Il secondo principio della termodinamica

di Nika L Majere
(/viewuser.php?uid=7779)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno - in cui si espone il secondo principio ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due – in cui Sherlock comprende quale sia il suo problema ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre – in cui si comprende come gli specchi abbiano sempre ragione ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro – in cui le porte vengono aperte ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque - in cui si cerca il vero nome delle cose ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno - in cui si espone il secondo principio ***


Capitolo Uno - in cui si espone il secondo principio
 
 
Errore umano.
Lo ripete così spesso da averlo reso un mantra sacro alle proprie orecchie. È la scusa preferita che porta a sostegno dell'altrui stupidità. Si vanta di esserne immune. O almeno questo è ciò che spera. Perché se questo errore dovesse abbattersi su di lui, non sarebbe in grado di attutirne il colpo. Quindi è meglio camminare a testa alta e lasciare il cuore a rotolarsi nel fango. Tuttavia non sempre è un bene confidare di essere superiori alla norma: la caduta fa male e lui lo sa bene.
Eppure si ripete, affidandosi troppo alla sua superbia.
Come dicevamo: errare è umano.
 
***
Sherlock è un fascio di muscoli e nervi tesi e incontrollati e neuroni sempre in movimento. Per quanto preferirebbe darla vinta alla mente, deve sempre e comunque fare i conti anche con quello che ci sta attorno: il fisico, il corpo, la materia. Inutile materia che deve mangiare, dormire e defecare senza che l'intelletto gli abbia dato il permesso. Per questo suona il violino. Lo aiuta a pensare. La risonanza del legno è famigliare e rassicurante. Lo costringe in una singola forma statica che lo fa vibrare insieme alle corde e lascia che il suono gli rimbombi nella cassa toracica. Si può dire che quella inutile materia sia in verità lo strumento che viene suonato. Così che il corpo è soddisfatto e la mente è libera di saltare tra connessioni e stanze. Ma soprattutto gli tiene impegnate le mani, che solo Dio sa cosa finirebbero a fare senza il controllo di qualcosa.
La musica è febbrile e graffiante. Urla e stride. Come lui. Una fiera in gabbia. Armonici artificiali Tormento Staccati Impotenza Corde vuote. Autodistruzione. Quanto vorrebbe una sigaretta.
Guarda fuori dalla finestra la neve che si posa senza indignazione sui tetti di una Londra schiantata dalla paura.
Moriarty è tornato.
Al lupo! Al lupo!
Che si dia inizio allo spettacolo.
In fondo gli deve un favore: se non è in galera o deceduto da qualche parte in Polonia il merito è suo. Perché loro due devono sempre avere un debito che li tenga legati. È il loro patto inespresso e vincolante fino alla morte. Una morte che a tutti e due, a quanto pare, piace ingannare. Dal momento che uno ha mancato di onorare l'accordo, l'altro si è sentito in dovere d'intervenire. E ora l'Inghilterra intera trema.
Com'è semplice creare scompiglio. Increspature sull'acqua. Basta qualcuno che getti un sassolino in un lago e finanche le rive più lontane avvertiranno il turbamento. Sherlock è una barca di carta che non può far altro che farsi trascinare. E si ritrova a pensare a quanto tutto ciò sia incredibilmente elegante.
Un vibrato profondo lo scuote. Chiude gli occhi e per una battuta asseconda l'estasi del momento. L'archetto scivola, accarezza le corde, non le rispetta. La cassa armonica diventa parte di lui fino allo spasmo. Rischiano di spezzarsi entrambi.
Poi tutto tace.
Il silenzio invade l'appartamento con violenza.
Esausto lascia cadere il violino sulla poltrona, prima di scivolare a sua volta verso la cucina. O almeno da qualche parte dovrebbe esserci una cucina, nascosta sotto becher colmi di liquidi sgargianti, cilindri graduati e pile di fogli fitti di appunti. Lo sguardo passa in rassegna tutto ciò che vede e con rammarico il cervello classifica più o meno ogni cosa dal "non commestibile" al "altamente tossico". Ha fame. Ha sempre fame dopo la musica (probabilmente avrebbe fame anche dopo il sesso. Se solo ne avesse mai fatto in vita sua) e in quella maledettissima cucina ci sono solo strumenti da piccolo alchimista. Magari troverà la tintura rossa ma si terrà i crampi allo stomaco. Troppo tardi per svegliare la signora Hudson. Troppo presto per chiamare John. Sarebbe stata la volta buona che Mary lo ammazzava per davvero.
In una delle credenze trova dei vecchi cracker stantii e se li fa bastare. Il frigorifero non si azzarda nemmeno ad aprirlo: per quanto a lui piacciano i cadaveri, c'è un limite che non va oltrepassato. Soprattutto se sono le tre di notte e hai lo stomaco vuoto da questa mattina.
Si lascia andare sul divano e prende a sbocconcellare il suo pasto con noncuranza, guardando un punto indefinito sul pavimento. Non potrà concedersi di rimanere inattivo ancora a lungo. In fondo è per questo che è stato risparmiato a quel misero destino. Ma d'altro canto, per quanto possa essere bravo, non può ancora operare miracoli: è ben difficile cercare indizi se non puoi indagare sul posto. Anzi, se non puoi nemmeno pensare di vedere la scena del crimine! Tutto ciò è oltremodo ridicolo e infantile. Il lupo è tornato apposta per lui e lui non può andare a tirargli la coda. E poi c'è il gioco, che è iniziato e lui non può giocare. Gli tocca guardare la partita da fuori e questo non gli va affatto bene. Si annoia a morte. Sherlock annoiato è un'arma di distruzione di massa che non andrebbe mai innescata, perché nessuno sa cosa sarebbe in grado di fare pur di mettere le mani sui puzzle che sicuramente la sua nemesi ha disseminato in giro apposta per lui. È così frustrante da portarlo al delirio. Vorrebbe conficcarsi le unghie nelle braccia e graffiare con forza pur di far cessare la fame che avvinghia la sua mente, mille volte peggiore dell'astinenza delle viscere. Ma non può. Per quanto vorrebbe, non può permettersi il lusso di andare al di là del bordo del marciapiede. Anche se ha fame e appena all'angolo successivo fanno un ottimo fish and chips.
Appunto mentale: mettere in conto a Moriarty un paio di cene.
Perché l'artefice della sua salvezza è anche il suo inconsapevole carceriere. Una prigionia che gli è stata costruita addosso e di cui i più ridono sapendo di ferire il suo orgoglio già abbastanza martoriato. Sovrano imprigionato nel suo stesso regno, dal momento che due giorni prima suo fratello si è presentato con due semplici, agghiaccianti parole:

"Arresti domiciliari"
"Come prego?"
Mycroft era una statua di cera. Nella penombra dell'appartamento sembrava uno di quei pupazzi da casa degli orrori messo a caso nel punto meno opportuno. Non faceva paura e al massimo poteva creare fastidio. Che era esattamente ciò che provava Sherlock in quel momento.
"Fratellino, hai piantato un proiettile nella testa di un uomo. Cosa ti aspettavi? Un cesto di fiori e una bottiglia di vino?"
"Sarebbe perfetto, grazie. Toscano, se possibile"
"Sherlock, non mi pare il caso" John si mosse a disagio sulla poltrona.
"Arresti domiciliari? Io?" il detective prese a misurare la stanza con falcate incalzanti "tanto varrebbe farmi rinchiudere, allora"
"Non tentarmi" il sorriso di Mycroft era fin troppo divertito. Tuttavia persino lui si rendeva conto quanto dovesse apparire opprimente la condizione che veniva imposta a suo fratello. Ed era solo l'inizio.
"Quindi?" Sherlock piantò gli occhi in quelli del maggiore degli Holmes "Mi metterete addosso uno stupido dispositivo con lucette verdi intermittenti?"
"Per lasciarti il piacere di manometterlo? Suvvia, non essere ridicolo! Sai che preferisco metodi più sofisticati: sarai posto sotto stretta sorveglianza. Ci saranno uomini fidati a controllare ogni tuo movimento. Se ti metterai le dita nel naso io lo saprò. È chiaro?"
Il minore cercò il modo più appropriato per ribattere, ma l'unica parola abbastanza fastidiosa che riuscì a trovare fu: "Feticista"
Mycroft arricciò il naso come se fosse stato punto da un cattivo odore.
"Non è tutto: non uscirai da qui senza il mio consenso scritto e ti potrai dirigere solo ed esclusivamente dove sarai necessario."
"E come pensi sarei in grado di portare avanti una qualsivoglia indagine?" Sherlock sapeva esattamente come, ma l'idea lo ripugnava a dir poco.
"Tutto ciò che ti servirà ti verrà fornito dalle sole persone che avranno il privilegio, o la sfortuna, di accedere a questo appartamento. Quindi no, i tuoi senzatetto non possono venire qui. Dovrai fidarti dei nostri occhi."
"Cominciamo bene, dato che escludi a priori gli altri quattro sensi" il disprezzo era palpabile nella sua voce.
"Mycroft, sai che questo è ridicolo vero?" Entrambi i fratelli si voltarono stupiti verso il dottore, che prese a balbettare preda all'imbarazzo "Cioè... È evidente che tu voglia proteggerlo, ma così mi sembra esagerato" John era conscio di aver fatto il passo di molto più lungo della gamba.
Mycroft storse nuovamente il naso.
Sherlock sorrise, incurante di ciò che pensava suo fratello.


Sherlock continua a sorridere, mentre il ricordo riaffiora alla mente. La semplice genuinità del dottor Watson è da sempre la sua personale ancora alla realtà. Lo costringe a stare con i piedi in questo mondo mentre il cervello se ne va chissà dove. E per quanto detesti dare ragione all'altro Holmes, Mycroft non sbaglia: l'entità "John" ha cambiato l'entità "Sherlock" in modi che il primo non può neanche immaginare. Si è ritagliato a forza una porta in quel castello di cartone che il detective usa per mascherare il vero se stesso, vuoto e fragile come solo la certezza che sia inespugnabile può essere. Lo ha fatto mettere in discussione. Anzi, lo ha costretto a rivalutare ogni singolo minuto della sua esistenza. Non riesce ancora a capire se tutto questo sia accettabile o meno.
Sherlock detesta da sempre i sentimenti perché aprono fessure e lasciano entrare spifferi. E gli spifferi, a lungo andare, possono far vacillare l'intera struttura e farla crollare. Una fortezza piena di buchi non serve a granché. Per questo è bene evitare con cura le emozioni e tutto ciò che vi gravita intorno. Meglio affrontare le cosa da un punto di vista freddo e distaccato. Non è per sentimento che si cambia, ma per il secondo principio della termodinamica.
Esso cita: «Questo principio tiene conto del carattere di irreversibilità di molti eventi termodinamici, quali ad esempio il passaggio di calore da un corpo caldo ad un corpo freddo.»
È quindi innegabile che John, volente o nolente, nel momento in cui è entrato in collisione con Sherlock, ha cominciato a trasmettergli calore. Un calore che Sherlock, volente o nolente, ha dovuto accettare. Quindi il cambiamento. Quindi la reazione. L'argine della sua razionalità ha dovuto cedere sotto i colpi di una indefinita gamma di sfumature. Decisamente troppe da catalogare. Nessun archivio potrebbe permettersi un tale spreco di spazio. Per cui lui le lascia lì, fluttuanti nell'aria, compiendo lo struggente sforzo di ignorarle. Troppe variabili portano a confusione: semplificare, semplificare, semplificare. Trovare la giusta equazione.
John:Sherlock = ???
Porsi sempre la domanda sbagliata. Eppure, una domanda apre sempre una porta, per quanto difficile possa essere la risposta.
Il problema, invero, non è tanto quale porta abbia aperto John: il dilemma nascosto sta in una singola parola: irreversibilità. Non si torna indietro, questa è la regola. Sherlock è consapevole di essersi smascherato, permettendo agli altri di sbirciare nella fortezza. Cosa questo potrà comportare, solo il tempo ha il diritto di saperlo.
Il cellulare vibra, gettando luce sulla parete. Sherlock lo afferra e legge un numero che conosce bene. Un messaggio:

Dormi? Molly

Uno sguardo rapido alla finestra: dal buio profondo intuisce che sono le 3.45, forse già le 4.00. Per lui è un orario più che normale, per la patologa no: alle 8.00 dovrà essere al Bart's ad aprire cadaveri, a frugare tra le loro viscere e a scoprire il motivo che li ha resi vuoti corpi morti. Un lavoro che senza le adeguate ore di sonno può portare sull'orlo della pazzia.
Esita un attimo, quel tanto che basta a visionare tutte le possibili conseguenze se rispondesse ora al messaggio. Restringe la cerchia alle sole due veramente probabili: una preferibile; l'altra non nega che gli farebbe piacere, per quanto non sia di utilità a nessuno dei due. Però in fondo ci spera. Sherlock è incapace di mentire a se stesso. Le dita corrono veloci:

Sì. SH

Getta il telefono sul divano e si passa le mani sugli occhi in un gesto stanco.
Molly Hooper.
Sempre presente ai lati del suo campo visivo. Sempre invadente con i suoi vestiti assurdi e il suo profumo troppo dolce. La donna grazie alla quale lui può ancora permettersi notti insonni.
È colpa dell'equazione se il detective ha cominciato a vedere la patologa sotto altre sfaccettature. Tutta colpa del secondo principio della termodinamica. In definitiva, è colpa di John. Per come la vede lui, spesso e volentieri è colpa di John.
Il cellulare vibra di nuovo.

Vuoi parlare?

E di cosa? Del pazzo criminale zombie che potrebbe braccarli da un momento all'altro? Del fatto che, lei non lo sa, ma una squadra degli uomini di Mycroft la segue e la spia ovunque (non vuole pensare fino a che punto)?
Per proteggerla, dice Mycroft.
Non violarla, vorrebbe ribattere Sherlock.
E invece sta zitto, che il silenzio fa meno paura.
Si ritrova a stringere convulsamente il telefono. Non è da lui farsi problemi. Non è da lui lasciarsi scivolare così nei sentimentalismi. Ma la verità è che la diga ha già cominciato a scricchiolare tanto tempo fa. Si dice che una maschera diventi sempre più pesante ogni giorno che passa. Quanto forte bisogna essere per portare quella che Sherlock si è scelto?

Parlare non serve. SH

La verità è che se non ci fosse stata Molly Hooper lui sarebbe solo un mucchietto di nulla spiaccicato su un marciapiede. E se al Bart's ci fosse stata un'altra? Se non avesse mai incontrato quello scricciolo di donna?
- cosa diciamo noi delle coincidenze? Raramente l'universo è così pigro -

Allora fai finta che sia lì ad abbracciarti.

Eccola, la risposta infantile. Come se un abbraccio servisse veramente a qualcosa. Come se fosse, tra l'altro, gradito. Come se non fosse lei quella più terrorizzata tra loro due. È sempre Molly che tenta di proteggerlo, quando invece dovrebbe farlo lui, quanto meno per cavalleria. Ma la sola idea di non riuscirci - di rivivere quel terrificante momento di vertigine che provò scoprendo il corpo di una finta Irene Adler - lo fa bruciare di un gelo interiore che dallo stomaco si espande a ogni fibra del suo corpo. Più di vedere l'Inghilterra in ginocchio, più di pensarsi morto davvero, più di qualsiasi altra aberrazione. L'idea di non sentire più le stupidaggini di Molly Hooper lo fa accartocciare come carta gettata nel fuoco.
Si rialza. Porta il cellulare con sé. Riprende il violino. Menù -> strumenti -> registratore.
Suona come se l'alba non dovesse arrivare.

