Suicide girl-Seconda vita

di Ethelweiss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il salotto delle offerte ***
Capitolo 2: *** Belle anime suicide ***
Capitolo 3: *** L'acqua, il Nulla, Greensleeves ***
Capitolo 4: *** Dubbio. Le bambole si separano. ***
Capitolo 5: *** "Cosa sta facendo?" "Lavo i panni." ***



Capitolo 1
*** Il salotto delle offerte ***


NOTA IMPORTANTE!!! All'inizio i flashback sembrano disconnessi e senza logiche connessione, ma abbiate fiducia nella trama, e tutto vi sarà rivelato U_U Ore

Polvere. Freddo. Sospiri di cori religiosi aleggiavano nell’aria. Stantii riflessi di passate bevute ornavano il tavolo sul quale ero distesa. Cupi portoni vigilavano severi e incorruttibili la sala. Sala il cui fulcro era costituito dall’involontaria offerta sacrificale posta sull’altare. Mi rannicchiai sulle ginocchia. Ero sola. Ero sola, basandomi sui miei sensi. Ma intorno a me sarebbe anche potuta accorrere un’orda di barbari in vena di festini, ed io sarei rimasta egualmente impassibile. Il mio volto era caldo e umido. Sale e ferro. Lacrime e sangue. Tastandomi lentamente, scoprii che il mio naso si snodava in un’innaturale gobba proprio a metà. Se non fosse stato per il dolore acuto che provai nello sfiorarlo, avrei creduto che si trattasse della mia naturale fisionomia. Non ero a conoscenza del gentil artefice.

Dopotutto, non ero a conoscenza nemmeno del mio volto.

Non ero vittima di un’amnesia feroce. Ricordavo il volto della donna che fino ad allora mi aveva covata e soffocata, ricordavo il ragazzo che mi aveva tratta via dal fiume quando ero appena un’infante, ricordavo la luce, i suoni, i colori, e tutto ciò che la mia vita era stata fino alla settimana precedente.

Ci si può scordare delle persone, dei fatti e persino della mamma, ma scordarsi del corpo che si abita, è prima di tutto un’ingratitudine.

Corpo che peraltro ci aveva servito devotamente, adempiendo alla sua funzione e obbedendo cecamente ad ogni nostro pigro comando.

E poi, dopo anni di amicizia e amore, svegliarsi un mattino e scordarsi di lui.

Fissare attoniti le proprie mani sconosciute, tastare ogni curva e bozzo con meraviglia esplorativa, volgere lo sguardo sullo specchio e perdere conoscenza.

In quel momento mi sentii minuscola, ridotta alle dimensioni di un granello. Mi accorsi dell’orrenda verità fissando le ginocchia spellate adagiate sotto il mio mento. Le mie gambe erano immensamente piccole. Gracili, esili, e soprattutto corte, sbatacchiavano simili a cosce di rana.  Ne afferrai una e la portai oltre la mia testa, dove si inseriva perfettamente e senza sforzo. Feci la stessa cosa con l’altra. Sorrisi, ebete e muta. La gioia provata mi bloccò la gola per un attimo di intensa letizia. Attaccai a dondolare così forte che l’impeto mi spinse oltre il tavolo, e solo la botta mi riportò in me e mi invitò a considerare seriamente la faccenda.

La sala era ampia, larga quanto alta, con enormi tende che occultavano qualsiasi panorama. Ogni panneggio era decorato con un motivo di grappoli d’oro e viticci, intramezzato da punture color ruggine cucite nel tessuto. Un leggero vento muoveva quelle cascate di stoffa, che a occhio nudo parevano pesare quanto un uomo adulto. Dietro, si intravedevano archi a volta, di pietra grezza e intagliata grossolanamente, grevi e opprimenti pari alle tende. L’enorme pianura di granito che costituiva il pavimento era ammobiliata riccamente. Un tappeto immenso ricopriva l’area, e ovunque sparsi nella stanza secondo una logica sconosciuta, crescevano divani e tavolini di ottima fattura.

La curiosità vinse l’orrore che provavo da sempre per i piccoli insetti annidati tra gli anfratti, e mi diressi zoppicando verso una delle maestose custodi di drappo. Due cordoncini di lunghezza notevole giacevano ai piedi della finestra. Alzando la testa scoprii che erano stati recisi quasi alla base. Il taglio era netto, sicuramente provocato da un paio di forbici. Nessun uomo sano si sarebbe arrampicato fin lassù, a circa sei o sette metri d’altezza, solamente per amputarne le corde di apertura. Non mi preoccupò eccessivamente. Per quanto il tendaggio fosse pesante, avrei potuto scostarlo con facilità. Lo avrei fatto, se in quel preciso istante un fruscio non risvegliò il mio udito sopito.

