What if ...

di I Fiori del Male
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - 1 - ***
Capitolo 2: *** -2- ***
Capitolo 3: *** -3- ***
Capitolo 4: *** - 4 - ***
Capitolo 5: *** - 5 - ***
Capitolo 6: *** - 6 - ***
Capitolo 7: *** - 7 - ***
Capitolo 8: *** - 8 - ***
Capitolo 9: *** - 9 - ***
Capitolo 10: *** - 10 - ***
Capitolo 11: *** - 11 - ***
Capitolo 12: *** - 12 - ***
Capitolo 13: *** - 13 - ***
Capitolo 14: *** Avviso non preoccupante! Leggete please ***
Capitolo 15: *** - 14 - ***
Capitolo 16: *** - 15 - ***



Capitolo 1
*** - 1 - ***




Voglio ringraziare Matita Gialla, che si è offerta come Beta – Reader per questa storia, e che ha letto tutti i miei scritti, fornendomi sempre opinioni e consigli preziosi.
 May the odds be ever in her favor.
 
 
- 1 –
[Katniss POV]


 
 
- Non capisco l’utilità di questa mietitura – protesto, mentre mia madre rinuncia a cercare di farmi bella, come sarebbe solito  in questo giorno.

– Voglio dire, è chiaro che devo andare io, dopodiché la scelta è solo tra Peeta e Haymitch ...– dico mentre cerco di mantenere un tono freddo e spiccio; ma dentro di me tutto va in pezzi.

Il punto è che con la scenata che ho fatto il giorno in cui Snow ha aperto la busta della terza edizione della memoria, mi sono resa ridicola a sufficienza per anni. Non che non fosse giustificata, o meglio lo sarebbe stata, se non fosse esistito uno come Peeta, che ancora prima che io comprendessi appieno le implicazioni di quanto detto da Snow era già da Haymitch, per avvisarlo che qualora fosse stato estratto il suo nome, lui non avrebbe in alcun modo dovuto offrirsi volontario al suo posto.

Ci ho ripensato spesso, mentre ci allenavamo per affrontare al meglio questo giorno e i prossimi, neanche fossimo dei Favoriti; e non ho potuto fare  a meno, ogni volta, di sentirmi profondamente a disagio.

Voglio sperare che Haymitch capisca quanto sia importante tener fede alla promessa che mi ha fatto, anche perché ha sempre preferito Peeta a me.

Prim si avvicina timorosa, lo sguardo incollato al pavimento, e so che si sta trattenendo dal piangere.

Mi chiedo quando abbia cominciato a porsi certe restrizioni, tipiche di una come me.

– ehi ... – passo una mano tra i suoi capelli, insolitamente sciolti. Ho bisogno di parlare con lei, deve sapere che non tornerò, per quanto sia crudele.

– Vieni con me? – chiedo, e lei sa che andremo a fare una passeggiata, lontano da mia madre, che già sa cosa aspettarsi e non ha nessun bisogno di sentirselo ripetere. Annuisce.
Usciamo da casa e ci allontaniamo dal villaggio dei vincitori.

È tutto silenzioso nei dintorni, come accade sempre il giorno della mietitura.
A colorare di bianco il distretto ci sono i pacificatori, schierati ovunque.

Mi chiedo distrattamente se sia perché pensano che abbia intenzione di scappare, essendo l’unico tributo donna del dodici.

– Paperella, ascoltami. Quello che sto per dirti non è bello, ma è necessario. – le dico non riuscendo a guardarla negli occhi, e mi disprezzo per questo.

– Io ... io non tornerò. Non tornerò perché ho un debito nei confronti di Peeta, e perché è importante che lui resti vivo, perché è l’unico in grado di trascinare le folle; e se anche Haymitch mi accompagnasse nell’arena al suo posto, io non sarei in grado di ucciderlo. Lo capisci, paperella? – la voce mi trema su quell’ultima, sciocca parola che tanto significa per me.

– non posso tornare, se voglio che voi siate tutti liberi un giorno. Snow ce l’ha solo con me, e se sparire può servire perché voi viviate in pace, allora ... allora a me va bene. – concludo. Prim adesso mi guarda. Non riesco a decifrare il suo sguardo, ma l’azzurro solitamente limpido dei suoi occhi si è incupito. Mi chiedo se non stia cercando di capire davvero, anche se io non mi aspetto altro che vederla sciogliersi in lacrime.

Non è necessario che lei si imponga di essere forte, quella che deve tenere duro sono io: ho scelto questo compito proprio per non vederla spegnersi come è accaduto a me, ma sembra che alla fine la sorte non sia stata proprio a nostro favore.

- Io non voglio ... – mormora con voce rotta abbracciandomi, stringendomi in una morsa, tremando come se stesse morendo di freddo.

– Non voglio! Non voglio! Scappa, vattene via da qui! Non puoi ... non puoi andartene così ...– sussurra con voce rotta.

- No, Prim, ascolta ... sssh ... – la stringo a me nell’invano tentativo di consolarla, forte, più forte che posso.

Ma non basta, e non la biasimo quando si divincola dalla mia stretta e corre via, verso casa. Seguo il suo stesso percorso, molto lentamente, fin quando anch’io rientro in casa e trovo mia madre, sulla soglia, che mi osserva senza parlare.

Sa cosa ho fatto, deve aver visto Prim rientrare piangendo e urlando, mi aspetto che mi schiaffeggi, anche se non è proprio da lei, che mi dica che ho sbagliato, che tiri fuori qualcosa che mi faccia credere che tornerò ancora una volta. Me lo aspetto perché ne ho bisogno, e al tempo stesso so che non succederà.

Mia madre ha imparato da tempo che non può far altro che lasciarmi prendere le mie decisioni e sperare che siano il meglio che posso fare.

Credo di aver ormai superato la rabbia che provavo, ricordandomi del periodo in cui ho dovuto portare avanti la famiglia da sola, forse perché ho sperimentato anch’io quel senso di vuoto che ti attanaglia, quando pensi di poter perdere una persona cara, ma ci sono cose che non cambieranno mai, come questa.

-Posso sistemarti i capelli? – mi chiede soltanto, e capisco che quella è una necessità, che per quanto mi verrebbe naturale dirle – No, Grazie – devo lasciarglielo fare.

È il suo addio, piangerà dopo che me ne sarò andata, e la ringrazio dentro di me per questo, perché vederla piangere peggiorerebbe soltanto l’intera situazione.

In camera, mi siedo su uno sgabello e lascio che mia madre disfi la solita treccia per produrre la complicata acconciatura che mi fece il giorno dei miei primi Hunger Games. Senza parlare, sfila le ciocche una dopo l’altra, carezzandomi delicatamente la testa. Prende una spazzola e mi streccia i nodi con cura, il tutto con una delicatezza tale da scompormi dentro.

Stringo i pugni sulle cosce, contenta che io debba tenere la testa china per lasciarle piena visibilità, perché alla fine non posso fare a meno di versare qualche lacrima.
Quando ha finito mi asciugo gli occhi rapidamente, col dorso di una mano, sperando che non si noti troppo.

- Grazie – riesco a dire, e lei mi abbraccia stretta. È giunto il momento.

Non appena metto piede fuori dalla porta, vedo Peeta fare lo stesso, qualche casa più in la. Ci guardiamo senza parlare e lui mi raggiunge, per poi prendermi per mano.

Assaporo quella stretta senza riserve, perché so che potrò farlo solo poche altre volte. Haymitch esce da casa e ci osserva per un attimo, poi scuote la testa e ci segue.

Si aggiungono al corteo mia madre, Prim e Sae la Zozza. Quando usciamo dal villaggio dei vincitori, avvicinandoci al Prato, il cuore mi si spezza del tutto perché ad aspettarci c’è Gale, con Hazelle, Vick, Posy e Rory al seguito.

Stringo più forte la mano di Peeta, anziché lasciarla. Voglio che Gale sappia che non c’è futuro, che mi lasci andare.

Farà male, lo so, ma potrò spiegargli meglio più tardi, quando ci daranno un’ora per i saluti.

Come ogni anno l’intero distretto dodici assiste alla mietitura, ma sono sinceramente commossa di vedere gli adolescenti del distretto posizionarsi sotto il palco con il viso rilassato; consci che per quest’anno potranno cenare stasera con i loro genitori senza piangere l’imminente morte di un loro amico o parente.

Di nuovo, mi chiedo a cosa serva lasciare che tutti scelgano i loro abiti migliori per presentarsi davanti a un’Effie Trinket che non estrarrà mai il loro nome.

Curiosamente, mi ritrovo a chiedermi quale colore abbia scelto quest’anno.

Vorrei tenere Peeta per mano per tutta la durata della mietitura, ma non ci viene concesso.

Lui e Haymitch vanno nel gruppo dei ragazzi, io resto tra le ragazze, che mi fissano tutte, perché sanno che da quella boccia di vetro non uscirà altro che il mio nome.

Prim viene a mettersi accanto a me, e ha di nuovo lo sguardo puntato da qualche parte tra i suoi piedi. Le circondo le spalle con un braccio e non accenna un solo gesto, ma trema visibilmente. 

Punto lo sguardo sul palco, allestito come ogni anno per l’occasione, decisa a far si che le telecamere mi ritraggano senza la più vaga traccia di paura addosso, e scopro che non devo fingere.
Da qualche parte, il mio cervello deve aver registrato l’idea che non ho più una vita futura cui pensare, e a prevalere è la stessa sensazione che mi prese il giorno in cui Snow mi disse che i miei sforzi per placare la folla erano stati vani, l’idea di poter rischiare, di esser libera di mettermi totalmente in gioco, perché non c’è più nulla da fare.

Per un attimo, mi volto verso lo spazio dei ragazzi, incrociando lo sguardo di Peeta, che si trova sulla mia stessa linea. Mi sorride, e so perché lo fa: è convinto che resterò in vita, qualunque cosa accada. Non sa quanto sia lontano dalla verità, perché non ho alcuna intenzione di vivere a sue spese.
Cerco di non pensare a un possibile voltafaccia di Haymitch, che intercetta lo sguardo di Peeta, ma non si volta verso di me.

Si sente il ronzio di un microfono messo in funzione.
Mi volto di nuovo e vedo che Effie ha occupato il suo posto sul palco.

- Benvenuti, benvenuti, benvenuti! Oggi scegliamo un giovane uomo e una giovane donna, che avranno l’onore di partecipare ai settantacinquesimi Hunger Games! -.

Saltella e cinguetta come suo solito, nella sua mise dorata, volteggiando sui tacchi altissimi come se fossero un’estensione dei suoi piedi, eppure c’è qualcosa che non quadra: è la sua voce, squillante al punto giusto eppure incerta.
È il sorriso smagliante che non coinvolge gli occhi, il leggero tremore che le assale le mani quando afferra il bigliettino dalla boccia delle ragazze, dopo aver proclamato –Prima le signore!– e cerca di srotolarlo con decisione, senza successo.

È la sua voce, che fuoriesce con più fatica quando pronuncia il mio nome.

- Katniss Everdeen. –

Per un attimo, torno indietro di un anno, ed Effie indossa un tailleur verde primavera, sfoggiando una parrucca rosa confetto: sventola con grazia la mano nella boccia, sorridendo raggiante, estrae il biglietto e legge con inappropriato brio il nome di mia sorella. Quando poi tocca a me salire, mi tende la mano dicendomi – Su, coraggio  cara! – come se il mio essere restia fosse dovuto solo alla vergogna.

Ma quella Effie non mi conosceva. Questa invece, che non mi tende nessuna mano, preferendo invece osservarmi attenta mentre salgo i gradini che portano al palco, mi conosce bene, e forse, incredibilmente, si è affezionata a me e Peeta.
Forse perché noi rappresentiamo il suo primo successo in anni di Hunger Games, non so dirlo con precisione, ma sento di esser diventata qualcosa per lei.

Mi pongo alla sua destra, mentre lei annuncia la scelta del tributo maschile.

La vedo soffermarsi per un attimo a guardare Haymitch, o Peeta, o entrambi, nello stesso modo in cui ha guardato me, poi si dirige frettolosamente verso la boccia contenente i nomi dei ragazzi, ed estrae il biglietto.

Se dovesse uscire Haymitch, Peeta occuperebbe il suo posto e nessuno potrebbe impedirglielo. Se invece fosse Peeta a esser sorteggiato, sarebbe tutto nelle mani del mio Mentore. Il mio cuore sta battendo all’impazzata.

Effie srotola il biglietto con sorprendente lentezza, con lo sguardo di chi non vuole sapere cosa la aspetta: quando il minuscolo pezzetto di carta è finalmente aperto davanti ai suoi occhi, questi si spalancano dolorosamente e per un attimo Effie mi guarda.
Prende un respiro profondo, per quanto il corsetto certamente strettissimo non le consenta di prendere chissà quanto ossigeno, e ...

- Peeta Mellark –

Il tempo si ferma.

Effie guarda alternativamente me e Peeta, che invece fissa me e Haymitch, che dal canto suo è concentrato su di un punto non ben precisato davanti a se.

Tutti si scostano da Peeta, tranne Haymitch, che finalmente si decide ad alzare gli occhi su di lui.
Nel silenzio pesante della piazza, riesco a sentire, anche se a fatica, quel che si dicono.

- Fammi passare. – dice Peeta, con voce insolitamente dura.

Lui scuote la testa e sorride. Per un attimo guarda me, e nei suoi occhi vedo una sofferenza incredibile, anche se non so di preciso a cosa sia dovuta, poi il suo sguardo  torna a fissarsi su Peeta.

- Sarai un ottimo mentore. – lo sento dire, poi si volge verso Effie e grida – Mi offro volontario! – per poi avviarsi verso il palco.

Vedo Peeta stringere i pugni e imprecare, impotente di fronte alla scelta del nostro Mentore. Anzi, di quello che era il nostro mentore, perché il testimone ora è passato proprio a lui.

Io e Haymitch ci guardiamo, non appena lui raggiunge il palco, e senza che Effie lo dica ci stringiamo la mano con gli occhi fissi l’una nell’altro. Un accordo ci unisce.
Un accordo che Peeta non ci perdonerà mai, ma che sappiamo entrambi essere quello giusto.
Quello che accade dopo è caos puro. Entriamo nel palazzo di giustizia e una scorta massiccia di Pacificatori ci accompagna immediatamente all’uscita posteriore, dove ci aspettano delle macchine.
Veniamo ficcati quasi a forza dentro due auto: io e Haymitch, Effie e Peeta, e veniamo portati via. Niente saluti.

Per un attimo provo sollievo al pensiero di esser riuscita a dire a Prim quanto dovevo, ma poi mi ricordo di Gale, e lo stomaco si stringe in una morsa quasi letale. 

C’erano cose che dovevo dirgli, prima di morire. Ormai non posso che sperare che le comprenda comunque, alla fine di tutto, e che sappia perdonarmi, almeno quando sarò morta, per non aver saputo amarlo come avrebbe meritato.

Solo quando saliamo in treno, riesco a ricordarmi di avere qualcosa da dire a Haymitch.

È ora di pranzo, quindi ci dirigiamo subito nella carrozza ristorante.

L’aria è tesa come una corda di violino, fin quando Peeta, come sempre, non si decide a intavolare una conversazione qualunque; nonostante nella sua voce sia palese l’ostilità per come è andata la mietitura.
Lui ed Effie chiacchierano degli ultimi pettegolezzi di Capitol.

Per un attimo mi chiedo come faccia a sapere sempre cosa dire anche in momenti simili, poi rivolgo la mia attenzione a Haymitch, che sta adocchiando con desiderio una bottiglia di Brandy poco lontano.
Decido di distrarlo, non deve assolutamente bere, non ora che gli tocca tornare nell’arena.

- Grazie – sussurro, ma ho sbagliato il momento, perché si è creato un improvviso silenzio e Peeta ha sentito il mio ringraziamento. 

– Che cosa vuoi dire Katniss? – la sua voce ha assunto una durezza a dir poco letale per il mio cuore, abituato invece alle sue attenzioni più dolci, alle sue continue dimostrazioni d’amore nei miei confronti.

Lo guardo per un secondo senza parlare, indecisa su cosa dirgli, ma poi è Haymitch a spezzare i miei dubbi. – Katniss mi ha chiesto di offrirmi volontario, qualora tu fossi stato scelto, ma lo avrei fatto comunque, anche se non me l’avesse chiesto. –

Peeta lo guarda incredulo. – Avevamo un patto Haymitch, accidenti a te! – esclama.
– Avevamo detto che avremmo salvato Katniss, anche stavolta. Sai che non posso ... – torna a rivolgersi a me.

–Cosa ti è saltato in mente! Che cosa è saltato in mente a tutt’e due! – sbatte un pugno sul prezioso tavolo in mogano, e per un attimo mi pare così strano che Effie non sollevi alcuna protesta da dimenticare tutto il resto, ma lei ci osserva in silenzio, stropicciando il tovagliolo con le mani in un gesto di evidente nervosismo.

Il bicchiere di Haymitch spicca un salto e si rovescia, infradiciando la tovaglia.

Peeta lascia il tavolo e la carrozza, sbattendo la porta scorrevole dietro di se.
Il botto mi fa sussultare.

- Sai di avergli fatto del male, vero? – mormora Haymitch. Quando mi volto a guardarlo desidero con tutte le mie forze di poterlo bruciare vivo solo con lo sguardo.

– Lo so, ma cosa avrei dovuto fare, secondo te?  Lasciare che tornasse? Non lo volevi nemmeno tu, quindi alla fine sarebbe successo comunque. Io posso anche morire, ma lui no. È importante che viva per la causa. Io sarò più utile da morta ... –

Haymitch sbuffa, interrompendo il filo del mio discorso e facendomi innervosire ancora di più.

– E adesso cosa c’è?– sbotto, buttando la forchetta nel piatto con malagrazia, suscitando un ghigno d’indignazione di Effie.

- Niente, mi stupisce che tu alla fine abbia capito – commenta, amaro – Lui è il migliore di tutti noi. – dice.

Annuisco, perché sono perfettamente d’accordo con lui: è vero.
Di noi tre Peeta è l’unico che meriti davvero di vivere.  

– Lo so.  Per questo... – mi blocco, incerta io stessa su cosa stessi per dire.
Haymitch sorride enigmatico.

– Sì, esatto. – dice, ed io non capisco ma lui sembra proprio non volermi spiegare e so che sarebbe inutile chiedere.
 
***************
 
 
*L’autrice* Benvenuti, benvenuti, benvenuti! (cit.)  Innanzitutto, GRAZIE a tutti coloro che hanno deciso di leggere questo capitolo. GRAZIE in anticipo a chi deciderà di seguire la storia, e GRAZIE di cuore anche a chi recensirà. GRAZIE a tutti, di tutto.  Spero di soddisfare le vostre aspettative, con questo e con i prossimi capitoli, fino alla fine della storia. Le fanfiction, per me, sono molto più importanti di quanto immaginiate e lo stesso vale per voi lettori. :)
 
Possa la fortuna sempre essere a vostro favore ;)
 
Una rosa di Versailles

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Capitolo 2
*** -2- ***


-2-
[Peeta’s POV]

 
 
Perché l’hai fatto, Katniss?

Nella mia testa, solo questa domanda. Quando il presidente Snow aveva annunciato il regolamento speciale della terza edizione della memoria, tutto quello che mi era passato per la testa era stato di andare da Haymitch e mettermi d’accordo con lui, perché Katniss sopravvivesse anche a questo, contro ogni aspettativa.

Sapevo che Snow avrebbe fatto di tutto per ucciderla, ma non m’interessava. Finché avessi avuto anche la più piccola speranza di tenerla in vita, mi sarei aggrappato a essa e sarei andato avanti. E adesso, scopro che lei e Haymitch avevano un accordo, un patto per tenermi fuori, al sicuro dai giochi.

Perché?

Non so cosa pensare di tutto questo. Katniss non mi ama. Tutti quei baci nell’arena non sono stati che per il pubblico, così come quello che c’è stato durante il tour della vittoria. Eppure non c’era nessun pubblico, quando lei mi ha chiesto di restare, di non andare via; così come non c’erano telecamere a riprenderla, quando ha chiesto a Haymitch di sacrificarsi per me. Che poi in definitiva significava sacrificare se stessa: in qualche modo so che non avrebbe cuore di uccidere Haymitch, così come non ne avrei io. Non il coraggio, no, quello non le manca.

Se si trovasse in una situazione di necessità, se fosse causa di forza maggiore, lo farebbe, ma in questo caso ho il brutto presentimento che preferisca farsi uccidere da lui piuttosto che macchiarsi del suo sangue. E questo è un pensiero che non riesco a sopportare. La sua morte è un’eventualità che non posso accettare.

Lei è tutta la mia vita, sarebbe più semplice accettare di morire io stesso.

In fondo, io non mancherei a nessuno.

I miei genitori sarebbero di certo tristi, ma dopo un po’ troverebbero il modo di andare avanti.

Mio padre forse un po’ meno, ma mia madre troverebbe subito una via d’uscita, incanalando le sue energie nel lavoro, come ha sempre fatto quando qualcosa andava male. Sarebbe semplice anche per i miei fratelli. Come lo so? Non ne ho idea, semplicemente me lo sento.

Per non parlare dei miei amici, che riempirebbero il mio posto vuoto con qualcun altro. Non mi rattrista particolarmente pensarlo, è semplicemente vero, e mi aiuterebbe se rischiassi di morire, sapere di non far soffrire nessuno.

Se lei morisse invece, io morirei con lei.

Sua madre e sua sorella non saprebbero come andare avanti, e Gale non mi perdonerebbe mai di essere rimasto in vita al posto suo.

Almeno mezzo distretto ne piangerebbe la scomparsa, perché è una di quelle persone che ti restano dentro.

Proprio non si rende conto di ciò che suscita nelle persone, adesso lo so. Se lo sapesse, le risulterebbe più difficile congedarsi da questa vita, e invece è piuttosto incline a buttarla via.

Sento bussare alla porta. – Chi è? – ribatto, stancamente. Non ho voglia di stare  a sentire le consolazioni di nessuno.

- Sembri Katniss – ironizza la voce dall’altra parte. Haymitch.

Solo lui potrebbe uscirsene con dell’ironia in un momento del genere.

Se anche non riconoscessi la voce, queste battute fuori luogo sono il suo marchio di fabbrica.

E con lui la mia acidità non funziona. Mi alzo svogliatamente dal letto per aprirgli la porta, che ho chiuso a chiave.

- Questo è ciò che suscita stress in un mentore, Peeta – esordisce lui, chiudendosi la porta alle spalle. – Barcolla un po’, avvicinandosi, così capisco che ha bevuto.

 - Il tuo compito è il più ingrato di tutti, perché devi stare a guardare, accettando l’idea di poter fare poco e niente per migliorare la situazione. Nel migliore dei casi, uno dei due tributi a te assegnati muore comunque, e tocca a te scegliere quale. –

- Tu si che sai come incoraggiare le persone, Haymitch. – ironizzo io. Nonostante la situazione disastrosa, un angolo della bocca mi si solleva automaticamente.

In fondo, la verità è che non resta altro che sdrammatizzare, o morire dentro.  Essendo ora un mentore, già so di non potermi permettere la seconda scelta.

- Non ho intenzione di costringerti a scegliere, Peeta. Eri così arrabbiato, poco fa ... scommetto quel che vuoi che non hai pensato, nemmeno per un attimo, di poter approfittare della tua posizione di mentore, peraltro sicuramente capace, visto quel che sai fare con le parole. Eppure puoi farlo, salvarla intendo, anche se sarà difficile, con Snow che non sogna altro se non vederla morta. –

La sua affermazione mi mette addosso, se possibile, ancor più stanchezza. Mi sta dicendo di abbandonarlo a se stesso per salvare lei.

– Perché mi dici questo, Haymitch? Credi davvero che sarei capace di farti una cosa del genere? –

- No, non lo credo. Infatti, l’ho appena detto: so che non l’hai nemmeno pensato, ma sappi che devi tenerne conto. A un certo punto, nel gioco, dovrai scegliere su chi puntare, su chi utilizzare tutte le armi a tua disposizione, perché se ti ostinerai a dividere le tue forze su entrambi non ne salverai nemmeno uno. Faccio il mentore da venticinque anni, credo di sapere di cosa parlo. – afferma, e il suo sguardo si fissa da qualche parte sul soffitto. Mi chiedo per un attimo a cosa stia pensando.

Seduto sul letto, chino la testa e mi metto le mani tra i capelli, tirando forte. – Haymitch, non posso farlo! – sono talmente angosciato e disperato che vorrei piangere, conscio del fatto che non servirebbe comunque a nulla.

Lo sento sedersi accanto a me, frugare dentro la tasca della giacca e cavarne fuori una bottiglietta certamente piena di liquore.
 
Regna il silenzio per qualche secondo, mentre ne svita il tappo e la agita un po’, come a voler capire quanto alcol ha a disposizione; ma quando ricomincia a parlare qualcosa nella sua voce forse, mi dice che ciò che mi dirà sarà importante, segreto, e lo dovrò ascoltare.  Mi ostino a tenere la testa china, ma presto attenzione.

- Venticinque anni fa, lo sai, ho partecipato anch’io agli Hunger Games, per di più in un’edizione della memoria. Quell’anno fu deciso che ogni distretto sacrificasse il doppio dei tributi. Il mio mentore allora era un vecchio rimbambito che non riusciva a distinguere la destra dalla sinistra, imbottito di Morfamina. Tra i ragazzi che furono sorteggiati, venne fuori un'amica di Ivy*, la mia fidanzata, che quindi si offrì volontaria al suo posto. –

Non posso fare a meno di alzare lo sguardo su di lui. Mi ero sempre chiesto se Haymitch da giovane avesse mai amato qualcuno, ma non credevo di venire a saperlo così.  

- Ivy era del Giacimento, come me, perciò aveva i capelli scuri, gli occhi grigi e la carnagione olivastra, come la maggior parte delle ragazze di lì. È inutile dirti quanto possa farmi male ogni volta vedere Katniss, che le somiglia davvero molto.  E tu, tu sei come me, ironico e, modestamente, brillante, oltre che un bel ragazzo, come io ero una volta. – si ferma per tracannare un altro sorso di liquore bianco.

– Quando lei si è offerta volontaria e tu sei stato sorteggiato, per me è stato un violento ritorno al passato. Mi sembrava di vedere me stesso andare incontro al brutto destino che mi è toccato ... – un altro sorso ancora.  - ... ed io stesso ero un mentore rimbambito, che non sapeva distinguere la destra dalla sinistra, solo che era colpa di questa- e alza la bottiglietta – Invece che della Morfamina.  Poi sono venuto a sapere che eri innamorato di lei ... me l’hai detto tu, ricordi? –

Dire che ricordi è poco. Ogni dettaglio di quel giorno è impresso a fuoco nella mia mente: io e Haymitch dovevamo finire di preparare l’intervista con Caesar Flickerman, ed eravamo alla ricerca di battute da inserire tra una domanda e l’altra, per intrattenere il pubblico.
Haymitch mi disse che avevamo bisogno anche di qualcosa di scioccante da rivelare, perché potessi restare impresso nei cuori della gente, soprattutto degli sponsor.

Stavamo inventando cose a dir poco assurde, ridendo di cuore perché molte di quelle sciocchezze venivano fuori dallo stato alteratissimo di Haymitch, che si era scolato mezza sala bar; quando d’un tratto lui mi disse che Katniss con il pubblico non aveva speranze e che al massimo gli stilisti, con qualche accorgimento, avrebbero  potuto renderla semplicemente splendida; ma che non ci sarebbe stata sostanza.

Gli dissi che lei proprio non era tipo da aprirsi con le persone, e credo di averlo detto in maniera strana, perché Haymitch mi lanciò uno sguardo interrogativo.  
Io risposi a quello sguardo raccontandogli di quando avevo cinque anni e l’avevo incontrata per la prima volta, finendo poi per fargli un resoconto della mia vita, passata a inseguirla, a cercare di cogliere ogni più piccolo dettaglio che potesse lasciarmi dentro qualcosa di suo.

 Ricordo che Haymitch mi prese in giro per un bel po’, dicendomi che ero stato pazzo a innamorarmi di lei, prima che gli venisse in mente di dichiararmi all’intervista.

Quel giorno gli dissi anche che, se necessario, nell’arena mi sarei sacrificato affinché lei vivesse.  Ricordo un attimo di silenzio enigmatico, di cui non avevo mai compreso il significato, fino a oggi.

Annuisco.

– Vorrei aver avuto io la possibilità di giocare da innamorato sventurato – continua lui, svuotando man mano la bottiglietta.

– Ma i suoi genitori nemmeno sapevano che ci vedevamo, io non ero considerato un ragazzo modello come te ... frustrato dalle condizioni della mia famiglia andavo facendo casini in giro, saltavo la scuola, in generale non mi comportavo affatto bene.  In più, come ti dicevo il mio mentore era un idiota. Così lei...insomma, il punto è che non lascerò che uno di voi muoia, se avete la possibilità di restare insieme.–

- Ma è diverso. Lei non mi ama. – ribatto.

Haymitch sbuffa divertito. – Come fai a dirlo? Quand’è che ha dimostrato concretamente di non amarti? –

- Me l’ha detto! – esclamo io. – Sul treno, di ritorno dagli Hunger Games – chiarisco - Ha detto che aveva fatto tutto per le telecamere, per tenerci in vita entrambi. –

- Per tenerci in vita entrambi. – ripete lui. – Rifletti. -

Ci penso. I punti in cui gli aghi inseguitori mi hanno punto sembrano tornare a bruciare, al ricordo.

Lei mi ha buttato addosso un nido di quelle vespe infami perché il suo obiettivo era mettere fuori gioco i favoriti.  Ha smesso di curarsi di me nel momento stesso in cui le è sembrato che fossimo diventati nemici.

Eppure l’ho vista gridare il mio nome, quando Claudius Templesmith aveva annunciato il cambio di regole, consentendo la vittoria di due tributi dello stesso distretto, e l’ho vista prendersi cura di me, ripulirmi, combattendo la sua avversione per la nudità e per le ferite; aiutarmi a mangiare perché non riuscivo a tenermi seduto per via della ferita alla gamba, partecipare a un festino per ottenere la medicina necessaria a guarirmi prima che fosse troppo tardi.

E l’ho sentita stringersi a me con forza, tremando come una foglia per lo spavento, dopo avermi ritrovato ed essersi accertata che non stessi per morirle davanti, perché il cannone aveva sparato.

Anche se per una sola volta, l’ho sentita baciarmi davvero, tra tutti quei baci fasulli.

E tutto questo non può essere stato un sogno. Guardo Haymitch, cercando una risposta.

- Il problema di quella ragazzina idiota è che non sa nemmeno lei cosa pensare, Peeta. Ma certe cose, come quelle che lei ha fatto per te nell’arena, non le fai per una persona che non ti sta a cuore. Tu avresti partecipato a un festino per salvare ... che so, Cato? – sentire il nome di un tributo morto riaffiorare dalle ceneri mi mette i brividi.

Un altro viaggio mentale mi riporta sulla Cornucopia, il braccio di Cato stretto al collo, la sua voce intrisa di disperazione nell’orecchio.

Eppure la risposta è ovvia. – Probabilmente no. – conclude al mio posto, rubandomi i pensieri.  

Poi resta lì a fissarmi, lo sguardo annebbiato dall’alcol, e mi rendo conto del fatto che senza bere non sarebbe mai stato in grado di dirmi tutto questo. Scoppio a ridere e scuoto la testa. Lui sembra contrariarsi, forse ha capito perché sto ridendo.  – Io me ne vado. – dichiara, cupo.

- Grazie – gli dico, mentre lascia scorrere la porta per uscire.

Lui si ferma per un attimo, come a voler rispondere, ma non lo fa. Si chiude la porta alle spalle, lasciandomi solo con nuovi pensieri da tenere a bada.

Resto allungato sul letto, senza sapere cosa pensare, fino all’ora di cena.

Nessuno viene a cercarmi, e così non mi faccio vedere. È notte fonda, quando mi decido ad alzarmi, scoprendo di non poter prendere sonno.

Esco dalla mia stanza e vedo Haymitch vagare barcollante poco lontano, farfugliando in maniera incomprensibile, la lingua impastata.

Da lì riesco a vedere la sala relax del treno, occupata da Effie che scrive ininterrottamente su un foglio. Non mi sfugge lo sguardo che rivolge a Haymitch, di tanto in tanto. Stringe le labbra e lo osserva per qualche secondo, ed io mi sento improvvisamente fuori posto, così giro i tacchi e decido di camminare in direzione opposta, e finisco per passare davanti alla stanza di Katniss.

Mi fermo.

Penso al fatto che a separarci ci sia solo una porta. Mi chiedo se stia dormendo, ma probabilmente il sonno è l’ultimo dei suoi pensieri, e anzi starà cercando di capire come sopravvivere al terrore dei prossimi giorni. 

Ho visto Prim rientrare a casa di corsa oggi, prima della mietitura, piangendo. Deve averle detto addio. Una voragine mi si apre nel petto al pensiero che fra pochi giorni mi toccherà fare lo stesso, tirare fuori da me il meglio che posso, dirle tutto prima che accada l’inevitabile. Sfioro la maniglia con la punta delle dita. Posso aprire questa porta?

Proprio mentre sto per afferrarla, la porta si apre, mostrandomi il volto di Katniss; con gli occhi spalancati per la sorpresa di trovarmi lì.

 
 
[Angolo Autore!!!!] Ciao a tutti!!! :) Eccomi qui col secondo capitolo di questa storia! Spero che vi sia piaciuto, come sempre vi invito a farmelo sapere :D Voglio chiarire un punto, e questo punto riguarda Ivy. So bene cosa Suzanne Collins ha scritto, mi sono semplicemente discostata dalla storia originale. Il personaggio di Ivy non è stato buttato così per caso, lo incontrerete ancora, perciò ricordatevi di lei, e del significato del nome che porta, poiché l’edera è simbolo di fedeltà. Sarà importante, fidatevi ;)
Detto questo, grazie mille ancora per aver letto il capitolo, grazie se lo recensirete, grazie se deciderete di tenermi in conto per passare del tempo a leggere :)
 
May the odds be ever in your favor.

Una rosa di Versailles 

 

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Capitolo 3
*** -3- ***


- 3 -
[Katniss POV]

 
Mi stringo alle lenzuola cercando di prender sonno.

Dopo qualche minuto, so con certezza che non riuscirò ad addormentarmi: ho troppa paura di rivedere i volti di coloro che ho ucciso, e non voglio nemmeno che Rue venga a farmi visita, ricordandomi di quale spietato ingranaggio faccio parte.

Snow vuole uccidermi, questo è ovvio. Il contenuto della busta riguardante questa edizione della memoria era troppo azzeccato per essere un caso. Probabilmente l’arena di quest’anno sarà costruita su misura per me, e non oso immaginare cosa possa essersi inventato il caro presidente per mettermi al tappeto.

Magari invece sarà proprio Plutarch Heavensbee a farmi fuori con qualche sua idea geniale, fosse anche solo per assicurarsi che Snow non lo uccida come ha fatto con Seneca Crane, di cuore troppo tenero per i suoi gusti.

Se il presidente mi vuole morta è praticamente certo che non mi resta ancora molto da vivere.

Me lo dice qualcosa da qualche parte tra il suo aspetto rivoltante e il suo atteggiamento serpentesco. È un presentimento che si insinua dentro di me come quel disgustoso odore di sangue e rose che lo caratterizza.

Un brivido mi corre lungo la schiena al solo ricordo di quella fragranza, e d’un tratto mi sembra che la stanza si sia riempita di quella puzza insopportabile. Mi sento oppressa. Devo uscire.

Mi alzo di scatto, indosso la vestaglia, dato che non porto altro che la biancheria intima, e apro la porta. Sobbalzo.

Davanti a me c’è Peeta, con la mano tesa come se fosse stato sul punto di aprire la porta al mio posto.

Il braccio ritorna lungo i fianchi, abbandonato dal suo proposito. Mi guarda, e io scruto di rimando i suoi occhi azzurri senza parlare.

L’odore di sangue e rose svanisce, sostituito da quello di aneto e cannella del suo pane che non lo ha mai abbandonato, e che sento ora invadermi le narici.

- Posso entrare? – chiede. Io in risposta mi scosto per farlo passare, perché non sento più il bisogno di lasciare la mia stanza.

Anzi, vorrei dirgli di sdraiarsi affianco a me e tenermi tra le braccia perché quello è l’unico modo che ho per tenere fuori gli incubi, ma non lo faccio perché, anche se mi da fastidio ammetterlo, Haymitch ha ragione, gli ho fatto di nuovo del male.

Sembra che non riesca a fare altro, ultimamente.

Mi siedo sul letto e lui si accomoda accanto a me.

– Dove andavi? -– mi domanda.

Un lento sorriso mi invade il volto. È il suo tono di voce, che non chiede davvero dove stessi andando, ma perché. Che mi chiede se può fare qualcosa per me, come sempre.

Non gli dico dell’odore di sangue e rose, ho come la sensazione che non sia una cosa comprensibile solo con l’immaginazione. – Avevo bisogno d’aria ... – gli rispondo tenendomi sul vago, ma c’è una cosa che devo assolutamente dirgli, perché questa potrebbe essere l’ultima occasione e non voglio pentirmi di nulla, quando mi troverò faccia a faccia con la morte.

 – Mi dispiace, Peeta. – dico – Mi dispiace, ma ho dovuto fare quel patto con Haymitch perché non voglio che tu muoia, non voglio averti di nuovo nell’arena. Meriti di vivere molto più di chiunque di noi ... – sbuffa, esasperato, interrompendo il filo di un discorso che non credevo sarei stata capace di costruire.

– Katniss ma proprio non ci arrivi? – mi prende una mano, e sento il calore di quella stretta propagarsi in ogni centimetro del mio corpo –Che mi resterebbe? – eccolo, un altro riferimento al suo imperituro amore nei miei confronti.

Mi fa male, come una pugnalata, perché ho baciato Gale, so che lui è mio e io sono sua eppure non riesco a mettermi in testa di lasciare andare Peeta, specie adesso che so che Gale non lo rivedrò mai più.

Non posso lasciarlo andare perché è lui che mi rimette in piedi sempre, è il suo odore, sono i suoi occhi, è la sua pelle, il suo essere così diverso da Gale e da me, il suo essere migliore.

È il ragazzo del pane che mi salvò la vita e che me la salva ogni giorno, ogni volta che la paura minaccia di farmi perdere la ragione.

- Andresti avanti, Peeta, come farebbero tutti. – rispondo, e lui mi lascia la mano, scuro in volto, ma non faccio in tempo a dire altro che mi bacia, prima a fior di labbra, poi in profondità. 

Per un attimo penso di scostarlo ma mi rendo conto prima che non ci riesco, poi che non voglio.

Mi sembra di tornare indietro nel tempo, a quel bacio nella grotta, diverso da tutti quelli che gli avevo dato per lo spettacolo, per gli sponsor.

Gli circondo il collo con le braccia, mentre le sue mani mi scivolano lungo i fianchi, spostando la stoffa morbida e leggera della vestaglia, la cui carezza mi mette i brividi.
Mi sporgo ancora di più per avere altri baci, e finisco per crollargli addosso, sul letto.

Il nodo lento della vestaglia si apre, lasciandomi in biancheria intima. Lui mi guarda, senza parlare.

Mi attira a se e mi bacia ancora, per cancellare l’imbarazzo, facendo aderire il mio corpo ora seminudo al suo. Arrossisce leggermente, e so che anche io sono rossa in viso perché mi bruciano le guance.  

Sento il calore della sua pelle sotto la maglietta mentre mi tiene stretta a se, rotolando su se stesso, e mi sembra di perdere la ragione. Mi ritrovo sotto di lui, le mani aperte sul suo petto, alla ricerca di un modo per assorbire tutto il suo calore e farlo mio.

Incontro i suoi occhi color cielo che mi scrutano. – Non potrei mai andare avanti. – dice. – Non io, ne Prim, ne tua madre ... –

Sento il nome di Gale nell’aria, e questo mi riporta, bruscamente, alla realtà.

Spingo sul suo petto perché mi faccia alzare, e lui si scosta subito, osservandomi preoccupato.

Mi allaccio di nuovo la vestaglia. Cosa stavamo facendo? Arrossisco a quella stupida domanda che mi passa per il cervello. La domanda non è cosa, la domanda è perché. Stringo le ginocchia al petto, come a volermi tenere qualcosa di indefinibile dentro.

- Invece, se fossi io a ... insomma, tutti troverebbero un modo per superare la cosa. –

- io no!! – esclamo, senza pensare.
Perché non c’è bisogno di pensare, so per certo che se Peeta morisse io ne uscirei distrutta.
Il solo pensiero mi sconvolge. – Io non ... Peeta, se tu morissi ... – rieccolo, il blocco mentale che mi annoda la lingua.

Non succede solo quando sono consapevole di avere delle telecamere attorno, allora. Mi stringe le mani tra le sue, e non molla un secondo il mio sguardo. Qualsiasi cosa stessi per dire, vuole che la dica. Deglutisco rumorosamente.

 – Non potrei mai perdonarmi di aver lasciato che morissi, non dopo avermi salvato la vita quand’eravamo bambini, non dopo avermi aiutata nell’arena. – sospiro. L’ho detto.

La stretta di Peeta si allenta un po’, i suoi occhi mi abbandonano. – Oh. – dice soltanto.

Qualcosa passa fra di noi, interrompendo il contatto che avevamo stabilito, qualcosa di gelido.

Peeta lascia andare del tutto le mie mani, e sento improvvisamente freddo.

L’attimo passa in fretta ma quando il sorriso ricompare sul volto di Peeta non è solare come il precedente. – Grazie – dice, e so che è sincero.

Per un secondo restiamo a guardarci così, senza dire nulla. Poi lui si alza.

Mi si spezza il cuore quando soffre…

- Devo ... andare da Haymitch. L’ho visto attaccarsi di nuovo alla bottiglia, mentre venivo qui. Non è proprio il caso che si ubriachi ancora. – dice.

– Va bene – mormoro. Stanotte non resterà. Agita una mano in segno di saluto ed esce dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle facendo meno rumore possibile.

Resto a fissare quella porta chiusa per diversi minuti, pregando che ritorni, finché non riesco a convincermi del fatto che non succederà.

Mi lascio cadere sul letto, tra le lenzuola scomposte e ancora calde e ne aspiro l’odore, sanno di lui. Mi sento di nuovo in colpa, non so cosa sto facendo.

Perché bacio Peeta e poi mi pento, pensando a Gale, e malgrado questo sembra che io non possa dormire, se non ho Peeta a tenermi tra le braccia?

Ho passato diverse notti insonni anche a casa, prima che la mia mente registrasse di non trovarsi più nel bel mezzo di un’arena piena zeppa di bestie e di uomini feroci, e tutto perché ero ormai abituata a quel modo tutto particolare che aveva Peeta di tenermi stretto a se, nelle notti passate nella grotta.

Ci vuole poco perché la stanza torni a riempirsi di fantasmi, così mi alzo di nuovo e, stavolta, esco per davvero.

Mi guardo attorno, Peeta non è in giro, deve essere tornato nella sua stanza oppure dev’essere davvero con Haymitch, perché non vedo nemmeno lui, da nessuna parte.
Attraverso la carrozza e mi ritrovo nella sala relax.

Effie è seduta al tavolo, intenta a scrivere qualcosa sul suo prezioso quadernino. Probabilmente sta rivedendo il  programma dei prossimi giorni, ma non appena metto piede nella stanza alza il viso dagli appunti e mi sorride. – Ciao, Katniss, cara. Non riesci a dormire? Eppure dovresti, i prossimi giorni saranno molto importanti ... – mi raccomanda.

