Auri Cupidus

di Aurelianus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Auri Cupidus ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Auri Cupidus ***


Storia scritta per il contest “Sette Vizi Capitali”, indetto dal gruppo Facebook “Crème de la Crème di EFP”.
Gli avvenimenti che fanno da sfondo a questa vicenda sono realmente accaduti, i personaggi citati realmente esistiti. Al termine del racconto troverete delle note (con annessa una carta geografica e tematica) che chiariranno gli eventi descritti e che indicheranno la posizione delle città e dei luoghi riportati, con una brevissima panoramica che spiegherà la loro importanza e il motivo della mia citazione.
I termini gergali e incivili impiegati sono volti a conferire il massimo realismo possibile ai dialoghi dei personaggi.



 

 
Gola/Superbia/Ira
261 d.C. Bassa Mesopotamia (nelle vicinanze di Ctesifonte)
 
-Testudo!-
Quel comando, gridato all’ultimo istante, li salvò.
Il clangore degli scutum, che si sovrapponevano sino a formare l’impenetrabile formazione difensiva, giunse un istante prima del tonfo sordo causato dalle frecce Sassanidi.
Il calore, già aggressivo e debilitante all’aria aperta, si fece insostenibile al di sotto di quella muraglia.
-Giove Ottimo Massimo!- imprecò.
Cosa ci facevano dei fottuti Sassanidi lì? Dopo le due sonore sconfitte impartitegli in Cilicia, una terza disfatta sull’Eufrate e avergli ripreso Carrhae e Nisibis, il “coraggioso” Gran Re Shapur,  aveva pensato bene di ritirarsi dietro le salde mura della sua Ctesifonte.
Non avrebbe dovuto esserci un solo soldato Persiano per decine di miglia. Dopo quasi un decennio di vittorie nemiche, Roma reagiva. Finalmente, la sconfitta di Edessa era stata vendicata.
Il gemito di alcuni uomini, raggiunti dai dardi nemici nonostante lo schieramento a testuggine, lo scossero dal suo torpore. Punture di spillo, nulla di più: grazie alla sua prontezza di riflessi, e agli esploratori, erano riusciti ad evitare la maggior parte del danno.
-Schierarsi in linea!- ordinò.
La configurazione della loro formazione cambiò in pochi attimi, quasi come se avessero voluto sfoggiare per l’ennesima volta la disciplina che li rendeva tanto superiori ai barbari.
Ora poteva guardare il nemico faccia a faccia: avevano di fronte almeno cinquecento uomini, solo duecento dei quali a cavallo. La fanteria era disposta in una falange relativamente aggregata, mentre la cavalleria era totalmente assorbita nell’esecuzione di un vorticoso cerchio cantabrico. Nessun catafratto era presente. 
Soldati a piedi più numerosi di quelli a cavallo, insolito per quei fottuti occhi da capra. Meglio così: avrebbero dovuto improntare la battaglia su di uno scontro campale, basato sul confronto delle rispettive fanterie; non ci sarebbe voluto molto per rimandarli al loro Dio, quel giorno.
-Gaius!- sbraitò, chiamando il centurione a pochi passi da lui.
-Ordina agli ausiliari Siriani di bersagliare quei cazzo di arcieri a cavallo.-
-Sì, Tribuno- rispose il veterano, volgendosi per dare le disposizioni.
Il suono squillante delle buccine lo informarono che i suoi arcieri avevano recepito le istruzioni.
Aveva le spalle coperte, ora.
La fanteria nemica si avvicinò, caricandoli priva di supporto; altro non erano se non una marmaglia di contadini senza alcuna forma di coesione, armati alla leggera con uno scudo di vimini e una lancia da caccia.
Semplice carne da macello.
La polvere innalzata da quei bifolchi avvolgeva l’intero teatro dello scontro, impedendogli di conoscere il risultato ottenuto dalle prime scariche dei suoi arcieri, ma a giudicare dai nitriti di dolore che udiva, la cavalleria Persiana non sarebbe stata una minaccia tanto presto.
-Pila!-  ordinò, non appena i lancieri furono sufficientemente vicini.
Come un sol uomo, l’intera coorte, scagliò i propri giavellotti. Fu uno spettacolo esaltante, e nel contempo impressionante, vedere quasi cinquecento mortali dardi dirigersi verso il nemico ed investirlo con tutta la loro tremenda efficacia; squarciarono addomi e gole, trapassarono gambe e braccia o si infissero negli scudi nemici così profondamente da renderli inutilizzabili, costringendo i loro possessori ad abbandonarli e affrontare i loro ranghi compatti senza alcuna protezione.
L’urlo stridulo degli orientali, permeato di terrore, risuonò soffocato immediatamente dalla risposta Romana.
L’impatto fu violento, sospinti dallo slancio acquisito durante la corsa, i contadini li ricacciarono indietro.
Infossò la testa dietro lo scudo mentre assorbiva l’urto e la punta acuminata di una lancia tentava inutilmente di fare breccia nella sua guardia. Riuscì a rimanere stabile anche grazie alla presa salda del legionario posizionato dietro di lui, che lo teneva per la spalla, proprio come tutto il resto della seconda linea faceva con l’intera prima fila.
Alzò lo sguardo impugnando il gladium. Un colosso, abbigliato con una casacca gialla e dalla folta barba nera, gli si era parato davanti, percuotendolo selvaggiamente.
Tentò un affondo allo stomaco del Persiano e, come previsto, da bruto inesperto quale era, l’uomo abbassò l’asta della propria arma per respingere l’attacco. Approfittando della sua debolezza, lo colpì violentemente con lo scudo, costringendolo ad arretrare e ad inarcarsi all’indietro; una sottile fascia di vulnerabile pelle, esattamente quella che aveva cercato, rimase esposta per un istante. La colpì con il taglio della lama, causando un’eruzione di sangue che gli punse gli occhi.
Emettendo un verso disgustato, scostò di lato il corpo dell’orientale e cercò un nuovo avversario. Uno squillo acuto e familiare fu chiaramente avvertibile.
-Cavalleria Palmirena?- domandò a se stesso.
Il loro schieramento disciplinato stava trionfando sull’instabile falange Persiana, che mostrava i primi segni di cedimento, sospingendola al di fuori della coltre di polvere sollevata dalla battaglia, cosicché poté chiaramente vedere cosa stava accadendo.
Una formazione di catafratti Palmireni era apparsa nel momento più opportuno, sorprendendo le retrovie della cavalleria nemica e sbarrando la strada a quei lancieri che, abbandonando i propri compagni, già tentavano la fuga.
