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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il cuore è grosso come un pugno, non ci state in molti. ***
Capitolo 2: *** Come faccio a combattere il mio mostro se il mostro sono io? ***
Capitolo 3: *** “Vorrei tanto non averti mai incontrato.” ***
Capitolo 4: *** "E caddi, come corpo morto cade." ***
Capitolo 5: *** "Se dovesse ricadere so che ci sarai tu a prenderlo." ***
Capitolo 6: *** "E inutile, tanto non si innamora." ***



Capitolo 1
*** Il cuore è grosso come un pugno, non ci state in molti. ***


«Blaine, è il terzo bicchiere di wodka in meno di un quarto d’ora… Non credi di stare, uhm, esagerando?» 
Un ragazzo dall’aria scettica e seccata si passò una mano fra i suoi capelli bagnati dal sudore e, con un leggero grugnito, cacciò dalla tasca destra dei pantaloni un paio di banconote da un dollaro l’una e, con fare stanco, le gettò sul bancone.
«Pulisciti il culo con queste.»
Il barista, alquanto preoccupato, passò un altro bicchiere di wodka al ragazzo seduto al bancone, mettendogli una mano sulla spalla.
«Sai che questo non è il modo migliore per risolvere i problemi, si?» 
«Sa- Sammy, falla finita.»
Blaine, così sembrava chiamarsi il ragazzo seduto al bancone, afferrò con entrambe le mani il bicchiere e se lo portò alle labbra, ingurgitando il contenuto in una sola sorsata.
«Un altro.»
«Ah no, ora tu fili dritto a casa, bello mio.»
Sbuffando, Blaine si alzò dal bancone e si diresse verso il centro della sala, strusciando i piedi a terra e camminando con aria mesta, quasi da drogato. E ci mancava poco che lo diventasse.
Blaine era quel tipo di persona che, del giudizio degli altri, non se ne importava. Per tutta la vita aveva commesso lo sbaglio di dipendere dagli altri e, ora, a quasi ventuno anni, riusciva ad essere indipendente.
O quasi.
Blaine spintonò un paio di persone per farsi spazio nella pista e, gettando le mani in aria, si muoveva a ritmo di musica; gli erano sempre piaciute le discoteche, dove si ballava e si beveva a volontà, dove facevi amicizia, scopavi e il giorno dopo non te ne fregava niente della sera prima, perché “è un nuovo giorno”. Solo che, per Blaine, quel nuovo giorno non sembrava arrivare mai.
Lì, in Ohio, non c’era mai nulla di divertente, mai nulla di nuovo. Sempre le stesse persone, le stette voci, le stesse cazzate. Era come un ciclo che, irrimediabilmente, si ripeteva sempre.
Quella sera, nella “Sammy disco-bar” c’era una festa privata, alla quale, naturalmente, partecipava tutta la città. Eppure, notò distrattamente il giovane, non c’era la solita affluenza che ritrovava di solito, le sere addietro.
Anzi, prestando più attenzione, c’erano solo una ventina di persone.
Tutte gay.
Un gay lo si vede subito, pensò Blaine, hanno quelle facce di chi vorrebbe trovare un posto nel mondo: occhi dilatati, capelli impiastricciati di gel, pantaloni aderenti e quelle bretelle sopra le camicia floreali che gli fanno assomigliare a dei clown quanto già non siano.
Troppi pensieri e troppe parole scorrevano nella mente del ragazzo, aveva bisogno di qualcosa da bere. Con aria soddisfatta si diresse al bancone, ancora, e fece un cenno a Sammy, aspettandosi la sua solita occhiataccia brusca. Si appoggiò al bancone con fare distratto e si portò una mano sulla guancia, poggiandoci poi la faccia.
«Scusa, potresti gentilmente spostarti, mi stai leggermente opprimendo.»
Se fosse stato un altro giorno, Blaine non avrebbe sentito la flebile voce che gli giunse all’orecchio, dato il solito trambusto dei locali notturni. Ma il volume della musica era abbastanza moderato e, voltando la testa verso la voce che lo aveva colpito, si rese conto che, effettivamente, il ragazzo lì vicino non aveva spazio per muoversi, essendosi Blaine appoggiato a lui.
«Spostati tu, allora.» 
Disse Blaine, cercando di guardarlo negli occhi nonostante non riuscisse a tenere un alto livello di concentrazione; aveva bevuto molto e in pochissimi minuti, ed era più stonato del solito.
«E’ così che voi scarti della società date il benvenuto ai nuovi arrivati?»
Blaine non riuscì ad inquadrare bene il ragazzo che gli stava parlando, un po’ per il buio che incombeva su di loro (anche se c’erano abbastanza luci stroboscopiche per evitare di calpestare piedi altrui durante un ballo sfrenato) e un po’ perché i suoi occhi non riuscivano a mantenersi aperti; ma, fortuna o meno, il suo pungo centrò perfettamente il naso del ragazzo.
Un tonfò rimbombò all’interno della sala e il ragazzo cadde a peso morto sul pavimento, privo di sensi.

Chiamate l’ambulanza, il ragazzo non respira più!

Troppe voci, troppe persone circondarono Blaine; alcune con viso preoccupato, altre portate lì solo dalla loro “non mi faccio mai i cazzi miei”; era solo un pungo, accidenti, non aveva ucciso nessuno, no?

Io lo conosco, conosco suo padre!

Un conato di vomito drizzò le sue spalle, che rigettò tutto sulle scarpe del ragazzo sotto di lui e, come se fosse stato attratto da una forza superiore, si accasciò in terra, sopra il petto di questo.

