La finestra di gesso di Gaea (/viewuser.php?uid=49126)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno: Dove il protagonista si presenta e strane cose disturbano la quotidianità. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due: Dove si scopre come essere diversi da sé. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre: Dove le cose prendono un’altra piega. ***
Capitolo 4: *** Epilogo: dove tutto finisce. Fino alla prossima volta. ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno: Dove il protagonista si presenta e strane cose disturbano la quotidianità. ***
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Questa storia nasce grazie al contest "Faccia da random"
di Delirious Rose, che si può trovare
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La finestra di gesso
Capitolo uno: Dove il protagonista
si presenta e strane cose disturbano la quotidianità.
Spazientito, Guglielmo osservò il più grande dei suoi figli
tentare di imboccare la più piccola delle sue nipoti. Con uno scarso successo:
era troppo impegnato a guardare la replica dell’ennesimo reality, piuttosto che
centrare con il cucchiaio la bocca della figlioletta.
“Ti ripeto, Orazio – cercò di modulare la voce affinché il
comando non suonasse come tale, ma più come un consiglio – concentrati su quello
che stai facendo, per l’amor del Cielo: stai impiastricciando tutta la cucina”.
Il giovane a malapena lo considerò, facendo spallucce.
Berenike sospirò, annoiata da quello che si preannunciava
l’ennesimo battibecco: da quando i suoi fratelli erano tornati a casa, non c’era
più stato un attimo di requie. Era stato così bello poter godere dell’ampio
attico in tutta pace… essere finalmente figlia unica, dopo decenni di
imposizioni da parte dei maggiori… il rientro all’ovile di entrambi per
festeggiare il compleanno della mamma l’aveva del tutto destabilizzata.
Festeggiamenti e permanenza che si sarebbero prolungati per un’intera
settimana. Lasciò che i lunghi capelli biondi le coprissero il viso e
affondò nei cuscini del divano, afferrando le cuffie e l’Ipod: non voleva avere
nulla a che fare con la tempesta in arrivo.
“Orazio, ti prego, fa un po’ attenzione!”.
“Papà, sono più che in grado di imboccare mia figlia, perché non esci dalla
cucina e non vai a fare qualcosa? Chessò, una di quelle cose che voi pensionati
fate” ribatté, stizzito dalle continue interruzioni.
Normalmente un’uscita così maleducata avrebbe generato un
alterco di proporzioni epiche: Guglielmo sapeva di aver instillato ai propri
figli buona educazione e rispetto, e non ammetteva che se ne dimenticassero. Ma
l’accenno – voluto? – al suo recente stato di pensionamento lo sgonfiò di botto:
si girò, lasciando la stanza. Lanciò un’occhiata alla figlia minore e la trovò
persa nel suo mondo di musica assordante.
Vorrei poter avere anche io un mondo tutto mio dove
scappare…
Sorrise, però, rendendosi conto che l’aveva. Il nuovo,
gigantesco, tempo libero a sua disposizione era stato convogliato in una
passione che si trascinava fin dall’adolescenza: il teatro. Una passione feroce,
che contrastava talmente tanto con la sua immagine di direttore amministrativo
di una delle più grandi agenzie di rating europee, da lasciare basito ben più di
un conoscente. Persino sua moglie, che pure ne conosceva l’istrionica teatralità
dei gesti, era rimasta sgomenta dal tempo che passava sopra e dietro il
palcoscenico: ben più di quello che passava in casa, a onor del vero. Tirò un
calcio a un sasso sul marciapiede, perso nelle sue riflessioni su matrimonio,
età che avanza e incompatibilità di carattere. Laura era sempre stata speciale e
aveva sempre accordato fiducia alle sue decisioni, perfino le più stravaganti –
i nomi dei figli in primis – ma ultimamente questa remissività gli pesava.
Avrebbe voluto avesse più carattere, più pepe. Un po’ come Giuditta, l’attrice
protagonista dello spettacolo che stava allestendo… e che, sfortunatamente,
aveva trent’anni in meno di lui. Per quanto gli risvegliasse il sangue vederla
spogliarsi per indossare i costumi di scena, non riusciva proprio a vedersi con
una donna di poco più giovane della maggiore delle sue figlie. Ma nemmeno si
vedeva più accanto a sua moglie.
Che schifo di situazione.
Era deprimente constatare quante possibilità avesse sulla
carta e quanto poco, in realtà, potesse fare per spostare la sua vita dai binari
di routine e monotonia sui quali viaggiava. Ripensò a Berenike.
La più piccolina, con quel nome dal sapore greco, tratto
dalla sua più amata opera di Poe, era quella più simile a lui per indole –
meticolosa e puntigliosa tanto quanto sognatrice – ma era totalmente
insofferente alla vita famigliare. Aveva scelto il liceo classico, nonostante
lui premesse per un indirizzo di studio più pratico.
Ha come una vena di acciaio, dentro di sé, pensò
calciando per l’ennesima volta il piccolo sasso, all’apparenza è fragile e
minuta, ma non si lascia piegare da niente e da nessuno...
Il teatro gli regalò la gioia sperata.
“Carlo, sei una donna, la vuoi capire? Comportati da donna, per la miseria!
Quale signora si siederebbe così?” urlò al proprio protagonista, reo di essersi
lasciato andare sulla poltroncina di chintz con ben poca grazia.
“Veramente sono una donna mascherata da uomo, e quindi mi
sembra che l’essere mascolino sia la scelta migliore” ribatté questo esausto:
era stufo di ripetere la stessa scena ancora e ancora, tutto a causa di dettagli
minori che nessuno, dalla platea, avrebbe notato.
“E quando tornerai vestito da donna? La grazia è una
qualità innata, trasversale al genere” lo rimbrottò ancora il regista.
Giuditta si alzò in piedi, attirando su di lei
l’attenzione.
“E allora perché non ci fa vedere come un vero uomo
vestito da donna vestita da uomo si comporterebbe?” lo canzonò. Gli altri
borbottarono: era l’unica che potesse permettersi certi toni e certe uscite con
l’irascibile superiore.
“D’accordo” scandì questo, sorprendendo i più.
Lesto Guglielmo si avviò verso i camerini. Scelse il più
vistoso, fra gli abiti della sua taglia – una scelta comunque ristretta,
vista la mole… – afferrò una parrucca, fece un brusco cenno alla
truccatrice, già sull’orlo delle lacrime dalle risa – e le ordinò un trucco
discreto, ma visibile. Poi fu la volta dei tacchi. In dieci minuti era sul
palco. La camminata era un po’ traballante, ma cercò lo stesso di instillarvi un
certo fascino. Ancheggiò, sbattendo le ciglia, in direzione di Carlo, poi si
sedette, le ginocchia strette e una mano ad accompagnare la gonna, accanto a
lui.
“Vedi, caro, una signora si comporterebbe così – flautò – e anche travestita da
maschio come Rosalinda fa, fingendosi Ganimede, non perderebbe certo questa
compostezza” si tolse la parrucca, scalciò via i tacchi e proseguì, con la sua
solita voce “come vedi essere uomini non significa essere rozzi. Non voglio
gente rozza, nella mia commedia. E non so se tollererò ancora gli sfacciati”
terminò poi, puntando il dito contro la protagonista che piangeva dalle risate.
