La finestra di gesso

di Gaea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno: Dove il protagonista si presenta e strane cose disturbano la quotidianità. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due: Dove si scopre come essere diversi da sé. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre: Dove le cose prendono un’altra piega. ***
Capitolo 4: *** Epilogo: dove tutto finisce. Fino alla prossima volta. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno: Dove il protagonista si presenta e strane cose disturbano la quotidianità. ***


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Questa storia nasce grazie al contest "Faccia da random" di Delirious Rose, che si può trovare qui

 

 

 

 

La finestra di gesso

 

 

Capitolo uno: Dove il protagonista si presenta e strane cose disturbano la quotidianità.

 

Spazientito, Guglielmo osservò il più grande dei suoi figli tentare di imboccare la più piccola delle sue nipoti. Con uno scarso successo: era troppo impegnato a guardare la replica dell’ennesimo reality, piuttosto che centrare con il cucchiaio la bocca della figlioletta.

 

“Ti ripeto, Orazio – cercò di modulare la voce affinché il comando non suonasse come tale, ma più come un consiglio – concentrati su quello che stai facendo, per l’amor del Cielo: stai impiastricciando tutta la cucina”.

Il giovane a malapena lo considerò, facendo spallucce.

 

Berenike sospirò, annoiata da quello che si preannunciava l’ennesimo battibecco: da quando i suoi fratelli erano tornati a casa, non c’era più stato un attimo di requie. Era stato così bello poter godere dell’ampio attico in tutta pace… essere finalmente figlia unica, dopo decenni di imposizioni da parte dei maggiori… il rientro all’ovile di entrambi per festeggiare il compleanno della mamma l’aveva del tutto destabilizzata. Festeggiamenti e permanenza che si sarebbero prolungati per un’intera settimana. Lasciò che i lunghi capelli biondi le coprissero il viso e affondò nei cuscini del divano, afferrando le cuffie e l’Ipod: non voleva avere nulla a che fare con la tempesta in arrivo.

 

“Orazio, ti prego, fa un po’ attenzione!”.
“Papà, sono più che in grado di imboccare mia figlia, perché non esci dalla cucina e non vai a fare qualcosa? Chessò, una di quelle cose che voi pensionati fate” ribatté, stizzito dalle continue interruzioni.

Normalmente un’uscita così maleducata avrebbe generato un alterco di proporzioni epiche: Guglielmo sapeva di aver instillato ai propri figli buona educazione e rispetto, e non ammetteva che se ne dimenticassero. Ma l’accenno – voluto? – al suo recente stato di pensionamento lo sgonfiò di botto: si girò, lasciando la stanza. Lanciò un’occhiata alla figlia minore e la trovò persa nel suo mondo di musica assordante.

 

Vorrei poter avere anche io un mondo tutto mio dove scappare…

 

Sorrise, però, rendendosi conto che l’aveva. Il nuovo, gigantesco, tempo libero a sua disposizione era stato convogliato in una passione che si trascinava fin dall’adolescenza: il teatro. Una passione feroce, che contrastava talmente tanto con la sua immagine di direttore amministrativo di una delle più grandi agenzie di rating europee, da lasciare basito ben più di un conoscente. Persino sua moglie, che pure ne conosceva l’istrionica teatralità dei gesti, era rimasta sgomenta dal tempo che passava sopra e dietro il palcoscenico: ben più di quello che passava in casa, a onor del vero. Tirò un calcio a un sasso sul marciapiede, perso nelle sue riflessioni su matrimonio, età che avanza e incompatibilità di carattere. Laura era sempre stata speciale e aveva sempre accordato fiducia alle sue decisioni, perfino le più stravaganti – i nomi dei figli in primis – ma ultimamente questa remissività gli pesava. Avrebbe voluto avesse più carattere, più pepe. Un po’ come Giuditta, l’attrice protagonista dello spettacolo che stava allestendo… e che, sfortunatamente, aveva trent’anni in meno di lui. Per quanto gli risvegliasse il sangue vederla spogliarsi per indossare i costumi di scena, non riusciva proprio a vedersi con una donna di poco più giovane della maggiore delle sue figlie. Ma nemmeno si vedeva più accanto a sua moglie.

 

Che schifo di situazione.

 

Era deprimente constatare quante possibilità avesse sulla carta e quanto poco, in realtà, potesse fare per spostare la sua vita dai binari di routine e monotonia sui quali viaggiava. Ripensò a Berenike.

La più piccolina, con quel nome dal sapore greco, tratto dalla sua più amata opera di Poe, era quella più simile a lui per indole – meticolosa e puntigliosa tanto quanto sognatrice – ma era totalmente insofferente alla vita famigliare. Aveva scelto il liceo classico, nonostante lui premesse per un indirizzo di studio più pratico.

Ha come una vena di acciaio, dentro di sé, pensò calciando per l’ennesima volta il piccolo sasso, all’apparenza è fragile e minuta, ma non si lascia piegare da niente e da nessuno...  

 

Il teatro gli regalò la gioia sperata.
“Carlo, sei una donna, la vuoi capire? Comportati da donna, per la miseria! Quale signora si siederebbe così?” urlò al proprio protagonista, reo di essersi lasciato andare sulla poltroncina di chintz con ben poca grazia.

“Veramente sono una donna mascherata da uomo, e quindi mi sembra che l’essere mascolino sia la scelta migliore” ribatté questo esausto: era stufo di ripetere la stessa scena ancora e ancora, tutto a causa di dettagli minori che nessuno, dalla platea, avrebbe notato.

“E quando tornerai vestito da donna? La grazia è una qualità innata, trasversale al genere” lo rimbrottò ancora il regista.

Giuditta si alzò in piedi, attirando su di lei l’attenzione.

“E allora perché non ci fa vedere come un vero uomo vestito da donna vestita da uomo si comporterebbe?” lo canzonò. Gli altri borbottarono: era l’unica che potesse permettersi certi toni e certe uscite con l’irascibile superiore.

“D’accordo” scandì questo, sorprendendo i più.

Lesto Guglielmo si avviò verso i camerini. Scelse il più vistoso, fra gli abiti della sua taglia – una scelta comunque ristretta, vista la mole… –  afferrò una parrucca, fece un brusco cenno alla truccatrice, già sull’orlo delle lacrime dalle risa – e le ordinò un trucco discreto, ma visibile. Poi fu la volta dei tacchi. In dieci minuti era sul palco. La camminata era un po’ traballante, ma cercò lo stesso di instillarvi un certo fascino. Ancheggiò, sbattendo le ciglia, in direzione di Carlo, poi si sedette, le ginocchia strette e una mano ad accompagnare la gonna, accanto a lui.
“Vedi, caro, una signora si comporterebbe così – flautò – e anche travestita da maschio come Rosalinda fa, fingendosi Ganimede, non perderebbe certo questa compostezza” si tolse la parrucca, scalciò via i tacchi e proseguì, con la sua solita voce “come vedi essere uomini non significa essere rozzi. Non voglio gente rozza, nella mia commedia. E non so se tollererò ancora gli sfacciati” terminò poi, puntando il dito contro la protagonista che piangeva dalle risate. Non poté esimersi dal sorridere a sua volta: un omone di due metri, sessant’anni passati, infilato in un attillato abito verde… L’ammonimento si sciolse in una complice strizzata di occhi. A cui Giuditta, prontamente, rispose. Il gesto gli riportò alla mente un ricordo della sua famiglia: Berenike, da piccola, faceva spesso linguacce a tutti, e lui dopo la sgridata di rito, la rinfrancava sempre con un occhiolino…

 

Era quindi con un certo buonumore che dichiarò concluse le prove, invitando tutti a rivedersi il lunedì successivo. Seguì gli attori nei camerini, per togliersi le ultime tracce di trucco: per quanto abituata alle sue stravaganze, non riteneva che Laura avrebbe lasciato passare rimmel e rossetto.
Forse un motivo in più per rimanere truccato…

“Comunque ci sta provando” sentì dire a uno dei comprimari.

