Welcome to my nightmare.

di NightmareInsomnia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blood. ***
Capitolo 2: *** Music ***



Capitolo 1
*** Blood. ***




 

Blood.
 

 

Rainbow Sky Storm, terzo piano, appartamento tredici.
 
Rain ha uno strano rapporto col sangue.
Ricorda vagamente quando da piccola aveva il terrore per quel liquido rosso scuro e quasi si sentiva mancare le forze alla sola vista.
Ora Rain non ne ha più paura.
Non ha più paura quando la scia calda le scorre lungo il braccio, tracciando una linea irregolare che finisce per circondarlo, proprio come farebbe un prezioso braccialetto di rubini.
Non sviene quando vede le gocce cadere sul pavimento, in piastrelle bianche, del bagno. Lei ride, con tutte le forze che ha in corpo.
I suoi pensieri girano vorticosamente nella sua testa e nel suo breve momento di lucidità si chiede perché non si sia ancora puntata il coltello al petto invece che divertirsi sfiorando appena, con l’affilata lama, la pelle diafana.
L’arma cade quando le risate si fanno troppo forti, quando le immagini in bianco e nero nella sua testa girano decisamente troppo velocemente, quando la vista si fa appannata, quando il petto inizia a dolerle, quando il respiro si fa affannoso, quando le palpitazioni diventano percettibili e quando sul suo viso l’aria divertita viene completamente spazzata via da una di panico.
Come sempre crolla a terra. La mano destra sul cuore, quella sinistra appoggiata alla gelida piastrella macchiata di sangue. Un brivido di freddo le percorre la schiena facendola contorcere sotto il suo tocco leggero e delicato.
Sente di non farcela più. Sta per morire.
L’intero corpo è rannicchiato e scosso dai tremori.
Sta soffocando. Ne è sicura.
Due anni fa un ragazzo ha cercato di ucciderla premendole un cuscino sulla faccia lasciandola totalmente senza aria.
Non ricorda quasi niente di lui. Aveva i capelli scuri e un nome che assomigliava a Tony, o forse era Toby.
Sa soltanto di averlo conosciuto a scuola ma non di non averci mai parlato molto e dopo una festa di essere andata a casa sua. Niente di più. Le immagini nella sua testa non sono mai state chiare su quell’avvenimento.
La sensazione è però simile. Come sempre.
 
Non sa per certo quanto tempo sia passato, crede circa otto miseri minuti, ma si rende conto che a lei è sembrato interminabile.
Si sdraia con alcune ciocche dei suoi capelli scuri in bocca e altre sparse, annodate e disordinate, sulle spalle, lasciando che il suo respiro si regoli.
 
Sua madre le ha sempre ricordato quanto da piccola fosse disordinata, cosa che è tuttora. Ha semplicemente acquisito l’abitudine di pulire il sangue.
Come sempre è inginocchiata nel bagno con il disinfettante e lo straccio a pulire ogni singola gocciolina ormai secca.
Si alza tenendo stretta l’impugnatura del coltello da cucina per poi chiuderlo nel cassetto insieme alle posate.
 