La sua voce squilla come una tromba nel silenzio pesante di questo treno, ma per una volta non mi da fastidio.

- Non ho sonno. – mi limito a dire. Annuisce. – Capisco. - 

Per un po’ regna il silenzio, rotto solo dal morbido frusciare delle pagine sfogliate da Effie e dallo scorrere della penna sul foglio. Guardo fuori da un finestrino, senza riuscire a scorgere altro che le luci, lontane, di altri distretti, le stelle e la luna, che stanotte è piena.

Ad un tratto il fruscio si interrompe, e sento il leggero ticchettio della penna abbandonata sul tavolo.

- Peeta come sta? – mi chiede Effie.

La guardo, e sul suo viso leggo sincera preoccupazione.

È la prima volta che, parlandomi, mi chiede qualcosa di personale. L’ultima volta che ci siamo viste,  si è congratulata con me per aver vinto gli Hunger Games, con un abbraccio delicato e svolazzanti baci sulle guance, ma facevano parte del copione che segue con tutti a Capitol City.

Questo tono di voce, e questa espressione invece, sono le stesse che usa Prim, quando mi chiede se c’è qualcosa che non va, e questo mi aiuta, forse, ad aprirmi un po’. 
– Sta ... – scuoto la testa, non posso dire che sta bene.

- Non l’ha presa un granché bene, l’hai visto. – mi limito a dire.

Non ho alcuna intenzione di raccontarle cosa stessimo per fare, nella mia stanza. E dubito che lei vorrebbe saperlo, così come dubito di saperlo per certo anch’io.

D’improvviso la porta a vetri della carrozza si apre e sbuca Haymitch, che si regge a essa in malo modo e singhiozza.

Ha i capelli appiccicati alla fronte e brandisce una bottiglia mezza vuota di liquore bianco. Mi volto verso Effie, certa di sentire i suoi soliti squittii indignati, com’è accaduto durante il mio primo viaggio in treno, quando ha fatto la sua comparsa vomitando in terra, e invece la vedo osservare Haymitch in un modo mai visto prima. Giurerei che prova compassione per lui.

Che cosa ne hanno fatto della vecchia Effie Trinket?

- Ehi, dolcezza ... – farfuglia, e penso che si stia rivolgendo a me, ma poi capisco che parla con Effie, perché agita la bottiglia verso di lei.

– Dovresti andare dal tuo collega ... parlate di qualche strategia per salvare la vita di questa qui ... – stavolta indica me – Così non dovrò sentirlo farneticare sul fatto che non devo bere! - esclama, mandando la bottiglia a fracassarsi sul muro in un eccesso di rabbia.

Sussulto e mi copro il viso con le braccia,  quando i frammenti di vetro volano da ogni parte. Sento Effie emettere un gridolino spaventato e, quando scosto le braccia, vedo che sta tremando.

- Vuoi muoverti? -  Urla, battendo una mano sul tavolo. Effie sussulta, poi si alza talmente in fretta da rovesciare la sedia e scappa, volteggiando sui tacchi vertiginosi.

Prima che si chiuda la porta alle spalle, giurerei di averla vista asciugarsi una lacrima.  

Nella stanza scende il silenzio. Haymitch è ancora appoggiato al tavolo. L’ambiente adesso puzza di alcol così tanto che faccio fatica a respirare, ogni boccata d’aria è un possibile conato di vomito. Haymitch volta lentamente la testa e mi guarda.

- Che cosa vuoi, dolcezza? Ti faccio schifo? Ti faccio vomitare? Anzi no, forse ti faccio pietà ... – sorride, ironico. Poi scuote la testa, togliendosi un ciuffo di capelli fradici dagli occhi.

- Dimenticavo che tu nemmeno sai cosa sia, la pietà ...-  dice, lamentoso. - Sei menefreghista. Non ti interessa nemmeno di Peeta! –  esclama, e quel nome mi mette i brividi. – Mi hai chiesto di andare al posto suo  perché non saresti in pace con la tua coscienza se morisse, con la scusa che a me della vita non frega più niente ...-

Si avvicina a me, e mi metto sulla difensiva. Non credo di riuscire a respingerlo del tutto, ma non ho intenzione di restarmene con le mani in mano, nel caso mi aggredisse.

- Lo sai cosa mi ha detto lui, quando Snow ha annunciato questa edizione della memoria? – Il suo viso è talmente vicino al mio che potrei contare ogni pelo della sua barba sfatta.

Volto la testa dall’altra parte, disgustata, ma lui continua a parlare, alitandomi in faccia.

- ha detto: “la mia vita non vale nulla, se lei non è con me”– mi sussurra in un orecchio, e il cuore mi si stringe in una morsa dolorosa.

Poi sento un tonfo mentre il tanfo di alcol si fa meno forte. Mi decido a voltarmi e vedo che è svenuto. Tiro un sospiro di sollievo e, quando la tensione si scioglie, scopro di tremare quanto Effie. Mi costringo a credere che siano parole del liquore e non sue, ma non ci riesco, perché sono cose che mi appartengono davvero.

Mi alzo, scavalcando Haymitch. Non credo di riuscire a portarlo nella sua stanza, almeno non da sola. Esco, con l’intento di chiamare qualche inserviente,  e mi ritrovo faccia a faccia con Effie, che mi fissa appoggiata a un muro.

– E’ svenuto. – le dico. – Credevo ci fossi abituata, ormai. Non è sempre stato così? –

Effie si rilassa visibilmente. Tira un sospiro di sollievo e vedo le spalle sciogliersi anche attraverso le grosse maniche a palloncino. Poi scuote la testa. – Assolutamente no! Per quanto non sia il massimo dell’educazione, non mi aveva mai aggredita a quel modo – precisa, piccata.

I suoi occhi sono fissi da qualche parte, seguo il suo sguardo e vedo che si tormenta le mani, lisciandosi le unghie, perfettamente smaltate, con i pollici.
 
- E’ strano, non collaborare con lui come mentore ... – aggiunge, e sembrerebbe una semplice constatazione se lei non stesse fissando un punto lontano con evidente malinconia.

Di nuovo, che ne è stato di Effie Trinket, la direttrice di mietiture? Annuisco, poi mi allontano con la scusa di dover cercare un inserviente.  

Prima di aprire la porta in fondo alla carrozza, la vedo rientrare nella stanza, in punta di piedi, come se Haymitch stesse dormendo e lei avesse paura di svegliarlo, e fissare circospetta il punto in cui so che si trova lui, a terra privo di sensi. Resta sulla porta ad osservarlo, e non riesco a decifrare il suo sguardo, ma so che è diverso da qualsiasi occhiata lei abbia mai rivolto a Haymitch in nostra presenza.

La sento sussurrare qualcosa, e anche se non riesco a cogliere le parole, la scena mi colpisce forte al petto: è come vedere di nuovo mia madre, intenta a consolare mio padre dopo una giornata di duro lavoro, e non so il perché.

So però che non mi stupirebbe affatto, in questo momento, vedere la mano di Effie lasciare una carezza sul volto sfatto di Haymitch.


 
*Angolo autrice* Alloooora ... innanzitutto, ciao a tutti :) Grazie infinite per aver letto anche questo capitolo ;) Ancora una volta, grazie  a Matita Gialla, scrittrice abilissima e beta fantastica che mi segue, mi sopporta e, devo dirlo, mi pubblicizza e fa di tutto perché questa ff venga alla luce. :) Non dimenticatevi di recensire, perché qualsiasi cosa pensiate la voglio sapere ahahahaha :)
Un bacio e al prossimo capitolooooooo :)
 
Una rosa di Versailles

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Capitolo 4
*** - 4 - ***


- 4 -
[Peeta’s POV]
 
- Bene, oggi è l’ultimo giorno di treno, stasera saremo a Capitol City. Appena arrivati, i tributi devono essere accompagnati nelle proprie stanze. Dato che si tratta del distretto dodici, avremo l’attico del centro di addestramento ... -.

- Effie - la interrompo, e so di suonare spazientito – Lo so. Ti vorrei ricordare che sono stato un tributo. – lei mi guarda, con gli occhi spalancati, come se l’avessi appena svegliata.

- Oh, scusa Peeta, è solo che con Haymitch era sempre meglio ripetere tutto ogni volta ... finiva sempre per dimenticarsi qualcosa. Devo abituarmi all’idea di avere un mentore sobrio e responsabile. – osserva, con lo sguardo puntato sul taccuino e un mezzo sorriso malinconico. Sono certo che non lo stia neanche guardando, il foglio.

- Conosco la maggior parte dei compiti di un mentore, alcuni li immagino, ma mi servirà aiuto dopo, quando avremo a che fare con gli sponsor mentre Haymitch e Katniss si alleneranno, ecco. – le dico. Non voglio sminuire il suo lavoro, Lei sorride. – Oh, non credo ti occorra il mio aiuto, Peeta. Occorrerebbe a Katniss, se fosse al tuo posto, ma tu ... tu sai parlare. – mi rassicura.

Di nuovo, torna a fissare i suoi appunti e ad aggiungere distrattamente qualche segno qua e la con la penna. Io mi giro i pollici. La situazione è notevolmente imbarazzante. Ogni volta che il nome di Haymitch affiora nella conversazione, la mia mente torna a ieri e al modo in cui lo fissava, non vista. Non ne sono sicuro, ma credo che a Effie dispiaccia più di quanto vuole ammettere, sapere che Haymitch tornerà nell’arena. Non saprei altrimenti come spiegarmi questo strano comportamento, perché io ed Effie non abbiamo mai avuto difficoltà nel trovare qualcosa di cui parlare.

- Per adesso non ho indicazioni da darti. – dice Effie all’improvviso.

Capisco.

Vuole restare sola, e questo tentativo di allontanarmi non mi stupisce né mi ferisce. Tutto attorno a noi va male, sembra sgretolarsi come argilla. È come trovarsi di fronte a una frana, con le mani aperte, nel disperato intento di fermarla con le proprie sole forze.

Mi alzo, le sorrido e ritorno verso la mia stanza. Haymitch esce all’improvviso dalla sua, e sembra avere una gran fretta. Si volta, mi vede e mi fa cenno di tornare con lui nella sala relax. Il modo in cui si muove mi dice che perlomeno stavolta è sobrio, e questo un po’ mi spaventa. Ho ormai imparato che questo accade solo quando c’è una faccenda seria di mezzo.

- Effie, ci servirebbe un video. La cinquantesima edizione. – le dice, quando torniamo indietro. Non mi sfugge il fatto che non riesce a guardarla negli occhi, e nemmeno le mani,  strette a pugno lungo i fianchi.  Lei sembra non capire per un attimo, poi realizza. Si alza di scatto, e tende un dito verso l’alto, come a voler dire – Aspettate qui. – ci supera in un lampo, lasciandosi dietro una scia di profumo e il ticchettio dei tacchi sul pavimento lucido, e si richiude la porta a vetri alle spalle. La vedo entrare nella sua stanza, appena oltre la porta.

Ne riesce dopo qualche minuto, reggendo tra le mani un disco lucente, con un buco al centro. Ci supera di nuovo senza proferire parola, avvicinandosi al televisore. Preme un bottone a lato e fuoriesce un cassettino, nel quale Effie inserisce il disco, per poi richiuderlo. Accende il televisore, spegne la luce ed esce in tutta fretta dalla stanza, mentre la mia mente si concentra su quanto sto per vedere.

Per un attimo mi volto verso Haymitch e vedo che stringe tra le mani il collo di una bottiglia di liquore. Quando l’ha presa? Non importa, è indefinibile la sensazione che quella vista mi suscita, e pur avendolo sempre saputo è la prima volta che l’idea di Haymitch che si ubriaca per combattere gli incubi mi colpisce tanto.

Parte l’inno di Panem. Vorrei tapparmi le orecchie, anzi vorrei che quelle note non mi ricordassero nulla, ma mi sforzo di non darlo a vedere, per Haymitch.  Per diversi secondi non vediamo altro che il solito sigillo, poi il video comincia con le varie mietiture. Come sempre accade, vedo i favoriti ergersi al di sopra di tutti, forti del loro allenamento, e quasi ammazzarsi a vicenda per potersi offrire volontari. Tutti gli altri distretti sono come il dodici: sconfitti, spauriti, spenti. Tra i tributi di quell’anno compaiono diversi bambini.

Dodici anni, una sola nomina e tanta, tanta paura che s’imprime sui loro visi, quando il suono del loro nome fende l’aria solida, come la lama di un coltello che sento pugnalarmi il cuore anche oggi, mentre la voce squillante di Effie pronuncia, con inappropriato entusiasmo, il mio nome.

Eppure non c’è nessuna Katniss a farsi avanti per la bimba del sette: solo il lamento angosciato, certamente proveniente dalla madre, che mi squarcia il cuore a venticinque anni di distanza. Per quanto ne so, quella donna potrebbe essere già morta, eppure so anche che il suo urlo mi resterà in mente per molto tempo ancora. Lo stesso vale per il ragazzino dell’otto: una nuvola di capelli rossicci e il volto coperto di lentiggini sotto gli occhi verdi sgranati dal terrore, magro come la maggior parte dei ragazzini dei vari distretti.

Giunge il momento del dodici. Una videocamera inquadra un sindaco di cui non so il nome, anche se so per certo che non è Undersee, intento a prendere il posto sul palco assieme ad un paio di assessori. Poi fa la sua comparsa una donna chiaramente proveniente da Capitol City. Me lo dice il suo curioso accento e l’eccesso di colori dei suoi abiti, cosi inopportuno per l’occasione. Non è Effie, ma esordisce con la stessa identica frase, che risuona nelle mie orecchie e mi brucia nelle vene come fuoco liquido.

- Felici Hunger Games e ... possa la fortuna sempre essere a vostro favore! –

Poco dopo, è già davanti alla boccia di vetro contenente i nomi delle ragazze. Estrae un biglietto e legge, con voce cristallina e briosa – Aileen Cartridge! –

Cerco questa ragazza nella folla di giovani donne, ma non ci vuole molto; visto che attorno a lei si sta creando un vuoto. La guardo. Capelli biondi e occhi azzurri, il viso fresco e riposato ora segnato dal terrore, pelle chiarissima. Non è un’abitante del giacimento. Più la osservo più penso di averla già vista da qualche parte.

- E’ la madre di Katniss –  chiarisce Haymitch dall’ombra dei suoi incubi, con un tono sepolcrale che comprendo appieno solo quando sento una vocetta delicata strillare: - Mi offro volontaria! –

Aileen si volta di scatto, mentre tra le ragazze si fa largo un’altra, questa chiaramente abitante del giacimento. Somiglia tanto a Katniss che mi sembra di rivedere quasi la nostra prima mietitura, e ho un tuffo al cuore. Deve essere Ivy. Guardo Haymitch e nel modo in cui aggredisce la bottiglia, leggo tutto quel che ho bisogno di sapere. Eppure continua a fissare lo schermo come il disperato che è, abbeverandosi dei primi piani della sua ragazza, annegando nel dolore. Sta cercando di affrontare i suoi demoni.

Ivy prende le mani di Aileen, che scuote la testa con energia. Non vuole che vada al suo posto, ma lei sorride, annuendo in risposta. Due pacificatori intervengono a separarle e scortare Ivy sul palco e Aileen crolla in mezzo alle altre ragazze. Adesso vedo a malapena la sua schiena, scossa dai singhiozzi. Preda del dolore, non si rende conto di quel che le accade attorno finché la donna capitolina sul palco non pronuncia il nome di Maysilee Donner. Allora Aileen alza di scatto la testa, gli occhi sgranati ora rivolti alla figura al suo fianco. Sembra voler dire qualcosa e quando Maysilee le mette la mano davanti alla bocca per zittirla capisco che deve aver pensato di offrirsi volontaria a sua volta. Scuote la testa. La ripresa è abbastanza vicina da permettermi di leggere il labiale.

- Tu devi continuare per la tua strada, salvare la vita della nostra gente.  Ti voglio bene. – dice Maysilee, per poi abbracciare la sua amica e dirigersi verso i pacificatori, il volto duro come il granito.  La voce di Haymitch fuoriesce ancora una volta dalle tenebre.

– Maysilee, Ivy e Aileen erano inseparabili. Si conobbero a scuola, io arrivai qualche tempo dopo. Maysilee divenne la mia migliore amica, Ivy la mia ragazza, e mi mantenni sempre in buoni rapporti con Aileen, che poco tempo dopo divenne ufficialmente il medico del distretto, prendendo in mano il mestiere di famiglia. Ivy era ... – la sua voce si spezza e qualcosa s’infrange anche dentro di me - ... fedele, sì. Fedele come l’edera * di cui portava il nome. Voleva che Aileen diventasse farmacista perché l’aveva nel sangue, e diceva sempre che non avrebbe lasciato che nessuno infrangesse quel sogno ... tenne fede alla promessa, quel giorno. - afferma, e sento nella sua voce profondo rispetto per quella ragazza. – Lo stesso fece Maysilee. – conclude.

Si chiude di nuovo nel suo universo proprio mentre la donna chiama il suo nome. Vedo un giovane Haymitch avanzare ostentando un’innaturale sicurezza, che svanisce, almeno dai suoi occhi, quando incontra lo sguardo di Ivy sul palco. Lo vedo vacillare e cadere, dentro di se, anche attraverso uno schermo. La prima di una lunga serie di cadute che non si è mai fermata.

Il filmato stacca su un giovanissimo Caesar Flickerman, che presenta assieme a Claudius Templesmith la parata dei tributi. Quest’anno i carri sono più grandi, tirati da più cavalli, poiché devono trasportare quattro persone e non due.

Mi trovo davanti Haymitch con indosso solo un paio di calzoni da lavoro e un elmetto con luce in testa, sporcato ad arte di nero sul petto, sulle braccia e sul viso. Un minatore. Il ragazzino al suo fianco è stato conciato allo stesso modo, ma se perlomeno Haymitch può vantare un fisico impostato, il ragazzino invece, magro com’è, non è che una triste immagine di sfruttamento, non dissimile dal vero aspetto dei bambini più sfortunati del distretto dodici.

Le ragazze sono vestite sullo stesso tema, solo che invece dei pantaloni indossano delle gonne rigide cortissime e delle magliette che coprono giusto il seno. M’imbarazza, mi disgusta, vederle in quello stato e quasi involontariamente finisco per distogliere lo sguardo fin quando i carri non rientrano e Caesar passa a un rapido resoconto dei giorni d’addestramento. Vedo la palestra, sempre uguale a se stessa, stracolma di tributi che cercano di imparare quanto più possibile. Haymitch sembra concentrarsi sull’utilizzo di armi e sul lancio di alcune di esse.

Maysilee presta moltissima attenzione alle lezioni di riconoscimento di piante e animali. Ivy sta quasi tutto il tempo nella postazione delle trappole. Non si parlano, non si guardano nemmeno, anche se ogni tanto mi pare di vedere Haymitch lanciare qualche sguardo in direzione di Ivy, evidentemente preoccupato.

Il filmato viene tagliato di nuovo e si passa alle interviste a ciascun tributo. Le sentiamo tutte, pazientemente, anche quelle dei favoriti, che col loro superbo modo di porsi mi fanno saltare i nervi. Ci vuole tempo, prima che si arrivi al distretto dodici.

Vengono intervistate prima le ragazze, così Maysilee è la prima ad entrare. Chiassosa, allegra, cattura il pubblico con molta facilità, dice quel che tutti si aspettano che dica senza sembrare banale. Ci sa fare, ed è anche bella, combinazione letale per gli abitanti di Capitol City. Eppure riesco a vedere la tragedia dietro la commedia, specie quando le viene chiesto della famiglia. Sa che non li rivedrà, parla di loro al passato. Forse per lei è necessario tagliare i ponti in ogni senso, così che non possa provare il desiderio di tornare indietro. Se ne va lasciando il posto a Ivy, ma ci metto un po’ a riconoscerla. Sembra più ... adulta. Dev’essere qualcosa nel modo in cui è stata truccata, nei capelli intrecciati alti sulla testa, nell’abito nero lungo, elegante. Il tutto crea una nota dissonante con l’immagine che ho di lei, col sorriso dolce che ha riservato ad Aileen prima di salire sul palco. Haymitch deve provare la stessa cosa perché, per la prima volta da quando il video è partito, distoglie lo sguardo.

- Vuoi che ... – accenno al telecomando. Voglio che smetta di farsi del male così, ma lui scuote la testa e butta giù un altro sorso di liquore, deciso ad andare avanti.

Ivy si accomoda sulla poltrona che Caesar le indica sorridendo come suo solito, e rivolge a sua volta un sorriso smagliante alla folla.  È davvero una bella ragazza e il pubblico è in delirio, gli applausi partono prima che Caesar possa aprir bocca per fare una domanda, ma poi il chiasso si placa.

- Allora Ivy ... sei splendida, complimenti! Davvero meravigliosa!  E direi che il pubblico è d’accordo! Bene, ora dimmi, come hai trovato Capitol City? – provo una leggera sensazione di stupore, perché esclama – Non dire sulla mappa! -. Caesar è sempre lo stesso.

Lei sorride, ma è un sorriso diverso da quello di poco fa, più dolce, più discreto e più vero. Vedo la vera Ivy farsi largo tra le pieghe setose dell’abito.  Non disprezza Caesar, così come non lo disprezzavo io, forse perché tolti gli accessori quel che resta di lui è un uomo in grado di parlare al cuore delle persone.

- E’ davvero grandissima, per una ragazza del distretto dodici. E luminosa, colorata ... –

- E ti piace? –

La sento esitare. A nessuno di noi tributi può piacere. Mi aspetto che dica di sì, e lo fa. Parla dei colori, degli odori e dei sapori così diversi da quelli di casa, di quello di cui parlano quasi tutti i tributi quando gli viene posta quella domanda. Solo i favoriti, più vicini a questo stile di vita, riescono a dire qualcosa di più, a sembrare felici di essere li.
Forse perché lo sono.

Caesar le pone altre domande, poi le chiede come pensa di affrontare l’esperienza degli Hunger games, come se si trattasse di una gita in compagnia di amici.

-  Quel che vedrete in me nell’arena non sarà nulla di diverso da quello che avreste visto a casa mia, nel distretto dodici. - risponde. È una risposta enigmatica per il pubblico di Capitol, così abituato a seguire mode prestabilite e ordini ben precisi da aver dimenticato quale sia il valore dell’individualità, quella vera, quella dell’anima. È una risposta sincera che, non essendo stata capita, non dovrebbe provocare alcuna conseguenza particolare. Poi penso a Snow e alla sua intelligenza, a quel suo modo inquietante di fare e di essere, a come si è presentato senza preavviso a casa di Katniss per minacciarla, e una tessera del puzzle che Haymitch sembra determinato a ricostruire per me oggi va al suo posto. Ivy morirà di sicuro, fosse anche il tributo più abile dell’intera arena.

 
Sussulto di nuovo quando Haymitch fa il suo ingresso in scena, e sento il mio mentore posare la bottiglia da qualche parte. Ha lo sguardo incollato al televisore, a quell’immagine così giovane di se stesso, il volto teso, privo di rughe, i capelli corti, gli occhi luminosi.  Non si capacita di se stesso. Mi chiedo se questa possa essere la prima volta che ha il coraggio di rivedere quelle immagini.

La sua è un’intervista quasi comica. A contatto con il pubblico, l’Haymitch di allora è com’è oggi: autoironico, sprezzante, arrogante. A salvarlo dalle ire del pubblico, tutte le volte che lo prende palesemente in giro, è la risata che conclude ogni frase come a dire – ovviamente scherzo -. Ecco, forse quella è l’unica differenza: a quel tempo si è preso la briga di salvare, almeno un po’, le apparenze, mentre oggi non si cura di filtrare per bene il discorso, quando parla con una persona, offendendola o ferendola senza ritegno, godendo della possibilità di sbatterle in faccia la verità nuda e cruda.

Né io né lui prestiamo molta attenzione all’ultimo ragazzo intervistato. È quasi un bambino, è la storia che si ripete ogni anno: gli Hunger Games non dovrebbero esistere, eppure sono stati creati e a farne le spese in un modo o nell’altro sono sempre i più deboli.

A fine intervista, parte di nuovo l’inno di Panem, e il video stacca su un’inquadratura soggettiva di un tributo all’interno del tubo che lo porterà dritto nell’arena.

Quando l’arena mi si presenta davanti, trattengo il respiro.

È un posto bellissimo. La cornucopia dorata si erge al centro di un prato fiorito. Il cielo è di un azzurro incantevole, il bosco è di mille sfumature verdi e brillanti, mentre dalla parte opposta c’è un monte con la cima innevata. Sembra un dipinto, e si sentono uccelli cinguettare dappertutto. Vedo i volti di molti tributi aprirsi nella sorpresa, ma quando la telecamera si sofferma su Haymitch, capisco che qualcosa non va. Mentre i novanta secondi scorrono, lui si guarda attorno. Annusa l’aria, probabilmente profumatissima, e osserva diffidente la montagna.

 A cinquanta secondi dall’inizio si sente un boato e la telecamera stacca immediatamente su una piattaforma ormai ricoperta di brandelli di carne. L’erba attorno è rossa, zuppa di sangue. Sento la voce di Portia raccomandarmi di non scendere dalla piattaforma prima del dovuto e scuoto la testa, cercando invano di far scivolare il disgusto e la paura fuori di me. Si vedono i tributi favoriti compiere il mio stesso gesto, increduli, abbozzando un crudele sorrisetto, ed altri ormai ripresisi dall’incanto dell’arena, che osservano la zona con l’aria di poter vomitare da un momento all’altro. Bastano tuttavia altri dieci secondi perché tutti, meno Haymitch e un altro paio di persone dalla parte opposta, tornino a incantarsi sul paesaggio.

I novanta secondi scadono. Sento la tensione, la paura, attraverso lo schermo. Non c’è tributo che non abbia il fiato corto ancor prima di iniziare a correre, per uccidere o essere ucciso, o tentare di mettersi in salvo.

Haymitch si fionda a prendere alcune cose dritto nella cornucopia. Quando gli altri sono appena partiti, lui è già arrivato ai margini del bosco, lontano dal bagno di sangue che si crea subito dopo.

In seguito al disastro iniziale, sembra di essere tornati nell’arena di un’edizione normale perché ne sono già metà, ma tra questi ci sono sia Maysilee sia Ivy, che prendono come lui la via del bosco. Ben presto le cose si complicano per tutti i sopravvissuti. Tutto, in quell’arena, significa morte.  L’acqua di fiume e di lago, le piante, gli animali e perfino insetti solitamente innocui come le farfalle. Si può sopravvivere solo del cibo impacchettato vicino alla cornucopia e dell’acqua piovana. Maysilee ha la fortuna di trovare una cerbottana nel suo piccolo zaino, e così, fabbricando proiettili praticamente con qualunque cosa, uccide chi le sbarra la strada senza grosse difficoltà, affidandosi alla protezione degli alberi. Ogni volta ricava qualche razione di cibo e di acqua sicuri extra, frugando negli zaini delle sue vittime. 

Ivy è un po’ meno fortunata, ma evidentemente possiede una vastissima conoscenza dei fiori e delle piante: non si lascia ingannare dai trucchetti degli strateghi, che hanno inserito molte piante similissime a specie commestibili; se non per alcuni apparentemente insignificanti dettagli, ma anche piante buone che pochi riconoscono. Le lezioni sulle trappole danno i loro frutti: coloro che la inseguono finiscono impossibilitati a muoversi per ore, a causa delle trappole che piazza dietro di se. In questo modo può darsela tranquillamente a gambe. E’ il suo modo di mantenere la promessa fatta durante l’intervista.

Una scena mi colpisce in maniera particolare. Ivy è quasi a corto di cibo, e non può muoversi dal luogo in cui si trova, perché un paio di favoriti si aggira nelle vicinanze. Quando cala la notte, i due tributi cedono al sonno, ma lei rimane vigile: a osservare prima l’elenco dei caduti del giorno, poi le stelle artificiali che brillano ingannevoli nel buio fondo.

A un tratto si sente un leggero fruscio e lei si volta di scatto, in allerta. Un cespuglio si muove. Lei non può fare nulla, non ha che un coltello e forse non lo sa lanciare, perché lo tiene stretto in una mano, magari sperando di poterlo usare in un corpo a corpo, o  pregando di non doverlo usare affatto.

Poi dal cespuglio sbuca Haymitch. Vedo il volto di Ivy rilassarsi visibilmente, le gote alzarsi in un sorriso. Non parlano, non possono farlo, rischiano di svegliare i favoriti, ma si guardano come se volessero imprimersi nelle pupille l’uno l’immagine dell’altra. Si guardano come io guardo Katniss ogni giorno da quando ha cantato quella canzone a scuola. Sento una tremenda familiarità in quel modo di comportarsi, e mi chiedo se a questo punto il pubblico a casa ha capito cosa li lega.

Haymitch si avvicina e le mette un braccio attorno alle spalle. Restano così per la notte intera, a fissarsi. Ogni tanto Haymitch intreccia le dita tra i capelli scuri di Ivy. Arriva l’alba, e lui, senza dir nulla, svuota il suo zaino di metà delle provviste e le lascia a lei, che scuote la testa. Lui insiste, guardandola severo quando lei accenna a volergli restituire tutto. Alla fine, Ivy si arrende. Tornano a fissarsi. Una lacrima scende dalla guancia di Ivy, quando lui indica il luogo dove i favoriti stanno ancora dormendo. Vuole ucciderli, per lei, perché possa andare avanti, e lo fa.

Si china dietro il cespuglio più vicino, poi, quando gli sembra il momento buono, comincia a camminare verso di loro, lentamente, senza fare il benché minimo rumore.

Nonostante questo uno dei due si sveglia e si volta verso di lui. Fa a malapena in tempo a urlare prima che Haymitch decida di provare a lanciare il coltello, prendendolo proprio nello stomaco. L’altro favorito, ormai sveglio, carica su di lui, che si scansa all’ultimo secondo, per poi raggiungere il tributo morto. Deve riprendersi il coltello o non potrà ucciderlo. Riesce a estrarlo ma quando si volta, il favorito è già su di lui. Non ha armi in mano ma comincia a riempirlo di pugni. Deve avere una forza mostruosa perché blocca la mano di Haymitch che tiene il coltello con estrema facilità, per poi strapparglielo. Sta per avventarsi su di lui quando Ivy lancia un urlo disperato, distraendolo. Il favorito sgancia un altro pugno in volto a Haymitch, lasciandolo intontito per pochi secondi, il tempo necessario perché lui possa alzarsi e lanciare il coltello, dritto al cuore di Ivy.

Il singhiozzo di Haymitch, quello presente, mi riporta alla realtà. Vedo le lacrime luccicare argentee nel buio, e anche la seconda bottiglia è vuota. Non oso immaginare cosa stia passando. Che cosa proverei io, al vedere Katniss pugnalata al cuore sotto i miei occhi, senza poter fare nulla per impedirlo, amandola come la amo? Il solo pensiero mi apre una voragine da qualche parte sul cuore e mi sento mancare. Piango anch’io, in silenzio, per Ivy che è morta urlando di dolore, per Haymitch che quel dolore lo rivive tutti i giorni, per il rischio che corro, di vedere Katniss morire attraverso uno schermo senza poter fare nulla per evitarlo.

Per la condanna che c’è nel dover camminare su questo mondo, e dover dimostrare di essere ancora responsabili di se stessi e di chi ci sta attorno, pur essendo già morti dentro.
 
*Angolo Autrice* Ciao a tutti :) Oggi il quarto capitolo!!! :) Di nuovo un Peeta's POV, ma ne leggerete diversi. Per ora abbiamo solo i POV di Peeta e Katyniss, ma in futuro ... forse ... chissà ... 
INSOMMAAAAAAAA come sempre, grazie per aver letto questo capitolo :) Spero che vi sia piaciuto XD Vi invito a RECENSIREEEEEEEEEEEEE <3 per sapere nel dettaglio cosa vi piace e cosa no, e perché :) 

Un bacio enorme :) 

Una Rosa Di Versailles

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Capitolo 5
*** - 5 - ***


 
 
- 5 -
 [ Katniss’ POV]

 
 
Quando mi sveglio la mattina dopo, sento un gran peso addosso. La sola idea di alzarmi dal letto mi fa sfuggire un gemito, soffocato dal morbido cuscino nel quale è affondata metà del mio viso.

La mia mente non ha ancora ripreso appieno le sue funzioni, che va subito a Peeta. Mi volto stancamente verso la porta e ritorno a fissarla; come ho fatto ieri sera, ancora sperando di vederlo entrare e rivolgermi uno dei suoi incantevoli sorrisi. Sapere che non verrà e che quella potrebbe esser stata la nostra ultima conversazione, prima del mio ritorno nell’arena, prima della morte certa, mi fa bruciare gli occhi.

Stringo forte i pugni, sperando che il dolore delle unghie conficcate nei palmi m’impedisca di versare anche una sola lacrima. Non sopporto l’idea di piangere, perché mi ricorda l’unica volta che mi sono lasciata andare. Mi ricorda una bambina dai capelli riccissimi stesa senza vita nel bel mezzo di una verde radura, con una lancia conficcata appena nello stomaco e ricoperta di fiori.

Sento dei passi nel corridoio.
Mi soffermo ad ascoltare, capendo subito che non si tratta di Effie, perché non sono ticchettii ritmici, dovuti ai tacchi altissimi che porta: sono passi pesanti, maschili. Uno dei due è sicuramente Peeta, perché il ritmo è spezzato leggermente dalla sua protesi. L’altro sarà senza dubbio Haymitch.
Con chi altro Peeta camminerebbe per il corridoio, quando si rifiuta anche solo di guardare in faccia gli inservienti del treno?

I passi si allontanano e ben presto sento quelli di Effie avvicinarsi. Sospiro, aspettandomi che bussi alla mia porta, ma mentre cerco di rassegnarmi all’idea di abbandonare questo letto capisco che non lo farà. Di nuovo anche lei si allontana e sento il morbido fruscio della porta scorrevole della sala relax. Poi il silenzio, rotto all’improvviso dall’inno di Panem, sparato a tutto volume.

Perché nessuno mi ha chiamata? Dopo un po’ la curiosità vince sulla mia pigrizia e mi alzo di scatto dal letto, fiondandomi in bagno per rendermi presentabile. Appena finito,  affaccio la testa nel corridoio e vedo Effie appoggiata al muro, intenta a osservare all’interno della sala relax attraverso il vetro. Mi avvicino.

- Che cosa succede? - chiedo, ma lei si preme un dito sulle labbra, per dirmi di tacere, e torna a guardare nella stanza.

Haymitch e Peeta sono seduti sul divano, entrambi intenti a guardare il televisore nella stanza buia. Osservo lo schermo e mi ritrovo faccia a faccia con un Haymitch in giacca e cravatta, seduto su una sedia nello stesso studio dove Caesar Flickerman mi intervistò e dove Peeta dichiarò il suo imperituro amore nei miei confronti.

Sono i suoi Hunger Games.

Sento una sorta di fastidio farsi strada dentro di me. Perché mai Haymitch e Peeta, tributo e mentore, stanno guardando quei giochi? Forse elaborano una strategia? D’improvviso mi sento tradita e ritorno al giorno in cui Haymitch mi disse che Peeta aveva deciso di allenarsi per conto proprio.

Stessa identica sensazione, medesima domanda: non è forse normale, negli Hunger Games, finire così?  E allora perché tanto fastidio, cosa mi aspettavo?

Non voglio ammetterlo, ma lo so benissimo: mi aspettavo che Peeta elaborasse con me una strategia per riportarmi a casa, perché Peeta è così, perché mi ama, e mi sento profondamente egoista. Non è forse vero che non sarò mai in grado di uccidere Haymitch? E non è sicuro che Snow userà ogni mezzo per uccidermi nell’arena, dovesse lui stesso mettersi a capo degli strateghi? Se è così, non ho speranze di uscirne viva e devo farmene una ragione. Quindi è più che giusto che Peeta si impegni per far si che almeno Haymitch sopravviva.

Volto le spalle alla porta e sto per andarmene, quando Effie mi prende per un polso, stringendo forte. La fisso, incredula.

- Forse è meglio se resti a guardare. – mi consiglia. – Sei del tutto fuori strada cara, se pensi che Peeta stia elaborando una strategia per salvare Haymitch... – sospira, e mi lascia il polso per poi tornare a guardare nella stanza. Che fa, mi legge nel pensiero?

Accetto il suo consiglio perché è raro che Effie mi parli così, ed ecco che in un secondo sono di nuovo catapultata nell’incubo. Haymitch uccide tre tributi, forte della sua velocità.
Ne ruba le provviste, fa lo stesso con altre due persone. Una ripresa in primo piano mi fa scorgere i suoi occhi e mi spavento nel vedere due pozze blu scuro, vitree, come fosse ipnotizzato, lontano dalla realtà.
L’Haymitch presente ingolla litri e litri di alcol, tenendo lo sguardo ostinatamente fisso sullo schermo, e si, è lo stesso sguardo di chi vive senza saperlo e senza volerlo.
L’Haymitch tributo, e ignaro vincitore, si siede accanto a una ragazza. La guardo e capisco subito che è del giacimento, perché potrebbe essere mia parente. Lui le cinge le spalle con un braccio e intreccia le dita tra i suoi capelli scuri, osservando il cielo.

Peeta mi cinge le spalle con un braccio, che mi fa da cuscino, e intreccia le dita fra i miei capelli, fissando il soffitto della grotta.

Ho un tuffo al cuore, al vedere quella scena. Lui, biondo e con gli occhi azzurri, e lei, capelli scuri e occhi grigi. Siamo io e Peeta catapultati in un tempo che non ci appartiene, eppure sempre tristemente legati ai mortali Hunger Games. Se quella degli innamorati sventurati è stata un’idea di Peeta, di certo ora so perché il cinico Haymitch l’ha appoggiata senza riserve.

Torno alla realtà, quando vedo il coltello piantarsi nel petto della ragazza e sento, anche attraverso il vetro, il singhiozzo a malapena smorzato di Haymitch. Vedo Effie portarsi una mano alla bocca e i suoi occhi brillare umidi, il respiro tremolante, affaticato.

Mi sento ancor più uno schifo, per aver pensato, ieri, che Haymitch non fosse altro che un individuo privo di spina dorsale, un ubriaco molesto. Per aver distolto lo sguardo e la mente di fronte alle sue parole, sofferte, perché ora so che lo erano davvero. Lo vedo portarsi di nuovo la bottiglia alle labbra e seguire con lo sguardo il corpo della ragazza sollevato dall’Hovercraft e prendo dentro di me la triste consapevolezza del vero significato di quel disperato rifugiarsi nei fumi dell’alcool.

Ne ha bisogno come a me serve Peeta per dormire la notte, perché è l’unica cosa in grado di mettere a tacere i suoi incubi.

E così, Haymitch è un buono ferito e sconfitto dalla vita, e io sono una che ai buoni non sa resistere, perché hanno un modo tutto loro di mettere radici nel mio cuore, forse anche perché sono il mio esatto opposto. Non avrei potuto ucciderlo già prima, adesso è del tutto impossibile.

Un altro Hovercraft solleva il corpo del tributo che ha ucciso la ragazza di Haymitch, che ha quello che sembra il dardo di una cerbottana conficcato nella tempia. Non capisco da dove provenga fin quando da un albero non salta giù una ragazza bionda, con vivaci occhi verdi e un cipiglio fiero che si scioglie non appena trova posto fra le braccia di Haymitch. Dev’essere un altro tributo del dodici, e la ragazza era sua amica.

Decidono di allearsi. Si spartiscono le provviste che Haymitch aveva lasciato alla sua ragazza. Svuotano lo zaino lentamente, fissando ogni singolo oggetto con l’aria di sentirsi in colpa. Forse, se non avessero impellenti necessità da soddisfare, sarebbero tentati di far qualcosa tipo seppellirlo, in memoria di lei. Fanno turni di guardia e così riescono a riposare entrambi, se tentare di convivere con la possibilità di essere uccisi nel sonno può dirsi riposare.  Li vedo raccogliere acqua piovana anche a due passi di distanza da un ruscello e non li vedo mai cacciare, anzi cercano di evitare, per quanto possibile, gli animali che popolano il bosco, uccidendoli quando gli sbarrano la strada, lasciando i cadaveri a marcire senza nemmeno annusarli.  Mi chiedo che razza di arena sia, che non sia possibile nutrirsi degli animali selvatici o abbeverarsi nei corsi d’acqua.

Camminano senza mai fermarsi,  fin quando non si ritrovano davanti a uno strapiombo roccioso. A quel punto, hanno una breve discussione e lei se ne va. L’alleanza è finita.

Non capisco perché Haymitch non si muova di lì, preferendo camminare avanti e indietro, scalciando sassolini. Uno di questi sassi finisce di sotto, per tornare su pochi secondi dopo. Haymitch lo osserva, incuriosito. Raccoglie un altro sasso e lo lancia. Fa appena in tempo a evitarlo quando questo torna indietro, schizzando con la forza di un proiettile.  Mi ricorda il meccanismo che c’è sul tetto del centro d’addestramento.

Sorride, poi la sua espressione si fa sorpresa e quindi preoccupata mentre ascolta qualcosa. Comincia a correre e si ritrova in una piccola radura. Lì c’è la ragazza con cui aveva stretto l’alleanza, trapassata sul collo dal becco lungo e sottile di uno strano uccello rosa. C’è sangue dappertutto e la scena mi mette i brividi.

Haymitch s’inginocchia accanto a lei e le stringe la mano, mormorando qualcosa che non riesco a cogliere. Quella ragazza, nella mia testa, parla con la voce di Rue e mi chiede di cantare.

Sorride, poi i suoi occhi si spengono per sempre e immagino che si senta il rombo del cannone, perché Haymitch sobbalza e si allontana in fretta dalla ragazza.  Poco dopo, l’Hovercraft si porta via anche lei.

Haymitch passa i giorni nella più totale tranquillità, nascosto ai margini del bosco mentre attorno a lui la gente muore, fin quando non restano che lui e una ragazza che, dall’aspetto, sembra essere una favorita. Haymitch non si sarà certo preparato tutta la vita per questo momento, ma è forte e veloce abbastanza da competere con lei, e la lotta diventa ben presto un bagno di sangue. Lei con una scure, lui con un coltello, s’infliggono ferite quasi mortali. Haymitch riesce a conficcarle il coltello nell’occhio prima che lei gli squarci lo stomaco, e a quel punto, disarmato, inizia a correre, inoltrandosi nel bosco, lottando contro le viscere che sembrano insistere per uscire.

Si ferma solo quando raggiunge il punto in cui si era separato dalla sua alleata. Crolla a terra, abbandonato dalle forze, proprio mentre la favorita lancia la scure, che sparisce oltre l’abisso. Ormai disarmata, fa quel che meglio può per fermare il sangue che le fuoriesce dall’orbita, mentre Haymitch si contorce per il dolore, ma sorride.

La scure torna indietro, piantandosi nella sua testa.  Rimangono in silenzio per un tempo che mi sembra interminabile.

Dopo qualche attimo Peeta spegne il televisore e si alza per scostare le tendine dalle finestre, mentre Haymitch se ne sta seduto sul divano, la testa china. Quando si decide ad alzarsi, Peeta lo stringe in un abbraccio un po’ strano. Dev’essere perché Haymitch non è abituato a certe dimostrazioni d’affetto. Poi si voltano entrambi verso la porta, scoprendoci con le mani nel sacco, me ed Effie, che sobbalza, sorpresa.

Haymitch apre la porta e passa in mezzo a noi senza dir nulla. Sta per abbandonare lo scompartimento quando Effie, emettendo un sonoro squittio indignato, si decide a seguirlo.