Non poté esimersi dal sorridere a sua volta: un omone di due metri, sessant’anni
passati, infilato in un attillato abito verde… L’ammonimento si sciolse in una
complice strizzata di occhi. A cui Giuditta, prontamente, rispose. Il gesto gli
riportò alla mente un ricordo della sua famiglia: Berenike, da piccola, faceva
spesso linguacce a tutti, e lui dopo la sgridata di rito, la rinfrancava sempre
con un occhiolino…
Era quindi con un certo buonumore che dichiarò concluse le
prove, invitando tutti a rivedersi il lunedì successivo. Seguì gli attori nei
camerini, per togliersi le ultime tracce di trucco: per quanto abituata alle sue
stravaganze, non riteneva che Laura avrebbe lasciato passare rimmel e rossetto.
Forse un motivo in più per rimanere truccato…
“Comunque ci sta provando” sentì dire a uno dei comprimari.
“Ma smettila, è vecchio, ha l’età di mio nonno!” ribatté
ridendo Giuditta.
Restò fuori, in attesa.
“Proprio per quello: è in pensione, è vecchio, vede una bella ragazza… è il
cliché più vecchio del mondo, chissà quante volte l’avrà seguito con le sue
segretarie” rincarò la dose una voce maschile che riconobbe a stento: era uno
dei fonici.
“Ragazzi, è che non lo sapete prendere: è uno scassa coglioni, sì, tutto
precisino, ma alla fine ha anche un bel senso dell’umorismo, basta far leva su
quello. E poi dai, è un ottimo regista, tutto quello che dice ha un senso… e non
sta facendo favoritismi. Siete voi che lo prendete nel verso sbagliato solo
perché vi riprende in continuazione”.
“Ci riprende perché non abbiamo i due grossi argomenti
che tu hai a tuo favore – disse Carlo – ma su una cosa posso concordare: è un
maledetto rompicoglioni. Mi immagino sua moglie e i suoi figli”.
“Fra l’altro ho saputo che il maschio minore è scappato di
casa e lo evita come la peste, piuttosto che stare in sua presenza…”
Si allontanò: quello che aveva sentito gli era bastato.
Sentiva nel petto un peso insopportabile.
Rompicoglioni.
Non era la prima volta che qualcuno lo definiva così,
ovvio. Erano chiacchiere da camerino, non erano i reali pensieri che avevano,
solo maldicenze e pettegolezzi, ovvio.
Il maschio lo evita come la peste… un rompicoglioni… fai
le cose che i pensionati fanno… ha l’età di mio nonno… vecchio.
Sentiva le lacrime pungergli gli occhi, ma impedì loro di
uscire. Non poteva piangere per certe sciocchezze. Era solo stanco, sì.
Vecchio e stanco.
Uscì dal teatro a testa bassa, come fosse un discolo di
ritorno a casa dopo la sgridata del maestro: tutto l’entusiasmo per le prove –
andate benissimo, a suo parere – era evaporato come una polla d’acqua sotto il
solleone, lasciando l’alone del rimpianto.
Sono davvero così stanco.
Si ripeteva, sentendo l’ansia che da varie notti lo teneva
sveglio – quella dell’essere oramai inutile, un pezzo da museo – impossessarsi
di lui. Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, avere conforto, ma non osava: in
famiglia non poteva certo dire nulla, tanto chi l’avrebbe ascoltato? I suoi due
figli? Sua moglie, presa più da parrucchiere ed estetiste che dalla casa? La
piccolina? Berenike, nonostante le tante somiglianze, era molto più paziente di
lui, molto più comprensiva. Quegli strani occhi grigi – ereditati da chissà
quale avo – avevano sempre un’aria riposata e tranquilla che invogliava al
dialogo. Quando non erano incatenati alle pagine di un libro o nascosti dietro
la folta frangia.
I suoi amici? Poteva contare su un paio di ex colleghi, ma
temeva il loro giudizio.
Andare da uno psicologo nemmeno era fra le opzioni: non
avrebbe mai pagato qualcuno per annoiarsi con le sue chiacchiere da vecchio
depresso.
Vecchio depresso.
Parlarne con Marina e Stella, le sue nipotine, era stato un
sollievo – ma avrebbe davvero gradito qualcosa di più di qualche gorgoglio e di
sorrisi sdentati, come risposta.
Vorrei non essere io. Vorrei non essere me stesso.
Vorrei non essere qui.
Ritrovò il sasso che aveva calciato all’andata, con ben
altra disposizione d’animo. Lo colpì, ancora, più per noia che per reale
volontà. Lasciò che la malinconia lo invadesse, trascinandolo sempre più giù,
portandolo sempre più lontano, come il sasso che prendeva a calci. Sempre
dritto. Piccole alterazioni e impercettibili curve, sì, ma trovava sempre poi il
suo piede. Un metro più avanti. Quattro. Due. L’ultimo tirò lo spedì un po’ più
lontano. Stava svogliatamente per colpirlo di nuovo, quando si fermò. Il sasso
non c’era.
Guardò a destra e a sinistra, convinto di averlo spedito
fuori rotta. Nessuna traccia.
E sì che non era per niente piccolo. Forse era finito sul bordo della strada,
nascosto da qualche erbaccia… Proprio per la concentrazione con cui scrutava
alla ricerca del suo amico pietroso, non si accorse immediatamente del disegno
fatto col gesso che stava davanti ai suoi piedi. Una finestra, disegnata
sommariamente col bianco, quattro assi e una tenda vaporosa sul lato a lasciar
intendere fosse aperta. Gli ricordò un racconto che aveva letto tanti anni
prima, in un libro strano e complicato che non aveva più ripreso in mano… un
racconto nel quale, grazie a una finestra disegnata, gli uomini potevano
letteralmente saltare dentro un’altra realtà.
Sarebbe un sogno, pensò con ardore.
… perché no? Si guardò in giro con circospezione: non voleva ci fossero
testimoni a poter confermare il suo essere uscito di testa… un uomo della sua
stazza che salta su quello che era, evidentemente, il balocco di qualche
bambino! Prese un respiro, smise di pensare, chiuse gli occhi e saltò.
Il suo cervello si aspettava il subitaneo effetto della
gravità, la sensazione del terreno sotto i piedi, magari un cedimento dell’anca
malconcia e il conseguente ruzzolone.
In effetti il ruzzolone ci fu. Ma l’impatto fu più morbido del previsto: una
fresca erbetta ricopriva il terreno.
Son finito nell’aiola pubblica, si disse,
sollevandosi a fatica e spolverando le ginocchia dal terriccio.
Non fu, però, una vera sorpresa lo scoprire che così non
era stato. Una parte di lui aveva già colto il canto degli uccelli, lo
scrosciare di acqua e il profumo pulito dell’aria. La collina scendeva
dolcemente e nessun elemento antropico disturbava l’ondulato panorama davanti a
lui. Ma non se ne preoccupò.
Geniale. Ho battuto la testa. Speriamo almeno che
qualcuno mi raccolga prima che passi una macchina e mi investa. O che qualcuno
mi derubi mentre son riverso sul marciapiede. E prego il Signore che non mi
prendano per un trans, si ritrovò a riflettere, mentre un sorriso gli
tendeva la bocca e lo sguardo si riempiva della bellezza che aveva davanti. Era
una scena semplice, eppure lo commuoveva.
Forse sono morto e questo è il Paradiso. Allora vale
davvero la pena di morire…
Avvertì per qualche secondo un senso di malinconia e il
viso di sua figlia gli apparve nitido davanti agli occhi: scarmigliata e
urlante, bagnata di lacrime, due grosse righe nere verticali dalle ciglia
colavano fino al mento appuntito. Ma la pace che permeava il luogo era troppa,
troppo gioioso il richiamo della luce che giocava con mille riflessi sul
laghetto poco lontano. Dalla stessa direzione sentì provenire un muggito:
incuriosito, si mosse a passo svelto.
