L'ingegnoso cavalier Sir Gianandrea di Bransengard

di Ichizomi
(/viewuser.php?uid=649775)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo:

Era una mattina qualunque, in un villaggio qualunque, in una casa qualunque, vivea un ragazzo di nome Gianandrea; figlio del fabbro del paese, Cristina, sua madre. Suo padre aveva invece aperto un locale in cui vendeva di tutto; lo aveva nomato Ipercoppe, ma questa è un'altra storia. Il nome di questo sperduto villaggio era Bransengard e contava poco più di cento anime. Bransengard era così piccolo ed insignificante che non veniva neppure indicato sulle cartine ed ogni viandante che vi transitava in vicinanza era sorpreso di trovare un villaggio laddove stando alle mappe c'era il nulla. Capirete dunque, oh miei lettori, che per il povero Gianandrea era una tortura vivere in quel minuscol paesino; lui voleva conoscere il mondo, visitare posti nuovi, conoscere persone di tutte le razze. Ogni giorno meditava di intraprendere la via della fuga e abbandonare la sperduta natia terra ma era frenato dalla mancanza di denaro. Senza di esso non avrebbe potuto, infatti, alloggiare e nutrirsi nelle varie locande. Invero Gianandrea avea un secondo motivo per intraprender il periglioso viaggio. Voleva partir dal natio villaggio per sfuggire agli amorosi assalti di una donzella di nome Antoinette, ma ella era di sì orribile aspetto che veniva soprannomata Antoilette. In un bel die di sole, il temerario Gianandrea decise che l'ora della partenza era infin giunta e, messe sue cose in bisaccia robusta, si appropriò di un equino di gran forza e velocità munito (con gran disappunto del padrone) e partì alla volta dei villaggi vicini per far fortuna. Ahimè Gianandrea tutto sembrava fuorché fortunato, l'equino rubato forò lo zoccolo in un paio di circostanze e il nostro povero e sventurato protagonista avea finito i ferri di scorta, ma le sue sventure erano solo agli inizi; poco dopo perse infatti la bisaccia ricolma di abbondanti cibarie e preziose monete; e il cavallo che, furbo, capì che non poteva essere più pagato decise di tornar a sua stalla a mangiar biada e scappò via dal ragazzo. Pianse e pianse per giorni e notti il povero e sventurato giovincello lungo il bordo della strada, reputavasi sprovveduto per lo suo gesto e rimpiangea l'abbandono di sua confortevole dimora.  

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Ordunque, lasciammo il puero Gianandrea a pianger sul ciglio della strada a ripensar a tutti gli errori commessi, quand'ecco avvicinarsi un senex di nanica altezza issato in sulla cima di un carretto di Equina locomozione. Il senex vedendo il puer piangere gli si avvicinò accostando l'asina e il carretto. Invero il carretto era trainato da un'asina di nome Equina poiché ella avea manie di grandezza. L'anzian uomo smontò dal carro e si sedette accanto allo sventurato Gianandrea, egli gli raccontò tutte le sue disgrazie e il vecchio, mosso a compassione, decise di scortarlo fin lo borgo più prossimo. Durante l'itinere i due parlarono d'ogni sorta di puerile facezia e il senex si accorse di un gran talento di Gianandrea: la suadente voce. Inoltre egli s'accorse che lo sventurato ragazzo non era ancora conscio dello suo straordinario talento vocale e decise dunque di sfruttare la vantaggiosa situazione per poter far qualche guadagno. Giunti alla città vicina il vecchio trattenne Gianandrea per un braccio e lo mise a badar al carretto adducendo come motivazione che era per lui d'urgenza comprar un particolare oggetto per la sua povera moglie malata. Lo stolto Gianandrea gli credette e badò al carro per ore ed ore. In verità il vecchio era andato ad acquistare con i suoi ultimi dinari delle copie di alcune famose operette e sonetti e, tornato al suo misero carro, raccontò che gli avevano recapitato una lettera in cui gli spiegavano che la povera moglie era deceduta per cagion di una malattia. Dette le spiegazioni (fittizie) e finse di piangere e disperarsi; a tal vista Gianandrea, che era buono di cuore, gli chiese se poteva far qualcosa per lui, per prestagli aiuto. Gli occhi del vecchio brillarono come i diamanti sulle corone dei re e disse: “Mio caro ragazzo, sei davvero gentile e l'ultimo dei miei pensieri è approfittarmi di cotal gentilezza tanto rara al giorno d'oggi. Tuttavia se non t'è di disturbo vorrei che tu leggessi dei frammenti da te scelti da questi libri; sai, la mia povera defunta moglie li adorava tanto.” Neppure attese la risposta del giovane che cacciò da sotto la mantella due tomi lerci e vecchi (comprò infatti edizioni di quinta mano per poter tener da parte qualche moneta per sé) e li porse al ragazzo con mano tremante. Lo ignaro Gianandrea aprì pagine a caso e declamò quel poco che potea dato ch'egli non avea la capacità di leggere, scrivere e far di conto come le persone acculturate. Ma per fortuna di Dypree (questo il nome del vecchio) il ragazzo era dotato di una fervida e grande immaginazione e quel che non sapea leggere lo inventava con grande astuzia. Pian piano, come previsto dall'astuto anziano, una gran folla si radunò intorno al carretto per ascoltare fantavolose storie declamate da splendida voce. Dypree pretese ch'ogni ascoltatore versasse un contributo per il povero ragazzo orfano di padre e madre cosicché lui, da bravo zio, potesse pagargli gli studi; una delle sue tante abili bugie che abbindolavano la gente. In poco più di una mezza ora riuscì a guadagnar una cospicua cifra e, dopo aver detto al giovane che era stato rincuorato a sufficienza, salì sul carretto e parlò a Gianandrea: “Mio caro ragazzo -esordì- la tua lettura mi