La fioritura dei cuori innamorati di Saerith (/viewuser.php?uid=20420)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ritorno ***
Capitolo 2: *** Una buona notizia ***
Capitolo 3: *** Il litigio ***
Capitolo 4: *** Cuori distanti ***
Capitolo 5: *** Elena e Taro ***
Capitolo 6: *** Ricominciare da capo ***
Capitolo 7: *** Riuniti ***
Capitolo 8: *** La scelta ***
Capitolo 9: *** Improvviso avvicinamento ***
Capitolo 10: *** La festa da Misaki ***
Capitolo 11: *** Finalmente noi ***
Capitolo 12: *** Bruciante verità ***
Capitolo 13: *** La crisi di Elena ***
Capitolo 14: *** Sapore amaro ***
Capitolo 15: *** In frantumi ***
Capitolo 16: *** Fiori di primavera ***
Capitolo 17: *** Thunder Strike ***
Capitolo 18: *** Il sogno nella cascata ***
Capitolo 19: *** Punto di rottura ***
Capitolo 20: *** Prendi la mia mano ***
Capitolo 21: *** Sogno a metà ***
Capitolo 22: *** L'ultima speranza ***
Capitolo 23: *** Realizzazione ***
Capitolo 24: *** Rivelazione ***
Capitolo 25: *** Un grido dal cuore ***
Capitolo 26: *** La vittoria più bella ***
Capitolo 27: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Il ritorno ***
La fioritura dei cuori innamorati
Capitolo 1
Il ritorno
La
strada, colpita dal sole di
mezzogiorno, sembrava ancora più deserta. Le serrande dei
negozi si abbassavano
piano, piano, quasi ad annunciare l’ora di pranzo. La via
desolata si perdeva a
vista d’occhio; passando al fianco dei cancelletti si poteva
sentire il profumo
dei piatti deliziosi che sarebbero stati serviti a pranzo.
L’odore del curry
riportò Kasumi con il pensiero alla Cina: nove anni erano
trascorsi, durante i
quali aveva imparato a convivere con la nostalgia della sua famiglia.
Ora era
tornata, anche se la casa non era più la stessa; sentiva le
voci gaie dei
fratelli minori, ma sopra tutte dominava quella di suo fratello Kojiro.
Ritornare,
riabbracciare i suoi
cari, fare di nuovo parte della famiglia, Kasumi non riuscì
a trattenere le
lacrime, quando vide sua madre piangere per la gioia di poter
riprendere con sé
quella figlia che aveva dovuto allontanare, per necessità,
dopo la morte
prematura del signor Hiyuga. Kojiro non pianse, ma nei suoi occhi
poteva ancora
leggersi la traccia di tutte le lacrime che aveva versato alla
separazione
dalla propria gemella. In quegli anni, avevano vissuto distanti, ma
vicini nel
cuore, segnati entrambi da una forzata maturazione precoce.
Quando
il padre morì, il loro
mondo venne ribaltato: il trasferimento in una casa vecchia e povera,
le
rinunce ai loro progetti futuri e infine la separazione. In quegli anni
la vita
li aveva sottoposti a dure prove che entrambi avevano sopportato con
pazienza.
Kasumi era stata mandata in Cina da una parente del padre che si era
trasferita
sul continente dopo aver sposato un militare in congedo con il quale
aveva
aperto un piccolo ristorante. Kojiro si era ritrovato a soli 8 anni a
dover
ricoprire il ruolo di capo famiglia, ad aiutare la madre ad accudire i
fratelli
minori, studiare e lavorare per riuscire a tirare avanti. Nonostante la
situazione non fosse facile, Kojiro non aveva rinunciato totalmente ai
suoi
sogni ed aveva continuato a lottare per la passione della sua vita: il
gioco
del calcio.
Le
poche cose che Kasumi
possedeva arrivarono dalla Cina il giorno dopo. La madre aveva deciso
che la
ragazza dovesse andare subito ad iscriversi a scuola.
-Andrai
alla Toho con tuo
fratello- stabilì subito la madre.
I
due gemelli si guardarono
stupefatti.
-
Mamma, ma non possiamo
permettercelo. La rata è troppo alta!- sentenziò
la ragazza interpretando ad
alta voce gli stessi pensieri del fratello.
-
Non vi preoccupate figli miei.
Da quando Kojiro può usufruire della borsa di studio, sono
riuscita a mettere
da parte dei soldi ed inoltre il signor Mitsui mi ha concesso un
aumento di
stipendio e comunque vostro fratello Takeru ha trovato un lavoretto
part-time…-
-Non
se ne parla!- tuonò Kojiro
che fino ad allora aveva ascoltato in silenzio le ragioni della madre.
-
Non permetterò che mio fratello
debba fare la stessa vita che ho fatto io.- sentenziò
innervosito.
Kasumi
cercò di calmare la
situazione, ma palesò alla madre che anche lei era
d’accordo con Kojiro.
La
madre sospirò guardando i
figli con affetto e ammirazione.
-
No figli miei. Vi
ho chiesto anche troppo in questi
anni, vi ho separato…-
-
Non avevi scelta
mamma!- la interruppe Kasumi
-
Lo so, ma per
quanto fosse stata una scelta dura non me
la perdonerò mai. Ed è per questo che ora non
voglio che tu e tuo fratello
andiate in due scuole separate, oltretutto qui non conosci nessuno
tesoro,
sarebbe tutto più facile se almeno foste insieme, mi
sentirei più tranquilla.-
Kasumi
si inginocchiò di fronte
alla madre e le prese le mani.
-
Se è
per farti stare serena, allora accetto.- disse
guardando la madre con dolcezza, ma anche con velato rammarico. La
ricordava
come una donna bellissima, ma gli anni, la sofferenza e la stanchezza
avevano
segnato quel piccolo viso che Kasumi ricordava come quello di un
angelo. Kojiro
si arrese, convenendo infine con la madre che fosse la scelta migliore.
La Toho
era una buona scuola e
per un anno poteva essere il luogo ideale per prendere il diploma,
inoltre
aveva saputo che la squadra di suo fratello non aveva manager che si
occupassero del lato pratico e il mister e il preparatore atletico non
riuscivano a gestire tutto da soli.
Kasumi, che era molto sveglia e capace, fu proposta
immediatamente da
suo fratello per quella posizione.
Non
passò molto tempo che i
giocatori si erano affezionati molto a quella ragazza. Kasumi era molto
somigliante a Kojiro: stessi occhi neri, stessi capelli corvini lisci e
setosi,che
portava poco più lunghi delle spalle, stessa pelle
olivastra; ma a
contraddistinguerla dal fratello era il carattere molto meno aggressivo.
Kasumi
era molto solare e piaceva
a tutti, tranne che ad una persona. La poverina imparò
presto a sue spese che
era molto difficile, se non impossibile fare amicizia con Wakashimazu,
il primo
portiere della squadra. Kasumi aveva tentato in ogni modo un approccio
amichevole con lui, soprattutto perché era il miglior amico
di suo fratello, ma
lui continuava ad essere indisponente, a rispondere a monosillabi e
starle alla
larga il più possibile. Neanche lui sapeva perché
si comportasse a quel modo,
la ragazza lo irritava suo malgrado eppure non era una persona
insopportabile.
Perché
solo lui aveva così
difficoltà a fare amicizia con la sorella del suo migliore
amico?
Ho iniziato a scrivere questa fanfiction quando
avevo 13 anni, perciò
posso dire che è cresciuta con me. Il personaggio di Kasumi
è frutto di un gioco
infantile tra me e la mia migliore amica e quindi devo soprattutto a
lei che mi
ha ispirata e incitata a scrivere.
Mi raccomando aspetto i vostri commenti e anche le
critiche,
soprattutto se costruttive: adoro scrivere e spero di arrivare a farlo
nel
miglior modo possibile. Spero che la fic sia di vostro gradimento. Un
bacione a
tutte/i!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Una buona notizia ***
Capitolo 2
Una buona notizia
Impegnarsi
a tempo pieno sia
nello studio, sia nello sport non era facile per nessuno, tantomeno lo
era per
Matsuyama, che si divedeva tra allenamenti massacranti sulle nevi di
Sapporo e
gli studi che aumentavano all’incombere dell’esame
di fine anno. La situazione
era divenuta più stressante negli ultimi tempi,
perché da tempo non la sentiva
e stava iniziando a preoccuparsi.
Arrivò
al suo monolocale dove
viveva da pochi mesi per esigenze di indipendenza, frugò
nervosamente nelle
tasche per trovare la chiave e alla fine entrò.
Lanciò la sciarpa e la giacca
distrattamente sul letto e si diresse verso il computer.
Attese trepidante che
il sistema operativo completasse il caricamento, poi
selezionò veloce l’icona
del programma di posta elettronica. Sbuffò perché
il PC ci metteva troppo
secondo i ritmi del suo cuore che batteva forte nella speranza di veder
apparire ciò che attendeva. Un accumulo di spam che
rallentava le operazioni,
e-mail della squadra…ma quanto ci metteva! Diede una
scrollata al monitor,
ormai incapace di controllarsi.
Quando
stava per perdere le
speranze comparve nella lunga lista il nome da cui aspettava notizie da
giorni:
Yoshiko. Con la mano che tremava posizionò la freccia del
mouse su quel nome e
attese che l’e-mail si aprisse:
“Ciao amore mio,
come stai? Scusami se non ti ho scritto, ma sono
stata sommersa dagli
impegni.
Spero che il campionato stia procedendo bene e che
tu non ti sia fatto
male (dato che riesci sempre a cadere almeno una ventina di volte ad
allenamento ;oP).
Sorrise,
ricordando come gli
avesse detto esattamente la stessa cosa quando all’aeroporto
gli stava
medicando il ginocchio sbucciatosi in seguito ad una caduta. Nel
momento più
bello e più triste della loro storia.
Io sto cercando di adattarmi a questo soggiorno
“forzato” negli States,
ma è così difficile. So che sono nata qui ed in
fondo è come se fossi tornata a
casa, ma questo per me è diventato un luogo odiato, un luogo
che mi porta via
dalle persone che amo.
E’ successo 10 anni fa con Yayoi e Sanae,
è risuccesso 3 anni fa con
te. Non pensavo si potesse stare così male. Mi mancate tutti
quanti, ma
soprattutto mi manchi tu, capitano.
Sai alle volte chiedo a me stessa cosa mi manchi di
più di te e non so
darmi risposta, forse tutto o forse la tristezza di non sapere cosa ho
perso
allontanandomi da te.
Una
fitta allo stomaco iniziò a
pungerlo violentemente. Era vero, nessuno dei due sapeva bene cosa
avessero
perso separandosi, non avevano avuto un legame vero e proprio,
perché
l’imbarazzo aveva impedito ad entrambi di confessare
l’affetto reciproco ed
erano poco più di due bambini quando all’aeroporto
si erano scambiati
l’innocente promessa di aspettare il giorno in cui sarebbero
tornati insieme.
Sai Hikaru, anche se sono passati tre anni, sento
che niente è cambiato
e credo che quando finalmente potremo vederci ed esprimere in modo
totale i
nostri sentimenti, tutta l’amarezza che ho vissuto in questi
giorni sembrerà
solo un tiepido ricordo.
Hikaru
arrossì, nonostante fosse
un bel giovanotto prestante era ancora molto inesperto
nell’arte amorosa. Aveva
scoperto i suoi sentimenti per Yoshiko a 15 anni e da quando si era
dichiarato
il suo cuore era tutto per lei, quindi si ritrovava ora a 18 anni,
impegnato,
ma senza neanche aver mai vissuto veramente l’amore. “Esprimere in modo totale i nostri
sentimenti”…Yoshiko era
diventata bellissima, aveva una sua foto con un leggero vestitino
estivo
azzurro che faceva trasparire le forme perfette del corpo proprio sul
desktop
del PC e per un momento si ritrovò
a
fantasticare su come sarebbe stato esprimere il loro amore a livello
fisico. Si
riscosse subito da quei pensieri “impuri” e
proseguì con la lettura.
L’unica speranza che coltivo nel cuore
è che tu non ti sia stancato di
attendere il mio ritorno.
Se senti che i tuoi sentimenti sono cambiati,
saprò capirti, del resto
non ho mai osato chiedere che tu avessi tutta questa pazienza.
Vorrei che tu pensassi bene a queste mie parole,
per me è estremamente
importante, soprattutto perché sto per tornare.
Rilesse
l’ultima frase almeno una
decina di volte per essere realmente sicuro che fosse la
verità. Lei temeva che
lui si fosse stancato di aspettare? L’aveva aspettata per tre
lunghi anni,
avrebbe aspettato ancora, voleva stare con lei, poterle dare
l’amore che
scioccamente aveva tenuto nascosto nel suo cuore, a costo di doverla
andare a
prendere di peso e riportarla con lui in Giappone. Si erano visti
durante il
torneo negli Stati Uniti, ma gli impegni con la squadra e gli
spostamenti tra
una città e l’altra avevano limitato il loro
incontro ad un solo pomeriggio.
Almeno avevano potuto passare alcuni momenti insieme come due veri
fidanzati,
anche se in quel frangente Hikaru peccò nuovamente di
timidezza e rese un
completo disastro il loro primo e unico appuntamento. Non avrebbe perso
l’occasione di rimediare, con il ritorno di Yoshiko
finalmente avrebbe potuto
vivere in modo totale quel tenero amore mai espresso.
Tornerò a Sapporo il 20 gennaio con il
volo delle 15.45. Se non ti vedrò
saprò capire.
Per ora ti saluto, non vedo l’ora ( e
spero) di rivederti
Yoshiko
Hikaru
rilesse ancora una volta
tutta la lettera, poi iniziò a comporre la risposta. Le
inviò poche e semplici
parole, ma ricche di significato.
Vola da me angelo mio, il tuo principe ti aspetta
da troppo tempo.
Con amore
Tuo per sempre
Hikaru
Si
passò una mano fredda sul
volto in fiamme. A scrivere era sempre così coraggioso,
invece quando si
trattava di dimostrare il suo amore alla ragazza del suo cuore
diventava un
imbranato colossale, ma si promise che da quel momento Yoshiko avrebbe
avuto
tutto ciò che meritava.
Ecco a voi il secondo capitolo, spero vi piaccia.
Ringrazio molto Prue786
per aver recensito il primo capitolo. Un bacione a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Il litigio ***
Capitolo 3
Il litigio
Kasumi
stava cercando di
inserirsi meglio che poteva nella nuova scuola,
le compagne di classe si erano dimostrate gentili e
cortesi fin da
subito con lei e l’avevano aiutata a mettersi in pari con il
resto della classe
per prepararsi agli esami. Della squadra erano in classe con lei,
ovviamente,
suo fratello Kojiro, Sorimachi e per sua sfortuna anche Wakashimazu.
Quando
scoprì di essere stata iscritta nella stessa classe, Kasumi
pensò che forse
poteva trarre vantaggio dalla situazione: magari stando più
a contatto, il bel
portiere della Toho avrebbe imparato ad accettare la sua presenza.
Wakashimazu
sapeva che sarebbe
stato inevitabile averla tra i piedi, ma nonostante tutto non
riuscì a digerire
la scelta del capo insegnanti del terzo anno di inserire Kasumi nella
sua
stessa classe, poiché significava doverla vedere quasi tutto
il giorno. Ken
dovette ammettere con se stesso di essere diventato un po’
misogino,
soprattutto a causa delle oche starnazzanti che ad ogni partita lo
imbarazzavano con complimenti fin troppo audaci, che scatenavano
l’ilarità dei
suoi compagni di squadra. Se avesse potuto decidere lui, avrebbe
addirittura
impedito l’accesso alle tribune di quello stuolo di sgradite
ammiratrici.
Kasumi non era una sua ammiratrice, ma ciò nonostante si
sentiva a disagio in
sua compagnia.
Una
mattina come le altre a
lezione, Kasumi ebbe la conferma che ogni tentativo di farsi amico
Wakashimazu
era vano. Durante l’ora d’inglese mentre la prof.
Mihura stava spiegando
l’utilizzo dei phrasal verb, Kasumi sperimentò
l’esperienza più umiliante della
sua vita.
-
I can’t put…with noisy
people.- scandì con perfetta pronuncia la
professoressa. – Quale preposizione dovrebbe accompagnarsi a
questo
verbo?...ehm…ah, sì….Wakashimazu!-
Il
ragazzo colto alla sprovvista
scattò in piedi con il libro in mano, ma non sapeva nemmeno
a che pagina stesse
leggendo la professoressa.
-
La preposizione up-
sentì bisbigliare alle sue spalle,
stava per rispondere, ma quando realizzò che a suggerirgli
la soluzione
corretta era stata Kasumi, divenne paonazzo.
-
Guarda che non ho bisogno del
tuo aiuto, razza di impicciona!- sbraitò il ragazzo che si
accorse solo dopo di
aver espresso i suoi pensieri a voce anche troppo alta. Kasumi lo
guardava
confusa e amareggiata, soprattutto perché sentiva su di
sé gli sguardi dei
compagni intenti a sghignazzare, Kojiro guardava alternatamene
l’uno e l’altro
cercando di dominare l’impulso irrefrenabile di dirne quattro
al suo amico di
fronte a tutti, la professoressa Mihura, passato lo stupore iniziale,
assunse
un’aria serafica.
-
Ma bene, mi compiaccio,
veramente. Signor Wakashimazu, evidentemente, in questi sei anni alla
Toho, lei
non ha imparato il significato del termine
“contegno”.- disse lapidaria.-
Quanto a lei signorina Hiyuga, la informo che qui in Giappone, i
suggeritori
sono graditi solo nei teatri di terza categoria.- aggiunse acidamente e
puntando il dito verso l’uscita intimò ad entrambi
di uscire in punizione.
Kasumi
e Ken si diressero verso
l’uscita nell’imbarazzo più totale e con
lo sguardo al suolo. Quando richiuse
la porta alle sue spalle la ragazza si volse verso di lui con stizza.
- Sei un idiota! Un emerito
idiota! Che
diavolo ti è saltato in mente di fare quella scenata, potevi
cogliere il mio
suggerimento e finirla lì! – sibilò
furibonda. Mai, in 18 anni, le era capitata
una figura così meschina ed ora era stanca di essere
paziente con quel capellone
pieno di sé.
-
Nessuno ti ha chiesto niente! E
come osi darmi dell’idiota brutta gallina?!-
esclamò rosso in volto.
-
Sei la persona più ingrata ed insopportabile
del mondo Ken Wakashimazu!
Non posso credere che mio fratello abbia scelto te come migliore
amico!-
rispose piccata.
-
E io non posso credere che
un’oca starnazzante come te sia sua sorella gemella!-
ribatté sfrontatamente.
-
Sei un grandissimo maleducato!-
gli gridò in faccia esasperata.
Solo
allora si resero conto degli
sguardi puntati su di loro di alunni e professori, che richiamati dal
gran
baccano che stavano facendo erano usciti nel corridoio. La prof. Mihura
spuntata alle loro spalle li colpì in testa col proprio
libro di testo,
minacciandoli di portarli dal capo insegnanti se non avessero assunto
un
comportamento adeguato e per il momento si limitò a
estendere la punizione
costringendoli a tenere un secchio pieno d’acqua fino alla
fine dell’ora.
I
due ragazzi stavano ora nel
silenzio più assoluto. Kasumi era voltata
dall’altra parte per evitare di
guardare Ken, si sentiva offesa e umiliata. Lei teneva molto al suo
rendimento
e temeva che quella punizione potesse avere conseguenze negative sul
curriculum
scolastico, inoltre le parole di Wakashimazu l’avevano ferita
non poco e poi la
figuraccia subita di fronte a mezza scuola….era stato
decisamente troppo. Da
quel momento abbandonò ogni tentativo di approccio nei
confronti del ragazzo,
che, dopo quella scenata, aveva ampiamente dimostrato di non meritare
nemmeno
un briciolo della sua attenzione.
Ken
stava rimuginando su quanto
era appena accaduto e forse iniziava a realizzare di avere proprio
esagerato in
quella circostanza. Si guardò riflesso nell’acqua
del secchio e nella sua testa
si diede dello stupido. Aveva causato un putiferio: aveva messo in
ridicolo se
stesso e la povera Kasumi, che voleva solo essere gentile ed ora per
colpa sua erano
lì come due allocchi a tenere un secchio d’acqua
come punizione. Si voltò a
guardarla e fissò il secchio tra le sue mani. Senza
proferire parola cercò di
toglierglielo per reggerlo al suo posto, ma lei si ritrasse con stizza
e gli
rivolse uno sguardo sprezzante.
-
Volevo solo aiutarti.- disse
mortificato.
-
Non vorrei il tuo aiuto neanche
se fossi l’ultimo rimasto sulla Terra.- sentenziò
senza nemmeno guardarlo in
faccia.
Ken
non osò controbattere,
l’aveva combinata grossa e in quel momento iniziò
a realizzare la sua
stupidità. Kasumi aveva sopportato anche troppo. In fondo
lei voleva essergli
amica, perché lui era il migliore amico di Kojiro e lui
aveva fatto di tutto
per allontanarla, ma proprio ora che ci era riuscito non ne era
contento, anzi
dentro di sé sentiva una punta di tristezza pizzicarlo come
un ago.
Rieccomi con il terzo capitolo. Spero che abbia
suscitato divertimento
(devo confessare che ridevo da sola mentre lo scrivevo...che stordita!)
e che
finora la storia vi sia piaciuta. Ringrazio molto NinfadellaTerra e
Prue786 per
i loro commenti che mi hanno fatto un gran piacere…grazie
davvero ragazze: per
ciò che riguarda il secondo capitolo, confesso che
è uscito dalle mie dita con
facilità, perché la coppia Yoshiko-Hikaru
è sempre stata la mia preferita e
soprattutto Hikaru Matsuyama è sempre stato tra le mie
grazie (infatti quando
con gli amichetti giocavo a Holly e Benji, volevo sempre fare Yoshiko,
perché è
la sua ragazza…ricordi d’infanzia, che volete
farci).
Un caro saluto a tutte/i e al prossimo capitolo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Cuori distanti ***
Capitolo 4
Cuori distanti
La
luce del meriggio penetrava
insistente dalle imposte socchiuse; nella penombra della stanza il buio
diventava per lui un alleato, che lo escludeva dal resto del mondo che
non
poteva o non voleva comprendere quello che il suo cuore infranto
provava ogni
sera, quando gli allenamenti finivano e la sua mente iniziava a
pensare,
rivivendo attimi passati con nostalgia. Con la muscolosa schiena
appoggiata
alla spalliera, il mitico numero 10 del Sao Paulo assorto nei suoi
tristi
pensieri, non si accorse nemmeno che la porta della sua camera era
stata
aperta.
-
Tsubasa è pronta la cena.-
disse il ragazzo dai caldi occhi marroni incastonati nel viso dai
tratti
brasiliani.
-
Stasera non scendo Pepe.-
rispose quasi sussurrando senza distogliere lo sguardo da
ciò che aveva in
mano.
-
Ma…- si bloccò subito appena
vide il riflesso delle lacrime che solcavano le guance
dell’amico.
-
Va bene.- riprese subito. Si
voltò per andarsene, poi si arrestò e aggiunse:
– Oggi hai giocato benissimo,
sei proprio un campione!- e gli rivolse il migliore dei sorrisi.
-
Grazie.- rispose senza la
minima traccia di entusiasmo.
Pepe
si congedò, pensando a quale
scusa avrebbe dovuto inventare con l’allenatore per
giustificare l’assenza di
Tsubasa alla cena.
Il
ragazzo piangente cercò di
asciugarsi le lacrime che aveva tentato di ricacciare indietro, senza
riuscirvi. Nelle sue mani, la foto di una ragazzina con la divisa delle
scuola
medie sorridente. Si ricordava benissimo il giorno in cui era stata
scattata
quella foto, era in gita con le classi della terza media Nankatsu a
Tokyo con
il professore di arte, che li aveva costretti ad un tour
de force nei musei della città. Solo
l’ultimo giorno fu
permesso loro di visitare liberamente la metropoli.
Fu
lì che si rese conto dei suoi sentimenti
per lei, di quello che aveva sempre cullato segretamente nel cuore.
I
ciliegi in fiore del Parco
Inokashira erano uno splendore quel giorno, così come la sua
dolce Sanae che
sembrava una fata, avvolta dalla pioggia di rosei petali. Sarebbe stato
tutto
più facile se la squadra non fosse stata con loro, ma non
c’era verso di
rimanere soli e comunque, anche se fossero stati soli, cosa avrebbe
potuto
dirle? “Sono innamorato di te, ma devo andare in Brasile per
seguire i miei
sogni”?
Solo
ora se ne rendeva conto,
anche lei era il suo sogno, ma non aveva osato confessarglielo. Sanae
era stata
il suo angelo custode per nove anni, lunghi anni in cui aveva tifato
entusiasta
per lui e gioito dei suoi successi, lo aveva accudito con le sue
premurose attenzioni,
lo aveva aiutato durante gli infortuni, e lui? Cosa aveva fatto? Se ne
era
andato, di punto in bianco, senza nemmeno dire grazie per tutto
ciò che lei
aveva fatto per lui, senza nemmeno dirle che lei sarebbe stata sempre
nel suo
cuore nonostante la lontananza.
La
porta si spalancò nuovamente
per accogliere nella stanza l’allenatore, Roberto Hongo.
-
Tsubasa, potrei chiederti di
venire almeno a provare a mangiare qualcosa? Con gli allenamenti che
devi
sostenere il digiuno è proprio una scelta sbagliata.- Si
avvicinò a lui,
avrebbe voluto sgridarlo, ma quel viso così piagato dalla
tristezza bloccò sul
nascere tutte le sue intenzioni. Vide la foto che teneva in mano e con
la mente
tornò indietro nel tempo, quando Tsubasa era un ragazzino
con i capelli arruffati,
che correva spensierato dietro ad un pallone e la sua piccola amica, un
maschiaccio con la hachimaki rossa e la bandiera tre volte
più grande di lei in
mano.
-
E’ proprio bella lo sai.- disse
semplicemente, avvicinandosi per vedere meglio la foto. Lo
osservò mentre
annuiva senza distogliere lo sguardo da quell’ oggetto.
Roberto provò una gran
tenerezza per il suo giovane “protetto”. In campo
dava sempre tutto se stesso,
ma quando gli spalti si svuotavano e gli impegni sportivi finivano,
diventava come
un ombra, persa nei ricordi.
-
Perché ci si accorge sempre di
quanto qualcosa sia importante solo quando la si perde, me lo sai dire
Roberto?- chiese mesto.
A
quella frase un ago iniziò a
pungere il cuore di Roberto: sua madre; il dolore più grande
della sua vita,
quando ancora bambino perse la madre per un incidente sul lavoro,
tornò ad
affacciarsi violento alla sua mente, risvegliando in lui il rancore per
quella
che lui sentiva come la più grande ingiustizia nella sua
esistenza. Quasi con
rabbia si rivolse al ragazzo, ormai stufo della sua autocommiserazione.
-
Tsubasa! Tu non hai perso
proprio niente, non puoi immaginare cosa sia perdere veramente
qualcuno!-
esclamò esausto.
-
Tu che ne sai!? Cosa sai di
come mi sento io!? Ho lasciato il mio cuore in Giappone per venire
qui!-
controbatté punto sul vivo.
-
Questo non lo puoi sapere
Tsubasa! Sanae non è morta, dannazione, lo vuoi capire!
Chiamala una buona
volta! Cerca di spiegarle come ti
senti
e cercate una soluzione!- lo sgridò, esasperato dalla sua
negatività.
-
E con che coraggio mi faccio
sentire solo ora, dopo tre anni di silenzio!?- domandò
disperato, sperando che
almeno lui avesse una risposta valida a quella domanda che puntualmente
lo
tormentava come una spina nel cuore.
-
Se sei così innamorato di lei,
perché insisti a fare il codardo?!- lo squadrò
torvo Roberto, che non
sopportava più vedere il suo migliore giocatore
così abbattuto.
Con
un gesto che stupì lui stesso
per primo, Tsubasa si alzò e afferrò Roberto per
la gola. Fu un breve attimo,
poi subito dopo lo lasciò andare, volgendo lo sguardo
altrove per la troppa
vergogna del atto appena compiuto.
-
Scusami Roberto. Hai ragione
sono solo un vigliacco che si piange addosso, un idiota che ha lasciato
volar
via un angelo per non tarparle le ali, ma ora sono io che non riesco
più a
volare senza di lei.- disse colpendo il muro con il pugno serrato.
-
Tsubasa tu sei stato molto
altruista, ma vederti ridotto così è uno strazio,
cerca di reagire! Non sei
venuto qui per niente, sei un campione e lei lo sa, lo ha sempre saputo
e se
anche lei prova quello che provi tu…-
-
Se anche avesse provato
qualcosa per me, ormai mi avrà cancellato dalla sua vita e
non potrei
biasimarla.- rispose sconsolato.
Roberto
si avvicinò e con un
gesto paterno gli accarezzò la testa e aggiunse: – Tsubasa io
forse sono la persona meno
indicata per darti dei consigli, ma sono stato innamorato
anch’io e posso solo
dirti una cosa: abbi fiducia in lei e pensa che vorrebbe vederti felice
e
realizzato. Ora andiamo a cena dai.-
Tsubasa
annuì più per stanchezza, che per convinzione.
Roberto lo precedette e lui non
visto prese nuovamente la foto tra le mani e se la portò
alle labbra.
-
Se solo ti avessi parlato prima
di andarmene…- sospirò.
A
Nankatsu, i ragazzi stavano
affrettandosi ad andare a scuola, prima dell’inizio delle
lezioni, per
l’allenamento mattutino. Come sempre i giocatori trovarono il
campo pronto per
l’allenamento e la loro prima manager che sorridente li
attendeva.
-
Ciao ragazzi- li salutò.
-
Buongiorno Sanae- risposero.
Alle
loro spalle arrivò trafelata
una biondina, con una sacca in mano.
-
Taro ieri hai dimenticato
questa a casa mia.- disse porgendogli la sacca. – Dove hai la
testa alle
volte?- chiese sorridente.
-
Sì, Taro dove hai la testa,
forse ieri sera te l’ho fatta girare troppo.-
iniziò a canzonarli Ishizaki.
-
Taci scimmiotto! Sei solo
invidioso.- gli rispose immediatamente la giovane mostrando la lingua e
suscitando l’ilarità dei presenti.
-
Fate ridere anche me.- disse
una voce alle loro spalle. Yosuke si avvicinò ammiccando
verso Sanae che
sentendo le guance avvampare, si girò di spalle.
-
Lasciamo perdere Shiratori,
iniziamo l’allenamento che è meglio.-
esordì Taro cercando di interrompere quel
imbarazzante scambio di battute.
-
D’accordo Misaki, ma ricordati
che il capitano sono io e certe battute spettano a me. Ora cominciamo.-
sentenziò piccato.
Yosuke
Shiratori era arrivato al
liceo Nankatsu al secondo anno e si era distinto per le sue doti di
leader,
tanto da convincere l’allenatore a concedergli la fascia di
capitano, ma era
ben lungi dall’eguagliare Tsubasa, sia per bravura, che per
altruismo. Alcuni
componenti della squadra non lo sopportavano, primo fra tutti Ishizaki,
perché
era un tipo piuttosto arrogante ed egocentrico, ma soprattutto,
perché non era
sfuggito a nessuno il suo marcato interesse per la loro prima manager.
Dopo
le lezioni del mattino
durante la pausa pranzo, Sanae andò a rifugiarsi con il suo
cestino in
terrazza, voleva rilassarsi e riflettere a mente lucida su una
questione che
ultimamente occupava gran parte dei suoi pensieri. Si guardò
attorno e vedendo
che era completamente sola si sedette spalle alla ringhiera. Trasse un
profondo
respiro e chiuse gli occhi. Doveva decidere cosa fare: lui era partito
da tre
anni, senza nemmeno salutarla e non aveva avuto più sue
notizie, tranne che dai
notiziari sportivi che riportavano le vittorie del Sao Paulo. A
ripensare a
quanto aveva spasimato per lui, le lacrime le si affacciarono spontanee
sulle
gote.
-
Sanae?- si sentì chiamare.
Si
asciugò rapidamente gli occhi
e sorrise alla bionda ragazzina che si stava avvicinando.
-
Non ti abbiamo vista in mensa e
ci siamo preoccupati. Va tutto bene?- chiese con gli occhi colmi di
affetto.
-
Non è necessario che vi
preoccupiate, sto bene Elena.- rispose abbozzando un sorriso.
-
Sono contenta. Ti vedo un po’
più serena ora, quando io e Taro siamo arrivati qui in
Giappone eri proprio a
pezzi.- le sue
labbra si aprirono in un
meraviglioso sorriso.
Elena
era la ragazza più bella
che avesse mai visto, anche più bella della sua cara amica
Yayoi. La prima
volta che la incontrò pensava di aver di fronte una creatura
angelica, per via
dei suoi capelli biondi che ricadevano morbidi oltre spalle fino
all’altezza delle
anche e i suoi brillanti occhi azzurro-verdi. Capiva benissimo,
perché Taro si
fosse innamorato di lei. Oltre ad essere bellissima era anche molto
dolce.
Sanae
raccolse le ginocchia al
petto e rispose: - Lui era appena partito e io non riuscivo ad
accettarlo, ma
ora vedendo la strada che ha percorso riesco a vedere le cose in modo
diverso.-
-
Riesci anche a perdonarlo?-
chiese cautamente. Elena non conosceva Tsubasa, ma
si era
appassionata a questo amore che Sanae provava per lui e
avrebbe tanto
voluto vederli felici assieme, come lei lo era con Taro.
-
Non lo so Elena, è che vorrei
tanto capire perché non mi ha neanche detto addio.- disse
assorta nei suoi
pensieri.
-
Forse perché non voleva
dirtelo, forse voleva che tu lo aspettassi, ma non ha avuto il coraggio
di
chiedertelo.- rispose adducendo le motivazioni per lei più
plausibili.
-
Forse perché non aveva nulla da
dirmi. Ma almeno un ciao…pensavo che perlomeno fossimo
amici.- aggiunse
amaramente.
-
Pensaci bene Sanae, proprio
perché non ti ha nemmeno salutata forse prova qualcosa di
più dell’amicizia!-
insistette la biondina.
Sanae
le rivolse uno sguardo
interrogativo, non arrivando proprio ad afferrare le logica di quella
affermazione.
-
Insomma, voglio dire che se per
lui tu fossi stata una semplice amica, sarebbe venuto a salutarti
normalmente,
invece avendo agito diversamente mi viene da pensare che lo abbia
fatto, perché
per lui salutarti sarebbe stato troppo doloroso.- concluse sperando che
il suo
ragionamento, forse un po’ contorto, fosse chiaro alla sua
amica.
Sanae
sospirò esausta, le mancava
solo che altre persone costruissero più castelli in aria di
quanti ne avesse creati
lei in quegli anni.
-
Seeeeee, come no!? Meglio
darsela a gambe.- rispose nascondendo dietro l’ironia la
voglia irrefrenabile
di gridare dall’alto di quella terrazza tutta la sua
disperazione per quel
amore soffocato.
-
Ma…- cercò di riprendere Elena.
-
Basta Elena, ti prego. Forse
sarebbe meglio che tu, ma soprattutto io, smettessimo di pensare al mio
amore
impossibile.- affermò seria, mentre il suo cuore doleva per
le parole che lei
stessa aveva pronunciato.
-
Sai, Yosuke mi ha chiesto di
diventare la sua ragazza.- disse all’improvviso, spiazzando
totalmente Elena.
-
E tu cos’hai…- balbettò
confusa, mentre vedeva le guance di Sanae colorarsi di un rosso vivo
per
l’imbarazzo.
-
Gli ho chiesto tempo per
pensarci, ma adesso vorrei prendere una decisione…- non
finì la frase, che
Elena si parò in ginocchio di fronte a lei.
-
No, Sanae, non metterti con
Shiratori, te ne pentiresti, credimi!-
esclamò col volto terrorizzato. Ancora prima
che Sanae potesse
risponderle, riprese a parlare – Non pensi che Tsubasa
potrebbe tornare e …- ma
si pentì subito di quanto detto, appena vide Sanae cedere
alle lacrime. La
giovane scattò in piedi con i pugni stretti urlò
fuori tutta la sua rabbia e la
sua disperazione.
- IO DEVO PENSARE A TSUBASA,
SEMPRE IO. SE N’ E’
ANDATO! LO CAPISCI!? E’ PARTITO E IN TRE ANNI NON HO SAPUTO
NIENTE DI LUI! PERCHÉ
SOLO IO DEVO RIMETTERCI IN TUTTO QUESTO!?- e accecata dalle lacrime
copiose che
le sgorgavano dagli occhi corse via.
Elena
sentiva a sua volta una
gran voglia di piangere. Aveva combinato un disastro, voleva
distogliere Sanae
dall’idea di mettersi con Shiratori, invece, forse,con le sue
parole, aveva
stuzzicato la rabbia repressa della ragazza nei confronti di Tsubasa e
probabilmente ora Shiratori avrebbe avuto più
possibilità con la sua amica.
La
biondina si aggrappò con le
mani alla ringhiera e la strinse con tutta la forza che aveva per
trattenersi
dal correre da Sanae e dirle la verità. Sentì le
lacrime pizzicarle gli occhi,
ma con un ennesimo sforzo le ricacciò indietro.
-
Elena tesoro, che ci fai qui da
sola?- Taro era spuntato sulla terrazza, preoccupato per
l’assenza prolungata
della sua ragazza. Si avvicinò a lei e le chiese: - Hai
trovato Sanae? Ma
che…?- si arrestò stupito nel vedere le lacrime
spuntare sui begli occhi di
lei.
-
Perchè, perché, perché mi hai
fatto giurare di non dirle niente Taro?- chiese singhiozzando e subito
dopo si
gettò tra le sue braccia per sfogare le lacrime che ormai le
rigavano il volto.
Lui
la strinse forte a sé e
rispose con la voce rotta dall’emozione: - L’ho
promesso a Tsubasa.-
Capitolo un po’ più lungo
questa volta: all’inizio ho pensato di
dividerlo in due, ma dato che Tsubasa e Sanae sono per me come le due
parti di
uno stesso cuore, mi sembrava giusto mettere a confronto nello stesso
capitolo
la loro sofferenza.
Dedicato a tutti coloro che amano la coppia Sanae-
Tsubasa (che non è
uno stordito, ma un ragazzo timido e leale)…Vive
l’amour!
Grazie ancora a Prue786 e NinfadellaTerra per le
loro recensioni!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Elena e Taro ***
Capitolo 5
Elena e Taro
La sera
stessa,
dopo la piccola incomprensione tra Elena e Sanae, la biondina
parlò a lungo con
il proprio ragazzo di quello che si erano dette sul tetto della scuola.
Nonostante la rabbia, Sanae aveva fatto un passo indietro, scusandosi
con la
sua amica, per la reazione un po’ esagerata che aveva avuto.
Elena, in cuor suo,
poteva sentire tutta la sofferenza della prima manager della Nankatsu,
ma, per
rispetto nei suoi confronti, non tornò più
sull’argomento.
Taro e Elena
stavano sdraiati l’uno nelle braccia dell’altro sul
divano. Erano entrambi giù
di morale per come si stava evolvendo la situazione dei loro migliori
amici.
Elena avrebbe voluto poter dire tutto ciò che sapeva a
Sanae, ma Taro era
combattuto per lealtà nei confronti di Tsubasa.
Prima di
partire,
il suo migliore amico gli aveva chiesto di vegliare su Sanae,
ovviamente senza
farsi scoprire e di non dirle nulla di quello che lui provava per lei,
per
evitarle inutili sofferenze. Tsubasa non si era dichiarato, sperava
anzi che
lei lo considerasse solo un amico e niente di più,
perché lui sarebbe stato
lontano e non voleva sacrificarla ad un amore a distanza, non lo
meritava. Il
ragazzo, però, dovette fin da subito fare i conti con il
proprio cuore. Sanae
gli mancava moltissimo: non specchiarsi più nei suoi occhi
che lo guardavano
colmi di ammirazione, non vedere le sue labbra curvarsi in uno
splendido
sorriso, non sentire la sua voce che lo incitava durante gli
allenamenti o nel
corso di una partita, non sfiorare la mano che gli passava
premurosamente
l’asciugamano a bordo campo era difficile, ma aveva
sopportato tutto questo per
ben tre anni, per proteggere lei dalla tristezza. Invece tutto era
stato
inutile, lei soffriva, soprattutto perché, ormai era certa,
di non contare
nulla per Tsubasa.
Lo squillo
del
telefono riscosse Taro dai suoi pensieri. Elena si precipitò
all’apparecchio, sicura
che fosse il suo tutore che la cercava per rimproverarla. Era tardi e
lei era
ancora a casa di Taro, ma rimase di sasso, quando sentì la
voce di Tsubasa al
telefono…
- Ciao, devi
essere Elena.- aveva una voce talmente triste - Potrei parlare con
Taro, per
favore?-
-
Sì…sì…va…va
bene- furono le uniche parole che riuscì a proferire. Il
grande amore della sua
migliore amica era al telefono, con lei, in quel momento; per un
istante, nella
sua fantasia un po’ infantile, pensò di riprendere
la conversazione dicendo a
Tsubasa di mollare tutto e tornare prima che perdesse Sanae, ma si
riscosse da quei
pensieri, quando si accorse dello sguardo interrogativo di Taro puntato
su di
lei. Gli porse la cornetta e quando disse chi lo cercava, Taro
afferrò
velocemente l’apparecchio e rispose.
Il sorriso
del
ragazzo si spense, quando avvertì i sospiri
dall’altro capo del telefono:
Tsubasa stava piangendo.
- Tsubasa ci
risiamo?- chiese Taro sconsolato.
- Lei come
sta
Taro?- disse ignorando il sottile rimprovero dell’amico.
- Lascia che
le
parli Tsubasa…-
- No!-
controbatté immediatamente.
- Ma
così vi
state facendo solo del male!- esclamò Taro, stufo di quella
situazione assurda.
-
Finché sono
solo io a soffrire, va bene così.- rispose rassegnato.
Sentendo
quelle
parole bisbigliate nella cornetta, Elena, che era lì
accanto, non riuscì più a
trattenersi, strappò l’apparecchio di mano a Taro
e diede fiato a tutto ciò che
la sua mente stava formulando in quel momento.
- Pensi
veramente di essere solo tu a soffrire?! Ma cosa diavolo hai in
testa?!- chiese
risentita.
Tsubasa,
sorpreso e confuso da quella interruzione, non ebbe nemmeno la forza di
replicare.
- Sanae sta
soffrendo tantissimo! Quando l’ho conosciuta era come
un’ombra, sempre triste e
malinconica, ma ha reagito e ora in qualche modo va avanti, ma ancora
oggi l’ho
vista piangere per te.- Tsubasa non ebbe tempo di controbattere.
– Cercando di
proteggerla, hai finito col farla soffrire di più. Lei pensa
di non contare
nulla per te e quel che è peggio, Taro ed io che sappiamo la
verità, dobbiamo
vederla affliggersi senza poter fare niente. Perché non vuoi
accettare che lei
continui ad amarti, nonostante te ne sia andato senza nemmeno
confessarle i
tuoi sentimenti?!-
Tsubasa
rimase
totalmente spiazzato da quelle affermazioni, Elena non lo conosceva
nemmeno, ma
gli aveva comunque sbattuto in faccia l’assurdità
delle sue azioni.
Aveva
sbagliato
tutto.
Voleva
evitarle
inutili tormenti, invece aveva costretto il suo angelo a soffrire per un amore che credeva non
corrisposto.
- Se sei un
uomo,
vieni qua ad affrontarla!- riprese Elena. Taro che aveva osservato a
bocca
aperta la sua ragazza, solitamente dolce e gentile, investire il suo
migliore
amico con quella sventagliata di accuse, riprese la cornetta, prima che
la
situazione sfuggisse di mano.
- Scusala
Tsubasa, ma cerca di capire, ci hai messo in una situazione
imbarazzante, siamo
come “tra l’incudine e il
martello”…- cercò di giustificarsi.
- Invece ha
ragione Taro. Avete cercato di farmelo capire tutti, ma io sono stato
cieco fin
dall’inizio. Pensavo che stando distanti i nostri sentimenti
si sarebbero
affievoliti, invece non è stato così, non per me
almeno.-
- E nemmeno
per
lei.- rispose deciso.
- Scusa se
vi ho
disturbato Taro e scusami per avervi coinvolto.-
- Non ti
preoccupare Tsubasa, gli amici servono soprattutto in questi momenti.-
- Grazie
davvero. Ci risentiamo e Taro…-
-
Sì?-
- Ringrazia
molto Elena, mi ha aperto gli occhi.-
Sospirò
nel
posare la cornetta sulla forcella, si volse e vide Elena che lo
guardava come
una bimba che attende il rimprovero del padre. Le sorrise e si
avvicinò per
scompigliarle la frangia con una carezza.
- Sei
proprio
fuori di testa… ma sei adorabile.- le disse stringendola a
sé.
Taro le
riportò
il messaggio di Tsubasa e la ragazza iniziò
a saltellare contenta per aver raggiunto il suo scopo, ma
ad un tratto
si arrestò, poiché si era ricordata di un piccolo
problema…Shiratori. Tsubasa
non sapeva nulla di lui, tranne che fosse diventato il nuovo capitano
della
Nankatsu, ma nessuno gli aveva spiegato dell’interesse che
nutriva nei
confronti di Sanae e soprattutto del fatto che le avesse chiesto di
diventare
la sua ragazza.
- E adesso?-
chiese lei.
- Lasciamo
perdere, dubito che Sanae voglia mettersi veramente con
quell’idiota.-
Elena lo
scrutò
sbattendo gli occhi più volte e scoppiò in
un’allegra risata.
-
Però, bella
considerazione che hai del tuo capitano.-
- Per me
l’unico
capitano rimane Tsubasa, quel demente di Yosuke non sarà
convocato nemmeno in
nazionale, secondo me.-
-
Già- rispose divertita.
- Ma adesso
l’accompagno a casa signorina, prima che il suo tutore mi
mandi qui la
polizia.-
I due
ragazzi
uscirono per strada ed iniziarono a percorrere la via in direzione
della casa
di lei. Il freddo invernale era particolarmente pungente a
quell’ora. La ragazza
si strinse al capotto, un brivido di freddo la fece tremare e Taro
l’accostò a
sé cingendole le spalle con un braccio per darle un
po’ di calore, lei poggiò
affettuosamente la sua testa sulla sua spalla e così stretti
proseguirono. Taro
la osservò dolcemente, mentre passeggiava accanto a lui con
un sorriso
raggiante sul volto e con la mente iniziò a vagare nel mare
dei ricordi.
- Allora ragazzi da oggi abbiamo un nuovo
allenatore! Come ti chiami?-
- Taro Misaki.-
- Molto bene allenatore Misaki. Io sono
Elena Rulli e sono la manager del Sant’Angelo.- disse
stendendo la mano la
ragazzina, che stava a bordo campo ad incitare un gruppo di ragazzini
in tenuta
da calcio.
Era a Roma in quel periodo, quando suo padre
aveva deciso di viaggiare per l’Italia nel tentativo di
migliorare la sua
tecnica pittorica e come spesso gli capitava aiutò la
squadra del Sant’Angelo
ad allenarsi in vista di un incontro-sfida contro la squadra Colosseo.
Fu in
quell’occasione che incontrò Elena per la prima
volta. Quella ragazzina con i
suoi buffi codini e il suo entusiasmo, era una specie di tornado, non
un vero e
proprio maschiaccio come Anego, ma comunque un tipo piuttosto vivace e con una gran passione per il
calcio.
- E’ raro incontrare una femmina
appassionata di calcio.- le disse una sera che avevano ritardato
più del solito
sul campo e lui si era offerto gentilmente di accompagnarla, dato che
non
riteneva saggio che una ragazzina di undici anni andasse in giro per
una grande
città come Roma a quell’ora.
- Ehi, qui sei in Italia, la patria del
calcio!- rispose strizzandogli l’occhio.
- Caspita è proprio tardi.- aggiunse poi
un
po’ preoccupata, scorgendo l’ora
sull’orologio. – Temo che Davide si
arrabbierà.-
- Chi è Davide?- domandò con
una curiosità
insolita per il suo carattere.
- E’ il mio tutore.- rispose senza
perdere
il suo bellissimo sorriso. Constatando lo stupore negli occhi di Taro,
lei si
prestò a spiegare la sua situazione famigliare: i suoi
genitori erano morti in
un incidente autostradale, quando lei aveva sei anni e dato che nessuno
dei
suoi parenti si era fatto avanti per prenderla con sé, il
migliore amico di suo
padre, Davide, la adottò, naturalmente con l’aiuto
dell’assistente sociale.
Taro divenne rosso per la vergogna, era stato troppo indiscreto ed
aveva
rivangato ricordi troppo tristi per lei.
- Non ti sentire a disagio Taro.- rispose,
quasi gli avesse letto nel pensiero. – A me non dà
affatto fastidio parlarne. I
miei genitori non ci sono più, ma sono sicura che in qualche
modo mi sono
vicini e questo mi fa stare meglio, poi Davide è una
bravissima persona, sai
lui era il migliore amico di mio padre, praticamente sono cresciuti
insieme.- e
così Taro scoprì che Davide era uno scapolo
incallito di 35 anni, di
professione broker, con la passione per la squadra della Roma e un
disastro
assoluto in cucina.
Vedere quel visino sorridente, nonostante la
grande sofferenza che aveva già subito in pochi anni di
vita, ispirò a Taro una
grande tenerezza e senza che lui se ne accorgesse iniziò a
parlare dei suoi
problemi.
- I miei genitori divorziarono, quando ero
molto piccolo.- disse sorprendendosi lui stesso per primo.
Elena gli sorrise, quasi per invitarlo a
proseguire.
- Io sono rimasto con mio padre, perché
mi
dispiaceva abbandonarlo. Ho sempre saputo che tra i due, lui era il
più fragile
e non me la sono sentita di lasciarlo da solo.- confessò.
- Anche se a causa del suo lavoro dobbiamo
spostarci in continuazione, io sono contento di aver scelto di stare
con lui.
In fondo in questo modo ho conosciuto un sacco di gente e visto posti
che
altrimenti mi sarei solo sognato.-
Elena annuiva, senza mai far sparire il
sorriso bellissimo che le illuminava il viso e ad un tratto prese la
mano di
Taro e la strinse nella sua. Lui avvertì un leggero
imbarazzo per quello slancio
e si sciolse dalla sua stretta. Solo poche persone sapevano della sua
situazione e non riusciva a spiegarsi, perché si fosse
aperto con quella
ragazzina quasi sconosciuta.
Arrivati di fronte casa sua, Elena fu
accolta da un signore alto e scuro di capelli e dai caldi occhi marroni.
- Elena, ma dov’eri?- chiese, spostando
poi
lo sguardo interrogativo sul ragazzino giapponese al suo fianco.
- Abbiamo fatto tardi con quelli del
Sant’Angelo e lui mi ha accompagnata.- disse indicando Taro
che si stava
facendo piccolissimo, di fronte a quel tipo che continuava a
squadrarlo. – Ti
presento Taro Misaki. Taro, lui è Davide.-
Dopo le dovute presentazioni i due ragazzini
si congedarono, dandosi appuntamento il giorno
dopo al campo da calcio per la sfida.
- Allora è lui il fortunato che ti
piace.-
la stuzzicò con fare ironico.
- E dai Davide! Mi metti in imbarazzo!-
rispose tirandogli una gomitata, mentre in viso diventava rossissima.
Il Sant’Angelo vinse la sfida contro ogni
previsione, ma la gioia di Elena per quell’evento
durò pochissimo, perché era
giunto il momento di salutare Taro e sapeva che non lo avrebbe mai
più rivisto.
Senza pensarci troppo su lo abbracciò forte e si sciolse in
un pianto
liberatorio. Dopo l’imbarazzo iniziale, Taro si
rilassò e la strinse anche lui.
Le sarebbe mancata molto quella piccola peste, che lui vedeva come una
sorellina.
L’anno seguente in Francia, durante il
primo
giorno di scuola, Taro si ritrovò faccia a faccia con la
persona più
improbabile.
- Taro!- si sentì chiamare da una
ragazza
che usciva da una classe del primo anno. Subito non si rese conto chi
fosse
quella ragazza dai lunghi capelli d’oro. Rimase inebetito per
qualche istante,
quando la sua mente riconobbe quegli occhi brillanti.
- Elena?!- esclamò, mentre la ragazza
annuiva
con un abbagliante sorriso.
Il tutore di Elena aveva ricevuto un
incarico importante dalla multinazionale per la quale lavorava e il
destino
volle che si trasferissero proprio a Parigi.
Elena era al colmo della felicità, quasi
che
la sorte volendo scusarsi con lei per averle tolto i suoi genitori
così presto,
le avesse fatto rincontrare quel ragazzino che aveva occupato un posto
speciale
nel suo cuore.
Col tempo i due legarono in modo particolare
e Taro divenne quasi un assiduo frequentatore della casa di Elena, per
un
motivo o per l’altro, quando studiavano assieme o quando
c’era qualche partita
di calcio da vedere sullo schermo gigante collegato al satellite, che
il tutore
di Elena si era regalato, per sopperire
all’impossibilità di assistere alle
partite della Roma direttamente allo stadio Olimpico.
Taro era il ragazzo più invidiato della
scuola, dato che chiunque era convinto che quei due stessero insieme.
Magari
fosse stato così! Taro era partito dall’Italia che
aveva lasciato una
“sorellina” e ora frequentava la ragazza
più ambita della scuola, ma solo come
amico. Non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato a provare qualcosa
per lei:
la vedeva sempre come la bimbetta con i codini. Quando invece si
svegliò, si
rese conto che vicino aveva un piccolo bocciolo che si stava aprendo e
sarebbe
stato bello, se si
fosse schiuso tra le
sue mani.
Il giorno che si dichiarò, erano agli
Champs-de-Mars,
cercando ristoro dalla calura estiva all’ombra della Tour
Eiffel. Elena
indossava un grazioso vestitino estivo in lino azzurro e aveva i lunghi
capelli
raccolti in una coda di cavallo. Stavano scherzando su cose futili,
seduti
sull’erba, quando lei improvvisamente si sdraiò
sulle gambe di lui, mentre
continuava a ridere e lui, con il cuore che balzava nel petto si
piegò in
avanti per guardarla negli occhi. Lei incrociò il suo
sguardo e divenne
improvvisamente seria. I loro visi erano molto vicini. Con un sorriso
raggiante
si sollevò verso di lui e gli posò un bacio sulle
labbra. Taro trasalì, ma
subito dopo fu lui a cercare nuovamente le labbra di lei per baciarle
ancora e
ancora.
Sorrise e
con lo
sguardo che si posava di nuovo sulla sua ragazza, pensava a quanto
fosse
fortunato ad averla al suo fianco. Quando era tornato in Giappone, lei
aveva
supplicato Davide di permetterle di seguirlo, ma era una minorenne e
non poteva
andare in un altro continente da sola. Allora Davide fece un atto che
andava al
di là del semplice amore paterno, diede le dimissioni dal
lavoro che aveva
svolto per anni e con la liquidazione avrebbe aperto un ufficio di
consulenza
finanziaria in Giappone. Sapeva che era un’impresa da pazzi,
ma per Elena, che
aveva già subito una grave perdita e non meritava di essere
allontanata
nuovamente da una persona importante, avrebbe smosso anche i monti. E
così ora
si ritrovavano dall’altra parte del mondo, immersi in una
cultura completamente
diversa, con il lavoro che decollava piano piano, ma entrambi felici,
perché
anche Davide era più sereno nel lavorare in proprio.
Taro, che
non
aveva goduto dell’affetto completo di entrambi i genitori, si
sentiva felice e
orgoglioso di avere una ragazza che lo amava a tal punto. Per lui era
come una
sorta di premio insperato e da quando lei lo aveva raggiunto in
Giappone si era
reso conto che non avrebbe più potuto fare a meno della sua
presenza, come se
quel gesto lo avesse fatto innamorare una seconda volta.
Arrivati a
destinazione, i due si strinsero in un abbraccio, ma una voce che si
schiariva
la gola li fece trasalire.
- Elena ti
rendi
conto di che ore sono? Che sia l’ultima volta, per la
miseria!- li rimproverò
seccato Davide e senza aggiungere una parola tornò in casa
sbuffando, dato che
l’indomani avrebbe dovuto alzarsi presto, per prendere lo
Shinkansen diretto a Tokyo.
I due
sorrisero
abituati ormai alle arrabbiature di Davide, che duravano al massimo
dieci
minuti. Si strinsero nuovamente uno nelle braccia dell’altro,
prima di unirsi
in un dolce bacio della buona notte.
Come ha acutamente osservato Alex_Kami il
personaggio di Elena è
apparso in una puntata di “Che campioni Holly e
Benji”, che si intitolava “Una
lettera dall’Europa”. Non ho usato il pairing
Azumi- Taro, perché lei non mi
ispira, ho sempre preferito la bionda italiana al fianco del caro
Misaki.
Ne approfitto per ringraziare di cuore Alex_Kami
per la sua
interessantissima recensione: grazie per i consigli cara, ne
farò tesoro!
Grazie anche per la precisazione Fujisawa- Nankatsu, ho provveduto a
modificare
il nome. Per quanto riguarda la questione dei nomi, sono sincera, la
mia è una
presa di posizione: detesto le assurde traduzioni di nomi e toponimi
(Fujisawa
è stata una mia mancanza, credevo fosse realmente quella la
città) proposte in
Italia. Purtroppo non so il nome che è
stato dato ad Elena in Giappone, ma dal momento che la
ragazzina è
italiana (almeno così si capiva nell’anime), ho
pensato che potesse andare bene
così. La questione Tsubasa- Sanae si spiega,
perché, quando ho iniziato ad
abbozzare la storia avevo tredici anni, quindi nel lontano
’94, non avevo
ancora letto il manga, perciò mi mancavano parecchie informazioni.
Ringrazio ancora tutte le persone che stanno
leggendo la mia
fanfiction, sperando di non deludere le loro aspettative. Al prossimo
capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Ricominciare da capo ***
Capitolo 6
Ricominciare da capo
Mentre il
sole
iniziava la sua discesa, le lezioni e gli allenamenti erano terminati.
Kasumi
stava sistemando gli ultimi palloni nella cesta con lo sguardo assente
di chi è
altrove con la testa. I suoi pensieri erano rivolti alla mattina,
quando era
ufficialmente diventata lo zimbello della scuola, grazie a Wakashimazu.
Dopo la
lezione
d’inglese la situazione non era certo migliorata: i compagni
di scuola avevano
preso a bersagliarli con battute e frecciatine su loro due. Durante la
ricreazione, la vicina di banco di Kasumi aveva detto ad alta voce, in
modo che
tutta la classe sentisse: “Sapete, si dice che chi disprezza
compra” e i
presenti erano scoppiati a ridere. L’imbarazzo fu tale, che
Kasumi non riuscì a
rimanere oltre in quell’ambiente e se ne scappò
sul tetto con il viso arrossato
dalla vergogna. Poco dopo, fu proprio Wakashimazu a raggiungerla.
- Che
diavolo ci
fai qui!?- l’ultima persona che voleva vedere, in quel
momento, era lui.
- Ti
cercavo.-
ammise. - Vorrei, scusarmi- disse con un filo di voce.
- Tu
vorresti
scusarti?!- chiese sarcastica e scoppiò a ridere dal
nervoso.- Sai che ti dico?
Non me ne faccio niente delle tue scuse! Ho cercato di esserti amica in
tutti i
modi, soprattutto per mio fratello, ma non ho ottenuto alcun risultato
degno di
nota, a parte la figuraccia di stamani. Grazie, per avermi resa la
barzelletta
della scuola.-
- Ma
io…- cercò
di intervenire.
- Risparmia
il
fiato! Stammi lontano, Wakashimazu!- e senza aggiungere altro, si
congedò.
Durante la
ripresa delle lezioni, convinto a non demordere, le passò un
bigliettino con su
scritto “Scusa” con un faccino triste disegnato
accanto. Che fantasia! Appallottolò
il pezzettino di carta e glielo tirò
addosso con stizza.
-
Cos’era, una
poesia d’amore?- bisbigliò il compagno a fianco,
che iniziò a sghignazzare.
Vedendo la sorella chinare il capo per l’umiliazione, Kojiro
non riuscì più a
trattenersi e sferrò un calcio al compagno non visto dal
prof.
Divenne
nuovamente rossa al solo pensiero, non amava essere al centro
dell’attenzione,
perché era molto riservata, anche se fin da subito si era
accorta che alla Toho
era impossibile rimanere nell’anonimato, soprattutto essendo
la sorella gemella
di Kojiro Hyuga, capitano della squadra vincitrice dello scorso anno e
in testa
alla classifica attuale del campionato nazionale di calcio,
nonché indiscusso
capocannoniere del Giappone.
Anche Kojiro
non
aveva gradito le scomode attenzioni della mattinata. Chiunque lo
incrociasse,
continuava a chiedere cosa succedesse tra sua sorella e il primo
portiere,
facendo battute stupide o illazioni che gli fecero montare un tale
rabbia che,
al momento di provare i tiri in porta, mirò direttamente su
Ken per sfogarsi.
Kasumi assistette con aria trionfale a quella punizione più
che meritata,
mentre il portiere si massaggiava lo stomaco dolorante per la violenza
dei
colpi subiti.
A ripensarci
in
questo momento, Kasumi si sentì una stupida: che
soddisfazione c’era a vedere
il proprio fratello farle giustizia in un modo così stupido?
Lei non era
migliore di Wakashimazu, era una bambina esattamente come lui.
Si chiese
come
avrebbe dovuto comportarsi.
Per tutto il
giorno era stata dominata dalla rabbia, ma ora che era ferma a
riflettere a
mente lucida, si rese conto che, forse, non era il caso di dichiarare
guerra a
Ken, specialmente perché, avrebbe creato una situazione
imbarazzante
all’interno del club di calcio. Il mister quel pomeriggio
aveva notato la
tensione che c’era in campo e pur sapendone il motivo, non
fece parola
sull’argomento per evitare di gettare benzina sul fuoco, ma
aveva preso lei da
parte chiedendole di fare pace con Ken per non compromettere
l’equilibrio della
squadra.
Si chiese se
sarebbe mai stato possibile che ci fosse pace tra loro due. Ken non era
mai
stato gentile con lei, a differenza di Sawada o Sorimachi, anzi
l’aveva
allontanata in tutti i modi, ma allora perché lei aveva
insistito tanto per
diventargli amica, se lui la rifiutava?
“Chi
disprezza
compra”, quella frase le balenò nella mente e
iniziò a martellarla come un tam
tam. Possibile che lei avesse un interesse per Wakashimazu? In effetti
Ken era
un bel ragazzo, molte studentesse alla Toho lo adoravano come un Adone,
ma lei
era diversa. Alcune la accusavano di essere entrata nel club di calcio
per
stare vicina a i bei ragazzi della squadra, ma non aveva dato peso alle
critiche: sapeva benissimo di essersi presa un tale impegno,
perché glielo
aveva chiesto suo fratello. Se ne era così sicura,
perché allora arrossiva?
Sospirò posando l’ultimo pallone nella cesta.
- Si
può sapere
che ti è preso oggi, Kojiro?- chiese Ken, mentre stava
cercando di indossare la
divisa, impedito dalle costole ancora doloranti.
Hyuga non
rispose.
- Se
è per tua
sorella…-
- Io non
entro
nelle vostre beghe infantili.- lo interruppe, tradendosi immediatamente.
- Infatti
non
dovresti.- sentenziò.
- Ti
è così
difficile comportarti civilmente con lei? Qual è il tuo
problema Ken?-
- Ho provato
a
chiederle scusa, ma non mi ha nemmeno lasciato parlare!-
tentò di aggirare la
domanda.
- Ti ho
chiesto
che problemi hai con lei?- insistette Kojiro, che ora lo scrutava con
sguardo
indagatore. – Non è che mia sorella ti piace?-
domandò sospettoso.
Un calore
improvviso gli infiammò il volto.- Che cosa?!- chiese
imbarazzato, incontrando
gli occhi di Hyuga che sembravano volergli leggere nel pensiero. Lo
allontanò e
scosse la testa confuso.
- Ma no, che
ti
viene in mente Kojiro?- chiese cercando di suonare naturale.
Hyuga
continuava
ad osservarlo attentamente, sicuro che stesse dissimulando. Neanche lui
avrebbe
saputo come reagire ad una tale eventualità, Kasumi era sua
sorella: la bimba
con le treccine che lo rincorreva per il giardino, la ragazzina che era
partita
per la Cina
senza avere il tempo
di elaborare il lutto con la propria famiglia, la sorella che era
tornata per
sostenerlo; e lui era il suo migliore amico: colui che lo aveva
sostenuto nelle
difficoltà, la persona che aveva sempre una parola di
conforto quando la
situazione famigliare diventava pesante, il portiere della sua squadra;
erano
due persone molto importanti per lui.
