I colori del tramonto

di soel95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sollievo auspicato ***
Capitolo 2: *** Luce ed ombra ***
Capitolo 3: *** Tricolore ***
Capitolo 4: *** Colori ***



Capitolo 1
*** Il sollievo auspicato ***


Lo studio era impregnato da un intenso odore di pittura e trementina, un aroma acre e pungente che avrebbe colpito con violenza chi in quei luoghi, per lungo tempo abitati, fosse entrato la prima volta. Il disordine regnava sovrano e, proiettato dai colori del crepuscolo, le pareti rosse, dipingevano un ambiente surreale. Qui l'artista era l'artefice di una magia profonda ed antica quanto l'uomo: generatore di bellezza era il Dio della sua tela.
I gesti misurati del braccio davano forma al miracolo della creazione tracciando con precisione ciò che sgorgava dalla sua mente e dalla sua anima. Ciò gli dava sollievo e lo faceva sentire realmente vivo. Aveva uno scopo, una missione da compiere. Le pennellate decise, i colori pastosi riempivano la tela, luci e ombre contrastanti si affollavano sul piano rispecchiando i suoi tormenti. Tutto questo scorreva sotto i suoi occhi attenti ed esperti, ma lui aveva l'impressione di osservare il proprio corpo come se si trovasse lontano, fuori da questo, come se, invero, non gli appartenesse, come se non fossero realmente sue le lunghe dita affusolate, sporche di colore, intente a percorrere sentieri che sulla tela erano noti a lui soltanto. Era l'estasi del vuoto ricolmo mentre la mimesis alla quale era stato educato, la natura benigna e pacata che aveva imparato a riprodurre, mutava infine in un nuovo concetto di arte: dinamico e personale, unico. Le immagini che fluivano da lui alla tela si sovrapponevano, si univano, interagivano tra loro, organismo vivo e pulsante, autonomo, al quale lui, solamente, conferiva la forma. Egli era mero esecutore e al tempo stesso parte di quella grandezza dalla potenza disarmante, maestosità incontrastabile.
I pensieri e le emozioni che tanto lo turbavano vennero per un istante interrotte bruscamente dal riecheggiare lontano delle campane, distogliendolo da quanto, sino a quel momento, aveva assorbito tutto il suo essere. Il crepuscolo annunciava l'imminente fine del giorno. Presto madame Bertrand avrebbe bussato alla sua porta per riordinare quella che era solita definire la tana del riccio. Fosse dipeso unicamente da lui, in quella stanza così ricca di ricordi importanti nulla sarebbe mai stato spostato. Ogni oggetto, mobile, panno sporco era disposto secondo l'ordine assoluto della mente. Nell'osservare le numerose tele dipinte, adagiate alle candide pareti, poteva ripercorrere interamente le vicende della propria vita, rivivere le speranze, le gioie e i sogni, infranti dall'ineluttabile scorrere del tempo: rivedeva il figlio nella casa del padre, il giovane sostenitore degli ideali illuministi, l'uomo preda di una corrente troppo violenta da arginare e in grado di travolgere ogni ordine e principio; e ancora l'esule in una casa della campagna parigina, lontano dal vortice della vita della città, eppure ancora troppo vicino per poter sperare di non essere toccato dai tumulti che scuotevano la nazione dalle fondamenta.
Spossatezza e depressione lo opprimevano da molti giorni, sempre meno era capace di opporsi alla ribellione dei suoi sensi, respiro mozzato, gola in fiamme e vista quasi offuscata lo costringevano a reggersi saldamente per non rovinare a terra scosso dalla tosse del sangue. Egli era ben consapevole che avrebbe dovuto risparmiarsi, ma la vita frenetica, per la quale sempre si era distinto, e il male incurabile da mesi suo compagno ne avevano ormai irrimediabilmente compromesso la salute. Purtuttavia non sarebbe mai stato capace di abbandonare tutto, la propria casa, le persone alle quali teneva, ma soprattutto il proprio lavoro, per poi andarsene e non sapere nemmeno se e quando avrebbe potuto farvi ritorno. Era convinto di non poter sopportare l'ansia opprimente che lo avrebbe tenuto sveglio la notte e permesso alle sue paure di prendere il sopravvento: allora non avrebbe potuto non chiedersi se una volta ancora avrebbe potuto rimirare il sorgere del sole. Non poteva reggere. Perciò preferiva continuare a vivere incurante come sempre aveva fatto: concentrando anima, mente e corpo nel completare i propri dipinti, sua passione e suo sostegno, accontentandosi di trascorrere il poco tempo rimastogli, se un qualche dio misericordioso lo avrebbe concesso.
Nel cielo primaverile il suono delle campane continuava a riecheggiare e il quadro, finalmente completo, faceva imponente mostra di sé catturando il suo sguardo. François lo osservava compiaciuto e insieme esausto; un sorriso si distendeva sulle sue labbra e i lunghi capelli, un tempo sempre racchiusi da un nastro di raso, erano ora liberi e mossi dal vento, i lembi dell'ampia camicia macchiata di sangue e colori, aperta sul petto, scostati dalla fresca brezza. Era infine riuscito a portare a termine la sua più grande opera, un capolavoro, frutto di anni di riflessioni appassionate e fallimenti dolorosi. Ora poteva riposare. In un incedere malfermo e barcollante raggiunse la sedia posizionata sotto la finestra spalancata, così da godere del panorama che, immenso, raggiungeva l'orizzonte; le morbide colline, sulle quali era stata realizzata la sua dimora, ne catturavano lo sguardo, e inghiottivano lui così come i vermigli raggi del sole che lentamente sfuggiva alla vista. Dinanzi all'immensità della natura, dinanzi alla sua potenza, alla sua imperscrutabilità, la mente iniziò a vagare, a ricordare, concedendogli, finalmente, l'agognata serenità.