La tenda sostava incorruttibile –si è mossa si è mossa oddio sièmossal’hovistasièmossacomepotrebbe-. l’idea che comunicava era dinfinita e pacata staticità, come se nessuno da secoli l’avesse sfiorata. Stranamente, non emanava un cattivo odore, il profumo che si sprigionava da essa proveniva da fuori. Un’aria leggera, guizzante, striata di note di umani umori. Tenendo il braccio, mi ritrovai ad osservare la mia mano.

Un bambino ne avrebbe potuto vantare le stesse dimensioni. Era paffuta, tozza, le unghie annegavano nel mare di carne che erano le mie dita.

E mi accorsi con orrore di un’altra cosa. Il mio dito mignolo era scomparso.

 

Scomparso non era forse una parola giusta. La parola scomparsa implica pulizia e silenzio, muta sparizione senza disordini. Il mio dito era tutt’altro che scomparso. Era stato scarnificato. Dal mozzicone rimarginato cresceva un frammento di osso perlaceo, che si spezzava brutalmente a metà. Mi accarezzai il viso. Fu come se la mano della nonna tornasse dal freddo Ade per portarmi via con sé.

La nonna. La nonna Ava. La nonna bianca. La nonna buona. La nonna ricca. La nonna che improvvisamente un giorno morì. La nonna che si permise di morire mentre in casa non c’era nessuno. Mentre in casa c’era la sua nipotina di sei anni. Sei anni. Sei primavere.

La nonna soffrì. La nonna soffrì molto. Il suo corpo scheletrico e ansante si contorse per quarantotto ore prima di spirare.

Sudore dappertutto.

-Flora, Flora, Flora, fiorellino di primavera, vieni dalla nonna.- sorriso di un teschio. Il letto era una pozza di sudore. I capelli della nonna si aprivano sul cuscino, metà biondi, metà bianchi, metà verdi, striati dal vomito. Una grottesca parodia di un pagliaccio.

Ogni centimetro della sua pelle era teso e guizzante, come se stesse per staccarsi e arrotolarsi su sé stessa come pergamena. I denti, bianchi e accecanti mi ammiccavano, famelici. In quel momento, ricordo che cominciai a recitare la favola di Cappuccetto Rosso.

-Che denti grandi che hai, nonna.- mormorai. Lei rise, folle e cadaverica, e la sua bocca si aprì ancora, come se non aspettasse altro che inghiottirmi come il lupo cattivo. Fu a quel punto che cominciò a scuoiarsi. Letteralmente. Sembrava che durante quegli anni avesse conservato tutta la forza per liberarla in quell’istante.

Si portò le unghie al volto. Le dita cominciarono a grattare, ciecamente e in modo forsennato, una talpa impazzita. Ben presto rivoli di sangue scivolarono sul cuscino e sul mio grembiule. Con i denti agguantò il dito indice.  Lo gustò per un attimo, tronfia come un vecchio rospo, e infine ne raspò via la poca carne aggrappata all’osso.

Me lo offrì, generosamente.

-Lecca lecca lecca per Flora che brava bambina gnam gnam gnam!!-

Lo morsi. Non sapevo che altro fare. Non lo sapevo. Non volevo, non potevo e non dovevo. Ma lo assaggiai. Alla nonna piacque. Me lo cacciò ancora più a fondo in gola, ululando di piacere. Vomitò ancora. 

L’anima abbandonò il suo corpo.

La salute mentale abbandonò il mio.

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Capitolo 2
*** Belle anime suicide ***


Suicide girl

Insicura sul mio precario stato di solitudine, decisi per il peggio, e osai attraversare l’arco di pietra che sostava impassibile sul fondo della sala.

L’oscurità mi avvolse quasi istantaneamente.

Rimasi assai sorpresa dall’odore che aleggiava nell’aria. Perché in realtà, nessun aroma riempiva l’atmosfera. Da un soffitto così alto e da mura così antiche si sarebbe dovuto sprigionare un odore di secoli, di vite passate, di bevute, risate, pianti e cibo.

Inspirai di nuovo. Aria. Non avrei potuto classificare quell’essenza diversamente.

Cominciai a singhiozzare convulsamente. Il mio petto da uccellino si alzava e si abbassava freneticamente, impazzito. Mi sentii piccola, insignificante, incapace di prendermi cura di me stessa. Una sottana. Una sottana a cui aggrapparmi. Braccia calde che mi elevano al proprio livello. Baci. Carezze.

Potei quasi percepire una mano velata posarsi materna sulle mie spalle. Non era così, ovviamente. Eppure, un respiro caldo stava effettivamente scaldando il mio collo.

Due piccole braccia si avvinghiarono ai miei fianchi, stringendomi disperatamente, come ultimo baluardo della propria salvezza. Sentii un rivolo umido di saliva bagnarmi dentro il colletto.

