Granelli di sabbia. di MadLucy (/viewuser.php?uid=134704)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Elia Martell- Silenzio. ***
Capitolo 2: *** Oberyn Martell- Ruggine. ***
Capitolo 3: *** Doran Martell- Distrazione. ***
Capitolo 4: *** Ellaria Sand- Violenza. ***
Capitolo 5: *** Arianne Martell- Acqua. ***
Capitolo 6: *** Quentyn Martell- Maschera. ***
Capitolo 1 *** Elia Martell- Silenzio. ***
Non ti guarda mai. Tiene lo sguardo dritto davanti a sè,
come il filo d'una spada.
I tuoi occhi lo sfiorano appena, composti, limpidi, inesorabili -Hai paura di me, Rhaegar?-
e sai che in quell'istante tuo marito percepisce l'alito del fuoco di
Dorne gocciolargli sul collo.
Questo è il
coraggio del principe Rhaegar,
vorresti esclamare con voce atrocemente allegra, dolcemente sferzante,
a quel popolo fiducioso ed ignaro che lo acclama ed osanna, questo è l'onore dei
Targaryen. Ma questo è il silenzio,
spiazzante, categorico, incoercibile, questo solo logora lui estirpando la tua
energia vitale- questo
significa davvero silenzio.
L'hai vista Lyanna Stark, la rosa azzurra di Grande Inverno, la lady
che voleva essere bestia, con la sua bellezza ombrosa, vessatoria e
marcata come una cicatrice, il suo indomito strascico di capelli scuri
drappeggiati sulle spalle come un trofeo di guerra; l'hai vista, e hai
percepito l'eco di passi lontani in un petto che avrebbe dovuto
straziarsi di gelosia.
Le sorridi tristemente, perchè soltanto derisione t'ispira,
domata alla catena, addomesticata al primo ti amo della sua
vita; l'apparenza non
serve a niente, vorresti bisbigliarle, quella spada non ti rende la
donna che vuoi essere.
Non sei bella quanto lei, nè altrettanto amata, ma sei
più forte, il tuo sguardo contro il suo non vacilla.
Diffamata,
bruciante di febbre, tremante di
freddo, sei più forte. Sorridi con labbra
rigide alla bambina che
gioca
a fare il cavaliere e passi oltre, senza fermarti -un soffio di sabbia,
uno spettro di bruma, quella piccola esile dorniana dalla pelle
olivastra e gli occhi di ferro.
Io sono più
forte, Rhaegar, mi
hai sentita? Io sono più forte di tutti quanti. Io potrei
ucciderti con la spilla della mia veste, e tu nemmeno ti opporresti,
con quelle mani sensibili da musicista, che carezzano la lira e
aborriscono le lame -non hai nemmeno il coraggio di guardarmi negli
occhi. Io sono più forte di voi due messi insieme. Non
lo dici, non ti serve dirlo. Potrebbe sterminare eserciti il tuo onore,
possente come l'arsura sulle dune della tua terra, tenace come la
consapevolezza di appartenere ad un'altra famiglia.
Mai inchinati, mai
piegati, mai spezzati.
Tutti si voltano, ad occhieggiare la reazione della moglie ripudiata;
ma non ha più nulla da dire Elia di Dorne, non appartiene
più a quella storia, e con occhi asciutti assiste.
A tuo marito hai concesso il ventre, hai concesso il sangue; egli
niente ha più da prendere, mentre tu niente riesci a
revocare. Questo
è il silenzio.
Incorruttibile al dolore, intransigente alle lacrime, hai rifiutato di
fregiarti di quella sofferenza di cui non sei degna. Perchè
tu,
al contrario di Rhaegar, sai mantenere le promesse.
Il vuoto di quel silenzio verace ha insegnato l'inerzia alle labbra, ha
contagiato la bocca di bianco e gli occhi di nero; sei coagulata nel
vuoto, in esso ti confondi, ti dissipi, ti disperdi.
Non riesci a liberare la verità quando Oberyn ti viene a
trovare
e ti chiede come stai; non glie lo dici, a tuo fratello, che la
fanciulla di seta e sole con cui giocava nei Giardini dell'Acqua non
c'è più, fuggita da queste lande buie, assiderata
nel
freddo di carne nuova.
Portami via, portami via, portami a casa, aggrapparsi a
quelle ginocchia tanto care ed implorare, piangere, voglio tornare a casa. Ma
sono parole che non s'inerpicano lungo la gola, parole come le pietre
che hanno lapidato la tua fede, come
te, prigioniere del silenzio. Sai che, se sapesse, Oberyn
agirebbe -Oberyn lo farebbe. Qualsiasi cosa, per te.
Sto bene, fratello, come al solito, rispondi tu. Mai inchinati, mai piegati, mai
spezzati.
Prima di uscire, Rhaegar dardeggia uno sguardo lungo ed offuscato nella
tua direzione. La rabbia risorge come un ricordo, un fremito percorre
quelle mani abbandonate in grembo, strette le une alle altre per
combattere il freddo. Non meriti la sua compassione, non meriti
quest'ennesimo insulto, e lui lo sa. Non lo tolleri: Rhaegar non
può vilipendere la tua dignità così
come ha fatto
con il vostro matrimonio. Quella
no, la compassione no. È la goccia che fa traboccare il vaso.
Vorresti urlare -e invece taci per fare più rumore. Se la
tenga
Rhaegar, la sua compassione, per sè e per la ragazza lupo.
Quella è l'unica volta in cui l'impeto del tuo sangue
dorniano
fomenta bile e tempra furore, ma non accade nulla, perchè
non
è così che deve finire.
Tutto ciò che resta, vattene
Rhaegar, vattene, ed è quasi il tuo sguardo a
mandarlo lontano, a mandarlo da lei, perchè la sua presenza
vanifica la tua.
Sarai tu a offrirgli la tua compassione, lasciandola sul suo sepolcro,
sussurrando povero,
povero Rhaegar, morto per amore -sì, per amore
di se stesso, è sempre, sempre stato solo questo.
Non vale il tempo d'una lacrima, Rhaegar; soltanto il silenzio -quel
silenzio che non è un'accusa, piuttosto una constatazione,
un
rilievo, l'affermazione d'un'evidenza che rimane in sospeso nella
realtà degli scheletri nell'armadio. Non vale una lacrima e
tu,
al suo funerale, non indosserai un nero velo sul volto, in modo che
tutti vedano che non c'è pianto sulle guance di Elia Martell
-Martell, mai Targaryen, per sempre Martell.
Elia Martell muore durante il sacco di Approdo del Re, stuprata e
uccisa da Gregor Clagane, imbrattata del sangue dei suoi figli.
Nell'udire la notizia, Oberyn Martell schiude le labbra e spalanca una
ferita che non si rimarginerà mai; Doran Martell chiude gli
occhi e china il capo.
Silenzio.
Note dell'Autrice: Bentrovati, fan di GoT! ^-^ o aSoIaF, come
preferite...
Avevo già postato questa fanfiction in passato, ma una
lettrice si è premurata di avvertirmi che parlare dei
Martell prima della quarta stagione non si poteva fare, quindi ho
dovuto rimuoverla.
Dedicherò una
one-shot/flashfic a ciascun membro della famiglia Martell, e in
più anche a qualche Sand, visto che ci sono... E' una casata
che
mi affascina non poco. Eppoi, l'avete visto Oberyn nella prima puntata
della quarta stagione??? *-* Hanno fatto un ottimo lavoro con lui, a
mio parere.
Il primo capitolo l'ho appunto dedicato ad Elia, un personaggio che
trovo venga molto sottovalutato e, nelle storie, liquidato con un "la
moglie Elia fissava Lyanna Stark con gelosia". Anche Elia era una donna
e anche Elia aveva dei sentimenti, e alla fine è stata lei
quella che ha pagato per le colpe di tutti ingiustamente. Mi rendo
conto che leggendo questa storia Rhaegar risulta un po' antipatico, ma
insomma, ha cornificato sua moglie, in fin dei conti... voglio proprio
vedere a chi piacerebbe!
Grazie per avere letto e spero vi sia piaciuta. Chi volesse dirmi che
ne pensa, avrà tutta la mia gratitudine (sai che roba...
XD).
Grazie ancora e spero leggerete il prossimo capitolo, che
dedicherò ad Oberyn!
Lucy
ps: non mi è sfuggito che nell'ultima frase vi è
un'imprecisione, ma non voglio fare spoiler... Perciò ho
scritto
la versione ufficiale degli avvenimenti!
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Capitolo 2 *** Oberyn Martell- Ruggine. ***
Oberyn
Entrasti nella sala sbattendo la porta, con tutta l'esplosiva irruenza
dei tuoi otto anni, il riso sulle labbra e il vento fra i capelli,
portando con te l'ombra insanguinata di quell'estate torrida. Una veste
dall'orlo scucito recava sui fianchi le ferite dell'ennesimo turbolento
pomeriggio d'avventure, mentre la sabbia ti incrostava le caviglie
-come se Dorne non volesse mai lasciarti andare. Un boato di pietra
fragoroso e un raffica d'arsura lancinante annunciarono l'arrivo di
Oberyn Martell. I consiglieri di tuo fratello, riuniti in Concilio, ti
riservarono un sorriso impermalito, gli occhi acuminati di disappunto;
è solo un bambino, sospirò qualcuno a quel tavolo
di
uomini massicci e noiosi. Il buio, che così compitamente
aveva
protetto la frescura fra quelle mura possenti e aveva generato negli
angoli una nebbia d'umidità, dipanata da una parte all'altra
come una ragnatela, era stato oltraggiosamente depredato dalla vorace
ferocia di quell'estate impaziente, a seguirti ovunque, custode della
tua infanzia, a preoccuparsi che sulla tua infanzia splendesse sempre
il sole di Dorne. Ma la loro disapprovazione non ti raggiungeva; quando
Oberyn Martell arrivava, tutti erano tenuti ad accorgersene.