***

Molly si rigira nelle coperte troppo strette, in ansia.
Forse non doveva inviare quell'ultimo messaggio. Forse è stata un po' troppo audace. Ma lei cosa ci può fare se il cuore le trema al pensiero che lui sia da solo?
Quando John le raccontò ciò che era successo, di come Sherlock con un gesto tutt'altro che calcolato abbia puntato la pistola alla testa di Charles Augustus Magnussen e abbia premuto il grilletto, lei ebbe solo due pensieri. In primis: merda! Sì, perché a volte Molly è una scaricatrice di porto, anche se lo nasconde molto bene.
Il secondo fu di orgoglio: Sherlock si era dimostrato essere un uomo pronto a buttare tutto alle ortiche pur di proteggere quanto ha di più caro. Non le era mai passato per l'anticamera del cervello il pensiero che forse avrebbe dovuto essere disgustata da un assassino. Sherlock non lo è. Non va in giro a uccidere gente a random. Non è come...
Si blocca. Ogni muscolo in tensione. Anche solo il suo nome le fa paura.
Si stringe ancora di più nelle coperte, avvolta dal freddo che irradia il suo stesso corpo. La camera si dilata. Le ombre crescono. Si sente come una sperduta Gretel in cerca della propria casa nella fitta oscurità di un bosco senza confini. Non ci sono fatine, non ci sono dolciumi, non c'è lieto fine. Si ritrova a tremare così violentemente da aver paura di rompersi. E se le ossa si scardinano diventerà davvero una marionetta. E lui la farà ballare. La farà danzare sulle sue arie di dolore e di morte.
Ciò che più la spaventa è diventare lei stessa una lama puntata alla gola di Sherlock. Lei che vorrebbe solo far parte del suo mondo come ci è riuscito solo John. Che ruberebbe altri venti cadaveri se fosse necessario. Che diventerebbe lei stessa uno di essi se non ci fosse altra alternativa. Tutto. Tutto, pur di non deluderlo. Pur di non fargli provare altro dolore.
- Se dovessi morire, mi guarderesti come hai guardato lei? Fumeresti una sigaretta come se fosse la tua preghiera sussurrata a mezza voce? Se dovessi morire, comporresti musica struggente anche per me? -
Il cellulare suona. La suoneria dei messaggi troppo alta la fa sobbalzare. Afferra il telefono con mani tremanti.

NUOVO MESSAGGIO VOCALE

Lo osserva un attimo, interdetta. Poi apre il messaggio e preme il tasto play.
La musica invade la stanza. Le ombre si ritraggono. Per un secondo sembra che le pareti siano investite dalla luce del sole.
Sono le 4.45 del mattino e Molly bagna di lacrime il display, mentre ascolta la sua anima scomposta e ricomposta sulle corde di un violino.

***

Sherlock osserva la neve posarsi sul minuscolo terrazzino che da su Baker Street. Fa un freddo cane, ma ha deciso di fumarsi una sacrosanta sigaretta e quindi di non curarsene, anche se ammette che i piedi nudi nella neve non sono poi così male. Dopo bruceranno, adesso è lenitivo. Sigaretta post coito, direbbe John per schernirlo. Forse potrebbe essere vero. Prende atto di quanto gli sia stato facile comporre quel brano. Chiude gli occhi e inspira profondamente l'aria fredda.
Tra poche ore sarà l'alba.
E a quel punto l'unica musica che potrà permettersi sarà sul ritmo di una marcia incalzante.
 
 
 
 
 
 
Note
Quattro anni che non si scrive e poi la BBC ti costringe a farlo: prima con il Dottore, ora con Sherlock.
Chiedo venia, ma sono un po’ arrugginita. Spero però che il primo capitolo vi sia piaciuto ugualmente.
Questa storia è nata principalmente per sfogare la mia voglia di Sherlolly, che conoscendo Moffat rimarrà inappagata a vita. Quindi sapete chi andare a picchiare se comincerò a tirare fuori deliri senza capo ne coda.
È una storia in fieri, già parziale nella mia mente, ma chi può sapere dove si andrà a finire!
Tra parentesi: è Sherlolly, certo, ma non è detto che non salti fuori Irene Adler da qualche parte (so già il come, non quando e so dannatamente bene il perché!).
Spero rimaniate con me. È vero che ho fama di cominciare storie a capitoli e non finirle, ma questa giuro che sarà portata a termine. Lo devo a Sherlock.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo Due – in cui Sherlock comprende quale sia il suo problema ***


Capitolo Due – in cui Sherlock comprende quale sia il suo problema
 
John cammina a passi rapidi nella neve. Ha appena lasciato la fermata della metropolitana e i suoi piedi si muovono in automatico verso il 221b di Baker Street. Non ha fatto colazione e i morsi della fame cominciano a farsi sentire. Quando passa di fianco alla sua vecchia abituale panetteria ha un fremito: nostalgia mista a gola mista a carenza di zuccheri. Si ferma giusto il tempo per comprare una brioche alla crema, senza indugiare troppo sui tortini al limone esposti nella vetrinetta. Gli era mancato questo sprazzo di quotidianità straordinaria. Un pasto consumato in tutta fretta mentre si corre da un caso all'altro, sempre in movimento come biglie impazzite. Riprende la marcia con una nuvola nera di pensieri che lo segue: la sua donna, gonfia come un pallone, a casa che aspetta notizie fresche per non rimanere troppo esclusa; il messaggio perentorio di Mycroft (Riunione alle 9.30. Da lui) che sembrava più l'ordine di un generale già in battaglia inoltrata più che l'inizio di un vero piano d'azione; Sherlock, il suo umore volubile, la sua noncuranza verso i dettagli che concernono la vita di chi gli gravita attorno e il suo cellulare che squilla a vuoto dopo già undici chiamate.
Moriarty a piede libero. O forse solo il suo fantasma.
Il fantasma basta a fargli tremare le vene dei polsi. L'uomo che ha spinto il suo migliore amico giù da un cornicione. Cosa importa se era una finta? Per due anni è stato vero per John. Il dolore a volte è ancora palpabile, incastonato nel suo petto.
Poi Sherlock era tornato e il dolore si era acuito in una lama bruciante di ghiaccio in mezzo alle sue scapole. Il sollievo non è tale se prima non si sperimenta la pena: due anni di lutto condensati in mezz'ora lo avevano distrutto e ricreato, una Fenice bianca affiancata alla sua controparte oscura. Entrambi in qualche modo morti e rinati dalle ceneri. John nella sua sofferenza incorporata al rancore; Sherlock nel suo infantile imbarazzo di chi sa che ha colpa ma non ha il coraggio di ammetterlo. Mary era una nuvola di balsamo fresco per entrambi, solo che all'epoca di quella disastrosa cena solo John ne era consapevole.
Il dottore arriva alla sua destinazione. Sosta sui gradini. Passa una mano incerta sul legno levigato della porta, il batacchio perfettamente dritto che ha quasi voglia di spostare solo per dispetto. Ricorda con un sorriso agrodolce la prima volta che varcò quella soglia: inconsapevole rito di passaggio.
Quanto è rimasto del vecchio John sull'orlo di quel confine?
Il soldato tremante che si appoggia a un bastone.
E poi?
Il folle che insegue la chimera di una vita normale.
E ora?
Dottor John Watson, marito di Mary Morstan - ex assassina -, migliore amico e collega di Sherlock Holmes - consulente detective, tossico a tempo perso -, padre di una creatura che non è sicuro vorrebbe nascesse in un mondo dove qualcuno come Moriarty può gozzovigliare quanto gli pare.
Chi di questi rimarrà sulla soglia questa volta?
John scrolla le spalle e finalmente entra. La sua copia delle chiavi non è mai stata restituita, né lui ha intenzione di farlo: quella casa, quel rifugio, gli apparterrà per sempre.
Una volta nell'atrio avverte l'aroma del tè provenire dalla cucina di Mrs. Hudson. Decide che è meglio darle una voce prima di salire al piano di sopra.
"Mrs. Hudson? È permesso?"
Entrando la trova intenta a posizionare con cura dei biscotti su un piattino.
"Lei lo vizia, lo sa?"
"Oh, John, buongiorno" la sua voce, sempre trillante e civettuola, è gravata dalla stanchezza. Le spalle circondate da uno scialle leggero sembrano più minute e fragili.
"Mi faccia indovinare" dice il dottore, sfilandole il vassoio con teiera e tazza dalle mani "ha suonato fino a notte fonda?"
"Sì. Una musica così bella John. Io non so come faccia uno come lui a creare certe meraviglie!"
"Dovrebbe dirglielo, sa, che lei di notte vorrebbe dormire"
"Oh, no caro" risponde lei sorpresa "no, no, no. Non è Sherlock" la vede esitare "L'anca!" la vede aggrapparsi a quella convinzione "Il dolore mi ha tenuto sveglia. Dovrei prendere degli antidolorifici, ma non sono convinta. Credo mi darebbero assuefazione e se poi non sono più in grado di.."
John appoggia il vassoio sul tavolo e l'abbraccia con gentilezza
"Anche io ho paura, Mrs. H. Probabilmente anche lui ne ha. Va bene così"
La signora Hudson si lascia andare per un secondo quasi impercettibile. Poi si ricompone con la stoica risolutezza di chi nella vita ne ha viste fin troppe. Ma soprattutto di chi non vuole mostrarsi debole davanti a chi ha bisogno di rocce intorno a se. Scioglie l'abbraccio e si liscia la gonna, risistemando la sua uniforme di casalinga armata. Non sia mai che l'Apocalisse ci colga coi vestiti sgualciti.
"Bene. Andiamo a svegliare il principino" ciò detto si riappropria del vassoio e con passo fermo incede verso le scale.
John sorride guardandola. E si ritrova a chiedersi se Sherlock sia consapevole di quanto grande sia l'amore di cui si è circondato.

***

Greg Lestrade ha un problema.
O meglio ne ha più di uno, ma al momento quello più grave gli siede di fianco in una macchina dai vetri oscurati. Si chiama Anthea o qualcosa del genere: lei ha sospirato il suo nome come se non avesse importanza, mentre le dita non hanno smesso per un solo secondo di correre veloci sulla tastiera del blackberry.
Era venuta a prenderlo - prelevarlo - mentre saliva i gradini del commissariato di polizia. Avvolta di seta scura, impalpabile e sfuggente come lei, bella e profumata, ma con lo sguardo vigile e accorto nonostante la presenza fastidiosa del telefonino.
"Prego, da questa parte" aveva cinguettato.
"Ma, veramente io dov.."
"La prego, non mi faccia insistere" e si era avviata verso una macchina nera da 007.
Lestrade aveva sentito chiaramente lo sguardo interrogativo e divertito del sergente Donovan pungergli la nuca.
Ecco perché questo è un problema: quanto tempo ci avrebbero messo i pettegolezzi a serpeggiare per tutti gli uffici di tutte le divisioni? Una bella quanto misteriosa ragazza distoglie ispettore detective dal caso più assurdo e spaventoso della storia criminale. Un bel titolo da tabloid.
Chi glielo va a spiegare, a loro, che questa non è in alcun modo una visita di piacere? Se proprio proprio dovesse scegliere, tutto vorrebbe tranne un appuntamento con Sherlock Holmes.

***

"Sa John: a volte mi chiedo se sia mai cresciuto o sia rimasto un bambino di cinque anni"*
"Le dirò: credo che ce lo chiediamo un po' tutti"
Sherlock è sdraiato supino sul divano, la testa verso la porta, il braccio destro piegato sopra la fronte a coprirgli gli occhi, il sinistro lasciato ciondolare oltre il bordo del cuscino. Il rumore ritmico di un lieve russare scandisce il suo respiro. C'è un cartone di pizza fredda, acciughe e olive, abbandonato per terra con metà del suo contenuto ancora intatto. A Sherlock la pizza non piace granché: doveva essere disperato se è arrivato a chiamare la consegna a domicilio. Ma non è questo che fa sorridere la sua padrona di casa e il suo ex coinquilino, quanto le labbra ancora sporche di pomodoro e la pancia irrimediabilmente scoperta.
"Che dice: sarei una persona meschina se gli rovesciassi il tè addosso?"
"Oh, John!" La signora Hudson sorride divertita, mentre posa il vassoio sulla superficie orizzontale che dovrebbe essere la scrivania sepolta sotto una catasta di fogli dattiloscritti.
John getta una rapida occhiata alla stanza, poi consulta con ansia l'orologio: per fortuna ha avuto l'accortezza di venire un'ora prima dell'appuntamento, consapevole della capacità del detective di presentarsi nelle mise meno opportune a situazioni più o meno importanti. Almeno questa volta indossa i pantaloni.
Quella casa però è un disastro.
"Lo lasciamo dormire finché non arrivano gli altri, poi io gli verso dell'acqua nell'orecchio"
"Basta che non mi sporcate di nuovo il parquet! Non hai idea di quanto sia difficile pulire le... COSE che lui ci versa sopra!"
"Caffè..."
La voce pare arrivare direttamente dall'oltretomba.
John lo osserva stiracchiassi voluttuosamente con la consapevolezza che tutto l'universo gira intorno a lui. Solo quando il moro apre gli occhi impastatati dal sonno si rende conto di quanto siano profonde le sue occhiaie.
"Potresti fartelo da solo. Anzi, potresti smettere di imporre al mondo i tuoi orari da gufo e dormire di notte come le persone normali" il dottore vorrebbe fermarsi e non dire certe cose, perché sa perfettamente quale sia la causa della loro insonnia generale e di quanto questa pungoli l'amigdala del detective, ma si impone di far sembrare tutto il più normale possibile. "Smettila di essere così infantile"
Sherlock abbozza l'ombra di un sorriso. Poi si alza di scatto, come un burattino a molla. Con passo energico si dirige verso il bagno urlando: "Non entrare in camera mia" e si richiude la porta alle spalle.
"L'ultima volta che abbiamo assistito a questa scena sono andato in analisi per due settimane!" Urla John verso la porta. Ma l'acqua della doccia ha già preso a scorrere e se tutto va bene Sherlock riemergerà da una nuvola di vapore solo tra un'ora, minuto più minuto meno.
"Oh, beh.. Il tè diventerà freddo.." La signora Hudson vi volta verso John con lo sguardo illuminato di una piccola gioia. È sempre così quando i "suoi ragazzi" sono entrambi da lei "colazione, caro?" Chiede porgendo la tazza a John.

***

Mycroft si rigira lentamente la penna tra le mani.
La rimette sul tavolo.
Guarda l'orologio.
Riprende la penna.
Scarabocchia qualcosa su un foglio.
Il cellulare vibra.

Lestrade è arrivato. Manca solo lei e ci sono tutti. Anthea

No, non tutti.
Manca una persona.
Mycroft soppesa l'idea di lasciarla fuori.
Poi alza la cornetta del fisso e compone un numero dal prefisso americano.

***

L'acqua bollente scivola rapida sulle sue scapole trascinando con se la stanchezza che gli grava sulle spalle.
Rilassa i muscoli della schiena, si concede un secondo di pausa dall'eterno ronzio del suo cervello iperattivo. Ovunque posi lo sguardo vede potenziali indizi. Una nebulosa di ipotesi e congetture che lo circonda come un'aura e lo segue senza tregua. È sfibrante. A volte vorrebbe avere la mente meno vasta e prendersi un meritato silenzio.
Sente un vociare dall'altra parte della porta: qualcuno è arrivato. La signora Hudson blatera qualcosa a proposito del disordine. John sconsiglia di aprire il frigorifero.
Sherlock afferra la bottiglia dello shampoo e prende a insaponarsi pigramente i capelli.
C'è un confine labile che divide gli eroi dai cattivi. È un confine che viene varcato molto più spesso di quanto si creda. Si parla di ideologie, di fede, di guerra e di giustizia: è così facile apparire dalla parte del giusto che ormai non ci si pone neanche più il problema di chi abbia effettivamente torto. Il semplice fatto di avere qualcosa o qualcuno da proteggere ci da il diritto di ferire il prossimo, di arrivare a ucciderlo? Per la legge no, la sua reclusione ne è prova, ma per la morale?
Per un attimo, un granello di tempo, Sherlock si chiede se anche Moriarty non avesse qualcosa da proteggere.
È un pensiero ignobile e vischioso. Lo ricaccia in gola con tutta la forza e l'odio - sì, l'odio - di cui si è reso conto essere capace.
E lui? Lui sarà in grado di non crollare sotto il peso della vigliaccheria?
Se sei dalla parte degli angeli ma non sei uno di loro, allora, Sherlock, che cosa sei?
In questo momento è solo un grumo di carne e ossa e sonno che non ha la più pallida idea di che fine avrà questa storia. Si guarda le mani insaponate. Lo shampoo cola tra le sue dita come fosse sangue caldo troppo diluito.
Tutto sta scivolando via dalle sue mani e lui non sa che fare.

