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di E m m e _
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Risveglio. ***
Capitolo 2: *** 2. Caliel ***
Capitolo 3: *** 3. Vita ***
Capitolo 4: *** 4. Ragionevoli accordi ***
Capitolo 5: *** 5. L'isola dei bimbi sperduti ***
Capitolo 6: *** 6. Senza speranza ***



Capitolo 1
*** 1. Risveglio. ***


 
1.
Risveglio
 
 
Il risveglio fu come la Caduta. 
Ogni particella del mio corpo si stringeva pericolosamente a un'altra, nella vana speranza di non schiantarsi a terra.
Sentivo ogni centimetro del mio corpo immobile, forzato alla paralisi anche psicologica a cui mi sentivo sottoposta.
Non riuscivo a pensare a più di una cosa alla volta, nonostante ogni pensiero fosse collegato all'altro, in maniera quasi maniacale, e tutti alla fine si fondevano in un'unica sola parola, sette lettere, un nome in realtà, urlato da migliaia e migliaia di voci diverse in ogni singolo pensiero, pulsando in ogni parte di me a un ritmo costante, fino a farmi quasi impazzire. 
Allison.
Pian piano, con una lentezza straziante, presi conoscenza del mio corpo, mentre prima ero solo un mucchio di pensieri confusi e particelle impazzite, pronte a unirsi pur di non morire. 
Ora sapevo perfettamente dove avevo le mie mani, strette in pugno, esattamente alla fine di entrambe le braccia, praticamente incollate ai fianchi. 
Sentivo gli arti addormentati, le gambe bruciavano terribilmente alla ricerca dell'anche più minimo movimento.
Ero immobile, paralizzata nel più oscuro pensiero, quel grido straziante che portava il mio nome. 
Allison.
Sentivo qualcosa di fresco sfiorare ciò che credevo il mio viso, vento fresco di primavera che portava con sé il profumo degli alberi in fiore e delle margherite del prato fuori casa.
Era una bella sensazione, quella di sapere di avere una casa alla quale tornare, ma allo stesso tempo la bizzarra idea di non trovarvi nessun viso conosciuto all'interno superava quasi la felicità di farvi ritorno. 
Più tentavo di far mente locale, più il tentativo di ricordare almeno un viso famigliare si faceva disperato, un dolore lancinante che comprendeva tutta me stessa, come un tuono che squarciava la barriera silenziosa del cielo.
Sentivo qualcosa dentro di me gridare, figure che si stendevano come vernice nella mia memoria, una tela bianca affiancata a barattoli di vernice fresca. 
Allison. 
Un'Allison bianca, vuota, con l'aria tiepida di primavera che le sfiorava le punte dei piedi nudi, sporchi, gonfi e sanguinanti.
Un'Allison senza respiro che guardava l'oscurità, il vuoto infinito sotto di lei.
Un'Allison che non aveva più niente, né una casa né dei volti familiari ai quali far ritorno. 
Allison che non aveva più scelta se non quella di guardare il vuoto sotto di lei, tanto vicino da poter toccare con mano, e di lasciarsi inghiottire da essa facendo quell'ultimo breve passo...
E quando l'aria colpì il suo corpo, con furia quasi, toccò anche il mio, quando la fragranza delle margherite e degli alberi in fiore fu sostituito da quella del sangue, avvertì lo stesso ferreo profumo, e quando fu inghiottita dalla più tetra oscurità anch'io lo fui.
«Allison!», voci distorte continuavano a vagare nella mia mente mentre un sussulto nasceva in me come un grido in chi si risvegliava da un incubo. 
«Allison...», la voce mi chiamava come una ninna nanna, «Alli...» e andava pian piano scomparendo in un nuovo suono, a me sconosciuto, un nuovo nome, una nuova identità che non mi apparteneva, «Aniel», disse la voce quasi in un sussurro. 
«Bentornata a casa Aniel...», sussurrò ancora con tono pacato. 
Sentii per la prima volta gli occhi muoversi sotto le palpebre, in un movimento confuso e disperato. 
Riuscii a muovere le dita dei piedi, piano, e poi anche le mani, con leggeri ticchettii dei polpastrelli lungo la superficie fredda sulla quale sedevo.
Fu più facile per me anche aprire la bocca e respirare, prendendo più aria possibile per riempire i polmoni, doloranti alla ricerca d'ossigeno. 
«E ora apri gli occhi Ania...», e lo feci. 
Per la prima volta da quando l'oscurità mi aveva inghiottita nel suo abbraccio, aprii gli occhi. 
E la luce mi tolse il respiro, come aveva fatto la prima volta anche il buio, fin quando poi non vidi lui, e il mio cuore smise di battere per la seconda volta...
 
Angolo autrice:
Dedica:
Dedico questa storia alla mia Engi che, anche se non posso vederla sempre, rimane nel mio cuore, qualunque cosa accada. 
Non più una amica del cuore, non più una sorella, ma molto di più <3
Sei tu il mio Angelo, il mio Angelo buono, s'intende <3 
Ti voglio bene.

Ringraziamenti:
Ringrazio la mia Ele per l'aiuto che mi ha dato col titolo *-*;
Alice per avermi sopportato per tutto il tempo con questa stramba idea;
la mia Skipper per avermi supportato con trama e banner.


Spero la storia vi sia piaciuta, fino a qui, e spero di ricevere al più presto qualche parere :)
Grazie di aver letto e...
ALLA PROSSIMA :*

-Miri


 

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Capitolo 2
*** 2. Caliel ***


 
2.
Caliel
 
 
Lui mi guardò.
Nonostante stessi guardando la stanza intorno a me, le pareti bianche e nude, la porta d’acciaio dietro di lui, i vari macchinari collegati al mio corpo, la sedia metallica sulla quale sedevo, e poi, ovviamente, lui, sentivo il suo sguardo gravare sulla mia pelle, nonostante il tocco dei suoi occhi fosse dolce, gentile, fragile quasi.
Ci misi qualche istante a focalizzare al meglio il suo volto: i capelli castani e cortissimi, la pelle abbronzata, la mascella scolpita, gli occhi così scuri che le pupille si fondevano quasi con l’iride, le labbra lisce e rosee schiuse in un sorriso luminoso.
Poteva avere, a primo impatto, qualche anno più di me, diciotto, o forse diciannove anni al massimo.
Mi studiava con gentilezza, ogni suo sguardo era una carezza dolce sulla pelle.
Indossava abiti scuri, una T-Shirt nera che metteva in risalto i muscoli delle braccia e dell’addome, un paio di pantaloni scuri ed elastici, un paio di scarpe da ginnastica.
D’un tratto si alzò dal piccolo sgabello su cui era stato seduto tutto il tempo, a meno di una decina di metri da me, ed io mi ritrassi sulla piccola sediolina metallica, stringendo i braccioli con le dita, sentendo la paura, pari all’adrenalina, concentrarsi sulle gambe, pronta a fuggire anche al minimo movimento sospetto.
«Ehi…», sussurrò piano facendo un primo passo verso di me, poi un altro e un altro ancora.
Aprii la bocca per parlare ma, appena tentai di pronunciare la prima parola, sentii la gola bruciare, come se avessi mangiato sabbia per tutta la vita, e le parole mi morirono sulle labbra mentre, spaventata, abbassavo lo sguardo verso la mia mano che, con un gesto quasi involontario, si era avvinghiata alla gola.
«Va tutto bene», sussurrò lui con voce flebile, facendo un nuovo passo, «E’ l’effetto del Sonno, svanirà presto.», e con un movimento fluido mi raggiunse, facendomi sussultare rumorosamente, tirando indietro la testa, quando il suo viso si fece così vicino al mio che quasi riuscii a sentire il profumo della sua pelle, un intenso mix di margherite e polvere, di qualcosa che, col tempo, non era invecchiato ma migliorato.
Allora anche lui si tirò indietro, il suo sguardo, dapprima dolce, divenne un velo di assoluto gelo.
«Sta facendo resistenza?», mi chiesi perché la sua domanda somigliasse tanto a un’affermazione, ma non glielo domandai.
Lo guardai, sgranando gli occhi e diventando piccola-piccola nella sedia, guardandolo farsi sempre più vicino con quello che, prima di divenire un ringhio quasi furioso, era un sorriso.
«Qual è il tuo nome?», chiese guardandomi serio.
«Cosa?», non riuscii a nascondere un sorriso distorto dalla paura.
«Qual. E’. Il. Tuo. Nome.», scandì ogni parola con una decisione tale da farmi venire i brividi.
Perché era tanto importante per lui sapere qual era il mio nome?
«A…», e se avessi detto la verità? Che cosa sarebbe successo se avessi pronunciato il nome “Allison” che non sentivo più quasi parte di me ma che, comunque, era l’unica cosa che mi teneva ancora legata alla mia vecchia vita?
E poi capii: Aniel. Bentornata a casa Aniel. E ora apri gli occhi…
«Aniel», il mio fu un lieve sussurro, quasi strozzato, e mi vergognai quasi di averlo pronunciato.
«Ripetilo.», si voltò a guardarmi e mi sentii quasi persa nella profonda oscurità che contenevano le sue iridi, «Guardami negli occhi e dimmi che sei davvero la mia Ania.», nella sua voce corsi una lieve speranza che dicessi di sì, che mentissi.
Lo guardai, presi un profondo respiro, battei le ciglia, un altro respiro ancora e tacqui per qualche attimo, poi le mie labbra si mossero, quasi involontariamente, per puro istinto di sopravvivenza.
«Aniel.», dissi e, nel farlo, mi sentii la persona più crudele del mondo, «Mi chiamo Aniel.», e non distolsi lo sguardo fin quando non fu lui il primo a farlo.
«Allora qual è il mio nome?», chiese ancora, tornando a guardarmi con occhi pieni di speranza.
Non conoscevo Aniel, e non conoscevo lui, ma il modo in cui parlava, il modo in cui tentava di estrapolarmi ogni risposta, il modo in cui i suoi occhi cercavano i miei, celando un velo di disperazione, mi parlava già del tipo di rapporto che avevano.
Non sapevo chi fosse Aniel ma era chiaro quanto lui ci tenesse a lei.
Per un solo momento ogni centimetro del mio corpo fu invaso da brividi, dal puro terrore di quello che mi sarebbe successo da ora in avanti.
Avevo mentito sulla mia identità, avevo cambiato il mio nome solo per rendermi salva la vita, ma come sarei potuta sopravvivere anche a questo?
Ero riuscita a mentire ma questa farsa sarebbe durata meno di quanto credevo.
Il ragazzo mi guardò, gli occhi scuri pieni di speranza, sembravano quasi gridare: «Avanti! Dì quel nome!», dandomi quasi la risposta con quel suo sguardo, un suggerimento che non riuscivo a cogliere e che mi sarebbe costato la vita.
Mentalmente ripercorsi il mio lungo sonno, le mie oscurità, l’odore di margherite e dell’erba del prato appena tagliata, nel salto, nelle voci, alla ricerca di un nome che non fosse delle mie tante identità, delle tante bugie che si segnavano in modo indelebile su di me, come un tatuaggio.
E poi la porta si aprì, rivelando la figura alta e slanciata di un uomo calvo e tarchiato, all’interno di una tuta bianca e all’apparenza spaziale, come mi sarei immaginata di vedere un astronauta, o un dottore alle prese con qualche virus letale, come quello che aveva devastato l’Europa del Nord durante la Grande Guerra.
«Caliel!», esclamò rivelandomi così la speranza celata dietro gli occhi scuri del ragazzo davanti a me, il quale non si era nemmeno degnato di voltarsi verso di lui, «Il Capo ti sta cercando, è ora di andare.», ma nonostante ciò Caliel non staccò nemmeno per un istante il suo sguardo dal mio.
«Caliel…», sussurrai piano, non seppi bene come, avevo la gola così asciutta che ogni parola sembrava vetro pronto a squarciarmi la gola, e non sapevo bene il perché, ma lo feci ugualmente.
Allora il suo sguardo si fece nuovamente dolce, come quello che mi aveva accolto nel momento del Risveglio, e le sue labbra rosee si schiusero in un respiro, come se lo trattenesse dal momento esatto in cui mi aveva chiesto di rivelargli il suo nome.
«Devo andare», disse stringendo le mani in pugno, «ma tornerò presto, davvero.» e con un gesto quasi disperato si fece avanti, portando il capo vicino al mio e baciandomi piano, sorprendendomi, dolorante, stringendo forte gli occhi mentre le sue mani sfioravano il mio viso, come per reggersi alla speranza che fossi io l’Aniel che tanto aveva aspettato.
E poi, veloce come si era avvicinato, si allontanò, guardandomi negli occhi, innocentemente, come un bambino che aveva appena detto davanti ai suoi amichetti di amare la propria mamma, così, senza vergogna alcuna.
«Resta qui…», sussurrò, ancora abbastanza vicino da offuscare il resto della stanza.
 Senza smettere di guardarmi, indietreggiò di qualche passo, fino a raggiungere il calvo, poi varcò la soglia della stanza, e per qualche attimo mi mostrò una parte del corridoio fuori-stante, e fu seguito dall’uomo che, dandomi le spalle, mi fece notare quanto sventurata fosse la mia condizione; due fori abbastanza larghi squarciavano la tuta bianca, al centro esatto della schiena, la larghezza giusta per far passare un paio di ali di certo.
Angeli, pensai subito quando la porta si chiuse dietro di loro con un tonfo, Angeli.
Aspettai qualche secondo, ascoltando le paia di passi che cadevano a terra, quasi coordinatamente, fino a scomparire nel più vasto silenzio, poi mi catapultai verso la porta di freddo metallo.
Lo sforzo, però, fece tremare le gambe che crollarono poco dopo sotto il mio peso, costringendomi a stendermi contro la porta fredda.
Mi sentivo arrabbiata, delusa.
Come avevo potuto credere che, semplicemente dicendo un nome che non mi apparteneva, la mia vita sarebbe potuta andare nel verso giusto?
Come avevo potuto dimenticare, anche solo per un attimo, la disgrazia che aveva invaso il mio Pianeta, portandosi con sé la mia famiglia, i miei amici, la mia vita?
Dentro di me si scaturì un ringhio che divenne un gemito, che si fece poi pianto.
Un bruciore intenso esplose sulle mie labbra, facendomi tornare per un secondo in mente il bacio disperato di Caliel sulle mie labbra, lasciato come una speranza, o come una maledizione, e mi sfiorai piano la bocca con le dita, sentendola pulsare di dolore.
Un bacio etereo, protetto, benedetto.
Un bacio che mi fece sentire condannata per l’eternità.