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Capitolo 2
*** Luce ed ombra ***


François correva trafelato attraverso gli angusti vicoli di Versailles, là dove durante gli anni dell’innocenza aveva giocato con gli amici, organizzato e subito scherzi, riso e pianto. Li superava uno dopo l’altro con naturalezza, come se non fosse trascorso più di un giorno dall'ultima volta, incurante degli ostacoli che urtava e del fango, la pioggia che incessante era caduta nei giorni precedenti, che rallentava il suo passo. Il fiato corto e lo sguardo semiannebbiato lo costringevano a concentrare la propria attenzione unicamente sulla folla che gradualmente si materializzava alla fine del percorso con il consueto clamore. Quando finalmente riemerse da quel dedalo oscuro per un momento venne accecato dal caldo sole di mezzogiorno, frastornato dalle grida della gente che si era accalcata ai margini del viale che conduceva alla reggia. A breve sarebbe passato il corteo dei rappresentati dei tre ordini.
-François... François...- si sentì chiamare con forza; voltandosi scorse in mezzo alla folla il volto familiare di un uomo che, agitando un braccio per richiamare l’attenzione, gli si avvicinava -... Accidenti ce ne hai messo di tempo ad arrivare...- lo apostrofò con un sorriso
-Jacques, come stai? Lo sai fin troppo bene…il maestro Vien ha l'animo del dittatore...- replicò François mentre stringeva con calore la sua mano -... ho faticato parecchio per convincerlo a lasciarmi venire-
-Dannato vecchiaccio- riprese subito con tutta la sfrontatezza di cui era capace -non riesco a capire come ancora tu possa ostinarti a lavorare in quel buco miserabile del suo studio…-
-E' stato lui ad insegnarmi a dipingere, lo sai...- tentò di farlo ragionare mentre si immergeva nei propri ricordi -ha fatto molto per me…e persino per te! Comunque glielo dovevo…-
-Bah, io non vedevo l'ora di andarmene. Insomma, ci schiavizzava...-
-Ad ogni modo io gli devo tutto ed è per questo che non riesco a lasciarlo- François Mathis Gijon e Jacques Louis David si erano conosciuti quand’erano ancora bambini, durante il periodo di apprendistato nella bottega di colui che veniva considerato da tutti come uno dei più grandi pittori del secolo, un grande innovatore: Josephe-Marie Vien. Non trascorse molto tempo e i due divennero amici inseparabili; entrambi avevano trovato nell'altro un sincero compagno, un sostegno nei momenti di difficoltà; soli com’erano in un mondo di adulti erano un punto fermo l’uno per l’altro. I primi anni erano stati particolarmente duri: la lontananza dalla famiglia, il lavoro interminabile, la mancanza dei giochi avevano raffreddato il loro animo; François aveva iniziato ad odiare tutto e tutti, in particolar modo il maestro, lo riteneva responsabile di avergli strappato l'infanzia. Aveva odiato le sue giornate sempre uguali, stancanti e interminabili. Le aveva odiate intensamente sino al giorno in cui i suoi occhi si erano posati per la prima volta su di un quadro in lavorazione, sino a che non aveva afferrato il suo primo pennello, sino a che non si era macchiato le mani ed i vestiti di colore per la prima volta. La prima, ma molte altre l’avrebbero seguita. 
Ora era consapevole di non poter più sopravvivere senza tutto questo, avrebbe preferito morire piuttosto che abbandonare la pittura e non gli importava di lavorare ancora, dopo tutti quegli anni, per il vecchio maestro; bastava poter dipingere per essere felice, tutto il resto era privo di significato.
-Secondo me inve...- le parole di Jacques vennero interrotte da un improvviso clamore che annunciava l'inizio della parata. In mezzo a due ali compatte di curiosi, i rappresentati dei tre ordini iniziarono la loro marcia verso la sala dell'assemblea. 
Per primi vennero gli esponenti del terzo stato, avanzavano con solennità, lo sguardo alto pieno di orgoglio per l'essere stati scelti per rappresentare il popolo. La sobrietà degli abiti, rigorosamente neri, contrastava palesemente con la ricchezza ostentata dall'aristocrazia, pomposa e superba in quelle giacche di seta impreziosite dai ricami d'oro, nei capi di lino e raso, nelle scarpe dalle fibbie laccate, e le sfarzose piume dei tricorni mosse dal vento che accompagnava i suoi membri al loro passaggio e faceva tremare le candele che trasportavano. Incuranti di coloro che non appartenevano per nascita al loro mondo, non temevano di ostentare quel lusso ottenuto sulle spalle della povera gente. Ed era questa naturalezza a far crescere nella folla il risentimento, un odio profondo sempre meno controllabile verso quei pochi privilegiati, colonia di parassiti intenti a consumare quel che rimaneva di un corpo altrimenti sano; era la fame a nutrire l’odio. Chiusero la processione i rappresentanti dell'alto clero e le loro toghe damascate riconoscibili per il caratteristico colore scarlatto, per le mantelline adornate da pellicce di primissima fattura.
-François hai visto?- domandò all'improvviso Jacques richiamando la sua attenzione
-Cosa?- replicò incuriosito
-Laggiù... in mezzo ai deputati del terzo stato... quello è il conte di Mirabeau...- esclamò meravigliato -avevo sentito dire che era stato eletto per rappresentare il popolo ma non credevo... pensavo fosse solo una storia priva di fondamento-
-Non mi sarei mai immaginato che potesse accadere una cosa del genere...- replicò  sinceramente stupito -un nobile che rappresenta il terzo stato...- aggiunse quasi tra sé e sé.
Fu durante quella conversazione che François venne attraversato da un'intensa emozione e un disperato bisogno di dipingere lo pervase; nella sua mente un'immagine prendeva vita e forma in ogni dettaglio, mentre il suo sguardo cominciava a perdersi nel vuoto. Distrattamente seguito a discorrere con l'amico mentre la folla di curiosi, chiusasi la processione, tornarono a dedicarsi alle proprie occupazioni; distrattamente seguì quanto gli disse perso com'era in un mondo tutto suo. Una volta giunti dinnanzi alla soglia della casa di Jacques si salutarono con affetto, lieti di aver trascorso dopo tanto tempo qualche ora assieme, come quando erano ragazzi. Fu nell'istante in cui la porta si richiuse dietro le sue spalle che il desiderio di François esplose in tutta la propria dirompente intensità. Così come aveva fatto poche ore prima riprese a correre per le vie della città, guidato ora da un impulso incontrollabile, urtando persone, scansando oggetti all'ultimo istante, rischiando continuamente di  inciampare sui propri passi e con un unico obbiettivo impresso nella mente: rifugiarsi in quella casa che usava come studio, nonostante il lavoro con il maestro, e lì dare finalmente libero sfogo alle emozioni represse, all'immaginazione che galoppava, che aveva scavato nei meandri della sua mente e degli eventi per poi riemergerne rinnovata.