Si chiama Ku—

Blaine svenne, e non riuscì ad ascoltare o capire più nulla ma, anche con la mente spenta e l’animo a pezzi, non riuscì a non sussurrare un semplice invito: “respira”. 


 

NOTA BENE: quando, in questo capitolo, o in quelli che seguiranno, parlerò dei gay in modo "cattivo" o "insultandoli", non voglio offendere nessuno, è soltanto il modo di parlare di Blaine e quello che pensa in quell'istante.
La frase che ho usato come nome del primo capitolo è di 
Marracash.
Recensite e fatemi sapere cosa ne pensate, vi prego!

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Capitolo 2
*** Come faccio a combattere il mio mostro se il mostro sono io? ***


Come faccio a combattere il mio mostro se il mostro sono io?


Stessa ora, stesso posto.
Stessi visi, stesse parole, stessa musica. Ma pensieri diversi.
«Se torna, è un coglione.»
Blaine si voltò di scatto, guardando in malo modo Sammy, il proprietario del disco-bar, che alzò le mani in aria e si dileguò dietro le tende rosse che  facevano da sfondo al bancone dei drink. Blaine non sperava ritornasse, non dopo quello che gli aveva procurato. Forse un occhio nero, o un naso rotto, o tutti e due.
O forse è morto.
Sarebbe stato il suo primo omicidio.
Eccitante.
Eppure, se provava a scherzarci su, quella situazione non gli piaceva per niente. Dopo che era svenuto, la sera precedente, Sammy lo aveva portato al pronto soccorso, dove aveva riposato per tutta la notte.
Aveva chiesto a vari infermieri se lì, in quelle tetre stanze, ci fosse una persona chiamata “Ku”, 
ma tutti dicevano che erano informazioni riservate e che, poiché non era un suo parente stretto, strettissimo, non poteva accedere a queste ultime.
Più volte, perché negarlo, aveva pensato di fingersi suo cugino.
Sapeva che non sarebbe venuto, perché avrebbe dovuto. Forse per ricambiare il favore, o forse per finire il drink che, il giorno prima, non aveva neanche avuto il piacere di iniziare. 
Diverse persone entravano ed uscivano da quel locale sudicio, e Blaine non 
sapeva che aspetto avesse il povero Ku.
Forse era alto, snello e dai capelli neri; forse basso, formoso e pelato; o forse era una donna travestita da uomo, forse un bambino… 
«Dannazione
Una piccola, flebile, risatina portò alla realtà Blaine, che voltandosi velocemente, si ritrovò faccia a faccia con un tizio: aveva i capelli rialzati in un ciuffo ribelle, forse aiutati da un po’ di gel; pelle candida e, almeno così sembrava, morbida; ma, soprattutto, aveva gli occhi più belli che Blaine avesse mai visto, incrociato e ammirato, sulla faccia della terra.
Forse erano azzurri, o verdi. O entrambi.
Blaine rimase, letteralmente, con la bocca aperta.
Il ragazzo nuovo aveva la mano sulla bocca e sul naso, per soffocare le sue risate e il suo sguardo stupito nel vedere l’ammirazione sul volto di Blaine.
Fortuna che quest’ultimo aveva gentilmente ordinato a Sammy di mantenere, stavolta, una luce meno diffusa e più accentuata, in modo da poter scoprire chi fosse Ku… Anche perché, pensandoci bene, se non lo avesse fatto, non avrebbe mai incontrato questo ragazzo dagli occhi magnetici.
«Bei denti.»
«Perché ridevi?»
Il ragazzo dagli occhi magici accennò, ancora, ad un sorriso e prese il bicchiere che gli stava davanti, per portarlo poi alle labbra. Una volta che finì di bere, il ragazzo si pulì la bocca con il un tovagliolo che, accipicchia!, sembrava essere spuntato dal nulla.
«Sei gay?»
Quella domanda, inaspettata, prese alle spalle, allo stomaco e in faccia, 
Blaine. Se non avesse avuto un incontro di boxe la serata precedente, avrebbe di sicuro lanciato un pugno a questo tizio qui.
Ma come osava parlargli così, in questo modo se neanche lo conosceva? 
Le mani gli tremavano e Gesù io questo qui lo faccio fuori!
 «Puoi ripetere, scusa?»
Di solito le persone gli dicevano sempre che la sua rabbia era sproporzionata rispetto alla sua faccia d’angelo, e forse avevano ragione. Ma la vita, l’amore e l’esperienza hanno la capacità di trasformare una qualsiasi faccia d’angelo in una macchina da guerra.
«Credo che tu mi abbia capito benissimo.»
Dio Santo, gli strappo le palle se non la smette.
«Senti, non so quali problemi psichici tu abbia, ma sei pregato ti alzare il tuo culo flaccido da quella sedia e andare a ‘fanculo. Potrei speditrici io ma--»
Una mano forte e poderosa si posizionò sulla spalla di Blaine. Lui si rilassò immediatamente e abbassò la testa, ringraziando mentalmente Sammy per averlo fermato in tempo. Sammy era come la sua guardia del corpo, e forse l’unico amico che poteva vantare di avere.
«.. Ma sono un bravo ragazzo. E- E poi sto aspettando una persona.»
«Oh, sei già impegnato. Mi dispiace, avrei dovuto capirlo.», il ragazzo dagli occhi magnetici si alzò dalla sedia e, lasciando alcune monetine sul bancone, si girò verso Blaine, portando entrambe le mani sui fianchi.
Quello che vide, rispetto a prima, non aveva nulla di diverso, fatta eccezione per la fasciatura intorno al naso.
Merda, merda, merda.
 «Tu- Tu aspetta!»
Blaine cercò di mantenere acceso lo sguardo, di strabuzzare gli occhi e di inseguire il ragazzo che aveva scoperto essere Ku, mentre avanzava velocemente tra la folla, spingendo e strattonando le persone per fargli spazio.
Aveva pensato per diversi minuti, prima nel bar, a cosa dire una volta che si fosse trovato faccia a faccia con Ku.