***

Quando Sherlock esce dalla propria stanza, alle 9.29 precise, vestito di tutto punto si rende conto con sgomento che non sa dove guardare.
Tutto il materiale - o cianfrusaglie chimiche, che dir si voglia - è stato spostato dal tavolo della cucina e riposto in ordine deliberatamente sbagliato sulle poltrone della sala. Sparse per le stanze sono comparse delle sedie pieghevoli di cui non aveva mai sospettato l'esistenza. Un trionfo di muffin e pasticcini di una costosa pasticceria attende intatto vicino al lavello di essere preso d'assalto da un momento all'altro, mentre John apre con frenesia le ante degli armadietti in cerca di tazze pulite. Quando ne trova alcune a pois marca IKEA decide che vanno bene anche nella loro insensatezza.
Lestrade alla finestra sta urlando al cellulare qualcosa che suona come: "No, non è una squillo" mentre Anthea sogghigna twittando a raffica.
Anderson (ANDERSON???) sfoggia una barba di troppi giorni mentre osserva con gola i titoli dei libri esposti in libreria.
Mycroft siede sul divano, sempre molto attento a entrare in contatto con meno superficie possibile.
"Buongiorno caro" la signora Hudson gli si avvicina con un sorriso compiaciuto "non trovi che sia bellissimo?" Chiede osservando la scena divertita.
"Incantevole..." Le fa eco con scherno il detective.
"Tieni, il tuo caffè" lei gli infila tra le mani la tazza di liquido scuro.
Sherlock si chiede se quello sia il suo appartamento o se per sbaglio sia entrato in una dimensione parallela, tipo Alice oltre lo specchio. Poi prende un sorso. E risputa in tazza.
Manca lo zucchero.

"Signori, posso ricordarvi che questo non è un tea party?"
"Nessuno ti impedirà di farlo, fratello caro" il minore degli Holmes si porta la tazza alle labbra con evidente soddisfazione ora che il caffè non è freddo e ha i suoi adorabili due cucchiai di zucchero "ma ciò non toglie che si parla per dare aria alla bocca"
"Sorvolerò sulla tua mancanza di buon senso" Mycroft ci rinuncia e torna a sedersi con mal celata irritazione.
"Ok, bando alle ciance" l'ispettore Lestrade si alza e pone sul tavolo diverse cartelle "questi sono i rapporti che mi avevi chiesto. Abbiamo controllato tutte le radio e le emittenti televisive. Anche alcune chat particolarmente interessanti. Avevi ragione: quel bastardo è riuscito a inviare simultaneamente lo stesso messaggio su ogni canale, ogni frequenza e ogni sito made in UK. Certo un'operazione del genere deve contare come minimo un centinaio di adepti"
"194** per l'esattezza" Sherlock, seduto a capotavola, posa la propria tazza sul tavolo, incrocia le gambe e si porta le dita delle mani alle labbra, i polpastrelli uniti gli uni agli altri.
"Quindi ha hackerato l'intero settore mediatico inglese... Il sogno antiorwelliano per eccellenza" il commento ammirato di Anderson.
"Beh, non proprio.. Noi non siamo sotto il Grande Fratello. O forse sì?" Il detective scocca un'occhiata più che eloquente a Mycroft.
"Stai forse insinuando che io centri qualcosa?"
"Io non insinuo. Io punto il dito! E se pensi.."
"Un'intera organizzazione... Cioè, tu mi stai dicendo che il lavoro che ti ha tenuto impegnato per due anni dopo il tuo finto suicidio non è servito a niente?"
"È risentimento quello che sento, John?"
Il dottore si stringe nelle spalle, sospirando esasperato "non so... Deducilo"
Il detective alza gli occhi al soffitto "sì, potrebbe trattarsi della branca di un'organizzazione più ampia. Non è così semplice tagliare tutte le radici. Conosci la pianta di rododendro? Se vuoi estirparla devi fare estrema attenzione: basta una svista, un solo germoglio, e giorni di lavoro se ne vanno in fumo. La pianta ricresce ancora più forte"
"Bene, quindi sei anche giardiniere, oltre che un rompi palle. Qual è il punto?"
"Il punto, Gary..."
"Greg"
"Greg... È che Moriarty ha compreso come rinascere ed esistere per sempre" Sherlock guarda i suoi interlocutori. Li vede spaesati e in attesa. La signora Hudson sorride, la curiosità che le illumina il viso.
Il detective scuote il capo spazientito.
"La rete"
"Intendi il web?"
"Un'idea messa on-line non potrà più essere fermata. Non oso pensare quanti mirror possa aver aperto per fare questo giochino. Centinaia, migliaia di byte che viaggiano alla velocità della luce e si inculcano nella mete delle persone. È successa la stessa cosa dopo la mia presunta morte"
"Oh sì, me lo ricordo" lo sguardo sconsolato di Greg è il riflesso di notti insonni passate a scandagliare post e twitt "Tumblr fu sull'orlo del collasso"
"Tum-che?"
"Tumblr, John. È una piattaforma per blog. Due anni fa fu invaso da hastag #notdead e da ipotesi più o meno colorite di come fossi scampato alla morte. Alcune idee erano interessanti, dovresti darci un'occhiata" poi Sherlock si blocca puntando gli occhi nel nulla "nnno... Ripensandoci, forse è meglio se non lo guardi..."
"Ok, ma quindi Moriarty è vivo o morto?"
"Oh, Anderson, perché sei qui esattamente?" Il moro si alza di scatto, si dirige alla propria poltrona e afferra il violino. Punta l'archetto contro i suoi ospiti.
"Il problema non è se Moriarty sia vivo o morto. Il problema è come la gente reagirà a quel messaggio. Ormai lui è il cattivo di una fiaba: le persone sussurrano il suo nome come fosse l'uomo nero, hanno paura di lui. Non lo capite?"
Mycroft sbuffa un mezzo sorriso, come a dire che sì, lui ci era già arrivato ma voleva lasciare al fratello il piacere del palcoscenico.
"Tu cosa prevedi?" L'ispettore ora ha la voce stanca.
"Il caos" gli occhi di ghiaccio del detective si rabbuiano del blu di un mare in tempesta. "Preparatevi a un aumento della criminalità nei prossimi tre o quattro mesi. Soprattutto dei piccoli criminali, resi forti dalla paura dell'ombra di Moriarty. La criminalità organizzata dovrebbe rimanerne fuori, o almeno lo spero. Ci saranno momenti di vero panico, ma poi dovrebbe tornare tutto alla normalità: grazie a Dio l'essere umano riesce a scadere facilmente nell'abitudine. A quel punto arriveranno i veri problemi: sarà proprio in quel momento che saremo tutti più vulnerabili. Succederà qualcosa e di questo sono certo. Cosa però non ne ho ancora un'idea precisa"
Si lascia cadere sulla propria poltrona e lancia uno sguardo ad Anthea che è rimasta ferma e zitta sul divano per tutto il tempo. Vorrebbe proprio sapere di quale utilità la crede degna Mycroft.
"A questo punto però ci serve sapere se Moriarty è a tutti gli effetti deceduto" fa notare Greg, rimarcando la frase piantando il dito sul tavolo.
"Per questo ho già inoltrato la richiesta per riesaminare il cadavere. Purtroppo la burocrazia del Bart's è un po' lenta ultimamente"
Le teste si voltano in contemporanea sulla porta che dalla cucina da sulle scale finché non appare una Molly completamente diversa da quella che tutti ricordano. Non solo per il viso smunto e pallido o le occhiaie scure: è visibilmente dimagrita e se già prima non sembrava un colosso ora si potrebbe pensare sia fatta di fili di vetro. Così fragile che un colpo di tosse troppo forte potrebbe spezzarla per sempre.
Ma lei è Molly. Non vi è stupore quando si dischiude in un sorriso.
"Scusate il ritardo. Non sono riuscita a ottenere il permesso e assentarmi da lavoro per tempo."
"No, figurati" si affretta a dire Mycroft lasciandole la propria sedia "errore mio. Avrei dovuto avvisarti prima"
John non può fare a meno di notare l'occhiata cupa carica di astio che Sherlock scocca alle spalle del fratello.
"Allora, di cosa stavate parlando?" Cinguetta la nuova arrivata, addentando avidamente il muffin che la signora Hudson le porge.


Loro parlano.
Loro parlano e cercano i fili per dipanare la matassa.
Loro parlano e non si rendono conto delle vene dei polsi blu scuro, gonfie e pulsanti pressione alta
Loro parlano e non notano la contrazione impercettibile della bocca ansia, nervosismo
Loro parlano e non guardano le mani screpolate, i capelli aggrovigliati, i pantaloni sgualciti mancanza di autostima
Loro parlano. Sherlock osserva. E Sherlock queste cose le ha notate.
Piccola e fragile Molly Hooper che ti rendi forte quando forte non sei. Che trovi il coraggio di affrontare demoni più grandi di te. Che non smetti di avere fiducia nonostante tutto.
Se non fossi quello che tu credi che io sia, quello che io credo di essere, vorresti comunque aiutarmi?
Di cosa hai bisogno?
La sua fede non ha mai vacillato. La consapevolezza si scioglie nel petto del detective insieme alla gratitudine.
Le dita di Sherlock accarezzano le corde del violino senza che lui se ne renda conto. Vorrebbe pensare di essere contento di vederla, seppure in quello stato. Però poi continuerebbe dicendosi che in realtà poco gli importa, che lei è neutra e priva di valore. Sciocco uomo che tenti invano di raccontarti menzogne: quello che prova è puro sollievo. Lei è lì, davanti a lui, viva e strana come sempre e non morta come nei suoi incubi. Lei è lì e lui si rende conto che c'è qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto questo.
Il ronzio nel suo cervello riparte, incalzante e fastidioso.
"Molly, perché sei qui?" La voce di Sherlock suona come vetri rotti sull'asfalto.
Molly si gira a guardarlo per la prima volta da quando è arrivata, un moto di imbarazzo e panico le rabbuia le iridi "ah, io... Ecco, non dovrei.."
"Lei è qui su mia richiesta, fratellino"
"Ma lei non sarebbe dovuta venire" gli occhi azzurri si stringono in una smorfia, una stilettata che trapassa Mycroft da parte a parte "Molly non può stare a Baker Street"
Quando Sherlock si sposta a guardare Molly lei sente il suo sguardo bruciarle sulla pelle, la fa sentire fastidiosa e colpevole.
"Vattene"
Si può distintamente avvertite la casa trattenere il respiro mentre la sentenza del detective plana sul pavimento in mezzo a loro. Sherlock percepisce vagamente gli sguardi sorpresi e aperti in un'accusa: non importa. Loro non capiscono, ne si sono applicati per poter capire. Tutto il suo risentimento va a Mycroft che sa perfettamente quali sono le regole e ha deciso deliberatamente di infrangerle.
"Sherlock..."
"Non parlare John. Non renderti ancora più stupido" i suoi occhi non la lasciano, la inceneriscono.
"Sherlock, Molly è qui perché è parte della squadra. Ci serve e tu lo sai" John è visibilmente irritato, forse anche ferito da quell'atteggiamento anche se non ne è il diretto interessato.
"Lei non deve essere qui" Sherlock scandisce le parole come se stesse parlando a dei bambini, calcando più forte sul "non deve" "non so per quale motivo Mycroft ti abbia chiamata senza prima consultarmi, ma qui non sei gradita: raccogli le tue cose e vattene"
Molly trema come una foglia al vento. Si sta spezzando. Lana di vetro. Gli occhi le diventano lucidi di lacrime che per amor proprio riesce a ricacciare indietro, ma la tristezza profonda che vi si legge è indelebile. Lo stanno pregando di non farle questo. Lo stanno supplicando e Sherlock non lo può sopportare.
"Molly..." E la voce gli trema mentre sospira il suo nome.
Lei si alza. Raccoglie la borsa. Con uno sguardo e un sorriso saluta gli altri. Poi si volta verso di lui, ma il sorriso non si spegne "ti avviso quando mi daranno il nulla osta per la questione del cadavere" si stringe nelle spalle, si gira e se ne va.
È come se un profumo fosse scomparso, scappato via da sotto la porta. Come se una tinta fosse scivolata dalla tela, portando con se un colore neutro che si posa sul quadro.
Molly se ne è andata e qualcosa si spegne.
Il ronzio si attenua.
Sherlock chiude gli occhi e inspira profondamente.
La signora Hudson guarda il detective con in cuor suo qualcosa di molto vicino all'odio.
A Sherlock non importa, si sente svuotato e in tumulto allo stesso tempo: sta pensando ai fogli di spartito sparsi per camera sua, armoniosi e incandescenti, sui quali quella notte ha scritto note vibranti e troppo appassionate per poterle accettare.





*quesito applicabile sia a Sherlock sia a Benedict
**Numero assolutamente arbitrario che ho sparato a caso
 
Note
Due parole: UN PARTO!
Ho iniziato a scrivere questo capitolo con in mente una cosa e lui ha avuto la sfacciataggine di cambiare volto per ben tre volte! Imperdonabile.
Questo e i miei vari problemi a lavoro/università non mi hanno permesso di aggiornare prima. Spero comunque che l’attesa sia valsa la pena.
Ringrazio chi ha recensito, chi ha deciso di seguire e mettere questa storia tra i preferiti e chi ha semplicemente avuto voglia di leggere il primo capitolo.
Spero di metterci meno di due settimane per scrivere il terzo: prometto che mi ci metto d’impegno!
Probabilmente ci sono un paio di errori di ortografia che ho visto ieri sera ma non ho potuto correggere e ora non ritrovo più O.o chiedo perdono XD

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo Tre – in cui si comprende come gli specchi abbiano sempre ragione ***


Salve!
Oggi le note le metto prima, abbiate pazienza ancora due secondi: il grande demone celeste ce l’ha con me e il tempo per scrivere ormai è diventato merce rara, anzi rarissima.
Senza contare che faccio molta fatica a seguire il filo dei miei stessi pensieri: Sherlock continua a cambiare e la cosa mi manda in bestia! Renderlo IC è un virtuosismo di psicanalisi non indifferente.
Quindi perdonatemi se comincia a diventare un po’ OOC. Ma d’altronde questa vuole essere una fic d’amore: Sherlock DIVENTERÀ OOC prima o poi!
Ciò detto, questo sarà l’ultimo capitolo lento e riflessivo: dal prossimo si entra davvero nel vivo della storia!
Quindi, buona lettura
Nika
 



Capitolo Tre – in cui si comprende come gli specchi abbiano sempre ragione

"Si può sapere cosa diamine ti è preso? ... Sherlock? ... Chiamala immediatamente! ... Sherlock, mi stai ascoltando? ... Ti rendi vagamente conto di come ti sei comportato? ... Per favore, non fare la primadonna isterica! Prendi quel telefono e chiamala! ... Senti, non ti sto dicendo di chiederle scusa, ma almeno una spiegazione... ... Perché devi sempre essere così testardo? ... Immagino avrai avuto le tue valide ragioni, anche se non ne sono del tutto convinto, ma sei stato davvero meschino. ... Sherlock, aveva le lacrime agli occhi! ... Fa come vuoi. Rintanati nel tuo ego solitario e affogaci, per quel che mi riguarda. Ma sappi che disapprovo. ... Dovresti smetterla di ferire chi ti ama..."
"John, una domanda" finalmente il detective, stagliato nella luce della finestra, si volta a guardare il dottore "Se Mary avesse una pistola puntata alla tempia, tu cosa faresti?"
John rimane inchiodato al pavimento. La risposta è così semplice da sembrare oscena.
Ucciderebbe per lei. Si getterebbe nel fuoco per lei. Darebbe la vita, se servisse a salvarla.
L'avrebbe fatto prima e lo farebbe mille volte di più, ora che lei porta sua figlia in grembo.
Si rende conto con sgomento che Molly potrebbe arrivare a fare le stesse, identiche cose. Sherlock non ne è sicuro al cento per cento e questa è un'ignoranza che non può permettersi.
"Ecco, appunto..." Lo sguardo del moro s’intenerisce, un'espressione così inusuale per lui. John sente salire un groppo in gola "L'amore è il più stupido degli errori che si possano commettere"
Non è mai stato d'accordo con lui su questo punto. Ha sempre portato avanti con testardaggine le sue tesi su quanto l'amore sia una necessità irrinunciabile e per quanto Sherlock possa essere ostico da quel punto di vista, John è perfettamente consapevole che nemmeno il celebre consulente investigativo ne è immune. Più volte ha dato prova di essere tutt'altro che un pezzo di pietra, per quanto lui ami quest'idea di se stesso.
Poi il dottore aggrotta le sopracciglia: gli è sorto un dubbio che si era posto anche in precedenza, ma a cui non aveva mai dato una definitiva spiegazione.
"Sherlock" si ferma un secondo per scrutare attentamente il viso del suo migliore amico "perché ti sei buttato giù dal tetto del Bart's?"
Il detective sbatte le ciglia una, due, tre volte - non lo fa mai, fuorché non sia preda di emozioni che non vuole mostrare - poi si volta a osservare la neve che ha ripreso a cadere, per non lasciare che John veda il suo sorriso amaro.