Un sorriso gli spuntò naturale; la gratificazione di aver vinto e di aver ucciso lo riempì. Alle sue narici, sin a quel momento addormentate, arrivò il fetore di sangue e morte che sempre accompagnavano una battaglia. I gemiti dei feriti e dei moribondi si fecero udibili, mentre il medico della coorte e i suoi schiavi iniziavano a prestare le prime cure ai loro soldati, ostacolati dalle onnipresenti mosche.
Si diresse verso quello che era stato identificato come il luogo di provenienza del nemico. Forse sarebbe riuscito a svelare il mistero della loro presenza in quel luogo, ad almeno trenta miglia dal loro presidio sicuro più vicino.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Gaius gli si affiancò trafelato. Forse la risposta che cercava sarebbe stata disponibile entro pochi istanti.
-Tribuno, abbiamo identificato la natura della formazione nemica- esordì.
-Parla in fretta. Questo caldo mi sta cuocendo- sputò all’indirizzo delle lamine metalliche della sua lorica segmentata, arroventate dal Sole.
-Era una colonna di scorta. Guarda tu stesso- indicò una lunga fila di cammelli, visibile solo in quel momento poiché era rimasta celata al riparo di una duna.
-Cammelli?- Domandò al suo subordinato, -i Persiani usano i cammelli solo come mezzo di trasporto- concluse.
-Esatto. Ma è ciò che trasportavano che è davvero importante- fece con uno sguardo inconfondibile.
Qualcosa si mosse dentro di lui. L’occhiata allusiva del centurione non lasciava spazio a dubbi: una possibilità di arricchirsi si profilava all’orizzonte.
Si avvicinò al primo cammello della colonna, notando che al suo conducente era stata tagliata la gola.
Gaio inserì la propria mano nelle bisacce appese al fianco dell’animale, estraendola colma di qualcosa che superava le sue migliori aspettative: oro. Oro romano.
-Devono essere i frutti di qualche saccheggio in Celesiria, magari nella stessa Antiochia quando è caduta nelle loro mani l’anno scorso- disse mentre, con rudezza, strappava gli aurei dalle mani del centurione.
Erano bellissime: niente poteva essere comparato all’oro; nulla raggiungeva lo stesso grado di purezza, lucentezza ed eleganza assunto da quel metallo. Doveva essere suo!
Era suo. Nessuno glielo avrebbe portato via.   
-Credevo che quando Shapur fu battuto a Pompeiopoli dal Prefetto del Pretorio Balista, sette mesi fa, tutto il bottino racimolato da quei bastardi fosse stato recuperato- fece Gaio, intromettendosi fra lui e le monete.
-Evidentemente no- rispose.
-Perché hai ammazzato il cane?- disse poi, indicando il conducente morto. 
-Ha detto che lo stavano portando in un deposito provvisorio dove ce n’è altro, molto altro,- rispose catturando la sua attenzione,-e non è stato difficile ottenerne la posizione e sapere che è praticamente sguarnito: non più di una dozzina di guardie- terminò esplodendo in una fragorosa, quanto sguaiata, risata.
Il Tribuno si girò, investendolo con un pugno. Immediatamente dopo, le sue mani raggiunsero la gola del centurione, soffocando le sue proteste.
-Idiota! Se ne parli così apertamente lo verrà a sapere mezzo Impero nel giro di un quarto d’ora, e saremo costretti a dividerlo. Senza contare che anche i Palmireni vorrebbero la loro parte e, se Odenato venisse a saperlo, potremo dire addio al mio oro. Taci o ti ammazzo- minacciò, lasciando immediatamente dopo la presa sul suo collo.
-Da quando hai paura del cagnolino da guardia dell’Imperatore? Solo perché è il Re di  Palmira e l’attuale comandante delle forze in Oriente, non vuol dire che possa prendersi certe libertà su di un cittadino Romano, specie se di rango senatorio- rispose Gaio infastidito, mentre si massaggiava la mascella offesa dal suo pugno.
-Settimio Odenato ha troppa paura dell’Augusto Gallieno per prendersi certe libertà, considerando poi che più della metà delle sue truppe è composta da nostre legioni, non si azzarderà mai a fare una qualsiasi mossa. È quella puttanella della sua ultima moglie che mi preoccupa: è particolarmente ambiziosa.-
-Chi, Zenobia?-
Emettendo un verso di insofferenza lo lasciò alle sue domande, sapeva cosa doveva fare, non era la prima volta che sfruttavano quella campagna e la reciproca complicità per arricchirsi; avrebbe pensato lui a selezionare i pochi, fidati, uomini di cui servirsi per “svolgere la pratica”.  Si incamminò verso il punto di raduno delle truppe, alla ricerca di un oggetto in particolare:
-Kyros!- chiamò.
-Sì, Dominus?- rispose il suo schiavo Greco, apparso immediatamente, non appena il pericolo era cessato. Il disgusto che provava per quel codardo era quasi nauseante, ma l’uomo aveva delle abilità amministrative non comuni e quindi una certa dose di utilità, da non sottovalutare. Doveva rimanere accorto in sua presenza, non poteva permettersi di ucciderlo in un eccesso d’ira come con il suo predecessore; strumenti dotati di voce o no, il loro assassinio non era lasciato del tutto impunito. E in più, procurarsene di così qualificati non era esattamente economico…
-Rapporto- disse secco.
-Abbiamo perso undici uomini, ventisette feriti, solo quattro dei quali irrecuperabili- elencò.
Ad un suo cenno di assenso continuò la lista: -I Persiani hanno perso centonovantaquattro soldati…-
-Non sono soldati, imbecille! Solo noi lo siamo.-
Il Greco lo guardò e corresse le sue annotazioni sulla tavola cerata, riprendendo poi il discorso:
-Abbiamo fatto trecentosettanta sei prigionieri. Come devo comportarmi con loro?- domandò mantenendo a mezz’aria il pennino che adoperava per scrivere.
-Ai più valenti offri l’opportunità di arruolarsi nelle schiere di Roma, saranno inviati di guarnigione in qualche posto come Cipro; con tutti questi pirati Goti in circolazione, potrebbero rivelarsi utili- rispose, accompagnato dal veloce picchiettio che componeva parole e simboli sulla tavoletta.
-Gli altri vendili come schiavi, distribuisci il ricavato fra i soldati- terminò.
Il segretario si arrestò, perplesso –Devo distribuire il guadagno fra la truppa?-