Le setole del pennello accarezzavano dolcemente la superficie della tela, i colori la attraversavano definendo i contorni delle figure generate dalla sua mente. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando aveva fatto irruzione nella stanza e, come una furia, lanciata la giacca sul pavimento, raggiunta la propria postazione da lavoro. Minuti, ore, forse persino diversi giorni: aveva completamente perso la cognizione del tempo. Nell'istante stesso in cui aveva preso posto di fronte al cavalletto e posato il proprio sguardo sulla candida tela che vi era appoggiata, gli era parso di poter riprendere a respirare dopo aver trattenuto il fiato sott’acqua per un tempo interminabile, anzi, di ritornare a vivere dopo aver dimenticato come fare, tanto era stato in balia di eventi ed abitudini che lo avevano annientato. Le tinte si mischiavano, si completavano a vicenda, si arricchivano sino a trasformarsi in ciò che i suoi occhi erano in grado di scorgere nel vuoto, sino a realizzare quei rapidi accostamenti in grado di definire lo spazio. La frenesia che lo aveva guidato nel proprio ritorno a casa, il bisogno assolutamente fisico di tenere in mano un semplice pennello ora scemava lasciandolo in compagnia di una ben più piacevole sensazione di tranquillità. Era sufficiente il semplice gesto del braccio alzato, l'andamento sinuoso che questo descriveva, apparentemente privo di logica, a fargli ritrovare pace e serenità, a svuotare la sua mente da ogni preoccupazione, da ogni dubbio, sino a che non vi rimase altro che la nitida immagine alla quale stava dando vita.
Dipingeva. Dipingeva senza tregua, mai stanco. Era convinto di essere nato unicamente per quello: dare forma ai propri pensieri e alle proprie emozioni attraverso la pittura. Per renderli accessibili e comprensibili anche alle altre persone. Trasmutare la realtà sino a renderla fulcro di un vortice dal quale generava le proprie opere. Questa era l'unica cosa che si riteneva in grado di fare, l’unica che valesse la pena fare. 
Non aveva fatto caso, tanto era immerso nel proprio lavoro, all'arrivo di madame Bertrand. 
Non avendo udito risposta al proprio saluto, si era diretta immediatamente nella piccola stanza usata dall'uomo come studio. Era certa di trovarlo lì, le spalle rivolte alla finestra, lo sguardo concentrato, i numerosi barattoli di colore sparsi attorno alla sua sedia, il pennello saldo nella mano sinistra che instancabile continuava a muoversi. Non si era minimamente accorto del suo arrivo.
-Monsieur Gijon... monsieur Gijon...- continuava a chiamarlo nella speranza di farlo risvegliare dallo stato di torpore nel quale era sprofondato. Inutile. I sensi di François lo isolavano dal resto del mondo; dei calorosi richiami di madame Bertrand non gli giungevano che lievi echi lontani, una tenue carezza sulla guancia per nulla in grado di richiamarlo alla realtà.
-Monsieur Gijon!...- riprovò più forte; lo vide alzare gli occhi di scatto, spaventato, e guardarsi intorno, meravigliato di vederla, prima di ricomporsi e drizzarsi sulla sedia
-Madame Bertrand, cosa ci fate qui? Quando siete arrivata?- le chiese
-Pochi istanti fa monsieur... eravate così preso dal vostro nuovo dipinto che non vi siete neanche accorto della mia presenza- gli fece notare con espressione bonaria
-Avete ragione... spero vorrete perdonare la mia totale mancanza di cortesia...- si scusò mortificato riabbassando quegli intensi occhi azzurri che l'avevano colpita sin dal primo istante per la loro luminosità e per la sincerità che trasmettevano. Più che gli occhi di un uomo adulto somigliavano a quelli di un bambino ancora puro ed innocente
-Oh... non vi preoccupate...- lo tranquillizzò -piuttosto, a che cosa state lavorando? Sono trascorse solo poche settimane da quando avete presentato il vostro ultimo dipinto al Palais Royal...-
-Avete ragione, ma questo...- si interruppe per un istante che parve infinito -... questo è una cosa diversa...- affermò e un rapido sorriso si disegnò sulle sue labbra, lo sguardo quasi intenerito mentre osservava il frutto del proprio ingegno. Presto lo avrebbe  completato
-Cosa intendete?...-
-Venite a vedere... forza- la incoraggiò, il braccio proteso verso di lei come ad invogliarla ad avvicinarsi a quella postazione, sino ad allora ritenuta sacra, affinché contemplasse con i suoi occhi ciò di cui stavano parlando. L’intima natura della magia che gli consentiva di trasferire dalla propria mente ad un ente concreto il frutto dell’immaginazione, persino in quel momento gli sfuggiva, probabilmente si trattava di un mistero che non sarebbe mai stato in grado di svelare; nondimeno anche laddove le parole tragicamente perdevano la loro potenza e capacità espressiva, al contrario, la sua pittura era perfettamente in grado di comunicare efficacemente qualunque cosa.
Madame Bertrand gli si avvicinò lentamente, temendo quasi di invadere uno spazio troppo personale e l’intimità di quell'uomo che negli anni aveva imparato a conoscere e a cui voleva bene.
Il suo sguardo si posò su una tela ancora incompleta, ma numerosi dettagli già risultavano perfettamente intelligibili: sullo sfondo, gli imponenti palazzi barocchi, con i lunghi porticati, le ampie vetrate incorniciate da colonne addossate con trabeazioni orizzontali e la tipica composizione articolata, svettavano ai margini di un'ampia strada, illuminata dal sole di una serena giornata di maggio; in primo piano, si accalcavano molteplici figure nere, seguite da altrettante di svariati colori, i cui volti emergevano gradualmente. Questi sembravano avanzare con dignità, lo sguardo fiero, reggendo il simbolo della ragione che guidava il loro cammino, duro ed impervio, attraverso i sentieri oscuri della storia; gli astanti applaudivano concitati, offrivano vigorose pacche sulle spalle di coloro che concedevano un sorriso, di coloro che avevano accettato di buon grado un compito onorevole quanto arduo.
François aveva riprodotto la processione avvenuta quello stesso giorno, oppure svariati giorni prima, non lo sapeva più, evidenziandone tutte le caratteristiche, ritraendo i rappresentanti dei tre ordini così come la vasta folla che aveva preso parte all'evento, con una fedeltà definitiva, assolutamente stupefacente. Ognuno dei presenti avrebbe potuto riconoscersi in quelle macchie di colore non ancora delineate con precisione. Dal cielo limpido un fascio di luce guidava il corteo, perdendosi in un punto lontano, in corrispondenza dell'osservatore esterno, accendendo le candele che le figure in nero sostenevano; i rappresentanti dai colori sgargianti, tuttavia, venivano abilmente evitati da quella luce allegorica, lasciandoli in ombra, relegati in un angolo del quadro, lontani dagli occhi della folla. Lontani dai loro cuori.

