A nessuno piace parlare della prima guerra magica

di udeis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A mali estremi, estremi rimedi. ***
Capitolo 2: *** Mai fidarsi dei baristi babbani ***
Capitolo 3: *** Se provo riesco ***
Capitolo 4: *** Il miracolo dell'amore ***



Capitolo 1
*** A mali estremi, estremi rimedi. ***


Come a nessun’altro, non mi piace molto parlare del periodo di Tu-sai-chi.
Quando divenne chiaro che quel mago non si sarebbe fermato davanti a nulla io ero stato assunto all’ ufficio delle relazioni babbane da un paio d’anni e la mia babbanofilia era nota in tutto il mondo magico.
Immagino comprendiate molto bene la situazione.
Un Serpeverde, purosangue e babbanofilo non è per niente sicuro di quale sarà con esattezza il suo destino: da una parte i seguaci di Voi Sapete Chi e Colui Che Non Deve Essere Nominato in persona, folli ed efferati quanto bastava per farmi pagare cara la mia passione, dall’altra quelli del ministero e la resistenza che guardavano con sospetto e disgusto alle mie origini e alla mia carriera scolastica e ancora di più alla posizione neutrale e disinteressata della mia famiglia. E che comunque in quanto a follia non erano messi meglio.
 
All’inizio noi ci sentivamo al sicuro: credevamo fosse solo una moda passeggera, come quella di portarsi dietro un rospo o di allevare draghi domestici, sgradevole e insensata, forse, ma innocua.
Poi la gente cominciò a morire.
 
E anche il nostro passato divenne qualcosa di estremamente pericoloso.
 
Nella famiglia Tokai sono tutti maghi da tre generazioni, ma il nostro capostipite era stato un nato babbano, immigrato tempo prima dal Giappone.
La memoria delle nostre origini era ormai quasi del tutto scomparsa fino a quando io non la riportai alla luce. Sfogliando un vecchissimo album di fotografie, infatti, mi accorsi come alcune di esse non si muovessero affatto e ne rimasi affascinato: avevo sette anni allora e i racconti del mondo babbano e di mio nonno diventarono le mie storie della buonanotte preferite.
A mia nonna, nata babbana anche lei, piaceva molto raccontarle e le piaceva molto avermi come ascoltatore: non si lamentava mai delle mie domande e dava le risposte chiare e precise con la sua voce cantilenante.
Da piccolo costringevo i miei genitori a portarmi a giocare dove giocavano i bambini babbani  e ci trascinavo anche i miei fratelli.
Passò poco tempo e poi anche loro ne restarono affascinati.
Crescendo, io e i miei fratelli continuammo ad esplorare insieme questo mondo così lontano a sconosciuto guidati anche dai babbani che avevamo conosciuto d’estate.
Facevamo cose da ragazzi, anche se mi rendo conto che, allora, dovevamo sembrare ai nostri coetanei degli autentici idioti, privi come eravamo della conoscenza di alcune cose basilari come l’età giusta per bere, il modo migliore per rubare al negozio all’angolo e un sacco di altre informazioni fondamentali come nomi di cantanti e programmi televisivi.
Non che questo ci abbia mai fermato: estati migliori di quelle non ci sono più state.
All’inizio tutte quelle domande a cui non sapevamo rispondere ci avevano messo in imbarazzo, ma poi io e i miei fratelli avevamo unito le forze e nessuno ci aveva più preso in giro o sottovalutato, al contrario eravamo piuttosto benvoluti. Eravamo uno strano trio: quello silenzioso e introverso, quella saccente e responsabile e il curioso entusiasta.
 
Tutti indistintamente abbiamo studiato Babbanologia con un autentico interesse, tutti abbiamo mantenuto la passione e l’amore per quel mondo anche una volta cresciuti, ma quando la minaccia si concretizzò corremmo in fretta ai ripari.
 
I miei genitori non amavano né odiavano i babbani, come molti maghi purosangue li ritenevano strambi e li ignoravano, ma non erano d’accordo con i metodi dei mangiamorte; li temevano, ma non volevano schierarsi apertamente contro di loro e non sapevano quanto ancora la supposta purezza del loro sangue li avrebbe protetti.
Emigrarono in Giappone: ufficialmente per andare a trovare alcuni parenti, ufficiosamente se la diedero a gambe, per non essere usati come ostaggi, o peggio, quando le simpatie della famiglia sarebbero state chiare a tutti.
                                  
Noi i miei fratelli ed io, decidemmo di non seguirli: avevamo tutti un lavoro e non volevamo lasciare il nostro paese per via di un folle, confidavamo nel ministero e nella fortuna e così restammo a Londra.
 
Mio fratello Sai, un indicibile, trasfigurò, con suo immenso dispiacere la sua considerevole raccolta di libri della letteratura babbana in libri di cucina giapponese. Mise in giro la voce che un nostro lontano cugino li aveva spediti a lui nella speranza che potesse diffondere la nostra cultura agli inglesi. Al Ministero risero per una settimana: malgrado il nome non c’è nessuno di più inglese di mio fratello e la sua incapacità con filtri e pozioni e cucina in genere era leggendaria.
Per intenderci ha fatto esplodere un calderone provando a fare i Muffin alla maniera babbana la vigilia di Natale dei miei tredici anni: l’intera famiglia Tokai ha passato il Natale al S.Mungo con delle protuberanze viola e fastidiose su tutto il corpo.
Regalò quei libri alla biblioteca del ministero e, nel giro di un mese, anche i pochi che lo sapevano, avevano dimenticato che amava Shakespeare, anzi, sparse la voce con tanta cura, che ancora oggi al ministero è conosciuto da tutti come Mister Sushi.
 