Un semplice “scusa”; forse. O un “la prossima volta ti spezzo le gambe”.
Ma adesso, quando il destino gli aveva piazzato davanti agli occhi una lucida verità, e quando questa verità sembrava essere così indifesa e capace di sgretolarsi in pochi secondi, Blaine avrebbe preferito rifugiarsi in una bugia, anziché affrontarla
.

Una volta uscito fuori, di Ku nessuna traccia.
L’aria era gelida, fredda, di quelle che ahio!, forza avrei dovuto mettere un cappotto sopra la canotta bianca.
E non c’era nessun rumore, nessuna parola, nessun suono.
Era solo.
Come sempre.
Anche se si portava a letto tutto il bar, continuava a sentirsi solo; anche se diceva di avere mille amici, la sua rabbia non diminuiva mai e, anche se voleva cercare di dimenticare la sua brutta disavventura, qualcosa gli diceva che non doveva mollare.
«E se dovessi incontrare la tua fidanzata, gli dirò ti starti alla larga e di “alzare il culo flaccido da quella sedia e andare a ‘fanculo”, magari gli eviterò un pugno in faccia.»
Blaine girò gli occhi verso la strada, cercando il punto preciso da cui proveniva la voce dell’infortunato e, l’unica cosa che riuscì a vedere, fu un taxi giallo che accelerava e spruzzava fumo nero, scomparendo nella sua stessa scia.




Note di una autrice pazza e masochista:
Signori e Signore, grazie per aver letto il mio secondo capitolo e per avermi dato fiducia, cosa di cui ve ne pentirete perché distruggerò i vostri cuoricini in mille, mille, mille pezzettini!
Okay, tralasciando il momento della parta "autrice pazza", passiamo a quella "masochista". La storia, per il momento, potrà sembrare un po' confusetta ma tranquilli, in meno di qualche capitolo tutto sarà spiegato, anche perché questa storia sarà abbastanza breve.
I caratteri dei nostri personaggi sono stravolti, soprattutto quello di Blaine, distrutto dentro e anche fuori. Ma, il perché, lo scoprirete nel prossimo capitolo.
Spero che, lettori, continuiate a leggere la storia e che lasciate un paio di recensioni (vi prego fatelo, vi amerò per sempre, vi prego, vi prego, vi--).
Alla prossima!
 

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Capitolo 3
*** “Vorrei tanto non averti mai incontrato.” ***


Vorrei tanto non averti mai incontrato.



«Pensavo seriamente che fossi morto, amico.»
Quando Blaine entrò nel bar erano soltanto le sette di sera e aveva già voglia di ritornare a casa.
Il giorno precedente, quando era ritornato a casa, aveva ripreso il suo vecchio album di fotografie e le aveva sfogliate, una ad una.
E poi bruciate.
Le aveva messe tutte in un mucchio e le aveva gettate nel camino che, teoricamente, era sempre spento perché i soldi non bastano per me figuriamoci per un pezzo di ferro!
Ma solo il gesto, simbolico, di voler davvero dimenticarsi di tutto e di tutti, lo aveva fatto sentire decisamente meglio
«Il solito, Sam.»
«Sei di cattivo umore?»
«Cosa te lo fa pensare?»
«Quando mi chiami “Sam”, qualcosa non va.»
«Mi conosci così bene?»
Blaine trattenne una risata, coprendosi la bocca con la mano destra, mentre con la sinistra afferrava il suo bicchiere e se lo portava alle labbra. Nel locale circolava la solita aria viziata, di alcol e di sesso. Di dolore e rimpianti, anche se, forse, quel tipo di odore, lo riusciva a sentire solo Blaine.
Il chiasso che di solito il sabato sera alloggiava lì dentro, era quasi scomparso.
C’erano una decina di persone, sedute ai tavoli che sgranocchiavano qualche stuzzichino; a Blaine venne la pelle d’oca. Si sarebbe potuto benissimo confondere tra la folla, apparire come un ragazzo normale e non come quello che 
effettivamente era: un coglione. Uno di quelli che spendono la loro vita in un botto, che mamma lascio casa per andare a New York ed esibirmi nei teatri più prestigiosi, diventerò famoso!, e poi si ritrovano con la merda fin sopra i capelli.
Andarsene da Lima era stato un grosso sbaglio, e la cosa più brutta è che quando era ritornato, tutto era cambiato. Non aveva più una famiglia, né una casa e neanche un sogno.
Con i soldi che gli erano avanzati da New York aveva condiviso l’appartamento con Sammy, ed era riuscito a comprarsi vestiti nuovi.
Aveva lavorato per alcuni bar, poi come benzinaio. E toccò quasi il culmine quando gli venne l’idea di chiedere l’elemosina. Ed era questa la vita che faceva Blaine Anderson: dormire fino a tardi, svegliarsi il pomeriggio ed andare al locale per ubriacarsi e dimenticarsi di ogni cosa.
E gli venne quasi da ridere, pensando che tanto, peggio di così non può andare mai, nel locale entrarono un paio di 
sbirri, urlando qualcosa come Blaine Anderson, la dichiaro in arresto!


