Ci sono cose che nessuno ti dirà

di Inathia Len
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** John Watson ***
Capitolo 2: *** Sherlock Holmes ***
Capitolo 3: *** Mycroft Holmes ***
Capitolo 4: *** Greg Lestrade ***
Capitolo 5: *** James Moriarty ***
Capitolo 6: *** Sally Donovan ***
Capitolo 7: *** Molly Hooper ***
Capitolo 8: *** "Mary Morstan" ***
Capitolo 9: *** Philp Anderson ***



Capitolo 1
*** John Watson ***


 

Indossava sempre calzini spaiati

Apparentemente, c’erano numerose cose che Sherlock non era in grado di fare. Certo, era brillante e sapeva leggere nella mente degli psicotici, risolveva casi in meno di mezza giornata, ma anche lui aveva dei limiti. Fare decentemente la lavatrice era tra questi. A fargli comprare il latte John ci aveva rinunciato, ma aveva sperato che, almeno la lavatrice, non risultasse troppo complicata. E invece no. Perché, a quanto pareva, non c’era abbastanza spazio cerebrale per quello. E quindi, regolarmente, i suoi vestiti cambiavano colore, si riempivano di misteriosi buchi oppure sparivano del tutto. Per non parlare dei calzini che, a quanto pareva, non erano proprio in grado di riemergere da quel cesto rotante in coppia. E così si era adattato all’idea di andare in giro con i calzini spaiati, solo per non ferire l’orgoglio di Sherlock dicendogli che i lavori domestici non erano il suo forte.

 

Non era capace di cucinare dolci

Lo aveva scoperto all’alba del trentacinquesimo compleanno di Sherlock, quando gli era venuto in mente di fargli una sorpresa. Aveva comprato tutti gli ingredienti necessari, aveva chiesto alla signora Hudson la ricetta e si era messo all’opera. Cucinare in generale gli risultava piuttosto semplice. Non che fosse uno chef di alto livello, ma la sua pasta era sempre salata al punto giusto e non si era mai attaccata al fondo della pentola. Quindi immaginava che con una torta sarebbe stato lo stesso. Illuso. Innanzitutto, la confezione della farina gli era scivolata di mano, rovesciando l’intero contenuto per terra; poi, aveva scoperto di aver comprato il sale al posto dello zucchero. Per non parlare del fatto che l’impastatrice si era rotta nel momento esatto in cui era riuscito a racimolare nuovi ingredienti da una sghignazzante signora Hudson. Determinato, però, ad avere successo nel suo intento, aveva deciso di impastare a mano e aveva infornato il tutto. È una cavolo di torta margherita, continuava a ripetersi, cos’ha di tanto complicato? Quando poi l’aveva tirata fuori dal forno, era quasi orgoglioso del risultato. La lievitazione era riuscita alla perfezione ed era solo appena appena sbilenca. L’aveva offerta entusiasta agli invitati e Sherlock aveva addirittura chiesto il bis. Solo l’anno dopo scoprì di aver messo chicchi di pepe nero al posto del cioccolato.

 

Provava un cieco terrore per le palline rimbalzanti

Non sapeva da dove gli veniva quella paura. Forse ci era nato, forse gli era venuta un giorno all’improvviso, forse un giorno sarebbe scomparsa… La sua unica certezza era che quelle palline rimbalzanti lo agitavano. Uno le prendeva in mano, le lasciava cadere… e quelle potevano finire chissà dove, assurdo! Potevano anche colpirti! Sherlock lo prendeva in giro per questa sua mania, dicendogli che era lui quello assurdo e non le palline. Allora John cominciava ad elencargli tutte le sue stranezze e Sherlock si chiudeva nel suo solito mutismo, si metteva a suonare il violino. Per il suo compleanno, per il solo gusto di fargli un dispetto, sua sorella Harry gli regalò una di quelle maledette palline. John la lasciò sulla mensola del camino per un mese. Poi, un giorno, Sherlock la prese in mano e provò a farla rimbalzare leggermente, piano piano, da un’altezza controllata, per dimostrargli che era completamente innocua. Ma, anche se la pallina non lo colpì né si comportò in maniera assurda, John continuò a guardarla in cagnesco. Alla fine, Sherlock la buttò via e quella, rimbalzando nel cestino, lo colpì in un occhio. John rise talmente tanto che, per un attimo, dimenticò della sua assurda fobia. E a Sherlock questo bastò.

 

Girava sempre con un registratore in tasca

Era un’abitudine che aveva preso da quando aveva deciso di scrivere seriamente su quel blog. Un taccuino era scomodo, ci aveva provato, non aveva funzionato. Il piccolo registratore nero, invece, era perfetto. Bastava un semplice click per fermare per sempre i suoi pensieri sul caso o immortalare la voce di Sherlock per poi sbobinarla a una velocità normale e udibile ai più. Ormai non usciva più senza, anche se l’età era avanzata e il bastone era diventato il suo compagno più fedele, anche se ora il massimo del brivido era sedersi ai giardini e guardare i bambini giocare, dando da mangiare ai piccioni. Perché ora che era diventato vecchio e Sherlock lo aveva lasciato per sempre, quel registratore era l’ultima traccia tangibile che aveva di loro due insieme.