-Doran! Guarda, Doran!- La tua voce schizzava come acqua di cascata che
s'infrange contro gli scogli.
Tuo fratello, dalla postazione elevata del suo trono, ti
rivolgeva
uno sguardo indecifrabile. Le ciocche bionde adagiate sulla sua fronte
gli sfioravano le palpebre indolenti e sfregavano morbidamente contro
le ciglia; le mani stuzzicavano i ricami dei braccioli. Mani piccole,
gracili, vulnerabili: non adatte ad un regnante, così come
il
resto della sua costituzione fisica, quella magrezza arida che
ricordava l'erba assetata, quel profilo asciutto e spezzato che
sembrava disegnato con un gesso. Ma tu sapevi -lo sapevi già
allora- che non era quello a fare di Doran Martell un principe; occhi
drastici, perentori, irriducibili. Occhi con i quali solo tu potevi
competere in uno scontro. Non parlò, nè parve
intenzionato a farlo.
Cogliendo il silenzio come un invito, ti avvicinasti a grandi falcate e
dondolasti trionfante quel che trattenevi fra le dita. Era uno
scorpione, nero e lucido come il petrolio, e si dimenava frenetico
mulinando la coda. Ti divertiva quello strenuo tendersi alla
libertà, quasi che anche un minuscolo abitante del deserto
riuscisse a fiutare il miasma dell'inferno -in seguito, quella svendita
a basso prezzo della dignità ti avrebbe fatto orrore.
-L'ho trovato mentre correvo.- rivelasti con un sorriso schermato di
vezzosa superbia.
Doran Martell non ti sgridò per la maniera maleducata in cui
avevi interrotto la riunione, non ti rimproverò per il
rischio
che avevi corso per catturare l'animale, non lodò nemmeno la
tua
velocità e il tuo valore, come forse speravi segretamente.
Doran
Martell chinò appena il capo a sinistra, contro la spalla,
gli
occhi fissi -insondabili- ad esaminare lo scorpione.
-Stai sempre bene attento, Oberyn, a trovarti dalla parte giusta.-
Questo disse.
Quando,
esattamente otto anni più tardi, Edgar Yronwood ti
sfidò
a duello, quelle parole riaffiorate dal passato più pastoso
ti ottenebrarono i sensi. Trovarsi
dalla parte giusta.
E, mentre il veleno della tua spada si diffondeva dolcemente nel corpo
dell'avversario, decidesti che no, non saresti mai stato lo
scorpione. D'un tratto, l'immagine della bestia fremente e disperata ti
parve terrificante -perchè non era di quella che
bisognava avere paura.
Pochi giorni dopo, eri la Vipera Rossa di Dorne.
Così tu entravi nella vita delle persone: sbattendo la
porta.
-La fama è facile procurarsela; più difficile
piuttosto
mantenerla.- commentò Doran, quando la storia fu ormai di
dominio pubblico. C'era una luce nuova nel suo sguardo -come se una
lama avesse squarciato il sole e il suo abbacinante nucleo fosse stato
denudato. Era un'occasione quella che ti venne offerta; tu,
rivolgendogli un sorriso pronto, giurasti. Divenne una promessa.
La fredda sala delle riunioni non faceva per te,
quella era competenza dell'apatia assorta di Doran; l'intuizione che
avevi da bambino s'era rivelata certezza, si trattava d'un nido di
ragni, niente di più, niente di meno. Ovunque nei Sette
Regni
giravano voci riguardo la
Vipera Rossa: che era entrato nei Secondi Figli, che era stato
avvistato a Tyrosh, che frequentava i bordelli di Lys e studiava alla
Cittadella; eppure nessuno poteva raggiungerti nè
afferrarti,
soltanto mangiare polvere e misurare una scia di sangue. Eri diventato
materia di leggenda, un'ombra aguzza che affascinava i fanciulli e
dilaniava i nemici nei loro letti, perchè, anche se ogni
ferita
d'arma da taglio era una lezione da assimilare, Oberyn Martell non
perdonava mai chi s'atteggiava a maestro davanti a lui, e
questo
ben presto lo seppero tutti; nel tuo caso, importi dei limiti
significava già considerare di valicarli -significava essere oltre.
Ogni tappa ti concedeva un dono e pretendeva un pedaggio, ogni popolo
aveva un affronto da rivolgerti ed una storia da raccontare, ogni notte
ti salutava affamato e ti ritrovava sorridente. Comunque, quando
tornasti a Dorne, avevi imparato quanto basta -la tua imprudenza aveva
un nuovo sapore e molte erano le cicatrici, a disegnare sul tuo corpo
la mappa del viaggio.
Nel momento in cui realizzasti che non avresti visto Elia mai
più, non piangesti. Lei ti affollò in un istante.
L'effluvio fiammante delle candele aromatiche ch'ella accendeva nelle
sue stanze, capace di pizzicarti il naso e spalancarti il
cuore; la maniera in cui, quando Elia addentava una pesca, il
succo colava dalla sua bocca e le gocce auree
rotolavano, scavalcando il labbro e percorrendo il mento; le sere in
cui scappavate nel letto dell'uno o dell'altra per parlare, senza nulla
da dire, e
ridere in un soffio sotto le coperte; le mattine in cui, morbidi, caldi
e scompigliati di sonno, dopo aver dormito insieme, rimanevate
rannicchiati gli uni contro gli altri; la sensazione delle sue labbra
contro la tua fronte, l'invocazione perentoria delle sue braccia a
cingerti e la dolce pretesa del suo collo soffice come giaciglio, la
ricerca del sentore rosato del profumo delicato dei suoi capelli
serici, il pigro piacere d'essere soltanto un peso esanime su di lei,
l'incontaminata gentilezza delle sue guance e delle sue ciglia e dei
suoi polsi e delle sue mani; e ancora le sue briose risate levate al
cielo,
bevute dalla brezza salmastra, imparate dal ritmo delle onde.
Così tu entravi nella vita delle persone, sbattendo la
porta;
mentre lei invece se n'era andata dalla tua in punta di piedi, senza
nemmeno che tu te ne accorgessi.
Nel momento in cui realizzasti che nessun esercito sarebbe partito da
Dorne per recuperare con le lance quel piccolo fagotto insanguinato, oh
sì, piangesti.
-Ti prego, Doran. Ti prego. Ti prego.-
Era un pianto di rabbia, senza vergogna, selvaggio
come pioggia
battente,
tumultuoso come una tempesta di sabbia, e le lacrime sgorgavano come
sangue da quegli occhi dilaniati; era un pianto di furore. Doran
Martell teneva il capo reclino, in un atteggiamento solenne e
reverenziale, quasi di preghiera; composta e discreta la sua sofferenza
che non voleva disturbare. Non piaceva fare rumore, a Doran. La luce
indovinò forse un fievole riflesso sulla
guancia -una sola goccia, in mille anni, può in segreto
corrodere
la roccia. Ma tu non avevi mille anni per aspettare, non in quel
momento. Un istante per agire, piuttosto; un istante per correre, un
istante per uccidere.
-Ti prego.-
Sapevi già quale sarebbe stata la sua risposta -qual
era la
sua scelta. Eppure lo stavi supplicando di tornare indietro, di dirti quel sì.
Avresti potuto sprecare tutte le parole che ti rimanevano per cercare
di persuaderlo: non quella volta. Quella volta non ci fu spazio per le
parole. Sapevi già, sapevi già. Non
c'era bisogno di
infrangere ancora la tua forza contro il granito di quel pavimento.
Avevi un solo istante, e l'istante fuggì.
In realtà, stavi supplicando tuo fratello di non deluderti.
Doran Martell abbassò la testa; Dorne abbassò le
lance. E pace fu.
Elia era sempre stata quella che, mentre correvate fra le dune di
Dorne, ti rimproverava di stare andando troppo veloce: il tuo ultimo
freno inibitore. Da quel giorno, il tuo mondo si tinse di rosso.
L'ultima lezione era stata impartita.
Giacevi fra le braccia di Ellaria, pensando alla ruggine che
deteriorava la tua lancia, alla ruggine che deteriorava i tuoi ricordi
-alla ruggine che invecchiava la tua rabbia ed ammorbava il sangue di
Elia, essiccato da troppo tempo. Arrugginiva Oberyn, imprigionato
nell'iniqua inerzia d'una pace bugiarda, nelle sleali leggi d'una
tregua
contraffatta. Quel debito che i Lannister non avevano pagato ti stava
depredando il respiro, schiacciando lo sterno. E tu spezzavi lance, ti
riducevi in polvere fino a confonderti con la sabbia.
Elia appariva nel delirio delle allucinazioni e all'apice del dolore
-per il resto, s'era dileguata più in fretta del profumo
delle
sue candele. E poco -nulla-
importavano i tuoi tentativi d'opporti all'oblio
inesplicabile di quelle stanze vuote. Per dimenticare di stare dimenticando
ti sottoponevi a ogni genere di prova, ti sfiancavi nel deserto fino a
sciogliere la tua identità, vomitavi il fiele insieme agli
ansiti. Il furore del tuo sangue ruggiva imperioso: quando urlavi, non
riuscivi più a sentire la tua voce. La vita ti stava
mangiando
vivo.