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Capitolo 3
*** Tricolore ***


Il Direttorio era stato costretto dichiarare la bancarotta dello stato francese; la degradazione nelle strade aveva raggiunto livelli non più controllabili; gli angusti vicoli di Parigi, un tempo caratteristici, per quanto abitati dagli strati più poveri della società, si erano oramai trasformati in luoghi putridi e malsani, delle fogne a cielo aperto, frequentati da ogni sorta di individui. François attraversava sbigottito la città che era stato costretto ad abbandonare l'estate di tre anni prima, troppo provato, troppo disgustato dalla violenza indiscriminata che invadeva le strade, dai continui linciaggi, dallo stridio in Place de la Revolution che non cessava mai, dalla terra pregna del sangue che con il suo odore nauseabondo ammorbava l’intera Parigi.
Era fuggito da tutto questo per ritirarsi in campagna dove aveva acquistato una piccola casetta su una collina e lì aveva trascorso le proprie giornate immergendosi nella propria arte, e nella pace che poteva scorgere dalla finestra del nuovo studio. Ma che ingenuo era stato! Si era illuso che bastasse allontanarsi da Parigi per non udire più, in lontananza, il tumulto della folla, mai sazia di nuove vite, si era illuso che il fuoco della rivoluzione si sarebbe spento con la morte di Robespierre e Saint-Just, si era illuso che la Francia potesse essere finalmente pacificata. Non aveva fatto altro che illudersi per tre lunghissimi, interminabili anni; ora ne pagava le conseguenze: osservava con i propri occhi ciò che la città era diventata, non poteva più sperare di rimanerne indifferente e distaccato, non poteva più voltarsi dall'altra parte e ignorare la realtà. Il suo mondo di sterile bellezza non era altro che un vano miraggio nel quale non poteva più sperare di imprigionarsi, nemmeno se lo avesse voluto: la realtà nella quale era immerso, nella quale viveva, non aveva nulla di perfetto, nulla di divino, nulla di epico che valesse la pena esaltare. Era né più né meno del palcoscenico sul quale ogni giorno si svolgeva la triste rappresentazione del vizio e della limitatezza dell’uomo. Finalmente lo aveva compreso.
Quel giorno le vie erano in movimento, le piazze in subbuglio; la gente si riversava fuori dalle case per accalcarsi nei luoghi dove, solitamente, venivano trasmesse le notizie importanti rendendo ostico il passaggio a chi, come François, aveva in mente una destinazione ben precisa
-Ce l'ha fatta!!!- esplose da lontano una voce richiamando su di sé l'attenzione di tutti i passanti -Evviva il generale Bonaparte!!!- la folla mormorava, bisbigliava concitata
-Evviva la Francia!!!- proruppero altri -Evviva la Francia!!!- i passanti arrestavano il loro cammino, interrompevano ogni azione; la notizia della riuscita di un'impresa, come quella tentata da Napoleone, lasciava tutto il popolo senza parole. I cittadini, a lungo con il fiato sospeso per le sorti della guerra, ora esternavano la propria gioia, la propria soddisfazione, il proprio orgoglio troppo a lungo soffocato.
-Che cosa è accaduto?- chiese incuriosito François ad un manipolo di curiosi che si era radunato di fronte all'ingresso del Journal de Paris, speranzoso di ottenere maggiori dettagli
-Il generale gliel'ha messa nel culo a quei bastardi austriaci...- rispose una voce non meglio identificabile in mezzo al clamore concitato della folla -E' l'ora della nostra rivincita-