 
Angolo autrice:
Ehilà! Spero che -essendo arrivati fino a qui giù - il capitolo vi sia piaciuto!
Spero anche di ricevere qualche vostro parere, sapete che mi fate sempre felice ogni volta che lo fate *-*
Ringraziamenti:
-Manu_Tu_52;
-Drachen;
-Fredlove
e -MockinGleek_
per le recensioni <3 Spero che anche questo capitolo possa piacervi come il primo!

 

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Capitolo 3
*** 3. Vita ***




3.
Vita.

 
 
Quella mattina mi risvegliai in un letto gelido e bianco, simile a quelli all’interno dei vecchi ospedali, dove io e altri Ribelli, durante la Grande Guerra, ci eravamo rifugiati, certi che, in ogni caso, avremmo avuto le medicine necessarie per curarci.
Battei più volte le ciglia, chiedendomi quando e com’ero arrivata in quelle lenzuola chiare, che profumavano di fresco, di aria, come se fossero stati ad asciugare al sole, come faceva mia madre prima del finimondo.
«Bentornata tra noi, Aniel…», la voce di Caliel mi riempì di due emozioni contrastanti, felicità di sentire una voce a me familiare e, al tempo stesso, terrore, sapendo che, dietro i suoi magnetici occhi scuri, si nascondeva il più terribile dei nemici.
Un Angelo.
Nessuno seppe bene come gli Angeli entrarono a far parte della nostra vita.
La violenza con cui i ricordi m’invasero mi lasciò quasi senza fiato, come un pugno in pieno petto.
Successe tutto così rapidamente che, ormai, erano diventati parte integrante delle nostre vite, senza nemmeno il tempo di accorgercene.
Era cominciato tutto con brevi attacchi a cittadine sperdute nel mondo, poche decine di vittime, tra l’Africa e l’Asia, poi la “malattia”, così la chiamava mio padre, si era sparsa in tutta Europa, in America e nel resto del mondo, fino a raggiungerci.
Prima della fine del mese eravamo già sotto assedio in una guerra impossibile da vincere.
Le prime vittime furono gli anziani, centinaia di corpi, compresi quelli dei miei nonni materni, bruciarono all’interno della Piazza Grande, a pochi isolati da casa mia, davanti alla grande statua dell’Angelo d’oro, dove, da bambina, andavo a giocare ogni giorno con i miei compagni, tra cui Beatrice Thomas, la mia migliore amica.
Lei morì poco dopo, a causa di una malattia che le fu fatale, e che la portò via da me dopo due lunghe settimane d’immenso dolore, che mi fecero apprendere a pieno quanto fosse importante, per me, la sua presenza al mio fianco.
Ma, infondo, è, ed è sempre stato, così: ci accorgiamo di quanto le cose siano importanti ad un passo dal perderle.
Quando gli Angeli scoprirono il nostro rifugio, il giorno stesso della sua morte, io e un altro gruppo di Ribelli decidemmo di andar via, di rifugiarci presso uno dei vecchi ospedali della città dove, secondo la voce di un ragazzo, i Nemici erano già passati e avevano già distrutto le tecnologie che, fino a qualche tempo prima, erano state necessarie per le richieste d’aiuto.
Non avemmo nemmeno il tempo di sotterrarla, di darle una sepoltura degna della brava persona che era.
In poche settimane gli Angeli mi avevano portato via tutto ciò che avevo sempre amato, i miei nonni, la mia migliore amica, la mia città, e si accingevano, pian piano, a portar via tutto il resto, come le scuole, le librerie, le mense per i poveri e tutto il resto.
Rimanevamo solo io, la mia famiglia, insieme a quella di Beatrice, e il resto dei Ribelli.
Pian piano, durante i mesi, ci furono portati via i bambini, creature dai primi giorni di nascita ai quattordici anni, e non sapemmo mai quale atrocità gli Angeli avessero potuto commettere contro di loro, poi iniziarono a sparire delle persone.
Una mattina, davanti all’ospedale, trovammo un uomo impiccato a un lampione fuori-stante, ancora acceso.
Era il padre di Beatrice.
Fu il primo a cedere, durante la battaglia.
Secondo sua moglie non aveva retto il dolore della perdita della sua unica e amata bambina, che non riuscisse a reggere tutto il male che ci stavano causando.
E riuscii a capirlo; per un attimo non mi ero chiesta se anch’io, come lui, non avrei retto tutto questo, se anch’io, come il padre di Beatrice, mi sarei tolta la vita, da lì in poi, senza lasciar nulla detto a nessuno, senza far sapere alle persone che amavo quanto gli volessi bene.
Mi ero chiesta se sarei morta anch’io senza nessuno al mio fianco, come lui, senza sapere se ne sarebbe valsa la pena, poi, morire così.
Eravamo umani, tutti noi dovevamo completare un circolo.
Un circolo vizioso, a quanto pare, ed era per questo che eravamo stati puniti, forse.
Eravamo umani, l’unica direzione davvero giusta da prendere, alla fine, sarebbe stata la morte.
Per raggiungere un posto migliore, forse.
Un posto dove un Lui aveva deciso di punirci tutti, dal primo all’ultimo, senza una vera spiegazione, senza un logico perché che ci tormentava ogni giorno senza fine.
I miei genitori, e il resto dei Ribelli, l’avevano chiamata la Grande Guerra, ma non riuscii mai a capire il perché: non avevamo avuto né tempo né la forza di controbattere il loro attacco e, probabilmente, anche se l’avessimo fatto, la nostra sarebbe stata ugualmente una morte certa.
Il padre di Beatrice non fu l’unico a farla finita di sua spontanea volontà: quando le portarono via suo figlio, anche la madre della mia migliore amica fu ritrovata morta, a causa di un mix letale di medicine, seguita poi da tanti altri ancora, alcuni avevano persino la mia età.
Mio padre mi fece promettere che, se l’idea mi fosse venuta in mente, così, anche per sbaglio, avrei dovuto reprimerla, pensando che, nonostante tutto, avevo ancora loro e che, durante la guerra o meno, non li avrei persi mai.
La mattina dopo avermi fatto quel discorso, i miei genitori partirono, mano nella mano.
Mi avevano dato un bacio sulla fronte, entrambi, prima di partire, pensando forse che stessi dormendo, e mi avevano detto quanto mi amavano e che avrebbero fatto di tutto pur di salvarmi.
Mia madre aveva pianto per tutto il tempo.
Il giorno dopo ancora, alla radio, un nostro soldato ci riferì che una coppia si era fatta esplodere nel centro esatto della piazza, dove molti Angeli erano rimasti accampati.
Non c’era stato alcun dubbio per me.
Erano morti.
Morti per mantenermi in vita.
L’idea mi aveva consumata nel tempo, ma non mi permisi lacrime, tanto da distruggermi, alla fine, facendomi rimanere semplicemente un mucchio di pensieri e di respiri forzati.
Il giorno in cui gli Angeli attaccarono l’edificio che era ormai il nostro rifugio, distrussero tutto, medicine, computer, scaffali pieni di attrezzatura medica.
Pochi riuscirono a scappare, solo i più veloci.
Il resto, tra cui anche me, fu affidato a un gruppo di Angeli armati che ci condussero sul tetto dell’edificio.
Il sole ci batteva sulle teste, facendo quasi male, ma nessuno provò a lamentarsi.
Sarebbe stato inutile quando uno dei loro proiettili ci sarebbe finito nel centro esatto della fronte.
Mio padre mi aveva chiesto di reprimere il pensiero della mia morte, ma sarebbe bastato poi, quando la consapevolezza di farla finita era ormai così imminente?
Me ne sarei fatta qualcosa, del loro amore, quando quei proiettili ci avrebbero trivellato le membra?
Un ricordo lontano mi aveva attraversato la mente, il pensiero di essere un Angelo, quando ero solo una bambina, un essere privo di peccato dalle candide ali dorate.
Avrei dovuto desiderare lo stesso, in quel momento?
Essere un Angelo, l’anima priva di peccato ma le mani sporche di sangue d’innocenti?
Ricordai il mio corpo spingersi in una corsa disperata, verso il cornicione, con le punte dei piedi nudi contro il nulla, il mio sguardo perso nell’oscurità.
Uno di loro mi aveva ordinato di scendere, ma non l’ascoltai.
Sarebbe cambiato qualcosa, tanto? Sarei morta ugualmente.
Ma non sarei mai stata una pedina nelle loro mani.
Suicidarsi è peccato, avevo pensato. Alla fine, però, avrebbe fatto differenza?
Che senso aveva avuto la mia vita, nonostante fosse così breve? Nessuna.
Non avevo potuto evitare che la guerra ci distruggesse, non avevo potuto evitare la morte di Beatrice, o del rapimento di suo fratello, né il suicidio di suo padre.
Non avevo potuto evitare che i miei genitori si togliessero inutilmente la vita per me.
E allora che senso aveva continuare a vivere?
Dal cornicione il vento aveva portato con sé l’odore di margherite di campo e di erba appena tagliata.
E avevo fatto un ultimo respiro.
E il mio corpo era caduto giù, trascinato dalla forza di gravità, spinto dalla mia volontà, o forse dalle mani di qualche Angelo impaziente di vedermi spiaccicata sull’asfalto.
Diventare schiavo o morire.
Ed io avevo scelto la seconda opzione.
 