***

"Stupida! Stupida, stupida, stupida!! Intravedi MEZZA possibilità di vederlo e che fai? Ti butti!! TI BUTTI!! Ah, ma sta volta me la son meritata... Cretina senza rimedio!"
Molly scaraventa la borsa sul divano senza neanche controllare se, per sbaglio, rischia di centrare in pieno il suo gatto. Si toglie gli stivali e li scalcia via con una mossa secca.
"Perché poi no... Neanche ti avesse chiamato lui, no! SUO FRATELLO! A te bastano le vie traverse! Ma di... Mi tocca crepar zitella se vado avanti così!"
Si fionda in bagno, agguanta un asciugamano e comincia a strofinarsi con foga i capelli umidi di neve.
"Stupida, stupida, stupida..."
Non vuole piangere. Non è sua intenzione, ma le lacrime si ingorgano negli occhi e minacciano di cominciare a scorrere da un momento all'altro. Quando alza lo sguardo verso lo specchio, questo riflette l'immagine di un pulcino spaesato, l'asciugamano ancora di traverso sulla testa e le guance arrossate per la rabbia mal celata. La donna afferra la spazzola. La stringe convulsamente. Ogni spazzolata è il grano di un rosario interiore che si ripete per calmarsi, senza molto successo a essere onesti; finché esasperata non punta con risolutezza la spazzola verso lo specchio e guarda se stessa con aria di sfida.
"Tu non piangerai per Sherlock Holmes!" Le tremano le labbra mentre lo dice ma finge di non accorgersene. "Tu non lo farai. Perché lui è un coglione e tu la devi smettere di fare sempre tutto quello che vuole. Lui non è Dio e tu non sei... Tu non sei..."
Lacrima traditrice. Una perla calda che rotola oltre il bordo proibito imposto dalla volontà.
Molly si osserva nello specchio, la superficie liscia e fredda che le mostra la verità con la sfacciataggine che non si cura di ferire. Proprio come Sherlock
La patologa non regge. Una diga che crolla inesorabilmente. Prima è un'altra lacrima solitaria a gettarsi nel vuoto; poi due, tre, quattro... Singhiozza senza rimedio e si scioglie nel rimpianto che prova verso se stessa.
"Tu non sei..." Ci ritenta senza davvero sperarci. È una menzogna di quelle grosse e se è vero che l'effetto placebo si ha solo quando non si è a conoscenza del trucco, quando ci si convince che un sorso d'acqua può far sparire la malattia con assoluta efficacia, è evidente che questa volta con lei non può funzionare.
Quante volte ci aveva provato? Quante ci aveva sperato?
Aveva ordinato al suo cuore di chiudersi a riccio e di non lasciarlo più entrare. Ma ogni volta che lo vedeva era come se un terremoto la scuotesse fin nelle sue fondamenta: quale muro puoi pensare di costruire se il terreno è così friabile? Per due anni si era raccontata la storiella della piccola samaritana che lo aiuta con devozione e poi con amor di sacrificio affronta il dolore dell'abbandono. Aveva incontrato Tom: era andata bene finché non si erano accorti dei silenzi sempre più prolungati. Quelle voragini di nulla che si aprivano tra loro ogni giorno di più da quando quegli occhi azzurri da star male l'avevano cercata, inseguita e salutata con il sollievo di una routine che ricominciava. Per non parlare di quando le avevano sorriso di un sorriso triste, mentre quella voce che tanto le era mancata le augurava ogni felicità. Le sue labbra sulla guancia furono il regalo più amaro che lui le avesse mai donato.
Meschino. Meschino e codardo!
Strappami via quest’anello e consola ogni minuto della tua assenza che ho dovuto sopportare
Lo aveva odiato per questo.
E lo aveva desiderato tanto intensamente, come mai le era capitato prima.
Con che coraggio aveva guardato Tom negli occhi, quella sera? Avevano fatto l'amore dolcemente, mentre il suo inconscio incontrollato la costringeva a vedere altre labbra, a sentire altre mani. C'era un profumo nella sua testa che non aveva nemmeno la certezza fosse veramente il suo o se lo fosse immaginato lei. Si era illusa che tutto fosse dovuto al ritorno di fiamma, il conforto di saperlo di nuovo in città dopo tanto tempo. Eppure la fiamma non si era più estinta, divampando in un incendio indecente che la consumava senza tregua, devastandola. Pretendeva qualcosa che non poteva avere. Si schiantava contro la barriera del non accadrà mai.
Vi prego, lasciatemelo sognare
Si era sentita vile.
Quando lei e Tom decisero di comune accordo che non era possibile trascinarsi oltre non c'era stata rabbia negli occhi di lui, solo una quieta rassegnazione.
"Non amare qualcuno più di quanto ami te stessa" le aveva detto e poi semplicemente era scivolato via dalla sua vita. La ragazza dell'obitorio si era ritrovata avvolta nel silenzio del suo appartamento con qualche foto in più e molti scampoli di dignità in meno.
Molly alza di nuovo lo sguardo verso lo specchio. Non c'è via di scampo. Non c'è mai stata via di scampo. Due anni di sobbalzi a ogni squillo del telefono non l'avevano affatto temprata. Ore e ore interminabili a confortare un John vuoto ogni oltre dire senza poter realmente spiegare perché anche lei fosse scossa dai singulti di un pianto strozzato.
È vivo, John! È vivo!! Ma potrebbe essere morto domani...
Quanto avrebbe voluto poter confessare ogni cosa e dividerne il peso equamente con la sola persona che veramente avrebbe capito, perché anche lui reso folle da un amore irrazionale e puro come solo quell'amicizia che lega il dottore e il detective può essere. Invece le era toccato l'uomo di ghiaccio: era pur sempre amore che provava, di quello che bada bene a mostrarsi in pubblico unito alla costante preoccupazione per la sua incolumità. Ma Mycroft non avrebbe mai potuto comprendere. E Molly si era tenuta il segreto in fondo al cuore, un masso che affondava lento nell'acqua.
La verità è che per quanto Sherlock possa essere lontano da lei, non lo sarà mai abbastanza perché Molly possa sentirsi veramente libera dalla sua presenza invadente.
Ti sbagli sai? Sei importante per me. Lo sei sempre stata.
Quel sempre che per lei si trasforma nella più dolce delle pugnalate.
La donna guarda se stessa negli occhi. Si ritrova a chiedersi che cosa leggerebbe in lei il consulente investigativo. Riuscirebbe ad andare oltre alla cotta infantile? Riuscirebbe a capire che non è più solo una questione da bello e dannato che seduce l'incauta ragazzina? E lei... Lei avrebbe il coraggio di negarsi, se lui le offrisse una scelta?
Il suo riflesso risponde con un sorriso a metà tra lo sconfitto e il divertito: la sua voce è chiara quando con dolcezza pronuncia la sua sentenza.
"Tu, bambina, sei innamorata di lui. E purtroppo a questo non c'è cura"

***

Il cielo sopra di lui è talmente terso da sembrare finto.
Sotto di lui si spalanca una voragine nera e melmosa che inghiotte Londra con i suoi tentacoli.
Il cemento sotto i piedi nudi è freddo e ruvido. Le dita si arricciano, tentando di fare presa sul bordo del cornicione.
La sua vestaglia preferita, quella blu, è una bandiera mossa dal vento incostante che lo circonda.
"Sai Sherlock... Avresti dovuto stare più attento... Molto, molto più attento..."
Moriarty ha la testa spaccata in due, il sangue gli cola sul collo mentre le labbra diventano sempre più esangui.
"Adesso te ne devo più di una"
Si porta alle spalle del detective e alza un braccio, puntando una pistola non contro di lui ma verso un punto ancora più in là.
"Peccato..."
Il suono dello sparo è una bomba che detona nel petto di Sherlock talmente forte da fargli credere morirà di crepacuore.
Il proiettile viaggia veloce. Centra un bersaglio.
Dal tetto del palazzo di fronte, appena visibile nella nebbia scura, il corpo di John cade nel vuoto; una scia di sangue nero lo insegue.
Ci sono altre figure in piedi su quel tetto. Nessuna di loro ha i capelli acconciati in una coda di cavallo.
"Dimmi, mio caro: ce l'hai un pensiero felice?"
Sono mani di donna quelle che lo spingono oltre il baratro.
Mentre precipita sente l'aria fischiargli intorno alla testa: è un rumore che lo infastidisce, che sa di condanna definitiva. Avrebbe voluto dare almeno un saluto.
Ci sono altri spari. Altri corpi che cadono. Pietre scagliate al suolo in un folle esperimento che infrange la barriera del suono.
Non si sentono tonfi.
La caduta continuerà in eterno.
Gli darà tutto il tempo di cui ha bisogno per rivedere la moviola della sua vita e commettere di nuovo ogni singolo errore.
Le mura del suo palazzo mentale si sgretolano. La cenere dei documenti più importanti danza intorno a lui.
Sherlock chiude gli occhi e rimane sospeso in attesa.
Lo schianto contro l'asfalto arriva così improvviso da non lasciargli neanche il lusso della sorpresa.


La prima informazione che rileva quando apre gli occhi è che la stanza è notevolmente più buia di prima.
La seconda è che la neve leggera si è tramutata in una pioggia intensa e cattiva.
La terza è che non è solo.
Sherlock rimane sdraiato sul divano, il cuore che va a mille e un senso di vertigine opprimente. Ha il respiro corto e il sudore gli ha incollato i capelli alle tempie.
"Tieni: bevi"
Le mani che gli porgono un bicchiere d'acqua sono morbide nonostante i non pochi anni. Hanno un tocco fresco e dolce mentre gli scostano i capelli dalla fronte.
Sherlock si calma istantaneamente. Si alza a sedere, accetta il bicchiere e lo porta alle labbra con avidità, rendendosi conto solo ora di quanto avesse sete. Lo vuota d'un sorso tanto in fretta da rischiare di strozzarsi.
"Grazie..." Si volta verso la sua interlocutrice "ma tu non dovresti essere qui" la donna giusta nel posto sbagliato. Per la seconda volta quella giornata.
"Mi ha chiamato Mycroft. Ha detto che eri più intollerabile del solito" La donna sorride con amore "Ho rinunciato ai balli del venerdì per venire qua. Ritieniti in punizione"
Sherlock guarda sua madre. Ci sono forme d'amore dalle quali non si è immuni in nessun caso. Sorride a sua volta, porgendole il bicchiere vuoto.
"Tuo padre è ancora molto arrabbiato con te"
L'uomo fa un leggero assenso con la testa. Per una famiglia normale sarebbe già incredibile una situazione del genere. Lui ora è un omicida: suo padre ha tutti i sacrosanti diritti di non rivolgergli mai più la parola. Ma le madri hanno un cuore diverso. "E tu?"
Lei alza le spalle: "Sopravvivo" lo dice con noncuranza, mentre dentro di se muore un pochino ogni volta che pensa al suo futuro distrutto. È stato stupido. È stato insensato. È stata la motivazione più buona che potesse trovare. Lo ama ogni giorno di più per questo. Ed è bloccata dal terrore per quello che i suoi figli dovranno affrontare ora.
"Sherlock?"
"Sì?"
"Hai sempre sconfitto i mostri annidati sotto il tuo letto. Questo non sarà diverso dagli altri"
Vorrebbe abbracciarla così forte da fondersi con lei. Pelle, ossa e sangue quasi a tornare nell'utero e non uscirne mai più. Il corpo di una madre è il rifugio definitivo. Ma lui è Sherlock Holmes: rimane immobile nella stanza buia, come se fosse un animale impagliato. Ma lei è la donna che lo ha generato, quindi comprende.
"Non c'è nessuno, qui." Con una mossa lenta lo abbraccia, circondandogli le spalle con dolcezza. "Ci siamo solo tu ed io"
Solo ora Sherlock decide di lasciarsi andare: la stringe alla vita e si lascia cullare fino a scacciare ogni cattivo pensiero.

Alle 21.46, dopo che sua madre ha insistito per preparargli da mangiare e per controllare lo stato del suo bucato, Sherlock scrive a suo fratello perché venga a portarla via. Vuole riportare la quiete nella propria mente e per quanto apprezzi il suo pasticcio di carne, ha bisogno che lei se ne vada.
Dopo aver mandato il messaggio a Mycroft rimane fermo qualche istante a osservare la schermata bianca che attende che un nuovo testo sia composto.
Le sue dita esitano. Il cervello s’inceppa, il pensiero si ripiega su se stesso.
La voce di John gli riecheggia nella testa: dovresti smetterla di ferire chi ti ama
"Chi mi ama..."
"Come dici, tesoro?"
Sospira infastidito, udendo il nomignolo
"Niente... Pensavo... No, lascia stare"
Il detective getta il cellulare sulla scrivania e torna in cucina.
Sul display rimane impresso un messaggio non inviato.