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Capitolo 2
*** Sherlock Holmes ***


Il violino aveva cominciato a suonarlo per sbaglio

Al liceo, era stato obbligato a seguire o il corso di musica o quello di economia domestica. Quando lo aveva comunicato a casa, sua madre aveva insistito perché scegliesse il secondo, ritenendolo più utile. Spesso capitava, infatti, che Sherlock dovesse cucinare da solo e poco ci mancava, ogni volta, che esplodesse la casa. Mycroft, alla sola idea del fratello ai fornelli, completo di grembiule (che nelle sue fantasie era sempre rosa e pieno di pizzi), era scoppiato a ridere ed aveva continuato per giorni, ogni volta che il suo sguardo incrociava quello omicida di Sherlock. L’unico a dirgli di fare quello che si sentiva era stato suo padre, dichiarando che, nel caso in cui avesse deciso per il corso di musica, avrebbe dovuto usare il suo vecchio violino. E così Sherlock si era presentato alle prove con un vecchio violino di seconda mano, svogliato e di mal umore. Poi aveva scoperto di essere bravo, bravo sul serio. Le sue lunghe dita affusolate (inutili per cose come il basket) erano perfette per correre sulle corde, il suo orecchio era assoluto e anche comporre gli veniva naturale. Solo per Mycroft, però, suonava le note più sgraziate fuori dalla sua camera, facendolo rimanere sveglio tutta la notte.

 

La prima sigaretta era stata per tirarsi su di morale

Aveva tredici anni e aveva appena perso il suo migliore amico. Redbeard era morto, una macchina lo aveva investito mentre il cane correva da Sherlock che stava tornando da scuola, come ogni giorno. Ma quel mercoledì pioveva e il guidatore non aveva fatto in tempo ad evitare quella macchia rossa che gli si era parata davanti all’improvviso. Gli Holmes avrebbero voluto seppellirlo in giardino, ma Sherlock fu inamovibile. Non voleva quel cippo tra le ortensie, non voleva vederlo mai più. Redbeard era morto, che senso aveva quella pagliacciata, glielo avrebbe restituito? Quando Mycroft aveva saputo, si era preso qualche giorno libero dal college ed era tornato a casa. Sherlock era chiuso in camera sua da una settimana, non parlava con nessuno e a mala pena mangiava. Mycroft era entrato in punta di piedi, si era messo alla finestra e, guardando fuori, aveva acceso una sigaretta, l’ultimo vizio del college. Non aveva detto una singola parola, era solo rimasto lì fermo a fumare. Dopo un po’, Sherlock si era alzato e lo aveva raggiunto. Aveva porto la mano affusolata e Mycroft gli aveva consegnato la cicca nel silenzio più assoluto. Al primo tiro aveva tossito, e così anche al secondo e al terzo. Poi era diventato più semplice e, alla terza sigaretta, Redbeard era solo un ricordo lontano.

 

Odiava i barbieri

Se c’erano persone (persino donne) che rimanevano affascinate da quei negozietti che ancora sapevano di antico e di tradizioni, Sherlock Holmes non era tra queste. Per lui i barbieri erano inutili, la peggior categoria di lavoratori, perché erano privi di senso. La gente non se li poteva tagliare da soli, i capelli? E quelli che andavano persino a farsi fare la barba? Ogni due mesi, John spariva per un pomeriggio intero e, quando tornava, i capelli erano la metà di quando era uscito. Sembra un uovo, diceva tra sé e sé Sherlock. Una volta si era deciso a seguirlo, per vedere il tutto attraverso gli occhi di John. Se a lui stava bene farsi acconciare da un estraneo, non doveva essere così male, in fondo, no? John era a posto, di lui ci si poteva fidare. Eppure, nonostante tutta la buona volontà, non riusciva proprio a farseli andare giù, i barbieri. Quando i suoi capelli diventavano troppo lunghi, lasciava alla signora Hudson il compito di tagliarli. E quella santa donna acconsentiva ogni volta, sopportando gli sbuffi e l’impazienza di Sherlock, mentre John leggeva il giornale in un angolo, un sorrisetto ironico stampato sulla faccia.

 

Trovava inutili i calendari

Non tutti, solo quelli cartacei. In un’era digitale, diceva, che senso avevano quei pezzi di carta colorati appesi alle pareti? Se la gente li comprava solo per i quadri o per i buffi animaletti che si trovavano nella pagina opposta a quella con numeri, allora era davvero pazza come Sherlock sospettava. Non si potevano comprare direttamente il poster? Cos’è, dovevano far vedere al mondo che loro erano abbastanza acculturati da comprare un calendario intellettuale? E se invece era per i cuccioli di chissà quale animale ritratti in pose buffe, cosa ci trovavano di divertente? Ne aveva parlato con John, una volta (o meglio, avevano discusso sulla necessità o meno di un calendario a Baker Street) e John aveva sostenuto che fossero molto utili, ma non era riuscito a spiegare in che senso. E così erano tornati a casa a mani vuote. Il giorno dopo, però, Sherlock era tornato ed aveva comprato quello che John aveva adocchiato il giorno prima. Anche se non capiva né il senso del calendario, né quello del sistema solare rappresentatovi sopra, se John era contento allora non erano sterline buttate. 

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Capitolo 3
*** Mycroft Holmes ***


Da piccolo avrebbe voluto fare l’edicolante

In realtà, glielo aveva proposto sua madre quando, già a dieci anni, leggeva qualsiasi quotidiano/mensile gli passasse sotto il naso. Dal giardinaggio alla fisica quantistica, dalla politica all’uncinetto, dall’informatica alla cucina macrobiotica. Mycroft era una macchina per leggere. E più leggeva, su quanti più giornali riusciva a mettere le mani, quanti più ne voleva. Per quello sua madre gli aveva detto, scherzando, che avrebbe dovuto aprirsi una sua edicola, così da essere sempre sicuro di riceve le notizie fresche di stampa. Ma Mycroft non aveva capito la battuta e, tutto serio, aveva cominciato a progettare la sua personalissima edicola. Stava ore e ore sdraiato sul pavimento di camera sua, circondato da fogli pieni di disegni e scritte, annegando in un mare di pastelli a cera e pennarelli, solo per rifinire ogni più piccolo dettaglio. E quando andavano in giro ed entravano in una vera edicola, Mycroft non poteva fare a meno di dire al proprietario come avrebbe dovuto migliorarla, per renderla “un’edicola degna di questo nome”. Alla quinta dalla quale furono cacciati, Mycroft decise che gli edicolanti erano persone poco educate e che non sarebbe mai diventato uno di loro.