- Ti
dispiacerebbe?- chiese all’improvviso.
- Forse
sì.- gli
sfuggì.
Deciso a non
continuare quel discorso, Kojiro ritornò sulla lite di
quella mattina: - Hai
fatto la figura del fesso e ti sei tirato dietro mia sorella. Io non ho
intenzione di fare il mediatore, dovrete pensarci da soli. - concluse
sperando
di non ritornare sull’argomento.
–
E…scusa per
oggi, ero arrabbiato e ho agito d’impulso come mio solito.-
aggiunse titubante,
dato che, chiedere scusa, non era proprio un comportamento usuale per
lui.
- Se la
accompagnassi a casa e ne approfittassi per farmi perdonare?-
domandò a
bruciapelo.
Kojiro
rimase colpito da quella richiesta,
avrebbe dovuto lasciarli da soli? Ancora quel sospetto che Ken provasse
qualcosa per sua sorella, lo iniziò a infastidire.
Il portiere
si
stava pentendo di aver sparato una simile idiozia, dopo quello che si
erano
detti, soprattutto vedendo l’espressione eloquente comparsa
sul volto di
Kojiro. Stava per rimangiarsi tutto, invece Kojiro ammise che poteva
essere una
buona idea, mentre lui si aspettava una sana scenata di gelosia
fraterna.
Kojiro, in
realtà, si era trattenuto con tutte le sue forze. Temeva che
potesse succedere
qualcosa tra i due, ma, per un attimo, la ragione prese il sopravvento:
Kasumi
non era interessata a Ken e probabilmente nemmeno lui lo era, quindi
sarebbe
stato meglio farli parlare per chiarirsi e stabilire una tregua.
Kasumi vide
il
fratello sbucare dagli spogliatoi e correre verso l’uscita
della scuola.
- Aspetta,
Kojiro! Vado a cambiarmi e arrivo.-
- Ti
accompagna
Ken a casa.- gridò in risposta.
-
Coooooooosa!?-
In quel
momento
Wakashimazu stava avvicinandosi a lei, cercando di rimanere calmo. Non
sapeva
cosa dire, temeva che qualsiasi cosa gli fosse uscita di bocca sarebbe
stata
mal interpretata ed era troppo stanco, per gli equivoci che si erano
già
creati. Kasumi lo scrutò un secondo per capire che
intenzioni avesse. Ken la
rimirò a sua volta, nei suoi occhi non c’era
rancore o disprezzo, solo un po’
di curiosità. Sentì una specie di tuffo al cuore,
quando la vide sorridere.
- Vado a
cambiarmi.- disse divertita.
Cos’era
stato
quello che aveva sentito? Si appoggiò alla parete degli
spogliatoi e sospirò,
passandosi una mano sul fianco: Kojiro lo aveva letteralmente
massacrato. La
giornata era cominciata malissimo e ora stava ripiegando
sull’assurdo più
completo: quella ragazza era una fonte continua di sorprese, stamani lo
aveva
investito di insulti come un treno rapido e ora gli sorrideva, Kojiro
che
sospettava una tresca tra loro due, lui che si sentiva sempre
più confuso, ma
che cavolo stava prendendo a tutti quanti?
Sospirando,
reclinò il capo all’indietro e rivolse lo sguardo
in alto. Le parole di Kojiro
adesso gli risuonavano in testa “Non è che mia
sorella ti piace?”. Forse poteva
essere una spiegazione a quello strano disagio che sentiva standole
vicino,
forse lui aveva cercato di allontanarla proprio perché, in
fondo, aveva
percepito di essere attratto da lei e se fosse stato realmente
così, sarebbe
stato un grosso problema: Kojiro gli aveva spiegato le sue idee in
proposito; però
lui e Kasumi erano adulti e vaccinati e non avevano certo bisogno della
benedizione del fratello. Che pensieri insensati gli stavano balenando
in testa!
Si diede due colpetti sulla tempia, per ridestarsi da quel fiume in
piena di sciocchezze.
Kasumi
continuava a ridere, mentre si toglieva di dosso la tuta. Si sentiva
imbarazzata, confusa, divertita da quella strana situazione che si era
creata.
Mai, avrebbe pensato che Wakashimazu compisse l’atto estremo
di accompagnarla a
casa per scusarsi. Forse la lite non era venuta per nuocere, finalmente
avrebbero chiarito i rispettivi punti di vista e avrebbero gettato le
basi di
un rapporto civile. Chiuse tutto a chiave e raggiunse Ken. Sforzandosi
di non
scoppiargli a ridere in faccia, lo invitò ad andare.
Per una
decina
di minuti, regnò un silenzio imbarazzante, poi stanco di
essere così teso,
Wakashimazu iniziò a parlare.
- Credo che
io e
te abbiamo cominciato nel peggiore dei modi.-
Kasumi si
arrestò e lo squadrò con un’ombra sul
viso – Abbiamo?- chiese con stizza. Lei
non aveva colpe, non lo aveva mai mancato di rispetto.
- E va bene,
ho
cominciato io!- sospirò rassegnato. Kasumi non aveva certo
un carattere facile,
probabilmente somigliava più a Kojiro di quanto non volesse
far credere.
Proseguì, vedendola annuire.
- Mi sono
comportato da maleducato, ti ho offesa e ho cercato in tutti i modi di
allontanarti.- ammise. La situazione era abbastanza pesante, il suo
orgoglio
stava finendo sotto i piedi per essere costretto a fare una cosa tanto
umiliante.
-
Anch’io sono
stata maleducata con te stamani. Ti chiedo scusa.- lo
anticipò, col tono più
mansueto che le riuscisse. Anche per lei era faticoso ammettere le
proprie
colpe, ma era il momento di dimostrare un minimo di maturità.
- No, sono
io
che devo scusarmi, Kasumi.-
La ragazza
sentì
il cuore accelerare i battiti, era la prima volta che la chiamava per
nome. Che
assurdità! Perché doveva emozionarsi per
così poco? Con il viso in fiamme per
quelle sensazioni, che non si sapeva spiegare, si fermò di
fronte a lui con la
mano tesa.
- Va bene,
facciamo pace.-
Lui le
strinse
la mano, poi si guardarono in faccia. Erano entrambi rossi per la
vergogna, ma
nessuno dei due sapeva dare un nome alle emozioni che si stavano
confondendo
nei loro animi. Riportarono lo sguardo sulle loro mani ancora strette.
Ken
poteva sentire tutto il calore di quella manina affusolata, stretta
nelle sue
grandi mani, abituate a trattenere le cannonate del fratello. Kasumi
era
agitata, per un attimo desiderò di non sciogliersi da quel
contatto. Oggi era
proprio strana, ma che diavolo di pensieri le saltavano in testa?
Ripresero a
camminare nel silenzio più assoluto, finché non
fu lei a rompere il ghiaccio.
- Ti ha
fatto
male?- chiese, notando che si massaggiava il costato con una smorfia di
dolore.
- Mio
fratello
non è cambiato, è convinto di dovermi proteggere
da qualsiasi cosa.- disse
accennando un sorriso, mentre con la mente ritornava
all’infanzia, quando
Kojiro attaccava briga con chiunque le facesse dei dispetti o la
offendesse.
- Non
è successo
niente di grave, probabilmente avrei agito così
anch’io al suo posto.-
minimizzò.
-
Probabilmente
sì, avete un po’ di cose in comune voi due.- gli
sorrise.
Di nuovo
quel
tuffo al cuore, perché Kasumi riusciva a spiazzarlo con un
semplice
sorriso? In quel
momento iniziò a
osservarla, attentamente, per la prima volta. Era veramente una bella
ragazza,
somigliava a Kojiro, ma naturalmente i suoi lineamenti erano
più delicati, le
labbra erano rosee e carnose, i capelli corvini erano legati in una
mezza coda,
gli occhi dal tratto orientale, neri e luminosi, spiccavano sulla pelle
dorata
del viso. Ad un tratto si voltò e lui si abbassò
lo sguardo, sperando che non
avesse notato che la stava fissando.
- Mi spiace
di
essermi comportato come un cretino con te. Vedi non ho un buon rapporto
con le
ragazze.- si diede mentalmente dello stupido, ora Kasumi avrebbe
pensato che
avesse strane tendenze.
- Tu e
Kojiro
siete proprio uguali.- disse ridendo. Ken si sentì un
po’ offeso, avevano
parecchie cose in comune, è vero, ma il caratteraccio del
suo capitano era
ineguagliabile. Si grattò la testa imbarazzato.
- Siete gli
idoli delle ragazze e voi le disdegnate in questo modo.-
continuò a scherzare.
Wakashimazu
sospirò e decise che a quel punto sarebbe stato meglio
sfogarsi, quindi le
spiegò il disagio che sentiva a causa delle ammiratrici
insistenti con cui
aveva a che fare. Le raccontò di come, una volta, una pazza
avesse fatto
invasione di campo per saltargli al collo, evento che gli
costò un intero anno
di prese in giro da parte di compagni di squadra e di scuola. Kasumi si
teneva
la pancia dalle risate, immaginando il povero Wakashimazu rincorso per
tutto il
campo da quella tizia, sotto gli sguardi divertiti di giocatori e
pubblico.
- Sai...-
disse
asciugandosi le lacrime.- …credo ti servirebbe una ragazza,
che tenga alla
larga le tifose insistenti.- e riprese a ridere.
Ken si fece
serio tutto ad un tratto, imbarazzato da quell’affermazione.
Chissà perché, la
sua mente stava andando a fantasticare su di lui e Kasumi insieme. Per
un
attimo, un’immagine di lei intenta a insultare una tifosa
audace gli passò per
la testa e, a quel punto, fu lui che non poté più
trattenere le risate. Si
sentiva bene, era contento e rilassato, far pace con Kasumi non era
stato poi
tanto terribile.
Kojiro era
sulla
veranda in attesa, quando sentì delle allegre risate
provenire dalla strada si
precipitò al cancelletto, dove vide sua sorella e Ken
intenti a ridere come due
pazzi. Non comprendendo bene la situazione si schiarì la
voce e i due ragazzi
si ricomposero subito.
- Vedo che
avete
fatto pace.- li squadrò alternatamene con
un’espressione indecifrabile sul
volto.
- Ehm,
sì
fratellino. Non sei contento?- disse tirando fuori la lingua.
- Ah, chi
fratellino?! Sono nato prima di te.- tuonò seccato.
- Non sai
che il
gemello più grande, è quello che nasce per
secondo?- domandò divertita e
strizzò un occhio a Ken, che faticava a trattenere le
risate. Kojiro stava per esplodere
di rabbia, quando la madre li raggiunse.
- Oh,
Wakashimazu! Che piacere vederti!- disse la signora Hyuga.
- Buonasera,
signora.- si inchinò alla nuova arrivata.
- Cosa fai
qui?-
chiese, stupita, nel vederlo di fronte casa sua, a quell’ora.
- Mi ha
accompagnata a casa.- rispose Kasumi.
- Sei stato
molto gentile. Perché non ti fermi a cena da noi?- chiese
cortesemente.
Ken
esitò un
istante e si accorse dello sguardo di Kojiro su di lui: aveva
un’espressione
truce, probabilmente se avesse accettato gli avrebbe avvelenato il
pasto,
quindi con disinvoltura declinò il gentile invito adducendo
come scusa, che suo
padre lo stesse aspettando per l’allenamento nel dojo di
karate. Salutò i
gemelli e la signora Hyuga, indugiando, forse un secondo di troppo su
Kasumi,
poi richiamato dal solito sguardo minaccioso del suo capitano, si
allontanò
verso casa.
Tornò
a casa col
cuore leggero, aveva chiesto scusa a Kasumi e ora sarebbero finalmente
diventati amici, o forse qualcosa di più. Ricominciava.
Perché non poteva stare
cinque minuti senza andare con la mente in quella direzione?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Riuniti ***
Capitolo 7
Riuniti
Le nuvole
scorrevano, carezzando delicatamente i fianchi dell’aereo,
che stava sorvolando
il Pacifico. Con lo sguardo perso in quelle candide forme impalpabili,
Yoshiko
stava rannicchiata nel sedile accanto al finestrino, avvolta dalla
coperta, che
l’assistente di volo le aveva gentilmente fornito, per
ripararsi dal freddo
dell’alta quota.
Aveva
sognato
quel viaggio dal momento in cui si era trasferita a New York, tre anni
prima.
Non riusciva più a sopportare di vivere negli USA, quindi,
spinta da una
determinazione che credeva di non possedere, comunicò ai
suoi genitori
l’intenzione di tornare a vivere in Giappone anche senza di
loro. All’inizio i
Fujisawa rimasero a dir poco perplessi, perché tutto si
aspettavano, fuorché
una simile intenzione da parte della loro docile figlia.
Sua madre
sapeva
perché o meglio, per chi, Yoshiko volesse tornare in patria,
anche se le
sembrava impossibile che dopo lungo tempo il suo cuore battesse ancora
per quel
ragazzino. Suo padre, dopo qualche esitazione, si rese conto che la sua
richiesta non era un semplice capriccio, d'altronde era chiaro che
Yoshiko
avesse lasciato qualcosa di veramente importante a Furano. Lo dicevano
le sue
giornate passate a piangere appena trasferitasi, i suoi sospiri e i
suoi occhi
lucidi ogni volta che si parlava della vita trascorsa in Giappone. La
madre era
molto scettica e preoccupata, ma era ovvio che neanche un loro rifiuto
l’avrebbe
piegata, questa volta.
Yoshiko era
cresciuta e quell’amore era maturato con lei.
Non avevano
aperto inutili discussioni, poiché la coppia conosceva bene
la propria figlia e
sapeva di avere di fronte una ragazza matura e coscienziosa.
- Yoshiko,
io
sono pronto anche a darti la luna, questo lo sai tesoro mio, ma voglio
sapere
perché vuoi tornare in Giappone?- chiese serio il padre.
La ragazza
prese
un lungo respiro, tanto valeva essere sincera, i suoi genitori
l’avevano sempre
trattata con amore e non le avevano mai fatto mancare nulla, quindi era
doveroso che fosse corretta nei loro confronti.
-
Papà, io credo
che tu e la mamma possiate capirmi. Sapete bene cosa si prova a stare
separati,
a vivere lontani l’uno dall’altra,
perché a causa del tuo lavoro tu eri spesso
all’estero.- forse, quell’ultima frase poteva
suonare come un’accusa.- Credimi,
so quanto ti sia costato e apprezzo che tu abbia fatto tutto questo
anche per
me. Ora sono contenta che voi due abbiate la possibilità di
stare insieme, ma
la mia vita non è qui. Io ho tutto quello che il mio cuore
desidera in
Giappone: i miei luoghi, i miei amici e…- sì, lo
avrebbe confessato-…l’amore.-
- Matsuyama
è
così importante per te?-
Sentì
un tuffo
al cuore e si voltò a guardare la madre: lei lo sapeva,
probabilmente li aveva
visti all’aeroporto, quando lui era corso da lei per un
ultimo abbraccio.
Abbassò
lo
sguardo, ma fu solo un breve istante, poi decisa fissò negli
occhi entrambi i
genitori.
-
Sì, lo è.-
affermò, senza esitazione.
Il signor
Fujisawa cercò di non esternare la tristezza che quella
rivelazione, sebbene
prevista, gli aveva provocato. Yoshiko non era più la sua
piccola
principessina, era cresciuta e si era innamorata, era più
che normale.
- Yoshiko,
io
posso anche darti il permesso e metterti a disposizione…-
proseguì il padre.
- No,
papà, non
sono i soldi che voglio. Devo cavarmela da sola. Mi basta solo sapere
che voi
sarete felici per me.- lo interruppe, accennando un
sorriso.
Era stato
più
che sufficiente, per capire che la decisione era presa. Dopo aver
riflettuto a
lungo su ciò che era più giusto, alla fine,
entrambi i genitori compresero che,
ormai, la loro colombella era pronta per abbandonare il nido.
Così
era partita,
dopo essersi conquistata il loro consenso, con una carico di sogni e
speranze.
Dal momento
che
era salita sull’aereo, però, la paura aveva preso
il sopravvento. L’attanagliavano
mille dubbi e incertezze su come sarebbe stato il primo incontro con
Matsuyama,
dove avrebbe vissuto, se sarebbe riuscita a trovare un lavoro per
mantenersi.
In realtà, il pensiero che più la occupava, era
il timore che i sentimenti di
lui non fossero più gli stessi. La sua e-mail di risposta
era stata dolcissima,
ma ripensando a come era stato impacciato quando si erano visti durante
il
torneo in America, i dubbi ricominciavano a farsi strada. Forse lui non
era
così innamorato come diceva di essere o piuttosto lei non lo
metteva a suo agio
o magari…non era attraente a sufficienza. Con un gesto
repentino, si alzò dal
sedile e si diresse alla toilette. Dentro quell’angusto
abitacolo, iniziò a
rimirarsi allo specchio cambiando angolatura, quasi per studiare il suo
profilo
migliore, prese i capelli e li tirò su, per provare se
stesse meglio con una
pettinatura raccolta. Fece una smorfia e si appoggiò al
lavandino, sbuffando.
Perché era così nervosa? Dov’era finita
tutta la determinazione che aveva
mostrato di fronte ai suoi genitori?
Tornò
al suo
posto e si appoggiò con la nuca al poggiatesta, sospirando e
quando si voltò
verso il finestrino, notò che l’isola di Hokkaido
si stava materializzando di
fronte ai suoi occhi. Scrutò l’orologio da polso e
sentì il cuore che
accelerava: l’atterraggio sarebbe avvenuto entro breve.
Chissà se Matsuyama era
all’aeroporto che l’aspettava. Era di nuovo in
ansia, anche se sapeva che era
stupido avere un simile dubbio, ma c’era un altro pensiero
che la martellava: lui
era diventato un uomo, lo aveva constatato, vedendo la sua foto
più recente ai
campionati nazionali e attraverso quel semplice pezzo di carta, aveva
sentito
un’emozione nuova e inquietante. Chissà quante
ragazze gli correvano dietro? E
chissà cosa ne pensava lui?
La voce
dell’assistente di volo, che annunciava
l’atterraggio, la risvegliò; allacciò
le cinture di sicurezza e chiuse gli occhi, concentrandosi sul respiro
per
cercare di rilassarsi, anche se le tempie le pulsavano al ritmo del
cuore e lo
stomaco le doleva per l’emozione.
Matsuyama
stava
all’uscita degli arrivi internazionali, tra la folla di gente
che attendeva
qualche parente e guide turistiche con buffi segni di riconoscimento
per i visitatori.
Guardava insistentemente l’orologio sul tabellone, come se,
con un potere
occulto, volesse far volare i minuti, che lo separavano da lei. Era
agitatissimo, anche se cercava di non darlo a vedere.
Prima di
uscire
da casa, aveva cercato di rilassarsi con un bagno caldo e per qualche
minuto
era rimasto a crogiolarsi nel tepore del liquido, poi la sua testa
ricominciò a
formulare le stesse domande che si ripeteva da tempo: se sarebbe stato
capace
di rendere felice Yoshiko e se lei avrebbe accettato la sua proposta.
Si girò
verso la porta del bagno, figurandosi mentalmente la sagoma del letto
matrimoniale, che aveva acquistato da poco nel negozio di seconda mano.
Divenne
improvvisamente rosso, quando la sua mente iniziò a
fantasticare sul probabile
utilizzo di quel mobile.
Terminato il
bagno, scelse, con una cura quasi maniacale, i vestiti, che
indossò dopo
essersi spruzzato un’abbondante quantità di
profumo. Infilò il cappotto blu e
uscì. Il freddo di Sapporo era pungente, ma le sue guance,
accaldate
dall’emozione, non accusavano le sferzate del vento gelato
del nord. Prese il treno
e arrivò alla mezzaluna del Chitose Airport dopo una
quarantina di minuti, in
cui le sue paure avevano continuato ad assillarlo. Temeva di non essere
all’altezza
della situazione: non voleva assolutamente deludere le aspettative di
Yoshiko,
non ora che stava per riaverla. Già riaverla. In
realtà, non l’aveva mai avuta,
non completamente e anche questo lo preoccupava abbastanza.
Mentre i
minuti
scorrevano lenti, guardò la sua mano destra che stringeva un
fascio di rose
blu. Certo che se fossero state rosse, sarebbe stato più
romantico, ma
ricordava benissimo quanto la sua Yoshiko amasse molto quel colore, pur
sapendolo finto. Si accostò il mazzo al viso, per osservare
meglio
quell’artificio, che aveva mutato le rose da bianche al color
del mare e pensò
con malinconia, quanto il loro amore inespresso fosse insolito, ma
tuttavia
bellissimo, proprio come il colore di quei fiori.
L’altoparlante annunciò
l’atterraggio del volo e Matsuyama si mise in attesa, sapeva
che tra lo sbarco
e il ritiro dei bagagli ci sarebbero voluti altri venti minuti prima
che
potesse vederla uscire. Il suo cuore iniziò a pulsare a
ritmo sempre più
elevato, mano a mano che il tempo scorreva.
Yoshiko era
appena sbarcata e stava già dirigendosi verso il nastro
trasportatore, sperando
di veder comparire subito il suo bagaglio. Appena lo trovò,
lo agguantò
velocemente e si preparò il passaporto in mano per mostrarlo
ai doganieri. Terminate
tutte le noiose operazioni di sbarco, si avviò
all’uscita, ma quando vide le
porte scorrevoli si arrestò sentendo un senso di oppressione
al petto. L’ansia
aveva preso possesso del suo intero essere, il volto era in fiamme e le
gambe
le tremavano. Deglutì e cercando di riprendersi,
riafferrò il manico del
trolley e proseguì con decisione.
Le porte si
aprirono e finalmente tutta l’ansia e la paura, per entrambi,
svanirono non
appena i loro sorrisi s’incontrarono. Lui le corse incontro e
la strinse
talmente forte da farle quasi male, mentre il corpo di lei si rilassava
e quel
senso di angoscia svaniva nelle lacrime di gioia, che le solcavano il
viso.
- Finalmente
amore mio, sei tornata.- le sussurrò.
- Non
resistevo
più, lontana da te.- ammise singhiozzando e aggrappandosi
ancora più forte a
lui, per timore di non riuscire più a reggere
l’emozione, che le stava facendo
esplodere il petto.
Rimasero
uniti
in quel dolce abbraccio, durante il quale Yoshiko dette sfogo a quel
pianto
liberatorio, mentre lui le accarezzava i capelli.
- Sshhi,
siamo
insieme adesso, non devi più piangere.- le ripeteva,
baciandole il capo.
Quando si fu
calmata si staccò da lui per guardarlo negli occhi, dove
poteva leggere le
stesse emozioni che stava provando lei. Le era bastato un unico
sguardo, quel
sorriso disarmante, a farle capire quanto stupide fossero le sue paure.
Anche
Hikaru si diede dell’imbecille per aver dubitato, lei era
lì per lui, aveva
pianto per lui tra le sue braccia.
Improvvisamente
si ricordò del mazzo tra le sue mani e glielo porse.
- Sono
stupende,
adoro le rose blu.- sorrise, accostando il fascio di fiori al viso, per
sentirne il profumo.
- Lo so.-
rispose dolcemente.
Gli rivolse
un
sorriso radioso, gli occhi lucidi che stavano per cedere nuovamente
alle
lacrime e si avvicinò per baciarlo. Hikaru rispose a quel
bacio delicato con
trasporto, ma si arrestò subito, memore di essere bersaglio
di sguardi
indiscreti. La prese per mano e accollandosi il trolley, si diressero
verso la
stazione sotterranea di Chitose.
Quando
Yoshiko
entrò nell’appartamento, rimase sbalordita dalla
pulizia e l’ordine che vi
regnavano.
-
Dì la verità,
ti sei dato da fare prima del mio arrivo?- disse ridendo.
Quel suono
gli
faceva bene al cuore, quanto era bella la sua ragazza con quel sorriso
radioso
dipinto sul viso. Si grattò la testa imbarazzato,
poiché lei aveva capito
quanto in realtà fosse disordinato solo dal modo in cui
lanciava distrattamente
gli asciugamani e gli scarpini durante gli allenamenti.
Lo sguardo
di
Yoshiko, che stava studiando quel piccolo ambiente, si
spostò dalla scrivania
col portatile, all’armadio, al letto a due piazze. Hikaru si
trattava bene, un
letto così grande per una persona sola, pensò
sorridendo.
Uno
sbadiglio le
uscì spontaneo, era stanchissima: oltre al viaggio aereo di
19 ore, durante il
quale non era riuscita minimamente a riposare, non aveva dormito bene
la sera
precedente, spaventata da quei fantasmi, che ora le sembravano
così insulsi. Si
sedette mollemente sul bordo del letto e gli rivolse
un’espressione dolcissima.
Hikaru la
guardava appoggiato all’arco che divideva la camera dal
cucinino, anche lui
sorrideva. Il cuore riprese a battergli forte quando Yoshiko si
svestì del
pesante piumino, rivelando una maglia aderente e una minigonna,
abbastanza
corta, e si lasciò andare, sdraiandosi sul materasso.
Avrebbe voluto sdraiarsi
accanto a lei e attirarla a sé per sfogare quel sentimento
che avevano represso
a lungo, ma si trattenne, temendo che tanto ardore fosse mal accolto.
Le si
sedette di fianco e constatò che i suoi bellissimi occhi
stavano cedendo al
sonno.
- Sei
stanca?-
le accarezzò delicatamente una guancia.
Lei
annuì
sorridendo, ora che era più tranquilla e il suo corpo
riusciva a rilassarsi, chiuse
gli occhi per un agognato riposo.
- Dormi
amore,
non preoccuparti.- sospirò, un po’ deluso. Si era
immaginato quei momenti in
una maniera leggermente diversa, ma nonostante tutto capiva quanto la
poverina
potesse essere spossata dalla traversata che aveva fatto per
raggiungerlo. Sì,
lei era lì con lui, per lui e non sarebbe più
andata via, non lo avrebbe
permesso. Le posò un bacio sulla fronte e le
augurò un buon riposo, ricevendo
in risposta un mugolio soddisfatto.
Mentre
Yoshiko
dormiva beata, Hikaru stava tentando di concentrarsi sui libri. Anche
se era il
fine settimana, ne voleva approfittare per studiare un pochino in vista
degli
esami, ma istintivamente si voltava ogni secondo a guardarla, come se
temesse
che svanisse da un momento all’altro. Quando il suo sguardo
si posava su di
lei, non poteva fare a meno di notare le gambe ben tornite lasciate
scoperte quasi
per intero dalla minigonna, le curve del seno strette in quella
maglietta
aderente e il suo cuore pulsava velocemente per
l’eccitazione. Si tolse il
maglione, perché il riscaldamento lo stava facendo andare a
fuoco o, almeno,
pensava che fosse quello il motivo e cercò di riprendere la
lettura di quella
traduzione dal giapponese antico.
Un mugolio
lo
richiamò, si stava svegliando. Indugiò ancora un
secondo a guardare il suo
corpo dalle forme armoniche, per poi spostarsi sul bel viso, le sue
labbra
curvate in un sorriso dolce, ma al tempo stesso ammaliante.
-
Hikaru…-
sospirò, ancora tra il sonno e la veglia.
Si
precipitò
accanto a lei, lanciando distrattamente il libro che teneva in mano. Le
si
sedette accanto e le prese una mano per accarezzargliela.
Aprì
gli occhi,
felice di constatare che non stava sognando, che era proprio
lì, in casa del
suo amato Matsuyama, che ora era chino su di lei con lo sguardo
più dolce del
mondo. Stese un braccio per accarezzargli il viso e lui rispose a quel
gesto
chiudendo gli occhi come in estasi e strofinando la guancia contro la
mano
calda di lei, prima di posarvi un bacio.
Ad un
tratto,
Yoshiko notò che Hikaru era a torso nudo e si
sentì alquanto imbarazzata, dal
magnetismo con il quale, gli addominali e i pettorali scolpiti di lui
attraevano i suoi occhi. Sentì il fiato corto e le guance in
fiamme, si alzò di
scatto, cercando di distogliere lo sguardo, che non ne voleva sapere di
allontanarsi da quel corpo cesellato, come una statua di Canova.
- Forse,
dovrei
cercare un albergo dove…-
- Albergo?!-
la
interruppe.- Io credevo che rimanessi qui.- disse, sconsolato.
Lei
diventò
viola dalla vergogna, anche se quel pensiero, pur imbarazzante, la
allettava e
non poco.
- E va
bene.-
disse con fare malizioso.- Allora visto che è
così gentile, non le dispiacerà
se vado a farmi una doccia.- e gli strizzò
l’occhio.
- Ma,
prego.-
rispose divertito, spalancando la porta della toilette come un perfetto
maggiordomo.
Lei rise ed
gli
diede un buffetto sulla guancia prima di entrare, ma non appena ebbe
varcato la
soglia si sentì tirare per un braccio e, prima ancora che se
ne rendesse conto,
era stretta tra le sue braccia in un bacio appassionato.
- Ben
tornata,
amore mio.- le sussurrò ansimante.
La doccia
era
proprio ciò che ci voleva, per allontanare definitivamente
il torpore e
riprendersi da quelle interminabili ore in aereo. Che stupida era
stata, aveva
perso il sonno dietro inutili paure, quando il ritorno non poteva
essere più
piacevole. Hikaru l’amava, lo aveva capito da quel bacio
intenso che le aveva appena
dato. Voleva che dormisse lì da lui, almeno per quella
notte. Dubitava che le
vere intenzioni di Hikaru fossero quelle di assopirsi placidamente,
l’uno
accanto all’altra, ma l’idea non la spaventava per
niente, anzi il desiderio di
lui era forte, soprattutto dopo averlo visto mezzo nudo.
Hikaru non
riusciva a pensare ad altro, che a quello che sarebbe potuto succedere
quella
sera. Lo desiderava moltissimo, ma non voleva rovinare
quell’incontro tanto
atteso, con l’irruenza dei suoi ormoni in tempesta. Doveva
dirle ciò che aveva
in mente di fare, prima di pensare a bruciare le tappe.
Lo scroscio
della doccia si acquietò e Hikaru si accostò alla
porta, per chiederle, se avesse
bisogno di qualcosa.
- No,
grazie.-
rispose, mentre si avvolgeva il misero asciugamano attorno al corpo.
- Sai,
amore.-
disse schiarendosi la voce.- Pensavo che, sarebbe bello se
tu…- esitò un
secondo, anche se, la porta che li divideva, gli dava più
sicurezza.- …volessi
vivere con me.- sparò tutto d’un fiato.
Non
udì alcuna
risposta, solo la porta che si spalancava e Yoshiko che lo guardava con
gli
occhi lucidi per la commozione. Le aveva appena proposto una
convivenza, lo
aveva deciso da tempo.
Che scema,
quel
letto matrimoniale era per loro, non era una comodità che
Hikaru si era
concesso.
Rimase
imbambolato, vedendola comparire vestita di quel piccolo panno di
spugna: le
gambe erano scoperte fin quasi all’altezza
dell’inguine, le spalle nude,
spruzzate dalle gocce, che cadevano dai capelli bagnati, la rendevano
terribilmente sensuale.
Ancor prima
che
potesse reagire, gli buttò le braccia al collo e lo
baciò con passione. Hikaru
la prese in braccio, senza staccare le labbra da lei e la fece sdraiare
sul
letto, ma si arrestò, compiendo lo sforzo straordinario di
controllarsi, perché
non voleva rovinare tutto. Si allontanò e rivolse lo sguardo
altrove, ma a quel
punto, fu lei a prendere l’iniziativa. Iniziò a
baciargli il collo, assaggiando
la sua pelle con fare sensuale e strusciandosi addosso a lui, come una
gattina
che fa le fusa. La guardò cercando di capire le sue
intenzioni e lei,
sorridendo, si alzò in piedi e fece scivolare a terra
l’asciugamano,
mostrandogli completamente le sue grazie.
Hikaru la
trascinò nuovamente sul letto e la baciò con
passione, disseminando il suo
corpo di carezze ardenti, mentre lei lo spogliava.
Si unirono
in
una danza d’amore vero, puro e agognato.
No
more lonely nights
No more lonely nights
- Mi sei
mancata
tanto.- ripeteva ansimante.
You’re
my guiding light
Day or night I’m always there
I loro
gemiti e
i loro sospiri erano l’ambito sfogo per quel sentimento
meraviglioso, che ora
era libero di esprimersi attraverso le loro anime, unite in un unico
corpo.
May
I never miss the thrill of being near you
Hikaru
appoggiato
allo schienale, la teneva stretta a sé come fosse un oggetto
prezioso. Yoshiko,
godendo del contatto con le sue mani che le carezzavano la guancia e i
capelli, si strinse
ancora di più a lui.
Sospirò
felice
per quell’atto d’amore che li aveva visti
protagonisti, mentre con le dita
delineava i muscoli dell’addome di lui. Il profumo della sua
pelle la inebriava
e si soffermò a pensare che da quel momento, tutto questo
sarebbe stato nelle
sue mani. Non era più distante chilometri oltre oceano, era
tra le braccia del
suo grande amore a cui aveva appena donato se stessa. Non ne era
pentita, anzi
era felice perché attraverso il linguaggio del corpo aveva
compreso, una volta
di più, quanto grande fosse il sentimento che li univa.
Hikaru si
sentiva soddisfatto, strano, ma felice. Aveva scoperto nuovamente
l’amore,
accanto all’unica ragazza che avesse mai desiderato. La
rimirò per alcuni
istanti, le posò un bacio sulle labbra e le sorrise, poi
ritornò
improvvisamente serio:- Amore, non mi hai risposto prima. Vuoi
convivere con me
oppure no?- domandò, un pò agitato.
Lei si
alzò per
guardarlo negli occhi e sbattendo le ciglia gli disse: - Non mi dire,
che la
mia risposta non è stata chiara.- .Vedendo
l’espressione sconcertata di lui,
scoppiò a ridere:- Sei sempre il solito tontolone. Certo,
che voglio vivere con
te!- e gli stampò un bacio sulle labbra, prima di stringersi
nuovamente a lui.
- Ti amo,
Hikaru.-
-
Anch’io amore,
non immagini quanto.-
No
more lonely nights
Never be another
No more lonely nights
You’re my guiding light
Day or night I’m always there
And I wont go away until you tell me so
No Ill never go away*
* Parole tratte dalla canzone “No more
lonely nights” di Paul McCartney.
Eccomi a voi, con questo nuovo capitolo
dedicato alla mia coppia preferita.
Ringrazio tutte le persone che stanno
leggendo questa storia, grazie veramente a tutti.
Scandros: grazie per le tue belle
recensioni, sai che per me un complimento da parte tua è
molto gratificante.
Only Hope: il tuo sostegno mi incoraggia
molto, grazie per le belle parole e per la piacevole compagnia che mi
regali.
DolceBarbara: sei stata un fulmine, ad ogni
capitolo una recensione, sei veramente dolce come dice il tuo nickname.
Mi scuso con chi ho dimenticato, ma che mi
sostiene sempre.
Un bacione a tutti
Sara
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** La scelta ***
Capitolo 8
La scelta
L’aria
dell’assolato
mattino invernale era talmente fresca da spingerlo ad indugiare un
minuto di
più sotto il tepore delle coperte, tanto da riaddormentarsi
nuovamente.
Coccolato da dolcissimi sogni, Jun non si rese nemmeno conto che una
leggiadra
figura era entrata nella sua stanza per adagiarsi accanto a lui. Aveva
il volto
sereno e la ragazza si chiese cosa stesse sognando.
-
Yayoi…- sospirò.
Neanche il
sonno, quando il corpo riposava e la mente viaggiava liberamente in
quel mondo
fatto di speranze, riusciva a tenerli lontani. Istintivamente
cercò la mano di
lui per stringerla tra le sue e quel contatto, seppur delicato,
riportò Jun dal
mondo onirico. Schiuse gli occhi ancora assonnati e la vide di fronte a
sé,
come una figura celestiale.
- Sto ancora
sognando?- le sorrise dolcemente.
Yayoi si
chinò,
per sfiorargli le labbra con un bacio.
- Allora
è un
bel sogno.- bisbigliò sulla sua bocca.
La prese tra
le
braccia e la strinse a sé, per donarle un altro bacio.
Quando iniziò ad
abbassarsi per baciarle il collo, Yayoi sussultò.
- Jun tua
madre
è in casa, non credo sia il caso.- disse, ridendo.
Il ragazzo
sbuffò, forse era giunto il momento di alzarsi da quel letto
e iniziare la
giornata.
Erano usciti
velocemente, per precipitarsi all’aeroporto di Narita. Jun
guidava la sua Corvette
per le strade di Tokyo, con una disinvoltura non comune per un
neopatentato.
- Siamo in
ritardo?- chiese mortificato, dato che sarebbe stato principalmente per
colpa
sua.
- No,
l’aereo di
Yoshiko dovrebbe arrivare fra una mezz’ora.- rispose,
eccitata al solo pensiero
di rivedere l’amica dopo tre anni.
- Non
capisco
perché non sia venuto anche Matsuyama, mi avrebbe fato
piacere vederlo.-
-
Perché Sanae è
da sola e non ci sembrava il caso farle reggere il moccolo.- rispose
paziente
all’ingenuità del ragazzo.
- Tsubasa
non si
è più fatto vivo, allora?-
Yayoi scosse
la
testa, rabbuiandosi improvvisamente, non poteva concepire che quel
bimbo
dolcissimo che aveva conosciuto fosse divenuto così
insensibile. No, evidentemente
il silenzio di Tsubasa nascondeva qualcosa, anche se non riusciva a
spiegarsi
un comportamento simile. Jun notò quel cambiamento di umore
e lasciò la leva
del cambio, per prendere la manina di Yayoi e portarsela alle labbra.
Lo
sguardo di lei si illuminò, mentre lui le rivolgeva un
sorriso da mozzare il
fiato. Jun era veramente il principe del calcio e ogni giorno
ringraziava il
destino, che le aveva permesso di essere la sua principessa.
Era talmente
innamorato di lei, che non poteva nemmeno immaginare di passare la vita
senza
la calda presenza della sua Yayoi. La ragazza che sembrava
così fragile alle
elementari gli era stata vicina con una forza d’animo tale da
prendere per mano
lui, il campione dal cuore di vetro, per portarlo sulla via della
guarigione.
Lei gli aveva restituito i suoi sogni e gliene aveva regalato di nuovi,
quando
aveva compreso il sentimento forte che li legava.
Arrivarono
all’aeroporto in anticipo, così da avere il tempo
di attendere con calma, finché
non venne annunciato l’atterraggio del volo di Yoshiko. Poco
dopo, la videro
uscire con in mano un borsone e
cercarono
di richiamare la sua attenzione per farsi raggiungere. La ragazza si
precipitò
verso Yayoi, che l’attendeva a braccia aperte.
- Oh, Yoshi
finalmente! Com’è andato il viaggio, tutto bene?-
-
Sì, tranne il
piccolo brivido della partenza. A Sapporo c’è un
tempo pessimo, al principio ho
temuto che cancellassero il volo.-
Scambiò
i dovuti
convenevoli con Misugi, che naturalmente non mancò di
chiedere notizie del suo compagno
nazionale.
- Hikaru sta
bene, anche se siamo impegnatissimi a prepararci per
l’esame.-
Si diressero
verso l’uscita, perché era il momento di andare a
prendere Sanae alla stazione
ferroviaria. Durante il tragitto Yayoi e Yoshiko parlarono per lo
più dei loro
ragazzi, dato che avrebbero evitato volentieri l’argomento,
una volta che Sanae
si fosse unita a loro. Naturalmente, Yoshiko non mancò di
raccontare la bella
novità ai suoi amici.
-
Convivete?!-
fu il coro stupito dei due.
Annuì,
arrossendo vistosamente. Yayoi si allungò verso il sedile
posteriore, per
cercare di abbracciarla.
- Sono
contentissima per te, tesoro. Devi essere al settimo cielo?-
esclamò Yayoi,
ancora incredula.
-
Sì, lo sono,
non avrei mai sperato che tutto accadesse così in fretta.-
sorrise radiosa.
Misugi rise,
cercando
di figurarsi la wild eagle, mentre chiedeva una cosa tanto importante
alla
propria ragazza, dopo tre anni di separazione, ma poteva comprendere i
motivi,
che avevano spinto il suo amico ad accelerare i tempi in quel modo.
Spesso lo
aveva visto con lo sguardo perso nel vuoto e si ricordava bene dei
momenti in
cui criticava Tsubasa per la sua scarsa decisione con Sanae, prevedendo
che una
volta lontano si sarebbe pentito di non essersi dichiarato. Anche lui
avrebbe agito
come Hikaru, se avesse dovuto stare lontano a lungo dalla sua
principessa. Si
girò a guardarla, mentre sorridente parlava con Yoshiko.
Sanae scese
dal
treno e si avviò all’uscita, dove trovò
le sue amiche ad attenderla.
- Ciao
ragazze,
che bello rivedervi! Come state?- chiese sorridente. Sembrava serena,
come se
nulla più la turbasse. Il suo sguardo si posò su
Misugi, cui rivolse un sorriso
forzato, la sua sola presenza le ricordava Tsubasa. Jun se ne accorse e
cercò
di buttarla sullo scherzo.
- Io sono
qui
solo come autista, poi prometto di sparire.-
Sanae si
vergognò di essere stata così cristallina e poco
cortese, in fondo lui non
aveva nessuna colpa.
Una volta
arrivate a casa di Yayoi, trovarono un ottimo pranzo che le attendeva e
i
genitori di lei in visibilio nel poter rivedere le due ragazze, che non
vedevano dai tempi in cui la loro figlia frequentava l’asilo.
Dopo pranzo
uscirono e andarono in giro al centro commerciale, dove si divertirono
a
provare abiti e scarpe, fare sfide al karaoke e alla fine esauste si
sedettero
in una caffetteria.
- Ragazze
che
giornata, sono proprio contenta di stare qui con voi.- disse
soddisfatta Sanae.
Yoshiko e
Yayoi
le risposero con un sorriso, era bello rivederla serena. Immaginavano
che in
quei tre anni avesse pianto parecchio, ma ora sembrava tornata quella
di un
tempo, forse c’era qualche bella novità di cui
loro non sapevano.
- Senti
Yoshiko,
come va con Matsuyama?- chiese Sanae, spiazzandole totalmente. Yoshiko
arrossì
imbarazzata, non sapendo cosa rispondere. Sia lei che Yayoi avevano
accuratamente evitato determinati discorsi per non costringerla a
rivangare
brutti ricordi, ma adesso non sapeva come destreggiarsi di fronte ad
una
domanda così diretta.
-
Ecco…noi…stiamo…convivendo- disse in
tono sommesso, quasi che temesse di
rivelare la gioia che stava vivendo. Sanae strabuzzò gli
occhi, incredula e
prese le mani dell’amica tra le sue.
- Ma
è
meraviglioso! Non sei felice?- Il volto di Sanae era disteso in un
luminoso
sorriso, entrambe le sue amiche notarono con sollievo, ma anche con
curiosità
il suo atteggiamento. Era sincera, non era una manifestazione di
circostanza la
sua. Decisamente, doveva essere capitato qualcosa alla loro amica.
La sera dopo
cena, mentre Sanae era chiusa in bagno, Yoshiko e Yayoi parlarono
dell’insolito
comportamento dell’amica.
- Secondo te
è
successo qualcosa con Tsubasa, Yayoi?-
Ci
rifletté
qualche istante, ma poi scosse la testa, pensando che una notizia tanto
importante l’avrebbero saputa subito.
- Ne dubito
Yoshi, è talmente innamorata di lui, che se fosse successo
qualcosa, ce lo
avrebbe gridato uscendo dal treno.- si voltò in direzione
dello specchio, per
afferrare la spazzola e pettinare i suoi lunghi capelli rossicci.
–
Certo che da Tsubasa
proprio non me l’aspettavo, come ha fatto a partire ignorando
così i sentimenti
di Sanae?- non riusciva proprio ad accettare che il suo amico fosse
stato così
insensibile.
Yoshiko
raccolse
le ginocchia al petto, sospirando.
- Non essere
così severa con lui, Yayoi. Io credo che Tsubasa volesse
lasciarla libera, di
avere una storia d’amore normale. Ti assicuro, vivere lontani
da chi si ama, è
una sofferenza enorme.- disse con gli occhi persi nel vuoto; al solo
ricordo di
quello che aveva passato stando a New York, la tristezza di quei giorni
ritornava a tormentarla.
- Tu,
però, ti
sei dichiarata con l’hachimaki prima di andartene, sei stata
molto coraggiosa.-
rispose risoluta.
- Non
sopravvalutarmi Yayoi, l’ho fatto quasi inconsciamente, non
sapevo cosa
realmente Hikaru provasse per me e ho ricamato quella frase, pensando
che
probabilmente non ci avrebbe nemmeno fatto caso.- Era sincera, non
confidava
che lui avrebbe notato quella minuscola scritta quasi invisibile.
- E poi te
lo
sei ritrovato in aeroporto, pronto a dichiararti il suo amore. Quel
pazzo ha
anche rincorso un taxi per te.- disse ridendo.
Yoshiko
prese il
cuscino e ci affondò il viso che stava arrossendo, era vero,
quanto amore le
aveva dimostrato con quel gesto. Ripensando a quei momenti, che per lei
erano
stati tristi, sorrise felice, perché ora stava con lui.
La porta del
bagno si aprì e Sanae uscì con indosso il
pigiama, pronta per la notte.
- Yoshiko,
perché sei così rossa? Di che stavate parlando?-
chiese, vedendo l’amica
paonazza.
Yayoi e
Yoshiko
si guardarono, incerte su cosa rispondere.
- Scommetto
che
parlavate di voi e i vostri ragazzi.- disse accennando un sorriso: i
loro volti
erano fin troppo eloquenti.
- Ragazze,
è
tutto il giorno che evitate l’argomento. Non dovete
preoccuparvi per me, sul
serio. Mi è passata ormai, non sentitevi in colpa se siete
felici con le
persone che amate.-
- Cosa
significa,
che ti è passata?- chiese Yayoi sospettosa.
- Significa
che
con Tsubasa ho chiuso, per me è diventato un amico, anzi
meno di un amico,
visto il modo villano in cui se n’è andato, senza
neanche salutare.- sentenziò
risoluta.
Yoshiko
rivolse
uno sguardo preoccupato a Yayoi, che la stava rimirando incredula dopo
ciò che
aveva sentito.
-
Ma…ma...ne sei
sicura?- domandò Yayoi, esitante.
- Ne sono
certa.- disse glaciale, ma con lo sguardo altrove.
Il suono del
telefono spezzò la tensione, che aleggiava
nell’aria. Yayoi si avvicinò al
cordless sulla scrivania e rispose.
- Pronto,
qui
Aoba con chi parlo?-
- Ciao, sono
Shiratori, vorrei parlare con Sanae.- rispose la voce metallica al
telefono.
Yayoi rimase
imbambolata per alcuni istanti, chi diavolo aveva dato a quel pallone
gonfiato
il suo numero di casa?
- Chi
è Yayoi?-
chiese Sanae.
La ragazza
le
porse la cornetta.
-
E’ per te, è
Shiratori.-
Sanae
divenne
rossa e prese l’apparecchio, uscendo dalla stanza per andare
in un luogo più
appartato.
Yoshiko
osservò
le due amiche senza comprendere cosa stesse succedendo.
- Chi
è
Shiratori?- chiese, dopo che Sanae era uscita.
- Il nuovo
capitano della Nankatsu. Yosuke Shiratori.- rispose infastidita Yayoi.
Lo aveva
conosciuto, durante il campionato nazionale dello scorso anno e le
aveva
suscitato un’antipatia istantanea con quel suo modo di fare
borioso ed
esibizionista. Ricordava con amarezza, come quell’idiota si
fosse messo a sfottere
la
Musashi,
dopo averla eliminata con un unico gol, su rigore inesistente e le
venne
spontaneo pensare, che Tsubasa non si sarebbe mai sognato di assumere
un simile
atteggiamento: no, lui era molto corretto.
- Non mi
dire
che…- Yoshiko stava iniziando ad intuire qualcosa dello
strano atteggiamento di
Sanae.
- Spero
proprio
di no.- Non le era sfuggito nemmeno, come Shiratori stesse tentando di
accaparrarsi tutto ciò che fosse di Tsubasa e purtroppo
Sanae non faceva
eccezione.
Dopo dieci
minuti Sanae rientrò nella stanza e si accorse subito di
quattro occhi puntati
su di lei. Prima ancora di avere il tempo di aprir bocca, Yayoi le
chiese a
bruciapelo una spiegazione.
- Che vuole
da
te Shiratori?-
- Voleva
solo
sentirmi, è naturale dal momento che lui…-
esitò qualche istante - …è il mio
ragazzo.-
- Coooosa?-
fu
il coro delle due amiche.
- Che
c’è vi
dispiace?- domandò contrariata dalla loro reazione.
Yoshiko non
sapeva come rispondere, in effetti un po’ le dispiaceva,
perché aveva sempre
immaginato che la sua amica avrebbe amato solo ed esclusivamente
Tsubasa, per
tutta la vita.
Yayoi si
sentiva
come se l’avesse trapassata un fulmine, non riusciva nemmeno
ad elaborare ciò
che aveva appena udito. Per lei era impossibile riuscire a concepire
Sanae
senza Tsubasa, ma, soprattutto, non poteva credere che la sua cara
amica fosse
caduta nella rete di quell’essere meschino. Com’era
possibile, che la sua amica
avesse accettato la corte di un tipo, tanto diverso dal suo amico
d’infanzia?
- So a cosa
state pensando e vi informo che il vostro caro capitano non si
è più fatto vivo
con me, non voglio invecchiare aspettando qualcosa, che non
accadrà mai.-
esclamò piccata e detto questo, si sdraiò sul
futon che Yayoi aveva preparato
per lei e si girò dall’altra parte per nascondere
le lacrime, che le stavano
uscendo dagli occhi.
Le due
amiche si
guardarono sconvolte. “Il vostro capitano”, Sanae
aveva preso le distanze da
Tsubasa, lo voleva cancellare dalla sua vita. Yoshiko scosse la testa e
fece un
gesto con la mano a Yayoi, che non voleva lasciare il discorso a
metà a quel
modo. La rossa si acquietò e imitò
l’amica che si stava infilando sotto le
coperte.
Sanae era
nascosta sotto il piumino con la mano sulla bocca, per non lasciarsi
scappare
dei singhiozzi. Le lacrime scorrevano come un fiume in piena sulle sue
guance,
le parole che aveva detto le pesavano come macigni, ma ormai aveva
fatto la sua
scelta e doveva portarla fino in fondo, doveva imparare ad odiare
Tsubasa,
altrimenti non avrebbe avuto più via d’uscita.
Dall’altra
parte
del mondo, Tsubasa stava svolgendo i suoi allenamenti con il San Paolo,
con il
cuore molto più leggero, sapeva cosa doveva fare e il fatto
di essersi deciso
lo rendeva più sereno.
Correva
felice
sul campo, affiancato da Pepe che con la palla al piede stava
progredendo verso
la porta. Entrati nell’area, il giovane brasiliano gli fece
un passaggio
pennellato e con una sforbiciata Tsubasa lanciò la sfera in
porta, lasciando il
portiere di sasso.
Pepe si
avvicinò
a lui per dargli il cinque, ma un battito di mani a bordo campo li fece
voltare
entrambi. Tsubasa riconobbe subito l’uomo ben vestito e con
gli occhiali da
sole, che lo stava applaudendo.
- Signor
Katagiri!- lo
salutò con il braccio
alzato e corse nella sua direzione.
- La fase
preliminare delle eliminatorie asiatiche?- domandò sorpreso.
-
Sì, stiamo già
organizzando il torneo e, ovviamente, tu non puoi mancare. Sarai
convocato per
l’inizio di maggio.- spiegò Katagiri, sorseggiando
il suo caffè.
Tsubasa
sorrise
felice, quella convocazione era un ennesimo segno dal cielo. Sarebbe
tornato in
Giappone, sarebbe tornato da lei, per dirle tutto ciò, che
aveva gelosamente
tenuto in fondo al cuore.
Ringraziò
Katagiri, che era andato lì a San Paolo appositamente per
avvertirlo e
ringraziò il cielo per quell’occasione propizia,
che lo riportava in patria.
Euforico, tornò nella sua stanza, per cambiarsi ed andare a
cena, ma prima si
buttò sul letto con un salto, contento di quanto stava
accadendo. Stese una
mano sul comodino e afferrò la foto sulla quale aveva
versato copiose lacrime
in quei tre anni, trascorsi lontano da lei. Come aveva fatto spesso, se
la
portò alle labbra, ma questa volta era diverso,
perché ora era felice.
- Aspettami
amore mio, sto arrivando!- esclamò sorridendo.
Erano appena
passate
le otto, Taro era in cucina, pronto per cenare con il padre, quando lo
squillo
del telefono lo costrinse a precipitarsi in soggiorno per rispondere.
- Pronto,
qui
Misaki.-
- Misaki,
scusa
se ti chiamo a quest’ora.-
Taro
cercò di
capire con chi stesse parlando al telefono, dal momento che quella voce
era
assolutamente sconosciuta.
- Sono
Yayoi, è
stato Jun a darmi il tuo numero.-
La ragazza
di
Misugi che lo chiamava, era un fatto parecchio strano.
- Ah, ehm,
ciao.- rispose imbarazzato, non aveva mai avuto una gran confidenza con
lei,
inoltre, non poteva immaginare per quale motivo lo stesse chiamando.
- Vedi,
Sanae è
venuta da me questo fine settimana e l’ho trovata un
po’ strana.-
Taro stava
iniziando a capire, probabilmente Sanae l’aveva messa al
corrente degli ultimi
spiacevoli sviluppi.
- Ma
davvero, si
è messa con Shiratori?- chiese, tutto d’un fiato.
- Purtroppo,
sì.- fu l’unica risposta che riuscì a
formulare.
Yayoi non
parlò,
lo sapeva, ma non riusciva a crederci, aveva avuto bisogno
dell’ennesima
conferma. Sapeva che non la riguardava, ma lei voleva bene a Tsubasa e
non
riusciva a capire come fosse potuta accadere una cosa simile.
Non udendo
risposta, fu lui a riprendere parola.
- E quel che
è
peggio è che Tsubasa ama alla follia Sanae, ma lei non lo
sa, pensa che lui non
provi niente nei suoi confronti, ma non è affatto
così, anzi...-
- Ma,
perché non
gliel’ha detto subito allora?- lo interruppe esasperata.
- Yayoi,
Tsubasa
non è un egoista, non voleva che Sanae dovesse rimanere qui
ad attenderlo per
chissà quanto, voleva che avesse una vita normale, pensava
che i loro
sentimenti si sarebbero affievoliti.-
- Invece,
non è
andata così, vero?- sentenziò lei. Lo sapeva,
Tsubasa era sempre il ragazzo
dolce e sensibile, che ricordava e chissà quanto male gli
aveva provocato un
scelta simile.
- Quelli di
Sanae non erano così forti. Credimi, Yayoi è da
due settimane che lei si è
messa con Shiratori e io non ho ancora avuto il coraggio di dirlo a
Tsubasa, ho
paura di dargli questo dolore.-
rispose
sconsolato.
- Non farti
ingannare dalle apparenze Misaki. Io e Yoshiko ne abbiamo parlato.
Sanae non
ama quel tipo, per quanto possa dire di odiare Tsubasa, i suoi occhi
dicono
un’altra cosa.- Yayoi sapeva bene che Sanae stava solo
fingendo di essere
felice e temeva che, presto, quella farsa si sarebbe ritorta contro di
lei.
Anche Yoshiko aveva capito che Sanae aveva detto determinate cose con
la bocca,
ma non con il cuore.
- Non dirlo
a
Tsubasa, Misaki. Non è il caso di farlo soffrire
inutilmente. Credimi, questa
storia non durerà molto.- disse decisa.
- Lo spero,
da
quanto ho sentito stanno già organizzando le eliminatorie
asiatiche e Tsubasa
tornerà sicuramente.-
- Abbi
fiducia.-
cercò di infondergli un po’ d’ottimismo.
- Grazie, Misaki e scusa se mi sono impicciata.
Salutami Tsubasa, quando lo senti.- aggiunse, prima di chiudere la
comunicazione.
- Certo
Yayoi,
non mancherò, salutami tanto Misugi.-
Taro si
sentiva alleggerito
dopo quella conversazione, in fondo Yayoi e Yoshiko conoscevano Sanae
meglio di
lui, quindi non potevano sbagliarsi sui sentimenti della loro amica.
Non
avrebbe detto nulla a Tsubasa, avrebbe seguito il consiglio di Yayoi,
sperando
che il tempo desse ragione alle due ragazze.
Due brevi righe per ringraziare tutte le
persone che stanno seguendo questa FF e le persone che mi scrivono
sempre
pensieri così dolci e carini nelle recensioni.
Grazie a tutti! Un caro abbraccio
Saretta
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Improvviso avvicinamento ***
Capitolo 9
Improvviso avvicinamento
Gli animi si
stavano già scaldando all’interno del campo,
mentre le tifoserie avverse,
dimenticandosi che erano lì principalmente per sostenere i
giocatori e
divertirsi, avevano ingaggiato una lotta verbale interminabile.
La Tatsunami
aveva impostato la partita su un modulo 5-4-1, impedendo ogni tentativo
di
sfondamento agli avversari. Il primo tempo stava per terminare e la
Toho non
aveva avuto la benché minima occasione di passare in
vantaggio. Il mister
Kitazume si agitava come un ossesso, puntando le dita qua e
là in mezzo al
campo, ordinando ai centrocampisti di spingere l’azione in
avanti il più
possibile. Kasumi stava seduta in panchina, cambiando posizione in
continuazione e sospirando, quando la palla riusciva ad arrivare a
pochi metri
dall’area, scattava in piedi nella speranza che il goal fosse
a portata di
mano, per poi risedersi sconsolata.
Ad un
tratto, su
rinvio di Nakanishi, Soda s’involò verso la porta,
dove un attento Wakashimazu
stava studiando i movimenti dell’avversario. Appena entrato
in area,
l’attaccante si sistemò la palla e
sfoderò il suo famoso Razor Shot, che però
non colse affatto impreparato l’abile portiere, che con
prontezza bloccò il
pallone al petto.
Kasumi
scattò in
piedi con le braccia alzate.
-
Eccezionale!
Bravissimo, Wakashimazu!- gridò
entusiasta.
Ken si
girò
verso la panchina e
sorrise. Atre
ragazze sulle tribune gli lanciavano baci e occhiatine, ma lui non le
vedeva
nemmeno. Le fece il segno della vittoria, prima di calciare la rimessa,
mentre
Kojiro, ignorando totalmente le marcatura stretta di Soda, li osservava
con i
nervi a fior di pelle.
Il primo
tempo
terminò con un nulla di fatto e i giocatori si diressero
alle rispettive
panchine. Kasumi andò loro incontro, asciugamani alla mano,
superò sorridente
Kojiro, cui passò distrattamente una borraccia per
avvicinarsi a Wakashimazu,
che non le staccava gli occhi di dosso. Gli batté il cinque,
guardata a vista
da suo fratello, che non stava minimamente prendendo in considerazione
i suggerimenti
dell’allenatore.
- Sei
grande!
Con te in porta, non passa nemmeno uno spillo!- esclamò
contenta, mentre il
ragazzo gonfiava il petto inorgoglito. Kojiro strinse la borraccia e
serrò la
mascella: stava per scoppiare, non sopportava di vedere quei due
sorridersi
così amorevolmente. Quasi si strozzò con la
bibita, quando Ken posò la mano
sulla testa di Kasumi. Stizzito per quel gesto, troppo confidenziale,
la tigre
della Toho andò a spezzare l’idillio, lasciando
l’allenatore a parlare al vento
come un’idiota.
Si mise tra
i
due e squadrò il portiere in maniera decisamente ostile e lo
invitò a togliersi
dai piedi, con un movimento eloquente degli occhi. Si voltò
verso la sorella
che gli sorrideva ignara, pronto a sgridarla, ma si bloccò,
quando lei, con un
gesto affettuoso, gli sistemò la fascia di capitano che era
calata verso il
gomito.
- Nel
secondo
tempo, voglio vederti sfondare quella rete.- disse, facendogli
l’occhiolino.
Kojiro
totalmente disarmato dalla sua dolcezza, le diede un buffetto sulla
guancia e
annuì con sguardo deciso.
La partita
riprese, ma gli avversari continuavano a non concedere spazi alla Toho.
Un paio
di occasioni da goal per la Tatsunami, furono sventate da Wakashimazu,
che
ringalluzzito dall’entusiasmo della sua bella sostenitrice,
si gettò in
salvataggi da manuale, che fecero andare Kasumi in visibilio. Le grida
gioiose
della sorella erano una tortura per i nervi di Kojiro, già
messo a dura prova
dalla marcatura di Soda, che continuava a ostacolare ogni sua mossa con
trattenimenti
al limite del regolamento. Stanco di quella situazione, Kojiro si
divincolò dal
suo marcatore e gli tirò una gomitata in pieno stomaco. Soda
si accasciò a
terra, probabilmente esagerando l’entità del danno
e ottenne dall’arbitro un
ammonizione ai danni di Hyuga.
Kasumi si
portò
la mano alla fronte, mentre il mister scuoteva la testa compiendo il
miracolo
di non urlare improperi contro il capitano della sua squadra, per
essersi preso
un cartellino giallo come un principiante.
A
metà del
secondo tempo, la situazione rimaneva invariata, finché
Sawada, con un impeto
di orgoglio, si portò avanti, aiutato da Sorimachi. Kojiro
fece uno scatto,
sorprendendo Soda, che si lanciò subito al suo inseguimento.
Takeshi scorse il
suo capitano, che si avvicinava alla porta avversaria e con un tiro
preciso gli
servì il pallone, che Kojiro colpì al volo con un
Tiger Shot, che passò come un
siluro accanto ad un pietrificato Nakanishi.
La tribuna
della
Toho esplose in un unico grido, mentre i giocatori in panchina
scattarono tutti
in piedi ad esultare. Kasumi saltellava felice, battendo le mani in
direzione
del fratello, che, con il pugno alzato, festeggiava la prodezza di cui
si era
reso protagonista.
Il triplice
fischio decretò la fine della semifinale: la Toho aveva
battuto la Tatsunami
per uno a zero.
- Bravissimo
Takeshi, hai fatto un assist, perfetto.- Kasumi distribuiva complimenti
a tutti,
per aver raggiunto, nuovamente, un traguardo così
importante. Kojiro aspettava
il suo turno, immaginando che, in quanto autore del goal della
vittoria, sua
sorella lo avrebbe elogiato come l’eroe della partita.
- Ma il
merito
di tutto, va a Wakashimazu, se non fosse stato per te avremmo
sicuramente
perso.- disse dandogli una pacca sulla spalla, cui il ragazzo rispose
con un
occhiolino.
Kojiro si
sentì
come se una tegola gli fosse caduta in testa, non solo sua sorella non
si era
congratulata con lui, stava addirittura facendo la smorfiosa con quel
capellone
infido. Non poteva più tollerare le manifestazioni fin
troppo amichevoli, che
rivolgeva a Ken e preso dalla rabbia, si parò di fronte a
lei.
- Da quando
le
partite le vincono i portieri?!- domandò tra i denti.
Kasumi si
sentì
come un cucciolo indifeso, non aveva mai visto tanta rabbia negli occhi
di suo
fratello fino ad allora. Non aggiunse altro e si avviò verso
lo spogliatoio
sotto lo sguardo attonito dei compagni di squadra. Kasumi era rossa per
l’imbarazzo e Ken le fece un gesto con la mano, come a dire
che non era
successo niente: lui sapeva che il peggio doveva ancora venire.
Terminata la
doccia, Wakashimazu constatò che non c’era
più nessuno, tranne il suo capitano
che stava finendo di vestirsi. Sapeva che era rimasto lì di
proposito,
probabilmente dovevano mettere in chiaro alcune cose, dato che la loro
amicizia
stava regredendo, da quando lui aveva recuperato i rapporti con Kasumi.
Non
voleva evitare lo scontro, che si profilava inevitabilmente
all’orizzonte, era
un uomo e avrebbe risposto a tono a tutto ciò che Kojiro gli
avesse detto.
- Ken- il
tono
era fermo e autoritario. Il compagno smise di strofinarsi la testa con
l’asciugamano e si volse nella sua direzione, aspettando
ciò che aveva da
dirgli.
- Te lo
dirò una
volta sola.- si voltò a guardarlo dritto negli occhi.
– Stai lontano da mia
sorella.-
Se lo poteva
aspettare, Kojiro aveva un attaccamento quasi morboso con i suoi
famigliari,
molto dipendeva dalla perdita prematura del padre, che lo aveva reso il
capofamiglia ancora bambino, ma ora stava sfiorando
l’assurdo.
- Se ti
dicessi
che tua sorella mi piace?- lo sfidò.