Non odiarmi. SH

***

Le giornate trascorrono fastidiosamente lente e piovose: la neve si è sciolta, creando una fanghiglia marrone che ricopre marciapiedi e strade. La noia che aleggia a Baker Street è paragonabile a una carrellata di film francesi del periodo nouvelle vague messi in fila uno dietro l'altro. Belli, per carità... Ma così poco scorrevoli da mandare a male anche il Buddha più temprato.
Sherlock avverte in modo vago lo scorrere del tempo: cibo che la signora Hudson gli prepara e gli lascia davanti alla porta o direttamente in cucina; Lestrade che lo aggiorna sulle indagini con una regolarità che in realtà lui non percepisce; John che si destreggia tra l'ambulatorio, il loro appartamento e i corsi pre-parto; sigarette fumate svogliatamente all'angolo della finestra, unica vera concessione che gli è stata data per sopperire alla prigionia. Grossi buchi di nulla. Vuoti di tempo. Noia informe e grondante.
L'attesa gli sgocciola sul capo in un lento stillicidio.
Nessun messaggio da Molly Hooper. Nessuna voce da Molly Hooper.
Silenzio.
Tre settimane passano inesorabilmente stanche.
Sempre più spesso si ritrova il violino tra le mani senza che lo avesse realmente cercato.
Dopo l'episodio della prima riunione non l'aveva più rivista né cercata. Aveva punito Mycroft con una fastidiosa sequela di messaggi inviati agli orari più impensati. Quando il fratello gli aveva urlato al cellulare di smettere di essere così infantile, lui aveva ribattuto che "chi rompe paga". Mycroft aveva pensato si riferisse al fatto di aver chiamato Molly Hooper a Baker Street quando in realtà i due Holmes si erano accordati di lasciarla fuori da tutto quello, per la sua stessa sicurezza. Sherlock non si era sbilanciato a confermare tale ipotesi, né ad annullarla.
Il detective smette di suonare, intredetto.
L'ha fatto di nuovo, in un blackout di coscienza. Prende il violino, suona e pensa. Poi non si ricorda quando ha cominciato né perché. A volte si sente stupido bloccato così con il violino a mezz'aria, guardando la strada sottostante. Quando succede mente a se stesso, facendo finta di niente. Ciò che lo turba è che trova di una difficoltà disarmante concentrarsi sul vero problema che dovrebbe assillarlo: la piccola Gretel che corre nel bosco ha qualcosa di più intrigante del lupo che la insegue. C'è stato uno slittamento nelle sue priorità. Un salto di tono nel considerare tutte le variabili.
Forse che il suo inconscio sta cercando di dirgli quanto in realtà lui senta la sua mancanza?
Sciocchezze! Quando mai ha sentito il bisogno di porsi certe domande?
Eppure il semplice fatto che Molly, per l'ennesima volta, abbia seguito alla lettera la sua richiesta, scomparendo dal suo raggio di percezione, lo rende irrequieto. Non riesce ad avere un quadro generale lucido e anche se non lo ammette questa cosa lo terrorizza.
Certo sarebbe tutto più semplice se ci fosse davvero qualcosa su cui concentrarsi: dalle informazioni che Lestrade si premura di comunicargli con cura maniacale appare evidente che Sherlock aveva ragione. In tutta Londra, in alcuni casi anche nell'hinterland, sono aumentati atti di criminalità minore. Rapine per lo più. Ma per il resto, il nulla. Nessun caso eclatante, nessuna catena di omicidi seriali, nessuna sparizione intrigante. Niente-di-niente. Come se Moriarty, o il suo fantasma, non avesse alcuna intenzione di mostrarsi di nuovo. Sherlock sa perfettamente che questo è proprio il momento più critico: quieta apatia che lascia decantare il suo cervello nella noia... Se fosse il suo arci nemico, colpirebbe proprio ora. Eppure ogni volta che nei suoi ragionamenti appare lo spiraglio vuoto di una finestra, subito questo è riempito da una sensazione dolce e amara al tempo stesso. Il detective ha dovuto chiedere a John delucidazioni in merito, per poi sentirsi dire una parola per lui al tempo stesso bellissima e inquietante: nostalgia.
Ora aveva anche questa da aggiungere alla collezione di sfumature. Inutile spreco di spazio in memoria. Ringraziamo la dolce Molly per questo.
Se solo potesse essere sicuro che lei stia bene e soprattutto che non sia troppo risentita...
"Oh, per l'amor del cielo!" Il detective scuote il capo con violenza mentre si alza dalla sedia in cucina su cui si era seduto per testare la pittoresca reazione tra alluminio e iodio, riempiendo di fumo viola la stanza. Ma che importa se Molly è arrabbiata? Meglio così! Non si pone il problema di vedersela piombare in casa quando dovrebbero esserci chilometri di distanza tra loro due perché, per la miseria, se Sherlock è ancora vivo lo deve solo a Molly e questo fa di lei il target numero uno, insieme al Dr Watson. E nemmeno deve aver a che fare con quella sensazione sgradevole di sollievo nel sapere che lei al dito non ha più l'anello che quell'idiota della sua copia carbone le aveva donato. O ancora ricordarsi di quanto gli avesse fatto male accorgersi di quel piccolo, disturbante luccichio. E poi rivivere i momenti più oscuri dei due anni da fuggiasco, durante i quali a tenere salda la sua mente furono la consapevolezza di sapere John al sicuro e la bellezza del sorriso di Molly, che nel salutarlo non aveva avuto il coraggio di sussurrare un "torna presto e torna vivo", ma nel frattempo gli aveva trasmesso la sicurezza di qualcuno che lo stesse aspettando con tutta l'anima.
John Watson lo aveva cambiato, ma Molly Hooper lo aveva salvato da battaglie di cui lei non era nemmeno a conoscenza. E se lei è incazzata tanto da non mandare nemmeno un messaggio, lui è nella merda.
Sherlock smette di girare a vuoto per la sala. Passa lo sguardo sugli oggetti famigliari che lo circondano. Inspira profondamente il profumo di legno, fumo e agenti chimici che caratterizza il suo appartamento. Sorride apertamente guardando lo smile di proiettili che la nuova carta da parati non è riuscita del tutto a coprire. Quanto gli era mancato tutto questo.
Il sorriso sparisce: Baker Street è troppo silenziosa. Troppo statica. Lui è lì in mezzo e non sa che farsene della sua incredibile intelligenza. Necessita di qualcosa che lo metta in moto o che almeno lo costringa a un confronto. Molly è dannatamente brava a trascinarcelo anche senza rendersene conto.
L'uomo si volta lentamente fino a incontrare il proprio sguardo penetrante che lo osserva dallo specchio. Quegli occhi dal colore tra l'azzurro e il verde che vengono definiti di ghiaccio solo perché troppo acuti per pretendere di essere altro.
Rare volte ha esercitato le proprie capacità di deduzione su se stesso, ma non gli servono più di otto secondi, il tempo di un lungo respiro, per dire all'uomo che gli sta di fronte: "Quanto ti mancano quei suoi modi assurdi" e tutto quel che ne consegue rimane incastrato dentro di lui.
"Sherlock?"
Il detective si volta di scatto verso la porta d'ingresso: Molly è lì, il fiato corto e le guance arrossate dal freddo e da una corsa forsennata che l'ha portata da lui da chissà dove. Ha il cellulare stretto in pugno e negli occhi uno sguardo a metà tra il dispiaciuto e l'impaurito. Il detective nota i fogli che fanno capolino dalla tasca della giacca: portano il sigillo del governo inglese. Probabilmente sono documenti che hanno in calce la firma pulita di Mycrotf. Probabilmente servono a renderlo libero per ventiquattr'ore, più o meno. Vorrebbe esultare, ma una cosa lo mette in allarme: Molly non sarebbe sconvolta se non fosse per qualcosa di urgente.
"Cos'è successo?" Lascia deliberatamente perdere il piccolo moto d'imbarazzo che prova al pensiero che lei possa aver sentito la sua confessione di poco prima, o la paura di esserne arrossito senza rendersene conto. La sua attenzione è completamente assorbita nel tentativo di comprendere la situazione.
"Sherlock, cambiati subito: dobbiamo andare in ospedale" la patologa parla tanto in fretta da mangiarsi le vocali e il detective è quasi certo di avvertire un singhiozzo trattenuto in gola.
"In ospedale? Siamo solo a fine gennaio, mancano ancora due settimane al parto..."
"Non è per quello. Cioè, non..." Molly scoppia a piangere, incapace di trattenersi oltre. L'uomo si muove indeciso verso di lei. Ha sempre pensato che ci sia un mondo segreto dietro le lacrime, un mondo troppo intimo per essere avvicinato con irruenza. Non che il suo sia rispetto del dolore altrui - anzi, a volte ne è infastidito - ma c'è qualcosa di puro racchiuso nel semplice atto di piangere. Forse lo affascina proprio perché è uno sfogo che lui si concede molto raramente e sempre con sdegno nei propri confronti, poiché lasciarsi andare vuol dire ammettere di avere emozioni. E le emozioni incasinano il suo Mind Palace.
Molly invece... Molly è puro colore. Non si stupisce che lei sia in grado di lasciarsi andare in modo tanto naturale. Eppure vederla piangere non gli piace. Non gli piace per niente.
Facendo appello a tutta la propria forza di volontà le poggia con delicatezza le mani sulle spalle. La sente tremare, scossa dai singhiozzi.
"Molly, cos'è successo?" Le parla con una dolcezza di cui i più non lo credono capace e che in realtà riserva solo a lei.
Lei alza gli occhi, incatenandoli a quelli di lui e Sherlock non può evitare di pensare a quanto siano belli così lucidi di sale. La donna stringe le labbra, cerca di ricomporsi, consapevole che tra poco dovrà essere abbastanza forte da sorreggere il consulente investigativo. Prende un lungo respiro.
E poi lascia cadere il fulmine.
"Sherlock, hanno sparato a John"
E per lo shock Mary era entrata in travaglio.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo Quattro – in cui le porte vengono aperte ***


Capitolo Quattro – in cui le porte vengono aperte
 
Non aveva mai saputo cosa volesse realmente dire la frase "sentirsi mancare la terra sotto i piedi".
Sì, certo, aveva provato una sensazione molto simile quando Mary gli aveva sparato; ma in verità in quel momento il suo cervello era troppo intento a trovare il modo di non morire per concentrarsi sulle meravigliose e poetiche sensazioni di contorno. Ma solo in questo momento può davvero comprenderne il significato.
È come se l'intero mondo che lo circonda perdesse di consistenza e lui si ritrovasse a fluttuare su una gelatina molle e instabile. Gli ci vuole qualche attimo di smarrimento prima di comprendere che quella gelatina sono in realtà le sue gambe.
Trema pericolosamente anche se il corpo non lo da a vedere. Un moto di vertigine che gli capovolge la prospettiva e lo costringe a serrare gli occhi. Il cervello sconnesso. Il cuore che accelera. Le orecchie si riempiono di un fischio acuto. Qualcuno-ha-sparato-a-John. Si rigira le parole in testa, come se a ripeterle possano divenire meno concrete. La cosa gli sembra tanto inverosimile da fargli credere sia tutto uno scherzo. È disarmante scoprire con quanta facilità il suo animo arrivi direttamente alla fase della negazione, pur di proteggersi.
Molly appoggia le sue mani su quelle dell'uomo, ancora ferme sulle sue spalle. Sono calde, nonostante il freddo di fine gennaio. Calde e delicate. Lei è calda e concreta e viva. Lei è qui e ora. Basta quello a farlo rinsavire. Mani che ti guidano sempre nella giusta direzione, sia che ti schiaffeggino sia che appena ti sfiorino
Sherlock si impone di non vacillare oltre: cinque minuti dopo corrono fuori dall'appartamento.
La corsa in taxi è la più lunga e sfibrante di tutta la sua vita. Molly seduta accanto a lui si ordina di rispettare ogni centimetro di Sherlock, dal corpo trattenuto e teso all'ansia che gli fa tremare le mani. Desidera afferrarle e riempire quel silenzio assordante con parole futili, ma non lo fa. Guarda fuori dal finestrino per tutta la durata del tragitto. Sherlock si è scavato un solco nell'indice della mano destra a furia di martoriarlo. Vorrebbe chiedergli a cosa stia pensando, cosa stia sentendo. Rimane zitta, perché mai lo aveva visto così inquieto: un bambino davanti all'armadio che nasconde l'uomo nero. Non le ha nemmeno chiesto come sia potuta accadere una cosa del genere.
Arrivati al Bart's Sherlock scende dal taxi come una colata di lava scura e ribollente. Non si ferma nemmeno ad aspettarla, mentre Molly paga il tassista in tutta fretta: "tenga pure il resto" non sa nemmeno quanto abbia pagato. Non ha importanza.
"John Watson!" La voce solitamente così bassa e controllata fa tremare l'intero atrio. Sherlock al banco del triage sovrasta una povera infermiera di molto più bassa di lui "Dov'è?"
"Ah, lo hanno portato qui mezz'ora fa. Dev'essere ancora in sala operatoria."
"DEV'ESSERE? Perché di norma dove li mettono i pazienti da operare d'urgenza?"
"Sherlock" una mano sul braccio.
"Che c'è?"
Molly si ritrae come se si fosse scottata, avvampando di vergogna e rabbia insieme. Gli scocca un'occhiata gelida.
Sherlock si rende vagamente conto di quanto sta accadendo, di quanto ridicolo sia scomporsi così in mezzo a tanta gente, di quanto - maledizione - stia mostrando di se stesso che non dovrebbe far vedere: si irrigidisce con le mani dietro la schiena; con solerzia rialza la barriera tra lui e il mondo esterno. Ricollega il cervello e scollega il cuore. Ma si può realmente smettere di sentire qualcosa, Sherlock Holmes? Preoccuparsi non serve a niente: sia che John viva, sia che... Dio, non vuole nemmeno pensarci.
Ma ora deve tornare lucido. Cristallino, come quando ha premuto quel grilletto. Perfettamente padrone di se stesso anche nell'atto finale della sua personale tragedia. Il suo sguardo si rischiara.
Molly lo percepisce e finalmente si concede di rilassare i muscoli delle spalle: ora che lui è tornato, lei può lasciarsi andare.
"Domando scusa. Noi saremo in sala d'attesa: la prego di venirci ad avvisare appena si saprà qualcosa" i suoi modi affettati sono traditi solo dallo sfarfallio delle ciglia.
L'infermiera arriccia il naso in una smorfia di disappunto.
"Non stai dimenticando niente?" Molly al suo fianco lo guarda con aria sorniona, così fuori luogo in un momento come quello. Sherlock ne è alquanto infastidito.
"Io? In che sen... No, non ci pensare nemmeno!" È puro terrore quello che si palesa negli occhi del moro. Come se già l'ansia per John non fosse abbastanza. Se Moriarty entrasse in quel momento puntandogli una pistola alla testa sarebbe decisamente più a suo agio.
"Io ci penso eccome! Non vorrai lasciarla da sola proprio adesso?"
"E secondo te io cosa dovrei fare? Non sono mica un'ostetrica!"
"Stalle vicino, tu razza di idiota!" Molly gli tira un pugno sul braccio "Muoviti. O ti devo schiaffeggiare ancora?"
Sherlock la guarda, poi guarda il pavimento, si volta al banco del triage, torna su Molly e poi fissa con desiderio le porte d'uscita, mordendosi il labbro.
"Non t'azzardare!" La patologa gli si pianta davanti.
"Ma scusa, sei una donna: perché non ci vai tu?"
"Ma che ragionamento beota! È la moglie del tuo migliore amico, mica la mia. E poi ti vuole bene: ti ha addirittura amorevolmente sparato. Più intimi di così si muore!"
Il detective alza un sopracciglio tutt'altro che convinto: "non dovrebbero esserci altre fasi intermedie prima?"
Molly intreccia le braccia al petto e cerca di sembrare più imponente, tentativo inutile, mentre gli parla come se avesse a che fare con un bambino che non vuole fare i compiti: "Sherlock Holmes chiedi da solo dove devi andare o ti prendo a calci da qui al reparto ostetricia"
Lo farebbe, Sherlock ne è consapevole. Serra forte gli occhi, raccoglie la sua dignità da terra, fa finta di non pensare a John steso su un tavolo operatorio e si volta verso l'infermiera contro cui poco prima aveva urlato.
"Mary Morstan Watson. Dovrebbe essere qui anche lei.. Parto prematuro"
L'infermiera lo guarda fintamente seccata. Poi annuisce, digita qualcosa al computer: "Ecco.. Terzo piano, la sua stanza è la 302. Ma se l'hanno già portata in sala parto, lei deve imboccare qual corridoio e seguire le indicazioni" il suo sguardo si addolcisce "Dica che è lei il padre: le faranno meno storie"
Sherlock deglutisce a vuoto "Detto sinceramente: preferirei rimanere solo il padrino..."
 
La incrocia a metà del corridoio, seduta su una sedia a rotelle, scortata da due infermiere. Ha lo sguardo stravolto dal dolore delle contrazioni che ormai devono essersi fatte ravvicinate e lunghe. Sherlock non vuole nemmeno pensare a cosa si deve agitare dentro di lei: la vita di sua figlia per quella del marito? Forse meglio lasciarsi andare entrambe, che l'oblio ha un che di dolce. Lui lo sa bene. Ma sa anche che c'è sempre una valida ragione per restare ancorati a questo mondo, per quanto sia sporco, inumano e inospitale.
Quando Mary lo vede, il lungo cappotto nero così fuori posto nel bianco asettico, gli occhi aprono uno spiraglio alla speranza. No, non speranza: gratitudine.
"Sherlock!" Il detective insegue a passo svelto lo strano corteo, legandovisi con una catena invisibile come se ne dipendesse anche della sua vita. Fluttuano nel corridoio affrontando una sudicia corrente contraria. Lui è deciso a remare fino a riva e portare tutti in secca, dovesse scorticarsi le mani fino all'osso.
Mary si volta per guardarlo negli occhi, nella voce le trema l'urgenza di sapere: "Dov'è John?"
"Sta bene, non ci pensare"
"Stai mentendo..."
"Ovvio che sto mentendo!"
"Che premuroso" Mary si agita sulla sedia, cercando in tutti i modi di trovare sollievo. Le contrazioni ora sono lunghe, la spaccano di un dolore reso amplificato dalla paura.
"Senti, al momento credo sia più importante che tu ti concentri sul parto, che dici?"
"Non ce la posso fare.. Non sono in grado di.." Rassegnazione. Paura. Sgomento. Inadeguatezza. Delusione. Cosa si agita sul fondo del suo animo, così in profondità da impedirle di nasconderlo? Sherlock non ci crede. Si rifiuta di crederci. Lui ha dato due volte la vita per John; una delle quelle quali era riservata anche a Mary e alla creatura non ancora nata. Come si permetteva lei, come poteva anche solo pensare di poter dire "io non"? Non picchierebbe mai una donna, ma ora vorrebbe colpirla con forza in pieno viso. Ora comprende la delusione che mosse le mani di Molly quando si ritrovò il segno bruciante delle sue dita stampate su entrambe le guance.
"Fermati" accelera il passo e tenta di fermare l'infermiera che spinge la sedia.
"Assolutamente no! Dobbiamo portarla in sala parto d'urgenza!"
"Ogni quanto ha le contrazioni?"
"Ogni 3 - 4 minuti. Le si romperanno le acque da un momento all'altro, quindi..."
"Quindi abbiamo tempo! Ho detto fermati!" Sherlock si para davanti a Mary e si inginocchia ai suoi piedi in modo da avere gli occhi alla stessa altezza. Sono mare in tempesta. Entrambi. Si fondono l'uno dentro l'altra con un atto che non ha nulla di sporco e molto di puro. Quante sono le forme d'amore che ti stai ritrovando a scoprire, Sherlock Holmes?
Le poggia le mani sulle ginocchia, semplicemente perché è troppo terrorizzato per permettersi di osare di più. Ha paura di romperla. Di rompersi a sua volta.
"Stammi bene a sentire Mary: tu farai nascere questa bambina, che sarà perfetta e straordinaria come voi due. E John sopravviverà perché tu gli stai dando il motivo migliore di tutti per farlo. Devi essere calma e lucida: hai la responsabilità di due vite tra le mani, ma in fondo questo lo sapevi già quando hai deciso di essere moglie e madre. Concentrati. Respira e concentrati. Andrà tutto bene"
A Mary sfugge una lacrima. È un'ex assassina, ma è pur sempre donna. Tra poco potrebbe essere molto, molto di più. E gli occhi del detective sono così buoni che sarebbe un delitto non assecondarli.
"Saresti un padre perfetto"
"Non dirlo neanche per scherzo" si concedono entrambi un sorriso liberatorio. Poi Mary scatta in avanti, arpionando con forza le spalle dell'uomo di fronte a lei, affondando le dita nella stoffa pesante del cappotto.
"Sherlock.. Sto per partorire in mezzo al corridoio.."
"Ok, muoviamoci"
 
Arrivati davanti alla sala parto Sherlock esita: se varca quella soglia non tornerà più indietro. Qualsiasi cosa accadrà là dentro, lui perderà una parte di se. Negli ultimi mesi si è già messo in discussione fin troppo per i suoi gusti. Si ferma sulla porta, le infermiere che spostano Mary dalla sedia a rotelle a quella del parto. Dal tempo passato e da come la donna si contrae è evidente che sta entrando proprio ora nella fase di espulsione.
"Scegli, fratellino: entri e ti perdi; oppure resti qui e rimani come sei" Mycroft è un'ombra dannatamente reale al suo fianco. "Qualunque sia la tua scelta, qualcosa cambierà"
"Sherlock..." Mary singhiozza, lo guarda supplicandolo "Ti prego non lasciarmi da sola..." Alza una mano a fatica nella sua direzione.
"Forse è meglio perdersi, non trovi? Restare fermi è noioso" l'uomo non si volta: si concede il dubbio di non sapere se la figura comparsa al suo fianco sia vera o frutto del suo inconscio. Molly c'è sempre, da qualche parte dentro e tutt'attorno a lui. Quel profumo troppo dolce che lui ha imparato ad apprezzare.
"Maledizione." Chiude gli occhi e si getta oltre la porta taglia-fuoco.
Chi è che sta nascendo proprio ora, Sherlock Holmes?
 