A mia sorella non andò così bene: per lei vennero i Mangiamorte.
Non era mai stata una donna discreta e da alcuni anni decretava che l’integrazione tra medicina babbana e magica era l’unica scelta possibile e la più auspicabile. Non faceva mistero di seguire corsi all’università babbana e affermava con forza l’efficacia dei loro rimedi.
La aspettarono un giorno a casa sua: non credo di dover dire che cosa le fecero, queste cose sono tristemente note all’intera comunità magica.
Si salvò solo perché ebbe l’ardire di contraddirli e trovò persone abbastanza intelligenti da stare ad ascoltarla.
Decretò che la sua ricerca era strutturata per salvare i maghi: Quante malattie, quante maledizioni restavano incurabili anche usando la magia? Quanti maghi morivano ogni anno? Quanti ne sarebbero morti? La medicina babbana era per la gran parte dei casi arretrata, ma in mezzo a tutto quel letamaio poteva sicuramente esserci qualcosa di utile, anche solo la capacità di pensare in modo differente. I babbani sono stupidi, ma se grazie a loro si riesce a salvare la vita di un mago, perché non sfruttare la loro ingombrante presenza? Aggiunse che se l’avessero lasciata studiare avrebbe potuto trovare le prove dell’inferiorità dei babbani, avrebbe potuto evitare che nascessero maghi tra loro e maghinò tra noi.
La umiliarono senza pietà, ma la lasciarono in vita.
Non andò all’ospedale e si guarì da sola: per tutta la guerra si premurò di scrivere i suoi articoli scientifici sottolineando la superiorità magica sui babbani. Visse quel periodo in bilico tra il ricatto e l’approvazione, tra il diventare una mangiamorte e l’essere uccisa. Sopravvisse solo perché era una donna determinata e testarda, e il miglior medico mai vissuto in questo secolo. E grazie a queste qualità si salvò anche dai processi, alla fine della guerra.
I suoi aguzzini la obbligarono più volte a guarire qualcuno di loro e mia sorella non si tirò mai indietro: era un medico, diceva, il suo primo dovere era quello di guarire i malati.
Chiunque essi fossero.
 
Quanto a me… Io ero quello nella situazione peggiore.
Lavoravo alle relazioni babbane e la mia adorazione per i loro usi e costumi era nota in tutto il mondo magico e non intendevo nasconderla. Inoltre ero stato l’unico Serpeverde ad aver frequentato Babbanologia: già solo questo poteva essere considerato un affronto sufficiente.
Decisi di sparire quando fui aggredito da tre tipacci sulla via di casa.
Quando arrivò Malocchio mi disse che era strano che un idiota come me non fosse stato aggredito prima, e che, ora, mi rimanevano solo due scelte: o sparire o entrare negli Auror. Personalmente, mi disse, a lui avrebbe fatto più piacere la seconda ipotesi: un tizio con le mie convinzioni, che sembravano genuine, e le mie abilità gli sarebbe sicuramente stato utile.
Insomma ero sopravvissuto ad un agguato neutralizzando due aggressori su tre –“e ringrazia che sono arrivato io se no ti giocavi le chiappe ragazzo. Ora alzati in piedi che stai bene”-  senza riportare lesioni significative.
Si vedeva che avevo talento, ero sprecato alle relazioni babbane, soprattutto in un momento come quello. Anche se come furbizia lasciavo molto a desiderare - mi rendevo conto o no che Tu Sai Chi non scherzava su certi argomenti o ero del tutto idiota?-ma su quello ci si poteva lavorare.
Guardai Mody, le sue cicatrici, i suoi occhi cupi, considerai la sua paranoia e decisi di sparire.
Mi rifugiai, così nell’unico posto in cui potevo essere al sicuro: il mondo babbano.
Conoscevo quel mondo molto meglio di qualsiasi Mangiamorte e sapevo come non farmi notare e questo mi dava un indubitabile vantaggio.
Cambiai città, cambiai nome e mi risolsi a vivere come un babbano.
 
Speravo con tutto il cuore che i Mangiamorte mi considerassero solo un eccentrico e non un aperto oppositore, solo incredibilmente fortunato anziché temibile, se così non fosse stato, avrei avuto ancora meno possibilità di sfuggire alla loro vendetta e a quella del loro oscuro signore. Pregavo che il ministero considerasse la mia sparizione come una delle tante che avvenivano in quel periodo e non pensasse che mi fossi unito alle schiere dei Mangiamorte, Mody in questo avrebbe potuto essere d’aiuto, se avesse voluto.
Non avvertii nessuno della mia famiglia.
Avevo paura.
Per loro e per me.
 
Ebbi fortuna.
Non ho mai saputo se mi abbiano mai cercato o non siano mai riusciti ad intuire il mio nascondiglio, se avessero pensato che avessi raggiunto i miei genitori in Giappone o più semplicemente mi avessero dato per morto, fatto sta che nessuno mi trovò mai. 