-Incredibile...- si ritrovò a sussurrare sinceramente meravigliato da un evento di tale portata; sebbene avesse sempre riposto fiducia nell'operato di Napoleone, sin da quando, giovane tenente, aveva guidato l'esercito per salvaguardare la pace, era stato inizialmente scettico riguardo la possibilità di condurre l'Austria, uno degli imperi più potenti, sulla via dei negoziati. Era felice ora di doversi ricredere; il generale aveva dimostrato il proprio valore ancora una volta riportando il paese in cima al mondo. Era riuscito dove molti, prima di lui, aveva fallito miseramente.
Mosso da una curiosità rinnovata decise di dirigersi verso il palazzo del Direttorio. Era convinto che, visto il successo di Bonaparte, non sarebbe trascorso molto tempo prima che l'annuncio venisse ufficializzato anche nel centro nevralgico della nazione, nel luogo dove veniva presa ogni decisione importante, e le sorti del paese discusse da coloro che avevano a cuore unicamente la sua prosperità ed il benessere dei suoi cittadini. La folla lo trascinava, lo spingeva, lo conducevano e lui non poteva far altro che lasciarsi trasportare dal fiume umano che aveva riempito le strade e che, forte ed energico, sembrava non trovare ostacoli neanche nei muri esterni delle antiche abitazioni popolari né nei limiti che questi naturalmente offrivano. Ogni tentativo di resistenza si perdeva nell'aria, si dissolveva al vento che soffiava tra le persone senza lasciare di sé alcuna traccia, senza lasciare traccia del proprio passaggio; correva via, come se non fosse mai esistita. Correva lontano sino ad abbandonare per sempre i cuori e le menti, sino a cancellare la propria esistenza da questo mondo. I cori entusiasti rimbombavano nella mente, trapassavano i timpani, i clamori, supportati da un vigoroso battere di mani, accompagnavano l'inno intonato a pieni polmoni dalla massa compatta; da lontano, dall'ombra, l'imponente palazzo delle Tuileries si delineava con sempre maggior nitidezza, emergeva dalle nebbie delle costruzioni, dai labirinti delle strade, dai cunicoli oscuri della capitale sino a svettare, una volta giunti alla piazza, in tutta la propria possanza, sino a risplendere delle proprie forme, a vantarsi della propria perfezione. Sino a colpire in pieno viso i parigini smarriti.

Aveva faticato parecchio per convincere le guardie metropolitane, preposte alla sorveglianza degli ingressi dell'edificio, a lasciarlo passare per permettergli di assistere, seppure relegato in un angolo, ai dibattiti che si stavano svolgendo; dalle finestre aperte che davano sul cortile era stato in grado di percepire gli animi riscaldarsi, i toni farsi concitati e l'aria saturarsi di tensione mentre i rappresentanti discutevano sui successi riportati dal generale Bonaparte nel corso dei numerosi conflitti: alcuni sarebbero stati favorevoli ad un ampliamento dei poteri a lui concessi, ad una sua eventuale promozione, altri temevano che un tale accentramento di potere nelle mani di un singolo uomo, in grado, per altro, di mettere in ginocchio la potenza austriaca, rappresentasse una potenziale minaccia per la sopravvivenza delle istituzioni dello stato. Alla fine, tuttavia, era stato in grado di farsi aprire la porta con la scusa di voler rappresentare quanto vi stava avvenendo; molti pittori, infatti, approfittavano di eventi politici, manifestazioni pubbliche, per schizzare in maniera rapida dei semplici appunti grafici che poi avrebbero potuto rielaborare con calma nei loro studi così da trarne un'opera completa. Quando erano stati giustiziati i sovrani, aveva scorto, tra la folla esultante, il suo stesso amico David disegnare su un blocchetto il dramma; non era poi così diverso da quanto aveva intenzione di fare all'interno del Direttorio.