Controlla velocemente l’orario e si accorge che la sua giornata è finita ormai da tempo visto che dovrebbe essere a letto per le nove, ma infondo, non lo è mai.
Si alza dal parquet liscio del corridoio sentendo l’intero corpo debole. Le ossa le fanno male, forse per la posizione scomoda in cui è stata per delle ore intere fissando la crepa della parete davanti ai suoi occhi.
Apre la porta bianca a destra ed entra nella stanza, la sua preferita.
Le mura sono dello stesso colore del sangue che le scorre nelle vene blu che può vedere attraverso la pelle magra del suo polso, il pavimento sporco di tempera nera e lo spazio occupato da tele, fogli, cavalletti.
Si inginocchia al centro iniziando a canticchiare una canzoncina. Forse solo inventata al momento, forse conosciuta da anni.
Gli occhi scorrono sul manico in legno chiaro del grande pennello, immerso nella tempera nera contenuta nel barattolo di latta, sporco di ogni tonalità di colori.
Lo afferra nella mano tremante e traccia una linea sul suo braccio nudo, mentre un brivido di freddo le percorre l’intera schiena, arrivando fino alla testa che piega di scatto all’indietro.
Si sente abbastanza soddisfatta da quel colore.
Il nero rappresenta una metà di lei. Il nero sono le sue preoccupazioni che troppo spesso le attanagliano il cuore, la sua malinconia infinita, le sue fobie ossessive che caratterizzano le sue azioni e i suoi, ormai poco lucidi, pensieri. Il nero è il colore delle voci e delle ombre.
Però lei non è del tutto nera. Lei ha bisogno di altro per finire la sua opera d’arte.
In realtà sa benissimo di star sbagliando a definire il nero un colore. Il nero non contiene alcun colore. Come la sua metà non contiene più niente di lei. Non la lei di adesso. Non questa, distrutta dalla follia, dalla droga, dai farmaci, dalla vita. La Rain che è stata. La Rainbow di un tempo.
Ormai neanche il suo nome vero, datogli dalla madre amante della pace, della natura e delle persone, è più adatto a lei.
Rain ha comunque bisogno di altro, e cosa c’è meglio del bianco?
Neanche il bianco è un colore ma li contiene. Tutti quanti.
Non può certamente dire che metà di lei è come il bianco, ma infondo contiene ancora delle leggere sfumature dei colori che una volta componevano l’immenso arcobaleno che la sua persona è stata.
Prende in mano l’altro pennello passando sull’altro braccio. Quello su cui poche ore prima aveva sfogato il suo nuovo essere.
La pelle già chiara assume un pallore maggiore, forte, intenso, candido come la neve. Ma il suo bianco non è come quello che scende in piccoli fiocchi nella fredda e rigida stagione invernale. È sporco. Sporco dalla sua pazzia, dalla sua risata insana, dai suoi strani momenti di piacere, dalla sua irrefrenabile voglia di sporcare quel soffice biancore da una scia liquida del colore che più la rappresenta. Perché quando il bianco incontra il nero, l’unica possibilità è la guerra. La guerra vera e propria, quella che commette stragi impensabili, quella capace di portare solo dolore e sofferenza e inutili spargimenti di sangue. Il suo sangue.
Ora è per metà nera e per metà bianca. Non c’è bisogno di colorare la parte del suo cuore di rosso. È come sottinteso, scritto all’interno di lei, e così dannatamente allettante.
Il suo sangue è allettante. Appetitoso per i demoni che le stanno divorando l’anima.
I suoi piedi traballano incerti sul pavimento, muovendosi come in una dolce danza. Non importa della mancanza di sincronizzazione, della stanchezza che quel gesto trasmette. Non importa del diavolo in persona che sta tirando le corde del suo burattino preferito a suo piacimento. Lei è ugualmente aggraziata. Come una piccola farfalla dai mille colori che dopo essere passata da fiore in fiore, è pronta per spiccare il volo con le sue fragili ali, temeraria, pronta ad affrontare le avventure che solo un cielo azzurro e limpido può donare a uno degli insetti più belli che esistano.
Peccato che i colori che porta sulla pelle la rendano ancora più scheletrica e mostruosa e le ali, forse troppo fragili per poter affrontare il grande volo che sarebbe la sua vita, sono scomparse. Forse si sono semplicemente nascoste convinte di non essere ancora pronte. O forse no. Forse sono andate distrutte. Ridotte in ceneri gettate sulla defunta lei. La bellissima lei del passato.
Fatto sta che Rain non sta affatto volando. È crollata, per terra, sdraiata su una tela sporca dai più disparati colori.
Canta. Canta sussurrando una vecchia melodia di cui è impossibile riconoscere le parole. Deve essere una di quelle canzoni che la madre, quando era piccola, le intonava all’orecchio se faceva fatica ad addormentarsi. E come sempre fa effetto, perché sì, le palpebre di Rain si abbassano fino a chiudersi completamente, con la bocca ancora socchiusa. Il sonno ha finalmente deciso di prendersela con sé, avvolgendo il suo minuto corpo in una coperta leggera, filata con la stessa sostanza dei sogni più dolci e degli incubi più oscuri.
 