“Ma smettila, è vecchio, ha l’età di mio nonno!” ribatté ridendo Giuditta.
Restò fuori, in attesa.
“Proprio per quello: è in pensione, è vecchio, vede una bella ragazza… è il cliché più vecchio del mondo, chissà quante volte l’avrà seguito con le sue segretarie” rincarò la dose una voce maschile che riconobbe a stento: era uno dei fonici.
“Ragazzi, è che non lo sapete prendere: è uno scassa coglioni, sì, tutto precisino, ma alla fine ha anche un bel senso dell’umorismo, basta far leva su quello. E poi dai, è un ottimo regista, tutto quello che dice ha un senso… e non sta facendo favoritismi. Siete voi che lo prendete nel verso sbagliato solo perché vi riprende in continuazione”.

“Ci riprende perché non abbiamo i due grossi argomenti che tu hai a tuo favore –  disse Carlo – ma su una cosa posso concordare: è un maledetto rompicoglioni. Mi immagino sua moglie e i suoi figli”.

“Fra l’altro ho saputo che il maschio minore è scappato di casa e lo evita come la peste, piuttosto che stare in sua presenza…”

Si allontanò: quello che aveva sentito gli era bastato.

Sentiva nel petto un peso insopportabile.

Rompicoglioni.

Non era la prima volta che qualcuno lo definiva così, ovvio. Erano chiacchiere da camerino, non erano i reali pensieri che avevano, solo maldicenze e pettegolezzi, ovvio.

 

Il maschio lo evita come la peste… un rompicoglioni… fai le cose che i pensionati fanno… ha l’età di mio nonno… vecchio.

 

Sentiva le lacrime pungergli gli occhi, ma impedì loro di uscire. Non poteva piangere per certe sciocchezze. Era solo stanco, sì.

 

Vecchio e stanco.

 

Uscì dal teatro a testa bassa, come fosse un discolo di ritorno a casa dopo la sgridata del maestro: tutto l’entusiasmo per le prove – andate benissimo, a suo parere – era evaporato come una polla d’acqua sotto il solleone, lasciando l’alone del rimpianto.

 

Sono davvero così stanco.

 

Si ripeteva, sentendo l’ansia che da varie notti lo teneva sveglio –  quella dell’essere oramai inutile, un pezzo da museo – impossessarsi di lui. Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, avere conforto, ma non osava: in famiglia non poteva certo dire nulla, tanto chi l’avrebbe ascoltato? I suoi due figli? Sua moglie, presa più da parrucchiere ed estetiste che dalla casa? La piccolina? Berenike, nonostante le tante somiglianze, era molto più paziente di lui, molto più comprensiva. Quegli strani occhi grigi – ereditati da chissà quale avo – avevano sempre un’aria riposata e tranquilla che invogliava al dialogo. Quando non erano incatenati alle pagine di un libro o nascosti dietro la folta frangia.

I suoi amici? Poteva contare su un paio di ex colleghi, ma temeva il loro giudizio.

Andare da uno psicologo nemmeno era fra le opzioni: non avrebbe mai pagato qualcuno per annoiarsi con le sue chiacchiere da vecchio depresso.

Vecchio depresso.

Parlarne con Marina e Stella, le sue nipotine, era stato un sollievo – ma avrebbe davvero gradito qualcosa di più di qualche gorgoglio e di sorrisi sdentati, come risposta.

 

Vorrei non essere io. Vorrei non essere me stesso. Vorrei non essere qui.

 

Ritrovò il sasso che aveva calciato all’andata, con ben altra disposizione d’animo. Lo colpì, ancora, più per noia che per reale volontà. Lasciò che la malinconia lo invadesse, trascinandolo sempre più giù, portandolo sempre più lontano, come il sasso che prendeva a calci. Sempre dritto. Piccole alterazioni e impercettibili curve, sì, ma trovava sempre poi il suo piede. Un metro più avanti. Quattro. Due. L’ultimo tirò lo spedì un po’ più lontano. Stava svogliatamente per colpirlo di nuovo, quando si fermò. Il sasso non c’era.

Guardò a destra e a sinistra, convinto di averlo spedito fuori rotta. Nessuna traccia.
E sì che non era per niente piccolo. Forse era finito sul bordo della strada, nascosto da qualche erbaccia… Proprio per la concentrazione con cui scrutava alla ricerca del suo amico pietroso, non si accorse immediatamente del disegno fatto col gesso che stava davanti ai suoi piedi. Una finestra, disegnata sommariamente col bianco, quattro assi e una tenda vaporosa sul lato a lasciar intendere fosse aperta. Gli ricordò un racconto che aveva letto tanti anni prima, in un libro strano e complicato che non aveva più ripreso in mano… un racconto nel quale, grazie a una finestra disegnata, gli uomini potevano letteralmente saltare dentro un’altra realtà.

 

Sarebbe un sogno, pensò con ardore.
… perché no? Si guardò in giro con circospezione: non voleva ci fossero testimoni a poter confermare il suo essere uscito di testa… un uomo della sua stazza che salta su quello che era, evidentemente, il balocco di qualche bambino! Prese un respiro, smise di pensare, chiuse gli occhi e saltò.

 

Il suo cervello si aspettava il subitaneo effetto della gravità, la sensazione del terreno sotto i piedi, magari un cedimento dell’anca malconcia e il conseguente ruzzolone.
In effetti il ruzzolone ci fu. Ma l’impatto fu più morbido del previsto: una fresca erbetta ricopriva il terreno.

 

Son finito nell’aiola pubblica, si disse, sollevandosi a fatica e spolverando le ginocchia dal terriccio.

 

Non fu, però, una vera sorpresa lo scoprire che così non era stato. Una parte di lui aveva già colto il canto degli uccelli, lo scrosciare di acqua e il profumo pulito dell’aria. La collina scendeva dolcemente e nessun elemento antropico disturbava l’ondulato panorama davanti a lui. Ma non se ne preoccupò.

 

Geniale. Ho battuto la testa. Speriamo almeno che qualcuno mi raccolga prima che passi una macchina e mi investa. O che qualcuno mi derubi mentre son riverso sul marciapiede. E prego il Signore che non mi prendano per un trans, si ritrovò a riflettere, mentre un sorriso gli tendeva la bocca e lo sguardo si riempiva della bellezza che aveva davanti. Era una scena semplice, eppure lo commuoveva.

 

Forse sono morto e questo è il Paradiso. Allora vale davvero la pena di morire…

 

Avvertì per qualche secondo un senso di malinconia e il viso di sua figlia gli apparve nitido davanti agli occhi: scarmigliata e urlante, bagnata di lacrime, due grosse righe nere verticali dalle ciglia colavano fino al mento appuntito. Ma la pace che permeava il luogo era troppa, troppo gioioso il richiamo della luce che giocava con mille riflessi sul laghetto poco lontano. Dalla stessa direzione sentì provenire un muggito: incuriosito, si mosse a passo svelto.