-Ho promesso a Doran che avrei lasciato perdere, Ellaria. E adoro
infrangere le promesse.-
Sorrise, Ellaria, perchè sapeva quanta remota bellezza si
celava
in quelle parole- quanta infinita disillusione. Sapeva che tu
appartenevi alla leggenda, alla voce delle madri che raccontano in un
sussurro le fiabe ai loro figli. Vincolato ad un nome, come un'ombra
che
si allungava sempre di più.
-Mai quanto le promesse adorino infrangere te.-
Dovevi stare ben attento a trovarti dalla parte giusta, la parte giusta; eppure
quelle dita ti stavano già serrando stretto, la morsa d'un
amore ch'era uno spasmo di viscere, il flusso del sangue. Ma
d'altronde, niente era più come prima. Il tuo sole sorgeva
ad
ovest. Le tue notti erano infestate di fantasmi. E le tue lance si spezzavano.
Quindi, non restava che
andare troppo veloce.
Fu quasi con un sorriso beffardo che accogliesti quel pensiero, alla
fine -che il sangue in bocca suscita un vago sentore di ruggine. L'ultima
cosa che riuscisti a fare fu sputarlo sul pallore della rena.
Note dell'Autrice: Ciao a tutti. ^-^ Innanzitutto volevo ringraziarvi
per il calore con cui avete accolto questa mia umile raccolta, a quanto
pare Elia ha molti fan. Sono lieta di constatarlo. Ma in generale tutti
i Martell sono fantastici... E il protagonista di questo capitolo, a
mio parere, è uno dei migliori.
Oberyn Martell, che abbiamo avuto modo di ammirare nella prima puntata
della quarta stagione (occasione che spero si ripresenterà
stasera su Sky Atlantic...), è un figo, un combattente, ma
sostanzialmente una testa calda con un cuore tenero. Nonostante la sua
furbizia e la sua spavalderia, la famiglia significa molto per lui
-come per gli Stark e i Lannister, d'altronde.
E qui ho cercato di rendere il suo bellissimo rapporto con Elia, che
credo sia stata addirittura una figura materna per lui, in quanto
sorella maggiore, ed allo stesso tempo amica e confidente. E poi
è successo quel che è successo...
Mi piace creare correlazioni come queste nei vari capitoli, nei quali
alla fine non si parla soltanto dello specifico protagonista, ma allo
stesso tempo anche di altri, sotto diversi punti di vista.
Che dire? Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che esprimiate il
vostro parere. L'appuntamento è la prossima settimana con
Doran. Grazie ancora per avere letto fin qui,
Lucy
|
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Capitolo 3 *** Doran Martell- Distrazione. ***
Doran
Doran
Martell.
Distrazione.
Sei sempre sembrato più vecchio. Fin da quand'eri bambino,
il
biondo dei tuoi capelli lasciò posto a fili di cenere, come
gocce di pioggia, a striarti fino alle guance magre. Le tue labbra
aride formulavano sempre parole forbite e banali convenzioni, mentre i
tuoi occhi vagavano a seguire il destino dei pulviscoli, a danzare
pigri nell'aere; a catturare responsi e nutrire quelle tue pupille
antiche. Scostavi la tracotanza con assennatezza e la superbia con
distrazione, avvolto in una foschia d'irreale, seduto alla
finestra, in
attesa di qualcosa che il tuo sguardo cercava in un'impronta di
inquietato tormento.
Sei sempre sembrato più vecchio. Eri un figlio docile ma non
esemplare, silenzioso per natura, obbediente per indifferenza,
più indolente che compito. Vivevi la noia senza soffrirla,
quasi
segretamente affascinato, con l'inerte pazienza degli alberi. Taciturno
ma non scontroso, rimanevi in disparte, ad osservare, a scrutare, a
sviscerare, in contemplazione d'una verità segreta intessuta
nell'aria e irradiata dal sole. Qualcosa, fra i tuoi lineamenti lievi,
della tua pelle logora, nella tua anima in sospeso, ricordava l'autunno.
È quella verità ad invecchiarti, a uccidere la
giovinezza nei
tuoi occhi, ad affievolire la voce, spandere il sorriso, prosciugare la
salute? La continua conferma di quella verità, la
controprova
che trapela dalle parole delle persone e dallo scroscio dell'acqua.
La caducità è la tua costante. Succede quando
qualcosa
sguscia via dalle dita, senza prima dare alla mano la
possibilità d'accettare di lasciare la presa. I tuoi
genitori,
ombre confuse riflesse in una pozza d'acqua. La vita scorre fra le tue
caviglie senza coinvolgerti nè trascinarti via: tu sei
ancora
lì, alla finestra, a guardare ed aspettare.
Sulle tue spalle gravavano le aspettative di due eredi morti, di
tutti quelli che probabilmente non sarebbero mai nati: due volte hai
visto la vita crescere nel ventre di tua madre, due volte l'hai sentita
urlare per affermarsi al mondo, e poi gocciolare via, sotto lo sguardo
vacuo e torvo dei regnanti di Dorne. Ma dove va, la vita, quando fugge
da quei corpi bluastri e freddi? Parevi seguirne il percorso con il tuo
sguardo assorto, nel disegno delle dune e nei sospiri del vento. Morti
quei piccoli sconosciuti, eri tu a dover placare
l'emorragia di
gioia avvelenata. Tu stavi a guardare, senza dire nulla.
Quando per la terza volta la felicità bussò alla
porta,
non ti degnasti d'aprire. Quando per la terza volta quel grido vitale
riecheggiò in ogni sala di Lancia del Sole, formulasti una
cupa
profezia. Non
durerà a lungo - avevi imparato a non crederci
più. Essa era
destinata ad abbracciare la tua intera esistenza -l'aveva
già
abbracciata. Nessuno ci credette: Elia sopravvisse, un fiore nel
deserto, che spintona la sabbia e vince l'ardore per distendere i suoi
petali. Ricordi come appariva ai tuoi occhi offuscati? Piccola,
discreta, calma, una pacata presenza rasserenante che
allontanò l'attenzione del
popolo da quel primogenito così distratto. Forse
speravano che fosse lei a diventare la loro regina. Forse sarebbe stato
meglio così.
Poi venne Oberyn. In una notte rovente, in cui una luna rossa
sanguinava sudore, in cui le stelle abbacinavano come visioni e l'afa
s'inerpicava sulle pareti del palazzo fino a consumarle, Oberyn.
Urlava forte, fortissimo, come se volesse annunciare la propria nascita
all'intero creato. Così forte che per un secondo esitasti
nel
pronunciare la tua benedizione. Ma poi ti giunse spontanea alle labbra,
come una foglia autunnale cede al tocco del vento: non durerà, non
durerà a lungo.
L'amavi con l'intensità tormentosa degli
spasimanti senza
speranza, Oberyn. Non facevi sentire la tua voce, eppure il tuo sguardo
lo seguiva sempre, nelle sue capriole nella sabbia e nelle sue fughe
fra le lenzuola delle principesse, perchè i tuoi occhi erano
gli
occhi di Dorne. Osservavi dall'alto Oberyn ed Elia, ancora fanciulli,
giocare negli stagni dei Giardini dell'Acqua, la pelle tenera dietro le
ginocchia candida come zucchero, l'elastica dolcezza delle gambe snelle
e delle membra diafane, la trama dei loro capelli liquefatti che
s'intrecciavano come alghe a pelo dell'acqua, la maniera in cui
i nasi imperlati di gocce si scontravano goffamente -farfalle,
piccole graziose farfalle. Vicino alle fiamme, falene.
Sovrapponendola a quell'immagine di bucolica euforia, la guerra pareva
una sciocchezza.
E quel giorno Oberyn te lo disse, scherzando, con la sua
beffardaggine che tagliava le persone a metà. -Vuoi una vita
tranquilla, non è vero, Doran?-
Una vita tranquilla.
La tua voce scricchiolava come pergamena. -Sogni banali per un ragazzo
banale.-
A questo Oberyn non seppe rispondere.
Mellario fu l'unico scherzo crudele che il destino riuscì a
giocarti. I tuoi occhi, così avvezzi ad osservare,
colsero la volubile morbidezza della sua bocca livida, la profusione di
riccioli inanellati a vorticare su se stessi, quella maniera di
guardarti così diversa da quella di chiunque altro, e per
lei un
altro infatti volevi essere. Per un attimo, cedesti alla facile
impressione che la tua profezia volesse risparmiarla, almeno lei,
così lucente, differente, nuova. Pretendesti, supplicasti
soltanto il lusso di poterle dire sei
mia, quelle
due parole proibite: le pronunciasti, e per tutto il resto della vita
le ricordasti come la tua migliore bugia. Non potevi avere una madre,
un padre, nè Oberyn, quel fratello tanto amato,
nè la
piccola Elia dal portamento grazioso e il sorriso sapiente
d'ingenuità, tutti loro come gocce di rugiada sulle dita, a
scivolare sempre più giù.
La tua profezia vi trovò e ti punì, tanto, forte,
turpemente. Eri solo uno spettatore: non avresti dovuto intrometterti.