- Non mi
provocare- sibilò.
- Ti senti
quando parli? Sembri più il suo ragazzo, che suo
fratello…- In un attimo si
ritrovò sbattuto contro l’armadietto e Hyuga. che
con gli occhi fuori dalle
orbite, lo bloccava tenendolo per le spalle.
- Tu non sai
che
sofferenze ha già subito quella ragazza, non lo puoi nemmeno
immaginare.
Abbiamo perso nostro padre e prima ancora che potesse accettare
l’idea è stata
portata in Cina. Quando è tornata a casa, mio fratello
Masaru non l’ha nemmeno
riconosciuta, ti rendi conto di che razza di vita ha fatto finora?
Lontano da
tutto e da tutti. Io non voglio che qualcuno le faccia del male.-
esclamò,
mentre sentiva che le lacrime gli stavano per uscire dagli occhi.
Ken
afferrò i
suoi polsi e con calma lo allontanò da sé.
- Non puoi
sperare di proteggerla per sempre, tua sorella è grande
abbastanza e comunque,
non è da me che la devi difendere. É una
bellissima persona ed io sono contento
di essere diventato suo amico.-
Finirono di
prepararsi e uscirono in silenzio, per raggiungere il resto della
squadra che
stava già salendo in pullman. Kojiro ripensava alle ultime
parole di Ken e si
sentiva più sollevato, se non doveva temere nulla da lui,
voleva dire che non
aveva interessi che andassero oltre l’amicizia con Kasumi.
Restava ora da
chiarire il punto con sua sorella.
Sulla strada
di
casa Kasumi non fece altro che parlare in termini entusiastici della
partita,
marcando molto l’accento sulle prodezze del portiere. Kojiro
era sfinito e
approfittando dei pochi istanti di silenzio della sorella si
fermò, portandola
a voltarsi incuriosita.
- La vuoi
fare
finita?!- Kasumi rimase a bocca aperta, non capendo a cosa si stesse
riferendo.
-
Wakashimazu,
Wakashimazu!- strillò con voce femminea, portandosi le mani
sulle guance e
ancheggiando per riprodursi in una grottesca imitazione della sorella.
Kasumi
lo osservava imbarazzata.
- Sei
ridicola!-
le disse acido.
- Che
diamine ti
prende Kojiro?!- domandò, portandosi le mani sui fianchi.
- Cosa
prende a
te, oggi eri più indemoniata di quelle oche starnazzanti,
che stanno sugli
spalti. Che succede con Ken?- arrivò dritto al sodo.
Kasumi
sbuffò
infastidita, le mancava solo una scenata di gelosia fraterna.
- Allora
è per
questo, che oggi ti sei fatto ammonire come un pollo?-
l’espressione di Kojiro
mutò e Kasumi si accorse di aver indovinato.
- Sei
proprio
stupido. Wakashimazu mi piace molto: è un ragazzo pieno di
qualità e un
bravissimo portiere e io non ci vedo niente di male a fare il tifo per
lui.-
sentenziò piccata.
Kojiro
esplose
dalla rabbia.
- Ma se fino
a
un mese fa, non lo volevi nemmeno sentir nominare? Adesso mi vieni a
dire che
ti sei innamorata di lui?!- gridò nella via deserta.
Kasumi si
guardò
intorno, notando con sollievo che non c’erano orecchie
indiscrete. Con il cuore
che le martellava e rossa in volto per l’imbarazzo, gli
rispose con tutto il
fiato che aveva in corpo.
- Queste non
sono cose che ti riguardano!- e corse fino a casa lasciandolo
lì impalato e
incredulo.
Mentre
correva,
sentiva l’agitazione che prendeva possesso di lei.
Com’era venuto in mente a
suo fratello di chiederle una cosa simile? Lei e Wakashimazu erano solo
amici.
Già, solo amici.
Alla seconda
ora
del mercoledì, la prof. Mihura entrò
inaspettatamente in classe.
- Il vostro
professore di matematica è assente e lo supplirò
io per oggi.- un ghigno
soddisfatto si dipinse sul suo volto.- Così vi
riconsegnerò le prove scritte
della settimana scorsa.-
Con un
fascio di
fogli segnati in rosso, la prof. girò da un banco
all’altro.
- Non ci
siamo
proprio Wakashimazu, hai fatto un orrore.- gli disse posando il foglio,
pieno
di cerchi rossi su cui era segnato un enorme 20 su 100. Ken prese il
foglio
sgranando gli occhi, non aveva studiato molto, ma non si aspettava un
simile
sfacelo.
-
Sarà meglio
che Hyuga ti dia una mano a recuperare o sarò costretta a
chiedere al signor
Kitazume di metterti fuori squadra, finché non recuperi.-
Kojiro si
voltò
a guardare la prof. stupito, nemmeno lui era una gran cima
d’inglese, anche se
in un modo o nell’altro riusciva sempre a rimediare la
sufficienza. La Mihura,
accortasi dello sguardo interrogativo dell’alunno, lo
guardò sprezzante.
- Non tu,
mio
caro, ma tua sorella.- e voltandosi verso la ragazza le
mostrò un sorriso, che
la rendeva ancora più spaventosa.
- Sei stata
la
migliore in questo test.- e Kasumi vide un 100 su 100, sfilarle sotto
gli
occhi.
Sulla via di
casa, Kojiro e Ken non fecero altro che lamentarsi
dell’insopportabile
professoressa d’inglese.
- Mio padre
si
arrabbierà tantissimo, accidenti a lei.- disse scocciato.
-
Sarà meglio
che recuperi questa insufficienza. La settimana prossima
c’è la finale con la Nankatsu!-
- Kojiro ha
ragione, Wakashimazu, quindi oggi verrai da noi a studiare.- disse
Kasumi, con
aria da gran secchiona.
- Ma
veramente,
oggi ho un allenamento con mio padre…potresti venire tu da
me?- chiese,
scordandosi completamente la possibile reazione di Kojiro, che non si
fece
attendere.
- Non se ne
parla nemmeno!- tuonò.
I due
ragazzi
alzarono gli occhi al cielo, entrambi stufi di quelle sciocche
insinuazioni.
- E la
finale?
Se non lo aiuto non potrà giocare e sarà solo
colpa tua.- lo punzecchiò la
sorella.
- Allora
vengo
anch’io!-
- Kojiro!
Scusalo Wakashimazu, ultimamente dà i numeri.- Kojiro si
voltò di
scatto, pronto a scoppiare come una mina
inesplosa.
Wakashimazu
si
allontanò di qualche passo, felice di essere giunto al
bivio, che conduceva a
casa sua. Li salutò, ma i due non se ne accorsero nemmeno
tanto erano impegnati
a guardarsi in cagnesco.
- Ma che ti
salta in mente di invitarti in casa d’altri? Sembra quasi che
nostra madre non
ti abbia insegnato l’educazione. Che figure!- lo
rimproverò.
- Tu non
andrai
a casa sua!- fu la risposta secca di Kojiro.
- Uffa! Mi
stai
annoiando con questa assurda gelosia: sono tua sorella, non una tua
proprietà!-
Quella frase
arrivò più violenta di un pugno allo stomaco,
soprattutto perché era vera.
Kojiro sperava di tenere la sua famiglia sotto vetro per evitargli
altre
sofferenze, ma Kasumi era troppo indipendente per accettare la sua
presenza
iperprotettiva.
- E comunque
sappi che lo faccio per evitarti di rimanere senza portiere, dovresti
ringraziarmi, piuttosto che arrabbiarti, non credi?-
Le sue
parole
non erano proprio sincere, in realtà era ben felice di
andare a casa di Ken e
avere la possibilità di stare un po’ da sola con
lui. Da quando erano diventati
amici, ne aveva scoperto molti lati piacevoli e comunque, non era
cieca, vedeva
bene da sé che Ken era un bel ragazzo con tutte le forme al
posto giusto.
Kojiro
rispose
con un grugnito.
- Fa un
po’ come
ti pare.- aggiunse irato.
Kasumi si
cambiò
cercando di vestirsi in modo carino, ma non troppo evidente, per
sfuggire ad altri
scambi di “simpatiche” battute con suo fratello.
Aiutò la madre a rassettare la
casa e corse dagli Wakashimazu, per le ripetizioni d’inglese.
I padroni di
casa la accolsero come un’ospite d’onore.
- Non
sapevo,
che il tuo amico Kojiro avesse una sorella così
incantevole.- disse il signor
Wakashimazu, dando una gomitata eloquente al figlio, che
abbassò la testa
imbarazzato.
La madre di
Ken
le sorrideva dolcemente, chiedendole se potesse offrirle qualcosa.
Kasumi
declinò gentilmente l’invito, notando che era
già tardi e se lui doveva anche
allenarsi, avrebbero avuto poco tempo per studiare.
Salirono in
camera e si accomodarono al kotatsu e, per il tempo che rimaneva,
Kasumi cercò
di capire quali erano le lacune che Ken avrebbe dovuto colmare, in
vista
dell’esame finale. Mentre era concentrata nella correzione
dei suoi errori,
Wakashimazu non poté fare a meno di notare quanto fosse
graziosa. Indossava dei
jeans a vita bassa scuri, che evidenziavano il suo fisico snello e
asciutto, la
maglietta gialla aderente ne risaltava le forme del seno, che non era
enorme,
ma ben tornito, infine aveva legato i lunghi capelli corvini in uno
chignon dal
quale spuntavano a fontana dei ciuffi ribelli. Con
quell’espressione assorta,
era anche più seducente.
Kasumi
alzò lo
sguardo e notò che la stava fissando, lui rimase
pietrificato, invece la
ragazza rispose con un sorriso e poi si avvicinò per fargli
capire meglio gli
errori, che aveva commesso. Ken si sentiva andare a fuoco, ora che
erano a poca
distanza l’uno dall’altra. Osservava lo scorrere
lento della sua mano sul
foglio, mentre gli spiegava non avrebbe saputo dire cosa, da quanto era
inebriato dal profumo di fiore di loto, che emanava dal suo
decolleté.
-
E’ tutto
chiaro?- gli chiese dolcemente, voltandosi verso di lui.
L’atmosfera si stava
surriscaldando, la vicinanza stava mandando entrambi in confusione. Ken
guardò
le sue labbra desiderando di poterle toccare con tutto se stesso.
Kasumi
divenne improvvisamente seria, gli occhi brillanti per
l’emozione. I loro visi
si stavano avvicinando spontaneamente….
-
Keeeeeeen….l’allenamentooooo!- sentirono tuonare
dal piano terra.
Il ragazzo
si
girò verso la porta, desiderando, per un secondo, di poter
lanciare laser dagli
occhi, per punire suo padre, che li aveva interrotti.
Kasumi
riprese
il controllo e iniziò a raccogliere i libri e la borsa, ma
Ken la fermò.
- Non ti
piacerebbe vedere l’allenamento.- chiese a bruciapelo, non
voleva assolutamente
che andasse via.
Kasumi
valutò
l’offerta e accettò volentieri.
Era
già passata
una buona mezz’ora e la giornata stava per volgere al
termine. Kasumi aveva
potuto ammirare uno scambio spettacolare di calci e prese. Il padre di
Ken era
un Sensei molto esigente e il figlio era il suo degno erede.
- Non si sta
annoiando signorina Hyuga?- le chiese, in un attimo di pausa.
Kasumi
sorrise
muovendo in aria la mano.
- In
realtà no,
le arti marziali mi affascinano. Quando ero in Cina ho praticato un
po’ di
Wushu per autodifesa.-
Il signor
Wakashimazu s’illuminò.
- Splendido!
Allora, perché non prova un po’ di sparring con
Ken?- domandò entusiasta.
Kasumi era senza parole, mentre Ken scuoteva la testa come un
forsennato. Ma che
razza di idee venivano al padre?
Il signor
Wakashimazu insistette talmente tanto, che alle fine nessuno dei due
sapeva a
cosa attaccarsi per rifiutare, quindi Kasumi entrò nei loro
spogliatoi per
infilarsi un kimono e procedere a quell’assurda dimostrazione.
Dopo essersi salutati, si
posizionarono
entrambi in guardia. Girarono attorno cauti per alcuni istanti, senza
osare
avvicinarsi. Kasumi si teneva sulla difensiva, evitando lo scontro. Ken
sferrò
il destro improvvisamente, ma fallì il colpo,
perché la ragazza si spostò da un
lato per evitarlo. Senza perdere l’equilibrio si
voltò di scatto, progredendo
con una serie di gyakutsuki*, che andarono irrimediabilmente a vuoto:
Kasumi
aveva degli ottimi riflessi.
Ad un certo
punto, la ragazza pensò che fosse meglio reagire, anche nel
modo più stupido,
perché non poteva andare avanti con quell’inutile
fuga. Approfittando di un
attimo di esitazione di lui, afferrò il suo braccio teso con
la mano destra e
con la sinistra gli si aggrappò al kimono, per scaraventarlo
a terra, poi si
sedette sull’addome dell’avversario e con
l’avambraccio puntato contro il suo
petto lo inchiodò al tatami.
Ken era
senza
fiato sia per la botta, sia per la vicinanza della ragazza, che aveva
il viso a
pochi centimetri dal suo. Poteva sentire il suo profumo penetrante, la
scollatura del kimono lasciava intravedere l’attaccatura del
seno, le sue
guance rosse per lo sforzo, il suo fiato sul collo e la posizione
equivoca
nella quale erano, gli stavano facendo perdere il controllo.
Kasumi stava
iniziando a realizzare la situazione: sentiva i muscoli del suo addome
contro
l’inguine, i pettorali nella morsa del suo avambraccio e
quegli occhi scuri che
la guardavano con…con…desiderio. Le guance le
divennero ancora più rosse,
mentre il cuore le batteva forte e sapeva che non era per
l’attività fisica. I
loro sguardi erano calamitati l’uno nell’altra.
-
Bravissima,
Kasumi.- il signor Wakashimazu spezzò quella situazione
imbarazzante.
Lei si
alzò di
scatto e con la scusa che si stava facendo tardi si andò a
cambiare. Ken si
mosse per raggiungerla, ma fu bloccato dal padre.
- Avresti
potuto
liberarti con un tomoe-nage**, perché sei rimasto
lì impalato come un babbeo
Ken?- chiese il padre, con un ghigno sul volto.
-
Bè, non volevo
che si facesse male.- rispose, mentre il volto gli stava andando in
fiamme. Il
padre non disse una parola, ma il ragazzo sapeva che come scusa non
reggeva
affatto.
Kasumi si
stava
asciugando il sudore, cercando di tenere sotto controllo il battito del
cuore.
Si sentiva talmente in imbarazzo, che non sapeva come sarebbe riuscita
a
guardare in faccia di nuovo sia Ken, che il signor Wakashimazu. Come le
era
venuto in mente di assumere quella posizione, davanti a suo padre per
giunta? A
quel punto non riusciva più a negarlo, Ken le piaceva sul
serio e molto
probabilmente anche lei non gli era indifferente. Se solo ripensava
allo
sguardo che le aveva rivolto e al bacio mancato in camera sua, sentiva
il cuore
martellare. Finì di rivestirsi e uscì dagli
spogliatoi, dove lo trovò, visibilmente
in imbarazzo, che la stava aspettando.
- Ti
accompagno
a casa.- disse quasi bisbigliando.
Lei
annuì, andò
a recuperare la borsa e salutò i genitori di lui, evitando
di guardare in
faccia il signor Wakashimazu.
Camminavano
entrambi a testa bassa, troppo imbarazzati per parlare. Kasumi si stava
dando
dell’idiota, avrebbe potuto star zitta e lasciar perdere la
storia del kung fu.
Anche Ken stava pensando che avrebbe dovuto rifiutare un combattimento,
seppur
per allenamento, contro una ragazza, soprattutto, dal momento che la
ragazza
era Kasumi.
- Mi
dispiace,
di averti messo in imbarazzo di fronte a tuo padre.- disse mortificata.
Divenne
ancora
più rosso, non era proprio il caso di ricordargli la faccia
allusiva che gli
aveva rivolto, mentre gli chiedeva spiegazioni sul perché
non si fosse liberato
dalla presa.
-
Chissà cosa ti
avrà detto, dopo che il suo erede è stato
atterrato da una femmina.- cercò di
buttarla sullo scherzo.
Quello era
proprio l’ultimo dei suoi problemi! Era sicuro, che se non ci
fosse stato lì
suo padre a spezzare quell’incantesimo ipnotico, che lo aveva
incatenato,
l’avrebbe stretta tra le braccia e l’avrebbe
baciata davvero stavolta.
Vicino alla
casa, Kasumi si girò distrattamente verso di lui, accennando
un sorriso per
salutarlo.
- Kasumi,
aspetta…- lei si voltò a guardarlo. I raggi rosei
del tramonto si riflettevano
sul suo viso, rendendola ancora più bella. Ken
deglutì nervosamente.
- Grazie per
l’aiuto.-
Lei rispose
con
un radioso sorriso, che gli bloccò il respiro.
Notò che aveva un’aria strana,
come se avesse altro da dirle. Ken cercò di calmarsi e
quando riprese
padronanza di sé, si stupì lui stesso di quello
che riuscì a pronunciare.
- Non
è stato
poi male, essere atterrato da te.-
Forse, era
stato
troppo esplicito. La vide abbassare per un secondo lo sguardo, poi
rialzarlo
per regalargli un altro dei suoi meravigliosi sorrisi. Sentì
il cuore
sussultare, quando lei si avvicinò e quasi gli
balzò fuori dal petto nel
sentire le labbra di lei, che aderivano alla sua guancia. Gli rivolse
uno
sguardo malizioso, prima di entrare nel cancello e lasciarlo
lì inebetito a
tastarsi il volto, ancora incredulo.
*pugni
diretti
con spostamento frontale
**tecnica
per
lanciare, con la gamba tesa, l’avversario oltre la testa,
facendolo passare
sopra di sé.
Ringrazio molto mio fratello per
i suggerimenti sulle mosse di karate.
Saluto con affetto le
persone che stanno seguendo la mia FF, sperando di riuscire a tenere
vivo il loro interesse.
Un ringraziamento speciale a:
Rossy: grazie mille cara, le tue recensioni sono sempre
gradite.
Only Hope: cosa
aggiungere di più, tranne che i tuoi complimenti e il tuo
entusiasmo per quello che scrivo, mi rendono molto orgogliosa.
Un caro abbraccio a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** La festa da Misaki ***
Capitolo 10
La festa da Misaki
L’arbitro
soffiò
per tre volte nel fischietto, decretando così, non solo la
fine della partita,
ma anche il termine del campionato: la Toho
si era riconfermata squadra migliore del Giappone per il
terzo anno consecutivo. Lo sguardo sereno e rassegnato di Sanae, era
ben lungi
dalle espressioni affrante di Elena e Yukari, che avrebbero pianto
volentieri,
se fosse servito a cambiare l’esito della partita.
I giocatori
in
campo si stavano complimentando a vicenda, ma quando Kojiro si
avvicinò al
capitano della Nankatsu, quest’ultimo scostò la
mano dell’avversario e si avviò
brontolando al tunnel, che conduceva agli spogliatoi. Sanae lo
seguì con lo
sguardo, incerta su quale comportamento adottare con il suo ragazzo, ma
non si
mosse, ritenendo che fosse meglio lasciarlo in pace, per il momento.
Nel
frattempo, Taro andò a stringere la mano di Kojiro, che si
era astenuto dal
prendere a calci il suo omologo, solo perché era troppo
contento del suo
ennesimo successo.
- Ci vediamo
in
ritiro.- fu il commento del vincitore, cui Taro annuì con un
sorriso.
- Bravissimi comunque, siete
una squadra molto
forte.- Sanae si volse e vide una ragazza sorridente, che gli tendeva
amichevolmente la mano.
- Grazie.-
rispose con una punta d’imbarazzo. Fin da subito
l’aveva notata dalla panchina
della Toho, chiedendosi chi fosse.
- Io sono
Kasumi
Hyuga, la manager della Toho.- Sanae rimase a bocca aperta e
guardandola meglio
si accorse, che, quella ragazza dallo sguardo dolce, era la sorella
gemella di
Kojiro. Si presentò a sua volta, stringendole la mano, poi
Kasumi si congedò,
salutando con un inchino, per raggiungere i vincitori, che stavano
ritornando
alla panchina.
Negli
spogliatoi, il mister cercò di rincuorare i giocatori, che
avevano comunque fatto
del loro meglio, ma ad un certo punto fu interrotto da Yosuke, che
sbottò senza
mezzi termini.
-
Congratulazioni per cosa? Per essere una squadra di perdenti?- chiese
alterato.
Il mister non ebbe nemmeno tempo di rispondere.
- Se non
fossi
affiancato da questi inetti, avrei di sicuro vinto la partita.-
- I
giocatori
sono undici, si vince insieme, Shiratori.- rispose paziente Taro.
- Ha parlato
Misaki, il grande saggio. Tu e le tue frasi stile Ozora!-
ringhiò di rimando.
-
Sicuramente
avremmo vinto, se ci fosse stato lui al tuo posto.- intervenne
Ishizaki, che
non riusciva più a contenersi di fronte
all’arroganza di Yosuke.
Il capitano
gli
si parò davanti e lo spinse.
- Vorresti
dire
che lui è meglio di me? Rispondi, deficiente!-
gridò.
- Cerca di
calmarti Shiratori, ora stai esagerando.- cercò
d’intervenire l’allenatore.
Ignorandolo
totalmente, continuava a fissare torvo Ishizaki, che abbozzò
un sorriso
beffardo.
- Tu non sei
nemmeno degno, di essere paragonato ad un campione come Tsubasa.-
Preso
dall’ira
si avventò sul compagno e iniziò a prenderlo a
pugni. Ishizaki cercò di
difendersi come poteva, finché non si sentì
trattenere alle spalle da Takasugi,
mentre Taro e Izawa bloccavano il suo aggressore.
- Ora
basta!-
gridò l’allenatore, per ristabilire il controllo.
– Hai superato ogni limite
Shiratori. Sei fuori dalla squadra!- esclamò lapidario.
Yosuke si
divincolò dalla presa dei due compagni e si diresse verso
l’uscita, li squadrò
uno per uno con disprezzo.
- Mi fate
veramente pena, siete una squadra di parassiti, vissuti alle spalle di
quel
giocatorino da strapazzo.- concluse, sbattendo la porta.
I giocatori
uscirono dallo stadio, pronti per dirigersi verso la sala conferenze
della
Federazione, per sapere i nomi dei convocati alle eliminatorie
asiatiche. Sanae
notò subito l’assenza di Yosuke e le ferite sul
volto di Ishizaki.
- Ryo, ma
cosa
ti è…?-
- Chiedilo
al
tuo ragazzo.- rispose scocciato.
Sanae
guardò
smarrita i presenti e Taro la prese da parte per spiegarle con calma,
ciò che
era accaduto.
Capiva che
Yosuke fosse arrabbiato dopo aver perso, ma non avrebbe mai pensato che
arrivasse addirittura a picchiare un suo compagno di squadra.
Andò da Ishizaki
per scusarsi.
- Non sei tu
che
devi scusarti, manager. Vorrei solo sapere che cosa ci hai trovato in
quell’essere arrogante.- le rispose piccato.
Sanae si
allontanò
sconsolata, comprendendo la rabbia dell’amico: Yosuke si era
comportato proprio
male. Ad un tratto, sentì un trillo provenire dalla sua
tasca e prese in mano
il pocket bell.
Sto tornando a casa, ci vediamo oggi
pomeriggio
Eccome se si
sarebbero visti, gli avrebbe chiesto delle spiegazioni, per
ciò che era
successo negli spogliatoi e per essersene andato a quel modo.
“Tsubasa
non
avrebbe mai agito così” si sorprese a pensare,
scosse la testa ed entrò nella
sala conferenze. Si spostò da un lato dove stavano Elena,
Yukari e la sorella
di Hyuga, che ammiccò per salutarla.
Sul palco
sfilarono il mister Mikami, il signor Katagiri e altri esponenti della
JFL, che
si accomodarono al tavolo delle conferenze, per annunciare la lista dei
giocatori che avrebbero dovuto partecipare alle selezioni per la Nazionale.
La maggior parte dei
giocatori della Nankatsu fu nominata, ma all’appello mancava
Yosuke.
-
Naturalmente,
sarà convocato anche Tsubasa Ozora, che, come ben sapete,
ora gioca a San
Paolo.-
Solo
sentendo
quel nome, il cuore di Sanae iniziò a battere come un
tamburo. Cercò di
calmarsi e focalizzare i pensieri sul suo ragazzo. Chissà se
sapeva di non
essere stato convocato e come avrebbe reagito alla notizia: si
prospettava un
pomeriggio tremendo.
Dopo pranzo,
Sanae si vestì con cura, per l’appuntamento, prese
la borsa e stava per uscire,
quando squillò il telefono.
- Ciao, sono
Elena. Ti ho chiamato per ricordarti della festa di stasera.-
- Grazie,
verrò
sicuramente.-
- Ehm, dillo
anche a Yosuke, per piacere.- disse esitante.
-
D’accordo, a
stasera.-
Yosuke stava
ad
attenderla accanto ad un chiosco con il giornale in mano. Quando lei si
avvicinò lo salutò gentilmente, ma lui,
anziché rispondere, appallottolò ciò
che stava leggendo e lo gettò con stizza nei rifiuti. Sanae
tirò un sospiro di
sollievo, almeno non avrebbe dovuto dirgli delle convocazioni. La prese
sgarbatamente per mano e iniziò a tirarla, come se fosse un
cane al guinzaglio,
finché non raggiunsero una panchina sulla riva del fiume.
Per un po’ regnò il
silenzio, poi Yosuke circondò le spalle della sua ragazza
con il braccio e
iniziò a darle baci sulla guancia e sul collo. Sanae si
voltò a guardarlo e lui
le posò un bacio sulla bocca.
- Sei
proprio
bella.- le sussurrò suadentemente, mentre continuava a
lambirle il collo con le
labbra.
- Che ne
dici di
venire a casa mia stasera?-
Sanae si
scostò
delicatamente.
- Stasera
Misaki
dà una festa a casa sua.- disse per togliersi
dall’imbarazzo.
- Cosa
c’è da
festeggiare? L’ennesimo fallimento?- rispose seccato.
- Non dire
così.
Abbiamo terminato il liceo e il campionato: sarebbe carino passare una
serata
tutti insieme.-
- Io ne
faccio a
meno, tu fai come vuoi, se preferisci loro a me.-
Sanae
ignorò
pazientemente la palese provocazione.
- So quello
che
è successo stamattina.-
- Sai che
quell’impiastro d’allenatore mi ha messo fuori
squadra?!- rispose piccato.
- Hai preso
a
pugni un tuo compagno di squadra, ti aspettavi che ti facesse i
complimenti?-
-
Quell’idiota
di Ishizaki mi ha provocato: ha detto che Ozora è meglio di
me.- disse
indicandosi con il dito.
- Credo ci
sia
un motivo, Ryo non è un cattivo ragazzo.- cercò
di minimizzare.
- Il motivo
è
che il mondo sembra girare attorno a Tsubasa Ozora!-
Di nuovo
quel
batticuore: perché bastava solo che dicessero il suo nome?
- Hanno
convocato lui e mi hanno lasciato fuori! Ti rendi conto? Un giocatore
che non
vive nemmeno più in Giappone.- esclamò,
agitandosi come un indiavolato.
- Che
c’entra? Rimane
comunque un giocatore giapponese.- rispose, stupendosi di quanto la sua
voce
suonasse alterata.
- Ecco
un’altra
che lo difende, ce la farete mai a liberarvi dall’ombra di
quell’imbecille?-
Sanae
avvertì un
senso di fastidio, che la pervadeva. Strinse i pugni e cercò
di non perdere il
controllo.
- Cerca di
calmarti Yosuke, non puoi pretendere di essere preferito ad un
giocatore, che
milita da professionista in un grande squadra da ben tre anni.-
sentenziò.
Scattò
in piede
meravigliato e, solo in quel momento, Sanae realizzò il peso
delle proprie
parole. Chinò il capo, incapace di sostenere lo sguardo del
suo ragazzo, che la
fissava gonfio di rabbia.
- Sei una
stronza Sanae, dovresti sostenere me e non lui!- si infilò
le mani in tasca e
se ne andò senza nemmeno salutarla.
Non poteva
biasimarlo, aveva palesemente difeso Tsubasa, come se il suo ragazzo
fosse lui.
Così non andava affatto bene, come poteva stare con una
persona e tenere tanto
ad un’altra? Perché non riusciva a liberarsi del
ricordo di un ragazzo, per il
quale non contava niente?
Si prese la
testa fra le mani, desiderando di poterla aprire e farne uscire Tsubasa
Ozora,
per sempre.
Tornata a
casa,
si buttò nella vasca per rilassarsi, era arrabbiatissima con
se stessa, ma ora,
a mente lucida, si rendeva conto che anche Yosuke non era stato proprio
accomodante, inoltre aveva glissato sul discorso della rissa,
colpevolizzando
gli altri, come al solito. Decise che sarebbe andata comunque alla
festa e
avrebbe passato una bella serata, anche senza di lui.
Arrivò
in
ritardo da Misaki, tutti erano già arrivati.
Cercò di giustificare l’assenza
del suo ragazzo con una scusa banale, ma fu subito chiaro che non
dispiacesse a
nessuno. Elena le prese la borsa e la giacca e la invitò ad
accomodarsi.
- Ciao, ti
volevo chiedere scusa per essere stato scortese stamattina.- le disse
Ishizaki.
Lei scosse la testa per fargli capire che era tutto passato: quella
sera non
voleva pensare a niente, desiderava solo divertirsi con i suoi amici.
I ragazzi
erano
tutti eccitatissimi per la convocazione in Nazionale, anche se sapevano
che le
selezioni non sarebbero certo state una passeggiata, ma, in ogni caso,
avevano
raggiunto un bel traguardo e stavano festeggiando con un brindisi
dietro
l’altro. Notando che la manager era senza bicchiere, Izawa,
già un po’ brillo,
si affrettò a riempirne uno con la sangria e offrirglielo.
- Vieni
Sanae,
brinda con noi!- esclamò euforico, circondandole le spalle
con un braccio e lei
si lasciò trascinare nel vivo della festa.
Elena aveva
trasformato il soggiorno di casa Misaki, disponendo faretti colorati e
allestendo un angolo con plaid e cuscini a terra, illuminato da
candele, in
perfetto stile arabo, per chi desiderasse rilassarsi e fare due
chiacchiere; la
parte centrale della stanza era diventata una pista da ballo
improvvisata,
mentre da un lato il tavolo era pieno di stuzzichini e bibite,
sapientemente
preparati dalla bionda manager.
Seduta
comoda su
un cuscino, Sanae si stava godendo una porzione di pizza fatta in casa.
Elena la
raggiunse.
- Come va,
ti
diverti?-
-
Tantissimo.-
rispose con la bocca mezza piena. – La tua pizza è
eccezionale, come la cucinate
voi italiani, non lo sa fare nessuno.-
-
Modestamente.-
rispose ridendo, con le guance arrossate per l’imbarazzo.
- Dimmi la
verità, Shiratori non è voluto venire, giusto?-
domandò, tradendo una certa
preoccupazione.
Sanae
alzò gli
occhi al cielo, scocciata dalla situazione sgradevole che si era creata.
- Oggi
abbiamo
litigato.- doveva sfogarsi con qualcuno ed Elena era sempre pronta ad
ascoltarla, anche se, a volte, i suoi consigli erano tutto
fuorché imparziali.
- Forse,
è colpa
mia.- proseguì, esternando i dubbi, che la punzecchiavano e
raccontandole tutto
ciò che era accaduto nel pomeriggio.
Elena la
ascoltò
in silenzio, annuendo e mutando espressione secondo i dettagli che
sentiva;
alla fine scosse la testa contrariata. Scrutò
l’amica, che aveva terminato il
racconto ed ora fissava il proprio bicchiere vuoto con aria assorta.
- Posso
dirti
quello che penso?- chiese cautamente. Sanae annuì, era anche
per quello che si
era confidata con lei, voleva sentirsi dire da qualcuno quanto fosse
stupida a
litigare con il suo ragazzo, per una persona che era partita per
l’altra parte
del mondo senza una parola.
- Cosa
cavolo ci
stai a fare con quello lì?- domandò senza mezzi
termini. Sanae sbuffò, se lo
poteva aspettare: forse non aveva fatto un’ottima scelta a
raccontare della
lite con Yosuke, proprio alla fan numero uno dell’inesistente
coppia Ozora-
Nakazawa.
- Sanae dico
sul
serio, tu non sei innamorata di lui, semmai sia possibile provare amore
per un tipo
del genere.- insistette, cercando di approfittare del suo sfogo per
convincerla
a riflettere bene sul rapporto che aveva con il ragazzo.
- Elena, non
cominciare con questa tiritera, so che Yosuke non vi sta simpatico, se
ne
accorgerebbe anche un cieco, ma mettiti un po’ nei suoi
panni?Non gli avete
certo reso la vita facile.- sapeva che difenderlo era una causa persa,
ma in
fin dei conti lei era la sua ragazza e le spettava. Yosuke non era
proprio
l’uomo perfetto, ma l’aveva aiutata a superare la
sua delusione amorosa e le
aveva fatto recuperare la fiducia in se stessa con le sue attenzioni.
Era anche
vero che avesse dei difetti evidenti, ma non poteva evitare di
biasimare i suoi
amici, che, a suo giudizio, non avevano mai fatto niente per accettarlo.
Elena era
stupita e sarebbe anche scoppiata a ridere per
l’assurdità di ciò che aveva
appena sentito.
- Sanae,
quel
ragazzo non ha dato alcun motivo per essere accettato, si è
sempre comportato
in modo maleducato, trattando tutti con sufficienza e non ha mai
nascosto il disprezzo,
peraltro incomprensibile, nei confronti di Tsubasa.-
Sapeva
benissimo
che Elena aveva ragione, ciononostante non si mosse dalle sue
convinzioni.
- Elena ti
posso
assicurare che anche Yosuke ha i suoi lati positivi e comunque non
è carino che
ne parli in questi termini, sono pur sempre la sua ragazza.-
- E io sono
la
ragazza di Taro e ti dirò che ho tollerato fin troppo il
modo scortese che
Shiratori ha sempre tenuto con lui, approfittando della sua indole
tranquilla…-
si arrestò, capendo che stava andando su un terreno minato.
-
…lasciamo
perdere, non ho voglia di litigare con te e rovinarci la festa.-
concluse
sbuffando.
Sanae non
poteva
darle torto, purtroppo Elena aveva ragione su tutti i fronti, ma lei
non voleva
ammetterlo nemmeno con se stessa. Yosuke era prepotente e arrogante,
non teneva
minimamente in considerazione l’opinione altrui, inoltre non
mascherava l’odio
profondo che provava per Tsubasa. Si chiedeva, se fosse lei la causa di
tanto
disprezzo. Shiratori sapeva dei suoi sentimenti per l’ex
capitano della
Nankatsu e aveva spesso ripetuto quanto, a suo giudizio,
quest’ultimo si fosse
dimostrato stupido e cieco ad ignorarla.
- Va bene
non
parliamone più.- si limitò a dire.
Elena
annuì e
ritrovando il sorriso le chiese di andare a ballare, invito, che Sanae
accettò
volentieri. Scattando in piedi e saltellando verso il centro della
stanza, si
unì alle danze, trascinata dai compagni, che si muovevano
come scalmanati al
ritmo di una musica latina.
I ragazzi,
tutti
decisamente alticci e storditi dai fumi dall’alcool erano
seduti o, piuttosto,
stravaccati sui plaid e i cuscini, ridendo per le battute
più stupide. Ishizaki
ci stava dando dentro, aiutato dal suo stato ebbro, che gli aveva tolto
gli
ultimi freni inibitori del cervello. Stava intrattenendo gli amici con
delle
divagazioni pseudofilosofiche sulle differenze tra gli uomini e le
donne,
scatenando l’ilarità dei presenti. Elena e Sanae
si tenevano la pancia dal
ridere, mentre Yukari, imbarazzata, non faceva altro che dargli
gomitate o
scappellotti dietro la nuca, portando i presenti a scompisciarsi.
- Bah,
Ishizaki
sei un vero maiale!- esclamò colpendolo con un canovaccio
raccolto dal tavolo,
dopo l’ennesima battuta spinta.
Sanae aveva
mal
di pancia e le lacrime agli occhi, si alzò di corsa e si
diresse al piano di
sopra, verso la toilette.
- Che
c’è
manager, te la stai facendo addosso?- gridò tra le risa,
istigando Yukari a
frustarlo col tovagliolo ancora più forte.
La serata
stava trascorrendo
in modo piacevolissimo, nonostante la piccola discussione avuta con
Elena.
Aveva fatto bene ad andare dai suoi amici, Yosuke le avrebbe tenuto il
broncio
per un po’, ma ne era valsa la pena. Si fermò un
secondo a riflettere su quanto
la loro presenza fosse importante nella sua vita, le sarebbero mancati
tutti
quanti ora che la scuola era finita ed ognuno sarebbe andato per la
propria
strada, ma avrebbe portato sempre nel cuore ogni singolo ricordo, anche
i
dispetti di Ishizaki. Era il suo più vecchio amico: si
conoscevano fin dalla
prima elementare ed avevano condiviso tante esperienze assieme. Con la
mente
riandò al giorno della sfida contro la Shutetsu
e sorrise rivedendosi con la divisa
maschile e l’hachimaki sulla fronte, mentre tifava entusiasta
per la squadra,
per Tsubasa, già Tsubasa…sempre lui,
evidentemente era impossibile non pensarlo,
aveva avuto una parte troppo importante nella sua vita.
-Ehi,
manager
sei caduta dentro al water?- uscendo dal bagno, sentì
gridare Ishizaki dal
piano terra e Yukari che prontamente lo rimproverava per la sua
mancanza di
tatto.
- Che
scemo!-
scoppiò a ridere.
Il telefono
squillò improvvisamente, ma nessuno al piano sottostante lo
sentiva da quanto
chiasso stavano facendo. Faticando a trattenere le risate,
andò a rispondere,
meravigliandosi che qualcuno potesse chiamare ad un’ora
così tarda.
- Pronto,
qui
Misaki, sono Sanae.- disse ridendo divertita.
Nessuno
rispose.
- Pronto?-
ripeté,
non ottenendo risposta.
Stava per
riappendere la cornetta, pensando che, probabilmente, si trattava di
uno
stupido scherzo.
- Ciao,
Sanae.-
il suo respiro si bloccò.
- Sono
Tsubasa.-
Spero di avervi sorpreso con quest’ultima
parte, per il seguito della conversazione vi invito a seguirmi ancora
con
Fioritura.
Vorrei ringraziare tutte le persone che
leggono la storia, sperando che la storia stia piacendo a tutti.
Rossy: mi fa piacere che ti stia affezionando
ai due maschietti K, allora ti invito a non perdere il prossimo
capitolo.
Onlyhope: Betta cara, non ti far venire un
travaso di bile su questo chappy e attendi paziente.
Dolcebarbara: spero che la mia FF continui
ad essere di tuo gradimento, cara.
Saluto tutti con un grosso bacio e al
prossimo capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Finalmente noi ***
Capitolo 11
Finalmente noi
La sveglia
suonò
all’improvviso, Kasumi si rigirò nel letto,
affondando sotto le coperte per
attutire il rumore metallico. Il fusuma
si aprì leggermente e ne spuntò il viso stravolto
di Kojiro, che biascicò alla
sorella di spegnere quell’aggeggio infernale, prima che lo
scaraventasse fuori
dalla finestra. La madre entrò nella stanza sorridendo.
- Festa
grande,
ieri sera?- domandò, vedendo i due figli ancora mezzi
addormentati.
Kojiro
mugugnò
qualcosa e strisciò nuovamente sotto le coperte, mentre
Kasumi si sollevò a
sedere con gli occhi ancora chiusi, sbadigliò e prese in
mano la sveglia che si
era acquietata. Non era tardissimo, ma c’erano i quadri da
andare a vedere e
non voleva più aspettare. Si fece forza e si diresse in
bagno, nonostante il
sonno.
Lo specchio
non
rifletteva un’immagine incoraggiante: i suoi occhi erano
rossi e i capelli arruffati.
La sera precedente avevano festeggiato la terza vittoria in Campionato
fino
alle tre di notte ed ora i risultati erano ben visibili. Alle sue
spalle arrivò
Kojiro, che sembrava uno zombie, con il pigiama mezzo aperto sul petto.
Si
rimisero in sesto e si prepararono per andare a scuola.
Mentre
rigirava le
bacchette nella zuppa, Kasumi pensò alla sera precedente:
per tutto il tempo, Ken
non aveva fatto altro che lanciarle occhiatine, cui lei rispondeva con
sorrisi
e strizzate d’occhio, di nascosto dal fratello, ma non ci fu
altro, perché i
giocatori la chiamavano da una parte all’altra e Kojiro
sventava ogni occasione
per riuscire a stare un po’ in disparte. Dopo il pomeriggio a
casa dei
Wakashimazu, non avevano avuto modo di parlare di quello che era
successo.
- Sorellona,
stai bene?- si voltò, cogliendo lo sguardo indagatore della
sorellina.
-
Sì, sì Naoko,
perché?-
- Continui a
sospirare languidamente.- rispose con un sorriso furbetto. I tre
“uomini” di
casa si voltarono tutti nella loro direzione, attendendo una risposta
da
Kasumi.
- Forse
vostra
sorella è innamorata.- disse distrattamente la madre, mentre
posava il riso sul
tavolo.
- EHHHH?-
esclamò sentendo le guance andare a fuoco, mentre Kojiro
tossiva, perché l’ocha
gli era andato di traverso. Takeru
e Masaru ridacchiavano dandosi delle gomitate e ammiccando verso di
lei, mentre
Naoko continuava a chiedere il nome del fortunato battendo le mani.
- Ma no, che
ti
viene in mente mamma?- esclamò, mentre agitava le mani
davanti a sé.
- Tesoro
sarebbe
più che normale alla tua età, anzi mi piacerebbe
che anche tuo fratello
trovasse una brava ragazza. Almeno gli smusserebbe il carattere ruvido,
che si
ritrova.- sentenziò la signora Hyuga.
I bambini
scoppiarono a ridere divertiti, mentre i gemelli si guardarono
imbarazzati.
- Kasumi,
è ora
di andare.- disse Kojiro, scattando in piedi.
-
Decisamente,
sì- rispose, seguendolo a ruota.
Per la
strada
incrociarono Sorimachi e Wakashimazu e insieme si diressero verso
l’istituto.
Kasumi cercò di avvicinarsi a Ken, ma Kojiro la
anticipò attaccando bottone con
l’amico, mentre Kazuki si appiccicò a lei.
Iniziò a domandarsi, se lo stessero
facendo di proposito: per quanto riguardava suo fratello, non aveva
dubbi, ma
escludeva che anche Sorimachi avesse intenzione di tenerla lontana da
lui, non
ne aveva motivo o almeno così credeva.
Arrivati a
scuola, videro gente che piangeva o che festeggiava per la gioia. Si
avvicinarono, sperando di potersi unire al secondo gruppo. Adocchiarono
subito il
nome di Sorimachi tra i promossi, che gridò felice alzando
le braccia, poi
trovarono uno dei due Hyuga, scoprendo poi che si trattava di Kojiro.
Kasumi e
Ken non riuscivano a trovare i loro nomi, possibile che non avessero
superato
l’esame? Ad un tratto si sentirono chiamare da una ragazza
dai capelli corti,
una delle ammiratrici del portiere, che gli indicò il suo
nome al decimo posto.
Tirò un sospiro di sollievo, ma mancava ancora Kasumi. La
ragazza iniziò ad
agitarsi e sentiva che le lacrime stavano per farle capolino, quando
Wakashimazu esclamò soddisfatto e avvicinandola a
sé, le indicò il terzo posto
dove era scritto “Hyuga Kasumi”. Finalmente libera
dalla tensione si gettò al
collo del ragazzo, gridando per la gioia. Ken rispose a quel gesto
improvviso
con altrettanto calore, ma entrambi si staccarono, ricomponendosi, non
appena ricordarono
che i compagni di scuola li stavano guardando. Kojiro lanciava saette
dagli
occhi e stava per avventarsi contro il portiere, se Sorimachi non fosse
intervenuto per portare via Kasumi, perché le doveva parlare.
Ken e il suo
capitano li videro allontanarsi, poi Kojiro gli rivolse uno sguardo di
fuoco.
- Non ti
scaldare.- gli disse semplicemente Ken. Hyuga stava per mettergli le
mani
addosso, ma lui, fissandolo con le braccia conserte e la calma di un
monaco
buddista, lo spiazzò totalmente.
-
Perché non
dici niente a Sorimachi, che se la sta portando via? L’unico
verme schifoso da
tenere alla larga sono io?- chiese, mentre Kojiro sgranava gli occhi.
La tigre,
pronta a balzare sulla nuova preda, si voltò di scatto, ma
fu trattenuto
dall’amico che scuoteva la testa.
- Dovresti
lasciarla respirare, non capisci che più fai
così, più rischi di allontanarla?-
Kojiro lo
ignorò
e si divincolò dalla presa, cercando di seguire i due, che
ormai erano spariti
dalla sua visuale.
- Tu mi
piaci
molto Kasumi.-
Non si
sarebbe
mai aspettata una dichiarazione, proprio da lui, non le aveva mai fatto
capire
nulla.
- Avevo
qualche
dubbio a dichiararmi, perché tuo fratello mi sembra molto
geloso.-
Non era
proprio
il caso di rigirare il dito nella piaga, probabilmente se Kojiro non si
fosse
intromesso in continuazione, lei e Ken starebbero già
insieme. Sorimachi la
scrutava ansioso, attendendo una risposta.
- Mi
dispiace,
ma c’è già un altro.- Era la
verità, sua madre aveva visto giusto, lei era
innamorata, non poteva più negarlo.
-
L’altro è
Wakashimazu, vero?- chiese sconsolato.
-
E’ così
evidente?-
- Diciamo
che
non lo avevo mai visto guardare una ragazza, come guarda te, anzi a dir
la
verità, non le guardava affatto.-
Si sentiva
imbarazzata e un po’ in colpa, perchè non poteva
accettare il suo affetto e
forse lei, con il suo carattere espansivo, gli aveva dato false
speranze.
- Non ti
preoccupare Kasumi, non sono un bambino, mi passerà.-
tentò di sorridere per
non preoccuparla.
Kojiro li
trovò
e si parò subito tra loro due, chiedendo spiegazioni. Kasumi
sbuffò
infastidita, mentre Sorimachi guardava incerto il suo capitano, che
sembrava un
cane rabbioso.
- Stavamo
solo
parlando.- lo tirò per la manica, per allontanarlo, ma lui
la scostò,
fulminandola con lo sguardo. Ne aveva abbastanza: stava superando ogni
limite.
- Te
l’ho già
detto: mi stai stufando con questa gelosia!- gridò e si
diresse verso l’uscita,
salutando distrattamente Kazuki.
Camminava a
passo svelto, con i pugni serrati in tasca e uno sguardo scuro. Non ce
la
faceva più a sopportare la presenza opprimente del fratello,
era ora che Kojiro
capisse che lei era libera di fare quello che voleva, che non era
più una
bambina da tenere sotto vetro. Ad un certo punto si arrestò.
Ken! Non lo aveva
nemmeno salutato.
- Dah,
è tutta
colpa di quell’idiota di mio fratello. Sempre lui a rompere
le uova nel paniere!-
disse colpendo un palo della luce con la suola della scarpa, poi
proseguì
borbottando fino a casa.
Kojiro
tornò per
l’ora di pranzo e cercò subito sua sorella, che
stava in cucina a preparare il
pranzo. Masaru e Naoko giocavano a rincorrersi attorno al tavolo,
schiamazzando
allegramente.
- Insomma
state
un po’ buoni!- li sgridò Kasumi, che stava
cercando di pensare.
Kojiro
entrò
nella stanza e con un cenno della mano, invitò i fratellini
ad uscire.
Si
accostò al
piano cottura, per vedere cosa stesse preparando.
-
Perché sei
andata via in quel modo?-
Kasumi,
pronta a
scoppiare, lo guardò con gli occhi in fiamme.
-
Stamattina, ti
sei reso ridicolo, per l’ultima volta!- esclamò,
lasciandolo di stucco.
- Ti avverto
Kojiro, smettila con la tua assurda iperprotettività,
altrimenti ti assicuro
che me ne torno da dove sono venuta!- gridò, puntandogli
contro le hashi* e detto questo se
ne andò
avvertendo la madre che avrebbe mangiato in camera sua.
La signora
Hyuga
servì il pranzo e dopo il pasto mandò i bambini a
giocare, perché desiderava
parlare a quattrocchi con il figlio.
- Kojiro
credo
che tu debba iniziare a crescere un pochino e imparare a distaccarti da
noi.-
Quelle
parole lo
trapassarono come un fulmine, perché sua madre gli stava
dicendo una cosa
simile?
- So
perché tua
sorella è arrabbiata e non la posso biasimare. Non ti stai
comportando bene con
lei.- lo rimproverò.
- Cerco solo
di
proteggerla, mamma.- confessò.
- Lo so,
figlio
mio, ma non puoi. Io sono vostra madre e solo il cielo sa quanto tengo
a voi e
come vorrei che la vostra strada sia sempre priva di ostacoli, ma
purtroppo non
è possibile. Dovete fare le vostre esperienze, anche nel
dolore.- gli spiegò
con il suo tono paziente.
- Io non
voglio
più veder soffrire nessuno in questa casa.-
sentenziò.
La signora
Hyuga
sospirò: suo figlio era proprio testardo.
- La vita
è
fatta anche di sofferenza Kojiro, non puoi evitarlo e soprattutto non
puoi
evitare a tua sorella di vivere normalmente. Siete entrambi adulti ed
è giusto
che facciate le vostre esperienze, anche brutte se è
necessario.-
Kojiro non
rispose. Comprendeva benissimo il punto di vista della madre, ma non
poteva
accettarlo: la sua famiglia aveva già subito abbastanza.
Dolore, umiliazione,
privazioni, tutte cose che conoscevano fin troppo bene.
La madre gli
sorrise dolcemente e gli carezzò la testa. Normalmente
sarebbe sfuggito a quel
contatto, ma in quel momento sentì che in qualche modo ne
aveva bisogno. Con un
gesto che lasciò la signora Hyuga piacevolmente colpita, le
prese la mano e la
strinse forte nelle sue. La donna rimirò il figlio, ormai
diventato un uomo,
tornando con la mente ai giorni in cui era piccolo abbastanza da essere
preso
in braccio, quando era ancora innocente e felice.
- Non
tentare di
schivare il dolore, Kojiro. Ricordati che sei forte abbastanza, per
superare
qualsiasi problema.-
Kasumi era
sdraiata sul pavimento, intenta a rimirare il soffitto, quando Kojiro
entrò con
la ferma intenzione di far pace con lei, anche se non sapeva nemmeno da
dove
cominciare. Si inginocchiò accanto a lei, che gli
lanciò un’occhiata severa.
- Temo di
doverti delle scuse.- disse con tono poco convincente.
Kasumi non
rispose, voleva vedere fino a che punto si sarebbe arrampicato sugli
specchi
per fare una cosa cui era così poco abituato.
- Credo di
avere
esagerato.-
- Credi?!-
gli
chiese stizzita.- Hai grattato il fondo del barile, stamani. Non puoi
nemmeno
immaginare quanto siano umilianti le tue piazzate.- si alzò
additandolo.
Kojiro
cercò di
prendere parola, ma sua sorella non gli diede il tempo.
- Mi sembra
di
essere il tuo giocattolino, che nessuno deve toccare.- si premette la
mano sul
petto.
- Ma non
è così
Kasumi…- si difese.
- Invece
sì!- lo
interruppe, mentre le lacrime le sgorgavano dagli occhi.
Kojiro
rimase
pietrificato, sua sorella stava piangendo e il responsabile era lui.
- Non sono
libera di scherzare con i tuoi amici, perché sei geloso. Se
uno di loro cerca
di avvicinarsi un po’ di più a me, fai delle
scenate patetiche. Come credi che
mi debba sentire io?- esclamò, con le guance rigate dalle
lacrime. Kojiro era
imbarazzato, non credeva che il suo comportamento fosse così
irritante.
- Io vorrei
solo
che tu fossi felice.- bisbigliò in tono sommesso.
- Kojiro, io
sono felice. Cos’altro potrei desiderare?- gli chiese
allargando le braccia.
L’unica
cosa che
entrambi potevano desiderare, non la potevano avere.
Le si
avvicinò e
la abbracciò.
- Scusa
Kasumi.-
le diede un bacio sul capo. – Io ti voglio bene, sorellina.-
Si
asciugò le
lacrime e sorrise.
-
Anch’io ti
voglio bene, Kojiro.-
-
Cercherò di
lasciarti in pace.- le disse poggiando le mani sulle sue spalle.
- Mi
basterebbe
che evitassi d’infuriarti, ogni volta che un tuo amico si
avvicina a me.- gli
diede un buffetto sulla guancia, ricevendo un sorriso benevolo come
risposta.
Nonostante
il
Campionato fosse terminato, la Toho continuava ad
allenarsi, perchè i giocatori dovevano
prepararsi per le selezioni in Nazionale. Kasumi stava passando i
palloni dalla
cesta al fratello, mentre Wakashimazu si tuffava a destra e a sinistra
per
parare. Ad un certo punto una cannonata più forte delle
altre, fece urlare di
dolore l’estremo difensore.
- Ops, scusa
Ken.- disse Kojiro, alzando la mano.
- Tutto bene
Wakashimazu?- gli si avvicinò Kasumi.
Il ragazzo
annuì, ma si teneva la mano sinistra, stringendo i denti.
Kasumi gliela prese
tra le sue e lo invitò a seguirla in infermeria. Kojiro
serrò i pugni e tacque,
memore della discussione avuta con la sorella. Si volse verso i
compagni e
disse di proseguire l’allenamento, mentre il portiere si
allontanava tirato per
la manica dalla ragazza.
L’infermeria
era
deserta, dato che l’orario delle inservienti era terminato da
un po’. Kasumi lo
fece sedere sul lettino e gli sfilò delicatamente il guanto,
cercando di
provocargli meno dolore possibile. Poi si avviò
all’armadietto dei medicinali
per trovare qualche gel antidolorifico. Mentre rovistava tra bende e
siringhe,
pensò che erano soli e che finalmente avrebbero potuto
parlare di loro. Sorrise
e afferrò un tubetto di gel a base di arnica e delle bende.
Prima gli
disinfettò la mano con l’alcool, poi
iniziò a passargli la gelatina sulla
pelle. Ken sentì una sensazione di freddo
all’inizio, poi la mano iniziò a scaldarsi,
ma il ragazzo era più concentrato sul contatto con le mani
di lei, che scivolavano
piano piano esercitando una leggera pressione. Prese le bende ed
iniziò ad
eseguire la fasciatura. Ken osservò per qualche istante
l’operazione, poi alzò
lo sguardo verso di lei, che aveva quella stessa espressione assorta,
che lo
aveva reso succube, giorni fa, a casa sua. Com’erano lunghe
le sue ciglia, ma
soprattutto quanto erano invitanti le sue labbra. Il cuore
iniziò a rimbombare nel
suo petto, mentre ricordava quanto fosse andato vicino a sfiorarle.
Kasumi
fermò la
benda con una graffetta e alzò lo sguardo sorridente.
- Fatto!-
disse
carezzandogli la mano fasciata. Il respiro le si bloccò,
quando incontrò i suoi
occhi brillanti che la guardavano dolcemente. Avrebbe voluto dire
qualcosa,
qualsiasi cosa, ma la voce le morì nella gola.
Abbassò lo sguardo, mentre le
gote si imporporavano.
Ken si
abbassò e
le posò le labbra sulla fronte.
- Grazie.-
sussurrò sulla sua pelle.
Fu allora,
che
lei prese l’iniziativa e alzando il viso lo baciò.
Ken restò immobile, sorpreso
da quel gesto ardito, ma quando lei si allontanò, non pago
di quel contatto, la
strinse a sé con forza.
Kasumi lo
guardò
timidamente.
- Ken, tu
mi…-
ma non poté finire la frase, perché stavolta fu
lui a baciarla con passione,
stringendola per la vita, mentre lei gli accarezzava il collo.
- Lo so.-
sussurrò con la fronte appoggiata alla sua.
- Vale anche
per
me.- le sorrise.
Kasumi prese
il
suo viso tra le mani e si unirono in un altro bacio da togliere il
fiato.
In campo
Kojiro
cercava stoicamente di far finta di niente, ma ogni tanto gettava
occhiate
ansiose verso l’infermeria, domandandosi dove fossero finiti
e se fosse il caso
di andarli a cercare. Nel frattempo, Kasumi e Ken si avviavano verso
l’uscita,
mano nella mano, ma improvvisamente lei si arrestò.
- Ken devo
chiederti di non dire niente a Kojiro, vorrei dirglielo io con calma.-
Wakashimazu
non
rispose.
- Tra poco
avrete
le selezioni in Nazionale e io non voglio che litighiate.- lo
guardò
implorante.
- Si
arrabbierebbe comunque.- rispose rassegnato.
- So che ha
un
caratteraccio, ma è una persona fondamentalmente buona,
vedrai che capirà e non
dirà niente.-
-
Sì, lo conosco
bene. D’accordo faremo finta di niente per il momento.-
sospirò.
Kasumi
sorrise e
lo abbracciò.
- Te lo
prometto, solo per poco tempo, poi gli dirò tutto.- si
sciolse dal suo
abbraccio e si avviò.
- E poi mio
fratello dovrà capire che, se mi va, posso uscire anche con
tutta la squadra.-
Ken la
bloccò e
la strinse per la vita.
- Ehi,
ragazzina. Come tutta la squadra?- disse ridendo.
Kasumi rise
a
sua volta.
- Che
c’è sei
geloso?- lo punzecchiò liberandosi dalla sua presa.
Ad un passo
dall’uscita, Ken le prese la mano e la fece voltare, poi la
strinse e la baciò.
- Volevo
farlo,
prima di tornare dal “nemico”.- disse ridendo.
Kasumi gli
sorrise dolcemente, poi tornarono dagli altri, dissimulando
perfettamente,
mentre dentro di loro gridavano di gioia. Tornarono alle loro mansioni
e mentre
Kasumi puliva il pallone, che aveva raccolto da terra, pensò
che l’ultima volta
che si era sentita così felice, fu, quando il padre era
ancora vivo. Sorrise al
pensiero del caro genitore, prematuramente scomparso, sperando che,
ovunque
fosse, potesse sentire anche lui quel calore che le stava scaldando
l’animo.
* In
Giappone, è
un gesto molto scortese.
Finalmente Kasumi e Ken si sono
messi insieme...dedico il capitolo a quanti di voi speravano che tra i
due succedesse qualcosa.
Ringrazio tutte le persone che
mi dedicano il loro tempo anche solo per leggere la mia FF e un grazie
particolare a coloro che recensiscono: le vostre parole mi danno la
carica!
Un caro abbraccio a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Bruciante verità ***
Capitolo 12
Bruciante verità
- Sono,
Tsubasa.-
Il respiro
le
mancò, la pelle del viso si scaldò fin quasi ad
ardere, il cuore iniziò ad
accelerare i battiti. Dovette reggersi con una mano al mobile per dare
supporto
alle gambe, che non riuscivano più a reggerla per
l’emozione. Perché Tsubasa
doveva essere così prepotentemente presente nella sua vita?
Strinse forte il
legno sotto le sue dita, per calmare quel tumulto, che si agitava
dentro di
lei.
-
Tsubasa…- articolò
con voce fioca.
Quella voce
arrivò alle sue orecchie come il suono più bello
del mondo, le sue labbra si
allargarono in un sorriso, mentre il cuore galoppava impazzito.
- Sanae!-
esclamò felice.- Come stai?-
-
B…bene.-
rispose, cercando di controllare il tremolio della voce, mentre si
chiedeva
come potesse essere così allegro e tranquillo, dopo tre anni
di silenzio.
- Scusami,
se
non ti ho mai chiamata in tutto questo tempo.- rispose come se le
avesse letto
nel pensiero. Anche se non poteva spiegarle i motivi, ci teneva in ogni
caso a
chiedere perdono,.
-
Neanch’io ho
cercato di contattarti.- ammise tutto d’un fiato, realizzando
solo dopo ciò che
aveva proferito.
-
Bé sono
partito così all’improvviso…mi
dispiace, Sanae, devi credermi…- insistette
mortificato.
Sanae non
riusciva a ragionare, non capiva come fosse possibile trovarsi in una
situazione tanto assurda. Si chiese se non fosse meglio porre fine a
quell’imbarazzante conversazione, buttando semplicemente
giù la cornetta, ma
qualcosa glielo impedì.
- Noi stiamo
festeggiando la fine del Campionato.- riprese il discorso, lottando
contro le
emozioni che imperversavano sul suo cuore.
- Ah, come
è
andata?- chiese, andando a parare in un terreno a lui più
congeniale, per poi
pentirsi immediatamente di aver fatto quella domanda. La ragazza che
amava era
al telefono con lui, dopo tre anni che non la sentiva e lui doveva
rovinare
tutto, buttando il discorso sul calcio, come spesso aveva fatto in
passato.
In quel
momento,
Misaki spuntò dall’angolo e la vide al telefono.
Immaginava con chi fosse all’apparecchio,
quindi si avvicinò per prenderle la cornetta, ma Sanae gli
mostrò il palmo
della mano per fermarlo e si apprestò a rispondere alla
domanda.
- Scusa,
Sanae.-
sospirò – Sono veramente un
imbranato…è che vorrei dirti tante di quelle
cose…-
Sanae
sentì
pizzicare gli occhi e si morse il labbro inferiore per non cedere alle
lacrime.
Anche lei avrebbe voluto dirgli tante cose, ma le parole non riuscivano
ad
uscirle dalla bocca.
- Non vedo
l’ora
di poterti parlare guardandoti negli occhi.- confessò
dolcemente.
Un senso di
oppressione al petto la soffocava. Strizzò le palpebre, nel
vano tentativo di
trattenere le lacrime. Taro la osservava in silenzio, ma
spalancò gli occhi,
quando vide una goccia scivolarle lungo la guancia. Le posò
una mano sulla
spalla e con sguardo bonario le fece cenno di lasciarle il telefono,
prima che
scoppiasse a piangere.
- Tsubasa
io…ti
devo salutare….ti passo Misaki.- disse con
l’ultimo sforzo di conservare la
calma.
-
Ciao…- “….amore
mio” disse dentro di sé. Avrebbe voluto
urlarglielo con tutto il fiato che
aveva in corpo, ma non era né il momento né il
modo adatto. Sanae meritava di
sentirsi dire di persona quanto fosse importante per lui.
Passò
il
ricevitore a Misaki e si diresse mestamente verso le scale. Taro la
osservò tenendo
d’occhio i suoi movimenti, mentre si avvicinava la cornetta
all’orecchio e
quando sentì che stava scendendo le scale, iniziò
a parlare.
- Scusa
Tsubasa,
ma c’era una tale confusione di sotto…se avessi
sentito il telefono le avrei
impedito di rispondere- si giustificò. Sanae
captò quelle poche parole, mentre percorreva
gli ultimi gradini e non vista ritornò silenziosamente sui
suoi passi per
nascondersi dietro l’angolo ad origliare: Taro le nascondeva
qualcosa.
Tsubasa rise
felice: - Mi prendi in giro Taro? Non immagini quello che sto provando
in
questo momento! Quando ho capito che era lei al telefono, stavo per
impazzire
dalla gioia.-
Taro assunse
un’espressione grave, il suo migliore amico era felice, ma
c’erano cose che lui
non sapeva. “Non dire niente a Tsubasa”: la voce di
Yayoi gli riecheggiò nella
mente.
- Sono
contento
per te.- cercò di suonare convincente.
- Amico mio,
credimi, se prima avevo qualche dubbio, ora è sparito. Devo
tornare in Giappone
e dirle tutto: non voglio più stare senza di lei.- Tsubasa
era emozionato: non
immaginava che solo sentire la voce del suo angelo, lo avrebbe messo in
un tale
stato di grazia.
Taro si
sentiva
angosciato, non voleva smontare la sua felicità, ma non
poteva nemmeno ignorare
l’esistenza di Yosuke Shiratori, che gli aveva portato via
Sanae.
- Sei
così
innamorato di lei?- deglutì nervosamente.
“Innamorato…innamorato”
Sanae non riuscì a credere a ciò che aveva appena
sentito, possibile che stesse
parlando di lei. Le lacrime scesero spontaneamente e dovette coprirsi
la bocca
con le mani per nascondere i singhiozzi, mentre scivolava lungo la
parete per
abbandonarsi a sedere sul pavimento.
-
Sì, lo sono sempre stato, ma solo
ora ho raggiunto la maturità per capirlo, mi auguro che non
sia troppo tardi.-
Quelle
parole colpirono Taro come
una zavorra e, per l’ennesima volta, si chiese se facesse
bene a nascondergli
che Sanae stava con Shiratori.
