Deep Blue Eyes

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.



L'automobile correva lungo le strade bagnate, incontro alla pioggia che rimbalzava contro il parabrezza, lasciando dietro di sé una scia luccicante che rifletteva l'intero spettro solare. I vetri scuri nascondevano gli occupanti della vettura dallo sguardo curioso dei passanti, e conferivano un aspetto elegante alla berlina grigio metallizzato che attraversava la città deserta, sorpresa da quel temporale estivo.
L'autista imboccò una serie di strade a senso unico per poi svoltare a destra, dopo aver costeggiato il lungomare per una decina di minuti; le onde mugghiavano minacciose oltre la cortina di scogli artificiali frequentati dai pescatori, e il persistente odore della sabbia bagnata arrivava fin dentro la vettura.
Un'ultima svolta a sinistra e un grande e svettante palazzo dalle facciate a vetri apparve lentamente; sovrastava di una buona trentina di metri gli altri edifici che si arrampicavano sulla collinetta silenziosa. L'automobile svoltò attorno alla costruzione ed imboccò un accesso secondario, proseguendo fino all'ultimo livello del garage.
«Fatto buon viaggio, signore?», chiese con premura un usciere, aprendo la portiera e mettendosi rispettosamente di lato. L'uomo in elegante completo scuro e scarpe italiane fatte a mano non rispose, limitandosi ad un rapido cenno del capo; quindi imboccò l'ascensore seguito immediatamente dalla sua assistente, una donna di trent'anni in un castigato tailleur fumo di Londra e armata di una voluminosa ventiquattrore.
Superati i primi due livelli del garage e il piano terra, l'ascensore uscì all'aperto, continuando la sua corsa all'interno di una cabina di vetro.
«Il panorama è sempre affascinante…»
La donna si sistemò gli occhiali che le erano scesi in punta di naso. L'altro non rispose, volgendo la testa verso l’angolo di contatto tra cabina e palazzo, dandole le spalle. Lei sorrise, tornando a rimirare la città bagnata dalla pioggia con quel suo strano mantello umido e le luci delle automobili scivolare liquide in ordinate colonne.
L'ascensore arrivò al piano selezionato, le porte a scorrimento si aprirono senza emettere suono e i due occupanti si trovarono a percorrere un silenzioso ed essenziale corridoio: non una porta, non un quadro o una pianta, solo il semplice grigio del pavimento e delle pareti metalliche.
Giunti davanti all'unica porta in fondo al corridoio, l'uomo si fermò, per mettersi sull'attenti di fronte ad un invisibile interlocutore. Una luce verde effettuò la scansione della retina dei due, emettendo un segnale sonoro alla fine dell'operazione; quindi, una voce metallica annunciò l'arrivo dei due ospiti.

Scansione effettuata; elemento dottor Pëtr Ilič Volonskij. Positivo. Accesso consentito.

Scansione effettuata; elemento dottoressa Irina Josifieva Karamazova. Positivo. Accesso consentito.

La porta metallica scivolò all’interno della parete, consentendo il passaggio ai due, che entrarono con passo svelto e deciso. La porta si richiuse, mimetizzandosi alla perfezione con il grigio metallico del muro. All'interno di una sala illuminata fiocamente, alcune persone li aspettavano riunite attorno ad un tavolo di forma ellittica. Come li videro entrare, rivolsero immediatamente la loro attenzione su di loro.
«Benvenuto, dottor Volonskij», li accolse una voce da dietro lo schienale di una poltrona in pelle nera. «Fatto buon viaggio?»
Questa volta l'uomo si limitò ad occupare il proprio posto mentre la donna rimase in piedi alle sue spalle, pronta a fornirgli quanto le sarebbe stato a breve richiesto.
«Ci dica, dottore», intervenne una donna inguainata in un tailleur di pelle rossa, le lunghe unghie laccate a carezzare la superficie liscia e lucida del tavolo. «A quali risultati sono giunte le sue ricerche?»
L'uomo, senza smentire la fama di orso per cui era conosciuto nell'ambiente, fece un cenno alla sua assistente, la quale estrasse dalla borsa dei fascicoli che distribuì personalmente a tutti e dieci i convenuti. Quindi, ravviando una ciocca ribelle che le era sfuggita dallo chignon castano, inserì un compact disc in un portatile posizionato dietro di sé e premette il tasto d'avvio.
«Come potete osservare dal chiarissimo grafico alle mie spalle», esordì l'uomo indicando una serie di intricate tabelle e grafici d'andamento con isoipse incrociate, e rivelando al contempo una voce baritonale arrochita dal fumo, «le ricerche che ho condotto in questi anni mi hanno portato ad ottenere una serie di risultati discordanti tra di loro. Se da un lato gli economisti prevedono un sempre maggior utilizzo di quell'energia cosiddetta pulita, dall'altro è innegabile che le riserve in natura di questo tipo di carburante, passatemi il termine, siano agli sgoccioli.»
«E questo è tutto ciò che è in grado di dirci dopo quattro anni passati a far ricerche con i nostri soldi?», commentò un uomo bilioso, dai lineamenti orientali, asciugando il sudore che scorreva copioso sul suo viso grasso e rubicondo.
Volonskij non rispose, limitandosi a voltare una pagina del dossier che teneva tra le sue sinuose e nervose dita, imitato dagli altri convenuti.
«Esistono diverse fonti di energia biocompatibile, come sono soliti chiamarla gli addetti ai lavori. Tuttavia, il loro potere non inquinante è compensato da una scarsa reperibilità in natura, motivo per cui voi mi avete affidato questi cicli di ricerche finanziate con i vostri soldi. Ebbene, se ambite ad ottenere qualcosa che riesca a spiazzare la concorrenza e ad essere di sicura reperibilità, mi spiace, ma mi trovo costretto ad alzare bandiera bianca.»
«Lei è un irresponsabile!», tuonò nuovamente l'orientale, arricchendo il proprio rimprovero con un pugno sul tavolo che fece cadere il bicchiere che aveva davanti a sé ed il liquido in esso contenuto.
«Suvvia, monsieur Wong», intervenne un uomo con spiccato accento francese ed una carnagione pallidissima. «Sono più che sicuro che monsieur Volonskij non si sia limitato alla mera raccolta di dati, ma sia giunto ad una conclusione più che soddisfacente. Per tutti noi, n'est-ce pas
Volonskij fece un cenno alla sua assistente, che cambiò rapidamente il cd all'interno del portatile, sostituendolo con un altro supporto digitale dal cupo color nero.
«Osservate con attenzione ed in silenzio questo filmato…», si limitò a suggerire l'uomo accendendosi un sigaro.
Al centro esatto del tavolo si materializzarono delle immagini: alcuni atleti, adolescenti a giudicare dai loro visi, erano impegnati in combattimenti all'interno di una specie di torneo; torneo che, almeno a giudicare dalla folla riprodotta dalle immagini olografiche, suscitava un discreto interesse nel pubblico.
«Quelle che vedete sono immagini rimasterizzate di un avvenimento di alcuni anni fa in Giappone. Come credo Mitsui-san ricorderà», disse indicando un altro orientale, seduto all'estrema destra del tavolo, «la Fondazione Grado aveva indetto un torneo di lotta greco-romana, teso più alla spettacolarità degli incontri che alla disciplina sportiva in quanto tale. Per l'occasione, e per un maggior impatto mediatico, la Fondazione aveva fatto addirittura ricostruire una copia in scala del Colosseo romano, chiamandolo Grade Colisseum, che avrebbe funto da scenario per queste battaglie tra atleti.»
Mentre Volonskij parlava, sullo schermo scorrevano immagini dei vari scontri, come a ripercorrere l'andamento del torneo.
«Come premio per il vincitore, una corazza d'oro massiccio. Sono andati avanti per meno di una settimana, fino a quando l’ultimo arrivato decise di trafugare il premio. Non si seppe più nulla, né dei ragazzini, né dellla corazza. Dissero che si trattava di un reperto scandinavo. L'evento fu abbandonato dalla Fondazione e il Grade Colisseum fu dato alle fiamme, forse da alcuni teppisti, scontenti per esser stati privati del loro divertimento quotidiano.»
«Ebbene?», insistette Wong, mentre le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi.
«Come voi stessi saprete dal mio curriculum, sono stato attratto sin da ragazzo dalle forme d'energia che il corpo umano sviluppa autonomamente, ed ho anche brevettato un macchinario capace di rilevare la bio-energia prodotta dagli esseri umani. Io ero presente in sala, durante l'ultimo combattimento, quello tra Andromeda e Unicorno»,  riprese Volonskij voltando pagina e soffermandosi sull'immagine di un ragazzo dai delicati lineamenti e dai profondi occhi blu. «E vi posso assicurare, signori, che l'energia sprigionata da quei ragazzini va al di là di ogni immaginazione! Quello che sembrava essere una pagliacciata, un fenomeno da baraccone, una propaganda orchestrata goffamente, nascondeva in realtà qualcosa di più profondo, qualcosa di recondito a cui io ho dedicato tutti questi anni. E buona parte dei vostri soldi.»
I dieci uomini rimasero ad osservare attentamente lo svolgersi dell'ultimo combattimento sullo schermo olografico fino alla conclusione del filmato.
«E che cosa ha scoperto, dottor Volonskij?», chiese la voce che li aveva accolti, la voce di colui che pareva essere il capo di quel raduno.
«Questo tipo di energia sembrerebbe essere rinnovabile. E soprattutto», s'interruppe aspirando una profonda boccata di fumo, «può essere incanalata. Ed utilizzata, come se fosse un arma.»

Il silenzio piombò sull'intera sessione, ammutolendo persino il polemico Wong, che si ritrovò con un fazzoletto madido di sudore stretto tra le dita grasse.
«Ho incaricato la dottoressa Karamazova di seguire passo passo i protagonisti di questi filmati, per vedere sino a che punto si trattasse di una trovata pubblicitaria. Sarà lei stessa ad illustrarvi gli esiti delle sue ricerche», concluse Volonskij, cedendo la parola alla donna alle sue spalle.
«I protagonisti dei filmati che avete visto poc'anzi», iniziò la dottoressa Karamazova dopo essersi schiarita la voce con un finto colpo di tosse, «sono ormai adulti. Un paio di anni fa si è scoperto che altri non erano che i figli naturali del defunto Mitsumasa Kido, e alcuni di loro occupano attualmente ruoli chiave della Fondazione Grado. Spartita la torta – se mi passate la metafora - Saori, l’erede universale a questo punto non più tale, ha deciso di ritirarsi definitivamente dalla gestione della Fondazione, isolandosi in un eremo in Grecia sei mesi l'anno e lasciando alle cure di questi ragazzi l'ingente patrimonio del vecchio patriarca.»
Frattanto, sullo schermo scorrevano le immagini dei diretti interessati, uno per uno, sia durante la Guerra Galattica, sia attraverso immagini più recenti, rubate da eventi pubblici a cui avevano partecipato come rampolli di una delle più ricche famiglie di tutta l'Asia Orientale.
«Abbiamo scoperto che la forza di questi ragazzi risiede nella capacità di avere libero accesso ad un'energia chiamata Cosmo, che permette loro di compiere azioni prodigiose. Sbriciolare massi come fossero di polistirolo o correre come se avessero le ali ai piedi, solo per portarvi un paio di esempi», proseguì la dottoressa Karamazova leggendo la lista di informazioni raccolte durante quegli anni. «I dati raccolti ed analizzati ci hanno fornito un profilo esaustivo di ciò che state cercando. Ebbene, questi ragazzi potrebbero essere l'arma definitiva che vi permetterebbe di sbaragliare la concorrenza.»
«Una sorta di super soldato?», chiese un giovane, dai capelli biondi e dall'accento sguaiato, con una cravatta da vaccaio al collo. «Come nei fumetti?»
«Esatto, mister Griffith»,  intervenne Volonskij, «solo che, questa volta, potreste ottenere dei dati concreti, invece che pagine disegnate per bambini delle elementari.»
Un brusio sommesso si levò dal tavolo. Volonskij inspirò una profonda boccata di fumo, divertendosi a tracciare degli anelli in aria, completamente dimentico del luogo e dell'occasione in cui si trovava. Irina Karamazova, conclusa la presentazione, aveva estratto il supporto nero dal portatile e l'aveva riposto in una custodia di pelle all'interno della borsa.

L'uomo seduto sulla poltrona nera si decise a voltarsi verso i suoi ospiti; dall'oscurità in cui si trovava erano riconoscibili solo le sue curatissime mani ingioiellate ed il Devon Rex che aveva in grembo.
«Quindi, dottor Volonskij?», lo esortò l'uomo sorridendo sornione, rivelando una fila di candidi denti che brillarono al buio.
«Quindi, credo di aver trovato l'elemento instabile, l'anello debole della catena, passatemi il gioco di parole…», rispose l'uomo sfogliando il dossier solo per fermarsi alle ultime pagine. «Trovate la sua immagine a pagina trentadue. Se per voi va bene, inizierei con lui, come prima cavia.»
«Vada, dottor Volonskij. Ha tempo tre mesi per portarci qui questa ragazza.»
«Mi duole contraddirla, signore, ma si tratta di un ragazzo», lo corresse lo scienziato sorridendo: lui stesso, tempo addietro, aveva scambiato i suoi tratti efebici per quelli di una dolce fanciullina indifesa.
«Ragazzo? Beh, è lo stesso!», disse l'uomo alzandosi, il gatto placido tra le braccia, ed uscendo dalla sala. «Tre mesi, dottore. Non un giorno di più!», concluse scomparendo oltre una porta nascosta, seguito dagli altri convenuti.
Rimasti soli, Irina e Volonskij raccolsero le proprie attrezzature e percorsero a ritroso la strada che li aveva condotti all'ultimo piano, in assoluto silenzio.
La pioggia aveva ormai smesso di scendere quando salirono nuovamente in auto.
«Dove desidera andare, signore?», chiese l'autista aggiustandosi la visiera del berretto.
«All'aeroporto», rispose spiccio l'uomo. «Irina, prenota due posti in business class sul primo volo per Tokyo», ordinò incrociando le braccia e guardando fisso dinanzi a sé, mentre un sorriso di vittoria andava dipingendosi sui tratti spigolosi del suo volto.



Note:
Deep Blue Eyes è una storia vecchiotta che a settembre compirà dieci anni. Due lustri in cui ne sono successe di cose. In più, questa storia m’è scappata di mano ad un certo punto – a voi non succede mai? – e credevo di dovermi arrendere, lasciandola incompiuta.
E invece no.
Forse ho trovato la soluzione, ma per arrivare a scrivere la parola fine ho dovuto prendere la dolorosa decisione di tagliare, tagliare, tagliare.
Non i rami narrativi – quelli ci sono tutti e guai a chi li tocca – ma gli orpelli. Quello che appesantiva, ma non arricchiva la narrazione. Speriamo ne sia valsa la pena.

Deep Blue Eyes è nata da un’idea dell’allora mio fidanzato - oggi mio marito. “E se il nemico, per una volta, non fosse l’ennesima divinità uscita fuori da un pantheon improbabile e svegliatasi con la luna storta?”, mi suggerì.
Questa è la risposta, e, come per Il Rimpianto di una Stella Cadente, ho attinto moltissimo alla mitologia dei fumetti a stelle e strisce. Dalla Casa delle Idee (Altrui, corsivi miei), semmai ve lo steste chiedendo, e ben prima che i film sui Vendicatori conquistassero i botteghini - all’epoca c’erano stati solo le serie di X-men e di Spiderman. (No, Daredevil, Electra, Ghost Rider e Fantastic 4 NON li conto. Problemi?).
Non c’è abbastanza materiale per poter parlare di un cross-over. Preoccupatevi quando vedrete apparire i Kirby dots

E,dulcis in fundo, un grazie va a Sen. E a chi ha così tanto voluto questa storia da convincermi a ripubblicarla. Perché i desideri, a volte, si avverano.


per chi l'ha visto e per chi non c'era 
e per chi quel giorno lì 
inseguiva una sua chimera. 

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.



L'autunno era arrivato, finalmente.
L’aveva sentito avvicinarsi nelle ultime giornate di Agosto, nel vento freddo che correva per le strade e sulla sua pelle durante le serate trascorse in riva al mare attorno a fiammeggianti falò, tra canzoni urlate alla luna e a birre tenute in fresco sotto la sabbia.
L'aria era cambiata.
L’afa della canicola aveva ceduto il passo ad un sospiro sempre più fresco, che si era pian piano tramutato nel vento di settembre, ma di giorno faceva ancora abbastanza caldo perché si potesse girare in maniche di camicia, o con i pantaloni leggeri, come quelli di jersey che si era regalata durante i saldi di un paio di anni fa.
Le piacevano quei pantaloni di un delicato celeste che le fasciavano alla perfezione le gambe e mettevano in risalto il verde dei suoi occhi. E che le erano costati veramente poco, altro pregio da non sottovalutare. E che piacevano a lui; gliel'aveva detto qualche giorno prima, dopo averle rovesciato addosso un intero boccale di birra, costringendola a porre fine alla serata e a rincasare in fretta e furia per cambiarsi, farsi una doccia e togliersi di dosso l'olezzo del luppolo fermentato.

Mi dispiace, sul serio! Peccato, questi pantaloni ti stanno così bene!

Uno spiffero traditore le soffiò sulle schiena regalandole un'impeccabile quanto improvvisa pelle d'oca; si strinse nel golfino di cotone giallo sole e richiuse la finestra alle sue spalle. Si stava facendo tardi ed era ora di preparare la cena.
Accese la luce sopra la macchina del gas, incuneata alla perfezione nell'ampio angolo cottura che fungeva da cucina all'interno del suo appartamento. Appartamento che in realtà era un monolocale costituito da una stanza di sì e no cinquanta metri quadri, un bagno all'occidentale - stranamente senza vasca, né bidè - ed uno striminzito angolo cottura.
Chi aveva compilato quell'annuncio aveva omesso le reali dimensioni della casa, ma su una cosa, almeno, era stato sincero: l'affitto era estremamente basso. E dati i chiari di luna a cui erano abitualmente soggette le sue finanze, poco le importava che la sua casa non fosse una reggia: le bastava avere un tetto sulla testa, fresco d'estate e caldo d'inverno, dove potersi rifugiare per dormire e mangiare. 
E a tal proposito, cosa preparare per cena?
Aprì il piccolo frigorifero e ne passò in rassegna il contenuto: Calpis, frutta fresca - costata un occhio della testa - un cartone di latte a metà, tre uova, un golfino di cachemire rosa e delle scatole di cibi precotti acquistati al convenience store all'angolo.
E questo?, pensò studiando con sospetto il maglioncino che riposava accanto alle quattro cose che la guardavano perplesse dai ripiani del frigorifero. A chi toccava fare la spesa?
Richiuse lo sportello e si alzò, stirando il muscoli della schiena. Sono a pezzi, ma devo sforzarmi di mangiare qualcosa, altrimenti come farò ad alzarmi, domattina?
Solo a formulare quel pensiero ebbe di nuovo i crampi ai piedi: non era certo piacevole restare per otto ore dritta come una statua ad ascoltare con stoica pazienza i desideri della clientela con il sorriso sulle labbra piegando maglie, pantaloni e camicette; ma doveva pur campare, giusto? E la sua idea di indipendenza non prevedeva in alcun modo qualsivoglia finanziamento da parte della Fondazione. La libertà costa cara, purtroppo...
Sospirò aprendo un'anta del pensile al lato dello scolapiatti: dentro c'erano un paio di pacchi di pasta, del riso e una scatoletta di tonno sott'olio.
Pasta al tonno!, decise prendendo gli ingredienti necessari e la pentola per l'acqua.


La luce fioca della luna piena filtrava attraverso le imposte semi accostate facendole compagnia mentre riordinava l'angolo cottura. Appeso lo strofinaccio al muro, spense la lampadina sopra i fornelli e si godette quel pallido chiarore seduta sul tatami, accanto alla finestra. Non passò molto tempo che sentì la chiave girare nella serratura, la porta d'ingresso aprirsi lentamente e l’interruttore scattare all’insù.
«E tu che ci fai qui?», le chiese Françoise chiudendosi la porta alle spalle.
«Ci vivo, ricordi?», rispose Shaina schermandosi gli occhi con la mano destra.
«Questo lo so», rispose l’altra liberandosi delle scarpe nel genkan. «Intendevo dire, come mai sei già a casa? Non sei andata con gli altri? Da quando in qua ti piace ammirare la luna, come i lupi mannari? »
«Avevo mal di testa. Ti spiacerebbe spegnere la luce…»
Il pallore argenteo della luna inondò nuovamente la stanza e la borsa e la giacca di Françoise caddero dimenticate sul pavimento.
«Giornata dura, eh?»
«Non più del solito.» Shaina la sentì aprire il frigorifero alla ricerca di cibo, richiuderlo ed annusare l’aria come l’avrebbe fatto un cane da caccia.
«Pasta al tonno? A saperlo sarei rientrata per cena invece di andare al cinema…»
Shaina tacque. Era stanca, e non sapeva come entrare in argomento. «Che cosa hai visto? »
«Una pallottola spuntata 2 ½», rispose Françoise scomparendo dietro il separé che divideva la zona giorno dalla zona notte. Riapparve subito dopo, con il pigiama indosso e i capelli legati.
«In quale cinema?»
L’altra la guardò perplessa.
«Quello a tre isolati da qui. Non ricordo come si chiami. Tutto a posto?»
Shaina scosse la testa. «No. Siamo preoccupati per Shun.»
«Shun? E perché mai?», chiese l’altra avvicinandosi.
«Tu da quant’è che non lo vedi?»
Françoise fece spallucce. «Non saprei. Un paio di mesi?»
«Non abbiamo sue notizie da un mese e mezzo. Non si fa vedere né a Kido Manor, né con gli altri…»
«Forse si sarà rotto le palle di passare le serate davanti al falò?», propose Françoise accomodandosi sul tatami.
Shaina le scoccò un’occhiataccia. Sono sicura che se con noi venisse anche un certo ragazzo dagli occhi blu, staresti in prima fila davanti al falò…
«Forse», concesse Shaina.
«Seriamente… magari si sarà scocciato di reggere il moccolo a voi quattro. O avrà trovato qualche altra cosa da fare… no?»
«Non so. Se si fosse trattato di Ikki, ti avrei dato ragione, ma Shun non è un tipo asociale come suo fratello. Anzi. È sempre pronto ad unirsi agli altri per passare del tempo insieme. Non mi sembra da lui sparire in questo modo.»
«D’accordo, ma non può essere che si sia trovato una ragazza?», chiese Françoise allargando le braccia.
Shaina scosse la testa. «Non credo. E June non lo vede da circa sei mesi», le confidò, incrociando le braccia davanti a sé.
«Cosa, cosa, cosa? Avete chiesto a June se avesse notizie di Shun?», chiese l'altra sgranando gli occhi. «Ma sei impazzita?»
«Tu che avresti fatto?»
«Di sicuro non avrei chiamato June! Andiamo, Shaina, quella ragazza è stracotta di Shun, ma onestamente non mi pare che lui ricambi la cortesia!»
«Dici?», chiese Shaina perplessa.
«Ossignore, ma quanti anni hai?»
«Ventidue…», rispose l'altra.
«E Shun? No, non dirmelo, lo so che ne ha diciannove, grazie! Quel che volevo dire è che se un ragazzo di diciannove anni ancora non ha combinato nulla con una ragazza che sa essere stracotta di lui, un motivo ci sarà!»
«Non vorrai insinuare che…»
«No. Guarda, da come scruta le belle ragazze, escludo categoricamente una sua omosessualità!», si affrettò a spiegarle l'altra. «Intendevo solo dire che forse si sarà trovato un'altra ragazza. Qualcuna che non appartiene a questo mondo. E che adesso lui sia talmente preso da lei da dimenticarsi per un po' gli amici… Onestamente, penso che ci siano cose più divertenti da fare in due che passare la sera accanto al fuoco a sbraitare canzoni vecchie e stravecchie, no?»
«E tu che ne sai?», la punzecchiò Shaina con fare canzonatorio. «Non mi pare di averti mai visto accanto ad alcun ragazzo…»
«Non ho ancora trovato il tipo giusto», si difese alzandosi in fretta.
«Non sarà per Hyoga, vero?»
Françoise si voltò. «Che c’entra Hyoga, adesso? Non sta con quella… quella ragazzetta slavata?»
«Si chiama Erii.»
«Erii, Erin, o come si chiama lei. Ha problemi pure lui? E cosa siamo diventate? Due angeli custodi?»
Shaina scosse la testa.
«Hyoga sta benissimo. Da quando ha conosciuto Erii è molto più tranquillo. A detta di Seiya.» Quindi?, le suggerì l’espressione perplessa di Françoise. «Mi chiedevo se tu non venissi con noi a causa loro.»
«Per Hyoga ed… Erii?», domandò l’altra prima di scuotere la testa. Troppo in fretta, pensò Shaina. «No, no, no, lui non è proprio il mio tipo.»
«E quale sarebbe il tuo tipo?», domandò Shaina voltandosi verso di lei.
«Quando lo troverò, te lo presenterò. E stai tranquilla, non si tratta di Seiya.»
Françoise si allontanò, decisa a mettere fine a quella conversazione, ma Shaina non era del suo stesso avviso.
«Comunque sia, una decina di giorni fa Seiya è andato a trovare Shun per invitarlo alla grigliata sulla spiaggia, ma siccome il suo telefono risultava occupato è andato direttamente a casa sua.»
«E?» Françoise l’esortò a continuare con un cenno della mano ed un sonoro sbadiglio.
«E Seiya ha trovato Hyoga fuori casa di Shun che bussava come un disperato, ma quello niente, non rispondeva.»
«Possibile che fosse uscito?»
«No, le finestre erano aperte e sai quanto sia preciso Shun.»
«Da rasentare la patologia», commentò l'altra, che era il Caos incarnato.
«Appunto, quindi doveva essere in casa. Così Seiya... ha pensato bene di sfondare la porta.»
«Ma è pazzo?» trasalì Françoise, mettendosi a sedere sul proprio letto.
«Ok, ha esagerato, e gliel'ho detto anche io», tagliò corto Shaina, «ma il punto è un altro. Shun dormiva. Ma non da un ora o due. A giudicare dal casino che Seiya e Hyoga hanno trovato là dentro, hanno ipotizzato che Shun abbia dormito per un paio di giorni filati. E che se non l'avessero disturbato, avrebbe proseguito a lungo.»
«Sarà fuori fase?», tentò di spiegare Françoise.
«Tu ce lo vedi Shun a campare in una casa con il cestino dell'immondizia straripante di rifiuti?»
 Dio che orrore! «No…»
«Casa sua è di strada. Non è che tornando potresti…»
Françoise serrò la mascella. «Io domani lavoro. Perché non ci passa Seiya? Lui non ha nulla da fare tutto il santo giorno, no?»
«L’ho convinto a non andarci. Non vorrei che facesse un’altra sciocchezza. E io non posso, lavoro da tutt’altra parte…  Lavori domestici esentati per tre settimane.»
«Un mese o non se ne fa nulla.»
«Andata.» Le seccava chiedere aiuto a Françoise, ma non vedeva altra soluzione. E poi voleva avere un punto di vista più freddo e distaccato di quelli di Seiya e Hyoga.
 «E va bene vorrà dire che domani gli farò una visitina portandogli la cena. Tanto sono di strada», promise la ragazza. Shaina sentì il fruscio delle lenzuola smosse, il cuscino sprimacciato e poi il silenzio. Si voltò a fissare la luna.


La cassetta della posta straripante di pubblicità e bollette non pagate, lo zerbino accostato al lato della porta, ed infine il campanello che suonava a vuoto. Qualcuno l’aveva staccato, ma chi?
Shun? Possibile? Françoise rimase con il pacchetto della rosticceria cinese tra le mani a fissare quelle assi di rovere verniciate di bianco per un buon quarto d'ora, vagliando nella sua testa ogni risposta plausibile per quella situazione che definire anomala costituiva un eufemismo. Si decise infine a bussare alla porta di casa. Nulla. Al decimo toc toc si affacciò timorosa una donna dall'appartamento accanto a quello di Shun.
«Chi è lei? Desidera?»
Françoise si voltò, felice di aver trovato qualcuno che potesse rispondere alle domande che le frullavano nella testa. «Buonasera, signora…», fece cercando di apparire una dolce ed ingenua fanciullina. O almeno provandoci.
«Buonasera?», rispose l'altra donna inarcando elegantemente un sopracciglio ed emergendo da dietro la catenella con cui si proteggeva dagli intrusi. «Ma se sono appena le tredici?»
Maledetta precisione nipponica!, maledisse Françoise mentre sfoderava un caldo sorriso a quella massa di bigodini tenuti assieme da una retina piena di buchi che aveva sicuramente visto tempi migliori. Almeno trent'anni fa.
«Lei chi è?», le domandò la donna con un tono degno dell'Ispettore Derrick dei tempi d'oro. «E perché continua a dare spallate alla porta del signor Kido?»
Veramente stavo solo bussando… «Vede, signora», iniziò a dirle Françoise assumendo un'aria disinvolta, anche se la situazione in cui versava casa di Shun non era delle più rassicuranti. «Sono un'amica del signor Kido, e sono passata a vedere come sta perché è da qualche tempo che non abbiamo sue notizie.»
Non era proprio una bugia, giusto?
La signora aprì maggiormente la porta di casa ed apparve sul ballatoio dello stabile con indosso una vestaglia rosa degna di una pin up degli anni '50, con il peluche sintetico sullo scollo, ai polsi e al bordo.
Le mancano solo le ciabattine con il tacco ed il pon pon sulla tomaia per essere perfetta!, pensò la ragazza sforzandosi di non ridere.
«Così lei ha detto di essere un'amica del signor Kido…», iniziò a dire la donna: si vedeva lontano un chilometro che la ragazza non le era molto simpatica, e la cortesia era ampiamente ricambiata. «E come mai io non l'ho mai vista?»
«Forse non avrà fatto caso a me», le rispose sorridendo.
«Ne dubito, appariscente com’è», ribatté la donna, scrutandola da dietro la montatura stagionata.
Appariscente? Françoise si constrinse a sorridere, covando dentro di sé tutta l'antipatia che la donna che aveva davanti non aiutava a smorzare.
«Il signor Kido frequenta strana gente, se lo lasci dire. Comunque sia», tagliò corto la donna sentendo la sigla d'inizio di un programma televisivo, «quel ragazzo mi preoccupa. È un problema. Dorme tutto il santo giorno, per uscire dalla sua tana solo verso le nove! Vorrei proprio sapere che fa! Ah, ma non pensi che io sia una di quelle che s'impiccia di ciò che fanno i miei vicini, sa?»
«Come potrei, signora? Anzi, le sono grata per avermi dato delle informazioni su Shun», le rispose Françoise. Se tu non sei una ficcanaso, io sono Babbo Natale in gita premio!, pensò la ragazza accompagnando le sue parole con uno di quei sorrisi leziosi che aveva imparato a fare osservando le ragazze giapponesi.
«Badi bene, signorina!», l'ammonì la donna con l'indice destro ben teso in alto. «Dica al suo amico di cominciare a fare una vita regolare! E di smetterla di frequentare gente poco raccomandabile!», sbraitò rientrando e serrandosi l'uscio di casa alle spalle.
«Aspetti!», le fece la ragazza, ma oramai la donna si era trincerata a tripla mandata dietro una massiccia porta di legno. Maledetta idiota!, ruggì Françoise nella propria testa stringendo impercettibilmente il pacchetto della rosticceria. Mi ha detto tutto, tranne le cose veramente importanti! E chi sarebbe questa gente poco raccomandabile, sentiamo?! Spero che ti esploda il televisore sul più bello!
Tornò davanti la porta di Shun, provando nuovamente a bussare, nella speranza che il cicaleccio della vecchia megera fosse riuscito a svegliarlo.
«Le ho detto che dorme!», ruggì la signora non appena la ragazza bussò sul legno bianco. «Se non se ne va, chiamo la Polizia!»
Françoise decise che se quella megera avesse chiamato la polizia non le avrebbe fatto altro che un favore! Almeno, li avrebbe costretti a buttar giù la porta per vedere come diavolo stesse Shun!
Espanse il proprio Cosmo, cercando di captare quello dell'altro ragazzo: niente. E le spiegazioni potevano essere soltanto due. O Shun non era in casa – e qusto invalidava le parole della megera – oppure Shun stava dormendo. E della grossa per giunta! 
Si arrese: non aveva senso chiamare la polizia, l'aviazione e l'esercito, cosa che avrebbe fatto tra due secondi netti quell'impicciona dietro la porta accanto, solo per aprire un appartamento vuoto o tirare giù dal letto un pigrone.
Sentendosi gli occhi della donna addosso, frugò nella borsa e ne estrasse un foglio di carta ed una penna. Scrisse un breve messaggio e introdusse la carta e pacchetto attraverso la fessura della posta, cercando di far entrare per intero la corrispondenza e il cibo.
Almeno avrà qualcosa da mettere sotto i denti stasera; non vorrei che se lasciassi qui fuori il pacchetto, vi pasteggiassero i gatti o qualche cane randagio. O peggio ancora quella rompipalle, pensò introducendo a fatica il suo presente per Shun ed alzandosi sbattendo tra loro le mani.


«Sì… Ti ripeto che la vicina mi ha detto che dorme sempre e che esce di casa solo alle nove passate. Eh? E che ne so io dov’è che va? Fai un salto a casa sua e chiedi alla vecchia, tanto sono sicura che saprà anche quello e quante volte Shun vada al bagno!»
Appoggiata al telefono privato del supermercato in cui lavorava, Françoise parlava con la propria coinquilina raccontandole com'era andata la visita al disperso di Russia. Ovviamente, lei non si era ricordata di chiamare Shaina subito dopo la sua missione. Tanto, glielo racconterò stasera dopo cena, ammesso che non se ne vada fuori con quel suo fidanzato…anzi! Speriamo che non si porti dietro tutta l'allegra brigata, o mi toccherà cucinare per un esercito!, aveva pensato infilandosi, nuovamente in ritardo, la divisa bianca e rosa e chiedendosi perché le gelataie dovessero avere delle uniformi al limite dell'idiozia.
Quindi, aveva preso posto dietro il carretto dei gelati di cartone che il figlio del padrone aveva appositamente costruito la sera prima.
Il carretto passava e quell'uomo gridava "Gelati!".
Alla metà del pomeriggio aveva dedotto che tutti gli eredi di coloro che avevano un esercizio commerciale fossero degli idioti integrali: il carretto era storto, pendeva come e più della torre di Pisa e ogni volta che doveva sporgersi oltre, dava solenni zuccate alle stecche interne che quell'idiota patentato aveva inchiodato al cartone per tenerlo più stabile.
 Ma perché non ha fatto 'sto coso con le mie misure, invece che con le sue?, pensava massaggiandosi i bernoccoli che aveva riportato in battaglia.
Così, presa a lottare contro quel trabiccolo, le era del tutto passato di mente l'incontro ravvicinato del quarto tipo che aveva avuto nel primo pomeriggio; almeno fino a quando Shaina non l'aveva chiamata per avere notizie di Shun.
«Senti, se resto ancora al telefono, mi linciano», le disse ricorrendo all'italiano, sentendosi addosso gli occhi affilati del signor Hashida figlio. «Ne parliamo stasera a cena!»
«Benissimo, avviso subito Seiya allora!», le disse Shaina attaccando alla velocità della luce, prima ancora che la mente di Françoise potesse registrare quanto avesse appena ascoltato. Rimase a fissare la cornetta del telefono da cui usciva un monotono e snervante "tu-tu" che pareva prenderla in giro.
Merde!


Quella sera, al suo rientro a casa, trovò nel genkan  tre paia di scarpe, oltre a quelle di Shaina, e due deliziose décolleté rosso ciliegia con il tacco a rocchetto. La vista di quelle calzature mitigò per un istante la rabbia di trovarsi la casa invasa da gente con cui meno aveva a che fare e meglio stava e che sentiva cicaleggiare nel monolocale.
Chissà se abbiamo lo stesso numero, pensò prendendone una in mano e saggiandone la fattura: un buon prodotto, tutto sommato.
«No, non sono nel tuo stile.»
Trasalì e alzò lo sguardo: un paio di occhi blu la stavano osservando curiosi da chissà quanto tempo.
Mi ha vista mentre? «Buonasera», ribatté Françoise interdetta davanti a quell'ospite assolutamente imprevisto. Rimise a posto la scarpa e si tolse le sue. «Quanto tempo…»
«Kalispèra», fece l'altro abbozzando un inchino con un’espressione divertita negli occhi, mentre le voci degli altri convitati ricominciavano a riempire nuovamente la casa. «Mancavi solo tu», le disse porgendole la mano.
Quando acchiappo Shaina giuro che le cavo gli occhi, pensò salendo il gradino, ignorando quella mano e salutando alla spicciolata gli ospiti, per poi dirigersi dietro il paravento. Era proprio necessario invitare anche lui?!


Note:

Il >genkan è lo spazio che si trova all'ingresso delle case orientali, dove si lasciano le scarpe per indossare le pantofole.

Kalispèra significa "buonasera" in greco.

Sì, non ho resistito ad aspettare martedì per postare il secondo capitolo. Ma dalla prossima settimana, non si sgarra. Un capitolo ogni sette giorni.
Per chi non la conoscesse, Françoise è la prima versione di  Φ; appare per la prima volta in Il Rimpianto di una Stella Cadente e Gold!, di cui questa storia è l'epilogo. State tranquilli, la loro lettura  non è necessaria  per la comprensione di questa vicenda.
E garrula come un fringuello a primavera, vi lascio con la piantina dell'appartamento #23, quello abitato da Shaina e Françoise, realizzata da CowgirlSara. Thank you, my dear! 

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.
 



«Non so se stupirmi più del fatto che June abbia il telefono o che tu l'abbia chiamata», concluse Hyoga addentando al volo la porzione di dolmàdes che Shaina aveva amorevolmente cucinato per il suo Seiya.
«Volevo fare gli auguri di compleanno a Shun. Pensavo fosse da lei.»
In realtà, l’Ofiuco aveva sperato con tutto il cuore che Seiya non chiamasse anche il resto dell'allegra brigata, ma vedendosi arrivare in massa lui, Hyoga e la sua Erii, e, udite udite,  Milo – «È ospite a Kido Manor, non potevamo non invitarlo, no?», si era giustificato Pegaso – era stata costretta a fare buon viso a cattivo gioco e ad incrementare le porzioni.
Per fortuna Erii è molto abile ai fornelli, ammise sollevata, comparando gli involtini che aveva fatto lei a quelli preparati dalla ragazza: mentre i suoi erano sgraziati e un po' goffi, ma fatti con amore, quelli di Erii si presentavano meticolosamente simili l'uno all'altro, come se fossero usciti da un libro di ricette. 
Ed erano anche gustosi: sia Seiya che Hyoga avevano fatto onore alla tavola, spazzolandoseli per bene, mentre Milo, degustando il vino con l'aria di chi la sa lunga, era presto rimasto a bocca asciutta.
«Io mi stupisco di come June non sia ancora arrivata…», disse Seiya brandendo le proprie bacchette come se fossero state una spada.
«Ricordati che ha pur sempre degli allievi da seguire, non può certo mollare baracca e burattini così su due piedi», provò a mediare Hyoga, mentre Erii osservava Milo: era intento a non perdersi una sola parola del battibecco tra il Cigno e Pegaso. È preoccupato. Più di quanto non voglia dare a vedere.
«Così su due piedi?!» Seiya quasi sputò il ripieno dei dolmàdes. «Stiamo parlando di Shun, non del primo che passa! Ti sembra normale che passi tutto il suo tempo a dormire?»
«Shun è vivo e vegeto! E se non ci credi, dovresti andare a sincerartene di persona, invece che star qui ad ingozzarti come un maiale all'ingrasso!», ringhiò basso Françoise, una vena che le pulsava pericolosamente sulla tempia.
Aria di guai, pensarono in simultanea Shaina e Hyoga, che avevano avuto modo di notare come la ragazza fosse alquanto nervosa quella sera. Difatti, appena entrata aveva sì e no salutato gli ospiti ed era sparita dietro il paravento che separava la zona giorno da quella notte per riemergerne solo pochi istanti prima di andare a mangiare. E una volta seduta a tavola, non aveva aperto bocca se non per azzannare famelicamente tutto ciò che avvicinava alle labbra.
Inutile rimarcare il fatto che lei e Milo si erano debitamente ignorati, mentre le sue posate – «Mangiare cibo europeo senza l’ausilio di coltello e forchetta è impensabile» – stridevano pericolosamente ogni volta che Erii se ne usciva con una risatina all'indirizzo di Hyoga.
Era rimasta in silenzio, studiando gli ingredienti di quella strana cena – dolmàdes, horiatiki e keftédes di verdura – e pentendosi di aver permesso a Saori di averla avuta nuovamente vinta. Vorrei che tu legassi con gli altri Saint, le aveva chiesto e lei aveva ceduto. Per quei suoi maledettissimi occhi che la facevano sentire maledettamente in colpa. Nonostante Capo Sounion. Nonostante l’Espiazione. Nonostante tutto. E lei lo sapeva.
 Non ce la posso fare, pensò scoccando un’occhiata di fuoco alla tavolata. Devo cambiare aria, si ripromise scansando le foglie di menta della salsa ed addentando un altro pezzo di feta.
«Chi sarebbe il maiale all'ingrasso, eh, strega?», sbraitò Seiya voltandosi verso la coinquilina della propria ragazza.
«Fai così con tutte?», rincarò la dose Françoise ripiegando con cura maniacale il tovagliolo accanto al proprio piatto. «Prima le insulti e poi ci provi?», concluse inarcando elegantemente un sopracciglio.
«Tu… Quanto vorrei che…», disse Seiya pentendosi un nanosecondo dopo dell'uscita infelice che aveva avuto.
«Che cosa?», l'incalzò la ragazza alzandosi in piedi e avvicinandosi pericolosamente a lui. «Che io non abitassi con la tua Shaina? Beh, è presto risolto! Abbi le palle di trovarti un lavoro come Dio comanda e andate a vivere insieme, così mi troverò una nuova coinquilina. Oppure aspetta che finisca Ottobre e io possa tornarmene in Grecia. O forse ti secca che io sia ancora viva e vegeta?»,  riprese ad inveire Françoise contro il povero malcapitato. «Beh, sappi che anche a me dispiace da morire che al posto tuo non ci sia mio fratello o un altro dei miei amici!»
«Gran begli amici, complimenti!», commentò Seiya alzandosi e ricambiando lo sguardo minaccioso della ragazza. «Così bravi da non riconoscere che il Sacerdote era malvagio… anzi, no, che dico? Lo sapevano beniss...»<


Ciaff


Milo s’irrigidì. Si era arrivati al punto di non ritorno.
Sentendo le lacrime farle capolino agli angoli degli occhi, Françoise fece un passo all’indietro e si avviò alla porta senza dire una parola.
«Ehi tu…», fece per reagire Seiya trattenuto prontamente per una spalla da Hyoga. Fermo, gli dissero gli occhi di ghiaccio del Cigno.
«Scusatemi», disse Shaina alzandosi e raggiungendo Françoise nel minuscolo genkan. «Ma che t'è preso?», le chiese ricorrendo all'italiano.
«Quando torno non li voglio trovare qui», sibilò l'altra a bassa voce, gelida, gli occhi simili a due lame affilate.
«Ma...»
«Questa è anche casa mia», l'interruppe la ragazza, «e se non ricordo male avevamo stabilito che qui dentro sarebbero potuti entrare ospiti solo se anche all'altra stava bene. O se era assente. Proprio per evitare malumori. Hai voluto fare di testa tua? Benissimo, adesso accetta le conseguenze!», concluse inchinandosi per infilarsi le Stan Smith e raccogliendo dall'attaccapanni una giacca in denim chiaro. «E se accettate un consiglio spassionato», fece rivolgendosi agli altri, mentre alzava il bavero della giacca sul collo, «invece che star qui a spararvi mille paranoie, dovreste andare a casa di Shun e vedere come sta con i vostri occhi!», concluse sbattendosi dietro la porta d'ingresso.


«Sei stato spiacevole», disse Shaina raccogliendo gli avanzi della cena e gettandoli tutti assieme nella pattumiera. «E alludo anche a Milo. Camus era un suo amico.»
«Cosa? Io sarei stato spiacevole?», le chiese Seiya strabuzzando gli occhi e lasciando nell'acquaio il piatto che stava lavando. «No, dico, tu dov'eri? Hai visto come quella pazza mi ha prima insultato e poi schiaffeggiato? E davanti a tutti, poi!»
«Ecco, veniamo al punto», disse lei sentendo i propri nervi sul punto di esplodere. «Che bisogno c'era di chiamare tutti quanti?»
«Cos'è, adesso parteggi per la tua amica? Te l'ho sempre detto che abitare con lei ti avrebbe cambiato!»
«Non rigirare la frittata!», disse Shaina avanzando di un passo verso di lui. «Perché li hai chiamati? E perché non mi hai avvisato per tempo?»
«Andiamo, Shun è nei guai e bisogna stilare un piano d'azione!»
«Riuniti attorno alla cena che io ho preparato?»
«Se l'avessi fatto io saremmo dovuti correre all'ospedale, lo sai», ribatté Seiya tanto per tenere il punto. «E poi Erii ti ha aiutato, mentre la tua amica non si è degnata di onorarci con la sua presenza finché non ci siamo seduti a tavola. O mi sbaglio?»
«Io credevo di cenare al massimo in tre, invece mi hai riempito la casa di gente!», insistette la ragazza alzando la voce.
«In tre? Ma tu sei pazza se credi che io mi azzardi a venire qua da solo quando c'è anche quella strega! Nossignore, non se ne parla!», rispose categorico lui, aumentando inconsapevolmente il tono.
«Hai paura di una ragazza?», lo sfotté Shaina con un sorrisetto ironico.
«No. Io quella non la sopporto proprio, è ben diverso. Passa tutto il suo tempo ad inveire contro gli altri e a lanciare insulti gratuiti. Deve ringraziare il fatto di essere una donna se ancora nessuno le ha dato una lezione su come si sta al mondo! E se devo essere sincero, la compagnia di quella pazza sta facendo un brutto effetto anche su di te!», concluse slacciandosi il grembiule a fiori e prendendo la sua giacca.
«Dove stai andando adesso?», gli urlò lei con la voce incrinata dal nervosismo.
«A fare quello che avrei dovuto fare da un bel pezzo!», rispose sbattendosi la porta d'ingresso alle spalle. 


L'atmosfera era un insieme di luci rosate, ricreate grazie a dei foulard posati sulle lampade, e musica ovattata di qualche complesso strappalacrime. Sui divanetti, posti ad anello accanto alle finestre, c’erano coppiette intente a sbaciucchiarsi, mentre il barista, un grosso uomo tarchiato sulla quarantina, lucidava con cura maniacale il metro quadro di bancone libero davanti a sé.
Ma dove sono finita?, si chiese inarcando un sopracciglio. Ripassò il percorso fatto dopo la deflagrazione avvenuta a cena.
Il porto.
Terzo molo a sinistra.
Ex capannone 27.
Un bar con la porta di metallo e l’insegna al neon allo stadio terminale. Dio, che squallore! 
«Cerchi compagnia, bambina?»
Il tanfo dell'alito di quell'uomo era agghiacciante. Magro, trent'anni o poco più, le si era avvicinato con un sorriso sbilenco, del tutto dimentico dei sette Alexander tracannati come fossero tamarindo. 
Non rispose e fece per uscire, quando lui la afferrò per la manica. E strinse.
«Ehi… che c'è bella? Posso pagarti, e bene anche…», ma prima che lei potesse spedirlo lungo disteso sul bancone, una mano si posò sulla spalla dell’uomo.
«Non credo che la signorina sia interessata…», e sentire quella voce familiare fu come scorgere la luce di casa nel fitto del bosco, di notte. Per un attimo soltanto uno soltanto. Ma fu sufficiente.
L'ubriaco si voltò e sorrise, una sorta di rantolo strozzato e nauseante.
«E tu che vuoi? Cerchi guai? Andiamo a discuterne fuori!»
«Certo, amico. Andiamo fuori…»


«Adesso sì che mi sono sfogata!», disse inspirando l’aria del mare a pieni polmoni. Sapeva di salsedine, nafta e cherosene, ma era fresca. Era pulita.
 «Era proprio necessario prendere quel poveraccio per le gambe ed infilarlo dentro ad un cassonetto?»
«Sì», rispose senza voltarsi. «E non ti ci mettere anche tu. Ho passato la giornata a dare testate ad un carretto di gelati sghembo!» Camminava un metro buono davanti a lui, il rumore della risacca che riempiva l’aria della notte. Devo ricordarmi di tirare fuori dall’armadio quel plaid che mi ha inviato Tonio il mese scorso, si disse guardando le stelle.
«Dovresti fare la gelataia, sai? Com'è che si dice, qui? Ah, sì… è nel tuo karma!», commentò lui con fare ironico.
«Karma un corno!», sbottò voltandosi, mentre in un angolo del suo cervello si diede della cretina per aver ceduto alla provocazione. «Aiolia?»
«Sta benone», ribatté Milo camminando, le mani in tasca e lo sguardo rivolto al cielo.
«Intendevo dire, perché non è qui?»
Lui abbassò il viso sul suo. «C’è stata un’emergenza», rispose lui.
E non era proprio una bugia. Perché l’emergenza c’era stata, sì, e se Aiolia fosse partito come da programma prima di chiarire le cose – prima di chiederle scusa, pensò lo Scorpione – Marin non gliel’avrebbe perdonata tanto facilmente.
«Le donne sanno essere tremende e molto, molto vendicative», aveva detto al Leone. Che c’era cascato con tutte le scarpe.
«Capisco….»
«Sembri dispiaciuta.»
«Dispiaciuta?»
Annuì. «Che al posto di Aiolia ci sia io.»
Sì. «No. No, figurati», si affrettò a chiarire lei. «Volevo solo capire. Tutto qui. Tu o Aiolia non fa differenza.»
Riprese a camminare e Milo la seguì. Affiancandola, stavolta.
«Quindi non sono io la causa di tanto nervosismo. È un sollievo.»
«Vorrei vedere te alle prese con quel deficiente che si comporta come se fosse il tuo migliore amico quando tu gli hai fatto chiaramente capire che lo detesti! E quell'altro idiota che tuba con quella sardina slavata quando dicono di avere un enoooorme problema…»
«Dunque», fece Milo. «Il deficiente è Seiya e l'idiota è Hyoga. Se adesso volessi tradurmi anche il resto, e farmi capire che diamine sta succedendo…»
«Tu che cosa sai?»
«Lascia perdere quello che so io», tagliò corto lui. «Dimmi. Quello. Che. Sai. La tua versione. E se ti stai chiedendo cosa diamine me ne importi, sappi che Athena è preoccupata. Molto preoccupata.»
Mi sembrava strano, pensò Françoise. Si fermò contro il parapetto, l’acqua era scura e profonda e di tanto in tanto gli schizzi arrivavano fino a loro. Le sue dita salirono ad accarezzare il ciondolo che portava al collo, percorrendone il contorno mentre raccoglieva le idee. Iniziò a raccontare.
«Da quel che so, Shun è sparito da qualche tempo. Anzi, no. Eclissato è la parola giusta.»
Milo si avvicinò, spalle al parapetto e orecchie tese.
«Così, stamattina sono andata anche io a casa di Shun. Me lo ha chiesto Shaina. Seiya non era il caso tornasse in zona. È una storia lunga. Non c’entra. Comunque, Shun dormiva. Ho sprecato la mia pausa pranzo per essere bastonata dalla vicina e sapere cose che quei deficienti sapevano già!»
«Cioè?»
«Shun dorme per quasi tutto il giorno, salvo poi uscire dalla sua tana la sera alle nove», rispose l'altra esasperata. «E il bello è che stasera, dopo essermi trovata casa invasa di gente», con tanto di te special guest star,«Seiya se ne esce che questa cosa la sapevano già!»
«E perché non sono andati direttamente da Shun alle nove?», le chiese Milo dando una rapida occhiata all'orologio. 
«È quello che mi chiedo anch'io!», disse Françoise voltandosi a cercare lo sguardo dell’altro. «Se sei certo e stracerto che il tuo amico stia passando dei guai, allora vai da lui, non ti riunisci come dei congiurati attorno al tavolo... della cena!»
Milo tacque, immerso nei suoi pensieri. Françoise rimase ad ascoltare il mare mentre cercava di studiare l’espressione del ragazzo al suo fianco. Non credi che il fatto stesso che Milo si trovasse a casa tua stasera possa significare che forse qualcosa di strano stia veramente accadendo?, le sussurrò una voce nella sua testa.
Quella sera mancava qualcuno, a quella cena improvvisata. Qualcuno che non era Shun. Era Saori.
«Saori…», l’occhiataccia di Milo la indusse a correggersi all’istante. «Athena. Perché non c’era anche lei?»
«Un evento mondano improrogabile. Jabu ha insistito così tanto che ha dovuto cedere…»
«Ed ha chiesto a te di venire e riferire, giusto?»
Milo annuì. Françoise era sicura al cento per cento che Saori sapesse cosa stesse passando Shun in quel momento, solo che, nella sua infinita magnanimità, aveva deciso di concedere il libero arbitrio al suo protetto. Tacquero per qualche minuto, fino a quando lo Scorpione non disse: «C’è qualcosa sotto…».
«Che ci sia qualcosa sotto, lo capisco anche io che sono scema…»
«Sono serio. Non dirmi che non te ne sei accorta?», le chiese guardandola negli occhi.
Françoise indietreggiò impercettibilmente. Accorta? Accorta di che?, si chiese corrugando le sopracciglia. E perché ci sei proprio tu, qui, invece che Aiolia?!
«Non te ne sei accorta», sentenziò Milo staccandosi dal parapetto e riprendendo a camminare.
«Accorta di che?», gli chiese Françoise trotterellandogli dietro. «Spiegati, non capisco!»
«Capirai, capirai tutto quando saremo arrivati.»
«Quando saremo arrivati dove? Si può sapere dove diamine stai andando?!»
«Ma dal desaparecido, no?», rispose Milo andando incontro al vento freddo di fine settembre.



Note: 
I dolmàdes sono gli involtini in foglia di vite, uno dei tanti mezédes, gli antipasti, della cucina greca. Il ripieno spazia dal riso, alla carne tritata, al riso e carne assieme, ma ci si può sbizzarrire seguendo il proprio estro culinario. È un piatto tipico della cucina levantina e di tutte quelle zone che appartenevano all'Impero Ottomano. «Dolma», in turco, significa ripieno (ma questo non ditelo mai ad un greco, o vi toglierebbe il saluto). Sono una droga e sono facilissimi da preparare. Tostate per alcuni minuti le foglie di vite in una padella antiaderente dopo averle sciacquate dalla salamoia.

L'horiatiki è quella che noi chiamiamo insalata greca. Horiatiki significa "del villaggio", a ricordare le origini contadine di questo piatto. La ricetta originale prevede pomodori tagliati in maniera grossolana, olive nere, cetrioli, feta spezzettata con le mani, cipolla tagliata ad anelli, pane. E abbondante olio extravergine d'oliva. Al nord si aggiungono i peperoni verdi (credo siano quelli che noi chiamiamo friggitelli), al sud, invece, i capperi. Quale che sia la vostra versione, metterete il pane sul fondo dell'insalatiera e poi verserete gli altri ingredienti. Lascerete insaporire per mezz'ora, cosicché il pane assorba il condimento. Una spolverata di origano fresco e buon appetito!

I keftèdes sono delle semplici polpette. Sono piccole, da mangiarsi in un boccone, e fritte. Si possono preparare di tonno, di carne macinata, ma anche di legumi e di verdure.

Mi rendo conto che in Giappone è pressoché raro l'uso delle posate, ma non è impossibile trovarne in vendita nei reparti di casalinghi dei grandi magazini (depato). Ho immaginato che due europee cerchino di ricreare un pochino di aria di casa, di quando in quando. Anche spendendo un capitale per acquistare la pasta al supermercato. E mangiare l'horiatiki con le bacchette è un suicidio.

L'emergenza di cui parla Milo, quella che ha costretto Aiolia a rimandare la partenza, è raccontata in Misteri Eleusini. Piano piano, inserisco tutti i pezzi.

Continuano i miei tentativi di fare la ruota del pavone, nonostante io non sia un pavone e, soprattutto, non sia un pavone maschio. Oggi vi mostro il ritratto di Françoise, sempre realizzato dalle sante manine di CowgirlSara. Il ciondolo di cui si parla nel capitolo è quello che appare al suo collo.

A martedì prossimo!

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Capitolo 4
*** 4. ***


 4.
 


Stupida, stupida, stupida!
Il freddo vento di fine Settembre l'aveva costretto a ripararsi la gola alzando il bavero della giacca e a camminare a passo spedito, le mani in tasca, verso una meta ben precisa.
 Shaina sei una stupida cocciuta!, pensava andando indietro col pensiero ad una mezzoretta prima, quando era arrivato ad un passo da una lite coi controfiocchi con la sua adorata Principessa.
Forse, anche se non l'avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura o scuoiato vivo, anche lui aveva la sua dose di colpe – responsabilità – nello sfogo di Françoise a cena; ma era possibile che finisse sempre per combinare un guaio ogni volta che apriva la bocca?

Io che posso farci? Anche se cerco di essere gentile con lei, quella mi manda fuori dai gangheri con la sua sola presenza!, si giustificò riparandosi il viso da uno spiffero più freddo. Con lei, come faccio, sbaglio. E se la ignoro, sbaglio, e se cerco di dimostrarmi amichevole, sbaglio. Che devo fare, allora? I salti mortali per una che nemmeno si degna di venirmi incontro? Santo cielo, convive con la mia ragazza, ma pure io che devo fare? Ignorarla, sapendo bene quanto Saori ci tenga a farla sentire una di noi? Potrebbe anche lei degnarsi di mostrarsi meno antipatica e scostante!

Calciò una lattina che sparì nel buio della notte, un paio di eco e nulla più.

All'inferno! Quella ragazza è un'idiota e prima Shaina lo capirà e deciderà di andarsene da quella casa, meglio sarà per tutti. Non mi sento del tutto tranquillo a saperla in compagnia di un'attaccabrighe della risma di Françoise… E temo che prima o poi si giunga ad un punto di non ritorno…

Continuò ad avanzare nella strada semi deserta, seguendo la propria voglia di camminare piuttosto che la via più breve da percorrere. Nella testa riviveva il pomeriggio appena trascorso. La telefonata di Shaina con le ultime notizie su Shun, la decisione della cena. 

Effettivamente, avrei anche potuto chiedere a lei, prima di fare di testa mia!, ammise a se stesso sotto la luce di un lampione in procinto di fulminarsi.
L'arrivo della ragazza e quel senso di pericolo imminente quando Françoise si era seduta a tavola ignorando debitamente Hyoga e Milo. E quella frecciatina al vetriolo che gli si era conficcata nella mente come un grosso chiodo nel muro.

«Abbi le palle di trovarti un lavoro come dio comanda e vai a vivere con lei!»

Adesso basta! Da domani mi cerco un lavoro come si deve e andiamo a comperare un bel letto matrimoniale!, pensò incupendosi ed avanzando di buon passo verso casa di Shun.


«Devo andare…», fece lei di malavoglia, la sagoma dell'orfanotrofio che si stagliava nel buio, oltre le sue spalle.
«Non puoi restare un altro minuto?», insistette lui sistemandole una ciocca color grano dietro l'orecchio.
«No… Sono già in ritardo, non vorrei che padre Ranmaru si preoccupasse per me, capisci?»
La strinse a sé, sapendo che aveva ragione lei, come al solito.
Riluttante, la sciolse dal suo abbraccio, sentendo il suo calore e il suo profumo svanire man mano che il corpo di lei si allontanava dal suo.
«Buona notte…», disse, mettendosi le mani in tasca e spostandosi indietro di un passo. Era quello il segnale convenuto per darsi la buonanotte, il momento in cui lui la lasciava tornare al suo mondo, fatto di bambini, risate e profumo di borotalco.
«Buonanotte», rispose lei sgattaiolando oltre la cancellata grigio scuro e salutandolo diverse volte con la mano finché non sparì dietro il pesante portone di rovere dell'orfanotrofio.
Andiamo, si disse incamminandosi verso il porto, le mani in tasca e la testa ad osservare il marciapiede sotto di sé.
Passò lungo un grande viale alberato che si affacciava sul mare, i cui negozi erano sempre uno scintillio di luci e colori durante tutto l'anno. Quello stesso pomeriggio si era attardato a camminare per quella stessa strada, seguito come sempre dal mormorio sommesso delle ragazzine che fissavano i suoi capelli d'oro e i suoi occhi di ghiaccio. E quando passeggiava con Erii accadeva anche che la gente li lasciasse passare, aprendosi impercettibilmente davanti a loro.
Erii.
Quella ragazza aveva una purezza che nemmeno l'avvento di Eris aveva potuto intaccare. Certo, da allora non aveva più lo stesso splendido sorriso, e a volte un'ombra fosca le velava lo sguardo; ma restava sempre la sua Erii, la dolce, tenera, calma Erii. Eterea, come un cristallo, e delicata, come un fiore di tarassaco che sta per essere spazzato via dal vento. Quella era l'unica cosa che lo preoccupava di lei: la sua fragilità. Era convinto che, per una qualsiasi ragione, un giorno si sarebbe voltato e non l'avrebbe più trovata al suo fianco.
A volte vorrei che Erii avesse un po’ della grinta che ha Françoise, pensò, senza badarci molto, senza fermarsi a riflettere che, a quel punto, non sarebbe stata più la sua Erii, ma un’altra persona.
Inutile dire che la serata aveva lasciato il segno. Sembrava proprio che l’astio fosse un sentimento difficile da debellare. Come una pianta di gramigna che, se non sradicata a dovere, torna a far capolino tra le aiuole.
Ma allora perché rimane qui in Giappone? Perché non ritorna in Europa e resta a disposizione?
Un gatto saltò giù da una catasta di rifiuti abbandonati e svanì nelle ombre di un giardino ben curato. 
Ancora un paio di svolte e sono arrivato, si disse osservando l'ombra del piccolo felino introdursi dentro un'alta siepe e stringendosi nelle spalle.


Lo stabile era immerso nell'oscurità della notte senza stelle. L'eco stonato di una sirena si spegneva in lontananza, verso il porto poco distante, mentre osservavano il fatiscente palazzo di due piani addormentato, con un'unica luce proveniente dal ballatoio del primo piano.
«Fammi indovinare…», fece Milo con il suo ritmo tamburellante ed il dialetto delle Cicladi.
«Sì, la vecchiaccia sta là», confermò Françoise alzando il bavero della giacca in denim. «Sono quasi le undici», osservò dando una fugace occhiata all'orologio che si era regalata con l'ultimo stipendio. «Direi che non è il caso di disturbare.»
«Oramai siamo qui e adesso entriamo!»
«Ma…»
«Ma un cazzo! Adesso tu sali con me su quelle scalette ed andiamo insieme a buttare giù dal letto Shun»,  le intimò Milo, fulminandola all'istante.
«E tu credi di trovarlo ancora in casa? Ti rammento che la vicina ha detto esplicitamente che Shun esce di casa ogni sera alle nove… e probabilmente vi farà ritorno all'alba, quando la vecchiaccia dorme», insistette Françoise incrociando le braccia davanti a sé.
«Seiya…»
«Tzè… quel deficiente!», l'interruppe facendo spallucce e voltandosi verso la strada per la quale erano venuti.
«Sai qual è il tuo problema, ragazza?», le fece Milo scuro in volto, tanto che l'altra iniziò a credere di aver pronunciato un insulto di troppo. Non attese una risposta e continuò: «Sei troppo occupata a pensare a come insultare la gente per accorgerti che forse qui l'unica deficiente sei proprio tu».
Si voltò verso il semaforo e premette il pulsante per la chiamata pedonale.
Rosso, giallo, blu e Milo attraversò l'ampia strada a due corsie che collegava il porto con la periferia est della città, senza curarsi della sua accompagnatrice, la quale, piccata per la frecciata, ma soprattutto per essersi fatta sfuggire l'occasione di rispondere a tono, girò sui tacchi e si concesse una passeggiata in solitaria verso il mare.
Milo arrivò al primo piano dello stabile e si voltò solo in quel momento.
Françoise era sparita nella notte.
Sa badare a se stessa, si disse proseguendo verso l'appartamento di Shun e tirando dritto davanti la porta della fantomatica vicina impicciona.


Disfece il nodo della regimental che indossava e lanciò la cravatta in un angolo imprecisato della stanza, a far compagnia alle altre che l'avevano preceduta attorno al suo collo. Ravviò un ciuffo all'indietro e si versò da bere in un lungo bicchiere di cristallo lavorato; tracannò il forte liquido ambrato tutto d'un sorso e decise di concedersene un altro in premio.
Dopo tutto sono stato bravo, no?, si disse sbottonandosi la camicia ed estraendone parte dai pantaloni di taglio italiano. Ho portato a termine un affare di quelli che capitano di rado nella vita!
Si avvicinò alla finestra e appoggiò un braccio sul vetro; fuori, le luci della città si andavano spegnendo a poco a poco, lasciando solo delle scie rosse che seguivano le rotte segnate dai semafori.

Domani mi prendo un giorno di vacanza! Al diavolo il lavoro, mi sono fatto un mazzo non indifferente lavorandomi il manager e tutta la squadra che gli ronzava attorno… Ho persino cenato due volte, dico due volte con quella racchiona della figlia del presidente… al solo pensiero mi si riattorcigliano le budella… Ma alla fine ce l'ho fatta! Ho strappato alla Mitsui un contratto vantaggiosissimo! Da favola! E senza rimetterci un solo centesimo!

Il riflesso del suo viso gli apparve stanco e provato; un velo di tristezza scese sugli occhi del giovane.

Sì… ma a me che me ne fotte della Mitsui, di quella racchiona della figlia del presidente e di tutta la baracca?, si chiese chiudendo la mano destra a pugno ed appoggiandovi contro la fronte aggrottata. Tanto, nemmeno a Saori interessa che fine facciano le imprese del "caro nonnino", figuriamoci a me! Tre mesi di lavoro impiegati per convincere dei deficienti integrali che un contratto a loro totalmente sfavorevole avrebbe portato dei benefici futuri e lei? Mi chiama per… per…

Strinse fra le dita il bicchiere di vetro che finì in una miriade di frammenti sulla moquette accanto ai suoi piedi.
«Merda!», imprecò scrollandosi di dosso le schegge e lanciando involontariamente qua e là delle gocce del proprio sangue. «Merda, merda, merda!»
Sferrò un paio di colpi al muro e si sedette sul bordo del letto a due piazze che troneggiava nella stanza, la testa tra le mani nell'inequivocabile posa dello sconfitto.
La voce della sua Saori che ancora gli rimbombava nelle orecchie, con lo stesso tono usato nel pomeriggio, quando l'aveva chiamata per informarla dell'andamento della trattativa con le Industrie Mitsui. 

Sai, Jabu… sono un po' preoccupata per Shun…

«Sono un po' preoccupata per Shun», mormorò facendole il verso e abbandonandosi all'indietro.
Allargò le braccia, dimentico del sangue che avrebbe potuto macchiare inevitabilmente le lenzuola di seta candida e strinse le palpebre finché non vide tutto bianco davanti a sé. Riaprì gli occhi e si ritrovò a fissare il soffitto immacolato della stanza.
«E per me? Ti sei mai preoccupata per me, Saori?», chiese all’aria, con un amaro sorriso sulle labbra. Era tutto inutile: per quanto lui facesse, non era mai in cima alla lista dei pensieri di Milady. Poteva lavorare come un mulo, presenziare a tutte le cene più impegnative oppure farsi ore e ore di guida pur di partecipare a questo o quel congresso, girare il mondo lungo tutti i meridiani e i paralleli esistenti; la sostanza dei pensieri di Saori non cambiava.
E Jabu non aveva alcuna possibilità di entrare nel merito di essi. Come uomo e come Santo.
Così, quando quel pomeriggio le aveva telefonato dall'aereo privato della Compagnia e aveva avuto quella notizia, il suo primissimo impulso era stato quello di staccare a mani nude la cornetta dal ricevitore e scagliarla contro le pareti d'acciaio del velivolo.
Tuttavia, aveva ingoiato l'ennesimo rospo ed era stato a sentire i dubbi e le preoccupazioni di quella ragazza. Gli era parso di vederla, piccolina, seduta, sprofondata quasi, nella grande poltrona di velluto rosso sangue che arredava da sola l'intero studio di Villa Kido, la cornetta tra le mani e quella fossetta che le si disegnava tra le sopracciglia ogni qual volta che Seiya e soci le davano un qualche minimo motivo di preoccupazione.
Seiya che stava ormai con Shaina. 

Così si leverà dai piedi una volta per tutte!

Shiryu che passava svariati mesi a Goro Ho senza degnarsi di dare sue notizie. 

Avrà altre priorità adesso, no?

Hyoga che dopo l'attacco di Eris aveva preso sotto la propria ala protettrice la dolce Erii. 

Uno in meno!

Ikki che partiva senza avere la decenza di salutare. 

Mai andato a genio quel ribelle!

E adesso ci si metteva anche Shun! Avrebbe voluto ricordare a Saori che ogni ragazzo sano e robusto si sarebbe cercato qualcuno da amare… o almeno una valvola di sfogo a quei bisogni fisiologi che ogni uomo di vent'anni prova; ma poi, l'immagine di lei, piccolina su quella sedia così imponente, si era sovrapposta all'ira e aveva finito per chiederle di raccontargli tutto per filo e per segno, come se gliene importasse qualcosa o come se avesse seriamente intenzione di aiutarla.
Cambia argomento! Parla di te e del vantaggiosissimo affare che hai strappato a quei gonzi della Mitsui!, gli aveva urlato una vocina nella sua testa, sicura di come sarebbero andate le cose se non fosse intervenuta all’istante, sterzando in modo brusco e dirigendo la conversazione su ben altri argomenti.
E alla fine, le cose erano andate come la vocina nella sua testa gli aveva predetto: si era seduto comodo e aveva chiesto a Saori di raccontargli in quali guai si fosse cacciato quel ragazzo.
«Sono proprio uno stronzo…», si disse abbandonando le mani tra le lenzuola e sospirando rumorosamente.
Sì, lo sapevano entrambi, sia lui che la voce nella sua testa: si sarebbe fatto in quattro pur di rivedere il sorriso increspare le delicate labbra della sua Saori e le avrebbe riportato il cagnolino bizzoso a palazzo, meritandosi un buffetto sulla spalla e la sua sempiterna gratitudine. 
Va bene Saori, va bene… Ti ritroverò la pecorella smarrita,ma non oggi, non oggi, mormorò tra sé e sé prima di scivolare nelle maglie del sonno.

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Capitolo 5
*** 5. ***


 5.
 


La sabbia era ancora calda. La sentiva scorrere tra le dita dei piedi e carezzarglieli con un delicato tepore, mentre le stelle brillavano opache sullo sfondo nero costituito da mare e cielo. Si sedette poco distante dalla riva, dove la rena iniziava a farsi leggermente più umida, e immerse le caviglie in un'improvvisata sabbiatura. Quindi, strettasi nella giacca, lasciò che la rabbia sbollisse, allontanandosi sul battere e levare delle onde.
Ma perché mai se l’era presa con Milo?
Perché la verità fa male. E quando te la sbattono in faccia, fa ancora più male.
Se sulla carta quel ragazzo era quanto di più vicino al suo carattere esistesse a questo mondo - entrambi schivi, entrambi solitari, amavano la compagnia del prossimo, pur  delineando un netto confine che nessuno doveva oltrepassare - all’atto pratico, Milo aveva la spiacevole abitudine di comportarsi alla stregua di un fratello maggiore. Come se fosse suo obbligo, suo preciso dovere, fare le veci di Étienne.
Mettendoci tanto zelo da risultare odioso, pesante e asfissiante, pensò osservando la sagoma scura di un pipistrello entrare nel cono di luce di un lampione.
E adesso dove la trovo una nuova coinquilina?
Dopo la piazzata a cena sarebbe stato opportuno cercare qualcun altro con cui dividere l'affitto e le bollette per il mese di ottobre – qualcuno che non avrebbe fatto troppo caso al disordine, alla sua vita senza orari fissi e allo scrigno d’oro riposto con cura nell’armadio – oppure sarebbe stato più indolore alloggiare a Kido Manor, pur se c’era lui, e tornare in Europa il prima possibile?
Shaina le era sembrata la candidata ideale, ma, come tutte le situazioni piacevoli, anche quella convivenza era destinata a finire.
Se Seiya avesse dimostrato di avere a cuore la propria dignità d'uomo, come Françoise credeva e come sperava per Shaina, si sarebbe trovato un lavoro con cui pagare l'affitto di una casa più grande nella quale convivere con la propria compagna.
Che strani tipi, quei due, pensò starnutendo e stringendosi ancora di più nella giacca.
Si era sempre chiesta come mai, pur avendo un proprio rifugio, Seiya non avesse mai proposto a Shaina di andare a vivere con lui nella mansarda sopra la darsena. Sembrava che quella ragazza non aspettasse altro, che diamine! 
Ma poi aveva capito: Shaina non avrebbe sopportato di essere mantenuta da Seiya, e questi, dal canto suo, non avrebbe mai chiesto alla sua donna di adattarsi a vivere in un posto che era a malapena sufficiente per lui.
Così, avevano deciso di non avere fretta e di stare insieme pur abitando in due appartamenti diversi; si erano, tuttavia, adagiati sugli allori, ed ora davano per scontata una situazione che, almeno stando alle parole di Shaina, doveva essere solo temporanea.
Magari ne verrà fuori qualcosa di buono, si disse, più per consolarsi e giustificare così la serata appena trascorsa, che per un effettiva certezza.
Un refolo molto più freddo degli altri la convinse dell'insensatezza della sua posizione: era quasi mezzanotte, si gelava e si trovava da sola in un luogo riservato a coppiette e gente di malaffare.
E l'ultima cosa che voglio stasera è incontrare due che pomiciano o qualcuno che sta spacciando, pensò scrollandosi la sabbia dai pantaloni e tornando sui propri passi, le scarpe allacciate tra loro sulle spalle e le mani in tasca.
Non si era resa conto di quanta strada avesse fatto camminando sulla spiaggia: arrivò fin nelle vicinanze della darsena, passando accanto a delle piccole barche, di quelle utilizzate per la pesca dei molluschi di fondo, rovesciate a pancia in su; l'odore intenso della vernice fresca che asciugava sul legno provato dalla salsedine la raggiunse in pieno, così come un mugolio mal celato proveniente da una barca proprio sulla sua strada.
Accidenti!, imprecò fermandosi di colpo. E adesso? Ma proprio vicino al lungomare dovevano mettersi a farlo questi due esibizionisti?
Una sagoma che si alzava l'indusse a nascondersi dietro una barchetta dalla chiglia erosa dal tempo e dall'uso, sperando che quei due finissero in fretta e non la notassero.
Ci manca solo che mi scambino per una guardona, imprecò tra sé e sé, accovacciandosi dietro le assi consunte, le ginocchia al petto.
Dieci minuti dopo, tra mugolii e sospiri affatto trattenuti, quei due non tradivano la benché minima intenzione di porre fine a quel rendez-vous amoroso.
Adesso basta, si disse tappandosi le orecchie con le mani e nascondendo la testa tra le ginocchia. Striscerò sulla sabbia e me ne andrò via! Non ne posso più di questa gallina che miagola "amore, amore, amore" come se fosse un disco rotto!
Si fece coraggio ed approfittando dell'acuirsi dei gridolini della ragazza si sdraiò sulla rena e strisciò verso il lungomare, pregando che non si interrompessero e non la notassero. Come avrebbe potuto spiegare che, se si trovava sulla spiaggia, era solo perché la propria coinquilina le aveva fatto trovare a cena - senza degnarsi d'avvisarla, - delle persone con cui meno aveva a che fare e meglio stava, cosa che le aveva fatto saltare la mosca al naso e le aveva fatto dire cose che non pensava veramente?
Beh… alcune, anzi buona parte delle cose che ho detto a Seiya le penso davvero, si ritrovò a riconoscere sgattaiolando a pancia sotto sulla sabbia oramai fredda.
Completamente sprofondata nei propri pensieri, non si accorse del percorso errato che aveva tracciato, e svoltando a destra si trovò di fronte la coppietta che stava cercando in tutti i modi di seminare: lei era accovacciata sopra di lui, e gli carezzava la testa con fare nervoso e spasmodico, mentre lui… lui…
La stava fissando dritto negli occhi, sorridendo e mostrandole una fila di denti candidi.
Cazzo!, pensò sentendosi il sangue gelare nelle vene.