 

Preferiva la macchina da scrivere a qualsiasi computer sulla Terra

 

Gli dicevano che era antiquato, che un uomo nella sua posizione non poteva provare tutta questa avversione verso la modernità, ma Mycroft li ignorava e continuava a dettare ad Althea su quella vecchia macchina da scrivere. Voci di corridoio dicevano fosse appartenuta ad un avo scrittore e che Mycroft la usasse ancora per scaramanzia. L’uomo non smentiva né dava adito alle voci, infischiandosene con quel sorrisino che faceva tanto saltare i nervi a Sherlock. La verità, era molto semplice. Quello che adorava in quella macchina da scrivere, era la macchina in sé per sé. Il rumore delle dita di Althea sui tasti era come quello di una vecchia nenia che ricordava l’infanzia; la pittura originale, quasi ormai del tutto svanita, nei pochi punti in cui resisteva si arricciava in una maniera che Mycroft riteneva coraggiosa, quasi non volesse lasciare la superficie e lottasse con tutte le sue forze. Era vero, ormai cominciava a mostrare tutti i suoi annetti. Ad alcune lettere mancava il “cartellino” di riconoscimento, spesso si inceppava e non si muoveva più per ore, ma Mycroft non avrebbe mai tradito la sua vecchia amica con un giovane computer.

 

Odiava la neve

La gente gli dava del pazzo, quando lo veniva a sapere, ma Mycroft Holmes odiava la neve e tutto ciò connesso ad essa. La rottura di scatole di dover spalare il vialetto davanti alla casa dei genitori perché Sherlock era troppo occupato a giocare al consulente detective per farlo, la noia di dover trovare delle scarpe da neve che andassero bene per i completi eleganti, per non parlare dei disagi che causava in città. Solo un folle, quindi, avrebbe amato quell’acqua giacchiata che ogni anni imperversava dovunque. Non era più un bambino, ma, contrariamente a tutti i bimbi, nemmeno all’epoca l’aveva trovata “bella”. Si stava a casa da scuola, e quindi? Nessuno lo invitava fuori a giocare, Sherlock era sempre preso da Redbeard e quindi non stava con lui… perché avrebbe dovuto amare quei pomeriggi passati in casa con sua madre a fare biscotti, se poi non ne poteva assaggiare nemmeno uno perché veniva spedito al piano di sopra non appena arrivavano le amiche di sua madre? E così continuava imperterrito la sua campagna contro la neve, compatendo silenziosamente quanti la ritenevano una manna dal cielo. Aveva sentito, addirittura, che alcuni militari brasiliani, quando l’aveva vista per la prima volta, in Italia, durante la Seconda Guerra Mondiale, ne avevano mandato pacchi a casa. Mycroft rideva sempre pensando alle facce di chi aveva ricevuto lettere d’acqua. E poi il pazzo era lui!

 

La passione degli ombrelli gli era venuta dopo aver visto Mary Poppins

Da quando l’aveva visto per la prima volta, Mycroft aveva amato quella tata strana e magica, tutta canzoni e schiocchi di dita. Sherlock lo prendeva in giro, dicendo che Mary Poppins era da femminucce, ma lui non lo ascoltava. La amava, amava Mary Poppins con tutto il suo cuore e, in particolare, amava il suo ombrello parlante. Aveva supplicato sua madre di prendere una tata a lui e Sherlock, sperando con tutto il suo cuore che comparisse lei, ma il bulldozer che si era presentato al suo posto lo aveva bruscamente svegliato dai suoi sogni ad occhi aperti. Mary Poppins non esisteva, ma si poteva dire lo stesso del suo ombrello? Aveva così cominciato a collezionarli uno dopo l’altro, nella speranza di trovare un giorno quello dalla forma e le dimensioni giuste, che gli avrebbe parlato così come aveva parlato a lei. E così, forse, avrebbe potuto ritrovare la tata dei suoi sogni.

 

 

 

 

 

Inathia's Nook:

Eccoci al terzo capitolo. procediamo spediti, no? sono contenta che la raccolta vi piaccia, era solo una balzana idea, non avrei mai creduto di scriverci sopra. e invece eccoci qua, con Mycroft. Non è stato semplice scrivere di lui, ho cercato di mettere qualcosa di interessante, ma un'accenno agli ombrelli non ho potuto non metterlo ;P ah, e scrivere quella parte contro la neve ha ucciso una parte di me, considerando che io la amo con tutto il cuore. spero vi piaccia quanto i precedenti, dovrei riuscire ad aggiornare domani con... 

un mega bacio a tutti, e un grazissime a chi ha recensito <3

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Capitolo 4
*** Greg Lestrade ***


 

 

Le matite senza punta gli mettevano tristezza

Sally lo prendeva sempre in giro, ma poi gli portava sempre come souvenir della vacanze un temperino. Ormai ne aveva la scrivania piena, Greg, di quei temperini dalle forme assurde e pacchiane, ma almeno le sue matite non correvano mai il rischio di essere spuntate. Temperarle lo rilassava e, al tempo stesso, l’idea di una punta lasciata a metà o addirittura rotta gli metteva una tristezza infinita addosso. Era una cosa sciocca, lo sapeva, ma ognuno aveva le sue manie. Forse era tutto cominciato quando la sua maestra delle elementari gli aveva detto che un bravo bimbo tiene sempre in ordine le sue cose, oppure quando temperare era diventato un ottimo antidepressivo per i casi più difficili. Rimaneva il dato di fatto che le sue matite aveva sempre punte da far invidia al circondario. Temperare le matite era decisamente *his division*.