-
Sai, tra breve ci rivedremo: sono
stato convocato per le eliminatorie.-
-
Sì, ce lo hanno comunicato. Ci
saremo io, Morisaki, Izawa, Taki, Kisugi, Takasugi e Ishizaki.-
-
Splendido! Vi rincontrerò tutti.-
esclamò contento.
-
Allora, ci vediamo, quando
torni.-
Sanae
sussultò.
-
Sì, ciao
Misaki. Dì a Sanae che mi manca tantissimo.- riappese la
cornetta e si avviò felice
da Pepe, per raccontargli della telefonata.
Taro
sospirò e
si avviò verso le scale, ma, quando svoltò
l’angolo, si arrestò come congelato.
Sanae era seduta a terra con il volto nascosto sulle ginocchia, scossa
dai
singhiozzi: doveva aver sentito tutto.
- Da quanto
va
avanti, Misaki?- lo sguardo al pavimento e la voce rotta dal pianto.
Taro tacque,
incapace di rispondere a quella domanda accusatoria, ma Sanae gli
rivolse
un’occhiata carica di rabbia.
- Rispondimi
maledizione!- imprecò.
Elena rimase
bloccata
sulle scale, guardando alternatamene Sanae e il suo ragazzo e intuendo
che
fosse successo qualcosa di grave, ritornò al piano inferiore
per cercare di
convincere gli ospiti a tornare a casa, facendosi aiutare da Yukari e
Morisaki,
gli unici sobri, prima che l’atmosfera divenisse
irrespirabile.
Taro si
avvicinò
per farla rialzare, ma lei lo scostò bruscamente.
- Non mi
rispondi vigliacco?!- i suoi occhi erano rossi dal pianto, che
continuava a
scorrerle sul viso contorto dalla sofferenza.
- Sanae,
cerca
di calmarti, ti spiegherò ogni cosa te lo giuro, ma adesso
vieni con me, non
vorrai che gli altri ti vedano così?- le circondò
le spalle con un braccio e la
fece accomodare nella sua cameretta, poi raggiunse Elena al piano
terra, per
salutare gli ospiti.
- Ehi, ma
Anego
dov’è?- domandò Ishizaki con la bocca
impastata dall’alcool.
Taro ed
Elena si
guardarono incerti.
- Si
è
addormentata sul mio letto, quella scema era più ubriaca di
quanto sembrasse.-
disse Taro, accompagnando la pietosa scusa con una risata, cui fecero
eco i
compagni brilli.
Salutarono
tutti, poi appena rimasero soli, Taro spiegò velocemente la
situazione ad
Elena, che si coprì il volto con le mani. Si aspettava che
la verità sarebbe
saltata fuori e ora ne avrebbero pagato le conseguenze.
- Ascoltami:
Sanae è piuttosto sconvolta, è di sopra che
continua a piangere.-
- Vai da lei
e
non lasciarla sola. Io le preparo una camomilla, le servirà
sicuramente.- gli
accarezzò una guancia e si diresse in cucina.
Taro la
trovò
accucciata sul letto con la testa tra le mani, incapace di calmare i
singhiozzi.
-
Sanae…- si
sedette accanto a lei e le circondò le spalle con un
braccio, ma lei lo
allontanò. Non si fidava più, aveva capito che
Taro le aveva nascosto qualcosa
di molto importante.
Elena li
raggiunse con una tazza fumante.
- Bevi
questa
Sanae, ti farà bene.- le porse la camomilla.
Prese la
tazza
senza nemmeno ringraziare e ingoiò qualche sorso, mentre
squadrava torvamente entrambi.
- Cosa
sapete?-
domandò a bruciapelo.
Elena
scrutò
preoccupata il suo ragazzo, che si accomodò alla poltroncina
della scrivania e
sospirando cercò di raccogliere le idee per usare le parole
più giuste.
- In questi
tre
anni, io e Tsubasa siamo sempre stati in contatto.- iniziò.
- Misaki non
tergiversare, cosa mi nascondi?- sentenziò piccata, con la
voce rotta dal
pianto.
- Tsubasa
è
innamorato di te, Sanae.- intervenne Elena, confessando, finalmente,
ciò che
più le premeva sapere.
Si
portò una
mano al volto, mentre il petto sussultava per i singhiozzi.
- Da quanto
lo
sapete?- chiuse gli occhi e sospirò.
- Me lo
disse
prima di partire, io ed Elena eravamo ancora a Parigi. Voi eravate
appena
tornati dalla gita del terzo anno.- Non lo interruppe, voleva sentire
tutto ciò
che non le avevano detto in quei tre anni e lui proseguì,
incoraggiato dal suo silenzio.
- Mi disse
che
si era accorto di provare dei sentimenti forti, che la partenza sarebbe
stata
molto dolorosa. Perciò è andato in Brasile senza
nemmeno salutarti.-
La nebbia
nel
suo cuore iniziava a diradare e molte delle domande, che si era posta
continuamente in quei tre anni, stavano trovando risposta.
- Sperava
che i
suoi e i tuoi sentimenti si sarebbero affievoliti col tempo. Lui non
voleva
relegarti a fidanzata a distanza.-
Sanae si
prese
la testa tra le mani, confusa e amareggiata, anche se non sapeva contro
chi
indirizzare questi sentimenti: Taro che le aveva nascosto la
verità o lei che
era stata troppo vigliacca e aveva preferito cedere al dolore,
piuttosto che
combattere per il ragazzo che amava?
-
Capisci Sanae, è per questo che
non si è mai fatto sentire da te e ha fatto di tutto per
sparire dalla tua
vita.- le spiegò Elena.
-
Ma non c’è riuscito, lui ti ama e
molto.- disse Taro, che nel frattempo accese il PC per mostrarle le
e-mail
inviate dall’amico in quei tre anni: tanto valeva non
nasconderle più niente.
La fece
accomodare al suo posto e la invitò a leggere. Sanae
aprì un messaggio, che Tsubasa
doveva aver inviato almeno una settimana dopo l’arrivo a San
Paolo.
Ciao Taro,
stasera sono proprio abbattuto, le selezioni
sono durissime e oltretutto il mio compagno di stanza mi ha fatto
capire che
non mi sopporta…ho cominciato proprio in bellezza.
E’ dura stare lontani da casa, dagli
amici,
ma soprattutto da una persona speciale come Sanae. Spero, solo di
riuscire a
dimenticarla, anche se più passa il tempo, più
penso a lei, la cerco con lo
sguardo, ricordandomi solo dopo che non è qui con me.
La vista le
sia
annebbiò a causa del pianto che aveva ricominciato a
riempirle gli occhi,
chiuse l’e-mail e sprofondò il viso tra le mani.
Non volle leggere altro:
poteva immaginare cosa contenesse il resto messaggi e non ce la faceva
più.
Come avevano potuto nasconderle tutto questo?
- Perdonaci,
Sanae. Avremmo dovuto dirtelo.- disse Elena, mortificata.
Alzò
il volto
bagnato: i suoi occhi erano carichi di disprezzo.
- Tsubasa mi
ha
fatto giurare di non dirti niente.- si affrettò a precisare
Taro.
Scattò
in piedi,
ansimante per il furore che la stava logorando.
Taro fece un
passo indietro.
- Cerca di
calmarti, Sanae. Capisci che Tsubasa è il mio migliore
amico…-
- E IO? IO
COSA
SONO MISAKI?! CREDEVO DI ESSERE TUA AMICA ANCH’IO!-
abbassò lo sguardo, lo
stomaco le doleva per il nervoso.
- Ti sei
divertito a vedermi soffrire?- chiese con un sorriso maligno.
Taro scosse
la
testa incapace di difendersi.
- Sei solo
un
falso doppiogiochista!- sibilò.
- Ora stai
esagerando, Sanae.- intervenne Elena. Taro non meritava
un’accusa così cattiva.
- NON
T’INTROMETTERE!-
le puntò il dito contro.
La ragazza
trasalì colpita da quel gesto intimidatorio.
- TU SEI
ANCHE
PEGGIO DI LUI! SIETE FATTI L’UNO PER L’ALTRA!-
imboccò l’uscita e scese come
una furia le scale, lasciandoli lì interdetti. Si
riscossero, quando sentirono
la porta di casa sbattere violentemente.
Taro era
molto
deluso sia di se stesso sia dei suoi amici, solo ora si rendeva conto
di quanto
fosse stato inutile e assurdo nascondere la verità. Tutti
loro erano stati
immaturi e vigliacchi, montando quella stupida farsa. Lui per primo non
avrebbe
dovuto accettare di essere coinvolto.
Sentì
un tepore
avvolgerlo e si accorse che Elena lo stava abbracciando. La sua
piccolina era
stata l’unica ad essere contraria alle decisioni di Tsubasa,
lei era meglio di
tutti loro messi insieme.
- Non dare
peso
a quello che ha detto Sanae. E’ molto arrabbiata in questo
momento.- disse,
sforzandosi di sorridergli, nonostante le parole dell’amica
l’avessero ferita
profondamente. Le posò un bacio sulla fronte e si
andò a sedere sul letto.
-
L’ho combinata
grossa stavolta.- sospirò.
- Non
sentirti
responsabile, Taro. L’hai fatto per lealtà verso
Tsubasa, vedrai che Sanae lo
capirà, quando riuscirà a sbollire la rabbia.- lo
baciò sulla guancia,
portandolo a voltarsi verso di lei per cercare le sue labbra.
Il sapore
dolce
della sua bocca scacciò l’amaro di quella brutta
serata, mentre sentiva le sue
mani che gli accarezzavano la schiena con un tocco deciso. Non lo aveva
mai
baciato con tanta passione. Elena scrutò il suo sguardo
piacevolmente sorpreso,
felice di aver sortito l’effetto desiderato: aspettava quel
momento da tanto. Lo
spinse leggermente per farlo stendere e iniziò a baciargli
il collo, facendolo
rabbrividire. Taro le passò le mani tra i capelli dorati,
mentre con la bocca
andava a cercare la sua. Sentì le sue mani scorrere lungo i
fianchi e tirare la
maglietta per sfilargliela e alzò le braccia per agevolarle
il compito. Elena
scese con le labbra a lambirgli nuovamente il collo, il petto, gli
addominali,
mentre con le dita gli torturava i capezzoli.
Taro
ansimava eccitato,
ma non riuscì a scacciare i dubbi, che gli stavano rovinando
l’estasi di quei
momenti di piacere. Elena era ancora minorenne, inoltre temeva che lei
stesse
cercando di consolarlo per le brutte parole dettegli da Sanae, ma non
voleva
che gli desse anche la parte più intima di sé
solo per vederlo contento. La
camicetta di raso che portava iniziò ad aprirsi, rivelando
un sensuale
reggiseno di pizzo e Taro dovette fare violenza a se stesso, per
scuotersi dal
torpore dell’eccitazione.
- Meglio di
no.-
disse bloccandola, mentre lei cercava di ribellarsi a quella brusca
interruzione.
Elena si
ritrasse
sconvolta. La stava rifiutando: il suo ragazzo non voleva fare
l’amore con lei.
Abbassò lo sguardo sulla sua camicetta aperta e
iniziò a sentirsi bruciare per
la vergogna e l’umiliazione, mentre Taro si rivestiva. Con
una calma quasi
irreale, si alzò e uscì trascinandosi fino alle
scale, non sentendo nemmeno
cosa le stesse dicendo. Scese un paio di gradini, ma poi si dovette
sedere
schiacciata dal peso della delusione. Si aggrappò al
corrimano e si diresse
fino al corridoio, camminando come in trance,
superò l’archetto e prese distrattamente la sua
giacca. Se la infilò, sopra la
camicetta ancora aperta e uscì senza fare il minimo rumore.
Taro stava
rimuginando su quanto era appena successo. Era giusto così,
preferiva aspettare
che Elena fosse un po’ più matura e consapevole di
ciò che comportasse
concedersi al proprio ragazzo. Forse in quel momento era offesa, ma era
sicuro
che avrebbe compreso. Sbuffò per scrollarsi di dosso
l’agitazione. Certo che,
per avere ancora 16 anni, Elena era proprio bella e sensuale:
trattenersi era
stata un’impresa ardua. Scese le scale e andò nel
salotto, pensando di trovarla
sul divano a braccia conserte, imbronciata come una bimba in castigo.
- Elena?-
domandò, non ottenendo risposta. Iniziò a
guardarsi intorno in ansia, risalì al
piano superiore, ma niente anche lì. Ridiscese, mentre una
sgradevole
sensazione alla bocca dello stomaco iniziò ad infastidirlo.
Andò verso l’uscita
e con orrore si accorse che i suoi sospetti erano fondati: gli effetti
di Elena
non c’erano più, era uscita da sola, nel cuore
della notte. Spalancò la porta
per cercare di raggiungerla, ma la via era deserta. Preso dal panico,
andò al
telefono, pensando di avvertire Davide. Afferrò la cornetta,
ma ancor prima di
comporre il numero si arrestò. Come avrebbe potuto
spiegargli quello che era
successo? Ributtò l’apparecchio sulla forcella,
cercando di farsi venire in
mente qualche idea.
Elena
camminava
mollemente per strada inebetita e, senza rendersene conto, si
ritrovò di fronte
alla casa di Sanae. Estrasse il pocket
bell dalla borsa e compose un messaggio.
Sanae si
stava
rigirando nervosamente tra le lenzuola, senza riuscire a trovare una
posizione
comoda. Si alzò disturbata da un trillo irritante, che
proveniva dalla sua
borsa. Ne estrasse l’oggettino, che aveva ancora il display illuminato e lesse il messaggio.
Sono sotto casa tua, puoi aprirmi per favore?
Elena.
Scostò
le tende
dalla finestra e vide che era da sola proprio davanti al cancello. Si
precipitò
all’entrata con le chiavi in mano e andò ad
aprirle.
- Che
diavolo ci
fai qui?!- sibilò irata, ma si bloccò,
perché notò un’aria strana in lei.
Elena
non rispose, le si gettò al collo e cominciò a
piangere.
Sanae, dopo
il
primo momento di stupore, la prese con sé e
l’accompagnò in casa,
sorreggendola. La portò in camera sua e la fece sedere sul
letto. Vedendo che
non reagiva la svestì della giacca e si arrestò
vedendo la sua camicia semiaperta.
- Ma che ti
è
successo?- chiese in ansia, temendo il peggio.
-
Perché sei in
giro da sola? Dov’è Misaki?- domandò a
raffica, cercando di comprendere la
situazione.
- Elena,
rispondimi ti prego!- la implorò scuotendola.
- Hai
ragione tu
Sanae…- bisbigliò con lo sguardo perso nel vuoto.
- Taro
è un
falso, falso e bugiardo.- si nascose il viso piangente tra le mani.
- Ti ha
fatto
qualcosa di male?- domandò preoccupata. Non rispose e
continuò a singhiozzare
disperata.
Andò
a
recuperare il cordless in corridoio e pigiò il tasto della
memoria per il
numero di Misaki, che rispose immediatamente.
- Elena!-
- No, sono
Sanae. Imbecille! Cos’altro hai combinato stasera?!- lo
sgridò.
- Elena
è lì con
te?- chiese sperando che stesse bene.
-
Sì, è con me
ed è disperata. Cosa le hai fatto?-
- Passamela
per favore.-
Sanae si
voltò a
guardarla indicandole la cornetta e finalmente vide una reazione da
parte sua:
scosse la testa violentemente.
- Non ti
vuole
parlare. Che le hai fatto, deficiente?- era già abbastanza
arrabbiata per i
suoi buoni motivi, ora le mancavano solo le beghe personali di Misaki.
- Ah,
lasciamo
stare. Ti saluto.-
- Sanae,
pro…-
ma la comunicazione era già terminata. Si passò
una mano sul viso e sospirò,
quella serata andava peggiorando. Si buttò mollemente sul
letto, cercando di
rilassarsi: almeno non era da sola per strada. Bella figura da idiota
aveva
fatto!
Sanae
cercò di
farla calmare, per capire cosa fosse successo di così grave.
-
E’ per colpa
mia?- domandò mortificata, dandosi poi mentalmente della
stupida. La reazione
che aveva avuto era più che normale, anzi era assurdo che
proprio lei dovesse
consolare quella ragazza, che si era resa complice dell’atto
meschino di cui
era stata vittima. Ciononostante, non riusciva ad essere cattiva con
lei.
Elena scosse
la
testa e tra i singhiozzi le raccontò ciò che era
successo. Sanae la ascoltò,
stupendosi di ciò che sentiva: Taro non poteva essere stato
così cretino!
- Su ora
calmati, sicuramente c’è una spiegazione.-
- La
spiegazione
è che Taro mi considera fondamentalmente la sua sorellina,
si è messo con me,
perché gli faccio tenerezza.- Il pianto la soffocava e,
all’improvviso, violenti
spasmi la fecero sussultare. Si accoccolò addosso a Sanae,
che la sostenne
prima che scivolasse dal letto svenuta.
Si
sforzò di non
lasciarsi andare al panico. La fece sdraiare e la coprì, poi
tirò fuori delle trapunte
dall’armadio e improvvisò una specie di futon
per cercare di riposare, se fosse
stato possibile. Prima di stendersi guardò quella povera
creaturina esanime.
Ripensò alle odiose parole che le aveva rivolto e si
sentì in colpa. Certo che
era proprio strana, nonostante ciò che aveva scoperto quella
sera, si sentiva
in dovere di pensare prima agli altri che a se stessa.
- Che
giornata!-
sbuffò, passandosi una mano sul volto.
Il
piacere può fondarsi sull'illusione, ma la
felicità riposa sulla verità
(anonimo americano)
Ciao
a tutte! Con questo capitolo inizio a presentare un po’
meglio Elena, che da
quanto letto finora può sembrare la fatina felice uscita dal
bosco. Con il
prossimo capitolo chiarirò un po’ di cose, quindi
non perdetevelo!
Ringrazio
come sempre tutte le persone che mi dedicano il loro tempo, leggendo e
recensendo la mia FF.
Un
bacione a: Onlyhope, Eos75, Rossy e Dolcebarbara vi ringrazio per il
sostegno
che mi date.
A
presto!
Sara
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** La crisi di Elena ***
Capitolo 13
La crisi di Elena
Il sonno
l’aveva
avvolta dolcemente, dopo quasi un’ora che si muoveva da un
lato all’altro su
quello scomodo letto improvvisato, fino al momento in cui
un’eco la disturbò. Aprì
gli occhi e capì che quello, che aveva sentito, era un grido.
- Nooooo!
Mamma…mamma, noooo…papà…-
Si
alzò di
scatto e vide Elena che si agitava, mentre proferiva parole in una
lingua per
lei incomprensibile.
-
Aiutoooo…aiutoooo…-
- Sta
parlando
in italiano…-bisbigliò tra sé e
sé.
Si chiese se
fosse meglio svegliarla, ma ad un tratto si voltò sul fianco
e si acquietò,
mentre una lacrima le solcava la guancia. Sanae le rimboccò
le coperte,
scivolate sul lato del letto e le accarezzò la testa, poi si
rimise nel suo
giaciglio e la osservò per controllare che non avesse altri
incubi, ma presto
il sonno le richiuse le palpebre.
Al mattino,
fu
la prima ad alzarsi. Lasciò che Elena dormisse,
finché voleva, mentre lei
aiutava la madre con la colazione. Dopo un’ora, la sua amica
scese in cucina
per unirsi alle due donne.
-
Buongiorno-
Sanae le passò una tazza di caffè e latte e un
piatto con delle brioche calde.
La signora
Nakazawa si preparò per andare a fare la spesa e
uscì. Non appena furono sole,
Sanae chiese a Elena come stesse.
- Sto
abbastanza
bene. Scusami, se stanotte sono piombata qui.-
- Figurati,
non
preoccuparti. Anzi scusa tu, se ieri sera ti ho aggredita con quelle
parole.-
le andò a coprire una mano con la sua per rassicurarla.
Nonostante fosse ancora
molto arrabbiata, non aveva coraggio di sfogare quel sentimento contro
di lei.
- Non avrei
mai
voluto che scoprissi tutto così, Sanae. Non sai quante volte
sono stata ad un
passo dal dirti tutto, ma avevo giurato a Taro…- si
bloccò, anche pronunciarne
solo il nome le faceva male. Sanae le strinse la mano.
- Non
pensarci
adesso, lascia perdere.- la scrutò attentamente, notando che
i suoi occhi
sembravano come spenti e sul suo viso non compariva quel sorriso
luminoso, che
la contraddistingueva.
-
Elena…-
- Sanae, io
devo
confessarti una cosa.- disse con lo sguardo fisso sulla tazza, che
teneva tra
le mani.
- Ieri notte
non
mi sono resa conto di essere venuta qui. Mi ricordo che sono uscita da
casa di
Taro e basta, poi stamani mi sono svegliata nel tuo letto.-
Sanae
deglutì
nervosamente, soppesando quella rivelazione con la dovuta cautela.
- Elena,
tu…stanotte hai avuto degli incubi credo.- le
confessò.
Annuì:
sapeva a
cosa si riferisse.
- Non
riuscivo a
capire ciò che dicevi, ma ti agitavi. Ti è mai
capitato?- le chiese
ansiosamente.
- Mi capita
tutte le notti.- rispose con lo sguardo perso nel vuoto e il tono
rassegnato.
Sanae si
morse
un labbro, pentendosi di averla turbata a quel modo. Era stata tanto
impegnata
a pensare ai suoi problemi, che non aveva capito quali sofferenze si
mascherassero sotto il sorriso luminoso, che ora era scomparso da quel
dolce
viso etereo.
Proseguirono
il
pasto in silenzio, finché Elena, consumata la colazione, non
tornò di sopra e,
sistemandosi come poteva, raccolse la sue cose. Salutò
Sanae, scusandosi ancora
per averle dato tanto disturbo e, alle sue richieste di lasciarsi
almeno
accompagnare, rifiutò gentilmente, sforzandosi di mostrarle
un sorriso
convincente.
Dopo averla
seguita
al cancello, Sanae rimase lì ad osservarla:
dall’andatura bene eretta e decisa
sembrava che stesse veramente meglio, ma come poteva esserne certa,
dopo ciò
che aveva scoperto quella notte?
Svoltato
l’angolo, sicura che la sua messinscena avesse funzionato,
Elena sospirò,
mentre sentiva che le lacrime stavano sgretolando
quell’inutile maschera. Era
da quando aveva aperto gli occhi che il magone la stava soffocando. Si
era
svegliata in un letto non suo e, faticando a mettere a fuoco gli
oggetti che la
circondavano, realizzò dove si trovava grazie alla foto di
Sanae con la squadra
appoggiata sul comodino. Quel che era accaduto la spaventava e
iniziò a
domandarsi, se dei simili vuoti di memoria le fossero accaduti altre
volte.
Ripensò
alla
sera precedente, rivivendo come un film in fast
forward
tutti i momenti della festa, fino ad arrivare al
momento in cui Misaki l’aveva allontanata da sé
rifiutandola. “Meglio di no”:
la frase le ronzava ancora nelle orecchie, poi...più niente,
come se la
videocassetta fosse stata interrotta. Le lacrime le bagnarono le
guance, mentre
il corpo tremava ancora scosso per il dolore e l’umiliazione.
Un passo, poi un
altro, sempre più veloce. Cominciò a correre,
desiderando di poter volare via,
scappare dal dolore che la stava perseguitando.
Tornò
a casa
dopo tre ore, in cui aveva girovagato per tentare di cancellare le
tracce di
pianto e ripristinare la maschera, che indossava fin dal giorno
più brutto
della sua vita. Entrò e gettò svogliatamente la
borsa accanto all’appendiabiti.
-
Bentornata,
Taro ti ha già cercata per tre volte stamani? Ma
dov’eri?- Davide le andò incontro,
rivolgendosi a lei con la sua squillante voce dal marcato accento
romano.
- In giro.-
rispose con un’alzata di spalle, pentendosi del tono piatto
che aveva assunto,
ma non riusciva a nascondere il turbamento che le provocava quel nome.
- Qualcosa
non
va?- notò subito la sua espressione, insolitamente triste.
- Stellina,
ma
tu hai pianto?!- incalzò, sapendo di non sbagliarsi.
Lei si
voltò
dall’altra parte, scuotendo la testa ed evitando di
rispondere, perchè non
avrebbe saputo controllare il tremolio della voce, alterata dalla
grande voglia
di piangere che non si era esaurita nel tempo che aveva trascorso fuori
casa.
Prima che potesse imboccare la via per la sua stanza, dove si sarebbe
chiusa
per sfogarsi finché ne avesse avuto bisogno, la mano di
Davide la afferrò per
un braccio, costringendola a voltarsi.
- Dimmi
cos’hai?- scrutò i suoi occhi, notando con stupore
che quelle due gocce di mare
erano diventate lucide.
- Non ho
niente,
fatti i fatti tuoi!- gridò divincolandosi dalla presa.
Davide non
mollò,
percependo il tremolio del suo corpo attraverso quella stretta.
- Lasciami,
mi
vuoi lasciare?!-
Lui la
lasciò,
ma prima che potesse andarsi a rifugiare in camera sua, la
seguì evitando di
rimanere chiuso fuori della stanza.
- Lasciami
sola,
vattene!- imprecò indicando l’uscita.
Davide non
credeva alle proprie orecchie: Elena non era mai stata così
aggressiva, con
nessuno, benché meno con lui.
- Elena ti
prego, mi sto preoccupando, vuoi dirmi che cos’hai?-
- Ah,
sì? Ti
preoccupi e perché mai? Tu non sei mio padre, che te ne
frega di come sto io?-
Senza
rendersene
conto, Davide andò a colpirle la guancia con un ceffone, che
risuonò nel
silenzio della stanza.
-
Scu..scusami
Ele, non volevo…- le parole di lei, lo avevano ferito al
punto tale di
provocargli quella reazione tanto involontaria.
Qualcosa di
più
bruciante di quel marchio sulla guancia stava esplodendo dentro di lei,
che
sconvolta da ciò che era appena accaduto, poté
solo voltarsi per afferrare
l’oggetto che teneva nascosto sotto il cuscino e scappare
verso la porta
d’ingresso. Uscì sbattendola furiosamente e
provocando una rumore sordo, che lo
fece sussultare. Sapeva che prima o poi sarebbe successo.
Andò al telefono e
chiamò l’unica persona che lo poteva aiutare.
- Pronto?-
rispose al primo squillo, sperando che fosse lei.
- Taro sono
Davide. Elena è uscita di casa, credo stia venendo da te.
Era fuori di sé
stamattina…-
Per un
momento
non seppe cosa rispondere e l’angoscia stava subentrando
all’amarezza che gli
aveva provocato una nottata infernale, tuttavia decise di non dire
niente di
ciò che era accaduto la sera prima.
- Che
è successo
avete litigato?- assunse un tono fittizio che, al telefono, poteva
anche
sembrare tranquillo.
Davide
sospirò e
confessò a Taro quello che aveva fatto. Pur riuscendo a
mantenere il controllo,
dentro piangeva il dolore di aver fallito. Riagganciò
supplicandolo di fargli
sapere al più presto se era andata da lui o meno.
Si
passò una
mano sul volto e andò a buttarsi sul divano nel suo studio.
Nella penombra
rimase assorto a fissare la luce, che filtrava invadente attraverso le
fessure
delle veneziane, poi si mise la mano in tasca per trovare una minuscola
chiave anonima.
Andò alla scrivania ed aprì il cassetto dal quale
estrasse un vecchio album
fotografico dalla copertina verde. La foto, che campeggiava sulla prima pagina,
ritraeva due uomini e una
donna sorridenti: tre vecchi amici che solo il destino ingiusto aveva
separato
prematuramente. Passò la mano su quel ricordo, che nemmeno
il passare del
tempo, così inclemente sul colore della carta, poteva
oscurare.
- Andrea.
Manuela. Datemi la forza…-
Taro era uscito, dando vaghe
spiegazioni a suo
padre, che stava nel suo laboratorio, concentrato su una nuova tela da
realizzare. Andò a cercare nei posti più
probabili, senza alcun risultato. Ogni
volta che incontrava una cabina telefonica malediceva mentalmente che
Elena non
possedesse un cellulare. Ma, in fondo, anche se lo avesse avuto, gli
avrebbe
risposto?
Tornò
a casa
sconsolato, deciso ad issare bandiera bianca. Chiamò Davide
e gli spiegò che
lui e Elena avevano litigato, mantenendosi sul generico,
perché raccontare la
motivazione sarebbe stato troppo imbarazzante.
- Ascolta
Taro,
inizia a fare un giro di chiamate, chiedi a tutti i vostri amici se
l’hanno
vista.- comandò
cercando di conservare
l’autocontrollo.
Al termine
della
chiamata, Taro telefonò a tutti suoi compagni di squadra, ma
nessuno l’aveva
vista o incontrata per caso. Chiamò anche Shiratori, che
simpaticamente rispose
che non gliene poteva fregare niente di dove fosse. Sbatté
il telefono,
mandandolo ferocemente a quel paese, per poi riprendere il ricevitore
per
l’ultimo disperato tentativo.
- Pronto
Nakazawa, sono Sanae.-
- Proprio te
cercavo…-
- Misaki?!
Hai
proprio un bel coraggio a farti sentire, dopo…-
- Ti prego,
dimmi solo se hai visto Elena.- la interruppe, troppo preso dalla
preoccupazione per potersi dedicare ad altro.
Sanae si
sentì
come se l’avesse colpita un fulmine.
- Non
è tornata
a casa?-
Taro si
sentì
sprofondare, nemmeno Sanae l’aveva vista.
-
Sì, però ha
litigato col suo tutore ed è scappata.- sillabò
quelle parole ad occhi chiusi.
Si
voltò colpita
dagli ultimi raggi del sole e osservò il colore azzurro del
cielo, che stava
diventando sempre più scuro, mentre si riaffacciavano alla
sua mente le
immagini di lei che si agitava nel sonno.
- Dobbiamo
cercarla, Taro. Vengo da te e andiamo, intanto chiama Morisaki e Izawa,
digli
di setacciare ogni angolo, io chiamo Yukari.-
Dopo tre ore
di
ricerche infruttuose, Davide decise di chiamare la polizia. Sanae aveva
raccontato a Taro quel che sapeva e adesso il ragazzo deambulava per la
città
disperato, cercando di allontanare i pensieri più oscuri,
frutto dell’angoscia.
Erano le undici di sera, stanchi e sfiduciati, si erano accomodati su
una panchina,
cercando di riflettere. Taro non voleva arrendersi all’idea
di tornare a casa e
aspettare. Sanae era a pezzi, non aveva dormito bene la notte
precedente e non
aveva toccato cibo, ma nemmeno lei avrebbe potuto tornarsene a casa
tranquilla,
mentre quella ragazzina era chissà dove.
- Proviamo
al
parco accanto alla scuola.-
- Abbiamo
controllato già tre volte, Taro.- sbuffò
sconsolata.
Si
alzò come se
non l’avesse udita, folgorato da un ricordo: i tubi!
C’erano dei tubi di
cemento armato, tra i cespugli del parco, come aveva fatto a non
pensarci?
Corse oltre
la
scuola Nakatsu, seguito da Sanae che faticava a stargli dietro, si
addentrò nel
parco e passò attraverso i graffianti arbusti. La
trovò rannicchiata con lo
sguardo perso nel vuoto, intenta a fissare l’unica cosa che
aveva preso con sé:
una cornice dove spiccavano i volti sorridenti di una coppia, in cui
erano
riconoscibili i tratti somatici che le appartenevano. Sanae lo
raggiunse e si
bloccò davanti al triste spettacolo che le si presentava:
Taro era accucciato a
terra e le stava parlando, ma lei non lo sentiva nemmeno, sembrava una
bambola
priva di vita.
- Amore mio,
cosa posso fare per te?- la strinse a sé piangendo.
Sanae si
coprì
la mano con la bocca e le lacrime le uscirono spontanee, mentre
osservava il
suo amico stringere disperato quella creaturina, che sembrava persa in
un altro
mondo. Ad un tratto Taro avvertì tutto il peso della ragazza
tra le sue
braccia: era nuovamente svenuta.
Sanae gli
posò
una mano sulla spalla.
- Portiamola
a casa,
Taro.- raccolse la cornice sfuggita di mano a Elena, mentre lui si
passò la
manica della giacca sul viso per asciugarsi le lacrime.
- Questi
erano i
suoi genitori, vero?- indicò la foto.
Taro
annuì e
facendo forza sulle gambe si rialzò con la sua ragazza
rannicchiata sul petto e
Sanae prese il pocket bell per comunicare agli
altri che
finalmente l’avevano ritrovata.
Arrivati a
casa,
Davide la tolse dalle braccia di Taro e la strinse a sé con
tutta la forza.
Elena aveva ragione, non era Andrea, ma forse nemmeno un padre amava la
propria
figlia quanto lui amasse quella sfortunata ragazzina. La
portò in camera sua,
l’adagiò sul letto e la coprì con il
piumino. Taro notò il suo sguardo che
rifletteva una miriade di sensazioni, mentre posava un bacio sulla
fronte
della ragazza
dormiente.
Sanae si
congedò, perché era talmente stanca che
probabilmente sarebbe tornata a casa
strisciando sui gomiti. Con tutto quel trambusto, si era perfino
scordata di
essere arrabbiata con Taro e, nonostante la ferita fosse ancora
sanguinante,
non poté evitare di dirgli:- Se hai bisogno di me per
qualsiasi cosa,
chiamami.- In ogni caso, Taro era da sempre un suo buon amico e
probabilmente
adesso aveva più che mai bisogno di sostegno.
Davide
andò in
cucina invitando Taro a seguirlo. Dovevano assolutamente parlare, aveva
bisogno
di capire cos’era che aveva innescato quella reazione in
Elena. Il ragazzo si
sedette allo sgabello e si preparò per raccontare quello che
era successo la
sera prima.
- Mi
dispiace
Davide, è solo colpa mia.-
- In ogni
caso,
sarebbe successo prima o poi. Non sei tu il responsabile, Taro.
E’ solo che il
tuo rifiuto ha fatto emergere tutta la sua fragilità. Se
c’è qualcuno da
biasimare quello sono io: ho nascosto la testa sotto la sabbia per
troppo
tempo.-
Il messaggio
velato dietro a quelle parole, riportò Taro a quanto aveva
appreso da Sanae.
- Sanae mi
ha
detto che Elena, durante il sonno, ha…-
- Avuto
degli
incubi? Sì, lo so, purtroppo non si può fare
niente per evitarlo.-
- Io non lo
sapevo, non le è mai successo, quando si addormentava a casa
mia.-
-
Perché con te
si sente protetta.- lo scrutò, invidiandogli per un istante
quella capacità che
lui non aveva: quel ragazzino aveva il potere di far credere a Elena
che niente
potesse farle del male.
- Ci sono
molte
cose che non sai, Taro.-
- Raccontami
tutto.- rispose deciso.
- Quando i
genitori di Elena ebbero l’incidente, lei era con loro.-
Taro
sgranò gli
occhi, ma era solo l’inizio della sconvolgente
verità che lei gli aveva
nascosto.
- Andrea e
Manuela morirono sul colpo, invece lei rimase incolume. Quando i
soccorsi
arrivarono mi dissero che la trovarono rannicchiata addosso al corpo
della
mamma a piangere.-
Non poteva
essere vero.
- Giuro
Taro,
che non scorderò mai l’immagine che ho visto
quando andai a prenderla in
ospedale: aveva i vestitini ancora sporchi di sangue e non faceva che
piangere.
Vederla così fu ancora più straziante che sapere
che il mio migliore amico non
c’era più. L’unica cosa che fui in grado
di fare fu asciugarle le lacrime e
prenderla in braccio per portarla via.-
Taro si
passava
la mano sulla fronte, confuso e raccapricciato.
- Il peggio
però
doveva ancora venire. Quegli egoisti dei suoi parenti si sono scaricati
le
responsabilità l’un l’altro con il
rischio che le prendessero e la mettessero
in un istituto. Grazie a Dio, ho trovato un’assistente
sociale competente che
mi ha aiutato, così l’ho presa con me. Abbiamo
passato mesi tra legali, giudici
e psicologi…tsé, a ripensarci adesso, la cosa che
mi pesa di più è che tutti
quei dottorini facevano finta di avere a cuore la sua sorte, ma nessuno
di loro
si è mai azzardato a chiedere come si sentisse o cosa
volesse.-
Taro
annuiva,
incapace anche solo di immaginare cosa potesse aver passato. Il
divorzio dei
suoi genitori era stato niente a confronto.
- Quando
è
venuta a vivere da me ero terrorizzato: non avevo la minima idea di
cosa
volesse dire fare il genitore, ma andò meglio di quanto mi
aspettassi. Elena è
sempre stata una bambina buona e solare, nonostante tutto.,
però…- il suo
sguardo assorto, mentre la mente viaggiava a ritroso.
-
…alle volte si
chiudeva in camera sua e piangeva per delle ore, poi usciva e mi
regalava uno
dei suoi migliori sorrisi, per non farmi preoccupare. Consultai uno
specialista
e lui mi avvertì: Elena portava una maschera, una
serenità costruita per non
crearmi problemi, perché lei si sentiva in debito con me e
probabilmente lo fa
ancora adesso.-
Taro
annuiva,
mentre il suo cervello faticava a razionalizzare la portata di quelle
rivelazioni.
- Ho
sottovalutato gli avvertimenti dello psicologo, credendo che se si
fossero
presentati dei problemi, io l’avrei saputa aiutare. Poi sei
arrivato tu e da
quando sei entrato nella sua vita, i momenti di buio sembravano essere
spariti,
quindi ho volutamente ignorato che lei stava diventando sempre
più dipendente
da te, finché la realtà non mi è
scoppiata tra le mani come questa mattina. Mi
sono sempre considerato pronto a questa eventualità, invece
ciò che è successo
oggi dimostra quanto io sia stato incapace ed egoista. Mi dispiace
Taro, non
avrei mai dovuto metterti un tale peso sulle spalle.- concluse sfinito.
- Lei non
è e
mai sarà un peso per me, io la…-
- La ami?
Hai
visto con i tuoi occhi che non è sufficiente. Non puoi
vivere da supereroe
Taro, sei anche troppo giovane per un sacrificio simile.-
- Io non
voglio
lasciarla!- esclamò sconsolato.
- Infatti
non è
quello che ti chiedo, io vorrei che tu mi aiutassi. Aiutami a farle
vivere una
vita normale, in cui non abbia gli incubi di notte anche se tu non sei
lì a
tenerle la mano, in cui tutto il suo mondo non sei solo tu.- gli disse
afferrandogli
il braccio. Lo lasciò, appena notò la figura che
si era affacciata alla porta.
Elena si era
svegliata e sembrava aver riconquistato quella parvenza di
lucidità, si era
tolta i vestiti e aveva indossato un pigiama legandosi i capelli in una
treccia, ma i suoi occhi portavano ancora i segni del pianto.
- Ciao
stellina,
come ti senti?-
- Bene,
scusami
se ti ho risposto male, non volevo essere cattiva.- gli disse
mortificata.
Davide
voleva
abbracciarla e dirle che era stato lui a sbagliare, ma prima che
potesse farlo
Elena invitò Taro a seguirla in camera sua. Il ragazzo non
se lo fece ripetere
due volte e la seguì lanciando un’occhiata
eloquente al tutore che annuì. La
ragazza richiuse adagio la porta e voltandosi trovò Taro di
fronte a sé che le
prese il volto tra le mani e la baciò dolcemente. Lei
rispose a quel tenero
contatto, poi si allontanò da lui.
- Mi
dispiace
per tutto, non volevo crearti problemi.- Si avvicinò e le
posò l’indice sulle
labbra scuotendo la testa.
- No, Elena,
sono io a doverti chiedere scusa, sono stato un idiota. Non volevo
ferirti.-
- Non devi
scusarti, Taro. Quello che è successo ieri sera mi ha fatto
capire molte cose,
ma soprattutto mi ha fatto capire che io non posso più stare
con te.-
Non era
vero,
non poteva esserlo.
- Mi hai
vista
nello stato più pietoso possibile. Sapevo già di
suscitarti tenerezza, ma dopo
oggi so che non potrai fare a meno di provare pietà per me
ed io non voglio la
compassione di nessuno, benché meno la tua.-
sentenziò lapidaria.
- Mi fai
davvero
così meschino? Pensi davvero che starei con te solo
perché mi fai pena? E’ vero
sto soffrendo per te, ma perché credevo ti fidassi di me.
Invece non mi hai
detto niente.- le puntò il dito contro.
- Dovevo
dirti
tutte le mie debolezze? E’ già abbastanza
frustrante crescere senza i propri
genitori, con le persone accanto che ti scrutano con quello sguardo
compassionevole e comprensivo, ma non c’è proprio
niente da capire: i miei
genitori sono morti! Sono stata mezz’ora intrappolata in
quella dannata
macchina a scuotere mia madre e mio padre pregandoli di rispondermi,
perché la
mia mente di bambina non riusciva ad accettare che loro non ci fossero
più. I
miei parenti, all’apparenza persone integerrime, mi hanno
trattato peggio di
una scarpa vecchia. Era questo che dovevi sapere? Per potermi guardare
con
quello sguardo impietosito che ho imparato ad odiare?- gridò
in preda alla
rabbia.
- No, volevo
saperlo per poterti aiutare!- gridò anche più
forte di lei.
Davide li
sentiva urlare da fuori e iniziò a recitare le poche
preghiere che conosceva,
perché la situazione non peggiorasse.
- Io non
voglio
il tuo aiuto, volevo solo il tuo amore, ma evidentemente non
è quello che puoi
darmi.-
Taro era
esasperato
dal muro che gli stava opponendo, non voleva perderla, ma lei si
rifiutava di
capire i suoi sentimenti. Doveva sapere quanto fosse importante per
lui. Non
sapendo più a cosa appellarsi, si tolse la maglia di dosso
restando a torso
nudo, poi si avvicinò a lei, che indietreggiò
impaurita.
- Vuoi che
ti
dimostri quello che provo per te.- la strinse a sé e la
baciò con passione.
Elena non riuscì a ribellarsi, perché le braccia
di lui si stringevano sempre
più facendo aderire i loro corpi.
- Facciamo
l’amore.-
le disse a fior di labbra.
Con un
impeto di
orgoglio, Elena lo spinse via. Rimase a fissarlo come inferocita, poi
raccolse
la sua maglia da terra e gliela tirò addosso intimandogli di
sparire, mentre lo
spingeva fuori. Taro cadde all’indietro, la porta
sbatté e la chiave girò nella
toppa. Davide stava lì a guardarlo, quasi divertito.
- Che ti eri
messo in testa?- domandò, indicandogli la maglia abbandonata
a terra. Gli
allungò una mano per farlo alzare e gli diede uno
scappellotto amichevole
dietro la nuca.
- Lascia che si calmi, poi
le parlerò io.-
disse mentre lo accompagnava alla porta.
Taro si
arrestò.
- Mi vuole
lasciare.- confessò – Ma io non mi arrendo.-
aggiunse deciso prima di
congedarsi.
Probabilmente avrò sconvolto qualcuno
con
questo capitolo che dal punto di vista emozionale è stato
difficile da
esprimere. Spero di aver fatto le scelte giuste e non aver presentato
la povera
Elena come la psicotica di turno bisognosa di protezione. Vi invito a
seguire
il prossimo capitolo per scoprire cosa ne sarà di questa
coppia, che è senza
dubbio tra le mie preferite.
Ringrazio le persone che stanno leggendo la
storia e coloro che la recensiscono: grazie a tutti, sapere che ci
siete è
importante.
Eos: grazie mille delle tue parole e del
tempo che mi hai concesso leggendo la mia FF.
Onlyhope: che dire della gratitudine che
provo nei tuoi confronti per l’allegria, i consigli e
sì diciamolo, anche le “cippettate”
che mi sono d’incitamento.
Rossy: ti faccio un in bocca al lupo per i
tuoi studi e t’invito a tenere duro!
Dolcebarbara: sono contenta che continui a
seguirmi con entusiasmo, le tue parole sono dolcissime.
Un abbraccio a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Sapore amaro ***
Capitolo 14
Sapore amaro
Taro non
dormì
molto bene quella notte: continuò a riflettere su quanto
accaduto e sulle
parole di Davide. La paura si confondeva nel suo cuore con la rabbia
frustrante
per il suo essersi dimostrato inadeguato.
“Non
puoi fare
il supereroe”: quella frase si ripeteva nella sua mente come
un disco
incantato, aumentando la rabbia verso se stesso, che era ben lungi
dall’essere
quanto di più simile ad un eroe. Da quando Tsubasa era
partito, era stato
troppo preso dai problemi sentimentali dei suoi amici, per accorgersi
di quanto
fosse fragile Elena, di quanto avesse bisogno di aiuto. Si era tirato
indietro
per la fascia di capitano, lasciando il campo libero ad un giocatore
inadatto.
Non aveva saputo comportarsi da amico con Sanae, che invece era corsa
subito in
suo aiuto, la sera precedente. Pensieri che si affollavano nella mente
lo
colpivano come frustate per ricordargli quanto fosse stato vigliacco in
ogni
aspetto della vita, quanto si fosse limitato a timida comparsa, a mite
scudiero
del vero eroe in campo. L’immagine di Tsubasa era una
costante: era stato
l’amico con cui aveva creato il rapporto più
solido, molto più che con
Matsuyama.
Appena
spuntò il
sole, prese la tuta ed uscì per andare a correre.
Il sole si
rifletteva sul fiume creando bagliori dorati, la primavera stava
riscaldando
l’aria, mentre i fiori si aprivano delicatamente. Taro
correva sentendo l’aria
fresca del mattino sfiorargli le gote, imporporate dallo sforzo fisico.
L’attività lo aiutò a scaricare la
tensione e, mentre faceva stretching,
elaborò attentamente gli
eventi del giorno prima. Decise di farla finita con la questione
Tsubasa, che
fino ad allora era stata molto presente nei suoi pensieri: lui e Sanae
erano
abbastanza grandi per risolvere da soli i loro problemi e in ogni caso,
ne
aveva già fin sopra i capelli, dopo che la ragazza lo aveva
insultato in modo
tanto pesante. La sua priorità era riconquistare la fiducia
di Elena, aiutarla
a fuoriuscire da quella spirale di sofferenza che aveva imboccato senza
che lui
se ne accorgesse.
Credeva che
quei
sorrisi venissero dal cuore e probabilmente era così, ma
quando lui non c’era?
Cosa provava quando lui era lontano: sofferenza? Smarrimento? Paura?
Non lo
sapeva, non se n’era mai preoccupato, illuso
dall’atteggiamento dolce e solare
che era solita ostentare. Perché non si era fidata di lui al
punto da
confidargli che in realtà stava male? Non
l’avrebbe mai compatita, non aveva in
nessun caso provato pietà per lei, anzi la stimava,
perché la vedeva affrontare
le situazioni con un ottimismo che altri al suo posto non avrebbero mai
posseduto.
Adesso che sapeva la verità l’apprezzava anche di
più.
Alzò
il mento,
scrutando il sole tra i rami e un’eco dolce
risuonò alle sue orecchie.
“I
vostri
ciliegi sono splendidi. In Europa non è possibile ammirare
un simile
spettacolo” gli occhi brillanti al cielo e
l’immancabile sorriso sulle labbra,
seduta a terra con una mano posata al terreno e l’altra a
schermare il
verde-azzurro delle sue iridi dal sole estivo. Sembrava la ninfa di un
quadro
di Botticelli. Il cuore mancò un battito, quando gli si
avvicinò per
appoggiarsi sulla sua spalla e indicargli col dito i rami che li
sovrastavano.
“Guarda, sembra una magnifica nuvola rosa”. Si
toccò le labbra al ricordo del
bacio che si erano scambiati. Strinse il pugno e andò a
staccare un ramoscello
che aveva ancora le gemme semi aperte.
Suonò
il
campanello e dopo una breve attesa, Davide gli aprì la porta
e lo invitò a
entrare. Era ancora presto e stava facendo colazione. Versò
il caffè per sé e per
Taro, poi gli porse dei bomboloni alla crema.
- Questi li
ha
fatti lei ieri sera. Quando è arrabbiata si mette a cucinare
i dolci, a
qualsiasi ora del giorno.- disse ridendo, poi vedendo che si guardava
intorno
per capire dove fosse aggiunse: - Dopo si è presa una
pastiglia di Stilnox e
sta ancora dormendo.- sospirò con la faccia sbattuta.
- Ha avuto
degli
incubi?-
Davide
annuì.
- Quelle
schifezze la stordiscono per farla dormire, ma non le scacciano i
fantasmi
dalla testa. E’ un’impresa in cui solo tu sei
riuscito.- lo indicò con la mano.
Taro si
passò il
palmo sul volto, mentre il suo cervello cercava di capacitarsi della
situazione. Non poteva permettere che Elena si riducesse ad
un’apatica ombra
dipendente dalle medicine. Prese il ramoscello che aveva colto e
andò deciso in
camera di lei ed entrò. Nella penombra distinse il profilo
della ragazza:
sembrava una bambola di porcellana con i capelli d’oro sparsi
disordinatamente
sulle spalle, ma la sua bocca era piegata
all’ingiù in una smorfia di tristezza.
Posò il suo dono sul comodino e rimase a rimirarla per
alcuni minuti. Come
nella scena di una favola, si chinò su di lei per darle un
bacio sulle labbra e
la vide muoversi leggermente tirando un sospiro e il suo volto
distendersi in
un’espressione serena, come se in quel contatto avesse infuso
un fluido
benefico.
Dal momento
che
era molto tardi, dovette congedarsi senza averle parlato.
- Grazie di
essere passato.- gli disse Davide.
Lui si
voltò e
con un guizzo negli occhi gli ripeté la promessa di non
cedere.
Poco dopo,
Elena, ancora stordita dal sonno innaturale, entrò in cucina
con il ramo in
mano.
- Buongiorno
bella addormentata, per fortuna che è passato il principe a
svegliarti,
altrimenti chissà quando si pranzava.- scherzò.
Elena lo
fulminò
con lo sguardo, poi alzò il braccio che teneva i delicati
boccioli di ciliegio.
- Questo
cosa
significa?-
-
E’ andato a
correre ed è venuto a portartelo.-
Si diresse
come
una furia alla finestra e gettò fuori il ramoscello con
stizza.
- Non voglio
più
niente da lui, nemmeno sentire il suo nome. Come ti sei permesso di
farlo
entrare nella mia stanza?!- gridò additandolo, poi
ritornò in cameretta.
- Elena, ma
il
pranzo?- chiese cercando di non irritarla.
- Cucinatelo
da
solo!- sbatté la porta e si richiuse a chiave nella stanza.
Passò
una
settimana, in cui Taro cercò in tutti i modi di vederla o
quantomeno di parlare
con lei e, nonostante l’aiuto di Davide, non
riuscì nemmeno a farla rispondere
alle sue chiamate. Elena si era negata in tutti i modi, spesso dormiva
stordita
dai sonniferi e, quando riusciva a svegliarsi, usciva per lunghe
passeggiate. Non
rispondeva mai al telefono, di proposito, e quando Davide l'avvertiva
che
volevano parlare con lei, insisteva finché non era costretto
ad ammettere che
era Taro a cercarla, per poi rispondere che doveva smettere di
assillarla. Il
tutore non insisteva, perché quelle poche volte che aveva
tentato di perorare
la causa del ragazzo, lei reagiva con scatti isterici che potevano solo
ledere
ulteriormente il suo stato. L’uomo era disperato, sapeva che
Elena stava agendo
per uno stupido orgoglio, mentre il suo cuore e lo scintillio
d’emozione che
leggeva nei suoi occhi, ogni volta che l’avvertiva che lui
era al telefono,
dicevano un’altra cosa. La notte i suoi incubi si erano fatti
più ricorrenti e
una volta, tra i lamenti, l’aveva sentita gridare il suo
nome.
Ogni volta
che
Taro chiamava o si presentava da loro inutilmente, Davide lo
incoraggiava come
poteva ed era felice di non leggere la rassegnazione nel suo volto, che
oltre
la sofferenza mostrava una grande determinazione. Elena non cedeva e il
tempo
passava, allora Davide si giocò l’ultima carta. Un
pomeriggio, la ragazza si
era svegliata di buon umore e si era messa a preparare la pizza. Lui
aveva
acceso la radio su JLR e aveva chiamato Taro, per il tentativo che si
era
inventato in una delle loro chiacchierate.
- In Italia
alle
volte funziona.- aveva detto al ragazzo.
Gli aveva
suggerito anche la canzone e il cantante.
- Se le
dedichi
una canzone in italiano farà anche più effetto.-
La
pubblicità
terminò e la voce squillante del DJ riprese la presentazione
dello spazio riservato
alle dediche.
- Ed ora un
successo di un famoso cantante italiano…-
Elena
sorrise
pensando a quanto fosse bizzarro che qualcuno in Giappone potesse fare
una
dedica con una canzone di Ramazzotti.
-
…da Taro ad
Elena: “Piccolina dammi un’altra
possibilità”.-
Alzò
lo sguardo
verso la radio e rimase imbambolata a fissare l’oggetto dal
quale provenivano
le note armoniose di una canzone d’amore.
Io non vorrei, vedere mai
quel muso lungo che hai
Il respiro
divenne affannato e gli occhi lucidi, mentre Davide sorrideva vedendola
reagire
come sperava.
Adesso basta però
dammi un bel bacio e sorridi un po'
io non vorrei sai..
dovermi mai separare da te
e sempre triste per me
lasciarti qui
io non vorrei mai,
allontanare il mio sguardo da te
vorrei poterti tenere un pò ancora con me
tenerti cosi.
Affondò
le mani
nell’impasto, stringendo i denti per non piangere.
Baby se tu non ci fossi io non vivrei
più
perciò cuore mio
meno male che ci sei tu
che ci sei tu
yeehehe che ci sei tu*
Lasciò
l’impasto
e con la punta del gomito pigiò il tasto di
accensione/spegnimento
dell’apparecchio. Fregò bene le mani sotto il
rubinetto per togliere i residui
di farina e pasta mal amalgamata, si asciugò e tolse il
grembiule come una
furia.
Davide
gettò
all’aria il giornale per andarle dietro, quando la vide
dirigersi in camera,
voleva parlarle per dirle una volta per tutte quello che pensava.
- Scusa per
la pizza,
ma non ho più voglia di cucinare.- disse cercando di
smorzare subito la
conversazione.
- Lascia
perdere
la pizza, lo sai che non è di quello che ti voglio parlare.
Ascoltami bene
Elena, se ho accettato di trasferirmi dall’altra parte del
mondo è perché
credevo che non fosse per un capriccio.-
Elena
abbassò lo
sguardo a terra, scossa dal rimorso di aver costretto il suo tutore a
lasciare
tutto solo per lei e il suo amore.
- Quel
ragazzo
ti adora. Non capisci che razza di fortuna hai avuto ad incontrarlo? Ti
stai
comportando come la bimba viziata che non sei.-
Lei
chinò la
testa, subendo passivamente quella filippica in piena regola. Lui la
superò e
afferrò sul comodino una confezione vuota.
- Poi guarda
qua!- esclamò dondolandole in faccia il cartoncino - Ti stai
riempiendo di
schifezze, perché sei troppo testona per lasciarti aiutare
perfino da me. Ma
cosa credi? So che non sono tuo padre, ma non per questo significa che
io ti
ami di meno. Andrea era un fratello per me e quello che più
mi fa stare male è
che ovunque lui sia mi guarderà con disgusto,
perché non sono stato in grado di
crescere bene sua figlia!-
- Mi
dispiace.-
due lacrime scorsero sulle guance rese pallide dal sonno indotto dalle
medicine. Alzò le mani a chiedere una tregua, poi
proseguì.
- Davide, io
sono ancora innamorata di Taro, ma non posso stare con lui, non
finché sono
così spaventata dalla vita. Voglio imparare a vivere la mia
esistenza, senza un
principe sul cavallo bianco pronto a proteggermi.- spiegò
tra le lacrime.
-
Perché non
glielo dici? Negandoti al telefono e nascondendoti non risolverai
nulla.- le
disse.
Quel
pomeriggio
Taro andò a casa di Elena, carico di speranze. Lei lo
aspettava sulle scale di
fronte alla porta d’ingresso. Aveva una deliziosa salopette
di jeans chiaro e i
capelli erano legati in due trecce. Si era anche stesa un po’
di fondotinta per
mascherare il pallore, ma a Taro parve comunque bellissima. Lo
invitò a fare
una passeggiata, ma prima si scusò per averlo evitato di
proposito per tutti
quei giorni.
- Grazie
tante
per la dedica alla radio, sei stato molto carino.- gli disse
sinceramente.
-
E’ servita a
qualcosa?- chiese sperando che gli dicesse che la loro storia aveva
ancora un
futuro.
Elena
annuì e
raccogliendo tutta la forza che le era rimasta, cercò di
spiegare a Taro la
decisione che aveva preso. Lui ascoltò in silenzio
quell’amara sentenza.
- Vedi Taro,
non
è giusto che tu stia con una persona instabile come me. Sei
troppo importante e
non posso farti vivere con una ragazza che è
l’ombra di se stessa. Lo capisci,
vero? –
Annuì,
incapace
di ribellarsi alla sua volontà. Elena voleva guarire e
voleva riuscirci da
sola.
- Ti
aspetterò
Elena, aspetterò che tu sia pronta.- le disse con gli occhi
pieni d’amore.
La ragazza
sorrise scotendo la testa.
- No, Taro.
Tu
devi vivere la tua vita. Io non sono me stessa ora come ora e non
è detto che
una volta guarita, io torni da te.- ogni parola era una stilettata al
cuore di
entrambi.
Non
riuscì a
muovere un muscolo dopo quanto aveva sentito. Avvertì il suo
tocco, una stretta
intensa che durò a lungo. Si guardarono negli occhi,
entrambi col cuore gonfio
di lacrime. Elena si alzò sulle punte e gli
sfiorò le labbra con un bacio.
- Addio,
Taro.-
disse con la voce rotta dall’emozione. Si voltò e
corse via.
Taro
sentì le
guance inumidirsi, mentre il sole alle sue spalle tramontava.
Era rimasta
tutto il pomeriggio in quella posizione, sdraiata sul parquet della
camera, inebetita
dagli ultimi eventi. Per tutta la settimana, aveva chiamato
alternatamene
Yoshiko e Yayoi, per sfogarsi con loro e cercare di capire cosa fosse
meglio
fare. I suoi genitori erano andati alle terme per il fine settimana e
si erano
portati dietro Atsushi. Si riscosse, quando sentì suonare il
campanello e si
alzò per andare ad aprire la porta.
Appena
spalancò
l’ingresso, non ebbe nemmeno il tempo di sincerarsi di chi
fosse, che si
ritrovò stretta tra le braccia di Taro, che soffocava i
singhiozzi sulla sua
spalla. Rimase immobile per alcuni istanti, presa totalmente alla
sprovvista.
“Se
hai bisogno di
me per qualsiasi cosa”
Istintivamente
lo strinse a sé, lasciando che sfogasse tutto il suo dolore.
Stettero in
camera di lei, accucciati a terra con la schiena appoggiata alla sponda
del
letto. Il ragazzo aveva raccontato tra le lacrime quello che era
successo
durante la settimana e lei gli aveva istintivamente preso la mano
stringendola
nella sua, in un intimo gesto d’affetto, quando gli
rivelò che Elena voleva
guarire, ma senza di lui.
-
Probabilmente
non ispiro molta fiducia.- si asciugò una lacrima, che
uscì prepotente.
“Falso,
doppiogiochista!” risuonò nella mente di Sanae,
che si girò a guardare quel
volto, spesso sorridente, contorto dal dolore e non poté
esimersi
dall’abbracciarlo nuovamente.
- Ascoltami,
Taro. Tsubasa, io stessa e anche gli altri ragazzi sappiamo che sei una
persona
sulla quale si può sempre contare.- gli diede un bacio in
fronte e lo guardò
negli occhi.- Non devi pensare di non essere affidabile. Elena adesso
è molto
fragile e sono convinta che se ti ha allontanato è
perché vuole diventare una
persona migliore, anche per te. Abbi fiducia, sono sicura che le vostre
strade s’incroceranno
di nuovo.- gli sorrise dolcemente.
Taro
annuì e
poggiò la sua fronte a quella di Sanae, scrutando nei suoi
occhi quella
dolcezza di cui aveva tanto bisogno in quel momento. Non
c’era imbarazzo in
ogni gesto che compivano, perché non vi era nessun
interesse, se non quello di
cercare conforto nell’amore fraterno che li univa. Lei gli
accarezzò le guance
con le dita e sorridendo s’inginocchiò di fronte a
lui, poi sospirò, pensando a
quanto anche lei aveva bisogno del conforto di un amico.
Misaki le
prese
la mano.
- Grazie,
Sanae
e scusami tanto: ti ho assillato con i miei problemi, quando anche tu
non stai
meglio. Perdonami se non sono stato sincero con te.-
- No, Taro.
E’
stato troppo comodo incolpare a te l’altra sera. La
realtà è che la stupida
vigliacca sono solo io. Quando non ho visto Tsubasa tornare, avrei
potuto
cercare di mettermi in contatto con lui e pretendere una spiegazione,
anche se
solo come amica, invece non l’ho fatto. Ho preferito
nascondermi dietro al
dolore.- lo guardò sconsolata.
- Forse
sarei
dovuto restarne fuori…- disse titubante.
Sanae scosse
la
testa sorridendo, ormai ciò che era avvenuto la sera della
festa era acqua
passata.
- Come ti
senti,
Sanae? Cosa provi davvero?- le chiese decidendo che fosse il momento
che anche
lei si sfogasse con lui.
- Cosa
provo?
Non lo so: sono così confusa, Taro. Non so proprio cosa devo
fare.- sospirò.
- Hai
più
sentito Yosuke?-
Sanae scosse
la
testa, sapeva che era ancora offeso per la lite che avevano avuto la
settimana
scorsa, ma stranamente non ne soffriva, anzi, nello stato di confusione
in cui
si trovava, non doverlo vedere le dava sollievo.
- Cosa
rappresenta lui per te?- indagò cautamente.
- Lui
è il mio
ragazzo. Gli voglio bene e mi ha aiutato moltissimo in
quest’ultimo periodo.
Vedi la partenza di Tsubasa mi aveva scossa profondamente e mi aveva
fatta
sentire una nullità. Credevo che non ne sarei mai uscita,
invece le sue
attenzioni mi hanno, in qualche modo, spronata ad andare avanti.-
ammise.
- E
Tsubasa?-
I suoi occhi
si
velarono di tristezza.
-
Tsubasa…ho
cercato in tutti i modi di odiarlo, Taro, ma non ce l’ho
fatta. Credevo di
disprezzarlo, ma l’altra sera, quando l’ho sentito
ho capito che non ci riesco.
L’ho amato per così tanto…-
- E lo ami
ancora?- una domanda che per lui era più che retorica.
- Non lo
so.-
mentì, poi lo guardò negli occhi e gli chiese:-
Perché l’altra sera non gli hai
detto di Yosuke?-
- E tu?
– le
rispose.
Sanae si
sentì
avvampare, ancora una volta voleva scaricare la colpa su qualcun altro.
Taro
non era obbligato a dire certe cose a Tsubasa, semmai si fossero
rincontrati
sarebbe stata lei a parargliene.
- Sanae,
perché
non lo lasci?-
- Ma
io…-
- Ascoltami,
so
che mi sono impicciato anche troppo, ma ora che sai che il ragazzo che
ami da
sempre ti ricambia totalmente, non credi sia meglio accantonare un
po’
l’orgoglio?-
- Tsubasa
non ha
mai rivelato di amarmi.- si voltò a fissarlo negli occhi.-
Non a me almeno.-
inarcò un sopraciglio.
- Certo che
potresti fare concorrenza ad un mulo.- sbuffò.
Sanae rise e
spostò lo sguardo sulla sveglia che segnava le nove di sera.
Posò una mano
sullo stomaco che iniziò a brontolare.
- Tu non hai
fame?-
Annuì,
ricordandosi che oltre al cuore aveva anche uno stomaco che ora
reclamava.
- Ordiniamo
qualcosa al cinese e poi, ci sintonizziamo sulla prima partita che
becchiamo
sul satellite, con il miglior rimedio per il mal d’amore!-
esclamò.
-
Cioè?-
- Gelato in
quantità!- alzò il pugno, provocando una risata
divertita dell’amico che per un
attimo vide sovrapporsi all’immagine della bella ragazza con
le pene d’amore,
quella di un maschiaccio scatenato.
Dopo aver
consumato una bella cenetta a base di ravioli al vapore e involtini
primavera,
si accomodarono sul divano con delle scodelle, delle dimensioni di una
ciotola per
un alano, colme di gelato alla vaniglia e cacao. Sanae si sedette sul
morbido
cuscino con le gambe incrociate e si sintonizzò sul canale
tematico del calcio.
