Biografía de un pintor

di Mikirise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio ***
Capitolo 2: *** La presa del pennello ***
Capitolo 3: *** Il Circolo di Cesare ***
Capitolo 4: *** Il Centro ***
Capitolo 5: *** Il favore della Fortuna ***
Capitolo 6: *** La nascita del primo bambino ***
Capitolo 7: *** Il tradimento ***
Capitolo 8: *** Il ritorno, la partenza ***
Capitolo 9: *** La scomparsa di Rojo ***
Capitolo 10: *** Invisibile ***
Capitolo 11: *** Movimento ciclico ***



Capitolo 1
*** L'inizio ***


1. L'inizio

Il Suicidio col cianuro





La vera vita di Romano Lovino Vargas, conosciuto al mondo come Rojo, iniziò il 23 maggio del 1981 alla tenera età di 8 anni.

Sdraiato sulla tomba della madre, Laura Donati, piangeva disperatamente, con rabbia, graffiando il marmo duro e freddamente bianco della lapide, mandando a fanculo quei bastardi della chiesa, che non potevano essere altro che delle merde, delle grosse merde. Spingeva lontano il padre, gli sputava addosso e, quando Feliciano si avvicinava a lui, nell'ingenuità che solo un bambino può avere di poter consolare qualcuno nella morte, lo spaventava con sguardo gelido e con la ferocia di una bestia.

Nessuno era riuscito a staccarlo dalla tomba di sua madre, situata nel cimitero dei non credenti,e lì rimase, quando le poche persone che erano venute a dare l'addio a quella pover'anima decisero di andarsene, ché il fresco di sera li aveva raggiunti e il sole li aveva abbandonati, lasciando il suo posto ad un cielo scuro, blu, buio senza stelle, ma con una luna tanto grande che vegliava sul bambino che piangeva.

Romano si coricò accanto al nome della madre da nubile, con le lacrime che ancora bruciavano, le guance paffute rosse e rigate, il naso gocciolante.

Era stato il primo a trovare il corpo della mamma, tornando da scuola da solo, come sua consuetudine. Aveva sentito uno strano odore entrando, un odore che non aveva mai sentito. Aveva chiamato molte volte la mamma, stranito dal fatto che non si trovasse in cucina, come suo solito, preparando la merenda, mentre scuoteva la sua testa piena di capelli lisci e rossi, cantando una vecchia canzone italiana che puntualmente rovinava, stonando una nota qua e là. Aveva cercato ovunque, correndo nella piccola casa, vuota, che prima di loro era appartenuta a suo nonno materno, morto prima che Romano nascesse. Aveva aperto tutte le porte ed aveva incontrato la donna a terra, con gli occhi aperti e pieni di rancore. L'aveva chiamata. Aveva pianto nel chiamarla e non aveva capito, all'inizio, che fosse morta. Le aveva chiesto come fosse riuscita ad addormentarsi in bagno, che si doveva svegliare ed aveva provato lui stesso ad alzarla da terra e portarla per lo meno in camera da letto, sospettando che Laura fosse non addormentata, ma svenuta. Quando però cercò di alzarla, la mamma era rigida ed i suoi occhi vitrei. Romano si spaventò e corse fuori casa, nella paura che la madre fosse in pericolo. Vivevano soli, loro due, in quella piccola casa, in un posto isolato, e ben presto il bambino si rese conto di non sapere dove doveva andare, dove cercare aiuto e, soprattutto, a chi chiedere aiuto. Si ricordò che un suo compagno di classe era figlio di un dottore, che probabilmente era quello del paese. Corse con tutto il fiato che aveva in corpo, non salutò nemmeno quando gli aprirono la porta, chiese solo per il dottore, gridava che voleva il dottore, che doveva seguirlo a casa, subito. L'uomo in quel momento si stava togliendo la giacca, dopo la sua giornata di lavoro, e guardò la moglie supplicante, perchè non se la prendesse con lui se il lavoro lo seguiva in casa, e lei agitò la mano, dandogli il permesso di seguire quel ragazzino maleducato, figlio di una donna beffata ed abbandonata. Quel bambino senza padre.

A Romano sembrava che il dottore facesse di tutto per rallentare il passo, con la scusa che il cappello gli volava via, non riuscendo a correre per il troppo fiatone, per la ripidità della collina sulla quale si trovava la casa del bambino. Romano lo aveva preso per la mano e trascinato con sé.

Appena arrivato, il dottore, riconobbe immediatamente l'odore di mandorle amare che padroneggiava nella casa, ma guardando il bambino che saltellava indicandogli il bagno, ebbe paura di dire la sua teoria.

Non poté più tener lontano Romano dalla realtà quando vide il corpo senza vita di Laura Donati, a terra.

Come dire ad un bambino che la propria madre si è suicidata?

Romano ingoiò la saliva, chiedendo "Starà bene?"

Il dottore si grattò la testa guardando ovunque meno che negli occhi nocciola preoccupati davanti a lui.

Stavano tutti aspettando quel giorno, ad essere sinceri. Poche erano le certezze nella vita dei paesani ed una di queste era che, nonostante Laura Donati amasse alla follia suo figlio, era una donna infelice. Aveva firmato la sua condanna all'infelicità sposando l'uomo che sarebbe poi stato il padre di Romano, Bruno Vargas, che le regalò gli anni più belli della sua vita. Per quanto avesse provato negli anni seguenti a demonizzare Bruno, Laura non riusciva a dimenticare le risate, le carezze, gli abbracci che le aveva donato e l'amore che allora lei pensava fosse eterno. E fu in quegli anni che nacque Romano, come un piccolo miracolo caduto dal cielo, e Laura amò anche lui come mai era riuscita ad amare nella sua corta esistenza. Sembrava che vivessero una vita perfetta; i primi ricordi di Romano derivavano proprio da quel periodo della sua vita. Ricordava sua madre che rideva sul lato della collina tenendo la mano al padre, i fiori che lei coglieva, Bruno che lo teneva in braccio, accarezzandogli dolcemente la guancia.

Erano dei ricordi sparsi che aveva e che in un certo senso facevano parte del suo stesso essere, facendo in modo che tutto quello che avrebbe ricordato di periodi seguenti non scalfissero l'immagine che aveva del padre, e, fino a quel giorno, era stato sicuro, sicurissimo, che nulla mai, neanche quello che aveva fatto alla mamma, sarebbe riuscito a far amare un po' di meno il suo stesso padre. Almeno fino a quel giorno.

Certo, aveva pianto quando Bruno non era tornato più a casa, anche se non aveva capito per quale motivo aveva preso tutte le sue cose e se n'era andato via, o almeno, non lo aveva capito finché la domenica seguente l'aveva visto accanto ad una donna, incinta, e l'aveva baciata, sulle labbra, davanti alla piazza, davanti a tutti, davanti a lui, davanti a mamma.

Il fatto che Bruno Vargas avesse una seconda famiglia, una seconda moglie, un secondo figlio, fu presa da Romano come se fosse una cosa normale, anche se dolorosa, una naturale evoluzione della vita, perché Laura era arrivata a non voler far odiare al figlio il proprio padre, e Vanessa Pancotti, madre di Feliciano Vargas, l'aveva pregata in ginocchio di fare in modo che i due figli di Bruno non crescessero soli o divisi, di perdonarla per l'atto d'adulterio in cui aveva indotto il marito, di non provare rancore.

Laura Donati non avrebbe voluto provare rancore, ma vedere suo figlio tenere in braccio, nonostante la giovane età, il figlio di quella donna… di quella puttana che gli aveva portato via la sua fonte di felicità perpetua, la mandava fuori di testa, ed il fatto che quei due bambini fossero così legati, che Feliciano cercasse sempre la mano di Romano, che suo figlio si fosse venduto così facilmente all'altra famiglia, la fece sentire talmente tradita da quel piccolo che aveva portato in grembo per otto mesi ed una settimana, da piangere ogni notte nel suo letto vuoto e senza amore.

Neanche a Bruno Vargas piaceva la complicità dei suoi due figli e guardare Vanessa accanto a Laura gli faceva salire i sensi di colpa dalla pancia alla testa e non poteva sopportare una simile tortura. In più, Romano aveva accettato non molto serenamente la decisione del padre di vivere con la sua altra famiglia, vedendo quella non solo come la decisione di abbandonare la mamma, ma di abbandonare in un certo senso anche lui.
Ed infatti così fu, dovette ammettere a se stesso una volta cresciuto Romano. Bruno Vargas non andava mai a trovare il suo primogenito, né si preoccupava della sua formazione, cultura, educazione, o della situazione economica in cui si trovava. Sembrava voler semplicemente cancellare quella che era stata la sua vita prima di Vanessa Pancotti e nella sua damnatio memoriae fu condannato anche Romano, che continuava, nonostante tutto, a stravedere per lui, cercando di reprimere i suoi sentimenti di bambino ferito ed abbandonato.

Romano cercava la sua felicità in sua madre che era stata capace, in quei quattro anni, di reprimere ogni forma del suo rancore, del suo odio, della sua infelicità davanti agli occhi del figlio ed ogni giorno cantava insieme a lui, ballava insieme a lui e dipingeva insieme a lui.
Nei suoi primi anni con il pennello in mano, Romano Vargas fu ossessionato dall'immagine della madre sdraiata accanto a lui, con i capelli rossi intrecciati coi fili d'erba; la dipingeva febbrilmente in ogni prospettiva, con tutti i colori che aveva disposizione, soprattutto il rosso ed il verde, per poi strappare le tele fresche con le lacrime agli occhi, quasi vedesse, nella sua rappresentazione della madre, quella tristezza che da bambino non era mai riuscito a captare, ma che tutti, in paese, vedevano.

Sapevano, loro, che Laura Donati avrebbe fatto una pazzia prima o poi, solo aspettavano di vedere quale, e quando il dottore annunciò, tenendo teneramente la mano di Romano, che era morta, suicida con una fialetta di cianuro, tirarono un sospiro di sollievo: molti pensavano che avrebbe portato con sé il frutto del suo amore infelice, invece si era solo suicidata come Hitler.

In realtà, Laura, non voleva che la sua morte fosse comparata con la morte del pazzo dittatore tedesco, anche se probabilmente sapeva che un simile parallelo era possibile. Lei, molto più semplicemente ed umanamente, non voleva soffrire. Voleva trovare quella pace e serenità, che in vita non aveva avuto, nel momento di morte, senza sofferenze, senza ripensamenti. 
Molti anni dopo, parliamo degli anni 2012 e 2013, alcuni ragazzi, che entrarono a far parte della vita di Romano in seguito, fecero un altro parallelo, forse più romantico e, forse, più vicino alla realtà. La madre di Rojo certamente non avrebbe potuto pensare ad un parallelo del genere, perché morì prima che il libro fosse pubblicato, ma questi ragazzi, collegarono la morte della donna alla prima morte presente nel L'Amore ai Tempi del Colera, dove, si dice, il suicidio col cianuro fosse dovuto ad una pena d'amore, un amore infelice.

Se Laura Donati morì, fu comunque a causa di Bruno Vargas.

Romano pianse tutte le sue lacrime, colpendo il dottore, il padre, Vanessa, il parroco, chiedendo per quale motivo la madre era morta e per quale motivo l'unico che sembrava soffrire per davvero era lui.

Il parroco gli disse che sua madre era una peccatrice, e solo una volta cresciuto Romano avrebbe capito che se sua madre non era stata sepolta accanto a suo nonno, come invece lei avrebbe voluto, era perché era una suicida, ed avrebbe odiato don Luca per aver parlato male di sua madre nella morte, ripetendogli che era una peccatrice, che sarebbe bruciata all'inferno.
Quella merda. Che ne sapeva di quello che Dio avrebbe fatto alla madre? Laura era una donna buona, Laura era sua madre. Non avrebbe mai perdonato nessuno del suo paese, per aver giudicato e condannato sua madre.

Sdraiato accanto alla lapide di Laura Donati, Romano pianse fino ad addormentarsi e fu portato via da Bruno Vargas nella casa che condivideva con Vanessa Pancotti.

Bruno non voleva crescere suo figlio. Aveva cercato mille scuse per mandarlo via, da parenti lontani magari, per non rivedere mai più quel ragazzino, simbolo dei suoi errori e dei suoi sensi di colpa. Ne parlava davanti a Romano, senza farsi troppo scrupoli, senza nemmeno pensare al fatto che si poteva offendere, o che potesse ferirlo.

Paradossalmente era Vanessa a difendere la posizione del bambino, ma non servì a nulla.

All'età di undici anni Bruno Vargas mandò via Romano di casa, spedendolo da suo nonno paterno, Cesare Vargas, con la scusa di una migliore istruzione e di un posto più adatto al suo sviluppo. Disse che il paese era avverso a Romano, conoscendo la sua storia, quando in realtà, l'unico sentimento che i paesani provavano per Romano era compassione, una compassione che li portava a trattarlo con le pinze, nonostante il caratteraccio del ragazzino incline ad insultare chiunque si avvicinasse a lui.

Nonno Cesare si era, tempo addietro, trasferito in Spagna, perché, aveva detto, quei paesaggi gli ricordavano i suoi tempi di gloria, quando sentiva di avere il mondo ai suoi piedi e aveva lasciato lì i suoi compagni più fidati nella lotta contro la vita. La verità dietro il suo trasferimento era che si sentiva di troppo accanto al figlio.

Romano non aveva battuto ciglio nemmeno a sapere che si sarebbe dovuto spostare così lontano, semplicemente mormorò, con un po' di pasta in bocca, parlando a bocca aperta, così come dava fastidio a Bruno, in uno dei suoi innumerevoli atti di ribellione "Beh, sembra tu ce l'abbia fatta a sbarazzarti di me", si alzò dal tavolo, facendo strusciare la sedia, e, non appena in piedi, fece un inchino ironico al padre, per poi andare a preparare la sua valigia in camera, da solo, ferito.

L'unico per cui Romano pianse anche se non immediatamente, fu suo fratello, che quella sera venne da lui e gli chiese quanto distava la Spagna da casa e gli promise che sarebbe andato a trovarlo tutti i giorni, almeno a pranzo, perché così avrebbero potuto disegnare insieme anche questa Spagna di cui tutti parlavano. Romano sorrise leggermente. E chi glielo spiegava a Feliciano che non poteva prendere tutti i giorni l'aereo per andarlo a trovare? Il fratello maggiore pensava addirittura che le sue visite sarebbero state molto rare, per non dire nulle. Non disse nulla, tuttavia; gli lasciò un pennello, uno vecchio che a sua volta gli aveva regalato Laura quando era più piccolo. Era stato il primo pennello che Romano Lovino Vargas aveva mai avuto e fu il primo che Feliciano Veneziano Vargas ebbe, per non dire il più prezioso. Quando, anni dopo, Feliciano era diventato un pittore abbastanza riconosciuto, Romano si stupì vedendo che gli ultimi ritocchi ai suoi quadri li dava col vecchio pennello rosso e fino, che lui stesso gli aveva dato quella notte. Feliciano gli donò un crocifisso e Romano lo trovò abbastanza ironico, così come tutte le persone che lo impararono a conoscere negli anni; si poteva dire che il ragazzo avesse una fede tutta sua, un modo di vedere Dio tutto suo, ed un rancore profondo verso la religione cattolica che avrebbe lasciato sua madre dissepolta, lontano da Dio, senza la minima possibilità di una salvezza celeste. Eppure aveva un crocifisso al collo, simbolo che gli ricordava sua madre e suo fratello, la sua Italia, i fili d'erba intrecciati con i capelli di Laura ed il suo Dio, quello che aveva abbracciato sua madre nella morte, l'aveva riempita di affetto, confortata per i suoi dolori e resa finalmente felice.

Romano partì il 3 Luglio 1984. Non pianse, non rise, non disse nemmeno niente. Accarezzò i capelli del fratello minore in un raro gesto d'affetto, salutò con un cenno del capo Vanessa, non si girò nemmeno a guardare Bruno.

Prese l'aereo da solo e, vedendo la sua Italia da là sopra, si morse il labbro inferiore e sentì come se una parte della sua vita fosse terminata, come se stesse dicendo addio a se stesso. Ripensò alla casa dove era nato e dove aveva passato i migliori anni della sua infanzia. Sentì una fitta al cuore al pensiero che fosse sola ed abbandonata, ma non pianse, chiuse gli occhi e cercò di dormire






Note dell'autore

E Miki ritorna.

Non mi faccio vedere dall'anno scorso, letteralmente, eppure la stesura di quest'idea è iniziata immediatamente, quasi subito dopo la fine di Baffo.

Anche questa è una Spamano, tuttavia l'aspetto romantico cade un po' in secondo piano, in quanto, come avrete sicuramente capito, la storia viene trattata quasi come se fosse una biografia. Il che vuol dire che a volte vi ritroverete con un singolo evento emblema di un'età di Romano e, a volte, dei salti temporali che spero non vi confondano. Anche perché ho deciso di riprendere alcuni capitoli o dal passato, rispetto alla parte di vita che ho raccontato, o futuro. 

In quanto a coppie, ce ne saranno molte, ma, per ragioni di contesto, ho scelto molte etero. Spero non mi odiate per questo. 

Ci tengo a questa storia. Ed ho alcuni capitoli pronti, nonostante questo, dovuto ad impegni personali e scolastici, questa volta aggiornerò una volta ogni due settimane, quando tutto andrà bene, per poter rivedere alcuni capitoli e probabilmente anche riscriverli. Questo perché i capitoli della storia sono belli lunghi e molto spesso mi ritrovo a perdermi, in un certo senso, nella scrittura e dimentico il filo del discorso. Tipo adesso. 

Spero che l'idea possa piacere e… beh, mi mancava scriverlo: un abbraccio spirituale a tutti quanti quelli che decideranno di seguire la storia e me in questo viaggio temporale di un Romano pittore. 

Aaaah, mi batte forte il cuooooreeee!

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Capitolo 2
*** La presa del pennello ***


2. La presa del pennello

Sotto L'albero di pesco



Cesare Vargas aveva vissuto la sua vita come solo un uomo pieno di energia e di amore avrebbe potuto vivere.

Viaggiò per il mondo, lo conobbe, lo conquistò. Eppure era solo un professore, si era detto Romano mentre ascoltava la biografia del nonno. Insegnava qualche cosa riguardante le scienze umanistiche, per quanto ne sapeva il ragazzino, oratoria? Filosofia? Scienze politiche? La verità era che ogni volta la sua versione sull'insegnamento era diversa. Una volta insegnava storia, una matematica, a volte arrivava a dire che era insegnante di astrofisica e a quel punto Romano smise di dare per oro colato le parole di quel vecchiaccio, sapendo che non era riuscito ad aiutarlo in un semplice calcolo nei suoi compiti a casa. Insomma, agli occhi di Romano, Cesare Vargas era un cazzaro e, come avrebbe detto sua madre se fosse stata ancora viva, era un cazzaro di qualità, ossia le sparava belle grosse. Ma la caratteristica principale di Cesare Vargas, che non passò inosservata dal bambino, era che, come lui, era stato allontanato e dimenticato dalla sua famiglia.

Nonostante questo particolare, Cesare Vargas era un uomo felice. Insegnava col sorriso sulle labbra, suonava una chitarra nel parco ed amava parlare con le persone che incontrava.

Quando, il 3 Luglio del 1985, vide nell'aereoporto suo nipote Romano, con una gomma in bocca, un broncio adorabile e le braccia incrociate, rivide in lui suo figlio Bruno, quando ancora giocava nel giardino della loro vecchia casa, sognando di diventare un soldato, e pensò che in un modo o nell'altro sarebbe riuscito a salvare almeno suo nipote da quel circolo vizioso di sensi di colpa e dolore. Si ripromise di trattare Romano non come un nonno, ma come un padre, con la stessa rigidità, le stesse aspettative e la stessa attenzione, non lasciando che il bambino abbandonasse la retta via e che mai nella sua vita si sentisse solo. Si ripromise di prepararlo per la strada che avesse voluto intraprendere e di appoggiarlo in tutto e per tutto.

Dal canto suo, Romano non aveva alcuna aspettativa sul nonno, anzi. Lo immaginava come un vecchio stupido ed abbastanza ingenuo, per aver abboccato così facilmente alle scuse del padre per mandarlo via. Quando un giorno Cesare Vargas morì, il suo unico legame familiare rimasto era Romano, che, tra le sue dignitose lacrime, con lo sguardo puntato in alto, disse di non aver mai cambiato la sua opinione su di lui, nonostante avesse imparato con gli anni a qualificare gli aggettivi stupido ed ingenuo in maniera positiva. Dovette; se non per affetto, per gratitudine, perché Cesare Vargas ed il suo carattere, nel bene e nel male, gli avevano regalato un luogo sicuro dove vivere e crescere, una casa, che gli era venuta a mancare con la morte di Laura Donati.

Ci volle poco tempo a Cesare per inquadrare Romano. Riconobbe in lui il carattere irrequieto del padre e la bellezza della madre, la lingua tagliente e senza filtri tipica del suo vecchio paese di campagna, ed il talento per la pittura ed il disegno che da nessun altro poteva venire, se non da se stesso.

Romano disegnava come se fosse un adulto, nei suoi momento di noia, nascondendo i suoi schizzi a chiunque volesse vederli. Un giorno Cesare lo incontrò mentre bruciava i suoi disegni, con un ringhio rabbioso, quasi provasse odio per quelli. Il nonno aveva cercato di fermarlo, ma Romano aveva già appallottolato i fogli e li aveva gettati nel camino, per poi allontanarsi correndo verso la sua stanza, quasi fosse stato spaventato dal suo stesso gesto.

Cesare si rese conto che i disegni di Romano avevano una costante: il rosso ed il verde che s'intrecciavano. Si rese conto che, in tutti i suoi disegni, il bambino disegnava la madre e, nel ritrovarla nei suoi pensieri, cercava di distruggere la sua immagine, come se in quel modo potesse cancellare il suo ricordo ed il dolore che esso portava con sé. I suoi gesti erano guidati da sentimenti inconsci che sorprendevano lo stesso Romano ed il nonno si rese conto che doveva fermare quel comportamento distruttivo del nipote.

Lo portò a Parco de los Angeles, ogni giorno, ogni pomeriggio e lo invitò a disegnare tutto quello che vedeva. Romano era restio e, la prima volta che aveva preso la matita che Cesare gli aveva dato e il blocco di fogli bianchi, disegnò in maniera non naturale, seduto con le gambe incrociate e la testa china. Disegnò solo il prato, poi strappò il foglio e disse al nonno che voleva tornarsene a casa.

Col tempo, Romano iniziò a disegnare con molta più naturalezza, in diverse posizioni, con diverse matite e colori a pastello. Quando si stufava, si sdraiava sul prato accanto al nonno che leggeva e guardava il pesco sotto cui si erano seduti, immerso nei suoi pensieri e non si rendeva conto che, a volte, Cesare prendeva i suoi disegni e l'infilava nella sua ventiquattrore da insegnante, per conservare l'arte del nipote che altrimenti sarebbe andata distrutta da lui stesso.

Un giorno Romano rotolò verso il nonno e, con aria annoiata, disse che quando era in Italia, con Laura, dipingeva sempre, che magari non era neanche troppo bravo a dipingere ma che gli piaceva un sacco farlo. Cesare gli disse che esistevano corsi di disegno e pittura e che, se avesse voluto, avrebbe potuto inserirlo e avrebbe potuto seguire quelle lezioni, e magari un giorno, chissà, sarebbe diventato un grande pittore o comunque un grande artista e lui si sarebbe potuto vantare di avere un nipote importante. Romano aveva incrociato le mani dietro la nuca, senza distogliere lo sguardo dal pesco, e non aveva detto né si né no, che Cesare aveva imparato a capire essere la risposta più entusiasta che il nipote gli avrebbe mai dato in tutta la sua vita.

Romano iniziò a frequentare i corsi, incoraggiato dal nonno che gli ripeteva sempre che aveva un grande talento, ma che senza impegno ed una buona guida sarebbe valso nulla.

Il bambino riusciva a mettere l'anima in ogni suo dipinto, ma, confessò Jeanne d'Arc, l'insegnante del corso, a Cesare, nessuno oltre a lei e Romano vedeva i risultati delle pennellate sulla tela, perché il bambino distruggeva le sue creazioni in pochi minuti; in più, continuò Jeanne, rappresentava un dolore che normalmente, guardando il dipinto di un bambino, non doveva esserci.

"Ha talento, non posso dire il contrario" diceva settimanalmente a Cesare "ma questa volta, professore, ha scelto un ragazzo incredibilmente problematico. Mi preoccupa il suo blocco emotivo. Non ha legato con nessun altro bambino del corso, quando gli si avvicinano sembra voler lottare contro di loro. E secondo me, distrugge i suoi quadri perché si vergogna dei suoi sentimenti. La madre è morta da ormai anni, giusto? Romano però sembra non avergli dato ancora il suo addio"

"Che dovrei fare secondo te, Jeanne?"

La ragazza faceva spallucce "Sta facendo tutto quello che deve essere fatto." a quel punto si mordeva il labbro inferiore incrociando le braccia e guardando verso Romano che aspettava Cesare fuori dall'edificio, con aria scocciata. "Farò quello che mi ha chiesto e cercherò di salvare il salvabile, per il resto, penso di dover imparare più io da quel bambino di quello che potrei insegnargli"

Jeanne d'Arc, dovette ammettere Romano già prima della morte di Cesare Vargas, era stata una sorella maggiore per lui ed un punto di riferimento femminile. Jeanne non assomigliava per niente a Laura Donati, era una ragazza giovane, felice, con una famiglia enorme, tante sorelle, tanti fratelli e un'immensità di cugini; al contrario di Laura, e di tutte le ragazze con cui entrò in contatto Romano, era una ragazza calma, paziente e molto comprensiva. Aveva i capelli dorati corti e gli occhi blu, mentre Romano ricordava perfettamente i capelli lunghi e rossi della madre ed i suoi occhi dello stesso colore del caffè. Jeanne, tuttavia, aveva lo stesso sorriso di Laura, lo stesso modo di ridere e di canticchiare a bassa voce e trovava sempre il tempo per parlare con Romano, per scompigliargli i già disordinati capelli e congratularsi dei disegni che poi il bambino buttava via.

Un giorno, quando Jeanne si sentì abbastanza in confidenza con Romano, lo prese per il braccio prima che lui potesse distruggere l'ennesima tela rappresentante sua madre e gli chiese di non buttare via ore del suo lavoro.

Il bambino allora iniziò a piangere, senza riuscire a contenersi, senza capire il perché, con le lacrime che non aveva pianto da due anni ormai. Pianse di nuovo per sua madre, che Jeanne gli ricordava tanto nei suoi modi di essere. Pianse per Feliciano, che ogni tanto gli mandava lettere con enormi sgorbi incisi sopra, che dovevano essere parole e lettere a detta del fratellino. Pianse per l'abbandono del padre. Pianse le lacrime che non pianse all'aeroporto per aver abbandonato la sua casa e la sua Italia. Pianse disperatamente, senza guardare negli occhi Jeanne, che l'abbracciava maternamente e gli accarezzava i capelli dolcemente.

Quando i suoi singhiozzi cessarono, Jeanne gli disse che piangere non era una vergogna e non lo era nemmeno il suo dolore. Gli disse che i suoi quadri erano lui stesso ma che distruggendoli non avrebbe distrutto il suo di dolore. La prima reazione di Romano fu sbuffare, asciugarsi le lacrime, allontanarsi dalla ragazza ed andarsene, col suo zaino in spalla.

Jeanne d'Arc aveva già capito che sarebbe stato impossibile per Romano manifestare serenamente i suoi sentimenti, desiderava però che li accettasse, almeno per non vedere quel bambino corrodersi la sua anima innocente e buona. Seppe che Romano aveva accettato di lasciar andare la madre, non dal suo comportamento, che rimase chiuso ed aggressivo, non dalle sue parole, che rimasero incisive e maleducate. Lo vide dalla sua tela.

Romano aveva dipinto con lentezza, senza sorridere, ma serenamente. Una volta finito, per la prima volta, fece due o tre passi indietro, inclinò leggermente la testa e, più per abitudine che per altro, alzò il pugno, come se volesse distruggere il quadro. Ma si fermò. Abbassò la mano e rimase fermo davanti al suo dipinto. Jeanne si avvicinò a lui e sorrise. Per la prima volta da quando lo conosceva, Romano aveva dipinto qualcosa di diverso dalla madre. "È bellissimo" gli disse toccandogli la spalla.

Romano trasalì al tocco, ma non distolse lo sguardo dal quadro rappresentante un uomo addormentato, con un libro in mano, sotto un pesco. Il bambino non era stupido e nemmeno Jeanne, per mentire sul soggetto. Quell'uomo era Cesare Vargas, con tanto di bava alla bocca, come Romano lo vedeva durante i loro pomeriggi insieme, con un misto di critica ed affetto. "Voglio regalarlo al nonno" mormorò.

"Ne sarà felicissimo" sorrise Jeanne. "Cosa fai?"

"Firmo" Romano prese il pennello più fino che aveva, lo intinse nel colore rosso e tracciò una R, senza aggiungere altro. All'inizio voleva scivere il suo nome intero, ossia Romano Lovino Vargas, ma aveva iniziato a scrivere troppo a destra nel quadro e non sarebbe entrata nemmeno la metà del suo primo nome. Mai avrebbe immaginato che alcuni anni dopo R sarebbe stato interpretato come Rojo, da un ragazzo che sarebbe stato molto importante per lui in tutta la sua vita.



Note dell'autore

Scompaio e a volte ricompaio, come se stessi affogando! Ma continuo ad essere viva, eggià.

