Blur

di Ivola
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 000. Prologue – Could it be worse? ***
Capitolo 2: *** 001. First Chapter – You're still nothing to me. ***
Capitolo 3: *** 002. Second Chapter – Drifting into outer space. ***
Capitolo 4: *** 003. Third Chapter – Hello cold world. ***
Capitolo 5: *** 004. Fourth Chapter – Lost the battle. ***
Capitolo 6: *** 005. Fifth Chapter – The hardest part. ***
Capitolo 7: *** 006. Sixth Chapter – Hypochondriac. ***
Capitolo 8: *** 007. Seventh Chapter – Drama queen. ***
Capitolo 9: *** 008. Eighth Chapter – In fear, in sorrow. ***
Capitolo 10: *** 009. Ninth Chapter – Cure or disease? ***
Capitolo 11: *** 010. Tenth Chapter – Make every touch electrical. ***
Capitolo 12: *** 011. Eleventh Chapter – Paradise comes at a price. ***
Capitolo 13: *** 012. Twelfth Chapter – Fake plastic trees. ***
Capitolo 14: *** 013. Thirteenth Chapter – Northern lights. ***
Capitolo 15: *** 014. Fourteenth Chapter – A million little pieces. ***
Capitolo 16: *** 015. Fifteenth Chapter – Too many bad notes in our symphony. ***
Capitolo 17: *** 016. Sixteenth Chapter – Immerse your soul in love. ***
Capitolo 18: *** 017. Seventeenth Chapter – Sunday morning. ***
Capitolo 19: *** 018. Eighteenth Chapter – Harder. ***
Capitolo 20: *** 019. Nineteenth Chapter – Bury me in all my favorite colors. ***
Capitolo 21: *** 020. Twentieth Chapter – Valhalla. ***
Capitolo 22: *** 021. Twenty-first Chapter – My fading voice. ***
Capitolo 23: *** 022. Twenty-second Chapter – Lacrimosa dies illa. ***
Capitolo 24: *** 023. Twenty-third Chapter – Enemy's song. ***
Capitolo 25: *** 024. Twenty-fourth Chapter – Stranger in a strange land. ***
Capitolo 26: *** 025. Twenty-fifth Chapter – Punish them for pleasure. ***
Capitolo 27: *** 026. Twenty-sixth Chapter – You used to be everything to me. ***
Capitolo 28: *** 027. Twenty-seventh Chapter – The man who sold the world. ***
Capitolo 29: *** 028. Twenty-eighth Chapter – Goodbye, goodbye, goodbye. ***
Capitolo 30: *** 029. Twenty-ninth Chapter – Offer me that deathless death. ***
Capitolo 31: *** 030. Thirtieth Chapter – Let her go. ***
Capitolo 32: *** 031. Thirty-first Chapter – All my tears have been used up. ***
Capitolo 33: *** 032. Thirty-second Chapter – Ghosts that we knew. ***
Capitolo 34: *** 033. Thirty-third Chapter – Underwater. ***
Capitolo 35: *** 034. Epilogue – Blur. ***



Capitolo 1
*** 000. Prologue – Could it be worse? ***


Prima che cominciate a leggere questa storia, sono necessarie delle note (niente di troppo estenuante, lo giuro!).
Innanzitutto, i protagonisti di questa storia, Klaus, London e Benjamin, sono OCs e quindi non personaggi della Collins. Il primo è sotto il mio copyright; la seconda e il terzo sotto il copyright di Martichan97.
Blur (il cui significato sarà chiarito soltanto più avanti) è la loro storia, la loro vita. Non riguarda quasi per niente le vicende narrate nella trilogia di Hunger Games, ma il contesto in cui si collocano è quello, con tutti i problemi annessi.  
Se avete sbirciato tra gli avvertimenti, avrete notato “Contenuti forti”, “Incest” e “Triangolo”.
Per i contenuti forti, beh, non c’è da spiegare: il primo contenuto forte è il linguaggio colorito, proprio dei personaggi. Questa cosa deriva dal fatto che sia Klaus che London, infatti, pur essendo di nobile famiglia, hanno entrambi un carattere… puntiglioso. Estremamente.
Per l’incest, invece, devo spiegare brevemente una cosa: London ha un gemello, come vedrete, Benjamin, con cui ha una relazione incestuosa, ma nulla sarà mai trattato con troppa nonchalance. Badate bene, comunque, che non sarà l’avvertimento più rilevante della storia e spero che questa cosa non vi blocchi la lettura.
Per il triangolo, poi… nulla da dire. Non pensate ai classici triangoli in cui la ragazza è eternamente indecisa tra i due bei fusti (infatti ho inserito anche Slash tra le coppie). Di conseguenza, un’altra cosa che mi sta a cuore spiegarvi è il contenuto della storia in sé per sé. Potrebbe sembrare il più viscido dei cliché, quello dei promessi sposi o dei due ragazzi di turno che si odiano a morte, ma con l’aiuto di Marty ho cercato di renderlo il più originale possibile, perché a queste tre scapestrate creature ci tengo davvero tanto. Probabilmente, la cosa più originale (o meno banale, se la mettiamo su questo piano) saranno i loro caratteri, tutt’altro che positivi.
Non so voi, ma non credo che le persone siano perfette – specialmente ‘sti qua – per cui cercherò con il massimo impegno di sottolineare tutti i loro difetti, per renderli il più umani e reali possibile.
Per chi conosce già Klaus e London (mi riferisco soprattutto alle mie adorate FolliH ♥), questo pseudo-delirio di storia sarà probabilmente abbastanza "familiare"; per chi non li conosce, invece, prometto di portarlo passo a passo, mano nella mano, nella loro psiche contorta. E che la sorte sia con me!
Un’ultima cosa, prima che queste note diventino più lunghe del prologo stesso: ogni capitolo avrà come titolo un pezzo estrapolato da qualche canzone, che citerò, come mi sembra doveroso, nelle note – che tral’altro metterò sempre all’inzio, come mi sembra più comodo.
Per fortuna non ho nient’altro da dire (credo…), se non che spero che la storia vi piaccia. Consideratela la fonte del mio sudore, ecco. Ci lavoro da tantissimo tempo e ci sono veramente, veramente affezionata. Per questo ci tengo ad avere le vostre opinioni :) Perciò, se vi va di lasciarmi un parere non ne sarei felice, di più.

Concludo qui!
Buona lettura ♥
EDIT: trailer (o semplicemente video, che dir si voglia) della storia QUI.

Il titolo del prologo viene da “Fix You” dei Coldplay.

















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(Tied to a Railroad)




 
 
000. Prologue – Could it be worse?

 

L’orologio a pendolo nel grande e antico salone ticchettava incessantemente, rendendo l’atmosfera ancora più tesa di quanto già non fosse.
Tic, toc.  
Le fiamme nell'imponente camino al centro della parete scoppiettavano come se stessero deridendo quella scena di finta tranquillità.
I ritratti alla sua sinistra lo osservavano con cipiglio severo. Hector Wreisht, il suo bisnonno, sembrava fissarlo dal basso verso l’alto, mentre accarezzava un mastino dall’aria tutt’altro che amichevole; Ludvig Wreisht, suo nonno, aveva la fronte corrugata e il mento sporgente, in un atteggiamento autoritario; suo padre, Frantz, completava il terzetto dei quadri, un po’ più giovane di come lo conosceva.
Quasi come se stesse parlando – o meglio, pensando – del diavolo, questi apparve da una porta di lato, con un’espressione dura. Accostato al suo stesso ritratto faceva un certo effetto. I baffi neri erano appena più folti rispetto alla tela e la fronte più stempiata. Gli occhi gelidi, però, non erano cambiati e mai l'avrebbero fatto. 
« Comportati bene, Klaus » gli disse semplicemente, invitandolo a raggiungere l’atrio. «  Sono arrivati. »
Klaus, che per i suoi otto anni era un ragazzino già abbastanza alto e abbastanza sveglio, sbuffò e seguì il padre giù per le scale con il viso imbronciato.
« E stai dritto. »
Il bambino raddrizzò la schiena, ma, quando suo padre voltò di nuovo lo sguardo dinanzi a sé, sciolse i muscoli delle spalle, curvandole leggermente in un atteggiamento annoiato.
L’atrio era animato da un fitto chiacchiericcio. C’erano allegre voci di bambini. Appena mise piede nella stanza, Klaus represse a stento un altro sbuffo.
Quei quattro sembravano gente perbene. Elegantemente vestiti, portamento fine e spalle dritte.
Klaus raddrizzò nuovamente la schiena e si lasciò scappare quello sbuffo che aveva trattenuto appena qualche istante prima.

« Alfons, Erzsébet » disse suo padre con tono fiero e cordiale, « questo è Klaus, mio figlio. » Shyvonne, sua madre, una donna mingherlina e di media altezza vestita con colori scuri, mise una mano sulla spalla del marito.
I due Bridge osservarono il bambino interessati, poi sorrisero. Klaus non capì se fosse un cenno positivo o meno.

« E questi, Klaus » annunciò suo padre una seconda volta, « sono Benjamin e London. Lei sarà la tua futura moglie » aggiunse soddisfatto.
Klaus squadrò i due coetanei. Indubbiamente gemelli, dai capelli bianchi come la neve e gli occhi verde chiaro, quasi sul grigio. Così simili da risultare pressoché la stessa persona, se non fosse stato che la bambina aveva i capelli più lunghi legati in una soffice treccia. Dei singolari albini mancati, o forse no. Uno scherzo della genetica.
London incurvò le labbra in una sottospecie di sorriso tirato. 
« E’ un piacere conoscerti. » Quello chiamato Benjamin non disse nulla, standosene in disparte.
Fanno i finti simpatici, si disse.
I quattro genitori attendevano con grandi aspettative una sua risposta, che non tardò ad arrivare. 
« Aspetta, quindi mi stai dicendo che ti chiami “Ponte di Londra”? » domandò Klaus senza riuscire a trattenersi, scoppiando a ridere. « Che buffo! »
Il sorriso sulle labbra di London morì all’istante, così come quello degli altri.
Bene, pensò Klaus, il teatrino sta finendo. Prima si sarebbe conquistato la loro antipatia, prima avrebbero fatto di tutto per annullare la promessa.

« Proprio così » ripose la ragazzina, fissandolo direttamente negli occhi. Klaus non si sentì affatto intimidito, anzi, quasi fu felice che quella gli avesse risposto in modo altrettanto sgarbato. Alleati nella cattiva sorte. « Hai problemi con il mio nome? »
« Ma no, figurati » ribatté lui. « E’ soltanto… ridicolo. »
London digrignò i denti. « Rimangiatelo immediatamente. »
« Io non mi rimangio mai la parola, Bridge. Prendi appunti. »
Alfons ed Erzsébet si scambiarono delle occhiate deluse. Probabilmente non volevano che la loro figlioletta di sangue puro s’imparentasse con un ragazzino così tremendamente insopportabile. Shyvonne, invece, si portò una mano alla bocca. « Klaus! » esclamò quindi, indignata e già quasi in preda al panico per la brutta figura.
Frantz prese suo figlio per un braccio e lo portò nella stanza adiacente, uscendosene con un 
« Vogliate scusarmi » biascicato velocemente.
Una volta soli, nello studio al pian terreno, gli diede uno schiaffo. 
« Cosa ti avevo detto? »
Klaus, che era solito non demordere mai, lo fronteggiò senza paura. « Io non la sposerò, quella mocciosa! »
« E cosa te lo fa pensare? » quasi gridò suo padre, in preda alla rabbia. « Ti avevo avvertito! Niente storie! »
« Se tu pensi che farò tutto quello che dici, beh, sei caduto davvero in basso, papà. »
Un nuovo schiaffo, stavolta sull'altra guancia, leggermente più forte del precedente. « Quando imparerai a stare al tuo posto? » Non gli diede neanche il tempo di replicare, che lo portò nuovamente dai Bridge, stringendogli il polso in una morsa e sussurrandogli appena: « E adesso scusati, con tutti e quattro. » Il tono era irremovibile, adirato.
Klaus si premette una mano sulla guancia e la massaggiò debolmente. Infine rientrò nell'atrio, spostando il suo sguardo buio, arrabbiato e indagatore tra i presenti. « Io… » cominciò a bassa voce. « Volevo scusarmi. »
Shyvonne ed Erzsébet si addolcirono, mentre Alfons continuò a guardarlo in modo torvo. Nessuno, secondo lui, poteva permettersi di insultare i suoi figli.
« ... volevo scusarmi perché vi sto per mandare tutti a fanculo » aggiunse Klaus con un piccolo sogghigno furbesco. Dopodiché, prima che i suoi o qualcun altro riuscissero ad acciuffarlo per la collottola, uscì di casa correndo e si addentrò nelle polverose vie del Distretto Sei.
A nulla valsero le urla di suo padre.
Ma a nulla valsero anche tutte le proteste del ragazzino. Avrebbe dovuto sposare London, o meglio, il Ponte di Londra, ormai era già tutto deciso.
 












 
 

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Capitolo 2
*** 001. First Chapter – You're still nothing to me. ***


Note: Il primo capitolo. Il battesimo della storia, quasi più del prologo. Insomma, ecco qua il principio di tutto.
Sono abbastanza emozionata, comprendetemi ùwù
Non pensiate che io in genere aggiorni così velocemente, ma per ora ho pronti altri cinque capitoli, quindi sarò abbastanza costante (forse). Che dire, se non che spero che immergervi in questa storia vi piacerà almeno quanto a me piace scriverla?
Dedico il capitolo a Marty, perché lei c'è sempre e perché sopporta tutti i miei insensati fangirleggiamenti. Klaus, Ben e Londie vi augurano b
uona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da “Uno” dei Muse (che è anche il sottofondo della prima parte del capitolo).
La seconda parte del capitolo è nata ascoltando "Sober", sempre dei Muse, che è anche la traccia successiva a Uno nell'album.

Si ringrazia tantissimo Mito per il banner!

















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(Tied to a Railroad)




 
 
001. First Chapter – You're still nothing to me.

 

Neanche il vino sembrava riuscire ad addolcire quell’amarezza che gli attraversava il corpo come una lama incandescente.
Era una sera buia e ventosa di novembre; tuttavia in quell’accogliente locale rivestito di parquet l’atmosfera era tranquilla e calda, intima, se non fosse che a una sola spanna da lui una ragazza gli stava, probabilmente, inviando minacce di morte con il pensiero.
London era seduta accanto a Klaus e le loro spalle si sfioravano appena. Non si erano neanche guardati in faccia durante quella formale cena che si stava svolgendo in onore del fidanzamento ufficiale. Il giorno successivo i gemelli Bridge avrebbero compiuto diciott’anni e allora i due promessi si sarebbero potuti unire in matrimonio immediatamente dopo gli annuali Hunger Games, a giugno.
C’era da festeggiare, ma quell’incontro tra le due famiglie assomigliava più ad un funerale che a una celebrazione vera e propria.
Shyvonne ed Erzsébet conversavano cautamente, sedute accanto ai propri mariti che si guardavano in cagnesco. Presto il loro accordo si sarebbe stipulato e tutto si sarebbe concluso con una stretta di mano, un anello al dito e un erede.
Klaus, soffocato dalla sua elegante giacca su misura proveniente dal Distretto Otto, aveva toccato poco cibo e bevuto diversi bicchieri di vino pregiato, tentando invano di calmare la tensione. Lo stava facendo solo per sua madre, che quella stessa mattina l’aveva supplicato piangendo. 
« Soltanto questa sera, per favore » gli aveva detto.
Se non avesse provato un’irragionevole compassione per lei, probabilmente in quel momento non sarebbe stato lì, costretto a restare in silenzio e a parlare solo quando gli veniva richiesto. Forse sarebbe stato meglio mandare tutti al diavolo e non presentarsi, ma purtroppo ormai c’era dentro fino al collo.
Teneva gli occhi fissi sul piatto di porcellana appena servitogli con un dessert complicato, pieno di decorazioni floreali di glassa. Aveva la fronte corrugata e lo sguardo vacuo, ma probabilmente non se n’era neanche reso conto, troppo preso a pensare in che modo sfuggire a quella noia. Si allentò la cravatta, che quasi lo stava strozzando. Quel piccolo gesto richiamò l’attenzione di London, la quale, data l’assenza del fratello, se ne stava ugualmente in silenzio.
Con un furbo sorrisetto e
 con l’ausilio di quei maledettissimi tacchi a spillo la ragazza pestò un piede di Klaus, che represse a stento una colorita imprecazione. Si voltò di poco a guardarla, frustrato. Avrebbe tanto voluto cancellarle quell'espressione divertita dal volto, ma, per una volta, si disse di lasciar perdere.
Altri dieci minuti, pensò. Solo altri dieci fottutissimi minuti.
Un uomo intanto, probabilmente il proprietario del locale che era rimasto aperto fino a tardi solo per quell’evento, entrò nella sala con una chitarra acustica – un vero gioiello per tempi come quelli – e, sedutosi su uno sgabello, intonò una vecchia canzone del Distretto.
Klaus vide London inarcare le sopracciglia.

« Per questi due promettenti giovani! » disse, pizzicando dolcemente le corde dello strumento in una soave melodia dai profumi orientali.
Il volto di Shyvonne Wreisht s’illuminò. 
« Ballate per noi » fece la donna, entusiasta. « Coraggio. »
Klaus e London si scoccarono una truce occhiata.
Non esiste nemmeno.

« Mamma, non so ballare » disse il primo, scuotendo la testa.
« Provaci » ribatté Frantz con un sospiro spossato, dando voce ai pensieri della moglie. « Avanti, non è poi così difficile. Basta muovere i piedi a tempo. »
London si alzò in piedi prima che l’altro potesse dire qualcosa che avrebbe definitivamente rovinato quella serata. « Dai, non fare il rammollito e invitami » gli disse in tono provocatorio.
Klaus, esasperato dalla situazione, si alzò e le prese una mano. 
« Con il vostro permesso, mia adorata » biascicò con pari provocazione.
La sala non era molto ampia, ma c’era abbastanza spazio per mettere in atto quella piccola recita. Dopotutto, London sapeva stare al gioco.
Il ragazzo un po’ meno, ma non sembrava importare a nessuno.
Entrambi, con passi sospettosi, raggiunsero il centro di quella pista improvvisata e, prima di cominciare a ballare, si osservarono di sottecchi. Klaus la attirò velocemente a sé, stringendole la mano destra in una morsa ferrea e avvicinando i loro visi più del previsto. 
« Andiamo, fammi vedere come si fa » le intimò sottovoce, dando per scontato che lei non fosse poi così capace come voleva far credere.
London, per tutta risposta, gli strattonò il braccio, posando la mano libera sull’altra spalla. 
« Volentieri » ribatté, « mio odiato»
Appellativi così erano all’ordine del giorno tra i due, quindi Klaus non si scandalizzò più di tanto e, facendo un primo passo, replicò con un ghigno: « Non prenderci troppo la mano, però, Londie. »
« Forse rimarrai colpito » disse invece la ragazza, spostandosi in contemporanea con Klaus verso sinistra, a ritmo di quella musica accattivante.
« This means nothing to me, ‘cause you are nothing to me » cantò flebilmente l’uomo con la chitarra, magari pensando a un amore che gli era sfuggito dalle mani come polvere. Le parole, comunque, stridevano tanto con quella sorta di idillio che volevano creare le famiglie tra i due; anzi, istigavano ad accrescere quel sentimento di collera che provavano l’uno nei confronti dell’altra.
« And this means nothing to me that you blew this away. »
Klaus fece una smorfia infastidita, notando che non riusciva a stare a tempo e che London invece lo stava accompagnando piuttosto bene, muovendo le gambe abilmente e sensualmente, come se stesse cercando di provocarlo. Forse era proprio merito suo se non era ancora capitolato sul pavimento.
Stringendo sempre saldamente la mano della ragazza e tenendo l’altra sulla sua schiena, fece aderire i loro petti, così che non si capisse chi stesse realmente guidando la danza. Un così ravvicinato contatto lo irritava fin troppo, ma in quella spiacevole situazione era necessario. Dopotutto non poteva permetterle il lusso di una vittoria, neanche in uno stupido ballo come quello. Doveva incolpare soltanto il suo orgoglio se si lasciava trasportare tanto.

« Bravo, vedo che stai al gioco, Klaus » gli disse London ad un orecchio, immediatamente dopo aver compiuto una leggiadra giravolta.
Klaus non si lasciò intimidire. 
« ‘Cause you could’ve been number one… » disse fievolmente, riprendendo le parole della canzone. « If you only found the time. »
« And you could’ve rule the whole world, if you had the chance » continuò London in un sussurro, alzando un ginocchio accanto al fianco di Klaus. La gamba seminuda – appena coperta da un abito nero e svolazzante  di lei sfregò contro la sua anca e il ragazzo si impose di ignorare il contatto tra i loro bacini. Piuttosto, spostò la mano nella piega del suo ginocchio, sfiorandole la coscia per un istante, e la fece voltare di scatto, sorprendendola. L'occhiata irritata che gli rivolse lo soddisfece appieno.
La musica si fece più veloce e più intensa, pregna di una tensione tanto forte da essere tangibile, da suscitare una sovrannaturale elettricità intorno a loro.
I due ragazzi, ancora uniti da quel ballo fuori dal mondo, continuarono a muoversi con passi decisi, fissandosi reciprocamente con sguardi carichi d’astio, mentre le loro famiglie li osservavano a metà tra il compiaciuto e l’interdetto. Klaus e London sembravano volersi uccidere a vicenda qualsiasi cosa facessero.
Un volteggio, un passo indietro, un altro volteggio, più veloce del precedente. Era diventata una gara: a chi si sarebbe stancato per primo.

« And we could’ve have so much fun, but you blew it away... »
La soave melodia andò scemando, finché non si spense del tutto. London e Klaus, cercando di apparire il meno affannati possibile per non darla vinta all’altro, si separarono di botto, come se fossero stati a contatto con l’acido. E poi tornarono a sedersi, ignorandosi come stavano facendo fino a qualche minuto prima.
« Non è andata male, visto? » fece Shyvonne, poggiando una mano sulla spalla del figlio, che se la scrollò di dosso senza tante cerimonie.
Klaus finì l’ultimo sorso di vino, dopodiché scattò in piedi con una certa impazienza. 
« E’ stato un piacere » disse, lasciando tutti di sasso come al solito.
« Dove vai? » domandò Frantz, aggrottando le sopracciglia. « Non abbiamo ancora finito, dobbiamo discutere della- »
« Sì, certo » ribatté il ragazzo velocemente, appuntandosi il giubbotto. « Buon divertimento. »
Klaus uscì dal locale seguito da qualche blanda protesta dei suoi genitori. Aveva sopportato fin troppo quella sera, era giunto il momento di svagarsi un po’, di eliminare o per lo meno offuscare London dalla sua testa.
Il vento freddo dell’autunno inoltrato gli pizzicò il viso e per un momento Klaus rabbrividì, poi senza pensarci ulteriormente si inoltrò tra le buie viuzze sconnesse che portavano alla zona ovest, quella che tutti credevano abbandonata o ritenevano poco raccomandabile da visitare. Lui ovviamente non si faceva certi problemi, anzi, quella piccola porzione del noiosissimo Distretto Sei era il suo luogo preferito in assoluto. Poteva fumare, ubriacarsi, coinvolgersi in qualche rissa casuale e pace.
Gli stava bene così. Tutto era meglio che stare in compagnia dei Bridge.
Quella sera non c’erano stelle e la luna si era ritirata dietro fumose nuvole scure. Klaus mise piede nella zona ovest che era già passata la mezzanotte. Un orario perfetto, secondo i suoi canoni.


 

*

 

I Wreisht e i Bridge, una volta uscito Klaus, stavano discutendo del suo comportamento animatamente, visto che Alfons, il padre di London, sembrava alquanto contrariato.
La ragazza invece, completamente estranea a quei discorsi, stava battendo ritmicamente un piede sul pavimento, cercando invano di far passare il tempo. 
« Scusate » disse dopo una buona mezz'ora, provando a richiamare l’attenzione dei quattro, inutilmente. « Scusate » ripeté, così da ottenere l’effetto desiderato. « Io avrei un appuntamento. E’ stata una cena magnifica... » spiegò velocemente, indossando il suo cappotto nero, « ma continuate pure senza di me. Arrivederci. »
Detto questo, si alzò anche lei e abbandonò il locale prima che qualcun altro potesse disapprovare. Pensò che i Wreisht non avrebbero potuto gradire la parola ‘appuntamento’, considerando che di certo non ne aveva programmato uno con il loro beneamato figliolo.
Avvoltasi la sciarpa intorno al volto, iniziò a camminare a passo svelto.
Chi se ne frega, pensò, cercando di non badare al freddo pungente. Finalmente torno da Ben.
Era in suo programma rientrare a casa – dopotutto il pensiero di suo fratello da solo la inteneriva e la preoccupava al contempo – ma un movimento poco più avanti la distrasse dal suo intento. Si trovava vicina alla zona ovest, da dove si udivano schiamazzi e urla colorite. Non era decisamente un posto adatto ad una ragazza del suo rango, ma vi si addentrò comunque, incuriosita da quella confusione.
Un modesto edificio in muratura grigia era probabilmente il centro del caos e London, senza pensarci due volte, aprì la porta scricchiolante, per ritrovarsi di fronte uno spettacolo deplorevole.
C’erano uomini d’ogni genere, intenti o a prendersi a parole, o a menarsi, o a giocare a strip poker con donne di dubbia provenienza o a ubriacarsi allegramente. Disordine totale, accozzarsi di boccali traboccanti di birra e un odore acre regnavano sovrani su quella scena.
Ma, a pochi metri di distanza da lei, notò qualcosa – qualcuno – di fin troppo familiare. Klaus era lì, attorniato da un gruppo di ragazzi suoi coetanei.
London sbuffò, decisa a tornare indietro. Si diede della stupida per aver seguito l’istinto ed essersi buttata a capofitto in quel covo di maiali. Prima che potesse realmente fare marcia indietro, però, sentì la voce del ragazzo chiamarla a gran voce. 
« Londie, qual buon vento? »
Probabilmente era già brillo o ubriaco, tanto che reggeva a stento l’ennesimo bicchiere di liquore che gli avevano portato.
Da quanto si è allontanato... un'ora?, si chiese. Che razza di deficiente.
London sapeva che il suo odiato promesso fosse un cultore dell’alcool, ma non aveva mai dato peso alla cosa. Dopotutto erano problemi suoi se si fosse ammalato o se fosse morto. Anzi, sarebbe stato anche meglio così.

« Sei venuta per scoparti qualcuno di questi gentiluomini? » chiese Klaus retoricamente, ridendo con i suoi scapestrati e degni compari. « O per riportarmi indietro? »
London scosse la testa, esasperata. Ormai non dava neanche più peso ai suoi insulti. « Per tua informazione, Wreisht, sono capitata qui per caso. »
« Oh, capisco » replicò l’altro, annuendo. « Allora perché non ti bevi un sorso con noi? » Allargò le braccia per indicare i suoi compagni e le porse il bicchiere che non aveva ancora vuotato.
London fece finta di prenderlo, ma quando le loro mani si sfiorarono appena, mollò la presa e lo fece cadere a terra in frantumi. 
« Ops » disse, fintamente dispiaciuta. Continuò a fissare Klaus con sguardo di sfida.
L’altro, contro ogni aspettativa, sorrise e chiamò un ragazzo che serviva nel locale con uno schiocco delle dita. 
« Un doppio rum! »
Lei con uno sbuffo fece per voltare i tacchi, ma Klaus la trattenne per un braccio. « Già vai via? Ti ho appena offerto da bene e così mi ripaghi? »
« Levami quelle luride mani di dosso » sibilò in risposta.
« Scusami » disse il ragazzo, ma senza ritirare la mano dal suo polso o tanto meno allentare la presa. « Non volevo macchiare la tua pelle immacolata. »
London, senza indugio, lo schiaffeggiò con la mano libera e si liberò della sua stretta. « Stronzo » aggiunse, mentre il ragazzo si tastava la guancia colpita. « Non hai niente di meglio da fare che perdere tempo a cercare di rovinarmi la vita? »
« In realtà no » ridacchiò il ragazzo. « Volevo solo essere gentile, my lady»
L’altra alzò gli occhi al cielo. « Io me ne vado. Buona serata, ok? »
« Che fai ora, te ne torni dall’Orologio? »
La ragazza si bloccò all’istante. Non lo sopportava quando chiamava suo fratello in quel modo*« Non sono cazzi tuoi, Wreisht – giusto per usare il tuo linguaggio. »
« Chiedo perdono, ma sfortunatamente lo sono » fece invece Klaus, retorico.
« Oh, non per mio volere di sicuro. » Era in quei momenti che London avrebbe desiderato essere la promessa di chiunque, meno che la sua.
« Parlami un po’ di lui... è bravo a letto o è un incapace come tutti dicono? » chiese il ragazzo, fintamente interessato.
A London iniziarono a prudere le mani. Klaus non  poteva permettersi di toccare certi tasti. 
« Klaus, faresti meglio a tacere. » Assottigliò gli occhi sino a farli diventare due lame minacciose.
« Ma come? Vuoi nasconderci dettagli così… piccanti»
Fu con quel commento che Klaus si ritrovò colpito da un secondo schiaffo. « Credevo che il primo ti sarebbe bastato » ringhiò la giovane.
L'altro si alzò dallo sgabello su cui era seduto. « Beh, probabilmente ti sbagliavi. » 
London si aspettava che reagisse in qualche modo e si preparò a un possibile contrattacco, ma quello che Klaus fece la lasciò senza parole e senza forza di pensare. Prima che potesse sottrarsi, prima che potesse fare qualsiasi cosa, le prese il viso con le mani e la baciò.
No!, protestò lei nella sua testa, totalmente scioccata, con gli occhi spalancati.
Klaus non poteva farle quello. Per un attimo rimase immobile, concentrandosi sul modo in cui l’avrebbe potuto respingere in modo violento. Sembrava che gli schiaffi fossero troppo blandi… magari una ginocchiata… un calcio…
Le sue labbra sapevano di alcool. Erano morbide, umide e indugiavano sulle proprie con una certa insistenza. E’ solo ubriaco, si disse, ma una vocina nella sua mente le ordinò di rispondere.
Incapace di opporre resistenza, rispose al bacio.
Forse per vedere cosa si provava. O forse perché dopotutto non era poi una sensazione così spiacevole.
Un secondo più tardi, tuttavia, entrambi si staccarono di scatto. Klaus aveva un’espressione brilla ma soddisfatta. 
« Sei così sobria » le disse.
« Mi fai così schifo… » ribatté lei, cercando di autocontrollarsi per non ucciderlo sul posto. Che diamine è successo?
« Non mi sembrava, fino a qualche istante fa » fece lui, arricciando le labbra.
La ragazza tentennò un secondo, del tutto disorientata. « Impressione. »
« Naturalmente. »
London si spazientì. « Stammi bene, Klaus. » Uscì dal locale, in fretta, con un sentore di rum sulla bocca e la rabbia a fior di pelle.
Si sfiorò le labbra con le dita, domandandosi come avesse anche solo potuto essere trascinata in una situazione del genere. Per tutto il tragitto che la condusse a casa, London pensò di aver commesso un passo falso, quella sera.


 

*

 

L’atrio del vecchio maniero era vuoto e buio. I suoi non erano ancora tornati.
London posò il suo cappotto nero su un appendiabiti e salì le scale con passo svelto, in cerca del fratello. Aveva bisogno di lui, in quel momento.

« Ben, sono tornata! » Non le rispose nessuno, così andò a controllare direttamente nella sua camera, al primo piano.
Le pareti di quella stanza erano di un gradevole azzurro chiaro, dipinte da Benjamin stesso quand’era ancora un ragazzino. Ben amava dipingere e possedeva anche un certo talento naturale. Talento che invece lei non aveva mai avuto. Non si premurò di bussare alla porta, con lui era abituata a condividere ogni cosa, del resto.

« Ben? »
Il ragazzo dai capelli bianchi dormiva supino sul letto, con un libro aperto appoggiato sulla pancia e degli occhiali da lettura scivolatigli sulla punta del naso. London sorrise a quella scena, addolcita, e per un istante dimenticò tutto quello che aveva passato in quella serata infernale. Si sedette accanto a lui, attenta a non farlo svegliare.
Prima gli tolse gli occhiali, che appoggiò sul comodino di mogano accanto al letto, poi prese ad accarezzargli dolcemente il profilo, i capelli e il collo.
Ben si destò, ma senza sussultare. 
« Ehi » disse con la voce un po’ impastata dal sonno. « Che ore sono? »
« L’una e mezza o le due, probabilmente » rispose la ragazza, continuando a far scorrere le dita sul viso del fratello. Era perfetto.
« Com’è andata? » chiese lui debolmente, prevedendo già una risposta.
« Secondo te? »
Ben non replicò, rilassato dal tocco della sorella.
« Al solito » disse London e al gemello bastarono quelle parole per intendere ogni cosa. Erano fatti così loro due, si capivano al volo, soprattutto quando si trattava del nervosismo della gemella nei confronti del suo promesso sposo.
« Avete deciso una data? »
« Non lo so... io e Klaus ce ne siamo andati prima del previsto. »
« Mamma e papà si sono arrabbiati? » domandò Ben.
« Forse » rispose lei. « Non lo so. »
Il ragazzo osservò l’amata sorella negli occhi. Vedeva bene che c’era qualcosa che l’aveva turbata. Aspettò che fosse lei a parlare per prima, ma, visto che non aggiunse niente, le chiese: « E poi, cos’è successo? »
London rispose sputando le parole come se non stesse aspettando altro. « Klaus mi ha baciata. »
Ben sussultò quasi in modo impercepibile. « ... come? »
« Era ubriaco, non lo so cosa gli passasse per la testa » fece a mo’ di spiegazione, tentando di giustificarsi. Vide che il gemello aveva leggermente increspato la fronte. Era un accenno di... panico?
« ... quel... quel ragazzo è imprevedibile » mormorò.
« No, quel ragazzo è uno stronzo » biascicò London, ricordando bene come l’aveva provocata prima di prenderle il viso e baciarla. Avrebbe voluto continuare a raccontargli com'erano andati i fatti, ma non riusciva a trovare le parole adatte. Come poteva spiegargli che per lei Klaus non era altro che un odioso fardello da portare sulla schiena, che non l'avrebbe mai amato né semplicemente sopportato?
« E tu... tu cos’hai fatto? »
La ragazza esitò per un istante. Non sapeva se dirgli la verità o meno, anche se voleva farlo con tutto il cuore. Decise che avrebbe capito, d'altronde non sarebbe riuscita a mentirgli in nessun caso. « Ho… risposto » disse flebilmente, quasi scioccata dalla sua stessa affermazione, e ritirò le mani candide dal viso del fratello, sentendosi in colpa.
Ben tacque, pur essendo ancora pallido, e poi si mise seduto accanto a lei. 
« Perché? » Non era una domanda accusatoria, stava solo cercando di comprendere meglio i sentimenti della sorella.
« Oh, non chiedermelo. Era ubriaco, te l’ho detto, e io... »
Il ragazzo non aggiunse altro, lasciandole un leggero bacio sulla spalla.
« Lo sai che ti amo, Ben. »
« Lo so. »
« Scusa. »
London posò le labbra su quelle del gemello, poi si stese sul letto sopra di lui, ma con delicatezza. Piccoli baci e tenerezza gratuita per compensare un senso di colpa immenso e indefinibile. Continuò ad accarezzarlo, anche mentre si aiutavano a vicenda a spogliarsi, come se volesse farsi perdonare per un grave crimine commesso, come se volesse fargli dimenticare il pensiero di Klaus che la baciava usando quelle carezze, quelle mani morbide e affusolate degne di un angelo. Mani che erano un'arma e uno scudo contemporaneamente.
Quella notte fecero l’amore, come molte altre notti, a dispetto di tutti quelli che li consideravano soltanto i nobili gemelli incestuosi del distretto. London e Ben erano molto di più: una sola persona, una sola identità.
E si amavano, sì. Nessuno sarebbe mai stato in grado di comprenderlo, interpretarlo o accettarlo. Eppure nessuno avrebbe potuto cambiare i loro sentimenti, nemmeno un qualche Wreisht di passaggio.



 
















*London e Benjamin hanno nomi che ricordano la capitale inglese. I genitori glieli hanno messi di proposito, visto che sono originari della Gran Bretagna (affondata, secondo la fantasia mia e di Marty, dopo un'altra o addirittura altre due guerre mondiali) - con, a loro volta, origini polacche e ungheresi; mentre i Wreisht sono originari della Germania. Insomma, non vi stupite: non credo che a Panem abitino solo ed esclusivamente americani.
Il sunto di tutto ciò, comunque, è che Klaus chiama Ben "Orologio" per via  del Big Ben. 






 

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Capitolo 3
*** 002. Second Chapter – Drifting into outer space. ***


Note: Ecco il capitolo due, con un bel po' (?) di novità.
Ammetto che è uno di quelli che mi piace di meno, ma mi rimetto al vostro giudizio. Credo che i prossimi siano decisamente migliori. Temo di star battendo il record degli aggiornamenti più veloci della storia D: Non abituatevici troppo.
Piccolo avviso per prepararvi psicologicamente: non cominciate a considerare solo Klaus/London e Ben/London come coppie, ecco. *si sente malvagia*
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da “X & Y” dei Coldplay (se ne consiglia vivamente l'ascolto!)

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(Tied to a Railroad)




 
 
002. Second Chapter – Drifting into outer space.


Il giorno della mietitura era sempre accolto con paura da tutti i cittadini. I più piccoli tremavano dal terrore, mentre i più grandi speravano di passarla liscia un altro anno. C’era poi quella ristretta categoria di persone che si preoccupava giusto il minimo indispensabile, non avendo la necessità di prendere delle tessere aggiuntive. E, ancora, quella piccola cerchia di persone che considerava quello della mietitura un giorno come un altro. Era il caso dei Bridge e dei Wreisht, naturalmente, così sicuri che i figli non sarebbero mai stati estratti.
London, però, quell’anno sperò in un miracolo. Non che volesse essere sorteggiata, chiaramente; non era certo come quelle favorite dei primi Distretti che sembravano voler accogliere la morte a braccia aperte, offrendosi addirittura volontarie. Desiderava ardentemente, piuttosto, che qualcuno in particolare fosse estratto come tributo maschile. Klaus.
Se il nome di Klaus fosse stato estratto, tutti i suoi problemi si sarebbero risolti, perché il ragazzo sarebbe di sicuro morto nell’arena. Non aveva un carattere ideale a conquistare sponsor, né delle particolari abilità, del resto.
Quella era la sua ultima occasione, perché ormai entrambi erano diciottenni. Si trattava, dunque, del loro ultimo anno.
Mentre si apprestava ad indossare un candido vestito bianco, come i suoi capelli, e si faceva aiutare da sua madre ad appuntarlo, incrociò le dita. Quei giovani tributi che venivano mandati al macello ogni anno non meritavano di morire più di Klaus. Anzi, lui avrebbe dovuto avere un posto speciale nella lista di un'ipotetica personificazione della morte.
Sospirò. Era pronta e raggiante, come sempre.

« Sei bellissima » le disse sua madre con un’espressione orgogliosa. « Un gioiello di figlia! » Le posò un bacio sulla guancia.
London sorrise. « Ben è pronto? »
« Sì, ti sta aspettando in giardino. »
« Allora ci vediamo più tardi » salutò la ragazza, scendendo le scale e raggiungendo il fratello.
Anche Ben indossava un vestito chiaro; insieme sembravano due fiocchi di neve nel posto sbagliato, data la mite giornata di fine maggio.
London gli strinse una mano e insieme s’incamminarono a passo tranquillo. Non si erano mai curati degli sguardi degli impiccioni. Erano liberi di fare quello che volevano, che agli altri piacesse o meno non importava. Potevano gridare all'incesto, all'abominio, ma nulla sarebbe mai cambiato tra loro due, nessuno avrebbe distrutto l'equilibrio perfetto che rappresentavano sin dalla nascita.
La piazza era gremita di persone e il palchetto per la capitolina era stato allestito di fronte a tutta quella gente come un avvertimento. Su di esso si stanziavano due enormi bocce, una contenente i biglietti con i nomi femminili e l’altra i nomi maschili.
Hanja, così si chiamava l’accompagnatrice di Capitol City, quell’anno aveva optato per un abito decisamente corto color verde mela, che spiccava in contrasto con il grigio perenne del Distretto.
London si guardò intorno, spostando gli occhi sulla folla di ragazzi tra i dodici e i diciotto anni, leggermente più inquieta rispetto agli altri anni. Come voleva la procedura, si separò dal fratello che le lasciò un leggero bacio sulla guancia così come aveva fatto sua madre prima di uscire e si fece pungere il dito dal solito Pacificatore scorbutico. Ormai non sentiva neanche più il dolore.
Si sistemò tra le sue coetanee, che come al solito la guardarono di sottecchi e con invidia – non solo dovuta alla sua leggiadra bellezza aristocratica. London era ricca, bella, carismatica e tutti al Distretto si erano fatti una certa idea sulla sua famiglia, oltre che sui Wreisht. A lei non era dato sapere che tipo di idea, ma dopotutto non le importava.
Hanja stava sproloquiando da un bel po’, mentre i due mentori se ne stavano seduti con espressioni serie sulle proprie poltrone, accanto a quella del sindaco. London si ricordava bene di Ludmille Schnee, la donna che aveva vinto a soli dodici anni. Per qualche strano motivo, sentiva di rispettarla; il suo sguardo austero e di ghiaccio incuteva una certa inquietudine a tutti.
Trasmisero il solito fasullo filmato sui Giorni Bui, dopodiché Hanja si sfregò le mani, impaziente di scoprire i tributi di quell’anno. Con quei trampoli che si ritrovava al posto delle scarpe zampettò per avvicinarsi ai biglietti delle ragazze, dove vi immerse una mano guantata.
Prese una sola strisciolina vergata in bella grafia e lesse con tono trepidante: 
« Ruthie Abberleen. »
Il cuore di London si rilassò. Non sono io.
Era finita, almeno per lei. Ora le toccava vedere cosa sarebbe successo con il tributo maschile. Un pensiero le attraversò la mente come una lama. Ben. Anche Ben poteva essere estratto.
Le mani cominciarono a sudarle e per un secondo impallidì, decisamente terrorizzata dalla possibilità che suo fratello finisse ai Giochi. Strinse i pugni e attese. Sul palco salì intanto una ragazzina dalla fila delle quattordicenni, impaurita e con il volto terreo.

« E ora veniamo ai nostri baldi giovani! » trillò la capitolina sorridendo a trentaquattro denti. Era giunto il momento, ora o mai più. Hanja mescolò le striscioline di carta con le dita e, infine, ne prese una sul fondo, estraendola vittoriosa.
La aprì lentamente.
Le mani di London ebbero un tremito.

« Oh, spero di leggerlo bene » biasciò l’accompagnatrice. « Klaus… Hector… Ludvig… Frantz… Vrist. »
La folla mormorò qualcosa e la ragazza ci mise qualche secondo a capire cosa fosse successo.
Non è possibile...
Un miracolo, il miracolo.
Non credeva a certe cose, ma quello sembrava un segno del destino, un triste scherzo del fato.
I ragazzi fecero spazio al neo tributo, spostandosi di lato. London poté finalmente di vedere il volto di Klaus e le sue aspettative non furono deluse. Era interdetto, vagamente confuso. Una voce gridò nella propria testa, forse con trionfo.
Il ragazzo, con le mani in tasca, si avviò verso il palco cercando di darsi un contegno, mentre tutti lo fissavano stupiti. Probabilmente l'intera popolazione del Distretto Sei non si sarebbe mai aspettata che proprio il figlio dei Wreisht sarebbe diventato il tributo di quell’anno.

« E’ Wreisht, puttana. »
Hanja gemette. « Come? »
« Wreisht » ripeté Klaus, evitando di calcare l’insulto per non essere fucilato in diretta nazionale. London notò che la stava guardando, con occhi pieni d’odio e rancore. Non seppe come reagire a quell'occhiata.
La voce nella sua testa diventò un lamento, fino a spegnersi quando i due tributi furono scortati nel Palazzo di Giustizia.
 

 

*



Klaus se ne stava scompostamente appollaiato su una poltrona di pelle rossa nella stanza del Palazzo di Giustizia in cui l’avevano praticamente gettato. Aveva la mente annebbiata, così tanto da non avere quasi la forza di pensare a nulla. Sarebbe morto?
Era questo il pensiero fisso che gli stava corrodendo il cervello. Klaus non ci aveva mai pensato prima, come non aveva mai pensato di poter finire agli Hunger Games, proprio il suo ultimo anno, per di più. Era stato come un violento tuffo nell’acqua fredda.
Non era spaventato – non tanto da ammetterlo a se stesso, almeno – ma scosso, confuso. Si domandava soltanto come fosse possibile. Klaus Wreisht aveva sempre fatto quello che più gli pareva e ora l’idea di essere buttato in un’arena come carne da macello lo innervosiva. Klaus non sottostava agli ordini di nessuno, o meglio non sottostava a nessuno e basta. Ma la consapevolezza di una quasi morte certa lo stava turbando nel profondo e per un secondo gli attraversò la mente la possibilità di star vivendo gli ultimi istanti della sua vita.
A distoglierlo dai suoi pensieri entrò un Pacificatore. 
« Hai visite » gli disse in tono incolore.
Klaus roteò gli occhi. Ora avrebbe dovuto sopportare le chiacchiere dei suoi genitori finché il tempo a disposizione per gli ultimi saluti non si sarebbe esaurito. Non era un buon modo per cominciare i suoi Hunger Games, decisamente.
A entrare nella stanza, tuttavia, non furono Frantz e Shyvonne, bensì l’ultima persona che avrebbe desiderato vedere prima di andare al patibolo.
London entrò con le braccia incrociate e un’espressione indecifrabile dipinta sul viso delicato. Sembrava divertita, ma anche crucciata.

« Sei venuta a rompermi le palle anche qui? » le domandò Klaus alzando un sopracciglio.
La ragazza sbuffò. 
« Sono solo venuta a dirti addio. Dovresti ringraziarmi. »
«
 Oh, certo » biascicò l’altro. « Morivo dalla voglia di vederti, sul serio. »
London si mise le mani sui fianchi. « Apprezza, perché saranno le ultime parole che sentirai da parte mia prima di morire. »
« Come fai ad essere così sicura che non tornerò indietro? »
Lei fece un piccolo ghigno nervoso. « Nessuno ti sponsorizzerà mai, mio odiato»
Klaus si alzò dalla poltrona, comprendendo che non sarebbe riuscito a rispondere alle sue provocazioni con il sarcasmo di sempre. Non quella volta, non in quella situazione. « Non puoi dirlo. »
« Posso, invece » ribattè l’altra, non ancora capace di arrendersi. « Ti conosco. »
Il ragazzo le si avvicinò, più serio di quanto fosse mai stato. « Perfetto, mi hai detto addio. Ora vattene. »
« Me ne andrò quando sarà scaduto il tempo. »
« E nel frattempo hai intenzione di rimanere ad insultarmi finché non rientra quel Pacificatore? »
London fece un sorrisetto furbo. « Può darsi. »
Klaus la prese per un braccio. « Esci. » Il suo tono non era stato mai così minaccioso fino ad allora.
« Altrimenti? » Il ragazzo strinse la presa, ma London si liberò facilmente e, vedendo che lui esitava a rispondere, gli sussurrò all’orecchio: « Lo so che non vedevi l’ora di salutarmi, Klaus. »
« Cosa te lo fa pensare? » sibilò Klaus a una spanna dal volto aristocratico di lei.
« Insomma, non mi hai baciata per nulla l’altra volta, no? » London lo vide irrigidirsi. 
« Come? »
La ragazza sorrise divertita. « Ah! Davvero non ricordi? »
« Quando è successo? » chiese, corrucciando lo sguardo.
« A novembre, dopo la cena di fidanzamento. »
« Non ricordo di averti baciata, stupida puttana. »
« Ovvio, eri ubriaco. »
Il ragazzo si girò, dandole le spalle. « La mia testa deve aver rimosso una cosa tanto inutile, ti pare? »
« Certamente. » London girò in tondo, parandoglisi di nuovo di fronte.
Klaus la fissò con la fronte corrugata. Probabilmente si stava chiedendo come avesse potuto fare una cosa del genere. Ci fu qualche istante di silenzio, dopodiché lo stesso Pacificatore di prima riaprì la porta. 
« Tempo » annunciò, invitando la ragazza a congedarsi.
London, inaspettatamente e contro la sua stessa volontà, si sporse giusto quel poco che bastava per far combaciare una seconda volta le sue labbra con quelle di Klaus. Fu un bacio diverso, veloce e inatteso per entrambi.

« Muori bene, d’accordo? » gli disse tentennando, prima di uscire, con la stessa espressione spenta con cui era entrata.
Non si era accorta che suo fratello Ben, proprio fuori la porta, aveva visto quella scena impallidendo.

Uscita London, Klaus si sfiorò le labbra con una mano.
Non poteva essere accaduto. Loro si odiavano, tutti l’avevano sempre saputo. Perché smentire una cosa del genere, ora? Diede un calcio alla poltrona, sfogando la sua rabbia. 
Era colpa di London. Tutto era colpa di London. Klaus si trovava in catene per colpa sua; ogni cosa che faceva riguardava indirettamente anche lei. Di conseguenza, quegli Hunger Games sarebbero stati una fortuna per la giovane erede dei Bridge. In un solo colpo si sarebbe liberata della persona che odiava di più al mondo. Che botta di culo, pensò Klaus, prima di veder entrare la seconda persona che meno si sarebbe aspettato di vedere.
Il Pacificatore chiuse la porta, dopo aver introdotto un Benjamin dal viso cupo. Se ne stava con le braccia lungo i fianchi di fronte a lui, attendendo che l’oggetto della sua visita parlasse per primo.