-Sì. Se lo sono meritato- rispose, lasciandolo solo.
Poteva comprendere il suo dubbio; non aveva mai condiviso il bottino con i soldati, aveva sempre tenuto tutto esclusivamente per sé, ma stavolta c’era una preda ben più grande da cacciare: poteva sacrificare quelle poche monete, guadagnandosi anche la stima dei suoi uomini, se poi avrebbe conquistato un tesoro intero. Certo, doveva lottare con ogni fibra di se stesso e reprimere l’impulso irrefrenabile di impadronirsi del ricavato sino all’ultimo spicciolo, ma se voleva intraprendere una fruttuosa carriera politica, l’oro non era la sola cosa a servirgli.  
Stava entrando nell’accampamento predisposto dalla coorte, quando il comandante della forza Palmirena lo raggiunse. Osò tagliargli la strada mettendo di traverso, innanzi a lui, la sua imponente cavalcatura.
Con un’inutile prodezza saltò giù dal dorso dell’animale, circondato dalle maglie sferraglianti della sua armatura bianca di polvere.
Cosa stava tentando di fare quel mezzo barbaro? Mettere subito in chiaro che non era un novellino rischiando di rompersi l’osso del collo, saltando a quel modo con la pesante armatura indosso?
-Romano, dovere mettere in chiaro alcune cose- fece in un orrido greco.
Una gelida rabbia si addensò nel suo petto, formando un macigno che doveva essere dissolto all’istante, prima che gli avvelenasse il sangue nei giorni avvenire.
-Tu, lo sai che cosa è questa, pezzente?- disse indicando la sua divisa e tenendo a malapena a freno il tono di voce.
L’orientale lo soppesò con un’aria di sufficienza estremamente irritante, esibendosi poi in un cenno d’assenso molto brusco.
-Questa,- sillabò il romano,-è una divisa da Tribuno Laticlavio, ciò vuol dire che hai di fronte un patrizio di rango senatorio e tu non sei degno nemmeno di pulirmi le caligae!-
-D’accordo, ma grande Re Odenato richiede tua presenza; tutte le forze devono andare insieme per nuovo attacco: Armenia riconquistata, guadiamo il Tigri- continuò imperterrito e sgrammaticato.
Quel cencioso insolente era davvero fastidioso, tuttavia aveva portato buone notizie: su a settentrione erano riusciti a rioccupare l’Armenia e sconfiggere le guarnigioni Persiane; perciò, il Re, invece che attaccare direttamente Ctesifonte rischiando un lungo e difficile assedio, aveva optato per una campagna di devastazione e saccheggio nella Media.
-D’accordo, appena mi sarà possibile, muoverò la pattuglia verso il punto di incontro- replicò, congedandolo con un cenno della mano.
-No. Tu andare ora- perseverò testardamente il cavaliere.
Per un istante si bloccò, faticando a comprendere ciò che gli era stato detto.
-Come osi?! Tu, un barbaro, pensi di potermi dare un ordine?!!- urlò, afferrando con forza l’impugnatura del gladium.
Vedendo il loro comandante sfidato, la mezza dozzina di cavalieri che lo avevano accompagnato si avvicinarono minacciosi, le armi e le corazze scintillanti alla luce accecante del Sole conferivano loro un aspetto quasi sovrannaturale. Con la coda dell’occhio, individuò alcuni dei suoi ausiliari Siriani puntare le armi sui catafratti che si calmarono immediatamente: le protezioni che indossavano potevano essere efficaci, ma una freccia a distanza così ravvicinata sarebbe risultata mortale anche per loro.
-Io mandato da il Re, lui in persona detto me di richiamare te e tutti altri Romani in pattuglia qua vicino: tu dovere obbedire!- provò allora l’orientale, che in quanto tale, tentava di far valere un’autorità da lui non posseduta.
Girandosi verso una bisaccia appesa alla sua sella, estrasse alcuni documenti accartocciati, dispiegandoli completamente: su di essi campeggiava ben visibile il sigillo del suo sovrano, accompagnato dalla scritta “Dux Orientis”, concessagli da Gallieno. Un dannatissimo documento ufficiale, ecco cosa era; ma non importava, non si sarebbe certo fatto comandare da quel cammelliere di provincia e dal suo stupido emissario. Lo aveva seccato anche troppo, non poteva permettersi di sprecare il suo tempo con individui simili, non più del necessario quantomeno.
Si accostò al Palmireno sussurrando:
-Avresti potuto venire qui anche con Marte in persona e non ti avrei ascoltato.-
Con la mano sinistra l’afferrò per il collo tirandolo verso il basso e con la destra lo pugnalò, una, due, tre, sette volte. Non si arrestò finché no fu certo di aver appagato la sua rabbia, necessitava di lucidità almeno per un paio di giorni; non poteva permettersi di accumulare del rancore.
Una risata gli sgorgò spontanea, distendendo il groviglio di furia che aveva ammassato. Uccidere qualche nullità, era divertente di tanto in tanto.
-Tu!- attaccò secco, rivolgendosi al secondo in comando tra i Palmireni, rimasto immobile e attonito dal suo gesto.
-Congratulazioni: sei appena stato promosso. Dì al tuo Re che sarò da lui non appena ciò mi sarà più congeniale. Rammentate bene, plebei- esplose quasi come se quella sola parola potesse abbassarlo al loro livello, -io sono un Tribuno R-O-M-A-N-O e ciò significa che vi sono superiore- terminò ordinando di portar via il corpo del cavaliere.
-Il Grande Odenato, non perdonerà questo affronto- avvertì l’ufficiale, uscendo dal suo silenzio.
-Oh, certo- rispose, -pensi che oserebbe condannarmi a morte? Non si permetterebbe mai: io discendo da una delle più nobili famiglie di Roma, il mio lignaggio è infinitamente superiore al suo, la mia morte scatenerebbe la diserzione di tutte le legioni sotto il suo comando, privandolo di un esercito. Non credo gli converrebbe.-
Il Siriano sputò per terra, voltando poi la propria cavalcatura e partendo al galoppo. Prima di imitarlo, gli altri cinque, afferrarono le briglie del cavallo rimasto senza padrone e lo condussero via; in un paio di minuti si ricongiunsero al resto del loro contingente, rimasto discostato dall’accampamento Romano.
Il Tribuno si slacciò l’elmo e passo la mano sui capelli, detergendosi dal sudore.
-Giove Ottimo Massimo! Se fa caldo! Il Sole dovrebbe degnarsi di essere un po’ più clemente di tanto in tanto- protestò, camminando verso la tenda Pretoria. 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