La voce dello speaker si
levò dalle
casse del televisore riempiendo la stanza, mentre le telecamere
inquadravano i
tifosi sugli spalti gremiti.
- Buonasera
gentili telespettatori, trasmettiamo in differita dallo stadio
Maracanà la
finale Sao Paulo- Flamengo.-
In quel
momento,
il volto concentrato di Tsubasa apparve sullo schermo. Sanae rimase di
sasso,
poi assunse un’espressione imbronciata.
- Non
è
possibile…- sbuffò colpita dall’ironia
della sorte, mentre Taro al suo fianco,
si contorceva dalle risate.
*Parole tratte dal testo della canzone “
Canzone per lei” di Eros Ramazzotti
La scelta di Elena, forse più matura
della
sua età, è estremamente voluta: alle volte la
felicità passa anche per scelte
difficili come quella che ha fatto lei. L’ultima parte mi sta
particolarmente a
cuore, perché ho cercato di trasmettervi quei sentimenti di
profonda amicizia
che sono indispensabili nei momenti bui di ognuno di noi, spero proprio
di
esserci riuscita.
Ringrazio i lettori e le mie affezionate
recensitrici:
Dolcebarbara, Rossy, Eos75 e Onlyhope. A quest’ultima dedico
l’ultima parte
dicendole che ogni volta che la tristezza o l’inquietudine la
colpiranno, io
sarò lì per curarle le ferite…TVB Eli.
Un grosso bacio a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** In frantumi ***
Capitolo 15
In frantumi
Kasumi stava
preparandosi per uscire. Si era messa un vestitino di jeans, che le
arrivava
poco sopra al ginocchio e aveva fermato le ciocche sopra la frangetta
con delle
mollette decorate con brillantini. Si era messa un po’ di
mascara e ora si
stava passando un gloss trasparente
sulle labbra. I suoi occhi brillavano per la felicità. Non
era la prima volta
che usciva con Ken, anzi nell’ultimo mese si erano visti
spesso, stando sempre
attenti a dove e a chi incontravano, perché lei non aveva
ancora avuto modo di
parlarne a Kojiro. In realtà, le occasioni non erano
mancate, ma non voleva
turbare la tranquillità che si era creata dopo che suo
fratello aveva compreso
il messaggio e si era un po’ calmato, soprattutto
perché alla fine del mese
sarebbero iniziate le eliminatorie asiatiche e i ragazzi si stavano
già
allenando al ritiro del mister
Mikami
lì a Tokyo.
Prese la
giacca
ed uscì di casa per raggiungere la fermata
dell’autobus, che l’avrebbe portata
a Rinkai sul lungomare. La giornata era splendida e una passeggiata sul
mare
era l’ideale per passare il pomeriggio: Ken aveva avuto
un’ottima idea a
invitarla ad uscire con lui per rilassarsi assieme, lontano da occhi
indiscreti. Ripensò al mese appena trascorso da quando si
erano baciati in
infermeria. Non si era mai sentita tanto bene quanto in quel periodo:
Ken era
una persona piena di qualità e non passava la maggior parte
del tempo a parlare
solo di calcio come faceva suo fratello. Aveva molti interessi al di
fuori del
suo amato sport, ma ciò che lo rendeva anche più
affascinante erano le maniere
galanti nei suoi confronti e quel modo di guardarla, così
disarmante. Si
sentiva serena e appagata, ma sperava di trovare presto il coraggio di
confessare tutto a suo fratello. Sbuffò pensando a quanto
fosse assurdo doversi
nascondere, solo perché Kojiro era così strano da
covare gelosie assurde nei
suoi confronti.
Scese e si
avviò
al punto d’incontro, ma si sentì prendere per un
polso e la sua reazione fu
immediata. Si voltò di scatto, pronta a sferrare un destro,
ma il ragazzo le
bloccò il pugno con la mano, spostando il viso di lato per
non essere colpito.
- Ehi, che
violenza, mi hai già colpito al cuore, non ti basta?- le
sorrise.
Kasumi
sentì le
guance andare a fuoco. Ken era lì di fronte a lei con una
maglietta aderente
che metteva in risalto i muscoli del torace e un paio di jeans
sbiaditi, aveva
i capelli raccolti in una coda, di modo che i suoi bei lineamenti
fossero più
visibili.
- Sei molto
carina.- si chinò a baciarla.
- Grazie.-
gli
rispose a fior di labbra.
Intrecciarono
le
loro dita e iniziarono a passeggiare.
- Come
stanno
andando gli allenamenti?-
- Al solito,
Mikami ci sta mettendo sotto e noi possiamo solo approfittare di questi
pochi
momenti di tregua.-
Kasumi
sorrise.
- Credevo
che
giocare fosse un divertimento.- lo punzecchiò.
-
E’ un
divertimento, ma in questo caso si parla della selezione per la Nazionale.-
precisò.
Kasumi
notò un’ombra
scesa sul suo volto, ma preferì non dargli peso credendo che
fosse solo un po’
di stanchezza. Gli posò un bacio sulla guancia, cui lui
rispose circondandole
le spalle col braccio e baciandole il capo mentre la stringeva a
sé.
Arrivati
lungo
la passeggiata, Kasumi decise di scendere in spiaggia. Preferiva
evitare di
trascinare Ken in lunghe camminate che lo avrebbero fatto stancare
inutilmente,
quindi optò per un pomeriggio rilassante a godersi la vista
del mare, seduti
sulla sabbia.
Continuava a
chiacchierare allegra, raccontando di come passava le giornate senza di
lui,
dei suoi fratellini, delle visitine che Kojiro faceva a casa nei
momenti di
libertà, ma iniziò a capire che qualcosa in lui
non quadrava, quando si rese
conto del suo essere così distante.
- Qualcosa
non
va?-
Si
voltò,
richiamato dallo sguardo puntato su di sé. Scosse la testa
chiedendole di
proseguire il discorso che stava facendo.
- Ken non
stavo
facendo alcun discorso: è tutto il pomeriggio che sei con la
testa altrove.- lo
sgridò offesa.
- Scusami.-
rispose mortificato.
Kasumi
tentò di
leggere qualcosa sul volto malinconico del suo ragazzo.
- Sarai mica
in
pensiero per le selezioni?-
La sua
espressione si fece più triste e fu costretto ad ammettere
che era quella la
fonte delle sue preoccupazioni.
- Stai
scherzando, vero? Non c’è un portiere migliore di
te in tutto il Giappone.-
rise.
Ken
alzò gli
occhi verso il mare a fissare un punto impreciso
all’orizzonte, quasi a cercare
di raggiungere con lo sguardo la fonte delle sue ansie.
- In
Giappone
no, ma c’è qualcuno considerato migliore di me.
Hai mai sentito nominare Genzo Wakabayashi?-
come se fosse possibile ignorare un cognome tanto pesante in Giappone.
Kasumi
reagì
come se avesse preso una botta in testa, anche se in Cina le
informazioni erano
tenute sotto stretto controllo, il nome del S.G.G.K. non le giungeva
nuovo. Ora
riusciva a capire, perché fosse così
soprappensiero. Si pentì di essere stata
così sciocca e superficiale.
- Io forse
non m’intendo
molto di certe cose, ma credo che tu non sia secondo a nessuno.- gli
strinse la
mano.
-
E’ vero,
Wakabayashi è famoso a livello internazionale, ma non per
questo devi sentirti
sconfitto in partenza, Ken. Cerca di farti valere e ricordati che io
tifo per
te.- gli sorrise.
Le sue
parole e
il suo sorriso lo commossero profondamente. Si sentì in
qualche modo più
sollevato.
- Allora
dovrò
fare del mio meglio per non deludere la più bella tifosa che
si possa avere.-
scherzò attirandola a sé per un bacio.
Kasumi
rispose a
quel gesto con altrettanto ardore, accarezzandogli l’ampia
schiena con le mani,
mentre lui le affondava le dita tra i capelli corvini. Totalmente presa
dai
suoi gesti si sdraiò sulla morbida sabbia, mentre lui
continuava ad assaporare
le sue labbra. I granelli di rena si confondevano nel nero ebano dei
suoi
capelli e i suoi vestiti si stavano impregnando di polvere, ma le
labbra di Ken
sul suo collo erano tutto ciò a cui riusciva a pensare in
quel momento. Sentì
le sue dita accarezzarle la gamba, partendo dal ginocchio e risalire
scostandole la gonna del vestito. Riacquistò la
lucidità in tempo per bloccare
la mano, che si stava impudicamente infilando sotto il jeans. Ken si
fermò e la
guardò negli occhi, dispiaciuto, poi sospirò.
-
E’ difficile
controllarsi con te.- ammise.
Lei gli
posò un
bacio sulla fronte e gli rivolse un sorriso dolcissimo.
- Non
preoccuparti.- sussurrò. Lui le piaceva molto, tuttavia non
si sentiva per
niente pronta per un passo simile. Non era mai stata con nessuno e,
oltre
all’impedimento del ritiro, si sommava anche il poco tempo
trascorso
dall’inizio della loro storia.
Lo
riaccompagnò
al dormitorio senza timore di essere vista da suo fratello, che aveva
sicuramente approfittato del giorno di riposo per andare a visitare la
madre e
i fratellini. Entrarono dal retro e, prima di congedarsi, Ken la
strinse a sé
per un ultimo bacio. Un grido li fece sussultare e si voltarono per
vedere il
volto sconvolto di Sawada, che li fissava con gli occhi e la bocca
spalancati
dallo stupore.
-
Ma…ma…-
balbettò, indicandoli alternatamene col dito puntato.
- Aspetta,
Takeshi…- cercò di calmarlo Ken.
Kasumi gli
si avvicinò
e tirandolo da parte, l’unica cosa che riuscì a
dirgli fu: - Ti prego Take, non
lasciarti scappare niente di quello che hai visto con Kojiro.-
Ken si mise
le
mani sui fianchi e la guardò indispettito: l’unica
cosa a cui riusciva a
pensare era di non far sapere niente a suo fratello, come se lui fosse
un
delinquente della peggior specie. Takeshi si congedò
giurando, addirittura, di
non dire niente a nessuno. Kasumi sospirò di sollievo, ma il
sorriso le morì
sulla bocca, quando incontrò lo sguardo severo di Ken.
- Per quanto
ancora andremo avanti così Kasumi?- domandò
piccato.
- Glielo
dirò
Ken, ma è complicato.-
- Hai sempre
qualche scusa.- mormorò, poi le diede distrattamente un
altro bacio a fior di
labbra e si congedò.
La selezione
era
quasi conclusa, ormai le scelte più importanti erano state
fatte e la squadra
contava sugli elementi migliori accuratamente valutati
dall’occhio esperto del
signor Mikami. Ken parava distrattamente i tiri che i giocatori a turno
cercavano d’infilare nella sua porta, muovendosi in modo
meccanico. Kasumi lo
stava ferendo con la sua mancanza di decisione e ogni tanto gettava
occhiate su
Kojiro, arrivando ad odiarlo per i suoi modi opprimenti Si chiedeva
quanto
ancora avrebbe resistito all’impulso di dirgli come stavano
le cose.
Il
preparatore
atletico richiamò la sua attenzione soffiando nel fischietto
per comunicare un
quarto d’ora di riposo e i giocatori si avvicinarono alle
panchine, afferrando
borracce e asciugamani per ristorarsi.
Matsuyama
infilò
la testa sotto il rubinetto dei lavatoi per rinfrescarsi dal caldo cui
non era
abituato. Misugi gli passò l’asciugamano ed
andò a sciacquarsi il viso.
- Oggi hai
sentito la tua donna?- gli chiese per punzecchiarlo.
- Non ancora
e
tu?- rispose senza scomporsi.
- Yayoi
verrà a
trovarmi più tardi, sai com’è stare in
ritiro nella propria città non è poi
male. Dobbiamo approfittare di questi momenti, dato che noi non viviamo
ancora
sotto lo stesso tetto.- insistette, ottenendo un lancio
dell’asciugamano in
piena faccia dal compagno di squadra. Divertiti scoppiarono a ridere,
ma passò tra
loro Misaki che aveva un’espressione stridente con i loro
volti allegri.
- Ehi, Taro.
Tutto a posto?- chiese Hikaru, che si preoccupava sempre
dell’umore dei propri
compagni.
-
Mmmm…sì.-
rispose distrattamente, mentre chiudeva il rubinetto. I due nazionali
si
guardarono incerti.
- Scusate,
è che
vi invidio un po’.- confessò.
Misugi lo
scrutò
dubbioso: da quel che ricordava, Misaki aveva una ragazza dolcissima e
anche
molto carina.
- Elena mi
ha
lasciato.- confessò, leggendo lo stupore nei loro occhi, poi
si allontanò senza
aggiungere altro, perché non era tipo da sbottonarsi
facilmente con chiunque.
Con Sanae gli era venuto naturale, perché l’aveva
sempre considerata come la
sorella che non aveva mai avuto.
Ripresero ad
allenarsi, ma all’improvviso uno sconosciuto entrò
su Nitta rubandogli la
palla, sotto gli sguardi sconcertati degli compagni di squadra. Da
bordo campo
spuntarono altri sei giocatori, seguiti da un uomo sui
quarant’anni in tuta ufficiale
che si presentò come Minato Gamo, allenatore della Real Japan Seven.
Taro li
squadrò
uno ad uno, mentre questi prendevano posizione sul campo, spingendo,
offendendo
i suoi compagni di squadra e criticando la loro tecnica di gioco.
Hikaru e Jun avrebbero
voluto avventarsi sul tipo col numero 10, che sosteneva di voler
occupare il
posto di Tsubasa, mentre Ken osservava Kojiro che stava già
attaccando briga
con un ragazzo presentatosi come Ryoma Hino.
Mikami e
Gamo
intervennero, spiegando che le due squadre avrebbero dovuto sfidarsi in
una
partita per testare quale fosse la formazione migliore. I convocati
erano
stupiti e leggermente innervositi dall’atteggiamento borioso
di quei tizi, che
erano spuntati da chissà dove ed ora pretendevano di mettere
fuori squadra
sette di loro.
Taro
cercò
d’impegnarsi al meglio, ma la sua testa era altrove, inoltre
l’assenza di
Tsubasa per lui si stava rivelando un grave handicap. Kojiro era
furioso come
non mai, ogni sua occasione era sventata dagli avversari, che
sembravano
prevedere le sue mosse con la precisione di un computer.
Hikaru e Jun chiusi in difesa cercavano di arginare il
più possibile le incursioni di Hino, che però si
era rivelato un bomber degno di
questo nome, sorprendendoli
con delle fucilate
imprendibili.
Il doppio
fischio segnò la fine del primo tempo e su decisione di Gamo
anche della
partita per evidente inferiorità, decretando la vittoria
della RJ7. Kojiro si
allontanò dal campo, calciando un pallone con tutta la forza
che aveva in corpo
e imprecando contro una decisione tanto ingiusta, ma si
bloccò, quando si
accorse che Mikami si era accasciato a terra tenendosi la pancia. I
giocatori
corsero per sincerarsi delle sue condizioni, mentre Katagiri
chiamò
immediatamente un’ambulanza col suo cellulare.
Mikami aveva
subito una peritonite, che fortunatamente non gli portò
gravi conseguenze e la
direzione della squadra passò in mano a Gamo: fu da quel
momento che la squadra
si sgretolò come la creta.
Taro stava
di
fronte al telefono del dormitorio, indeciso su ciò che
doveva fare. Aveva un
gran bisogno di parlare con Elena, di sentire la sua voce che gli
diceva “Non
preoccuparti” immaginandola con il suo bellissimo sorriso
sulle labbra e gli
occhi brillanti, ma lei non era più la sua ragazza e non era
giusto che la
turbasse con i suoi problemi. Prese la cornetta e chiamò
l’unica persona su cui
potesse contare in quel momento.
- Pronto,
qui
Nakazawa.- sentì la voce di Sanae piuttosto scocciata.
- Sanae,
scusa
se ti ho svegliata.-
- Taro?
Ciao!
Come stai?-
Sanae rimase
lì
almeno un’ora per ascoltare il suo migliore amico, che aveva
semplicemente
bisogno di sfogarsi.
Yayoi lo
aspettava appoggiata al cancello del dormitorio, guardando il cielo che
stava
iniziando a trapuntarsi di stelle. Sentì dei passi e si
voltò per sorridere a
Jun che si stava avvicinando, ma la sua espressione mutò
immediatamente nel
vedere il volto amato velato di tristezza. Istintivamente lo
abbracciò, non
avevano bisogno di parole per capirsi.
-
Yayoi…-sospirò.
- Sshhh, non
mi
devi dire niente.- lo rassicurò stringendosi ancora
più a lui.
Jun
affondò il
viso nei suoi capelli profumati, desiderando con tutte le sue forze di
poter
cambiare il corso che avevano preso gli ultimi eventi.
Hikaru stava
appoggiato con la schiena contro il vetro della cabina. Quando parlava
con
Yoshiko, preferiva stare lontano da orecchie indiscrete, soprattutto da
quell’impiccione di Ishizaki.
- Posso fare
qualcosa?-
- Mi sei
sempre
vicina e mi sostieni tesoro, cos’altro potrei chiederti?-
sospirò. – Sai, è
sempre stato il mio sogno essere capitano della nazionale, ma non
così.- rise
amaramente.
Yoshiko
sorrise
intenerita dalla devozione del ragazzo per i suoi amici, avrebbe voluto
essere
a Tokyo per poterlo abbracciare e fargli sentire che gli era accanto.
- Ora devo
andare. Mi manchi tanto, amore.- sospirò sconsolato.
- Anche tu,
ma
non ti abbattere e ricordati che io sono qui ad aspettarti.-
schioccò un bacio
sulla cornetta strappandogli una risata divertita.
Ken era
sdraiato
sul letto, quando sentì un rumore dalla finestra. Si
affacciò e vide Kasumi nel
cortile che gli faceva cenno di scendere. Era andata da lui,
perché voleva
assicurarsi che fosse tutto a posto, dopo l’altro giorno.
S’infilò la giacca
della tuta e scese per incontrarla. Appena varcò la soglia,
lei si buttò tra le
sue braccia. In quel momento desiderava quel contatto più di
qualsiasi cosa.
- Scusami
Ken,
ma io volevo tanto vederti.- ammise.
Le
accarezzò la
guancia intenerito e contento, perché anche lui aveva tanto
bisogno che lei
fosse lì, soprattutto dopo quello che aveva sentito quella
sera.
Kojiro
sembrava
una tigre in gabbia, si era appena beccato un pugno in faccia da
Matsuyama e
stava riflettendo su tutto ciò che era successo in quella
maledetta sera. Non
poteva credere che quell’idiota con l’orecchino
fosse riuscito a metterlo in
ridicolo di fronte a tutta la squadra. Stese le braccia e
strappò l’erba ai suoi
lati per scaricare la rabbia e, per la prima volta da quando era morto
suo
padre, sentì una tremenda esigenza di piangere. Il suo
orgoglio sanguinò
bagnandogli le gote con quelle che lui considerava un’inutile
manifestazione di
debolezza. Col pugno serrato colpì ripetutamente il terreno
intinto delle
lacrime amare che stava versando.
Con le
nocche
sanguinanti si diresse al dormitorio per cercare l’unica
persona di cui aveva
sempre cercato il sostegno. Ken era il suo migliore amico e sapeva come
aiutarlo
senza compatirlo. Era arrabbiato anche con se stesso per aver ceduto
alle
lacrime e credeva che la giornata non potesse essere più
brutta, ma quando
voltò l’angolo si rese conto che il detto
“non c’è limite al peggio”
aveva
ragione di esistere.
Di fronte a
lui
si parava uno spettacolo, che, secondo i suoi canoni, era a dir poco
osceno:
sua sorella avvinghiata al collo del suo migliore amico, stretti in un
bacio bollente.
Strinse i pugni insanguinati e le tempie iniziarono a pulsargli, mentre
il
respiro si stava facendo affannato. Il fuoco gli andò al
cervello, quando notò
la mano di Ken insinuarsi sotto il maglione di sua sorella che in
estasi
sorrideva compiacente.
- Levale le
mani
di dosso, stronzo!- gridò, facendoli separare
all’istante.
- Kojiro!?-
esclamò terrorizzata, mentre Ken si metteva di fronte a lei
col braccio teso,
pronto a difenderla.
Si
avvicinò
lentamente, esattamente come il felino che sta per ghermire la preda.
- Ti avevo
detto
di starle lontano.- sibilò con un lampo negli occhi e con un
guizzo gli assestò
un pugno sullo zigomo. Kasumi gli posò le mani sulle spalle
per controllare il
danno, ma lui la scostò e fece partire un montante che
colpì Kojiro in pieno
stomaco. Il ragazzo barcollò piegandosi per il colpo subito.
-
SMETTETELA!-
gridò Kasumi.- Volete farvi cacciare dal ritiro?!-
domandò sconvolta.
-
Già fatto…-
ansimò Kojiro.- Sono fuori dalla
squadra…tsè e pensare che stavo venendo a
piangere sulla spalla di un bastardo come te, come una femminuccia.-
gli
rivolse uno sguardo disgustato.
-Basta mi
hai
rotto con la tua assurda gelosia! E’ meglio per tutti se ti
togli dai piedi!-
esclamò Ken che si toccava la guancia col dorso della mano.
Kojiro lo
squadrò un ultima volta, prima di voltarsi e andarsene. Non
solo aveva perso il
posto in squadra, ma anche il suo migliore amico. Rimase indifferente
ai
richiami della sorella e sparì nel buio del cortile.
Kasumi si
avvicinò
a Ken per controllare la guancia che si stava gonfiando, ma lui la
respinse con
stizza.
- Vattene
anche
tu Kasumi.- le disse gelido.
Qualcosa
dentro
di lei iniziò a dolere.
- Io non
rimarrò
qui un minuto di più.- s’incamminò
verso il dormitorio.
- Ma dove
vai?-
domandò disperata.
- A
preparare la
borsa, domani vado via da questo posto.-
Lei non
rispose,
sentiva solo le forze che l’abbandonavano.
- Sei stata
una
delusione Kasumi. Dicevi a me di essere forte, di non arrendermi
perché dovevo
dimostrare a tutti che non sono inferiore a Wakabayashi e tu? Non sei
stata
nemmeno capace di dire a tuo fratello che io e te stavamo insieme.-
“Stavamo”,
perché usava il passato?
- Sei solo
un’immatura.- sentenziò gelido come il ghiaccio.
Kasumi
sentì la
tristezza cedere il posto alla rabbia e con una punta d’amor
proprio lo fermò
per guardarlo dritto negli occhi.
- Trovati
una
persona matura, allora, perché con me hai chiuso.- si
allontanò senza
aggiungere altro, mentre Ken tirò una gomitata sulla porta
del dormitorio.
L’aeroporto
era
affollatissimo, specialmente quel lunedì mattina, quando un
folto gruppo di
pendolari correva da un gate
all’altro per non perdere il proprio volo. Misaki si
accodò pazientemente al Check-in:
non aveva alcuna fretta di
partire, il viaggio sarebbe stato lungo, ma tanto nessuno lo stava
aspettando,
non più almeno.
L’immagine
di
Elena, che si affacciava alla sua mente, lo fece sospirare. Era un mese
che non
la vedeva e prima che iniziasse il ritiro si era torturato per
convincersi di non
incontrarla e non sentirla più, ma nei momenti in cui la sua
mente era libera
dal pensiero di partite e allenamenti, era difficile non richiamare
alla mente
quanto le mancasse.
Posò
la sua
borsa sulla bilancia e lasciò che l’impiegata
preparasse la carta d’imbarco.
Svolta quella noiosa pratica, passò distrattamente di fronte
al duty free
dell’aeroporto, deciso a
passare i controlli ed attendere il volo in sala d’aspetto.
Quando giunse ai detector si
arrestò, perché aveva scorto
una figura a lui famigliare, la persona che in quel momento desiderava
con le
sue forze vedere.
Elena era
lì
ferma a guardarlo, indecisa su cosa fare.
“Taro
sta per
andarsene”
“Il
nuovo
allenatore lo ha escluso dalla formazione”
Le parole di
Sanae erano giunte come un fulmine ed erano semplicemente assurde. Non
aveva
dormito la notte, tormentata dal dubbio che fosse troppo presto per
rivederlo,
ma quando si alzò era decisa a salutarlo, prima che
partisse. Ora, però, che
era faccia a faccia con lui, non riusciva nemmeno a muoversi. Appena lo
aveva
intravisto il suo cuore aveva accelerato i battiti e le sue guance si
erano
scaldate.
Taro si
avvicinò
sorridendole dolcemente.
- Ciao
piccola,
come stai?- sapeva che quel nomignolo era troppo confidenziale, ma non
poté
farne a meno. Lei tirò un sospiro e cercò di
rilassarsi.
- Miglioro,
grazie.- tentò di sorridere, mentre con le dita torturava la
cinghia della
borsa. Era talmente impacciata che si sentiva una stupida. I loro occhi
s’incontrarono, uno sguardo pieno di dolcezza e amore
soffocato. Elena non
seppe resistere a quell’incantevole richiamo e lo strinse tra
le braccia come
aveva desiderato fare fin dal primo istante che lo aveva scorto.
- Non volevo
che
andassi via così.- gli confessò con voce tremante.
Taro le
strinse
la vita; sentiva una gran voglia di piangere. Sapeva che lei non era
lì per
tornare sui suoi passi, ma ancora una volta aveva dimostrato il
coraggio di sostenerlo
nelle difficoltà.
Si sciolsero
dal
loro abbraccio ed Elena gli prese il volto tra le mani.
- Ricordati
che
tu sei un campione.- gli diede un bacio sulla fronte e gli
regalò un ultimo
sorriso.
Quanto le
stava
costando tutto questo, vederlo e comportarsi come una coppia
d’amici era una
tortura per entrambi.
- In bocca
al
lupo, Taro- fece per allontanarsi, ma lui la bloccò e
l’attirò a sé per un
ultimo abbraccio.
- Grazie.-
rispose, cercando di non cedere alle lacrime.
Si
lasciarono
nuovamente: lei per tornare alla vita che stava tentando di
ricostruire, lui
per raccogliere i frammenti della sua carriera.
E dopo questo capitolo mi aspetto di vedere
l’antrace arrivarmi a casa…
So che forse sembrerò eccessivamente
negativa, ma purtroppo le difficoltà possono unire come
separare. Si arriva ad
un punto in cui l’amore da solo non basta e ognuno prende la
sua strada.
Spero che in ogni caso il capitolo sia di
vostro gradimento.
Dolcebarbara, Eos75, Rossy e Onlyhope: vi
sono veramente grata, le vostre parole mi gratificano molto e danno un
senso a
ciò che io scrivo, grazie di cuore a tutte.
Un caro abbraccio
Sara
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Fiori di primavera ***
Capitolo 16
Fiori di primavera
Erano
già
passate le 11, quando Sanae si svegliò. Non si era
più fatta vedere in giro e
non si era più messa in contatto con nessuno, tranne che con
Taro o Elena, cui
telefonava per sapere dei progressi che stava facendo con la terapia.
Non aveva
voglia o, semplicemente, non aveva il coraggio di affrontare Yosuke,
dopo
l’ennesimo rifiuto ad un suo appuntamento e pomeriggi interi
in cui si era
negata al telefono. Credeva di volergli bene, ma allora
perchè sapere che
Tsubasa l’aveva sempre amata la turbava tanto?
Aprì
il
cassetto, era pieno di stampe d’e-mail recanti il medesimo
mittente: TSUBASA
OZORA. Alla fine aveva ceduto e aveva chiesto a Taro una copia dei
messaggi che
gli aveva inviato dal Brasile.
Sanae aveva
passato l’intera settimana a leggerle e rileggerle.
“Sanae come sta?[...]Mi
manca tantissimo[...]vorrei che lei fosse qui a sostenermi come fa
sempre[...]non pensavo di poter stare così male senza di
lei[...]vorrei non
essermene andato senza dirle quello che provo” erano le frasi
principali che
continuava a scorrere in quelle lettere. “Grazie per le foto
che mi hai inviato...”:
aveva richiesto anche delle foto sue e adesso capiva perché,
ogni volta che
andavano da qualche parte, Misaki occupava quasi un’intera
scheda di memoria
per fotografare lei, anziché la sua ragazza. Non riusciva a
darsi pace. Come
avevano potuto i suoi amici, compagni di scuola e di tanti momenti
felici
averle nascosto una cosa così importante, come avevano
potuto lasciare che lei
facesse uno sbaglio enorme come quello di cercare di sostituire
Tsubasa?
Ripensò a Elena e ai suoi tentativi di distoglierla dal
mettersi con Yosuke:
lei sapeva, ma non le aveva confidato nulla. Rilesse quelle semplici
frasi e si
accorse che ciò che aveva sempre cercato era lì,
in quelle poche, ma ricche
parole. Tsubasa teneva a lei, era innamorato di lei. Non era un inizio?
Cos’era
a tormentarla? Il legame con Yosuke? Che cos’era paragonato
al suo primo amore:
una lieve brezza estiva. Ad un tratto le vennero in mente le parole di
un
celebre romanzo, il mio amore per Linton
è come le foglie d’autunno nel bosco
[…] il mio amore per Heatcliff è come le
rocce eterne.
Ripensando a quella
frase sorrise, poi si guardò allo specchio e
cambiò espressione. “Non posso,
devo rimanere con i piedi per terra, ho sofferto troppo a causa sua! Se
teneva
a me avrebbe dovuto dirmelo!”.
Si
guardò
attorno, afferrò il suo accappatoio e corse in bagno a farsi
una doccia. Il
contatto con l’acqua la rilassò, quella situazione
l’aveva resa un fascio di
nervi, ma ormai era decisa, Tsubasa Ozora non faceva più
parte della sua vita,
lo avrebbe lasciato alle spalle come un ricordo
dell’adolescenza.
Uscì
dal bagno
con indosso l’accappatoio e i capelli già
asciutti, scese in cucina e alzò il
coperchio che nascondeva una fetta di torta, un succo di frutta e un
biglietto
con scritto “Sono andata a fare la spesa. Spero che tu stia
meglio. Un bacio
Mamma”. Ai suoi genitori aveva detto di avere la febbre.
Quante scuse aveva
inventato quella settimana, ma era l’ora di smetterla con
tutte quelle
sciocchezze, ne aveva già fatte troppe.
Fece
colazione e
risalì a vestirsi. Aprì l’armadio e
prese con decisione il vestitino color
acquamarina che le aveva regalato Yoshiko. Per un attimo la mente
andò alla sua
cara amica. Yoshiko era tornata dagli USA da sola, decisa a restare in
Giappone
con i suoi amici e con Hikaru, lavorava part-time e conviveva col suo
ragazzo a
Sapporo. Yoshi e Yayoi avevano tentato di farle capire che idea assurda
fosse
sostituire Tsubasa, ma non aveva dato loro retta. Scosse la testa,
decisa a non
pensare più a niente. Si mise in spalla lo zainetto ed
uscì.
La
città era
quasi deserta, a quell’ora le persone erano impegnate al
lavoro o semplicemente
si stavano godendo le vacanze altrove. Iniziò a girovagare
senza una meta precisa
e inconsciamente si ritrovò nei pressi del campetto da
calcio, in cui tempo fa
si tenne la sfida tra la Nankatsu e la Shutetsu.
Era
lì che si
erano visti la prima volta: lei lo scatenato capo dei tifosi di quella
scalcinata
squadretta, lui il nuovo venuto che si portava la palla sempre appresso
e che
aveva sbalordito tutti per la tecnica così precisa e la
potenza di gambe che
possedeva. Lo ammirava da sempre e quando avevano raggiunto
l’adolescenza,
aveva capito che i sentimenti che la legavano a lui potevano solo
chiamarsi
amore.
- Sanae?-
La ragazza
rimase senza fiato, riconoscendo la voce di chi l’aveva
chiamata. Aveva quasi
paura, ma l’istinto la guidò e si girò
per incontrare quello sguardo mai
dimenticato. Di fronte a sé c’era un ragazzo dai
meravigliosi occhi neri,
scapigliati capelli corvini che stringeva nella sua mano destra un
borsone da
calcio recante la scritta SAO PAULO.
-
Tsu...Tsubasa...-
fu l’unica parola che riuscì a proferire. Non ebbe
tempo di mettere a fuoco ciò
che stava succedendo, si sentì mancare il respiro e le gambe
tremare.
Tsubasa si
avvicinò come ipnotizzato, incatenato dalla gioia di averla
davanti a sé, di
poter stendere la mano e sfiorare quel viso bellissimo che tanto aveva
sognato.
- Sanae sei
proprio tu?- domandò come in trance,
credendo che il desiderio bruciante di vederla gli stesse provocando le
allucinazioni.
Lei non
riusciva
neanche a parlare, voleva gridargli contro tutto il suo rancore, tutta
la
sofferenza che aveva provato a causa sua, ma non poteva, non voleva
rovinare
quel momento. Il sorriso amorevole di lui le scaldò il
cuore. Le lacrime
iniziarono a pizzicarle gli occhi. Tsubasa se ne accorse, ma prima che
potesse
parlare, lei iniziò a porgli quelle domande che da tempo la
tormentavano.
-
Perchè Tsubasa?
Perchè sei andato via in quel modo? Perchè non mi
hai neanche telefonato una
volta per sentire come stavo? Io...io...- ma le parole le morirono
sulla bocca.
Non
riuscendo
più a contenere le emozioni, Tsubasa si slanciò
ad abbracciarla.
-
Perchè sono un
vigliacco Sanae, perchè non ho avuto il coraggio
né di condividere i miei sogni
con te, né di chiederti di aspettarmi.-
Aspettarlo?
Sanae non lo aveva aspettato, stava con Yosuke, ma in quel momento, non
stava
pensando minimamente a lui, l’unica cosa che sentiva era il
cuore che le
batteva fin quasi a farle male.
Tsubasa la
guardò negli occhi, era uno sguardo dolce e pieno
d’affetto.
-Perdonami-
le
disse semplicemente, pur sapendo che quelle parole erano ben poca cosa.
Sanae
distolse
lo sguardo, avrebbe desiderato di avere la forza per voltargli le
spalle e
andarsene, così come lui aveva fatto con lei, ma qualcosa la
inibiva. Cercò di
rompere l’atmosfera, cambiando discorso con la prima frase
banale che le venne
in mente.
- Credevo
che
fossi al ritiro-
- Prima
dovevo
venire a Nankatsu.- la interruppe Tsubasa – Ho qualcosa di
più importante qui-
disse raccogliendo tutto il coraggio che aveva maturato durante la
lontananza.
Quella frase
la
trapassò come un fulmine, si stava riferendo a lei? Lei
più importante del
calcio? Non era lo stesso Tsubasa che conosceva, non era più
il ragazzino che
correva per la città con un pallone ai piedi e che ignorava
deliberatamente i
suoi sentimenti, era diventato un uomo. Sanae sentì le
guance bruciare, quando
si ritrovò ad osservare i cambiamenti che il fisico del
ragazzo aveva subito.
Era diventato più alto e le spalle si erano allargate, il
suo viso aveva i
tratti più decisi, ma i suoi occhi avevano conservato la
dolcezza dell’adolescente
che aveva imparato ad amare. Le mani di lui la stavano ancora
stringendo per i
fianchi e lei avvertì che quel contatto la stava mandando in
confusione. Si
allontanò con garbo, tentando di celare
l’imbarazzo e asciugando le lacrime.
- Io vorrei
parlarti, Sanae.- le disse.
Il suo cuore
iniziò a battere forte, intuendo di cosa avrebbero dovuto
parlare. Sorrise e
improvvisamente si ricordò che non lo aveva nemmeno accolto
come si deve.
- Scusami
Tsubasa, sono stata scortese.-
Lui le
posò un
dito sulle labbra scuotendo la testa.
- Sei stata
sincera, cosa che io non sono stato in grado di fare, spero solo di
essere in
tempo.-
I loro occhi
s’incontrarono e, per un attimo si dimenticò che
era troppo tardi, e gli
sorrise.
Lui
l’attirò a
sé e, stringendole la mano, la invitò a seguirlo
per andare a fare una
passeggiata.
A casa Nakazawa il telefono
squillava
insistentemente, ma dato che nessuno era in casa,
l’apparecchio suonò a vuoto. “Forse Sanae starà
dormendo”, pensò
Yosuke, mentre riappendeva
la cornetta al telefono. Si buttò sul letto della sua stanza
sbuffando. Doveva parlarle:
era proprio seccato dal suo comportamento. Non la vedeva e non la
sentiva da
più di una settimana e da un po’ di tempo era
strana, ma chi si credeva di
essere? Sebbene fosse una ragazza ricca di qualità, lui non
era certo il tipo
da farsi trattare a quel modo, soprattutto visto lo stuolo di tifose
che, nonostante
l’estromissione dalla squadra, continuavano a sostenerlo e a
chiedergli
appuntamenti. Ripensò al momento in cui
quell’idiota di allenatore lo aveva
messo fuori squadra, ai volti soddisfatti degli odiati compagni di
squadra,
“gli adepti del dio Ozora” era solito chiamarli,
alla calma irritante di
Misaki…se c’era qualcuno che non sopportava era
proprio quel patetico “bravo
ragazzo”. Era anche colpa sua se Sanae era così
fredda con lui, sua e dei suoi
problemi con quella psicotica della sua ex. Quante volte aveva
disturbato i
suoi tentativi di approccio con Sanae con i suoi stupidi messaggi sul pocket
bell e quando aveva
accusato la ragazza di trascurarlo per lui, lei si era arrabbiata.
“Che diavolo
blateri, Yosuke! Taro è come un fratello per me.”
. Rise spavaldamente, certo
che Misaki non poteva essere altro, quel finocchietto aveva perso la
sua donna
perché aveva la virilità di un surgelato,
figuriamoci se poteva competere con
un uomo vero come lui.
Sanae
e Tsubasa passeggiavano mano nella mano per il centro, come una
perfetta coppia
di fidanzatini. La ragazza cercava di bearsi di quei momenti che aveva
potuto
vivere solo nei suoi sogni, ma la vocina della sua coscienza continuava
ad
assillarla.
Che
diavolo fai Sanae?! Non è
assolutamente da te un comportamento simile! Devi dire a Tsubasa di
Yosuke,
devi farlo, non esitare.
Il
suo cuore era diviso a metà, non voleva rovinare quella
giornata che stava
diventando sempre più meravigliosa, ma doveva sforzarsi di
essere reale. Prima
o poi avrebbe dovuto raccontare di lei e Yosuke e quei bei momenti che
ora
stava vivendo con Tsubasa si sarebbero tramutati in una farsa
colossale. Come
avrebbe reagito lui?
Mentre
era persa nei suoi ragionamenti, lui le sfoderò un altro dei
suoi ipnotizzanti
sorrisi.
-
Posso offrirti qualcosa?- disse indicando una caffetteria. Ad un tratto
i
ricordi la assalirono; quel posto: quante volte era entrata
lì da sola, sognando
un giorno di potervi andare accompagnata da lui.
Gli
rispose con un sorriso ed entrarono.
Al
diavolo tutto! Questo è quello
che ho sempre desiderato, adesso non voglio pensare a nulla, voglio
solo
stargli accanto, anche se fosse solo per un pomeriggio.
Yosuke, sdraiato sul divano,
faceva zapping
senza trovare niente che
attirasse la sua attenzione e ad un tratto notò che iniziava
lo spazio del
telegiornale dedicato allo sport. Il primo servizio lo fece alzare in
piedi,
quando inquadrarono Tsubasa Ozora che attorniato dai giornalisti
cercava di
farsi largo per arrivare all’uscita dell’aeroporto
di Narita. Yosuke tremava
per il nervoso, quel giocatore aveva tutto quello che lui voleva da
sempre e
che non aveva mai ottenuto, nonostante non gli si sentisse inferiore.
Afferrò
un cuscino e lo scagliò con violenza contro
l’immagine sorridente di Tsubasa
che prometteva di portare il Giappone alla vittoria.
- Ti sei preso il mio posto in
squadra Ozora, ma la
cosa più importante ora è mia.- ghignò
e prese il cordless
per chiamare qualcuno che
non gli avrebbe fatto sentire la mancanza di Sanae.
La
ragazza nel frattempo stava passando la giornata più bella
della sua vita,
Tsubasa le stava raccontando dell’arrivo in Brasile, di come
aveva dovuto fare
i conti col fatto di essere solo uno tra i tanti e non il giocatore
migliore
del paese. Sanae lo ascoltava estasiata, come se la sua voce fosse una
dolce
melodia. Rivederlo così all’improvviso, essere
avvolta dalla dolcezza del suo abbraccio,
sentire la sua voce, osservare i gesti e le espressioni che
accompagnavano le
sue parole le scaldava il cuore.
-
Sai cosa mi ha reso tutto molto più difficile?- le
domandò all’improvviso.
Sanae
scosse il capo non sapendo cosa rispondere. Istintivamente le prese la
mano e l’accarezzò
dolcemente, mentre con gli occhi brillanti d’amore la
guardava.
-
Che tu non fossi lì-
Lo
sentì di nuovo: il cuore che pulsava velocemente e quella
speciale sensazione
di sfarfallio allo stomaco. Era come se tutto il mondo non esistesse
più, solo
lui e lei in quel casto ma intenso contatto, come se le loro anime si
fossero toccate.
Se solo avesse saputo che la felicità era lì ad
attenderla, quanta sofferenza
si sarebbe risparmiata.
Tsubasa
la guardava adorante, felice perché in cuor suo aveva
sperato di non aver perso
il suo angelo. Era diventata ancora più bella e femminile e
il vestito che
portava poi, risaltava i suoi luminosi capelli che ricadevano sulle
spalle seminude.
Indugiò per un attimo sulla scollatura, distogliendo lo
sguardo immediatamente,
mentre avvertiva una sorta di agitazione.
Yosuke
intanto passeggiava al fianco di una brunetta piena di lentiggini,
bassa di
statura, ma ben proporzionata. Lui non aveva esitato a offrirle il
braccio e
ora quell’ochetta se ne stava appesa al suo fianco con un
sorriso ebete
stampato sul volto. Kaori non aveva creduto alle sue orecchie, quando
le aveva
proposto di uscire per fare una passeggiata ed ora se ne stava
lì beata a
strusciarsi contro di lui, sperando che i suoi patetici tentativi di
seduzione
andassero a buon fine. Yosuke procedeva, soddisfatto di se stesso, in
quella
infantile “vendetta” nei confronti di Sanae, ignaro
di dove fosse la sua
ragazza in quel momento.
Tsubasa
non aveva mai lasciato andare la sua mano e mentre camminavano per i
sentieri
del Parco Hikarigaoka, Sanae fissò le loro dita intrecciate
commuovendosi di
come quel gesto così semplice, racchiudesse tutto un mondo
di emozioni, ma
probabilmente perché era Tsubasa a ispirargliele. Il sole
era ancora alto, le
giornate si stavano allungando, segno che la stagione estiva era alle
porte.
C’era
un sentiero un po’ più sterrato che Tsubasa non
ricordava di aver mai percorso
e, sorridendole, la invitò a dirigersi da quella parte.
La
via percorreva un prato costellato di anemoni fioriti di tutte le
tonalità dal
bianco al rosa intenso, che danzavano alla brezza primaverile, e
conduceva ad
un ruscello costeggiato da splendidi ciliegi in fiore. La vista che
offriva
quell’angolo nascosto del parco sembrava tratta da un quadro pointilliste.
Sanae
lasciò la mano di Tsubasa e corse sotto le nubi rosa che
rilasciavano la loro
magica pioggia fiorita. Tese le mani in avanti per raccogliere quei
piccoli
petali e gli sorrise.
Il
petto cominciò a battergli come un tamburo e rivide nella
sua mente l’immagine
di quella ragazzina al parco Inokashira, quella creatura meravigliosa
che con
la sua dolcezza aveva preso possesso del suo cuore. Di fronte a
sé ora stava
una giovane donna, un fiore sbocciato che desiderava solo essere colto.
Si
avvicinò deciso a non esitare, ma Sanae lo prese alla
sprovvista, prendendolo
per mano, perché la seguisse.
-
Andiamo a vedere da dove parte questo ruscello.- ormai aveva scacciato
ogni
timore, tanta era la gioia di poter condividere quegli attimi con lui.
Tsubasa
trascinato dal suo entusiasmo si arrampicò con lei
attraverso i cespugli d’acero,
fino a che non arrivarono ad una radura da dove si poteva udire il
rumore di
una cascata. Vi era una specie di scalino naturale, che Tsubasa
saltò senza
problemi, poi si voltò e tese le braccia verso di lei per
aiutarla. Sanae si
slanciò in avanti e sentì le sue mani che
l’afferravano per la vita. I loro
occhi s’incontrarono ora che i loro volti erano
così vicini e lei sentì il
cuore battere tanto forte da farle pulsare tutto il torace. Tsubasa
deglutì
nervosamente, mentre il profumo penetrante di lei lo inebriava.
Rimasero a
fissarsi per alcuni istanti, persi in quell’abbraccio
involontario.
Sanae
distolse lo sguardo imbarazzata e la vista oltre le spalle di Tsubasa
era
talmente bella da lasciarla incantata: una grande cascata scendeva dal
pendio
di un colle inverdito dalla natura rigogliosa e andava a formare un
laghetto
dal quale sgorgava il ruscello che avevano risalito.
-
Ma è stupendo!- esclamò. In tutta la sua vita non
aveva mai visto un simile
spettacolo, eppure erano anni che viveva a Nankatsu, ma forse era la
presenza
di Tsubasa che riusciva a rendere tutto magico e perfetto.
Trasalì,
quando avvertì il suo tocco sfiorarle il polso e voltandosi
per sorridergli
notò una luce nel suo sguardo serio che la fece tremare
dall’emozione e la
costrinse nuovamente a posare gli occhi altrove. Due dita le sfiorarono
il
mento e la riportarono a guardarlo in quelle iridi scure come la pece,
che
sembravano leggerle nel cuore. Le loro labbra s’incontrarono
per la prima
volta, aprendosi come dei timidi fiori in boccio per assaporare il
gusto delle
loro bocche, desiderose l’una dell’altra. Tsubasa
la strinse a sé, mentre lei,
arrendendosi all’amore che aveva cercato di ricacciare
nell’angolo più remoto
del cuore, si aggrappò al suo collo affondando le dita
affusolate nei ribelli
ciuffi corvini. Lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle
foglie e il canto
degli uccelli nascosti tra i rami si acquietarono e i loro sensi si
limitarono
al gusto delle loro bocche, impadronitesi l’una
dell’altra, e il tatto delle
loro mani che percorrevano i corpi in sempre più ardite
carezze.
* Citazione da “Cime
Tempestose” di Emily Brontë.
Eccolo finalmente! So che alcune di voi aspettavano
con ansia la
comparsa di Tsubasa e devo dire che gli ho riservato un ritorno di
tutto
rispetto.
Ringrazio tutti i lettori/lettrici che hanno la
pazienza di seguirmi in
questo delirio.
Un saluto speciale alle mie care: Rossy,
Dolcebarbara e Onlyhope cui è
dedicato il capitolo ed Eos75 che avrebbe preferito leggere di Tsubasa
investito da un carro armato (schiviamo le saettate di cippetta). Un
grazie a
tutte, perché siete quanto di meglio mi potesse capitare.
Un caro abbraccio a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** Thunder Strike ***
Capitolo 17
Thunder
strike
Il sole
spuntò
tra le nuvole e il raggio fastidioso, attraverso il finestrino,
andò a colpire
Kojiro che si ridestò dal breve sonno che si era concesso
durante le due ore di
volo. Si passò una mano sul viso sospirando. Dormire lo
aveva aiutato a non
pensare a ciò che era successo il giorno prima. Ancora non
riusciva a credere
che potesse aver perso tutto in così breve tempo: era stato
escluso dalla
formazione della Nazionale, aveva litigato col suo migliore amico e
aveva rovinato
il rapporto con sua sorella. L’immagine di Kasumi,
così come l’aveva trovata la
notte scorsa, quando era tornato a casa per prendere le sue cose, gli
strinse
il cuore.
Con passo
lento,
ma deciso, tornò nella sua stanza facendo trasalire Sawada
che si stava già
addormentando. Vedendo la sua mano insanguinata e la smorfia di dolore
che
appariva sul suo volto, mentre si teneva lo stomaco, il ragazzino
chiese
spiegazioni.
- Non
è niente
Takeshi. Torna a dormire.-
Buttò
i suoi
effetti nel borsone alla rinfusa e uscì dalla stanza,
salutando distrattamente
il compagno di squadra. Con passo lento raggiunse l’uscita
dell’impianto
sportivo. Diede un ultimo sguardo a quel “tempio”,
simbolo delle speranze che
cullava fin da bambino, prima di dirigersi verso casa, sconfitto e
umiliato
come mai in vita sua.
Il profilo
dell’abitazione vecchia e decadente, troneggiava di fronte a
lui, che guardava
con sprezzo quel luogo, che definiva casa solo perché lo
condivideva con le
persone che amava. Si riassestò la cinghia del borsone sulla
spalla e scivolò
all’interno dell’abitazione attento a non fare
rumore.
Nel buio
della
sua stanza, prese con sé le poche cose che voleva portare,
ma un rumore dalla camera
accanto lo bloccò. Fece scorrere adagio il fusuma
e trovò sua sorella alla finestra con lo sguardo
rivolto alla luna, che gli
illuminava il volto bagnato dalle lacrime. Istintivamente si
voltò a guardarlo,
ma Kojiro poté leggere solo disprezzo in quelle iridi scure
come il sentimento
che esprimevano.
- Ken e io
non
stiamo più insieme.- sibilò con un tono quasi
irreale. – Spero tu sia
soddisfatto.-
No, non lo
era,
non sapeva dire cosa stesse provando in quel momento, forse delusione
verso se
stesso e quella giornata orribile.
-
Kasumi…-
Con un gesto
perentorio, gli intimò il silenzio.
- Non
fiatare,
non mi va nemmeno di sentire la tua voce. Esci dalla mia stanza e
stammi
lontano.- scandì le parole lentamente in modo che gli
entrassero in testa. Lo
guardava con la freddezza di una statua di marmo, mentre lui accusava
ogni sillaba
come un dardo al costato.
Se
n’era andato
nel silenzio più assoluto, così com’era
entrato, ma su di lui gravava
l’ennesimo peso, che si era aggiunto agli altri che gli erano
piovuti addosso
come un acquazzone improvviso. Era salito sul primo aereo per Naha con
la
speranza di ritrovare tutto ciò che sentiva di aver perso,
allontanandosi per
un po’.
L’autobus
lo
portò fino a Higa, dove, per prima cosa, andò a
visitare il signor Kira, suo
vecchio allenatore. Lo trovò come al solito inginocchiato al
kotatsu con il bicchierino colmo di
awamori
e gli occhi lucidi, sintomo del
suo stato ebbro. Quell’uomo all’apparenza
così inaffidabile, era uno dei punti
fermi nella vita di Kojiro ed ogni volta che ne aveva avuto bisogno,
gli aveva
offerto ospitalità e sostegno e nemmeno questa volta fece
eccezione.
Kozo Kira sapeva benissimo che Kojiro Hyuga
aveva il calcio nel sangue, era un attaccante nato ed era sicuro che
l’esclusione dalla formazione fosse un ostacolo temporaneo,
che il suo più
brillante pupillo avrebbe superato senza difficoltà.
“La Nazionale
non potrà mai fare a meno di un
giocatore come te”
Mentre correva, le parole di Kira si
ripetevano nella sua mente e gli davano vigore. La sabbia che
ostacolava i
movimenti delle gambe e il clima caldo del luogo rendevano
l’esercizio fisico
ancor più faticoso. Rallentò il ritmo, gettando
ogni tanto un’occhiata alla
distesa d’acqua azzurra che si perdeva verso
l’orizzonte. Un guizzo tra le onde
attirò la sua attenzione e notò una figura
avvicinarsi a nuoto verso la riva.
All’improvviso una fitta al polpaccio lo
costrinse a fermarsi e si posò sulla sabbia per tirare il
muscolo colpito dal
crampo. Mentre tendeva verso di sé la punta del piede per
trovare sollievo,
dall’acqua, come una moderna Venere, emerse la figura che
aveva notato poco
prima. La pelle dorata costellata di gocce d’acqua brillava
sotto il sole
tropicale, le gambe lunghe slanciate dallo slip sgambato del costume si
muovevano lentamente al suo incedere. La ragazza si passò le
mani sui corti
capelli castani per sistemarli all’indietro evidenziando il
petto cui aderiva
il bikini sportivo. Kojiro continuava ad osservarla, mente si
allontanava,
ignara della sua presenza, e indugiò qualche secondo sul
tonico fondoschiena
perfettamente modellato.
Si sentì accaldato, ma
preferì dare la colpa
al sole cocente e alla corsa, piuttosto che ai suoi sensi di uomo che
si erano
appena risvegliati. Si bagnò i capelli con l’acqua
di mare e proseguì fino ad
arrivare in fondo alla spiaggia.
Nel pomeriggio, Kojiro andò ad allenarsi
al
campetto della scuola superiore. Continuava a calciare la palla contro
la rete
di recinzione, dato che quel terreno era sprovvisto di porte. Con
quanta più
forza poteva, caricava il suo destro per migliorare il tiro e renderlo
più
devastante, ma riusciva solo ad ottenere dei triti Tiger Shot.
- Che diavolo fai?! Stai rovinando il campo,
imbecille!- sentì gridare alle sue spalle da una voce
femminile.
Stava per intimare a quella gallina di
chiudere il becco, ma voltandosi si bloccò, riconoscendo
nella ragazza
imbronciata che aveva di fronte, la “visione”
uscita dal mare quella mattina.
Abbassò lo sguardo al terreno e notò i solchi che
aveva provocato con i
tacchetti.
- Chiedo scusa.- si stupì con che
facilità
quella tizia gli avesse fatto dire la parola che più odiava
nel vocabolario.
- Sì, sì, ma ora sparisci, mi
devo
allenare.- disse scocciata accompagnando le parole con la mano per
indicargli
di sloggiare.
- Veramente, mi stavo allenando anch’io.-
rispose, ma lei aveva già cominciato a scagliare una palla
da baseball con
forza, facendo avanti e indietro per recuperarla.
Kojiro stava a braccia conserte a guardarla
divertito, mentre continuava a rincorrere la pallina che rimbalzava in
modo
imprevedibile dalla rete. Lei alzò lo sguardo e
notò l’espressione compiaciuta
del ragazzo.
- Che hai da ridere?- domandò
indispettita.
Kojiro scoppiò a sghignazzare, poi
notando
che si stava arrabbiando le chiese se poteva darle una mano per
scusarsi di
aver rovinato il campo. La ragazza sorrise e gli porse un guantone per
fargli
fare da ricevitore. Passarono un’oretta così, con
lei che gli tirava la pallina
nei modi più strani e lui che ogni tanto si tuffava mancando
la presa e
facendola ridere a crepapelle.
- Per oggi basta.- sospirò asciugandosi
il
sudore, poi lo chiamò con un cenno della mano.
- Vieni, ti offro qualcosa.-
Kojiro accettò volentieri, pensando
subito
che in altre occasioni aveva rifiutato categoricamente gli inviti delle
ragazze
che lo sostenevano durante le partite. Si sedettero ad un tavolino
sulla
veranda e ordinarono da bere.
- Io non so ancora come ti chiami.- le disse
all’improvviso.
- E’ vero.- sorrise.- Mi chiamo Maki
Akamine. E tu?-
- Kojiro…Kojiro Hyuga.-
precisò.
Maki spalancò gli occhi nocciola e
restò
immobile a fissarlo per qualche secondo.
- Ecco dove ti avevo visto!- esclamò
entusiasta.
Kojiro temette di doversi sorbire
l’ennesima
esplosione isterica da parte della ragazza, ma per sua gradita sorpresa
si
limitò a sorridere compiaciuta.
- Come mai sei qui? Allenamento speciale?-
Annuì semplicemente, sperando di non
dover
proseguire il discorso: non aveva assolutamente voglia di rinvangare
quanto era
successo.
- Grande! Ti capisco benissimo, anch’io
sto
cercando di migliorarmi, non è da molto che pratico softball
e mi
piacerebbe proseguire con questo sport.- raccontò.
Maki iniziò a parlare di sé,
della sua vita ad
Okinawa, di come avesse sempre amato l’attività
sportiva e di quanto fosse
contenta di aver scoperto la passione per il softball.
Kojiro
l’ascoltava volentieri: si sentiva a suo agio con lei, non
era la solita
ragazzina petulante che si dilettava in discorsi vuoti e insulsi, come
le
tifose e le compagne di scuola che lo assillavano per un appuntamento.
Con
alcune di loro era anche uscito, ma non era durato per più
di un’ora, invece
con quella ragazza era diverso.
- Sai, in realtà sono qui per un motivo
ben
preciso.- le disse ad un tratto.
Maki lo scrutò incuriosita e lo
invitò a
proseguire con un cenno del capo. Kojiro sospirò e si
aprì spontaneamente,
raccontandole della sua esclusione dalla Nazionale. Lei lo
ascoltò in silenzio
annuendo e spostando lo sguardo di lato in atteggiamento meditativo.
Alla fine
il ragazzo si acquietò, sentendosi leggermente
più sollevato. Maki con la testa
appoggiata alla mano lo fissò negli occhi per qualche
istante. Il suo sguardo
non era compiangente, ma piuttosto comprensivo.
- Non arrenderti.- disse.- Io credo che la
tua esclusione sia solo temporanea, non penso che la Nazionale
possa fare a
meno di un’attaccante come te.-
Le stesse parole di Kira in bocca a quella
ragazza suonarono ancora più piacevoli e più
incoraggianti.
- Premetto che io m’intendo poco di
calcio,
ma so per certo che gli allenatori tendono a pretendere di
più dai giocatori
migliori. E’ una delle prime cose che ho imparato da quando
pratico il softball.-
Kojiro la guardò come fosse un oracolo
divino: quella ragazza spuntata dal nulla gli stava dando nuove
speranze.
- Grazie.- le disse prendendole la mano.
Dopo averle offerto un secondo giro, Kojiro
si congedò spiegandole che sarebbe andato ad allenarsi da
solo per migliorare
la sua tecnica e non sarebbe tornato indietro, finché non
avesse raggiunto il
suo scopo.
- Mi sei stata di grande aiuto, Maki.- le
posò un bacio in fronte e se ne andò.
La ragazza, inizialmente sorpresa, sorrise
soddisfatta.
- A presto, Kojiro.- disse fra sé e
sé.
La palla sbatteva violentemente contro il
grande albero, la caviglia destra pulsava dal dolore, ma non voleva
smettere,
doveva a tutti i costi migliorare il suo tiro. Si massaggiò
il collo del piede,
mentre la palla rotolava accanto a lui. Non era ancora soddisfatto dei
risultati e più provava meno il tiro assumeva la potenza che
cercava.
“Non arrenderti”
Le parole di Maki lo accompagnavano da
giorni ormai, così come la sua immagine che era sempre viva.
La sua fresca
risata, gli occhi brillanti, quando parlava del suo amato sport e quel
suo
fisico slanciato di sportiva. Ripensando a quando l’aveva
vista uscire
dall’acqua con quel bikini, Kojiro dovette ammettere con se
stesso che nessuna
ragazza gli aveva mai suscitato la stessa attrazione, nemmeno quelle
tipe
facili che gli si buttavano addosso con tanta leggerezza. Le emozioni
che
provava, quando pensava a Maki erano del tutto nuove per lui e non
capiva,
perché ogni volta la sua mente ritornasse a quanto era
successo tra Ken e
Kasumi. Probabilmente anche lui si stava innamorando, ma come poteva
dirlo, la
conosceva appena e si erano parlati solo una volta. Che fosse attratto
da lei
era innegabile, ma essere innamorato era tutt’altra cosa,
forse. Come poteva saperlo
lui che non lo era mai stato? Perché, dopo aver parlato con
Maki, si sentiva
come se niente potesse più ostacolarlo?
Si rialzò e riposizionò il
pallone pronto a
ricominciare. Doveva assolutamente migliorare, voleva farlo anche per
lei.
Il pensiero di Kojiro ormai era una costante
nella mente di Maki. Spesso alzava lo sguardo verso il bosco sulla
collina,
dove sapeva che lui si stava allenando. Quando era al campo ad
allenarsi si
fermava qualche istante a pensare che quello era stato il luogo del
loro
incontro.
Camminando verso la spiaggia, passò
accanto
al bar dov’erano andati a bere insieme e notando una coppia
che si teneva per
mano, fantasticò su lei e il giovane attaccante in una scena
simile. Scosse la
testa e proseguì fino a raggiungere la distesa di sabbia
bianca. Si svestì e
andò a tuffarsi tra le onde, ma il volto fiero di Kojiro non
accennava a svanire
dalla sua mente. Intensificò le bracciate e sparì
sott’acqua.
Sdraiata sulla sabbia, stanca e ansimante,
Maki si godeva il tramonto del sole che con i suoi raggi la stava
asciugando. I
suoi pensieri non erano mutati: quel ragazzo era sempre nella sua testa
e, per
quanto si sforzasse, non riusciva ad impedirlo. Nonostante fosse
riuscita a
mascherarlo piuttosto bene, Kojiro l’aveva attratta fin da
subito. Del resto,
era uno dei nazionali più gettonati assieme a Misugi e
Wakabayashi, ma lei
credeva di essere diversa dalle altre ragazze che andavano in visibilio
solo a
sentire il nome dei loro beniamini. Invece, stava seduta sulla battigia
a
sospirare per un famoso calciatore che probabilmente non la considerava
nemmeno.
Uno stormo di gabbiani sorvolò le onde,
mentre il sole stava scomparendo oltre l’orizzonte. Si
rialzò e si diede
mentalmente della stupida. Non era il momento di pensare ad un ragazzo
che non
avrebbe più rivisto, doveva concentrarsi per la partita di
qualificazione al
campionato.
Kojiro stava migliorando progressivamente:
il Tiger Shot sarebbe stato considerato ben poca
cosa, rispetto al tiro
devastante che avrebbe messo a punto e Hino si sarebbe rimangiato le
sue
dichiarazioni da gradasso.
La pioggia iniziò a cadere, ma lui non
la
sentiva nemmeno. Continuava a calciare il pallone con vigore scavando
un solco
sempre più profondo nell’albero che aveva di
fronte. I fulmini squarciavano il
cielo, illuminando la plumbea giornata e la pioggia scrosciava
insistente.
Kojiro, bagnato dalla testa ai piedi, caricò il tiro e fece
partire una tale
cannonata che il tronco scricchiolò.
Era pronto: quello era il tiro che cercava.
Scrutò il cielo e, vedendo un fulmine cadere, sorrise.
“Maki Akamine, questo tiro lo devo a
te”
Avevano perso, rimanendo escluse dal
campionato. Maki gettò il guantone a terra e con le lacrime
agli occhi ripensò
ai duri allenamenti cui si era sottoposta: la corsa, il nuoto, gli
esercizi per
migliorare i lanci. Già i lanci. Kojiro Hyuga
l’aveva aiutata, ma non si era
presentato a quell’importante partita. Lo sapeva, ma in cuor
suo ci aveva
sperato fino all’ultimo. Si trascinò negli
spogliatoi, si tolse le protezioni e
la divisa zuppa d’acqua piovana.
L’acqua calda della doccia le diede
sollievo. Si passò il sapone sul corpo e tentò di
distendere i nervi messi a
dura prova dalla rabbia per la sconfitta subita. Non si era concentrata
abbastanza tanto aveva perso tempo a pensare a quel ragazzo ed ora le
rimaneva
solo la delusione. Appoggiò la fronte contro le fredde
piastrelle e picchiò la
superficie con il pugno, mentre le lacrime si confondevano con
l’acqua della
doccia.
“Sei una stupida!”
Il sole aveva ripreso il suo posto in cielo
e la mattinata si annunciava splendida. Kojiro si svegliò di
buonora, preparò
il borsone e andò a salutare il signor Kira.
- Complimenti, Kojiro. Vedo che hai
ritrovato la grinta. Mi aspetto di vederti tornare con la Coppa
del Mondo.- rise,
con il suo inseparabile cicchetto in
mano.
Kojiro annuì divertito: solo Kira poteva
pensare di bere liquore di mattina presto.
Si congedò con un inchino e corse via.
Doveva
raggiungere la fermata per prendere l’autobus diretto a Naha, ma c’era
un’ultima persona che voleva
assolutamente vedere.
Due ragazze si stavano allenando sul
campetto della scuola, ma s’interruppero, quando videro il
ragazzo avvicinarsi.
- Sto cercando Maki Akamine, sapete
dov’è?-
La ragazza più alta indicò
verso la spiaggia,
spiegando che era andata per la sua solita nuotata mattutina.
Kojiro corse verso il mare e la vide nuotare
con ampie bracciate verso riva. Uscì dalle onde, come la
prima volta che
l’aveva vista e questa volta non avrebbe dato colpa al caldo
o alla corsa, se
il suo cuore iniziava ad accelerare i battiti. Maki scosse la testa per
scrollarsi l’acqua dai capelli e sobbalzò
trovandoselo di fronte.