« Anche tu. » Era una constatazione dal tono infastidito.
« Già » gli fece eco Ben. « Anche io. »
« Dunque » cominciò Klaus, « preferisci augurarmi una morte lenta e atroce oppure una fine veloce e serena? A te la scelta. »
« Per me fa lo stesso » disse l’altro. « Non mi importa il modo in cui morirai. »
« Apprezzo la sincerità » lo schernì il giovane Wreisht.
« Klaus... non sono venuto qui per salutarti. »
« E per quale motivo, allora? » domandò lui. « Per venire a ricordarmi le nostre passate… incomprensioni»
Aveva usato un tono irrisorio, come al solito, ma Ben capì al volo di quali incomprensioni stesse parlando. Impallidì di colpo, dopodiché arrossì. « Ti ho già detto che quella volta- »
« Sì, sì » lo liquidò il moro. « Era la tua prima sbornia, avevi litigato con London… ricordo. » Klaus fece un sorrisetto sarcastico. « Ricordo bene. »
Ben sembrò diventare di fuoco, febbricitante, un po’ per la rabbia e un po’ per il ricordo di quella notte limpida di luglio, rimasta segretamente custodita solo da loro due. Nel Distretto Sei sarebbe stato un bello scandalo venire a sapere che Benjamin Bridge era stato a letto con il promesso di sua sorella, che inoltre sosteneva di amare più di se stesso. Incestuoso e sodomita, l'avrebbero chiamato. Nessuno avrebbe dovuto saperlo.
Affari di famiglia, potevano definirsi.
O meglio, affari di famiglia che dovevano rimanere tali.
Ben decise che ignorare quella parentesi sarebbe stato più producente, o il tempo a disposizione sarebbe finito. Stese un velo sul discorso che, lo sapevano entrambi, sarebbe rimasto irrisolto probabilmente per sempre. 
« Comunque, volevo soltanto chiederti una cosa. »
Klaus incrociò le braccia. « Sono tutt’orecchi. »
« Ecco, ascolta bene e rispondimi sinceramente » fece Ben, serio. « Tu odi davvero London? … oppure la ami»
L’altro sembrò assorbire quelle parole, rimanendo interdetto. Dopodiché, scoppiò a ridere aspramente.
« Devo saperlo! » protestò il ragazzo.
« Certo che la odio » rispose Klaus con tono ovvio. « Avevi dubbi sulla cosa? »
Ben alzò un sopracciglio, replicando velocemente, come se stesse aspettando di fargli quella domanda con impazienza: « Allora perché l’hai baciata? »
Questa volta il moro sulle prime non seppe rispondere. Doveva dedurre che London gli avesse parlato della famigerata cena di fidanzamento, oppure li aveva visti qualche istante prima, quando il Pacificatore aveva aperto la porta? Puntò sulla seconda opzione.
« E’ stata lei a baciarmi » ribatté con un ghigno, riuscendo a recuperare parzialmente la propria ironia. « Probabilmente dopo anni di resistenza si è accorta del mio fascino irrestistibile. »
« Piantala » disse Ben, esasperato. « Dimmi la verità, se ne sei capace. »
Klaus ripeté, cercando di apparire più serio: « E’ stata lei. »
« Non ti credo. »
« Come vuoi. Non credermi. Cosa vuoi che ti dica? »
« Perché sei così odiosamente falso, Klaus? » chiese l’altro con tono pungente ma anche arrabbiato.
Il moro corrugò la fronte. 
« Per quanto tu possa sostenerla, la tua amata sorellina non è una santa. Chiedilo a lei, magari saprà darti qualche altro dettaglio. »
Ben avrebbe tanto voluto replicare, ma non trovò le parole adatte. E se quello che Klaus stava dicendo fosse stato vero? Il ragazzo non aveva mai dubitato di London, ma di fronte alla scena di poco prima qualcosa lo aveva turbato. Si disse che stava cercando di buttare fango su sua sorella, come al solito, eppure la cosa gli suonò stonata. « London non lo farebbe mai. »
« Ah, sì? » fece retoricamente l’altro. « Ti fidi così ciecamente di lei? »
« Sì. »
« Fantastico, allora tante buone cose » disse Klaus, dandogli una sarcastica pacca sulla spalla.
Ben gli avrebbe volentieri dato un pugno in pieno viso, ma fu fermato dal Pacificatore che entrò chiamando il tempo. 
« Sai una cosa, Klaus? Anche io ti odio » gli disse con un'occhiata di frustrazione.
« Meraviglioso » ribatté semplicemente, scocciato. Lo guardò uscire a passo sostenuto, chiedendosi se ne avrebbe parlato con la gemella.
E quando la porta si chiuse, Klaus si rese conto che probabilmente quella era stata l’ultima volta che avrebbe visto i fratelli Bridge, parte integrante della sua vita e causa di tutti i suoi problemi.
Gli fece uno strano effetto.

E, infine, arrivarono i signori Wreisht.
Quando Klaus li vide entrare, non ebbe neanche il tempo di reagire che sua madre gli buttò le braccia al collo, scossa dai singhiozzi, sussurrando ripetutamente parole senza senso. Frantz, dietro di lei, indossava la solita maschera di ferro, leggermente incrinata dalla situazione.
Il ragazzo non aveva mai sopportato le dimostrazioni d’affetto, quindi si liberò di Shyvonne in men che non si dica. 
« N-non… non avremmo mai… » biascicò sua madre, « immaginato… una cosa del genere… »
Klaus strinse i pugni. « Lo so. »
« Ho parlato con il sindaco » disse il padre. « Ha detto che non può farci nulla. »
Il ragazzo avrebbe tanto voluto replicare che era ovvio, ma provò ad apprezzare il tentativo dei suoi di corrompere le autorità per evitargli la morte.
« Tu non morirai, Klaus » mormorò Shyvonne, più a se stessa che al figlio, ma Klaus non aveva più voglia di rispondere, per cui si sedette nuovamente sulla poltrona e provò ad ignorarli.
Ci furono istanti di pesante silenzio, dopodiché Frantz disse con tono duro: 
« Tu devi vincere. » Qualcun altro al posto dell’erede dei Wreisht avrebbe gradito quell’incoraggiamento, se d’un incoraggiamento si fosse trattato. Klaus lo vide per quello che era: un ordine, come tutte le cose che suo padre gli diceva.
« Ma certo » fece il ragazzo con ironia. « Vado a farmi una scampagnata e torno. »
Il cipiglio solitamente serio di Frantz s’indurì più del dovuto. « Preferisci essere ammazzato da qualche stupido favorito? »
« Farò di tutto pur di vincere » ribatté Klaus, « ma di sicuro non se me lo comandi tu. »
Shyvonne gemette, il marito fissò il figlio negli occhi. 
« Devi tornare in tempo per sposarti. »
Klaus roteò gli occhi e sbuffò. « Ah, è per questo allora che non mi vuoi morto? »
« Non parlare a tuo padre così » disse la donna, ma fu ignorata bellamente da entrambi.
« Devi vincere, o la nostra famiglia andrà in rovina » fece Frantz alzando il tono di voce.
« Sai quanto mi importa… »
« Deve importarti! » gridò l’altro. « Sei l’unico Wreisht in dodici generazioni che si ostina a non collaborare! »
Klaus si alzò per la seconda volta, fronteggiando l’uomo. « Mi pare ovvio, con un padre come te anche i pezzenti inorridirebbero. »
Frantz gli diede uno schiaffo, in preda alla rabbia, ma lui non si arrese e si slacciò l'orologio di famiglia, unico cimelio che avrebbe potuto portare con sé a Capitol City, per poi scagliarlo contro il muro. « Vincerò, ma state certi che non mi rivedrete mai più! »
A interromperli entrò il Pacificatore, annunciando la fine delle visite. Shyvonne provò ad abbracciare di nuovo il figlio, ma Klaus si scostò bruscamente da lei. « Andatevene! » urlò.
Frantz non seppe dire o fare altro che guardarlo
 con rancore, dopodiché uscì scortato dalla moglie.
Baciato dalla sua peggior nemica, sfottuto dal fratello di questa e schiaffeggiato da suo padre. Quelle visite erano state inutili come aveva previsto.
Si passò una mano sul viso e tra i capelli scuri, ebbe giusto il tempo di realizzare cosa stesse accadendo che fu trascinato fino alla stazione, dove già una decina di cameramen lo inquadravano ripetutamente. 
In catene, di nuovo.
Klaus Wreisht salì sul treno senza guardare nessuno in faccia, eppure senza rimpianti e senza rimorsi.
Gettato nello spazio, alla deriva.
Mentre la locomotiva cominciava a prendere velocità, diede un ultimo sguardo complessivo al Distretto Sei. Stava lasciando la sua vita, ma non gli importava più di nulla. Da quel momento in poi ci sarebbero stati soltanto lui e i Giochi.
E che gli Hunger Games abbiano inizio, Klaus Wreisht.








 
 
 

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Capitolo 4
*** 003. Third Chapter – Hello cold world. ***


Note: *silenzio tombale*
*saluta con la manina*
Eh già, sono ancora qua. Purtroppo (y) 
Che dire? Ho saltato giorni e giorni di Hunger Games, senza contare sfilata, interviste eccetera. Sono un essere spregevole, me ne rendo conto, ma gli Hunger Games di Klaus mi servivano per una cosa ben precisa, che, sì, verrà chiarita più avanti. Giuro.
Riflettendoci neanche questo capitolo mi piace molto, ma, che ci volete fare... Ivola: un nome, ma non una garanzia.
Buona lettura lo stesso! (e attenzione agli istinti omicidi di Londie)


Il titolo del capitolo viene dall'omonima canzone "Hello Cold World" dei Paramore.

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(Tied to a Railroad)




 
 
003. Third Chapter – Hello cold world.




La stanza era buia.
Solo un leggero bagliore illuminava il salotto al pianterreno del maniero dei Bridge, la luce della televisione. Dovevano essere all’incirca le tre del mattino e probabilmente la figura semi-dormiente stesa sul divano non ne era neanche a conoscenza.
London, nel suo pigiama di cotone, era rannicchiata sotto una coperta e combatteva per tenere gli occhi aperti.
Erano rimaste solo tre persone nell’arena. Quasi di sicuro gli Hunger Games sarebbero finiti quella notte. London doveva sapere.
Proprio in quel momento una telecamera inquadrò Klaus Wreisht, tributo del Distretto Sei, ugualmente rannicchiato sotto un’alta quercia.
Aveva la maglia data in dotazione squarciata e la caviglia ferita; al suo fianco pendeva una spada insanguinata.
Forse il ragazzo stava cercando di riposare, ma non ci sarebbe mai riuscito. Mentre socchiudeva appena gli occhi, si udì l’inquietante sparo di un cannone. Il ragazzo spalancò di nuovo le iridi scure, alzandosi in piedi in fretta anche se con difficoltà.
London sobbalzò. Mancava poco.
Fece un rapido calcolo mentale: nonostante le sue aspettative lo dessero per spacciato, Klaus era sopravvissuto per due intere settimane e ora solo un tributo lo separava dalla vittoria, il ragazzo del Distretto Due, del quale non ricordava neanche il nome.
La foresta di latifoglie era inquietante anche solo se vista in televisione. Piena di fruscii, spifferi e lugubri creature. La ragazza vide il suo compagno di Distretto trascinarsi tra gli alberi dall’aspetto secolare, zoppicando lievemente.
Non sembrava debole, ma semplicemente stanco. Forse anche nella sua testa aleggiava il fatidico pensiero “Ora o mai più”.
Vivo o morto.
London si mise a sedere in una posizione più comoda, improvvisamente sveglia del tutto. Ancora non si capacitava del fatto che probabilmente la dipartita di Klaus avrebbe risolto tutti i suoi problemi, così si limitava a sperare di vederlo crepare in fretta.
Non sapeva se avrebbe sopportato la visione della sua morte. Insomma, quel ragazzo era stato comunque una – seppur spiacevole – parte integrante della sua vita.
Klaus s’inerpicò per un pendio, tenendo stretta la spada nella mano sinistra, unica sua possibilità di sopravvivenza. Il giorno prima aveva finito le provviste e ora acqua e cibo erano solo un gradevole ricordo sfocato.  
London non sapeva dove stesse andando, né ne aveva la più pallida idea. Poi capì. Da quell’altura il ragazzo avrebbe potuto individuare l’altro tributo, per poi affrontarlo.
Lo conosceva, non si sarebbe tirato in dietro, nonostante la ferita al petto e alla caviglia. Aveva seguito quell’edizione con accanimento ed era rimasta stupita di come Klaus avesse ammazzato per tutta la durata dei giochi solo due tributi a sangue freddo. Se l’era immaginato più sanguinario, doveva ammetterlo.
La sua compagna di Distretto era morta alla Cornucopia, poi i restanti tributi uno dietro l’altro, come bambole di pezza. London ammise, anche se con risentimento, che Klaus se l’era cavata abbastanza bene, aiutato persino da una discreta dose di sponsor, usciti da chissà dove.
Devono avere un bel fegato per sponsorizzare un idiota del genere, pensò con un piccolo ghigno, che le morì sulle labbra non appena le telecamere inquadrarono il favorito del Distretto Due, ancora sano tranne che per un taglio sulla fronte.
La ragazza, dal suo comodo divano, si rese conto che le possibilità di vittoria di Klaus stavano drasticamente calando. Il suo avversario sembrava bene in forze.
Non seppe se sentirsi felice o meno della cosa.
Il tributo senza nome s’inerpicò per lo stesso tratto di Klaus, individuandolo da lontano. L’altro tentò di preparare un attacco, anche se invano.
Il maschio del Due raggiunse il suo sfidante in fretta, desideroso di porre fine ai giochi. Klaus fu in grado di alzare appena la spada, che quello lo attaccò dall’alto con la sua ascia. Il ragazzo a stento parò il colpo, facendo cozzare violentemente le lame e digrignando i denti.
Sembrava sfinito, anche se lo scontro era appena iniziato.

« Hai detto addio a tutti i tuoi cari, Distretto Sei? » lo prese in giro il tributo.
Klaus fece un mezzo sorriso ermetico. 
« Oh, sì. » Poi fece un affondo, che non andò completamente a vuoto, ferendo di striscio la gamba dell’avversario.
L’altro non si scompose. Era allenato per quello, dopotutto. 
« Dì le tue ultime preghiere » disse con cattiveria, alzando di nuovo l’ascia.
Fu in quel momento che Klaus reagì di scatto, fidandosi della propria velocità e del proprio istinto, abbassandosi prima in ginocchio e piantando con un movimento repentino la spada nel ventre del ragazzo, che fu trapassato da parte a parte.
L’ascia calò comunque e gli colpì la spalla, piantandosi nella carne.
Il giovane Wreisht lanciò un urlo e rotolò di lato con un'espressione di evidente sofferenza. Fu talmente accecato dal dolore che non sentì neanche lo sparo di cannone, l'ultimo.
London, invece, si alzò di scatto dal divano, lasciando cadere senza tante cerimonie la coperta che aveva sulle gambe.


« Ben! » gridò, salendo di corsa le scale. « Ben! »
Entrò nella stanza del gemello rumorosamente, spalancando la porta e precipitandosi sul corpo addormentato di lui. Lo iniziò a scuotere, al che Benjamin si alzò a sedere spaventato, credendo chissà cosa fosse successo.
« Cos’è successo? » ansimò il ragazzo, ancora confuso e stordito.
London lo fissava con occhi spalancati.

« London, cosa diavolo è successo? »
« Ha vinto » rispose flebilmente, ma bastò quello per far calare il silenzio. Il fratello spalancò ugualmente gli occhi. « Klaus ha vinto. »
 

*



Klaus si passò una mano tra i capelli gellati, infastidito da come lo avevano impacchettato e spedito di nuovo a Capitol City in meno di tre giorni.
La sua mentore gli aveva detto che i capitolini morivano dalla voglia di ascoltare ciò che aveva da dire.
Niente. Klaus non aveva da dire niente. Se non si contavano tutti gli insulti coloriti che biascicava ogni qual volta che qualcuno lo avvicinava. Aveva vinto, certo, ma per lui era ancora tutto sfocato. Si sentiva sbattuto da un lato all’altro della città senza capire cosa stesse succedendo davvero. In balia del vento.
Non aveva avuto neanche tempo di riflettere, un attimo per stare in pace con se stesso.
Nulla, solo vuoto.
Un tecnico lo spinse con decisione sul palco e lui per poco non barcollò.

« Klaus! » lo salutò gioviale Caesar Flickerman. « Vieni, accomodati! »
Il ragazzo non potè fare a meno che sedersi sulla poltrona bianca accanto a lui, dopo aver ricevuto diverse amichevoli pacche sulle spalle.
« Allora » cominciò l’uomo dai capelli rosa, sfregandosi le mani. « Hai vinto, questo è un dato di fatto. »
« Ma davvero? » disse Klaus, sarcastico, anche se chiunque avrebbe potuto notare che, benché il tono fosse palesemente irrisorio, sul suo volto non c’era la minima traccia di ironia. Solo una cupa espressione a tratti confusa.
Qualche spettatore rise, ma Caesar riprese subito: 
« Come ti senti? »
« Non lo so » rispose il ragazzo, sbrigativo. Non voleva indugiare su domande del genere, anche se temeva che alla fine tutta quella farsa sarebbe risultata come un vero e proprio interrogatorio.
« Insomma, cosa hai provato quando hai vinto? » insistette il presentatore.
« Dolore » ribatté lui. « Quello del Due mi ha conficcato un’ascia nella spalla, se ben ricordi, Caesar. »
Il conduttore ridacchiò, come se quella fosse stata una battuta. « Oltre a quello? Euforia? Tristezza? Paura, perché no? »
« Nulla » disse Klaus. « Vuoto. »
Il pubblico si zittì. Caesar fissò negli occhi il ragazzo, cercando di capire se stesse dicendo la verità o meno. Sembrava sincero.
« Vuoto? » ripeté, stranito. « Sei singolare, ragazzo. Nessun vincitore ha mai affermato una cosa del genere. »
« Sono unico nella mia specie » provò a ironizzare il più giovane.
Il clima iniziale si instaurò nuovamente nello studio, mentre l’intervista procedeva con lo stesso ritmo titubante. Klaus a tratti collaborava, a tratti risultava distaccato e freddo, più del solito.

« Dunque » fece Caesar, come a voler trovare un pretesto per fargli quella domanda. «A chi dedichi la tua vittoria? »
Klaus, per la prima volta in tutta la serata, sorrise in modo obliquo. « A quella puttana della mia futura moglie. »
 
 

*

 

Pioveva.
London aveva sempre amato la pioggia, ma in quel giorno non riusciva a vedere niente di positivo. La folla era radunata in piazza esattamente come alla mietitura, ma stavolta non c’era nessuna capitolina a sproloquiare su uno stupido palchetto.
Silenzio.
Nella piazza principale del Distretto Sei c’era solo silenzio. Così tanto da entrare nelle orecchie, nella testa, nella gola, nel cuore. L’unica compagnia era rappresentata dal ticchettare della pioggia sugli ombrelli.
London strinse la mano di Ben e lo guardò di sottecchi, mentre gli occhi del ragazzo erano altrove, dritti di fronte a sé. La ragazza forse riusciva a capire a cosa stesse pensando, perché lo stava pensando anche lei.
Erano gemelli, d’altronde. Uniti.
Anche se ben presto sarebbero stati separati da ciò da cui lei stava cercando di fuggire da sempre: quel maledetto matrimonio.
In quel momento aveva davvero voglia di essere stata nell’arena con Klaus per averlo ucciso con le proprie mani.
Strangolato.
Trapassato.
Sgozzato.
Torturato.

Non potè continuare la sua lista di possibili pene da infliggere al suo futuro marito, che la folla si riscosse, vedendo arrivare un’automobile da una strada secondaria, quella che portava alla stazione. Quando la porta anteriore si aprì, un’ovazione esplose nella piazza e molti ombrelli furono gettati per aria.
Klaus, benché quell’improvviso tumulto assomigliasse più a un boato che a una serie di applausi, non si scompose e scese velocemente dall’auto, scortato da un Pacificatore in borghese.
London represse un urlo di frustrazione. Vederlo lì, davanti a sé – e non semplicemente dallo schermo di un televisore – le fece ricomparire tutti gli istinti omicidi che aveva cercato di trattenere. Strinse più saldamente la mano di suo fratello, al che lui si voltò e le fece un mesto sorriso.

« Andrà tutto bene » le sussurrò piano Ben, ricambiando la stretta.
London provò a crederci, sebbene le risultasse estremamente difficile.
Klaus passò accanto ai suoi genitori senza neanche degnarli di una misera occhiata e, prima di allontanarsi ed entrare nel Palazzo di Giustizia, si voltò cercando il suo sguardo.
Gli occhi grigioverdi di London persero tutta la rabbia quando si riversarono in quelli del ragazzo, che erano spenti, quasi senza vita.
Klaus le mimò qualcosa con le labbra, qualcosa che somigliava tanto a: 
« Dammi il bentornato, Londie. »

London, qualche istante dopo, si aprì un varco tra la folla e quasi iniziò a correre.
Era combattuta tra l’istinto di ammazzarlo davanti a tutti per non essere crepato nell’arena come avrebbe dovuto e la voglia di apparire calma, tranquilla e distaccata solo per fargli perdere le staffe.
Raggiunse il Palazzo di Giustizia ad ampie falcate, superando la gente che le capitava davanti con distratti
« Permesso » di pura cortesia. Sembrava che almeno metà distretto si fosse recata lì per complimentarsi con il neo vincitore, ma London sperò di avere qualche priorità.
Sono la sua promessa o no?, si disse ironica, scavalcando qualche altro ragazzino.
Aveva bisogno di vederlo. Magari di schiaffeggiarlo, prenderlo a parole, urlargli contro o cos’altro, ma doveva vederlo.
Individuò immediatamente Frantz e Shyvonne Wreisht, intenti a conversare con il sindaco e chiese di entrare con loro nel Palazzo.
Quando la donna la vide, si aprì in un ampio sorriso. 
« London, cara! » la salutò gioviale. « Vieni, vieni con noi. » La prese per mano e la scortò all’interno.
La ragazza, improvvisamente, si sentì incredibilmente a disagio – cosa che le capitava di rado, tra l’altro. Sapeva che Shyvonne sperasse ancora di veder il suo adorato figliolo felice di sposarsi con lei, ma era ovvio che una cosa del genere non sarebbe accaduta mai e poi mai.
I tre furono accompagnati in un’ampia sala da cerimonia, occupata unicamente dal vincitore di quell’anno, che, nel vederli entrare, fece una strana smorfia di disappunto.
Sua madre gli gettò le braccia al collo, singhiozzando come una bambina, mentre suo padre gli passò un braccio dietro le spalle.
Klaus se li scrollò di dosso entrambi con un’espressione infastidita.
Parlottarono sottovoce per qualche istante, come se London fosse stata un quarto incomodo e, poi, quando tutti e tre si voltarono verso di lei, Frantz disse: 
« Ecco, adesso vi lasciamo soli così potrete discuterne. »
Qualche secondo più tardi, come annunciato dal signor Wreisht, rimasero soli.
Si squadrarono per qualche istante.

« Avresti mai pensato che ci saremmo rivisti? » domandò Klaus con quel sorriso sghembo che ormai gli compariva solo in sua presenza.
« Purtroppo no, bastardo » rispose London calcando il tono sull’insulto. « Perché sei ancora vivo, fottuto imbecille? »
L’altro ridacchiò. « Mi sei mancata. »
London con rapidità si parò di fronte a lui, pronta a colpirlo sia fisicamente che verbalmente, come facevano ai vecchi tempi, ma qualcosa la bloccò. Notò di nuovo il suo sguardo, così sfuggente e incupito come non l’aveva mai visto.
Klaus ritornò serio e andò a sedersi sulla prima poltrona di pelle che individuò.
Altro lungo, pesante silenzio.

« Tre giorni » disse poi London sottovoce, abbassando la testa.
« Cosa? »
« Tra tre giorni ci sposiamo. »
Lui si prese la testa tra le mani, come se avesse avuto un’improvvisa emicrania. « Non m’importa! » gridò, facendola sobbalzare. « Non m’importa più di un cazzo, lo capisci? »
London lo fissò, sorpresa dal suo sfogo.
« Io ho visto la gente morire, là dentro! » sputò con cattiveria e risentimento. « Uno stupido matrimonio con una stupida puttana non cambierà niente, adesso! »
Si alzò dalla poltrona e la prese per un polso.
« Tu, piuttosto, sei entusiasta di sposare un uomo che viene perseguitato dagli incubi e dai fantasmi delle persone che ha ucciso? » chiese, abbassando il tono.
La ragazza non seppe cosa rispondere e si limitò a guardarlo negli occhi.

« Perfetto, allora va’ a farti fottere. » London si liberò della sua presa. « E porta con te quel santo del tuo fratellino » aggiunse lui, prima di essere sovrastato dal corpo della ragazza, che gli saltò addosso dopo quella provocazione.

Klaus si ritrovò steso sul pavimento, dopo aver sbattuto leggermente la testa, nella quale rimbombavano le urla della ragazza che gli stava tempestando il petto e il viso di pugni.

« Perché non sei morto? » girdò London ferocemente, ancora, prendendolo per la collottola. La sua voce era incrinata, sembrava fuori di sé dalla rabbia.
London Bridge non piangeva mai – ma proprio mai –, anche se in quel momento ne sarebbe stata capace.
Frustrazione. Questo c’era nel suo tono amareggiato e iracondo al contempo.

« Saresti dovuto morire » disse, abbassando di nuovo la voce e poggiando la testa sul petto di lui, come se fosse stata troppo stanca per continuare.
Klaus rimase immobile, ancora intontito dalla botta che aveva preso. 
« L’avrei preferito » ribatté debolmente, con un amaro sorisetto.
London non rispose, affondando ancora di più il viso nel petto di Klaus. Il ragazzo le cinse la schiena con un braccio, incerto, e poi le diede dei piccoli colpetti su una spalla, evidentemente meno sarcastici di quello che voleva far pensare.
Sembrava che fosse stata lei ad essere tornata dai Giochi, per quanto sembrasse affranta.

« Su, coraggio » fece Klaus palesemente ironico. « Va tutto a meraviglia. »
London, alle parole dell’altro, sembrò ridestarsi dalla sua trance e gli diede un altro pugno all’addome, seppur più leggero degli altri.
« Vai tu a farti fottere, Klaus » disse, alzandosi, indecisa se dargli un calcio o meno. Preferì ricomporsi e si aggiustò una ciocca di capelli sfuggitale dalla pratica coda di cavallo che aveva adottato.
Inspirò, pronta a uscire dalla stanza con un minimo di contegno.
Klaus si alzò a sedere sul pavimento, massaggiandosi le tempie. Poi, prima che lei abbandonasse definitivamente la sala, la salutò. 
« Ci vediamo all’altare. »
London si voltò un’ultima volta, replicando con un’espressione disgustata: « Contaci. »
 











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Capitolo 5
*** 004. Fourth Chapter – Lost the battle. ***


Note: Ed ecco a voi il vero inizio di tutto *risata malefica*
Già, benvenuti nel magico mondo di Ivola.
Ok, la cosa che preferisco di più di questo capitolo sono i flashbacks (specialmente quello BenAus). Il resto... bao. (E' colpa di Mito se adesso 'bao' è diventata ufficialmente una parola del mio dizionario!)
Tornando alle cose serie, non so che dire. Grazie alle 10 persone che hanno messo la storia tra le seguite *o* E anche a quelle povere anime che recensiscono, siete un amore ♥ 
Per la formula del matrimonio mi sono chiaramente ispirata a quella che noi tutti conosciamo, anche se ho cambiato qualcosina. Mi piace pensare che sia rimasta intatta nonostante gli abitanti di Panem - per la maggior parte, presumo - non siano più credenti. Questa è la mia visione delle cose.
Anche il fatto che Londie indossi un abito bianco potrebbe non entrarci molto nell'ambientazione, in effetti, ma ho preferito mantenere la tradizione, anche perché non vedo persona migliore di lei per indossare qualcosa, appunto, di bianco. 
Non voglio divagare, spero solo che questo quarto capitolo vi piaccia (il prossimo è il mio preferito tra quelli che ho scritto finora, gh).
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Now" dei Paramore.

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∞ 
(Tied to a Railroad)




 
 
004. Fourth Chapter – Lost the battle.




London era sempre stata bella. Bella come un fiore in primavera, bella come un raggio di sole dopo la pioggia, bella come una goccia di speranza in un mare di disperazione.
Eppure, indossando l’abito da sposa di sua madre, rimase folgorata dalla figura candida che ricambiava il suo sguardo sconcertato nello specchio. Era raggiante, in quel mare di bianco puro. Immacolata. Tuttavia non riusciva a liberarsi di quel peso sullo stomaco che sembrava scavare dentro di lei come una vanga.
Non aveva toccato cibo, né parlato molto.
Erzsébet, dietro di lei ad aggiustarle la semplice acconciatura, le sorrise comprensiva.

« E’ normale che tu sia nervosa, tesoro » le disse, accarezzandole piano le spalle.
London la guardò dallo specchio in tralice. Nervosa? Lei non era nervosa; solo leggermente incazzata. C’era una bella differenza.

« Mamma » fece London, piano, per evitare eccessivi sbalzi d’umore che le avrebbero rovinato il portamento, « non sono nervosa. Prima finisce tutta questa farsa, meglio è. »
Falso. La ragazza avrebbe voluto rimandare il matrimonio in eterno, ma ormai era giunto il fatidico giorno ed era impossibile evitarlo.
La signora Bridge fece una mesta espressione. 
« Sono sicura che Klaus sarà un buon marito. »
A London quasi venne da ridere. « Chi, Klaus? Stiamo parlando della stessa persona? »
« Non fare così » disse, rattristita. « Vedrai che anche tu riuscirai ad essere felice. »
La ragazza, come in un lampo, si ricordò le parole di suo fratello della sera precedente.

Era una notte fredda e buia, ma i due ragazzi, stesi l’uno accanto all’altra sul letto dell’acogliente stanza dalle pareti azzurre di Ben, non vi stavano badando neanche lontanamente. Erano nudi, coperti solo da un leggero lenzuolo di seta e guardavano il soffitto entrambi con aria pensosa.

« Domani è il grande giorno » disse lui, rompendo il dolce silenzio che si era creato.
London si passò una mano sul viso. 
« Me l’avranno detto già una quarantina di persone, oggi. »
« Scusa » fece Ben, con un sorriso amaro.
« E poi non credere che sposerò Klaus sul serio, insomma » aggiunse la ragazza.
« Cos’hai in mente? » chiese il fratello.
« Non credo che lui si presenterà – e farebbe l’unica cosa buona della sua vita – ma, in caso contrario, dirò semplicemente di no, al Palazzo di Giustizia. »
Ben la guardò di sottecchi per qualche istante.
London sbuffò. 
« Perché mi guardi così? »
Il ragazzo spostò nuovamente gli occhi grigioverdi in direzione del soffitto, come se stesse osservando chissà quale cielo stellato. « Mamma e papà te lo rinfaccerebbero per sempre. »
« 
Ah » disse lei, sarcastica. « E’ questo che ti preoccupa? »
L’altro non rispose, assorto nei suoi pensieri.
« Ben » lo chiamò London, con il tono leggermente addolcito. « Tu non vuoi che io sposi Klaus, vero? »
« Certo che no, ma… » tentennò lui.
La ragazza si mise a sedere di scatto, indignata, mantenendo il lenzuolo all’altezza del seno. 
« Cosa stai dicendo? »
« Credo che dovresti. »
Nella stanza scese un pesante silenzio.
« Perché? » domandò London flebilmente, gli occhi spalancati nel buio che a malapena distinguevano l’espressione affranta sul volto del gemello – così uguale e diverso al contempo dal proprio.
« Tu meriti di essere felice, London » rispose lui, cauto, accarezzandole una mano per tranquillizzarla.
« Sai meglio di me che sposando quel troglodita non lo sarei mai. »
« Non lo saresti comunque sposando qualcuno che non sia io » disse Ben per lei, leggendole nel pensiero. « Lo sai, non permetterebbero mai che due fratelli… »
« Non importa » lo interruppe la ragazza. « Io non voglio sposarmi. Mi basta stare con te. »
« Ma non puoi restare nubile per sempre, e neanche io, o daremmo un dispiacere a mamma e a papà... e il nome di famiglia si estinguerebbe. »
London era troppo in collera con il mondo per cogliere la sfumatura di dolore nelle parole del fratello. Fare quel discorso faceva molto male anche a lui.
« Anche io vorrei poter stare sempre con te » continuò il ragazzo, circonandola con le braccia e posandole un bacio sul capo. « Ma tu meriti di essere felice, di vivere con un uomo che ti ama e… »
« Klaus non mi ama, se non te ne sei accorto » fece bruscamente London.
Ben sembrò lasciare volutamente la frase in sospeso. 
« La felicità arriverà, vedrai, e se tu sei felice sono felice anche io » riprese il gemello. Stava piangendo. « Lontani, ma sempre uniti. »
« Lontani, ma sempre uniti » ripeté lei, come un mantra. Se avesse avuto la capacità di piangere, London avrebbe già versato tutte le sue lacrime.
Quasi sentì il suo cuore sprofondare quando il ragazzo la baciò, stringendola come polvere pronta a volare via dalle sue mani.

« Ti sposerai per me, vero? » chiese Ben, infine, prendendole il viso delicatamente, come se fosse fatto di porcellana.
« Ben, io… » balbettò la sorella, abbassando lo sguardo. « Non puoi chiedermi di farlo. »
« Per favore » la supplicò il ragazzo, inducendola a guardarlo di nuovo negli occhi. « Domani ti sposerai, London. Per me. »
London lo baciò di slancio, di nuovo, con più lentezza e passione, dopodiché sussurrò affranta: « Sì. »

« Ecco, adesso sei perfetta » le disse infine sua madre, aggiustandole il velo sul capo. Vedendo che la figlia non rispondeva, continuò: « Sai? Anche io all’inzio non volevo sposarmi. »
London, con il suo silenzio ostinato, la invitò a proseguire.
« Non volevo sposarmi con quel ragazzo che i miei genitori avevano scelto per me » rivelò la donna, ferma accanto alla figlia. Si somigliavano davvero molto, sebbene la giovane fosse più alta e slanciata e il loro colore di capelli fosse completamente diverso. « Ma alla fine mi dissi che non doveva essere poi così terribile. » Fece una breve pausa. « Ci sposammo, sì, e tu sai bene quanto io ami tuo padre. »
London si voltò dall’altro lato. Ma mio padre non è Klaus, pensò, frustrata.
Perché nessuno capiva che non ci sarebbe mai potuta essere una sorta di idillio, tra lei e Klaus? Perché nessuno si era mai neanche sforzato di comprendere?
Fece un giro per la stanza, arrivando di fronte alla finestra che dava sul cortile del maniero.
Era una bella giornata. Il sole era alto e, anche se un po’ pallido, accarezzava dolcemente i profili dei palazzi del Distretto. London scostò le tende, notando suo padre che la aspettava accanto al cancello, di sotto.

« Adesso sei pronta » le fece eco Erzsébet, prendendole il suo bouquet di candidi gigli. La ragazza lo prese dalle sue mani con diffidenza, ma si rilassò leggermente quando la madre le sfiorò amorevolmente una guancia. « Fidati di me. Sarai felice. »
Gliel’avevano detto già diverse volte negli ultimi giorni, eppure London provava un’immensa difficoltà nel crederci.
 
 

*

 

I sogni di Klaus, nell’ultimo periodo, erano fatti di sangue, tributi, spade, ancora sangue. Ma soprattutto buio.
Incubi, ecco di cosa si trattava. Fantasmi che lo perseguitavano senza tregua, lasciandolo spiazzato dal fatto che lui non potesse fare assolutamente nulla per contrastarli e vincerli.
Stava rigirandosi nel letto, appena ridestatosi da una nottataccia, quando suo padre in persona entrò nella stanza e aprì le tende con un gesto secco. La luce improvvisa lo abbagliò e lo costrinse a strizzare le palpebre ripetutamente.

« Ma che cazzo…? » biascicò lui, ancora mezzo addormentato.
« Alzati » gli intimò sbrigativamente Frantz, andando a recuperare l’abito da sposo del figlio dall’ampio armadio. « Sei già in ritardo. »
Gli lanciò i pantaloni neri sulle lenzuola, al che Klaus grugnì e si ritirò definitivamente sotto di esse, coprendosi la testa con il cuscino.
« Dobbiamo essere al Palazzo di Giustizia entro un’ora » riprese il padre, prendendo cravatta, camicia e giacca senza scomporsi. « Sbrigati; tra dieci minuti ti voglio al piano di sotto. »
Lanciò il resto degli indumenti accanto ai pantaloni, sul letto.
« Va’ al diavolo » mugugnò il figlio da sotto il cuscino, premendosi la federa sulle orecchie.
« Dieci minuti » ripeté Frantz, uscendo dalla stanza.
Klaus sbuffò, trattetendo l’ennesimo insulto che premeva per uscire dalle sue corde vocali. Si alzò a sedere, conscio che il padre se ne fosse andato, ma poi ricadde sul materasso con un tonfo irritato.

Dieci minuti dopo, Frantz Wreisht risalì le scale, ben consapevole che il figlio stesse ancora rintanato nel letto. Dopo essersi precipitato nuovamente nella camera, gli scostò bruscamente le coperte dal corpo e le buttò in un angolo. 
« Alzati » gli disse per la seconda volta, con il tono più duro. « Cinque minuti. »
Klaus, dopo che il padre ebbe sbattuto la porta e fu sceso al piano di sotto, lanciò un grido di esasperazione e andò a recuperare gli abiti malvolentieri.
Perché sto eseguendo gli ordini come un fottuto cane bastonato?, si domandò, anche se era già al corrente della risposta.
Era stato minacciato.
Fece una risata sarcastica al ricordo del pomeriggio precedente. Era stato minacciato da Benjamin Bridge.

Quel pomeriggio tirava una brezza fresca, che scompigliava bonariamente i capelli e faceva scuotere leggermente le fronde dei pochi alberi del Distretto Sei.
C’era molta gente per strada, dopotutto in una così piacevole giornata era da suicidio restare in casa a piangersi addosso. Cosa che Klaus Wreisht stava facendo senza risentimento, chiuso nella sua camera al primo piano. Era tornato a casa da appena due giorni e già si sentiva soffocare, più di quanto gli sembrasse durante gli Hunger Games.
Gente che non aveva mai minimamente calcolato durante i suoi diciott’anni di vita veniva a complimentarsi con lui per la vittoria; i suoi genitori lo riempivano di chiacchiere pre-matrimoniali; i Pacificatori lo scortavano come se fosse una personalità importante, o peggio, un criminale tenuto sotto sorveglianza.
Era come un vestito che gli stava troppo stretto. Lo soffocava, letteralmente.
Fece un tiro dalla sigaretta appena accesa e subito dopo sbuffò una densa nuvoletta di fumo, inebriandosi della tranquillità che il tabacco gli trasmetteva.
Pace. Un attimo di pace.
Poi la calma fu interrotta dalla porta della sua stanza che si aprì improvvisamente.

« Devo parlarti » disse Benjamin Bridge, senza gli stupidi convenevoli a cui era stato educato.
Klaus inarcò le sopracciglia. 
« Chi ti ha fatto entrare? »
« I tuoi, mi sembra ovvio. »
Il moro non si alzò dal divanetto su cui era appollaiato e fece un altro tiro, annuendo. « Grandioso. Vi siete coalizzati per rendermi la vita un inferno, a quanto pare. »
Ben rimase qualche istante in silenzio, poi si accomodò senza invito su una poltrona di fronte all’altro, guardandolo dritto negli occhi.
« Sei venuto qui per supplicarmi di non sposare la tua amata sorellina, domani? » domandò Klaus, reclinando la testa all’indietro.
« Semmai il contrario » rispose il ragazzo dai capelli albini con voce corrucciata.
Il giovane Wreisht quasi non riuscì a sopprimere una risata. 
« Tu vuoi che io sposi London? » rise, tralasciando per un secondo la sua amata sigaretta. « E’ ridicolo. »
Ben socchiuse gli occhi, come a voler darsi forza. « Ho i miei validi motivi. »
« Sai bene che non lo farò. »
« Io credo di sì. »
Klaus lo fissò di sbieco. « Cosa te lo fa pensare, Orologio? »
« Voglio che tu mi dica la verità, Klaus » riprese Ben, più serio che mai – e sicuramente più serio del suo interlocutore, « Sei innamorato di London? »
Il moro si alzò di scatto dal suo divanetto. « E’ la seconda volta che mi fai questa domanda. »
« Ed è la seconda volta che mi aspetto una risposta. »
« Fottiti, Ben. »
Ben si alzò a sua volta, parandoglisi di fronte. « Quando eri ubriaco mi hai confessato di amarla. »
Klaus sentì gelarsi il sangue nelle vene. Aveva detto una cosa simile? In presenza di qualcuno, per di più? « Ti sbagli » disse, anche se con meno convinzione del solito.
« Fidati » fece l’altro, sorridendo, come se fosse una piccola porzione di vittoria vedere il suo nemico esitare. « L’hai fatto. »
I ragazzi per un istante non parlarono, poi per l’altro fu come avere una rivincita: « Anche tu hai detto tante cose, quando eri ubriaco. »
Stavolta fu Ben a impallidire, ma cercò di darsi un contegno, dimostrando che la cosa non gli importasse più di tanto. « A tal proposito » ribatté l’albino, con il tono fermo di chi non si arrende facilmente. « Ti ricordi di quella notte, sì, Klaus? »
Klaus ghignò in risposta. « Ma ovviamente. »
« Se non sposi London » proseguì Ben, deciso, « farò in modo che tutto il Distretto venga a sapere di cosa successe. »
Il moro impallidì di botto. « E’ una minaccia? »
« Probabilmente sì. »
« Perché vuoi che sposi London? » gridò l’altro, furibondo. « Non eri il suo amato tromba-fratello, un tempo? »
Ben ignorò la provocazione. « Ho le mie ragioni, ma sappi che sono disposto a tutto pur di vedervi sposati. »
Quel tutto suonava tanto ambiguo, per i gusti di entrambi.
« Definisci “tutto”, Ben Bridge » ribatté Klaus, troppo orgoglioso per ammettere di essere completamente nelle mani di quell’idiota.
Ben, senza esitare, avvicinò le proprie labbra alle sue, come aveva fatto un tempo, e lo baciò di sfuggita. 
« Immagina. »
Il moro tirò un’altra boccata dalla sigaretta, dopodiché la passò all’altro, che tossì non appena inalò il fumo.
« Pivello » lo prese in giro Klaus, riprendendosi la sigaretta. Fece l’ennesimo tiro, e poi fu lui a baciarlo, stavolta. Non contò quanti minuti passarono, né ne aveva voglia.
Voleva solo un po’ di pace.


Klaus si guardò allo specchio. Voleva davvero che la sua reputazione venisse ulteriormente rovinata, quando tutto il Distretto sarebbe venuto a sapere della sua notte di fuoco con il pupillo dei Bridge?
No di certo, ma non sapeva cosa fosse peggio, se sposare London o essere pubblicamente e allegramente sputtanato da suo fratello. Si trovava con un cappio al collo.
Aveva sperato che la notte gli portasse consiglio, ma così, ovviamente, non era avvenuto.
Indossò la camicia bianca e profumata, che aderì perfettamente alle sue spalle e al suo petto.
Stava ancora pensando di non presentarsi. Dopotutto non potevano costringerlo. Forse.
Stava riflettendo su quale potesse essere il male minore, quando sua madre entrò nella stanza, con gli occhi lucidi dall’emozione. 
« Oh, Klaus » sussurrò, con voce tremula. « Fatti aiutare. »
Inutile dire che il ragazzo si scostò bruscamente, sebbene non sapesse neanche come allacciare la cravatta. « Faccio da solo. »
Shyvonne lo tranquillizzò con una carezza sulla spalla. « Vieni qui » gli disse, prendendo i lembi della cravatta tra le dita sottili per aiutarlo. La donna si accorse che al figlio tremavano le mani – dal nervosismo? « E aggiustati un po’ questi capelli, sembri uscito dalla giungla! » commentò bonariamente la madre, dandogli un bacio su una guancia. Al gesto lui rispose con una smorfia di insofferenza.
« Noi ci avviamo al Palazzo di Giustizia, ormai manca poco » disse quella, tornando seria. « Ti aspettiamo lì. »
Klaus capì che i genitori contavano che lui si presentasse senza storie, e forse quella cosa avrebbe potuto giocare a suo favore, se avesse deciso di mandare al diavolo tutti e di andarsi a bere una birra con i compagni.
« Splendido » fece ironicamente, mentre Shyvonne usciva perfettamente in equilibrio sui tacchi a spillo nonostante l’età avanzata.
Indossò la giacca nera e si appuntò le scarpe di cuoio.
Era una bella giornata, perché avrebbe dovuto sprecarla?

 

*


 
Nella stanza c’erano poco più di una decina di persone.
I matrimoni a Panem si celebravano nel Palazzo di Giustizia, in una sala tranquilla con poche panche per i parenti più stretti e due scranni rivestiti di velluto per gli sposi, che sedevano davanti a un giudice, il quale li avrebbe proclamati marito e moglie.
London era arrivata già da un quarto d’ora, accompagnata dalla sua famiglia, e ora sedeva nervosa torturando il bouquet di gigli con le mani, come se fosse il suo unico appiglio per non impazzire definitivamente.
Oltre ai Bridge, erano presenti la famiglia del sindaco – che comprendeva una figlioletta di cinque anni – e i due attuali mentori del Distretto Sei, quali Ludmille Schnee, vincitrice a soli dodici anni, e Rafe Donald, vincitore a diciassette, che inoltre era accompagnato da sua moglie, una donna dal viso dolce e i capelli rossi come il fuoco. I due mentori stavano conversando a voce bassa, poiché molto probabilmente erano stati invitati solo perché considerati due delle personalità più in vista del Distretto. Il giudice Harrison stava parlando con il sindaco, sfogliando alcuni documenti che avrebbero dovuto firmare gli sposi.
Mancavano solo i Wreisht.
London sperava ancora che Klaus avesse avuto la brillante idea di non presentarsi, ma qualcosa le diceva che i suoi genitori l’avrebbero ricattato pur di ottenere ciò che volevano. Che non si trattava solo di un misero anello al dito, lo sapevano bene entrambi.
Lo scopo del loro matrimonio era dare alle due famiglie un erede. Un erede di sangue nobile, esattamente come loro e i loro avi.
Su questo piano, però, non li avrebbero mai potuti costringere. London non si sarebbe mai venduta a Klaus, neanche se l’avessero minacciata.
Non sapeva se poter affermare il contrario – era stato lui a baciarla l’ultima volta o no? – ma si sentiva abbastanza tranquilla in questo frangente. Stava per sposarsi, era vero, ma era certa che avrebbe continuato ad amare Ben senza riserva. Matrimonio o no, lei apparteneva a suo fratello.  
Persa nei suoi pensieri, sobbalzò quando la porta della stanza si aprì di scatto, rivelando un Frantz e una Shyvonne Wreisht elegantemente abbigliati. Senza dire una parola, si sedettero su una panca, in silenzio.
Dov’era Klaus?
Tutti avevano quella domanda in testa, ormai.
Era abitudine, inoltre, che lo sposo si presentasse prima della sposa, e non viceversa. Ecco perché sia il giudice che il sindaco sembravano  infastiditi.

« Sta arrivando » disse sbrigativamente Frantz, con una cupa espressione sul volto marcato.
London pensò che non aveva mai visto sorridere quell’uomo. Sua moglie, invece, sembrava felice, anche se leggermente nervosa, quasi fosse stata lei a doversi sposare entro pochi minuti.
L’attesa fu decisamente snervante. I presenti ad ogni minimo rumore si voltavano speranzosi verso la porta, che puntualmente non si apriva, beffarda.
La ragazza cercò lo sguardo del gemello, a poca distanza da lei. Quello le fece un sorriso d’incoraggiamento.
Era incredibile come Ben riuscisse a mantenere un atteggiamento composto anche in una situazione del genere; chiunque altro al posto suo avrebbe potuto far crollare il Palazzo di Giustizia, se ne avesse avuto la possibilità. London cercò di sorridere di rimando, ma tutto ciò che fiorì dalle sue labbra fu solo una smorfia palesemente rattristita.
Era in quei momenti che avrebbe voluto uccidere Klaus Wreisht con le sue stesse mani.
Passarono altri, lunghi minuti, in cui la sala era animata solo da un leggero chiacchiericcio indistinto.
Poi, quando tutti meno se l’aspettavano e avevano cominciato a perdere le speranze, qualcuno entrò nella stanza a passo svelto, con i pugni stretti in una morsa ferrea e lo sguardo basso.

Klaus si sedette sullo scranno immediatamente affianco a quello di London e non si rese nemmeno conto che probabilmente tutti – e specialmente la sposa – lo stavano fissando con sguardo di rimprovero.

« Be’, allora cominciamo » borbottò il giudice, accomodandosi su uno scranno più alto di fronte ai due giovani.
London ormai sembrava rassegnata, Klaus soltanto turbato e smanioso di finire al più presto quella farsa. Il giovane Wreisht si voltò giusto un istante verso Benjamin Bridge e vide che quello annuiva, soddisfatto di aver convinto i due promessi a sposarsi finalmente, nonostante l’infinita tristezza che traspariva dal suo sguardo vacuo.

« Siamo qui riuniti » cominciò il giudice Harrison, aggiustandosi gli occhiali sul naso adunco, « per unire in matrimonio quest’uomo e questa donna, in virtù dei poteri a me conferitimi. » Una breve pausa d’effetto. « Qual è il tuo nome, giovane uomo? » chiese a Klaus, come richiedeva la procedura.
« Klaus Hector Ludvig Frantz Wreisht » rispose tra i denti. Detestava il suo nome completo, da buona norma per un ragazzo dal comportamento non convenzionale come lui.
« E qual è il tuo nome, giovane donna? »
« London Lucilla Juliet Bridge » disse invece la ragazza, fissando un punto impreciso della parete. Era meglio così. Tenere lo sguardo puntato nel nulla non la faceva pensare a niente.
« Cosa vi spinge a sposarvi, quest’oggi, in questo palazzo? »
Klaus fu il primo a rispondere e, avendo imparato la formula a memoria tempo addietro, fece prontamente, calcando le parole come a voler sottolineare la loro più completa falsità: « Il rispetto, la fedeltà, l’amore. »
London, con una smorfia di disgusto, ripeté: « Il rispetto, la fedeltà, l’amore. »
Per i restanti dieci minuti, fu il giudice a continuare a parlare, come era previsto, mentre i due sposi non si guardavano neanche, nonostante le loro ginocchia si sfiorassero. Entrambi non avevano mai sopportato la vicinanza dell’altro, a meno che non si trattasse di picchiarsi selvaggiamente. Quel contatto, seppure minimo, infastidiva tutti e due; probabilmente le loro pelli scottavano, quando si toccavano.
« E quindi, vuoi tu Klaus Hector Ludvig Frantz Wreisht prendere in sposa la qui presente London Lucilla Juliet Bridge, e promettere di amarla e onorarla in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finché morte non vi separi? »
La domanda arrivò inaspettata, probabilmente perché entrambi non avevano ascoltato neanche una parola del monologo precedente. Klaus capì di essere stato chiamato in causa solo quando London gli diede una leggera gomitata nello stomaco.
Non voleva perdere tempo, ma sentire pronunciare quelle parole gli annebbiò la mente. Doveva dire di sì?
Il suo mutismo infastidì il giudice che ripeté: 
« Vuoi tu… »
« Lo voglio » disse bruscamente Klaus, al che si sentì un vero e proprio sospiro di sollievo da parte dei suoi genitori, seduti al lato destro.
Aveva firmato la sua condanna, ora non toccava che a London.