Mi sono resa conto che sembra quasi una tradizione far comparire Antonio nel terzo capitolo o dopo il terzo capitolo…sarà, ma in realtà è una scelta totalmente casuale…

La scelta di far comparire Jeanne d'Arc prima ancora di Francis invece è stata una scelta più che meditata, freddamente calcolata! E non sarà l'unico personaggio che graviterà intorno alla storia di Romano e, udite udite, si avrà l'elenco intero in poco tempo, più o meno.

Ringrazio chi ha deciso di seguire la storia e chi l'ha recensita! Grazie mille e spero di avere altre vostre notizie, mie sicuramente ne avrete. Aggiornerò sabato prossimo, giurin giurello!

Abbraccione spirituale, tanto amore e cuoricini!

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Capitolo 3
*** Il Circolo di Cesare ***


3. Il circolo di Cesare

12 persone, 12 anime

 

 

 

 

Romano venne presto a sapere che Jeanne d'Arc era stata allieva di suo nonno e che poco tempo prima si era diplomata nella Facoltà di Scienze della Formazione con il massimo dei voti e stava cercando un posto d'insegnate in una qualche scuola; nel frattempo faceva l'insegnante di disegno e seguiva vari corsi, con diversi ragazzi di diverse età.

La prima volta che Cesare Vargas invitò Jeanne d'Arc in uno dei loro pomeriggi a parco de los Angeles, a Romano non diede fastidio e per la prima volta sentì il nonno parlare con qualcuno mentre lui era immerso nei suoi disegni. Dal suo primo dipinto volutamente non rovinato, o distrutto, aveva molte volte cambiato il suo soggetto ed i suoi quadri, capirono subito Cesare e Jeanne, erano l'unico modo per capire quello che passava veramente per la testa del bambino e quali fossero i suoi veri sentimenti. Tuttavia fingevano di non capire, in modo tale che il bambino si sentisse a suo agio nell'esprimersi nell'unico linguaggio che conosceva, in tutta la sua sincerità ed il suo talento.

A Romano non sembrò strano che Jeanne e Cesare avessero un rapporto molto stretto, che comunque andasse oltre alla normale relazione allieva-docente. Il nonno era un uomo genuino che amava parlare e rapportarsi con le persone e trattava Jeanne come una nipote, proprio come lei gli parlava come se fosse membro della sua enorme famiglia, vedendo in lui uno zio alla lontana. Il loro rapporto era lontano da ogni tipo di maliziosità e pregiudizio, il che rendeva le loro conversazioni e discussioni interessanti e stimolanti per entrambi.

Romano, nonostante non prestasse molta attenzione a loro due mentre dipingeva con gli occhi rivolti altrove, oltre lo stesso parco, si chiedeva come fosse possibile per quel vecchietto dall'aspetto giovanile avere un rapporto così stretto con una ragazza così giovane e così carina, senza cadere nella tentazion di qualcosa di più. Fu un dubbio che l'accompagnò per la maggior parte della sua vita e alla quale non trovò risposta finché lui stesso non si ritrovò in una situazione simile ma non uguale a quella del nonno, con una persona amata ma lontana da lui.

Jeanne d'Arc, comunque, non fu un unicum per questo tipo di rapporto con Cesare Vargas e Romano ne ebbe la prova quando, un giorno di aprile del 1985, un ragazzo abbastanza alto, castano e con una serie di libri in mano si avvicinò a loro sotto l'albero di pesco e, con grande familiarità e confidenza, salutò con un abbraccio il nonno, sorpreso e con grande gioia aveva detto che era da un po' di tempo che non faceva una passeggiata nel parco e che quindi era molto tempo che non rivedeva il suo professore al di fuori dell'ambiente universitario. Cesare gli aveva dato una pacca sulla spalla, aveva riso dei modi diretti e spontanei del ragazzo, gli aveva presentato Jeanne e cercò di distrarre Romano dal suo dipinto per presentarglielo, senza buoni risultati, all'inizio.

Quando finalmente Cesare e Jeanne riuscirono a riportare Romano alla realtà, l'uomo presentò il ragazzo come Antonio Fernandez Carriedo, suo allievo, prossimo romanziere di fama mondiale. Antonio aveva riso e detto che quello era un titolo ancora immeritato ma che avrebbe fatto di tutto per non deludere le aspettative del professore. Romano aveva sbuffato e si era rigirato verso il dipinto, senza dare troppo peso al castano.

Cesare dovette spiegare ad Antonio che quello era il caratteraccio di suo nipote e che non doveva prendersela troppo. Antonio sorrise e disse che non era un problema, che era abituato a trattare con persone un po' scorbutiche, dovuto ad alcuni suoi cugini.

Da quel giorno in poi, si creò alle spalle di Romano, sotto l'albero di pesco, un convivio perenne, che il ragazzino ascoltava distrattamente, assimilando le loro parole, senza neanche volere. Antonio Fernandez Carriedo, si rese conto Romano, quando a volte rimanevano soli per alcune incombenze di Cesare e Jeanne, era un zuccone di qualità. Non sopportava le materie scientifiche ed era abbastanza ignorante su tutto quello che le riguardava. Sapeva a malapena il nome del primo astronauta sulla Luna, che i radicali sono numeri irrazionali e non comprendeva quale fosse il fascino della matematica.

Romano gli chiese, uno di quei giorni in cui erano soli, se gli piaceva il dipinto che aveva fatto ed Antonio aveva sorriso e detto che era stupendo; allora il ragazzino diede segno della sua intelligenza dicendogli che lui stesso detestava la matematica ma che per rappresentare il mondo aveva dovuto imparare ad apprezzarla, perché arte e conti, per quanto possano sembrare due opposti, erano complementari ed un artista doveva fare tanti calcoli affinchè l'effetto finale non fosse solo carico di significato, ma anche gradevole alla vista. Questo discorso illuminato fu fatto da Romano non tanto per cercare di fare amicizia con Antonio, anzi. In realtà l'unico scopo delle sue parole era di tenere lontano Antonio, ostentando la sua arroganza e superiorità, nonostante la differenza d'età. Antonio Fernandez Carriedo doveva essere uno stupido, però, perché non capì le intenzioni di Romano e rispose con un enorme sorriso, elogiandolo, per di più, disse che era lodevole che un bambino di appena dodici anni avesse intuito la teoria degli opposti complementari di Blake. Romano non lo stette nemmeno ad ascoltare, lo lasciò al suo intellettuale monologo, tornando col pennello in mano e tante idee in testa.

Da quel giorno Antonio non si diede pace. Voleva conoscere il ragazzino in tutta la sua scontrosità, per curiosità di conoscere i suoi pensieri, che dovevano essere frutto di un'intensa vita interiore, a suo parere. Romano comunque, non gli diede nessun altro appiglio per avvicinarsi di più a lui.

Antonio Fernandez Carriedo era uno zuccone, ma sapeva trattare con le persone, e si rese conto che il primo passo per spingere Romano a parlare era fare in modo che si fidasse di lui, e per arrivare alla fiducia, Romano doveva prima abituarsi a lui. Un po' come si fa con i cuccioli: non si può accarezzare un cane sulla testa la prima volta che lo s'incontra, o si torna a casa con un bel morso sulla mano. Quindi, i primi tempi, si limitò a discutere di letteratura con Cesare e Jeanne ed ogni tanto interpellava Romano chiedendogli cosa ne pensava. Il ragazzino si girava grattandosi la testa, e, a volte, senza volere, si macchiava il viso con i colori a tempera, alzava le spalle e scacciava la domanda con un gesto della mano.

I primi mesi il rapporto tra Romano ed Antonio fu quello di due semplici conoscenti e nessuno mai avrebbe scommesso un soldo bucato sulla loro amicizia, per il diverbio della loro età e dei loro caratteri. E forse sarebbe stato così, se il 23 Agosto 1985 Jeanne non si fosse ammalata e fosse andata al parco e se a Cesare non fosse venuta una voglia irrefrenabile di gelato e non fosse andato a comprarlo. Antonio approfittò del momento per guardare il dipinto del ragazzino e sorrise pensando ai paesaggi della sua infanzia, quando correva insieme ai suoi cugini per gli immensi campi della sua famiglia, a piedi nudi e con i vestiti sporchi di fango. Ricordò i cieli blu e l'intenso odore di campagna che era un misto di profumo ed odori nauseabondi; infatti molto spesso Antonio aveva fatto cattiverie alle sue stesse cugine, prendendo escrementi di cavallo o maiale o vari animali per sentirle gridare di disgusto, ed allo stesso tempo, lo stesso Antonio ricordava l'intenso profumo delle erbe aromatiche e dei fiori che raccoglieva sua madre nelle sere d'estate.

Antonio si accorse troppo tardi che il filtro che doveva tenere sempre acceso tra il cervello e la bocca, si era di nuovo spento e che aveva ricordato e pensato tutto ad alta voce, guardando il dipinto di Romano, che si era girato verso di lui ed aveva ascoltato attentamente ogni sua parola. Fu la prima volta che lo spagnolo vide Romano interessato in qualcosa che lo riguardasse, e non sarebbe stata l'ultima.

Romano si sedette accanto a lui e gli chiese di raccontargli di più su quegl'immensi campi in cui era nato. Antonio disse che li aveva tanto amati e che lì aveva passato gli anni più felici della sua vita; gli raccontò di un panettiere e gli confessò che ogni domenica, mentre quello andava in Chiesa, gli rubava un po' di pane, non tanto per fame, quanto per dispetto perché una volta, mentre tornava da scuola con un grande appetito non aveva voluto dargliene neanche un pezzettino minuscolo, pur sapendo che poi sarebbe andato a ripagare il suo debito con lui, perché la sua famiglia non era certo povera e poteva permetterselo. Gli raccontò che nel suo paese c'erano sempre feste, che ogni sabato tutti si riunivano nella piccola piazza e ballavano, e che, in quei sabati, adorava mettere ragni nei vestiti delle ragazze e sporcarle di crema pasticciera o cioccolato, per poterle fare infuriare. Rise, pensando di esser stato un ragazzino veramente tremendo, soprattutto quando aveva una cotta per una ragazza, allora non gli dava pace, nella speranza che lei lo notasse. Antonio sorrise al ricordare il nome, i capelli e le facce disgustate di Alicia Rivas, la prima ragazza che aveva catturato il suo occhio anni prima, nel suo vestito rosso ed il suo fiocco variopinto in testa.

"Perché te ne sei andato?" chiese ad un certo punto Romano.

"Per studiare, immagino. L'università era troppo lontana e non potevo farmi tre ore di viaggio ogni giorno, quindi, eccomi qua!"

"Purtroppo per me" borbottò Romano, lasciando che il suo sguardo cadesse sul suo dipinto "Anche a me quel quadro ricorda il mio paese".

Non aggiunse altro.

Antonio si aspettava che iniziasse a parlare della sua vita in Italia, di sua madre, di come era finito anche a lui a Barcellona col nonno, ma si rese conto che era per Romano un argomento troppo intimo e che non ne avrebbe mai parlato né casualmente, né serenamente. Il ragazzino gli fece un altro regalo, però, uno prezioso che Antonio conservò nella sua memoria per tutta la vita: sorrise, prima di tornare a dipingere. E continuò a parlare con lui per tutto il pomeriggio; e continuò a farlo tutti i pomeriggi che seguirono, per tutti i pomeriggi in cui stettero insieme.

Avevano raggiunto uno stato di stabilità, nella quale il loro rapporto non poteva che migliorare ed Antonio fu felice di questo. Certo, avrebbe preferito che a riunirsi sotto il pesco rimanessero solo lui, Jeanne d'Arc, Cesare Vargas e Romano Vargas, di cui ancora non sapeva il secondo nome, con il quale lo avrebbe tormentato per tutta la durata della loro amicizia.

Quando crebbe, Romano confessò che era felice di averlo incontrato grazie al nonno e quando Antonio gli manifestò il suo antico desiderio che rimanessero solo loro sotto il pesco, aveva scosso la testa e detto che probabilmente ai tempi pensava la stessa cosa ma che, col passare del tempo, si era affezionato a tutti in modo irrimediabile e non avrebbe immaginato la sua vita senza nessuno di loro. Non avrebbe mai ripetuto quelle frasi in tutta la sua vita ed Antonio non avrebbe mai immaginato che quelle fossero le parole con cui il ragazzo gli avrebbe detto addio.

Il primo ad aggiungersi a loro, sotto il pesco, fu Arthur Kirkland, un ragazzino inglese appena arrivato in Spagna e grande amante della letteratura. Non era molto interessato alle persone che si riunivano nel parco e tanto meno aveva voglia di fare amicizia con qualcuno di loro, quello che gli interessava erano gli argomenti che Cesare, Jeanne ed Antonio toccavano. Nella speranza di ascoltare integralmente i loro discorsi, si nascondeva nell'altro lato del tronco del pesco e appoggiava la sua schiena su questo, girandosi ogni tanto, perché non riusciva a riconoscere chi stesse parlando e commentando a bassa voce, con un libro aperto e scuotendo la testa. Cesare Vargas un giorno lo chiamò accanto a sé, dopo averlo notato nascondersi dietro l'albero, e lo invitò ad entrare nella conversazione, che doveva averlo interessato molto per l'assiduità dei commenti che faceva a bassa voce e delle note che prendeva nei margini del suo libro. Arthur Kirkland, il 29 Agosto 1985, aveva appena 14 anni, ma non si fece intimorire dall'età dei suoi interlocutori, né volle portare il rispetto che si doveva portare a chi era maggiore di lui, quando disse che tutti loro erano dei completi idioti e non ci avevano capito niente di Mary Shelley e della sua vita. Cesare rise davanti alla sfrontatezza del ragazzino e lo invitò per il giorno dopo e quello dopo ancora.

Arthur Kirkland s'interessò non tanto ai tre vecchi seduti sotto il pesco, quanto al ragazzino che dipingeva sempre, senza sosta. Un quadro a settimana, si era reso conto, tutti diversi tra loro, tutti luminosi e dai diversi colori, così come lo era il parco, ma allo stesso tempo del parco, in quei dipinti, non c'era la minima traccia. C'erano paesaggi lontani, figure che Arthur non aveva mai visto, persone, vecchie e giovani, che probabilmente Romano aveva visto passeggiare durante le sue giornate. Arthur Kirkland si rese conto, infatti, di esserci anche lui, in uno di quei quadri, che passeggiava su un ponte con la mano poggiata sul marmo bianco. Gli aveva chiesto quando lo aveva visto e Romano, alzando le spalle, gli aveva detto che solo perché lui si nascondeva dietro il pesco, non voleva dire che non lo potesse vedere, poi lo guardò negli occhi e muovendo il dito disse "Questioni di prospettiva".

Ad Arthur Kirkland piacque la risposta di Romano Vargas e per riflesso piacque Romano Vargas, con il quale iniziò a passare quasi tutti i pomeriggi, sotto l'ombra del pesco. Romano non disse mai che la lezione sulla prospettiva l'aveva imparata sulla sua pelle mentre scherniva un ragazzino tedesco con un paio di baffi finti, fingendo che li avesse quello, e ridendo a crepapelle; poi il biondo, con un'espressione annoiata, aveva risposto che da quella posizione sembrava che lui avesse i baffi. Ed ovviamente Romano era morto d'imbarazzo; Jeanne gli aveva detto, ridendo, che quelli erano i misteri della prospettiva e che avrebbe dovuto conoscerla bene per dipingere la realtà intorno a loro.

Arthur Kirkland andava tutti i giorni al parco con un pezzo di pane che spizzicava durante tutto il pomeriggio, mentre indicava le persone che Romano dipingeva e raccontava le storie che pensava si adattassero di più al loro viso. Questo spizzicare continuamente pane gli fece guadagnare, quando ormai la compagnia fu al completo con tutti i 12 membri del Circolo, il nomignolo di Passerotto che permanette nel tempo, anche quando avrebbe pubblicato il suo primo romanzo, anni dopo.

Il seguente membro che si unì a loro fu Francis Bonnefoy e non nascose mai che non gli interessava nulla della cultura e dei loro convivi all'inizio, perché quello che lo portò a loro fu l'amore e, più precisamente, l'amore per la sua insegnante di disegno. La conosceva da quando era appena un bambino, perché le loro famiglie erano molto amiche ed i suoi genitori la proponevano come un modello di donna perfetta, che Francis accettò senza fare troppe storie. In effetti Jeanne d'Arc per lui era la donna perfetta, senza alcun difetto né macchia e l'amava da quando aveva imparato il significato del verbo amare e vederla scomparire ogni pomeriggio lo aveva infastidito non poco. La seguì, la vide insieme ad un bello spagnolo, due ragazzini ed un uomo e si chiese cosa la spingesse a voler sprecare così le sue ore libere. Ma nel vedere il quadro di quel ragazzino, quando sentì alcune poesie di Antonio, quando seguì un racconto di Arthur, capì l'interesse di Jeanne per quella strana combriccola. Ne fu irrimediabilmente attratto anche lui e divenne parte di quella in maniera lenta ed inesorabile.

Romano Vargas provava timore per lui ed ogni volta che si avvicinava, rabbrividiva e balzava indietro per lo spavento, gridando che era un maniaco e si nascondeva dietro Antonio, che rideva ed abbracciava il ragazzino, confortandolo. Già da allora Francis Bonnefoy si chiedeva se in realtà, tutte quelle reazioni esagerate di Romano non fossero una scusa per abbracciare Antonio senza essere giudicato, se non da Cesare e Jeanne, da Arthur, che mai aveva visto di buon occhio lo spagnolo.

Francis Bonnefoy fu soprannominato l'Innamorato, nonostante le proteste di Romano, che aveva trovato più incalzante Pervertito, o , al limite, Maniaco per lui.

Altri membri si aggiunsero il 30 ottobre 1985 e fu un gruppo di ben 4 persone, arrivate però a due a due.

Gilbert Beilschmidt, amico intimo di Antonio Fernandez Carriedo, nonché suo compagno di università, arrivò per puro caso accanto al pesco e vedendo l'amico ridere e parlare con quello strano gruppo, nel quale si trovava uno strano francese che stava cercando di palparlo, alzò la mano in gesto di saluto e cercò di avvicinarsi a lui, anche se fu fermato da Elizaveta Herdevary che lo tirò per il braccio, facendolo inciampare, e che corse verso il gruppo, salutando allegramente Antonio e facendosi baciare la mano da Cesare Vargas, anche se subito dopo disse "Non si prenda troppe libertà, professore, so come vanno a finire le ragazze che si fanno sedurre da lei"

"E come?"

"Col cuore spezzato" rise Elizaveta ed in quel momento Gilbert Beilschmidt, la raggiunse, gli diede uno spintone e gli fece la linguaccia.

Si presentarono con poche parole e Romano smise di dipingere per osservare Elizaveta Herdevary sedersi, chiacchierare e ridere. Le sembrava familiare e chiese ad Arthur se l'avessero mai vista. Il Passero rispose che passeggiava spesso per il parco, da sola e che molte volte l'aveva dipinta. Arthur aveva inventato per lei una storia quasi felice ed adesso l'ascoltava, cercando di capire se le sue teorie erano giuste od errate.

Arthur Kirkland aveva capito il tipo di persona che era Elizaveta Herdevary e le sue teorie sulla sua vita si rivelarono giuste. Unicogenita di un famiglia amorevole aveva passato la sua infanzia felice in Ungheria, per poi trasferirsi a Barcellona, dove seguiva i corsi di Architettura. Conosceva Gilbert Beilschimidt da quando avevano appena 4 anni e da allora il loro rapporto non era mai cambiato: due amici che insieme tornavano ad avere 6 anni.

Lei fu soprannominata la Signora, in modo piuttosto ironico, in quanto, in mezzo al gruppo, era la persona più virile e quella col carattere più forte. Gilbert Beilschmidt fu soprannominato Rubino, per lo strano colore dei suoi occhi.

Elizaveta Herdevary, vedendo il quadro lasciato a metà di Romano, chiese chi tra loro fosse così bravo nel disegno e risposero che sia Francis che il ragazzino erano dei pittori eccezionali. Alla notizia, Elizaveta aveva battuto le mani e detto che le sarebbe piaciuto avere un ritratto fatto dalle loro mani. Francis disse che non sarebbe stato un problema per loro fargliene non uno, ma due. Romano aveva detto che per una bella ragazza si faceva questo ed altro. Allora Elizaveta si alzò dalla sua postazione, con l'aiuto di Romano che gli aveva dato la mano, e mandando una frecciatina a Gilbert, lei disse che così si dovrebbe trattare una donna.

Francis terminò il suo ritratto in un'ora d'orologio e tutti lodarono il suo disegno, anche se Gilbert gli chiese per quale ragione nel ritratto Elizaveta era nuda.

Per Romano ci volle più tempo, anche lui al termine del suo lavoro fu elogiato dai presenti per l'attenzione ai dettagli e questa volta Gilbert non disse nulla che deponesse a svantaggio del dipinto. Tuttavia, poco prima di consegnare il ritratto alla ragazza, si materializzò tra Romano ed Elizaveta un ragazzino biondo, forse più piccolo dell'italiano di un anno o due, che affermava che prima di ricevere il quadro, Elizaveta doveva pagare.

"Pagare cosa?"

"Pagare l'artista" disse con ovvietà il bambino, con la mano tesa, in attesa del denaro.

"E tu saresti?"

Era Alfred F. Jones, un ragazzino che ormai da tempo teneva d'occhio la compagnia che si andava creando sotto il pesco. Trovava i loro argomenti noiosi e non gli interessava nulla di dipinti, di racconti o poesie. Guardando in giro per le strade, però, si rese conto che c'erano in giro molte persone che dipingevano peggio del ragazzino del parco e che comunque venivano pagate. Aveva parlato molto spesso a suo fratello, Matthew Williams, che al momento era accanto a lui, nonostante nessuno si fosse reso conto della sua presenza, di voler entrare in affari con Romano Vargas, per vendere i suoi quadri e fare un sacco di soldi.

Alfred Jones era così, un ragazzo piuttosto pratico ed allo stesso tempo ingenuo. Divenne presto amico sia di Romano che di Arthur, così come lo divenne Matthew.

Anni dopo, quando Arthur pubblicò il suo primo romanzo, Alfred era il manager di Romano e Matthew era il suo assistente, essendo molto più interessato del fratello all'arte.

Insieme Alfred e Matthew erano i Gemelli, anche se non lo erano realmente. Quello era un nomignolo dato per la loro somiglianza. Da solo Alfred fu l'Eroe e Matthew l'Orso, perché anche una volta adulto si accompagnava sempre con un orsetto di peluche.

A quel punto la compagnia era quasi al completo. Mancavano due soli membri ed uno di quelli fu Roderich Edelstein, pianista e compositore, grande amico di Elizaveta Herdevary, che l'aveva incontrato in una delle sue passeggiate per il lago. Fece parte della compagnia, senza farne veramente parte ed anche quando stava con loro, rimaneva sempre in disparte, con i suoi modi nobili e il suo carattere silenzioso e riflessivo. Fu detto lo Stratega, perché riusciva a complottare contro tutti od a favore di tutti.

L'ultimo membro, si aggiunse il 3 Dicembre del 1985. Luz Maria Sanchez, una bambina messicana, si presentò a loro, senza scarpe, con una chitarra in mano. In realtà non cercava loro, cercava Roderich, perché tempo prima lo aveva sentito suonare ed era rimasta rapita dalla sua musica, ma non disdegnò mai la compagnia e divenne parte integrante di quella. Fu detta la Cantante, perché non smetteva di cantare un momento, con la sua chitarra.

Quando Cesare si rese conto di avere intorno a lui 11 aspiranti artisti ed intellettuali, ognuno a modo suo, scoppiò in una sonora risata, che suo nipote fermò con uno sguardo truce.

"Mi sento come Mecenate" gli confessò.

Romano borbottò qualcosa in risposta, rotolando sul prato, poi posò il braccio sui suoi occhi e si addormentò, pensando che non avrebbe mai potuto incontrare gli altri 11, se fosse rimasto in Italia.

 


 

 

Note dell'autore

 

E questa volta le devo ricontrollare!

Questo capitolo, un po' di passaggio un po' no, mi è servito per presentare i 12 membri del Circolo di Cesare, che conoscete tutti, tranne la piccola Messico che ho deciso di mettere in mezzo come mio OC. Perché ci dovevano essere un po' più di donne in questo club per soli uomini! E un Circolo con soli 11 membri… no! Se si è vicini al numero della perfezione (12) si arriva al numero della perfezione. In più 11 è un numero così magro… e dispari… e magro…

Forse sto delirando.

Però, da dire, ogni personaggio scelto per il Circolo ha un perché della sua esistenza, *cofcof*tranne Luz Maria*cofcof* e ha una storia dietro, oppure un avvenire… eggià, perché il mio cervello ha problemi e crea strani collegamenti nelle storie.

E sì, nel mondo parallelo che ho inventato per loro, 8 di questi 12 sono artisti, di vario genere. All'inizio ero un po' indecisa su se far diventare Antonio un poeta o un romanziere… non cambia quasi niente ai fini della storia ma mi sono impuntata sulla faccenda per le mie immagini in testa. Per questo Cesare dice che Antonio è un romanziere ed allo stesso tempo Antonio scrive poesie. Essendo qui ancora un giovincello sta decidendo su cosa concentrarsi… penso.

Nella mia testa in questo momento scrive poesie. Lavoro ad immagini.

Francis pittore ora e sempre.

Arthur scrittore, ma se non gli va bene con questa storia della scrittura può sempre fare il sarto… o il pianificatore di matrimoni e baby-sitter.

Bene.

Dopo aver detto tutte le stupidaggini che mi venivano in mente, posso ringraziare di cuore chi sta seguendo la storia e chi l'ha recensita e chi la legge.

Ed aggiornerò la settimana prossima.

Abbraccione spirituale~~

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Capitolo 4
*** Il Centro ***


5.Il Centro

 

La morte che unisce, la vita che divide

 

 

Appena arrivato in Spagna, Romano Vargas soffriva d'insonnia.

Non riusciva a dormire tranquillamente, perché era tormentato da terribili incubi dove Laura Donati si ripresentava a lui come un fantasma e gli chiedeva per quale motivo non aveva lottato per seppellirla accanto a suo padre, Primo Donati, o dove Feliciano scompariva, risucchiato da chissà quale forza misteriosa, o dove veniva tormentato da mostri enormi e terrificanti che volevano mangiarlo, distruggerlo e fare in modo che nessuno si ricordasse più di lui. Si risvegliava nella sua enorme camera da letto, da solo, al buio, con la schiena sudata ed il fiatone, singhiozzante e con la paura di riaddormentarsi di nuovo.

I primi mesi, in Spagna, non dormiva. Rimaneva sul letto, abbracciando le sue ginocchia, con la testa bassa, illuminato dalla luna, perché odiava chiudere le finestre di notte e risvegliarsi in una camera completamente buia. Temeva il buio, nonostante fingesse indifferenza.

Il non dormire lo rendeva più nervoso e forse era questo uno dei motivi per cui rompere le tele dei suoi dipinti gli sembrava così facile. Per cui distruggere tutto intorno a lui, sembrava così facile.

Cesare Vargas aveva preso l'abitudine, quindi, di fermarsi in camera del nipote e parlare con lui fino ad ore tarde, anche se il giorno dopo si dovevano svegliare presto e lui avrebbe avuto gli occhi rossi per la stanchezza. Parlava da solo, in realtà, faceva lunghi monologhi di svariati argomenti, a volte erano paternali, perché Romano non aveva mai avuto un carattere mite e l'incontro con ragazzini della sua età era, per lui, motivo più che d'incontro di scontro, nel quale si sfogava in tutta la sua cattiveria. Poi, il nonno, altre volte, raccontava favole o parlava della sua vita, che sembrava tanto un romanzo, per quanto era avventurosa agli occhi del nipote. Sfiniva Romano di parole e questo, stanco, sconfitto, chiudeva gli occhi sotto il piumone, cadendo in un sonno profondo, senza sogni, ma anche senza incubi.

Col tempo, l'abitudine di Cesare e Romano di rimanere a parlare durante la notte non svanì, divennero dialoghi veri e propri ed entrambi vi partecipavano con gioia, anche se ben celata, nel caso di Romano.

Grazie a Jeanne d'Arc ed al suo affetto quasi materno, Romano era riuscito in seguito ad accettare il proprio dolore per la morte della madre; grazie a Antonio ed Arthur riuscí ad accettare relativamente il suo passato in Italia ed a non perdere il legame con suo fratello minore, senza però dimenticare di vivere il presente, dimenticando la paura del futuro, anche se lo stesso Arthur, a volte, gliela ricordava, perché lui stesso ne aveva grande paura. E grazie all'intero Circolo, ai membri che mano a mano si andarono aggiungendo, Romano Vargas ottenne di nuovo il dono del sogno. Sognava cose belle però, e ne parlava col nonno a colazione, gesticolando e scuotendo la testa. Cesare Vargas rideva semplicemente, bevendo soddisfatto il suo cappuccino.

Notò con piacere, così come lo notarono tutti in realtà, che il nipote aveva ripreso a sognare non solo ad occhi chiusi, ma anche durante il giorno, quando era sveglio ed i suoi quadri erano intrisi di realtà e sogno, più che altro immaginazione, pieni di luce e con colori brillanti. Magari Romano non sorrideva così tanto, così spesso, ma attraverso i suoi dipinti, Cesare seppe che era felice.