è stata di gran conforto. Se t'avesse sentito la buon anima della mia dolce consorte venuta a mancare questa mattina son sicuro che avrebbe versato copiose lacrime per la tua bravura. E ora che sei in fin giunto in città a cosa ti dedicherai? Cosa farai per poter viver degnamente? Non c'è nessuno disposto ad aiutare un pover ragazzo, seppur affascinante, come te senza chieder nulla in cambio.” Gianandrea restò stupito di tali parole: “La gente che nasce e vive in città è così meschina ordunque? Pensavo che essi fossero buoni di cuore e generosi di mano.” Dypree continuò: “Suvvia, non far diventare mesto il tuo viso, rallegrati! Ti ospiterò io in una locanda in cui son molto amico col proprietario, ci farà un ottimo sconto. E ovviamente mio caro ragazzo pagherò io tutte le tue spese.” E l'ingenuo Gianandrea credette al vecchio che lo scortò ad una locanda, quella stessa locanda che sarebbe stata la sua prigione per le settimane future.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


La mattina seguente, al cantar del gallo, il vecchio Dypree preparò il suo astuto piano per trattenere il buon Gianandrea con lui il più a lungo possibile per poter guadagnare ogni singola moneta dagli abitanti del villaggio. Si finse malato. Non era un gran menzogna, ma Gianandrea era così sciocco che non avrebbe dubitato del suo salvatore, infatti così fu. La malattia si protrasse per una settimana ma le ricadute furon molte, alche Gianandrea fu trattenuta con istupida scusa per un periodo pari a circa tre settimane. Durante questo periodo di tempo l'astuto e subdolo Dypree guadagnò così tante monete che dovette comprarsi tre bisacce per contenerle. Infin decise di guarire magicamente e di convincere Gianandrea a seguirlo verso un altro villaggio. “Mio caro ragazzo, ma che dico? Mio caro figliolo, ormai per me sei come il figlio che non ho mai potuto avere. Vorresti gentilmente seguire un povero vecchio nel suo viaggio alla scoperta del mondo, fin quando la mia età me lo consentirà? Appena non sarò più in grado di compiere tali sforzi lascerò il carretto e la sua Equina forza a te.” “Le vostre parole molto mi colpirono mio buon signore. Ma son, invero, molto indeciso se seguitarla nel viaggio.” “Figliolo quali assurdi vaneggiamenti dici? Qui hai visto meglio di me, che ahimè ero malato, che non è possibile per te trovare un buon lavoro, e se ti innamorerai di una dolce fanciulla come provvederai al suo sostentamento? Non vorrà cert'ella sposare un mendico sudicio.”. Gianandrea rifletté a lungo su quelle parole e decise di accettare l'invito del truffatore. Per ben tre città lo sprovveduto ragazzo non s'accorse dell'inganno, quand'ecco che all'arrivare della quarta città iniziò a provar qualche sospetto. Nonostante lo chiamasse “figliolo” Dypree non prestava molta attenzione al ragazzo e spesso lo teneva all'oscuro delle loro mete, delle letture che avrebbe dovuto fare e di molte altre cose. Come narratore ho fatto gran peccato omettendo la parte in cui Gianandrea impara la nobil arte della lettura per mano di maestro (pagato appositamente dal vecchio); vogliatemene scusarmi, oh lettori, l'ho fatto per render più scorrevole il racconto e ingenuamente credetti che fosse cosa ben chiara ormai. Ogni giorno Gianandrea si esibiva nella piazza del villaggio, ormai aveva capito che declamava per guadagnarsi da vivere, ciò che non sapeva erano i prezzi che venivano imposti per far veder lo spettacolo e i guadagni altissimi che gli sarebbero dovuti spettare. Tutto questo fin quando il puer, stanco e malato, una sera decise di entrar in camera dello suo precettor e compagno di viaggio per chieder consiglio riguardo la sua salute. Lo trovò intento a contare i denari contenuti in una delle nove bisacce (nel frattempo erano aumentate). Allor comprese tutto, comprese l'inganno, comprese il raggiro, comprese addirittura la tabellina dell'otto e quella del sette. Le lagrime rigavano il suo giovin volto mentre accusava con vili parole colui che avea provveduto allo suo sostentamento (seppur in maniera discutibile). Ancor con gli occhi pieni di lagrime corse verso l'uscio della stanza, sbattè con forza contro la robusta porta in legno, allor si asciugò gli oculi e poi riprese la sua fuga. Le sue veloci e giovani gambe l'aiutavan a fuggir dal vecchio tozzo e lento. Rubò in un acceso impeto di rabbia e ribellione l'asina del senex e si allontanò dalla città nella notte. Cavalcò e cavalcò per giorni e notti, fino ad allontanarsi svariate leghe dal raggiroso e menzognero precettore. Giunse infin in una piccola città, più scaltro, più maturo e più magro (non aveva mangiato un granché durante la fuga) e, oramai conscio della sua innata abilità oratoria, cercò di trovar lavoro presso il signor del feudo come bardo o cantastorie. Grazie alla sua bravura ottenne l'impiego sanza difficoltà alcuna e iniziò a deliziar il volgo con la sua voce, piano piano però si ingraziò il re e ben presto ebbe l'incarico e l'onore di divenir “Primo bardo del regno” nonché “Bardo personale di sua maestà”. Più la sua fama cresceva, più cresceva l'odio dei bardi più anziani ed esperti, che si eran visti scalzar dalle loro prestigiose posizioni a causa di un “pueril bamboccio ancor attaccato al seno materno e con la fiata puzzante di latte”. Cercavan dunque un modo per poterlo spodestare dai suoi grandi incarichi ed un giorno lo trovaron.