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Capitolo 2
*** Mai fidarsi dei baristi babbani ***


Nonostante le mie conoscenze, non fu affatto facile abituarsi ad un mondo senza magia.
Vivere da babbano, infatti, si rivelò più difficile di quanto avessi mai pensato: sui libri che avevo letto molte cose non erano state né spiegate, né tantomeno menzionate; e anche se da ragazzo avevo frequentato quel mondo durante le vacanze estive, questo mi serviva a malapena ad orientarmi.
Che ne poteva sapere un ragazzino dell’affitto? Delle bollette? Delle qualifiche necessarie a trovarsi un lavoro? Di come cavolo funzionano un fornello a gas e una lavatrice? O del modo corretto di usare un ascensore?
E anche l’avessero saputo, non è il genere di cose di cui parlano i sedicenni: l’universo dei ragazzi è, ovviamente, lontano anni luce da quello degli adulti.
Io non avevo idea di come vestirmi, non avevo idea di dove abitare, non avevo idea di come trovare un lavoro e tantomeno di come potessi guadagnarmi da vivere.
I vestiti li trasfigurai copiando quelli di un passante e anche per la casa fu relativamente semplice: risolsi la questione con il classico espediente di entrare in un pub e chiedere dove potessi trovare un posto per dormire a buon mercato che non fosse un albergo.
Non mi piaceva molto l’idea di alloggiare in un albergo: quel genere di posto mi faceva sentire troppo in vista. Un po’ come se sulla mia testa ci fosse un’enorme insegna lampeggiante con su scritto: “ehi questo tizio non è del posto! Hai guardato bene? Sicuramente è un mago!” Inoltre chiunque avesse mai provato a cercarmi nel mondo babbano sarebbe partito dagli alberghi perché esistono anche nel mondo magico e sono molti di meno delle stanze in affitto.
Spiegai che ero appena arrivato in città, che ero in cerca di lavoro e non avevo molti soldi.
Dovetti entrare in parecchi pub, ma, alla fine, quando ormai ero vagamente ubriaco, un barista mi disse che aveva proprio quello che faceva al caso mio. Una sua conoscente, la signora Palm, brava donna, affittava alcune camere e il prezzo era basso, ma le stanze erano grandi e ben arredate. Me lo diceva solo perché gli sembravo un bravo ragazzo onesto, “perché io, non manderei mai un poco di buono da quella santa donna!” Sentenziò. Poi aggiunse, consegnandomi un enorme pasticcio di carne: “dì che ti manda Joe e portale questa da parte mia.”
La stanza era davvero ben arredata ed economica e sarebbe stata davvero spaziosa se non avessi dovuto condividerla con altre cinque persone. Si trovava alla fine di un vicolo sporco, in un palazzo che un tempo doveva essere stato sfarzoso, di un quartiere labirintico che aveva visto tempi migliori. L’impianto di riscaldamento era completamente guasto (e almeno in cinque si evitava di morire di freddo) e il gabinetto si trovava alla fine di un lungo corridoio ed era in condivisione con gli altri dieci inquilini.
La padrona mi disse che l’affitto si pagava ogni settimana e che voleva i soldi in anticipo, ma siccome mi mandava Joe potevo pagare Lunedì. Tra due giorni.
 