Romano a volte aveva dei sogni bellissimi, dai quali non si sarebbe voluto mai svegliare. A tredici anni sognava con montagne di cibo, dolci, pasta, riso, verdure; cibo di tutti i generi, insomma. Crescendo i suoi sogni erano diventati un pochino più elaborati e la sua mente, forgiata dall'immaginazione e dalla poesia ascoltata per puro caso, creava stranissimi mondi pieni di strane creature, di stranissimi animali ed ancora più strani personaggi, per non parlare delle sembianze che dava alle persone che conosceva. Per esempio, Alfred era sempre, non importava in che razza di regno si trovavano, sempre un cane, con le orecchie all'insù e lo sguardo da idiota. A Romano piaceva esser tornato a sognare senza problemi, perché nei sogni rivedeva suo fratello, con cui non aveva mai perso i contatti, e poteva parlargli quanto e come voleva. Quando si svegliava, però, sentiva come un senso di vuoto e rimaneva fermo nel letto, con la mano sul petto e le sopracciglia aggrottate; poi scuoteva la testa e si alzava, si grattava la pancia ed andava in cucina

Romano non avrebbe saputo descrivere meglio la sensazione che aveva provato alla morte di Cesare Vargas: era come risvegliarsi da un bellissimo sogno e sentire quel vuoto dentro che ti dice coglione, torna alla realtà. Era come risvegliarsi dopo un sogno bellissimo e cercare di colmare quel vuoto, che però sempre vuoto rimarrà.

 

Cesare Vargas morì il 19 Febbraio del 1996, guardando l'alba insieme a Romano.

Avevano vegliato tutta la notte, parlando di vecchie e nuove memorie. Cesare aveva riso al ricordo di Romano il primo giorno all'aeroporto e il ragazzo aveva detto che quel giorno il nonno aveva una faccia da cazzo e che, se non fosse stato un anziano, lo avrebbe colpito dritto in faccia. Cesare ricordò quando Romano ed Elizaveta insieme ad Arthur si erano messi in testa di preparare la torta più grande del mondo, e alla fine, per colpa di un'intromissione di Alfred, la torta, che comunque non aveva il miglior aspetto del mondo, era andata in aria. Romano commentò che forse Alfred quella volta li aveva salvati tutti da una bella intossicazione alimentare e che giusto per quello si meritava l'appellativo di Eroe. Cesare allora scoppiò in una fragorosa risata al ricordo di Gilbert che, in un attacco di dolcezza, aveva preso quel che rimaneva della torta e l'aveva mangiata tutta, nascondendo poi il mal di pancia ed il vomito che gli sarebbe venuto nei giorni dopo. Romano Vargas sorrise appena, mormorando che non sapeva se quella scelta fosse dettata dalla paura di Elizaveta o dall'amore che provava per lei. Cesare aveva sospirato e pensato che i membri del Circolo erano dei capoccioni, a volte peggiori del suo proprio nipote, che aveva di fianco.

 

C'erano Gilbert ed Elizaveta, che erano due testardi. Due enormi testoni, stupidi, egoisti ed orgogliosi, che, piuttosto di perdere nel loro perverso gioco di resistenza, si sarebbero lasciati andare, allontanarsi l'uno dall'altro e vedersi lontani, infelici, ma vittoriosi.

Gilbert Beilschmidt era innamorato di Elizaveta Herdevary forse da sempre e lei, consapevole della sua posizione di oggetto d'amore, aveva giocato come solo una bambina riesce fare con un uomo. "Sei come una ragazza che conosco" aveva detto Arthur Kirkland, in una loro conversazione, mentre prendeva appunti su un suo libro, "una persona piena d'amore, giuro, e ne dà tantissimo al gatto, accarezzandolo, curandosi di lui… eppure, quando il gatto si avvicina, facendogli le fusa, si allontana di scatto. Le ho chiesto perché e mi sono reso conto che, quando Palla fa le fusa, tira fuori le unghie e la lascia con tanti graffi sulla mano. Così siete voi due." poi, soddisfatto aveva chiuso il suo libro e si era sdraiato sulla schiena, in attesa di una difesa della ragazza, che non arrivò.

Elizaveta Herdevary sapeva perfettamente che le parole di Arthur corrispondevano a verità, per la paura che entrambi provavano del dolore ed allo stesso tempo dell'essere lasciati soli. Erano amici, Gilbert ed Elizaveta, perché, per quale ragione mai, avrebbero dovuto rovinare tutto, ferirsi, per una così stupida ed ingenua emozione quale è l'amore?

No. Era meglio lasciare le cose così come stavano, perché in fondo, che altro potevano fare una volta detto Ehi senti Gil, mi piaci? Lei aveva già tutto quello che voleva dalla loro relazione, una persona accanto leale, sincera, buona, divertente e pronta a seguirla in ogni pazzia. Certo, avrebbe voluto poterlo abbracciare, accarezzare, a volte anche baciare… era successo; Elizaveta aveva baciato Gilbert, in un attimo di gioco, dopo aver corso per il parco, ridendo, si erano buttati a terra e, guardando l'amico, Elizaveta lo aveva visto col fiatone, i capelli appiccicati al viso e le labbra di lui si muovevano, si curvavano da un lato, facevano strane smorfie; quando gli erano arrivate le parole alle orecchie "… perché io so, lo so che questa sei tu. Non quella rompipalle che ti sta facendo diventare quel Signorotto da quattro soldi", aveva pensato che era vero; l'unica persona che la conosceva nella sua complessità era Gilbert, che l'aveva vista con il moccio al naso e le unghie nere a causa della terra. Pensò anche che era l'unico che sapeva come farla ridere, che conosceva a memoria i suoi passatempi preferiti e li condivideva, addirittura, e che gli voleva veramente tanto bene. Veramente tanto. E quindi la sua testa di mosse quasi inconsciamente, facendo aderire le loro labbra e staccandosi quasi immediatamente, alzandosi in fretta e ricominciando a correre, questa volta verso il pesco, lasciando lì Gilbert, pietrificato, a terra, confuso.

 

C'erano Luz Maria ed Alfred, che erano ancora bambini dentro e non parlavano d'amore, perché era troppo imbarazzante e troppo poco eroico e consono al carattere di entrambi. E, se non fosse stata per la morte di Cesare Vargas, prima di finire insieme, le loro bocche avrebbero dovuto incontrarne molte altre, e avrebbero dovuto condividere molte altre memorie; ma non andò così, la Fortuna, che li guidava da quando erano poco più che bambini, li lasciò in pace almeno nelle loro vite sentimentali e quando, al funerale di Cesare Vargas, Romano si era reso conto che nel loro pianto, le mani di Alfred e Luz Maria si erano incontrate, intrecciate, mai lasciate, si abbandonò sul petto di Antonio, pensando a come fosse ironico che qualcosa di così brutto, come la morte, avesse portato a galla un sentimento così dolce, come l'amore.

 

C'erano Jeanne e Francis, che erano troppo lirici per arrivare in poco tempo ad una relazione che andasse oltre lo spirituale, toccando anche il lato fisico.

Era divertente pensare che solitamente le persone avevano il problema opposto, far conciliare il sesso, i baci, le carezze con l'amore e la condivisione spirituale. Il problema era che Jeanne pensava fosse sbagliato innamorarsi del suo protetto, figlio di amici di famiglia e per di più suo allievo di disegno. Francis Bonnefoy aspettava quindi che lei comprendesse quanto adulto potesse essere. Aveva lasciato il suo corso di disegno, anche se con molto dispiacere e si era dedicato alla sua carriera di pittore, che non tardò a decollare, con l'appoggio della sua famiglia. Sembrava tuttavia che la ragazza non avesse cambiato idea sulla loro relazione, che avrebbe considerato illegittima e poco conveniente, nonostante Antonio le dicesse in continuazione che lui si era innamorato di un ragazzo di sette anni più piccolo e con un carattere scorbutico e che, se nessuno giudicava loro due, perché avrebbero dovuto giudicare lei? Ovviamente se Antonio le parlava in quel modo era perché intuiva un sentimento più profondo del semplice affetto da parte di Jeanne e perché voleva tanto bene a Francis e voleva vederlo felice. Si aggiungeva a questi motivi, il fatto che Francis e Jeanne erano una coppia, magari non di fatto, magari non di nome, magari non si baciavano, ma si comportavano come marito e moglie, finendo ognuno la frase dell'altro, scambiandosi sorrisi complici e condividendo la maggior parte delle giornate insieme.

Se non erano una coppia loro, nessun'altra coppia aveva il diritto di definirsi tale.

 

Erano però tutti dei capoccioni, e Cesare Vargas aveva sospirato, pensando che non avrebbe avuto la soddisfazione personale di vederli, un giorno, sposarsi ed avere figli. Sapeva che il suo corpo non avrebbe retto a lungo e aveva condiviso la sua preoccupazione con Romano, che aveva liquidato l'argomento dicendo "Tu sei come quel canarino sulla testa dell'Idiota, quel Gilbird. A rigor di logica dovrebbe essere già morto da anni di vecchiaia, perché…quanto cazzo vivono i canarini? È impossibile che quel coso abbia 10 anni e voli ancora sulle nostre teste, divertendosi a cagarci addosso. La verità, te lo dico io, quel canarino è immortale e ci sotterrerà a tutti. E tu sei come lui." Cesare Vargas aveva sorriso e scuotendo la testa aveva pensato che, per lo meno, era riuscito a vedere Romano crescere e diventare un uomo.

Aveva avuto paura, gli confessò quella mattina in cui morì, che diventasse come Torquato Tasso.

"Pazzo?" aveva chiesto sarcasticamente il nipote.

“Decentrato” aveva detto Cesare “con la voglia di trovare una casa ed una famiglia dove lo accettassero, ma senza il coraggio di farlo, pensando di non essere abbastanza per essere amato, ma solo per essere abbandonato”

Allora Romano aveva alzato il suo bicchiere di vino e detto “Brindiamo a te che non hai un nipote decentrato allora”

La verità, e Cesare Vargas se n'era reso conto la prima volta che aveva sentito il suo cuore rallentare, mentre sedeva accanto a Jeanne, la verità era che ormai Romano, i suoi centri, li aveva quasi tutti.

Alla tenera età di 23 anni, Romano Lovino Vargas aveva, con l'aiuto di Alfred F. Jones, che sembrava avere degli appigli un po' dappertutto, organizzato una mostra, la sua prima mostra dei suoi dipinti e quasi tutti erano stati venduti, con grande gioia dei Gemelli. Grazie al nonno, l'italiano era cresciuto accanto a persone che gli volevano bene ed aveva formato una sua propria famiglia, particolare e che non c'entrava niente con il sangue che scorreva nelle loro vene, ma con le idee che scorrevano nelle loro teste. Certo, Romano era un testardo che s'imbarazzava spesso, che si faceva mille film in testa, complicandosi la vita, che era insicuro degli affetti, ma aveva imparato ad amare ogni membro del Circolo a modo suo ed ogni membro del circolo si era abituato ed aveva accettato il linguaggio del suo amore ed umore. Fortuna voleva, poi, che Romano avesse trovato l'amore in mezzo al Circolo, con una persona dolce, paziente e comprensiva che lo avrebbe amato per tutta la vita, nonostante i suoi errori, nonostante le liti, nonostante la distanza. Cesare Vargas non dimenticava mai di ringraziare il Signore ogni notte per la protezione che offriva al nipote e per la felicità che stava condividendo insieme a lui. Quando comprese che ormai la morte era vicina, proprio come i cigni di Platone e Socrate, aveva cantato al parco, con più forza e con più felicità, senza temere l'arrivo del Vuoto, o di una punizione eterna; la sua unica preoccupazione continuava ad essere Romano, come se avesse intuito che, senza di lui, il ragazzo si sarebbe facilmente perso nei meandri del mondo e che sarebbe stato troppo difficile ritrovarlo, questa volta.

“Sono fiero di essere stato tuo nonno” mormorò prima di morire; allora, proprio come dicevano le antiche leggende, da morituro vide il futuro. Vide la nascita di quattro bambini; la divisione di questi; degli occhi verdi ed infine un vecchio quadro che avrebbe riportato l'unità ad essere una. "Non sacrificare la tua felicità” disse al nipote, poi spirò, chiudendo gli occhi, addormentandosi tra le braccia di Dio, senza un lamento, senza un'altra parola, lasciò Romano solo, nel terrazzo, nella casa.

Nessuno avrebbe mai pensato, neanche i membri del Circolo e gli stessi Francis Bonnefoy e Jeanne d'Arc che fu in quel giorno, in quell'ora, in quel preciso istante, che fu concepito, dopo una notte d'insonnia e di discussione, confessione ed accettazione, Alexandre Guy Bonnefoy, primogenito della futura famiglia Bonnefoy. Nessuno avrebbe mai rivisto in quel bambino, dagli occhi azzurri ed i capelli biondi, Cesare Vargas, morto accanto a Romano, che, nel momento in cui i due francesi erano inebriati dall'amore reciproco, piangeva disperatamente sulle ginocchia del nonno, chiedendogli per quale motivo lo aveva abbandonato proprio in uno dei suoi giorni più felici, perché si era lasciato morire davanti ai suoi occhi.

Le ultime parole di Romano Vargas a Cesare Vargas, non furono parole, ma un semplice bacio sulla guancia, salato dalle lacrime che gli scorrevano sul volto; ed in quel bacio sperò che tutto l'affetto che aveva provato per quel vecchio maniaco pervertito, con alcuni complessi di superiorità ed uno strano gusto per la musica, arrivasse lassù in cielo, dove lo stesso Dio, che tanti anni prima aveva accolto tra le sue braccia Laura Donati, quello che non giudicava ma amava, accarezzava la testa di un Cesare Vargas tornato bambino, felice mentre aspettava che tutte le persone che aveva amato in vita lo raggiungessero in quel clima di serenità e gioia, ma intanto, vegliava su di loro, con il suo solito sorriso ebete e l'ingenuità che poco si adattava ad un uomo della sua età.

La notizia della morte dell'uomo si propagò come fosse stata una macchia d'olio ed il giorno del funerale furono in tanti ad accorrere in chiesa, per salutare per l'ultima volta Cesare. C'erano i membri del Circolo, amici d'infanzia del nonno, tante donne di tutte le età che si battevano il petto, piangendo con grandi singhiozzi, eppure, della famiglia Vargas, c'era solo Romano.

Non si presentò né Bruno Vargas, né Vanessa Pancotti, né i loro due figli, Feliciano e Marcello.

Lì per lì, Romano, che sopprimeva i suoi singhiozzi contro il petto di Antonio, non ci aveva pensato, aveva intrecciato la sua mano con quella dello spagnolo, che con gli occhi carichi di lacrime lo aveva stretto a sé, incapace, per una volta, di sorridere in maniera sincera ed accogliente e avevano pianto entrambi, afferrandosi l'uno all'altro sia mentalmente che fisicamente. Passarono così le prime settimane di lutto. Antonio Fernandez andava da Romano Vargas che non dormiva più, se non accanto allo spagnolo e rimanevano sdraiati, in silenzio sul piccolo letto dell'italiano, Antonio stringendo il minore il più possibile, per paura che scomparisse anche lui nel giro di una notte, Romano con lo sguardo rivolto ai raggi della luna che illuminava l'armadio della sua stanza.

 

Risero per la prima volta insieme, poco prima della scoperta di essere incinta di Jeanne, mentre a colazione Antonio era stato sommerso da pentole e cibo, perché aveva provato ad afferare i cereali che Romano teneva nella parte più alta della credenza, visto che li odiava. Vedendo Antonio con una pentola in testa, lo sguardo da cucciolo in difficoltà ed i cereali saldi nella mano destra, Romano aveva riso, mostrando tutti i suoi denti bianchi e piegandosi in due mentre si reggeva la pancia. In seguito ricordare quell'immagine non avrebbe scaturito tanta ilarità in Romano, ma in quel momento gli era sembrato così divertente da non provare a reprimere, come aveva sempre fatto nella sua vita, la sua ilarità. Non si sentì in colpa verso il nonno, come invece succede a molte persone, che percepiscono come sbagliato, in un primo momento, l'essere felici dopo una morte e non ridono, non fanno più battute, non cercano più di divertirsi. Sentì, per una volta nella vita, di star facendo la cosa giusta, senza nessuno che lo potesse giudicare, senza sentirsi sbagliato davanti agli altri e a se stesso. Antonio, guardando Romano con le lacrime agli occhi dal tanto ridere, all'inizio mise su un adorabile broncio, sentendosi preso in giro, poi aveva iniziato a ridere insieme a lui, sentendo di nuovo la vita e l'amore scorrere dentro le sue vene. Si risvegliarono insieme, rividero per la prima volta la luce insieme, il 4 aprile 1996, e nonostante Romano non avesse più pianto dopo quel giorno per il nonno, lo portò sempre nel suo cuore e nella sua anima, sentendolo accanto a lui anche mentre dipingeva.

 

Fu qualche giorno dopo, a causa di un disguido nelle poste, che ricevette una lettera da parte del fratello minore, Feliciano. Si scusava di non essere riuscito ad andare al funerale del nonno, che comunque aveva tanto amato, per quel poco tempo in cui erano stati insieme, ma che, purtroppo, loro padre non era riuscito ad accumulare abbastanza denaro per un viaggio, né per lui, né per la sua famiglia. Feliciano Vargas terminava la lettera mettendo al corrente Romano della sua situazione universitaria, domestica e del suo fratellino Marcello, di appena sei anni. Rimproverava il fratello maggiore di essere stato piuttosto assente nella crescita del loro fratellino e che Marcello ricordava a malapena il suo viso, anche se, molto spesso, gli aveva raccontato alcune avventure che aveva avuto con Romano durante le sue brevi visite in Italia. “Ti prego” era l'ultima frase della lettera “appena puoi torna a casa. Sentiamo la tua mancanza”

Romano aveva letto la lettera con Antonio che lo abbracciava in ginocchio sul letto e lo cingeva alla vita, ed era rimasto in silenzio, guardando la finestra.

Si era chiesto a lungo chi erano i soggetti di quel "sentiamo". Sicuramente Feliciano, ma chi altro? Marcello, il più piccolo dei tre, si ricordava a malapena di lui, probabilmente, e Bruno lo aveva mandato via dalla sua propria casa, quindi non poteva essere lui. L'unica persona che poteva aver detto a Feliciano di far tornare in una breve visita Romano, era paradossalmente Vanessa, che non aveva alcun legame di sangue con lui.

 

Mentre l'italiano era immerso nei suoi pensieri non si era reso conto di Antonio, che con lo sguardo spaventato lo aveva stretto a sé, in un gesto di timoroso possesso, al solo pensiero di vedere Romano in aeroporto andarsene via. “Che stupidaggine” disse col labbro che gli tremava leggermente “casa tua è qui”

Romano girò la testa verso lo spagnolo e dopo averci pensato su, posò la lettera del fratello sul comodino mormorando “Hai ragione. Casa mia è qui”

In quel momento, Arthur, lontano pochi chilometri da casa di Romano, iniziò a sentire uno strano rumore, un ticchettio, come se avesse una bomba ad orologeria proprio accanto all'orecchio. Lo sentì fino al giorno della Separazione, nel quale sentì un'esplosione e poi il silenzio per alcuni minuti.

Non seppe mai dare una spiegazione a tutto ciò, né se ne volle mai interrogare.

 


 

Note dell'autore

Chi è in mega ritardo? Io. Chi è così bravo da perdonarmi? Voi? Sì? Ma guardatemi! Sono adorabile!

Il megasuperiperproblema è che sono momentaneamente senza wifi in casa ed i capitolo sono intrappolati in un computer. Ora, spero di poter aggiornare di nuovo con regolarità, per i passaggioni che mi sono fatta di capitoli da una parte all'altra, quindi ricominciamo a pensare di aggiornare settimanalmente! La prossima settimana di sabato!

Ora, andando alla storia vi avverto che negli anni 1996-1997 ci staremo un po' più di tempo, perché sono anni chiave!

Oltre questo, ringrazio chi legge segue e recensisce la storia! Sono veramente felice! Grazie mille!

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Capitolo 5
*** Il favore della Fortuna ***


4. Il favore della Fortuna

 

Il giusto tempo che passa

 

 

 

Il 17 Marzo del 1990 Romano Vargas compì 17 anni. Tutti festeggiavano allegramente, mangiando torta e cantando.

Tutti tranne il Passero.

Arthur Kirkland si avvicinò a lui lentamente e con tristezza. Romano non ci fece molto caso e continuò a mangiare il pezzo di torta al cioccolato che aveva preparato per lui Elizaveta Herdevary, guardando il parco, con la schiena poggiata sul tronco del pesco.

“Oggi” iniziò a parlare Arthur “ho sentito un gatto piangere per la strada. Stavo passeggiando prima di venire qui, perché sono rimasto di nuovo chiuso fuori casa. Stavo camminando e sento questo gatto che piange. Era un gatto nero e non appena mi sono avvicinato a lui, ha smesso di piangere. Non mi ero reso conto delle condizioni in cui si trovava, quindi in realtà, più che avvicinato a lui, ci sono passato vicino. Appena l'ho superato, il gatto ha ricominciato a piangere. Allora mi sono incuriosito e ho seguito il pianto, per trovarlo in mezzo all'erba. L'hanno investito e penso l'abbiano fatto di proposito, perché, sai, i gatti neri portano sfiga. Non appena vede che mi accovaccio vicino a lui, cerca di strusciare la testolina sulla mia mano, io lo prendo in braccio e vedo che è pieno di sangue. Nel momento in cui lo prendo in braccio, il gatto smette di piangere. Corro a casa tenendolo con me, lo poggio tra l'erba del giardino, cerco rabbiosamente le chiavi per entrare, anche se so che non ce le ho nella borsa, ma il gatto ricomincia a piangere. Era straziante. Mi riavvicino a lui, lo accarezzo. Lui mi guarda, alza la coda, poi chiude gli occhi e muore” Arthur strappò dei fili d'erba con rabbia e con degli occhi pieni di tristezza “Non voleva morire da solo. Sapeva di dover morire e non voleva morire da solo, ai margini della strada dove degli stronzi lo hanno acciaccato per superstizione. Piangeva per questo. Perché non voleva essere lasciato solo nella morte”

Romano sbatté leggermente le palpebre, infilando l'ultimo pezzo di torta in bocca. Ormai conosceva abbastanza bene Arthur per comprendere che, come lui esprimeva se stesso nei dipinti, l'inglese esprimeva i suoi sentimenti con racconti brevi, non importava se fossero questi presi dalla realtà o da pura fantasia, per uno scrittore non c'era differenza tra le due cose. Se Arthur raccontava, raccontava una parte di sé ed era dovere di chi lo ascoltava, capire quale parte di lui si stava esprimendo. E gli fu semplice comprendere per quale motivo gli stava raccontando quell'episodio del gatto, perché anche lui si era sentito così, tempo prima. Alzò quindi la mano e la poggiò sulla spalla dell'amico. “Arthur” lo chiamò a bassa voce “cazzo" mormorò poi, grattandosi nervosamente la testa. Da quando era piccolo, l'italiano faticava a parlare di cose così imbarazzanti, come i sentimenti, ed aveva evitato il confronto verbale con quelli per così tanto tempo da dimenticare come si fa a rincuorare una persona, a dirgli che gli voleva bene.

Se avesse parlato liberamente, senza blocchi mentali, avrebbe detto ad Arthur che lui non era quel gatto e che non sarebbe mai rimasto da solo, neanche in mille anni, neanche se decidesse di andarsene in un altro continente a coltivare oppio. Perché lui era suo amico, e lo era anche Alfred, e Matthew, e Luz Maria e Francis, e tutto il Circolo. Non importava quello che la sua famiglia dicesse di lui. Gli avrebbe detto che non importava quello che sarebbe successo; loro ci sarebbero sempre stati.

Tutto quello che riuscì ad uscire dalla bocca del ragazzo fu però quel semplice “cazzo” che sarebbe caduto in un silenzio di comprensione, che in fondo non dispiacque ad Arthur. Si conoscevano da abbastanza tempo per comprendersi e non chiedere troppo l'uno all'altro.

Romano Vargas, comunque, se fosse riuscito a dire tutto quello che gli era passato per la testa, avrebbe creduto veramente nelle sue parole. Non aveva mai pensato, in quegli anni, che il gruppo si sarebbe potuto un giorno sciogliere o dividere e continuò ad essere della stessa opinione anche dopo la morte di Cesare Vargas. Mai avrebbe pensato di essere proprio lui uno dei motivi principali che avrebbero stabilito la rottura trai rapporti e la divisione del Circolo in due parti.

 

I più piccoli del Circolo di Cesare erano, in ordine crescente, Luz Maria, Matthew, Alfred, Romano ed Arthur ed avevano creato un sottogruppo a parte, che era caratterizzato da alcune abitudini particolari. Quando c'erano solo Romano Vargas ed Arthur Kirkland, il più piccolo dipingeva e l'altro inventava storie che raccontava ad alta voce, indicando col dito le persone che passeggiavano. Quando a loro due si aggiungeva Luz Maria, la bambina suonava la chitarra e portava in musica i racconti di Arthur, muovendo abilmente le dita sulla chitarra classica ed alcune persone che passavano, vedendola scalza, sporca perennemente di fango e con i capelli sparati all'insù, le lasciava sempre qualche soldo, che lei rifiutava amabilmente con un sorriso, dicendo che per lei i soldi non erano un problema. Mentiva, ma era così orgogliosa da non volersi far vedere da nessuno mentre vendeva l'unico dono che Dio le aveva donato, la voce, facendolo diventare merce di scambio. Nessuno però l'avrebbe mai giudicata, se lo avesse fatto, perché conoscevano la situazione disastrosa in cui si trovava, anche se fingevano d'ignorarla per far stare più serena la ragazza. Quando Matthew si aggiungeva a questo gruppo, li guardava e batteva le mani al termine di ogni canzone e parlava con Romano, che magari nemmeno lo guardava negli occhi, le prime volte, ma che aveva imparato ad ascoltare. Almeno una volta a settimana, Alfred li spingeva ad andare al campetto di baseball, o a vendere i quadri di Romano e le storie di Arthur; quando invece decideva spontaneamente di rimanere sotto il pesco, il ragazzino si divertiva a costruire strani marchingegni che scoppiavano puntualmente. Erano cinque ragazzini piuttosto affiatati, dovette ammettere Cesare Vargas, quando un aereoplano di Alfred cadde nel lago e fecero gioco di squadra per riprenderlo, senza lasciare indietro nessun compagno e buscandosi, tutti e cinque, un bel raffreddore. Era un aneddoto che Cesare amava raccontare, perché ricordava perfettamente Alfred Jones fare un discorso ai suoi soldati per incoraggiarli nella missione, Maria Luz Sanchez dargli un colpo in testa in contemporanea con Arthur Kirkland e alla fine della missione, Romano Vargas sdraiato, quasi come se fosse morto, sulle sponde del lago, perché era quasi annegato per salvare quello stupido aereoplano, che comunque sarebbe scoppiato pochi minuti dopo. Quella piccola banda, rimase intatta anche dopo la rottura del Circolo, tranne per qualche periodo di litigio tra Arthur e Romano, o Arthur ed Alfred, e l'unico momento in cui Luz Maria ed Alfred furono assenti in quel gruppo, fu durante la loro luna di miele negli Stati Uniti d'America ed in Messico, dove Alfred aveva dovuto fare i conti con le miriadi di cugini, zii e nonni della Cantante.

Un gruppo piuttosto coeso era poi quello di Antonio Fernandez Carriedo, Francis Bonnefoy e Gilbert Beilschmidt, che erano diventati tra loro inseparabili. A comunarli, infatti, non c'era solo l'arte, ma anche l'età, il carattere irrequieto e la voglia di vivere nonostante tutto. Uscivano insieme la sera e si ubriacavano e facevano gare su chi portava più ragazze a letto e chi reggeva meglio l'alcol. Per questo vennero soprannominati il Bad Touch Trio. In queste serate si aggiungeva, a volte, Elizaveta Herdevary, che vinceva sempre nel reggere superalcolici, ma che dopo una certa ora fingeva di essere ubriaca per rovinare le serate a Gilbert, che comunque sapeva perfettamente che Elizaveta fingeva, solo che preferiva mille volte riportare a casa lei, metterla sotto le coperte ed addormentarsi uno accanto all'altro, senza fare niente di osceno a letto, piuttosto che portare una sconosciuta a casa, farci sesso e poi dimenticarla. Tutto questo se lo dissero la prima volta l'estate del 1996, dopo la morte di Cesare Vargas ed il viaggio di Romano in Italia; prima di allora non ebbero mai il coraggio di confessarsi sentimenti simili.

Cesare Vargas, Jeanne d'Arc e Roderich Edelstein formavano l'ultimo gruppo, che era il più sedentario, quello formato anche dalle persone più grandi e l'unico che lasciò che i rapporti sfiorissero dopo la morte del suo membro più importante. Jeanne dopo il 1996 non riferì più una sola parola a Roderich, che comunque non ne soffrì troppo.

Nonostante la divisione in gruppi, c'erano legami tra membri di questi che sembravano a volte diventare più forti di quelli ufficiali. Un esempio fu la profonda amicizia tra Jeanne ed Elizaveta, forse dettato più dalla solidarietà femminile che da altro, o Francis ed Arthur, che rimasero amici-nemici per molto tempo, Francis e Jeanne, che si sposarono, Cesare ed Antonio, che avevano lo stesso rapporto di Romano e Cesare, Elizaveta e Roderich, che stettero insieme per qualche periodo, ed infine, uno dei più forti legami che si crearono, tanto forte che quando collassò causò distruzione intorno a sé, fu il rapporto tra Romano ed Antonio.