La Luna era piena quella notte. La luce soffusa e opalescente che diffondeva penetrava nel panorama evidenziando ogni suo particolare e conferendogli un fascino carico di mistero; il gioco di luci e ombre che si era venuto a creare era tanto bello che sembrava costruito di proposito: un’esca per ammaliare i mortali, mentre creature degli inferi sgusciavano al di fuori dell’Ade, inerpicandosi nei pietrosi declivi che li costeggiavano, per sorprenderli con la guardia abbassata e condurli ad una prematura e terribile morte; forse gli stessi spiriti dei rognosi Persiani che avevano ucciso quel giorno, già vagavano, approfittando del passaggio dischiuso, in cerca della loro vendetta: gli Dei, quando lo desideravano, sapevano essere inventivi nella loro crudeltà.
Il calore opprimente della giornata aveva lasciato spazio ad una refrigerante frescura, calata grazie alla provvidenziale brezza che soffiava da Nord. Nonostante lo spazio attorno all’accampamento fosse visibile sino a quasi l’orizzonte, il fortino provvisorio rappresentava l’unica isola sicura per parecchie miglia. Nulla poteva assicurare che in quel chiarore crepuscolare non si celasse una minaccia concreta. E i villaggi li attorno tendevano a prendersela con qualunque forza militare transitasse nella zona, sebben la maggior parte delle loro disgrazie fosse da imputare proprio ai loro padroni, i quali mal reggevano i loro destini da sopra il trono dorato nel palazzo di Ctesifonte.
Ma in fondo cosa importava? Si trattava di semplici plebei, nati per servire i loro padroni, e presto, sarebbe stata nuovamente Roma a dominarli; il loro fato non era rilevante, non fino quando avrebbero compiuto la loro ragion di essere e lavorato per chi gli era superiore, come lo era lui.   
Aveva riposto la lorica segmentata, preferendo una cotta di maglia, migliore quando si trattava di combattere a cavallo nel tipo di azione-incursione che avevano in mente. Si allacciò la spatha da cavalleria al fianco e varcò la soglia della sua tenda, trovando Gaius ad aspettarlo.
-Tribuno- lo salutò.
-Allora?- replicò, lasciando perdere i convenevoli.
-Ho raggruppato quindici uomini di cui ci possiamo fidare ciecamente,- disse rispondendo alla sua domanda sottintesa,-abbiamo cavalli per tutti e provviste per tre giorni: siamo pronti a partire ad un tuo cenno.-
-Non è certo che impiegheremo un lasso di tempo così breve.-  
-Ma, signore, dovremo lasciare il resto delle truppe qui e non è saggio: l’accampamento è abbastanza lontano da qualsiasi fonte d’acqua pura ed è in campo aperto, esposto a qualsiasi attacco.-
-Non angustiarti per questo, non ci sono più Persiani nei dintorni: li ho sconfitti troppo pesantemente oggi, perché osino ancora importunare quella che conoscono come la mia unità. Non ci sono altri occhi da capra ad occidente del Tigri, in quest’area perlomeno-
-Certo, signore, ma è possibile…-
-È possibile che,- continuò ciò che il centurione provava a dire, -taccino la coorte di diserzione, giusto?-
-No, Tribuno, so bene che non oserebbero farlo. Non a te, non dopo il contributo che hai apportato alla campagna- rispose smorzando la sua rabbia all’istante.
Quell’uomo sapeva come prenderlo, era un veterano. Probabilmente non era il primo giovane rampollo di rango senatorio sotto il quale aveva servito; inoltre, la consapevolezza che Gaius avesse detto il vero riguardo le sue azioni, gli solleticava l’orgoglio in modo piacevole. Sapeva di essere il migliore.
Persino Cesare, Ottaviano Augusto e, perché no?, anche Traiano sarebbero impalliditi di fronte a lui. Era stato lui a snidare la retroguardia Persiana dal loro accampamento sull’Eufrate, ricavando dal saccheggio, a cui aveva mirato sin dall’inizio, anche un buon bottino; e sempre grazie alle sue azioni gran parte di quelle terre erano state ripulite dalla presenza orientale. Certo, quel cammelliere di Odenato non aveva gradito il fatto che avesse abbandonato la sua posizione nello schieramento per poter razziare l’acquartieramento nemico; aveva osato sostenere che l’esercito Sassanide, quelle poche colonne ad essere sopravvissute se non altro, fosse riuscito a sfuggire all’accerchiamento perché le linee si erano assottigliate troppo. Degli oltre cinquantamila uomini con cui aveva iniziato la guerra, sei anni prima, Shapur ne aveva salvati forse diecimila. Questo contando solo le sue truppe da campo, le varie guarnigioni lasciate nelle roccaforti conquistate e poi perse e quelle dell’Armenia, non erano ancora rientrate nel computo provvisorio stilato dai segretari; cosa inutile dato che il Gran Re ne disponeva di altri centomila, o anche più, pronti a rimpiazzare le perdite, ma ci sarebbe voluto comunque del tempo perché si riprendesse.
-Molto bene allora, partiamo!- pontificò: il solo pensiero che presto avrebbe potuto ottenere quell’oro, contarlo, maneggiarlo e celarlo al mondo perché fosse solamente suo, lo ossessionava; quel giorno, complice la tremenda e martoriante afa, non era riuscito a chiudere occhio. Vedeva monete ovunque, doveva impadronirsene al più presto. Non era il momento di essere misurati ed accorti come di consueto; gli esploratori, le colonne di protezione ai fianchi e la cavalleria in coda non erano opzioni praticabili nel viaggio che stavano per compiere.      
-Certamente, Tribuno.- lo assecondò Gaius.