Doran Martell non avrebbe mai dovuto alzarsi dalla sua postazione alla
finestra. Cercando d'andare incontro a quel che stavi aspettando, avevi
soltanto rallentato la sua venuta. Il disprezzo negli occhi di Mellario
sfrigolava come sangue sulla sabbia di Dorne.
-I miei figli, Doran. Sono i
miei figli.-
No, sono i vostri, ma vedi? se n'era già dimenticata. Tu
masticavi il suo astio senza rispondere, colpevole di non assomigliare
abbastanza a quel riflesso negli occhi di tua moglie, la prima
volta ch'ella ti aveva visto. Non credeva certo che suo marito fosse
così distratto.
Aveva capito. Avevi
capito. No, lo avevi
sempre saputo.
Poi Mellario se ne andò, lasciandoti in compagnia del solo
freddo sulle tue labbra, l'ombra della sua ira proiettata sul granito
di Dorne come una minaccia. Lei
fu la prima.
La seconda fu Elia, Elia
la
ragazza dal sorriso saggio e il cuore bambino, ghermita dai draghi, che
svanì fra le loro fauci -la malia delle scaglie
scintillanti finì presto, forse troppo, e tu l'avevi sempre
saputo, ma avevi continuato a fissare il mondo dall'alto,
inamovibile,
ad aspettare. Non vedesti mai il suo sangue.
Ai piedi del tuo trono, Oberyn sputava il suo veleno. Non potevi fargli
questo; eppure lo facesti.
-Devo ricordarti il motto della nostra casata, Doran?- La voce di tuo
fratello era aspra.
No, non doveva. Nessuno lo sapeva meglio di te. Neppure Oberyn.
-In questo momento, l'usurpatore banchetta nella Fortezza Rossa con i
Lannister, riempiendo i boccali con il sangue di Elia e dei suoi
figli!- L'appello d'un fratello, il suo.
La sentenza d'un re, la tua. Oberyn non avrebbe mai capito la
differenza.
In fondo, nemmeno tu eri capace di perdonarti. A volte, avresti voluto
impedirti di comprendere il mondo come una storia già letta.
Ma eri solamente uno spettatore, e osservavi, e aspettavi. Non ti fu
difficile
immaginare tua sorella morta: la prima volta, l'avevi fatto il giorno
della sua nascita.
E quella notte in cui Oberyn si presentò da te sconvolto,
pallido come
solo la comprensione della morte può rendere, lacrime a
segnargli le guance, e balbettava.
-Non le ricordo... non ricordo più le parole della sua
canzone... la sua
canzone, Doran! Cosa
diceva la sua canzone?!-
Aveva
pianto nel tuo grembo, quella notte, Oberyn, che pur con figlie a
carico e lancia in mano era rimasto un bambino derubato. L'evidenza ti
riconosceva come il più forte, d'un tratto, la stoica
sapienza
della pietra immemore vinceva ogni lama.
Non fare così,
avresti voluto sussurrargli,
tanto te ne andrai anche tu, proprio come lei. Ma non
avrebbe capito. Oberyn non voleva mai capire.
E Oberyn se ne andò, il
terzo, mentre
le sue figlie urlavano vendetta e Dorne piangeva lacrime di sangue. E
tu? Tu niente, osservavi il mondo soffrire da dietro il vetro della
finestra, ed aspettavi. Nelle tue pupille non c'era più la
speranza d'arrivare -soltanto la paura di perdersi.
La bufera si schiantava sui cadaveri inerti e sulle spalle erette, il
sangue dei nemici si sposava nei campi di battaglia deserti, il fuoco
rideva consumando il suo pasto, e tu rimanevi lì. A guardare.
Mentre Arianne piangeva un padre che non l'amava, tu ti chiedevi cosa
sarebbe successo quando anche la solitudine ti avrebbe abbandonato,
lì, ad osservare, ad aspettare.
Perchè le tue dita ordivano le vicende e sbrogliavano le
vicissitudini di quel regno che si sentiva ignorato; perchè
il
tuo cuore silenzioso aveva inghiottito i singhiozzi pur di dare ai tuoi
figli l'opportunità di conoscere il mondo e stringere salde
amicizie; perchè le tue labbra non avevano mai dimenticato
la
forma soffice di quelle di Mellario di Norvos, nè ne avevano
cercato delle altre per compensare quella mancanza; perchè
la
tua prudenza incenerì il furore per farti compiere le scelte
giuste e celò le tue lacrime fino a sfibrare le guance;
perchè i tuoi occhi non avevano mai visto il sangue di Elia,
ma
i tuoi sogni te l'avevano sempre raccontato; perchè Oberyn
non
era soltanto il padre delle Vipere delle Sabbie, ma anche tuo fratello;
perchè i tuoi occhi osservavano le mosse dei nemici oltre il
mare, governando la guerra come si governa una scacchiera.
Perchè tu amavi Arianne come si ama quell'ultima speranza
che sguscia via dalle
dita, senza prima dare alla mano la possibilità d'accettare
di lasciare la presa.
Ma nessuno se ne accorse, no. Nessuno si accorse mai di
nulla. Forse, in fondo, non era il re a peccare di distrazione.
Note dell'Autrice: Voglio molto bene a Doran. Provo uno
strano affetto per lui. E' una creatura così fragile e forte.
E questo era il terzo Martell! Spero che la one-shot vi sia piaciuta.
La prossima volta sarà il turno di Ellaria Sand, che, pur
non essendo proprio
una Martell, io ho sempre visto come la moglie di Oberyn. Non lo
è ufficialmente, ma lo è spiritualmente, ed
è questo l'importante.
Grazie a tutti per aver letto, spero mi farete sapere le vostre
opinioni!
Lucy
|
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Capitolo 4 *** Ellaria Sand- Violenza. ***
Ellaria
Tutti di te dicevano sempre ch'eri maleducata. Una fanciulla rozza,
impertinente, villana. Maleducata:
quanto ridevi,
ogni volta che udivi
quell'aggettivo. Io non
sono maleducata, rispondevi, perchè non
mi sono fatta educare da nessuno. A quel punto, per gli
ospiti v'era
una sola spiegazione. Sand.
Ellaria Sand. Una
creatura scomposta, sinuosa, bizzarra, amari occhi obliqui e dolcemente
sprezzanti, il sinistro sorriso salace come un'onda fra le labbra, il
mento volitivo, i fianchi pieni, i capelli bluastri come succo d'uva, e
le mani, quelle mani cattive dall'ossatura magra e le unghie che non
hai mai voluto tagliare. Una creatura bronzea di sole, annerita dal
buio. Ellaria Sand. Porti il tuo cognome con la fierezza di un'eletta;
hai imparato non ad odiarlo per tutte le porte che ti ha chiuso, ma ad
amarlo per
tutte le botole che ti ha permesso di scoprire.
Quando le schiave ti si avvicinavano con le forbici, mordevi le loro
dita; quando ti chiudevano in camera, ti spezzavi le caviglie scalando
le mura; quando ti ordinarono di andartene per non tornare mai
più, fuggisti come una tigre nella selva e
dimostrasti a
tuo padre che, quando ne avevi voglia, anche tu eri capace d'obbedire.
C'era tanta rabbia in te, c'era tanto impeto, che sputavi sul volto di
chi ti immobilizzava; c'era un nero demone a dibattersi nella tua
anima, che gridava e dilaniava. Quel desiderio di rivalsa trascendeva
te stessa e burlava le stelle. Le bizze d'un cuore incustodito. Non
riuscivi a farti largo nelle grazie della civiltà: le
formule ti
opprimevano il respiro, le parole cortesi incespicavano sulla tua
lingua e precipitavano nell'oblio d'un silenzio tonante, i costumi ti
si stringevano addosso come sudari. Le tue pupille avvolgenti
conoscevano una sola lingua, quella della spontanea violenza, la
dottrina inconfessabile delle tue mani cattive.
Nell'adolescenza, ti perdesti in un universo di sfarzosa
nullità, un vortice turbolento di colori pungenti ed odori
vivaci, una tempesta di percezioni sensoriali laceranti, suadenti
miasmi d'inferno, un fasto
grasso e copioso che traboccava nei bordelli come miele sul pane, e
tutti quei sorrisi insinuanti, e tutto quel buio profumato, e tutta
quella brama disperata di perdersi ch'era anche la tua, riflessa nelle
mille sfaccettature d'uno specchio. Poi, a destarti da quell'indolenza
comoda e malata che ti derubava delle forze e della ragione, a farti
riconciliare con l'azzurro del cielo, giunge un vento
sferzante e
sorgivo, il respiro della vita a gonfiarti il petto.
Vi incontrate alla festa di mezza estate, fra le risate argentine dei
boccali a cozzare ed unirsi in una preghiera comune, in un'acclamazione
d'euforia. Dietro il corposo vino rosso di Dorne, oltre i gravosi
coriandoli d'afa impigliati alla vegetazione odorosa ed ai tovaglioli
spiegazzati, oltre la perizia silenziosa ed intransigente dei servi, i
suoi occhi catturano i tuoi, senza forzatura, senza fatica,
giocherellandoli soltanto, soppesandoli con divertita
curiosità;
il suo sguardo inquisitore adesca i tuoi occhi avvolgenti, nei quali
Oberyn Martell si sporge con una tale inaudita sfrontatezza, con una
tale vergognosa impudenza, che tu non puoi fare a meno di pensare che
è un maleducato,
proprio
come te. La Vipera Rossa non può nascondersi tra la gente
comune: non ha bisogno d'una corona per dominare. Non scoprirai mai se
a quella festa egli partecipa per te, se mentre ti guarda e sorride sa
già chi sei, oppure se è stato davvero un caso
quello
scontro d'iridi taglienti come giavellotti.