Francis Bonnefoy si era reso conto della potenzialità distruttiva di quella coppia, mentre Romano calciava contro Antonio che cercava di abbracciarlo. Si era reso conto, guardandoli la prima volta che c'era nel loro rapporto l'embrione di un amore che una volta nato e sbocciato poteva seguire due vie: o sarebbe rimasto stabile, creando una relazione idilliaca, o sarebbe esplosa con la stessa potenza di una bomba atomica, seminando distruzione intorno a loro. Francis Bonnefoy era però sicuro che se l'amore tra quei due fosse sbocciato, sarebbe rimasto un bellissimo fiore fino a che entrambi non sarebbero morti e tante volte pensò di aver avuto la conferma della sua romantica teoria, quando Antonio rubava un timido sorriso a Romano, quando Romano non smetteva di parlare di Antonio, anche se solo per insultarlo, quando Romano arrossiva allo sfiorare Antonio ed Antonio si dimostrava possessivo nei confronti di Romano. Funzionavano bene come coppia, anche quando nominalmente non lo erano nemmeno.

Certo, questo nessuno dei due lo aveva capito e, ai tempi, gli unici che avevano intuito qualcosa erano Cesare Vargas, Jeanne d'Arc e Francis, e ci volle tempo perché i due zucconi comprendessero ed accettassero i loro sentimenti.

In fondo, Romano aveva conosciuto Antonio quando aveva appena 12 anni e lo aveva visto sempre come una persona troppo vecchia per lui, riusciva ad accettarlo come figura adulta, ma non si perdonava il fatto di esserne attratto. Nelle notti d'estate cercava di convincersi che il suo, nei confronti di Antonio ,fosse semplice affetto fraterno, come quello che provava per Feliciano e che sarebbe stato sbagliato provare strani impulsi verso lo spagnolo. Sarebbe stato come se Feliciano s'innamorasse di lui, sarebbe stato inaccettabile. Così come sarebbe stato inaccettabile desiderare, per di più, che contraccambiasse.

In più, si diceva Romano, Antonio era un uomo ed era sbagliato che un uomo amasse un uomo, contro le regole della natura. Romano Vargas si era guardato il vecchio crocifisso che ancora portava al collo e si chiese chi avesse mai detto che amare un uomo era sbagliato. Lo stesso Dio che non voleva nel suo cimitero sua madre?

Romano Lovino Vargas era confuso.

 

Antonio, dal canto suo, non si era mai fatto troppe domande. Romano gli piaceva, non sapeva che gli piaceva in quel senso, sapeva però che per lui era importante. Aveva liquidato la domanda perché è importante? dando la risposta un po' superficiale, beh, perché l'ho visto crescere, non sapendo che da quando il ragazzo aveva compiuto 15 anni , lui lo guardava in maniera diversa, soffermandosi sui cambiamenti del suo corpo, forse più a lungo del dovuto, mentre Romano seguiva con la testa il ritmo scandito da Luz Maria e dalla sua chitarra. Si riscopriva più volte, Antonio, ad essere incantato dai gesti di Romano, dalle sue parole, e, quando lui e l'italiano parlavano da soli, a fissargli insistentemente le labbra, mentre passava le dita sulle sue, o se le leccava nervosamente. E quei gesti mandavano ai matti Romano, che arrossiva e cercava disperatamente una scusa per allontanarsi il più in fretta possibile da lui, a volte così velocemente da inciampare sui suoi stessi piedi e causare le risate intenerite di Cesare Vargas e Jeanne d'Arc. E forse ad una persona normale il fatto di volerlo sempre accanto, di avere sempre la voglia di abbracciarlo ed accarezzargli i capelli, sarebbe bastata per capire che provava qualcosa per Romano, ma Antonio non era una persona normale e questo non bastò.

 

Il 20 maggio 1990, ad Elizaveta venne l'idea di mettere nuovamente alla prova le capacità pittoriche di Francis e Romano, facendo un ritratto di tutto il gruppo. I due non trovarono nulla di male nell'idea e decisero di accettare la proposta, anche se Cesare disse che voleva che Romano terminasse il dipinto di Francis facendo lui il ritratto del francese e che Francis terminasse il dipinto di Romano facendone lui il ritratto in mezzo al gruppo. Così, nel dipinto di Francis, che sembrava rappresentare un convivio di altri tempi, poiché tutti erano sdraiati e coperti appena da un telo bianco, Francis appariva nello stile di Romano, vestito con jeans e maglietta mentre lanciava una rosa in aria, e nel dipinto di Romano, che aveva deciso di rappresentare tutti il più realisticamente possibile, seduti sul prato con i loro vestiti ordinari, mentre chiacchieravano o suonavano, o mangiucchiavano, Romano Vargas fu rappresentato come un piccolo elfo, mentre ai margini, con un pennello in mano, sembrava terminare l'opera.

Il contrasto non parve dar fastidio a nessuno dei due e Jeanne disse che dava maggior carattere ai quadri e che non li avrebbe cambiati per nulla al mondo.

Visto oggi, i due quadri sembrano essere un legame trai due pittori, come se stettero a testimoniare lo strano rapporto che avrebbero portato avanti con gli anni. Il rapporto più complicato e saldo nella vita dell'italiano. Non a caso il quadro di Rojo è stato intitolato il Convivio, che richiamava all'arte classica, e quello dell'Innamorato Pomeriggio sotto il Pesco, anche se del pesco, c'era solo un petalo, rappresentato sulla spalla sinistra di Jeanne d'Arc, che dovrebbe riportare chiunque osservi il quadro alla realtà.

Al termine del lavoro, dunque, Francis firmò il suo quadro, con il suo nome e Romano, come tanti anni prima, immerse il pennello più fino che aveva nel rosso e tracciò una semplice R. Fu in quel momento che sentì il peso di un mento sulla sua spalla e la voce di Antonio nel suo orecchio destro “Solo R?”

Romano annuì senza voltare la testa “Solo R”

“R per Romano” mormorò pensieroso l'altro. Poi guardò il colore con il quale Romano aveva tracciato la lettera, prese il pennello, senza togliere il mento da sopra la spalla del ragazzo, e se lo passò sulla mano. Il pennello, com'è ovvio, lasciò una linea rossa sulla pelle abbronzata dello spagnolo e sia Antonio che Romano rimasero fermi a fissarla, sincronizzando i loro respiri ed i battiti accelerati dei loro cuori. Rimasero fermi in quella posizione per qualche secondo, prima che Antonio girasse la testa e sussurrasse nell'orecchio del ragazzo “R come rosso. Rojo.”

Romano si sarebbe a lungo vantato del suo autocontrollo, visto che non impazzì alla sensazione calda del respiro di Antonio sulla sua pelle, ma anzi, pensò lucidamente che, in effetti, Rojo era il nome d'arte che faceva al caso suo, visto che gli ricordava i lunghi capelli di sua madre, gli alberi dalle foglie rosse che crescevano accanto alla sua vecchia casa, l'Italia, i pomodori, la Spagna ed infine Antonio, anche se non volle subito ammetterlo. Ed il rosso era il colore della passione, la stessa che lo portava a dipingere senza mai stancarsi né annoiarsi. Dovette ammettere che tutto quello che il rosso gli ricordava era parte integrante di lui, che lo rappresentava nella migliore maniera e che mai nulla gli sarebbe calzato a pennello come il rosso. Furono questi i pensieri che passarono per la testa di Romano quando disse “R come Rojo” girando la testa verso Antonio.

Gli occhi verdi di Antonio s'incontrarono quindi con quelli nocciola di Romano, in un'affettuosa lotta senza feriti. Lo spagnolo iniziò a respirare con più irregolarità, così come Romano che, in una situazione normale avrebbe spinto via Antonio, gridando che era un maniaco, ma che in quel momento era rimasto pietrificato, catturato dallo sguardo verde che si presentava davanti a lui ed aveva uno vocina nella testa che gli diceva di avvicinarsi all'altro, che non sarebbe successo nulla di male e che se lo avesse fatto sarebbe stato felice. Gli stessi pensieri passarono velocemente per la testa di Antonio che però, avendo dimenticato di nuovo spenti i filtri tra il suo cervello ed il suo corpo, stava già iniziando a chiudere gli occhi ed attirare Romano verso di sé, quando una mano lo tirò via.

Ci volle un po' perché le menti di Antonio e Romano tornassero lucide, e lo spagnolo riconoscesse Gilbert che gli gridava che Elizaveta gli aveva tirato la giacca nel lago e che dovevano trovare un modo per fargliela pagare.

Salvato in calcio d'angolo, fu il primo pensiero di Romano mentre correva verso Arthur che poco lontano da lì, ascoltava Luz Maria parlargli della leggenda del Chupacabras.

Quel giorno Romano ebbe finalmente il suo nomignolo affibbiato da quella banda di matti ed Antonio scoprì finalmente di provare qualcosa di più di quello che pensava per Romano.

 

Finalmente, rimarcò Francis quando l'amico si confidò con lui.

“Allora? Cosa vuoi fare?” gli aveva chiesto fumando una sigaretta.

Antonio si era grattato la testa e chiudendo l'occhio sinistro, rispose in totale sincerità “In realtà, niente”

Francis aveva alzato un sopracciglio, sorridendo appena. “Niente?”

“Sono felicissimo di essermi innamorato di Romano ma… non penso che lui corrisponda”

Il francese dovette contenere la sua risata, per non offendere l'amico, che con aria sognante stava tessendo un elogio sui capelli di Romano e le sue spalle e i suoi occhi e le sue labbra e il suo sedere… cavolo, il suo sedere!

I giorni ed i mesi seguenti, Francis Bonnefoy si divertì a creare situazioni equivoche per Romano ed Antonio; li teneva vicini, li lasciava soli, creava stupidi giochetti pervertiti per fare in modo che si toccassero e sfiorassero, mettendo a dura prova i nervi dell'italiano.

Rideva, Francis, mentre cercava di palpare Antonio e Romano lo fulminava con lo sguardo. Ed anche quando abbracciava Romano, bloccandolo tra le sue braccia, ed Antonio lo uccideva da lontano.

Si era divertito un sacco a spese di Romano ed Antonio, ma, come tutti i giochi, anche quelli di Francis dovettero finire, con grande rammarico del francese, ovviamente.

 

Ed ebbero fine il 14 febbraio del 1991.

Romano avvolto in un piumone accanto ad Antonio che sorrideva mentre cercava di abbracciarlo, con la scusa che faceva freddo e che voleva stare al caldo , si sarebbe chiesto migliaia di volte come era finito in quella situazione e mai si sarebbe immaginato che, se si trovava lì, era a causa di una trappola che gli aveva teso il Circolo, pensata e messa in atto dallo Stratega.

“La detesto” sbottò ad un certo punto, affondando le guance sotto il piumone.

“Chi?”

“Ariel. È stupida. Per prima cosa, come puoi pensare d'innamorarti a prima vista e, senza conoscere quel grandissimo deficiente del principe, scommettere su voi due, tanto da dare la tua voce in pegno e sperare che l'altro coglione ti dia un bacio prima dei tre giorni di conoscenza? Luz Maria piuttosto sarebbe rimasta zitella…”

Antonio sorrise “Penso che anche Maria Luz darebbe la sua voce per amore.”

Romano fece spuntare fuori le sue mani, indicando istericamente lo schermo della tv “Lo ha appena conosciuto!”

“L'amore è irrazionale” si morse il labbro Antonio

“Fino ad un certo punto…” borbottò il minore, risistemandosi nel divano. Non passarono neanche venti minuti che Romano sbottò di nuovo “E adesso mi sta sul cazzo pure Erik”

“Perché?” rise Antonio

“Perché, cazzo, Ariel sta lì, davanti a lui e lui è tipo… cioè fanculo e baciala, a questo punto”

“Dici che dovrebbe seguire l'istinto?” chiese Antonio girando la testa verso Romano ed avvicinandosi a lui.

“Ma pure il basso ventre, quella è più che ben disposta” mormorò il ragazzo, con gli occhi attaccati allo schermo del televisore, e non si rese conto che le braccia di Antonio si stavano muovendo verso di lui, così come tutto il suo corpo. “Quella gliel'avrebbe data alla prima botta” continuò.

“Mmm?”

“E poi, dai, è carina. Buttat… Che cazzo stai fac…?”

Antonio mormorò qualcosa d'incomprensibile, prendendogli la testa delicatamente e girandola verso di lui, per poi buttarsi tra le sue labbra.

Quando poi si allontanò leggermente, s'incontrò con lo sguardo confuso del ragazzo e si affrettò a farfugliare frasi senza senso che non riusciva a collegare tra di loro. Romano, mettendo insieme le parole e le frasi, riuscì a capire che gli stava promettendo di non stargli mai sul cazzo e che avrebbe fatto di tutto per renderlo, se non felice, almeno felicemente imbronciato e che lo avrebbe amato per sempre e che magari poi un giorno sarebbe diventato una specie di maniaco, perché lo avrebbe seguito ovunque. E che lo amava, cavolo, quanto lo amava.

Nella testa di Romano si formularono miliardi di risposte, sia positive che negative. E quelle negative erano allettanti, ad essere sinceri, perché erano razionali e con solidi argomenti per cui si sarebbe dovuto alzare da quel divano e scappare il più lontano possibile. Quelle positive erano estremamente liriche, romantiche e sdolcinate e per questo meno invitanti. Ma lui voleva dirgli di sì, che anche lui lo amava e quindi scelse l'opzione migliore: lo abbracciò, gli diede dello stupido e lo baciò con tutto l'amore che aveva in corpo.

“È sbagliato” borbottò rosso dall'imbarazzo, nascondendo la sua testa sotto il piumone. “Stiamo sbagliando.”

“E continueremo a sbagliare. Ovviamente ti amerò per sempre”

“Allora hai firmato la tua condanna”

“Era tutto quello che volevo”

 

Ed infatti il loro amore durò per la durata di due vite.

 


 

 

Note dell'autore

Ho fatto un lieve ritardo.

Spero non succeda più, ma non posso fare promesse, a quanto pare. Il tempo passa veloce~

Grazie mille a chi legge, segue e recensisce la storia!

Ci rileggiamo prestooo~

Abbraccione spirituale e tanto amour~

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Capitolo 6
*** La nascita del primo bambino ***


6. La nascita del primo bambino

 

"Spero possa avere quel che io non ho avuto"

 

Quando Romano sarebbe diventato non solo un pittore abitante della provincia spagnola, ma un grande pittore con origini sud italiane, molti biografi, studiosi dell'arte ed amatori, avrebbero detto e scritto che nel 1997 il pittore Rojo avrebbe perso quella che era la sua visione bambinesca del mondo ed avrebbe dipinto, da quell'anno in poi, il mondo così com'era, senza abbellimenti o censure; dal 1997 Romano Lovino Vargas avrebbe dipinto la realtà nuda e cruda, con colori meno brillanti, con cieli meno azzurri e con soggetti avvolti da un alone di oscurità, che gravava nel dipinto, così come nell'osservatore di esso. Dal 1997 i suoi dipinti sarebbero diventati i portavoce della sua tristezza, frustrazione, delusione e molti personaggi importanti nel mondo dell'arte, e non, s'interessarono a lui, pensando che un linguaggio così schietto fosse la risposta alla situazione politica della Spagna e dell'Europa in generale, alla mancanza di stabilità ed apparente sicurezza che l'intera società stava passando a causa della perdita di punti di riferimento quali la Chiesa, lo Stato, la famiglia, e, a causa di internet e dei mass media, di coordinate come il tempo e lo spazio. Secondo i critici, la pittura di Rojo era un modo per estraniarsi da quella società consumistica che stava sorgendo, figlia di una società postindustriale che necessitava di consumatori e che gettò le fondamenta per quella che ai giorni nostri viene definita società liquida. Rojo, ossia Romano Lovino Vargas, con il suo modo di vivere appartato, il suo non accettare di vendere i suoi quadri se non a persone che gli avevano fatto una buona impressione ed il suo carattere da orso, era diventato lo stemma degli anticonformisti, nonostante lui tutto avesse in mente, tranne creare un movimento contro lo Stato o la società.

Magari i suoi dipinti riflettevano sull'ambito collettivo, politico, religioso, etico… ma non era tutto, c'erano in quelli un ampio spazio per la sua esperienza personale, per la sua vita. Quello che rappresentava era ovviamente una parte della sua sofferenza, anche se non lo accettava e se mai lo aveva dichiarato ad alta voce.

In fondo, questo è il compito dell'artista: universalizzare il proprio dolore, dando l'illusione, a noi amatori, di non essere soli, di non essere differenti gli uni dagli altri e di appartenere al genere umano.

Il problema dei biografi era che andavano da Romano Vargas, pensando di sapere tutto quanto su di lui, pensando di conoscerlo meglio di quanto lo facesse lui stesso, o Arthur ed i suoi amici più stretti. E questo, a Romano, dava sui nervi. Li detestava tutti quei ragazzi che con gli occhi a cuoricino gli facevano domande, iniziando già a scrivere sul loro blocchetto prima che lui aprisse bocca e, per questo, non disse mai a nessuno nulla che non fosse già scritto, già pubblicato, già sulla bocca di tutti.

Arrivò al punto che, nel 2014, nessuno sapeva il nome della madre, nessuno sapeva di cosa parlava con Cesare Vargas e nessuno sepeva come aveva incontrato Francis Bonnefoy, Alfred F. Jones, o Matthew Williams, o Luz Maria Sanchez, o Arthur Kirkland.

Nessuno seppe, fino al 2014, che conosceva gli scrittori Gilbert Beilschmidt ed Antonio Fernandez Carriedo, l'architetta Elizaveta Herdevary o il grande compositore Roderich Edelstein e che insieme formavano il Circolo di Cesare.

E se nessuno sapeva che Antonio Fernandez e Romano Vargas si conoscevano, nessuno sapeva che avevano diviso la propria vita insieme, per qualche periodo.

Quindi nessuno, nessuno mai, collegò il suo cambio di stile ad una data precisa, quando però ne aveva una.

Romano Vargas affrontò una grave delusione personale il 24 Aprile del 1997, con la nascita di una bambina dagli intensi occhi verdi ed i capelli dolcemente arricciati e castani.

Il nome di quella bambina era Laura.

Quella bambina, così innocente, in realtà nella sua dolce prima risata, fu il prodotto di una serie di eventi che si susseguirono dall'aprile 1996 al giorno della sua nascita, eventi scaturiti dalla lettera di Feliciano Vargas al fratello, arrivata il 9 aprile di quell'anno, che non furono del tutto negativi, anche se comportarono effetti secondari collaterali e pieni di dolore per Romano.

Il primo cambiamento ebbe luogo il 12 aprile, quando Arthur Kirkland si presentò a casa di Romano Vargas, con i vestiti, le scarpe ed i capelli bagnati a causa di un furioso temporale. Quando Romano, alzando un sopracciglio gli aveva chiesto cosa ci faceva lì, Arthur era entrato in casa, sgocciolando su tutto il pavimento e gli aveva chiesto se voleva prima la notizia bella o quella cattiva. L'italiano ci aveva un pensato un po' prima di chiedergli sgarbatamente di sbrigarsi, ché Antonio era in camera da letto e non voleva che montasse su uno scandalo, solo perché lui aveva deciso di visitarlo in un'orario così insolito.

Arthur aveva commentato la cosa acidamente, dicendo che per prima cosa non erano sposati e che quella non era casa dello spagnolo.

Romano aveva semplicemente alzato un sopracciglio e, con un gesto della mano lo aveva spinto ad andare avanti col racconto.

L'inglese aveva afferrato senza fretta l'asciugamano che Romano Vargas aveva l'abitudine di tenere vicino alla porta di casa, nell'eventualità di rimanere sotto una cascata di pioggia e doversi asciugare in fretta i capelli per non prendersi un malanno, e mentre strizzava via con poca delicatezza l'acqua dalla sua disordinata chioma bionda disse “Mi hanno cacciato via di casa”.

Romano alzò un sopracciglio e disse “Di nuovo?" mentre incrociava le braccia.

Arthur Kirkland, difatti, era il più piccolo della sua famiglia, nonché il più stupido ed ingenuo, a detta dei suoi fratelli.

Sin da quando era piccolo, era stato vittima della cattiveria dei fratelli maggiori, dei suoi cugini e dei suoi stessi genitori.

Per qualche motivo i genitori di Arthur lo detestavano e provavano paura, forse anche vergogna e racore, nei suoi confronti, tanto da cercare di tenerlo lontano da casa il più possibile. Arthur non se ne andava al Parco de Los Angeles perché voleva, ma perché era costretto, spinto a forza da sua madre che, per non averlo sulla coscienza, gli dava appena un pezzo di pane, un giubbotto ed un cappello, perché stesse fuori casa anche durante le giornate più fredde, anche sotto la pioggia scrosciante ed il sole più dannoso e cocente. Era stato rinchiuso fuori casa centinaia di volte ed eppure era sempre tornato, con l'illusione di poter essere, un giorno, amato dalla sua famiglia, e rispettato. La prima volta che chiese rifugio in casa Vargas aveva 16 anni, in una notte di rigido inverno. Aveva bussato per ore al portone, gridando fino a perdere la voce ai suoi fratelli, ai suoi genitori, di aprirgli la porta e, alla fine, aveva ceduto, mentre cercava per lo meno di riscaldarsi i piedi e le mani da quel freddo glaciale, dando calci al muro, per riscaldare i suoi piedi, e nascondendo gli arti superiori all'interno della giacca. Arthur Kirkland non saprebbe dire quando si addormentò quella notte, ma successe, e ricorda perfettamente ancora oggi che fu brutalmente svegliato da un secchio di acqua gelida, gettato da uno dei balconi della casa, probabilmente dai suoi fratelli maggiori. Se fino a quel momento aveva avuto freddo, dopo questo sembrava essersi congelato del tutto e, in un lampo di lucidità, pensò che starsene lì seduto lo avrebbe portato a morte per assideramento, e lui ci teneva troppo alla sua vita per morire in una maniera così stupida.

Si alzò quindi e iniziò a vagare per le strade della città, quando, chissà come, Cesare Vargas che stava parlando, come suo solito, col nipote, lo vide passare dalla finestra della camera. Lo aveva quindi chiamato su in casa, offerto un bagno caldo, vestiti asciutti (sembrava infatti che Romano ed Arthur portassero più o meno la stessa taglia di vestiti, erano i più gracilini e bassi, nel loro gruppo) ed un letto dove dormire. Da quel giorno, Arthur era tornato a casa Vargas svariate volte, chiedendo asilo a Cesare ma anche a Romano, tutte le volte che la sua famiglia decideva che era di troppo e di cacciarlo in malo modo. Tante volte Cesare lo aveva invitato a rimanere in casa sua, Arthur declinava l'offerta, con un sorriso appena accennato rispondeva che, purtroppo, di famiglia, ce n'è solo una e che si deve far di tutto in questa vita per fare in modo che questa non si divida, né si liquefaccia nel nulla.

“Questa volta ho deciso di non tornare, però” aveva annunciato Arthur, mentre in totale libertà prendeva dei vestiti da un vecchio armadio situato nel corridoio.

“Ah, perfetto” sbuffò Romano alzando gli occhi al cielo.

“Per se non l'avessi capito, rimango qui”

“Non l'avrei mai detto” mormorò sarcasticamente il più giovane “Dovrai pagarmi un affitto e non darmi fastidio” aggiunse nel tentativo di scoraggiare l'inglese.

Arthur, invece, sorrise leggermente “Ma lo sai che è impossibile non darti fastidio”

“Arthur” lo chiamò Romano ignorando le parole precedenti dell'amico “ tu non hai un lavoro”

Allora il maggiore sorrise ancora più trionfalmente, mentre dalla sua borsa, al contrario di lui, completamente asciutta, prendeva un libro e glielo lanciava in faccia, aspettando prima che Romano iniziasse ad imprecare contro di lui, poi che leggesse la copertina e dicesse quello che in effetti il ragazzo disse “Non ci posso credere! È… è fantastico!”

“Il prossimo romanzo lo devo scrivere per settembre” sorrise con aria di superiorità l'inglese, mentre si cambiava la maglietta “ma ho bisogno di un posto in cui stare. Qui”

“Fa come ti pare” aveva detto Romano voltandosi e tornandosene in camera sua “Camera sai dov'è, basta che tu non mi dia fastidio”

Arthur Kirkland conosceva abbastanza bene Romano Vargas per dire che quella sera il ragazzo era più emozionato di lui all'idea della sua neo-carriera da scrittore e soprattutto l'idea di non doversene stare da solo in casa, come era capitato molto spesso dopo la morte di Cesare Vargas, quando non era al parco de los Angeles e quando Antonio era impegnato a scrivere a casa sua o in luoghi aperti, anche lui vittima delle scadenze che le case editrici gli imponevano, anche se, tenendo fede al suo carattere spensierato ed incarnando alla perfezione gli stereotipi dello scrittore allegro e dispettoso, Antonio faceva impazzire la sua editrice, che era anche stata la sua prima cotta di tanto tempo fa, Alicia Rivas. La ragazza si lamentava continuamente con Romano, perché i tempi passavano ed Antonio non cambiava mai. Romano Vargas in quelle lamentele, aveva intuito che più lontano Alicia stava da Antonio, più si sarebbe sentito sereno e calmo per la sua relazione. Non gli piaceva il modo in cui lo guardava, in cui parlava di lui e gesticolava nervosamente in ogni frase in cui lo nominava. Aveva dichiarato, una notte, le sue ansie ad Antonio, con lo sguardo fisso sulla luna ed i pugni stretti, e lo spagnolo aveva semplicemente sorriso e lo aveva stretto a sé, sussurrandogli all'orecchio che non aveva bisogno di un Alicia per essere felice, ma di un Romano che scalciasse e desse testate. In risposta, ovviamente, ebbe un pugno dritto al petto, partito in automatico a causa dei sottili meccanismi mentali di Romano per difendersi dall'imbarazzo. “Ecco” aveva detto felicemente Antonio, già con gli occhi chiusi e metà dei pensieri nel regno dei sogni “è di questo che parlavo”

Quel che Antonio non sapeva, anche se nei primi tempi non c'era motivo che lui lo sapesse, era che nelle notti in cui lasciava Romano da solo, Luz Maria Sanchez spingeva l'amico ad uscire con lei e portarla in discoteca, visto che Alfred non era attento agli affari amorosi quanto lo era per quelli finanziari, e la ragazza, nel più onesto dei modi, aveva bisogno di scaricare le tensioni e le sue frustrazioni, andando a ballare per esempio. Avendo, più o meno, lei e Romano, gli stessi problemi nella relazione, trascinava l'italiano fuori casa e lo portava a La Mascara, una discoteca latinoamericana, dove lo costringeva a ballare fino allo sfinimento, finché i loro problemi non fossero spariti dalla loro testa. Fu lì, esattamente in quel posto, che conobbe Sadiq Adnan, il barista turco. Allora, in quei tempi, non c'era motivo per cui né Antonio né nessun altro membro del Circolo al di fuori di Luz Maria, sapessero ciò.

A volte, quando invece Arthur e Romano rimanevano a casa, i due ragazzi tornavano alle abitudini di tanto tempo prima, quando indicavano col dito le persone ed inventavano storie sulle loro vite o le dipingevano; si conobbero meglio, per di più, e scoprirono tante cose l'uno dell'altro che li fecero vivere insieme per tanto tempo, senza mai cadere nell'odio reciproco. Certo, Arthur odiava il disordine di Romano, che lasciava gli oggetti che utilizzava in giro per casa, finiva le confezioni di biscotti e le lasciava sul tavolo e non buttava mai la spazzatura, ma anche Romano odiava tante abitudini di Arthur, come la sua mania di lasciare un posto vuoto ma apparecchiato in tavola, di fumare in casa, o, la peggiore di tutte, di distruggere la cucina con i suoi tentativi di preparare torte maleodoranti. Ci passarono sopra, tuttavia, creando un contratto non verbale ma da entrambi rispettato, che ha fatto in modo che fino ad oggi non abbiano mai interrotto la loro convivenza. Molti anni dopo, la figlia di Gilbert Beilschmidt, Giada Beilschmidt li avrebbe presi un po' in giro, dicendo che erano esattamente identici ad una coppia sposata, con la sola mancanza della fede al dito. Entrambi avrebbero quasi vomitato all'idea.

Molto spesso Arthur Kirkland si sedeva in salotto, accanto alla finestra più grande della casa e, infilandosi gli occhiali da vista, iniziava a tessere coperte che avrebbero utilizzato la maggior parte dei bambini nati dai membri del Circolo. Era consapevole che era una caratteristica prevalentemente femminile, quella di tessere o lavorare ai ferri, ma Arthur dichiarava che quello faceva parte del suo processo di creazione di un libro e, dovuto al successo dei suoi romanzi, Romano cercava di non deriderlo troppo, anche se molte volte gli scappava un commento sarcastico sul suo essere esattamente uguale ad una donna anziana, in attesa dei propri nipotini. Arthur si leccava le labbra, mentre faceva ballare i due ferri con tanta abilità da far paura all'italiano e dopo almeno un'ora si alzava, prendeva del tè e si rinchiudeva in camera sua per ore ed ore. Tornava da quegli incontri con se stesso a volte turbato, a volte sorridente ed era paradossale pensare che, quando arrivava a tavola sorridente e sereno, aveva scritto parti del suo romanzo che poi avrebbe dato in pasto al fuoco od in balia del vento, in accordo con la teatralità che non aveva quando era piccolo, ma che aveva acquistato dalla vicinanza con Francis.

