Alice in Wondermind

di Drama Queen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alice on a broken train ***
Capitolo 2: *** Alice into the darkness ***



Capitolo 1
*** Alice on a broken train ***


Act I – Alice on a broken train
 
“Took a right, to the end of the line
Where no one ever goes.
Ended up on a broken train
With nobody I know.”
 
                                    Mika, “Relax, take it easy”
 
Fuori dal finestrino scorre un panorama che non conosco. Distese di alberi, montagne, case che non avevo mai visto prima. Anche il cielo mi sembra estraneo, nonostante sia azzurro e punteggiato di nuvole, esattamente come quello che ho sempre conosciuto.
Sono seduta nello scompartimento di un treno, ma non ricordo come ci sono salita. Anche riflettendoci bene, non riesco a trovare nella mia memoria delle informazioni che mi dicano che cosa mi ha portata qui. Mi ci sono semplicemente… ritrovata.
Mi rendo improvvisamente conto che non so dove mi stia portando questo treno. Mi guardo intorno, ma il resto dello scompartimento è deserto. Non c’è nessuno a cui posso chiedere.
Certo, chiunque mi prenderebbe per pazza sentendosi porre una  domanda del genere: chi mai salirebbe su un qualunque mezzo di trasporto senza sapere dov’è diretto? Però ora non mi importa di ciò che potrebbero pensare. Mi basta sapere dove sto andando.
Apro la porta che divide il mio vagone da quello successivo, osservo bene, ma anche quello è completamente vuoto. Lo stesso vale per lo scompartimento precedente. È davvero possibile che io sia la sola passeggera?
Mi accascio di nuovo sul mio sedile. Forse sono veramente pazza. Non so dove sono, dove sono diretta né da dove è iniziato il viaggio. Non ricordo nemmeno di essere partita dalla stazione. Com’è possibile che io abbia dimenticato tutto?
“No, devo calmarmi” mi dico.
Per non pensare alle mie domande senza risposta e, soprattutto, per non farmi prendere dal panico, riprendo a guardare fuori dal finestrino.
Gli alberi hanno le foglie ingiallite.
Ma fino a pochi minuti fa erano verdi!
Non può essere già arrivato l’autunno. È giugno, ne sono sicura. Indosso una maglietta leggera dei pantaloncini corti e non ricordo di aver avuto freddo, vestita così. Non è possibile che sia arrivato ottobre, tutto d’un tratto.
Eppure, il paesaggio là fuori sembra pensarla diversamente, infatti, dopo pochi minuti, inizia addirittura a nevicare.
Ma quanto tempo è passato?
“Respira, Alice, respira profondamente. Di sicuro c’è una spiegazione.”
Sì, la spiegazione è che sono diventata pazza, come dimostra il fatto che sto parlando da sola.
Quando il cielo fuori dal finestrino inizia a tingersi di giallo e le foglie degli alberi si colorano di blu e di viola, mi arrendo all’evidenza: la sanità mentale mi ha definitivamente abbandonata. Decido, quindi, che la cosa migliore da fare è restare seduta a godermi lo spettacolo delle mie allucinazioni. Tentare di costruire un ragionamento sensato, ormai, non sarebbe più possibile.
Improvvisamente, la porta dello scompartimento si apre di scatto ed entra un omino dall’aspetto alquanto buffo. La sua statura è veramente ridicola: probabilmente non arriverebbe più in alto della spalla neanche a me, che sono sempre stata piccolina. In compenso, la circonferenza del suo ventre è decisamente notevole. Nel complesso, la forma della sua figura si potrebbe definire… tonda.
Il suo abbigliamento, poi non contribuisce ad ispirare rispetto: è vestito con un curioso panciotto viola e porta una cravatta a pallini verdi e rossi.
“Signorina, il biglietto” mi chiede con voce lievemente nasale.
Osservando meglio, noto un cartellino distintivo sopra la tasca del suo panciotto.
La comparsa di un controllore dall’aspetto così bizzarro, mentre mi trovo in una situazione di per sé assurda, mi lascia spiazzata, tanto che rimango a fissarlo, incredula, per alcuni secondi.
Solo dopo mi rendo conto che non ho nessun biglietto.
“Signore, io… Non so… Insomma, io non ho…” balbetto. Forse, se gli spiegassi che mi sono ritrovata qui per sbaglio, sarebbe un po’ più indulgente nei miei confronti.
“Non ha il biglietto?” domanda, invece, per nulla comprensivo.
Mortificata, faccio segno di no con la testa.
“Ne è sicura? Provi a guardare nella sua tasca…” mi risponde, questa volta facendomi l’occhiolino.
Seguo il suggerimento e, frugando nelle tasche dei jeans, inaspettatamente, trovo un biglietto, valido dalla stazione di Padova a quella di… “Sogni Centrale”.