 

Aveva una vera e propria passione per i romanzi rosa

Non lo avrebbe confessato nemmeno sotto tortura, ma non riusciva ad andare a letto senza aver letto almeno un capitolo del nuovo romanzetto comprato in edicola. Erano cose da pochi spiccioli, con trame sempre piuttosto prevedibili e personaggi bidimensionali, ma riuscivano ad appassionarlo come poco altro al mondo. In fondo, passava le sue giornate ad occuparsi di omicidi e furti, sua moglie lo aveva lasciato, poteva regalarsi un po’ di sciocco relax alla sera, no? La sua più grande paura era che Sherlock lo scoprisse, in un modo o nell’altro. Aveva il terrore che la sua “colpa” gli si leggesse in faccia. Perché gli capitava di fantasticarci sopra ogni tanto, sulle sue letture, si immaginava finali possibili e ipotetiche svolte nella trama e andava nel panico al solo pensiero di potersi far sfuggire qualcosa ad alta voce. Solo Molly sapeva e custodiva il suo segreto gelosamente. Ogni tanto, in pausa pranzo, andavano a mangiare insieme –ben lontani dai rispettivi luoghi di lavoro- e passavano una mezz’ora buona a scambiarsi pareri e libri. Da sempre, la parte migliore della giornata, per Greg.

 

Non sapeva nuotare

In realtà, non era mai nemmeno stato al mare. Suo padre lo aveva sempre odiato e sua madre… bè, diciamo che la sua opinione non contava molto. Quanto al piccolo Greg, era stato decretato fosse inutile che sapesse nuotare dato che non sarebbero mai andati al mare. Questo segreto, però, lo conoscevano quasi tutti a Scotland Yard. Era stata tutta colpa della festa in piscina che aveva organizzato Thompson, uno della scientifica, per il suo compleanno. In preda ai fiumi dell’alcool, Anderson e Sally gli avevano proposto un tuffo di mezzanotte e lui aveva cercato ogni scusa possibile per dire di no. Ma era ancora a metà della prima che i due lo avevano sollevato di peso e lo avevano buttato nell’acqua, vestito di tutto punto con il completo nuovo. E, nell’ilarità generale, aveva cominciato a gridare aiuto, agitandosi tutto. Salvo poi rendersi conto che la piscina era profonda solo un metro e mezzo e quindi poteva starci tranquillamente in piedi.

 

Ogni due mesi si prendeva un giovedì libero per andare alla National Gallery

Inventava sempre una scusa diversa, ma non riusciva a resistere al richiamo di quei dipinti. E così, casualmente, ogni due mesi o si ammalava lui, o sua madre, o doveva andare dal dentista… insomma, puntualmente telefonava in ufficio dicendo che non sarebbe potuto andare. Per una volta, i criminali passavano in secondo piano, lasciando il posto a Piero della Francesca e Turner e molti altri. Quell’amore per l’arte era cominciato quando era al liceo. Pioveva e c’era lo sciopero sia degli autobus che della Tube. Fradicio e rotto di scatole, aveva seguito una truppa di turisti giapponesi e si era ritrovato all’interno della National. Non aveva fatto molto caso al luogo, tutto quello che gli importava era essere all’asciutto, e così si era fatto un giro, nella speranza di asciugarsi più in fretta. Invece ci era rimasto tre ore, incantato. Alla fine, una volta tornato a casa, suo padre lo aveva strigliato per bene, ma Greg non lo aveva ascoltato nemmeno per un secondo. Tutto quello a cui riusciva a pensare era tornare alla Gallery per perdersi nuovamente in quella bellezza. 

 

 

 

 

 

Inathia's Nook:

Eccomi qua, belle mie. devo ammetterlo, dato che in due avevate quasi indovinato il personaggio di oggi (in ballo c'erano appunto Greg e Jim) avevo una mezza idea di fare la bastarda e piazzarvi Anderson o Sally. Ma poi la pigrizia ha avuto la meglio. Questa l'avevo già scritta, cronologicamente, prima di quella di Jim le altre le devo ancora copiare... e così... ringraziate la mia pigrizia, in pratica. Ok, ci sono, quello che ho scritto non ha senso, ma voi mi volete bene lo stesso, vero? *fa un maxi sorrisone annuendo e salutando* Comunque, vi volevo solo dire una cosuccia: come ho anticipato, ho scritto anche di Sally Donovan e Anderson. Prima che mi lanciate i pomodori e gli attaccapanni, (anche io non amo troppo i due caaaaarissimi), sappiate che tra qualche giorno pubblicherò anche loro. Ho cercato di mantenere i loro caratteri, ma ho provato anche a migliorarli un pochetto, andando un po' nell'introspettivo. Quindi, il messaggio è: pace e amore anche per i due odiati amorini nostri. Basta, questo è quanto. Intanto vi lascio con il caro Greg e vi do appuntamento a domani con...

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Capitolo 5
*** James Moriarty ***


 

Aveva sempre voluto un cavallo

Ne aveva sempre desiderato uno, lo avrebbe chiamato “Black” anche se fosse stato bianco. Anzi, lo voleva proprio bianco. Bianco, grande e immenso, dalla coda e la criniera un pelo più scure rispetto al manto, ma sempre bianco. E lo avrebbe cavalcato come i cavalieri delle favole che la mamma gli leggeva la sera prima di andare a letto, e sarebbe stato il più grande tra loro. Ma poi suo padre aveva perso tutto in borsa, sua madre si era ammalata e aveva smesso di leggergli le favole. E Jim aveva imparato, a soli dieci anni, che né i soldi né l’affetto dei propri cari sono un qualcosa di duraturo. L’unica cosa davvero importante era il sapere. Perché con quello, suo padre non avrebbe investito nei fondi sbagliati, sua madre non si sarebbe ammalata e Jim avrebbe avuto il suo cavallo bianco. Senza il cavallo non poteva essere un cavaliere, questa era la cosa che lo rendeva più triste di tutte. Lui doveva essere un cavaliere, era tutto quello che gli interessava. Se non poteva essere un cavaliere, cosa gli rimaneva?