Se questo è morire è senz’altro meglio di quello che
stavo passando prima. Questa sì che è vita.
Dopo qualche metro decise di togliersi i vecchi scarponi e
le calze, camminando scalzo sull’erba; immergere, poi, i piedi nell’acqua lo
deliziò in tale misura da spingerlo a considerare l’idea di spogliarsi
interamente e fare un bagno; si accontentò, per il momento, di immergere le mani
e sfregarsi vigorosamente il viso. Il rimmel sciolto gli entrò negli occhi,
facendolo imprecare per il bruciore. Intanto, i muggiti si facevano più vicini e
a loro si era unito qualche lieve belato.
La prima mucca a girare l’angolo lo fissò per qualche
istante, dondolando la grossa testa scura; poi, dimentica di lui, si concentrò
sull’acqua, bevendo tanto che Guglielmo temette potesse scoppiare. Fu
velocemente seguita da altre che si accalcarono lungo l’argine del fiumicello
che scorrevo fuori dal laghetto, dando l’impressione di vecchie signore in fila
per uno spettacolo. Bianche capre arrivarono ad ingrossare le fila.
Per ultimi giunsero tre giovani, due ragazze e un ragazzo.
Questo strabuzzò gli occhi, sorpreso. Un piccolo grido strozzato gli sfuggì
dalla bocca, prima che potesse tapparla premendovi sopra entrambe le mani, ma
così facendo lasciò cadere il cesto che portava, spargendo fragole e altri
piccoli frutti sull’erba, che le capre furono veloci a trangugiare. Quella che
sembrava la più giovane lo raccolse e si affrettò a scacciare le bestie, senza
però distogliere gli occhi da lui.
“Ciao” tentò Guglielmo, gioviale.
La piccola si riparò dietro quella che doveva essere la sorella, vista la
somiglianza. Dovevano essere tutti e tre parenti, a dire il vero: i capelli
castani e ondulati, la corporatura robusta ne erano al prova.
Quella si fece coraggio e rispose al saluto, con voce bassa
e cortese.
“Chi siete?” proseguì Guglielmo, avvicinandosi lentamente,
sollevato dal fatto che i tre faccini sembravano più incuriositi che spaventati.
La domanda sembrò sorprenderli, tanto che la piccola
ridacchiò.
“Siamo umani!” rispose poi il maschietto, gonfiandosi il
petto, come se stesse recitando bene la poesiola in classe.
“Forse viene da fuori, da oltre il mare – suggerì allora la
più grande, lanciando un’occhiata ammonitrice al maschio – in quel caso, sii
cortese, straniero, e seguici al nostro villaggio: sono molti anni che nessuno
viene dal mare! Tutti vorranno sentire le tue storie!”.
Ancora stupito per la risposta ottenuta ad una domanda così
semplice – forse in Paradiso Angeli e Umani coesistevano? E si viveva in un
villaggio, non sulle nuvole? – decise di accantonare i propri dubbi e di
seguire i piccoli: avvertiva che nessun pericolo poteva giungere a lui in quel
luogo.
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Capitolo 2 *** Capitolo due: Dove si scopre come essere diversi da sé. ***
Nuova pagina 1
Capitolo due: Dove si scopre
come essere diversi da sé.
Il villaggio non era poi molto distante: una manciata di
case, decorose, ma spartane, abbarbicate al fianco della collina. Molta gente
stava in strada, sorridendo e facendo cenni al suo passaggio. Pareva quasi una
festa, ma quando chiese conferma di questa supposizione i bambini negarono, non
sapendo nemmeno ben capire cosa fosse una festa.
“Siamo vicini al tramonto, fra poco avrà inizio la messa!”.
Guglielmo storse il naso: non era mai stato strettamente
praticante. Ma che poteva fare? Avrebbe dovuto capire prima che, in Paradiso,
certe prassi non potevano certo essere eluse.
“Dove mi portate? Dal capo villaggio? Devo chiedere a lui…”
si fermò, davanti all’espressione schifata che le sue parole avevano suscitato.
Poi, la più grande – di cui ancora non aveva colto il nome, dato che i fratelli
non lo pronunciavano mai – sospirò e sembrò raccogliere le energie per fare
qualcosa di molto difficoltoso. O raccapricciante.
“Noi non abbiamo… capi – pronunciò la parola con una difficoltà e un
disgusto palpabili – noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme e insieme
decidiamo. Tutti sono importanti, tutti sono utili, tutti sono amati” terminò,
dando una leggera cadenza cantilenata alle ultime affermazioni.
Guglielmo ristette, stupito: non avevano capi? Nessuno,
nemmeno eletto? Altro che democrazia!
“Ma il Dio che pregate non è un capo?” domandò docile,
abbassandosi per guardare in faccia i due più piccoli.
“No! Noi sappiamo che Lui c’è – rispose quindi la piccola,
che iniziava a ricordargli sua figlia da bambina – ma lui non vuole comandarci.
Lui ci ama. Lui vuole che noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme”.
L’uomo si grattò la testa, ma preferì annuire, piuttosto
che proseguire con le domande: prima o poi avrebbe potuto parlare con degli
adulti e carpire maggiori informazioni.
I suoi tre anfitrioni si fermarono in un’ampia piazza tondeggiante. Molti fiori
adornavano i lati e il loro dolce profumo riempiva l’aria. I tre si sedettero
per terra, e fecero cenno anche a lui di imitarli. Altre persone arrivarono e
tutte, in perfetta armonia, si sedettero a terra, senza parlare, senza litigare
per chi dovesse stare davanti e chi dietro, senza spintonarsi o accatastarsi
impedendo agli altri di passare: doveva essere un qualcosa di ben progettato e
molte volte provato, affinché potesse funzionare in maniera così fluida.
“Cosa sta per suc…”.
“Shhh! – fecero i tre all’unisono, e sempre all’unisono proseguirono – la
messa!”.
Le facce adulte attorno a loro sorridevano, bonarie, senza
rimproveri o commiserazione negli occhi.
Decise, ancora una volta, di mettere a tacere la sua
curiosità e la voglia di sapere come potesse essere possibile una simile
organizzazione – il leader in lui invidiava un simile controllo – e di lasciarsi
trasportare: non aveva forse desiderato di essere diverso, prima di battere la
testa? Forse il suo cervello gli stava regalando un sogno di accettazione e
pace, prima di spegnersi per sempre.
La piazza andava riempiendosi, sempre con ordine e pace;
nessuno parlava, ma invece di essere oppressivo, il silenzio e la quiete
aumentavano il senso di calma che traspariva dai volti sereni, in attesa. Poi,
come avviene nelle chiese fornite di una congrega ben collaudata, si alzarono
tutti in piedi, quasi all’unisono, e un canto riempì la piazza. Benché non
conoscesse la melodia e non riuscisse a comprenderne le parole, Guglielmo si
sentì colmare dalla bellezza di quel motivo e strinse con dolcezza le mani dei
suoi piccoli amici, che a loro volta afferrarono quelle dei loro vicini,
formando un’unica, immensa, interminabile fila di persone, che insieme cantavano
e ondeggiavano alla luce morente. C’era tanta gioia, in quelle persone, tanta
pace, che dimenticò se stesso e i propri affanni, scordò le offese del figlio e
degli attori che tanto l’avevano addolorato e rimosse il senso di inutilità che
lo opprimeva da mesi. Si sentì libero e felice. Chiuse gli occhi e si lasciò
andare, dondolando sui suoi grossi piedoni – improvvisamente non gli apparivano
più così sgraziati! – a ritmo con tutti gli altri.