Avevo avuto un amico babbano, da ragazzo, che faceva le consegne in bicicletta per un negozio di alimentari, mi sembrava un bel lavoro: lui diceva che guadagnava tantissimo e a me sembrava divertente poter girare tutto il giorno per la città e parlare con la gente. Cercai un negozio e provai a propormi come fattorino, ma mi risero in faccia: “quello”, mi dissero, “è un lavoro che fanno i ragazzini, non certo gli adulti come te.”
“E cosa fanno gli adulti come me?” Ebbi il coraggio di chiedere nonostante l’imbarazzo. “Un intellettuale come te di sicuro lavora in qualche ufficio.”
“E dove lo trovo un ufficio?” chiesi ancora.
Il tizio in risposta, si limitò a mandarmi al diavolo.
Me ne tornai nella mia nuova casa più sconsolato che mai e senza avere nessuna idea di come pagare l’affitto alla signora Palm senza ingannarla con la magia, cosa che non avevo nessuna intenzione di fare.
In primo luogo perché mi stavo nascondendo e qualsiasi attività magica nel mondo babbano avrebbe attirato l’attenzione del ministero, in secondo luogo per una questione di correttezza: c’erano già i miei vecchi compagni di casa a disprezzare i babbani e a prendersi gioco di loro e io non volevo essere della partita. Essere un mago razzista e arrogante mi avrebbe facilitato la vita, non posso negarlo, ma non si passa l’adolescenza a difendere un principio e ad evitare gli attentati di alcuni dei propri compagni di casa per poi cambiare idea di colpo, una volta fuori pericolo.
Quando seppero che ero senza lavoro, i miei coinquilini si dimostrarono molto comprensivi e mi offrirono una pinta al bar. Quando mi dimostrai preoccupato per la rata, uno di loro, Scott, mi battè una pacca sulla spalla e mi disse di non preoccuparmi: in fabbrica da lui cercavano nuovi operai e se non ero troppo schizzinoso, lì, un posto lui me lo poteva trovare.
Ero piuttosto nervoso ed eccitato all’idea di cominciare un nuovo lavoro in una fabbrica babbana ed ero preoccupato perché non sapevo cosa avrei dovuto fare e nemmeno cos’era una fabbrica, se non a grandi linee.
Scott mi sorrise: ”Amico,” disse con un sorriso ferino, ”l’unica cosa che devi sapere di una fabbrica è che è un posto in cui i poveracci come noi possono fare un sacco di soldi se lavorano sodo. Quelli del sindacato potrebbero spiegarti alla perfezione cos’è e poi dirti che tu devi combattere per i tuoi diritti o stronzate simili, ma non farti infinocchiare e stagli lontano. Se fai quello che dicono ti ritrovi con la paga ridotta o in mezzo alla strada e con la testa piena di idee inutili.”
Non avevo idea di cosa fosse un sindacato e glielo dissi. Lui rise, annegandosi quasi con la sua birra, e rispose: ”meglio così, amico. Meglio così!”
In quanto a quello che dovevo saper fare, mi disse, prendendo lunghi sorsi dalla sua pinta, l’avrei imparato facendolo. Non era difficile, lui, che tanto intelligente non era, l’aveva imparato in una settimana e ora era tra i migliori. Avrebbe risparmiato ancora per un paio d’anni e poi si sarebbe sposato con Laura un’italiana rossa di capelli, il massimo del massimo per certe cose.
Nonostante le sue rassicurazioni cercai comunque di prepararmi un discorso di presentazione per cercare di fare buona impressione sul padrone della fabbrica, ma, grazie a Dio, il giorno dopo Scott mi fece aspettare fuori, parlò per un po’ con un tizio e tornò a prendermi.
Ero assunto, mi disse, aveva parlato con il caposquadra, potevo iniziare subito.
Così iniziai, ma fu un disastro. Non riuscivo proprio a capire dove dovevo mettere le mani: il rumore mi assordava, le macchine mi impaurivano e incuriosivano allo stesso tempo ed ero così concentrato ad osservarle che non mi concentravo su quello che dovevo fare.
Combinai parecchi disastri prima che mi licenziassero, una settimana dopo, e mi avrebbero decurtato la paga con vero piacere, se Scott non li avesse convinti a consegnarmela il mio primo giorno.
Alla fine di quell' eterna settimana di tribolazioni, in cui avevo rischiato più volte di perdere un arto e mi erano quasi scappati degli incantesimi involontari, tutti i miei coinquilini erano convinti che fossi il rampollo un po’ scemo di una ricca famiglia giapponese caduta in rovina. Era quello il motivo per cui non sapevo niente delle fabbriche, non ero in grado di fare un qualsiasi lavoro manuale e non sapevo quanti pence stavano in una sterlina.
Erano riusciti a far quadrare tutto e avevano inventato una storia niente male.
Secondo loro, la mia famiglia gestiva una società commerciale e quando era fallita mio padre si era si era suicidato per la vergogna e mia madre era morta di dolore subito dopo, io non avevo avuto il coraggio di uccidermi, ma ero scappato in Gran Bretagna perché non potevo sopportare di vivere nel disonore.
Per questo non raccontavo nulla della mia famiglia, avevo gli incubi e spesso uno sguardo cupo e pensieroso.
Ero così colto, pur non avendo un titolo di studio perché i miei genitori, quand’ero piccolo, mi avevano affidato a un tutore.
Ero destinato a trattare con gli stranieri, per questo conoscevo  bene l’inglese.
I riferimenti strani che a volte mi scappavano? Il Giappone è una terra lontana era normale che ci fosse qualcosa di strano.
Inoltre Scott ripeteva a tutti che dovevo essere sicuramente un samurai, o un ninja, perché una volta, in fabbrica, ero riuscito a togliere la mano da sotto una pressa un secondo prima che me la tranciasse ed ero rimasto calmo in una maniera inumana. “Cazzo chiunque avrebbe perso la mano là sotto o si si sarebbe cagato nei pantaloni per la paura, ma lui invece sta lì, fermo immobile, e ha pure il coraggio di chiedermi se IO sto bene!” Ripeteva questa frase ogni sera e, arrivato a questo punto, beveva un lungo sorso per riprendersi. Anche se la mia calma era dovuta ad ignoranza (che avevo rischiato di perdere una mano l’avevo scoperto dopo) e i miei riflessi agli anni passati a duellare per i corridoi di Hogwarts, lasciai che Scott continuasse a raccontare la sua storia e a mimare i miei disastrosi tentativi di lavorare in fabbrica: gli altri clienti del pub parevano apprezzarli parecchio e ci offrivano sempre qualcosa da bere.
Tutto ciò, comunque, non faceva affatto bene alla mia autostima, ma rafforzava quella assurda storia di samurai e suicidi che mi forniva un ottima copertura. Meglio che si spargesse la voce che in città c’era un nobile nipponico decaduto che un mezzo giapponese strambo.
 
Il barista che mi aveva trovato la casa, mi trovò anche il mio secondo lavoro.
Era un Martedì della seconda settimana dopo il mio licenziamento ed ero andato a bere al suo pub, per disperazione. Avevo già speso il poco denaro che avevo guadagnato e quello che mi ero portato dal mondo magico pensando di tenerlo per le emergenze.
Avevo pagato l’affitto e stavo morendo di fame.
Nessuno mi assumeva più in fabbrica perché si era sparsa la voce della mia inettitudine. I miei coinquilini mi credevano un samurai e continuavano a darmi consigli assurdi e a offrirmi da bere. Mi mancavano i miei fratelli e i miei amici, mi mancava la magia e avevo una gran voglia di lanciare uno schiantesimo contro Scott, il barista (non Joe, quello del posto dove mi portava Scott) e la signora Palm. Il primo non chiudeva mai il becco e non perdeva occasione di fare battute volgari, il secondo mi guardava storto e mi parlava lentamente come se fossi uno scemo, la terza mi adorava perché le pagavo l’affitto e non perdeva occasione per parlar male con me di tutti gli altri inquilini e la cosa era davvero insopportabile.
Il terrore per i Mangiamorte che non mi aveva mai abbandonato era aumentato e non mi faceva più dormire e, quando riuscivo assopirmi, facevo sogni assurdi in cui babbani in Frac mi inseguivano con frullini elettrici, parlando del sindacato degli elfi domestici.
Joe, il barista, mi riconobbe: avevo gli stessi vestiti, ma più sporchi, e l’aria distrutta, mi disse che gli dispiaceva vedermi così e mi chiese se avevo problemi con la signora Palm. Gli risposi che la padrona di casa era gentilissima e che non mi dava problemi perché le avevo pagato il dovuto. Disse che lo sapeva perché lei era una brava donna e io un ragazzo d’oro e che sicuramente era colpa di quei poco di buono che vivevano con me. Non si perdonava la situazione in cui mi aveva cacciato, ma meglio così che pensarmi sotto i ponti. Tra una birra e l’altra, -“offro io ragazzo, non ti preoccupare”- finii per spiegargli tutta la faccenda, omettendo la parte sulla magia, sui frullini elettrici e sui mangiamorte. Insomma gli dissi che avevo perso il lavoro, che ero bandito dalle fabbriche della città e che mi perseguitavano strane creature verdi che puliscono le case.
Era un uomo gentile e non fece assolutamente caso all’ultima parte del discorso.
 