 

Se questo è morire è senz’altro meglio di quello che stavo passando prima. Questa sì che è vita.

 

Dopo qualche metro decise di togliersi i vecchi scarponi e le calze, camminando scalzo sull’erba; immergere, poi, i piedi nell’acqua lo deliziò in tale misura da spingerlo a considerare l’idea di spogliarsi interamente e fare un bagno; si accontentò, per il momento, di immergere le mani e sfregarsi vigorosamente il viso. Il rimmel sciolto gli entrò negli occhi, facendolo imprecare per il bruciore. Intanto, i muggiti si facevano più vicini e a loro si era unito qualche lieve belato.

La prima mucca a girare l’angolo lo fissò per qualche istante, dondolando la grossa testa scura; poi, dimentica di lui, si concentrò sull’acqua, bevendo tanto che Guglielmo temette potesse scoppiare. Fu velocemente seguita da altre che si accalcarono lungo l’argine del fiumicello che scorrevo fuori dal laghetto, dando l’impressione di vecchie signore in fila per uno spettacolo. Bianche capre arrivarono ad ingrossare le fila.

 

Per ultimi giunsero tre giovani, due ragazze e un ragazzo. Questo strabuzzò gli occhi, sorpreso. Un piccolo grido strozzato gli sfuggì dalla bocca, prima che potesse tapparla premendovi sopra entrambe le mani, ma così facendo lasciò cadere il cesto che portava, spargendo fragole e altri piccoli frutti sull’erba, che le capre furono veloci a trangugiare. Quella che sembrava la più giovane lo raccolse e si affrettò a scacciare le bestie, senza però distogliere gli occhi da lui.

 

“Ciao” tentò Guglielmo, gioviale.
La piccola si riparò dietro quella che doveva essere la sorella, vista la somiglianza. Dovevano essere tutti e tre parenti, a dire il vero: i capelli castani e ondulati, la corporatura robusta ne erano al prova.

Quella si fece coraggio e rispose al saluto, con voce bassa e cortese.

“Chi siete?” proseguì Guglielmo, avvicinandosi lentamente, sollevato dal fatto che i tre faccini sembravano più incuriositi che spaventati.

La domanda sembrò sorprenderli, tanto che la piccola ridacchiò.

“Siamo umani!” rispose poi il maschietto, gonfiandosi il petto, come se stesse recitando bene la poesiola in classe.

“Forse viene da fuori, da oltre il mare – suggerì allora la più grande, lanciando un’occhiata ammonitrice al maschio – in quel caso, sii cortese, straniero, e seguici al nostro villaggio: sono molti anni che nessuno viene dal mare! Tutti vorranno sentire le tue storie!”.

Ancora stupito per la risposta ottenuta ad una domanda così semplice – forse in Paradiso Angeli e Umani coesistevano? E si viveva in un villaggio, non sulle nuvole? – decise di accantonare i propri dubbi e di seguire i piccoli: avvertiva che nessun pericolo poteva giungere a lui in quel luogo.

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Capitolo 2
*** Capitolo due: Dove si scopre come essere diversi da sé. ***


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Capitolo due: Dove si scopre come essere diversi da sé.

 

Il villaggio non era poi molto distante: una manciata di case, decorose, ma spartane, abbarbicate al fianco della collina. Molta gente stava in strada, sorridendo e facendo cenni al suo passaggio. Pareva quasi una festa, ma quando chiese conferma di questa supposizione i bambini negarono, non sapendo nemmeno ben capire cosa fosse una festa

“Siamo vicini al tramonto, fra poco avrà inizio la messa!”.

Guglielmo storse il naso: non era mai stato strettamente praticante. Ma che poteva fare? Avrebbe dovuto capire prima che, in Paradiso, certe prassi non potevano certo essere eluse.

“Dove mi portate? Dal capo villaggio? Devo chiedere a lui…” si fermò, davanti all’espressione schifata che le sue parole avevano suscitato.
Poi, la più grande – di cui ancora non aveva colto il nome, dato che i fratelli non lo pronunciavano mai – sospirò e sembrò raccogliere le energie per fare qualcosa di molto difficoltoso. O raccapricciante.
“Noi non abbiamo… capi – pronunciò la parola con una difficoltà e un disgusto palpabili – noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme e insieme decidiamo. Tutti sono importanti, tutti sono utili, tutti sono amati” terminò, dando una leggera cadenza cantilenata alle ultime affermazioni.

Guglielmo ristette, stupito: non avevano capi? Nessuno, nemmeno eletto? Altro che democrazia!

“Ma il Dio che pregate non è un capo?” domandò docile, abbassandosi per guardare in faccia i due più piccoli.

“No! Noi sappiamo che Lui c’è – rispose quindi la piccola, che iniziava a ricordargli sua figlia da bambina – ma lui non vuole comandarci. Lui ci ama. Lui vuole che noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme”.

L’uomo si grattò la testa, ma preferì annuire, piuttosto che proseguire con le domande: prima o poi avrebbe potuto parlare con degli adulti e carpire maggiori informazioni.
I suoi tre anfitrioni si fermarono in un’ampia piazza tondeggiante. Molti fiori adornavano i lati e il loro dolce profumo riempiva l’aria. I tre si sedettero per terra, e fecero cenno anche a lui di imitarli. Altre persone arrivarono e tutte, in perfetta armonia, si sedettero a terra, senza parlare, senza litigare per chi dovesse stare davanti e chi dietro, senza spintonarsi o accatastarsi impedendo agli altri di passare: doveva essere un qualcosa di ben progettato e molte volte provato, affinché potesse funzionare in maniera così fluida.

“Cosa sta per suc…”.
“Shhh! – fecero i tre all’unisono, e sempre all’unisono proseguirono – la messa!”.

Le facce adulte attorno a loro sorridevano, bonarie, senza rimproveri o commiserazione negli occhi.

Decise, ancora una volta, di mettere a tacere la sua curiosità e la voglia di sapere come potesse essere possibile una simile organizzazione – il leader in lui invidiava un simile controllo – e di lasciarsi trasportare: non aveva forse desiderato di essere diverso, prima di battere la testa? Forse il suo cervello gli stava regalando un sogno di accettazione e pace, prima di spegnersi per sempre.

 

La piazza andava riempiendosi, sempre con ordine e pace; nessuno parlava, ma invece di essere oppressivo, il silenzio e la quiete aumentavano il senso di calma che traspariva dai volti sereni, in attesa. Poi, come avviene nelle chiese fornite di una congrega ben collaudata, si alzarono tutti in piedi, quasi all’unisono, e un canto riempì la piazza. Benché non conoscesse la melodia e non riuscisse a comprenderne le parole, Guglielmo si sentì colmare dalla bellezza di  quel motivo e strinse con dolcezza le mani dei suoi piccoli amici, che a loro volta afferrarono quelle dei loro vicini, formando un’unica, immensa, interminabile fila di persone, che insieme cantavano e ondeggiavano alla luce morente. C’era tanta gioia, in quelle persone, tanta pace, che dimenticò se stesso e i propri affanni, scordò le offese del figlio e degli attori che tanto l’avevano addolorato e rimosse il senso di inutilità che lo opprimeva da mesi. Si sentì libero e felice. Chiuse gli occhi e si lasciò andare, dondolando sui suoi grossi piedoni – improvvisamente non gli apparivano più così sgraziati! – a ritmo con tutti gli altri. 

