Amethyst Over Time

di Mary_la scrivistorie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Mezzanotte di primavera, 2031, 13 aprile ***
Capitolo 2: *** 2. Presentimenti, 2031, 13/14 aprile. ***



Capitolo 1
*** 1. Mezzanotte di primavera, 2031, 13 aprile ***


  1. Mezzanotte di primavera, 2031, 13 aprile.
 
E’ incredibile quanto l’uniforme scolastica della Saint Lennox possa essere fastidiosa. Me ne stupisco anche adesso, due anni dopo questa storia. E’ di un colore giallo-verdognolo e si abbina malissimo con la gonna a balze che ogni giorno sono costretta a indossare. Ma quella serata, mi dimenticai perfino di togliermela. Non che in confronto alla storia sia un dettaglio rilevante, ma è stata la mia prima avventura, e non potrei mai dimenticarne qualcosa…
 
«Conclusione? Sintassi?», sbraitava mia cugina dall’altro capo del telefono. Helen Bertelin per me era ciò che zia Leslie era per mia madre. Inseparabili amiche, compagne di avventure, cugine molto unite.
«Non ci sono ancora arrivata.», puntualizzai con una nota di disprezzo nella voce. Odiavo i temi grammaticali che Mrs Wetness ci affibbiava qualvolta le capitasse di beccare una di noi due a non prestare attenzione alle sue parole.
Questa volta eravamo state entrambe smascherate a chiacchierare, e ci aveva punito con un testo di nove pagine. Così, trascorsi quel sabato sera sul letto a scrivere con una mano, il telefono infilato tra l’orecchio e la spalla e un torcicollo incessante.
Comunque, stavo appunto scrivendo questa conclusione:
Quindi, la sintassi e la morfosintassi hanno aspetti comuni, ma non uguali. Basti pensare alle differenze lessicali delle due parole, e al prefisso che una delle due ammette.
Pensavo di aver fatto un bel lavoro, quindi chiusi di scatto il libro, lasciando dentro il protocollo (già tutto inzuppato d’inchiostro della mia penna super macchiante) e appoggiai la testa sul cuscino con ricamate le lettere:
A.D.V
Annabelle De Villiers. Figlia dei celebri viaggiatori del tempo Gwendolyn Shepherd e Gideon De Villiers. Del rubino e del diamante. Del 12 e dell’11. E non dimentichiamoci: nipote di Lucy Montrose e Paul De Villiers, lo zaffiro e la tormalina nera.
Già, mio padre e mia madre, per quanto si sforzassero, non potevano celarmi tutto. Avevo letto soprattutto qualche brano degli Annali dei Guardiani. Avevo l’intelletto di mio padre – per fortuna, a quanto mi disse zia Charlotte da giovane l’unica passione di Gwenny erano i film, e sospetto ancora che non fosse una bugia – ma la curiosità e la testardaggine di mia madre. Anche dal punto di vista fisico ero d’intermezzo: capelli neri e riccioli – colore di mia madre, boccoli di mio padre – e gli occhi verdi del diamante. Anche io, come mia madre, avevo una voglia sulla tempia, ma era a forma di scorpione. Helen diceva che era molto più figo così, ma io non le credevo davvero.
Insomma, fu davvero un bel sussulto quando la porta si spalancò e l’altra mia cugina (di secondo grado) entrò. Susan Montrose. Identica a zia Charlotte. Capelli rossi, incredibilmente lucidi – ma a differenza della madre lisci – , occhi azzurri, aggraziata, con un sorriso molto seducente e due fossette adorabili. Non ricordavo bene che aspetto avesse zio Gordon, lui e zio Charlotte avevano divorziato quando il mostro era ancora un mostriciattolo di sette anni. E il cognome Gelderman era stato sostituito da un leggiadro Montrose. Susan era l’orgoglio di famiglia, in pratica, eccelleva a scuola e sapeva suonare alla perfezione violino e arpa, a detta della zia due strumenti di inequivocabile raffinatezza e valore artistico. Lady Arisa non faceva che elogiare ogni sua qualità, l’educazione, il rispetto, l’innato talento, la sincerità, la cordialità, la regalità. Diceva che sembrava lei in miniatura, forse più di zia Charlotte. Adesso che il cerchio dei dodici era ufficialmente chiuso, la nonna – okay, la mia trisavola per essere più precisi, ma rimane un concetto così strano…Come il fatto che la mia vera nonna fosse Lucy e non Grace…io considero quest’ultima mia parente più stretta, dato che non avevo mai visto Lucy e Paul – poteva benissimo lasciar perdere il fattore X e allenare – pardon, educare – i suoi otto nipoti.
Senza divagare, Susan mi rivolse un sorriso ampio, a trentadue denti. «Ciao, Bell. Ho lasciato qui la mia giacca. Stasera ho un appuntamento, sai? Con Kellan Faulks.»
Riuscii a borbottare un neutrale: «Buon per te, Susie.»
«E’ il ragazzo più popolare del quarto anno, e credo che sia un onore per lui conoscere una persona così simile a lui e accomunare i nostri interessi intrecciando i nostri fili…», iniziò a raccontare. Non sapevo se facesse apposta a vantarsi, ma chiacchierona così non lo era molto spesso. Alla fine, la smise e notò: «Tu non sei uscita, Annabelle?», chiese, fingendosi sorpresa.
«Ho dovuto terminare il tema.», le rammentai, di malumore. Possibile che lei fosse più perfettina di zia Charlotte?
«Già. Comunque, Annabelle, diciamo che è stata una punizione giusta. Non dovete interrompere sempre le lezioni con le vostre discussioni sui ragazzi e sui film.», abbozzò un sorriso soddisfatto e mistico.
Quel mistico che nessuna ragazza poteva eguagliare. Dannazione! Stregava i ragazzi come se fosse una bomba sexy, e invece era tutt’altro. Bella, certo. Ma non sexy, di sicuro. Una violinista!
Per quanto mi riguardava, davo pienamente ragione a Helen. Sembrava che fossimo reincarnazioni future dei nostri genitori. Però ricordo che mia madre è finita con Gideon – il diamante! Apprezzo la bellezza anche se l’ho ammirata un sacco di volte: l’occhio non si abitua facilmente – ! Helen, a modo suo, era persino più bella di Susie. I capelli lunghi color bronzo, gli occhi verdi – i miei occhi – e un fisico da far invidia a ogni sedicenne. Era molto snella, ma molto davvero, esile come un fuscello e alta più del mio metro e settanta.