La vostra storia è un gioco al gatto e al topo che si
conclude
in riva al mare, durante un pomeriggio in cui il sole pulsa come un
cuore moribondo, quando Oberyn ti prende sulla battigia, nell'acqua
bassa, sugli scogli, fra la sabbia che ti veste aderendo alle
tue
cosce bagnate, e l'infinito si spalanca dentro di te; la vostra storia
è quella che i menestrelli non canteranno mai.
Non ti abbandoni completamente a lui, perchè sai
quanto la
definitiva conquista annoi Oberyn; allora scivoli via dalle sue mani,
dal suo sguardo, ti rinchiudi in un mistero nuovo, ti drappeggi di
bruma, e gli sorridi come se non avesse capito niente. Se sei l'unica
che così a lungo rimane al suo fianco, è
perchè
nessun'altra riesce a resistere al suo veleno.
E, grazie alla sua sbrigliata cupidigia, hai imparato la serena mitezza
della soddisfazione. La rivincita che volevi nei confronti di quella
famiglia che non ti ha mai guardato in faccia, era la tua stessa
felicità, che così incautamente ti è
stata negata,
e la completezza di tale felicità, la sazia concordia fra
libertà del corpo e distensione dell'anima, è
stata
raggiunta ed assimilata. La violenza si è dissolta in un
pugno
di cenere. Oberyn porta con sè quella parte di te ch'egli
ama di
più, quella ragazza scaltra e flemmatica ed intricata come
un
labirinto, di buia e negligente bellezza, l'amante pigra ed
intraprendente che sa stupire entrambi, quella fanciulla che vorresti
essere sempre, e che vive in funzione di Oberyn. Perchè se
gli
Uller non ti guadavano mai, egli ti rimira senza mai impararti a
memoria: ti squarcia il cuore di commozione, l'ammirato compiacimento
con cui i suoi occhi ti scrutano, accarezzano,
penetrano, strisciando con lenta devozione sulla tua carne, come s'egli
ti spogliasse per la prima volta, come s'egli ti avesse per la prima
volta, e
il suo orgoglio ti fa sentire bella e potente come il peccato.
Un giorno ti porta a Lancia del Sole, con una determinazione spaventosa
che sfida il mondo a contrastarla, stringendoti la mano -una mano senza più cattiveria-
in maniera salda ed inequivocabile.
-Lei è Ellaria e chi la tocca è un uomo morto.-
Conciso, lapidario, netto come una lama. Ellaria. Niente
Sand. Ellaria e basta. Come se tu potessi essere
soltanto questo.
Dall'alto del trono, il re di Dorne ha il volto chiuso di
contrarietà, torvo di silente riprovazione. Un'alta ombra
nera
dal volere imperscrutabile. Dà l'unica risposta possibile;
arresa stanchezza sulle guance e negli occhi.
-Che tu sia la benvenuta a Lancia del Sole.-
Per il resto, sei rimasta la sua amante clandestina, null'altro: in un
mondo sorretto e sospinto da giuramenti e promesse, egli non ti
dà altra certezza che la sua bocca sulla tua. In fondo, a
Oberyn
l'invasione nel proibito piace troppo per rinunciarci così.
Quando siete abbandonati fra i guanciali, a rotolare e crogiolarvi fra
le lenzuola come bambini, a volte gli allunghi quelle pingui, paffute
bacche dalla pelle scioglievole che crescono nei cespi di Dorne, rosse
e lucenti come bolle di sangue: egli socchiude le labbra e tende il
collo, addentando imperioso il piccolo frutto tondo, assaporando la
polpa bianca, molle ed acquosa sotto i denti; poi si allunga per averne
ancora, ed ancora. Ad un certo punto, la ciotola nel tuo grembo
è vuota.
-Come sei avido.- gli sussurri all'orecchio, con quella voce bassa e
vibrante che -lo sai- gli procura un brivido lungo la schiena.
È
avido, Oberyn: ti pretende come nessun altro uomo ti pretenderebbe mai,
fino ai confini dell'anima, fino in fondo ai tuoi occhi avvolgenti.
Eppure non dice mai ti
amo.
-Non è importante quante volte te lo dico, ma quante te lo
dimostro.- è stata la sua sorridente
risposta. È Doran il
fratello che vive di parole, non Oberyn.
La tua gioia più grande è stata avere delle
figlie con il suo furore
negli occhi e la sua
risata sulle labbra, minuscoli corpi caldi ai quali ti potrai
aggrappare; e poi vedere lui con la vostra primogenita fra le braccia
-la prima delle sue figlie che ha visto nascere, così dice-
e
udirlo mentre, con voce sonora eppure umida di pianto, le concede il
nome che fra tutti ha più caro. Dopo quello sfuggente
periodo
di densa voluttà, in cui è
difficile distinguere le risate dell'uno e i gemiti dell'altra, dopo
quel rincorrersi e raggiungersi ed incespicare sulla spiaggia, e le sue
membra agili e i suoi muscoli asciutti e guizzanti sotto le tue labbra,
e il suo profumo ch'è un canto ottenebrante dei sensi,
Oberyn
reclama la sua indipendenza. Elia. Lo spettro nella sua vita, il
precipizio fra di voi.
Quell'ultima notte che trascorrete insieme, quell'ultima notte sei
tentata di chiedergli di scampare, di sopravvivere, di tornare alla
vostra piccola vita felice, prima di renderti conto che non esistono
rimpianti alle sue spalle. L'empatia che vi unisce è
qualcosa di
tanto viscerale da permetterti di saggiare i suoi sentimenti con mano,
di vedere le fibre di quel cuore tendersi allo stremo, quella forza
potenziale insistere nelle mani, in cerca di risoluzione; ti ricorda la
tua irosa violenza di bastarda ignorata, e ti fa piangere
l'intensità delle sue emozioni, così possenti da
travolgere le montagne. La casa Martell gli ha dato la vita; ora gli
sta offrendo persino
una morte gloriosa. Quest'idea non provoca la tua rabbia, quanto
piuttosto
una sommessa, mesta accettazione, l'acquiescenza benevola di cui egli
ha bisogno. Perchè Oberyn non è venuto fino ad
Approdo
per Re per sopravvivere -ma per uccidere. Egli non esiterà
ad
offrire un tributo, per ottenere il debito di sangue che gli spetta. Lo
baci per consumargli la pelle, assorbi come stoffa la sua bellezza
scultorea ed eburnea, ardente, febbricitante, lo trattieni con mani
frementi, ma lui è una vipera e sai che presto, troppo
presto,
svincolerà dalla tua presa come neve sul palmo. Lo
ami
troppo per impedirglielo. E sotto le sue dita ti sveli come non hai mai
fatto, parli come non hai mai osato -... prima di domani.-
Oberyn ti guarda, piega un sorriso indulgente. -Domani non esiste,
Ellaria. Adesso, e noi, sono le uniche cose che esistono.-
Bugiardo, vorresti dire. Domani esiste, ed esiste più di
tutto:
occupa tutto lo spazio fra noi, in noi, attorno a noi. Ci comprime
dall'alto e ci minaccia dal basso. Appesantisce ogni minuto e grava su
ogni secondo. È in agguato nelle parole che io
pronuncio e
nei pensieri che tu non condividi. E c'è Elia, in fondo alla
stanza, a guardarmi con quegli occhi eterni, a tenderti la mano per
portarti via con sè; e ci sono quei due bambini innocenti,
che
sorridono beati, brandelli di carne e frammenti di ossa che grondano
dal capo spalancato in una poltiglia nerastra; e c'è Doran,
il
principe inconcludente, che sospira la morte dei fratelli e
rivolge altrove il suo sguardo inflessibile. Oberyn sorride,
sì;
la sua unica paura è il fallimento, e da te non pretende
più nulla. Sa che gli hai donato te stessa e te ne
è
grato, ma, se gli venisse proposto di rimanere per sempre in
quel
letto di velluto e sussurri, non accetterebbe.
Riconosci
il suo egoismo: quando sarà morto, il dolore sarà
soltanto affar tuo; egli non ne sarà più
coinvolto in
alcun modo. Ti lascia al tuo lutto, Oberyn, ti lascia alla tua
oscurità recondita, ti
lascia,
tutto qui. Tutto qui, in questa notte di nostalgia in anticipo, a
sfogliare ricordi e premonizioni, in questa notte di reciproca,
cavernosa solitudine, perchè siete soli, soli insieme.
Domani esiste, sta sbranando il presente secondo per secondo, sempre
più vicino, sempre di più. E vorresti fermarlo ma
non ha
corpo, e vorresti ucciderlo ma non ha cuore. Non ha cuore, il futuro.
Domani esiste già da un pezzo, esiste da quando
Elia
Martell è stata assassinata con i suoi bambini, ma tu non
parli,
non dici nulla. Gli carezzi i capelli con dita lievi ed effimere,
composta e solenne come i tuoi genitori ti avrebbero sempre voluto.
Oberyn non crescerà le sue ultime figlie. Per Dorea e Loreza
non
ci sarà una lancia da combattimento, e nemmeno un'immagine
vivida di quel padre che non avranno nemmeno il privilegio di
ricordare. Domani esisterà, come negarlo ormai?