Mi pietrificai.

-Non lasciarmi, per favore. Non lasciarmi, non lasciarmi. Uccidimi se vuoi ma non lasciarmi. – mormorò una bocca piccola e carnosa contro il mio collo.

Lentamente, mi decisi a voltarmi e a fissare negli occhi quello che poteva rivelarsi il fautore del mio destino.

Ma a specchiarsi nei miei fu solo il riflesso spaurito di una bambina.

Non la si poteva certo definire graziosa. Gli occhi azzurri e sporgenti simili a quelli di una rana impazzita sotto il sole rendevano il suo volto pallido e spettrale.

Flosci capelli le scendevano fino alle caviglie, sporchi e arruffati. Il volto era chiazzato di rosso e marrone, e il labbro tremante era spaccato in due.

-No, no, no, no, no, no, no, no, no, adesso cosa vuoi farmi? Perché mi vuoi fare del male? – era ormai ridotta alla disperazione più totale, e si accasciò a terra mugolando e reggendosi la testa ciondolante.

-Io non ti voglio fare del male, guarda…- mostrai il mio volto alla luce, ma subito dopo mi accorsi di aver commesso un grande errore. Non conoscendo le fattezze dei miei tratti, sarei potuta essere il più orribile dei mostri, terrorizzando a morte la bambina.

Eppure, smise di contorcersi. E mi fissò, con quei terribili occhi.

-Bambine! Piccole! Venite, venite!- urlò a figure alle sue spalle che solo in quel momento si avvicinarono furtive. Quattro piccole testoline la aiutarono a rialzarsi, mute e guardinghe. Dopodiché, si disposero in un fila perfetta, e la bambina centrale fece cenno verso di me.

-Vieni, andiamo nella piccola stanza.- ordinò. Sì. Non chiese, non domandò. Semplicemente, imperativamente, mi ordinò di seguirla. E in mancanza di scuse, in mancanza di qualsiasi altro appoggio, la seguii.

 

La piccola stanza era in realtà ciò che rimaneva di una lavanderia, piena di mastelli in pietra e legno, con spazzole di varia grandezza appese alle pareti. Notai immediatamente che tutto lo sfarzo e la disincantata bellezza della sala precedente aveva ceduto il passo ad un ambiente modesto, servile, nel quale aleggiava povertà e sottomissione. Il brusco cambiamento di armonia mi turbò molto, seppure non visibilmente.

Intanto, le piccole cinque si erano adagiate ognuna dentro il proprio mastello, che fungeva da fortino individuale. Quella che mi aveva ordinato di seguirla si alzò dal suo, nell’inconfondibile imitazione di un capo di stato che si appresta a fare un discorso alle folle.

Notai che anch’essa non brillava per gradevolezza dei tratti: sul collo tozzo era appoggiata una testa squadrata, adorna di due occhi piccoli e lucenti incorniciati da capelli corti e castani. Mi indicò di nuovo.

-Chi sei?-

-Io…. Non credo di ricordare bene… mi sono svegliata qui e…-

-Chi sei? Parla. Chi ti manda? Cosa vuoi farci?- il tonò diventò severo e innaturale per un corpo così infantile e minuscolo.

-…Mi sono risvegliata su un altare di pietra e poi…-

Lei mi fissò. Lanciò una breve occhiata alle altre. Sospirò.

-…un altare di pietra.. Poi hai scoperto di essere una bambina. E poi, tristemente, di non ricordare più il tuo aspetto. – concluse.

-Si.- ammisi, stringendomi nelle mie spalle ristrette.

-Come ti chiami?- il suo tono si addolcì, materno.

-Flora.-

-e…- azzardò –quanti anni hai, Flora?-

-Ventisette. Ne ho diciannove. – chinai il capo quasi fino a terra.

Le bambine si lanciarono altre brevi occhiate. La bruna parlò di nuovo.

-Mi chiamo Caterina. Ho quarantasei anni. – affermò.

Sembravamo fantasiose bambine lì radunate, che giocavano ad infantili drammi di simulazione, infilandosi le collane delle madri e bevendo finto vino da brocche rubate alla cuoca. Eppure ciò suonava crudamente vero.

La piccolina terrificante che si era aggrappata a me si alzò dal suo mastello, e si presentò, ancora palpitante.

-Io mi chiamo Maria. Ho compiuto diciotto anni lo scorso Aprile.- si guardò intorno, spaurita, magari aspettandosi che le altre le dassero contro “no no no” “bugiarda”.

-Io sono Costanza. Sto per compiere trentadue anni. – affermò una vivace biondina tutta boccoli e fossette.

-Il mio nome è Vera, e ho cinquantanove anni- chiocciò una nanerottola dal viso paffuto e dall’ardito taglio alla paggetta.