 

Fu con suo immenso stupore che si accorse, ad un certo punto, delle stelle che facevano capolino dal cielo cobalto: sembravano passati pochi minuti, ma dovevano essere state ore. Si accorse anche del silenzio e del fatto che le persone, lentamente, si stavano lasciando le mani, per salutarsi e allontanarsi dalla piazza.
“Ti portiamo a casa con noi, se vuoi”.

Annuì, sentendosi affamato; avviandosi verso una delle casette si meravigliò nel notare che nessuno girava da solo, ma che tutti stavano in gruppi minimo di tre, quattro persone.

 

Strano. Avranno paura del buio… ma cosa può esserci di cui avere paura in un luogo del genere?

 

La gente cenava con la porta aperta. Piccole lampade rischiaravano l’esterno delle case, mostrando gente che salutava cordiale al loro passaggio. Sembrava che tutti si conoscessero e che tutti fossero immensamente lieti della sua presenza.

 

Che persone fiduciose. Non ci deve essere criminalità... Beh, dopotutto è il Paradiso.

 

La casa dei tre bambini era abitata da cinque adulti.

 

Allora, probabilmente, sono cugini, non fratelli.

 

Tutti e nove si sedettero ad una tavola già imbandita con pane, frutta e formaggi, mentre una grossa frittata sfrigolava in una pentola appesa sopra al focolare.

 

“Spero tu non rimpianga la carne, non ne mangiamo” gli disse uno degli uomini. Rispondeva a una domanda che Guglielmo ancora non aveva formulato, sebbene dovesse averla stampata in faccia.

“No, cioè… mi piace la carne, ma queste cose vanno benissimo” si affrettò a rispondere per non apparire scortese di fronte alla generosità dei suoi ospiti.
“Domanda pure – proseguì mite l’uomo – se possiamo esserti di qualche utilità, saremo lieti di aiutarti. Non stupirti, hai la curiosità dipinta sul viso! È così diversa la tua terra, da questa?”.

“Per la verità… sì. Molto diversa. Per esempio so di essere risultato molto maleducato: sono qui, seduto alla vostra tavola, e nemmeno mi sono presentato al padrone di casa… - si alzò dalla sedia, allungando una mano – molto lieto, sono Guglielmo Giuse…”. Si interruppe vedendo che tutti si erano istintivamente ritratti dalla tavola. L’uomo di fronte a lui lo osservava torvo.

“Noi non abbiamo capi – riprese a parlare lentamente, con fare guardingo – nessun umano comanda altri umani. Noi siamo tutti uguali, siamo noi, siamo insieme e insieme decidiamo. Posso capire che essendo tu straniero non volessi offenderci col tuo comportamento, ma l’hai fatto. La parola che tu hai usato… risulta una bestemmia, alle nostre orecchie. I figli la evitano, come le menzogne e gli insulti. Non potremo tollerare che sotto il mio tetto vengano usate parole simili, e ne sono addolorato perché la tua visita allieta i nostri cuori. Ma se ci darai la tua parola che tale comportamento non si ripeterà, potremo dimenticare e perdonare il tuo innocente errore”.

Guglielmo stava a bocca aperta, tentando di assimilare la notizia.

 

Nessun capo? Nessuna direzione? Nemmeno all’interno della famiglia? E chi decide?

 

“Perdona la franchezza, dato che l’argomento è uscito vorrei abusare della tua comprensione ancora un poco… ma se nessuno… dice ad altri cosa fare – cercò di girarci intorno – come crescete i vostri figli? Come insegnate ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Come apprendete i mestieri, come regolate le mansioni…”.

“Calma, amico – l’uomo lo interruppe – adesso è tardi e dobbiamo riposare. Domani cercheremo di spiegarti le nostre usanze e, speriamo, tu vorrai raccontarci delle tue e allietare così il momento della messa”.

“Certo, certo, ti ringrazio… scusa, non ho capito il tuo nome”.

Un certo disagio percorse ancora le figure sedute a tavola, ma non l’uomo che, invece, sospirò.

“Noi non abbiamo nomi. Noi siamo noi. Che funzione potrebbe avere un nome, nel nostro modo di vivere? Nessuna. Vai a dormire, amico. Domani ti sarà tutto più chiaro”.

Muovendosi con grazia, gli otto abitanti della casa sparecchiarono la tavola e rassettarono la casa; infine, dopo aver mostrato a Guglielmo in quale letto poteva dormire all’interno della stanza comune che fungeva da camera, si coricarono.

Nonostante l’atmosfera distesa e il leggero rumore dei loro respiri, faticò a prendere sonno.
Una parte di lui era ancora convinta che fosse tutto un sogno e, perciò, l’addormentarsi l’avrebbe interrotto e fatto sparire; la parte più razionale continuava a credere di essere davvero morto o, per lo meno, in coma – e il pensiero gli procurava ben poco dolore… Infine, una piccolissima frazione della sua coscienza iniziava a pensare che il suo sogno si fosse realizzato… che fosse davvero finito in un’altra realtà. Un nuovo mondo, una nuova vita, dove essere davvero se stesso… una terra dove non era vecchio e inutile, o rompicoglioni, e dove non era costretto a rincorrere senza successo l’eco della persona energica e dura che era stato, legato a una famiglia che non lo amava e a un’esistenza che lo opprimeva. Fu cullandosi in questo pensiero che, senza nemmeno accorgersene, scivolò nel sonno.

 

Il mattino fu sorpreso di essere l’ultimo a levarsi: in casa sua era considerato un gran mattiniero.
Rimase nel letto a pensare, quando il padrone di casa – devo smetterla di pensarlo così, o mi scapperà detto di nuovo! – si affacciò alla finestra.

“Straniero, vogliamo mostrarti delle cose, seguici!”.

Lui rotolò frettolosamente giù dal materasso, infilò i jeans che aveva abbandonato sul pavimento e uscì. L’uomo, insieme ai due bambini più piccoli, lo attendeva all’esterno, del pane e una mela in mano.
“Tieni, puoi mangiare mentre cammini” lo esortò gentilmente, porgendoglieli.

“Secondo i racconti, una volta eravamo divisi – iniziò a raccontare, oltrepassando altri capannelli di gente che li salutò cortese al loro passaggio – il senso di comunità non era percepito come importante; questo condusse a litigi, discordia e guerra – il suo tono si rattristì – tutti erano concentrati non sul bene comune, ma sul proprio. E questo è male. Poi, un giorno, i nostri antenati scoprirono che la base di questo era dovuta alla famiglia: se due esseri ne generano un terzo e lo crescono, ameranno questo sopra ogni cosa, non credi? Venne allora deciso che da quel momento i piccoli – accarezzò la bambina che trotterellava al suo fianco – non sarebbero stati con delle persone fisse ma sarebbero stati liberi e che tutti ne sarebbero stati responsabili fino alla muta”.

“La muta?” domandò Guglielmo, non riuscendo a capire.

I tre sorrisero. “Vieni – lo tirò per la manica il bimbo – guarda”.