Fu con suo immenso stupore che si accorse, ad un certo
punto, delle stelle che facevano capolino dal cielo cobalto: sembravano passati
pochi minuti, ma dovevano essere state ore. Si accorse anche del silenzio e del
fatto che le persone, lentamente, si stavano lasciando le mani, per salutarsi e
allontanarsi dalla piazza.
“Ti portiamo a casa con noi, se vuoi”.
Annuì, sentendosi affamato; avviandosi verso una delle
casette si meravigliò nel notare che nessuno girava da solo, ma che tutti
stavano in gruppi minimo di tre, quattro persone.
Strano. Avranno paura del buio… ma cosa può esserci di
cui avere paura in un luogo del genere?
La gente cenava con la porta aperta. Piccole lampade
rischiaravano l’esterno delle case, mostrando gente che salutava cordiale al
loro passaggio. Sembrava che tutti si conoscessero e che tutti fossero
immensamente lieti della sua presenza.
Che persone fiduciose. Non ci deve essere criminalità...
Beh, dopotutto è il Paradiso.
La casa dei tre bambini era abitata da cinque adulti.
Allora, probabilmente, sono cugini, non fratelli.
Tutti e nove si sedettero ad una tavola già imbandita con
pane, frutta e formaggi, mentre una grossa frittata sfrigolava in una pentola
appesa sopra al focolare.
“Spero tu non rimpianga la carne, non ne mangiamo” gli
disse uno degli uomini. Rispondeva a una domanda che Guglielmo ancora non aveva
formulato, sebbene dovesse averla stampata in faccia.
“No, cioè… mi piace la carne, ma queste cose vanno
benissimo” si affrettò a rispondere per non apparire scortese di fronte alla
generosità dei suoi ospiti.
“Domanda pure – proseguì mite l’uomo – se possiamo esserti di qualche utilità,
saremo lieti di aiutarti. Non stupirti, hai la curiosità dipinta sul viso! È
così diversa la tua terra, da questa?”.
“Per la verità… sì. Molto diversa. Per esempio so di essere
risultato molto maleducato: sono qui, seduto alla vostra tavola, e nemmeno mi
sono presentato al padrone di casa… - si alzò dalla sedia, allungando una mano –
molto lieto, sono Guglielmo Giuse…”. Si interruppe vedendo che tutti si erano
istintivamente ritratti dalla tavola. L’uomo di fronte a lui lo osservava torvo.
“Noi non abbiamo capi – riprese a parlare
lentamente, con fare guardingo – nessun umano comanda altri umani. Noi siamo
tutti uguali, siamo noi, siamo insieme e insieme decidiamo. Posso capire che
essendo tu straniero non volessi offenderci col tuo comportamento, ma l’hai
fatto. La parola che tu hai usato… risulta una bestemmia, alle nostre orecchie.
I figli la evitano, come le menzogne e gli insulti. Non potremo tollerare che
sotto il mio tetto vengano usate parole simili, e ne sono addolorato perché la
tua visita allieta i nostri cuori. Ma se ci darai la tua parola che tale
comportamento non si ripeterà, potremo dimenticare e perdonare il tuo innocente
errore”.
Guglielmo stava a bocca aperta, tentando di assimilare la
notizia.
Nessun capo? Nessuna direzione? Nemmeno all’interno
della famiglia? E chi decide?
“Perdona la franchezza, dato che l’argomento è uscito
vorrei abusare della tua comprensione ancora un poco… ma se nessuno… dice ad
altri cosa fare – cercò di girarci intorno – come crescete i vostri figli? Come
insegnate ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Come apprendete i mestieri,
come regolate le mansioni…”.
“Calma, amico – l’uomo lo interruppe – adesso è tardi e
dobbiamo riposare. Domani cercheremo di spiegarti le nostre usanze e, speriamo,
tu vorrai raccontarci delle tue e allietare così il momento della messa”.
“Certo, certo, ti ringrazio… scusa, non ho capito il tuo
nome”.
Un certo disagio percorse ancora le figure sedute a tavola,
ma non l’uomo che, invece, sospirò.
“Noi non abbiamo nomi. Noi siamo noi. Che funzione potrebbe
avere un nome, nel nostro modo di vivere? Nessuna. Vai a dormire, amico. Domani
ti sarà tutto più chiaro”.
Muovendosi con grazia, gli otto abitanti della casa
sparecchiarono la tavola e rassettarono la casa; infine, dopo aver mostrato a
Guglielmo in quale letto poteva dormire all’interno della stanza comune che
fungeva da camera, si coricarono.
Nonostante l’atmosfera distesa e il leggero rumore dei loro
respiri, faticò a prendere sonno.
Una parte di lui era ancora convinta che fosse tutto un sogno e, perciò,
l’addormentarsi l’avrebbe interrotto e fatto sparire; la parte più razionale
continuava a credere di essere davvero morto o, per lo meno, in coma – e il
pensiero gli procurava ben poco dolore… Infine, una piccolissima frazione della
sua coscienza iniziava a pensare che il suo sogno si fosse realizzato… che fosse
davvero finito in un’altra realtà. Un nuovo mondo, una nuova vita, dove essere
davvero se stesso… una terra dove non era vecchio e inutile, o rompicoglioni, e
dove non era costretto a rincorrere senza successo l’eco della persona energica
e dura che era stato, legato a una famiglia che non lo amava e a un’esistenza
che lo opprimeva. Fu cullandosi in questo pensiero che, senza nemmeno
accorgersene, scivolò nel sonno.
Il mattino fu sorpreso di essere l’ultimo a levarsi: in
casa sua era considerato un gran mattiniero.
Rimase nel letto a pensare, quando il padrone di casa – devo smetterla di
pensarlo così, o mi scapperà detto di nuovo! – si affacciò alla finestra.
“Straniero, vogliamo mostrarti delle cose, seguici!”.
Lui rotolò frettolosamente giù dal materasso, infilò i
jeans che aveva abbandonato sul pavimento e uscì. L’uomo, insieme ai due bambini
più piccoli, lo attendeva all’esterno, del pane e una mela in mano.
“Tieni, puoi mangiare mentre cammini” lo esortò gentilmente, porgendoglieli.
“Secondo i racconti, una volta eravamo divisi – iniziò a
raccontare, oltrepassando altri capannelli di gente che li salutò cortese al
loro passaggio – il senso di comunità non era percepito come importante; questo
condusse a litigi, discordia e guerra – il suo tono si rattristì – tutti erano
concentrati non sul bene comune, ma sul proprio. E questo è male. Poi, un
giorno, i nostri antenati scoprirono che la base di questo era dovuta alla
famiglia: se due esseri ne generano un terzo e lo crescono, ameranno questo
sopra ogni cosa, non credi? Venne allora deciso che da quel momento i piccoli –
accarezzò la bambina che trotterellava al suo fianco – non sarebbero stati con
delle persone fisse ma sarebbero stati liberi e che tutti ne sarebbero stati
responsabili fino alla muta”.
“La muta?” domandò Guglielmo, non riuscendo a capire.