Ritornando alla beneamata storia, Susan lanciò uno sguardo sprezzante al cellulare: «E dunque passerai tutta la serata a rimbambirti in cerca di qualcuno con cui messaggiare?». Schioccò la lingua, contrita.
«In tal caso, non te ne dovrebbe importare.», replicai con tutta la scortesia di cui ero capace. Mamma era un po’ più bassa della zia Charlotte, ma io superavo Susan di una spanna buona. Suppongo che abbia preso l’altezza dal minuto padre, il cui volto mi era ignoto, con un grande punto interrogativo a cui, prima o poi, avrei risposto.
«Annabelle, non ti importa davvero nulla della figura della nostra famiglia? I Montrose?», chiese, con un sorriso insolente sul volto. Godeva della mia incertezza. Uno a zero per lei. 
«Mostra ciò di cui sei veramente capace.», mormorai, con aria di sfida. 
«Te lo ricordi ancora? Brava la nostra Annie. Allora, dovresti cercare di attenerti al suo significato, cara. Per il tuo bene.», sibilò, con aria strana. Non potei analizzarla meglio perché gettò la chioma all’indietro e fuggì impettita di camera mia.Il suono della sua voce era stato davvero…mmh…non solo consapevole, ma anche abbastanza provocatorio, intimidatorio, minaccioso. Il tono di quando dopo un’umiliazione cercava di sfruttare il suo asso nella manica. Qualcosa mi suggeriva che conoscesse verità di cui io ero perfettamente ignara. Era l’ora di frequentare più spesso Susan.
Il cellulare era ancora in chiamata, e Helen aveva udito tutta la nostra conversazione.
«Annabelle, devi scoprire ogni cosa che Susan potrebbe rivelarti. Anche a costo di diventare una perfettina e recitare la parte del litigio con me. Intese?», chiese, e io chiusi automaticamente gli occhi, disgustata.
«Ti prego, no.», implorai ma aveva già attaccato.
Sospirai, malinconica. Scesi di sotto. Oh, cavolo. Lady Arisa aveva organizzato una festicciola. E io ero in uniforme ancora. Mia nonna mi intravide subito e mi cacciò dentro il ripostiglio: «Fila a cambiarti, bambina, o Mr Bernhard ti riporterà subito a casa di tua madre.», sibilò. Era incredibile quanto si sforzasse per non muovere i muscoli del viso. Lo faceva per apparire più composta ed elegante, dice nonna Grace.
Risposi con un cortese: «Certo, nonna.»
Lady Arisa parve rianimarsi. «Scusami tanto, Annabelle, ma Susan è fuggita e tutto sta andando male. Kendrick De Villiers era qui per esserle presentato – affari post-cerchio dei dodici – e non so cosa fare con quel ragazzo. È un ribelle nato, e ha già rotto il Vaso degli Arcangeli. Mi serve il tuo aiuto, tesoro.»
Aveva un’aria così agitata e disperata che annuii commossa. Non era un palo rigido, poteva flettersi un po’…
«Molto bene.» ritornò al suo tono distaccato e freddo.
Non è che fossi una ragazza da gran galà. Gli unici vestiti carini da sera che possedevano li avevo usato per andare a delle feste al mare, a Plymouth. Ne avevo uno color verde marino che s’incastonava alla perfezione con i miei tratti del viso, ma era davvero aderente – taglia per i 14 anni – e semplice per una serata dalla nonna. A Bourdon Place, numero ottantuno. Gli altri abiti erano davvero sgargianti e inutili. Allora, mi venne un’idea. Frugai nell’armadio di Susan. La combinazione per aprirla era davvero banale, dubitavo che fosse stata una sua idea, ovvero la sua data di nascita. 230696.
Il suo vestibolo era da uno WOW contornato di cotta all’istante. Zia Charlotte teneva a sua figlia, evidentemente. Un sacco di vestiti: dal beige più tenue fino all’azzurro più intenso. Alla fine, optai per un abitino color rosa tenue, che risaltava i miei occhi. Stranamente, mi calzava davvero bene. Mi truccai anche, leggermente.
Quando scesi, Lady Arisa mi scoccò uno sguardo condiscendente e soddisfatto. «Sei davvero molto carina, Annabelle. Quell’abito è stato un mio regalo per tua cugina, ma è un pasticcio abbinato con i suoi capelli e dunque lo ha sempre evitato. Sono contenta che lo abbia trovato tu.», spiegò con un piccolo sorrisetto.
Zia Charlotte era in un angolo a parlare con Cynthia Dale. La riconoscevo, anche se era cambiata tantissimo. Sembrava una di quelle star famose che schiantano tutti. Capelli biondi morbidi e arricciati, occhi risaltati da una bella matita blu e labbra decorate da un rossetto rosso scuro. Non appena la zia mi vide, mi raggiunse.
«Dov’è Susan? Dille di scendere, Annabelle. E perché sei scesa tu? Se ti vedesse quell’arrogante De Villiers…»
Ah-aha! Non sapeva nulla della fuga della figlia?
«Temo che al momento Susie sia un po’…mmh…indisposta, ecco.», ammiccai.
La zia corrugò la fronte: «E’ malata?»
«Sì, più o meno. E ha spedito me, al posto suo.»
Zia Charlotte commentò acidamente: «Spero che sappia quel che fa. Vado a trovarla.»
Io la bloccai: «No…ecco, è andata da mamma e Gideon. Eravamo in Holland Street e si è fermata dicendo di stare per vomitare. Dunque l’ho accompagnata lì. Se vuoi, puoi andare a trovarla.», inventai, cercando di inserire dettagli.
«Non posso lasciare la festa. Magari domattina.», disse, allontanandosi.
Non c’erano molti miei coetanei alla festa, e la maggior parte di loro era di ricca famiglia e stava fra essa con un sorriso mellifluo sul volto scolpito e curato, senza mostrare la dentatura però. Erano tutti perfettini patentati. Capivo perché fosse Susan la pupilla di Lady Arisa per partecipare a queste serate.
Lady Arisa stava parlando con una famiglia prestigiosa, di cui non ricordavo più il nome. Anche tra loro c’era un mio coetaneo. Mi avvicinai, speranzosa d’improvviso. Magari era simpatico.
La nonna mi sorrise benevola e mi presentò: «Questa è la mia incantevole nipote, Annabelle.»
La donna era alta più di un metro e ottanta, bionda, cotonata, con uno sguardo ferreo e glaciale. Fissò il mio inchino – abbastanza aggraziato rispetto al solito – con un’aria snob e sprezzante.