Che stazione sarà mai?
Alquanto perplessa, lo porgo al controllore, che dà un’occhiata compiaciuta e lo convalida. Evidentemente, il biglietto è valido, anche se non sapevo che esistesse una stazione con quel nome né in Italia né in un altro paese del mondo.
“Grazie, signorina.”
L’omino mi saluta con un cenno e fa per andarsene, ma io lo richiamo.
“Aspetti signore, aspetti! Mi può dire dove porta questo treno?”
Lui mi scruta con sorpresa, come se tra i due la persona strana fossi io.
“Non ha letto la destinazione sul suo biglietto, signorina?” mi chiede. “Deve scendere alla stazione di Sogni Centrale. È la prossima fermata, quindi si prepari e prenda i suoi bagagli.”
“Ma io non ho nessun bagaglio!” esclamo.
Il controllore mi rivolge uno sguardo ancora più perplesso.
“Se non è sua, di chi è quella valigia?” mi domanda, indicando qualcosa sopra il mio sedile. “Non c’è nessun altro in questo scompartimento.”
In alto, sopra la mia testa vedo il mio borsone rosso da viaggio. Perché non l’avevo notato prima? È stato sempre lì oppure è comparso adesso?
Ormai mi sto abituando agli eventi inspiegabili, che sembrano essere all’ordine del giorno in questo viaggio, perciò non mi preoccupo nemmeno di dare risposta a queste domande.
Dopo aver tirato giù la valigia, saluto il controllore e lo ringrazio per le informazioni che mi ha dato. L’omino mi augura un buon viaggio e si allontana, canticchiando una strana canzoncina che ho l’impressione di aver già sentito da qualche parte, anche se non ricordo dove.
Osservando il borsone, devo riconoscere che è proprio il mio: ha lo stesso portachiavi a forma di batuffolo appeso alla cerniera e le firme di alcuni miei compagni del liceo scritte con il pennarello indelebile su un lato. Il contenuto, però, non mi appartiene, anzi non ricordo di averlo mai visto.
Dentro ci sono solo pochi oggetti: un libro dalla pesante copertina nera, che però scopro avere tutte le pagine bianche; un vestito da sera, di un brillante color rosso fuoco, ripiegato con cura; un compasso e un album da disegno; una foto di gruppo, in cui non riconosco nessuna delle persone rappresentate.
Richiudo la borsa, con un sospiro.
Non perderò nemmeno tempo a chiedermi come sono finiti questi oggetti nella mia borsa, perché so che finirei per scervellarmi per nulla. Decido semplicemente di portarmeli dietro: forse prima o poi scoprirò che c’è un motivo se li ho avuti io.
Il paesaggio che vedo dal finestrino sta cominciando a cambiare di nuovo. Gli alberi sono sempre blu ed il cielo è di uno strano color giallo sfumato sul verde chiaro, ma iniziano a comparire delle costruzioni dalle forme curiose. Altissimi grattacieli a punta, case cilindriche tutte dipinte di bianco e anche qualche edificio sferico. Mi sto avvicinando ad una città.
Sento che il treno inizia a rallentare e, come mi ha consigliato il controllore, mi preparo a scendere.
Dopo qualche minuto, il treno si ferma, con uno scossone, e le porte si aprono. Davanti a me, il cartello appeso sopra i binari recita “Sogni Centrale”.
Per lo meno, so che sono scesa alla stazione giusta. Ma giusta per che cosa?
Che cosa ci faccio qui? Non so nemmeno in che paese mi trovo. Spero di trovare un treno che porti a Padova, o a Venezia, o una qualsiasi destinazione vicina a casa mia.
Ora che osservo meglio, non c’è nessun altro treno sui binari. L’unico era quello da cui sono appena scesa, che ormai è ripartito per una destinazione ignota. Non ci sono altre persone sulla banchina. Sono sola di nuovo.
Il tabellone degli orari, come c’era da aspettarsi, non è in funzione.
Mi metto a tracolla il borsone ed esco dalla stazione, sperando di incontrare qualcuno che mi possa aiutare, ma non incontro anima viva. Mi trovo davanti un grande piazzale, lastricato con ciottoli bianchi e grigi, deserto. Non ci sono negozi aperti, né passanti per la strada. In che posto sono capitata? E, soprattutto, come posso fare per tornare a casa?
Noto che, da un lato del piazzale, c’è uno spiazzo d’erba blu-violacea con un piccolo parco giochi per bambini. Decido di fermarmi lì per un po’. Appoggiato il borsone per terra, mi siedo su un’altalena. Sono assolutamente disperata.
Un’ondata di emozioni mi travolge ed io non ho la forza di fermarla. Lascio che le lacrime scendano liberamente bagnandomi la guance. In ogni caso, anche se piango, non c’è nessuno che mi più vedere. Sono sola, in una città sconosciuta è deserta.