La donna più bella del mondo è lì, di fronte a lei.
Avrà sulla quarantina d’anni ma il viso ancora giovane e dolce e le poche rughe le danno più che altro un’aria saggia e matura.
È seduta su una vecchia poltrona rosa, il vestito nero spiegazzato, le mani in grembo e il sorriso a renderla ancora più unica, più speciale.
La giovane sa bene cosa non deve fare ma lei non può non cadere in tentazione.
Rain ha sempre amato gli occhi di sua madre, di un azzurro così diverso dal colore dei suoi. Così limpidi, sinceri, bonari, veri. Perché quegli occhi non sono due semplici occhi. Sono distese di mare immerse nel più bello degli incantesimi.
E la ragazza è fin troppo attratta da quell’incantesimo.
Non può farcela. È troppo debole.
Punta le sue iridi in quelle della donna tanto amata e allora sa che non sopravvivrà nemmeno a questo.
«È solo colpa tua.»
Infondo è una semplice frase, corta e sintetica, quella che è uscita dalle labbra piene e rosee di quella che sembra essere la statua rappresentante afrodite.
Una semplice frase che la trafigge come la più appuntita e affilata delle lame. E lo sente questa volta il dolore. La sente la pelle aprirsi facendo fuoriuscire quello che durante tutta la giornata è rimasto dentro di lei.
Ombre nere, fatte di ceneri scure, che volano nella stanza senza una meta, semplicemente girando in cerchio con l’unico scopo di oscurare la luce proveniente dalla lampada da comodino di quella che sembra una stanza da letto.
Figure conosciute, uccise e bruciate da lei stessa, tornate per perseguitarla fino alla sua morte e forse anche oltre. Uccise e dimenticate, perché no, lei non ha la minima idea di chi siano. O forse ciò che rimane della vecchia lei lo sa ma è troppo debole per far venir fuori i suoi pensieri.
Rain cade, come sempre. Distrutta dalle sue parole, dai suoi gesti, dal suo passato. Sente la sofferenza squarciarle a metà il povero cuore ormai distrutto, ormai bisognoso di amore. Amore che la mora ha già provato sulla sua pelle e dentro la sua anima. Un amore che lei stessa ha distrutto sugli ordini dei suoi demoni.
Vuole morire. Si chiede come sia possibile essere sopravvissuta a così tanto. Non è umanamente possibile. Si chiede se forse dovrebbe essere lei stessa a strapparsi la vita, tutta di un colpo, come si farebbe con un cerotto.
O forse Rain vuole soffrire. Lei non ricorda perché ora è così. Sa soltanto che ogni notte la madre le ricorda che è tutta colpa sua. Questo basta. Basta per imporre a se stessa di rimanere, per pagarla. Perché no, lei non si capacita di aver fatto qualcosa a quella bellissima donna e pensa davvero di meritare tutto questo.
Un urlo squarcia l’aria. Quell’urlo è suo. Si copre le orecchie, tremante, rannicchiata sul pavimento in legno, rigato dai mobili spostati e dalle scarpe coi tacchi, mentre oscilla avanti e indietro, come per cullarsi. Ma non le sente le braccia della madre che la avvolgono, né la sua voce rassicurante che canticchia la solita ninna nanna al suo orecchio, dolcemente, come se la sua bambina fosse una delicata bambola di porcellana, non un mostro.
Rain sente solo l’eco del suo urlo perforarle ugualmente i timpani.
La donna si alza, lentamente, soave, per poi camminare a piccoli e leggeri passi verso di lei, scalza su quella superficie così fredda e poco rassicurante.
Rain è sorpresa, in nessun incubo l’aveva mai fatto. Si chiede se forse si stia per trasformare in un dolce sogno, ma si sbaglia.
La madre si inginocchia ai suoi piedi. Le prende le mani e le sposta dalle sue orecchie fino ad avvicinare la bocca rossa per sussurrarle qualcosa, come quando era piccola.
La mora non può far a meno di rabbrividire al contatto con la sua pelle ma cerca di non farci caso, concentrandosi sulle parole che sta per dire.
«Ti meriti tutto questo.»
Le parole spietate venute dalla stessa persona che una volta aveva solo frasi dolci per lei, sono la goccia che fanno traboccare il vaso.
Tutto ciò che prima è riuscita distinguere come una delle camere della sua vecchia casa, nonostante l’oscurità, sparisce nel nulla lasciando spazio solo all’oscurità.
Rain si sente risucchiata, come se fosse al centro di un buco nero, verso il basso e si lascia trasportare mentre con tutto il fiato che ha in gola urla. Il dolore alla testa la sta annientando e le lacrime cadono dagli occhi chiusi senza volersi fermare.
Sta pregando che tutto finisca. E con tutto intende la sua vita.
 
Svegliarsi per lei non è stato mai così rassicurante. Ora si sente al sicuro fra quelle quattro mura vuote dall’affetto e dall’amore che qualunque casa dovrebbe avere.
Appoggia le mani dietro alla schiena buttando indietro la testa facendo uscire tutti i suoi pensieri. Si sente bene in questi momenti. Quelli in cui ha la mente completamente libera. Nessuna ombra, nessuna voce, nessun demone, nessun ricordo.
Quando è pronta per affrontare un’altra giornata con se stessa si alza camminando con i piedi nudi sulle macchie di colore e si dirige in bagno con l’intento di grattarsi il colore secco dalla pelle.
Riempie la vasca con l’acqua gelata per poi immergersi dentro.
Le si accappona la pelle ma le piace quella sensazione. Le piace il gelo a contatto con la cute. Ormai le è rimasto solo quello e il caldo le ricorda troppo la presa materna.
Non ha idea delle ore che passa lì dentro. Il tempo è scandito solo dai tasti di un pianoforte il cui suono arriva ovattato alle sue orecchie. Conosce le dita che lo stanno suonando. Appartengono al musicista.
Rain non l’ha mai visto di persona ma conosce la sua musica. Sembra non poterne fare a meno. Proprio come lei non può fare a meno del suo sangue.
Decide di essere stata a mollo abbastanza e, prendendo una spugna gialla, inizia a grattare via il colore dalle sue braccia e dalle punte dei capelli.
Quando ha finito, si immerge completamente chiudendo gli occhi.
Ora Rain sta annegando.
Rain però non sta annegando nell’acqua. Sta annegando nei pensieri che sembrano essere tornati tutti insieme, pronti per distruggerla l’ennesima volta.
 