Li osservo camminare rapidi lungo il corridoio. Haymitch apre la porta della sua stanza e fa per chiudercisi dentro ma Effie, sorprendendomi, piazza una gamba in mezzo alla porta per impedirgli di sbattergliela in faccia ed entra. Solo quando si richiude la porta alle spalle il mio sguardo torna alla sala relax.

Di fronte a me c’è Peeta.

- Io... capisco se vuoi tentare di riportare indietro Haymitch... lo sai, sono condannata. – dico, e nel momento stesso in cui l’ho detto, so di aver sbagliato e allo stesso tempo mi sorprendo perché Peeta mi sta guardando con un’aria talmente seria che fa quasi paura. Non è più lui, è più vicino al ragazzo che ci ha imposto un allenamento forzato prima della mietitura, neanche fossimo dei favoriti.

Eppure il suo tono è incredibilmente composto, quando mi risponde:

- Perdonami Katniss, ma a questo punto devo chiedertelo: sei stupida, per caso? –

Spalanco gli occhi, non credo di aver capito. – Come? –

- ti ho chiesto se sei stupida. –  

- Ma che doman...-

- No! Io devo saperlo, perché a questo punto sono costretto a crederlo! – lo guardo incredula, mentre si passa una mano tra i capelli e li intrappola tra le dita, tirando fin quasi a strapparli. – Katniss davvero che cosa devo fare? Perché io ... io non so più come fartelo capire! – dice a voce alta, quasi disperato.

Mi prende per le spalle, e mi ritrovo all’improvviso nella sala relax, con la schiena appoggiata al muro, lui lì davanti, a intrappolarmi.

- Credi davvero che sarei capace di abbandonarti al tuo destino? – chiede. – Pensi che potrei starmene chiuso in una stanza a guardarti morire e non fare niente per evitarlo, o che se potessi non mi offrirei di andare al tuo posto? Se lo pensi, devi essere davvero stupida. –

Così dicendo abbandona la presa sulle mie spalle e se ne va. Lo sento sbattere la porta della sua stanza poco dopo, ed è un atteggiamento così nuovo e disturbante per me che mi cedono le ginocchia e me ne sto seduta a terra, la schiena appoggiata al muro, senza sapere che fare.

Ha ragione. Sono stupida, perché l’ho pensato, ho creduto che stesse elaborando con Haymitch una qualche strategia, e mi sono dispiaciuta e arrabbiata per questo, quando l’unico che avrebbe il diritto di dispiacersi sarebbe proprio lui. Chiudo gli occhi, cercando di fare ordine nei miei pensieri, e per un attimo non sento più il rumore del treno ma una meravigliosa sinfonia di ghiandaie imitatrici. Questo è il posto cui appartengo, la foresta.

Rappresenta quello che sono, custodisce tutti i miei ricordi e le mie speranze e i miei sogni. È qui che ho vissuto gran parte della mia vita, con e senza mio padre. Con Gale. Sento l’erba sotto le dita e il profumo dei fiori e delle foglie nelle narici.

So che non sarei io, senza il bosco e i suoi pericoli e le giornate passate lì dentro con Gale, ma se penso alle persone a cui tengo, Peeta appare subito dopo mia sorella.

E non è un ricordo recente di Peeta, e nemmeno la memoria indelebile del giorno in cui mi salvò dal morire di fame, quanto piuttosto un insieme di momenti quasi perduti negli anni, eppure rimasti da qualche parte sopiti dentro di me. Un giorno passato a fare ginnastica insieme. Io che canto nella lezione di musica mentre lui mi guarda dall’ultimo banco. Lui che mi spia da dietro le colonne dell’istituto mentre mi avvio verso casa. Le urla di sua madre, che lo rimproverano, mentre io e Prim osserviamo, lei stupefatta io dispiaciuta di non potergliele comprare, le torte in vetrina. I suoi occhi azzurri luminosi che mi scrutano attraverso il vetro della panetteria. Una goccia di sudore che gli scende sulla nuca, mentre si appresta ad alzare l’ennesimo, pesantissimo sacco di farina, sollevando una nube di polvere bianca.

All’improvviso una particolare scena mi torna alla mente. Sono io, in mezzo alle ragazzine del distretto dodici, vestita di tutto punto. È la mia prima mietitura. Appena compiuti dodici anni, mi sono precipitata a iscrivermi per le tessere, perciò so che il mio nome, nella grande boccia di vetro, è presente già quattro volte: una regolamentare, e tre per ognuna delle nostre tessere.

Il mio nome non viene estratto e tiro un sospiro di sollievo, già pensando a come fare per raccogliere quelle nuove erbette che ho visto, appena fuori la recinzione, senza essere vista, ma aspetto ancora. Aspetto di sapere chi sarà il ragazzo estratto quest’anno e, anche se non del tutto consapevolmente, dentro di me spero che non venga fuori il nome di Peeta. Riguardo alle altre mietiture, fino all’ultima in cui mi sono offerta volontaria, e scopro che ogni volta è stata sempre la stessa cosa: non solo mi preoccupavo per Gale, ma speravo con tutta me stessa di non vedere il ragazzo del pane salire su quel palco.

Poi l’ironia della sorte ha voluto che li sopra ci salisse proprio con me. Abbiamo parlato per la prima volta, abbiamo imparato a conoscerci ed io, in particolare, ho imparato ad apprezzarlo molto più di quanto già non facessi: per la sua bontà, lealtà, intelligenza. Ho sussultato quando ha dichiarato il suo amore per me di fronte all’intera nazione, l’ho odiato vedendolo in mezzo al gruppo di favoriti nell’arena e ho urlato il suo nome con forza quando le regole dell’arena sono cambiate, consentendoci di tornare a casa entrambi.

E c’è stato quel bacio, che mi ha incendiato il sangue nelle vene e mi ha fatto desiderare che non finisse. Calore e brividi, come ieri, nella mia stanza, e il desiderio profondo di volere qualcosa di diverso, di sconosciuto, di Più.

È stato lo stesso, quando Gale mi ha baciata? Certo mi ha colto di sorpresa, ma non ho desiderato ricambiarlo, anzi l’ho respinto alla fine, mugolando una specie di protesta, e da allora le cose non sono state più le stesse. Niente più complicità: solo imbarazzo e paura che lui volesse un chiarimento che io non gli avrei mai saputo dare.

Mi suona strano sapere che c’è qualcosa che non posso dire a Gale, io che finora non mi sono mai frenata dal dire ciò che pensavo, ma so che se è così è perché sono egoista. Semplicemente non voglio perdere né lui, né Peeta.

Eppure no, non è stato lo stesso. Gale non è riuscito a farmi chiedere di più, ne quella volta, ne quando l’ho baciato mentre era perso nei fumi della Morfamina. Ogni volta ho sentito una grande familiarità, immersa nell’odore di foresta tipico della sua pelle, e allo stesso tempo ho creduto di perdermi, perché non avevo mai conosciuto così le sue labbra, ma una volta finito non ho desiderato che accadesse ancora, anzi mi sono chiesta se non fosse stato meglio evitare.

Come si chiama questa differenza, se ha un nome?

Sento la porta accanto a me aprirsi. Mi volto di scatto e vedo Haymitch. Ha l’aria di chi è stato bastonato per bene; ma forse è solo ubriaco, come suo solito.
Un brivido mi percorre la schiena, quando ricordo quel che mi ha detto, l’ultima volta che siamo rimasti soli in questa stanza; e mi rendo conto che, se non fossi sopravvissuta agli Hunger Games contro ogni aspettativa, avrei davvero paura di lui. Forse anche perché ci somigliamo.

Scivola accanto a me, strofinando la schiena contro il muro. Lascia penzolare le mani tra le ginocchia, tenendo lo sguardo a terra per qualche secondo, poi lo fissa nel mio. È un azzurro liquido e un po’ sporco, quasi una cattiva imitazione degli splendidi occhi di Peeta, e la cosa mi da un po’ sui nervi: possibile che quest’uomo riesca a prendersi gioco di me anche senza dire una sola parola?

- Be, dolcezza, a che pensi? – indaga, buttando giù un sorso di un liquido ambrato.

Non è il solito liquore bianco, ma l’odore è altrettanto disgustoso. Mi guarda di sbieco e un mezzo sorriso gli deforma il volto. Mi chiedo se abbia visto la scena di poco fa o se sia semplicemente in grado di leggermi nel pensiero.

- Andiamo, vi ho sentiti, prima. Povero ragazzo, mi chiedo come gli sia saltato in mente di perdere la testa per una come te, così... cinica. Sospetti sempre di tutto e di tutti, e non sono stati gli Hunger Games a ridurti così, no. Lo sei sempre stata. Odiosa. Fin da quando ci siamo parlati la prima volta. –

- Grazie, Haymitch. – sorrido mio malgrado. Con tutti questi dubbi che mi attanagliano il cervello, le opinioni di Haymitch perlomeno sono una certezza. – Ti odio anch’io. –

Ci guardiamo e scoppiamo a ridere. Non so nemmeno perché, ma la situazione è a dir poco esilarante. In effetti, siamo gli esseri peggiori sulla faccia della terra, e ci odiamo perché ci rispecchiamo l’uno nell’altro.

- Passiamo alle cose serie, dolcezza. Approfitto del fatto che nemmeno so quello che sto dicendo ... – alza la bottiglia,  piena per metà. – Ho sentito cosa vi siete detti, e maledizione, ha ragione, sei stupida. Solo che lui per capirlo è dovuto arrivare a tanto mentre io l’ho saputo da subito. Ma come ti è venuto in mente di dirgli una cosa del genere? –

Alzo gli occhi al cielo. – Non vedo cosa ci sia di sbagliato. Lo capisco davvero, se decide di salvarti, Haymitch. Diciamo la verità, comunque vada non uscirò viva da quest’arena. Snow mi vuole morta e non c’è nulla che potrà impedirgli di uccidermi. –  

Haymitch agita le braccia con aria esasperata. – Dolcezza, possibile che non ci arrivi? Quel ragazzo, che tu lo voglia o no, e per quanto io lo creda assurdo, ti ama, d’accordo? Senti, quando è stato estratto il nome di tua sorella, perché ti sei offerta al suo posto? Dimmelo! –

- Non volevo che morisse! – esclamo, esasperata a mia volta. – non volevo vederla scendere nell’arena perché tengo a lei più che a chiunque altro, va bene? –

- Ecco. Peeta, se avesse potuto, si sarebbe offerto volontario al tuo posto. Lo capisci? Guarda che, nel caso non ci fossi ancora arrivata col cervello che ti ritrovi, quella dell’intervista non era una dichiarazione falsa. –

Lo guardo sperando che il mio sguardo lo uccida, perché non mi sta dicendo nulla di nuovo.

– E’ inutile, Haymitch. Non ... – mi tremano le mani, e so che quando ricomincerò a parlare, mi tremerà anche la voce. Allungo una mano verso la bottiglia e gliela strappo di mano. Tendo un lembo della maglia sull’imboccatura, per pulirla, e me la porto alla bocca stringendo gli occhi, sapendo che non sarà per niente piacevole. Brucia come fuoco lungo la gola e mi fa salire le lacrime agli occhi, ma dopo due sorsi ho già la consapevolezza che dimenticherò ogni cosa. Posso parlare, posso piangere, posso urlare, fare quello che voglio. Nessuno di noi due domani lo ricorderà.

- Ho meno di una settimana di vita. – dico. La voce mi trema ancora, ma ora non m’importa. – Poi entrerò nell’arena e sarò ufficialmente morta, anche se potrei riuscire a vagare per giorni senza che mi catturino. Di sicuro però non ne uscirei vincitrice. Comincio a pensare che sia meglio che Peeta si concentri su di te e mi dimentichi, anche se ... – mi blocco. Fisso la bottiglia intensamente, come a chiederle di finire la frase al mio posto, perché io non ci riesco. Non sono cose da dire a Haymitch, queste, anche se domani potremmo non ricordare entrambi.

- Anche se, cosa? – insiste lui. Scuoto la testa.

- Buttane giù ancora un po’ – dice. Annuisco e faccio come vuole. Adesso la bottiglia è quasi vuota, e mi gira la testa.

- Ricordi quando abbiamo fatto quella chiacchierata, durante il Tour della vittoria? Mi hai detto che per me c’era un solo futuro, che quel viaggio che volevo terminare non sarebbe mai finito, che io e Peeta saremmo stati per sempre gli innamorati sventurati del distretto dodici e che il mio futuro sarebbe stato sposarlo. Mi sembrava terribile, all’inizio, non poter scegliere della mia vita futura, dovermi sposare quando non lo avevo mai desiderato e magari essere costretta a fare dei figli, quando ho sempre detto di non volerne, per non vederli partecipare alle mietiture. Poi mi sono detta che avevi ragione. Poteva capitarmi qualcosa di molto peggio. Sai quando l’ho pensato davvero? – gli chiedo. Scuote la testa, senza parlare. Vuole che continui.

- Quando Snow ha letto il regolamento dell’edizione della memoria e ho capito che sarei tornata nell’arena. Allora mi sono detta che se in quell’istante mi avessero detto che avrei potuto uscirne sposandolo, io ne sarei stata felice. Non solo perché sarebbe stato facile, ma perché Peeta, il vero Peeta, mi mancava così tanto... non ci parlavamo più, lo sai, ed è stata tutta colpa mia, perché gli ho fatto del male. Lo so, me lo merito, ma lo rivolevo indietro, ora che sapevo cosa volesse dire vivere senza parlargli, dopo aver condiviso così tanto. Mi sono detta che se avessi potuto vivere tutta la vita come quelle notti passate nella grotta, forse sarei stata ... felice. –

Tiro un sospiro di sollievo. È la prima volta, che parlo tanto di me. Dev’essere l’alcol che mi scioglie la lingua, com’è successo con lo sciroppo per dormire, quella sera a casa mia, quando mi sono trattenuta dal dire a Peeta quel che pensavo, ma non sono riuscita a non chiedergli di restare con me.

Haymitch mi osserva e sembra confuso. Mi toglie la bottiglia di mano e ne manda giù l’ultimo sorso.

– Sei un’idiota. Posso darti un consiglio, anche se non sono più il tuo mentore? –

Annuisco, curiosa, mentre sento la testa che inizia a vorticare sempre di più.

- Resta viva. – mi dice, e c’è qualcosa, nel tono che ha usato; che mi schiarisce i sensi mettendomi addosso una strisciante sensazione di panico. Che cosa vuole dire? Non era chiaro quel che ho detto, sul fatto che morirò di certo? Apro la bocca per parlare, ma lui si alza e se ne va senza nemmeno guardarmi, lasciandomi lì sola con i miei dubbi. 


*Angolo autrice*  Ancora Ciao a tutte!!!! :) Ancora e sempre grazie per aver letto questo capitolo, grazie se state seguendo la storia, grazie a chi la recensisce, insomma ogni volta, aspettatevelo, non farò altro che ringraziarvi e ringraziare la mia beta MatitaGialla per l'ottimo lavoro che svolge ad ogni capitolo che le arriva :) Passatemi la ripetitività anche quando vi dico di recensire, se non altro per farmi sapere che pensate mentre leggete, se vi inserite nella storia o la cosa è talmente noiosa che la vostra mente vaga da qualche parte fra il pranzo e la cena ;) 
Vi adoro, comunque :)

Al prossimo capitoloooooo :D

 

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Capitolo 6
*** - 6 - ***




- 6  -

[ Peeta’s POV ]

 
She’ll tear a hole in you
The one you can’t repair
But I still love her
I don’t really care
                                                                                    The Lumineers – Stubborn love.
 

Afferro la porta e la sbatto con violenza dietro di me, poi mi ci appoggio contro, mentre il mio respiro torna a farsi regolare.

Quando finalmente il mio corpo si decide a rilassarsi, crollo seduto a terra, con la testa penzolante fra le ginocchia.

Non avrei dovuto trattarla così, è questo il mio primo pensiero, ma davvero non sono stato capace di trattenermi.

Quando? Quando le ho fatto credere di essere capace di abbandonarla? La amo tanto che a volte non riesco nemmeno a distinguere tra ciò che faccio per me stesso e ciò che faccio per lei perché le due cose finiscono sempre per coincidere. La sua felicità è la mia. Se lei è salva, lo sono anch’io. Se lei muore, io sono morto. Semplice e lineare, eppure così complicato da spiegare ...

Ricordo com’è stato tentare di farlo capire a Haymitch: mi sembrò difficile, allora, ma adesso che lo conosco un po’ più a fondo, che so parte della storia di Ivy, mi rendo conto che lui mi capisce meglio di quanto io creda, pur essendo così simile a Katniss nei modi e nell’atteggiamento.
Eppure allora mi risultò davvero tremendo spiegare come la vita di quella ragazza, di punto in bianco, fosse diventata la mia.
Ogni giorno, la osservavo mentre arrivava a scuola, la scrutavo mentre tornava a casa.
Iniziai a vegliare perfino sulla sorellina, quando cominciò a frequentare scuola a sua volta, e questo perché se c’era una cosa che avevo imparato di Katniss, era che amava Prim più di qualunque altra cosa al mondo e che si sarebbe tolta la vita per lei.

All’improvviso, l’immagine di un lontano passato si fa strada nella mia mente e mi ritrovo a guardare una bambina con le trecce bionde, seduta sola ad un’altalena, nel parchetto delle scuole elementari; affianco allo stabile dove studiavamo invece noi ragazzi più grandi. 
Doveva essere il loro momento di ricreazione.
Avrei voluto avvisare Katniss, perché Prim sembrava triste, ma non le avevo mai parlato in vita mia,  e da quando era accaduto l’episodio del pane il tutto era diventato, se possibile, ancor più complicato: c’erano momenti in cui mi sorprendevo a fissarla insistentemente, poi distoglievo lo sguardo e potrei giurare di aver sempre avuto l’impressione di essere osservato a mia volta.
Quando poi però mi voltavo di nuovo, la vedevo intenta a fissare qualcos’altro, e finivo sempre per darmi dello stupido. Perché mai Katniss Everdeen, famosa per il suo sembrare indifferente, insensibile ad ogni cosa,  avrebbe dovuto guardare proprio me?
Quel giorno chiesi al professore di poter uscire e raggiunsi Prim nel giardino. Quando mi vide, abbozzò un lieve sorriso.

- Tu sei il ragazzo del pane. – osservò, ed io rimasi sorpreso.
Si riferiva forse al giorno in cui avevo regalato il pane a Katniss? Per saperlo, Prim doveva averlo sentito raccontare.
La sola idea che Katniss avesse potuto parlare di me mi rese immensamente felice.
Forse assunsi un’espressione strana perché lei ridacchiò, portandosi una mano alla bocca.

– Grazie. – disse.

- Non devi ringraziarmi. – risposi. – Cosa ci fai qui tutta sola? – chiesi, e vidi il suo volto rabbuiarsi. Mi disse che si vergognava di chiedere alle altre bambine di poter giocare.
Non potei fare a meno di ridere perché quella timidezza di sicuro era la stessa ragione per cui Katniss se ne stava sempre da sola, e l’unica che trovava il coraggio di parlare con lei era Delly Cartwright, mia amica d’infanzia che non negava un sorriso a nessuno e che era la mia fonte, costantemente aggiornata, di notizie riguardanti la ragazza che amavo e che amo tutt’ora.

- Perché ti vergogni? Tutti dovrebbero poter giocare. Vuoi che ti accompagni? – mi offrii, indicando il gruppetto di bambine poco lontano. Lei stette a osservarmi per un po’ valutando l’offerta, e poi annuì.

Da quel giorno non s’isolò più.

Ora che ci penso, non credo che Prim abbia mai raccontato a Katniss di quel giorno, anche se devo ammettere di averci sperato, e mi chiedo il perché.
Magari avrebbe iniziato almeno a salutarmi, e forse non sarebbe mai riuscita a pensare a me come a una persona in grado di abbandonarla a se stessa, come invece oggi ha fatto.
Solo a ripensarci mi sento male, e so che qualcun altro al mio posto l’avrebbe quantomeno riempita d’insulti senza pensarci troppo su, senza limitarsi a chiamarla stupida. Haymitch l’avrebbe fatto.
Io non ci riesco. So che potrebbe farmi qualcosa di davvero tremendo e la perdonerei comunque.

Mi alzo e vado a ficcarmi sotto la doccia.
Me ne sto lì, lasciando che l’acqua quasi bollente mi levi di dosso il peso di questi giorni anche solo per qualche minuto. Quando ne esco, mi rendo conto di esserci stato un’ora intera. Mi sono appena vestito, quando Effie bussa piano alla mia porta e, senza entrare, m’informa che siamo quasi arrivati a Capitol City. Un nodo mi blocca la gola all’istante.
Faccio appena in tempo a entrare nella sala relax che vedo una folla colorata sfilare davanti ai finestrini ad una velocità tale che sembra di passare nel bel mezzo di un arcobaleno.
Katniss li osserva, dall’altra parte della stanza, con aria disgustata.

- Sai che devi piacere al pubblico, per sopravvivere. – dico. Lei sussulta e mi guarda, colta di sorpresa.

- Non sono brava a piacere alla gente, lo sai. Sei tu, quello che ci sa fare col pubblico. – risponde.

– Scusa. – aggiunge poi, abbozzando un lieve sorriso. – So che non mi abbandoneresti mai. Scusa per averlo pensato. – chiarisce, senza guardarmi, continuando a scrutare la folla.
Scuoto la testa, perché nessuna persona normale accetterebbe delle scuse fatte in questo modo. 
Io però lo faccio, semplicemente perché lei non sa come comportarsi, in queste situazioni. So bene che questo è il meglio che posso ottenere.
La fisso, senza rompere il silenzio.
Si guarda i piedi ora, o forse le mani intrecciate. Starà pensando a quello che la aspetta. Ci sto pensando anch’io e Haymitch, da qualche parte dentro questo treno, starà facendo lo stesso.
Di qui a una settimana potrebbe essere morta. Mi viene da piangere al solo pensiero, mentre il nodo in gola stringe più forte e pare quasi volermi soffocare.

- Katniss. – la chiamo, e mi sorprendo del mio tono urgente. Allargo le braccia, voglio che ci si tuffi dentro, voglio sentire il suo corpo contro il mio.
Lei si alza di scatto e ci si fionda senza esitare, cogliendomi di sorpresa.
La stringo forte a me, sento la sua schiena scossa dai singhiozzi e non posso più trattenermi.
Piango anch’io, in silenzio, con discrezione, non visto da lei che tiene la faccia premuta contro il mio petto, e nemmeno dalla gente fuori, che ci acclama gioiosa, provocandomi una forte rabbia dentro, perché tutti loro non attendono che l’edizione della memoria in cui la ragazza che amo potrebbe morire.

Sento Effie avvicinarsi, preannunciata dal solito ritmico ticchettio, e sciolgo lentamente l’abbraccio appena prima che entri. È vestita di blu da capo a piedi, la parrucca azzurrina scintilla di minuscoli diamantini. Non sfodera nessun sorriso smagliante, quando ci annuncia che siamo arrivati e che stiamo per scendere.
Haymitch, dietro di lei, sembra se possibile ancor più sbronzo del solito, ma incredibilmente pulito.

Ci dirigiamo all’uscita. Sono costretto a lasciare Katniss assieme a Haymitch per uscire affianco a Effie: per regola, i tributi sono sempre gli ultimi a farsi vedere, nelle occasioni ufficiali. Esco alla luce del sole e ho un tuffo al cuore nel rivedere il centro d’addestramento.
Ci allontaniamo in fretta, circondati da telecamere e flash improvvisi, urla e strepiti, fischi.
Molti scandiscono il mio nome e mi chiedo se sia perché non vedono l’ora di vedere come mi comporterò, nelle mie nuove vesti di mentore.
Appena arrivati, siamo accolti da Flavius, Venia, Octavia e i tre assistenti di Portia, che l’anno passato si sono occupati di me, mentre oggi avranno a che fare con Haymitch. I primi tre si raggruppano subito attorno a Katniss, strillando eccitati.
Sento qualche commento sull’estetica del tipo: - Che cosa hai fatto a questi capelli? – e – Oh, mio dio, le sopracciglia! -, poi la mia attenzione è catturata da Effie, che mi fa cenno di seguirlo. È ora di lasciare Katniss e Haymitch in mano agli estetisti. La seguo mio malgrado, dopo averli salutati entrambi.

- Che cosa facciamo, nel frattempo? – chiedo.

- Oh! Andiamo a occupare posto, naturalmente! –

Usciamo all’esterno, e subito un fragore di mille voci mi aggredisce. I colori squillanti degli abiti mi feriscono gli occhi. È un brulichio incessante di persone. Tutti si scambiano opinioni sui tributi di quest’anno.
La faccenda è ben diversa dal solito: sono tutti vincitori, tutti favoriti, affascinanti, già premiati una volta dal pubblico. Oggi tutto dipenderà dalla creatività degli stilisti, e questo mi tira un po’ su di morale: Cinna e Portia sono i migliori, al momento, e li abbiamo entrambi noi.

Ogni due passi, Effie si ferma per salutare qualcuno, utilizzando ogni volta le stesse esatte parole, uguale tono e medesimi gesti per tutti. Mi presenta come il nuovo mentore, anche se tutti mi conoscono già.
Parlo con una quantità impressionante di persone, cercando sempre di mantenere il sorriso stampato in volto, anche se il mio umore, al momento, mi spingerebbe a sprofondare sotto terra. Ognuna di queste persone rappresenta un possibile sponsor per Katniss e Haymitch, ed è mio dovere di mentore accattivarmele con tutti i mezzi a mia disposizione.

- Allora, come sono i tributi del dodici, quest’anno? – mi chiede un uomo corpulento, con la faccia coperta da barba e baffi per più della metà.
Devo reprimere la rabbia che mi crea sentir chiamare Katniss e Haymitch “tributi del dodici”, come fossero null’altro che bestie da macello, prima di rispondergli:

- Haymitch è un veterano, oltre che un vincitore è anche un mentore con ventiquattro anni di esperienza, non ha intenzione di lasciarsi imbrogliare tanto facilmente. E Katniss, be ... – mi lascio sfuggire un sorriso amaro, studiato si ma, al tempo stesso, del tutto sentito, dentro di me,  e l’uomo mi osserva con attenzione. Mi avvicino a lui con discrezione, guardandomi attorno per qualche secondo. Non gli sto chiedendo di mantenere un segreto, in fondo, so che non lo farebbe, ma è proprio quel che mi aspetto: l’intento è fargli provare il brivido di una scoperta sensazionale, che non potrà fare a meno di rivelare a chiunque sarà disposto ad ascoltarlo.

- Ci siamo sposati in gran segreto, quando abbiamo saputo dell’edizione della memoria. – bisbiglio. – Mi ha detto che vuole avere dei figli, una famiglia, e che per questo vuole tornare a casa con me. Sa, glielo dico io che conosco Katniss meglio di chiunque altro, quando si mette in testa una cosa, non c’è nulla che tenga, la farà. Ho fiducia in lei, supererà qualunque cosa per tornare a casa. Se potessi scommettere, punterei su di lei. – dico, e l’uomo annuisce, con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta. Lo guardo e non posso fare a meno di pensare a una donnetta di casa, dedita unicamente ai pettegolezzi e al perenne inseguimento delle mode del momento, colta nell’attimo in cui viene a sapere qualcosa di sconvolgente e prova il perverso piacere di essere la prima persona a venirne a conoscenza.

Dopo un po’, recupera le sue funzioni vitali. Mi congeda e subito dopo lo vedo parlottare fitto fitto con una donna al suo fianco, che si volta a guardarmi per un secondo, la stessa identica espressione ora dipinta sul viso tirato.  Sorrido mio malgrado.

- Sapevo che ne saresti stato capace – sussurra Effie, sinceramente ammirata.

– Hai un vero talento. Certo, non che Haymitch ... – scuote la testa, avvilita, e un paio dei fiori che tiene sulla parrucca si scuote, mentre i brillantini tra i capelli raccolgono i riflessi di luce.

Per un attimo osserva un punto lontano, la dove presto si aprirà il grosso portone da cui usciranno i tributi sui carri, poi mi rivolge di nuovo lo sguardo e sul suo volto è spuntato un piccolo sorriso.

– Anche lui ci sa fare, con la gente, quando vuole. È solo che la maggior parte delle volte è troppo sbronzo per suscitare qualunque genere di attrattiva. – poi si zittisce per un secondo, come per trovare le parole.

- Un vero spreco, secondo me. Ma ora che hai visto la sua intervista e il modo in cui ha vinto i suoi giochi, sicuramente sai di che parlo. – conclude poi.

Effie ha proprio ragione.
Haymitch è ormai l’ombra dell’uomo che è stato, soffocato dai suoi demoni e dallo stesso tipo di terribili ricordi che scuotono le notti mie e di Katniss e, sicuramente, di tutti i vincitori.
Noi siamo ancora molto giovani, e abbiamo qualcosa per cui lottare, mentre lui è rimasto completamente solo. È con questo pensiero che deve aver accettato di offrirsi volontario al mio posto, ma non dovrebbe essere così.
Dovrei esserci io dentro quella sala enorme ad aspettare di entrare con indosso un assurdo, per quanto spettacolare, costume.

Sobbalzo, quando l’inno di Capitol City viene trasmesso a tutto volume, di modo che si senta per l’intero, vastissimo ambiente.
So che da qualche parte, chiusi in uno studio insonorizzato, Caesar Flickerman e Claudius Templesmith stanno commentando il tutto con frasi entusiastiche, sinceramente elettrizzati.
Io, per quanto mi riguarda, sento la tensione crescere man mano che si avvicina il momento in cui Katniss ed Haymitch usciranno da quel portone.  
Credevo che i mentori sapessero quali costumi fossero indossati dai loro tributi, prima della sfilata, ma a quanto pare non è così e mi chiedo cosa Cinna e Portia si siano inventati quest’anno.

Il portone si apre lentamente. Il carro del primo distretto si fa avanti: articoli di lusso.
E, in effetti, i tributi di quest’anno che, mi pare di ricordare, si chiamano Gloss e Cashmere, e sembrano due gioielli umani.
Sono stati ricoperti di diamanti, e non mi stupirebbe sapere che sono veri.
Sembrano essere nati tra le gemme preziose, e la loro bellezza naturale contribuisce a dare quest’impressione. Gloss è ben impostato, ma nonostante questo non sembra poi tanto ridicolo, con le braccia muscolose ricoperte di gemme; Cashmere, devo ammetterlo, è davvero molto bella, ma è una bellezza scontata, visto che non è raro trovare belle ragazze con i capelli biondi e gli occhi blu.
Mi ricorda molto Lux, anche se i suoi, di occhi, erano verdi. Rabbrividisco.
È un particolare che non potrei mai dimenticare, non dopo averli avuti a due centimetri dal viso, incastrati nel muso terrificante di un ibrido.

Osservo Brutus ed Enobaria, del distretto due, uscire dall’enorme portone vestiti da soldati. Enobaria digrigna i denti di modo che tutti possano vedere le punte bianco latte, acuminate come denti di squalo. Brutus non deve far nulla per sembrare terrificante, gli basta lo sguardo truce. Katniss a confronto sembra gentile e disponibile con tutti.

Vedo uscire due enormi lampadine: i tributi del distretto tre.
La pena si fa strada dentro di me. Hanno ormai una certa età, entrambi. La donna in particolare, che credo si chiami Wiress, vaga con lo sguardo da una parte all’altra, evidentemente confusa, o forse persa in pensieri sconosciuti.
L’uomo, Beetee, ogni tanto la richiama a se, stringendole la mano. Lei si volta, gli sorride ed io capisco che quei due devono essere marito e moglie.
Non mi stupirebbe, venire a sapere che uno dei due potrebbe essersi offerto volontario per accompagnare l’altro in questo viaggio terrificante.

Il quarto carro è quello del distretto della pesca, occupato da un personaggio che è impossibile non conoscere: Finnick Odair. Ha vinto i suoi giochi quando aveva quattordici anni, e da allora è una leggenda vivente.
Non indossa altro che una rete da pesca, annodata all’altezza del pube.
 Il resto è tutto frutto della genetica, e immagino che il suo stilista ne fosse consapevole; infatti sento la folla lasciarsi andare in un unico sospiro d’ammirazione, non appena fa il suo ingresso nella sfilata.
Lui sorride e agita la mano in saluto, mandando baci a destra e a sinistra e ricevendo altrettanti gridolini eccitati e sospiri e acclamazioni. Un vero idolo, mi dico. Noto che stringe forte la mano dell’anziana donna alla sua sinistra. Non ricordo il suo nome, ma sono sicuro di avere di fronte una donna intelligente, me lo dicono i suoi occhi. Mi chiedo che legame ci sia fra Finnick e questa signora.

Quando tocca al sesto carro, dire che mi spavento è dire poco. I tributi del sei sono scarni, come se qualcuno si fosse mangiato tutto quanto avevano al loro interno: i volti sono spaventosamente scavati, gli occhi sembrano enormi.
Effie deve notare il mio sgomento, perché mi si avvicina, un’espressione afflitta dipinta sul viso, e mi sussurra: - è stata la Morfamina, a ridurli così. -

Morfamina. Non è la stessa medicina che quella ragazza ha portato a Katniss quando Gale è stato frustato?

- Ma la Morfamina non è un medicinale? –

- E’ un potente antidolorifico, sì, ma se usato eccessivamente diventa una droga e non se ne può più fare a meno. – mi spiega Effie. – Ringrazio il cielo che Haymitch preferisca gli alcolici. – aggiunge. – Disintossicare qualcuno dalla Morfamina, una volta che entra in circolo a quel modo, è impossibile. –

Annuisco e torno a osservare la sfilata. I tributi del sette vestiti da alberi, quelli dell’otto che sembrano enormi rotoli di tessuto.

Sto cercando di capire il senso delle cinture fiammeggianti sui costumi da mucca dei pastori del dieci, che rischiano, con quelle fiamme, di incendiare anche il carro dell’undici, ricoperto di paglia e fieno, quando finalmente vedo comparire Katniss e Haymitch.

Sento, più che vedere, l’intera folla che si concentra su di loro.
Sorrido, ringraziando dentro di me Portia e Cinna, che anche quest’anno faranno la differenza.
Non potrebbe essere altrimenti. Ripenso a quanto fossimo spettacolari, io e Katniss, con indosso le fiamme della ribellione, lo scorso anno, e mi dico che non siamo stati niente, in confronto a questo.
Katniss è nel suo elemento.
Gli stilisti devono averle detto di mantenersi seria e di ignorare spudoratamente chiunque, perché è proprio questo che sta facendo. Fissa un qualche punto davanti a se, ignorando i fiori che le vengono lanciati fin quando la gente decide che è meglio stare ad osservarla e basta, perché tanto non verranno notati. Lo stesso fa Haymitch, affianco a lei. In questo momento si vede più che mai il loro essere simili: sono potenti e pericolosi.
Sono arrabbiati con questa gente che gode della sofferenza loro e degli altri tributi, come lo sono io.
I loro costumi sono, per usare una sola parola, profetici. Il vento scuote le larghe maniche, che sembrano fatte di piume, con una chiazza bianca ben visibile al centro.
La punta tonda di ogni piuma scintilla di cangianti riflessi d’arancio come fosse un tizzone ardente. Sono ghiandaie imitatrici in fiamme, nate dal fuoco come le fenici.
Un brivido mi scorre lungo la schiena. Cinna e Portia hanno fatto un lavoro splendido, ma l’odore rivoluzionario della cosa è palese a chiunque sia quantomeno informato dei fatti; e ho paura per loro, perché so com’è che Capitol City ama sistemare i conti con le persone che non vanno loro a genio.
 
 
- Semplicemente splendido! – è il gridolino compiaciuto di Effie, rivolto a Cinna e Portia, quando torniamo al piano terra del centro immagine. Loro ringraziano con un sorriso, scuotendo la testa come a voler dire di non meritarsi tanti complimenti. – Davvero fantastico. – Confermo io.
Li guardo fisso, e so di sembrare preoccupato. Lo sono, e lo è anche Katniss, che li guarda allo stesso modo.

- Io e voi due ... dobbiamo parlare. – dico, e faccio segno agli stilisti di seguirmi. So dove portarli: la terrazza sul tetto è perfetta per fare chiacchierate segrete.
Gli altri ci seguono, visto che ora si torna tutti ai propri piani fino a domani, quando comincerà l’addestramento. Katniss mi osserva, interrogativa, per tutto il tempo, ma non posso dirle nulla adesso, ci sono troppe orecchie indiscrete e telecamere che ci riprendono, qui.
Arriviamo all’attico e ci fermiamo appena oltre la soglia.

- Oh! – squittisce Effie. – A quanto pare, quest’anno vi hanno dato Una parure. –

Rimango perplesso, perché proprio non capisco cosa intenda. Effie si sposta, forse per consentire agli altri di vedere quel che vede lei. Mi volto verso Katniss appena in tempo per vedere l’orrore dipingersi sul suo viso. Sta fissando un punto lontano, in fondo alla stanza.
Seguo il suo sguardo e mi trovo di fronte due senza voce.
Una dei due la riconosco, perché è la stessa dello scorso anno, la ragazza che Katniss ha visto per la prima volta proprio nel suo ultimo giorno di libertà.
L’altro, un ragazzo forse un po’ più grande di me, ha i capelli rossi, come lei. Dev’essere questo che Effie intende per parure. Tuttavia, ha anche un’aria familiare. Devo osservarlo per qualche secondo, per riconoscere in lui il pacificatore che era steso a terra, il giorno in cui hanno fustigato Gale. Darius mi pare che si chiami. Se era come tutti i pacificatori del dodici, doveva essere anche lui un assiduo frequentatore del Forno. Ecco spiegato l’orrore di Katniss.

Prima che io possa fermarla, si fa strada tra di noi e, sorpassando anche i due che ci fissano in attesa di ordini,  si fionda dritto in camera, sbattendo la porta.
Cala un silenzio glaciale, fin quando Effie, con voce fintamente entusiasta, batte le mani esclamando:

- Bene! È quasi ora di cena! –

Haymitch sbuffa e scuote la testa, evidentemente scocciato, per poi andarsi a chiudere in camera a sua volta; ma io capisco Effie, che deve sempre destreggiarsi fra gli sbalzi d’umore di tutti noi, l’alcolismo di Haymitch, la scontrosità di Katniss e gli impegni ufficiali.
Sentendo la protesta del mio ex mentore si rabbuia, osservando la sua schiena mentre se ne va, per poi ordinare, con evidente frustrazione, la cena ai due senza voce.
Io guardo Cinna e Portia e faccio loro cenno di seguirmi.
Sulla terrazza, chiedo a Cinna e Portia di far finta di essere interessati ai fiori, mentre parliamo.

- Come vi è saltato in mente? – sussurro loro. – Voglio dire, i costumi erano sensazionali, e vi ringrazio per questo, ma così rischiate troppo! –

Portia coglie un piccolo fiore violetto e lo infila nel taschino della mia giacca. Sorride.

- Grazie, Peeta; per esserti preoccupato per noi. Ma vedi, questo è il nostro lavoro. Noi crediamo in voi, nella possibilità che avete di ... cambiare le cose. –

- Solo attraverso quel tipo di creazioni possiamo darvi sostegno. - aggiunge Cinna.  – Non pensare a noi, Peeta. Sappiamo bene quel che rischiamo, ma credo di parlare anche a nome di Portia quando dico che non posso restarmene con le mani in mano, senza far nulla di quello che so di poter fare. Sono il tipo che incanala le sue emozioni nel lavoro. –

Portia annuisce complice. – Per ora, comunque, non corriamo rischi. Gli serviamo almeno fin quando Katniss e Haymitch non saranno entrati nell’arena, perché gli stilisti compaiono in pubblico troppo spesso. Ci faranno tutte le interviste di rito e poi ... quel che sarà, sarà.  – sospira.

Non ce la faccio.
Non voglio vederli morire ma stringo i denti per non far uscire alcuna infantile protesta.
Mi sento terribilmente inutile a stare qui, senza poter fare nulla, mentre Katniss e Haymitch aspettano di affrontare una seconda arena, mentre Cinna e Portia scatenano impunemente l’ira di Snow, solo per aiutarci. Li ammiro, per la forza che hanno.
Vorrei solo averne altrettanta anch’io.
 
Cinna sembra capire cosa mi passi per la testa.

- Puoi farcela Peeta. Puoi riportarla a casa, puoi riportarceli entrambi. Fatti trovare qui a mezzanotte di domani. – dice, ed io non capisco, faccio per chiedere chiarimenti ma Portia, dietro di lui, scuote la testa modellando un silenzioso “non ora” con le labbra piene.
Annuisco e torniamo dentro, dopo aver sparato un commento qualunque sulla bellezza della terrazza, che dovrebbe essere il solo motivo per cui noi tre ci troviamo li.

Quando rientriamo, Effie è ancora seduta sul divano nella stessa posizione in cui l’abbiamo lasciata. Gli stilisti lasciano la stanza ed io mi siedo accanto a lei.
Mi guarda, per qualche secondo, e mi sento letteralmente soppesato, giudicato, come se fossi scrutato da uno degli strateghi nella palestra.
Soprattutto, mi sento terribilmente in colpa nei suoi confronti.
 
La rivedo osservare Haymitch da lontano, non vista, oggi e sul treno, e la vedo adesso, guardarmi come se mi stesse chiedendo qualcosa che io so perfettamente riguardare proprio lui.
Mi sento terribilmente in colpa.
 Vorrei dirle qualcosa, ma non apro la bocca; perché so che qualsiasi cosa dicessi ora sarebbe sbagliata, e lei si alza e se ne va, lasciandomi solo su questo divano a chiedermi perché proprio io, che ho basato la mia intera esistenza su un amore mai ricambiato e so cosa voglia dire soffrire per questo, potrei finire per essere la causa della morte di un sentimento. 




*Angolo autrice* Aaaaaaallooora :) Innanzitutto: Ciao e grazie a tutti, come sempre. Poi, mi scuso per il ritardo. Purtroppo l'università ruba la maggiorparte del mio tempo, in più sto aspettando che la Infostrada installi la nuova linea a casa mia, e sapete quanto possono essere lenti a volte -.-
Vi è piaciuto questo capitolo? Spero di si :) Sapete come fare, per farmelo sapere ;) 
Vi ringrazio ancora tantissimo, voi che leggete la mia storia :) 
Un bacione 

Una rosa di Versailles

 

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Capitolo 7
*** - 7 - ***


- 7 -
 
[Effie’s POV]

 
You never go
You’re always here
(suffocating me)
 
Under my skin
I cannot run away …
                               
                                                                                       Red – Already Over

 
 
Vedo Peeta, Cinna e Portia lasciare la stanza, dirigendosi verso la terrazza, e ne approfitto per rilassarmi un po’, per cercare di fare ordine nella mia testa.
 
 Mi manca l’aria. Lo vedo scuotere la testa e sbuffare ad ogni parola che dico, e ignorarmi quando cerco di dirgli qualcosa che credo sia importante. Vorrei che capisse che sto male, che desidero fare qualcosa per lui, ma proprio non ci arriva! Non si rende conto che, se potessi, lo tirerei fuori da questa situazione? Non capisce che, se dipendesse da me, non ce lo lascerei entrare, in quell’arena?
 
Ci vuole poco perché, scavando nella mia mente alla ricerca di una risposta, salti fuori la prima volta che ho visto Haymitch.
 
Avevo ventitré anni, il mio sogno si era appena realizzato: ero riuscita ad ottenere il posto che desideravo nell’organizzazione degli Hunger Games, e quello sarebbe stato il primo anno in cui mi sarei occupata di dirigere una mietitura.  Certo, era un sogno un po’ sbiadito: di tutti i distretti che avrebbero potuto assegnarmi, avevano scelto di prendersi gioco di me in quanto novellina, affibbiandomi il dodici.  Cercavo però di dimenticare quel dettaglio: se avessi stretto i denti per un po’ e fatto bene il mio dovere, avrei presto ottenuto un avanzamento di carriera.
 