"Ok, sta andando benissimo.. Respiri, respiri.. E spinga!"
Mary conficca le dita nella mano di Sherlock lasciando dei profondi segni rossi che marchiano la sua pelle fin troppo chiara. Un grido saturo di forza, aspettativa, dolore ma anche speranza. Si aggrappa a lui come se fosse l'ultimo appiglio prima che le emozioni, tutte troppo forti, tutte troppo intense, la trascinino via e la facciano svenire.
Sherlock si sente piccolo. Piccolo, stupido e impotente davanti all'incredibile e meraviglioso miracolo che si sta consumando tra quelle pareti.
Ha cercato di rimanere il più distaccato possibile: si è arreso non appena si è reso conto che questo è l'attimo più importante di tutta la sua vita. Quella creatura vedrà prima lui e poi, forse, suo padre. In questo momento Sherlock ha generato quella bambina tanto quanto i coniugi Watson.
"Bravissima.. Ancora un piccolo sforzo e.. Spinga!"
Mary gli stritola le dita. Sherlock si sente uno sciocco, ma stringe gli occhi dal dolore.
"Giuro che se tuo marito sopravvive, lo ammazzo io dopo"
"Non dire stronzate..."
"Ecco la testa!"
La signora Watson si contrae un'ultima volta. Stringe così forte la sua mano tanto da rendere le dita ancora più pallide. Sherlock trema insieme a lei. Una parte di lui vorrebbe fuggire in preda alla paura. La sua parte più buona, quella migliore nonostante tutto, è terribilmente orgoglioso di lei.
Il pianto della bambina riempie la stanza. Il detective si trova a sorridere come un perfetto idiota, mentre Mary strofina la fronte sudata sul dorso della sua mano e sorride a sua volta. Sorridono senza ritegno. Senza rendersene conto, lui stampa un bacio sui capelli scompigliati di lei. Poi la consapevolezza gli piomba addosso come una frana. É tutto sbagliato. Tutto dannatamente sbagliato! Tenta di ricomporsi, pieno di imbarazzo, mentre lei tiene ancora salda la sua mano nella propria. Nel petto gli si agita un animale in gabbia. Una chimera dal manto squamato che porta i colori della paura, del sollievo, dello sconforto, dell’euforia, dell'inadeguatezza e forse anche il verde oscuro dell'invidia. Proprio quest'ultimo gli fa accendere un campanello di allarme.
Lasciare fluire. Lasciar crollare la diga. E poi dopo cosa ti rimane? Lasciar uscire vuol dire permettere a qualcosa di entrare. Sei disposto a questo Sherlock? Sei disposto ad accettare di essere incompleto?
"Sei davvero uno stupido ragazzino"
"A volte è la stupidità che ci porta a scoprire chi siamo"
È arrivato il momento di scegliere. Ti concederai di aprire gli occhi? Oppure preferirai essere codardo, Sherlock?
"Mary, scusami, io..."
Lei comprende al volo e lo lascia andare. Nel suo sguardo una gratitudine infinita.
Lui annuisce serio, ma non perde nemmeno un secondo. Non vuole vederla, quella piccola creatura coperta di sangue. Non è lui che dovrebbe trovarsi lì. Il disagio gli crolla addosso quasi fosse una doccia d'acqua gelata mentre scappa dalla sala parto come se stesse andando a fuoco.
 
Molly, seduta nella sala d'attesa in fondo al corridoio, ha fatto fuori un intero pacchetto di fazzoletti. Nel senso che li ha meticolosamente fatti a pezzi uno per uno e ora si ritrova in grembo una miriade di piccoli coriandoli bianchi.
Non li ha seguiti fino alla sala parto per non sconvolgere ulteriormente l'equilibrio già precario in cui versa Sherlock; ma adesso è corrosa dal bisogno di sapere. Quando lo vede gettarsi fuori dalla porta ha un moto di sgomento, pensando al peggio, ma poi lo vede alzare gli occhi al soffitto e prendere un lungo sospiro. Dopo tanti anni passati a stretto contatto e in cui lei ha dovuto arrangiarsi per comprendere i suoi ottusi e cervellotici silenzi, ormai conosce alla perfezione il significato di ogni suo gesto. Ha imparato a leggerlo come se fosse un antico trattato di magia oscura; complesso, intrigante e irrinunciabile. Lui stringe gli occhi, ma rilassa la bocca: sta cercando di rimettere insieme i cocci di se stesso.
Molly vorrebbe avvicinarsi. Si alza. Poi ci ripensa.
Rimane ferma a studiarlo nascosta nell'anonimato dei genitori che balbettano stupidaggini sconnesse al vetro delle incubatrici.
Sherlock si massaggia le mani con lentezza, l'espressione concentrata gli indurisce lo sguardo evidenziando le rughe che gli si formano intorno agli occhi e che lo rendono ancora più affascinante. Potrebbe essere un ragazzino o un uomo vecchio come il tempo e sarebbe sempre bellissimo: una quercia salda e antica in un bosco di fragili betulle.
Lei è il piccolo salice piangente che oscilla i suoi lunghi rami nel vano tentativo di raggiungerlo.
Lo vede portarsi le mani al collo: nel caos generale si è dimenticato di togliersi sciarpa e cappotto e ora se ne libera con un gesto secco e infastidito, gettandoli su una sedia lì vicino. È impacciato nei movimenti, che sembrano costargli un'immensa fatica. Non sono fluidi e armoniosi come al solito. Questa volta hanno un ritmo diverso. Sherlock non lo sa, o non se ne rende conto, ma lui è pura musica in tutto ciò che fa. Anche ora è una dissonante partitura contemporanea, disturbante e irrequieta. Molly vorrebbe poter incidere ogni sua sfaccettatura su un disco da portare sempre con se e riascoltare per ore e ore, renderlo la colonna sonora della sua vita.
Com'è stata sciocca a pensare che potesse davvero liberarsi dal suo giogo.
A un tratto un'infermiera esce dalla sala parto con un piccolo involto di coperte bianche a quadrati rosa. Si avvicina al detective. Lui si ritrae. Guarda quasi con orrore il fagotto tra le braccia della donna. Gli occhi scivolano immediatamente oltre, pur di non vedere.
La patologa muove un passo verso di lui: vorrebbe avvicinarlo, dirgli che non c’è nulla di sbagliato in tutto questo. Eppure, per una qualche ragione non riesce ad avvicinarsi. Forse vuole scoprire cosa sceglierà di fare questa volta Sherlock Holmes.
L'infermiera dice qualcosa. Lui scuote la testa e porta avanti le mani in un chiaro segnale di protezione. Molly sente il cuore rimbombarle in gola. Si torce la sciarpa tra le mani, mentre si morde il labbro.
Non rovinare. Non vacillare. Apri quella porta, Sherlock. Spalancala e guarda quanto meraviglioso è il mondo fuori dalla tua fortezza. Fallo per noi. Fallo per te.
Sherlock guarda intensamente l'infermiera. Poi annuisce, le sue labbra formulano un "va bene" stanco e lei si gira quel tanto che basta per mostrargli l'interno della coperta: Molly vede una piccola testa bionda fare capolino oltre l'orlo e gli occhi le si riempiono di luce.
Vorrebbe piangere da quanto è bello il sorriso che illumina il volto del consulente investigativo. Di una dolcezza disarmante che la fa innamorare di lui ancora una volta. Ogni atomo del suo corpo freme dalla voglia di raggiungerlo e stringergli le braccia al collo.
L'infermiera sorride soddisfatta, poi con mossa repentina e sicura al tempo stesso gli mette la bambina tra le mani. L'uomo si blocca, cessa di respirare, visibilmente sconvolto. Poi accetta quel minuscolo dono e si porta la piccola Watson al petto. Quelle mani, abituate ad avere a che fare con agenti chimici, pistole, coltelli e criminali, la stringono dolcemente; la cullano piano, ondeggiando con serenità.
Molly decide che ora può avvicinarsi. Sherlock la vede, abbozza un sorriso e sbatte le palpebre nel tentativo di nascondere gli occhi lucidi, ma sa perfettamente che lei li ha notati.
"Non dire niente" si abbassa un poco, giusto per permettere a Molly di incontrare i due occhietti socchiusi.
Lei fa come gli viene chiesto, però si concede una licenza: nell'allungare una mano per accarezzare un delicato pugnetto, appoggia la testa al braccio del detective. Inspira il suo profumo. Avverte il suo calore oltre la stoffa scura della giacca. Percepisce il cuore che gli rimbomba nel petto scatenato da chissà quale “reazione chimica”, come direbbe lui.
Per un minuto rimangono così, senza parlare, senza guardarsi. Tra poco dovranno tornare a fare i conti con la dura realtà. Ma per il momento è tutto troppo perfetto per permettersi di non viverlo fino in fondo.
E questo, non c'è dubbio, è il più bel lampo che potrebbe illuminare le loro vite.
 