«Non potete farlo, andiamo! Non ho fatto niente, non avete prove, non-non potete provarlo!»
Blaine cerava di dimenarsi, scalciando e gettando le braccia in aria per sfuggire alla polizia.
Gli avevano messo le manette, e lo avevano trascinato fuori dal locale, nonostante le imprecazioni di Sammy gli ordinassero di lasciare andare il ragazzo.
«Hai quasi ucciso un ragazzino, devi- devi essere portato dal giudice e—E stai fermo, dannazione!»
Blaine calpestò il piede del poliziotto e cercò di svignarsela, correndo a perdifiato. Sentiva gli sbirri corrergli dietro, prenderlo e gettarlo contro l’asfalto. Sentiva il sapore del sangue nella gola: era caldo, amaro, forse bruciava.
O forse erano le lacrime.
«Non c’è alcun bisogno di fare tutto questo, Matt. Mio padre esagera, lui non 
mi ha fatto niente…»
Quasi il cuore di Blaine si fermò, quando ascoltò quella voce. 
Era come se la ricordava. Stridula, leggera e… In un certo senso, anche spiritosa.
Ci avresti chiacchierato con quella voce, forse scherzato, forse l’avresti guardata, e, perché no, ci avresti fatto l’amore.
Ma, in quel momento, l’unica cosa che voleva fare era strangolare quella piccola merda che -ohmiodio!, cosa cazzo si è messo?- stava cercando di convincere il poliziotto e lasciare libero Blaine.
Indossava un camice bianco, aperto, che lasciava intravedere un pigiama con le paperelle, ma stiamo scherzando?
«Ti ha quasi ucciso, Kurt! Non puoi correre questo rischio, non-» il poliziotto si fermò, rivolgendo lo sguardo a Blaine e ringhiandogli contro «-non puoi correre questo rischio
«Era solo un pugno! L’ho stuzzicato e lui si è difeso, stop. Papà dovrebbe farsi gli affari suoi, una volta tanto.»
Il poliziotto – Matt, così pareva chiamarsi- sembrò pensarci su, guardando prima Kurt (e non Ku, come Blaine aveva ipotizzato) e poi Blaine.
Si soffermò sul pigiama del ragazzo e sul sangue che scorreva dal naso dell’altro e, con un semplice cenno, ordinò ai suoi colleghi di liberarlo.
«Grazie a Dio! Non era così difficile, razza di--»
«Blaine Anderson, la famiglia Hummel l’ha denunciato. Come pensa di risarcire il debito con la giustizia? C’è la prigione, o i lavori sociali. E credo che, per un bel faccino come il tuo, la prigione sia un posto adatto.»
Blaine scrollò le spalle, sputando a terra uno sprazzo di sangue.
«Matt… Lascia che venga con me, mettilo sotto il mio nome…»
Matt sembrò guardarlo storto, chiedendosi se Kurt avesse la febbre  o stesse delirando, e forse la seconda opzione era la più plausibile, perché “mettilo sotto il mio nome”sembrava una cosa talmente sporca.
«Non so se sia una buona idea, e non credo che tuo padre approverà.»
«Mio padre sarà più che contento del mio desiderio di aiutare la società ripulendola da una tale… Feccia.»
Kurt si pulì le mani, scrollandosele tra di loro e guardando Blaine come se non ci fosse cosa più vile e meschina nel mondo.
E la rabbia che, man mano, era andata a scomparire nel petto di Blaine, sembrò ritornare in un lampo.
«Se ne sei totalmente sicuro…», asserì il poliziotto, avvicinandosi a Blaine e posandogli una mano sulla spalla, voltando poi la testa verso Kurt, come se stesse aspettando ordini da lui.
«Lo sono», sussurrò Kurt, guardando dritto negli occhi Blaine, che evitò il suo sguardo, scrollandosi di dosso la mano del poliziotto.
Matt, il poliziotto, sbruffò e si rivolse allora a Blaine, guardandolo con aria infastidita.
«Tu, ragazzino, da oggi in poi fari tutto ciò che Kurt Hummel chiederà; svolgerai dei lavori sociali un po’ diversi e devi ringraziare solo la generosità di Kurt, perché per me saresti già sulla mia lista nera, in prigione.»
«Sono uno schiavo, adesso? Oh, che bellezza. Ma fatemi il piacere e andate a pisciare tutti quanti!»
Blaine si incamminò lungo la strada, imprecando tra sé, scalciando alcune pietre che gli ostacolavano il passaggio; i poliziotti stavano per muoversi, per recuperarlo, quando la mano di Kurt si alzò in aria, e li fermò.
«Lasciatelo andare, da oggi, lui, sarà compito mio.»





Note: Non so se si è capito, ma a chiamare la polizia è stato il padre di Kurt, e, come e perché, lo scoprirete più in avanti. Spero che il continuo di questa storia vi abbia colpito e che vi possa piacere almeno un po': fatemi sapere cosa ne pensate! Non vedo l'ora di leggere i vostri commenti :)

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Capitolo 4
*** "E caddi, come corpo morto cade." ***


E caddi, come corpo morto cade.