Il vento, sconcertato, sibila un silenzio inclemente. Spazza la terra
battuta in un soffio arido.
La tua figura trema all'orizzonte, scura, esile ed ostinata, occhi duri
sotto i veli, occhi impastati di nero, kohl che gocciola come cenere
sulle guance.
La gola esplode con un frastuono disturbante. La violenza sopraggiunge
come un fantasma dal volto familiare.
Tanti lo piangeranno: ma in quel momento, lì, ci sei solo tu.
Note dell'Autrice: Evviva Ellaria! Quanto la amo nella serie tv. Sto
progettando una serie di drabble Oberyn/Ellaria. Sono troppo perfetti.
Sono troppo OTP.
La prossima sarà Arianne, signori. Che donna, Arianne. E
dopo le Vipere, oppure Trystane, a seconda dell'ispirazione.
Grazie per aver letto!
Lucy
|
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Capitolo 5 *** Arianne Martell- Acqua. ***
Arianne
Mi dispiace,
principessa, non posso parlare.
L'acqua canta una canzone atona. Il sole mormora fra sè,
spanto sui muri sbiancati di calce, pigro
nell'incontestabilità
del proprio imperio, sciocco nell'ottusità della sua
certezza. La vasca
di pallido marmo rosa offre un refrigerio elitario, rinchiudendo in un
paradosso di piaceri contrastanti chi vi giace. La luce gocciola
preziosa dai
rubinetti d'oro. L'acqua non tace, impassibile.
Assopita, contempli. Il sole di Dorne ti friziona la fronte,
inumidendola di sudore; le ciglia imperlate di scintille opalescenti
cedono alle dita abili di quell'estate instancabile.
Assuefante. Allunghi un piede, facendolo emergere dall'acqua con
la grazia di una sirena. Lo rimiri,
in controluce, azzurro contro il marmo, scuro contro il pallore. Il
nodo in gola non si risolve, non da solo, non lo farà.
Odore di
acri fiori senza ingenuità nè dolcezza ti mordono
il palato, liberando nella mente una bolla vuota sempre più
gonfia, sempre più rossa. Spezie diluite nell'acqua, incenso
che
si confonde con i pensieri. Un grosso scarabeo, dal dorso
rilucente di variopinti bagliori, verde e viola e blu, procede
lungo
il bordo smaltato della vasca, come se avesse tutto il tempo del mondo
per percorrerlo. E ce l'ha, forse. Chi lo può interrompere?
Lo segui con lo sguardo. Senti i muscoli come contratti,
attanagliati.
L'acqua persevera,
imperterrita, inclemente. Cade nella vasca. Ringhia verità.
Sputa sentenze. È l'unica cosa che sa fare. Vapore rosa,
suscitato dallo sfrigolare dei petali arroventati al sole, comincia a
salire
come nebbia. Veleno.
L'immobilità sorride serena e imperturbabile, opulenta ed
indolente in quel lusso facile, senza sforzo nè cattiveria.
Mi dispiace,
principessa, mi è stato ordinato di tacere.
Beffardo silenzio chiuso con una chiave d'oro.
Poi dici
basta.
Si alza come fa il vento, la figlia di Dorne. L'acqua
schizza,
infranta, violata, vituperata nell'esattezza liscia dell'inerzia.
Schizza grottesco, sangue invisibile di macello senza
testimoni. Morte veloce. Tutto
muore in fretta. Lo scarabeo spalanca le
grandi ali pesanti come mosaici, dispiegandole come ventagli, e
svolazza su una pianta da vaso arancione. La nebbia, come tagliata con
un coltello, fugge nel silenzio. L'odore dell'incenso si sostituisce al
sapore del sangue, raggrumato nell'ultimo respiro in fondo alla gola,
lì, all'altezza del petto -quel respiro di fumo e dolore.
È con rabbia che sfregi il lino delicato del tuo abito,
abito fragile di regina che non s'alza dal trono, di prigioniera che
carezza le proprie catene. Sa di sconfitta l'acconciatura ricercata dei
tuoi capelli, quindi sradicate le forcine, sradicati di pettini,
sradicata la debolezza di istanti di sconforto che i fantasmi
sussurrano ancora. Via tutto,
tutto. Il rumore degli smeraldi contro
gli specchi è quello delle illusioni rimpinguate contro la
nuda
terra. Grosse ciocche nere rimangono fra le dita tremanti,
come
ciuffi di pelliccia di lupo, come testimonianze di una battaglia.
Avvoltoio che strappa tendini alla ricerca della carne, svisceri quel
mondo di menzogne che s'erge temerario con la statica
arroganza degli onnipotenti. Un letto di piume che non ti serve,
lenzuola soffici su cui è dolore dormire.
L'inutilità
sfibrante di tanti specchi che si riflettono l'un l'altro, nel coro
assordante d'una litania infernale.
La porta è ancora chiusa.
Qualcuno ha parlato,
disse Areo Hotah.
L'ebbrezza della violenza, la maliziosa intelligenza della rabbia ti
trascina in un mondo di verità che bruciano, in un castello
di
sabbia che il mondo vuole annegare nel mare -sarebbe così
facile
lasciare che le onde lo raggiungano e lo sommergano, consumandolo poco
a poco, divorandolo torre dopo torre, sarebbe così facile
lasciarsi lenire le ferite.
Ma l'acqua del mare è sale, e la carne di Arianne Martell
non vuole essere sanata dal suo stesso aguzzino.
Volti si susseguono insieme ai brividi, insieme ai fremiti. La ferita
che si spalanca come un sorriso diabolico sul viso di Myrcella
Baratheon, sotto il bacio d'una lama. Arys Oakheart ed
il suo ultimo sguardo. Il lampo arrossato della spada di Gerold Dayne,
il disegno del suo mantello arricciato nel vento durante la fuga. Poche
parole e frammenti di te stessa.
Qualcuno ha parlato.
Il sangue di chi è morto per te sulla lingua, lamenti
tutto il dolore di una madre che assiste incatenata allo scempio di un
figlio; via le tende, che oscurano quanto desideri vedere di
più, via la scacchiera di cyvasse, l'ennesima lezione
schiaffata
senza bisogno d'alzare una mano. Via tutto. Tutto il resto.
Rimane solo
la porta e occhi a fissarti. Rimane una vetrata spalancata su colline
di fuoco e bronzo, sole di acciaio e vento di spada. Dorne. Terra
guerriera mai inchinata,
mai piegata, mai spezzata.
Ne carezzi con le unghie troppo lunghe il riflesso.
Ami Dorne fino a stare male, fino a che il cuore marcisce nella
responsabilità di oneri di troppe corone, quando in
realtà era una sola ad interessarti davvero -una sola che
era tua, e una sola che avresti dovuto preservare.
Questo il tuo regno, questo il tuo limite. Le unghie affondano nel
palmo. Hai cercato di fare quel che credevi giusto, già,
la giustizia fallita della regina senza corona. Quanto valore ha,
adesso? C'è chi cade e chi rimane in piedi, chi siede sul
trono
e chi giace sottoterra. Il resto è chiacchiera. Questo il
tuo
demone. Non c'è pietà, non c'è misura.
Voleva giustizia l'erede legittima, posposta alla vigoria di
un
baldo adolescente che riconosce come fratello solo perchè ha
gli
occhi di loro padre, Quentyn lo sconosciuto dall'aria familiare. Doran
Martell è sempre stato un sovrano perspicace, svelto
d'ingegno
quanto non lo è d'azione, eppure è con titubanza
che si
figura Arianne sul trono; legittima e rinnegata perchè
femmina,
che sconta
l'imperdonabile delitto d'indossare gonne e corsetti, bucata moneta di
scambio nel mercato nero.
Voleva giustizia Arianne, e credeva di sapere come ottenerla. La gloria
luccicava fra i boccoli biondi di Myrcella; la sconfitta
sgorgò
dallo squarcio sul suo viso. Un errore di calcolo. Una mossa azzardata.
Perchè importa ancora -tutto
ciò che importa- nell'aria asciutta di quella
tomba di lusso.
Qualcuno ha parlato.
Un urlo ti attraversa, dal cranio alle caviglie. Scuote le viscere.
Spacca il respiro. Un urlo che comincia a dilatarsi nelle parole
d'inchiostro, vergate in un lettera di molti anni prima, scoperta per
sbaglio e compresa troppo presto, un urlo che sopravvive e perdura
negli
anni come una promessa capitale. Ombre lunghe come spade striano la
luce, svelando l'inganno d'una quiete di tempesta.
Voleva far rimpiangere a Doran di averla sottovalutata, Arianne. Fa
quasi ridere pensarlo, adesso. Fa quasi piangere.
Le mani contro la porta, una supplica di gemme incastonate negli anelli
contro il legno. Rumore di vento che infrange i rami con dita cattive.
Pugni confitti di schegge che si abbattono imperiosi -imploranti.
L'attacco strenuo di chi sa di non poter vincere e di non
potersi arrendere. Nel tuo corpo c'è tutto il furore d'una
terra
invendicata, tutta l'angustia d'una femmina con sangue di re nelle
vene, tutto il torto d'una guerriera senza armi.
Il sangue riga la porta, quasi scrivendoci l'alfabeto d'una
devastazione ammutolita. Un delitto si è consumato in quella
stanza, e hai ancora tutto il tempo per morire. Il
rancore riaffiora fomentato da un pensiero troppo violento, si scioglie
ancora in spuma nera, si fiacca nel dolore monotono d'un fallimento
annunciato.