Mi disse che forse poteva aiutarmi ancora: un suo amico aveva bisogno di un cameriere nel suo ristorante ed io sicuramente sarei stato molto meglio di tutti gli altri zotici che venivano nel suo bar.
Aggiunse che gli dispiaceva propormi un lavoro come quello perché si vedeva che io ero uno che a scuola ci era andato, non come quegli ubriaconi che a stento sapevano scrivere il prorpio nome, ma che poteva essere un inizio, -“giusto per pagare l’affitto eh!? Chè mi dispiace che la signora non riceva il giusto..”- e che poi potevo cercare qualcosa di più adatto a me.
Il suo amico avrebbe sicuramente capito la situazione e mi avrebbe anche aiutato. Perché? Perché si vedeva che ero un bravo ragazzo, uno colto, mica uno scemo, e che mi meritavo qualcosa di meglio.
E poi baristi e ristoratori le persone le capiscono al volo: fa parte del mestiere. Se non capisci in fretta chi è un attaccabrighe, ti ritrovi il bancone spaccato e una rissa nel locale, bottiglie rotte e cocci dappertutto.
Gli dovevo solo promettere di non dimenticarmi del vecchio Joe e di venire a farmi una birra da lui ogni tanto, una cosa tra amici, -“perché ora siamo amici, vero?”- anche quando sarei diventato ricco e famoso.
Intanto quella sera di birre ne avevo finite tre e, amici o non amici, me le fece pagare fino all’ultimo centesimo.

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Capitolo 3
*** Se provo riesco ***


Iniziai a lavorare per l’amico di Joè la sera stessa: servivo ai tavoli e prendevo le ordinazioni. Adoravo quel lavoro: quello che dovevo fare era comprensibile, chiaro, semplice, al contrario della fabbrica, e mi piaceva chiacchierare con la gente e ascoltare quello che aveva da dire.
Imparai a trattare con i clienti più difficili senza perdere la calma, ad inventare scuse credibili per gli errori del cuoco, a presentarmi ai tavoli al momento opportuno e trasportare più piatti contemporaneamente senza usare la magia. Gli altri camerieri mi insegnarono un paio di trucchi e diventammo amici: eravamo un nugolo di giovani guidati da un anziano caposala che ci faceva scattare tirannicamente da un capo all’altro del locale.
Il lavoro era bello, ma la paga era da fame, così provai a cercare quel qualcosa di meglio che Joè prognosticava per me.
Scoprii che non avevo alcun titolo di studio valido nel mondo babbano e che, perciò, le mie possibilità di trovare un lavoro d’ufficio si riducevano drasticamente: provai anche ad accennare al mio lavoro precedente, impiegato al Ministero, con il solo risultato di farmi ridere in faccia.
Continuai a lavorare al ristorante: non che avessi rinunciato a trovare qualcosa di meglio, ma il lavoro mi piaceva e me l’aveva trovato Joè così preferii adattarmi.
Poi mi cacciarono e al mio posto assunsero una ragazza molto carina e molto giovane, la nipote del proprietario, credo, che faceva più felici i clienti e non perdeva tempo in chiacchiere. Fu molto dispiaciuta quando le dissero di me e voleva quasi rinunciare al posto, ma io le portai dei fiori e riuscii a dissuaderla. Quel lavoro era suo, a me spettava, ormai, qualcosa di meglio.
 
Le voci di un mio licenziamento giravano da settimane e la colpa era dei miei presunti furti, su cui il proprietario aveva chiuso un occhio fino ad allora perché ero amico di Joè ed un bravo cameriere, ma che non poteva più ignorare. Soprattutto perché quando lui mi aveva invitato a darci un taglio io, non solo, non lo avevo ascoltato affatto, ma mi ero pure inventato una storia idiota di nobili e samurai. I giapponesi lui li conosceva bene ed io non ero uno di loro: si capiva dall’accento. Il mio, era sicuramente inglese.
La realtà era che erano i clienti a fregare me, approfittandosi della mia scarsa conoscenza monetaria ed io non me ne accorgevo affatto, cullato dalla speranza che i babbani fossero persone migliori dei maghi.
Non era così.
Comunque sia, prima che succedesse l’inevitabile ero riuscito a trovarmi un lavoro migliore e per una volta senza l’aiuto di nessuno.
Ovviamente, ero grato a Scott e a Joè per l’aiuto che mi avevano dato in quei mesi, ma ormai conoscevo abbastanza bene il mondo babbano da sapermela cavare senza il loro aiuto.
E intendevo dimostrarlo.
 
Attaccai bottone con un abituè del locale che sapevo gestire una ditta di costruzioni: gli serviva qualcuno che si occupasse dei conti e mi proposi io. Non avevo idea di cosa significasse, ma questa volta non mi feci fermare dai dettagli. Gli raccontai una storia commovente, gli assicurai che avrei lavorato sodo, gli spiegai che ero inglese, ma che avevo studiato in Giappone con mio zio per molti anni, gli ricordai che il senso del dovere è sacro da quelle parti e gli raccontai un altro paio d’ idiozie, continuando a sorridere e sperando che fossero credibili. Alla fine grazie all’aiuto di uno sconto cospicuo sul suo pranzo decise di assumermi. In prova.
 