«Quindi vuoi suicidarti?»
Rain sta giocando con delle biglie che una volta dovevano essere trasparenti ma che ora sono sporche di vernice.
Non può fare a meno che annuire distrattamente alla domanda di Lucy, mentre è in realtà occupata a far roteare le piccole biglie sul pavimento sporco, inginocchiata sulle ginocchia con il tessuto dei jeans scuri che le graffia le gambe.
«Non puoi.» afferma tranquillamente la bionda buttando il busto, prima piegato per avvicinarsi alla mora, indietro mentre un ampio sorriso le solca le labbra.
La giovane si blocca, facendo cadere le biglie e alzando la testa di scatto verso l’altra.
Si è finalmente decisa di farla finita una volta per tutte, perché non può farlo?
«Non puoi.» ribadisce severa Lucy notando lo sguardo di Rain.
Non c’è un perché. L’ossessione di Rain per il suicidio deve rimanere tale, non diventare realtà.
Ma che può fare una povera anima in pena a cui non è concesso né vivere né morire?
Solo lasciare che tutte le passa addosso senza poter alzare un dito.
Lucy sparisce nel nulla, come tutti i suoi amici, lasciandole solo una lista di domande in testa.
Vuole divertirsi e sa perfettamente come farlo.
 
Questa volta non pulisce il sangue. Vuole rimanga lì come la testimonianza della sua presenza, della sua sofferenza nel vivere.
Čajkovskij si fa largo nelle orecchie e non può fare a meno che collegarlo all’abitante dell’appartamento diciotto.
È incuriosita dal musicista.
Si chiede se suoni per professione o per diletto, se è giovane oppure anziano, se è felice o triste quanto lei.
 
«Saresti veramente carina se ti curassi di più.»
Rain è abbastanza sicura di non sentire le dita grassocce di Todd mentre le accarezza i capelli. Solo dei brividi.
Alla giovane non interessa farsi bella. Non si è mai preoccupata di pettinarsi i capelli, di truccare gli occhi, di smaltare le unghie, di abbinare i vestiti. È già tanto se si ricorda di curare il minimo della sua igiene personale.
«Nessuno mi vede.» si limita a dire.
«Invece sì. Fra poco tu sarai lì fuori, tutta sola contro l’intero mondo.» gli sussurra all’orecchio ridacchiando il rosso.
«Loro non mi vedranno lo stesso. Loro non mi conoscono. Loro potranno vedere soltanto una figura camminare per la città. Non potranno mai vedere me.»
La mora si alza dal pavimento aiutandosi con le braccia, mentre gli occhi sono ancora puntati nel vuoto e la testa assorta nei suoi pensieri disconnessi.
 
Il sorriso fin troppo ampio di Molly la accoglie appena varcata la soglia del piccolo e quasi claustrofobico locale come ormai da rito da un anno.
«Cosa prendi, dolcezza?» le chiede con la voce troppo acuta provocandole una fitta alla testa.
Rain alza lo sguardo accigliato squadrando la cameriera che l’ha presa in simpatia, nonostante il sentimento non sia certamente ricambiato.
I capelli tinti di biondo svolazzano sulle sue spalle quando inclina la testa facendo schioccare le labbra ricoperte da un bel lucidalabbra color pesca, mentre sembra che con il tacco delle sue lucide scarpe rosa tenga il tempo.
«Il mio solito cappuccino, grazie.» lo dice quasi con un tono aspro, snob.
Quel grazie sembra veramente ironico, anche se la sua coetanea certamente non coglie quell’espressione che vuole sottolineare la superiorità della ragazza che siede proprio davanti a lei.
Superiorità di cui lei non si accorge. Lei che nonostante segue la moda ed è sempre truccata come una modella non è la classica ragazza oca e senza cervello.
Forse è solo un po’ stupida e poco matura, tutto qui.
Certamente non è cattiva e quella ragazza che la tratta spesso male e non la considera nemmeno, è la persona che più si avvicina alla definizione di “amica” che ha.
 
Le borse della spesa le pesano e i manici in plastica tagliano la pelle dei palmi della sua mano.
Uno, due, tre…
Rain sa che per arrivare a casa sua deve fare esattamente settantadue scalini. Scalini in metallo sporco, ormai chiazzati di ruggine, con i sassolini incastrati fra i fori.
Non le sono mai piaciute quelle scale. Sembrano così instabili, quasi quanto lei.
Non ce la fa più, la schiena le duole troppo e le mani sono completamente arrossate e spellate.
Appoggia con poca grazia le borse e alza lo sguardo verso l’alto, fin quando non li vede.
I due occhi celesti di quello che immagina sia il musicista che abita proprio sopra di lei la stanno fissando e lei si sente a disagio, come se con quello sguardo, un perfetto sconosciuto, sia riuscito a vedere la sua anima.

 




Welcome...
Ho sempre perso un mucchio di parole in questo spazio raccontando per filo e per segno ciò che succede nella storia ma, se siete arrivati fin qua, lo trovo un po' inutile visto che avete già avuto il modo di leggere.
Quindi la farò breve.
Ho deciso di pubblicare questo capitolo nonostante le mie perplessità e vi sarei veramente grata se poteste darmi il vostro parere. I crediti per il banner fantastico vanno tutti a Danila_s. Nel caso non ci fosse il collegamento scusatemi, lo inserisco al prossimo capitolo.
Detto questo, se volete contattarmi:

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Grazie per l'attenzione e, almeno spero, a presto.