Il giorno della mia prima mietitura si avvicinava, ed ero eccitatissima. Sapevo a memoria le mie battute, le pose da assumere, le tempistiche da mantenere perché il tutto risultasse perfetto per le telecamere. Scelsi con molta cura i miei abiti per quel giorno, prestando estrema attenzione alle mode del momento, perché nessuno avesse a che ridire di come mi vestivo. La mia immagine doveva risultare ineccepibile. Errori non ve ne sarebbero stati, ne tantomeno ritardi sulla tabella di marcia.
 
Il fatidico giorno, poche ore prima dell’inizio della mietitura; il vincitore che con me avrebbe dovuto presenziare e che mi avrebbe accompagnata nella mia prima esperienza da assistente, non c’era: svanito nel nulla. Domandai esasperata a chiunque mi capitasse a tiro che fine avesse fatto, ma alla fine dovetti portare avanti il tutto da sola. Lo vidi solo quando salii sul treno, assieme ai tributi prescelti per quel giorno.
 
Il primo incontro fu un disastro e, ora che ci ripenso, vero e proprio presagio di quella che sarebbe stata la nostra collaborazione forzata da allora in poi: una guerra.
Spalancò la porta della sala relax del treno, mandandola a sbattere dall’altro lato e facendo un tale fracasso che mi rovesciai addosso il te che stavo bevendo, sul completo che avevo preparato con tanta cura e che sarebbe dovuto durare, nelle mie intenzioni, l’intera giornata.
 
Avevo già visto Haymitch durante i giochi, naturalmente, e ricordavo vagamente qualche altra sua apparizione come mentore. Vedevo gli Hunger Games sin da piccolissima, assieme ai miei genitori, pregustando il momento in cui avrei preso il posto di una di quelle donne elegantissime, che avevano il compito a mia detta cruciale di estrarre i nomi dalle bocce di vetro. Di certo non mi sarei persa un’edizione della memoria, che tra l’altro per me era la prima.
 
Non c’era alcuna traccia del vincitore che ricordavo, nell’uomo che mi stava di fronte. Forse aveva un anno più di me, ma sembrava incredibilmente vecchio e, soprattutto, sciatto. Aveva vinto gli Hunger Games solo sette anni prima, che cosa gli era accaduto? La risposta, ora lo so, stava tutta nella bottiglia che anche allora teneva tra le mani, solo che non ero pronta per scavare a fondo nel significato che aveva quell’involucro di vetro; e tutto quello che vidi furono i suoi occhi appannati e il fatto che fosse vestito con le prime cose che, evidentemente, gli erano capitate. Provai immediata repulsione.
 
- che maleducazione! – strillai, per poi correre a cambiarmi d’abito, terrorizzata all’idea che qualcuno potesse riprendermi in quello stato. Solo a ripensarci adesso, mi sento ridicola.
 
Questa prima immagine che ho di Haymitch è in assoluto contrasto con l’uomo che conosco ora, e lo è sempre stata: dalla prima volta che l’ho visto sobrio, intento ad accattivarsi gli sponsor per far si che almeno uno dei suoi tributi uscisse vincitore da quella che, solo ora me ne rendo conto, non è altro che una tremenda carneficina. L’ho visto fallire per diciassette anni e soffrire per questo, ritrovandolo sempre più sconfitto ogni anno e mi pento di non aver saputo comprenderlo fin da subito, di essermi persa nelle mie sciocche fantasie, nei miei futili pensieri.
Mi pento di non averlo saputo amare prima.
 
Sospiro, fissando lo schermo vuoto. Il telecomando è a pochi centimetri da me ma non ho alcuna intenzione di accendere il televisore: non vi troverei altro che immagini di vecchi Hunger Games che non voglio vedere. Mi è bastato vederle una volta per ciascuna edizione, in diretta, in solitudine nel buio di una stanza, pregando che qualcuno mi desse il potere di fermare tutto, per poi riuscire allo scoperto, truccata di un sorriso smagliante e dei modi affettati di mia madre.
Certo non ho scusanti. Avrei potuto mollare tutto all’istante, una volta resami conto di cosa stesse realmente accadendo, ma non l’ho fatto, ammaliata forse dalla vita cui ero sempre stata abituata, dalle telecamere, i vestiti e i gioielli.
Non valeva la pena di pagarli con tutto quel sangue innocente.
 
Sussulto leggermente quando sento Peeta rientrare assieme agli stilisti, che lasciano la stanza quasi subito. Lui si siede affianco a me. Lo guardo. Non posso incolparlo di essere egoista, perché se fossi stata al suo posto avrei fatto la stessa cosa, anzi è proprio quello che desidero poter fare. So che userà tutte le sue capacità nel tentativo di salvare Katniss, so che Haymitch stesso lo ha esortato a farlo. Non posso fare nulla nemmeno questa volta.
 
Ho bisogno di stare sola, così mi alzo lasciando lì Peeta, senza dirgli nulla: se parlassi adesso, potrei dirgli cose che non si merita di sentire. Mi chiudo nella mia stanza, sapendo che Haymitch si trova in quella affianco. Mi appoggio al muro, le mani aperte premute sulla superficie fredda e ruvida che separa le nostre stanze e le nostre vite; come a ricercare un contatto, che non ci sarà. Chiudo gli occhi e mi concentro, nella speranza che Haymitch capisca che gli sono vicino e che se solo avrò un’occasione di cambiare le cose, lo farò. Sto lì per diversi minuti, prima di decidermi a staccarmi. Mi metto di fronte allo specchio e nel guardare il mio riflesso mi sfugge un piccolo sorriso ironico.
 
Sono un mostro. Mi strappo letteralmente la parrucca dalla testa, facendo volare forcine dappertutto, sospirando di sollievo quando riesco a togliere anche la retina che imprigiona i miei capelli. Probabilmente, solo i miei genitori e qualche amica d’infanzia ricordano che sono bionda. La mia chioma, che non taglio da anni, arriva a toccarmi il fondoschiena in onde leggere.
Agguanto un fazzoletto, lo imbevo di lozione e mi strucco il viso, che torna ad essere rosa come dovrebbe. Mi stacco le ciglia finte e mi sento già più leggera così, ma non è abbastanza: sbottono la giacca, strettissima, e la lancio letteralmente dall’altra parte della stanza. Mi premo due dita sui reni, dove ci sono due pulsanti che allentano la pressione del corsetto con un leggero ffffshh, così che riesco a sfilarmelo di dosso. Respiro a pieni polmoni, ma l’aria mi manca lo stesso. Mi mancherà in eterno.
Mi abbandono sul letto solo quando è rimasta giusto la biancheria a coprirmi, lasciando che la mia pelle si goda la freschezza delle lenzuola di raso.
 
Mi chiedo cosa accadrebbe se io adesso entrassi nella sua stanza e gli dicessi quello che provo da anni. Immagino che potrebbe restare scioccato o divertito, a seconda che sia, nell’ordine, sobrio o completamente sbronzo. Non so cosa sarebbe peggio. Forse la seconda ipotesi: perché non c’è niente di divertente, ci sarebbero solo tante cose di cui parlare, e per capirle sarebbe meglio se fosse lucido.
 
Mi alzo di scatto. Perché non farlo, comunque? Cosa ho da perdere? Tra qualche giorno potremmo non vederci mai più, a questo punto è meglio tirar fuori tutto quello che resta prima che sia troppo tardi. Non potrei comunque vivere questi giorni peggio di così.
 
Afferro la vestaglia, me la infilo in fretta ed esco dalla mia stanza. Prima di cambiare idea, ho già bussato alla porta di Haymitch. Non risponde. Un sibilo frustrato fuoriesce dalle mie narici.
 
- Haymitch! – esclamo. Niente. Busso ancora, più forte stavolta, e dall’altra parte sento un grugnito in risposta.
Fantastico, è ubriaco. Meglio che mi prepari al fiume di risate.
 
Mi schiarisco la voce. – Posso entrare? –
 
Sento dei passi pesanti e poco dopo la serratura che scatta. Haymitch apre la porta. Mi guarda. Passano diversi secondi, poi senza dir nulla mi chiude la porta in faccia. Lo sento tornare indietro di qualche passo, verso il letto; e poi ritornare alla porta. La riapre.
 
- Chi sei? – chiede, socchiudendo gli occhi appannati e agitando la bottiglia. Sento lo sciacquio del liquore nel silenzio. – Effie! – rispondo, più irritata di quanto vorrei sembrare.
 
- Cosa? No ... d’accordo, bello scherzo si, complimenti! Tu, dovresti essere Effie Trinket? Direi che hai dimenticato a casa parecchi pizzi, merletti, fiori ... –
 
Continua a fissarmi, dritto negli occhi, per poi sussultare e allontanarsi, forse rendendosi conto che sono davvero io.
 
Devo lottare contro la me stessa, abituata a scattare stizzita ed andarsene. È talmente diverso da me che sembra impossibile non ridurre ogni gesto, ogni parola tra noi a una cattiveria. Gli premo una mano sul petto per scostarlo, così da poter entrare nella sua stanza. Lui mi osserva, e sembra un po’ curioso. Certo, lo capisco, è già la seconda volta in meno di un giorno che entro di forza in camera sua, solo che ieri non sono stata in grado di dirgli le cose che volevo come avrei dovuto, per cui dopo qualche amara battuta se n’è andato, lasciandomi a chiedere cosa mi fosse passato per la testa.
 
Lo stato in cui ha ridotto questa stanza mi lascia senza parole. È un completo disastro, ed è qui solo da qualche ora. Ci sono già tre bottiglie di whiskey abbandonate, ormai vuote, a terra. Le coperte sono aggrovigliate sul pavimento, assieme ad un mucchio impressionante di vestiti, come se li avesse tirati tutti fuori dall’armadio e li avesse messi lì a posta, l’odore acre e pungente dell’alcool è micidiale. L’unica zona libera della stanza è proprio il letto su cui mi siedo.
 
- Si può sapere che cosa vuoi? – biascica. – Anche ieri, ti sei ficcata a forza nella mia stanza, e per dirmi cosa? Di smettere di bere! – esclama. – Ma cosa vuoi saperne tu! – e butta giù un altro sorso.
 
Già. Cosa voglio saperne io, che sono cresciuta nella serenità più completa, che non ho mai sentito la mancanza di nulla e non ho mai dovuto aspettare, anno dopo anno, che il mio nome venisse estratto alla mietitura così che potessi andare a morire, per la gioia del pubblico?
 
- No, hai ragione, non ne so niente. O meglio, non ne sapevo niente prima. Quanti anni sono che lavoriamo insieme, Haymitch? –
 
Aspetto pazientemente una risposta, mentre lui sembra volerla cercare sul fondo di quella bottiglia.
 
- Diciassette anni. – dice infine. – Diciassette anni d’inferno, Trinket. –
 
Ahi. Fa davvero male, ma costringo il mio cuore a non spezzarsi ancora, perché non avrei la forza di raccoglierne i cocci, dopo. Mi convinco che sia l’alcool a parlare, anche se forse da sobrio direbbe la stessa identica cosa.
 
- Potresti smetterla, per favore? –
 
- Di fare cosa? –
 
- Di essere ... così. Sono qui per parlarti di una cosa seria. –
 
- Se sei venuta a dirmi che posso uscire vivo da questa storia, puoi anche andartene. –
 
Sospiro. – Non sono venuta a dirti questo, anche se vorrei poterlo dire. Lo vorrei tanto ... – mi trema la voce, e gli occhi sono già umidi di lacrime perché è vero, è proprio quello che vorrei potergli dire, mentre devo combattere con la realtà delle cose, in cui sono un essere inutile.
 
- Haymitch, credimi, mi dispiace ... – mormoro, ma la mia voce viene sovrastata dalle sue urla.
 
- Hai passato diciassette anni ad estrarre nomi da quelle bocce di vetro, nomi che ora non esistono più! E vieni a dirmi che ti dispiace?! Tu provi dispiacere? Provi compassione? Provi pietà? Non la voglio, la tua pietà! –
 
Afferro con le mani le lenzuola e mi ci aggrappo come ad un’ancora, in quel mare in tempesta che è questa situazione.  Tengo la testa china per tutto il tempo, lascio che mi urli queste cose, che mi lanci i peggiori insulti. Me li merito tutti, per quei ragazzi che hanno visto la loro vita finire nel momento stesso in cui hanno sentito la mia voce chiamare il loro nome, per i vincitori che convivono con l’incubo, o vengono annientati da esso come se in realtà gli Hunger Games, per loro, non finissero mai.
 
Per lui, che ha perso una famiglia e la ragazza che amava, a causa del sistema che servo.
 
- Vorrei non aver mai cominciato. – dico, quando alla fine sembra aver finito gli improperi.
– Vorrei essere cresciuta in un distretto come un altro, a fare i conti con la fame e con la sensazione di non essere mai davvero libera, visto che, alla fine, non lo sono mai nemmeno qui. Lo vorrei perché se fosse così tu ora non mi disprezzeresti, e invece sono cresciuta in una famiglia che mi ha nutrita a pane e Hunger Games, facendomi credere che si trattasse solo di un divertente spettacolo come un altro. Preferirei aver vissuto i miei anni migliori con la possibilità di venire estratta, aver fatto dei figli e vederli in fila davanti al palco ad aspettare che una come me estragga i loro nomi. Almeno saprei cosa stai passando. –
 
Haymitch mi osserva in silenzio, ora. Ha le braccia abbandonate lungo i fianchi, sembra essersi scordato della bottiglia che tiene tra le mani. La tensione che c’è in questa stanza si potrebbe tagliare col coltello e so che non c’è momento migliore di questo, per dirlo.
 
- Ti amo, Haymitch. Non provo compassione, ne pietà. Solo amore. Ci ho messo ... un’infinità di tempo, per capire che quello che provavo per te non era disprezzo, non era odio. Per diciassette anni ti ho visto cercare di riportare a casa i ragazzi che ti venivano affidati, e credi che io non ti abbia mai sentito urlare, nella tua stanza, ogni volta che li vedevamo morire? Credi che non sappia perché ti ubriachi tutti i giorni? Non posso capirlo fino in fondo, ma lo so. So che sei davvero felice di aver potuto prendere il posto di Peeta perché così un’altra vittima di questo sistema sarà salva, grazie a te, e a sua volta potrà salvarne un’altra. Forse quei due insieme potranno davvero cambiare le cose e lo spero, ma ... –
 
Mi alzo. Non so cosa sto facendo, ne perché, ma lascio che sia il mio corpo a guidarmi perché la mia mente è occupata da troppi pensieri. Lo raggiungo e, facendo leva sulle sue spalle per colmare la distanza, poso un bacio sulle sue labbra. Sono così tremendamente calde che non vorrei staccarmi, ma c’è qualcos’altro che devo dire:
 
- Non voglio vederti morire, Haymitch. Non voglio ... – sussurro, e mi si spezza la voce. Senza dire altro,  lo oltrepasso e lascio la stanza, chiudendomi piano la porta alle spalle.
 
Scivolo nella mia camera e mi ributto sul letto, dopo aver abbandonato la vestaglia su una sedia. A poco a poco, la coscienza di ciò che ho fatto mi invade. Ho baciato Haymitch. Mi ci sono voluti anni, per arrivare a dirgli quel che ho detto e fare quel che ho fatto, e lui potrebbe tranquillamente non darmi mai una risposta. D’altronde, e mentre ci penso mi si torce lo stomaco in una morsa micidiale,  tra pochi giorni potrebbe essere morto.
 
Dopo qualche minuto capisco che non sarò in grado di starmene ferma qui, senza far nulla. È ormai quasi ora di cena, così mi sforzo di alzarmi dal letto e di riprendere la mia routine. Recupero i miei vestiti, il corsetto torna a stringermi in vita e uno spesso strato di fondotinta e cipria mi avvolge di nuovo il viso. Nuove ciglia finte, una pennellata fresca di rossetto, i capelli ancora una volta imprigionati nella retina, sotto la parrucca. A poco a poco torno ad essere quella che ero. Effie Trinket, direttrice di mietiture, assistente ai tributi, che non parla mai di se, solo di cibi squisiti, abiti raffinati, argenteria di lusso e mille altre cose inutili.
 
Quando mi sveglio, sono di nuovo sul letto, vestita solo della mia biancheria. Lo sconforto e il sollievo mi assalgono contemporaneamente: era tutto un sogno. Eppure, era così reale ...
 
Mi alzo e mi guardo allo specchio: ho la pelle d’oca, e le mie labbra si sono inturgidite in un bacio che non c’è mai stato. Non mi era mai capitato di sognare una cosa come questa. L’odore penetrante di alcool ancora mi invade le narici e il suo sapore mi ha invaso la bocca. Sento ancora i suoi occhi su di me. Fletto le dita delle mani, perché mi sembra ancora di percepire la solidità delle sue spalle sotto di esse.
 
Sono giunta al limite. Non posso sperare di continuare a comprimere le mie emozioni in una scatola chiusa, tenendomele dentro, cercando di apparire quanto più fredda e indifferente possibile. Eppure, cos’altro potrei fare? A che servirebbe, in fondo, rivelargli quello che provo, com’è accaduto nel sogno? Solo a togliermi dalle spalle la minima parte di un peso che sono destinata a portare per sempre.
 
Proprio come nel mio sogno, alla fine di tutto non posso fare altro che girare per la stanza, recuperando pezzi della donna composta, educata, che è Effie Trinket per tutti. Di nuovo costringo la mia vita nella morsa micidiale del corsetto, comprimo le gambe nei collant e in una gonna di raso verde. Strato dopo strato, torno ad essere la solita me stessa, ed esco dalla stanza. Quando metto piede in sala, trovo Peeta dove l’ho lasciato, sul divano. Solo che sta dormendo.
 Mi sorprendo ad osservarlo per un po’. Dopo averlo visto uscire vincitore dai giochi, forse non sono l’unica ad aver dimenticato che non ha che diciassette anni, ma in questo momento si vede tremendamente. Non posso fare a meno di pensare che Haymitch e tutti gli altri tributi, venuti prima e dopo, avevano la sua stessa età, oppure erano più piccoli. Mentre loro si chiedevano quando sarebbe giunto il loro turno, io guardavo vestiti costosissimi nelle vetrine e facevo le moine a mia madre perché me li comprasse. Scuoto la testa. Non potrò mai comprendere fino in fondo cosa tutti loro hanno passato, perciò come posso sperare che Haymitch mi prenda sul serio?
 
Ad un tratto, sento dei passi alle mie spalle. Mi volto. È Katniss. Si ferma accanto a me e mi guarda per un secondo soltanto, prima che la sua attenzione venga assorbita, come la mia, dalla figura di Peeta addormentato sul divano.  Eppure la sua è un’attenzione completamente diversa, molto più curiosa della mia, nutrita dalla stessa necessità con cui mi capita, ormai fin troppo spesso, di osservare Haymitch non vista.
 
Ci sono cose, come questa, che accomunano le persone innamorate. Ci concediamo di guardare coloro che amiamo con una consapevolezza diversa solo quando siamo sicuri di non essere visti. Mi chiedo se Katniss sappia di essere innamorata, mi chiedo se le serviranno tanti anni quanti ce ne sono voluti a me, per capirlo.
 
Sento altri passi, più pesanti, ma non mi volto perché so che si tratta di Haymitch. Si ferma accanto a noi. Guarda Katniss e scuote la testa, senza riuscire a trattenere un mezzo sorriso; mentre lei gli risponde con una delle sue solite occhiate torve. Il suo sguardo si ferma per un attimo su di me e sussulto. Inarco le sopracciglia, alla ricerca di una spiegazione a quell’occhiata, ma lui non mi risponde. Si allontana, sicuramente diretto alla carrozza bar, e con la mente lascio Katniss a farsi le sue domande su Peeta, preferendo far vagare il mio sguardo alle spalle di Haymitch, almeno fin quando non scompare oltre la porta.
 
Avrà pensato che fossi patetica, ad osservare Peeta come se mi interessasse qualcosa di lui.
Crederà ancora alla mia messinscena di donna appagata dalla possibilità di essere strumento del fato, facendo roteare le manine ben curate in una boccia di vetro. Ingoio quest’altro boccone amaro, pregando di riuscire ad avere il coraggio di spiegargli chi è davvero Effie Trinket, o meglio cos’è diventata e perché, prima che sia troppo tardi.
 
 
 
*Angolo Autrice*
 
Ciao a tutti di nuovo! Lo so, è un capitolo un po’ particolare, forse anche un po’ più corto del solito, ma davvero credetemi quando vi dico che Effie mi stava pregando di lasciarle un po’ di spazio tutto per se. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, malgrado il distacco da Peeta e Katniss, che sono i preferiti della maggior parte di noi :) 

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Capitolo 8
*** - 8 - ***


-8-
 
[Katniss’ POV ]
 
 
Haymitch mi guarda, e sul suo volto c’è uno dei suoi irritanti sorrisetti. Non riesco a capire cosa stia pensando e la cosa m’inquieta un po’: credevo di essere ormai in grado di decifrare i suoi codici, invece non so proprio cosa gli passi per la testa, da qualche tempo a questa parte. Mi lascia dentro la stessa scomoda sensazione che mi ha sempre lasciato mia sorella: quella di sapere sempre qualcosa in più di me.
 
È sempre stata una qualità di Prim, questa.  Ricordo un giorno di pioggia, in cui stavamo tornando a casa di corsa, per non bagnarci troppo; anche se sapevo che saremmo rientrate fradice, gocciolando come panni stesi ad asciugare.
Certamente non avremmo avuto la possibilità di asciugarci davanti al camino: era spento da giorni, malgrado fosse pieno inverno. Questo perché la legna che riuscivo a riportare a casa ero costretta a venderla per soddisfare altre esigenze.  Non che a me importasse, io ormai ero abituata a ignorare il freddo, che invece pareva sempre essere deciso a gelarmi fin dentro le ossa, a ghiacciarmi il sangue nelle vene. Ma Prim era più fragile, non volevo che si ammalasse, anche se l’influenza, in casa di un medico, era di sicuro l’ultimo dei mali.
 
Anche in momenti tanto tristi, Prim sapeva come rendere le cose divertenti. Mi lasciò la mano e prese a girare in tondo, sotto la pioggia battente. Girava e girava, ridendo. Io tentai di dissuaderla, ma lei non volle saperne.
 
- Tanto ci bagnamo lo stesso. Che differenza fa? – mi chiese. Aveva proprio ragione. Sconfitta da quel semplicissimo ragionamento me ne stetti a guardarla che girava senza sosta, fin quando non cominciai a sentirmi osservata. Mi voltai di scatto.
 
Peeta era alle mie spalle, a qualche metro da me. Reggeva nella mano sinistra un ombrello. Per quanto questo possa sembrare assurdo, gli ombrelli nel dodici erano e sono un bene quasi di lusso ormai. Probabilmente, ne avevamo anche noi uno in casa, appartenuto a mia madre da giovane, ma con altrettanta certezza poteva essere rotto. Non aveva senso pensarci. Il punto era che in quel momento non lo avevamo, e oggi posso dire che Peeta allora mi guardasse come a voler offrire, a me e mia sorella, il riparo di cui avevamo bisogno.
 
Prim nel frattempo si era fermata, e quando mi voltai verso di lei la colsi ad osservarmi. Alzò una mano per salutare Peeta, poi mise entrambe le mani attorno alla bocca e urlò quasi, tra esse: - Grazie! –
Mi girai di nuovo appena in tempo per vedere Peeta alzare la mano e scuotere la testa, come a dire che non ce n’era bisogno, e poi andarsene.
 
- Grazie di cosa? – le chiesi, interdetta, domandandomi anche perché mai mia sorella non trovasse alcuna difficoltà nel parlare con lui ed io, invece, sì. Lei non rispose. Fece quello stesso mezzo sorriso che oggi è comparso sul volto di Haymitch, lasciando insoddisfatta la mia curiosità e insinuando in me il sospetto che ci fosse qualcosa che lei sapeva ed io invece no.
 
Per un attimo penso di chiederglielo appena la rivedrò, poi un dolore lancinante mi attraversa il petto: non potrò mai farlo. Non tornerò. Non rivedrò mai più la mia dolcissima sorellina.
Perché ho ragionato come se fossi certa di tornare a casa? Forse perché nel mio egoista e calcolatore ego nutro la speranza che Peeta scelga di aiutare solo me?
 
Torno alla realtà: Haymitch è scomparso oltre la porta della carrozza bar. Effie ha appena svegliato Peeta, che mi sta guardando. Sussulto, rendendomi improvvisamente conto che lo sto fissando da un bel po’, senza dire nulla e senza nemmeno accorgermene.
 
- Cosa c’è, Katniss? – mi chiede. Effie nel frattempo se n’è andata. Siamo soli.
- Niente. – rispondo. – Stavo ... ricordando una cosa. –
 
- Vuoi parlarmene? –
 
Mi chiedo se debba sforzarsi almeno un po’, per sembrare tanto interessato a tutto quello che mi riguarda; e il modo in cui mi osserva mi risponde meglio di qualsiasi parola: non deve sforzarsi affatto. Mi guarda, in attesa.
I suoi sono gli unici occhi in grado di farmi abbassare lo sguardo senza accompagnarsi ad alcuna parola. Dev’essere quell’azzurro innocente, pacifico, così diverso dal mio grigio triste e tormentato. Totalmente incapace di ferire, perfetto per consolare e proteggere.
La purezza del suo sguardo mi fa sentire come se non meritassi niente, e di fronte ad una persona buona come Peeta nessuno meriterebbe, figurarsi io.
 
- E’ un ricordo di quando andavamo ancora a scuola ... – gli racconto cosa la mia mente ha appena ricacciato. Peeta sorride.
 
- Cosa c’è? – gli chiedo.
 
- Me lo ricordo anch’io. Vuoi sapere perché mi ha ringraziato? –
 
Annuisco, curiosa.
 
- Be, allora chiedilo a Prim, quando tornerai a casa ... – dice, sorridendo. Il suo volto però si fa improvvisamente serio, quando aggiunge: - Perché tu ci tornerai a casa, Katniss. –
 
Sono così impegnata a guardarlo negli occhi che ci metto un po’ per accorgermi che mi sta stringendo entrambe le mani, e quando me ne accorgo è perché la mia pelle, a contatto con la sua, si è fatta bollente.
Scuoto la testa alle sue parole. Perché deve sempre essere così buono, con me?
 
- Ehi, no. Guardami. – dice, spostando una mano sul mio viso.
Potrei cuocere qualcosa sulle mie guance, adesso.
 – Tu tornerai a casa. Non voglio discutere ancora di questo. È una promessa. – il suo tono è talmente serio e tormentato da cancellarmi il sorriso, come quando, nella grotta, mi fece promettere che non sarei andata al festino per recuperare la sua medicina.
Ha la stessa espressione stanca di allora, malgrado si sia appena svegliato, e capisco che probabilmente la avrà per sempre: a diciassette anni ha visto gente morire sotto i suoi occhi, ha rischiato di morire a sua volta e ha perso una gamba, e ora si ritrova ad aspettare che due persone a lui care rientrino nello stesso posto da cui lui è faticosamente uscito, senza avere certezza di vederli tornare indietro.
 
- Va bene – gli dico, ma lo faccio solo per non vederlo ancora più stanco, per non sentirlo di nuovo urlare, perché continuo a credere che non ne uscirò.
 
- Aaaah! – esclama lui. – So cosa stai pensando. Mi sono appena ricordato di quando, nella grotta, ti ho chiesto di non andare al festino. Mi hai assecondato allo stesso modo, per poi addormentarmi con lo sciroppo. Non ci casco una seconda volta! – scuote la testa, ma sorride, e paradossalmente vien da ridere anche a me.
 
- E’ stato un bello scherzetto, quello. – confermo, annuendo soddisfatta.
– Avevi anche appena detto che non sapevo mentire. – ricordo, a occhi chiusi. Faccio appena in tempo a riaprirli per vedere Peeta che mi schiaccia un cuscino in faccia, rovinandomi addosso.
 
- Sta zitta! – esclama ridendo, e rido anch’io, sotto il cuscino leggermente premuto su di me. Ne prendo un altro alla cieca, cercando di colpire Peeta, che distratto molla la presa sul suo.
Così me lo tolgo di dosso, ma quando finalmente riesco a vedere di nuovo, mi fermo.
 
Sono sdraiata sul divano, le gambe leggermente aperte, la pancia scoperta dalla maglia che nella foga si è sollevata, e ho il respiro corto per via delle risate.
Peeta è sopra di me, una gamba tra le mie; e mi tiene un polso bloccato, mentre con l’altra mano ha appena afferrato il mio cuscino, col quale però ho fatto in tempo a scompigliargli i capelli. Mi fissa con quei suoi occhi luminosi, ora più allegri, il volto ancora disteso in un sorriso dei suoi, di quelli che mozzano il fiato.
Tendo la mano libera, con l’improvviso desiderio di far scivolare le dita fra i suoi capelli, quando sento un rumore improvviso:
 
- Ahem! –
 
Ci voltiamo entrambi di scatto, ritrovandoci fissati da Haymitch, Cinna e Portia, seduti al tavolo poco lontano.  Dietro di loro, in attesa contro la parete, c’è Darius.
Rabbrividisco e mi alzo a sedere di scatto, sistemandomi la maglietta, mentre un pensiero si affaccia alla mia mente: che cosa starà pensando Darius di me, in questo momento? Che non m’interessa nulla di quello che lui ha passato e sta passando.
Che io penso a giocherellare con Peeta mentre lui ci osserva, privato di qualcosa di prezioso come la propria voce e la propria libertà.  Se potesse ancora parlare, probabilmente m’insulterebbe: non è forse colpa mia, se lui si trova qui? Non posso permettermi il lusso di comportarmi come se nulla fosse.
 
 
Mi alzo dal divano e me ne vado in camera, senza dire nulla a nessuno, senza guardare Peeta che però mi sta seguendo. Mi parla solo quando poso la mano sulla maniglia della porta.
 
- Io non credo che perdere qualcosa ci autorizzi a far si che anche gli altri soffrano. –
 
Mi volto verso di lui, sorpresa. – Che vuoi dire? –
 
- Voglio dire che non devi pensare che Darius possa odiarti, vedendoti sorridere una volta tanto. - risponde, - Non se è una persona buona. Non se ti vuole anche solo un po’ bene. Non credo che Cinna e Portia odino vederci sorridere, e nemmeno Haymitch ed Effie. Anzi penso l’esatto opposto. – mi spiega.
– Penso che vederti felice sia la prima cosa cui una persona che ti vuole bene pensa, Katniss. – specifica. – Perciò perché ti senti in colpa, a ridere un po’? Non ti vedevo ridere così da quando ... – scuote la testa. – Pensa! Non me lo ricordo più! – conclude quasi divertito.
 
Mi ha preso di nuovo per mano, parlando, e il mio sguardo vola inevitabilmente sulle nostre dita intrecciate.
 
- Nemmeno io – confesso, ed è vero. Non ricordo più quanto tempo era che non mi sentivo tanto rilassata quanto poco fa.
 
- Però ... Peeta io non posso dimenticare, nemmeno per un secondo, tutto questo ...-
 
- E non devi farlo! Non sono forse stato io il primo a dire di non voler dimenticare? Solo ... non lasciare che tutto questo ti distrugga dentro, com’è successo a Haymitch. Combatti. Vivi finché il tuo cuore batte ancora, non morire prima che sia finita davvero! –
 
Non faccio in tempo ad assimilare quanto mi ha appena detto, perché mi avvolge in un abbraccio improvviso e forte, ed io mi ritrovo immersa tra le sue braccia, con la testa sul suo petto. Sento il suo cuore battere forte, ed il mio si unisce rapidamente.
 
- Ti prego. – dice. – Non pensare di dover morire per forza, neanche per un attimo. Farò di tutto, per portarti a casa. –
 
Stringo la sua maglietta tra le dita e annuisco. Lo so.
So che mentre sarò nell’arena a combattere contro chissà quale trappola di Capitol City lui sarà qui, a fare quello in cui ha più talento: plasmare la gente con le parole.
Non potrei essere in mani migliori, l’ho sempre saputo; ma l’emozione nel riscoprire questo pensiero è tanta e tale che il bacio che gli poso sulle labbra subito dopo è il più vero che gli abbia mai dato.
Spero con tutta me stessa, quando mi separo da lui, che non mi chieda perché l’ho fatto, perché non saprei rispondergli.
                
Ritorniamo entrambi nel salone, e subito mi sento osservata dallo sguardo indagatore di Haymitch che, col suo solito atteggiamento, non fa che innervosirmi. Continua a fissarmi, mentre si porta alla bocca diversi cucchiai di stufato, e io faccio fatica a mangiare, impegnata ad osservarlo di sottecchi, sperando che la smetta.
Ad un tratto sembra accorgersene e mi sorride, con dispetto. Distolgo lo sguardo in fretta per trovarmi in guai peggiori, perché di fronte ho Peeta che, anche se con più discrezione, mi osserva a sua volta, ponendomi proprio quella domanda cui non so rispondere e costringendomi ad inchiodare gli occhi al piatto, così bianco da farmi lacrimare gli occhi. La presenza di Darius, in attesa assieme a Lavinia, peggiora soltanto le cose: vorrei parlargli, chiedergli scusa anche se le scuse sono inutili, a questo punto.
Alla fine della cena ho lo stomaco sottosopra e il cibo minaccia di riuscire tutto fuori. Incrocio di nuovo lo sguardo di Peeta mentre mi alzo, dicendo che ho assoluto bisogno di dormire, ma lo distolgo subito.
 
Una volta tornata nella mia stanza riesco a trovare un po’ di sollievo nella solitudine che avvolge ogni cosa.
Prendo il telecomando sul mobile, che sembra starsene lì come in attesa, e giro la manopola fin quando tutto quel che riesco a vedere dalla finestra non è che un fitto bosco.
Mi disfo di tutti gli abiti, pesco una camicia da notte leggera da uno dei cassetti, e così messa mi lascio cadere sul letto, foderato di raso e seta.
 
Non so quanto tempo ho passato a scrutare i meandri del bosco proiettato sulla finestra, ma sussulto quando sento un bussare sommesso alla porta.
 
- Avanti – dico, senza soffermarmi a pensare allo stato in cui mi trovo, fin quando non mi volto e mi rendo conto che si tratta di Peeta. Mi getto sotto le lenzuola all’istante: non posso fare a meno di vergognarmi.
 
- Scusa! – esclama, - Ma sei stata tu a dirmi di entrare ... – si giustifica. Scuoto la testa.
 
- No, scusa tu ... è solo che non ci ho pensato. –
 
Silenzio.
 
- Volevi dirmi qualcosa? – chiedo, dopo un po’ che ce ne stiamo così a guardarci a vicenda; visto che la situazione, con lui lì in piedi vicino alla porta ed io sdraiata nel letto, sta diventando imbarazzante.
 
Scuote la testa. – No, volevo solo vedere se stavi bene. – dice, e mi sento sciogliere sotto le lenzuola, perché non è umanamente possibile essere tanto buoni col prossimo; e mi chiedo come faccia a essere sempre comprensivo e gentile e trovare persino il tempo di preoccuparsi per gli altri.
Soprattutto, mi chiedo come faccia a preoccuparsi ancora per me.
 
Annuisco, e cala di nuovo il silenzio. All’improvviso il mio letto sembra freddo e vuoto, anche se ci sono io dentro, come se mancasse qualcosa.
Di nuovo, vorrei che restasse a dormire con me: non posso farne a meno, ed è il bisogno che mi spinge, alla fine, a tirar fuori una mano da sotto le lenzuola e chiedergli di avvicinarsi.
 
Senza che io gli dica nient’altro, lui si avvicina ed io scosto le lenzuola, così che poi possa coprirsi. Si toglie le scarpe e si sdraia affianco a me, mentre io cerco di dimenticare di essere mezza nuda.
Ci riesco solo quando sento il suo petto contro le mie guance e le gambe intrecciate alle sue, una calda e l’altra gelida come il ghiaccio: la protesi.
Un brivido mi passa lungo la schiena: è colpa mia se a diciassette anni si ritrova senza una gamba, lo so, e sento le lacrime spuntarmi agli angoli degli occhi, così seppellisco la testa ancor più giù, tra le sue braccia, perché non se ne accorga.
Solo che Peeta Mellark non si smentisce mai.
 
- Ti da fastidio? – chiede, e so che si riferisce proprio alla sua gamba artificiale. Resto immobile, fingendo di dormire.
 
- Katniss, so che non stai dormendo. – mi rimprovera, alzandomi il viso con una mano sotto il mento. – Allora? –
 
Scuoto la testa. – Pensavo solo ... insomma, è colpa mia, se ora non hai più ... -.
 
Sbuffa, alzando gli occhi al cielo. – Sai che non è così. Se non avessi fermato il sangue, oggi non sarei qui. –
 
- Ma io ... – tento di ribattere.
 
- Ssssssh! – esclama lui, mettendomi un dito sulle labbra. – No, Katniss. È fuori discussione, e adesso cerca di dormire.  Ti aspetta una giornata dura. –
 
Sprofondo di nuovo con la testa tra le sue braccia e lo sento carezzarmi i capelli, come quando eravamo nella grotta.
Mi sento improvvisamente a casa, nel mio letto. Quando mi sveglierò, sarà per andare a caccia nei boschi e poi al Forno a fare qualche baratto; e quando tornerò a casa, troverò ad aspettarmi mia madre e Prim, come al solito intenta a mungere Lady.
Perfino quel mostriciattolo spelacchiato di Ranuncolo sembra una buona prospettiva, a confronto con quanto dovrò affrontare domani; quando mi troverò a guardare in faccia gli altri tributi, ad allenarmi con loro, quando ognuno di noi cercherà di intimidire l’altro mostrando di cos’è capace o non mostrando nulla, per lasciare tutti a cuocere nei propri dubbi.
Eppure, questo pensiero resta ai margini della mia coscienza, mentre mi lascio cullare dal respiro regolare e dal battito del cuore di Peeta, che si agita a pochi centimetri dal mio orecchio, ricordandomi che se c’è stata una cosa buona che ho fatto, è stata tenere in vita questo ragazzo.
 
 
 
 
 
- No, Effie! – esclama Peeta, quando lei sembra manifestare la volontà di accompagnare me e Haymitch al centro d’addestramento. – Lascia che vadano da soli. Sarà meglio. –
 
Poi si rivolge a noi.
 
- Insomma... non devo certo dirvi io di non mostrare le vostre abilità agli altri, no? Mantenete un basso profilo. Haymitch ... puoi venire un secondo? -
 
Vedo Haymitch e Peeta confabulare in un angolo per qualche minuto, poi partiamo. Non sono riuscita a sentire una sola parola di quel che si sono detti, ma Haymitch, prima che le porte dell’ascensore di aprano, sussurra:
 
- Non darmi troppa confidenza. Non dovrebbe risultarti difficile. –
 
Ha ragione, e infatti non trovo alcuna difficoltà ad ignorare la sua presenza, dal momento in cui mettiamo piede nella palestra del Centro.
Atala, la capo istruttrice, ci fornisce un breve ripasso delle regole della palestra: niente scontri con gli altri tributi, mantenere l’ordine, cercare di seguire il maggior numero di lezioni, concentrandoci sui nostri punti deboli.
Non manca di ricordarci, con sconcertante freddezza, che molti di noi moriranno quasi certamente per cause naturali, all’interno dell’arena.
 
Ovunque si metta Haymitch, io mi trovo sempre al lato opposto. In questo modo facciamo il giro delle postazioni senza mai incontrarci, anche se, così come ogni tanto mi volto a guardarlo per vedere in che situazione si trovi; così talvolta sento il suo sguardo su di me.
                                                     
Sto cercando di infilzare un manichino con una lancia, dritto sul cuore e con scarsi risultati, quando sento il respiro di qualcuno sul mio collo e una voce, suadente, profonda, sussurrare:
 
- Non sei molto pratica di lance, ragazza in fiamme? –
 
Mi volto di scatto, trovandomi a pochi centimetri dal volto di Finnick Odair, che mi sorride mostrando una fila di denti dritti bianchissimi. Mi trovo costretta ad ammettere che si tratti di un gran bel ragazzo, anche se non capisco l’atteggiamento svenevole delle donnette di Capitol City. Ringrazio il cielo che oggi sia completamente vestito, mentre mi torna in mentre una sua fugace immagine, con indosso solo una sorta di mutanda di rete.
 
- No, in effetti. Me la cavo di più con le frecce, ma immagino che tu lo sappia. – rispondo.
 
- E chi non lo sa? Eppure sono convinto di non aver visto nulla di quello che sai fare, nei giochi passati ... insomma, non è che tu abbia usato molto l’arco, direi piuttosto che queste ... – e mi sfiora le labbra col pollice – ... sono state la tua arma migliore. –
 
Mi sento a disagio, devo essere diventata di qualche colore piuttosto vicino al bordeaux, ma resisto, gli occhi piantati nei suoi.
 
- Immagino che tu, di armi di seduzione, ne sappia qualcosa. Quanto ti pagano Odair? –
 
Non so da dove mi sia uscita questa frase, che mi suona anche più cattiva di quanto intendessi, ma lui non sembra scomporsi. Piuttosto le sue dita, dalle mie labbra, volano a spostarmi dall’orecchio alcuni ciuffi sfuggiti alla treccia, mentre sussurra:
 
- Niente soldi, è roba troppo volgare per me. Solo segreti. –
 
Sorrido ironica.
 
- Mi spiace, non sono la persona per te. Non ho segreti da rivelare. –
 
- Io non ne sarei così sicuro ... – risponde subito, facendomi l’occhiolino.
Poi si allontana da me e solo allora noto che stringe una lancia tra le mani. La scaglia, dandomi l’impressione di non metterci alcuna forza, malgrado io riesca a vedere distintamente i muscoli del braccio tendersi.
La seguo con lo sguardo fin sul cuore dello stesso manichino che sto cercando di infilzare da mezz’ora.
 
Quando mi volto di nuovo alle mie spalle, Finnick non c’è più; ma colgo Haymitch intento a lanciare coltelli. Ha preso buona parte dei bersagli.
Un brivido mi corre lungo la schiena quando sento il tonfo sordo dell’ennesima lama che si conficca nel legno.
 
Quando l’istruttore della postazione trappole mi vede, sembra quasi contento di riavermi come sua allieva. Si complimenta con me per le trappole che ho utilizzato nell’arena lo scorso anno, commentando con fredda efficienza ogni particolare per poi iniziarmi a una serie di tecniche più complesse. Vorrei concentrarmi, ma la mia attenzione è spezzata dalle imprecazioni che la ragazza accanto a me lancia ogni volta che scopre di aver fatto male un nodo, o le cade la corda dalle mani.
 
- Ma come diavolo fai, a muovere le dita a quel modo? – mi chiede, dopo un po’.
La guardo e ci metto un secondo di più a riconoscerla, perché sul suo carro era vestita da albero; ma il suo sguardo sprezzante e privo di inibizioni mi torna subito alla memoria: è Johanna Mason, del distretto sette; che ha vinto i suoi giochi fingendosi una santarellina, incapace di far male perfino a una mosca.
Per un attimo, vorrei risponderle che quello davvero bravo con le trappole è Gale, ma mi rendo conto che non capirebbe. Scuoto la testa.
 
- Solo pratica. – rispondo, osservando il nodo malriuscito della sua trappola per conigli. Mi viene in mente la prima volta che ho provato a farne una io, diversi anni fa.
 