Mi alzavo ogni mattina alle sei, resistevo alla tentazione di smaterializzarmi e mi avviavo a piedi verso il mio posto di lavoro. Avevo provato ad usare il trasporto pubblico, ma oltre a gravare sulle mie scarse finanze in maniera considerevole, era davvero qualcosa di troppo complicato per me. Ci misi mesi per capirne il funzionamento e quando finalmente lo capii, mi rimase sempre una diffidenza piuttosto marcata: nei confronti degli autobus perché i passeggeri continuavano ad insultarmi per motivi incomprensibili, nei confronti della metro perché mi incastravo nei tornelli e nei confronti dei taxi perchè tendevano ad investirmi. E poi non riuscivo a capire i soldi babbani: erano troppo piccoli e li perdevo, alcune monete mi affascinavano e non volevo darle via… Insomma ci mettevo una vita solo a comprare il biglietto e la gente tende ad essere piuttosto scortese, di mattina, con qualcuno che perde tempo maniera idiota e li fa arrivare tardi al lavoro.
 
Lavoravo l’intera giornata sbrogliando pratiche astruse e parlando con fornitori. Resistevo alla tentazione di incantare quei fogli in modo che mostrassero quello che tutti si aspettavano e mi arrabattavo sui calcoli e conti con carta, matita e penna. Niente di difficile, direte. È un lavoro ripetitivo, lo si impara in poco tempo, basta avere delle conoscenze matematiche di base. Ma provateci voi, dopo sette anni ad anni ad Hogwarts e una vita nel mondo magico, a capire come va usata una penna: continuavo a cercare l’inchiostro per intingerla e dopo un ora di inutili ricerche lo feci apparire. Vi lascio immaginare i commenti dei colleghi quando mi videro tutto soddisfatto intingere una penna in una boccetta d’inchiostro che non era mai stata lì e tracciare segni incerti su una carta troppo sottile.
Le macchine da scrivere mi insospettivano, quelle del caffè continuavano a rubarmi i soldi, il trillo del telefono mi faceva prendere ogni volta un colpo e quando gli chiesi come potevo farlo smettere e mi dissero “rispondi!” provai per dieci minuti a trillare anch’io. Furono dieci minuti veramente imbarazzanti che si conclusero con qualcuno che mi urlò di alzare la cornetta, io l’alzai e il suono cessò, poi però non sapevo che fare e così la riappoggiai al suo posto e soddisfatto continuai a lavorare. I colleghi risero così tanto che il capo dovette intervenire e spiegarmi con tono pericolosamente minaccioso come si usasse un telefono e aggiunse qualcosa come: ”ora la pianti di fare il cazzone e fai il tuo lavoro come si deve che qui non siamo in un parco divertimenti.” Dovevo ringraziare il buon cuore del padrone di avere un lavoro d’ufficio, lui a un idiota come me non avrebbe permesso neanche di pulire le scale.
 
Passavo lunghissime pause caffè a fare finta di sapere di cosa parlassero tutti, pranzavo facendo più o meno la stessa cosa e alle cinque tornavo nel mio appartamento sovraffollato e leggevo libri che potessero essermi d’aiuto in quel mondo estraneo.
O almeno lo feci fino a quando un mio coinquilino mi strappò dalle mani il mio saggio sulla società contemporanea e mi mise in mano una rivista. “Pensa un po’ a divertirti Tokai, che ‘sti mattoni non fan bene alla salute.” Aveva ragione: la rivista fu molto più utile.
Ripensandoci adesso, lasciare a casa il mio vecchio libro di babbanologia fu un errore gravissimo: poterlo leggere mi avrebbe reso la vita un po’ più facile.
 
 
 
Mc Duff, il mio datore di lavoro, aveva sicuramente buon cuore e sopportava le mie stranezze senza problemi: in parte perché era lui stesso strambo a modo suo, in parte perché quando riuscivo a usare la strumentazione babbana in modo corretto senza smontarla, romperla o fraintenderla ero il migliore con conti, calcoli e tabelle. Non mi avrebbe licenziato per nulla al mondo: un talento come il mio era raro da trovare, mi disse, e lui non ci avrebbe rinunciato solo perché alcuni dei miei colleghi mi definivano un idiota senza cervello. “La gente è strana Tokai, molti pensano che se i pesci mi fanno schifo devi smettere di pescare, ma a me piace farlo ragazzo, mi capisci?”
Non lo capivo affatto, ma annui e mi tenni il posto.
 
Anche se ero grato della fiducia che il mio datore di lavoro riponeva in me, purtroppo per lui, io non ce la facevo più e me ne sarei andato volentieri, se solo avessi saputo dove. Le figuracce che feci quando provai a usare gli oggetti dell’ufficio o a parlare del più del meno erano state epocali: tutti ormai mi avevano preso come lo scemo del villaggio e come tale mi trattavano.
Era insopportabile.
E la vecchia storia del nobile nipponico era servita solo ad aumentare le risa.
E più il disprezzo e la derisione salivano più io diventavo teso e più io parlavo in maniera forbita e dormivo di meno. Meno dormivo più facevo idiozie e così via in un circolo vizioso senza fine.
Portavo sempre la bacchetta con me, ma non l’usai mai, a volte, soprattutto i primi tempi, pensavo che sarebbe stato più semplice morire per mano di Tu Sai Chi o dei suoi pari piuttosto che sopportare tutto quello.
Anche Azkaban mi sembrava preferibile.
Non erano solo le incombenze quotidiane a pesarmi, ma anche l’inquietudine costante di non sapere cosa fosse successo a tutti i miei cari. L’assurdità di vivere in un mondo in pace, mentre il proprio bruciava, cullandosi nella falsa sicurezza di una tranquillità apparente dove nessun mago poteva raggiungermi. L’ipocrisia di nascondersi e sentirsi al sicuro e felice, mentre i miei amici e miei fratelli morivano.
Ancora qualche giorno e avrei dato di matto.
 