« E vuoi tu, London Lucilla Juliet Bridge, prendere in sposo il qui presente Klaus Hector Ludvig Frantz Wreisht, e promettere di amarlo e onorarlo in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finché morte non vi separi? »
London si voltò una seconda volta verso suo fratello, che aveva palesemente gli occhi lucidi. Le venne improvvisamente la nausea.
Promettere di amarlo? Negativo, assolutamente. Come si poteva amare uno stronzo del genere?
E onorarlo, anche? Doppiamente negativo. Avrebbe preferito di gran lunga seviziarlo, torturarlo e infine ucciderlo tra atroci sofferenze.
Finché morte non li avrebbe separati? Probabilmente tutti i presenti in sala non conoscevano il reale significato che quelle parole avevano avuto nell’antico mondo precedente la nascita di Panem, eppure suonavano come una minaccia. Sarebbero stati uniti fino alla morte, vincolati da uno stupido contratto.

« Io… » disse, ma così flebilmente che nessuno la sentì, eccetto Klaus che, pur non guardandola, era tutt’orecchi. Il giudice, spazientito, alzò un sopracciglio. « Lo voglio. »
« Vi dichiaro dunque marito e moglie » fece Harrison con un sospiro. « Se c’è qualcuno a conoscenza di qualche impedimento per il quale quest’uomo e questa donna non dovrebbero unirsi in matrimonio, parli ora o taccia per sempre. »
London avrebbe voluto urlare. Dire a tutti gli idioti presenti in sala che lei non amava Klaus, che amava Ben e che invece odiava il primo con tutto il cuore, che l’aveva sempre provocata, insultata, odiata a sua volta, che non avrebbe voluto spendere il resto della sua vita con lui. Ma probabilmente era troppo tardi.
Nessuno parlò, come a confermare i suoi sospetti. L’assalì un’ondata di panico, che seppe gestire prontamente. Era fatta.

« Scambiatevi le fedi » disse il giudice, porgendo loro una piccola scatolina contenente i due anelli d’oro.
Klaus le prese una mano e lei la ritirò di scatto. I presenti si guardarono tra loro a quella scena, interdetti. Capendo che non poteva rifiutarsi in quel modo, fu lei la prima a mettere la fede all’anulare di suo marito - già il solo chiamarlo così le annebbiava la vista dalla rabbia.
Quando prese con decisione la sua mano, il ragazzo alzò finalmente gli occhi sulla sposa e quasi sembrò folgorato da quanto lei fosse bella ed elegante nel suo abito nuziale.
La stava guardando per la prima volta in quella giornata.
Poi anche l’anello di London fu messo al suo posto, all’anulare sinistro, la cui pelle quasi pecepiva il nome che vi era inciso all’interno.
Tutti si alzarono.

« Potete baciarvi. »
« Come? » disse Klaus, bloccandosi.
« Potete baciarvi » ripeté il giudice, esasperato.
« Puoi baciarmi, Klaus » quasi lo autorizzò la ragazza, laconicamente rassegnata.
Sotto gli occhi sollevati dei Wreisht e dei Bridge, lui la baciò. Veloce e indolore. E, con quel gesto, un accordo si era compiuto, mentre una battaglia – la battaglia dei due promessi che oramai non erano più tali – era stata inevitabilmente persa.












 

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Capitolo 6
*** 005. Fifth Chapter – The hardest part. ***


Note: Un capitolo decente, forse.
Boh, stavolta non so che dire. Questa è Ludmille, insieme alla piccola Schatten. Dal prossimo capitolo in poi probabilmente aggiornerò con meno costanza, perché il sesto è l'ultimo tra quelli che già sono pronti.
Dovrei indire una campagna per sostenere psicologicamente Ben.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene dall'omonima canzone "The hardest part" dei Coldplay.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ 
Da adesso lo alternerò con l'altro ad ogni capitolo :3

















 










Blur
∞ 
(Tied to a Railroad)




 
 
005. Fifth Chapter – The hardest part.




La villa dei neo coniugi Wreisht era molto sobria, anche se ben curata da cima a fondo e nei minimi dettagli. Niente a che vedere, comunque, con i manieri dei capostipiti delle due famiglie. Nel grande salone adibito a festa si stava tenendo la tranquilla cerimonia nunziale, con tanto di banchetto aperto a qualunque conoscente del Distretto vi volesse partecipare. Sul portico di legno erano state sistemate numerose ghirlande di fiori e il profumo dei boccioli invadeva persino l’atrio e l’androne.
C’era atmosfera di festa, in quella casa.
Gli invitati sorridevano, ignari della tensione che aleggiava tra i due sposi, l’uno accanto all’altra solo per mantenere la facciata. Si sfioravano a malapena, troppo presi a ringraziare chi veniva a congratularsi con loro.
London manteneva in una mano un bicchiere di aperitivo, bevendone distrattamente qualche sorso ogni tanto. Sembrava che il tempo stesse scorrendo senza un criterio, prendendosi gioco di lei.
Le scarpe alte già le davano fastidio, se aggiunte a tutti quei falsi sorrisi che era costretta a mostrare, ben consapevole che a qualche metro di distanza suo fratello la stesse osservando pieno di tristezza.
Le si spezzava il cuore a quel pensiero, eppure non riusciva a capire perché Klaus avesse accettato di sposarla. Dopotutto si odiavano. Chi l’aveva convinto?
Era un dubbio che le era affiorato poco prima, quando ancora non aveva realizzato di essere appena diventata la nuova signora Wreisht. Se n'era resa conto con orrore, quasi.
Il mondo scorreva velocemente sotto i suoi occhi. Davanti a lei passavano volti, voci, suoni e parole che non era in grado di riconoscere. Si sentì girare la testa, per cui si scusò con Emma Donald, la moglie di Rafe – con la quale stava intrattenendo una cauta conversazione – e si rifugiò in cortile, vuoto perché tutte le persone si trovavano al banchetto.
La accarezzò una brezza lieve, scompigliandole di poco le ciocche dell’acconciatura alta. London si appoggiò con la schiena alle mura della villa, ben nascosta da tutti gli altri. Si passò una mano sul viso, sospirando di frustrazione.
Non sarebbe dovuta andare così.
L’idea di essere la moglie di Klaus le faceva semplicemente ribrezzo, lasciandole una sgradevole sensazione sottopelle.
Stava riflettendo su come sarebbe potuta diventare la vedova Wreisht, quando capì di non essere sola. Su una panchina isolata stava seduto suo fratello che parlava pacatamente con una donna albina quasi quanto loro. London capì subito di chi si trattasse: Ludmille Schnee, la vincitrice ormai venticinquenne del Distretto.
Ludmille aveva un portamento rigido e fiero al contempo. Teneva sempre la testa alta e lo sguardo distante, come a voler freddare tutti con i suoi occhi profondi e limpidi al pari del ghiaccio.
London non aveva mai invidiato nessuno in vita sua, eppure guardando quella donna qualcosa le intimava di portarle rispetto, nonostante la conoscesse solo di vista. Ben sosteneva che non era sempre stata così algida e fredda con il mondo intero; piuttosto, un tempo sorrideva. Un tempo molto lontano. Non che il ragazzo la conoscesse più di lei, però aveva avuto modo di parlarle più di una volta.
La ragazza si sentì ribollire il viso e, mandando al diavolo i giramenti di testa, Klaus e la cerimonia, si avvicinò alla panchina con sguardo sprezzante.
Si era sempre chiesta perché fosse gelosa di tutti gli esseri di sesso femmile che avvicinavano suo fratello, ma non aveva mai trovato una risposta – forse. London detestava darsi risposte da sola, dopotutto.

« E’ una bella giornata, oggi, no? » chiese retoricamente, posando lievemente una mano sulla spalla di Ben, che sussultò non avendola sentita arrivare.
Ludmille non si scompose. 
« Bellissima » rispose. « Perfetta per un matrimonio. »
London alzò un sopracciglio. Insomma, conosceva Klaus – era stata la sua mentore agli Hunger Games e presto lui sarebbe diventato suo collega – e doveva sapere perfettamente che i due non avrebbero mai voluto sposarsi.
« Cosa fate qui in disparte? » domandò quindi, evitando di alzare il tono. « Vi state perdendo la festa. »
« Oh, Benjamin e io stavamo solo discutendo di una questione » fece la donna, stringendo un batuffolo bianco che prima non aveva visto. Era il suo rarissimo esemplare di cucciolo di tigre bianca, Schatten. Nessuno aveva idea di come l’avesse trovato, forse a Capitol City. Faceva un certo effetto vedere un animale del genere nel Distretto Sei, a dire il vero, considerando che di animali se ne vedevano già ben pochi.
London scambiò un’occhiata con il gemello che, imbarazzato, si grattò dietro la nuca cercando di farlo passare per un gesto di noncuranza.

« Sì, ora rientriamo » disse Ben, provando a sorriderle.
La ragazza non voleva arrabbiarsi con lui, non quel giorno, in cui erano costretti entrambi a sopportare quell’inferno. Ma non riusciva a tollerare che qualcuno lo allontanasse da sé.
Ben apparteneva a lei, come lei apparteneva a Ben. Tutti lo sapevano, o avrebbero dovuto saperlo.
Lanciò uno sguardo di rimprovero a entrambi, e poi tornò nel salone senza dire una parola.
Era tutto uno schifo. D’un tratto la sua vita non le era mai sembrata così pessima.
Il matrimonio, la gelosia verso suo fratello, Klaus.
Vide suo marito seduto da solo in un angolo, con la testa bassa. Forse si sentiva come lei, distante dal mondo intero, in quel momento; ma poi rinnegò subito quel pensiero. Insomma, era raro che lei e Klaus avessero qualcosa in comune. Era assurdo anche potessero provare lo stesso stato d’animo.
Senza neanche accorgersene, gli si avvicinò e si sedette accanto a lui, in silenzio. Il ragazzo alzò per un istante lo sguardo su di lei e fece un piccolo ghigno.

« Bella festa, eh? »
London sospirò. Era rassegnata da parecchio al fatto che Klaus dovesse fare tassativamente del sarcasmo su tutto. « Come un calcio negli stinchi » ribatté, risoluta.
Lo vide ridacchiare mestamente, mentre appoggiava i gomiti sulle gambe e si voltava a guardarla meglio. 
« Sono sicuro che ci divertiremo molto. » Klaus smise di sghignazzare presto e ripiombò nel silenzio. Sembrava che stesse rincorrendo qualche sfuggente pensiero.
« E ora? » domandò lei, incrinando lievemente il tono di voce.
« E ora cosa? » le chiese Klaus di rimando, interdetto.
« Cosa faremo? » continuò la ragazza, fissando un punto impreciso della parete di fronte. « Continueremo a comportarci normalmente come se niente fosse? »
Sulle prime l’altro non seppe rispondere. Erano quelle domande scomode che cercava sempre di evitare. « Non lo so » disse, e fu la peggiore delle risposte che London si potesse aspettare.
Avrebbe voluto ribattere, ma fu interrotta dai suoi genitori, che l’accompagnarono a salutare degli amici di vecchia data che erano venuti a farle gli auguri.
Si voltò un’ultima volta verso Klaus, notando che non sorrideva più.

 

*


 
Il pranzo continuò abbastanza tranquillamente.
Nel salone era stato sistemato un grande tavolo rettangolare, dove erano riuniti gli invitati principali, che in quel momento stavano assaggiando le pietanze con espressioni soddisfatte e commenti di apprezzamento.
Klaus, seduto al centro della tavolata accanto a sua moglie, aveva mangiato davvero poco, se non nulla. Il suo stomaco era chiuso in una morsa e non voleva saperne di collaborare.
Si trovava in uno stato di tremenda confusione. Gli girava la testa, di tanto in tanto, come se tutto vorticasse davanti ai suoi occhi per farlo impazzire. Era una sensazione strana, troppo anomala per lui.
Quando il pranzo finì, nel tardo pomeriggio, e anche il dessert fu servito dalle abili cameriere assoldate per l’evento, qualcuno – qualcuno di fottutamente stupido, per i suoi gusti – iniziò a borbottare che i due sposi dovevano attenersi alle tradizioni, e inaugurare la loro unione con un primo, classico ballo.
Gli sguardi dei suoi genitori saettarono verso di lui, incitandolo a fare il primo passo. Che non aveva intenzione di fare.
Ricordava bene come fosse spiacevole ballare con London Bridge e non aveva voglia di mettersi in ridicolo davanti a tutte quelle persone, che lo osservavano sin da quella stessa mattina piene di aspettative.
Che idioti, si disse in quel momento, cercando – imponendosi – di ignorare sua moglie affianco a lui e tutto il resto.

« Non mi inviti a ballare? » gli sussurrò London con un sorrisetto retorico.
Klaus si passò una mano sul volto, esasperato. 
« Certo che no. »
Lei cercò di fare la finta offesa, ma il ragazzo non vi badò.
« Ma certo, tanto non reggeresti il confronto » mormorò l’altra sbuffando; dopodiché si alzò stizzita, avvicinandosi a suo fratello, seduto qualche sedia più in là. Gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, a cui Ben rispose con un sorriso.
Poi si alzò anche lui e insieme – mano nella mano – si posizionarono al centro del salone. A un cenno delle ragazza, il violinista che se ne stava imbambolato in un angolo prese a suonare.
La sala si animò di applausi sconnessi e interdetti. Quello doveva essere il ballo degli sposi.
Frantz Wreisht lanciò un’occhiata d’astio al figlio, che si prolungò verso il giovane erede dei Bridge. Klaus, dal canto suo, alzò semplicemente un sopracciglio. Decisamente non era in vena di litigi vari, per cui si limitò a guardare i gemelli muoversi con disinvoltura, a passi precisi e cadenzati.
London sembrava felice, così come suo fratello. Sembravano dimentichi di tutto, per una volta, e quelli che erano a conoscenza della loro relazione si scambiarono sguardi incapacitati.
Se in quel momento avessero osato troppo, probabilmente sarebbe andato tutto definitivamente a puttane.
Quale modo migliore per inaugurare la loro vita insieme?
La melodia era lenta ed estenuante, per i suoi gusti. Viscida, repellente, da bamboline. Era fiero di affermare che, oltre a tutto il resto, i Bridge avessero un pessimo gusto in fatto di musica.
Mentre tutti osservavano i gemelli ammirati o addolciti, Klaus si mosse nervosamente sulla sedia, d’un tratto troppo scomoda. Appoggiò le mani sui braccioli e accavallò una gamba, incurante del fatto che quella non fosse una posizione dignitosa. Si portò le nocche della mano sotto il mento, sbuffando.
Quella situazione lo stava irritando profondamente, e non solo perché London lo stava senza dubbio alcuno provocando.
Ben, al contrario di lui, era un ottimo ballerino. Sapeva essere elegante, fine e dotato di un certo fascino non indifferente, completamente a suo agio nel completo grigio scuro, con tanto di giglio bianco all’occhiello, lo stesso che portava lo sposo sulla giacca.
Provò un moto di rabbia nei suoi confronti. Era sicuro che quel giorno tutto il Distretto avesse organizzato un complotto contro di lui per vederlo perdere le staffe.
E’ quello che vogliono, si disse arricciando le labbra, eppure non riuscì a trattenersi. Si alzò e, nel bel mezzo della danza, sotto lo sguardo sbalordito degli invitati, raggiunse i gemelli ad ampie falcate, applaudendo sarcastico.

« Ma bravi » disse con tono esageratamente strascicato. « Un’ottima performance. »
I due Bridge si fermarono, l’uno interdetto e l’altra palesemente furiosa. Anche il vecchio violinista si bloccò, senza parole.
« Peccato che sia io lo sposo » fece, decisamente incazzato – e per quale santa ragione, poi?
Prese London per un braccio e la portò in disparte. 
« Hai intenzione di umiliarmi ancora per molto, troia da quattro soldi»
La ragazza lo fissò con sguardo carico d’astio. « Eri tu a non voler ballare » sbottò, cercando di controllarsi.
Stava andando decisamente peggio di quanto entrambi avessero programmato, e per quale stupido motivo nemmeno lo sapevano. Nessuno si era mai chiesto perché quei due dovessero necessariamente litigare in ogni istante della loro vita.

« Se questo significa vederti fare la prima donna con il tuo amato tromba-fratello, decisamente non mi va. »
« Perché non ti fai i cazzi tuoi, per una volta, Klaus? » irruppe London, incapace di trattenersi oltre. « Stai sempre a criticarci, quando invece vorresti essere tu il primo ad essere amato da qualcuno, perché sei solo! Solo e frustrato! » quasi urlò. Qualche volto si voltò pensieroso verso di loro. « E sai una cosa? Non lo saprai mai cosa vuol dire, perché nessuno ti amerà mai davvero! »
Klaus non l’aveva mai vista così furiosa, probabilmente, ma non vi badò, profondamente offeso da quelle parole più di quanto non lo volesse dare a vedere.
« Mi fai schifo » disse il ragazzo, ugualmente adirato.
London diede una leggera spinta al suo busto. 
« Tu fai schifo, non io. Mettitelo bene in quella fottuta testa vuota! »
Klaus avrebbe avuto voglia di mandarla al diavolo una volta per tutte, urlando tutta la sua rabbia repressa, ma London si allontanò quasi calpestando il pavimento, dopodiché, accertandosi che suo marito e gli invitati vedessero bene, prese suo fratello per i lembi della giacca e lo baciò sotto lo stupore generale.
Qualcuno urlò – Klaus riconobbe la voce di sua madre.
Era un bacio arrabbiato, un bacio che lasciò Benjamin Bridge con l’amaro sulle labbra e gli fece arrossire le gote.
La sposa si voltò finalmente verso gli invitati e, bevendo con un sorriso malignamente soddisfatto i loro commenti sconvolti, lanciò le sue scarpe alte in direzione del violinista, che si abbassò giusto in tempo per evitare un tacco.

« Andatevene! » gridò, i capelli che le svolazzavano intorno al viso, a dispetto della fine acconciatura in cui erano sistemati. « La festa è finita! »
I presenti per un po’ la fissarono senza realmente capire e rimasero imbambolati finché lei non si ritirò al piano di sopra, alzandosi con una mano il vestito per non inciampare sui gradini rivestiti di moquette. Klaus vide lo strascico bianco scomparire dietro un angolo. Poi si voltò in direzione degli invitati che, delusi o amareggiati, venivano scortati da Erzsébet Bridge verso l’uscita.
Ben lo fissava con i pugni stretti convulsamente.

« Hai rovinato tutto » gli disse l’albino, avvicinandosi con una cupa espressione. « Non sai fare altro. »
Klaus si portò una mano alle tempie, frastornato da tutto ciò. Non gli era mai capitato di sentirsi così debole. Aveva bisogno di alcool, decisamente. « Non venirmi a fare la ramanzina, ora. Sapevi che sarebbe successo. »
« E’ colpa tua » lo accusò Ben, cercando lo sguardo dell’altro, che però non trovò.
« Secondo te dov’è la cantina? » gli chiese Klaus, ignorando il suo ultimo intervento.
« Va’ al diavolo » ribatté esasperato l’altro con un gesto secco della mano, andando a recuperare la giacca e uscendo dall’ abitazione.
Tuttavia Klaus Wreisht avrebbe preferito persino il diavolo in quel momento, pur di non restare ancora un altro minuto in compagnia di quella gente che proprio non si sforzava di capire quanto la sua vita fosse un casino.
La sala si svuotò pian piano sotto gli occhi sconcertati dei suoi genitori, che spostavano adirati lo sguardo dal figlio alle scale. 
« Sarai contento, ora » gli disse Frantz contraendo una mascella.
« Mai stato più lieto » rispose Klaus, lanciando il giglio dell’occhiello dall’altra parte della sala. « Adesso, visto che è casa mia, vi invito gentilmente a uscire. »
Shyvonne bloccò il marito sul nascere. « Lascia stare, Frantz. Sono sicura che si sistemerà tutto. »
Il signor Wreisht corrugò la fronte. « Lo spero. »
Detto questo, borbottando sottovoce con i genitori di London, lasciarono l’abitazione insieme agli ultimi invitati, tutto meno che felici della riuscita della giornata.
Klaus notò il violinista che si apprestava ad abbandonare quella casa senza rimpianti e lo salutò con un ghigno. 
« La prossima volta suoni qualcosa di più decente, però! » L’uomo si mise una bombetta sulla pelata lucida senza aggiungere altro. Con questi, il portone si chiuse e il silenzio della villa gravò improvvisamente su di lui.
Era già sera, e dalle ampie vetrate dell’atrio si intravedeva la linea rosea del tramonto all’orizzonte.
Con uno sbuffo esasperato salì al piano di sopra, cercando di ricordarsi dalle sue visite d’infanzia come fosse strutturata la villa.
Di sicuro aveva soltanto due piani, nonostante i soffitti fossero abbastanza alti e decorati. C’erano diverse stanze, ma in quel momento non si sarebbe di certo messo a contarle. Tutti i mobili erano già stati sistemati quando era ancora piccolo e quando il matrimonio era solo uno sfocato pensiero nella perversa mente delle due famiglie.
Qualche secondo più tardi la sua attenzione venne attirata da una porta di mogano, di fronte le scale. Da quella che doveva essere la camera da letto si udivano dei singhiozzi a stento trattenuti.
Senza pensare alle conseguenze – che dovevano essere abbastanza gravi se era proprio London a piangere – girò la maniglia ed entrò nella stanza in penombra.
Probabilmente la ragazza non dovette accorgersi di lui, perché aveva il volto affondato nel materasso e stava rannicchiata su se stessa. Il suo vestito da sposa era a terra in un angolo, mentre lei non si era preoccupata di rimanere in biancheria intima. Aveva i capelli sfatti e le mani che le tremavano visibilmente dalla frustrazione.
Klaus avrebbe voluto prenderla ancora a parole per quello che gli aveva detto prima, o magari sfotterla un po’ – canticchiandole quella canzoncina che tanto odiava, London Bridge is falling down – oppure ancora fare un commento cattivo, ma tutto quello che uscì dalle sue labbra, involontariamente, fu: 
« Stai piangendo. »
London alzò di scatto la testa, come sorpresa in flagrante e, notando che sull’uscio c’era proprio suo marito, emise un ringhio di disperazione e saltò giù dal letto come una furia, precipitandosi dinanzi a lui per poterlo finalmente prendere a schiaffi, come aveva sognato di fare sin da quella mattina.
Il primo arrivò veloce, violento e quasi del tutto inaspettato. Il secondo, di seguito, così come il terzo.
Klaus la allontanò bruscamente da sé, prima che lei potesse piantargli le unghie in faccia e con una spinta la fece cadere sul pavimento, facendole perdere l’equilibrio.
London, senza indugio, lo tirò per una gamba e lo fece cadere a sua volta. Quando lei si alzò, cominciò a prenderlo a calci nello stomaco, in barba al fatto che fosse seminuda e che il suo acerrimo nemico l’avesse vista nel suo momento di maggiore debolezza. Lacrime calde le rigavano ancora il viso e i singhiozzi ancora le scuotevano il corpo, ma la sua rabbia era più forte, come un uragano.
Klaus gemette al quarto calcio e, di riflesso, la prese per una caviglia, tentando di fermarla. Un attimo e, approfittando del suo momento di distrazione, si rialzò barcollando e tossendo. Lei reagì di nuovo, stavolta con pesanti pugni, ma il ragazzo le bloccò i polsi, stringendoli fino a farle male. 
« Smettila » gridò, ma London sembrava pervasa da una furia che non aveva mai visto.
Gli diede una ginocchiata nello stomaco, che lo lasciò senza fiato per un secondo, ma tenne salda la presa sui suoi polsi.

« Lasciami » urlò lei fuori di sé, ma vedendo che Klaus non accennava a lasciarla andare, continuò a strillare: « Ti odio, ti odio con tutto il mio cuore! »
Si dimenò ancora, ma il ragazzo aspettò che si calmasse, trattenendola fermamente.
Dopo qualche istante, il pianto di London si fece più sommesso e lei smise di lottare. 
« Ti odio » ripeté ancora. Le tremavano le spalle.
Quando Klaus finalmente le lasciò i polsi, si sedette sul materasso, nascondendo il viso tra i palmi per cancellare quelle lacrime che tanto aveva cercato di sopprimere.
L’altro non sapeva come comportarsi e la guardò con la fronte corrugata. Non disse niente, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.

« Vattene » sibilò London, con la testa bassa.
« Non posso » replicò velocemente lui, al che la ragazza alzò finalmente lo sguardo, notando con stupore che non sembrava avere un cipiglio minaccioso o strafottente, ma solo terribilmente confuso.
« Non puoi-? » cercò di domandare, ma non riuscì neanche a finire che Klaus l’attirò a sé senza indugio e, posandole le mani tra collo e spalla, la baciò, impedendole di dire altro.
London non realizzò immediatamente cosa stesse accadendo perché, per la stessa rabbia che l’aveva spinta a malmenarlo qualche istante prima, rispose al bacio senza esitare, facendo aderire perfettamente le sue labbra con quelle di suo marito.
Fu diverso dal loro bacio nella zona ovest, diverso da quello delle visite, diverso da quello del sì. Era famelico.
Un bacio che avrebbe dovuto comportare qualcos’altro, probabilmente.
Lei portò una mano tra i capelli di Klaus, attirandolo ancora di più a sé e schiudendo le labbra per far incontrare lingue, denti, e sangue.
Si staccarono di poco, quando a entrambi mancò l’aria, ma giusto un secondo prima che London lo tirasse per la camicia e lo facesse cadere sul letto insieme a lei.
Probabilmente Klaus la odiava per questo, perché riusciva a risvegliare in lui istinti che avrebbe saputo trattenere con qualunque altra persona, se gliene fosse capitata l’occasione.
Avrebbe voluto distruggerla, umiliarla e anche ucciderla, sì, ma era in quei momenti che sentiva di volerla. Volerla come mai aveva desiderato nessun altro.
Desiderava il suo corpo, le sue labbra, le sue mani. Desiderava tutto di London Bridge ora, e nessuno gli avrebbe impedito di farla sua.


 












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Capitolo 7
*** 006. Sixth Chapter – Hypochondriac. ***


Note: Sì, ci sono. Purtroppo per voi.
I flashback di questo capitolo sono la cosa più lime che abbia mai scritto, quindi non vi stupite se fanno non poco schifo. Ah, e vi avverto che il linguaggio colorito si farà sentire abbastanza, here. Dopotutto sono Klaus e London, no?
Comunque, due paroline sul titolo: un ipocondriaco è una persona che ha paura delle malattie. Klaus e, per certi versi, London considerano l'amore come una malattia... quindi fate due più due (cinque!) che non mi va di spiegare-barra-rovinare i miei ragionamenti profondi (ma dove? AHAHHA). Diciamo che la cosa è altamente interpretabile.
Notate bene che Klaus è parecchio suscettibile quando si parla delle sue... doti. :')
Non vi riempio di altre chiacchiere; devo andare a studiare le mie bellissime quaranta pagine di arretrati.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo è ispirato a "Hyper Chondriac Music" dei Muse.

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006. Sixth Chapter – Hypochondriac.




Gemiti sfuggiti al loro controllo.
Sospiri eccitati.
Sussurri maledetti.

« Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. In realtà, London moriva dalla voglia di sapere perché Klaus le avesse sconvolto la vita – e la serata – così.
Perché era alla mercé del nemico, in quel momento? Cosa l’aveva trascinata verso una simile sconfitta?
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. I capelli lievemente lunghi per gli standard di un ragazzo perbene gli cadevano davanti al viso, colorandolo di ombre scure.

« Rispondimi! » gridò London, prima che un’ondata di lussurioso piacere non la costringesse a inarcare la schiena.
Il ragazzo non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. 
« Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso la ragazza avesse deciso di parlare ancora.
Il petto di London si alzava e abbassava a una velocità costante, a ritmo con il suo respiro affannato.
Girò la testa di lato, per evitare di guardare suo marito o per evitare che lui la guardasse, ma permettendo involontariamente, così, che Klaus le baciasse il collo scoperto. Si era reso conto con piacere che quello fosse il punto debole della ragazza, la quale, infatti, gemette di conseguenza.
London, di riflesso, strinse più vigorosamente le cosce intorno alla sua vita e gli affondò le unghie nelle schiena contratta, aggrappandovisi come se stesse per cadere all’indietro da un momento all’altro.
Klaus mugugnò qualcosa, ma non si fermò, inabissando il volto tra l’incavo della spalla e del collo di lei.
London avrebbe voluto fare qualsiasi cosa pur di sottrarsi a quell’umiliazione – una cosa di cui si sarebbe sempre vergognata in futuro, ne era certa – ma forse non lo voleva davvero, perché si lasciò andare in balia del piacere, abbandonando tutti i pensieri e gli insulti che le venivano in mente in un angolo della sua testa.


Quando London aprì gli occhi, era ancora buio. Neanche un filo di luce filtrava dalle tende che ornavano la finestra alla sua sinistra. Capì che dovevano essere le cinque del mattino all’incirca, perché sentiva di aver riposato abbastanza da aver raggiunto quell’orario.
Aveva la mente annebbiata, come se la sera prima fosse stata un miscuglio di voci, persone e situazioni troppo complicate da mettere insieme, per la sua testa.
Era girata su un fianco e di fronte a sé vedeva uno specchio a muro con la cornice intarsiata di legno. Non mise subito a fuoco quel che vi era riflesso, ma poi, soffermandosi e abituando la vista al buio, riconobbe la propria figura rannicchiata sotto il lenzuolo, quasi in posizione fetale. Aveva i capelli scompostamente disordinati sul cuscino e si sentiva la fronte imperlata di sudore.
Per un momento si chiese se avesse la febbre, ma scacciò subito quel pensiero, mentre delle immagini le sfrecciavano davanti agli occhi. Comprese di essere nuda, perché la seta del lenzuolo le accarezzava dolcemente la pelle. Sporse giusto un po’ il viso per notare alcuni indumenti sparsi sul pavimento. Il suo reggiseno di pizzo bianco spiccava in modo particolare, poi il suo vestito da sposa gettato in un angolo. Poi, ancora, notò una cravatta. E dei pantaloni, indubbiamente maschili.
Si accorse solo in quel momento del respiro lieve alle sue spalle e, collegando il tutto ai ricordi ancora sfocati della sera precedente, il cuore iniziò a batterle più forte del previsto. Le salì quasi in gola.
Oh no.
Si girò piano, cercando di fare il minimo rumore possibile – non che ci volesse molto sforzo, comunque, considerando che era sempre stata abbastanza silenziosa quando voleva.
All’altro capo del letto, Klaus le dava le spalle, steso su un fianco esattamente come lei era stesa qualche istante prima. Dormiva ancora.
Avrebbe voluto urlare di indignazione, ma si trattenne. Gli fissò la schiena, sperando che magari si sarebbe sentito osservato e che perciò si sarebbe svegliato. Così avrebbe potuto urlargli contro quanto voleva.
Osservò bene la sua pelle. Non era molto scura, ma sicuramente più della propria. Dove il lenzuolo li nascondeva appena, comparivano alcuni segni rossi tracciati nella carne, dei vividi graffi lasciati da lei stessa qualche ora fa.
Per un attimo si beò al pensiero di potergli aver inflitto dolore, ma poi si rese conto che quei marchi non erano altro che il simbolo della propria debolezza, visto che non gli aveva piantato le unghie nella schiena tantovolontariamente.
Ignorando quel pensiero, soffermò lo sguardo sulla cicatrice bianca e appena visibile che quasi gli circondava la spalla destra, esattamente dove il tributo del Distretto Due aveva calato la sua ascia. Non l’aveva notata prima, evidentemente troppo presa a concentrarsi su altro. Lo staff di Capitol City doveva aver fatto veramente un buon lavoro per renderla così poco visibile. Ma dopotutto, appunto, si trattava della ricca capitale.
London a volte dimenticava che Klaus era tornato dall’arena da poco più di una settimana. Se solo qualcosa fosse andato diversamente, forse ora lei non sarebbe stata sposata. E non sarebbe andata a letto con lui.
Un brivido le scese lungo la schiena, ma non sapeva dire di che natura.
Ho fatto sesso con Klaus, realizzò mentalmente, sconvolta. Non riusciva a focalizzare altro.
Si alzò sui gomiti, poi si sedette sul materasso a gambe incrociate, lasciando cadere il lenzuolo in grembo.
Era sudata; aveva bisogno di una doccia. Era probabilmente l’unica cosa in quel momento in grado di distrarla da tutto quel casino.
Si alzò con un fruscìo del lenzuolo e controllò che Klaus non si fosse mosso. Non aveva decisamente voglia di discutere con lui ora. Si stropicciò gli occhi ancora assonnati, trovando le ciglia secche di mascara e le palpebre pesanti. Raccolse i suoi indumenti – abito da sposa compreso – e li poggiò su letto, allontanandosi poi velocemente da quella camera, sede di ricordi tanto (tanto?) spiacevoli.
Raggiunse in men che non si dica il bagno adiacente alla stanza da letto e, senza indugio, si infilò sotto la doccia, lasciandosi bagnare dall’acqua calda, che prese a scorrere sul suo corpo cancellando le tracce più superficiali della notte precedente.

 

*




Klaus si accasciò sul corpo della ragazza dopo un’ultima spinta, lasciando che quel piacere peccaminoso gli scorresse fin nelle vene. Si sorprese soddisfatto, ma anche stanco, spossato.
Strinse London a sé, beandosi del suo profumo, al quale non aveva badato sino a quel momento. Le circondò la vita con le braccia e affondò il viso tra i suoi capelli.
London ebbe un lieve tremito, ma non si sottrasse, socchiudendo gli occhi quando il respiro ancora affannato di Klaus le solleticò il collo.
Il ragazzo le accarezzò la schiena nuda con i polpastrelli, poi le posò un veloce bacio su una spalla. London sospirò e tremò, ma non disse niente.
Klaus si domandò perché lo stesse facendo, ma quel pensiero aleggiò per qualche istante nella sua testa finché non si dissolse del tutto. Non gli importava, a dire il vero. Non gli importava di nulla.
Si stese accanto a lei, mentre il respiro tornava regolare e i muscoli si rilassavano.

« Adesso puoi dirmi tutto quello che vuoi » sussurrò piano, con la voce tuttavia ancora arrochita.
London lo fissò per un istante, arricciando le labbra. 
« Vaffanculo. »
Klaus si era già aspettato una replica del genere, per cui non si stupì più di tanto e aggiunse senza esitare: « Ci sono già. Ovunque sei tu è ‘fanculo’. »
La ragazza, dopo un’ultima truce occhiata, si girò dall’altro lato.

Il primo rumore che percepì fu il lontano scrosciare dell’acqua.
Strizzò gli occhi nel buio, e pian piano cominciò a distinguere la stanza e a rendersi conto di dove si trovava.Camera da letto.
Il lenzuolo di seta gli fasciava il corpo sudato e aveva i capelli appiccicati alla base del collo. Si girò d’istinto verso l’altro lato del letto, allungando un braccio e trovandolo freddo e vuoto, la sagoma di un corpo ancora impressa sul coprimaterasso stropicciato.
Sbuffò appena, realizzando che lo scroscio d’acqua doveva provenire dal bagno accanto alla stanza. London era già sveglia.
Peccato, si disse sogghignando, avrei voluto vedere il suo faccino imbronciato appena sveglio.
La sua mente si svutò per un istante, poi ricomparvero caparbie le immagini della sera precedente.

« Cazzo » biascicò con la voce ancora impastata dal sonno. Si passò una mano sulla fronte, improvvisamente cosciente.
« Cazzo, cazzo » ripeté frustrato, alzandosi velocemente, raccogliendo i boxer dal pavimento e recuperando una canottiera a mezze maniche da un cassetto del comò – come avesse fatto poi a capire che la biancheria si trovasse lì era solo un mistero.
Indossò il tutto velocemente, raggiungendo il bagno ad ampie falcate. Bussò con un certo vigore, la fronte aggrottata.

« Si può? » gridò con impazienza. Per un attimo lo scroscìo della doccia si fermò.
« No che non si può! » urlò in risposta l’inconfondibile voce di London.
« Oh, ma che t’importa? » sbuffò Klaus, dando di riflesso un altro pugno alla porta. « Abbiamo appena fatto- »
Prima che potesse concludere quell’ovvia constatazione, la porta si aprì, rivelando la ragazza con i capelli bagnati sulle spalle e un asciugamano bianco convulsamente stretto intorno al busto. « Non dirlo! » gridò, gli occhi che dardeggiavano scintille. « Non è mai successo. »
Klaus alzò un sopracciglio. « Ah, sì? »
London, per tutta risposta, gli sbatté nuovamente la porta in faccia.

 

*


 
London, chiusa in bagno con ancora l’asciugamano pulito avvolto addosso, ringhiò contro la porta. Avrebbe volentieri lanciato qualcosa contro di essa, se solo vi fosse stato qualcosa da lanciare.

« Ucciditi, Klaus, e fai un favore a tutti quanti! » strillò.
« Bel modo che hai di affrontare i problemi! » La voce dell’altro arrivò ovattata, ma London comprese perfettamente le sue parole, che ebbero solo l’effetto di farla alterare ancora di più.
Ma non può stare zitto e basta?, pensò con rabbia, mentre il vapore scaturito dalla doccia continuava ad infestare l’ambiente, appannando lo specchio e lasciando un sottile strato di umidità sui mobili.

« Fai sempre così, Londie? » continuò Klaus, insistente. « Scappi da ogni cosa? Non è dignitoso, sai… »
London riaprì la porta, cercando di recuperare la calma. « Sto finendo di farmi la doccia, se non te ne sei accorto » spiegò, inspirando. « Non ne potremmo parlare dopo da brave persone civili»
L’altro roteò gli occhi. « Io ne volevo parlare adesso. »
La ragazza gli scoccò un’occhiata furiosa. « Ah, perfetto. Comincia tu, allora. » Incrociò le braccia sotto al seno, lasciando che l’asciugamano le scivolasse più in giù del previsto.
Klaus, prima di lasciarsi sfuggire un ghigno divertito, la osservò compiaciuto.
Ora, London non era mai stata una ragazza pudica – basti pensare che baciava suo fratello in pubblico fregandosene altamente del parere altrui –, ma quando se ne accorse non poté fare a meno di andare in escandescenze. Nessuno poteva guardarla in quel modo, neanche Klaus. Specialmente Klaus.
Gli diede uno schiaffo, mentre le gote le si arrossarono – dalla rabbia, naturalmente. 
« Smettila! » disse adirata, girandosi dall’altro lato.
« Di fare cosa? »
« Beh » borbottò London, gonfiando le guance come una bambina, « … di fare questo»
Klaus annuì con aria da uomo vissuto e alzò le braccia in un finto segno di resa. « Non sto facendo proprio niente, tesoro. »
« Adesso mi chiami anche tesoro? » chiese, punta nel vivo. Si voltò nuovamente verso di lui, trovandoselo a una sola spanna dal viso. Aveva di nuovo quello sguardo divertito e malizioso al contempo, così irritante…
L’avrebbe baciata di nuovo, lo sapeva. E lei, lei… sarebbe caduta di nuovo nella trappola. Inorridì al pensiero e fece un passo indietro.

« Ti chiamo come mi pare: Londie, tesoro, mia adorata… quale preferisci? » le chiese fintamente interessato – tanto non avrebbe ascoltato la sua opinione comunque.
« Avanti » fece London con uno sbuffo, spazientendosi. « Hai detto che volevi parlare. Perciò, parla, ed evita di dire cazzate. »
« Ti è piaciuto? »
Lo aveva chiesto candidamente, alzando un sopracciglio. Lei credette di non aver capito bene.
« Stai scherzando? »
« Per niente. »
« Sei venuto a rompermi le palle solo per chiedermi questo? » domandò, scioccata. « Sei un maiale, Klaus! E, se vuoi saperlo davvero, no che non mi è piaciuto… Se solo tu fossi più simile a Ben, forse avrei potuto anche- »
Klaus le prese il mento con una mano e la guardò dritto negli occhi. « Sei una puttana, London, lo sai? »
London stava per urlargli qualche rispostaccia come si deve, ma Klaus scese al piano di sotto prima che lei potesse accorgersene.
E tanti saluti alla bella replica che le era venuta in mente.

 

*



Klaus era furioso, adirato, incazzato.
Scese le scale rivestite di moquette torturando il corrimano di legno e precipitandosi alla disperata ricerca di quella cantina che – lo sapeva – doveva pur esserci in qualche parte di quella fottuta casa.
Aprì una decina di porte circa, per poi sbatterle violentemente alla scoperta delle inutili stanze che nascondevano. Sperò che London lo stesse sentendo.
Si sentiva un estraneo in casa propria, il che non era decisamente il massimo, considerando che avrebbe dovuto vivere lì per almeno un bel po’ di tempo. Anni, addirittura. Con quella troia.
Sbatté un’altra porta con forza, sentendo persino la credenza con i piatti di ceramica vibrare e mandare rumori sinistri. In realtà, che quella casa fosse caduta a pezzi non gli importava più di tanto.
Gli bastava trovare una bottiglia di liquore, e forse tutto avrebbe cominciato ad avere un senso.
Infine, non trovò la cantina, ma qualcosa che somigliava a un piccolo studiolo, nascosto tra il salone e la sala da pranzo. Entrando, fu investito da un piacevole odore di tabacco. Quel posto gli sarebbe piaciuto, si disse.
L’ambiente non era niente di che: una stanza rettangolare tappezzata di libri e con al centro una sottospecie di scrittoio di legno; di fronte ad esso, una semplice poltrona di velluto rosso scuro. Probabilmente era stata arredata dai Bridge, perché i suoi avrebbero dato un contributo decisamente più pacchiano – facendolo passare per “classico”, naturalmente.
Accarezzò lievemente lo scrittoio, e aprì la scatola di ferro poggiata su di esso. Sigari.
Dio da qualche parte esiste, pensò quasi sollevato, prendendone uno con un a lui estranea delicatezza. Dalla stessa scatoletta recuperò un accendino di ottima fattura, probabilmente antico, ornato da strani simboli etnici. Ne ammirò la lavorazione giusto un istante, prima di accendersi il sigaro e inalare una buona quantità di nicotina. Sbuffò il fumo, rilassandosi per un secondo.
Ha detto che non le è piaciuto, pensò, prima di fare un altro tiro. Fottuta bugiarda.
Si lasciò cadere sulla poltrona, reclinando il capo sulla testiera e rilasciando una seconda nuvoletta di fumo denso. Socchiuse gli occhi, quando si accorse del leggero pizzicore immediatamente sotto le scapole. Non vi aveva badato prima. Graffi.
Sul suo volto si formò una smorfia, che si trasformò in un ghigno sardonico. E, poi, ancora, in un’espressione rabbiosa.
Che puttana, ripeté nella sua testa, non trovando insulto migliore per descriverla. Vorrei proprio vedere se quell’idiota di Ben riesce a raggiungere certi livelli – e qui gli comparve un altro sorriso sghembo, che scemò immediatamente ricordandosi del segreto più grande che condivideva con quello.
Si era domandato più volte se Ben avesse mai parlato della loro fatidica notte con qualcuno, ma in genere smentiva subito ogni ipotesi perché entrambi sapevano bene che qualsiasi fuga di informazioni avrebbe rovinato la reputazione sia dei Bridge che dei Wreisht.
In realtà a Klaus non importava molto della sua famiglia, ma l’altro non avrebbe mai dato un simile dispiacere ai suoi genitori e alla sua amata sorella. Per cui, forse, su di lui si poteva contare abbastanza.
Si chiese cosa avrebbe fatto London se un giorno fosse venuta a sapere di quella maledetta questione. Di sicuro ne sarebbe rimasta sconvolta.
Accarezzò per un istante il pensiero di rivelarglielo a tradimento, giusto per infrangere un po’ le sue convinzioni, ma poi considerò che sarebbe stata come un’arma a doppio taglio. Anche Ben, infatti, aveva avuto l’intenzione di usarla contro di lui, al matrimonio.
Klaus non poté fare a meno di pensare che quei due gemelli gli avevano praticamente rovinato la vita. Eppure era stato a letto con entrambi, nell’ultimo anno.
Dettagli, pensò sbuffando altro fumo. Solo grazie alle circostanze.
Tentò di rilassarsi, anche se invano. Ormai aveva i nervi a fior di pelle.
E inoltre, prima che potesse fare qualsiasi altra cosa, bussarono alla porta. Il campanello rimbombò all’improvviso nel quieto silenzio mattutino della villa.
Klaus diede un’occhiata all’orologio dello studiolo. Le sei e mezza.
Non si chiese neanche chi avesse l’ardire di bussare a quell’orario, perché una vaga idea già ce l’aveva.
Andò ad aprire prima che lo potesse fare London.

« Oh, Benjamin, qual buon vento? » salutò, riconoscendo sull’uscio della porta proprio chi aveva pensato qualche istante precedente.
Ben cercò di non fare caso al fatto che Klaus fosse praticamente seminudo e lo guardò in faccia. 
« Devo parlare con London » disse flebilmente. In realtà sulla sua faccia pallida si poteva leggere con chiarezza che il ragazzo aveva sperato che ad andarlo ad aprire sarebbe stata la sua gemella.
« Per… ? » domandò Klaus, non spostandosi dalla porta per non lasciarlo entrare.
« Non rientra nei tuoi interessi » borbottò l'altro.
« E a quest’ora, poi? » gli chiese, ignorando il suo ultimo intervento.
« London è sempre sveglia e pronta, a quest’ora. »
« Capisco » annuì il moro, spostandosi giusto di poche spanne per lasciarlo passare. « Accomodati pure » continuò sarcasticamente.
Ben entrò nell’atrio, titubante. Probabilmente gli faceva uno strano effetto sapere che adesso London viveva lì, in compagnia della persona più sgradevole del mondo. Si guardò intorno, notando che i due sposi si erano curati di lasciare l’intera casa esattamente come lui l’aveva lasciata la sera precedente. C’era un po’ di disordine in giro, ma cercò di non badarvi.

« Dovreste assumere una cameriera » gli disse, notando i petali di rose ancora sparsi un po’ ovunque.
« Un giorno » rispose Klaus con un veloce gesto della mano.
« London dov’è? » domandò Ben sbirciando in direzione delle scale con aria spaesata. Forse si sentiva in imbarazzo, ma non voleva darlo a vedere.
« Di sopra » ribatté con un sorriso obliquo che il giovane Bridge non seppe interpretare. Rimasero qualche istante in silenzio.
Ben si guardava intorno nervosamente e Klaus lo fissava di sottecchi.

« Oh, prima che me ne dimentichi » disse il moro come se se ne fosse ricordato solo in quel momento. « Stanotte abbiamo fatto sesso. »
La faccia di Ben, se possibile, sbiancò di botto. « Oh » bisbigliò, cercando disperatamente una traccia di bugia negli occh scuri di Klaus, che bevve avidamente la sua reazione con un ghigno soddisfatto. Infine, l’albino fece un mesto sorriso. « A quanto pare, alla fine non puoi proprio fare a meno di andare a letto con un Bridge. Vero, Klaus? »
Stavolta fu l’altro a impallidire, e contrasse la mascella. « Semmai il contrario, Watchie»
Ben non sembrava per nulla felice, eppure riuscì a replicare: « Oh, no, Klaus. Almeno su questa cosa sono sicuro di avere ragione. »
Klaus, di scatto, lo spintonò in direzione del muro e lo bloccò con le spalle contro la parete. « Non ci giurare. Voi Bridge del resto non capite mai un cazzo. »
E in quel momento, quando sarebbe potuto accadere l’inevitabile, entrambi sentirono dei passi cadenzati scendere le scale.
« Ben? » chiese London, nel vedere suo fratello tra le grinfie di Klaus. « Klaus! » urlò poi, rivolgendosi direttamente a lui.
Il moro lasciò le spalle dell’altro con uno sbuffo. 
« Ecco. Adesso è tutto tuo » le disse con eloquenza, mentre London sembrava cacciare fumo dalle narici tanta era la rabbia. « Così potrete scopare tutto il giorno e tutta la notte, basta che lo fate a casa vostra. »
« Infatti » riprese London quasi strillando, prendendo Ben per mano. « Adesso ce ne andiamo a casa. La nostra vera casa. »
Klaus vide saettare lo sguardo della ragazza nella sua direzione, ma lui era concentrato sul viso di Ben, che era ornato da un’espressione più sconcertata del solito.
Sorrise sarcastico. 
« Divertitevi. »
London uscì di casa sbattendo violentemente la porta e trascinandosi suo fratello dietro.
E, mi raccomando, aggiunse Klaus con il pensiero, non prendete troppo spunto da me, quando sarete sotto le coperte.



 













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Capitolo 8
*** 007. Seventh Chapter – Drama queen. ***


Note: Sono tornata, un po' più motivata di prima.
Niente, la "Drama queen" (cioè  tipo "regina della recitazione") del titolo è London, chiaramente... e questo capitolo è un po' più introspettivo/sentimentale. Mostra un po' più del loro apparato psicologico, ecco.
Non ho voglia di parlare molto.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo è ispirato a "The Outsider" degli A Perfet Circle.

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Ciao, nonna. Ti voglio bene.







 

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007. Seventh Chapter – Drama queen.