 
 
- No, Katniss, non così ... devi far passare la corda sotto, in questo modo, vedi? E poi ... oplà! –
 
Con un rapido gesto, mio padre aveva concluso il nodo su cui stavo lavorando da più di mezz’ora, lasciandomi insoddisfatta; poi gli avevo chiesto di farmi rivedere il passaggio diverse volte, fino a ritenermi contenta del risultato.
Il giorno in cui riuscii a farne una davvero decente, mio padre decise che da allora in poi dei conigli mi sarei occupata io, mentre lui andava in cerca di cervi: il mio arco era ancora troppo poco potente, per utilizzarlo con qualcosa di più grosso di uno scoiattolo, o di qualche piccolo tacchino selvatico.
 
- Guarda, si fa così ... – sciolgo il nodo e lo rifaccio, cercando di non essere troppo veloce nei passaggi, mentre la ragazza del sette mi osserva, concentrata. Quando ho finito, annuisce.
 
- Be, se ci riesci tu, non vedo perché non dovrei riuscirci io! – esclama, per poi tornare a immergersi nella pratica di nodi. Sto per ribattere, irritata, quando vengo interrotta da un forte fragore alle mie spalle.
 
I tributi del sei, divorati dalla Morfamina, hanno rovesciato alcune ciotole della postazione di mimetizzazione, macchiando il pavimento di tinta e sporcandosi tutti a loro volta. Tutti gli altri li osservano, vedo perfino qualcuno sghignazzare. Me ne sto lì a guardare, fin quando la vista delle mani tremanti della ragazza, che raccolgono una ciotola, non mi spinge ad andare a dar loro una mano.
 
Quando li raggiungo, mi osservano con quegli occhi enormi mentre raccolgo altre ciotole, cercando di recuperare quanto più colore possibile. Non appena finisco, si avvicinano entrambi, con dei pennelli in mano, quasi intrappolandomi in un angolo; e cominciano a dipingermi, fermandosi ogni tanto per intingere i pennelli nei vari colori.
 
Penso che non faranno altro che assurdi scarabocchi, e la voglia di scappare è tanta quando cominciano a toccarmi; ma poi, quando i primi tocchi di colore iniziano a prendere forma sulle mie braccia, mi ritrovo a fissare incantata il loro lavoro, come se stessi guardando Peeta all’opera.
In effetti, le loro espressioni, adesso, somigliano molto alla sua.
Sembrano persi in un loro mondo, forse fatto degli stessi colori che mi stanno stendendo sulla pelle. Decido di lasciare che mi usino come tela e, quando dopo un’ora sembrano aver finito e mi guardo allo specchio, potrei quasi convincermi di star davvero prendendo fuoco, tanto realistiche sono le fiamme che mi hanno dipinto addosso.
 
- Grazie ... – sussurro ammirata, ma non mi ascoltano: si dipingono fiori variopinti sulle guance, tirate in due sorrisi  identici, ignorando il mondo che vive loro attorno.

 
 
- Cos’è questa novità? – mi chiede Peeta, decisamente divertito, quando mi vede rientrare dipinta di fiamme. Faccio spallucce.
 
- Sono stati i due del sei ... sono bravi, però! Certo, niente a che fare con te ... – le ultime parole le dico quasi senza voce, ma il salone è immerso nel più profondo silenzio, e vedo Peeta sorridere imbarazzato, portandosi una mano dietro la nuca.
 
- Hai poi fatto altri dipinti, dopo quelli che  mi hai mostrato durante il tour? – chiedo presa da un’improvvisa curiosità, mentre si riaffaccia alla mente il ricordo di quelle tele, testimonianze tremendamente realistiche dei nostri primi Hunger Games.
Peeta annuisce.
 
- Vuoi vederle? – chiede poi, e stavolta sono io ad annuire, per poi ritrovarmi a sorridere alla stessa maniera dei morfaminomani, quando mi prende delicatamente per mano, in un gesto spontaneo e senza troppe pretese, come non ce n’erano da qualche tempo.
 
Nella sua stanza non c’è traccia dei dipinti a un primo sguardo, ma questi si scoprono trovarsi dietro l’ultima anta dell’immenso armadio: Peeta deve aver chiesto di togliere una parte dei vestiti, per conservare quelle tele.
 
Mi basta vedere la prima, per avere voglia di scappare via all’istante: siamo io e Prim, nel salotto confortevole della nostra casa al villaggio dei vincitori.
Siamo sul divano, e Prim ha poggiato la testa sulla mia spalla ed io le carezzo i capelli, mentre lei rifila qualche grattino tra le orecchie a Ranuncolo, accovacciato sulle sue gambe. Sorrido.
 
- Poi me la sono ricordata ... – comincia.

- Cosa? – gli chiedo, senza capire.
 
- L’ultima volta che ti ho vista sorridere davvero. – risponde. – è stato qui, mentre chiacchieravi con tua sorella ed io e Haymitch giocavamo a scacchi. Non voglio dimenticare questi momenti, e non devi scordarli nemmeno tu, perché tornerai a viverli. – dice, senza guardarmi, continuando a fissare la tela.
Io mi fisso sulla sua espressione, e noto che i suoi occhi meravigliosi sono lucidi di lacrime, e ciò che queste lacrime mi suscitano è troppo complesso da raccontare, da riassumere in parole, così che mi riduco ai gesti, e lo stringo in un abbraccio, forte, più forte che posso.
 
- Grazie – dico, la voce un po’ soffocata, il viso premuto nell’incavo del suo collo, e lui per risposta mi stringe forte in vita, premendo il suo corpo sul mio; respirando tra i miei capelli e sul mio orecchio.
Un brivido mi percorre la schiena mentre di nuovo mi sento, semplicemente, a casa.
 
Ma c’è qualcos’altro, di consistenza fumosa, fragile e trasparente come cristallo, che passa attraverso quei gesti. Ne cerco il significato, mentre continuiamo a stringerci e nessuno dei due parla, o si muove di un solo centimetro. Non ci riesco. Solo, non voglio separarmi da lui.
 
Poi qualcosa accade, ancora.
Peeta si sposta di poco, e le sue labbra mi sfiorano inavvertitamente il collo.
La mia bocca si apre, alla ricerca di ossigeno, prendendoselo bruscamente, lasciando fuoriuscire un suono che non credevo sarei stata mai capace di produrre, un ansito sommesso. Le mie mani si muovono a sfiorare la sua gola, poi le spalle e le braccia, scoprendole forti come non le ricordavo. Io che del ragazzo del pane mi ostino ad avere sempre la solita, bonaria immagine, negando a me stessa di avere di fronte un uomo fatto e finito.
 
Lui continua a stringermi per la vita con una mano, spingendomi all’indietro, finché finisco la mia breve corsa urtando leggermente contro l’ampio specchio dell’armadio.
Il contatto con quella superficie fredda mi mette la pelle d’oca, o forse è Peeta.
Sento il suo respiro ora più profondo, agitato, rispecchiare perfettamente il mio fin quando non ci baciamo. Ricama la mia bocca, la mascella e il collo di baci mentre io non riesco a fare altro che stringergli i capelli, carezzargli il collo, premere le mie mani contro il suo petto solido.
Il mio cuore minaccia di esplodere e ho la testa annebbiata, ogni pensiero mi sfugge appena cerco di artigliarlo dall’oscurità in cui è immerso, ogni minimo movimento di Peeta mi strappa alla ragione.
La mia pelle si fa bollente ovunque passi la sua. Sento scie di calore attraversarmi il ventre quando le sue mani s’insinuano sotto la maglietta. La mia schiena s’inarca d’istinto, come per non voler perdere il contatto con le sue mani, e non mi sottraggo al suo tocco nemmeno quando mi ritrovo con indosso solo il reggiseno, e poi senza. E poi senza pantaloni. E lui lo stesso.
 
- Katniss ... – lo sento sussurrare, con voce innaturale, eccitata, profonda.
 
È una vibrazione ancestrale che mi scuote da qualche parte nel ventre, per poi risalire lungo la mia gola e prendere la forma del suo nome.
 
-Peeta ... – bisbiglio a mia volta, respirando a fatica, sussultando sorpresa quando la sua bocca si posa sul mio seno.
Mi scopro a premergli il viso sul mio petto, guardando il soffitto senza in realtà vederlo, la bocca spalancata alla ricerca di ossigeno: di aria fresca che non arriverà, perché tutto è caldo qui, soffocante, come fossi circondata dalle stesse fiamme che mi ornano le braccia. 



*Angolo autrice*  Ciao a tutti :) Come state? Voglio chiedervi scusa. Per vari motivi, ultimamente è stato difficile pubblicare a scadenza precisa, e non l'ho fatto in effetti ... ho impegato molto tempo, per scrivere questo capitolo, mentre MatitaGialla ha impiegato un'ora e venti per betarlo O.O Non so come faccia a sopportarmi ( o forse non mi sopporta e si maledice per essersi proposta come beta reader XD) ... fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto :) 
Un bacio :*

Una rosa di Versailles

 

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Capitolo 9
*** - 9 - ***



- 9 -

[Peeta’s POV]
 

La pelle di Katniss sa di foresta, di foglie umide di pioggia: gli odori del bosco sono ciò di cui è cresciuta, così come io ho vissuto respirando farina e cannella.
Creatura selvaggia e indomita, posso vederla correre attraverso il fitto fogliame dei boschi appena fuori la recinzione del distretto.
Non sono mai stato un cacciatore per lei, sfuggente e riservata da tutta una vita, sin da quando mi ammaliò col suo canto, più soave di quello di qualsiasi uccello.
Forse posso avere una sola, piccola speranza di essere riuscito infine a catturarla, malgrado l’inesperienza; nonostante la concorrenza.
 
Sento il suo corpo tremare sotto le mie dita e so che sto tremando anch’io, con l’impazienza di chi desidera una cosa da tutta una vita e si ritrova infine a toccarla con mano senza sapere come comportarsi.
Con l’eccitazione di poter dire “può essere mia.”
Eppure sto attento. Faccio solo quanto lei mi chiede, perché se osassi qualcosa di troppo potrebbe scappare di nuovo.
So che la inseguirei ancora, che morirei sulle sue tracce come l’assetato sulla scia dell’oasi, nel bel mezzo di un interminabile deserto.
Forse riuscirei a raggiungerla un’altra volta, ma che ragione può mai avere un affamato di rinunciare a un lauto pasto?
 
Sì, la fame e la sete sono le uniche sensazioni con cui posso paragonare quest’amore, che mi ha scavato dentro, donando a lei tutto ciò che avevo da dare: i miei anni migliori, il mio affetto, il mio rispetto, la mia devozione.
Ogni bacio è come un sorso d’acqua di sorgente, linfa vitale che mi rimpolpa le ossa, risposta agli enigmi irrisolvibili dell’esistenza.
Perché sono venuto al mondo?
Per vivere di lei.
 
Le mie dita sfiorano i suoi capezzoli. Mi sento arrossire come un bambino, e getto uno sguardo in alto verso il suo viso; ma lei non guarda me, no. Fissa il soffitto con la bocca spalancata, come non fosse più capace di respirare. Sento la sua pelle ricoprirsi di un sottilissimo velo di sudore, rabbrividire, pulsare quasi sotto le mie labbra.
Scendo lungo la linea del ventre, disegnando con la lingua come fosse un pennello e lei, che mi ha rubato il cuore e l’anima e la ragione, la mia tela di carne e sangue. Con i denti sfioro l’elastico della sua biancheria e lo separo dalla pelle.
Il gemito di Katniss m’incendia il sangue.
 
Con due dita faccio si che la leggera stoffa scenda lungo le sue gambe, lentamente, osservandola mentre mi guarda a sua volta, forse un po’ stupita. Deve essere la sua prima volta. Quasi mi spiace che non lo sia anche per me. Ricordo la mia, di prima volta, l’imbarazzo del non sapere che fare e la sorpresa di scoprire che il mio corpo era programmato per questo. L’incapacità di non pensare a Katniss anche allora, perché avrei voluto fosse con lei ma sapevo che dovevo provare a vivere la mia vita da solo, visto che non riuscivo nemmeno a rivolgerle la parola. Ma la mia pelle non era così calda quella volta, e nemmeno la mia testa era tanto annebbiata dal desiderio. Mi rincuoro pensando che di certo sarò in grado di dare a lei molto più di quel che diedi a quella ragazza: qualcosa, nei suoi occhi quando ci ritrovammo stretti l’uno all’altra, mi disse che aveva capito dove si trovavano i miei pensieri.   
 
Mi rialzo in piedi e la bacio, ma la guido stringendole i fianchi verso il letto che pare quasi attenderci al centro della stanza. Insolitamente docile si lascia portare e poi cadere, sprofondando nel morbido materasso tra i cuscini, assieme a me. La bacio ancora, ma la sento gemere anche a bocca chiusa e la pressione sale di più, spedendomi in un mondo fatto di forme confuse e sfuggenti ma anche di sensazioni chiarissime: ansia, impazienza, eccitazione.
So di essere pronto per compiere l’ultimo passo.
Lei lo sarà altrettanto?
 
Accarezzo le sue gambe, lentamente, giù fino ai piedi e poi di nuovo su, tra le cosce.
Altri sospiri, altri gemiti. Mi godo la visione celestiale di questa donna scossa dai tremiti, le guance rosse e le labbra turgide socchiuse; gli occhi serrati sul mondo di fuori.
È bella come l’arancio carico del tramonto. Mi chino su di lei e traccio un’altra pista di baci.
Solo quando dischiudo di nuovo la sua bocca con le mie labbra, le mie dita si avventurano nella zona più segreta, inesplorata di lei.
Sospiro, in attesa di un suo consenso, che arriva quando la sento alzare i fianchi, spingendosi contro di me, affondando le unghie nella mia schiena, mentre le mie dita sprofondano in un abbraccio caldo e umido, e ne escono, e rientrano ancora mentre la sento gemere un po’ più forte quando, preso dall’eccitazione che mi provoca sentirla gemere, spingo più a fondo.
 
La sua schiena s’inarca di nuovo, il suo seno morbido preme contro il mio petto e lei apre gli occhi, puntandoli nei miei.
 Cosa mi stai dicendo Katniss?
 Esco dalla sua intimità mentre mi afferra la nuca con entrambe le mani e artiglia i miei fianchi con le gambe, inchiodandomi col bacio più sensuale che io ricordi.
Non posso più aspettare.
Mi libero dell’ultimo indumento rimastomi, e non so nemmeno con quale coscienza sto compiendo i gesti necessari, perché nulla è nella mia testa se non tutto quanto racconta di lei.
Le prendo le mani e le stringo forte: so che le farò male, non ho controllo su questo segreto mistero che vede il dolore come un passaggio da superare, per prendersi il meglio dell’amore. Lei però non mi ferma, non parla, geme soltanto, nel silenzio ovattato di questa stanza, geme e sospira, più forte quando finalmente entro dentro di lei.
 
Ed è come rinascere. Si cancella da me l’insoddisfazione per non aver compiuto il nostro primo viaggio assieme, perché è come se fosse avvenuto: sono un altro, ora. Sono ancora il bambino che sentì gli uccelli zittirsi nel cortile per sentirla cantare, e sono l’uomo che ha ucciso e ucciderebbe ancora per tenerla in vita; ma sono anche qualcosa di nuovo: Sono suo.
 
- Katniss ... ti amo. – sussurro nel suo orecchio, prendendo un ritmo diverso, più veloce e più forte. E lei, dopo un attimo di tensione per via del dolore, mi segue, risponde alle mie spinte, e urla geme e sospira, e grida il mio nome che si mischia col suo in un mio sussurro incoerente, così come il mio respiro e il battito del mio cuore.
 
E alla fine, quando giungiamo insieme al termine di questo viaggio, so di essere davvero condannato: siamo legati in ogni senso adesso, ma questa creatura della foresta è abituata a sfuggire alle regole, figurarsi ad un povero,  pazzo cacciatore ubriaco d’amore.
 
 
 
Katniss dorme. La sua pelle profuma ancora di foresta e di pioggia, ma provo un piccolo, segreto piacere nel sentire il mio odore di panettiere ora misto al suo. La avvolgo nelle mie braccia e le carezzo piano i capelli, approfittando del suo sonno per fissarne ogni piccolo particolare: le ciglia lunghe e ricurve, qualche spruzzo leggerissimo di lentiggini appena sotto gli occhi, un leggero rossore sulle guance. Sfioro col pollice le labbra piene, poi la stringo più forte che posso.
 
Nel silenzio che avvolge questa stanza, sento il suo cuore battere regolare. Questo ritmo ha inconsapevolmente scandito la mia vita da quand’ero nulla più che un bambino. La sola idea di poter perdere questo battito mi distrugge, eppure devo tenere in conto la possibilità di fallire: tutto è contro di noi.
Avrei voluto essere nell’arena per garantirmi la possibilità di proteggerla: restando qui posso solo sperare che le persone con cui parlerò decidano di darmi retta.
Come arma, non avrò altro che la parola, quando a servirle sarà piuttosto qualcuno disposto a coprirle le spalle.
Perché è andata così? Maledetto Haymitch... mettersi d’accordo con Katniss, che non capisce il mio bisogno di proteggerla con le mie mani, non è stata una buona mossa. Lo fanno per tenermi al sicuro dicono, perché è importante che io viva; ma se lei morisse io non potrei andare avanti comunque! Non mi resterebbe niente! Non avrei il coraggio di tornare nel distretto dodici e ricalcare i suoi passi, vederla aggirarsi in ogni angolo delle strade; aprire la porta al suono del campanello sperando che sia lei, venuta a vendere a mio padre qualche scoiattolo di nascosto. Perché nessuno sembra capirlo?
 
 A un tratto un’idea si fa strada nella mia testa. Mi alzo, riuscendo a non svegliarla, e sgattaiolo fino all’anta dell’armadio rimasta aperta dove, tra le tele ormai zuppe di tempera ci sono anche quelle ancora in attesa di un’immagine che le riempia, i colori e i pennelli.
Tiro tutto fuori e recupero il cavalletto aprendolo con lentezza esasperante, scoprendo di aver trattenuto il respiro solo quando finalmente lo poso a terra delicatamente, e vi piazzo sopra la tela.
 
Katniss è davanti a me, a malapena coperta dal lenzuolo di seta grigio perla.
Dorme profondamente, il viso schiacciato di lato contro il cuscino ma disteso in un’espressione serena che pochissime volte ho potuto vedere.
La sua solita treccia si è ormai sfatta e i capelli, lunghi e scuri, sono sparsi un po’ ovunque. Le labbra sono ancora rosse e gonfie del sangue che vi è passato dentro mentre m’incendiava con i suoi baci.
È bellissima, e non voglio che il tempo corroda questo ricordo, così decido di imprimerlo sulla tela, una pennellata dopo l’altra, mantenendo il silenzio più assoluto. Vorrei poter dipingere per lei un felice futuro con la stessa facilità con cui ritraggo cose su queste tele, e invece tutto quel che posso fare, è conservare il presente man mano che mi si dispiega davanti, e il passato, prima che scompaia.
Quando ritengo di aver finito, ho le lacrime agli occhi per lo sforzo di dipingere al buio quasi completo e sono le tre del mattino, ma non mi fermo.
Sento troppo forte l’urgenza di conservare tutto quanto mi appartiene di lei, i miei ricordi legati ai suoi; e così su un’altra tela una piccolissima Katniss canta in piedi su una minuscola sedia, con indosso un vestito rosso a quadri e i capelli legati in due trecce sottili. Io la osservo, seduto al primo banco. Una ghiandaia imitatrice sorveglia il tutto con gran curiosità, appollaiata sul davanzale.
 
Su un’altra Katniss mi osserva seduta a terra, appoggiata ad un albero e fradicia per la pioggia che cade incessante da ore. Io non mi vedo, ma so che stringo due pagnotte di pane mezze bruciate e roventi nelle mani, mentre attendo che mia madre se ne vada per potergliele dare.
 
Un’altra tela ancora, e Katniss è china su un dente di leone, nel cortile della scuola. Sorride incoraggiata come non succedeva ormai da un bel po’.
 
Quando ho finito le tele, passo ai fogli e alle matite. Ci sono mille cose che non ho mai disegnato e che dopo stanotte potrei perdere per sempre. Tanti sorrisi e istanti di pace rubati dai miei occhi, perché non erano destinati a me, perché non eravamo amanti che per le telecamere.
Disegno furiosamente, ormai. Con la matita inseguo l’alba, sfruttando ogni momento prima che lei apra gli occhi e la sua mente le dica magari che quel che è successo è sbagliato; trattengo ogni secondo prima che arrivi l’ultimo giorno.
Malgrado le mie preghiere il sole non vuole saperne di fermarsi e così, dopo aver disegnato tutta la notte, vedendo col cuore più che con gli occhi, mi fermo per accostare le tende, così che la luce non la svegli prima del dovuto. Sistemo le tele ormai asciutte e i disegni nell’armadio, richiudo la scatola di tempere e il cavalletto.
 
Quando mi sdraio accanto a lei, sono svuotato di ogni peso che invece è rimasto impresso su quei fogli. Così scivolo in un sonno profondo e tranquillo, dove ogni cosa parla di lei.
 
 

“Peeta, è ora di alzarsi! Dobbiamo parlare con gli stilisti, per decidere cosa fare per l’intervista. In più sarebbe il caso di tentare di accattivarsi qualche altro sponsor.”
 
Questa è la mia sveglia. Effie Trinket che mi ricorda quali sono ora i miei compiti. Ho notato ormai da giorni come non ci sia più alcuna “grande, grande, grande giornata” ad attenderci. Il suo tono di voce è sommesso, il suo bussare più delicato.
 
L’assenza di Katniss al mio fianco, la sensazione delle lenzuola fredde sotto le mie dita è però ciò che più mi fa male.
Così mi rendo conto davvero di quanto avessi sperato di ritrovarla accanto a me, al risveglio. Non so cosa pensare, così cerco di concentrarmi sul fatto che è quasi mezzogiorno e che quindi sarà di sicuro al centro d’addestramento.
Chissà perché la cosa non mi consola per nulla.
 
Sono consapevole di non poter fare altro che tentare di dare un senso alla giornata che mi aspetta, mentre attendo la mezzanotte. La voce di Cinna risuona nella mia testa. Cosa accadrà oggi a mezzanotte? So che me lo chiederò per tutto il giorno.
 
Mi alzo stancamente, poi scosto le tende, fermandomi un attimo a osservare Capitol City nella forte luce del primo pomeriggio.
Sarebbe bella, se le si potesse togliere ciò che rappresenta per noi abitanti dei distretti.
Il sole si riflette sulle mille costruzioni di vetro e metallo, dando l’impressione che splenda di luce propria. I capitolini già si aggirano per le strade, popolandole di colori troppo forti per le mie pupille, abituate al grigiore perenne del dodici, all’opacità che tutte le cose hanno in un distretto dove ovunque si posa la polvere di carbone e nemmeno la glassatura delle torte può avere colori tanto squillanti.
 
Mi passa per la mente un macabro pensiero: le ceneri di tutti quelli che sono morti negli Hunger Games basterebbero a offuscare questi colori?
 
Scuoto la testa chiedendomi cosa mi passi per la mente, poi mi dirigo in bagno per una doccia veloce. Un quarto d’ora dopo, lascio la stanza pensando che presto quelle lenzuola su cui io e Katniss abbiamo fatto l’amore non ci saranno più.
 
Metto piede nel salone e trovo Cinna, Portia ed Effie ad attendermi assieme al pranzo. Non tocco nemmeno una portata. Invece mi verso una tazza fumante di cioccolata, inzuppandoci dentro il pane mentre Effie chiede a Cinna e Portia come pensano che si evolveranno le tendenze del momento nei prossimi giorni.
 
Ad un certo punto non ne posso più di ascoltare certe sciocchezze e passo al punto cruciale.
 
- Avete già pensato a qualcosa, per l’intervista di domani? – chiedo, e so di suonare spazientito: Effie mi sta guardando con espressione colpevole e Portia ha piegato leggermente la testa di lato e sembra un po’ stupita. So di non essere generalmente brusco con la gente ma questa giornata si sta rivelando pessima fin dalle prime ore. Prendo un bel respiro, per controllarmi. Cinna sorride comprensivo.
 
- Giusto. Parliamo delle cose importanti. Il Presidente Snow ha preteso che Katniss indossasse per l’intervista l’abito da sposa scelto dal pubblico. – ci informa Cinna, cupo.
Quasi sputo la cioccolata che stavo per ingoiare, sapendo che questo non è che un altro modo per prenderci in giro tutti. Katniss in abito da sposa il giorno prima che la mandino a morire. Ha un significato fin troppo chiaro, sopra ogni cosa lo ha per me.
Al di la della messinscena del matrimonio, se non fossimo stati ributtati negli Hunger Games avrei voluto provare a costruire una vita con lei, se mi avesse dimostrato di volerlo a sua volta.
Era l’ultima speranza cui potessi aggrapparmi e mi sarei accontentato anche di questo, ma Snow non ha mai avuto intenzione di lasciarci in pace.
 
Portia tende una mano verso la mia, chiusa a pugno sul tavolo, avvolgendola. Mi guarda, e nei suoi occhi vedo sincera preoccupazione. Non dice nulla, lo sguardo parla da se. Riesco a far spuntare un sorriso a mezza bocca come rassicurazione, per poi ritrovare la voce.
 
- Immagino non si possa evitare. – osservo, duro.  Cinna scuote la testa e Portia abbassa lo sguardo. Effie si rigira nervosamente una penna tra le dita, guardandomi di sottecchi. Quello che sto per chiedere agli stilisti le farà male, lo so per certo.
 
- Che possibilità abbiamo di salvarle la faccia? Voglio dire ... il pubblico come reagirà a questo? –
 
- Il pubblico è affascinato dalla vostra storia, Peeta. – risponde Cinna con onestà. – Snow vuole fare del male a voi e ci sta riuscendo ma non conquisterà di certo il favore del pubblico, presentando Katniss vestita da sposa il giorno prima che entri nell’arena. Sarà ancora peggio però, se entrerai in scena con lei.  Di solito i mentori non partecipano alle interviste, siedono fra il pubblico insieme agli stilisti, ma il vostro è un caso del tutto particolare e d’altronde non esiste regolamento, scritto o meno, che vieti la tua partecipazione all’intervista. Solo mi chiedo ... –
 
Il suo sguardo vola per un attimo su Effie ed io so cosa sta pensando.
D’altronde Cinna si è dimostrato capace di leggere il cuore altrui con estrema facilità e deve aver compreso, come me, la portata del sentimento che unisce Effie a Haymitch. È vero, fare questo gesto significherebbe, per me, pormi come mentore totalmente dalla parte di Katniss. Fa male.
È questo che Haymitch diceva che avrei provato dell’essere mentore? Mi sento un traditore solo al pensiero.
 
Poi Effie si volta verso di me ed io rispondo al suo sguardo, sentendolo sulla nuca. Ha le lacrime agli occhi.
 
- Credo che dovresti fare il meglio che puoi, Peeta. – dice, perfettamente composta nella voce.
I miei occhi volano alle sue mani, che stringono convulsamente la penna sotto il tavolo, ora.
Le nocche bianche come neve.
 
- Nel migliore dei casi, potremo salvare uno solo di loro e so che Haymitch preferirebbe fosse lei. – afferma.
Poi si alza con la solita grazia, e abbandona la stanza svolazzando elegantemente sui suoi tacchi. Sento la porta della camera chiudersi piano e un silenzio glaciale piombare ora tra noi tre, rimasti li.
Lascio crollare la testa tra le mani, liberandomi dalla stretta leggera di Portia. Che cosa sto facendo?
 
- Peeta, ascolta ... – comincia Portia. – Non tutto è perduto. Guardami.
 
Alzo la testa per osservarla e Cinna sorride a sua volta.
– Ricordati cosa ti ho detto ieri sul terrazzo. –
 
Annuisco, divorato dalla curiosità. – Non so di cosa si tratti ... ma Effie ne sa qualcosa? –
 
- No, e non deve saperne nulla. – mi avverte Cinna.
 
- Già che ci siamo, posso chiedervi perché nascondiamo sempre ogni cosa a Effie? Come quel che è accaduto durante il tour della vittoria nel distretto undici. Ormai mi riesce tanto naturale inventare scuse per lei quando qualcosa va male ... ma perché lo facciamo? –
 
- Effie è una persona molto fragile. – mi spiega Portia a voce bassa, chinandosi verso di me e afferrando un biscotto dal centro del tavolo come scusa. – Far confessare qualcosa a Effie è molto semplice. In futuro questo potrebbe rivelarsi ... scomodo. Perciò è meglio che non abbia nulla da dire. –
 
Sto per ribattere, evidentemente confuso, ma Cinna alza una mano per fermarmi.
 
- Non è questo il momento. Ora devo farti una domanda importante. Hai avuto occasione di parlare con qualche possibile sponsor, durante la parata. C’è qualcosa di particolare che hai detto, che dovremmo sapere secondo te? Hai per caso tentato di indurre qualcuno a sostenere Katniss in quell’occasione? -
 
- Alla parata c’era un tale, seduto accanto a me, al quale ho detto che Katniss era determinata a tornare a casa perché ... perché voleva costruire una famiglia con me. – dico, e so di essere arrossito un po’, perché in ciò che ho detto quel giorno non c’erano altro che i miei desideri.
La mia mente torna a vagare nella notte appena passata. Mi ritraggo prima di estraniarmi completamente dal mondo, scuotendo la testa.
 
- Possiamo lavorare, su questo. Peeta, saresti disposto a dire ... una piccola bugia? –
 
- Di che genere? –
 
- Faremo credere a tutti che Katniss sia incinta. – snocciola lui, pratico. Io rischio di strozzarmi con la cioccolata calda, ripensando a quanto accaduto ieri notte.
 
Proprio in quell’istante sento la porta aprirsi e torno alla realtà, mentre i miei occhi si scontrano col grigio plumbeo di quelli di Katniss, che li tiene fissi nei miei per un solo, rapido attimo, prima di posarli su Cinna e Portia.
Non mi sfugge l’improvviso rossore sulle sue guance e so che le mie devono essersi colorate allo stesso modo.
Percorro le sue forme con lo sguardo e con la mente ritorno alla morbidezza della sua pelle sotto le mie mani.
Al suo profumo.
Sto diventando matto e vorrei tornare indietro nel tempo, ripetere quello che è stato, e poi di nuovo, e ancora in eterno. Vorrei esistesse un mondo in cui Peeta Mellark possa amare Katniss Everdeen, ed essere ricambiato con onestà, avere dei figli da lei e crescerli con lei senza dover convivere con l’incubo di vederli estratti per i giochi.
Vorrei che si avvicinasse, ora, e si sedesse accanto a me, intrecciando una mano con la mia. Anzi mi accontenterei di essere guardato. So però che non accadrà.
Ha scelto la fuga.
 
- Allora, di che parlavate? – indaga lei, curiosa.
 
- L’intervista. – risponde Cinna prontamente, e per un attimo temo che stia per dirle ciò che ha detto a me, ma non lo fa.
 
- Ora vai a riposarti, prima di tornare al centro ... non avrai bisogno di provare l’abito: è uno dei vestiti da sposa mandati da Snow. Mi spiace, Katniss, non ho potuto evitarlo. –
 
Vedo il suo volto indurirsi se possibile ancora di più. Stringe le mani a pugno e, senza dir nulla, si dirige quasi di corsa verso la sua stanza. Sento la porta sbattere subito dopo e sussulto. Cinna sospira.
 
- Mi spiace davvero. – stavolta si rivolge a me. Scuoto la testa. – Non è colpa tua, Cinna, anche lei lo sa. Lascia che si sfoghi; sono certo che non ce l’ha con te. – dico, e sono sincero. Cinna è una delle poche persone con cui Katniss ha legato davvero e capisco bene come possa essere accaduto: in fondo lui è diverso dagli altri abitanti di Capitol, e lo stesso vale per Portia.  Tengono davvero a noi, lo vedo nei loro occhi e nei loro modi gentili.
 
- Più precisamente, di cosa discutevate? – chiede Haymitch, facendo così notare la sua presenza.
 
- Avremmo deciso di far credere al pubblico di Capitol che Katniss sia incinta. – ripete Portia, e di nuovo rischio di strozzarmi, anche avendolo già sentito.
Haymitch mi guarda e scoppia a ridere. Lo osservo  interdetto. Si avvicina per sussurrarmi qualcosa all’orecchio.
 
- Non è che ieri notte siate stati propriamente ... silenziosi. - Poi mi batte forte la mano sulla schiena un paio di volte, perché stavolta la cioccolata mi è andata davvero di traverso.
 
- Haymitch! – esclamo, a dir poco indignato; ma lui sorride e c’è qualcosa di strano, perché non vedo amarezza nei suoi occhi, né alcun briciolo di crudele ironia.
 
- Comunque, è una buona idea. – approva. – Anche per me ci sono restrizioni d’abbigliamento? – chiede. Portia scuote la testa.
 
- bene, allora immagino che domani Peeta sarà vestito da sposo. Perlomeno, sarebbe l’ideale. – suggerisce. Non c’è niente da fare: non sarò mai in grado di pensare da mentore come fa lui. Cinna annuisce: è d’accordo.
 
- Be, a questo punto ... – Cinna si volta verso Portia, i cui occhi brillano per un istante.
 
- C’è una cosa molto ... particolare, che potremmo mettere in scena per domani sera. Una sorpresa che scoprirete domani. Solo, Peeta, vorrei che ti preparassi per una dichiarazione seria. –
 
- Non ce ne sarà bisogno. – interviene Haymitch, prima che io possa replicare. – Peeta, non credo tu abbia bisogno di scriverti un discorso da fare al pubblico per dimostrare il tuo amore per Katniss ... il suo cuore parlerà chiaro, al momento giusto, come sempre. – li rassicura.
 
- Bene, allora.. ah, Haymitch. Quasi dimenticavo: stanotte ci vediamo sulla terrazza. Ovviamente vale solo per noi. Niente accenni di alcun tipo a Katniss; soprattutto non una sola parola con Effie. –
 
Haymitch annuisce senza chiedere spiegazioni, mentre il mio stomaco ribolle d’ansia.
 
- Bene. Torno al centro d’addestramento allora. –
 
Haymitch ci volta le spalle, incamminandosi verso l’uscita. Osservo le sue spalle larghe.
È come se la natura lo avesse creato con tutte le caratteristiche necessarie per sopportare tutto quel che si porta dietro da una vita; eppure c’è qualcosa nel suo incedere, in quel modo di tenere le spalle un po’ curve, che mi fa paura: mi chiedo se non sia arrivato ormai a un punto di non ritorno e per un attimo mi sfiora il pensiero che possa aver deciso di farla finita, in quest’arena.
Non so il perché, ma mentre si chiude la porta alle spalle desidero potergli mandare un po’ di forza.
 
Sospiro, sconfitto in partenza: potrei non averne abbastanza per me stesso. 



*Angolo autrice*   

Eccomi qua finalmente con questo capitolo, dopo quella che mi è sembrata un'eternità :D 
Insomma, non preoccupatevi, non vi ho abbandonati. Piuttosto è l'università che mi ha inghiottita nei suoi tetri abissi rubamdomi tutto il tempo che avevo a disposizione. In più devo ammettere di aver avuto un brusco calo d'ispirazione T.T Sapevo cosa volevo scrivere, ma non avevo idea del come, cosa terribile D:
Vi è piaciuto questo capitolo? Mi ha costretto al cambio di rating, ma spero che ne sia valsa la pena :) 
Ringrazio come sempre MatitaGialla ... uno di questi giorni potrei pubblicare un capitolo comprensivo di correzioni e commenti, c'è da ridere per giorni!!!  :D  
ANDATE A VEDERE LE SUE STORIE SONO BELLISSIME :P


Fatemi sapere che pensate di questo capitolo ;) 

Un bacio :*

 

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Capitolo 10
*** - 10 - ***


- 10 -

[Katniss’ POV ]

 
 
Mi siedo sul letto, sussultando leggermente quando una piccola fitta dolorosa riecheggia nel bassoventre. Stringo le cosce e passa quasi subito, ma non è che uno solo dei piccoli segni che mi porto dalla scorsa notte.
La mia pelle brucia ed è percossa da continui brividi. M’infilo sotto le coperte ma ci vuole poco per capire che non sono dovuti al freddo.
Un piccolo cerchio di pelle appena sotto il seno mi da un po’ fastidio da stamattina, quando dopo la doccia, guardandomi allo specchio, ho scoperto di avere un leggero succhiotto.
Mi sento incredibilmente vuota, dentro.  Un vuoto che non riesco a ignorare e pare riempirsi di muscoli in tensione se solo con la mente pronuncio il nome di Peeta.
Stringo a me il cuscino ancora fresco, sotto le coperte, nel tentativo di far sparire un po’ di questo calore, ma dopo poco il sollievo sparisce e torno in balia di questa febbre che nulla ha a che fare con l’influenza ed è tremendamente uguale alla fame bruciante che ho provato nella grotta, baciando Peeta.
 
Ecco, non posso stare così senza far nulla perché la mente vaga senza freni su ciò che è successo, sprofondando in un vortice di calore, perdendosi nella sensazione del mio corpo premuto contro quello di Peeta, forte, solido sul mio. Posso sentire ancora la sua lingua sulla mia pelle, le sue mani intrecciate alle mie mentre prende possesso di me.
 
Io, Katniss Everdeen, ho fatto l’amore con Peeta Mellark. 
Non so cosa mi sia preso; so di aver perso il controllo e non riesco a spiegarmi come possa essere accaduto. Come ho potuto fare una cosa del genere? Non sono forse cose da fare con la persona che ami, queste? Questo vuol dire che io amo Peeta Mellark, il ragazzo del pane?
So che ora non posso più guardarlo negli occhi: quell’azzurro limpido e innocente appare ora sempre un po’ incupito, trasfigurato come poche ore fa dal desiderio, e quello sguardo addosso mi brucia le viscere mettendomi in testa cose che non posso permettermi di pensare; non ora che sto per morire.
Non voglio pensarci, ma finisco per farlo ugualmente, perché se è questo insieme di emozioni che mi brucia nel petto ciò che Peeta desiderava darmi da sempre, oltre la sua gentilezza e il suo affetto, oltre i suoi baci mai stanchi, anche nella finzione, allora vorrei riuscire a restare viva per potermi godere tutto questo.
Mi sfugge un singhiozzo, soffocato dalle coperte e dal cuscino.
Qualunque cosa sia accaduta ieri, devo dimenticarla e deve farlo anche Peeta.  Domani sarà l’ultimo giorno in cui lo vedrò, perché niente può contro i desideri del presidente Snow.
Se volesse, potrebbe far saltare in aria la mia piattaforma prima ancora dell’inizio dei giochi, e addio Katniss.  Se non lo farà, sarà solo per rendere lo spettacolo più divertente.
 
I singhiozzi smorzati diventano presto un pianto irrefrenabile che non mi sono mai concessa in tutta la vita, nemmeno quando io e Prim stavamo per morire di fame, nemmeno quando è morto mio padre. Piango affondando la testa nel cuscino per smorzare i singhiozzi, perché per la prima volta m’importa davvero di riuscire a tornare a casa; perché vorrei mi fosse concesso anche solo pensare a un mio possibile futuro; perché non ho che diciassette anni e sto per morire senza aver vissuto affatto.
 
Mi addormento piangendo e quando mi sveglio sento ancora le lacrime, ora secche, sulle guance accaldate.  Effie bussa piano alla porta, avvisandomi che è ora di cena. Se ne va senza aspettare una mia risposta ed io mi alzo faticosamente dal letto mentre il freddo mi aggredisce. Nemmeno mi curo di sapere come sono conciata e mi dirigo nel salone, dove sono già tutti a tavola. Prendo posto senza guardare nessuno e senza parlare, ma sento lo sguardo di Peeta su di me.
 
- Dormito bene, dolcezza? – chiede Haymitch, d’improvviso, ed io alzo la testa per guardarlo, dimenticando che è seduto accanto a Peeta. Così i nostri occhi s’incontrano. Sento il mio cuore perdere un battito e le guance incendiarsi. Fisso di nuovo lo sguardo sul piatto stracolmo di cibo che ho davanti, e annuisco, mentre Haymitch ridacchia fastidiosamente.
Che gli prende? Cos’è tutta quest’allegria, all’improvviso? Mi da sui nervi e per darlo a vedere aggredisco il cibo con la forchetta. Sento come una pugnalata sulla nuca lo sguardo tagliente, scocciato di Effie che mi rimprovera per i miei modi bruschi; non mi interessa quel che pensa di me in questo momento, sono troppo irritata per pensarci.
 
- Dolcezza ... se continui così rischi di spaccare il piatto in due. – mi fa notare Haymitch, ironico. Sa benissimo di starmi dando sui nervi e la cosa non fa che divertirlo. Ma come diavolo può divertirsi in un momento del genere? Per un attimo mi viene quasi in mente di rammentargli che abbiamo solo un altro giorno e mezzo di vita certa, poi il mio sguardo vola su Effie che lo osserva senza parlare, come se stesse cercando di imprimersi per bene nella mente il sorriso che di sicuro ha stampato in faccia e mi dico che no, non posso fare una cosa del genere.
 
Sospiro, cercando di moderare la forza con cui infilzo i bocconi nel piatto e tentando di gustarmeli lentamente anche se il mio intero essere urla di alzarmi da quella sedia e correre di nuovo nella mia stanza.
 
- Allora. – dico, in un vano tentativo di rompere quel silenzio a dir poco glaciale e nel frattempo non pensare allo sguardo di Peeta fisso su di me, - Quindi dovrò mettere un abito da sposa, Cinna? –
 
Cinna alza lo sguardo dal suo piatto, annuendo mentre Portia si pulisce con grazia la bocca per poi parlare.
 
- Snow ha fatto scegliere al pubblico l’abito che preferiva indossassi alle tue nozze. Metterai quello, solo ... nulla, ti spiegherò domani. – conclude, lasciando cadere il discorso.
 
- Katniss ... – Peeta sembra voler aggiungere qualcosa, ma non appena pronuncia il mio nome da qualche parte nella mia testa risuona un – ti amo, Katniss – sussurrato nel mio orecchio con voce roca. Salto sulla sedia, cominciando a tossire forte.
 
- Si? – riesco a dire, quando il boccone sembra essere sceso lungo la mia gola sano e salvo.
 
- Ti accompagnerò all’intervista ... vestito da sposo. – mi dice. A quel punto sono costretta ad alzare lo sguardo su di lui, stupita. Ci fissiamo per un tempo che sembra lunghissimo, prima che lui apra il volto in uno dei suoi genuini sorrisi, spiazzandomi ancor di più e spingendo la mia bocca a sollevarsi un po’, mio malgrado.
Il boccone successivo fatica a oltrepassare quel groppo in gola che sono ormai abituata a chiamare senso di colpa.
Quando mi alzo dal tavolo diverso tempo dopo sono disgustosamente piena di cibo, tanto che rischio di ributtare tutto fuori. Così riesco solo a fare i quattro passi necessari per arrivare al grosso divano di pelle bianca e buttarmici sopra.

- Non ci entrerai, nell’abito da sposa ... –

- Aaaah, sta zitto Haymitch! – esclamo seccata. Non vedo più né Peeta né Effie nei paraggi, posso trattarlo male quanto voglio. Lui sorride imperturbabile, scostandosi i lunghi capelli dal viso e sorseggiando del liquore.

- Vuoi dirmi qualcosa, dolcezza? – chiede, quando vede che lo guardo senza proferire parola. Non rispondo.

- No? Beh allora te la dico io una cosa: goditi il momento. –

Alzo un sopracciglio. – Cosa? –

- Ho detto: goditi il momento. – i suoi occhi brillano di una luce subdola, sinistra. Fa roteare il liquore nel bicchiere con una mano, senza distogliere lo sguardo, e sorride con impudenza. La cosa mi mette addosso un pessimo presentimento; voglio indagare.