-E io sono Carolina…

Notai con rinnovato interesse che quella che stavamo formando, sia dalla loro disposizione che dai loro modi, somigliava già vagamente ad una democrazia.

Era dunque questo l’istinto umano? Razionalizzare, disporre, ordinare per non impazzire? Delle bambine di età non superiore ai nove anni che formavano già un comitato gerarchico del potere?

-…. E ho trentasei anni. – la piccola lady –dai modi si capiva istantaneamente il suo rango, composta, educata e in qualche modo posata e tranquilla nel caos- si risedette con garbo e con le altre aspettò un mia reazione.

-Perché?- chiesi.

Caterina continuava a fissarmi. –oh, cara.- posso chiamarti cara, vero, sei molto più giovane di me stando a ciò che affermi- vedi, io non parto da presupposizioni azzardate, solitamente. Ma devi sapere che nella mia mente annebbiata spicca un altro audace ricordo, correggimi se non è anche il tuo. Vedi, piccola, io ERO MORTA.-

Le altre bambine annuirono. Di nuovo, un tuffo nell’imminente passato.

 

-Che buio, Flora. Che buio meraviglioso. – un sorriso di un angelo biondo, tutto per me.

-Sono così felice, Flora, sono così felice. Sono così felice che beh… si… muoio…- un altro angelo biondo, sempre per me. Mi stringe la mano. Mi dice che mi ama.

-Anche io ti amo Flora.- un’altra mano afferra la mia vuota.

-E io amo te, Nerea. E amo anche te, Numa.- un bacio. Un altro bacio. La ragazza mi abbraccia. Il ragazzo ci stringe entrambe.

-Amo anche te, Nerea. – il ragazzo la bacia. –Ti amo, Numa.- lei lo afferra per la vita.

Ci sfioriamo tutti e tre per l’ultima volta. La mia bocca si chiude prima su quella di Numa, poi su quella di Nerea. Siamo di nuovo per mano. Saremo sempre per mano. Non diciamo niente prima di saltare nel buio. Solo, le nostre teste si appoggiano. Chiudiamo gli occhi. Spicchiamo il volo.

 

-…. Nella vasca. L’acqua penetrava ovunque. Nei miei occhi, nelle mie orecchie, nel mio cervello…. Fino a che… non fui acqua anche io…. E poi, io non ricordo nulla, solo un grande vuoto…. – Caterina scuote la testa, amareggiata.

-Tutte noi abbiamo qualcosa in comune riguardo la nostra morte.- precisò Carolina. –Siamo tutte morte suicide. Io mi sono tagliata le vene nel labirinto d’erba.- non un’ombra attraversa i suoi occhi chiarificatori. –Morte suicida e violenta, per giunta.-

-Maria è morta impiccata. Costanza si è lasciata travolgere da un treno in corsa. Vera si è amputata la lingua ed è morta soffocata – continuò Caterina. Vera sospirò, timida e colpevole.

-è successo anche a te, Flora? Sei morta suicida?- chiese educatamente Costanza.

Per un po’ non riuscii a parlare. Ero così felice di volare verso la fine con le due persone che amavo. Ero così sicura di me per la prima volta in vita mia. Ero certa che di lì a poco mi sarei risvegliata al loro fianco, per sempre insieme e felici, così illusi e incantati dalla nostra risolutezza ciechi e inconsapevoli che il nostro piano non avrebbe avuto buon fine. Forse l’aveva avuto, forse Nerea e Numa giacevano assieme in eterno, ma io no. Perché? Perché nemmeno nella morte avevo ottenuto ciò che più volevo? La rabbia e la frustrazione mi assalì.

Piangevo ormai. Piangevo senza ritegno, mi contorcevo, strillavo, lacerata da un dolore più grande di me, cominciai a graffiarmi come la nonna, e forse mi sarei anche amputata tutte le dita se Costanza e Vera non mi avessero bruscamente afferrata e immobilizzata.

-VOGLIO MORIREEEE u…uccidimi uh.. uccidimi strappa la mia a..ah…animaaah da q..quiiii nn..noooon voglio vivere non provo niente, non sento più nulla o..ddiohhh AAAAAAAAAH ti p…preeg…oohhhh… s…sono m..mooorta…. è l’inferno q…questo?- mi chiesi –è L’INFERNO? DOVE SONO Numa e Nereahh perché io e basta!!?- mi dibattei con più furia che mai, ma erano due ed io ero troppo piccola e gracile. Cedei.

Maria mi porse un po’ d’acqua in una ciotola, e mi spruzzò il viso. Continuai a singhiozzare, muta. Espirai dopo un secolo. Loro erano rimaste in silenzio, complici nel dolore. Tutte noi avevamo creduto di trovare una risposta, una salvezza. Tutte noi avevamo trovato il caos, l’assurdo.