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Capitolo 2
*** Alice into the darkness ***


Act II – Alice into the darkness
 
“Follow me, follow me,
 As I trip the darkness
One more time.
Follow me, follow me,
I awake from madness
Just in time.”
                             Lacuna Coil, “Trip the darkness”
 
All’improvviso, sento che una mano mi si appoggia sulla spalla.
Mi volto di scatto, cercando di asciugarmi in fretta le lacrime e, probabilmente, anche sbavando quel poco di trucco che non era ancora colato dai miei occhi.
È solo una bambina. Strano, penso, dal tocco sembrava una mano molto più grande e forte. Invece, mi ritrovo davanti questa ragazzina che avrà circa nove o dieci anni, vestita come una bambolina di porcellana, con un grembiulino bianco ed un vestitino di epoca vittoriana.
Non dice niente, sta semplicemente in piedi davanti a me e mi fissa.
Non sapendo che cosa fare, accenno un sorriso e la saluto.
“Ciao…”
Si sarà persa? Non credo: non ha lo sguardo smarrito di una bambina che non trova più i genitori. L’unica che si è persa, qui, sono io.
“Perché sei qui? Non dovresti stare qui” mi dice, severamente, la ragazzina, senza nemmeno rispondere al mio saluto. Nonostante abbia l’aspetto di una bambolina, il suo tono di voce è decisamente da adulta.
“Come?” chiedo, disorientata.
“Non dovresti essere qui. Dovresti essere fuori” ripete lei.
Mi guardo intorno. Sono in un parco, all’aria aperta… non sono già fuori? O forse intende fuori da questa città?
“D-dove?” balbetto, sempre più confusa.
A questo punto, la bambina scoppia a piangere senza preavviso.
“Voi grandi non capite mai niente” si mette a frignare. “È ovvio che dovresti stare fuori, non è il tuo posto qui. Ci sono tante cose che devi fare fuori. Perché non capite mai e volete restare qui?”
Ha ragione, non capisco una parola di quello che ha appena detto, ma mi dispiace molto vederla piangere, quindi allungo un braccio per accarezzarla.
La bambina, però, non sembra apprezzare per nulla il mio gesto e si scosta bruscamente.
“Non mi toccare. Sei solo una stupida adulta!”
Mortificata, ritiro la mano e penso a che cosa potrei dirle per farla calmare. Nel frattempo, però, lei è già corsa via e la sua immagine si sta perdendo tra le stradine della città sconosciuta.
Se prima mi sentivo disorientata, ora non saprei come definirmi. Ho incontrato una sola persona, da quando sono arrivata, e la sua reazione è stata urlarmi contro delle frasi incomprensibili.
Da sola non capisco niente di quest’assurda situazione: devo andare a cercare aiuto. Ci dovrà pur essere qualcuno disposto ad aiutarmi, in questo posto. Soprattutto, spero che ci sia qualcuno capace di parlarmi in modo comprensibile.
Invece, per strada, continuo a non vedere nessuno. Cerco instancabilmente, tra il dedalo di vie grandi e piccole, a volte così strette da togliere il respiro. Nessuna anima viva.
Finalmente, dopo quelle che mi sono sembrate ore di camminata, sbuco in una piazza gremita di gente.
Non faccio nemmeno in tempo a rallegrarmi, perché subito mi accorgo che la folla mi ignora. Non solo sembra che non mi vedano, pare che non sentano nemmeno la mia presenza fisica. Infatti, tutti proseguono dritti per la loro traiettoria e mi urtano da tutte le parti, senza fare il minimo caso a me.
Sono ormai circondata dalla gente e non posso più muovermi, solo farmi trascinare in una direzione e poi in un’altra, indipendentemente dalla mia volontà.
Quando non so davvero più come fare per uscirne, qualcosa – potrebbe essere un tentacolo, ma non riesco a capirlo – mi afferra per una gamba e mi trascina in basso.
Senza nessun punto d’appoggio, mi sento volare verso il basso per alcuni secondi. Poi, il mio sedere subisce un impatto abbastanza violento con un pavimento di pietra. Stordita e dolorante, mi massaggio la parte bassa della schiena, in attesa di riprendermi dalla botta.
Nel frattempo, guardando in alto, riesco a capire che sono passata attraverso un tombino e adesso sono nelle fognature della città.
Ho anche capito, purtroppo, che cosa mi aveva afferrato: la coda di un serpente. Il resto del corpo del rettile, infatti, sta iniziando ad avvolgermi. È accaduto tutto così all’improvviso che non mi ero nemmeno accorta di vederlo arrivare ed ora non posso fare altro che aspettare, paralizzata. Spero davvero che non abbia intenzione di stritolarmi, perché in quel caso non potrei oppormi in alcun modo.