Suicidarsi è peccato.
Ma vivere lo sarebbe stato ugualmente.
 
«Aniel…», la voce di Caliel mi riportò bruscamente alla realtà, mentre le mie membra erano scosse da brividi leggeri, mentre le mie lacrime venivano giù, come pesanti gocce di pioggia da un cielo grigio, «Stavi piangendo…», sussurrò a bassa voce sedendosi al mio fianco.
Mi strinse a sé ma, nonostante avvertissi verso di lui solamente disgusto, non riuscii a separarmi da quel suo abbraccio.
«Stavi sognando a occhi aperti?», chiese e lo sentii sorridere mentre il mio viso si scontrava con la sua maglietta scura, bagnandolo di lacrime.
Immagini di visi a me conosciuti, da quello di Beatrice a quello di mio padre che mi faceva promettere di vivere, scossero i miei pensieri, senza permettermi di smettere di piangere.
Vivere.
Quella parola mi pareva così astratta, in quel momento.
Che cosa voleva dire vivere quando ero rinchiusa lì dentro come una bestia feroce?
Ma loro mi credevano dalla loro parte, mi credevano Aniel e questo giocava a mio favore.
Mi permetteva di vivere, così come avevo promesso a mio padre, nonostante io stessa avessi  attentato alla mia vita pur di non diventare di loro proprietà.
«Sì», bisbigliai piano contro il tessuto della maglietta di Caliel, «Stavo sognando». 


 
Angolo autrice:
Uhhh! Davvero, come ha detto la mia amica Alice, è stato un PARTO!

Ci ho messo ore per cominciare ma alla fine eccolo qui e ne sono davvero orgogliosa *-*
Tra la canzone del film Never Let Me Go e la struggente storia di Allison, spero che il capitolo vi sia piaciuto tanto quanto a me è piaciuto scriverlo!
Spero vi vada anche di lasciarmi un vostro parere, specialmente in questo capitolo che, francamente, dall'inizio è quello che più mi piace (nonostante sia solo il terzo capitolo di questa storia che spero di continuare al più presto)!

Passiamo ai ringraziamenti:

Grazie a:
-Fredlove; MockinGleek_; Mani_Tu_52; Drachen e Sxds per le vostre recensioni!
Spero che anche questo capitolo vi piaccia :*

Alla prossima -Miri

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Capitolo 4
*** 4. Ragionevoli accordi ***


 
4.
Ragionevoli accordi.
 
 
«Quanto tempo dovrò rimanere ancora qui dentro?», chiesi a Caliel, seduto ancora al mio fianco.
La mia voce risuonò più dura e preoccupata del dovuto e me ne pentii immediatamente; ogni minimo atteggiamento sbagliato avrebbe potuto portarmi alla mia rovina per cui dovevo stare attenta, molto attenta.
L’Angelo al mio fianco sorrise e guardò un punto nella stanza, come se aspettasse che qualcun altro rispondesse a quella domanda, poi si voltò verso di me e guardò l’orologio che portava al polso, di pelle nera e dal vetro lucido.
Ogni secondo che passava, attendendo quella risposta, sembrava infinito, ogni tic-tac scandiva lentamente i battiti del mio cuore, che provavo a controllare, quasi inutilmente.
«Tra qualche minuto dovrebbe venire una dei nostri con degli abiti per te.», accennò un nuovo sorriso, diverso come non mai dal precedente.
Dietro quelle labbra lisce e rosee, che dipingevano i suoi occhi di tenerezza.
Con la mano, grande e calda, mi sfiorò la guancia, e ne seguii ogni suoi movimento con lo sguardo; le sue dita scivolarono fino alle mie labbra, poi trai capelli, mentre il suo viso si faceva così vicino al mio da lasciarmi senza fiato.
Mi avrebbe baciato di nuovo, una nuova bugia avrebbe taciuto sulle mie labbra, ma qualcuno bussò alla porta di metallo, facendolo voltare di scatto, allontanando la sua mano dal mio viso, come un bambino che veniva scoperto dal padre a far qualcosa che non doveva.
«Scusate.», una ragazzina, che dimostrava qualche anno in meno di me, si affacciò dalla porta e Caliel le fece segno di entrare, dedicandole un sorriso rassicurante, «Ho portato i vestiti per la Neo-nata.», e si fece piccola-piccola contro il portone.
Non sapevo cosa potesse sconvolgermi di più, l’assoluta bontà che Caliel aveva dimostrato, rispetto ad altri Angeli, o l’età di quella ragazzina rispetto al suo sguardo.
Era la prima volta che vedevo una ragazzina da chissà quanto ma nei suoi occhi c’era una strana saggezza, la consapevolezza, la schiavitù.
Per un attimo provai pena per lei.
Sarebbe stato quello, quindi, ciò che mi sarebbe aspettato se non fossi precipitata dal tetto di quell’ospedale?
Sarei diventata anch’io una loro schiava, pedina dei loro giochi? O forse avrebbero preferito uccidermi, assicurandosi così la perdita di un altro nemico?
«Ti lascio con i tuoi vestiti.», Caliel mi fece una carezza, guardandomi nuovamente con i suoi occhi scuri, «Ci vediamo dopo.», e mi scoccò un sonoro bacio sulla fronte.
Lo vidi allontanarsi a passo svelto dalla stanza, sorridendo senza malizia alla ragazza davanti a me, aprendo e chiudendosi poi alle spalle la pesante porta di metallo.
La ragazzina si avvicinò a me con un sorriso di cortesia misto all’obbedienza.
Chissà cosa doveva aver passato quella poverina, rinchiusa in un covo di Angeli!
«Allora…», cominciò distendendo al mio fianco alcune paia di vestiti, un paio di t-shirt nere e grigie, dei larghi pantaloni dello stesso colore, una tuta di tessuto nero lucido, «Questi sono i vestiti quotidiani.», e li indicò con la mano piccola e pallida. Distolse poi lo sguardo, «Questo invece…» e indicò, a contrasto con gli altri abiti, un lungo vestito da sera nero, con un voluminoso spacco all’altezza della gamba destra, «Beh, questo sarà per la serata di domani.», e lo guardò con ammirazione, come se fosse il primo abito che avesse mai visto.
Dovevo ammettere, a mio malgrado, che era davvero meraviglioso; il tessuto era liscio al tatto, e lasciava una strana sensazione sulla pelle, il color nero non appesantiva la leggerezza dell’abito, anzi, lo rendeva elegante e morbido mentre la scollatura accentuata e lo spacco lo rendevano malizioso e meravigliosamente intrigante.
Non avevo mai indossato, in tutta la mia vita, un abito del genere.
«Che cosa ci sarà domani?», chiesi, curiosa, osservandola mentre sfiorava il tessuto dell’abito con tenera accuratezza, come se un tocco sbagliato avesse potuto rovinarlo per sempre.
«Domani sera ci sarà una festa in vostro onore, signorina Aniel», il sentirla chiamarmi signorina mi fece accapponare la pelle, e per un attimo l’idea che mi avesse chiamato in quel modo perché credeva, o meglio temeva, di aver davanti a sé un Angelo, come quello che probabilmente l’aveva divisa dalla sua famiglia, mi fece venir voglia di vomitare.
«Ogni Neo-nato ne ha una qualche giorno dopo il suo Risveglio, una sorta di ritorno in società.», si lascio sfuggire un timido sorriso pieno di tristezza e fu come leggerle nel pensiero per me.
Lei non avrebbe mai avuto un “ritorno in società”.
Non c’era nessuna società a cui tornare.
«Qual è il tuo nome?», chiesi sottovoce, ma ero certa che mi avesse sentito ugualmente.
«A-Annie, signorina. Mi chiamo Annie.», e mi lanciò una tiepida occhiata, per un tempo così breve che riuscii a malapena a capire il colore dei suoi occhi.
Per un tempo che parve un’eternità, mi chiesi se anch’io, se fossi diventata una schiava, avrei avuto il coraggio di alzare gli occhi verso il mio “padrone”, di chiamarlo “signore” nonostante mi avesse tolto tutto ciò che amavo.
«Annie…», ripetei piano e lei mi guardò, uno sguardo talmente terrorizzato da farmi rimanere immobile, facendomi provare solo pena per lei, all’apparenza una ragazzina così gracile, con i suoi lunghi capelli biondi che le nascondevano il viso a cuoricino, la pelle bianca e le mani tremanti, «Posso chiederti un favore?», le chiesi in un bisbiglio e, facendo come Caliel, le dedicai un sorriso cordiale, senza alcuna malizia, o la perversione di un Angelo crudele.
Annie mi guardò e non rispose, pensando forse alla risposta migliore da dare.
Così piccola e così intelligente.
Sapeva che un “no” sarebbe potuto divenire la sua morte, e che un “sì” avrebbe potuto portarla a un destino persino peggiore della morte, e alla fine rispose «Sì», un sussurro flebile come il canto del vento tra l’erba appena tagliata.
«Potresti rispondere ad alcune domande per me?», lei annuì ancora.
«Dove sono?», chiesi e Annie si strinse nelle spalle.
«Lo chiamo il Paradisum, unità operativa di voi Angeli da quasi tre mesi ormai.», la sua voce sembrava seria e piena di astio, che mai mi sarei immaginata da una ragazzina come lei.
«Da quanto tempo sono qui?», chiesi ancora e lei nascose il suo sguardo dietro una ciocca di capelli dorati, «quasi un anno signorina.», la sua risposta mi gelò il sangue nelle vene.
Un anno.
12 mesi, 365 giorni, 525948766 minuti, 31556926 secondi.
Era impossibile per me concepire l’idea di aver “dormito” per così tanto tempo.
«E il ragazzo…», bisbigliai timidamente, «Caliel», ottenni pian piano il suo sguardo.
Annie non mi lasciò nemmeno terminare che sorrise, capendomi al volo.
«Oh, lui è stato qui fin dal vostro arrivo, signorina.», squittì quasi.
Per un attimo non potei far a meno che sorridere, sentendomi, contemporaneamente, in colpa.
Caliel aveva aspettato per quasi un anno la sua amata ma tutto ciò che aveva trovato era me.
Ed io che, forse per un certo punto di vista, avrei dovuto sentirmi in qualche modo in debito con lui, o con quella società che mi aveva ugualmente usata come cavia sperando nell’arrivo di un nuovo alleato, fingevo per mantenere cara la vita che avevo tentato di togliermi pur di sfuggire a quel dolore che era diventato, oramai, parte integrante di me.
Quanto avrei potuto fingere con Caliel, ancora?
Fino a che punto mi sarei dovuta spingere con lui pur di non mostrargli chi, o cosa, ero in realtà?
«Devo chiederti un ultimo favore, Annie.», dissi a bassa voce, ottenendo dopo un po’ la sua attenzione.
Il suo sguardo rimase a lungo nel mio, tanto abbastanza per scorgere dell’azzurro nelle sue iridi, come due spessi anelli intorno al puntino scuro della pupilla.
«Voglio sapere di più sul corpo di questa ragazza», dissi indicandomi per qualche secondo, «Come potrei fare? Ovviamente a un prezzo ragionevole.», e notai la sua espressione diventare furba e sottile, come quella di una bambina che sapeva già di star vincendo a un gioco assai complesso.
Il suo sguardo mi fece sorridere, era così innocente, così puro, così umano.
«Ci sono degli archivi», disse sorridendomi, «ma è molto difficile arrivarci» e nel dirlo la sua espressione s’incupì.
Il silenzio invase la stanza per un lungo momento, poi Annie rizzò in piedi, con un innocente sorriso disegnato sulle labbra sottili.
«Ma sono certa di conoscere la persona che potrebbe arrivarci facilmente!», le sue iridi brillarono di luce nuova, come solo gli occhi di un bambino potevano fare.
«Appena ti vestirai dovrebbero portarti a fare un giro nel Paradisum», accennò lei, seria in viso, ma al tempo stesso divertita, era sicuramente uno dei suoi primi giochi lì dentro, «e passerete anche nella nostra ala.», pronunciò quel “nostra” quasi con durezza, un “nostra” che diceva tutto, e quel tutto poteva restringersi in una sola parola: umani.
Quindi ce n’erano altri come lei, come noi?
«Potrei portarteli allora i fogli!», e sorrise ancora.
«Perfetto.», le posi la mano e lei, dopo molto, la strinse, incerta, «Ora abbiamo un patto».
 