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Capitolo 2
*** Music ***




 

Music.
 

 

 Niall James Horan, quarto piano, appartamento diciotto.

Niall odia la gente.
Le persone in fondo sono solo infide creature.
Parlano di amore, amicizia, gentilezza, importanza della vita, rispetto, ma poi sono sempre pronte a ferirti, a pugnalarti alle spalle, a ucciderti.
Non è importante se con le parole o con un’arma. Saranno sempre disposte a lacerarti la pelle, a strapparti il cuore dal petto, a stringerlo fra le mani ancora pulsante, come se appartenesse a loro, pronte a chiuderlo in una scatola egoisticamente facendo in modo che tu appartenga a loro oppure a sotterrarlo, mettendo così fine a ogni tua speranza di vita.
Si chiede come fa una ragazza a essere convinta che il proprio fidanzato la ami quando in realtà e solo un deficiente che ha solo bisogno di sfogare la tensione sessuale.
Si chiede come si faccia ad avere un migliore amico se poi proprio in quella persona, in cui si pone la massima fiducia, si scopre per la prima volta il dolore del tradimento.
Come si fa ad accettare un estraneo che entra nella propria vita senza chiedere il permesso?
Per Niall è impossibile.
E neanche lui capisce tutti i suoi ragionamenti.
Infondo è anche lui umano, quindi dovrebbe odiarsi.
Infondo chiunque è un estraneo.
Per questo non accetta nessuno.
Non accetta il padre ricco sfondato.
Non accetta la madre nullafacente.
Non accetta il fratello che ha messo su famiglia.
Non accetta la sua vecchia ragazza della quale quasi non ricorda il nome.
Non accetta i suoi vecchi amici che all’apparenza avevano reso la sua adolescenza fantastica.
Non accetta la piccola bambina che viveva al piano di sopra con la proprio mamma e che si divertiva a correre per le scale disturbandolo.
Non accetta il vecchio che silenzioso si fuma la sua sigaretta dal balcone a fianco al suo.
Non accetta se stesso per essere nato.
L’unica cosa che veramente accetta è la musica.
La sua amata, la sua fedele compagna di vita, la sua migliore amica.
Note su note e allora la testa parte alla ricerca di se stessi, delle proprie emozioni e dei propri sentimenti. Alla ricerca dell’ignoto. Un ignoto dolce, travolgente.
La musica per lui è tutto.
 
«Cara, è solo uno spreco di tempo e di soldi.» la voce veniva dal salone.
«Forse hai ragione ma dovrà pur far qualcosa, non credi?» strillò felice quella che riconobbe come la madre.
«Fai quello che vuoi, basta che non diventi un cosiddetto “artista” pieno di morale e altra roba totalmente inutile.» Rispose la voce roca di prima che allora identificò come quella paterna.
«Ma figurati, è solo un bambino.»
Niall scese lentamente le scale intagliate nel legno su cui era rimasto seduto per minuti interi origliando i discorsi dei genitori.
Amava il brivido freddo che dai piccoli piedi nudi di bambino saliva e gli attraversava la schiena quando camminava sul parquet pregiato. Si sentiva libero.
Timidamente si appoggiò alla ringhiera lasciando che uno sbadiglio uscisse dalla sua bocca, interrompendo così il silenzio e facendo finalmente voltare i genitori verso di lui.
«Niall!» esclamò la voce squillante della madre «perché non sei ancora a letto?»
«Volevo il bacio della buonanotte.» Rispose goffamente il bambino dalle guance chiazzate di rosso per l’imbarazzo che provava nel guardare in viso la madre.
«Hai cinque anni, Niall. Puoi benissimo andare a letto senza una di queste smancerie» rispose duro il padre.
Il piccolo dai capelli castani e gli occhi che sembravano due pozze d’acqua, si sentì andare a fuoco.
La vergogna per essere passato per un bambino mammone lo fece agitare.
La bella donna dai capelli tinti di rosso fulminò con uno sguardo il marito, facendogli capire che sarebbe stato molto meglio se lui non parlasse quando si trattava dei figli.
«Hai ragione amore, ti porto subito a letto. Solo prima vorrei farti vedere una cosa.»
Niall si alzò e afferrò la mano che la madre gli stava porgendo e si fece guidare su per le scale, fino a una delle tante stanze che fino a quel momento erano rimaste chiuse a chiave.
«Ecco… avrei voluto tenerlo come regalo di compleanno, ma davvero non ce la faccio ad aspettare.» sorrise sincera mentre abbassava la maniglia.
Quando la porta si spalancò, si ritrovò davanti un pianoforte a coda laccato nero.
Quello era l’inizio della sua vera vita.
 
Il biondo sta sorseggiando un succo di frutta.
Il viso è bianco, smunto. Le occhiaie scure ed enormi.
È stanco per aver suonato tutta la notte.
 