L’uomo mi squadrò e sicuramente gli apparivo penosa. Decise di salvarmi, però. «Annabelle! Che nome stupendo. Non assomigli affatto a tua cugina Susan, se non nel tratto del setto nasale – esile e leggiadro, che solo una vera Montrose può possedere.»
«Grazie, Mr Bennett.». Il nome mi fu suggerito solo con le labbra dalla nonna.
«Molto bene, conosci già il mio nome! Noi proveniamo dall’Aberdeenshire.»
«È una delle regioni della Scozia che preferisco! E quindi siete scozzesi! Che adorabile scoperta!», civettai un po’. Lady Arisa era davvero alle stelle. Altro che Susan!
«Scozzesi con una tendenza francofila. Non dovete dimenticarlo.», intervenne la donna. La sua voce era sensuale ma eccessivamente distaccata e snob.
«Me ne rammenterò, Mrs Bennett.», promisi con un sorrisetto timido. Lady Arisa stava per fulminarmi.
«Prego? Sono Mrs Carols, io. Questo è mio fratello, non ancora sposato, Mark. Mio marito purtroppo è assente, e sono venuta con mio figlio Jules.», puntualizzò, con un sorriso malvagio sulle labbra sottili. «Lady Bishop, non avete informato la vostra cara nipote su ciò?»
«Non ne ero a conoscenza, signora. Non lo trovo un reato così grave.», dissi sibilando quasi.
Jules s’intromise. «Madre, appoggio la fanciulla.»
Lady Arisa gli sorrise condiscendente mentre sembrava che volesse uccidere me. «Perché voi due ragazzi non andate a prenderci dell’ottimo punch, là in fondo?»
«Certo, Milady.», disse il ragazzo con un minuscolo inchino.
Jules era un ragazzo alto, snello ma con un torace muscoloso, capelli neri e occhi azzurri.
«Che bel nome, Jules. Come Verne.», tentai di arruffianarmi.
Lui si voltò verso di me e mi mormorò: «Adesso puoi smetterla con questa messinscena.», mi suggerì. Il suo tono era gentile e premuroso.
«Come vuoi tu.», dissi, preparando il bicchiere per mia nonna. «Ma era tutto vero. Anche che adoro l’Aberdeenshire.»
«Ci sei mai stata?», chiese, incredulo.
«Certo, ci vive la mia pro-pro-zia Maddy, adesso, con suo marito Agus.», rivelai sincera.
«Allora, Jules…suoni qualche strumento musicale?», chiesi, curiosa. Magari non suonava l’arpa e il violino. Magari il gong, o comunque una cosa strana.
«Scherzi? Ho una band. Suono la chitarra elettrica.», mi sorrise.
«Davvero?». Ero sbalordita. Supponevo che si potesse trattare soltanto di uno scherzo, e poco credibile, anche. 
«Davvero. Però sono orgoglioso anche di come me la cavo con la cornamusa.», ammiccò.
«Wow. Ti posso porre una domanda un po’ imbarazzante e strana?», domandai.
«Ovvio. Sono le domande che preferisco.»
«Indossi spesso il kilt?», chiesi, super-curiosa.
Scoppiò a ridere. «No, in realtà, signorina. Preferisco dei comodi jeans.»
«Tu indossi i jeans?», chiesi, interdetta.
«Che c’è? È così strano?»
La verità era che Susan considerava i jeans spazzatura, e li insultava dicendo che ogni suo amico aveva tanta classe da rifiutarli. Adesso potevo contraddirla.
«È bello poter sapere che anche le persone come te li indossano.», notai.
«Le persone come me?», citò, senza capire. «Ti assicuro che sono normale.»
«Certo! Si vede dai tuoi indumenti e, soprattutto, dalle parole che usi. Sei un benestante.», sbuffai. Okay, forse avevo esagerato. Ma solo un po’. Se era minimamente superficiale come la madre, non rimpiangevo affatto quel discorso.
«Parla quella che vive in un castello
«È casa di mia nonna. Io vivo in Holland Street.», precisai.
«Conosco le ragazze come te, sai? Siete quelle ragazze che si reputano normali perché sono meno ricche di altre, e giudicano loro come snob. In realtà, le uniche cretine siete voi.», mormorò e fece per andarsene quando urtò contro un altro ragazzo, un po’ più grande di me. Era davvero bellissimo. Occhi ambrati, come quelli di un lupo. Occhi che riconoscevo perché erano identici a quelli di zio Falk – anche se quelli di questo ragazzo erano venati anche di un nocciola chiarissimo. Non faticai a capire chi fosse. Kendrick De Villiers. Alto, riccioli color cioccolato, viso scolpito ad arte, labbra piene che facevano creare anche in una mente innocente pensieri peccaminosi, un fisico da Adone, uno splendore disarmante. Cavolo. Chissà se mia madre si era sentita così quando aveva visto mio padre per la prima volta. Il ragazzo versò – era un’azione visibilmente volontaria – un po’ della sua aranciata sulla giacca raffinata da snob di Jules – all’inizio sembrava così carino! Che tenga la sua macchia per sempre! Jules alzò lo sguardo verso il ragazzo ed esaminò i suoi muscoli. Alla fine decretò: «Scusa se ti sono venuto addosso.»
Kendrick digrignò: «Scusati con la fanciulla, piccolo, piuttosto.»
Jules sorrise con innocenza spettacolare: «E di cosa?»
«Di averla insultata. La prossima volta non toccherà alla tua giacca, ma ad un’altra parte del tuo corpo. Adesso, fila via!»
Jules fece come richiesto, sbigottito.
Kendrick mi squadrò negli occhi, preoccupato.
«Tutto bene?», mi chiese, con un tono protettivo.
«Hai appena versato dell’aranciata sulla giacca di Jules Carols.», constatai, anch’io sbigottita.
Il ragazzo scrollò le spalle. «Mi sembrava che ti stesse infastidendo, quel cretino. Ho fatto la prima cosa che mi è passata per la testa.»
Annuii. Lui mi stava fissando intensamente e io ricambiai con tutto il coraggio che avevo – e osando molto.
Alla fine, mi chiese: «Tu sei Susan? Mi era stato detto che avevi i capelli rossi.»
Perfetto. Mi aveva salvata pensando che fossi una Montrose violinista! Semmai pianista e tastierista.
«Susan è mia cugina. Io sono Annabelle De Villiers.», spiegai, con un sorriso – sperai – magnetico alla miglior maniera Susie.
Sul suo volto non apparvero, come avevo creduto, stupore o delusione. Era consapevole e abbastanza contento. «La figlia del diamante e del rubino?»