«Non è in casa.»
Hyoga riconobbe l'accento di Milo provenire dal fondo del ballatoio su cui si affacciava l'appartamento di Shun: era appoggiato sulla ringhiera in ferro nero che aveva sicuramente visto tempi migliori, e sembrava che stesse aspettando qualcosa. O qualcuno.
«Sei qui da molto?», chiese avvicinandosi lentamente, le mani in tasca e lo sguardo distratto.
«Quaranta minuti», rispose Milo fissando un'insegna al neon mezzo fulminata. «E da allora, non si è visto nessuno. Nemmeno la vicina.»
«Dormirà anche lei, ogni tanto», commentò il Cigno appoggiando la schiena alla ringhiera.
Rimasero in silenzio per un po', mentre le strade si facevano sempre più deserte e i semafori viravano sul giallo fisso.
«Sto seriamente pensando di chiamare Ikki», disse Hyoga lo sguardo a vagare tra il buio ed i palazzi che si stagliavano contro il cielo nero.
Milo si limitò a fissare un punto imprecisato davanti a sé.
«Ma non so dove diamine possa essere andato a cacciarsi.»
«Abbiamo un problema, allora», commentò l’altro, cambiando posizione alle gambe.
«Già.»
«Rispondete solo a monosillabi, voi russi?», chiese lui guardandolo con la coda dell'occhio.
La luce dell'appartamento accanto restava accesa, mentre di quando in quando i suoni ovattati che uscivano dal televisore riempivano il silenzio dell'attesa.
«Seiya?», domandò Milo dopo una buona pausa concessa alle sue corde vocali.
«Non so. Credo sia rimasto a parlare con Shaina. Ci siamo separati poco dopo. Tu sei...», corso dietro a Françoise, «uscito ed io ho riaccompagnato Erii a casa.»
«Mmmh», fece Milo, come se si fosse scottato la lingua assaggiando qualcosa di troppo caldo. «Prevedo che quei due abbiano avuto un bello scontro d'opinioni.»
«Dici?»
«Sì…», fece Milo alzando il bavero della giacca e cominciando a temere di subire troppo l'influenza di tutta quella faccenda. Gli esseri umani sono bravissimi a complicarsi l’esistenza. «Hai visto anche tu che sguardo aveva Shaina stasera, no?», disse osservando il via vai di gatti in amore nel cortile su cui s'affacciava il ballatoio.
«Erii era preoccupata, ma non credo siano affari nostri», ammise Hyoga.
Milo tacque. Fissò il vicino per un paio di secondi, quindi scosse la testa per dirgli che era d’accordo, senza far rumore, e chinò gli occhi a guardare il pavimento di assi di ferro arrugginito davanti a sé.
Sprofondarono nuovamente nel silenzio, senza accorgersi che anche la vicina impicciona si era arresa ed aveva spento le luci.


Quando Seiya arrivò davanti al palazzo dove abitava Shun, vide lo stabile stagliarsi nel buio assoluto con una sagoma che definire spettrale era un eufemismo. La luna, piena come nella migliore tradizione da film horror, illuminava l'edificio anche se, a voler essere precisi, era piuttosto la palazzina che sembrava volerne arrestare la luce diafana.
Cominciamo bene, si disse mentre scrutava la strada che lo separava dal palazzo fatiscente. Attraversò l'incrocio e si diresse verso l'appartamento del suo amico, al primo piano in fondo al ballatoio. Le scale erano umide e avevano visto tempi migliori, erose dalla salsedine e dall'incuria degli abitanti. I muri parevano ammuffiti, mentre grosse chiazze verdastre decoravano l'esterno dell'intonaco che cadeva a pezzi sul pavimento consumato. I primi due appartamenti erano immersi nel buio, con gli zerbini allineati davanti la porta d'ingresso, mentre i successivi due davano l'impressione di essere abbandonati a loro stessi. 
Probabilmente sarà la casa di qualche studente, si disse tirando dritto. Riconobbe le due figure che stavano in fondo al corridoio, proprio davanti casa di Shun.
«Buonasera», salutò entrando nel cono di luce che abbracciava alle spalle Milo e Hyoga. «Immagino che non si sia ancora visto, vero?»
«Esatto», rispose Hyoga ad occhi chiusi, mentre Milo sembrava attratto da qualcosa che si andava agitando nel cortile.
«Beh, non ci resta che aspettare», disse Seiya avvicinandosi agli amici e appoggiandosi alla ringhiera che costeggiava la fine del ballatoio. «Prima o poi rincaserà.»
«E se invece non rincasasse?», propose Milo dando corpo alla domanda che Hyoga stava per fare.
«Come? Che fai, il piantagrane come quell'altra?», s'inalberò Pegaso, mentre Hyoga fissava Milo accanto a sé.
«No», rispose lo Scorpione, paziente. Aveva deciso di sorvolare sulle eventuali incandescenze di Pegaso, o quella serata sarebbe finita in una rissa, e non era quello che Atena si aspettava. Non da lui.
«Voglio solo dire che per quello che ne sappiamo Shun ha orari alquanto instabili, quindi non è che detto che stia per tornare, né tantomeno che torni qui, in questo appartamento.»
«Spiegati meglio!», l'incalzò il ragazzo avvicinandosi con crescente preoccupazione.
«Milo sta dicendo che per quel che ne sappiamo potrebbe passare la serata altrove, e rincasare anche domani mattina. O che forse Shun si è trasferito», azzardò Hyoga. «O magari è partito…»
«Giusto, hai centrato il punto, tovarič», disse Milo dandogli una pacca sulla spalla.
«E allora?», sussurrò Seiya incredulo che Shun, il loro Shun, potesse allontanarsi da loro, loro, i suoi fratelli, senza degnarsi di dare nemmeno una mezza spiegazione.
«Forse sarebbe più intelligente fare una delle seguenti cose», disse Milo elencando le ipotesi sulle dita della mano destra, «dividerci ed andare a cercarlo, battendo a tappeto tutti i bar di Tokyo, se necessario, oppure…»
«Oppure?»
«Oppure buttare giù dal letto la vicina per farci dire dove va di solito, rischiando che in meno di cinque minuti giungano qui Polizia, Esercito e Guardia Nazionale», terminò Hyoga squadrando i suoi compagni.
«Esatto», concluse Milo. «Allora, che facciamo?»
La sua domanda fu interrotta da un’esplosione che si fece largo nelle loro menti come il sole che filtra attraverso le persiane accostate. Una richiesta d’aiuto, incoerente quanto imprevista, che aveva il colore viscido e freddo della paura. Quella cieca ed irrazionale.


La spiaggia! La spiaggia! La spiaggia!!!


«Ma questa…», disse Seiya ai suoi amici.
«Sì, è Françoise», gli confermò Hyoga prima di seguire Milo, che s’era lanciato verso l'uscita del palazzo.


Brutto deficiente!
Lo strofinaccio che aveva usato per asciugare i piatti si accasciò contro la superficie laccata e lucida del frigorifero, cadendo a terra senza emettere un solo suono. Rimase seduta al tavolo, la testa tra le mani, a fissare il ripiano azzurro appena pulito.
Che devo fare con te?, si chiese sconfitta, vedendo come ogni volta il suo compagno si rivelasse essere ancora un ragazzino immaturo, incapace di ragionare e comportarsi in maniera più adulta.
Forse è colpa mia… Forse ho sbagliato a scegliere un ragazzino, anche se non è che avessi molte alternative davanti a me...
Abbassò le braccia sul tavolo, rabbrividendo al contatto del freddo della superficie contro la pelle nuda.
Certo, pensò, tutto sarebbe stato più facile se al suo fianco avesse avuto un uomo, uno su cui poter fare affidamento, senza dover stare sul chi vive ogni volta che si profilassero all'orizzonte situazioni difficili da gestire.
Marin è più fortunata, con Aiolia sta in una botte di ferro, si disse paragonando la propria situazione a quella della sua eterna rivale, che era rimasta in Grecia accanto all'uomo di cui si era innamorata dal primo momento in cui aveva messo piede al Santuario.
Certo, rimuginò, lei aveva trovato un pezzo da novanta: un uomo che avrebbe fatto di tutto per lei e che non doveva crescere, come qualcun altro di sua conoscenza. Uno che premeva da un bel pezzo affinché Marin si decidesse ad andare a vivere con lui, rendendo ancor più saldo il loro legame; uno che sapeva come rendere felice una donna; uno a cui, in qualsiasi momento, avrebbe potuto confidare qualsiasi cosa, senza preoccuparsi di come avrebbe reagito o, eventualmente, di scioccarlo con i propri guai.
Ma con Seiya?
Shaina si rese conto come le cose, per lei, fossero profondamente diverse. E la verità fu acqua gelata sul collo. 
Spesso si trovava nella situazione di dover combattere con Seiya perché lui, nonostante ci mettesse tutta la buona volontà di questo mondo e anche dell’altro, non riusciva a inquadrare quale fosse il problema che affliggeva la sua Principessa.
Per questo, non erano rari i momenti in cui si chiedeva se fosse o meno il caso di confidare i propri crucci al suo ragazzo.
«Ti fai troppe seghe mentali», l'aveva redarguita Françoise appena due settimane prima, quando aveva confidato all'amica il suo desiderio di cambiare impiego, entrando in uno studio dentistico come segretaria.
La paga era buona e il posto era facilmente raggiungibile; l'unico neo di questa situazione apparentemente idilliaca era l'orario di lavoro, per cui lei le sarebbe potuto capitare di rimanere in studio dalla mattina alle nove fino anche alle sette di sera, all'occorrenza. E sicuramente Seiya non l'avrebbe presa bene, avido com'era di momenti per stare accanto alla sua adorata Principessa.
«Scusami, ma chi è che deve lavorare lì, tu o lui?», le aveva chiesto Françoise mentre stavano lavando i piatti. «Tu, no? In quel posto circola gente strana? I medici hanno facce da avanzi di galera? Lo studio è nei bassifondi? Non mi sembra, a meno che Ropponji non si sia trasferito vicino al porto. Ma anche se fosse, sei in grado di cavartela da sola, no? E poi, pensa prima alla tua felicità, cacchio! Se lavorare in quel negozio ti innervosisce tanto al punto da farti venire la gastrite e girare di notte per casa, per quale maledetto motivo resti ancora lì? I soldi? Puoi farli onestamente altrove… e se il lavoro di commessa ti piacesse sul serio, non ti daresti malata appena possibile per andare a cercare un posto migliore, no?», aveva aggiunto concludendo quell’accorata filippica e investendola di parole strascicate dal suo accento, metà francese e metà italiano.
«Tu che faresti?», le aveva domandato asciugando un piatto fondo dal delicato color pervinca.
«Che farei? Ma sarei pazza anche solo a pensarci!», le aveva risposto l'altra, voltandosi con gli occhi sgranati per la sorpresa e l'incredulità. «Fosse capitato a me un posto simile!»
«Ma che faresti con Seiya?», aveva insistito stringendo sempre più il piatto tra le dita. «Come glielo diresti?»
«Come glielo direi?» Françoise ci pensò su, un dito sotto il mento, poi si schiarì la voce: «Ciao Seiya, come va? Novità? Ah, sì, prima che mi passi di mente, ho un nuovo lavoro, in uno studio dentistico di Ropponji, la paga è ottima e sono in una zona molto chic. L'unico neo è che a volte dovrei uscire alle sette dallo studio, ma non dovrebbe accadere spesso, e poi, sapendolo in anticipo potrò organizzarmi al meglio…», le aveva risposto scimmiottando il suo strano accento.
«Sì, per te è facile…», aveva commentato poco convinta, immaginando quale reazione avrebbe avuto il suo compagno.
«Senti», le aveva detto la sua coinquilina sciacquando il lavello dai residui di sapone e slacciandosi il grembiule, «io non avrò il fidanzato, è vero, e ammetto che tante situazioni non mi sono del tutto chiare. Però, penso che se uno che si dichiara innamorato di me e fa di tutto per condurre un'esistenza pratica e sicura,  costringendomi ad una vita infelice, ecco, allora i casi sono due: o lui è un idiota egoista, che merita solo un gran calcione nel culo, oppure sono io il reale problema dato che mi trovo nei casini, cerco possibili soluzioni agli stessi, ma poi non ho le palle per mettere in pratica i miei progetti.»
Shaina era rimasta in silenzio a rigirarsi quel piatto tra le mani.
«Ti fai troppe seghe mentali! Provaci, non ti costa nulla, no? E poi, hai forse bisogno del permesso di Seiya per fare le cose?», l'aveva punzecchiata per benino, ferendo il suo orgoglio da femminista pigra.
«Io non ho bisogno del permesso di nessuno!», aveva risposto acida prima di prepararsi per uscire con il proprio ragazzo ed esporgli, esporgli, la nuova proposta lavorativa che le era capitata tra capo e collo.
Avevano riso, tutt'e due, e scherzato assieme sulla faccia che avrebbe fatto Seiya a quella che Shaina gli avrebbe posto come una vera e propria dichiarazione d'indipendenza ed emancipazione affettiva, come l'aveva definita Françoise scherzando e dandosi un tono.
Ma alla fine, chi l'aveva avuta vinta era stato Seiya, che l'aveva convinta, in che modo non riusciva ricordarlo neanche lei, a lasciar stare quel tipo di lavoro, poco adatto a lei. E poi, era addirittura finita a litigare con Françoise, che l'aveva accusata di non aver carattere e di essere una marionetta nelle mani di Seiya.
«Ma cosa sei, eh?», le aveva quasi gridato in faccia. «Una bambolina? Dì, gli hai anche chiesto cosa indossare domani, già che c'eri?»
Ed era finita che non si erano parlate per una settimana, nonostante lei sapesse che l’arrabbiatura di Françoise era un modo per dimostrarle l'affetto che provava per lei.
Sono proprio una cretina, si disse abbassando anche la fronte sul tavolo e fissando il proprio riflesso. Anche quella sera, tutti i suoi progetti erano stati messi fuori combattimento da Seiya; il quale, per distrazione o per semplice noncuranza, aveva deciso di allargare un invito a cena a tutta la combriccola, senza curarsi di chiedere.
Non credo proprio che Aiolia o anche Milo, avrebbero agito in quel modo, ammise sconsolata.
In realtà, avrebbe voluto avere una cena a tre, lei Seiya e Françoise, per cercare di ragionare sì su Shun, ma anche per tentare con quella scusa di avvicinare il suo ragazzo e la propria coinquilina. E invece, Seiya aveva trascinato mezzo mondo in casa loro, senza curarsi di quale impatto avrebbe avuto questa mossa su di una persona tanto schiva e riservata - e rompiscatole - come Françoise.
«Certo, che anche lei, un po' di buona volontà poteva mettercela, che diamine!», sospirò nel silenzio che aleggiava in casa, rotto solo dal ticchettio dell'orologio comprato nel negozio sotto casa. 
Appoggiò la schiena alla sedia dietro di sé, la testa ciondolante a fissare il proprio grembo.
«E io che volevo costruire una vita con lui…», sussurrò tra sé e sé, prima di avvertire il richiamo del cosmo di Françoise.

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Capitolo 6
*** 6. ***


 6.
 


Correva, il cuore in gola e la sabbia tra i capelli, per seminare quel ragazzo dal viso angelico e dai canini perfetti che aveva continuato a fare l’amore davanti ai suoi occhi.
Maledetto esibizionista, pensava disgustata, attraversando i coni di luce che i lampioni proiettavano sulla strada.
Era sconcertata. Non era riuscita a sottrarsi a quello spettacolo. Aveva provato a scappare non appena s’era accorta della strana dentatura di quel ragazzo, ma era come se qualcosa nel suo sguardo la tenesse inchiodata alla sabbia umida. E quella cosa aveva un solo nome. Paura. Un senso atavico, primordiale, che ghiaccia la spina dorsale e riduce lo stomaco ad un blocco di marmo.
C’è un solo modo per dominare la paura. Reagire, diceva il ricordo della voce profonda del suo maestro, ed era sicura che il Cancro non avrebbe approvato la soluzione di darsela a gambe. Ma di ridere in faccia a quei denti, piccole perle identiche l’una all’altra che spiccavano nel buio come il sorriso di una bestia, no. Non se ne parlava proprio.
Vite, vite, vite!, si diceva, per aumentare il passo. A casa di Shun avrebbe trovato gli altri. Che l’avrebbero visto, anche loro. E ne sarebbero venuti a capo. Il suo istinto le urlava che quel tizio c’entrava qualcosa con Shun, e se avesse avuto ragione, la questione era ad un passo dal risolversi.
E tutto sarebbe tornato alla normalità.
E se ne sarebbe potuta tornare in Europa, per vivere la sua vita in pace.
Vide venirle incontro l’ultimo incrocio pedonale del porto e accelerò il passo, accorciando con ampie falcate la distanza che la divideva dalla salvezza.
Attraversò la strada deserta, imboccando un vicolo buio che le avrebbe permesso di dimezzare il percorso, sebbene qualcosa dentro di lei stesse urlando che stava commettendo la più solenne delle cazzate.
 
Ma sei impazzita? Nel buio? Geniale! Così non lo vedrai quando ti colpirà!
 
Ogni volta che si trattava di uscire indenne da una qualsiasi situazione rischiosa, la sua coscienza restava ignorata. Anche quando a rimproverarla era la voce di Andrea. E così fece stavolta, superando cassonetti e sacchi dell’immondizia a ridosso di una cancellata di ferro arrugginito, tra rantolii di gatti in amore e strani suoni sui quali non poté né volle indagare.
Arrivata alla fine del vicolo, scoprì che qualcuno, di recente, l’aveva chiuso con una colata di solido cemento.
Merde!, imprecò, sentendosi braccata. Si voltò a fronteggiare il buio da cui, da lì a poco, sarebbe emerso il nemico. Inutile perdere altro tempo; tanto valeva affrontare la situazione, sperando nell’arrivo degli altri.
Si mise in posizione di difesa, spalle al muro. E quello strano ragazzo, dalla pelle diafana e lo sguardo da demone, si stava avvicinando. Passo dopo passo, Françoise sentiva il proprio cuore battere a tempo. Il nemico avanzava sinuoso, come un predatore nel proprio territorio.
Che cazzo faccio, adesso?, si ritrovò a pensare, mentre la sagoma del ragazzo si avvicinava.
Indietreggiò, aderendo con la schiena alla dura parete di cemento. Il passo dell’altro sembrava malfermo, come se stesse trascinando la gamba destra. Relegò quest’informazione in un angolo della mente, in attesa dell’idea che la salvasse da quell’assurda situazione.
Perfetto… Morta ammazzata in un vicolo dal figlio di Dracula… o da Lestat in persona! Complimenti, proprio una bella fine!, si disse fissando la sagoma che stava entrando nel minuscolo cono di luce che la luna aveva proiettato a terra. Vide la bocca del ragazzo aprirsi e le labbra delineare un sorriso beffardo, come a volerla sfottere per la situazione in cui lei stessa si era cacciata.

Il lupo che ringrazia la pecora per essere entrata da sé in forno.

Si appiattì sempre più contro la parete di cemento, sentendo l’adrenalina correrle selvaggiamente nelle vene. I denti del suo inseguitore brillavano sinistri, come luci diafane. O fuochi fatui.
Ci siamo, si disse facendo appello all’addestramento, senza riuscire a trovare nulla che si avvicinasse alla situazione attuale. Sentiva solo l’eco lontana della voce del suo maestro ridere sguaiata. E divertita.
Il ragazzo entrò con il piede sinistro nel cono di luce lunare, ma qualcosa lo bloccò. Si voltò, come a voler trovare cosa potesse impedirgli di proseguire, quando sembrò fissare un punto imprecisato, in alto, alla sua sinistra. 
Sorrise, tornando poi a rivolgere lo stesso ghigno alla sua preda; quindi, sollevando un cappello inesistente, compì un lieve inchino e balzò all’indietro, svanendo nell’oscurità.
Françoise rimase immobile nella stessa posizione per diversi secondi, senza quasi respirare, cercando di captare ogni labile traccia di quella creatura.
Un rumore di passi concitati la destò: qualcuno stava correndo verso di lei. Scattò nella posizione di difesa, il braccio sinistro a proteggere cuore e milza e il destro davanti al viso e alla gola, pronto a colpire qualsiasi nemico si stesse avvicinando.
Mi hai fregato una volta, Lestat, non ti concederò lo stesso favore ancora, pensò stringendo la guardia e flettendo le ginocchia.
Ne era certa: erano in tre e le stavano correndo incontro. Si impose di restare lucida per fronteggiare qualsiasi cosa sarebbe potuta emergere dall’oscurità.
Se dovesse andar male, ho pur sempre la croce con me… Ricorderò ancora il rosario?, si chiese mentre i passi si facevano sempre più vicini. Riconobbe tre sagome familiari.
«Françoise!» Sentì la voce di Hyoga chiamarla, mentre gli occhi color ghiaccio del ragazzo risplendevano nella penombra. «Stai bene?»
Rispose con un cenno della testa, prima di rilassare le braccia e scivolare sul fondo lurido del vicolo.


«Hai uno strano concetto di spiaggia, tu», l’apostrofò Seiya, stringendo tra le dita una tazza fumante di caffè americano.
Il Divertissement era deserto, fatta eccezione per loro cinque e per il nerboruto barista che asciugava con zelo un grosso boccale da birra. Le cameriere avevano staccato e l’unico a far compagnia all’uomo era il proprietario, un ragazzo di neanche trent’anni che aveva rilevato il locale e l’aveva personalizzato dandogli un’aria più trendy e sbarazzina. L’unico legame col passato era il sottofondo musicale delle note di Chopin.
Shaina giocherellava con la tazza da tè, facendola roteare sul piattino a fiorellini azzurri. Non sapeva con chi avercela, se con Françoise, che le stava facendo perdere preziose ore di sonno, o con Seiya, che le aveva procurato un'ulcera grande come una casa. Milo sorseggiava la propria Guinness con aria distratta.
Hyoga osservò Françoise accanto a sé, all’angolo più esterno del tavolo. Non sapeva come spiegarselo, ma quando l’aveva vista scivolare a terra, esausta e terrorizzata, aveva pensato a quel locale. Sapeva che era ancora aperto, sebbene non vi avesse più messo piede da quel lontano pomeriggio d’Aprile, quando una pioggia improvvisa aveva costretto lui, Seiya e Shun a cercare riparo. L’avevano incontrata in quell’occasione: era apparsa dal nulla e aveva servito loro del tè aromatizzato.
Specialità della casa, aveva detto con quel suo accento particolare, tipico degli europei che masticano il giapponese, per poi sparire in una nuvola di vaniglia. Indossava una curiosa divisa, ne era certo, e, sebbene non riuscisse a visualizzare i particolari del vestito, ne ricordava il tenue giallo della gonna a pieghe.
E adesso eccola lì – la ribelle, la sfrontata, la pazza incosciente che li aveva messi alla mercé di un nemico venuto dal freddo – seduta accanto al suo ex nemico giurato. Le sue dita tremavano ancora, mentre fissava una tazza di tè al limone come se al suo interno vi fossero custoditi i segreti dell’universo.
«Si può sapere cosa hai visto?» Seiya era nervoso. Non amava il luogo che il Cigno aveva scelto per fare il punto della situazione.
Hyoga incrociò il suo sguardo, intimandogli di smetterla.
«Non so… come spiegarlo…», disse Françoise, la voce  arrochita dalla corsa senza respiro di mezz’ora prima.
Seiya decise di risparmiarsi l’ennesima frecciatina e si limitò ad incrociare le braccia.
Milo osservò il cielo notturno oltre la vetrata.
«Raccontaci quello che hai fatto da quando mi hai piantato in asso davanti al semaforo», le disse, stufo di quella reticenza. Hai fatto il diavolo a quattro neanche tre ore fa! Adesso non te la cavi così!
Lei descrisse cosa le fosse successo e come fosse arrivata in quel vicolo. Si fermò solo alla fine, dopo le dovute omissioni, per bere tutto d’un fiato il suo tè ormai freddo. Hyoga, che durante il riassunto aveva fissato un punto imprecisato del tavolo, seguì con lo sguardo un movimento fuori dalla vetrata.
«Stai dicendo che i vampiri esistono? E che si sarebbero presi la briga di venire fin qui?», le domandò Milo perplesso, il bicchiere tra le dita. Non gli aveva risposto a tono, come era sicuro avrebbe fatto, né aveva precisato che era stato lui a costringerla a girare sui tacchi. E questo lo impensierì. «È lungo, il viaggetto dai Carpazi…»
«Tu come lo definiresti uno con due denti appuntiti che quasi vola quando si muove? Cazzo, sembrava che sentisse la mia adrenalina!» La mia paura, pensò, piantando i suoi occhi in quelli azzurri di Milo.
«Aveva qualche altro segno particolare, oltre a questi suoi canini un po’ troppo…  sviluppati?», le chiese Shaina posando la tazza sul piattino.
Françoise assunse un'espressione pensierosa. «Non ricordo. È come se alcuni dettagli fossero sfocati. Forse domani potrò ricordare meglio.»
«Perfetto. Shun che scompare e i vampiri che sbarcano a Tokyo!», commentò Seiya coprendosi gli occhi con fare plateale. «A quando l’Apocalisse?», concluse alzandosi per avviarsi alla cassa.
«Lascialo perdere…», disse la voce di Hyoga bloccando ogni velleità polemica in Françoise.
«Così non possiamo andare avanti. Sarà meglio parlarne domani, con Athena», suggerì Milo, col tono che non ammetteva repliche.
«Questa situazione non piace anche a me…», e Hyoga s’alzò e raggiunse l’amico alla cassa.
«Vampiri… Tu che ne pensi, Milo?», gli chiese Shaina senza dar segno d’essersi accorta che Seiya la stava aspettando davanti alla porta del locale.
«Vampiri», ripeté Milo notando solo allora il disegno a fiorellini azzurri sulla tazza della ragazza. «Si dice siano affascinanti, no? Speriamo che il nostro amico abbia anche una compagna…»
Shaina scosse la testa. «Abbiamo un problema e tu pensi a quello?»
«Vedo il bicchiere mezzo pieno, no?», rispose lo Scorpione raggiungendo gli altri.
Françoise percepì con la coda dell’occhio la sua figura allontanarsi verso l’uscita. Quando Milo imboccò la porta, si concesse un sospiro di sollievo.
Si pecca in opere ed omissioni, e forse stava tenendo per sé l’omissione più grande della sua vita. I vampiri, come le lamie, le empuse, le sirene e altre creature mitologiche, esistevano. Eccome. Il suo maestro l’aveva addestrata a riconoscerle e a sconfiggerle, ma non le aveva insegnato cosa fare quando si è investiti da una paura così abbacinante come quella che aveva provato poco prima.
Il terrore puro, simile a quello che aveva conosciuto da bambina, quando quell’essere aveva scoperchiato la bara e si era ritrovata a fissare due occhi rossi come il sangue e luminosi come lampadine. Avrebbe dovuto avvisarli di questo piccolo, insignificante particolare?
Si rispose di no e si assolse. Milo non le avrebbe più tolto il fiato dal collo fino alla fine dei tempi. Si disse che quel terrore poteva essere riconducibile ai poteri di un vampiro. Per bloccare la preda, quando la fascinazione non ha più effetto. Sempre ammesso che ciò che si diceva riguardo i vampiri fosse vero e non una serie di invenzioni letterarie.
«Andiamo?», le chiese Shaina.
«Andiamo», rispose.


Avanzò titubante verso il grande cancello che separava il resto del mondo dalla costruzione bianca che spiccava sullo sfondo. Era stata in quel posto poche volte, anche se, ormai, lo conosceva a menadito grazie ai racconti di Shaina. Il magnifico roseto su cui si affacciava il salotto al pian terreno. La biblioteca straripante di volumi. Il pianoforte a coda che troneggiava in una stanza, lucido come delle scarpette di vernice in una boutique di Ropponji – che razza di paragone.  Il pavimento a rombi bianchi e neri e il busto del vecchio Kido. Il lampadario a goccia che pendeva sulla volta dell’ingresso e le scale bordate da una guida rosso scuro.

Non posso starmene qui, come una cretina in mezzo alla strada! Facciamoci coraggio e prendiamo la nostra croce!

Pigiò il campanello e attese, notando una telecamera a circuito chiuso. Una voce metallica attirò la sua attenzione.
«Chi è?»
Perché chiederle chi fosse quando la stavano spiando da cinque minuti buoni?
«Sono… sono Françoise. Françoise Arnoul», rispose fissando il citofono ed accorgendosi di un’altra telecamera posta proprio sopra l’altoparlante. Il portone si spalancò e non le rimase che percorrere a piedi il viale che l’avrebbe condotta alla villa.


Le cameriere le dissero che milady li avrebbe raggiunti a breve nella serra di vetro e acciaio che sorgeva sul retro dell’edificio. C’era anche June tra le piante di limoni e aranci bonsai, dritta e rigida come una candela, le braccia conserte a serrare in una morsa i propri gomiti, come a voler placare l’ansia che le stava montando dentro l’anima come la marea.
Si voltò verso Françoise e rimase con il volto fisso su di lei anche quando salutò gli altri con rapidi cenni del capo.
Mancava solo Shaina all’appello. E Shun.
E adesso come glielo dico che non le hanno dato la mezza giornata?, si domandò Françoise vedendo Seiya avvicinarsi.
Glielo chiese senza mezzi termini guardando da tutt’altra parte.
«Shaina?»
«L’ho mangiata», si lasciò sfuggire,  pentendosene.
«Dov’è Shaina?», ripeté Seiya irritato.
«Al lavoro. Non le hanno dato il permesso», confessò Françoise aspettandosi l’urlo da un momento all’altro.
«Cosa?!»
Eccolo, puntuale come il treno delle sette e dieci, pensò. Anche gli altri avevano notato la reazione non ortodossa del Santo di Pegaso, e l’ultima cosa che lei desiderava era essere al centro dell’attenzione.
«Scusateci un istante…» Afferrò Seiya per un polso, trascinandolo di peso fuori dalla limonaia.
«Aspetta...», provò a protestare lui prima che Françoise l’incenerisse all’istante.
«Dobbiamo parlare!», ringhiò prima di condurlo lontano da orecchie indiscrete. Il suo cervello registrò che lui l’aveva vista prendere Seiya per la mano e portarselo via, ma decise di archiviare quest’informazione nel posto più recondito della propria mente. Non era il momento di domandarsi cosa avrebbe o non avrebbe pensato lui, tenuto conto del fatto che la sera avanti non aveva battuto ciglio, né le aveva dimostrato alcuna simpatia.
Tant pis, si disse passando tra aceri ormai tendenti al rosso e pioppi svettanti.
Si fermarono ad un centinaio di passi dal gazebo, in modo da poter essere visibili pur avendo un po’ di privacy.
Fa tanto film di James Bond questa cosa.
Ridicolo: le veniva quasi da sorridere in un momento come quello! Le cose non andavano affatto bene. Se June era partita di propria sponte per il Giappone, mollando su due piedi i propri allievi a Leda, c’era ben poco da stare allegri.
Seiya la riscosse dai suoi dubbi.
«Dov’è Shaina?», le intimò tamburellando le dita sul tronco di un albero.
Giusto. Dobbiamo parlare. «In negozio.»
«In negozio?», chiese lui imitando il suo tono. «Dannazione, lo dici come se ti avessi chiesto l’ovvio! Shaina è un Saint. Ha dei doveri verso Athena!», sbottò esasperato, gli occhi dilatati.
«Verso Athena. Non verso Saori Kido», disse Françoise.
«È la stessa cosa.»
«Sì. E no», puntualizzò lei, l’indice della mano destra dritto al cielo. «Se chiama Athena, si lasciano i denari a contare. Ma se chiama Saori, no. Il lavoro di Shaina le impone di essere presente otto ore al giorno per sei giorni la settimana. Se non si presenta senza una giustificazione non può tornare il giorno successivo, come nulla fosse.»
«E tu?»
Fatta di sguardi, tu, e di sorrisi ingenui, tu, pensò Françoise per impedirsi di aprire la testa di Seiya e controllare che la segatura all’interno non fosse ammuffita.
«Come mai sei qui invece sculettare per vendere la birra?», le chiese con aria di sfida.
«Per tua informazione, il mio contratto di lavoro è scaduto ieri. Sono a spasso, au chômage, come si dice da me. E ringrazia che sono una signora, e che le signore non fanno a botte…», sibilò furiosa.
«Ah sì?», le disse indicandosi la guancia su cui la sera prima lei aveva stampato le sue cinque dita.
«Mi dispiace.» Françoise lo sputò tra i denti, come fosse veleno. «Mi. Dispiace. Shaina è convinta che possiamo diventare amici. Noi no», e Seiya annuì. «Tregua?», propose.
Pegaso aggrottò le sopracciglia. «Spiegati.»
«Risolviamo questa situazione. Prima ne veniamo a capo, prima potrò tornarmene in Europa. Così saremo felici. Tutti quanti.»
Seiya parve riflettere sulla sua proposta, come se stesse cercando qualche trabocchetto.
«Dov’è la fregatura?»
«Nessuna fregatura. Voglio andarmene. Ma non credo che Athena mi concederà di allontanarmi finché ci sarà questa… situazione in corso.» Lei si mise le mani in tasca. «Troviamo Shun. Il più presto possibile. Conviene a tutti e due.»
Seiya contrasse le labbra in un ghigno. «Lo sapevo che c’era la fregatura», disse. «Tu non fai mai niente per niente.»
Françoise si strinse nelle spalle. «Nessuno fa niente per niente. Quel che dovevo dirti, te l’ho detto. Sta a te accettare oppure no. E adesso scusami, ma pare che ci sia qualcuno che abbia bisogno di aiuto, qualcuno che, se non erro, dovrebbe essere tuo fratello.»
Si avviò con passo nervoso verso la limonaia, le braccia distese lungo i fianchi e le mani strette a pugno.


June non era riuscita ad impedirsi di passeggiare avanti e indietro aspettando il ritorno di Françoise e Seiya dal loro improvviso scambio d’opinioni. 
Era stanca. Aveva speso le ultime due settimane tentando di parlare con Shun, finendo per lasciare messaggi sempre più pietosi nella segreteria telefonica. L'ultimo passo sarebbe stato piagnucolare e implorarlo perché alzasse la cornetta e le rispondesse; così aveva chiesto a Leda di occuparsi per qualche giorno di quei pochi temerari che si recavano sull’Isola di Andromeda per divenire Santi d’Athena, aveva gettato qualcosa in valigia ed era partita per Tokyo. Lei, che provava terrore alla sola vista degli aerei, era salita a bordo per prima ed era schizzata a terra quando il bestione era atterrato a Narita, aspettando con impazienza sempre maggiore i suoi bagagli, andati a finire in Turchia.
Tanto c’è scritto sopra l’indirizzo di Villa Kido, aveva pensato fermando il primo taxi con un fischio degno del miglior cowboy mai esistito e aveva semplicemente detto all’autista: «Kido Manor, please», per poi trincerarsi nel più ostico dei silenzi.
S’accorse che si stava torturando i capelli, arrotolando una ciocca tra le dita affusolate. Quando tornano quei due? si chiedeva, temendo che si stessero mettendo d’accordo sul dirle l’inevitabile nel modo più indolore possibile. Si guardò attorno: il fatto che nessuno la stesse degnando di attenzione confermò quest’ipotesi e non poté impedirsi di sentire lo stomaco trasformarsi in un macigno ghiacciato.
Françoise rientrò aprendo la porta a vetri e si sedette; nemmeno lei la guardava in faccia.
«Seiya arriva subito», era riuscita a dire senza celare una nota isterica nella voce.
Athena era arrivata. I vestiti da principessa erano solo un ricordo. Indossava un golfino di cotone bianco sopra un paio di pantaloni panna; uno scialle color rame le cingeva delicatamente le spalle.
«Grazie a tutti per essere qui», disse Saori, i capelli lunghissimi che spiccavano contro il colore dorato del rattan della sedia. «Abbiamo qualche problema da risolvere. E mi scuso per non aver deciso di intervenire prima.»
Seduto, le braccia incrociate, Hyoga alzò la testa verso di lei.
«Immagino che lei abbia avuto notizia di quello che è successo questa notte…», iniziò a dire prima che fosse interrotto bruscamente.
«Cosa è successo, per l’amor del Cielo?», sbottò June, stanca di essere considerata trasparente come l’aria. «Dov’è Shun? Per quale motivo non lo trovo mai a casa? Perché non è qui?», chiese passando in rassegna tutti i presenti.
«Non sappiamo dove sia Shun.» Athena lo disse con voce calma e pacata. E questo gettò il Camaleonte nel panico.
«Non sapete dove sia? Nemmeno voi?!»
«June, ascolta…», le disse Hyoga, ma lei l’interruppe.
«Dov' è Shun?», gl’intimò, alzandosi e afferrandolo per lo scollo della maglia.«Allora? Il gatto t’ha mangiato la lingua?»
«June.» La voce dolce di Athena  riuscì a farle mollare la presa. «Crediamo che ci sia qualcosa di strano in Shun.»
«Qualcosa di strano ?», replicò infervorata. «Se mi state nascondendo qualcosa, io…»
«Ragiona!», le disse Milo posandole entrambe le mani sulle spalle nel tentativo di calmarla. «Se sapessimo qualcosa non credi che te l’avremmo detto?»
La ragazza lo fissò come se non l’avesse mai visto prima. 
«Ma è la stessa persona che ha messo a ferro e fuoco la nostra amata isola qualche anno fa?», si chiese senza accorgersi di aver pronunciato quelle parole a voce alta. 
Milo s’irrigidì all’istante.
«Ti chiedo scusa», disse, lasciandole le spalle e arretrando di un passo. Seiya rientrò in quel momento, notando come quasi tutti fossero ammutoliti, rigidi come stoccafissi al mercato.
Che succede qui?, si chiese avvicinandosi a Hyoga. 
«A quanto pare», riprese la parola Athena per rompere l’imbarazzo che li aveva avvolti, soffocante come un panno bagnato, «Shun sta attraversando un momento in cui sembra voler passare del tempo da solo. Ho provato a concedergli fiducia, se la situazione dovesse peggiorare, interverremo.».
«Ma, Milady…»
«Mi fido di lui, June. Se fosse in pericolo, ci avrebbe contattato.»
«E se non potesse?»
«Non ce ne staremo a guardare con le mani in mano, se è questo che ti preoccupa. Faremo delle indagini, ma dobbiamo avere pazienza. Tutti. La calma ci aiuterà. Non l’irruenza», sentenziò Saori liquidando la questione.
Ma come? Prima mi chiedi di riportarti il cavallino bizzoso e poi fai la voce grossa coi tuoi adorati cagnolini?, pensò Jabu lanciando un’occhiata di traverso ad Athena. Guardò l’ora sul Submariner nuovo di zecca: stava per perdere anche la riunione con il Consiglio d’Azienda delle diciassette e quella non era davvero il caso che la gestisse Nachi.
«Inoltre», riprese Saori, «dovremmo parlare oggi dell’aggressione subita da Françoise questa notte al porto».
Aggressione?!, pensò la diretta interessata scoccando un’occhiata rovente a Milo e Hyoga. «Io non sono stata aggredita», protestò, alzando la mano. «Mi sono fatta inseguire. È ben diverso.»
Athena la fissò. «Perché?»
Bella domanda. «Perché volevo isolare quella… creatura. Volevo che anche gli altri la vedessero.»
«E che cosa era, quella creatura?»
«Non lo so», ammise Françoise, abbassando la mano.
«E che fine ha fatto, quella creatura?»
«È scappata prima che potessi mostrarla agli altri.»
«Quindi, è ancora in circolazione?»
«Quindi, è ancora in circolazione...»
«Milady, lei pensa sia possibile che si tratti di vampiri?», chiese Seiya accomodandosi accanto a Hyoga.
«Non lo so, Seiya. I vampiri sono un argomento di cui conosciamo poco, purtroppo. Ho chiesto a Mu di setacciare la biblioteca del Sacerdote e di ricorrere alla saggezza del Maestro. Finché non avremo notizie, vi prego di non escludere quest’eventualità e di prestare la massima attenzione.»
June saltò su come una molla e si avvicinò a Saori.
«E se Shun e quel vampiro fossero collegati in qualche modo?», disse ponendo la domanda che nessuno aveva avuto il coraggio di fare. «Quali elementi abbiamo per escludere a priori un legame tra le due faccende?»
«Stai dicendo che Shun…?», mormorò Seiya alzandosi di scatto e portandosi di fianco a lei.
«No», rispose tranquilla June. «Sto solo dicendo che se non abbiamo elementi sufficienti per escludere un’ipotesi, credo che sia il caso di inserire anche questa nella lista delle cose da fare.»
«Non ha tutti i torti…», commentò Jabu lisciandosi la giacca di sartoria color grigio antracite. «Forse è il caso di andare per esclusione.»
«Ma come potete parlare così?», chiese incredulo il santo di Pegaso. «Jabu, come puoi dubitare...»
«Credo tu sia troppo coinvolto per essere lucido e distaccato per analizzare la situazione», gl’intimò seccata Françoise. « Sai com’è, chi è più vicino al faro è quello che ci vede peggio di tutti…», aggiunse stiracchiandosi.
«Milady, non vorrei sembrarle cinico, ma qui si stanno perdendo dei secondi preziosi», intervenne Jabu, alludendo alla caduta libera che subivano azioni Kido per ogni istante che l’azienda era affidata a qualcun altro che non fosse lui. «Direi che converrà tenere d’occhio sia Shun sia questo fantomatico vampiro. Tanto per escludere qualsiasi collegamento. E stare tranquilli.»
Saori annuì.
«Bene, vorrà dire che andrò io stessa a trovare Shun. Adesso», rispose Athena alzandosi dalla sedia e ravviandosi lo scialle sulle spalle mentre usciva dal giardino d’inverno seguita a ruota da Milo.
June non perse altro tempo e si gettò alle loro calcagna come un’ombra.
Jabu uscì dal gazebo mormorando uno: «Scusatemi, ma devo andare a lavorare, io».
Françoise lo seguì con lo sguardo finché non lo vide sparire. Ma è sempre così stronzo quello?, si chiese fissando il punto in cui l’Unicorno era uscito di scena.
«Da che parte cominciamo?», chiese Hyoga rivolgendosi agli altri due. Seiya fissava il pavimento, le mani chiuse a pugno.
«Aggredita? Io?», sibilò Françoise, trapassando il Cigno con lo sguardo.
«Il rapporto l’ha fatto Milo», disse Hyoga. Come se fosse una scusa valida. «Da che parte cominciamo?»
Strozzandovi?, pensò lei. «Andiamo a casa di Shun anche noi?», propose Françoise.
«Non converrebbe dividerci e cercare le tracce di quel tizio, invece?», obiettò Seiya.
«È troppo presto.»
«Presto?»
«Sì. Perché i vampiri escono solo di notte… e perché voglio vederci chiaro in questa storia di Shun.»


«Sono ventiduemila yen, signorina. Le occorre altro?», chiese concedendo un caldo sorriso alla vecchia zitella che aveva davanti, mentre tra sé e sé ne malediceva l’ascendenza fino alla dodicesima generazione. 
Appena la donna, magra e nervosa, si diresse alla cassa,  Shaina si voltò: il bancone del negozio, un elegante tavolo con il ripiano di cristallo e l’ossatura di ferro battuto, era sepolto sotto tutti i capi del reparto maglieria che l’ultima cliente aveva preteso di voler veder aperti, colore per colore. Sospirando, prese un golfino taglia XS e si fece spazio per poterlo ripiegare.
Tutto questo casino e poi quell’antipatica ha speso pochissimo!, pensava formando due colonne di maglioncini colorati. Nei negozi minimalisti la vita è più facile. I clienti non hanno di sicuro l’imbarazzo della scelta!, si disse sistemando la decima maglia di cachemire con scollo a V. 
«Shaina, scusami…»
Si voltò verso Etsuko, la nuova arrivata che non aveva fatto mistero di volerle fare le scarpe all’interno della raffinata boutique di maglieria in cui lavorava da due anni. Non le piaceva quella ragazza, con l’aria da gatta morta e le camicie in tenui colori pastello con morbidi fiocchi di chiffon sullo scollo. 
Aggrottò le sopracciglia: da quando era arrivata Quella, come l’aveva ribattezzata Françoise, la direttrice del negozio aveva preteso che si adottasse il suo stile bon ton, fatto di tenue maquillage nei toni del rosa cipria, di accessori discreti e di un tono di voce pacato. Persino le divise, da semplici completi camicetta e gonna nere, avevano subito una rivoluzione: ora solo camicie in georgette pastello su gonne affusolate nere, sotto al ginocchio. E décolletée nere, con un modesto tacco di quattro centimetri. 
«Cosa c’è, Etsuko?», le chiese, tentando di essere gentile. «Hai bisogno di qualcosa?»
«Shaina, c’è lì alla porta un ragazzo… Come dire? Ecco, chiede di te.»
«Grazie mille», le disse superandola ed andando a vedere chi mai la stesse cercando, quando Etsuko la trattenne per un braccio.
«Sai che è proibito ricevere visite durante l’orario di lavoro. Non dovrei essere io a ricordartelo, cara. Non vorrei che la direttrice se ne accorgesse…»
«Non se n’accorgerà se tu non correrai a farglielo notare!», sibilò fulminandola con gli occhi.
«Secondo me se n’è già accorta», pigolò Etsuko indicando con un cenno del capo la direttrice che, calatisi gli occhiali in punta di naso, squadrava allarmata quel ragazzo sciatto che aspettava sulla soglia della sua boutique.
Shaina si precipitò da lui, prendendolo per un braccio e scortandolo fuori.
«Ma sei impazzito?», quasi gli gridò in faccia. «Quante volte devo dirti di non venire qui?», lo redarguì preoccupata per la sicura lavata di capo che l’attendeva una volta rimesso piede in negozio.
«Qual è il problema?», le fece lui scuro in volto. «Sono o non sono il tuo fidanzato?»
Ma ti sei visto? Tutto sciatto e in disordine come un gatto randagio, e quella è una boutique di classe! «Non posso ricevere visite mentre stiamo lavorando, e lo sai che da quando c’è Quella devo stare ancora più attenta! La direttrice mi bacchetta per ogni scemenza, anche se ricevo una telefonata di vitale importanza! Eppure te l’avevo detto, no? Che cosa ti costava evitare?»
«Perché non hai preso una giornata di permesso?», continuò, evitando di pensare che Shaina si stesse vergognando di com’era vestito.
«Ma sei sordo o cosa? Sto passando un momento difficile in negozio e tu mi chiedi di prendere una giornata di permesso, senza preavviso? Cos’è, vuoi che mi licenzino?»
«Ma eravamo rimasti d’accordo che ci saremmo visti da Saori…»
«BASTA!», l’interruppe lei furiosa. Alcune persone si fermarono a guardare quella coppia così stranamente assortita dar spettacolo per la strada.
«Ma…», fece per protestare Seiya, subito stoppato da un’occhiata di fuoco di Shaina.
«Saori, Saori, sempre e solo Saori!», sbottò avvelenata. «Ma a me, ci pensi mai? Pensi mai un istante prima di fare le cose che forse potresti creare dei problemi?»
Cercò le parole adatte per risponderle a tono, quando una figura silenziosa si avvicinò alle spalle di Shaina e tossì imbarazzata.
La direttrice!
«Signorina», esordì la donna, «si rende conto dello spettacolo indecoroso in cui ha trascinato il negozio?», chiese, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
«Non accadrà più, madame…», cercò di recuperare Shaina, cinerea in volto, le mani che le sudavano per l’imbarazzo.
«Ne sono convinta anch’io.» La donna le strappò la targhetta con il suo nome dalla camicetta. «Lei è licenziata. Liberi il suo armadietto e si ricordi di lasciare l’uniforme! E passi dal retro, ha già dato fin troppo spettacolo!», concluse la donna rientrando precipitosamente nel suo mondo elegante e raffinato, mentre Etsuko assisteva alla scena dietro un manichino della vetrina principale.
Gongolando.
«Shaina... io…», tentò di consolarla Seiya.
«Zitto, non ti voglio più sentire», disse stancamente lei imboccando l’entrata del personale e sparendo dietro un’anonima porta grigia.


La berlina si fermò all’ingresso di una palazzina fatiscente in un quartiere a ridosso del porto. Alla luce impietosa del sole, la vernice appariva scrostata in vari punti, rivelando un intonaco crepato e scolorito, mentre il tetto e le grondaie avevano bisogno di un’urgente manutenzione.
«Milady, è sicura di voler andare… in quel posto?»,chiese Tatsumi dal sedile accanto all’autista. Com’era possibile che Shun si abbassasse a vivere in una topaia come quella? Saori sorrise dolcemente e piegò la testa in avanti. Una ciocca di capelli le scivolò sulla spalla.
«Milady, lasci che vada io. Forse Shun non è in condizioni presentabili, almeno per una donna», insistette Milo con somma gioia del maggiordomo di casa Kido. «Tornerò con Shun sotto braccio, stia tranquilla!»
E detto ciò, uscì dall’automobile e si diresse verso l’edificio, calandosi un paio di occhiali da sole sul viso. Si arrampicò sulla rampa di scale male in arnese e si diresse con passo deciso verso l’ultimo appartamento in fondo al ballatoio.
Passò accanto ad una porta da cui fuoriusciva il pianto disperato di un neonato affamato, un'altra con uno zerbino a forma di cuore e un'altra ancora oltre la quale la televisione urlava a squarciagola.
La vicina impicciona, fece tra sé ricordando il resoconto al limite del grottesco fatto da Françoise e ripensando all’espressione terrorizzata che aveva la sera prima, dopo quell’incontro ai limiti della realtà.
Quello che lo lasciava perplesso non era tanto la possibile presenza di un vampiro a Tokyo, quanto il fatto che, quando l’avevano raggiunta, lei non indossasse l’armatura. Perché non l’aveva richiamata? E perché nessuno dei presenti si era sentito in dovere di sollevare la questione?
Da qualche parte nella sua testa si annotò di doverle fare un discorsetto, il più presto possibile. Per il suo bene.
Si fermò davanti la porta verde in fondo al corridoio; la cassetta della posta era svuotata e lo zerbino sparito. Sul campanello non campeggiava alcun cognome. Strano, pensò pigiando il tasto e scoprendo che non ne usciva alcun suono. Che gli abbiano staccato l’energia elettrica?
Bussò, ma senza alcun risultato apparente.
Può venir giù il mondo, non se ne accorgerebbe neppure, commentò saggiando la resistenza della porta nel caso in cui avesse dovuto abbatterla a spallate.
«Shun?», chiamò bussando.
«Il signor Kido non c’è», l’informò una voce alle sue spalle. Milo si voltò e si vide comparire davanti un’arzilla signora con indosso vestaglia con i bordi impellicciati e una retina rosa antico che tratteneva un’immane quantità di bigodini dall'aria consunta.
«Non c’è?» Ecco perché non percepivo il suo cosmo. «E non sa dove sia andato?»
«Lei dev’essere uno dei suoi colleghi», proseguì la donna andando avanti col suo monologo. «Si vede subito, sa? Avete tutti la stessa faccia.»
Quale faccia? Milo, sempre più perplesso, si chiese se fosse il caso d’insistere per ricavare qualche informazione utile. «E non le ha dato il suo nuovo recapito?», chiese, tentando di restare calmo ed impassibile.
«No, assolutamente no, mi dispiace!», rispose la donna gettando indietro il capo, con un gesto involontario di civetteria. Un paio di bigodini saltarono rivelando una chioma ormai argentea. «Ma lasci che le dica una cosa. Quel suo… amico era una vera palla al piede per questo rispettabile condominio! Tutto il giorno a dormire, alla sua età, poi! Le sembrerò brusca, ma è stato meglio per tutti che elementi della risma del signor Kido e del signor Harata se ne siano andati da questo palazzo di persone perbene! E adesso mi scusi, ma ho una casa da mandare avanti, io! Buongiorno!», e si chiuse la porta alle spalle, mentre risuonavano le note di un programma d’intrattenimento.
Immagino che debba essere una fatica immane stirare e guardare la tv…
Milo si mise le mani in tasca e tornò all’auto con le pive nel sacco, chiedendosi chi diamine potesse essere questo Harata di cui aveva parlato quella donna.


Note:

Vite è un avverbio francese traducibile con velocemente o con presto. Quando diciamo a qualcuno «Vite, dépêche-toi!», lo esortiamo a darsi una smossa (lett. : «Presto, sbrigati!»). Vite, vite, vite! (da pronunciarsi rigorosamente vitvitvit!!!) era il modo con cui mio nonno mi suggeriva, ridendo, di spicciarmi a fare qualcosa. O le parole che pronunciava quando giocavamo a rincorrerci.

Il Divertissement è una caffetteria che si trova nella zona del porto. Quando, nel 2001 ormai, ha fatto il suo debutto online, era una caffetteria più simile ad un bistrot, con mazzi di lavanda e legno di cedro. Potete trovarne traccia qui, qui e qui.

Una limonaia (detta anche cedreria, orangeria, giardino d'inverno) è uno spazio in cui riporre gli agrumi e le altre piante esotiche durante la stagione fredda. Sono delle serre, spesso connesse alle stalle così da sfruttare il riscaldamento dell'aria. A volte, però, gli agrumi e le piante ornamentali restano nell'orangeria tutto l'anno, a causa dei loro vasi voluminosi e difficili da spostare.

Il cognome di Françoise, Arnoul (Arnul), è un omaggio a 003 - che si chiama appunto, Françoise Arnoul - la quale, a sua volta è un omaggio all'attrice Françoise Arnoul.

Con le pive nel sacco è un'espressione che sta ad indicare la delusione per non aver realizzato ciò che si voleva. Se siete interessate all'origine di questo modo di dire, potete dare un'occhiata qui.

E dulcis in fundo, in questa storia i vampiri, ammesso che si tratti di loro, sono presenti sin dall'inizio. E sono vampiri veri. Bellissimi e affascinanti. Ma non sbrilluccicano al sole come un prisma in controluce o uno smalto olografico.

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Capitolo 7
*** 7. ***


 7.
 


Aveva portato da casa lo stretto necessario: una spazzola, il deodorante, un rossetto color miele, un paio di collant di ricambio. Infilò tutto nella borsa e staccò dall'armadietto una fotografia di Seiya sulla spiaggia, il viso abbronzato e l’aria malandrina di chi sta per combinare uno scherzo atroce.
Quanto aveva urlato e penato Hyoga nel tentativo di liberarsi del grosso granchio che qualcuno gli aveva avvicinato al piede?
Venticinque minuti.
Appallottolò e riaprì la fotografia, quindi la strappò con metodica lentezza - una volta, due, tre - ricavandone piccole strisce che lanciò sopra la propria testa. Raccolse la borsa e uscì dallo spogliatoio senza salutare nessuno.
Spero che mi versino per intero lo stipendio sul conto in banca. Lo spero per loro.
Si stava avvicinando la sera; oltre i palazzi, il sole indugiava nel cielo, pronto a tirare fuori la sua livrea color arancio, con nubi rosate e impalpabili come zucchero filato. Per le strade, le insegne multicolore illuminavano l’umanità più varia: studentesse in uniforme, impiegati con la ventiquattrore sotto braccio, casalinghe con la sporta della spesa.
Non c’era abituata. Quando finiva di lavorare i negozi erano chiusi. Poteva solo accontentarsi di sbirciare le vetrine, aspettando il proprio giorno libero – e una consistente vincita alla lotteria – per entrare a curiosare.
E se mi facessi un giro?
La borsa sottobraccio e l’aria rassegnata di chi, il giorno dopo, spulcerà da cima a fondo il giornale delle offerte di lavoro, Shaina si tuffò nel fiume di persone dirette a Ginza. La calca andava aumentando nei pressi del palazzo della Fuji Television, fino a sfociare in una ressa di ragazzine urlanti, ferme sul marciapiede a fissare su un maxischermo un appariscente gruppo rock. Qualcuno la spintonò. Qualcun altro chiamava a gran voce i componenti della band. Dovevano essere molto bravi per riscuotere tutto quel successo. O forse molto belli, pensò. La musica sembrava familiare. Alzò il viso al maxischermo e per poco non le prese un colpo.
Devo trovare un telefono!


La spider rossa correva sul ciglio del crinale a precipizio sull’Oceano. Curva dopo curva, la mani inguantate giravano lo sterzo un istante prima di schiantarsi contro il solido muro di roccia sulla sinistra.
Sembrava che l'autista volesse correre per il puro gusto di farlo, per liberare la potenza del motore che faceva le fusa come un gattino alle prese con una ciotola di latte tiepido; per sentire l’adrenalina scorrere nelle vene e cercare di dimenticare, almeno per qualche ora, una testolina color mirtillo che gli procurava continui grattacapi.

Prima mi chiedi di riportare all’ovile la pecorella smarrita, perché sei tanto preoccupata per lui. La mia povera Dorothy che non riesce a tornare nel Kansas! Ma quando mi offro di prenderti il mago di Oz e di portartelo in catene per un tuo sorriso, allora ti ricordi di essere una divinità greca e alzi la testa!

Curva a destra.

Allora cercatela da sola, quella femminuccia buona solo a frignare alla minima cazzata! Vai, bella vai! Ma poi non lamentarti se le azioni della famiglia piombano in caduta libera perché ho dovuto delegare una riunione importante a Nachi! Già… perché io dovevo stare al tuo fianco mentre te ne uscivi con quel proclama gratuito d’onnipotenza!

Tornante a sinistra.

Sai che c’è di nuovo? Che le castagne dal fuoco adesso te le toglie quel coglione del tuo adorato Seiya, che a diciannove anni suonati non si degna di vestirsi come un essere umano, né di prendere le redini della propria vita! Sono stufo, Saori! Mi senti? O hai schermato i miei pensieri, Athena la magnanima?
 
La strada saliva sempre di più, mentre il mare sottostante riluceva in tutto il suo splendore.
 
Athena, mi senti? Io me ne tiro fuori! Sono sempre il tuo Unicorno, ma lasciami fuori da questa storia! Lo so che mi stai sentendo… e se fai finta di niente, è un problema tuo!


La spia del telefono veicolare iniziò a lampeggiare.
Saori, preoccupata per la rabbia che incupiva il cosmo dell’Unicorno, pensò potesse trattarsi di Jabu e alzò la testa, in attesa che Tatsumi, dall'altra parte del vetro, le passasse la telefonata. Quella era una delle poche privazioni che aveva dovuto accettare. Ci sarebbe sempre stato uno schermo tra lei ed il mondo. Suo nonno, quasi dieci anni prima, le aveva spiegato che una signorina di buona famiglia non risponde al telefono se prima non è a conoscenza di chi vi sia dall’altra parte.
Concezione all’antica, feudale quasi, che Tatsumi aveva mantenuto anche dopo la morte del vecchio Kido e che le aveva impedito di trovare nel telefono il migliore amico che ogni adolescente scopre di avere verso i dodici anni.
«No, non siamo diretti a Ginza! Non mi interessa cos’ha detto!»
Tatsumi aveva parlato con aria fredda e seccata, quasi abbaiando al suo interlocutore, finendo per farsi udire da Saori e Milo.
Che si tratti di Seiya?
Saori bussò sul vetro che divideva in due la vettura e con un solo sguardo intimò al suo maggiordomo di passarle la telefonata.
«E senza origliare!», gli sillabò, con un fare perentorio che l’uomo intuì pur senza aver sentito il tono di voce. Attese che Tatsumi riattaccasse e sollevò la cornetta.
«Pronto?», si ritrovò a dire senza sapere, per la prima volta in vita sua, chi la stesse aspettando dall'altra parte. Sei tu, Seiya, vero? «Sono Saori Kido.»
«Signorina?», le chiese una voce femminile. Chi mai poteva essere?
«Sì?»
«Sono Nadeshiko.» Saori aggrottò le sopracciglia. Nadeshiko. La più giovane delle cameriere. Cosa mai poteva volere, da lei? «Mi scusi per il disturbo…»
«Nessun disturbo. Dimmi pure.»
«Ha telefonato poc'anzi la signorina Shaina. Diceva che è necessario recarvi a Ginza, davanti a quel palazzo della televisione. È una questione importante, ha aggiunto.»
Ah. Shaina… «Grazie, Nadeshiko», rispose. Perché Shaina voleva che andassero a Ginza?
«Di nulla, signorina.»
Saori riattaccò ed intimò all’autista di svoltare in direzione della strada più elegante di tutta Tokyo.


Françoise aprì la porta e invitò June e Hyoga ad accomodarsi. La biondina guadagnò una sedia, mentre il Cigno si lasciò cadere sul tatami.
«Avete sete?» Aprì il frigorifero e lo richiuse. «Posso offrirvi solo dell’acqua di rubinetto, temo...»
«No, grazie. Sono a posto», rispose Hyoga, mentre June posò i gomiti sul tavolo, borbottando.
«Servirebbe del vino, semmai», protestò, tamburellando le dita sul legno scuro.
«Non ne abbiamo da quando Seiya si ubriacò, tre mesi fa», tagliò corto Françoise posandole davanti un bicchiere con le fragole colmo d’acqua.
June indicò perplessa la decorazione sul vetro.
«Quanti anni hai? Dieci?»
«Zitta e bevi!»
Françoise posò la caraffa dell’acqua sul tavolo, arraffò carta e penna e guadagnò una sedia. «Facciamo il punto della situazione?»
June si torturava le mani, torcendole e serrandole in una morsa. Ancora non poteva credere che Athena l’avesse esclusa dalle ricerche, non dopo che aveva lasciato all’istante le sue responsabilità per correre da Shun.
Dal mio Shun…
«Sei troppo coinvolta, June», le aveva detto Saori Kido, salendo in auto e liquidando la questione. Nessuno l’aveva aiutata. E a lei era sembrato di ricevere uno schiaffo sul viso quando la portiera si era chiusa con un tonfo secco. 
Athena, mi stai punendo per qualcosa? Perché io proprio non capisco!
Hyoga si avvicinò al tavolo e sedette tra le due ragazze.
«Forse conviene prendere una cartina della città e segnare le zone che abbiamo setacciato. Ne hai una?»
«Sì, sull’elenco del telefono», rispose Françoise. Si alzò ed aprì un armadio da cui estrasse un erto volume bianco. «Eccola qui.»
Hyoga s’impadronì della penna e segnò i quartieri che avevano visitato.
«Shun abita qui», disse cerchiando di blu la zona, «e oggi abbiamo controllato l’isolato a sinistra e quello a destra del suo, giusto?»
Françoise annuì mentre June fissava quei cerchi che spiccavano come isole sulla piantina.
«Propongo di dividerci e pattugliare queste zone, stasera», continuò Hyoga. Segnò con una X tre quartieri. «E magari spingerci più in là, se non troviamo nessuna traccia. Che ne dite?»
«Dovremo procurarci altre due cartine», commentò Françoise, una mano sotto il mento. «Non so quanto tu conosca la città, June...»
«So badare a me stessa, non preoccuparti!»
«Ma...»
«Ma un accidente!», l'interruppe June. «Se mi aveste avvisato prima, adesso non saremmo in questa situazione!»
«E perché non ti sei mossa tu, prima?» le domandò di rimando Françoise.
«Perché ho degli allievi da formare, io. Non me ne sto tutto il tempo a giocare alla ribelle sdegnosa!», alzò la voce, dando un pugno sul tavolo.
«Ripetilo, se ne hai il coraggio!», sibilò Françoise punta sul vivo. «Cos’è che sarei, io?»
«Come se non lo sapessi da sola!», continuò l’altra, imperterrita.
«Adesso basta!» Hyoga espanse il proprio cosmo prima che venissero alle mani. «Dovremmo concentrarci sul nostro obbiettivo comune.»
«Obbiettivo comune? Scherzi?» Il Camaleonte sfoggiò un sorrisetto di scherno, prima di essere schiacciata dal cosmo di Françoise.
«Scannarci fra noi non serve a niente», disse Hyoga con tono distaccato. «E mentre voi litigate, Shun potrebbe aver bisogno d’aiuto»
«Quindi, dolcezza, collabora. Altrimenti, se proprio ti prudono le mani, usciamo e risolviamo la questione. Allora?»
Lo squillo del telefono interruppe il confronto tra le due ragazze. Françoise raggiunse l’apparecchio tenendola d’occhio e rispose.
«Pronto?»
«Vieni subito a Ginza!»
Guardò la cornetta come se non ne avesse mai vista una in vita sua.
«Eh? Ginza?», chiese perplessa alla voce coperta dalle urla dall’altra parte del filo. «Shaina, sei tu?»
«No, sono Babbo Natale! Certo che sono io! Vieni subito a Ginza, davanti gli studi di Fuji Television! Adesso!»
«Ma non dovresti essere al lavoro?», le domandò guardando un punto indeterminato del pavimento.
«Muoviti e vieni qui!», e Françoise sentì il clac della comunicazione interrotta.
«Che è successo?», chiese Hyoga, mentre June le aveva puntato addosso lo sguardo, preoccupata.
«Era Shaina», rispose. «Dobbiamo andare a Ginza. Subito!»
 

Una calca inumana di ragazzine urlanti era assembrata sotto al palazzo della Fuji Television, intasando le strade limitrofe.
Avanzarono a fatica tra la massa che, già dall’uscita della metropolitana, aveva fatto loro compagnia lungo la strada.
«Dove sarà Shaina?»
June la cercava tra la folla, provando ad evitare di essere schiacciata da dozzine di ragazzine che si avvicinavano al grattacielo della rete televisiva.
«Cerchiamo di restare uniti!»
Hyoga afferrò entrambe per le mani e provò ad avanzare, senza uccidere nessuno.
«Guardate!», disse Françoise indicando una sagoma familiare in fondo alla marea che li circondava. «Non è Tatsumi, quello?»
«Sì, è lui!», confermò June dopo aver osservato l’uomo che stava aprendo la portiera di una lussuosa berlina. «Cerchiamo di raggiungerli!»
Milo scese per primo dall’automobile e fece da scudo col proprio corpo a Saori, che si guardava attorno perplessa e preoccupata per quell'isteria collettiva che animava la folla. Vide Hyoga avvicinarsi, arrancando, le ragazze alle sue spalle.
«Avete visto Shaina?», chiese il Cigno raggiungendoli.
«No, la stiamo cercando anche noi», gli rispose Saori, guardandosi attorno e avendo cura di restare tra Milo e la vettura.
Françoise indicò un punto oltre la marea di fan urlanti che si stendeva attorno a loro.
«Laggiù c’è una postazione di telefoni pubblici! Forse, sarà lì?!»
«Da lì dovremmo avere una visuale migliore del posto», aggiunse Hyoga. Iniziò ad avanzare tra la folla seguito da June, la cui espressione stralunata ben si sposava con la stravagante umanità circostante.
«Va bene», rispose Saori, accompagnando le sue parole con un cenno del capo. «Tatsumi, aspettaci qui.»
L’uomo si strinse nelle spalle notando come il tono e lo sguardo della ragazza non lasciavano posto ad alcuna protesta.
«Tranquillo, ci siamo noi a proteggere Athena!», gli disse Milo dandogli una sonora pacca sulle spalle.
È proprio questo che mi preoccupa!, pensò Tatsumi vedendoli sparire tra la folla.
Si fermarono a metà strada, cercando un punto da cui potersi orientare. Riuscirono a gettare uno sguardo al maxischermo, su cui campeggiava il sorriso splendente del conduttore, un ragazzo sui venticinque anni, che presentava gli ospiti dello spettacolo che stava andando in onda al quindicesimo piano dello svettante edificio. Indossava un completo gessato di un improbabile verde acqua.
«Dove sarà Shaina in tutto questo delirio?»
Hyoga si guardò intorno per poi scorgere il braccio che l’Ofiuco stava agitando per richiamare la loro attenzione.
«Laggiù!», indicò Françoise, cercando di farsi largo a suon di spintoni tra la folla. Shaina stava venendo loro incontro non senza qualche difficoltà.
Hyoga lanciò uno sguardo allo schermo. Il presentatore sorrise e pronunciò un nome – BUROSHI, forse? – che ebbe il potere di mandare in visibilio la folla. Alcune ragazzine iniziarono a gridare. Chi sollevava striscioni e fotografie. Chi piangeva. Chi saltava come un canguro impazzito.
Ma chi si sta esibendo lassù? Micheal Jackson? 
«Shaina!» Françoise agguantò in una morsa il polso dell’altra. «Ma si può sapere che minchia sta succedendo qui? Perché ci hai chiamato? E perché non sei al lavoro?»
Hyoga e gli altri le raggiunsero, cercando di proteggere la dea Athena.

 
I don't have to be so wise 
you're just my fantasy
and I will fantasize
something more or less to make this things started
we're the artisans 
and we've been crafted
 
 
Le urla coprirono la voce del cantante, una figura che avanzava dall’oscurità verso la telecamera. Un sapiente gioco di luci rivelava solo la sagoma del ragazzo, che in una mano teneva qualcosa, con molta probabilità un fiore, e il microfono nell’altra. Fasci di colore rosa fluo illuminavano solo alcuni tratti della sua persona.
«Shaina, ci spieghi che cazzo sta succedendo qui?», le chiese Milo il quale, assordato e frastornato dalle urla, si era quasi dimenticato di trovarsi accanto alla dea Athena.
Ad un colpo d’occhio generale, quasi tutte le fan del gruppo indossavano dei vestiti neri, che le facevano assomigliare ad una chiazza di petrolio che galleggiava alla deriva nell’alta marea. Alcune avevano il volto coperto da una cipria bianca e le labbra decorate da un rossetto coprente che andava dal rosso sangue al nero pece. Una ragazza accanto a lui aveva addirittura tre lacrime sintetiche sotto l’occhio destro, bistrato di nero.
Ma siamo ad un concerto dei Cure? si chiese Milo fissando ora le fan, ora lo schermo.

 
I wanna be your magical mystery
I wanna be your final history
this is the news
 
 
Françoise riconobbe le note e le parole. E pensò che qualcuno avrebbe dovuto proibire ai giapponesi di parlare in inglese. Nei secoli dei secoli, amen.
«Ma è una canzone degli Spandau Ballet!», esclamò incredula. Inarcò un sopracciglio. Poi sbiancò. «Che siano tornati assieme?», chiese la speranza a scaldarle gli occhi e lo sguardo sulle ragazzine che si erano placate di colpo.
«No, pare che il cantante…»
«Tony Hadley.»
«Lui. Pare abbia inciso un disco da solista e stiano celebrando i dieci anni del primo disco del gruppo.»
«Journeys to the Glory.»
«Sì, sì, ok,. Ma non è questo il punto! Aspetta che riaccendano le luci e vedrai!»
«Oddio! C’è Tony Hadley in studio?!» Françoise le serrò il polso in una morsa d’acciaio e sgranò gli occhi. «Tony! Il mio Tony!! Capisci?!»
 Shaina la paragonò non senza un po’ di timore alle esagitate ferme immobili attorno a loro. Si dondolavano sulla melodia, pronte a scattare al momento opportuno.
La quiete prima della tempesta, pensò Hyoga, ricordando il concerto dell’anno precedente, quando la folla si era improvvisamente zittita nell’attesa che si accendessero le luci sui Guns’n’Roses.

 
nothing's ever been so wild
all that I get to do
is what I give to you
this is all about the circles we've found
and through the ups and downs
it goes round
 
 
Una seconda voce, più decisa e profonda, si affiancò alla prima. Un altro ragazzo entrò in scena, sotto una luce di color verde fluo. Mimò un cerchio davanti a sé, e sembrò acquisire sicurezza passo dopo passo.
Le due sagome si voltarono l’una verso l’altra. Le ragazzine trattennero il fiato, in attesa dell’istante in cui esplodere in un urlo liberatorio.
Le luci si accesero all’improvviso. Due ragazzi, inguainati in completi doppio petto grigio perla ed antracite, entrambi con un cilindro nero decorato da inserti di trine simili a ragnatele nere, cantavano guardando in camera con un’espressione struggente e innamorata, mentre una nuvola di palloncini rosso sangue invadeva lo studio e una pioggia di coriandoli verde petrolio si riversava sulla folla sottostante.
 
 
oh I was just beginning to grow strong
she was only eighteen summers long
we were the news
 

«Che è questo schifo?», ruggì Milo cercando di liberarsi di quei pezzetti di carta che gli erano finiti tra i capelli, in bocca, ovunque.
Le ragazzine ripresero ad urlare, saltellando invasate ed agitando il più in alto possibile i cartelloni.
"BLOODY ROSES WE LOVES U" recitava uno striscione alla sinistra di Saori, fondo nero con caratteri in rosso lacca, mentre Hyoga ne scorse un altro dello stesso tenore, con gli stessi colori, fatta eccezione per un illeggibile carattere gotico.
«Aiutami, ti prego!», si sentì chiedere Milo, ancora intento a sputare coriandoli. Una ragazzina paffutella, coperta di pizzi e velette come una bomboniera macabra, gli tirava un lembo della polo che indossava distrattamente sui jeans. «Io sono bassa e non riesco ad alzare il cartello più di così! Ti prego, tienilo tu!»
«Eisai Trelé?!» Milo urlò in greco, fin quasi a coprire le grida isteriche delle groupies vicine.
«Tu non sei un fan dei Bloody Roses?» La ragazza lo guardò perplessa, muovendo, senza accorgersene, i suoi improbabili boccoli rosa.
Françoise intervenne. Rifilò una gomitata nelle costole a Milo per evitare che le assatanate attorno a loro si tramutassero nelle Baccanti e li scambiassero per Orfeo, e le disse: «No, lui sta con me. Ti aiuto io, ok?».
Prese il cartoncino nero dalle mani paffute della ragazza e lo sollevò sopra la propria testa.
«Io starei con te?», le chiese Milo, nel tamburellare snervante del suo dialetto
«Taci…» Allora, lo capisci il giapponese…
«Grazie grazie!», iniziò a squittire la ragazza. Saltellava e batteva le mani come una bambina piccola. Aveva gli occhi scintillanti di felicità. «Io non ce l’avrei mai fatta da sola! E ci tenevo tanto che Shiro vedesse il cartellone che ho realizzato solo per lui!»
Shiro?