Si trovava davanti a quella che sembrava una serra. All’interno, giganteschi boccioli purpurei di una specie che non aveva mai visto prima.

“Cosa sono?”.

“Noi li chiamiamo ùdaram*, sono stati creati dai nostri avi, e per questo noi sempre li ricordiamo e onoriamo durante la messa”.

“I vostri avi hanno creato queste piante?”.

Altri sorrisi.

“Gli ùdaram e la Parola sono il lascito del passato per costruire un migliore futuro. Sono ciò che ci rendono noi, e noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme e insieme decidiamo. Tutti sono importanti, tutti sono utili, tutti sono amati, grazie a questo” e, nel dirlo, si scostò. Quello che Guglielmo vide fu la cosa più disgustosa, per un certo verso, più innaturale… eppure anche la più bella che mai aveva visto. Uno dei giganteschi boccioli si aprì leggermente, ma nel lato inferiore: un uomo si avvicinò e, con estrema delicatezza, ne estrasse un neonato perfettamente formato e urlante.

“Sono incubatrici! – balbettò, sconvolto – sono uteri artificiali!”.
La bambina annuì, ma lui non riusciva a credere che una creaturina così giovane potesse capire davvero simili concetti, già sconcertanti per lui. Si rivolse allora all’adulto, chiedendo maggiori spiegazioni.

“Te l’ho già detto: i nostri avi hanno ideato il metodo degli ùdaram per fa sì che tutti fossimo amati e tutti ci amassimo allo stesso modo. Alla nascita vengono prelevati i gameti e vengono poi casualmente incrociati per generare nuove vite quando il numero della comunità cala. Ogni villaggio ha i suoi ùdaram, questo garantisce che non vi siano sovrappopolazioni – compitò con difficoltà, come se fosse una parola conosciuta solo nella sua forma, ma non nel contenuto – che potrebbero condurre a migrazioni o conflitti” terminò, similmente.

“Questo non è il Paradiso”… mormorò Guglielmo, affascinato, però, dalla stranezza e dalla bellezza del ragionamento.

“Non capiamo cosa tu intenda con queste parole, spero che ciò che ti abbiamo mostrato ti abbia aiutato a capire, ma che non ti abbia spaventato”.
“No, no, anzi, ti ringrazio per questo… ho capito il perché non ci sono… persone di grado più alto delle altre, partite tutti uguali, è così? Ma i bambini non sono sottoposti a nessuna autorità? Chi insegna loro?”.

“Non abbiamo niente da imparare: abbiamo nella mente tutto ciò che gli altri hanno. Condividiamo opinioni, pensieri, emozioni. Questo per far sì che non vi possa essere screzio o disaccordo. Per garantire l’armonia e l’amore. Il bambino è tale solo nel corpo: man mano che questo si sviluppa, gli vengono commissionati compiti sempre più simili a quelli di tutti gli altri”.
“E questo non genera rivalità?”.

“E perché dovrebbe? Tutti siamo stati bambini, tutti saremo vecchi. Non c’è nulla di speciale, né nulla di diverso”.

“Perdonami… continuiamo a parlare e io ancora non ho capito i vostri nomi”.
“Noi non abbiamo nomi, perché averne? Il singolo non ha valore, né nessuno di noi vorrebbe stare da solo… non veniamo amati da nessuno, se siamo soli – rabbrividì l’uomo – siamo umani. Tanto ci basta, non ci servono altre definizioni”.

“Ma allora come vi rapportate fra di voi?” chiese, sempre più allibito, ma anche stranamente confortato.

“Non servono i nomi per stare insieme. Quando conosci qualcuno intimamente, lo chiami per nome? Quando siete insieme, non siete forse un “noi”? È la stessa cosa, straniero: noi non abbiamo nulla che ci divida, viviamo insieme. Quello che, da dove vieni, è importante, il nome… qui non ha senso. Dai forse tu un nome ad ogni singolo filo d’erba, o a ogni bestia che rumini al pascolo? Eppure non ami e ringrazi allo stesso modo ogni spiga che ti fornisce sostentamento e ogni capo macellato?”.

“Ce…certo” balbettò lui, colpito dalla logica dell’altro.

Restarono insieme in silenzio, osservando quella serra, che serra non era.
“E gli anziani? Non ho visto persone anziane, da quando sono arrivato”.
“Così come ai piccoli vengono affidati oneri via via più pesanti crescendo, così agli anziani gli stessi vengono via via levati. Tutti fanno la loro parte, sia essa piccola o grande, fino alla fine”.

“E hanno un loro valore, vengono apprezzati?”.

Per la prima volta da qualche tempo, l’uomo e i bambini lo fissarono sorpresi “Uno dei compiti degli anziani è quello di far sì che la piazza sia sempre ordinata per la messa, un momento importantissimo, per noi: non so se è questo che intendevi”.

Tanto gli bastava: l’amore dell’intera comunità, una funzione importante e riconosciuta. Nessun bisogno di essere sempre all’altezza del prima, nemmeno nessun ricordo di ricordarlo, il prima.

“Vi prego, torniamo a casa – disse, la voce rotta dalla commozione – cercherò di fare la mia parte per aiutarvi, se mi accetterete. E spiegatemi bene cosa avviene in questa messa, ho sentito una straordinaria sensazione di pace l’altra sera”.

“È perché in quel momento l’armonia che regna fra noi tocca il suo picco, e quindi anche se ancora…”.

Si allontanarono parlando.

 

Nascosto nell’erba, stava un piccolo quadrato di pelle marrone: un portafoglio. Era semiaperto e, facendo attenzione, era possibile scorgere, anche senza toccarlo, il volto di una bambina sorridente, congelato in una fotografia. Una delle nutrici si allontanò dalla serra e lo calpestò, senza nemmeno accorgersene, facendolo affondare nel fango scuro.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre: Dove le cose prendono un’altra piega. ***


Nuova pagina 1

 

Capitolo tre: Dove le cose prendono un’altra piega.

 

 

Aveva iniziato a lavorare insieme a quello che dentro di sé aveva ribattezzato Maurus – non a livello conscio, ma poco più sotto. Probabilmente il nome centrava qualcosa col suo aspetto vagamente mediterraneo unito a degli occhi di un azzurro particolare. Sembrava un berbero, un nordafricano, e aveva un modo di fare così austero e cortese che certamente non poteva venire dal presente, ma da un passato dorato e fulgido: un abitante dell’antica Mauritania, appunto.

 

Quando, molto tempo dopo, si fermò a pensare a questo dettaglio, si stupì delle capacità associative del suo cervello: sul momento gli era solo parso difficile pensare alla sua guida – benché in realtà fossero sempre almeno in quattro a seguirlo – senza un nome, e aveva scelto il primo che gli era capitato…

 

Modellavano tazze, vasi e quant’altro nell’argilla e poi li cuocevano e dipingevano.
Era un lavoro manuale e umile, ma lo appagava. Vedere i bambini scorrazzare in giro bevendo dalle sue ciotole, poi, lo gonfiava di un orgoglio che non aveva mia provato prima – o forse qualche volta, sì, ma non ricordo quando – e lo faceva sentire bene. Si sentiva accettato e amato. Essere uno fra tanti, una goccia nel mare, era un pensiero che l’aveva sempre spaventato, la segreta spina che l’aveva spinto ad emergere, a porsi sempre a capo, qualsiasi cosa si stesse facendo. Ora quella paura, quella pulsione, era sparita, sostituita da una sensazione di armonia assoluta.