Fu in quel periodo che incontrai Agata.
Aveva avuto la mia stessa idea.

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Capitolo 4
*** Il miracolo dell'amore ***


Credo che lei si accorse subito di chi fossi: ero goffo, imbarazzante, visibile.
Agata era molto più discreta: nata babbana com’era quella era la sua seconda natura.
Ci incontrammo un giorno al caffè, dove lei faceva la cameriera e dove io andavo ogni domenica a fare colazione.
Iniziammo a parlare ci piacemmo, la invitai fuori, ci innamorammo.
Caliamo un velo pietoso sugli imbarazzanti appuntamenti a cui la invitai.
Diciamo solo che gli usi dei babbani non mi erano ancora del tutto chiari, come non lo erano le funzioni di alcuni loro oggetti.
Ad esempio non sono sapevo guidare una macchina e quando provai a farlo, su consiglio di Scott, per impressionarla, guidai con la soddisfazione e lo stile di una vecchia donna ubriaca e isterica. Al cinema andò un po’ meglio: visto che ci ero già andato, non mi stupii così tanto come la prima volta e riuscii a tenere il becco chiuso per tutta la proiezione. Oltre alla mia ignoranza generalizzata c’era anche il fatto che lei mi piaceva davvero: così mi agitavo e parlavo in modo forbito e senza senso per la metà del tempo. Insomma fu un miracolo che mi avesse mandato al diavolo il secondo giorno, anche se le cose sarebbero andate decisamente meglio se avessi smesso di seguire i consigli di Scott e Joè: mi ostinavo ad ascoltarli solo perché senza di loro mi sarei sentito ancora più perso.
Io e Agata ci rivelammo le nostre identità segrete una mattina di Giugno, la stessa in cui le chiesi di sposarmi: restammo insieme tutto il giorno a parlare sorpresi e felici di aver trovato un compatriota in terra straniera. Al nostro matrimonio ci furono pochissimi invitati: Joè e la signora Palm, Scott e sua moglie, alcune amiche di Agata e pochi altri, ma fu lo stesso il giorno più bello della mia vita. La moglie di Scott aveva cucinato un sacco di cibo italiano e continuava ad offrircelo, Joè aveva portato da bere, la signora Palm raccontava a chiunque volesse ascoltarla dei suoi problemi intestinali, Scott urlava ai quattro venti la storia del samurai, le amiche di Agata spettegolavano senza sosta sulla mancanza dei nostri genitori alla cerimonia.
I suoi genitori, babbani al cento per cento, avevano cambiato paese, lei li riusciva a sentirli al telefono una volta a settimana, ma non aveva nessuna intenzione di farli tornare in Regno Unito fino a che Tu Sai Chi non fosse morto.
Io invece non avevo più avuto notizie né dei miei genitori, né dei miei fratelli da quando ero entrato in clandestinità: mettersi in contatto con loro li avrebbe solo messi in pericolo e svelato la mia copertura.  In quel periodo, non ci si poteva fidare di nessuno.
Fatto sta che i miei non seppero proprio della cerimonia, i suoi invece si sarebbero catapultati in chiesa immediatamente se Agata non li avesse minacciati di regalagli un drago per Natale.
Si limitarono, così, a mandarci una lettera in cui sua madre si scusava della mancanza di educazione della figlia e sperava che i miei genitori non si offendessero troppo per questa mancanza di rispetto, mentre suo padre minacciava di farmi cose non troppo chiare con una torcia elettrica, se solo avessi osato fare avvicinare sua figlia a un drago. La madre continuava facendoci le sue congratulazioni e dicendosi convinta che io fossi l’uomo giusto per sua figlia.
Andammo a trovarli subito dopo le nozze per rassicurarli che la loro amata figlia era rimasta lontana dai draghi, che a casa andava tutto bene e che io ero una brava persona. Non andò tutto a rose e fiori, erano tipi davvero strambi, ma almeno suo padre si era dimenticato della faccenda della torcia elettrica.
 
Vivendo insieme tutto fu più facile: avevamo ancora paura, ma non eravamo più soli e ci sentivamo meno estranei. Agata soffriva molto il peso del nostro esilio forzato: era una strega abile e di talento, il mondo babbano le andava stretto e si sentiva umiliata e intrappolata in un luogo che ormai non le apparteneva più. Inoltre era una Grifondoro: si sentiva in colpa perché non stava combattendo.
Io, invece, in linea di massima, ero entusiasta: ogni giorno scoprivo qualcosa di nuovo e mi appassionavo alla vita di queste persone così strane eppure così simili a me sotto molti aspetti. Stavo vivendo il mio sogno di bambino, ma potevo farlo solo perché affianco a lei i miei incubi si affievolivano abbastanza da permettermi di vedere il lato positivo del mio esilio e perché sapeva spiegarmi come funzionassero certi aggeggi prima che potessi fare qualche figuraccia.
È stata lei ad insegnarmi, ad esempio, ad usare una lavatrice (la prima volta che l’ho fatto da solo ho allagato la casa e quasi ucciso il gatto della vicina), quanto valessero in Galeoni i soldi babbani e a guidare decentemente una macchina e una bicicletta (la bicicletta, mi diceva, è come una scopa, basta farci l’abitudine). E, miracolo dell’amore, si dimostrò un maestro di gran lunga migliore di Scott.
Mi convinse anche a mollare il lavoro e a trovarmene un altro prima di impazzire del tutto: divenni un venditore porta a porta di aspirapolvere e enciclopedie. Ero così entusiasta che riuscivo a vendere abbastanza da guadagnare di più di quando lavoravo in un ufficio. E poi incontravo tutti i giorni gente nuova, ci parlavo e giravo per la città avvicinandomi sempre di più al mondo babbano. Scott disse che ero un venditore nato e che non pensava che i giapponesi ci fossero portati, Joe che era ammirevole che io ritornassi ad occuparmi di commercio, soprattutto dopo il disastro finanziario della mia famiglia. Quando poi, un giorno, invitai entrambi per un thè scoppiarono a ridere e dissero che mi ero ambientato veramente bene.
 