L’asfalto scricchiolava passivamente sotto i loro piedi.
Li avvolgeva uno strano e doloroso silenzio, carico come l’elettetricità di parole troppo pesanti anche solo da pronunciare. Il cielo cominciava a schiarire e, nonostante il Distretto fosse immerso ancora nella placida tranquillità mattutina, i primi lavoratori uscivano dalle proprie case o si apprestavano a farlo.
Era giugno; le fronde dei pochi alberi della zona mandavano il caratteristico ed estivo cicaleccio.

« Non so se resisterò a lungo » sbottò London, ancora adirata. « E’ passato solo un giorno e già non ne posso più. »
Benjamin teneva la testa bassa e camminava lentamente, guardandosi le scarpe da ginnastica.
« Credimi, Klaus è… » cominciò la ragazza, ma, prima di continuare con qualche insulto colorito, si bloccò, notando l’espressione rattristita del gemello. « Cos’hai, Ben? »
Lui, sentendosi chiamato in causa, alzò gli occhi e provò a sorridere. Invano. « Niente. »
London lo osservò preoccupata. « Andiamo, sono io. Capisco quando qualcosa non va. » E forse sapeva già che cosa non andasse, ma aveva troppa paura persino di pensarlo.
« Non ti ha costretta, vero? » chiese candidamente lui, sfiorandole una mano. Lo stomaco della ragazza si contrasse bruscamente.
« Ben, io… » sussurrò, così piano che neanche lei riuscì a sentire la propria voce. « … no. »
Ben annuì, mesto, ricominciando a studiarsi le scarpe. A quanto pareva Klaus l’aveva già messo al corrente degli avvenimenti della notte precedente. Ovviamente.
« Che cosa ti ha detto? » chiese, cauta, cercando disperatamente il suo sguardo.
« Che avete fatto sesso » rispose lui.
« E basta? »
« Basta. »
London smise di camminare e bloccò anche suo fratello. « Ben, guardami » gli disse, prendendogli il volto pallido tra le mani – che le tremavano inspiegabilmente. « Ho sbagliato, lo so. E se c’è una cosa di cui mi pentirò per sempre... è questa. Non so cosa mi sia preso, lui… mi ha baciata… ed io… oh, scusami! » disse, abbracciandolo di slancio. Affondò il viso nella sua spalla, seriamente in colpa.
Ben le carezzò piano la schiena. Era un gesto freddo, eppure sembrava sincero. Rassegnato, quasi.

« Non devi scusarti » replicò serenamente. « Tu non sei di mia proprietà, d’altronde. »
« Non dirlo neanche per scherzo! » esclamò la ragazza, stringendosi di più a lui. « Non ti meriti una cosa del genere. »
Ben ignorò la sua ultima affermazione. « C’è sempre stata attrazione fisica tra voi due, prima o poi sarebbe successo comunque… ti ho convinto io e ora siete sposati, no? »
London si staccò di botto, gli occhi spalancati. « Attrazione fisica? » sibilò inorridita. « Come fai a dire una cosa del genere? »
« Ho notato come ti guarda, Londie… » disse tristemente. « Non sono scemo. »
« Certo che non lo sei, ma… » Le parole le vennero meno. Dopotutto, aveva notato anche lei come Klaus tentasse di provocarla in qualsiasi modo.
« Non ti scusare » ripeté Ben, stavolta più sicuro.
London gli accarezzò una guancia. 
« Tu sai che amo solo te, Ben. »
« Certo » sorrise. Di un sorriso spudoratamente falso.

Quando London e Ben arrivarono al maniero dei Bridge, il sole era già sorto da un po' e la nebbiolina che ogni mattina infestava il Distretto Sei cominciava a dissolversi, lasciando spazio a un caldo umidiccio.
La ragazza, entrando nella casa in cui era cresciuta, fu colta da un istante di nostalgia. Era bello tornare tra quelle mura; era bello rivedere le rigogliose piante del giardino, i dipinti di Ben sparsi per le stanze, ritrovare ogni cosa al proprio posto, come se il giorno del matrimonio si fosse cancellato automaticamente.
Eppure sembravano mesi, anni addirittura, che non rientrava in quella casa, quando invece solo la mattina precedente si stava preparando per il grande evento nella sua stanza in compagnia di sua madre.
Al piano terra la investì un piacevolissimo odore di frittelle e d’un tratto si sentì tornare bambina, quando lei e Ben giocavano a rincorrersi per casa ridendo come matti, pur di accaparrarsi quelle al cioccolato per primi.
Il sorriso che stava per affiorarle sulle labbra morì sul nascere. Era tutto cambiato.
Adesso viveva in una nuova casa, non poteva più permettersi di comportarsi infantilmente, né poteva ridere spensierata con suo fratello. Il suo mondo si stava sgretolando di giorno in giorno, e forse non sarebbe più riuscita a metterne insieme i pezzi, come se quello fosse un puzzle troppo complicato persino per lei.
Entrò in cucina, trovando sua madre ad apparecchiare la piccola tavola quadrata al centro della stanza, quello dove ogni mattina erano soliti fare colazione tutti e quattro insieme.

« Oh, tesoro! » esclamò sua madre, nel vederla. « Come stai? »
London, seguita da Ben, andò ad abbracciarla. « Come sto? » le fece eco, incerta della risposta. « Non bene » disse poi, cercando di evitare lo sguardo di entrambi.
« Cos’è successo? » le chiese immediatamente Erzsébet, preoccupata, scostando una sedia dal tavolo per sedersi accanto alla figlia, che nel frattempo si era accomodata e giocherellava passivamente con la sua vecchia tazza di ceramica. Anche Ben aveva preso posto di fianco a loro e aveva cominciato a mangiare la sua frittella in silenzio, fissando il piatto, rattristito.
London evitò di rispondere. Non che avesse vergogna di parlare con sua madre, ma non aveva voglia di riprendere il discorso, anche se sapeva benissimo che l’avrebbe dovuto affrontare di nuovo, prima o poi.
Erzsébet le rivolse uno sguardo indagatore. 
« London, ti prego, dimmi la verità. »
La ragazza sospirò rassegnata. « Hai presente la prima notte di nozze, mamma? »
La donna si portò una mano alla bocca. « Voi… quindi voi avete… ? »
« Ecco » rispose London bruscamente, osservando le frittelle ordinatamente impilate senza neanche sfiorarle.
« Oh mio Dio » esclamò orripilata sua madre, intendendo anche più del dovuto. « Non ti ha per caso…? »
« Ah, questo no » biascicò la ragazza. « In effetti sarebbe stato un ottimo alibi, ma, no, non mi ha stuprata o cosa. »
Ben alzò di poco gli occhi su di lei, per poi tornare a osservare il piatto.
Erzsébet cercò disperatamente un segno di comprensione da parte della figlia. 
« Allora mi spieghi com’è successo? »
« Mamma » borbottò London. « Non devo certo spiegarti come le api trasportano il polline, vero? »
La donna arrossì lievemente e fece un risolino nervoso. Probabilmente era sconcertata dal fatto che la figlia fosse decisamente meno in imbarazzo di lei. « Non intendevo quello, tesoro » si affrettò a spiegare. « Solo che tu e Klaus sembravate… ecco… »
London sospirò, ma evitò di continuare la frase.
Erzsébet spostò lo sguardo sul figlio, con aria pensierosa e interdetta.  Sapeva bene del rapporto che correva tra i due gemelli, tant’è vero che lei e suo marito non si erano mai dimostrati contrari, né si erano opposti. Tutti potevano vedere quanto London e Benjamin si amassero, non c’era motivo di nasconderlo a nessuno.
Eppure tutti e tre, in quella cucina, in quel momento, non si capacitavano a credere che London in persona si fosse concessa al suo peggior nemico proprio la notte precedente – e per quale motivo neanche lo sapevano. Un capriccio, forse?
Finirono la colazione in un silenzio pesante, mentre, nel giardino, le cicale continuavano a frinire ignare della tempesta che si stava abbattendo su quella famiglia.

London non tornò nella sua nuova casa per i restanti tre giorni. Fece alcune commissioni per sua madre, passeggiò con Ben, parlò con suo padre e giocò a scacchi con lui – anche se non era mai stata brava quanto il gemello, questo doveva ammetterlo.
Passò delle giornate tutto sommato piacevoli e per una volta i suoi genitori non le dissero nulla, lasciandola fare.
Tuttavia, il quarto giorno Erzsébet entrò nella sua stanza e, scostando delicatamente le tende della finestra, si sedette sul letto accanto a lei.
London si era già destata, ma si lasciò accarezzare un braccio dalla madre come quando era piccola e lei la svegliava per andare a scuola. 
« Buongiorno » le disse questa sorridendo.
La ragazza sbadigliò e rispose, stiracchiando le braccia: 
« ‘Giorno. »
Rimasero così per qualche istante; era da tempo che madre e figlia non condividevano momenti del genere.
London era grata a sua madre per non aver ancora accennato a Klaus in tre giorni di permanenza, ma quella mattina le era chiaro come l’acqua che ne avrebbero parlato.
Infatti Erzsébet, schiarendosi la voce, cominciò senza preamboli: 
« Credo che dovresti tornare a casa, tesoro. »
Per lei fu come ricevere uno schiaffo, o una secchiata d’acqua gelida. « Questa è casa mia » ribatté debolmente, eppure con convinzione. O forse era solo semplice ostinazione.
La donna alzò gli occhi al cielo. 
« Adesso voglio chiederti una cosa, London » esordì con il tono di chi la sa lunga. « Perché sei stata con Klaus, se dici di odiarlo tanto? »
London si alzò a sedere di scatto, punta nel vivo. « Mamma » disse, con il tono leggermente alzato, « che cosa stai insinuando? »
Erzsébet non si scompose e la osservò seria. A London sua madre ricordava tanto Ben, in quei momenti.
« Voglio solo che tu mi dica la verità » chiarì la donna. « Che cosa provi per lui? Perché se ti senti… attratta, in qualche modo, credo che non dovresti tenertelo dentro e mentire a tuo fratello, oltre che a te stessa. Specialmente dopo tutte le proteste che hai fatto per non sposarlo. »
E forse quello fu uno schiaffo morale ancora più doloroso.
« Oh Dio » esclamò sconvolta. « Io non sono attratta da Klaus per niente, né lo sarò mai! E poi Ben lo sa benissimo, non c’è bisogno che glielo dica. » London sbuffò e borbottò qualche altra cosa, mentre sua madre si alzava e aggiustava distrattamente il lenzuolo mezzo caduto sul pavimento.
« Se lo dici tu » concesse Erzsébet. « Ma bada bene a non ferire i sentimenti di Benjamin » la ammonì, incrociando le braccia. « Sai com’è fatto. E adesso torna a casa, o farai una brutta figura con i Wreisht. »
London avrebbe voluto ribattere che non gliene importava nulla di fare brutta figura con i suoi neo suoceri, ma sua madre uscì prima che potesse fermarla.

Quando rientrò nella villa, le luci del pianterreno erano spente. London si chiuse la porta alle spalle con un gesto irritato e circospetta si avviò nell’androne, dove ancora erano visibili le ultime tracce del giorno del matrimonio, come qualche petalo di rosa sul pavimento e delle candele consumate sul tavolo da pranzo.
Si chiese per un breve istante che cosa avesse fatto Klaus in quei giorni; forse era tornato a casa anche lui.
Impossibile, si disse scuotendo la testa. Quell’idiota sarà andato in giro a bivaccare come al solito.
Nella penombra serale osservò le scale e il pianerottolo, altrettanto bui e silenziosi.

« Klaus? » chiamò piano. A risponderle ci fu solo il nulla.
Salì al piano superiore, guardinga, temendo che il suo odiato marito potesse spuntar fuori da un momento all’altro. La villa era immersa nel silenzio, eppure a London per un istante parve di sentire una voce di donna provenire dalla stanza da letto. Assai lungi dal farsi problemi a entrare, la ragazza aprì la porta della camera che condivideva con Klaus con una sorta di presentimento.
Lui era lì, steso sotto le coperte, le mani dietro la testa e un sigaro tra le labbra.
Il fetore del fumo la colse improvvisamente, ma fu un’altra cosa a farla imbestialire. Al suo posto, sul suo letto, c’era una donna nuda che contava dei soldi.
I due per un attimo la fissarono sconcertati, come se fosse un essere venuto da un altro mondo; lei si limitò a sbattere la porta, rossa in viso dalla rabbia e dall’imbarazzo.
E ha anche il coraggio di chiamarmi puttana?, pensò adirata, sibilando un insulto tra i denti. Diede un pugno al muro e non ebbe neanche il tempo di riflettere su come agire che il suo istinto le fece di nuovo spalancare la porta.

« Fuori! » strillò con un gesto eloquente. « Fuori dalla mia stanza! »
La donna si rivestì velocemente e in silenzio, lanciando un’ultima occhiata a Klaus che osservava la scena interdetto.
« Non è solo la tua stanza, Londie » precisò lui a bassa voce, ma il ringhio di London bastò a farlo tacere.
« Abbi la decenza di non parlare » gridò con rabbia. « Fuori, avanti! » ripeté alla prostituta che abbandonò la stanza con un sospiro irritato. London la guardò uscire con le braccia incrociate e quando finalmente rimase sola con suo marito gli rivolse uno sguardo sprezzante e accusatorio.
« Non ti aspettavo stasera » fece lui con uno sbuffo di fumo, abbandonando il sigaro in un posacenere sul comodino.
La ragazza salì sul letto, pronta a colpirlo – desiderava tanto cancellargli quella maledetta espressione divertita dal viso; se solo avesse potuto gli avrebbe piantato le unghie nella carne – ma Klaus fu più veloce e, afferrandole i polsi e invertendo le posizioni, la bloccò sul nascere.

« Ti detesto! » gli urlò lei in faccia, frustrata.
« Come se non lo sapessi » biascicò l’altro. « Sai, c’è gente che apprezza le mie doti molto meglio di te. »
London gli tempestò il petto di pugni, cosciente che quelle parole e quella ravvicinata distanza con lui la stessero facendo letteralmente implodere, più del previsto. Sentiva la collera scorrerle nel sangue, per cui si liberò di lui in breve tempo e, dopo essere salita a cavalcioni sul suo addome, continuò a sfogarsi, menandolo come non faceva da tempo.
Klaus, pertanto, reagì alla stessa maniera, finché non si ritrovarono sul pavimento, dopo un costante cambiamento scenico, avvolti nel lenzuolo. London rotolò di lato, poi si alzò di scatto in piedi, i capelli disordinatamente scomposti sulle spalle. Si scostò una ciocca dal viso sbuffando e, notando che anche Klaus si era rialzato, si voltò dall’altro lato con le gote arrossate.

« Almeno copriti » disse seccamente.
Klaus alzò gli occhi al cielo. 
« Senti » esordì, scocciato, « non ho voglia di stare a sentire le tue lamentele. Cosa vuoi da me, adesso? »
« Questa casa purtroppo è anche mia » protestò la ragazza. « Non puoi portarti a letto la prima che capita, non qui. »
L’altro si sedette sul bordo del letto, infilandosi i pantaloni del pigiama. « Ah, allora è questo il problema » ribatté con una smorfia quasi divertita. « Niente puttane, capisco. Dunque dovresti andartene anche tu, no? » aggiunse.
London si voltò di nuovo verso di lui con sguardo furente e incapacitato. 
« Smettila di insultarmi, non sono io quella che si vende al primo che passa! »
Klaus avrebbe voluto replicare con qualche commento in merito alla prima notte di nozze, ma si trattenne. « Chiariamo una cosa, London » – e qui lei pensò che erano veramente rari i momenti in cui la chiamava con il suo nome di battesimo – « Io vivo la mia vita, tu vivi la tua. Io vado a letto con chi voglio, tu con tuo fratello. Per quanto mi faccia ribrezzo l’idea, non interferisco nelle tue scelte; e se proprio ci tieni a fare sesso con me, la prossima volta faresti meglio a dirmelo apertamente, senza inutili scenate. D’accordo? »
London sgranò gli occhi, esterrefatta. « Sei impazzito? » gli domandò. « Io non- »
« Sì, certo, dalla a bere a qualcun altro » sbuffò Klaus. « Non so a cosa vuoi arrivare, ma sappi che anche se adesso siamo sposati io continuerò a fare quello che mi pare e piace, che tu lo voglia o meno. »
« Non fraintendere » lo ammonì London con tono più acuto. « Tu mi fai schifo, e credo che il sentimento sia ricambiato. L’hai detto anche tu: adesso siamo sposati, quindi dobbiamo metterci d’accordo in qualche modo se non vogliamo che la nostra vita sia un inferno più di così. »
« Magnifico » ribatté Klaus alzandosi. « Ci sono due camere singole per gli ospiti. Tu prendi quella accanto al bagno, io l’altra. Ti va bene? »
London lo fissò per un istante, sorpresa che avesse già trovato qualcosa di simile ad una soluzione. « Perfetto » assentì quindi, stringendogli controvoglia la mano. « Ma non voglio sgualdrine in giro per casa » precisò.
« E io non voglio essere rotto le palle » aggiunse Klaus, ricambiando la stretta con vigore.
Entrambi uscirono voltando i tacchi e, quando furono per entrare nelle rispettive stanze che si erano assegnati poco prima, il ragazzo non poté non augurarle un 
« Buonanotte » sarcastico e pungente, a cui London fece finta di non prestare ascolto.

 

*

 

Intorno a lui c’era il nulla. Tutto era buio, spento, privo di vita.
Non sapeva neanche se il suo corpo esistesse oppure se fosse solo un pensiero sfocato; la sensazione di stare in posizione eretta neanche ce l’aveva, infatti. Era come se stesse fluttuando nel vuoto, nel silenzio e nella paura.
Klaus si sentiva profondamente inquieto, come se quel nulla prima o poi l’avrebbe inghiottito e soffocato, ponendo fine alla sua vita senza dargli nemmeno il tempo di capire.
Girò su se stesso, spaesato, quando si sentì afferrare una gamba da mani viscide e rugose.
Non ebbe neanche il tempo di urlare o reagire, che un’altra mano deforme gli tappò la bocca da dietro, mentre gli infilzava qualcosa di simile ad un pugnale nella schiena, fino all’elsa, fino a far uscire la punta grondante sangue dal suo costato.
Il dolore lo attraversò con una fitta lanciante, mozzandogli il respiro e offuscandogli la mente.
Altre mani gli afferrarono le braccia e le gambe, trascinandolo verso il basso.
Come aveva previsto, il buio lo stava inghiottendo per non farlo più riemergere.


Klaus aprì gli occhi di scatto, alzandosi a sedere e risucchiando l’aria che gli era improvvisamente venuta meno. Boccheggiò per qualche istante, portandosi una mano all’altezza del petto e tastandosi la zona in cui il pugnale del suo incubo l’aveva trapassato. Quasi sentiva ancora la lama incidergli la carne.
Si passò l’altra mano sulla fronte, trovandola madida di sudore.
Con il cuore in gola, si alzò dal letto per poi aprire la finestra sulla destra. Inspirò l’aria notturna come se non respirasse da tempo immemore, poggiando le mani sul davanzale per rilassare i muscoli. Qualche uccello notturno gufava tranquillo sul proprio trespolo, mentre una brezza fresca smuoveva l’aria altrimenti carica di appiccicosa umidità.
Klaus imprecò contro il suo incubo sottovoce, stufo di doverne essere perseguitato.
Stava cercando di dimenticare.
Stava cercando di dimenticare il sangue, le urla, la paura e la sofferenza dei Giochi, ma non sapeva se ci sarebbe mai riuscito. Dopotutto quegli incubi che ogni notte agitavano il suo sonno non arrivavano a caso.
Un peso gli opprimeva il petto, come tutte le volte che si svegliava da quelle terribili visioni, e solo in un modo forse sarebbe riuscito a farlo dissolvere. Gli serviva dell’alcool.
London, i sigari e le prostitute non erano bastati a farsi scivolare tutto addosso. Anzi, forse avevano soltanto peggiorato la situazione, soffocandolo di altri problemi, di altre cose a cui pensare.
Si sentiva come se il suo cervello stesse per implodere da un momento all’altro, e forse sarebbe stato anche meglio così. Perché Klaus si domandava spesso cosa sarebbe successo se fosse morto durante gli Hunger Games o, ancora, cosa sarebbe successo se non vi avesse mai partecipato.
Non era per niente facile riuscire a sopprimere i ricordi, sebbene ci stesse provando in tutte le maniere possibili. Provava a non pensarci, provava a comportarsi normalmente come se niente fosse, provava a sfogare sugli altri… ma senza esito. E per di più, puntualmente, gli incubi arrivavano di notte a logorargli la mente. Si era chiesto più volte se la sua vita avesse un senso, se in mezzo a tutto quel marcio ci fosse ancora qualcosa per cui valeva la pena combattere, ma non aveva mai trovato risposta.
Vuoto: di questo era fatto Klaus Wreisht in quel momento. Era la rappresentazione del fallimento, dell’inutilità e dell’apatia, e la cosa che lo faceva infuriare di più era il fatto che ne fosse pienamente cosciente e nonostante questo non riusciva a trovare un modo per seppellire ogni cosa e tornare il solito ragazzo scapestrato che tutto il Distretto Sei conosceva.
Fece un sorriso amaro a quel pensiero: il brutto carattere gli sarebbe rimasto sempre e comunque. Sarebbe rimasto il Klaus orgoglioso, presuntuoso, borioso, egoista, ipocrita e saccente che tutti ricordavano e detestavano.
Niente e nessuno l’avrebbe cambiato.
Forse.

Scese le scale della cantina velocemente. Era un piccolo seminterrato da cui si accedeva dalla cucina e fino al giorno prima non ci aveva fatto caso, perché effettivamente aveva esplorato quella casa davvero poco.
Tuttora non si capacitava del fatto che dovesse ancora riuscire ad orientarsi in quella che era diventata la sua dimora a tutti gli effetti; era decisamente frustrante, se si metteva in conto il fatto che Klaus avesse sempre avuto un viscerale bisogno di sapere tutto e subito.
Nella cantina c’erano ancora molti scatoloni sigillati – contenenti chissà cosa – e diversi scaffali di vino pregiato, adatto probabilmente alle occasioni più importanti. Ma per Klaus non c’erano mai state occasioni importanti per bere: qualsiasi momento era buono e opportuno per sgolarsi qualche sano bicchiere di qualchesana bevanda alcolica.
Osservò interessato una fila di liquori in bottiglia, quando la sua attenzione venne attirata da un piccolo tonfo sordo alla sua sinistra.
Si voltò di scatto, colto di sorpresa, e, intuendo che il rumore provenisse da dietro alcuni scatoloni impilati, si avvicinò circospetto.

« Chi è? » domandò lievemente una voce intontita dai fumi dell’alcool.
Klaus fissò London a metà tra lo stupito e il divertito. Reggeva tra le mani una bottiglia senza etichetta e, seduta su uno scatolone un po’ più rigido, si dondolava debolmente. 
« Ah, sei tu » borbottò, portandosi di nuovo la bottiglia alla bocca.
« Chi altri, se no? » chiese di riflesso, osservandola con un sorriso obliquo.
London ubriaca, questa è da ricordare!, fu il suo primo pensiero. Non avrebbe mai immaginato che sua moglie reggesse l’alcool così male.
La ragazza fece un verso d’apprezzamento. 
« Sei ovunque » sbuffò poi, tralasciando il vino per un momento. « Lasciami… lasciami in pace. »
Klaus la ignorò. « Cosa bevi? » si interessò, ammiccando.
« Non lo so » rispose London rigirandosi la bottiglia tra le mani. « Ma è buono. »
« Se fosse stato veleno saresti già morta, lo sai? » le domandò addolcendo sarcasticamente il tono come si farebbe con un bambino.
« Meglio morta che in tua compagnia » ribatté lei, sorseggiando le utilme dita di vino.
« Oh, vedo che mantieni la tua risaputa simpatia anche da ubriaca… stupendo » commentò Klaus. « Posso accomodarmi? » disse, ma non le diede neanche il tempo di rispondere che già aveva spostato uno scatolone e si era seduto accanto a lei.
« Vuoi assaggiare? » domandò London, le gote leggermente arrossate.
Il ragazzo ridacchiò tra sé a quella scena fuori dal mondo. Aveva già avuto a che fare con un Bridge ubriaco, tempo addietro, e ricordava ancora come tutta la faccenda si fosse conclusa. 
« D’accordo. »
London gli porse la bottiglia, che era quasi completamente vuota. Klaus la finì nel giro di pochi secondi.
« Mi hai lasciato la parte migliore » disse, schioccando la lingua sul palato. « Era ottimo. » Posò la bottiglia a terra, stando attendo a non farla rompere. « Chi ha portato tutta questa roba, qui in cantina? »
« Non ne ho idea » biascicò la ragazza, sistemandosi meglio sullo scatolone e portandosi le ginocchia al petto. A quel gesto assolutamente non calcolato la già corta camicia da notte le lasciò le gambe scoperte.
Klaus non poté fare a meno di lanciare un’occhiata compiaciuta, ancora memore di quello che era successo quattro giorni prima. London aveva delle belle gambe lunghe, morbide ma toniche. Lo aveva notato con piacere, considerando che di gambe ne aveva viste molte in vita sua.
Se solo London non fosse stata, appunto, London, forse ci avrebbe fatto già un pensierino da tempo.
Come se di pensierini non ne avessi mai fatti, si ricordò in quel momento, spostando lo sguardo altrove. Sei l’incoerenza fatta persona, Klaus Wreisht, davvero. Si complimentò con se stesso sarcasticamente, scuotendo la testa.
Il suo rapporto con quella ragazza si era sempre basato su un solo fattore: l’odio reciproco.
Klaus era convinto che si erano odiati, si odiavano e si sarebbero odiati per sempre, ma non aveva mai messo in considerazione il fatto che forse qualcosa sarebbe anche potuta cambiare – in meglio o in peggio ancora non ne aveva idea.
Non aveva intenzione di dare una svolta decisiva a quella serata, per cui cercò di non sfiorarla neanche (e  inoltre una vocina insidiosa nella sua testa gli sussurrava che forse avrebbe preferito che London fosse lucida quando avrebbero avuto un altro incontro ravvicinato). Dopotutto aveva ancora le immagini del suo incubo impresse nella mente, non aveva la forza di pensare ad altro, anche se – gli costava moltissimo ammetterlo – la presenza di sua moglie era una buona alternativa all’alcool per distrarlo da quelle sensazioni di vuoto e solitudine.

« Domani inizia il Tour della Vittoria » le disse, fissando un punto impreciso sulla parete di fronte. « Almeno non mi vedrai per un po’. »
London mugugnò qualcosa e poi, senza preavviso, appoggiò la testa sulla sua spalla.
Klaus per un attimo rimase interdetto. 
« Non è una buona notizia, Londie? »
« Forse sì » replicò piano la ragazza, chiudendo gli occhi. « Anzi, forse no. »
Lui inarcò un sopracciglio. Gli stava forse dicendo che non voleva che se ne andasse? Impossibile. « No? » chiese, più curioso che incapacitato.
« Non voglio che tu parta di nuovo » borbottò London, corrugando la fronte.
Klaus stavolta rimase seriamente stupito, rimanendo per qualche istante in silenzio. E poi si ricordò che London normalmente sapeva essere una brava bugiarda… ma in vino veritas. 
« Se tu dovessi scegliere… sceglieresti me o Ben? » domandò cauto, guardandola di sottecchi.
Lei semplicemente non rispose; si era addormentata e il suo respiro lieve le conferiva quasi un’aria innocente.
Klaus lasciò perdere: in effetti, forse già sapeva che per London una risposta a quella domanda non c’era… o forse si rifiutava di ascoltare ancora una volta il nome dell’altro Bridge pronunciato da lei.


 













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Capitolo 9
*** 008. Eighth Chapter – In fear, in sorrow. ***


Note: *balla la conga* *salta* *brinda*
Salve! E' da quasi un mese che ho questo capitolo pronto, ma per vari impedimenti non l'avevo ancora pubblicato. E in due settimane di vacanza ne ho scritti anche altri due, quindi sarò un pochino più veloce. Sono appena tornata e il mare mi ha ispirata da morire.
Sarò veloce perché muoio dalla voglia di premere il tasto "aggiungi capitolo" - dopotutto è uno di quelli che forse mi è riuscito meglio, oltre al fatto che per ora è il più lungo.
Dunque: nello scorso capitolo si è conclusa la prima parte di Blur, infatti in questo comincia la seconda - ma va? - che durerà circa fino al capitolo venti (in tutto dovrebbero essere trentuno, se tutto va bene).
Poi. Non cominciate a guardare Frantz come "il padre padrone e cattivo" che ha un brutto rapporto con il figlio e via dicendo, perché non voglio che Klaus passi per quello che è per colpa del padre. Cioè, vorrei che non lo guardaste come il solito cliché, perché Frantz è veramente uno squilibrato, e c'è un motivo di fondo se è così (un po' di suspance non guasta mai (y))
Poi, again. Amate la domestica di Klaus e London, Mara. Me la immagino un misto tra Big Mama e Mrs Doubtfire, non so se mi spiego :')
Ultima cosa velocissima: "In fear, in sorrow" viene da una canzone dei Muse (giuro......) che cito sotto, e l'ho messa qui perché in primis è molto azzeccata e in secundis questo verso mi ricorda un po' la formula matrimoniale, come quando dice "in salute e in malattia", cosa che è inerente a ciò che sta scritto nell'ultimo paragrafo.
Adess- COTOLETTEEEEE.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Con-science" dei Muse.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ















 












Blur

(Tied to a Railroad)






008. Eighth Chapter – In fear, in sorrow.




Era raro che facesse innocenti sonnellini placidi dopo una lunga nottataccia, ma quella mattina era riuscito ad assopirsi sul divano di pelle del salotto dopo un misero bicchiere di brandy. Non stava sognando nulla, a dire il vero, a parte il solito vuoto che gli annebbiava il cervello una volta sveglio, eppure non si sarebbe voluto alzare per niente al mondo. Momenti di pace così erano da incorniciare, secondo la sua opinione. 
Peccato che, come ogni momento di pace cristallina che si rispetti, fu interrotto bruscamente e spiacevolmente da una familiare voce femminile.

« Avanti, alzati » gli disse quella in tono scocciato, nel frattempo che un abbagliante fascio di luce si insinuava nel suo campo visivo. London, una ad una, scostò tutte le tende della stanza per fare entrare la luce del sole, dopodiché aprì le finestre per far passare aria.
Klaus si trattenne dall’imprecare sonoramente, mentre si alzava a sedere e si stropicciava gli occhi. 
« Che vuoi, a quest’ora? »
« Sapevo che fossi rincoglionito » sbottò la ragazza, « ma non fino a questo punto. »
Giusto il tempo di domandarsi a cosa diavolo si stesse riferendo sua moglie che un’altra donna entrò nel salotto con delle buste della spesa, probabilmente reduce dal mercato mattutino. « Buon compleanno, signor Klaus! » trillò allegra la paffuta domestica.
Klaus alzò gli occhi al cielo. 
« Solo Klaus, Mara » le ricordò, fregandosene altamente del fatto che quel giorno sarebbe diventato un anno più vecchio. Non gli era mai importato dei suoi compleanni, d’altronde, considerando che era costretto a passarli in compagnia della sua amata famigliola.
La domestica lo ignorò bellamente. 
« Ventun’anni si compiono una volta sola nella vita! » continuò con un bonario sorriso sulle labbra. « Magari potessi tornare alla vostra età, ah. Solo il cielo sa quanto mi piacerebbe! »
London sbuffò, stizzita, e incrociò le braccia. « Ti ricordi almeno del pranzo dai tuoi, vero?  » domandò al marito.
Klaus reclinò la testa sulla spalliera del divano, annoiato. 
« E chi se lo scorda. Un ottimo modo per festeggiare, non trovi? »
« Direi il migliore » borbottò la ragazza. « Faresti meglio a prepararti; prima finiamo, meglio è. »
« Mai stato più d’accordo con te » rispose, alzando gli angoli delle labbra in una sottospecie di sorriso.

 
*
 

Da quando era diventata la nuova signora Wreisht aveva visitato il maniero di famiglia molte volte, ed era fiera di affermare che quello dei suoi genitori – ovvero la casa in cui era cresciuta fino ai suoi diciotto anni – fosse di gran lunga più fine ed elegante.
Aveva sempre disprezzato lo stile barocco, ed entrare in quella casa a sua detta molto pacchiana la faceva sentire a disagio, come se di lì a breve potesse essere inghiottita dalle mura decorate con la costosa carta da parati.
Quel giorno questa sensazione di disagio si fece sentire più del solito, insinuandole strani pensieri in testa.
London non li aveva mai capiti, i suoi suoceri – oramai doveva chiamarli così, no?
Shyvonne era la più normale tra i tre, nonostante sembrasse psicologicamente debole… Era materna, in qualche modo. Eppure sentiva di non potersi fidare di lei, perché era pur sempre una Wreisht. Il nemico.
Frantz era una tra le persone più insopportabili che conoscesse, precisamente dopo il figlio, e proprio per questo le sembrava paradossale che i due non andassero d’accordo, anche se, visto il carattere di Klaus, c’era da aspettarselo. Per qualche assurda ragione quell’uomo le metteva ansia, con il suo volto sempre duro e mai amichevole, i capelli neri sempre pettinati all’indietro e la voce sempre scostante e autorevole. Freddo come il marmo, ecco come avrebbe descritto Frantz in poche parole.
Quando rivide i due coniugi a pranzo i pensieri su di loro si confermarono: lui non sorrideva affatto, lei cercava di essere gentile nonostante l’atteggiamento nervoso.

« Avanti, entrate » li invitò Shyvonne, dando l’esempio per prima e sedendosi all’ampio tavolo apparecchiato sontuosamente per l’evento.
London cercò di trattenere una smorfia di insofferenza si accomodò di fronte a lei, tentando di mostrare un sorriso cordiale. Scoperchiò la portata che aveva avanti a sé, rivelando una succulenta aragosta ornata da verdure varie.

« Vi aspettavamo mezz’ora fa » disse Frantz, sorseggiando del vino e guardando di sottecchi il figlio. Non gli aveva neanche fatto gli auguri.
London non seppe cosa dire e si limitò a fissare Klaus in segno d’attesa.

« E allora? » se ne uscì lui, scompostamente seduto sulla sedia rivestita di velluto.
La ragazza lo avrebbe volentieri preso a schiaffi. Non aveva certo voglia di assistere a una discussione colossale tra i due Wreisht; piuttosto se ne sarebbe tornata a casa.
Frantz indurì lo sguardo. 
« E allora avete fatto tardi. »
« Non vedo dove sia il problema » ribatté Klaus, versandosi a sua volta del vino. « Dopotutto non credo che mi stesse aspettando con impazienza. »
London vide il suocero stringere la presa sul bicchiere e forse riusciva ad immaginare perché. Klaus metteva a dura prova i nervi di chiunque.
In due anni e un mese di matrimonio aveva cercato di calcolarlo il meno possibile, nonostante vivessero sotto lo stesso tetto e lui cercasse quasi quotidianamente di provocarla con le sue solite stronzate; quando aveva potuto si era rifugiata da Ben. Ben c’era sempre stato quando tutto sembrava troppo e c’era sempre stato quando si sentiva soffocare e quando, ancora, avrebbe voluto distruggere tutto. Era la sua spalla, il suo cuscino, l’unico che poteva capirla e davvero non riusciva ad immaginare cosa avrebbe fatto senza di lui.
Ci fu qualche istante di silenzio.

« L’ho capito che questa farsa non c’entra niente con il mio compleanno » continuò il ragazzo, fissando intensamente i genitori, come a volerli mettere a nudo. « Cosa volete? »
« In effetti hai ragione, Klaus » replicò il padre, continuando a stringere saldamente il bicchiere di cristallo. « Io e tua madre dobbiamo parlarti di una questione… »
« Frantz » lo bloccò la moglie, con sguardo quasi allarmato. « Non sarebbe meglio se prima mangiassimo e-? »
« No » la interruppe Frantz. « Non vedo il motivo per cui dovremmo rimandare ancora. »
London guardò i presenti con un’espressione interrogativa dipinta in volto; detestava che gli altri la tenessero all’oscuro di qualcosa.
« Sono tutt’orecchi » li incitò a continuare Klaus con tono beffardo.
« Vedete » cominciò il padre, mentre Shyvonne teneva lo sguardo puntato sulla porta, impaurita da chissà cosa. London si voltò nella sua stessa direzione, ma non vide niente e si domandò ancora una volta cosa ci fosse di sbagliato in quella situazione che, se lo sentiva, avrebbe preso una brutta piega. « C’è un motivo se noi e i Bridge abbiamo deciso di unire le nostre famiglie » disse, scegliendo accuratamente le parole – questo, secondo London, non faceva altro che rendere il discorso ancora più falso e fastidioso.
La ragazza vide Klaus alzare un sopracciglio e forse cominciò a intuire a che cosa volessero andare a parare.

« Motivo facilmente intuibile, tra l’altro, ma vedrò di rinfrescarvi le idee.
Sono passati poco più di due anni dal matrimonio… Due anni che temo siano stati sprecati a comportarvi come vostro solito, invece di vivere la vostra vita matrimoniale come avreste dovuto, dando alla luce un degno erede con il sangue di entrambe le famiglie…
E, non so perché, ho come il sospetto che non vi sia neanche balzata in mente l’idea di dover adempire al vostro compito. 
»
Klaus si alzò in piedi di scatto, facendo tremare le stoviglie sulla tavola. « Ma neanche per sogno! » protestò, a dir poco scioccato. Non avrebbe potuto sopportare anche quello. « Io non voglio un figlio con lei » precisò, inoltre, incalcando nel pronome una buona dose d’acido.
London si sentì giustamente chiamata in causa e si alzò a sua volta, indignata almeno quanto il marito. 
« E nemmeno io, se è per questo. »
« Visto? » rincarò Klaus, come a voler sottolineare l’assurdità della richiesta. « Se davvero tutto ciò che volevate era un erede, avreste dovuto abbinare altre due persone! »
Frantz fu il terzo ad alzarsi a ruota. « Non starai dicendo che non hai neanche intenzione di provarci… »
« Cazzo, io non ho neanche intenzione di pensarci lontanamente! » gridò con sdegno.
« Allora ho come l’impressione che dovrò ricorrere alle maniere forti. »
A London morì in gola quello che stava per ribattere. Maniere forti?
Shyvonne gemette piano. 
« Frantz, non farli entrare ancora, Klaus stava solo- »
« Silenzio! » urlò l’uomo, infrangendo per un istante la sua aura di autocontrollo. Dopodiché, schioccò le dita e, dalla stessa porta che qualche istante prima la donna fissava terrorizzata, entrarono due Pacificatori, uno dei quali era munito di… frusta.
Prima che London potesse dire qualcosa, anche una misera esclamazione, Shyvonne la prese per un braccio e la portò in un angolo, tremante da capo a piedi.

« Ma che cosa-? » provò a domandare, ma quella si mise un dito davanti alle labbra pregandole di rimanere in silenzio.
I Pacificatori trascinarono Klaus di fronte a una parete spoglia e, benché quello si dimenasse sconvolto, non lo lasciarono andare, bloccandogli le braccia.

« Quanto li hai pagati, eh? » gridò rabbiosamente. « Quanto li hai pagati, figlio di puttana?! »
A quella provocazione, Frantz sottrasse personalmente la frusta dalle mani del Pacificatore più anziano.
« Lasciate fare a me » disse in tono vellutato e carezzevole, completamente diverso a quello duro che aveva usato prima. « E’ tempo che mio figlio impari l’educazione, per una buona volta. »
London continuò a fissare immobile la scena, mentre al marito veniva praticamente strappata la camicia di dosso, lasciando scoperta la schiena contratta e facendole salire un groppo in gola. L’istinto le diceva che avrebbe dovuto fare qualcosa o almeno protestare contro quell’atteggiamento barbaro e quasi arcaico; eppure tutto ciò che riusciva a fare era stare ferma, imbambolata e con un braccio stretto tra le dita esili e tremanti di quella che per forza dei fatti era diventata sua suocera.
Quando il supplizio cominciò per davvero, ovvero quando la sottile striscia di cuoio della frusta lacerò la pelle di Klaus, le sue spalle sobbalzarono per lei.
Non aveva la capacità di pensare a niente mentre guardava turbata Frantz calare una seconda volta la frusta sulla schiena del figlio con espressione folle, mentre i Pacificatori lo tenevano stretto per le braccia per non farlo scappare.
Klaus, dal canto suo, continuava a dimenarsi, ma già dopo la seconda frustata sembrava più debole, come se sapesse che tentare di fuggire non sarebbe servito a niente – cosa che in effetti era vera. Tuttavia, era palese che non volesse dare soddisfazione al padre e perciò si sforzava di non emettere nemmeno un suono che sottolineasse il dolore di quella rudimentale tortura. London lo vide mordersi le labbra a sangue dopo la terza frustata, quando gli cominciarono a tremare le gambe.
La ragazza si chiese per quanto ancora Klaus avrebbe retto; per quanto ancora Shyvonne sarebbe stata capace di guardare la scena senza proferire parola e piangere in silenzio; per quanto ancora lei stessa sarebbe rimasta lì a fissare i rivoli di sangue scivolare sulla schiena del suo odiato marito; e, anche, per quanto ancora Frantz avrebbe avuto intenzione di continuare.
Strinse i pugni per darsi forza e reagire, ma quando fu pronta ad opporsi, finalmente, era già passato qualche minuto abbondante e il corpo di Klaus era steso a terra esanime, mentre suo padre e i Pacificatori abbandonavano la stanza probabilmente soddisfatti.
Si domandò sconvolta perché il tempo fosse volato così velocemente sotto i suoi stessi occhi e perché cominciasse a sentire una brutta sensazione allo stomaco, qualcosa di simile al senso di colpa, dal momento che quel ragazzo or ora svenuto sul pavimento impersonava il suo peggior nemico e la causa di tutti i suoi problemi.
Shyvonne la trascinò accanto al figlio ed entrambe gli si accucciarono ai lati, voltandolo in una posizione più comoda. London ascoltò in silenzio i singhiozzi della donna, che accarezzava i capelli del ragazzo dopo essersi appoggiata la sua testa in grembo.

« E’ un mostro » pianse Shyvonne. « Prima o poi lo ucciderà. Non l’ha mai voluto, mai»
London non faticò a crederci. Era assurdo che un padre volesse così male al proprio figlio… sì, anche se si trattava di Klaus, la persona più insopportabile del pianeta.
London si ripeteva di odiarlo con tutte le sue forze per tutto quello che le aveva fatto passare, ma in quel momento sentì la rabbia venirle meno e qualcosa di più umano salire a galla. Compassione, pietà? Non sapeva cosa fosse e non voleva saperlo. Piuttosto, fece quella che riteneva la cosa più giusta da fare in una situazione del genere.

« Chiamo Benjamin, così mi aiuta a riportarlo a casa » disse a Shyvonne col tono fermo di chi ha deciso finalmente cosa fare dopo essersi schiarito le idee.
La donna annuì e sorrise tristemente in un muto ringraziamento.


 
*
 

La prima cosa che percepì nel tornare cosciente fu la sensazione più simile e contemporaneamente più differente al dolore che si potesse immaginare. Non aveva ancora aperto gli occhi soltanto perché preferiva tenerli serrati; non aveva esattamente voglia di scoprire cosa lo aspettava al di là delle proprie palpebre categoricamente abbassate. Forse un incubo, un incubo tramutatosi in realtà.
Cercò di regolarizzare il respiro, ma anche il più piccolo movimento dei muscoli gli provocava fitte lancianti alla schiena seguite da un bruciore acuto e sconosciuto, che lo scuoteva vertebra per vertebra.
Tentò di focalizzarsi su altro o, se avesse continuato a pensare a quella sensazione di sofferenza pungente, sarebbe decisamente impazzito. Gli sembrava di essere steso su un divanetto, a pancia in giù, con il volto poggiato su un cuscino di stoffa vellutata; non aveva ancora intenzione di aprire gli occhi, per cui si concentrò sui pochi suoni attutiti che riusciva a distinguere.

« E’ assurdo » bisbigliò una voce fine e maschile. « Non ci posso credere. Papà non farebbe mai una cosa simile. »
« Esatto! » sbottò un’altra, femminile, con il tono leggermente più elevato. « Ancora mi domando con che genere di persone ci siamo imparentati. Insomma, se Frantz mi avesse messo le mani addosso… »
« Non l’avrebbe fatto. »
« Cosa te lo fa pensare? »
« Prima hai detto che Shyvonne ti ha rivelato che Frantz non l’ha mai voluto, Klaus, no? Il suo accanimento è verso di lui, non verso te. »
« Può darsi, ma ciò non toglie che quell’uomo sia completamente pazzo. Il viso di Shyvonne era sconvolto… sembrava sottomessa al volere del marito. Ecco perché non diventerò mai come lei. »
Ci fu qualche istante di silenzio e Klaus cominciò a comprendere che il centro della conversazione fossero gli avvenimenti precedenti al suo svenimento, che tuttora gli balzavano in testa ancora sfocati e privi di senso.
« A cosa stai pensando? » domandò di nuovo la ragazza che, Klaus non aveva più dubbi, fosse London in compagnia del gemello.
« In realtà non lo so, ma… non ti sembra un po’ strano che Frantz vi abbia praticamente ordinato di avere un figlio quando in realtà anche lui non ne aveva mai voluto uno? » considerò Benjamin.
London probabilmente rimase a riflettere qualche istante. 
« Forse vuole scaricare su di noi tutto ciò che ha passato lui stesso in prima persona. »
« Non credo » ribatté lui. « Se fosse stato così non avrebbe di certo preso Klaus a frustate. Anzi, avrebbe dovuto rendergli la vita migliore. »
Frustate. Ecco di cosa si trattava. Klaus cominciò a ricordare lucidamente poco a poco, mentre il bruciore si faceva sempre più insistente, premendo per rigettarlo nel mondo del suo subconscio. Socchiuse gli occhi a fatica, scoprendo che era già sera e che la stanza in cui si trovava – era il salotto della sua nuova casa, quello? – era immersa nel buio, tranne per uno spicchio di luce artificiale che illuminava i volti tesi dei due Bridge intenti a discutere intorno al tavolino di mogano appoggiato alla parete opposta.
« Ah, non saprei » borbottò la ragazza. « Quell’uomo mi sembra l’ultima persona capace di rendere la vita migliore a qualcuno. Forse gli interessano solo i soldi e il potere… forse aveva capito sin dall’inizio che noi Bridge siamo più influenti di loro e che gli conveniva organizzare il matrimonio ed il resto invece di contrastarci. »
Klaus normalmente non sopportava che i Bridge ostentassero ai quattro venti la propria superiorità e in genere avrebbe preferito insultarli sarcasticamente o mandarli direttamente a farsi fottere, ma tutto ciò che uscì dalle sue corde vocali fu un mugolio indistinto, al che i due gemelli si voltarono di scatto verso di lui.
« E’ sveglio? » mormorò London, scrutandolo nel buio.
Ben si alzò dalla sedia, si avvicinò circospetto al divanetto e, quando lo raggiunse, gli scostò una ciocca di capelli scuri dalla fronte imperlata di sudore, per osservare meglio il suo viso. 
« Oh, ben svegliato » disse con tono allegro.
Klaus rintanò il volto nel cuscino, incapace di muovere altre zone del corpo immediatamente vicine alla schiena. 
« Dove sono? » mugugnò, stizzito.
« A casa. »
Il ragazzo non si mosse, ma continuò: « E come ci sono finito? »
« Io e London ti ci abbiamo portato di peso, dovresti esserci grato » rispose Ben con un sorriso gentile. « Oh, e ti abbiamo anche pulito le ferite. »
Klaus borbottò qualche altra cosa nel cuscino, poi si voltò di poco verso di lui, in piedi accanto al divanetto. « Beh, grazie tante. »
« E’ stato un piacere. »
Qualche altro istante di silenzio, poi il moro chiese a bassa voce, come se sapesse che la risposta l’avrebbe umiliato parecchio: « Quante? »
Non aveva precisato quante cosa, ma Ben colse al volo il significato di quella domanda. « Ne ho contate tredici » replicò l’albino in un soffio, sfiorandogli una delle ferite lunghe e dritte con la punta delle dita e provocando un gemito soffocato dell’altro, che sentiva ancora l’aria umidiccia estiva penetrargli nelle piaghe ancora aperte ed esposte. Klaus rimase steso a bocconi e spostò lo sguardo sulla moglie, ancora seduta al tavolino. Non riuscì a decifrare la sua espressione seria, tutt’altro che gentile come quella di Ben.
Rimasero zitti per qualche minuto, con l’unica compagnia del ticchettare dell’orologio a pendolo in sottofondo.

« Ti fanno ancora male? » chiese il gemello, accucciandoglisi accanto alla schiena per osservare meglio la portata delle ferite con occhio critico e attento.
« Sto benissimo » biascicò Klaus. « Potete anche andarvene. »
Ben lo ignorò e prese tra le mani candide la pezza inumidita appoggiata precedentemente sulla spalliera del divano. « Alcune sanguinano ancora » esaminò, poggiandogli quel pezzo di stoffa fredda e bagnata sul fianco sinistro. « Forse ti rimarranno le cicatrici. »
Klaus fece un movimento brusco – che inoltre gli provocò delle fitte lancianti lungo tutta la colonna vertebrale – e tentò di allontanare Ben con un braccio, farfugliando frasi sconnesse come « Cazzo, lasciatemi in pace! » « Non ho bisogno di voi! »
Trovava estremamente frustrante essere nelle mani dei due Bridge e dover affermare la loro supremazia momentanea, senza neanche potersi alzare per andarsi a prendere una boccata d’aria e riflettere in santa pace. Non provava neanche senso di gratitudine per loro, solo una rabbia a stento trattenuta per quello che era accaduto o che sarebbe accaduto da quel momento in poi.
Ben si decise a lasciarlo perdere, tornando a rivolgersi a London. 
« Va bene. Io torno a casa, si è fatto tardi » le disse, alzandosi e andando a posarle un bacio sulla fronte. « Cercami, se hai bisogno di me. »
« D’accordo » disse flebilmente lei, accompagnandolo alla porta.