Aveva iniziato a svegliarsi insieme agli altri e, all’unisono con loro, a cadere addormentato; non si stupiva più della dimensione collettiva della vita, del fatto che nessuno girasse mai solo, ma anzi, cercava lui stesso la compagnia di quella che considerava la sua famiglia.

 

La mia nuova famiglia… nuova? Perché nuova? Ne avevo una vecchia?

 

Ogni tanto strani pensieri lo turbavano, immagini bislacche, come ricordi di sogni lasciati a prendere ragnatele nel fondo della sua mente; ma bastava il sorriso di uno dei bambini – sempre desiderosi di trascorrere tempo con lui, che li accontentava con racconti nuovi e divertenti – oppure il cortese richiamo di un compagno durante il lavoro, e quelle sensazioni di smarrimento sparivano.

 

Passò il tempo: la sua pelle venne scurita dal sole, la barba e i capelli vennero acconciati secondo lo stile degli altri uomini. Ricordava di essere stato diverso quando era arrivato – quanto tempo era passato! – eppure ora assomigliava in tutto e per tutto agli altri abitanti del villaggio; aveva persino smesso di pensare a sé stesso come “Guglielmo”, lasciando da parte il concetto di sé che aveva maturato in oltre sessant’anni di vita. Ora pensava a sé stesso come allo “straniero”, o a “quello bravo con le storie”: i bambini, già dotati di tutte le conoscenze dei grandi, non si saziavano mai dei suoi racconti, immaginari e non. Anche gli adulti, spesso, gli chiedevano di narrare qualcosa, e non si stancavano di ascoltare, pur conoscendone il contenuto del racconto.

 

“ È la messa – rispose un pomeriggio Maurus – ancora non sei abbastanza in armonia con noi da poter penetrare così addentro alla cerimonia… non è solo un momento di pace e comunità; la sensazione di gioia e di concordia che percepisci è ciò che davvero in quel momento proviamo. Tutto ciò che è avvenuto durante il giorno, tutto ciò che è stato imparato, si propaga nelle menti dei presenti. Un sasso lanciato nell’acqua non increspa forse tutta l’acqua del lago? Allo stesso modo il nostro canto ci permette di connetterci gli uni agli altri. È anche questo un lascito dei nostri avi: solo quando non siamo soli possiamo usare la telepatia di cui siamo dotati e, più siamo, più questa si fortifica. È una situazione meravigliosa. È in quel momento che, ogni giorno, sperimentiamo quanto siamo amati, quanto siamo insieme”.

 

Lui annuiva, commosso e un po’ invidioso, desideroso di poter presto condividere tutta la bellezza di quel momento. E, piano piano, senza nemmeno rendersene conto, dimenticò sé stesso e il suo passato, si immerse totalmente nel qui e ora che la mentalità umana implicava. Lavorava, salutava, mangiava, pensava con loro, condividendone esperienze e fatiche. La sera arrivava e lui sentiva di essere un po’ più vicino alla sua meta: percepiva un senso di appartenenza mai sperimentato prima.

Iniziava anche a ricordare cose che, in realtà, non aveva vissuto – la strana vista di un orso pescatore o il suono dolce del liuto che non aveva ascoltato. Infine, una sera, successe.

Fu un’indescrivibile, meravigliosa sensazione di straniamento e di oblio di sé: sentiva il suo essere fondersi con quello degli altri e poteva distintamente vedere la corrente di amore e simpatia che fluiva fra gli abitanti del villaggio, raggiungendoli tutti, dal più giovane al più vecchio. Un anziano, accanto a lui, sorrise e si trovarono a pensare insieme a quanto fosse meraviglioso essere.

 

Trascorse davvero molto tempo a galleggiare in questa nuvola di benessere: non bastò la notte a cancellare la sua euforia, né la mattina di duro lavoro che la seguì; attese con impazienza l’arrivo del crepuscolo e l’inizio della cerimonia.

Era diventata la sua droga: benché lui non ne fosse, ormai, più consapevole, il benefico senso di appartenenza e accettazione che provava leniva i mesi di solitudine, ansia e paura che aveva provato a casa.

Doveva essere il capo: questo significava non solo ricevere gli onori del caso, ma averne anche tutti gli oneri: sua la responsabilità dell’azienda – e, di riflesso, dell’economia globale – sua quella dei suoi sottoposti e colleghi, sua quella della famiglia.

 

Successivamente fu ben lesto a capire come avesse potuto lasciarsi affascinare così tanto da una realtà in cui non esisteva, anzi, era rigettata l’idea di leadership: nessun capo significa che tutti, e quindi nessuno, sono responsabili; nessun responsabile significa nessun colpevole, nessuno da incolpare; nessun colpevole significa niente recriminazioni, niente acrimonia, solo amore e pace.

 

“Noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme e insieme decidiamo. Tutti sono importanti, tutti sono utili, tutti sono amati” recitava ogni sera con gli altri, e ci credeva.

 

Eppure, in fondo al suo cuore, germinava un seme che, lentamente, attecchiva e metteva radici.

C’era, infatti, qualcosa che iniziava a infastidirlo: la noia.

Ogni giorno era uguale: sveglia tutti insieme, colazione sempre uguale – così come ogni altro pasto – lavoro e messa. Tutto qui.

Si accorse che persino le sue storie perdevano mordente: non riusciva a inventarne di nuove. Si trovava a replicare le stesse storielle, che apparivano sempre più scialbe e sciupate ad ogni ripetizione. Era come se tutta la sua fantasia – ero così bravo a teatro, ero così appassionato! – fosse tutt’a un tratto sparita. Lentamente capì il perché: la creatività va alimentata. E lì, per quanto il posto fosse idilliaco…

 

Manca mordente, in questa vita. Manca il sale.

 

Nessuno litigava mai, l’aveva già notato: quella che all’inizio aveva ritenuto una pratica civilissima e da imitare iniziava ora ad apparirgli deludente. Quanto doveva essere difficile sforzarsi di mantenere l’armonia, se non c’erano pareri contrari? Quanto doveva essere complicato raggiungere una perfetta comunanza quando ogni pensiero, emozione e sensazione era identica a quella degli altri e non esistevano pensieri ed idee individuali e diversi? Non c’erano divergenze perché non c’era un vero confronto.

 

“Per loro il singolo non conta nulla, già lo sapevo. ma adesso mi chiedo: è giusto così? È quello che volevo? Essere accettato è bellissimo, ma… non voglio essere come tutti gli altri. Voglio essere amato non perché lo si deve fare, ma perché sono così come sono” disse fra sé e sé.

Era stranamente solo: aveva iniziato ad allontanarsi dalla folla, a cercare la solitudine, e questo non aveva minimamente scalfito la vita degli altri.

 

Se mi hanno accettato così tanto… perché, ora, la mia assenza passa inosservata?

 

In un flash rivide una ragazzina con i capelli biondi urlare, piangendo.
L’immagine lo ferì, ma non ne capì il motivo: era qualcosa che aveva dimenticato?
Molto spesso ricordava di aver scordato qualcosa: percepiva un vuoto, ma non riusciva a riempirlo.