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Si sa dai molti che per esser bardo era necessario una portentosa voce quanto un portentoso aspetto. Il pian dei gelosi puntava a questo: nessun volea un bardo di corpo o viso sfigurato o deforme. Per l'ormai fortunato Gianandrea il problema dell'aspetto era quisquilia, era bello e sapeva di esserlo. Invan provaron quelli di sfigurarlo nel sonno e nella veglia, ogni metodo tentaron, ogni volta fallivan. Esasperati decisero di comun accordo di rivolgersi alla vecchia megera che vivea ai limiti del feudo giacché ella era una potente strega; le chiesero di sfigurare Gianandrea con uno dei suoi malefici ed ella (dietro lauto compenso) accettò. Diede ai congiurandi un amuleto intrinseco di malvagia magia e spiegò loro che dovevano farne dono allo stolto in modo ch'egli lo mettesse al collo per far attuare il malefizio e dunque sfigurarlo. Soddisfatti dell'artifizio pagaron (un paio di loro, una volta usciti, le bestemmiaron contro per il prezzo e furon tramutati in ornitorinchi all'istante), usciron e tornaron in città. Decisero che a dover dare il malefico amuleto al ragazzo doveva esser il buffon di corte, tale Andrea, il quale ogni sera (dopo le smorfie e le raggelanti freddure) duettava con Gianandrea in canorica esibizione. Andrea, quando vennero gli uomini a fargli visita, stava provando per lo spettacolo serale il classico e sempreverde numero della buccia di banana, infatti su ritrovato col fondoschiena poggiato sulla dura pietra della sua stanzetta. Il più scaltro dei lestofanti gli si avvicinò, e dopo averlo aiutato a rialzarsi, gli disse: “Mio caro giullare, oggi, mentre ero intento nella mia solita passeggiata, ho visto brillar di lontano qualcosa e mi son subito precipitato a veder cosa fosse. Una volta arrivato alla fonte del baglior che trovo? Questo ciondolo! Lo terrei per me da quanto è magnifico, ma ahimè, non uso metter tal fronzoli e non ho donna a cui regalarlo, per cui vorrei tanto che lo tenessi tu e lo dessi ad una persona per te importante come segni d'amore o d'amicizia.”. Detto ciò la combriccola di truffatori uscì lasciando Andrea da solo, essi sapevan bene che il suo unico amico era Gianandrea e che non avea mai avuto incontri privati con donzelle. Quella sera, come previsto, al finir dello spettacolo canoro (avean appena concluso il cantico di Pollon e degli Squali terrestri) il giullar si avvicinò al bardo e gli diede il pendente innanzi al pubblico come segno d'amicizia; Gianandrea lo indossò di buon grado e sorrise al suo amico. La trasfigurazione iniziò in quel momento: pian piano la faccia di Gianandrea sembrava sciogliersi e il naso ingrossarsi. Sarebbe certamente diventato simile al dorso di uno squalo se il lesto Andrea non gli avesse strappato dal collo il suo pericoloso regalo. La faccia sembrò tornar normale, ma accadde ciò che non era stato previsto: il mancato completamento dell'incantesimo lasciò in qualche modo Gianandrea orbo di naso e si ritrovò un enorme attrezzo dove prima c'era il suo fine nasino quasi francese. A quella vista obbrobriosa il re cacciò il suo bardo preferito dal feudo intimandogli di non tornar mai più; il povero Andrea, sentendosi responsabile, decise di seguitarlo nel suo cammino alla ricerca di una nuova contrada ove poter vivere. Gianandrea era sconfortato dal suo nuovo aspetto, ovunque andasse venia canzonato a causa di quello e a nulla servivano i giuochi di Andrea per rallegrarlo. Viaggiaoron parecchie lune ed attraversarono parecchi feudi fin a giunger nella contrada di Taurin. Dovete dunque saper, oh voi che leggete, che in questa particolar contrada poco contava l'aspetto e assai di più la bravura, giacchè il più orbo e zoppo tra gli orbi e zoppi potea, sorretto dallo suo talento, divenir anche attor, magistro et sovran. Lagrime di gioia sgorgaron dagli occhi di colui che un tempo fu uno dei bardi migliori del mondo e in un attimo di follia abbracciò l'amico e fedele Andrea. Corse di bottega in bottega alla ricerca di un'attività che gli si confacesse, ma ogni volta trovava sol il rifiuto: di gente talentuosa quel regno era piena e non servia di certo l'ultimo sprovveduto di passaggio. E Gianandrea versò di nuovo lagrime, stavolta di gran tristezza; ma (come si addice ai grandi eroi) non si perse d'animo e decise di provar a trovar occupazione presso la magion del signor della contrada. Si presentò al cospetto d'egli con le vesti migliori che avea (anche se non li lavava da vari dies) e, armatosi di gran coraggio, fece la sua richiesta; esibì le proprie doti di cantastorie e narratore e già s'aspettava di venir ammesso come “Bardo personale dello governante”, avea già pronte delle fittizie lagrime di sincera commozione ma il reggente frenò lo suo entusiasmo ed estinse i suoi sogni: “No. Di bardi ne ho già tanti; certo, non bravi come te ma son abbastanza da raccontarmi una storia pronunciando ciascuno una parola soltanto. Quello di cui necessito non è un bardo dall'allegra voce ma un forte cavalier che difenda me e il mio regno dagli perigli che circondan la mia terra. Dunque ho una proposta per voi, mio caro giovine di spillico spessore: vorreste esser voi il difensore mio e del mio regno? Mettereste il vostro scarno braccio al mio servizio? Rischiereste la vostra vita in caso occorresse e se lo ritenessi opportuno?” E detto ciò sperò di allontanare quel giovane con l'aria mesta e il corpo smunto, ma ebbe una sorpresa che quasi si strozzò con la sua stessa saliva quando sentì le parole di Gianandrea: “Mio caro sovrano io, Gianandrea Muiaah, del villaggio di Bransengard metto il mio braccio e tutto me stesso al vostro servizio e mi rimetto al vostro umile desiderio, io, che da ora son vostro strumento.”.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