 

Odiava i fiori

Suo nonno aveva una serra enorme, nella sua casa in campagna, e ci passava ore e ore da solo, tornando in casa solo quando la moglie gli gridava che il pranzo era pronto. Jim ci aveva passato le sue vacanze quando era piccolo e aveva spesso dato una mano al nonno James –che si chiamava proprio come lui- a piantare lillà e girasoli, travasando rose e violaciocche. Gli piaceva e, soprattutto, trovava divertenti i battibecchi tra nonno James e nonna Helen, durante i quali lei si lamentava perché non la aiutava mai in casa e lui, per farsi perdonare, le regalava sempre mazzi di fiori diversi. A Jim, all’epoca, i fiori piacevano. Li riconosceva tutti dal solo profumo, aveva anche provato a dipingerli, ma con scarsi risultati, anche se nonna Helen –che aveva appeso i disegni sul frigorifero- li riteneva dei capolavori. Poi, una notte era cambiato tutto. Dei vandali avevano trasformato in un rogo la serra di nonno James e lui era corso tra le fiamme per salvare i suoi amati fiori. Era stata in quella occasione che Jim aveva conosciuto il fuoco. Era rimasto immobile, affascinato, a guardarlo divorare la serra, i fiori e il nonno. Per quello odiava i fiori, perché si erano portati via tutto. Ma gli avevano dato il fuoco.

 

Al liceo aveva amato una sua insegnate

Si chiamava Christine, Jim non era mai riuscito a pensare a lei come alla signorina Moore. Era bella, intelligente e giovane, e Jim si era innamorato di lei non appena l’aveva vista. E letteratura era diventata la sua materia preferita. Ovviamente non si era mai fatto avanti, l’aveva adorata da lontano, logorandosi dentro quando l’aveva vista mano nella mano con il signor Walloby, l’insegnate di storia. Cosa ci vede in quello? continuava a pensare. Il giorno di San Valentino le aveva lasciato una rosa sulla cattedra, insieme a un cioccolatino. Aveva sperato che lei si accorgesse di lui, magari in maniera discreta, sorridendogli un po’ di più durante la lezione e poi ringraziandolo. E invece, lei era corsa da Jordan, il quale si era preso il merito delle sue fatiche. E Jim aveva fatto licenziare entrambi, mettendo in giro voci su loro due e su un’ipotetica brutta influenza che avrebbero avuto sugli studenti. E poi aveva deciso che non avrebbe più fatto quell’errore. Ci aveva messo quasi un anno intero a cercare di avvicinare Christine per dirle del suo amore, ma solo una settimana per farla cacciare. Era meglio essere temuti che amati.

 

Portava sempre in tasca un vecchio fermacapelli

Non era un sentimentale. Tra tutte le parole nel vocabolario, di certo non avrebbe scelto quella, per definirsi. Non lo era mai stato, neppure da bambino. Eppure, ogni volta che usciva di casa, controllava di avere quel fermacapelli nella tasca interna della giacca. Era ormai diventato un gesto scaramantico e pretendeva di essersi dimenticato come mai lo portasse sempre con sé, ma non era vero. Non era vero niente. Annabelle Fairchild era stato il nome della proprietaria, una bimba paffuta che aveva frequentato il primo anno della scuola elementare insieme a Jim. Erano stati compagni di banco, lui le faceva sempre i dispetti, ma lei, a differenza delle altre bambine tutte fronzoli, rideva dei suoi scherzi. Era diventata sua amica, perché non aveva paura di sporcarsi le mani di terriccio per giocare lui e non si metteva nessun problema a spiare le altre bambine per poi riferire tutto a Jim. Organizzavano fantastici scherzi, insieme, grazie alle informazioni di Annabelle. Ma le altre bimbe erano stufe degli scherzi e prendere in giro i chili in più di Annabelle per loro erano l’unica difesa. E Annabelle piangeva, con solo Jim a consolarla. Alla fine dell’anno, però, i suoi genitori decisero di farle cambiare scuola e, complice la promozione del signor Fairchild, si trasferirono ad Edimburgo. Jim non l’aveva mai più vista, ma quando si erano salutati lei gli aveva regalato il suo fermacapelli preferito, quello con Barbie principessa sopra. E Jim le aveva promesso che lo avrebbe sempre conservato.

 

 

Inathia's Nook:

Ecco qui anche Jim, così siete tutte contente :) non è tatoso? devo ammettere che il mio amore per questo personaggio cresce ogni giorno di più e scrivere di lui in questa chiave mi è piaciuto un sacco. E dato che è inutile provare a fare la misteriosa, vi dico subito che domani aggiornerò con Sally Donovan. Prima che mi lanciate dei pomodori, vi chiedo solo di leggerla (non dico recensire, solo leggere) e di giudicare poi. Perchè so che Sally non è molto amata (modo per carino per dire che la odiano tutti ;P) ma forse questa piccola raccolta potrebbe almeno strapparvi un sorriso. 