Quando London tornò nel salotto, Klaus aveva la mente altrove e non vide neanche che la ragazza aveva trascinato una sedia per sedersi di fronte a lui e parlargli a quattr’occhi.
Poiché lei non aveva ancora accennato a proferire parola, però, soppesò lo sguardo sul suo volto alzando un sopracciglio. 
« Te ne vai? » le chiese acidamente.
London non sembrò neanche far caso alla sua consueta insolenza, ma si limitò a fissarlo con sguardo serio. 
« Senti, Klaus, dobbiamo parlare. »
« Adesso? »
«
 Adesso. »
Klaus sbuffò e tentò di girarsi in una posizione più comoda, ma abbandonò presto l’intento. « Cosa vuoi fare? Umiliarmi un altro po’, magari? »
« Mi piacerebbe tanto » ribatté velocemente London, gonfiando le guance, indispettita. L’aveva aiutato, medicato e lui così la ripagava? « Ma in realtà volevo dirti ben altro. »
« Ti ascolto; dopotutto non ho scelta » replicò il ragazzo con un sospiro grave.
London non aspettò altro per riversare su di lui quel fiume di pensieri che le aveva corroso la mente per tutto il pomeriggio. 
« Quello che è successo oggi è inammissibile » spiegò in fretta. « Non appena i miei lo verranno a sapere s’incazzeranno di brutto, e mi sembra anche normale! Tuo padre è un pazzo, non può fustigare le persone a proprio piacimento, né ordinarmi di concepire un figlio con te, perché è l’ultima delle mie intenzioni » continuò, alzando il tono di voce senza neanche accorgersene. « Vuoi sapere cosa ha detto tua madre? Che Frantz ti ucciderà, prima o poi! E non faccio fatica a crederci, non dopo quello che i miei occhi sono stati costretti a vedere oggi. »
« E quindi? » la interruppe Klaus bruscamente, afferrandole un polso per avvicinarla di più a sé e permetterle di guardarlo bene negli occhi. « Credi che non lo sappia? Combatto con mio padre da ventun’anni, forse posso permettermi di immaginare a cosa sarebbe capace di arrivare. »
« E di cosa è capace? » urlò London, scattando in piedi e liberandosi della presa dell’altro. « Sentiamo » lo incitò, incrociando saldamente le braccia sotto al seno.
« Di molte cose » rispose Klaus. « Tu non lo conosci. »
« Per fortuna » sibilò la ragazza.
« Benvenuta in casa Wreisht, Londie. I tuoi amati genitori avrebbero dovuto sapere che stavano consegnando la loro preziosa figliola in pasto ai serpenti » ribatté lui sarcasticamente.
« Allora perché non proponi una soluzione, genio? » sbottò London. « E muoviti, perché io non ho assolutamente intenzione di continuare la nostra fantastica vita matrimoniale in questo modo, tra frustate e medicazioni. »
Klaus avrebbe voluto arrabbiarsi di più con lei, ma la sua momentanea debolezza a stento gli permetteva di parlare. « Parli come se le ripercussioni le avessi tu, poi » mormorò seriamente.
London si bloccò per un istante, ma poi proseguì: 
« E chi mi garantisce che tuo padre non se la prenda anche con me, un giorno? Oh, ci avrei scommesso che questo fottuto matrimonio non avrebbe portato a niente. » Cominciò a girare per la stanza nervosamente, alternando insulti vari a imprecazioni contro tutte e dodici le generazioni dei Wreisht.
Klaus le avrebbe volentieri tappato la bocca, se solo avesse avuto la capacità di muoversi, ma i pensieri cominciarono a vorticare veloci nella sua testa. Serviva una soluzione, una soluzione fattibile. O nessuno sapeva come tutta la faccenda si sarebbe conclusa.
Se avessero deciso di annullare il matrimonio – come si erano detti di fare almeno un migliaio di volte – avrebbero soltanto alimentato l’ira di Frantz e fermarlo era impossibile, considerando che deteneva il controllo di un bel drappello di Pacificatori per giunta pagati profumatamente.
Se avessero deciso di non fare assolutamente nulla l’effetto sarebbe stato lo stesso.
Sembrava non esserci esito positivo in nessuno dei casi.
Nessuno?, gli sussurrò una vocina insidiosa nella sua testa.
Sembrava non esserci esito positivo in nessuno dei casi, a meno che…
London parve giungere alla stessa conclusione dopo qualche minuto e solo allora si voltò a guardarlo con un’espressione sconvolta, completamente diversa da quella seria e infuriata di qualche istante prima.

« Di soluzione ce n’è solo una » disse Klaus piano. « E non credo ti piacerà. »
London annuì, per fargli capire che ci era arrivata da sola.
E così… se entrambi desideravano una vita priva di intoppi e problemi come quello, avrebbero dovuto avere un figlio. Un erede. Una piccola creatura che mettesse le cose a posto.
Klaus scacciò quell’idea dalla mente con una risata fredda e amara.
 
 
*

 

London guardò l’orologio a pendolo sopra al caminetto, che segnava le due e mezza del mattino. Era in camicia da notte – una di quelle fini e di seta che qualche sua prozia lontana le aveva regalato per il matrimonio insieme ad un corredo di biancheria – e non era riuscita a prendere sonno nonostante la stanchezza e le palpebre pesanti.
Dopo minuti interi passati a girovagare per la casa, era ritornata in salotto e aveva controllato che Klaus stesse dormendo placidamente, prima di sedersi accanto a lui con uno sbuffo.
Si era detta che l’indomani sarebbe tornato tutto normale: si sarebbe svegliata di buon’ora, avrebbe fatto colazione con la sua adorata marmellata di lamponi, si sarebbe fatta una doccia rinfrescante, avrebbe salutato Mara e l’avrebbe aiutata a riassettare la casa come tutti i giorni. Poi sarebbe andata da Ben e avrebbe seppellito Klaus in un angolino della sua testa.
E invece aveva la spiacevole sensazione che quel pomeriggio maledetto avesse fatto prendere alla sua vita una strada diversa, una strada che ora l’aveva posta di fronte ad un bivio pericoloso: avere un figlio con Klaus oppure vedere la vita di entrambi andare a rotoli – o peggio.
London considerava entrambe le opzioni insopportabili. Per nulla al mondo avrebbe voluto partorire un bambino con il proprio sangue misto a quello del suo peggior nemico. Eppure per nulla al mondo, anche, avrebbe voluto vedere Klaus morto.
Perché era di quello che si trattava. Se Frantz si fosse permesso di fare del male alla sua famiglia, allora i Bridge si sarebbero difesi da soli… ma Klaus non poteva essere difeso da nessuno, nemmeno da Shyvonne, che era l’esatto opposto di una donna forte e con potere decisionale. E suo padre l’avrebbe ucciso, prima o poi, come era immaginabile, se non avesse dato ai Wreisht un erede di sangue nobile.
Il pensiero la colpì veramente per la prima volta in quella giornata. Si era sempre ritrovata a credere che la propria vita senza Klaus sarebbe stata infinitamente migliore… eppure tutte le volte che si era trovato in pericolo – gli Hunger Games ne erano un esempio lampante – London aveva sperato che ne uscisse vivo.
Non sapeva come spiegarselo, né aveva intenzione di pensarci, però quella situazione l’aveva messa davvero alle strette, come se quella scelta le sarebbe stata fatale per sempre e da questa sarebbe dipeso il suo futuro.
Una vita senza Klaus o una vita definitivamente legata a Klaus.
Lo osservò di sottecchi imbronciata, prendendo poi, per uno strano e irrefrenabile impulso, a passargli con delicatezza le dita sul volto, esplorando la fronte, gli zigomi, l’arcata nasale e la mandibola.
Klaus non era perfetto, a differenza di Ben: aveva una piccola gobba sul naso, la bocca troppo sottile e il mento troppo squadrato – senza contare quell’insopportabile accenno di barba che proprio non decideva a rasarsi.
Gli passò, stavolta, l’indice sulle labbra lentamente, disegnandone il contorno e osservando la sua reazione. Klaus sembrò rilassarsi a quel contatto, perché assunse un’espressione più serena, come se avesse accantonato l’angoscia in un angolo.
London, involontariamente, ricordò di quando era stata a letto con lui – dopotutto tentava sempre di dimenticarlo o fare finta di averlo dimenticato –, e indugiò con il polpastrello sul labbro inferiore, pensando che non era stato affatto un cattivo baciatore.
S’indignò da sola per quella considerazione, staccando la mano dal suo viso, nonostante un languido calore le avesse invaso il basso ventre.
Ti odio, stronzo, sospirò indispettita, ricordando come tutte le volte si divertisse a schernirla per quel maledetto sbaglio che aveva commesso in passato, durante la prima notte di nozze.
Forse non ne valeva la pena, di salvarlo da quella tortura. Non ne valeva la pena di sacrificarsi così tanto solo per fargli un favore.
Osservò le tredici strisce rosse sulla sua schiena, rabbrividendo, e rammentò di quando aveva stretto lei stessa quella schiena con le unghie per aggrapparvisi con forza, reazione dovuta a quel piacere così estraneo di cui ancora si vergognava. Scostò lo sguardo, scacciando quei ricordi.
No, se scegliere l’erede significava adempire al proprio ruolo di sposa come citava la formula matrimoniale – in salute e in malattia –, non ne valeva la pena.
O forse sì.













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Capitolo 10
*** 009. Ninth Chapter – Cure or disease? ***


Note: Volevo aspettare lunedì per postare, ma poi mi sono detta che era inutile visto che a) lunedì comincio la scuola; e b) il capitolo era già pronto.
Mi dispiace soltanto che lo scorso capitolo non abbia avuto molto successo, per cui ringrazio la mia adorata Soph per aver recensito. Dedico a te questo capitolo 

In realtà non so bene cosa dire... solo, uhm, che questa è una delle parti più "clou" di Blur, ecco. E, anche, una delle parti per cui provo più odio/amore, anche se sono abbastanza contenta di come è uscita.
Sarei felicissima se mi lasciaste qualche parere, as usual :)
Ah, sappiate che la marmellata di lamponi l'ho assaggiata e fa schifo, lolle.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo è ispirato a "Clocks" dei Coldplay.

Il banner appartiene a pandamito ♥









 

A Sofia, mia coinquilina per tre mesi.








 


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Blur

(Tied to a Railroad)






009. Ninth Chapter – Cure or disease?

 


« Riesci ad alzarti? »
« Devo riuscirci, sono incollato a questo divano da due giorni. »
« Forse sarebbe meglio aspettare domani… »
« Domani un corno » protestò, scocciato. « Aiutami, invece di stare lì a guardarmi. »
« “Per favore”, magari? » domandò retoricamente l’altro.
« Certo » biascicò Klaus, provando a girarsi su un fianco. « Mi hai mai sentito dire quelle due paroline magiche? »
Ben rise, vagamente divertito dalla situazione. « Direi di no » rispose, avvicinandoglisi e aiutandolo a mettersi a sedere.
Il moro si lasciò sfuggire delle smorfie di dolore, ma non aggiunse altro, aggrappandosi alle spalle del Bridge con un braccio per alzarsi.

« Domani devi cambiarle di nuovo, le bende » precisò Ben, sorreggendolo per quanto gli era possibile – dopotutto Klaus era pur sempre una quindicina di centimetri più alto di lui. 
« Magnifico » bofonchiò, lasciando le spalle del ragazzo per appoggiarsi allo stipite della porta del salotto.
« Come va ora? »
Klaus lo fissò per qualche istante ed evitò di rispondere. Detestava essere visto così debole e inerme. « Perché mi stai aiutando? » gli chiese con un tono abbastanza ambiguo – da un lato gli faceva piacere ricevere aiuto, ma dall’altro lo metteva profondamente a disagio, senza contare il fatto che ciò ferisse il suo orgoglio come l’artigliata di un gatto.
Ben sorrise gentilmente in risposta. 
« Ti rigiro la domanda: perché non dovrei? »
Il ragazzo continuò a guardarlo interdetto. « Uhm… vediamo… forse perché ci siamo sempre odiati sin dall’inizio dei tempi? »
« Oh, no, Klaus » lo contraddisse l’albino, scuotendo la testa. « Quelli siete tu e London, sempre se di odio si possa parlare » – e qui Klaus gli scoccò uno sguardo incapacitato – « Sì, ammetto che delle volte mi piacerebbe tanto fracassarti una sedia in testa, ma non ti detesto a tal punto da negarti il mio aiuto. »
L’altro arricciò le labbra. « Sai bene, vero, che io non ti avrei aiutato in una situazione del genere? »
Il sorriso di Ben sfumò verso l’amarezza, ma non si spense. « Lo so. Ma tu sei tu. »
« E tu sei tu » ribatté Klaus, sospirando. « Il piccolo, dolce, santo Benjamin. »
Il ragazzo fece un veloce gesto con la mano. « Lascia perdere, è inutile starti a spiegare certe cose. »
« Davvero non capisco come tu possa essere così… beh, così » disse lui, riservandogli un’occhiata penetrante e indagatoria. « Tu e London siete gemelli, eppure… »
« Eppure siamo diversi » concluse Ben al posto suo, reggendo il confronto, per niente intimidito da quello sguardo eloquente. « Ce lo dicono tutti. »
« E comunque non vi sopporto lo stesso » specificò. 
« Buono a sapersi » disse l’albino con una scrollata di spalle. 
Klaus alzò gli occhi al cielo, ignorando una fitta bruciante nella zona lombare. 
« Credo che qualche volta ti farebbe bene arrabbiarti. Sai, sono il marito della tua adorata tromba-sorella, dovresti odiarmi sul serio. »
Ben corrugò la fronte. « Pensavo di avertelo spiegato che non sono quel tipo di persona. »
« Esprimevo soltanto i miei dubbi. »
« A me fa piacere che London sia in tua compagnia, Klaus » disse l’altro, che quasi sembrava riuscire a trattenere il risentimento nella sua voce pacata. « … so che tu hai bisogno di lei. »
Klaus sbatté la mano contro lo stipite di fronte a sé, bloccandogli il passaggio. « Che cosa? » sibilò.
« Quanto sei sciocco » ridacchiò mestamente l’albino, infilandosi sotto al braccio teso di Klaus per passare. « Non ti accorgi proprio di nulla. »
Stavolta fu il moro a corrugare la fronte, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Come doveva interpretare quell’affermazione campata in aria? « Ben » soffiò di nuovo, a poche spanne dal suo viso. « Smettila. »
Ben incurvò gli angoli delle labbra verso l’alto, ma quella somigliava più ad una smorfia che a un sorriso gentile come quello di qualche istante prima. « Non ricordi che posso sempre ricattarti? » scherzò, ma l’altro non lo intese come uno scherzo; piuttosto, impallidì a vista d’occhio.
« Ancora con questa storia? » chiese, frustrato. « Dimentica quella notte. Dimenticala. E’ stato un fottuto caso. Un errore, come lo vuoi chiamare? »
Ben capì di averlo punto nel vivo e lasciò perdere, facendo un passo indietro. Effettivamente si era reso conto che la distanza che li separava fosse veramente troppo breve – questione di centimetri – e non capiva come Klaus dovesse per forza alterarsi, parlando con lui, ma finse di non esserne neanche vagamente dispiaciuto. « Un errore, già » rincarò. « Stavo scherzando. »
Klaus lo osservò per qualche istante, notando che la sua voce si era fatta più sottile e la sua testa si era leggermente abbassata. Forse non doveva trattarlo così bruscamente. Lui non era London. Con Ben si poteva parlare.
 
« D’accordo » concesse, passandosi una mano sul volto. « Adesso va’ a casa, me la cavo da solo. »
Ben alzò nuovamente la testa, recuperando la sua espressione disponibile. « Ne sei sicuro? »
« Sicurissimo » ribatté l’altro, muovendo qualche passo incerto. « Non ho bisogno di altre balie. »
L’albino non sorrise, stavolta, ma il suo viso era comunque sereno. « Certo, mister autosufficienza. »
 
 
*


Non stavano pranzando, né avevano toccato cibo da quando London aveva portato i piatti in tavola.
« Cosa sarebbe? » aveva chiesto Klaus, squadrando quella brodaglia con un’espressione più che eloquente.
London aveva fatto spallucce e aveva risposto, sedendosi di fronte a lui: 
« Zuppa di verdure. »
La ragazza non era mai stata una cuoca provetta, a dire il vero – e come poteva esserlo, quando il suo passatempo preferito sin da bambina era fare a botte con i maschi? – ma quel giorno se ne stavano in silenzio per ben altri motivi. Entrambi avevano riflettuto molto sulla questione dell’erede, ma non avevano ancora parlato con l’altro delle proprie conclusioni.
London avrebbe voluto infischiarsene perché, sì, quello non era un problema suo. Però, indirettamente, tutto ciò che riguardava Klaus riguardava anche lei, specialmente adesso che era sua moglie e non più una stupida promessa. 
Era come se si trovasse con delle manette ai polsi ma avesse a pochi centimetri la chiave per liberarsi… Doveva prendere, forse, la decisione più importante della sua vita.
Perché ci sto ancora pensando?, si chiese turbata, osservando il marito con la coda dell’occhio. Devo lasciarlo perdere, non mi interessa.
Eppure, dopo averne anche discusso con suo fratello, la soluzione le sembrava sempre più vicina e, contemporaneamente, intollerabile. London non sapeva se avesse mai desiderato dei figli – questo in generale; con Klaus no di sicuro. Non si sentiva adatta a fare la madre, né moriva dalla voglia di partorire un essere vivente dal proprio grembo… però forse, in fondo, le avrebbe fatto piacere prendersi cura di un bambino, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
Ad ogni modo, il cavillo che più la metteva in crisi non era il parto. Prima di quello, prima della gravidanza, veniva altro.
Le ritornarono in mente le parole di Frantz. “Vivere la vostra vita matrimoniale come avreste dovuto.”
Istintivamente iniziarono a pruderle le mani: in primo luogo perché il suo beneamato suocero non poteva assolutamente permettersi di darle ordini del genere, in secondo perché non avrebbe mai sopportato di vedere la faccia compiaciuta, irrisoria e presuntuosa di Klaus dopo un’altra notte insieme. 
Lo osservò mentre giocherellava con un lembo del tovagliolo di stoffa, sovrappensiero esattamente come lei. E se non fosse bastata solo un’altra notte? Se ci fossero voluti più tentativi per dare alla luce quell’erede che entrambi neanche volevano? 
London si figurò la scena, dando vita a due reazioni opposte. La mente, la ragione, le fece rigettare il pensiero, convincendola che fosse una pessima idea lanciarsi di nuovo e, per di più, volontariamente nelle braccia del nemico. L’istinto, invece – perché era dell’istinto che doveva trattarsi – le sussurrò che forse non le sarebbe dispiaciuto così tanto come voleva far credere. 
Una strana sensazione sottopelle, qualcosa di molto simile ad un formicolio fastidioso, le percorse le braccia.

« Klaus » lo chiamò a bassa voce, attirando la sua attenzione. 
Il ragazzo alzò gli occhi dal piatto, riversandoli in quelli grigioverdi di lei, che sembravano avere un’aria decisamente seria. 
« Che c’è? » le domandò. « Hai deciso di cedermi la tua zuppa perché fa troppo schifo? »
Alzò gli occhi al cielo e sbuffò irritata. « No. Stavo pensando ad una cosa. »
« Oh » esclamò Klaus, fingendosi ammirato. « Non sapevo avessi la capacità di pensare. » London sbatté violentemente le mani sulla tavola, facendolo sobbalzare. Solo allora il marito si decise ad ascoltare. « Avanti, parla » la esortò, scartando il piatto di lato e incrociando le braccia per invitarla a cominciare chissà quale discorso.
Lei socchiuse gli occhi come per darsi forza e inspirò piano. 
« Credo che dovremmo provarci. » L’aveva detto di slancio, come un fulmine a ciel sereno, quasi senza riflettere sulle conseguenze – o sì? 
Vedendo che Klaus, però, continuava a fissarla con la fronte aggrottata e non intuendo se il ragazzo non avesse capito o fingesse di non capire, aggiunse velocemente: 
« A fare un figlio. »
La reazione dell’altro non fu istantanea. Sembrò assorbire le parole lentamente, facendo scorrere secondi densi di silenzio e tensione. Poi scoppiò in una risata fredda e pungente, quasi umiliante.
London spalancò gli occhi, sconcertata. Che c’era di divertente in tutto quel casino?

« Non esiste neanche » decretò allora Klaus, avvicinando di più il volto a lei, quasi come se quello fosse stato un felice pranzetto e lui stesse per dirle qualcosa di estremamente romantico. La sua voce era calda e sprezzante come al solito, ma non c’era nulla di felice in quelle parole. « Io non voglio un figlio da una puttana. »
London lo schiaffeggiò con tutta la forza che aveva, approfittando della vicinanza e reprimendo un ringhio di rabbia, dopodiché si alzò in piedi di scatto. « Stavo solo cercando di aiutarti » gridò, più offesa di quanto volesse apparire. L’aveva insultata molte, interminabili volte… ma adesso era come se l’avesse ferita doppiamente.
Stava rifiutando il suo aiuto, la stava rifiutando come donna. E forse era il secondo punto a bruciarle di più. 
Klaus si alzò a ruota, tastandosi lievemente la guancia colpita. Per un attimo London sperò di avergli fatto veramente male, ma forse ci voleva ben altro per farlo soffrire. Quasi si sentì di comprendere Frantz per averlo preso a frustate qualche giorno prima.
L’espressione del ragazzo mutò dopo qualche secondo, diventando quasi esasperata. 
« Senti, io lo so che neanche tu vuoi un figlio con me » disse, serio. « Perché vuoi complicarti la vita solo per farmi un favore? »
« Io non sto facendo un favore a te » ribatté London, ancora furiosa. Se non ci fosse stato quel tavolo a separarli lo avrebbe già preso a calci negli stinchi. « Sto facendo un favore a noi»
« Noi? » ripeté Klaus, esterrefatto. « Non è mai esistito un “noi”, London, mi stupisco che tu non ci sia ancora arrivata. »
« Guarda che lo so benissimo! Sto solo dicendo che per una volta dovremmo collaborare per il bene di entrambi. Io non voglio il tuo bene, chiariamo, ma il mio sì. E purtroppo in questo momento sono strettamente collegati. »
London tentò di calmarsi, ma le mani le tremavano dalla frustrazione e non riusciva a farle smettere. 
Klaus assottigliò lo sguardo, quasi specchiandosi in quello accecato dalla collera della moglie. Lei detestava fissarlo così a lungo negli occhi, ma non poteva mostrarsi intimidita.

« Tu non capisci » continuò il ventunenne. « Un figlio non migliorerà le cose. »
« Ma è un inizio » protestò London. « Io non volevo nemmeno sposarti, cazzo; adesso almeno lascia che la mia – e la nostra – vita sia normale. »
« E credi che avere un moccioso urlante per casa renderà la nostra vita normale? » sibilò con enfasi. « Non lo è mai stata, mettitelo bene in testa. »
London avrebbe voluto ribattere ancora con acidità, ma aveva finito le repliche a tono, perché su quel punto Klaus non aveva tutti i torti. « Quindi preferisci essere fustigato o magari anche ucciso da tuo padre? » chiese piano. Le risultava difficile crederci.
« Certo che no » rispose lui. « Ma troverò un modo perché mi lasci in pace. E tu non rientri nei miei programmi. »
La ragazza si sentì ferita nuovamente nell’orgoglio e gonfiò le guance come una bambina. « Oh, va’ al diavolo. »
« Solo se mi accompagni. »
London sospirò stizzita e uscì dalla sala da pranzo lasciando Klaus con le proprie convinzioni.


La sera calò abbastanza velocemente, colorando il Distretto Sei di ombre scure e lugubri. Quell’area di Panem non era mai stata particolarmente vivace o felice neanche di giorno, ma di notte appariva tutto più cupo e, da un lato, affascinante.
London era rimasta quasi tutto il pomeriggio a oziare nella sua stanza, dopo esservisi chiusa dentro a chiave perché non aveva voglia di vedere il volto di Klaus in giro.
Quando un brontolio dello stomaco, però, la riscosse dai suoi pensieri, fu costretta a scendere al piano di sotto. Raggiunse la cucina velocemente e recuperò delle fette di pane ai cereali dalla dispensa, insieme a un barattolo di marmellata fatta in casa – manna del cielo gentilmente inviata da sua madre. London e Ben avevano sempre avuto un debole per i dolci e la ragazza in particolare non sapeva resistere davanti a marmellata, cioccolato o qualsiasi altro tipo di squisitezza.
Prese un coltello da un cassetto e, dopo aver disposto ordinatamente due fette di pane sul tavolo, aprì il barattolo e cominciò a spalmare la confettura.
Immaginò che quelle fette di pane fossero la faccia di Klaus e a quel pensiero premette con più forza la lama sulla mollica, con le sopracciglia aggrottate. Tuttavia, si accorse appena che suo marito in persona era entrato nella stanza, che se lo ritrovò alle spalle, preso ad osservare la sua opera con un cipiglio fintamente ammirato.
London si voltò di scatto verso di lui, puntandogli il coltello sporco di marmellata in direzione del viso. 
« Che vuoi? » gli domandò bruscamente.
« Osservavo rapito la tua cena » rispose Klaus alzando le mani come in segno di resa. « E’ sicuramente meglio di quello schifo di zuppa. »
« E’ la mia cena » precisò lei. « La tua preparatela da solo. »
« Neanche un assaggio? »
« No! » esclamò, prima che Klaus intingesse un dito nella marmellata e se lo portasse alla bocca, con un’espressione soddisfatta e malandrina. London gli ringhiò contro quando lui affermò compiaciuto: « Mmh… lamponi. »
Avrebbe tanto voluto che quella marmellata fosse avvelenata, però poi le venne un’idea. Combattendo con l’impulso di conficcargli per davvero la punta nella carne, spalmò il residuo di marmellata che era rimasto sul coltello sulla sua guancia. Si sentiva una ragazzina dispettosa, ma forse lo era sempre stata, quindi mise a tacere quel pensiero con un’espressione soddisfatta.
Klaus, tuttavia, non sembrò arrabbiarsi e ridacchiò sommessamente. 
« Sei contenta adesso? »
London avrebbe voluto rispondere che, sì, era contenta, ma forse non abbastanza. Così gli spalmò un altro strato sulla punta del naso e sulle labbra, scoppiando a ridere di fronte alla faccia del ragazzo sporca di confettura. 
« Smettila » protestò blandamente lui, continuando a sghignazzare. Recuperò con l’indice un po’ di marmellata dalla propria guancia e la stese sulla sua con il polpastrello, proprio sullo zigomo sinistro, dove i capelli le incorniciavano delicatamente il viso.
London non provò nemmeno a reprimere il brivido che le attraversò la schiena con forza, perché arrivò totalmente estraneo e inaspettato. Che cosa stava a significare?
Smise presto di ridere, prendendo a fissare il volto di Klaus che, per qualche strano motivo, adesso si trovava a pochi centimetri dal proprio. I loro respiri quasi si contaminavano a vicenda, tanta era ridotta – e insopportabile – la distanza che li separava.
Klaus la stava guardando insistentemente negli occhi, tentando di cogliere ogni lampo che le attraversava le iridi, cercando di capire se quello strano luccichio che le pervadeva fosse disappunto, scherno, determinazione o… altro. Di certo non sembrava contrariata, visto che anche lei stava osservando senza discrezione le macchie di marmellata sulla sua guancia e sulle sue labbra.
Forse era facile riuscire ad intuire cosa sarebbe successo di lì a poco, perché in fondo entrambi erano persone impulsive che non riuscivano a controllare i propri sentimenti. 
Litigavano, si prendevano a parole, si menavano quasi ogni giorno e per cosa? Per poi ritrovarsi l’uno di fronte all’altra ad ammettere silenziosamente i propri errori, accantonarli in un angolo e non pensare alle proprie azioni.
London avvicinò le labbra alla guancia di lui, raccogliendo la marmellata che rimaneva con la punta della lingua. Aveva un gusto strano. Lamponi misti al sapore di Klaus. Tracciò un percorso con le labbra lentamente, sino ad arrivare alla sua bocca.
Il ragazzo sorrise lievemente, ma aspettò che facesse lei, perché una parte del suo orgoglio desiderava che si arrendesse e ammettesse di essere attratta da lui.
London pensò che fosse una mossa stupida, soprattutto dopo la sfuriata di quel pomeriggio, ma se ne infischiò perché lei in quel momento voleva baciarlo. Voleva assaggiare ancora quel sapore agrodolce sulle sue labbra, sentirle premute sulle proprie e stringersi forte contro il suo petto. Senza motivo, senza pensarci.
Lo baciò quasi con forza e senza delicatezza, come se ne avesse strettamente bisogno, prendendogli il volto tra le mani. Klaus, dal canto suo, non esitò a rispondere e strinse le braccia intorno alla sua vita, attirandola ancora più a sé, fino a farle inarcare la schiena. London intuì che quel movimento così brusco gli dovesse aver provocato qualche sorta di fitta alla schiena bendata, ma lui sembrava non curarsene.
Non era la prima volta che si ritrovavano così avvinghiati, ma c’era qualcosa di diverso in quella situazione… forse qualcosa di sbagliato, sempre se un desiderio così strano e improvviso si potesse definire tale.
Klaus fece qualche passo, pur tenendola stretta, facendole sbattere il fondo della schiena contro il tavolo su cui prima aveva preparato pane e marmellata – che giaceva ancora lì ignorato e indisturbato. London mugugnò qualcosa contro le sue labbra, ma continuò a baciarlo, anche quando, prendendola per le cosce, non la fece sedere sul ripiano del tavolo, che traballò per qualche istante.
Il ragazzo si staccò per un momento, con il fiato corto, nonostante i loro nasi si sfiorassero ancora, quasi come se fosse impossibile separare i loro visi del tutto. London si ritrovò a pensare che il suo respiro caldo sulla propria pelle fosse una sensazione decisamente appagante.
Klaus fece scorrere le dita sulla sua schiena e poi si chinò sul suo collo, percorrendo con le labbra il tratto dal lobo dell’orecchio alla mandibola. Lei, in reazione, inclinò la testa di lato e si morse le labbra. Doveva saperlo, doveva averlo capito che il collo era il suo punto debole, quel bastardo.
Eppure la allettava da morire l’idea che potesse tormentarla in quel modo. E la allettava da morire l’idea di poterlo tormentare egualmente, con le stesse armi.
Il ragazzo scese con la bocca sulla sua giugulare, lasciando una scia rovente e provocandole un gemito soffocato. La morse leggermente e London strinse le dita intorno ai suoi capelli.
Klaus alzò il viso di poco, strofinando il naso contro il suo mento. 
« Questo non c’entra niente con l’erede, d’accordo? » le disse in tono persuasivo, per poi riprendere a baciarla con trasporto, tanto che lei dovette reclinare la testa per far combaciare meglio le loro labbra.
« D’accordo » sospirò London tra un bacio e un altro, troppo presa dal momento per ragionare. Si sentiva sopraffatta dal desiderio ed era una sensazione così strana perché non l’aveva mai provata prima d’ora.
Lo maledisse per l’ennesima volta nella sua testa, perché era solo colpa sua se le aveva sconvolto l’esistenza, facendola dubitare persino dei propri sentimenti.


 
*


Klaus si domandò brevemente cosa fosse cambiato da un momento all’altro. Fu un istante davvero molto breve, tuttavia, perché abbandonò quel quesito in un anfratto remoto della sua mente. 
London lo aiutò a sfilarsi la maglietta e lui represse una smorfia di dolore. Nonostante cercasse di ignorarle, le ferite erano ancora lì, pulsanti e irrisorie, coperte da alcune bende bianche che gli fasciavano il busto. La ragazza cercò di essere delicata e gli passò le mani sulle spalle, accarezzando la sua pelle rovente. Forse, a differenza di quel pomeriggio, non voleva ferirlo fisicamente.
E Klaus stava apprezzando quel tentativo, perché al posto suo anche lui si sarebbe preso a schiaffi per quello che aveva detto. Si sentiva sporco, un bugiardo: lui desiderava London come si desidera un bicchier d’acqua in mezzo al deserto, ma non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura. Dopotutto combatteva con il suo orgoglio da ventun’anni, non l’avrebbe sbandierato ai quattro venti, né ora né mai.
London non sapeva quanto lui bramasse il suo corpo, e forse era anche meglio così, perché in caso contrario si sarebbe sentita davvero potente, permettendogli di odiarla e al contempo desiderarla ancora di più. Si trovava in un circolo vizioso. Ma ora che poteva averla – in tutti i modi in cui si possa avere una persona – non si sarebbe tirato indietro. L’orgoglio, una volta tanto, poteva anche andare a farsi fottere, perché per nulla al mondo adesso avrebbe rifiutato di poterla portare a letto, quasi ne avesse un bisogno fisiologico.
Per lui in quel momento London sarebbe stata parte della cura, come una medicina, o forse non avrebbe fatto altro che alimentare la malattia, come una droga. 
La sua pelle morbida e liscia era una medicina; i suoi baci e il suo viso erano una droga.
I suoi capelli candidi tra le dita erano una medicina; i suoi occhi sfuggenti e seducenti erano una droga.
Era assuefatto.
Klaus, pur tenendo le mani poggiate saldamente sui suoi fianchi morbidi, la lasciò stendersi sul tavolo.
Il petto della ragazza si alzava e abbassava ad un ritmo costante e, dopo che lui la aiutò a sfilarsi i jeans, London strinse di più le cosce intorno alla sua vita, come se potesse scappare da un momento all’altro e lei non glielo volesse permettere.
Quel pensiero gli lasciò un profondo senso di soddisfazione, perché significava che anche London, tra le sue braccia, stava escludendo il resto del mondo fuori dalla sua testa.
Scese con le mani ad accarezzarle le gambe, facendola sospirare di piacere, e quei suoni soavi non facevano altro che accrescere il proprio desiderio.
Le alzò di poco il bordo della maglietta e si abbassò a sfiorarle la pancia con le labbra.

« Klaus? » mormorò London, chiudendo gli occhi.
« Mmh? » biascicò lui, strofinando la guancia accanto al suo ombelico, al che lei, al contatto con il filo di barba del ragazzo, ridacchiò.
« Mi fai il solletico, stupido! »
« Ah, soffri il solletico? » chiese retorico, prendendo a passarle lentamente i polpastrelli sull’addome, proprio sotto al seno.
London rise, prendendogli le mani e portandosele di nuovo ai fianchi, esattamente nel punto in cui si trovava l’anca. 
« Qui va meglio » gli disse, cercando di trattenere un fremito. Klaus adorava vederla così vulnerabile.
L’aiutò ad alzarsi a sedere e ne approfittò per baciarla di nuovo, unendo le proprie labbra alle sue. Amava la sua bocca: era carnosa al punto giusto e particolarmente invitante, senza contare la presenza di quel raro sapore che la caratterizzava. 
Una bocca così diversa dalla propria, che era invece sottile e irrisoria. Stava cominciando a pensare che le loro labbra si incastrassero veramente bene; poi estese quel ragionamento, giungendo alla conclusione che forse erano i loro corpi che sembravano congiungersi come se fossero fatti da sempre per bramarsi ed incontrarsi.
Che pensiero stupido, si disse, autoconvincendosi. Si tratta di sesso e basta.

« Andiamo di sopra » disse in quel momento, bloccandosi per un attimo. 
London si scostò, accaldata, una ciocca di capelli dal viso e scese dal tavolo. Osservò suo marito per qualche istante di sottecchi, poi si lasciò trascinare sino alla stanza da letto che era rimasta inutilizzata per più di due anni.
Klaus, prendendola nuovamente tra le braccia, cominciò a credere che forse quella dell’erede non era poi una così cattiva idea. 


 
 













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Capitolo 11
*** 010. Tenth Chapter – Make every touch electrical. ***


Note: No, il decimo capitolo davvero non mi convince.
Mi sa troppo di sintetico e banale, ma lo posto comunque perché l'ho scritto in vacanza e questo ne è uscito fuori.
Avrei tante cose da dire e me le sto già scordando, quindi: alla fine del capitolo, se si dovesse notare, ho sperimentato un po' il PoV "incrociato", se così si può chiamare, perché in quel momento mi serviva che voi capiste le intenzioni/emozioni/sensazioni di entrambi, ma forse è molto da schifus, quindi perdonatemi in partenza.
Diciamo che queste scene sono più alla ricerca del dettaglio, descrittive e dialogiche, perché volevo concentrarmi di più sul contatto fisico e sul fatto che Klaus e London stiano imparando per la prima volta in ventun'anni di vita a conoscersi un pochino. Almeno fisicamente, intendo, il resto poi verrà.
Potrebbe sembrare un capitolo di passaggio, con vaghe scene quotidiane, ma in realtà ha la sua importanza nel loro processo psicologico (quanto fa figo dirlo! °w°). E poi dal prossimo - che non sarà aggiornato proprio prestissimo - cominciano i guai, quelli seri.
All'inizio il titolo era un altro, ma poi l'ho cambiato perché "Make every touch electrical" ("Rendi ogni tocco elettrizzante"; la traduzione ci voleva, già) era infinitamente più azzeccato.
Ultima cosa: scusate se da due/tre capitoli non sto rispondendo alle recensioni (che ho letto con molta commozione, seriamente), ma è una delle tremila cose che mi sono ripromessa di fare presto. Però devo finire prima il capitolo de "Il sangue del vicino è sempre più rosso" con la mia Mitogna. In ogni caso, ringrazio vivamente e di cuore Ribes e radioactive che hanno recensito il nove. Sappiate che ho riletto le vostre recensioni tipo duemila volte. Non potevate farmi regalo migliore, davvero! Grazie, grazie, grazie.
Credo di aver finito. Maybe.

Buona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da "Easily" dei Muse.

Il banner appartiene a pandamito ♥









 

Gretolla e Gretuzza, che sono due tesori ♥









 

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(Tied to a Railroad)






010. Tenth Chapter – Make every touch electrical.




« Mi ascolti o stai dormendo? » domandò piano.
« Sto dormendo » borbottò la ragazza. « In teoria. »
Klaus scosse la testa e si girò verso di lei, che gli dava le spalle dal suo lato del letto. « E, sentiamo, che cosa stai sognando? » le chiese, alzandosi su un gomito.
London mormorò qualcosa contro il cuscino, poi si voltò, ritrovandosi il suo viso di fronte, non molto lontano dal proprio. 
« Sto sognando di prenderti a calci » disse con un sorriso furbesco. « E’ un sogno bellissimo. »
Klaus alzò gli occhi al cielo. « Non lo vorresti. »
« Tu dici? » rimbeccò lei, stringendosi nel lenzuolo e tirandogli un calcio tra gli stinchi con una risata maliziosa.
« D'accordo » bofonchiò il ragazzo con un verso di dolore. « Ma pensavo che i tuoi sogni fossero più selvaggi. »
« Di certo non vengo a raccontare a te i miei sogni più selvaggi, idiota. »
« Forse perché riguardano me? » domandò con un sorriso sornione.
Fu London stavolta ad alzare gli occhi al cielo. 
« Come no, Klaus. Adesso lasciami dormire. »
« Ah, devo lasciarti dormire? » ripeté, sarcastico. Le sfiorò piano le clavicole con le dita e risalì sino alla sua mascella. Lei chiuse gli occhi, rilassata da quel contatto che di norma l'avrebbe infastidita parecchio, e sussurrò lievemente: « Magari non ancora. »

Quando London si svegliò, quella mattina, si ritrovò ancora nuda tra le lenzuola e leggermente sudata. Si alzò a sedere stropicciandosi gli occhi, sorpresa di scoprire che Klaus era già sveglio, seduto sul bordo del materasso, intento a rivestirsi.
« Buongiorno, eh » gli disse ironica, incrociando le braccia.
Stava per innervosirsi, notando che lui non rispondeva né la degnava di un po' d'attenzione, quando si accorse che forse qualcosa non andava. Non riuscì a trattenersi dal domandargli bruscamente: 
« Che hai? »
Klaus si girò di poco nella sua direzione, guardandola da sopra una spalla con occhi seri e freddi. Uno sguardo talmente diverso da quello della notte precedente che fu capace di gelarla sul posto. « Niente » decretò, alzandosi.
London provò a dire qualcos'altro, ma quando il ragazzo gemette debolmente nello stiracchiare le braccia, capì al volo. 
« Le bende. Devi cambiarle. »
Klaus si diresse verso il bagno, la maglietta del pigiama appallottolata tra le mani. « Lo so. »
« E come te le cambi da solo? » chiese, ma il marito se n'era già andato senza controbattere. London normalmente si sarebbe domandata che cosa l'avesse reso così scorbutico, ma si rese conto di provare pena per lui, perché non doveva trovarsi affatto in una bella situazione.
Scacciò immediatamente quella sensazione, indossando della biancheria intima pulita. Provare pena per Klaus le suonava particolarmente strano.
Uscì dalla camera da letto e bussò alla porta del bagno. Nessuna risposta.

« Avanti, fammi entrare » disse alzando la voce e bussando di nuovo con più insistenza.
« Dovrei risponderti che non puoi, ricordi? »
London alzò gli angoli della bocca verso l'alto, inconsapevolmente. L'ultima volta che avevano vissuto quella scena era stato due anni fa e lei gli aveva risposto esattamente così quando lui aveva cercato di entrare.
Klaus aprì la porta con uno sbuffo. 
« Ti serve il bagno? »
La ragazza scosse la testa. « Ti devo cambiare queste fottute bende. »
« E perché mai? » chiese lui.
London non capiva perché d'un tratto fosse diventato così scontroso, ma forse c'entrava con il dolore delle piaghe, o magari con quella sensazione di impotenza che non gli permetteva neanche di fasciarsi autonomamente.

« Perché me l'ha chiesto Ben » replicò, determinata, alzando il mento. « Forza, siediti » continuò, mentre gli indicava uno sgabello accanto alla vasca.
Klaus si arrese con una smorfia infastidita e London si chiese anche perché fosse diventato così arrendevole.
Il ragazzo si sedette come richiesto, mentre London recuperava l'attrezzatura da un cassetto sotto al lavandino: ovatta, disinfettante e fasciatura. Non era un asso nel pronto soccorso, ma suo fratello le aveva spiegato come fare, quando Klaus era crollato addormentato sul divano.
Sorrise, al pensiero del gemello, che sembrava sapere sempre cosa fare in ogni occasione. Eppure ad un tratto il suo stomaco si contorse.
L'aveva fatto di nuovo, l'aveva tradito di nuovo. Quella consapevolezza la lasciò spiazzata per qualche momento buono e, nonostante fosse impallidita, tentò di non darlo a vedere così facilmente, perché sapeva quanto Klaus fosse un attento osservatore. In realtà, lei pensava che in generale non fosse poi molto perspicace, ma per qualche assurdo motivo riusciva a cogliere ogni sua più piccola reazione, e la cosa la metteva incredibilmente a disagio. Solo Ben, d'altronde, poteva comprenderla del tutto.
Senza una parola cominciò a togliergli le bende, lentamente, e ogni volta che sfiorava la sua pelle calda e provata con le dita, il senso di colpa saliva sempre più a galla.
Si disse che era stata a letto con Klaus soltanto per la questione dell'erede, ma poi si ricordò che lui le aveva chiesto di accantonarla in un angolo, per quella volta. Rimase sovrappensiero per qualche istante. Perché, effettivamente, erano andati a letto insieme?
London si stava applicando per trovare una risposta soddisfacente, ma Klaus la riscosse dai suoi pensieri. 
« Cazzo, puoi fare più piano? »
Lei sciolse l'ultima benda, facendola cadere ai suoi piedi. « Dovresti ringraziarmi. »
« Sì, magari dopo » ribatté lui.
Perse un secondo a riflettere quanto entrambi non amassero usare le parole “grazie”, “scusa” e “per favore” soltanto a causa del loro orgoglio smisurato, dopodiché abbassò gli occhi sulla schiena di Klaus e il respiro le si mozzò in gola. Dimenticò i ragionamenti, il senso di colpa e tutto il resto, soffermandosi sulle ferite rosse e accese del marito. Forse avrebbe dovuto disinfettarle meglio.
Adesso capiva perché Ben le dicesse di dover sempre mantenere la calma.

« Entra nella vasca » disse sbrigativamente.
« Perché? »
« Oh, entra e non fare storie! » esclamò lei, aprendo il rubinetto della vasca per riempirla d'acqua.
Klaus la fissò interdetto per qualche istante, poi cominciò a spogliarsi e London, quasi di riflesso, si voltò dall'altro lato.
Che cosa mi prende?, si domandò, sentendosi le gote leggermente accaldate.

« Guarda che non c'è bisogno che tu faccia la pudica » disse allora il ragazzo, riprendendo un po' del suo umorismo.
London tornò a girarsi, innervosita. 
« Non sto facendo la pudica! » protestò, con le mani sui fianchi.
Klaus entrò nella vasca, con l'acqua a lambirgli le cosce e i fianchi. 
« Certo. La piccola Londie non vuole vedere il Big Ben di Klaus, perché ne ha già un altro a cui pensare. »
La ragazza sgranò gli occhi, incapacitata. « Se fossi stata così frigida, stanotte- »
« Stavo scherzando, stavo scherzando » fece, alzando le mani. « Rilassati. »
London strinse la presa sui propri fianchi. Cosa diavolo gli faceva cambiare umore così velocemente, quel giorno?
« Tu scherzi troppo, per i miei gusti » ribatté quindi. « Prenditi una vacanza. »
Klaus giocherellava passivamente con l'acqua intorno ai propri piedi. « E perdermi il tuo faccino imbronciato? No, grazie. »
London decise di ignorarlo e si sedette sul bordo della vasca, per poi immergere le caviglie nell'acqua. « Stai fermo » gli intimò, prendendo il soffione e cominciando a bagnargli le spalle un po' alla volta.
Il ragazzo s'irrigidì; involontariamente strinse i denti e mugugnò qualcosa quando l'acqua fresca cominciò a pulirgli le ferite non ancora rimarginate.

« Troppo fredda? » chiese lei. Klaus scosse la testa ma non si rilassò neanche di poco.
London, allora, nonostante non riuscisse a vederlo in faccia perché di fronte a sé aveva la sua schiena martoriata, tentò di distrarlo – e di distrarsi – avviando quella che le sembrava una conversazione normale ed innocente. 
« Quindi ti piace la marmellata di mia mamma? »
Klaus per poco non scoppiò a ridere. « Sì, la marmellata di tua mamma, certo. »
« Sono seria! » obiettò lei. « Non pensare subito a male. »
« Diciamo che qualsiasi cosa è meglio della tua cucina » affermò, convinto. « E diciamo anche che non avrei mai immaginato di associare la marmellata a certe situazioni. »
London gli diede uno scappellotto. « Sei proprio un… »
« Porco bastardo? » suggerì lui.
« Sì, forse rende bene l'idea. »
« Ma se hai cominciato tu, ieri! » contestò Klaus, sottolineando quella che gli sembrava la pura ovvietà. London non poteva vederlo, ma un sorriso quasi soddisfatto gli increspava le labbra. « Come dovrei chiamarti, allora? »
« Londie basta e avanza » sbuffò lei, continuando a sciacquargli la schiena. « E poi ho perso il conto di tutte le volte in cui mi hai chiamata "stupida puttana"; sei banale. Senza contare che non ho cominciato io, ieri, perché sei stato tu a provocarmi, come al solito. »
« Oh, Londie-Basta-E-Avanza, io ti ho semplicemente dato corda » precisò Klaus. « Lo so che non vedevi l'ora di sbattermi al muro e- »
« Non continuare » lo ammonì, sentendosi di nuovo il viso accaldato. « Ché anche tu non ne vedevi l'ora. »
Il ragazzo non provò neanche a smentirlo e lei si sentì stranamente delusa di aver avuto l'ultima parola. In genere le provocava una sensazione di trionfo.
Passò qualche istante di silenzio, interrotto solo dallo scrosciare dell'acqua.

« Credo di stare rivalutando l'opzione dell'erede » rivelò infine Klaus con un tono a metà tra l'ironico e il riflessivo.
London rise, d'istinto. 
« Allora ammettilo che ti è piaciuto. »
« Io non l'ho mai negato » replicò il ragazzo tranquillamente. « Sei tu la bugiarda tra noi due. »
La risata le morì in gola velocemente. La stava mettendo in difficoltà, perché da un lato era vero che lei sapesse mentire abilmente e lui fosse meschinamente onesto. « Senti, io dico quello che mi pare. »
« E quindi ammetti entrambe le cose: che sei una bugiarda e che è piaciuto anche a te. »
« Io non ammetto un bel niente! » dissentì lei, alzando la voce di qualche ottava.
Klaus sospirò, mentre London chiudeva il getto dell'acqua, e borbottò: 
« Sei un controsenso vivente. »
« E con ciò? »
« E’ inutile parlare con te. »
« Guarda che è colpa tua se siamo passati dalla marmellata a questo! » affermò, indispettita.
« Ma non è colpa mia se sei- » tentò di dire Klaus, ma London lo precedette.
« Una fottuta puttana vigliacca e bugiarda? » suggerì, come aveva fatto lui prima.
« Stavo per dire soltanto "vigliacca" » ridacchiò, « ma forse hai ragione tu. »
London gli schizzò dell'acqua con le mani, ma per qualche strana ragione ricominciò a ridere. Di norma non avrebbe mai immaginato di finire in una scena del genere. Con Klaus, per di più.
Lo fece appoggiare con le spalle alla parete della vasca e si posò la sua testa in grembo. Il ragazzo all'inizio bofonchiò qualcosa, ma poi si rilassò, mentre lei gli passava distrattamente ma delicatamente le dita tra i capelli.
Klaus allora le accarezzò le caviglie immerse nell'acqua e poi reclinò la testa, per guardarla meglio. Era concentrata sul suo viso e continuava a sfiorargli le orecchie e il collo lentamente.
Entrambi non seppero dire quanto tempo passò, perché lo trascorsero lì, silenziosamente, a studiarsi placidamente l'un l'altro con l'unica compagnia dell'acqua a carezzare la loro pelle.