E fu così che Gianandrea indossò la lucente armatura di paladino, imparò a maneggiar la spada, a tirar d'arco e montar a cavallo. Quanto ad Andrea, egli pur di seguir il suo amico decise di diventarne lo scudiero e lo seguitava nella sue imprese sul dorso di un ciuco che nomò “Ronzinoso”. Contrariamente alla previsione del sovrano di Taurin l'ormai-non-più-bardo era un eccellente guerriero ed anche un abile stratega, le sue idee furon decisive in un paio di guerre che Taurinio VI decise di muover contro le contrade confinanti per espander lo suo regno et suoi possedimenti. Chiamar ancor “Contrada” Taurin sarebbe improprio, dopo l'avvento di Gianandrea dal forte braccio e dal gran naso (più sovente nomato solo “Grandenaso” per comodità) infatti la contrada si espanse fino a divenir un piccolo feudo e poi, inglobando i feudi vicini, si fregiò infin del titolo di “Regno”. Ordunque il nuovo regno conosceva solo felicità e Grandenaso si godeva la sua meritata fama, sanza scordar nulla del suo passato e aiutando sempre il bisognoso e (per non perder abitudine) declamando al volgo analfabeta i nuovi componimenti dei poeti di corte. Accadde che un die di pioggia Andrea e il suo cane Giuliano conobbero fortuitamente una donzella di nome Licia, che venia da un paese lontano a chiedere l'aiuto del più prode cavalier del regno per debellare la Grande Piaga. Andrea che, era certo si riferisse a Gianandrea, la scortò da egli ma non lo trovò in sua stanza. Girovagò con la donzella al seguito fino a trovarlo, quand'ormai ella avea i piedi gonfi e doloranti. Gianandrea era a riunione privata con Re Taurinio VI e suo figlio Francesco, prossimo al trono. Stavan appunto discutendo del problema della successione, dato ch'ormai il re si avvicinava pericolosamente all'età della demenza e dei cateteri. Taurinio VI, sovran da tempo immemore decise e deliberò che il suo legittimo successore e il meritevole possessore della corona era suo figlio Francesco, detto lo Sfuggente per la sua abilità di nascondersi alle folle. Ordunque appena usciti dal loro consiglio ecco che il prode Grandenaso venne intercettato dal suo fido scudiero che lo ragguagliò sulla situazione con achillonica velocità. Gianandrea, da uomo di buon cuore com'era, rispose che accettava di buon grado l'impresa ed era già pronto a partire sanza neppur aver consultato il sovrano. Infatti mentre Gianandrea elaborava una tabella di marcia per arrivar allo villaggio delle povera ragazza sentì un violento colpo di tosse alle spalle che richiamo la sua attenzione; si voltò pensando di trovar un avversario da sfidar in duello invece vide il basso re che, dall'alto della sua bassezza, lo scrutava con i suoi occhi girgio topo. “Mi perdoni mio buon sire se appena sentita la triste storia di questa donzella, tal Donna Licia, il mio unico pensiero sia stato quello di imbarcarmi in questa impresa che, a dirla tutta, sembra fatta positamente pel mio forte braccio e pel mio gran coraggio. Ormai lei ben conosce come ragiona il mio animo innanzi alle accorate richieste dei più sfortunati, ordunque la prego in ginocchio: mi lasci partir per debellare la Grande Piaga cosicchè io possa uscirne vittorioso, aiutar la povera gente, accrescere la mia fama e di conseguenza quella del nostro regno Taurin.” e continuò per quasi un quarto dell'ora con tante e tali preghiere che Taurinio VI, inizialmente restio alla sua partenza, si convinse a lasciarlo andare. Per cui, appena ricevuto il consenso, preparò il suo miglior cavallo, una maestosa e mastodontica creatura nera come la notte, chiamato “Sovran Nero” e con il fido Andrea (seduto su Ronzinoso) e la bella Licia al seguito partì, verso il lontano villaggio di Vaefrum, nel regno di Maulise. Durante il lungo viaggio la giovine Licia raccontò la propria storia e quella del suo villaggio e quella della Grande Piaga. Le prime due sono inessenziali allo svolgimento della storia perciò mi si voglia perdonare se evito di riferirle, quella che è più degna d'attenzion è di certo la storia della Grande Piaga. Questo non è altro che il nome dato da quei poveri contadini ad un terrificante demone che in tempi recenti ha cominciato ad aggirarsi nelle terre del loro regno, distruggendo i raccolti, i bestiami, i villaggi, ma lasciando intatti i negozi che vendono musica neomelodica; spargendo il male ovunque e ridendo davanti alle povere genti in lacrime e con in volto la rappresentazione della sofferenza. Non solo la Grande Piaga era così malvagia da distruggere le provviste accumulate con tanta fatica, ma lo faceva anche cantando Jiji D'alessioh; questo spinse al suicido molti giovani dalla mente debole. Altro non seppe dir Licia dal momento che del mostro tutto era sconosciuto, il suo luogo d'origine, le cagioni che lo spingevano ad attaccar gli umani, il suo numero di scarpe. Solo una cosa era ben conosciuta: la sua diabolica risata e il suo crine di fuoco. Giunsero infine a Vaefrum e Gianandrea Grandenaso venne accolto con tutti gli onori che si confano ad un cavaliere del suo rango. Ma dei primi tentavi atti a vedere e pugnar la bestia parlerò in prossimo capitoli, ch'essi son tali da dover esser raccontati a parte.