-Mi sono gettata da un ponte. Mi sono gettata da un ponte con le due persone di cui ero innamorata. Di cui sono innamorata.- mi corressi. –Credevo che avremmo trovato la pace e che ci saremmo appartenuti per sempre. Ma.. ma… non… non li vedo qui.. e comincio a credere.. che non li rivedrò mai più- crollai di nuovo in ginocchio, e Carolina mi abbracciò fortissimo, disperatamente.

-Lo so piccola. Lo so che fa tanto male. Lo so credimi, lo so, perché io non sono morta insieme alla mia metà. La mia anima è morta insieme ad essa, ma il mio corpo ha sopravvissuto per dodici anni. Mi sono detta, vivi, vivi per i tuoi figli, ma poi, le acque si sono portate via anche loro. – sempre lo stesso sguardo posato, ma stavolta fisso, vitreo, folle nella sua calma. –e la mia sorellina è annegata nel tentativo di salvarli, salvarli per me.-

Caterina, provata, si gettò su noi due. Così fece anche Maria, Costanza e Vera. Ci unimmo in un unico abbraccio sussultante. Un unico piccolo corpo come il nostro non avrebbe sopportato da solo tutto quella sofferenza.  

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Capitolo 3
*** L'acqua, il Nulla, Greensleeves ***


Acqua

Mi lasciarono andare. Avevo caldo. Molto caldo. Ero calda e palpitante. La mia gola era in fiamme. Più che in fiamme. Il mio stomaco si contorceva incessantemente.

Mi alzai e mi diressi di corsa verso il vecchio lavatoio. Vomitai l’anima, a scatti violenti e laceranti. Una di loro corse verso di me e mi sollevò con forza i capelli. Continuai a gettare conati bollenti nel lavello per qualche minuto, finché nuove lacrime salirono ai miei occhi ed il naso cominciò a gocciolare copiosamente.

Uno strozzato gemito mi avvertì della fine. Rimasi a testa in giù ancora per un attimo, fissando ciò che fino ad ora aveva vagato nelle mie piccole interiora.

Acqua.

Acqua.

C’era l’acqua.

La corrente ci separa, ultimo ostacolo da superare, ultima prova da affrontare per ricevere il premio finale. Non sento urla. Siamo tranquilli. Sono tranquilla. L’acqua era deliziosamente gelida.

Mi trascinò per un po’, poi cacciai la testa sotto. Tutto di me era acqua. Io ero acqua. Io ero corrente. Io ero risacca, ero onda. Fino a quando persi il respiro, la determinazione non mi abbandonò. Ma poi, eccolo, inevitabile. L’istinto di sopravvivenza fatica ad abbandonarci.

-Voglio vivere.-

-No, non lo vuoi, non puoi più.-

-io voglio vivere. Voglio respirare. Voglio amare. L’aldilà non esiste. Vivere ora.-

-No, zitta, la vita è tormento e dannazione. Là, è meglio di qua. –

-Ma io…-

Cercare di raggiungere la luce, la luce, la luce, la luce buona, la luce vitale, non gli abissi oscuri… il tempo è scaduto, la carezza vitale mi abbandona… ho davvero amato e vissuto… ed ho scelto il dubbio…. Ho scelto… il mio castigo….

 

Acqua. Acqua. Avevo vomitato la morte. Se davvero avevo sconfitto la morte, cosa ero? Stavo vivendo una pallida imitazione della vita, o davvero ero scesa nell’ade, buttando la posta in gioco? Acqua. Acqua.

-Va meglio?- mi chiese la piccola.

-Mmm.. mm..-  passai la manica logora sulla bocca.

-è normale, dopo tutto questo… ci sentiamo tutte un po’…-

-Un po’, Cat? Un po’? Io vorrei uccidermi di nuovo, qui, ADESSO, vorrei essere in pace, vorrei il nero ed il buio, ma, che cazzo, non posso riposare!!! Perché DIO MI VUOLE QUI?- ululò la biondina.

-Dio non esiste, idiota- sussurrò Carolina. –Dio non esiste. Noi siamo sole. Noi siamo sole. Nessuno ci aiuterà mai. Questa è la morte. Questo è l’inferno. Tutto ciò è fine. Siamo scese qua per vivere un’eternità di dolore, dietro ogni porta c’è dolore, c’è l’infinità di sofferenza. Dio è solo qui- le afferrò la testolina-tu odi il tuo dio per non averti presa con sé. Tu odi te stessa per non avere trovato la forza di continuare. Ma, vedi, mia piccola amica, il tuo dio non esiste. Il tuo dio è sempre stato solo una figura obbediente alle tue risorse, ed ora che ha mancato la sua ultima promessa, il tuo odio ti sta trascinando qui. Con noi. Sei morta, amore mio, ti sei uccisa, e questo è ciò che hai trovato sotto la botola in cantina. -  scaraventò il corpicino a terra, dura e bellissima. Carol era morta dentro prima di esserlo fuori.