Era stato scortato all'interno, attraverso i lunghi corridoi rischiarati dalle ampie vetrate, percorrendo interminabili piani di marmo su cui rimbombavano, come un eco lontano, i passi concitati delle guardie; era la prima volta che aveva la possibilità di ammirare da vicino la bellezza, lo splendore disarmante, di una delle antiche dimore reali. Si sentiva pervaso da un moto mai prima d'ora provato, da un formicolio all'altezza delle dita che lo portava a sfregarsele in continuazione, un rimbombo nella mente lo incitava a prendere in mano il carboncino che teneva nella borsa, ad abbandonarsi ad una colonna, appoggiandovi la schiena e, rivolgendo lo sguardo oltre le finestre, perdersi vastità del paesaggio parigino rischiarato da una limpida giornata di ottobre.
-Forza! Entrate amico!- lo esortò all'improvviso un soldato quando giunsero d'innanzi ad un'immensa porta, ricca di stucchi dorati -Ma badate bene non fatevi udire da alcuno- continuò -voi non dovreste proprio trovarvi qui-
-Vi ringrazio infinitamente- replicò François con lieta sincerità dopo avergli stretto con vigore la mano
-Ah... questi artisti...- lo sentì borbottare mentre si allontanava fischiettando un motivetto popolare che avrebbe fatto arrossire qualunque giovane rispettabile.
Cautamente accostò la propria mano alla maniglia del salone così da scostarne l'uscio di quanto gli era necessario per entrare.
Ringraziava il cielo per aver deciso di raffigurare i lavori del Direttorio poiché, se quella mattina avesse stabilito di riposarsi dopo giorni interminabili di emozioni intense, non avrebbe mai avuto la possibilità di bearsi di tanta bellezza, di tanta perfezione racchiusa all'interno di una sola stanza. L'ampio salone, dal soffitto elegantemente decorato, era incorniciato da un'alta fila di lucidi seggi in legno dove i rappresentanti si agitavano e dibattevano animatamente, il nome di Napoleone veniva solo sussurrato o invocato a pieni polmoni allo stesso tempo.
Si era seduto in disparte, un angolo nell’ombra lontano da sguardi indiscreti, a disegnare, a tracciare con precisione segni scuri sui numerosi fogli che sempre recava con sé. L’uditorio gli era comunque perfettamente visibile nella sua interezza, i volti contratti, corrucciati o entusiasti, emergevano dalla fitta rete di appunti disordinati, risaltavano sul fondo chiaro delle carte e lo colpivano per la sincerità e la forza delle emozioni che esprimevano. La mano correva incontrollata, mossa da un potere superiore, a mente ideava, rielaborava le immagini e generava bellezza. Una bellezza nuova. Una bellezza imperniata su quegli avvenimenti ai quali mai avrebbe immaginato di assistere, eventi che lo avevano profondamente segnato e cambiato nello spirito.

-E' la prima volta che vi vedo partire da uno studio preparatorio...- Madame Betrand aveva finito da un po' di riordinare lo studio e François ne aveva approfittato per domandarle di fargli compagnia mentre lavorava alla sua ultima creazione. Erano mesi che non riusciva più a sopportare la solitudine; questa giungeva di soppiatto e lo attanagliava all'improvviso, ma lo pervadeva rapidamente facendogli perdere lucidità e controllo di sé, ne incatenava l'animo e con esso la fantasia nelle profondità di oscuri labirinti.
-Ho voluto sperimentare... oggi ho assistito ai lavori dell'assemblea, discutevano i recenti successi di Napoleone. E' stato incredibilmente... illuminante- replicò allegro, sereno come non lo era più stato da tanto. Troppo.
I colori si accostavano con precisione, la luce scolpiva le figure donando profondità e pervadendo gli ambienti di un’atmosfera quasi mistica; il generale si ergeva imponente tra la folla esultante; il popolo acclamava la guida a lungo cercata, il punto di riferimento che li avrebbe risollevati riscattandoli dalla disperazione della storia, l'uomo che con superbia indicava un drappo sgualcito ed un corteo di nobili che a lui si inchinavano. Un corteo che chinava il capo dinnanzi al tricolore.