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Appena giunse nel paesino chiese udienza presso il decano della comunità, desideroso di apprender quanto più possibile su questa Grande Piaga, ma le notizie che ottene da egli e dai suoi libri erano scarse e spesso discordanti: in uno scritto veniva asserito che la bestia avea una risata che gelava il sangue, in un altro v'era scritto che ingannava le persone con un'amena risata femminile per poi iniziare la devastazione; e ancora: l'uno diceva che aveva un corpo esile per facilitare le sue fugaci apparizioni con le rapide fughe che ne conseguivano, l'altro affermava che era un mostro gigantesco dalla mole titanica. Insomma, Gianandrea tanto lesse e udì ma a ben poco diede peso dicendosi che eran tutte fonti discordanti e quindi inattendibili. Si decise dunque ad affrontar la bestia a viso aperto e senza preparazione alcuna, cosa che in caso di vittoria conferisce grande fama. Attese fuor dal villaggio per tre giorni e tre notti chiamando la Piaga ad intervalli regolari e sperando ch'ella si mostrasse per uno scontro, ma le sue speranze furon disattese. Ordunque egli si decise per una nuova tattica: visto che chiamar a gran voce non serviva sarebbe andato girando di villaggio in villaggio fino a quando non l'avrebbe incrociata. Un piano basata sulla fortuna, ma comunque gli sembrò un'idea di certo migliore della precedente. Sellò nuovamente Sovran Nero e si avviò speranzoso. Conobbe ogni paese ed ogni città del regno del Maulise ma ogni volta arrivava o con troppo ritardo o con troppo anticipo, trovando alcuni devastati all'andata ed altri devastati al ritorno. Si decise che anche questo piano era fallimentare e preso dallo sconforto si gettò su d'una sedia a riflettere. Se non riusciva nell'impresa di sconfiggere la Piaga questa campagna sarebbe stata il suo primo fallimento ed egli non poteva tollerarlo; egli, che avea vinto il più forte e il più furbo gigante bruno; egli, che sconfisse un dragone sputafuoco dalle scaglie dorate; egli, che avea aiutato oltre 1000 dame ad attraversar la strada; egli, 'sì poderoso cavaliere umiliato e deriso in questo vil modo? “Giammai” si disse fra sé e sé e riprese le ricerche per trovare informazioni utili sulla Grande Piaga. Notò alcune cose in comune a tutte le fonti: le risate prima dello sterminio, i piccoli incendi dopo gli attacchi, i tweet che scriveva 5 minuti prima di ogni attacco... Gianandrea fece tanti e tanti e tanti appostamenti ma ognuno di essi infin si rivelò un fiasco e ben presto pazzia preso il sopravvento sulla saviezza e dopo i primi studiati piani di cattura il prode Grandenaso si abbandonò alla follia e all'insensatezza. Decise di usare un branco di bufali per partir all'inseguimento adducendo come motivazione che un tempo, quand'era ancora puero, lesse in un libro di incanti e prodigi che se un mandrio di bufali partiva di gran corsa all'inseguimento di qualcosa, questa diveniva la cosa più veloce che si fosse mai vista in tutte le contrade di tutti i regni. Com'era di facile intuizione il piano dei bufali fallì in maniera misera tant'è che dopo questa stravaganza per poco non venne cacciato dal regno del Maulise, lo salvò solo la sua fama di grande cavaliere e per merito d'essa la maggior parte del vulgo considerava ogni sua azione ben ponderata e con un preciso fine. Ahimè, Gianandrea ormai tutto era fuorché savio e ragionevole, tanto il pensiero del catturare la Grande Piaga lo aveva scosso nel profondo. Dopo il fallimento dei bufali pretese che in ogni città del regno venissero messe delle oche da guardia armate di mazzafrusto. Il perché di tale azione è meglio non rivelarlo a te, fedele lettore, ed è meglio tacere sulle azioni che seguirono il suo gesto perché a causa di Gianandrea il regno del Maulise rischiò di andar incontro allo sterminio. Dunque fu cacciato a grandi e deretaniche pedate (e con lui Andrea) con il consiglio di evitar le loro terre di lì a cent'anni. Ma il prode Grandenaso non si scoraggiò per così vile intimidazione e proseguì nel suo viaggio attraverso il piccolo regno alla ricerca della Piaga, tanto era la sua voglia di trovarla ed assoggettarla in battaglia. E con la sola compagnia del fido scudier Andrea ingegnò nuovi artifizi per poter anche sol veder cosa fosse la Grande Piaga, inutil dire che essi falliron miseramente sanza eccezion alcuna. Un die, il disperato cavaliere, si posò lo suo accampamento nei pressi di un fiume, pronto ad arrovellarsi nuovamente in una macchinazione dall'esito certo disastroso. Ed eccolo già pronto a progettare una gigantesca balestra con la quale “ci potrei centrare l'occhio d'una mosca a 1000 piedi di distanza” quand'ecco da vicino al fiume levarsi dei gemiti disperati; il prode cavalier abbandonò lo suo progetto e si precipitò per vedere chi era causa di quel disperato pianto.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Appropinquandosi di soppiatto scorse una fanciulla issata su di una roccia nei pressi del placido rio, e dato che ella era sola la causa del pianto non poteva che esser lei. Una qualsiasi altra persona si sarebbe scioccamente precipitata di gran passo verso la ragazza ma non il furbo Gianandrea: egli infatti sapea che in quelle terre era uso comune dei ladroni ordir trappole per gli stolti di aspetto assai simil a questa. Dunque il pazzo ma savio Grandenaso continuò la sua avanzata di sottecchi pronto a balzar al minimo segnal sospetto, ma non ce ne furon; quella era per vero una fanciulla di aiuto bisognosa e, come ogni cavalier che si rispetti, Gianandrea celermente si presentò per darle soccorso mentr'ella avea ancora il viso tra le mani a singhiozzar. Dopo la presentazione del prode cavalier (in cui descrisse ogni suo gesto ed impresa) la fanciulla infin alzò la testa e con lo suo aspetto fece restar il suo povero interlocutore sanza fiato. In un istante Gianandrea si innamorò dei suoi occhi scuri e del lungo crine nero ed appena ella parlò la sua voce lo stregò:
“Oh prode cavalier io mi scuso e mi dispiaccio
se avete udito il mio lamento,
certo, non volevo mettervi d'impaccio
ad ascoltar lo mio tormento.