 
Round and round it goes
and oh don't you know
this is the game that we came here for
round and round it goes,
and don't you know uh

 
 

«Shiro?», si lasciò sfuggire Françoise, cercando di resistere all’assalto di una virago alle sue spalle che sembrava avere l’intenzione di passarle sopra senza troppi complimenti.
«Ma come? Non dirmi che non conosci i Bloody Roses!? Sono una boyband della Glitter. Sono popolarissimi e si dice che persino gli SMAP li temano», cominciò a spiegare la ragazza. «Io sono Natsumi, fan numero 54 del gruppo», e mostrò loro una tesserina plastificata su cui campeggiavano la sua foto tessera, il numero e il logo della band – tre rose, una rossa, una nera e una bianca – intrecciate tra di loro.
«Il leader della band si chiama Susumu», riprese Natsumi. «Lui è quello rude e carismatico, forse il più bassino, con una capigliatura nera come la notte. Quello in grigio perla, per capirci. Poi c’è Shiro, il mio adorato Shiro. Lui è il lupo solitario, ha una cicatrice sul mento e porta la rosa rossa. È quello in grigio antracite. E poi, c’è lui….», disse, indicando il maxischermo mentre una figura, più esile delle prime due che l’avevano preceduta sul palco, emergeva solennemente attraverso la nebbia artificiale creata per l’occasione.

 
This is the news of my life
oh I was just beginning to grow strong
she was only eighteen summers long
we were the news
 

Chiedendosi chi diamine fossero gli SMAP, Françoise seguì il paffuto dito di Natsumi indicarle la sagoma di un ragazzo dall’aria familiare che teneva tra le mani diafane una rosa, candida come la neve ed ancora imperlata di rugiada. Si era posizionato al centro del terzetto e guardava in camera con uno sguardo da angelo caduto. Indossava un completo grigio fumo, con cilindro in tinta e merletti d’ordinanza.
Ossignore! Vanno ancora i capelli biondi e permanentati?
«Piace al novanta per cento delle fan», proseguì Natsumi indicando la folla. «Vorrei tanto sapere che ci trovano in Shun!»
«Cosa?!» Françoise strillò, abbassando di scatto il cartellone e sgranando gli occhi. «Come hai detto che si chiama, quello?», le intimò afferrandole il fiocco nero che chiudeva la camicetta.
«Sh… Shun, perché?», balbettò incredula Natsumi. Sbiancò, sotto il cerone.
«Cosa?!», s’aggiunse June, ancora più esaltata dell’altra. «Hai detto proprio Shun?»
«S… sì», biascicò Natsumi, fissando la biondina avvicinarsi pericolosamente a lei. «Pe… perché?»
«E come si scrive?», l’incalzò June con gli occhi azzurri sempre più sgranati.
«Come luccichio…»
Hyoga si voltò di scatto verso il maxischermo, riconoscendo solo in quell’istante, sotto quella massa di ricci biondi, il compagno di tante sanguinose battaglie.
Shun di Andromeda.
Rimase basito a fissare quell’immagine, mentre alle sue orecchie arrivavano come attutite le parole finali della canzone.

 
Round and round it goes
and oh don't you know
this is the game that we came here for
round and round it goes,
and don't you know
 
 
 


Note:
Ta-dan! Prima che chiamiate il manicomio, sappiate che questa svolta da boy band c’era anche nella prima versione. Prima di gridare all’OOC, passo a rassicurarvi. Tutto andrà per il meglio. O almeno, lo spero. Si fa quel che si può. E mentre ripasso la tabellina del tre, fino al trenta, andiamo con le note. Quelle serie.
 
Gli Spandau Ballet sono un gruppo inglese attivo dal 1980 al 1989, alfiere del genere New Romantic, un sottogenere della New Wave. Chi è sopravvissuto agli anni ’80 rammenterà di certo le guerre tra Duraniane (le fan dei DuranDuran) e Spandine (le fan degli Spandau – in Italia; all’estero erano noti come “Spands”) su quale fosse il gruppo migliore (la risposta è una sola: Tony su Simon, ma John su Martin).
Journeys to the Glory è il titolo del primo album della band, datato 1981. Per True e Gold dobbiamo aspettare il 1983.
La canzone massacrata eseguita in questo capitolo è Round and Round, contenuta nell’album Parade, del 1984.
Gli SMAP sono una boy band giapponese famosissima in patria a cavallo tra la fine degli anni ’80 e la metà degli anni ’90. Li ho scelti perché proprio loro, nel 1991 – anno in cui si svolge la storia- realizzarono un musical su Saint Seiya.
Eisai trelè pronunciato da Milo significa “Sei pazza?!” in greco. Ringrazio Sen per la consulenza linguistica (e per i consigli, sempre benedetti).
Il bicchiere con le fragole, infine, è un omaggio a Nana. Avevo anche io un bicchiere con le fragole. In terza elementare. Erano gli anni ’80, baby…
E in ultimo, prima che me ne dimentichi, DBE si prende una pausa di una settimana. Prossimo aggiornamento, attorno al 20 Maggio, giorno più, giorno meno.

♪♫ Round and round it goes ♫
and oh don't you know ♪
♫ this is the game that we came here for… ♫



 

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Capitolo 8
*** 8. ***


 8.
 


Le porte dell’ascensore si aprirono con dolcezza, precedute dal suono di un campanello. Diciottesimo piano, disse una voce preregistrata. L’uomo uscì, i passi attutiti da una guida di velluto rosso. Proseguì fino ad una porta, a tre quarti del corridoio, estrasse dalla tasca una tessera magnetica e la fece scorrere all’interno della serratura. Si udì un clac e l’uomo entrò nella stanza.
L’odore stantio - di chiuso e di sigaretta e di orina - l’avvolse prima ancora di accendere la luce. Doveva essere stata una festa movimentata, quella di ieri sera: bottiglie ovunque, avanzi di cibo sulla moquette, una tenda appesa per miracolo al soffitto, le finestre serrate, ed un persistente odore rancido che proveniva da un punto imprecisato dalla stanza.
No, non di nuovo!, pensò, raggiungendo la finestra più vicina e spalancandola in fretta. Aria, ecco quello che ci vuole!
Controllò quante fossero le persone sul letto, coperte a malapena da un lenzuolo aggrovigliato e mezzo scivolato sul pavimento. Ne contò due. Una testa rossa e riccioluta emergeva da quell’intrico di carne e stoffa.
«Sveglia, la pacchia è finita!», disse.
La ragazza rispose con dei mugolii; era ancora ubriaca fradicia, e l’uomo dovette trascinarla di peso verso la cabina della doccia. Ve la spinse dentro, aprì il rubinetto dell’acqua e il getto la investì in pieno.
«Ah!», urlò lei, svegliandosi e tentando di difendersi con le mani dall’acqua.
Gattonò fuori dalla doccia, un tamburo impazzito al posto del cuore e le mani che frizionavano la pelle increspata dal freddo, per rimettere in circolo un po’ di calore.
«Ma sei impazzito?!»
L’uomo afferrò un telo da bagno pulito e glielo porse.
«Ti aspettavi la colazione a letto, ljuba?», le rispose sarcastico.
«C’è modo e modo di svegliare la gente!», ribatté lei, annodando l’asciugamano sopra il seno.
«Sciocchezze. Una doccia fredda è l’ideale per riemergere da una solenne sbornia», disse. Ed estrasse dalla giacca il portafogli. Contò un fascio di banconote e gliele porse. «Ecco, questo è per te…», concluse infilandole il denaro tra il cotone e la pelle nuda.
La ragazza guardò incredula prima i soldi, poi l’uomo.
«Per il tuo disturbo», aggiunse lui, schivando prontamente lo schiaffo che lei tentò di rifilargli.
«Come ti permetti?! Io non sto con lui per soldi!»
La ragazza aveva gli occhi fuori dalle orbite.
«Certo, certo. Lo so.» L’uomo si aggiustò i capelli e la giacca allo specchio. «Il tuo disturbo consisterà nel tenere la bocca chiusa. Circa quello che è successo qui. Stanotte. Lui deve rimanere un ragazzo libero e perbene, altrimenti non funzionerà più. E se non funzionerà più, neppure il gruppo funzionerà più. E noi non vogliamo che questo accada, vero?»
Concluse il monologo passando due dita sul viso e sul collo della ragazza.
«Posso avere la certezza che non creerai scandali, tesoro?», insistette, lasciando che le dita scivolassero lungo la linea del seno e dei fianchi.
«Ma... ma lui mi aveva detto che dovevo solo avere pazienza, e che quando sarebbe stato famoso avrebbe detto al mondo di noi…», tentò di ribattere.
«La favola è finita, principessa. Lui è libero come l’aria, almeno fino a nuovo ordine!»
«E se io non volessi?», azzardò lei, pentendosene all’istante.
L’uomo la bloccò con il proprio corpo contro le piastrelle. «Mi staresti minacciando, ragazzina?», chiese. «Interessante. Vuoi sentire la mia versione dei fatti? Dirò che sei una delle tante sgualdrinelle che girano attorno ai cantanti in cerca di soldi e pubblicità. Un paio di amici testimonierebbero che ti sei passata mezzo entourage, animali compresi, e credo che per te sarebbe la fine.»
«Mi difenderà!» La ragazza provò a ribattere, lottando contro l’alito di lui che le soffiava sul collo bagnato.
«Davvero? E credi che sceglierebbe te, invece del successo che lo attende a braccia aperte? Ma non farmi ridere!»
«Io credo in lui…»
«LuiTzè! Adesso che può avere tutte le donne che vuole? Stronzate! Lì fuori c’è una fila di modelle pronte a fare coppia con lui, e perché no?, anche a farsi dare una bella ripassata. E tu credi ancora che lui sceglierebbe te?», concluse, sbattendola a terra e varcando la soglia del bagno. «Ti do dieci minuti per raccogliere i tuoi stracci ed andartene. Se credi che lui si batterà per voi, lascia i soldi. Non vi disturberò più. Ma se invece credi che io abbia anche solo un briciolo di ragione, prendi quelle banconote e sparisci.»
Uscì dalla stanza, lasciando la porta dalla camera socchiusa, mentre i primi singhiozzi salivano alle labbra della ragazza.
E uno.
Gli altri due erano ciascuno nella propria stanza, dall’altra parte del corridoio. Come sospettava, li trovò abbozzolati nelle lenzuola di seta che avevano preteso per le camere da letto. Sulla moquette, petali di rose e bottiglie di champagne. E un orecchino di perla. E un posacenere pieno di sigarette. Le loro compagne avevano già tolto il disturbo.
E due.
Tornò nella prima stanza e notò con la coda dell’occhio un’ombra, in fondo al corridoio, entrare nell’ascensore. Le porte si richiusero. L’uomo entrò nel bagno e notò come la ragazza e i soldi fossero usciti dalla loro vita.
L’amore è eterno finché dura, commentò, aprendo la sua fidata ventiquattrore ed estraendone una fialetta ed una siringa sterile. Il ragazzo dormiva ancora. Afferrò il braccio pallido, vi strinse attorno il laccio emostatico ed infilò l’ago in vena, senza premurarsi di disinfettare la pelle.
Il ragazzo mugugnò qualcosa, ma era troppo ubriaco per opporsi. L’uomo svuotò il sangue in una fialetta che richiuse e ripose all’interno della valigetta nera, assieme al laccio e alla siringa.
E tre.
Quindi gli piazzò un bel cerotto e lo riscosse.
«Sveglia, principino!», esordì. Era talmente sbronzo da essersi pisciato addosso. «Abbiamo una giornata fitta d’impegni!»

Tatsumi premette il tasto PLAY e si voltò.
«I Bloody Roses sono uno dei tanti gruppi creati a tavolino dalla Glitter, un’agenzia di spettacolo. Tre mesi fa iniziano le audizioni nella vicina prefettura di Kanagawa.»
Françoise alzò la mano con un’aria perplessa. «Sarebbe a dire?»
«Yokohama. Quello di ieri è stato il loro debutto ufficiale. Prima si sono fatti conoscere tra le studentesse delle scuole medie e delle superiori con un abile battage pubblicitario. Il loro primo lavoro è un disco di cover, di cui si sa ancora pochissimo.»
Saori sedeva paziente sul divano, proprio di fronte al grande schermo del salotto.
«Abbiamo la registrazione dello spettacolo di ieri pomeriggio, in cui hanno promosso l’uscita del loro primo lavoro.»
«Nient’altro?», chiese Seiya, la voce indurita dall’ansia, le braccia incrociate al petto e l’espressione preoccupata.
Tatsumi serrò i denti e il telecomando del videoregistratore tra le dita. «Nient’altro? Ma cosa credi? Che le informazioni stiano appese agli alberi? Tzè, è stato complicato ottenere questa videocassetta! Che pretendevi, il numero della tessera sanitaria e l’estratto conto?»
«Ma qualcosa sapremo, giusto?», s’intromise Saori con tono pacato. La luce del tardo mattino entrava dalla grande finestra alle sue spalle, contornandole il capo di luce.
Tatsumi tossicchiò. «Certo, milady. Le risorse della Fondazione Grado sono illimitate!», concluse, gonfiando il petto d’orgoglio.
Quest’ansia è insopportabile. Saori lo fissò seria: sapeva che quando Tatsumi iniziava a lodare la famiglia che aveva l’onore di servire da quando era poco più che un ragazzo, poteva continuare per ore, fino a rievocare eventi di cinque lustri addietro.
«Avanti, allora. Dicci cos’hai scoperto.»
Il maggiordomo si schiarì la voce, estrasse dalla tasca della giacca un foglio e lo aprì con disinvoltura. Fermò la registrazione sull’immagine del primo ragazzo apparso in scena. Aveva i capelli fissati in tante piccole ciocche che sembravano sfidare la forza di gravità.
«Lui è Susumu. Il cognome rimane celato. Sembrerebbe essere il principale autore dei testi.»
«Concorda con quanto sosteneva quella pazza», commentò Milo, le gambe accavallate e una mano sotto il mento. Françoise annuì, anche se non se la sentì di definire pazza una povera ragazza terrorizzata, che era fuggita a gambe levate non appena lei aveva lasciato il bel fiocco d’organza che le impreziosiva la camicetta.
«Lui è Shiro», proseguì Tatsumi, fermando stavolta il nastro sul primo piano di un ragazzo un poco più alto del precedente, l’aria sfrontata ed una piccola cicatrice sul mento. «Si occupa dei costumi, delle musiche e degli arrangiamenti.»
«Musiche?», chiese perplesso Seiya. «Una boy band
«Rientra nella politica del gruppo», continuò Tatsumi riavviando la registrazione e fermando il nastro su un’immagine di Shun. «E lui, fatte le debite proporzioni, assomiglia a Shun…»
Il ragazzo apparso per ultimo sulla passerella tempestata da petali di rose sfoggiava un’irriverente capigliatura leonina, due occhi blu ed un’espressione sparuta che sembrava mandare in visibilio tutte le adolescenti del Paese. Era un po’ più magro di Shun, quasi di dieci chili, e aveva la pelle ancor più pallida e diafana del Santo di Andromeda.
Assomiglia a quel tizio alla spiaggia, si disse Françoise tenendoselo per sé. Non ne era certa. I capelli erano diversi e il fisico meno snello, tuttavia c'era qualcosa che le faceva sovrapporre le due figure, il cantante e il vampiro, fino a farle quasi combaciare con quella di Shun. Quasi.
«Assomiglia? Ma se lui è Shun! Cos’è, siete ciechi?», sbottò June esasperata. 
«Non so…», commentò Hyoga. «Mi sembra che ci sia qualcosa di diverso, oltre ai chili in meno.»
«Le diete ferree fanno miracoli», disse June.
«E i capelli?»
«Per quello basta un buon professionista.»
«Non sappiamo altro, Tatsumi?», chiese Saori, ignorandoli.
«Nient’altro, milady», rispose, «costernato di non poter fare di più.».
Saori sospirò.
«Capisco. Grazie mille. E ringrazia anche chi ci ha passato queste informazioni», aggiunse la ragazza con un dolce sorriso, prima di congedare il suo fedele maggiordomo.
«Dovere, milady, dovere!», replicò l’uomo sentendosi importante.
Appena Tatsumi uscì dalla stanza, Seiya si alzò e rimandò daccapo la registrazione.
«Cosa staresti facendo?», gli chiese Milo, occhi chiusi e braccia conserte, seduto sul divano.
«Trovo il pezzo mancante del puzzle», rispose Seiya, chino davanti al televisore. «C’è qualcosa che mi sfugge!»
«In effetti, qualcosa che non torna c’è», aggiunse lo Scorpione nel suo colorito accento cicladico.
«Potremmo parlare con il loro manager», suggerì Shaina. Sedeva placida all’estremità sinistra del divano, il polso comodamente appoggiato sul bracciolo imbottito.
«Può essere un’idea», commentò Hyoga. «Milady, la fondazione non gestisce anche una società dedicata di spettacoli ed eventi?»
Saori ci pensò su un paio di minuti. «Mi sembra di sì, ma per i dettagli tecnici dobbiamo chiedere a Jabu.»
Figurati se ci aiuta!, pensò Seiya.
«Potremmo ottenere un incontro improrogabile con il loro manager?», proseguì il Cigno, gli occhi di ghiaccio fissi in quelli di Athena.
«Penso di sì. Hai qualcosa in mente, Hyoga?»
«Ho un’idea», si limitò a rispondere il ragazzo, con uno scintillio sicuro nello sguardo.


«Adesso basta!»
Il regista sbatté per terra il megafono e si alzò dalla sedia, dirigendosi con passo marziale verso i tre mentecatti che gli stavano ricordando quanto fosse dolorosa e rognosa un’ulcera allo stomaco.
«Cosa c’è che non va?», chiese loro aggiustandosi le lenti fumé. «Le mie indicazioni non sono abbastanza chiare?»
«Ma no, ma no… Cosa va a pensare? Sono chiarissime! Cristalline, oserei dire!», intervenne un uomo inguainato in un doppiopetto dal dubbio color castoro.
«E allora, signor… signor…», disse il regista con le mani sui fianchi, nel plateale tentativo di imbarazzare ancor di più il già paonazzo manager.
«Kanetsugi. Tsuchiya Kanetsugi», suggerì l’altro con un sorriso aperto e sincero.
«Signor Kanetsuki», riprese il regista, sbagliando di proposito il cognome, «mi spiega perché questi tre fenomeni non fanno un benemerito cazzo di quanto dico? Cosa c’è di così difficile, eh? Questo qua deve abbassarsi e stringere questo gran bel pezzo di mora tra le braccia!», disse palpando le grazie della bella modella europea che la produzione pagava profumatamente. «Non è complicato, no?»
«Lei ha perfettamente ragione», tentò di mediare l’altro, asciugandosi le copiose perle di sudore che gli decoravano la testa ormai preda della calvizie.
«E questo genio, qua!», proseguì il regista avvicinandosi al ragazzo più alto, vestito da una maglia in rete e dei pantaloni neri di pelle aderente. «Sul copione c’è scritto che entra in scena con la spada sguainata, mentre fa scudo con il suo corpo alla bella principessa che ha salvato nella scena precedente! Scudo con il corpo! Cazzo, devi metterti davanti a lei, in modo da difenderla!»
Shiro non disse nulla, limitandosi ad un’occhiata truce all’indirizzo del regista, che l’ignorò e si diresse verso la terza causa dell’ulcera che aveva deciso di fargli nuovamente visita quella mattina.
«E tu… Ci vuole una scienza speciale per startene fermo e cantare legato come un salame a questo muro di cartone?!»
Scosse il ragazzo per una spalla, ma questi continuò a non dare segni di vita.
«Sentite, voi sarete anche i più quotati del momento, ma il regista di questo video sono io! Chiaro? Quindi, o si fa a modo mio, o tanti saluti! Cazzo, ma ci vuole Eijsenstein per fare un videoclip
«Non le passa neanche per l’anticamera del cervello che le sue idee possano non rispecchiare il progetto e la visione che condividevamo quando abbiamo scritto questo pezzo?», commentò acido Susumu alzandosi dal terreno e spolverandosi il bavero della giacca di velluto verde che indossava sopra la pelle nuda. 
Il regista sorrise. «Non so chi cazzo vi crediate di essere, né tantomeno che colle vi sniffiate per scrivere certa merda, ma fintanto che ci saranno le mie chiappe su quella sedia, voi farete quello che dico io. Anche perché avete approvato le mie idee circa la regia. Adesso non potete rompere le palle perché vi salta la mosca al naso!»
«Non so quanto abbia senso che io abbracci lei a terra, mentre la canzone parla di tutt’altro…», proseguì Susumu avanzando verso il regista seguito a ruota da Shiro.
«Ragazzo, il regista sono io…»
«Non più», intervenne Shiro, le mani in tasca e uno sguardo di sfida dipinto negli occhi castani. «Lei è licenziato…», e si diresse all’esterno, incurante delle urla e delle bestemmie del regista.
Guadagnò la roulotte dei camerini e si sedette davanti ad uno specchio contornato di luci.
«Non avrai esagerato?», gli chiese Susumu. L’aveva raggiunto, le mani in tasca. Chiuse la porta.
«No. Quello là è solo uno coglione che sta nel giro da un sacco di anni! Quando gli ho chiesto di fare il video per la cover di Wild Boys, lui credeva che fosse nostra e non dei DuranDuran! Quello è un solenne cazzone!», rispose Shiro tenendo il broncio mentre ricambiava, attraverso lo specchio, lo sguardo che l’altro gli rivolgeva.
«Su, su», disse Susumu. Estrasse da una borsa una bustina trasparente. «Vediamo di farti calmare, ok?»
«Ok…», mugolò Shiro, prima di notare una sagoma riflessa sul vetro davanti a sé. Scattò in piedi, facendo perdere l’equilibrio a Susumu. Magro come un chiodo, il viso emaciato, Shun era entrato nella roulotte. Non l’avevano sentito arrivare.
«Che cazzo hai da guardare, eh?», urlò Shiro strattonandolo per la camicia.
«Cristo santo…» Susumu si passò una mano sul viso. Liberò Shun dalla presa di Shiro, poi chiese: «Che c’è, Shun?».
«Kanetsuki dice che dobbiamo finire le riprese, prima.»
Uscì senza battere ciglio, né riassestarsi la camicia strapazzata.
I due l’osservarono allontanarsi e sparire dietro un camper della produzione. Susumu chiuse a chiave la porta e si voltò verso Shiro, che si era seduto con le mani attorno alla testa.
«Io ho paura di quello», bisbigliò. «Sul serio, ho una fottuta paura di lui e del suo sguardo vacuo.»
«Effetti collaterali della merda che prende…», commentò Susumu posando una mano sulla spalla del compagno. La bustina era ancora lì. Era caduta sul pavimento, ma era ancora chiusa e non aveva sparpagliato il suo prezioso contenuto in giro. Sarebbe stato seccante.
«No, dico sul serio!», ribadì Shiro allontanando quella mano. «Ho paura del suo sguardo vacuo! E non l’ho mai visto assumere nulla che non siano medicine, e non c’è niente che ti riduca in quel modo. Niente di umano, almeno.»
«E tu che ne sai?», lo canzonò l’altro, ma smise non appena vide l’occhiata assassina di Shiro.
«Sono serio, capito, Susumu-kun? Quello lì non è normale, e non dico così perché piscia addosso alle bagasce che il manager gli procura. È il suo stato perennemente assente che mi preoccupa, il suo essere così silenzioso e sgusciante, che non ti accorgi nemmeno di avercelo dietro. Il suo sguardo è vuoto. Non c’è un cazzo, capisci?»
Susumu rimase a fissare il proprio compagno.
«Non lo so», disse sedendosi e accavallando le gambe. «Di lui non so un cazzo, solo quello che ci ha detto il manager.»
«Ho paura che vogliano metter su un lancio col botto. Solo che vorrei essere informato del botto, almeno questo!»
«Pensi che…?», chiese Susumu alzando lo sguardo incredulo sull’altro ragazzo.
Shiro annuì.


«Avete un appuntamento per le sei di domani pomeriggio. Di più non sono riuscito a fare, Milady…»
«È perfetto, Jabu.»
«Sono contento», rispose. Ed era sincero. Gli era bastato riscuotere due favori ed ecco fatto. Ma lui, della faccenda, non ne voleva sapere nulla. Saori se la sarebbe sbrigata da sola, stavolta.
«Ci vediamo domani, allora.»
Non credo. «No, mi spiace! Verrei volentieri con voi, ma non posso. Devo presenziare alla riunione per la quotazione in borsa delle azioni delle nostre consociate…»
Saori tacque. Un altro, al posto suo, avrebbe interpretato quel silenzio come un punto a proprio favore, ma Jabu sapeva bene che il silenzio, per Saori, non significava di necessità una resa. Anzi. In quel preciso momento gli ingranaggi nella sua testolina si erano messi in moto per far scattare la trappola e costringerlo ad accompagnarla.
«Mi dispiace», disse. Tentando la carta della pietas.
«Eh, lo so, ma come potrei fare?»
«Non potrebbe occuparsene qualcun altro?»
Stiamo parlando di fare la spesa? «No. Non si può. Purtroppo non posso mancare! Ma sarò ugualmente accanto a voi, Milady.»
«Capisco…»
Jabu si disse che no, Saori non capiva affatto. Che adesso avrebbe messo il broncio, quello da zia che non capisce cosa diamine stia combinando il suo nipotino preferito, quello tanto promettente sì, ma solo ai suoi occhi. Stava per aggiungere una formula di saluto e teminare quella conversazione, quando Saori lo precedette. Jabu ammutolì. E sbiancò.
Mayumi Tanaka, la sua segretaria, gli occhiali in punta di naso e i capelli raccolti sulla nuca, stava battendo a macchina alcune lettere oltre la porta a vetri che separava il suo spazio da quello del signor Jabukido, come lo chiamava lei, tutto attaccato. Con la coda dell’occhio, lo vide assumere un colorito sempre più cereo, mano a mano che la conversazione proseguiva. A Mayumi non piaceva Saori Kido. Lei, così bella ed elegante e nobile ed aristocratica, era capace di annichilire con una sola parola l’altrimenti prontissimo cervello di Jabukido. E da qualche giorno a questa parte, il solo nominargliela contribuiva ad affossare l’umore del suo datore di lavoro.
Non aveva sentito un sospiro rabbioso quando, all’interfono, lei gli aveva annunciato che Saori Kido era in linea? Sì, l’aveva sentito. Forte e chiaro. Troppo profondo per essere un fruscio di fondo. E a giudicare da come lui teneva stretta quella cornetta, avrebbe continuato a ringhiare la prossima volta che avrebbe dovuto rispondere ad una sua telefonata.
Perché, e di questo Mayumi era certissima, Saori Kido avrebbe telefonato ancora. E ancora e ancora e ancora. Non si sarebbe fatta scoraggiare da un rifiuto, perché Saori Kido era quel genere di persona che ottiene sempre quel che vuole. Anche a costo di aspettare, paziente come un ragno.
Jabukido parlò. Non in giapponese. Disse qualcosa, qualcosa che Mayumi non capì, e poi attese.
«Sì…», riprese. «Si può fare. Aspettavo un vostro cenno per. Sì, me ne occuperò io, stia tranquilla! A presto, allora. Arrivederci…»
Jabu sbatté la cornetta del telefono con tutta la forza che aveva in corpo, polverizzandola in una nuvola di schegge che si sparsero sulla scrivania. Mayumi si materializzò sulla porta, senza che lui l’avesse chiamata.
«Signor Kido, tutto bene? Ho sentito un rumore… ma... la cornetta!  Cosa è successo?!», disse, correndogli accanto e prendendosi cura delle sue ferite.
«Sto bene!», rispose secco lui, voltandosi verso la grande vetrata panoramica alle sue spalle.
«Posso…»
«Mi lasci solo. Ha capito? Solo! E faccia sostituire quel telefono domattina stessa! Lo rimandi indietro e faccia scrivere nella bolla d’accompagnamento che era difettoso. E se faranno storie, li avvisi che li citeremo per incuria e scelta di materiali scadenti…», le ordinò severo, le mani in tasca.
«Come vuole… Debbo far sostituire anche gli altri telefoni?»
«No, solo questo. E adesso vada.»
La ragazza fece un inchino, e indietreggiò in silenzio, maledicendo tra sé e sé Saori Kido.
Non appena la porta si richiuse, Jabu si concesse un sospiro. 
Jabu, pensavo che potrebbe essere il caso di rintracciare Ikki…
Strinse i pugni finché le nocche non sbiancarono, ma non vi diede peso; una gran rabbia andava montando dentro di lui ogni istante che passava.
Ikki… Shun… Seiya… Hyoga… Shiryu… Tanto il mio turno non arriverà mai…<
Avrebbe potuto risolvere da solo quella faccenda. A modo suo. Con tatto. E discrezione. Le avrebbe riportato il frignone a casa e lei avrebbe sorriso, come sempre. Avrebbe dimostrato a quei quattro mentecatti cosa significasse essere Jabu; non Seiya, non Hyoga… Jabu. Qualcuno su cui poter fare affidamento. Più del pomposo Scorpione, che li guardava tutti da sotto in su come se fosse un semidio e loro, loro, mezze calzette.
Jabu avrebbe risolto il problema, non loro. E invece Saori non gli aveva lasciato il tempo per sistemare le cose a modo suo. Come al solito, erano intervenuti in massa, neanche fosse il gran Consiglio di Guerra del Santuario. E per fortuna che aveva spedito Ichi e Nachi a presenziare inaugurazioni e riunioni dall’altro capo del globo.
Ban viveva a bordo di un lussuoso yacht che Jabu gli aveva dato in cambio della sua fetta di azioni della Fondazione Grado, mentre Geki era tornato in Canada, a vivere come un montanaro sulle Montagne Rocciose, a combattere con gli orsi, i lupi ed il freddo inverno americano.
Coglione! Gioca a fare Miami Vice, che io qui faccio i soldi, quelli veri! E quell'altro? Il Davy Crocket dei poveri…. Patetico!
E lui aveva spartito la torta con gli altri superstiti del gruppo delle riserve che non verranno mai schierate. I panchinari a vita. E adesso mi ritrovo nei casini per colpa di un’indolente donnicciola! Bene, ma se vado a fondo io, mi porto tutti dietro, si disse voltandosi ed estraendo una rubrica da un cassetto.
«Signorina Tanaka?», chiamò parlando nell’interfono. «Mi chiami questa persona e le dica di trovarsi qui tra due ore a partire da adesso.»
La segretaria segnò nome e cognome e riattaccò.
Jabu sorrise. In fondo, chi se non il suo amato fratello può trovare quella mammoletta?


Si sedette su un letto di foglie oro e ruggine armoniosamente sparse a terra. Appoggiò il busto al tronco del castagno ingiallito e alzò la testa verso le fronde, schermandosi gli occhi dai raggi del sole pomeridiano che vi filtravano attraverso.
Aveva bisogno di stare da solo. Aveva bisogno di pensare. Perché troppe cose non tornavano, ma nessuno si era preso la briga di mettere assieme i pezzi del puzzle, prima di caricare a testa bassa il nemico. E la cosa peggiore era che Athena era con loro. Non con lui.
«Abbiamo un appuntamento per domani pomeriggio alle sei», aveva detto Athena riagganciando la preziosa cornetta d’onice sul supporto dorato.
«Jabu?», aveva chiesto Seiya.
Lei aveva abbassato lo sguardo. «Non credo verrà», aveva risposto. E lui aveva pensato che qualcosa girasse a vuoto, nel cervello dell’Unicorno.
«Ma lui deve esserci!», aveva protestato Seiya. «Altrimenti, il piano di Hyoga…»
A quel punto, Athena aveva alzato la testa. «Shun non è il solo che sta attraversando un momento delicato.» Lo stava davvero giustificando? La risposta era sì. «Proverò a parlargli, ma non insisterò ancora. Se Jabu ci dirà di no, studieremo un’altra strategia», e Hyoga si era fatto avanti, proponendo un piano B.
A quel punto, lui era uscito. Perché lui sarebbe stato l’ultimo che avrebbe accompagnato milady a quell’appuntamento, se non come guardia del corpo. E qualcosa gli suggeriva che Athena non lo volesse con sé.
Sbuffò, raccolse una foglia da terra e se la rigirò tra le mani. Sai bene che devo risolvere un paio di problemini, vero Athena?, pensò, dicendosi che era arrivato il momento di fare quel discorsetto che aveva in mente. Lei lo stava raggiungendo, con un paio di tazze in mano.
«Non è più estate. Se ti addormenti, prenderai un malanno qui fuori. Tieni…», gli disse, porgendogli una fumante tazza di tè.
«Eppure è una così bella giornata.»
Limone… Come sempre, vero?, commentò tra sé e sé prendendo il mug verde acqua e scaldandosi le mani. Bevve una sorsata e le sorrise, come a ringraziarla. Gli fece cenno di raggiungerlo, battendo la mano libera sulle foglie al suo fianco.
Françoise nicchiò, guardandosi intorno.
«Non mordo mica», le disse. E lei ubbidì.
Brava bambina… «Grazie. Ne avevo bisogno.»
«È una situazione complicata», ribatté lei.
«Parliamo in greco? Ti va?», le chiese. Lei annuì. Lui bevve un’altra sorsata. «Il giapponese ha una sua musicalità, ma per parlare, è meglio il greco.»
Lei si agitò sulle foglie.
Lui sorrise sotto i baffi. Sì, le avrebbe fatto il discorsetto, e lei lo sapeva, ma non subito. Avrebbe parlato di altro, prima. Di Shun e delle cose che non quadravano. Perché voleva avere un suo parere. E perché voleva che fosse a suo agio. Così sarebbe caduta più facilmente nel suo tranello. Innocuo e a fin di bene, ma pur sempre un tranello.
«Vorrei avere il tuo parere», le disse, meritandosi un’occhiata perplessa. «Hai capito bene. Non fare quella faccia.»
«Un mio parere su cosa?»
«Su questa faccenda.» Tacque, fissando le fronde del castagno. «Tu che ne pensi? Può essere Shun, quello che ieri pomeriggio cantava in quel gruppo?»
Lei si strinse nelle spalle. «Mah. Non so. Forse. Potrebbe. Io non ce lo vedo come animale da palcoscenico, ma potrei sbagliarmi. Se così non fosse, avrebbe senso il suo comportamento delle ultime settimane.»
«Le audizioni sono cominciate tre mesi fa, non tre settimane fa», obiettò Milo. Lei gli diede ragione con lo sguardo.
«Quindi?»
«Quindi, se quello non è Shun, è un suo clone. O un suo gemello malvagio saltato fuori dal cilindro.»
«Il gemello malvagio?», ripeté lei. «Ti sbagli, quello è rimasto al Santuario.»
Milo si lasciò scappare una risata. «Giusto. Giusto. Ma allora, come lo spieghi il nome del complesso?»
Lei si strinse nelle spalle. «Sotto sotto, i giapponesi sono un popolo complicato. Sono fissati con le rose, con il sangue e con altre cose, come dire?, dolorose. Tormento ed estasi. Tu dovresti capirli…»
«Non sono un sadico, io», protestò lui, regalandole un’occhiataccia.
«No?» Lei sfarfallò le ciglia. «Il mio ginocchio sinistro racconta un’altra storia…»
«Il tuo ginocchio sinistro ha rimosso da che parte della barricata si trovasse, all’epoca dei fatti?», chiese Milo.
«Touché», rispose lei. Alzò una mano in segno di resa. «Uno a zero per lo Scorpione.»
«Io temo che la realtà sia un’altra», disse Milo, tornando al discorso principale. Quello che verteva su Shun.
«Quale?»
«Bloody Roses è… era il nome di una tecnica di Aphrodite.» Si gustò il suo sguardo allargarsi, mano a mano che il suo cervellino metteva assieme i pezzi.
«E tu pensi che…»
«Può essere una coincidenza, ma sarebbe davvero curiosa come coincidenza, non trovi? Sarebbe come se» Shiryu «Hyoga chiamasse il proprio cane» Excalibur «Aurora Execution
Lei stornò lo sguardo dai suoi occhi e lo portò sui propri piedi. Annuì.
«Qualcosa che mi fa sovrapporre Shun e quel tizio c’è», confessò Françoise, mordendosi il labbro superiore. «Ma ho il terrore che se mi lasciassi scappare questa cosa…»
«June darebbe di matto. Lo so.» Milo strinse le dita attorno alla tazza. «Dobbiamo lavorare…»
«… di sponda, avrebbe detto il mio maestro.» Qualcosa nello sguardo di Françoise era mutato. «Di fino. Senza che June se ne accorga. Prima che lei se ne accorga. Sarà meglio condividere con Athena e con Hyoga questa ipotesi.»
Hyoga? Milo annuì. Era arrivato il momento di passare all’altro discorsetto.
«Il tè era buonissimo», le disse. Spiazzandola. «Grazie. Per aver pensato a me», aggiunse, calamitandole gli occhi nei suoi.
«La cameriera ha chiesto quanti di noi volessero il tè e ho pensato che», spiegò lei, tracannando qualche sorsata.
Milo l’osservò poco convinto. «Curioso…», disse, fissando le foglie ma osservandola con la coda dell’occhio.
«Cosa?»
Tutto.
«Sono uscito dalla villa quasi un’ora fa. E il tè è ancora caldo E non ho detto dove sarei andato», le spiegò, raccogliendo con noncuranza una foglia da terra e avvicinandola ai capelli di lei, come per paragonarne il colore. «Curioso, non credi anche tu?»
«Un caso. Una coincidenza.»
«Solo che questa si chiama Françoise Arnoul, vero?» Milo sorrise facendo cadere a terra la foglia e fissandola dritto negli occhi.
«Tana!» Alzò la mano sinistra e posò la tazza accanto a sé, le ginocchia strette al petto. «Le ho chiesto di preparare il tè e ti ho trovato tramite il microcosmo.»
«Davvero?», chiese lui. «Perché?»
«Lo ammetto. Mi ha fatto male…»
«Cosa?» le chiese lui, perplesso e allarmato, guardandola da sotto in su. Allora avevo ragione. Allora è successo qualcos’altro che tu non mi hai raccontato. «Ti ha ferita? Ti fa male da qualche parte?», aggiunse, sfiorandole una spalla per sincerarsi che stesse bene.
«Tutto a posto!», ruggì lei allontanandolo in malo modo. 
«Françoise, io non ti capisco», ammise sconsolato con un’espressione confusa. «Sul serio. Cosa ti fa male?»
«Ma allora sei proprio ottuso!», sbottò lei, alzandosi di scatto e dirigendosi di gran carriera verso la villa.
L’agguantò per un polso, facendola ruotare all’indietro. Le ultime gocce di tè si sparsero nell’aria, mentre la tazza finiva al suolo. «Chi sarebbe l’ottuso, ragazzina?», le sibilò a pochi millimetri dal viso con un’espressione pericolosa, quella di chi perso quasi del tutto la pazienza.
«Mi stai facendo male», si lamentò cercando di sfuggire a quella presa e a quello sguardo penetrante. Poteva sentire l’odore della sua colonia. Sandalo. «Lasciami…»
«Non fino a quando non mi avrai spiegato in maniera umana quello che stai dicendo, mademoiselle…», rispose, allentando di poco la presa.
«Uomini!», commentò Françoise alzando gli occhi al cielo. «Mi ero solo preoccupata per te, ecco tutto!»
«Eh?», disse lasciandole il polso ed accompagnando il movimento di ritorno.
«Per quello che ti ha detto ieri June», gli confidò, arrossendo. «Mi era sembrato che ci fossi rimasto male e così… ecco... io…», ma non terminò la frase perdendosi in mille balbettii.
«Pensavi che la frase di June...»
«No, non lo pensavo», disse lei avanzando verso l’albero e appoggiandovisi con la schiena. «Ne ero e ne sono straconvinta.»
Siamo sicuri che sia la stessa persona che mise la nostra amata isola a ferro e fuoco qualche anno fa?
Aveva ragione. Quella frase gli rimbombava ancora per il cervello. Uno pari e palla al centro. Raccolse la propria tazza accorgendosi di aver sparso a terra tutto il tè.
«L’ho versato, scusami…», disse mentre riprendeva posto sotto l’albero.
«Stai bene?», gli chiese, sedendosi accanto a lui.
«Avanti, non crederai che io dia peso ad una frase infelice?»
«E invece sì», ribatté la ragazza cercando con lo sguardo dove fosse finita la propria tazza. «O non ti preoccuperesti tanto di ciò che pensi o non pensi June. A meno che tu non abbia un debole per le bionde…»
«Non è proprio il mio tipo, te lo posso assicurare.»
«Dite tutti così…»
«Testarda, eh?», tentò di sviare l’argomento.
Françoise si alzò, si spolverò la terra dai pantaloni e rimase a fissarlo per qualche istante in quelle polle blu che gli ornavano il viso. «Perché non glielo dici?»
«Cosa? Che mi piacciono le more?», chiese lui perplesso. Me lo stai facendo tu, il discorsetto?
«No. Che ci stai ancora male. Che eseguivi gli ordini del Sacerdote. Che credevi che quell’uomo fosse colpevole di tradimento… Tutto.»
«Tu mi avresti creduto se ti avessi detto che tuo fratello mi chiese di occuparsi personalmente del suo allievo? E mi avresti creduto se ti avessi detto che ho sentito il Cosmo di Shura piangere per aver riconosciuto il proprio errore?», ribatté, fissandola serio. «No, vero? E allora perché dovrebbe farlo lei?»
«Ma io ho capito, alla fine!», continuò lei accalorandosi. Dopo averci rivoltato contro l’impossibile, pensò lui. «Se ce l’ho fatta io, che sono una testona, perché non dovrebbe riuscirci anche lei?»
«Allora lo ammetti che sei una testa dura!», confermò lui, alzandosi con un movimento fluido e posandole un bacio sulla fronte. «Grazie. La chiacchierata è stata proficua. E il tè era buonissimo.»
Milo si allontanò, la tazza tra le mani, lasciandola come paralizzata, sotto le fronde del castagno. Due a uno.


La sera era scesa su Kido Manor in sordina, sorprendendone gli occupanti. Tatsumi si era premurato di far preparare e servire la cena alla solita ora, in un tripudio di piatti e posate d’argento tirate a lucido. Shaina e Françoise erano tornate a casa appena possibile.
«È stata una giornata pesante, avremmo bisogno di coricarci presto, anche in vista di ciò che ci attende domani…» L’Ofiuco aveva risposto con un sorriso stanco di circostanza. Françoise non aveva fiatato. Seiya aveva declinato l’invito adducendo come scusa un mal di stomaco che gli avrebbe permesso di guadagnare rapidamente la via d’uscita.
A tavola nessuno aveva osato riproporre l’argomento Shun, limitandosi ai convenevoli del caso.
Così, Saori si era ritrovata Hyoga e Milo alla sua sinistra, a piluccare il cibo, mentre June, dall’altro lato del lungo tavolo d’ebano, sembrava essere altrove con la mente, il capo chino sul piatto.
Shun, si ritrovò a pensare Athena specchiandosi sul dorso del cucchiaio finemente cesellato che la guardava dalla destra del proprio piatto.
Si alzarono insieme, come ad un segnale convenuto, ed ognuno raggiunse la propria stanza.
Saori sprofondò sul letto ancora vestita, a faccia in giù, le braccia sul cuscino. La situazione era strana e troppo ingarbugliata per non puzzare di marcio lontano chilometri; quello che la lasciava perplessa da un lato, e l’atterriva dall’altro, era la strana assenza di Ikki. Possibile che lui non si fosse preoccupato? A meno che Ikki non sapesse cosa stesse facendo il suo adorato fratellino in quel preciso momento. 
Ipotesi che non mi posso permettere da scartare a priori, si disse alzando la testa dalla sovraccoperta di raso e fissando la tappezzeria oltre l’ossatura d’acciaio del letto. Ma anche ammesso che Ikki sapesse cosa stesse facendo Shun, e dato per assodato che mai e poi mai Phoenix si sarebbe degnato di dar notizia di ciò che stava combinando, dove mai si era andato a rintanare quell’orso? Almeno, pensò la ragazza torturando un lembo della federa del cuscino, avrebbe avuto la scusa per dargli una solenne strigliata.
Sì, ma a che titolo?, si chiese abbandonando la mano sulla stoffa spiegazzata.
Cos’era per lui? Era Athena, alla quale la sua vita era consacrata, o era anche Saori? E che posto occupava Saori, nella vita di Ikki?
E la domanda che gli aveva posto Jabu, quello stesso pomeriggio, le aveva instillato un dubbio atroce.
«Chi me lo sta chiedendo?», aveva replicato lui, quando lei aveva insistito affinché l’accompagnasse all’appuntamento con il manager dei Bloody Roses. «La dea Athena o Saori Kido?»
E lei non aveva saputo cosa rispondere.
Prese il cuscino e lo lanciò di malavoglia contro la porta alle sue spalle.


Il maledetto jet-lag aveva colpito anche questa volta. Non aveva ceduto alla tentazione di sprofondare tra le lenzuola non appena messo piede a terra, e adesso il sonno le era passato del tutto, gli occhi spalancati come fanali.
E adesso?, si era chiesta guardando la luna, alta nel cielo, ridotta ad una lama sottile da una nuvola di passaggio.
Si era alzata ed era scesa al pian terreno, i passi attutiti dalle morbide guide in velluto che ornavano corridoi e scale del palazzo.
Voleva tornare su quel divano che aveva occupato poche ore prima per vedere quei filmati che ritraevano Shun, il suo Shun, vestito come una checca isterica ad agitarsi come se fosse un burattino mosso da un creatore capriccioso.
Socchiuse la porta, entrò e si accoccolò a terra, le spalle appoggiate contro il divano di pelle, gustandosi il silenzio della stanza. Un sospiro ed afferrò il telecomando premendo il pulsante rosso. Il televisore si accese vomitandole addosso i suoni ovattati di un programma che trasmetteva della musica soft, dello stesso tipo che popolava quei sogni nei quali Shun decideva di permetterle di essere la sua compagna. La stessa musica che aleggiava quando fantasticava su come potesse essere sentire il suo profumo così pericolosamente vicino, il suo calore contro il petto, il suono basso e roco della sua voce che invocava spasmodico il suo nome.
June… June... June…
«June?», la chiamò una voce alle sue spalle facendola sobbalzare di scatto.
Milo era apparso nel vano della porta, illuminato alle spalle da una luce soffusa ed appoggiato allo stipite di ciliegio.
«Ah, sei tu?», tentò di riprendersi, mentre le mani vagavano sul telecomando alla cieca, cercando il tasto di spegnimento. «Ti ho svegliato con il volume troppo alto? Non era mia intenzione, scusami…», concluse voltandosi verso il video e spegnendo l’apparecchio.
«No, non mi hai svegliato affatto.»
Milo entrò nella stanza, con sommo disappunto della ragazza.
«Se il volume fosse stato troppo alto, avresti visto Tatsumi piombare qui dentro armato della sua spada di bambù.»
Si accomodò sul divano, prendendo il telecomando del televisore dal tavolino di cristallo su cui June l’aveva abbandonato.
«Non riesci a dormire?», chiese lei, per pura cortesia.
«No. E non certo perché mi tormenta il rimorso dei poveri disgraziati che ho ucciso per ordine del Grande Sacerdote», rispose Milo spiazzandola.
«Forse dovresti», commentò lei, voltandosi verso la porta.
«Davvero? E tu che ne sai?»
La voce bassa e calda di lui la raggiunse come un pugno mentre muoveva un passo oltre la soglia. June si voltò, notando come Milo fosse rimasto di fronte al televisore acceso, la testa riccioluta che sbucava oltre la spalliera del divano.
«Sei convinto di agire per il bene dell’umanità, di fare quello che è giustofare… Il Sacerdote parla e tu agisci. Semplice, no? Lui è il portavoce di Athena in terra, nascostaci dopo il tentato rapimento da parte di un compagno. Il Sacerdote parla in vece della dea, ciò che decide è dettato da un ordine superiore cui obbedire», continuò lo Scorpione alzandosi lentamente. «Anche se devi far fuori qualcuno che a prima vista sembra innocente, anche se ti costerà, anche se sarai tu il primo a pagarne le conseguenze, dentro di te sai che lo fai per il bene dell’umanità.»
«Facile dare la colpa al prossimo, eh? Che hai da perdere tu? Nulla, tanto, sia che tu agisca per il bene, sia che tu stia prendendo un colossale granchio», ribatté June, calcando la voce sull’ultima parola, «potrai comunque scaricare la responsabilità delle tue azioni su qualcun altro, giusto?»
«Non proprio…», commentò il ragazzo avvicinandosi a lei e fermandosi sulla soglia della porta. Sollevò una mano, ponendola tra sé e June. «Il sangue di chi ho ucciso è sulla mia pelle, mia e di nessun altro. Io per primo pago le mie colpe, senza attribuirle a Saga e agli ordini che ci dava. Io solo sono responsabile dell’eccessiva fiducia che avevo riposto nella persona sbagliata.»
Uscì dalla stanza con le mani sprofondate nelle tasche dei jeans , lasciandola di stucco.
«E abbassa il volume, altrimenti sveglierai sul serio Tatsumi!», aggiunse prima di sparire nel buio del corridoio.


Nota:
Alla fine, sono riuscita ad aggiornare in tempo. Purtroppo, l'appuntamento con "Tutti qui" salta, questa settimana. Noi ci vediamo martedì prossimo. Nel frattempo, divertitevi, e non cacciatevi nei guai!

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.

La luce del frigorifero era spenta.
Teneva la lampadina fulminata tra le dita osservando ipnotizzata il filo di tungsteno spezzato al centro ed arrotolato agli estremi in due volute ricciolute. È grande come quella dell’abat-jour. La comprerò domani, si disse posando la lampadina sul tavolo e prendendo una bottiglietta di Calpis.
Bevve lentamente, sorseggiando la bevanda affacciata alla finestra.
Il Sumida scorreva placido, mentre la luna si specchiava sull’acqua appena increspata dalle onde. Il pensiero dell’estate appena trascorsa si affacciò alla sua mente, portandola a quella sera di Luglio, in cui erano scesi tutti assieme sul greto del fiume per la festa di Tanabata: anche allora la luna era tonda e li osservava curiosa dall’alto del cielo scuro.
Cavolo, c’eravamo proprio tutti, pensò, ripassando l’appello nella propria mente. Io e Shaina con gli yukata a fiori, e se ripenso a quanto mi è costato affittarne uno! E poi c’era Hyoga assieme a quella specie di scopa rovesciata, Seiya e le sue lattine di Asahi calda, Shun…
Andromeda era arrivato in perfetto orario, i fuochi d’artificio e qualche ramo di bambù e una bottiglia di aranciata in un sacchetto di plastica, e avevano aspettato i ritardatari chiacchierando tutti e tre di piacevoli ovvietà. Seiya li aveva raggiunti ansante, madido di sudore e i capelli sconvolti da una lunga dormita, sei lattine di birra sotto il braccio calde come brodo. Hyoga ed Erii erano arrivati poco prima, per colpa di Akira che non aveva voluto lasciarla uscire, non senza di lui.
«Scusatemi, ma sapete anche voi quanto sia insistente quando ci si mette! Poi Miho non era ancora rientrata, e davvero non sapevo come fare!»
Aveva continuato questa litania per quindici minuti buoni, e nel frattempo lei aveva sistemato in un capace catino le due angurie che Hyoga aveva portato, e aveva convinto il Santo del Cigno ad usare il suo potere per freddarle.
«E non tirare in ballo la solfa degli scopi personali. Lo fai per una buona causa, dopo tutto.»
«Una buona causa?»
«Sissignore. Non vorrai che la tua…
amica mangi un’anguria calda, vero? Potrebbe farle male…»

E poi, i suoni della sera, il frinire dei grilli, lo scorrere placido del fiume, le luci dei fuochi, i talloncini colorati, il bambù, le chiacchiere, il naso all’insù a seguire le stelle cadenti, le risate, la birra calda e i geta che le facevano male ai piedi….
Un suono insistente la riportò bruscamente al due di ottobre, affacciata alla finestra a guardare la luna piena, come un lupo mannaro. Qualcuno, un aspirante suicida forse, aveva incollato il proprio dito al campanello di casa, mentre la sua coinquilina aveva deciso di far fare gli straordinari alla loro sgangherata caldaia.
Si sta facendo nuova?, si chiese, andando ad aprire intenzionata a far ingoiare campanello e dito a chiunque si trovasse dall’altra parte della porta.
Era Seiya – chi altri?. La testa china ed un mazzo di fiori di campo tra le mani, sembrava l’ombra di se stesso.
«Entra…», gli disse, lasciandogli la porta aperta ed avviandosi in cucina per posare il bicchiere vuoto nel lavabo. Seiya la seguì, teso e rigido come un automa, aspettando in piedi davanti al tavolo.
Fiori. Aria da cane bastonato. Doccia, soppesò squadrandolo da capo a piedi mentre Shaina canticchiava sotto lo scroscio dell’acqua.
Era davvero insolito. Una persona spartana come lei non era solita impiegare ore davanti allo specchio in quelle pratiche femminili di cui lei, invece, era divenuta ben presto schiava. E per di più stava cantando. Una di quelle cose che aveva visto accadere solo quando era estremamente felice, oppure quando avrebbe voluto spaccare l’universo intero con le proprie mani.
Vada per la seconda, pensò Françoise, fissando il proprio ospite.
«Vuoi qualcosa da bere?», gli chiese, cercando di riscuoterlo dal torpore in cui versava.
«Acqua, grazie», rispose Seiya con voce incolore.
«Macché acqua! Gli uomini bevono birra, no?», disse estraendo dal frigorifero una lattina comprata poco prima e porgendogliela con fare deciso. «Solo, fai attenzione a non ubriacarti e a non mandare tutto in fumo!», aggiunse strizzandogli l’occhio e prendendo lampadina e mazzo di chiavi.
«Cosa?», provò a chiedere Seiya incredulo.
«Ah, e mi porto le chiavi!», riprese Françoise, indossando la giacca. «Poi spostate il paravento intorno al letto di Shaina, non voglio che mi diate di nuovo della guardona! Kalinìkta
Gli scoccò un’occhiata complice e si chiuse la porta alle spalle.
Che sia un buon segno?
Seiya sentì la porta del bagno aprirsi ed una voce, tanto cara quanto temuta, sospirare: «Ah, ci voleva proprio!».
Shaina era avvolta in un accappatoio bianco, i capelli che le ricadevano in ciocche morbide attorno al viso fresco e… truccato.
«Che ci fai tu qui?», sibilò gelida, disintegrando tutte le speranze del ragazzo.
Forse sono stato troppo ottimista…
Shaina aprì il frigorifero, estraendone un cartone del latte ancora chiuso. Prese un bicchiere e, con una calma snervante, si versò da bere restando a sorseggiare il liquido bianco e freddo in piedi, di fronte alla finestra.
«Che vuoi a quest’ora?», gli chiese senza guardarlo negli occhi, mentre abbandonava il bicchiere nel lavandino.
«Dobbiamo parlare», rispose il ragazzo, mentre cercava di ignorare il proprio istinto – che gli gridava di stringerla tra le braccia e di fare pace – ed il proprio cervello – che gli stava sadicamente rimarcando il fatto che Shaina, la sua Shaina, si stesse preparando per una serata… senza di lui!
«Credo di no.»
«E io credo di sì!», insistette lui, al limite della sopportazione.
«Senti, vuoi parlare? E parla. Io ho altro a cui pensare!», è sparì dietro il paravento che separava la zona notte da quella giorno.
«Si dice qualcuno, non altro», l’apostrofò Seiya avvicinandosi.
«E a te cosa interessa?»
«Saresti la mia ragazza, cara… O mi sono forse perso qualcosa?»
«Qualcosa come la figuraccia che di oggi pomeriggio che mi è costata il posto?», rimarcò lei, mentre la sua silhouette indossava una maglia attillata.
«Ancora? Ti ho chiesto scusa.»
«Non ricordo…» L’ombra di Shaina si fermò un istante a guardare il soffitto, un dito sotto il mento.
«Scusami, sono il solito idiota…», ammise Seiya allargando le braccia e giocando la carta dell’autocommiserazione per rappacificarsi con lei.
«Esatto», commentò Shaina aprendo un armadio ed estraendone una gonna.
«Dai, facciamo pace…», disse con voce calda e bassa mentre si avvicinava per stringerla tra le braccia.
Quando lei lo fermò.
«Non è questo il punto…» Shaina parlò prima ancora che Seiya aprisse bocca. «Non è tanto per il lavoro, che avevo deciso di lasciare da un pezzo, ma….» S’interruppe cercando le parole adatte ad esprimere al meglio i propri sentimenti.
«Ma?», l’incalzò lui non riuscendo a sopportare quella sensazione viscida che gli stava invadendo i polmoni e le braccia.
Shaina sospirò.
«Fa più male a me che a te… Basta. È finita.»
Semplice, chiara, lapidaria. E senza possibilità d’appello.
«Che stai dicendo?», si ritrovò a sussurrare lui, le pupille dilatate che fissavano la sua principessa dargli una pugnalata al cuore.
«Che sono una donna, Seiya. Una donna che ha bisogno di un uomo accanto, non di un ragazzino che agisce senza pensare alle conseguenze delle proprie azioni.» Parlava con voce incolore, come se gli stesse indicando la strada per arrivare al più vicino mini-market.
«Shaina, aspetta, se mi spieghi io…»
«Tu che?», l’interruppe fissandolo dritto negli occhi scuri, resi ancora più grandi dalla paura. «Cambierai?», aggiunse mentre lui annuiva di riflesso. «Non farmi ridere, non ne ho voglia. Io non ho più niente da dire. E se adesso vuoi scusarmi…»
Raccolse una mantella e si diresse alla porta, le chiavi in mano.
«No!» Seiya reagì abbracciandola e stringendosela al petto, come se lei fosse un relitto e lui un naufrago nel mare in burrasca. «NO! Non è possibile, non è possibile…», ripeteva, carezzandole la testa, come se volesse cancellarle quell’idea balzana dalla mente.
«Basta, ho detto!», si liberò lei facendo ricorso al proprio Cosmo, la rabbia che le serpeggiava negli occhi.
Come ai bei, vecchi tempi, pensò Seiya mentre sentiva il suo cuore andare in frantumi.
«Senti, io devo uscire. Quando ritorno, non voglio trovarti qui, siamo intesi?»
E varcò la soglia di casa, scivolando nella notte.


Il vento soffiava per le strade scuotendo le chiome degli alberi, accompagnando il suo vagare tra vie sconosciute e insegne luminose sempre accese.
Devo essermi perso, ammise a se stesso, fermo nella pia illusione di trovare un punto di riferimento, uno qualunque. Le mani nelle tasche, decise di attraversare l’incrocio e proseguire dritto davanti a sé. Prima o poi arriverò da qualche parte, si disse continuando a camminare, mentre il vento giocava coi suoi capelli.
A furia di vagare, si ritrovò a costeggiare il fiume. Massì… Arriviamo alla foce, decise sentendo il vento sferzargli la faccia con maggiore convinzione.
Aveva voglia di camminare, solo camminare per non pensare a quella situazione folle che rischiava di far esplodere il già precario equilibrio che la faccenda aveva assunto. C’è di che uscirne pazzi, pensò mentre avanzava senza meta stretto nel suo Schott nuovo di zecca.

Qui sono tutti fuori di testa! Shun, che sparisce senza avvisare - ma saranno poi cazzi suoi? - per riapparire, forse, come cantante di una boy band, forse no. June, che mi odia. Françoise, che è misantropa nei confronti di qualsiasi forma vivente, escluso Aiolia. E il sottoscritto, quando le gira bene. Jabu, che si rode il fegato perché Milady non lo incensa da capo a piedi. Milady, che non si decide a seguire un unico corso d’azione. Seiya, che si diverte a fare il bastian contrario. Hyoga, poi, passa più tempo all’orfanotrofio che a cercare un modo per trovare Shun. L’unica normale è Shaina, il che è tutto dire!
Calciò una lattina che cozzò contro un angolo e sparì nel buio.
«Perché non glielo dici? Se ce l’ho fatta io, che sono una testona, perché non dovrebbe riuscirci anche lei?»
La voce di Françoise gli rimbombava nella mente, assieme all’aroma del limone e del tè che gli aveva portato nel pomeriggio. Quando aveva deciso di battere in ritirata invece di farle quel discorsetto che aveva in mente da un po’. Quando avrebbe voluto e dovuto chiederle perché, quando quel tizio l’aveva inseguita, non avesse richiamato l’armatura in suo aiuto.
Pazienza, l’avrebbe fatto alla prossima occasione. Magari stasera stessa, perché, e Milo ci avrebbe scommesso la testa, era sicuro che l’avrebbe trovata a pattugliare la zona della darsena. Da sola. E senza armatura.
Si strinse ancora di più nelle spalle, continuando ad avanzare.
Camus, tua sorella è proprio una rompiscatole, sai?, pensò sorridendo, quando la sua attenzione fu catturata da una figura che avanzava verso di lui. Slanciata, capelli raccolti sulla nuca, mantella sulle spalle per difendersi dai primi freddi, gonna al ginocchio, gambe affusolate e tacchi non molto alti. Milo si fermò, osservando affascinato la donna che gli stava venendo incontro. La figura raggiunse il cono luminoso di un lampione ed emerse dal buio.
«Shaina?», chiese incredulo, pregando che il suo stupore non fosse così evidente. Amico mio, non adesso, non con Shaina almeno!
«Milo! Che fai da queste parti?», disse Shaina in greco, perplessa nel ritrovarselo di fronte.
«Abiti in zona?»
«Due traverse più in là», rispose lei. «Non deve essere facile orientarsi senza cartelli, vero?»
«Puoi scommetterci. Mi sembra di vagare come un topo nel labirinto…»
«Cercavi Françoise?»
Sì. «No», mentì. «Stavo facendo un giro di ricognizione e sono capitato qui. Tu, piuttosto, dove te ne vai di bello così vestita?», rispose dando fondo a tutto il suo repertorio galante.
«Ho avuto la tua stessa idea. Che ne dici di unire le forze?»
«Perché no?», disse porgendole il braccio. «C’è una luna stupenda, stasera. Facciamo due passi?»
Shaina, sorridendo, si aggrappò a lui con un movimento elegante e seducente che il Santo dell’Ottava Casa non poté far a meno di notare.
«Dove mi conduci, mio cavaliere?»
«Sulla spiaggia, dove altrimenti? Chissà che non si riesca ad avere un incontro ravvicinato con il figlio di Lestat», rispose sorridendo mentre si dirigeva verso la darsena con Shaina sottobraccio.


Alla fine, anche lei si era stufata di rivedere quel filmato. Aveva spinto il tasto di spegnimento e aveva posato il telecomando accanto a sé, una mano a massaggiarsi gli occhi stanchi.
Ok, stanotte non si dorme, tanto vale fare due passi, si disse June, alzandosi sconfitta.
Volò al piano superiore, entrò nella sua stanza, s’infilò la giacca di renna con le frange e gli stivali proprio come quelli di Axl, come aveva detto al malcapitato commesso che era incappato in lei.
Se resto ancora chiusa fra queste quattro mura rischio d’impazzire, si disse aprendo la porticina dell’entrata della servitù. Come da copione, l’antifurto iniziò ad ululare nel silenzio più assoluto, gelandole il sangue nelle vene. Uscì, che altro poteva fare?, si chiuse la porta alle spalle e scomparve nel grande parco che circondava la villa.
Quante storie per un’uscita fuori programma! La prossima volta farò una richiesta in carta bollata, ironizzò dirigendosi nel folto del bosco, la voce di Tatsumi che ruggiva oltre le fronde degli alberi.
«Che succede?! Milo! Dov’è Milo?! Milady, sta bene?»
Com’era diversa la vita sull’isola di Andromeda! Lì poteva andare dove le pareva, fino ai confini stessi di quel piccolo lembo di terra vulcanica nel cuore dell’Oceano Indiano. A fermarla solo il mare, le ridotte dimensioni dell’isola e la forte escursione termica.
Come fai a vivere qui, Shun? Cosa ti manca sulla nostra isola che trovi invece in questo formicaio?, si chiese sbucando di fronte al muro di cinta che si ergeva solido e massiccio di fronte a lei. Prese una foglia da terra, la lanciò a pochi centimetri dalla sommità del muro e la osservò andare arrosto al contatto con l’alta tensione che scorreva all’interno del filo spinato sopra la recinzione.
Ok, ok, adesso ti frego io…
Si arrampicò sul primo albero che aveva a disposizione e raggiunse la cima.
Oltre il filo spinato c’era un vicolo lindo e immacolato, illuminato da un paio di lampioni.
Chissà se anche le fogne di Kido Manor sono profumate alla lavanda, pensò atterrando sull’asfalto ed iniziando a correre verso destra. Le voci della sorveglianza erano già lontane.
E adesso andiamo a prendere Shun.


La luna splendeva alta sul mare rifulgendo nel nero della notte. Il lungomare era deserto, gli stabilimenti chiusi e le macchine sfrecciavano veloci lungo la strada.
«Dobbiamo avvicinarci alla darsena. Françoise è stata aggredita nei pressi della rimessa Z», disse Shaina fissando il mare con noncuranza.
«Sai che stava facendo, da sola, in quel posto e a quell’ora?»
Milo si morse la lingua nell’istante successivo; quella domanda gli era salita alla bocca da sola e non aveva fatto in tempo ad ascoltare la parte razionale del suo cervello che gli aveva gridato di starsene zitto.
«Avrei voluto chiedeglielo anch’io», fu la risposta di Shaina, che finse di non notare il tono eccessivamente protettivo che colorava quella domanda. Fatti loro, si rispose spiccia, mentre avanzava nella notte al braccio di Milo.
Percorsero un bel pezzo di strada costeggiando il litorale.
«Il posto dovrebbe essere questo», soppesò lei guardandosi intorno. Le coppiette erano ormai rintanate nelle auto posteggiate di fronte al molo, i vetri appannati e la musica che giungeva attutita. Non poté evitare di osservarlo con la coda dell’occhio: Milo si stagliava alto e forte contro il nero della notte, ma era come se qualcosa turbasse il suo animo.
Non sono fatti tuoi, si ricordò, poco prima di lasciargli il braccio e accomodarsi sul muricciolo che separava la spiaggia dall’asfalto sporco di sabbia. Milo rimase a guardarla perplesso: che diavolo aveva in mente?
«Siamo in missione, no?», gli spiegò Shaina appena le si fu avvicinato.
Lui si sedette e lei gli appoggiò la testa sulla spalla destra, strappandogli un sussulto.
< «Vuoi farci scoprire?», gli chiese, guardandolo da sotto in su.
«No, non voglio che Seiya mi spacchi la faccia per aver messo le mani addosso alla sua bellissima ragazza», rispose cingendole diplomaticamente le spalle con il braccio.
Seiya o Françoise?, pensò lei spiandolo da sotto le ciglia, cariche di generose dosi di mascara nero. «Tranquillo, non devi preoccuparti di lui», disse rilassandoglisi contro. «Seiya ed io non abbiamo più nulla a che spartire.»
Milo restò gelato.
«Che stai dicendo?», le chiese guardandola dall’alto.
«Semplice, gli ho dato il benservito…», rispose spiccia, gli occhi chiusi ad annusare l’odore di cuoio del giubbotto di lui.
«Ne vuoi parlare?», le propose chiedendosi allo stesso tempo da dove traesse tutta quella confidenza.
«Tanto non torno sui miei passi.»
«Ok, ok… Pensavo solo volessi sfogarti», si difese lui guardandosi intorno.
«Perché?»
«Come?»
«Perché dovrei sfogarmi? La mia è stata una decisione improvvisa, sì, ma chiara. Non so se mi spiego…»
«Credo di aver capito», rispose Milo giocando, senza accorgersene, con una ciocca che era riuscita a sfuggire alle mille forcine che tenevano in piedi quell’acconciatura elegante.
«È come se si fosse fatto giorno da un istante all’altro, come se qualcuno avesse acceso la luce all’improvviso, hai presente? Ho realizzato com’era la mia vita, come avrei voluto viverla e come invece mi ero ritrovata ingabbiata in un copione che non mi apparteneva più…», sputò fuori con voce calma e asettica.
«Posso chiederti cos’hai visto?»
«Una donna alle prese con le bollette da pagare, i piatti da lavare, il lavoro, la routine di tutti i giorni. A fare da madre al suo compagno. Mi sono fatta orrore da sola, mi sono chiesta chi mai fosse quella tizia ridotta all’ombra di se stessa…», spiegò appoggiando il viso contro il suo petto.
«Succede, sai? Noi viviamo una vita frenetica, e tornare alla normalità può essere un trauma. Anche per me è così. Da un lato sogno una vita normale, con una casa ed una famiglia a cui far ritorno, una relazione stabile, tranquilla. Non dico il nido d’amore con il giardino e la staccionata bianca, ma un posto che mi dia l’idea di casa. Ma se per caso mi ritrovo a vivere per più di due mesi senza guerre divento idrofobo!», aggiunse lui approfittando della vena confidenziale che aveva assunto quel loro cicaleccio.
«Senti, senti… Il prode Milo di Scorpio sogna una famiglia!», ironizzò lei.
«E chi non la sogna? La solitudine è bella quando è cercata, non quando è subita…»
«Ma come siamo filosofi! Vuoi far concorrenza al Vecchio Maestro?»
«Sfotti, sfotti… Io ti sto confidando delle cose che non avrei ammesso neanche sotto tortura e tu mi ripaghi così!»
«Scusami», gli disse con dolcezza, «ma tutta questa situazione è folle!».
«Cioè?»
«Come sarebbe a dire cioè?», chiese lei alzando la testa. «Tu ed io non abbiamo mai scambiato più di due parole in croce durante gli anni passati al Santuario, e adesso siamo qui a scambiarci confidenze intime come fossimo due vecchi amici. A te questa pare una cosa normale?»
«Perché no? In fondo tu ed io siamo simili», rispose facendo spallucce e fissando i suoi occhi verde giada.
Lei si riaccomodò sulla sua spalla. «Trovo però che sia assurdo che con Seiya non sia mai andata in riva al mare, mentre lo stia facendo con te.»
«Vuoi sempre avere l’ultima parola, vero? Tale e quale alla tua amica…»
«È una questione di sopravvivenza. Devi imparare, se vuoi convivere con lei. Non credere che sia una cosa facile…»
«Immagino. Non lo augurerei nemmeno al mio peggior nemico! Mi chiedo come abbiano fatto Mask e Tonio a vivere con lei e a lasciarla illesa.»
Tonio? «Esagerato! È una rompiscatole, ossessiva e caotica, ma è una ragazza sola. È come avere a che fare con una bambola col disco nella pancia. Solo che il suo dice sempre "no, no, no". Non morde, se sai come prenderla.»
La voce di Shaina si spense nella notte, mentre Milo le carezzava i capelli pensando alle sue ultime parole.
Una ragazza sola? Sarà, ma a me sembra che voglia restare sola, si disse con poca convinzione prima di voltare la testa in direzione di un rumore improvviso.
«Che succede?», fece Shaina destandosi di colpo. «Mi sono addormentata, scusami!»
«Falso allarme, era solo un gatto. Credo che il nostro Lestat si farà attendere stasera…», rispose lui alzandosi il bavero e tornando a guardare il mare.
È una bambolina
che fa no no no no no
dietro la vetrina
dei suoi no no no no no...



Stupefacente, si limitò a constatare June, ferma al centro del marciapiede, esattamente di fronte al maxischermo su cui era apparso Shun, il suo Shun, il giorno prima. La strada davanti al palazzo della Fuji Television era sgombra e silenziosa, il semaforo spento che dava segni intermittenti di giallo: era un altro posto, completamente diverso dalla marea umana che l’aveva preso d’assedio.

Lo so, lo so che sei tu, e anche loro lo sanno, non vogliono semplicemente ammetterlo, vai a capire perché! Ma anche se restassi da sola, giuro che ti vengo a prendere, Shun, fossi pure rinchiuso nella più oscura e alta torre del più impenetrabile castello arroccato sull’abisso alla fine del mondo!, promise, aggiungendo subito dopo: Per un po’ niente più romanzi della Torre Nera, parlo come se fossi uscita da un libro di Stephen King!

Infilò le mani in tasca e decise di ispezionare i dintorni del grattacielo che riluceva nel cuore di Ginza.
Di sicuro non saranno usciti dalla porta principale, ma da una qualche anonima uscita secondaria, dedusse ripensando agli agguati tesi ai Guns ‘n’ Roses al Budokan solo l’anno prima. Avevano avuto i biglietti grazie a Saori che aveva letteralmente ordinato a Jabu di procurare loro sette ingressi, ma l’Unicorno, tanto per guastare la festa, si era rifiutato categoricamente di fornire loro anche i pass per i camerini! E lei che aveva mollato tutto convinta di poter conoscere Axl!
«Non mi è stato possibile, mi dispiace! E comunque, dovresti dimostrare maggiore gratitudine, June. Non hai la minima idea dei favori che dovrò fare per aver rimediato questi sette biglietti!»
Il tono acido con cui Jabu le aveva rinfacciato quella cortesia le rimbombava nitido nella mente, come se lui fosse davanti a lei, con il suo viso perennemente scazzato e la sua aria da ‘ho-tante-cose-da-fare-io ’.
Stronzo…
Superò di un isolato l’elegante grattacielo e svoltò sulla destra, imboccando una strada secondaria; svoltò nuovamente a destra, sbucando nella strada che passava alle spalle del palazzo della Fuji Television.
È un senso unico, quindi se sono usciti da questo lato del palazzo hanno proseguito necessariamente nella direzione opposta alla mia.
Si diresse verso il palazzo, tra cumuli di immondizia accatastati in pile sommarie ai lati della strada; osservò il muro dell’edificio alla ricerca di una porticina, anche piccola, ma nulla.
E adesso?, si chiese perplessa. Magari c’è un’uscita laterale, e provò ad esaminare il lato est del palazzo quando una piccola porta seminascosta attirò la sua attenzione.
«Uscita… Deguchi… ossignore, ma che significano tutti quei segni!», sbottò, esasperata per aver riconosciuto solo due degli ideogrammi presenti sulla targa a sfondo verde che aveva di fronte.
Ok, non perdiamo la testa! La strada è abbastanza larga perché vi passi un’automobile, e a giudicare dalla ressa che c’era qui l’altro giorno, i Bloody Roses saranno usciti effetto blitz.
Passò in rassegna gli altri due lati, scoprendo sul lato ovest un’uscita per le auto.
E se fossero passati di qui?, si domandò, cercando indicazioni che confermassero o smentissero quell’ipotesi. Niente, concluse dopo essersi arrovellata il cervello. Proviamo a seguire la strada di prima, almeno è un indizio!
Percorse a ritroso un dedalo di sensi unici che sembravano una vera e propria manna dal cielo.
Questa sì che è fortuna!, gongolò tra sé e sé fermandosi ad ogni crocevia per controllare i segnali stradali. Dopo quasi un’ora passata a impersonare Sherlock Holmes, svoltò a sinistra, trovandosi di fronte ad un immenso incrocio.
E adesso?, si chiese mentre il vento sembrava quasi canzonarla mentre le portava l’odore salmastro del mare.