Perché, per quanto bene volesse a Romano, per quanto ammirasse Cesare, per quanto lo incuriosisse la scrittura stramba e allo stesso tempo lineare di Gilbert, era stato Francis ad iniziarlo all'arte, segnando il suo passaggio da semplice lettore di romanzi ad autore e creatore, nel suo piccolo.

Era una domanda, una questione, che spesso Cesare Vargas si era posto guardando i suoi protetti sotto l'ombra del pesco. Otto di loro erano dei futuri artisti, alcuni di loro, come Francis, Antonio e Roderich ne erano più che consapevoli, ma gli altri avevano deciso in un secondo momento di creare attraverso la propria mente e le proprie mani. Ad esempio, la stessa Jeanne aveva un talento abbastanza buono per arrivare ad essere un'artista, se avesse voluto, ma non lo era mai diventata. Cosa portava i suoi piccoli membri a voler lasciare qualcosa di sé ai posteri?

Per Arthur fu il suo primo unico vero Amore. Fu il bisogno di chiarire con se stesso quel che provava attraverso altre persone che non fossero lui. Le storie erano l'unico modo per avere modo di riflettere e rifletteva proprio accanto al suo grande amore, Francis, che lo accompagnava in tutto il processo creativo. Il francese quindi, non solo aveva dato inizio al primo romanzo di Arthur, ma era rimasto accanto a lui in tutta la sua esperienza di creazione e lo aveva tenuto così vicino in quei momenti, da accrescere il sentimento del più piccolo, facendo nascere uno degli amori a senso unico più mormorato e criticato tra gli esperti d'arte, che in fondo, sono dei grandi pettegoli. Certo, l'evoluzione della storia diede, e dà tuttora, tanto da commentare. Soprattutto per il comportamento di Francis: Francis Bonnefoy, artista romantico e conoscitore dell'arte amatoria e dei comportamenti d'innamorarti, poteva non essersi reso conto dell'amore di Arthur Kirkland nei suoi confronti? Se sì, e non può essere il contrario, per quale motivo tortura così l'inglese, tenendolo egoisticamente legato a sé?

Quando Jeanne d'Arc annunciò al Circolo di essere incinta, Arthur Kirkland aveva un sorriso strano, un po' triste. Romano lo aveva osservato, mentre si avvicinava alla ragazza, stringendo un po' più forte la mano di Antonio, e lo aveva sentito sussurrare “Possa questo bambino avere quello che non ho potuto avere io”.

Lui ed Alfred si erano guardati; solo loro capirono.

Arthur avrebbe augurato tante benedizioni a tutti i bambini che nacquero nel Circolo, a Giada Beilschmidt, Consuelo e Junior Jones e addirittura a Laura. L'unica pancia però che avrebbe toccato con mano più tremante e cercando di fermare quelle lacrime che volevano uscire dai suoi cupi occhi verdi, fu quella di Alexandre ed utilizzò quella volta tutta la sua abilità di giocare con le parole, lasciando uno spazio d'incertezza in quelle, affinché nessuno capisse l'incertezza che invece prevaleva nel suo spirito.

Arthur parlava ovviamente di Francis. Possa questo bambino avere Francis accanto a sé, la persona che non ho mai potuto avere accanto io. Tutti gli altri membri del Circolo, Francis compreso, avevano interpretato le parole dell'inglese come un possa avere quello che non ho mai potuto avere io, cioè una famiglia che lo ami e che lo protegga.

Arthur Kirkland intendeva un po' tutt'e due le cose, aveva spiegato a Romano. Gli aveva confessato, tempo prima, che aveva fatto un sogno dove lui non era solo lui, ma addirittura la rappresentazione di una nazione, l'Inghilterra.

Ci aveva riso sopra; egocentrico, si era detto. In questo sogno, tuttavia, aveva visto Jeanne d'Arc bruciare a causa sua e Francis piangere sulla ragazza, senza poter nemmeno salvarla. Nello stesso sogno, con la consapevolezza in esso che erano passati anni, se non secoli, Arthur e Francis stavano insieme, uno accanto all'altro, e non come brothers, no.

Stavano insieme come lovers.

Allora, aveva visto, sempre in sogno, Jeanne prendergli la mano e chiedergli sussurrando “Almeno qui, lasciami amarlo”.

Mente distorta di un romanziere, si era detto, tuttavia in quel sogno aveva annuito, e quindi promesso. Non importa se era tutto frutto della sua mente malata; no, non importa, perché ha promesso. Non avrebbe fatto niente per avere Francis come lover, e avrebbe voluto bene anche a suo -loro- figlio; perché aveva promesso.

In più, desiderava veramente una vita felice per quello che sarebbe stato Alexandre Guy Bonnefoy e sarebbe stato lui stesso a fargli da padrino di Battesimo. Arthur Kirkland non desiderava per nessuno una vita senza famiglia e con genitori facili all'odio verso il figlio e certamente non sarebbe stato lui ad alimentare l'odio all'interno del nascituro. Con un enorme autocontrollo, aveva aiutato Jeanne d'Arc in tutti i problemi che si presentavano ad una donna incinta e prossima all'altare, aveva organizzato una festa per il bambino e parte del matrimonio di Francis Bonnefoy e Jeanne, essendo anche uno dei testimoni dello sposo, insieme ad Elizaveta.

Francis e Jeanne si sposarono il 14 Maggio 1996 e, non appena il ricevimento del matrimonio fu finito, e così anche le feste e dopo feste alle quali tutti e tre i membri del Bad Touch Trio vollero partecipare, mentre Antonio cantava appoggiato alla sua spalla ubriaco, Romano sbuffando, chiese ad Arthur se non fosse masochista a voler rimanere lì a guardare Jeanne portargli via Francis. L'inglese aveva fatto spallucce e detto che ormai c'era di mezzo un bambino, che necessitava una famiglia unita e certamente non sarebbe stato lui a rovinargliela.

Il desiderio più grande di Arthur era, in fondo, quella di avere lui stesso una famiglia, che un giorno i suoi fratelli si pentissero delle cattiverie a lui fatte e diventassero, finalmente, un gruppo unito e che si amava. “T'invidio” aveva detto “tuo fratello ti vuole un sacco bene. Se tu gli dessi l'opportunità, potreste ricostruire quello che tuo padre ha distrutto”

Romano rimase in silenzio, ripensando alla lettera di Feliciano. Forse fu quello il giorno in cui decise di partire per tornare alla sua casa paterna, almeno per una visita.

Arthur avrebbe amato Alexandre come se fosse stato suo figlio; come si può notare, non fu lui a liquefare il Circolo, che era il gruppo di persone più vicino alla famiglia che lui avrebbe mai avuto.

Il dolore dell'inglese sarebbe diventato letteratura e la sua letteratura lo fece conoscere in tutto il mondo.

Fu una ricompensa minima per tutto il dolore che aveva dovuto affrontare, questo è vero, ma fu una ricompensa; molti non avrebbero avuto neanche quella.

Il bambino fu chiamato Alexandre, per Alexandre Dumas, e Guy, per Guy Maupassant, e nacque con degli intensi occhi blu e mossi capelli biondi il 19 ottobre 1996.

Il Circolo era già andato in pezzi.

Quando oggi Alexandre chiede allo zio Artie se ha mai amato suo padre, sorridendo maliziosamente e camminando lungo le spiagge o per le vie della città, Arthur alza un sopracciglio e, preso il bastone che porta sempre con sé, senza una ragione precisa visto che non ha problemi a camminare né a rimanere in equilibrio, lo colpisce alle gambe, suscitando l'ilarità di Giada. “Amare, amare” ripete sempre “certo che l'ho amato” mettendo uno sguardo triste e nostalgico, nonostante i suoi sforzi di rimanere indifferente.

“Al tempo passato” dicono allora o Giada o Alexandre a turno, avvicinandosi al loro amato zio e lasciandogli un leggero bacio sulla guancia.

“Al tempo passato” mente Arthur stringendo i pugni.

 


 

 

note dell'autore

Io amo Arthur/Inghilterra e potete anche odiarmi per questo, perché i personaggi che amo, soffrono. E perché rubo un sacco di spazio agli altri personaggi.

Se devo pensare a qualcuno di più grande influente nella vita di Romano oltre Cesare e l'amour di tutta la vita, che è Anto (❤️), allora deve essere Arthur e non pensate che quello che gli è successo sia sconnessa con la storia di Roma.

Avrete capito che c'è una seconda generazione del Circolo di Cesare, che però non comparirà così spesso, neanche parleranno, probabilmente. Compariranno i loro commenti, a volte. E a tutto c'è un perché. Yeah baby.

Grazie a chi legge, segue e recensisce la storia.

Ci leggiamo sabato prossimo

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Capitolo 7
*** Il tradimento ***


7. Il tradimento

 

Il decentramento

 

 

Nella prima mostra d'arte che i fratelli Vargas tennero insieme, erano entrambi abbastanza conosciuti e venne al maggiore dei due, correndo, uno strano giornalista, né troppo giovane né troppo vecchio, che fece una domanda sulla società contemporanea prendendo appunti su un block notes.

Nessuno aveva allora notato, tranne ovviamente Arthur Kirkland che stava accanto ai fratelli, quasi dovesse tenerli d'occhio, che lo sguardo di Romano Vargas andò in un angolo della stanza, dove si trovava una parte del Circolo già distrutto; dove si trovava Antonio Fernandez Carriedo. Romano aveva già chiesto allo spagnolo di non avvicinarsi più a lui e di non farsi più vedere.

Quello che molte volte si sarebbe chiesto Arthur Kirkland era a chi furono dedicati alcuni versi di John Donne che scapparono dalle labbra dell'italiano maggiore “È tutto in pezzi” aveva recitato “è scomparsa ogni coesione// ogni equa distribuzione, ogni rapporto…” stava per continuare, guardando una bambina castana con i capelli raccolti in due lunghe trecce, ma Arthur gli diede un colpo tra le costole e lui si zittì, mordendosi le labbra. Era poi scappato, lontano dagli sguardi di un pubblico che non sapeva cosa stava guardando e di uno spagnolo che aveva cercato di riavvicinarlo, senza successo.

Feliciano Vargas aveva superato Antonio Fernandez Carriedo ed entrando nella piccola camera che Romano aveva preso come nascondiglio, era corso verso il fratello che aveva lasciato lì il suo corpo, mentre il suo spirito era volato via, alla ricerca di un po' di sollievo, in un posto lontano da quello terreno. Scuotendo le spalle di Romano, poggiando le sue mani sul viso del fratello maggiore, Feliciano aveva chiesto se si fosse pentito di esser venuto a trovarlo, in quella lontana estate del 1996, di essere partito per l'Italia, lasciando Antonio da solo, facendo in modo che il loro amore sfiorisse ed esplodesse.

Romano aveva alzato lo sguardo verso il più piccolo, che aspettava una risposta guardando verso sinistra e mordendosi le labbra. Scosse la testa, sorridendo leggermente e disse che mille altre volte in mille altre vite, avrebbe scelto suo fratello, sarebbe andato a trovarlo e gli sarebbe stato accanto.

Mentiva. Ma amava troppo suo fratello.

Anche se, la riunione con suo Feliciano Vargas, coincideva perfettamente con l'allontanamento con Antonio ed i conseguenti anni di dolore, per entrambi.

Non ci aveva pensato, Romano Vargas, mentre correva avanti ed indietro con una valigia in mano ed Arthur Kirkland che lo aspettava alla porta con le chiavi della macchina, che, se fosse rimasto a casa, tante cose non sarebbero nemmeno successe, non sarebbero passate nemmeno per la testa, né sua, né di Antonio.

Quando, il 15 giugno 1996, aveva posato una mano sulla guancia di Antonio, sussurrando un goffo ed imbarazzato “Ti amo”, per poi scappare via, per prendere un aereo per l'Italia, non aveva pensato che la sua decisione, presa sotto la luna dopo una chiacchierata con Arthur, avrebbe cambiato così tanto la sua vita e quella delle persone intorno a lui. E forse, sapendolo, non sarebbe mai partito, anche se lo disse mai a Feliciano.

Il viaggio in Italia, aveva aiutato il ragazzo a maturare e ad accettare, finalmente, tutta la sua famiglia, intera, dal più piccolo al più grande.

Ad iniziare dal piccolo Marcello, che poco si ricordava di lui, ai tempi.

Vanessa Pancotti ha sempre detto, scherzosamente, che se i suoi problemi con le donne avevano una data d'inizio, quella coincideva con l'arrivo di Romano Vargas a casa sua. Fu, infatti, il fratello maggiore ad iniziare il più piccolo dei tre all'amore per le donne. Romano portava con sé Marcello nelle sue lunghe e nostalgiche passeggiate, rubavano insieme mele, pesche e piccoli pomodori, e quando Romano vedeva una bella bambina, mandava Marcello a parlarle, con una piccola margherita nella mano paffuta e parole d'amore che gli aveva suggerito all'orecchio lui. La prima fidanzatina di Marcello, una bambina di nome Sofia Barbieri, fu conquistata dall'atto d'amore del bambino, che si era arrampicato su un piccolo muretto, che ad entrambi sembrava altissimo ai tempi, per prendere il suo cappello, portato via dal vento.

Marcello ride ancora oggi al pensiero che il vento si chiamava Romano Vargas e che lui nemmeno voleva avvicinarsi a quello spaventoso muretto.

Sofia Barbieri, oggigiorno, è la sua unica migliore amica.

Aveva, Romano, riportato alla realtà il suo profondo rapporto con Feliciano Vargas, che non aspettava altro se non il ritorno del fratello e potergli riprendere la mano, come quando erano bambini.

Il fratello maggiore si era reso conto, nella sua sensibilità di artista, di un vuoto esistenziale ed affettivo in Feliciano, vuoto che riportava puntualmente sulla tela, col suo vecchio pennello, che tanti anni prima Romano gli aveva affidato.

In poche parole, Feliciano Vargas aveva così tanto amore da dare da dimenticare di riceverne e rimanere quindi vuoto, nel non riavere indietro nulla. Certo, aveva amici, sicuramente erano amici sinceri, ma non accettava indietro niente per quello che dava, cosa che lo lasciava solo, in un certo senso, perché per avere un vero amico accanto, non si può pensare di nascondere il dolore e donare solo gioia.

Forse per questo si era così aggrappato a Romano e a quello che simboleggiava.

Riallacciare i rapporti con Bruno Vargas ed accettare Vanessa Pancotti nella sua vita era stato forse il passo più difficile per Romano, che dovette procedere gradualmente e tastando il territorio a poco a poco.

Era strano, per lui, vedere il proprio padre avvicinarsi per intrappolarlo in un abbraccio da orso. Era strano sentirlo ridere delle sue freddure ed elogiare i suoi dipinti. Era strano avere un padre, che non fosse Cesare Vargas.

Romano era abituato ad un Bruno che lo allontanava, che lo sgridava e che non accettava il suo modo d'essere. Come già detto, non considerava più Bruno Vargas suo padre. Suo unico padre, suo unico tutore, era Cesare Vargas, suo nonno.

“Sta fingendo” lo aveva in un certo senso rincuorato Feliciano, mentre riempiva una tela completamente bianca “Lui non è così. Basta che fingi anche tu. Lo fai contento, così. Ma se non lo vuoi considerare tuo padre, penso vada bene. Essere padre è un privilegio.”

Romano aveva guardato lo sguardo serio e concentrato del fratello e si era chiesto se lui stesso non stesse fingendo, se tutta la sua vita non fosse una farsa, messa su per far contento il padre.

“Non sono più un ragazzino, Roma” aveva sorriso Feliciano, come per rassicurarlo dai pensieri che gli avevano occupato la mente. Ed anche quel giorno la sua tela da bianca aveva ottenuto troppi dettagli, troppi oggetti e rifiniture, troppo colore e troppo nero.

Eppure entrambi i fratelli, dietro tutta quella tinta e tutto quell'essere, continuarono a vedere il vuoto che Feliciano continuava a cercare di nascondere, quel non-essere che lo intrappolava, nonostante non se ne rendesse conto.

“Questo non toglie il fatto che continui ad essere mio fratello più piccolo e più stupido”

Feliciano sorrise di cuore al sentire la parola fratello. Abbracciò Romano e cercò di tenerlo il più possibile vicino a lui, nonostante le proteste imbarazzate del maggiore.

Vanessa era stata semplicemente Vanessa. Lo svegliava delicatamente tutti i giorni, alle prime luci del sole, e lo portava in cucina perché facesse colazione con il resto della famiglia che continuava praticamente a dormire seduta a tavola.

A volte lo invitava a cucinare con lei. Insieme infornavano torte alle mele e lei, sempre con le mani impegnate se non in cucina, spolverando in salotto, gli raccontava aneddoti dei suoi fratelli, quelli che si era perso perché stava troppo lontano da casa.

“Perché questa è casa tua, eh”

Romano si stupì del fatto che la donna fosse completamente sicura e confidente delle sue parole. Come se non sapesse che quelle erano solo bugie. Ed allo stesso tempo, quel suo crederci fermamente, senza titubanze, portava Romano a credere che, magari, dietro tutte quelle finzioni, che Feliciano gli aveva svelato, con uno sguardo troppo lucido e disincantato, per essere proveniente da lui, un pizzico di realtà c'era. Quel pizzico che bastava per fare in modo che anche lui entrasse a far parte della famiglia; a farne parte per davvero, senza inganni.

E lo disse a Laura Donati, inginocchiato sulla sua tombra, come lo era stato tanto tempo prima. Le chiese perdono. Perdono per aver cercato di dimenticarla, per aver strappato le memorie che lo legavano a lei, per aver negato la sua morte e la sua vita. Le chiese perdono, perché vittima dell'euforia giovanile, soprattutto durante la sua adolescenza, soprattutto per paura di lasciare Antonio e volare in Italia, come aveva fatto, non era andato a trovarla per anni, né per il giorno del suo compleanno, né per l'anniversario della sua morte, né per il 5 Dicembre, il giorno dell'Abbandono, l'anniversario della partenza simbolica di suo padre. E Romano sapeva quanto Laura odiasse rimanere sola quei giorni: quando era piccolo non lo mandava a scuola e dormivano insieme nel grande lettone, sotto il piumone caldo e con le finestre chiuse. Le chiese scusa, Romano, anche perché provava ad entrare nella nuova famiglia Vargas e chiedeva scusa per amare così tanto Feliciano Vargas e, sorprendentemente, anche Marcello. Le chiedeva scusa, perché sapeva che la madre avrebbe potuto vedere il suo come un tradimento, ma non si era mai pentito di amare i suoi fratellini più piccoli e spiegava alla madre le qualità che i due avevano. Le chiedeva scusa ed allo stesso tempo le chiedeva di accettarli. Poi, sussurrando appena, le chiedeva di Cesare Vargas e le diceva di star attenta, ché era l'uomo più pervertito, dopo Francis Bonnefoy, che lui avesse conosciuto, e che non sapeva quanto si potesse cambiare, lassù, in Paradiso.

Romano Vargas chiamava più o meno puntualmente alcuni membri del Circolo, ai quali raccontava quello che vedeva ed i suoi progressi con la famiglia.

Aveva rassicurato Arthur Kirkland sui suoi legami familiari, dicendo che i suoi fratelli minori erano fantastici ed aveva imparato a conoscere il piccolo Marcello, con tutti i cambi d'umore tipici della sua età e dell'embrione di quello che sarebbe stato il suo carattere una volta cresciuto. E Feliciano, per quanto fosse strano e pesantemente sdolcinato come ragionamento, faceva parte di lui. Ritrovandolo, rivedendolo, aveva ritrovato una parte di se stesso che pensava di aver perso.

A Matthew raccontava i paesaggi dell'Italia e di quei riquadri di marmo attaccati sui muri delle case che portavano iscrizioni come "Qui nacque… qui morì… qui compose…" che non aveva mai notato quando, da piccolo, viveva in quei paesini.

Ad Alfred raccontava dei prezzi dei quadri per strada e di quei vecchietti, piuttosto arzilli, che ritraevano i passanti nelle piazze. Romano non riusciva a fare la valuta tra le diverse monete e, non avendo mai avuto a che fare con le lire, era piuttosto confuso sul valore di molti oggetti. Alfred rideva, gridandogli all'orecchio che fortunatamente c'era l'eroe a salvarlo da brutte situazioni.

A Luz Maria raccontava di Marcello e Feliciano, che magari non sapevano neanche accordare la chitarra, ma che cantavano continuamente, come lei, e come gli uccellini di campagna, che li accompagnavano sempre nei loro canti. Le raccontò di aver sentito un usignolo cantare nel mezzo della notte, da solo, e che l'aveva pensata, l'aveva ricordata e si era commosso per le motivazioni di quel dolce canto. Certo, le ultime parole Luz Maria Sanchez le aveva più che altro interpretate, ma il messaggio era arrivato forte e chiaro, senza alcun malinteso.

Ad Antonio, raccontava tutto. I prezzi, gli uccellini che lo svegliavano la mattina, i riquadri di marmo, i quadri per strada, i bambini del quartiere, un gatto che non faceva altro che seguirlo in tutte le sue passeggiate, Feliciano, Vanessa, Marcello e suo padre. Raccontava delle sagre, dei balli, dei suoi vecchi compagni di scuola, che aveva dimenticato ma che non avevano dimenticato lui.

Fatti, sentimenti, tutto.

Antonio di rimando gli raccontava del suo lavoro, di Francis e Jeanne che aspettavano Alexandre, di Elizaveta e Gilbert che continuavano i loro tira e molla, di Alfred e gli impicci che creava sotto il pesco, cercando di guadagnare sui talenti di tutti loro. La prossima poesia, gli ripeteva sempre, ad ogni telefonata, è tutta per te.

Poi Antonio attaccava al telefono e si sentiva solo.

Solo per davvero.

Perché molto spesso ci si dimentica che prima degli smartphone, prima di internet accessibile a tutti e prima dell'era in cui per contattare una persona basta premere con un dito sul cellulare per vederlo anche in faccia, c'è stata l'era delle lunghe attese, delle grandi distanze ed una persona col carattere irrequieto ed impaziente come Antonio si stancava facilmente di aspettare, guardando il suo foglio bianco sul tavolo ed il suo gatto strusciare sulle sue gambe.

Molte volte lo spagnolo aveva rimproverato Francis Bonnefoy per la sua condotta con le donne, quando se ne portava due a letto la stessa sera e la mattina dopo proclamava il suo immenso amore per Jeanne d'Arc, prima del matrimonio e del concepimento di Alexandre. Antonio si chiedeva come fosse possibile baciare labbra di altre persone, uomini o donne che fossero, quando il proprio cuore era occupato dalla Persona di cui si è Innamorati, innamorati per davvero, senza le pompature che molto spesso usano i poeti, i cantanti, gli attori per arrivare più facilmente al proprio pubblico.

Però forse in quei momenti lo capiva.

Perché sentire la voce di Romano era troppo poco e la sua immagine sembrava così lontana… e per quanto l'unione spirituale fosse forte e riuscisse fino a un certo punto a tappare i buchi di una relazione a cui mancava la parte fisica, non bastava. No, non bastava proprio.

Prima di allora, dalla prima volta in cui Romano Vargas aveva accettato la sua presenza, Antonio era stato abituato dal ragazzo ad essere uno dei suoi centri, uno dei suoi punti di riferimento. Non erano stati lontani più di due giorni, anche durante i loro litigi più accesi e feroci e se succedeva che uno dei due si ammalasse e non si presentasse sotto il pesco, quando Cesare Vargas era vivo, trovavano il tempo ed una goffa scusa per piombare uno a casa dell'altro ed addormentarsi accanto al malato. Con la morte di Cesare Vargas erano poi diventati indivisibili, togliendo il tempo dedicato ai loro lavori, tanto che ogni loro respiro o battito di ciglia sembrava essere sincronizzato: sembravano una persona sola. La divisione provvisoria aveva creato in Antonio un disequilibrio, come se stesse per cadere da una corda posta a migliaia di metri da terra, ed il fatto che Romano avesse invece così tanto da raccontare, così tanto da accettare nella sua famiglia, gli aveva fatto provare il dolore prima ancora di ricevere il pugno; pensava di avere i minuti contati nel cuore di Romano, come se un grande Amore si potesse dimenticare con qualche mese nella casa paterna. Per questo doveva esserci dell'altro: l'indole ribelle di Romano Lovino Vargas e la sua geniale irregolarità ed imprevedibilità. Succedeva da un po' di tempo di vedere Romano con la testa fra le nuvole, distante da tutto e tutti e stranamente propenso verso gli altri, gli stessi che odiava ed evitava poco prima. Sembrava curioso Romano, ed anche entusiasta dei cambiamenti. Altrimenti perché buttarsi improvvisamente in Italia?
C'era poi quel Sadiq Adnan e quella sua vicinanza all'italiano, mentre quello sembrava distante da tutto e soprattutto dallo spagnolo. La lingua lunga di Alfred Jones aveva raccontato al fratello che sembrava che il turco riuscisse a far parlare e ridere di gusto Romano, il che aveva fatto morire dalla gelosia Antonio Fernandez Carriedo, anche se non aveva mai visto Sadiq di persona né mai Romano gli aveva parlato di lui.

Durante le uscite con Francis e Gilbert, Antonio si riscopriva a guardare le ragazze in gonna, che sorridendo gli ammiccavano, ma veniva distratto dai lamenti di Gilbert e dalle entusiastiche descrizioni di Francis della sua vita da marito. Allora si dimenticava dei suoi pensieri e rideva delle disgrazie o delle nuove esperienze degli amici, che comunque si erano resi conto che qualcosa in Antonio non andava e cercavano di ricordargli quanto Romano fosse una brava persona, nonostante il suo caratteraccio incline alla violenza e alla negazione di tutti i suoi sentimenti. Gli tappavano gli occhi e le orecchie, durante le loro uscite in discoteca e gli raccontavano storie di tradimenti che andavano a finire male, con una rottura definitiva della relazione. Gilbert forse non era tanto convinto delle proprie azioni e spesso si distraeva dalla missione di tener lontano Antonio da ogni essere vivente con la gonna corta, od i jeans troppo stretti; in fondo, il tedesco, per quanto fosse considerato tonto ed ingenuo sule faccende amorose (credenza questa dedotta dal suo comportamento con Elizaveta Herdevary), aveva intuito che tipo di piega doveva prendere la relazione tra lo spagnolo e l'italiano, ed aveva compreso, per quanto strano possa essere, che sebbene le conseguenze dolorose, la situazione poteva portare dei risvolti positivi, in un periodo di tempo lungo, e non tanto per loro del Circolo di Cesare, ma per Antonio e Romano insieme, come coppia e come individui, perché, per quanto il primo amore possa far crescere una persona, era la separazione da esso a far diventare adulta la detta persona; e sia Antonio che Romano erano ancora dei bambini e dovevano crescere il prima possibile. Gilbert voleva lasciare che gli eventi seguissero il loro corso naturale, senza impicciarsi troppo, non perché non volesse bene ad Antonio o a Romano (con cui aveva conseguito un rapporto che lo divertiva parecchio), ma perché sapeva che certe cose, noi semplici esseri umani, per quanto ci proviamo, non le possiamo fermare. Francis rimproverava sempre Gilbert di questo suo ragionamento e gli chiedeva sempre se sarebbe stato felice vedendo una così bella coppia, come Romano ed Antonio, spezzata. Ovviamente la risposta era no, per la gioia di Francis che trovava in Gilbert l'unico alleato che poteva comprendere Antonio nella sua complessità, senza giudicarlo.

Per questo motivo Francis e Gilbert smisero di portare Antonio in discoteca, preferendo le serate a casa, con una buona birra in mano, parlando del più e del meno, in un ' intimità che appresero in fretta ad apprezzare, a discapito del forte rumore che produceva la discoteca, il pub, un semplice bar.

Gilbert Beilschmidt, però aveva ragione. Ci sono eventi, che non si possono cambiare, per quanto si voglia, per quanto si neghi la responsabilità di ogni cosa. Per quanto questo evento porti dolore.

Il pericolo non venne da fuori, da quelle ragazze che scuotevano i fianchi, in cerca di divertimento.

Entrò in casa di Antonio, una sera sul tardi, mentre lui con la matita in bocca, pensava a cosa scrivere, e, il pericolo, si lamentò del fatto che ancora non aveva finito di scrivere neanche la metà di quello che le aveva promesso del suo libro. Il pericolo si sedette davanti ad Antonio Fernandez Carriedo, mozzicò una mela e disse ad alta voce quanto fossero fortunati gli amati dai poeti, ché normalmente gli uomini sono stitici di parole, rudi, poco sensibili, ma loro, i poeti, sicuramente riempiono con le loro parole dolci le giornate di chi amano e, con quelle, carezzano l'anima delle persone, e rendono quelle eterne. Alicia Rivas sospirò, mormorando che amando lei, nessun poeta mai avrebbe sofferto “Neanche tu” aggiunse indicando col mento Antonio e masticando la mela.

Quell'aria imbronciata... quelle sopracciglia aggrottate, quelle labbra arricciate, quelle guance gonfiate, ricordarono ad Antonio Romano e gli fecero venire una fitta al cuore, un dolore lancinante in testa che lo avrebbe fatto piangere.

Romano sembrava essere proprio lì, davanti a lui, eppure non era lui.