Maria riprese a piagnucolare, devastata e vuota.

-Sei perfida. Sei peggiore di quanto immaginassi. – la accusò Vera, in un tono di rimprovero da vecchia signora.

-Oh, davvero? E cosa pensi di fare, lurida vecchia, uccidermi forse? IO SONO MORTA! Tu sei morta! Perciò riponi quello sguardo con me, anima in pena, perché questo è soltanto l’assaggio di ciò che stiamo per patire!- ghignò Carol, deliziosamente folle.

-Cosa te lo fa pensare? – chiese Costanza, che finora era rimasta muta ad osservare.

-Come?-

-Cosa ti fa pensare che stiamo per soffrire?- ripetè timidamente.

Carol sorrise di nuovo, sicura e ferma.

-Bambolina, bella bambolina, non dirmi che non hai sentito chi sussurra dietro le tende quando hai aperto quei bei occhietti azzurri e hai scoperto che, oh oh, non eri tra le nuvole con ali e aureola a suonare la tua arpa, ma eri finita in un blutto, blutto sogno cattivo!!!-

Tutte noi ci guardammo. Vidi il panico serpeggiare di volto in volto, i piccoli occhi spalancarsi per l’orrore, e un comune senso di rinnovata paura.

-Volete dire che…-

-Sentite anche voi…-

-Quello che…-

-Le finestre! Le finestre! Non sono riuscita ad avvicinarmi…-

Ci voltammo tutte quasi istantaneamente verso la grande tenda. Corremmo con tutta la forza che le gambe ci permettevano, ed io mi aggrappai alla tenda, provando di nuovo un disagio fisico, uno sgradevole rimestio nelle interiora, finché non sgusciai aldilà di essa, annegando nuovamente nel mare di panno. E vidi.

-Cosa vedi, Flora?-

-Dove siamo? In collina, su una roccia… dove ci troviamo?-

-Flora?-

-Cosa vedi?-

E vidi. Vidi. Non credevo. Tutti i miei insegnamenti si rifiutavano di credervi. Ma fu così che accettai ciò che vi era aldilà della finestra. Ho sempre rinnegato gli insegnamenti che ho ricevuto.

Deglutii.

-Nulla.-

 

 

 

 

 

 

 

 

Di nuovo polvere. Polvere bianca. Ma niente nuvole. Niente ali e niente arpe, niente tonache svolazzanti. Eravamo sedute sul davanzale, a fissare il nostro presente.

Un vuoto.

Nessuna ebbe il coraggio di dire nulla. Non c’era bisogno di parole. Tutto quello che c’era da dire aleggiava nell’atmosfera di eternità davanti a noi. Era bella. Tiepida, accogliente. Era il coma. Era il punto di non ritorno. Era il tunnel. Non era buio.

Il tunnel era bianco.

Soprattutto. Non c’era alcuna luce. La luce sembrava non esistere. Forse non esisteva davvero. Il castello costituiva una bolla a parte. In viaggio. In arrivo. O in partenza. Oppure, per sempre ferme. Per sempre timide boe galleggianti nel mare dell’oblio.

Tenendoci tutte per mano, cominciammo a cantare.

La nota aria salì alle nostre gole prima che avessimo il tempo di realizzare ciò che stavamo motivando. La canzone si chiamava Greensleeves.

Alas my love you do me wrong
To cast me off discourteously;
And I have loved you oh so long
Delighting in your company.
Greensleeves was my delight,
Greensleeves my heart of gold
Greensleeves was my heart of joy
And who but my lady Greensleeves.

Greensleeves, Greensleeves significava La Vita.

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Capitolo 4
*** Dubbio. Le bambole si separano. ***


Le strade si separano

B-R-U-T-T-O. Una parola di sei lettere che impariamo non appena siamo in grado di articolare suoni comprensibili. Qualcosa che ci sgrida, è brutto. Qualcosa che ci fa male, è brutto. Brutto non fa distinzioni con cose o persone. Se qualcosa è brutto, è brutto.

 

In cuor mio sento di dover ammettere che tutto ciò era brutto. Eravamo brutte noi, deboli e folli imprigionate nell’incubo della via di mezzo, era brutto il castello, immenso e sarcastico nella sua infinità, era brutto. Era brutto il modo in cui Maria guardava se stessa. Come se volesse strapparsi la pelle di dosso e gettarsi con essa nel vuoto.