- Ciao, Maki.- le sorrise.
- Ciao.- rispose in tono incolore.
- Tutto bene?- chiese notando la sua
espressione affranta.
- No, abbiamo perso.- sentenziò
lapidaria,
guardandolo con rabbia. Strinse i pugni per evitare di dirgli che
avrebbe
voluto tanto che lui fosse lì a fare il tifo per lei.
- Non arrenderti.- le disse.
Maki si bloccò e lo guardò
negli occhi. Lui
era tornato da lei e la stava incoraggiando.
Ritrovò il sorriso e dandogli un pugno
sulla
spalla lo rimproverò.
- Antipatico! Potevi almeno venire a fare il
tifo!-
Kojiro rise divertito, poi le spiegò che
stava per tornare a Tokyo per tentare di riprendersi il posto in
squadra. Per
quanto fosse dispiaciuta, non poteva che ammirare la tenacia di quel
ragazzo.
In ogni caso era contenta che fosse almeno venuto per salutarla.
- Ti devo ringraziare, Maki. Grazie al tuo
sostegno ho potuto migliorare il mio tiro.-
Sentì il cuore battere, ma non voleva
che
lui si accorgesse dell’effetto che avevano sortito quelle
semplici parole.
- Se vincerai, almeno mi sarò resa
utile.-
scherzò per celare l’imbarazzo.
- Prima passiamo le eliminatorie asiatiche!-
esclamò facendo il segno della vittoria.
- Sì, giusto e se vinci ti
concederò un
appuntamento.- buttò lì, ignara delle conseguenze.
Kojiro diventò improvvisamente serio e
si
avvicinò. La sua pelle bagnata la rendeva tremendamente
sensuale e il ridotto
bikini metteva in mostra le forme perfette del corpo.
Le strinse la vita con le mani e sorridendo
avvicinò il suo volto a quello di lei.
- Non ti dispiacerà, se mi prendo un
piccolo
anticipo.- sussurrò.
- Anti…- Non ebbe tempo di terminare la
frase, perché Kojiro le sigillo la bocca con le sue labbra.
Il gusto dolce
salato della sua bocca era molto invitante, mentre le grandi mani
accarezzavano
la schiena tesa per l’emozione. Maki si aggrappò
alle sue spalle e cercò di
riprendere fiato, quando le loro labbra si allontanarono.
- Ora avrò un motivo più che
valido per
vincere.- scherzò.
Lei lo guardò imbronciata e passandogli
le
mani intorno al collo, riavvicinò i loro volti.
- Cretino!- bisbigliò prima di perdersi
in
un altro bacio.
Sospirone…questo
capitolo non è stato affatto semplice da scrivere: Kojiro
non è proprio un
personaggio facile e spero di averlo caratterizzato bene. Dedico il
capitolo a
tutte le fan della Tigre!
Ringrazio
tutte le persone che continuano a seguire Fioritura e le mie quattro
affezionate che mi riempiono di orgoglio con i loro complimenti: Elena,
Elisabetta, Rossana e Barbara…grazie di tutto, non sapete
quanto il vostro
sostegno mi commuova e mi toglie la malinconia che in queste giornate
aleggia
su di me. So che alcune di voi attendevano il seguito della situazione
di
Tsubasa e Sanae, ma abbiate pazienza e non vi deluderò.
Un
caro
abbraccio a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Il sogno nella cascata ***
Capitolo 18
Il sogno nella cascata
Un bacio.
Yosuke
l’aveva baciata molte volte in quei mesi, ma non aveva mai
provato niente del
genere. Ora capiva, Tsubasa era l’unica persona che viveva
nel suo cuore, si
era solo nascosto per un po’, ma quel sentimento unico e
meraviglioso era
sbocciato nuovamente fin dal primo momento che i loro sguardi si erano
rincontrati. Le sue labbra così invitanti e le grandi mani
che le accarezzavano
le schiena erano tutto il suo mondo in quel momento e a malincuore
accettò di smettere
quel contatto meraviglioso.
- Sarei
impazzito, se non l’avessi fatto.- confessò
ansimante.
Lei sorrise
e si
aggrappò alle sue spalle alla ricerca di un altro bacio. Le
loro bocche
vogliose s’incontrarono nuovamente. Tsubasa passò
una mano tra i suoi capelli e
carezzando la curva della spalla, scese lungo il braccio per cercare la
sua
mano e intrecciare le loro dita. Si sentiva felice come mai in vita
sua,
l’emozione e il senso d’appagamento che stava
provando non assomigliavano a
nulla di lontanamente paragonabile con la tiepida gioia che gli
trasmetteva un
goal della vittoria o qualsiasi stupido trofeo si fosse aggiudicato.
Sanae era
completamente travolta dalla passione d’ogni singolo gesto
del ragazzo e il suo
corpo si muoveva istintivamente stringendosi ancora più a
lui, agognando il
tocco delle sue mani. Non aveva mai permesso a Yosuke di toccarla a
quel modo,
perché ogni volta che lui cercava un contatto più
intimo lei lo scansava. Sussultò,
quando avvertì il tocco deciso sul suo seno.
-
Tsubasa…-
sospirò sulle sue labbra.
Il ragazzo
buttò
un occhio sulla sua mano che istintivamente aveva coperto quella curva
morbida
e imbarazzato la ritrasse.
- Scusami.-
cercò di riprendere il controllo.
Lei gli
accarezzò il viso scuotendo la testa. Si sentiva
imbarazzata: non poteva negare
che quel contatto che con qualcun altro l’avrebbe addirittura
offesa, era stato
piacevole.
Tsubasa si
allontanò andando ad accucciarsi sulla sponda del laghetto.
Voleva almeno
tentare di recuperare un po’ d’autocontrollo.
Avrebbe dovuto parlarle dei suoi
sentimenti, prima di avventarsi così su di lei, ma i baci
che si erano appena
scambiati sembravano ben più validi che mille parole.
Sanae
capendo il
suo imbarazzo lo raggiunse inginocchiandosi accanto a lui e gli
posò una mano
sulla schiena. I loro sguardi s’incontrarono di nuovo e lei
sorrise senza imbarazzo.
Ciò che era appena successo li aveva sconvolti, ma lo
avevano desiderato
entrambi.
Tsubasa
affondò
una mano nell’acqua e si passò le dita umide sulla
nuca, ma da quanto era
assorto non aveva avvertito quanto fosse gelida l’acqua e
trasalì al tocco
ghiacciato delle gocce sulla pelle.
Sanae
scoppiò a
ridere, alla fine il suo adorato capitano non era cambiato: fuori dal
campo da
calcio rimaneva il solito ragazzino impacciato. Ridiventò
seria, quando
incontrò i suoi occhi che la fissavano con una miriade di
emozioni inespresse.
Scansò nuovamente lo sguardo languido di lui, concentrando
la sua attenzione
sullo spettacolo che madre natura offriva in quel remoto angolo del
parco.
Osservò lo schiumare del lago là dove la cascata
terminava il suo salto: i
raggi del sole, riflettendosi sulle gocce producevano un piccolo
arcobaleno e
prendendolo per mano gli indicò il punto dove la luce creava
quel fascio
multicolore.
Tsubasa le
sorrise,
ma la sua attenzione fu catturata da qualcosa oltre la cascata: dietro
al muro
d’acqua si celava una rientranza. Si alzò e la
prese per mano e indicandole il
punto che aveva colpito il suo interesse le chiese di seguirlo.
Costeggiarono
il
lago e si avvicinarono alla cascata. Con un salto Tsubasa
superò il fosso che
lo divideva dall’entrata della cavità e voltandosi
le prese la mano per
aiutarla a raggiungerlo. Sparirono così dietro al muro
d’acqua che scrosciava producendo
un rumore soave.
- Che
spettacolo!-
esclamò Sanae entusiasta.
Tsubasa
sorrise
soddisfatto, sapeva che le sarebbe piaciuto: anche a lui aveva fatto lo
stesso
effetto, quando era andato a vedere le famose cascate
dell’Iguazù. Certo lo
spettacolo non era niente di minimamente paragonabile, ma la sua
presenza
rendeva quello spettacolo, il migliore che potesse ammirare.
- Non ero
mai
stata “dentro” ad una cascata!- proseguì
ridendo.
Tsubasa si
avvicinò e le passò un braccio sulle spalle. Lei
posò istintivamente la testa
sulla sua spalla e rimase a fissare ipnotizzata il muro
d’acqua che li separava
dal resto del mondo. Portò la sua mano sul petto del ragazzo
che immediatamente
la strinse nella sua. Sanae desiderò che il tempo si
fermasse in quel momento
tanto felice da sembrare quasi irreale.
Si
parò di
fronte a lui passando le mani dietro al collo e offrendogli le labbra
per un
altro bacio. Tsubasa si perse nuovamente in quel dolcissimo contatto e
i suoi
sensi presero a torturarlo piacevolmente. In preda al desiderio le
accarezzò i
fianchi e la strinse ancora di più a sé,
avvertendo una nuova sensazione al
basso ventre. Sanae si allontanò da lui e posò lo
sguardo oltre la cascata,
verso quel mondo in cui lei era comunque la ragazza di Yosuke Shiratori
e cui
suo malgrado sarebbe dovuta tornare.
Riportò
lo
sguardo al ragazzo che, sorpreso dal suo allontanamento, le stava
chiedendo se
per caso avesse fatto qualcosa di sbagliato. Posò la fronte
al suo petto e
sospirò. No, lui non aveva fatto niente di sbagliato, era
lei ad essere in
torto e non poteva continuare a nascondere la realtà, ma
come poteva dire a
Tsubasa che in realtà lei non lo aveva aspettato, che lei
stava con una persona
che non valeva nemmeno la metà di quanto valesse lui.
Si
avvicinò al
getto d’acqua e stese la mano. Fissò la sporgenza
che la divideva dalla sponda
del lago, poi si voltò verso Tsubasa. Cosa doveva fare? Non
voleva fuggire, ma
come poteva restare: sapeva che la passione stava prendendo il
sopravvento e
non avrebbe saputo arrestare l’impeto di quei sentimenti. Si
guardò intorno
osservando l’ambiente cha la circondava e si chiese se fosse
un sogno o la
realtà.
Tsubasa tese
la
mano verso di lei.
- Sanae,
devo
dirtelo, voglio confessarti quello che provo per te.-
Si sarebbe
coperta le orecchie per non sentire, se avesse udito parole
d’amore uscire da
quella bocca dal sapore irresistibile, non avrebbe più avuto
la forza di
andarsene.
-
Io…-
Le lacrime
sgorgarono dagli occhi color ambra e Tsubasa si avvicinò per
asciugare quelle
gocce che illuminavano le guance della sua Sanae.
- Non riesco
neanche a dirti quello che sento ora che sono qui con te. –
Le
posò le mani
sulle spalle.
- Lo so da
tempo, ma non volevo legarti a me. Ero un ragazzino di 15 anni pieno di
sogni,
quando sono andato via, ma già sapevo che posto avevi nella
mia vita. Ho solo
tentato di ignorarlo, ma non si può fingere di non sentire
il cuore che chiama
l’amore con il tuo nome, angelo mio.-
Le
baciò la
fronte e Sanae chiuse gli occhi percependo distintamente il tocco delle
sue
labbra sulla pelle calda per l’emozione.
- Io ti
amo.-
Lo sapeva,
ma
quelle parole acquistavano tutt’altra valenza, quando
venivano pronunciate con
un tono così dolce e deciso. Si strinse a lui, cercando di
trattenere le
lacrime che prepotenti volevano contrastare il sorriso gioioso che si
era
dipinto sul viso. Le loro labbra si unirono in un nuovo bacio,
più dolce, più
appassionato, che aveva il gusto dell’amore.
I
can't pretend anymore
That I'm not affected, I'm not moved
I can't lie to myself, that I'm not, always thinking of you
La bocca di
Tsubasa scese ad accarezzarle il collo, fino a sfiorare il
decolletè. Sanae lo
strinse repentinamente a sé e invitato da quel gesto a
continuare le passò le
mani sui fianchi e risalì ad accarezzare la curva del seno.
You
make me strong
You show me I'm not weak to fall in love
When I thought I'd never need, now I can't get enough
Le mani
esploravano ogni parte dei loro corpi, mentre le loro lingue
s’intrecciavano in
baci appassionati. Sanae affondò le mani nei suoi capelli
corvini, lasciando il
corpo libero di rispondere alle carezze ardenti.
I
always made it on my own
I always talk that I would keep control
You changed everything I believe in
Now I just can't fight this feeling baby
Tsubasa le
passò
la mano dietro al collo e scese fino ad incontrare ciò che
stava cercando. Sanae
avvertì un brivido lungo la schiena, mentre la lampo del
vestito si apriva
afflosciando i tessuti, che perdevano aderenza dal suo corpo,
finché aiutati
dalle mani di Tsubasa non scivolarono a terra.
I
raise my hands and I surrender
'Cause your love is too strong, and I can't go on
Without your tender arms around me
I raise my hands and I surrender
I don’t wanna resist, 'cause your touch and your kiss
Have shattered my defences
I surrender
Spontaneamente
Sanae lo aiutò a liberarsi degli indumenti, ormai inutili,
poi si lasciò
guidare da lui che stringendola tra le braccia
la fece adagiare delicatamente a terra.
L’esperienza era nuova per
entrambi, ma in quel momento l’istinto li guidò
per varcare le porte del lato
più fisico dell’amore.
Sanae si
aggrappò ai suoi bicipiti, soffocando un grido di dolore,
contro la sua spalla.
Tsubasa la baciò sulla fronte e con delicatezza
iniziò a muoversi.
I
have to admit that I
Never thought I'd need someone this way
'Cause you opened my eyes, so that I can see so much more
La scomoda
roccia non era proprio il miglior giaciglio, ma Sanae non sentiva altro
che il
contatto meraviglioso con il corpo di Tsubasa che esigente percorreva
la sua
pelle con carezze ardenti. Non le importava più di nulla,
Yosuke non esisteva,
c’erano solo lui e lei e il loro amore che li stava unendo in
quell’atto
appassionato.
I
surrender to this feeling in my heart
I surrender to the safety of your arms
To the touch of your lips
To the taste of your kisses
Cullati dal
dolce ritmo della cascata, esausti e felici, si stavano rilassando
stretti
l’uno nelle braccia dell’altro. Tsubasa seduto
spalle alla solida roccia e le
braccia che la stringevano, in un abbraccio protettivo.
Sospirò
beandosi
di quanto avevano vissuto insieme, chiedendosi ancora una volta se
fosse un
sogno o la realtà. Il contatto della sua schiena sul petto
le permise di
sentire il cuore di Tsubasa che batteva forte, proprio come il suo.
- Ti amo.-
finalmente lasciò quelle parole libere dalle catene
dell’orgoglio.
Tsubasa
sorrise
e la strinse ancora di più, affondando il viso nei suoi
capelli.
- Dimmelo di
nuovo.- sussurrò, quasi implorandola.
Si
voltò a
guardarlo negli occhi, mentre per la seconda volta le sue labbra
pronunciavano
le due parole più semplici, ma più belle per un
innamorato.
Con la mano
le
afferrò delicatamente il mento e la baciò
dolcemente.
I
can't lie to myself that I'm not always thinking of you*
Il sole
stava
tramontando e con tristezza Sanae si rese conto che il sogno era
finito, così
come stava terminando quella bellissima giornata che le aveva fatto
scoprire
l’amore. Uscirono dalla rientranza e prima di ritornare al
ruscello, Sanae si
voltò per guardare quella cascata che avrebbe avuto per
sempre un posto
speciale nei suoi ricordi.
Mano nella
mano,
riguadagnarono il sentiero. Ripercorsero il cammino a ritroso e giunti
al campo
d’anemoni, Tsubasa si chinò per coglierne uno e
porgerlo alla ragazza che se lo
sistemò tra i capelli sorridendo. Si scambiarono un altro
bacio a fior di
labbra e si diressero verso l’uscita.
Sanae stava
pensando a come comportarsi, forse avrebbe dovuto spiegare tutto e
subito, ma
avrebbe rovinato una giornata perfetta e poi come avrebbe affrontato un
discorso simile dopo quello che era successo tra loro. Di certo non
poteva
dirgli: “Sai Tsubasa, sto con un ragazzo da ben quattro mesi,
ma ho fatto
l’amore con te, perché ti amo.”, anche
se era vero. Il suo errore più grande
era stato quello di mettersi con Yosuke: avrebbe dovuto seguire il
cuore,
anziché il suo stupido orgoglio.
La voce di
Tsubasa la riscosse da quei contorti pensieri.
- Hai voglia
di
mangiare qualcosa?-
-
Sì, grazie, in
effetti, ho un po’ fame.- rispose.
Alla fine
decise
di rimandare tutto al giorno dopo. Tsubasa la amava e lei lo
corrispondeva
appieno, tutto il resto si sarebbe risolto.
Andarono in
un
ristorante di Okonomiyaki e Sanae andò al telefono pubblico
per avvertire la
madre, dato che dal mattino era sparita senza dire niente.
-
Finalmente,
Sanae, mi stavo preoccupando.- esclamò la madre
rimproverandola.
- Scusa
mamma, è
che ho incontrato…- tanto valeva iniziare ad essere
sinceri.- … Tsubasa e la
giornata è passata senza che me n’accorgessi.-
- Tsubasa
è qui?
Salutamelo cara.- disse con un tono decisamente più
addolcito.
Sanae si
aspettava un’esplosione di domande a raffica che non avvenne.
Si salutarono e
tornò al bancone dove l’aspettava Tsubasa.
La signora
Nakazawa tornò ai fornelli per dedicarsi alla cena. La sua
espressione era
molto soddisfatta. Shiratori non le era mai andato a genio, mentre il
giovane
Ozora così calmo ed educato era entrato nelle sue grazie
senza troppi sforzi.
Sperava quindi che il ritorno del suo favorito aiutasse la figlia ad
allontanare quel ragazzino saccente e pieno di sé.
Gli occhi di
Tsubasa brillarono di fronte a quel piatto colmo d’impasto
condito con tutto il
possibile, afferrò il tubetto di maionese sul bancone e lo
strizzò sopra la
pietanza sotto gli occhi meravigliati di Sanae.
- Ah, sapori
di
casa!- esclamò soddisfatto dopo il primo boccone.
Scoppiò
a ridere
divertita, scuotendo la testa.
- Con tutta
quella maionese prenderai almeno tre chili, caro il mio campione.- lo
punzecchiò.
Anche lui
scoppiò a ridere. L’atmosfera tra loro non era mai
tesa, stavano sempre bene
insieme e dopo l’esperienza meravigliosa di quel pomeriggio
la complicità tra
di loro era inevitabilmente amplificata.
Tsubasa
consumò
la cena con soddisfazione e, tra un boccone e l’altro,
descrisse i piatti che
costituivano la dieta brasiliana. Sanae lo ascoltò, mentre
esaltava la bontà
dei Pao Queijo, precisando che erano in ogni caso piatti troppo
calorici per
uno sportivo e quasi si strozzò con il kocha,
quando Tsubasa le raccontò dei fallimenti culinari
di Roberto.
La serata
era
stata la degna conclusione di quel giorno stupendo. Dopo il ristorante,
si
erano fermati ad un chiosco per prendere dei dango
da gustare in riva al fiume. Stretti l’uno
all’altra,
osservarono in silenzio la luna, scambiandosi baci e carezze.
Ora che la
stava
riaccompagnando a casa, Sanae iniziò ad avvertire una sorta
di peso sul cuore.
Tsubasa le stava parlando della selezione per la Nazionale,
ma lei non
stava ascoltando. Arrivarono di fronte casa sua e la strinse nuovamente
in un
caldo abbraccio.
- Domani
pomeriggio parto per il ritiro, ma domattina voglio vederti.- le
sfiorò le
labbra con un bacio.
- Grazie.-
le
sussurrò.- Grazie, per avermi aspettato.-
Quelle
parole la
colpirono come una scarica elettrica, riportandola al mondo reale.
Le diede un
altro bacio e si salutarono. Sanae corse dentro casa e
salutò distrattamente i
familiari. Andò a chiudersi in camera sua prima di scoppiare
in lacrime.
Domani non
avrebbe potuto aggrapparsi a niente per rimandare la verità:
il sogno era
finito.
* Parole tratte dal testo di
“Surrender” di
Laura Pausini.
Eccoci qua…spero che le fan della coppia
siano
contenti della mia scelta. Come vedete Tsubasa qui è
tutt’altro che capra, anzi…XD
E ora i ringraziamenti:
Makichan: sei stata molto gentile a leggere
e recensire, anche se so che il tipo di FF non è nelle tue
corde.
Eos75:
Grazie mille per i consigli e per il
sostegno in questo momento delicato della mia vita.
Onlyhope: Eli ovviamente tu sei la persona
che mi conosce meglio e che cerca di aiutarmi a fare le scelte giuste.
Sono
felice di sapere che tu mi sostieni, per me è davvero
importante.
Dolcebarbara: spero con questo capitolo di
farmi perdonare per il mio forfait di Bologna.
Rossy: grazie come sempre sei gentilissima.
Grazie a tutti, anche coloro che non
recensiscono!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** Punto di rottura ***
Capitolo 19
Punto di rottura
La notte era
passata tranquillamente, portandole un sonno ristoratore, dopo le
emozioni
travolgenti della giornata passata. Aprì gli occhi, destata
dalle grida gioiose
dei bambini che passavano sotto casa sua. Si alzò a sedere
sul letto, ma una
fitta alla testa la costrinse a sdraiarsi nuovamente. Si sentiva
appesantita e
tastandosi la guancia si accorse che il suo viso scottava. In preda ai
brividi,
si avvolse bene nelle coperte rannicchiandosi. Chiuse gli occhi,
cercando di mettere
a fuoco quello che era accaduto nelle ultime settimane, ma soprattutto
l’esperienza unica che aveva vissuto il giorno prima. Tsubasa
era rientrato
nella sua vita come un ciclone a cui non aveva voluto opporsi. Per un
attimo,
la sua mente rivisse quegli attimi di travolgente passione dentro la
cascata e
il cuore iniziò a batterle forte. Il telefono la riscosse da
quei pensieri e
sentì sua mamma che rispondeva.
- Sanae!
C’è
Shiratori al telefono.- gridò dal piano terra.
Il momento
era
venuto, avrebbe confessato tutto a Yosuke, era inutile continuare a
mentire a
se stessi e al mondo: lei amava Tsubasa, non aveva smesso un attimo,
aveva solo
creduto di poterlo cancellare dal suo cuore.
Facendosi
forza,
si alzò dal letto e procedette febbricitante, appoggiandosi
al muro per
arrivare al cordless in corridoio.
-
Pronto…-
- Ah, sua
maestà
ci concede udienza oggi?- domandò sarcastico.
- Ciao,
Yosuke.-
rispose piatta. Quei suoi modi di fare, che fino a ieri aveva difeso a
spada
tratta, le risultavano veramente odiosi.
- Iniziavo a
pensare che sarei invecchiato aspettando…-
- Scusa
Yosuke,
ma non sto bene.- tagliò corto, incapace di sopportare
ancora oltre la sua
arroganza.
- Quando
mai?- ribatté
annoiato.
- Dovrei
parlarti, potresti venire da me per favore?- chiese ignorando i suoi
commenti
acidi. Doveva chiarire la sua posizione con lui ed era inutile
attendere
ancora.
Yosuke
scoppiò
in una risata maligna.
- Non ti fai
viva per una settimana e pretendi che ora io venga da te? Mi hai preso
per un
bamboccio?-
- Devo
parlarti.-
insistette.
- Certo che
parleremo, ma quando ne avrò voglia, non sono il tuo
burattino, Sanae, e ora ti
saluto.- buttò la cornetta sulla forcella.
- Brutto
idiota!- esclamò rivolta contro il ricevitore che emetteva
il suono ripetitivo
della linea interrotta.
Ripose il cordless sulla base e si tastò
la fronte
che le pulsava per l’emicrania. Il telefono
squillò di nuovo. Escluse che
potesse essere Yosuke: figurarsi se quel pallone gonfiato la richiamava
per chiedere
scusa.
-
Pronto…-
- Buongiorno
fiorellino,
dormito bene?-
La voce
dolce e
pacata di Tsubasa la fece sentire già molto meglio.
-
Ciao…- rispose
col cuore al galoppo.
- Tutto
bene?-
chiese subito, sentendo la sua voce indebolita.
- Temo di
avere
la febbre.- rispose esausta, anche stare in piedi le dava noia.
- Ah, mi
dispiace. Posso venire a trovarti?-
Sanae
aspettava
con ansia l’arrivo di Tsubasa, mentre pensava a come
affrontare il discorso con
lui. Temeva la sua reazione, ma voleva dirgli che aveva sbagliato, che
aveva
tentato di dimenticarlo, cedendo alle attenzioni di Yosuke. Avrebbe
dovuto
mettersi un cerotto sulla bocca, il giorno che gli aveva detto che
accettava di
diventare la sua ragazza. Ora riusciva a capire che Yosuke non era
affatto il
tipo giusto per lei. Le aveva telefonato per provocarla e non si era
nemmeno
preoccupato di chiedere come stesse o se avesse bisogno di qualcosa.
Il
campanello
della porta suonò e il suo cuore iniziò a battere
forte di conseguenza. Sentì
sua madre cinguettare allegramente per accogliere Tsubasa: decisamente,
quel
ragazzo era nelle grazie della signora Nakazawa. Sentendoli salire le
scale,
Sanae afferrò lo specchietto che teneva nel cassetto del
comodino e si sistemò
i capelli per cercare di apparire almeno un po’ in ordine.
- Sanae,
guarda
chi c’è?- esclamò felice sua mamma.
La signora
li
lasciò soli e richiuse la porta dietro di sé.
Tsubasa si
avvicinò sorridente al suo letto e le posò un
bacio sulla fronte.
- Sei
bollente,
piccola, hai la febbre alta?-
Annuì
e tese le
braccia verso di lui per stringerlo. Chiuse gli occhi aspirando il suo
profumo.
-
E’ colpa mia,
ieri hai preso freddo.- disse, riandando con la mente a quei momenti
meravigliosi.
Sanae scosse
la
testa.
-
E’ stato
bellissimo.- confessò, intuendo a cosa stesse pensando.
Prese il suo
viso caldo tra le mani e la baciò memore delle sensazioni
provate. Sanae si
strinse di più a lui con le poche forze che aveva. Con le
dita gli accarezzò il
viso, mentre con gli occhi nei suoi cercava di raccogliere un
po’ di coraggio e
confessargli tutto.
- Tsubasa,
devo…- il ragazzo le posò un altro bacio sulla
bocca. Non c’era spazio per le
parole in quel momento, solo per gesti d’amore che da troppo
tempo attendevano
di potersi compiere.
Sanae stava
perdendo la determinazione, ma più fosse andata avanti
più avrebbe peggiorato
le conseguenze del suo silenzio. Con dolcezza lo allontanò
da sé e guardandolo
seria gli confessò che gli doveva assolutamente parlare.
- Ora
è meglio
che ti riposi. Mi dirai tutto più tardi. Devo scappare,
perché ho appuntamento con
Manabu e gli altri: li volevo salutare prima di andare in ritiro.- le
diede un
ultimo bacio, prima di congedarsi. Sanae avrebbe dovuto bloccarlo, ma
le mancò
il coraggio, aggrappandosi alla scusa che gli avrebbe spiegato tutto in
seguito.
- Ci vediamo
dopo,
amore.- corse a salutare la signora Nakazawa e uscì.
Sanae si
sporse
per vederlo attraverso la finestra, mentre usciva dal cancello. Si
morse le
labbra, dove era ancora vivo il sapore della sua bocca e sbuffando per
aver
fallito, si ributtò nel letto.
Tsubasa
arrivò
al campetto della Nankatsu, dove i sostenitori della squadra lo
accolsero
felicissimi di poterlo riabbracciare. Normalmente, il campo sarebbe
stato vuoto
in quel periodo, ma notò che nell’area di rigore
stava un ragazzo alto, in
divisa da calcio, che da solo si stava allenando a fare tiri in porta.
- Manabu,
chi
è?- chiese indicando il giovane che aveva appena insaccato
l’ennesima palla
nella rete incustodita.
- Quello?
E’
Yosuke Shiratori.-
Tsubasa si
avvicinò per fare conoscenza con il ragazzo.
- Ciao..-
Shiratori si
voltò scocciato e l’ira gli montò in
maniera esponenziale, quando si trovò di
fronte la persona che più odiava in quel momento.
- Ah, ma
guarda
un pò: il grande Tsubasa Ozora.-
Finse di non
avvertire il tono sarcastico del ragazzo e gli porse la mano.
- Yosuke
Shiratori.- si presentò, stringendo energicamente la presa.
- Il
capitano
della Nankatsu.- aggiunse Tsubasa.
- Ex
capitano,
sono stato estromesso dalla squadra. Per ora, sono solo il ragazzo di
Sanae.-
sentenziò con un lampo di sfida negli occhi.
Il sorriso
del
ragazzo si spense immediatamente, mentre si ripeteva mentalmente
ciò che aveva
appena sentito: sicuramente aveva capito male. Notando
l’espressione incredula
del rivale, Yosuke rincarò la dose.
- Ma come?
Sanae
non ti ha detto che stiamo insieme? Eppure sono già quattro
mesi.- ghignò
soddisfatto, mentre il viso di Tsubasa rivelava il turbinio di
delusione e
sofferenza che stava provando. Senza dire una parola, si
congedò da Shiratori
che soddisfatto lo vide salutare distrattamente gli altri e trascinarsi
fuori
della scuola come un cane bastonato.
- Questa
volta
ho vinto io Ozora.- bisbigliò a se stesso soddisfatto.
Tsubasa
iniziò a
correre, ansioso di arrivare a casa di Sanae e sentirsi dire che era
tutto
falso, una stupida bugia inventata per…perché non
avrebbe voluto nemmeno
saperlo, desiderava solo che la ragazza gli dicesse che Shiratori
s’era
inventato tutto. Doveva essere così, non poteva essersi
presa gioco di lui.
La porta di
casa
Nakazawa si aprì, ma la signora non ebbe nemmeno il tempo di
salutare l’ospite,
perché si era lanciato verso le scale con la
velocità di un fulmine. Sanae
trasalì e per poco il bicchiere colmo di succo
d’uva non le cadde di mano,
quando la porta si spalancò e apparve uno Tsubasa sconvolto.
Abbozzò un
sorriso, che le morì subito sulle labbra, notando la
tristezza negli occhi di
lui. Non ebbe il tempo di chiedergli cosa avesse, perché il
ragazzo chiarì
subito il motivo della sua apparizione improvvisa.
- Tu non sei
la
ragazza di Shiratori, vero?- la supplicò.
Il respiro
le
mancò di colpo e si portò una mano al petto, non
poteva averlo saputo da
qualcun altro.
Tsubasa
s’inginocchiò al bordo del letto, in posizione
orante, ma qualcosa dentro di
lui si spezzò, quando lesse la realtà negli occhi
di Sanae.
- Non puoi
avermi fatto una cosa simile.- la sua voce tremava per la disperazione.
Sanae
cercò di
trovare le parole adatte, ma le uscì un suono soffocato.
- Mi
dispiace.-
scoppiò in lacrime.
Tsubasa si
sentiva totalmente svuotato, l’umore opposto alla gioia
euforica che aveva
provato fino a poco tempo prima.
Si
alzò in piedi
e come aveva fatto in quegli anni lasciò andare le lacrime:
Sanae non lo aveva
aspettato, non era vero allora tutto quello che si erano detti il
giorno prima,
anche quello che era successo era stato una farsa. Era tutto sbagliato!
- Tu non mi
hai
aspettato…- sibilò astioso.
Sanae lo
guardò
implorante.
- Io credevo
di
non contare niente per te.- cercò di giustificarsi
singhiozzando.
- Non ti
avevo
chiesto di aspettarmi, ma cazzo, Sanae, avresti dovuto dirmelo.-
ribatté ostile.
- Non ce
l’ho
fatta, ho provato a confessartelo, ma…-
Tese una
mano
tremante per chiederle di tacere.
- Tu stai
già
con un altro e hai fatto l’amore con me. Ti rendi conto,
Sanae?- domandò
furioso.
Sanae scosse la testa.
- Perdonami,
io…io ti amo, come potevo respingerti?- chiese, affranta.
Tsubasa la
fulminò con lo sguardo, le gote bagnate dalle lacrime che
stava cercando
disperatamente di frenare. Strinse i pugni.
- Come pensi
che
possa crederti, dopo quello che hai fatto?- domandò glaciale.
Sanae si
strinse
nelle spalle, mentre il pianto le scuoteva le membra.
- Non puoi
dubitare dei miei sentimenti!- gridò esasperata.
- E
Shiratori?-
domandò, ricordandole perché stavano discutendo.
Sanae
raccolse
un po’ di coraggio per riuscire finalmente a spiegarsi.
-
E’ vero, io e
lui stiamo insieme, ma lo volevo…lo voglio lasciare. Io non
provo niente per
lui, amo te, ti ho sempre amato.- confessò con la voce rotta
dal pianto.
- Bugiarda.-
replicò
astioso.
Sanae si
bloccò,
era odio quello che leggeva nei suoi occhi. Si voltò per
concentrare lo sguardo
altrove: non poteva sopportare che lui la guardasse con disprezzo.
Tsubasa
sospirò.
-
Tse…che idiota
sono stato, tre anni a disperarmi e a smaniare per te, sperando che mi
aspettassi e ora che sono tornato ho fatto anche la figura del fesso.
Dovevi
vedere come mi guardava tronfio il tuo ragazzo,
mentre mi parlava di voi
due.- puntualizzò,
calcando il tono
sulle due parole più odiose.
- Se mi
avessi
detto quello che provavi, ti avrei aspettato!- ribatté
offesa dal suo tono pungente.
- Io ho
sbagliato, ma credi di essere migliore di me? Mi hai preso in giro
Sanae. Ti
sei divertita a vedere questo bamboccio, innamorato pazzo, ai tuoi
piedi?-
- Io sono
stata
tua. Senza un momento di esitazione. Ti ho dato anche me stessa. Come
puoi
accusarmi di averti preso in giro?- domandò addolorata.
- Non me lo
ricordare, tu mi hai usato!- gridò.
La sua mano
partì istintivamente e colpì con forza il suo
volto, ma rendendosi conto del gesto,
fissò per un istante il palmo che aveva schiaffeggiato il
ragazzo che amava.
-
Ti…ti chiedo
scusa.-
Tsubasa si
toccò
la guancia bruciante, incredulo e umiliato.
- Ora basta,
Sanae. Questo è veramente troppo. Io ti amavo e da bravo
idiota ti amo ancora,
ma adesso è finita. Tu hai preso la tua strada e io
sparirò dalla tua vita per
sempre.-
Si diresse
alla
porta.
- Tsubasa,
ti
prego…- lo trattenne tra le lacrime aggrappandosi alla sua
schiena.
Si sentiva
totalmente schiacciato da quella situazione, ciononostante,
trovò la forza per
voltarsi e guardarla un ultima volta.
- Non
c’è più
niente da dire. Anch’io ho un cuore e tu me lo hai fatto a
pezzi.- sentenziò
con voce tremante. Le prese la mano e gliela strinse forte, poi si
allontanò e
sparì uscendo da casa sua e dalla sua vita.
Sanae rimase
imbambolata, in preda alla febbre e al dolore, poi si buttò
in ginocchio
accanto al letto e pianse disperata. Aveva perso Tsubasa, proprio ora
che aveva
capito che lui era tutto ciò che desiderava dalla vita. Lo
aveva perso, perché
non aveva saputo aspettare, lo aveva perso per…per cosa poi?
Era stata una
vigliacca.
Tsubasa
corse al
parco Hikarigaoka e ripercorse il cammino che aveva fatto con Sanae.
Arrivò
fino alla cascata, quel luogo dove i suoi sogni erano diventati
realtà. La
magia del giorno precedente era svanita ed ora rimirava quel luogo
fiabesco con
disgusto. In cuor suo, desiderò che la collina crollasse,
sommergendo con le
macerie, le stesse che ora battevano nel suo petto, quel luogo
d’illusioni che
lo aveva cullato dolcemente, per sbattergli in faccia la
realtà in un modo
tanto orribile.
Yosuke era
tornato a casa e si stava crogiolando al sole in giardino con i capelli
ancora
bagnati dalla doccia. Si sentiva finalmente soddisfatto, dopo tanto
tempo. La
faccia addolorata di Ozora era stato quanto di più sublime i
suoi occhi avessero
potuto ammirare. Nel suo sadico autocompiacimento gongolava della
“rivincita”
su Tsubasa. Il pallone è rotondo
caro
Ozora. Pensò ghignando.
Si
andò a
preparare, perché c’era qualcuno che doveva andare
a trovare.
La signora
Nakazawa aveva intuito dall’espressione sconvolta di Tsubasa
che qualcosa di
grave doveva essere accaduto, ma preferì non fare domande
alla figlia. Andò
alla porta e il suo umore peggiorò, quando si vide di fronte
Shiratori. Il
ragazzo entrò e dopo aver salutato distrattamente la
signora, si diresse in
camera di Sanae senza troppe cerimonie.
Quando lo
vide
entrare Sanae lo squadrò torva.
- Avresti
potuto
bussare.- sentenziò.
- Non fare
la
difficile, sei la mia ragazza, non credo di aver bisogno del permesso
per
entrare qui.- si andò a sedere sul letto e
avvicinò la bocca alla sua, ma Sanae
si scostò disgustata.
Yosuke la
squadrò accigliato: quel gesto lo innervosì e non
poco. Sanae sostenne il suo
sguardo, mentre dentro di sé la rabbia montava. Era colpa di
Yosuke se Tsubasa
aveva saputo tutto nel modo peggiore. Pur essendo lei la principale
colpevole
di quella situazione, irrazionalmente doveva incolpare lui: lui che
l’aveva
convinta ad essere la sua ragazza, lui che aveva rivelato come stavano
le cose
a Tsubasa.
- Adesso
ascoltami bene- lo anticipò, prima che dalla sua bocca
potessero uscire altre
frasi sgradevoli.
- Ora che
sei
qui, posso anche dirti che tra noi è finita.-
sentenziò lapidaria.
Yosuke
scoppiò a
ridere: il suo ego smisurato gli impediva di accettare quanto aveva
appena
sentito.
- Scusa non
ho
capito bene?- domandò ironico.
- Oh, hai
capito
benissimo. Ti lascio Yosuke, non provo niente per te, io
amo…-
- Ozora?-
chiese
con un ghigno malefico sulla bocca.
Sanae lo
fissò incredula,
poi annuì decisa.
-
Chissà come
sarà felice.- rise con la stessa espressione di un demonio.-
Oggi sembrava un
cane bastonato.-
Sanae
sentì la
rabbia prendere possesso di ogni parte del suo corpo e facendo leva
sulle braccia
si alzò in piedi.
-VATTENE!-
gridò, disperata.
- Oh, con
piacere bellezza.- uscì lentamente, torturandola piano con
la sua sadica
espressione. Varcata la soglia si voltò e le
mandò un bacio al volo.
- Grazie,
tesoro. Non sai che piacere è stato cancellare quel sorriso
ebete dalla faccia
di Ozora.-
Si
congedò
lasciandola sola con il suo dolore.
Sanae si
buttò
sul letto affondando il viso nel cuscino per soffocare i singhiozzi.
Ora capiva
tutto, Yosuke provava attrazione per lei, ma niente di più,
l’aveva usata per
far del male a Tsubasa.
Tsubasa amore mio perdonami! Sono stata una
stupida!
Le sue grida
attutite dal cuscino riecheggiarono nella stanza, che era diventata
ancora più
vuota dopo quella visita sgradita.
Il suo unico
amore era entrato ed uscito dalla sua vita come un tornado, che arriva
improvviso e spazza via tutto ciò che incontra con il suo
impeto.
L’amore è un castigo. Siamo
puniti di non
aver saputo restare soli.*
*Marguerite Yourcenar, Fuochi
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** Prendi la mia mano ***
Capitolo 20
Prendi la mia mano
L’odore
forte degli analgesici e
dei disinfettanti dava alla testa, ma Kasumi ormai aveva fatto
l’abitudine a
quegli effluvi nauseabondi, che intaccavano l’aria
dell’ospedale. Già da una
settimana si divideva tra la casa e il ritiro, dove andava ad informare
suo
fratello sulle condizioni della madre e dei bambini.
Quando
Kojiro era tornato da
Okinawa, aveva cercato di mantenere le distanze da lui e suo fratello
l’aveva
lasciata, stranamente, in pace. Kasumi avvertiva come un cambiamento in
lui, anche
se, forse, il suo atteggiamento era dettato dagli impegni con la
squadra e le
responsabilità di trascinarla, a causa delle condizioni non
proprio ottimali
del capitano Ozora, che sembrava giocare con la testa altrove. Lei non
aveva
più visto, né sentito Wakashimazu: sapeva solo
che il suo ex giocava per la Yokohama
Flūgels
tramite i giornali. Certo, la loro separazione era stata dolorosa e
spesso
sentiva un magone soffocarla, quando pensava a loro due, ma era andata
così ed
era inutile struggersi tanto per una storia durata il tempo di un
soffio.
Kojiro,
invece, stava diventando
la stella delle eliminatorie asiatiche, mettendo in ginocchio le
formazioni più
forti del torneo con le sue giocate spettacolari, frutto degli
allenamenti ad
Okinawa. Kasumi era andata alle sue partite, nonostante il gelo che
c’era tra
loro due e aveva apprezzato moltissimo le prodezze del fratello, che
giocava
con una nuova luce negli occhi.
Nonostante
si sentisse
insoddisfatta, almeno poteva dire che attraverso lui aveva qualcosa per
cui
essere contenta. Anche se era stupido vivere una felicità
riflessa, questo le
era bastato, fino alla settimana precedente.
“Tua
madre ha avuto un incidente
sul lavoro Kasumi, è in coma
all’ospedale”. Il tono fermo e controllato del
signor Mitsui le risuonava nella testa come un martello.
Rimirò la sua mano stretta
in quello della piccola donna e risalendo con lo sguardo lungo il
braccio, in
cui brillava l’ago della flebo, si soffermò sul
viso sofferente costretto dalle
bende che le fasciavano la testa. Si sentiva tremendamente in colpa per
quello
che era accaduto, forse se fosse rimasta in Cina a finire gli studi,
sua madre
non si sarebbe prodigata a lavorare di più per farla
studiare alla Toho, non
sarebbe stata male e suo fratello non avrebbe litigato con Wakashimazu,
ma era
troppo tardi per pentirsi, poteva solo prendersi le
responsabilità delle sue
scelte e stare vicino alla sua famiglia come poteva.
In
quei momenti, aveva temuto di
essere sola, ma il sostegno degli amici di famiglia, dei compagni di
squadra di
suo fratello e, soprattutto, il prezioso aiuto di Yayoi che si occupava
dei
suoi fratellini erano stati di grande conforto. La manager della
Musashi era
una persona estremamente dolce e, nonostante la conoscesse poco, sapeva
che non
avrebbe potuto lasciare i bambini in mani migliori.
La
sera precedente era andata a
salutare suo fratello, che sarebbe partito per Jakarta. Il ghiaccio tra loro non si
era ancora sciolto, ma il
dolore adesso era più forte: avevano già perso il
loro padre e ora la vita
sembrava volerli mettere di fronte a nuove sfide. Le aveva posato le
mani sulle
spalle e le aveva detto con gli occhi lucidi.
-
Dobbiamo essere forti, Kasumi.
Per noi e per i ragazzi.-
Kasumi
lo abbracciò, bisognosa
del conforto di una figura maschile.
L’attrito
che si era creato tra
loro, non aveva più alcuna importanza, esisteva solo
l’esigenza di sostenersi.
-
Credevo che, dopo la morte di
papà, non potesse accaderci nulla di più
doloroso, ma mi sbagliavo.- lasciò
andare le lacrime.
Kojiro
si strinse alla sorella,
anche lui piangeva. Ora si rendeva conto di quanto fossero vere le
parole della
madre: sfuggire al dolore era impossibile.
L’allontanò e le diede un bacio in
fronte.
-
Ti affido la mamma, stalle
vicino anche per me.- strinse ancora di più le spalle della
sorella per
infonderle forza.
Kasumi
sollevò le mani e gli
strinse i polsi delicatamente.
-
Devi vincere, Kojiro, fallo per
noi.-
Il
ragazzo annuì e con il dorso
della mano si asciugò gli occhi. Entrambi volsero lo sguardo
in alto a cercare,
nel cielo stellato, il conforto del defunto genitore.
-
Papà aiutaci.- sospirò serrando
gli occhi per non piangere.
Uno
sguardo all’orologio da
parete le ricordò che la partita era prossima a cominciare.
Chiamò
un’infermiera, chiedendo se fosse possibile avere un
apparecchio radio. Voleva
che la madre, sebbene incosciente, avesse la possibilità di
ascoltare le
prodezze del figlio.
Selezionò
la stazione radio,
giusto in tempo per sentir annunciare la formazione.
-
Attaccanti: Shun Nitta e Kojiro
Hyuga.- comunicò la gracchiante voce dello speaker.
Il
cuore le bussò nel petto a
sentire il nome del fratello e con un sorriso orgoglioso
guardò la madre
esanime e le strinse forte la mano.
“Coraggio
Kojiro” lo incitò
mentalmente.
La
televisione era sintonizzata
sulla partita. Yayoi aveva portato i piccoli Hyuga a casa sua, per
permettere
loro di vedere il fratellone giocare contro la Cina.
Quando avevano inquadrato
Misugi la piccola Naoko le aveva fatto l’occhiolino,
facendola arrossire con il
suo sorriso furbetto. Giunse le mani e pregò,
perché il Giappone vincesse quella
partita che sembrava avesse acquistato una valenza maggiore, dopo
ciò che era
accaduto alla signora Hyuga.
Il
primo tempo si era concluso
con il vantaggio dei nipponici, ma la Cina
si era ripresa ed ora la Nazionale del Sol
Levante era in difficoltà. Tutti i giocatori correvano per
il campo, cercando
di contenere le incursioni dei cinesi. Misugi aveva vinto un paio di
contrasti,
scatenando l’ammirazione dei piccoli spettatori che si
complimentavano con
Yayoi per le doti del ragazzo. Hyuga aspettava di poter sfondare verso
l’area
avversaria, ma la palla non arrivava, perché i
centrocampisti dovevano coprire
i pasticci di Tsubasa, che, evidentemente, da un po’ di tempo
non era in forma.
-
Recuperiamo la palla, Misaki!-
gridò Matsuyama, che faceva le veci del capitano, troppo
distratto per guidare
la squadra.
Hyuga
s’involò su un cross della wild
eagle e, con una bordata magistrale,
infilò la rete del portiere Jo. I compagni lo attorniarono
festanti, ma lui era
concentrato sul capitano che gli stava tendendo la mano per
complimentarsi
della splendida azione.
-
Che cazzo combini, Ozora!-
gridò additandolo.- Svegliati, io voglio vincerla questa
partita!-
Tsubasa
annuì mortificato,
comprendeva che la sua condizione mentale stava pregiudicando le sue
prestazioni,
ma non riusciva a scacciare il pensiero doloroso di Sanae dalla sua
testa. Il
calcio ora era tutto ciò che aveva, non poteva rovinare la
fama che si era
creato per i suoi problemi di cuore. Una mano si posò sulla
sua spalla e si
voltò ad incontrare lo sguardo rassicurante di Matsuyama.
-
Non prendertela. E’ solo
preoccupato per sua madre.-
Hikaru
lo aveva consigliato
spesso, in passato, sui comportamenti da tenere con Sanae, ma lui non
gli aveva
dato retta e ne stava pagando le conseguenze, ciononostante il compagno
si era
dimostrato comprensivo con lui e lo aveva sostenuto continuamente.
Scosse la
testa e scrutò il campo: doveva concentrarsi sulla partita
in quel momento,
tutto il resto non contava.
Il
Giappone aveva vinto, ma le
condizioni della signora Hyuga non erano migliorate. Kojiro aveva fatto
una
breve scappata all’ospedale, per congedarsi con il cuore
gonfio di dolore, dopo
aver visto la madre inchiodata nel letto e la sorella prostrata dalla
sofferenza. Stava tornando al ritiro, quando notò una figura
famigliare sulla
soglia dell’entrata all’impianto sportivo.
Si
guardarono in silenzio per
alcuni istanti, attimi in cui la tensione sembrò
insostenibile, finché non fu
Kojiro a reagire avvicinandosi piano e stendendo le braccia a cercare
il conforto
del suo migliore amico.
-
Scusa il ritardo.- Ken gli
passò un braccio attorno al collo in una stretta energica.
Kojiro
si aggrappò al suo
ritrovato sostegno come un naufrago in mezzo alla tempesta.
Wakashimazu
ascoltò in silenzio
lo sfogo del ragazzo, che cercava di dominare le lacrime con
l’orgoglio che lo
aveva sempre contraddistinto, limitandosi ad appoggiare la mano sulla
sua
spalla.
-
C’è qualcosa che posso fare per
te?- chiese, quando calò il silenzio.
Kojiro
scosse la testa. Aveva già
fatto il primo passo per recuperare la loro amicizia, dopo
quell’episodio poco
decoroso che li aveva visti protagonisti, cosa avrebbe potuto fare di
più? Un
volto balenò nella sua mente come una folgorazione.
-
C’è una cosa che puoi fare.- lo
guardò negli occhi e aggiunse.- Stai vicino a mia sorella,
lei ha bisogno della
tua presenza più di quanto voglia ammettere.-
Ken
spalancò gli occhi
sbalordito, non avrebbe mai pensato che proprio lui gli avrebbe dato
l’occasione per tornare sui suoi passi. Era stato troppo
orgoglioso per
ammetterlo, ma da quando aveva lasciato Kasumi, si era pentito ogni
giorno di
quanto le aveva detto e avrebbe tanto voluto poter tornare con lei.
-
Kojiro, ma tu…-
-
Tu la ami, vero?-
Ken
si limitò ad annuire, senza
mutare lo sguardo perplesso rivolto al suo interlocutore. Kojiro non
disse
nulla, ma gli diede una pacca sulla spalla e si diresse verso le stanze
del
dormitorio. Quel tacito consenso fu più che sufficiente e,
senza esitare,
guadagnò l’uscita del ritiro per dirigersi verso
l’ospedale.
Kasumi
stava parlando per
stimolare la madre incosciente. Ormai era normale per lei comunicare
con la
donna esanime, ma l’assenza di risposta da parte sua stava
diventando sempre
più difficile da accettare. Ken la osservò in
silenzio, mentre le lacrime le
sgorgavano dagli occhi. Stanca ed abbattuta, Kasumi si piegò
poggiando la
fronte sulla mano della donna e il suo corpo fu scosso dai singulti.
Una mano
le accarezzò amorevolmente la schiena che al contatto
s’irrigidì.
Si
drizzò immediatamente e vedendolo,
la sorpresa durò il tempo di un battito di ciglia, quando
lesse amore e
comprensione nello sguardo del ragazzo che la strinse a sé,
mentre lei sfogava
lo scoramento e la stanchezza sulla sua spalla, bagnandola di lacrime.
-
Sono qui, Kasumi.- sussurrò
baciandole il capo.
Annuì
aggrappandosi forte a lui,
traendo forza da quel contatto che tanto le era mancato. I suoi occhi
umidi lo
guardarono con ritrovata dolcezza, prima di chiudersi ad imprimere il
conforto
del bacio che si scambiarono.
L’orario
delle visite era
terminato e Kasumi dovette lasciare la madre alle cure dei medici che
consigliarono alla ragazza di tornare a casa e dormire decentemente
almeno per
una sera, altrimenti si sarebbe sentita male anche lei, di
lì a breve. Voleva
opporsi, ma anche Ken insistette per riaccompagnarla a casa, quindi
lasciò che
lui la portasse via e si diressero verso Meiwa.
Aggrappata
a Ken che la teneva
per la vita, si trascinò fino a casa. Giunti alla soglia, lo
guardò
intensamente scoprendo una nuova emozione dentro di sé.
Normalmente, si
sarebbero salutati con la promessa di rivedersi il giorno dopo, ma in
quel
momento si sentiva diversa, aveva un grande bisogno di lui. Gli
passò le
braccia attorno al collo e con la fronte appoggiata al suo petto
sospirò.
-
Non mi lasciare da sola.- lo
supplicò.
Il
ragazzo le passò le mani sulla
schiena e l’attirò a sé. Non sarebbe
andato via, voleva proteggerla, rimediare al
male che si erano fatti e dimostrarle che lui ci sarebbe stato sempre
per lei.
Coccolandola come una bambina, la portò dentro casa.
L’ambiente
era deserto. Kasumi
andò al telefono per chiamare Yayoi e chiedere dei
fratellini.
-
Ciao, Yayoi, sono Kasumi. Come
stanno i ragazzi?-
-
Ciao Kasumi. Va tutto bene,
oggi li ho portati al Luna Park per farli distrarre un po’ e
dopo cena sono
letteralmente crollati.-
-
Ah, mi spiace che ti diano
tanto disturbo.- disse mortificata.
-
Non dirlo nemmeno per scherzo.-
l’ammonì dolcemente.- Lascia che si riposino, poi
domani con calma li porto in
ospedale a trovare tua mamma.-
-
Grazie Yayoi, sei una persona
meravigliosa.- rispose commossa.
-
Di nulla, gli amici non hanno
abbandonato Jun, quando è stato male: è ora che
dimostriamo un po’ di
gratitudine.- spiegò. -Buonanotte, Kasumi, cerca di riposare
tranquilla.-
-
Grazie ancora e buonanotte
anche a te.-
Ken
era andato in cucina per
cercare qualcosa da mettere sotto i denti, sia lui che Kasumi non
avevano
mangiato ed ora sentiva un certo appetito. La ragazza entrò
in cucina e trovò
la tavola già apparecchiata per due.
-
Sei un angelo.- sospirò, mentre
lui frugava la credenza in cerca di qualcosa di commestibile.
Spuntò un secondo
per rivolgerle un sorriso e poi si rimise al lavoro, sbuffando
perché non
riusciva a trovare nulla. Stava quasi per arrendersi, poi emerse con
un’espressione
soddisfatta tenendo in mano una busta di riso al curry liofilizzato.
-
Tu vai pure a rinfrescarti, ci
penso io qui.-
Kasumi
lo guardò sconvolta, era
troppo bello per essere vero.
-
E non guardarmi così, sono le
doti del figlio unico.- esclamò strizzando
l’occhio.
Scoppiò
a ridere divertita: dopo
tanto tempo riusciva a ritrovare il sorriso.
Andò
in bagno e si crogiolò sotto
la doccia calda. Appagata dal rilassante getto d’acqua
uscì e si asciugò
velocemente. Spostò il fusuma dell’armadio
e sfilò dai suoi indumenti un vecchio yukata
di sua mamma. Mentre si allacciava la cintura,
andò in cucina, dove trovò
Ken ai fornelli che sapientemente stava rimestando il contenuto della
busta in
una pentola. Si appoggiò allo stipite della porta e lo
guardò divertita con le
braccia conserte e lui sentendosi osservato, si voltò.
-
Sei bellissima!- esclamò,
ammirandola, cinta da quell’indumento costellato di ibiscus
stampati su una
tinta color crema, che risaltava la lucentezza dei suoi capelli corvini
che
ricadevano morbidamente sulle spalle.
Si
avvicinò a lui, posando la
mano sulla sua che teneva le hashi.
Ken le cinse la vita con un braccio inspirando il dolce profumo fiorito
che
emanava. Si guardarono teneramente e si baciarono, mentre lei tirava le
hashi dalla sua parte per
togliergliele.
Risero ancora persi in quel bacio, lottando per il possesso delle
bacchette.
Ken gliele lasciò e si allontanò alzando le mani
in un gesto di resa, mentre
lei prendeva posizione di fronte ai fornelli.
Dopo
cena, andarono in camera di
Kasumi. Seduti accanto alla finestra da cui filtrava la luce della
luna,
rimasero abbracciati a parlare di loro, della loro separazione e di
quanto
entrambi avrebbero voluto che tra loro fosse andata diversamente. Ken
le
confessò quello che gli aveva detto Kojiro al ritiro.
-
Mio fratello ha qualcosa di
diverso.- sentenziò, prendendosi il mento tra le dita.
Strizzò gli occhi e si
morse il labbro, nello sforzo di riflettere sul cambiamento di
posizione di
Kojiro.
-
L’importante è che adesso non
ci metterà più i bastoni fra le ruote.- le
baciò il capo stringendola a sé.
Kasumi
rise, nascondendo il viso
contro la sua spalla.
-
Sarà meglio che andiamo a
dormire.- si alzò e aprì il fusuma
comunicante
con la camera di Kojiro, ma lei lo trattenne.
-
No.- disse lei e buttandogli le
braccia al collo lo baciò con passione.
Ken
fece scorrere le mani lungo i
fianchi e andò ad accarezzarle la schiena, mentre sentiva
che lei lo tirava
verso di sé. Invitato dal suo abbandono, la prese in
braccio, la posò sul futon e
si liberò della maglietta
restando a torso nudo, poi riprese a baciarla, mentre con le mani le
afferrò la
cintura. Si rovesciò
sulla schiena e
il suo volto fu accarezzato dalla pioggia di ciocche corvine di Kasumi
che
succube della passione gli stava calando la lampo dei pantaloni. Le
accarezzò
le spalle e fece scivolare via lo yukata,
sfiorando la pelle liscia della sua schiena facendola rabbrividire.
Voltandosi
nuovamente la fece adagiare sul morbido materasso. Le scostò
i capelli dalla
fronte e le sussurrò quelle parole che avrebbe voluto dirle
da tanto tempo. I
suoi occhi scuri brillarono, illuminando il dolce sorriso che lui aveva
imparato
ad amare sopra ogni cosa e gli si offrì senza più
timori o esitazioni.
Dei
passi veloci lo fecero
sussultare, ma prima che si rendesse conto di dove si trovasse e di che
ore
fossero, Ken si trovò faccia a faccia con Kojiro che stava
impalato sulla
soglia come pietrificato. L’attaccante, passato lo stupore
iniziale, si ritirò
imbarazzato nella sua stanza, maledicendosi per il suo brutto vizio di
non
bussare.
Ken
avrebbe voluto sprofondare e
si girò a guardare Kasumi che sdraiata su un fianco e con un
braccio steso sul
suo torace, dormiva beata e ignara di tutto. Scivolò piano
fuori dalle coperte
e afferrò velocemente i suoi indumenti per rivestirsi, poi
si voltò e, vedendo
la sua ragazza mezza nuda, prese lo yukata
e glielo sistemò come poté sulle spalle
e andò a cercare suo fratello.
Kojiro
stava in cucina con una
tazza piena di ocha fumante,
sconvolto per quello che aveva appena visto. Quando Ken
entrò nessuno dei due
aveva il coraggio di guardarsi in faccia.
-
Ehm, Kojiro…-
Hyuga
stese una mano per
invitarlo al silenzio e lui obbedì immediatamente, temendo
che un’altra lite
violenta fosse nell’aria.
-
Non c’è bisogno che mi
spieghi.- tagliò corto in evidente imbarazzo.
-
Vedi noi...-
-
Lo so cosa è successo, non ho
due anni. –
Kasumi
comparì sulla porta e
guardò entrambi, cercando di capire la situazione, ma prima
che potesse chiedere
spiegazioni il telefono squillò e lei si affrettò
a rispondere.
-
Signorina Hyuga, sua madre si è
risvegliata.- il tono rassicurante del dottore, rese la notizia ancora
più
piacevole.
Con
le lacrime agli occhi Kasumi
ringraziò il medico che cercò di minimizzare,
ricordandole che era un dovere
della sua professione. Corse in cucina e si buttò felice
nella stretta di Ken,
poi si voltò verso Kojiro che sorridente le tese le braccia
e l’accolse nel suo
abbraccio. Le asciugò le lacrime e lasciò che
andasse a prepararsi per andare
tutti insieme in ospedale.
Ken
sentì una mano sulla spalla e
vide l’amico che lo guardava con un’espressione
insolita.
-
Grazie.-
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** Sogno a metà ***
Capitolo 21
Sogno a metà
Era al
quinto
bicchiere, ma il dolore non accennava a diminuire. Da quasi un mese, la
frustrazione era sua sgradita compagna e nemmeno la qualificazione alla
finale
della Coppa d’Asia leniva il dolore per il suo amore
tormentato per Sanae. Dopo
quello che aveva scoperto, tutte le certezze, delle risposte
d’amore
dimostrategli, erano state spazzate via. Come ricevere una coltellata
alla
schiena dalla persona attorno alla quale girava il suo mondo. Il calcio
era
parte della sua vita, ma le sue scarse prestazioni al torneo gli
avevano
dimostrato come senza di lei, nemmeno il suo amato sport fosse di
conforto.
Perché
gli aveva
fatto una cosa simile? Voleva vendicarsi? Sì, probabilmente
era una rivincita
presa per punirlo di essersene andato via in quel modo, lasciandola
sola,
umiliata e con il cuore infranto. Non riusciva più a dare un
senso a nulla.
Sanae: la ragazza che ricordava lui era dolce e generosa, completamente
diversa
dalla persona che lo aveva illuso e ingannato con tanta
facilità. Quelle parole
sussurrate, mentre era tra le sue braccia, i suoi baci, le sue carezze.
“Ti
amo” . Chiuse gli occhi tentando di scacciare il volto
bellissimo che gli
dichiarava i propri sentimenti. Passandosi la mano sul viso sudato per
il caldo
indotto dall’alcool, ordinò il sesto bicchiere,
sperando che la sbronza gli
annebbiasse la mente cancellando il pensiero di lei.
- Caspita!
Stai
tentando il suicidio, dolcezza?-
Tsubasa si
voltò
distrattamente a guardare la donna al suo fianco che lo scrutava
ammiccante. Le
schifezze che stava ingurgitando iniziavano a fare effetto e, cercando
di
mettere a fuoco, notò una sorridente nera dai lunghi capelli
mossi e una
provocante scollatura, mentre con la mano incerta afferrava il
bicchiere che il
barista gli porgeva.
- Solo i
turisti
possono bere il mojito
d’inverno.-
sentenziò divertita, indicando con la mano, su cui brillava
una french manicure, il liquido
verdognolo.
- Ti faccio
compagnia, tesoro.- insistette, nonostante il mutismo del ragazzo.
Ancora non
sapeva
come, ma in quel momento stava seguendo Florencia al suo appartamento.
La donna
gli aveva fatto capire chiaramente di essere attratta da lui e aveva
accettato
le sue avance, anche grazie ai
freni
inibitori indeboliti dal rum. Ora che l’aria della notte gli
aveva fatto
acquisire un po’ di lucidità, iniziava a sentirsi
imbarazzato per la vicinanza
della procace trentenne il cui profumo dolciastro lo stava stuzzicando.
Arrivarono
alla
zona di Sao Lourenço e scesero dal taxi. Florencia lo prese
per mano e lo
condusse al suo appartamento al quinto piano di uno stabile non lontano
dalla
spiaggia. Tsubasa si guardò intorno, spaesato da tanto
lusso. Lei rise e gli
spiegò che l’appartamento era il regalo di un
dentista italiano di cui era
diventata l’amante, mettendolo ancor più a
disagio. Per un attimo si voltò a
guardare la porta, pensando di aprirla e andarsene, ma il suo orgoglio
ferito
lo trattenne. Voleva sfogare il dolore in qualche modo e se
l’alcool non aveva
sortito gli effetti desiderati, probabilmente buttarsi tra le braccia
di
Florencia gli avrebbe permesso di non pensare a Sanae, almeno per
quella notte.
La donna non
perse tempo e accarezzandogli la testa
s’impossessò avidamente delle sue
labbra, mentre con le mani lo spogliava della giacca della tuta da
calcio.
Tsubasa la lasciò fare, crogiolandosi in quel piacere
effimero, ma non appena
chiuse gli occhi l’immagine della sua ossessione abbandonata
tra le sue braccia
prese a torturarlo.
-
Sanae…-
sospirò, mentre una lacrima gli scendeva dagli occhi.
La
brasiliana si
ritrasse disgustata, non che si aspettasse che il ragazzo cadesse ai
suoi
piedi, ma che pensasse ad un’altra, mentre stava con lei, era
un’idea che non
le andava proprio a genio. Lo spinse indietro e gli porse la giacca.
- Vai fuori
di
qui, io non ci sto a fare la controfigura, ragazzino.-
sentenziò risentita.