Lasci che la fronte ricada premuta contro la porta. Chiudi gli
occhi. Il seno sussulta all'unisono con il respiro. Le labbra non
vogliono sapere di stringersi, come i lembi sfilacciati d'una ferita.
La Torre della Lancia sembra in alto, più in alto del
gioco dei troni, oltre il netto ed impavido cielo di Dorne che non
conosce nuvole, oltre le tue intenzioni nè buone
nè
malvagie. E sempre sotto
l'imperscrutabile
volontà di Doran Martell. Per qualche doloroso, folle
istante, ti senti solo l'ennesima pedina martoriata e cullata, illusa e
disillusa, usata e scartata, elevata solo per essere spinta sul bordo
della scacchiera, forte per finta, impotente per davvero. Per qualche
doloroso, folle istante, ti senti sola fino in fondo all'anima.
Cadi a terra, come un animale ferito. È l'unica cosa che
sai fare. Il
gemito ti scuce le labbra, disarticolato, ossa rotte, melma
insanguinata, bolo di cenere. Il sole sorgente sghignazza, ammantato di
inaccessibile bellezza come il soggetto d'un ritratto morto, l'utopia
d'un sogno sognato in passato.
L'acqua prosegue a raccontare la sua verità. Non acqua
dolce, acqua salata, acqua
di mare. La sabbia si scioglie informe sotto le
dita. Il sordo lamento diventa lacrime.
Doran ti assorda, ti confina nella follia degenere della tua
solitudine. Aspetti. Tutto ciò che riesci ad udire
è il suo silenzio.
Nel delirio vedi tuo padre, lindo e nitido nel caos. Lui è
inginocchiato al tuo fianco. Non ti tocca, l'ha sempre fatto poco, non
servirebbe a nulla. Ti
guarda con quella patina di distaccata tristezza che deteriora i suoi
occhi da troppi anni.
-Rompere ciò che ti circonda non aggiusta ciò che
hai spezzato.- Voce di stelo.
Non parli. I tuoi denti vogliono ancora mordere, le tue mani
ricadono stanche di rovina, ma è nei tuoi occhi la
lancinante
consapevolezza del vero dissestante.
Un sospiro.
-Assomigli sempre di più a tua madre. Sempre di meno a me.-
Occhi incrostati di lacrime, nero di notti bevute e vissute e sofferte
cicatrizzato sugli zigomi. Frammenti di gioielli sbrindellati. Forse
hai cominciato a piangere, dopotutto.
-Verrà il giorno in cui saremo uguali, e parleremo l'uno di
fronte all'altro come se non avessimo più segreti.-
Doran Martell si sgretola nelle spire del tuo sonno scarlatto. Il grido
risuona ancora, più alto di prima, come il canto d'agonia
d'un cigno.
Quando ti svegli, decidi che è ora di scommettere
sull'ultima
carta che ti è rimasta in pugno -l'ultima, dopo sarai
fuori dal gioco. E smetti di mangiare.
Ci sono i crampi della fame nell'incavo del ventre, ma, quando si
infrangono al suolo, i piatti d'oro che precipitano dalla finestra
promettono vittoria.
Sorridi. Anche tu hai imparato ad aspettare.
Note dell'Autrice: Perchè tutte le donne Martell sono una
piccola meraviglia, Arianne in particolare. <3 Sì, lo
ammetto, sono innamorata di lei.
Il prossimo capitolo sarà su Trystane, oppure su Quetyn...
non ho ancora le idee chiare. Grazie per avere letto. Taaanto love. ^-^
*s'inchina*
Lucy
|
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Capitolo 6 *** Quentyn Martell- Maschera. ***
Quentyn Martell
Quentyn
Martell.
Maschera.
Daenerys della nobile casa Targaryen, la Non-Bruciata, Nata dalla
Tempesta, prima del suo nome, regina di Meeren, degli Andali, dei
Rhoynar e dei Primi Uomini, Lady dei Sette Regni, Protettrice del
Reame, Khaleesi del Grande Mare d'Erba, Distruttrice di Catene -Madre
dei Draghi. È così che si fa
chiamare, scrive suo padre.
-A cosa pensi?- chiede Gwyneth, dopo aver lasciato cadere il fiore fra
l'erba ed averlo osservato per qualche istante.
Quentyn strappa una manciata di steli, distrattamente. Il sole,
annegando fra le aspre cime d'una catena montuosa, soffia un ultimo
respiro caldo. Il tramonto è dolce su quella terra
così dura.
-A niente in particolare.- assicura, giocherellando i pollici e
tradendo un certo nervosismo. Gwyneth studia il suo volto per qualche
istante, poi lascia perdere. Impossibile dire quando il principe
è preoccupato. Lui non sorride mai -nè quando
è
effettivamente preoccupato, nè quando è
tranquillo. E poi -così, per gioco- pensa che le piacerebbe
sposarlo. Non è Dorne che le interessa -è questo
fuoco nero che pervade Quentyn da dentro, come un alito di vita
crudele, come un destino turbolento e fuori dal comune. Che si riflette
sul suo viso dalla
fronte troppo alta, la mandibola troppo squadrata, il naso troppo largo.
Ma non è nemmeno il suo aspetto, pensa Gwyneth.
Tradurlo. Decrittarlo.
Scoprirlo. Ottenere la sua fiducia. Decide infine che
è in questo senso che le piacerebbe sposare Quentyn.
-Sei troppo intelligente per non pensare a niente.- protesta,
sorridendo con timidezza.
Ma il principe di Dorne non mente, ha risposto la verità.
Non pensa a niente in
particolare. Pensa in
generale.
Nella vita di Quentyn Martell ci sono state sette donne. Non troppe,
non troppo poche, per diciotto anni di vita. Un numero ragionevole.
La prima è Mellario di Norvos, i suoi riccioli in cui
affondare
le dita, la sua parlata sciolta e sinuosa come un nastro avvolto nelle
proprie spire. Lei è l'effigie di un'infanzia che
è un
limbo d'oblio, frammenti di ricordi a metà che rimangono
conficcati nella carne come cicatrici su cui ridere sopra, memorie di
giochi pericolosi sugli scogli insieme alle vipere delle sabbie.
Mellario è la dea di un paradiso terreste da cui adesso
è
recluso, e rivederla è come cercare di riabbeverarsi di quel
vento di sale, di riavventurarsi fra quelle rocce aguzze, di
riappropriarsi di quei brividi d'emozione che sono i primi, e quindi
perfetti -intoccabili come sacre reliquie. Rivederla, però,
è
soprattutto come realizzare di non poterlo più fare.
Lanciare
uno sguardo su tutto adesso, negli anni della consapevolezza, significa
scorgere le ombre che si annidano negli angoli della casa materna, che
gli occhi risparmiano solo ai bambini. Carezzarle le guance adesso,
negli anni del raziocinio, significa percorrere con le dita i solchi
delle lacrime, le fosse delle occhiaie. Adesso Mellario è
una
donna stancata dagli anni e dalle vicissitudini, un fiore nero che
vuole rimanere bocciolo fino a soffocare fra i suoi stessi petali.
Tutto è più lugubre, adesso.
La seconda donna di Quentyn è Arianne. I cinque anni che li
separano hanno fatto di lei la sua più acerrima nemica e la
sua
più fidata complice. Arianne, nella sua mente, è
sempre
una scura gazzella dalle gambe lunghissime e dalla capigliatura ispida
come la pelliccia d'una pantera, con occhi ridenti di sarcasmo e mani
magre e abili che sanno intrecciare mille ghirlande di soffioni e
braccialetti di foglie. Muoviti,
Quentyn, l'acqua
è caldissima! Se non ti decidi a tuffarti, ti prendo per i
piedi! La
sua risata ampia, malandrina, iridescente. Il suo fiato che
è una fragranza delle noci di cui è ghiotta,
l'eterna cicatrice su un fianco e su un ginocchio, il
suo corpo lungo, guizzante e morbido che Quentyn abbracciava al termine
di ogni
monelleria, ansante, con ancora una risata in gola, quel corpo che lo
stringeva con tenera gratitudine, con la sabbia sotto la nuca. Quentyn
è felice di conoscerla meglio di molti altri, di sapere
quanta
fredda e vivace intelligenza si celi dietro il suo sorriso disarmante,
però è ancora più felice di sapere la
sorella
ammantata d'una veste tempestata di piccoli segreti, di grandi misteri
che lui non svelerà mai. Poi, dopo il trasferimento presso
gli
Yronwood, l'inspiegata ostilità. Ora Arianne lo saluta con
formale
cortesia, con la voce lontana di chi accusa un delitto impronunciabile.
Quentyn vorrebbe urlare, ma non è nelle sue corde. Perchè,
sorella? Perchè non mi prendi più per mano e non
mi
conduci in quei ritagli di universo ch'erano solo nostri?
Perchè, quando sei arrabbiata con me, non tieni
più il
broncio in quella maniera che tanto amavo, per poi perdonarmi in una
lotta di solletico e cuscini? Ma tutto è
cambiato, senza disturbarsi ad avvertirlo nè tantomeno a
chiedergli il permesso. Quentyn non odia Arianne per il suo distacco,
come non odia sua madre per la sua tristezza. Gli fa solo un po' male.
Il sapore del veleno che tortura l'amato è più
acre sul palato di chi ama. Arianne si volta di spalle, mentre Quentyn
sospira tra sè. Tutto è più difficile,
adesso.