-Soffriremo di nuovo.- affermò. –Ho sofferto tanto, prima di finire qui. Prima che il mio collo si spezzasse, ho avuto il tempo di vedermi morire. Sono uscita dal mio corpo ingrato, mi sono seduta sul caminetto, e mi sono osservata strabuzzare gli occhi e diventare viola. L’ultimo contatto col mondo fu quella lingua rasposa. Quel ritmico solletico ai piedi. Avevo murato con me Amber, il mio beagle. È impossibile leggere gli occhi di un cane, lo so. Sono neri e imperscrutabili, come tutti quegli degli altri animali. Ma Amber,  nel rivolgermi quelle timide leccate, mi stava offrendo l’occasione di ripensarci. Era una carezza. Tutto quello che mi avrebbe potuto salvare dalla morte era una carezza. – riprese a singhiozzare, ma con posata tristezza. –e stavo morendo, lo sapevo perfettamente che era troppo tardi, e cercavo di ritrovare la sicurezza di prima, la fiducia nella morte. Lo Lo aveva risvegliato in me il beneficio della scelta. Da una parte, la corda, morte,  ruvida come la sua lingua, dubbio. E io ho dubitato. Quando dicono che la vita è l’unica cosa in grado di ridarci speranza, sbagliano. Il dubbio è ciò che ci fa sentire vivi. Ci fa sentire noi. La facoltà di scegliere, di meditare a lungo, se vuoi in eterno, mette in discussione la nostra intera personalità. Ed io… non ho dubitato. Oh, dio, non ho dubitato affatto.-

Le sue ultime parole si spensero prima di afferrarne il significato. Scese sgraziata dal davanzale come un uccellino dall’ala rotta, e si trascinò verso l’uscita.

-Maria! Dove vai? Sarebbe meglio non ci dividessimo… -

Lei si voltò un’ultima volta. Non ci fu bisogno di parole. Ci abbracciò tutte con lo sguardo, e si diresse verso dove l’avevo vista la prima volta. Nel buio.

 

 

 

Dubbio. Vita. Morte. Dubbio. Dubbio.

Era questo il luogo nel quale ci trovavamo? Nel quale avremmo indugiato per sempre?

 

 

-Credo di voler andare anche io. – sentenziò Vera.

-Si, anche io. Tornerò nella sala dell’altare.-

-Si-

-Mmm.-

-E tu, Flora?-

Io? Io non credevo nemmeno di avere la facoltà di camminare e muovermi, marionetta in quella pallida pantomima. Ciononostante, annui, e mi immersi di nuovo nel buio.

 

Fu strano come le loro voci sparirono di colpo.  Evidentemente, ogni stanza era un mondo a sé. Probabilmente, le avrei riviste. O no. Sarebbero vagate come brutte bamboline di porcellana di qua e di là, ciondolando i loro testoni e battendo le loro scarpette di vernice e facendo sciocche domande.  Poi la bambina che le manovra si sarebbe stufata, avrebbe preso le loro estremità cicciotte, e le avrebbe battute una contro l’altra. Finché la porcellana non si sarebbe sgretolata, e i vitrei occhioni sarebbero scivolati giù giù giù come pesci morti, i bei grembiulini sporchi di terra, i riccioli impiastrati di piccoli insetti… il lato dolce ed indolore della morte…. La vita eterna dei corpi… la porta socchiusa che lentamente lascia sbirciare attraverso…

Un passo dietro l’altro. Op, op. Una coscina di pollo dopo l’altra.

Il corridoio sembrò cessare. Ebbi l’impressione di passare al di sotto di qualcosa di enorme, seguita da un opprimente senso di agorafobia.  Fu come se l’immenso si aprisse e allo stesso tempo si ripiegasse su sé stesso per mostrarsi in tutto il suo orrore. Le pietre sotto i miei piedi furono sostituite da duri tralci erbosi. E, bizzarro, percepii l’effluvio che si sprigionava da questo brusco cambiamento.

 

Odore di acqua. Odore di fiume.

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Capitolo 5
*** "Cosa sta facendo?" "Lavo i panni." ***


Fanciulla mia...

Sulle prime, non vidi solo un ritmico movimento. Poi, un masso. Anzi, no. Una gonna. Una gonna nera. Una gonna nera aperta sull’erba umida. Un busto crebbe sulla gonna. Delle spalle. Una testa.

E tutt’intorno si aprì un fiume. Il fiume. soltanto respirandone l’odore l’avevo riconosciuto. Il fiume, la mia tomba. I pesci, i miei arcangeli. L’erba, i miei dolci fiori.

Le colline circondavano brulle e silenziose la scena. La donna stava lavando i panni. Immergeva immensi lenzuoli grigiastri, li sbatteva sulla pietra, li strizzava e li lasciava fluire nelle correnti acquatiche. Sparsi, tra i lenzuoli, neonati dall’aspetto corrucciato. Una bambina di due o tre anni, con un lungo vestitino a pizzi bianco, vegliava la scena seduta su una pila di lenzuola. Altri neonati, nudi, emergevano qua e là. La donna pareva non curarsene minimamente. Continuava a lavare imperterrita.

