CAPITOLO 3 – Lo sconosciuto
Fuori il sole era già calato, mentre fra le strade della città di Glowston i lampioni e le luminarie dei negozi illuminavano i marciapiedi, lungo i quali una ragazza spingeva una mountain bike azzurro metallizzato.
Jess attraversò l'ultimo semaforo, avviandosi lungo Liberty Lane, al cui numero 22 vi era la sua casa.
Liberty Lane era una via periferica poco lontano dalla Glowston High School, raggiungibile in cinque minuti di bicicletta, dove due file di villette a schiera separate da un viale alberato davano alloggio alle famiglie di gran parte degli studenti della scuola, che si frequentavano fin dalla scuola materna.
Sempre animata e piena di vita durante il giorno, con bambini che giocavano nei giardini e casalinghe che spettegolavano dai cancelletti dipinti di bianco, era invece buia e silenziosa la sera, quando la luce dei lampioni era offuscata dalle fronde degli alberi e le famiglie erano rintanate in casa a godersi la cena tutti insieme come le famiglie modello delle pubblicità.
Jess camminava lentamente lungo il viale, non troppo in fretta per rimandare il più possibile il rientro a casa.
Era ancora troppo scossa per ciò che le era successo e voleva fare chiarezza nella sua mentre prima di arrischiarsi a dare delle spiegazioni a sua madre a causa del suo ritardo.
Come avrebbe fatto a spiegarle che una voragine che solo lei e James potevano vedere aveva tentato di inghiottirla, che la Hamilton l'aveva messa in punizione e durante le ore di studio supplementare era stata attaccata da un'enorme cane mostruoso e che lo aveva sconfitto con una spada uscita da un suo disegno?
Detta così sembrava la scusa più assurda e fantasiosa che potesse inventarsi.
La madre non le avrebbe mai creduto.
E chiedere aiuto a James? Raccontargli del cane e poi chiedergli di confermare la sua storia?
Ma lui avrebbe accettato? In fondo era lui che le aveva detto di non dire niente alla Hamilton e di fingere che si era solo addormentata.
Cosa le avrebbe detto di fare, ora? Di dire alla madre che si era addormentata in classe e che la Hamilton l'aveva scoperta?
Beh, effettivamente così avrebbe dovuto dire addio al computer per una settimana, ma almeno avrebbe evitato il manicomio.
Immersa com'era nei suoi pensieri non si accorse di lui finché non lo urtò con la spalla sinistra, sobbalzando e voltandosi a guardarlo.
Stava in mezzo al marciapiede, con le mani affondate nelle tasche dei jeans, come se stesse aspettando qualcosa.
O qualcuno.
I suoi capelli, neri come la pece, si muovevano in mille volute nella fresca aria della sera, intrecciandosi tra loro e ricadendo sulle spalle della giacca di pelle portata dal ragazzo.
I profondi occhi grigi erano fissi in quelli verdi di Jess, che si bloccò, impietrita da quello sguardo gelido.
Jess valutò che doveva essere più grande di lei di appena un anno, due al massimo; ma era certa di non averlo mai visto, ne a scuola ne in Liberty Lane.
Lo sconosciuto non disse nulla, limitandosi a fissarla, mentre lei avanzava rapida per cercare di allontanarsi da quella figura inquietante.
Jess era ancora a portata d'orecchio quando il ragazzo parlò:
«e così il segugio infernale ha fallito»
Jess si bloccò, terrorizzata, senza osare girarsi, mentre udiva i passi del ragazzo avvicinarsi a lei, fino a che non ne percepì la presenza dietro di se.
Si voltò di scatto, facendosi scivolare di mano la bicicletta, che cadde a terra con un fragoroso rumore di ferraglia.
Il ragazzo non accennò a cambiare espressione, mantenendo un’aria impassibile.
«chi sei?» chiese Jess, terrorizzata, arretrando istintivamente di un passo.
«Ares. Ma tu puoi chiamarmi William»
Una folata di vento scosse i capelli corvini del ragazzo, che coprirono per un attimo il volto dall’espressione agghiacciante, mente valutava la reazione della ragazza.
Nella mentre di Jess si accese una sorta di flash dove ricordava improvvisamente la lezione di letteratura di quella mattina.
E con essa anche il nome citato dal ragazzo: Ares, il Dio della Guerra degli antichi greci.
Osservandolo, Jess ebbe la sensazione che quel nome calzasse a pennello sul ragazzo, con quella sua giacca di pelle nera e i jeans con le catene attaccate, per non parlare della sua espressione.
Sembrava una tigre che gioca con la preda prima di divorarla.
«che cosa vuoi da me?» gli chiese, con voce tremante.
Lui sollevò un sopracciglio, avvicinando il volto al suo.
«voglio ucciderti»
Sollevò la mano come in una mossa di karate e le su dita assunsero una strana colorazione argentea.
Jess serrò gli occhi mente la mano di William calava su di lei, sentendone il fruscio vicino all'orecchio, sostituito pochi istanti dopo dal fragore di una moto che, arrivando a tutta velocità, saliva sul marciapiede e investiva violentemente William, mandandolo a sbattere contro un albero del viale.
Jess spalancò gli occhi e vide, di fronte a sé, una moto rossa sulla cui sella, intento a togliersi il casco, c'era l'unica persona al mondo che in quel momento la ragazza desiderava vedere: James.
Il ragazzo biondo chinò la testa e la fissò per un lungo istante, valutando i danni riportati.