«Nonna, nonna!» esclamò il piccolo Niall correndo giù per le scale «che ci fai qui»?
La signora dai capelli tinti di biondo che teneva legati, prese il bambino in braccio, baciandolo.
Amava suo nipote.
«Tua madre mi ha detto che adesso hai un pianoforte e non ho certo perso occasione per suonare e per rompere un po’ le palle a quella lagna di tuo padre» sorrise.
Niall soffocò una risata. La nonna era certamente la persona più simpatica che conoscesse.
La sua migliore amica.
Salirono insieme fino a quella che da lì a poco sarebbe diventata la stanza preferita del bambino e dove la cara e anziana signora impartì le prime lezioni a suo nipote.
 
La figura della nonna nel suo stretto abitino giallo canarino si fece vivida nella mente di Niall mentre si lasciava cadere esausto sul letto.
Forse lei era stata l’unica persona che non disdegnava.
Sempre buona con lui.
Quando se n’era andata Niall non riusciva a crederci.
Non poteva credere che la sua unica amica l’avesse lasciato solo.
Dopo quel pianoforte lei era diventata speciale.
Passavano quasi tutti i pomeriggi chiusi in quella stanza e fu lei a farlo innamorare.
Innamorare della musica.
 
«Caspiterina Nialler, sei bravissimo» lo elogiò in un pomeriggio di autunno dei suoi sei anni.
Niall arrossì lievemente per il complimento ma poi rispose lasciandola meravigliata con un «No nonna. Non sono io a essere bravo. È la musica a essere stata brava a catturarmi. Tu sei brava»
La donna sospirò sorridendo tristemente.
«No, sono stata anch’io catturata. Da un ragazzo.»
Gli occhi verdi, da chiari prati, si trasformarono in scure gemme e il castano non poté far a meno di osservarla curiosa.
«Che ragazzo?»
«Ah, un uomo di altri tempi. Lui si che sapeva farci con questo» disse mentre indicava con un cenno della testa il piano talmente lucido che rifletteva perfettamente le loro figure.
«È stato lui a…»
«Sì. Mi ha insegnato lui a suonare.» Lo interruppe distogliendo lo sguardo dalla finestra che fino a pochi minuti prima doveva esserle sembrata interessante.
A Niall non piaceva il tono triste e malinconico della nonna.
«Era bello?» chiese innocentemente Niall.
La donna ridacchiò facendo scoppiare il cuore di gioia al nipote.
Gli si avvicinò e gli scompigliò i capelli mentre lui contorceva il viso in una smorfia infastidita.
«Certo, era bellissimo.»
«Come il nonno?» chiese innocentemente.
«No, molto di più.» Si sistemò la gonna del vestito «In tutti i sensi.»
«I capelli com’erano?»
«Biondi. Aveva anche qualche riflesso più scuro»
«E gli occhi?»
Niall voleva sapere tutto su quell’uomo che sembrava aver affascinato la nonna e soprattutto grazie a cui era riuscito ad affacciarsi alla musica.
«Azzurri. Esattamente come i tuoi. Anzi, anche se sei piccolo, gli assomigli tantissimo non solo per gli occhi. Sembrate due gocce d’acqua.»
 
Suonare, suonare, suonare.
Era questo che Niall Horan sapeva fare e lo faceva al meglio.
Niente soldi, niente fama.
Solo un modo per liberare la sua anima da quel corpo mortale.
Perché Niall è avvolto da una coperta blu come la notte, ma nel suo cuore la notte la vive.
 
«Lo amavi? Come io amo Betty?» chiese sempre con la sua voce da bambino ingenuo, quale non era, una mattina gelata di Dicembre dei suoi sette anni.
La donna sospirò passando una mano fra i capelli per poi portarla nella tasca del suo maglione di lana nero e morbido.
«Sì, lo amavo. Ma non come ami Betty.»
«E come allora?»
«Come un fiore ama l’ape che si nutre del suo polline. Come una candela ama la fiamma che scioglie la sua cera. Come una pietra ama l’acqua che scolpisce la sua superfice trasformandola e levigandola a suo piacimento.»
«Quindi stai dicendo che lui si nutriva della tua linfa vitale?»
La donna non credeva a quanto suo nipote potesse essere intelligente.
«Da dire così è brutto. Lui mi aveva semplicemente rubato l’anima.»
 
E anche ora, il ragazzo dagli occhi di ghiaccio, era geloso di quell’uomo che la nonna aveva tanto amato.
L’uomo che aveva rubato l’anima all’unica umana degna di vivere.
 
«Tu dici sempre che lui ti ha rubato e poi spezzato il cuore. Perché lo ami ancora? È cattivo.»
«L’uomo è cattivo. Se non è un uomo a farti del male volontariamente c’è sempre dietro un altro uomo.»
 
E quel Niall di soli sette anni quella frase non l’aveva capita e non aveva nemmeno capito come potesse rispondere alla sua domanda.
Ci aveva messo del tempo a realizzare.
 
«Auguri Niall!» aveva esultato urlando la madre alla sua entrata in cucina per la colazione del giorno del suo ottavo compleanno.
Il padre sbuffò infastidito dalla voce squillante della moglie sempre sorridente e riportò gli occhi sul suo giornale.
«Questo è per te» disse eccitata consegnandogli un enorme pacco triangolare, incartato da una vivace carta rosso fuoco.
Il bambino si sedette a terra e dentro, protetta da uno spesso cartone, trovò la sua prima chitarra.
 