Un'ora più tardi sono ancora intorpiditi nella sala d'attesa, dopo che Sherlock ha provato con scarso successo a intrufolarsi nella zona delle sale di chirurgia. La piccola Watson è stata portata via dalle infermiere che hanno assicurato loro il suo ottimo stato di salute, nonostante le due settimane d'anticipo. Mary invece è sotto sedativi: non riusciva a calmarsi, ma aveva bisogno di dormire e riprendersi almeno un poco. Di John non hanno saputo ancora nulla.
“Tieni: ne hai bisogno” Molly gli porge un bicchiere di carta contenente del liquido scuro che pretende di essere caffè.
Sherlock la ringrazia: ora che parte dell’adrenalina è defluita necessita di qualcosa che lo tenga sveglio. Prende un sorso, poi fa una smorfia. “Il tuo è più buono”
La patologa arrossisce per quell’inatteso complimento, poi si rende conto che forse sott’intende qualcos’altro.
“Ah, perdonami.. Vado subito nella cucina del reparto dipendenti e te ne preparo uno decente”
Il moro vorrebbe sorridere a quell’atteggiamento che definire infantile sarebbe un eufemismo, in così forte contrasto rispetto alla Molly agguerrita che lo ha minacciato poco prima. Invece agita una mano a mezz'aria come se volesse scacciare un pensiero fastidioso.
“Stavo solo sottolineando quanto il caffè delle macchinette sia deludente" per non dire terribile.
“Sì.. certo” la donna rigira il proprio bicchiere ormai vuoto tra le mani, mentre abbassa gli occhi. È la prima volta che restano da soli da quando gli è piombata in casa qualche ora prima. In realtà è la prima volta che restano da soli dopo tanto tempo. C'è un quieto imbarazzo che aleggia tra di loro.
Sherlock sospira. “Vieni qui e siediti. Non ti mordo”
Molly ciondola fino alla sedia e ci si accascia completamente svuotata; si sfrega gli occhi resi piccoli dalla spossatezza. Pensa a quanto ingiusto sia che il prezzo che Sherlock deve pagare per una giornata di libertà dal suo appartamento sia una giornata di prigionia in ospedale, oltretutto per un motivo così meschino. Anche lui ha gli occhi stanchi, le palpebre sempre più pesanti minacciano di serrarsi da un momento all'altro. Troppe emozioni, probabilmente. Una centrifuga che lo ha ribaltato da dentro a fuori e lo ha restituito al mondo più stropicciato di prima. La patologa sorride all'irriverente pensiero che lo vede come un gatto dal pelo arruffato mentre soffia contro un'immensa lavatrice.
Dal canto suo, lei è totalmente in balia degli eventi: quella mattina in obitorio le hanno nuovamente negato il permesso per le analisi sul presunto cadavere di Moriarty; poi poco dopo la telefonata di Mycroft che le intima di uscire dall'ospedale dove l'attende Anthea con già in mano i fogli per il rilascio del detective; quindi la corsa in Baker Street. Non si è nemmeno soffermata a pensare a come e quando Mycroft avesse saputo dell'attentato ai Watson, né di come avesse fatto ad avere tutto disposto con tempistiche così perfette. Come se sapesse, come se quei documenti fossero già pronti sulla sua scrivania da tempo immemore. Molly si trova a chiedersi se ci sono dei fogli che alla dicitura causale recitano: attentato a Miss Hooper. Poi si rende conto con sgomento che quella mattina ha pagato al tassista un cifra esorbitante.
Sospira rassegnata. Sembra sempre che lei non riesca in alcun modo ad avere pieno controllo della sua vita: ci sono sempre fattori esterni, personalità più forti che decidono il percorso al posto suo. È decisamente snervante, la fa sentire innocua e troppo dolce come una margherita, in attesa solo che il prossimo innamorato abusi di lei e le strappi via ogni cosa. Anche adesso, in questa sala d'aspetto, è cedevole e liquida, proprio come il suo nome. Vuoi che sia stanchezza, vuoi che sia ansia Molly proprio non riesce ad apparire dura.
Invece Sherlock al suo fianco siede rigido, una stalagmite di ghiaccio rovente che si espande a ogni respiro. Le dita che tamburellano sulle ginocchia mentre il suo sguardo passa in rassegna le persone intorno a loro, saettando dall'una all'altra, cercando qualcosa che Molly non riesce ad afferrare.
"Quale rebus stai cercando di risolvere?"
Sherlock si volta, incrociando il suo sguardo. Le luci violente e impersonali dei neon rendono il suo volto una maschera di cera. Molly prova a leggervi qualcosa, qualsiasi cosa, ma il consulente investigativo è talmente bravo a dissimulare ogni stato d'animo che la patologa rimane un'analfabeta davanti a quello sguardo.
"Guardali" gli occhi azzurri scattano verso le persone accalcate davanti al vetro della nursery "Tutti così felici. Tutti così..." Indugia, inciampa nella ricerca.
"Realizzati?"
Sherlock serra a pugno la mano libera dal bicchiere "Realizzati... Non importa nient'altro all'infuori del loro piccolo nucleo di esistenza. È tutto così ridicolo. Consacrare la propria vita a pannolini e notti insonni per..." Sputa le parole con disprezzo "tutta quella promessa di futuro che fuori di qui sa Dio cosa andrà a creare. Tutto quel potenziale... E magari lì in mezzo c'è una mente geniale, la più brillante di tutte, e a seconda di cosa il destino le ha riservato potrebbe diventare il nuovo Moriarty e io sono qui a chiedermi chi la fermerà se così fosse."
Molly è colpita. Non si aspettava una tale manifestazione emotiva, né la profondità della ricerca che sta spingendo Sherlock oltre il confine della sua fredda ragione. Prova tenerezza per questo cavaliere vestito di nero che non si schianta contro le pale dei mulini a vento, ma si sente ridicolo davanti agli occhi mansueti di una pecora.
"Se così fosse... Magari lì in mezzo c'è un nuovo te"
Gli sorride apertamente. Sherlock la guarda con stupore, le iridi tremano per un momento. Poi torna in se: il potere calmante di questa piccola donna; la sua pazienza che rimane immutata nonostante lui a volte incarni il peggio dell'irritabilità; la sua totale fiducia riposta nella certezza che dovunque il mondo vada a finire, Sherlock Holmes ci sarà per fare in modo che tutto segua la giusta direzione. Sente qualcosa divampare all'altezza dello stomaco. Prende un nuovo sorso di liquido amaro, pur di tenere impegnate le labbra prima che queste sputino il suo solito veleno. Acidità, piuttosto che cedere alla più amabile dolcezza.
Questa volta però Molly ha intuito il sottile puzzle che ha di fronte. Sorride compiaciuta.
"Sai.. Dovremmo avere un bambino"
Sherlock si strozza con il caffè.
Molly spalanca la bocca in un'espressione di completo imbarazzo.
"No, cioè, intendevo... Non io e te.. Cioè non noi due insieme.. Quello che volevo dire"
"Molly, decisamente la conversazione è un campo che non ti si addice" l'uomo tossisce nel tentativo di riprendersi.
Molly prende un lungo respiro.
"Quello che volevo dire è che ci farebbe bene. Almeno, a me di sicuro, vista la mia età.. E poi prima, con la bambina... Sai, si dice che per capire la vera natura di una donna bisogna metterle un bambino tra le braccia"
"Sì, ma tu non hai preso in braccio la bambina" Sherlock la osserva con divertita curiosità "stai insinuando che sono una donna?"
Molly apre e chiude la bocca senza davvero trovare un modo sincero per rispondergli. Arrossisce di una tinta tenue quando capisce che l'unico modo per uscirne pulita è tentare di spiegarsi. Ed è forse più imbarazzante che dare della donna all'uomo che le sta di fronte.
"Quello che sto cercando di dire.. Sì, quello che sto cercando di dire è che eri radioso con quel fagotto al petto" Molly si stringe nelle spalle e gli sorride.
Il detective annuisce pensieroso. La patologa è pronta a credere di aver visto l'ombra di un sorriso aleggiare intorno alla sua bocca. "Quindi secondo te io, che mi drogo regolarmente, rischio la vita per risolvere crimini, sono colpevole di omicidio e faccio esperimenti chimici in casa, sono adatto a fare il papà"
"Beh, insomma.. Tutti hanno un margine di miglioramento" il sorriso si incrina per l'imbarazzo.
Ha davvero pensato a loro due con un loro fagotto da stringere?
Buon Dio, sì che ci ha pensato. E non per la prima volta, a essere onesti.
Sherlock scuote la testa sorridendo beffardo: "solo tu puoi" gli sale in gola una leggera risata "sì, solo tu.."
"Solo io cosa? Cosa?" Molly si agita provocando in lui un riso più profondo.
Purtroppo dura troppo poco perché lei se ne possa beare. Il detective torna serio, lo sguardo si rabbuia di una tristezza che in questo momento è troppo stanco per tentare di nascondere. Si porta una mano al viso nel vano tentativo di cancellare quell'espressione addolorata. Un respiro lungo, sfibrato, dolente.
La patologa esita. Si morde il labbro. Poi con delicatezza posa una mano su quella che ancora stringe il bicchiere ormai vuoto.
Resta così per tempo infinito, lo sguardo piantato su di lui in una muta supplica. Lui non la guarda. Quel dolore è un privilegio solo suo. Lei rimane immobile, un'ombra pallida nella luce artificiale.
Quando il bicchiere di carta cade a terra Molly sussulta come se avesse sentito il suono di uno sparo.
Le dita di Sherlock strette intorno alle sue.
Una preghiera a sua volta: assoluzione per quell'uomo vile che non ha il coraggio di stare solo, ma ha troppa paura di ammetterlo.
Quanta tenerezza, quanta disperazione in un singolo gesto.
"Andrà tutto bene, vedrai" la voce della donna gli scivola addosso in una carezza leggera. L'uomo si azzarda a guardarla negli occhi: vorrebbe chiederle quali prove ha a supporto di questa tesi, pur sapendo che prove non ce ne sono. Solo in questo momento si rende conto che l'unica cosa di cui ha bisogno ora è avere fede. Quindi decide di avere fede in lei.
"Sherlock.. Ti prego, non allontanarmi mai più" gli occhi di lei sono infiniti come il tempo.
Lui non risponde, ma Molly potrebbe giurare di aver sentito la presa intorno alle dita serrarsi un po' di più. Come prova le basta. È diventata maestra nel farsi bastare le piccole cose.
Lui continua a guardarla. Studia il suo volto leggendovi tutto, ogni singolo pensiero, dal più piccolo al più indicibile. Per la prima volta lei non se ne vergogna: che legga ogni segreto, al diavolo ogni riverbero di dignità!
Donami una parte di te. La più piccola. Quella che usi meno. A me andrà bene.
"Molly, io.."
"Ah, eccovi qui!" L'infermiera del triage trotterella verso di loro. La mano di Sherlock si ritrae con lo scatto secco di una frustata e lui balza sull'attenti, pronto ad affrontare l'inevitabile. Qualunque cosa stesse per dire ormai è sfumata nella miriade di ticchettii perduti.
Molly è una statua di sale.
L'infermiera continua, implacabile: "Ci tenevo a dirvelo personalmente"
Sherlock porta le mani dietro la schiena. Il pollice ha ripreso a scavare solchi nelle altre dita. Il corpo teso trattiene il respiro. Ha già capito tutto, da come le si curvano le sopracciglia, da come tiene le cartelle sul braccio.. Ma in questo momento non riesce a fidarsi del proprio cervello: ha bisogno di sentirselo dire. Solo così potrà essere vero.
"L'operazione è andata a buon fine: John Watson è stato trasferito nel reparto di terapia intensiva. Dovrà rimanere sotto stretta sorveglianza, ma il peggio è passato"
L'orologio riprende a scorrere. Sherlock torna a respirare.
 
 
 
 
 
 
Note
Aggiorno in anticipo, per farmi perdonare l’immenso ritardo dello scorso capitolo.
Beh, non ho molto altro da dire. Ho curato questo capitolo in maniera particolare (maniacale è il termine corretto). Un plauso al mio moroso che ha la pazienza e la testardaggine di leggere in anteprima e costringere la mia fangirl interiore a rigare dritto: ti darò un premio per ogni volta mi hai sentito nominare Sherlock/Ben. Ergo andrò in bancarotta!
Non oso pesare quando arriveremo ai capitoli rossi…
Spero vi sia piaciuto. ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo Cinque - in cui si cerca il vero nome delle cose ***


Capitolo Cinque - in cui si cerca il vero nome delle cose
 
Sherlock é immobile davanti all'infermiera del triage: ha smesso di ascoltarla ormai da un pezzo; lo sguardo percepisce appena i suoi movimenti concitati, un linguaggio del corpo probabilmente dissonante con il reale contenuto delle sue parole. Gli occhi del detective scivolano oltre, sospinti come una vela al vento verso altre terre che la donna non può vedere.
Non sono i numeri ciò di cui lui ha bisogno ora. Non sono dati snocciolati alla meglio su quanto alta sia la percentuale di salvezza di John Watson e nemmeno le rassicurazioni sulla bravura dell'equipe medica che lo ha preso in cura.
Sherlock naviga oltre, in un ventaglio di futuri possibili in cui contro ogni precedente aspettativa John c'é. Gli altri, quelli con la sua assenza avvertita negli angoli di una vita spigolosa e inaccettabile, evaporano lentamente; scoloriscono come foto sbiancate, aprendo buchi e voragini lungo la trama; lasciano spazio a nuove storie da raccontare: al gattonare di una bimba verso le braccia di suo padre, al profumo di torte di compleanno dalla glassa colorata e al sorriso di un uomo orgoglioso quando lei perderà il primo dentino. Immagini e suoni di qualcosa di così grande e inafferrabile da intimorire il consulente investigativo, tanto da terrorizzare ogni fibra del suo essere. Perché non c'è definizione che può racchiudere tutto quel sentire, e ridere, e soffrire, e suonare, e ballare, e amare di un amore così immenso da non volerne conoscere l’origine. È un qualcosa che non si può ridurre a numeri, per quanto c'è chi ci abbia provato. È un qualcosa che ti costringe a stare in prima linea sotto le luci della ribalta, perché quello è il tuo posto e te la devi giocare fino alla fine.
Lui ha paura di non aver mai compreso le regole di questo gioco.
Si chiama vita, Sherlock. Potresti viverla anche tu, se solo volessi concedertelo. Però, lo sai, questo è un gioco che non si gioca da soli.
Questo è ciò che non puoi accettare.
Il detective avverte alle sue spalle la presenza di Molly. É rimasta pietrificata, in bilico tra il sollievo e il disappunto, funambola su una corda instabile. Il sollievo é merito di John, il disappunto - come sempre - è colpa sua. Sherlock ne è consapevole eppure non si sente in colpa quanto dovrebbe per tutte le volte che le lascia intravvedere uno spiraglio prima di sbatterle la porta in faccia ancora una volta.
Molly dietro di lui si morde le labbra, come se volesse sorridere e al tempo stesso temesse di avere qualcosa incastrato tra i denti, quindi si trattiene. Spina di pesce conficcata in gola. La liberazione di sapere John salvo le ha reso le gambe molli, ma qualcosa le comprime la cassa toracica in una morsa. La pelle brucia là dove le dita dell'uomo avevano stretto le sue. La sua schiena immensa la lascia indietro. Lei ha perso il giusto attimo, ha mancato l'occasione e con essa il privilegio di potergli dare conforto.
Lo avverte chiaramente. Mattone dopo mattone. Senza guardarla negli occhi. Mai. Nemmeno per un secondo. Lui ricostruisce la sua fortezza. E lei rimane fuori.
"Faremo tutto il possibile, anche per la bambina"
L'infermiera sorride allegra, inconsapevole spettatrice di un dialogo senza parole che si sta consumando proprio davanti ai suoi occhi. L'essere umano é incline a ignorare ciò che non gli appartiene.
"Molto bene" Sherlock é una statua di marmo freddo e pallido.
Molly si fa avanti nel tentativo di compensare le sue mancanze, ringrazia calorosamente la donna e la prega di farle sapere al più presto quando sarà possibile fare visita al degente. "Sa, lavoro qui, al piano interrato. Questo é il numero dell'interfono. Grazie ancora. Grazie davvero"
Brancalo adesso o lascialo andare per sempre
È bastato un secondo per perderlo. La patologa si gira lanciando occhiate inquiete. Lo intravede scivolare lungo il corridoio mentre i pazienti e i medici paiono aprirsi come le acque del Mar Rosso al suo passaggio. Lo rincorre incurante della figura ridicola da pazza innamorata. Molly é abituata a dare spettacolo, a lei non importa di stare sotto i riflettori.
"Sherlock!" Il suo nome fluttua nell'aria e lo raggiunge come una brezza leggera. Il suo nome pronunciato da lei è qualcosa che lui non riesce mai a ignorare. Si volta, finalmente la guarda.
La determinazione dei suoi occhi blocca Molly sul posto. E lei comprende: ormai lui é già oltre, già immerso nella ricerca. Qualsiasi cosa abbia provato fino a quel momento è scivolato via, forse già cancellato o solo momentaneamente archiviato. Qualsiasi cosa stesse per dirgli poco prima ora non ha più importanza, sommerso dalla necessità di ottenere risposte di altro tipo. Cos'è successo e perché. The game is on.
La donna unisce le mani, accarezza il ricordo del tocco di lui. Deglutisce a vuoto, mentre si trattiene dal corrergli incontro e pregarlo di non andarsene. Invece gli sorride.
"Buon lavoro"
Lui si aggiusta il bavero del cappotto. Fuori ha preso a piovere una pioggia leggera.
"Grazie, Molly Hooper"
E in quel grazie, lei lo sa, è racchiuso tutto ciò che lui vorrebbe dirle ma non ha il coraggio di articolare in parole. A lei il compito di leggere fra le righe.
 