Annuii nuovamente con un cenno del capo e lui mi sorrise.
«Siamo cugini di quinto o sesto grado, mi pare.», disse lui, con un’aria impenetrabile.
«Ne ho troppi, di cugini, e ne conosco in minima parte.», affermai.
«Ci credo, sei sia una Montrose che una De Villiers. Come tua madre. In te si uniscono entrambe le linee di sangue, anche se hai più geni De Villiers.», disse, e mi ricordò Susan. Era un ragazzo sicuramente più sincero e cordiale, ma avevano in comune lo stesso cervello e la stessa leggera prepotenza, superiorità.
«Mmh.», osservai intelligentemente. «Ormai non importa più. È tutto finito. Negli Annali è specificato perfettamente che i viaggiatori nel tempo sono soltanto dodici.»
«Se così non fosse, dovresti stare all’erta. Perché sicuramenti saresti la quattordicesima tra i viaggiatori nel tempo.», ammiccò.
A-ah, era forse una minaccia? «E chi sarebbe il tredicesimo?»
«Beccato.», sfoderò un sorriso sghembo.
«Tu? E perché? Cioè, potrebbe benissimo essere un altro discendente dei De Villiers!», precisai.
«Io sono il discendente diretto dei gemelli corniola. Di entrambi. Sarei un intermezzo fra tuo padre e tuo nonno.», rivelò.
«Mio zio?», scherzai.
«Sai benissimo cosa intendo.», sorrise. «Ci sarebbe un mito, una voce…»
«Ossia?». Oddio, se ero curiosa. Era questo il genere di cose per cui impazzivo. Le cosiddette astruse poesie dei Guardiani – per chiamarle come le soprannominava la mamma – mi avevano sempre affascinato. Ero una patita di enigmi irrisolti e di dubbie origini.
Ero stata ad un passo da propormi come adepto – già, l’attività dei Guardiani non si ferma mai, in pratica. Tuttavia mio padre era stato categoricamente contrario all’informarmi su cosa lavorassero adesso lo zio Falk e gli altri.
«I viaggiatori potrebbero rinascere. Reincarnarsi.»
Ma chi se la sarebbe bevuta, questa? Pensavo che quel tizio fosse più realistico, invece, eccolo qui, come tutti gli uomini, a inventare cose assurde. La storia della reincarnazione poi era la parte più spiritosa.
«Non credo che possa esistere questa possibilità. Sul serio, è davvero improbabile.», replicai, indurita e leggermente delusa.
Lui mi lanciò un sorriso un po’ superiore ma comunque smagliante. «Devi allenare un po’ la tua fantasia, Annabeth. Tutto può accadere.»
Ma chi si credeva di essere? Forse non sapeva che ero famosa in tutta la scuola per la mia fervida immaginazione e creatività, solo che potevo riconoscere un evento impossibile! Volevo ribattere tutto ciò con un sibilo intimidatorio, ma mi uscì uno squittio: «Annabelle.»
Mi rivolse un sorriso arrogante e con ogni probabilità voleva aggiungere un’ultima stoccata – è così che Helen chiama ogni replica di una discussione, di un dibattito – ma fu in quel preciso istante che una voce esclamò: «Tu devi essere Kendrick De Villiers!»
Era Susan. Con un tempismo incredibile. Era leggermente trafelata, ma comunque si posò la mano su un fianco in una posa che sembrava spontanea ma sexy, e un sorriso seducente e bianco. Lo stava già ammaliando, con la sua vergognosa perfezione.
Il ragazzo – nessuno comunque poteva essere più vergognosamente bello di lui – ricambiò il sorriso con leggera sorpresa. «Susan Montrose?»
Lei annuì. «Sì, è un piacere conoscerti, finalmente.». Le parole sembravano studiate, lei non provava né imbarazzo né un senso di mancanza di autostima in mezzo a quegli snob.
«Il piacere è tutto mio.», ammiccò lui. Le stava osservando le lunghe gambe. Provai una fitta di fastidio.
Lei non sembrava fare caso a dove puntasse il suo sguardo. Il suo abito era di satin nero, con una scollatura abbastanza generosa.
Kendrick oltrepassò le gambe e si concentrò sui suoi piedi. I piedi di Susan erano minuti, graziosi, ma, chissà, forse lui era uno di quegli strambi ragazzi a cui i piedi sembravano una ragione di vita. Forse li avrebbe trovati troppo piccoli. Che poi questa fissa era inconcepibile: se profumassero, almeno! Ora, Susan era così perfettina che i suoi dovevano essere profumati per forza, ma non osavo testare di persona. Come precauzione.
D’altro canto, Susan aveva l’abitudine di usare un’acqua di colonia indimenticabile, che ti lasciava il segno. Mi pareva che il suo nome fosse Eau de Sirens. Ma non aveva alcuna importanza. Susie poteva avere tutte le arti femminili del mondo, ma non era una ragazza così interessante.
In ogni caso, Kendrick non sembrava trovarla indifferente.
«Perfetto. Lady Arisa ha cercato da sempre di combinare un nostro incontro.», cennò mia cugina, sempre sfoggiando il suo irresistibile sorrisino.
«Sì, e anche mia madre. Mrs Rebecca. Sforzi davvero impegnativi, date le circostanze di questa festicciola.», replicò lui.
Oddio, parlavano proprio come due snob normali. Dovevo cercare di scappare. Mentre tentavo di elaborare un’efficace via di fuga, sentii una fitta lancinante alla testa. Durò per circa un paio di secondi, ma la sua intensità bastò a farmi cadere in ginocchio sul pavimento. Il bicchiere pieno di punch destinato a Lady Arisa finì in terra, e dal punto in cui l’oggetto cadde cominciò a apparire una grossa chiazza purpurea. La visuale intorno a me iniziò a sbiadirsi e velarsi, come se fosse un sogno, un ricordo. Susan si era accorta di tutto, ma finse di non avermi notata neanche. «Certo, ma sarà comunque una bella serata. Sempre piacevoli le feste qui a Bourdon Place, numero 81! Io mi sono sempre divertita un sacco. Quanti anni hai, Kendrick?»
Il ragazzo invece aveva scoperto il mio problema un attimo più tardi – dopo aver distolto lo sguardo da Miss Sono-bella-e-me-ne-vanto alias mia cugina – ma di sicuro si era molto più preoccupato.
«Oh mio Dio! Annabelle!», esclamò, reggendomi per una spalla.
Perlomeno, aveva azzeccato il mio nome. Intanto ero mezza svenuta, come da copione, e Susan continuava a farneticare finché non si accorse che né a me né a lui fregava nulla, quindi scelse di fare la miglior cosa che sapeva fare, ovvero screditarmi.