Si sedette sul prato, davanti a quella serra che aveva segnato l’inizio della sua vita al villaggio.

Un dolce venticello gli sollevava i capelli, mentre il sole gli scaldava la pelle; lasciò che le sensazioni fisiche lo invadessero, cercando di allontanare l’angoscia che gli chiudeva lo stomaco in una morsa., o meglio, cercandone la causa.

 

La mia assenza passa inosservata… a loro non interessa che io sia bello, buono, brutto, basta che sia come loro, come tutti… non gli interessa che sia un rompicoglioni, anzi, non posso nemmeno esserlo fra loro.

 

Quella parola gli lasciava uno strano sapore in bocca. Rompicoglioni. Gli ricordava il curry: odiava quando Laura lo cucinava, a casa, impregnava tutti i tessuti di quella puzza, ma quando passava troppo tempo senza che lo preparasse si sorprendeva a sentirne la mancan…

 

Laura.

 

Il viso dolce di sua moglie gli balenò davanti agli occhi. E insieme al suo quello di Enea e di Orazio.

 

Allora chi è la bionda?

 

Fu il Caso – o forse il Destino – a rispondergli, facendolo trasecolare per la forza dei ricordi.

La sua mano urtò un oggetto quadrato, che raccolse senza nemmeno farci molto caso; solo quando lo portò all’altezza degli occhi ricordò fosse il suo portafoglio. Inumidì un dito con un po’ di saliva e tentò di togliere un po’ del fango depositato sulle facce interne.

La ragazza bionda – notevolmente più giovane, una bambina, e notevolmente più felice – gli sorrise da un’istantanea.

 

Berenike!

 

Sant’Iddio, come aveva potuto dimenticare la sua bambina? E sua moglie, i figli, le nipoti?

Frugò all’interno delle tasche del portafogli finché non apparve la sua carta di identità: Guglielmo Giuseppe Catteruzzi, nato nel Giugno del ’56, sposato. Segni distintivi: cicatrice all’attaccatura dei capelli. Accarezzò la linea bianca che si era procurato da bambino con affetto: quanti ricordi legati ad essa!

 

Sono io. E sarò pure vecchio, inutile e rompicoglioni, ma è nonostante questo, anzi, è per questo che voglio essere amato: perché sono io.

 

Mentre correva verso le case, pensava a tutti gli anni trascorsi a casa, casa sua: sua figlia che rideva dopo il suo occhiolino, l’entusiasmo con cui si accendeva quando, insieme, preparavano i costumi per Carnevale, attenti che ogni dettaglio fosse perfetto; e il modo in cui si rabbuiava quando esagerava a “fare il comandino”, come abbracciava la madre e come portava i capelli lunghi per usarli come scudo, per nascondercisi dietro e celare così le sue fragilità. Fragile e forte, come il suo nome, così bizzarro e unico che avrebbe potuto schiacciare una qualsiasi altra adolescente, spingendola ad adottare un ben più agevole soprannome: ma non lei che, sebbene rispondesse al nomignolo di “Nike”, si presentava sempre e solo col suo nome completo.
E la rivide ancora, in lacrime, mentre urlava. Cosa le era capitato? Perché era così disperata? Lo credeva morto? Ma lui era morto?

Correva e pensava.

Pensava e correva.

E ricordava: il dolore degli insulti degli attori – come se non fosse cresciuto sentendo ben di peggio, come aveva potuto farsi turbare così? – la camminata solitaria, il sasso. Il gioco della campana disegnato per terra, anzi, no: la finestra.

 

“Maurus! Maurus, devo chiederti un favore” urlò, irrompendo come un uragano nel laboratorio del vasaio.

“Maurus?” l’uomo apparve confuso.

“Sì… non c’è tempo per spiegare. Mi serve un gesso”.

“Non riesco a capire i tuoi pensiero, amico. Siediti, calmati, dicci cosa possiamo…”.

“Non c’è tempo! Chissà quanto sono stato via! Oddio, Laura sarà impazzita, i ragazzi saranno fuori di loro… devo tornare a casa, subito!”.

Tutte le persone all’interno dello stanzone lo guadavano come se stesse parlando una lingua a loro incomprensibile. Per la prima volta lui si rese conto del fatto che i vasi non avevano colori: anzi, nulla aveva colore, né gli abiti, né gli oggetti, che venivano lasciati della tinta naturale della materia di cui erano fatti.

“Maurus, mi serve qualcosa per disegnare. Segnare per terra. Scrivere per terra!”.

Il silenziò, confuso, accolse la dichiarazione.

“Non abbiamo niente del genere, straniero – rispose Maurus, e in lui rivide lo stesso sguardo confuso e irritato che gli aveva visto la prima sera – i colori rendono le cose diverse, rendono noi diversi, mentre noi siamo noi, siamo uguali, siamo…”.

“Sì, sì, sì, conosco la tiritera – lo interruppe bruscamente – quindi niente gesso? Niente colori?”.

Sei teste vennero scosse, ad indicare altrettanti dinieghi.

“Bene… mi arrangerò con altro”.

 

Si allontanò, sempre di fretta. Cercò il laghetto che l’aveva accolto e lo trovò; là c’erano anche i tre pastorelli. Non c’era certo da meravigliarsene, vista la fortissima routine che regnava nel villaggio… ma Guglielmo vide lo stesso la cosa come un assenso del Destino. Come la chiusura del cerchio, o la quadratura, o come diavolo si diceva.

“Mi volete aiutare? Potreste cercarmi un legnetto?”.

Gliene portarono tre, uno a testa; scelse quello che sembrava più robusto.

 

Si avvicinò all’acqua e cominciò a strappare zolle d’erba; quando ripulì un bel quadrato, iniziò a bagnarlo, aiutandosi con le mani, prima, e coi piedi poi, come i bambini che giocano a tirarsi l’acqua sul bagnasciuga.
I tre lo osservavano in silenzio, gli sguardi carichi di irritazione e confusione.
Prese il bastone, con un nuovo timore: e se non fosse bastato?

 

Riflettiamo. Com’era esattamente? Una finestra, va bene. E devo voler tornare. Prima volevo andare, ora voglio tornare. Un po’ come Finardi.

 

Un quadrato, uno più piccolo dentro, per fare l’infisso. Un rettangolo stretto come davanzalino. E le tende sui lati.

 

Approssimativo… ma speriamo possa bastare.

 

Si concentrò su casa sua. Sul profumo della pelle di sua moglie. Sul colore caldo dei suoi occhi. Sulla voce di Orazio, perennemente annoiato dalla vita, e di Enea – non ti sento da troppo tempo, figlio mio, ma tutto andrà per il meglio. 

 

Trattenne il respiro, richiamò il nome sei suoi cari… e saltò.

 

Toccò terra. Sentì il canto degli uccellini. Aprì gli occhi e i pastorelli erano ancora lì, a fissarlo.
Sentì lacrime di frustrazione pungergli gli occhi: cosa sbagliava? Perché non funzionava?

Stava per cancellare il disegno con un piede, quando la ragazzina gli parlò, la voce poco più di un bisbiglio.

 

“Credo che sia perché la finestra è chiusa” e, appena finì di dire queste parole, si tappò la bocca con la mano, sgranando gli occhi. Anche Guglielmo la fissò sorpreso, senza accorgersi che, per la prima volta, uno di loro parlava di sé in prima persona. Poi si illuminò.