***
 
La luce del tramonto infiamma le pareti della stanza di un rosso vivo, mentre John apre gli occhi impastati dal sonno e dalla morfina. Si guarda attorno nel tentativo di mettere a fuoco ciò che lo circonda, ma tutto ciò che vede è solo il calore opprimente del crepuscolo.
«Sono morto.»
Lo pensa con tranquillità, prendendo l'asserzione come un mero dato di fatto. Gli hanno sparato. Hanno provato a salvarlo. Hanno fallito. Lui non è Sherlock Holmes che con un proiettile in corpo trova la forza di tornare dal regno dei morti. Lui è solo John Watson che diventa di nuovo vittima delle scelte sbagliate.
«Ah, chissà se Mary alla fine ha preso quell'integratore di vitamine... »
Erano andati insieme a fare la spesa perché Mary si sentiva troppo gonfia e spossata per muoversi da sola. "Devi consigliarmi sulla cura per questi ultimi giorni" gli aveva detto. Ma John era convinto che questa fosse solo una scusa per stare un po' insieme ed entrare nell'ottica di quanto poco mancasse all'inizio della loro nuova vita. Avevano perso mezz'ora davanti allo scaffale dei pannolini come se questi fossero la più incredibile opera d'arte della storia. John sorride ricordando come avesse provato imbarazzo all'idea di non saper usare un fasciatoio e di come Mary lo avesse preso in giro. Avevano svoltato allo scaffale successivo, ridendo.
Poi i colpi erano esplosi ravvicinati e impietosi.
L'urlo delle cassiere.
I vetri infranti delle bottiglie di vino.
Liquido bianco e rosso che si mescolava a quello più denso e cupo del sangue.
Mary che cadeva al suo fianco mentre si proteggeva la pancia con le braccia.
John stringe i denti.
Un dolore acuto gli infiamma il fianco sinistro.
La testa gira. Un conato di vomito lo fa contrarre in preda agli spasmi.
Tenta di piegarsi su se stesso e si rende conto con paura di avere degli strani tentacoli sottili che gli intrappolano le braccia. Prova a piegarle: una fitta sottile e liquida gli perfora l'interno del polso. John osserva il sangue scappare fuori dagli aghi che gli bucavano le vene.
"Dove sono?"
Il suono della sua stessa voce gli sembra irreale, distante, come se fosse una radio sintonizzata male. Ha la bocca asciutta: la lingua felpata si muove a fatica, incollandosi al palato. Che cose strane. Il dolore, la stanchezza, la sete. Sensazioni troppo vive per essere provate da un morto.
Poi il ricordo si spalanca davanti a lui: il suono delle ambulanze; i paramedici che si precipitavano a raccogliere i feriti riversi tra gli scaffali; Mary che strisciava verso di lui, la sua voce sottile e irrequieta.
Non morire Non lasciarmi Resta qui Sta arrivando
Sarai padre”
John spalanca gli occhi.
Mary! La bambina!!
Non è morto. Non può essere morto. Sarebbe una mancanza imperdonabile.
Però ci è andato tanto vicino. Ricorda di aver avuto un momento di debolezza, di aver pensato di essere stanco di quella vita troppo dolorosa e complicata. Tutto quell'affanno, combattere in guerra, rincorrere Sherlock, il vero nome di sua moglie a lui ancora sconosciuto. È così perché tu lo hai scelto. Il suo migliore amico porta in se una saggezza di cui nemmeno lui è pienamente consapevole.
Il suo migliore amico il miglior essere umano che io abbia mai conosciuto
Sua moglie di cui i problemi del tuo futuro sono un mio privilegio
Mrs. Hudson che se lasciasse Baker Street l'Inghilterra cadrebbe
Molly e Lestrade la fedeltà fatta essere umano
Mycroft il suo strano modo di dimostrare la sua protezione.
La bambina. La bambina. La bambina. La bambina.
“Dobbiamo ancora decidere il nome”
Aveva preso un respiro come se fosse riemerso dalle profondità dell'oceano.
John sente gli occhi bruciare a contatto con l'aria secca della stanza. Boccheggia come un pesce fuor d'acqua tentando di intrappolare nei propri polmoni quanta più aria possibile. Artiglia le lenzuola troppo inamidate e si innamora della loro consistenza ruvida sotto i polpastrelli. Si sente avido di ogni cosa. Anche del dolore che lo fascia stretto, sulla parte sinistra del corpo. Ne vorrebbe di più se questo servisse a dimostrare che è vivo. Il cuore rimbomba forte nelle sue orecchie, pompando sangue e ossigeno, costringendolo a chiudere gli occhi per non perdere di nuovo conoscenza.
Quando li riapre, la stanza d'ospedale è cristallina davanti a lui.
«Devo chiamare qualcuno»
Si volta incerto roteando gli occhi tutt'attorno. Non deve neanche perdere troppo tempo a cercare l'interfono che un'infermiera dal volto gentile apre la porta, forse richiamata dai vari bip che fanno i macchinari che, ora se ne rende conto, lo stanno monitorando.
"Ben svegliato, signor Watson. Come si sente?"
"Vivo"
Ed è meraviglioso dirlo ad alta voce.
"È un'ottima cosa. Ecco, beva questo" l'infermiera gli allunga un bicchiere colmo di acqua dall'aria freschissima. Lui lo prende con mani incerte imponendosi di non berla troppo velocemente.
John guarda quella donna come se fosse stata proprio lei a riportarlo in questo mondo. Il primo viso della sua nuova vita. Cerca di imprimerlo nella memoria il più fedelmente possibile, gonfio di una gratitudine che solo i sopravvissuti possono comprendere.
Ma la sua è una resurrezione incompleta: quello che conta ora è altro.
"Mia moglie.. Mia.. Mia.."
Fa fatica a concentrarsi su quel pensiero, così grande e incredibile: il nuovo punto fermo intorno al quale ruoterà tutto d'ora in poi. Tuttavia c'è una piccola incertezza che lo blocca dal domandare. Che scherzo sarebbe se lui fosse tornato mentre loro due fossero partite per mai più ritornare.
L'infermiera non risponde, ma gli sorride.
"Abbia un attimo di pazienza" si volta e scompare nel corridoio.
John si sente immensamente leggero. Una nuvola che vorrebbe librarsi nel cielo roseo racchiuso in questa stanza. Eppure i pensieri che si agitano nella sua mente lo zavorrano al terreno con ostinata tenacia. Nel tentativo di calmarli, il dottor Watson chiude gli occhi e comincia a contare.
Uno.. Due.. Tre.. Quattro..
Come si sarà sentita Mary dopo che lui ha chiuso gli occhi davanti all'oblio?
Cinque... Sei... Sette... Otto...
Qualcuno, oltre ai medici, si è preso cura di lei? E della loro creatura?
Nove... Dieci... Undici... Dodici...
E se lo shock e la paura avessero provocato danni?
Tredici... Quattordici...
Sherlock lo sa?
John spalanca gli occhi mentre precipita in un flusso di turbamento e aspettativa. Vorrebbe sapere per quanto tempo è rimasto incosciente: dalla gola secca e soprattutto dalla schiena anchilosata potrebbe azzardare almeno una giornata intera, ma forse potrebbe essere anche di più. Chissà se il suo ex coinquilino è venuto a trovarlo. Ammesso e non concesso che gli abbiano dato i permessi per uscire da Baker Street. A John sorge il dubbio su quanto Mycroft potrebbe essere magnanimo in un'occasione del genere. Si prende qualche attimo per riflettere, poi decide che sì, il maggiore degli Holmes lo concederebbe. C'è solo da capire come si comporterebbe il minore. E poi sua moglie. La signora Watson. Le avranno permesso di vederlo? Oppure per il bene di entrambi non l'hanno fatta avvicinare alle sale di terapia intensiva?
Il dottor Watson inspira a fondo, cercando di captare nell'aria qualche indizio, qualche traccia del passaggio in quella stanza della donna che ama. Potrebbe giurare di averne percepito il profumo. Oppure è solo fantasia. In questo momento anche solo la fantasia ha un effetto terapeutico su di lui.
Poi un rumore nel corridoio lo scuote.
La porta della sua camera si spalanca.
La luce del tramonto ha lasciato il posto a quella artificiale delle lampade, mentre un cielo terso brilla oltre i vetri della finestra riverberando sfumature blu e violette sul soffitto sopra di loro.
Lei è bellissima in quell'orribile vestaglia rosa.
"Signora Watson" John sorride con calore.
"Signor Watson" Mary è tesa nell'atto di frenare l'impulso di scattare da lui e baciarlo come se fosse la prima volta, ben consapevole che flebo, elettrodi e quant'altro salterebbero via come pop-corn se gli si gettasse tra le braccia. Ma John è così bello nella sua espressione di puro sollievo che la prova si rivela più ardua del previsto. Con un'occhiata rapida lo sguardo vola alla fasciatura che ricopre il suo fianco e le labbra si stringono in un moto d'apprensione. Quanto vicino è arrivato a sfiorare il confine della morte? Ma soprattutto, perché? La domanda le rimbalza in testa da troppo tempo per poterla sopportare oltre. Eppure lo sa: non sarà lei a trovare questa risposta. Sicuramente chi di dovere è già al lavoro.
Mary rialza lo sguardo: suo marito la sta osservando con assoluto stupore negli occhi. Lo vede sbattere le palpebre e sorridere, esalando la risata in quel modo tipico che gli appartiene. John apre la bocca per dire qualcosa, ma poi esita. Anche questo è un qualcosa di tipico che gli appartiene: Mary lo adora quando fa così.
"Non hai più il pancione"
"Già" la signora Watson sorride.
"Parto indotto?"
"Lo shock"
"Giusto" John annuisce più a se stesso che a lei. E se.. No, non è concepibile: Mary non starebbe lì in piedi a sorridergli se fosse successo qualcosa di irreparabile.
In un attimo lei è al suo fianco, gli sfiora la fronte con la punta delle dita prima di dargli un bacio leggero a fior di labbra, come se avesse paura di incrinarlo.
"Ho avuto una paura del diavolo" gli occhi della donna si riempiono di lacrime colme di sollievo.
"Ti amo" è tutto quello che John Watson riesce a dire. Tutta l'anima che di diritto appartiene a Mary racchiusa in due sillabe. Il dottore cerca la mano di sua moglie e la stringe forte per non lasciarla andare.
Lei lo guarda con occhi adoranti mentre si asciuga le guance con la manica della vestaglia. Annuisce. Quindi si volta e guadagna rapida l'uscita.
John rimane interdetto. Svuotato. Un così piccolo assaggio di riavvicinamento e già lei se ne allontana. Forse che farsi sparare e tornare dalla morte non sia abbastanza?
Ma Mary rientra nella stanza come un uragano solo mezzo secondo dopo. E lì, tra le sue braccia, la piccola Watson. La donna si avvicina al letto con passi rapidi incapace di frenare oltre la trepidazione. John fa alzare il letto quel tanto che basta per guadagnare una posizione semi seduta, mentre sporge il collo quasi fosse una tartaruga.
La vede e tutto il resto viene privato di senso compiuto.
Se mai ha fatto qualcosa di buono nella sua vita è stato solo per arrivare a questo momento.
"Posso?"
Mary stampa un bacio sulla testolina bionda, poi delicatamente posa tra le braccia di suo marito la loro bambina. Lui la tiene come se fosse una farfalla.
"Ciao" lo sussurra guardando sua figlia negli occhi. Le accarezza piano i radi capelli. La piccola si porta le manine alla bocca, l'imitazione incerta di un sorriso.
"Che nome le hai dato?" Il dottor Watson tira su col naso nel tentativo di ricomporsi mentre lancia un'occhiata alla moglie per poi tornare a guardare la bambina, semplicemente incapace di distogliere gli occhi da lei.
"Ho aspettato te" sussurra Mary. Il suo sguardo è limpido mentre lo dice.
L'uomo sussulta. Non solo perché questo significa che sua figlia non ha ancora una vera e propria identità; ma anche perché in quelle tre parole Mary ha racchiuso la sua totale fiducia in lui.
Non te ne saresti mai andato così. Non mi avresti mai lasciato sola.
John allunga una mano verso sua moglie, ben attento a non far cadere la piccola; le passa le dita tra i capelli fino a fermarsi sulla nuca. Gentilmente l'attira a se. Sente gli aghi delle flebo tirare e pizzicare, ma non importa.
Questo è il loro primo bacio. Il primo bacio fa sempre un po' male.
Mary chiude gli occhi, come fanno le spose la prima notte di nozze.
John sente il cuore gonfiarsi a dismisura e imprigionare tutti loro, le flebo, gli elettrodi, la stanza stessa.
Si staccano chiedendosi perché gli amanti abbiano bisogno di respirare.
"Sarà il caso di dargliene uno, allora" John torna a guardare sua figlia, che ha preso a ciucciare un lembo della coperta che la avvolge.
"Io ho un paio di idee"
I coniugi Watson si scambiano un'occhiata complice mentre sorridono.
 
***
 
Ore 6.48pm.
Sherlock Holmes seduto in poltrona pizzica con gentilezza le corde del violino. Lo sguardo affilato che pare bucare la realtà. Il respiro profondo e regolare, meditativo. Chiude gli occhi.
 
Ore 6.49pm.
I suoi passi risuonano lungo le corsie vuote e gli scaffali del supermarket, lenti e cadenzati.
Alla sua sinistra sfilano le casse chiuse, le luci spente. Prodotti abbandonati sui nastri trasportatori. Alla sua destra gli scaffali.
Oltre le casse uno spazio più ampio sul quale si affacciano un negozio di elettronica, una caffetteria, una libreria. Un ennesimo, scontato tempio del consumismo che per mezz'ora ha avuto il privilegio di diventare palcoscenico di una tragedia.
Inspira: odore di metallo. Sangue?
L'eco di spari. Quello più assordante delle urla. Riverberano intrappolato dal soffitto bianco illuminato dalle luci accecanti. Esita in ascolto.
Riprende a camminare. Un passo. Due passi. Lo scricchiolio di vetri infranti sotto i suoi piedi.
Inspira: alcol, vino e vodka. Sangue.
Due corpi. Non due cadaveri. Irrilevanti.
Riprende a camminare. Il pavimento è appiccicoso di detersivo.
Candeggina. Sapone in polvere.
Altri corpi. Alcuni cadaveri. Rilevanti. Sparsi tra le corsie come un mazzo di carte.
13 spari. 9 a segno. 6 morti. No.. 7.
Sono tutti importanti? No, solo uno lo è. Al massimo due. Solo quelli che contano.
Associazione di idee.
Profumo troppo dolce.
"Non è il momento"
"Fosse per te non lo sarebbe mai" il tono è seccato? lo supera, si piazza davanti a lui, allarga le braccia "Cosa vedi?" Il camice bianco la drappeggia come un mantello.
Molly Hooper "Vedo te" ti trema la voce?
"No. Concentrati.” Voce morbida “Che cosa vedi?"
Corpi senza volto. Fantocci vuoti..
Linea di tiro. Angolazione. Distanza massima. Quanto veloce viaggia un proiettile?
Alza lo sguardo "Una linea di finestre al primo piano"
"Esatto" lei sorride orgogliosa di lui. Perché tu sei il suo San Giorgio. Per questo lei non ha paura dei draghi. Tu lo sai e desideri quel sorriso che è solo per te. Il detective ricambia.
"Ora però devi rispondere al cellulare" non è Molly a parlare. Lui si volta: il dottor Watson si avvicina con due bottiglie di vino in mano e una rosa di sangue che si apre sul suo addome. Parte sinistra. Stessa altezza. Voi siete due specchi, lo sapevi?
"Sherlock, dobbiamo festeggiare"
Sulle etichette spiccano nomi importanti: dolce o secco?.
"Allora, rispondi"
 
Ore 7.05.
Sherlock apre gli occhi. Sbatte le palpebre un paio di volte per tornare completamente nel proprio appartamento. Il violino ancora tra le mani protesta quando viene lasciato da parte.
Afferra il cellulare, facendogli compiere mezzo giro in aria prima di controllare lo schermo: sei chiamate perse. Due da Mary, quattro da Molly. L'ultima è di due minuti prima. Un messaggio.
 
John è sveglio. Molly
 
Tentazione di richiamarla, sentirla dopo 24 ore di ottuso silenzio - da parte sua - e di stoica comprensione - da parte di Molly. Che suono potrebbe avere ora la sua voce? Dopo che ha quasi... La tentazione viene cacciata via.
 
Ne sono lieto. SH
 
La cosa più impersonale dell'universo per siglare la più personale delle asserzioni. Poi Sherlock si riscuote come se avesse preso una scossa.
 
Quale nome? SH
 
Passa un tempo infinito prima che giunga una risposta. Che tuttavia non arriva dalla patologa: il telefono squilla con il numero di Mary sul display.
"Felice che tu ti renda partecipe delle nostre vite!"
"Io sto lavorando per le vostre vite, non dimenticarlo"
"Certo, certo.. Senti, se ce l'hai, versati un bicchiere di spumante e brinda con noi." Il tono forse vuole essere scherzoso, ma in qualche modo passa anche lo scontento di non averlo lì con loro.
"John non dovrebbe bere: l'alcol potrebbe reagire con la morfina e causargli un arresto cardiaco."
"Sei sempre così premuroso... A proposito, John vuole sapere come facevi a conoscere i tempi delle varie fasi del parto" il tono divertito di una presa in giro che suona tanto come un ringraziamento.
“Beh, sapevo che lui avrebbe fatto dei danni, quindi mi sono preparato per ogni evenienza” Prego
“Non dirmi che avevi anche una sala parto improvvisata a Baker Street”
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere” Sherlock sorride al cellulare; Mary ride, incapace di contenere la gioia.
"Ah, ti saluta Molly"
Il sorriso del detective scompare.
Ti saluta. Però ha dovuto farlo dire a qualcun altro. "Dille che ricambio"
Troppo azzardato? Ormai poco importa. Mary però non é idiota: avrà già compreso da quello scambio di parole tutto ciò che poteva nascondervisi. Anche quello che Sherlock stesso ha deliberatamente deciso di ignorare.
"Ok... Quanto sei curioso?" Repentino cambio di argomento. Sveglia, acuta, deliziosa Mary.
"Come un bambino"
Lei ride "oh, beh.. Niente di nuovo insomma. Va bene, te lo dico, ma tu non devi gongolare!"
Il nome viene sussurrato come fosse un incantesimo.
E anche se con la sgradevole sensazione di aver sbagliato qualcosa, Sherlock non può fare a meno di sentirsi felice.
"Ann Caroline Watson"*
 
***
 
La piccola Watson si rigira nel suo lettino oltre il vetro della nursery. Papà ora dorme sereno, mentre la mamma la osserva ancora per un po', incapace di concepire appieno che quella creatura è proprio opera sua. Beh, non solo sua, certo.
Mary la guarda e decide di fare una promessa: qualsiasi cosa accada, qualsiasi sia il futuro che le verrà riservato, lei si impegnerà affinché sua figlia diventi una persona buona.
 
 
 
 
 
 
Note
Chiedo umilmente perdono – si prostra ai vostri piedi, fronte al pavimento.
Ho avuto un po’ di impicci in università, senza contare che sono in piena scrittura tesi. Quindi ho dovuto trascurare il mio interesse primario, con tutto il ritardo che ne consegue.
Purtroppo sarà così fino alla laurea… che spero avvenga in tempi rapidi!
Ma ho fatto voto: questa fic verrà conclusa, dovessi finirla nel 2020 (anno in cui probabilmente terminerà ufficialmente anche la serie… noi tapini)!!
Or dunque, la scelta del nome: spero piaccia.
*Questa è da spiegare, perché il giro è lungo e contorto.
Girando su internet si possono trovare varie speculazioni teoriche sull’origine del personaggio di Sherlock Holmes, basandosi su persone realmente esistenti all’epoca di Sir Conan Doyle. Tra le varie teorie, una in particolare ha attirato la mia attenzione: il signor Holmes avrebbe origini italiane, ma nome francese. E, rullo di tamburi, si tratterebbe di una donna!! Per la precisione di nome Charlotte. In effetti l’assonanza con il nome c’è.
Senza diventare matta a cercare un fondamento di verità, ho preso Charlotte e l’ho tramutato nel più inglese Caroline. Quindi a tutti gli effetti alla fine l’anno chiamata Sherlock!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, nonostante la lunga attesa.
Il sesto è già quasi concluso ma domani parto, quindi pubblicherò a settembre… abbiate pazienza e fate tanti castelli di sabbia nel frattempo <3
Buona estate a tutti!!!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2502505