«Allora, Blaine… Cosa fai per, uhm, guadagnarti da vivere?»
Lo odiava, più di ogni altra cosa al mondo.
Erano in quel locale da soli quindici minuti e, Dio, se già lo odiava!
Odiava come si vestieva, odiava come parlava, come lo guardava e soprattutto il modo in cui schioccava le dita per chiamare i camerieri.
Aveva detto di chiamarsi Kurt, Kurt Hummel e che, scherzo  del destino o meno, lui sarebbe stata il suo baby-sitter.
Aveva usato un altro termine, con parole difficili e aggettivi troppo lunghi da essere memorizzate nella mente di un semplice diciannovenne, ma il senso era quello.
Gli dava fastidio il tuono superiore che usava verso di lui, come se avesse sdegno di essere seduto ad un tavolo con lui.
Era irritante.
«Non lo faccio.»
«Non hai un lavoro?»
«No.»
«Oh… A che college vai, allora?»
«E’ un interrogatorio, per caso?»
«Sto solo cercando di conoscerti.»
«Io non voglio farlo.»
Blaine si alzò bruscamente dalla sedia ed uscì da quello stupido bar, lasciando Kurt leggermente senza parole. Perché avesse accettato di bere qualcosa con lui, questo non lo sapeva ancora e si sarebbe maledetto per il resto della sua vita. E quando sentì dei passi dietro di lui, aumentò il passo.
« Se- Se non fosse stato per me tu ora saresti in prigione!»
Un Kurt affannato si dileguò dal locale, lasciando un paio di monetine sul tavolo, per raggiungere il fuggitivo. Aveva leggermente sudato e le sue guance avevano preso un colorito abbastanza accesso e lo sapeva benissimo che, questo, non lo stava giovando.
«Mi hai quasi ucciso! E- E potresti anche chiedermi—Non correre, aspetta!»
Kurt partì all’inseguimento.
Blaine era veloce, molto veloce, ed era intenzionato a non farsi prendere. Kurt non capiva perché Blaine era così restio nel fare amicizia, o perché non voleva lasciarsi aiutare. Voleva soltanto salvargli la vita, visto che, a quanto pare, la sua non aveva più speranze.
Sentiva il cuore pompargli nel petto, così veloce e così forte che gli sembrava potesse uscire fuori in quel momento, magari cadere a terra e ciao, ciao, Kurt Hummel, ci si vede in Paradiso!
E poi successe.
Kurt sentì come uno strappo, uno sparo, dritto al cuore, al petto, forse proprio al centro del corpo.
E cadde a terra, stremato.
Con un urlo.
E fu strano, forse troppo, che quell’urlo assomigliò ad un B-Blaine!
 
 
Blaine non amava gli ospedali, proprio per niente. Li odiava, anzi.
Odiava il loro odore di morte, odiava quel colore bianco che serve per dare speranza, signor Anderson, e adesso stia zitto e chiuda gli occhi, dobbiamo fasciargli la mano.
Odiava la voce delle infermiere con il loro il dottore arriva subito, e poi non arrivava mai; odiava la loro divisa, odiava il loro sorriso rassicuratore, le loro carezze sulle spalle, i loro occhi macchiati di lacrime come se gli dispiacesse sul serio. Odiava quando il medico faceva capolino in sala d’attesa, con quell’aria da superiore, come il paziente dovesse solo ringraziarlo se lui era lì.
«Quando potrò vederlo?»
Odiava il non ora, ragazzino, non è il momento giusto e, cazzo!, quando sarà mai il momento giusto?
«Blaine Anderson?»
Quando Blaine si girò quella fu l’ultima persone che voleva ritrovarsi davanti: era un dottore, uno di quelli grossi e senza capelli, di quelli con la faccia burbera e da vero stronzo. Uno di quelli che signora, suo figlio è morto, care condoglianze.. Il prossimo?
«Nel mio ufficio, adesso.»
Blaine alzò il mento, con fare di sfida, ma quando vide che il dottore non lo aveva degnato di striscio, lo seguì a testa bassa. Arrivò nell’ufficio e chiuse la porta, appoggiandosi ad essa. Si sedette poi, quando il dottore pelato gli fece un cenno con la testa.
«Credo che dovremmo avvertire i suoi genitori, conosco il suo cognome e--»
«Devi sparire dalla sua vita.»
Blaine si fermò e, cosa assurda, incominciò a sudare. Non capiva quello che stava succedendo, non capiva il senso di tutta quella storia.
Non capiva chi fosse Kurt Hummel e come avesse fatto ad entrare nella sua vita; non capiva come diavolo aveva fatto a cadere a terra, da solo; non capiva perché lui stesso s’era preso la libertà di prenderlo in braccio e, quasi con le lacrime agli occhi, di chiedere aiuto; e non capiva perché era da tre ore che era bloccato in quel dannato ospedale!
«Non dovrai più cercarlo, non dovrai più lasciare che lui si avvicini a te, non dovrai mai più comparire nella sua vita. E se lui tornerà da te, non dargli nessun pretesto affinché ricommetta questo errore. Ora fuori.»
Se fosse stata un’altra occasione, Blaine gli avrebbe riso in faccia. Eppure, in quel momento, di ridere non ne aveva proprio voglia.
«Non capisco… Io non—Come sta Kurt?»
«Dimentica il suo nome, ragazzino. E non chiamarlo mai, mai, mai più.»
Blaine si alzò dalla sedia, infastidito. Alzò le mani in cielo, in segno di resa, e sputò a terra, per dimostrare ogni suoi disprezzo verso quel luogo.
E poi si ritrovò contro il muro, con la faccia schiacciata dalla mano ossuta dell’uomo che lo tirava per i capelli, spingendolo sempre di più contro la parete. Ed era sicuro di star sanguinando.
E avrebbe di sicuro reagito se una di quelle odiose infermiere non fosse entrata nella stanza e non gli avesse fermati con suo figlio si è svegliato, signore!