- Haymitch, i tuoi giochetti mi stanno stancando. Parla chiaro. – ribatto secca, sperando che si decida a parlare.  
Scuote la testa lasciandosi sfuggire uno sbuffo scocciato.

- Davvero non so come faccia, quel ragazzo ... – mormora, buttando giù un altro sorso di liquore. – Voglio dire, quasi non l’hai degnato di uno sguardo oggi, e dire che dopo ieri pensavo ... –

Il sangue mi si gela nelle vene all’improvviso.

- Che vuoi dire con “dopo ieri”, Haymitch? –

Questa volta è lui ad alzare il sopracciglio, scostandosi di nuovo i capelli dagli occhi. Un altro sorso di liquore condisce le sue parole.

- Ieri notte, Dolcezza. –

- COSA???? –

Scoppia a ridere, finendo di scolarsi il bicchiere, per poi alzarsi dal divano senza aggiungere nient’altro. Lo osservo lasciare la sala, sicuramente diretto alla sua stanza per sbronzarsi in pace, mentre sento la mia faccia andare a fuoco.

- Cosa succede? –

Peeta è appena rientrato e mi sta osservando. Scuoto la testa, al momento incapace di parlare. Cosa dovrei dirgli, che Haymitch ci ha sentiti mentre ...
Il solo pensiero minaccia di farmi esplodere. Peeta si siede accanto a me.

- Haymitch ti ha detto qualcosa? – chiede. Come diamine fa a centrare sempre il punto con tanta precisione? Eppure scuoto la testa, ma forse lo faccio con troppo slancio.

- Katniss, puoi dirmi quello che vuoi ... –

- Haymitch ci ha sentiti. – mormoro, sperando che non mi senta, ma ovviamente Peeta Mellark tra le altre cose non manca di orecchio fino. Sospira, come se già lo sapesse, scuotendo la testa. Mi concedo di osservarlo ora che ha una mano sul viso, e rimango sconcertata da come in alcune cose non sia più lo stesso ragazzo che mi salvò dal morire di fame anni fa. Lo posso vedere, nelle forme del suo corpo e nel suo modo  di agire, quel che i giochi passati gli hanno fatto, ciò che gli hanno lasciato. D’altronde, non posso essere stata la sola a uscirne diversa.

- Katniss, ti ho ... insomma, ti ho costretta in qualche modo? –

Una semplice domanda. Eppure mi apre una voragine nel petto, da cui fuoriesce un singhiozzo strozzato che lo spinge a voltarsi di nuovo verso di me. Non sto piangendo, ma cos’era quel suono? Ah ... certo. E’ di nuovo quello schiacciante senso di colpa che mi stringe il cuore; perché questo ragazzo qualsiasi cosa accada non farà altro che preoccuparsi solo per me, mentre io non riesco a capire cosa provo. Riguardo a quella sera, ai nostri baci, alla recita, agli innamorati sventurati ... niente. Non posso concedermi di pensare, perché tutto ciò che si riaffaccia alla mia mente è la consapevolezza di non avere un futuro.

- Peeta, io non posso ... noi non possiamo ... devi dimenticare. –

- Devo dimenticare?! Non voglio dimenticare! – esclama all’improvviso, alzando la voce tanto da farmi sobbalzare. Si alza di scatto dal divano e lascia la sala, senza dire una sola parola di più. Sospiro. Di nuovo, non sono capace di fare altro se non farlo soffrire. Mi alzo stancamente dal divano cercando di ignorare la presenza di Haymitch, in piedi in un angolo in ombra della stanza, che mi fissa muto, gli occhi annebbiati dall’alcol.
 
Lancio uno sguardo all’orologio sul comodino: sono le undici e mezzo di sera. Domani a quest’ora mi troverò dietro le quinte dello studio in cui Caesar di solito fa le sue interviste ad aspettare di essere chiamata, con le mani sudate, tutta avvolta in uno di quegli svolazzanti abiti da sposa che Cinna ha disegnato per me, chiedendomi cosa dovrei dire o fare; forse cercando di dominare me stessa quando Peeta stringerà la mia mano tra le sue e mi bacerà per le telecamere; tentando di dissimulare il brivido che mi attraverserà con violenza la schiena, minacciando di prendere possesso di quel briciolo di ragione rimastami, non appena le nostre labbra si incontreranno di nuovo. 


*Angolo Autrice*
Ciao a tutti :) Scusatemi tantissimo per il ritardo, mi sono immersa nella saga di Shadowhunters e per un periodo sono sparita dal mondo ... Lo so, il capitolo che vi lascio oggi è decisamente più corto degli altri, ma non è altro che un breve passaggio, o se vogliamo uno stacco. In fondo, mezzanotte è quasi arrivata, e voi ricordate cosa significa? :)  Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Vi invito come sempre a recensire per farmi sapere :) 
Un bacio :* 

Una rosa in fiamme.

 

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Capitolo 11
*** - 11 - ***


 
- 11 - 

[Peeta's POV]



Sento la porta a vetri della terrazza scorrere sui cardini e mi volto, impaziente di sapere chi è appena comparso alle mie spalle, ritrovandomi di fronte Cinna, Portia e Haymitch.

- Ragazzo, avevamo detto mezzanotte e tu sei sparito da mezz’ora. Avevi forse intenzione di stare qui fuori a congelare fino al nostro arrivo? – mi chiede Haymitch, con la voce un po’ impastata.

- Non riesco a stare senza far nulla. – rispondo, e Cinna annuisce assumendo un’aria comprensiva.

- Allora? Perché mi avete detto di venire qua? – chiedo, e nella mia voce si sente l’impazienza.  Portia mi fa segno di parlare più piano.  Dimenticavo che qui rischiamo di essere ascoltati ovunque, a ogni ora del giorno e della notte.

- Il piano originale prevedeva che io continuassi a farvi da mentore ma ovviamente la ragazza non ha potuto fare a meno di mettersi in mezzo ... non che io sia poi obbligato a soddisfare le sue richieste, ma è inutile che ti stia a spiegare troppe cose adesso; comunque ora tu prenderai il mio posto nell’intero piano, per cui vedi di fare le cose per bene! – inizia Haymitch.

- Piano, non ci sto capendo nulla! Qualcuno mi spieghi tutto fin dall’inizio. Il piano originale? Di che piano parli? –

- Prima è necessario che tu abbia un’informazione: Haymitch mi ha riferito che qualcuno ha detto a Katniss dell’esistenza del distretto tredici. Bene, sappi che è vero. Il tredici non è mai andato distrutto. - spiega Cinna.

- Ai tempi dei giorni bui, se ricordi, ci è stato detto che il distretto 13 fu bombardato con l’atomica per punizione, mentre agli altri dodici distretti toccarono gli Hunger Games. Giusto? – mi chiede Portia, ed io annuisco, sempre più perplesso.

- Bene. Il distretto tredici in origine, come vi è stato insegnato, si occupava dell’estrazione della grafite. Quella però era solo una parte secondaria della loro attività. Si occupavano principalmente di energia nucleare e di armi a essa connesse, come le bombe. Insieme al distretto due, costituiva per Capitol City la fonte della forza bellica. Forte di questo vantaggio, fece un patto con Capitol City: chiese di essere dimenticato, di poter continuare a vivere sotto le macerie che avrebbero lasciato. – continua Cinna.

- Cosa?!- chiedo, forse a voce un po’ troppo alta. Mi zittisco da solo prima che Haymitch abbia tempo di imprecare.

- Scusate ... il tredici esiste ancora? Ma i video ... le notizie che davano ogni giorno in televisione ... – balbetto in preda alla confusione.

- Tutto montato, ragazzo. – afferma Haymitch. – Quando Katniss mi ha raccontato la storia di quelle due dell’otto incontrate nei boschi e dei loro racconti sul 13, ho dovuto tacere per motivi che capirai presto. Comunque non hanno fatto altro che montare delle vecchie immagini risalenti ad appena dopo il bombardamento dietro l’inviata del notiziario. Un trucco semplice, a detta di Plutarch ... –

- E cosa c’entra il Capo stratega adesso? – chiedo. Tutto questo non ha nessun senso.

- Oh, io c’entro eccome! – esclama a bassa voce Plutarch Heavensbee, comparendo alle spalle di Haymitch. – Io sono il centro dell’intero piano! Vorrei ricordarti che sono io, a condurre i giochi. –

- Aaaah, smettila Plutarch, mi dai la nausea! – protesta Haymitch. – Tu e le tue entrate scenografiche, mi hai fatto prendere un colpo! Almeno hai controllato che non ci fosse nessuno di sgradito in giro? -

Plutarch sembra ignorarlo completamente, anche se lo vedo rivolgere una fugace occhiata al mio ex mentore con una punta di fastidio per la sua aria trasandata, così diversa dal suo modo impeccabile di presentarsi. Per un attimo mi ricorda Effie.

- La Presidente ha fatto in modo che entrassi a far parte del corpo degli strateghi nella massima sicurezza. Dopodiché è spettato a me farmi notare da Snow a sufficienza da indurlo a nominarmi Capo stratega, dopo la morte di Seneca Crane. –

- La presidente? – chiedo ancora. Non riesco a fare altro che chiedere, perché la situazione è a dir poco assurda. Comincio ad irritarmi.

- Alma Coin, presidente del distretto tredici. – dice lui, come se con questo avesse chiarito ogni cosa. Cerco di riorganizzare la massa di nuove informazioni che sta invadendo il mio cervello. Dopo qualche secondo, annuisco.

- Ora si può sapere qual è questo piano? – domando ancora.

- Ribellione, ragazzo. Cominciare la rivolta da ogni singolo distretto è stata una buona idea. Ha messo a disagio Capitol per quanto riguarda gli approvvigionamenti ma questo non è durato poi molto e non ha influito un granché, perché Snow sa bene come placare gli animi con la forza. Non ci sono mai stati tanti pacificatori per ogni distretto dai tempi dei giorni bui, a quanto si sa. Quindi è ora di passare all’azione e colpire nel punto che sta più a cuore alla capitale: gli Hunger Games. – enuncia Plutarch, allargando le braccia in un gesto teatrale.

Deglutisco, in preda all’ansia. – E cosa avreste intenzione di fare? –

- Distruggere l’arena. O meglio, far si che sia Katniss a demolire quel che Capitol City ha costruito diventando così, a tutti gli effetti, la Ghiandaia Imitatrice. – risponde Cinna.

La rivelazione mi lascia di stucco. Li osservo tutti, uno per uno, chiedendomi quanto tempo possa esserci voluto per arrivare a concepire una simile idea. Distruggere l’arena dei giochi della memoria è molto più di quel che ho mai immaginato di fare per rovesciare Capitol City. Io, che fino a qualche giorno fa ero fermamente convinto di tornare nell’arena, passo dalla parte dei direttori d’orchestra senza avere la minima idea di cosa fare. E a Katniss tocca il ruolo di scintilla della rivoluzione, anche stavolta. Solo che qui si parla di una vera e propria bomba diretta al sistema di Capitol City. Un’impresa spettacolare messa in mano a una ragazza di diciassette anni come me che certo, possiede le qualità di una guerriera ma ...  come si comporterà? In fondo non è mai stata capace di recitare. E’ il centro dell’intero piano eppure non è stata invitata a prendere parte alla conversazione. Questo significa forse che ...?

- Katniss non è qui; immagino che lei non debba sapere nulla di tutta questa storia. –

- Oh, ragazzo. E’ bello lavorare con te: sei perspicace. Non una parola con la ragazza in fiamme; potrebbe mandare a fuoco l’intero piano! – biascica Haymitch, facendomi l’occhiolino e alzando il bicchiere verso di me. Annuisco.

- No, d’accordo, ma adesso spiegatemi in cosa consiste il piano nei fatti. –

- Bene, qui entro in scena io. - sussurra Plutarch, avanzando mentre io devo fare del mio meglio per non scoppiare a ridere vedendo Haymitch fare strani gesti alle sue spalle. Lui sembra accorgersene perché si blocca per un attimo, come a volersi voltare di scatto per cogliere il mio ex mentore in flagrante, ma poi scuote impercettibilmente la testa, forse tentando di non lasciarsi distrarre.

- Com’è ovvio, io so già che tipo di arena ci sarà quest’anno, per l’edizione della memoria. Ne hai mai vista una? Non eri ancora nato ragazzo, venticinque anni fa, ma forse avrai visto qualche registrazione delle precedenti edizioni ... –

Scuoto la testa. E’ stata già abbastanza dura dover vedere ogni anno una nuova edizione, figurarsi se mi è mai venuto in mente di spulciare tra quelle vecchie.

- Non importa ... – mi rassicura. – Tutto ciò che devi tenere a mente a riguardo, è che le regole cambiano e di sicuro non in meglio per voi tributi, perché primo obiettivo delle edizioni della memoria è da sempre torturare i distretti più del solito. Il secondo, divertire come non mai il pubblico di Capitol City. Le due cose ovviamente coincidono. Questo significa regole più rigide, maggiori pericoli, selezioni particolari dei tributi e chi più ne ha più ne metta. Quest’anno il presidente ha deciso che fossero i vincitori delle passate edizioni a partecipare e quindi nell’arena ritroverete alcuni dei maggiori pericoli degli scorsi anni. Potresti ... ritrovarti di fronte il muro di fuoco che ha quasi carbonizzato Katniss nella scorsa edizione, per esempio. Alcuni direbbero che così è più semplice, ci si può informare sulle arene delle scorse edizioni con molta facilità poiché i mentori hanno accesso agli archivi video, ma non è tutto rose e fiori come appare. Ovviamente, il presidente ha una certa esperienza in fatto di Hunger Games e ha fatto in modo che le cose non fossero per nulla semplici. Per te e Katniss poi saranno più difficili che per chiunque altro e non credo di doverti spiegare il perché – conclude, accompagnando il tutto con uno sguardo velato di malinconia che mi spezza dentro.

Scuoto la testa. – Ovviamente no.  – sussurro - Che cosa volete che faccia? –

- Abbiamo già informato i mentori e i tributi dei distretti tre, quattro, sei, sette e undici. Sono nostri alleati ma Katniss, che di alleati non ne vuole e non saprebbe farsene, non ne sa nulla al momento. – Spiega Haymitch. – Incontreremo Finnick e Mags per primi ... non appena ci daranno il via per scendere dalle piattaforme hanno il compito di seguirci. Farò in modo che Katniss non se ne accorga fin quando non raggiungeremo una zona lontana dal bagno di sangue iniziale alla Cornucopia. Se si renderà conto di essere seguita e sarà riuscita a recuperare un arco, potrei vedere Finnick con una freccia nel cuore prima di subito. Il tuo compito, come quello degli altri mentori con cui siamo d’accordo, è tenerci tutti in vita fino al momento giusto. Ci servono tanti sponsor Peeta, e tu sei quello più adatto a procurarceli. –

- Plutarch, ma tu non sai già cosa accadrà nell’arena? Ho sempre creduto che ogni giorno di giochi fosse progettato fin nel minimo dettaglio, dall’inizio alla fine ... –

- Certo che no! – esclama lui, sorpreso. Tutto quel che si stabilisce di un’arena è l’idea di base. Quest’anno l’idea di base è farvi rivivere i vostri incubi, quindi so cosa sarà messo in gioco, ma non so con esattezza il momento in cui verrà fuori, perché gli altri strateghi non sono d’accordo con noi e rifiutando le loro iniziative personali sarei sospetto. Ecco cosa posso dirti: ci saranno di nuovo quei maledetti aghi inseguitori, e mura di fuoco, mine a terra, cose che hai visto nella tua arena, ma anche cose diverse, come delle specie di fenicotteri rosa dai becchi lunghi che ... –

Crash. Un rumore di vetri infranti si spande per il terrazzo e vedo il bicchiere di Haymitch a terra, in mille pezzi, l’alcolico ambrato sparso un po’ ovunque, anche sui suoi pantaloni. Fissa un punto imprecisato davanti a se, improvvisamente pallido in volto.

- Haymitch? – chiedo, ma lui non risponde. Poi la mia mente torna a qualche giorno fa e ad Haymitch seduto accanto a me su un divano, nel buio della carrozza del treno con le tende tirate, il volto illuminato dalla luce discontinua del televisore che mostra i suoi Hunger Games. Maysilee Donner, amica sua e della sua ragazza, stesa a terra in una pozza di sangue mentre un grosso fenicottero rosa le ficca il becco lungo e affilato nel collo.
Mi avvicino a lui.

- Haymitch? Tutto a posto? –

Lui scuote la testa violentemente.  – io ... credo che andrò a prendere un altro drink. – risponde, cupo. Lo lascio andare, e di nuovo mi ritrovo a osservare le sue spalle larghe un po’ cadenti e l’andatura incerta. Come farà nell’arena, quando si troverà di fronte cose che ogni giorno cerca di seppellire sotto i fumi dell’alcol? Improvvisamente mi risale la rabbia in corpo mentre per l’ennesima volta mi convinco che dovrei esserci io in quella maledetta arena, a proteggere Katniss.

- Ho capito, comunque. – dico a Plutarch. – Mi conviene rivedere i vecchi video e prendere appunti, insomma. Immagino che basteranno le arene dei vincitori che partecipano a questa edizione. –

Plutarch annuisce. – Si, naturalmente. D’altronde questa edizione è studiata appositamente per far piombare i tributi nel peggiore degli incubi. Il mio compito in tutta questa faccenda è spingere Katniss verso il campo di forza dell’arena.-

- Il campo di forza? –

- Le arene sono fasulle, create al computer, e delimitate da un campo di forza che le separa dalla realtà circostante. –

- Come delle scatole? -

- Di solito sono cupole, in alcuni casi scatole quadrate o rettangolari. Nel caso di quest’anno si tratta di un qualcosa di molto simile a una cupola di vetro, sotto la quale vi trovate voi. Per questo gli Hovercraft sembrano comparire dal nulla, perché viene aperto un passaggio nel campo di forza per farli passare quando vengono ritirati i corpi. L’unico modo per interrompere gli Hunger Games è distruggere l’arena e l’unico modo per fare questo è colpirla con qualcosa che contenga una grande quantità di energia che destabilizzi l’energia elettrica che lo mantiene. Che crei un cortocircuito. –

- Immagino che questa sia una cosa che potrebbe fare chiunque. Perché dev’essere Katniss a prendersene la responsabilità, per giunta senza saperlo? – obietto. La verità è che tutto questo non mi piace, perché mi da una sensazione di manipolazione sfortunatamente familiare. Il rischio per lei sarà più alto che per chiunque altro e non potrò pagarne le conseguenze al suo posto.

- In pratica potrebbe farlo chiunque, non posso negarlo, ma è necessario che sia Katniss perché così si affermerebbe il suo ruolo di ghiandaia imitatrice e simbolo della rivoluzione. Tutti vedrebbero il suo gesto in diretta. D’altronde di solito spetta a me interrompere la visione di qualcosa considerato ... inappropriato. Solo che io non lo farò e tutti i distretti assisteranno alla sua impresa. A quel punto, i giochi saranno fatti. Non appena l’arena verrà distrutta, useremo un Hovercraft del tredici per prelevare i nostri alleati e portarli in salvo. –

Non credevo avrebbe ammesso di aver scelto di manipolarla per uno scopo preciso tanto spudoratamente.  La verità e chi ha il coraggio di dirla mi fanno sempre provare una sorta di ammirazione. 

- E’ ... geniale. Sì, geniale, ma perché sono passati settantaquattro anni di Hunger Games, prima di questo colpo di genio? – domando, scoprendomi arrabbiato. – Perché tutta quella gente è dovuta morire prima che ... –

- Non eravamo pronti, Peeta. – risponde Cinna per lui. – Sicuramente non lo sai, ma Portia ed io siamo nati e cresciuti nel distretto tredici. –

- No, non lo sapevo, credevo foste di Capitol City. – dico, pensando a quanto sia chiaro ora che il loro modo di pensare fosse diverso da quello degli abitanti della capitale.

- In tutti questi anni il distretto ha vissuto sottoterra senza dare segno della propria esistenza, reggendo i giochi di Capitol e rischiando diverse volte di soccombere alla fame, alla mancanza di risorse, alle epidemie. Venti anni fa una malattia ha reso sterili molti, nel distretto, così che l’anzianità è aumentata parecchio e c’è voluto molto tempo, prima che si riacquistassero giovani in forze, pronti a servire la causa. Non avevamo nulla, solo un piano e niente mezzi per realizzarlo. –

- Possibile che nessuno, in settantacinque anni di giochi, abbia fatto qualcosa per andare contro al sistema? -

- Certo che è accaduto. I tempi però non erano maturi, fin quando non siete arrivati tu e Katniss, e quel gesto con le bacche che da molti è stato visto come una ribellione. Siete stati coraggiosi, i primi dopo venticinque anni, dopo Haymitch che usò il trucco del campo di forza contro la sua ultima avversaria. Noi poi non potevamo essere più pronti. E dire che la presidentessa ci aveva mandati solo in ricognizione, quando decise che avremmo fatto da stilisti per i settantaquattresimi giochi. - sorride rassicurante.

- Bene ragazzo, ora dovrebbe essere tutto chiaro. Il piano deve funzionare, la ghiandaia imitatrice ci serve e nel peggiore dei casi semplicemente dovrò trovare un modo per sabotare i sistemi dell’arena io stesso, per cui non devi preoccuparti per la sua vita, sarà salva in ogni caso.  Non possiamo permettere che Snow la faccia fuori insieme a tutte le nostre speranze, comodamente seduto sulla sua poltrona presidenziale. – mi dice Plutarch, soddisfatto.

- Ovviamente no. – concordo, ma non riesco a dire altro. Sono sopraffatto dalla gioia. Katniss non morirà, e forse si potrebbe riuscire a liberare il paese dalla dittatura di Snow. Potremmo avere un futuro, una vita di pace un giorno ... solo che lei per ora non deve saperlo.
C’è un retrogusto amaro tuttavia, in questa storia. Ripenso all’antico terrore che mi ha pervaso nel sentire il mio nome pronunciato da Effie Trinket, il giorno della mia prima mietitura, alle allucinazioni portate dal veleno degli aghi inseguitori e al gelo della spada di Cato conficcata nella mia gamba.
Come mi sarei sentito nel provare tutto questo per poi scoprire che sarei stato salvo in ogni caso?
 
- Non sarebbe meglio se lo sapesse? Katniss intendo. Non sarebbe meglio se fosse a conoscenza anche lei dell’intero piano? Voglio dire, non posso negare che sia testarda come poche e non molto brava a ingraziarsi il pubblico, ma non credo sia giusto che venga usata in questo modo, che soffra per tutto il tempo senza sapere di avere una chance di uscirne viva. Si sta distruggendo!  Mi ha appena detto che devo dimenticarmi di quello che ... oh, lascia stare ... – mi rendo conto di aver parlato a voce troppo alta e mi sento arrossire.

- Non possiamo Peeta. – sento Portia dire alle mie spalle. – Snow la tiene sott’occhio. Per te è lo stesso, ma quando lei sarà nell’arena, sarà troppo concentrato nel godersi lo spettacolo nel quale suppone che morirà perché è convinto di essere d’accordo con Plutarch. Lei non è in grado di far finta di nulla ... ti chiedo scusa ma non è stata nemmeno in grado di convincere il popolo che il suo fosse un gesto esclusivamente d’amore, durante il tour della vittoria. Anche se ... –

- Anche se, cosa? – incalzo. Mi chiedo se nella mia voce si senta quanto il commento di Portia mi abbia ferito in realtà.

- Anche se è incredibile come agisce l’amore, a volte, all’insaputa della stessa persona che ama. – termina Cinna, al suo posto.  – Vedi Peeta credo che di tutti noi qui lei sia l’unica a dover ancora capire cosa c’è nel suo cuore.  O questo, o lei è davvero una grande attrice e finora ci ha imbrogliati tutti fingendosi un’imbranata in questo genere di cose. –

Le parole di Cinna galleggiano da qualche parte nella mia testa mentre al centro dei miei pensieri c’è lei: la sua pelle liscia come seta, soffice calda e profumata; i suoi sospiri e i suoi gemiti; il suo modo di rispondere ai miei baci e di stringermi per chiedere di più. Proprio non riesco a credere che fosse una finzione; o forse semplicemente non voglio perché so che a quel punto potrei uscirne in mille, piccoli e sanguinanti pezzi.

- Spero che lo capisca presto. – rispondo, oltrepassandolo per raggiungere il salone senza attendere risposta.

E così, questo è il piano. Rovesciare Capitol City e rendere Katniss il simbolo di questa rivoluzione senza che se ne renda conto.
Dovrò mentirle. Farle credere che domani potrebbe essere davvero l’ultima volta che ci vedremo, che potrebbe non salvarsi.

Passo di fronte alla porta della sua camera e mentre il mio cervello tenta di guidarmi alla porta accanto, oltre la quale c’è la mia stanza, il mio cuore si ferma lì. Sarà l’una di notte e lei probabilmente dormirà, ma quando prima di potermi fermare afferro la maniglia della porta convinto che sia chiusa, la scopro aperta.
 
Raramente ho visto Katniss dormire così, o più semplicemente dormire. Troppe volte l’ho sentita svegliarsi nel cuore della notte, dopo esser stata preda degli incubi che affollano le sue notti e le mie. La notte scorsa dormiva sì, ma persisteva l’agitazione nell’aria, forse per via del mio cuore che anche mentre stendevo una pennellata di colore dietro l’altra non ha mai smesso di battere all’impazzata; ero ansioso perché credevo davvero di non poterla salvare e invece ora so che non sarò solo a combattere per riportarla indietro.

Mi prendo più tempo stavolta per osservarla, per notare che anche nel sonno profondo non è per niente serena. Si stringe ai cuscini con forza, come si trovasse nel mare in burrasca e quello fosse l’unico appiglio cui aggrapparsi. Non mi avvicino, resto lì sulla porta a guardarla, timoroso di interrompere quel poco di riposo che le è concesso. E’ di spalle a me, così che riesco solo a vedere la sua schiena e i cuscini sbucare da sotto la sua testa, ma poi senza svegliarsi si volta verso di me mugugnando un po’.

Sorrido per quel gesto così infantile e per il modo in cui dormire la fa sembrare quel che effettivamente è: una ragazza di diciassette anni come lo sono io.
Rapito dalla scena, finisco per avvicinarmi a lei quanto basta per sfiorarle una guancia con la punta delle dita. Mi aspetto che si svegli di soprassalto, magari pensando di trovarsi nell’arena di fronte ad un nemico pronto a ucciderla, e invece borbotta qualcosa che suona come il mio nome senza però aprire gli occhi, facendomi spuntare uno sciocco sorriso sulle labbra.
 
- Non andare via, Peeta. – dice d’un tratto. Così il proposito di tornare nella mia stanza svanisce nel nulla. Mi tolgo le scarpe, poggiandole accanto al letto.
 
- Resta con me – dice ancora, mentre faccio il giro del letto per sdraiarmi dall’altra parte. Sussulto a quelle parole mentre ricordo il giorno in cui gliele sentii pronunciare per la prima volta. Alzo le coperte per infilarmici sotto e mi sdraio accanto a lei, premendo il petto contro la sua schiena, avvolgendo quella piccola figura tra le mie braccia.  Sorrido quando l’odore di bosco della sua pelle m’invade le narici.  Se dipendesse da me, il tempo si fermerebbe in questo preciso istante.
 
- Sempre. – rispondo ancora una volta a una Katniss che non mi può sentire. Chiudo gli occhi pensando che forse potrò risolvere le cose e proteggerla per davvero; garantirle un futuro anche se potrebbe scegliere di non viverlo con me. Tanto basta per far si che quella notte trascorra senza che gli incubi mi facciano visita.
 
 
Ciao a tutti :D Eccomi quindi col capitolo 11. Ci è voluto un po’ per scriverlo, avrete notato il cambio di tono perché si comincia a sentire qualche riferimento alla rivoluzione che è andato forse un po’ scemando nei primi dieci capitoli.
Non so se ricordate .... mi pare la scorsa volta, vi avevo promesso che avrei riportato qualche dettaglio divertente del betaggio di MatitaGialla :D A me piace mantenere le promesse, quindi vi lascio un paio di spezzoni dal testo ( com’era prima che apportassi le modifiche finali ) in nero corsivo, mentre i commenti di Matita sono in rosso. Enjoy!


Le parole di Cinna galleggiano da qualche parte nella mia testa mentre al centro dei miei pensieri c’è lei: la sua pelle liscia come seta, soffice calda e profumata; i suoi sospiri e i suoi gemiti; il suo modo di rispondere ai miei baci e di stringermi per chiedere di più. Proprio non riesco a credere che fosse una finzione; o forse semplicemente non voglio perché so che a quel punto potrei uscirne in mille, piccoli e sanguinanti pezzi. Peeta molla la stronza e vieni con me.
 
Sorrido per quel gesto così infantile e per il modo in cui dormire la fa sembrare quel che effettivamente è: una ragazza di diciassette anni come lo sono io.
 Troppo amore, troppo troppo amore.. aaaw <3
 
- Sempre. – rispondo ancora una volta a una Katniss che non mi può sentire(mm.. secondo me sente eccome……). Chiudo gli occhi pensando che forse potrò risolvere le cose e proteggerla per davvero; garantirle un futuro anche se non con me (si perché il tuo futuro è con me )

 
Ci tengo a precisare che questo non è nulla ... purtroppo i precedenti betaggi li ho cancellati, ma nei prossimi vedrò di raccogliere i best moments, se ce ne saranno :’) Colgo l’occasione per ringraziare MatitaGialla dal profondo del cuore <3  E ... se non l’avete già fatto, ANDATE A LEGGERE LE SUE STORIE U.U
 
Bacioni :* 

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Capitolo 12
*** - 12 - ***




-12-

[Katniss POV]

 
 
Haymitch non parla. Borbotta ogni tanto qualcosa di assolutamente incomprensibile, esalando zaffate di alcol puro che rischiano di farmi salire il vomito. Confesso che vorrei entrare con lui durante l’ultima prova con gli strateghi; mi piacerebbe vedere cos’ha intenzione di combinare in questo stato. Non che non lo sapessi, visto che stamattina, appena sveglia, ho trovato Effie nel corridoio che camminava rapidamente avanti e indietro, sussurrando tra se in evidente stato di agitazione. Sulle prime non ho voluto crederci, quando mi ha detto che nonostante tutte le raccomandazioni Haymitch aveva scelto di prendersi una sbornia colossale anche la sera prima della valutazione, ma poi lui è uscito dalla sua stanza, forse infastidito dalla voce acuta di Effie, aggrappandosi alla porta scorrevole e finendo comunque in ginocchio a terra.
Per un attimo ho sentito una risata forte, fragorosa, salirmi su per la gola. Guardandolo di nuovo però, chino sul pavimento in preda alla nausea e al mal di testa, mi è passata la voglia di ridere ed è cominciata la rabbia. Capitol City è responsabile anche di questo.
 
Mi riscuoto dal pensiero della scena penosa di stamattina quando chiamano Seeder, del distretto 11, e Haymitch solleva la testa quel tanto che basta per posarle addosso lo sguardo acquoso per un attimo, proprio come ha fatto con Chaff dieci minuti fa. Sono suoi amici, a quanto ho capito, o forse nel caso di Haymitch sarebbe meglio dire che sono suoi compagni di sventura, essendo mentori a loro volta. Guardo Seeder anche io, attenta al suo portamento dritto e fiero. Sembra di osservare una pantera, con quell’andatura e la pelle scura. Ha i capelli ricci e scuri come quelli di Rue penso, con un tuffo al cuore.

Dieci minuti passano molto lentamente, nel silenzio di tomba che ci avvolge. Ripenso all’anno scorso, quando qui c’eravamo io e Peeta. Oggi posso dire che fosse un tipo di silenzio diverso. Carico di aspettative, forse perché Peeta ha sempre desiderato dirmi qualcosa.

- Haymitch Abernathy -  Una voce femminile, dalla nota leggermente metallica, richiama il mio mentore alla realtà. Il mio mentore. E’ qui affianco a me come tributo ma nonostante questa sua aria poco responsabile faccio fatica a non pensarlo come quello che dovrebbe stare dietro le linee a cercare di salvare il salvabile... non che ci sia qualcosa che si possa davvero salvare, in realtà.  
Si alza e si avvia verso l’entrata della palestra senza guardarmi. Apro la bocca per dire  qualcosa ma tutto quello che faccio è prendere bruscamente l’aria che all’improvviso mi manca. Cosa dovevo dire?

- Non vomitare – borbotto. Lui grugnisce in risposta, alzando stancamente una mano, mentre qualsiasi cosa mi fosse passato per la mente di dirgli svanisce nel silenzio.

C’è un orologio, appeso al muro di fronte a me sopra la porta d’ingresso della palestra. Le lancette girano con sorprendente lentezza. Un minuto dopo l’altro cerco di pensare a qualcosa da fare una volta varcata quella soglia, per impressionare gli strateghi, fare in modo che Plutarch Heavensbee si ricordi di me.  Ma del resto, c’è ancora qualcuno che non sappia chi sono?

- Katniss Everdeen –

Sussulto sorpresa quando mi chiamano, riscossa dai miei pensieri. Scopro in un attimo che non me ne importa niente. Qualunque cosa io faccia in quella palestra nei dieci minuti che mi sono concessi, non servirà a salvarmi.
Mi alzo ed entro velocemente nella sala. Subito il mio sguardo si posa su Plutarch, in piedi al centro del soppalco che ospita gli strateghi, ben protetti da un campo di forza. Li osservo per bene tutti, con le loro espressioni sprezzanti e palesemente annoiate, e in un attimo so cosa devo fare.
Ci sono dei manichini, in fondo alla palestra. Ieri Gloss li stava riempiendo di coltelli lanciandoli con impressionante velocità e precisione. Uno di questi ha uno squarcio all’altezza dello stomaco. Fisso il foro nella plastica grigiastra e sento il respiro che viene a mancare: sono nell’arena, il corpicino di Rue stretto tra le mie braccia, una lancia che sbuca dallo stomaco.

Mi sento sospesa nel tempo e nello spazio, al di fuori del mio corpo che già è vicino ai manichini e sta afferrando proprio quello che ha riportato a galla quei terribili ricordi. Lo stendo a terra, al centro della palestra, con gli sguardi degli strateghi puntati addosso. Non ci bado più di tanto e afferro una lancia dalla rastrelliera.
Con un brivido la infilo nel foro e, sapendo che non ho molto tempo a disposizione, corro alla postazione mimetica. Mi guardo attorno, ci sono ciotole mezze vuote ovunque, alcune addirittura rovesciate. Devono esser stati i morfaminomani, ma i colori che mi occorrono sono lì.

Io non so disegnare. Non sono Peeta, non ho il suo dono straordinario, ma quei fiori bianchi sono lì davanti ai miei occhi in attesa che io li dipinga. Faccio del mio meglio per ricoprire di fiori la fronte, le mani, i piedi, il pavimento attorno. Poi scrivo il nome di Rue sul petto, in rosso sangue, e mi scosto perché vedano. 

Plutarch ha la bocca e gli occhi spalancati. Mi porto le tre dita della mano sinistra alle labbra e le alzo al cielo per lei che non c’è più, fissandolo dritto negli occhi chiari. Mi guardano tutti, ormai indifferenti al cibo e alle bevande, ed io, in silenzio come sono arrivata, abbandono la stanza senza aspettare il loro consenso. Solo quando sono sicura che nessuno di loro possa guardarmi lascio che una lacrima, una sola, mi scenda sulla guancia.
 
- Allora cara, com’è andata? –

Effie è la prima a chiedere, come mi aspettavo. Non le rispondo, infischiandomene del fatto che penserà che le stia mancando di rispetto. Non ho voglia di sentire i suoi squittii indignati. Ma quando sto per entrare in camera per un breve riposo, Peeta mi prende per un braccio, costringendomi a voltarmi. Non parla, ma rispondo alla sua domanda e lui sorride.

- In qualche modo, sapevo che avresti fatto una cosa del genere. Che facce hanno fatto?-

- Plutarch era a dir poco indignato. Tutti gli altri mi fissavano come fossi un ibrido con un centinaio di teste. –

- Bene. D’altronde, ormai cosa c’è da perdere? – chiede improvvisamente cupo, strappandomi per qualche motivo un leggero sorriso. Scuoto la testa.

- Nulla, hai ragione. Dopo lo scorso anno, nessuno crederebbe ad un voto basso. – so che non è quel che intende dire ma faccio finta di non capire. La sua mano sul mio polso ha una presa forte ed è calda, oltre che l’unica cosa di cui riesco ad essere consapevole al momento.

- Vado a riposare. – dico, aprendo la porta. Lui lascia andare il mio polso e provo un leggero dispiacere a sentire quel calore abbandonarmi, ma non lo do a vedere. – Non chiamatemi per pranzo, non ho fame. -  Lui annuisce e io chiudo la porta, lasciando il mondo fuori.

Lo sento di nuovo parlare tra il sonno e la veglia, dietro la porta chiusa, solo qualche ora dopo. Capisco di aver preso dodici alla prova, contro il nove dato a Haymitch. Per un attimo mi ritrovo di nuovo a chiedermi cosa possa aver fatto il mio mentore nei dieci minuti della sua prova, poi ricordo cosa mi attende questa sera e la disperazione mi fa scivolare di nuovo in un sonno agitato.
 
 
Sono sulla soglia della stanza da lavoro di Cinna e il mio sguardo è fisso verso la parete di fronte, davanti alla quale un manichino veste l’abito da sposa che il pubblico ha scelto per me, tra tutti quelli realizzati dal mio stilista.
Sento Cinna osservarmi, in attesa che io esprima il mio giudizio. Non mi sono mai interessata di moda e lui lo sa bene, ma lo stesso so che vorrebbe sapere cosa ne penso di quell’abito visto che toccherà a me indossarlo. In più, come potrei mai non sforzarmi per lui che tanto ha fatto e sta facendo per me? Vorrei soddisfare la sua curiosità ma ci vuole un attimo di più per tentare disperatamente di isolare tutto ciò che quell’abito mi porta alla mente e che niente ha a che fare col fatto che sia bello o meno.

Poco tempo fa ero ancora nel distretto dodici e la mia unica preoccupazione era sapere che un giorno sarei stata la moglie di Peeta, pur non volendo. Oggi sono al centro d’addestramento di Capitol City perché sto per tornare nell’arena e non sono più molto sicura di non aver mai voluto, nemmeno per un secondo, sposare Peeta.
Non so a cosa sia dovuto questo mio improvviso dubbio, o meglio non so dire se sia dovuto ad una sola cosa o all’insieme di avvenimenti che in questi giorni mi ha trascinato nel suo vortice.
Ripenso a stamattina, quando ho lasciato vagare la mia mano sulle lenzuola accanto a me, scoprendole calde come se qualcuno fosse stato lì fino a poco prima che io riaprissi gli occhi. Mi è bastato accostarvi il naso per sentire, anche se molto flebile sotto l’odore di metallo e farmaci di questo posto, il profumo di aneto cannella e nocciole, e sorridere perché avevo la certezza che Peeta fosse stato lì, probabilmente per tutta la notte.
Questo, l’aver fatto l’amore, le parole che gli ho detto quando eravamo ancora a casa e convinti che il nostro legame con gli Hunger Games si sarebbe limitato solo alla storia degli innamorati sventurati e all’ingrato compito di fare da mentori per i tributi delle edizioni successive.
Decisamente la ragione dei miei pensieri si trova in tutte queste cose assieme e in quel che ci lega fin da quando non eravamo che dei bambini.
 
Tento di concentrarmi sull’abito, ampio e ricco e stracolmo di brillanti sul corpetto. Non mi piace, di certo più che il mio stile è un qualcosa che Effie indosserebbe per sposarsi. Io so bene che l’unico abito di nozze in grado di non darmi l’impressione di fasullo, di eccessivo, sarebbe quello semplice con cui mia madre tostò il pane con mio padre nel distretto dodici; anche Cinna di certo lo sa ma qualcosa devo comunque dirgliela, è l’affetto che provo nei suoi confronti l’unica cosa che mi spinge ad aprir bocca.
 
- Lo sai che non è il mio stile, Cinna ...- ammetto, lasciandomi sfuggire un mezzo sorriso quando lo vedo scuotere la testa in segno di disapprovazione. - Però sai anche che ammiro sempre il tuo lavoro. Fiamme anche stavolta? – gli chiedo, cercando di capire se anche stasera mi toccherà fare stupide giravolte sul palco. Con mio grande sollievo continua a scuotere la testa.
 
- No. E’ una sorpresa. E ti ringrazio, ma so bene che non indosseresti mai qualcosa del genere di tua volontà e a dirla tutta anch’io avrei preferito vederti entrare in scena con qualcosa di diverso.  Snow tuttavia ha dato ordini precisi e io ho fatto in modo di accontentarti, sono sicuro che alla fine ti piacerà. –
 
Annuisco tentando di capire cosa abbia in serbo per me stavolta perché davvero per essere uno deluso dalla scelta di un abito mi pare stia sorridendo un po’ troppo.
 
 - Adesso va. Flavius Venia e Octavia ti stanno aspettando. –
 
Sbuffo al pensiero di quel che mi toccherà subire tra poco e lui sorride ancora, divertito da quanto non mi piaccia prendermi cura di me stessa. Eppure non mi da fastidio come me ne darebbe se fosse Effie a disapprovare, perché so che l’unico motivo per cui Cinna vorrebbe che mi curassi un po’ di più è che pensa che io sia bella, cosa che non ho mai capito ne mai capirò, a questo punto.
 
Al centro immagine mi viene subito ordinato di spogliarmi da capo a piedi e tutti i peli mi si rizzano per la pelle d’oca, perché malgrado sia estate non fa poi così caldo qui dentro. Fisso il soffitto ignorando completamente gli sguardi dei miei preparatori fissi sul mio corpo nudo. Tento di non lamentarmi quando Venia, dopo aver lasciato che Octavia mi spalmasse la solita, strana sostanza appiccicosa sulle gambe, mi strappa via i peli con una certa violenza. Ripensare alla bruciatura che mi sono procurata su quella stessa gamba durante i miei primi giochi basta perché io non senta alcun dolore.

All’inizio, come al solito mi estraneo sapendo che parleranno solo delle loro cose, delle feste a cui hanno partecipato e delle persone che hanno incontrato. Colgo qualche commento sulla festa che fu data da Snow per il fidanzamento mio e di Peeta ma dopo un paio d’ore passate così, c’è qualcosa che mi riporta alla realtà e mi costringe ad ascoltare.
E’ il tono di voce improvvisamente lacrimoso, rotto di singhiozzi, di Octavia.
 
- Io ... Katniss sai a me dispiace tanto. Vedi tu e Peeta eravate diventati il sogno di tutti noi e ora invece dovrete tornare nei gio-giochi! – esclama balbettando e strappandomi altri peli dalle sopracciglia. 
 
- No ti prego Octavia ... non dire nulla ... – aggiunge Flavius, anche lui improvvisamente triste e mi accorgo che si è fermato per asciugarsi le lacrime con la manica della camicia. Perché stanno piangendo? Non posso credere che siano davvero dispiaciuti per me. Venia non parla, continua a lavorare sulle mie gambe ma le rivolgo uno sguardo e noto la mascella indurita, forse per lo sforzo di non dire nulla.
All’improvviso mi sento tremendamente stupida e allo stesso tempo mi rendo conto di essere completamente nuda di fronte a due donne e un uomo. Perché è questo quel che sono, per quanto io mi sia ostinata a pensare che facendo parte del mondo di Capitol non avessero abbastanza sensibilità per esser considerati umani.
Una lacrima di Flavius s’infrange sulla fronte mentre lui continua a massaggiarmi i capelli. Nessuno parla più fin quando non hanno finito. Allora mi lasciano alzare e, senza nemmeno darmi il tempo di mettere qualcosa addosso, ecco che Flavius e Octavia sono stretti a me in un abbraccio tremolante, mentre Venia rimane dietro a guardarci.
 