Lasciai che Annie uscisse dalla sua stanza, raccomandandola di non raccontare niente della nostra conversazione di fronte ad altri Angeli.
Indossai in fretta e furia una t-shirt nera e un pantalone dello stesso colore e, vagando alla ricerca di un paio di scarpe, ne trovai un paio sportivo, a pochi metri dal letto, nonostante, prima d’allora, non vi avessi mai fatto caso.
Le infilai velocemente, sentendo il materiale freddo contro la pelle nuda del piede.
Guardai la porta chiedendomi se, anche quella volta, l’avrei trovata chiusa o se, credendomi dalla loro parte, credendomi Aniel, sarei riuscita ad aprirla e ad addentrarmi nel nuovo mondo che mi aspettava.
Feci un profondo respiro e mi avvicinai al portone di metallo; con le dita ne sfiorai i contorni, sentendo il gelido materiale lanciarmi brividi, simili a scosse elettriche, lungo la schiena, lasciandomi quasi senza fiato.
La mia mano scivolò silenziosa lungo la maniglia e, sentendo il mio cuore pulsare copiosamente nel petto, come il ticchettare di un orologio, o la caduta violenta della pioggia sull’asfalto, feci pressione su di essa, sentendo i meccanismi metallici muoversi.
Con la mano libera sfiorai nuovamente la superficie gelida e la spinsi in avanti, sentendola spostarsi sotto il peso della mia mano, fino ad aprirsi del tutto.
Tirai un sospiro di sollievo e feci un primo passo avanti, e poi un secondo e un altro ancora, fino a raggiungere un largo corridoio dalle pareti bianche e nude.
Mi guardai intorno, trovandolo completamente vuoto.
Sarebbe stato un ottimo momento per fuggire ma qualcosa dentro di me mi fermava, e per un attimo il pensiero che Aniel fosse veramente dentro di me mi fece sentire come se stessi affogando.
Un suono robotico attirò la mia attenzione, costringendomi a voltarmi verso un angolo sul soffitto.
Un esserino nero grande quanto il mio dito indice mi osservava attraverso una spessa lente scura, che sembrava troppo pesante da mantenere per un oggetto tanto piccolo.
Una telecamera.
Se scappi, capiranno chi sei, disse una voce nella mia mente, la mia coscienza, ti prenderanno e ti uccideranno, ed io non potevo permetterlo, non dopo essere stata quasi un anno lì dentro, crogiolandomi nell’oscurità di quel salto che mi aveva portato lì.
Distolsi in fretta lo sguardo dalla telecamera.
E se fosse stato un test?
Se l’Angelo che fino a poco tempo prima era stato al mio fianco, sin dal mio risveglio, avesse capito tutto? Se stessero semplicemente aspettando un mio passo falso per punirmi?
Ma perché non lì? Perché non in quel momento?
Se sapevano tutto, perché aspettare?
«Caliel?», lo chiamai a gran voce, fingendomi disorientata, e guardandomi intorno alla ricerca della sua immagine, «Caliel?».
Il suono di passi mi fece rizzare ogni capello sulla nuca, sembravano così tanti da poter possedere a un esercito ma, alla fine, solo una figura, piccina in fondo al corridoio, si mosse correndo verso di me, divenendo sempre più grande fino a diventare l’immagine tanto attesa di Caliel, dai suoi capelli corti, agli occhi così scuri da non poter distinguere la pupilla dall’iride, dal suo sorriso cordiale, all’apparenza così sincero.
«Ehi!», esclamò quando mi ebbe raggiunto.
Nei suoi occhi riuscivo a leggere solo felicità.
Doveva averla amata molto, quell’Aniel, se ogni volta che il suo sguardo incontrava il mio, pensando che fosse il suo, le sue labbra si schiudevano, come boccioli di rosa al sole, in un sorriso.
Nella sua espressione, però, qualcosa non andava.
Ogni muscolo del suo corpo era contratto, come se stesse combattendo, e la sua espressione sembrava quasi stanca, nonostante tentasse di nasconderla dietro quel suo sorriso.
«È successo qualcosa?», gli chiesi notando i profondi respiri scivolare silenziosi dalle sue labbra. 
«No», disse tutto d'un fiato, «Soltanto un gruppetto di Ribelli.», e mi abbracciò piano, un saluto un po’ più appropriato che un semplice "Ehi". Nell'istante stesso in cui i suoi fianchi sfiorarono i miei, però, qualcosa attirò la mia attenzione. 
Mi liberai dall'abbraccio e strinsi, tra due dita, un pezzo del tessuto bagnato della sua t-shirt nera. 
Portai la mano davanti al viso, notando i polpastrelli tinti di un rosso sgargiante.
«Sei ferito?», la mia voce tradì un lieve tremore che non mi sarei mai aspettata e subito feci un passo indietro. 
Lo guardai in pieno viso ma Caliel non disse niente, la sua espressione parlò al suo posto.
Un conato di vomito salì al posto delle parole e per un attimo il mondo vorticò intorno a me; la mia mano, la sua maglietta, la sua coscienza, tutti macchiati dal sangue d'innocenti, della mia gente. 
Sangue che sarebbe potuto essere benissimo il mio.
«Forse dovremmo andare.», bisbigliò fiancheggiandomi.
La sua mano si strinse intorno al mio braccio e per un attimo potei giurare che il suo sguardo si fosse puntato sull'occhio vigile della telecamera...