N.d.a:
Il titolo "E caddi, come corpo morto cade" è preso dall'ultimo versetto del V canto dell'Inferno della Divina Commedia di Dante e mi sembrava appropriato per il capitolo.
Da qui in poi riuscirete a capire più o meno i vari intrecci della storia e spero che siano di vostro gradimento e, davvero, gradirei anche io delle recensioni, uhm!
Su, cosa vi costa? *faccina da cane bastonato*
<3

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Capitolo 5
*** "Se dovesse ricadere so che ci sarai tu a prenderlo." ***


"Se dovesse ricadere so che ci sarai tu a prenderlo."


Quando Blaine aveva scoperto che il signore pelato, nonché direttore dell’ospedale, era il padre di Kurt, aveva pensato che forse vivere insieme ad una persona che era stata così tante volte a contatto con la morte gli aveva portato sfortuna.
Non era ancora riuscito a capire come e perché Kurt fosse caduto sull’asfalto, qualche giorno prima, e se ci ripensava l’unica cosa che poteva fare era scoppiare a ridere per la sua goffaggine.
E sapeva anche che non era per la sua goffaggine che stava ritornando all'ospedale.
Quando la mattina di quel giorno stesso la polizia era andata a bussare al suo appartamento (quello che condivideva con Sammy) non poteva negare che aveva pensato al peggio: lei è arresto, oppure sua madre è in pericolo di vita.
Invece era un semplice Burt Hummel vuole vederla.
Per i primi dieci minuti di viaggio, da casa sua fino all'ospedale, si era domandato chi fosse questo Burt e poi, come uno sciocco, aveva ipotizzato che, avendo lo stesso cognome di Kurt, doveva essere il padre. E si ritrovò davanti l’uomo pelato della volta scorsa.
Con un cenno del capo salutò il signore ed entrò nel suo studio, sedendosi, senza aspettare un permesso speciale, su una delle due sedie che stavano davanti alla scrivania.
«Posseggo questo ospedale da… anni. »
Ed era vero. Sulle pareti bianche cadavere della stanza c’erano decine e decine di laure, fogli con firme importanti e attestati che puntualizzavano le capacità di Burt Hummel nel campo della medicina. Era davvero un bel traguardò, pensò allora Blaine. Se anche lui avesse intrapreso questa carriera, di sicuro i suoi sarebbero stati fieri di lui. Vedeva come sulla scrivania c’erano figli ammucchiati, ordinatamente, da un lato, penne disposte in fila in base alla loro grandezza, alcune spille e dei post-it di colore giallo acceso; c’era anche una lente di ingrandimento e un paio di occhiali gettati sopra al mucchio di fogli.
E poi, come se non dovesse spiccare alla vista, una fotografia incorniciata in fondo alla grande scrivania.
Un uomo con un capello da baseball in testa reggeva sulle spalle un bambino, con lo stesso capello macchiato di fango. Al lato del bimbo, invece, c’era una bellissima donna. Aveva la pelle chiara e gli occhi azzurri, e i capelli più biondi che Blaine avesse mai visto. E non gli ci volle molto per capire che quella era la famiglia di Kurt.
La madre del ragazzo era davvero una bella donna: sembrava così delicata e gentile, e non gli ricordava per niente la propria madre. E, chissà come, stava pensando al fatto che gli sarebbe piaciuto avere una mamma come quella di Kurt.
Come quando la campanella di scuola fa alzare i ragazzi dai propri banchi, così la voce nasale di Burt Hummel lo riportò alla realtà.
Lo stava fissando con insistenza, forse aspettandosi una risposta.
«Lo farai per me?»
Blaine alzò la testa, fissando senza nessun interesse il volto di Burt.
Biascicò un si, certo, un po’ titubante, non sapendo neanche a cosa si stesse riferendo: si grattò la testa e, in neanche trenta secondi, si ritrovò fuori dall’ospedale.
 