Note:

Il Sumida è il principale fiume di Tokyo. Scorre sul vecchio percorso dell'Arakawa, sfociando nella zona est della baia di Tokyo.

Tanabata è una festa che si celebra in Giappone il sette di Luglio. La leggenda vuole che La Tessitrice (Vega) ed il Pastore (Altair) fossero così innamorati e presi l'uno dall'altra da dimenticare di svolgere i loro compiti. Gli dei, adirati da questo comportamento, decisero di seprararli, piazzando tra loro due il fiume della Via Lattea. Ma il pianto disperato della Tessitrice ammorbidì le ire di suo padre, Tentei, il quale concesse che i due giovani potessero incontrarsi, solo una volta l'anno, durante la notte del 7 di Luglio. E ogni anno, quando il cielo è sgombro, uno stormo di gru crea un ponte per permettere al Pastore e alla Tessitrice di rincongiurgersi l'un l'altra. L'usanza vuole che si scrivano i propri desideri sui tanzaku, strisce di carta colorate che si appendono al bambù, cosicché il vento, oscillando tra le foglie, sussurri agli dei speranze e desideri degli uomini.

Lo yukata è un kimono estivo, un abito informale che si indossava, anticamente, dopo aver fatto il bagno per raggiungere le proprie stanze. Oggi si indossa durante le feste tradizionali, oppure lo si trova come biancheria di cortesia nei ryokan, le pensioni adiacenti le stazioni termali.

Kalinìkta significa buonanotte, ed è usato anche per quelle nottate... impegnative.

In Giappone non esistono gli indirizzi ed i numeri civici. Le strade non hanno nome, come cantavano gli U2, e per raggiungere un luogo, di solito ci si munisce di piantina prendendo come riferimenti spaziali dei luoghi di interesse nelle vicinanze, partendo dalla prefettura, fino ad arrivare all'isolato in questione. Qui potete trovare un tipico esempio di indirizzo giapponese.

Una bambollina che fa no no no è una vecchia canzone dei Quelli, cover di un brano di Michel Polnareff, La poupée qui fait non, del 1966. Fate finta che Milo la conosca in francese e che l'autrice vi abbia riportato la traduzione in italiano, ok? Perché la conosce? Chiedete a Camus...

Il concerto dei Guns'n'Roses cui fa riferimento June non è quello al Budokan, che risale al dicembre 1988 (e nella mia tabella di marcia, all'epoca, avevano ben altre gatte da pelare), ma quello che si sarebbe svolto, sempre a Tokyo, nel 1992. Chiudete un occhio e fate finta che i Guns abbiano suonato a Tokyo nel 1990, ok? There's an heaven above you, baby...

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Capitolo 10
*** 10. ***


10.



Aveva vagato tutta la notte senza meta per i vicoli del porto, come uno zombie, per poi trovarsi, all’alba, seduto sul bordo di un molo, le gambe inzuppate dalla schiuma del mare.
Che fare quando la tua ragazza ti pianta di punto in bianco sciorinando tutta una lista di colpe e problemi della quale tu nemmeno sospettavi l’esistenza?
Cerchi una ragione, un motivo, un perché.
E questo faceva Seiya, continuando a domandarsi: Perché? Come? Quando?, alla ricerca di una spiegazione logica a quella rottura assurda e imprevista. Un fulmine a ciel sereno.
Se in un primo momento Shaina gli era sembrata travolta da quella tempesta ormonale che le donne chiamano sindrome premestruale, tre istanti dopo il suo pigro cervello gli aveva urlato che Shaina, la sua Shaina, si era tirata a lucido ed era uscita.
Brutto imbecille, in quei giorni se ne starebbe letto con una confezione spropositata di cioccolata fondente!
E quindi?
E quindi... quindi!!

Immaginare un appuntamento con un altro e precipitarsi a rotta di collo per le scale del palazzo, era stato un tutt’uno. Nemmeno ricordava se avesse chiuso la porta. Era sceso in strada e l’aveva vista attraversare l’incrocio all’angolo.  L’aveva pedinata, cercando di mantenere un’andatura costante senza farsi scoprire, finché lei non aveva iniziato a correre e, a quel punto, l’aveva persa. Aveva preso a girare come un matto finché non l’aveva vista; o meglio: li aveva visti. Aveva sorpreso la sua - ancora?- Shaina, stretta al braccio di Milo, dirigersi verso la spiaggia, luogo noto come rifugio per coppiette in cerca di un posto appartato.
Col cuore spezzato, li aveva seguiti, aguzzando occhi e orecchie per captare qualche elemento in più e rispondere ai pressanti interrogativi - come, quando e perché - che il suo cervello gli vomitava addosso senza requie. 
Se solo quei due non avessero parlato un oscuro dialetto greco!
Capiva qualche parola qua e là, ma decriptare Milo e la sua voce infarcita di cicladico si era rivelata un’impresa persa in partenza.
Maledetto buzzurro! Potresti anche degnarti di parlare una lingua umana!, inveiva ogni volta che non capiva dove finisse una parola e ne iniziasse un’altra, mentre passava in rassegna vari modi per torturare l’infame Scorpione che aveva irretito e sedotto – No, Athena, speriamo di no! – la sua Principessa.
La sua mente gli ricordava che Shaina era veramente una bella donna: slanciata, non altissima ma ben proporzionata, le gambe affusolate che adesso facevano capolino dalla gonna attillata, le mani delicate con le unghie curate, gli occhi verde chiaro, la bocca sensuale e il collo lungo e aggraziato… 
Gliela faccio passare io la voglia di mettere gli occhi addosso alla mia ragazza!
I due avevano continuato a chiacchierare amabilmente finché non erano arrivati alla rimessa delle barche. Lui aveva guadagnato un angolo riparato e si era appostato per sentire meglio quello che avevano da dirsi. Il suo cuore si era fermato quando aveva visto Shaina posare la testa sulla spalla di Milo, e il braccio di lui muoversi a cingerla dolcemente.
Avrebbe voluto schizzare fuori come una molla e staccargli a morsi quelle dita luride che aveva osato posare addosso a lei, riempirlo di pugni fino a cambiargli i connotati e poi prenderla tra le proprie braccia e tornare a casa per fare pace. Ma aveva avvertito le gambe farsi di burro, fondersi, liquefarsi sul marciapiede quando il vento gli aveva portato la sua voce.

«Tranquillo, non devi preoccuparti di lui. Seiya ed io non abbiamo più nulla a che spartire.»
«Che stai dicendo?»
«Semplice, gli ho dato il benservito.»


Gli era bastato. Ecco il motivo, ecco la ragione, ecco il perché.
Quei due avevano continuato a ciarlare del più e del meno in una lingua frammista di attico e di un astruso greco delle Cicladi. La voce di lei gli arrivava come una sequenza di pugnalate sempre più in profondità. Aveva alzato gli occhi dalla selva d’immondizia, cocci di bottiglie e preservativi usati che lo attorniava e aveva visto Milo chinarsi sul viso di lei. 
Non aveva retto, lo sguardo offuscato dalle lacrime che salivano a pizzicargli gli occhi. Era troppo, troppo doloroso. Si era alzato all’istante e con lo scatto di un centometrista era scappato per la direzione dalla quale era venuto, inseguito dal tonfo di qualcosa che rotolava a terra.
Era fuggito, vagando senza una meta, ed ora se ne stava seduto sul molo a leccarsi le ferite. Al dolore era subentrato il masochistico bisogno di rivivere tutta la sua storia con Shaina, per scoprire, per capire, dove mai avesse sbagliato. Ricordò tutto, attimo per attimo.
Il primo bacio, il primo gelato – panna e lampone – , il primo litigio, la prima volta.
Il picnic per ammirare i ciliegi in fiore.
Lo shopping a Natale, lei con in mano un sacchetto di caramelle per i bambini dell’orfanotrofio e lui sommerso da una pila instabile di pacchi e pacchettini dai colori sgargianti.
Il blu del mare e la sabbia tra i capelli dopo una giornata intera passata sulla spiaggia.
La sciarpa rossa di pura lana fatta ai ferri che gli aveva procurato l’orticaria.
Quel cd dei Queen che lei voleva tanto e che lui le aveva addirittura prenotato al negozio di dischi sotto casa.
L’odore di bucato della sua pelle.
Aspettarla sotto casa per andare al cinema.
San Valentino e la cucina tinteggiata di crema al cioccolato in ogni dove.
La scelta di vivere da sola, per essere una vera donna.
La ricerca di un appartamento vicino casa sua.
I sogni e i progetti su come arredare quella casa con la vista sul fiume.
L’assurda decisione di coabitare con quella.
I fuochi d’artificio e quello yukata che le stava d’incanto.
«E pensare che… che volevo chiederle di convivere», mormorò scalciando con le Stan Smith inzuppate un tappo di latta che galleggiava in solitaria.
«Un momento!», si disse, fulminato da un pensiero improvviso. «Forse quella sa qualcosa!»
E scattò come il lampo, sicuro di trovare parte delle risposte che cercava.


Era incazzata come una biscia. 
Al suo rientro, dopo un salto al Seven/Eleven sotto casa, un paio di film in un cinema all’altro capo del quartiere, e tre tazze di decaffeinato americano – brodaglia –  da Mr. Donuts, aveva trovato la porta spalancata e la polizia, chiamata dalla signora Yamada del terzo piano, nell’appartamento. Aveva una voglia matta di sprofondare nel letto completamente vestita, e invece aveva dovuto rispondere ad una sfilza interminabile di domande come:«Dov’era lei a tale ora?» e fare un sopralluogo ed una stima degli oggetti presenti in casa.
«È sicura che non manchi nulla?»
La voce dell’ispettore Takasago le rimbombava ancora nelle orecchie. Quante volte le aveva ripetuto quella domanda a cui lei aveva continuato a rispondere con un semplice, cristallino «sì»?
Dieci. Eppure, l'ispettore non si era ritenuto soddisfatto finché non gliel'aveva porta un'undicesima, una dodicesima e duna tredicesima volta, vai a cpaire il perché.
Il più cretino dei precisissimi cretini che affollano la cretinissima Questura di Tokyo!
Aveva chiuso la porta di casa alle quattro del mattino, proseguendo con una lunga lista di parolacce, più colorite, se possibile, di quelle che creava il suo defunto maestro quando perdeva le staffe. E lui era un tipo molto, molto creativo; roba da far impallidire un camallo.
Era riuscita a prendere sonno da poco –  trentasette minuti netti, secondo il quadrante della sveglia –  quando qualche aspirante suicida aveva iniziato a prendere a spallate la porta di casa e ad incollare il proprio dito al campanello.
Giuro che stacco quell’affare e glielo faccio ingoiare! Così la polizia avrà un motivo vero per assediare casa mia, pensò schizzando dal letto e correndo furiosa alla porta. Aprì con una sorta di basso ruggito e June le rovinò addosso.
«Alla buon’ora!», fece la biondina seccata. «Certo che quando dormi sei un vero e proprio macigno!»
«Tu non sei più leggera, sai?», rispose, togliendosela di dosso in malo modo. «Che cazzo hai? Brucia la città? Sono sbarcati i marziani?», le chiese sovrastandola, gli occhi gonfi per il poco sonno ed iniettati di sangue.
«Ok. Mai svegliarti prima dell’alba.»
June si alzò, spolverandosi la giacca.
«Allora? Sappi che ho passato una nottataccia e che non ho la forza di essere paziente con chicchessia!»
«Take it easy, girl!», rispose l'altra, guadagnando una sedia. Certo, certo, ma se fossi un ragazzo, alto e ben piazzato, con una montagna di riccioli scuri vorrei vedere se non staresti qui a scodinzolare felice come un barboncino! «Stanotte non sono riuscita a dormire…», iniziò prendendola larga.
«E siamo in due…», l’interruppe ringhiando Françoise, mentre chiudeva la porta e la raggiungeva al tavolo. «Taglia corto, vuoi?», disse, tamburellando con esasperata lentezza le dita sul tavolo.
«…così sono andata sul luogo del delitto. Sono andata al palazzo della Fuji per vedere quale strada potessero aver fatto i BuroRoshi per andarsene dagli studi.»
«I chi?!», chiese l’altra fermando le dita, un sopracciglio inarcato.
«I BuroRoshi… i Bloody Roses! Il gruppo che ha rapito Shun!», spiegò June dopo un sospiro.«Lo so, lo so. La pronuncia inglese dei giapponesi è qualcosa di alieno…»
Françoise respirò a fondo un paio di volte e fissò l’ospite dritto negli occhioni azzurri. «Tu… sei piombata a casa mia… all’alba… svegliando tutto il palazzo… per comunicarmi quest’immane cazzata?!», chiese centellinando le parole goccia a goccia mentre le scandiva con tono sempre più isterico.
June fece spallucce. «A me non sembra una cazzata», protestò, incrociando le braccia al petto. «Pensaci, potremmo risalire a…»
«June», l’interruppe Françoise, facendo schioccare le nocche, «fra tredici ore e rotti, la dea Athena andrà a parlare con il manager del gruppo e con i Bloody Roses! Siamo già risaliti a loro!»
«Ah. E allora?»
«E allora», rispose alzandosi con sinuosa lentezza, «io adesso ti ammazzo!».
Si diede lo slancio ed afferrò la ragazza per le spalle, mentre la sedia su cui era accomodata June andava al tappeto con un rumore sordo.
«Sei impazzita?», protestò l’altra chiudendo le ginocchia al petto ed opponendole come barriera tra sé e Françoise. «Non dobbiamo litigare tra noi…»
June la scalciò via da sopra di sé e riacquistò la posizione eretta; fissava la padrona di casa ravviarsi una ciocca ribelle dietro l’orecchio sinistro mentre il pugno destro era serrato in una morsa.
Françoise fece per muovere il suo assalto alla gola di June quando il campanello riprese a suonare in modo ossessivo.
«Eccheccazzo!», esclamò ad alta voce allargando le braccia. «Tu non muoverti!», intimò a June dirigendosi ad aprire l’uscio.
Fuori dalla porta c’era Seiya, stravolto, le gambe inzuppate d’acqua salata e i capelli che puzzavano di salsedine e olio per barche.
«Giusto te!», ruggì, prendendolo per il bavero della polo dopo un istante di genuina sorpresa. «Si può sapere perché diamine non avete chiuso la porta a chiave quando siete usciti, ieri sera? Ho trovato la polizia qui fuori. Ma che cazzo avete nel cervello? Un criceto impiccato?», proseguì, dopo averlo fatto entrare ed essersi chiusa la porta alle spalle.
Seiya per tutta risposta si riassettò la maglia scrollandosi un po’ di sabbia dalla spalla.
«Tu non ne sapevi nulla?»
«Di che? Ma cos’è, una nuova moda quella di piombare a casa della gente e fare domande del cazzo ad orari assurdi?», sbottò la ragazza esasperata. Il sonno era ormai un ricordo sbiadito.
«Parlo di Shaina… Lei non ti ha confidato nulla?»
«Confidato nulla di cosa?», chiese digrignando i denti. «Vi avviso, tutti e due: non ho dormito e sono di pessimo umore!»
Seiya si sistemò nel vano della finestra della cucina, le gambe ciondolanti nel vuoto. «Davvero non sapevi che stasera Shaina sarebbe uscita con Milo?»
«Come sarebbe a dire che è uscita con Milo?», chiese Françoise senza accorgersene.
«Cosa?», bisbigliò June, avvicinandosi al ragazzo.
«Uscita, sì… Si sono incontrati qui vicino per una romantica passeggiata in riva al mare. Davvero non lo sapevi che quei due si frequentano?»
Françoise era rimasta senza parole. Fissò il pavimento a lungo, mentre nella sua testa rimbombavano le parole di Seiya. «Ma… io ero convinta che uscisse con te… Ricordi quello che ti ho detto?», bisbigliò lasciandosi cadere su una sedia. No. Non è possibile.
«Sì, di non ubriacarmi altrimenti avrei rovinato tutto.»
«Seiya, ti giuro, io non ne sapevo nulla! Nulla!» No. Deve esserci un errore.
«Shaina non ti ha detto che avevamo discusso? E allora il tuo tono conciliante?», proseguì il ragazzo per nulla soddisfatto delle risposte che stava ricevendo.
«Dalla faccia che avevi l’avrebbe capito anche un cieco che avevate litigato e che volevi fare pace con lei! E poi, ammesso che io sappia qualcosa, mi reputi così infame da sfotterti?»
Seiya chinò la testa, scuotendola con fare deciso.
«Scusami. È che sto cercando di ricollegare il tutto. Di capirci qualcosa», mormorò a voce bassa.
June portò una mano sotto il mento. «In effetti Milo è uscito ieri sera sul tardi», disse dopo aver ricostruito gli eventi della sera precedente. 
«A che ora?», le chiese Seiya con un’espressione dura in viso.
«Non so; saranno state le ventidue, ventidue e trenta al massimo.»
Françoise sentiva scatenarsi nella sua testa un rave con tutti i crismi.
Forse lui non è qui per te. Ci hai pensato?
Nadja era stata molto, molto eloquente al suo ritorno da Naxos.
«Non vai a Naxos in Dicembre se non hai un motivo più che valido. Ha passato la settimana da lei. Con lei. Devo aggiungere altro?»
E la notizia non l’aveva lasciata perplessa, perché sapeva che a lei piaceva un altro? Sì. Ma aveva fatto spallucce ed era partita per il Giappone. Per stare da sola. E per mettere quanta più distanza possibile tra loro. Due continenti ed un braccio di mare. Ma non era bastato.
«E tu? A che ora sei uscito da casa mia senza chiudere la porta di casa?», domandò
«Non saprei… Tu sei uscita verso le dieci e un quarto, e noi fra una cosa e l’altra saremo usciti alle dieci e quaranta.»
«Fra una cosa e l’altra?», chiese June, avvicinandosi al ragazzo.
Seiya sospirò. «Mi ha lasciato.»
Alleluia!, fece tra sé e sé Françoise massaggiandosi le tempie. «E poi sarebbe uscita con Milo? Avanti, Shaina non è una persona del genere!»
«Ha ragione. E poi, lasciare te per mettersi con uno come Milo? Avanti non sta in piedi!» ribatté June.
«In che senso uno come Milo, scusa?», chiese Françoise ad occhi chiusi.
«Hai anche il coraggio di chiedermelo?», protestò nervosa.
«Sì. E te lo sto chiedendo. Adesso», continuò l’altra. Perché? No, deve avere capito male. Milo non…
«Ma dai! È uno che vuol sempre aver ragione anche se ha torto marcio, un arrogante, un sadico, un cafone, un…»
«Ok, abbiamo capito, grazie!», la stoppò Seiya che sentiva le parole della ragazza rigirargli il coltello nella piaga.
«Ho solo espresso il mio pensiero!», protestò June stizzita.
«Forse dovresti imparare a tenere a freno la lingua ogni tanto!», l’apostrofò Françoise. Milo. Non.
«Cosa?»
«Mi riferisco alla tua uscita infelice dell’altro giorno», puntualizzò, fissandola bieca. Non è giusto!
«Ma dimmi tu! Sta a vedere che adesso ho anche urtato la sensibilità di quel buzzurro permanentato!», ribatté la biondina avvicinandosi all’altra.
«Esatto! E non è un buzzurro permanentato!» Il tuo Shun, allora? Parliamone! Ha una testa che farebbe invidia a Robert Smith!
«Ah no? E allora come lo chiami quel panettone che ha sulla testa?»
«Capelli?», le suggerì Françoise. Alzandosi.
«Basta! Smettetela!»
Seiya era esploso come un palloncino pieno d’acqua che cozza contro la punta di uno spillo, ed ora era in piedi, il viso stravolto e le mani serrate in due pugni.
«Sembrate due galline di Renzo!», sbottò guardando ora l’una ora l’altra. «Ma non avete un briciolo di compassione per me?»
«Casomai polli di Renzo…», puntualizzò Françoise, le braccia sui fianchi, quando un’occhiataccia di Seiya la fece desistere dall’impartirgli una lezione di letteratura italiana. Decise di sedersi. Solo perché, così facendo, sarebbe stata più comoda. «Comunque, ammesso e non concesso che noi due ci si stia beccando per una cazzata, credo che prima di prendere Milo di petto, dovresti andare a scambiare quattro chiacchiere con Shaina!»
«E tu? Vuoi farmi credere che te ne resterai a guardare?»
«Mi spieghi che c’entro io nella vita privata di Shaina?», chiese Françoise perplessa. «Prima t’incazzi se mi immischio, poi pretendi che mi metta in mezzo?» Magari non stanno più insieme?
«Siamo tutti nella stessa barca», le disse Seiya poggiando le braccia al muro dietro di sé.
«Io no!», protestò June indicandosi. «Il mio ragazzo non mi ha certo tradito con la mia coinquilina!»
«Milo non è il mio ragazzo!», sbottò Françoise rossa in viso. È di lei, casomai. Di lei.
«Come sarebbe a dire no?» chiese June incredula. «Da come ti sta dietro come un cagnolino, credevo che…»
«Io credevo, tu credevi, egli credeva… e vi siete sbagliati tutti quanti!», ribatté, le braccia incrociate al petto e un’espressione offesa. «Lui ha un’altra. Con me gioca a fare il fratello maggiore. Punto.»
«Un’altra?»
«Un’altra.»
«Chi?»
«Non te lo dirò nemmeno morta.» E Seiya capì che stava dicendo la verità.
«Forse, noi che siamo esterni alla faccenda vediamo meglio di chi vi è immerso fino al collo, no? Non avevi detto una cosa del genere, ieri?», proseguì June con fare saccente. «Forse ti sei sbagliato anche tu, Seiya.»
«Lo so io, quello che ho visto!», protestò Pegaso, sbattendo i pugni sul davanzale di marmo della finestra. «E li ho anche sentiti parlare di bambini e casette con giardino, abbracciati in riva al mare con la luna piena. Mi prendi per un idiota?»
La rabbia e la frustrazione avevano preso possesso di Seiya: il dolore che gli lacerava lo stomaco ululava vendetta e appagamento, ma gli ricordava che adesso aveva bisogno di trovare degli alleati che lo aiutassero. A capire cosa dovesse fare. A picchiare Milo. E a riprendersi Shaina. E un’alleata preziosa, ironia della sorte, poteva essere proprio la sua nemica giurata. 
«Françoise», insistette ancora, «se è vero che fra te e Milo non c’è niente, com’è mai possibile che Shaina non ti abbia detto nulla?»
«Senti, te lo ripeto e te lo metto per iscritto con il mio sangue, se vuoi. Io non ne sapevo nulla, capito? Shaina non mi ha confidato i suoi sentimenti, né che ti avrebbe lasciato, né che aveva intenzione di mettersi con Milo. Che sta con un’altra, ti ricordo. Che dovrebbe stare con un’altra, a questo punto.» Pausa. «Non ci sto capendo più niente. Mi dispiace, Seiya, ma non ti posso aiutare.»
Un dubbio attraversò la mente di Seiya: e se quella rivelazione fosse stata una doccia fredda anche per lei? Ma allora, perché non reagire?
«Va bene, va bene, ho capito. Scusa per il disturbo», fece dirigendosi verso l’uscita.
«Dove te ne vai adesso?», gli chiese June cercando di fermarlo con la voce.
«Non lo so. Ho bisogno di dormire, di farmi una doccia e di pensare. Da solo. Scusate il trambusto. E scusami se ho lasciato la porta aperta, ieri sera…»
«Fa’ nulla!», rispose June al posto di Françoise che la fulminò con uno sguardo.
«Ma stai a casa tua?», la gelò, le mani sui fianchi.
«Scusate ancora! E grazie!», fece Seiya uscendo di casa e chiudendosi la porta alle spalle.
«Grazie di che? Hai seminato il panico in dieci minuti scarsi che sei stato qui!!», commentò Françoise sedendosi. Posò la fronte accaldata sul ripiano del tavolo. Era fresco. Era quello che le ci voleva.
«Stai bene?», le chiese June toccandole una spalla.
«No che non sto bene! Non ho dormito, ho mal di testa e la situazione sta precipitando a ruota libera!», piagnucolò la ragazza portandosi le mani alle tempie. «Senti, io vado a dormire, se ti va di farmi compagnia il letto di Shaina è intatto e a tua disposizione.»
«E se dovesse tornare?»
«Chi, Shaina? Se le cose stanno come dice Seiya dubito profondamente che si ripresenterà qui stanotte.» La zona della darsena pullula di alberghi ad ore, pensò con una punta d’amarezza. «Tu, piuttosto: si può sapere che ci fai qui?»
June si sedette davanti a lei.
«Io sono convinta che quel ragazzo sia Shun. Sì, c'è una vaga somiglianza, ma c'è anche un qualcosa che mi fa sentire che è Shun. È lui.»
«Il Cosmo?», le domandò ancora Françoise, con una nota d'ovvietà nella voce.
«Non proprio. Qualcosa di simile.»
«Ma perché sei venuta qui?»
«Perché ho bisogno d’aiuto.»
«E pensi che io e Shaina te lo concederemo?» June annuì. Françoise le rivolse una smorfia ferina. «Ma davvero?»
«Sì. Perché tu e Shaina mi potete capire. Perché siamo donne. Perché gli altri sono partiti per la loro strada e non si fermeranno fino a quando...»
«Troppo comodo, tesoro…»
June la fissò piegando la testa di lato, come un cagnolino che non ha capito cosa voglia da lui il padrone.
Françoise stava sorridendo, un sorriso stanco e tirato, ma che mostrava i denti. Pronti ad azzannare la gola di June.
«Metti Milo in croce per quello che ha fatto sulla tua cara isoletta. Nonostante lui avesse un ordine ben preciso. Nonostante credesse che foste voi, i traditori.»
«Noi…»
«Silenzio. Quindi, a ragion di logica, dovresti volere la mia testa infilzata sulla picca più lunga per il casino che ho combinato. Ho quasi ammazzato Athena. Per vendicare mio fratello.»
«Che c’entra? Al posto tuo io…»
«Avresti fatto la stessa cosa? È questo che stai dicendo, June?»
L’altra annuì. E poi disse: «Forse.».
«Bene. Prova a metterti nei panni di Milo, allora. Prova a pensare che l’ordine di sedare i ribelli l’avessi ricevuto tu. E che dopo, solo dopo, avessi scoperto che la verità era un’altra. Come ti sentiresti, tu, a quel punto?»
June tacque. Françoise si alzò, aprì il frigorifero e ne estrasse due lattine di birra. Si sedette al tavolo e gliene porse una.
«Tieni. Ne avremo bisogno.»
June tenne la lattina tra le dita. Era fredda, e a quel contatto sentì qualcosa di viscido serpeggiarle nello stomaco.
«Facciamo un patto. Da donna a donna», le disse Françoise tirando via la linguetta di alluminio. «Io ti aiuto. Ti spalleggio. Ti do una mano, per quello che posso. Per quello che vale la mia parola. Ma tu la pianti. La smetti di avercela con Milo. E ti dai una calmata.»
June la fulminò. «Non pretenderai che io diventi sua amica, vero? Hai visto, poi, che combina con le amiche, lui?»
«Non pretendo nulla. Né credo che tu corra il rischio di finire nel suo letto. O mi sbaglio?»
«Non sbagli.»
«June se tu potessi trovare Shun con le tue sole forze, l’avresti fatto da un pezzo. La verità è che da sola non ce la fai. Che hai bisogno di una mano. Benissimo. Ma collabora. Turati il naso e smettila di avercela con Milo. Perché tu ce l’hai con lui solo perché non puoi strozzare Aphrodite.»
«Mi spieghi una cosa?»
«Cosa?»
«A te cosa importa? Di Milo, dico. Cosa te ne frega se io ce l’ho o no con lui?»
Françoise bevve un sorso di birra. Schioccò la lingua contro il palato e rispose: «Per gestire questa… situazione, dobbiamo collaborare. E c’è bisogno di armonia, quando si collabora. O che le parti in campo non si saltino al collo alla prima occasione. June, quando c’è lui puzzi di revolverate lontano un miglio. Credi sia facile da sopportare, per gli altri?»
«No. Ma nemmeno tu lo sopporti. O sbaglio?»
«Non sbagli. Detesto i suoi modi da mamma chioccia. Ma non sono io quella che ha bisogno di aiuto per ritrovare il fidanzato disperso.»
«E?», le chiese. June sapeva che c’era dell’altro in ballo. Ma non sapeva ancora cosa.
«E perché mio fratello avrebbe agito così.»
«Tuo fratello…» June aprì la propria lattina di birra, la annusò e si bagnò appena le labbra. «Tuo fratello», ripeté.
«Abbiamo un patto, June?», le chiese Françoise.
«Abbiamo un patto», rispose June alzando la lattina e avvicinandola a quella dell’altra.
«Perfetto. Adesso vuoi dirmi perché sei qui? Il motivo vero. Reale. Non le cazzate da romanzetto rosa.»
«Perché tu non me la conti giusta.»
«Io? E in che senso?», domandò Françoise.  
La biondina si appoggiò allo schienale della sedia e fissò l'altra dritto negli occhi. «Io sembro svampita, ma so cogliere le sfumature. È un'abilità che s'impara presto quando tra te e il mondo c'è una maschera d'argento.»
«E?», domandò Françoise, stupita di fare quella conversazione nel cuore della notte.
«E quando ho proposto l'idea che possa esserci un collegamento tra il vampiro che ha attaccato te e Shun, hai tremato. Impercettibilmente. E il tuo viso ha perso colore.»
L'altra si massaggiò gli occhi. «Senti, so che me ne pentirò per il resto della mia vita, ma vista che stiamo ballando, tanto vale… Voglio dirti una cosa. È un mio pensiero, bada bene, non s'appoggia da nessuna parte. Sono sensazioni. Anche io credo che ci sia qualcosa di ben più serio che delle semplici somiglianze tra Shun, il tipo che mi ha seguita l'altra notte e quel tizio che cantava sul tetto.»
«Seguita? Non sei stata aggredita?»
«Aggredita? Io?! Avanti, non sta in piedi!», e June si ritrovò a darle ragione. «È solo una balla che s’è inventato Milo. Ha il complesso della chioccia, lui»
«C'è qualcosa che li unisce?»
«Sì. Ma te l'ho detto. È un qualcosa. Niente di più.»
«Ma neppure niente di meno...»
«Ma neppure niente di meno..»
«Sempre meglio di niente. Me lo farò bastare. Mi aiuterai, allora?»
Françoise guardò June e provò una tenerezza impensata. Quella ragazza si teneva aggrappata a quell'unica traccia del suo Shun con le unghie e con i denti, ed era disposta a tutto pur di ottenere qualcosa di concreto, possibilmente vivo e vegeto e sui centosettantacinque centimetri d'altezza.
Si chiese se lei non avrebbe fatto lo stesso, al suo posto. E si rispose di sì.
«Sì», le rispose sorridendo stanca, e pensando che prima sarebbe finita quella storia, prima sarebbe stata libera di condurre la propria vita senza l'ombra scomoda di una balia in armatura. «Ci atterremo al piano di Hyoga. E vedremo se c’è davvero un collegamento.»
«Grazie», rispose June, tirando su col naso.
«Senti, vada per le confessioni nel cuore della notte, ma non mi sembra il caso di piangere. Rinnovo la mia offerta. Il letto di Shaina resterà vacante stanotte. Se ti va, sei la benvenuta. Scusami, ma io ho bisogno di dormire», e si alzò, lasciando la lattina sul tavolo.
«Posso farti una domanda?», le chiese June seguendola dietro il paravento.
«Prego. Tanto questa è la notte delle confessioni a cuore aperto, no?»
«La ragazza di Milo è una tua amica?»
E a te che te ne frega? «Non proprio. Ma la conosco.»
«E non ti ha toccato quello che ti ha detto Seiya?»
«Sapere che Shaina tiene il piede in due staffe?», disse togliendosi la casacca ed infilandosi la maglia del pigiama.
No, che se la fa con Milo, pensò June, annuendo.
Françoise si adagiò sul letto e chiuse gli occhi.
«Ci sono rimasta male. Shaina non si è confidata con me. Pensavo fossimo amiche…», ammise incrociando le braccia dietro la nuca.
June si sedette sul letto di Shaina, le braccia sulle ginocchia. «Forse aveva paura di ferirti in qualche modo…»
«E come? Confesso che non mi è mai andato a genio Seiya e il suo modo di fare, ma comunque mi dispiace per lui. Quanto a Milo, per me è solo un amico di mio fratello, punto e basta! Quante volte dovrò ripeterlo?»
«Forse Shaina non la pensa così», aggiunse June.
«Se così, allora si è comportata doppiamente male nei miei confronti! Capisco che al cuor non si comanda, ma fregare l’ipotetico ragazzo alla tua coinquilina è un’azione imperdonabile!»
«Senti, io penso che dovremmo parlare a Shaina», disse June alzandosi.
«NO. Se non ne parla lei, io non solleverò la questione. Non mi riguarda.»
«Capisco. Io torno a Kido Manor, voglio convincere Athena a portarmi con sé all’incontro con i BuroRoshi
Athena? Buona fortuna. «Ok. Scusami, ma io non me la sento di venire. Ho bisogno di dormire e mi sento uno straccio. Diresti che non sto bene, per favore?»
«Sicura? Potresti chiarire con Milo…»
«Non c’è nulla da chiarire…» Non con me. «Chiudi la porta quando esci, per favore?»
Françoise sprofondò nel sonno senza sentire la replica di June. La ragazza prese un plaid giallo sole dai piedi del letto e glielo stese sopra.
«Sweet dreams!», le sussurrò prima di svuotare le lattine di birra nel lavello ed uscire di casa.


Note:
Questa settimana Tutti Qui è ancora in pausa; aggiornamento doppio con DBE, quindi. Tanto per non lasciarvi sole. Prima o poi qualcuno caricherà lo schioppo a sale e farà fuoco sulla sottoscritta. Me lo sento. 

Nella mia testa, June, bionda pallida e con gli occhi azzurri è nata sì in Etiopia, ma da genitori inglesi. Da una madre medico per MSF –  Médecins sans Frontiéres, che opera dal 1971 per portare assistenza medica e soccorso sanitario in quelle zone del mondo in cui non è garantito il diritto alla cura.

7/Eleven è la più grande catena di convenience store al mondo. Un convenience store (konbini, in giapponese) è una sorta di piccolo supermercato, che vende cibo, tabacchi, bibite, ma anche prodotti di uso quotidiano, dalle lampadine, alle forcine per capelli, allo shampoo ai fazzoletti, ai preservativi, ai quotidiani. Alcuni consentono di scaldare al microonde i cibi pronti acquistati in negozio, spesso mettono a disposizione dei clienti delle fotocopiatrici, dei fax ed hanno anche un piccolo sportello bancomat per effettuare prelievi. Sono diffusi a livello capillare, quasi sotto casa, e la loro particolarità è quella di essere aperti ventiquattro ore su ventiquattro, anche nei giorni festivi.

BuroRoshi è la crasi di Bloody Roses, che per le regole di traslitterazione nipponica (che variano al variare del tasso d'umidità e dello spirare del vento), si trasforma in BuRoDi RoShiSu.

Il greco parlato nelle isole è un po' diverso da quello che si mastica ad Atene. Pare – perché io sulle isole non ci sono mai stata, o sarei rimasta lì – che gli isolani abbiano la tendenza ad appiccicare le parole le une alle altre, creando delle crasi, col risultato che non si capisce un fico secco. Adesso capite perché tutti rimproverino a Milo il suo dialetto cicladico™? Al solito, grazie a Sen per le correzioni e per l'aiuto linguistico.

Sweet dreams are made of this 
Who am I to disagree? 
I travel the world 
And the seven seas
Everybody's looking for something. 


 

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Capitolo 11
*** 11. ***


11.


L’aria era satura di umidità ed il cielo era piombo macchiato da nuvole antracite. Saori Kido, avvolta in una morbida mantella color panna che ricadeva su un elegante tailleur verde petrolio, fissò il palazzo a vetri che svettava di fronte a lei, sovrastandola, come a volerla sfidare.
Jabu scivolò fuori dalla vettura e le aprì lo sportello.
«Andiamo, Jabu. Credo che avremo molto da discutere, con queste persone», disse Athena muovendo il primo passo in direzione del loro ospite. Che stava venendo loro incontro a braccia aperte. Spalancate.
«Ah, signorina Kido, quale onore riceverla nel nostro umile palazzo! Lei ci allieta come un fulgido raggio di sole in un giorno grigio come questo!» L’uomo indossava un completo nero ed un sorriso smagliante. «Sono Daichi Yamemoto, Responsabile delle Pubbliche Relazioni della Glitter Music. Le porgo il benvenuto a nome di tutta l’azienda.»
L’Uomo in Nero si inchinò formalmente fin quasi a toccare terra con la testa.
«Il presidente, il signor Kobayashi, sta terminando una riunione d’affari, così ne approfitteremo, a Lei piacendo, per fare un giro della nostra fabbrica di sogni. Da questa parte prego…», disse loro facendo strada e salendo la scalinata bordata di velluto rosso.
Jabu e Saori lo seguirono per quasi quarantacinque minuti, durante i quali Yamemoto ne approfittò per tessere le lodi dell’azienda per cui lavorava e che rappresentava «il punto di partenza per i sogni di tutti quei musicisti che altrimenti sarebbero rimasti nell’anonimato». Mostrò loro: sala stampa, sala conferenze, funzionari e altri uffici dove i due strinsero mani e scambiarono affettate parole di circostanza.
Notando l’impazienza che Jabu faticava sempre più a trattenere, il pomposo cicerone aveva messo fine alla visita guidata e li aveva accompagnati personalmente all’ultimo piano, dove si trovava l’ufficio del presidente. Costui, un grasso omuncolo madido di sudore e dalla testa quasi calva, li stava attendendo dietro la propria scrivania, attorniato da una foresta di felci e ficus.
«Ah, signorina Kido, quale onore! Io, Genzaburo Kobayashi le porgo il mio personale ed affettuoso benvenuto alla Glitter», esordì l’uomo con la voce arrochita dal fumo e scossa da violenti colpi di tosse secca.
«Grazie per averci ricevuti con tanta celerità, nonostante l'esiguo preavviso», rispose Saori con un piccolo inchino.
«Per la nipote di Mitsumasa Kido, questo e altro! Mio padre era un socio di suo nonno, sa? Chieda pure, farò tutto il possibile per aiutarla.»
«Molto gentile…», rispose Saori sottraendosi con grazia all'olezzo di fumo dell’uomo. «Vorrei presentarle Jabu Kido, Amministratore Delegato del Gruppo Grado», aggiunse, riferendosi al ragazzo dai capelli mossi che l’aveva accompagnata.
«La conosco di nome, signor Kido», disse Kobayashi inchinandosi. «Lieto di incontrarla di persona.»
«Posso dire lo stesso, signore. La sua fama la precede.»
«Si dice che lei sia un uomo inflessibile e tenace, noto per riuscire sempre ad ottenere quello che vuole, e ciò è bene in un mondo come il nostro, che pullula di pescecani senza scrupoli… Vogliamo accomodarci?», chiese infine Kobayashi, indicando una parete rossa alla sua sinistra che ad un suo cenno si aprì con calcolata precisione, scomparendo nel muro e rivelando un membro dei Bloody Roses, un enorme fascio di rose purpuree tra le mani.
«Credo voi conosciate Shiro», disse il presidente indicando il giovane vestito di pelle nera che avanzò verso Saori e le si inginocchiò davanti, prendendole la mano destra e baciandola con deferenza.
«Sì, conosciamo la sua fama», ribatté la ragazza.
«Servo vostro», disse Shiro alzandosi in piedi e fissandola intensamente, incurante dello sguardo omicida di Jabu. «Vogliate gradire questo umile omaggio floreale», concluse porgendole le rose ancora imperlate di rugiada.
Povere rose, pensò Saori salvandole dalle mani del ragazzo, che le brandiva come fossero state una spada, e facendosene scudo.
«Il signor Kanetsuki, il nostro manager, purtroppo non potrà essere presente.»
Jabu scoccò un’occhiata incredula a Kobayashi.
«C’erano dei problemi da risolvere per quanto riguarda la registrazione del disco. Accomodatevi, prego…»
L’Uomo Grasso entrò nella stanza affiancato da Saori, riuscita miracolosamente a sottrarsi al suo braccio; Jabu li seguì a ruota, non dopo aver fulminato con gli occhi Shiro.
 C’era qualcosa, nell’espressione del musicista che non gli piaceva. Era come se avesse scritto in faccia un messaggio, per lui; e quel messaggio diceva: Povero idiota! Non te l’avrebbe data se non l'avessi portata da me, vero?.
Il cantante entrò per ultimo nella stanza, accomodandosi sul bracciolo della poltrona di pelle accanto a quella del presidente. Di rimpetto a lui.
Questo cerca guai...
«Allora, signorina, mi dica tutto. In che modo il sottoscritto può esserle utile?», cominciò l’uomo, aprendo di fatto le trattative.
«Credo che il signor Kido saprà spiegarle la situazione meglio di me…», rispose Saori porgendo la patata bollente a Jabu, che fremeva come un vulcano quiescente.
Aveva deciso di unirsi a lei nell’impresa, alla fine. Per curiosità, certo. Non perché temesse che potesse accaderle qualcosa di male. Sì, Saori aveva la peculiarità di cacciarsi nei guai da sola, entrando con i propri, delicati piedini numero 36 nella tagliola luccicante che il cacciatore di turno non si era affatto premurato di nascondere nella vegetazione. Come se stesse cacciando una gazza ladra.
Jabu sorrise all’idea di una gazza, con la sua elegante coda simile allo strascico di una sposa, cui la Natura avesse donato la testa di Saori. Lunghi e liscissimi capelli compresi.
Era una riunione d’affari. Solo questo. Molto probabilmente a Shun era capitata l’occasione della vita – o dei prossimi dieci anni – e non aveva fatto altro che afferrarla al volo. E non se la sentiva di biasimarlo. Quella vita di guerre e battaglie sarebbe finita, prima o poi. E dopo, cosa avrebbero fatto? Avrebbero appeso al chiodo le corazze. E poi?
No, quello che preoccupava Jabu non era tanto l’incolumità di Saori – Apollo era una questione risolta, oramai – quanto la salute del gruppo cui era a capo. E non avrebbe lasciato gestire una trattativa a nome del Gruppo Grado a Saori, che aveva limitato ad un numero ridicolo gli eventi pubblici improrogabili.
«In che modo la Glitter Music può esserci d’aiuto? Ma è molto semplice. Come lei ben saprà, il defunto Mitsumasa Kido era un grande mecenate, amante dello sport e delle arti, che si è sempre prodigato per far emergere quei giovani talenti che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra… proprio come la Glitter, dico bene?»
L’Uomo Grasso annuì.
«Il prossimo mese si terrà un evento di beneficenza, una festa organizzata dalla signorina Kido durante la quale interverranno artisti da tutto il mondo. I fondi raccolti da questo evento andranno a coprire le spese per un progetto umanitario in Africa. Si tratta di scavare una decina di pozzi, consentendo ad alcuni villaggi di avere dell’acqua potabile a pochi passi da casa, senza doversi sobbarcare ogni giorno, più volte al giorno, una strada lunga e tortuosa. E pericolosa. Abbiamo ricevuto molte adesioni, ma per essere sicuri di riscuotere ancora più successo e di coinvolgere il maggior numero di persone possibile, vorremmo invitare i Bloody Roses ad esibirsi durante la serata. Sarà un evento trasmesso in mondovisione.»
L’Uomo Grasso e il musicista si scambiarono uno sguardo.
«Non credo avremo il tempo per scrivere una canzone. Sapete, abbiamo la promozione dell’album e dobbiamo ancora finire di registrare quattro tracce», intervenne Shiro, un braccio a ciondolare dietro lo schienale della poltrona.
«Mi rendo perfettamente conto di come la nostra richiesta possa rallentare il vostro lavoro, signor…», fece Jabu fissandolo con un sorriso aperto.
«Shiro. Shiro e basta», disse il musicista accavallando le lunghe gambe inguainate da dei pantaloni di pelle nera con delle fibbie lungo le cosce.
«Signor Shiro», riprese Jabu con voce sicura, «stavamo pensando di chiedervi uno sforzo meno impegnativo. Cantare per noi una cover, ad esempio.»
«Scusi se le faccio osservare un piccolo particolare, signor Kido», ribatté il ragazzo acquistando una posizione più composta. «Non sarebbe più economico pagare i diritti d’autore, piuttosto che accollarvi anche la spesa per il nostro ingaggio? Va bene sponsorizzare i sogni, ma credo che voi dobbiate avere un vostro tornaconto, giusto?»
Jabu sorrise.
«Vedo che ha centrato il problema. La nostra Fondazione ha investito molto in questo progetto, ed abbiamo tutte le intenzioni di rientrare delle spese sostenute. Come?, si starà chiedendo. Con i contatti. Con la pubblicità. Vede, chiunque può prendere un brano qualsiasi e cantarlo. Questo concorre poco alla riuscita dello spettacolo, perché di spettacolo alla fine si tratta anche quando si parla di un galà di beneficenza trasmesso in televisione. Ma se noi potessimo contare su di un’esecuzione dei Bloody Roses, credo che i benefici supererebbero i costi. Non pensa anche lei?»
«C’è da chiedersi a chi faccia comodo, tutta questa beneficenza.»
«A tutti coloro che hanno un sogno da voler realizzare», replicò Jabu. «I sogni necessitano di una cassa di risonanza. Come uno strumento musicale.»
«La ringrazio per le sue parole, signor Kido; ma mi duole rammentarle che noi non siamo i Queen…», disse il ragazzo facendo un cenno con la mano.
«Voi non sarete i Queen, è vero, ma non è da tutti mandare in tilt Ginza per un’esibizione alla Fuji Television! Io stesso sono rimasto imbottigliato nel traffico e ho potuto toccare con mano il potere che esercitate sulle persone. Ci pensi, voi potreste essere il nostro asso nella manica, e ovviamente, la cover che useremo per l’evento potrà essere inserita nel vostro disco. Ammesso che voi lo vogliate…», aggiunse Jabu maledicendo quel tizio fasciato come un malato di mente che lo stava costringendo ad elemosinare un .
«E la data d’uscita del cd?»,  chiese L’Uomo Grasso intervenendo nella discussione. «Sono sicuro che lei capirà come…»
«La vostra cover sarebbe contenuta nel cd che uscirà nei negozi in contemporanea all’evento. Si potrebbe stampare una seconda edizione del cd, oppure potreste inserire la canzone nel prossimo album», suggerì Jabu.
«Questo è fuori discussione! A quel punto l’effetto pubblicitario legato all’esibizione durante l’evento sarebbe svanito da un pezzo…», ribatté Shiro con una posa scettica. «E non ho mai creduto ad un certo tipo di… edizioni speciali…»
Dillo a Michael Jackson e agli altri di We Are The World, idiota, pensò Jabu.
«Cosa suggerite, allora?», chiese Saori, fissando il musicista.
«La soluzione migliore sarebbe far uscire la canzone all’interno dell’album che abbiamo in lavorazione, ma sono già state decise le tracce… Dovremmo procrastinare l’uscita del cd, ed i costi lieviterebbero ancora…»
«Pagheremo noi i costi aggiuntivi che dovrete sostenere», disse Saori con fare deciso.
«Non saprei. Dovremmo parlarne noi tre insieme, prima di darvi una risposta.»
«Giusta obiezione!», fece Jabu rilassandosi sulla poltrona: se quel ragazzino avesse continuato a creargli problemi sarebbe uscito da quell’ufficio minacciando il crollo della Glitter Music. «La soluzione migliore sarebbe un briefing», serio, «con il vostro agente, così da rendervi conto di tutti i dettagli. Possiamo fare per domani alle 15?»
«Mah. Contatti il signor Kanetsuki, il nostro agente e fissi un appuntamento con lui», rispose Shiro alzandosi e facendo per andarsene. «Io, da parte mia, riferirò la vostra proposta ai miei colleghi, ma non aspettatevi una risposta positiva, siamo intesi?»
Il ragazzo fece un breve inchino rivolto a Saori e uscì passando per la porta scorrevole.
«Cercate di essere comprensivi», disse l’Uomo Grasso. «In questo momento sono sotto pressione e la paura di fare un passo falso che potrebbe compromettere la loro carriera è grande…»
«E allora mi spiega dov’è il loro agente?», disse Jabu seccato, facendo leva sulla propria posizione di forza. Era o non era l’AD del Gruppo Grado? «Posso capire che sia saltato fuori un imprevisto, ma demandare la faccenda ad un membro del gruppo? Suvvia. Non siamo qui per perdere tempo. Né voi. Né noi. Sono sicuro che vorrà ricordargli sia il nostro invito per domani alle 15, sia come questa proposta sia, in realtà, più vantaggiosa per i Bloody Roses che per noi. Potremmo sempre pagare i diritti d’autore e cavarcela con una spesa minore. Ci pensi, signor Kobayashi. E se adesso vuole scusarci, togliamo il disturbo. Sono più che sicuro che avrà delle telefonate da fare», concluse con studiata calma e sicurezza il giovane Amministratore Delegato.
«Abbiamo approfittato fin troppo della vostra disponibilità. Sarà il caso di andare. Grazie per il tempo concessoci», rincarò Saori alzandosi con un sorriso, imitata all'istante da Jabu. «Arrivederci, signor Kobayashi.»
L’Uomo Grasso non poté far altro che ricambiare il saluto ed accompagnare i propri ospiti alla porta. Quando vide la berlina dei Kido allontanarsi dal palazzo della Glitter, si diresse alla propria scrivania e chiamò la segretaria con l’interfono.
«Signorina Midorikawa? Chiami Kanetsuki e gli dica di portare immediatamente qui il suo culo flaccido! Per le prossime tre ore non voglio essere disturbato, chiaro?»
«E se nel frattempo arriva Kanetsuki?», chiese la voce metallica della segretaria.
«Lo faccia passare, che diamine!», rispose l’uomo ruggendo.
Chiuse la comunicazione e si sedette sulla sua poltrona, le mani scosse da un fremito nervoso. Alzò la cornetta del telefono, e al segnale di libero compose un numero speciale.
«Sei tu? Abbiamo un problema!»


«Abbiamo fatto un buco nell’acqua», si lamentò Jabu, le mani tra le mani, guardando scorrere la città attraverso il vetro oscurato.
«Non essere troppo severo con te stesso. Abbiamo stabilito un contatto», cercò di consolarlo Saori con un sorriso benevolo. «Nel caso facessero altre storie, ricorreremo alla forza per avere un incontro con tutti e tre i Bloody Roses», concluse, specchiandosi in una goccia di rugiada che imperlava un petalo di rosa.
«Dobbiamo essere ottimisti Jabu… La fretta serve solo ad acchiappare le pulci», aggiunse accarezzando il contorno delicato di uno di quei fiori che giacevano abbandonati sul sedile accanto a lei.
«Tatsumi, prega l’autista di recarsi all’orfanotrofio Star Child, per favore», disse dopo aver preso l’interfono e dopo aver deciso la destinazione di quel fragrante mazzo di rose.
 
 
Correre.
Scivolare come un’ombra per quei corridoi bui, uno identico all’altro. Strisciare sull’acciaio dei pavimenti, delle pareti, delle porte zincate simili a quelle dei sottomarini. Non sentire il caldo imperlargli il corpo di sudore, ignorare il dolore dei suoi muscoli straziati che gridavano, lo imploravano, di fermarsi e di lasciarli riposare. 
Correre.
Fondendosi con l’ambiente al passaggio di ombre nemiche. Trattenere il respiro facendo attenzione che il suo cuore non lo tradisse, schizzando fuori dal torace o rivelando la sua posizione attraverso il battito impazzito e selvaggio che gli aveva invaso le orecchie. Appiattire la schiena al muro, ritrarre l’addome e avvicinare il più possibile le braccia al busto. Diventare invisibile. Fondersi nel buio. Essere buio. 
Attese che i due tizi superassero la svolta in cui aveva trovato riparo: avevano la sua stessa età, e avanzavano parlando fra loro di femmine e armi semi automatiche.
Pausa pranzo?, si chiese vedendoli svoltare a sinistra, senza dar segno di essersi accorti di lui. Che ore saranno? Quei due non mi sembravano di ronda, pensò, contenendo l’affanno ed ignorando il sudore appiccicato alle vesti. Vesti… i brandelli di quella che un tempo era stata una tuta da lavoro grigio antracite gli cadevano addosso lasciando che le braccia e i polpacci mostrassero le ferite che li adornavano.
Dopo. Resta concentrato. Un passo dopo l'altro.
Fece capolino nel corridoio che si apriva davanti a lui, illuminato fiocamente da lampade al neon quasi scariche. Era venuto da sinistra, rifugiandosi in quel passaggio non appena aveva intravisto spuntare due ombre.
Che fare? Tornare indietro, con la possibilità di essere beccato e trasferito altrove, oppure proseguire, tentando di portare a termine il piano?
Se mi trovano, sarà stato tutto inutile, rimuginò tra sé e sé stringendo con forza la mappa che aveva nel pugno sinistro. Si voltò, scoprendo di trovarsi in un corridoio minore, quasi del tutto al buio e poco frequentato, almeno a giudicare dalla polvere in terra e dalla ruggine depositata sulle maniglie delle porte che si affacciavano in quel budello che spariva nell’oscurità.
Scorre parallelo a quello che avrei dovuto imboccare, si disse controllando la mappa. Si ricacciò in tasca il foglio e riprese la sua folle corsa verso il fondo buio, il suono dei suoi passi scalzi che si andava attutendo man mano. I suoi polsi dolevano, lì dove i segni delle catene che gli avevano straziato le carni e la pelle, assomigliavano a tatuaggi di sangue. I tendini cedevano poco a poco, dopo che gli appelli affinché lui terminasse la sua corsa cadevano nel vuoto. Inascoltati.
Ignorali, ignora tutto, c’è tempo per crollare esanime, è non ora, non adesso.
Non adesso, ad un passo dal suo obiettivo; non adesso, non dopo aver fatto a botte con se stesso per decidere di fidarsi di lei. Lei, che era apparsa così all’improvviso in una giornata allietata dal ticchettio della pioggia che gli giungeva dalla finestrella sopra la sua testa. Un paio di occhi neri in un viso ovale di porcellana, tempestato di lentiggini.
«Mi porga il braccio, prego», gli aveva ordinato mentre estraeva una siringa sterile da una borsa in cuoio marrone. Una borsa da medico. Gli aveva preso il braccio destro, aveva stretto il laccio emostatico e disinfettato la parte con un liquido trasparente.
«Non ci metterò molto», gli aveva spiegato aprendo la confezione sterile ed inserendo la siringa in una sacchetta con del liquido rosso rubino. «Tranquillo, sono dalla tua parte», gli aveva sussurrato strizzandogli l'occhio e svuotando il contenuto della sacca ematica nella siringa. «Il signore ha vinto un bel cerotto!», aveva aggiunto praticandogli un buco sulla pelle con l’ago e piazzandoci sopra della garza bianca.
Era rimasto basito, non aveva fiatato, limitandosi a fissare ad occhi spalancati quella figura dai capelli rossi ed il camice immacolato che usciva da quella cella fetida ancheggiando sui tacchi.
«Bella femmina, eh?», aveva commentato la voce laida del suo guardiano attraverso la finestrella sulla porta. «Scommetto che è ancora più bella coi capelli sparsi sul cuscino», e aveva richiuso la feritoia con una risata sguaiata.
E adesso stava correndo da lei, lei che lo aspettava con la macchina accesa in un piazzale riparato del grande parcheggio che circondava l’edificio in cui si trovava.
Gli venne da sorridere: si stava affidando ad una perfetta estranea, proprio lui che per tutta la vita ci aveva sempre rimesso per essersi fidato degli sconosciuti, ad iniziare da quei parenti a cui la mamma l’aveva affidato prima di entrare in quell’ospedale da cui non sarebbe mai più uscita.

«Devi fare il bravo con i nonni, va bene? Io starò in ospedale tre giorni, poi tornerò con il tuo fratellino, d'accordo?»

Ricordava ancora le parole di sua madre e i suoi capelli, che avevano il suo stesso riflesso bluastro, legati in una coda di cavallo fermata da due sfere di plastica colorate. Una ragazzina di venticinque anni che non era più tornata da lui, regalandogli un fratellino a cui badare, e che i nonni avevano girato senza tanti problemi a quel padre sconosciuto ed estraneo che aveva mandato due tizi vestiti di nero a prenderli. 

«Andate con questi signori, vostra madre avrebbe voluto così.»

E quello era stato l’inizio.
Che dire del vecchio genitore, che aveva promesso di liberarli e lasciarli in pace se solo avessero riportato indietro quelle maledette armature? 
E di Zucca Pelata, che una sera, poco prima della partenza, lo aveva chiamato in disparte, l’aveva spinto a forza dentro una cantina e l’aveva legato e picchiato con una spada di bambù fino a che non era crollato, per risvegliarsi livido e gonfio nella stiva di una nave, tra casse, sacchi di iuta e barili d’alluminio?
E il vecchio Guilty, che aveva ammazzato Esmeralda con un pugno solo? 
E quelle due pazze che li avevano lasciati con le pezze al culo, dopo averli trascinati in una battaglia contro il dio Loki? 
Con che coraggio poteva fidarsi di questa tizia dai capelli rossi e le lentiggini che gli aveva confidato di essere dalla sua parte?
Continuava a domandarselo, mentre si trascinava verso la fine di quel corridoio; doveva arrivare da lei e provare a fuggire, o almeno a darle quel biglietto con cui avrebbe avvertito gli altri di quello che stava succedendo nei sotterranei di quel palazzo tanto perbene. 
Se solo potessi espandere il mio Cosmo!, pensò controllando la mappa e svoltando a destra in un corridoio senza porte né finestre. La cicatrice tra le sopracciglia riprese a fargli male, schiacciata per buona parte da quel maledetto anello di ferro che gli impediva di sviluppare il proprio potere e di chiamare i suoi fratelli in aiuto. Aveva provato a togliersi quell’affare di dosso, oh se l’aveva fatto! Ma ad ogni tentativo era partita una scarica elettrica che l’aveva lasciato più morto che vivo. 

Ne ho le palle piene di essere trattato come Son Goku!

Si fermò ad ansimare, il menisco sinistro l’aveva abbandonato e bruciava come sale sulla carne viva.  All’improvviso le sue orecchie furono invase dal suono della sirena d’allarme che avvertiva tutta la base del fatto che il loro preziosissimo ospite aveva avuto ragione del proprio carceriere, l’aveva sedato a suon di pugni e l'aveva rinchiuso al proprio posto, legato e coperto con una stoffa di lana semi divorata dalle tarme e assediata dai pidocchi.
Merda! Deve essere arrivato il cambio, pensò nascondendosi alla vista di tre tizi in tenuta d’assalto che correvano verso la sua cella. Meglio darsi una mossa…
Strinse i denti e procedette nella direzione segnata con una X rossa sulla mappa che teneva tra le dita stanche.

ATTENZIONE ! A TUTTO IL PERSONALE! RIPETO: A TUTTO IL PERSONALE! IL PRIGIONIERO È EVASO. RIPETO: IL PRIGIONIERO È EVASO. È PERICOLOSO E DEVE ESSERE RICONDOTTO IMMEDIATAMENTE IN ISOLAMENTO. RIPETO: DEVE ESSERE RICONDOTTO IMMEDIATAMENTE IN ISOLAMENTO. NON UCCIDETELO, RIPETO: NON UCCIDETELO! ATTENZIONE! A TUTTO IL PERSONALE…

La voce metallica che era uscita dall’altoparlante fugò ogni suo dubbio.
Pericoloso? Senza il mio Cosmo? Ma non fatemi ridere, ché ho due costole incrinate e il labbro spaccato!, pensò tra sé e sé prima di sentire una pallottola sibilargli accanto allo zigomo sinistro.
«Fermati! Non hai scampo!»
Alle sue spalle era apparso un tizio del tutto intenzionato a renderlo inoffensivo a suon di pallottole.
Perfetto, ci mancava solo l’esaltato di turno!, imprecò rituffandosi nel corridoio per il quale era arrivato, mentre altri due bossoli rimbalzavano sul pavimento. Grazie al cielo ha una pessima mira, si consolò correndo all’indietro e nascondendosi accanto ad un’improbabile colonna di ghisa che spuntava nel bel mezzo del corridoio.
E adesso? Da dove passo?, si chiese rigirando quel foglietto tra le mani: se l’avessero trovato con quello sarebbero stati guai seri. Non sarebbe stato necessario torturarlo per risalire a chi aveva scritto di proprio pugno quel biglietto.
Che sapore avrà la carta?, si domandò ingoiando della saliva nella gola arida: l’idea di mangiare quel foglietto gli dava semplicemente il voltastomaco. E se l'avessero trovato mentre lo faceva sparire, sarebbero stati capaci di aprirgli le viscere?
Un campanello interruppe i suoi pensieri: accanto a sé, su un lato della colonna di ghisa si stavano aprendo le porte scorrevoli di un ascensore perfettamente mimetizzato. Si fece di lato, appiattendosi più che poté alla parete alle sue spalle, pronto ad avere ragione di chiunque fosse uscito da quella porta.

Vendiamo cara la pelle!

Una figura nera apparve nel suo campo visivo e non attese oltre: scattò in direzione del nemico, serrandogli il collo tra le mani e minacciandolo con un patetico: «Azzardati a fiatare e ti stacco la testa!». L’ostaggio alzò le mani e solo allora lui s’accorse di aver catturato una donna, vestita con una tuta da motociclista nera e un casco integrale dello stesso colore.
Cazzo!, si disse, allentando la presa.
La donna si voltò, scuotendo la testa ed alzando la visiera su cui lui stava osservando quanto fosse segnata la sua faccia e quanto potesse essere idiota la sua espressione. Due occhi neri lo fissarono ansiosi: lei si tolse il casco sospirando un:«Meno male!».
«Ah, sei tu!», disse lui abbassando le braccia e sentendo una goccia di sudore scivolargli fredda tra le scapole.
«Sì, che fine avevi fatto? Ti aspettavo mezz’ora fa al parcheggio F!»
Aveva l’aria imbronciata, come quella di una bambina piccola a cui fosse scappato il palloncino.
«Non ho visto che ora si è fatta», rispose con la sua solita aria spavalda.
«Credo che», iniziò lei prima che un’altra raffica di pallottole non interruppe il loro incontro. 
«Eccoli laggiù! Sparate!»
Gli uomini in nero li avevano trovati e senza tanti complimenti avevano scaricato due semi automatiche nella loro direzione. L’afferrò per il polso trascinandola nell’ascensore con sé: le porte si richiusero appena in tempo per proteggerli da altre due salve di proiettili che li avrebbero ridotti a due colini da tè.
«Cazzo, cazzo cazzo! Devono averti trovato tramite il microchip che hai impiantato sotto pelle. Siamo nella merda fino al collo!», concluse lei pigiando alcuni bottoni.
L’ascensore prese a scendere verso il basso, verso le viscere dell’edificio.
«Quindi fuggire sarebbe inutile, fino a quando non mi sarò sbarazzato di quell’affare?!»
«Probabile, eppure credevo di averlo disattivato ieri… Abbassa la testa!», disse estraendo dalla tuta un cacciavite universale. Chinò il capo dolorante verso di lei, che sbuffando si tolse una ciocca ribelle da davanti gli occhi.
«Che intenzioni hai?», chiese sbirciando la generosa scollatura della ragazza.
«Toglierti quest’affare», rispose facendo finta di non accorgersi di dove si fossero posati gli occhi blu scuro di lui e armeggiando con il cacciavite sul cerchio di ferro che adornava la fronte del ragazzo. «Ecco, devo solo allentare qui e…»
Una scarica elettrica partì dal marchingegno scuotendolo per bene e costringendolo a crollare a terra, i capelli arricciati in volute all’insù con un forte odore di bruciato.
Si abbassò su di lui cercando di aiutarlo e accorgendosi di come sul suo corpo vagassero ancora delle scariche di minore intensità che andavano esaurendosi. «Fuck!! What’s craic? Perdonami, non pensavo che…»
Mugugnò qualcosa: avrebbe voluto dirle di non preoccuparsi, che ci era abituato fin da piccolo a prendere scariche elettriche intense, che non era colpa sua e che non l’avrebbe di sicuro ritenuta responsabile, ma tutto ciò che gli uscì dalla gola fu uno strascicato «Ngh» che morì strozzato tra le sue labbra gonfie.
«Bastardi!Pagherete anche questa!», ringhiò lei. «Coraggio, siamo vicini! Un ultimo sforzo!»
Lui scosse la testa.
«È una pazzia, e lo sai anche tu! Ho quel fottuto microchip sotto pelle, Dio solo sa dove, mi localizzerebbero appena messo il naso fuori da qui, e prenderebbero anche te… e allora sì che saremmo nella merda fino al collo! Prendi questo e…»
«E piantala di dire stronzate! Non ho fatto tutto questo casino per passare il tempo! Credi che mi lascerebbero andare una volta che ti avessi abbandonato come una zavorra? Nossignore, mi darebbero la caccia per prendere qualcosa che tu mi avresti sicuramente affidato. E non sono talmente masochista da farmi pestare come l’uva in un posto dove i nostri poteri non funzionano!»
Provò a ribattere, ma l’ascensore si fermò e lei prese il ciondolo a forma di chiave che portava al collo e lo inserì in un foro microscopico del pannello comandi.
«Ma io…»
«Shut up! Tu vieni con me, punto e basta!», tagliò corto digitando un codice segreto. Le porte dell’ascensore si aprirono su un piccolissimo corridoio nero come la pece, probabilmente un condotto d’aerazione; lei s’infilò nel passaggio e accese una luce tascabile che li avrebbe guidati nel percorso.
«Che fai? Vieni oppure devo prenderti a calci?», chiese. La sua espressione garantiva che avrebbe assolutamente messo in atto quella minaccia.
Si accovacciò e la seguì, gattonando appresso all’unica possibilità di salvezza che aveva. Proseguirono per qualche centinaia di metri, con la pila tascabile di lei ad illuminare fioca le lamiere su cui si stavano muovendo.
«Fermo!», gli sibilò all’improvviso, bloccandolo a pochi centimetri dietro di sé. «Sono qui sotto!», fece segno lei con il dito indice, illuminando il fondo del condotto.
Le voci delle guardie che li stavano cercando arrivavano attutite alle loro orecchie.
«Li hanno visti al quarto piano! Fate attenzione, lui è contagioso! Se vi morde siete fottuti!», disse una voce roca.
«Bastardo! Noi lo curiamo e lui ci ringrazia così!», commentò una voce di donna, abbrutita dalla convivenza forzata con degli uomini.
Sentiva la rabbia montare sempre più, come un vulcano che sta per eruttare: dopo tutti i calci, i pugni, le umiliazioni e le sevizie che gli avevano inflitto doveva anche ringraziarli? Ma di cosa? Di cosa? Lui, sano come un pesce, era stato dipinto a quella gente come un malato contagiosissimo e al tempo stesso ingrato!
«Shut. Up!», sibilò lei con una luce imperiosa negli occhi.
Attesero immobili che le guardie si separassero e che i loro passi si annullassero nell’aria.
«Avanti, abbiamo i secondi contati!», disse lei, riprendendo a strisciare nel condotto.
«E il mio microchip? Come mai non ci hanno localizzato? E dove siamo adesso?» sussurrò lui seguendola al buio.
«Adesso siamo al pian terreno, stiamo andando verso le cucine, usciremo da lì. Quanto al microchip… beh, te l’ho disattivato manomettendo il cerchio che hai sulla fronte. Ha funzionato, in qualche modo. Per questo prima sei diventato una porzione di chips!»
«Capisco», mormorò rivivendo sulla pelle le scariche che lo avevano devastato fino alla punta dei piedi. Gli ricordavano una sensazione conosciuta, sebbene sopita da tempo, come una specie di orgasmo doloroso.
Ormai avevo dimenticato che cosa si prova…
La voce della sua guida lo destò.
«Avanti, ce l’abbiamo fatta!»
La ragazza pigiò un’intersezione tra due placche d’acciaio che si aprirono all’esterno rivelando una luce pomeridiana che gli ferì gli occhi. Un odore denso, di curry, riso e pollo gl’invase le narici, risvegliando nel suo stomaco una fame nera e una debolezza che non poteva più ignorare.
«Dove siamo?», chiese schermandosi gli occhi con una mano e sentendo il profumo della pioggia appena caduta mischiarsi a quello della cena che qualcuno stava preparando poco distante da loro.
«Siamo riusciti ad uscire direttamente all’esterno! Spicciati, dai!», rispose lei sorvegliando i dintorni: nessuno sembrava essersi accorto di loro.
Va tutto troppo bene, pensò, prima che una raffica di proiettili disegnasse la sua sagoma sul muro.
«Arrendetevi, ormai è inutile!», ordinò loro una donna in tenuta d’assalto, il mitra puntato nella loro direzione. «Non voglio uccidervi, ma lo farò se vi sarò costretta!»
«Scappa!», le gridò lui prima che un’automobile inchiodasse a pochi centimetri da lei e si frapponesse alla scarica che la zelante soldatessa aveva deciso di lanciare come ulteriore avvertimento. Lo afferrò per il braccio, aprì lo sportello posteriore e ce lo infilò dentro a forza.
«Vai!», gridò, prima di infilarsi nuovamente nel pertugio per cui era uscita all’aperto.
Si voltò appena in tempo per vedere il passaggio richiudersi dietro di lei e sentire la soldatessa di poco prima chiamare a raccolta gli altri sparando in aria.
«Come se ce ne fosse bisogno…»
Si accorse solo allora dell’autista, un giovane alto, dalla carnagione chiara e lo spiccato accento britannico. 
«Sta tranquillo, amico, sono dalla tua parte», disse il ragazzo calandosi meglio la visiera del berretto da chauffeur che portava sul capo. «Lì dietro ci sono dei vestiti, dovrebbero essere della tua taglia, se quanto mi hanno descritto è esatto.»
Si disfece dei brandelli che lo coprivano ed aprì una busta di cellophane da cui estrasse una maglia di cachemire rossa ed un paio di pantaloni blu notte.
«Non ho capito che numero avessi di scarpe. Ce ne sono tre paia lì accanto, spero che una su tre ti calzi bene!», continuò il ragazzo uscendo in tutta calma dal parcheggio.
Rimase con i vestiti tra le mani, ripensando alle parole che lei gli aveva detto il giorno prima, quando gli aveva confermato i preparativi per la sua evasione. 
«Il piano è semplice: trovati al parcheggio F. per le sei del pomeriggio. Troverai me ed un mio amico ad attenderti. Io li distrarrò scappando in moto, tu salirai con lui in auto e ti porterà fuori di qui. Nell’auto troverai anche dei vestiti: indossali e non fare storie, per favore. Fa tutto quello che ti dirà il mio compagno, right
Indossò la maglia: gli sembrò un delitto lordare quella lana morbidissima con la sua pelle sporca. Aveva bisogno di un bagno, e urgentemente.
«Coraggio, siamo quasi fuori. Hai indossato i pantaloni?»
Fece un cenno con la testa, chiudendo la zip. Il suo autista sorrise.
«Sorrida, sir, e lasci parlare me, lei è muto, se lo ricordi bene!»
L’automobile si avvicinò all’uscita ad andatura costante; dal gabbiotto del custode uscì un uomo con in braccio un mitra e lo puntò in direzione del mezzo senza pensarci su, con il vigilante accanto che gli indicava la vettura che si stava avvicinando con grandi cenni delle braccia e del capo.
«Troppo tardi… reggiti forte, amico!» disse schiacciando l’acceleratore a tavoletta.
Cercò qualcosa a cui aggrapparsi mentre vedeva la sbarra abbassarsi ed avvicinarsi sempre più. È finita, pensò chiudendo gli occhi e preparandosi all’urto.
L’automobile s’infranse contro la sbarra elettronica facendola andare in mille pezzi, superò il posto di blocco e curvò in testa coda sull’asfalto, allontanandosi verso la zona del porto.
«Yu-uh! Come Steve Mc Queen!», gridò entusiasta il ragazzo lanciando il cappello dietro di sé. 