«un brutto taglio, ma niente di irreparabile» mormorò, passandole un fazzoletto bianco che aveva estratto da una tasca della giacca da motociclista che indossava.
Inizialmente Jess non capì a cosa si riferisse, fino a che qualcosa di caldo e viscido non iniziò a colarle lungo la guancia: una striscia di sangue le scendeva lungo la guancia da un profondo taglio sullo zigomo, mentre metà dei capelli sul lato sinistro del suo volto svolazzavano nella brezza serale, ormai ridotti ad una sorta di caschetto.
Senza fiato, la ragazza si premette il fazzoletto sul taglio, mentre le lacrime iniziavano a velarle la vista.
Intanto, poco lontano, William si era alzato, apparentemente illeso nonostante fosse stato appena investito da una moto che viaggiava a 130 Km orari.
Si portò una mano alla bocca, sfiorandosi un leggero taglietto che gli sfregiava il bel volto, fissando poi James con un misto di odio e sfida.
«Apollo. Non sapevo ci fossi anche tu qui.»
«Ares! Per ciò che hai fatto dovrei ucciderti!» disse James, la voce bassa e sibilante di chi sta trattenendo a stento una cocente rabbia.
Quell'altro lo fissò per qualche secondo, poi parlò con voce velata di disprezzo.
«Quella piccola semidea appartiene al mio Signore. Dammela, altrimenti mi vedrò costretto ad ucciderti.»
James, per tutta risposta, sollevò il braccio e scagliò contro l'altro una grossa palla di fuoco che gli era improvvisamente comparsa in mano.
Jess, a bocca aperta, osservò la palla di fuoco percorrere rapida la distanza che separava i due, per poi schiantarsi con fragoroso scoppiettio di fiamme nel punto dove pochi istanti prima c'era William.
Il ragazzo moro comparve poco distante da James, fissandolo con odio.
Portò nuovamente le mani nella posizione di karate, pronto a colpire, ma alle sue spalle comparve improvvisamente una macchia di fumo nero come quella che aveva risucchiato il mostro che aveva attaccato Jess a scuola.
William fissò seccato la nuvola di fumo, poi mormorò:
«per questa volta hai vinto. Ma non ci sarà una seconda volta»
Poi, rivolgendosi a Jess:
«a presto, ragazzina»
E il ragazzo, con un ultima occhiata di sfida a James, entrò nella nuvola di fumo, sparendo del tutto.
James scese di sella e si avvicinò a Jess, terrorizzata e sconvolta, prendendola per un braccio e guidandola delicatamente verso la moto, sussurrandole:
«non ti preoccupare. Ora ti riporto a casa»
Troppo sconvolta per protestare, Jess salì sulla moto dietro di lui, affondando il viso nella sua schiena per celare le lacrime che le colavano lungo il volto.
Lui non disse nulla, facendo partire la moto e indirizzandola verso la casa di Jess.
La ragazza, a cui l'aria fredda aveva schiarito le idee e fatto cessare il pianto, respirò a fondo, avvertendo il profumo delicato di James sotto la giacca da motociclista.
Si rese conto solo in quel momento del fatto che era abbracciata a James mentre correvano a tutta velocità verso casa sua.
Il corpo di lui era bollente, come se fosse in preda alla febbre, oppure come nel momento in cui l'aveva salvata quella mattina in classe.
Ciò le fece tornare in mente il modo in cui il ragazzo di nome William lo aveva chiamato: Apollo, il Dio del Sole dell'Antica Grecia.
Che cosa poteva voler dire? Perché i due si chiamavano Apollo e Ares? E cos'erano quegli strani poteri che erano in grado di usare quando combattevano?
La moto si fermò improvvisamente sul ciglio della strada e James scese di sella, aiutando poi Jess a raggiungere il marciapiede.
La ragazza era così immersa nei suoi pensieri che non si era accorta che erano arrivati davanti a casa sua.
Non aveva detto al ragazzo l'indirizzo, ma questi sembrava saperlo già.
James la prese per un braccio e, come se temesse che potesse scappare, la guidò fino al cancelletto bianco, che aprì con la mano sinistra.
Appena furono nel giardino, James tirò fuori dalla tasca dei jeans un cellulare, con il quale iniziò a mandare alcuni messaggi, sempre camminando con il braccio di Jess stretto nella mano destra.
Con un sospiro mise via il cellulare, fermandosi sotto il portico che dava accesso alla casa.
Jess si bloccò all'improvviso, sottraendo il braccio alla stretta dell'altro ed esclamando:
«ehi! Che cosa è successo prima? Chi era quel tizio? Che cosa voleva? E stamattina? Come hai fatto a fermarmi? E perché nessuno si è accorto di nulla?»
Un dito di James che le si posava sulle labbra mise fine alla valanga di domande di Jess che, improvvisamente lucida, stava tentando di dare un senso a quello che era appena accaduto.
«se avrai pazienza ancora un attimo ti spiegherò ogni cosa» le disse James, con quella sua voce soave che già l'aveva incantata una volta.
Jess chiuse di scatto la bocca, rimanendo a fissarlo in silenzio.
Il ragazzo si avvicinò al campanello e suonò brevemente, ma subito la porta si aprì e la madre di Jess, Clare Cooper, comparve sulla porta.
«Jess! Che cosa è successo?! e...Apollo? Si proprio tu?» esclamò la donna, fissando sbalordita James, che le rispose con un dolce sorriso.
«buona sera, Calliope. Da quanto tempo.»
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