Quando l’entusiasmo svaniva e il sogno ritornava ad essere cupa realtà, Agata era lì e sapevo che non se ne sarebbe andata: ogni giorno con il suo sorriso confermava l’esistenza di quel mondo magico a cui appartenevamo e che cominciava a sembrarmi sempre più irreale, man mano che passava il tempo.
Avevamo una casa solo per noi, ora, andavamo al cinema ogni domenica, risparmiavamo per un televisore: sembravamo a tutti una felice coppietta. Una volta al mese ci concedevamo una gita fuori porta: raggiungevamo un boschetto appena fuori dalla città e lì, dopo aver preso tutte le precauzioni possibili, lanciavamo tutti gli incantesimi che potevamo. Trasfiguravamo i sassi in strani gatti blu con ali da pipistrello, facevamo volare cucchiaini, animavamo il nostro cestino da pic-nic ci esercitavamo in incantesimi di difesa. A volte parlavamo per tutta la sera di un quadro della sala grande, delle stranezze del Cavillo, dei vecchi compagni di scuola, dei libri di testo, dei vecchi professori, dei nostri familiari la cui lontananza ci faceva soffrire.
 
Il giorno che vide la caduta di Tu sai chi fu meraviglioso: un uomo con una lunga veste blu cielo mi mise in mano un bicchiere di vino e mi invitò a festeggiare il magnifico giorno in cui il più grande mago oscuro era stato finalmente sconfitto. Rimasi attonito. Sei un babbano non capisci, ma questo è un giorno felice anche per te. Mi disse con più dolcezza il suo amico in verde. Tornai indietro di corsa, in lacrime.
Agata era già lì: anche lei aveva saputo.
Ci baciammo e ci stringemmo forte: l’esilio era finito.
Scrivemmo ai nostri genitori e quel giorno stesso la presentai ai miei fratelli.
Sai e Arabella erano a casa di lei, una bella villetta in campagna: i tavoli erano imbanditi, il vino era stato versato, conoscenti, parenti e amici riempivano il giardino, ma nonostante la gioia un aura di tristezza li avvolgeva tutti. Arabella era più stanca e provata, il volto segnato da rughe di preoccupazione, Sai molto più austero di quanto lo ricordassi teneva stretta la mano di un’asiatica con lunghi capelli di seta nera.
 
Credevano che fossi morto.
 
Il nostro arrivo fu una scena molto commovente: non riuscivano a credere ai loro occhi, non solo ero sopravvissuto, ma mi ero anche sposato e se non ero ancora diventato papà era solo perchè non mi impegnavo abbastanza. Adorarono Agata al primo sguardo, proprio come avevo fatto io e la riempirono di complimenti. Godetti profondamente del loro stupore, della gioia e dell’entusiasmo che ci dimostrarono.
Anch’io avevo temuto di averli persi per sempre: i secondi impiegati a materializzarmi in quel giardino erano stati i peggiori della mia vita.
Mi raccontarono di quello che era successo durante il mio lungo esilio: le difficoltà, i pericoli, le paure. Contammo i morti, festeggiammo i vivi, ci addolorammo per il destino dei Potter, piangemmo e ci ubriacammo, mangiammo e ridemmo.
Nel corso della notte, molti maghi vennero a farci visita e a festeggiare con noi: conoscenti, parenti, amici, sconosciuti, che importava? Eravamo liberi finalmente. Il peggio era passato.
 
 
 
Ancora una cosa.
Molti forse troveranno strano che nessuno della mia famiglia sia morto e giudicheranno le nostre scelte vigliacche ed egoiste, ma le nostre non furono scelte facili: rinnegammo noi stessi per sopravvivere e questo è così incredibilmente doloroso, che non potete neanche immaginare quanta forza di volontà ci voglia per farlo.
Sì, scegliemmo di non schierarci e di nasconderci, ma avevamo paura e non volevamo morire cosa che, date le nostre simpatie, era solo questione di tempo. Forse è vero, avremmo potuto combattere, unirci a Silente e tentare qualcosa, ma noi non siamo e non eravamo eroi e non saremmo mai potuti essere spie. Scegliemmo la fuga, l’inazione e questo e ciò che ha tenuto in vita noi e i nostri parenti. Perché diciamocelo, quante sono state le vendette, i ricatti, i tradimenti in quel periodo? E in quello immediatamente successivo? Quante persone vivono ancor oggi straziate da ricordi, rimorsi e incubi? Ma è inutile giustificarsi, io non rimpiango affatto di essere vivo e non rinnego le mie scelte, per quanto possano sembrare discutibili.



Scusate il ritardo. Udeis

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