Tormento che non uno è,
son più d'uno, son molti
ognuno ha il suo perché
e son così assai che impiegherei mille notti
sol per nomarli tutti...”
E qui Gianandrea la interruppe dicendo che non necessitava di sentir altro, perché una bella fanciulla era sempre nel giusto ed eran coloro che le facevan piangere nel torto. La ragazza sorrise timidamente allo sconosciuto cavaliere e si presentò, il suo nome era Chiara Pureziosee, al sol sentir tal soave nome pronunciato dalla sua leggiadra voce il nostro buon protagonista perse di completo il num della ragion innanzi all'impetuosa forza amorosa che gli spingea nel petto e giurò sul suo onore che avrebbe trovato il responsabile delle lagrime di quella fanciulla per punirlo di essersi macchiato di 'sì grande colpa. Ella però non volea parlar ed con grande astuzia aggirava le domande postele facendone altre, sicché poco a poco lei conosceva tutta la vita di lui e lui non sapea niente di lei. Infin ella si congedò con un sorriso lasciando il pover cavalier da solo (il fido Andrea si era recato a caccia) coi suoi pensieri. Decise che per impressionare e conquistar la donzella avrebbe sconfitto il mostro nomato Grande Piaga e le avrebbe portato la testa di tal orrida creatura come trofeo. E con questo pian di conquista nella mente tornò in parte savio, e da lì il suo ingegno mesciò con pazzia producendo congetture di catture che solo i migliori birboni della contea sapean far. Divenne pazzo e savio e, come san pur i fanciulli, non c'è peggior pazzo di chi sa di esserlo e della sua condizione si diverte. E il nostro Gianandrea sapea ben essere pazzo, ma era d'altrettanta bravura nell'esser savio. Per sette die e sette notti stette privato dello sonno rigenerator e di suoi benefizi. Al mattin dell'octavo giorno isbucò da sua tenda ed annunciò al fido Andrea, che in quei giorni avea provveduto al piccolo accampamento e avea tenuto sazio il suo cavalier, che era infin giunto il momento di partir per compier sua più grande e memorabile impresa: l'assassinio della Grande Piaga per “la povera gente del luogo, che nonostante mi abbia scacciato mi sono impegnato a salvare”. E con questa falsità sulle labbra convinse lo stolto Andrea nell'esser appoggiato in suo folle piano. Essi, con velocità degna di ceruleo porcospino, riusciron a reperir tutto lo materiale occorrente a Grandenaso per la sua trappola ed in poco più di tre die realizzaron il tutto. E così post dieci giorni dall'incontro di Gianandrea con la fanciulla di etereo aspetto la più mastodontica trappola in storia umana mai realizzata era infin pronta a servir allo scopo di sua creazion. La trappola era sì pronta, ma i due ignoravn come poterla utilizzare e come potervici attirar l'oggetto di loro attenzioni. L'entusiasmo dei due giovani sparì e nell'animo del fido compagno si insinuò la tristezza, in quello del prode cavalier ribollivan solo rabbia e delusion. “Or come potrò intrappolar e trucidar quella ributtante creatura? Come potrò ripresentarmi dalla dolce fanciulla, padrona del mio cuor, sanza sua testa da portarle in trofeo? Come potrò attirar le sue attenzioni in altro modo? Altro modo? Non c'è un altro modo! Devo trucidar la bestia se voglio che ella si accorga di me.” e questi e altri mille pensieri simili offuscavn la mente di Grandenaso e ben presto la delusion si fece da parte in favor di disperazion e le lagrime segnaron le gote del ragazzo che, in preda al furor della rabbia, non si accorse neppur dello suo pianto. Passaron dei minuti interminabili in cui urlò, scalciò, strepitò, si dimenò, pianse e infin, afflitto, si lasciò cadere sulla terra e diede fertile acqua all'erba. Andrea rivolse e distolse lo sguardo più e più volte, combattuto da due istinti diversi: l'aiutar lo suo padrone e il non poterlo osservare in quelle condizioni di lascivo abbandono. Decise però che non era il caso che intervenisse, onde evitare di venir coinvolto tra gli oggetti malmenati dal padrone e di prender scapaccioni indesiderati sul groppone (dove già tanti gliene diedero ai tempi di sua carriera da giullare); aspettò quindi che la crisi passasse e poi si avvicinò al suo cavalier porgendogli la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi. “Orsù padron mio, si calmi, di grazia. La trappola che abbiam realizzata è un magnifico capolavoro di ingegno e poco importa che non la si possa spostare, anzi, tanto meglio! Vi ricordo che siete stato scacciato dai vari villaggi non per ordine scritto, ma per ordine fisico, che fa più male ed è più temibile. Or dunque non crucciatevi perché sapete ben che Ella si sposta di continuo di villaggio in villaggio e di certo un die passerà sopra nostro capo e la trappola il suo dovere potrà compiere. Dobbiamo sol aver pazienza ed attendere quel giorno.”. Le parole del fido Andrea ebbero un grande effetto su Gianandrea che recuperò la saviezza in parte e si decise che il suo sempliciotto, ma astuto scudiero avesse ragione.