- Ehi ... – sussurro, notevolmente imbarazzata. Proprio non sono abituata a questo genere di contatti umani. E poi sono ancora nuda.
 
- Ci – ci mancherai tanto, Katniss ... però cerca di tornare, eh? Un’altra volta. – mi chiede Flavius. Annuisco e mi lascia andare. Octavia scoppia definitivamente in lacrime voltandomi le spalle e Flavius la accompagna fuori dalla stanza lasciando me e Venia da sole.
 
Per qualche secondo ce ne stiamo in silenzio a fissarci mentre per la prima volta la separo dal trio, rendendomi conto che ha un carattere e un modo di comportarsi del tutto diversi da quelli degli altri due.
 
- Sei davvero bella, Katniss. – mi dice. – E’ stato un onore, poterci prendere cura di te. –
 
Non si avvicina, non mi abbraccia. Mi guarda negli occhi per un altro paio di secondi e poi anche lei raggiunge velocemente l’uscita.
 
Solo dopo qualche minuto, passato lì in piedi a riflettere su quanto appena accaduto, il freddo si fa sentire di nuovo. Indosso l’accappatoio appena prima che Cinna entri nella stanza.
 
Mi guarda e per un attimo temo quasi di vedere anche lui fare la stessa scena dei preparatori; mi dico che non ce la posso fare, così mi sfugge un – Non anche tu, ti prego! –
 
- Qualche lacrima? – mi chiede ironico. Vedo però un’ombra passare anche sui suoi occhi e cerco di fare del mio meglio per non piangere a mia volta: domani, appena prima di entrare nell’arena, sarà quasi sicuramente l’ultima volta che vedrò quest’uomo straordinario, il mio amico Cinna.
Annuisco e lui scuote la testa.
 
- Non preoccuparti.  Io incanalo le mie emozioni sul lavoro. Così faccio del male solo a me stesso.
 
Il significato di quella frase mi colpisce nell’immediato come una lama di ghiaccio nelle viscere. Ora so che qualunque cosa indosserò domani porterà con se qualcosa che difficilmente verrà dimenticato.
 
- Bene, ora vieni. E’ il momento di indossare il vestito. – dice, mettendomi una mano sulla schiena e guidandomi delicatamente verso la porta fin dove ci trovavamo prima, nella sua stanza da lavoro. Portia mi aspetta accanto all’abito.
 
- E Peeta? E Haymitch? – chiedo subito, sapendo che lei dovrebbe essere altrove ad occuparsi di loro.
 
- Sono praticamente pronti, ho lasciato a Effie il compito di dare gli ultimi ritocchi. Oggi la protagonista sei tu. – mi dice sorridendo e di nuovo ho una stretta al cuore.
Non ho mai fatto molto caso a Portia, forse perché è sempre stato unicamente Cinna ad occuparsi di me e a presentarmi i vestiti che avrei indossato di volta in volta. Solo adesso mi vien da pensare che l’abito che sto per indossare è stato disegnato da Cinna ma che Portia avrà di certo dato il suo prezioso contributo. Magari applicando uno ad uno i brillanti sul corpetto, sapendo quanto gli abitanti di Capitol tengano a questo genere di cose. Me la immagino china su quella stoffa un po’ ruvida, tutta concentrata nel posizionare ogni piccola gemma nel punto e nel modo giusto, per non deludere Cinna e non far sfigurare me perché “oggi la protagonista sono io.”.
 
- Bene. Vi lascio, rientro appena sei pronta. – dice Cinna.
 
Malgrado l’abito sia piuttosto ingombrante non ci vuole molto per indossarlo, anche se procediamo lentamente per non intaccare ne l’acconciatura ne il trucco. Quando alla fine Portia termina di legare i lacci del corpetto mi accorgo che la stoffa è molto più pesante di quanto sembri. Stringo la gonna tra le dita, osservandola interrogativa, e Portia risponde alla mia domanda inespressa.
 
- Abbiamo cambiato il tessuto originale ... è una sorpresa per te. – Cinna in quel momento rientra. Deve aver sentito quel che Portia ha detto o avere un tempismo eccezionale perché dice,sfiorandomi una spalla:
 
- Tu non dovrai fare nulla, ne giravolte ne altro. Solo rispondere alle domande di Caesar con sincerità. Sii te stessa, al resto deve pensare Peeta. – sussurra, facendomi l’occhiolino.
 
Esco dalla stanza, le interviste stanno per cominciare quindi è il caso che vada a mettermi in fila dietro le quinte, insieme agli altri tributi.  Quando arrivo, Peeta e Haymitch sono già li assieme a Effie che, non appena arrivo, emette un mugolio strozzato e si porta il fazzoletto all’angolo dell’occhio sinistro, picchiettando delicatamente per non sbavare il trucco, per cui ci saranno volute ore.
 
- Oh, Katniss ... sei davvero bellissima cara. – dice, circondandomi delicatamente con le braccia e battendomi piano una mano sulla schiena. Faccio del mio meglio per sorridere mentre  gli altri mi guardano. Cashmere, del distretto uno, mi ha già squadrata da capo a piedi con aria di sufficienza intimando a suo fratello di non prestarmi troppa attenzione mentre Finnick emette uno sbuffo, come di una risata trattenuta. Vedo Mags dargli un colpo sulla spalla e scuotere la testa con aria di rimprovero, per poi sorridermi. I morfaminomani mi fissano entrambi senza parlare, con gli occhioni enormi che sembrano ancora più grandi, spalancati a quel modo.
In quel momento accanto a me passa Johanna, urtandomi leggermente la spalla.
Anche lei mi squadra da capo a piedi, un sopracciglio ironicamente alzato.
 
- Un abito da sposa? – chiede sbuffando.
 
- Snow mi ha ordinato di indossarlo. – rispondo piccata. Non permetterei mai a nessuno di criticare Cinna sulla base di una scelta non sua. Ma Johanna mi sorprende, sorridendo alla mia risposta tutt’altro che garbata.
 
- Che bastardo ... fagliela pagare.
 
Annuisco e lei va a posizionarsi accanto al suo compagno di distretto, trascinando dietro di se uno strascico impressionante che col suo movimento fluido mi guida direttamente a Peeta.
 
Solo ora mi accorgo dell’abito che indossa. Giacca e pantaloni sono bianchi come il mio vestito, ma intravedo la camicia nera, i guanti e le scarpe color carbone come il fazzoletto ripiegato a triangolo e infilato nel taschino sul petto. In quell’assenza di colori l’azzurro dei suoi occhi risalta ancor più del solito e il mio sguardo si incatena al suo con tanta forza che quasi penso di poter vedere le sue iridi ingrigirsi come le mie, come se risucchiassero il mio colore oltre che la mia anima.
Mi sorride senza parlare e io gli sorrido di rimando.
 
- Pronta, dolcezza? – chiede Haymitch, interrompendo la nostra comunicazione silenziosa e io sussulto come fossi stata svegliata di soprassalto. Non sono pronta ma devo esserlo e così annuisco tentando di sembrare convincente.
 
Cashmere è la prima ad essere chiamata sul palco, dove presenta una sceneggiata tremenda blaterando qualcosa sul fatto che per lei e suo fratello Capitol City è come una famiglia e che quindi faranno di tutto per far si che almeno uno di loro possa tornare indietro. Piange senza versare una lacrima, scuotendosi in maniera innaturale ai miei occhi. Eppure il pubblico ci casca: sento diversi lamenti, qualche grido disperato anche quando il fratello la raggiunge sul palco e rivolge il suo saluto alla folla, promettendo la vittoria del distretto uno.
 
Enobaria si mostra come sempre insensibile. Scopre i denti in continuazione promettendo di squarciare la gola di almeno metà dei tributi e io mi ritrovo a sperare che in qualche modo le caschino tutte, quelle punte acuminate bianche come la neve. Anche Brutus fa dell’aggressività la sua firma.
 
Wiress non dice praticamente nulla sul palco e viene immediatamente raggiunta da Beetee che bofonchia qualcosa sul fatto che non si dovrebbero considerare gli Hunger Games come qualcosa di inevitabile e che non ha senso che tutti stiano lì a piangere la loro morte quando potrebbero fermare i giochi. Un ragionamento perfettamente logico e tipico di Beetee che però certamente verrà ignorato.  Caesar infatti subito svia immediatamente l’attenzione da quella problematica sputando una battuta sulla sua intelligenza che mi fa credere che il presentatore stia perdendo un po’ del suo talento.
 
Anche Mags non dice nulla ed entra direttamente scortata da Finnick, che scatena un coro di sospiri e grida di ammirazione non appena mette piede sul palco. Quel che fa subito dopo manda in visibilio il pubblico: dedica una breve poesia al suo unico, grande amore. Mi chiedo quante donne siano convinte che si stia rivolgendo a loro.
 
Ma è Johanna quella che mi stupisce di più: alla domanda di Caesar, che le chiede di salutare il pubblico, lei risponde con una sequela impressionante di insulti e di minacce rivolti nientemeno che a Snow, facendomi tremare. Cosa fa? Non sa che il presidente potrebbe uccidere i suoi cari da un momento all’altro? Ma Haymitch risponde subito alla domanda che evidentemente si legge nella mia espressione sconcertata:
 
- Johanna Mason non ha più nessuno. – dichiara amaro. – Snow le ha portato via i suoi cari appena dopo la fine dei giochi. Succede questo quando ti rifiuti di eseguire i suoi ordini. E’ quel che è accaduto a me. Perciò non ha paura di dire quello che pensa. In fondo anche lei come tutti potrebbe far parte dei morti di questi giochi per cui capisco che non abbia senso per lei trattenersi. –
 
Chino la testa a quelle parole rifiutandomi di guardarlo negli occhi. Quindi è così che Haymitch ha perso tutti i suoi cari: disobbedendo a un ordine di Snow, dimostrando il coraggio delle sue scelte. Mi sento quasi fortunata al pensiero che, malgrado io abbia scatenato le ribellioni dei distretti col mio gesto delle bacche, lui non abbia ucciso Prim, Gale, mia madre.  Lui invece deve dimenticare il mondo bevendo, per non ricordare che non c’è più nessuno ad aspettarlo quando torna a casa.
Realizzo di non sapere nulla di Haymitch, a parte che avesse una fidanzata ai tempi dei suoi giochi. Aveva fratelli e sorelle? Che tipi erano i suoi genitori e che facevano per mantenere  la famiglia? Com’era la sua vita nel dodici prima che venisse scelto? Quali sono i volti che vede quando dorme e che cerca di dimenticare bevendo?
Tutte cose che non ho mai saputo e che non ho più tempo di chiedere.
 
Mentre rifletto su tutto questo il tempo passa e in un lampo è arrivato il turno di Haymitch. Entrerà lui per primo perché a quanto pare la ragazza di fuoco la vogliono lasciare per ultima. Rimane in silenzio per tutta la durata dell’introduzione di Caesar al suo ingresso, i denti stretti. Cambia però completamente faccia una volta salito sul palco, lasciandomi di stucco mentre davanti a me vedo riprendere vita lo stesso Haymitch della sua prima intervista con Caesar, ben venticinque anni fa. Solo che c’è qualcosa in più perché quello che sta guadagnando la scena, vestito di nero da capo a piedi, è un uomo adulto ormai, reduce da un’edizione della memoria degli Hunger Games e ventiquattro anni da Mentore.
 
- Haymitch! – esclama Caesar con voce grossa, producendosi in uno dei suoi smaglianti sorrisi. – Davvero credevo che avrei dovuto accontentarmi di vederti in mezzo al pubblico per il resto dei miei giorni, e invece eccoti di nuovo qui! –
 
- Credimi Caesar, se ti dico che preferirei essere ancora lì in mezzo. – risponde Haymitch sospirando sconsolato e scuotendo la testa. Il pubblico ride.
- Non posso dire di non capirti, ma sei stato tu ad offrirti volontario al posto di Peeta Mellark alla mietitura, quindi non è che tu possa lamentarti poi molto! Ti sei fregato da solo! – Il  pubblico esplode in una grossa risata assieme a lui.  – A proposito, Haymitch ... non è che tu abbia esattamente la fama di essere un uomo di buon cuore, quindi che ne diresti di spiegarci perché ti sei offerto volontario al suo posto? –
 
- C’è da chiederlo, Caesar? Voglio dire, non c’era speranza che potessi offrirmi volontario anche per la ragazza di fuoco. Oltre al fatto che non ci stiamo particolarmente simpatici, diciamo pure che come donna lascio parecchio a desiderare ... – il pubblico ride di nuovo e lui si ferma, aspettando che cali di nuovo il silenzio, - ... ma almeno il ragazzo! Stiamo parlando degli innamorati sventurati. Avrebbero dovuto sposarsi e invece guarda che casino! Ho cercato di sistemare le cose come meglio potevo! E dire che il presidente sembrava tanto entusiasta all’idea che i ragazzi avessero deciso di convolare a nozze! –
 
Caesar annuisce mentre il pubblico commenta all’unisono con un deluso  - Oh! –
 
- C’è qualcosa che vuoi dire al pubblico? Non credo ci sia bisogno di ricordarti che li in mezzo ci sono anche gli sponsor ... –
 
- No, infatti avrei giusto una cosa da dire: vorrei chiedervi un favore. Se dovete far tornare a casa qualcuno, aiutate la ragazza. Diciamocelo, potrete ammirarla quanto volete e con l’arco ci sa fare di sicuro ma non è il massimo dell’intelligenza. Senza contare che se morisse poi il suo fantasma verrebbe di certo a perseguitarmi ogni notte nel caso restassi in vita o mi trascinerebbe con se all’inferno ... –
 
Io dietro le quinte proprio non posso fare a meno di ridere. Mi sta ricoprendo di insulti, proprio lui che un tempo è stato mio mentore e ha organizzato una messinscena bella e buona per tenerci in vita entrambi. E’ una risata sommessa che mi fa lacrimare gli occhi e mi lascia anche uno strano vuoto dentro perché so cosa sta facendo; per quanto voglia farla passare per una sequela di prese in giro nei miei confronti. Ancora una volta, sta cercando di mantenere in vita ciò cui diede vita lo scorso anno, e la conferma me la danno proprio le sue ultime parole.
 
- ... a parte gli scherzi, io so quanto voi ammiriate lei e il ragazzo e quanto apprezziate il loro amore. Fatela tornare a casa e date loro la possibilità di vivere la vita felice che meritano. Lasciate che si sposino e mettano su  famiglia, così potrete godere ogni anno delle immagini dei loro figli che crescono. Solo questo, di me non m’importa. –
 
A quel punto, non sto ridendo più. Effie ha poggiato una mano dietro la mia schiena e la sento tremare, ma quando alzo il viso per guardarla il suo volto è più inespressivo di una maschera. Guarda dritto davanti a se, dove Haymitch sta salutando la folla.
Seguo il suo sguardo e vedo il mio ex mentore venirci incontro, col pollice alzato e un sorriso stanco a tirargli le guance.
 
- Io ho fatto del mio meglio. Tocca a voi ora. – dice, battendo una mano sulla spalla di Peeta che gli sorride, anche se i suoi occhi restano freddi. Sento il pubblico andare in visibilio nell’attesa, le grida, i fischi, le ovazioni.
 
- Signore e Signori!!!! Un applauso per Katniss Everdeen, la ragazza in fiamme!!!! – esclama Caesar. Effie ci spinge leggermente mentre il mio braccio sinistro e il destro di Peeta si allacciano. Quando facciamo il nostro ingresso in scena vedo Caesar spalancare la bocca e gli occhi e sento il pubblico cadere nel più assoluto silenzio. Quando gli occhi si abituano alla luce abbagliante dei riflettori riesco a vedere in basso la folla colorata di spettatori che ci fissa senza emettere un suono.
 
- Oh ... – sento Caesar dire, portandosi le mani al volto.  – Signori io non ho parole, sono ... una visione, ecco. –
 
C’è uno schermo in fondo alla sala, dritto davanti a noi, fatto appositamente per chi è troppo lontano per riuscire a vedere bene il palco. Mi vedo sottobraccio a Peeta, illuminata dai riflettori, resa splendida da Cinna, Portia e dai preparatori. Vedo l’azzurro degli occhi di Peeta risplendere con più forza di tutte le gemme del mio abito. Non ho mai pensato di essere bella, era sempre Cinna a dirmelo, ma ora guardandoci in quello schermo per un attimo capisco il motivo di tutto quel silenzio. Vedo Peeta posare gli occhi su di me, così mi giro per ricambiare lo sguardo ma trovo le sue labbra sulle mie mentre la sala ancora una volta si unisce in un unico sospiro.
 
Caesar si avvicina.
 
- Ragazzi, siete davvero qualcosa di meraviglioso ... sul serio. E i vostri stilisti hanno fatto un ottimo lavoro, meritano un applauso per lo spettacolo che ci stanno offrendo. –
 
La folla applaude e  io vedo nello schermo Cinna e Portia chinare la testa e sorridere in saluto,  ma il loro è un sorriso stanco e i loro occhi fissano qualcosa che qui non c’è. Un ricordo o un pensiero che per qualche ragione mi mette addosso una paura tremenda. Mi sento tremare e Peeta stringe il mio braccio sotto il suo con forza.
 
- Una cosa la devo dire, da parte di tutti noi... – comincia Caesar, - Ci dispiace tantissimo ragazzi. Non avremmo mai pensato di vedervi tornare qui per questo motivo. Mi aspettavo che la mia prossima intervista con voi sarebbe stata più divertente, che avremmo parlato delle vostre nozze e della vostra vita.  Vero signori? –
 
Un silenzio assenso avvolge la sala. Vedo parecchie donne picchiettare come Effie il fazzoletto attorno agli occhi.
 
- Non è giusto! – sento qualcuno esclamare in mezzo alla folla, seguito subito da diversi altri. Caesar però mette subito a tacere le proteste. D’altronde nessuno può fare quel che vuole qui. Le decisioni del presidente non sono contestabili senza rischiare la morte e io lo so bene.
 
- Ragazzi io vorrei lasciar parlare voi. Cosa volete dirci? -  chiede il presentatore. Come sempre la mia lingua si intreccia e il mio cervello chiude le imposte. Guardo Peeta che mi sorride, e so che parlerà lui.
 
- Io avrei un po’ di cose da dire, Caesar. A voi e a lei. – dice. Perdo un battito e comincio ad agitarmi perché so fin troppo bene cosa succede quando Peeta parla di me in pubblico. Cosa avrà in mente stavolta?
Resto in piedi a lato del palco e lui si sposta verso il centro per guadagnare la scena. Caesar si fa da parte, posizionandosi sul lato opposto al mio e osservando Peeta con sincera curiosità.
 
Peeta prende un bel respiro, poi si rivolge al pubblico.
 
- Di certo ricorderete cosa ho detto lo scorso anno, quando sono venuto qui e Caesar mi ha chiesto qualcosa su di me, sulla mia vita nel distretto dodici. Sapete cosa provo per questa ragazza – dichiara indicandomi, e io sento le mie guance ribollire d’imbarazzo, ma cerco di non farci caso e mi obbligo a sorridere: non posso comportarmi come se non sapessi cosa c’è fra noi. Non di fronte a questo pubblico per cui avremmo dovuto sposarci tra qualche giorno.
 
- Non ho mai detto abbastanza di tutto questo. – continua Peeta, - ne a voi, ne a lei. Non potete sapere cosa si prova ad amarla dall’età di cinque anni. Aver cercato di costruire qualcosa con altre ragazze solo per potermi dimenticare di lei, che non avrei mai potuto raggiungere. Ma come avrei potuto dedicarmi ad un’altra persona? Io ho passato la mia vita pensando solo ed esclusivamente a lei. –
 
Sento il pubblico bisbigliare, sussurrare eccitato. Sento i singhiozzi commossi delle donne in sala. E’ l’effetto Peeta Mellark.
 
- Gli Hunger Games sono dei giochi crudeli. – continua. – Non possiamo negare l’evidenza. Ci hanno cambiati entrambi rendendoci più deboli per certi versi e più forti per altri. Hanno rafforzato l’amore che provo per lei perché ho dovuto convivere ogni giorno con la possibilità di vedere il suo nome e la sua foto proiettati in cielo ... –
 
Sento qualcosa solleticarmi una guancia e alzo una mano a sfiorarla, scoprendola bagnata. Peeta è una persona straordinaria anche per questo: quel che sta facendo è per il pubblico, per scatenare chissà quale reazione ma non sta affatto mentendo. Ora sono certa che lo scorso anno lui abbia passato il tempo a pregare di non vedermi morire, fin quando non mi ha rivista e quando sono andata al festino per recuperare la sua medicina. Perché lui è così, perché mi ama.
 
- Katniss ... – dice. Mi riscuoto dai miei pensieri e vedo che si è voltato verso di me e si sta avvicinando.  Mi affretto ad asciugare le lacrime che per qualche ragione non voglio mostrargli ma il suo sorriso mi fa capire che se n’è accorto.
 
- Quest’anno non sarò nell’arena a proteggerti. Avrei voluto potermi uccidere per salvarti, potermi mettere fra te e un qualsiasi tributo volesse ucciderti e non potrò farlo. Avrei voluto sposarti, forse in circostanze diverse e non posso essere sicuro che tornerai per vivere il resto dei tuoi giorni con me ...  con voi. – dice, accarezzandomi il ventre.
 
Ho una fugace visione di mio padre in ginocchio davanti a mia madre, l’orecchio sinistro premuto sulla pancia tonda e tesa di lei. Mancava forse una settimana alla nascita di Prim. Lo vedo accarezzarla come Peeta sta facendo con me ora e in un lampo capisco dov’è voluto arrivare. Contemporaneamente, l’esplosione di voci del pubblico mi sembra quella di una bomba. Barcollo leggermente, confusa dall’improvviso frastuono, e Peeta posa l’altra mano dietro la mia schiena per sostenermi, osservandomi preoccupato. Scuoto impercettibilmente la testa e mi volto verso il pubblico con gli occhi ancora stracolmi di lacrime, cogliendo per un attimo l’espressione a dir poco stravolta di Caesar.
 
Aspetto un bambino da Peeta e malgrado questo sto per tornare nell’arena.
 
Per qualche secondo tutto quel che sento sono le lamentele del pubblico e il tentativo malriuscito di Caesar di placare le acque. Ma la mano di Peeta è ancora lì, posata delicatamente sul mio ventre e la mia pelle brucia in quel punto come se tra essa e la sua mano non ci fosse nessun corpetto ricoperto di brillanti.
Mi scopro a fissarla di nuovo, ma ciò che vedo mi lascia senza parole.
Il guanto di Peeta, dapprima nero come la pece, sta lentamente perdendo il suo colore. L’orlo che aderisce al polso è ormai candido come neve, mentre il colore sembra fluire da esso e impregnare il mio vestito. Ben presto tutto il corpetto è corvino. Il colore si spande sulla gonna come inchiostro, appesantendo le balze che si appiattiscono fino a formare un’unica distesa nera opaca.
 
Vedo quella sorta di inchiostro vivo correre lungo il mio torso, sfidando le leggi di gravità e fuoriuscire da esso, impossessandosi delle mie spalle e scomparendo dietro esse, arrampicandosi sulle mie braccia nude e foderandole come maniche. Lo sento solidificarsi e diventare tessuto setoso. Guardo Peeta che mi sorride, modellando con le labbra un “va tutto bene.”
Cos’ha inventato Cinna questa volta per me? Cerco di mantenere uno sguardo tranquillo, nonostante non abbia idea di cosa stia succedendo al mio vestito.
Sollevo le braccia e le maniche ricadono pesanti in un ampio ventaglio, svelando due chiazze bianche. I miei occhi vagano verso lo schermo in fondo alla sala, che piomba improvvisamente nel silenzio; e li mi vedo per quel che Cinna voleva ch’io fossi stasera.
 
Potrei trovarmi appollaiata su un albero adesso, intenta a riprodurre col mio canto melodie origliate da qualche parte o ad inventare qualcosa di nuovo.
 
Sono una ghiandaia imitatrice.
 
 
 *angolo autrice* 

Ciao a tutti :D Lo so, lo so, ci ho messo tantissimo, ma in cambio qui ci sono tredici pagine di Word... diciamo che ho provato a farmi perdonare per l'attesa. Purtroppo ero nel bel mezzo di una sessione d'esame :'( La vita da universitaria è triste. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Mi raccomando, Recensite! Voglio sapere che ne pensate! 
Come sempre ringrazio MatitaGialla per il suo fantastico lavoro da Beta :) 

Un bacio :*

 
 
 
 

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Capitolo 13
*** - 13 - ***



- 13 –


Parte I: [Peeta’s POV]
 
Sto proprio passando oltre la porta socchiusa della camera di Katniss, quando sento la sua voce chiamarmi sussurrando.

Subito dopo la censura dell’intervista siamo tornati nell’attico e lei è corsa dritta nella sua stanza. Sentirla pronunciare il mio nome ora è quindi qualcosa che mi sorprende e mi scalda dentro, ma fa anche crescere in me una certa ansia: non so mai cosa fare quando sono con lei, devo sempre lottare con la sensazione di star camminando su un filo sottilissimo, sospeso a centinaia di metri d’altezza.
Eppure ricalco i miei passi ed entro, aprendo piano la porta mentre i miei occhi cercano di abituarsi alla semioscurità della stanza. Riesco a vedere la sua sagoma sotto le lenzuola di seta in controluce, definita dalla luce pallida della luna che s’insinua tra le persiane; curve sinuose che ho già stretto tra le mie braccia e che stringerei in eterno, se solo lei me lo chiedesse. La guardo senza accennare una qualsiasi risposta, aspettando che dica qualcos’altro. Almeno fin quando l’ansia e la curiosità non prendono il sopravvento.

- C’è per caso qualcosa che non avrei dovuto dire o fare? –.  Fiorisce nella mia mente un vivido ricordo del mio stesso sangue sparso a terra fra cocci di vetro; io che osservo dal basso l’espressione di Katniss, furiosa per la mia dichiarazione, convinta per qualche sconosciuta ragione che stessi cercando di screditarla agli occhi del pubblico, di indurre tutti loro a scegliere me.

Davvero mi credeva capace di continuare con la mia vita anche dopo la sua morte?

La sento spostarsi sotto le lenzuola.  – No. – sussurra, la voce soffocata dalle lenzuola.

 Penso a qualcos’altro da dire ma poi mi convinco a tenere la bocca chiusa. Stringo l’angolo del mobile accanto a me per impormi di non muovere un solo passo verso di lei. Nemmeno riesco a pensare a come vorrei passare quella che lei è convinta possa essere la sua ultima notte.

- Peeta, non riesco a vederti. Potresti avvicinarti? –

- Posso accendere la luce. –. Una risposta stupida che vien fuori prima che io possa trattenermi.

- No, non accenderla, mi da fastidio. Avvicinati. –.

Mi maledico da solo mentre muovo il primo passo verso di lei. Un altro. Un altro ancora. Poi incontro la superficie morbida del materasso e mi siedo.

- Io... – comincia, e non so se è la stanchezza per una giornata che pare non voler finire o il fatto che pensa seriamente di morire a farla parlare così.

- Peeta questo... potrebbe essere il mio ultimo giorno. – sospira sulla mia pelle. E’ seduta adesso, il viso giusto a un palmo dal mio. E’ terrorizzata, e si vede. Sento il cuore stringersi perché ci sono cose che io so, ma non posso in alcun modo svelarle, pur sapendo che la farebbero sentire, se non del tutto tranquilla, quantomeno un po’ meglio.

Scuoto la testa. – Non è così. Ti riporterò a casa, vedrai. E’ una promessa. –

- Non dipende da te! Non capisci... Snow farà di tutto per farmi fuori, ordinerà al capo stratega di farmi esplodere una mina sotto i piedi e...-

- No, Katniss! – esclamo, afferrando le sue spalle mentre la mia mente elabora quel che lei ha appena detto, in un perverso gioco masochista.  – No... –

La stringo a me e la sento trattenere il respiro, sorpresa almeno quanto lo sono io nello sfiorare di nuovo la sua pelle morbida. Chiudo gli occhi, immaginando quel che potrebbe farmi Haymitch se sentisse quello che sto per dire adesso.

- Ascolta. Non posso dirti come, ma so che non ti accadrà nulla e che tornerai a casa, d’accordo? – sussurro nel suo orecchio, tenendola stretta.
Lei tenta di divincolarsi. – Che stai dicendo? -. La stringo più forte e sento i suoi muscoli rilassarsi.

- Non posso spiegarti Katniss. Però so che tornerai e devi fidarti di me, d’accordo? Solo... cerca di fingere di non saperlo. Nessuno lo sa, nemmeno Haymitch.  Solo io, e nessuno Katniss deve saperlo, chiaro? Meno che mai Snow e gli strateghi. –

- Peeta... io non so cosa tu abbia in mente ma qualunque cosa sia, non funzionerà! – risponde, e d’un tratto senza preavviso la sento scuotersi mentre le sfugge un solo, debole singhiozzo. Dopo un attimo in cui cerco di far si che non mi si spezzi il cuore, deglutisco e le sollevo il viso alla luce. E’ ricoperto di lacrime.
Non so che fare. Lei piange in silenzio, a occhi stretti, i pugni chiusi in grembo, come se si vergognasse di quel che le sta succedendo. Forse però era ora che piangesse, ricordo che non pianse nemmeno il giorno della morte di suo padre e mi chiedo quanto dolore ci sia, ammassato dentro di lei.

E mentre mi chiedo queste cose e penso a cosa mai potrei fare ora e a quanto il mondo sia profondamente ingiusto, mentre penso a quante ne abbia passate e quante potrebbe doverne ancora passare; non mi rendo conto di nulla e le mie labbra sono sulle sue. La sento irrigidirsi e, proprio quando comincio a credere che forse dovrei lasciar stare, sento le sue dita solleticarmi la nuca e afferrarmi i capelli; la sua bocca si apre, la sua lingua sfiora delicatamente la mia.
E’ lei a staccarsi, rimanendo però a pochi centimetri da me, le nostre fronti l’una contro l’altra.

- Ti prego... – sussurra. Non so cosa voglia dire, forse mi sta chiedendo ancora una volta di salvarla; perché non crede a una sola parola di quel che le ho detto.

Eccola di nuovo, quella sensazione. Sono un equilibrista su un filo e un solo passo falso per me significa la morte.  

La bacio di nuovo, sfiorandole il collo mentre lei lo tende in risposta, lasciando cadere la testa di lato. I capelli sciolti mi solleticano le mani. Le intreccio in quella massa scura e profumata di sapone, rimpiangendo il suo odore di foresta e pensando che forse nemmeno io so più di casa; ma non fa niente, conosco da una vita la ragazza che ho tra le braccia, la considero una parte di me anche se per molto tempo nemmeno mi sono azzardato a guardarla.
Già lo sento ardermi dentro, il fuoco che mi ha tenuto a galla per tutto questo tempo e che tutti attribuiscono a lei. La ragazza in fiamme, dicono, eppure quello che brucia da tutta una vita sono io.

- Resta con me. – dico. Non so perché sto ripetendo le sue parole. Forse spero che le riconosca, che capisca che proviamo le stesse cose, che non voglio vederla andare tanto quanto lei vuole vedermi restare e che sto facendo e farò tutto quello che posso. Calcio via le scarpe e la trascino con me al centro di questo letto che sembra immenso per una sola persona e troppo piccolo perché contenga noi due adesso, scossi da un’urgenza che viene da qualche parte nel profondo e che non possiamo, e forse nemmeno dobbiamo, capire.

Mi slaccia la camicia, un bottone dopo l’altro. Le sfilo la vestaglia, assaporo la sua pelle con gli occhi, con le dita e con le labbra ovunque mi sia concesso arrivare mentre lei si serve allo stesso modo di me.

Siamo due disperati adesso, anche se non sono mai stato sicuro di niente che la riguardasse sono certo che mi stia amando tanto quanto la amo io, e con altrettanta profonda tristezza e disperazione e urgenza, perché siamo dovuti arrivare a questo per spingerci a comprendere ciò che siamo dentro, per accettare di unirci anche in un modo così carnale.

La sento stringersi a me, da qualche parte ai margini della mia coscienza godo della sensazione delle sue gambe morbide aggrappate ai miei fianchi mentre riesco a farla ancora una volta mia.

Non c’è spazio per niente in questa stanza buia all’infuori di noi due. Lei così triste e fragile, io così profondamente disperato, consumato dentro da questo ruolo di mentore che non dovrebbe essere mio. Costretto a vederli partire, lei che amo così tanto, e lui che ho imparato a stimare. E questa disperazione mi spinge a tentare l’impossibile: vorrei annullarmi in lei, perdere il senso della mia esistenza. Forse è per questo che spingo così forte e lei geme così tanto. Forse il sangue ha preso fuoco nelle mie viscere perché è ora che io mi consumi del tutto con quest’amore.
 
Non sento null'altro che il suo nome nella mia testa, lo ripeto come se quelle sette lettere potessero spiegare davvero tutto quello che provo. Non c’è spazio per niente all'infuori di questo. Sono circondato dalla fame, dalla paura e dalla morte, dalla sofferenza e dalla perdita, eppure non c’è modo che io riesca a pensare a nient’altro che a quest’amore adesso, a questo dono che vorrei farle, alle ferite che vorrei guarire. Sarei felice se potessimo vivere solo d’amore. Dimenticare tutto abbandonandoci ai sentimenti. Eppure non è possibile. Vado avanti, la stringo più forte, la bacio, la amo al meglio delle mie possibilità, tentando solo di dimenticare che ci sarà un momento in cui dovremo entrambi varcare di nuovo la soglia di questo mondo reale, di Panem che soffre, degli Hunger Games e della morte.  

Capisco che ci sono momenti in cui su quel filo non ci si può più camminare. Quando il cuore si riempie d’amore fino a scoppiare e gli occhi non riescono a trattenere la bellezza di un momento come questo, e si è pesanti perché pieni fino all’orlo di sentimenti che hanno una gran voglia di esplodere. Allora scelgo di saltare giù portandola con me.

Veniamo insieme.
 
 
La prima cosa che sento è il dolore. Occhi che urlano la loro protesta, feriti da un raggio di sole.
Oggi è il giorno.
Questa invece, è la prima cosa che penso. Guardo l’orologio: mancano solo due ore.

Proprio mentre cerco di pensare a come dovrei svegliarla, a cosa dovrei dirle non appena apre gli occhi, il bussare ritmato e insistente di Effie la strappa senza pietà alle braccia di morfeo, facendomi sfuggire un’imprecazione.
Si tira su lentamente, appesantita dal sonno, e mi guarda senza proferire parola. Poi si alza e va a chiudersi in bagno.
Anch’io mi alzo, rabbrividendo quando la mia pelle nuda entra a contatto con l’aria più fredda fuori delle lenzuola.

Eccola di nuovo, la Katniss che non parla e non si fa capire e scappa. Se prima era difficile averci a che fare, adesso che conosco momenti in cui può essere diversa, è ancora più complicato per me cercare di non sbagliare mai con lei. Vorrei poterla tenere con me, e parlare, e consolarla fin quando non dovrà alzarsi per forza, ma non me lo lascerà fare, lo so.

- Katniss io... torno in camera mia, devo fare una doccia. – la avviso da dietro la porta, e lei non risponde. Recupero i miei vestiti e me li rimetto addosso alla meno peggio, giusto per poter passare da una camera all’altra, dove me li tolgo di nuovo e mi lascio cadere sul mio, di letto, che è freddo  e troppo ordinato.

Passa poco, forse dieci minuti, prima che Effie venga a chiamare anche me e io debba risponderle stancamente che farò del mio meglio per alzarmi il più presto possibile. E lo faccio. Come fossi un automa, mi dirigo in bagno per fare una doccia, poi mi vesto ed esco dalla mia stanza per andare nel salone. Effie mi aspetta seduta sul divano. Mi aspetto di vedere Katniss assieme a lei, ma c’è solo Haymitch e, dall’aria sconfortata dipinta sul suo volto, ne deduco che Effie abbia fatto sparire qualsiasi alcolico in giro per il centro, impedendogli di dimenticare che tra poco verrà spedito in un’arena mortale.

- Katniss? – chiedo.

Haymitch sbuffa, guadagnandosi un’occhiataccia di Effie, che invece si degna di rispondermi: - A prepararsi. Visita dal medico. -
 
 
 
Parte II: [Katniss’ POV]
 

- Signorina Everdeen, buongiorno. Prego, si accomodi pure. –

La dottoressa che ho di fronte è senza dubbio di Capitol. A parte Cinna, non esistono persone dalle apparenze normali qui, e i medici a quanto pare non fanno eccezione giacché questa donna certo non indossa un misero camice bianco, come quelli che mia madre possiede e usava da giovane in farmacia. Il verde sgargiante della divisa fa a pugni con i capelli rosa confetto, vaporosi e in tinta col rossetto, e l’insieme fa si che fin dal primo secondo gli occhi comincino a bruciarmi e la mia pazienza, già ridotta al minimo, arrivi infine a zero.

- Posso chiamarti Katniss? – Chiede, sfoderando un fintissimo sorriso a trentadue denti. Potrei vomitare rabbia se aprissi bocca adesso, così mi limito ad annuire lentamente, e lei si rilassa sulla sedia in vernice e metallo.

- Bene Katniss, immagino tu sappia cosa sto per chiederti. D’altronde, anche se non sono stata io a farlo, l’anno scorso deve esserti stata fatta la stessa domanda. Te la ripeterò comunque: quand’è stata l’ultima volta che hai avuto il ciclo mestruale? –

Detesto queste domande di carattere personale. Sono perfettamente cosciente del fatto che si tratta di una cosa del tutto naturale, e si, lo scorso anno mi è stata fatta la stessa domanda. Immagino che i responsabili del programma abbiano giudicato di cattivo gusto l’idea di mostrare le donne alle prese coi loro problemi mensili, optando quindi per un trattamento che bloccasse il ciclo. Comunque mi disturba sentire certe domande e ancor più rispondere. Faccio fatica perfino con mia madre, e forse ne avrei fatta di meno se anche gli assorbenti non fossero stati un bene di lusso ed io non avessi dovuto arrangiarmi come potevo per fare in modo di non perdere sangue dappertutto. Comunque so di dovermi sforzare di risponderle, così inghiottisco il mio disappunto e mi decido ad aprire bocca.

-Sono incinta – osservo glaciale, ma lei scuote la testa.

-Potrai ingannare il pubblico delle interviste, ma non noi medici. - osserva. – Sai bene che siete tutti monitorati, non appena arrivate qua. La prima notte vi è stata data una leggera dose di sedativo nella cena, di modo che potessimo prelevare un campione di sangue da analizzare. I tuoi valori sono tutti nella norma. Dunque... quand’è stata? –

Sbuffo, scocciata. – Sono passate sette o otto giorni fa. – e lei annuisce.

- Perciò non avrai bisogno del trattamento, molto bene. – osserva. – Ora, un’ultima domanda: Tu e il signor Mellark avete fatto sesso non protetto, in questi giorni? –

Mi sento il viso in fiamme e subito dopo l’imbarazzo sale la rabbia. Che razza di persone sono queste? E perché mai dovrebbero farsi i fatti miei? Cerco di trattenermi dal gettarle addosso tutti gli insulti che mi vengono in mente, e la rabbia e la tristezza di questi ultimi giorni e di questa vita, mentre d’un tratto ricordo, con un brivido, che si, in effetti io e Peeta abbiamo fatto l’amore senza protezioni. Il panico prende il sopravvento: potrei essere davvero incinta ed essere responsabile dell’ennesima morte innocente.

- No – rispondo comunque, fredda. – Ora devo andare. – aggiungo poi, lasciando il mio posto.

- Buona fortuna per i giochi. – si limita a rispondere lei, ma da come lo dice, sembra più un augurio di morte.

Me ne vado senza dire una parola, mentre tutta la mia rabbia si riversa sulla porta che sbatte alle mie spalle e un conato di vomito mi assale. Premo una mano sul ventre, pregando con tutto il cuore di sbagliarmi.
 

Cammino. Guardo avanti stando in assoluto silenzio perché non so cosa dire ora. Guardo Peeta di sottecchi mentre si rivolge a Haymitch, forse per augurargli buona fortuna, perché quale consiglio potrebbe mai dare a un uomo che è stato mentore per ventiquattro anni della sua vita?
Lo guardo e non riesco in alcun modo a staccargli gli occhi di dosso. Osservo il suo profilo, il modo in cui il sole si riflette sui capelli biondi e illumina gli occhi azzurri. La linea dura della mascella. Il suo modo di camminare. Ascolto con attenzione la sua voce, cercando di non perdermi nei ricordi della scorsa notte.

Questa è quasi certamente l’ultima volta che lo vedrò.
Questo, per quanto lui si ostini nell’assicurarmi il contrario, è un addio e anche se voglio convincermi del contrario, mi sto già spezzando.

Nemmeno mi rendo conto di essere arrivata all’hovercraft. Ho percorso tutta la strada guardandolo e lanciando ogni tanto uno sguardo al pavimento per vedere dove mettevo piede.

- Allora, Haymitch... lo sento dire. – Il nostro mentore lo abbraccia. Effie lo osserva senza parlare, la mascella contratta. Mi sembra di sentire il dolore che prova. Poi Haymitch si volta verso di lei, facendo un debole sorriso ironico.

- Niente più ubriaconi tra i piedi, dolcezza. – sputa fuori con pungente ironia. Non che io sia una campionessa nei rapporti sociali, ma questo sarebbe fuori luogo perfino per me, viste le condizioni pietose in cui Effie evidentemente si trova.
Poi succede qualcosa che non mi aspetto. Effie afferra la mano di Haymitch e all’improvviso crolla in un pianto discreto e sommesso contro la sua spalla. Sia io che Peeta restiamo di sasso di fronte a una cosa così poco da Effie, ed Haymitch stesso, non sapendo come comportarsi; si limita a cingerle le spalle col braccio libero. E’ solo un attimo, poi Effie si separa da lui, si avvicina a me, mi stringe in un piccolo e breve abbraccio e lascia la pista d’atterraggio dell’hovercraft in fretta e furia.

Haymitch si avvia verso la scala dell’hovercraft senza dire una parola. Io e Peeta lo osserviamo mentre la corrente lo immobilizza e sparisce all’interno del grosso velivolo. Per un attimo restiamo in silenzio mentre il vento mi scompiglia i capelli, ancora sciolti, e fa svolazzare qualche ricciolo di Peeta che cattura inevitabilmente il mio sguardo; poi lui si volta verso di me.