«Come sarebbe a dire che lo avete perso?!»
La voce dell’uomo gli era arrivata addosso come un getto violento d’acqua ghiacciata. Fredda, come la neve di dicembre che s’insinua nel collo, e al tempo stesso bruciante, come la lama di un coltello che ti trapassa in silenzio le carni.
«Signore, sono desolato, ma il prigioniero è riuscito a fuggire forzando il posto di blocco…»
«Non ti ho chiesto in che modo ve lo siete lasciato scappare, pezzo di cretino, ma come sia riuscito a sgattaiolare fuori da qui!», esplose l’uomo dando un pugno sul tavolo di cristallo davanti a cui era seduto.
«Signore, credo si sia servito dell’aiuto di un basista», rispose l’altro acquistando un po’ di coraggio.
«Ma non mi dire!», commentò sarcastico l’uomo in nero tamburellando lentamente le dita sul tavolo. «E io che pensavo l’avesse rapito Babbo Natale per farne un suo aiutante…»
«Sì, ma abbiamo trovato questo nel punto in cui la nostra brava Sachiko li ha visti uscire», aggiunse il sottoposto mostrando al proprio superiore un foglietto con su disegnata una mappa.
«Dov’è questa Sachiko?», chiese l’uomo rigirandosi quel brandello di carta tra indice e pollice.
«Sta aspettando di far rapporto qui fuori.»
Ad un cenno dell’uomo, Sachiko apparve sulla soglia dell’ufficio. Percorse la breve distanza tra la porta e il centro della stanza, quindi si arrestò salutando il proprio superiore facendo schioccare i talloni e mettendosi sull’attenti.
«Matricola 19071977, Sachko Uekusa a rapporto signore!»
«Riposo. Hai visto il fuggitivo scappare da un condotto d’aerazione vicino alle cucine?», le domandò.
«Affermativo signore! Il soggetto era appena uscito dal suddetto condotto quando intervenivo prontamente intimando loro di arrendersi.»
«Loro? Non era dunque da solo?», chiese l’uomo osservando le forme della ragazza inguainata nella divisa.
«Affermativo, signore! Erano in due, il fuggitivo ed una donna, con una tuta nera da motociclista e i capelli rossi.»
«Ne sei sicura, Sachiko?», chiese ancora aprendo un cassetto e chiudendovi dentro il foglietto.
«Affermativo, signore! L’uomo veniva poi caricato su di un’automobile, sopraggiunta all’improvviso, che si è frapposta fra me e i miei obbiettivi, impedendomi di catturarli. La donna, invece, risaliva per il condotto, evitando miracolosamente la raffica di mitra che stavo sparando per fermarli», rispose la ragazza restando ferma immobile. 
«Va bene, puoi andare. Voglio un rapporto dettagliato in sedici pagine domattina sulla mia scrivania, ci siamo capiti?»
«Signore, signor sì, signore!», rispose nuovamente Sachiko schioccando i talloni.
«Saluto!», fece l’uomo congedando la soldatessa, che si allontanò dall’ufficio con passo fermo e svelto.
L’uomo si massaggiò le tempie.
«Che le avevo detto, signore? Un basista ha aiutato il fuggitivo e adesso…»
«E adesso lasciami pensare, Himegata!», sbottò l’uomo avvicinandosi ad un’ampia vetrata da cui poteva dominare il porto e le sue mille luci accendersi all’approssimarsi della sera.
«Come desidera, signore», rispose Himegata facendo un cenno con la testa ed uscendo dall’ufficio.

Probabilmente quella troia avrà già cambiato aria a quest’ora; posso far setacciare la base e sperare che questi inetti la stanino come si fa con le volpi. E se invece fosse già scappata?

Si diresse alla scrivania, aprì un cassetto e prese il suo porta sigarette in avorio, se ne accese una e ne tornò alla finestra ad osservare le luci del porto e del quartiere commerciale vibrare calde nella sera.

Massì… Sì… Vai, piccola stronzetta, vai pure… Credo di sapere ormai con largo anticipo quali saranno le tue prossime mosse. Lascerò a te l’onore di condurre il gioco, voglio proprio vedere che cosa t’inventerai, adesso che so chi sei e chi stai difendendo.

Prese il telefono, compose un numero e rimase in attesa.
«Irina? Lo sai già? Sì, perfetto… No, assolutamente no... Restiamo ad aspettare cosa faranno, mi sembra la soluzione migliore. Esatto, esatto, vedo che ci intendiamo noi due. Sì, sì, farò tenere la casa sotto controllo, tanto per essere più tranquilli. Buona serata anche a te.»
Riagganciò la cornetta e prese l’ultima tirata.

Fammi vedere di cosa sei capace, Saori Kido…
 
 
Note:

Innanzitutto, grazie mille a Sen per le dritte sulle armi semiautomatiche.

Son Goku è la traduzione giapponese di Sun Wukong, uno scimmiotto di pietra, il Re delle Scimmie, che per la propria arroganza è costretto dagli dei ad accompagnare il monaco Xuanzang (in giapponese Sanzo) nel suo viaggio in India per recuperare i sutra buddhisti conservati in India. Dato il carattere irascibile di Son Goku, la bodhisatva Kannon gli applica un cerchio dorato sulla fronte, il quale, in caso di disobbedienza della scimmia dispettosa, gli regala molto, molto dolore...
Son Goku è il personaggio più amato e famoso della letteratura cinese, tanto da meritarsi almeno quattro rivisitazioni a fumetti:
Goku no Daiboken (Lett. Le Grandi Avventure di Goku), di Osamu Tezuka, da noi approdato col titolo inglese di The Monkey;
Dragon Ball, di Akira Toriyama;
Gensomaden Saiyuki (Lett.: Viaggio in Occidente. La leggenda del demone dell'Illusione), di KazuyaMinekura;
SF Saiyuki Starzinger, di Leiji Matsumoto, che racconta in chiave fantascientifica la leggenda.

What’s craic è un tipica espressione iralndese. Craic è la versione gaelica di crack, un termine inglese polisemantico, di quelli che fanno impallidire i traduttori. Può significare novità, divertimento, notizie, gossip, chiacchiere e chi più ne ha, più ne metta. What’s craic, significa “Come va?”, ma anche “Come stai?”.

Le chips altro non sono che le patatine fritte, in perfetto stile fast food. Inglesi (e credo anche irlandesi) distinguono le patatine fritte in crisps, imbustate sottili e croccanti, e chips, quelle tagliate a bastoncino. Negli Stati Uniti, invece,chiamano chips le prime e le French fries le seconde.

L’orfanotrofio Star Child non ha nulla a che fare con The Starchild, al secolo Paul Stanley, cantante dei KISS. Noi lo conosciamo come Orfanotrofio Saint Charles, ed è quello dove sono cresciuti Miho, Seiya e Seiya. Non so perché in Italia lo abbiano ribattezzato così… temevano, forse, l’avvento di una schiera di giovani fan dei KISS?
I was made for lovin' you baby
You were made for lovin' me
And I can't get enough of you baby
Can you get enough of me

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Capitolo 12
*** 12 ***


12.


 
Met you by surprise, I didn't realize
That my life would change forever
Saw you standing there, I didn't know I cared
There was something special in the air



La risposta dei Bloody Roses arrivò due giorni dopo, in tarda mattinata, su un biglietto color avorio assieme ad un fragrante mazzo di rose rosse, che sarebbero finite anch’esse ad adornare l’altare della cappella dell’Orfanotrofio Star Child.
 Tempo sprecato!, rimuginava Hyoga mentre Saori spiegava loro come la Glitter avesse diplomaticamente assecondato i capricci delle loro attuali punte di diamante.
Shiro, che aveva firmato il biglietto, aveva addotto come motivo del gran rifiuto impegni promozionali massacranti, che non avrebbero mai concesso ai Bloody Roses di poter realizzare una cover degna dell’evento che la Fondazione Grado stava preparando. 
Deluso, e con una gran voglia di strozzare qualcuno, Hyoga fissava il soffitto della propria stanza disteso sul letto. Tutto quel casino, e poi? E che diamine di fine aveva fatto Ikki?
Ho bisogno di vedere Erii. Di schiarirmi le idee. Passeggiare mi aiuterà…
Scese al pian terreno per avvertire Saori, ma dovette bloccarsi dietro ad una porta semi aperta.
«Mi prendi per scemo o per imbecille? Abbi almeno il coraggio di parlare chiaramente!»
La voce di Seiya era carica di rabbia, come un montante diretto alla bocca dello stomaco. Si maledisse per quello che stava facendo, ma si posizionò meglio per capire cosa stesse succedendo. Seiya non era solo, almeno a giudicare dagli sbuffi in risposta a quell’insinuazione pesante.
«Più chiaro di così? Vuoi un disegnino?»
Shaina. Stavano litigando, ma non come al solito; questa volta era successo qualcosa di serio, almeno a giudicare dal tono fremente con cui Seiya respirava. 
«No, voglio che tu ammetta di frequentare un altro.»
Hyoga sgranò gli occhi. Shaina? Un altro? Non era assolutamente possibile. Da che la conosceva, li aveva sempre visti disgustosamente attaccati l’uno all’altra. Possibile che la vicinanza avesse messo a nudo problemi insanabili? Rimase appiattito contro il muro, le orecchie ben orientate verso quei due. 
«Tu sei pazzo…»
Risposta prevedibile, insieme ad uno scontatissimo sospiro seccato.
«Ma davvero?» Seiya l’interruppe prima che lei gli avesse potuto ricordare quanto sapesse essere infantile e pesante. «Puoi dirmi, in tutta onestà, che ieri sera non sei uscita con un uomo?»
«Cosa? Ma che domande sono?»
«Rispondi!», disse, imperioso e spiccio, senza farla sgusciar via. «Sei uscita o no con un uomo l’altra sera?»
«Questi non sono fatti tuoi! Non più!»
Hyoga percepì la coltellata che la ragazza aveva inflitto a Seiya come se gli avesse trapassato un braccio. Dev’essere incazzata nera, per parlargli così. Vuole fargli veramente male, pensò trattenendo il respiro nel terrore di essere scoperto.
Seiya non rispose, limitandosi a proporre la medesima domanda. «Allora? Sei uscita o no con un uomo l’altra sera, dopo avermi dato il benservito
«Mi spieghi perché insisti tanto?»
«Tu rispondimi….»
Dal suo nascondiglio, Hyoga vide Shaina portarsi le mani sui fianchi, seccata da quell’interrogatorio al quale non si sentiva in dovere di sottostare, e Seiya incrociare la braccia al petto, con l’espressione sicura di chi ha colto l’altro in castagna. Teso come un filo per tagliare il burro, pendeva letteralmente dalle labbra color corallo di Shaina.
«E va bene, basta che poi tu mi lasci in pace!» La ragazza alzò le mani in aria e si strinse nelle spalle, esasperata. «No, non ho visto nessun uomo, contento? Le cose, comunque non cambiano, sia chiaro!»
Che cose?, si andava chiedendo Hyoga, quando la voce nervosa di Seiya catapultò la sua attenzione.
«Bugiarda.»
«Come hai detto?»
«Bugiarda», ripeté Seiya. «A me non sembrava una ragazza, quello con cui te ne stavi sul lungomare…»
Shaina era ammutolita e fissava Seiya con gli occhi sbarrati.«Tu…tu…»
«Come lo so?», le suggerì Seiya avvicinandosi. «Vi ho visti.»
«Tu», gli occhi della ragazza si erano ridotti a due mezzelune verdi da cui fuoriuscivano lampi e fulmini, «ci hai spiato?».
«Alt! Non è esatto. Ti ho seguita perché volevo farti ragionare.»
«Finendo a letto come al solito?», disse lei, un sopracciglio alzato e un piede che calpestava nervoso la moquette.
Seiya non colse l’insinuazione, proseguendo senza badarle. «E tu mi hai seminato, ricordi?»
Shaina annuì. 
Ricordava perfettamente come, stufa di vederselo sotto gli occhi e sapendo quali sarebbero stati gli strumenti di persuasione che lui avrebbe usato, aveva iniziato a correre per i vicoli notturni, seminandolo come un novellino. Aveva anche sorriso della sua bravura. Non ho perso la mano, allora!, si era anche detta, sollevata di essersi tolta quella piattola di dosso.
Piattola. L’aveva chiamato così, come se fosse un fastidio, e non l’uomo a cui fino a pochi istanti prima era legata, non l’uomo per cui aveva rischiato la vita tante volte. Troppe, si disse la ragazza fulminandolo.
«Ma poi, ti ho ritrovata. Anzi. Vi ho ritrovato. Ti ho vista abbracciata a Milo, lo neghi? Avete passeggiato fino alla spiaggia, e vi siete anche… anche…»
Era troppo, anche per la sua rabbia: come aveva messo insieme quelle parole, il suo cervello gli aveva riproposto la scena, quella scena in cui la sua principessa giaceva, languidamente abbandonata, tra le braccia di un altro uomo, la testa appoggiata sul suo petto, a sussurrarsi promesse sul futuro, la luna e le stelle complici e testimoni della loro unione.
«Baciati?», suggerì lei con noncuranza, sapendo di gettare sale su una ferita aperta al centro del petto. 
Seiya deglutì, e Hyoga con lui. Milo. Mai avrebbe creduto ad una cosa del genere. Almeno non da parte di Shaina. Sapeva che Milo aveva una lunga serie di tacche sul bancone, ma un comportamento simile da parte di Shaina era quantomeno improbabile.
«Quello è affar tuo, volevo solo che ammettessi che te la facevi con lui prima di lasciare me», rispose Seiya, cercando di trattenere le lacrime che stavano per inondare i suoi occhi castani.
«Io non ammetto proprio un bel niente! E lascia stare Milo, chiaro?»
«Perché, altrimenti che cosa mi fa? Mi punzecchia come una zanzara?»
«Io non disturberei un Santo d'Oro con le tue fissazioni…»
«Già, hai ragione. Meglio non disturbare i Santi d'Oro. Meglio fregarli sotto il naso alla propria coinquilina, vero? »
«Che cosa stai dicendo? Non sarai…», gli domandò lei, temendo la conferma ai propri sospetti.
«Andato da Françoise a riferirle ciò che hai visto?», concluse Seiya scimmiottando l’accento italiano di lei. «Perché no? Dopotutto, era giusto che sapesse che razza di donna è la sua coinquilina…»
«E che donna sarei? Sentiamo!»
«Con tutto l’amore di questo mondo e dell’altro, io, una che tiene il piede in due staffe e che frega il ragazzo alla propria coinquilina la definisco con una sola, singola parola.»
«Ossia?»
«Stronza…», rispose lui uscendo dalla stanza. Hyoga fece appena in tempo a schizzare oltre, perdendosi in fondo al corridoio, pregando che Seiya non si fosse accorto di nulla. 
Beh, se anche fosse, stavano urlando come pazzi, è un miracolo che tutto il palazzo non si sia riversato fuori da quella stanza per vedere che stesse succedendo!, si disse raggiungendo la sala degli audiovisivi ed entrando senza tante cerimonie.
Ma che sta succedendo a tutti quanti?, si chiese cercando di mitigare quel sentimento viscido che sentiva crescere dentro. La faccenda andava presa con le molle e risolta alla svelta. Era come se si fosse perso di vista l’obiettivo principale: Shun. Tutti avevano le proprie questioni personali, che avevano la precedenza su qualsiasi altra necessità.
Meno male che di fronte ad un pericolo serio siamo capaci di fare fronte comune, almeno lo spero, pensò. Si lasciò cadere sul divano e si passò le mani sugli occhi, come a non voler vedere quello che erano diventati.


 
Dreams are my reality
The only real kind of real fantasy
Illusion are a common thing
I try to live in dreams
It seems as if it's meant to be



Il brodo di verdure sobbolliva dolcemente sul fuoco. Alzò il coperchio, ne prese una mestolata e vi soffiò sopra per freddarlo. Assaggiò.
Buono!, si disse soddisfatta, ricoprendo la pentola e continuando a seguire la ricetta. 

Fate macerare la carne per quaranta minuti coprendola con un paio di prese di curry, la curcuma, l’aglio tritato e schiacciato e il sale e coprite con lo yogurt, lasciando insaporire per altri venti minuti. 

Seguì le istruzioni alla lettera, coprendo la terrina con un tovagliolo bianco. Scolò i pelati dall’acqua bollente e li mise a freddare sotto il getto del rubinetto.
Speriamo venga bene…e che gli piaccia!, si augurò sbucciando il primo pomodoro. Guardò l’orologio: mezzogiorno meno venti. E Hyoga era in ritardo, per fortuna. Spero che questo pranzetto serva a distrarlo un po’ dai suoi guai, pensò tagliando una zucchina, una melanzana ed aggiungendole al brodo di carota, cipolla e patata che sobbolliva da un po’. 
Prima l’avvento di Eris, che aveva deciso di usarla come tramite.
Poi, il risveglio del dio Apollo.
Adesso Shun, che spariva e ricompariva come membro irraggiungibile di un gruppo pop.
Erii sospirò, rimestando il brodo e votandosi verso il tavolo.
Si sedette e sbucciò una mela, pensando che, forse, Hyoga era preoccupato per qualcos’altro. Le aveva detto, se ne ricordava perfettamente, che da qualche tempo non aveva più notizie di Shiryu.

«Forse sto diventando paranoico, ma non vorrei che fosse successo qualcosa anche a lui. Sono sei settimane che non si fa vivo e visto come stanno le cose, non vorrei far preoccupare invano Shun Rei e il Vecchio Maestro.»
«Perché
invano
Hyoga aveva sorriso, carezzandole la testa. «Tu non la conosci. Lei non è come Shaina, lei non è un Santo. Se sapesse che Shiryu è sparito, resterebbe a Goro Ho struggendosi nell’attesa del suo ritorno.»
«Lei è la sua ragazza?»
«Credo che Shun Rei sia quanto di più vicino ad una fidanzata possa esistere. Almeno per Shiryu.»


Il bubbolio del brodo che fuoriusciva dalla pentola la risvegliò dai suoi ricordi. Corse ai fornelli, abbassando il fuoco.
Cretina, si disse asciugando la macchina del gas e tornando a sbucciare e grattugiare la mela, che tenne da parte, con del succo di limone per non farla annerire. Aggiunse la carne al brodo e regolò di sale.
Apparecchiamo la tavola, si disse sgomberando il piano dagli utensili e pulendo la superficie laccata di blu con una spugnetta inumidita. Si tolse il grembiule, stese la tovaglia ed iniziò ad apparecchiare. Per due.
Miho era riuscita a convincere padre Ranmaru a portare i bambini al cinema e al nuovo Luna Park che aveva aperto il mese prima nel quartiere vicino. «Così avrete un po’ di tempo tutto per voi…», le aveva detto l’amica ridacchiando e dandole una gomitata sui fianchi. «Guai a te se non combini nulla nemmeno questa volta!»
Non se l’era sentita di confidarsi con Miho. In realtà lei e Hyoga l’avevano già fatto, e da un pezzo per giunta, solo che era accaduto tutto in modo molto veloce e naturale. Un bacio, un altro, un altro ancora, e quando era tornata lucida si era trovata a due centimetri dal petto ansimante di Hyoga, con un forte dolore al basso ventre. Avevano fatto l’amore, e lei non sapeva neanche se considerarsi la sua ragazza o no. In tutti i romanzi che aveva letto c’era sempre una dichiarazione, anche stringata, prima di abbandonarsi al lato fisico della faccenda. Invece, con Hyoga non era successo nulla di tutto questo e ciò rendeva Erii piuttosto insicura.
Che sia solo timidezza, la sua? Eppure non mi sembra così timido quando mi spoglia, si disse piegando a cigno i tovaglioli. D’altro canto, quando facciamo l’amore non dice una sola parola, se non il mio nome…
Arrossì tutto d’un colpo quando la sua mente le ripropose la voce roca e bassa di Hyoga che la chiamava ansimando. Scosse la testa e s’impose di non incartarsi in quei pensieri: Miho le avrebbe sicuramente detto che lei e Hyoga stavano insieme, e forse doveva solo convincersene anche lei.
Se solo me lo dicesse, però, sospirò poggiando il mento sopra le braccia incrociate sul tavolo. All’improvviso, la folgorazione.
E se quest’occasione non lo inducesse a parlare in modo più diretto?
Alzò la testa, prese il libro di cucina che aveva usato fino a poco prima e si diresse nella propria stanza. Sciolse i suoi capelli biondi e li pettinò a lungo, fin quando non persero le onde che teneva a bada raccogliendoli dietro la testa. Lasciò libero il viso, portandosi un paio di ciocche dietro le orecchie, e gli orecchini risplendettero nella penombra.
Chissà se gli piaceranno, si disse ripensando alla follia fatta il giorno precedente. Aveva deciso di iscriversi ad una scuola di cucina, una di quelle frequentate in genere da signorine di buona famiglia che si preparano a diventare delle buone mogliettine, tutte cucina, ricamo e giardinaggio. La retta era alta, ma padre Ranmaru aveva deciso di aiutarla lo stesso; perché lei non era come quelle bamboline, lei era diversa. Amava veramente la cucina e il vecchio sacerdote sapeva della passione che la ragazza nutriva per i fornelli. Sarebbe bastato dare un’occhiata alla sua libreria, in cui facevano bella mostra vari volumi dedicati alle specialità gastronomiche di tutto il mondo. 
Se da un lato era eccitata, dall’altro aveva paura di non farcela, e che Hyoga non avrebbe approvato la sua scelta.
«E perché no? Avere una ragazza che sa cucinare ha i suoi vantaggi, no? Forse dovresti fare qualcosa di innovativo per darti coraggio. Ad esempio il buco alle orecchie!», le aveva detto Miho prima di trascinarla di peso nella gioielleria del quartiere commerciale. E lei si era fatta trasportare, seguendo la corrente; il risultato erano due graziosi orecchini che facevano bella mostra sulla sua pelle candida. Azzurri. Come i suoi occhi.
«Chissà se gli piaceranno?», chiese alla ragazza dall’altra parte dello specchio. Sentì la porta di servizio aprirsi e la voce di Hyoga chiamarla.
«Erii? Ci Sei?»
Si alzò dalla sedia e corse in cucina, dove Hyoga l’attendeva assieme ad un ragazzo alto e dai capelli scuri.
«Scusa il ritardo. Lui è Sho, un vecchio amico…», fece Hyoga presentandole l’altro, che compì un inchino verso di lei. «L’ho incontrato venendo qui e siccome non ci vedevamo da un po’ l’ho invitato a pranzo.»
Lo sguardo di Sho volò verso la tavola apparecchiata e le candele bianche dentro due vasetti blu.
«Credo di essere di troppo. Grazie per l’invito, ma è meglio che vada», disse il ragazzo imbarazzato, quando Erii lo fermò.
«Ma scherzi? C’è da mangiare per un reggimento! Accomodati, aggiungo subito un coperto in più!» disse, nascondendo la sua delusione dietro un sorriso. Hyoga… sei impossibile, pensò fulminando il biondino con lo sguardo, e notando che quel Sho era proprio un bel ragazzo. 


 
Dreams are my reality
A different kind of reality
I dream of loving in the night
And loving seems alright
Although it's only fantasy



Riemerse lentamente dalle maglie del sonno seguendo la scia dell’odore di carne alla brace, il mento ispido che incontrava qualcosa di morbido e peloso che decise di aumentare il ritmo ipnotico del suo ron ron. Aprì gli occhi, la luce del sole pomeridiano filtrava attraverso delle spesse tende alla sua sinistra. E adesso dove mi trovo?, si chiese schermandosi il viso con la mano sinistra; la destra, invece, era come gravata da un peso morto. Notò che era stato curato e fasciato da una candida benda. Cercò di ricordare qualsiasi indizio potesse fargli intendere dove si trovasse e soprattutto come ci fosse finito. 
Si guardò attorno: un’ampia finestra con delle piante di cactus ed un grande geranio sul davanzale interno alla sua sinistra, proprio sopra il letto. Una porta aperta in fondo alla stanza, leggermente spostata sulla sinistra. Un armadio capiente ed una scrivania ordinata sulla parete di destra. Ed infine, il letto a due piazze in ferro battuto nero su cui era stato adagiato, in compagnia di un grosso gatto nero che si era acciambellato sotto il suo mento, e di un altro gatto, rosso e tigrato, che aveva deciso di accoccolarsi sul suo braccio destro. 
Si mise a sedere, posando la schiena sulla testiera alle sue spalle, con grosso disappunto dei gatti: quello nero si alzò stiracchiandosi per bene e rimanendo a fissarlo, seccato per quel movimento brusco, mentre il gatto rosso aveva deciso di restare sdraiato su un fianco, la testa poggiata su un zampina. Lui, dal canto suo, notò come il suo corpo fosse coperto da un bendaggio piuttosto stretto. 
Si voltò verso la finestra. Scostò le tende e vide un mare di case dal tetto basso, che circondavano l’abitazione in cui si trovava. Poteva essere ovunque. 
Lasciò le tende e si soffermò a guardare il fiore di una pianta grassa: era rosa, rosa intenso, a forma di stella, in cima ad un’infiorescenza che puntava tra le foglie piatte, e anch’esse a stella, della piantina.
«Ti piace? Si chiama Graptopetalum Bellum , mentre il geranio si chiama Pink Capricorn e ti confesso che è il mio preferito.»
Una ragazza dai capelli nero corvino appoggiata al telaio della porta gli stava sorridendo.
«Meno male che ti sei svegliato, pensavamo che ti servisse il bacio di una bella principessa, e noi qui non ne abbiamo.»
Si avvicinò a lui, le braccia conserte, un passo dopo l’altro. Era alta, alta e sinuosa, con una voce bassa macchiata da un accento latino, spagnolo forse. «Come ti senti?», gli chiese ignorando lo sguardo diffidente ed ostile che lui le stava rivolgendo. 
Il gatto rosso mosse un orecchio, ma rimase inerte, mentre il gatto nero si avvicinò al dito che la ragazza gli aveva teso, la coda svettante verso l’altro; strofinò il muso attorno all’indice sinistro, saltò giù, le si strusciò attorno le gambe e se ne uscì dalla stanza soddisfatto. 
«Io sono Jimena. Sei arrivato piuttosto malridotto. Ti abbiamo ripreso per i capelli, sai?»
Guadagnò la sedia accanto alla scrivania, le lunghe gambe avvolte da un paio di jeans blu scuro.
«Immagino tu abbia qualche domanda da farmi, vero?»
E chi non ne avrebbe?, pensò specchiandosi nei suoi occhi neri per poi chiedere: «Lei dov’è?».
«Se per lei intendi Fiona, tra poco sarà qui. È andata di ronda. E a fare la spesa.»
«La spesa?»
«Tu non mangi?», lo rimbeccò lei, piegando la testa da una lato.
«Facciamo finta di crederti. Si può sapere dov’è qui?», proseguì soppesando le parole della ragazza. 
Lei sbatté le ciglia un paio di volte poi disse:«Non credo di aver capito…».
«Voglio sapere dove cazzo mi trovo!», ruggì avvicinandosi un poco.
«Sei a Nerima.»
Nerima! Allora era ancora in Giappone!
«Devo fare una telefonata…», disse cercando di alzarsi, quando una fitta al costato lo lasciò senza fiato.
«Ok, ma aspetta almeno che ti porti il telefono», fece lei aiutandolo a sistemarsi contro la testiera in ferro. «Poi farai tutte le chiamate che vuoi. Ti hanno strapazzato per benino, sai? Non è il caso che tu ti agiti…»
«Senti…»
«No, senti tu!», ruggì lei espandendo il proprio cosmo e schiacciandolo contro il materasso. «Non ho passato le ultime quarantotto ore a farti da infermiera perché tu mandi tutto a puttane facendo di testa tua! Adesso te ne stai fermo qui fino a nuovo ordine, sono stata chiara, hombre
Meglio assecondarla, pensò mentre sentiva una voce maschile dire: «Ti sei svegliato, allora? Allelujah!».
Ikki si voltò verso la porta e vide due ragazzi avanzare con un vassoio in mano: uno era un biondino che sembrava la fotocopia elegante di Kurt Cobain, mentre l’altro aveva un che di familiare, con quella cicatrice a stella sulla guancia. Ushio!, si disse riconoscendo il Santo d'Acciaio del mare.
«Are you ok?», gli chiese Kurt Cobain posandogli il vassoio con il cibo sulle gambe: zuppa di verdure, pollo alla piastra e insalata di lattuga. Ikki guardò prima il cibo e poi il ragazzo tentando di articolare una risposta in inglese.
«Ehm… yes, I do…», rispose balbettando mentre il suo stomaco gli ricordava che era da un bel pezzo che non faceva un pasto decente.
«Ah, ah, ah… You’re a very funny guy!», rise l'altro portandosi le mani ai fianchi. Sebbene avesse indosso una camicia a scacchi e dei jeans sfrangiati sulle ginocchia, c’era in lui qualcosa di elegante.
«Lascialo stare, Drew!», lo ammonì Ushio mentre Jimena scuoteva la testa. «Come stai, Ikki?»
«Ammaccato, ma vivo. Che ci fai qui, Ushio? Che sta succedendo?»
Ushio si sedette sul letto accanto a lui. «Mangia, ti racconterò tutto dall’inizio.»
La Fenice annuì, ringraziò e prese la prima cucchiaiata di brodo. Squisito!
«Spero ti piaccia. L’ha fatto Fiona, con le sue manine. Apposta per te», lo sfotté Drew dai piedi del letto. Ikki decise di ignorarlo, di fare finta che quel pagliaccio biondo non esistesse.
«Sbaglio o dovevi dirmi, qualcosa, Ushio? Sono tutto orecchi…»
«Cominciamo con le presentazioni. Questa ragazza alle mie spalle è Jimena, Santo d'Oro del Capricorno, mentre lui è Andrew, Santo d'Argento della Costellazione di Perseo», spiegò Ushio, indicando entrambi gli sconosciuti.
«Andrew Lloyd Morgendolphen III, per essere precisi», disse il biodino, «mentre lei è Jimena Peñareal.»
Olè!, pensò Ikki, ingoiando un’altra cucchiaiata di brodo.
«Al Santuario stanno cercando di rimpolpare le fila, dopo che la ribellione di Saga ha decimato i guerrieri d’Athena», continuò Ushio, «e prima che tu ce lo chieda, Fiona è il Santo della Lucertola», aggiunse Andrew.
«E che cosa vi porta qui? Non certo una gita di piacere…», chiese Ikki dando l’assaltò alla fettina di pollo.
«In effetti, era da tanto che volevo visitare il Giappone», ammise Jimena sorridendo, «ma questo non c’entra. Abbiamo motivo di credere che qualcuno stia usando i Santi di Athena per scopi privati.»
«In che senso?»
«Come tu saprai, la Fondazione Grado sovvenzionò le ricerche per ricreare in laboratorio delle armature molto leggere e resistenti al fine di ottenere tre Santi che aiutassero la signorina Saori fino a quando i cavalieri di Bronzo non si fossero riuniti attorno a lei. Il professor Asamori studiò a lungo sia la meccanica delle armature, sia la biologia dei Santi, per capire da dove essi traessero il loro potere.»
«Dal Cosmo, ovvio…», rispose Ikki tagliando un pezzo di pollo.
«Sì… Ma dove risiede il Cosmo, Ikki? Te lo sei mai chiesto?»
Si fermò a riflettere: cavolo se se lo era chiesto! E ogni volta approdava ad un bel pungo di mosche. Figuriamoci, poi, chiederlo a Guilty! La prima e unica volta in cui gli aveva posto quel quesito si era visto arrivare un montante in pieno stomaco, assieme ad una risposta sibillina del vecchio sadico. 
«Pezzo d’idiota, che razza di domande sono? Scoprilo da te, se ci tieni tanto!»
Scosse la testa, come ad allontanare i brutti ricordi del suo passato.
«Il professor Asamori era convinto che il Cosmo fosse veicolato da alcune particelle presenti nel sangue umano. Dei vettori che trasportano il Cosmo fino al cervello, convogliandolo in energia. Ogni uomo possiede queste particelle, solo che non tutti sanno come sfruttarle.»
«Il sangue hai detto? Pensandoci bene, quando espando il mio Cosmo sento il sangue ribollire, e questa sensazione non si placa fino a quando non ho ricreato il big bang…»
Ushio annuì. «Esatto, credo anch’io che il professor Asamori avesse ragione.»
«Avesse?»
«Il professore è sparito da quasi un mese. Negli ultimi tempi c’era qualcosa che non andava. Era come turbato da una qualche presenza, da una minaccia che si sentiva pendere sulla testa. Una sera riunì Sho, Daichi e il sottoscritto e ci fece un discorso strano. Diceva cose come se dovessi sparire improvvisamente avvisate subito lady Saori, lei ed i suoi Santi potrebbero essere in pericolo… Ma non gli abbiamo dato molto peso. Ormai sembrava non starci più con la testa.»
Si interruppe, mal dissimulando un sospiro. «Se solo gli avessimo dato retta…»
«Ma quale sarebbe il pericolo di cui parlava il professore?», chiese Ikki curioso, tralasciando per un attimo la fine fatta dal vecchio scienziato.
«Ushio e gli altri hanno cercato tra le carte del professore, trovandovi degli appunti sugli studi preliminari per le armature d’acciaio», iniziò a spiegargli Jimena. «Pare che il professor Asamori sia stato affiancato da un giovane ricercatore russo, il professor Volonskij, che, ad un certo punto sia sparito misteriosamente assieme ad alcuni progetti delle armature.»
«E che fine avrebbe fatto?»
«Non lo sappiamo. Il professore si limitò ad annotare la scomparsa di Volonskij e dei progetti. Pare che questo tizio fosse uno studente all’ultimo anno d’università e che avesse vinto una borsa di studio fornita dallo stesso Cremlino.»
«Ma l’Unione Sovietica… o come si chiamano adesso, e il Giappone non sono in così buoni rapporti. Devono ancora firmare la pace della Seconda Guerra Mondiale, o mi sono perso qualcosa?»
«Ufficialmente è come dici tu… Ufficiosamente, le cose sono diverse. I due paesi hanno sempre collaborato, in barba alla Guerra Fredda e alla politica perseguita da ambo le parti», spiegò Andrew incrociando le braccia.«Probabilmente questo Volonskij aveva finito il tempo a sua disposizione in Giappone e se n’è andato portandosi dietro i progetti a cui lui stesso aveva lavorato.»
«Forse è così, dopo tutto il professor Asamori ha sempre ammesso che è grazie a Volonskij se è riuscito a creare gli Steel Cloth. Però, negli appunti del professore c’era un ritaglio di giornale, che parlava appunto del ritorno di Volonskij in Giappone. E guarda caso, proprio in quel periodo il professore ha iniziato a fare discorsi strani, sibillini.»
«Tutta la faccenda puzza», ammise Ikki lasciando due foglie di lattuga nel piatto. «Non avete idea di dove possa trovarsi il professore?»
«Abbiamo chiesto aiuto a Shiryu, per non disturbare milady… Sai, dopo il risveglio di Apollo non ce la siamo sentiti di seccarla senza avere delle prove. Se dovessimo disturbarla per ogni singola sparizione che avviene nel mondo, impazzirebbe.»
«Discorso opinabile», commentò Ikki togliendosi dalle gambe il vassoio che Jimena prese e posò sulla scrivania.
«Sarà, ma sono ordini del Vecchio Doko in persona», rispose la ragazza facendo spallucce. «Ordini, hai presente? Avevamo delle direttive da seguire e abbiamo dovuto obbedire, volenti o nolenti.»
«Non sono comunque d’accordo, ma lasciamo stare. Shiryu dov’è?», chiese Ikki direttamente a Ushio, che stava a testa bassa da un po’.
«Non abbiamo sue notizie da tre settimane…»


 
If you do exist, honey don't resist
Show me a new way of loving
Tell me that it's true
Show me what to do
I feel something special about you



Shaina picchiettava le dita sulla pelle della poltrona su cui era seduta, aspettando che Saori tornasse dalla riunione a cui aveva dovuto presenziare. Come era uscita dalla biblioteca di Kido Manor per tentare di far ragionare Seiya, aveva incontrato Milo e Saori, in procinto di recarsi ad una riunione della Fondazione Grado. Si era unita a loro – stranamente Saori non aveva fatto storie -– ed ora attendeva da circa quaranta minuti in una sala d’attesa completamente bianca, mentre Milo sfogliava interessato alcune riviste senza degnarla d’uno sguardo.

Devo parlargli, prima che succeda qualche casino per colpa di quell’idiota! Solo che m’invento? Sono quaranta minuti che faccio finta di sfogliare Vogue, non posso aspettare ancora!

Sbirciò da oltre le pagine della rivista. Milo era immerso nel periodico sportivo che aveva tra le mani come un qualsiasi essere umano di sesso maschile. Le dita stringevano saldamente le pagine, mentre le sue unghie, leggermente lunghe e curate, strusciavano contro la carta patinata. 
Zanzara l’aveva chiamato Seiya, e lei era più che sicura che Milo non avrebbe affatto gradito quel nomignolo, orgoglioso com’era! 
Avanti, via il dente via il dolore, si disse prima di chiudere la copia di Vogue e di portarsi esattamente davanti a lui.
«Conosci il giapponese? Non l’avrei mai detto!», disse, per rompere il ghiaccio.
«No, lo so a mala pena parlare. Ho solo trovato Sports Illustrated nell’edizione americana. Peccato non sia il numero di Luglio…», rispose leggendo un articolo su Michael Jordan.
«Devo parlarti», disse scegliendo un approccio diretto.
«E di cosa?», rispose lui senza staccare gli occhi dalla rivista. 
«Seiya ci ha visti insieme l’altra sera», gli confidò aspettando una sua reazione.
«E allora? Non avevi detto che gli avevi dato il benservito?»
«Io sì… Il guaio è che è andato a dirlo a Françoise, capisci?»
«E allora?», ripeté Milo, con una nota seccata nella voce.
«Ma non te ne frega nulla? Hai capito che cosa ti ho detto, o no?», sbottò seccata strappandogli da sotto gli occhi la rivista e sbattendola per terra senza tante cerimonie. Milo si alzò, la sovrastò con la propria mole, raccolse la rivista. 
«No. Non me ne frega nulla, se non che il tuo ex ragazzo dovrebbe imparare a farsi mezzo chilo di fatti suoi invece di andare in giro a diffondere le ultime novità.»
Gelido. Pungente, com’era nel suo stile. Si sistemò il blazer blu che indossava distrattamente su un paio di jeans delavé e sprofondò nuovamente in poltrona.
«Appena torniamo le parlerò, ma non vorrei che tu avessi dei problemi con lei a causa mia…»
«Che c’entra adesso Françoise?»,  le chiese, posando esasperato la rivista in cima alle altre.
«Pensi che sarà felice di sapere che ti hanno visto abbracciato a me a guardare la luna in riva al mare?»
«Francamente, me ne infischio.»
«Come sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire», tentò di spiegarle una volta per tutte, «che la mia vita privata appartiene solo a me. Io non sto con Françoise, quindi quello che faccio, e con chi lo faccio, non la riguarda affatto. Sono stato chiaro?»
Shaina rimase a guardare gli occhi di Milo ardere: forse le cose non stavano come tutti pensavano?
«Shaina, io ho ventisei anni e Françoise ne ha diciannove. Non credi che fra noi due ci sia una differenza eccessiva?»
No, pensò. Non rispose, provando a considerare la cosa dal punto di vista di Milo, che ora le appariva decisamente distante dalla fama di latin lover che lo contraddistingueva.
«No», disse.
Milo abbozzò un sorriso. «Fosse stata un’altra ragazza, ti avrei dato ragione. Ma lei, no. Lei è ancora una bambina. E poi, ricordati che per lei io sono il migliore amico di suo fratello, quindi mi vede come un suo sostituto.» Forse. Quando le gira bene. «Sono la persona più vicina a Camus, tolti i suoi allievi, uno morto durante la battaglia contro Posidone e l’altro che ha attaccato senza pensarci su due volte. Non sono esattamente un papabile fidanzato.»
«Tu dici?», chiese lei incrociando le braccia.
«Dico di sì. E poi, lei ha un altro.»
«Chi?» Shaina si accorse di pendere dalle labbra di Milo, ma non le importò.
«Un cavaliere in scintillante armatura e lancia in resta, pardon, spada sguainata.»
Aveva pronunciato quelle parole come fossero una sentenza senza appello.
«Forse, e sottolineo forse, quel fantasma, di chiunque si tratti, è più evanescente di quello che credi… Altrimenti come spieghi che si sia assentata da casa?»
Milo drizzò le orecchie. «Prego?»
«Quando sono rientrata l’ho trovata che dormiva sul suo letto con un plaid che la copriva. Così mi sono fatta la doccia e sono andata a dormire anche io. Al mio risveglio, ho trovato un biglietto sul tavolo che diceva “Scusami se non ti ho svegliata, ma sono dovuta andare ad aiutare la mia amica Fuyumi. Torno presto, non preoccuparti per me”.»
«E allora?», le fece lui inarcando un sopracciglio: non riusciva a capire dove volesse andare a parare.
«La conosci anche tu. Da quando in qua parla di amiche o colleghe senza insultarle? Sai come fa, “questa è stupida, quell’altra è un’idiota…” e sinceramente, non ho mai sentito parlare di questa Fuyumi prima d’ora. Non ti sembra strano?»
Milo non rispose, restando a soppesare le parole di Shaina, con un brutto presentimento a serpeggiargli sottopelle.


 
Dreams are my reality
The only kind of reality
Maybe my foolishness has past
And maybe now at last
I'll see how a real thing can be


 
Aveva deciso di andare avanti con il piano come prestabilito, accantonando per il momento tutto il resto. Seiya, Shaina, Milo. E Athêna. Però, proprio non ce l’aveva fatta a stare nella stessa stanza con Shaina; quando si era risvegliata, l’aveva trovata addormentata nel letto accanto al suo, un sorriso dipinto sulle labbra.
Perché era così felice?
Perché dormiva sodo come un bambino?
O per la nottata appena trascorsa?
Aveva sentito una forte nausea avvinghiarle lo stomaco e aveva deciso di allontanarsi, almeno per un po’, almeno fino a quando non avesse digerito tutta la faccenda.
Aveva cacciato quattro vestiti nello zaino, inventato una balla clamorosa e se n’era andata in punta di piedi, mettendosi a correre non appena svoltato l’angolo, come se fosse una ladra. Aveva preso una stanza in una pensione a Nerima, una di quelle case circondate dal giardino ed abitate per lo più da studenti universitari poveri in canna. Nessuno le aveva fatto domande superflue, le avevano solo chiesto i documenti e la caparra; quindi si era accomodata nella stanza assegnatale dalla padrona, una donna sulla trentina, e aveva staccato qualsiasi collegamento con il mondo esterno, celando il suo Cosmo agli altri compagni. 
E adesso si ritrovava a bere il tè in una sorta di anticamera gotica del Paese delle Meraviglie. 
Natsumi sedeva su una sedia in ferro battuto con ampie volute a cuore, mentre tutto, attorno a lei, traboccava di pizzi e balze. Neri. Aveva un vestito nero, dalle ampie maniche a sbuffo, delle calze a righe bianche e nere e un paio di scarpe le cui stringhe s’intrecciavano lungo i polpacci della ragazza.

La versione dark di Cappuccetto Rosso. Sarebbe perfetta per un video dei Cure, magari nella versione alternativa di A Forest. Robert canta e dei rami le si attorcigliano intorno lentamente, fino a soffocarla e a farla danzare nel vento.

«Latte o limone?»
«Limone, grazie, e due zollette di zucchero», rispose, cercando di ignorare l’idea che aveva appena partorito.
«Ti confesso che sono molto contenta di sapere che anche tu sei una fan dei BR…»
Prese la tazza, panciuta e bianca, dalle mani guantate di pizzo nero della ragazza. «BR?», fece inarcando un sopracciglio: per lei, cresciuta in Italia quella sigla aveva un bruttissimo significato.
«Sì, Bloody Roses, BR. O preferisci BuroRoshi?», le spiegò Natsumi annusando l’aroma fruttato che proveniva dalla sua tazza. «Noi giapponesi amiamo le sigle…»
Pazzi furiosi, si disse cercando di evitare qualsiasi associazione al gruppo terroristico che aveva sconvolto l’Italia durante gli anni ’70 e ’80.
«BuroRoshi.»
«E dimmi, quale dei tre ti piace? La rosa rossa, la rosa nera o quella bianca?», le chiese la ragazza sorridendo. 
Stai parlando con Aphrodite di Pisces, per caso?, le domandò il suo cervello poco prima che rispondesse: «Bianca. Preferisco la rosa bianca.».
Ricordava un discorso circa i tre cantanti e i tre colori delle rose fatto da quella bambolina dark durante l’esibizione del gruppo al palazzo della Fuji Television. «C’avrei giurato! Tu sei la classica fan di Shun… Per fortuna che non ti piace Shiro, lui è territorio di caccia della sottoscritta, capito, sorella? Oh, trovo che abbia una voce stupenda! Ti confesso che quando la sento, così bassa e dolce, mi sento fremere dentro. Mi basta il solo suono della sua voce per eccitarmi... Ma scommetto che per te è lo stesso con la voce di Shun, vero?»
Per poco non si strozzò con il tè. 
Certo… come no? Quando urla Nebula Chain mi viene la pelle d’oca, pensò immaginandola sbatacchiata a destra e a manca dal vento soffocata da un groviglio di rami senzienti.
«Ho detto qualcosa che non va?»
Natsumi la guardava preoccupata, gli occhioni sgranati, mentre il basco nero sulle ventitré era placidamente addormentato sui suoi improbabili boccoli biondi. «Ah, ho capito, sei timida…», sentenziò la bambolina, sorridendo. «Ma non ti preoccupare, qui sei tra gente come te, che ti comprende. Io avevo il tuo stesso problema fino a quando abitavo coi i miei; pensa mio fratello mi prendeva in giro e mia madre me ne diceva di tutti i colori, così alla fine mi sono fatta forza e me ne sono andata a vivere da sola.»
«Beh, è più o meno il mio caso.» Più o meno… «Ma parliamo dei Bloody Roses…»
«Giustissimo», fece Natsumi prendendo un foglio prestampato ed una matita. «Nome, cognome e data di nascita. Sai, sono i dati essenziali per l’iscrizione al Fan Club.»
«Ah…capisco…», rispose mentre il suo cervello l’insultava in vari modi. 
 
Se è uno scherzo, è di pessimo gusto! Che bisogno hai di iscriverti al fan club di un gruppo visual? Sei impazzita?

«Allora?», chiese l’altra sorridendo.
«Françoise Arnoul, nata a Parigi, in Francia, il 12 Gennaio 1972», rispose, prendendo in prestito la data del compleanno di Shura. Quel disgraziato si starà rivoltando nella tomba, cretina!, le urlò la parte del suo cervello che ancora non aveva preso la drastica decisione di staccare ogni connessione con il resto del corpo. Natsumi trascrisse tutto sul foglio, cercando di essere il più precisa possibile.
«Gruppo sanguigno? Sai per le affinità con i ragazzi…»
«O rh positivo», sparò a caso, ignorando le proteste della sua mente.
«Credo che tu saresti perfetta per Shun. Sei contenta?», disse Natsumi sorridendo.
Come no? Quando lo dirò a June mi sgozzerà a mani nude…
«Colore preferito, cibo preferito, e animale preferito?», proseguì con il terzo grado.
«Indifferente…», rispose seccata da quelle domande insensate. Immaginò di vederla ondeggiare nel vento completamente priva di vita, mentre la foresta si richiudeva su di lei.
«Canzone preferita?»
«La cover di Round and Round… Era bellissima, e se te lo dice una fan scatenata degli Spandau Ballet puoi crederci!»
Certo, come no? Falla ascoltare a Tony e vedrai se non s’impicca seduta stante con la propria cravatta!, commentò il suo cervello, prima di minacciare l'ammutinamento.
«Ma quella sarà contenuta nel loro secondo album. Del primo non ti piace nulla?»
Come nel secondo? «Ehm, ammetto di aver conosciuto i Bloody Roses grazie allo show alla televisione qualche giorno fa… Ho provato a cercare il loro album nei negozi, ma è perennemente esaurito», sparò a caso,  per mascherare quella falla clamorosa che Hyoga non aveva considerato quando l’aveva incastrata nel suo piano geniale.

«Saori san andrà alla Glitter per chiedere ai Bloody Roses di incidere una cover per l’evento di beneficienza del mese prossimo. Probabilmente cercheranno di perdere tempo; se è vero che stanno per far uscire un nuovo album, saranno incasinati con il lavoro. Allora, entrerai in ballo tu, Françoise.»
«E come, di grazia?»
«Semplice. Contatterai il Fan Club e spiattellerai la notizia che i Bloody Roses faranno una cover che sarà presentata all’evento della Fondazione Grado. La canzone sceglila tu. Sono sicuro che diffonderanno la buona novella in quattro e quattr’otto, e allora non potranno dire di no…»


Il piano di Hyoga, tuttavia, non prevedeva una sua iscrizione al Fan Club di quei fricchettoni.
«Se vuoi, te lo copio io l’album. Dovrei avere giusto una cassetta vuota», le propose Natsumi sorridendo.
«Oh, merci! Merci Beaucoup!», rispose pensando che culo!, e maledicendo se stessa per essere stata così gentile con quella tipa durante l’esibizione sotto gli studi televisivi. «Oh, non vedo l’ora che esca il nuovo disco e di ascoltare la loro cover di Reality… Ops! L’ho detto!»
Natsumi alzò lo sguardo su di lei.
«Oh, beh, di te mi posso fidare! Il mese prossimo ci sarà un evento di beneficienza alla Fondazione Grado, e i Bloody Roses realizzeranno una cover di Reality per la serata. Solo che vogliono tenere la cosa segreta, capisci, vero? Vogliono fare una sorpresa alle fan», sputò fuori fingendo di liberarsi di un grosso rospo che aveva in gola. In realtà era stufa marcia di stare in quel salottino bianco e nero immerso nella penombra; voleva andarsene, e alla svelta.
«Capisco… Ma tu come lo sai?»
Adesso voglio proprio vedere che t’inventi, ridacchiò il suo sadico cervello mentre escogitava un sistema per trarsi d’impaccio.
«Beh, è molto semplice. Mia cognata lavora nell’agenzia che gestisce l’evento, e sapendo che anche io ero stata conquistata dai Bloody Roses, me l’ha detto come l’ha saputo. Però, mi raccomando, acqua in bocca, altrimenti tutta la faccenda andrà a gambe all’aria!», concluse vedendo l’altra ragazza fremere sulla sedia: dieci a uno che come si sarebbe chiusa la porta di quella casa assurda alle spalle, Natsumi avrebbe preso il telefono e diffuso la Lieta Novella a mezza città.
«Nel senso che non faranno più la canzone?», chiese l’altra cercando di dissimulare la voglia che aveva di spiattellare a tutte le altre fan la notizia bomba che aveva ricevuto.
«No, no… Per quello che ne so, la canzone è già incisa e dovrebbe essere la traccia di chiusura dell’album. Credo che non farebbero più l’esibizione con quella canzone.»
«Si, ma come posso fidarmi? Vedi, di ragazze che inventano balle clamorose pur di entrare nel fan club ce ne sono tante…»
«Hai visto con chi mi accompagnavo l’altro giorno, vero?»
Natsumi annuì. Pur con tutto il delirio in cui galleggiavano, sarebbe stato impossibile non riconoscere Saori Kido, alle spalle del ragazzo alto e muscoloso cui aveva chiesto di alzare il cartellone. «Quindi?»
«Quindi, la biondina che era con noi è mia cognata. Che lavora come pr per questa serata. Ma se non mi credi, telefona alla Glitter. Se smentiscono, vorrà dire l’esatto contrario; cercheranno di mantenere il silenzio stampa su questa faccenda, ovviamente», rispose l’altra cercando di essere convincente.
«Ok, ok, mi fido», disse Natsumi sorridendo e posando il questionario.
Françoise controllò l’ora. «Santo Cielo, come si è fatto tardi! Devo proprio scappare!», fece con fare plateale alzandosi e prendendo la borsa.
«Così all’improvviso?», le chiese Natsumi ondeggiando i boccoli. «Ma non abbiamo ancora finito il colloquio per l’iscrizione!», protestò, pigolando seccata.
«Ho calcolato male i tempi. Devo essere dall’altra parte della città tra meno di un’ora per un colloquio di lavoro! Possiamo lasciare il discorso in sospeso e riprenderlo, che ne so?, domani?», propose Françoise sporgendosi verso di lei.
«Ok, ti chiamo io, così ci mettiamo d’accordo…»
«Non ho ancora il telefono a casa nuova, dammi il tuo numero, ti chiamo io.»
Natsumi scribacchiò qualcosa su un pezzo di carta a fiorellini e glielo porse. «Chiamami domani verso le dieci, sarò in casa, ok?»
Si cacciò in tasca il foglietto.
«Ok, a domani allora!», disse Françoise chiudendosi la porta alle spalle. Si allontanò rumorosamente per poi fare dietro front e mettersi accanto alla porta.
Sentì Natsumi avvicinarsi, guardare dallo spioncino e poi correre al telefono. Percepì chiaramente la ragazza alzare la cornetta e comporre un numero telefonico. Poteva vederla, seduta sulla sua sedia nera, inserire il dito guantato nei fori del disco e aspettare che dall’altra parte rispondesse qualcuno, mordicchiando un fazzolettino ricamato per sfogare la sua voglia di raccontare le grandi novità che era venuta a sapere. Probabilmente stava stilando una lista di persone a cui dirlo per telefono ed un’altra, più ristretta e formata da amici intimi, a cui dirlo vis à vis.
«Tomomi? Sono io, Natsumi. Non indovinerai mai ciò che sto per dirti! Mettiti seduta… Ma sì, ma sì, riguarda il tuo Shun, purtroppo… Non immaginerai mai chi è stata adesso qui! La sua agente! Sì, ha usato un trucco, spacciandosi per una fan che voleva entrare nel nostro club, ma l’ho riconosciuta subito! Solo l’agente di Shun poteva darmi queste notizie… A quanto pare, la Rosa Bianca sta con Saori Kido che il mese prossimo darà una serata di beneficienza. Scusami, tesoro mio, lo so che è dura, ma che altra spiegazione daresti al fatto che quella lì era presente al live a Ginza e che stanno per fare una cover di una canzone d’amore proprio per l’evento di quella là? No, certo che non si può mai sapere, infatti chiamerò qualcuno non appena avrò messo giù con te… Volevo solo che lo sapessi da me… Certo, tesoro, so che possa far male, per fortuna Shiro è diverso…»
La sentì squittire tutta la storia, abbellita ed ingigantita all’occorrenza secondo deduzioni a cui il suo cervello a senso unico era giunta in seguito alla chiacchierata di poco prima. Sorridendo, Françoise si avviò verso l’esterno del palazzo canticchiando fra sé e sé il refrain della canzone.


 
Dreams are my reality
A wonderous world where I like to be
I dream of holding you all night
And holding you seems right
Perhaps that's my reality


 
 
 Note:

Da dove comincio?
Dall'inizio, ovvio.

La canzone di sottofondo è Reality, cantata da Richard Sanderson e colonna sonora del film di Claude Pinoteau La Boum, del 1980. Se vi dico Il tempo delle mele, Sophie Marceau e la scena del walkman, mi seguite? Sì, vero?

Quando iniziano qualcosa di nuovo, per darsi coraggio i giapponesi fanno qualcosa di nuovo. Si tingono i capelli. Oppure si fanno i buchi alle orecchie. O si danno una sfoltita alla chioma, specie le ragazze, per sembrare più adulte. Ho pensato che ad Erii starebbero bene un paio di orecchini azzurri. Come i suoi occhi.

Il Graptopetalum Bellum  è una pianta grassa originaria del Messico occidentale. Cresce a forma di stella, e genera un fiore di un rosa molto intenso.
Il Pink Capricorn è un pelargonio dalle foglie aromatizzate al limone e i fiori piccoli e rosa.

L'URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) nel 1991 si stava dissolvendo. Alla fine del 1990 le tre repubbliche balcaniche (Lituania, Lettonia ed Estonia) avevano chiesto, ed ottenuto, l'indipendenza da Mosca. L'allora presidente, Michail Gorbačëv, aveva instaurato una politica di ristrutturazione del vecchio sistema sovietico, portando così di fatto a profonde e radicali svolte nell'economia e nella politica interna. Come conseguenza della perestrojka (lett. ristrutturazione, rinnovamento), le tre repubbliche baltiche sopracitate chiesero ed ottennero l'indipendenza, si sciolse il Patto di Varsavia (1° luglio 1991) ma questo non piacque ad alcuni membri del partito. Tra il 19 e il 21 agosto del 1991 le frange conservatrici del partito tentarono un colpo di stato, assediando Gorbačëv e tentando di prendere Mosca. La città resistette sotto la guida di Boris El'cin, che sarebbe diventato l'eroe dell'agosto 1991 e il successivo presidente della Russia. Poiché gli eventi si svolgono tra settembre ed ottobre 1991, Ikki ancora non sa ccome si sia evoluta la situazione.

Gli Steel Saint sono un'invenzione della sola serie animata. Perché non c'era già abbastanza carne sul fuoco, vero? Comunque. Mitsumasa Kido, poco dopo essere rientrato a Tokyo con l'infante Saori, manda a chiamare il professor Asamori (da noi ribattezzato in Rigel. Sennò non c'erano abbastanza stelle, né?) affidandogli il compito di creare in laboratorio tre armature per tre giovani che avrebbero aiutato la sua Saori fino a quando i Cavalieri di Bronzo non sarebbero stati pronti. Guardando gli schizzi proposti da Kido, Asamori accetta. E sorvoliamo sul fatto che il segreto del Santuario sta diventando il segreto di Pulcinella, che Asamori non batte ciglio quando viene a sapere che Athena s'è reincarnata in una bambina, che i tre guerrieri che avrebbero dovuto proteggerla saltino fuori dal cilindro quando i Bronzetti sono decimati, e che tra loro ci sia un marmocchio. Voglio dire, che sfida dovrebbe rappresentare un moccioso armato di skateboard di fronte ad un nemico che sfonda le stelle a cazzotti?
Mah.
Comunque sia.
I tre guerrieri sono Sho (da noi Shadir) che in quanto capo del gruppo veste di rosso, come in ogni sentai che si rispetti. Sì, pure se lui ha l'armatura del Tucano e rappresenta l'aria.
Poi c'è Ushio, quello alto e con la cicatrice sulla guancia (cui si ispirerà Toriyama per Yamcha, qualche tempo dopo. O fu un passaggio inverso? Boh), il secondo in comando che veste di blu (e che di solito è più figo del capo e fa una bruttissima fine), è associato all'acqua e la sua corazza è un Delfino. Pure se pare un pescespada.
E infine, il bimbominchia della situazione, Daichi (da noi Benam), che gira con uno skateboard temibilissimo, veste di giallo (il colore del grassone o dei mocciosi) ed è associato alla terra. Il suo totem è legato alla costellazione della Volpe.
Escono miseramente di scena alla puntata #41, salutando Saori e i bronzetti in partenza per Atene. Ché lasciali a casa, quei tre. Non ti servono mica rinforzi, ora che vai ad Atene a fare a cazzotti con Saga e i suoi, no...

Sports Illustrated è una rivista sportiva molto popolare negli Stati Uniti (fa capo al gruppo Time Warner) a diffusione internazionale. Ogni anno, nel mese di luglio, fa uscire un allegato, Sports Illustrated Swimsuits, che contiene due servizi di moda che ritraggono le top del momento in luoghi esotici. Ovviamente, in costume da bagno.



 

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Capitolo 13
*** 13 ***


13.

 
Il tam tam di Natsumi si rivelò una provvidenziale manna dal cielo: nel giro di quaranta minuti i telefoni della Glitter Records furono messi a dura prova dalle fan dei Bloody Roses, alla disperata ricerca di conferme sull’esibizione del gruppo durante la serata di beneficienza indetta dalla Fondazione Grado.
E adesso?, si chiedeva l’Uomo Grasso asciugandosi il sudore. Davanti a sé aveva il nucleo dei Bloody Roses: Shiro era sul punto di schizzare via come una molla, tenuto solo a freno da una mano di Susumu, saldamente ancorata sul suo ginocchio. Shun era stato accompagnato da Kanetsuki ad effettuare delle visite mediche presso una riservatissima clinica privata, ma questo fatto, e la frequenza stessa con cui quelle visite si andavano ripetendo, non sembrava sfiorare le menti degli altri due ragazzi.
«Alla fine è riuscita a mettercelo in quel posto!»
Shiro continuava a ringhiare quelle parole come un cane idrofobo, fissando il pavimento ai suoi piedi.
«Possiamo volgere questa cosa a nostro vantaggio?», chiese Susumu cercando di usare il cervello. «Vorrei far assaggiare a quei due stronzi la loro stessa medicina…»
L’Uomo Grasso gettò l’ennesimo fazzolettino di carta sulla scrivania di rovere e si accese un sigaro: aspirò distrattamente una boccata di fumo e trattenne i pensieri.
«Abbiamo diramato un comunicato stampa per smentire sia la notizia dell’incisione di un’altra cover, sia una vostra partecipazione a quella serata», disse l’uomo, schietto. «Non so cos’altro fare…»
Shiro saltò su come morso da una tarantola. «Quella troia! Alla fine la principessina ha ottenuto quello che voleva! Susumu, dimmi che possiamo fare qualcosa per fotterla! Dimmelo, ti prego!», e aveva proseguito inanellando una lunga giaculatoria sui poco casti costumi dell’erede della famiglia Kido. 
Susumu, sapendo che fermarlo adesso era come pretendere di arginare una diga che trabocca, lo lasciò sfogare: Shiro detestava le imposizioni, era sempre stato così sin da quando andavano al liceo. Aveva avuto la stessa, identica reazione anche quando il preside aveva negato loro il permesso di fondare un club musicale.
«Vogliamo scherzare? Io dovrei darvi il permesso di strimpellare nei locali della scuola e pagare anche gli strumenti?»
Ricordava ancora non solo le parole, ma anche il tono astioso con cui quel vecchio ammuffito le aveva pronunciate; e ricordava ancora la fatica fatta per trattenere Shiro dal tempestarlo di pugni, evitandogli una denuncia a soli sedici anni.
«Io la distruggo...», ruggì basso il più alto dei due, gli occhi quasi fuori dalle orbite.
«Adesso basta!», tuonò Susumu senza scomporsi. «Berciare come oche isteriche non ci porterà da nessuna parte!»
«E dovrei stare qui a vedere quella ragazzina giocare con me come fossi un pupazzo?!», ribatté Shiro inviperito, dando un pugno sulla scrivania di rovere.
«No. Non sto dicendo questo…», puntualizzò Susumu. Non se la sentiva di biasimarlo. Fosse stato per lui avrebbe recapitato un pacco bomba a casa Kido, tanto per far capire loro chi era a comandare sulla musica dei Bloody Roses. Ma non si può. Se nuoti in mezzo ai pescecani, devi agire come un pescecane. Per non essere azzannato.
«E allora?», chiese l’altro, sempre più esasperato.
L’Uomo Grasso si diresse verso la grande finestra e rimase a guardare il panorama con le mani dietro la schiena.
«Forse un modo per portare acqua al nostro mulino esiste…», disse, dopo averci pensato un po’ su.
«Sarebbe?», chiese Shiro sedendosi meccanicamente: doveva essere il più concentrato possibile e non voleva perdersi una sola parola.
«Prima ci hanno chiesto di cantare una canzone, e al nostro rifiuto hanno diffuso una falsa notizia. Tutto questo non fa che portarci pubblicità. I telefoni sono quasi impazziti, tra fan e giornalisti che chiedono di parlare con voi.»
«Ma le nostre fan si aspettano la cover. Se non gliela daremo…»
«Ma noi gliela daremo», disse l’Uomo Grasso. «Ascoltatemi bene. Faremo quel pezzo. E lo faremo uscire quel pezzo prima dell’evento.»
«Si spieghi meglio, per favore…»
«Allora…», fece l’Uomo Grasso fregandosi le mani dalla contentezza. «Vogliono Reality? Benissimo. Pubblicheremo la vostra versione prima di quella serata, senza legarla all’evento di beneficienza dei Kido.»
«Ma così, i Kido potranno usarla lo stesso!», protesto Shiro.
«Certo. Ma a quel punto dovrebbero pagarci i diritti per lo sfruttamento della canzone. E potete stare certi che saranno molto, molto più alti di quelli che pensa quel cicisbeo di Jabu Kido.»
«A quel punto…»
«… sarebbero loro ad appoggiarsi a noi. E non viceversa…»
«Esatto, ragazzi miei… Allora, ci state a volerlo mettere in quel posto al signor Jabu Kido?»
«Però, dobbiamo far attenzione che non trapeli nulla del nostro progetto, né con la stampa, né tantomeno con i Kido…», aggiunse Susumu incrociando le braccia.
«Sarebbe?», chiese Shiro, un sopracciglio alzato.
«Sarebbe che non voglio semplicemente evitare di stare agli ordini di Saori Kido. Io voglio sputtanarli davanti a tutti! Incideremo il pezzo e ci esibiremo, in più!», spiegò l’altro, con un sorriso sadico.
«Così da far passare ad altri stronzi la fantasia di giocarci un simile tiro…», concluse l’Uomo Grasso che aveva capito dove andasse a parare il ragionamento del suo pupillo.
«Sì, faremo quella cover del cazzo, ci esibiremo, usciremo con un’edizione a tiratura limitata dell’album e li fotteremo senza colpo ferire!», concluse Shiro.  Raggiante.
L’Uomo Grasso, con indosso un completo gessato grigio fumo, sorrise gongolando dell’astuzia della gallinella dalle uova d’oro che aveva davanti a sé. «Al lavoro ragazzi! Abbiamo un coglione da silurare!»


Il neon illuminava con la sua luce fioca i laboratori deserti ed il corridoio di un bianco asettico. Il solo rumore, oltre a quello dei macchinari e delle attrezzature di monitoraggio, erano i passi dell’uomo che si aggirava per il terzo piano come fosse un fantasma. Diede uno sguardo alle cavie attraverso una fessura della porta d’acciaio verde: Tony e Teena, i due scimpanzé, dormivano come ghiri, mentre Oswald, l’orangutan arrivato un mese prima dalla foresta amazzonica si guardava la zampa destra muovendo lentamente le dita.
Il Pharexen sta facendo effetto, pensò annotando le risposte dell’organismo della bestia su di un taccuino che ricacciò all’interno di una tasca. Richiuse la fessura e riprese il giro serale delle visite, le mani nelle tasche e il sigaro in bocca. Trovò tutti e sedici i cani beagle addormentati della grossa, l’ara giacinto Pedrito che andava avanti e indietro sul trespolo usando il becco per spostarsi al posto delle zampe atrofizzate, mentre Susy, la pecora, si stava strappando con i denti gli ultimi residui di quello che una volta era stato il suo candido vello. 
E ora andiamo a trovare i miei polli, si disse chiamando l’ascensore e scendendo nelle viscere dell’edificio: alla fine della corsa, le porte d’acciaio si affacciarono su un corridoio ancora più buio e ancora più spettrale. Proseguì il suo giro ignorando quattro, cinque porte zincate, tutte ugualmente verdi, prima di fermarsi davanti ad una con una sorta di cartella clinica attaccata sopra.
E così il signorino si rifiuta ancora di mangiare, pensò scorrendo le note dei suoi colleghi. Poco male, la soluzione fisiologica lo terrà in piedi! Tanto, manca poco, per quanto ancora riuscirà a resistere?, decise scribacchiando la terapia sulla cartella. Aprì lo sportelletto sulla porta e vide il paziente disteso sulla sua brandina, con spesse cinghie d’acciaio che l’ancoravano al materasso, ed una flebo che correva dall’ampolla al candido braccio del ragazzo. Aveva gli occhi spalancati, poteva vedere il blu intenso delle sue iridi risplendere al buio, mentre il cerchio che gli ornava la fronte riluceva di bagliori argentei. 
Fai il duro, eh, mammoletta? Bene, vedremo chi dei due si stancherà per primo di questo gioco, se io o te…
Richiuse la fessura con uno scatto e tornò verso l’ascensore. Appena le porte i richiusero alle sue spalle, sentì di colpo tutta la stanchezza della giornata cadergli addosso. Gli esperimenti della mattina. Irina che lo chiamava e gli diceva come Saori Kido non si fosse arresa e avesse tentato un colpo di coda.
«Yametomo è fuori di sé dalla rabbia e non sa che fare…»
Lui che si chiudeva nello studio all’attico ed elaborava una strategia per schiacciare quella formica che gli stava impedendo di arrivare ad un solo passo dalla meta che aveva rincorso da più di vent’anni.
«Il supersoldato…», mormorò tra sé e sé alzando la testa verso il neon.
No, Saori Kido… No! Non ho alcuna intenzione di permetterti di mettermi i bastoni tra le ruote proprio adesso! Non dopo tutto quello che ho dovuto sopportare e dopo tutti i culi che ho dovuto leccare per arrivare dove sono adesso!, pensò mentre le porte automatiche si aprirono all’interno del suo studio privato all’ultimo piano: uno studio grigio, anonimo, con tutte le ultime tecnologie disponibili sul mercato e quelle che dovevano ancora uscire, un’ampia scrivania subissata di carte impilate distrattamente l'una sull'altra e una vetrata che correva lungo tutta la parete est regalandogli una vista mozzafiato sulla città sottostante. 
Il sole era ormai sparito da un pezzo dietro la curva dell’orizzonte e le strade, piccole arterie luminose, erano attraversate da poche automobili che sfrecciavano silenziose in direzione di Ropponji.

Chi su, su, su precipitosamente sale, giù, giù, giù precipitevolissimevolmente scende, 

Diede un pugno al vetro antiproiettile. «Stronzate!», gli sfuggì senza che se ne accorgesse: non sapeva perché gli fosse venuta in mente proprio quella filastrocca, ma non era certo tipo da credere ai presagi, figuriamoci a quelli grami. La sua fortuna era dietro l’angolo, doveva solo svoltarlo e acciuffarla.
Cadere adesso, dopo tutta una vita passata a studiare la fisiologia umana e il modo di incanalare l’energia latente degli esseri umani, era impossibile. Ed ingiusto. 
Profondamente ingiusto.
Allungò all’indietro il collo, portandosi una mano a massaggiarsi le vertebre. Aprì un mobile accanto a sé e ne estrasse una bottiglia ed un bicchiere panciuto: si versò del liquido ambrato, lo scaldò tra le mani e se lo portò alle labbra.
Saori Kido… Sarai tu, a cadere dalla tua torre d’avorio!, pensò leccandosi le labbra dopo aver bevuto una corposa sorsata. Rimase a guardare il panorama e la macchia nera in fondo dove sapeva essere il mare. E tornò con il pensiero al suo passato. Gli studi nel collegio di Mosca, lontano dalla sua Ucraina. La borsa di studio vinta portandosi a letto la Compagna Segretaria dell’apposito Ufficio del Soviet per l’assegnazione delle Borse di Studio all’estero a studenti meritevoli. Le ricerche gomito a gomito con il professor Asamori. La richiesta folle di Mitsumasa Kido. La scoperta dell’esistenza dei Santi e della dea Athena, e il successivo modo per approfittare di queste conoscenze. La scoperta del Fattore C, che avrebbe garantito sia a lui che ad Asamori la vincita del Nobel per la Chimica. La feroce litigata fatta con il professore poco prima del suo rientro immediato e definitivo nella Santa Russia.

«Ci pensa, professore? Potremmo creare delle armi rivoluzionarie! Manderemmo in malora fucili e armi convenzionali, contro le nostre armature servirebbero a ben poco!»
«No!»
«Ma professore! La prego! Ragioni! Le guerre tornerebbero ad essere una questione tra uomo e uomo!»
«Ho detto di no! Queste armature serviranno a scongiurare una guerra, non a vincere con maggiore facilità!»


Deluso per la poca sagacità di Asamori, era partito in gran segreto, portandosi dietro i primitivi progetti delle armature d’acciaio, rallentando così di molto il lavoro di Asamori. 
Il ritorno in Russia. Gli studi effettuati in Siberia, sui prigionieri dei gulag. L’accordo con l’Organizzazione, tramite Irina, e la fuga precipitosa poco prima del Golpe d’Agosto. La bellezza bionda che si stava avvicinando alle sue spalle con due bicchieri e una bottiglia scura nelle mani.
«Lavori fino a tardi?», le chiese senza girarsi, fissando la sua figura attraverso il riflesso sul vetro: il camice ricadeva distratto sul vestito di velluto blu notte che delineava la sua figura ed esaltava il suo décolleté morbido e i capelli, di solito repressi in un austero chignon, vagavano in morbide onde sulle sue spalle. 
«Non sono la sola a fermarmi fino a quest’ora in ufficio, mi pare…», rispose posando bicchieri e bottiglia su un angolo sgombro della scrivania. Tirò fuori dalla tasca del camice un cavatappi e cercò il tagliacarte per rompere la chiusura esterna della bottiglia.
«Che cos’è?», chiese lui togliendogliela di mano e armeggiando con il cavatappi.
«Nero d’Avola. Sembra sia un vino molto rinomato…» rispose porgendogli i bicchieri a calice.
«Festeggiamo qualcosa?»
Lei fece spallucce. «Nulla di particolare; l’ho visto in una vetrina e mi sono chiesta che sapore potesse avere.»
Lui lesse velocemente l’etichetta sulla bottiglia scura.
«1973…ottima annata!»