Un bacio e a domani

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Capitolo 6
*** Sally Donovan ***


 

Anderson le aveva chiesto di uscire il giorno più brutto della sua vita

Sally si era sempre creduta una donna forte, fiera del suo lavoro e poco incline al cosiddetto “innamoramento istantaneo”. Non credeva nei colpi di fulmine, li riteneva cliché diabetici dei peggiori film romantici, eppure era capitato anche a lei. Non lo aveva mai ritenuto possibile, non fino a quando non se lo era ritrovato davanti. Era nuovo e aveva l’aria di uno che si trovava lì per sbaglio. Era entrato in centrale con Greg, lo seguiva come un’ombra e gli parlava piano all’orecchio, tenendo d’occhio, nel frattempo, tutto e tutti. Greg glielo aveva presentato, ma Sally aveva a mala pena ascoltato. Ricordava solo che aveva pensato che il suo nome fosse bello assurdo, ma che suonava bene insieme al suo. E poi iniziavano entrambi con la stessa lettera. La “S” non le era mai sembrata lettera più bella. Ma poi lui se n’era andato senza nemmeno degnarla di un secondo sguardo, e Sally aveva salutato, di fatto, il suo coppino. Era fatalmente e irrimediabilmente innamorata di quello stronzo. Peccato che lui, per lei, aveva dimostrato lo stesso entusiasmo che si riserva a una puntatrice scarica in un igloo. E Sally aveva solo dovuto adattarsi a venerare la sua ombra. Poi, un giorno, coraggio a due mani, gli aveva chiesto se gli andava di andare a cena quella sera. Due minuti dopo era chiusa in bagno a piangere, come una stupida liceale alle prese con la prima cotta. Era stato solo per toglierselo dalla testa che aveva acconsentito ad uscire con Anderson, quello della scientifica. Sapeva che era sposato, ma non le interessava. Tutto pur di non ritrovarsi di nuovo a piangere in quel cesso per un cretino.

 

Quando era nervosa intrecciava graffette

Ne aveva un bussolotto sulla scrivania in ufficio e le capitava di giocherellarci per pensare o per calmare i neri. Quando poi era particolarmente presa da un caso che non riusciva a risolvere o c’era qualcosa che la mandava in confusione, quasi in automatico prendeva ad intrecciare le graffette, formando lunghe catene degne del miglior bambino di due anni. A volte quei serpenti metallici diventavano braccialetti o collane, altre volte rimaneva fili colorati sulla sua scrivania. Intrecciarle l’aiutava a pensare, a decidere se, per esempio, ne vale la pena affrontare il proprio capo solo perché hai un dubbio che ti attanaglia le viscere. Sherlock è pulito? continuava a domandarsi., incastrando sempre più graffette. Sherlock ci nasconde qualcosa? si ripeteva nella testa, prendendo fuori l’ennesima, unendola con le alte. Di solito, quando arrivava alla fine del barattolo, aveva raggiunto una decisione.  E anche quella volta non aveva fatto eccezione. Peccato le graffetta non fossero infallibili.

 

Chiamare Lestrade “capo” l’avrebbe fatta sentire vecchia

Avevano cominciato insieme, lei e Greg. Erano stati presi all’Accademia con un giorno di distanza l’una dall’altro, avevano fatto tutto l’addestramento insieme e avevano persino dato l’esame lo stesso giorno. Poi si erano persi di vista, nonostante le classiche promesse da compagni di classe: sentiamoci, eh, non sparire! E invece era stato così. Lo aveva ritrovato a Scotland Yard ma, mentre lei ora era un semplice sergente, Greg era detective ispettore, il suo capo. Ma Sally proprio non ce la faceva a dargli del lei e a chiamarlo capo. Aveva provato con il cognome, ma si sentiva una scema. Poi loro erano amici e neanche Greg aveva insistito più di tanto. Perché, in fondo, ammettere che lui era il suo capo, adesso, sarebbe stato l’equivalente del dire che lei non era più la ragazza dell’Accademia. E a neanche quarant’anni non era pronta ad ammetterlo.

 

Aveva portato gli occhiali

Sally-la-quattrocchi lo era stata fino al ballo dell’ultimo anno del liceo. E quegli occhiali erano brutti, la facevano assomigliare a sua nonna, e lei si vergognava tanto. Aveva provato a chiedere a suo padre di comprarle le lenti a contatto, ma lui aveva sempre rifiutato. Così Sally aveva risparmiato per potersele comprare da sola. E ci era riuscita la sera prima del ballo. Nessuno l’aveva invitata, ma lei aveva ormai perso ogni speranza in quel senso. Però, quella sera si era vestita al meglio, aveva raccolto i riccioli ribelli e aveva lasciato sul comodino gli occhiali. Aveva ballato con Jack Simmons tutta la sera, ragazzo timido ma molto carino del suo anno. Anche altri l’avevano invitata, alla fine, e lei si era sentita bellissima e finalmente desiderabile, ma aveva scelto Jack tra tutti, perché lui era l’unico che le voleva bene davvero. Con o senza occhiali. 

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Capitolo 7
*** Molly Hooper ***


 

Si ammalava di raffreddore almeno una volta al mese

Con una puntualità imbarazzante, ormai da anni l’ultima settimana del mese Molly era una zombie gocciolante e dal grosso naso rosso. Se poi quella maledizione coincideva con il ciclo, Molly si chiudeva in casa ed era capace di non uscirci per tutta la settimana. Qualsiasi cosa pur di non sgnaccolare in faccia a Sherlock, il quale, ne era certa, si sarebbe limitato solo a guardarla –neanche interrogativo, l’avrebbe solo guardata- e poi avrebbe ripetuto la sua richiesta quotidiana, facendo un commento volante sulla sua condizione. No, Molly non poteva permetterselo. Quel poco di dignità che ancora le rimaneva doveva preservarla gelosamente. E così preferiva quella clausura autoimposta agli sguardi pietosi/scocciati della gente quando attaccava la sua raffica di starnuti di mezzogiorno. Perché a casa non correva il rischio di finire i fazzoletti.