Un altro strumento per lui di vitale importanza.
Una era proprio lì al suo fianco, appoggiata al muro della sua camera da letto.
 
Quando, nell’estate dei suoi dodici anni, dovette dare l’estremo saluto alla sua insegnante di musica e di vita, tutto cambiò.
Ricorda che fu l’ultima volta in cui versò delle lacrime.
 
«Oddio Niall, che hai fatto ai capelli?»
 
Questa era stata la domanda con cui ogni persona che lo conoscesse lo assillò il giorno del suo tredicesimo compleanno.
Pochi mesi dopo la morte della nonna, in un tredici settembre ormai lontano, si era ritrovato da un parrucchiere.
Nessun taglio particolare. Non aveva rasato a zero i capelli, non li aveva alzati in una corta cresta.
Li aveva colorati.
Quando uscì dal negozio, Niall Horan, aveva i capelli biondi.
E in tutto questo c’entrava lui, l’uomo di cui la nonna non aveva mai fatto il nome, l’uomo che aveva capito essere il suo vero nonno, l’uomo di cui era geloso.
Era geloso perché sua nonna l’aveva amato.
Lei, l’unica anima buona, aveva amato suo nonno e non lui.
Assomigliargli era tutto quello che voleva.
 
«Dai Horan, datti una mossa» un urlo.
Questa volta nessuna voce squillante e nessun caschetto rosso fuoco. Solo un ragazzino alto come lui, un ciuffo ribelle nero e una bici verde.
«Arrivo Dan!» lo raggiunse pedalando sulla sua bicicletta rossa.
L’estate dei suoi quattordici anni è stata la prima vera esperienza di vita con altri umani.
Non aveva mai avuto amici. Solo qualche compagno di banco a scuola con cui scambiava gli appunti di matematica.
Per qualche strana ragione invece divenne popolare.
Si ritrovò invitato a tutte le feste di compleanno, Betty gli aveva dato il suo numero di telefono, faceva parte della squadra di Rugby della scuola, le ragazze della sua età avrebbero fatto di tutto per uscire con lui e tutto questo lo rendeva immensamente felice.
 
Ribrezzo.
Niall Horan, venticinquenne diplomato da tempo, non può fare a meno di provare ribrezzo per il se stesso del passato.
Si chiede come fosse riuscito a cascare nella trappola che la gente che gli stava intorno gli aveva teso.
Magari i suoi ricordi si fermassero a un pomeriggio.
 
«Niall» aveva sussurrato Betty al suo orecchio in una notte d’inverno.
Solo loro seduti sull’erba fresca, reduci da una serata di festa.
Il biondo aveva borbottato qualcosa di non molto chiaro che la stessa rossa non aveva capito.
Troppo ubriaco e troppo fatto. Questo era lui ogni sabato sera a soli quindici anni.
«Niall, tu mi piaci.» Aveva ancora soffiato piano lei al suo orecchio.
Il ragazzo aveva voltato la testa di scatto, procurandosi una grande fitta alla testa che però non sembrò averlo distratto da quelle parole.
 
Il biondo forse ricorda ancora qualcosa di quella ragazza ma non vuole che i suoi pensieri si concentrino su di lei. L’unica cosa che non è mai riuscito a fare uscire fuori dalla sua testa sono i suoi capelli color rame luminosi. Bellissimi.
Si mette seduto, prende la chitarra e la appoggia sulle ginocchia, iniziando a suonare qualcosa. Una canzone di quelle che si strimpellano intorno a un fuoco sulla spiaggia alla fine dell’estate.
 
Lo scoppiettio di un falò. Il rumore delle onde che si tagliano sulla sponda. Il calore del fuoco. Le canzoni stonate. Le bottiglie di birra e le sigarette. Una chioma rossa.
Una delle più belle estati della sua vita. No, la più bella.
Lo schioccare dei baci, i gemiti, il gelo della notte e il calore dei loro corpi uniti.
Quella notte d’estate lui aveva amato Betty.
 
Cantare, cantare, cantare.
È quello che vuole fare in questo momento. Cantare come se non ci fosse un domani, ma purtroppo un domani c’è.
Smette di colpo di suonare la sua chitarra e nello stesso istante serra la bocca. Nessuna parola sfugge al suo controllo.
Si alza di scatto in preda alla follia caratteristica dell’odio e si dirige in bagno.
Vuole farsi una doccia non per riflettere o rilassarsi.
Vuole solo sentire il ghiaccio avvolgergli interamente il corpo.
 