I soldati, già in groppa ai loro cavalli, li attendevano oltre le palizzate erette dai loro commilitoni poche ore prima. Il gruppo era stato integrato da cavalli di rimpiazzo per ognuno dei sedici componenti della loro piccola forza, e di altri per il trasporto di ciò che avrebbero preso.
La sua cavalcatura, uno stallone nero come la notte quel giorno non era, lo attendeva già completamente bardato. Accarezzò la magnifica sella, provvista, nel suo lato posteriore, dei fantastici corni che gli avrebbero permesso di mantenere l’equilibrio anche nell’esecuzione delle manovre più rischiose.
Saltò in groppa al suo stallone, Bucephalus. Gli aveva imposto il medesimo nome del cavallo di Alessandro il Grande per un semplice motivo: proprio come il giovane condottiero Macedone era stato, cinquecento anni prima, il terrore di Persia e conquistatore d’Oriente anche lui lo era e, non appena avrebbe avuto sufficienti risorse, la sua carriera politica gli avrebbe certo fruttato un governatorato nelle province di quelle zone. Con una tale autorità a disposizione avrebbe posto fine una volta per tutte alla minaccia Sassanide. Avrebbe umiliato tutti i grandi condottieri del passato che si erano cimentati nell’impresa, finendo poi per fallire miseramente. O, nella maggior parte dei casi, accontentandosi di occupare l’intera Mesopotamia meridionale e saccheggiare Ctesifonte.
Lui non avrebbe fallito, era il migliore.
Diede uno strattone alle redini e partì al galoppo, affiancato dalla sua scorta, gli uomini più fidati di cui disponeva
.
L’impatto degli zoccoli sul terreno riverberò sino al suo capo, provocandogli alcune fitte di dolore, dovute all’indolenzimento per le troppe ore passate in sella.
Era cieco.
-Tribuno!- urlò una voce.
Era sordo.
-Tribuno! Fermati, per gli Dei!-
Vedeva solo le sue ricchezze lasciarlo indietro, mentre fuggivano la dove non avrebbe potuto raggiungerle.
Il respiro affannoso del suo cavallo, sfinito per quell’interminabile corsa, si fece così rumoroso e ricorrente da surclassare il rombo degli zoccoli sul terreno sassoso.
-Tribuno!- urlò Gaius ancora una volta.
Strattonò le redini di Bucephalus, interrompendo quel folle inseguimento che perdurava da due giorni, oramai.
Tutti gli altri, rimasti leggermente distanziati, lo raggiunsero e si arrestarono, imitandolo.
Si volse a guardare la sua unità di incursione: Gli uomini c’erano ancora tutti, lo stesso non si poteva dire degli animali; un paio non erano state in grado di reggere a quel ritmo forsennato, e non ce l’avevano fatta; un semplice eufemismo per evitare di dire che avevano corso sino alla morte. Altre due o tre bestie da soma, non erano riuscite a mantenere il passo ed erano state lasciate indietro, abbandonate a loro stesse.
La frustrazione e la rabbia lo divoravano, lo consumavano bruciandogli impetuosamente dentro. Doveva uccidere qualcuno al più presto. Appena avrebbe raggiunto quei bastardi, li avrebbe scuoiati vivi uno per uno!
-Gli uomini e le bestie devono riposare, non possiamo continuare così ancora per molto. Laggiù,- fece indicando una delle macchie di vegetazione che iniziavano ad apparire sempre più frequentemente man mano si avvicinavano al fiume, -è un buon posto per sostare, oggi.-
Grugnì un assenso, lasciando che fosse il veterano a disporre il tutto. Percepì a malapena che qualcuno afferrava le sue briglie e lo conduceva all’ombra degli alberi.
Si chiuse in un ostinato silenzio: se qualcuno avesse tentato di interagire con lui, lo avrebbe usato come sfogo. Un semplice palliativo, in attesa di poter ottenere la vera vendetta contro coloro che avevano avuto l’ardire di sfidarlo. Tuttavia il risultato sarebbe stato quello di versare sangue Romano; ma non poteva fare a meno di nessuno di quegli uomini, le loro vite dovevano essere preservate. 
La difficoltà di frenarsi era però straziante, manifestandosi come un malessere fisico: spasmi dolorosi ad ogni singolo muscolo lo tormentavano e un nodo estremamente ingombrante nel petto, lo appesantiva.
Quei dannati occhi da capra!
Non era stato difficile trovare il deposito dove avevano accumulato l’oro, situato in un villaggio abbandonato dagli abitanti per via dei saccheggi Persiani. Il punto era che, una volta giunti sul posto, avevano scoperto che questo era stato abbandonato già da diversi giorni. Confidando nella maggiore rapidità della loro unità, si erano messi sulle loro tracce. Ora, dopo due giorni di massacrante inseguimento, stavano per raggiungere il tanto agognato bottino; le tracce nemiche si susseguivano più frequenti e più fresche, segno che dal loro passaggio non era trascorso molto.
Ma macinare così tante miglia in così breve tempo, aveva preteso un tributo estremamente seccante: lo sfinimento. Non potevano affrontare la scorta, per quanto ridotta, in quelle condizioni. Dovevano aspettare almeno qualche ora.
Attendere era necessario. Sembrava che gli altri avessero ristretto il loro vocabolario sino a contenere quelle uniche tre parole. Come se fosse stato facile aspettare ancor di più!   
-Gaius!- urlò d’un tratto.
-Sì, Tribuno?- rispose avvicinandosi immediatamente.
-Due ore, poi ripartiamo.-
-Ma signore, fra due ore sarà il momento più caldo della giornata, non possiamo…-
-Ubbidisci!- ruggì, –nessuno mi priverà del mio oro! Non ho bisogno che voi mi ricordiate costantemente cosa devo fare. Rammentate? Non mi sono mai sbagliato, non inizierò certo a farlo ora- aggiunse, riducendolo al silenzio.
-Come desideri, Tribuno- rispose il centurione, chinando il capo.