«Oh, lascia pure mia cugina. Soffre spesso di attacchi di sindrome fantasma, solo per essere considerata e raggiungere il centro dell’attenzione per una volta. Potresti benissimo mollarla nel ripostiglio, nessuno se ne rammaricherebbe.», spiegò, con un tono aspro e malizioso.
Che stupida! Non sapeva come riportare in seduzione il ragazzo, ovviamente. Ormai era uscito dall’ipnosi.
Io stavo male. Sul serio. Purtroppo, anche Kendrick lo sapeva e, stupidamente, mi portò al piano di sopra, lontano da tutti, dalla nonna, dalla zia e da mia cugina. Così nessuno poteva procurarmi una semplice aspirina.
Senza accorgermene, dormii. Per un’ora, circa. Quando mi svegliai, ero sul letto della camera di Susan. Magnifico. Si sarebbe anche arrabbiata, adesso.
Mi alzai senza indugiare e scesi di sotto. La festa era finita. Gli ultimi rimasti stavano giocando a poker in un angolo. Lady Arisa e zia Charlotte stavano parlando con Susie, in un angolo. Lei fu la prima a notarmi. «Annabelle.», soffiò, «stai bene?».
Pareva sinceramente in ansia, con i capelli disordinati e il trucco colato. Stranamente, tutte queste imperfezioni non facevano altro che renderla più bella, più reale.
Annuii, in imbarazzo. «Adesso sì.»
La nonna mi rivolse un sorriso raggiante. «Kendrick vuole incontrarti venerdì pomeriggio alle due, verrà a prenderti a scuola.»
Ero incredula. Possibile che lo avessi colpito così tanto? Non ero stata molto perspicace. Né speciale. Né snob. Una normale ragazza che non vedeva l’ora di sfuggire a quella serata davvero noiosa.
Zia Charlotte aveva le braccia incrociate. «È stata una cosa carina, quella di sostituire Susan sino al suo arrivo. Mi ha spiegato tutto sul suo appuntamento. Ti ringrazio.»
«Ma…lui se n’è andato?», chiesi.
«Venti minuti fa. Non voleva lasciarti da sola, perché pensava che avessi la febbre. Non sembri malata, tuttavia.», m’informò Susan, ritornando alla sua solita arroganza.
Facendo la gelosa.
«Mi sentivo mancare.», rivelai.
La nonna scambiò un’occhiata con la zia Charlotte, che corrugò la bella e ampia fronte. «Annabelle, non sei la prima a soffrire di mancamenti-fantasma, se ti può consolare.», disse, per poi salire con Susan verso le loro stanze.
La nonna mi accarezzò una guancia – Susan invidiava il nostro legame, a quanto pare solo con me poteva sfoderare di tanto in tanto un atteggiamento dolce; di lei era sicuramente più orgogliosa, ma con rigidità – : «Bambina, devi ricordare di tenere un atteggiamento Montrose sempre, capito? Una ragazza coraggiosa, che sa utilizzare l’ingegno nei momenti di bisogno.»
«In che senso?», dissi, leggermente accigliata. Ero decisamente mezza collassata, ma la mia sete di informazioni non poteva ancora saziarsi.
«Hai la curiosità di tua madre. E di Grace.» sorrise con affetto, congedandosi.
Perché tutti questi enigmi? Perché proprio oggi, poi? La mia mente stava per scoppiare. Adesso la fitta squarciante di prima stava per rafforzarsi. Molto, molto più di prima. Prima mi aveva fatta svenire, non osavo pensare che avrebbe potuto provocarmi in quel momento. Traballando, raggiunsi il bagno e frugai tra le medicine. Neanche un’aspirina. Neanche un calmante. Neanche un po’ di morfina.
Accidenti! Il vestito rosa stava diventando sempre più scomodo, inciampai sui tacchi nel tentativo di salire per le scale, quindi li tolsi e camminai a piedi nudi. Sentii uno strappo, lungo il fianco destro. Il bellissimo abito si era strappato di una ventina di centimetri.
Il mal di testa s’incrementò in quell’attimo, esattamente. Sentii un vorticare sopra di me, e dentro di me. Mi sentii strattonare all’improvviso, mentre lentamente cercavo di comprendere cosa fosse appena successo. 

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Capitolo 2
*** 2. Presentimenti, 2031, 13/14 aprile. ***


  1. Presentimenti, 2031, 13/14 aprile.
 
È buffo, quando scopri che ogni tuo timore sta per avverarsi. Quando scopri che sei costretto a rimediare agli errori di qualcun altro. Quando devi allontanarti di malavoglia da tutto ciò che aveva costituito la tua vita, per costruirne un’altra, di cui non conosci proprio niente. Questa è la paura del futuro. Più precisamente, di quei momenti che dovrai vivere. Il tempo è una scienza complessa, e ho capito che per vincerlo devo osare. Solo osare.
 
No. Non era appena successo. Mentire a me stessa era una cosa certamente inutile. Sapevo alla perfezione cosa mi era successo. Lo capivo dall’aria dell’uomo di fronte a me, dai dettagli diversi dalla cucina di prima. Ero finita nel passato. Quel De Villiers aveva ragione. Il cerchio non era chiuso, il conte poteva avere un’altra chance di rendersi immortale.
La nonna mi aveva detto di dare sfogo alle mie capacità. Giusto. Me la sarei cavata anche in quella situazione, per quanto improbabile.
La cucina di Bourdon Place numero 81 del passato era molto simile a quella presente. Soltanto la posizione di qualche mobile e le cose sulla tavola cambiavano.
L’uomo, diciamo un vecchio, mi stava guardando, un po’ sorpreso ma sicuramente incuriosito. Aveva un’aria benevola, rughe da bravo nonnetto, occhi azzurri e incredibili, grandi e inchiodanti, che avrei riconosciuto ovunque. Erano gli stessi di mamma, e di Lucy Montrose – nella foto che mia madre conservava come fosse oro – .
«Tu sei Annabelle?», chiese il signore abbozzando un sorriso. «Sei persino più bella di quanto immaginassi.»
«Lei è…mmh…il mio bisnonno Harry? Credevo che si fosse trasferito da Londra appena compiuti i quarant’anni.», chiesi.
«Io sono il tuo trisavolo, Lucas Montrose.», mi corresse lui, con un sorriso rugoso e abbastanza dolce.
«Il padre di nonna Grace. Pensavo che lei non mi conoscesse.», notai, imbarazzata.