I tre sorrisero. “Vieni – lo tirò per la manica il bimbo –
guarda”.
Si trovava davanti a quella che sembrava una serra.
All’interno, giganteschi boccioli purpurei di una specie che non aveva mai visto
prima.
“Cosa sono?”.
“Noi li chiamiamo ùdaram*, sono stati creati dai
nostri avi, e per questo noi sempre li ricordiamo e onoriamo durante la messa”.
“I vostri avi hanno creato queste piante?”.
Altri sorrisi.
“Gli ùdaram e la Parola sono il lascito del passato
per costruire un migliore futuro. Sono ciò che ci rendono noi, e noi siamo noi,
siamo tutti, siamo insieme e insieme decidiamo. Tutti sono importanti, tutti
sono utili, tutti sono amati, grazie a questo” e, nel dirlo, si scostò.
Quello che Guglielmo vide fu la cosa più disgustosa, per un certo verso, più
innaturale… eppure anche la più bella che mai aveva visto. Uno dei giganteschi
boccioli si aprì leggermente, ma nel lato inferiore: un uomo si avvicinò e, con
estrema delicatezza, ne estrasse un neonato perfettamente formato e urlante.
“Sono incubatrici! – balbettò, sconvolto – sono uteri
artificiali!”.
La bambina annuì, ma lui non riusciva a credere che una creaturina così giovane
potesse capire davvero simili concetti, già sconcertanti per lui. Si rivolse
allora all’adulto, chiedendo maggiori spiegazioni.
“Te l’ho già detto: i nostri avi hanno ideato il metodo
degli ùdaram per fa sì che tutti fossimo amati e tutti ci amassimo allo
stesso modo. Alla nascita vengono prelevati i gameti e vengono poi casualmente
incrociati per generare nuove vite quando il numero della comunità cala. Ogni
villaggio ha i suoi ùdaram, questo garantisce che non vi siano
sovrappopolazioni – compitò con difficoltà, come se fosse una parola
conosciuta solo nella sua forma, ma non nel contenuto – che potrebbero condurre
a migrazioni o conflitti” terminò, similmente.
“Questo non è il Paradiso”… mormorò Guglielmo, affascinato,
però, dalla stranezza e dalla bellezza del ragionamento.
“Non capiamo cosa tu intenda con queste parole, spero che
ciò che ti abbiamo mostrato ti abbia aiutato a capire, ma che non ti abbia
spaventato”.
“No, no, anzi, ti ringrazio per questo… ho capito il perché non ci sono… persone
di grado più alto delle altre, partite tutti uguali, è così? Ma i bambini non
sono sottoposti a nessuna autorità? Chi insegna loro?”.
“Non abbiamo niente da imparare: abbiamo nella mente tutto
ciò che gli altri hanno. Condividiamo opinioni, pensieri, emozioni. Questo per
far sì che non vi possa essere screzio o disaccordo. Per garantire l’armonia e
l’amore. Il bambino è tale solo nel corpo: man mano che questo si sviluppa, gli
vengono commissionati compiti sempre più simili a quelli di tutti gli altri”.
“E questo non genera rivalità?”.
“E perché dovrebbe? Tutti siamo stati bambini, tutti saremo
vecchi. Non c’è nulla di speciale, né nulla di diverso”.
“Perdonami… continuiamo a parlare e io ancora non ho capito
i vostri nomi”.
“Noi non abbiamo nomi, perché averne? Il singolo non ha valore, né nessuno di
noi vorrebbe stare da solo… non veniamo amati da nessuno, se siamo soli –
rabbrividì l’uomo – siamo umani. Tanto ci basta, non ci servono altre
definizioni”.
“Ma allora come vi rapportate fra di voi?” chiese, sempre
più allibito, ma anche stranamente confortato.
“Non servono i nomi per stare insieme. Quando conosci
qualcuno intimamente, lo chiami per nome? Quando siete insieme, non siete forse
un “noi”? È la stessa cosa, straniero: noi non abbiamo nulla che ci divida,
viviamo insieme. Quello che, da dove vieni, è importante, il nome… qui non ha
senso. Dai forse tu un nome ad ogni singolo filo d’erba, o a ogni bestia che
rumini al pascolo? Eppure non ami e ringrazi allo stesso modo ogni spiga che ti
fornisce sostentamento e ogni capo macellato?”.
“Ce…certo” balbettò lui, colpito dalla logica dell’altro.
Restarono insieme in silenzio, osservando quella serra, che
serra non era.
“E gli anziani? Non ho visto persone anziane, da quando sono arrivato”.
“Così come ai piccoli vengono affidati oneri via via più pesanti crescendo, così
agli anziani gli stessi vengono via via levati. Tutti fanno la loro parte, sia
essa piccola o grande, fino alla fine”.
“E hanno un loro valore, vengono apprezzati?”.
Per la prima volta da qualche tempo, l’uomo e i bambini lo
fissarono sorpresi “Uno dei compiti degli anziani è quello di far sì che la
piazza sia sempre ordinata per la messa, un momento importantissimo, per noi:
non so se è questo che intendevi”.
Tanto gli bastava: l’amore dell’intera comunità, una
funzione importante e riconosciuta. Nessun bisogno di essere sempre all’altezza
del prima, nemmeno nessun ricordo di ricordarlo, il prima.
“Vi prego, torniamo a casa – disse, la voce rotta dalla
commozione – cercherò di fare la mia parte per aiutarvi, se mi accetterete. E
spiegatemi bene cosa avviene in questa messa, ho sentito una straordinaria
sensazione di pace l’altra sera”.
“È perché in quel momento l’armonia che regna fra noi tocca
il suo picco, e quindi anche se ancora…”.
Si allontanarono parlando.
Nascosto nell’erba, stava un piccolo quadrato di pelle
marrone: un portafoglio. Era semiaperto e, facendo attenzione, era possibile
scorgere, anche senza toccarlo, il volto di una bambina sorridente, congelato in
una fotografia. Una delle nutrici si allontanò dalla serra e lo calpestò, senza
nemmeno accorgersene, facendolo affondare nel fango scuro.
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Capitolo 3 *** Capitolo tre: Dove le cose prendono un’altra piega. ***
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Capitolo tre: Dove le cose
prendono un’altra piega.
Aveva iniziato a lavorare insieme a quello che dentro di sé
aveva ribattezzato Maurus – non a livello conscio, ma poco più sotto.
Probabilmente il nome centrava qualcosa col suo aspetto vagamente mediterraneo
unito a degli occhi di un azzurro particolare. Sembrava un berbero, un
nordafricano, e aveva un modo di fare così austero e cortese che certamente non
poteva venire dal presente, ma da un passato dorato e fulgido: un abitante
dell’antica Mauritania, appunto.
Quando, molto tempo dopo, si fermò a pensare a questo
dettaglio, si stupì delle capacità associative del suo cervello: sul momento gli
era solo parso difficile pensare alla sua guida – benché in realtà fossero
sempre almeno in quattro a seguirlo – senza un nome, e aveva scelto il primo che
gli era capitato…
Modellavano tazze, vasi e quant’altro nell’argilla e poi li
cuocevano e dipingevano.
Era un lavoro manuale e umile, ma lo appagava. Vedere i bambini scorrazzare in
giro bevendo dalle sue ciotole, poi, lo gonfiava di un orgoglio che non aveva
mia provato prima – o forse qualche volta, sì, ma non ricordo quando – e
lo faceva sentire bene. Si sentiva accettato e amato. Essere uno fra tanti, una
goccia nel mare, era un pensiero che l’aveva sempre spaventato, la segreta spina
che l’aveva spinto ad emergere, a porsi sempre a capo, qualsiasi cosa si stesse
facendo. Ora quella paura, quella pulsione, era sparita, sostituita da una
sensazione di armonia assoluta.