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


Marcus Aurelius Scaurus affondò il gladium nello stomaco del fante nemico; il blu della sua veste si tinse di rosso, mentre l’uomo scivolava a terra ad un passo, per metà già compiuto, dall’essere privo di vita.
-Centurione!- lo chiamò uno dei suoi uomini, -ripiegano, gli occhi da capra ripiegano!-
Era vero, il contrattacco combinato dell’insuperabile fanteria Romana e della cavalleria pesante Palmirena aveva spezzato le reni allo schieramento Sassanide, costringendolo in rotta.
Era proprio il caso di dire “finalmente”: quei dannati bastardi erano apparsi tre giorni prima, in forze come non capitava da almeno un mese. Cinquemila pessimi uomini a piedi e cinquemila, malauguratamente non altrettanto pessimi, cavalieri; avevano assaltato la loro unità, che integrata degli ausiliari Siriani, raggiungeva a mala pena le ottocento unità.
Grazie al Dio Sol, le altre colonne sparse nella zona erano sopraggiunte al momento opportuno e ribaltato le sorti dello scontro, salvandoli, ma sopra ogni cosa, salvando lui. Non sarebbe mai riuscito a condurre alla vittoria gli uomini di fronte a quel contingente.
Sollevò i piedi dal terreno, zuppo di sangue.
Si osservò attorno: corpi amici e nemici ovunque; frecce infisse nella sabbia, lance e scudi spezzati; cavalli trafitti dai pila; gli uccelli mangia carogne che già sopraggiungevano, pregustandosi un lauto banchetto a base di esotiche carni orientali, di quelle occidentali ne avevano fatto incetta sino all’anno precedente, desideravano cambiare anche loro di tanto in tanto; e gli unici superstiti, tutti Romani, che vagavano come anime perse sul campo di battaglia, esaminando i corpi dei nobili nemici e spogliandoli delle ricchezze a loro non più necessarie.
Che maledetta carneficina.
Certo avevano vinto, ma il primo giorno, quando ancora i rinforzi non si erano fatti vedere, il tributo esatto aveva raggiunto le duecento vite.
Maledettamente troppe. Ma non importava più oramai, la vittoria era stata loro. Ciò che lo rendeva furioso era un’altra cosa: gli avvenimenti avrebbero seguito un corso meno pesante per loro se non fosse stato per il Tribuno. La sua smania di partire per chissà quale motivo ed abbandonarli nel mezzo di territori non ancora del tutto pacificati, aveva condotto a tutto questo.
-Dove cazzo sarà finito quell’Imbecille “so tutto io”? Bah,- sbuffò, -tanto meglio, intascheremo ancora noi il denaro per la vendita degli schiavi.-
Si volse ad osservare il tramonto.
Il cielo era velato di un leggero strato di nubi, che il Sole imporporava dando vita ad uno spettacolo splendido.
Da qualche parte aveva sentito dire che un tramonto del genere significava una cosa sola: era stato versato molto sangue durante il giorno.
Aveva sempre pensato che nella leggenda si nascondesse un fondo di verità, ora ne era certo.
Quel che non riusciva a comprendere era il perché ci fossero alcune macchie dorate fra le nubi.
Cosa avrebbe mai potuto significare?   
 
 
Note:
Brevissimo riassunto del conflitto citato durante la One-Shot:
Siamo in un’epoca molto travagliata, la crisi del III secolo infuria nel suo feroce apice; Roma è attaccata ad Oriente dai Sassanidi, a Settentrione dai Caledoni (in Britannia); per tutto il corso del Reno dagli Alemanni e dai Franchi; sul Danubio da una miriade di popolazioni germaniche; i Goti imperversano nel Mediterraneo esibendosi in crudeli atti di pirateria; infine, l’Impero è dilaniato dalle innumerevoli guerre civili succedutesi senza sosta in questo periodo (in due casi sfociate in vere e proprie secessioni. Due rivolte sedate solo fra il 272 e il 274 d.C. grazie all’intervento dell’Imperatore Lucio Domizio Aureliano, che riporterà l’ordine nell’Impero sconfiggendo anche le innumerevoli popolazioni barbariche che minacciavano Roma, guadagnandosi così il titolo di Restitutor Orbis: Restauratore del Mondo).
Nel 255-256 Shapur attaccò nuovamente l’Impero (dopo averlo fatto anche nel 253) assediando la città frontaliera di Dura-Europos (l’associazione dei due nomi è moderna) sull’Eufrate e, nonostante l’accanita resistenza Romana e le migliaia di perdite fra le sue fila, radendola al suolo. La prima fase del conflitto continuò con un trionfo Romano poche decine di miglia più a nord, a Circesio, nel 257 o 259 (le fonti sono discordanti), per poi culminare nella grande vittoria Persiana ad Edessa del 260 d.C. dove lo stesso Imperatore Valeriano venne fatto prigioniero. Dopo questa tremenda disfatta, l’invasione orientale divenne inarrestabile e dozzine di città furono espugnate, tra le quali la stessa Capitale di Provincia, Antiochia. La seconda fase del conflitto si aprì con le truppe Persiane che imperversavano nella penisola Anatolica, tuttavia la controffensiva Romana non si fece attendere: nel 261 il Prefetto del Pretorio Balista (o Callisto secondo alcune fonti) vinse Shapur a Pompeiopoli e il corso degli eventi seguì come è stato riportato nel racconto, con una seconda vittoria Romana in Cilicia e una terza sull’Eufrate.   


Questo, qui riportato, è l’impero Persiano Sasanide (o Sassanide, a seconda delle fonti) nella massima estensione raggiunta durante il III secolo, proprio nel 260 d.C. sotto il Gran Re Sapore I (Shapur, in lingua originale), a seguito della vittoria ottenuta ad Edessa (Siria) sull’Imperatore Valeriano. La zona contrassegnata come Cappadocia, la zona a settentrione del lago Van, gran parte del Caucaso e dell’Iberia, i territori attorno a Carrhae e Nisibis  (Carre e Nibisi in italiano) sono stati già rioccupati dall’Impero Romano, proprio durante la controffensiva del 261 d.C. citata nel racconto e avvenuta ad opera di una collaborazione tra forze Palmirene e Romane (Palmira, situata a Nord di Damasco, era una città Stato sottoposta all’autorità Romana, nonostante godesse di una certa autonomia) guidata da Lucio Settimio Odenato, generale Romano e Re di Palmira (era di origine Siriana).
Carre e Nibisi: sono due importanti roccaforti militari e snodi commerciali (Via della Seta) nell’alta Mesopotamia, situate nel centro dei territori contesi fra i due Imperi. Per tutta la seconda metà del II sec., per la maggior parte del III, IV, V e nella prima metà del VII saranno stabilmente presidiate dai Romani (Romani d’Oriente, dal V secolo in poi) che le perderanno definitivamente solo con l’avvento dell’Islam.  
La Cilicia è situata poco a Sud della scritta “Cappadocia” (è una regione che si affaccia al Mediterraneo). Pompeiopoli (anche conosciuta come Soli) è una città in Cilicia e luogo ove i Romani hanno riportato la vittoria che ha ribaltato le sorti di questa guerra (261 d.C. è una delle due battaglie a cui il Tribuno fa riferimento nelle sue considerazioni, tentando di capire perché soldati Persiani si trovassero a Ovest del fiume Tigri).
Le regione appena localizzate si trovano nella carta tematica successiva:

 
 
 

Tipico aspetto delle truppe Romane in quest’epoca (l’aspetto tradizionale del legionario Romano che domina l’immaginario collettivo è caratteristico del I-II secolo d.C., ovvero circa cinquanta/sessanta anni prima gli eventi narrati).
Testudo: testuggine;
Scutum: il tradizionale scudo semicilindrico o dalla forma ovale, onnipresente nella dotazione di un legionario;
Pila (Pilum al singolare): giavellotto impiegato dalle legioni, molto efficace e ingegnoso (il soldato nell’immagine lo impugna con la mano destra);
Gladium: gladio, spada corta usata dai legionari, quasi del tutto sostituita dalla spatha in questo periodo;  
Caligae: calzatura indossata dai legionari;
Cohors: coorte, sotto unità di una legione, composta da 480 soldati se ordinaria, da 960 se miliaria (come lo era sempre la prima delle dieci che componevano una legione). Poteva capitare che questi contingenti operassero distaccati dall’unità madre per qualche tempo, in azioni di polizia  o di pattuglia.
Persiani: La religione diffusa in Persia a quel tempo, era lo Zoroastrismo, per il quale il fuoco era sacro.
 
 
    
Un ringraziamento particolare ad Emide per l'ausilio nella scelta del titolo.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Quelle due ore trascorsero anche troppo lentamente. Tuttavia fu una tortura sollevarsi da terra e costringere le gambe a procedere sino al cavallo. Una volta montati in sella, si reinserirono nel sentiero seguito sino a quel momento, percorrendo la medesima strada affrontata dai Persiani solo quella mattina.
Il Sole impietoso faceva sentire tutto il suo potere rendendo incandescenti le loro armature; la gola riarsa reclamava acqua che non potevano permettersi di bere, se volevano sopravvivere al viaggio di ritorno. Il solo pensiero che il fiume era così vicino, e che sarebbe bastata una piccola deviazione per raggiungerlo, acuiva il disagio della sete; la polvere, grazie agli Dei molto diminuita, si insinuava in ogni anfratto delle loro vesti, martoriandoli costantemente; i cavalli non erano più in grado di sopportare il loro peso. Eppure avrebbero dovuto sacrificarsi: erano lì solo per servirlo. Come tutti gli altri.
Le tenebre avevano trionfato sulla luce, quando li scorsero. Un bivacco costituito da molti fuochi si delineava, carico di promesse.
-Un ultimo sforzo, uomini! Caleremo su di loro e nemmeno se ne accorgeranno- disse, tentando di ravvivare in loro un’ultima scintilla di coraggio e combattività. Scrutò  i loro volti uno ad uno. Il viaggio li aveva duramente provati, tuttavia erano ancora pronti a combattere.
Rivolse la sua attenzione al campo Persiano.
Si trovava allo scoperto, non distante da un guado sul fiume che distribuiva il suo costante suono in ogni direzione; un passaggio che garantiva uno scorcio sulla patria del nemico, nascosta là, oltre l’orizzonte, dove il verde della vegetazione si mescolava e confondeva con l’ocra della terra.
Gli altopiani Iranici, il vero cuore della Persia.
Avrebbero dovuto impadronirsi degli animali da soma nemici, dato che i loro erano morti durante il giorno; si sarebbe lamentato con le scuderie imperiali al suo ritorno, non erano nemmeno in grado di fornire cavalli che fossero capaci di sopportare tre, banali, giorni di viaggio!
Una pace satura di aspettative dominava l’ambiente. Pareva che il mondo intero si fosse fermato, puntando i propri occhi su di lui, in attesa di essere reso partecipe del suo trionfo.
-All’attacco!- urlò, desideroso di non prolungare ulteriormente l’attesa.
La piccola unità si aprì a ventaglio e si diresse galoppando verso il nemico, tenendo come riferimento i loro fuochi accesi. L’ebrezza che solo la battaglia sapeva dargli lo avvolse. Brandì la spada, alzandola sopra la testa, pronto a farne uso sul primo nemico che gli si sarebbe opposto.     
Ma qualcosa non andava.
Non più di un semplice fastidio, però era certo che il quadro della situazione difettasse di qualcosa che aveva avvertito così spesso da interiorizzarla e arrivare a percepirla senza che questa realmente si concretizzasse.
Mancava un aspetto importante, ma non ricordava quale.
Il rumore degli zoccoli della sua unità si diffuse, padrone incontrastato nel silenzio opprimente e assordante della notte.
Eccolo, il particolare che mancava.
Troppo silenzio. Non udiva nessun grido di allarme.
Perché? Con tutto il trambusto che la loro carica disordinata stava causando, non sarebbe stato possibile continuare a dormire, senza contare che avrebbero dovuto esserci delle sentinelle; tamburi di allarme suonarono nella sua mente, producendo una melodia che sembrava comporre un'unica parola: inganno.
Impossibile.
Nessuno avrebbe potuto superarlo in astuzia, i Persiani non sapevano di essere inseguiti. L’ultima colonna che avrebbe dovuto raggiungerli era stata intercettata dopo che il deposito era già stato abbandonato. Dovevano essere, esattamente come loro, semplicemente stanchi per il viaggio.
Tutto quel caldo e quella rabbia repressa, gli avevano dato alla testa. Poco male, ne avrebbe fatto pagare il prezzo a quegli stupidi adoratori di fuoco.
Piombarono al centro del campo nemico tutti assieme, da tre diverse direzioni. Saltando giù dal proprio cavallo immerse la lama nella sagoma distesa più avvicina, avvolta dalle coperte e abbandonata al sonno. Il suono umido delle spade che penetravano nei giacigli, uccidendo gli orientali ancora tra le braccia di Morfeo, divenne insopportabilmente rumoroso.
E sbagliato.
Ancora una volta, notò l’assenza di un componente che avrebbe dovuto essere intrinseco in una simile azione: i gemiti di dolore.
Il dubbio si insinuò in lui. Con tutta la rapidità di cui era capace afferrò le coperte che aveva appena trafitto e le scostò.
Ciò che si presentò alla sua vista confermò i suoi timori. Un dannatissimo agglomerato informe di paglia. Cazzo!
Fruscii furono chiaramente udibili e, finalmente, i gemiti di dolore si fecero sentire.