 
Da quell’esperienza, Blaine aveva imparato una cosa fondamentale: mai distrarsi in una conversazione, mai. Non aveva prestato attenzione alle parole speranzose di Burt Hummel e adesso era lui a dover fare da baby-sitter a Kurt. Dopo essersi ritrovato ancora in ospedale- hey, mettetemi giù non sono mica un pacco, so camminare da solo!- capì di aver fatto un grosso errore. Burt gli aveva chiesto di diventare amico di Kurt e di prendersi cura di lui, neanche fosse un bambino! Gli aveva raccontato (per la seconda volta, e stavolta pizzicando il braccio di Blaine affinché non si distraesse) di come Kurt non era stato mai capace di trovare un amico e del fatto che Lima gli piaceva tanto e che lo vedeva sempre solo, stare in camera sua o al parco. E gli aveva raccontato di come le persone lo prendevano in giro per la sua voce, o per la sua passione per la moda, o per il suo atteggiamento.
Finocchio, frocio, pazzo, diverso, malato, così lo chiamavano. E Blaine sentì una morsa al petto, perché anche lui, per un periodo di tempo, era stato chiamato così.
Gli aveva anche detto che loro da lì a un mese si sarebbero trasferiti e che Blaine non avrebbe rivisto più Kurt e che quindi sarebbe stato libero. Allora Blaine aveva chiesto perché aveva scelto lui.
«Perché non hai aspettato due secondi nell’aiutare mio figlio, e sei forte, se dovesse ricadere so che ci sarai tu a prenderlo.»
Allora Kurt era davvero una mozzarella, se anche il padre aveva detto che cadeva spesso!
Questo pensiero fece intenerire Blaine, che accettò (per la seconda volta) la proposta di Blaine. Ma la cosa più sorprendente di tutta quella storia era che, oh mio Dio, non posso crederci!, Blaine sarebbe stato pagato.
Qualcosa come settanta dollari, e anche se non erano molti l’idea di guadagnare qualcosa con le propri mani lo rendeva felice.
E tanto sapeva che avrebbe ricattato Burt per aumentargli lo stipendio.
E così doveva soltanto fingere di voler a tutti i costi diventare amico di Kurt, di parlargli e di portarlo in giro e di farlo divertire. Solo per un mese. E veniva anche pagato.
Meglio di qualsiasi altro lavoro!
La sua mente si chiedeva perché, con insistenza. E poteva sentire che c’era puzza di imbroglio, che la storia che Burt gli aveva raccontato non era chiara ma chi se ne importa!, rifletté il lato egoista di Blaine. E mandò a puttane tutte le domande.
Così, quasi saltellando dalla gioia, si diresse verso la camera di Kurt. Non capiva perché stesse ancora in ospedale, in fondo era solo caduto ed aveva perso i sensi e gli sembrava che no, non aveva battuto la testa per terra. Con un sorriso furbo sul volto, Blaine Anderson, bussò alla porta.
Quando entrò, si sentì morire.
Kurt era pallido, più pallido delle pareti o delle lenzuola: aveva gli occhi chiusi e respirava a fatica,
abbassando e rialzando il petto ad un ritmo molto lento. Era steso sul letto, con le mani lungo i fianchi e il mento rialzato, visto che la sua testa era appoggiata sopra un cuscino. Vedeva come i tubi infilzati nella pelle gli procuravano dolore, come il sangue che stava scorrendo dentro lo disturbasse, come soffrisse. E Dio!, se avrebbe voluto aiutarlo.
Kurt aprì gli occhi a fatica, come se si stesse sforzando a farlo, e sorrise leggermente, alzando di poco la mano per salutarlo.
«Blaine.»
Voleva scappare, andare via. Mandare al diavolo Kurt, il padre e quei dannati soldi. Avrebbe voluto dire che di Kurt non gliene fregava niente, meno di zero. Invece si ritrovò vicino al suo letto, dandogli la mano.
«Ciao.»
Sussurrò piano, quasi senza muovere le labbra. Kurt lo seguì con lo sguardo e gli lasciò la mano, che utilizzò per aiutarsi ad alzarsi e a sedersi.
Si guardò intorno e, notando lo sguardo preoccupato del ragazzo, gli rivolse un sorriso di incoraggiamento.
«Qui si preoccupano troppo.»
E Blaine non poté che ridacchiare, sedendosi sul bordo del letto, guardandosi intorno, cercando di evitare lo sguardo di Kurt.
«Perché sei qui?»
Gli chiese allora Kurt, cercando di attirare la sua attenzione, alzando la testa verso di lui.
Forse era stato il suo sorriso non appena aveva visto Blaine, o forse lo stato in cui era ridotto Kurt, o forse la grande mancetta che tra meno di un mese avrebbe avuto che convinse Blaine ad alzarsi dal letto e a dire: «Andiamo, amico, alzati da quella merda e andiamo a divertirci!»

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Capitolo 6
*** "E inutile, tanto non si innamora." ***


E' inutile, tanto non si innamora.

«E così lui ha urlato, ti rendi conto?»
E invece Kurt rideva. Si portava le mani vicino alle labbra e scoppiava in una di quelle risate che ti toglievano il fiato. Gettava la testa all’indietro e ci mancava poco che si trascinasse con sé tutta la tovaglia del bar, perché diceva che quella era la sua barzelletta preferita. E quando rideva, a Blaine gli si illuminavano gli occhi. E non perché avesse una qualche luce puntata contro, o perché era semplicemente stanco e gli occhi sembravano più lucidi de solito. A Blaine gli si alluminavano perché sentiva che qualcuno o apprezzava per quello che era e per come era: per il suo costante ritardo, per il suo orrendo modo di vestire, per i suoi rutti o per i suoi battibecchi contro i vecchietti dietro ai bar.
E Kurt doveva sempre trascinarlo via con la solita frase: “Scusatelo, ha bevuto parecchio!”, quando Blaine non aveva toccato alcool.
E quando la sera pensava al giorno successivo o precedente non c’era momento in cui non gli tornasse in mente Kurt, o i pantaloni di Kurt, o ma sua maglia, o il suo sorriso, o alle sue mani che Blaine, qualche volta, aveva provato a sfiorare. Pensava a cosa stesse facendo Kurt, a cosa mangiava a pranzo (quando non lo facevano insieme) o a cosa sognasse la notte e se anche lui lo sognasse come ormai Blaine faceva da un paio di giorni. Ed era quando sorrideva ad un suo messaggio, o ad una sua telefonata, o a quando rivedeva nel cellulare alcune loro foto, o quando era in ritardo e correva veloce, anche se sapeva che Kurt l’avrebbe aspettato- erano in quei momenti che Blaine pensava che no, quello non era per niente colpa dell’alcool.