 
*


« Allora? » Una domanda repentina e inattesa, che quasi sembrò sfuggirgli dalle labbra.
« Allora cosa? »
« Non sei incinta? »
Qualche istante di silenzio che si perse nel vuoto. « No. »
Klaus arricciò le labbra e non aggiunse altro. L'aveva buttata lì, sul vago.
« Ma tu non eri quello che non voleva un figlio da una puttana? » chiese la ragazza acidamente. « Cos'è cambiato adesso? »
« Volevo solo sapere. E poi ti avevo detto che ci stavo ripensando » precisò, pur non guardandola negli occhi.
London si legò i capelli in una crocchia disordinata davanti allo specchio sul comò, osservandolo attraverso il riflesso. 
« Già, tanto non avrai tu la parte difficile, anzi»
« Senti, io non ti sto obbligando a- »
« No, non mi stai obbligando a venire a letto con te. E ci mancherebbe. Ma dobbiamo prendere una decisione da persone… mature » ribatté lei, mettendosi il pigiama, che comprendeva comodi shorts e canotta attillata.
Klaus, già steso sul letto, sbirciò i suoi movimenti per qualche istante: London ripiegò la camicetta in un cassetto e si tolse una sottile catenina che aveva al collo. Sentendosi osservata e non ricevendo una risposta, però, si voltò verso di lui. 
« Che c'è? »
« Persone mature, dici? » ripeté. « Mi sembra un po' difficile. »
« Certo » sbuffò lei, scostando il lenzuolo e stendendosi accanto a lui, in modo però che le loro pelli non si sfiorassero neanche. « Dopotutto tu sei così infantile… »
Klaus le lanciò un'occhiata accusatoria, che lei fece finta di non cogliere.
Nessuno dei due ricordava, di preciso, quando avessero stabilito di poter tornare a dormire in camera insieme. Come se fosse stata una cosa spontanea, quella di tornare a condividere lo stesso letto. Troppo spontanea.

« Proprio non ci riesci a non insultarmi per qualche secondo? » sbottò Klaus, girato su un fianco perché dormire sulla schiena gli era ancora impossibile.
« No » sorrise genuinamente la ragazza. « Mi viene naturale, sai? »
Lui la fissò con cipiglio stranamente serio. « E poi vieni a parlare a me di maturità. »
London s'indispettì e lasciò perdere il discorso, per ritornare alla questione principale. « Quindi che cosa facciamo? Erede o no? »
Klaus non rispose subito, continuando a far scorrere lo sguardo sul suo viso e sul resto del corpo lasciato scoperto dal lenzuolo. In quel momento la soluzione gli sembrava più che fattibile, ma London probabilmente non era della stessa opinione e forse era davvero combattuta. Si chiedeva ancora perché, da un lato, avesse deciso di aiutarlo. Dalla sua bocca, come se avessero avuto vita propria, uscirono parole che neanche aveva intenzione di pronunciare; non in quel momento almeno. « Perché ti sei presentata all'altare, il giorno del matrimonio? »
London assorbì la domanda per qualche secondo buono, mutando di poco la sua espressione lievemente crucciata. « Ben mi ha convinto. »
Klaus non faticò a crederci; in quel momento gli sembrava onesta, perché sapeva bene che lo stesso Benjamin era riuscito a convincere anche lui. Tentò di abbandonare l'argomento, ma la moglie gli rigirò la domanda.
« Ha convinto anche te, vero? »
Il ragazzo annuì distrattamente, prendendo a guardare il soffitto. Per un istante la stessa parola aleggiò nelle loro menti: Perché?
Perché aveva insistito fino al punto di averla vinta?
Klaus pensò che doveva avere i suoi buoni motivi… ma proprio non riusciva a trovarne.

« Come ti ha convinto? » chiese allora London, corrugando la fronte. « Insomma, Ben è… bravo con le parole, d'accordo, ma… mi spieghi come ha fatto? »
« Non è importante il come » ribatté prontamente Klaus. Si aspettava una domanda del genere e lui non aveva affatto intenzione di rivelarle la verità. « Piuttosto, non ne ho capito il senso. »
« A me ha detto che meritavo di essere felice » rifletté la ragazza ad alta voce, gli occhi rivolti in un punto impreciso della stanza. « Ora mi sembra la cosa più assurda del mondo, ma allora per qualche assurda ragione mi parve sensato, non so perché. »
« E così ti sei presentata all'altare » finì lui al posto suo. « Che atto coraggioso » aggiunse sarcasticamente.
London gli diede uno schiaffetto sul braccio, e da quel piccolo gesto le parve una brutta idea quella di mantenere le distanze come poco prima. 
« Anche tu ti sei presentato » precisò, avvicinandoglisi casualmente e di poco.
« Non avevo nulla da perdere. Non dopo aver partecipato ai Giochi. »
« E adesso? Te ne penti, vero? »
Klaus riprese a guardarla in volto, cercando di capire dove volesse andare a parare; aveva la classica espressione di una bambina pronta ad ottenere ciò che vuole.
« Non del tutto » rispose, sul vago. London a quella risposta sgranò leggermente gli occhi. « Ha i suoi vantaggi: ho una casa tutta per me, no? »
La moglie cambiò immediatamente espressione e alzò gli occhi al cielo. « Due anni fa non avrei mai immaginato che ci saremmo sposati sul serio. E ora grazie a te mi ritrovo in questa spiacevole situazione. »
Klaus alzò un sopracciglio e le riservò un'occhiata eloquente. « Spiacevole? » rincarò, in un soffio, vicino al viso dell'altra.
London si ritrasse di poco, spostando lo sguardo altrove. 
« Spiacevolissima. »
« Sai? Mi dai sempre più ragioni per credere che tu sia davvero una bugiarda, oltre che una pessima attrice » replicò il ragazzo, scostandole un ciuffo più lungo della frangia dalla fronte. Era passato solo un giorno dalla prima volta che avessero fatto sesso in due anni e già era in astinenza della sua pelle.
« Oh, smettila » sbuffò lei, fintamente irritata da quel contatto. « Sei ripetitivo. »
« E io non ti credo. »
« Non m'importa » lo liquidò London.
Klaus scosse la testa e sorrise sarcasticamente. 
« Come devo fare con te, piccola Londie? »
La ragazza gli diede un altro schiaffo, ma stavolta non staccò la mano dal suo braccio. « Non chiamarmi così! »
« Oh, giusto. Londie-Basta-E-Avanza, l'avevo dimenticato » ridacchiò l'altro.
« Maturità, ricordi? » rimbeccò lei.
Klaus tentò di tornare serio, ma un ultimo sorrisetto gli scappò lo stesso. 
« Certo, certo… maturità. »
London abbandonò il discorso e, quasi senza accorgersene, prese a far scorrere lievemente i polpastrelli sul suo avambraccio, tracciando un percorso immaginario fino a giungere alla sua mano, grande quasi il doppio della propria. Giocherellò con le sue dita, notando che non erano tozze o callose, ma affusolate quanto basta per una mano maschile, e si concentrò sull'anulare, dove ci sarebbe dovuta essere la fede. Nessuno dei due la portava.
Klaus la osservò mentre esplorava il suo palmo e si rilassò a quel tocco delicato.

« Continua » le disse a bassa voce, chiudendo gli occhi.
London si fermò per un attimo, poi riprese a tracciargli linee invisibili sul dorso della mano, poi sul polso, con il pollice che accarezzava esattamente la parte più sporgente dell'osso. Risalì piano lungo il braccio, fino a raggiungere la spalla, dove incontrò il bordo della maglietta del pigiama. Vide bene che tutto ciò lo stava rilassando e da un lato si sentì soddisfatta di avere questo potere su di lui.
Osservò il suo volto rilassato e per un istante credette che si fosse addormentato; poi lui sussurrò piano. 
« Già finito? »
A London sfuggì una risata divertita. « Ti piace? » gli chiese, accarezzandogli stavolta una guancia con la punta dell'indice, proprio come aveva fatto qualche sera prima – solo che adesso Klaus era più che cosciente delle sue azioni.
« Da morire » ammise lui con voce roca.
La ragazza sentì dentro di sé come una scarica elettrica, una scossa pericolosa che la fece avvicinare alle labbra di Klaus più del previsto, quasi senza che se ne rendesse pienamente conto.
Troppo vicini, troppo vicini!, sbraitò una voce nella sua testa, ma ormai era già troppo tardi.
Lui tenne gli occhi chiusi, ma sentì benissimo i loro nasi che si sfioravano le la bocca di lei che si poggiava flebilmente sulla propria, come a voler promettere qualcosa di troppo pericoloso per essere pronunciato. London non lo baciò subito, aspettando una sua reazione, ma Klaus alzò semplicemente gli angoli delle labbra e rimase fermo. Nelle sue mani.
London credette che fosse tutto uno stupido gioco, ma in quel momento si sentì incredibilmente allettata di poter giocare con Klaus. E tormentarlo – come aveva sempre fatto, d’altronde, solo in altri ambiti – alla sua maniera. Qualche provocazione non gli avrebbe fatto male, decise.

« E questo ti piace? » chiese piano, soffiando sulla sua bocca e infilando una mano sotto la sua maglietta, lenta e felina.
Klaus non rispose e socchiuse le labbra, e London pensò che fosse il momento adatto per baciarlo; lo fece con lentezza, insinuando la lingua tra i suoi denti. E lui rispose all’istante con altrettanto trasporto, cercando istintivamente il contatto dei loro corpi.
Le strinse una mano su un fianco, attirandola di più a sé e facendo combaciare i loro petti, il seno morbido di London premuto contro i propri pettorali poco accentuati – alla fin fine Klaus non aveva mai avuto un fisico memorabile, a dir la verità… sempre che a lei fosse importato, in quel momento.

« Non mi rispondi? » gli domandò ancora, salendo piano a cavalcioni su di lui ed ergendosi in tutta la propria altezza, per volergli dimostrare che quella volta si sarebbe voluta divertire un po’ con lui, prima di arrivare al dunque. Il marito si alzò a sedere e le avvolse le braccia intorno alla vita, affondando il volto tra la sua spalla e il collo. Mentre percorreva con le labbra quel tratto di pelle candido e liscio, con un veloce gesto della mano le sciolse i capelli, che le ricaddero scompostamente sulle scapole. London borbottò qualcosa in merito, ma lasciò perdere subito, lasciandosi baciare.
« Sì, Londie » sussurrò di rimando Klaus, abbozzando un sorrisetto soddisfatto. « E’ divertente. Però tu resti sempre insopportabile. »
« E tu un maledetto idiota » ribatté la ragazza, spingendo il bacino verso di lui, anelando a un contatto più profondo.
Il moro invertì le posizioni dopo pochi istanti, stendendosi su di lei pur senza gravare sul suo corpo con il proprio peso. Scese con la bocca sul suo seno ancora coperto dalla canotta aderente che lasciava poco all’immaginazione – quella di Klaus in particolare – e lambì con le labbra umide quella parte di pelle risparmiata dalla stoffa, poco vicino all’orlo della suddetta canotta.
London borbottò giusto che quella volta sarebbe dovuto toccare a lei il ruolo di dominatrice, che Klaus ridacchiò beffardamente e la zittì con un bacio possessivo.
La ragazza pensò che fare sesso con lui e fare l’amore con Ben fossero due cose completamente diverse, eppure complementari. Era come comparare amore e lussuria, ragione e istinto, virtù e peccato.
Per una volta – una volta che sapevano entrambi non sarebbe stata soltanto una nell’esatto senso del termine – London decise di affidarsi al torto e diventare ciò che aveva sempre temuto: schiava di una ragnatela, di un circolo vizioso e pericoloso.
E, in fondo, a nessuno dei due sarebbe dispiaciuto esserlo. Che si trattasse di eredi, maturità, desiderio o principio di un’ossessione non aveva importanza.
Forse sarebbero riusciti a cavar fuori qualcosa di buono da quello schifo di vita matrimoniale, qualcosa che comprendeva arrendersi momentaneamente e agire senza ripensamenti.

 















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Capitolo 12
*** 011. Eleventh Chapter – Paradise comes at a price. ***


Note: Stavolta vi direi una bugia se affermassi convintamente che questo capitolo non mi piace per nulla come il precedente... cioè, lo affermo lo stesso, ma non convintamente. Sì, dai, un pochino sono soddisfatta. E sono curiosa di vedere le vostre facce, ma... ci separano gli schermi dei computer.
Buonsalve! Sono tornata, purtroppo per voi. No, se ve lo state chiedendo, non vi libererete facilmente di me. Anzi. Sarò sempre nei vostri sogni/incubi a rompervi le scatole con Blur.
Comunque... che dovevo dire? Ah! Il flashback è ambientato durante la rinomata notte di Ben e Klaus... cioè, forse in realtà si capisce, ma ci tenevo a precisarlo, non si sa mai. Che poi sono proprio brilli lì, piccini ♥ Quella parte, in ogni caso, viene da una one-shot che scrissi molti anni or sono, che tratta proprio di quella notte (senza particolari perché io e il lemon non andiamo d'accordo) e di quello che successe veramente... però forse la pubblicherò solo quando avrò finito tutta Blur.
Le cose si complicheranno molto più di quello che immaginate. Si accettano ipotesi (y)
Altra cosa: sul Capodanno non sono sicura, sinceramente, ma credo che i Panemiani "festeggino" l'ultimo dell'anno a modo loro lo stesso.
Grazie ancora a tutti quelli che preferiscono/ricordano/seguono questa storia, vi amo ♥
E grazie soprattutto a enjoywithpanda e radioactive per aver recensito lo scorso capitolo - sempre per mancanza di tempo non ho ancora risposto, ma giuro sulla Klondon che lo farò!
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Megalomania" dei Muse.
... che è stata una delle canzoni a ispirarmi gran parte di Blur.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ






 





















Blur

(Tied to a Railroad)






011. Eleventh Chapter – Paradise comes at a price.




Aveva smesso di nevicare da poco.
Il giardino del maniero dei Bridge era silenzioso e buio, ma una strana e pacifica calma vi incombeva come un manto protettivo almeno quanto la soffice neve che si era posata delicatamente in giro.
Klaus era uscito per fumarsi una sigaretta e, nonostante stesse congelando dal freddo, fece un paio di tiri nella tranquillità totale, mentre una brezza invernale gli scompigliava i capelli e gli pungeva il viso. La pace, tuttavia, durò solo pochi istanti.
Una palla di neve gli arrivò violentemente tra le scapole, facendolo inciampare in avanti e facendogli cadere la sigaretta nella neve.

« Ma che-? » provò a dire, girandosi, quando un’altra manciata di neve gli arrivò sul petto e un’altra sul braccio.
I due gemelli stavano ridacchiando mentre lo squadravano con cipiglio divertito. 
« Andiamo, non hai mai giocato a palle di neve? » domandò London, spostando il peso da un piede all’altro e incrociando le braccia.
« Con voi due non vale » borbottò Klaus, scrollandosi la neve di dosso. « Praticamente vi mimetizzate. »
Entrambi scoppiarono a ridere a quella constatazione, mentre il moro si stringeva nelle spalle e alzava gli occhi al cielo. Sbuffò una nuvoletta di freddo, sfregandosi le mani.
« In effetti perderesti in partenza » commentò Ben.
« Oppure è solo una scusa perché non sa giocare » aggiunse London, stringendo la mano del gemello con noncuranza, che ricambiò la stretta.
Klaus si soffermò giusto un istante su quel gesto, poi scosse la testa. 
« Mi dovete una sigaretta. »
« Fumare fa male » controbatté l’albino. « Dovresti ringraziarci, piuttosto. »
« Ringraziarvi? » sibilò l’altro. « L’unica cosa che dovrei fare è mandarvi a- »
London lo bloccò sbuffando: « Klaus, mancano dieci minuti alla mezzanotte. Vediamo di cominciare bene l’anno nuovo, sì? »
Il ventunenne sembrò riflettere per qualche istante. « Quindi in questi dieci minuti posso fare qualcosa di sconsiderato per concludere quest’anno di merda? »
« Se vuoi » ridacchiò Ben. « Anno più, anno meno, le persone non cambiano. »
L’espressione infastidita di Klaus si trasformò in un sorrisetto sarcastico. « Può darsi. Però conosco un ottimo posto dove andare a festeggiare. Senza offesa, la cena di vostra madre è buona, e sicuramente molto più di quella di London » – e qui la ragazza gli lanciò un’occhiataccia eloquente – « ma ho bisogno di svagarmi un po’. »
« Tu hai sempre bisogno di svagarti un po’ » obiettò la moglie.
« Chissà perché » disse Klaus, continuando a sghignazzare.
London stava per ribattere di nuovo, ma Ben bloccò sul nascere quella che sarebbe potuta diventare una discussione interminabile. 
« E dove vorresti andare? »
« Vi fidate di me? »
I due gemelli si scambiarono uno sguardo d’intesa vagamente divertito e risposero all’unisono: « No. »
Klaus non mutò neanche di poco la sua espressione compiaciuta. « Risposta esatta. »

Almeno un centinaio di corpi si ammassavano in uno spazio stretto e dal soffitto basso, urtandosi in continuazione e sudando per il calore dell’ambiente.
Nonostante il sovraffollamento, le persone continuavano a muoversi, a urtarsi, a ballare e a sudare, mentre qualcuno mandava giù in un sorso bicchieri pieni di alcolici. Le luci erano vecchie e malridotte, ma riuscivano a mantenere comunque il loro effetto originale, mandando bagliori colorati per la sala.
Una musica assordante proveniente da alcune casse alle pareti copriva ogni altro rumore, lasciando scivolare via dalla pelle di quella gente ogni sorta di problema.
Quello era l’unico locale del genere dell’intero Distretto Sei, situato in un luogo sperduto persino della zona ovest, dove anni e anni prima, durante la rivolta, le bombe erano cadute a devastare quella porzione di terreno.
Discoteche all’avanguardia esistevano solo a Capitol City, ma gli abitanti dovevano arrangiarsi e festeggiare l’ultimo dell’anno come meglio credevano. E la zona ovest non aveva regole, né orari, né proibizioni. La gente vi trovava un appiglio, uno sfogo.
E se da un lato era sbagliato che la persone entrassero agnelli e uscissero lupi, dall’altro non c’era altro modo per distrarsi da quella situazione buia in cui vivevano gli abitanti di Panem.
Altri locali simili pullulavano di gente a quell’ora – e i più dovevano ritenersi fortunati visto che i Pacificatori non facevano ronde da quelle parti –, ma Klaus aveva scelto proprio il più affollato e rumoroso per passare la notte. Per quale oscuro motivo neanche lui lo sapeva.

« Klaus, aspetta! » gridò London, cercando di stare al passo del ragazzo, mentre lui si addentrava in quell’intreccio di gambe e braccia con disinvoltura.
« Muovetevi » mimò lui con le labbra, visto che urlare con quella musica assordante era inutile.
London trascinò Ben tenendolo per mano e tra spinte e spallate riuscì a raggiungere lo stesso angolo in cui si era appostato Klaus.

« Allora? » domandò lui, incrociando le braccia. « Che ve ne pare? »
La ragazza inarcò le sopracciglia. « E’ un porcile! »
« No, è un locale. »
Il moro si aspettò di ricevere uno schiaffo, ma evidentemente Ben doveva aver bloccato al volo la gemella. « Era meglio casa nostra » fece lui, quindi.
« Ah, ma lasciatevi un po’ andare! » protestò l’altro. « Avete ventun’anni, non quaranta. »
Entrambi, pur facendo fatica a cogliere ogni parola, compresero quello che lui voleva dire e forse uno dei due stava per ribattere qualcosa, ma Klaus, prima che potessero aggiungere altre stronzate, prese London per il polso e la trascinò qualche metro più avanti, trascinando di conseguenza anche il fratello perché la ragazza gli teneva la mano ben stretta.
« Lasciami! » sbraitò lei, strattonando il braccio invano.
« Vi offro da bere, contenti? »
L’espressione di Ben si incupì leggermente, ma Klaus non ci fece caso e, sbracciandosi per superare una decina di persone davanti al bancone, raggiunse un paio di sgabelli relativamente isolati.
« Cosa prendete? » domandò il moro, cacciando dalla tasca dei pantaloni una banconota di Panem.
« Non voglio bere » sbuffò London, liberandosi finalmente dalla presa dell’altro. Si massaggiò il polso e gli lanciò uno sguardo arrabbiato. « Voglio andare a casa. »
« E giocare a scacchi con tuo padre? Interessante » ribatté il ragazzo, con le sopracciglia aggrottate.
« Smettetela » disse Ben, frapponendosi tra i due prima che potessero continuare quella stupida discussione. « London, ormai siamo qui, è inutile tornare indietro. Klaus, prendile qualcosa di leggero, io non voglio niente. »
« Oh, d’accordo. Maledetti Bridge astemi » borbottò Klaus, prima di indirizzare uno sguardo all’albino che lui non seppe interpretare.

Continuarono a bere per un’altra mezz’oretta buona, mentre la pioggia cominciava a diminuire, lasciando intravedere il cielo sempre più nero.
Dovevano essere le due di notte come minimo, ma la zona ovest non riposava mai.
Parlottarono ancora un po’, nel frattempo che nel locale entrava qualche altro cliente senza nome e senza storia.
Più bicchieri bevevano, più i suoni diventavano ammalianti e le luci più accese. Ogni tanto venivano colti da un capogiro, ma niente che li potesse far smettere.
Non si curavano del fatto che probabilmente li avrebbero riportati a casa svenuti e ubriachi fradici, non si curavano di niente. Era una notte strana, quella.
Dopo qualche minuto di inatteso silenzio, Klaus parlò. 
« Devo confessarti una cosa. »
Ben si sporse dall’altro capo del tavolo per ascoltarlo meglio, confuso dai fumi dell’alcool. « Che cosa? E perché a me? »
« Sta’ zitto » lo ammonì il moro, come se quello che stesse per rivelargli gli sarebbe costato molto caro.
Ben si fece tutt’orecchi.

« Vedi, ecco… » cominciò lui, guardando il bicchiere che aveva tra le mani per evitare lo sguardo limpido dell’altro, come se specchiarvisi sarebbe stato troppo doloroso o insopportabile. « Ti sembrerà stupido – fottutamente stupido – ma, insomma… »
Il ragazzo che aveva di fronte fece un’espressione interrogativa.
« Io la amo, quella puttana di London. »
Ben sembrò assorbire quelle parole lentamente, ma non parve aver compreso appieno. « Come? » chiese, frastornato.
« Hai capito » borbottò Klaus, raddrizzandosi sulla sedia, che ormai sembrava troppo scomoda.
« Perché me lo dici? » domandò l’altro con il tono alterato dall’ubriachezza.
« Mi sentivo in dovere di dirtelo » rispose quasi in un sussurro il moro, socchiudendo gli occhi.
Quando li riaprì, si ritrovò il volto dell’altro ornato di un’espressione puramente spaesata.
Klaus appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa tra le mani. 
« Assurdo, vero? »
Ben lo guardò negli occhi, cercando forse anche una minima traccia di bugia, ma non ne trovò. Klaus distolse lo sguardo, sperando in cuor suo che il giovane Bridge un giorno avrebbe dimenticato quel discorso, ma qualcosa gli diceva che non se ne sarebbe liberato facilmente.
Aveva appena confessato e in quel momento si sentiva esattamente come un criminale punibile con la morte.

« Ma tu… ma voi… » balbettò Ben, incapace di aggiungere altro. « Hai detto che vi odiate… »
« La odio » confermò il moro. « E lei odia me, però… » lasciò la frase in sospeso, corrugando la fronte. Era come se si sentisse terribilmente in colpa.
« Sai, non credo che lei provi le stesse cose per te » disse l’albino con convinzione, ma cercando di non essere troppo rude. Non lo avrebbe mai pensato prima, ma adesso Klaus gli faceva compassione, quasi. Lo stava rivalutando con occhi diversi. Gli occhi di un suo pari.
« Credi che non lo sappia? » biascicò il ragazzo.
Ben stava per ribattere, ma accadde tutto così in fretta che non ebbe neanche il tempo di ragionare.
Klaus si alzò, gli andò vicino e, senza dire una parola di più, gli avvicinò la nuca velocemente, facendo incontrare le loro labbra ancora inumidite dal liquore.
Ben spalancò gli occhi, ma non riuscì a non pensare, anche se per un solo e minuscolo istante, che il ragazzo fosse un abile manipolatore, oltre che un
discreto baciatore.
Evitando di immaginare cosa sarebbe potuto accadere se solo avesse risposto, lo allontanò da sé, spintonandogli le spalle.
« Che stai facendo? » chiese, sconvolto, con ancora il – piacevole – sentore del sapore di Klaus sulla propria bocca.
L’altro scrollò le spalle. 
« Non ti facevo così stupido. »
 

*



London scoppiò a ridere per l’ennesima volta quella serata, reclinando la testa all’indietro e aggrappandosi al braccio di Ben per evitare di cadere.
« Non sapevo che qualche bicchiere le avrebbe fatto così male » constatò il ragazzo, reggendola con un’espressione quasi allarmata.
Klaus rise a sua volta per la scena, portandosi un braccio della moglie dietro le spalle, e così il gemello fece con l’altro, nel tentativo di sorreggerla.

« Oh, vi voglio così bene! » disse London, accompagnando quelle frasi senza senso con versi altrettanto insensati.
« Questa è la fase allegra » fece invece il moro, continuando a camminare vero casa al passo con l’altro, per quanto gli era possibile. « Dopo arriverà la fase triste. »
« Tu lo sai bene, vero? » chiese Ben, retorico.
« Io ci ho fatto l’abitudine… lei no. »
Rimasero in silenzio per qualche minuto buono, mentre London ridacchiava e cantava motivetti sconosciuti ad entrambi, rompendo la tensione di quella strana situazione che si era venuta a creare. La normalità non era in grado di durare a lungo, in effetti, quando si trattava di loro tre.
Klaus, procedendo per la strada, non aveva potuto fare a meno di pensare a tutto quello che gli era successo negli ultimi tre anni, a tutto ciò che in parte era cambiato.
Erano passati poco più di cinque mesi da quando lui e London avevano deciso di collaborare per la storia dell’erede e, anche se entrambi provavano ancora a negarlo, qualcosa si era inevitabilmente modificato nel loro rapporto, andando ad aggiungersi a tutte le cose che gli confondevano il cervello e minacciavano di farlo impazzire.
Era un periodo particolarmente strano della sua vita. Tutto ciò in cui aveva creduto sino a quel momento si stava annullando con una velocità innaturale, come a deriderlo per tutti gli errori che aveva commesso e che avrebbe continuato a commettere.
Klaus non aveva il coraggio di domandarsi perché London non fosse ancora rimasta incinta, ed entrambi non facevano altro che rimandare il problema, trovando scuse su scuse.
La verità era che l’erede era diventato solo un stupido pretesto per andare a letto insieme e, finché non fosse dispiaciuto a entrambi, sarebbe andato tutto a meraviglia. Peccato che, comunque, tutto ciò non faceva altro che sfocare i contorni di quel mondo fittizio che si era condensato intorno a loro. Mondo che, prima o poi, si sarebbe inevitabilmente dissolto per lasciare spazio alla realtà, ben più confusa di quanto entrambi potessero pensare.

« Klaus? » mormorò Ben.
« Che c’è? »
« Da quanto ci state provando? » domandò flebilmente. Klaus all’inizio non capì a cosa stesse alludendo e corrugò la fronte. Poi comprese, conoscendo la natura indagatrice dell’altro.
« Cinque mesi » rispose, tenendo lo sguardo puntato a terra.
« E… ancora niente? » Non era una domanda invadente, piuttosto aveva l’aria di qualcuno che stava cercando di capire o di mettere a posto le cose, anche se apparentemente non c’era nulla che non andasse.
Klaus aspettò qualche istante prima di ribattere. 
« Ti sembra di vedere bambini in giro? »
« Una gravidanza non dura cinque mesi » obiettò Ben.
« Oh, non è ancora rimasta incinta, d’accordo? » sbottò Klaus; stava per aggiungere qualcos’altro, ma London smise di ridacchiare e si rivolse a lui: « State parlando di me? »
« Sì, Londie, stiamo parlando di te » replicò il moro, con il tono stizzito di chi è stato punto nel vivo dall’argomento. « Sta’ zitta. »
Ben gli riservò un’occhiata di rimprovero. « Non trattarla così. Ti sta facendo un favore. »
Klaus si bloccò. Odiava che le persone gli facessero la paternale o il terzo grado, figurarsi nel caso di Benjamin Bridge, l’unico su cui forse aveva più dubbi al mondo.
« Lo so » si limitò a rispondere, anche se la verità era che ormai non si trattava più di un favore e basta – solo gli stupidi non l’avrebbero capito –, ma non gli pareva il caso di sottolinearlo in quel contesto. Dopotutto lui e London erano pur sempre i gemelli incestuosi del Distretto Sei, nonostante ora la situazione gli sembrasse estremamente complicata. Ben diceva di amare London, London diceva di amare Ben; eppure il primo li aveva convinti a sposarsi e la seconda non sembrava così ripugnata all’idea di andare a letto con lui, quello che definiva il proprio peggior nemico.
Perché i Bridge erano costantemente legati a lui quando in realtà sarebbero dovuti essere legati solo a loro stessi? Non riusciva a venirne a capo, per quanto la cosa gli desse una profonda soddisfazione.
Ben stava per dire qualche altra cosa, ma London inciampò sul selciato, quasi trascinandosi anche gli altri due per terra. 
« Ahia! » esclamò, con il sedere a terra e le gambe piegate di lato. « Mi date una mano? »
Klaus sbuffò, ma la tirò immediatamente in piedi, stringendole un braccio intorno alla vita per sorreggerla. London sorrise – sembrava proprio una bambina con quell’espressione allegra e i capelli scombinati – e lo baciò di slancio a fior di labbra. Durò meno di un secondo, ma sembrò che il tempo si fosse fermato, perché riuscì a cogliere ogni più piccolo dettaglio di quella scena: il naso arrossato dal freddo della moglie, qualche rado fiocco di neve tra i suoi capelli, la bocca che sapeva ancora di gin, l’espressione improvvisamente rattristita del gemello…
Quando il tempo prese a scorrere di nuovo, London si voltò verso Ben e baciò anche lui allo stesso modo. E il momento precedente perse tutta l’importanza che gli aveva dato.
Guardò altrove, lasciando la ragazza completamente nelle mani del fratello, che per qualche strano motivo continuava a fissarlo senza vergogna o discrezione.

« Ehi, Ben » mormorò lei, appoggiando la testa sulla spalla del gemello. « E’ vero che Klaus mi ama? »
Klaus tornò a voltarsi di scatto verso i due.
« Chiediamolo a lui » disse l’altro con un sorriso infinitamente triste. « Klaus, è vero? »
Il moro non rispose, le labbra socchiuse da cui fuoriusciva una nuvoletta di respiro condensato. E con questa erano tre volte che Ben gli faceva quella domanda, nonostante sembrasse già convintissimo della risposta.
« Torniamo a casa, si è fatto tardi » replicò, voltando loro le spalle e ricominciando a camminare per primo.
 

*


Era passata poco più di una settimana da quello strano Capodanno trascorso insieme e, dopo una lunga giornata, London stava per addormentarsi, stesa su un fianco, quando si sentì abbracciare da dietro. La sua schiena incontrò il petto nudo di Klaus e le loro gambe quasi istintivamente si intrecciarono.
« Sei ancora sveglio? » chiese piano lei con tono assonnato.
« Mmh-mh » mormorò il ragazzo in risposta, poggiando il mento sulla sua spalla, al che London, a contatto con il filo di barba di lui, borbottò qualcosa sul fatto che si sarebbe dovuto radere più spesso. « Non riesco a dormire. »
La moglie sbadigliò e portò un braccio sotto il cuscino per stare più comoda. « Io ho sonno. »
Klaus strofinò le labbra contro la sua spalla. « Pensavo che il fatto di girarti dall’altro lato fosse superato. »
London non poté fare a meno di sorridere sarcasticamente. « Perché, ti dispiace? »
« Mi dà fastidio » spiegò lui. « Sei l’unica che lo fa in mia presenza. »
« Sono una puttana speciale, non credi? » fece la ragazza.
« Sei mia moglie » affermò invece lui, stringendo le braccia saldamente intorno alla sua vita. « Purtroppo » aggiunse poi.
« Oh, sono passata allo stadio avanzato! » London fece la finta offesa, ma continuò a sorridere senza motivo. La verità era che le faceva immensamente piacere essere stretta così… possessivamente. Le dava una strana di sensazione di sicurezza.
Klaus continuò a passare le labbra sulla sua pelle liscia. 
« Può darsi. Un giorno sarai anche la madre di nostro figlio, non ti suona strano? »
« Fin troppo » ribatté lei. « Anche se questo giorno mi sembra sempre più lontano. »
Il discorso sfumò velocemente. Entrambi avevano cominciato a pensare la stessa cosa.
« Perché non sei ancora rimasta incinta? » Una domanda ovvia, ma che non aveva un’altrettanto ovvia risposta.
« Non lo so, Klaus » disse velocemente la ragazza. « Eppure sono già passati cinque mesi, quasi sei. »
« Senza contare il fatto che sei stata più volte a letto con me in cinque mesi, quasi sei, che in tutto il resto della tua vita » puntualizzò lui, non senza una punta di scherno.
London si sentì improvvisamente le guance accaldate, come accadeva sempre quando veniva messa di fronte a delle verità scomode, ma diede la colpa al calore delle coperte invernali. 
« Oh, smettila. »
« E’ la verità » replicò cristallinamente l’altro. « C’è qualcosa che non va. »
Rimasero qualche minuto in silenzio, a riflettere. A quel punto era palese che ci fosse qualche sorta di problema.
« Beh » disse London, ormai dimentica della stanchezza. « Ci sono anche persone che provano per anni… Ma forse noi non abbiamo il lusso di aspettare tutto questo tempo. »
Klaus la strinse di più a sé, come se la cosa che aveva appena detto l’avesse colpito. A dire il vero a nessuno dei due importava davvero di quel maledetto erede, ma dovevano pur dare un filo logico a quell’anomala situazione che si era venuta a creare, o tutti gli anni passati a combattersi l’un l’altro avrebbero perso il proprio senso – qualora ce ne fosse stato uno.
« Mia madre conosce un medico » continuò London, con una nota di risentimento nella voce. « Forse dovremmo farci visitare. »
« E’ necessario? » borbottò lui.
La ragazza si voltò dall’altro lato, per poterlo guardare negli occhi, nonostante il buio non lo permettesse del tutto. 
« Credo proprio di sì » rispose. « Adesso dormi, ci pensiamo domani. » Detto ciò, gli si accucciò accanto e Klaus si accorse che provare a dormire e a ignorare i fantasmi nella sua testa, in quella posizione, non doveva essere poi tanto difficile.
 

*


L’inverno stava trascorrendo nella sua placida tranquillità, tra rade nevicate e monotone piogge gelide. Il Distretto Sei era da sempre soggetto a continui cambiamenti climatici e, se da un lato le estati erano calde e afose, il periodo invernale poteva essere tra i più freddi di Panem.
Klaus detestava l’inverno per molteplici motivi, ma allo stesso tempo non sapeva dare delle spiegazioni precise; non era esattamente la sua stagione. Il freddo gli metteva ansia e lo spingeva a fare i conti con se stesso, cosa che detestava fare circa da quando aveva cominciato a capire come andasse il mondo.
In quel momento se ne stava seduto sulla poltrona di fronte al caminetto scoppiettante; erano all'incirca le undici del mattino e, nonostante ciò, c’erano talmente tante nuvole che sembrava pomeriggio inoltrato. Piovigginava e lo strepitare delle fiamme lo aiutava a non pensare a nulla.
London era andata a parlare con il medico per la terza volta in quelle settimane e sarebbe stata di ritorno a breve, portandogli magari qualche notizia in più.
Tutte quelle stupide analisi che avevano fatto fino a quel momento non avevano portato a nulla e questo non faceva altro che spazientirlo e renderlo nervoso. Finché non gli sarebbe giunta nessuna novità non si sarebbe rilassato neanche un po’, quindi si limitava a concentrarsi su altro, anche se abbastanza blandamente.
Cos’altro c’era nella sua vita, a parte i Bridge, d’altronde?
La sua famiglia neanche la considerava più; sua madre lo andava a trovare ogni tanto e con suo padre non aveva più parlato. Un’occupazione vera e propria non ce l’aveva, se si escludeva fare il mentore per circa due settimane nel periodo degli Hunger Games. Klaus quasi non ci pensava più. Tutti i tributi che venivano affidati a lui e a Ludmille Schnee morivano dopo pochi giorni dalla Cornucopia. Era l’ennesima frustrazione della sua vita, ma più di dare dei consigli non riusciva proprio a fare nulla. Dopotutto i Giochi erano soltanto una questione di fortuna; e lui, a suo tempo, ne aveva avuta.
Sentì in lontananza la porta d’ingresso sbattere e poco dopo London entrò nel salotto.
La prima cosa che notò, involontariamente, fu la sua espressione atterrita. Fu così strano vedere un’espressione del genere sul volto della ragazza che gli sfuggì uno sguardo interrogativo.

« Che ha detto? » disse, cercando di non far trasparire il nervosismo dalla sua voce.
London non rispose, limitandosi a fissarlo. Klaus non capì se lo stesse guardando sul serio o meno.
Lo scoppiettare delle fiamme era l’unica cosa che colmava quel pesante silenzio.

« London, che cosa diavolo ti ha-? »
« Klaus » lo chiamò la moglie, con un tono che non le aveva mai sentito prima, un tono tremolante e insicuro. « Sei sterile. »

 















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Capitolo 13
*** 012. Twelfth Chapter – Fake plastic trees. ***


Note: Vi ero mancata? No? Bene.
Comincio col dire una cosa importantissima: ho finalmente ricominciato a rispondere alle recensioni (o quasi...), sembra banale, però è un passo avanti contro la pigrizia e gli impegni che vogliono impossessarsi di me.
Questo capitolo non è lunghissimo, e non mi fa impazzire, ma forse è passabile. Sono felice di dirvi che qualcuno ci aveva azzeccato. Su cosa lo scoprirete solo vivend- leggendo, leggendo. E vabbé, dai.
Avevo detto che avrei pubblicato domani o domenica, e invece ho fatto prima perché ho eliminato un pezzettino che volevo aggiungere alla fine. Forse lo metterò comunque come flashback iniziale nel prossimo, boh.
Ah, visto che radioactive me l'aveva chiesto, i banner li "alternerò" in base i capitoli. Quello di Mito mi sa di copertina per i capitoli un po' più "soft", ecco.
Che altro...? Non lo so, solo che la psicologia di 'sti qua è sempre più contorta. London è un'incoerente del platano che mi danna la scrittura /con affetto/.
Ho un messaggio per Gretuzza: nota il "Go home" del quarto paragrafo. Ok? *inspira, espira*
E ringrazio per le recensioni la suddetta radioactive, yingsu, Ribes e _Horan_. Penso di adorarvi, mi avete fatta davvero felice. Per non parlare degli 11 preferiti, 1 ricordate e 25 seguiti. Grazie infinite a tutti, sul serio ♥
So... Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Fake plastic trees" dei Radiohead.
Che dovete assolutamente ascoltare, pena dolorosi squartamenti da parte della sottoscritta. Ascoltatela e piangete, ha tutto un significato simbolico che mi spezza il cuoricino ogni volta.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ















 













Blur

(Tied to a Railroad)






012. Twelfth Chapter – Fake plastic trees.




Klaus rimase immobile per degli attimi che a London parvero infiniti. Vide i suoi occhi ingrandirsi, la bocca socchiudersi pronta a esprimere verbalmente tutto quello che si stava tenendo dentro, i pugni stringersi e la pelle del viso impallidire.
« Klaus… io… » provò a dire, ma non sapeva proprio da dove cominciare. Forse dal fatto che avevano sprecato circa sei mesi della loro vita? No, non da quello, perché non era vero, non erano stati sprecati del tutto.
« Da sempre? » chiese lui con calma glaciale, alzandosi dalla poltrona.
London, guardandolo negli occhi, rimase impaurita da una sua possibile reazione e quella calma apparente non faceva altro che farla innervosire ancora di più. 
« No, non da sempre. Il dottor Thruman ha detto che probabilmente si tratta di una cosa sviluppatasi nel tempo, e che vorrebbe visitarti di nuovo. »
Klaus le si avvicinò. « Io non voglio farmi più visitare da nessuno » sibilò a poche spanne dal suo volto, stringendole un polso.
London fece un passo indietro, ma continuò a fissarlo con sguardo rammaricato. 
« Klaus, mi dispiace. »
« Non voglio il tuo dispiacere, basta così » disse lui, abbassando lo sguardo.
« Il dottor Thruman ha detto anche che- »
« Non m’importa! » scattò il marito. « Non importa più niente, adesso. »
« … ha detto che può essere colpa dell’alcool » continuò lei, imperterrita. « Ti sei rovinato da solo. » Non voleva incolparlo, ma ci teneva a precisare che si era causato quel male con le sue stesse mani.
« Cosa? » chiese, stupito.
« Sì, ubriacarti in continuazione ti ha portato a questo » rispose lei.
« Io non mi ubriaco in continuazione! » sbottò Klaus, alzando il tono di voce. « Non lo faccio da un bel po’. »
« Perché hai trovato un’altra distrazione, non è così? »
Non aveva potuto fare a meno di fare quel commento, perché era più che certa che fosse la verità.
Klaus le lanciò uno sguardo arrabbiato e incapacitato. 
« Vaffanculo, London. Sai che ti dico? Che sei inutile almeno quanto me. » Lasciò il salotto velocemente, salendo al piano superiore con ancora i pugni stretti ferreamente.
London non lo avrebbe dato a vedere e non voleva, ma era rimasta ferita da quelle parole, anche se si era già aspettata una reazione simile. Prendersela con lei non serviva a niente, eppure forse era l’unica cosa che lui riuscisse a fare in quel momento.
Lo comprese, lo giustificò. Si era ritrovato in una situazione troppo ingestibile persino per lui, e forse il proprio aiuto non sarebbe più servito a niente in quel momento.
Sei inutile almeno quanto me, aveva appena detto. London pensò che se Klaus doveva sentirsi inutile allore il suo mondo stava crollando per davvero.

Si rannicchiò sotto le coperte, mentre fuori infuriava una vera e propria bufera, con tanto di tuoni e lampi che la facevano sentire inquieta. In quel momento avrebbe voluto tanto essere abbracciata da suo fratello, ma per forza dei fatti si trovava a casa, nel letto matrimoniale, sola. Allungò un braccio, trovando l’altro lato del materasso freddo e vuoto. Klaus probabilmente si era addormentato nella sua vecchia stanza, dove si era rintanato per tutto il giorno.
Da un lato avrebbe voluto andare a vedere come stava, ma sapeva benissimo che lui l’avrebbe cacciata senza scrupoli, perché aveva bisogno dei suoi spazi.
Dentro la propria testa si scatenava tutt’altro tipo di tempesta, fatta di domande, pensieri sfocati, parole… mentre nel petto l’unica cosa presente era un vuoto incolmabile. Il classico vuoto lasciato da un crollo di speranze.
Il dottor Thruman aveva parlato chiaro: Klaus era sterile e non avrebbe potuto avere dei figli. Il che, naturalmente, complicava tutta la faccenda.
London ripensò agli ultimi sei mesi, ai baci rubati, alle battutine maliziose, al corpo caldo di Klaus premuto contro il proprio, alle litigate e alle notti insonni. E tutt’a un tratto quel letto le parve talmente vuoto da eguagliare quella sensazione nel suo petto.
Sentiva freddo, nonostante le coperte, sentiva la necessità di dormire in compagnia di qualcuno, perché non avrebbe preso sonno in ogni caso. Troppi pensieri, troppe cose che le ronzavano in testa.
Era stato tutto inutile; stavano provando ad avere un figlio dalla fine di luglio e non avevano concluso un bel niente, anche se ogni volta che erano stati a letto insieme – nonostante il fatto che non sempre si era trattato del letto nel vero senso del termine – l’atto le era sembrato fine a se stesso. Erano tutte scuse, nessuno dei due aveva mai davvero voluto un figlio.
Si rigirò tra le lenzuola, nervosa, quando un lampo illuminò il suo campo visivo lanciando bagliori oscuri nella stanza. Sperava che Klaus l’avrebbe raggiunta presto, ma più i minuti passavano, più la sua insofferenza cresceva. London aveva la presunzione di credere che non avesse paura di nulla, ma forse l’unica cosa che la spaventava davvero era la solitudine. Certo, aveva pur sempre Ben, ma non sapeva cosa avrebbe fatto se un giorno tutti l’avessero lasciata da sola, al buio, come in quel momento.
Per un impulso improvviso si scostò le coperte di dosso e, a piedi scalzi, uscì dalla stanza da letto. Un brivido le scese lungo la schiena, a contatto con il pavimento freddo, quindi si affrettò a raggiungere la propria meta.
La vecchia camera di Klaus – che in realtà era una semplice camera per gli ospiti – era poco lontana, eppure London cercò di raggiungerla il più lentamente possibile. Non sapeva neanche cosa volesse fare, in realtà. Svegliarlo perché aveva bisogno di compagnia? No, l’avrebbe soltanto fatto incazzare.
Quando raggiunse la porta di mogano, contò dieci secondi prima di entrare. Poi la aprì piano, tentando di non farla cigolare e sbirciando all’interno. Si vedeva veramente poco, ma dopo un po’ la vista si abituò al buio, individuando il letto singolo con la testiera appoggiata alla parete.
Klaus era lì, supino, e sembrava dormire un sonno nervoso, perché ogni tanto cambiava posizione, mormorando qualcosa di incomprensibile.
London si avvicinò con cautela e lo osservò per qualche secondo senza motivo apparente, soffermandosi sulla sua fronte corrugata e chiedendosi che cosa stesse sognando. Spostò delicatamente le coperte, e s’infilò nel letto accanto a lui, sebbene ci fosse pochissimo spazio. Gli strinse la schiena in un gesto quasi del tutto spontaneo e intrecciò le gambe alle sue; lui parve tranquillizzarsi, perché smise di rigirarsi agitatamente. Passò qualche minuto, e anche la tempesta cominciò a placarsi.

« London? » mormorò improvvisamente Klaus, forse stupito e ancora in dormiveglia.
London non avrebbe voluto svegliarlo, ma si strinse di più a lui, sussurrandogli soltanto: 
« Va tutto bene », prima di chiudere gli occhi e trovare, finalmente, un po’ di pace.
 
 
*
 

Klaus si svegliò davvero molto presto; appena aprì gli occhi, notò che era soltanto l’alba. Dei fievolissimi raggi di luce giallastra facevano capolino da dietro le tende sottili, illuminando di poco la spoglia stanza degli ospiti, che infatti comprendeva solo letto, un armadio a due ante e una scrivania bianca.
Qualche granello di polvere viaggiò davanti al fascio di luce, trasmettendogli una curiosa sensazione di tranquillità, a differenza del caos che aveva governato la sua testa quella notte, come la calma dopo la tempesta.
Klaus non ricordava di aver mai fatto sogni tanto assurdi in vita sua: bambini piccolissimi divorati da un branco di leoni, un terremoto durante il suo matrimonio che distruggeva tutto il Distretto, Ben che gli parlava degli Hunger Games con gli occhi luminosi di un tributo Favorito, suo padre che tentava di uccidere London e Shyvonne… Un turbinio di incubi senza senso, ma capaci di angosciarlo così tanto da farlo sentire ancora stretto da una camicia di forza.
Rimase immobile per qualche secondo, rendendosi poi conto che a stringerlo erano semplicemente le braccia della moglie. Ricordava soltanto di sfuggita il fatto che lei si fosse stesa sotto le coperte accanto a lui quella notte, ma non il perché non l’avesse fatta andare via.
Non gli dispiaceva essere abbracciato così, ma ormai non aveva più senso. Potevano anche smettere di fingere, smettere di credere che andasse tutto bene, e soprattutto smettere di recitare la parte degli sposini innamorati.
Al solo pensiero sentì qualcosa crollare nelle sue certezze, dentro di lui. Lo voleva davvero? Voleva davvero tornare a convincersi di odiarla con tutte le proprie forze?
La risposta gli salì spontanea alla mente: no. No che non lo voleva, non dopo tutto quello che era successo.
Si girò piano verso di lei, attento a non farla svegliare. Dormiva ancora placidamente, con il volto rilassato e il respiro regolare. Rimase ad osservarla per degli istanti molto lunghi, sfiorandole piano un braccio. Dio, se era bella.
Le scostò un ciuffo dalla fronte con un sorriso amaro. Niente sarebbe più tornato come prima, certo, ma non per lei. London aveva sempre avuto suo fratello accanto e, nel bene o nel male, insieme sarebbero riusciti a superare ogni avversità.
Un po’ era invidioso del loro rapporto, perché lui non aveva idea di che cosa potesse significare avere sempre una spalla su cui contare, una persona che sapeva esattamente di cosa avessi bisogno. Erano fortunati, i Bridge, ad essere così uniti.
Klaus era solo, apatico e inutile. Non trovava altri aggettivi per definirsi.
Non avrebbe mai avuto dei figli, non avrebbe mai avuto una vita normale, non avrebbe mai ammesso di essere innamorato di London – o forse lo era sempre stato?
Si diede dello stupido, mentre continuava a bearsi dell’immagine addormentata della ragazza.

London si ridestò dopo qualche minuto, ancora stretta al petto di Klaus. Non disse niente, nonostante avesse notato che anche lui era sveglio.

« Dormito bene? » le domandò Klaus laconicamente.
La moglie annuì. 
« E tu? »
Il ragazzo non rispose, restando a fissarla in silenzio. In realtà non sapeva bene cosa dire, non riusciva a esprimere nemmeno con una parola tutto quello che gli passava per la mente in quel momento. Era tutto troppo dannatamente difficile.
London non indagò oltre e gli accarezzò una tempia delicatamente.

« E adesso? » fece Klaus, con un tono più vacillante di quello che avrebbe voluto.
« Adesso sta’ tranquillo » sussurrò la ragazza a pochi centimetri dal suo volto e dalla sua bocca. « Troveremo un modo. »
« Troverò » precisò lui, corrucciando lo sguardo. L’aiuto di London ormai non sarebbe più servito a niente.
London non ribatté, preferendo avvicinarsi e colmare quel divario tanto inutile tra le loro labbra. Klaus all’inizio rispose senza esitare, ma poi si staccò di botto.