Uno dei suoi uomini cadde, trafitto alla gola. I raggi di quella dannata Luna erano ancora abbastanza vividi da irradiare di luce il cremisi del suo sangue, non lasciando spazio a dubbi su quale fosse stata la sorte del soldato.
-Imboscata!- si levò nel buio la voce di un altro uomo.  
Un suono profondo, ripetitivo e incalzante si fece udire. Tamburi, terrificanti tamburi di guerra.
Ogni cosa aveva preso a tremare, il terreno, l’aria e persino lui. Le vibrazioni lo penetrarono, causandogli una fastidiosa nausea; preludio dello sbigottimento che stava sopraggiungendo, e a sua volta araldo del terrore che sarebbe presto emerso.
-Tribuno! Ordini!- urlò Gaius.
Lo guardò, attonito. Il vecchio soldato non aveva ancora realizzato l’ineluttabilità della loro situazione.
-Ordini Tribuno! Per gli Dei, cosa cazzo dobbiamo fare?!-
-Morire- sussurrò.
Il veterano spalancò gli occhi, sbigottito. Quindi decise di arrangiarsi.
Povero idiota. Lui aveva sempre ragione, e anche stavolta non faceva differenza. Non c’era via di fuga.
- In cerchio cani rognosi, in cerchio!- abbaiò agli altri.
I soldati si misero schiena contro schiena e levarono gli scudi, in modo tale che nessun lato sarebbe rimasto scoperto.
Il ritmo dei tamburi si fece più ossessivo, la loro origine più vicina.
Si osservò attorno: forme oscure si muovevano in traiettorie circolari incrociate, serrandoli in una trappola concentrica sempre più angusta.  
Un sorriso amaro fiorì sulle sue labbra, mentre poggiava le ginocchia per terra. Eccoli i catafratti. Era stata una vittoria sin troppo facile quella dell’ultima battaglia, senza di loro. Alla luce soffusa della notte apparivano come Demoni ricoperti di acciaio; le maschere in maglia di ferro, che ricoprivano quasi interamente i loro volti, ne sfiguravano i tratti sino a renderli inumani; gli elmi conici, davano l’impressione di una testa deforme; gli sbuffi secchi dei cavalli, assomigliavano ai latrati di qualche creatura malefica affamata di carne umana. O più precisamente, di carne Romana.
Come ad un segnale convenuto, un intera squadra di quelle terribili bestie, si voltò con precisione millimetrica e partì al galoppo verso i suoi uomini.
Gaius tentò di mantenere unita la formazione, ma la paura prese il sopravvento ed ognuno pensò per sé, sparpagliandosi in ogni direzione. Solo il centurione non abbandonò la sua posizione. Spada avanti a sé, scudo a protezione del petto, gambe saldamente piantate a terra.
Il perfetto legionario. Non cedeva di un passo nemmeno di fronte al gelido bacio della morte.
L’urto fu tremendo: Gaius fu sbalzato indietro di almeno cinque passi; quando toccò terra, doveva essere già morto. Petto sfondato e gola squarciata non lasciavano molti dubbi in proposito.
Gli altri Romani, tutti appiedati, non ebbero alcuna possibilità di fuga e vennero presto raggiunti e falciati.
L’ultimo di loro, sopravvissuto a tutti gli altri, venne circondato dai Persiani. I cavalieri pesanti scoppiarono in una sonora risata di scherno e misero mano agli archi, puntandoli sul malcapitato. Il soldato si voltò in ogni direzione, cercando una via di fuga; non trovandola, scosse la testa imprecando e gettò a terra la spada.
Indifferenti a quel gesto, i catafratti scoccarono i dardi che trasformarono l’uomo in una ammasso informe di carne martoriata. I bastardi risero ancor più apertamente e iniziarono a discutere su chi avesse piazzato il colpo migliore, smontando per controllare se qualche freccia fosse ancora buona per l’utilizzo.
Prima di riuscire ad assistere alla fine di quel battibecco, delle braccia lo afferrarono bruscamente per le spalle, strattonandolo e costringendolo in piedi. Erano in due e lo stavano trascinando dove le torce, appena accese, segnalavano la presenza del comandante nemico. I due Persiani gli stavano così addosso che poteva sentire il loro fiato, odorante di spezie orientali.
Avrebbero potuto alitare da un’altra parte.  
Uno dei fuochi, accesi per ingannarli, era stato alfine occupato. Qualcosa, in una sorta di enorme calderone, era stato messo a cuocere su di esso.
Fu gettato a terra e fatto nuovamente inginocchiare, circondato da almeno cinquanta  Sassanidi. Un uomo, bardato da un’appariscente armatura smaltata in oro, si fece in avanti scostando gli altri.
-Tu,- esordì in un latino pronunciato discretamente anche se leggermente strascicato,-la Persia ti conosce. Il Grande Re Shapur si rammenta di te: sei il Romano che ha saccheggiato la sua tenda personale nella carneficina sull’Eufrate- terminò, in un tono sempre più crescente e accusatorio.
-Tu, invasore, sei stato condotto sino a qui dalla tua fame d’oro. Ed oro il nostro misericordioso Shapur ti darà: non sia mai detto che il nostro amato sovrano non è generoso- il comandate nemico, schioccò le dita. Seguendo il suo segnale quattro uomini lo afferrarono saldamente, bloccando ogni suo movimento; altrettanti sollevarono il pentolone, arroventato dalle fiamme, per i manici di legno orizzontali e portandolo al suo cospetto.
-Era l’oro che desideravi?- sussurrò il Persiano al suo orecchio – Eccolo, è tuo.-
Il Tribuno guardò all’interno del paiolo, sospettando di sapere già quale fosse il suo contenuto:
Oro fuso.
La Morte aveva un pessimo senso dell’umorismo.  
Poté percepire il torrido calore nell’attimo in cui ciò che tanto aveva bramato, fu sollevato sopra il suo capo.
Rabbia? Non provava rabbia, avrebbe avuto presto ciò che desiderava.
Uno dei cavalieri lo afferrò per il collo e lo costrinse ad inclinare verso l’alto la testa; un imbuto di legno venne si fece prepotentemente largo nella sua bocca.
Il metallo fu versato al suo interno, un aureo fuoco iniziò a scorrere all’interno del suo corpo, bruciando tutto ciò che incontrava.
In fondo era giusto così: solo quell’elemento, il più meraviglioso ad essere stato creato dagli Dei, era degno di porre fine alla sua vita.

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