Blaine aveva un calendario, appeso in camera sua, che gli ricordava, puntualmente, lo scadere dei giorni. Erano cerchiati in rosso quelli che erano già passati e Blaine li guardava come se fossero la sua morte. Dieci giorni nel mese di maggio erano volati stando con Kurt e ne mancavano davvero pochi fino al loro addio. A volta Blaine si chiedeva se Kurt sapesse del suo trasferimento programmato o del suo amico programmato. E alcune volte si sentiva in colpa. E beveva, per sentirsi di nuovo in forma, perché a lui di questo piccolo particolare non doveva importarsene, perché tutto quello che riguardava Kurt sarebbe scomparso da lì a poche settimane. Quello era l’undicesimo giorno che i due avrebbero passato insieme e Blaine non era mai stato così eccitato e allo stesso tempo spaventato.
I due sarebbero andati in un nuovo bar nella traversa in cui Blaine abitava e il loro coprifuoco scadeva alle dieci, più tardi delle volte precedenti. Blaine non era abituato al coprifuoco o al dover rispettare le regole, ma Burt gli aveva fatto capire che, essendo il baby-sitter di Kurt, le regole valevano anche per lui.
Kurt era stato alquanto difficile da convincere, ma alla fine aveva ceduto e si era preparato, pronto per passare una sera all’insegna di cosa?, non lo sapeva neanche lui.
A Blaine mancava l’aria dura dei bar serali, o il sapore dell’alcool e il divertirsi senza farsi domande e senza aspettarsi nulla in cambio, perché a pensarci bene questo lavoro di badare a Kurt era alquanto stancante. Quando i due entrarono nel locale, tutto cambiò radicalmente. Era come se il suono dei bicchieri che tintinnavano tra di loro, o le grida sguaiate di qualche ragazza che la svendeva a poco prezzo, o il pompare della musica nelle casse accanto ai bagni avessero risvegliato Blaine da un completo tepore. Quello era il vero Blaine, e non si sarebbe lasciato sfuggire l’idea di divertirsi, non questa sera.
Kurt fu abbandonato in qualche tavolino con un paio di bicchierini per alleviargli la serata, mentre Blaine si diresse al centro della pista.
Beccò un paio di ragazze, forse lesbiche o forse no, e le tirò a sé.
E non aveva importanza il fatto che fosse gay, o che non si eccitava più per delle ragazze da anni ormai, ma voleva fare sesso, o almeno un qualcosa del genere.
Si avvicinò ad una e, senza guardarla neanche negli occhi, la portò con sé nella sala privata, che si chiamava così per un motivo ben preciso. La spogliò avidamente, strappandole quasi i vestiti da dosso, con foga e bisogno: le baciò il collo, prima con la lingua e poi mordendola piano piano, come se non ci fosse nessuna fretta.
Aspettò che la ragazza prendesse in mano la situazione per continuare e, infatti, quando si ritrovò senza maglietta, le slacciò il reggiseno. Il seno era piccolo, quasi inesistente e Blaine si pentì di non aver scelto l’altra ragazza che forse aveva dimensioni più accettabili. Ma poi si ricordò di essere gay e che, i gay, di questi particolari non se ne fottevano.
Fottere, era il verbo adatto perché, bentornato vecchio Blaine!, era quello che stava per fare.
Allora le baciò i seni e mordicchiò i capezzoli , pensando che non era questo di cui aveva bisogno perché, dannazione, era fottutamente gay!
Le tolse la minigonna e non si stupì del fatto che non avesse le mutandine: si abbassò e continuò a leccare e a mordere, facendo sì che la ragazza lanciasse qualche gridolino di piacere. E poi la ragazza venne in bocca a Blaine. E fu allora che si accorse che quella ragazza, non era altro che una ragazzina arrapata e che gli faceva pena e, che schifo!, lui se la stava per scopare! E le era venuta in bocca, dannazione! E non era neanche come piaceva a lui, poi.
Un leggero brivido gli salì lungo e spalle e sentì che la ragazza ne voleva ancora, visto che si muoveva freneticamente su di lui, strusciando le sua mani sui suoi pettorali. Blaine si alzò e la lasciò lì. Sul divanetto rosso e si rimise la camicia, uscendo da quello schifo. Fece un paio di passi e mandò qualche messaggio a Sammy, raccontandogli di quello che stava per fare e sentì che stava per vomitare, perché galline in calore del genere gli facevano accapponare la pelle. E pensò che anche lui era un gallo in calore, ma poi si consolò del fatto che, almeno, lui lo faceva con stile.
E mentre digitava vari tasti sul telefonino, su quest’ultimo apparve la scritta chiamata in corso da parte di King Kong.
«Cazzo, cazzo, cazzo!»
Fu allora che si ricordò del suo amico nel bar, di Kurt chissà dove lì’ dentro, alle prese con qualche maniaco che magari stava facendo con lui la stessa cosa che Blaine stava per fare a quella ragazzina.
E non rise neanche pensando che King Kong era davvero un gran bel soprannome per Burt Hummel.
 Il punto è che Kurt sapeva prenderlo, sapeva condurlo sulla giusta via quando Blaine non aveva modo di arrivarci da solo. Ed erano completamente gli opposti, e lo sapevano entrambi ed entrambi se ne fregavano, perché senza l’altra nessuno andava avanti.
Il punto è che  Blaine si era dimenticato di Kurt, che lo aveva abbandonato come si era promesso di non fare, come era stato abbandonato lui dai suoi anni prima e come il mondo stesso aveva fatto. Ed era un vero coglione, Blaine, mentre correva indietro verso il bar, urlando al telefono un oh, ciao Burt che- che piacere vederti e come sarebbe a dire che Kurt è ubriaco perché al cellulare ti ha detto che vede gli unicorni, non lo sai che un unicorno è stato avvistato proprio un giorni fa?

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