La morsa, invece, si allenta di colpo ed il serpente ricompare davanti a me, avvolto attorno ad un tubo di scarico per l’acqua.
“Signorina, ti hanno già detto che non dovresti essere qui, vero?”.
Stranamente, più che del fatto che il serpente mi abbia appena parlato, sono sorpresa dalla sua voce così umana. Non sibila come ho sempre sentito nei cartoni animati.
D’altronde, se l’unico con cui posso avere un discorso sensato in questa città assurda è un rettile, allora sono felicissima di discutere con lui.
“Ascolta, io non ho capito nulla di quello che mi è successo da quando sono arrivata qui, anzi è da prima ancora che non ci capisco un accidenti di niente!” sbotto.
“Infatti, se tu avessi capito sapresti già che cosa fare” risponde, guardandomi come un professore fissa l’alunno che non ha fatto i compiti per casa. “Ti devo spiegare tutto io?”.
“Sì, per favore spiegami! Dove sono? Mi sembra di essere in un sogno assurdo… come Alice nel Paese delle Meraviglie!” esclamo.
Il serpente sbuffa. “Al massimo potresti essere Alice dentro la sua testa.”
Dentro la mia testa? Cosa significa? Vuol dire che è veramente un sogno allora?
“Non riesci ad immaginare perché quella bambina fosse arrabbiata con te? Neanche un’idea?”
Scuoto energicamente la testa.
“Sei più ottusa di quanto immaginassi.”
Il serpente sbuffa di nuovo e io rimango ancora una volta colpita dalle sue espressioni così umane. Poi, si fa improvvisamente serissimo, tanto che ho quasi l’impressione di trovarmi davanti a mia madre quando mi rimprovera. D’istinto, mi ritraggo intimorita. “Alice, tu hai avuto un incidente con la bici” mi annuncia. “Ti sei buttata in mezzo ad un incrocio senza guardare.”
La notizia mi colpisce a tal punto che comincio a ricordare. Non so che cosa fosse successo prima di quell’episodio, ma mi rivedo distintamente nel momento in cui sono passata senza prestare attenzione alle automobili. Anzi, pensando che non me ne sarebbe importato niente se qualcuno mi avesse investito.
Quindi, sono stata davvero investita.
“Sono viva?” domando.
Il serpente mi lancia un altro sguardo perplesso. “Questo dovresti saperlo tu, non io.”
Perfetto, non sappiamo nemmeno se sono viva o morta. Se fossi morta e questo fosse una specie di aldilà, potrebbe essere una spiegazione. Se sono viva… allora la spiegazione qual è? Sono in coma, forse?
Dopo averci riflettuto un po’, decido di lasciare in secondo piano la questione. Non c’è modo di saperlo, quindi non ha senso aggiungere un’altra preoccupazione a quelle che ho già. È davvero comico da dire, ma… Se sono morta, ormai non posso farci più niente. Mi stupisco io stessa del fatalismo con cui la mia mente ha accettato questa terribile possibilità.
Al contrario, se sono viva posso cercare di uscire da qui.
“Finalmente lo spirito giusto!” esclama il serpente, come se avesse sentito i miei pensieri.
O forse li ha davvero sentiti. O forse, se veramente siamo dentro la mia testa…
“… Tutti sappiamo che cosa pensi, perché è di questo che siamo fatti” completa lui.
Resto a bocca aperta di fronte alla rivelazione.
“Hai capito, ora, perché qui dentro tutti ti odiano?”
“Perché sono morta?” chiedo.
“Perché ti sei sconsideratamente gettata in mezzo alla strada, senza nessun riguardo per te stessa e neppure per gli altri!” grida, con un sibilo minaccioso. “Sai qual è il modo per uscire da qui? Ma sei veramente sicura di volerlo sapere? O continuerai a farti investire dalle automobili disprezzando la tua vita? O troverai un altro modo, la prossima volta, per far del male a te e agli altri?”
Ora il serpente è vicinissimo, con gli occhi gialli ed i denti avvelenati a pochi centimetri dalla mia faccia. Arretro intimidita.
Poi, un barlume di determinazione si fa strada nel mio animo.
“Voglio sapere qual è il modo per uscire” sussurro.
“Devi studiare!” urla il rettile, con la lingua biforcuta che quasi tocca il mio naso.
Che cosa? Studiare? Questa proprio non me la sarei aspettata. Che cosa devo studiare?
“Senza discutere, ora vai in biblioteca. È proprio qui, ci si arriva da questa botola” mi spiega, alzando con la punta della coda il coperchio di un altro tombino. “Devi imparare il contenuto di tutti i libri che ti darà il bibliotecario. Tutti. Solo quando avrai studiato possiederai le risposte. E ora salta!”
Terrorizzata da quell’ordine imperioso, senza perdere tempo, salto.

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