Chissà quale forza spinse Antonio verso Alicia, forse era tutta colpa del vino che stava bevendo, vino francese, brutti effetti che poteva causare; chissà quali pensieri lo spinsero a prenderle il mento con cui lo indicava e a baciarla prima con tenerezza poi con libidine. E non si poté fermare neanche quando erano sdraiati l'uno sopra l'altro, neanche sapendo che l'unica persona che voleva toccare e baciare in quel momento era Romano. Neanche quando le sue mani percorrevano il corpo della ragazza e nella sua testa trovava le differenze com il corpo di Romano Vargas e si chiedeva cosa stesse facendo, con chi stesse parlando, di cosa, perché non era ancora tornato, perché si sentiva così arrabbiato verso di lui... andò fino in fondo, anche se sapeva di star sbagliando, perché si sentiva solo e non c'è peggior consigliere della solitudine.

Fu un errore. Un errore madornale che non doveva avere conseguenze.

Alicia scappò delusa da se stessa il mattino dopo, ore prima che Antonio si svegliasse. Ore prima che Romano chiamasse Antonio per raccontargli che Marcello era stato beccato da un contadino mentre rubava un'anguria più alta di lui nel suo campo e che forse, forse, era colpa del fratello maggiore che gli aveva insegnato a raccogliere tutta la frutta che vedeva, indistintamente.

“Roma…”

“Quel bambino non potrà mai fare il ladro”

“Roma…”

“Eh?”

“Ti amo. Qualsiasi cosa succeda, io amo solo te”

“Bastardo. Mica andrò in galera per colpa di quel marmocchietto!”

“A me basta che tu ricordi questo”

“È successo qualcosa?”

“No, niente. Tu mi ami?”

“Che domande del cazzo che fai.” Romano abbassò la voce, come se stesse per dire un segreto “Ti amo”

“Ecco. Ricorda che ci amiamo”

“Sicuro che non è successo niente?”

“Sicuro. Continua a raccontarmi. Ti prego…”

 

I tasselli del domino cadevano uno dopo l'altro, per arrivare al giorno della Separazione e della nascita di Laura.

 

 


 

Note dell'autore

Io… ho la testa svuotata.

Sarà la pioggia, l'imminente primavera, la stanchezza degli ultimi mesi di scuola, la fame… non lo so, ho la testa vuota.

Non riesco a ricontrollare neanche questo capitolo. Forse è perché questa è la settimana di questo capitolo, può essere che la mia testa mi dica "No! Non farlo!" fatto sta che se non si pubblica questo col prossimo non si può andare avanti, non si può proprio e non si arriverebbe alla fine e quindi si deve fare. Forse è questo che mi ha spinto a scrivere così poco l'errore.O forse è il personaggio che per mezzo di me scrive che ha scritto così poco quella parte…

Mi piace di più questa spiegazione. È tutta colpa sua, mica mia.

Cooomunque, ringrazio chi legge, segue, ricorda, preferisce e recensisce la storia. Siete dolcissimi! Orsi abbracciatutti…

Ci rileggiamo la prossima settimana, allora!

Con amor, un abbraccione

Miki

 

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Capitolo 8
*** Il ritorno, la partenza ***


8. Il ritorno

Questioni di famiglia e di conchiglie

 

Romano Vargas tornò a casa sua il 30 settembre 1996.

Non aveva avvisato nessuno del suo imminente ritorno, quindi si ritrovò a dover chiamare un taxi. Fu una sorpresa enorme ed alquanto piacevole riconoscere nel tassista il cameriere de La Mascara, Sadiq Adnan, non tanto perché lo rendesse felice vedere lui in particolare, ma perché l'uomo, col sorriso stampato in faccia, aveva deciso di riportarlo a casa, offrendogli il servizio gratuitamente, a patto che andasse a trovarlo il prima possibile al pub, visto che, in quei mesi, diceva di aver sentito la sua mancanza, che mitigava la presenza della messicana perennemente infuriata col suo ragazzo.

Romano, nonostante sapesse bene che l'unica cosa che interessava al turco era fargli il filo, accettò il compromesso, stanco per il viaggio e desideroso di tornare nell'appartamento che condivideva con Arthur Kirkland. "Prometto" annuì, sapendo bene che Luz Maria Sànchez era di nuovo infuriata con Alfred F. Jones per averle rotto l'ennesima chitarra, con la scusa di voler utilizzare le corde per creare un arco e delle frecce. La convivenza della Sanchez con i Gemelli sembrava essere piuttosto dura.

Inutile dire che Romano era all'oscuro del tradimento di Antonio Fernandez Carriedo, ma tutti i cesarini, ad eccezione di Arthur, erano stati informati, in maniera piuttosto casuale. In realtà, all'inizio Antonio voleva mantenere il segreto per vergogna provata, ma lo aveva condiviso con Gilbert Beilschmidt e Francis Bonnefoy, Francis lo disse a Jeanne d'Arc, Gilbert lo tenne per sé, deluso dall'amico d'infanzia, deluso di aver capito ancor prima che le cose succedessero, quale sarebbe stata la loro fine. Fu Jeanne ad informare Elizaveta Herdevary dell'accaduto, e questa subito corse in casa di Antonio per sfogare la sua rabbia, che arrivò al suo climax in uno schiaffo energico di lei a lui. Non contenta aveva riferito il tutto allo Stratega, che aveva tristemente annuito: anche lui, come Gilbert, aveva immaginato una simile situazione. Durante un'esecuzione musicale a teatro, sbagliò qualche nota qua e là, distratto dal tradimento, che non credeva avrebbe avuto luogo, anche se lo temeva, e nel vedere la sua distrazione, Luz Maria, andata a trovarlo dopo una lezione all'università, chiese cosa lo preoccupasse tanto. Venuto a sapere il fatto, la messicana non aspettò a tornare a casa per raccontare il tutto ai Gemelli. Alfred Jones fermò l'informazione prima che arrivasse ad Arthur, per paura della reazione dell'inglese, e per paura di spalleggiarlo, portato dalle emozioni di sdegno che suscitava in lui il tradimento. "Questo è una vostra situazione, un vostro problema. Per quanto noi possiamo volervi bene, non possiamo mettere un dito in mezzo a voi due, ed Arthur non capirebbe questo, perché sarebbe accecato dalla rabbia verso di te, che hai tradito un membro del Circolo, un tuo amico e la persona che dicevi di amare. Arthur non accetterebbe questa posizione, ti darebbe addosso fin da ora. Non ringraziarmi, Antonio; vogliamo aspettare la decisione di Romano. Per quel che mi riguarda, però, non riuscirò mai più a vederti come prima, e se anche Romano decida di perdonarti, io non dimenticherò quel che hai fatto. Hai mancato di rispetto ad un mio amico, a Romano, e questo lo farà soffrire. Non perdono le lacrime di un mio amico. Non penso di essere l'unico; accetteremo, io, Matt, Luz ed Arthur, spero, la decisione che Roma prenderà. Hai pochi giorni per dirglielo, altrimenti lo faremo noi, e non sarà piacevole, per te. Abbi la decenza di dirglielo in faccia, questo ti dovrebbe rialzare a stato di merda"

Il fatto che Arthur Kirkland non fosse informato sull'accaduto era possibile per una ragione più che valida, per cui non aveva ficcanasato nelle faccende degli altri: l'incontro col piccolo Peter Kirkland, suo legittimo cugino, suo illegittimo fratello.

In quell'estate, Arthur venne difatti a sapere quel che era il suo passato e le sue discendenze. Secondo quel che diceva il bambino, tempo prima, molto tempo prima, Quinn, la madre di Arthur era corteggiata da entrambi i fratelli Kirkland, il maggiore, suo padre putativo, con una serie di inganni e strategie era riuscito a conquistare la bella bionda. I primi anni di matrimonio furono meravigliosi, a detta della donna, ma in tutti gli amori reali è giusto che prima o poi la fase idilliaca svanisca e dalla semplice infatuazione, dal solo innamoramento, si passi all'Amore. L'ultimo passo fu troppo difficile da fare, per entrambi. L'apparente calma di casa Kirkland poteva svanire da un momento all'altro ed il fratello minore dei Kirkland, il papà di Peter, Richard, vedendo uno spiraglio nel cuore di Quinn, la sedusse, la fece innamorare di sé e le lasciò in grembo il regalo più grande e bello che un uomo possa fare ad una donna innamorata. Certo, il dono sarebbe stato ancora più grande se solo avesse riconosciuto il figlio. Tuttavia, Richard Kirkland, temendo la reazione del fratello maggiore ed impedito dal poter crescere un figlio a causa del suo lavoro da militare, scomparve dalla vita dei Kirkland per un po' di tempo, quel tempo che bastava per far intendere la sua decisione di non accettare Arthur come figlio, di non andare contro suo fratello Joe e di creare da un'altra parte una famiglia sua, sua e solo sua.

Questo avrebbe dovuto spiegare il comportamento freddo e distaccato dei genitori di Arthur Kirkland: Arthur era simbolo del tradimento di Quinn nei confronti di Joe e della prigionia di Quinn in un matrimonio, sugellato dai figli, senza amore e via di scampo.

"Non capisco cosa tu voglia da me"

Peter Kirkland, sorridendo, rispose "Mio fratello!" Sembrava infatti che la madre del piccolo fosse morta durante il parto e che il continuo muoversi di Richard Kirkland facesse sentire il ragazzino piuttosto solo.

Ovviamente Arthur in un primo momento respinse più che poté la presenza del fratello, che aveva capito voler essere suo fratello non tanto per ricerca di una famiglia o di un nucleo familiare, quanto per noia. Il problema era che Arthur, per quanto volesse sembrare un ragazzo insensibile e poco incline alle emozioni, era un pezzo di pane e, andando a trovare la casa di suo padre, parlando con Richard, che non pretendeva per niente prendere il ruolo paterno nella sua vita, si sentì in dovere di non far crescere quel ragazzino nella solitudine, cosa che non era successa neanche a lui, in fin dei conti.

E fu in quella piccola casa Kirkland, così diversa da come era la sua vecchia casa Kirkland, che conobbe Sey, una ragazza di 20 anni, piena di vita e che girava perennemente con addosso dei sandali e delle magliette leggere, nonostante fosse inverno o anche solo autunno. Tipa interessante, lo stuzzicava sempre Francis Bonnefoy, mentre Arthur arrossiva guardandolo, non per imbarazzo, come sperava il francese, ma per rabbia.

"Cazzo! Sopracciglione, ti sei duplicato?" fu la prima domanda di Romano Vargas entrando in casa e vedendo il piccolo Peter bere del tè accanto all'inglese. Il secondo gesto dell'italiano fu gettare a terra la valigia, il suo giubbotto e disordinare un po' quella casa troppo pulita per i suoi gusti. Arthur, per una volta, lo lasciò fare, felice di rivedere l'amico dopo tanto tempo.

Dicono che Arthur Kirkland con Romano Vargas potrebbe essere un artista completo. Arthur, lo scrittore, è il pensiero e la parola, mentre Romano, il pittore, potrebbe essere l'immagine e la rappresentazione. Questo accostamento i critici d'arte lo trovano opportuno perché entrambi sviscerano la realtà, prediligendo la verosimiglianza piuttosto che l'idealizzazione. Divertente è invece pensare che entrambi hanno cercato la propria metà mancante nell'ideale e nella fuga della realtà, rappresentati da Antonio Fernandez Carriedo e Francis Bonnefoy.

Si può dire oggi, con certezza che i due artisti hanno condiviso per un po' di tempo l'anima, forse la condividono anche oggi, anche se non sotto il punto di vista amoroso. Per intenderci, chi più soffrì per la scomparsa di Romano Vargas dal 4 ottobre 1996 fino al 27 gennaio 1997 fu Arthur Kirkland, che incolpò per la scomparsa di quello che considerava suo fratello Antonio, intraprendendo una guerra contro lo spagnolo. E quando si ritrovò l'italiano, la mattina di quel gennaio, sdraiato sul divano, con addosso odore di mare e di conchiglie, fu, per lui, come ritrovare il suo ritmo naturale, la sua normalità, che festeggiò non parlando al minore per due intere settimane. Così imparava quello stupido ragazzino a scomparire senza lasciare altro che uno stupido biglietto e senza mai neanche chiamare.

Arthur definiva Romano suo brother. Francis diceva che più che frère, l'inglese sembrava la maman dell'italiano. Questioni di punti di vista. Di prospettiva, avrebbero potuto ridere i due ricordando il discorso che li aveva fatti diventare effettivamente amici e quell'amicizia è la stessa che è rimasta in piedi fino a giorni d'oggi, anche se ci fu un periodo in cui Alfred Jones ebbe paura che Arthur Kirkland gli rubasse il suo migliore amico, Kiku Honda.

Certo, anche gli altri cesarini furono contenti di rivedere l'italiano ed ognuno di loro pretese di parlare da solo col ragazzo, per poterlo aggiornare sulle situazioni amorose, economiche ed artistiche. Romano rispondeva alle novità con la massima freddezza che riusciva a simulare, ma in realtà non avrebbe fatto altro se non gridare "Davvero? Incredibile! Non ci voglio credere!" le stesse parole che disse, solo con più sarcasmo e con la minima mimica facciale.

Rimase quindi impassibile davanti ad un bacio appassionato tra Gilbert ed Elizaveta, sentendo, con una sola estremità delle labbra puntata all'insù, come si fossero fidanzati, non davanti ad un film romantico, o ad un tramonto, o sotto un cielo stellato, ma sudati dopo aver fatto una lunga corsa per il campo di calcio della Chiesa, davanti ad un salutare panino ripieno di uova, pomodoro, patate, maionese e patatine fritte. Elizaveta Herdevary avrebbe preferito qualcosa di più romantico, ma sentì quelle dichiarazioni così reali, così consone ad entrambi, che in quel momento non ci pensò e sudaticcia, esattamente come lui, gli diede il gemello di quel bacio dato tanto tempo prima, a parco de los Angeles. Dal canto suo, Gilbert Beilschmidt non accennò al fatto che il discorso d'Amore era uscito fuori dal tradimento di Antonio, che Elizaveta condannava e che Gilbert cercava, se non di giustificare, di comprendere.

Romano Vargas cercò di immaginare quei due come una famiglia, mentre si tiravano addosso matite, fogli, sassolini e si facevano pernacchie, iniziando a litigare furiosamente. Si preoccupò per i loro futuri figli, ma seppe fin da quel giorno che quel ramo della famiglia Beilschmidt sarebbe stato felice, anche se quei due sarebbero stati genitori infantili e forse un po' pasticcioni. Nessuno avrebbe mai detto che esattamente un anno dopo sarebbe nata Giada Beilschmidt, il piccolo gioiello di Rubino.

Romano guardò sorpreso la pancia di Jeanne d'Arc, cresciuta a dismisura in quei mesi e si stupì pensando che, nonostante le lamentele della bionda sul suo avere i piedi gonfi, la schiena a pezzi ed una gran voglia di torta millefoglie, aveva un viso riposato, un sorriso più bello e degli occhi più luccicanti e labbra più rosa. Jeanne rise al sentire le considerazioni del ragazzo "Si vede proprio che mi guardate con gli occhi dell'amore", poi spiegò che Arthur, nonostante i suoi molteplici impegni, passava molte ore cercando di farla sentire più comoda e più a suo agio possibile, portando con sé torte e dolcetti che assicurava non aver cucinato lui, poi accendeva la radio, scuoteva la testa ascoltando quelle canzonette da liceali che nessuno avrebbe mai ricordato dopo decenni, e faceva ascoltare a Jeanne e ad Alexandre i Beatles, i Rolling Stones, i Pink Floyd, i Led Zeppelin e, ogni tanto proprio perché doveva cedere alle richieste di Roderich, un po' di Beethoven. Jeanne disse che se qualcuno doveva essere il padrino del suo bimbo, sarebbe stato Arthur, che lo volesse o no.

Arthur Kirkland scuoteva la testa a disagio.

È un mistero sapere cosa succede ad un bambino nei mesi di gravidanza, a livello cerebrale, ma certamente i mesi in cui il bambino è la madre hanno importanza nella personalità della persona stessa. Forse per questo motivo Alexandre Guy Bonnefoy ama il rock classico, i romanzi realistici, la scultura classica e la torta millefoglie. Ed odia Beethoven.

Lo stesso italiano ascoltò le avventure dei tre più giovani cesarini, che avevano deciso di vivere insieme. Sembrava, infatti, che i fratelli minori di Luz Maria fossero arrivati ad uno stato d'indipendenza tale da poterla lasciare libera e senza sensi di colpa per aver lasciato i propri fratelli in miseria, togliendo una fonte di soldi, lei, alla famiglia. Per quello che riguarda i Gemelli, la storia si complicava un po', perché la storia stessa dei Gemelli era complicata. O forse no, anche se il modo di spiegarlo è un po' rude ed indelicato: Matthew ed Alfred erano figli di una prostituta; e questo spiegava perché i due condividessero la stessa madre ed avessero due cognomi e due nazionalità diverse. Questo stesso dettaglio potrebbe anche giustificare i loro due caratteri e quella continua ricerca di Alfred di un modo per fare soldi, per fare in modo che la madre non si dovesse vendere per assicurare a lui e a suo fratello un luogo dove vivere ed un'istruzione: Matthew e Alfred si pagarono da soli l'università e crearono quello che oggi hanno dal nulla, sfruttando, a volte, il talento dei membri del Circolo, a volte puntando sulla loro indole imprenditoriale, creativa ed originale; c'è chi dice che, senza i Gemelli, molti membri del Circolo, come Rojo e il Passero, ma sorprendentemente anche lo Stratega, non sarebbero riusciti a farsi riconoscere a livello mondiale. Quello che i due fratelli avevano fiutato nell'aria nel 1996 era la ruota della fortuna che stava girando dalla loro parte, dopo la mostra realizzata con Rojo, ed avendo la voglia e l'opportunità di potersi indipendizzare dalla madre, anche per non diventare di nuovo dei pesi morti; e se ne andarono dal loro vecchio quartiere di periferia, nonostante loro madre cercasse di convincerli a rimanere con lei. La convivenza con Luz Maria, però, era tutt'altro che semplice, perché già ai tempi Alfred e la messicana avevano creato un rapporto matrimoniale, che allontanava dalla loro normalità Matthew Williams. Insomma, il canadese era diventato l'ospite, il terzo incomodo, l'emarginato."A me sembra che nessuno arriverà mai ad amarmi" si era confidato con Romano.

"Qualcuno arriverà" aveva borbottato a mo' di consolazione l'italiano, con i suoi soliti gesti goffi ed imbarazzati.

Allora Matthew sorrise tristemente, guardando Romano, come se stessero patendo la stessa sofferenza, come se l'unico che poteva capirlo fosse lui. "Arriverà" ripeté il canadese.

Romano Vargas aggrottò le sopracciglia e pensò che, quel giorno, tutti i cesarini gli sembravano strani.

Fu quando chiese spiegazioni ad Antonio che venne a sapere il perché degli sguardi tristi di Gilbert Beilschmidt e Matthew Williams, della lontananza di Alfred Jones dal pesco, e del cattivo umore di Roderich Edelstein. Antonio parlò lentamente, con un sorriso tirato e le mani sudate, dopo averlo portato lontano da tutti i cesarini. Aveva lo sguardo basso, ogni tanto rideva nervosamente e scuoteva la testa, davanti agli occhi glaciali di Romano, che lo sentiva senza ascoltare e si concentrava per non scoppiare in lacrime e non mandare a quel paese lo spagnolo. C'era comunque dell'altro; qualcosa che non aveva detto neanche a Francis, che lo stava tormentando: non solo Alicia Rivas era andata a letto con lui ( non fecero l'amore, l'amore poteva farlo solo con l'italiano, ripeteva Antonio, e la belga era stato solo un errore), ma portava nel suo grembo il frutto del loro errore un bambino che sarebbe nato sette mesi dopo "Ma, giuro, io amo solo te"

Romano Vargas colpì al petto lo spagnolo, con tutta la violenza che poté, con tutta la forza che la sua rabbia aveva concentrato nelle sue mani e, nel mentre, migliaia di pensieri passarono per la sua testa. Il suo cervello lavorò per immagini e vide, in quegli attimi, il ricordo di Laura Donati a terra sul pavimento della sua vecchia casa in Italia, il ricordo di Arthur accanto alla grande finestra di casa, con il capo basso, poco prima del matrimonio di Francis Bonnefoy, il ricordo di Gilbert che guardava da lontano Elizaveta quando usciva con Roderich. Ricordò i pomeriggi della sua infanzia, seduto sul giardino in attesa di suo padre e come non riuscisse più a considerarlo suo padre, pensò ai Gemelli, cresciuti senza padre ed ossessionati dall'idea di dover trovare un modo per non essere abbandonati, ad Arthur che aveva lottato fino allo sfinimento per avere un padre e che aveva abbandonato un amore per lasciare un padre accanto al figlio.

Si chiese qual era la cosa giusta da fare e nel dolore che provò, tradito dalla persona che più amava in vita, colpì per la seconda volta Antonio, e per una terza, una quarta, una quinta volta, sempre con più rabbia, dimenticandosi di trattenere le lacrime, dimentico delle ultime parole di Cesare Vargas. "Convivi con le tue conseguenze" borbottò, asciugandosi gli occhi e correndo via.

Guardò per l'ultima volta il pesco di parco de Los Angeles e corse via.

Dicono sia entrato nella sua camera, sbattendo la porta e non sia uscito di lì per giorni. Nessuno lo vide uscire, almeno. La porta era chiusa a chiave, la finestra perennemente chiusa sia fuori che dentro e non usciva un lamento dalla camera, che doveva essere buia e con aria viziata. La camera di Romano, Romano Vargas, lo stesso ragazzo che odiava il buio e gli spazi chiusi . Eppure Romano Vargas non usciva neanche per andare in bagno o mangiare.

Incapace di cucinare, Arthur aveva chiesto a tutti di aiutarlo a far uscire l'amico dalla camera, pur sapendo che nient'altro se non cucina italiana avrebbe fatto uscire il ragazzo in preda ad un attacco di fame. Chiamò addirittura Feliciano Vargas, destando preoccupazione per Romano anche in Italia, tanto che i due fratelli minori del ragazzo avevano chiesto al padre di lasciarli partire per la Spagna. Bruno Vargas si negò categoricamente. Feliciano e Marcello mandarono a Romano una lunga lettera, la prima di una lunga serie, rimasta chiusa fino alla fine di gennaio.

In preda alla disperazione, Arthur Kirkland cucinò con l'aiuto di Alfred, nella speranza che il cattivo odore proveniente dalla cucina, la cucina che Romano tanto amava, facesse correre fuori il ragazzo e lo facesse gridare contro i due biondi e Matthew e Luz Maria, che non avevano impedito tale scempio. Il risultato fu che i quattro dovettero mangiarsi hamburger bruciacchiati per non buttare nella spazzatura cibo, azione che Luz Maria Sànchez non avrebbe mai fatto né lasciato fare.

Vennero tutti i cesarini a gridare alla porta di Romano, tranne Antonio che Alfred e Arthur tenevano a debita distanza e Jeanne d'Arc che era entrata in maternità, visto che Alexandre sarebbe nato pochi giorni dopo.

Tutti promisero di non muoversi da davanti quella porta se Romano non fosse uscito e si posizionarono sotto la finestra dell'italiano, organizzandosi a turni; in quei giorni, la vecchia casa di Cesare Vargas sembrò esser diventato un accampamento, piena della presenza dei ragazzi che bevevano caffè e parlavano tra loro. Mai il Circolo sembrò così unito.

Poi, la sera del 4 ottobre, Elizaveta Herdevary, frustrata dalla situazione, iniziò a gridare contro la porta e a tirare calci contro il vecchio legno. Fu lei a sfondare la porta e davanti agli occhi dei nove cesarini c'era una camera, vuota, con le serrande aperte e le finestre spalancate, con un gatto grigio, uscito da chissà dove, sdraiato sul letto ordinato (il letto di Romano non era mai stato ordinato) custodendo due piccoli fogli. Uno era per Antonio, breve e coinciso, diceva solo "Sta lontano da me". Il secondo, molto più lungo, diceva ai cesarini di non cercarlo, di non lasciare il prossimo piccolo Cesarino crescere senza zii, che lui non voleva più rivedere quel Bastardo e che sarebbe tornato, prima o poi.

Luz Maria Sànchez vide, accanto al gatto grigio, che divenne poi il gatto di Romano ed Arthur col nome di Cesarino, una conchiglia dalle sfumature rosa e bianche. Sentì il panico prendere il controllo su di lei e con un gesto veloce prese la conchiglia e la nascose tra le pieghe della gonna.

Ebbe paura di non rivedere più l'amico.

In realtà, uno dei due cesarini che videro Romano andar via fu proprio Antonio Fernandez Carriedo. Vide Romano Vargas seduto sulla panchina sotto il lampione, quella vicina alla casa dove viveva ai tempi, quell'incrocio tra via Miguel Hernandez e viale Tintoretto. Si sedette accanto a lui e fu lì, in quel momento, in quella conversazione che sembrava puntare ad una riconciliazione, Romano diede il suo addio ad Antonio. "Quel bambino" disse Romano alzandosi dalla panchina "non è un errore. Mio padre considerava me un errore. Il padre di Arthur comsiderava lui un errore. I padri di Matthew e Alfred consideravano loro degli errori. E ci abbiamo sofferto tutti e quattro, come nessuno merita di soffrire. Quel bambino non è un errore".

Antonio non rivide Romano fino all'autunno del 2001.

Intanto il Circolo si spezzava, dopo il momento di massima unione. Alfred ed Arthur annunciarono ufficialmente la loro avversione per Antonio e per ogni suo discendente, le donne del Circolo si chiesero se gli occhi di un bambino le avrebbero convinte, se non a dimenticare l'arrore di Antonio, a farsi chiamare zie, Francis Bonnefoy alzò le spalle e disse che non avrebbe smesso di vedere nessuno dei due, così come fece anche Gilbert Beilschmidt. Alfred li accusò di essere degli ignavi, ché si doveva prendere una decisione, ricordò che Antonio aveva tradito la fiducia di Romano e che questo faceva in modo che potesse tradire la fiducia di ognuno di loro.

"Ne abbiamo abbastanza di traditori" gridò Arthur.

Francis ribattè che non avrebbero dovuto vedere il mondo solo bianco o solo nero e che lo stesso Romano aveva scritto loro di non schierarsi in una guerra in cui nessuno di loro c'entrava nulla.

Il Circolo si divise davanti alla foto di Cesare Vargas sorridente.

Il gatto grigio sbadigliò, Luz Maria strinse la gonna e la conchiglia che in essa nascondeva.

Ah, Romano non sarebbe stato contento, quando sarebbe tornato.

Se sarebbe tornato.


 

NOte dell'autore


La primavera mi rende pigra. Questa è la verità. È una battaglia persa proprio dall'inizio.

Però mi sono divertita a pensare ad un Arthur-mamma-chioccia e ad un Alfred autoproclamato Eroe contro la fiducia tradita. Non so perché, secondo me questi panni gli stanno bene…

Ok, detto questo: Grazie per leggere, seguire e recensire la storia!

Non so se la prossima settimana riesco ad aggiornare, penso che essendo Sabato Santo avrò bambini vivaci in giro per casa… che non sarebbero un problema, se non avessero cugini più grandi adolescenti con la mania di Facebook. Queste nuove generazioni! xD

Ci si legge quando ci si legge!

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Capitolo 9
*** La scomparsa di Rojo ***


9. La scomparsa di Rojo

Una storia d'amore senza futuro

 

 

 

 

 

 

L'altro cesarino, che vide Romano Vargas prima della sua scomparsa, fu Gilbert Beilschmidt.

Pochi sanno, e sapevano, dell'amicizia instaurata tra Gilbert e Romano, un raro esempio di amicizia forte ma latente, che fece crescere entrambi in maniera piuttosto originale e differente. Forse perché lo stesso Gilbert Beilschmidt è un uomo originale, come possono testimoniare i suoi amici più cari.

Si dice che il 15 Febbraio 1991, il giorno dopo la dichiarazione di Antonio Fernandez Carriedo a Romano Vargas, Francis Bonnefoy proclamasse la perfezione della coppia, l'eternità che avevano davanti insieme e la felicità che avrebbero portato al Circolo di Cesare e ai loro amici. Gilbert Beilschmidt, seduto in disparte, poggiando la testa sul tronco del pesco, col naso gelato ed un po' di moccio, con il respiro corto e il caldo che provava a causa di un ' imminente febbre, subito dopo l'affermazione sicura e forte di Francis "Il loro amore durerà per sempre", disse a bassa voce, quasi stesse delirando, quasi fosse un oracolo ad Elizaveta Herdevary, che lo stava mandando a casa "Eppure sta già per finire, il loro amore". Elizaveta fu abbastanza colpita dalle parole del ragazzo e se le appuntò sulla mano, riportandole poi su un piccolo diario che portava sempre con sé per studiare la pianta degli edifici e le loro facciate. Se Elizaveta Herdevary aveva difatti imparato qualcosa sul tedesco, era che nei momenti in cui sembrava essere in mezzo ad un delirio, ad uno stato d'incoscenza, era in realtà più lucido di quanto lo fosse lei normalmente e riusciva a vedere più in là di quanto ogni persona normale riuscisse a vedere; e faceva paura, ma diceva solo la verità. Elizaveta non avrebbe mai dimenticato l'estate in cui Gilbert era andato a trovarla in Ungheria e sdraiato sul suo letto, raffreddato, con gli occhi chiusi le aveva detto di stare attenta al suo cane, ché aveva paura che sarebbe morto in pochi giorni. La ragazza non gli fece caso, prendendo le sue parole come le parole di un bambino malato. Il cane, però, morì esattamente 3 giorni dopo, investito da un autista distratto. Elizaveta chiese a Gilbert come aveva fatto a saperlo. Lui rispose che bastava usare la testa ed analizzare il più attentamente possibile le situazioni, per sapere come le storie sarebbero andate a finire. "Tutto si sa" risponde ora, citando Garcìa Màrquez, ad Alexandre Guy Bonnefoy ogni volta che il ragazzo si ritrova a fare i conti con l'intuizione, geniale e disumana, dello scrittore.