Aveva iniziato a svegliarsi insieme agli altri e,
all’unisono con loro, a cadere addormentato; non si stupiva più della dimensione
collettiva della vita, del fatto che nessuno girasse mai solo, ma anzi, cercava
lui stesso la compagnia di quella che considerava la sua famiglia.
La mia nuova famiglia… nuova? Perché nuova? Ne avevo una
vecchia?
Ogni tanto strani pensieri lo turbavano, immagini
bislacche, come ricordi di sogni lasciati a prendere ragnatele nel fondo della
sua mente; ma bastava il sorriso di uno dei bambini – sempre desiderosi di
trascorrere tempo con lui, che li accontentava con racconti nuovi e divertenti –
oppure il cortese richiamo di un compagno durante il lavoro, e quelle sensazioni
di smarrimento sparivano.
Passò il tempo: la sua pelle venne scurita dal sole, la
barba e i capelli vennero acconciati secondo lo stile degli altri uomini.
Ricordava di essere stato diverso quando era arrivato – quanto tempo era
passato! – eppure ora assomigliava in tutto e per tutto agli altri abitanti del
villaggio; aveva persino smesso di pensare a sé stesso come “Guglielmo”,
lasciando da parte il concetto di sé che aveva maturato in oltre sessant’anni di
vita. Ora pensava a sé stesso come allo “straniero”, o a “quello bravo con le
storie”: i bambini, già dotati di tutte le conoscenze dei grandi, non si
saziavano mai dei suoi racconti, immaginari e non. Anche gli adulti, spesso, gli
chiedevano di narrare qualcosa, e non si stancavano di ascoltare, pur
conoscendone il contenuto del racconto.
“ È la messa – rispose un pomeriggio Maurus – ancora non
sei abbastanza in armonia con noi da poter penetrare così addentro alla
cerimonia… non è solo un momento di pace e comunità; la sensazione di gioia e di
concordia che percepisci è ciò che davvero in quel momento proviamo. Tutto ciò
che è avvenuto durante il giorno, tutto ciò che è stato imparato, si propaga
nelle menti dei presenti. Un sasso lanciato nell’acqua non increspa forse tutta
l’acqua del lago? Allo stesso modo il nostro canto ci permette di connetterci
gli uni agli altri. È anche questo un lascito dei nostri avi: solo quando non
siamo soli possiamo usare la telepatia di cui siamo dotati e, più siamo, più
questa si fortifica. È una situazione meravigliosa. È in quel momento che, ogni
giorno, sperimentiamo quanto siamo amati, quanto siamo insieme”.
Lui annuiva, commosso e un po’ invidioso, desideroso di
poter presto condividere tutta la bellezza di quel momento. E, piano piano,
senza nemmeno rendersene conto, dimenticò sé stesso e il suo passato, si immerse
totalmente nel qui e ora che la mentalità umana implicava.
Lavorava, salutava, mangiava, pensava con loro, condividendone esperienze e
fatiche. La sera arrivava e lui sentiva di essere un po’ più vicino alla sua
meta: percepiva un senso di appartenenza mai sperimentato prima.
Iniziava anche a ricordare cose che, in realtà, non aveva
vissuto – la strana vista di un orso pescatore o il suono dolce del liuto che
non aveva ascoltato. Infine, una sera, successe.
Fu un’indescrivibile, meravigliosa sensazione di
straniamento e di oblio di sé: sentiva il suo essere fondersi con quello degli
altri e poteva distintamente vedere la corrente di amore e simpatia che fluiva
fra gli abitanti del villaggio, raggiungendoli tutti, dal più giovane al più
vecchio. Un anziano, accanto a lui, sorrise e si trovarono a pensare insieme a
quanto fosse meraviglioso essere.
Trascorse davvero molto tempo a galleggiare in questa
nuvola di benessere: non bastò la notte a cancellare la sua euforia, né la
mattina di duro lavoro che la seguì; attese con impazienza l’arrivo del
crepuscolo e l’inizio della cerimonia.
Era diventata la sua droga: benché lui non ne fosse, ormai,
più consapevole, il benefico senso di appartenenza e accettazione che provava
leniva i mesi di solitudine, ansia e paura che aveva provato a casa.
Doveva essere il capo: questo significava non solo ricevere
gli onori del caso, ma averne anche tutti gli oneri: sua la responsabilità
dell’azienda – e, di riflesso, dell’economia globale – sua quella dei suoi
sottoposti e colleghi, sua quella della famiglia.
Successivamente fu ben lesto a capire come avesse potuto
lasciarsi affascinare così tanto da una realtà in cui non esisteva, anzi, era
rigettata l’idea di leadership: nessun capo significa che tutti, e quindi
nessuno, sono responsabili; nessun responsabile significa nessun colpevole,
nessuno da incolpare; nessun colpevole significa niente recriminazioni, niente
acrimonia, solo amore e pace.
“Noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme e insieme
decidiamo. Tutti sono importanti, tutti sono utili, tutti sono amati” recitava
ogni sera con gli altri, e ci credeva.
Eppure, in fondo al suo cuore, germinava un seme che,
lentamente, attecchiva e metteva radici.
C’era, infatti, qualcosa che iniziava a infastidirlo: la
noia.
Ogni giorno era uguale: sveglia tutti insieme, colazione
sempre uguale – così come ogni altro pasto – lavoro e messa. Tutto qui.
Si accorse che persino le sue storie perdevano mordente:
non riusciva a inventarne di nuove. Si trovava a replicare le stesse storielle,
che apparivano sempre più scialbe e sciupate ad ogni ripetizione. Era come se
tutta la sua fantasia – ero così bravo a teatro, ero così appassionato!
– fosse tutt’a un tratto sparita. Lentamente capì il perché: la creatività va
alimentata. E lì, per quanto il posto fosse idilliaco…
Manca mordente, in questa vita. Manca il sale.
Nessuno litigava mai, l’aveva già notato: quella che
all’inizio aveva ritenuto una pratica civilissima e da imitare iniziava ora ad
apparirgli deludente. Quanto doveva essere difficile sforzarsi di mantenere
l’armonia, se non c’erano pareri contrari? Quanto doveva essere complicato
raggiungere una perfetta comunanza quando ogni pensiero, emozione e sensazione
era identica a quella degli altri e non esistevano pensieri ed idee individuali
e diversi? Non c’erano divergenze perché non c’era un vero confronto.
“Per loro il singolo non conta nulla, già lo sapevo. ma
adesso mi chiedo: è giusto così? È quello che volevo? Essere accettato è
bellissimo, ma… non voglio essere come tutti gli altri. Voglio essere amato non
perché lo si deve fare, ma perché sono così come sono” disse fra sé e sé.
Era stranamente solo: aveva iniziato ad allontanarsi dalla
folla, a cercare la solitudine, e questo non aveva minimamente scalfito la vita
degli altri.
Se mi hanno accettato così tanto… perché, ora, la mia
assenza passa inosservata?
In un flash rivide una ragazzina con i capelli biondi
urlare, piangendo.
L’immagine lo ferì, ma non ne capì il motivo: era qualcosa che aveva
dimenticato?