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Attesero per così tanto tempo che persero il conto dei giorni e dopo un paio di settimane perfino Andrea, che suggerì l'idea di attendere, cercò di convincere l'amico a cambiar approccio e di andare a cercar la Piaga, ma Gianandrea era irremovibile ed ogni volta rammentava al suo scudier le sue stesse parole così che egli restasse in silenzio e vegliasse con lui. Oramai Gianandrea dormiva di rado, dato che ogni suo sonno era caratterizzato da incubi, il più frequente era quello che lo facea star più male: era da solo, nel pien centro di una radura, fisso, immobile, eretto; sul terreno attorno alla sua figura si creava un ombra che lo circuiva ed a quel punto egli alzava lo sguardo e vedea nel punto più alto del cielo una figura nera che volteggiava e disegnava un cerchio intorno alla sua persona; ed in quella figura riconosceva la Grande Piaga da lui tanto cercata e che ora gli era vicina ma irraggiungibile; e all'orizzonte scorgeva poi una piccola figura che si incamminava con passo incerto verso di lui, e ad ogni passo la figura diventava sempre più nitida e ben presto si potea riconoscere il volto della giovane Chiara che regnava nei pensieri di Gianandrea in equal misura della Piaga; e quanto più la fanciulla gli era vicina tanto più appariva inconsistente, e quando oramai si trovava innanzi ad egli, era diventata solo un immateriale spettro di eterea presenza e consistenza. Questo sogno lasciava gran turbamento nell'animo del giovine ma si decise di non raccontarlo neppure al fido Andrea e intanto attendeva il momento in cui la trappola sarebbe stata utile ai suoi iscopi. Ed attendea e attendea, sempre più stanco, sempre più debole. Con il morale distrutto dalla lunga attesa un giorno si svegliò urlando con gli occhi pieni di lagrime. Era infin giunto al limite di sua sopportazion e di sua pazienza e si decise che se in quel die la Piaga non si fosse mostrata non avrebbe certo più avuto senso appostarsi lì ad attenderla. E già formulava ipotesi sul perché non si fosse più palesata: era forse stanca di quel territorio ed avea deciso di passar ad altro regno? O forse un altro cavalier, più forte e più ingegnoso d'egli era riuscito nell'impresa di uccider la bestia? E se così fosse stato come avrebbe fatto egli a conquistar la fanciulla che avea conquistato lui? E se, peggior di tutte le ipotesi, il misterioso cavalier avesse ucciso la bestia e avesse visto la sua fanciulla e le si fosse dichiarato e le avesse accettato colta da un improvviso amor? E con questi pensieri arrovellati in capo venne il vespro e con esso una sagoma nerastra in ciel. Il cuor di Gianandrea sussultò alla vista dell'enorme ombra e appena realizzò che l'essere che i ciel solcava era la Grande Piaga non indugiò nel far scattare sua trappola. Questa consisteva in una semplice ma potente catapulta che lanciava robuste reti, atte ad intrappolar lo mostro e, dopo averlo fatto cader prigionier, costringerlo ad una caduta in sullo suolo; la furbizia dell'astuto Grandenaso non si limitò solo a questo espediente, infatti ogni rete era dotata lungo il perimetro di lunghe lame il cui utilizzo era ferir la bestia e le sue possenti ali in modo da privarla del volo come via di fuga. Fiducioso di sé e della sua buona sorte Gianandrea fece scattar lo pesante marchingegno di sua creazione che, per miracol d'Iddio nostro creator, centrò la laida bestia che con grande schianto cadde al suolo tra le urla. Come previsto dal giovin cavalier le ali del mostro eran danneggiate sì da render la fuga inattuabile. Con rapido movimento e con forte spada e braccio mozzò ciò che rimaneva dell'ali lasciando muscoli ed ossa alla vista del vento. Eran finalmente l'un di fronte all'altro, gli occhi scuri di lui si specchiaron negli occhi di bragia della bestia, che dapprima l'osservò curioso per poi alzarsi in tutta sua magnitudine per sovrastar il pover Grandenaso che quasi perse l'uso del movimento innanzi a quello sfoggio di possanza. La Piaga scoprì i denti in un ghigno, luccicaron; neppure uno istante dopo la mascella del mostro cercava la gola di Gianandrea che si abbassò facendo inghiottire solo aria allo suo assalitor. Egli non gradì lo gesto del cavalier ed infatti, sfoderati i felinici artigli, prese a graffiar innanzi a sé nella speranza di prender il suo agile oppositor. Vibrò otto poderose artigliate di cui solo l'ultima andò a colpir sulla corazza di Grandenaso che si squarciò lungo il petto costringendolo ad una breve ritirata. Corse fino all'accampamento per prendere la sua poderosa balestra con cui scoccò con gran precisione quattro frecce nel ventre della Piaga prima ch'essa con inaspettata fiammata scaturita dal lungo crine nero non la incenerisse lasciando il coraggioso cavalier solo con la sua spada. La battaglia infuriò per ore al che i due contendenti sembravan esser sul punto di collassar, ed in effetti così era. Devi saper, mio caro lettor, che la forza della bestia era enorme ma l'era anche l'astuzia del cavalier e tanto più uno colpiva con veemenza tanto più l'altro trovava punti deboli e segni di cedimento; l'unica cosa a differenziarli era la resistenza: il pover umano Grandenaso non avrebbe mai potuto competer con la resistenza propria della bestie di origine infernal (come lo era probabilmente la Grande Piaga) se non fosse stato agevolato dalla forza con cui essa percuoteva, cosa che le permise di stancarsi non poco in breve tempo. E dunque bestia e cavalier procedevan di pari passo nella loro guerra; sarebbero certamente svenuti entrambi, privati di forze, se ad un certo punto Gianandrea non fosse riuscito a trafigger il petto del mostro all'altezza del cuore. Come ciò avvenne non fui mai chiaro: alcuni sostengono che nella fretta di concluder il duello la bestia abbia dimenticato dei rischi che correva esponendosi e fosse stata colta in fallo dal pronto cavalier; altri affermano che la Piaga si fosse accorta che la lotta non avrebbe avuto che due sconfitti e avesse offerto al suo avversario una minuscola apertura nella guardia, quel tanto che bastò per esser colpita nel cuore.