 

“Ma certo! Hai ragione! Grazie, grazie, grazie…” continuò a ripetere mentre, febbrilmente, disegnava due trapezi storti al lati del quadrato, come imposte lasciate spalancate.

Questa volta non si lasciò nemmeno il tempo di avere un’incertezza e, lanciando un infantile “Geronimo!” saltò.

 

“Signore? Tutto a posto?” un paio di bambine lo fissavano spaventate.
A ragione: la mamma aveva sempre detto loro di diffidare degli sconosciuti e adesso se ne trovavano uno, grande e grosso, in mezzo al loro marciapiede.

“Potete dirmi che ore sono?” chiese, allontanandosi.

“Siamo appena uscite da scuola, le quattro”.

“Grazie!” urlò dalla distanza, iniziando a correre.

L’anca iniziò presto a farsi sentire e dovette ridurre la corsa a un trotto, che presto scemò in un passo sostenuto, quando anche il fiato cominciò a mancare.

 

 

________

Sì sì, il "Geronimo" non solo è un'esclamazione che ogni bambino che si rispetti - o chiunque stia vivendo un'avventura! - dovrebbe pronunciare, almeno una volta nella vita; è anche un sottile riferimento al mio adorato Doctah-Eleven <3 (o, in generale, ad ogni Doctor Who. I love you, guys <3)

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Capitolo 4
*** Epilogo: dove tutto finisce. Fino alla prossima volta. ***


Nuova pagina 1

 

 

Epilogo: dove tutto finisce. Fino alla prossima volta.

 

 

Papà!”.

 

Berenike arrivò correndo e gli lanciò le braccia al collo.

“Mi sono svegliata da un incubo orribile, ti ho chiamato al cel, ma non rispondevi e non eri in casa, e poi nessuno riusciva a trovarti, avevamo paura ti fosse successo qualcosa!”.
Aveva gli occhi lucidi e strisce di mascara colato fino a metà guancia.

 

“Dove diamine eri finito?! Sono ore che ti chiamiamo sul cellulare, la mamma era preoccupata e voleva già chiamare la polizia, non hai idea del casino che ha tirato in piedi” la seguì il fratello maggiore, lasciando filtrare tutta l’irritazione che il fatto inatteso gli aveva causato.

“Dov’è la mamma?” chiese Guglielmo in tutta risposta, accarezzando la guancia della piccola.

“Sta tornando dall’ospedale. È venuta là a portarti gli antidolorifici per la gamba verso l’una e non ti ha trovato, ha chiesto in giro e le hanno risposto che te n’eri andato ore prima. Pensava ti fosse venuto un infarto per strada, ha girato tutti gli ambulatori della zona” le rispose lui, calcando la mano sulla parola infarto.

“Sì, Orazio, va bene, sono vecchio, ma adesso smettila di tenere il broncio, d’accordo? Come fai ad essere arrabbiato con un così bel sole, non senti il profumo delle rose di tua madre fino a qui?”.

L’altro parve spiazzato.

“Sì… in effetti si sente. Papà, stai bene, sembri… giurerei che sei più abbronzato di stamattina, sei stato dall’estetista?”.

“Qualcosa del genere” ribatté lui, facendo spallucce.

 

La telefonata con Enea fu lunga. Molto lunga. Vennero dette molte cose, e non è questo il luogo per raccontarle.
Basti sapere questo: per la prima volta da parecchio tempo, la mattina successiva, il ragazzo scese a fare colazione col resto della famiglia.
E accennò perfino un saluto, prima di uscire.


Ci volle ben più di qualche risposta criptica, invece, per tranquillizzare sua moglie.
Ci vollero, nell’ordine, una cena al ristorante, un esaustivo racconto di come si era seduto sul marciapiede a pensare e di come il tempo gli fosse sfuggito – sono passata per quella strada due volte, Gigi, due, e non ti ho visto, com’è possibile che non abbia visto un omone di due metri seduto per terra?! – e un sacco di baci. E carezze sulla mano. Erano anni che non baciava in quel modo sua moglie, ma sentiva che era la cosa giusta da fare. Dopotutto, non era forse lei che lo amava nonostante i suoi enormi, incontestabili difetti?

I ricordi sfumavano velocemente, come quando si tenta di ricordare un sogno. E di sogno doveva essersi trattato: la barba era un leggero velo grigiastro sulle guance, esattamente come era stata la mattina, e lo stesso per i capelli; i jeans erano sporchi di terriccio ma, ehi, si era seduto a ridosso di un’aiuola. Finirono il vino e chiesero il conto. Stava ridendo di una battuta della moglie mentre apriva il portafogli  – diamine, quanto era sexy quando rideva? – quando l’occhio gli cadde su una macchia di fango che copriva il volto di Berenike. Adorava quella fotografia. La cosa gli rievocava… qualcosa. Qualcosa di…

“Tesoro? Tutto a posto?”.

“Tutto perfetto, amore” rispose di slancio, sorridendo.

Si sentiva in pace.

_______

 

 

Note: Questa storia deve un ringraziamento enorme a uno dei miei amori letterari: Michael Ende. Da cui ho preso la finestra di gesso – che sta diventando un refrain in tante mie storie e che non è proprio così, ma quasi – e l’idea base per il popolo senza individualità.

Maurus era l’antico nome usato per gli abitanti della Mauritania: l’excursus etimologico è un infodump enorme, ma dovevo in qualche modo giustificare il perché ho voluto chiamarlo così – la Mauritania era l’attuale Africa costiera settentrionale, bene o male (regno dei Mauri, ossia i berberi, detti poi “Mori”… ).

Berenike: appena l’ho letto ho pensato a Poe – adoro quel racconto. Speravo ne fosse una versione e (grazie Wiki!) ho scoperto che è la versione greca/macedone del moderno Berenice. La protagonista del racconto “diventa” bionda, il padre è biondo… mi sembrava un buon compromesso. Il resto della descrizione caratteriale e fisica s’è scritta da sé, quindi la colpa di eventuali imprecisioni è unicamente sua. Di Berenike, intendo. Non deve sembrare strano che uno chiami la figlia così, alla luce dei nomi dei maschi… ritengo, anzi, che a lei sia andata piuttosto bene. Certo che i due devono aver letto la Pitzorno, quando suggerisce di non dar mai nomi banali ai personaggi, sennò ce li si dimentica strada scrivendo…

 

Infine, quell’asterisco (sono fiera di essermelo ricordato). “Udaram” dovrebbe essere (secondo la Treccani e la parte sull’etimologia del suo dizionario) la parola sanscrita da cui è derivato l’”utero” latino. E italiano. Giusto per non sprecarmi troppo sulla fantasia dei nomi :’D

 

E il riferimento a Finardi? Suvvia, “Extraterrestre, portami via, voglio una stella che sia tutta mia… voglio tornare, per ricominciare!”.

 

Infine, per chi mi conosce: è una storia stucchevole! E ne sono felice! Credo sia da… tanto? Troppo? Che un mio protagonista non sopravvive alla narrazione. O, meglio, che sopravvive senza riportarne traumi tanti e tali da voler comunque morire. E anche se non sono convinta che il risultato sia entusiasmante – forse troppe psicominchiate – la ritengo una bella novità, per me. Per una volta “Tutto è bene ciò che finisce bene”!

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