Molto spesso ricordava di aver scordato qualcosa: percepiva un vuoto, ma non
riusciva a riempirlo.
Si sedette sul prato, davanti a quella serra che aveva
segnato l’inizio della sua vita al villaggio.
Un dolce venticello gli sollevava i capelli, mentre il sole
gli scaldava la pelle; lasciò che le sensazioni fisiche lo invadessero, cercando
di allontanare l’angoscia che gli chiudeva lo stomaco in una morsa., o meglio,
cercandone la causa.
La mia assenza passa inosservata… a loro non interessa
che io sia bello, buono, brutto, basta che sia come loro, come tutti… non gli
interessa che sia un rompicoglioni, anzi, non posso nemmeno esserlo fra loro.
Quella parola gli lasciava uno strano sapore in bocca.
Rompicoglioni. Gli ricordava il curry: odiava quando Laura lo cucinava, a
casa, impregnava tutti i tessuti di quella puzza, ma quando passava troppo tempo
senza che lo preparasse si sorprendeva a sentirne la mancan…
Laura.
Il viso dolce di sua moglie gli balenò davanti agli occhi.
E insieme al suo quello di Enea e di Orazio.
Allora chi è la bionda?
Fu il Caso – o forse il Destino – a rispondergli, facendolo
trasecolare per la forza dei ricordi.
La sua mano urtò un oggetto quadrato, che raccolse senza
nemmeno farci molto caso; solo quando lo portò all’altezza degli occhi ricordò
fosse il suo portafoglio. Inumidì un dito con un po’ di saliva e tentò di
togliere un po’ del fango depositato sulle facce interne.
La ragazza bionda – notevolmente più giovane, una bambina,
e notevolmente più felice – gli sorrise da un’istantanea.
Berenike!
Sant’Iddio, come aveva potuto dimenticare la sua bambina? E
sua moglie, i figli, le nipoti?
Frugò all’interno delle tasche del portafogli finché non
apparve la sua carta di identità: Guglielmo Giuseppe Catteruzzi, nato nel Giugno
del ’56, sposato. Segni distintivi: cicatrice all’attaccatura dei capelli.
Accarezzò la linea bianca che si era procurato da bambino con affetto: quanti
ricordi legati ad essa!
Sono io. E sarò pure vecchio, inutile e rompicoglioni,
ma è nonostante questo, anzi, è per questo che voglio essere amato: perché sono
io.
Mentre correva verso le case, pensava a tutti gli anni
trascorsi a casa, casa sua: sua figlia che rideva dopo il suo occhiolino,
l’entusiasmo con cui si accendeva quando, insieme, preparavano i costumi per
Carnevale, attenti che ogni dettaglio fosse perfetto; e il modo in cui si
rabbuiava quando esagerava a “fare il comandino”, come abbracciava la madre e
come portava i capelli lunghi per usarli come scudo, per nascondercisi dietro e
celare così le sue fragilità. Fragile e forte, come il suo nome, così bizzarro e
unico che avrebbe potuto schiacciare una qualsiasi altra adolescente,
spingendola ad adottare un ben più agevole soprannome: ma non lei che, sebbene
rispondesse al nomignolo di “Nike”, si presentava sempre e solo col suo nome
completo.
E la rivide ancora, in lacrime, mentre urlava. Cosa le era capitato? Perché era
così disperata? Lo credeva morto? Ma lui era morto?
Correva e pensava.
Pensava e correva.
E ricordava: il dolore degli insulti degli attori –
come se non fosse cresciuto sentendo ben di peggio, come aveva potuto farsi
turbare così? – la camminata solitaria, il sasso. Il gioco della campana
disegnato per terra, anzi, no: la finestra.
“Maurus! Maurus, devo chiederti un favore” urlò, irrompendo
come un uragano nel laboratorio del vasaio.
“Maurus?” l’uomo apparve confuso.
“Sì… non c’è tempo per spiegare. Mi serve un gesso”.
“Non riesco a capire i tuoi pensiero, amico. Siediti,
calmati, dicci cosa possiamo…”.
“Non c’è tempo! Chissà quanto sono stato via! Oddio, Laura
sarà impazzita, i ragazzi saranno fuori di loro… devo tornare a casa, subito!”.
Tutte le persone all’interno dello stanzone lo guadavano
come se stesse parlando una lingua a loro incomprensibile. Per la prima volta
lui si rese conto del fatto che i vasi non avevano colori: anzi, nulla aveva
colore, né gli abiti, né gli oggetti, che venivano lasciati della tinta naturale
della materia di cui erano fatti.
“Maurus, mi serve qualcosa per disegnare. Segnare per
terra. Scrivere per terra!”.
Il silenziò, confuso, accolse la dichiarazione.
“Non abbiamo niente del genere, straniero – rispose Maurus,
e in lui rivide lo stesso sguardo confuso e irritato che gli aveva visto la
prima sera – i colori rendono le cose diverse, rendono noi diversi, mentre noi
siamo noi, siamo uguali, siamo…”.
“Sì, sì, sì, conosco la tiritera – lo interruppe
bruscamente – quindi niente gesso? Niente colori?”.
Sei teste vennero scosse, ad indicare altrettanti dinieghi.
“Bene… mi arrangerò con altro”.
Si allontanò, sempre di fretta. Cercò il laghetto che
l’aveva accolto e lo trovò; là c’erano anche i tre pastorelli. Non c’era certo
da meravigliarsene, vista la fortissima routine che regnava nel villaggio… ma
Guglielmo vide lo stesso la cosa come un assenso del Destino. Come la chiusura
del cerchio, o la quadratura, o come diavolo si diceva.
“Mi volete aiutare? Potreste cercarmi un legnetto?”.
Gliene portarono tre, uno a testa; scelse quello che
sembrava più robusto.
Si avvicinò all’acqua e cominciò a strappare zolle d’erba;
quando ripulì un bel quadrato, iniziò a bagnarlo, aiutandosi con le mani, prima,
e coi piedi poi, come i bambini che giocano a tirarsi l’acqua sul bagnasciuga.
I tre lo osservavano in silenzio, gli sguardi carichi di irritazione e
confusione.
Prese il bastone, con un nuovo timore: e se non fosse bastato?
Riflettiamo. Com’era esattamente? Una finestra, va bene.
E devo voler tornare. Prima volevo andare, ora voglio tornare. Un po’ come
Finardi.
Un quadrato, uno più piccolo dentro, per fare l’infisso. Un
rettangolo stretto come davanzalino. E le tende sui lati.
Approssimativo… ma speriamo possa bastare.
Si concentrò su casa sua. Sul profumo della pelle di sua
moglie. Sul colore caldo dei suoi occhi. Sulla voce di Orazio, perennemente
annoiato dalla vita, e di Enea – non ti sento da troppo tempo, figlio mio, ma
tutto andrà per il meglio.
Trattenne il respiro, richiamò il nome sei suoi cari… e
saltò.
Toccò terra. Sentì il canto degli uccellini. Aprì gli occhi
e i pastorelli erano ancora lì, a fissarlo.
Sentì lacrime di frustrazione pungergli gli occhi: cosa sbagliava? Perché non
funzionava?
Stava per cancellare il disegno con un piede, quando la
ragazzina gli parlò, la voce poco più di un bisbiglio.
“Credo che sia perché la finestra è chiusa” e, appena finì
di dire queste parole, si tappò la bocca con la mano, sgranando gli occhi. Anche
Guglielmo la fissò sorpreso, senza accorgersi che, per la prima volta, uno di
loro parlava di sé in prima persona. Poi si illuminò.