 
Ringraziamenti:
Grazie a Drachen e a MockinGleek_ per avermi lasciato un vostro parere :)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e spero di avere qualche altro vostro parere anche qui :D

Grazie anche a tutti quelli che hanno seguito o che cominceranno a seguire Submission, la mia creaturina, sperando che anche loro, come gli altri, decideranno, prima o poi, di lasciarmi un vostro parere personale, così che possa crescere e migliorarmi :D

-Miri
 

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Capitolo 5
*** 5. L'isola dei bimbi sperduti ***


 
5.
L’isola dei bimbi sperduti
 
 
Dopo una ventina di metri, poco prima che il corridoio svoltasse a sinistra, Caliel lasciò il mio braccio e, passo dopo passo, riuscivo a vedere la sua espressione mutare ancora, come se mille emozioni contrastanti, come mille pittori differenti, disegnassero sulla sua pelle nuovi e contrastanti visi, diversi da quello con cui Caliel si era presentato a me dal primo giorno, cordiale, innamorato, fedele a una persona che forse non avrebbe rivisto mai più.
Non riuscivo a pensare ad altro, fin dal mio Risveglio che sarebbe dovuto toccare, invece, ad Aniel.
L’Aniel che Caliel aveva aspettato per un anno interno o quasi, amandola e avendo fede, attendendo di giorno in giorno che aprisse gli occhi.
E aveva trovato me.
Mi chiesi se non fosse stato un assurdo scherzo del Destino a portarmi lì, anche se avevo scoperto a mie spese che il Destino era solo una burla, che non fosse, allora, una punizione per ciò che avevo, o meglio non avevo fatto?
Perché sì, Caliel poteva essere un Angelo, un nemico, un collaboratore attivo allo sterminio della mia gente, ma, nel profondo di me, sentivo che non potevo odiarlo, non dopo avermi trattato con tanta cura, anche se pensava fossi un’altra.
«Caliel», il mio fu solo un bisbiglio ma mi sentì ugualmente; l’Angelo si voltò, i suoi occhi neri inglobarono la mia immagine, riflettendola fragile e piccola all’interno di quell’oscurità, «C’è qualcosa che non va, vero?», la mia voce tremò, come fermata da un soffio troppo forte del vento.
«Perché continui a chiedermelo Ania?», grugnì, «Forse c’è qualcosa che non dovrebbe andare?», e serrò la mascella, allontanando poi lo sguardo dal mio, lasciandomi interdetta.
«Allora? Devi dirmi qualcosa?», il suo era un ringhio furioso e per un attimo non ebbi dubbi.
Sa tutto, e quel pensiero mi logorava dentro.
Cosa sarebbe successo? Mi avrebbero trattenuta come schiava? Mi avrebbero ucciso?
Sa tutto, ma l’idea di essere stata così attenta mi fece venir voglia di andar via, di allontanarmi da lui il più possibile, ma non per scappare.
Mi sentivo ferita, umiliata e sciocca; come avevo potuto credere che sarebbe stato tanto facile?
Con un gesto rapido feci il primo passo per superarlo, e poi un altro, percorrendo al contrario la strada che ci aveva portato fin lì.
Lo sentii brontolare, e probabilmente aveva roteato gli occhi, ero già troppo lontana per notare anche quel piccolo particolare.
Un gesto così umano.
Roteare gli occhi.
Lo faceva spesso mio padre quando mia madre si metteva a schiamazzare con le sue amiche al telefono, o Chris, il fidanzato di Beatrice, quando, fingendosi arrabbiata, iniziava a nominare tutti i suoi ex fidanzati che avrebbero fatto a gara per tornare da lei.
Così umano.
Mi era quasi impossibile pensare a Caliel e non vedere, in quel sorriso o in quegli occhi così profondi, un qualche accenno di umanità, come se la persona che aveva abitato quel corpo, prima di lui, avesse lasciato delle tracce da seguire, briciole di pane al chiaro di luna, per non perdere del tutto la via.
Umano.
Chissà se sarebbe stato diverso, se la Grande Guerra non si fosse mai abbattuta su di noi.
Chissà se, anche in quel caso, la mia strada e quella di Caliel, o, meglio, del suo vecchio proprietario, si sarebbero mai incontrate, se quegli occhi neri avrebbero mai inghiottito la mia immagine, se quel suo sorriso non fosse diventato, anche solo per un attimo, il mio, o se il suo buon cuore, umano o angelico che sia, si sarebbe mai preoccupato per una come me, o se io gliel’avrei mai fatto fare come lo stavo permettendo a Caliel in quei giorni passati insieme.
Per un momento il ricordo dei giorni felici, ormai lontani dalla mia memoria, come la leggera carezza che mia madre mi regalava prima di andare a dormire, mi fece salire le lacrime agli occhi.
Giorni che non sarebbero tornati mai più, come tutto il resto.
«Aniel!», la sua voce, un grido simile a una richiesta, mi fece sussultare, portandomi a concentrarmi su quelle piccole realtà che calavano dai miei occhi come stelle incendiarie che precipitavano verso terra.
«Ania!», questa volta era più vicino.
No, no, no, con tutte le mie forze tentai di cancellare le lacrime dal viso, ma più il mio tocco le allontanava più, ogni attimo che passava, esse tornavano, più numerose di prima, uno squadrone inarrestabile, sempre più forte di prima, nonostante le cadute ogni volta più dolorose.
«Ehi…», ormai quella parola era un nostro rituale.
Non potei far altro che guardarlo, così bello, così perfetto, come se emanasse luce da quella pelle abbronzata e liscia come seta, nonostante la breve barbetta che gli incorniciava il volto.
Eppure, in quel suo sguardo incerto, vidi in lui una sorta di imperfezione, l’umanità che avevano tentato con tutte le loro forze di cancellare dalla faccia della Terra che una volta, il loro Dio, ci aveva donato, un Paradiso che noi avevamo tramutato in un Inferno.
Con un ultimo, disperato, gesto, allontanai le lacrime dal mio viso e lo guardai, seria.
Se aveva scoperto tutto per me sarebbe stata finita e non potevo permettergli di vedermi in lacrime.
«Ehi», costrinsi la mia voce a non tremare, a rimanere più risoluta possibile.
Era davvero la fine? Sarei morta?
Dopo essere sopravvissuta a un incubo senza mai fine, ai loro occhi che mi studiavano alla ricerca dell’Angelo che lui aveva tanto aspettato, dopo aver finto di essere lei, era davvero quella la fine?
Caliel si fece così vicino da far male, non ero abbastanza alta per guardarlo dritta negli occhi, il suo petto si scontrava contro il mio corpo, riuscivo a sentire il suo cuore battere quasi con furia, con un ritmo incessante, rimbombava così forte da cancellare, per qualche attimo, il mio.
«Ehi…», bisbigliò ancora una volta, sorridendo come un bambino divertito.
Solo dopo un po’ parve accorgersi delle mie lacrime, o dei segni che avevano lasciato sulle mie guance arrossate, e mi guardò attentamente, studiando ogni centimetro del mio volto, come se fosse diverso da tutte le altre volte in cui il suo sguardo aveva accarezzato il mio viso.
Aprì la bocca per dir qualcosa ma un’altra voce, molto diversa dalla sua, scavalcò quel pensiero che stava per tramutarsi in parola, dicendo: «Caliel! Amico, ti stavamo aspettando!», e ci voltammo contemporaneamente, un gesto così rapido che, per un breve secondo, i nostri corpi si scontrarono, ma nessuno lo notò, o, almeno, Caliel non lo notò.
Davanti a noi, a pochi metri di distanza, c’era un altro ragazzo, un Angelo, dai capelli biondi e corti, e dalla pelle pallida come latte.
Con qualche passo ci raggiunse e riuscii a notare delle scaglie di verde nei suoi occhi, e lunghe ciglia nere che rendevano il suo sguardo innocente ma penetrante, come una lama nella carne.
«Jedekiah», la voce di Caliel ferì altrettanto, così sottile da penetrarmi nell’anima, un brivido leggero che cosparse il mio corpo di pelle d’oca, come faceva la brina con un prato.
«E tu devi essere…», Jedekiah mi guardò e sorrise, porgendomi la mano ma non gliela strinsi.
C’era qualcosa in quel ragazzo che non mi piaceva, qualcosa che non mi permetteva di fidarmi di lui come avevo fatto con Caliel.
«Aniel», bisbigliò d’un tratto, lasciandomi di stucco.
Il mio sguardo si rivolse a Caliel, pretendendo spiegazioni, ma il suo sguardo, truce, non si allontanava dall’Angelo che aveva di fronte.
«Beh, di certo hai fatto un’ottima scelta per il suo Ospitante, Caliel!», Jedekiah si lasciò sfuggire una sonora risata ma nessuno rise con lui.
Era certo che tra i due ci fosse rancore, un astio profondo che, per quanto ne sapevo, poteva essere alimentato da secoli e secoli di odio, fin dall’inizio dei tempi.
«Michael ha chiesto di te, di là. Aspettavamo tutti voi.», la sua voce divenne improvvisamente seria, forse era finalmente ora di smettere di giocare.
«Eravamo curiosi di vedere il viso della tanto attesa nuova Aniel.», mi guardò ancora e sorrise beffardamente. Deglutii a malapena.
Non avevo mai visto tanto male in un semplice sguardo, nonostante tentasse di mascherarlo con finto umorismo, lo vedevo, era sempre lì, giaceva silenzioso, aspettava il momento giusto per riaffiorare, come un serpente aspettava il momento più adatto per avvelenare la sua preda.
«Stavamo giusto per arrivare», disse Caliel con un filo di voce, «Ma se vuoi puoi farci strada» e con un gesto della mano l’Angelo al mio fianco mostrò la via da percorrere.
Jedekiah sorrise ancora e accennò a un lieve «Certamente», e cominciò a camminare davanti a noi, senza parlare.
Il mio passo era troppo veloce, nel seguirlo, e Caliel mi frenò con una presa dolce, mettendo qualche metro di distanza tra noi e lui.
«Ma come ha fatto a…?», Caliel m’interruppe, senza guardarmi e, con l’indice, mi fece segno che avremmo parlato dopo, quando il Tour sarebbe finito.
Da lontano sentivamo grida, chi divertite chi terrorizzate, e sentii i capelli rizzarsi sulla nuca.
Jedekiah si voltò verso di noi, sorridendo crudelmente.
«Benvenuta nell’Ala Ovest del Paradisum, Aniel!», e alzò le braccia con finto entusiasmo, «L’Ala della Schiavitù!», e, quando le urla iniziarono a susseguirsi con immagini, con visi e con lacrime non ebbi più dubbi.
Umani.
 