 

Aveva chiamato il gatto come il suo primo ragazzo

Clark. Era quello il nome della palla di pelo che aveva salvato dall’essere investito in una fredda sera di novembre di qualche anno prima. Clark-ragazzo aveva avuto i capelli rossi e Clark-gatto aveva il pelo fulvo, ma le somiglianze finivamo lì. Perché se Clark-ragazzo l’aveva scaricata dopo appena due settimane per un’oca più disponibile, mentre Clark-gatto non l’avrebbe mai abbandonata. E così Clark-gatto era diventato il suo nuovo migliore amico, l’unico che l’aspettava la sera quando tornava da lavoro. Non era l’unico ad avere bisogno di lei, ma era il solo a riconoscere il fatto che lei gli fosse necessaria. E così, da quella sera di novembre, quella palla di pelo era diventata il suo microcosmo. E chiamarlo Clark era stata la vendetta più dolce e sottile di cui Molly fosse capace.

 

Beveva sempre e solo dalla sua bottiglietta

L’essere un medico legale l'aveva riempita di manie assurde, nel corso degli anni, ma la peggiore di tutte era quella di non fidarsi delle bottigliette. Molti dei corpi che le era capitato di esaminare erano finiti tra le sue mani proprio a casa del veleno e lei non ci teneva a finire i suoi giorni sul tavolo gelido di un obitorio. Per quello aveva cominciato a girare con una bottiglietta che non perdeva mai di vista e che riempiva solo o a casa o da fontane di cui si fidava ciecamente. Questa era la sua unica mania che Sherlock non riteneva inutile e idiota e per questo Molly si sentiva molto intelligente. All'inizio, si credeva ridicola, ma era bastata un'occhiata di approvazione del consulente detective per farla ricredere. E ora non riusciva più a ricordare se il tutto fosse cominciato perché davvero non voleva finire avvelenata o perché Sherlock l'aveva ritenuta una cosa furba.

 

Odiava l'arte moderna

Non poteva ritenersi una grande esperta, il suo poco tempo libero non lo passava di certo a studiare storia dell'arte, ma anche lei aveva i suoi gusti, come chiunque al mondo. Non andava in giro a sbandierarlo per non sottomettersi al giudizio altrui, ma l'arte moderna proprio non le piaceva, la trovava brutta e riteneva i vari artisti solo dei perditempo imbrattatele. Tom, invece, era un grande appassionato e l'aveva convita ad andare a una mostra, una volta. Inutile dire che avevano finito di litigare neanche a metà della prima sala. La mite e dolce Molly Hooper aveva cominciato a borbottare -non troppo a bassa voce- sull'assurdità del costo dell'esposizione e il timido Tom le aveva urlato contro -non troppo timidamente-. Avevano fatto la pace, certo, ma si erano promessi di non andare mai più a una mostra insieme.

 

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Capitolo 8
*** "Mary Morstan" ***


 

Aveva scelto quel nome perché la donna era sepolta accanto a sua nonna

A John non lo aveva detto, ma era sicura che Sherlock lo avesse intuito da un bel pezzo. Così avrebbero potuto sapere la verità, se un giorno avessero voluto. Aveva sempre amato sua nonna, ci era stata cresciuta, a essere precisi. Era stato quando era morta che erano cominciati i casini. Per quello nonna Amanda era un punto fisso, lo spartiacque della sua vita. Prima, c'era stata la calma, la tranquillità delle favole della buonanotte e il profumo del the caldo alla mattina. Nonna Amanda l'aveva tenuta al sicuro, al lontano da chi là cercava e aveva già preso il resto della sua famiglia. Poi, però, nonna Amanda aveva perso, il cancro aveva vinto. E non c'era più stato nessuno a proteggerla. A fatica si era tirata fuori da quel giro, si era costruita una nuova vita e aveva voluto che nonna Amanda fosse di nuovo la sua ancora di salvezza. Così era nata Mary Morstan, come un araba fenice.

 

Odiava i colori pastello

Mettersi l'abito panna per il suo matrimonio era stata una tortura. Odiava quei cavolo di colori, non erano né carne né pesce, per citare un suo vecchio insegnante. Ma forse, la vera ragione per cui odiava i colori pastello, era che indossava un abito azzurrino la sera della "resurrezione" di Sherlock. Stava bene con John, ma poi era tornato lui e aveva rovinato tutto. O quasi. Lei sapeva tutto del  consulente detective e non perché gliene aveva parlato John. Conosce Sherlock Holmes e lo temeva, perché era l'unico che poteva svelare il suo segreto. Poi, un altro giorno, aveva messo una sciarpa chiara e John era stato rapito, messo in un falò. Il giorno del suo matrimonio un uomo, un vecchio amico di John, si era quasi ucciso... Per non parlare di quando era stata costretta a rivelarsi. Anche se, tecnicamente, quando aveva sparato a Sherlock, vestiva di nero. No, decisamente i colori pastello non le portavano fortuna.

 

Amava John

Quasi tutto nella sua nuova vita era una bugia, persino il suo colore di capelli. Ma John era reale e reale era quello che lei provava per lui. Lo aveva notato già da subito, conosceva quello sguardo, quello di un uomo a pezzi. E lei si era scoperà a volerne sapere di più. Ma non per qualche motivo in particolare, ma solo perché lei sapeva cosa significava andare alla deriva dentro e non voleva che a quell'uomo così gentile capitasse lo stesso. E così si era fatta assumere come segretaria al laboratorio dove lui lavorava. Era Mary Morstan da poco, ma quando John la chiamava sentiva di non poter essere nessun'altra. E, a poco a poco, lui si era aperto e lei lo aveva ascoltato, aveva asciugato le sue lacrime, lo aveva fatto ridere... Lo amava. Quella consapevolezza era arrivata come un fulmine a ciel sereno, ma era convinta di averlo sempre amato, anche prima di conoscerlo, quasi John Watson la stesse aspettando da tutta la vita. L'unica cosa che la uccideva dentro era il fatto di non potergli dire la verità su se stessa. John le aveva raccontato tutto, ogni singola cosa, e lei non gli aveva nemmeno potuto rivelare il suo nome. Però lo amava e quello era vero.