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Capitolo 4
*** Colori ***


I rintocchi delle campane di Notre-Dame si perdevano lontano, piombando in ogni vicolo, sorvolando i campi arati, carezzando le colline all’orizzonte, giungendo ovunque alle orecchie dei fedeli che abitavano quei luoghi, ridestandoli dal torpore di un'anonima giornata di lavoro e richiamandoli ad una partecipazione attiva dalla quale, per troppo tempo, erano stati esclusi. Madame Bertrand percepiva l’agitazione e l'impazienza che si respirava per le vie di Parigi e ne era incuriosita. Si vedevano uomini e donne di ogni condizione affrettarsi a concludere i propri affari per raggiungere la cattedrale e persino i bambini, forse inconsapevoli del significato storico dell’evento al quale avrebbero assistito ma ugualmente euforici, attraversare rapidi le strade rispondendo al richiamo delle madri; erano anni che non si vedeva un tale ottimismo, una simile speranza riposta nel futuro e nelle azioni di un singolo uomo. Madame Bertrand, dall’alto dei suoi anni, poteva ormai dire di aver visto di tutto: aveva assistito allo splendore della propria nazione, alla sua miseria, al suo crollo e sperimentato la disperazione che ne era generata. Ora però vedeva un soldato ergersi sulle rovine di questo paese devastato dalle più feroci lotte intestine e riaccendere, nei cuori dei suoi concittadini, un ardore sopito dalle disgrazie, un ardore dimenticato ma mai davvero spento. 
In un'atmosfera simile, pregna di gioia ed aspettativa, non riusciva a capacitarsi della reticenza di François, a spiegarsi il fermo rifiuto che aveva opposto alla sua proposta di accompagnarla in città; lui era il primo, dopotutto, a condividere la speranza in un futuro migliore, finalmente sotto la guida di un uomo degno del ruolo che avrebbe dovuto ricoprire, un uomo che aveva dimostrato il proprio valore rischiando la vita più volte per la patria e sostenuto non dall’ambizione personale ma dal solo desiderio riportarla agli antichi fasti e al posto che da sempre le competeva nel mondo. Eppure aveva preferito rimanersene chiuso in casa a completare il quadro al quale stava lavorando da diverse settimane; lei lo aiutava da quando, affrancatosi da monsieur Vien, era riuscito ricavarsi in una piccola abitazione, lo studio privato dove dedicarsi alla propria arte e non lo aveva mai visto bloccarsi. Mai come in quei giorni. Rimaneva ore di fronte al cavalletto, perso nei propri pensieri, un mondo separato da quello reale, senza toccare un singolo pennello, senza macinare alcun tipo di colore, senza fare assolutamente nulla, se non osservare la tela. 
La tela bianca, amica fedele del pittore, in quel periodo gli era divenuta ostile, era come se respingesse ogni sua nuova idea, imprigionandola in un oblio impenetrabile, incatenandola in una dimensione irraggiungibile dalla mente umana, pure quella dell’artista
-Andate voi madame...- le aveva detto con malcelata rassegnazione quella mattina
-Ma... monsieur...-
-Non vi preoccupate per me...- aveva continuato alzando lo sguardo per posarlo sulla figura che, alla porta, attendeva un suo cenno -... devo assolutamente riuscire a liberarmi di queste maledette catene…mi opprimono…mi legano... rivoglio la mia arte!-
-Eppure... mi avete detto più volte di voler essere presente all'evento...-
-Me ne racconterete voi madame... stasera... quando tutto si sarà concluso...- aveva terminato con un sorriso forzato. 
Così se ne andò da sola, lasciandolo immerso nei propri pensieri, a lambiccarsi con le proprie riflessioni, con la sola speranza che l'ispirazione tornasse a visitarlo, ad abitare quell’anima tormentata.

L'agitazione in città non aveva fatto altro che crescere con approssimarsi dell'ora stabilita per l'evento; la popolazione, oramai libera da ogni impiego, si era radunata nei pressi dell'antica cattedrale, di fianco all'ingresso principale, ai margini del percorso che, a breve, sarebbe stato invaso anche da semplici curiosi, ufficiali in alta uniforme, esponenti dell'aristocrazia e dell’alto clero.
Per madame Bertrand non fu affatto semplice riuscire a posizionarsi di fianco all'alto portale strombato di pietra dal quale sarebbe stata in grado di udire ed osservare l'intera cerimonia; era convinta che un simile evento avrebbe giovato a François, alla sua situazione, alla sua immaginazione. Ne era convinta, eppure non era stata in grado di convincerlo ad uscire, a distrarsi, a smettere di rimuginare senza fine sulle immagini mancanti o sui colori inesatti o tutto ciò che gli impediva di concentrarsi appieno sul quadro; ne era convinta, eppure non era stata in grado di fare nulla.
Il vento freddo di dicembre sferzava violento sui volti, tagliava le labbra, gelava le mani, soffiava prepotente sui caldi cuori ricolmi di fiducia dei francesi. Il fuoco che ardeva in loro inesorabile non era affatto minacciato dalle rigidità del tempo o della storia. All'improvviso, da lontano, iniziarono a risuonare le grida dei passanti, un applauso entusiasta si levò dalla folla al passaggio della carrozza e del corteo da cui era accompagnata; i tamburi ne annunciavano l'arrivo, la terra sembrava tremare sotto i passi decisi, l'emozione e l'agitazione erano tangibili, infiammavano l'aria e crescevano senza controllo, si ingrossavano come un fiume in piena, oltrepassandone gli argini eretti a fatica, invadendo le terre circostanti e portando la consapevolezza di una totale impotenza innanzi alla sua forza. Madame Bertrand era più che mai decisa a portare a termine l'obbiettivo che si era preposta: ritornare da François con l'ispirazione giusta per il suo quadro, cercava in ogni modo di farsi strada tra la massa compatta e festante che la schiacciava contro le pareti di Notre-Dame, tentava di sporgersi verso l’esterno per quel poco che le era possibile, così da poter osservare meglio l'interminabile processione che inesorabile continuava ad avanzare verso la cattedrale. 
Il sole di mezzogiorno rischiarava, faceva risplendere, i ricchi ricami degli abiti, le spade sguainate della guardia metropolitana posta a sorvegliare le strade. Dalla carrozza dorata, ferma innanzi all'ampio sagrato, scese infine Napoleone, fiero, orgoglioso, gli occhi alti, fermi e rivolti all'ingresso, per nulla intimorito dai severi sguardi indagatori dei sovrani del passato che lo osservavano dall'alto della trabeazione; sembrava, in silenzio, volerli sfidare e relegare per sempre con il suo nuovo splendore oltre i cancelli dell'oblio impenetrabile. Avanzava, ancora e poi ancora, passo dopo passo, certo del proprio futuro e di quello di tutta la Francia, avanzava in mezzo alle ali della folla, verso un destino traboccante di gloria, l’immortalità del suo nome.