“Ma certo! Hai ragione! Grazie, grazie, grazie…” continuò a
ripetere mentre, febbrilmente, disegnava due trapezi storti al lati del
quadrato, come imposte lasciate spalancate.
Questa volta non si lasciò nemmeno il tempo di avere
un’incertezza e, lanciando un infantile “Geronimo!” saltò.
“Signore? Tutto a posto?” un paio di bambine lo fissavano
spaventate.
A ragione: la mamma aveva sempre detto loro di diffidare degli sconosciuti e
adesso se ne trovavano uno, grande e grosso, in mezzo al loro
marciapiede.
“Potete dirmi che ore sono?” chiese, allontanandosi.
“Siamo appena uscite da scuola, le quattro”.
“Grazie!” urlò dalla distanza, iniziando a correre.
L’anca iniziò presto a farsi sentire e dovette ridurre la
corsa a un trotto, che presto scemò in un passo sostenuto, quando anche il fiato
cominciò a mancare.
________
Sì sì, il "Geronimo" non solo è un'esclamazione che ogni
bambino che si rispetti - o chiunque stia vivendo un'avventura! - dovrebbe
pronunciare, almeno una volta nella vita; è anche un sottile riferimento al mio
adorato Doctah-Eleven <3 (o, in generale, ad ogni Doctor Who. I love you, guys
<3)
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Capitolo 4 *** Epilogo: dove tutto finisce. Fino alla prossima volta. ***
Nuova pagina 1
Epilogo: dove tutto finisce. Fino
alla prossima volta.
“Papà!”.
Berenike arrivò correndo e gli lanciò le braccia al collo.
“Mi sono svegliata da un incubo orribile, ti ho chiamato al
cel, ma non rispondevi e non eri in casa, e poi nessuno riusciva a trovarti,
avevamo paura ti fosse successo qualcosa!”.
Aveva gli occhi lucidi e strisce di mascara colato fino a metà guancia.
“Dove diamine eri finito?! Sono ore che ti chiamiamo
sul cellulare, la mamma era preoccupata e voleva già chiamare la polizia, non
hai idea del casino che ha tirato in piedi” la seguì il fratello
maggiore, lasciando filtrare tutta l’irritazione che il fatto inatteso gli aveva
causato.
“Dov’è la mamma?” chiese Guglielmo in tutta risposta,
accarezzando la guancia della piccola.
“Sta tornando dall’ospedale. È venuta là a portarti gli
antidolorifici per la gamba verso l’una e non ti ha trovato, ha chiesto in giro
e le hanno risposto che te n’eri andato ore prima. Pensava ti fosse venuto un
infarto per strada, ha girato tutti gli ambulatori della zona” le rispose lui,
calcando la mano sulla parola infarto.
“Sì, Orazio, va bene, sono vecchio, ma adesso smettila di
tenere il broncio, d’accordo? Come fai ad essere arrabbiato con un così bel
sole, non senti il profumo delle rose di tua madre fino a qui?”.
L’altro parve spiazzato.
“Sì… in effetti si sente. Papà, stai bene, sembri… giurerei
che sei più abbronzato di stamattina, sei stato dall’estetista?”.
“Qualcosa del genere” ribatté lui, facendo spallucce.
La telefonata con Enea fu lunga. Molto lunga. Vennero dette
molte cose, e non è questo il luogo per raccontarle.
Basti sapere questo: per la prima volta da parecchio tempo, la mattina
successiva, il ragazzo scese a fare colazione col resto della famiglia.
E accennò perfino un saluto, prima di uscire.
Ci volle ben più di qualche risposta criptica, invece, per tranquillizzare sua
moglie.
Ci vollero, nell’ordine, una cena al ristorante, un esaustivo racconto di come
si era seduto sul marciapiede a pensare e di come il tempo gli fosse sfuggito –
sono passata per quella strada due volte, Gigi, due, e non ti
ho visto, com’è possibile che non abbia visto un omone di due metri seduto per
terra?! – e un sacco di baci. E carezze sulla mano. Erano anni che non
baciava in quel modo sua moglie, ma sentiva che era la cosa giusta da fare.
Dopotutto, non era forse lei che lo amava nonostante i suoi enormi,
incontestabili difetti?
I ricordi sfumavano velocemente, come quando si tenta di
ricordare un sogno. E di sogno doveva essersi trattato: la barba era un leggero
velo grigiastro sulle guance, esattamente come era stata la mattina, e lo stesso
per i capelli; i jeans erano sporchi di terriccio ma, ehi, si era seduto a
ridosso di un’aiuola. Finirono il vino e chiesero il conto. Stava ridendo di una
battuta della moglie mentre apriva il portafogli – diamine, quanto era sexy
quando rideva? – quando l’occhio gli cadde su una macchia di fango che copriva
il volto di Berenike. Adorava quella fotografia. La cosa gli rievocava…
qualcosa. Qualcosa di…
“Tesoro? Tutto a posto?”.
“Tutto perfetto, amore” rispose di slancio, sorridendo.
Si sentiva in pace.
_______
Note: Questa storia deve un ringraziamento
enorme a uno dei miei amori letterari: Michael Ende.
Da cui ho preso la finestra di gesso – che sta diventando un refrain in tante
mie storie e che non è proprio così, ma quasi – e l’idea base per il popolo
senza individualità.
Maurus era l’antico nome usato per gli abitanti
della Mauritania: l’excursus etimologico è un infodump
enorme, ma dovevo in qualche modo giustificare il perché ho voluto
chiamarlo così – la Mauritania era l’attuale Africa costiera settentrionale,
bene o male (regno dei Mauri, ossia i berberi, detti poi “Mori”… ).
Berenike: appena l’ho letto ho pensato a Poe –
adoro quel racconto. Speravo ne fosse una versione e (grazie Wiki!) ho scoperto
che è la versione greca/macedone del moderno Berenice. La protagonista del
racconto “diventa” bionda, il padre è biondo… mi sembrava un buon compromesso.
Il resto della descrizione caratteriale e fisica s’è scritta da sé, quindi la
colpa di eventuali imprecisioni è unicamente sua. Di Berenike, intendo. Non deve
sembrare strano che uno chiami la figlia così, alla luce dei nomi dei maschi…
ritengo, anzi, che a lei sia andata piuttosto bene. Certo che i due devono aver
letto la Pitzorno, quando suggerisce di non dar mai nomi banali ai personaggi,
sennò ce li si dimentica strada scrivendo…
Infine, quell’asterisco (sono fiera di essermelo ricordato). “Udaram”
dovrebbe essere (secondo la Treccani e la parte sull’etimologia del suo
dizionario) la parola sanscrita da cui è derivato l’”utero” latino. E italiano.
Giusto per non sprecarmi troppo sulla fantasia dei nomi :’D
E
il riferimento a Finardi? Suvvia, “Extraterrestre,
portami via, voglio una stella che sia tutta mia… voglio tornare, per
ricominciare!”.
Infine, per chi mi conosce: è una storia
stucchevole! E ne sono felice! Credo sia da…
tanto? Troppo? Che un mio protagonista non sopravvive alla narrazione. O,
meglio, che sopravvive senza riportarne traumi tanti e tali da voler comunque
morire. E anche se non sono convinta che il risultato sia entusiasmante – forse
troppe psicominchiate – la ritengo una bella novità, per me. Per
una volta “Tutto è bene ciò che finisce
bene”!
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