« No » disse semplicemente, alzandosi dal letto.
Lei lo guardò interrogativamente. 
« No a cosa? »
« A questo! » esclamò in risposta. « Non capisci che ora è tutto inutile? » le domandò, alzando il tono all’improvviso. Non era arrabbiato con lei, ma il fatto che non riuscisse a trovare un senso in mezzo a tutto quel casino lo stava dilaniando.
London si alzò a sua volta, guardandolo afflitta. 
« Klaus, ci deve essere un’altra soluzione… »
« Certo che c’è » replicò il ragazzo amaramente. « Dobbiamo annullare il matrimonio. »
La moglie sgranò gli occhi e stava per esprimere la propria opinione, ma Klaus la batté sul tempo: « E’ finita, London. Non so bene cosa, ma è finita. Puoi tornare da Ben, adesso, andare da chi vuoi, ma non ha più senso continuare questa farsa. »
London inspirò piano. Troppe cose contemporaneamente, troppo velocemente.
« Klaus, aspetta… » mormorò, senza sapere davvero come continuare la frase.
« Sei libera » disse lui, con uno sguardo più addolorato che arrabbiato. « Torna a casa. »
 
 
*
 

London continuava a girare per la stanza nervosamente, biascicando frasi sconnesse e forse anche prive di senso.
Ben era seduto sul letto della sorella nella sua vecchia stanza del maniero dei Bridge e la osservava senza realmente guardarla, immerso in ragionamenti contorti.

« Ha detto che annullerà il matrimonio » ripeté di nuovo la ragazza.
Il fratello sospirò. 
« Non lo farà. »
« Era serio » ripose lei, contorcendosi le mani. « Insomma, è l’unica soluzione. » Il gemello si alzò dal letto e, tentando di rassicurarla, andò ad abbracciarla. London non si rifiutò e affondò senza indugio la testa nel suo petto, inspirando quel profumo così familiare.
« London » la chiamò Ben, prendendole il viso tra le mani affusolate. La indusse a guardarlo negli occhi e continuò: « tu vuoi aiutare Klaus? » Era una domanda diretta, a cui si potevano dare soltanto due risposte: una positiva, l’altra negativa.
London si specchiò negli occhi del fratello, così seri ma al tempo stesso  caldi e incoraggianti, poi non potè fare a meno di distogliere lo sguardo. 
« Non lo so, Ben. E’ che mi pare assurdo di aver perso sei mesi della mia vita inutilmente. Ormai mi ero anche abituata all’idea di avere un figlio, è frustrante. »
Ben cercò nuovamente il suo sguardo, accarezzandole una guancia. « Non hai risposto alla mia domanda. Vuoi aiutarlo o no? »
« No, io... » ribatté lei istintivamente, ma si rese subito conto che sembrava troppo falso persino per le proprie orecchie.
« Stai mentendo. »
London si stupiva tutte le volte di quanto suo fratello riuscisse a leggerle dentro, e da un lato si sentiva troppo esposta, perché neanche lei riusciva a leggere dentro se stessa. Erano gemelli, d’altronde, ma Ben era molto più bravo a capire i sentimenti degli altri.
« Oh, giuro che non so che fare » disse la ragazza, prendendo tra le proprie mani quelle del gemello. « E’ complicato. »
« Lo capisco, Londie » provò a tranquillizzarla, « ma adesso devi prendere una decisione. » Fece una breve pausa. « Tu non vuoi annullare il matrimonio, giusto? »
London probabilmente stava per dare un’altra risposta negativa, dovuta unicamente al suo orgoglio incrollabile, ma Ben la precedette: « Certo che non lo vuoi, o tutto questo tempo sarebbe stato sprecato. E vuoi anche aiutare Klaus, per quanto ti costi ammetterlo. »
La ragazza rimase a fissarlo in silenzio, quasi disarmata di fronte alla sua perspicacia. Aveva bisogno di lui, perché era l’unico che riusciva a metterle la verità in faccia senza essere rude o insensibile.
« Che cosa posso fare? » sussurrò lei, a quel punto, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. « E’ tutto inutile, adesso. »
Ben sorrise debolmente. « Non tutto. »
London alzò la testa di scatto.
« Lo so che lo stai pensando anche tu » continuò il ragazzo, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
« No, Ben, no. Non me lo permetterebbe mai » disse la sorella, stirando le labbra in un’espressione amareggiata. « Si incazzerebbe soltanto. »
« Dipende da te. »
« E da te, no? » replicò lei. « Non voglio che tu sia costretto a farlo. »
« Io farei qualsiasi cosa pur di aiutarti. »
London tentennò qualche istante, osservando attentamente il volto del gemello, teso e persuasivo nella sua perfezione. « No, insomma, ci sono troppi rischi, e non sono d’accordo a- »
« London, guardami » disse Ben. « Io so che è importante per te. Adesso devi decidere, e la decisione è solo tua, ma sappi che io sono dalla tua parte. »
La ragazza, che improvvisamente aveva assunto un colorito più pallido, rimase in silenzio. Era pericoloso, lo sapevano entrambi. Una mossa azzardatissima, per quanto definitiva.
« Bisogna sempre rischiare, nel gioco degli scacchi » le aveva detto una volta suo padre, quando era ancora una bambina e vedeva il mondo come un gioco ai propri comandi, in cui quasi sempre si vinceva.
« Credo... » balbettò a quel punto, cercando le parole giuste.
Ben attese pazientemente il suo responso.

« … credo che forse dovremmo correre il rischio. »

London, in un gesto quasi involontario, chiuse frettolosamente le tende. Erano al primo piano della villa, certo, ma aveva il timore che qualcuno potesse vederli.
Era una sensazione stranissima. Prima non si era mai preoccupata che la gente potesse considerare e giudicare lei e Ben unicamente come i due gemelli incestuosi del Distretto Sei – a dire il vero era una voce che era circolata abbastanza spesso, specie tra gli impiccioni – perché non le importava di niente e di nessuno. Ma adesso le cose erano cambiate, in un senso che London nemmeno sapeva determinare.
Era come stare in apnea a lungo e non riuscire a riemergere. Doveva trovare un modo per respirare, per fare chiarezza nei propri sentimenti.
Stava accadendo tutto troppo velocemente e questo non la aiutava a trovare un ordine preciso. Un vorticare di eventi e di emozioni, ecco cos’era.
Un uragano che si era abbattuto su di lei con violenza.
London cercò di lasciarsi andare, mentre aiutava Ben a togliersi la maglietta, ma più si baciavano e più andavano avanti, più risultava un atto artificioso – o meglio, dettato dal senso del dovere. C’era dolcezza in quei gesti, sì, ma si trattava di una dolcezza più sottile e fraterna.
Ben tentò di metterla a suo agio, anche se non ce n’era bisogno; non c’era pudore, né desiderio, né fretta. Solo un obiettivo, forse. E delle mute parole.
London, baciando la pelle liscia del torace del fratello, pensò a quanto il proprio corpo fremesse molto di più dinanzi agli impulsi di Klaus, e se ne vergognò, così tanto da sentirsi sporca, macchiata.
L’aveva disarmata, alla fine. Klaus era stato capace di rendere nulle le sue difese e di vanificare i suoi tentativi di contrattacco o fuga.
Esitò, e quell’istante bastò a far capire al gemello che qualcosa non andava.

« Londie » sussurrò piano, a poche spanne dal suo viso, « non devi farlo per forza, se non vuoi. »
London lo baciò di slancio, tentando di bloccare quelle parole che, lo sapeva, sarebbero sgorgate lo stesso come una cascata gelida fatta di tormenti e insicurezze. Era impossibile trattenerle, a quel punto. Quasi doloroso.
« Non è un problema se adesso sei innamorata di lui » disse il fratello, appoggiando la fronte a quella della ragazza.
London per poco non sobbalzò a quella frase, riscuotendosi dai propri pensieri. Non era un problema. Certo, non era un problema per il solo fatto che non era vero.
London non era capace di amare nessuno, all’infuori di Ben, proprio non ci riusciva. E credeva di essere a posto con la coscienza per questo motivo, anche se non si spiegava come mai si sentisse ancora incompleta e al posto sbagliato.
Forse la verità era che non aveva voglia di mettere a posto i tasselli del puzzle. Forse aveva soltanto paura, come un comune essere umano che è spaventato dalla piega che stavano prendendo gli eventi.
Paura di cosa, poi? Di far crollare tutte le proprie certezze, probabilmente. Di vedere il proprio castello di vetro andare in frantumi senza alcuna possibilità di poter essere ricostruito.

« Non dire sciocchezze » affermò, con una velata nota d’insicurezza nella voce che in realtà voleva apparire decisa. « Io amo solo te, Ben. »
London si ritrovò a pensare che, in quel momento, il confine tra verità e bugia fosse talmente sottile da risultare insignificante, trascurabile.
Il gemello scosse la testa con un sorriso mesto, poi la baciò, lasciando che le circostanze facessero il resto.

 













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Capitolo 14
*** 013. Thirteenth Chapter – Northern lights. ***


Note: Ho fatto presto, molto strano.
Devo essere sintetica perché ho pochissimo tempo a disposizione.
Allora. Sono felicissima che Blur abbia raggiunto le 60.000 parole su Word e tra pochissimo le 700 visualizzazioni del prologo. Sul serio, per me è elettrizzante, mi dà una carica assurda.
Questo è un capitolo molto malinconico, e il carillon alla fine lo dimostra (tra parentesi, me lo sono immaginata un po' come questo), oltre alla debolezza sempre più evidente di Klaus. 
Di fondamentale importanza: la frase che dice Ben a circa a metà capitolo è ungherese, perché è la lingua di sua madre e lui l'ha imparata quando era piccolo. Ovviamente, mi verrebbe da dire, ma forse per chi legge non è tanto ovvio (?), il significato delle parole è un altro... e se volete, cercatevelo sul traduttore. Libera scelta, io vi lascio con questa dolce suspance.
Quel flashback in corsivo lo dovevo pur mettere da qualche parte, perdonatemi
Se volete linciarmi un po' su facebook, comunque, mi trovate QUI, solo vi prego di identificarvi in qualche modo perché non accetto persone a caso senza sapere prima chi sono c:
Che altro? Oh, giusto, che sbadata! Vi consiglio vivamente di leggere queste due fanfiction, sempre nel fandom di HG:
Die on the front page, just like the stars || radioactive {73rd Hunger Games; Lyosha&Ariel - D8}
I'm frozen to the bones || yingsu {74th Hunger Games; Roel - D2}
Meritano davvero, e poi ci tengo a ringraziare le due autrici per tutto l'entusiasmo delle loro parole. Grazie mille ♥
Detto questo, devo scappare.
Buona lettura ♥

Ps: forse l'html è un po' impallato, ma ciò è causato dal fatto che devo ancora abituarmi al nuovo layout di efp.

Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Northern lights" dei 30 Seconds to Mars.
E finalmente partiamo con i titoli dei Mars, che, insieme ai Muse, sono tra le colonne portanti di questa storia! Quindi ascoltateli, bao (tralasciando il fatto che non sono neanche potuta andare al concerto, a differenza di quella battona di AriiiC_...)

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ




















 

Ad Anna.
Non ci sono parole per descrivere quanto ti voglia bene ♥





 















Blur

(Tied to a Railroad)






013. Thirteenth Chapter – Northern lights.




Tirava un vento particolarmente gelido, fuori. Klaus se n’era accorto perché dagli infissi delle finestre penetrava il classico freddo del tardo inverno, sebbene stesse rintanato nel tepore soffuso della casa.
London dormiva. L’aveva lasciata lì, tranquilla e supina sul letto matrimoniale. Non voleva che lo vedesse in quello stato, non voleva che sospettasse qualcosa.
Klaus fissò la boccetta con la fronte corrugata.
“Morfamina”, c’era scritto. Direttamente da Capitol City.
Rimase immobile per dei minuti interminabili, seduto al tavolo della cucina, di fronte a quella boccetta di vetro. Conosceva bene gli effetti della morfamina, li aveva visti su molta gente, specialmente nelle sue brevi visite nella capitale.
Dicevano che fosse un antidolorifico, un antidolorifico per tutto. Scacciava i problemi, aiutava a pensare positivo, a vedere il mondo a colori e non in bianco e nero o sfocato, come stava capitando a lui. Creava dipendenza, folle e disperata.
Accanto alla boccetta c’era una siringa di medie dimensioni, ancora avvolta in un involucro di plastica. Klaus fissò anche quella, quasi aspettando che potesse muoversi da un momento all’altro.
Non aveva paura degli aghi, come non aveva paura del dolore fisico. Perché c’era qualcosa che faceva molto più male, come l’essere al mondo senza un motivo preciso, il sentirsi inutile e fuori posto. Klaus non era mai stato un ragazzo che si disprezzava o sottovalutava, al contrario si era sempre ritenuto superiore a molti altri. Era sempre stato più furbo, più carismatico, più sfacciato.
Ma a quel punto aveva cominciato a domandarsi a che cosa potesse servire, e anche quale fosse il proprio ruolo all’interno di quel piccolo mondo che si era creato intorno a lui. Forse era diventato un misero burattino senza burattinaio, un involucro che aveva imparato a trascinarsi autonomamente solo per inerzia.
Scartò la siringa dalla confezione, soppesandola poi tra le mani e osservando di sfuggita il lungo ago sottile, lo stesso che gli avrebbe iniettato la morfamina nelle vene entro pochi istanti. Non aveva ancora deciso, ma il suo istinto gli diceva di provare, perché il suo cervello desiderava ardentemente un po’ di riposo e il suo sangue quasi implorava di essere contaminato.
La luce del lampadario gli creava strani bagliori sul viso stanco, mentre una mano correva ad aprire la boccetta. La stappò, e quella emise un rumore sordo.
Rimase fermo per qualche altro secondo, poi immerse l’ago nel liquido e tirò la coda della siringa, stando a guardare come la morfamina saliva pian piano nello stretto cilindro.
Strinse la siringa tra le dita, combattuto dal disprezzo verso la propria debolezza.
Non posso farlo, pensò, disgustato da se stesso, prima che una London in vestaglia entrasse in cucina con il volto assonnato.

« Che fai ancora sveglio? » borbottò la ragazza, aprendo il frigorifero per recuperare una bottiglia d’acqua. Si riempì un bicchiere laconicamente e poi bevve qualche sorso senza badare realmente a ciò che stava facendo Klaus.
Il ragazzo si sentì colto in flagrante e tentò di nascondere la morfamina, ma non c’erano nascondigli soddisfacenti.
London, appoggiata con la schiena al frigorifero che mandava qualche ronzio elettrico, osservò il marito con ancora il bicchiere di vetro tra le mani. Sembrò notare la siringa solo dopo qualche istante.

« Che stai facendo? » chiese quindi velocemente, impallidendo. « Cos’è quella? »
Klaus si alzò e scosse la testa. « Niente. »
London gli rubò la boccetta dalle mani con uno scatto repentino che l’altro non riuscì a bloccare. « E questo lo chiami niente? » fece orripilata. Senza aspettare che aggiungesse qualcosa, la ragazza gettò la morfamina nel cestino.
« London, non l’avrei presa » obiettò Klaus.
« Ah no? » gridò lei, mettendo le mani sui fianchi. « E’ droga della capitale! Vuoi diventare un morfaminomane come quel vincitore di qualche anno fa? »
Klaus aggrottò le sopracciglia. « Ti ho detto che non l’avrei presa. Smettila di fare finta di preoccuparti per me. »
London fece ricadere le braccia lungo i fianchi e abbassò lo sguardo. « Lo dicevo soltanto perché non voglio un marito drogato in giro per casa. »
« Tra poco non avrai più neanche un marito » le ricordò, avvicinandosi piano.
La ragazza non rispose e si morse le labbra. Non gli aveva ancora parlato di ciò che lei e Ben avevano deciso di comune accordo. 
« Klaus » disse, « vuoi davvero annullare il matrimonio? »
Klaus non replicò subito, limitandosi a guardarla negli occhi. Era soltanto uno stupido monosillabo, e pronunciarlo gli costava caro, ma doveva farlo per il bene di entrambi. « Sì. »
« Non è una cosa facile, ci vorrà del tempo… » provò a dissuaderlo lei.
« Non importa » la liquidò il moro. « Ormai non cambia più niente. »
« ... c’è ancora un modo » si lasciò sfuggire London. Non voleva che lui annullasse il matrimonio, non voleva arrendersi così, non voleva lasciare quella casa sede di tanti ricordi.

« Che cosa? » chiese la ragazza, scoppiando a ridere, senza motivo. Klaus rise a sua volta e la baciò di nuovo, e di nuovo ancora, non saziandosi neanche di poco.
« Non bisogna mai scommettere con un Bridge, d’accordo, ma non bisogna mai neanche provocare un Wreisht » disse, premendo contro il suo corpo.
E a London faceva incredibilmente piacere essere inchiodata lì al muro con il suo respiro sul viso. Ridacchiò ancora e stavolta fu lei a baciarlo, stringendogli le braccia dietro al collo, attirandolo ancora di più a sé e colmando la breve distanza tra le loro labbra.
L’atrio della villa era silenzioso, e l’unico suono percepibile era quello delle loro risate e del loro affanno dovuto alla lunga corsa sul sentiero innevato.
London aveva ancora il naso arrossato dal freddo, e Klaus glielo fece gentilmente notare sghignazzando. 
« Sembri davvero una bambina, Londie » le disse, sfilandole dalle spalle il pesante cappotto invernale, che ricadde a terra con un tonfo sordo.
Lei gli diede un pugnetto sull’addome e, dopo averlo baciato di nuovo, ribatté, con un sorriso malizioso: 
« Le bambine non fanno cose cattive. » Anche London, allora, gli tolse il cappotto con una certa impazienza e fece scorrere le mani sul suo petto, indugiando sulla zona diaframmale e accorgendosi davvero di quanto il suo respiro fosse velocizzato.
« Allora sei una bambina cattiva » replicò quasi con ovvietà, passando dalla risata divertita al tono caldo e persuasivo che amava usare con lei in quelle situazioni.
« Oh, sì » sussurrò la ragazza al suo orecchio, provocatoria e suadente. « Tanto cattiva. »

London scacciò quei pensieri scuotendo la testa, le gote che dal bianco pallido erano improvvisamente virate verso il rosa.
« Ovvero? » chiese Klaus, alzando un sopracciglio.
Non poteva rispondere a quella domanda, non ancora. Rimase in silenzio, cercando di trovare una risposta soddisfacente, sicura che se non avesse detto niente Klaus avrebbe capito lo stesso. Glielo si poteva leggere in faccia, d’altronde, che era stata a letto con Ben. In quel momento il suo viso era come un libro aperto.

« Visto? » rincarò il ragazzo, amareggiato. « Non c’è nessun altro mod- » Si bloccò all’improvviso, sgranando gli occhi.
London comprese che aveva capito e non parlò. Preferiva che fosse lui a collegare i punti.

« No » mormorò a quel punto, incredulo. « No, no, cazzo! » Diede un pugno al muro, facendola sobbalzare.
« Klaus, ascolta- »
« Non l’hai fatto sul serio. Non l’avete fatto sul serio » tentò di autoconvincersi il ragazzo, strizzando le palpebre.
« Non c’era altra soluzione » disse London pianissimo. « Credimi. »
« Chi se ne frega! » gridò. « Già non avrei dovuto coinvolgerti, e ora hai messo in mezzo anche tuo fratello! Porca puttana, ma perché? Perché»
« Perché altrimenti avremmo buttato questi tre fottutissimi anni all’aria! » ribatté la ragazza prontamente, come se fosse una frase che si era già preparata per l’evenienza.
« Tu non capisci » continuò il ragazzo, scuotendo la testa. « Tu non capisci quanto sia umiliante. »
« Ti sto solo dando una mano, Klaus » protestò blandamente London, già stanca di continuare quella discussione. « Invece di arrabbiarti, cerca almeno di fare un tentativo… cerca di apprezzare. »
Klaus si passò una mano sul viso. « Non mi state dando scelta! Mettiti nei miei panni, per una volta, ti sembra una bella situazione? »
« No che non mi sembra una bella situazione » lo assecondò lei, « ma è una decisione nostra, se permetti, quella di aiutarti o meno. E noi abbiamo- »
« E’ stata una sua idea, vero? » la bloccò, guardandola intensamente negli occhi.
London non rispose. Non sapeva neanche come avesse fatto a capirlo. Fu come acconsentire silenziosamente, per cui Klaus annuì con un sorriso amaro.

« L’avevo immaginato » disse soltanto. Le appoggiò le mani tra spalla e collo e London non poté fare a meno di avvicinarglisi un po’ di più.
« Non voglio che arriviate fino a questo punto » le sussurrò piano, spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua bocca.
« L’abbiamo già valicato, questo punto » rispose lei, inclinando la testa per appoggiare la guancia al palmo della sua mano. « Non si torna più indietro. »
Lui chiuse gli occhi, come per volersi concentrare. « Sei ancora in tempo. »
« No » replicò London, ostinata. « Sta’ zitto » gli disse, posandogli un bacio proprio all’angolo della bocca, prima di allontanarsi e tornare in camera a dormire, afflitta ma ancora convintissima delle proprie idee.
 

*


Quando Alfons Bridge andò ad aprirgli, Klaus si accorse che il suo volto era ornato da un’espressione più stanca del solito, come se fosse reduce da una discussione travagliata.
« Entra » fece, spostandosi per lasciarlo passare. « Cosa ti porta qui? »
« Sto cercando Benjamin » rispose velocemente lui, anche se più i minuti passavano, più pensava che al suocero non dovesse interessare davvero il motivo per cui lui era andato a fare loro visita.
« E’ in biblioteca » rispose l’uomo, aggiustandosi gli occhiali graduati sul naso.
« Avete una biblioteca? » si lasciò sfuggire il ragazzo, scettico. Certo, i Bridge erano ricchi, ma neanche quel maniero era grande abbastanza da contenere una vera e propria biblioteca.
Alfons si massaggiò una tempia. 
« La grande sala al secondo piano. Noi la chiamiamo così » spiegò. « Mio figlio è lì. » E quello fu come un invito a lasciarlo solo, perché evidentemente doveva avere degli ospiti ignoti ad aspettarlo nel salone.
Klaus si avviò verso le scale e Alfons nella direzione opposta. Prima di salire, fu vinto dalla curiosità e sbirciò nel salone quando il suocero aprì la porta per entrare.
Lo sentì chiaramente rivolgersi agli ospiti, dicendo: 
« Scusate l’attesa, era solo Klaus, il marito di mia figlia. Bet, tesoro, potresti portare un po’ di tè? »
Inoltre, gli parve di vedere la corta chioma bionda di Ludmille Schnee, prima che la porta fosse chiusa di nuovo, facendogli pensare che probabilmente doveva essersi sbagliato. Cosa poteva farci la sua mentore, dopotutto, a casa dei Bridge?
Lasciò perdere e raggiunse il secondo piano ad ampie falcate.

Quella che i Bridge chiamavano biblioteca, in effetti, poteva davvero definirsi tale tranne che per le dimensioni. Se solo fosse stata più grande e più spaziosa, sarebbe stata una biblioteca vera.
Era un’ampia camera tappezzata di libri, scaffali e alle pareti erano appoggiate diverse librerie dall’aria antica. Probabilmente se qualche membro di Capitol City fosse venuto a sapere di quel posto, avrebbe fatto in modo di bruciare tutto all’istante.
Troppi libri, troppa conoscenza concentrata in un’unica stanza.
Klaus vide Ben intento a sistemare dei tomi su uno scaffale più alto, in piedi su uno sgabello traballante.

« Attento che potresti cadere » gli disse laconicamente, avvicinandosi ad una scrivania per osservare ciò che vi era appoggiato.
Ben non smise neanche per un attimo di sistemare i libri. 
« L’ho già fatto milioni di volte, non c’è bisogno che ti preoccupi per me. »
Klaus fece ruotare con una mano un vecchio mappamondo impolverato, senza nessun interesse reale per quello che i Bridge dovevano considerare un cimelio di famiglia.
Era raro, infatti, che qualcuno a Panem possedesse oggetti così antichi e, da un lato, incriminanti. Per Capitol City, più la gente rimaneva nell’ignoranza, meglio era. Niente di più semplice. Eppure quella famiglia sembrava totalmente estranea a certe peculiarità, come se si sentisse superiore persino alla capitale.
L’orgoglio era un tratto distintivo dei Bridge, d’altronde.

« Mi hai sentito entrare? » domandò Klaus, spostandosi tra le cianfrusaglie.
« Sì » rispose Ben, girandosi finalmente verso di lui, con un sorriso divertito. « Hai un passo piuttosto pesante. »
Il moro scosse la testa. « Potresti scendere da quello sgabello? Ti devo parlare a quattr’occhi. »
« Non si preannuncia una discussione divertente » disse lui, allora, incrinando un po’ il sorriso. « Esattamente come quella di oggi pomeriggio. »
Klaus alzò istintivamente un sopracciglio. « Ha a che fare con tuo padre e quegli ospiti nel salone? »
Ben annuì e non aggiunse altro sull’argomento. Scese dallo sgabello, pulendosi le mani sui jeans e parandoglisi di fronte. « Allora? »
« Ho parlato con London » spiegò l’altro, incupendo lo sguardo.
« Ti ha spiegato della nostra idea, non è vero? » capì il ragazzo.
« Non dire stronzate » lo interruppe Klaus. « E’ stata un’idea tua»
Ben abbassò lo sguardo. « Sì, hai ragione, idea mia. »
Il moro non poté resistere e lo prese per la collottola, inchiodandolo alla libreria dietro di lui e facendo vibrare qualche scaffale.
« Mi spieghi come diavolo ti è venuto in mente? » digrignò tra i denti, vicinissimo al suo volto improvvisamente impallidito.
« Klaus, io non- »
« Io non capisco perché vi ostinate a volermi dare una mano! Non ce n’è bisogno, troverò una soluzione da solo; andremo ognuno per la nostra strada e tanti saluti a questo bambino che nessuno di noi nemmeno vuole » sibilò velocemente, ancora arrabbiato per non essere stato preso in considerazione in quel frangente.
« Io li vorrei, dei figli » fece Ben a bassissima voce, ma Klaus lo sentì lo stesso e gli diede un altro strattone, testardo e incapacitato. Non riusciva proprio a venire a capo di quella situazione, era impossibile che quei due fossero così cocciuti e stupidi da fargli un favore così enorme ma che contemporaneamente lo stava mettendo in seria difficoltà.
« Ma che stai dicendo? » domandò, alzando il tono. « Ti rendi conto che questa cosa comporta tantissimi rischi? »
Ben fece per ribattere, ma Klaus lo lasciò andare e lo interruppe di nuovo, stavolta con una nota più stanca e affranta nella voce: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare. Sembrava addolorato, ma anche gentile e umile come al solito.
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente, come se stesse dicendo un’ovvietà.
Klaus, naturalmente, non capì. 
« Cosa? » chiese, corrugando la fronte.
L’albino sorrise, ancora. Sembrava che anche in quel momento fosse l’unica cosa che sapeva fare. Sorridere. Sorridere con quel maledetto fare furbo, cortese e cordiale al contempo. Un comportamento che proprio non riusciva a comprendere.

« Ho detto » fece il ragazzo, « che devi stare zitto. »
Klaus stirò le labbra. In meno di due giorni i due gemelli gli avevano consigliato la stessa cosa, di restare in silenzio a guardare, come uno stupido e inutile spettatore.
Non era sicuro che ne sarebbe stato capace.

« Non preoccuparti » continuò Ben, poggiandogli delicatamente una mano sul braccio – un approccio così diverso da quello aggressivo che aveva usato lui pochi istanti prima… « Andrà tutto bene. »
 

*


Passarono i giorni, e poi le settimane. Il tempo trascorse senza un andamento preciso, alternando momenti di apatia totale a istanti che volavano via, illusori, esattamente come cenere tra le dita.
London stava seriamente cominciando a credere che quello fosse il periodo più strano della sua vita: non riusciva a trovare un attimo per far respirare il suo cervello, che puntualmente, di sera, le lasciava in regalo un mal di testa con i fiocchi.
Oltre a sentirsi debole fisicamente – non lo era mai stata, d’altronde – odiava quella nausea che, puntuale, la mattina o nel corso della giornata, arrivava a smuoverle le viscere. Aveva saltato anche almeno un paio di pasti, come se si sentisse più malata che incinta, e davvero non riusciva a immaginare quanto il suo corpo avrebbe risentito di quella mancanza.
London non era sicura di aspettare un bambino, o forse non voleva pensarci troppo. Non aveva idea di come avrebbe affrontato una possibile gravidanza e probabilmente solo in quel momento stava davvero cominciando a pensare che cosa l’essere incinta avrebbe comportato. Nausea, voglie, dolori.
Non era psicologicamente pronta ad una svolta simile, eppure si era lanciata a capofitto nell’idea di Ben, senza sedersi per riflettere qualche minuto con calma. Si era spinta troppo oltre, quasi certamente, e aveva timore di quello che sarebbe potuto accadere d’ora in avanti. Ma non era per niente ravveduta e non si sarebbe pentita con facilità, non adesso che grazie a quella piccola creatura tutti i tasselli sarebbero potuti ritornare al proprio posto.
La sera, quando si stendeva nel letto accanto a Klaus, aveva imparato ad aspettare che lui si addormentasse per primo, facendogli tuttavia credere il contrario. Allora lui schiudeva appena le labbra e respirava piano, e London prendeva ad osservarlo di sottecchi con una certa attenzione. Conosceva talmente bene il suo corpo, ormai – ogni efelide, ogni poro, ogni imperfezione – che era sempre più avida di nuovi dettagli, come se non ne avesse mai abbastanza. Da un lato se ne vergognava, ma dall’altro metteva a tacere la sua coscienza con un sorrisetto. E quindi gli accarezzava i capelli, il viso, le braccia o la schiena a seconda della sua posizione, ricordandosi di tutte le volte che erano stati a letto insieme, o di tutte le volte che lui l’aveva fatta ridere, o ancora di tutte le volte che l’aveva fatta infuriare. Solo in quei momenti, dunque, prendeva sonno e cadeva beatamente tra le braccia di Morfeo.
Lo stava facendo solo per lui. Sarebbe stata una grossa bugia affermare una cosa diversa da quella, eppure lei lo faceva spesso, come a voler sottolineare che il suo orgoglio era sempre più forte di tutto. Ma comunque lei la verità la conosceva bene, nonostante si ostinasse a oscurarla in molteplici modi.
Diamine, solo qualche mese fa il solo pensiero di aiutarlo mi avrebbe fatto rabbrividire, si era ritrovata a pensare spesso e, nonostante ciò, non riusciva a trovare una spiegazione veramente plausibile per giustificare la propria impulsività e irremovibilità sull’argomento.
Aveva deciso, semplicemente.
Forse si trattava di questo: per una volta, nella sua vita, era stata capace di prendere le redini della situazione e fare in modo che le pedine si muovessero secondo il suo gioco.
Gioco che, comunque, senza l’aiuto di Ben sarebbe stato impraticabile a priori.
Ci avevano provato solo una volta in quelle settimane, lei e suo fratello, eppure era già quasi convinta che quella parte del piano sarebbe stata facile. Il difficile, invece, sarebbe venuto dopo con tutte le più che certe complicazioni.
London si era domandata più volte che pensieri avesse il gemello riguardo a quella questione, ma non riusciva a venirne a capo. Sembrava completamente disposto ad aiutarla, fino a raggiungere rischi e sacrifici estremi come quello di metterla incinta per salvare la sua pelle e quella di Klaus.
Come si sarebbe sentito, si era chiesta, quando avrebbe visto crescere suo figlio tra le braccia di un altro padre? Come l’avrebbe presa quando tutto il Distretto avrebbe riconosciuto quel bambino come diretto discendente ed erede dei Wreisht, una famiglia così rovinata sin dalle fondamenta?
Non lo sapeva, ecco la verità. Non sapeva niente di quello che sarebbe stato il suo futuro, stava soltanto cercando di vivere alla giornata e migliorare quella che si stava preannunciando una vita nefasta… ma non era per niente certa del suo domani.
Cosa sarebbe successo, in effetti, dopo che avrebbe partorito?
L’ennesima domanda senza risposta. Troppe domande per troppe poche risposte.
London inspirava spesso, a quel punto, e chiudeva gli occhi.
Non restava altro da fare che aspettare di vedere come si sarebbero evoluti gli eventi.
In balia del vento, forse, ma poco importava.
 

*


Klaus aveva appena finito di lavarsi i denti e, nel rialzare la testa dal rubinetto, si ritrovò a fissarsi nello specchio rettangolare sopra il lavandino, mentre con una mano recuperava l’asciugamano per asciugarsi la bocca.
Si vedeva cambiato ogni giorno di più. Aveva gli occhi spenti e delle velate occhiaie, le guance leggermente scavate e la barba sfatta. Non si era mai trovato brutto o particolarmente attraente – anche se agli altri faceva credere il contrario – ma in quel momento tutto ciò che vedeva era un giovane uomo stanco e demotivato.
Odiava vedersi così, la sua immagine gli faceva ribrezzo, perché rappresentava l’esatto contrario di ciò che lui sarebbe voluto essere, o almeno apparire.
Dov’era finito il Klaus strafottente e dallo sguardo ammiccante che era sempre stato?
Non ebbe neanche il coraggio di trovare una risposta.
Odiava i cambiamenti, odiava sentirsi così privo di energie e soprattutto odiava mostrarsi così alla gente. Tutti, in quel modo, avrebbero potuto vedere quanto lui si stesse accartocciando su se stesso.
Scosse la testa e uscì dal bagno, scacciando quel riflesso così estraneo dai propri pensieri. Entrando nella stanza da letto, fu sorpreso di trovare London seduta sul materasso con una piccola scatola di ferro intarsiata tra le mani.

« Che cos’è? » chiese Klaus con una velata nota di curiosità, mentre si sedeva accanto a lei. London non si voltò, ma sorrise.
« E’ un carillon » spiegò lei. « Era di mia madre, e prima di mia nonna. »
Alzò il coperchio, rivelando una piccola ballerina delicata che prese a danzare non appena partì una dolce musica malinconica. Quel suono riempì la stanza di un’atmosfera nostalgica.
« Non ricordo le parole della ninna nanna » fece London, leggermente frustrata. « Ho sempre trovato più semplice la lingua di mio padre. »
Klaus aggrottò la fronte. « Perché, i tuoi genitori non vengono dallo stesso posto? »
« No » rispose lei, non aggiungendo altro in merito. « Devo chiedere a Ben, lui sicuramente le ricorda. »
Rimasero in silenzio per qualche minuto buono, finché la melodia non si spense e la ballerina non smise di volteggiare.
« Klaus » disse allora London, chiudendo il carillon e girandosi verso di lui. « Devo dirti una cosa. »
Klaus rimase impassibile, all’esterno, ma dentro di sé perse un battito. Sapeva benissimo quello che la ragazza stava per dire. « Sei incinta, vero? »
London annuì.        

 












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Capitolo 15
*** 014. Fourteenth Chapter – A million little pieces. ***


Note: Oddio, questo capitolo mi è uscito stranissimo, boh. O almeno, mi sembra strano.
Non ho molto da dire, fortunatamente. Forse solo che ci sono un po' troppi intervalli tra un paragrafo e un altro, ma non posso farci niente. 
E ricordatevi di shippare Klaus/Ludmille/Rafe come bromance x3 E ricordatevi anche che il prossimo capitolo segna la metà della storia (avevo sbagliato, i capitoli sono 31 prologo ed epilogo inclusi). Non ci credo neanche io :') Stiamo entrando nel vivo, ecco.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Search and Destroy" dei 30 Seconds to Mars.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ




















 

A Desideria,
che mi sopporta pure troppo ♥








 












Blur

(Tied to a Railroad)






014. Fourteenth Chapter – A million little pieces.




Klaus non aveva altri motivi per restare a Capitol City.
Dopo aver perso il proprio tributo – se ripensava al modo stupido in cui era morta quella ragazza gli prudevano le mani – non aveva niente da perdere: meno Hunger Games vedeva, meglio era. Non gli interessava nemmeno chi avrebbe vinto, si riteneva completamente distaccato ed estraneo a quei Giochi che la capitale voleva far passare per evento nazionale.
D’altronde l’essere lontano dal proprio Distretto lo innervosiva. Come l’essere lontano da London, ormai.

« E così te ne vai » disse la donna seduta sulla panchina della stazione accanto a lui, accarezzando il suo rarissimo esemplare di tigrotto bianco.
« Cosa resto a fare? » fece lui, sbuffando del fumo dalla sigaretta che si era appena acceso. « Dimmelo tu, Ludmille. »
« Lasci tutto il lavoro sporco a me » rispose lei con uno sbieco sorriso. « Non è l’atteggiamento che si addice ad un gentiluomo. »
Klaus la guardò con eloquenza, la sigaretta che gli pendeva dalle labbra sottili e metà del volto illuminato dalla luce del tramonto. « Ti sembro forse un gentiluomo? »
Ludmille scosse la testa ridacchiando.
« Spero che Titus vinca » disse sinceramente il ventunenne, tornando a guardare verso l’orizzionte acceso di colori. Sembravano molto più vivi, lì, che nel resto di tutta Panem.
Ludmille seguì il suo sguardo.
« Lo spero anch’io, anche se è un ragazzo… inusuale. »
« L’arena rende inusuali tutti, se non te ne sei accorta » ribatté aspramente lui.
« Forse hai ragione » replicò la donna, mentre Schatten scese dalle sue gambe per trotterellare tranquillamente sulla piattaforma della stazione. « Forse nessuno vince davvero. »
Klaus annuì, aspirando dell’altro tabacco. « Nessuno » ripeté.
Passarono qualche minuto in silenzio, quando un treno si fermò davanti alla piattaforma con un fischio. Alcuni capitolini scesero dai vagoni, mentre degli altri si apprestavano a salire. Klaus si alzò in piedi, trascinando con una mano l’unico trolley che aveva portato con sé.
« Stammi bene » disse alla donna, salutandola con un cenno della mano.
« Dì a Rafe che mi manca, se lo vedi » scherzò Ludmille, mentre l’altro mentore saliva su una carrozza scomparendo dietro una delle porte metalliche che si richiuse senza fare alcun rumore.

Il treno su cui era salito Klaus impiegò meno di una giornata per arrivare nel Distretto Sei.
Quando il ragazzo scese dal vagone, non trovò nessuno ad aspettarlo, come d’altronde era immaginabile. Non aveva avvisato nessuno del suo ritorno.
Senza aspettare oltre, s’incamminò per i vicoli polverosi trascinando laconicamente il trolley, notando quanto il Distretto fosse più desolato del solito. Probabilmente, in molti erano il lutto per la morte del suo tributo, tant’è vero che la zona in cui abitava quella ragazzina era costellata di abitazioni con le finestre sprangate. Christina – così si chiamava – aveva sedici anni e, la prima cosa che aveva fatto nel vederlo era stata scoppiare a piangere. Gli aveva detto di essere terrorizzata, gli aveva detto che aveva una famiglia numerosa a cui badare, perché viveva con i nonni e doveva occuparsi dei suoi fratelli più piccoli dopo la morte dei genitori.
Klaus non si sentiva emotivamente legato a nessuno dei suoi tributi, e il lavoro del mentore era probabilmente quello che meno gli si addiceva. Tutti i tributi passati sotto il suo esame – e morti – l’avevano detestato, perché non riusciva a non dare loro sempre lo stesso e unico consiglio: sopravvivere.
Lui era sopravvissuto. Fine. Non c’erano indicazioni particolari da dare, era tutta una questione di fortuna e furbizia.
Era il suo terzo anno da mentore, e probabilmente non sarebbe stato l’ultimo. La morte, ormai, gli scivolava addosso, per quanto questa cosa non lo facesse sentire lercio di sensi di colpa.
Raggiunse casa dopo una mezz’ora di camminata a piedi, arrivando nella zona più ricca del Distretto, dove si trovavano i due vecchi manieri e la sua villa, probabilmente molto simile a quelle che si trovavano nel vicino Villaggio dei Vincitori. Lui non aveva avuto bisogno di andare a vivere lì, perché una casa lussuosa già ce l’aveva.
Recuperò le chiavi da una tasca e, dopo aver attraversato il cortile andò ad aprire la serratura senza bussare. Per quanto avesse un’importanza irrilevante, era curioso di vedere la faccia di London quando sarebbe entrato in casa senza preavviso.
Sorrise di sbieco. Era stato via poco più di una settimana, ma gli era parsa lunghissima senza la sua presenza.
Entrando nell’atrio fu accolto da un silenzio innaturale, che lo lasciò interdetto per un istante. Fece qualche passo nervoso, quando, passando accanto alla cucina, udì qualcosa di molto simile ad un singhiozzo.

« London? » domandò, aprendo la porta. « Sono io. »
London era seduta al tavolo e si voltò non appena lo sentì entrare.  La prima cosa che Klaus notò furono i suoi occhi, rossi e stanchi e, dopo, le mani e le spalle che le tremavano. Respirava velocemente, come se fosse in preda ad una crisi o avesse difficoltà ad inspirare; ansimava come se fosse reduce da una corsa.
Il ragazzo impallidì immediatamente, lasciando la valigia e fiondandosi su di lei. 
« London, cosa è successo? »
London continuò a respirare irregolarmente e, quando il marito le appoggiò le mani sulle spalle per tranquillizzarla, lei affondò il viso nelle mani e prese a singhiozzare irrefrenabilmente. Klaus le si accovacciò accanto e, senza indagare oltre, le avvolse le braccia intorno alla schiena, permettendole di inabissare il volto nella sua spalla.
« Sei qui » singhiozzò London, stringendosi a lui come se fosse l’unica cosa importante in quel momento. « Sei… tornato. »
Klaus non l’aveva mai vista in uno stato del genere né aveva immaginato che potesse avere reazioni così drastiche come attacchi di panico. Doveva essere successo qualcosa, qualcosa di veramente negativo per portarla ad una condizione simile.
Avrebbe voluto chiedere ancora cosa fosse successo, ma fu direttamente London a parlare:
« Klaus, ho… ho… » inspirò ancora velocemente, tentando di calmarsi. « … ho perso il bambino. »
Klaus sentì le proprie gambe diventare di piombo, e il mondo crollare per l’ennesima volta. « Quando? » sussurrò appena.
« L’altro ieri » gemette la ragazza, premendo il viso contro il petto del marito. « E’ stato… è stato bruttissimo… »
« London, sta’ tranquilla » provò a dire, ma la voce gli morì in gola. Era colpa sua. Eccome se lo era. Solo e soltanto colpa sua.
« … mi ha fatto male » pianse London. « Ho urlato… e quando… quando ho visto… tutto quel sangue, io… io… » Non riuscì a continuare, e Klaus non la biasimò, limitandosi a stringerla a sé senza dire nulla. Le poggiò le labbra sulla fronte, e solo allora la ragazza cominciò a calmarsi, lasciandosi cullare dalle braccia dell’altro, unico suo appiglio in quel momento di panico e buio.
 

*


« Non ho voglia di parlare » disse Klaus, lapidario.
Ben abbassò la testa e prese a guardarsi la punta delle scarpe.
« Lo so. »
« E allora cosa sei venuto a fare? » domandò il moro non senza una nota irruente nella voce. « Non ho più bisogno del tuo aiuto. »
L’altro rimase fermo sull’uscio della porta e si strinse nel cappotto. « Ne sei sicuro? »
« Sicurissimo. Non venirmi a dire ciò di cui ho bisogno, credo di saperlo. »
Ben rialzò il viso per incontrare gli occhi scuri e stanchi di Klaus, fermi nei propri come per volerlo intimidire. Stava respingendo la sua gentilezza, e il moro era sicuro che non gli avrebbe fatto piacere, ma doveva farlo. Doveva.
« Mi dispiace » sussurrò Ben. « Volevo solo essere d’aiuto. »
« Non importa » fece bruscamente l’altro. « La vita va avanti. »
« E adesso cosa farai? » chiese l’albino, incapace di non esprimere la propria apprensione.
Klaus tentennò, spostando lo sguardo altrove.
« Niente » disse, semplicemente.
L’albino annuì con un’espressione amara, dopodiché si voltò e, percorrendo il cortile a ritroso, si avviò verso casa.
Klaus richiuse la porta con apparente noncuranza, mentre quella sensazione di vuoto dentro di lui premeva per farlo impazzire.

Il ragazzo rientrò nel salotto con una fumante tazza di tè bollente e, rivolgendosi alla moglie, disse con una smorfia: 
« Non che sappia preparare il tè, ma io ci ho provato. »
London rimase ferma, appollaiata sul divano tra i cuscini di velluto. « Non ne ho voglia. »
Klaus si sedette accanto a lei e le porse la tazza senza tante cerimonie. « Dài, magari non fa completamente schifo. »
La ragazza girò la testa dall’altro lato, caparbia, poggiandola sulla spalliera.
« Non voglio avvelenarti » protestò il marito, avvicinando il tè al viso di lei. « Bevilo, avanti. »
« Oh, e va bene! » si arrese London, prendendo la tazza dalle sue mani con svogliatezza. Bevve a piccoli sorsi, poi allontanò la bevanda dalla sua bocca e perse lo sguardo nel vuoto di fronte a sé. Poi, ancora, bevve un altro po’ di tè attenta a non scottarsi il palato.
« Com’è? » si interessò Klaus, che già normalmente non avrebbe preparato niente per nessuno.
« C’è di peggio » rispose London che, dopo aver finito di sorseggiare l’infuso, appoggiò la tazza sul tavolino basso di fronte al divano. Rimasero in silenzio per qualche minuto buono, con la sola compagnia dell’orologio a pendolo che ticchettava placidamente sopra il camino. La ragazza si accucciò in posizione fetale dopo essersi portata un cuscino dietro la testa. « Ho sonno » biascicò, chiudendo gli occhi.
« Sono soltanto le sei del pomeriggio » le fece notare Klaus.
« Voglio dormire. »
« Non hai già dormito abbastanza? » chiese retoricamente il ragazzo, ma senza essere troppo rude. London non rispose alla sua domanda, mormorando piuttosto qualcosa come: « Ho freddo. »
« Vieni qui » disse allora Klaus, allargando lievemente le braccia. London non se lo fece ripetere due volte e si lasciò circondare le spalle con un braccio mentre appoggiava la testa sul suo petto e piegava le gambe di lato per stare più comoda.
« Va meglio? » sussurrò il ragazzo.
London ancora una volta non replicò, limitandosi a stare immobile tra le sue braccia.
Klaus allora con l’altra mano le alzò il mento in modo che lo potesse guardare bene in viso.
« London » la chiamò, usando un tono fermo ma, da un lato, vagamente supplichevole, « non lasciarti andare così. »
La ragazza probabilmente non volle sentire altro. Lo baciò di slancio, impedendogli di parlare ancora. Non voleva parlare e non voleva ascoltare nessuno.
Klaus, per quanto la situazione glielo potesse permettere, rimase stupito da quel gesto. Era passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che si erano baciati; un tempo che forse sembrava troppo lontano.
Gli era mancato il tocco morbido e umido delle sue labbra rosee. Gli era mancato il respiro lieve di London sul suo viso.
Gli era mancato e gli mancava tutto.

 
*


London si rigirò nelle lenzuola.
« Tu sei pazza. »
Sorrise di sbieco. « Forse hai ragione. » La ragazza fissò il fratello con cipiglio determinato. « Non mi vengono in mente altre spiegazioni plausibili. »
Anche Ben imitò il sorriso amaro della gemella, accarezzandole un fianco nudo da sotto le coperte. « Ed io ti seguo a ruota. »
London non ribatté, chiudendo gli occhi, rilassata dalle carezze dell’altro.
« Non so perché lo sto facendo » mormorò il ragazzo. « Se dovessi abortire di nuovo, io- »
« Non succederà » replicò caparbiamente lei. « Vale la pena di fare un secondo tentativo, non mi arrendo così. »
Benjamin arricciò le labbra. « Io voglio solo aiutarti, non attentare alla tua salute. »
« Lo so » fece London, riaprendo gli occhi per incontrare quelli del gemello, accesi di parole non dette. « Senza di te non so cosa avrei fatto, davvero. »
Il fratello distolse lo sguardo, per poi puntarlo sul soffitto bianco della propria stanza.
« Se la prenderà con me » disse mestamente. « E ha ragione. »
« Chi, Klaus? » chiese flebilmente London. « No, sono stata io ad insistere o non l’avresti mai fatto, non dopo che ho perso il bambino. Glielo dirò, capirà. »
« Ho i miei dubbi » mormorò l’altro. « Ha tutto il diritto di arrabbiarsi. »
La ragazza ribatté prontamente: « Non mi interessa. »
Benjamin la strinse a sé con dolcezza, posandole un bacio sul capo. « Confermo: sei pazza, folle. »
London rise senza divertimento, abbracciando la schiena candida del gemello. « E cosa sarebbe la mia vita senza un po’ di follia? »
« Non ne ho idea » ridacchiò Ben, ugualmente senza calore. « Ma forse sarebbe leggermente più normale. »
La sorella gli baciò una spalla con delicatezza. « Meglio essere folli che normali»
L’altro chiuse le palpebre, lasciandosi catturare dalla stanchezza.
« Tu sei sicuramente più pazzo di me per sacrificarti così » sussurrò allora London, più seria che mai. « Grazie, Ben, sul serio. Sei il gemello migliore che potessi desiderare. »
Ben sorrise e le accarezzò i capelli. Per fortuna non ci era ancora arrivata, non aveva ancora collegato i pezzi del puzzle.
Sacrificarti così, aveva detto. London non sapeva che lui per Klaus si sarebbe sacrificato altre dieci, cento, mille volte.

 
*


La camera da letto era in penombra. Solo un lume sul comodino di London illuminava blandamente la stanza altrimenti buia.
Klaus stava per addormentarsi, con le gambe sotto le coperte e il busto appoggiato allo schienale del letto, ma stava semplicemente aspettando che la moglie lo raggiungesse. Si sentiva meglio se aveva la certezza che London dormiva tranquilla accanto a lui.
In quel momento la ragazza si stava spogliando di fronte all’armadio aperto, mentre ripiegava gli abiti disordinatamente. Klaus credeva che non ci potesse essere visione migliore. Seguì con gli occhi la linea della spina dorsale, delle spalle dritte, dei fianchi morbidi e del sedere tonico, notando quanto la sua pelle fosse invitante anche vista in quella luce. Scosse la testa, ricordandosi che probabilmente non aveva più il privilegio di poter pensare a London come una sua proprietà.
Non che lo fosse mai stata, ma quando erano stati a letto insieme aveva saputo, in un angolo remoto del suo cervello, che la ragazza si stava concedendo a lui non solo per la questione dell’erede.
Scrutò ancora il suo profilo sinuoso, ammaliato dalle sue movenze che – seppur stanche – gli riportavano alla mente quelle lunghe e passionali notti che avevano trascorso insieme quando tutto aveva almeno una parvenza di senso.
London, sentendosi osservata, voltò il viso e lo guardò da sopra una spalla. 
« Che c’è? » gli chiese bruscamente.
Klaus si lasciò sfuggire un piccolo ghigno.
« Ti dà fastidio essere guardata? »
L’altra gli scoccò un’occhiata eloquente. « In realtà mi dà fastidio tutto quello che fai. »
« Capisco » commentò il ragazzo, annuendo con un’espressione volutamente teatrale. « Ma non posso farci nulla. »
« Voltare lo sguardo da un’altra parte no, eh? » domandò caparbia lei, mentre si slacciava distrattamente il reggiseno.
Il marito ridacchiò. 
« Certo, London, certo. »
London portò le braccia all’altezza del seno in un gesto similmente imbarazzato, ma in verità non le importava che Klaus la vedesse nuda, lo faceva solo per provocarlo.
A volte si potevano permettere di tornare ai vecchi tempi, a volte potevano lasciarsi andare. Era come una distrazione.