Non era stato semplice per lei. Non aveva mai riflettuto sulla strabiliante genialità di François, sulla sua incredibile capacità di rielaborazione delle immagini all'interno della mente. Non aveva mai provato ad osservare il mondo con i suoi occhi: a meravigliarsi, ad emozionarsi per una semplice variazione di luce, ad incantarsi dinanzi ad un paesaggio, alle fronde di un albero accarezzate dalla brezza, a stupirsi con un nonnulla; gli occhi del pittore erano come quelli di un bambino nuovo al mondo e che mai ne accumuli esperienza, ma ogni giorno lo riscopra nella sua interezza, così interminabilmente nel suo ciclo di rinascita. Non era stato semplice, eppure, dopo ore ininterrotte, era convinta di aver finalmente trovato ciò che cercava. Nell'istante in cui scorse Pio VII, l'eminentissimo pontefice, porgere la corona a Napoleone, offrirgliela, piuttosto che posargliela sul capo, comprese; tutte le conversazioni passate, tutti i pomeriggi trascorsi a fare compagnia a François, intento a dipingere, gli scambi di opinioni e di speranze, presero forma, di delinearono dinanzi a lei portandola, infine, a capire.
Alla fine della cerimonia Madame Bertrand, cominciò a correre; corse per quanto le era consentito dall’abito ingombrante, correva a perdifiato per scappare dalla città nella speranza di raggiungere il suo pittore, quanto prima, e poter condividere con lui l’immagine sublime che per sempre l’avrebbe accompagnata.

-Monsieur Guijon! Monsieur Guijon!- giunse all'improvviso spalancando con vigore l'uscio dell'abitazione dell'uomo -Non avete idea di quante cose devo raccontarvi, ne sarete entusiasta... la cerimonia è stata incredibile...- prese a parlare senza mai fermarsi, togliendosi lo scialle e appoggiandolo su una semplice sedia all'ingresso continuando incontenibile a raccontare ogni dettaglio di quanto era riuscita a scorgere. Le parole fluivano senza controllo: i dettagli osservati, i riflessi ammirati; tentò di raccontargli ogni cosa come in un solo istante, in un unico flusso di pensiero, così da non fargli rimpiangere la propria assenza, così da dargli l'illusione di essere stato realmente presente e aver potuto ammirare ogni cosa con i propri occhi. Eppure vi era qualcosa di strano, non comprendeva di cosa si trattasse ma lo percepiva con certezza; l’abitazione era immersa in un silenzio innaturale. Surreale.
-Monsieur Guijon! Monsieur Guijon ci siete?- si diresse subito nell'unico luogo in cui avrebbe potuto trovarlo ed infatti lì lo vide, seduto alla finestra, il braccio mollemente disteso reggeva ancora il pennello, il capo reclinato come se stesso dormendo; avvicinandosi riprese: -Monsieur, vi siete stancato troppo in questi giorni e...- ma la voce ed il tenero sorriso che l'aveva accompagnata in quella vista si spense, si gelò all'istante quando, sfiorandogli la spalla, si rese conto che era freddo. Troppo freddo.
Prese allora a chiamarlo ed a scuoterlo, con tutta la forza che ancora le restava ma era tutto inutile. Il corpo dell'uomo sebbene assecondasse ogni singolo movimento, non lo faceva per propria scelta, invero, non sarebbe mai più stato in grado di farlo.
Le lacrime iniziarono a rigarle il volto, sfuggendo la gabbia delle ciglia e poi via, lungo le gote scavate mentre la consapevolezza della morte si faceva sempre più chiara; con gli occhi offuscati, il respiro rotto dai singulti del pianto, spostò lo sguardo lungo tutta la stanza che era stata il mondo di François, che aveva rappresentato per lui l'intero universo, indugiando su ogni dettaglio, su ogni particolare che non avrebbe più goduto della sua spensieratezza. Infine lo vide. In mezzo alla camera svettava il cavalletto con l'opera finalmente ultimata, in mezzo alla stanza svettava il suo capolavoro più grande; a quella vista celestiale non poté che abbandonarsi ad un ultimo lieve sorriso verso colui che era diventato il suo più caro amico: -Arrivederci... François- sussurrò appena prima di uscire per sempre da quel grande quadro in continuo divenire che era stata la sua vita.

Dalla finestra aperta che dava sulle colline, una lieve brezza scostava le tende, accarezzava il volto rilassato e soddisfatto dell'uomo, gli scostava i capelli sino a giungere alla tela illuminata dai colori del tramonto: da una città distrutta, dalle sue rovine, un piccolo germoglio riscopriva la vita illuminato da un tenue fascio di luce; un giovane, un uomo, con lo sguardo simile a quello di un falco, puntava la propria preda. Si voltava indietro, dando le spalle al germoglio, proteggendolo dalle città splendenti che svettavano sullo sfondo scuro, difendendolo con il proprio corpo, per questo avrebbe dato la vita e l’anima stessa. Alla cintura, un tricolore sgualcito mosso dal vento ne accompagnava i sogni e le speranze.

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