Jedekiah ci condusse nelle viscere dell’Ala Ovest del Paradisum, dove un gruppo di Angeli, una leggera aura dorata che gli ricopriva la maggior parte delle scapole, incrementandosi specialmente sulle scapole, gli differenziava dal resto degli altri, gridava seguito dal suono del metallo pronto a spezzarsi.
Ci facemmo spazio nella folla urlante, arrivando davanti a celle di freddo acciaio che non permettevano la fuga dei piccoli prigionieri che vi si nascondevano all’interno, terrorizzati, e per un millesimo di secondo mi chiesi se quelle sbarre non fossero per mantenere noi fuori.
Piccoli occhietti mi guardavano, stracolmi di lacrime, alcuni riconoscendo il mio viso, alcuni di loro, i più giovani, probabilmente non sapevano neanche parlare.
Bambini.
Era questa l’Ala Ovest del Paradisum.
La mano sinistra di Dio rivolta ai peccatori…
 
Jedekiah si fece spazio nella folla, alzando le braccia e accogliendo tutta l’attenzione su di sé, come una vesta, una nuova pelle.
«Sbruffone», sbottò Caliel al mio fianco, cupo in volto.
Per dei lunghi minuti non ebbi occhi che per lui, nonostante intorno a noi stesse scoppiando il finimondo; aveva la mascella serrata, gli occhi puntati su Jedekiah, le labbra schiuse, il respiro irregolare, come se stesse correndo.
«Caliel», improvvisamente tutte le celle si aprirono contemporaneamente, con un tonfo secco, «Che cosa sta succedendo?», file di bambini più grandi uscirono, mano nella mano, tra cui anche la mia piccola alleata, Annie, e per un attimo il terrore che fosse stata scoperta mi fece tremare dentro.
Quelli più piccoli, terrorizzati, furono trascinati, dalle profondità delle celle, dagli Angeli più vicini, mettendoli accanto agli altri.
Guardai ancora Caliel, le mani che tremavano, confusa, sperando che nessuno si accorgesse della mia agitazione, ormai più evidente.
Aprii e chiusi piano i pugni, ritmicamente, alternandoli ogni tanto a lunghi respiri.
L’Angelo al mio fianco attese il rumore per parlare.
«Qualcuno di loro ha trasgredito alle leggi», disse a bassa voce, «Se non verrà fuori un nome qualcuno verrà ucciso», e chiuse gli occhi per un attimo.
Non potevo crederci, era inconcepibile tutto ciò.
Guardandomi attorno non vedevo più lo sguardo di ragazzi e uomini, né di Angeli che un tempo veneravamo come Protettori, ognuno di loro era un potenziale assassino.
Anche Caliel.
Anch’io.
«Ma è un’assurdità!», esclamai sentendo la rabbia tuonare in me con violenza.
«Sono le regole», la serietà della sua voce mi lasciò senza fiato.
Come poteva dire una cosa del genere? Erano solo dei bambini, che colpa ne avevano loro di tutto questo? Mi ero sbagliata? Era anche lui un mostro come tutti gli altri?
 «Sono bambini!», gridai quasi, sentendo le lacrime tornare nuovamente ai miei occhi, «Sono solo dei bambini.», ero disperata, sapevo di non poter far niente, non contro di lui, non contro le loro leggi.
Era un assassino, uno spietato assassino, così come tutti gli altri.
Eppure nella sua espressione leggevo un lieve dolore, una contraddizione a quelle sue parole, a quei comportamenti studiati, esattamente come i miei, pur di sopravvivere.
Il silenzio parve inghiottirci.
Quelli più vicini si voltarono a guardare, i più lontani aguzzarono l’udito.
Di certo non doveva essere molto comune una voce lontana da quella del gruppo, lo riuscivo a leggere negli occhi di Jedekiah, che guardavano spietatamente i miei, con un sorriso che gli storceva le labbra.
«Aniel!», mi chiamò con crudeltà nella voce, «Vuoi avere l’onore?», e solo allora notai i bambini di fianco a lui, gli occhi spalancati e colmi di lacrime alla ricerca di un qualcosa che gli avrebbe fatta salva la vita.
«Tu…», lo indicai, in un ringhio, e feci per compiere un primo passo, mentre la folla si divideva in due nuove ali, aprendomi il passaggio verso di lui.
«No», quello di Caliel fu un bisbiglio impercettibile, poi il suo corpo superò il mio, sconvolgendomi.
Jedekiah sorrise ancora, arcigno, e lo guardò per un breve secondo, poi si voltò verso i bambini.
«Portamene uno», ringhiò, riferito a un Angelo lì vicino che gli portò di fretta un bambino fin troppo piccolo, tra i quattro e i cinque anni, con gli occhi più azzurri che avessi mai visto in tutta la mia intera vita, nonostante questi fossero interamente offuscate dallo spesso velo di lacrime che li ricopriva.
«Caliel!», chiamai l’Angelo ma lui non si voltò a guadarmi, ormai giù troppo lontano dal punto in cui mi trovavo, «Caliel no!», ma la folla si stava già chiudendo intorno a noi, con una velocità esasperante, nascondendomi per qualche attimo l’immagine dell’Angelo, al fianco di Jedekiah, il bambino, troppo piccolo, completamente scomparso dalla mia visuale.
Sentivo l’agitazione montarmi dentro, cadeva sulla mia pelle sotto-forma di pelle d’oca, mentre il mio stomaco diventava piccolo quanto un chicco di riso, lasciandomi con un solo unico pensiero che rimbombava nella mia pelle a ogni battito cardiaco.
Iniziai a farmi strada, a fatica, nel gruppo di Angeli, fermi come statue aspettando che qualcosa accadesse, di punto in bianco, con il fiato sospeso mentre il resto dei bambini gridava, tentava di liberarsi dalla loro presa, nel panico più totale sapendo che, come quel bambino, anche loro avrebbero potuto percorrere lo stesso destino.
Più andavo avanti più l’immagine diventava nitida.
Jedekiah sorrideva sornione, gli occhi verdi puntati su Caliel, la mano alta reggeva una pistola di metallo scuro, puntata a pochi metri dalla testa del bambino, immobilizzato dalla paura.
«Caliel!», dividendomi dall’ultima fila di Angeli, compresi alcuni bambini, con un balzo superai gli ultimi metri a dividerci, e mi lanciai contro Caliel, distogliendo per qualche istante dal suo obiettivo.
«Che cosa stai facendo?», ringhiò, scostandomi le mie mani dalle sue spalle, guardandomi rude, come se fosse davvero arrabbiato con me.
«Che cosa sto facendo io?», gemetti quasi, inorridita, «Che cosa stai facendo tu!», e gli diedi una piccola spinta, portando le mani sul suo petto.
Caliel non ci fece del tutto caso, mi diede le spalle, come se non esistessi, e di nuovo puntò l’arma contro il bambino, che si stringeva tremante nelle spalle, chiamando invano la sua mamma.
«Non farlo Caliel, lui non ha colpa», dissi, avvicinandomi ulteriormente, «Non farlo, non sei un loro schiavo, puoi ribellarti a questo», e le mie mani sfiorarono le sue spalle larghe ed eccessivamente rigide. Sapevo che non voleva farlo, non lui, non il Caliel che mi aveva trattata come una regina negli ultimi giorni, non con quello sguardo profondo, non con quei sorrisi, non lui.
«Avanti Caliel», Jedekiah s’interpose tra noi due e per un attimo mi chiesi come si potesse odiare così tanto una persona come io stavo facendo con lui, «Fagli vedere chi comanda».
Il dito di Caliel sfiorò il proiettile, poi fece un respiro profondo.
Chiuse gli occhi.
Un colpo secco.
Il silenzio.
 
Ci furono delle grida; vidi Annie ribellarsi, muoversi con violenza, in lacrime, tra le urla, incapace di concepire che un qualcuno di così innocente fosse steso a terra, privo di vita, con i capelli disordinati contro il pavimento freddo, gli occhi più azzurri che avessi mai visto ora chiusi, senza luce. E non potei far altro che capirla, nel profondo, col cuore vuoto di battiti, le labbra prive di respiri, come se la vita avesse abbandonato anche il mio corpo, senza che me ne accorgessi, come se quel proiettile avesse colpito anche me.
Jedekiah rise, schietto, ma nessuno, nuovamente, rise con lui della sua malvagità.
Si avvicinò a Caliel, pronto a mettergli una mano sulla spalla, come per congratularsi, ma l’Angelo si voltò, e nell’aria sentii una sorta di ringhio che probabilmente proveniva proprio da lui.
E poi si girò con gli occhi bassi, le spalle ancora rigide, come poco prima dell’attacco, muovendosi con passi pesanti, fino a superarmi di nuovo.
Non lo vidi neanche respirare, probabilmente stava trattenendo l’aria dentro di sé dal momento in cui il proiettile aveva negato un futuro a quel povero bambino, un innocente steso a terra, silenzioso, che avrebbe potuto finalmente rivedere la sua mamma, che tanto aveva invocato per paura di morire, o, forse, di rimanere solo in quel nuovo viaggio.
Jedekiah parlò ancora, ma né io né Caliel parevamo ascoltarlo, mentre il mio sguardo seguiva il suo cammino, contro gli Angeli che sembravano bloccargli la via.
Non volevo parlargli, non volevo stringerlo, non volevo far nulla per lui.
Per un solo istante pensai che meritasse tutto ciò che gli stesse capitando, anche se faceva male.
E questo pensiero mi uccideva perché non era mio.
Sapevo che non era lui il Caliel che aveva colpito quel bambino, non faceva parte della sua natura, nonostante il resto della sua specie mi avesse portato via tutto, non potevo crederlo di tanta falsità, di tanta malvagità, come quella che avevo visto negli occhi di Jedekiah, pieni di soddisfazione, nel vedere quel giovane corpo cadere a terra per colpa sua.
E sapevo per certo che non avrei potuto lasciarlo andare così, adesso.
Fu come leggere, per un istante, nella sua mente, nel suo cuore.
E c’era dolore, e pentimento, e rabbia.
Emozioni che capivo benissimo.
Con le gambe molli mi spinsi in avanti, muovendomi dolorosamente, quasi, nella folla, cercando l’immagine dell’Angelo che per giorni non mi aveva lasciato altro che il suo buon cuore.
Era il momento di ricambiare il favore.
«Caliel!», gridai e lui si fermò di colpo, divenendo rigido come una statua.
Lo raggiunsi, lo fiancheggiai, ma non riuscii a dire niente se non un semplice «Ehi» e respirai forte al suo fianco, senza muovere un muscolo, senza parlare.
«Non ti avrei permesso di uccidere persone innocenti, Ania. Non ti renderò come tutti gli altri», sussurrò lui, piano, senza però guardarmi davvero.
I suoi occhi erano pieni di dolore, puntati in un punto imprecisato nella stanza.
«Lo so, Caliel, lo so», e respirai ancora, chiudendo gli occhi, sentendo la sua mano, calda, scivolare piano nella mia, e non la lasciai andare.

 
 
Angolo autrice:
Dopo che ho lavorato quasi 3 giorni su questo capitolo, finalmente eccolo qui *__*
Ne sono abbastanza soddisfatta e spero vi sia piaciuto quasi quanto è piaciuto a me scriverlo, ero emozionata anche solo a scrivere ogni lettera, parola o rigo, quindi capitemi! >_<

Ringraziamenti:

MockinGleek_ *-* come sempre grazie a questa bimba stupenda *_* ;
Drachen per esserci sempre a ogni capitolo ^_^ ;
Mani_Tu_52 per aver sempre creduto in me :) 

E grazie a TUTTI quelli che hanno letto, sostenuto, commentato, o che lo faranno in futuro, questa storia!