Fu per quella parte disumana dell'intuizione che Elizaveta non chiese mai il suo parere sulle sue relazioni amorose, soprattutto quella con Roderich Edelstein. Ed anche perché tutte le volte che qualcuno chiedeva informazioni sulla vita amorosa del tedesco al diretto interessato, lui sogghignava e diceva che sarebbe invecchiato accanto a Elizaveta Herdevary, anche se lei rifiutava costantemente quella possibilità.

Appuntò comunque quello che Gilbert disse su Romano ed Antonio, perché le sembrava una cosa impossibile che quei due, così innamorati, si lasciassero e perché voleva trovare quei dettagli che Gilbert aveva colto, e fare in modo di fermare la coppia nei suoi errori.

Come tutti sanno non ci riuscì. Forse per questo fu così frustrata dal tradimento di Antonio.

Quello che Gilbert aveva cercato di spiegare alla ragazza era che quella doveva essere l'evoluzione naturale del loro rapporto. Dovevano, forzatamente, naturalmente, staccarsi, prima o poi. Come Narciso e Boccadoro, per riuscire a crescere, ognuno individualmente, seguendo la propria strada. Secondo Gilbert Beilschmidt, la crescita arrivava con l'Amore, ma pensava che l'abbandono e la distruzione di un amore portava all'età della maturità; si diventava quindi un adulto, attraverso la fine dell'amore, del Vero Amore. Per quanto potesse sembrare strano, nonostante la differenza d'età, Antonio e Romano si trovavano nello stessa fase della loro crescita. Romano Vargas, per età, era ancora immaturo e si ritrovava a vivere il suo primo amore, acerbo nelle relazioni, come anche nella sua arte, stava solo iniziando a balbettare i suoi sentimenti al mondo e a conoscere la risposta di questo, comprendendola solo parzialmente; Antonio era giovane per mentalità, molto semplicemente: non aveva mai avuto una delusione amorosa e, conoscendo l'amico, Gilbert era riuscito ad intuire che proprio lui sarebbe stato il fautore dei propri mali.
Francis Bonnefoy diceva che in un modo o nell'altro potevano fare in modo che quei due crescessero insieme. Gilbert ribatteva che era impossibile: sarebbe stato come limitarli, avevano troppe potenzialità da sviluppare e se ognuno avesse il confronto con l'altro, avrebbe compreso ed appreso il senso della propria vita solo superficialmente. Perché, e questo lo sapeva bene anche Francis, si conosce, s'interiorizza solo attraverso l'esperienza e le emozioni, sopratutto attraverso il dolore. "Ma guarda che mica staranno lontani per tutta la vita." diceva per consolare Francis ed Elizaveta dopo la rottura tra l'italiano e lo spagnolo "Torneranno insieme. Il loro è un movimento ciclico: hanno iniziato il viaggio insieme e lo finiranno insieme".

Elizaveta Herdevary tacque su molte cose, il primo autunno in cui lei e Gilbert Beilschmidt stettero insieme come coppia. Tacque, sorridendo, quando lui la baciava con troppa foga in pubblico, quando con i suoi precedenti ragazzi si era lamentata del loro essere appiccicosi. Tacque sui dettagli con cui Gilbert le dimostrava il suo affetto, perché sapeva che parlarne ad alta voce lo metteva in imbarazzo. Tacque anche quando incontrò il ragazzo addormentato in macchina durante il suo turno di guardia alla finestra di Romano. Tacque, anche se sapeva che stava facendo finta di dormire e anche se sentiva che il sedile del copilota era caldo, come se qualcuno fosse stato seduto lì pochi minuti prima.
Tacque quando vide la finestra di Romano socchiusa. Però sfondò la porta della camera di Romano Vargas.

Non disse nulla quando vide il gatto grigio che pochi giorni prima avevano trovato per strada, lei e Gilbert, sdraiato sul letto dell'italiano, ed aspettò. Aspettò che Gilbert si confidasse con lei.

Oltre ad Elizaveta, nessuno guardò neanche lo sguardo poco sorpreso del tedesco, davanti alla camera vuota. Nessuno sospettò che lui sapesse qualcosa sulla fuga di Romano: tutti pensavano che se il ragazzo avesse detto a qualcuno dove stava fuggendo, quel qualcuno sarebbero stati o Arthur Kirkland o Matthew Williams, ma Romano scelse Gilbert Beilschmidt come suo complice, perché sapeva che gli altri due avrebbero fermato la sua fuga ed avrebbero cercato di incatenarlo alla vecchia casa di Cesare Vargas.

In cambio del silenzio del tedesco, Romano Vargas dovette promettere al tedesco un favore, uno solo, che Rubino avrebbe chiesto a Rojo molto tempo dopo, quando l'italiano avrebbe dimenticato la promessa sbrigativa fatta sul sedile anteriore di quella vecchia macchina. Romano avrebbe comunque mantenuto la parola data e, per un motivo così stupido, si era trovato a sopportare un'esuberante ragazzina di appena 13 anni come allieva d'arte.

Gilbert Beilschmidt non avrebbe mai detto nulla a nessuno, rispettando, come un buon soldato deve fare, la propria parola. Romano non aveva dubbi su questo.

La prima volta che era uscito dalla sua stanza era stato durante il turno di vigilanza di Gilbert. Si era seduto accanto a lui e gli aveva detto che aveva bisogno di scomparire per un po'. Gli chiese di aiutarlo e Gilbert accettò. Lo dovette accompagnare a La Mascara ed aspettare fuori dal pub. Romano Vargas uscì seguito da Sadiq Adnan e qualche ragazzino, probabilmente tutti sudamericani con cui aveva legato nelle uscite con Luz Maria. Avevano l'aria di chi accompagnava un morto alla sua tomba, come se stessero dicendo addio ad un loro vecchio compagno di guerra, o peggio, a qualcuno che si stava sacrificando per loro.

"Ora dove devi andare?" chiese Gilbert Beilschmidt, quando il ragazzo entrò in macchina.

"Aspetterò fino a domani per parlare con Antonio. Tieni gli altri lontani da casa sua"

Gilbert faticò a comprendere, ma lo accontentò.

Secondo Antonio, l'ultima chiacchierata con Romano Vargas prima che lui scomparisse, fu come un ritorno al passato. Romano parlava come se nulla fosse successo, escludendo le sue ultime parole sull'accetazione di quel bambino, sbuffava ed era anche in vena di litigare amorosamente, come aveva sempre fatto, da quello che gli sembrava un lontano febbraio. Fu, sotto la logica di Antonio, un ritorno alle prime volte sotto il pesco, e vide un barlume di luce, una possibile screpolatura nella nuova corazza di Romano ed una possibilità di ritorno tra le sue braccia, nonostante il nascituro.

Gilbert Beilschmidt, venuto a prendere con la macchina Romano, riconobbe da lontano l'odore dell'addio, o almeno della volontà dell'addio. E così lo riconobbe il 3 Ottobre, in macchina, mentre Romano gli consegnava le due lettere da leggere con gli altri cesarini ed una conghiglia, che, disse, sicuramente Luz Maria riconoscerà. Eppure non lo salutò. Disse solo "ok" dopo aver ascoltato le istruzioni del più piccolo.

"Ok?" ripetè Romano. Poi, slacciandosi la cintura di sicurezza ed infilando un piede fuori dalla macchina salutò con un "Sei una brava persona, Gilbert"

Il tedesco rise. "Non stai andando a morire." disse, spingendolo fuori " Tornerai. Altrimenti non ti lascerei andare via senza salutare gli altri."

Romano Vargas scosse la testa. Camminò fino alla fine della strada, senza guardarsi alle spalle, ed ebbe paura delle sue scelte, quando vide Sadiq Adnan aspettarlo, poggiato ad un muro, e sorridere, come se avesse conseguito finalmente la risposta alla sua solitudine.

"Cosa hai fatto?" aveva chiesto Elizaveta Herdevary a Gilbert Beilschmidt, al vedere la camera dell'italiano vuota.

"Non essere teatrale" rispose lui, guardando gli altri membri del Circolo litigare per decidere da che parte schierarsi e se schierarsi. "Tornerà prima di febbraio"

Come sempre, aveva ragione.

Romano Vargas, nel frattempo, dormiva nella macchina di Sadiq Adnan.
Dicono che i sogni degli artisti sono la nostra realtà. Essendo la realtà la prigione di Rojo, nei suoi sogni riusciva, e riesce, a vedere lucidamente una via di mezzo, tra realtà e fantasia. Un'ulteriore prigione, dice lui, ma con la finestra che si affaccia su un panorama spettacolare. Non capì il suo sogno, quel giorno. Vide un ragazzo alto, castano, con gli occhi addormentati, su un palcoscenico e tante persone applaudendo. Non lo riconobbe, questo perché mai aveva conosciuto il ragazzo e non sapeva quale fosse il suo collegamento con lui.

In realtà, il collegamento non era fatto direttamente con lui, ma con il turco che guidava accanto a lui, e nei mesi seguenti, quando dovette conoscere il carattere, le abitudini e la storia di Sadiq, comprese il perché di quel suo primo sogno, che mano a mano veniva messo a fuoco e compreso. Non ebbe difficoltà, comunque, l'estate del 1997, a ritrovare l'uomo dei sogni, a Siracusa: era sotto gli occhi di tutti.

Quando arrivarono alla vecchia casa di Sadiq, una volta appartenuta a sua nonna, poi a suo padre ed infine a lui, il turco e Romano Vargas iniziarono a parlare, curiosi di conoscere chi aveva bisogno di una fuga, per potersi riprendere da un gran dolore, chi avevano seguito nella pazzia dell'isolamento.

Romano Vargas non disse quasi niente di sé. Sadiq Adnan rideva del fatto che era inutile che facesse il modesto e il riservato: da ubriaco, a La Mascara, gli aveva rivelato quasi tutta la sua vita, tra una pausa dal ballo e l'altra.

"Mi ricordi un sacco una persona che conosco" rideva Sadiq "Forse è il mare del Mediterraneo, che vi rende così belli"

Romano dimenticò presto i complimenti.

La località in cui si nascondevano era piccola e si affacciava sul mare. E forse neanche esisteva, almeno così diceva la mappa. Negli anni seguenti, Romano aveva provato a tornare sui suoi passi di quei mesi, ma non c'era mai riuscito e Sadiq non poté mai dargli le indicazioni per tornare nella vecchia casa della sua famiglia, per una ragione o per un'altra.
Quella casa che era a pochi passi dal mare e che sembrava essere uscita da un sogno.
L'italiano in quei mesi avrebbe più volte ricordato il viso di Antonio mentre gli raccontava della sua infanzia nel suo piccolo paese di provincia. Coincidevano. Coincidevano i racconti con quel paesino in cui si trovava Romano Vargas e riconoscendo il riso dei bambini in piazza, vedendo i vecchietti sotto gli alberi di ulivo giocare a dama, sentendo le donne cantare mentre stendevano i panni, gli venne nostalgia di tutti i tipi di passato che aveva vissuto.

Per la prima volta rivide il suo paese nei ricordi, come dolce. Rosso, focoso e pieno di sentimenti, luogo che lo aveva visto nascere e dove alcuni abitanti conservavano il suo ricordo con affetto. Lui all'inizio pensava tutti loro lo ricordassero per lo scandalo che aveva dato la sua famiglia, prima Bruno Vargas, poi Laura Donati. Eppure quei paesani ricordavano Romano per come era: un bambino con delle guance enormi ed un broncio adorabile. C'era fra loro, Pietro Laudadio, un nome una storia; aveva l'età di Romano Vargas, andava con lui a scuola, era suo compagno di classe ed anche di banco. Vedendo la condotta di don Luca, aveva iniziato ad attaccare la Chiesa, quindi, ovviamente, c'era rimasto invischiato, tanto che in quegli anni fu parroco di quella piccola cittadina. Sembrava che Pietro Laudadio avesse portato sempre nel cuore e nella mente quello che era successo a Romano, e quando il ragazzo era tornato a casa, come volevano che la chiamasse, aveva chiesto formalmente ed ufficialmente scusa per le parole che don Luca aveva riservato per lui tanto tempo prima. Ed erano diventati amici, Pietro e Romano, tanto che, se non ci fossero stati Marcello e Feliciano, probabilmente sarebbe bastato il ricordo di Pietro a far pensare con affetto al suo vecchio paesino, anche se l'amico non avrebbe mai fatto cambiare idea a Romano sul non voler frequentare la Chiesa, non credere nelle parole dei preti e per cattiveria, durante la quaresima, tutti i venerdì continuava a mangiare carne, anzi, forse ne mangiava in quantità maggiore.

Romano Vargas tornò a pensare a Cesare Vargas, mentre dipingeva il mare in lontananza. Non pianse, non se lo sarebbe mai perdonato, se avesse pianto, ma s'impadronì di lui un senso di malinconia tale, da riempire la sua tela di nero e rimanere sul balcone, con lo sguardo puntato verso la piazza o il mare.

Sentì soprattutto la mancanza dei cesarini. Di Arthur che lo sgridava perché ruttava a tavola, di Matthew che lo aiutava a mettere in ordine i suoi quadri in ordine alfabetico o tematico, di Alfred che organizzava le sue mostre e di Luz Maria che lo trascinava in giro per Barcellona alla ricerca della città giovane e sempre sveglia.

Di Antonio.

Cercò di riprendersi da quel senso di nostalgia e solitudine. E Sadiq Adnan lo aiutò: anche per questo erano fuggiti insieme.

Nelle lunghe passeggiate sulla costa mediterranea d'inverno, parlavano del più e del meno, uno insultando continuamente, l'altro rispondendo con colpetti in testa e ricordando chi trai due era il maggiore. La loro, era una relazione litigiosa e forse questo li faceva stare così in pace con loro stessi.

Mentre il vento invernale colpiva il loro viso, Sadiq Adnan confessò a Romano il perché della sua maschera e perché era stato irrimediabilmente attratto da lui.

Romano Vargas, ascoltandolo, aveva avuto l'impressione che se anche lo avesse ascoltato Arthur Kirkland, o Gilbert Beilschmidt, sarebbero rimasti estasiati dalla potenzialità drammatica delle esperienze di Sadiq.

Nato in Turchia, era stato presto portato portato in viaggio per tutta l'Europa e l'Asia Minore, di modo che aveva conosciuto diverse culture. I paesi che più lo avevano colpito erano stati Grecia e Spagna, paesi nei quali aveva cercato di vivere più tempo possibile. "Senza offesa per la tua Italia." In Grecia si era innamorato di un attore di tragedie greche, di cui Romano non riusciva mai a ricordare il nome, Herakles Karpusi. Questo ragazzo sembrava essere però immune alla sua bellezza ed al suo ottimo carattere, in più, proprio come succedeva con Romano, non facevano che litigare per cose futili e bizzarre. Eppure erano così simili; così tanto da condividere i pensieri e le emozioni più importanti. S'innamorarono ballando, diceva Sadiq, e quando Herakles gli annunciò che la sua compagnia sarebbe andata in Spagna e sarebbe rimasto lì per tutta la stagione teatrale, il turco non esitò a seguirlo, anche se non era riuscito ad ottenere il permesso di soggiorno da turista.
Diceva Sadiq che se aveva scelto di lavorare a La Mascara non era perché gli piaceva la musica latinoamericana o perché si trovasse bene in quel pub, ma perché, attraversando le frontiere era caduto sulle pietre di un ruscello, deformando una parte del suo viso. Romano Vargas non era sicuro della veridicità della storia: Luz Maria Sanchez gli aveva detto che a lei aveva raccontato di essersi bruciato parte del viso, lavorando in un circo itinerante. Si poteva essere comunque certi del fatto che il suo viso fosse deformato, per questo non si toglieva mai la maschera, per questo fu rimpatriato, visto che curato in ospedale, non avendo il permesso di rimanere in Spagna era stato rimandato in Turchia. Tempo di poter tornare e Herakles non c'era più. Lo cercò per tutta la stagione teatrale per tutta Spagna e poi, sicuro che prima o poi sarebbe tornato a Barellona, era rimasto lì, ad aspettarlo, forse per devozione, forse perché non riusciva concepire il fatto che Herakles se ne fosse andato via, senza aspettarlo, senza lasciargli neanche un messaggio.

"Che coglione" fu il commento di Romano Vargas, seduto sulla sabbia, con le gambe incrociate e gli occhi puntati sul turco. L'italiano dovette fermare la mano di Sadiq pronto a colpire la sua testa.

Quella notte Romano s'infilò nella camera di Sadiq e comprovò che la maschera non la toglieva neanche quando dormiva. Gliela sfilò con dolcezza, una dolcezza che non sapeva di avere, dettata dalla compassione. Era da quando lo conosceva che ci pensava, a quella maschera; mentre Luz Maria riusciva a convincere altri ragazzi a ballare con lei, Romano guardava i camerieri de La Mascara e pensava che come le altre persone non riuscivano a vedere il loro volto, loro non riuscivano a vedere il mondo esterno, con chiarezza ed un po' come le persone con gli occhiali, vedevano il mondo con una cornice, che limitava la loro stessa vista. Certo, la cornice degli occhiali forse era più grande e qualcosa in più riuscivano a vedere, i quattrocchi. Chissà fin dove ci vedevano, con quella maschera, i camerieri, se quei buchi erano abbastanza grandi da poter vedere con chiarezza da lontano.
Nel buio vide il viso di Sadiq, non deformato, ma ferito. Sembrava veramente una bruciatura, ma non ne fu mai sicuro, si addormentò accanto al turco, di colpo.

Il giorno dopo, mentre erano seduti sulla spiaggia, Romano Vargas fu illuminato da un'idea, mentre la sua mano sfiorava quella di Sadiq Adnan.

L'italiano aveva bisogno di qualcuno che non fosse parte della sua quotidianità per rimettere in ordine i suoi pensieri e la sua vita. Eppure nella ricerca di un estraneo, aveva cercato una caratteristica a lui familiare. Se aveva scelto Sadiq per scappare, era perché Sadiq era un poeta nella sua pragmaticità, un poeta di tutti i giorni, di quelli che rendono la vita più bella creando con la loro vita un'opera d'arte.
Lo stesso era successo a Sadiq, glielo ripeteva ogni giorno "Mi ricordi…". Il suo fargli il filo non era per quello che era Romano nella sua complessità, ma di quello che era Romano simile ad Herakles ed in comune avevano il fatto di essere dei sognatori.

Romano Vargas ebbe la sicurezza che lui e Sadiq sarebbero potuti stare bene insieme, perché i loro caratteri erano simili e tra loro si comprendevano. Si sarebbero potuti amare incondizionatamente e vivere un'intera vita insieme se non avessero incontrato le loro vere metà. Un po' gli dispiacque, perché il loro amore non aveva avuto in nessuno dei due casi un lieto fine e nel ricordo del loro Vero Amore non si sarebbero mai potuti innamorare per davvero.

Gli dispiacque davvero.

A questo pensava mentre posava un bacio leggero sulle labbra di Sadiq Adnan.

Allieviarono ognuno la solitudine dell'altro. Fecero qualcosa di molto simile all'amore.

Romano Vargas si svegliò presto, nel letto di Sadiq Adnan, nudo, il 26 gennaio 1997. Sentì in sé crescere la tristezza e guardando il viso scoperto del turco, decise che non era il suo amore, ma che avrebbe fatto di tutto per ritrovarglielo.
Decise anche che non poteva rimanere in quel paesino, nascondendosi dalla vita. Anche perché Alfred Jones lo aveva già rintracciato e gli aveva mandato un calendario con i suoi impegni artistici: sarebbe stata quella mostra, la prima del 1997, l'ultima mostra organizzata dallo statunitense; da quella volta in poi, di arte, nella sua famiglia, si sarebbe preso cura Matthew Williams.

Lasciò anche a Sadiq un bigliettino, prima di andarsene, con il suo numero di telefono e l'indirizzo di casa sua. "Rimaniamo amici", Sadiq sorrise a leggerlo, così come sorrise, quando Romano Vargas il 5 Luglio 1997 andò a trovarlo a casa, con un sorriso soddisfatto e Herakles Karpusi dietro di lui.

Perché l'amore tra loro due, Romano Vargas e Sadiq Adnan, era destinato a non durare, ma non per questo, l'amore non esisteva, non per questo si doveva smettere di cercare la propria anima gemella e lottare per lei.

Per quanto Romano Vargas avesse accettato questa lezione, non la mise in pratica.






Note dell'autore

Bene. Ci avviciniamo alla fine penso. Manca poco poco. Questo è il bello di scrivere a caso. Parli anche a caso. Almeno, io parlo sempre a caso, quindi…

E ci sono rimasta un sacco male per la morte di García Marquez, stavo leggendo parecchi suoi libri ultimamente e quando è scomparso la settimana scorsa, apparte che mi ero ammalata e l'ho saputo il giorno dopo, o forse lo stesso giorno, a causa del fuso orario, non so, ho avuto lo strano istinto di scrivere qualcosa come tributo. Pensavo lo facessero più persone, ma ho visto che lo hanno fatto in pochissimi.

Guardando poi questa storia in particolare, mi sono detta che questo poteva essere un mio tributo, più o meno, visto che uno dei due libri che mi hanno spinta a scrivere era L'amore ai tempo del colera. Volevo dirlo nell'ultimo capitolo, ma ehi, è la vita…Per chi se lo stesse chiedendo, l'altro libro è Narciso e Boccadoro di Hesse. Leggeteli. Sono veramente bei libri. Li ho amati.

Spero abbiate passato una bellissima Pasqua piena di cioccolato. Perché il cioccolato porta felicità, soprattutto sotto forma di coniglio. Yeah baby.

Ci leggiamo la settimana prossima :)

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Capitolo 10
*** Invisibile ***


10. Invisibile

Una vita non ricordata





Romano Lovino Vargas rimane molto spesso fermo in mezzo alla folla, con gli occhi persi nel vuoto e dimenticando la fermata del suo autobus, o l'ora di un appuntamento. Quando la sua unica allieva, nel 2009, mangiando un gelato e gesticolando esageratamente, gli chiese il perché, Rojo rispose che gli ricordavano un suo vecchio amico, che nessuno più ricorda da anni. E si chiedeva, mentre guardava tutta quella gente correre da una parte all'altra della città senza un apparente motivo, quanti di loro sarebbero stati ricordati in seguito, quanti avrebbero lasciato un segno sulla terra.

"Perché? " chiese lei, continuando a leccare il gelato "Questo tuo amico non lo ha lasciato un segno?"

"Solo io, suo fratello e Francis ci ricordiamo di lui" borbottò lui "È stato un amico importante, però"

Un segno, Matthew Williams non lo lasciò mai; nessuno si rese neanche conto della sua nascita o della sua scomparsa. Nacque in silenzio, crescendo nel ventre della madre senza che lei stessa se ne rendesse conto, fino ai 7 mesi di gravidanza, quando Alfred toccò la pancia piccolissima e piattissima della donna e aprendo il suo viso in un enorme sorriso, disse in un inglese stentato e mischiato con lo spagnolo "Non sapevo fossi già qui, little brother" enellapanciail piccolo rispose con un calcio ai reni della mamma, come se fosse stato falsamente indignato dalle parole del fratello che non lo aveva notato fino a quel momento. Nacque appena scaddero gli 8 mesi, aveva fretta di vivere ed eppure, uscito dalla pancia materna, sembrò essere deluso dalla vita stessa, di cui non volle mai far parte e, senza piangere -piangere significava entrare in quel mondo vivo- guardava il mondo circostante a lui ed a sua madre, che lo partorì nella stanza di un appartamento di una sua amica, mentre Alfred guardava la televisione nel salotto poco lontano. Era una giornata di pioggia del dicembre 1977, nessuno potrà mai dire con sicurezza il giorno esatto, se fosse la mattina, il pomeriggio o la sera, perché nessuno pensò mai a far fare i documenti al bambino, cosicché, per lo Stato, nonostante il padre avesse riconosciuto il bambino come suo, Matthew Williams non è mai nato.


Crebbe accanto ad Alfred, giocando con un orsacchiotto di peluche in angoletti bui ed osservando la vita che scorreva placida e piena di movimento.

I primi anni della sua vita non andò neanche a scuola; quando a 7 anni entrò per la prima volta in un'aula, scoppiò a piangere disperatamente, quando un bambino dai capelli e la carnagione scura si avvicinò a lui offrendogli un paletto che anticamente doveva esser stato di un ghiacciolo, ed andò nella classe di Alfred, che in piedi sopra un banco gridava contro la maestra di essere più di un semplice bambino, di essere un vero e proprio eroe. La madre aveva consolato il figlio minore appena tornato a casa e aveva deciso di farlo studiare da privatista, dovuto al carattere troppo sensibile e debole del bambino; in più, la storia dei documenti e l'inesistenza di un atto di nascita di Matthew rendeva dura una permanenza legale a scuola, e Quinn lo spacciava come un bambino, suo figlio, nato fuori dalla Spagna, in Canada, essendo riuscita ad avere documenti falsi dall'ambasciata, grazie ad alcune sue conoscenze, ma temeva che quella sua negligenza nei primi mesi della vita del canadese, favorisse l'allontanamento dei due figli da lei, se solo fosse stata scoperta la falsità dei documenti del più piccolo.

Matthew Williams fu la madre che Romano Vargas aveva perso ad appena otto anni, lo accompagnò nella sua vita finché l'italiano ebbe bisogno di lui. Poi scomparve. Così, com'era nato, scomparve.

Sebbene Arthur Kirkland amasse profondamente l'amico, era impossibilitato a seguire quel viaggio interiore e per il mondo di Romano Vargas, che dopo la rottura con Antonio Fernandez Carriedo, aveva bisogno di movimento anche solo fisico. Il fatto che Matthew avesse appena iniziato l'università, non gli impedì di seguirlo durante i suoi viaggi per non farlo deviare, perché Rojo conoscesse senza essere trascinato nelle cattive strade che sembravano attirarlo particolarmente.

Matthew abbandonò gli studi per curarsi al 100 per cento dell'artista, ottenendo l'eterna gratitudine di Arthur, che detestava avere il ruolo di madre nella vita di Romano, ed il biasimo di Francis Bonnefoy, che riteneva il comportamento del ragazzo come un annullamento della sua stessa persona. Il canadese, col solito orsacchiotto di peluche in mano, aveva sorriso, dicendo che non era un problema per lui annullarsi, perché lui non era mai esistito.

Nessuno capì le sue parole, che caddero presto nel dimenticatoio, tranne suo fratello. Alfred, abbassò lo sguardo e tornò a lavorare al suo braccio meccanico, apparentemente indifferente alle parole dl fratello. Il fratello che non era mai esistito. Kiku Honda diceva sempre che doveva vendere la storia della sua vita ad uno scrittore. Nessuno scrittore si affezionò particolarmente a Matthew, in compenso, due pittori dipingono il suo volto pieno di pace in ogni quadro a loro disposizione.

Matthew Williams scomparve in una notte di dicembre. Nessuno sa nemmeno se fosse lo stesso giorno in cui era nato. Si trovava insieme a Romano in Italia e quel giorno avevano incontrato l'ultimo dei grandi artisti con cui Romano Vargas ebbe a che fare. Non si trattava di suo fratello, Feliciano Vargas, e nemmeno del piccolo Marcello Vargas, che sembrava essere sempre più attratto dall'arte, anche se, affermava, il pittore non lo voleva fare, e neanche lo scultore, o l'architetto, Marcello non voleva creare, bensì aiutare a ricordare, attraverso le arti. "Ci poteva venire un figlio normale?" chiedeva sempre Bruno Vargas a Vanessa Pancotti, che, per tutta risposta, stava pensando d'iscrivere il minore dei suoi figli all'Accademia delle Belle Arti, risparmiando anno dopo anno, con l'aiuto di Feliciano e Romano. L'ultimo grande artista riconosciuto che Rojo incontrò e che ebbe una notevole influenza sul pittore, fu Carlos de la Piedad, un omone cubano, sempre attaccato ad un sigaro e con una risata che faceva tremare i muri e ridere le persone intorno a lui. Non era un ballerino, neppure un attore, non sapeva disegnare, ma sapeva creare. Era un esperto di arte temporanea, quella che oggigiorno si filma con i cellulari perché sono più simili ad un flashmob che ad altro. Lui dava l'illusione di dissacrare i monumenti più preziosi, di creare caos nell'armonia e ridere in faccia al governo, quando questo si sentiva minacciato da lui. Si dice che sia stato cacciato da Cuba, non per i suoi lavori artistici, ma perché sia andato a letto con la moglie del presidente, che una volta sdraiata accanto al marito, dopo aver fatto l'amore, si è sentita insoddisfatta e frustrata e disse "Nessuno sa fare l'amore come lo fa Carlos". Dicono che tutte le donne che sono state con lui affermino questo. Quasi facesse loro degli incantesimi. E forse era così: lui stesso non nasconde il fatto di aver frequentato sciamani e stregoni e di aver appreso da loro qualche trucchetto. Ad Alfred Jones, Carlos de la Piedad non piace e così è pure per Carlos de la Piedad.