Tsubasa le
tolse
l’indumento di mano e si trascinò a testa bassa
fino alla porta. Come un automa
uscì in strada e si diresse in spiaggia, mentre con la mente
cercava di
rielaborare quanto era appena successo. Che idiota era stato a pensare
che
buttarsi a fare sesso con una mantenuta, gli avrebbe tolto il peso che
gli
gravava sul cuore. Ora si sentiva anche peggio. Lo stomaco
iniziò a ribellarsi
e inginocchiatosi sulla rena lo vuotò di tutto lo schifo che
si era bevuto nel
vano tentativo di trovare un po’ di pace. Sfinito, si
trascinò sui gomiti,
mentre le lacrime gli bagnavano il viso. Sdraiato sulla sabbia, volse
lo
sguardo alla luna che rischiarava il mare con i riflessi argentati dei
suoi
raggi. La sua mente associò quell’immagine alla
sera in cui lui e Sanae stavano
lungo il fiume, innamorati e felici, rubandosi i dango
a vicenda e scambiandosi baci. Batté un pugno
sulla sabbia e
con tutto il fiato che riuscì a cavare
dall’addome, gridò il suo nome
sciogliendosi in un pianto disperato.
- Che ne
dici di
questo, Sanae?- domandò Yoshiko misurandole addosso un
vestitino blu con delle
margherite stampate. La ragazza si limitò a guardarsi allo
specchio e a
scuotere la testa, poco convinta. Si allontanò cercando un
posto a sedere nel
reparto calzature e si passò una mano sulla fronte in preda
ad un giramento di
testa. L’amica la raggiunse subito, preoccupata dal suo viso
pallido e da quei
giramenti di testa che la colpivano da quando si erano svegliate a casa
di
Yayoi. Si sedette accanto a lei e stava per prenderle la mano, ma Sanae
scattò
in piedi coprendosi la bocca e scappando verso le toilette.
Yoshiko
entrò
poco dopo di lei e sentì che stava dando di stomaco, chiusa
in uno dei bagni.
Attese lì fuori, finché non uscì
barcollando e con gli occhi rossi dalle
lacrime. L’aiutò ad avvicinarsi ai lavelli e le
carezzò la testa impietosita
dal suo viso stravolto.
- Da quanto
non
stai bene, Sanae?-
-
E’ da qualche
giorno che do di stomaco e ho delle fitte al basso ventre.-
spiegò, mentre si
bagnava il collo e si lavava il viso.
- Forse,
sono i
sintomi del ciclo.- ipotizzò poco convinta.
- Mi
è saltato
questo mese.- disse con voce tremante.
All’improvviso
tutto le fu più chiaro, ora capiva perché avesse
chiesto a Yayoi di parlare con
il medico presso il quale svolgeva il tirocinio per fissarle un
appuntamento.
Il dott.
Maeda
le aveva prescritto delle analisi del sangue, in modo da fugare ogni
dubbio,
anche se i sintomi parlavano chiaro. Dopo la visita, aveva cercato di
rincuorare la sua giovane paziente, evitando di fare domande troppo
esplicite e
personali, ma quando era uscita gli era sembrata una bambina smarrita.
- La sua
amica
ha 18 anni e mezzo, vero Aoba?-
-
Sì, dottore,
ha solo qualche mese più di me.- rispose sommessamente Yayoi.
-
E’ ancora così
giovane.- sospirò con fare paterno.
Quando era
tornata con le analisi, Sanae aveva chiesto che Yayoi e Yoshiko fossero
lì con
lei, mentre il dottore le spiegava i risultati.
Il medico
scorse
veloce il foglio fino ad arrivare al valore più rilevante,
poi, tentando di
conservare la sua professionalità, si tolse gli occhiali e
si massaggiò le
palpebre con le dita.
- Il valore
Beta-HCG è positivo, signorina Nakazawa.-
Un silenzio
di
tomba calò nella stanza. Sanae cercò lo sguardo
di Yayoi per comprendere il
mistero celato dietro quella dichiarazione in linguaggio medico e
notò un velo
di apprensione nei suoi occhi. Le si avvicinò e tenendole la
mano, le regalò
uno dei suoi migliori sorrisi per alleggerire il peso di ciò
che stava per
dirle.
- Aspetti un
bambino, Sanae.-
Da una
settimana
si trascinava in quel dubbio ora diventato certezza, ma saperlo non
rendeva la
realtà più semplice. Un senso di pesantezza
all’addome prese a tormentarla e
sentiva una gran voglia di piangere. Alzandosi aiutata da Yayoi,
ringraziò il
dottore e si trascinò fuori dello studio. Le sue amiche,
preoccupate, la
seguirono a ruota e la trovarono all’entrata
dell’ambulatorio, impalata e con
lo sguardo perso nel vuoto. Yoshiko le posò una mano sulla
spalla e la strinse
forte, mentre lei singhiozzava e Yayoi le massaggiava la schiena.
- Cosa
faccio
adesso?- ripeté scossa dal pianto.
Aveva
passato
l’intero pomeriggio a piangere tormentata dai dubbi, la
situazione era più
grande di lei e sapeva benissimo che non poteva gestirla da sola. Yayoi
l’aveva
aiutata a fare gli esami di nascosto, ma ai suoi genitori non avrebbe
potuto celare
altro.
- Forse
dovrei
abortire…- sospirò.
- Oh, no, Sanae!-
esclamò Yoshiko.- Ti
prego, non dire una cosa così brutta.-
- E cosa
dovrei
fare secondo voi?- gridò disperata.- Tsubasa mi odia ed io
non posso occuparmi
di un bambino da sola.-
- Andiamo,
Tsubasa non ti odia.- intervenne Yayoi per sdrammatizzare.
- In ogni
caso,
lui non lo deve sapere.- esclamò.
Yayoi le si
parò
davanti con un’espressione ammonitrice.
- Ancora
bugie
Sanae? Non vi siete già fatti male abbastanza?-
- Tu non sai
come mi sento io!- urlò facendole trasalire.
Sanae
abbassò il
capo, rendendosi conto di avere esagerato.
-
Scusatemi.-
sospirò, mentre le lacrime ripresero a scenderle sulle
gote.- E’ che vorrei
tanto che tutto fosse andato diversamente, aver spiegato subito la
situazione a
Tsubasa. Forse ora non sarei in questo guaio. Non posso dirgli niente,
sembra
che io voglia ricattarlo per farlo tornare con me.- nascose il volto
tra le
ginocchia in preda alle lacrime.
Yoshiko le
carezzò la schiena resistendo all’impulso di
piangere anche lei.
- Sanae, non
agire in modo avventato, dormici su e poi prendi una decisione a mente
lucida.-
le spiegò dolcemente.
Yayoi
annuì e si
avvicinò anche lei per abbracciarla.
- Sappi che
non
sono d’accordo sul nascondere la verità a Tsubasa,
ma rispetterò la tua
volontà. Ti prego di pensarci bene, lui ha il diritto di
sapere una cosa
simile.- le spiegò con calma.
Sanae
annuì e
imitando le due amiche scivolò sotto le coperte, sperando
che il sonno
l’aiutasse a calmare il tumulto che aveva dentro. I suoi
pensieri andarono
immediatamente a Tsubasa: lo rivide nella cascata, quando le aveva
dichiarato
il suo amore. Due lacrime le scesero spontanee e il sonno
s’impadronì piano
piano di lei.
Yoshiko si
alzò
e quasi le venne un infarto, quando trovò il letto di Sanae
vuoto, ma si calmò
non appena lesse il biglietto che le aveva lasciato.
Cara Yoshi,
non preoccuparti, se non mi trovi in casa.
Sono uscita perché ho bisogno di fare chiarezza e riflettere
da sola su quello
che sta succedendo. Voglio fare la scelta più giusta.
Ti voglio bene
Sanae
I
giardinetti
erano pieni di bambini che giocavano felici tra le altalene, la sabbia
e la
giostrina rincorrendosi allegramente. Sanae guardava quelle creature
che
ridevano e sembravano tanti piccoli angeli. Istintivamente si
accarezzò il
ventre, pensando alla piccola vita che stava crescendo dentro di lei e
per la
prima volta sorrise.
- Le
dispiace se
mi siedo qui?- si voltò e vide una ragazza dal viso dolce
che portava una
carrozzina azzurra sorridendo radiosa.
Annuì
e si
spostò per farle spazio. Quando la donna
raddrizzò il passeggino, Sanae poté vedere
il fagottino che vi giaceva beatamente addormentato. Con gli occhi
lucidi
ammirò quel piccolo essere che con i pugnetti stretti alla
copertina masticava
con la sua boccuccia a cuore, perso a sognare la deliziosa pappa che si
sarebbe
gustato.
-
E’ bellissimo,
vero?- le chiese orgogliosa.
Sanae le
sorrise
dal cuore, ma ad un tratto il piccolo iniziò a lamentarsi,
probabilmente
infastidito dal caldo estivo. La madre lo prese tra le braccia
gentilmente,
passandogli una salvietta sulla pelle delicata, per detergerlo dal
sudore e
vezzeggiandolo con parole dolci.
- Come si
chiama?-
- Il suo
nome è
Toshio.- rispose senza staccare lo sguardo amorevole dal figlio, poi si
rivolse
a lei con quello sguardo dolce e fiero di madre.
- Vuole
tenerlo
in braccio?-
Sanae stese
le
braccia istintivamente e si accoccolò il bambino contro il
petto, avvertendo
come un brivido e con l’indice andò a sfiorargli
le guance morbide, provocando
i sorrisi vispi del piccolo.
- Sembra che
si
trovi bene in braccio a lei, deve avere un ottimo istinto materno.-
- Io?-
domandò
sorpresa, mentre la signora sorridente annuiva.
Tornò
a guardare
dolcemente il piccolo che gorgheggiando si scrutava curiosamente le
manine
paffute, poi il suo sguardo si fece serio.
- Scusi la
mia
domanda, ma non ha mai paura di non poter essere una buona madre?- si
morse il
labbro, capendo quanto la sua domanda fosse inopportuna, ma la signora
contro
ogni aspettativa rise divertita.
-
Certamente,
ogni giorno.- rispose sinceramente, poi riprese in braccio il figlio
che rideva
felice.- Ma per questa risata sono pronta a correre il rischio.-
schioccò un
bacio sul nasino del bimbo che batté le mani gioiosamente.
- Somiglia a
suo
padre, quando ride.- proseguì.- E’ bello guardarlo
e scoprire quello che ha
preso da lui.- rise di sé- Sa, io sono molto innamorata di
mio marito.-
Il cuore
iniziò
a batterle e come se una luce l’avesse illuminata, le ombre
che oscuravano la
sua mente sparirono lasciando il posto ad un’improvvisa
chiarezza. Si alzò
lentamente e carezzò la testolina del bambino.
- Le faccio
i
miei complimenti signora, ha un bambino bellissimo.- sorrise e si
congedò
salutando entrambi, felice di aver finalmente capito cosa voleva il suo
cuore.
Il sole
caldo di
mezzogiorno picchiava insistente e Sanae incedeva adagio, approfittando
delle
zone d’ombra per trovare ristoro. Arrivò a casa di
Yayoi accolta dalla sue
amiche che la rimproveravano a rotazione per averle fatte preoccupare.
Chiese
loro un attimo di tregua per poter spiegare con calma la decisione che
aveva
preso.
- Domani
torno a
casa.-
Yoshiko tese
il
braccio ad afferrare la sua mano, ricevendo in cambio un sorriso colmo
d’affetto
e gratitudine. Lei e Yayoi la scrutavano preoccupate dal suo volto
sibillino. Prese
il fiato, prima di rivelare la decisione che aveva preso.
-
Terrò il
bambino.- dichiarò con un luminoso sorriso.
-
E’ stupendo
Sanae!- batté le mani Yayoi.- Allora lo dirai a Tsubasa,
vero?-
Un’ombra
di
tristezza oscurò l’espressione distesa del suo
viso. Chiuse gli occhi e scosse
la testa.
- No, la mia
decisione non cambia la realtà: Tsubasa non mi vuole
più ed è ingiusto che lo
tenga legato a me.-
- Lascia che
sia
lui a decidere.- la interruppe Yoshiko, poco convinta anche lei sulla
correttezza di una simile decisione.
- Credimi
Yoshiko, è meglio così.- sospirò e si
portò le mani al ventre.- Sapete, da
quando ho capito di amare Tsubasa, il mio desiderio più
grande è sempre stato
di dividere la mia vita con lui e dargli dei figli. Questo bambino
è il
coronamento di un sogno, anche se a metà.- sorrise
bonariamente con gli occhi
lucidi.
Yoshiko non
poté
fare a meno di abbracciarla con gli occhi umidi per
l’emozione. Yayoi,
imbronciata per l’idea di non mettere al corrente Tsubasa,
rimase un po’ sulle
sue, ma vedendo Sanae guardarla per cercare la sua approvazione, si
sciolse
completamente unendosi all’abbraccio delle sue migliori
amiche.
Alla
stazione
Yayoi e Yoshiko, l’aiutarono a caricare il bagaglio sul
treno, ma prima di
lasciarla andare le dettero mille raccomandazioni.
- Mi
raccomando,
bevi molto.- le disse Yoshiko.
- E non
dimenticarti di assumere carboidrati, ma soprattutto ricordati il
magnesio, ti
aiuterà per le nausee.- spiegò con fare sapiente
Yayoi.
- Va bene,
va
bene, l’ho sentito anch’io il medico, mi
riguarderò non preoccupatevi.-
accompagnò le parole con una carezza al ventre, gesto che
faceva molto spesso
da quando aveva accettato nella sua vita, l’esistenza di
quella creatura.
Le porte del
treno si chiusero portando Sanae verso la prova più
difficile. Le sue amiche
guardarono preoccupate il mezzo sparire in lontananza.
- Sono
preoccupata, chissà come reagiranno i suoi?- chiese Yoshiko
sommessamente.
- A me
preoccupa
di più che non voglia dir nulla a Tsubasa, non è
giusto tenerglielo nascosto:
lui è il padre!- esclamò, sentendo un tumulto
interiore.
- Temo che
la
verità salterà fuori comunque.-
sospirò Yoshiko. – Ad ogni modo, io la voglio
aiutare, non è una decisione facile la sua. Non riesco a
capire cos’abbia fatto
per non meritarsi un po’ di serenità.-
Yayoi
annuì e
mentre uscivano dalla stazione, un’idea iniziò a
farsi strada nella sua mente.
Hikaru la
stava
aspettando all’uscita del J-Village
con i capelli ancora bagnati dalla doccia di fine allenamento. Yoshiko
gli
corse tra le braccia, felice di poter passare del tempo con lui: a
causa della
Coppa d’Asia non avevano avuto molto tempo per stare insieme.
Le prese il viso
tra le mani e la baciò con dolcezza, ma un fischio di
scherno alle loro spalle
li disturbò.
- Muori,
Ishizaki!- sibilò scocciato.
Yoshiko rise
con
il viso nascosto contro la sua spalla, fingendo di non sentire le
battute
ironiche del difensore, mentre il suo ragazzo la trascinava via,
mostrando il
dito medio al compagno di squadra che continuava a sghignazzare da solo
delle
proprie battute pietose.
Quando
riuscirono a guadagnare un angolino tranquillo, Hikaru la strinse
nuovamente a
sé accarezzandola dolcemente come se la stesse modellando
con la creta. Le
mancava molto poterla anche solo sfiorare, abituato a condividere lo
stesso
tetto con lei e poter godere d’istanti di tenerezza ogni
qualvolta ne sentisse
il desiderio. Yoshiko gli scostò le ciocche di capelli umidi
dalla fronte,
studiando il suo viso, su cui posò le sue dita per
accarezzargli le guance. Il
ragazzo si mosse leggermente e con le labbra sfiorò la mano
che lo toccava.
- Come stai
tesoro mio?- gli chiese persa nei suoi occhi.
- Meglio
adesso.- rispose stringendola forte a sé.
Seduta sul
letto
a gambe incrociate, Yayoi era pronta per la notte nel suo delicato
pigiama di
seta rosa. Tuttavia, non sarebbe andata a dormire, finché
non avesse parlato
con Tsubasa. Certo, non avrebbe rivelato che Sanae era incinta di suo
figlio,
questo non spettava a lei, ma quantomeno si sentiva in dovere di far
capire a
quello zuccone che stava sbagliando.
“Tsubasa
è il
padre!” : parole che le erano uscite spontanee e che
l’avevano scossa
profondamente. La sua prima cotta, il suo migliore amico, il giocatore
che
aveva spronato il suo Jun a non arrendersi: tutto questo faceva di
Tsubasa una
persona speciale nel suo cuore.
Fissò
un ultimo
istante il cordless tra le sue
mani,
poi alternando lo sguardo dalla tastiera al bigliettino che si era
fatta dare
da Misaki, tramite Jun, compose il numero. Articolando qualche parola
in
inglese, riuscì a farsi passare l’amico che
rispose incuriosito.
- Ciao,
Tsubasa,
sono Yayoi.-
Il ragazzo
rispose in tono incolore, era contento di sentire la sua amica, ma era
ancora
amareggiato per la lite con Roberto che, dopo averlo visto tornare
all’alba in
preda ai postumi della sbronza, lo aveva escluso
dall’amichevole contro il
Palmeiras.
- Senti, ti
ho
chiamato per parlarti di Sanae.-
Tsubasa
s’irrigidì.
- Scusa,
Yayoi,
non ho tempo…-
- Invece
devi
starmi a sentire: è importante!- esclamò,
scandendo bene le ultime parole.
Sbuffò
piegandosi al suo volere.
- So cosa
è
successo tra di voi e capisco che tu possa essere rimasto male, ma non
credi di
aver esagerato?-
- Esagerato?
Yayoi: lei mi ha preso in giro, lo ha fatto per vendicarsi di me.-
rispose
piccato.
Strinse le
lenzuola nel suo pugno, pensando che se fosse stato lì di
fronte a lei, un bel
manrovescio non glielo avrebbe tolto nessuno.
- Certo, che
hai
una bella considerazione di Sanae, se pensi che abbia sprecato la sua
prima
volta per una stupida vendetta.- sentenziò sarcastica.
La
sentì
sbuffare nella cornetta.
- Sanae ha
fatto
bene a cercare di scordarti. Un leone in campo e un coniglio nella
vita, è
questo quel che sei.- lo provocò per smuovere il suo
orgoglio.
Tsubasa
accolse
quelle parole come una doccia ghiacciata e rivedendosi ubriaco in casa
di
quella sconosciuta si rese conto di quanto fossero vere.
- Peccato,
che
quella povera ragazza non riesca a dimenticarti.- sospirò
dopo l’ultima
stoccata.- Ti saluto, Tsubasa.-
La linea
s’interruppe e Tsubasa ripose il ricevitore con fare
meccanico. Le parole di
Yayoi parlavano chiaro: in tutti quegli anni era scappato, nascondendo
i propri
sentimenti dietro inutili scuse e quando era tornato, Sanae non lo
aveva
respinto come si sarebbe meritato, anzi gli aveva donato tutto, anche
se
stessa. Chissà come aveva sofferto e come stava soffrendo a
causa sua.
“Peccato
che non
riesca a dimenticarti”, nemmeno lui poteva dimenticarla. Ma a
chi lo
raccontava? Lui non voleva dimenticarla: Sanae era parte di lui e
niente
avrebbe cambiato i sentimenti che provava per lei, nemmeno il suo
stupido
orgoglio.
Ciao a tutti. So che sto andando su un
terreno minato, ma spero che qualcuno condivida le mie scelte. Sto
trattando
argomenti difficili e non vorrei apparire banale e scontata.
Ringrazio come sempre tutte coloro che
leggono la mia FF con entusiasmo, ma soprattutto le mie carissime
recensitrici.
Un ringraziamento speciale a Scandros che
nonostante gli impegni si è ritagliata del tempo per me.
Un abbraccio a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** L'ultima speranza ***
Capitolo 22
L’ultima speranza
Il respiro
divenne affannato, le dita delle sue mani s’intrecciavano
nervosamente e il suo
sguardo si spostò alternatamene dal volto del padre a quello
della madre.
Atsushi era stato mandato in camera sua, dal momento che
l’argomento era troppo
delicato per essere affrontato in sua presenza. La signora Nakazawa con
le mani
sul petto che minacciava di scoppiare, guardò timorosa il
marito che strinse i
lembi della camicia nello sforzo di non alzarsi per andare a
schiaffeggiare la
figlia.
- Il padre
è
Tsubasa, vero?- chiese la donna, spezzando il silenzio pesante come un
macigno.
Sanae
annuì
tremante per la paura. Suo padre sembrava freddo come il ghiaccio, ma
la sua
rabbia aleggiava gravemente nella stanza.
- Quel buono
a
nulla!- sbottò all’improvviso facendole trasalire.
– Sa almeno del pasticcio
che ha combinato?!-
Strinse la
stoffa della gonna con le unghie che stridevano contro il tessuto per
contenere
la rabbia.
- No, io e
lui
non stiamo insieme ed io non voglio coinvolgerlo né legarlo
a me in nome della
responsabilità.- sentenziò decisa.
Sua madre si
asciugò gli occhi lucidi per la commozione, quanto coraggio
c’era in quella sua
figlia, ma temeva la reazione del marito che esplose violenta.
- Ma
sentitela!
Sei solo una sciagurata! - scattò in piedi, poi si rivolse
alla moglie.- La
colpa è anche tua, l’hai sempre incoraggiata a
perder tempo dietro a quel
ragazzino senza arte né parte.-
La donna
chinò
la testa umiliata e incapace di rispondere alle accuse del marito.
- Ora basta
papà
non ti permetto di offenderlo!- gridò rizzandosi a sua
volta. – Tsubasa è un
grande giocatore e sono stata io con il mio comportamento ad
allontanarlo,
quindi prenditela solo con me.- lo sfidò.
- Fai
silenzio!
Sei un disonore e un pessimo esempio per tuo fratello! Mi hai deluso,
Sanae.
Credevo di averti trasmesso dei sani principi morali. Che grande
fallimento!-
esclamò esasperato allargando le braccia.
Sanae
sentì le
guance umide, ma si asciugò subito gli occhi. Non poteva
perdere quel testa a
testa contro suo padre.
- Adesso
ascoltami bene: domani contatterò un dottore, mio caro amico
e prenderemo
appuntamento per interrompere la gravidanza.-
Sanae
incrociò
le braccia sul ventre come a voler proteggere la piccola vita dentro di
lei da
quelle parole odiose.
- Ma
Shigeru…-
cercò d’intervenire la moglie, inorridita al solo
pensiero della figlia
sottoposta ad una simile tortura.
- Non
voglio!-
gridò con tutte le forze.
- Fate
silenzio!
Ascoltami bene, Sanae: una ragazza madre non ha futuro, se proprio vuoi
rovinarti non aspettarti aiuto da me, quindi o accetti di abortire o
vai fuori
da questa casa.- sentenziò perentorio. Il suo sguardo gelido
non ammetteva
replica.
Sanae,
bloccata
di fronte un simile bivio, non ebbe la forza di reagire. Una sensazione
sgradevole
alla bocca dello stomaco la spinse a correre al bagno per sfogare la
nausea.
Spossata e
incapace di accettare l’idea di essere completamente sola, si
sedette
mollemente in ginocchio lasciando andare le lacrime di disperazione.
Una mano
l’accarezzò gentile e voltandosi
incontrò gli occhi lucidi e velati di
tristezza di sua madre. L’aveva sempre considerata una donna
forte, ma la
caparbietà del marito era riuscita a piegare anche lei
relegandola a
spettatrice di quella condanna assurda. Sanae si aggrappò
alla madre sfogando
tutta la sua disperazione.
- Non voglio
uccidere
il mio bambino, non voglio…- ripeté interrotta
dai singhiozzi.
Le braccia
che
fin da piccola l’avevano sorretta, la strinsero a
sé con l’affetto e l’istinto
di protezione che solo una madre sa provare. La cullò
dolcemente baciandole il
capo, ritornando ai tempi in cui la sua bambina si svegliava per un
brutto
incubo e la chiamava per essere rassicurata dalla sua presenza. Allora
bastava
qualche carezza e una ninnananna per calmarla, ma gli anni erano
passati, la
sua bambina era una donna ormai e il dolore che la prostrava era un
tormento
per il suo cuore di madre.
Fuori il
caldo
era asfissiante, ma era sempre meglio che starsene in casa con
quell’atmosfera
tesa e ostile: sua madre si rifiutava di parlare col marito, suo padre
non
parlava con lei, se non per definire i dettagli della visita in clinica
e il
piccolo Atsushi si trascinava ignaro sui motivi dell’astio
tangibile che
serpeggiava per casa.
Si sentiva
svuotata e priva di ogni volontà, non aveva dormito pensando
ad una soluzione.
Sarebbe andata via di casa se fosse servito, ma come avrebbe cresciuto
il suo
bambino: non lavorava e non aveva soldi da parte ed un figlio non si
accontenta
del solo amore materno. Passò distrattamente di fronte
all’entrata del parco
Hikarigaoka, poi si bloccò. Come ipnotizzata
entrò e si avviò nella direzione
che la sua mente ben conosceva. Ripercorse adagio il cammino, rivivendo
come in
un sogno ogni singola emozione provata con Tsubasa. Quando
arrivò allo scalino
si sedette, oscillando le gambe nel vuoto per darsi la spinta
sufficiente e
pensando con rammarico che lui non era più lì a
prenderla tra le braccia. Saltò
e si accostò alla riva del laghetto con lo sguardo perso
nella cascata.
Istintivamente si toccò le labbra al ricordo dei caldi baci
di Tsubasa, delle
sue mani su di lei, del suo calore e della passione con cui
l’aveva amata. La
sua mano scese a carezzare il luogo che ne custodiva il frutto, mentre
le
lacrime le rigavano il viso all’idea di dover perdere anche
l’unica cosa che le
era rimasta di lui.
- Ti rendi
conto, Yoshi!?- esclamò Yayoi costernata.- Non le ha dato
alcuna possibilità,
non riesco a crederci!-
Yoshiko si
morse
il labbro soprappensiero, il signor Nakazawa era fondamentalmente una
brava
persona, ma il suo modo di pensare troppo tradizionale stava giocando
un ruolo
molto triste nella situazione di Sanae.
-
Chissà cosa
succederebbe se Tsubasa lo sapesse? – si chiese nonostante
fosse un’ipotesi
alquanto remota.
- Sanae mi
ha
confessato di essere stata tentata di dirglielo…-
Yayoi si
voltò
verso di lei, ma Yoshiko scosse la testa sconsolata. Sospirò
e imboccarono
l’uscita della metropolitana.
- Allora
succederà oggi?-
-
Già.- rispose
in tono piatto.
- Non
immagini
nemmeno che razza di barbarie sia.- sospirò Yayoi.
- Per non
parlare delle conseguenze psicologiche.- aggiunse Yoshiko.
Lungo la
strada
per il J- Village, tenendosi per
mano
come quando erano bambine, pregarono in silenzio, perché
succedesse qualcosa
che impedisse alla loro migliore amica di soffrire ancora.
Tsubasa
aveva
dormito pochissimo, era arrivato a Tokyo il giorno prima e aveva
passato metà
della notte a parlare con Misaki e Wakabayashi. Il portiere aveva
ascoltato
pazientemente gli sfoghi dei suoi due amici in preda a dubbi e
incertezze sulle
proprie situazioni sentimentali. Alla fine, stanco per
l’orario indecente a cui
lo avevano costretto e annoiato da quei discorsi li aveva liquidati.
- Misaki,
faresti meglio a guardarti intorno e tu, Tsubasa, impara un
po’ a crescere.- si
congedò sbadigliando e lasciandoli più sconsolati
di prima.
- Non
prendertela Tsubasa, lo sai come ragiona.- lo consolò Taro.
I tre
ragazzi
stavano andando verso il campo da calcio, ma il capitano
notò una figura
familiare da lontano.
- Che cavolo
ci
fa quello qui?- domandò tra i denti Taro, che aveva seguito
la direzione dello
sguardo perplesso dell’amico.
- Salve,
Misaki…Ozora.- lo apostrofò accennando un inchino.
- Cosa vuoi
da
me, Shiratori?- domandò senza troppi preamboli il numero 10.
- Niente,
farti
i complimenti per le tue ultime prestazioni.- ridacchiò
diabolicamente.
Taro poteva
sentire il respiro di Tsubasa accelerare gradualmente, mentre nei suoi
occhi
lesse una rabbia che non gli aveva mai visto.
Yayoi e
Yoshiko
varcarono l’entrata e uno squillo dalla tasca della rossa
interruppe il
silenzio. Yayoi estrasse il pocket bell e
si coprì la bocca con la mano per soffocare il singhiozzo
che le uscì
spontaneo. Girò lo schermo verso Yoshiko che con la vista
annebbiata dalle
lacrime rilesse più volte quelle semplici parole.
Ho tanta paura…
Una voce
familiare attirò l’attenzione di Yayoi che
velocemente corse in direzione del
terreno di gioco, avrebbe seguito l’istinto questa volta, non
c’era più tempo
per i dubbi.
- Se sei
venuto
per provocarmi tornatene pure da dove sei venuto.- cercò di
liquidarlo.
- Con calma,
Ozora, forse c’è una spiegazione ai tuoi problemi
e credo che abbia anche un
nome…mmm vediamo…- proseguì
sadicamente. – Ah sì, Sanae..- rise beffardo.
Istintivamente
gli afferrò il bavero stringendo con forza, mentre Taro
cercava invano di
calmarlo: una rissa in ritiro sarebbe stata l’ultima cosa di
cui avevano
bisogno.
- Tsubasa,
lascia perdere!- il grido disperato di Yayoi attirò la sua
attenzione.
Tutti i
presenti
si voltarono verso di lei che trafelata stava correndo nella loro
direzione,
seguita a ruota da Yoshiko.
- Devi
venire
con noi: Sanae ha bisogno di aiuto.- esclamò agitata.
Shiratori
sorrise malignamente e disse.
-
Sì, vai dalla
tua puttanella, Ozora.- sibilò tagliente.
Tsubasa non
riuscì più a tenersi e caricò il
destro, pronto a colpirlo.
- Vieni via
Tsubasa: Sanae sta per subire un aborto!- esclamò tutto
d’un fiato.
Con il pugno
fermo a mezz’aria si voltò incredulo a fissare
Yayoi che con le lacrime agli
occhi gli tendeva la mano per invitarlo a seguirla.
- Sanae
aspetta
il vostro bambino, Tsubasa.- spiegò Yoshiko.
Come
ipnotizzato
lasciò la presa e si mosse verso di loro, ma Shiratori non
soddisfatto lo
provocò un’ultima volta.
- E chi ti
assicura che sia tuo, Ozora?-
Sguardi
glaciali
si posarono su quell’odioso personaggio che fissava con
spregio il capitano
della nazionale.
- Potrebbe
anche
essere mio.- incalzò.
- Non
ascoltarlo.- gli ripeteva Yayoi.
Shiratori
era
deciso a continuare quella disgustosa commedia, ma fu Yoshiko a
metterlo a
tacere.
- Finiscila!
Sei
pietoso e insulso come i discorsi che porti avanti. Se
c’è una cosa di cui
Sanae è pentita, è proprio di aver ceduto alla
corte di un essere viscido come
te.-
Prese
Tsubasa
sotto braccio e aiutata da Yayoi, trascinò via il capitano.
Misugi
correva
come un pazzo per le strade di Tokyo, sperando di arrivare in tempo e
di non
incontrare pattuglie di polizia. Tsubasa non riusciva neanche a
focalizzare la
situazione, tutto quello a cui riusciva a pensare era che voleva
arrivare in
tempo per impedire l’ennesima sofferenza alla ragazza che
amava.
Sanae, amore mio, se solo me lo avessi
detto…capisco perché mi hai tenuto
all’oscuro di tutto. Sono solo un cretino
egoista: non ne ho mai fatta una giusta con te.
Sanae
entrò
nell’ambulatorio stringendo a sé la borsetta come
una bimba smarrita. I suoi
occhi erano rossi, perché da due giorni non faceva che
piangere. Ad accoglierla
stavano due dottori e lei si sentì ancora più
imbarazzata dalla presenza di due
uomini. Il più anziano la fece accomodare dietro il
paravento per invitarla a
spogliarsi e indossare il camice.
- Nakazawa.
Isterosuzione.- lesse da una cartellina il più giovane.
Sanae si
sentì
ferita dal tono tranquillo di quel dottore, mentre lei si sentiva come
se stessero
per strapparle il cuore. S’infilò il camice e si
passò la mano sul ventre per
dire addio al bambino cui stava per rinunciare.
Si stese sul
lettino e vide il medico preparare la siringa con
l’anestetico. La vista si
annebbiò, perché le lacrime avevano ripreso a
scorrere sul suo viso.
Jun
frenò di
colpo arrivando a due centimetri dalla sbarra. Tsubasa e Yayoi
saltarono fuori
della macchina, dirigendosi come due furie all’entrata della
clinica. Nella hall riconobbero due
figure che
vedendoli entrare scattarono in piedi e corsero verso di loro.
La madre di
Sanae lo guardava come se fosse un’apparizione miracolosa, ma
lo sguardo irato
di Tsubasa era rivolto al signor Nakazawa che a sua volta lo fissava
con
sdegno.
- Ringrazi
il
cielo che ho troppo rispetto della sua età per darle
ciò che si meriterebbe.-
sibilò.
Gli occhi
dell’uomo si allargarono dallo stupore, ma non ebbe tempo di
replicare, perché
Yayoi trascinò via il ragazzo ricordandogli quanto avessero
fretta in quel
momento. La signora sospirò felice e ringraziò
mentalmente che le sue preghiere
fossero state esaudite.
Yayoi si
muoveva
sicura per i meandri della clinica, dal momento che aveva svolto spesso
tirocinio in quel luogo, e guidò Tsubasa agli ambulatori di
ginecologia. Arrivati
all’area giusta, il ragazzo la superò percorrendo
come un fulmine il lungo
corridoio, ma si arrestò, quando riconobbe la ragazza seduta
accanto alla porta
dell’ultimo ambulatorio.
Con il viso
nascosto contro le ginocchia, Sanae era scossa da violenti singulti.
Due mani
calde si posarono sulle sue spalle e lei alzò lo sguardo per
incontrare gli
occhi di Tsubasa.
- Ti prego,
dimmi che non è troppo tardi.- la supplicò con la
voce rotta.
Sanae scosse
la
testa e vinta dalle forti emozioni che stava provando gli
buttò le braccia al
collo.
- Non
potevo. Io
voglio questo bambino.-
Yayoi
arrivò
poco dopo e si commosse nel vedere Tsubasa cullare dolcemente Sanae che
stretta
a lui sfogava tutta l’ansia e il dolore che aveva provato in
quei giorni. Si
allontanò silenziosamente, sentendo che la sua presenza non
era più necessaria.
- Non devi
più
preoccuparti, Sanae, mi occuperò io di te.- le disse
dolcemente.
Sanae lo
allontanò delicatamente da sé.
- Non devi
sentirti obbligato…-
- Ma cosa
dici?-
la ammonì bonariamente.
- Io ho
provato
a dimenticarti, ma credimi, ogni singola parte di me si rifiuta di
farlo. Non
posso e non voglio stare senza di te.- le disse asciugandole le lacrime.
Sorrise e le
posò un tenero bacio sulle labbra.
- Io ti amo,
Sanae e amo anche il nostro bambino, voi siete la mia famiglia ora.- le
sussurrò con la fronte appoggiata alla sua.
Il cuore
minacciò di esploderle per la gioia e con uno slancio lo
baciò con foga,
spazzando via la tristezza di quelle giornate infernali.
La tensione
era
nettamente palpabile nella camera d’albergo dei signori
Nakazawa.
Shigeru
scrutava
il giovane di fronte a lui con acre disprezzo: era già
inammissibile che quel
ragazzino avesse approfittato di sua figlia mettendola incinta,
oltretutto quel
pomeriggio aveva anche osato minacciarlo.
La signora
Nakazawa era all’opposto del marito e guardava Tsubasa con
dolcezza e
gratitudine. Quel ragazzo era arrivato nel momento giusto a salvare la
sua
bambina dall’esperienza peggiore che una donna potesse
provare.
Sanae
fissava il
padre e Tsubasa, temendo una lite furibonda. Non aveva la
benché minima idea
del perché il suo ragazzo avesse chiesto di vedere i suoi
genitori, inoltre
aveva saputo del piccolo scontro che avevano avuto in clinica e sentiva
come
l’astio aleggiasse nella stanza.
- Le chiedo
scusa per il mio comportamento di oggi, temo di aver esagerato.- ruppe
il
silenzio Tsubasa.
Il signor
Nakazawa grugnì squadrandolo da capo a piedi.
- Ma deve
anche
capirmi, lei voleva costringere Sanae a rinunciare a mio…-
si voltò a
guardarla.
- Nostro
figlio.- sentenziò deciso.
Uno sguardo
astioso si posò su Tsubasa che per nulla intimorito si
apprestò a fare la sua
richiesta.
- Sono qui
per
chiederle la mano di Sanae.- lo fissò dritto negli occhi,
facendogli capire che
la sua non era una richiesta, ma una semplice dichiarazione.
L’uomo
scattò in
piedi furibondo.
-
Tu…come ti
permetti di assumere questo atteggiamento arrogante con me. Hai messo
incinta
mia figlia e sei sparito ed ora ricompari per accaparrare diritti su di
lei?-
Tsubasa non
si
scompose, aveva previsto una reazione simile e lasciò che si
sfogasse.
- Tu
l’hai
disonorata, come puoi solo pensare che io…-
- Ora basta,
Shigeru!- intervenne sua moglie. – Il ragazzo si sta solo
prendendo le sue
responsabilità.-
- No,
signora
Nakazawa.- la corresse Tsubasa.- Io amo Sanae.- le prese la mano.- E
l’avrei
sposata comunque, quindi non voglio sentir parlare per nessun motivo di
matrimonio riparatore.- sentenziò deciso. Sanae si
voltò a guardarlo con la
mente confusa da una miriade di sensazioni meravigliose e
indescrivibili,
mentre le sue dita s’intrecciarono con quelle di lui.
Il signor
Nakazawa si sentì improvvisamente solo come mai in vita sua.
La moglie si era
ribellata platealmente alle sue decisioni, Sanae era distante anni luce
ormai e
infine Tsubasa Ozora, un diciottenne che lo sfidava per amore di sua
figlia.
- Credo che
a
questo punto il mio rifiuto valga ben poco.- disse rassegnato.
- Affatto,
la
sua opinione conta molto per me.-
Le parole di
Tsubasa furono l’ennesimo schiaffo morale, un colpo tale da
far vacillare tutte
le sue convinzioni e da fargli comprendere come avesse sbagliato a
trattare la
figlia come una delle peggiori prostitute ed averla costretta ad una
scelta
tanto orribile, mentre lei gli aveva chiesto solo un po’ di
comprensione. Nei
suoi occhi leggeva una miriade di emozioni bellissime, ora che stava
guardando
il suo ragazzo chiedere il suo permesso per poterle vivere accanto
tutta la
vita.
- Sanae, tu
cosa
vuoi?- chiese stupendo tutti.
La ragazza
lo
guardò decisa negli occhi e con un gran sorriso gli disse.
- Io voglio
passare il resto della mia vita col padre di mio figlio.-
Sospirò
e
cercando il consenso della moglie, si rivolse a Tsubasa stendendo la
mano per
deporre le armi.
- Allora
sia.-
Eccomi qui…certo le mie scelte sono un
po’ stile
“kamikaze”, ma da tempo avevo deciso la piega che
dovevano prendere gli eventi
ed è giusto che due persone innamorate trovino un
po’ di pace.
Ringrazio tutti per la costanza e
l’affetto
con cui continuate a seguirmi, vi assicuro che non
c’è nulla di più
gratificante. Ringrazio come sempre le mie recensitrici:
- Dolcebarbara: piccola sei sempre così
carina
e gentile con me e sono contenta che la mia storia ti piaccia.
- Rossy: grazie del tempo che mi dedichi, ti
faccio un in bocca al lupo per i prossimi esami.
- Eos75: tesoro spero che il mio appuntino
su Genzo non ti abbia offesa *schiva mattone* vedrai che prossimamente
recupererà ;-). Grazie ancora per domenica: era da tempo che
non passavo una
giornata così.
- Onlyhope: tesssora, nonché mia prima
amica
in questo universo folle…spero che il tuo pc non dia
più i numeri, perché la
sottoscritta ha molto da raccontarti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** Realizzazione ***
Capitolo 23
Realizzazione
Il suo
sguardo
percorreva a rotazione ogni singolo oggetto della stanza ed ogni volta
che i
suoi occhi si posavano sul vestito bianco, una strana inquietudine
s’impadroniva di lei. Quella sensazione quasi sgradevole le
aveva impedito di
dormire serenamente. Non era la solita ansia da sposina, ma piuttosto
un timore
che aveva celato dal momento in cui Tsubasa aveva chiesto la sua mano.
Perché
la sposava? Era questo a spaventarla e ad impedirle di attendere con
gioia il
giorno più bello della sua vita. Si voltò a
rimirare il sonno beato delle sue
testimoni, che la sera precedente l’avevano intrattenuta
chiacchierando
allegramente assieme a Yukari, Kasumi e la neo-fidanzata del fratello
Kojiro:
Maki. Sorrise ricordando quanto avesse trovato insolito che Hyuga le
chiedesse
se poteva invitare qualcuno al matrimonio e quasi si bloccò
per lo stupore,
quando vide la gemella del ragazzo arrivare a casa sua con la
potenziale
cognata. Elena non era passata, non si sentiva in vena di unirsi alle
ragazze,
ma il suo tutore le aveva promesso che l’avrebbe portata alla
cerimonia anche
di peso, se necessario.
Persa in
quei
ragionamenti, non si accorse che Yoshiko si era svegliata e stava
scuotendo
gentilmente Yayoi, per invitarla ad imitare la sua solerzia. Erano
decisamente
su di giri e non avevano mancato di esprimerle tutto
l’entusiasmo per
quell’evento felice. Yayoi le aveva ripetuto fino alla nausea
di ricordarsi di
lei durante il lancio del bouquet,
mentre Yoshiko le aveva dato consigli sulla futura vita assieme al
marito, data
l’esperienza che stava maturando tramite la convivenza con
Hikaru.
- Sei
bellissima!- esclamarono in coro le due ragazze, vedendola nello
splendido
abito nuziale.
- Grazie,
anche
voi.- rispose abbozzando un sorriso. Le sue amiche sembravano due rose
di
maggio: Yayoi vestiva un abitino rosa con scollo a barchetta e gonna
svasata, i
suoi capelli ramati erano acconciati in riccioli che le ricadevano
morbidi
sulle spalle, mentre Yoshiko aveva un vestito azzurro a tubino senza
maniche,
che lasciava la schiena coperta solo dai capelli semiraccolti ornati da
brillanti.
Un colpo di
tosse le riscosse e vedendo il signor Nakazawa sulla soglia, capirono
che era
giunto il momento. Sanae e il padre si fissarono per un istante
lunghissimo.
Gli occhi di Shigeru si fecero lucidi di fronte all’avvenente
sposa che stava
di fronte a lui, ritornando al momento in cui l’aveva stretta
tra le braccia la
prima volta. Nei suoi occhietti di neonata aveva letto stupore e
smarrimento,
una richiesta di protezione implicita che lui aveva accolto cercando di
ricoprire quel ruolo nel miglior modo possibile. Aveva riflettuto molto
sugli
ultimi eventi e per la prima volta in tanti anni si era sentito
inadeguato, ma
nonostante tutto sua figlia aveva potuto perdonarlo. Tuttavia, nel
profondo dei
suoi occhi nocciola lesse quello stesso smarrimento di allora.
- Cosa ti
preoccupa, raggio di sole?-
Il magone le
salì alla gola, sentendo quel nomignolo che ricordava
appartenere alla sua
infanzia, quando la sera attendeva con ansia il ritorno del suo
papà in fondo
alle scale per essere la prima ad abbracciarlo.
- Ho paura,
papà.- si sciolse, cercando di trattenere le lacrime per non
rovinare il
trucco.
Le
scostò
dolcemente i capelli dalla fronte tentando di trasmetterle sicurezza.
- Lo so.-
- Non voglio
che
mi sposi solo perché sono incinta.- confessò
finalmente quel dubbio che la
stava rodendo come un tarlo.
Le sue
braccia
forti la strinsero saldamente e Sanae vi si abbandonò
dimenticando tutte le
incomprensioni che avevano avuto.
- Io non
sono
stato in grado di capire, ma il tuo ragazzo mi ha sfidato e mi ha fatto
comprendere
quanto il mio amore di padre fosse limitato di fronte al suo.-
Sanae si
allontanò leggermente per fissarlo negli occhi.
- Ti chiedo
perdono bambina mia: ho messo al primo posto l’onore e la
reputazione,
dimenticandomi l’importanza che tu hai nella mia vita.-
Gli
coprì la
bocca con la mano inguantata e scosse la testa. I suoi occhi erano
prossimi al
pianto, ma in essi si poteva leggere l’amore e
l’ammirazione per quell’uomo che
nonostante tutto era stato la roccia su cui si era poggiata fin da
quando era
al mondo.
- Sei tu che
devi perdonarmi, papà, io ti ho deluso.- ammise.
Le
posò un bacio
sulla fronte e cedendo alle lacrime le prese le mani tra le sue.
- Tu non mi
hai
mai deluso. Nonostante la rabbia, io sono orgoglioso di te.-
confessò.
Sanae
capì che
le sue parole erano sincere e non dettate dalla circostanza. Gli
buttò le
braccia al collo, sentendosi per un attimo come quel terremoto che gli
correva
incontro appena varcata la soglia di casa.
- Non ti
abbandonerò mai più.- le promise con le guance
ancora rigate dal pianto.
La chiesa si
stava riempiendo di gente. Taro e Genzo erano già al loro
posto, proprio alle
spalle di Tsubasa che osservava col cuore in gola i suoi amici che
sorridendo e
salutandolo con la mano occupavano i posti. Roberto teneva a bada il
piccolo
Daichi e ogni tanto lo rassicurava strizzandogli l’occhio.
- Cara ti
prego!
Se inizi a piangere ora, cosa farai durante la cerimonia?- disse il
signor
Ozora alla moglie che già stava singhiozzando commossa.
Taro
osservava
il portale con ansia crescente e ogni tanto gettava un occhio qua e
là per
assicurarsi che non fosse entrata senza che lui se ne accorgesse.
-
Impossibile!-
l’esclamazione di Wakabayashi attirò la sua
attenzione su Hyuga che stava
entrando a braccetto di una deliziosa sconosciuta, seguito a ruota
dalla
sorella che sorrideva accanto a Wakashimazu.
- Hyuga con
una
donna?! Ed io che ho sempre pensato che fosse gay!-
Taro scosse
la
testa imbarazzato, Genzo non si smentiva mai quando si trattava
dell’attaccante:
quei due erano proprio nemici giurati.
- Un
attimo…chi
è quella fata che sta entrando?- lo prese per un braccio e
Taro sentì il cuore
che accelerava i battiti.
Al braccetto
di
Davide, vestita di un abito modello sottoveste color indaco e i capelli
dorati
annodati in un’elaborata acconciatura, Elena incedeva
aggraziata lungo la
navata centrale. Il fiato gli mancò e non sentì
minimamente i commenti di
Wakabayashi su quella “visione celestiale”, come la
stava definendo.
-
Elena…-
sospirò sognante.
Genzo
associò
subito il nome alle pene d’amore dell’amico e,
sentendosi un emerito cretino,
gli chiese scusa imbarazzato.
L’entrata
della
signora Nakazawa, seguita dalle testimoni fu il segnale che mise a
tacere i
presenti che si rivolsero tutti al portale per vedere
l’entrata della sposa.
Sanae scese
dall’elegante macchina straniera aiutata dal padre.
Deglutendo osservò con
timore la facciata della chiesa. Le gambe le tremavano, mentre saliva i
gradini. Accanto al portale si sentì quasi mancare, ma il
padre la prese
velocemente per sostenerla. Sorrise per rassicurarlo e lui le prese il
braccio.
-
Papà è qui.-
le sussurrò.
Le note
della
marcia nuziale si levarono alte riempiendo la chiesa e la sposa fece il
suo
ingresso sotto gli sguardi ammirati degli invitati. Avvertì
la stretta
rassicurante del padre che intrecciò le dita con le sue. Con
un sospirò sollevò
lo sguardo e incontrò gli occhi di Tsubasa. I sentimenti che
vi lesse erano
talmente belli e intensi da regalarle nuova forza e con passo deciso si
avvicinò allo sposo che estasiato stese il braccio per
prendere la sua mano dal
signor Nakazawa.
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come
sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte
è l'amore, tenace come gli
inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una
fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi
travolgerlo»*
Sanae
osservava
sorridente gli invitati che festeggiavano allegramente, brindando anche
per le
cose più stupide. Poco distante da loro, Wakabayashi si
divertiva con Ishizaki
a fare battute su Hyuga, il quale, stretto a Maki, non gli dava la
soddisfazione di uno sguardo talmente era preso da lei che gli stava
parlando.
Yayoi le lanciava sorrisini ammiccanti, con la testa appoggiata alla
spalla di
Jun che le accarezzava i morbidi capelli, sperando dentro di
sé di essere la
prossima protagonista di un evento simile.
Kasumi
parlava
fitto fitto col suo ragazzo, sorridendo radiosa e prendendogli ogni
tanto la
mano, sotto lo sguardo un po’ invidioso di Sorimachi e Sawada
che lamentavano
la penuria di ragazze libere al ricevimento.
Istintivamente
si voltò a guardare Elena che non si era mai staccata un
secondo dal suo tutore,
a parte quando Izawa e Morisaki l’avevano invitata a ballare,
poi si rivolse
verso Taro, che incastrato tra i due amici visibilmente brilli, non
aveva tolto
gli occhi di dosso alla sua ex, sospirando di continuo.
-
Perché non la
inviti a ballare?- gli chiese.
- Credi che
accetterebbe, Sanae?- domandò poco convinto.
La musica di
un
lento aleggiò nell’aria e Sanae vide Davide
accompagnare la figlia adottiva in
pista per farla ballare.
- Vieni!- lo
trascinò con sé.
Taro la
lasciò
fare, anche se non aveva intuito cosa avesse in mente la sua amica e
prendendola
delicatamente per la vita iniziarono a muoversi al ritmo lento della
musica.
- Un
brindisi al
testimone!- sentirono gridare Ishizaki, che fu subito incenerito dallo
sguardo
severo di Sanae.
Davide vide
l’espressione
eloquente di lei e capendo al volo le sue intenzioni si
fermò.
- Ah, la
sposa!-
esclamò.- Spero che mi permetterai...- disse, scambiando le
dame con la
velocità di un fulmine.
Taro
ringraziò
mentalmente Sanae e le sue idee assurde, perché ora Elena
era tra le sue
braccia. La ragazzina teneva lo sguardo basso, impacciata. Avrebbe
potuto
abbandonare le danze, ma non lo fece, anzi lasciò che Taro
le passasse la mano
sulla schiena provocandole dei piacevoli brividi.
- Un
brindisi….-
ma stavolta la voce sguaiata di Ishizaki fu interrotta da Wakabayashi,
che con
una gomitata lo fece tacere per non rovinare l’atmosfera.
Taro la
guardava
rapito: la sua timidezza la rendeva anche più affascinante e
se avesse potuto
l’avrebbe portata via come Paride fece con Elena a Sparta.
Sorrise, pensando a
quanto il nome di lei fosse azzeccato e si chiese se la splendida
ragazza che
teneva tra le braccia non fosse proprio il mitico personaggio della
tradizione
greca.
- Ti stai
divertendo?- chiese lei, che non riusciva più a sostenere
quel silenzio
imbarazzante.
Lui
annuì
sorridente e quel semplice gesto bastò a mandarla in
confusione. Per tutta la giornata
aveva finto indifferenza, ma in chiesa lo aveva visto subito e aveva
notato
quanto fosse affascinante con l’abito da cerimonia.
Tremò come una foglia,
sentendo la sua mano accarezzarle la pelle nuda della schiena e
risalire a
sistemarle una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
- Sei
così
bella.- le sussurrò.
Le guance le
divennero rosse e sentendo che la musica era finita si sciolse dal suo
abbraccio ringraziandolo, poi ritornò a passo spedito al
tavolo, lasciandolo
solo sulla pista vuota. Taro rimase immobile osservando le sue mani che
fino a
poco prima la stringevano con un senso di vuoto nel cuore. Lo sguardo
comprensivo
di Davide lo raggiunse, mentre una mano gentile gli sfiorava la spalla.
- Grazie,
Sanae.- le disse posando la mano sulla sua.
Hikaru e
Yoshiko
passeggiavano mano nella mano tra gli splendidi roseti del giardino. Il
ragazzo
era rimasto letteralmente a bocca aperta, quando l’aveva
vista incedere in
chiesa in tutto il suo splendore. Quell’abito delineava
perfettamente le curve
armoniche del suo corpo ed i capelli morbidi che danzavano ad ogni suo
cenno
del capo, lo rendevano succube del fascino ipnotico che sprigionava,
per non
parlare del colore che risaltava i suoi occhi: quelle due pietre
preziose erano
la sua dolce ossessione.
Da quando
Tsubasa gli aveva detto che si sarebbe sposato, si sentiva strano e, se
non
fosse che la felicità del suo capitano aveva contagiato
anche lui, avrebbe
capito che la sua era tristezza e una punta d’invidia. Si
voltò a guardare la
sua ragazza chinata su una bellissima rosa rossa. Quel giorno
l’aveva vista
ridere e commuoversi per i loro amici. Quando gli sposi si erano
scambiati la
promessa nuziale i loro sguardi si erano incontrati e lei gli aveva
sorriso
radiosa.
L’attirò
a sé
per stringerla tra le braccia, con un gesto dolce e possessivo al tempo
stesso.
Lei rispose passando le mani con una carezza dietro al suo collo,
stuzzicandolo
piacevolmente con le dita.
- Ti amo,
Hikaru.- sussurrò con la guancia premuta contro il suo petto.
Le sue
labbra
scesero ad accarezzarle la bocca cercando di trasmetterle tutto il
sentimento
che aveva da darle. La strinse ancora di più a sé
con disperazione, lasciando
che i gesti parlassero al posto delle parole.
Il contatto
con
le mani di Tsubasa era ancor più piacevole, ora che sentiva
il freddo metallo
della fede nuziale scorrere sulla sua pelle.
-
Sanae…-
sospirò inebriato dal piacere.
Si
sdraiò
ansimante sopra di lei che gli accarezzava la testa con dolcezza. Col
mento
appoggiato alla mano la scrutò curioso. Durante la cerimonia
sembrava
raggiante, ma ogni tanto l’aveva colta con lo sguardo quasi
triste. Lei sospirò
toccandosi il ventre.
- Stai bene,
tesoro?- chiese allarmato.
Annuì
accarezzandogli una guancia, ma la sua espressione si fece grave e
distolse lo
sguardo. Tsubasa le prese il mento tra le dita per costringerla a
guardarlo
negli occhi.
- Qualcosa
non
va? Sembri sofferente.-
Sanae prese
la
sua mano e intrecciò le loro dita, fissando le fedi ai loro
anulari.
- Tsubasa
sii
sincero…- i loro occhi s’incontrarono.-
…mi avresti sposata lo stesso se non
fossi rimasta incinta?-
Il suo
sguardo
si fece serio e lei temette di essersi inoltrata in un argomento troppo
scomodo, ma la sua espressione mutò in un sorriso dolce e
rassicurante.
-
Sì, forse non
subito.- precisò.
La mano di
Tsubasa la accarezzò percorrendo la linea del fianco su e
giù.
- Quando
sono
tornato in Brasile soffrivo come un cane e avrei fatto qualsiasi cosa
pur di
dimenticarti.- confessò, poi alzò lo sguardo per
incontrare i suoi occhi.- Ma
più andavo avanti, più mi rendevo conto di non
riuscirci.-
Le prese la
mano
e la baciò.
- Ho capito
che
i miei sentimenti per te sono più forti, anche del mio
stupido orgoglio e
quando sono tornato, avevo deciso di venire da te dopo la finale.-
La sua mano
tornò ad accarezzarla delicatamente sulla pancia.
- Ma questo
piccolino ha sconvolto i miei piani.- rise felice.
Sanae
sentì i suoi
occhi farsi lucidi e aggrappandosi a lui gli posò un bacio
sulle labbra.
- Ti amo.-
Tsubasa le
sorrise e posò la propria guancia sul ventre.
- Qui
c’è il
nostro bambino, ancora mi sembra incredibile.- confessò
emozionato.
Tutto il
trambusto della finale della Coppa d’Asia e dei preparativi
del matrimonio lo
aveva tenuto talmente impegnato da non dargli nemmeno il tempo di
pensare che
sarebbe diventato padre di lì a otto mesi circa.
Anche lei,
che
aveva fin da subito accettato il ruolo che quel bambino
l’avrebbe chiamata a
ricoprire, pensò che adesso avrebbe avuto una famiglia tutta
sua con il suo
Tsubasa, l’amore della sua vita. Accoccolata tra le braccia
del marito, si
addormentò, pensando con gioia che ogni sogno avesse
accompagnato il suo riposo
sarebbe stato superfluo, dal momento che il suo più grande
desiderio era
diventato realtà.
Maki si
svegliò
all’improvviso. Si guardò attorno allibita, quando
comprese dov’era e perché.
Il posto al suo fianco era vuoto. Si passò una mano tra i
capelli, coprendosi
il petto con il lenzuolo. La sera precedente, dopo la cerimonia lei e
Kojiro
erano stati insieme. Le sue guance erano calde al ricordo della
passione che
avevano condiviso.
Il rumore
della
porta del bagno che si apriva attirò la sua attenzione e
sulla soglia vide
Kojiro vestito di un semplice asciugamano arrotolato in vita. Si
sentì
avvampare e cercò di mantenere la calma, ignorando la forte
attrazione che il
suo ragazzo le suscitava.
-
Buongiorno.- disse
semplicemente.
Kojiro si
sedette sul letto e sfiorò le sue labbra con un bacio.
- Ben
svegliata.-
Notando il
suo
imbarazzo, non poté impedirsi di ridere divertito. Maki lo
scrutò indispettita:
come poteva essere così tranquillo, proprio non riusciva a
spiegarselo. Lo vide
disfarsi dell’asciugamano e scivolare nuovamente sotto le
coperte. Le si
avvicinò furtivo e la strinse a sé posandole un
bacio sul collo.
- Sei
proprio un
ragazzaccio, Kojiro Hyuga.- sbuffò tentando di spingerlo
via, ma la stretta di
lui si fece serrata e scivolando sopra di lei le sigillò la
bocca con un bacio.
- Mi fai
impazzire, Akamine.- sussurrò.
Maki gli
sorrise, poi la sua espressione si fece quasi scocciata.
- Ma io e te
non
dovevamo essere solo al primo appuntamento?- chiese ricordandogli delle
parole
dette a Okinawa.
Si fissarono
seri per pochi secondi prima di scoppiare a ridere divertiti,
finché i loro
corpi non risposero al richiamo della passione che esigente li aveva
coinvolti
nuovamente nelle sue spirali infuocate.
*Dal
Cantico dei Cantici 2, 8-10.14.16a; 8, 6-7°: Forte come la
morte è l’amore.
Eccomi qua con questo capitolo che spero sia
gradito a tutte coloro che speravano nell’happy ending tra
Sanae e Tsubasa. Spero
che apprezziate lo spazio che ho dato alle altre coppie e che
continuiate a
seguirmi, perché la storia non è finita!
Un ringraziamento a tutti, ma soprattutto
alle persone che recensiscono e che continuano a sostenermi.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** Rivelazione ***
Capitolo 24
Rivelazione
Dopo il
matrimonio, Elena si era sempre ripromessa di andare a far visita alla
neosposa, che risiedeva a Tokyo con il suo capitano che faceva la spola
dal
Brasile al Giappone. Dato lo stato di Sanae, i due ragazzi avevano
preferito
accontentarsi di quella sistemazione per il momento. Tsubasa lasciava
sempre
Sanae in buone mani: Yoshiko e Yayoi erano i suoi angeli custodi,
mentre gli ex
giocatori della Nankatsu andavano a turno a trovarla, per non parlare
della due
future nonne.
La bionda
italiana aveva approfittato di un viaggio di affari di Davide per
unirsi a lui
e raggiungere la capitale. Prima di andare da Sanae, si
fermò da un fioraio per
acquistare un mazzo di azalee: aveva letto su una rivista che nella
cultura
orientale sono simbolo di femminilità e una sorta di
portafortuna.
Il taxi la
portò
fino a Nezu e, durante il tragitto, Elena notò i grandi
spazi verdi che
caratterizzavano la zona: Tsubasa aveva scelto proprio un bel posto per
la loro
prima casa. Il tassista fissava dallo specchietto la giovane, convinto
che
fosse una delle tante fan che si recavano nelle vicinanze della casa
per
riuscire a vedere il giovane campione e la sua invidiatissima moglie,
ma rimase
di stucco, quando la guardia al cancello la fece entrare sotto lo
sguardo
attonito di un gruppo di fanatiche cui era appena stato intimato di
allontanarsi.
Elena
attese,
sistemandosi la gonna del vestitino. Udì dei passi svelti
avvicinarsi e la
serratura aprirsi, prima d’incontrare lo sguardo pensieroso
di Yoshiko, che vedendola
s’incupì ancora di più.
- Tutto
bene?-
chiese a bruciapelo non distogliendo lo sguardo da lei, mentre varcava
la
soglia.
Preoccupata,
si
diresse alla ricerca di Sanae che trovò sul divano con la
testa fra le mani. Si
avvicinò spaventata e Sanae sussultò, quando la
vide avvicinarsi.
- Sanae che
cos’hai?- chiese con la voce tremante.
La ragazza
cercò
l’aiuto di Yoshiko che stava entrando nella stanza.
-
E’ meglio che
ti siedi, Elena.- le disse posandole le mani sulle spalle.
Le sue dita
disegnavano cerchi sulle tempie, il respiro stava accelerando, si
sentiva come in
procinto di affogare. Si premette la mano sul petto che si alzava e
abbassava
sempre più velocemente, concentrandosi per regolarizzare il
respiro. Chinò il
capo in avanti e Sanae, che le teneva la mano vide brillare una goccia
dal suo
viso.
- Ti prego,
tesoro, non piangere.- le disse baciandole una tempia, ma con la voce
tremante.
Il telefono
squillò e Yoshiko andò a rispondere.
- Pronto,
qui
Ozora…signor Katagiri! Ci sono novità?- chiese
preoccupata.
Elena
allungò la
mano, con sguardo implorante e Yoshiko le passò
immediatamente la cornetta.
- Signor
Katagiri sono Elena, come sta?-
L’uomo
si
schiarì la voce. La tensione della ragazza era talmente
forte da traspirare
anche attraverso l’apparecchio.
- Lo stavano
portando in sala operatoria.- cercò di controllare il tono
di voce, cercando di
non agitarla ulteriormente.
- Sto
andando a
Sendai.- aggiunse.
- Vengo con
lei.- sentenziò senza pensarci due volte.
-
D’accordo, tra
qualche minuto sarò lì.- rispose, chiudendo la
comunicazione.
Elena
posò il
telefono e raccolse in fretta le sue cose, salutando distrattamente le
due
ragazze.
- Elena, ma
dove…?-
chiese Sanae.
Si
voltò e nei
suoi occhi ora brillava una sorta di luce nuova. Le lacrime non avevano
più
posto in quel viso dall’espressione decisa.
- Voglio
andare
da lui.- disse con i pugni serrati e lo sguardo che andava da Yoshiko a
Sanae,
le quali annuirono assecondando quell’improvvisa decisione.
Katagiri
stava
già attendendo al cancello ed Elena si precipitò
a salire sulla sua
Lamborghini, che, sigillata la portiera, sfrecciò sul viale
in direzione della
stazione ferroviaria.
Elena si
accomodò sui posti di prima classe a fianco
dell’uomo. In quel momento, si
guardò attorno e l’imbarazzo cominciò a
farsi strada in lei. Aveva deciso senza
rifletterci su di unirsi a quell’uomo che conosceva appena e
stava andando a
Sendai, senza che nessuno glielo avesse chiesto. Ad un tratto si
ricordò di
Davide, che la sapeva ancora a Tokyo.
- Mi scusi,
signor Katagiri. Potrei chiedere in prestito il suo cellulare? Non ho
avvertito
il mio tutore.- chiese timidamente.
L’uomo
sfilò di
tasca il sottile starTAC e glielo
porse con un sorriso. La osservò attentamente, mentre
parlava al telefono torcendo
una ciocca dorata attorno al dito.
La sua voce era ferma e limpida e gli occhi non avevano più
alcuna traccia di
lacrime. Gli restituì l’apparecchio,
ringraziandolo e passò il resto del
viaggio senza dire una parola, persa nei suoi pensieri, mentre il
paesaggio scorreva
veloce fuori dal finestrino del treno.
Due ore
dopo,
riuscirono a raggiungere l’ospedale Izumi. Di fronte
all’entrata, Elena ebbe un
secondo di esitazione.
- Cosa
c’è?- le
chiese Katagiri che l’aveva superata con un paio di falcate.