GRAZIE <3 (O MEGLIO <4 )

-Miri

 

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Capitolo 6
*** 6. Senza speranza ***


 
6.
Senza speranza
 
Percorremmo velocemente il corridoio, ancora mano nella mano, le dita di Caliel strette saldamente alle mie. Abbandonammo l’Ala Ovest del Paradisum, nonostante voci lontane e grida soffuse continuassero a seguirci imperterrite.
Passo dopo passo raggiungemmo i corridoi pieni di telecamere e Caliel si fermò di colpo, il suo viso era così serio da far male, non c’era nessuna traccia di sorriso, o di bontà, era un viso che non conoscevo e che mi spaventava.
Lanciò un’occhiata all’occhio di una telecamera, puntata proprio su di noi, poi l’Angelo deglutì forte, poi si voltò verso una delle porte di metallo, tutte uguali tra loro, tra cui anche la mia, più in fondo delle altre.
Sentii le sue dita muoversi contro le mie, come per allontanarle, ma non lo fece, come se avesse paura di ciò che sarebbe accaduto se l’avesse fatto.
Quel pensiero mi fece quasi ridere: Caliel era un Angelo, dopotutto, facevo fatica a pensare che potesse aver veramente paura di qualcosa.
Guardai le nostre mani, strette ancora in quell’abbraccio disperato, poi guardai lui.
«C’è qualcosa che non va?», chiesi, ma non rispose.
Passarono dei lunghi attimi di silenzio, il mio sguardo si posava convulsamente dal suo viso alle nostre mani, e poi alle telecamere che ci inquadravano.
Stavo per ripetere la domanda quando Caliel m’interruppe bruscamente con un fermo: «Questa è la mia stanza» e mi sentii in imbarazzo pensando che, forse, ciò che attendeva fosse solamente che io me ne andassi via.
«V-Va bene…», non riuscii a nascondere un leggero balbettio nella mia voce, mentre, con le guance in fiamme, cercavo disperatamente la porta della mia stanza, nonostante essa fosse sempre lì, infondo a quel corridoio, come se potesse scappare o cambiare da un momento all’altro, «Allora io…», e lasciai frettolosamente la sua mano, «Io vado».
Feci uno scatto, ritraendomi, e lui mi guardò, con i suoi occhi scuri, misteriosi, che parlavano senza dire nulla, senza proferir nessuna parola.
Nascosi un sorriso imbarazzato dietro una ciocca di capelli, caduta disordinatamente sul volto, che avvampava di un rosso, colorando le guance del colore delle rose più belle.
Gli diedi le spalle, anche se i piedi sembravano di piombo, trascinandomi pesantemente a terra, e feci un passo sentendo tutto il peso ricadere sul pavimento con la violenza di un macigno.
E feci un passo e poi un altro ancora.
Avanti, dicevo a me stessa, fa qualcosa, fa qualcosa.
«Ania!», ringraziai il cielo che Caliel mi avesse chiamato per nome, «Aspetta!» e mi raggiunse, afferrandomi per il braccio, avvolgendolo con la grande mano calda.
«Io…», mi parve di sentire un leggero tremore nella voce, «Io non voglio che tu te ne vada» e in quelle parole, scorsi molta più umanità di quanta un Angelo dovesse mantenere, dopo il Risveglio.
«Per favore», non avevo mai visto Caliel con un’espressione tanto sussurrata, «Non andare.» e per me fu impossibile smettere di guardare le sue labbra schiuse in respiri affannosi.
E dissi semplicemente: «Sì» e «Va bene» per poi raggiungere insieme, senza toccarci, la porta metallica della sua stanza.
 
«Beh, tutto qua», Caliel aveva appena finito di mostrarmi la sua stanza, dalle pareti bianche e ignote, da un singolo lettino dalle coperte fredde e lisce, con un unico cuscino al centro del materasso, all’apparenza metallico. Una cosa che mi aveva lasciata un po’ sbigottita era stato un piccolo oggetto metallico sull’angolo di una parete, con una piccola rete di ferro al di sopra di esso, che Caliel chiamò “Ricettore”, con cui ogni Angelo poteva chiamare un altro all’appello; veniva utilizzato nelle situazioni più complesse, quando si aveva bisogno di ogni Angelo per la riuscita di quella tale impresa.
«Beh, come dire è…», tentai di trovare un aggettivo in grado di descrivere la desolazione di quel luogo, freddo quanto inospitale, «particolare», aggiunsi infine, mordendomi il labbro subito dopo.
In qualche modo, però, quella stanza parve assomigliargli molto più del dovuto.
C’era freddezza dietro al suo sorriso, sempre cordiale, e c’era desolazione, l’avevo vista in quei suoi occhi neri nel momento in cui aveva sparato a quel bambino.
«No», disse Caliel a bassa voce, portando le dita tra i corti capelli e abbassando lievemente lo sguardo, «è semplicemente…», e mi guardò, inghiottendo la mia immagine in quelle sue iridi scure, «uguale a tutte le altre».
Quelle sole cinque parole mi congelarono il sangue nelle vene.
Come tutte le altre, quel pensiero mi terrorizzava, come tutte le altre, un Angelo come gli altri.
Un Angelo che avrebbe potuto uccidermi se avesse scoperto chi era davvero e cosa avevo fatto, chi avevo finto di essere a sua insaputa.
Mi costrinsi a non pensarci, a credere che avrei potuto farcela, a sopravvivere, che sarei riuscita a fuggire da quel luogo, facendomi salva la vita.
Avevo solo un’altra domanda in mente, vorticava silenziosa, scivolava sottopelle, come un brivido leggero, una sottile pelle d’oca che velava la realtà, ma non potevo aspettare che Annie mi portasse quel fascicolo, era troppo importante, e Caliel era l’unico in grado di rispondere, di classificarmi come una schiava o come chi, disperata o forse presa da un atto di coraggio, si era uccisa.
«Allora… Com’è successo?», dissi a bassa voce, senza guardarlo direttamente negli occhi.
Camminai ansiosamente per la stanza, tentando di evitare il suo sguardo.
«“Com’è successo” cosa?», mi domandò e, finalmente, ritrovai la sua voce dolce, rassicurante.
«Com’è morta lei… La… La mia Ospitante?», il mio sguardo cadde su un piccolo specchio rotondo appeso alla parete, che prima non avevo notato, e su un piccolo e insignificante cassetto al di sotto di esso, su cui era poggiato un coltellino d’argento, dalla punta allungata e affilata, che probabilmente usava per radersi il viso, o per tagliare i capelli.
Avrei potuto colpirlo con quello, nel caso avesse scoperto qualcosa; non l’avrei ucciso, questo era certo, ma l’avrei rallentato, il tempo di fuggire da quella stanza e nascondermi in un posto sicuro.
Mi avvicinai allo specchio e, dandogli le spalle, afferrai il coltello, nascondendolo tra i pantaloni e la maglietta scura, sentivo la lama fredda sfiorarmi la schiena nuda.
«La tua Ospitante?», chiese, sbigottito, alzando gli occhi neri verso di me, «Perché t’interessa?», mi si avvicinò, facendomi trasalire, e in quel momento la lama parve diventare così calda da scogliere la pelle sottostante.
«L’altra notte…», improvvisai, «Ho visto delle immagini», e abbassai lo sguardo, deglutendo silenziosamente, «e non riesco a capire cosa le è successo. Se l’hanno spinta o…», quando il mio sguardo incontrò Caliel per qualche secondo lo vidi sorridere, quasi divertito, e poi esclamò, con la voce di un bambino eccitato, «Spinta? No, no! Si è buttata lei giù, di sua spontanea volontà! E’ stato…», folle, codardo, sciocco, avrebbe potuto usare milioni di aggettivi per descrivere ciò che avevo fatto, e invece disse: «Coraggioso».
Ero rimasta immobile a guardarlo, chiedendomi come potesse credere a una cosa del genere.
«E’ stata l’unica, tra tutti, a violare davvero la legge, ad andare contro gli Angeli: alcuni sono mori, è vero, ma non combattendo. Sapevano semplicemente che sarebbe stato più facile, ma non lei; lei l’ha fatto per non diventare una pedina, un’altra schiava in questa guerra. L’ho trovato molto coraggioso; per questo l’ho scelta per te. », e si era fatto così vicino da far male.
Riuscivo a scorgere le pupille, nonostante le iridi nere, potevo vedere la breve barbetta che gli stava spuntando sul viso, o potevo vedere come la luce si rifletteva sulla sua pelle dorata.
Sembrava così semplicemente umano e non potevo far a meno di pensare a come fosse stato prima della guerra, se fosse morto da eroe o da codardo, a causa della Grande Guerra, o per qualunque altro motivo, un incidente, una malattia, una disgrazia che l’avesse portato tra le grinfie dei Nemici.
Se fossi stata davvero la sua Aniel, probabilmente, avrei potuto, avrei dovuto, saperlo.
Ma io non ero lei, stavo solo recitando una parte, ferendo con piccoli tagli, che sarebbero diventate poi ferite mortali, le persone a me vicine, compreso Caliel.
«E tu? Com’era il tuo Ospitante?», e la curiosità vinse sulla ragione, «Ho ricordi così confusi…», mi giustificai, abbassando lo sguardo.
Lo guardavo, di tanto in tanto, di soppiatto, con la coda dell’occhio, con occhiate abbastanza veloci da vedere il suo volto incupirsi, i suoi occhi farsi di nuovo freddi, vuoti.
«Se non vuoi parlarne…», stavo per dire ma Caliel m’interruppe, dicendo: «Si chiamava Scott, era il mio Protetto».
Ecco perché la cordialità, ecco perché quei sorrisi, o quel suo modo di mettere gli altri a proprio agio; era un Custode e, pensandoci bene, non avrei mai potuto affidargli altri ruolo.
«Era un ragazzo buono, onesto, gentile con tutti, persino con chi non lo meritava. Se l’umanità avesse avuto una speranza, beh, allora quella sarebbe stata Scott. Ed è per questo che decisi di salvarlo ma…», Caliel parve tremare al sol pensiero, mi si spezzava il cuore a vederlo così, e allora mi avvicinai, tentando di frenare il suo indietreggiare.
E fu allora che lo fermai per un polso, e lui mi guardò, inghiottendomi in quelle sue iridi scure.
«Voglio mostrarti una cosa, Ania…», disse senza smettere di guardarmi.
Mi pose il braccio, piegandolo nella mia direzione, e io feci lo stesso col mio, fin quando lui, con la sua mano calda, strinse un po’ più in basso del gomito, lo imitai, nonostante dovessi sforzare le dita per stringerlo.
Improvvisamente tutto divenne, davanti ai miei occhi, fin quando sottili figure si stesero su quella macchia nera e informe; una di loro era Caliel, o almeno, il suo Protetto, che correva disperato seguendo un suono che, pian piano, divenne un sussurro, poi un grido, e una supplica, infine solo un nome si stese tra le strette stradine che si stendevano nel corridoio buio: Scott.
«Qui non c’è speranza», la voce di Caliel fu seguita dal silenzio, «Non per loro, non per me», e due nuove figure comparvero dall’oscurità: una di loro era un uomo, gli occhiali scuri sul naso adunco, il sorriso sghembo che mi ricordava irrimediabilmente il verso assassino di quel bambino, Jedekiah, l’altra era una donna, un ostaggio; la mano di Jedekiah, mostruosa, fatta di artigli, come quella di una belva, o forse come quella di un Demone, «Ogni volta che provo a salvare qualcuno, ogni volta che amo qualcuno, questo viene ferito», gli artigli di Jedekiah colpirono la gola della donna, squarciandola, il suo sangue chiaro si sparse lungo tutto il pavimento, Scott gridò, gemette, corse forte, corse verso Jedekiah, i quali occhi avevano cambiato colore, fino a diventare di un azzurro intenso, metallico, quasi innaturale, lo stesso Jedekiah che, con un colpo rapido, lo spinse lontano, contro un muro di pietra, n gruppo di Angeli, comparsi dal nulla, accerchiarono il corpo del ragazzo, colpendolo, picchiandolo, fino all’ultimo respiro, «Qualcuno viene ucciso».
Poi di nuovo l’oscurità.
«Qui non c’è speranza Ania», una luce nell’oscurità, squarciandola quasi con violenza, «Qui siamo tutti dannati»…
 