Lui s’illuminò in un sorriso. «Ricevo molte visite dal futuro. Gwen e Gideon parlano spesso di te. Non potrebbe essere altrimenti, con una figlia speciale come te.»
«Speciale?», chiesi, molto confusa. D’accordo, i miei genitori mi volevano bene, ma il signore stava esagerando. Io non brillavo in niente. Era Susan a brillare, ad essere la stella della famiglia. Io non c’entravo proprio nulla.
«L’ametista. La tigre. Il pesco. La discendente temporale dello stesso Robert Leopold.»
Sembrava tutto così non adatto a me. La tigre? Semmai un innocuo gattino che soffiava contro sua cugina, un’oca (ah-aha, le stava bene). Un’ametista? Semmai una pietra qualunque. E poi…
«Io non sono la discendente del conte. No. Io no. Non sono malvagia come lui.», precisai.
Lucas annuì e recitò: «E, durante una pioggia di ametista, la tigre dagli occhi di smeraldo s’avvicina. Legata al nemico da un sentimento forte, sarà l’unica a segnarne sopravvivenza o morte. È la seconda di un nuovo movimento, destinato al combattimento. Ho trovato questo curioso brano dentro un libro davvero ordinario. Orgoglio e pregiudizio, un romanzo che Arisa conserva con tutta l’anima, dono di una sua antenata, la sua trisavola, Margret Tilney. Mia moglie l’ha letto, ma non ci si è mai soffermata. È una nota scritta chiaramente a mano.»
Presi il romanzo tra le mani e osservai. «Qui non allude all’essere discendente del conte. O almeno, non chiaramente.»
«Come no? Nipotina, apri la mente. Tutti gli scritti del Conte alludono segretamente a qualcosa. Allena l’intuito, Annabelle. La tigre dagli occhi di smeraldo…smeraldo! La pietra del Conte. Legata al nemico da un sentimento forte…forte è prima di ogni cosa la famiglia.»
«Per il conte la famiglia non ha mai significato qualcosa, giusto?», affermai, contrita.
«Bimba, le cose che sappiamo di una persona, reali e vere, sono davvero poche. Il resto sono menzogne verosimili, il riflesso della coscienza umana. Sul conte, poi, ciò che abbiamo a disposizione è nulla su cui basarsi. Nemmeno i tuoi genitori sono potuti riuscire a scoprire qualcosa su di lui, in realtà. L’inganno è il migliore amico di chi vuole nascondersi.», notò mio nonno – mi era difficile crederlo altrimenti. Oddio, quanta saggezza! E io che ero rimasta ai vecchi Silente e Yoda.
«Quindi sono sua parente.». Il pensiero mi orripilava.
«Sei parente delle persone che ti amano e il cui legame di sangue verso di te non è mai stato corrotto. Il conte ha mentito spudoratamente al tuo più celebre antenato, Lancelot, uccidendolo. Quindi, no, è soltanto un legame sporco, lurido, inaccettabile.»
Sentii la vertigine terribile e fissai spaventata il nonno. Lui piegò la testa di lato: «Devi essere forte, piccola Bell. Niente è come appare. E, soprattutto, augura a tua madre un buon compleanno.»
«Lo farò.», risposi, ma quella forza invisibile mi aveva già strattonato via da lui.
 
Atterrai sul pavimento di cucina senza rumore. Per fortuna. Ma questa non poteva esonerarmi da quel pasticcio che i miei geni avevano creato.
Ero una viaggiatrice. Tutto ciò mi stava elettrizzando, sia positivamente che negativamente. Facevo parte di ogni leggenda di cui avevo sentito narrare storie pazzesche, facevo parte di un mondo del tutto imprevedibile, nuovo. Ma facevo parte anche della maledizione dei viaggi nel tempo. Non mi sarei più mossa da Londra, anzi, avrei vissuto di salti incontrollati! Mica mi potevo presentare alla loggia e dire “Salve, sono Annabelle e credo di viaggiare nel tempo! Aiutatemi!”. Non mi avrebbero mai creduto, ammesso che avessero accettato il mio appuntamento. Quando la mamma mi portava da piccola alla loggia perché doveva partecipare ad importanti riunioni, Mrs Jenkins era la prima a dire che una persona sotto i diciotto anni non poteva richiedere alcuna considerazione. E io ne avevo sedici e mezzo. Soltanto. Ah, non m’importava nulla. Se non mi fossi registrata su quel cronografo, avrei potuto saltare almeno cinque volte al giorno! E magari alla presenza di persone ignare!
Non riuscivo a dormire. Non potevo. Ero così agitata che non potevo aspettare l’indomani mattina. Certamente, se fossi riuscita a svicolare Mr Bernhard sarei potuta anche uscire. Ma non c’era il tempo. Mi vestii velocemente, con una felpa pesante e dei jeans abbastanza sbiaditi, e mi diressi verso il portone. Decisa. O la va, o la spacca.
La spaccò.
«Signorina De Villiers, le sarei grato se si togliesse quelle adorabili Converse piene di fango. Le suggerirei quelle blu, le calzano a pennello e sono più adatte per un viaggio in bicicletta.». Mr Bernhard aveva un sorriso paterno sul volto da gufo.
«Bicicletta?». Ciò stupiva anche me.
«Mica avrà pensato di poter raggiungere Temple a piedi! Nossignora. E la metropolitana notturna è sconsigliabile, ci girano molte persone di dubbia onestà. Inoltre, i taxi di notte possono trasportarla solo fino ad Hyde Park, lo sa bene. Ovviamente, deve sbrigarsi. Un altro viaggio potrebbe cambiare il futuro, o persino ucciderla.»
«E lei come fa a saperlo?». Ero sbigottita. Mi aveva spiata?
«Mi ha avvertito lei stessa, diciotto anni fa, di rimanere all’erta questo giorno, perché sarei stato l’unico a farle superare le prime tre notti dal primo salto.»
«Ma diciotto anni fa non ero ancora nata! Come avrei potuto?», chiesi, dubbiosa.
«Al momento, Miss Annabelle, sta usando un cervello mortale. Attivi quello da viaggiatrice nel tempo, ametista, la numero 14.», suggerì il maggiordomo.
«Vuole dire che le sarei apparsa durante uno dei miei salti e l’avrei avvertita?», domandai.