 

L'odore dei pennarelli indelebili le piaceva da impazzire

Era da scemi, lo sapeva, ma girava sempre con uno di quei pennarelli in tasca perché le piaceva l'odore che facevano. E, ogni tanto, lo tirava fuori, anche solo per giocherellare con il tappo. John la prendeva in giro, le dava del tossico, ridendo, ma al loro primo appuntamento a casa di lei si era presentato con una scatola di indelebili, anziché di cioccolatini. Tranquilla, ho visto di peggio aveva detto, riuscendo i suoi occhi a rimanere asciutti per la prima volta parlando di Sherlock. Non ricordava quando fosse cominciata quella "passione", ma era una delle poche cose della vecchia vita, quella con nonna Amanda, che era rimasta nella nuova. Ed era fiera di quelle poche cose che riusciva a rivelare John senza metterlo in pericolo.

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Capitolo 9
*** Philp Anderson ***


 

Aveva sposato la sua ragazza del liceo

Era stato il migliore amico di Tessa per quattro anni prima di invitarla al ballo del liceo, alla fine del quarto anno, e baciarla. Erano stati insieme tutta l'estate e per Philip era stato come un sogno diventato realtà. Aveva sempre avuto un debole per Tessa, ma non avrebbe mai creduto che lei ricambiasse. Alla fine dell'estate, Tessa era incinta e Philip le aveva chiesto di sposarlo seduta stante. Due settimane più tardi, con una breve cerimonia in giardino, Tessa era diventata la signora Anderson. Quando Sarah era nata, era stata la madre di Anderson ad occuparsene, così che i due potessero continuare con la scuola. Ma Tessa aveva perso ogni interesse per lo studio e ben presto era rimasta a casa con Sarah. E così erano iniziate le liti. Tessa voleva una casa tutta per loro, Philip voleva andare all'università ed entrare nella scientifica. Alla fine raggiunsero un accordo: entrambi avrebbero lavorato part-time per potersi permettere una casa, ma Philip non avrebbe lasciato la scuola. Quando finalmente Philip era riuscito ad andare a lavorare per Scotland Yard, ormai era sposato da quindici anni e credeva non esistesse altra vita oltre quella. Poi aveva conosciuto Sally.

 

Da piccolo aveva avuto un amico immaginario

Si chiamava Edward ed era il suo migliore amico. Anche se nessuno poteva vederlo, il piccolo Philip era sicuro che Edward fosse sempre accanto a lui. Insieme erano stati dovunque: in Malesia con Sandokan, ventimila leghe sotto i mari, sull'isola del tesoro... Philip non aveva bisogno di nessun altro, Edward era il compagno di giochi ideale. Non si stancava mai, gli lasciava decidere cosa fare e, soprattutto, non lo avrebbe mai abbandonato. Ma Philip non aveva fatto i conti con la cattiveria egli altri bambini. Loro non sapevano di Edward, vedevano solo un bambino che parlava e rideva da solo e questo a loro era bastato per prenderlo in giro. Ed Edward, a poco a poco, era scivolato via da Philip, portato lontano dalle risatine cattive e dalle occhiate maligne. E Philip era rimasto solo, fino a quando non aveva incontrato Tessa.

 

Non andava a votare da anni

Non lo faceva apposta o perché voleva essere il dissidente del gruppo, semplicemente, ogni volta che c'erano state le elezioni, si era ritrovato a letto con la febbre. Tessa aveva cominciato a chiamarla "la febbre delle elezioni" e Philip rideva, perché ormai erano poche le volte in cui sua moglie scherzava con lui. Però, rimaneva il dato di fatto che ormai erano più di dieci anni che non votava forse ci era andato appena maggiorenne e poche altre volte, ma per il resto aveva sempre seguito il tutto in televisione, avvolto in mille coperte e con il naso gocciolante. Inutile dire che il suo più grande terrore era che il governo cadesse, perché ciò avrebbe significato altre elezioni e con le elezioni lo avrebbero sicuramente messo a letto per una settimana.

 

Quando aveva perso il lavoro Tessa lo aveva lasciato

Non avrebbe mai creduto che la "morte" di Sherlock lo avrebbe portato alla liberazione. O alla pazzia, dipendeva solo dai punti di vista. Perché dopo il salto del vuoto del consulente detective, la sua vita era cambiata dalla sera alla mattina. Il senso di colpa era diventato il suo migliore amico, soprattutto da quando era venuta fuori la verità ed il nome di Sherlock era stato ripulito. Aveva spinto un innocente -per quanto non il più simpatico ed educato del mondo- ad uccidersi. Ma Sherlock non poteva essere morto, era troppo intelligente per un qualcosa del genere. E così aveva messo su quel "fan club" che era diventato la sua vita. Si era allontanato da Sally, perché lei riusciva a continuare la vita di tutti i giorni; si era allontanato da Tessa, perché si era reso conto di non amarla più; si era allontanato da sua figlia Sarah perché lei lo odiava. E poi aveva detto a Tessa di Sally, giusto per scaricarsi un po' la coscienza, per sentirsi un po' meno merda, e Tessa se n'era andata, com'era giusto che fosse. Lasciandolo solo con i suoi fantasmi.

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