Romano Vargas lo aveva incontrato il 7 Dicembre 2000 per mezzo di Pietro Laudadio ed aveva provato simpatia per quel casanova, che gli insegnò quanto l'arte poteva essere trasgressiva e sublime, nel senso romantico del termine. Quando poi Romano fece conoscere a Carlos Matthew, il cubano aveva iniziato a ridere, affermando che loro due già si conoscevano. Carlos aveva difatti frequentato la stessa scuola di Alfred e conosceva il fratellino perché molto spesso gli aveva lasciato un livido sulla spalla, essendo così simile all'Eroe. Poi, quando il primo giorno era andato a donargli un gelato per farsi perdonare, gelato che non era riuscito a non mangiare strada facendo, Matthew era scoppiato piangere. Carlos si scusò per avergli mangiato il gelato, Matthew Williams si stupì del fatto che qualcuno lo ricordasse.

Romano Vargas, mostrandosi poco interessato a questi retroscena dell'amico, li lasciò soli in balia dei loro ricordi e andò alla ricerca di Pietro che gridava contro dei ragazzini perché avevano rotto una finestra della chiesa.

Non rivide il canadese fino alla settimana dopo, quando dormiva nel letto della casa di sua madre, Laura Donati, e sognava un sacco di cani che sbavavano su alcuni libri e volevano leccargli la faccia. Si svegliò sentendo dei passi accanto al suo letto e, stropicciandosi gli occhi assonnati, riuscì a distinguere il profilo di Matthew Williams, seduto davanti alla finestra.

Romano Vargas ricordò che quando era piccolo, anche lui adorava stare a quella finestra. Ricordava la madre che stirava, con i capelli rossi attaccati alla fronte ed un vestitino leggero d'estate, sbuffando e lui che, isolato dal resto dei bambini, incapace di fare amicizia, spingeva la sua testa sopra la finestra, alzandosi in punta di piedi e contemplando il verde degli alberi intorno al suo paesino di campagna. E pure lui sbuffava. Lui sbuffava sempre. Lui sbuffa sempre.

"Che hai?" chiese l'italiano grattandosi la testa ed incrociando le gambe sotto le coperte. In realtà non si apettava una risposta a quella domanda, bensì un semplice niente, una risposta elusiva che l'avrebbe fatto irritare, ma anche andare a dormire il più presto possibile. Invece Matthew rispose col massimo della sincerità, senza guardarlo negli occhi, togliendosi gli occhiali per vedere la luna sfocata davanti a lui. "Vorrei pescare sulla luna" iniziò il canadese scoppiando a ridere. "Stai ingrassando." aggiunse poi, dondolandosi sulla sedia "Quando lo saprà Arthur ci ammazzerà" rise ancora.

"Sei ubriaco?"

Matthew Williams sorrise. Era lucidissmo.

Avrebbe voluto, quella notte, raccontare a Romano la storia della sua vita, un po' come fanno le persone importanti prima di andarsene definitivamente, quando sanno che se ne stanno per andare via per sempre. Lo aveva fatto, prima di morire, lo stesso Cesare Vargas, che aveva confessato al nipote e ad Antonio Fernandez Carriedo di avere una colpa che ricadeva di padre in figlio, che lui aveva generato e che avevano scontato Bruno Vargas ed il suo primogenito Romano. L'aveva chiamata la maledizione della Paternità. Nessun Vargas mai sarebbe potuto essere un padre modello, diceva, perché da giovane aveva abbandonato una suo figlio con la madre, perché era spaventato da quello che poteva essere diventare padre, in una così giovane età, quale era la sua. Quando poi aveva incontrato Livia, sua moglie, la nonna di Romano, al vedere il piccolo Bruno sgambettare allegramente per il salotto di casa sua, si era chiesto che diritto avesse di essere padre di quel bambino e non di quello partorito da Elena, la donna che aveva abbandonato. Seguendo questo ragionamento, contorto ed errato gli gridava sempre Livia colpendolo al petto, stava privando non solo il figlio abbandonato, ma anche quello che aveva accanto a sé, di un padre. E quando Bruno vide nascere Romano, sebbene il bambino avesse dei bei ricordi collegati alla sua prima infanzia, l'uomo si sentiva insicuro di quello che poteva essere il suo ruolo di padre, perché nessuno gli aveva mai fatto da padre. Poi, gli stessi pensieri di Cesare avevano preso il sopravvento nella testa di Bruno, rendendolo un padre distaccato e assente anche per i figli di secondo letto. Al sapere qual era la colpa che il nonno s'imputava ripetutamente, Romano Vargas aveva arricciato il naso e chiesto, con molta cautela, per quale motivo aveva raccontato, proprio in quel momento, quella storia sia a lui che ad Antonio; poi, preso da un attacco di panico, aveva chiesto se l'averlo detto proprio a loro due non portasse brutte notizie. “Ti prego, dimmi che non è un mio fratello, cugino o zio. Ti prego.” Cesare aveva riso. Sarebbe morto due settimane dopo.

Matthew non aveva storie esaltanti da raccontare. Non aveva mai fatto l'amore con nessuna ragazza, non si era mai innamorato di nessuno, non aveva mai fatto nulla di folle, non aveva colpe per cui rodersi l'anima. La cosa più pazza che avesse mai fatto, era stato aiutare Carlos de la Piedad a dipingere di blu la facciata di una casa, per poi scriverci abusivamente un verso tratto da Ode al Vento dell'Ovest di Shelley. E nemmeno di quello poteva prendersi la colpa interamente, perché non fu una sua idea. Allora raccontò a Romano di quando, da piccolo, lui, Alfred e la madre giocavano a nascondino nella casa del nonno. Una volta, aveva detto, si era nascosto nella credenza, insieme al suo inseparabile orsacchiotto di peluche. Rimase lì per ore, in attesa che qualcuno lo trovasse. Eppure, la mamma, aveva trovato Alfred e poi aveva smesso di chiedersi dove fosse suo figlio. Quando Alfred insisteva che dovevano trovare Matt, che Matt era nascosto, che avrebbe pianto se non lo avesse cercato, la madre aveva riso e, accarezzando la testa del bambino, aveva detto che aveva molta fantasia. Chi era Matthew Williams? In quel momento gli sembrò di essere l'amico immaginario di Alfred, un essere creato per supportare qualcuno, sicuramente non un essere a sé stante, che passava da persona a persona. Matthew Williams in realtà non esiste. Ma era solo colpa di Matthew Williams. Perché anche se il canadese sarebbe dovuto morire nel ventre della madre, come lei aveva deciso, era stato lui a non voler far parte della vita, che aveva pianto quando qualcuno provava ad essergli amico, che aveva vissuto alle spalle, all'ombra di chiunque altro, per paura di essere ferito e tradito. Per paura di fallire non aveva scelto una strada, per paura di un errore non aveva mai preso una decisione.

Carlos gli aveva aperto gli occhi. Una vita vissuta in quel modo, non valeva la pena di essere vissuta.

Se quando era piccolo avesse preso il bastoncino del ghiacciolo che Carlos gli aveva offerto, magari sarebbe stato tutto diverso. Tutto. Se lui e Carlos fossero divenentati amici da subito… ma non era successo. Carlos de la Piedad, comunque, aveva deciso di rapirlo per una settimana e portarlo sempre con sé, dicendo che se non erano diventati amici da piccoli, lo sarebbero diventati durante quei giorni, e che se così fosse stato, avevano bisogno di tempo, per recuperare il tempo che avevano perso insieme.

In quella settimana, in solo quella settimana,Matthew Williams aveva vissuto tutto quello che non aveva vissuto in 23 anni. Aveva pescato un pesce con le mani, mangiato un verme strizzando gli occhi per lo schifo, imbrattato case, aveva dormito all'aperto, era corso dai poliziotti, saltato da una montagna, nuotato oltre la boa, era quasi affogato, giurava di aver trovato una perla sotto il mare, aver tirato uova sopra il sindaco della città, aveva truccato un uomo da donna, si era truccato, aveva baciato un uomo, aveva rubato una palla ad un bambino, nascosto oggetti insignificanti di altre persone e sostituite con dei papaveri o margherite.

Aveva vissuto.

“Allora che vuoi fare?” Aveva chiesto assonnato Romano.

“Voglio pescare sulla luna” aveva ripetuto Matthew, sorridendo. “Mi fai un favore Roma? Voglio che tu… senti: ti ricordi il centro di tuo nonno? Torna a casa tua e smettila di girovagare come un matto. Che tu le tue radici ce le hai già.”

Romano Vargas non capì.

“Io non ho radici. Sono sradicato. Tu invece sei intrappolato dalle tue radici, per questo continui a scappare. Fammi un favore e torna a casa di tuo nonno. Perché tu sei nato per davvero lì, anche se vuoi troppo bene a tuo fratello per ammetterlo.”

Romano continuò a non capire, ma sentì i suoi occhi diventare sempre più pesanti, si sentì sempre più stanco.

“Ah! Ti prenderesti cura del mio peluche?”

Fu l'ultima frase che Romano Vargas sentì dire da Matthew Williams. Poi cadde addormentato e quando si svegliò la mattina seguente, ogni traccia di Matt e della sua vita era scomparsa. Nessuno in paese lo ricordava, nessuno sapeva dov'era andato a finire.

Quando aveva chiamato Alfred a casa sua, rispose Luz Maria Sanchez. Romano chiese se aveva notizie del gemello più piccolo, Matt. Luz Maria chiese chi fosse Matthew. Romano disse che non era momento di fare scherzi, ché era molto preoccupato. Luz Maria rispose che non stava scherzando. Romano insistette dicendo che era il fratello del suo ragazzo e che viveva insieme a loro due. Luz Maria rispose che lei ed Alfred vivevano da soli. Romano chiese se fosse uno scherzo. Luz Maria negò e chiese all'amico se stesse bene. Romano non rispose e mise giù la cornetta.

Subito dopo lo chiamò Francis Bonnefoy, dicendo che aveva sognato Matthew la notte e che aveva paura che stesse male. Romano disse che era scomparso. Francis lo informò del fatto che aveva chiesto a tutti se sapevano qualcosa di Matt e nessuno aveva saputo rispondere, perché nessuno conosceva quel nome. Romano non rispose.

Quando Alfred chiamò Romano gli spiegò che non doveva stare in ansia per Matt. Stava bene. L'italiano chiese dove stava. Lo statunitense rispose che sicuramente era sulla luna, pescando. Romano s'irritò e disse che sarebbe tornato a casa seduta stante. Alfred rise ed affermò che già lo sapeva: quella notte Matthew lo aveva informato.

Nessuno, nemmeno la mamma di Alfred ricorda gli occhi celesti del ragazzo sorridente. E nessuno sa per quale motivo il peluche che portava sempre quel ragazzo fosse posizionato nella camera di Rojo, che lo porta con sé ovunque vada. Non ne trovano il senso e quando Romano Vargas racconta la storia di quel peluche, nessuno gli crede e tutti pensano di essere presi in giro, questo manda su tutte le furie Romano che non insiste nel racconto, chiude la conversazione ed ogni dialogo. L'unica a credere a quelle parole, per ammirazione, stima ed idealizzazione, in un primo momento, fu la sua allieva, la tredicenne senza pregiudizi che Gilbert gli aveva imposto di sopportare.

“L'unica sua traccia è il suo peluche? Figo. Dovresti vendere i diritti della storia a mio padre” aveva detto l'allieva di Rojo non appena aveva ascoltato quella storia. “Chissà cosa faceva mio padre, in quegli anni…” aggiungeva sempre ripensando al passato di Rojo “Sei andato in Italia, Germania, Inghilterra e Scozia, Grecia, Messico e Stati Uniti quando io avevo solo…” la ragazza iniziò a contare i suoi anni sulla punta delle mani.

Romano sbuffò guardando la ragazza confondersi tra date e numeri “Asina”

La matematica non sarà mai il mio mestiere*, lo sai. Fa schifo. È noiosa.”

“Sei uguale a tuo padre” sbuffava Rojo, prendendo carta, penna ed una calcolatrice per collocarla davanti alla sua adorata allieva, che sbuffava lamentandosi del fatto che era troppo giovane per condividere la teoria degli opposti complementari di Blake.












Note dell'Autore

Sì, lo so. Un mese. Un mese intero! Ma come promesso sono tornata a giugno. Il primo sabato di giugno per essere precisi. Come scusa -scusante buona come cattiva, visto che su efp sono passata tranquillamente a leggiucchiarmi di tutto e di più- devo dire che ho studiato come una forsennata per tutto maggio, se mi fossi messa a scrivere qualcosa o riscrivere qualcosa sicuramente lo avrei fatto male. Ma proprio male male. Ed essendo finita solo oggi scuola -cavolaccio che bello- no. Ho ricontrollato neanche questo di capitolo. Yeah.

Non so se sono più pigra in primavera o d'estate. E se lo sono a causa del caldo o del freddo.

Bene. Mi scuso ufficialmente e ringrazio chi sta leggendo queste mie parole fino a questo punto.

Grazie mille davvero!

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Capitolo 11
*** Movimento ciclico ***


Un ringraziamento a Mary-chan,

che mi ha corretto e suggerito durante la stesura del capitolo

 

 

 

 

 

11. Movimento ciclico

Come una piroetta

Esattamente come furono molto attenti nella ricerca di un soprannome per gli altri membri del Circolo di Cesare, tanto che quegli stessi soprannomi sarebbero diventati nomi d'arte più che azzeccati per ognuno di loro, i cesarini che divennero genitori furono molto attenti nella scelta dei nomi, nonostante i caratteri dei loro figli, imprevedibili come le anime dei loro genitori, presero degli aspetti consigliati dai nomi che nessuno di loro si sarebbe aspettato.

Come tutti ormai sanno, il primo bambino a nascere fu Alexandre Guy Bonnefoy. I genitori avevano scelto i due nomi basandosi sui loro romanzi preferiti, pensando che loro figlio avrebbe preso il brio di Alexandre Dumas e la lucidità di Guy Maupassant; certo non avevano pensato che il bambino, figlio di due amanti delle arti figurative, finisse per decidere di essere un allievo della parola piuttosto che dell'immagine, diventando, o meglio, aspirando a diventare scrittore. Tanto per render contenti i genitori, però, Alexandre Guy ha per natura brio e lucidità, nonché un certo talento per conquistare donne e per affascinare chiunque intorno a lui. È l'erede naturale di suo padre, come lo è di suo zio Arthur che fin da quando era piccolo lo teneva con sé durante ore ed ore nella sua libreria personale lasciandolo gironzolare tra gli scaffali di libri di ogni tipo.

La stessa cura non fu adottata da Luz Maria ed Alfred, che scelsero nomi che contrastano i caratteri dei due figli. Il maschio, cui nome intero è Matthew Junior, doveva assomigliare o portare alla mente lo zio mai conosciuto, ma con i suoi capelli scuri e gli occhi chiari, con i suoi modi decisi ed autoritari assomigliava molto di più alla madre, Luz Maria. La femmina, la più piccola, cui nome era Consuelo, tutto era tranne una consolazione per la madre che la vedeva troppo sveglia, troppo vivace e troppo simile al padre. Difatti, se Junior suona in una band maschile, con il suo basso ed il suo sorriso dolce, Consuelo cerca d'imparare dallo zio Kiku quanto più possibile sull'ingegneria spaziale.

Caso differente fu Giada Beilschmidt, figlia di Gilbert ed Elizaveta. Essendo loro sempre stati una coppia che si reggeva sui contrasti che generavano le loro somiglianze, avevano pensato di lasciare col nome un qualcosa di loro che accompagnasse sempre la figlia. Il nome della ragazza deriva dal soprannome del padre e dal colore degli occhi della madre. Il pensiero dei due era partire dal soprannome di Gilbert, Rubino, che derivava dal colore dei suoi occhi, e invece di chiamarla Ruby, chiamare Esmeralda o Giada la figlia, prendendo spunto dagli occhi della madre. Dovuto al fatto che gli spagnoli non riescono a pronunciare bene la G dolce, avevano pensato bene di scegliere Giada, per ridere della pronuncia dei loro amici, soprattutto di Antonio Fernandez Carriedo, che si ostinava a chiamare la piccola Beilschmidt Ghiada che coincideva la parola guiada, ossia guidata. Quello che questo nome suggerì al temperamento della ragazza fu la sua calma ed il suo temperamento rasserenante, nonché una certa conoscenza degli animi umani, che fu ereditata dal padre.

Poi il nome di Laura, la figlia di Antonio Fernandez Carriedo e Alicia Rivas, fu preso dal nome dell'amata di Petrarca. Secondo quel che dice lo scrittore, il nome della figlia fu dettato dall'amore che aveva per quel poeta e per il doppio significato di "alloro" ed "aria" che gli storici di letteratura avevano trovato dietro un nome così già dannatamente perfetto. Secondo i nostri cesarini, però, la scelta era ricaduta su Laura perché la figlia creasse un doppio legame tra lui e Romano: insieme a Foscolo, Petrarca era l'unico poeta che l'italiano riusciva a leggere con un po' di piacere e, quando aveva appena dodici anni, aveva strappato delle pagine da un vecchio libro di raccolta di poesie e, dopo averle piegare e ripiegate, le aveva infilate nella tasca di un vecchio jeans. In più, non era Laura l'amata madre di Romano? Non era dopo la sua perdita che l'italiano aveva detto, una volta, di aver perso la casa della sua infanzia, dov'era stato felice e senza preoccupazioni? Quello di Antonio Fernandez Carriedo era un invito perché Romano Vargas tornasse da lui, attraverso colei che li aveva divisi. Laura Fernandez Rivas portava il suo nome senza neanche immaginare un simile legame tra lei e Rojo, legame a lei ignoto anche dopo la separazione dei suoi genitori e la sua decisione di vivere col padre a Barcellona, nonostante lo stile di vita irregolare e bizzarro che lo scrittore aveva adottato.

La crescita di Laura fu diversa dagli altri bambini, che nonostante le differenze d'età, crebbero insieme trattandosi come cugini, o come fidanzati, nel caso della relazione tra Giada ed Alexandre. Laura crebbe lontana da loro, isolata dall'arte figurativa e con un carattere troppo ribelle e curioso per rimanere negli schemi creati dal padre. Conosceva la scrittura, ma non pensava facesse per lei.

Il suo primo contatto con la seconda generazione dei cesarini lo ebbe a dodici anni, diventando amica di Giada e solo successivamente con Alexandre. E sul loro trio si potrebbe dire di tutto. A partire dal fatto che forse non sono un trio, ma un triangolo amoroso.

La verità è che Laura Fernandez Rivas poco centrava nella seconda generazione del Circolo di Cesare. Sembra, infatti, che dopo la prima generazione, così pura e genuina da non riuscire a comunicare attraverso le parole il loro talento, se non in rari casi, come Gilbert Beilschmidt e Roderich Edelstein, la seconda generazione sia ubriava di arte teorica e parole, tanto che l'unica pittrice è proprio Laura. Molte volte, James Kirkland, il figlio di Arthur e Sey, accusa la spagnola di essere stupida, di coccio e terribilmemre lenta. Mentre gli altri membri riescono a tenere discorsi per ore, discutere della realtà saltando di argomento in argomento, l'erede di Antonio Fernandez Carriedo fatica a comprenderli e, nonostante Giada Beilschmidt affermi che l'amica sia uno degli esseri più intuitivamente lucidi e svegli che lei abbia mai conosciuto, nessuno le crede.

Nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato sul fatto che la piccola spagnola potesse portare a termine la missione affidatale dal padre, ossia riavvicinare Rojo a lui. Eppure lei è riuscita a diventare l'unica allieva del pittore, grazie all'amicizia con la famiglia Beilschmidt.

Gilbert Beilschmidt aveva dimenticato la promessa che Romano Vargas gli aveva fatto. Era più preoccupato a prendersi cura della figlia, perché la vicinanza con un Bonnefoy non portava mai niente di buono ad una ragazza. Per questo passava la notte cercando di mettere a punto un piano per separare gli Inseparabili, sotto lo sguardo annoiato di Elizaveta Herdevary, che gli ricordava l'intuito della figlia, ereditato proprio dal padre. Il problema fu che il tedesco di tutti riusciva a leggere l'anima, tranne che della piccola figliola e questa nuova situazione lo metteva a disagio. Per esempio, l'amicizia con Laura fu qualcosa d'inaspettato; quando Giada era entrata, portando per la mano la ragazzina, dentro casa, Gilbert aveva dovuto chiedere spiegazioni ad Elizaveta, che, ridendo, aveva detto che le ragazze sembravano essere anime gemelle.

Laura Fernandez, parlando con Gilbert, aveva manifestato fin da subito la sua inclinazione naturale per le arti figurative, trovando il favore di Elizaveta Herdevary, che si divertiva a mostrarle i suoi primi progetti di palazzi, di quando aveva la sua età, cose che aveva mostrato anche alla figlia, ma che non avevano mai trovato tanto entusiasmo se non con gli occhi scintillanti dell'amica della figlia, figlia dell'amico. La ragazzina aveva detto che avrebe tanto voluto imparare i trucchi del mestiere. Voleva dipingere. Non sapeva parlare come Alexandre Guy e Giada, ma sapeva come fare uno schizzo e sembrava avere talento. Secondo il suo carattere, Elizaveta capì che non avrebbe avuto pazienza nel calcolo per fare im modo che un palazzo non crolasse su se stesso e, probabilmente, fare in modo che avesse uno scappellotto in mano sarebbe stato un errore madornale, per lei, come per chi le stava intorno. Elizaveta ne parlò con Gilbert, che si mangiava le unghie, guardando sua figlia scherzare con la spagnola ed il francese ed intuiva qualcosa che non gli piaceva affatto. Il tedesco disse che non ricordava il motivo, ma sapeva che Romano Vargas gli doveva un favore. L'ungherese si morse il labbro inferiore.

"Sarebbe giusto?"

"Sarebbe conveniente. Così non viviamo col senso di colpa quando stiamo con uno o con l'altro"

Romano Vargas, nel frattempo si ritrovava a dover vivere con una famiglia intera nel suo vecchio appartamento. Vivere con le manie di Arthur Kirkland era difficile, per tutti e tre. Il figlio, James, si diverte ancora a lasciare in giro per casa dei bigliettini che finge siano di folletti, gnomi, nani e vedere il padre infuriato perché non si deve scherzare su certe cose. Romano non nega di aver sognato di strozzarli, ucciderli malamente e nascondere i loro corpi sotto il pavimento di casa, soprattutto quando James iniziava a fare i capricci, Arthur non riusciva a sopportarlo e iniziava a gridargli contro e Sey, con una calma estenuante, carezzava la schiena dell'inglese, cercando di calmare anche lui. Quando poi litigavano Sey ed Arthur, aveva avuto vari istinti non solo omicidi ma anche suicidi, perché il piccolo ragazzino biondo sporco, s'infilava nella sua camera ed iniziava a raccontargli di animali o cartoni animati. O di cinema.

Arthur Kirkland lo aveva avvisato. Aveva detto che vivere con una famiglia è qualcosa di diverso, strano, un po' irritante e per questo voleva trovare una casa per lui e quella che sarebbe stata la sua famiglia. In realtà Romano non aveva niente in contrario con un trasferimento dell'amico, almeno finché non lo vide iniziare a preparare degli scatoloni e metterci dentro tutti quei libri che pesavano chili e chili. Perché la cultura fa male. A quel punto l'italiano, vedendo l'inglese che si piegava per alzare il detto scatolone, riuscì a pensare ad almeno tre buoni motivi per convincere Arthur a rimanere nell'appartamento appartenuto a Cesare Vargas. Il primo era che Romano si dimenticava spesso di dar da mangiare al gatto, che intendeva gettare per la finestra di camera sua, visto che mangava il triplo di lui. Il secondo motivo era che l'italiano non avrebbe mai aiutato nessuno a cambiare casa: ci avevano già provato ai tempi Luz Maria, Alfred e Matthew a convincerlo a darsi una mossa, alzare scatoloni e portarli da una parte all'altra della città, col solo risultato di un Romano Vargas con in mano un carillon che aveva poggiato in uno scaffale della casa degli americani e che i tre non avevano mai visto prima di allora. La cosa bella è che l'italiano poi pretese una bella pizza alla napoletana come ricompensa del nulla svolto. E che Matthew gliela comprò per davvero. Il terzo ed ultimo motivo fu che Romano Vargas, quanto era vero Iddio, odiava con tutta la sua anima una casa vuota, non essendone abituato. In più, si era detto, avrebbe dovuto viaggiare per tutto il mondo e molto frequentemente, quindi gli istinti omicidi sarebbero stati ridotti ad un minimo lasso di tempo. Anche se aveva spesso affermato che James Kirkland lo cercava ovunque quando era in viaggio e gli chiedeva di portargli dei film in lingua originale e manuali sulla cultura del luogo, oppure gli chiedeva spiegazioni dei comportamento di Alexandre Guy e Consuelo, e per questo era impossibile avere una pausa dal suo adorato nipotino, che s'immaginava parlargli con ancora i moccioli sul naso ed i capelli scompigliati.

James Kirkland è il ragazzino più attaccato in assoluto a Romano Vargas, o almeno così dice quando litiga con Laura su questo argomento. Secondo la ragazza chi è più affezionato al l'italiano è lei, lei e solo lei.

Romano dice di voler fare a meno di tutti e due.

Romano Vargas ha visto James Kirkland nascere ed iniziare a crescere, è, il piccolo inglese, l'unico ragazzo a chiamare Romano zio senza alcuna forzatura.

Il rapporto con Laura Fernandez è diverso. La prima volta che Romano Vargas l'aveva vista, la bambina aveva più o meno quattro anni, dei lunghi capelli castani legati in due trecce e degli enormi occhi verdi che lo fissavano con gioia. Anche se Romano non aveva mai visto la figlia di Antonio Fernandez Carriedo seppe che era lei a colpo d'occhio: aveva il suo stesso sorriso. La bimba gli aveva chiesto chi fosse e lui aveva risposto nessuno. Laura aveva sorriso e detto che era un piacere e che le piacevano un sacco i quadri intorno a lei. Non ci capiva niente d'arte, aveva solo quattro anni, ma sentiva di avere un legame coi quadri intorno a lei e quel nessuno accanto a lei. Romano non disse niente e, notando Antonio avvicinarsi alla bambina, si era dileguato neanche fosse dato un fantasma.

Quando, anni dopo, all'età di tredici anni s'incontrò con Laura alla sua porta, un Gilbert Beilschmidt sorridente ed una richiesta assurda, Romano avrebbe voluto sbattere la porta e gridare di essere uscito per una passeggiata. Se solo il piede di Gilbert non fosse stato così veloce da bloccare la porta! E se solo non avesse fatto quella stupida promessa!

Laura si è adattata facilmente al carattere scorbutico del pittore, alle critiche e allo spirito pigro che, francamente, lo stava facendo ingrassare non poco, insieme ad Alfred F. Jones. La piccola Fernandez, si rese conto Romano, era carente nella tecnica ma non nel sentimenti, che non riusciva a razionalizzare del tutto. Per questo motivo il pittore le fece studiare matematica e disegno tecnico. Laura lo odiava con tutta se stessa durante quelle ore. Poi, quando la portava al lago e le diceva "disegna quello che vuoi" lo amava con tutta se stessa.

Mentre la ragazzina disegnava facendo ballare i pennelli tra le sue mani, parlava e parlava di tutta quanta la sua via. Parlava di star studiando da privatista, perché i ritmi di vita del padre non permettevano neanche a lei di avere una vita normale e che adorava con tutta se stessa passare davanti alle scuole mentre tutti studiavano: le dava l'illusione della libertà. Fu così che Romano venne a sapere delle collane di Antonio che continuava a scrivere poesie e romanzi, romanzi e poesie che continuava a dedicare al colore rosso. Rosso, rosso, rosso. Chissà perché, rideva la ragazzina. Laura confessò che Antonio era un padre esemplare, dolce e comprensivo, anche se non sapeva per quale motivo odiasse il fatto che si avvicinasse ai suoi cugini d'arte o all'arte in generale. Antonio aveva passato tutti quegli anni con la madre in campagna e lei con lui. Alicia, una volta separata definitivamente da Antonio, aveva preferito continuare ad avere una vita normale e semplice, come lo era stata prima dell'arrivo dello spagnolo. Tra una vita normale ed una particolare, Laura preferiva assolutamente la seconda, anche se non disdegnava i weekend con la madre, il suo cane e la tv a pagamento, che non guastava mai.

La ragazzina parlava con un sorriso sincero e divertito e Romano pensava a quanto, vista da fuori, la situazione potesse essere simile a quando lui dipingeva sotto un albero di pesco e Cesare Vargas parlava e parlava senza sosta.

Si è affezionato alla ragazzina senza neanche rendersene conto. Un giorno si rese conto che le mancava sentirla blaterare in sottofondo, mentre lui la ignorava bellamente. Per par condicio, dobbiamo anche dire che adora ignorare anche James Kirkland mentre blatera di studiare cinematografia e cose del genere.

Quei tre adoravano dormicchiare nel vecchio parco senza fare nulla in particolare. Anche se Laura piagnucolava spesso perché voleva che il suo pigro maestro le insegnasse qualcosa di utile. Niente potrà mai cambiare il carattere pigro dell'italiano… e probabilmente niente sarebbe cambiato nel modo di starsene dei tre, se solo Antonio Fernandez Carriedo non fosse comparso senza alcun preavviso dietro il tronco dell'albero, spaventando a morte Romano Vargas che, in fretta, si alzò sui suoi piedi e scappò prendendo con sé James ancora mezzo addormentato.

Fu la prima volta che Laura si chiese se il suo passato, come quello del padre, non fosse legato a Rojo e si chiese se, come una brava ballerina che esegue perfettamente la sua piroetta, il tempo non stesse tornando indietro, per far tornare tutto esattamente come doveva essere.

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