Per un attimo tutto ciò che vidi fu luce pura, dapprima bianca, poi sempre più forte e scagliata, assumeva ogni variazione di azzurro, da quello del cielo a quello del mare, fino a diventare il metallico e reale azzurro delle nuove iridi di Caliel.
Prima rimasi in silenzio, a fissarle, confuse, come se davanti a me non ci fosse la stessa persona di pochi attimi prima, l’attimo dopo, invece, schiusi le labbra, per dire qualcosa, per sussultare, per gridare, ma non uscì nemmeno un fiato dalla mia bocca.
Caliel respirò a fondo, i suoi occhi nei miei, come se si stesse specchiando nelle mie pupille poi, quasi improvvisamente, si girò di colpo, ringhiò, si avviò verso lo specchio appeso alla parete e ringhiò.
«No!», e strinse le mani lungo il bordo del cassetto, la presa fu così forte che sentii il materiale piegarsi e spezzarsi sotto il tocco delle sue dita, «NO!», e lo scagliò dall’altro lato della stanza, con così tanta violenza che si ruppe contro la parete, a pochi metri da me.
Indietreggiai, terrorizzata, e guardai con occhi sbarrati ciò che aveva fatto a quel cassetto, che avrei potuto essere io, e poi guardai Caliel, i suoi occhi fissi nella sua immagine nello specchio, occhi negli occhi, come se non stesse guardando sé stesso ma un altro.
Un altro Caliel.
Un Caliel pericoloso, letale, un Caliel differente da quello premuroso e pieno d’amore che si era presentato il primo giorno, al mio Risveglio.
Un Caliel Angelo.
Con rabbia prese lo specchio, e fece per toglierlo dalla parete, inutilmente.
Lanciarlo a terra avrebbe provocato sicuramente la fine della finta tranquillità che si era istaurata.
Gli Angeli avevano ucciso gli Uomini.
Avevano preso il possesso del loro corpo ma non del loro cuore.
Caliel mi aveva mostrato il suo.
E questo lo stava distruggendo, portando alla parte peggiore di sé.
Un Angelo.
Dovevo fermare in qualche modo tutto ciò.
«Caliel!», gridai, sovrastando i suoi ringhi, «Caliel fermati!», lo raggiunsi.
Con una mano gli sfiorai il braccio e lui si voltò, le sclere bianche venate di sangue, i suoi occhi, dapprima neri e profondi, ora erano un immenso vetro azzurro e impassibile, «Caliel!», e quando tentai di fermarlo mi colpì lasciandomi cadere a terra, lo zigomo pulsante dove aveva colpito con forza disumana, ma non riuscivo a non guardarlo negli occhi, sentendo i miei riempirsi di lacrime, per il dolore e per la paura.
Erano ghiaccio, erano immorali, innaturali, inumani.
Mi rialzai lentamente, respirando piano, con respiri brevi e decisi, sentendo il cuore martellare nel petto.
Il coltello bruciava contro la mia pelle.
«Va tutto bene, ehi…», presi un profondo respiro, «Va tutto bene» e puntai i piedi a terra, nonostante il colpo mi avesse tolto, per un attimo, l’equilibrio.
Caliel mi guardò, deglutendo piano, mentre mi avvicinavo sempre di più, fino a restare a meno di un respiro da lui, riuscivo a sentire quasi il profumo della sua pelle, misto a quello della paura e del panico che lo stavano soffocando.
Riuscivo a sentire le sue mani tramare, vicino alle mie che, invece, si stavano alzando, pronte a sfiorargli il viso.
Quando le mie dita gli sfiorarono la guancia, lui tremò e abbassò lo sguardo, come disgustato.
Serrò la mascella e gemette un lieve: «Mi dispiace… Io… Non volevo colpirti… Io… Mi dispiace», la sua voce tremava e non riuscivo a togliermi dalla mente il pensiero che fosse così umana da far male.
Non riuscivo a vedere un Angelo in lui.
Non erano più gli stessi occhi di Jedekiah, prima colpire Scott, prima che morisse.
Non erano gli stessi occhi.
Caliel non era come Jedekiah.
«Shh… Va tutto bene», il mio viso era così vicino al suo che riuscivo a sentire il suo naso sfiorare quasi il mio, il mio respiro farsi nullo contro il suo, «Va tutto bene».
«No. Non va bene», la sua voce era dura, fredda, «Sono un mostro», e divenne presto un singhiozzo senza lacrime, mentre le sue mani tremavano contro di me, pronto ad allontanarmi.
«No… No», la mia parve quasi una supplica.
Con una mano gli alzai il mento, per vederlo meglio negli occhi, e non vidi crudeltà in quelle sue iridi, che andavano man mano a inscurirsi a ogni battito di ciglia.
«Sono bellissimi…», gemetti piano, come se fosse un segreto, e lui mi guardò, confuso, immobile come una statua.
Non c’era alcun male negli occhi di Caliel, nessun odio, solo rancore verso chi aveva ucciso il suo Protetto, solo rabbia verso sé stesso per non averlo salvato.
«Tu sei bellissimo», dissi con la voce che tremava, il respiro spezzato.
Ogni molecola del mio corpo mi diceva di non farlo, di allontanarmi, di andare nella mia stanza, ma io mi mossi piano, lentamente, gli presi le mani e le trascinai sui miei fianchi.
«Aniel, no», disse abbassando gli occhi.
Fece per allontanare le sue mani dal mio corpo ma lo frenai; le mie mani ricaddero sul suo viso, lo avvicinarono al mio, fino a sentire, ancora, il suo respiro fondersi col mio.
«Va tutto bene», dissi, «tutto» e lo baciai, prima piano, con delicatezza, per paura che non ricambiasse, o per timore che mi colpisse di nuovo, poi, quando ricambiò con altrettanta delicatezza, sempre con più forza, passione, quasi rabbia.
Le nostre labbra combattevano una guerra che noi soli non avremmo potuto mai affrontare.
Le nostre bocche si cercavano, si assaporavano, si mordevano, si attaccavano, si uccidevano e si amavano.
Mi strinsi alle sue spalle, le sue mani calde sui miei fianchi, ci affrontavamo senza farci male.
Fallo, disse la mia coscienza.
Quel coltello bruciava come fuoco ardente contro di me.
Fallo ora o te ne pentirai per sempre, con gli occhi chiusi allungai una mano e afferrai il coltello, segretamente, mentre il nostro bacio diventava sempre più rude.
Respirai tra i baci, mentre le sue mani si facevano sempre più forti contro i miei fianchi, stringendomi con saldezza, facendomi quasi male.
Sentivo il coltello bruciare nella mia mano, il peccato era entrato nelle mie vene e non ne sarebbe uscito mai, così vicino al suo corpo da far male.
Fallo, diceva la mia coscienza.
Non posso.
Ora o mai più, continuava, facendomi impazzire.
Non posso.
E lasciai che il coltello mi cadesse di mano, a terra; il suono dei baci era di un silenzio assordante, non diceva nulla eppure aveva oscurato il suono del metallo che colpiva il pavimento.
Fermai il bacio e Caliel mi guardò.
Entrambi non avevamo né fiato né parole da pronunciare.
I suoi occhi erano tornati color dell’ebano, inghiottivano ancora la mia immagine mentre le sue labbra, che fino a qualche attimo prima si erano confuse con le mie, prendevano forti respiri.
Sotto pelle sentivo le lacrime combattere per uscire, piene di vergogna, sulle labbra ardeva il bacio del peccato, delle bugie che, fino a quel momento, mi avevano permesso di sopravvivere.
«Ania», disse lui, guardandomi quasi preoccupato, forse aveva capito che qualcosa, in me, stava cambiando, ma non gli permisi di continuare la frase.
Lo abbracciai, lo strinsi forte a me, feci mio il suo odore, i suoi respiri che mi solleticavano la pelle.
Bugie.
Menzogne.
Salvezze che ne derivavano.
Erano tutto ciò che avevo.
Bugiarda.
Falsa.
Sopravvissuta.
Era tutto ciò che ero.
Aprii gli occhi e respirai piano, quasi di nascosto, e lanciai un’occhiata davanti a me dove l’immagine di Ania, racchiusa nello specchio, mi fissava coi miei stessi occhi, con uno sguardo che, però non era il mio.
Bugie.
Bugiarda.
Menzogne.
Falsa.
Salvezze.
Sopravvissuta.
Aniel.
Forse le somigliavo molto più di quanto volessi credere.
Forse era in me più di quanto volessi ammettere…








 
ANGOLO AUTRICE!!!
Ed eccoci qui, finalmente direi, e dopo ieri che mi avete ricoperta di regali (yep, ieri era il mio compleanno) beh, ora tocca a me direi :3
Devo ammettere che non ero fiera di questo capitolo, se fosse stato per me l'avrei ricominciato da capo, ma appena ho scritto le pagine finali, boh, forse la canzone giusta o le parole giuste, chissà, beh, mi hanno fatto cambiare idea, alla fine ed ecco qui il capitolo! 
Spero vi piaccia :)
RINGRAZIAMENTI:
Ringrazio 
MockinGleek;
Drachen e
Mani_Tu_52
per le vostre recensioni e per esserci sempre state, grazie :'3 




 
 

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