- Credi a quel che ti ho detto, Katniss. –

Lo guardo. So che mi ama. Posso solo immaginare cosa significhi per lui vedermi partire per gli Hunger Games.  E per me cosa significa lasciarlo qui, senza poterlo vedere mai più?
Mi volto di nuovo verso l’hovercraft e solo allora realizzo il tutto. Il ricordo di quelle due notti d’amore, dei suoi baci, del suo modo di abbracciarmi nel sonno, delle sue parole di conforto... il ricordo delle sue mani che viaggiano sulla tela stringendo un pennello intinto di colore e quegli occhi così azzurri che mi fissano, mentre lui mi dice che il suo colore preferito è l’arancio del tramonto. Le pagnotte di pane bollenti strette al mio petto mentre corro disperata, sotto la pioggia battente, verso casa. I biscotti di suo padre tra i denti di leone, sulle rotaie, lui che mi osserva seminascosto dietro una colonna proprio il giorno in cui mi ricordo ciò che m’insegnò mio padre e decido di ricominciare a lottare per la mia vita e per quella di Prim.
Vorrei esistessero parole per l’enorme senso di vuoto che sto provando adesso e la voragine che mi si è aperta nello stomaco, ma non ne ho. Certo, non sono proprio brava con le parole.
Continuo a fissarlo e lui a ricambiare il mio sguardo, poi mi attira a se, ed io so cosa vuole fare. Vuole baciarmi, e farà male, le sue labbra saranno ruvide e calde e le mie potrebbero diventare salate di lacrime, e potrei non dimenticare mai più questo momento, e ritrovarmelo davanti come ultimo ricordo quando morirò. Non voglio. Sono stanca di soffrire, ma quando davvero sento le sue labbra sulle mie, la voragine nello stomaco si allarga ancora ed è come se all’improvviso avessi una fame terribile, e ne volessi di più. Come con quell’unico bacio nella grotta umida degli scorsi giochi. E come allora mi chiedo che cosa sia e, prima ancora di riuscire a darmi una risposta, ci siamo già separati e sto camminando, rigida come una scopa, verso la scala dell’hovercraft.

Prima che la corrente possa immobilizzarmi, decido di voltarmi verso di lui. E’ lì che mi osserva, senza muovere un muscolo. La corrente blocca anche i miei occhi che rimangono fissi nei suoi fino alla fine.
 
- Il braccio. – m’intima un pacificatore. Tendo automaticamente il braccio destro e una siringa m’inietta il localizzatore, provocandomi una leggera fitta di dolore mentre il mio volto si contrae in una smorfia.

Sento Johanna ridacchiare, forse proprio della mia reazione, ma decido di non darle peso. Niente ha più importanza, sto per sparire dalla faccia di questo mondo quindi poco m’importa delle risate che Johanna Mason si fa alle mie spalle.

In pochissimo tempo siamo già arrivati ed io mi ritrovo in una stanzetta grigia e spoglia. In un angolo, la cabina con la quale salirò nell’arena brilla di una sinistra luce azzurrina.  Devo aspettare un solo minuto prima che la porta automatica di metallo si apra con un sibilo e Cinna entri nella stanza, portando con sé gli abiti che indosserò quest’anno nell’arena.

Li osservo per mezzo minuto, quando lui li appoggia sul tavolo, perché hanno qualcosa di familiare che però mi sfugge. Poi nel mio cervello si accende una lampadina e una profonda tristezza m’invade perché quella è la stessa tenuta che toccò ad Haymitch nei suoi giochi: Pantaloni marroncini, di quelli sportivi e resistenti con molte tasche, maglietta bordeaux. La giacca e gli stivali però sono gli stessi che ho indossato nella mia edizione, e infatti mi sembra di avere un dejà vu quando Cinna, una volta che ho indossato i vestiti, apre una specie di risvolto lungo la linea dei bottoni della giacca, svelando la mia spilla dorata e portandosi un dito alle labbra.

- Ehi, ragazza in fiamme... – comincia. Non ce la posso fare. Mi sforzo di guardarlo negli occhi mentre fa quello che è più ovvio che faccia, in altre parole darmi l’addio.

- Io non posso scommettere. Ma se potessi, punterei su di te. – dice invece – Tu sei la ragazza in fiamme. Brucia tutto quello che hai intorno senza esitazioni, e tornerai. Ne sono certo.  –

 - Trenta secondi - Dice una voce, la stessa che ci ha ordinato di entrare, uno per volta, nella palestra del centro d’addestramento per la valutazione finale. Cinna toglie le mani dalle mie spalle e annuisce, io mi sforzo di restare impassibile mentre dentro esplodo, urlo, piango. Vorrei non esser vista da nessuno per potermi aggrappare saldamente a Cinna e piangere fino a non avere più lacrime, ma mi accontento del suo modo di infondermi coraggio.

Mi volto verso la cabina, così che riflessa sul vetro adesso vedo la maschera di terrore che è il mio volto. Entro e la porta di vetro si chiude dietro di me.

- Venti secondi -. Guardo Cinna, che ricambia il mio sguardo senza muoversi, in attesa che la piattaforma cominci ad alzarsi. A parte la voce che esegue il conto alla rovescia, tutto il resto sembra come ovattato, qui dentro. Mancano quindici secondi quando vedo Cinna voltarsi di scatto. Due pacificatori entrano nel mio campo visivo molto in fretta. Il pugno di uno di loro si scontra con la mascella di Cinna, che cade a terra, tenta di rialzarsi, ma è bloccato dall’altro pacificatore che inizia a prenderlo a calci nello stomaco. Cinna si trascina verso la cabina di vetro, verso di me.

Dieci Secondi

Uno dei due pacificatori, non appena Cinna arriva a toccare il vetro con una mano, lo prende dal colletto della t - shirt e fa sbattere la sua testa sul vetro con violenza. Il tonfo risuona nella cabina.

- CINNA! –

Otto secondi

Un'altra botta

Sette secondi

Un’altra. Il pacificatore tira di nuovo Cinna indietro e vedo una grossa macchia di sangue sul vetro.

Sei secondi

Il sangue di Cinna scende lentamente lungo il vetro, mentre uno dei pacificatori lo trascina sulla schiena.

Cinque secondi

Cinna mi guarda e sorride debolmente. Sento qualcosa spezzarsi dentro.
­
- No... no... NO! –

Quattro secondi

La piattaforma comincia a salire. Proprio in quel momento vedo gli occhi di Cinna roteare, sparire dietro le palpebre, e il suo corpo rilassarsi.
E’ svenuto. O forse è morto. No... non può essere morto, mi dico. Non Cinna. Non così, non anche lui per colpa mia.

Due secondi dice la voce, e non lo vedo più. Premo le mani contro il vetro. Non riesco a respirare perché non c’è aria, o forse perché Cinna potrebbe essere morto ed io vorrei morire.

Guardo in alto, una forte luce m’investe, sto per uscire all’aperto. Gli occhi si riempiono di lacrime e non sono certa che sia per il fastidio, così le ricaccio indietro. Sono ancora alla ricerca di ossigeno, quando a un tratto mi rendo conto che ce n’è anche troppo. Sono all’aperto.

Non appena gli occhi si abituano, mi guardo attorno. Davanti a me c’è un lago, oltre il quale vedo la cornucopia, la cui superficie dorata brilla in lontananza. Non è mai stata così lontana dalle piattaforme di partenza e mi chiedo quanta gente potrebbe morire prima di riuscire a raggiungerla. Attorno alle sponde del lago c’è qualche zaino, uno è a pochi passi dalla mia piattaforma, ma la cosa mi pare così strana che decido che quello non sarà il mio bottino.

Guardo gli altri tributi schierati sulle piattaforme, i muscoli tesi quanto i miei, gli occhi fissi sulla cornucopia, la mente che viaggia nel futuro prossimo per capire come fare a sfuggire alla morte nell’immediato, perché non sarà per niente semplice arrivare fin laggiù vivi.

Poi lo sento: profumo di fiori, tanto forte da far girare la testa. Dopo qualche secondo sono costretta a scuoterla, per riprendere contatto con la realtà. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in quella fragranza, un terrore che mi attorciglia le viscere. Poi lo capisco: sono rose. E’ il profumo di migliaia e migliaia di rose tutte assieme, forse geneticamente indotto, ma io non potrei mai reagire positivamente a questo profumo, perché pochi sanno che si tratta dell’odore che Snow si porta dietro, assieme al puzzo di sangue. Eppure tutti gli altri sembrano essersi persi. I loro sguardi all’inizio determinati ora vagano per il paesaggio, come fossero meravigliati dalla vista. Tutti sono nelle stesse condizioni, tranne Haymitch.

Lo guardo, lui intercetta il mio sguardo e annuisce, forse capendo che non ci sono cascata; ma c’è qualcosa sul suo viso che mi pare fuori luogo. Impiego qualche secondo di troppo ma poi lo capisco.
Ho visto tante espressioni, tanti modi di fare e di essere sul volto di Haymitch. Cinismo, stanchezza, tristezza, ubriachezza, qualche raro sprazzo di allegria; ma mai e poi mai avevo visto la paura, che adesso invece è dipinta perfino nei suoi occhi.

E i suoi occhi azzurri, che per un attimo mi sembrano molto più simili a quelli di Peeta di quanto avessi mai creduto, sono l’ultima cosa che vedo, prima che il gong suoni e le mie gambe addestrate dalla paura inizino automaticamente a correre. 


*angolo autrice*

Salve a tutti! :) Comincio col chiedervi immensamente scusa per tutto il tempo che avete atteso. Ho cercato di ripagarvi tentando di dare del mio meglio anche in questo capitolo, e spero che vi sia piaciuto. Cercherò in futuro di aggiornare più spesso, anche se purtroppo non posso garantirlo. D:  Come sempre mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, quindi recensite :D So che siete in tanti a seguirmi e vi ringrazio tutti uno per uno, ma mi piacerebbe tanto sapere  perché  seguite, cosa secondo voi potrebbe migliorare, e tutto quello che vi passa per la testa :)
Nel frattempo, se avete voglia di leggere qualche altra bella storia passate da MatitaGialla, mi raccomando :') 

Un bacio :*

 

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Capitolo 14
*** Avviso non preoccupante! Leggete please ***


AVVISO 



A coloro che seguono questa mia storia: assolutamente non ho abbandonato la serie. L’unica ragione di questo mio immenso ritardo sono gli esami universitari, a cui per forza di cose devo dedicare tutta me stessa. Vi prego di avere pazienza, mi farò perdonare appena possibile :) 

Possa la fortuna sempre essere a vostro favore :) 

Una rosa in fiamme <3

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Capitolo 15
*** - 14 - ***


- 14 –

[ Haymitch’s POV]
 


Annegare ventiquattro anni della mia vita nell’alcol non è stata una buona idea, a conti fatti. Non credo di averlo mai pensato con tanta sicurezza quanto ora che mi trovo chino sulle mie ginocchia, nel disperato tentativo di riprendere fiato.

Mi volto quanto basta per verificare che a farsi strada nella boscaglia dietro di me ci sia Katniss e non qualche altro tributo pronto a ficcarmi una lancia nelle viscere. Il mio cervello registra l’ondeggiare della treccia scura sulla spalla destra mentre lei si ferma alle mie spalle, ed io torno ad ansimare, fissando il terreno ricoperto di foglie in parte secche.

- Ce la fai? – mi chiede, e mi sembra scocciata. Mi volto verso di lei solo per raggiungere l’albero più vicino e accasciarmi con la schiena contro il tronco secolare, il viso rivolto al cielo ancora azzurro. Non ho né la forza né la voglia di insultarla, al momento.

Lei si guarda attorno, poi si siede vicino a me. Per un attimo, mi trovo a chiedermi quanto sarebbe durata lei contro il me stesso di venticinque anni fa. Subito mi rispondo che avevo una vita davanti. I miei familiari erano ancora vivi, quindi se fosse servito a tornare a casa l’avrei uccisa senza esitare.

Eppure Ivy è morta in un posto che aveva lo stesso identico odore. Di nuovo mi volto verso Katniss, che ha i suoi capelli e i suoi occhi e la sua pelle. La cosa mi disgusta enormemente; tanto che mi viene persino da vomitare, come se a rovistare in quello zainetto color fango ci fosse un morto vivente, venuto direttamente dal mio passato.

Mi sfugge uno sbuffo mentre trattengo una cinica risata. Ma certo. E’ questo il gioco di Snow, ridurti in mille pezzi dall’interno, giorno dopo giorno. Se penso che a ridurre me in pezzi basta solo l’aria di questo posto, non oso chiedermi cosa mi attenda per i giorni successivi.

- Allora... qui abbiamo una borraccia, ovviamente vuota. Della frutta disidratata, qualche pezzo di carne secca e... –

La sento trattenere il respiro ed è solo in quel momento che mi rigiro a guardarla, lottando per evitare che il suo volto e quello di Ivy si sovrappongano, guidandomi dritto verso la follia. Così la vedo con un paio di occhiali scuri stretti nella mano destra tremante. Dei visori notturni.

All’improvviso si alza e li scaraventa poco lontano, per poi raggiungerli e pestarli una, due, tre volte. Sento il rumore delle lenti che si spezzano e i frammenti che si polverizzano, tanto profondo è il silenzio; e tra essi forse una specie di singhiozzo. Sarebbero potuti servire sicuramente, ma non ho voglia di lamentarmi: so perché l’ha fatto. Quando torna indietro, mi aspetto di vederla con gli occhi lucidi, invece le sue iridi sono una fredda lastra d’acciaio. Eppure di certo qualcosa si agita dietro quel muro apparentemente impenetrabile.

- Nel tuo cosa c’è? – mi chiede. Così mi ricordo dello zainetto che ho preso al volo, tanto per non rimanere completamente a mani vuote. Alzo stancamente un braccio, lo afferro per la spalla e lo apro.

- Anche qui una borraccia vuota. Niente cibo però. C’è una corda, dei fiammiferi e... –

Tiro fuori due piccoli coltelli. Nel farlo sfioro la superficie liscia di un vetro, sicuramente un altro paio di occhiali. Decido di non dirglielo. A lei piacerà anche l’idea di brancolare nel buio, io preferisco vedere bene.

- Be, meglio di niente. – commento. – Con una buona mira, una persona puoi ammazzarla. – .

Me ne strappa di mano uno sbuffando. – Spero di potermelo risparmiare.-

- Non riuscirai a non uccidere nessuno. Sembri Peeta. –

Sussulta. Posso vedere una qualche immagine di Peeta formarsi nella sua testa. A volte mi viene spontaneo chiedermi cosa pensi davvero Katniss del ragazzo del pane. Ci sono genti che sembrano parlare chiaro, altri che smentiscono quel che penso di aver capito un secondo prima. E’ quasi frustrante per me non riuscire a capire, figurarsi per lui cosa dev’essere. Decisamente ha scelto la persona sbagliata.

  – E cosa ci sarebbe di male in questo? – dice. 

In effetti, assolutamente nulla. Anzi se fosse più somigliante a lui, non ci sarebbe bisogno di nasconderle niente, sarebbe parte attiva dell’intero piano.

- Salgo a vedere cosa c’è intorno. – mi avvisa. In pochi secondi, sento il tronco dietro la mia schiena vibrare leggermente mentre Katniss si arrampica. Tendo il collo e spingo la testa all’indietro, nel tentativo di allentare un po’ la tensione, e la vedo salire agilmente da un ramo all’altro, come se fosse nata per questo.

Per un minuto, sono circondato dal silenzio più assoluto. Poi sento un ramo spezzarsi e il fruscio di fronde spostate provenire da dove siamo arrivati. Mi alzo di scatto, il coltello stretto in mano, pronto a lanciarlo alla prima occasione.
Poi dal folto della foresta sbuca Finnick, con Mags aggrappata al collo. Vedo il coltello di Katniss volare dall’albero e piantarsi nel terreno, a meno di un centimetro dal piede di Finnick.

- No, Katniss! Tutto a posto! – esclamo. Lei scende dall’albero, osservandoli con quell’aria sospettosa che non si leva mai di dosso.

- Forse ti conviene usarlo in un corpo a corpo, questo... – commenta Finnick, mentre Mags scivola giù dalla sua schiena e lui si china a raccogliere il coltello, per poi porgerlo a Katniss con un sorriso. Lei ovviamente non ricambia e gli strappa di mano la lama.

- Haymitch, spiegati. – mi dice.

- Alleati. – rispondo. Sbuffa e alza gli occhi al cielo.

- Mi pareva di aver detto che non ne volevo. Tu sei anche troppo da solo. –

- Mi spiace Dolcezza, ma non ci tengo a morire il primo giorno. – rispondo. – Comunque se vuoi, puoi andartene. Ti verremo a cercare più in là. – le propongo, ma lei non si muove ovviamente. Per quanto sia in gamba e la foresta sia il suo habitat naturale, la ragazza in fiamme sarebbe normalmente il primo obiettivo di qualsiasi altro tributo e lei non sa che in realtà siamo quasi tutti alleati in questa farsa.

- Me lo farò andar bene, per ora. – dice, e guarda Mags. Lei è forse l’unica ragione che la spinge a restare in realtà. Sarebbe abbastanza folle da andarsene altrimenti.

- Torno sull’albero, non ho fatto in tempo a vedere nulla e voglio sapere se ci sono altre fonti d’acqua in giro, prima che faccia buio. –

Mi avvicino a Finnick non appena mi pare sia abbastanza in alto da non sentirmi.

- E questa è superata. – sussurro. – Per un secondo ho pensato che ti saresti giocato un piede il primo giorno. Gli altri che direzione hanno preso? –

- Non lo so. – risponde Finnick. – Avrei voluto raggiungere la cornucopia e recuperare qualcosa di più utile prima di raggiungervi, ma questa volta l’hanno fatta grossa. Di solito ci vuole una manciata di secondi per arrivare alla cornucopia, invece ci hanno fatti partire più lontani. Avrebbe significato perdervi del tutto di vista, per incontrarvi chissà quando, o forse mai. Quindi  ho badato solo a voi e abbiamo preso questi. –

Alza le braccia e solo ora noto i due zaini, che regge per i manici.

- Vediamo un po’ che c’è qui dentro, eh? – dice, sedendosi a terra.

Dagli zaini portati da Finnick e Mags tiriamo fuori un altro paio di borracce vuote, un sacco a pelo, dell’altra carne essiccata e della frutta disidratata, altri due coltelli e una cerbottana.

- La sai usare? – chiedo a Finnick.

Rabbrividisco pensando a Maysilee che mi salva la vita usando proprio una di quelle, ma Finnick non ha la minima idea di che cosa sia e così mi ritrovo a spiegargli il funzionamento, fin quando non annuisce soddisfatto e io posso ritirarmi per un attimo, pensando a quanto sia faticoso ricordare qualsiasi cosa sia associata a lei, a Ivy e a tutti coloro che hanno fatto parte della mia vita prima che accanto al mio nome comparisse il titolo di vincitore.

Katniss scende giù dall’albero con un tonfo.

- Pessima notizia: non vedo ruscelli o fiumi in giro. Temo che l’unica risorsa d’acqua sia il lago. –

- Propongo di addentrarci un po’ di più e poi proseguire più avanti. La foresta si stringe attorno al lago ad un certo punto. E’ lì che secondo me dobbiamo andare, così in caso di pericolo possiamo tornare subito al riparo - Propone Finnick, e sembra essere proprio l’unica possibilità, così ci avviamo.

Ad accompagnarci, solo il silenzio occasionalmente rotto dal frusciare delle foglie al nostro passaggio e il verso stridulo di chissà quale strano uccello.
Ben presto il sole comincia a scendere. Qualche stratega starà girando un meccanismo per simulare il calar delle tenebre e della temperatura, che comincia a farsi più rigida.

- Fermiamoci, ormai è notte e non si vede quasi più nulla! – propongo.

- Ok, ma io dormo lassù. – dice Katniss, indicando la chioma di un albero. Annuisco e lei pesca la grossa fune da uno degli zaini, per poi cominciare a salire.

- Mags, stai bene? – sento Finnick sussurrare e lei annuisce debolmente, la schiena appoggiata al tronco di un albero. Non posso fare a meno di pregare che, se proprio deve morire qui, si tratti di una morte facile, indolore, anche se forse non esiste niente del genere. Spero solo che non soffra. In tutti questi anni ho imparato a conoscere Mags molto bene, e so che non se lo meriterebbe.

Finnick si volta, accorgendosi dei miei occhi puntati su di loro.

- Nessun problema, sta bene. – mi dice. – Certo potrebbe andarle meglio, se fosse fuori di qui, ma... –

Mags scuote la testa sorridendo. A quanto ne so, ha preso il posto di Annie, una vincitrice andata fuori di testa dopo aver vinto i giochi, e come biasimarla. Credo che lei e Finnick stiano insieme, un’altra coppia d’innamorati sventurati, e chissà quante ce ne sono, in dodici distretti coinvolti nei giochi.

Tiro fuori il sacco a pelo. – Falla dormire con questo. – suggerisco a Finnick.  – Per noi questa temperatura non è così bassa ma lei potrebbe sentire freddo. –

Finnick mi ringrazia ed io sbuffo in risposta. Odio essere ringraziato, perché non c’è nulla per cui io meriti gratitudine. Sono il fantasma di me stesso ma se avessi una sola ragione valida potrei facilmente tornare ad essere un mostro. Non sono di certo una brava persona.

Cerco una posizione comoda a terra, a pochi passi da Finnick e da Mags, proprio sotto Katniss. Sono profondamente stanco e mi aspettano ancora diversi giorni. So che dovrei dormire e che non ho motivo di preoccuparmi di chi ho attorno, ma l’istinto ha ripreso vita nel momento stesso in cui mi hanno catapultato di nuovo nell’arena. Non dormirò, questa notte. Ne sono sicuro.
 
Non so quanto tempo sia passato, quando all’improvviso un forte rumore di foglie smosse mi fa alzare la testa di scatto. I battiti accelerano immediatamente, l’adrenalina sale senza controllo mentre porto una mano al manico del coltello. Anche Finnick è sveglio e mi guarda, come a chiedermi se so quale sia la causa di questo rumore. Un tonfo e tra me e lui sbuca Katniss, saltata giù dall’albero. Prima che io possa dire una sola parola, sta già correndo davanti a noi, addentrandosi ancora di più nella fitta vegetazione.

- Katniss! – esclamo, per poi zittirmi immediatamente. Potremmo avere altri tributi nelle vicinanze e questo sarebbe stato un modo perfetto per rivelare la nostra posizione. Cerco di capire verso cosa Katniss stia correndo, ma la vegetazione mi copre la visuale, così mi alzo, Finnick dietro di me, Mags che ci osserva atterrita.

Scosto lentamente con la mano sinistra delle grosse foglie. La destra stringe ancora saldamente il coltello ma quasi lo mollo quando vedo verso cosa Katniss sta correndo.

A pochi metri da noi, con gli abiti strappati e lo sguardo di chi sta per morire di paura, c’è Prim.



* Angolo Autrice  * 

Ciao a tutti :) Vi chiedo innanzitutto scusa per aver lasciato passare tutto questo tempo. Purtroppo l'università non mi ha consentito di fare di meglio. 

A dire il vero, l'università per un certo periodo ha cancellato completamente la mia vita sociale, oltre che il tempo da dedicare alle mie varie passioni, inclusa ovviamente la scrittura. Approfitto di questo momento di quiete per aggiornare la maggiorparte delle mie storie, di modo che vi sia impossibile dimenticarvi di me <3 

Spero che il capitolo vi piaccia. Come sempre vi invito a recensire :) Mi piace sentire la vostra presenza :) 

Spero anche di poter aggiornare più spesso in futuro. Purtroppo non posso promettervelo, solo incrociare le dita ;) 

Un bacio :* 

 

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Capitolo 16
*** - 15 - ***




- 15 –

[Katniss’ POV]

 
N.B. Dato che continuo a riscontrare alcuni problemi nella formattazione del testo, che viene fuori pubblicato tutto in corsivo malgrado le mie distinzioni tra questo e il testo normale per necessità espressiva, questa volta e forse anche le successive noterete del testo di colore differente. In questo caso ci tengo a precisare, per evitare che non si comprenda, che il testo in verde che troverete in questo capitolo è il racconto di un sogno.
Grazie mille per l'attenzione e buona lettura :) 
 

Corro. Inciampo su una radice e cado a terra sbattendo forte il mento. I denti stridono, un brivido passa lungo la colonna vertebrale e sento sapore di terra e sangue in bocca, ma mi rialzo in fretta affondando le unghie nel terreno, e lei è ancora lì.

- PRIM! – urlo, senza curarmi del fatto che qualcuno possa sentirmi, scoprire dove sono e uccidermi all’istante. Vedo il sollievo sul suo volto quando infine riesce a vedermi, ma è pallida e sta piangendo.  Che cosa succede? Lei non dovrebbe essere qui. Il suo posto è nel salotto al villaggio dei vincitori, accoccolata contro nostra madre sul divano, Ranuncolo a fare la guardia, acciambellato sulle sue ginocchia.

Sento Haymitch urlare, ma non capisco cosa dice, né m’interessa. Tendo una mano, ora Prim è a pochi passi da me.

Un forte calore e una luce accecante, poi qualcosa mi spinge violentemente all’indietro. Sbatto la schiena contro il tronco di un albero e mi accascio a terra. Tossisco, metto una mano davanti alla bocca e la ritraggo macchiata di sangue. Più che vederlo, ne sento l’odore.

- Katniss! – alzo lo sguardo. E’ Peeta, deve essere lui. Voglio che sia lui. Capelli biondi e occhi azzurri...  no. E’ Haymitch, e dietro di lui, dove fino a un attimo prima c’era Prim, solo la fitta oscurità.

- Aiutami a stenderla Haymitch! – sento Finnick esclamare.  – Ma cos’è stato? –

- Il campo di forza. – risponde lui. Me ne sono accorto troppo tardi, quella non era Prim, solo un ologramma. –

Il volto di Finnick compare nel mio campo visivo. Lo riconosco a malapena, ho la vista annebbiata.

- Katniss, mi senti? Va tutto bene. Chiudi gli occhi e rilassati. Hai sentito? Quella non era davvero tua sorella. -

Annuisco debolmente, mentre l’oscurità pare avvolgermi in un abbraccio stretto; fin quando l’ultima cosa che vedo sono gli occhi di Finnick, e poi neanche quelli.
 

- Katniss! –

Una voce sussurra il mio nome, ma non riesco a capire da dove venga. Sono seduta nell’erba alta del cortile della scuola, un dente di leone stretto tra le dita.
Non c’è nessuno qui. La scuola è in rovina, quasi tutte le colonne del portico sono attraversate da crepe più o meno profonde. Nell’aria c’è una forte puzza di bruciato, eppure non ho alcuna intenzione di alzarmi per vedere da dove venga. In qualche modo sento di sapere cos’è accaduto, e di non saperlo al tempo stesso. Forse l’ho dimenticato... magari intenzionalmente. Le mie gambe non vogliono muoversi. Distolgo lo sguardo dal portico per un attimo, osservando il fiore. E’ di un giallo quasi accecante, a confronto col grigio della polvere di carbone che sembra essersi posato anche su ogni singolo stelo d’erba.

Forse è per questo che non riesco a staccargli gli occhi di dosso, e questo mi ricorda qualcosa. Scavo nella mia memoria, per avvicinarmi a quella sensazione, e proprio quando sto per capire ogni cosa e distolgo lo sguardo dal fiore lo vedo lì, nascosto per metà dietro a una delle colonne: Peeta.

Lui guarda me ed io lo osservo di rimando, mentre ogni cosa attorno perde consistenza e si trasforma in una confusa macchia grigia attorno all’azzurro vivido dei suoi occhi. Mi sembra di osservare una pianta nata da una crepa nel cemento, ogni volta che incrocio il suo sguardo, provo la stessa sensazione di sorpresa e ammirazione. E’ un po’ come guardare Prim e la mamma, che in tutto questo grigiore e questa povertà sono tanto belle da sembrare fuori posto. Anche per lui è così, non posso fare a meno di chiedermi se in realtà non appartenga a tutt’altro posto e si trovi qui solo per caso.

Scaccio il pensiero che il destino possa aver designato Peeta a questo luogo solo per la sottoscritta. E’ un pensiero così egoista... eppure mi ci trovo bene. Io sono egoista. Ho accettato i baci di Peeta perché IO potessi star bene, e gli ho salvato la vita perché IO non dovessi avere rimorsi di coscienza, tornando a casa e guardando negli occhi i suoi genitori e i suoi fratelli. Anche Gale ha subito lo stesso trattamento. Accettare le sue attenzioni ha distrutto lui e gratificato me soltanto.

Eppure Peeta continua a stare lì. Non posso fingere di non sapere il perché, conosco bene i suoi sentimenti perché li posso trovare sempre riflessi sul suo volto quando mi osserva. Il fatto che io cerchi di non vedere quello che prova non cambia le cose.
­
- Katniss... –

Sento i suoi passi non proprio leggeri sull’erba. Mi sfugge un sorriso inadeguato al ricordo che segue, un Peeta goffo e rumoroso in una foresta che puzza di sangue. Due ragazzi scaraventati in un incubo ed etichettati come innamorati. No, solo io sono stata etichettata, ma è stato più come ricevere un marchio permanente sulla pelle e poi sul cuore. Perciò io sono innamorata di Peeta, ora. Nel mio modo strano e inconcludente ed egoista, ma lo sono comunque.  Me lo ricordo solo adesso.
Mi volto verso di lui quando mi arriva vicino.       

- Ciao, Peeta. –

E sorrido. Mi sono chiesta tante volte perché guardarlo o anche solo pensarlo mi facesse sorridere, ora non ho più bisogno di farmi questa domanda.

Lui si siede accanto a me. Vedo la sua bocca storcersi in una smorfia quando la protesi non vuole saperne di fare il suo lavoro, e ho una fitta al cuore perché se non fosse stato per i miei metodi sconclusionati, forse oggi avrebbe ancora la sua gamba. Già lo sento dire che, se non fosse stato per quegli stessi metodi, sarebbe morto dissanguato. Sorrido di nuovo.
- Cos’è successo? – gli chiedo d’istinto e so che mi riferisco alle condizioni del nostro distretto. C’è qualcosa in questa calma piatta che non va. E poi, quest’odore di bruciato... ma c’è qualcosa di strano anche nella mia domanda.

- Il distretto dodici è stato... attaccato. –

Capitol city. Snow. Non devo esser stata molto convincente nella mia recita di innamorata.

- E Prim? Gale? La mamma? I tuoi...? – Perché glielo sto domandando? In fondo io...

- Tutti morti. – risponde. La sua voce si è fatta così cupa che sembra provenire dall’oltretomba. Io assorbo la notizia e non urlo, ne piango. Mi sento come se in realtà lo sapessi già. Come fosse accaduto anni orsono e gli avessi solo chiesto di ricordarmelo.

- Ah, già... – rispondo, infatti. Poso di nuovo lo sguardo sul dente di leone e sento Peeta avvicinarsi, ma non lo guardo. Probabilmente vuole baciarmi in un vano tentativo di consolazione ed io lo lascerò fare perché ho bisogno di quelle labbra. Mi volto giusto in tempo per vedere il suo sguardo furioso, i denti digrignati. Sento le sue mani attorno al collo mentre mi schiaccia contro l’erba secca e polverosa.

- Come hai potuto farci questo? –

E’ vero, sono stata io, e anche questa è una notizia vecchia, e tutto questo è perfettamente naturale. Poso lo sguardo sulla mia mano sinistra, tra le dita c’è ancora quel fiore. La mia vista è offuscata dalle lacrime prima e dalla mancanza di ossigeno poi, ma inchiodo lì il mio sguardo. Voglio avere il mio ricordo personale di Peeta, non questa rabbia e sofferenza, ma l’amore che mi ha donato, la speranza che mi ha regalato quel lontano giorno fuori da casa sua. Per questo lascio che i miei occhi assorbano questo giallo vivido, fin quando tutto non sembra spegnersi attorno a esso ed è come stare nel buio a osservare la fiamma di una candela, fin quando anche quella si spegne.
 



Le mie palpebre sono sorprendentemente pesanti. Così capisco che i miei occhi devono esser stati chiusi parecchio più del solito.

- Si è svegliata! – E’ Finnick. Allungo una mano verso la sua figura un po’ sfocata mentre la mia vista si ristabilizza e riesco a vedere la piccola figura di Mags proprio accanto a lui, un sorriso stampato in volto.

- Era ora! – esclama Haymitch, da qualche parte alla mia destra, ma non riesco a voltarmi. Poi è lui stesso a entrare nel mio raggio visivo.

- Siamo quasi alla fine del tuo secondo giorno di sonno, dolcezza. Mi chiedevo per quanto avresti dormito ancora. –

- Ho dormito due giorni? – Il panico mi assale al pensiero di essere stata inerte per due giorni interi all’interno di quest’arena,  in mano a tre persone, due delle quali praticamente sconosciute.

- Sì, due giorni interi. Cominciavamo a pensare che qualcosa non andasse... ma per fortuna stai bene. –

- Possa la fortuna sempre essere a vostro favore, eh? –  rispondo spontaneamente e, mio malgrado, mi sfugge un sorriso.

- Come ti senti? –

- Pesante. – rispondo subito, e Finnick mi assicura che si tratta di una sensazione assolutamente normale, dopo esser stata sdraiata immobile due giorni. Eppure c’è qualcos’altro che non va in me, qualcosa cui, per quanto mi sforzi, non riesco a imporre un nome.

Una sorta di vuoto.

Mags continua a fissarmi e il sorriso sul suo volto è svanito, come se si fosse appena accorta di qualcosa di sbagliato. Che senta quello che sento io?
Finnick mi aiuta ad appoggiare la schiena contro il tronco di un albero, quando gli dico che mi fa male la schiena, e quando raggiungo la posizione seduta, lo stesso vuoto sembra intensificarsi. Mi viene da piangere e non so perché. E’ come se avessi perduto qualcosa di molto caro.  Che sia per il sogno che ho fatto? Provo a ripercorrerne il ricordo con la mente, e riconosco la stessa sensazione di vuoto nell’istante in cui ho deciso di lasciare che Peeta mi togliesse la vita, ma allo stesso tempo, in qualche modo, non è la stessa cosa. Decido di relegare quella sensazione in un angolo della mente. Non posso permettermi altre distrazioni.

- Quindi era un ologramma.... – sussurro. Haymitch mi ha appena raccontato cos’è accaduto due notti fa, vista la confusione nei miei ultimi ricordi.  A quanto pare, ho lasciato che le mie emozioni prendessero il sopravvento e sono finita dritta in trappola, rischiando di morire.

- Un bello scherzetto, già. – commenta Haymitch. – Senti... riesci ad alzarti? Siamo fermi nello stesso posto da troppo tempo. –

Punto le mani al suolo e con un po’ di fatica mi alzo. Mi gira leggermente la testa e il vuoto che sento si riaffaccia alla mente, attirandomi di nuovo verso terra.  Però riesco a camminare. Così raccogliamo in fretta le nostre cose e ci dirigiamo verso il lago.

Per diverso tempo, non si sente nulla a parte il fruscio dei nostri piedi e i versi di qualche uccello notturno. La sete comincia a farsi sentire per tutti, specie per Finnick che porta anche Mags sulla schiena, ma tiriamo avanti. La notte è il momento migliore per muoversi, e in una sola nottata potremmo coprire la distanza che ci separa dall’unica fonte d’acqua di questa maledetta arena.

Persa in questi pensieri, non mi accorgo subito di quel che ci sta accadendo attorno, ma poi li vedo: sembrano scoiattoli. I loro occhi, gialli come quelli dei gatti alla luce della luna, ci fissano da ogni angolo.

Riesco solo a gridare: - Attenti! – prima che, tutti insieme, ci saltino addosso.

Sono ovunque. Mi tirano i capelli, mi graffiano il viso, si aggrappano ai miei vestiti. Sento Haymitch urlare e anche un flebile grido da parte di Mags. Finnick impreca. Poi accade.
I denti di uno scoiattolo affondano nella carne della mia spalla e, come se il tempo fosse improvvisamente rallentato, sento la pelle venire strappata fibra dopo fibra, ne sento quasi il rumore.
Il dolore è insopportabile. Li sento fare versi di piacere, come quando ho inzuppato per la prima volta il pane nel cioccolato caldo, e capisco che questi mostri si nutrono di carne umana.

Corro. Non so nemmeno io dove voglio andare. Corro e mi agito e sbatto la schiena e le spalle contro i tronchi degli alberi nel tentativo di stordirli. A volte ci riesco, ma ne tornano sempre di nuovi a strappare minuscoli pezzi di carne. Sento il sangue scorrere caldo dappertutto, incespico su qualcosa e guardandomi indietro mi accorgo di essere caduta su Haymitch. Vedo due scoiattoli sulla sua schiena e glieli strappo di dosso. Si alza e corre via urlando, ma cade a terra dopo pochi passi. La vista della sua carne martoriata mi mette la nausea, così mi accascio contro un albero e, mentre ancora sento i denti affondarmi nelle gambe e nelle braccia, non riesco a trattenermi dal vomitare.

Me lo sento, sto per perdere i sensi. Proprio quando comincio a pensare che sia meglio arrendersi e lasciare che la vita vada avanti per qualcun altro, sento qualcosa martellarmi il cervello. E’ un suono familiare, acuto e ripetuto.

Ci metto un po’ per capire che si tratta di un dono da parte degli sponsor, l’aiuto prezioso di Peeta; e ne sono del tutto sicura solo quando vedo il piccolo paracadute atterrare davanti ai miei occhi.

Mi faccio forza e strappo via gli scoiattoli dalle mie braccia urlando. Apro il barattolo, lungo e stretto, e ne tiro fuori un cilindro rosso. A fatica riesco a leggere il biglietto.

Svitalo

Eseguo le istruzioni, e dal cilindro fuoriesce del fumo violaceo e denso che si spande in fretta. Sento gli scoiattoli cadere dalle mie spalle, dalla schiena e dalle gambe, e immagino che agli altri stia accadendo lo stesso. Quando, dopo pochi minuti, il fumo si dirada, lo spettacolo che mi si presenta davanti è terrificante:

Scoiattoli morti giacciono a terra ovunque, e ora posso vederne le zanne lunghe e affilate, ricoperte del nostro sangue.
C’è sangue dappertutto, alcune macchie portano dritto a Haymitch, a faccia in giù sul suolo poco più avanti, gli abiti strappati e la carne viva esposta all’aria e al mio sguardo. Vedo la sua schiena alzarsi e abbassarsi lentamente, segno che è ancora in vita. Mi volto e dietro di me c’è Finnick, riverso su Mags, che grazie a lui ha solo qualche ferita sulle braccia. Anche lui sembra essere ancora vivo.

Lottando contro la nausea e il dolore, li trascino uno per volta fino allo stesso punto, sotto i rami lunghi, sottili e pendenti fino al suolo di un albero che non ho mai visto.

Che cosa posso fare ora? Per evitare che le ferite s’infettino dovrei medicarle in fretta, questo è ciò che anni passati a osservare mia madre nel suo lavoro mi suggeriscono. Mi guardo attorno, alla ricerca di qualche pianta medica. Fortuna vuole che, a pochi passi da noi, ci sia un cespuglio a me fin troppo familiare. Il ricordo di Rue intenta a curare le mie punture di Ago Inseguitore affiora vivido nella mia mente, e sento le lacrime salirmi agli occhi, ma non le lascio uscire.

- Resta qui. – dico a Mags, l’unica abbastanza cosciente da capirmi, - Vado a prendere quelle foglie, serviranno per le ferite. – le dico, indicando il cespuglio, e lei annuisce.

Ne prendo un bel po’, perché le ferite sembrano essere tante, poi mi tolgo la giacca leggera e la maglia, restando in canottiera. Con la maglia, usando il coltello, faccio delle strisce di stoffa. Curo prima Mags, applicando le foglie sulle sue ferite e fasciando le braccia, perché ho bisogno che mi aiuti con gli altri prima che il disgusto prevalga, e così fa. Insieme, medichiamo come possibile le ferite di Haymitch e Finnick, poi lei si occupa delle mie e solo in quel momento ricordo il dolore, che avevo dimenticato nella fretta di curare gli altri, ma me lo dimentico di nuovo quando sento il cannone per ben due volte. Atterrita, controllo che sia Haymitch sia Finnick respirino ancora.

- Mags... nei due giorni in cui ho dormito, quanti sono morti? –

Lei alza dieci dita. Dieci persone già morte, due proprio ora. Dodici in meno in quattro soli giorni. La maggior parte sarà sicuramente morta nel raggiungere la cornucopia, lontana com’era. I favoriti saranno certamente ancora vivi, poi ci siamo io, Mags, Finnick e Haymitch. Probabilmente anche Johanna Mason è ancora viva. Al momento la mia mente non riesce a ragionare abbastanza da fare il punto della situazione, così mi guardo attorno. Di certo quel che rimane della notte non lo passerò a dormire, non su questo terreno intriso del nostro sangue e ricoperto di piccoli cadaveri.
 
Il mio sguardo intercetta il barattolo scarlatto che ci ha salvato la vita. Sospiro pensando all’impegno che Peeta sicuramente avrà messo nel procurarcelo e proprio in quel momento sento di nuovo il bip di un altro paracadute che, con precisione estrema, atterra appena fuori dalla tenda di rami sotto cui ci troviamo.
 
Striscio fin lì, lasciandomi sfuggire qualche smorfia di dolore. Questa volta il barattolo è più piccolo, piatto e argentato. Ne svito il coperchio, trovandovi dentro una strana crema arancione.
Sorrido. Questa è certamente per le ferite. Ne spalmo un pochino sul braccio tanto per verificare, e il sollievo si sente quasi subito.
 
- Grazie, Peeta! – Sussurro, e non riesco a fare a meno di sorridere. Non m’importa che gli sponsor possano offendersi, che loro facciano qualcosa o no io prima o poi morirò qui dentro, Snow non mi lascerà uscire. Con questo pensiero torno sotto l’albero. Mags osserva curiosa il barattolo che ho tra le mani. Le mostro la ferita sul braccio che già si sta richiudendo e sorride, porgendomi le sue braccia.
 
Srotolo le bende e tolgo le foglie ormai inutili, per poi spalmare con cura la crema. Mags sospira di sollievo, mi guarda e sorride. Ci occupiamo prima di Haymitch, e quando finalmente riusciamo a curare tutte le sue ferite, comincia a svegliarsi. Mentre lui riprende coscienza ed io gli racconto cos’è accaduto, Mags si prende cura di Finnick, ed anche lui si sveglia dopo poco.
 
Passate un paio d’ore, si riprendono perfettamente, lasciandomi pensare che quella crema serva ad altro oltre che alla sola cura delle ferite, però restiamo dove siamo. Il lago è ormai vicino e possiamo permetterci di attendere almeno il sorgere del sole.

Mags si sta occupando delle ultime ferite di Finnick sulle braccia, quando comincia a cantare, a bassa voce.  E’ solo una melodia, senza alcuna parola che la accompagni, forse tipica del distretto quattro.
 
La notte pare rischiararsi al suono della sua voce, ma poi realizzo che siamo alle prime luci dell’alba. E’ come se fosse la sua canzone, come una magia, a invogliare il sole nella sua ascesa e, anche se solo per un attimo, dimentico la natura del posto in cui mi trovo.

Non c’è dolore, non c’è paura, ci siamo solo noi, la canzone di Mags e il sole che sorge.

Poi quel dolce suono all’improvviso s’interrompe ed io, che stavo osservando i rami ondeggianti al vento, mi volto di scatto. Uno stormo di uccelli vola rumorosamente via dalle fronde di un albero vicino e i nostri occhi restano tutti puntati sul dardo che sbuca, ricoperto di sangue, dal cranio di Mags.




*Angolo Autrice*

Ciao a tutti :) Grazie per aver letto il capitolo 15 di "what if". Lo so, ho impiegato tanto per pubblicarlo. La causa è sempre la solita e ormai mi sono arresa all'idea di non poter avere nemmeno un po' di pace in tal senso... spero comunque di non avervi delusi. Non ho alcuna intenzione di interrompere la storia, perciò, per quanto i tempi siano non proprio veloci, sappiate che comunque ogni volta il capitolo successivo arriverà. Credetemi, se potessi li farei uscire più in fretta, ma proprio non posso. 

Come al solito, vi invito a dirmi quel che volete con una recensione :) Voglio sentire il vostro parere, anzi ne ho assoluto bisogno! :D 

Un bacio enorme e... passate a leggere la nuova Flashfic di MatitaGialla, la mia super Beta Reader ;)  

 
 
 
 
 
 
 

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