«Posso parlarti un attimo?»
Miho abbassò lo sguardo ai suoi piedi.
«Riguarda lei, vero?»
Seiya annuì.
«Senti, se non vuoi lo capisco perfettamente, anzi sono un idiota insensibile a chiederti di…»
«Non è questo il punto!»
Miho lo superò e si diresse verso il cancello dell’orfanotrofio Star Child. Lui la raggiunse, restando indietro di qualche passo.
Mi fa una rabbia. Rabbia, capisci? Io sono stata letteralmente cancellata dalla tua esistenza, da lei… Sinceramente, speravo fosse una cosa seria. Tossì per dissimulare il groppo che le si era formato in gola. 
«Aspettami qui, prendo una giacca e torno.»
Sparì dietro l’angolo, la gonna gonfiata dal vento. Ormai la sera faceva freddo e anche lui fu costretto ad accostare al collo il bavero della giacca. Miho tornò dopo una decina di minuti: adesso aveva un paio di jeans scuri, una giacca rossa con ampie spalle imbottite e un basco in tartan ben calato sui capelli sciolti.
«Tutto ok?», le chiese sentendosi un po’ in colpa a strapparla così alla sua vita.
«Sì, padre Ranmaru ha detto che se vuoi parlargli sarà ben disposto ad ascoltare… Da uomo a uomo», aggiunse Miho sistemandosi i polsini della giacca. «Dove mi porti? Spero non a casa tua.»
«No, non ho certe intenzioni. Che ne diresti della spiaggia?»
«Mmm, meglio di no, oggi c’è vento e a quest’ora farà freddo. Il molo sotto casa tua andrà benissimo», decise prendendolo sotto braccio e uscendo nella sera d’ottobre.
L’aria frizzante del porto si sentiva già dalla strada: lo iodio e la salsedine investirono in pieno Miho, costringendola ad infilare le mani nelle tasche della giacca. Amava il mare, anche d’inverno, ma da dietro i vetri appannati di un’automobile, con la musica dolce a tutto volume e l’odore speziato di muschio della sua pelle. Si voltò verso Seiya e scacciò risolutamente l’immagine di Hitoshi dalla sua mente. Domani, domani avrebbe pensato al suo Toshi, ma questa sera, per l’ultima volta, Seiya doveva essere al primo posto. Gli aveva promesso di ascoltarlo e di lasciarlo sfogare e doveva dedicargli tutta la sua attenzione.
«Spero per te che sia davvero importante», gli disse non appena guadagnarono una panchina. Lui abbassò la testa e si tenne le mani sprofondate sotto le ginocchia: Miho gli lasciò tutto il tempo di cui aveva bisogno per cercare di far chiarezza nel caos rutilante che era la sua testa. E per evitare di farle male, il minor male possibile.
«Shaina mi ha lasciato.»
Lo disse così, come se si stesse liberando di un macigno sullo stomaco.
«Avanti, raccontami tutto…» sospirò accoccolandosi contro lo schienale di pietra smaltata della panchina.
«Vuoi salire da me? È una storia lunga, non so quanto potrei metterci. Lì farà più caldo», le propose. «Senza nessun doppio fine.»
Lei gli sorrise. «Lo so. Ma no. Non potrei. Per ripetto ad Hitoshi.»
Seiya annuì. E vuotò il sacco, come un fiume in piena. Il loro rapporto, la loro vita, gli ultimi screzi, il licenziamento di lei, la rottura, la scoperta di lei tra le braccia di un altro.
«Quello che non capisco», disse con i pugni chiusi e la voce macchiata di rabbia, «è dove io abbia sbagliato. Dove. Se solo avessi saputo, se solo me ne fossi accorto! Però, anche lei ha le sue colpe a non avermi detto nulla…»
«Cosa sarebbe cambiato? Un’azione fatta è fatta, e se la gente deve dirti necessariamente dove, come e quando sbagli, hai bisogno della balia e non di una donna accanto. Capisci?»
«Avanti, Miho, lo sai anche tu che io sono fatto così, che sono un impetuoso, un sanguigno, che…»
«Questi li consideri dei pregi o dei difetti?», gli chiese stiracchiando le gambe, il naso all’insù a guardare le stelle.
«Non lo so… Se per lei sono pregi…»
«Santa pazienza!», sbottò lei saltando in piedi. «Ma ti senti? Senti le fesserie che dici? Eh? Cosa sei? Un uomo o un pupazzo?»
«Ma, Miho…»
«Ma Miho un accidente! Ma che cosa sei diventato, eh? Non hai un briciolo d’amor proprio? Non sei in grado di decidere se un tuo comportamento sia un pregio o un difetto! Ma ti senti? Senza di lei ti manca l’aria, adesso?»
«Sì…», soffiò fuori. Arreso.
«È più grave di quel che pensassi…», disse lei lasciandosi cadere sulla panchina. «Credi ti abbia … beh, sì, che l’abbia fatto per quell’altro?»
«Avanti, su!», rispose Seiya sconsolato. «Mi lascia e la sera stessa la trovo abbracciata a lui in riva al mare a guardare le stelle… Mi hai preso per un idiota, forse? Sono stupido, lo so, ma l’evidenza…» Troncò la frase per non farle sentire la voce tremolante.
Miho rimase pensierosa. «Lui che tipo è?»
«Come?»
«Sì, se analizzi il tuo rivale, capirai che cos’è che può averla attratta…»
«Beh, è alto, ha gli occhi blu, i capelli lunghi…»
«Non intendevo in senso fisico!», disse Miho cercando di ricordare se avesse mai visto un ragazzo corrispondente alla descrizione fattale da Seiya. «Intendevo in senso caratteriale.»
«Tz… È un esaltato, uno convinto di essere una specie di dio in terra solo perché è un Santo d'Oro!»
«E tu, allora? Non lo sei anche tu?»
«No, io sono Pegaso. Non ho mai accettato l’Armatura del Sagittario, essenzialmente perché lo spirito del precedente custode aleggia ancora su quella corazza, e per me sarebbe un compito troppo gravoso.»
«Quindi, pensi che ti abbia lasciato per un tuo superiore? Mi sembra poco plausibile, non è che per caso questo tizio ha un carattere più deciso e maturo del tuo?»
Seiya ci pensò su un poco e poi ammise: «Credo di sì…»
«Bene, allora c’è una sola cosa da fare», disse lei alzandosi e facendo per tornare indietro. «Devi parlare con Shaina.»
«Cosa? Ma mi hai ascoltato?»
«Sì, l’ho fatto. Hai parlato con cani e porci, ma non con Shaina. Tu devi mettere Shaina con le spalle al muro e parlarle. Per davvero. Anche solo per avere la conferma sui tuoi sospetti, che credo siano in parte errati.»
«Tu dici?»
«Io ho un punto d’osservazione esterno, privilegiato rispetto a te, che invece sei invischiato fino al collo», sussurrò Miho alzando la testa al cielo per poi riportarla sul ragazzo.«Quando la conobbi, Shaina mi fulminò con lo sguardo, come a voler dire lui è mio. Una simile determinazione non può sparire così, dall’oggi al domani. Lei vuole un uomo? Diventa uomo, allora, ma non permetterle di cambiarti, chiaro?»
Seiya annuì sollevato. «Grazie, Miho.»
«E adesso ti dispiacerebbe accompagnarmi a casa che qui si gela?»
Le porse il braccio con fare galante e si diressero all’orfanotrofio, il ticchettio dei tacchi di lei sull’asfalto.
Ma tu guarda se adesso mi tocca difendere la mia ex rivale, si disse camminando nella notte al braccio di Seiya.


L’automobile si fermò davanti alla casetta a due piani che era già buio. Tatsumi aprì la portiera a Saori che scese e fissò la costruzione prima di procedere. 
Ikki, ogni volta che tu mi fai una sorpresa ho paura, pensò avvicinandosi al muro di cinta in cotto, sormontato da piccole tegole verdi. La casa era completamente bianca, eccettuate le tegole e gli infissi verdi e la porta d’ingresso, sormontata da una piccola vetrata ad arco, sempre in verde. Un camminatoio di pietre grigie irregolari, disposte in maniera finto casuale, conduceva alla porta attraversando il prato all’inglese.
Casa graziosa, analizzò mentre Hyoga e June si avvicinavano a lei. «Andiamo», quasi sussurrò suonando il campanello. 
Un rumore metallico fece scattare all’indietro il piccolo cancello mentre la porta d’ingresso si apriva. Avanti, Ikki, sono pronta alla tua sorpresa, si disse pensando alla telefonata ricevuta solo mezz’ora prima.
«Sia la benvenuta in questa umile casa, dea Athena…»
Saori fissò la ragazza vestita dell’Armatura d’Oro del Capricorno che, elmo tra le mani e capo chino, li stava ricevendo nel genkan della casa, mentre un altro Saint, della casta d’argento, era inginocchiato dietro di lei.
Eccola, la sorpresa…
Saori entrò, seguita a ruota da Hyoga e June che guardarono i loro ospiti con occhi spalancati.
«Alzati, adesso, Capricorno», le disse Athena con dolcezza avvicinandosi a lei. «E alzati anche tu, Perseo.»
«Un Santo d’Argento e uno d’Oro? Ma che significa?», chiese Hyoga stupefatto chiudendo la porta.
«Accomodatevi in salotto, abbiamo molte cose di cui parlare», rispose  il Capricorno porgendo loro delle pantofole e guidandoli attraverso uno scarno corridoio in un salotto piuttosto spartano. Nella stanza c'erano una coppia di poltrone di pelle bianca e un divano a tre posti, anch’esso in pelle bianca, un tavolino con il piano di cristallo e un impianto stereo che torreggiava su di un mobile d’acero, accanto al grande televisore nero. Il ragazzo in armatura era teso come una corda di violino, e attese all'impiedi accanto al divano su cui si accomodarono Saori e June; Hyoga occupò una poltrona e la ragazza, più compassata, sedette in quella accanto, l’elmo tra le mani, senza dar alcun segno d’impazienza.
Chi stava per sbottare era June. 
La ragazza sentì distrattamente i nomi e le cariche dei loro ospiti, ripetendosi le parole dette da Saori quasi un’ora prima, dopo aver messo giù la cornetta d’onice dello studio.
«Ragazzi, era Ikki», aveva detto mentre si voltava e li guardava, felice e sbigottita al tempo stesso: tutti si erano fermati, pendendo dalle sue labbra confetto, e lei stava per soffocare dalla tensione. «È a Nerima, ci sta aspettando e ha detto che ha una sorpresa per noi…»
Era scattata avanti, bruciando sul tempo gli altri. «Andiamo o no?», aveva chiesto includendosi nel gruppetto di scorta che avrebbe accompagnato Saori. 
La bagarre per la divisione dei ruoli era durata meno di venti minuti: miracolosamente, Milo e Jabu avevano accettato solo alla terza replica di restarsene a guardare buoni buoni a casa, e loro tre erano partiti alla volta del desaparecido numero due. Aveva maledetto ogni semaforo rosso, ogni ritardo, ogni prudenza dell’autista che manteneva un’andatura nei limiti del codice stradale. E adesso che si trovava lì, in quella casa spudoratamente ammobiliata, dove lo tenevano nascosto Ikki? 
Quando tornò al presente udì solo la voce della ragazza in armatura dire: «Questo è tutto…».
Si era persa la spiegazione da romanzetto d’appendice; poco male, avrebbe chiesto a Hyoga uno dei suoi riassunti illuminanti.
«Ikki dov’è?» Lo domandò direttamente a quella strana ragazza sbucata da chissà dove.
«Adesso sta riposando, come ho detto poco fa», rispose facendole notare la sua distrazione. «Fiona si sta occupando di lui, ci raggiungerà subito.»
«È così grave da aver bisogno di un’infermiera?», chiese Hyoga mentre June sentiva il sangue ribollente di due secondi prima cristallizzare in ghiaccio nelle sue vene. 
«No, no, assolutamente», si affrettò a chiarire Perseo, «è che dovrebbe riposare e restare a letto, ma non ne vuole assolutamente sapere…»
«Tipico di lui», commentò Hyoga quando un tonfo sul soffitto costrinse tutti ad alzare la testa.
«Forse Fiona non riesce a trattenerlo», fece Andrew perplesso.
June scattò in piedi e raggiunse senza tante cerimonie l’ingresso in pochi passi e salì le scale che portavano al piano superiore, ignorando la voce di Andrew che le diceva: «Wait, please!», invano. 
Il primo piano era formato da un corridoio, gemello di quello che aveva appena lasciato su cui si affacciavano tre porte. Scelse quella della stanza che avrebbe dovuto trovarsi sopra al salotto e l’aprì.



  Note: oggi niente note; aggiornamento doppio, questa settimana. Tutti Qui si prende un'altra pausa, ma siccome domani non sarò a casa, eccovi un altro capitolo, fresco fresco. E poi, è oggi che ce n'è bisogno. Sen, un abbraccio. E grazie a chi passa da queste parti.

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Capitolo 14
*** 14. ***


14.



Aveva seguito Saori col cuore in gola e maledetto ogni semaforo rosso che era apparso sulla loro strada. Aveva seguito Saori. Per sapere come stesse Ikki, certo. Ma anche per fargli avere, e ricevere a sua volta, notizie di Shun. Perché nella sua testa le era sembrato giusto che fosse lei, a dirgli di Shun. Che fosse un suo preciso dovere.
Ikki stava bene.
Malconcio e con qualche livido, assomigliava più ad un vecchio gatto randagio che al Santo della Fenice, ma nel complesso stava bene e lo sarebbe stato fino a quando lei non gli avesse stretto le mani attorno al collo.
Perché Ikki stava cenando – e questo corrispondeva a quanto aveva detto Andrew. Ma dell’infermiera – giovane, carina e coi capelli rossi che lo stava bloccando a terra col proprio corpo – Andrew non aveva fatto cenno alcuno. Anzi.
Gli occhi blu della Fenice si erano allargati di stupore – felicità? – quando l’aveva vista apparire oltre la porta e un sorriso sincero gli aveva disteso le labbra. Si era alzato – la ragazza lo aveva fatto alzare – e le si era avvicinato, a passi malfermi.
«Ciao, June», le aveva detto. «Come stai?»
«Come una che ha una gran voglia di spaccarti quel vassoio sulla testa!», aveva replicato lei, le mani strette a pugno che fremevano per aprirsi e stamparsi sulle guance graffiate di Ikki. Ikki che stava bene. Talmente bene da poter giocare con quella ragazza all'ammalato e all'infermiera. E lei che aveva scavalcato le pretese di Seiya e degli altri!
«Aspetta!», l’aveva rincorsa la voce di Ikki quando si era voltata, chiudendosi la porta alle spalle con un sonoro SLAM. Aspetta un accidente, aveva pensato iniziando a scendere i primi gradini. A quel punto era apparso Andrew.
«Hai visto Fiona?», le aveva chiesto. Con quel suo sorriso indisponente che sembrava pregarla di prenderlo a schiaffi. E quando lei aveva fatto per rispondergli, e mandarlo a quel paese tanto per sfogarsi su qualcuno, Ikki le aveva afferrato un polso, apparendo dietro di lei.
«Hai visto Fiona», si era risposto Andrew, stringendosi nelle spalle.
«Dobbiamo parlare.» June era certa di aver visto qualcosa balenare nello sguardo di Ikki. Qualcosa che l’orgogliosa Fenice non avrebbe mai espresso a parole. Una richiesta di aiuto, forse? «Di Shun.»
June aveva annuito. Ikki aveva ripreso a respirare. Fiona li aveva raggiunti, il vassoio della cena tra le mani ed aveva seguito Andrew al pian terreno – «Andiamo, sweet heart. I piccioncini devono parlare.» – lasciandoli da soli sulle scale.
«Non lo sopporto», si era lasciata sfuggire June non appena erano rimasti da soli.
«Ignoralo. Abbiamo cose più importanti a cui pensare, adesso.»
«Athena sta aspettando.»
«Da quanto non hai notizie di mio fratello?»
«Non lo vedo da sei mesi. Non lo sento da quasi cinque settimane.»
Ikki l’aveva guardata negli occhi, come a sincerarsi delle sue parole, poi aveva stornato lo sguardo.
«Cerchi alleati?», gli aveva chiesto lei, quasi un sussurro a perdersi nella penombra delle scale.
Lui aveva annuito. «Cerco qualcuno che sia disposto a fare quello che c’è da fare. Cerco qualcuno che voglia bene a mio fratello.»
«Lo hai trovato.»
June gli aveva porto la mano, due gradini più in basso. Lui l’aveva stretta con delicatezza tra le dita fasciate.
«È in quel posto?»
«Non lo so.»
«Ikki…»
«Non. Lo. So. Non ne sono sicuro. Ma so che eravamo vicini. Lo sento
Lei non gli aveva chiesto su quale base posasse questa sua convinzione. Si era limitata ad annuire, e a stringere un pochino le dita di Ikki nelle sue. Per darsi coraggio. Aggrappandosi a qualcosa di più concreto delle teorie e dei piani degli ultimi giorni.
«Torna domani. Parleremo con più calma», le aveva detto Ikki prima di avviarsi al pian terreno. Lei l’aveva guardato perplessa.
«Domani?»
«Athena ci sta aspettando, no?», aveva aggiunto, e June l’aveva seguito, aiutandolo. Sorreggendolo. Pregustando dentro di sé il momento in cui avrebbero fatto finalmente qualcosa di concreto per Shun. Senza sapere che la macchina del destino si era messa in moto. E sarebbe piombata su di loro come un treno lanciato nella notte.


Jabukido aveva le mani tra i capelli.
La giacca del completo giaceva abbandonata da qualche parte. Le cornette dei telefoni erano sollevate. Aveva un aria distrutta. E Mayumi Tanaka sapeva a chi si dovesse tutto. Saori Kido. Negli ultimi giorni lei era tornata prepotentemente nella sua vita, e questi erano i risultati.
Mayumi sospirò. Non c’era nulla che potesse fare per Jabukido. Oh, lei avrebbe voluto fare qualcosa, l’avrebbe voluto tanto, ma Mayumi era sicura che se si fosse sciolta i capelli e avesse allentato i primi due bottoni la camicetta, avesse aperto la porta che separava i due uffici e fosse entrata nel suo regno come il sole di Aprile, lui non se ne sarebbe accorto. E anzi, nella migliore delle ipotesi le avrebbe ricordato che c’erano ancora tutte quelle lettere da scrivere, prima di chinare la testa sul piano ingombro di carte della scrivania.
Mayumi sospirò.
Sì, c’erano tante lettere da scrivere – quattro per la precisione – e se quello era l’unico modo in cui avrebbe potuto essere d’aiuto al signori Jabukido, beh, le avrebbe scritte tutte quante, accidenti! A tempo da record.
Le sue dita ripresero a volare sulla tastiera, quando si accese la luce dell’interfono.
«Signorina Tanaka, può venire qui un momento? Avrei bisogno di lei.»
Era la voce di Jabukido. La voce di un uomo alla deriva, che non aspetta altro che di essere salvato dall’amore della sua dolce e devota segretaria.
Sciogliti i capelli, Mayumi. Sciogliteli e va da lui. Abbraccialo e confortalo. Perché ha bisogno di te. Raccolse il blocco per stenografare e lo raggiunse oltre la porta a vetri.
«Mi ha fatto chiamare, signor Kido?»
Lui alzò la testa. E la guardò come se la vedesse per la prima volta in vita sua. Nel cuore di Mayumi risuonarono campane a festa.
«Sì. L’ho fatta chiamare.»
«Dica.» Mayumi si avvicinò. Sorridendogli. Sono sempre io. Sono Mayumi. La tua Mayumi.
«Telefoni all’avvocato Mutsudaira dello studio legale Nakanishi, per favore.»
Mayumi gli scoccò uno sguardo deluso, uno di quelli che diceva: «Tutto qui?».
«E?»
«E rintracci mio fratello Nachi, per favore.»
«C’è altro?», chiese lei, immobile sulla porta come un soldatino di piantone.
«Sì. Si sistemi i capelli. E ha dimenticato di allacciare i primi due bottoni della camicetta.»
Mayumi strinse labbra e maniglia, represse uno sbuffo spazientito e sibilò: «Sissignore!», prima di chiudersi la porta alle spalle e tornare in tre ampie e rabbiose falcate alla propria scrivania.
Stupida, stupida, stupida!, si disse accomodandosi. Non era ancora il momento giusto. Pazienza. Doveva aspettare ancora un po', ma Mayumi sapeva che prima o poi Jabukido si sarebbe accorto di lei. Doveva solo aspettare. E sperare che quella strega di Saori Kido non ricomparisse tanto presto all'orizzonte.
Si tirò i capelli all’indietro, fermandoli con un elastico. Avrebbe sistemato lo chignon più tardi, nella toilette delle signore. Adesso aveva delle telefonate da fare e delle lettere da finire di scrivere. E una brutta figura da archiviare al più presto.
 

Seduta sul divano della stanza degli audiovisivi, June cercava un modo per lasciare Kido Manor senza dare nell’occhio.
Se si fosse assentata adducendo come scusa l’improvvisa voglia di una passeggiata, o il desiderio di fare shopping, tutti avrebbero capito che stava recandosi da Ikki. E che questo avrebbe potuto significare una cosa sola. Quei due avevano in mente qualcosa. Qualcosa che aveva ben poco a che fare con la strategia ideata da Hyoga. Che aveva funzionato, sì, ma non aveva dato i frutti sperati. L’idea non era sbagliata, era sbagliato il mondo in l’avevano messa in pratica. Avrebbe funzionato, sì, se si fossero trovati in un anime o in uno sceneggiato televisivo, o in un romanzo; non nel mondo reale. Non era quasi venuto un infarto a Jabu quando il Cigno gli aveva candidamente rivelato la seconda parte del suo piano?
Sì. C’è quasi rimasto secco, pensò June stringendo tra le dita una lattina di aranciata. Non voleva berla. Era fresca e quel contatto l’aiutava a mantenere la calma. E a pensare. Avrebbe voluto dire: «Esco», e basta, senza specificare dove sarebbe andata, ma no, non si poteva. Qualcosa doveva pur dire, e se solo Françoise si fosse fatta viva, sarebbe stato più facile. Forse. L’avrebbe usata come distrazione per liberarsi degli altri e se ne sarebbe andata via, silenziosa come un gatto.
Per fortuna che aveva promesso di aiutarmi, pensò.
Dal canto suo, seduto sul divano accanto a lei, Hyoga avrebbe voluto soffermarsi sulla sorte toccata a Shiryu e probabilmente anche a Shun, ma la sua mente cercava di trovare il modo per farsi perdonare da Erii. La cena con Sho non era stata una buona idea, anzi: era stata un fiasco colossale, con il Santo d'Acciaio in evidente imbarazzo e la sua Erii che gli teneva il muso da due giorni. Ma cosa ne poteva sapere, lui, che quel giorno padre Ranmaru avrebbe portato i bambini al luna park? Che ne poteva sapere, lui, che avrebbero avuto tutto lo spazio e la tranquillità di cui due ragazzi innamorati hanno bisogno, di cui lui aveva bisogno per tirare un po' il fiato?

Se solo me l’avesse detto…

«Ripetilo se ne hai il coraggio!»
La voce di Seiya proveniva direttamente dal salotto al pian terreno ed era scossa a sufficienza per convincere Hyoga ad alzarsi dal divano, a lasciar perdere Erii per un istante e ad uscire di scatto, superando June e la sua lattina.
Sotto gli occhi di Shaina, Seiya, di spalle, stava fronteggiando Milo, il quale aveva dipinta sul viso un’espressione d’indicibile uggia.
«Te l’ho detto e te lo ripeto. Non. Mi. Seccare.»
«Maledetto …»
Hyoga fece appena in tempo a frenare Seiya prendendolo per le spalle, trattenendolo a pochi, fin troppi, centimetri da Milo. Pegaso continuò a digrignare i denti in faccia all’altro, che per tutta risposta non si mosse, le braccia incrociate e le spalle appoggiate al muro dietro di sé.
«Ma sei impazzito del tutto?», gli sibilò Hyoga tenendo d’occhio Milo.
«Lasciami! Ho un conto da saldare con questo bellimbusto… Lasciami!», replicò cercando di sottrarsi alla stretta del Cigno.
«Che cosa sta succedendo qui?»
Il Cosmo di Athena invase la stanza un istante prima che Milo pronunciasse un patetico di troppo. Non ottenendo alcuna risposta, Saori avanzò verso Seiya che continuava a fissare lo Scorpione in cagnesco.
«Seiya? Milo? Sto parlando con voi…»
«Non è nulla, milady, nulla. Si è trattato di un malinteso», rispose Milo staccandosi dal muro. 
«Malinteso un corno!», sbottò Seiya liberandosi da Hyoga e mandando quest’ultimo a terra. «Non so che cosa tu abbia in quella testa vuota…»
«Basta così», tuonò Saori cercando di riportarli alla ragione. «Abbiamo un problema ben più serio di queste scaramucce da bambini, semmai ve ne foste dimenticati!»
«Giusto! E non facciamo che perdere tempo prezioso!», rispose Seiya guadagnando l’uscita a grandi passi.
«Aspetta. Che intenzioni hai?», lo fermò, per un istante, la voce di Saori.
Lui la fissò dritto negli occhi, quindi le rispose :«Non cerchi di fermarmi, Milady! Il tempo delle chiacchiere è finito; adesso è tempo di agire», concluse sorpassandola e sparendo nel corridoio.
Hyoga fece per riagguantarlo, quando un singolo gesto di Saori lo fermò.
«Sai bene anche tu che ora come ora sarebbe solo fiato sprecato! E sai anche che non è così sciocco da mandare tutto all’aria», disse raggiungendo una poltrona e sedendovisi stanca. «Vi prego, lasciatemi pensare. Vi aspetto qui tra un’ora.»
La stanza si svuotò in pochi minuti lasciando la reincarnazione di Athena da sola a sola con i propri pensieri. Mentre usciva dal salotto, a Shaina, che aveva assistito alla scena senza intervenire per paura di peggiorare la situazione, si strinse il cuore nel vederla così: mai avrebbe detto che avrebbe provato pena per la sua inarrivabile rivale. 
Adesso, però, ho da fare, Saori, pensò, seguendo a distanza di qualche passo Milo. Lo Scorpione aveva deciso di inoltrarsi nel parco attorno alla villa. Avrebbe dovuto sbrigarsi. A tre passi all’esterno lo chiamò, fermandolo sulle scale, il sole dietro le spalle che gli scaldava i capelli di riflessi ramati. 
«Scusami…», gli si avvicinò costernata.
«Per cosa?», le chiese perplesso.
«Per l’indecoroso spettacolo di poco fa. Sei stato molto comprensivo con Seiya…»
Le pose un dito sulle labbra, impedendole di proseguire oltre.
«Shaina, non è certo colpa tua, se oggi aveva la luna di traverso! E poi immagino di essere capitato in un momento sbagliato, vero?»
«No», disse. , pensò. Perché era vero. Milo era entrato nel salotto proprio mentre Seiya stava dimostrando di aver messo giudizio e di voler discutere della situazione in maniera adulta e civile. Ma la vista dello Scorpione – che credeva fosse arrivato qualcun altro, e non il Santo di Pegaso, e su questo Shaina era pronta a scommetterci la testa – aveva distrutto il fragile equilibrio di Seiya come la grazia di una pallonata che centra in pieno la vetrina di una cristalleria.
«Tranquilla, è tutto a posto!»
«Ma…»
«Niente ma! Se continui a preoccuparti così per il sottoscritto, dovrò pensare che il mio fascino abbia colpito ancora! E lo sai che a casa ho lasciato una persona ad aspettarmi, vero?»
Beata lei, pensò, fissando le due acquemarine incastonate nel viso di lui.


Seiya prese il primo treno per Nerima salendo di corsa nel vagone più pieno dell’intero convoglio, tra studenti al rientro da scuola, impiegato di ritorno dall’ufficio e massaie con la sporta della spesa piena e la testa persa nelle mille cose da fare in casa e la cena da preparare.
Quattro fermate, quattro fermate, si ripeteva schiacciato tra la schiena di due sudaticci e corpulenti uomini in doppiopetto grigio. Resisti per quattro fermate. Quando le porte si aprirono alla stazione di Nerima, il treno era mezzo vuoto: uscì dai tornelli e si diresse a consultare la mappa ingrandita della zona.
Ikki gli aveva accennato per telefono che si trovava in una villetta, in un posto pieno di altre case, a Nerima. E non aveva saputo aggiungere altre informazioni.
Un posto pieno di case… Sarà sicuramente sulla cima della collina, come al solito!, pensò dando uno sguardo alla cartina. Ma per esserne sicuri, usiamo il vecchio metodo.
Chiuse gli occhi ed espanse il proprio Cosmo, cercando di captare la presenza di Ikki. 
Seiya? Dove sei?
Risposta chiara e nitida. 
Alla stazione e tu?
A Nerima, e tu?
Alla
stazione di Hikariga Oka! Senti, mantieni costante il tuo Cosmo, proverò a seguirlo!
«Signore, signore, che hai?»
Si sentì tirare per i pantaloni: un bambino di sei, sette anni anni lo stava fissando preoccupato, lo zainetto sulle spalle.
«Stai male, signore?»
«No, piccolo. Stavo solo cercando di ricordarmi dove abitasse un mio amico», rispose abbassandosi al livello del bambino.
«Seiji, non dar fastidio al signore!»
Una donna con le sporte della spesa piene, probabilmente la mamma del bambino l’aveva preso per mano e portato accanto a sé. «Lo scusi, è un gran chiacchierone. Non la stava importunando, vero?»
«No, signora, si figuri», rispose imbarazzato di trovarsi davanti una donna tanto giovane e con un figlio accanto a sé.
Avrà sì e no un paio di anni più di Shaina, pensò automaticamente notando che la donna indossava un impermeabile nero avvitato, come quello della sua adorata ex ragazza. Notò poi qualcosa, o meglio qualcuno, passare dietro la donna: una ragazza alta, un’europea con una stretta coda di cavallo e grandi occhiali a goccia calati su quel naso antipatico che lei si ostinava a definire alla francese, e che per lui assomigliava alla pista per il salto con gli sci.
«Mi scusi, signora, ma devo andare…»
Salutò svincolandosi dalla donna, che riprese a camminare per fatti suoi mentre il piccolo Seiji continuava a salutarlo con la manina: «Ciao, signore che pensa!».
Seiji… È proprio un bel nome!, pensò gettandosi all’inseguimento della ragazza, che attraversò un incrocio e si diresse verso la collina che sovrastava la stazione della Linea Gialla. 
Percorse un centinaio di metri lungo la strada panoramica, chiedendosi che cosa ci facesse lei in quel quartiere fatto di piccoli muri di cinta che custodivano casette a due piani. La ragazza entrò dentro uno di questi giardini assieme alle buste della spesa. 
La targa in legno all’esterno del cancello recitava Maison des Etolies: era una palazzina a due piani, probabilmente una vecchia casa riadattata a pensionato, tetto di tegole ocra, camminatoio di lastroni grigi e grande orologio nel sottotetto che batté le sei del pomeriggio. 
Si fece coraggio e decise che tentare era sempre meglio che restare fuori a fissare l’abitazione come se fosse un ladro: percorse il camminatoio, aprì le grandi porte a vetri e notò subito un paio di stivali rossi dalla punta stondata all’interno del genkan.
Avrebbe riconosciuto quell’orrore ovunque! 
Ancora ricordava la discussione avuta con Shaina la primavera precedente quando lei gli aveva mostrato in anteprima il suo prossimo acquisto, acquisto fatto già dalla coinquilina estrosa della sua principessa. 
Se non è lei, io sono Susanoo!, pensò dimenticandosi per un istante di Ikki che stava mantenendo stabile il proprio microcosmo.
«Buongiorno, desidera?» 
Si accorse solo in quel momento della donna bassa e grassottella che gli stava davanti con una sigaretta tra le mani.
«Sto… sto cercando un’amica! È un’europea, capelli castani, alta quanto me, accento francese…»
«Sì, abita qui. Vuole che gliela chiami?»
«Preferirei farle una sorpresa, grazie!»
La donna lo guardò attentamente – lo squadrò socchiudendo gli occhi – e poi disse: «Certo, certo, capisco… Troverà Sophie di sopra, nella stanza numero sette, quelle sono le sue scarpe. E se si sta chiedendo come lo sappia, è semplice. Solo un’europea potrebbe indossare stivali rossi!».
Sophie? La mente di Seiya vacillò per un istante. Chi diamine era, adesso, questa Sophie? Possibile che in tutti gli universi possibili e ipotizzabili, lui avesse trovato la sua sosia speculare a Nerima? Ringraziò con un inchino, deciso a fugare ogni dubbio, e, liberatosi delle scarpe, salì rapidamente la rampa di scale che conduceva al piano superiore. 
Ah, la gioventù!, commentò tra sé e sé la donna guardandolo sparire oltre i gradini. Rientrò nel proprio appartamento ed uscì per sempre da questa storia assieme ad una boccata acre di fumo.
Seiya raggiunse la porta con un vetrato smerigliato e il numero 7 che vi campeggiava sopra in nero; bussò e sentì la sua voce chiedere: «Chi è?», con il suo caratteristico suono nasale.
«Sono Pierre», rispose appoggiandosi allo stipite con il braccio sinistro. Sentì un tramestio, cassetti aprirsi e chiudersi al volo e poi vide la sua sagoma apparire dietro il vetro. «Apri, Sophie», l’incoraggiò con voce suadente; la porta si aprì e Françoise apparve dietro di essa.
«Che ci fai tu qui?»
«Ti ho vista alla stazione e ti ho seguita, Sophie…»
«Entra!», fece brusca prendendolo per il bavero della camicia.
Seiya si trovò immerso nell’anticamera del Regno del Caos primigenio, la cui unica sovrana lo stava fissando in piedi sul tatami: buste della spesa ancora da svuotare, il futon che minacciava di sventrare l’armadio a muro dentro cui era stato frettolosamente arrotolato, la cesta straripante di panni sporchi da lavare e i resti di cibi precotti accatastati nell’acquaio.
«Oddio…», si lasciò sfuggire Seiya guardandosi intorno. «È più grave di quel che pensassi!»
«Non mi sono abbrutita in seguito allo choc, sia chiaro!», precisò Sophie chiudendo la porta.
«Ah no? E questo come lo chiami?»
«Lavori in corso…», rispose incrociando le braccia. «Che ci fai qui?»
«Ti ho vista scendere dal treno e ti ho seguita.»
«Come un maniaco! Ecco perché non ti sei fatto la barba!»
«Sto cambiando il mio look», rispose accarezzandosi i peli ispidi che facevano capolino sul suo mento. Si sedette a gambe incrociate sul tatami e Françoise aprì il piccolo frigorifero che ronzava placido in un angolo, estraendone due lattine.
«Questo è il meglio che offre la casa», disse porgendogliene una. Si sedette accanto a lui, lo sguardo fisso alla finestra ad ovest, gustandosi una birra fresca in religioso silenzio, mentre il cicalino dell’addetto ai rifiuti non biodegradabili risuonava nella sera.
«Perché Sophie?»
«Dovevo pur usare un nome, no?»
«Sì, ma perché Sophie? Perché non il tuo?»
Lei si strinse nelle spalle. «Quando si sceglie un nom de plume, si cerca qualcosa di facile, qualcosa che resti in mente.»
«E Sophie sarebbe un nome facile, secondo te?»
«Più di Victoire, sicuramente.»
«Chi?»
«Lascia perdere...»
Tacquero. Lei bevve un’altra sorsata di birra, poi disse: «Non penserai che creda alla balla della visita di cortesia, vero?».
Posò lattina accanto a sé e stese le gambe.
«Assolutamente no. Sto andando a prendere Ikki, vogliamo tentare un’irruzione per salvare Shun. Sei dei nostri?»
«Athena lo sa?»
«Lo immagina.»
«Oh, non lo metto in dubbio! Così come io immagino anche che vi sguinzaglierà dietro Milo e Hyoga in un battibaleno.»
Seiya schiacciò la lattina nella mano destra, mentre la birra schiumò sulla sua mano e sul pavimento. «E che cosa pensi possa farmi una zanzara come lui?»
«Il solletico», ribatté lei osservando la birra penetrare nella trama del tatami. Sollevò la manica sinistra e gli mostrò il braccio.
«E quelli cosa sono?», chiese Seiya indicando con lo sguardo le cicatrici sulla pelle chiara.
«Un ricordino della zanzara», rispose lei.
«Ne ho ricevute un paio, anche io.»
«Mi ha usata come un puntaspilli. Se permetti, ne so qualcosa in più», disse lei. «Seiya, non sto scherzando. Milo sa fare molto male, anche quando vuole solo fermarti. E non massacrarti. Non cercare mai lo scontro diretto, con lui.»
«Senti, inutile girarci intorno!», disse Pegaso stornando lo sguardo dalle cicatrici. Françoise si coprì il braccio. «Milo non l’ho mai sopportato, adesso meno che mai, per cui prima se ne torna in Grecia, meglio sarà per tutti.»
«E non hai pensato che Shaina potrebbe seguirlo, se le cose stanno come dici tu?»
«Ma lui non ha qualcuno che lo aspetta a casa?»
Lei abbassò lo sguardo. «Te l'ho detto. Non so più cosa pensare. E non intendo chiamare quella persona. Non è affare mio.» Silenzio. «Non credi che Shaina potrebbe volerlo seguire?»
«Non ci voglio pensare, non adesso! Adesso ho solo voglia di salvare Shun e di farla finita con tutta questa storia. E la soluzione è quella di prendere il toro per le corna.»
«Già, sei un esperto, tu… »
Seiya scattò in piedi. Furioso. «Fa’ quello che ti pare. Non è affar mio!», sibilò sbattendosi la porta dietro di sé. Uscì dall’edificio sbattendo anche la porta d’ingresso e lasciandosi la casa alle spalle in quattro falcate rabbiose. Era inutile pensare che quella decidesse di collaborare con lui; anche ora che avrebbero avuto un motivo ben valido per fare fronte comune, Françoise continuava e avrebbe a remargli contro. Per puro spirito di contraddizione.
Decise di gettare la spugna e di seguire il cosmo di Ikki.


La villetta dal tetto verde appariva silenziosa e anonima, incassata in una schiera di case tutte uguali e tutte altrettanto silenziose. Il cosmo di Ikki giungeva da quella all’estremità nord della strada. Poco prima che suonasse il campanello, riconobbe la sua voce discutere animatamente con un’altra persona.
«Lasciami ho detto!»
«Sei impazzito? Le tue ferite non si sono ancora rimarginate, dove vorresti andare?»
Una voce di donna!, pensò Seiya scavalcando il cancelletto bianco e arrivando in un paio di passi davanti alla porta verde, la maniglia tra le mani.
«A salvare mio fratello. Lo capisci questo?»
«Ma non puoi andarci da solo!»
La porta si aprì e Seiya si trovò faccia a faccia con un Ikki malconcio e bendato.
«Era ora! Sto espandendo il mio Cosmo da una vita!», lo salutò cercando di togliersi una lunga fasciatura dalla fronte.
«Come stai?»
«Bene, bene, ma adesso non abbiamo il tempo di prenderci un tè con i pasticcini!»
Seiya annuì. «Sai dove tengono prigioniero Shun?»
«No. Ma possiamo provare a tornarci», rispose Ikki quando due mani sottili si aggrapparono al suo braccio destro.
«Non crederai che sia lo tengano nello stesso luogo da cui sei fuggito? Lascia stare, aspetta che torni Andrew…»
Ikki si voltò e la prese per le spalle.
«Ascolta Fiona, ascoltami bene. I miei fratelli sono prigionieri di quella stessa gente che mi ha torturato. Se prima avevo dei dubbi e potevo basarmi solo su ciò che mi diceva l’istinto, dopo la rivelazione che mi avete fatto nei giorni scorsi devo andare a salvarli, non posso certo starmene qui con le mani in mano mentre loro vengono spremuti come limoni! Capisci?»
Fratelli?, pensò Seiya. Poi glielo chiese: «Fratelli?»
Ikki sospirò. «Quei bastardi hanno rapito anche Shiryu.» Vide lo sguardo di Pegaso allargarsi e farsi più cupo. Tornò a fissare la ragazza. «Shun è tenuto prigioniero nel grattacielo F. a Minato? Diccelo! Jimena potrebbe rientrare da un momento all'altro. Non abbiamo molto tempo, Fiona!»
La ragazza lo fissò intensamente negli occhi, quindi abbassò la testa e la gran massa di capelli rossi che le ricadevano fin sotto le spalle scese a coprirle il viso.
«Forse», sussurrò arresa. Sapeva che quel forse era per Ikki la più granitica delle certezze e vi ci si sarebbe appeso. Con le unghie e coi denti. «Vi do un’ora di vantaggio, una sola, poi avvertirò Kido Manor, intesi?»
«Grazie!», rispose Ikki con gli occhi sorridenti, quelli di un bambino che è riuscito a strappare un altro giro di giostra. «Grazie di tutto…», aggiunse prima di accostarsi a Seiya e di catapultarsi giù per la discesa.
Speriamo di aver fatto la cosa giusta, si augurò Fiona rientrando e dicendosi che sì, lei capiva perfettamente cosa significasse avere un fratello in pericolo di vita e non poter muovere un solo dito per aiutarlo. E l’ansia di arrivare tardi, troppo tardi per salvare una vita. Patrick, proteggili tu, pregò impugnando la croce che pendeva oltre lo scollo della camicetta.


Dio, che stronza, che sono!
Françoise era rimasta seduta sul tatami, la lattina che stava versando il suo liquido nella trama del bambù, andando a mischiarsi con quella rovesciata da Seiya. Si teneva la testa tra le mani, chiuse ad artiglio attorno ai capelli.
Seiya voleva collaborare. Non era quello che lei stessa gli aveva proposto, una manciata scarsa di giorni prima?
Sì, che lo era. E questo sarebbe stato un bene, per tutti. Prima avrebbero trovato Shun, prima lei se ne sarebbe ripartita per Atene. E poi avrebbe pensato a cosa dire ad Athêna. Sempre se fosse stato il caso di dirle qualcosa, ovvio.
L’espressione di Seiya era quella del gatto che riceve una secchiata d’acqua ghiacciata sulla testa.
Sì, collaborare era la soluzione. Lo era sempre stata, fin dall’inizio. E forse era finito il tempo dei cincischiamenti, del io vorrei, non vorrei, ma se vuoi. E a lei aveva sempre fatto orrore Battisti.
Sentiva il Cosmo di Seiya chiamare quello di Ikki, e quello della Fenice rispondere costante, come un faro che segnali ai naviganti la via d’accesso al porto durante la tempesta.
Anche Athena li starà sentendo. E non tarderà a prendere provvedimenti, pensò, stringendo un po’ più forte le dita.
Adesso o mai più!
Gettò fuori l’aria, come una specie di urlo strozzato. Lasciò andare i capelli, raccattò il pacchetto di radici di liquirizia ed uscì.
 

«Dove vai? Minato è dall’altra parte!», lo chiamò Ikki ad un crocicchio.
«Piccola deviazione, andiamo a prendere qualcuno che sembra averci ripensato», rispose seguendo una sorta di pista nota soltanto a lui: giunsero sino ad una vecchia casa dal tetto d’ardesia ed entrarono nel cortile recintato da un muro che aveva visto anni migliori. Ikki lo seguì come un automa, pensieroso. June non abitava a Kido Manor? Aveva capito male?
«Seiya, chi…», domandò. Un’ora era troppo breve per sprecarla fermandosi qua e là. Ma Ikki tacque vedendo Françoise seduta nel genkan, sul gradino d’accesso alla casa, un legnetto marroncino tra le labbra.
«Toh, chi si rivede, il desaparecido numero due! La gramigna non muore mai, vero?», lo salutò strizzandogli un occhio. 
Ikki guardava ora lei, ora Seiya, che fissava la ragazza dagli stivali rossi con un sorriso soddisfatto. 
«Ci hai per caso ripensato?»
«Ho un paio di chili da smaltire, e un po’ di moto è proprio quello che mi servirebbe…», rispose, tenendo il legnetto tra le dita. Ikki notò che lo stava mangiucchiando. La sua lingua era annerita.
«Che roba è quella?»
«Liquirizia», rispose lei mostrandogli il legnetto. Come se fosse una cosa normale. «Dove si va?»
«Minato ti piace?»
Annuì e sorrise. «Bien sûr que oui! Conosco una scorciatoia, andiamo!», disse uscendo dalla casa sotto gli occhi di un confusissimo Ikki, il quale si affiancò a Seiya e gli sussurrò ad un orecchio: «Lei la mandiamo a salvare il professore, vero?».
«Certo. Vorresti lasciarle Shiryu? Non sai che non si mette mai la candela accanto alla paglia?», rispose seguendo la ragazza per la discesa verso la stazione.


Note:
Veloci, rapide ed indolore.

Hikariga Oka è una stazione della metropolitana nel quartiere di Nerima, che si trova a Nord Ovest all'interno dei 23 quartieri speciali in cui è suddivisa Tokyo. Nel 1943 ci fu una fusione tra la città di Tokyo e la prefettura a lei assegnata, creando, così, l'odierna capitale del Giappone. I ventitré quartieri storici (lista completa qui) che costituivano la capitale divennero dei quartieri speciali, parzialmente autonomi, mentre si iniziò a chiamare il resto della prefettura Area di Tama.

Minato è un altro dei ventitré quartieri speciali di Tokyo, che ospita le sedi di rappresentanza di svariate industrie e reti televisive e ben quarantanove ambasciate.

Il pensionato Maison des Etoiles è spudoratamente ispirato alla Maison Ikkoku, dell'omonimo manga di Rumiko Takahashi, così come la donna che incontra Seiya strizza l'occhio a quella pettegola avvinazzata di Ichinose san. Situando parte della storia a Nerima, non potevo non fare quest'omaggio. Sentito e dovuto.

Susanoo (nome completo Susanoo-o-no-Mikoto) è uno dei principali Kami, le divinità dello shintoismo. È il dio delle tempeste e degli uragani, ed il suo carattere non semplice costrinse gli dei ad isolarlo sulla terra, nella regione di Izumo. Qui Susanoo divenne il difensore dell'umanità, sconfiggendo i vari mostri che infestavano quella regione. Per tutto il periodo Heian, si fece risalire a Susanoo la composizione della prima poesia giapponese in assoluto, contenuta nel Man'yoShu:

Yakumo tatsu
Izumo yaegaki
tsumagomi ni
yaegaki tsukuro
sono yaegaki o

(Otto nubi si innalzano
E l'ottuplice recinto di Izumo
Forma un ottuplice recinto
In cui ritirarmi con la mia sposa.
Ah, quell'ottuplice recinto)


Sophie e Victoire, sono un riferimento all'attrice Sophie Marceau, protagonista del film La Boum (Il tempo delle Mele) pellicola in cui interpretava una ragazzina tredicenne di nome Victoire Berreton.

E al solito, grazie a chi passa, a chi legge, a chi commenta. E anche ai lettori silenziosi. Grazie di cuore.
F
 

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Capitolo 15
*** 15 ***


15.



  Rispetto a molti dei suoi parigrado, Jimena Peñareal era disposta ad ignorare i privilegi derivati dalla casta pur di portare a termine con successo la missione che le era stata affidata. Perché Jimena era una persona pragmatica, pratica e realista. Una di quelle che, davanti ad un bicchiere d’acqua, non avrebbe perso tempo a chiedersi se fosse mezzo pieno o mezzo vuoto, ma l’avrebbe visto per quel che era realmente: un bicchiere d’acqua. Che avrebbe bevuto senza pensarci se avesse avuto sete.
La missione innanzitutto, questo solo contava per lei; e cooperare coi propri sottoposti era il primo passo per creare quel rapporto di armoniosa collaborazione che avrebbe portato al raggiungimento del traguardo agognato. E se avesse dovuto svolgere quei compiti più ingrati, pazienza. Anzi, nell’ottica di Jimena, erano proprio gli aspetti più indigesti quelli che garantivano il successo dell’operazione. I mattoni su cui fondare la buona riuscita della missione. E rientravano nei precisi doveri di chi era a capo della missione stessa. Che non poteva, no, restarsene in disparte e delegare il lavoro ai propri sottoposti, e vigilare. Perché se qualcosa fosse andato storto, sarebbe stata responsabilità sua – e solo sua – il non essere intervenuto al momento opportuno. Due o tre passi prima del punto di non ritorno.
Ecco perché quella mattina Jimena era uscita a fare la spesa, lasciando Fiona a giocare a fare l’infermiera e affidando ad Andrew il compito di guardare, ascoltare ed osservare le mosse del nemico. Lei avrebbe fatto altrettanto, aprendo occhi e orecchie ma restando nel quartiere, per comprendere se li stessero ancora cercando; se Nerima potesse considerarsi ancora una zona sicura; se non fosse il caso di spostarsi a Kido Manor. Tutti. E da lì, riorganizzare le operazioni, con Athena e altri due suoi parigrado. Anche a costo di vedersi soffiare la missione da sotto il naso.
O se, come temeva, il nemico non fosse già arrivato a loro. E non stesse per bussare all'uscio gragnuolandolo di calci.
A questo pensava la porteña dai capelli nerissimi mentre acquistava la carne. Perché una bella bistecca ai ferri era quello che ci voleva per rimettere in sesto la Fenice. E perché anche lei aveva voglia di addentare un churrasco sugoso e morbido, dopo due settimane passate a mangiare cibi precotti oppure riso bollito e pollo lesso.
Ma Jimena non sapeva che quel giorno, solo per quel giorno, avrebbe fatto meglio a ridistribuire i compiti in maniera diversa. E a restare lei, a casa, una volta tanto.
 
 
«Il palazzo è quello.»
«Sembra un normalissimo palazzo di rappresentanza.»
«Mai sentito il detto l’apparenza inganna
Erano seduti al tavolino di un caffè all’angolo di fronte al grattacielo F, che svettava alto nel cielo serale, con tre tazze di caffè americano oramai fredde davanti a loro.
«È un’ora che siamo qui. Vogliamo aspettare che ci mettano i bastoni tra le ruote? Mahoney avrà già chiamato Saori, ammesso che Mena o Andrew non siano rientrati e abbiano dato l’allarme…»
E Jones, Tackleberry e Hightower quando arrivano? Avremmo giusto bisogno di loro, pensò Françoise prima di rispondere : «Vogliamo vedere che cosa accade davvero in quel palazzo prima di entrare e spaccare tutto?».
«Abbiamo visto a sufficienza», rispose la Fenice alzandosi. «Entriamo, adesso! Non ho la minima voglia di essere legato di nuovo ad un letto!»
«Sia messo a verbale. Alla Fenice non piace il bondage», lo sfotté lei prima di svuotare la propria tazzina tutto d’un fiato. Come se fosse una medicina amarissima.
Ikki l’incenerì con lo sguardo, dicendo a Seiya:«Andiamo! E smettila di ridere!».
«OK, ma chi paga?», chiese Seiya, rammentando di essere uscito senza un soldo in tasca, con solo la tessera della metropolitana.
«Non guardare me», ribatté Ikki.
«E nemmeno me», disse lui. Restava solo Françoise.
«La cavalleria è proprio morta!», commentò la ragazza mentre cercava i soldi nelle tasche dei jeans.
«Portiamoci sul retro», propose Seiya avvicinandosi al semaforo. Ormai erano quasi le otto e un quarto di sera: le luci del grattacielo erano spente, fatta eccezione per l’insegna del ristorante sulla terrazza e quelle dell’ultimo piano.
«Entriamo e proviamo a dirigerci al ristorante. Poi scenderemo.»
«Ma ti sei visto? Non ci faranno mai entrare vestiti così in un posto simile!», commentò Ikki. Ancora con questa storia? Cos’hanno i miei vestiti che non va?, pensò Seiya rabbuiandosi. «Meglio passare per la porta del personale.»
Attraversarono la strada e girarono intorno all’edificio, sbucando in un vicolo illuminato da un lampione solitario. Si acquattarono dietro due cassonetti semivuoti, studiando la facciata secondaria: c’era una sola porta, probabilmente quella antincendio, ed un’uscita riservata alle vetture.
«Richiamiamo le armature ed entriamo. Se funziona come nell’altro palazzo, lì dentro sarà impossibile usare il Cosmo. E se hanno fatto la stessa cosa anche a loro, avranno un cerchio metallico sulla fronte», disse Ikki espandendo il proprio potere.
«Un congegno per bloccare il Cosmo?», chiese Seiya perplesso. «Basta toglierselo, allora.»
«Non è così semplice. Quei bastardi ti impiantano un chip sotto pelle che reagisce alla minima manomissione dell’inibitore. Con delle scariche elettriche difficili da sopportare per dei Santi in buona salute, figuriamoci per loro…»
«Figli di puttana!», imprecò Seiya vestendosi della propria armatura. «Ma tu riuscivi a percepire i nostri cosmi? Abbiamo provato e riprovato…»
Ikki annuì. «Sì, vi sentivo, eccome! Ma non potevo assolutamente rispondere al vostro richiamo, quell’arnese infernale bloccava la trasmissione del fattore C nel sangue», aggiunse mentre la sua mente gli ricordava il Cosmo di chi più di tutti l’aveva cercato. Dovrò chiarirle come stanno le cose… Assolutamente!
«Il fattore C?»
«Te lo spiegherò dopo.»
«Così come dovrai spiegarmi come hanno fatto a prenderti.»
«Semplice. Hanno tolto per un istante l’inibitore a Shun e ho sentito che era nei guai, così l’ho raggiunto, ma loro mi hanno fregato col gas.»
«Gas?»
«Sì, dello stupido, semplice gas soporifero, sparato all’improvviso in una stanza chiusa a tenuta stagna. Deluso? È andata così, inutile girarci intorno. Quando mi sono risvegliato avevo addosso il cerchio ed ero in una fetentissima cella che puzzava come un letamaio.»
«Ho capito, il cattivone supremo lo lascio a te…»
«Bravo ragazzo! E adesso che ho colmato le tue lacune, vogliamo entrare o gradisci anche due pasticcini con il tè?»
«Aspettiamo Françoise. Dobbiamo dire tutto anche a lei.»
«Dirmi cosa?», chiese la ragazza acquattandosi dietro di loro. «E perché avete le armature?»
Ikki e Seiya si scambiarono uno sguardo d’intesa. «Non andiamo ad una festa in maschera, bellezza», tentò di sviare Pegaso, sapendo che la ragazza non avrebbe mollato l’osso tanto facilmente.
«Bellezza, lo dici a qualcun altro. O vuotate il sacco qui, adesso e subito, o vi tratterrò fino all’arrivo della cavalleria», li minacciò lei guardandosi le unghie laccate di nero. «Allora? Io sto aspettando, e anche Shun, mi pare.»
«Stiamo andando a liberare Shun», le disse Ikki. «Credevi che avremmo portato due cioccolatini, un mazzo di fiori ed avremmo suonato alla porta?»
«No», rispose lei. «Ma sarebbe utile un maggior sangue freddo, se volete riportare a casa tuo… vostro fratello.»
«Ho capito», disse Seiya. «Vuoi metterti a capo della missione…»
«Non hai capito un accidente!», sbuffò lei. «Meno avrò a che fare con quest’alzata d’ingegno e meglio sarà. Per tutti, credimi.»
«Avrai comunque dei problemi se entrerai lì dentro con noi», rispose Ikki indeciso se raccontarle tutto o tacerle la parte relativa a Shiryu.
«No, tesoro, non credo. Io ho disperatamente cercato di fermarvi, ma visto che non c’è stato verso di farvi desistere dal vostro piano suicida, ho dovuto seguirvi per evitare che vi cacciaste in casini ancora più grandi», rispose richiamando le vestigia dorate con uno schiocco delle dita.
«Lo sai che non ti crederanno neanche per un secondo, vero?»
«La verità è una questione di prospettive.»
«Ho già sentito questa storia. Non finisce bene, sai?»
«Lo so. Ma è meglio avere una scusa assolutamente idiota che nessuna, non credi Ikki? Allora? Sto iniziando ad esaurire la mia limitata riserva di pazienza…»
«Forse lì dentro potrebbero esserci anche Shiryu e il professor Asamori», sputò fuori Seiya.
«E perché volevate tenermi all’oscuro di questa cosa?»
«Questa, poi! Hai quasi cercato di ammazzare Shiryu, non te lo ricordi?», digrignò Ikki tra i denti.
«Errore. Non ci sono arrivata a toccare il tuo Shiryu», rispose mentre Seiya pensò tra sé e sé E meno male!. «E comunque, siete ragionevolmente sicuri che li tengano tutti e tre lì dentro?»
«Non ne ho la certezza, ma lo ritengo plausibile.»
«Perché?»
«Come sarebbe a dire perché? Tu dove terresti le tue… cavie?», chiese Ikki. L’ultima parola sembrava una goccia di veleno sulla lingua.
«Tutte assieme», concesse lei. «Ma se puoi lavorare in tranquillità. È di questo che non sono sicura. Dopo tutto stiamo pestando loro i calli da un bel po’…»
«E in che modo?», chiese Ikki.
«Rompendo le palle ai Bloody Roses, ad esempio.»
«I chi?»
«Bloody. Roses. Davvero non gli hai detto nulla della meravigliosa carriera da cantante di suo fratello?», disse Françoise a Seiya con un sorrisetto ironico.
«Seiya, che sta dicendo questa pazza?»
«Te lo spiego dopo, adesso entriamo», rispose Pegaso aprendo la porta di servizio e scivolando nell’edificio.


«Come sarebbe a dire che li hai lasciati andare?!»
Andrew era fuori di sé: era rientrato a casa dopo una giornata passata a tenere sott’occhio il nemico ed il luogo dove potesse essere rinchiuso Shun e al suo ritorno Ikki era sparito. Aveva cercato Fiona per tutta la casa, senza ottenere risposta, trovandola infine inginocchiata in camera sua a recitare il rosario in latino stringendo tra le mani una croce celtica.
«Fiona? Sei impazzita?», le disse strappandole di mano il rosario. «Ti ha dato di volta il cervello? Quei due adesso sono nella merda fino al collo e tutto grazie a te! E sai che ti dico? Non appena Jimena e lady Saori sapranno che c’è il tuo zampino in tutta questa storia, ti ritroverai anche tu nei casini!»
Senza ribattere, Fiona raccolse la croce e riprese là dove si era fermata.
«Ave Maria, gratia plaena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Iesus…»
«Fiona Mahoney! Sei sorda?», le urlò scuotendola per le spalle, mentre lei velocizzava la litania. «Non ci posso credere…»
Andrew si arrese lasciandosi cadere in poltrona e mettendosi le mani tra i capelli. «Che devo fare con te, darling
Si massaggiò le tempie cercando una soluzione al problema che si era manifestato come un fulmine a ciel sereno, mentre lei era arrivata a recitare il Padre Nostro.
«Ok, ok… Adesso ne ho abbastanza! Io chiamo Athena!», disse portandosi in corridoio e alzando la cornetta. «Kido Manor, please», scandì lentamente nel suo accento inglese alla centralinista dall’altra parte del filo.
«Mi spiace, ma il numero richiesto non risulta nell’elenco.»
«Come sarebbe a dire?»
«Mi spiace. Le augurò una buona giornata», e attaccò.
«E allora come diavolo ha fatto Ikki a chiamare Athena?», urlò sbattendo la cornetta.
«Che succede qui?»
Jimena era apparsa sulla soglia di casa, carica di buste e bustine in cui teneva la spesa che Fiona le aveva scritto su un foglietto un paio d’ore prima. Era rientrata lasciando le commissioni a metà, perché il suo sesto senso le diceva che la Fenice non stava mantenendo il proprio cosmo costante per esercizio. E aveva percepito altri due cosmi, attorno a loro. Uno d’oro. E l’altro molto vicino a quello di Ikki.
Andrew sospirò ammettendo:«Ikki è andato a salvare Shun. Fiona mi ha detto che è arrivato qui un certo Seiya e che…»
«E chi avrebbe detto a Ikki dove si trova il palazzo? Non sarà stata Fiona, vero?», chiese Jimena con gli occhi socchiusi posando le buste sul tavolo della cucina, e Andrew non poté far altro che annuire.
«Jimena, cerca di capirla», disse il ragazzo trattenendola per un braccio. «Lo sai anche tu che Patrick…»
«Ti ha dato di volta il cervello?» Il Capricorno si liberò dalla stretta del compagno con un gesto deciso del braccio. «Adesso mi sente quella pazza! E tu fila a Villa Kido ad avvisare Athena! E strada facendo espandi il tuo Cosmo per richiamare tutti i Santi presenti in Giappone alla villa!»
«Ma…», esitò incerto.
«È un ordine!», urlò la ragazza con gli occhi fuori dalle orbite.
Andrew si riprese e corse verso villa Kido seguito dalla luce della propria armatura, mentre Jimena raggiunse la stanza che divideva con Fiona salendo i gradini quattro a quattro. 
La trovò inginocchiata davanti al suo letto, le labbra che si muovevano velocemente in silenzio e le dita che tormentavano un rosario d’argento.
«Fiona, basta pregare!», disse strappandole di mano il rosario: la catenella si ruppe in due parti, una più lunga che rimase ben salda nella mano di Fiona, ed una più corta che la ragazza lasciò cadere sul pavimento.
«Che hai fatto?», le chiese Fiona guardando incredula le proprie mani e la catenella inerte sul pavimento. «Era un regalo di Patrick, lo sai questo?», ruggì. Scattò verso Jimena, le afferrò lo scollo della maglia e la tirò a sé.
«E tu lo sai che immane stronzata hai appena fatto?», chiese a sua volta la porteña, liberandosi. «Lo sai che per colpa tua saranno ammazzati come cani?»
«Ma che dici? Patrick…»
«Patrick è morto, capito? Morto! È morto due anni fa! Vuoi fartene una ragione? Quello è Ikki!», le disse scuotendola energicamente per le spalle. «Svegliati, Fiona!»
Fiona si staccò da lei e indietreggiò di un paio di passi, portandosi le mani al viso. 
«Lo so, cosa credi?», sussurrò piano piano. «Era mio fratello, il mio gemello!», terminò urlando a gran voce tutta la sua angoscia. «Era mio fratello…», continuò a singhiozzare mentre Jimena teneva le mani strette a pugno. Per non strozzarla.
«Non sei la sola che ha perso qualcuno», tentò di ribattere.
«Non era tuo fratello!»
Jimena espanse il proprio Cosmo. Schiacciandola al suolo.
«Forse non siamo usciti dallo stesso utero. È vero. Ma per me, era come un fratello. E non azzardarti mai più, ripeto mai più a dire il contrario. Sono stata chiara?»
Silenzio.
Il Capricorno alzò lo zoccolo e la Lucertola ne approfittò per riprendersi.
«E adesso?», singhiozzò Fiona asciugandosi le lacrime.
«Adesso vai a lavarti gli occhi che sembri un panda, e ti calmi. Andrew è corso a Villa Kido ad avvisare Milady. Probabilmente dovremo fare un’azione di recupero. Avremo bisogno di gente con la testa sulle spalle. Se non te la senti, dillo.»
Fiona annuì. «Me la sento», ribatte. «Mi sembra il minimo, ho causato io tutto questo casino e devo rimediare. E dovrò farmi perdonare anche da Andrew…»
«Quello sarà la parte più semplice», le disse vedendola andare in bagno. Il complesso del fratello maggiore, pensò Jimena raccogliendo le due parti della catenina e mettendole in un cassetto. Ruy, aiutaci tu.


«Milady, io sarei propenso ad affidare ad un solo Santo d'Oro il recupero dei dispersi…»
Saori osservava il cielo nuvoloso stretta nelle spalle. «Capisco perfettamente il tuo punto di vista, Milo; tuttavia devo anche tener conto dei sentimenti dei Santi di Bronzo. Sono fratelli, e anche se sono le persone meno ligie a seguire il protocollo, devo comunque rispettare la fiducia che ripongono in me.»
«Fiducia?»
Saori annuì. «Sì, è un discorso che vale sia per me che per voi. Io confido che voi sarete sempre al mio fianco e mi proteggerete sempre da ogni pericolo, mentre voi avete fiducia in me, sapendo che capisco i vostri sentimenti, le vostre ansie e le vostre angosce.»
Saori osservò la ragazza dai lunghi capelli che la stava fissando riflessa sul vetro: aveva un’espressione stanca e preoccupata. Eppure, non poteva contare su Seiya, nonostante fosse una testa calda e agisse sempre di propria iniziativa? Non l’aveva forse salvata dai ripetuti attacchi portati dai Santi d'Argento? Non si era gettato in un crepaccio, salvandola dalle grinfie di Jamian del Corvo e Shaina, nonostante avesse una gamba spezzata ed un polso rotto? Non si era parato davanti a lei all’ultimo momento, un secondo prima che il Lightning Bolt di Aiolia arrivasse a sfiorarla? Non si era trascinato con le unghie sino alla Statua nell’adyton per raccogliere lo scudo e cancellare dal suo petto la Freccia d’Oro? 
E gli altri Santi di Bronzo non erano certo stati da meno, durante tutte le lunghe battaglie che li avevano visti ergersi come ultimo baluardo contro il male. 
Contro Poseidone, che avrebbe voluto inondare il mondo per punire i troppi peccatori che ne calpestavano la superficie.
Contro Eris, che voleva gettare la Terra in un mondo in preda alla guerra continua.
Contro Apollo, che degno amico del Dio dei Mari voleva purificare gli uomini con il suo sacro Fuoco.
E contro Loki, che avrebbe voluto scatenare in anticipo il Ragnarok raccogliendo il sangue di una dea vergine in un ciborio.
Milo l’osservò a lungo dalla sua posizione, inginocchiato a pochi passi da lei. Saori aveva chiesto loro di lasciarla da sola per un po’, ma dopo una mezzora abbondante lo Scorpione le aveva chiesto udienza: era arrivato il momento di mettere Athena di fronte ad una scelta. Bisognava agire o ritardare all’infinito, attendendo non si sa quale manna dal Cielo?
E Athena, aveva deciso di assecondare il suo sesto senso, quello che la portava sempre e comunque a scegliere i Santi di Bronzo, quei cinque Santi di Bronzo, come fattore risolutivo. 
Ponderava a lungo le sue scelte, ma una volta prese, pensare di farle cambiare idea era come pretendere di combattere contro i mulini a vento.
E io non sono così rincoglionito come Don Qijote!, si disse il ragazzo pensando che avrebbe dovuto pagare ad Aiolia quella birra che avevano scommesso, una volta tornato in patria.
Vecchio volpone, tu lo sapevi perfettamente ancor prima di scommettere che Athena avrebbe deciso a priori di dare la precedenza ai Santi di Bronzo! Non dovrei pagare pegno, quasi quasi!
«Dobbiamo aver fiducia in loro, Milo. Tuttavia…», disse Saori riemergendo dai propri pensieri quando Tatsumi caracollò nella stanza come un tornado.
«Milady, è successa una cosa gravissima! Ah, quel ragazzo è una vera calamità!»
«Tatsumi, che succede?», chiese Saori stupefatta dal suo comportamento, di solito tanto compassato.
«Milady, milady!», continuò a pigolare l’uomo, sudando per il nervosismo.
«Smettila di farfugliare e spiegaci che succede!», tuonò Milo riconducendolo alla ragione.
«Sì, subito! È arrivato un uomo che dice di chiamarsi Andrew Nonsobenecosaterzo e di essere il Santo di Perseo; sembra che Seiya e Ikki siano andati a fare un’irruzione per liberare Shun!»
«Da soli?», chiese Saori pur sapendo già dall’inizio in cuor suo che sarebbe andata a finire così.
«Sembra di sì, milady! Hyoga, che era giù con me, è andato subito sul posto indicato da quel tizio e mi ha detto di salire subito a riferirle che si trattava di una cosa grave.»
Saori abbassò la testa al pavimento, mormorando qualcosa d’incomprensibile mentre si sentiva gli occhi azzurri di Milo addosso.
«Fai salire immediatamente quella persona, Tatsumi! Io richiamerò a palazzo tutti i Santi.»
«Sissignore, vado!», rispose l’uomo uscendo così come era entrato.
Saori sospirò, rivolgendosi poi a Milo. «Siamo stati messi di fronte al fatto compiuto, a quanto vedo… La nostra conversazione è stata superflua.»
«No, milady. Non dite così. Avete ricordato a quello che dovrebbe essere il vostro più fedele e fidato servitore una cosa importantissima che avevo dimenticato.»
Saori fissò l’alto ragazzo che aveva davanti a sé: il diadema dell’armatura gli copriva parte del volto, lasciando ben in evidenza i suoi occhi penetranti e chiari. Gli prese una mano, racchiusa nel guanto d’arme dorato, e la strinse tra le sue.
«Resta sempre accanto a me, Milo.»
«Come potrei abbandonarvi, Milady?», rispose lui inginocchiandosi di fronte a lei. «Io sono nato per essere al vostro fianco e difendervi.»
«A volte mi sento in colpa. Voi potreste vivere come ragazzi comuni, e invece non sappiamo nemmeno se e quando…» la Guerra Sacra scoppierà.
«Milady, Aiolia, Mu, Aldebaran, Shaka ed io siamo preparati alla Guerra Sacra da quando abbiamo messo piede al Santuario. Come voi avete la missione di proteggere la Terra e gli uomini in nome del Sommo Zeus, così il nostro compito è quello di proteggere Voi. E se questo il prezzo da pagare, sia. Meglio una vita breve, ma degna d’essere vissuta. E come la me, la pensa ogni vero Santo d’Athena.»
«Milo, grazie…», rispose Saori con gli occhi lucidi e il cuore gonfio. «Spero che quando questa storia sarà finita, tu possa risolvere i tuoi problemi interpersonali.»
Scorpio annuì. «Sono desolato per il pessimo spettacolo dato prima, ma Seiya…»
«Sono sicura che parlandone, troverete una soluzione.»
In quel momento, prima che Milo potesse obiettare che no, non era colpa sua se Seiya si era messo in testa che volesse soppiantarlo nel cuore di Shaina, che lui aveva ben altre gatte da pelare per conto proprio, e che no, non provava nulla per l’Ofiuco, tutt’altro, la porta si aprì ed entrò Perseo.
E questo principino sarebbe il successore di Argor?, pensò squadrando il ragazzo dalla testa ai piedi. Speriamo bene…


Quel pazzo! Ne facesse mai una giusta!
Shaina si sciacquò alla svelta la maschera al cetriolo dal viso e srotolò l’asciugamano fissato a turbante sulla sua testa: non aveva il tempo di togliersi l’impacco rivitalizzante che aveva appena applicato sui capelli, ricoprendoli di una pellicola bianco latte. Decise di legarli in una coda bassa e andò a prendere la propria armatura dallo scrigno, accorgendosi solo in quel momento che quella di Françoise non era al suo posto.
Se quell’incosciente è andata a dargli man forte, giuro che le torco quel naso presuntuoso con le mie mani!, pensò correndo verso villa Kido.
Incontrò Jabu davanti al portone: il ragazzo stava scendendo al volo dalla berlina che l’aveva riportato a palazzo in fretta e furia da una qualche importantissima riunione che non si sarebbe potuta svolgere senza la sua presenza, pensò la ragazza. Però Saori chiama, e lui arriva, si disse. Per Jabu, Saori era e sempre sarebbe stata la bussola della sua vita, molto più di quanto avrebbe dovuto essere Athena. A dispetto di tutto e tutti
«Shaina, ci sei…» anche tu? «Che cosa hai fatto ai capelli?»
«Lascia stare!», ringhiò lei entrando nell’atrio bianco. «Gli metto in conto anche questo, a tuo fratello!»
Tatsumi venne loro incontro, mormorando una giaculatoria che aveva come piatto forte la frase:«Meno male che siete qui anche voi!», e conducendoli nel salotto in cui Athena li stava aspettando. 
Saori era lì, seduta in una poltrona foderata di velluto bordeaux: smesso il tailleur blu petrolio indossato nel primo pomeriggio, aveva ripreso il candido peplo, la cintura d’oro a fascia alta e il diadema a foglia d’olivo stilizzata, lo scettro di Nike ben saldo nella mano destra. 
Il tempo sembrava non avere intaccato la sua radiosa bellezza, la stessa dei giorni in cui presenziava agli scontri della Guerra Galattica; ma la preoccupazione le colorava lo sguardo di un riflesso cupo. E doloroso.
Shaina s’inginocchiò accanto agli altri Santi, notando la presenza di tre nuovi guerrieri oltre a Nachi, Ichi e gli altri due Santi di Bronzo di cui non ricordava il nome; guardò Jabu per chiedere spiegazioni.
«A dopo. Possiamo fidarci di loro», le sussurrò, ancora inguainato nel completo antracite, slacciandosi la cravatta grigio perla. 
Come con Nadia e Françoise?, pensò Ophiucus poco convinta.
«Seiya e Ikki sono penetrati nel covo in cui il nemico tiene prigioniero Shun. Forse anche Shiryu e il professor Asamori si trovano nella stessa struttura. Hyoga è già sul posto, ma credo è troppo tardi per fermarli.»
E io lo sapevo!, pensarono all’unisono Unicorno e Ofiuco, scuotendo la testa.
La voce di Saori era risuonata per quelle stanze dall’alto soffitto bianco senza tremore o esitazione. Adesso non era più l’ereditiera Saori Kido; era la dea Athena.
«Unicorno e Camaleonte, voi raggiungerete Hyoga e gli fornirete supporto.»
I due Bronze si alzarono e, schioccando i tacchi risposero in coro: «Agli ordini!» «Ofiuco e Lucertola, voi v’introdurrete nel covo e cercherete di sventare qualsiasi minaccia il nemico stia preparando.»
«Agli ordini!», risposero entrambe. Bene, vedremo subito di che pasta sei fatta, miss carotina, pensò l’Ofiuco osservando con la coda dell’occhio la compagna.
«Chi non ho nominato resterà qui, pronto ad intervenire in caso di bisogno.»
Saori pronunciò queste parole con un tono di voce deciso, che non ammetteva repliche, nonostante le facce dei non nominati fossero di tutt’altro avviso. Percepiva sulla pelle tutta l’ansia che provavano i suoi paladini rimasti in panchina, se la sentiva scorrere addosso come brividi di freddo.
«Come desidera, Athena», le venne in soccorso Milo, i capelli ribelli tenuti a freno dal diadema.
«Cancer dov’è?», gli chiese, temendo che lui potesse confermare i suoi sospetti; Milo scosse la testa, preoccupato, o forse solo seccato, da quell’assenza.
«Non ne ho idea. Spero non con loro.»
«È assente da quattro giorni, milady…», disse Shaina, gli occhi bassi al pavimento.
«Capisco...», sospirò Saori. «Conosci te stesso.»
«E niente in eccesso», risposero i guerrieri, in un’unica voce.
«Andate, avete la mia benedizione!», disse lasciando la stanza seguita dallo Scorpione, mentre i Santi nominati sciamarono ognuno verso la propria missione.


Qui non c’è nessuno, solo dei poveri animali…
Seiya stava esaminando pian piano tutte le stanze che si affacciavano su quel corridoio del terzo piano: l’unico inconveniente era dato dal fatto di doversi muovere con le luci d’emergenza, di un fastidioso verde fioco. Era stata un’idea di Françoise quella di far saltare il quadro elettrico per poter agire con maggiore libertà. 
«Giusto, avranno una sfilza di telecamere, conviene tentare…», aveva detto mentre Ikki annuiva. 
Françoise aveva alzato il dito indice e aveva convogliato un fascio d’energia violacea in direzione del quadro generale, che aveva sfrigolato come burro in padella.
«Questo ci darà un po’ di vantaggio», aveva detto lei riparandosi dalle scariche provenienti dal pannello.
«Forza! Dividiamoci e cerchiamoli! Appuntamento al quarto piano tra un’ora, il primo che trova qualcosa espanda il Cosmo!»
Tutto sommato, era stata una buona idea: i generatori ausiliari erano entrati in funzione garantendo l’accensione delle luci d’emergenza e l’autonomia dei macchinari.
Questo non cambia il fatto che sia una pazza esaurita!, concluse Seiya svoltando l’angolo e trovandosi in un corridoio identico a quello appena lasciato.
Mi sento un topo nel labirinto, pensò avanzando cautamente verso la fine del corridoio. Sentì dei passi correre nella sua direzione.
«Avanti, è dietro l’angolo!», disse una voce maschile mentre lui si chiedeva chi potesse essere il genio che inseguiva qualcuno facendo tutto quel fracasso. 
La risposta arrivò immediatamente: dall’angolo davanti a sé sbucarono sei uomini in tenuta d’assalto nero pece, mitra alla mano, che gli intimarono di fermarsi.
«Fermo o sparo!», urlò il capo mentre faceva partire una sventagliata di mitra nella sua direzione.
Questi sono pazzi!, pensò Seiya deviando i proiettili troppo vicini alla sua persona prima di voltarsi verso dove era venuto. Meglio filare!, si disse ripercorrendo a ritroso il corridoio e guadagnando le scale antincendio.
«Eccolo lassù!», sentì gridare prima che una scarica di colpi s’infrangesse contro il corrimano verde bandiera. Schizzò al piano superiore, tra le urla e i proiettili che arrivavano sempre troppo poco vicino a lui. Quasi sorrise della lentezza dei suoi inseguitori, dicendosi che sì, era stata una buona idea quella di non attaccare quelle persone. Non erano Santi. E attaccar briga con loro sarebbe stata una perdita di tempo. Perché non avrebbe mai potuto fidarsi delle loro parole, qualora fosse riuscito a raccogliere delle informazioni. E uno scontro l’avrebbe trattenuto sul posto. Quando lui, invece, doveva pensare a trovare Shiryu. E a portarlo fuori da quell’inferno.
Si vede che starò diventando più saggio, si disse entrando al quarto piano dove l’accolse uno strano silenzio. 
Tutto lo spazio era occupato da stanze simili a quelle del piano di sotto, con gli estintori agli angoli dei corridoi, le luci d’emergenza del solito orrido verde fioco e lo stesso pavimento a scacchi bianco e blu. 
Solo che questo era completamente in silenzio rispetto al piano appena lasciato, troppo per una caccia all’uomo. Mise in allerta tutti i suoi sensi e si diresse verso le scale antincendio esterne, all’estremità opposta del piano. Sentì un rumore, come qualcosa che rotolava nella sua direzione; fece appena in tempo a voltarsi e a vedere un bussolotto rotolare sul pavimento verso di lui, emettendo del fumo dalle due estremità. Cazzo!, pensò cercando di raggiungere l’uscita, che trovò saldamente sprangata da una saracinesca d’acciaio.
«Maledizione!», urlò scaricando sulla porta il suo Ryuseiken, nella speranza di aprirsi un varco.
Come riuscì perforare di un paio di centimetri la serranda, quanto sarebbe bastato per infilare le dita e crearsi un varco, un fumo bianchissimo, denso e dolciastro invase la stanza, insinuandosi nella sua gola e nei polmoni.
«Maled…», disse prima di iniziare a tossire e a lacrimare copiosamente. Corse via, cercando un modo per scappare da quel fumo che gli stava entrando ovunque e lo costringeva a sputare fuori anche l’anima. Si ritrovò in un angolo cieco, il muro davanti a sé e la coltre di fumo che lo seguiva dietro e da destra.
Proviamo di là…
Si gettò a destra, correndo in apnea e cercando di aprirsi un varco nella nebbia che aveva preso possesso del quarto piano. Cadde dopo una trentina di passi, senza aria nei polmoni, solo un grande e pesante sonno a chiudergli le palpebre gonfie.