«Vaffanculo Betty, vaffanculo! Sei solo una puttanella!» urlò digrignando i denti e lasciando la casa della sua ragazza che però l’aveva seguito per strada.
«Non permetterti Niall!» strillò quella. Il biondo storse il naso cogliendo la somiglianza con la voce di sua madre.
«Non dovrei permettermi? Quindi mi stai dicendo che non stavi facendo niente con Dan? Che mi sono immaginato io tutto? Che tu non sei mezza nuda?»
Si voltò verso di lei. Il viso rosso di rabbia e la penetrò col suo sguardo che paralizzò la rossa sul posto. Gli era sempre piaciuto l’effetto che i suoi occhi potevano avere sugli altri.
«Puttanella.» Sussurrò poi continuando il suo cammino e lasciando la ragazza indietro.
«Finiscila! Ti credi migliore di me? Non ti chiedi il perché di tutto questo?»
«Io cosa c’entro?»
«Chiedilo al tuo pianoforte o alla tua chitarra!» altro strillo, altro dolore per le orecchie del biondo.
«Che cazzo c’entra adesso la mia musica?» aveva ribattuto lui infastidito e anche un po’ curioso.
Betty aveva alzato lo sguardo prima indirizzato all’asfalto, guardandolo negli occhi prima che lui potesse fulminarla con quelle iridi di ghiaccio.
«Tu non sei mai stato innamorato di me. Sei innamorato della musica. È vero, mi hai giurato di amarmi, ma perché quando sei triste, invece di venire da me, suoni? E perché, quando sono io a essere ferita, non te ne importa niente?» la voce rotta.
Fu lui a rimanere congelato sul posto.
Si chiese come fosse possibile che Betty fosse gelosa della musica. La musica non era una persona.
«Non capisco cosa tu intenda…»
«E i tuoi amici? Non capisci che ti stanno vicini solo perché sei ricco sfondato?»
Sentì qualcosa sbriciolarsi nel petto.
Aveva capito le parole della nonna.
 
 
Purtroppo è la natura umana quella di far soffrire.
Esce dalla doccia con il corpo violaceo.
Ama il gelo.
Si asciuga molto velocemente prima di vestirsi con degli abiti stracciati e lasciando i capelli ancora mezzi bagnati appiattiti sulla nuca.
Sente un grido felice e spensierato e allora sa che è ancora quella bambina che si sta divertendo per le scale.
Un urlo straziato esce dalla sua bocca mentre si chiude le orecchie con le mani.
La odia. Odia lei e la madre che invece di rinchiuderla in casa e castigarla le permette di giocare.
Giura nella sua testa che questa volta è l’ultima.
Si avvia ad ampie falcate verso la porta e la spalanca con rabbia voltandosi verso sinistra.
La bambina, avvolta in un vestito giallo opaco, rimane terrorizzata per lo sguardo di quel ragazzo e corre in casa, rischiando un paio di volte di inciampare nelle scale e cadere.
Una volta sentito il battere della porta di casa sua si sente meglio. Affatto preoccupato di averla fatta spaventare.
Si gira per osservare la periferia di Dublino ma sulle scale si ritrova invece una donna piegata su se stessa, il viso coperto dai capelli scuri che le ricadono davanti a causa della posizione, il corpo avvolto da dei pantaloni sporchi di pittura rossa e una felpa di una vecchia band, bucata. La cosa che gli salta all’occhio sono però le sue mani magre, rovinate e bianche come la neve, che ricordano tanto l’inverno, così in contrasto con la primavera inoltrata che li circonda.
La vede mollare le borse di plastica verde vomito della spesa sulla lastra di metallo su cui è ferma per poi alzare lo sguardo.
La guarda attentamente negli occhi marroni, fulminandoli con i suoi chiari.
Non sembra scossa. Riesce a mantenere perfettamente lo sguardo.
E allora sa di averlo indovinato. Dentro di lei c’è davvero l’inverno.

 

 


Welcome...
Credo sia passato qualcosa come un mese... Cavolo, è un sacco di tempo.
Problemi personali, spero vogliate scusarmi.
Allora, questa volta invece due parole le spendo.
Questo capitolo... sinceramente mi piace meno del primo... Sia per stile (sembra che io riesca a scrivere bene solo quando sono depressa), sia per contenuto.
A parer mio è più superficiale. Sì, nella parte iniziale spiega la natura di Niall ma... non sempre riesce a esprimere a pieno ciò che gli passa per la testa.
Questo l'ho dovuto anche fare, (non voglio assolutamente giustificarmi) perchè voglio giocare su entrambi i protagonisti più avanti.
Credo abbiate capito che Rain è malata, mentre Niall è... deluso. Da tutti, anche da se stesso.
Forse qualcuno crederà che io abbia alimentato troppo il dolore che Niall prova alla scoperta del tradimento ma ci saranno molti altri flashback che illustrano per filo e per segno il suo passato, molto meno superficiali. Ce ne saranno anche per Rain ma come possiamo notare la sua testa e i suoi ricordi sono molto confusi, quindi col tempo...
Beh, grazie per aver letto. Ne sono felicissima.
Ah, qualcuno ha trovato lo scorso capitolo inquietante... beh, diciamo che è voluto e vedremo anche questo perchè in seguito.
Io vi lascio. Per contattarmi:

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Non fatevi problemi.
Alla prossima (che sarà molto prima di un mese).
Grazie per aver letto e star seguendo la storia.
 

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