«Più o meno. Una lettera. Con tutte le informazioni sui viaggiatori alternativi. Sgraffignata nel 1780 dalla Xavier’s Library di Plymouth, durante una sua visita alla villa estiva del conte. Uno scritto perfettamente celato, che richiese ben quattro ore di ricerca da parte sua e del tredicesimo viaggiatore. Se lo ricordi: 349236. Il codice dello scaffale che le servirà. Seconda sezione, mobile n), quinto scaffale, terzo volume da sinistra. Protetto da un codice segreto. Sì, se lo appunti. L’ho imparato a memoria, se le può essere utile.», osservò lui. Fui molto rapida a scrivermi ogni cosa su una vecchia pergamena.
«Chi è il tredicesimo viaggiatore? Sa, dovrei sbrigarmi a trovarli tutti e dodici, prima del conte.», soffiai.
«Deplorevole malinteso, signorina. Fra poco lo incontrerà di persona, e neppure questo è un netto presentimento, ma una nota scritta da lei a margine della corrispondenza. Vede? Dica alla me del passato che lo incontrerà molto presto.»
Presto quanto? Prima o dopo una mia possibile iscrizione nel cronografo? Avevo tante domande, e passai un’ora intera su quella lettera. Ero stata molto esplicita e chiara sui miei dubbi. Sembrava che quell’autrice – io, d’altro canto – sapesse ogni cosa, ma non era molto di conforto. Le informazioni erano soddisfacenti e ben presentate, ma quella ragazza non alludeva a nessun consiglio, nessun “Stai tranquilla, che tutto andrà per il meglio”, nessun suggerimento morale utile. Solo alcune note a margine.
Una recitava: “Anna Karenina, biblioteca di zia Leslie, terzo scaffale, secondo da destra.”
L’altro: “Il conte = divorziato. Ex moglie = Elisabetta, figlia padrone Alleanza Fiorentina. Punto debole, l’amore. Ecco perché sottovaluta le donne. Convinzione se stesso.”
E infine l’ultimo – esclusa la nota sul numero tredici – diceva: “Consiglia un taglio di capelli decente a Helen. Insomma, se non l’aiuti, si sforbicerà i capelli fino a un caschetto davvero ridicolo. Dille che lo faccio per il suo bene.”
Ok. Non mi importava proprio niente dei capelli di Helen, al momento. Ma magari in futuro ci avrei fatto più caso, perciò mi limitai ad un sospiro.
E quando la voragine mi colse, il mio sospiro si ruppe tra i due mondi.
 
«Ahia, Annabeth!». Riconobbi prima di tutto la voce – e lo sbaglio di nome – prima di mettere a fuoco il luogo. Kendrick De Villiers. Era lui il tredici. Cavolo! Dovevo intuirlo. Ma mi era sembrato solo un modo di vantarsi, quello di considerarsi il discendente di entrambi i gemelli corniola.
«Chi ti ha avvertito che sarei stata qui?», sibilai, arrabbiata. Ero atterrata sopra di lui.
«Uhm…l’ho trovato in tasca. Di questi tempi vanno di moda i bigliettini. Credo tu stessa. Magari di notte, mentre sonnecchiavo. O forse l’hai ordinato a un Guardiano. È difficile dirlo con precisione.», scrollò le spalle, aiutandomi a rialzarmi.
«Che giorno è oggi?», chiesi, con circospezione.
«14 aprile, ufficialmente. Sono le due e quaranta.», rispose prontamente lui. «Sei stata molto esplicita sul fatto che dovessimo essere…uhm…contemporanei. Forse l’idea di essere più futura o più passata ti orripilava.». Sfoderò un sorriso sghembo, e sarei potuta seriamente svenire.
«Bene. Sei iscritto nel cronografo della Loggia?»
«No, ma in quello di tua madre sì. L’ho trovato in uno scantinato disabitato, completamente abbandonato. A quanto pare, non le è più servito. Perciò frequento spesso Temple, con la scusa degli esami per il titolo di adepto.»
«E io quale scusa utilizzerei?».
«Nessun grazie per avermi guarito alla festa? Cioè, stai solo facendo domande un po’ scortesi…».
«Grazie. Ma la buona educazione, durante il mio secondo salto temporale, è difficile da preservare.». Ero leggermente scontrosa.
«Prego. Allora, nel biglietto è specificato che interpreterai il ruolo di mia allieva.»
«Logico. Chiaro. Okay, quindi tu saresti il tredicesimo, il…», cercai di ricordare.
Lui ammiccò. «L’agata. La pantera. Come vuoi tu.»
«Giusto. All’esordio ecco una pantera di agata, mai tanta bellezza è stata ammirata. Temperamento ardente, astuto e coraggioso, sarà sempre un compagno generoso. In lui si incrociano entrambi i gemelli, in uno i loro cuori palpitano come martelli. Ma attenzione alla sua tigre, per la quale lui dovrà…perire? Perire? Cosa? No!»
Kendrick mi inquadrò come se il pensiero lo incupisse: «Dice soffrire. In ogni caso per te sarà allettante, no?»
D’improvviso, una rabbia repressa si costruì in me, e scoppiai. Lo colpii sulla guancia destra, forte. Lui era leggermente sorpreso, ma non molto. Evidentemente non ero stata la prima a sfogarmi su di lui. Mi sentii ulteriormente in colpa, inoltre doveva per forza inchiodarmi con quel suo sguardo ambrato? Mi voltai, fingendomi offesa mortalmente.
«Ma per chi mi hai preso? Per una psicopatica piena di sadismo?», tirai su con il naso, rumorosamente.
«Stavo scherzando, Annabelle. Sembra che saremo una coppia temporale piena di colpi di scena, no?», sfoderò di nuovo quel suo sorriso sghembo.
Stupidamente, lo ricambiai, arrossendo come un papavero. Il fatto che alludesse a noi come una coppia mi sembrò così…intimo.
«Questo colorito rosa intenso ti fa più graziosa. Altrimenti hai una pelle di alabastro, peggio di un cadavere.», notò lui, chinando gli occhi.
Camminò su e giù per la stanza e alla fine sussultò.
«Cosa c’è?» domandai, terrorizzata. Magari aveva intravisto un ratto. O un ragno particolarmente grosso.
«Sei a piedi nudi.», notò, con uno sguardo abbastanza preoccupato. «E il tuo vestito è strappato!»
«E allora? Non credo che ti debba importare.», mormorai, scontrosa.
«Certo che tu non faciliti sicuramente un tentativo di conversazione.», sospirò lui.
E riecco tornare quel gran senso di colpa. Cercai di sorridere con acidità: «Di certo, non sono come Susie. Con lei – anzi, da quanto ho potuto vedere, con qualsiasi parte del suo corpo, per te – si potrebbe trascorrere una piacevole serata. Forse sono troppo poco perfettina
«Sei gelosa, per caso?» sorrise lui con malizia. Prima che potessi sbuffare, lui mi afferrò per la vita e mi prese in braccio.