Mi sembra tutto troppo semplice, pensò entrando al primo piano e lasciando una piccola zeppa a tener aperta la porta dell’ascensore. Si diresse nel corridoio che s’apriva davanti a lui illuminato dalle fioche luci d’emergenza. Contò una dozzina di porte zincate verdi che si affacciavano sul corridoio ad intervalli regolari prima di trovarsi davanti ad un bivio: sia a destra che a sinistra il secondo corridoio terminava in una soffusa luminescenza verde pallido.
Destra, decise dopo aver ascoltato eventuali rumori in entrambe le direzioni. Percorse altri due corridoi simili, costellati da porte verdi tutte uguali e tutte altrettanto anonime, tornando al punto di partenza. Sta a vedere che dovrò aprirle tutte, si chiese guardando una porta a caso. 
Cominciò dal corridoio in cui si trovava e andò avanti per una buona mezzora fino a che non sentì l’inconfondibile rumore degli stivali della sorveglianza scalpitare sul pavimento. Si chiese come avessero fatto ad accorgersi della loro presenza: eppure avevano disattivato il sistema delle telecamere di sorveglianza. Sentì un click sopra la sua testa ed alzò il viso di scatto accorgendosi che alcune telecamere stavano continuando a riprendere. Staccò una penna di bronzo dalla coda dell’armatura e la lanciò contro la lente che stava trasmettendo le sue mosse a chissà chi. 
L’immagine dell’uomo in armatura tremò e poi scomparve dallo schermo in bianco e nero.
«Che spreco d’energie… Attenzione, sergente Sakurada, il sospetto si trova ad ore nove rispetto alla vostra posizione. Probabilmente cercherà di attaccarvi, siete autorizzati ad aprire il fuoco. Passo.»
«Ricevuto, signore, passo!»
«Passo e chiudo!»
Spense il microfono e tornò a guardare gli schermi davanti a sé: mancava solo quella specie di scarafaggio gigante che brillava al buio. «Uno così lo vedrebbero anche nel culo dell’inferno…», commentò andando poi a guardare tre monitor separati dagli altri. Nel primo, un uomo era legato ad una brandina con la flebo ormai da cambiare. Nel secondo, due uomini in ceppi sembravano dormire. 
Nulla da segnalare nel terzo. Il telefono squillò.
«Mi dica, signore.»
«E il secondo? L’avete preso?»
«È questione di attimi, ormai.»
«Fatti, non parole! Voglio i loro cadaveri sulla mia scrivania entro un’ora!», berciò, e troncò la comunicazione.
L’uomo si accese una sigaretta e si sdraiò sullo schienale imbottito della sedia. «Quaranta minuti al massimo… Ci vorranno quaranta minuti al massimo. E poi, tutti a nanna», disse osservando le mosse dell’intruso dai riflessi dorati. «Dai, bello, dai… Avvicinati un altro po’. Vieni nella tela del ragno.»


Dove sei?

La domanda le esplose nella testa, lasciandola frastornata per alcuni momenti.
Dea Athena?, chiese appoggiandosi al muro.
Sì, sono io. Dove ti trovi?
Deglutì: era la prima volta che percepiva per intero la potenza di un Cosmo divino direttamente nella sua testa. Sono nel grattacielo F. a Minato. Stiamo cercando Shun.

Quanti siete?

Tre. Seiya, Ikki ed io. Ci siamo divisi per piani, così da setacciare meglio l’edificio.

Vi sto inviando i rinforzi. Poi parleremo di questo colpo di testa!

Rinforzi?


Niente discussioni! Portali indietro sani e salvi, mi raccomando.

Mi dia la sua benedizione, la prego!

Conosci te stesso.

E niente in eccesso.


Françoise ebbe la strana sensazione che Athena stesse sorridendo, del sorriso di una madre che vede il proprio figlio con i cocci del prezioso vaso di cristallo tra le mani, quello che lei aveva avvisato di non toccare e che era finito lo stesso centrato da una pallonata.
 
E ora va’!

Il cosmo di Athena sparì lentamente lasciandole un senso di pace misto a spossatezza: avrebbe tanto desiderato un letto in cui sprofondare, un letto vero, all’occidentale, non quella specie di sacco a pelo in cui aveva dormito nelle ultime quattro notti. 
 
Ma come fanno i giapponesi a trovarlo comodo? Ho tutte le ossa rotte, vorrei proprio sapere come facciano a fare l’amore su quei cosi!

Ci pensò su un istante, arrossendo subito dopo. Perché io so cosa significa, vero?, si disse scuotendo la testa. È la stanchezza. Sto delirando.
Avanzò di pochi passi fino a che non sentì un suono soffocato, come un singhiozzo; veniva dalla porta davanti a sé, identica a tutte le altre incontrate in quel corridoio. Si avvicinò notando un movimento veloce con la coda dell’occhio; si girò e vide una telecamera muoversi nella sua direzione.
Cazzo!, imprecò caricando l’indice destro e scaricandolo sull’apparecchio, mandandolo in corto circuito. 
Sfondò la porta che aveva davanti; l’interno della stanza era buio, ma si potevano distinguere le sagome degli oggetti. Un armadio, un paravento, un letto: una stanza d’ospedale, occupata almeno a giudicare dai singhiozzi che giungevano dal letto su cui era rannicchiata una figura umana. 
Chi sarà?, si chiese avvicinandosi sulla difensiva e scoprendo che il letto era occupato da una donna in avanzato stato interessante. Fisico minuto e grande pancione coperto da un lenzuolo candido. 
Polsi ingabbiati in cinghie di cuoio che le avevano provocato delle vesciche sulla pelle candida. Capelli nerissimi, sparsi sul cuscino e viso ovale deturpato dal pianto. La donna si accorse della sua presenza ed aprì i suoi grandi occhi blu, fissandola terrorizzata. 
Fece appena in tempo a tapparle la bocca e a sussurrarle: «Sst! È arrivata la cavalleria!», prima di riconoscere la ragazza prigioniera in quel letto. «Mon Dieu!»


Note:
Porteños sono gli abitanti di Buenos Aires.
Churrasco è uno spiedino di carne tagliata a pezzi grossi, che si cuoce alla griglia, tipico dei gauchos della Pampa.

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Capitolo 16
*** 16 ***


16.

 
 
La pioggia aveva iniziato a cadere a secchiate dal cielo plumbeo, rimbalzando sull’asfalto e scorrendo in lunghi rivoli per le strade deserte. Un lampo illuminò per un istante la stanza e il viso della ragazza che la fissava con gli occhi strabuzzati.
Che… che ci fai tu qui? «Sono Françoise… Françoise, mi riconosci?», provò a rassicurarla, scostando il diadema con la mano libera. Le lasciò la bocca, ma la ragazza iniziò a parlare in una lingua che lei non conosceva.
Cinese! E figuriamoci!, pensò provando a parlarle con più calma.
«Tesoro, non capisco una sola parola di quello che dici…»
Lei sembrò agitarsi ancor di più, terrorizzata oltre misura. Il nome di Shiryu, ripetuto più volte, fu l’unica cosa che riuscì a comprendere, in quel mare di sillabe accatastate l’una sull’altra.
«Avanti, andiamo da Shiryu…», disse sfilandole la flebo dal braccio e rompendo i lacci che le imprigionavano polsi e caviglie. L’aiutò a mettersi seduta e le avvolse sulle spalle una coperta che si trovava ai piedi del letto. E le sussurrò: «Tranquilla, è tutto finito…». 
Si diresse verso la finestra: erano al secondo piano e ritenere di poter saltare giù con lei in quelle condizioni avrebbe significato metter a morte certa il bambino che aveva in grembo e forse anche la madre. D’altra parte, non poteva certo uscire dalla porta principale come se niente fosse, giusto?
Espanse il cosmo, alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla. Servirebbe il teletrasporto, pensò; ma Mu era troppo lontano per sperare che le teletrasportasse direttamente a Kido Manor.
Due continenti ed un braccio di mare a separarli.
Decise di tentare il tutto per tutto. Scostò la tenda e guardò fuori, nascosta dietro un angolo. Sembrava non esserci nessuno ad aspettarle e la pioggia avrebbe garantito loro un piccolo vantaggio. Strappò la tenda e vi si avvolsero, avendo cura di coprire la gestante, proprio mentre la porta della stanza si apriva, sfondata da un calcio ben assestato.
Athena aiutami!, pregò cozzando contro il vetro, mentre la tenda svolazzava nell’aria. Atterrò sull’asfalto, il cosmo che cercava di proteggere la ragazza dai proiettili che stavano piovendo loro addosso dalla finestra del secondo piano.
Imbecilli! 
Schizzò via con Shunrei tra le braccia e la tenda come mantello.
 
 
Il corpo candido e morbido di Irina rispondeva come sempre alle sue carezze. Era come un violino, che vibrava se si toccavano le corde giuste: il collo sottile, le spalle ben delineate, il seno morbido, i fianchi torniti, le gambe che si stringevano con forza attorno a lui. Affondò il viso nell’incavo del collo di Irina, sprofondando nei suoi capelli biondi.
La scrivania del suo studio non era il posto migliore dove farlo. Spostare con una manata le carte impilate e sbatterla sulla superficie laccata per strapparle la camicia di dosso aveva in sé un sapore violento e maschio e sapeva che lei adorava questo modo di fare così animalesco; tuttavia le sue ginocchia protestavano ogni volta che sbattevano contro il legno pieno della costosissima scrivania. Farlo su un ampio letto a due piazze era molto più comodo, ma Irina sembrava non essere sfiorata da questi pensieri, adesso: mugolava, la testa all’indietro e gli occhi chiusi, lui lo sapeva, e le mani che correvano sulle spalle del suo uomo, stringendo la pelle e graffiandola con le unghie corte.
«Ja…lubja…tebia…», mormorò con la voce spezzata dal piacere, prima che la luce rossa dell’interfono cominciasse a lampeggiare impazzita.
Fece per voltarsi e rispondere quando la mano di lei lo fermò.
«Non adesso!», lo implorò spingendoselo contro e tenendolo stretto con le gambe. «Non adesso…»
Si liberò della mano di Irina e rispose all’interfono.
«Che succede?»
«Chiedo scusa, signore, ma la cavia 13792 è scappata.»
«Che cosa?», urlò mentre sgusciava fuori da lei e l’abbandonava sulla scrivania come fosse stata una bambola di pezza.
Irina chiuse gli occhi, sospirando nel tentativo di riprendere il pieno controllo di sé. Portò le gambe a terra e si alzò dal piano, sedendo sul bordo del mobile, la gonna ancora attorcigliata sull’addome.
«Com’è possibile che una donna al nono mese di gravidanza, legata mani e piedi, si lanci dal secondo piano di un palazzo?»
Volonskij urlava, fuori di sé, mentre si tirava su i pantaloni e si sistemava la camicia spiegazzata: ora la sua mente era a mille chilometri lontana da lei, concentrata sulla rogna che gli era appena capitata. Irina pensò che apprezzava questo suo carattere così concreto e poco incline a lasciarsi andare. Si sistemò i capelli con una penna mentre lui finiva d’inveire contro l’addetto alla sorveglianza.
«Trovatela, cazzo! Prendete anche il prototipo RX79 e portatelo a Kido Manor! Sono sicuro che si saranno rifugiati lì.»
«E del primo intruso che ne dobbiamo fare, signore?»
«Scioglietelo nell’acido, cazzo!», ruggì chiudendo la comunicazione. Portò entrambe le mani sulla scrivania, scaricando il peso del corpo sulle braccia per ritrovare la giusta lucidità. «Saori Kido… chi semina vento, raccoglie tempesta…»
 
 
«È andata da quella parte, presto!»
Sachiko correva nella direzione indicata dal suo superiore, mitra tra le braccia, mano sinistra sul grilletto e destra sul silenziatore. Ancora quei maledetti intrusi! Ancora quei pazzi terroristi che cercavano di impedire in tutti i modi le ricerche del dottor Volonskij. 
Prima quella traditrice della dottoressa Mc Namara, che era fuggita dalla base rapendo il malato che il dottore stava curando; e dire che era stato proprio lui ad offrirsi come volontario per sperimentare la cura che il dottore e la sua assistente Irina stavano perfezionando. E adesso, non paghi, si erano introdotti nel laboratorio di Minato per rapire la donna malata che aveva concepito un figlio sano. E che senza l’aiuto e i medicinali e del dottor Volonskij non sarebbe mai nato.
 Maledetti!, pensava stringendo i denti e correndo con i suoi compagni.
«Di là, avanti! È velocissima!», urlò l’uomo seguendo il segnale sul visore. Il puntino rosso svoltò a destra per poi sparire.
«Merda!»tuonò l’uomo raggiungendo il luogo della sparizione e trovando una leggera brina che decorava lampioni, strada e cassonetti.
 Ma che succede?, si chiese Sachiko notando dei cristalli di neve scendere dal cielo. 
«Com’è possibile?», si sentì dal gruppo di soldati che guardavano la neve come bambini la Vigilia di Natale.
«Restate uniti!», li esortò il comandante alzando la voce affinché non si lasciassero prendere dal panico.
«Là!», si sentì prima che una sventagliata di mitra partisse in direzione di un cassonetto.
«No, di là!», gridò qualcun altro crivellando di colpi una sagoma apparsa dal nulla.
«Fermi, pezzi d’imbecilli!», gridò, invano, il caposquadra, costretto ad alzare il mitra dei propri uomini prima che questi sprecassero tutti i proiettili in dotazione. O lasciassero uno di loro steso a terra. «Non vedete che è immondizia?»
«No, signore! Guardi lì!», disse Sachiko indicandogli la struttura dei bersagli trapassati dai proiettili: erano tutte sagome in cristallo, simile ad un giovane uomo con indosso delle protezioni.
«Ma che diavolo è?», scappò detto all’uomo, che si avvide solo in quel momento dell’ombra anomala proiettata dal lampione.
«Vedo che alla fine vi siete accorti di me…», disse una voce ridendo: era sicuramente uno straniero, anche se il suo giapponese era perfetto.
«Chi sei?», tuonò il comandante prima di vedere i fiocchi di neve aumentare d’intensità.
«Qualcuno che vi renderà inoffensivi per un po’…»
L’uomo si alzò dal sedile improvvisato e scese a terra con un balzo.
Sachiko rimase a fissarlo, perplessa: era un ragazzo, sì e no di vent’anni, e solo ora si accorgeva della straordinaria somiglianza con le sagome di cristallo. Portava indosso quelli che a Sachiko erano apparse delle protezioni: era invece una corazza bianca, un po’ ridicola forse, con quel gonnellino a pieghe e la testolina della paperella che faceva capolino dal diadema che teneva indietro una gran massa di capelli biondo oro.
È un vero peccato bucherellare un così bel pezzo di figliolo, si rammaricò Sachiko mentre notava l’azzurro intenso degli occhi del nemico. Alzò il mitra e lo tenne sotto tiro. Non fece in tempo a premere il grilletto che si trovò silenziatore e canna completamente ghiacciati. Qualcuno provò a sparare ugualmente, ma l'arma gli esplose in mano.
«Non voglio farvi del male!», tuonò il ragazzo. Si avvicinò al comandante del drappello e gli afferrò il bavero della tuta imbottita. «Ditemi dov’è Shun!»
«Di chi stai parlando?», chiese l’uomo in nero sostenendo lo sguardo di ghiaccio. «Sparate! Sparate!», ordinò poi ai suoi sottoposti.
«E con cosa di grazia?», ribatté lo straniero con un sorrisetto ironico. «Non ti sei ancora accorto che i tuoi uomini sono congelati fino alle ginocchia?»
L’uomo portò lo sguardo sul suo drappello, notando come le parole del nemico fossero vere. «Merda!» gli sfuggì realizzando come tutta la sua squadra fosse bloccata sul posto fino a metà gamba, le armi inutilizzabili.
«Te lo ripeto per l’ultima volta… Dov’è Shun?!»
L’uomo sorrise sprezzante e a Hyoga venne una voglia irrefrenabile di spiaccicargli sull’asfalto quel ghigno da maiale.
«Maledetti stronzi!», urlò sollevando in aria l’uomo. «Non vi bastavano Shiryu e Shun? C’era bisogno di rapire anche una donna incinta?»
«Macché rapita e rapita!», berciò Sachiko alzando la visiera del casco in dotazione. «Quella donna ha una grave malattia e suo figlio sarebbe nato sano grazie alle cure che…»
«Sta’ zitta!», le gridò il superiore prima che Hyoga lo sbattesse per terra e si avvicinasse a lei.
«Dimmi quello che sai. Tutto», sibilò a bassa voce fissandola negli occhi: Sachiko provò un freddo ancor più intenso, se possibile, rispetto quello che sentiva averle imprigionato le gambe, ricambiando l’azzurro profondo di quelle iridi d’acciaio.
«Il professor Volonskij è un luminare! Voi terroristi non potrete mai capire…», ribatté la ragazza sotto l’impeto di un crescente quanto inaspettato coraggio.
Hyoga le fece volare via l’arma con una manata.
«Se io fossi un terrorista, a quest’ora voi sareste tutti al Creatore, ci hai pensato? O non ti è passato nemmeno per l’anticamera di quel tuo cervellino ammuffito?»
Sachiko lo fissò stupita. 
«Non mi credi? E allora riflettici su, tanto ne avrete di tempo! E io non ne ho da perdere dietro a voi!», proseguì sorridendo con quelle labbra imbronciate, che Sachiko si chiese come dovevano baciare.
Saltò verso l’alto e sparì.
«Campo base, campo base, passo! Sono Rakamori, campo base mi sentite, passo?»
Rimase con la ricetrasmittente in mano fino a che non disse:«Ragazzi, le strumentazioni sono tutte fuori uso.»
«Lancio il razzo di segnalazione, signore?»
«Certo, geniale! Così ti esplode in mano!», ribatté il caposquadra, riluttante all’idea di aver perso la preda e di dover passare la notte all’addiaccio sotto la pioggia battente che aveva ricominciato a cadere fitta fitta dopo la partenza dello straniero.
 
 
Françoise era in piedi accanto al letto a baldacchino, l’armatura ancora indosso, e vegliava qualcuno, tenendogli la mano e sussurrando parole sottovoce. Al centro della stanza, erano ammonticchiati dei panni, bagnati fradici.
«Françoise…?», disse Saori entrando ed avvicinandosi. «Stai bene? Tatsumi mi ha detto…»
Le parole le morirono in gola non appena lanciò lo sguardo sulla ragazza semi svenuta adagiata sotto le lenzuola candide.
«Tatsumi ha chiamato un medico?», chiese Cancer fissando negli occhi Athena. «Serve un ginecologo…»
«Ma cosa…?»
«L’ho trovata in quel palazzo. Legata mani e piedi ad un letto d’ospedale. Aveva una flebo che la nutriva, credo, ed alcuni macchinari a cui era collegata… Ed è incinta… in stato avanzato.»
Lo vedo. «Povera cara…», commentò Saori accarezzando le guance rigate di pianto della ragazza distesa. «Adesso va tutto bene…»
«Non ho capito una sola parola di quello che ha detto, parla solo il suo dialetto», aggiunse Françoise sfilandosi il diadema dalla testa. «Ripeteva il nome di Shiryu, solo questo…»
«Shiryu…»
Shunrei la guardò come implorandole di vedere il suo amato. Rimase con gli occhi fissi sui suoi, chiamandola con un cenno del capo. «Shi…ryu…?», ripeté Shunrei, gli occhi blu accesi di speranza.
«Adesso arriva», le rispose Athena.
«Vado a prendertelo io, promesso!», disse Françoise mostrando alla ragazza il pollice della mano destra.
«Sono già andati in quattro al grattacielo F. Conviene aspettare il loro ritorno», rispose Saori stringendo le mani di Shunrei tra le sue. E il suo tono non ammetteva repliche.
«Ma…», provò ugualmente a ribattere, quando incontrò lo sguardo di Athena.
«Esci dalla stanza e dì a Tatsumi di chiamare il dottor Komatsubara. Subito. E poi aspetta insieme agli altri. Intesi?»
«Intesi.»


Hyoga arrivò sul retro del palazzo acquattandosi dietro il muro che delimitava l’edificio. Trovò la porta antincendio aperta e si introdusse nel palazzo. Salì un paio di rampe quando, attraverso la tromba delle scale, notò che queste scendevano anche nelle viscere dell’edificio. Fece marcia indietro, decidendo di provare la strada dei sotterranei, il percorso più rischioso.
È un suicidio, ma non li avranno certo messi all’attico!, pensò scendendo al primo seminterrato. Si nascose dietro la porta d’accesso e ascoltò: solo il ronzio di un vecchio ventilatore. Spinse la porta, che trovò chiusa. A mali estremi, si disse iniziando a congelarla. Bastò un solo colpo secco per mandarla in pezzi come fosse fatta di cristallo. Entrò di corsa, trovando una decina di porte che si affacciavano su un corridoio illuminato dalle luci d’emergenza.
«Hyoga! Hyoga!»
Il sussurro appena percettibile si rivelò essere una voce amica, che lo stava chiamando da dietro una porta.
«Shiryu, sei tu?», chiese cercando di forzare la serratura.
«Sì, sono qui dentro!»
«Ti libero subito!»
Shiryu era in condizioni pietose: magro, emaciato e pieno di lividi, era appeso per i polsi ad un gancio che pendeva dal soffitto. Era coperto da una specie di pigiama blu, di un paio di taglie più piccolo, strappato ai bordi e sulle maniche, e pieno di segni di bruciature. Accanto a lui, un uomo di cinquant’anni era nelle stesse condizioni: indossava un camice da laboratorio semi distrutto sopra un paio di pantaloni marroni. Il tanfo di urina e aria viziata avrebbe fatto vomitare chiunque.
Hyoga si riempì i polmoni d’aria ed entrò, raggiungendo Shiryu in pochi passi; mise le mani sui ceppi, congelandoli, quindi si volse verso l’amico.
«Ce la fai a romperli?»
Gli occhi di Shiryu, di un verde ancor più intenso nonostante lo stato malandato in cui versava, risposero di no. Hyoga esercitò una leggera pressione ed i congegni andarono in mille pezzi. Si caricò l’amico in spalla e lo avvicinò all’incavo della porta.
«Aspettami qui!», gli ordinò andando ad occuparsi dell’altro prigioniero; quando tornò, aiutò entrambi a raggiungere un posto sicuro.
«Dobbiamo sbrigarci ad andarcene, ce la fai a starmi dietro?», gli chiese mettendosi l’altro uomo in spalla.
«No… Io sono allo stremo delle forze», rispose Shiryu cercando di restare in posizione eretta. «Lascia perdere me, porta via Asamori.»
«Che cosa? Costui sarebbe…?», chiese Hyoga andando con gli occhi di ghiaccio da Shiryu all’uomo esanime che teneva sulle spalle.
«Sì», tagliò corto il Dragone e il Cigno si diede dell’idiota da solo. Ovvio che si trattasse di Asamori. Chi altri avrebbe potuto essere? Ivan Zarevič? «Non c’è tempo per le spiegazioni, adesso! Vai!»
Hyoga annuì. «Tornerò presto, tu intanto nasconditi!»
«Aspetta!», lo chiamo a sé come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa d’importante. «Rompi questo cerchio che ho sulla fronte, prima di andartene…»
Hyoga lo notò solo in quel momento, semi nascosto dai capelli di Shiryu incollati alla sua fronte: era un cerchio sottile, di un metallo che riproduceva i bagliori freddi dell’argento.
«Con questo affare addosso non posso espandere il mio cosmo…», spiegò indicandoglielo.
Hyoga fece per toccarlo, quando dal cerchio partì una scarica elettrica di micidiale intensità. Shiryu fu sbalzato a terra, tra la polvere e le ragnatele abitate da insetti ormai dissanguati, e Hyoga lasciò cadere a terra Asamori.
«Bastardi…», commentò il Cigno alzandosi e strofinandosi gli occhi. «Aspetta, lo congelo», e in pochi istanti un sottile strato di brina coprì il cerchio sulla fronte di Shiryu. Quando fu sicuro di aver neutralizzato ogni possibile minaccia, Hyoga lo ruppe.
«Adesso ascoltami», gli disse mentre lo aiutava a rialzarsi. «Seiya ed Ikki sono ancora qui dentro, anche se non percepisco bene il loro microcosmo; gli altri arriveranno tra poco. Tu espandi il tuo cosmo, vedrai che a breve qualcuno ti troverà…»
«Ok, ok…adesso vai…», gli rispose sorridendo. «Sono un rifiuto umano, ma so badare a me stesso…»
Hyoga si rimise Asamori in spalla e annuì. «Resta nascosto, ok? Non preoccuparti per Shunrei, Françoise l’ha portata via di qui.»
Shiryu strabuzzò gli occhi verdi. «Shunrei?»
«Sì», disse Hyoga. Vuoi vedere che non lo sapeva?, si chiese vagliando quell’ipotesi. «Lei e il bambino staranno bene, vedrai…»
«Bambino?? Quale bambino?»
 

L’umore di Milo si aggirava nei dintorni del nero cupissimo.
A fargli andare di traverso la giornata non era stato tanto il fatto che Seiya avesse agito di testa propria; a quell’evenienza era preparato dal momento stesso in cui aveva chiesto ad Aiolia di partire al posto suo, figuriamoci!
No, non era quello, né il fatto che quell’altra incosciente avesse deciso di far casino assieme a loro. Non solo, almeno. Quello che aveva abbassato di colpo l’umore, e la pazienza, del Santo dello Scorpione aveva un nome ben preciso: incertezza.
Se aveva accolto con un sorriso di finta accondiscendenza il racconto sghembo e zoppicante che gli aveva fatto Andrew, man mano che i minuti passavano, Milo si rendeva conto delle implicazioni che comportava trovarsi di fronte un nemico non convenzionale.
Che cosa avrebbero dovuto aspettarsi? Come rispondere? E soprattutto, erano certi che non vi fosse lo zampino di qualcun altro, oltre al manipolo di scienziati pazzi che si era dilettato a trattarli alla stregua di cavie da laboratorio?
Finiscila! Stai diventando paranoico!, si disse mettendo un freno a quei pensieri che rischiavano di sfociare nell’ossessione verso un solo, unico nome.
Loki.
Sebbene il dio dell’Inganno fosse ormai sconfitto da tempo, qualcosa dentro di lui gli suggeriva di non abbassare la guardia, non del tutto almeno. Ecco perché aveva chiesto ad Aiolia di partire al posto suo. Spera nel meglio e preparati al peggio, diceva sua nonna, e questo proverbio era una delle zavorre di cui non riusciva a fare a meno.
Anche se non vedo cos’altro potrebbe andare storto, pensò il ragazzo fissando le porte bianche dietro cui era sparita Athena da cinque minuti buoni. 
Tatsumi era caracollato nel salotto per avvisarla del ritorno all’ovile di Françoise.
«Oh, milady, milady», aveva ripetuto quello che minacciava di diventare il tormentone della serata, «Milady, presto! Cancer è tornata e ha bisogno di un medico! È… oh, quell’incosciente!», aveva detto, bianco come un lenzuolo.
E Saori l’aveva seguito, e lui con lei, sfiorando appena la guida rossa sotto di sé. Cosa poteva essere successo perché lei tornasse ferita? Che cosa? 
Tatsumi si era fermato davanti alla porta bianca a doppio battente e l’aveva aperta dicendo: «È qui, milady. Ho già chiamato un medico.»
Saori era scivolata all’interno della stanza, e Tatsumi aveva richiuso la porta.
«È meglio che tu resti qui», gli aveva detto, e per Milo era iniziata la più snervante delle attese.
Meglio? Meglio per chi?
Perché non poteva entrare? Non voleva? Era ridotta così male da non volersi far vedere da lui? Poi Milo aveva ricevuto un’illuminazione: uscite simili erano perfettamente in linea con il carattere di Françoise. Avrebbe dovuto, semmai, stupirsi del contrario.
Aveva anche pensato che potesse essere ferita, ma un rapido colpo d’occhio al pavimento aveva escluso questa possibilità. Non c’erano macchie di sangue, solo un pantano generico che insozzava la guida e il pavimento tirato a lucido. Anche se… avrebbe senso questo suo comportamento, aveva pensato, e la sua mente aveva iniziato a vagliare l’ipotesi che non vi fosse lo zampino di una vecchia conoscenza.
La porta si aprì che Milo ancora pensava a quali altri conigli stessero per spuntare fuori dal cilindro. Era Françoise. Sana, zuppa come un pulcino e visibilmente turbata, ma non presentava ferite, tagli o abrasioni. Non aveva nemmeno un graffio.
La prima ipotesi, quella del puro capriccio di una bambina offesa – non si sa bene per cosa – acquistò sempre più tridimensionalità, e ciò non fu un bene per l’umore dello Scorpione, che precipitò verso abissi ancora da esplorare.
«Milady ha detto di chiamare il dottor Komatsubara. Subito, per favore», disse lei a Tatsumi. Ignorandolo.
L’uomo annuì e filò dall’altra parte del corridoio, alla ricerca di un telefono.
Erano soli. Ora o mai più.
«Eccoti qui», disse Milo, inchiodandola a due passi dalla porta.
«Eccomi qui», rimbeccò lei, e questo non aiutò. 
Fece per allontanarsi – sembrava volesse mettere quanto più spazio possibile tra di loro – ma lui quasi le sbarrò la strada.
«Fammi passare.»
«Dove vai?»
«Prego?»
«Ti ho chiesto dove vai?»
«Non credo che sia…»
«… affar mio?», l’interruppe Milo.
«Esatto», rispose lei. Non era intenzionata ad ascoltarlo, men che meno a farsi zittire da lui. «Come hai fatto ad indovinare?»
Conosco i miei polli, pensò Milo, che invece disse:«Ti sbagli.»
«Prego?»
Milo sapeva cosa stesse per dirgli lei, una frase spiacevole che tuttavia non mancava mai di ripetergli ogni volta che litigavano. In pratica, ogni volta che s’incontravano. Tu non sei mio fratello, questo gli sibilava, fredda e tagliente come solo Camus sapeva essere, e a lui toccava incassare e starsene zitto.
Perché era vero. Lui non era e non poteva essere suo fratello, per quanto avesse giurato sulla tomba di Camus che si sarebbe preso cura di lei, e alla fine, anche se armato delle migliori intenzioni possibili, Milo doveva chinare la testa e dargliela vinta.
Ma c’era un aspetto della sua esistenza che Françoise non aveva mai dato segno di aver preso in considerazione, anche se avrebbe dovuto essere – almeno in teoria – l’unico aspetto della sua vita. Ed era proprio quell’aspetto che Milo voleva schiaffarle sotto agli occhi, attendendo il momento propizio con la pazienza di Giobbe.
«Ho detto che ti sbagli.»
«Ah, davvero?», domandò lei sorridendo sfrontata.
«Sì, davvero. Perché io non sono certo tuo fratello», disse lui prevenendola, «ma sono pur sempre un tuo pari. E come tale, mi trovo costretto a farti restare in questo palazzo.»
«E questo chi l’avrebbe deciso?»
«Athena», rispose lui. «E mi ci gioco la testa che ti ha ordinato di aspettare in silenzio assieme a noi altri.»
Colpito. Colpito e affondato, per giunta.
«Bene. E cosa si fa? Una partita a canasta?»
«Perché no?», rispose Milo indicandole la strada con la mano sinistra.
Françoise obbedì di malavoglia, seguendolo in una stanza del piano terra.
 

Dei quattro Bronze Saint mancanti, Ichi e Nachi, se ne stavano comodamente sprofondati in un ampio divano di pelle marrone, mentre Ban e Geki guardavano fuori dalla porta finestra che dava sul giardino buio. Milo entrò e rimase in piedi, appoggiandosi con un braccio all’ampio camino della stanza.
«Buonasera…», disse Geki sfoderando il migliore dei suoi sorrisi, ma Françoise non vi fece caso. Il suo sguardo fu catturato da una sola persona, comodamente seduta in poltrona, le mani nelle mani.
Ruy…?, pensò mentre non sentiva altro che il proprio cuore fermarsi per riprendere a battere all’impazzata.
Jimena alzò la testa verso di lei. Si limitò a sorriderle e a tornare ad immergersi nei propri pensieri come se niente fosse.
Se da un lato Milo si era sentito sollevato vedendo che godeva di ottima salute, dall’altro non gli era sfuggito lo sguardo di Françoise sul nuovo acquisto. Sull’armatura del nuovo acquisto. Simile in tutto e per tutto a quella del defunto Shura. I suoi occhi erano diventati ancor più grandi, il viso era impallidito e la bocca era rimasta aperta dalla sorpresa.
Fantasma evanescente un cazzo, pensò osservando la scena.
«Non ti hanno mai detto che non si fissano le persone?», le sussurrò all’orecchio. Vicino. Molto vicino. Al punto da sentire il profumo al cocco del suo balsamo per capelli.
A Françoise non sfuggì il tono usato da Milo; si ripromise di metterlo a tacere, ma non adesso, non adesso che aveva una sorta di visione davanti agli occhi.
«Salve. Sono Françoise di Cancer», le disse porgendole la mano. 
Mano che non fu accettata. Jimena si limitò a rispondere con un poco convinto:«Jimena di Capricornus. Salve.». E basta.
Françoise si sentì come se le avanzasse un pezzo.
Una volta il suo maestro aveva deciso di riparare la sveglia. L’aveva aperta e smontata, allineando ogni pezzo sul tavolo davanti a sé. Alla fine, sistemata l’anomalia e richiusa la sveglia, era avanzata una molla sottile sottile.
«E questa, maestro?», gli aveva fatto notare Andrea, chiamandolo col suo titolo. Nonostante lei conoscesse il modo in cui Andrea lo chiamava quando rimanevano da soli. Marco.
«Non serve», aveva risposto lui, e così Françoise considerava quella mano rimasta a mezz’aria, il braccio teso in posizione amichevole: un’inutile appendice, di cui non sapeva cosa farsene e dove metterla. Ad Andrea rispondeva sempre, pensò accomodandosi di fronte la nuova arrivata.
«Stai bene?», le chiese Geki, in piedi alle sue spalle. «Tatsumi ha detto che…»
«Sto bene. Era Shunrei ad aver bisogno di un medico.»
«Shunrei?», chiese Ichi.
«Sì, l’ho trovata in quel palazzo, legata ad un letto.»
«Ma che ci faceva lì?»
«Non ne ho la più pallida idea…», rispose sedendosi. E rabbrividendo. «Qualcuno m’illumina sulla situazione? Perché io penso di essermi persa qualcosa», disse Françoise ignorando le occhiatacce di Milo. 
 «È una lunga storia», disse lo Scorpione, prima che Geki facesse cenno all’Idra di alzarsi, si sedesse accanto al Cancro e le sorridesse.
«Penso che un brandy ti scalderebbe, sai? Anche se credo che dovresti toglierti di dosso questa roba bagnata…»
«Non bevo alcolici», rispose la ragazza ignorando gli sguardi del bestione seduto accanto a lei. «Allora? Chi mi faun riassunto?»
«Le presentazioni le abbiamo già fatte», disse Milo avvicinandosi al divano e posizionandosi alle spalle della ragazza.«Lei è la controparte femminile di Shura», o almeno di quello che io conoscevo con questo nome. Jimena sorrise, quasi a comando. «Credo che lei sia la più indicata per spiegare la situazione.» Anche se credo anche io che dovresti cambiarti, aggiunse tra sé e sé.
«Tocca a me illustrare come stanno le cose?» disse Jimena e nella sua voce aleggiava un seccato ancora una volta?, fatto di tedio e noia. «Da dove comincio?»
«Dal principio», le suggerì Milo, fissando il pezzo di ghiaccio che lo stava volutamente ignorando.
«Ok. Io sono la compagna di quello che tutti voi conoscevate come Shura del Capricorno.»
Tutti tranne mademoiselle, pensò Milo guardando le gocce sui capelli castani che ricadevano in morbide onde sulle spalle di Françoise. Françoise che aveva strabuzzato gli occhi alla parola compagna.
«Compagna?», chiese infatti. «Sì, compagna», rispose Jimena. «Abbiamo avuto lo stesso maestro. No, non sono spagnola, sono argentina.» «Ah.» Era sollievo, quello che Milo leggeva sul volto di Françoise?
«Mi sono recata a Naxos, a ritirare la mia Armatura da Athina di Virgo, qualche mese fa», proseguì Jimena. «Lì ho trovato anche Shaka. E una missione.»
E che ci faceva Shaka in casa di Athina?, si chiese Milo.
«Ossia?», domandò Françoise pendendo dalle labbra di Jimena.
«Patrick del Centauro era scomparso mentre investigava su alcune sparizioni tra gli abitanti di un paese sperduto nella campagna irlandese. Shaka aveva già inviato un altro suo allievo, Andrew di Perseo, in seguito alla sparizione segnalata dal Santo della Lucertola, Fiona; ma anche di questi due non c’era alcuna traccia…»
Françoise sentiva la sua voce, ma distrattamente, come fosse una nota di fondo o poco più. Più la guardava, più le somiglianze con Ruy diventavano evidenti: lo stesso modo di strascicare la fine delle parole, lo stesso accento marcato, la stessa hota profonda e lo stesso timbro musicale nella voce. Le sembrava di averlo lì davanti a lei, vedeva il volto di Ruy sovrapporsi a quello della sua ragazza. Sorrideva Jimena, e sorrideva lui. Parlava lei, e parlava anche lui. Avrebbe voluto gridare per dare libero sfogo alla pressione che le stava dilaniando lo stomaco. Qualcosa dentro di lei le ripeteva che non doveva pensare a lui, che ormai era morto e che lei era la sua compagna. Qualcosa che, nonostante le rassicurazioni di Jimena, suonava con il timbro secco e duro di un portone che si chiude. Per sempre.
Tuttavia, quell’accento del nord continuava a rimbombarle nel cervello come un’eco infinita.
«Trovai il Centauro troppo tardi, mentre riuscì a salvare solo Andrew e Fiona.»
«Lucertola e Perseo», tradusse Milo cercando di attirare l’attenzione di Françoise che sembrava essere una statua di sale morbosamente interessata al pavimento di marmo di Carrara.
«No. È il contrario», disse Jimena, paziente. «Andrew di Perseo e Fiona della Lucertola.» Silenzio. «Però, il lato positivo fu che venimmo a conoscenza delle ricerche del professor Volonskij sul Cosmo e su come questo sia veicolato attraverso il corpo umano.»
«Cosa?»
Jimena trattenne un sospiro seccato. Era la terza volta che ripeteva quella storia nel giro di due giorni e stava iniziando ad innervosirsi.
«Ogni essere umano possiede il cosmo. Ogni cosmo è veicolato nel sangue dal cosiddetto Fattore C, che porta il cosmo fino al cervello. Come fanno i globuli rossi con l’ossigeno. Solo che mentre tutti gli esseri umani, e forse anche tutti gli esseri viventi, possiedono il cosmo, solo in pochi riescono a riprodurre il Big Bang, e sono ben pochi quelli che riescono a sopportare una tale esplosione d’energia.»
«Questo non lo sapevo», rispose Françoise chinando di lato la testa.
«Aiolia non ti ha mai parlato di Galan, mademoiselle?», le chiese Milo, ma lei si limitò a scuotere la testa e a mormorare un frettoloso «No.» prima di rivolgersi nuovamente a Jimena.
«E questo Volonskij avrebbe trovato il modo di estrarre il cosmo dalle persone? E per farne che? E come sapeva…»
«Una cosa per volta…», la fermò Jimena, prima che la subissasse di domande.
«Volonskij collaborò con Asamori», intervenne Milo, seccato dal comportamento irritante che Françoise stava avendo nei suoi confronti. «E stando ai racconti dei Santi d'Acciaio, sparì ad un certo punto, portandosi dietro i progetti delle armature d’acciaio.»
«Giusto», riprese Jimena. «A quanto risulta dal diario del professor Asamori, sembra che questo Volonskij fosse molto interessato all’opportunità di ideare delle macchine che consentissero al corpo umano di creare le particelle C in grandi quantità.»
«E per farne cosa, di grazia?», chiese Françoise, un sopracciglio alzato.
«Ricreare il super soldato», rispose Jimena. Come se fosse la cosa più normale del mondo.
«Cosa, cosa? Ma è scappato da un film di fantascienza degli anni ’50?», chiese Geki incredulo.
«Più o meno», gli sorrise il Capricorno. «Volonskij era interessato a creare delle armature che avessero in dotazione questo congegno, in modo da rivendere la scoperta al miglior offerente.»
«Una spia del KGB?»
«No, non credo», rispose Milo guardando Ban. «Dubito che il KGB fosse a conoscenza delle sue scoperte. E se anche così fosse, le alte sfere di tutti i governi sono a conoscenza dell’esistenza del Santuario e c’è un accordo di non belligeranza. Anzi, il Santuario è un organismo super partes a cui i governi mondiali chiedono aiuto quando non sanno che pesci pigliare.»
«Come successe per Chernobyl», aggiunse Françoise chiudendo gli occhi. «Mio fratello fu inviato a fermare il reattore della centrale nucleare prima che facesse danni maggiori di quelli già provocati.»
«E va bene, non si tratta del KGB», intervenne Geki. «Ma allora questo Volonskij per conto di chi lavora? Devo credere che sia un free-lance
«Non credo», rispose Milo. «Se avesse proseguito  da solo i suoi studi, immagino che avrebbe dovuto avere  a sua disposizione delle cifre considerevoli. O trovare qualcuno disposto a pagargli i conti…»
Perché Athina non mi ha detto nulla?, si chiedeva Françoise fissando avida Jimena. 
«Possiamo solo avanzare delle ipotesi, ma quasi sicuramente sarà stato sovvenzionato da una multinazionale che commercia in armi», disse il Capricorno. Lo sguardo dell’altra addosso iniziava a darle fastidio. E anche parecchio. 
«Multinazionali che lo sovvenzionavano, nella speranza di rivendere la merce al migliore offerente», aggiunse Milo incrociando le braccia.
«Manca un passaggio…», intervenne Françoise.
«Ossia, mademoiselle Poirot?», le chiese Milo sporgendosi.
«Manca il collaudo, genio!» E Poirot è belga, non francese.
«Già e quale miglior collaudo di quello contro gli originali?», disse Nachi. «Maledetti…»
«La penso anch’io così. Loro sanno dove sia il nostro quartier generale, così come noi sappiamo dove si rintanino loro. È solo questione di tempo», concluse Jimena.
«Ha senso. Ma mi chiedo lo stesso come facciano a sapere chi siamo…», disse Ichi carezzandosi la rada peluria che gli ornava il mento e di cui sembrava andar molto fiero. «Voglio dire, non ce ne andiamo in giro con un cartello, no?»
«Semplice, amico mio», rispose Geki con l’aria di saperla lunga. «La Guerra Galattica…»
Le parole di Geki richiamarono dei ricordi ormai sbiaditi dal tempo. I dieci Bronze Saint tornati dall’addestramento con le armature nuove di zecca, che si battevano sul ring del Grado Colisseum, mentre dal Santuario di Athena giungeva loro la scomunica da parte del Sacerdote e la pena capitale decisa come punizione.
«Anche allora Shun era il più popolare di tutti noi», ricordò Nachi ripensando allo scontro tra Andromeda e Unicorno.«Cos’è che gli disse Jabu sul ring?»
«Sì, aspetta com’era…» ,fece Geki sforzandosi di ricordare le parole esatte.
«Sei molto popolare tra le ragazzine», tentò Ban con sicurezza.
«Sì, è vero! Ah, e poi disse In effetti il tuo viso ricorda più quello di un attore che di un prode guerriero!», concluse Ichi sghignazzando. «In quello è rimasto acido come una volta.»
«Adesso ci sono!»
Tutti si voltarono a fissare Nachi.
«Il merchandising! Come ho fatto a non pensarci prima!!»
Il Lupo si passò una mano tra i capelli che teneva a bada con il gel, mentre sul suo viso si andava dipingendo un’espressione incredula.
«Spiegati meglio», quasi gli ordinò Milo, perplesso dal gusto che Lupo dimostrava di possedere in fatto di abbigliamento: camicia a righe e giacca pied-de-poule era un accostamento che non l’aveva mai convinto.
«Verso la metà di Luglio scoprimmo del merchandising della Guerra Galattica in giacenza in alcuni magazzini. Visto che era materiale in eccedenza, decidemmo di tenerne un numero limitato da parte, e destinammo il resto al macero…»
«Come al macero?», intervenne un disperatissimo Ichi. «Non ci posso credere, hai osato mandare la mia bellissima faccia al macero? Sei un essere senza cuore!»
«E…?», chiese Milo ignorando l’infelice uscita dell’Idra.
«E dopo due settimane quegli stessi magazzini subirono un furto. Pensammo si trattasse di rqualcuno che non sapesse come ammazzare il tempo. E invece…»
«E invece c’era qualcun altro interessato al merchandising!», disse Geki, le braccia conserte davanti alla camicia a scacchi bordeaux. «Hanno rubato qualcosa di particolare?»
Nachi ci pensò su un paio di minuti.
«Non ne sono sicurissimo, ma credo che fossero più che altro delle trading card e dei poster…»
«Poster? Trading Card?», chiese Milo aggrottando le sopracciglia.
«Sì, sono delle carte plastificate di queste dimensioni», gli rispose Ichi, mimando con le mani la grandezza dell’oggetto. «Hanno delle immagini sul davanti e delle note sul retro… Età, altezza, gruppo sanguigno, segno zodiacale. Cose di questo tipo.»
«E perché dei Santi dovrebbero avere delle cose del genere sul loro conto?», chiese Jimena, con gli occhi sgranati dalla perplessità.
«Beh, fa parte del lato commerciale dell’evento. Non so se lo sai, ma la Guerra Galattica fu una manifestazione che richiamò tutte le televisioni del mondo!», riprese Geki con l’aria orgogliosa di chi dice io c’ero.
«Appunto…», fece Milo incrociando le braccia tra il clangore metallico dell’armatura.
Jimena guardò stupita i suoi compagni; più passava del tempo con loro, più l’idea che si era fatta di loro di primo acchito si andava rafforzando: era un gruppo eterogeneo, variegato come un gelato all’amarena, che non perdeva tempo per correre dietro a ciò che sembrava irrilevante, senza concentrarsi sulla pista più evidente.
Altro che combattere contro i mulini a vento!, pensò la ragazza assistendo al vivace battibecco sorto tra Scorpio e Orsa Maggiore che minacciava di degenerare velocemente in rissa. E intanto, la ragazza dai lunghi capelli bagnati continuava a fissarla.
«Quindi, questo Volonskij è tornato in Giappone e ha rapito Shun?»
Françoise lo chiese direttamente a Jimena, ignorando la discussione che stava avendo luogo sulla sua testa.
«Prima Asamori, poi Shun, poi Shiryu, poi Ikki…», contò Jimena usando le dita.
«Solo che Ikki è riuscito a scappare. Adesso torna tutto», disse Cancer fissando la punta dei propri schinieri.«Chi è stato mandato al salvataggio?»
«Fiona, Shaina, Jabu e June», rispose ancora una volta Milo, fulminando con gli occhi Geki che aveva distrattamente allungato un braccio proprio alle spalle di Françoise. «Perseo è a pattugliare i dintorni del palazzo.»
«Dimentichi Hyoga. Se non ci fosse stato lui…»
Se non ci fosse stato lui?, pensò Milo.
«Ci ha fornito copertura per la fuga. Diamo a Cesare, quel che è di Cesare», rispose la ragazza stiracchiandosi. «Mi scusate un secondo, vero?», disse poi alzandosi.
«Dove staresti andando?»
Il tono di Milo era più quello di un comando, che quello di una richiesta cortese. Françoise alzò la mano destra, indice e medio a formare una V e disse:«Alla toilette, signora maestra.».
«Ti accompagno…»
«Conosco la strada.»
Sì, come no. La strada per Minato, semmai. «Insisto.»
La prese per un polso, costringendola a seguirlo fuori dalla stanza.
Milo si chiese perché mai avesse dato retta a Shaina, anche solo per un attimo. Si vedeva lontano un miglio che il fantasma era ancora fatto di sangue e carne, e che anzi, il suo ricordo aveva messo radici profonde.
«Milo di Scorpio, lasciami immediatamente!»
Lui l’ignorò, ed uscì trascinandosela dietro, chiudendo fragorosamente la porta alle loro spalle.
«Ho detto di lasciarmi. So camminare da sola!»
«Ti lascerò quando la smetterai di comportarti da idiota.»
«Scusami?»
«Hai fissato quella povera ragazza per tutto il tempo. Guarda che non è il tuo Shura…»
Milo lo disse con un tono così acido e freddo che a Françoise ribollì il sangue nelle vene. Gli strattonò il braccio, costringendolo a voltarsi.
«Come ti permetti?» Gli regalò uno sguardo truce, e gli sibilò :«Che vuoi saperne tu, di Ruy, eh?», in un tono che lo fece andare letteralmente in tilt.
«Niente! Non voglio sapere niente! Né chi sia questo fantomatico Ruy, né tanto meno dove cazzo tu sia stata in questi tre giorni!»
«E vorrei vedere! Non sono fatti tuoi! Pensa, piuttosto, alla tua vita, ché mi sembra tu abbia sufficienti casini di cui occuparti!»
«La mia vita privata non è affar tuo!»
«Lo stesso vale per la mia!»
«Infatti!»
«Appunto!»
«Esatto!»
Tatsumi apparve nel corridoio, affannato e imbarazzato da tutto quel chiasso. «Un po’ di rispetto! Vi si sente fin dalle cucine! Si può sapere che avete da urlare così?»
«Niente!», risposero i due in coro senza degnarlo di uno sguardo, occupati com’erano a fulminarsi a vicenda.
«Io e la signorina stavamo amabilmente discutendo», rispose Milo quasi ringhiando.
«Non credo!», ribatté Françoise. «Io non ho nulla di cui conversare con quest’individuo
«Perché non ci calmiamo…», provò a dire Tatsumi mentre gli altri li fissavano dalla soglia del salotto. Preoccupatissimi.
«Io sono calmissima!» Françoise gli ruggì contro fissandolo negli occhi. Era furiosa, e se la stava prendendo con Tatsumi senza aver nemmeno compreso la ragione reale del suo malessere. Motivo che la prese per l’altro polso e le sibilò: «Vogliamo abbassare la voce, Phi?».
Si liberò dalla stretta di Milo, fissandolo con astio sempre più crescente.
«Non chiamarmi così», scandì lentamente fronteggiando lo sguardo magnetico di Scorpio.
«E come dovrei chiamarti? Gaviota, per caso?»
«Milo di Scorpio… Io ne ho conosciuti di esseri irritanti e stronzi, ma tu li batti tutti.»
«A chi avresti dato dello stronzo, signorina?», tuonò Milo. Glielo chiese parlandole in greco, nel suo greco, quello fatto di sole, sale e parole affastellate l’una all’altra. E afferrandola per un braccio. L’attirò a sé.
«Mi stai facendo male…»
«Rispondimi», l’incalzò, al limite della sopportazione. «A chi hai dato dello stronzo?»
«Ne vedi altri, in questo corridoio?»
Fu la goccia che fece traboccare il vaso; Milo alzò la mano sinistra, pronto a colpirla, quando lei sgranò gli occhi. E porse il viso.
Fu una questione di un secondo; appena Milo si accorse che lei stava aspettando lo schiaffo, Françoise lo sfidò:«Forza, che aspetti? Non mi colpisci? Avanti, non ne hai il coraggio, grand’uomo?».
La mano di Milo si fermò ad un centimetro dal suo viso, tramutando il ceffone in un buffetto. Le accarezzò la guancia con il pollice e si staccò da lei.
La prese per mano, mormorando uno: «Scusaci», rivolto a Tatsumi e si trascinò dietro un’attonita Françoise entrando in una stanza a caso.
Questi sono pazzi come cavalli, pensò Tatsumi. L’uomo si aggiustò il papillon e scese le scale. Doveva ricomporsi. Il dottor Komatsubara sarebbe arrivato da un momento all’altro. 


 Note:

«Ja lubja tebja» significa io ti amo in russo.

Ivan Zarevič (lett. Ivan lo Zarevič = figlio dello zar) è uno dei principali eroi del folklore russo. Figlio di Nastassja dalla treccia d'oro (vi ricorda qualcuno, per caso?) è il principe azzurro, nonché l'eroe per eccellenza. Se vi interessa conoscerlo, lo trovate a salvare fanciulle in Ivan Zarevič, l'Uccello di Fuoco e il Lupo Grigio, La principessa rana e Marja Morevna.

Al solito, grazie a Sen per l'aiuto e a tutti voi che leggete/recensite/piaciate(?)/ricordate/seguite questa storia.

A martedì prossimo.
 

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Capitolo 17
*** 17 ***


17.
 
 
Il dottor Kazuo Komatsubara ripose il fonendoscopio nella sua borsa di pelle. Prese una torcia, la accese e divaricò le gambe di Shunrei. La ragazza mugolò.
«Non va bene. Affatto.»
Questo lo capivo da sola, pensò Saori attendendo che la visita finisse.
Komatsubara richiuse i suoi strumenti nella valigetta e si tolse il camice un po’ spiegazzato.
«Dottore, come sta?», chiese Saori, come in quei polizieschi di serie B che tanto piacevano a Tatsumi. Una parte di lei si rimproverò quest’uscita poco felice, mentre l’altra – la parte divina, forse - le ricordò che un medico come Komatsubara era ormai abituato a quel genere di domande. E con un onorario come il suo può anche sforzarsi di ascoltare battute trite e ritrite, sussurrò una voce dentro di lei. 
Stai parlando come Tatsumi, si disse.
Athena tacque.
Il medico scosse la testa e incrociò le braccia, poi si voltò verso Saori e le chiese: «Cosa state aspettando? Dovete portare la signora in ospedale, sta per partorire, non vedete? O vuol farlo nascere in casa?».
Saori non rispose. Che cosa avrebbe potuto dirgli? Fissò il medico cercare nella borsa ed estrarne un tubetto, aprirlo e mandar giù una manciata di pillole senz’acqua. Salute, pensò la ragazza.
«Ho la gastrite», spiegò l’uomo, come se avesse potuto sentire il suo pensiero. «Devo visitare la signora in ospedale, con le attrezzature adeguate, capisce?»
Saori annuì. «Ha perfettamente ragione. Tatsumi, avviseresti l’ospedale che stiamo arrivando?»
«Già che si trova, avviserebbe anche di preparare la sala parto?», aggiunse Komatsubara fissando la pancia della ragazza. «La cartella clinica della signora dov’è?»
«La… cosa
«La cartella clinica. Quella che contiene tutti gli esami che la signora ha fatto durante questi mesi. Analisi del sangue. Ecografie. La Flussimetria. Gli ultimi monitoraggi… Dov'è?»
«Io…»
«Non li ha?»
«No. La mia amica viene dalla Cina e… »
«E ha dimenticato laggiù gli esami? Non ne ha fatti altri qui in Giappone?», chiese sconcertato Komatsubara. «Ma è impazzita?»
«Sono sicura che ci sarà una spiegazione», disse Saori per tagliare corto. Dovevano andare in ospedale, giusto? Allora meglio non perdere altro tempo prezioso. Si voltò verso Tatsumi, che con un cenno del capo si allontanò. «Posso fare qualcosa?», chiese a Komatsubara. 
Costui, scuotendo la testa, rispose: «Fornirmi qualche dato in più sulla signora, ad esempio. Il suo gruppo sanguigno. La sua età. Se è allergica a qualche farmaco. Non so, un tipo di antibiotico. O l'acido acetilsalicilico. O la penicillina. Se soffre di cuore. O di diabete. Se questa è la sua prima gravidanza.». Fissò Saori dritto negli occhi. «Può rispondere a queste domande?»
«No. Io no», disse la ragazza. Cosa sapeva di lei? Nulla. Shunrei era l’angelo custode di Shiryu. Aveva gli occhi blu. I capelli corvini. Le piaceva vestire di rosa. Ma se cercava nella memoria qualche informazione più utile, Saori non trovava nulla su di lei. Il vuoto. 
«No», mormorò il medico.«Almeno, è possibile rintracciare qualcuno che ne sappia qualcosa? Non so, un parente? Oppure il marito della signora, ad esempio?»
Marito. Saori non capì. Non riusciva ad associare quella parola a Shiryu. Al suo Shiryu. Al suo Dragone. Suo e di nessun’altra. O forse no, visto che la ragazza distesa in quel letto portava in grembo suo figlio. 
«Ha avuto un incidente ed è in ospedale. La mia amica si è preoccupata e…»
«E non poteva dirmelo prima?», l’interruppe Komatsubara. 
Saori tacque. 
«Andiamo in ospedale», disse il medico prendendo la propria valigetta. «Ah, e un’altra cosa…»
Saori sperava che non volesse mettersi a discutere del suo compenso, non adesso. «Pagherò senza battere ciglio qualunque onorario, dottore. Ma adesso credo sia il caso di andare.» 
Komatsubara sorrise. «Sono lieto di sentirglielo dire, signorina. Ma c’è un però. O lei mi firma una liberatoria, oppure io questa signora non la sfioro nemmeno con un dito.» 


June gli stava mostrando cosa significasse volare sull’acqua. I suoi piedi scendevano a calpestare il terreno per poi risalire verso l’alto, senza peso. Lievi. E forti. E veloci. E precisi. La vedeva solcare l’asfalto bagnato come una nave che scivola su di un mare nero, tra la pioggia che rimbalzava a terra e lo stridio dei pneumatici delle vetture che inchiodavano per non investirla. June non sembrava farci caso. Lei correva via. Altrove. Verso Minato. Verso Shun. Adesso che l’hanno liberata chi la ferma più?, commentò tra sé e sé Jabu. Un po’ invidiava Shun per avere qualcuno che pensasse a lui come faceva June. Non poteva essere solo per il bel visino di Andromeda, no. C’era dell’altro. Qualcosa che era affetto e qualcos’altro ancora. Una totale e completa dedizione. Simbiosi. Necessità. Jabu scosse i riccioli bagnati allontanando la pioggia e quei pensieri. 
Minato. Un bel nome musicale, di quelli che fanno salire gli zeri del mercato immobiliare con la stessa leggerezza di un crescendo. Il posto ideale dove vivere e aprire una filiale di una solida banca, o di una lussuosa boutique. E allora perché mi sembra di star scendendo all’inferno?, pensò Jabu scavalcando in un attimo un muro di cinta alto venti metri. 
June si fermò, i capelli danzarono in aria nonostante il peso della pioggia. Un istante prima correva, braccia abbassate ed ampie falcate, come se avesse il sale sulla coda, ed ora era ferma immobile come una statua a fissare qualcosa davanti a sé. A Jabu ricordò Thomas, l’asino del suo maestro, quando s’intestardiva. Puntava gli zoccoli e non c’era verso di smuoverlo. Così era June, immobile sotto la pioggia, e la maschera non consentiva a Jabu di comprendere cosa avesse catturato la sua attenzione. 
«Che succede?», le chiese affiancandola. 
«Laggiù», rispose lei alzando il braccio destro. 
Jabu seguì l’indicazione fino a quando non lo vide. Eccoti qui. Finalmente, pensò. 
Avevano trovato Shun. Se ne stava sotto un ombrello rosso, appoggiato contro un’auto parcheggiata davanti al cancello di una casa a due piani. La luce rossa che brillava ed il nastro esile di fumo che si alzava nell’aria bagnata rivelarono una sigaretta accesa. 
Gli occhi scuri di Jabu incrociarono quelli inespressivi della maschera di June. Pensò: Non è lui. Non con quella sigaretta tra le mani. 
E poi: Avrà capito?
E anche: Come diamine farà a vederci con quell’affare sul viso?!
June disse:«Non è lui», e Jabu ottenne una risposta a tre quesiti, «ma potremmo sempre chiedergli di indicarci la strada più breve per trovarlo.». 
«Concordo», disse Jabu. Si avvicinò al ragazzo e lo chiamò: «Shun. Ehi, Shun. Sono io. Jabu.». 
Niente. Shun – o chi per lui – osservava rapito il rosso della sigaretta accesa e null’altro, neppure un energumeno in armatura viola fermo sotto l’acqua battente a pochi passi da lui avrebbe potuto distrarlo da quella contemplazione. 
Jabu avanzò ancora.
«Shun? Shun, mi senti? È tutto a posto?», ma Shun non diede segno di averlo sentito. L’Unicorno voltò la testa in direzione della sua compagna, ma fu abbastanza lesto da cogliere un movimento di Shun con la coda dell’occhio. Reagì, portandosi sulla difensiva, ma Shun non lo attaccò. Lasciò cadere la sigaretta in una pozzanghera ai suoi piedi e osservò la luce rossa sfrigolare al contatto con l’acqua e spegnersi. Poi alzò la testa, e regalò loro un sorriso di denti aguzzi e taglienti ed uno sguardo nero e profondo e vuoto. Jabu ebbe paura. Per la prima volta nella sua vita capì, sperimentandola sulla propria pelle, cosa significasse provare un terrore ancestrale, primordiale ed assoluto che gli artigliò ventre, reni e respiro in una gelida morsa d’acciaio. Esiste. Qualsiasi cosa sia, esiste, pensò in un angolo della sua mente. 
Shun lanciò via l’ombrello, con grazia, come in una coreografia da musical, e questo compì una lenta parabola all’indietro e cadde rovesciato sull’asfalto bagnato. Spiccò un balzo, da perfetto ginnasta, ed atterrò sul tetto della vettura. 
«Eh no!», disse June scattando in avanti. Afferrò la propria frusta e la fece danzare, catturando il polso di Shun. Jabu non reagì. «Tu non vai da nessuna parte.» 
June tirò la frusta a sé, ma la sua preda non si mosse. Le regalò un altro sorriso e ricambiò la stretta. Il Camaleonte si ritrovò con i piedi staccati dal suolo. Rovinò a terra e la maschera le cadde dal viso. Shun tirò ancora, trascinandola a sé come una rete piena di pesci. Così mi farò ammazzare, pensò June. E fece l’unica cosa che il suo Maestro le aveva ordinato di non fare mai: lasciò la presa sulla propria arma. 
 
Finché impugnerai la tua arma, sarai in vantaggio sul tuo avversario. Non permettere che te la strappino via. Non contare sul fatto che tu sei addestrata e il tuo nemico no. Permettigli di strapparti la frusta di mano e vedrai se non l’userà per ucciderti. Addestrato o no.
Lo sguardo di Cefeo era stato severo mentre le diceva queste cose e le metteva la frusta di canapa tra le mani.
Promettimi che non ti farai mai disarmare, June. 

Ma non esiste promessa che non possa essere infranta, e June lo scoprì sull’asfalto bagnato di una megalopoli dell’Estremo Oriente. Shun tirò ancora e si ritrovò la frusta di bronzo tra le mani. Non concedergli tempo per organizzarsi, si disse. Raccolse la maschera. 
Shun fece schioccare la frusta e caricò il braccio all’indietro. 
June corse verso Jabu, impietrito al centro del marciapiede. 
Shun fece partire il colpo. 
Lei posò sul viso dell’Unicorno la propria maschera. 
La frusta si arrotolò attorno al collo della ragazza. Shun tirò. 
June volò all’indietro assecondando il movimento, e cadde di schiena mentre l’avversario riprese a trascinarla verso di sé. 
«Jabu!», gridò lei, anche se il risultato fu più un suono strozzato. «Colpiscilo, Jabu! Colpiscilo! Non è Shun, ricordi?», aggiunse mentre Shun la tirava pian pianino a sé. Che fretta c’era, dopotutto? Il suo compagno aveva la stessa vitalità di un manichino. June si portò le mani al collo per liberarsi da quella stretta e respirare e sperare e pensare. Ti prego, Jabu!
Funzionò. Qualcosa dentro di lui scattò. L’Unicorno espanse il suo cosmo e scattò, tranciando in due il nemico con un poderoso colpo dei suoi zoccoli. Shun cadde per metà sul marciapiede oltre la vettura, mentre le sue gambe rimasero sul tettuccio dell’automobile. La presa attorno al collo di June si allentò. La ragazza tossì. Si alzò. Si massaggiò il collo.
Jabu le porse la sua maschera e la sua frusta. «Grazie.»
Lei la prese senza voltarsi.
«Stai… stai bene? », chiese lui, sentendosi un perfetto cretino. Era ovvio che non stava bene, che non potesse stare bene. È stata quasi ammazzata da un sosia del ragazzo che ama… ma che altro potevo dirle?
June annuì. Tossì ancora un paio di volte e ruotò il collo in un verso e poi nell’altro, quindi si sistemò la maschera e si voltò.
«Spellbinding glance», disse. «Ti ha stregato con un solo sguardo.» 
Jabu annuì. Poi spostò lo sguardo sul cadavere. Gli occhi, anche se assomigliavano più a due buchi neri, fissavano il vuoto e le gambe erano ripiegate in modo innaturale sul tettuccio. C’era sangue dappertutto. La pioggia lo laverà via.
Una luce illuminò la finestra di un abbaino. 
«Andiamo, prima che sia troppo tardi», disse Jabu. Ripresero a correre verso Minato. 


Ban non sapeva più dove guardare.
Il ritratto del vecchio Kido lo fissava severo, come a chiedergli conto e ragione della loro presenza nella sua biblioteca. Aveva già contato e ricontato la mole di volumi che affollavano la boiserie, e mettersi a leggerne uno era fuori discussione. Conosceva ormai a memoria tutte le sfaccettature delle gocce dell’enorme lampadario adagiato su un lenzuolo a terra, uno di quelli capace di fare una strage cadendo dal soffitto. La signora Bianchi, nello studio con il lampadario, pensò.
Fuori la pioggia era aumentata d’intensità e non c’era qualcosa di interessante da ammirare: i lampi squarciavano da est ad ovest un cielo nero solcato da nuvole ricolme d’acqua, e i lampioni accesi attorno a Kido Manor emanavano un lieve chiarore. 
Lei era sempre lì, a gambe incrociate sul pavimento, un accappatoio candido sopra le protezioni ed un asciugamano di spugna a frizionarsi i capelli ormai asciutti. Se continua così si staccherà la testa, pensò. E poi aggiunse: Che te ne importa?, tornando a guardare la sera scendere sulla città. 
Ban odiava quello che stava facendo. Non aveva mai amato avere contatti con il genere umano, un po’ come Ikki, e forse il timido Leone Minore era l’unico tra i dieci fratelli a comprendere fino in fondo il carattere della Fenice, pur non potendo vantare un simile carisma. Stai attento, si ripeteva nervoso, osservandola con la coda dell’occhio. Attento, o questa qui ti fregherà per bene.
Ban sapeva quanto fosse ingrato il suo compito, perché era matematicamente sicuro che lei avrebbe tentato la fuga. C’erano mille modi in cui lei avrebbe potuto eludere la sua sorveglianza, e anche se lui avesse previsto cento  scenari pronti per ogni caso, lei sarebbe stata in grado di escogitarne un altro ancora. A partire dalla scusa più vecchia del mondo. Quella che aveva provato a tirare fuori nello studio, prima che lo Scorpione la prendesse di peso e la rinchiudesse lì. Tremò, immaginandosela alzare la testa e fissarlo vergognosa, per poi richiamare la sua attenzione con un timido “ehm” e aggiungere: «Devo fare la pipì.».
Sì, era sicuro che avrebbe usato quell’espressione infantile per suscitare tenerezza e simpatia e convincerlo che no, non sarebbe mai e poi mai scappata via sotto la pioggia e perciò poteva tranquillamente lasciarla andare al bagno da sola. Con tanto di ciglia sfarfallanti e sguardo da cerbiatta. 
Sì, come no?
Ma d’altro canto, cosa avrebbe potuto fare? Seguirla fin sull’asse del wc? 
No, è fuori discussione.
E se lei ne avesse approfittato per scappare? Quale migliore occasione, dopotutto? Sì, avrebbe aperto il rubinetto, e poi la finestra e si sarebbe calata fuori. E lui sarebbe stato fottuto. 
«Non deve uscire da questa stanza», gli aveva intimato lo Scorpione affibbiandogli quella rogna prima di accompagnare Saori in ospedale, ed i suoi occhi azzurri erano stati molto, molto convincenti. 
Quello che Ban non poteva sapere era che la sua sorvegliata speciale non aveva la minima intenzione di andare da nessuna parte se non a casa sua e sprofondare in un bel sonno, né che volesse immischiarsi ancora in una faccenda da cui le era stato chiesto, per non dire intimato, di tirarsi fuori, e che se continuava a massacrarsi i capelli a quel modo era solo per rabbia. 
Françoise alzò la testa, piantandogli gli occhi nei suoi. Ecco, ci siamo!, pensò Ban fissando quello sguardo che faceva capolino tra una ciocca di capelli e il bianco dell’asciugamano. Trattenne il fiato. 
«Si può sapere che hai da guardare tanto? Non hai mai visto una ragazza?», domandò, prima di riprendere ad occuparsi della propria chioma. 
Era furiosa. Con lui, certo, ma anche con se stessa per avergli concesso di avvicinarsi tanto. 
Sarei dovuta ripartire subito per Atene. Non appena l’ho visto, pensò serrando la mascella. Oh, lui era stato furbo. Molto furbo. Aveva chiesto un rapporto. Aveva usato parole gentili. L’aveva trattata come un suo pari, non come una mocciosa. E lei gli aveva creduto. Gli aveva voluto credere.
E che tregua sia, aveva pensato.
E gli aveva raccontato la propria versione. Delle notti passate di ronda. Degli appostamenti – da sola, ma non c’era bisogno che lui lo sapesse – nei luoghi isolati per cercare quell’Essere. Di come Seiya l’avesse trovata – per caso, ma anche questo non era necessario ammetterlo – e di come Pegaso e Fenice fossero così convinti, e pronti e determinati a riprendersi Shun che a lei non era rimasta altra scelta se non seguirli fino a Minato. Per capire. Per osservare il luogo e tornare a riferire. 
«Purtroppo non sono riuscita a fermarli, e così ho ritenuto fosse più saggio accodarmi a loro. Per limitare i danni…», gli aveva detto, conscia del fatto che lui non le avrebbe creduto. Mai e poi mai.
E infatti Milo si era voltato con uno sguardo pericoloso e lei aveva capito non solo di essere caduta nel suo tranello come una farfalla spensierata cadrebbe nella tela del ragno, ma che il ghiaccio su cui si trovava si era spezzato e l'acqua, gelida, stava per ingoiarla.
«Ma come? Un Santo d'Oro forte ed esperto come te non riesce a tenere a bada un Santo di Bronzo e mezzo?», le aveva detto. Era stato spiacevole. E velenoso. E ingiustamente canzonatorio. E avevano ripreso ad insultarsi. A litigare. A sputarsi veleno addosso… e poi lei si era ritrovata con il viso a pochi centimetri dal suo, il mento stretto tra le sue dita. E quegli occhi. Così azzurri. Così assoluti. Così intensi da non offrirle scampo. 
Bastardo, pensò. Bastardo, bastardo, bastardobastardobastardobastardo…


Era uscito dal suo studio in fretta e furia e questo era stato un bene per lei. Gli aveva lasciato campo libero. Sarebbe stato scortese non approfittarne. Dopo essersi sistemata i collant e la gonna, e dopo aver fermato i capelli in uno chignon improvvisato grazie ad una matita azzurra, si sedette al suo posto ed estrasse un astuccio dalla borsa. Era un portarossetto, di velluto blu. Lo aprì, si passò lo stick sulle labbra e pigiò un tasto nascosto. 
«Regina delle Nevi a Yeti, passo. Regina delle Nevi a Yeti, passo.» 
«Qui Yeti. Che succede, Regina? Passo.»
«Succede che Gerda è arrivata a liberare Klaus. Passo.» 
Irina sentì una colorita imprecazione uscire dalla labbra sottili apparse sullo schermo, mentre gli occhi s’incupirono e rilucettero sinistri.
«Quanti sono? » 
«Per il momento tre, ma la cavalleria non tarderà ad arrivare. »
«E Volonskji? Dov’è? »
Irina fece spallucce. «È sceso nei sotterranei. Vuole prelevare entrambe le cavie.»
«Perché? Cosa ce ne facciamo? Abbiamo i risultati di tutti i test, giusto?» 
«Solo di una cavia. Hanno catturato uno degli intrusi e Volonskji vuole togliersi uno sfizio. Sai come diventa irascibile se gli rovinano il giocattolo, no?»
La donna dall’altra parte del video fece una smorfia di disappunto. «È molto stupido, non c’è il tempo. Tu, piuttosto. Hai quello che devi prendere?»
Irina mostrò soddisfatta una mezza dozzina di CD-rom. «Non stai certo parlando con una dilettante, cara.»
Yeti sorrise. «Perfetto, Regina. Assicurati di aver preso tutto il materiale. Il recupero avverrà tra un’ora al massimo sul tetto.» 
«Lui?»
«Solito modo.»
«Roger. Passo e chiudo.»
L’immagine dell’altra sfarfallò e poi si ridusse ad un puntino e lo schermo a cristalli liquidi tornò ad essere il solito, anonimo specchio di un porta rossetti di velluto blu.
Irina inforcò gli occhiali. Accese il computer che occupava un’ampia porzione della scrivania di Volonskji e copiò i dati e le ricerche su altri CD-Rom. Tanto per essere sicuri, pensò facendo due copie di ogni CD. Una copia da vendere al migliore offerente avrebbe fatto comodo, in tempi di magra. Attese che il computer le masterizzasse i primi due CD e poi premette il comando CANCELLA. 
 