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Gianandrea trafisse il cuor della Grande Piaga che si accasciò al suolo apparentemente priva di soffio vital. Il cavalier le si avvicinò, il suo animo, pervaso di titubazion, sussultava ad ogni passo compiuto verso la bestia. Era innanzi alla carcassa et con punta di spada in ausilo lenì ripetutamente lo spesso strato di pelle per istigar reazion in caso lo mostro della morte fingesse aspetto per trarre in inganno uno sprovveduto. Dopo un legger lenir la punta della spada venne affondata sempre più in profondità, lasciando profondi squarci nella pelle corazzata della carogna. Ad ogni squarcio la bocca di Gianandrea tirava le labbra sempre più in su finché non gli comparve un grande sorriso da cui faceva sfoggio d'ogni dente. Guardò il cadavere un'ultima volta, poi si rivolse ad Andrea e mostrò ad egli il volto insanguinato in cui spiccava un sorriso dettato da pazzia. “Andrea! Mio fido amico! Ci siam infine riusciti! Eccola! La Grande Piaga, infine è ai nostri, miei, piedi. Abbiam atteso per settimane, abbiam rinunciato a sonno, abbiam accumulato fame e sete, ma infin eccola qui, che giace prostrata ai miei calzari. - qui proruppe in una fragorosa risata - Vedi? Oramai è così inerme che la posso calciare sanza farmi iscrupolo di venir ferito da sue fauci – e così disse e così fece, calcio sanza pietà l'inerme testa dello mostro – Vedi? Son io il solo che è riuscita ad abbattere la Piaga, io sono il più gran cavalier di tutti i tempi! Nessun mai eguaglierà le mie gesta; si scriverà e si parlerà di me in eterno, al pari dell'opere dedicate a nostro signore Iddio.” E continuò in una risata 'sì lunga che il pover Andrea credette che presto lo suo padron sarebbe soffocato per mancanza d'aria. Mentre Grandenaso era intento nei suoi festeggiamenti e nelle sue esultanze quasi dimenticò il suo intento di mozzar il capo della ripugnante creatura per offrirlo alla donzella che nel suo cuore avea preso posto. Sguainò la spada e la calò con ferocia sul collo della Piaga tranciandolo e facendo riversar sull'erba lo sangue violaceo che a gran velocità si spanse disegnando una figura che al nostro cavalier sfuggì ma che lo spaventato Andrea non mancò di notar: un cuor spezzato al centro. Così come Gianandrea issò sul suo capo la testa mozzata essa si tramutò in cenere che volò nel vento, ciò tramutò la gioia di Grandenaso in rabbia che avrebbe presto sfogato insul corpo abbattuto al suolo se questo non avesse iniziato a brillar di violacea lux. Il corpo della bestia si decompose lasciando apparire al suo interno una longilinea figura di femminino et humano parvenza. Ancora avvolta in lux la figura si alzò e parlò al prode cavalier:
“La ringrazio mio buon cavalier
di aver posto fine allo mio tormento,
le mie pene or son più legger
e il tanto a lungo atteso momento
infin giunse per me: da puro di cuor perir
sotto sua mano, sotto suo ingegno.
La mia maledizion incontra suo fin,
per ringraziarvi vi lascerò di mio amor un pegno.”
E Gianandrea riconobbe in quelle dolci parole il suon della voce della sua cara Chiara, che pronunciato il suo discorso si gettò al collo di lui regalandogli un bacio, lo primo bacio nella vita del grande cavaliere; suo cuore fu colmo di gioia et angoscia in stesso tempo. Si rallegrò dello bacio ma ben presto si preoccupò per la salute di lei et ella parve intuirlo dal momento che parlò:
“So quali son tuoi pensier che in tua testa
si scontran con buon senso e ragion.
Ti dico che ciò che più temi or si manifesta,
la Piaga ero io e tanti uccisi, ma non sanza cagion.
Breve sarà la mia storia come breve di me è ciò che resta;
principessa son e fui d'un regno vicino
da mago malvagio mutata perché a lui molesta,
di dimonio mi diè l'aspetto, di bestia il raziocino.
Con scarso intelletto dovei viver
al suo soldo per lo sterminio,
i suoi ordini prontamente eseguir
per perpetuar di morte un abominio.”
Dalla voce di Chiara Gianandrea capì che ella volea rivelar altro sul suo passato ma le ferite che le eran state inflitte in vita e in morte eran troppe e pian piano la figura della fanciulla di acqua assumea aspetto e consistenza. Infin si dissolse con le lagrime che scorrevan ma in volto era serena e prima che il nulla l'inghiotesse rivolse il suo ultimo pensiero e il suo ultimo sorriso al prode giovane che l'aveva salvata dalla maledizion del vecchio e arcigno mago. Gianandrea la guardò svanir sanza potervi porre rimedio alcuno e quando al fin nel nulla andò le lagrime rigaron il suo volto. E pianse. E pianse per giorni. E pianse finché le lagrime non finiron. E pianse finché la voce non gli si spezzò in gola. E pianse fin quando l'ultimo rantolo lo sostenne. E tacque. Tacque per sempre, mentre tutto in nero mutò.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2503166