«Così va meglio.», disse, imperscrutabile.
Mi sentivo in imbarazzo, mi teneva come se fossi una principessa. «Perché l’hai fatto?», soffiai.
«Ti si sarebbero gelati i piedi.»
«E non ti è neppure passato lontanamente per la testa che questa vicinanza mi potesse infastidire?»
Sorrise. «No. Io non sono infastidito da questa vicinanza.»
Feci una linguaccia. «Perché sei un uomo. E gli uomini sono tutti uguali.»
«Bè, principessa, allora dovrai abituarti.». Oddio. No. Eravamo davvero vicinissimi. Cavolo. E lo conoscevo da poche ore. Non era giusto.
Mi ritrassi, sconcertata. Lui sembrava abbastanza deluso, e anche perplesso. Quando mi sarebbe mai capitata un’altra opportunità di baciare un ragazzo così maledettamente bello? La mia esperienza in fatto di baci era davvero scarsa. Il primo era stato Tristan Sanctis, un mio coetaneo di origini greche. Ovviamente era davvero un gran baciatore, ma lo mollai quando scoprii che amava baciare anche Susan, nel contempo. E mi capitò anche un ragazzo dalle labbra appiccicose, viscide. Rabbrividii al solo pensiero.
Di sicuro Kendrick non lo era, ma volevo fargli capire che non aveva già fatto colpo.
«Vai a baciare Susan.», sussurrai, cercando di inserire ironia nella mia voce, e non quella patetica traccia di gelosia enfatizzata.
Lui mi rivolse un sorriso amaro: «Non credo che mi piacerebbe.»
Io replicai: «Come no!», ridendo. «Sei un pessimo bugiardo.»
Lui negò con il capo: «Ci sono ragazze decisamente più interessanti di un cagnolino che farebbe di tutto per te e per la tua famiglia.»
Non potei trattenere un sorrisino, ma lo repressi subito: «Vuoi dire che non ti sembra bella
Lui scrollò le spalle. «No, non ho detto questo. In realtà, non si può negare che sia carina, ma non più di te, ad esempio. E l’aspetto esteriore non è l’importante.»
Oh, accidenti. Mi aveva detto che ero carina. Carina. Meglio di nulla, comunque.
«Non sono paragonabile a lei, ti assicuro.», giudicai.
«No, infatti.», borbottò piano lui, e aggiunse: «Ti fidi più di un parere maschile o del tuo?»
In quel momento, il vortice mi riportò al mio presente, e lui mi seguì qualche istante dopo.
Eravamo a casa di Arisa, e Kendrick era atterrato sopra di me. «Ahia!», sibilai.
Lui mi rivolse un sorriso smagliante: «È peggio il dolore provocato da parole o da colpi?».
Lo spinsi via di malo modo. Oddio. Oddio. Se quel De Villiers fosse riuscito ad abbindolarmi…non era neppure un’ipotesi plausibile. Cos’avrebbe fatto Susan? L’avrebbe sedotto e in seguito gli avrebbe spezzato il cuore. Io non ne sarei stata capace, ma potevo compiere un piccolo tentativo.
Se si fosse svegliato qualcuno e ci avesse visti…ero troppo stanca anche per formulare un pensiero completo.
«Questo castello è molto più bello quando non c’è tutto quel caos infernale e regna questo silenzio.», notò, con spavalderia.
Lo zittii con una gomitata allo stomaco e gli mormorai: «Shh! Per prima cosa, cambiati. Con quei vestiti attiri attenzione più di Susan truccata. Ecco, c’è un completo da ginnastica là. Deve averlo preparato Mr Bernhard. Giuro, l’adoro. Puoi tornare a casa con la mia…».
«Mio Dio, Annabelle, quando sei nervosa hai sempre l’abitudine di blaterare sfilze di cose in maniera assolutamente razionale?», borbottò lui con un tono irresistibile.
Mi voltai e giuro che mi tremarono le ginocchia. Oddio. Il suo sguardo non era mai stato così ambrato, o sbagliavo? Ogni poro del mio corpo mi consigliava – ma che dico? Mi obbligava – di andare subito tra le sue braccia e baciarlo. Repressi quella mia voglia matta, quel desiderio così ardito e insensato, deglutendo.
«Prego? Io nervosa?», sibilai. Okay, forse avevo leggermente enfatizzato il tutto. Sperai che non l’avesse notato.
«Esattamente. Sei nervosa perché sei qui, solo noi due. Di solito le ragazze apprezzano la mia compagnia, non la rifiutano.»
«Cosa? Io non rifiuto la tua compagnia, ma tu sei troppo distratto. Qualcuno deve pur essere capace di pensare in maniera lucida.», precisai, sfoderando un sorrisetto orgoglioso.
Kendrick mi fissò inchiodandomi: «Non conosci neanche la mia fonte di distrazione. E neppure tu sei così lucida.»
Sbattei le palpebre. «Sicuramente, più di te. Comunque, dicevo, puoi prendere la mia bicicletta. Di certo, sarai esperto del ciclismo. Sei un De Villiers. Quindi, organizziamo un incontro a Temple. Mmh. Domani alle quattro e mezza?».
«Per me è perfetto.», commentò lui con un sorriso caldo dipinto in viso.
«Allora siamo d’accordo.», sospirai. Non era normale che la mia mente già vagasse a domani, ore 16:30, al nostro prossimo incontro. Ma non potevo farci niente.
«Be’, buonanotte, Annabelle.», sfoderò il suo sorriso sghembo, che mi fece traballare. Anche se non avesse parlato, quello sarebbe già stato un augurio sublime. Le parole l’avevano soltanto reso più reale. E aveva azzeccato il mio nome.
«’Notte, Kendrick.», farfugliai.
Lo osservai allontanarsi con una punta di rammarico. Mi avviai in silenzio verso camera mia, conscia di tutto. Per una volta, ogni cosa era perfettamente chiara. Eppure, ero inquieta, non rassicurata. Forse l’ignoranza non sempre è una brutta cosa.
 
NDA: Scusate!!! Ecco, ci ho messo circa un mese a pubblicare questo capitolo ma, capitemi, maggio l’ho trascorso tra il teatro, la scuola, i compiti e le prove con la band. Adesso che ho un po’ di buchi liberi, mi cimento subito a pubblicare il terzo!
Spero che la storia vi piaccia, le recensioni sono sempre gradite!
Un saluto dalla vostra sbadata e incostante Mary <3

 

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