Gran bella cosa i fondi svizzeri! 
 
Assaporava già il caldo sole delle Mauritius scottarle la pelle e la sabbia finissima accarezzarle i piedi.
 
Devo comprarmi un costume nuovo. Un bel bikini. Rosso. E sgambatissimo. Magari un modello con il reggiseno a fascia. E senza quella patetica imbottitura, pensava mentre lavorava. 


«Amore? »
«HN? »
«Avanti… lo so che sei sveglio. Dobbiamo alzarci, Amore…»
No, pensò. Io non devo fare proprio niente se non stare qui con te. 
«Dobbiamo andare», disse lei e lui pensò che stava così bene lì con lei, nel loro letto. 
«Agapê mou?», lo chiamò, ed un sorriso soddisfatto si allargò sul suo viso. Adorava sentirla parlare in greco, con quell’accento così… ammaliante, e davvero non capiva come gli altri uomini, al Santuario, non lo trovassero altrettanto sexy ed irresistibile. Meglio per lui, ovvio; tuttavia, non si capacitava della cosa, un po' come quando Galileo insegnava agli uomini che non era la terra al centro dell'universo, no; era il sole. 
«Hn…» Allungò un braccio e la fece sdraiare accanto a sé. Questa è la felicità, pensò tuffando il naso tra i suoi capelli. Profumavano di cocco, e le lenzuola di fiori di campo. 
«Menari mou!», protestò lei, e tanto fece da riuscire a svicolare dalla sua stretta gentile come un’anguilla e ad alzarsi dal letto. 
«Vado a prepararti il caffè», gli disse. Lui sapeva che quell’affermazione significava che doveva alzarsi. Subito. Prima che lei passasse alle maniere forti. Come un secchio d’acqua ghiacciata addosso. 
Mugugnando e stiracchiandosi aprì gli occhi. Era una bella giornata. Il sole splendeva caldo dietro le imposte accostate. La sentì canticchiare in cucina. Si strofinò gli occhi e si alzò. 
Lei era davanti al lavello, di spalle e armeggiava con la moka. Indossava una sua camicia che le stava tre volte, l’orlo fin quasi alle ginocchia e le maniche arrotolate oltre i gomiti, e lui sogghignò godendosi lo spettacolo del suo corpo in controluce. Si appoggiò allo stipite della porta, braccia conserte. Sì, avrebbero bevuto il caffè in cucina. E poi l’avrebbe sollevata di peso e riportata di là, in camera da letto. 
Abbracciarla e baciarle il collo fu una questione di tre piccoli passi. 
«Buongiorno», mormorò contro la sua pelle. Era calda. E fresca. E così morbida… «Come mai così mattiniera? »
«Perché abbiamo un appuntamento.»
Appuntamento? E con chi?, pensò lui aggrottando le sopracciglia, ma niente non riusciva a ricordare nulla. 
«Ho capito», la sentì sospirare. «Hai di nuovo alzato il gomito, ieri sera. Lo sai che non reggi bene l’alcol come Hyoga…»
Lui si sentì come se fosse appena atterrato da Marte. Perché? Sono uscito ieri sera? Con Hyoga?, si chiese, ma non ricordava nulla, se non di essersi spogliato guardandola dormire sotto le lenzuola. Forse sì. Forse era uscito davvero. Ricordava che dovesse festeggiare qualcosa. Sì, ma cosa?
«Su, vatti a lavare. La dottoressa Anteriotis ci aspetta.»
«Dottoressa? Amore, sei malata per caso?»
Lei rise. «Ma no, scioccone. Non sono malata, sto benissimo. È solo una visita di controllo ricordi?», rispose fissandolo con quei suoi occhi così dolci. «No, non te lo ricordi. Pazienza. Così impari a sbronzarti. E adesso vai. Non mi piace fare tardi.» 
«Agli ordini», disse lui posandole un bacio sulla fronte. Uscì dalla cucina scostando la tenda di perline e svoltò a sinistra verso la porta azzurro carico in fondo al corridoio. Entrò nel bagno e aprì i rubinetti. S’insaponò il viso, scoprendo una barbetta di tre giorni. A lei non avrebbe fatto piacere. Prese il rasoio e la schiuma da barba. Intanto lei cantava in cucina, mentre lui sentiva la moka borbottare sul fornello. 
Poi lei lo chiamò.
«Cosa hai detto?», le chiese tendendo l’orecchio. 
«Ti ho chiesto se hai già pensato ad un nome. »
Un nome per chi?, si domandò. Forse per il cucciolo che avevano deciso di adottare? «Non è meglio se aspettiamo di vedere che faccia ha?» Che senso ha decidere di chiamare un cane Scott se ha la faccia da Sparky?
«Sì, lo so. Ma la mia era solo una curiosità», disse lei apparendo sulla porta del bagno con i caffè.
«Hai pensato ad un nome?» Lei annuì. «Sentiamo.»
«Ho pensato», e Shaina posò il suo caffè sulla lavatrice, «ma tu non ridere, intesi? Ho pensato a Nausikáa, come tua madre. Oppure ad Aristotiles. Come tuo padre. Che ne dici?»
Ma se mia madre si chiamava Sumire?, pensò lui sciacquandosi i residui della schiuma da barba. Stava per rispondere quando i suoi occhi incrociarono il riflesso nello specchio, mozzandogli il fiato. C’era uno sconosciuto dall’altra parte del vetro. I suoi occhi erano azzurri. La mascella più decisa e volitiva. I capelli più lunghi. E scuri. E ricci. E il naso più marcato e deciso. Seiya vide con orrore Milo voltarsi ed attraversarlo, tagliandolo in due come una lama di ghiaccio, e raggiungere Shaina per abbracciarla.
«Che ne pensi?», chiese lei. La sua voce gli arrivava ora ovattata, lontana, distante. Disturbata.
«A parte Aristoteles, ci sto. Ma bisogna vedere che ne pensa lei.»
«Non sappiamo…», titubò Shaina, e nel vederla così arrendevole lui si sentì sciogliere di tenerezza.
«Io sì», le rispose Milo. Poi si inginocchiò, il viso all’altezza del ventre di Shaina e Seiya capì. Comprese perché ieri sera ci fosse bisogno di festeggiare. E perché non ricordava di essere stato invitato alla bevuta di gruppo. Una consapevolezza crudele, abbagliante e gelida lo riempì. Era stato Seiya a non essere stato invitato alla bevuta all’osteria di Kostas. Lo zio di Milo.
«Ehilà. Ti piacerebbe chiamarti Nausikáa? Nausikáa Papadopoulou, senti come suona bene?», disse lo Scorpione, dando un bacio sul ventre di Shaina.
Shaina che affondò le mani in quell’ammasso esploso di capelli e rise. E fu quella risata a ferirlo nel profondo, come se lei stesse spingendo un pugnale nel suo cuore e si stesse baloccando a rigirarlo nello squarcio aperto.
 «Tu sei matto da legare…»
«Oh sì», rispose lui alzandosi. «Sono pazzo di te.»
La baciò, e Seiya urlò mentre lui, lo specchio ed il lavabo venivano scagliati indietro, lontano da loro. Nel buio.



Note:
Capitolo più breve, per riprendere un po' il fiato. Prima di ricominciare il giro della morte. 

Il nome del ginecologo è un palese omaggio a Kazuo Komatsubara, character design e direttore dell'animazione prematuramente scomparso nel 2000, specializzato nelle serie robotiche, ma non solo: da Sally la maga all'Uomo Tigre, da Devilman a Starzinger, da Capitan Harlock a Goldrake, da Bryger a Gaiking a Nausicaa nella valle del vento. Insomma, un mostro sacro. Se siete curiosi di saperne di più, fate un salto qui.

La liberatoria. Come mi ha fatto notare Sen, se Shunrei è maggiorenne sta a lei firmare la liberatoria per entrare in sala parto (è un documento con cui viene reso noto al paziente la percentuale di rischio che comporta una singola operazione; si tratta di uno scarico di responsabilità da parte della struttura sanitaria e del personale medico, qualora qualcosa andasse storto.), magari avvalendosi di un interprete. O dando a Saori la delega per firmare a nome suo. Siccome non so che tipo di legislazione vigesse in Giappone all'epoca, e siccome mi serviva mantenere il pathos, e siccome Komatsubara m'è sembrato un tipo rude e spiccio, scopriranno - e scopriremo - come si risolverà la questione una volta giunti in ospedale. Che appartiene a Saori, per cui...

Agapê mou significa "amore mio" in greco. Menari mou, significa- o dovrebbe significare - "mio caro, mia cara".

Nausikáa (con due a finali, mi raccomando) è il nome della principessa dei Feaci che sulla spiaggia di Scheria soccorre lo spiaggiato Odisseo. L'etimologia è incerta, ma c'è una chiara assonanza con la nave (naús). Potrebbe trattarsi di un nome parlante, visto che sarà proprio Nausikáa a fornire ad Odisseo le navi per tornare ad Itaca.
 
 
Grazie a Sen per i preziosi consigli e a JG per avermi suggerito il nome del colpo del nemico.  
 
 

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Capitolo 18
*** 18 ***


18.


Andrew aveva atteso i rinforzi sorvegliando i dintorni, ma con suo stupore non aveva visto alcun segno di movimento sospetto. Non che si aspettasse di trovare qualcuno armato fino ai denti aggirarsi per le vie di Minato; tuttavia quel silenzio non gli era piaciuto affatto. Non voleva cedere al fascino della soluzione più semplice, ossia che, vistisi scoperti, i nemici stavano abbandonando la nave che affonda.
Questo avrebbe significato due cose.
La prima, che avevano poco tempo prima che il nemico se la squagliasse, magari portandosi dietro Shun e gli altri.
La seconda, che forse il nemico non si sarebbe portato dietro Shun e gli altri. Forse erano diventati una zavorra, più che una risorsa. E quando sei costretto a fuggire, non devi avere pesi che ti ancorino le gambe. E quando sei costretto a fuggire non puoi certo lasciarti dietro qualcuno che ti possa riconoscere. Dei testimoni. Nossignore. I testimoni vanno resi inoffensivi. Silenziosi. E nulla come una bella raffica mitra garantisce la discrezione che può fornire un cadavere, giusto?
Giusto.
Così Andrew accolse col cuore grato la vista di Fiona e dell’Ofiuco. Arriva la Cavalleria, pensò, fermando il proprio pattugliamento anche solo per un istante. Anche solo per dare loro gli ultimi ragguagli. Anche solo per vedere il viso spruzzato di lentiggini di Fiona.
«Novità?»
La voce dell’Ofiuco era tagliente e gelida, come la pioggia che continuava a cadere dal cielo grigio e sporco.
«Non s’è visto nessuno», rispose Andrew. E poté accorgersi del nervosismo che stava attraversando le braccia della nuova compagna, nonostante la maschera d’argento celasse il suo viso.
«Questo non è bene», commentò l’Ofiuco. Che doveva essere giunta alle sue medesime conclusioni alla velocità del lampo. «Entriamo. Che stiamo aspettando?»
«Seguitemi. Conosco la strada», disse Fiona scattando verso l’obbiettivo.

 
Il dottor Katsuo Komatsubara uscì dalla stanza e scosse la testa.
«Dottore, come sta? È grave?», gli domandò Saori andandogli incontro.
Aveva aspettato nel corridoio della clinica della Fondazione che il miglior ginecologo del Paese visitasse Shunrei, mettendo a repentaglio la perfetta manicure che aveva pagato profumatamente nel Salon de Beauté più rinomato della città.
Al suo fianco, Jimena e Milo, che svettava di ben oltre venti centimetri rispetto a lei, le avevano tenuto muta compagnia, le gambe accavallate e le spalle libere da qualsiasi legame con quella ragazza in avanzato stato di gravidanza che avevano accompagnato di gran carriera in ospedale.
Fuori pioveva, e i lampi attraversavano da un capo all’altro il cielo. La luce del neon sbatteva sui loro visi, facendoli sembrare dei morti viventi in attesa di banchettare con i malati dell’ospedale.
«Devo operare. Subito», rispose Komatsubara con tono incolore, le mani sprofondate nelle tasche del camice immacolato. La posa non era delle più formali, ma riusciva comunque a trasmetterle un senso di grande professionalità. Era come se le stesse dicendo: «Stia tranquilla, non poteva capitare in mani migliori.».
Tuttavia, cosa avrebbe dovuto fare Saori nel peggiore dei casi?
Chi avrebbe scelto di salvare, Shiryu? Shunrei era una donna e avrebbe scelto di salvare il proprio bambino; ma Shiryu?
Che cosa avrebbe scelto lui?
«Mi dica, dottore…» quante probabilità ci sono di salvare entrambi?, sarebbe stata la domanda nella sua interezza, ma Saori non se la sentì di terminarla. Dentro di lei qualcosa le sussurrava che se l’avesse fatto avrebbe reciso qualche filo di troppo. O forse, avrebbe solo reso concreta una paura che si ostinava a considerare latente, relegandola in un angolo.
«Tenteremo di salvarli entrambi, anche se le confesso di essere piuttosto scettico sulle condizioni del feto. Sarò sincero», rispose Komatsubara massaggiandosi gli occhi stanchi, «le condizioni della signora mi preoccupano non poco. Se non si trattasse di due vite umane, definirei il suo caso piuttosto bizzarro, con quella pancia ancora così alta ed il feto che ha superato il periodo di gestazione.»
S’accorse che la rampolla dei Kido faticava a seguirlo, pur restando attaccata ad ogni singola parola che gli sentiva pronunciare.
«Vede», le spiegò, cercando di essere il più chiaro possibile, «quando s’avvicina il momento del parto, la camera gestazionale… la pancia, insomma, slitta verso il basso, per permettere una nascita più semplice. I muscoli si rilassano e la gravità pensa al resto.».
«Capisco», rispose Saori. «Ma questo cosa c’entra con le condizioni della paziente?»
«Vede», riprese il medico, le mani addormentate nelle ampie tasche del camice, «abbiamo sottoposto la signora ad alcuni accertamenti, dai quali è emerso che il feto dovrebbe aver superato le trentasei settimane; tuttavia, la pancia della signora non accenna a scendere.».
E questo è male, pensò Saori. Annuì.
«Dall’ecografia si evince che il feto non sta bene, si presenta in posizione podalica e che se aspettiamo ancora metteremo a rischio anche la vita della gestante. Sono costretto ad operare la signora.»
«Un cesareo?», domandò la ragazza.
«Esattamente», le rispose. «Ha quei moduli che le avevo chiesto di firmare?»
Saori aggrottò le sopracciglia. Gli porse tre fogli, firmati in ogni loro parte.
«Manca solo la sua, di firma, dottore.».
«Mi spiace, ma è la burocrazia che tiene in piedi tutta la baracca», ammise l’uomo con franchezza. Firmò il primo foglio, prendendo in prestito una penna dal bancone dell’infermiera. «Nel malaugurato caso in cui dovesse succedere qualcosa alla paziente in sala operatoria, l’ospedale vuole avere le spalle coperte. Lei capirà…»
Saori stava per ribattere che no, non capiva affatto e stava per sollevare altre domande quando Komatsubara aggiunse: «Non è questo il caso, ma come si dice? Mai dire mai, giusto?». E firmò il secondo foglio.
Saori guardò la porta chiusa oltre le spalle bianche dell’uomo che aveva davanti; la voce di Shunrei le giungeva attutita dal legno bianco, ma poteva distinguere lo stesso i flebili richiami che la ragazza lanciava all’uomo che amava.
«Shiryu…Shiryu»,
piangeva, e Saori non faticava ad immaginarsela mentre stringeva i lembi delle lenzuola tra le mani, cercando di resistere a quel dolore che la stava uccidendo dal di dentro.
Il medico pose anche l’ultima firma, si tolse gli occhiali, li pulì con un lembo del camice. Poi consegnò tutta la documentazione alle mani dell’infermiera e, rivolgendosi ai suoi assistenti, che l’attorniavano come premurosi angeli custodi, disse: «Ishida, vorrebbe andare a vedere se la sala operatoria numero sette? Shigeda, Mudo e Yamamura avvisate il dottor Sade e il dottor Sengo di tenersi pronti, abbiamo un cesareo da fare. Kamiya, ematocrito, pressione ed emocromo completo della signora. Non m’importa se i tecnici sono già andati via. Chiami chi le pare, anche il Padreterno, ma voglio quei risultati nelle mie mani entro mezz’ora.».
Rivolse un inchino veloce a Saori, sorrise e le disse:«Se adesso vuole scusarmi…», prima di avviarsi verso gli ascensori insieme ai suoi assistenti.
Saori lo vide svoltare l’angolo seguito da una diecina di persone, poi si rivolse ad un’infermiera che era appena uscita dalla stanza di Shunrei. «Potrei vedere la paziente?»
L’infermiera rispose di fretta: «Solo per pochi minuti. Tra poco dovremo prepararla per l’operazione», ed lasciò la porta socchiusa prima di allontanarsi tutta affaccendata.
«Vada pure. L’aspettiamo qui», le disse Jimena, mentre Milo annuì. Saori mormorò un grazie ed entrò in fretta nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Si sentiva responsabile per tutto quello che la ragazza stava passando. Amava Shiryu con una delicatezza e un’intensità pari solo alla pazienza con cui lei, ogni volta, aspettava il ritorno dell’amato nella quiete dei picchi del Monte Lu.
E quest’amore, su cui le leggi del Santuario non potevano pronunciarsi bene, aveva dato frutto. Pazienza, le Leggi sono fatte per essere abrogate, pensò Saori dicendosi che al momento non erano loro la cosa più importante.
Perdonami, Shunrei. Adesso vorresti avere Shiryu al tuo fianco, ed è tutta colpa mia…
 
 
Un deserto di vetro e acciaio, questo sembrava l’interno del grattacielo F, illuminato dalle luci d’emergenza che conferivano all’ambiente un alone verdastro poco rassicurante.
I piedi di Shaina correvano veloci per le scale antincendio del palazzo, saltando da un mancorrente all’altro. Per guadagnare tempo. Non sapeva quanto ne avessero. Poco, comunque. E anche quel poco si andava assottigliando sempre di più. Minuto dopo minuto.
C’era ansia nei gesti di Shaina. Ansia e rabbia e frustrazione.
Aveva percepito il cosmo di Seiya spegnersi di colpo, come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Un istante prima, c’era; debole, opaco e poco convinto, ma c’era. L’istante dopo, no. E non era accaduto nulla che facesse presagire quel silenzio o che lo giustificasse in qualche modo.
Nessuna esplosione, nessun’implosione, nulla.
Nemmeno un urlo nel buio.
E questo era il motivo per cui la pelle dell’Ofiuco era ingemmata di sudore freddo. Questo soltanto. Che diamine sta succedendo qui dentro?, si chiedeva Shaina correndo, saltando, balzando per quelle scale come una tigre che si precipita verso la libertà.
Avevano abbassato la guardia. Si erano illusi che si potesse vivere come normali esseri umani. Che sciocchezza!
Una persona normale ha paura. Di ciò che non conosce. Del buio, perché non sa cosa potrebbe nascondersi nell’oscurità. Nulla; oppure tutto.
Ma quando sai che nell’oscurità c’è qualcosa, che esiste una realtà ben diversa da quella che propinano le televisioni e i giornali, quando sai che gli dei camminano ancora su questa terra, non puoi più vivere come una persona normale. Perché per te il luccichio delle stelle ha un significato ben preciso. È un addio. O un cosmo che ruggisce e chiede aiuto lassù, in alto, a quella costellazione lontana che gli uomini non riconoscono. Perché gli uomini hanno smesso di guardare al cielo da troppo tempo. Chinando la testa verso i propri piedi. Scegliendo di vivere come prede, e non più come predatori.
«Dividiamoci!», propose Fiona. «Uno ogni quattro piani. A cominciare dal quarto.»
Shaina annuì. «Scendo alla prossima», disse, la maschera d’argento ben salda sul viso. Atterrò con grazia davanti alla porta del quarto piano, la socchiuse e scivolò oltre.
Fiona ed Andrew continuarono la propria corsa. Un paio di suoni attutiti – il loro battere e levare sui corrimano – e poi più nulla. Shaina si guardò attorno e poi scivolò a destra. Davanti a lei si apriva un corridoio, illuminato da quel fioco chiarore che le ricordava troppo da vicino le luci serali dell’ospedale in cui l’avevano ricoverata da piccola. Quando lei e sua madre erano state centrate in pieno sulle strisce pedonali da un pirata delle strada. Uno strike perfetto, tanto che sua madre aveva battuto la testa e, per quello che ne sapeva lei, era tuttora in coma al Gemelli. E poi era arrivato a prenderla quel ragazzo dalla pelle abbronzata e i modi spicci e dall’accento impossibile.
Shaina strinse i pugni, fino a sentire l’armatura contenere a stento le sue mani.
Basta coi ricordi, s’impose. Aveva una missione, giusto? Giusto. Prese un bel respiro e si lanciò nel corridoio.
 
 
Il venerabile Libra aprì un occhio. Per quanto tempo aveva meditato, questa volta? Per quanti mesi era rimasto nel torpore del misopethamenos? Sollevò la palpebra stanca e pesante e si guardò attorno. Era tramontato da poco il sole, una mezzora al massimo, ma si era già fatto buio, e quindi non poteva distinguere se la natura attorno a lui avesse intinto il proprio pennello nella tavolozza arrugginita dell’autunno o se fossero ancora i toni decisi dell’estate a colorare il bosco attorno al Monte Lu. L’aria s’era fatta più umida e fresca. La cascata scrosciava forte davanti a lui, ma aveva perso portata, segno che le acque andavano diminuendo. Autunno, decise il vecchio Doko. Le sue mani piegate dall’artrite cercarono il bastone di legno, trovandolo davanti alle sue ginocchia. Qualcuno gli aveva avvolto una coperta attorno alle spalle. Perché non prendesse freddo, la notte.
Un sorriso piegò le labbra della Bilancia e gli colorò gli occhi. Shunrei. E poi pensò che presto sarebbe stato il compleanno di Shiryu. E che Ade non si sarebbe fatto vivo, se non la prossima primavera. Abbiamo ancora qualche mese di tempo, pensò.
Il vecchio Sage era stato chiaro, quando secoli prima aveva spiegato loro come Ade amasse manifestare la propria collera – la propria potenza – in primavera. Quando la natura riprende a fiorire. Quando la sua sposa Persefone deve lasciarlo e tornare alla vita, tra le braccia della madre Demetra.
«Ma dimmi tu. Stai a vedere che il caro zietto soffre di solitudine e non vuole lasciare la sua amata mogliettina!», aveva commentato una volta Manigoldo, meritandosi un’occhiataccia del Sommo Sage e una risata partecipe di Kardia.
«Già. Dev’essere problematico avere una suocera come la divina Demetra», aveva rincarato la dose lo Scorpione con quel suo sorriso strafottente, che non aveva salvato né lui, né il suo compagno da una punizione esemplare.
«Cosicché non venga in mente a nessun’altro di giocare col fuoco», aveva detto Sage, spedendoli attraverso il proprio potere nello Yomotsu Hirasaka.
Ma tu guarda cosa vado a rammentare proprio adesso, si disse Doko alzandosi in piedi. E, a fatica, un piede leva e l’altro metti, guadagnò la strada di casa.
A quest’ora Shunrei starà preparando la cena, si disse il vecchio guerriero. E si chiese cosa avrebbe trovato di buono sulla tavola. Ravioli? Riso saltato? O una buona zuppa di pollo, che ben si sposava con il carattere frizzante della sera? O forse qualcosa di meglio, oso sperare la Bilancia. Tutto dipendeva dal fatto che Shiryu fosse tornato dalla sua missione oppure no. Shunrei era un’ottima cuoca, ma era quando il Dragone tornava al suo nido che lei dava il meglio di sé. E in angolino del suo vecchio cuore malato, il vecchio Libra si disse che sarebbe stato doppiamente felice di riavere l’allievo a casa, quella sera.
Ma non percepì il cosmo di Shiryu, nell’abitazione che condividevano poco più a valle, ma più lontano. Ad Est. Rabbioso, ruggente e tumultuoso. Come le acque della cascata. Doko si voltò. E vide lo scrosciare alle sue spalle rispondere al cosmo del Drago.
Dev’essere successo qualcosa. Qualcosa di brutto, pensò il vecchio mentore stringendo il bastone di legno nodoso. Ma cosa?
 
 
«Continua a non quadrarmi…», disse Genki, una mano sotto al mento.
«Cosa?», gli chiese Ichi. «Che il Santo dello Scorpione sia un concentrato di presunzione?», aggiunse, meritandosi un’occhiataccia da parte di Nachi.
«Oh, no. Quello l’avevo messo in conto», rispose l’Orsa Maggiore. «I Santi d'Oro sono dei pupazzi boriosi, pronti a ribadire al mondo la propria superiorità per la minima stronzata.»
«Genki… L'altro Santo d'Oro è oltre questa parete...»
Lo so benissimo che potrebbe sentirmi! È quello che voglio! «Intendo dire», riprese ignorando il richiamo di Nachi, «che non mi quadrano un bel po’ di cose in tutta questa storia.».
«Ad esempio?», chiese l’Idra facendosi serio.
«Shunrei. Avete visto quant’era grossa?» Gli altri annuirono. Bene. Allora non sono l’unico a far funzionare occhi e cervello, si disse pensando alla reazione nervosa che aveva avuto lo Scorpione. «Solo a me pare strano che quella ragazza si sia mossa dalla Cina in quelle condizioni, figuriamoci, poi, senza Shiryu?»
«E se fossero partiti insieme?», chiese Ichi.
Genki lo fissò serio.
«Insieme? Ma se Shiryu era in missione per conto del Santuario?! E poi, tu ce lo vedi un tipo meticoloso come lui che porta la propria bella, incinta, nel bel mezzo di una missione?»
«Va bene, va bene», intervenne Nachi. «Proviamo a ragionare per assurdo. Mettiamo che Shunrei abbia agito di testa propria. Mettiamo, anche se ne dubito, che avesse deciso di seguire Shiryu; quanto sarebbe potuta arrivare lontano, da sola, in quelle condizioni?»
«E se l’avessero rapita in Cina?», propose Ichi; era come se il suo cervello stesse mettendosi pian pianino in moto. O almeno, ci stesse provando.
«Shiryu non l’avrebbe mai permesso», rispose Nachi serio. Se ci fosse stata Djamila, al posto di Shunrei, lui non le avrebbe permesso di mettere il naso fuori di casa da sola, mai e poi mai; figuriamoci se se la sarebbe portata dietro in missione. A pochi giorni dal parto, poi.
«Dico che potrebbe essere successo mentre Shiryu era già via», precisò l’Idra incrociando le braccia.
«Ma anche se fosse successa una cosa simile, perché non avvisarci?», aggiunse Genki, una mano sotto al mento. «Pensate anche voi quello che penso io?»
«A questo punto, direi di sì», disse Nachi dando un’occhiata a Ichi, che si affrettò ad annuire. Tu hai capito, eh? Sicuro?, pensò il Lupo prima di mettere l’ultimo tassello al puzzle. «Quella ragazza non è Shunrei. Resta da scoprire chi sia, e in fretta anche.»
«È ora di andare», disse Genki alzandosi. «Milady è con quella ragazza, da sola.»
«Ma con lei c’è Milo. E anche il Capricorno», lo corresse Ichi.
«Oh, anche quando il jet saltò in aria, c’era con lei Milo. Ma c’era anche Gemini. Non te lo scordare.»
«Secondo me, stai esagerando.»
«Sempre meglio che trovarsi a piangere dopo. Non so te, ma non ho nessuna intenzione di vivere con l’angoscia di non sapere cos’è successo ad Athena. Avanti, dobbiamo anche avvisare sua maestà delle nostre ipotesi…», concluse riferendosi a Milo. Genki si alzò dalla poltrona dello studio imitato dai suoi fratelli.
«Non dovremmo avvisare anche…» Nachi non concluse la frase. E se lei avesse preso la palla al balzo e fosse uscita? Ban ci andrebbe di mezzo, pensò. Ma poi si disse anche che la situazione stava mutando sotto il loro stesso naso minuto dopo minuto. Ed occorreva pensare con elasticità, se c’era l’intenzione di sopravvivere a quella notte sciagurata.
«Me ne occupo io.» Il sorriso dipinto sul volto dell’Orsa parlava chiaro.
Stai scherzando col fuoco, Genki. Ma se vuoi morire giovane, io non ti fermerò. «Perfetto», commentò Nachi. «Ichi ed io andremo in ospedale, tu e Ban…»
«Aiuteremo gli altri al grattacielo F.»
«Allora andiamo! Che aspettiamo ancora?», disse Ichi schizzando fuori seguito a ruota dal Lupo. Era evidente che avessero voglia di sgranchirsi un po’ le ossa, dopo un relativo periodo d’inattività. E chi era, lui, per impedire loro un po’ di sano divertimento? Una scazzottata non ha mai ucciso nessuno.
Genki sorrise.
«Giusto. Che stiamo aspettando?», si disse. Si passò le dita tra i capelli con la sfumatura alta come George Michael, e si sistemò la giacca. Milo li aveva lasciati di piantone ed era schizzato in ospedale, ma in fondo non era questo che lui voleva? Lo Scorpione stesso l’avrebbe lasciato di guardia alla Sacra Guerriera del Cancro, favorendolo in tal senso. Lei non avrebbe dovuto muoversi di lì, cascasse il mondo e Genki si sarebbe premurato di eseguire gli ordini alla lettera. In fondo, non le aveva fatto una scenata meno di un’ora prima perché aveva agito di testa sua?
Non che gli premesse condividere la stessa aria di quella ragazza; era più che altro per fare un dispetto allo Scorpione. Trovare un punto debole sulla patina di perfetta efficienza di un Santo d'Oro equivaleva a scoprire una crepa profonda su di un vaso cinese di grande valore.
Bussò.
La voce di Ban ruggì un allarmatissimo: «Chi è?» e Genki entrò.
Ban e Cancer erano seduti l’uno di fronte all’altra, le mani sprofondate tra le ginocchia e l’aria preoccupata. Il Leone Minore lo osservava con gli occhi carichi di nervosismo, mentre la ragazza si fissava i piedi.
«Abbiamo tenuto un veloce conciliabolo, di là», disse Genki rivolgendosi a lei. Era la più alta in comando, giusto? Giusto. Ma sembrava essersene dimenticata.
«E?», chiese Ban, un occhio a lui e l’altro a lei. Temeva che avrebbe potuto approfittare della situazione, e Genki si chiedeva in che modo. Sarebbe stato curioso di saperlo, sì.
«E abbiamo convenuto che quella ragazza non è Shunrei. Non può esserlo. Per tutta una serie di ragioni e motivi che forse adesso non è il caso di esaminare.»
Quindi?, gli chiesero gli occhi di Ban.
«Idra e Lupo sono andati all’ospedale. Per dare manforte. E avvisare milady del pericolo», proseguì l’Orsa. «Noi che facciamo?»
 
 
«Shunrei?»
Era da qualche tempo che Doko non usava la propria voce. Una manciata di settimane, a giudicare dal calendario che Shunrei aggiornava di giorno in giorno con estrema precisione. Chiamò la ragazza con un tono di voce medio, ma gli sembrò di aver urlato.
«Shunrei?!», ripeté, allarmato da quel silenzio irreale. Dove era andata? Perché non rispondeva? Possibile che stesse ancora dormendo?
Doko abbandonò il bastone e il cappello sull’uscio ed entrò in casa, lasciando che la coperta gli scivolasse dalle spalle. Quasi non vi badò. Perlustrò la casa da cima a fondo, dando un’occhiata sul retro, nell’orto che Shunrei curava con le proprie mani. Non avrebbe avuto senso trovarvela a quell’ora, ma Doko aveva comunque voluto provare. Non riusciva a comunicare con Shiryu attraverso il cosmo. Il segnale del suo allievo era debole, e se riusciva a percepirlo era solo grazie alla grande rabbia e all’angoscia che lo coloravano di un nero cupissimo. E questo poteva voler dire una cosa sola: era successo qualcosa a Shunrei. E che Athena avesse pietà delle loro anime, ma se fosse accaduto qualcosa di brutto a Saori, il cosmo di Shiryu avrebbe assunto tutt’altre tinte. Sempre fosche, sì; ma bagnate della fredda determinazione dell’acciaio. Perché lui era un guerriero, il suo guerriero; e come tale, avrebbe combattuto per lei, fino a dare la vita. Ma con Shunrei… con Shunrei era tutt’altra faccenda.
«Shunrei!!»
Questa volta Doko gridò. E questa volta, Doko ebbe risposta.
«Maestro?» Era Shunrei. Sulla soglia di casa, una giacca sulle spalle e la borsa piena. E l’espressione stupita. «Vi siete svegliato?»
Doko sgranò gli occhi. E per poco il suo vecchio cuore non si fermò del tutto. «Dov’eri?»
«Al villaggio», rispose la ragazza. «Avevamo finito alcune cose e sono andata a fare scorta. E al villaggio ho incontrato un’amica, Linmei, la ricordate? Si sposa il mese prossimo, così ne abbiamo approfittato per fare due chiacchiere. Non credevo avrei fatto così tardi…»
Doko sospirò, ed il suo cuore batté un colpo. «Non importa», le disse.
«Vi siete svegliato da poco?», chiese la ragazza. Aveva un’aria spaventata. Forse era stata la sua assenza a preoccuparlo? Eppure non credeva che sarebbe rincasata a luna alta. E tutto per aver ascoltato le chiacchiere delle altre ragazze ed essersi convinta a provare una manicure.
«Sì. E ho una fame da lupi. Che si mangia di buono?»
«Ho preparato dei ravioli di carne, stamattina. Basterà riscaldarli», rispose Shunrei posando la sporta della spesa davanti all’acquaio. Prese un grembiule da cucina, lo annodò dietro la schiena ed iniziò a preparare la cena.
Sentì gli occhi del vecchio maestro fissi su di sé, nemmeno avesse un bersaglio proprio al centro della schiena. E poi lui le disse: «Ti sta bene lo… come si chiama quell’affare che voi donne vi mettete sulle unghie?».
«Smalto», rispose lei. Un po’ colpevole. Di aver ceduto e di aver comprato una boccetta. Piccola. Da usare nelle grandi occasioni, perché non si addiceva a lei avere le unghie laccate. E lo smalto si sarebbe rovinato subito, ma pazienza. Era un piccolo capriccio da tenere chiuso in un cassetto, assieme al pezzo di vetro blu che le aveva regalato Ohko quando erano bambini. Da guardare, in controluce. Come una cosa preziosa.
«Ti sta bene», le disse Doko, accomodandosi su un cuscino davanti alla tavola. «Da quant’è che meditavo?» Doko evitò di usare il verbo dormire, perché, pur se era questo che faceva, sarebbe sembrato poco consono al suo ruolo di maestro.
«Quasi cinque settimane», rispose Shunrei accendendo il fuoco.
«Caspita», commentò Doko con la sua voce di foglie secche. «Raccontami. Che si dice di nuovo giù al villaggio?»
 
 
Più la faccenda andava avanti, meno si faceva chiara. Chi diamine era quella ragazza? Che c’entrava lei con la missione?
Seduta su una comoda poltroncina, il Capricorno accavallò le gambe. Lei e Milo attendevano pazienti, i sensi tesi e pronti a captare la presenza di eventuali nemici. Lo spettro del sedicente vampiro che era apparso in città un paio di sere avanti, era più consistente che mai, anche scorrendo i principali titoli dei giornali. Nel giro di ventiquattro ore, due donne erano state aggredite nella zona del porto, mentre una in casa sua, nel tranquillo distretto di Nerima.
Jimena osservava i ritagli che le avevano dato a Kido Manor e le pagine dei quotidiani che l’infermiera di turno aveva fornito loro. «Per ingannare l’attesa», aveva detto, scusandosi per avere solo quotidiani del giorno avanti.
Jimena si chiedeva se tutti quei simboli fossero parole o no, e quali fossero i verbi, quali i sostantivi e via di seguito, mentre Milo, dal canto suo, non pensava alle leggi che il Dragone e Shunrei avevano infranto: con ogni probabilità, Athena avrebbe trovato il modo di aiutarli, rifacendosi all’adagio gnothi s’autòn. Aveva fatto altrettanto con la maschera rituale delle donne e con l’obbligo di risiedere al Santuario, e avrebbe continuato a piegare le leggi il più possibile per sempre. Più della sorte che sarebbe toccata a Shiryu e a suo figlio, allo Scorpione interessava cosa stesse accadendo sul campo di battaglia.
Perché non arrivavano i feriti?
Possibile che non avessero ancora evacuato il palazzo?
Perché ci mettono tanto, si domandava lo Scorpione. Fosse stato per lui, avrebbe scelto di bonificare l’area in modo radicale, e debellare così il problema, ma almeno era una strategia, e non il seguire l’istinto come i cani.
L’istinto è quello che ti salva le chiappe, larva, ripeteva spesso Aristoteles, il suo maestro, durante l’addestramento tra il mare e le rocce di Milos. Lui, invece, preferiva avere un piano ben preciso, da seguire tappa dopo tappa, ed usare l’istinto solo in caso di bisogno.
E lanciarsi a testa bassa nella tana del lupo non è seguire l’istinto. È suicidarsi, pensò osservando la situazione all’esterno: calma piatta e pioggia battente.
Con ogni probabilità, a cose fatte sarebbe stata istituita una corte marziale, e quei tre incoscienti avrebbero ricevuto una bella lezione. Esemplare. Qualcosa che avrebbe fatto passar loro la voglia di riprovarci, e che fosse di monito per il futuro. Athena o non Athena.
È giusto, sono dei Saint di Athena, non dei monelli in vena di bravate.
Si scoprì a picchiettare con un dito sul davanzale della finestra. I medici non avevano battuto ciglio vedendoli arrivare con indosso le armature. Per lui, invece, era la prima volta che rompeva la segretezza della sua identità. E a pensarci bene, era anche la prima volta in Giappone.
Athena aveva deciso di vivere come una ragazza comune – si fa per dire – e risiedeva per sei mesi al Santuario e, per i restanti sei, a Tokyo. A turno, un Santo d'Oro la raggiungeva per tre mesi, mentre le tre femminucce – e quanto si divertiva Milo, a chiamarle così e a farle imbestialire! – risiedevano una al Santuario, una a Tokyo e la terza sull’isola di Naxos, a studiare delle carte che Shaka aveva rinvenuto nella biblioteca personale di Saga.
Il vecchio maestro era stato irremovibile: aveva ritenuto fosse più saggio dividerle in modo da impedire altre manipolazioni mentali.
Nadja era piantonata alla Terza Casa, sotto lo sguardo vigile di Kanon, ed era tutto sommato quella cui era andata meglio. Per lei era come ritornare indietro all’addestramento, e per il fratello di Saga era un’occasione per dimostrare la propria fedeltà al Santuario.
Athêna ammuffiva tra documenti polverosi e lingue morte da esaminare, controllare, vagliare. Aveva provato più volte a coinvolgerlo, e con argomenti piuttosto convincenti, ma lui se ne era sempre tirato fuori. Lo studio e la ricerca si addicevano di più a personalità riflessive come Shaka o Mu, piuttosto che a lui. E a dirla tutta, Athêna avrebbe preferito avere gli occhi dolci dell’Ariete ad aiutarla in quel difficile compito, piuttosto che i suoi.
Quell’altra pazza, invece, non dava segni di vita. Ogni mese, inviava con puntualità dei resoconti striminziti scritti in francese, fregandosene dell’obbligo di allegare una copia in greco, e del fatto che laggiù quasi nessuno conoscesse la lingua di Molière.
Così, dopo le ultime righe mandate all’inizio di Agosto, riassumibili in: – Sto bene. Fa caldo. Un abbraccio ad Aiolia –, era andato a pescare il Leone per chiedergli di partire al posto suo, e dare così una raddrizzata alla sorella del suo migliore amico.
Purtroppo, era arrivato tardi, da come si erano messe le cose.
  Questa volta nessuno le toglie una strigliata coi fiocchi. Prima quel tranello che per poco non ci manda tutti al Creatore, e passi Nadja che era soggiogata da Loki, ma lei era ben capace d’intendere e di volere, altroché, ed è già tanto che le abbiano lasciato la testa sul collo. Ora, quest’insubordinazione, e io stavolta dubito che il vecchio…
Un lampo illuminò a giorno il parco che abbracciava l’ospedale.
Il vecchio maestro.
Com’era possibile che avesse permesso a Shunrei di seguire Shiryu, e in quelle condizioni, poi? E una volta accortosi che la ragazza era sparita, perché non dare l’allarme? Perché non avvertire Shiryu?
Un viaggio dalla Cina al Giappone non è come scendere a prendere la frutta al mercato, specie poi se non si conosce la lingua. Qualcuno deve averla aiutata, ma chi?
Fissò il proprio riflesso quando, in lontananza, sentì il Cosmo di Seiya esplodere e poi svanire. Dentro la stanza di Shunrei, Saori trasalì. Anche Jimena se ne rese conto e fissò lo Scorpione come a chiedergli cosa avrebbero dovuto fare.
Poi si aprirono le porte dell’ascensore e ne uscì fuori Hyoga urlando: «Quella non è Shunrei!».
 
 
 Note:
Questo credo sia il capitolo più sconclusionato della storia. Chiudete un occhio, per favore.

Lo Yomotsu Hirasaka è il passaggio che dal mondo dei vivi porta alla Bocca dell'Ade. Quel luogo ameno dove vi spedisce Death Mask con un Sekishiki Meikaiha come si deve, insomma. E non dite che Manigoldo e Kardia non se lo sono meritato, ché l'ubris è una bruttissima bestia. E gli dei sono molto, molto permalosi. Sì, ho capito. Ho capito. Mi butto anch'io nel gorgo. Spero che Manigoldo mi afferri al volo!

Il Policlinico Universitario Agostino Gemelli è un ospedale di Roma collegato all'Università Cattolica del Sacro Cuore. Avrei voluto far ricoverare Shaina e sua madre al C.T.O. alla Garbatella, storico quartiere dell'Urbe, ma all'incrocio mentale è arrivato prima il Gemelli. Da destra.

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Capitolo 19
*** 19 ***


19.

 
«Hai visto Shun?»
Susumu era rimasto sulla soglia, sporgendosi nel camerino poco oltre il busto.
«No», gli rispose il riflesso di Shiro, che lo fissava allarmato dalla specchiera. Era chino sul ripiano, insolitamente sgombro dei cosmetici e dei pennelli di Haruko, la loro truccatrice di fiducia, e si era apparecchiato un paio di piste aiutandosi con la carta di credito. Le mani erano corse a coprire ciò che stava facendo, il fiato stretto nel petto. «Mi hai fatto prendere un colpo. Vuoi favorire?»
Susumu fece cenno di no con una mano. «Non l’hai visto?», ripeté.
«No», rispose l’altro. Seccato. «Non l’ho visto. E nemmeno mi interessa. Adesso posso tirare il fiato per cinque minuti?»
«Andiamo in scena tra meno di un’ora», ripeté Susumu. Entrò nel camerino e si chiuse la porta alle spalle.
«Ma no? Non mi dire…»
«Shun è sparito. Tu non sai dove diamine si sia cacciato quell’idiota?!»
Shiro alzò gli occhi al soffitto e sospirò. Non molli, eh?, pensò tamburellando le dita sul ripiano della specchiera.
«Kanetsuki?», chiese, conscio di quale sarebbe stata la risposta.
«Kanetsuki è nel panico. Totale.»
«Scemo io a chiedere… Senti», disse Shiro, mantenendo a fatica la calma. «Senti. Possiamo andare in scena anche io e te. Non è un problema…»
«Non è un problema?!» Susumu lo guardò come se fosse impazzito. «Non è un problema? Certo che è un problema! Un enorme problema.»
«Non se ci organizziamo. Non se ci prepariamo.»
«E che vuoi organizzare? Che vuoi dire? Era qui. Ha fatto le prove con noi. S’è seduto a questa specchiera, su questa sedia, prima di tutti noi. Poi è andato al cesso e puff, sparito. Che ti vuoi inventare? Eh?»
Shiro si staccò a malincuore dalle due piste belle e pronte. «Stammi bene a sentire. Può essere che quell’imbecille salti fuori prima di entrare in scena, all’ultimo secondo, come al solito. Può essere che sia da qualche parte con quel medico russo, lì. Quel… quel come si chiama…»
«Volonskij?»
«Lui», disse schioccando le dita. «Può essere che sia passato a dargli le sue medicine.»
«E se non fosse così?»
«Se non fosse così dobbiamo prepararci qualcosa da dire alla stampa. Una balla. Niente di troppo dettagliato. Qualcosa di vago, da sistemare in seguito. A bocce ferme.»
«Tipo che gli è preso il cagotto?» Shiro annuì. «Stai scherzando, vero?»
«NO. Sono serissimo», e lo sguardo deciso confermò a Susumu che quella che stava dicendo era la verità.
Susumu strinse la mascella. «Ok, sentiamo. Qual è il tuo piano?»
«Dire che Shun non s’è sentito bene.»
«Tutto qui? Non è un po’ vago?»
«Te l’ho detto. Dobbiamo stare sul vago. Quando racconti una balla, meno dettagli fornisci e meglio è.»
«Vero. Ma quelli di là», ribatté indicando col pollice la parete alla sua destra, «hanno visto Shun alle prove. E hanno visto che stava bene. Per quanto possa stare bene uno come lui. Ci massacreranno. Ci faranno a pezzi. Ci chiederanno…»
«Oh, a questo penserà Kanetsuki», lo interruppe Shiro.
«Kanetsuki? Quel Kanetsuki?»
«Tu ne conosci altri?»
«No. Ma vorrei tanto», commentò Susumu mettendosi le mani sui fianchi. Shiro notò che lo smalto nero gli donava, ma si tenne quel commento per sé. «Quindi? Io e te mettiamo in piedi una balla e ordiniamo a Kane di spiattellarla ai presentatori. E poi?»
«Poi andiamo in scena. C’è ancora tempo per cambiare la scaletta. Basterà cambiare le domande al volo. Certo, ci chiederanno che cosa abbia avuto Shun per fargli disertare la trasmissione. Ma se superiamo questo scoglio…»
«Ok, ok», l’interruppe Susumu. «Ma se Shun salta fuori a metà trasmissione?»
«Non salterà fuori. O Kanetsuki stavolta è licenziato», disse Shiro.
«E se appare con noi in trasmissione, meglio», concluse Susumu. Tirò un sospiro. «Adesso me la dai una mano a cercare quell’idiota, oppure no?»
Shiro sbuffò. «E va bene. Ma facciamo un giro veloce. Uno solo.» Gli fece cenno di raggiungerlo e indicò le strisce bianche sulla consolle. «Prima, però, tiriamoci un po’ su. Ne avremo bisogno.»
 
 
«Fate un po’ quello che vi pare.»
Genki faticava a credere che lei l’avesse detto per davvero. Mentre correva sotto la pioggia battente con Ban al suo fianco, che assomigliava ad un fantasma, l’Orsa ammetteva con se stesso di essere spiazzato. Incredulo. E anche un tantino incazzato. Che non gliene importasse nulla di loro l’aveva sempre sospettato, perché un Santo d’Oro è e resta sempre un Santo d’Oro. Borioso, altezzoso e spocchioso. Con o senza gli occhioni da cerbiatto e le ciglia sfarfallanti. Ma un conto è pensare una cosa; un altro è ammetterla. Perché quando si pensa anche qualcosa di orribile, fintantoché resta nella mente non è così brutto. È un qualcosa che se ne resta ai margini, nelle zone d’ombra della coscienza, come un grosso ragno peloso che s’è barricato nella tua cantina. Tu sai che lui c’è, ma fino a quando non lo vedi immagini solamente quanto possa essere brutto, sgraziato ed orribile. Ma è quando si dà fiato ad un pensiero che questo assume contorni più netti. E più viscidi. E si comprende la reale portata di quell’idea che se ne è rimasta ai margini della coscienza a crescere senza ritegno. Senza che uno se ne accorgesse.
Genki faticava a credere che lei avesse avuto il coraggio di ammettere che, in fin dei conti, di loro le importava quanto una macchia su di un vestito. Anzi, forse la macchia sul vestito le avrebbe causato una maggiore partecipazione. Una maggiore empatia.
Certo che ce ne vuole di coraggio…
Quando le aveva chiesto di ripetere ciò che avesse detto, lei aveva posato lo sguardo su entrambi, andando dall’uno all’altro e viceversa.
«Fate. Quello. Che. Vi. Pare», aveva ripetuto, scandendo bene le parole. «Shun è vostro fratello. Non vi biasimerei se vorreste correre in suo aiuto…»
«Qui non stiamo parlando di…»
«Invece sì.» Genki era stato fulminato da quello sguardo verde scuro. «Qual è il problema, Orsa?»
Silenzio.
«Ho chiesto di dirmi quale sia il problema, Orsa. Non hai capito le mie parole?»
«Ho capito.» Lei aveva parlato in Lingua Sacra, il greco che si parlava al Santuario. Il greco ufficiale dei Santi d’Oro. La katharevousa. E lui si era adeguato. «Abbiamo due fronti. Il primo è quello al grattacielo F. Il secondo, all’ospedale della Fondazione.»
«Errore», l’aveva interrotto lei. «Il primo è all’ospedale. Il secondo, al grattacielo. Credo che Athena sia più importante di Shun. O sbaglio?»
Genki aveva stretto i pugni. «No. È corretto.»
«A Minato abbiamo cinque Santi di Bronzo e tre d’Argento. Più altri due di Bronzo in supporto. All’ospedale, due Santi d’Oro. Secondo te, dove dovresti essere, Genki dell’Orsa? All’ospedale o al grattacielo?»
Era tornata a fissare i propri schinieri sporchi di fango.
«Fate quello che volete. Andate dove lo ritenete più opportuno. Io resto qui. A tenere il fortino.»
«Resti qui?» Al diavolo tutto, il greco, la katharevousa e quegli occhioni da cerbiatta. «Athena è in pericolo e tu resti qui?»
«Sì», aveva ripetuto lei. «Perché questo è un ordine di Athena. E ora, se volete andare, andate.»
Era scivolata in un mutismo inespugnabile. Lui e Ban si erano scambiati uno sguardo indeciso, poi erano usciti, dalla stanza e dalla villa, lasciandola da sola.
«Certo che ce ne vuole di coraggio», disse Genki saltando da un palo della luce ad un altro.
Ban aveva un’espressione indecifrabile. Annuì, e Genki non seppe il perché. Decise che non gliene importava. Decise che avrebbe protetto e salvato Athena. E che avrebbe dimostrato ancora una volta a quegli spocchiosi Santi d’Oro che all’interno dell’esercito di Athena erano i Santi di Bronzo a costituire l’ago della bilancia.
 

Volonskij stava infilando carte su carte all’interno di una ventiquattrore. Non badava a lui. Era troppo preso da quell’operazione, troppo assorto nei suoi pensieri per accorgersi che c’era qualcuno che lo stava spiando – lo stava osservando – dalla soglia del suo ufficio. Le sue mani si muovevano veloci e rapide e nervose, tra i fogli che svolazzavano a destra e a manca, e che l’uomo non si dava pena di controllare. Non se ne accorgeva. Il respiro era pesante, affannoso, concitato. Come di chi ha poco tempo e troppe cose da salvare e sa che non riuscirà a salvare, a proteggere tutto, e allora cerca di portare via quanto può. E qualcosa di più. Come uno sfollato che raccoglie dentro ad un lenzuolo tutte le sue cose più preziose. O quelle più utili, ché quando non hai un tetto sulla testa diventano più preziose dell’oro e dei gioielli. Così agiva Volonskij, come uno sfollato che debba evacuare di gran carriera, con la differenza che il suo lenzuolo era una ventiquattrore firmata Hermès.
Ikki poteva vedere il sudore imperlare la fronte dell’uomo che l’aveva rapito già dalla soglia della stanza. Non ebbe pietà di lui. Attese che l’uomo si accorgesse della sua presenza, per non colpirlo alle spalle. Perché se Ikki l’avesse fatto, l’uomo non gli sarebbe sfuggito di certo; ma sarebbe stata un’azione da vigliacchi. Che l’avrebbe reso simile a lui. E questo Ikki non poteva sopportarlo. E poi, voleva delle risposte. Qualcosa, anche una scusa farfugliata, che desse conto e ragione di sé all’enorme perché che gli martellava nella testa da troppo tempo per restarsene inascoltato.
Perché mio fratello?
Voleva risposte e le avrebbe avute. Anche a costo di estorcergliele con le tenaglie.
Staccò una delle piume di bronzo della sua coda e la lanciò contro la valigia. Come avvertimento.
Volonskij sobbalzò. «Chi è là?», gridò. Con una vocetta stridula che generò un moto di disgusto nella mente di Ikki.
Non sei neppure degno di essere chiamato uomo, pensò la Fenice avvicinandosi.
«Buonasera, dottore.»
La voce era il ruggito basso della fiera che avvisa il rivale delle proprie intenzioni. Azzannare alla gola. E non lasciarlo andare fino a quando non vedrà la pupilla farsi vitrea e non sentirà l’alito vitale uscire dalla sua bocca, una volta per tutte.
Volonskij lo guardò stupefatto. «Tu…», disse. Un sussurro appena, ma Ikki lo percepì come se l’avesse gridato al suo orecchio tramite un megafono. «Come…»
«Dov’è?», disse – ordinò. Fissando negli occhi Volonskij.
«Chi?», domandò il dottore.
«Andromeda Shun. Mio fratello.»
Il sorriso di Volonskij divenne quello di una faina. «Non è qui.»
Ikki si avvicinò. «Non ho voglia di giocare, ciarlatano! Dov’è mio fratello?»
Volonskij rise e per un attimo, uno soltanto, Ikki pensò fosse impazzito. Normale non lo è mai stato, si disse, ma Volonskij si ricompose. Si sistemò la giacca sulle spalle – il camice giaceva abbandonato a terra come fosse stato uno straccio da spolvero buono per il fuoco – e lo fissò.
«Sta aspettando la sua medicina», disse, portando le mani dietro la valigetta.
«Niente scherzi!», ruggì Ikki.
Volonskij sorrise e gli mostrò una siringa di vetro, piena di un liquido trasparente.
«È la medicina di tuo fratello», disse. «La sua dose quotidiana. Per non impazzire, capisci? Devo andare a dargliela, capisci? Altrimenti il dolore sarà insopportabile. E tu non vuoi che tuo fratello soffra, non è vero?»
«Bastardo…»
Ikki teneva gli occhi fissi su di lui e su quella siringa che brillava sinistra tra le sue dita. Aveva un ago enorme. Gigantesco. E Ikki si chiese in quale vena avrebbe mai potuto infilare una cosa simile, quando vide l’ago e la siringa andargli incontro.
Idiota, pensò afferrandola con due dita. Il vetro era freddo e viscido ed Ikki si accorse che all’interno c’era, con tutta probabilità, della soluzione fisiologica. Quando spostò lo sguardo nuovamente su Volonskij, si accorse che l’uomo non aveva perso tempo e s’era armato. Ora stringeva tra le dita tremanti una Walther P38, con le peggiori intenzioni possibili. Come scaricare tutti i proiettili contenuti nel caricatore addosso a lui.
Volonskij sorrise e fece fuoco.
E Ikki rispose.
 

«Ma questi…»
Fiona s’era fermata a metà rampa, inginocchiata sul corrimano. Poco più su di lei, Andrew abbassò il capo. E annuì.
«Colpi di pistola», sentenziò, lo sguardo azzurro fattosi duro.
«Dove credi fossero?», chiese Fiona.
«Due o tre piani più su.»
«Perfetto. Allora…»
«Vado io», le disse. «Tu prosegui col piano come stabilito. Intesi?»
Fiona avrebbe voluto ribattere. Avrebbe voluto rispondere ad Andrew che no, non sarebbe andato lui a vedere, che casomai ci sarebbero andati assieme, ma quello che Perseo le regalò fu uno sguardo così carico di determinazione che la Lucertola capitolò.
«Intesi», disse. E Andrew si voltò. «Aspetta!»
Spiccò un paio di salti e lo raggiunse.
Che c’è ancora?, le chiesero i suoi occhi, vedendo che si umettava il labbro inferiore. Andrew sapeva che quel gesto poteva significare due cose. La prima era un sentimento di ansia, pena, agitazione. La seconda, quella che Andrew più temeva, era un sintomo della testardaggine che affliggeva il cervellino di Fiona. Non ho finito, questo poteva significare quel gesto. Ma Andrew non sapeva che umettarsi il labbro inferiore e poi affondarvi con delicatezza i denti aveva anche un terzo significato. Fiona stava raccogliendo tutto il proprio coraggio. Strinse i pugni e si avvicinò a lui, i loro visi talmente vicini da respirare la stessa aria.
«Fai attenzione», gli disse, prima di colmare la distanza tra di loro e baciarlo. «In bocca al lupo», gli sussurrò Fiona, prima di saltare via, verso il pianerottolo. Aprì la porta e scivolò all’interno, lasciandolo lì, accovacciato sul mancorrente, a sentirsi un perfetto idiota.
 

Il cielo sopra la Valle della Morte l’aveva accolta col suo viola melanzana, con un vortice screziato da nuvole nere e rosse sopra alla Collina. Era affollata come al solito, ma molto silenziosa. Quieta. Sempre fedele a se stessa e sempre fottutamente indifferente a ciò che le capitava attorno.
«Vado anche io», aveva detto a Tatsumi, omettendogli le sue reali intenzioni. L’uomo aveva annuito e lei era sparita, una bottiglia di cognac nascosta dietro la schiena. Laggiù, tra le anime dei morti che risalivano in file ordinate il pendio della Collina per lasciarsi cadere nel cratere, non l’avrebbe disturbata nessuno. Rimase per un po’ a fissare quelle file ordinate di anime, che come formiche stanche si dirigevano verso la cima del colle brullo.
Un formicaio, pensò. Forse un po’ lugubre, ma che importa?
Il piano era semplice. A prova d’errore. Relegarsi là sotto e regalarsi una sbronza colossale. Una di quelle in cui non sai più chi sei. Se sei tu che guardi la luna o se è la luna che guarda te. E che ti chiede, lo sguardo perplesso, cosa diamine tu stia facendo, prima di decidere che sono fatti tuoi e girarsi dall’altra parte, ad osservare altre notti, altri mondi, altri sogni.
Si sedette sulla prima roccia disponibile, un sasso piatto che qualcuno aveva affastellato assieme ad altri in un pinnacolo stabile. Forse il risentimento di qualche bambino morto prima dei suoi genitori? Possibile. Ma poiché il pinnacolo non arrivava sì e no a cinquanta centimetri, ne dedusse che figlio e genitori si erano ricongiunti presto. Per quel che valeva lo scorrere del tempo, laggiù.
La bottiglia di cognac era di quelle pregiate. Costose. Un liquore di primissima qualità, probabilmente di un’annata speciale, che le sarebbe costato un occhio della testa rifondere, ma pazienza. Certe cose vanno fatte per bene, giusto? Alzò lo sguardo sul cratere – sul formicaio – e le sembrò di essersene appena andata. E invece sono passati cinque anni, si disse. Eppure, le sembrava tutto così fottutamente vicino, come se avesse appena battuto le ciglia. Come se sentisse ancora le mani disperatamente vuote e spalancate.
Rivedeva ancora la scia di quella cometa dorata che era scesa giù, in picchiata rabbiosa, illuminando a giorno il cielo violaceo, rischiarando i turbini rosso sangue e stritolandole il cuore. Perché non aveva fatto in tempo. Non era riuscita ad allungare le dita quel poco che bastava per afferrare le scia della cometa e trascinarsela dietro. Oltre l’orlo del precipizio. Tra i vivi.
Ancora non lo sapeva che il suo corpo non c’era più, che era esploso nel cielo, diventando polvere di stelle e cosmo per salvare il Dragone e pagare i propri peccati, ma non aveva importanza. Quello che contava, allora, era fare un solo, singolo passo in più. Uno solo. E non era mai riuscita a perdonarsi di non averlo compiuto. Di non avercela fatta. Perché con quel fottuto, piccolo passo, con quei venticinque centimetri in più, avrebbe steso le dita un po’ più in là e l’avrebbe acciuffato. O sarebbe caduta con lui, nella Bocca dell’Ade.
E forse, sarebbe stato meglio così.
Perché allora avrebbe avuto un motivo serio per non essere riuscita a salvare anche suo fratello. Per aver lasciato che i suoi capelli le scorressero tra le dita come seta. Per averlo visto cadere e non essere riuscita ad urlare nemmeno il suo nome.
Perché non avrebbe inanellato tutta quella serie di casini immensi, che non riusciva a perdonarsi, nonostante tutto. Nonostante Capo Sounion. Nonostante l’Espiazione. Glielo aveva rimarcato anche lui, a pochi centimetri dal viso mentre un fulmine solcava minaccioso il cielo oltre la finestra, in un ringhio basso e minaccioso. Affondandole il coltello ancor più in profondità in una piaga che neppure lei sapeva più come chiamare. Athena. Étienne. Ruy.
«Sono la sua compagna…»
Sbatté le ciglia e si accorse che la vista le si era appannata. Il formicaio era sempre laggiù, all’orizzonte, e i filari di formiche continuavano la loro ineluttabile salita, con la stessa arrendevolezza con cui lo scoglio accoglie l’onda del mare, ma era tutto sfocato, un’indistinta chiazza di viola, grigio, nero e rosso sangue.
Dillo alla luna, cantava Vasco. Ma lei sapeva che anche se ci fosse stata la luna, laggiù, se ne sarebbe fregata. Di lei, dei morti, dei vivi e di tutto il resto. Sarebbe rimasta a splendere contro quel cielo di un colore assurdo, e amen.
La bottiglia rimase a terra, intonsa. Lei alzò il viso al cielo e pianse tutte le lacrime che aveva in corpo, sicura che non l’avrebbe sentita nessuno. E che, per una volta tanto, nessuno avrebbe interferito col suo dolore.
 

«Skatà
Milo si alzò in piedi e si avvicinò a Hyoga. Certo che quella non era Shunrei. Ovvio. Logico. Ma per una volta, una sola, Milo avrebbe preferito che la logica se ne fosse andata a farsi una bella passeggiata altrove, magari in quella ridente e pittoresca località chiamata Fanculo. Invece la logica aveva messo su uno spettacolino niente male e stava per estrarre un altro coniglio dal cilindro. Due, per l’esattezza. Grossi come mammuth, tanto avevano deformato la stoffa del cappello colla loro mole. E lui non era sicuro di voler sapere che razza di bestie fossero.  
«Proteggi Athena», gridò al Capricorno, che era già volata nella stanza dove Athena stava vegliando Shunrei. Milo trattenne tra i denti una bestemmia. «Spiegati!», disse al Cigno, prendendolo per un polso.
Hyoga si divincolò. Aveva lo sguardo di ghiaccio, della stessa sfumatura preoccupata che solcava quello di Camus quando le cose non tornavano.
«Ho appena lasciato Shiryu al pronto soccorso. Strada facendo mi ha detto che quando è partito Shunrei non era incinta.»
«Non potrebbero averla rapita…»
«Il vecchio Maestro», disse Hyoga. Piazzando un macigno inamovibile su qualsiasi obiezione si potesse muovere a riguardo. «Tu credi davvero che lui avrebbe permesso che torcessero anche solo un capello a Shunrei?»
E allora quella ragazza chi diamine è?, si domandò Milo, voltandosi verso la porta dietro cui erano sparite sia Athena sia Jimena.
«Shiryu?»
«Malconcio.» In uno stato pietoso, pensò Hyoga, ma tacque. Per salvaguardare l’onore del suo compagno. «Malconcio, ma vivo. Gli stanno prestando le prime cure. Ci raggiungerà appena possibile.»
Milo inarcò un sopracciglio, una brutta copia dell’espressione che Camus mostrava ai suoi allievi quando proprio non capiva cosa passasse loro per la testa, e disse: «Facciamo che lo vai a prendere, e io entro lì dentro per capire cosa cazzo sta succedendo. D’accordo, tovarič?».
Hyoga annuì e tornò agli ascensori proprio mentre ne usciva l’equipe medica pronta ad accompagnare Shunrei in sala operatoria.
Perfetto, pensò lo Scorpione. Piove sempre sul bagnato.
 

Shunrei è qui con me.
La voce di Doko aveva quel suono di foglie spezzate tra le dita, di pagine ingiallite dal tempo e dall’usura, ma Saori riuscì lo stesso a sentirvi dentro la preoccupazione che gonfiava il vecchio cuore malato di Libra.
E allora questa ragazza chi è?, pensò Saori mentre Shunrei le stringeva le dita con una forza impressionante.
Il cosmo di Doko tradiva tutta la sua impotenza. Non era Shunrei, d’accordo, ma chiunque fosse quella ragazza in preda alle contrazioni del parto le assomigliava come una goccia d’acqua.
Una sua gemella?
Oppure… una sua copia?
Saori tremò nel formulare quel pensiero anche solo nella sua mente. Athena tacque, sdegnata.
Possibile che l’uomo fosse riuscito a ricreare la vita con tale precisione?
 
La tracotanza dell’uomo non ha limiti.

C’era risentimento nelle parole che le erano esplose nel petto. E sì, Saori si disse che Athena aveva ragione. Che quella che l’uomo chiamava scienza era solo un tentativo di scimmiottare il potere degli dei. Per sentirsi meno fragili, forse, e se fosse stata una ricerca per sconfiggere le malattie, Saori avrebbe anche potuto capire, comprendere pur se non avallare, il tentativo dell’uomo di giocare con la vita. Per capirla. Per comprenderla. Per giocare ad armi pari.
Ma quello che l’uomo aveva fatto a quella ragazza non era nulla di tutto questo. Era dolore. Puro e semplice. Senza una ragione, e per questo ancora più inutile e meschino.
«Shiryu!», gridò la ragazza in quel letto, la voce arrochita ed il respiro sempre più frequente e breve e affamato d’aria.
«Mia Signora, che facciamo?», gli chiese Jimena alle sue spalle.
Bella domanda, pensò Saori. Le infermiere sarebbero venute a prepararla per l’anestesia da un minuto all’altro. E se l’anestesia non avesse funzionato? O se avesse funzionato troppo bene?
Saori non riusciva a leggere l’anima della creatura che le si era aggrappata alle mani con tutta la disperazione che aveva in corpo. Il dolore era troppo. Poteva essere qualsiasi cosa.
Fuori il cielo era un mantello nero cupo, fumoso e carico di pioggia, che batteva contro i vetri con secchiate rabbiose. Saori cercò la luna, oltre quelle nubi. Cercò l’aiuto di sua sorella Artemide, per intercedere per quel parto difficile. Per farsi dire cosa fosse quella creatura stesa davanti a lei.
Ma la Cacciatrice non rispose. I suoi occhi d’argento erano rivolti altrove e non prestò attenzione al timoroso e flebile richiamo della sorella minore.
 
Locheia vuole un sacrificio di sangue per questa richiesta.
 
E Saori seppe che Athena aveva ragione. Non sarebbe successo nulla a quella ragazza e a suo figlio. Lei non l’avrebbe permesso. La Cacciatrice richiedeva un sacrificio ed un sacrificio avrebbe avuto.
«Deve partorire», disse a Jimena, rispondendo alla domanda che il Capricorno le aveva posto poco prima. «Dopo capiremo cosa sia successo. Dopo. Ma adesso c’è un bambino che deve nascere.»
«Non sarà… non sarà pericoloso?», insistette il Capricorno.
Saori si voltò.
«Pericoloso?», chiese.
«Non sappiamo con cosa abbiamo a che fare, Mia Signora. Potrebbe scatenarsi in sala parto. E allora…»
«Si sarebbe scatenato prima», disse Saori. «Lo starebbe facendo adesso, Jimena.»
E se accadesse? Jimena non ebbe il coraggio di proseguire oltre, e affidò al suo respiro quell’obiezione. Chinò il capo e attese.
Saori asciugò il sudore dalla fronte di Shunrei – della falsa Shunrei. Le contrazioni si facevano più rapide. Più dolorose. Non avrebbe retto a lungo. E si chiedeva quanto ci mettessero gli infermieri ad arrivare.
«Ho bisogno di Excalibur», disse. Jimena alzò la testa.
«Sono qui», e il braccio destro divenne come d’acciaio puro.
Saori le mostrò le vene del polso sinistro. Jimena la fissò come se non avesse capito. Stralunata. Indecisa. Incredula. Non mi state chiedendo di, vero?, gridavano i suoi occhi.
Saori annuì.
«Il mio sangue proteggerà entrambi», disse, imponendosi di non farsi commuovere dall’espressione attonita del Capricorno. «Ne basteranno poche gocce», insistette.
Jimena scosse il capo.
«No. Non… non posso», disse, in un sussurro flebile, il viso pallido e gli occhi allargati.
«Puoi», ed era stata la voce di Athena a parlare, stavolta. Rimbombò forte e chiara nel cuore di Jimena. Entrando in risonanza con il suo cosmo. Lassù, oltre quella coltre di nubi nerissime, le stelle ruggirono. Una danza di luce e fuoco e potere che entrò in risonanza con il braccio destro di Jimena. Deneb Algedi splendette fulgida contro il nero della notte e lei seppe che non era sola. Ci sarebbe stata Athena con lei. Ruy. Non poteva fare male ad Athena. Lei era il Capricorno. La sua spada. Excalibur.
Jimena chinò la testa. Saori le avvicinò il polso. Un rapidissimo movimento, la lama divina a sfiorare la pelle candidissima di Saori e a recidere appena le sue vene.
«Grazie», mormorò Saori. Poi avvicinò il suo polso a Shunrei – alla falsa Shunrei – e lasciò che un paio di gocce del suo sangue le cadessero sulle labbra.
«Vai a vedere come mai non arriva nessuno», disse a Jimena. La sentì sussultare alle sue spalle, ma il Capricorno schioccò i talloni ed uscì mormorando un «subito» poco convinto.
Rimasta sola, Saori cercò nella stanza qualcosa che potesse fare al caso suo. Qualcosa con cui bendare il polso. Era una ferita superficiale, sì, ma non voleva spargere altro sangue. Locheia si sarebbe fatta bastare quell’atto di fede.
Jimena tornò assieme all’infermiera.
«Adesso deve uscire.»
«Quella cos’è?», chiese Saori indicando con lo sguardo la siringa che la donna teneva tra le dita.
«Un antidolorifico», rispose l’infermiera avvicinandosi al letto. «La aiuterà a sopportare il dolore fintantoché l’anestesia non farà effetto. Lei, piuttosto. Cosa le è successo?»
«Mi ha graffiata», mentì Saori.
La donna non commentò. Infilò l’ago nella vena della paziente, vi scaricò il contenuto della siringa e lo estrasse. «Venga con me. Metteremo un po’ di disinfettante e un bel cerotto su quel graffio.»
 

«Seiya?»
Shaina era rimasta impietrita. Aveva aperto una porta dopo l’altra lungo tutti i corridoi che aveva attraversato fino a trovare Seiya. E a capire perché mai il suo cosmo si fosse spento all’improvviso. Come se qualcuno avesse soffiato sulla fiamma di una candela.
«Seiya?»
Shaina continuava a chiamarlo, nonostante sapesse che lui non le avrebbe risposto mai più. Perché oramai Seiya era lontano. Distante. Irraggiungibile. Si avvicinò a lui, steso su un lettino anonimo, senza nemmeno un lenzuolo steso sotto il suo corpo, e gli afferrò un polso. Piano. Con delicatezza. Come se stesse toccando qualcosa di purissimo e si fosse accorta di avere le mani incredibilmente sudice. O se lui fosse fatto di quella carta leggerissima con cui si realizzano quelle lanterne che d’estate si fanno volare su nel cielo, a rischiarare la notte di Luglio.
Seiya era freddo. Di un freddo metallico ed innaturale. Gli toccò la punta delle dita. Erano graffiate, come se le avesse usate per arrampicarsi su una parete rocciosa e affilata come un rasoio. Erano graffiate e fredde. Rigide.
Shaina trattenne il fiato. Fissò il bel viso di Seiya. Sembrava addormentato. E che stesse facendo un bellissimo sogno. Sembrava sereno. Lontano dalle noie e dalle preoccupazioni di questa vita. Tutto il dolore, tutta la rabbia, le battaglie, l’acciaio, il sangue Athena, tutto questo – tutto Seiya – non c’era più. Quello che aveva davanti era un bellissimo involucro. Seiya non c’era più. La sua anima s’era staccata dal corpo e se n’era andata via. Lontano. Perduta per sempre chissà dove, tra le pieghe del cielo e delle dimensioni. Oltre la luce rabbiosa delle stelle.
No! Non è possibile, pensò. Ma quando allungò le dita sul collo di Seiya, lì dove l’armatura lasciava scoperta la giugulare e dove tanto amava depositare piccoli baci a fiori di pelle, leggeri come il battito d’ali di una farfalla, Shaina si accorse che Seiya non c’era più.
 
 
Note:
Aggiornamento speciale di lunedì. Dai che siamo quasi alla fine! Portate pazianza ancora un po' e finalmente questa storia avrà un epilogo.

Non ce l'ho fatta a resistere al cliché del musicista che indulge in certi piaceri. Sono prevedibile, lo so. E anche un po' scontata, ma pazienza.

La katharevousa originale è una lingua in uso in Grecia dal 1832 al 1976. Dall'indipendenza dall'Impero Ottomano alla fine della Dittatura dei Colonnelli. Si tratta di una lingua ricreata partendo dal greco antico, liberando la lingua popolare (il dhimotiki) dalle influenze turche che nel corso degli anni si erano depositate nel greco - ed essendo una lingua viva, prende spunto dalle novità con cui entra in contatto, fregandosene se sono turche, arabe, italiane, cinesi o il cielo solo sa cosa.
La katharevousa non ha funzionato, quindi quella che si parla oggi, in Grecia, è una lingua che discende dalla koiné che si studia al liceo (e pure lì, ricostruita con molta fantasia) con tutto il corredo di novità che ha messo da parte nei secoli.
Nel mio headcanon la katharevousa è la lingua pura che si parlava al Santuario in Lost Canvas e che si parla al Santuario nelle occasioni ufficiali. Un po' come quando il Papa fa uscire una nuova enciclica - la scrive in latino, ma suppongo che se chieda a qualcuno di passargli il pane lo faccia in italiano. O in spagnolo.
Lo stesso dicasi per il Santuario. Milo dirà pure "Skatà!", e lo dirà nel suo dialetto cicladico®, ma suppongo che in occasioni formali si parli una lingua più... formale, appunto.

Locheia è uno degli attributi di Artemide, divinità che si invocava in soccorso delle partorienti. Nonostante fosse la dea vergine per eccellenza. Non chiedete, o ne esce una nota grossa quanto tutto il capitolo...
 

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