-Cosa sta facendo?- domandai stupidamente.

Quella si girò, rivelando il suo volto. Aveva una bocca piccola e serrata, un naso insignificante e capelli trattenuti da una retina. Non aveva occhi.

-Lavo.- la voce era atona, indifferente.

Se avesse avuto pupille, il suo sguardo sarebbe stato vacuo e neutrale. Il gelo mi avvolse sempre di più.

Lei si girò, e continuò a sbattere i panni.

Ad un certo punto, appena fluita l’ultima coperta nella corrente, afferrò un bambino. Lo tirò su e lo immerse nell’acqua, percuotendolo sulle rocce.

-Ferma! Ferma, oh dio cosa sta facendo?- corsi verso di lei, scioccata e incredula, nel tentativo di salvare il neonato. Lei si girò nuovamente, e con un gesto brusco dell’altra mano mi spedì riversa a terra.

Riprese a lavare il bambino, sempre inerte e silenzioso, che emetteva a intervalli piccoli colpi di tosse. Infine, lo gettò nel fiume, come aveva fatto per le lenzuola.

-Li ucciderai! Morirà! I tuoi bambini moriranno affogati!- gridai.

Stavolta non si diede nemmeno il disturbo di voltarsi. Intonò, con voce monotona:

-Farò come ho sempre fatto. Sono nel giusto. Avrò la mia ricompensa.-

Non parlai nuovamente né tentai di salvare gli altri bambini che immerse esattamente come il primo. Uno dopo l’altro, vennero portati via dalla corrente. A compito svolto, la donna si alzò e mi rivolse un cenno.

-Adesso ho finito. Vado a ricevere la mia ricompensa. Ho agito nel giusto. –

Detto ciò, cadde nel fiume, e la sua gonna restò a galleggiare come un enorme fungo nero e malefico, per poi sprofondare senza seguire il tragitto preso dai neonati.

In principio, non seppi cosa pensare. La macabra e bizzarra scena mi aveva lasciata sbigottita. Non osai neppure rialzarmi, per qualche tempo. Restai lì, lasciando che la corrente umida mi scompigliasse i capelli. Fissavo il fiume, inutilmente. Cominciai quasi a scorgere la mia figura gettarsi e ricordarmi del mio volto, quando un’idea si fece strada in me.

Arrivata alla riva, sporsi la testa sull’acqua corrente, sperando di scorgere anche solo un barlume del mio volto. Ma, nulla, se non un tremolio di un’oscura figura. Una lunga ciocca di capelli mi cadde sugli occhi. Era… era ispida. Di una consistenza spessa ma tagliente. Quasi, un tralcio di vite. Forse, era davvero un tralcio. O erba. O edera. O un rampicante. I miei capelli avevano assunto una consistenza arborea.

In quel quadro surreale e curioso, di nuovo tornavo ad essere semplicemente una figura di sfondo, un misero e abbandonato pedone.

Mano a mano che mi incamminavo sopra il ponte, il mio corpo si fondeva con il paesaggio. Diventai un alito di vento, un gorgoglio sommesso, erba e cielo. Perfettamente inserita come un tassello di un mosaico.

La strada di terra portava ad un grande spiazzo, piuttosto vasto, snodandosi in bivi uguali in modo inquietante. Sospirai, incapace di prendere una valida scelta, e aleggiai lì intorno borbottando fra me e me.

Poche cose mi erano ancora chiare sugli eventi.

Ricordavo un numero determinato di cose. Ricordavo volti di altre persone, senza necessariamente collocarli al posto giusto. Ricordavo eventi della mia infanzia, la nonna, il salto nel buio con le due persone più importanti della mia vita.

Ero morta. Questo lo sapevo di certo, lo sapevo fin dal momento in cui mi sono alzata nella stanza con l’altare. ero morta, senza riserve, ero morta, la mia vita era stata spezzata nell’istante in cui la luce è scomparsa, la luce normale, il lume della vita e della ragione.

C’erano altre persone, come me, o forse no, forse erano come la lavandaia, folli figure della mia mente, creta del mio pensiero.

Tutto ciò… era il paradiso….l’inferno… il purgatorio… o qualcosa che semplicemente andava al di là di tutto questo? Qualcosa che forse dipendeva solamente da me...

Ed io? Io potevo essere considerata tale, in quanto priva di un’identità, bambina ed albero, umana e natura? Potevo forse ricostruire il mio passato essere? E se anche fosse accaduto, sarei stata libera di cadere fra le braccia dei miei angeli o di scivolare nelle pacifiche oscurità?

Eternità, mia dolce. Eternità, fanciullina mia.

Quella voce ruppe il silenzio.

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