
“Eh no, non posso farmi stendere da un’infezione!” finalmente trovò la forza di alzarsi a sedere “Ma lei, scusi la franchezza, chi cazzo è?”
“Lui è Khshar” intervenne Leila indicandolo lo h’yaech “è quel tipo che hai cavato dall’acqua!”
“Ti devo la vita” disse ‘Khshar’.
“Mi sembra più il contrario” Leon si sistemò sul letto “se lei non fosse intervenuto, quelle cose mi avrebbero fatto a pezzi!”
“E se tu non mi avessi tirato fuori dall’acqua, avrebbero fatto a pezzi me!” gli rispose Khshar alzandosi dalla sedia e avvicinandosi “Non avrei mai pensato di incontrare un na’vi, tantomeno uno come te”
Lo h’yaech gli porse la mano “Khshar’Hal’Raed, piacere di conoscerti!”
Leon allungò la mano e strinse “Leon van Niekerk, e a quanto sembra ho la fortuna di avere salvato l’unico h’yaech che parla Afrikaans”
“L’ho imparato da una banda di mercenari di cui ho fatto parte”
“Interessante” replicò lui.
“Pensa a riprenderti” intervenne Leila dandogli una pacca sulla spalla “che mancano sei ore al nostro volo per Pandora!”
Vide Khshar bloccarsi.
Leon lo squadrò, stava muto e la sua pelle si era scurita, i suoi quattro occhi erano spalancati e fissavano Leila.
“…Pandora?” disse lo h’yaech lentamente.
“Sì” disse Leila “siamo impiegati dell’ICA e dobbiamo prendere il prossimo volo dallo Spazioporto”
“Capisco”.

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