Scosse la
testa
e serrò i pugni: non era il momento di farsi perseguitare
dai fantasmi e
seguendolo con passo spedito, arrivarono alle sale operatorie, dove
trovarono
il signor Misaki e la famiglia della ex moglie in attesa.
- Elena!-
esclamò l’uomo, visibilmente provato dalla
situazione. Mossa dalla tenerezza lo
abbracciò per infondergli un po’ di coraggio.
-
Com’è
successo?- chiese rivolgendo lo sguardo al resto dei presenti.
La
sorellastra
di Taro, scoppiò a piangere.
-
E’ colpa mia,
non ho guardato prima di attraversare la strada!- spiegò con
la voce rotta dai
singhiozzi.
Si
accucciò di
fronte alla bimba e con fare rassicurante le posò le mani
sulle spalle.
- Non devi
sentirti in colpa.- le disse con un tono di voce dolce.- Lui ti vuole
bene ed è
normale che ti volesse proteggere.- le spiegò con un
sorriso, in cui era velata
una punta di tristezza.
La signora
Yamaoka
la guardava con un’espressione indecifrabile ed Elena ebbe
timore che la sua
presenza non fosse gradita. La porta scorrevole della sala operatoria
si aprì e
il dottore si sfilò sbuffando la mascherina dal viso, mentre
i presenti si
avvicinavano a lui.
- Siamo
riusciti
a salvargli la gamba, ma dovrà affrontare una lunga degenza
e sedute di
fisioterapia.-
Katagiri
annuì:
era chiaro che Taro non avrebbe partecipato al World
Youth. Si congedò e uscì per accendersi
una sigaretta. Elena
sospirò, sapeva quanto dolore avrebbe provato il ragazzo per
una simile
notizia, mentre i genitori potevano già ritenersi
soddisfatti che non avesse
perso l’uso della gamba.
- Lei
è Elena?-
le chiese il dottore.
Annuì
e non
dovette nemmeno chiedersi come facesse a saperlo.
- Gli
infermieri
mi hanno detto che ha continuato a chiamare il suo nome,
finché non ha perso
conoscenza.-
Nel
frattempo,
il lettino mobile su cui era sdraiato Taro passò a fianco a
loro. Elena sentì
il cuore stringersi, notando l’espressione sofferente sul
volto del ragazzo e
senza un minimo di esitazione seguì gli infermieri che lo
stavano portando
nella stanza a lui destinata, sorda ai richiami del dottore e del
signor
Misaki. Quando poté avere accesso prese una sedia e si
accomodò accanto al
letto, senza perdere mai di vista il volto del ragazzo.
- Elena,
è
ancora sotto anestetici, sarebbe meglio…-
- Io resto
con
lui.- sentenziò interrompendo il dottore, sopraggiunto per
indurla ad attendere
fuori. L’uomo sospirò cercando il sostegno dei
parenti del ragazzo. Il signor
Misaki annuì, dando il suo tacito consenso. La signora
Yamaoka la guardava con
dolcezza: nonostante non stessero più insieme quella
ragazzina era saltata sul
primo treno per raggiungere Sendai e stare vicino a suo figlio, con che
coraggio avrebbe potuto dire al medico di mandarla via?
Uscirono
lasciandola sola accanto al ragazzo dormiente. Con un gesto delicato
gli scostò
la frangia dalla fronte e accarezzando il profilo con le dita, scese a
sfiorargli il collo e il braccio, fino a prendere la sua mano.
Il suo cuore
percepì una sorta di calore e, intrecciando le loro dita,
riassaporò il gusto
di quel gesto che tanto le era mancato. Attendeva con ansia il suo
risveglio:
desiderava stringerlo a sé e proteggerlo, così
come lui aveva fatto tante volte
con lei. Nella sua mente risuonarono le parole che aveva detto a
Yoshiko: una
frase che lei stessa aveva pronunciato e che aveva sciolto tutte le sue
inquietudini.
Ad un
tratto, la
porta scorrevole si aprì e la signora Yamaoka
scivolò all’interno della stanza.
Elena sentì la mano della donna posarsi sulla sua spalla.
- Mi sento
una
stupida.- era la prima volta che vedeva la madre di Taro e, pur non
avendo la
minima confidenza con lei, sentiva l’esigenza di sfogarsi con
una presenza
femminile, che le era sempre mancata.
- Sei stata
molto coraggiosa, mia cara.- le disse in tono amorevole.- Ichiro mi ha
raccontato di te e so quanto tutto questo possa essere doloroso,
soprattutto
nella tua situazione.-
- Io ho
sbagliato: l’ho allontanato quando l’unica cosa che
lui voleva era starmi
vicino.- sentì le guance bagnarsi, ora che finalmente si
sentiva libera di
piangere.
La donna gli
accarezzò la testa.
- Gli errori
servono ad imparare, lo hai allontanato credendo che fosse la soluzione
migliore, ma…- si abbassò per guardarla negli
occhi.- …come tu stessa hai
detto, quando amiamo qualcuno è normale volerlo proteggere.-
Elena
annuì
strizzando gli occhi e stringendo i denti per soffocare il dispiacere,
mentre
le lacrime scorrevano sulle sue guance. La signora estrasse un
fazzoletto dalla
borsa e le deterse il viso premurosamente, ricevendo in cambio un
sorriso colmo
di gratitudine.
-
L’ho capito
solo adesso: lui voleva starmi accanto per proteggermi dal dolore e
sostenermi,
perché mi vuole bene.-
-
Perché ti
ama.- la corresse la donna. Elena si voltò a guardarla
meravigliata. La donna
sorrise e annuì. – Quando abbiamo paura o siamo in
difficoltà, chiamiamo sempre
la persona che abbiamo nel cuore. - le posò nuovamente una
mano sulla spalle
stringendola delicatamente, ma con decisione, prima di uscire.
Non avrebbe
saputo dire quanto tempo era passato da che era lì a
rimirarlo. Aveva
riflettuto sulle parole della signora Yamaoka e sugli ultimi eventi.
Strinse
con più intensità la mano del ragazzo, formulando
una promessa nel suo cuore.
Avvertì le dita che si muovevano e un mugolio
l’avvertì che l’effetto
dell’anestesia era terminato.
Taro
aprì gli
occhi, ma i sensi ancora intorpiditi gli impedirono di percepire subito
la
presenza al suo fianco. Sentì il suo tocco accarezzargli il
volto, una mano
troppo giovane e sottile per essere quella di sua madre.
Andò ad afferrarla e
riconoscendo la voce amata nel confuso suono che udì,
sorrise.
- Elena?-
riuscì
ad articolare, sentendo che il torpore lo stava abbandonando. Le labbra
che
andarono a sfiorare la sua fronte furono un gesto più che
sufficiente per
fargli stendere le braccia e richiedere quell’agognato
contatto che non osava
nemmeno più sperare.
Durò
troppo
poco, perché la ragazza dovette chiamare gli infermieri per
gli accertamenti
post-operatori. Terminate tutte le visite di routine,
fu dato libero accesso ai visitatori che attendevano fuori
della stanza. Il dottore precisò subito quanto detto a
Katagiri, riguardo al
campionato e Taro annuì senza perdere il sorriso sereno che
aveva sul volto.
Elena lo guardava con affetto e ammirazione: sapeva benissimo che
quella notizia
era terribile per lui, ma ciononostante l’accettava
stoicamente.
Quando il
medico
consigliò a tutti di lasciar riposare il paziente, Taro
espresse il desiderio
che Elena rimanesse lì con lui e, come prima, il dottore si
arrese, pensando
che la vicinanza della ragazza ora fosse la migliore medicina. La
stanza si
svuotò, lasciando i due ragazzi soli, incatenati con lo
sguardo l’uno
all’altra. Taro la invitò a sedersi sul letto e
come fu vicina l’abbracciò di
nuovo.
- Grazie di
essere venuta.- sussurrò al suo orecchio.
Elena si
sciolse
dall’abbraccio e lo guardò con tutto il sentimento
che aveva finto di
dimenticare.
- Dovevo
venire.- rispose mentre sentiva l’emozione agitarla.
– Io ti amo.- confessò
finalmente.
Taro si
slanciò per
baciarla, ignorando l’impedimento della
gamba, felice di averla di nuovo per sé.
Il primo
mese
passò e Taro stava già facendo fisioterapia con
il dottore. Per comodità,
Davide si era accordato col signor Misaki, perché il ragazzo
potesse stare in
casa da loro, dato che abitavano su un piano unico e Elena avrebbe
potuto così
prendersi cura di lui.
La ragazza
era
serena, continuava la terapia, ma già il medico le aveva
sospeso i farmaci e i
sonniferi notando dei netti miglioramenti. Davide era fiero di lei, il
giorno
che era partita improvvisamente per Sendai aveva dimostrato un coraggio
inconsueto, una forza che solo l’amore può dare ed
ora era felice di constatare
come i due ragazzi traessero giovamento reciproco dalla vicinanza.
Elena lo
ricopriva di ogni premure e spesso stava in stanza con lui a dormire,
quando
Davide era fuori. Taro si lasciava coccolare come un bimbo, ancora
incredulo di
quanto nel dolore di non poter partecipare alla competizione che
attendeva da
una vita, avesse potuto riavere quel piccolo tesoro che con la sua
premura e la
sua dolcezza lo faceva sentire al centro del mondo.
- Come stai,
Misaki?- gli aveva chiesto Tsubasa al telefono. Di tutti i suoi
compagni era
sicuramente lui il più dispiaciuto di non poter condividere
quell’esperienza
internazionale fantastica. La loro amicizia era unica, inoltre tutto
ciò che il
ragazzo aveva fatto per sua moglie era encomiabile.
- La terapia
funziona, anche se devo sempre tenere il tutore.-
- Ah, Sanae
mi
chiede come sta Elena?-
- Tutto bene
grazie, è impegnata a viziarmi.- rise allegro.
Elena stava
per
entrare in camera sua, dopo aver preparato la torta di verdure che ora
stava cocendo
nel forno, ma si arrestò sentendo alcune parole.
- Sai starle
così vicino adesso mi fa un altro effetto. La desidero
terribilmente ed ora che
non ho più dubbi, c’è questo maledetto
aggeggio che mi impedisce.-
Sentì
il cuore
balzarle violentemente nel petto e allontanandosi rientrò in
cucina, agitata e
in qualche modo felice per quanto aveva sentito. Si sedette al tavolo e
afferrò
un tovagliolo per farsi aria, sentendo il viso andare a fuoco. Rimase
imbambolata ridendo tra sé e sé e si riscosse,
quando sentì il telefono dello
studio di Davide suonare.
Quando
riagganciò la cornetta il suo cuore era in tumulto: Davide
l’aveva avvertita
che non sarebbe tornato a casa quella sera, perché un suo
grosso cliente lo
aveva invitato a trattenersi a Tokyo e quindi non sarebbe potuto
tornare prima
di domani. Andò in cucina e spense il forno, togliendo
meccanicamente la
teglia, mentre con la testa pensava a quello che il suo cuore voleva in
quel
momento, che sarebbe stato superfluo definire propizio.
Lentamente
si
avvicinò alla stanza di Taro. Fece scattare la maniglia
discretamente ed entrò
accolta da un sorriso. Lui percepì una luce diversa nei suoi
occhi: era
qualcosa di indefinito, ma al tempo stesso disarmante. Si sedette sul
letto,
senza staccare gli occhi da lui.
- Davide non
torna questa sera.- la sua voce era poco più di un mero
sussurro.
Taro
sentì il
cuore mancargli un battito. La vide sfilare lentamente il fermaglio dai
suoi
capelli dorati che ricaddero morbidi sulle sue spalle ed avvicinare i
loro
volti, alla ricerca di un bacio che da delicato divenne sempre
più profondo. Lo
sentì affondare le mani nei suoi lunghi capelli e proseguire
lungo la schiena
in una carezza decisa. Scese a lambirle il collo con la lingua,
strappandole
dei gemiti di piacere, mentre lei intrecciava le dita dietro alla sua
nuca per
invitarlo a continuare. Il tessuto del suo abitino estivo le
carezzò la pelle
che si scopriva lentamente, lasciandola con i soli slip. Intimidita si
strinse
a lui per coprire la sua nudità e lui le
accarezzò la schiena, facendola
rabbrividire e proseguendo a baciarle il collo, mentre con la mano le
sfiorava
delicatamente il seno.
Con fatica
si
liberò dei suoi indumenti e per un istante si guardarono
negli occhi un po’
imbarazzati per la situazione insolita in cui si trovavano. Elena
sorrise e con
delicatezza si sedette sopra di lui, che stringendola a sé
cercò di essere più
delicato possibile. La sentì mugolare per il dolore
spingendo la fronte contro
il suo petto, mentre si mordeva le labbra. Le accarezzò la
guancia e lei
rispose con un sorriso. Si aggrappò a lui e
iniziò a muoversi nonostante il
fastidio che avvertiva, ma che andava lentamente scomparendo per
lasciare posto
alla passione che sentivano bruciante nei loro corpi uniti in un
abbraccio
dolce e violento al tempo stesso, come l’immagine di Amore e
Psiche.
Il sole
stava
tramontando e Taro si buttò sul morbido materasso, col
fiatone e la fronte
imperlata di sudore. Elena si accoccolò al suo fianco,
circondata dal suo
braccio protettivo.
- Mi
dispiace
che sia andata così.- disse mortificato.
-
Così come?-
chiese incuriosita.
-
Così…così.-
indicò il tutore che avvolgeva la sua gamba.
Elena si
sistemò
col mento sul suo petto.
-
E’ così che l’ho
sempre sognato.- gli sorrise, ma Taro alzò un sopracciglio,
confuso dalla sua
dichiarazione.
- Questo
momento, lo ricorderò per tutta la vita.-
confessò dolcemente.
Cari fan della coppia Elena-Taro: questo
capitolo è dedicato a voi con tutto il cuore, soprattutto
alla cara Eos che mi
sta sostenendo come un pilastro in questo periodo bruttissimo.
Ringrazio anche Rossy, Dolcebarbara e
Gaara4ever(spero di averlo scritto correttamente), per le loro
recensioni: è
sempre un piacere per me leggere la vostra opinione.
Un ultimo pensiero alla mia cara Onlyhope
che purtroppo sento sporadicamente a causa di problemi
tecnici…tesoro, spero di
sentirti presto.
Un caro saluto a tutti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** Un grido dal cuore ***
Capitolo 25
Un grido dal cuore
Il corridoio
sembrava interminabile, come un tunnel di cui non poteva vedere
l’uscita. Il
ronzio nelle sue orecchie gli permetteva solo di sentire il proprio
cuore
battere al ritmo dell’angoscia e i tonfi che le sue falcate
provocavano sul
pavimento di linoleum. Gli sguardi affranti di Yayoi e Sanae che
attendevano in
corridoio, gli confermarono di essere giunto a destinazione.
Le due
ragazze
lo videro prendere un lungo respiro prima di entrare nella stanza di
ospedale.
Si mosse lentamente come se dietro la porta fosse ad attenderlo una
bestia
feroce, ma quando nella penombra riuscì a distinguere il
profilo della ragazza
sdraiata sul letto, un dolore più acuto di quanto potesse
provare gli artigliò
il cuore.
Intontito da
quella dura emozione, si avvicinò lentamente al capezzale.
Il tubo soffiava
aria nei polmoni immobili, producendo un rumore agghiacciante, cui si
accompagnava il suono metallico e ripetitivo
dell’elettroencefalogramma. Hikaru
alzò lo sguardo timoroso ad incontrare il volto cereo della
sua ragazza,
fasciato dalle bende e deturpato dai graffi provocati dal colpo
sull’asfalto
della strada. Sembrava che la vita stesse meditando di abbandonare il
suo corpo
e il ragazzo crollò disperato ad abbracciarla per evitare
che la morte se la
portasse via.
- Yoshiko,
amore
mio, che ti è successo…- esclamò in un
grido soffocato e si accasciò su di lei
scosso dalle lacrime.
Sbatté
un pugno
sull’ampio guanciale, irato contro il destino che aveva
ridotto la sua ragazza
in quello stato. C’era sempre qualcosa che voleva
portargliela via: prima il
trasferimento negli Stati Uniti ed ora quel brutto incidente. Sapeva
che era
irrazionale, ma odiava l’autista che l’aveva
investita e se lei fosse morta, si
sarebbe vendicato. Sì, questo aveva pensato durante la folle
corsa
all’ospedale, ma adesso che la sua ragazza era tra le sue
braccia lottando tra
la vita e la morte riusciva solo a pensare che lei non doveva
lasciarlo, non
poteva andarsene dove lui non avrebbe potuto più averla.
Alzò
il volto
rigato dalle lacrime e con la mano le accarezzò il volto
pallido.
- Tesoro
mio, io
cosa devo fare? Cosa posso fare?- domandò disperato,
sperando che lei si
svegliasse e con il suo sguardo rassicurante lo sostenesse come sempre,
ma
Yoshiko era in coma e non poteva rispondergli in quel momento.
Sanae seduta
in
corridoio si accarezzava la pancia ormai cresciuta e ogni tanto posava
una mano
sulla spalla di Yayoi che piangeva silenziosamente. Non riusciva
nemmeno a
capacitarsi di quanto era successo: si era sentita con la sua amica
poco prima
per darsi appuntamento, ma non vedendola arrivare aveva provato a
telefonare
all’albergo dove alloggiava e lì
l’avevano informata che la signorina Fujisawa
era uscita da più di un’ora. Lo stupore, la paura
e poi il dolore, quando dall’ospedale
l’avevano chiamata per comunicarle che la sua amica era stata
investita da un camionista
distratto ed era in pericolo di vita. Con una forza d’animo
che nemmeno
sospettava aveva preso il telefono per chiamare il J-
Village e avvertire Matsuyama di quanto era successo. La
reazione di lui fu come una coltellata in pieno petto, non avrebbe mai
voluto
avere quel ruolo così ingrato, ma nonostante tutto non
riusciva a piangere.
- Non
morirà,
vero Sanae?- chiese Yayoi. La sua voce era quasi un bisbiglio e per un
attimo
la riportò alla loro infanzia al primo giorno in cui la vide
all’asilo.
Era una bimba graziosa con il suo
grembiulino rosa e le treccine legate da due nastrini che le ricadevano
morbide
sulle piccole spalle. L’aveva notata entrare alla mano di un
bella signora che
si congedò dandole un bacio, poi la vide sedersi su un
seggiolino dell’aula da
disegno e piangere con le gambe raccolte al petto.
- Perché piangi?- le aveva chiesto.
- La mia mamma non mi vuole più, mi ha
lasciato qui.-
Scoppiò nella sua risata cristallina di
bimba e, estraendo dalla tasca il suo fazzolettino di Doraemon, lo
porse alla
piccolina perché si asciugasse le lacrime.
- La tua mamma tornerà a prenderti nel
pomeriggio.- le spiegò e dopo che l’ebbe calmata,
la portò sul dondolo nel
cortile e giocò con lei tutto il giorno.
Yayoi si era così divertita con la sua
nuova
amica che, quando il signor Aoba si presentò
all’asilo per riaccompagnarla a
casa, dovette prometterle almeno una decina di volte che
l’avrebbe riportata il
giorno seguente per riuscire a convincerla a separarsi da Sanae.
Sanae
sorrise
bonariamente e circondandole le spalle col braccio la strinse a
sé, come aveva
sempre fatto nei loro momenti di sconforto. Facendo leva sulle braccia
si alzò
e andò a raggiungere Matsuyama che era dentro ormai da
più di due ore.
Il ragazzo
non
si mosse, tanto era concentrato sul volto di Yoshiko, sperando di poter
captare
qualche movimento. La sera si stava avvicinando e lui non si era mai
allontanato da quel letto, non voleva lasciarla, non finché
lei non avesse
riaperto gli occhi.
Avvertì
il tocco
gentile di una mano sulla spalla.
- Matsuyama
non
hai nemmeno mangiato, perché non vai a prenderti qualcosa al
bar al piano
terra, resto io con lei.- disse gentilmente, ma fu inutile
perché il ragazzo si
limitò a scuotere la testa e stringere con entrambe le mani
quella piccola e
delicata di Yoshiko. Sanae riaprì la porta e chiese a Yayoi
di andare a
comprare qualcosa, aveva deciso che in ogni caso Hikaru doveva almeno
metter
qualcosa nello stomaco. Prese una sedia e con calma si sedette
dall’altra parte
del letto proprio di fronte a lui.
- Non
è
digiunando che la farai risvegliare.- lo ammonì dolcemente.
Matsuyama
abbassò lo sguardo imbarazzato, rendendosi conto di essere
stato un po’
scortese a rifiutare la proposta di Sanae.
- Ti spiace
se
resto qui?- chiese timidamente.
- No,
assolutamente.- rispose finalmente, rendendosi conto che aveva bisogno
di un
sostegno e forse Sanae era la persona più adatta. Yoshiko
parlava sempre di lei
e della loro amicizia, non che non volesse bene a Yayoi, ma la moglie
del suo
capitano era speciale.
La ragazza
rimase in silenzio a rimirare quel volto scosso dal dolore e
dall’impotenza.
-
Dov’ero io,
quando è successo?- spezzò il silenzio con quella
domanda retorica. Sanae
poteva percepire il suo stato d’animo piagato dal senso di
colpa per qualcosa
di cui si sentiva in parte responsabile.
- Stavi
facendo
ciò che più ami al mondo.- gli disse
semplicemente.
Due lacrime
scesero silenziose dalle sue guance.
- Ed
è questo
che mi fa stare male: io amo il calcio, ma soprattutto
perché è tramite questo
sport che ho potuto incontrare Yoshiko. Lei è tutto per me e
io non le ho dato
niente in cambio.-
- Non dire
così…- lo interruppe.
-
E’ la verità!-
esclamò affranto.- Mi sono accorto di amarla, quando se
n’è dovuta andare e
anche adesso non sono in grado di darle tutto ciò che si
merita.-
Sanae
allungo la
mano per posarla sulle sue. Quel ragazzo stava soffrendo terribilmente.
Alzò lo
sguardo incontrando quello gentile e comprensivo di lei.
- Da quando
Tsubasa ci ha annunciato il vostro matrimonio, ho iniziato a sentirmi
un
fallito. Vedo voi e soffro per quello che vorrei dare a Yoshiko. Quando
è
tornata ho dovuto limitarmi a chiederle di convivere, ma solo Dio sa
quanto
avrei voluto sposarla subito.- sospirò guardando la sua
ragazza ancora inerme.
– Ma cosa potrei darle io? - chiese disperato.
Non
riuscì più a
trattenere le lacrime e con la voce rotta cercò come
poté di consolarlo.
- Non
sentirti
in colpa Matsuyama. Da quando conosco Yoshiko, non posso dire di averla
mai
vista più felice di adesso che può stare con te.
Sa che vorresti darle di più,
lo ha capito.- vedendo lo sguardo interrogativo del ragazzo, sorrise.-
Me lo ha
confidato dopo il matrimonio. Lei ti aspetterà. Credo che tu
lo sappia già, ma
è la persona più buona e sensibile che io
conosca.- disse rivolgendo lo sguardo
all’amica dormiente e carezzandole il viso con la punta delle
dita.
- Sai quando
ho
conosciuto Yoshiko, sembrava un cucciolo smarrito. Si era appena
trasferita
dagli Stati Uniti e capiva poco il giapponese, quindi i nostri compagni
d’asilo
l’avevano praticamente emarginata, ma io e Yayoi volevamo
essere sue amiche e
dopo poco tempo siamo diventate inseparabili. Io ero un diavolo, Yayoi
era la
piccolina del gruppo e Yoshiko era la bimba buona che mi teneva a
bada.-
raccontò sorridendo con gli occhi lucidi al ricordo della
loro infanzia.
Matsuyama
l’ascoltava attentamente, trovando un po’ di
conforto in quei semplici ricordi.
Pensare alla sua Yoshiko bambina lo fece sorridere, in quella giornata
che
lasciava poco spazio alla serenità.
- Ricordo
che
una volta, Yayoi portò all’asilo la sua bambola
preferita per mostrarcela.
C’era una bambino molto dispettoso: Kintaro Nakamura, che non
perdeva mai
occasione di fare brutti scherzi agli altri bimbi, ma non dava mai
fastidio a
noi, perché mi temeva.- riuscì a strappargli una
risata.
-
Bè, te l’ho
detto che ero un diavolo.- gli sorrise.- Quel giorno mia mamma mi aveva
portato
più tardi, perché dovevo vaccinarmi e quando ho
raggiunto il cortile ho visto
Yayoi che piangeva e Yoshiko che cercava di calmarla, mentre Kintaro
correva
via con la sua bambola. L’ho rincorso e dopo averlo raggiunto
l’ho fatto cadere
e ho riportato la bambola a Yayoi.-
Matsuyama
sorrise immaginando la scena.
- La maestra
si
arrabbiò molto e stava per mettermi in punizione, se non
fosse intervenuta
Yoshiko a prendere le mie difese.- Rivolse uno sguardo dolce alla sua
amica,
pregando dentro di sé che di lei non le rimanessero solo
quei bei ricordi.
Vedendola
passarsi una mano sul ventre, Matsuyama si preoccupò.
- Sanae,
forse è
meglio che vai a riposarti, nelle tue condizioni non dovresti
strapazzarti
troppo.- le disse in ansia. – Vai pure, non preoccuparti.-
insistette vedendola
titubante.
Annuì
e fece per
alzarsi, ma improvvisamente si bloccò e prese la mano di
Yoshiko per
accostarsela al ventre.
- Lo senti,
Yoshi. Si sta muovendo.- disse
emozionata. – Ha sempre desiderato sentire il bambino
muoversi.- spiegò.
- Credi che
lo
abbia sentito?- chiese sconsolato.
Sanae
sorrise.
- Penso
proprio
di sì. Parlale Matsuyama, falle sentire la tua presenza,
vedrai che l’aiuterà a
tornare da te.- gli carezzò la testa come ad un bambino e
uscì.
Si
appoggiò al
muro, sentendo le lacrime scendere dalle sue guance e si
accarezzò il ventre
prominente, percependo nuovamente i movimenti della piccola vita dentro
di lei.
Sorrise grata a quella creatura che la stava inconsapevolmente
sostenendo in
quel momento terribile.
Sospirò
chiudendo gli occhi per qualche secondo. Era enormemente provato e
fisicamente
distrutto. L’indomani il Giappone avrebbe dovuto disputare
l’incontro contro la Svezia, una delle
squadre
più temute del torneo, ma lui non riusciva minimamente a
pensare al calcio in
quel momento.
Spense la
luce e
si sdraiò accanto a lei, circondandola col braccio.
Rimirò la dolcezza dei suoi
tratti come era solito fare la notte nei momenti d’insonnia.
Chiuse gli occhi
ripensando all’ultima volta passata insieme, quando lui
l’aveva svegliata per
cercare i suoi baci e le sue carezze prima di dover tornare in ritiro.
Le posò
un bacio sulla guancia scostandole i capelli dal viso.
- Amore mio,
non
ti lascerò andare. Io ho bisogno di te e di tutto quello che
solo tu sai
darmi.- sussurrò. Dalla tasca estrasse la sua preziosa hachimaki e iniziò a
passarsela tra le dita. La scritta I love you
sfilò di fronte ai suoi occhi,
stringendogli il cuore.
- Ti ricordi
quando me l’hai regalata, amore. Eravamo talmente timidi e
impacciati allora. Non
ti ho mai detto quanto sia stato felice di trovare questa scritta. In
quel
momento ho capito che non volevo perderti: è per questo che
ho rincorso quel
taxi, pur sapendo che non lo avrei mai raggiunto.- con la mano
accarezzava
delicatamente i tratti del suo viso, sforzandosi di non cedere
nuovamente alle
lacrime.
- Quando sei
partita ho giurato che se mai fossi tornata da me, non ti avrei mai
più
lasciata andare via.- strinse la mano tra le sue e la baciò.
- Lotta con
me
amore non ti arrendere, ti prego.- la supplicò stringendosi
al suo corpo
immobile, mentre cedeva alle lacrime. I singhiozzi echeggiarono nella
stanza,
finché non crollò addormentato, sfinito da quella
giornata da incubo.
L’entrata
del
dottore nella stanza lo fece sussultare e guardandosi attorno
ricordò come una
doccia fredda, dove si trovava e il motivo per cui era sdraiato su un
letto
d’ospedale. Imbarazzato, chiese scusa per essere stato colto
in quel modo poco
decoroso, ma il dottore si limitò a sorridere bonariamente.
- La
comprendo
benissimo, signor Matsuyama. La prego vada a rinfrescarsi, mentre
visito la
signorina Fujisawa.- lo invitò.
Non voleva
andarsene, ma l’infermiera che lo trascinava via gentilmente
riuscì a
convincerlo ad uscire. Fissò attraverso il vetro il medico
che con gli strumenti
testava le reazioni di Yoshiko. Chinò la testa vedendo
l’uomo scuotere il capo
e lentamente si trascinò ai servizi igienici.
Lo specchio
restituiva l’immagine di un volto stravolto, gli occhi
cerchiati dal sonno travagliato
e rossi per il pianto, la pelle che portava le tracce della barba
leggermente
incolta. Non era possibile che quel ragazzo vinto dal dolore fosse lui,
la
Wild Eagle
che non si arrende di fronte agli ostacoli. Aprì il
rubinetto e si spruzzò l’acqua addosso. Si
rispecchiò, il volto bagnato e gli
occhi che fiammeggiavano: non avrebbe perso quella sfida.
Tsubasa
giocava
nervosamente col cellulare seduto nel sedile posteriore del taxi.
Sapeva
benissimo che il suo viaggio sarebbe andato a vuoto, ma almeno avrebbe
parlato
di persona con Matsuyama per sentire dalle sue labbra la decisione
presa in
merito alla partita contro la Svezia.
Sanae
alzò lo
sguardo ad incontrare quello del marito, che dolcemente si
chinò su di lei per
baciarla.
- Come sta?-
chiese con lo sguardo rivolto alla porta sigillata.
- Non si
è mai
mosso di lì, ha dormito e mangiato poco.- spiegò
lei.
- E tu come
stai?- domandò notando la tristezza nei suoi occhi.
- Cerco di
essere forte.- rispose semplicemente.
Tsubasa
l’abbracciò affettuosamente e prima di entrare, le
accarezzò la pancia.
Dentro la
stanza
il silenzio regnava sovrano, spezzato solo dalle parole di Matsuyama
sul cui
volto era visibile una determinazione pari a quella che aveva sempre
mostrato
in campo. Tsubasa comprendeva quanto fosse difficile dirle, ma la
decisione era
presa e non era certo andato da lui convinto di fargli cambiare idea.
L’espressione
di
Tsubasa era sufficientemente eloquente per farle capire che Matsuyama
non
avrebbe partecipato alla partita. Il capitano guardò sua
moglie e pensò che
anche lui avrebbe agito allo stesso modo, se la splendida creatura che
aveva di
fronte fosse stata nelle condizioni di Yoshiko. Delicatamente le cinse
la vita
stringendola a sé.
- Vorrei che
non
fosse successo.- sussurrò con la voce rotta
dall’emozione.
- Yoshiko ce
la
farà.- la rassicurò baciandole il capo.
I suoi occhi
neri la guardavano con infinita dolcezza e Sanae si alzò
sulle punte per
sfiorare delicatamente le sue labbra. Tsubasa sorrise e si
chinò per baciare il
ventre di lei, che gli accarezzò la testa commossa da quel
gesto semplice e
dolcissimo.
Dentro la
stanza
Matsuyama ripensò a quanto aveva appena dichiarato al
capitano: parole che
dolevano, ma che sentiva con tutto se stesso. Yoshiko era la sua
priorità in
quel momento e la squadra doveva fare a meno di lui.
- Yoshiko-
prese
ad accarezzarle la mano.- Resto con te, non posso andare a giocare, non
voglio
lasciarti così.-
Con la mano
libera le sistemò i capelli della frangetta e le
accarezzò la guancia, con il
dito indice indugiò sulle labbra e sentì
nuovamente l’impulso di piangere.
Sospirò trattenendole, perché non voleva
più cedere allo sconforto: se voleva
che Yoshiko si risvegliasse lui doveva essere il primo a crederci.
- Amore mio,
apri gli occhi. Torna da me, Yoshiko.-
Rimirò
la sua
mano sinistra focalizzando lo sguardo sul suo anulare affusolato.
- Tesoro,
voglio
essere felice con te. Voglio darti tutto ciò che meriti, ma
tu aiutami.
Svegliati amore!- implorò.
La
televisione
sintonizzata sulla partita mostrava a turno i singoli giocatori che
cantavano
sulle note dell’inno nazionale giapponese. Matsuyama
concentrò la sua
attenzione sul numero 23, che lo sostituiva. Mentalmente
pregò, perché i suoi
compagni non soffrissero troppo per la sua assenza e col cuore in gola
udì il
fischio che diede il via alla partita.
Seguiva il
gioco
attentamente, per quanto possibile, dato che il suo sguardo rimbalzava
da
Yoshiko allo schermo e rammaricato vide i compagni uscire per la fine
di un
primo tempo che aveva visto la Svezia dominare.
La ripresa
non
migliorò certo la situazione, perché gli
avversari sfoderarono una nuova
tattica che lasciò spiazzati i difensori nipponici. Akai
cercò di contenere le
incursioni di Levin, ma, a suo discapito, il capitano svedese lo
bombardò
letteralmente con il suo tiro micidiale. Matsuyama dovette assistere
impotente
a quel massacro in diretta che mostrò al Mondo,
perché Stephan Levin fosse
soprannominato il distruttore del campo. Irato per quel comportamento
altamente
scorretto imprecò contro l’immagine del capitano
dallo sguardo di ghiaccio, che
guardava impassibile la sua vittima sbattuta a terra
dall’ennesima bordata.
Ad un tratto
un
movimento tra le sue mani lo fece trasalire: Yoshiko stava muovendo
piano piano
le dita. Strizzò le palpebre prima di aprire delicatamente
gli occhi e
incontrare l’espressione stupita del suo ragazzo. Con un
ennesimo sforzò allargò
le labbra in un sorriso, poi tentò di chiamarlo per nome, ma
la voce sembrava
non uscirle dalla gola.
Hikaru
cedette
alle lacrime e chiamò a gran voce il dottore e la amiche per
annunciargli la
buona notizia. Il medico si precipitò con le infermiere per
verificare lo stato
della paziente, mentre Yayoi e Sanae abbracciate sfogavano la gioia per
il
risveglio della loro amica.
Quando
finalmente furono di nuovo da soli, Hikaru si sedette sul letto e si
chinò per
baciarla. Felice di averla di nuovo.
- Non mi
scappi
più adesso.- scherzò con la voce ancora rotta
dall’emozione.
Yoshiko
sorrise,
ma un boato dalla televisione rimasta accesa attirò la sua
attenzione. Vide il
risultato sul tabellone e per quanto possibile riuscì a
focalizzare la
situazione. Rivolse uno sguardo significativo al suo ragazzo, che
capendo si
congedò dandole un ultimo bacio e si diresse allo stadio.
Il numero 23
fu
trasportato fuori del campo sulla barella, mentre terminava il secondo
tempo
della partita. I giocatori raggiunsero gli spogliatoi, stanchi e
sfiduciati.
Tsubasa cercò di ridar loro la carica, ma anche lui capiva
che solo un miracolo
avrebbe potuto cambiare le sorti della partita. Aprendo la porta un
sorriso si
allargò sul volto del capitano.
- Andiamo a
vincere questa partita!- esclamò Matsuyama stringendo il
nodo dell’hachimaki.
Al fischio
gli
svedesi si fecero subito avanti, ma Levin fu bloccato immediatamente
dal numero
12 che come una furia scatenata dribblò Lazon e Brolin che
gli si facevano
incontro. Federicks gli si parò davanti, ma Matsuyama
passò a Tsubasa che
smarcato andò in progressione verso la porta. Al limite
dell’area, il capitano
schivò un tackle, rispedendo la sfera al compagno che con
precisione sfoderò il suo
radente Eagle Shot. Il portiere si
tuffò, ma invano, perché la palla
schizzò veloce oltre la linea prima che lui
potesse afferrarla.
Lo stadio
esplose inneggiando ai due giocatori che avevano reso possibile il
Golden Goal
che regalava l’accesso alla semifinale, un passo in
più verso l’agognata Coppa
del Mondo. Matsuyama corse verso le telecamere togliendosi l’hachimaki e sventolandola
come una bandiera. Arrivato di fronte all’obiettivo,
gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.
-
Yoshikoooooooo
ti amooooooooo.- la voce di Matsuyama attraverso il televisore
echeggiò nella
stanza dell’ospedale, facendola trasalire. Sorrise col cuore
in gola, mentre
due lacrime di commozione le rigavano il volto.
Premetto che ho volutamente tratto spunto
dall’episodio che successe anni fa e che vide protagonista
Gabriel Omar
Batistuta, giocatore che stimo moltissimo e con
quell’episodio fece sognare
tante ragazzine. Ho preferito ridare spazio alla mia coppia preferita
rivisitando
l’episodio dell’incidente, cercando di analizzarlo
nel suo lato più umano e
spero proprio di esserci riuscita.
Ringrazio tutte le persone che hanno avuto
la pazienza di leggermi e vi annuncio che il prossimo sarà
l’ultimo capitolo
della storia.
Un caro saluto a Dolce Barbara, Rossy ed Eos
e un abbraccio a tutti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** La vittoria più bella ***
Capitolo 26
La vittoria più
bella
Il cuore le
batteva forte, unito al ritmo degli applausi, dei tamburi e dello
scalpitare
dei tifosi sulle tribune variopinte: bandiere, striscioni e volti
truccati con i
colori delle due squadre che entro pochi istanti si sarebbero contese
la Coppa
del Mondo. Vide suo marito posizionarsi per le foto di gruppo, assieme
ai
compagni e dopo l’ennesimo scatto notò alcuni di
loro alzare lo sguardo verso l’alto
per salutare le fidanzate che come lei osservavano la partita dalla
zona VIP,
protette dal caos del tifo che di lì a poco si sarebbe
scatenato.
- Grazie per
averci dato la possibilità di seguire la partita da qui,
signor Katagiri.-
disse Sanae.
- Ritenevo
che
fosse doveroso che la moglie del nostro capitano assistesse alla
partita,
nonostante le tue condizioni.- disse indicando il ventre cresciuto nei
nove
mesi ormai trascorsi.
- Grazie per
aver invitato anche noi.- gli disse Yayoi cui si accompagnarono i
sorrisi di
Elena, Maki e Kasumi.
L’uomo
annuì e
tornò a rimirare orgoglioso la squadra che aveva contribuito
a creare, mentre
si stava posizionando in campo, pronta per cominciare a giocare la
finale.
Le
ostilità
iniziarono, accendendo il tifo che faceva tremare le gradinate. Le
ragazze
seguivano attentamente i movimenti dei ventidue giocatori in campo,
scatenandosi in un tifo sfrenato ogni qualvolta uno dei giapponesi si
avvicinava alla porta avversaria. Ogni tentativo da ambo le parti era
puntualmente sventato dagli ottimi difensori e la situazione di stallo
contribuì a riscaldare notevolmente gli animi.
Sanae
tirò un
sospiro dopo l’ennesimo fallo sul capitano, ma subito una
gentile stretta di
mano la
confortò. Si
voltò per sorridere grata a Yayoi e istintivamente
pensò a Yoshiko che in quel
momento stava seguendo la partita dalla sua stanza d’ospedale
a causa della
degenza.
La giovane
seduta sul letto osservava attentamente lo scontro, girandosi
nervosamente la
fedina all’anulare sinistro di tanto in tanto. Quando il cameraman inquadrò il suo
fidanzato pronto a rimettere il fallo
laterale, lei sorrise e la sua mente la riportò alla sera
della partita contro la Svezia. Hikaru si
era presentato in ospedale con un mazzo di rose rosse, aumentando la
sua
agitazione dopo quella splendida dedica di fronte a tutto il mondo, ma
niente
fu più emozionante di vedersi consegnare dal ragazzo la
scatolina di velluto
blu contenente la promessa più dolce.
“Sposami, Yoshiko” le
aveva detto
semplicemente accompagnando le parole ad un tenero bacio a fior di
labbra, che
lei aveva reso più profondo e sensuale rapita
dall’estasi del momento. Si era
poi stretta a lui ripetendo più volte il suo assenso ad
unirsi a lui in
matrimonio, finiti i mondiali.
Avrebbe
tanto
voluto essere anche lei allo stadio con le amiche, ma purtroppo non era
ancora
nelle condizioni adatte a lasciare l’ospedale, anche se aveva
ripreso a
camminare e le sue ferite si stavano progressivamente rimarginando.
Pensò
intensamente a Sanae e al suo stato, in effetti una donna che ha finito
il
tempo avrebbe dovuto stare a casa tranquilla, anziché allo
stadio seppure in
una zona protetta.
Sanae si
massaggiò il ventre a causa di una piccola fitta a cui diede
poca importanza,
dato che erano diventate la prassi nei nove mesi che aveva condiviso
con la sua
creatura e tornò a concentrarsi sulla partita che ormai era
agli sgoccioli. Il
Giappone stava soffrendo enormemente a causa del nuovo entrato nelle
fila del Brasile,
Natureza, che stava dando parecchio filo da torcere anche a Tsubasa. La
partita
era agli sgoccioli e prima del fischio dell’arbitro, il nuovo
entrato segnò un
goal, portando il risultato al pareggio. Le ragazze esclamarono in coro
tutta
la loro delusione: ormai erano convinte che il Giappone avesse la
vittoria in
pugno.
Sanae si
massaggiò la schiena, avvertendo un forte dolore ai reni.
Una mano le si posò
sulla spalla per rassicurarla.
- Vedrai che
vinceremo, Sanae.- il confortante sorriso di Elena le scaldò
il cuore, ma la
sua attenzione era disturbata da quella fitta insistente che non la
lasciava in
pace.
Il gioco
riprese
con l’inizio del primo tempo supplementare e Tsubasa fin da
subito puntò verso
Natureza, deciso a vincere il contrasto con lui.
Durante la
pausa
aveva rincuorato i suoi compagni chiedendo loro di non mollare,
perché il loro
sogno era vicino ad avverarsi. Genzo, costretto a ritirarsi a causa
delle sue
mani, nuovamente infortunate, lo guardò con ammirazione:
cos’era a dare tanta
carica al suo capitano? Capì quando lo vide alzare lo
sguardo e fare un cenno
alla moglie che sorridente lo osservava attraverso il vetro della zona
VIP.
Wakabayashi sorrise a sua volta, ricordando l’infanzia, la
partita contro
Tsubasa e la grande amicizia che nacque in seguito. Era incredibile
pensare che
quell’uomo prossimo a diventare padre, fosse quello
scricciolo di ragazzino che
lo aveva sfidato dalla terrazza del tempio. Si calcò il
berretto sulla fronte e
fece un cenno con la mano bendata.
- Verso la
vittoria, capitano.-
La risposta
di
Tsubasa fu un semplice assenso.
Gli occhi
del
capitano giapponese scintillavano per l’eccitazione della
contesa: Natureza era
un vero fuoriclasse, ma proprio questo era ciò che stimolava
di più Tsubasa,
che, nonostante fosse altamente concentrato sui movimenti
dell’avversario, non
poteva evitare di pensare che Sanae lo stava guardando.
Nostro figlio potrebbe nascere da un momento
all’altro, ma tu hai voluto venire qui a vedere la partita, a
vedere me, perché
tu lo sai che è questo ciò di cui ho
più bisogno. Vincerò, Sanae, devo
dimostrarti, quanto la tua presenza sia importante.
Con
l’agilità di
un gatto, Tsubasa approfittò dell’unico spiraglio
lasciato dall’avversario e
vinse il contrasto con il brasiliano. Il pubblicò
scattò in piedi totalmente
estasiato dall’abilità del numero 10, che
s’involò verso la porta come se gli
fossero spuntate le ali.
- Vai,
Tsubasa!-
urlò Yayoi, sovrastando le grida eccitate delle amiche.
Sanae si
teneva
una mano sul petto, che minacciava di esplodere: conosceva Tsubasa e
sapeva
benissimo che non avrebbe fallito, infatti lo vide giungere al limite
dell’area
e apprestarsi al tiro. La palla schizzò alta a colpire la
traversa e un boato
di delusione si levò dagli spalti, ma non era ancora finita:
il capitano scattò
in avanti e avvitandosi agilmente balzò a colpire la palla
con una rovesciata.
Il tempo parve sospeso in quell’istante. Sanae chiuse gli
occhi per un secondo
e quando li riaprì vide la palla insaccarsi nella rete con
la velocità di un
siluro.
Lo stadio
esplose e i giocatori circondarono festanti il loro capitano, autore
del goal
della vittoria. Yayoi si asciugò le lacrime che le facevano
capolino, mentre
Elena batteva le mani felice e Maki e Kasumi si abbracciavano
saltellando
felici. Sanae cercò di alzarsi, ma una fitta più
forte delle altre la rimise a
sedere e una sensazione di umido alle gambe attirò la sua
attenzione verso il
basso.
- Oh, santo
cielo!- fu la sua esclamazione.
- Ti si sono
rotte le acque!- esclamò Yayoi, cercando di conservare la
calma.
Katagiri
chiamò
immediatamente la sicurezza per far arrivare i soccorsi dalle ambulanze
parcheggiate
fuori dello stadio e come un fulmine si precipitò
giù all’entrata del terreno
di gioco, mentre Yayoi seguì Sanae che veniva portata
all’ambulanza.
Tsubasa,
ignaro,
si presentò sul palco e si apprestò a ricevere la
medaglia d’oro con i
complimenti del presidente della FIFA. La Coppa del Mondo venne elevata
in alto
dal ragazzo che con gli occhi lucidi ammirava quel simbolo di vittoria
e con il
cuore che batteva come un tamburo si voltò verso il
giornalista che gli
chiedeva a chi volesse dedicare il trofeo che stringeva tra le braccia.
- Dedico
tutto a
mia moglie Sanae…- esclamò ansimante-
…e a nostro figlio, che nascerà a breve.-
proseguì e con lo sguardo cercò il volto della
ragazza nella zona VIP, ma con
sua grande sorpresa non incontrò lo sguardo pieno di
ammirazione che
apparteneva solo a lei. Smarrito si guardò attorno e
così poté accorgersi del
signor Katagiri che da bordo campo si sbracciava per richiamare la sua
attenzione. Tsubasa intuì che doveva essere accaduto
qualcosa e come
ipnotizzato scese dal podio, porgendo distrattamente la coppa a Hyuga.
Tsubasa
correva
attraverso i corridoi dell’ospedale come una furia, era
preoccupatissimo per
Sanae: non avrebbe mai dovuto permetterle di venire allo stadio, non in
quelle
condizioni. Arrivò trafelato e notò Yoshiko
seduta sulla sedia a rotelle che si
massaggiava il polso bendato di fronte alla sala parto.
- Capitano-
esclamò come se avesse visto un miraggio.
- Da quanto
è
dentro?- chiese concitato.
- Non lo so,
sono arrivata che le infermiere avevano già chiuso la porta. L’ortopedico
mi ha
detto che aveva sentito degli inservienti giurare di aver visto la
moglie di Tsubasa
Ozora, allora mi sono fatta accompagnare fin qui.- spiegò
con calma. In quel
momento un infermiere uscì dalla stanza e riconoscendo il
campione, lo afferrò
e lo condusse dentro la stanza, passandogli con poca grazia camice,
cuffia e
mascherina.
Quando lo
vide
avvicinarsi, Sanae rossa in viso e con la fronte imperlata di sudore,
tese una
mano verso di lui, come un naufrago che si aggrappa al relitto,
concentrandosi
per non perdere il ritmo della respirazione. Il ragazzo prese la mano e
rispose
alla stretta con estremo calore.
- Adesso
tocca a
te, amore.- le sussurrò all’orecchio.
Yoshiko
giocava
nervosamente con i lembi della vestaglia, in ansia per quello che stava
accadendo dietro l’uscio verde della sala parto. La sua
attenzione venne
attirata da numerosi passi che si avvicinavano come una mandria di
cavalli al
galoppo e vide avvicinarsi mezza nazionale giapponese con le fidanzate
al
seguito e un claudicante Misaki che procedeva sorretto dalla sua Elena.
- Tsubasa
è già
dentro?- chiese Matsuyama, mentre con una mano accarezzava la guancia
della
futura moglie che sorridendogli annuì.
- Kojiro,
smettila! Non sei tu il padre, ti vuoi calmare!- esclamò
Kasumi.
- Per la
miseria
sono tre ore che sono lì dentro!- tuonò,
scatenando una richiesta di silenzio
da parte degli altri presenti.
Ad un tratto
le
grida di Sanae risuonarono ovattate dietro la porta.
- Santo
cielo!
Ma è così doloroso?- chiese Elena, impressionata.
- Di sicuro
non
ti uccide, altrimenti mia madre non lo avrebbe fatto per quattro
volte.- le
strizzò l’occhio Kasumi, che si strinse ancora di
più a Ken.
La battuta
strappò una risata generale, che però venne
interrotta dal dolce suono dei
vagiti del neonato.
-
Finalmente.-
sospirò Yayoi, che già sentiva gli occhi
inumidirsi per la commozione.
-
E’ una
femmina.- esclamò sorridente il ginecologo, che
passò la neonata alle
infermiere perché le tagliassero il cordone e la ripulissero.
Sanae si
lasciò
andare sul lettino, completamente distrutta, mentre Tsubasa le
accarezzava la
testa.
- Sei stata
bravissima.- le disse sfiorandole la fronte con un bacio.
La neomamma
prese la sua creatura tra le braccia e avvertì come una
scarica elettrica.
Socchiuse gli occhi, concentrando l’attenzione sul calore del
corpicino tra le
sue braccia e del braccio di Tsubasa che teneramente
l’avvolgeva. Loro erano
tutto il suo mondo: la sua famiglia, i suoi due gioielli.
- Come
chiamiamo
questa principessina?- chiese l’infermiera più
anziana sfoggiando il più dolce
dei sorrisi.
Sanae
guardò suo
marito negli occhi e sorridente disse:- Miharu.-
La donna
prese
il pennarello e segnò su una targhetta MIHARU OZORA, mentre
Sanae invitò un
impacciatissimo Tsubasa a prendere in braccio la bambina.
Il cuore del
ragazzo si riempì di una nuova emozione, un misto di
agitazione e gioia,
qualcosa di diverso da ogni sensazione avesse mai provato. La bambina
con gli
occhietti ancora chiusi si accoccolava tra le sue braccia con fiducia,
rendendolo ancora più smarrito.
-
Complimenti
per la vittoria, signor Ozora. Ha fatto un goal straordinario.- si
complimentò
il dottore.
-
Sì.- disse
Tsubasa.- Ma il premio più bello ce l’ho tra le
braccia.- aggiunse non
staccando gli occhi dalla figlia.
Eccomi qui, temevo di non farcela. Spero che
questo capitolo non vi sembri troppo affrettato, ma non ho voluto
dilungarmi
troppo sulla partita o su altri particolari per me superflui.
E’ stato molto
duro proseguire: purtroppo la mia situazione negli ultimi tempi non
è delle più
rosee, ma qualcuno mi ha “ ricaricato le batterie”
ultimamente, spronandomi
così a prendere la mia vita in mano.
Ringrazio tutte le persone che mi sono state
e mi stanno ancora vicine in questo periodo, i lettori e soprattutto
tutte le
persone che mi hanno recensito:
Eos: tesoro sei stata buona e ricca di
consigli con me, grazie mille per tutto quello che hai fatto e fai per
me.
Dolcebarbara: piccola sei proprio dolcissima,
grazie per tutte le belle parole che hai speso per me.
Rossy: grazie di aver trovato il tempo di
seguire la mia storia, nonostante l’università.
Onlyhope: tesoro sei tornata fra noi, sono
felicissima, ti dedico il personaggio di Miharu solo per farti capire
quanto
sia importante la tua presenza nella mia vita.
Grazie a tutti e alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 27 *** Epilogo ***
Epilogo
Manchester,
un anno dopo…
Yoshiko
posò a terrà il pesante scatolone e,
sospirando, vi si abbandonò. Si guardò attorno,
spossata e abbastanza
sconsolata di fronte alla baraonda di pacchi che s’infoltiva
progressivamente
con l’andirivieni dei corrieri.
Hikaru
con in mano una bottiglietta d’acqua si avvicinò
alle spalle della moglie e, dopo averle passato la bibita,
iniziò a
massaggiarle le spalle.
-
Stanca?- le chiese amorevolmente.
Yoshiko
si rilassò appoggiandosi al ragazzo.
-
Un po’.- alzò lo sguardo per sorridergli ricevendo
in
cambio un bacio sulle labbra.
-
Fai una pausa, continuo io.- disse e uscì dalla stanza
per continuare i lavori del trasloco.
La
ragazza tese le braccia verso l’alto per tirare i muscoli,
poi si rilasciò totalmente sospirando. Si alzò
per raggiungere la borsa
abbandonata su uno cartone semiaperto ed estrasse il telefono
portatile.
Selezionò il numero e attese una risposta.
Barcellona…
-
Pronto, qui Ozora.- rispose Sanae
allegramente.
-
Ciao, tesoro!- esclamò Yoshiko, felice di sentire la sua
cara amica.
-
Yoshi! Da dove mi chiami?- chiese, sapendo che l’amica e
il marito dovevano essere in viaggio per Manchester, dove il ragazzo
avrebbe
firmato un contratto di due anni con la squadra dei red devils.
-
Siamo già a Manchester, siamo arrivati ieri e Hikaru ha
firmato il contratto con la società.- spiegò
brevemente la ragazza.
-
Che bello! Allora sei già qui in Europa.- rispose gioiosa
la
ragazza.
Nonostante fosse felicissima di poter vivere
accanto al
ragazzo che amava da sempre e di crescere con lui la loro bambina,
Sanae non
poteva impedirsi di sentire nostalgia di casa, ma soprattutto degli
amici,
quindi sapere che almeno la sua cara amica d’infanzia andasse
a vivere in un
luogo non troppo distante da dove si trovava lei la confortava.
-
Come sta la piccola?- chiese Yoshiko.
-
Benissimo grazie, ora è di sopra che fa il riposino con
suo padre.- disse con gli occhi che le brillavano al solo pronunciare
parole
così dolci.
-
Tsubasa come si trova nel ruolo di papà?- chiese ridendo.
-
E’ totalmente preso dalla bambina. La sera quando torna
dall’allenamento, mi dà un bacio veloce e scappa
di sopra a salutarla.- un
sorriso commosso le si allargò sul viso.- Dovresti vederlo,
quando la bimba si addormenta:
sta lì a rimirarla per ore come in adorazione.-
spiegò con gli occhi lucidi.
Yoshiko
sospirò immaginando divertita il capitano della
nazionale in visibilio per la sua piccolina.
-
Se non fosse mia figlia potrei essere quasi gelosa.-
ironizzò Sanae.
Dall’altro
capo del telefono squillò una sonora risata.
-
Ma dimmi degli altri? Cosa stanno combinando?- domandò
curiosa.
-
Ah, le novità si sprecano, cara mia…-
esordì.
Sanae
attese le notizie con gioia: la telefonata di Yoshiko
era giunta in uno di quei momenti in cui, da sola, si ritrovava a
pensare con
nostalgia agli amici e a tutto ciò che aveva condiviso con
loro.
-
Tra qualche mese, credo ci aspetterà una bella
rimpatriata…Misugi si è deciso a fare il grande
passo.-
Dopo
un silenzio di qualche secondo, Sanae esclamò: -
Finalmente! E dire che ero sempre stata convinta che Yayoi sarebbe
stata la
prima a sposarsi.-
-
Sì, anch’io.- sorrise- Dopo il matrimonio, forse
si
trasferiranno anche loro qui in Europa: Misugi ha ricevuto offerte da
ben tre
società.-
Il
cuore di Sanae sobbalzò a quella notizia: dopo Yoshiko,
anche Yayoi stava per accorciare la distanza che le divideva e proprio
nel
momento migliore, quando Miharu era ancora piccola e poteva avere
l’occasione
di crescere accanto alle persone che tanta importanza avevano nella
vita dei
suoi giovani genitori.
-
Sai, Yoshi.: ieri ha telefonato Taro e ci ha detto che
non appena Elena compirà i 18 anni*, si trasferiranno in
Francia, dove sarà
ingaggiato dal Paris Saint- Germain.- esclamò entusiasta.
-
Ah, davvero? Allora sembra proprio che ci ritroveremo
tutti in Europa.- rispose divertita.
A
questa affermazione seguì un lungo silenzio, in cui Sanae
si preparò a ricevere un’altra gradita sorpresa.
-
Debbo dedurre che non sai nulla.- rise al mutismo dell’amica.
-
Non tenermi sulle spine: cosa sai che io non so?!-
domandò sbuffando.
-
Kojiro Hyuga si è trasferito in Italia…-
-
Cheee?-
Yoshiko
allontanò il ricevitore dal telefono, assordata dal
tono acuto della domanda.
-
E’ già un mese che è successo, Sanae.
Mi sembra strano
che non abbia detto nulla proprio a voi.- insistette un po’
sorpresa.
-
Ozora…che marito svampito!- esclamò scatenando un
allegra
risata da parte dell’amica. – Maki come
l’ha presa?- continuò, ricordando con
tristezza il giorno in cui aveva scoperto che Tsubasa se
n’era andato.
-
Insomma, per quanto possa essere felice del salto di
carriera del suo ragazzo, non è facile convivere con il
fatto di vivere su due
continenti diversi: io e te sappiamo bene come si sta.-
precisò Yoshiko, rivivendo
nel cuore i la propria personale esperienza.
-
In ogni caso, lei sta cercando un ingaggio da una squadra
di softball italiana, anche se, da quanto mi ha detto, le regole del
gioco sono
un po’ diverse.- concluse.
-
Certo, sarebbe la soluzione migliore. Non riesco a
immaginare quei due troppo lontani, sinceramente non mi sarei mai
aspettata di
vedere Kojiro Hyuga così preso da una donna.-
-
Stanno così bene insieme. Pensare che sua sorella non fa
che ripetere che Maki è una santa a sopportare un tipo
coriaceo come lui.-
rise.
Sanae
si unì all’ilarità
dell’amica, poi, dato che erano
entrate in argomento, chiese a Yoshiko di Kasumi e Wakashimazu.
-
Lui gioca ancora per la Yokohama Flugels,
ma presto firmerà un
contratto con la FC Tokyo,
anche se voci indiscrete dicono
che alla Juventus qualcuno lo stia tenendo d’occhio.-
abbassò la voce come se
stessero parlando di questioni segretissime.
-
Sarebbe stupendo se anche lui ci raggiungesse in Europa,
ovviamente con Kasumi.- precisò Sanae.
-
Lei adesso è impegnata a cercare una casa per loro due:
vorrebbero provare a convivere, prima di pensare al matrimonio.-
-
Credo che la convivenza li condurrà sicuramente in quella
direzione.- rispose Sanae.- Per te e Hikaru è stato
così, giusto?-
-
Bè sì.- rispose semplicemente, mentre nelle sua
testa
l’immagine di quel ragazzo che correva a braccia aperte verso
le telecamere
gridando il suo amore per lei, le scaldò il cuore con la
stessa intensità di
allora.
-
A proposito: come va la vita da sposina?- chiese
dolcemente.
-
In questo momento male.- sentenziò lanciando uno sguardo
inceneritore verso i pacchi che la
circondavano. Sanae rispose con una fragorosa
risata,
immaginando l’amica al centro di una stanza vuota con attorno
montagne di
cartoni traboccanti di vestiti e complementi d’arredamento.
-
Per fortuna che ho Hikaru, mi sta dando un grandissimo
aiuto.-ammise.
-
Ah, ti capisco perfettamente. Quando siamo venuti qui a
Barcellona è stato un incubo: il trasporto delle nostre
cose, la sistemazione e
Miharu da allattare. Se ci ripenso, mi sembra incredibile che non mi
sia venuto
un bell’esaurimento.- sbuffò al ricordo delle
giornate estenuanti che aveva
passato.
-
Ultimamente, poi, sono un po’ fiacca.- proseguì
Yoshiko.
-
Forse è lo spostamento, un diverso fuso orario…-
spiegò
Sanae.
Yoshiko
rimase in silenzio con il cuore che le batteva
forte: la sua migliore amica era la persona più adatta per
confidarle i suoi
sospetti.
-
Sanae, io…- esitò- …sono in ritardo di
un mese.-
Le
labbra della ragazza si allargarono in un sorriso.
-
Hai fatto qualche analisi?- indagò cautamente.
-
Per ora ho fatto il test di gravidanza domiciliare ed è
risultato positivo, appena mi sistemerò andrò da
un dottore.-
-
Devi andarci subito e dirlo a Matsuyama!- gridò Sanae.
–
Dico sul serio Yoshiko, non ti trascurare: aspettare un figlio
è un’esperienza
meravigliosa, goditela più che puoi.- le suggerì.
-
Grazie, Sanae. Ti prometto che mi riguarderò, anzi quando
sarò sicura sarai la prima a saperlo.-
-
Ovviamente, dopo Matsuyama.- precisò Sanae.
Sanae
ripose il cordless sulla base e rimase
assorta nei suoi pensieri. Si dondolò con le ginocchia al
petto e sorrise tra
sé e sé per i suoi amici che come lei stavano
costruendo i loro sogni.
Yoshiko
ripose il portatile nella borsa e si
voltò a guardare la stanza indecisa da dove cominciare.
Sbuffò portandosi le
mani ai fianchi, ma due dolci mani l’avvolsero gentilmente in
vita e un bacio
delicato si posò sulla sua guancia. Si voltò a
guardare negli occhi suo marito
e avvertì il piacevole contatto della sua grande mano sul
ventre. Quel gesto
così abituale aveva tutt’altro significato,
sebbene inconscio, e commossa
sfiorò le sue labbra con un bacio.
-
Ti amo, Hikaru.- sussurrò prima di accoccolarsi tra le
sue braccia.
Il
sole stava calando oltre il profilo del
Mont Juic inondando Barcellona di un barlume rossastro che si
rifletteva sulle
onde del mare, illuminando per gli ultimi istanti la
città. Sanae si riscosse dai suoi
pensieri e con passo felpato
salì i gradini che portavano alle stanze da letto. Si
accostò delicatamente
alla porta della sua camera e gli occhi le brillarono per la
commozione:
Tsubasa dormiva sdraiato sul letto col volto coperto dal braccio
destro, mentre
con l’altro teneva Miharu che placidamente si era appisolata
sul ventre del
padre. Dopo la telefonata con Yoshiko, aveva riflettuto sul corso che
stava
prendendo la sua vita e quella dei suoi amici. Fino a qualche anno
prima, era
disperata e prostrata dall’idea di non contare nulla per
l’unica persona che avesse
mai amato, invece ora era lì a guardare quel ragazzo
dormiente, il suo grande
amore, che teneva tra le braccia la loro bambina. Percepì un
piccolo movimento
della piccola e capì che era prossima al risveglio. Con
premura si accostò al
letto e la prese in braccio, cullandola, mentre si strofinava gli
occhietti
ancora insonnolita. Tsubasa si svegliò subito dopo,
avvertendo un senso di
vuoto, che sparì subito non appena vide la figlia in braccio
a Sanae.
-
Scusa mi sono addormentato.- le disse.
Lei
si limitò a sorridergli, mentre col dito accarezzava la
guancia della piccina che si stava riaddormentando invitata dal dolce
cullare
materno. Sanae l’adagiò delicatamente del lettino
e la coprì con premura, poi
si voltò nuovamente verso di lui
-
Vieni qui, amore.- allungò le braccia nella sua
direzione. Lei incedette piano piano e quando fu abbastanza vicina,
Tsubasa la
strinse a sé, posando la guancia sul suo ventre. Si
accucciò di fronte a lui,
posando le mani sul su ginocchio. L’uomo le prese una mano e
se la portò alle
labbra.
-
Ti stavo sognando lo sai?- le confessò.
-
Ah, sì e cosa sognavi?- chiese maliziosamente.
-
Di fare l’amore con la donna dei miei desideri.- rispose
con un sorriso.
Sanae
si alzò e sdraiandosi accanto a lui, lo attirò a
sé
per baciarlo.
-
I sogni si realizzano, amore.- gli sussurrò
all’orecchio.
* In Giappone la maggior età si raggiunge a 20
anni, ma l’affido di Elena è
sotto la giurisdizione italiana, quindi compiuti i 18 anni scadono i
termini.
Sorpresaaaaaaa!
Eccomi con l’epilogo. Devo prostrarmi umilmente per il tempo
che ho impiegato a
scriverlo, ma mi è mancato il tempo e lo stato
d’animo giusto.
Spero
che vi faccia piacere…questo è davvero tutto.
Grazie
a tutti i lettori/trici che mi hanno sostenuto in questi mesi.
Un
caro saluto a tutti e alla prossima FF! Grazie EOS75!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=188292
|