La terza non è una donna, è una
bambina. Si chiama
Ynys e ha i capelli biondi. Quentyn non è un menestrello:
non sa
se sono biondi come il grano, come il sole o come l'oro. Sa solo che
sono bellissimi. Lei è bellissima. Si vede che dedica molto
tempo a quei capelli. Quando li getta dietro le spalle, allo stesso
modo in cui farebbe
con un velo troppo lungo, frusciano come sabbia fra le dita, come spuma
sul bagnasciuga. Ha un viso piccolo, gote fresche, labbra gonfie, occhi
vividi- cangianti, che cambiano colore a seconda della direzione della
luce. I suoi vestiti paiono piccole chiazze di colore a tempera, da
lontano, riflessi di arcobaleno in una pozza d'acqua pura. È
piccola e preziosa, e Quentyn si sente uno sciocco quando lei lo guarda
e sorride. Sembra sempre che lo stia deridendo. Ynys. Un
bel nome. Ha una sua musica, un suo incanto. È la prima
cotta
che Quentyn si sia mai preso, dopotutto. E il suo piccolo viso, se
tenuto fra le mani, è freddo o caldo? Dieci anni dopo, lei
si
chiama sempre Ynys e i suoi capelli sono ancora biondi, ma non ha
più tanto tempo da dedicarci. Sotto la foggia austera
dell'abito, il seno è sfatto dal latte con cui ha nutrito i
figli che Ryon Allyrion le ha dato. La sua voce è alta e
petulante quando grida ai suoi bambini di non mettere in bocca quella
roba. Forse
è allora che Quentyn si accorge che lo splendore
dell'infanzia
è contraffatto da un dio avverso -che qualcosa di sinistro
sta
avvenendo, che c'è odore di pioggia nell'aria vibrante. Ynys
non è più bambina e non c'è
più musica nel suo suono. Ingrigiranno presto, quei capelli
biondi. Tutto è più profano, adesso.
La quarta e la quinta sono gemelle, le gemelle Drinkwater. Quentyn non
riesce mai a distinguerle, ma in fondo non è così
importante. Nemmeno loro sembrano avere gran voglia d'essere distinte.
Hanno il sorriso della giovinezza sulle labbra e il vigore ebbro di
ballare fino a schiantarsi per terra. In un'altra era, quando durante
le sue visite Doran Martell sorrideva ancora, Quentyn ne
baciò una. Era
il suo primo bacio. Sapeva di quelle bacche selvatiche, non
identificate, che i bambini raccolgono nei giardini vicino a casa.
Sapeva di strano e di bagnato, ma aveva fatto sentire Quentyn
più principe di quanto non fosse riuscito suo padre in una
vita.
Poi la gemella l'aveva fissato per qualche istante, era scoppiata a
ridere -evidentemente per via della sua espressione sgomenta- ed era
scappata a cercare l'altra per raccontarglielo. Cletus le ha
un giorno proposte a Quentyn come concubine, amanti da portarsi
appresso e da consumare il giorno in cui il talamo nuziale gli fosse
venuto a noia. Per un secondo, Quentyn le ha immaginate, i corpi
fiorenti e così tremendamente simili accostati sulle
lenzuola
bianche, i capelli sparsi sulla federa del cuscino. Lui è
troppo
timido per accettare simili proposte. E poi, l'idea non gli piace.
Sarebbe come rovinare qualcosa -deturpare l'illustrazione a pastello
d'un libro di fiabe. Sarebbe come dissacrare un altare.
Perchè un giorno anche le gemelle saranno come Ynys, donne
avvizzite ed esasperate da ogni labile traccia di giovinezza. A Quentyn
va
bene così. Non sarà lì a guardarle,
quella volta. Tutto è più chiaro, adesso.
La sesta donna della sua vita, anche se Quentyn l'ha appreso da poco,
è Daenerys Targaryen. La regina armata di Immacolati, draghi
e una lunga treccia di capelli d'argento. La moglie che gli
offrirà la gloria in dote. La donna per cui
abbandonerà tutto
questo, l'angoscia, l'indifferenza, la perdita, la rinuncia. La donna
per cui abbandonerà Gwyneth. La settima, pensa, davanti a me.
-Un giorno me lo dirai, a cosa pensi?- È solo una ragazzina.
Corti capelli castani, che le sfiorano a malapena le spalle, e un tondo
viso ancora infantile. Quentyn si chiede per quale motivo le stia dando
retta. Comunque, non ha più alcuna importanza. Dopotutto,
chi non abbandonerebbe qualsiasi
cosa per la mano di Daenerys? Chi non scambierebbe la
piccola, umile Gwyneth per l'ultima dei Targaryen?
-Non ci sarà un
giorno.- obietta Quentyn, aggrottando la fronte.
-Sposerò un'altra.-
Stringe fra le dita la lettera di suo padre. Convocato ai Giardini
dell'Acqua, prima della
partenza per andare a cercare Daenerys. Per i Martell, per
i Targaryen, per il regno, per la famiglia. Per Quentyn, forse? No,
questo non l'ha letto. Per
Dorne. Lui non è affatto Quentyn. Lui
è Dorne, adesso.
Lui dev'essere Dorne,
adesso -che è diverso. Doran l'ha voluto -Doran
l'ha ordinato-
che Quentyn ci creda o meno. E nel momento in cui lui diventa Dorne,
non può permettersi di cadere.
Attento,
Quentyn. Non
equivocare un tuo dovere per un tuo desiderio. Potresti rimanere deluso
dal risultato. Più che altro, non ti conviene. I doveri si assolvono
sempre, i desideri non si realizzano mai. Ma questo Doran
Martell non l'ha scritto.
Gwyneth tace. Le piacerebbe dirgli che si sbaglia. Le piacerebbe
accarezzare con le dita quella bella maschera di bronzo
che le nasconde ciò che di più prezioso
può immaginare. Se
ne avesse il
potere, non la manderebbe in pezzi: si limiterebbe a
scostarla un
attimo, giusto per intravvedere il nucleo pulsante, vivifico di quel
fuoco nero -la
soluzione dell'enigma- e poi la rimetterebbe al suo posto
-sapendo che quella è
una porta sempre aperta per lei. La chiave rende la serratura
inoffensiva. Se solo ne
avesse il potere.
Quentyn non sposerà un'altra. Lei se lo sente.
-... tre giorni di agonia, poi gli dèi sono
stati clementi e lo hanno chiamato a sè. Bruciato vivo da un
drago. Si dice che in pochi abbiano avuto l'ardire di guardare le
ustioni sul suo corpo. Così se n'è andato, il
nostro principe.-
Mentre suo cugino Archibald parla, Gwyneth percepisce dentro di
sè l'apnea. Prova ad immaginare Quentyn trasfigurato dalle
fiamme -la maschera, la
serratura, tutto- trasfigurato dal fuoco nero. I
lineamenti che si sciolgono al tocco del fiato incandescente, lacrime
di ciglia in polvere e d'occhi liquefatti, il bronzo che cola
giù. Meno male che Gwyneth ha scostato le mani in tempo,
allora. Quentyn no. Quentyn è rimasto fedele alla sua
maschera al costo di arderci sotto, pur di non rinnegarla.
Non l'avrei spezzata,
io, quella maschera, pensa Gwyneth. L'avrei solo sollevata. Solo
sollevata per un po'... Sarebbe stato il nostro segreto. Se
solo ne avesse avuto il potere. Se solo ne avesse avuta l'occasione.
Hai visto,
Gwyneth? Alla fine, Quentyn non
ha sposato un'altra. Proprio come sentivi tu. Non
era quello che volevi?
Lui non era Dorne. Lui era Quentyn. Ma, evidentemente,
non bastava a lei sarebbe bastato.
E quindi, qual è la soluzione dell'enigma? Cosa cercavi di fare, Quentyn?
Dove andavi? Forse, tentando d'evadere dal labirinto, non hai fatto
altro che addentrartici più a fondo.
Dietro la maschera c'è una sola risposta.
Gwyneth rilassa un pugno. La cenere ruscella fra le dita.
Note dell'Autrice: Dopo una vita, rieccomi. Pensavo di postare subito
storie sulle vipere, ma poi ho deciso di dare la precedenza ai
principini.
... non apprezzo moltissimo Quentyn come personaggio, ma la sua storia
non può fare a meno di rattristarmi. Ci sono delle teorie
che lo vogliono vivo, ed io quasi quasi ci spero -ma non troppo,
perchè Martin è Martin, e se c'è
l'occasione di ammazzare qualcuno... insomma, così.
Fondamentalmente, questo giovanotto finisce col starmi simpatico
perchè non è superman. È un
adolescente nella media costretto dal suo nome ad ambire ciò
che in realtà non desidera. E quindi ho scritto questo.
Spero di essere rimasta IC.
Nella storyline di Quentyn, secondo me, emerge un po' la
personalità di Doran come vero e proprio giocatore, che non
esita a coinvolgere anche il suo stesso figlio, pur consapevole dei
rischi. A mio parere, mandare Quentyn da solo con quattro disgraziati
di quindici anni non è stata proprio una furbata.
Grazie per avere letto quest'altro capitolo, e grazie anche a tutti
quelli che hanno messo la storia fra le preferite/seguite/ricordate
<3 Chi volesse lasciare una recensione, sarà da me
molto amato e riverito.
Lucy
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