« Ci sono cose molto più interessanti del mio seno e del mio culo » ribatté lei con velata malizia.
Klaus alzò le mani come per voler dichiarare di essere innocente.
« Non stavo guardando né l’uno, né l’altro » disse.
« E cosa, allora? » chiese London alzando un sopracciglio.
« Tutto l’insieme » rispose sinceramente l’altro. « Ad esempio, non avevo mai notato che tu e Ben avete le stesse fossette in fondo alla schiena. »
London indossò la maglietta del pigiama e chiuse l’armadio. « Ovvio, siamo geme- » Si bloccò improvvisamente, come se fosse stata colpita da un pensiero fulmineo. « Aspetta, che cosa hai detto? »

« Che stai facendo? » chiese, sconvolto, con ancora il – piacevole – sentore del sapore di Klaus sulla propria bocca.
L’altro scrollò le spalle. 
« Non ti facevo così stupido. »
Ben non seppe che rispondere. Ora le carte in tavola cambiavano.
« Io non sono London » disse infine, indignato.
« Me n’ero accorto » replicò il moro con un lieve sorriso obliquo.
L’albino si alzò in piedi di scatto, ma quel gesto improvviso gli provocò un terribile capogiro, tanto che barcollò per qualche breve istante, massaggiandosi una tempia.

« Le prime sbornie sono sempre le peggiori » commentò Klaus, pensieroso. « Un attimo ti senti bene, benissimo, e un attimo dopo… no. »
Ben cercò di sostenersi e gli si aggrappò ad una spalla. « Perché mi hai coinvolto in questa situazione? » si lamentò, socchiudendo gli occhi dallo stordimento.
Klaus parve rifletterci per qualche secondo. 
« Forse perché ti lasci coinvolgere facilmente. »
Era una frase sbagliata, subdola, ma Ben non riuscì a capire nient’altro perché si ritrovò nuovamente inchiodato dalle labbra dell’altro, decise come qualche istante precedente.
E forse Klaus non aveva tutti i torti, perché proprio quel Benjamin che tanto aveva cercato di corrompere rispose a quel secondo bacio senza esitare, con inaspettato trasporto.
Il moro, dopo una fievole iniziale sorpresa – quando mai un Bridge era stato così arrendevole? – si staccò di poco da lui. 
« Non qui » sussurrò, guardingo. « Qualcuno potrebbe vederci. »
A Ben forse non importava che qualcuno li avrebbe visti di sicuro, perché una profonda tristezza stava premendo per ucciderlo. E se non avesse fatto qualcosa subito per distrarsi sarebbe impazzito.
Era triste il fatto che si stesse consolando con Klaus, quando la sua amata Londie era arrabbiata con lui; era triste il fatto che si fosse ubriacato, quando si era ripromesso che non avrebbe mai toccato alcool in vita sua; era triste che in quel momento fosse attratto da una persona che non era sua sorella.

« Seguimi » gli disse Klaus, strattonandolo per un polso, eccitato per quella situazione così anomala eppure, in qualche modo, allettante.
Ben si guardò intorno, poi posò di nuovo gli occhi sul ragazzo e tutti i suoi pensieri si sfocarono.
Per una volta poteva anche trasgredire, no?


Klaus gli sfilò la maglietta impazientemente, seduto sul bordo del letto mentre aiutava l’altro a svestirsi. Più andavano avanti, più si domandava cosa stesse facendo. Essere ubriaco lo inebriava, ma sapeva benissimo che non lo aiutava a ragionare.
Stava baciando un ragazzo. Stava per andare a letto con un ragazzo.
No, non uno qualsiasi, ma Benjamin Bridge. Il gemello di London. Klaus si chiese se questo impulso improvviso fosse dettato dal fatto che lui in realtà non desiderava altri che lei, e forse andare con il fratello sarebbe potuto essere un buon diversivo.
Cercò di concentrarsi sul presente, e notò come Ben fosse improvvisamente arrossito nello stesso istante in cui l’aveva visto a dorso nudo.
Non potè trattenersi dal domandare: 
« Che c’è, ti metto in imbarazzo? »
« No » biasciò l’altro, stringendogli i fianchi per poi posargli un bacio casto all’angolo delle labbra. « E’ strano, non so come spiegarlo. »
Klaus lo guardò dritto negli occhi. « E allora non spiegarlo » disse con semplicità, e stavolta fu lui a baciarlo con trasporto.
Stava baciando Ben. Stava toccando Ben.
Stava
respirando Ben.
Perse qualche istante ad ammirare il suo corpo marmoreo, privo di visibili imperfezioni o segni particolari. Not
ò le clavicole leggermente sporgenti, le gambe toniche, il ventre piatto, il collo elegante e delle inusuali fossette sul fondo della schiena.

« Cosa succederà quando ci sveglieremo? » domandò l’albino, poggiando le mani fredde sul petto di lui.
Klaus rabbrividì a quel contatto – la sua pelle rovente era esattamente in contrasto con quella gelida dell’altro – e preferì zittirlo per non pensare alle conseguenze.
« Non lo so. Adesso basta parlare, watchie. »

Klaus si rese conto di quello che aveva detto solo dopo qualche istante che London restò a fissarlo con gli occhi spalancati. « Io… » provò a dire, ma non gli uscì niente. Quale scusa poteva inventare, d’altronde? In che contesto avrebbe potuto vedere il fondoschiena di suo fratello?
« Klaus » disse London, alzando il tono di voce. « Ripetimi quello che hai detto. »
Klaus serrò le labbra.
« Cosa ne sai delle fossette di Ben? Te l’ha detto lui? Le hai viste tu? E quando? » cominciò a domandare a raffica, prendendo a camminare nervosamente per la stanza.
« London » la chiamò il ragazzo, ma lei sembrava non ascoltarlo, immersa nelle sue considerazioni ad alta voce. « London, ascoltami. »
La moglie si voltò di nuovo nella sua direzione, con le braccia saldamente incrociate. « Avanti, parla. »
Klaus prese un lungo respiro. Non aveva più senso nasconderlo, a quel punto. « Io e Ben, qualche anno fa... siamo stati a letto insieme. »

 












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Capitolo 16
*** 015. Fifteenth Chapter – Too many bad notes in our symphony. ***


Note: Salve a tutti!
Tanto per citare Marty, “questo capitolo è tutto un litigio”. Quindi preparatevi ad una buona dose di insulti random e incazzature difficili da sbollire.
E… SIAMO A META’! Mi fa un effetto stranissimo. Ho cominciato a scrivere Blur alla fine di marzo, se non erro, ed ora essere arrivata a questo punto mi rende orgogliosa :') Od “orgogliona”, come direbbe un animatore che conosco.
Sciocchezze a parte, spero vi piaccia perché mancano solo 4 capitoli all’inizio della terza parte, che sicuramente sarà quella più difficile sia da scrivere che da sorbire. Probabilmente solo allora inserirò il genere “drammatico” nello specchietto. Ci tengo ad avvisarvi perché secondo me in molti rimarranno un po’ di melma, quindi ricordate che la Ivols ve l’aveva detto.
Parlando di questo capitolo, non lo so se mi piace. Ho usato pochissima introspezione, ma più che altro perché volevo far risaltare le loro parole e i loro gesti.
E, sì, alla fine sono stata… stronza, concedetemelo.
Voglio ringraziare di cuore i 15 preferiti, 1 ricordate e 27 seguiti, sono molto felice che questa storia non sia poi molto malcagata. Inoltre ci terrei davvero moltissimo ad avere qualche parere aggiuntivo, ma it’s occhei.
Ricordate che la cioccolata calda è buona, a differenza della marmellata di lamponi.
Niente, ora vado.

Buona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da "Hurricane" dei 30 Seconds to Mars feat. Kanye West.
Amo alla follia questa canzone, quindi amatela con me. 

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Tantissimi auguri a  
Chiara, Greta e Ilaria,
giusto perché sono una ritardataria♥




 
















Blur

(Tied to a Railroad)






015. Fifteenth Chapter – Too many bad notes in our symphony.




London rimase immobile sul divano a fissare il fratello, che era seduto sulla poltrona di fronte a lei, con occhi… arrabbiati, quasi.
Lui le stava raccontando placidamente di quello che aveva fatto in giornata, con il solito e radioso sorriso sulle labbra, ma capiva che c’era qualcosa che non andava. Sua sorella non lo stava ascoltando, infatti.

« Me l’ha detto » disse candidamente lei.
Ben si bloccò, interdetto. 
« Cosa? »
« Klaus me l’ha detto » precisò la ragazza, incrociando le braccia saldamente.
Benjamin non capiva di cosa stesse parlando, per cui si limitò ad esternare un’espressione interrogativa.
London alzò gli occhi al cielo, infastidita dal comportamento del gemello più di quanto non volesse darlo a vedere. 
« Che siete stati a letto insieme, qualche tempo fa. Se non erro sono passati poco meno di cinque anni, giusto? »
Ben sbiancò improvvisamente e i suoi occhi si ingrandirono.
« Già » continuò l’altra, constatando che il fratello aveva appreso l’argomento. « Buffo, no, che sia stato lui a dirmelo? »
« Londie… » cominciò lui, ma la voce gli morì in gola, quando notò che lo sguardo della gemella stava vacillando e le prime lacrime facevano capolino alla base delle sue lunghe ciglia. Era da tempo immemore che non la vedeva piangere, e per un attimo si sentì terribilmente in colpa.
« Non me l’hai mai detto » mormorò London, trattenendo un singhiozzo arrabbiato, sebbene le rughe che le si erano formate sulla fronte facessero notare bene quanto si stesse trattenendo per non esplodere – o implodere, da un altro punto di vista.
« Che cosa ti ha detto, di preciso? » bisbigliò Ben, temendo più che mai la reazione dell’altra.
« Per fortuna mi ha risparmiato i dettagli, ma so abbastanza » sbottò lei, asciugandosi gli occhi con le nocche.
« … mi dispiace » sussurrò il fratello, ma London finse di non sentirlo neanche.
« Non è vero che ti dispiace! » gridò allora, scattando in piedi. « Tu sei innamorato di lui; non è così, Ben»
Eccola. Eccola la domanda che più lo terrorizzava al mondo. Ne restò disarmato, fissando la sorella con sguardo quasi supplichevole.
Poi abbassò la testa, forse per evitare di fare i conti con la realtà. 

« Anche tu » riuscì a dire soltanto, e forse fu la peggiore delle repliche che potesse venirgli in mente.
« Non ha importanza! » urlò ancora London. « Klaus è… è… »
« Tuo? » concluse Ben amaramente con un sorriso tirato.
London sgranò gli occhi e non seppe più cosa dire. Non sapeva neanche se fosse arrabbiata perché Ben le aveva tenuto nascosta quella questione per tutto quel tempo; se fosse arrabbiata perché suo fratello amava Klaus probabilmente da sempre e non gliel’aveva mai detto; se fosse arrabbiata perché ormai Klaus era suo marito e nessuno poteva mettersi in mezzo… neanche Ben.

« Ti direi di non immischiarti, ma ormai è già troppo tardi » mormorò la ragazza, cominciando a girare per il salotto nervosamente. « Adesso capisco. Adesso capisco perché non mi hai mai risposto quando dicevo di amare soltanto te, adesso capisco perché vuoi aiutare Klaus a tutti i costi e adesso capisco anche perché non te ne è mai importato delle altre ragazze. » London continuò a vagare per la stanza, non curandosi di quello che stava provando a dire il gemello.
« Non era molto difficile, da capire » commentò tra sé l’altro, ma la sorella lo bloccò ancora riprendendo con le sue considerazioni ad alta voce.
« Mi hai mentito, mi hai mentito per tutto questo tempo senza fregarti di quello che avrei potuto pensare se solo l’avessi saputo prima. Sei un egoista! Mi hai tenuto all’oscuro di questo segreto quando io invece ti ho sempre detto quello che mi passava per la testa- »
« Questo non è vero » la interruppe il fratello improvvisamente, alzandosi dalla poltrona con i pugni serrati. « Anche tu mi hai sempre mentito. Sempre. In special modo riguardo ai tuoi sentimenti per Klaus, se proprio vogliamo restare in tema. »
London si girò di scatto verso di lui, lanciandogli uno sguardo furente.
« E, se permetti » riprese lui, « direi che l’egoista qui non sono io. »
« Cosa stai insinuando? » sibilò la gemella, stringendo ugualmente i pugni per trattenere la frustrazione.
« Lo sai bene cosa sto insinuando. »
London venne accecata dalla rabbia e, in un raptus istantaneo, gli si avvicinò e lo schiaffeggiò con violenza.
Lei stessa rimase spiazzata da quel gesto, e la mano con cui l’aveva colpito cominciò a tremare, insieme a tutto quello che si stava tenendo dentro. Tutto sarebbe presto crollato, e le sue certezze sarebbero state distrutte da quell’improvviso uragano.

« Tu… avresti… avresti dovuto dirmelo » disse piena di collera, con la mano ancora alzata. Ben si tastò la guancia e fissò la sorella con gli occhi spalancati, increduli e colmi di qualcosa che neanche lui riusciva a decifrare.
« Sai, sorellina? » fece il ragazzo a denti stretti, « non sempre ci sei tu al centro del mondo. »
L’altra fece un passo indietro, scossa da tutta quella situazione, abbassando le braccia lungo i fianchi.
« Tanto a nessuno importa di me, no? » chiese Ben retoricamente. « A nessuno può fregare minimamente di quello che sta passando Benjamin, perché Benjamin è trascurabile, ingombrante, insignificante. » Fece una breve pausa e London vide che, nel mentre, il labbro inferiore gli tremava e la sua solita espressione gentile era stata sostituita da una fredda e distaccata, come se stesse parlando di un’altra persona. « Benjamin è un accessorio che si può utilizzare comodamente quando le cose vanno male, perché tanto a lui non dispiace. E non gli dispiacerà mai aiutare la gente, specialmente se si tratta delle uniche due persone importanti della sua vita, anche a costo di farsi mettere i piedi in testa, anche a costo di passare inosservato o di non essere capito. E, vuoi sapere cos’altro ti dico? » aspettò che la sorella gli rispondesse, ma la ragazza non fiatò, immobile davanti a lui con le guance rigate. « Adesso basta. »
London si rese conto di quello che era appena accaduto solo in quel momento. Non aveva mai litigato così con Ben, mai.
« Ben… io… non volevo… » mormorò, ma il gemello non la ascoltò neanche.
« No » fece il ragazzo, scuotendo la testa per rimarcare il concetto. « Non importa. Hai Klaus tutto per te, no? Potete scopare allegramente come ricci a mia insaputa, fare finta di odiarvi ancora quando è solo una maledetta bugia, non parlarvi per giorni e poi tornare a fingere solo perché il vostro orgoglio è così incrollabile da tenervi ancorati a questa menzogna che voi stessi avete creato per chissà quale stupido motivo, mentre intanto sono tagliato fuori dalla vostra vita. Va bene così, lascia stare. »
Si avviò verso la porta e, prima di andarsene, si voltò un’ultima volta e notò che London aveva ricominciato a piangere silenziosamente. E in quel momento sarebbe stato lui a voler piangere, a voler capovolgere il mondo e a gridare quanto fosse orribile restare a guardare quella storia come un semplice e superfluo spettatore.
Sarebbe dovuto essere lui quello da consolare, comprendere e voler bene.
Ma Klaus e London erano troppo occupati a rendersi la vita impossibile a vicenda per accorgersene, o importarsene.
E Ben era semplicemente troppo buono per incolparli del tutto.

« Scusami » singhiozzò lei, con le spalle tremanti.
« Ricordati che la tua felicità è più importante della mia » disse infine Ben. « Ricordatelo e andrà tutto bene. »
 

*


Klaus era appena rientrato da una – relativamente – tranquilla passeggiata mattutina, in cui si era preso un po’ di tempo per fumarsi un paio di sigarette nella più che gradita solitudine. C’erano giornate, in effetti, in cui non aveva voglia di vedere nessuno, anche se starsene da solo non gli faceva poi molto bene.
Era ormai maggio inoltrato e l’aria primaverile aveva cominciato a seccarsi per lasciare il posto a un caldo ancora sopportabile.
Klaus lasciò le chiavi di casa su una mensola nell’atrio insieme al suo preziosissimo pacchetto di sigarette e fece appena qualche passo quando udì qualcuno gridare dal solotto adiacente. Si avvicinò cautamente e, sebbene non avesse intenzione di origliare quello che aveva tutta l’aria di essere un litigio, si appostò d’istinto alla porta.

« Scusami » sentì London singhiozzare.
« Ricordati che la tua felicità è più importante della mia » – questa era sicuramente la voce di Ben, invece – « Ricordatelo e andrà tutto bene. »
Klaus cominciò a elaborare una cinquantina di ipotesi e, prima che potesse giungere ad una conclusione soddisfacente, la porta del salotto si aprì, rivelando l’erede dei Bridge smanioso di andarsene. Non appena quello lo vide impallidì leggermente, bloccandosi per un istante.
« Non stavo origliando » spiegò Klaus nervoso. « Sono rientrato adesso. »
Ben lo fissò negli occhi e il moro si sentì, per qualche strana ragione, completamente spiazzato da quello sguardo. Gli fece morire in gola tutto quello che avrebbe voluto dire; provò a mettergli una mano su una spalla, ma l’altro si scostò bruscamente e, senza dire una parola, si avviò verso l’uscita.
« Ben, aspetta! » cercò di fermarlo Klaus, ma prima che potesse raggiungerlo quello se n’era già andato. Con un sospiro frustrato, entrò nel salone, trovando la moglie seduta sul divano con il viso coperto dalle mani.
« London » la chiamò, e la moglie alzò il volto di scatto.
« Cosa ci fai qui? » gridò lei. « Vattene! »
Klaus non si arrese. « Che diamine è successo? »
London non si degnò di rispondere, fissandolo rabbiosamente con gli occhi velati di lacrime ma anche carichi di rancore.
« Mi vuoi rispondere? » sbottò il marito, ma l’altra si alzò in piedi velocemente e lo afferrò per la collottola della maglietta.
« E’ colpa tua! » urlò. « E’ tutta colpa tua, lo capisci? »
Klaus restò interdetto e tentò di bloccarle le braccia, anche se London non si decideva a mollare la presa. « Se mi spiegassi che cosa è colpa mia, magari capirei, non credi? » sibilò, ugualmente adirato.
« Tutto questo! » strillò lei in risposta. « Vorrei non averti mai incontrato! »
Il ragazzo indietreggiò di qualche passo, completamente spiazzato da quella reazione. « Ah, grazie mille, davvero » ribatté, alzando a sua volta i toni. « Anche io vorrei non averti mai incontrato, se proprio vogliamo dirla tutta. »
London prese a tempestergli il petto di pugni e continuò a gridare, furiosa: « Sei proprio un bastardo, non capisci niente! Niente»
Klaus la allontanò bruscamente da sé, trattenendole i polsi. « E che cosa cazzo devo capire? »
La moglie si liberò di lui e, dopo essersi asciugata le guance con i palmi, si voltò dall’altro lato per tentare di calmarsi, anche se le risultava abbastanza impossibile. « Basta, non ne posso più » sussurrò, più a se stessa che a lui. « Va’ via. »
Il ragazzo assottigliò lo sguardo. « Devi prima spiegarmi che cosa diavolo è succ- »
« Vattene, Klaus! Vattene! » urlò un’ultima volta, spingendolo verso la porta. « Lasciami in pace! »
« Oh, e va bene, me ne vado! » sbottò infine Klaus, lasciando che London gli sbattesse poi la porta in faccia. Diede un pugno al muro, provando invano a sfogarsi. Così si appoggiò con la schiena alla porta e tentò di chiudere gli occhi.
Che cosa sta succedendo?, si domandò brevemente, rimanendo ad ascoltare i singhiozzi di London che sembravano volergli perforare il cervello.

Ben non lo stava neanche guardando in faccia, intento a sistemarsi il letto laconicamente. Aveva dormito tutto il pomeriggio, dopo una notte in bianco, ma Klaus naturalmente non poteva saperlo.

« Mi spieghi che ha London? » gli domandò il moro, con le braccia incrociate. « E’ da ieri che non mi parla. »
Il ragazzo si mosse nervosamente per la stanza, facendo finta di metterla in ordine – anche se in realtà era più ordinata che mai. « E io che ne so? » replicò, brusco.
« Stavate litigando » fece Klaus con tono palesato. « E poi, andiamo… siete gemelli, insomma. »
« E allora? Non sono affari tuoi » rispose Ben, evitando ancora il suo sguardo.
Klaus inarcò un sopracciglio, irritato. 
« Invece lo sono eccome » ribatté, afferrandogli un braccio per costringerlo a voltarsi verso di lui. Odiava che gli altri non lo guardassero in faccia quando parlava.
« Klaus, cosa vuoi da me? » chiese l’albino, ancora agitato. « Non ho niente da dirti. »
« Sto cercando di capire cos’è successo » fece l’altro digrignando leggermente i denti.
« Non è difficile da capire, sai? » biascicò Ben. « Sei stato tu a farti sfuggire quello che sarebbe dovuto rimanere un segreto. »
Klaus gli lasciò il braccio, continuando però a guardarlo negli occhi. Sapeva che Ben e London avevano litigato perché dopo anni era venuto fuori il fatto che lui e il gemello fossero stati a letto, ma ancora non capiva perché ce l’avessero tanto con lui.
Era successo molto tempo prima, avrebbero dovuto metterci una pietra sopra. E invece erano entrambi presi dalla rabbia, per chissà quale ragione.

« Oh, capisci che non potevo più tenermelo dentro? » sbottò quindi.
« Sì, ma non hai pensato a me? Non hai pensato in che posizione mi avresti messo? » replicò l’albino con una velata nota di tristezza nella voce. « Te lo dico io: no. Hai pensato soltanto a te stesso, come al solito. »
Klaus non disse niente. Da un lato aveva ragione, non poteva contraddirlo. Era stato un egoista e se n’era infischiato di quello che sarebbe potuto succedere.
« Perché gliel’hai detto? » sussurrò Ben, allora, abbassando la testa.
Il moro sospirò. 
« Perché non avrei dovuto? »
L’altro sembrò congelarsi. « Cosa? » chiese flebilmente.
« E’ successo cinque anni fa, dannazione! » esclamò Klaus, appoggiandogli entrambe le mani sulle spalle. « Eravamo entrambi mezzi ubriachi, pioveva ed erano le due del mattino. Qual è il problema? Non è stato nulla di importante. »
Le spalle di Ben parvero afflosciarsi sotto la sua presa. Rimase in silenzio per qualche secondo buono, poi alzò gli angoli delle labbra verso l’alto. « Già… nulla… nulla di importante… »
Erano lacrime quelle che vedeva nei suoi occhi? Lacrime accompagnate da un sorriso, per di più?
Klaus aggrottò la fronte. 
« Aspetta, che hai? Non sei d’accordo? »
Ben si scostò dalla sua presa. « No, no, hai ragione. Hai ragione tu » fece, continuando a guardarlo con quell’espressione maledettamente affranta.
L’altro si tirò indietro e scosse la testa. 
« Avanti, watchie, non è da te darmi ragione » azzardò con sarcasmo, ma Ben non la prese altrettanto allegramente.
« Non chiamarmi così » disse, irritato. « Non sono il tuo cane. »
Klaus lo fissò con sguardo incapacitato. « Non sto dicendo questo. »
« Smettila di fingere di non capire! » sbottò, allora. « Lo sai benissimo cosa sta succedendo. Torna da London, lei sì che ha bisogno di te. »
Il ragazzo fece un sorriso amaro. « Non ne sarei tanto sicuro. Ha detto che non avrebbe mai voluto incontrarmi. »
« E’ una bugia » mormorò l’albino in risposta. « E’ tutta una maledetta bugia. Non ci sei ancora arrivato? London è molto brava a mentire. »
Klaus rimase bloccato da quelle parole.
« Torna da lei, avanti, ti starà sicuramente aspettando. » Era praticamente un invito ad andarsene, ma il moro non mosse un passo.
« Come devo dirtelo? » disse Ben, esasperato. « London… lei ti ama. »
« Non è vero » replicò prontamente Klaus.
« E tu- »
« Non è vero! » ripetè alzando la voce e stringendo i pugni.
L’albino scosse la testa, e una lacrima salata sfuggì al suo controllo. 
« Perché non lo accetti e basta? »
Klaus, prima che potesse davvero assorbire quella domanda, voltò i tacchi e uscì dalla stanza.
 

*


London aprì la dispensa della cucina e recuperò una busta di caffè.
« Ne vuoi un po’? » chiese alla suocera seccamente.
Shyvonne annuì, ma prese lei stessa la busta dalle sue mani. 
« Lo preparo io, non preoccuparti. »
La più giovane alzò un sopracciglio. « Ce la faccio da sola. »
« Lo so, ma io ci sono abituata » ribatté la donna recuperando delle tazzine.
London non protestò oltre e si sedette al tavolo, appoggiando il mento ad un palmo della mano. Non sapeva neanche perché la suocera fosse venuta a farle visita; forse cercava Klaus. Ma Klaus non c’era. L’aveva presa alla lettera quando lei gli aveva detto di andarsene.

« Vuoi lo zucchero? » domandò Shyvonne, armeggiando con la caffettiera. « O lo preferisci amaro? »
« Zucchero » rispose London, giocando con una ciocca di capelli passivamente.
Rimasero in silenzio per un bel po’ di tempo, interrotto solo dal rumore dei passi frettolosi della donna sul marmo, che andava e veniva davanti al fornello mormorando parole che solo lei riusciva a sentire, come 
« ci vogliono solo dieci minuti » « è quasi pronto. »
Quando finalmente spense la fiammella a gas, la donna si voltò verso di lei con due tazzine fumanti, prima che London sentisse la porta principale della villa sbattere.
Seppe che Klaus era tornato, per cui non si stupì più di tanto quando lo vide entrare in cucina con il suo solito fare scocciato.

« Ah, ciao mamma » disse, nel vedere Shyvonne in piedi accanto al tavolo. « Che ci fai qui? »
« Sono passata soltanto a salutarvi » rispose lei, appoggiando le tazzine sul ripiano. « E volevo controllare che London stesse bene. »
« Perché, come dovrei stare? » domandò bruscamente la ragazza.
« Un mese fa hai perso un figlio, cara, posso solo immaginare come ci si senta » fece la donna, spostando una sedia per sedersi.
« Tu… non hai mai perso dei bambini? » chiese London, incerta, torcendosi le mani.
Shyvonne non rispose subito. 
« No » disse poi. « Klaus è il mio unico figlio. »
Klaus si sedette accanto alla madre. « Per fortuna » commentò.
Quella non aggiunse altro in merito all’argomento, ma fu London a continuare.

« Ho paura che possa succedere di nuovo » confessò, prima di bere un lungo sorso di caffè. In effetti era molto buono, e sicuramente più di quello che avrebbe preparato lei.
« Potrebbe capitare, certo » mise in chiaro Shyvonne, « non è da escludere. Forse dovresti riguardarti di più… »
London si rigirò la tazzina tra le mani, fissandola. « Credo di essere di nuovo incinta » rivelò allora.
Klaus, che nel frattempo aveva recuperato un po’ di caffè per sé, per poco non si strozzò, cominciando a tossire e a battersi un pugno sul petto.

« Davvero? » esclamò Shyvonne, improvvisamente più radiosa. « Che splendida notizia! »
La donna si alzò e le andò vicino, abbracciandola calorosamente. London non rispose a quel gesto, ma si limitò a mostrare un sorriso tirato, più finto che mai.
« Vedrai che andrà tutto bene » la rassicurò, accarezzandole i capelli. « E, Klaus- »
« Meraviglioso » disse il ragazzo a denti stretti. « Davvero meraviglioso, London. » Dopodiché, senza aggiungere altro, si alzò e uscì dalla cucina lasciando le due donne senza parole.
« Che cosa gli è preso? » domandò Shyvonne all’altra, preoccupata.
« Non lo so » mentì London.

 
*


« Sei arrabbiato? »
« Non dovrei esserlo? » sibilò Klaus.
« Forse. »
« Tu sei pazza » le disse, scuotendo la testa.
« E’ la stessa cosa che mi ha detto Ben » ribatté London, appoggiandosi allo schienale del letto e attirando le ginocchia a sé. « Che coincidenza. »
Klaus si voltò verso di lei, alzandosi su un gomito. « E tu sei ancora arrabbiata con me? »
« Credo di sì » mormorò la ragazza. « Ma non ne voglio parlare. »
« Oh, come volete, mia adorata » sbuffò Klaus con una punta di ironia. « E che cosa desiderate fare, di grazia? »
London si sfilò il cuscino da dietro la schiena e glielo lanciò addosso. Klaus alzò le braccia davanti al volto per difendersi, ma London continuò a colpirlo, finché non si ritrovò a cavalcioni su di lui con sguardo minaccioso.
« Essere incinta mi rende molto irritabile » precisò. « Sta’ attento » aggiunse, con un velato sorriso di trionfo.
« Di bene in meglio » biascicò Klaus, tentando di farla spostare, ma quella aveva le gambe saldamente ancorate intorno ai suoi fianchi.
London si abbassò, avvicinando il proprio viso a quello del marito e lasciando che i propri capelli le cadessero dalle spalle per creare un sipario intorno alla sua testa.

« Sai? Potresti fare qualcosa di molto produttivo » gli disse a pochissimi centimetri dalla sua bocca. Riusciva a sentire il suo respiro caldo, le sue mani risalirle lungo le gambe e le sue labbra cercare istintivamente le proprie.
« Qualcosa che non implica ciò che stai pensando tu » precisò, allontanandosi di poco e lasciandolo insoddisfatto.
Non poteva farlo. Non dopo ciò che era successo in quei giorni.
Klaus stirò la bocca in un’espressione amareggiata. 
« E che cosa, allora? » borbottò.
« Una cioccolata calda » rispose candidamente lei.
L’altro pensò di non aver capito bene. 
« Lo sai, vero, che sono allergico al cacao? »
« Sul serio? » ridacchiò la ragazza, scendendogli di dosso e sedendosi a gambe incrociate sul materasso.
« Già. »
« Non sai cosa ti perdi » gli disse London. « E’ la cosa più buona che si possa mangiare. »
« Dopo la marmellata di lamponi » commentò Klaus con una parvenza di smorfia divertita.
« No, la cioccolata calda è più buona della- ehi! » cominciò, prima di cogliere l’allusione dell’altro e prima di lanciargli un’altra cuscinata. « Sei proprio un idiota, Klaus. »
Klaus si alzò e infilò le pantofole con un sospiro. « Un idiota che ti prepara la cioccolata pur essendo allergico. »
London sorrise spontaneamente. « Che idiota gentile. »
« Però esigo una ricompensa » specificò. « Come la mettiamo? »
La ragazza si finse pensierosa, accarezzandosi il mento. « Dovremmo contrattare. »
« Un bacio per una cioccolata » ridacchiò il marito. « E sono stato misericordioso. »
L’altra smise presto di sorridere.
No. Non poteva.
Non potevano.

« D’accordo » assentì lei, contro la sua stessa forza di volontà. « Uno soltanto. »
London si alzò dal letto e gli andò vicino. Gli scostò un ciuffo di capelli dalla fronte e accarezzò con l’indice le sue labbra, prima di baciarlo, prima di stringerlo possessivamente e prima di ricadere sul materasso con lui che le sfilava a tentoni la maglietta del pigiama.
Mentre toccava la pelle di Klaus, mentre respirava la sua stessa aria, mentre sentiva la coscienza divorarle lo stomaco, le ritornarono in mente le parole di Ben.

« Direi che l’egoista qui non sono io. »  
 













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Capitolo 17
*** 016. Sixteenth Chapter – Immerse your soul in love. ***


Note: E dopo un mese di problemi, casini vari, impegni e studio... finalmente riesco a pubblicare.
Questo capitolo non sarebbe dovuto essere così, me l'ero immaginato diverso, ma ormai non posso farci niente. Vedrete che all'inizio è abbastanza allegro, poi vira su altri toni e poi su altri toni ancora. Non lo so, non mi convince. Ma d'altronde tutto ciò che faccio non mi convince, quindi è normale.
E' tornata Sofia e sono felice, senza di lei queste vacanze non sarebbero le stesse♥
Ora vado, ho mal di testa e c'è mio fratello che urla e proprio non aiuta.

Buona lettura e buone feste a tutti ♥


Il titolo del capitolo viene da "Street Spirit (Fade Out)" dei Radiohead.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ







 








 

 





















Blur

(Tied to a Railroad)






016. Sixteenth Chapter – Immerse your soul in love.




« Giorno centosessantadue » lesse ad alta voce. « Il bambino continua a dare calci, comincia a darmi sui nervi. Senza contare che- »
« Klaus, ridammelo! » protestò London sonoramente, cercando di strappare quella sottospecie di diario dalle mani del marito, ma lui sembrava non demordere.
«  senza contare che ho unincredibile voglia di- »
« Smettila! » fece la ragazza, arrabbiata, nel recuperare quel piccolo quadernino dalla copertina a fiori. « Non ti ho dato il permesso di leggerlo, idiota. »
Klaus ridacchiò sommessamente e alzò gli occhi al cielo. « Chissà quanti segreti hai scritto lì dentro, eh, Londie? »
« Nessun segreto » borbottò la ragazza. « E’ solo una cronaca della gravidanza. »
« E perché mai ne stai facendo una? »
London tentennò brevemente. « Non lo so, mi tranquillizza. »
Klaus la osservò di sottecchi: era seduta a gambe incrociate sul divano e in quel momento si stava stringendo il diario al petto come se fosse di vitale importanza. Si sedette accanto a lei e appoggiò distrattamente i piedi sul basso tavolino di fronte.
« Scrivi un diario, fai yoga, mangi le verdure, la mattina canti sotto la doccia… che diavolo ti succede? »
Alla moglie scappò una risata. « Dici che non sono più la London di prima? »
« Sei peggiorata » commentò sarcasticamente lui.
« Oh, ma per favore » fece London con un finto sbuffo irritato, abbandonando il quadernino. « Tua madre dice sempre che devo riguardarmi, no? »
« Sì, ma tu esageri » precisò il ragazzo. « Comincio a preoccuparmi. »
« Gentile da parte tua » ribatté lei non senza una nota di scherno nella voce. « Non me lo sarei mai aspettata. »
Klaus scosse la testa sghignazzando. « Forse per colpa tua anche io sto peggiorando di giorno in giorno. »
« Il lato positivo, comunque » replicò London, sorvolando sulle provocazioni, « è che almeno non dovrò riflettere molto sul nome da dare al bambino. »
« Perché? » chiese Klaus, incuriosito.
« Voi Wreisht prendete sempre i nomi dai vostri predecessori, giusto? »
« Non esattamente » la contraddì. « Il primo dovrebbe essere un nome che non ha mai avuto nessuno in famiglia e, di seguito, i nomi del bisnonno, del nonno e del padre. E’ una stronzata, lo so. Per me puoi dargli il nome che ti pare. »
I due avevano già discusso altre volte di tutto ciò che girava intorno alla gravidanza – la questione dei nomi era solo uno dei tanti problemi – e, per quanto London si fosse riappacificata con il gemello, si stavano abituando all’idea che quel frugoletto che cresceva nella pancia della ragazza sarebbe stato dichiarato figlio di Klaus, e quindi si comportavano di conseguenza. Lui, in ogni caso, le stava lasciando la piena libertà decisionale. In fondo, l’erede non era davvero suo, nonostante nessuno all’infuori  di loro eccetto Benjamin lo sapesse o sospettasse. Si sentiva in dovere di mettersi da parte.
« E se fosse femmina? » domandò London a quel punto, appoggiando la testa alla sua spalla.
« Sarebbe una piccola te » rispose il ragazzo con semplicità. « E non so fino a che punto potrebbe essere una cosa positiva. »
L’altra fece la finta offesa e si aggrappò al suo braccio. « Se fosse uguale a me sarebbe la bambina più bella del mondo. »
« Modesta… » ironizzò lui, sfuggendo alla sua presa, per poi però avvolgerle il braccio intorno alle spalle.
« Non voglio partorire » mugugnò London mentre si passava una mano sul ventre non ancora abbastanza rigonfio. « Farà male. »
Klaus non seppe cosa rispondere, anzi, affermazioni così riuscivano soltanto a metterlo a disagio, considerando che London avrebbe dovuto partorire soltanto per salvare la pelle a lui.
« Però ne varrà la pena » continuò la moglie, sorridendo appena. L’altro provò ad annuire e a sorridere a sua volta, anche se gli risultava abbastanza difficile. Dopotutto, fingere che andasse tutto a meraviglia era solo un altro modo per andare avanti e, nel bene o nel male, entrambi erano abbastanza bravi nel farlo.

 
*


Il mattino seguente London era in cucina a preparare la colazione, cercando di seguire un ricettario preso in prestito dalla madre, che era aperto alla voce ‘pancakes’. La ragazza, per quanto fossero evidenti le sue scarse abilità culinarie, non si rassegnava alla triste realtà – dopotutto era cresciuta in una famiglia in cui le prelibatezze erano all’ordine del giorno – e tentava in tutti i modi, soprattutto nell’ultimo periodo, di migliorare i suoi piatti consultando quel piccolo manuale di gastronomia. Non sapeva spiegare bene il perché, ma forse si trattava semplicemente di quel suo istinto femminile represso che stava tornando a galla con la gravidanza.
Prese tutti gli utensili che le servivano e cominciò con lo spaccare delle uova e dividere gli albumi dai tuorli. Non fu poi molto difficile, per cui proseguì passando all’operazione successiva.

« Aggiungere latte e burro fuso e mescolare con i tuorli » lesse con la fronte corrugata. « E da dove lo prendo il burro fuso, adesso? » sbuffò, lisciandosi le pieghe del grembiule da cucina. Non che fosse necessario, visto che la preparazione dei pancakes richiedeva quindici minuti scarsi, ma aveva preferito indossarlo per evitare di sporcare gli abiti.
Non aveva idea di come si fondesse il burro, per cui prese a sfogliare le pagine del ricettario nervosamente, tanto che non si accorse del marito che entrava in cucina sbadigliando.

« Buongiorno » le disse, al che lei sobbalzò leggermente e si voltò nella sua direzione.
« Com’è che sei già in piedi? » chiese con un sopracciglio alzato. « Contavo che ti saresti svegliato per mezzogiorno. »
« Che c’è, non può esserci un’eccezione alla regola? » fece il ragazzo, spostando una sedia dal tavolo per sedersi.
London alzò gli occhi al cielo e tornò ai pancakes. 
« Mi sembrava strano, tutto qui. »
Klaus osservò gli ingredienti con aria critica – o forse spaventata, non era facile stabilirlo. « Cosa stai preparando? »
« Lascia fare a me » ribatté la moglie.
« Sai che non mi fido. »
« Faresti meglio a fidarti » disse. « Piuttosto, non hai niente da dirmi? »
Klaus aggrottò la fronte. « Dovrei dirti qualcosa? »
« Ah, non so… » fece lei vagamente, « magari “auguri” o “buon compleanno”? O, ancora, “oggi sembri più vecchia”? »
Il ragazzo comprese finalmente che giorno fosse e allora si affrettò a dire, prevedendo possibili reazioni nefaste: « Sì, insomma, stavo per dirtelo. »
« Ah-ahm » biascicò London, abbandonando per un secondo la colazione e tornando a guardarlo. « Quindi…? »
« Quindi… buon compleanno? » tentò Klaus.
« E basta? » domandò l’altra, con le mani sui fianchi.
Il marito la fissò con sguardo interdetto. 
« E… possa la sorte essere sempre a tuo favore? »
London sbuffò e incrociò saldamente le braccia. « Nessun regalo? »
Klaus rimase bloccato da quella richiesta. « Non ho mai fatto regali a nessuno in vita mia » replicò. « Non vedo perché tu debba essere la prima. »
« Beh, forse perché sono tua moglie? » fece la ragazza, irritata.
« Lo eri anche l’anno scorso e l’anno prima ancora » precisò l’altro.
« Dettagli. »
Klaus incrociò a sua volta le braccia. « Neanche tu mi hai mai fatto un regalo, e il mio compleanno viene prima del tuo. »
« Hai sempre detto che non ti importa niente dei tuoi compleanni » gli ricordò London. « A me invece sì. »
« Gli auguri non ti bastano? »
La ragazza mostrò un piccolo sorrisetto. « No. »
« E allora cosa vuoi che faccia? » sbuffò il marito, non arresosi ancora del tutto di fronte all’ostinazione dell’altra.
« Quello che ti pare. Ti do tempo fino alle… » rispose lei, guardando un orologio immaginario al polso, « sette di stasera. »
Klaus si alzò dal tavolo. « Non la voglio la tua colazione del cazzo » disse.
« Come vuoi » ribatté London, caparbia.
Il marito uscì dalla cucina.

« Le sette, mi raccomando! » ripeté, alzando la voce, con un’espressione soddisfatta.
 

*


Quando Klaus rientrò in casa il sole era già tramontato da un po’, lasciando tuttavia ancora una parvenza di rossore all’orizzonte. Fu London ad andare alla porta e, quando la aprì, la prima cosa che disse fu: « Sei in ritardo, sono quasi le otto. »
Il ragazzo emise un sospiro indignato, alzandole una busta davanti agli occhi. « Potrei benissimo portarlo indietro. »
La moglie prese il regalo dalle sue mani prima che l’altro potesse farsi rimborsare per davvero. Entrò in casa senza una parola di più, con Klaus che la seguiva nella sala da pranzo nervosamente.
« Non lo apri? » le chiese, digrignando i denti.
« Tra qualche minuto » replicò la ragazza, entrando nella stanza.
Klaus stava per risponderle male ancora una volta, ma tuttavia si trattenne quando notò Ben intento ad apparecchiare la tavola.

« Ciao, Klaus » lo salutò l’albino sorridendo lievemente e continuando a disporre le posate d’argento sulla tovaglia bianca. London si affrettò ad aiutarlo, sebbene il gemello fosse molto più pratico di lei in certe cose.
« Buon compleanno anche a te » disse il moro, non troppo stupito di trovarlo lì. Dopotutto non era mai capitato che i gemelli passassero un compleanno separati.
« Grazie » rispose con sincerità e un accenno di sorpresa. « Te ne sei ricordato » scherzò.
Klaus scosse la testa ridacchiando. 
« Strano, vero? »
London rise a sua volta e, dopo aver finito di apparecchiare, recuperò la busta che le aveva portato il marito.
« C’è un pacchetto più piccolo all’interno » precisò lui, « che è di Ben. »
Il diretto interessato parve non credere alle proprie orecchie. « Mi hai fatto un regalo? »
« Guarda che conta il pensiero » ribatté il ragazzo, curioso di scoprire le loro reazioni. London lo squadrò, indagatoria, e poi passò la busta più piccola al fratello, che se la rigirò tra le mani prima di aprirla.
« Un orologio da polso » commentò l’albino. « Originale, Klaus, davvero. »
Klaus sogghignò. « Più che originalità… si chiama umorismo»
Ben alzò gli occhi al cielo. « Apprezzo il pensiero, sul serio. »
« E tu? » chiese l’altro, rivolgendosi alla moglie, che intanto stava aprendo il suo, di regalo. « Apprezzi? »
London sorrise di sbieco. « Direi di sì » rispose, affondando le dita nella morbida e lunga sciarpa di lana color crema appena scartata. « Ma perché proprio una sciarpa? »
Il marito scrollò le spalle, pur soddisfatto della reazione della ragzza. « Non avevo idee. Dovresti ringraziarmi. »
« No » ribatté lei. « Mi piace ma non è quello che volevo. »
« E cosa volevi? » chiese il moro, incapacitato.
« Sapessi… Potrai sempre cercare di indovinare l’anno prossimo » sorrise innocentemente London. « Ora mangiamo, mi ha aiutato Ben a preparare tutto. »
Klaus sbuffò e si sedette a tavola. « Per fortuna. »

La serata trascorse abbastanza tranquillamente. Mangiarono, bevvero del vino, chiacchierarono, risero anche, per quanto potesse sembrare un evento paradossale.
Klaus aveva notato con piacere che London fosse di buon umore, ma lo attribuì alla compagnia del gemello. Senza Ben, dopotutto, la ragazza assumeva sempre quell’aria facilmente irritabile, che in sua presenza si cancellava quasi del tutto.

« Allora, ti è piaciuta la cena? » domandò l’albino, sorseggiando dal suo calice.
« Potresti trasferirti qui » rispose Klaus ridacchiando. « Almeno non moriremmo di fame. »
London gli diede uno scappellotto dietro la nuca. « Mi offendo, sai? »
« Non si può negare la verità » ribatté il marito ironicamente.
« Beh, non vale competere con Ben » fece lei. « Sa fare tantissime cose. »
Il fratello sorrise e le accarezzò una ciocca di capelli. « Non esagerare. »
« Io non esagero » disse la gemella, alzando gli angoli delle labbra in un sorriso molto simile a quello dell’altro.
Klaus alzò gli occhi al cielo, versandosi un altro bicchiere di vino rosso. 
« Come siete smielati, mio Dio. »
« Parli tu che non hai un briciolo di sensibilità » puntualizzò la moglie.
Il moro si portò il calice alle labbra. 
« Meno male. »
« Vado a prendere il dolce » sbuffò lei, allora, abbandonando quella conversazione che non stava neanche in piedi. Si alzò, dirigendosi in cucina e lasciando gli altri due momentaneamente soli e in silenzio.
Klaus, dopo aver finito quel bicchiere, se ne stava per riempire un altro, ma fu fermato da Ben che gli bloccò il polso prima che quello potesse afferrare il collo della bottiglia.

« Che c’è? » chiese il maggiore, alzando un sopracciglio.
« Non bere altro vino » gli consigliò il ragazzo, senza liberarlo dalla sua presa. « Ti fa male. »
« Che te ne importa, scusa-? » cominciò a domandare, quando notò qualcosa di strano sul braccio di Ben. Nel bloccargli la mano, la manica dell’albino si era leggermente spostata, scoprendogli una parte del polso. Klaus lo fissò per qualche istante, soffermandosi su quello che aveva tutta l’aria di essere un taglio, netto, preciso e già rimarginato, perfettamente in simmetria con il palmo della mano.
Non appena il ragazzo notò lo sguardo dell’altro indugiare sul proprio braccio, si scostò bruscamente da lui, abbassandosi la manica.

« Che ti sei fatto? » domandò il moro, nervoso.
« Niente. »
Klaus gli riservò un’occhiata penetrante e indagatrice, alla quale l’albino non seppe rispondere. « Ben… » insistette.
« Mi sono tagliato in cucina, nulla di grave » rispose frettolosamente l’altro, ma il cognato sembrava ancora meno convinto di prima. Senza aggiungere altro, Klaus si avvicinò con cipiglio determinato e, stringendogli un braccio, gli risollevò la manica, nonostante le proteste di lui.
Ciò che vide lo lasciò incredulo, scioccato. Al taglio precedente se ne susseguivano altri tre, a breve distanza l’uno dall’altro, ugualmente precisi e simmetrici. L’ultimo, quello che più si avvicinava alla piega del gomito, era ancora un po’ slabbrato ma non sanguinava, anche se era di un rosso preoccupante.
Klaus lo guardò con gli occhi spalancati, incapace di credere a quello che stava vedendo. 
« Che cazzo significa? » chiese, turbato.
Ben allontanò il braccio da lui con espressione colpevole e abbassò lo sguardo, tenendosi il polso ferito con la mano. Non disse niente, immobile sulla sedia.

« Ben » esclamò Klaus, afferrandogli le spalle e scuotendogliele leggermente. « Perché? »
Rimase a fissarlo per lunghi secondi, aspettando che si giustificasse o accampasse altre scuse inutili, ma il ragazzo sembrava non reagire, come se avesse troppa vergogna o timore di parlare.
« Avanti » lo incitò il moro, frustrato.
« … non dirlo a London, per favore » fu l’unica cosa che riuscì a mormorare Ben.
« Non glielo dirò, d’accordo » sbottò Klaus, « ma mi spieghi perché l’hai fatto? »
« ... io… insomma… » balbettò il minore.
« Va bene » acconsentì l’altro. « Non dirmelo, se non vuoi, ma promettimi che non lo farai mai più. Mai più, Ben, hai capito? »
« … Klaus… non posso assicurartelo… »
« Cosa? Non puoi? » chiese, incapacitato. « Devi. »
Ben sorrise amaramente, e dai suoi occhi traspariva una sofferenza completamente diversa da tutte le sofferenze che l’altro potesse immaginare. « Ti prego… ti prego, Klaus… dammi un solo motivo per non farlo… »
Nella testa di Klaus non ci fu tempo per ragionare: agì di conseguenza, vittima dell’istinto, afferrandogli la nuca e baciandolo di slancio e con foga, impedendogli di parlare oltre. Ben non reagì subito, spiazzato da quel gesto, ma non appena ebbe la forza di pensare a qualcosa che non fossero le labbra di Klaus premute con forza contro le proprie – diamine, aveva dimenticato quanto fosse una sensazione che lo faceva sentire vivo, completo, al posto giusto – si staccò di botto, rosso in viso e con le braccia scosse da tremiti involontari.
« No, Klaus » mormorò a bassa voce. « Non scambiarmi per London. »
« Non lo sto facendo » disse l’altro, continuando a tenerlo per le spalle e guardandolo bene in viso. « Ti sto semplicemente dando l’opportunità di… di salvarti. »
« Non ce n’è bisogno » ribatté Ben, a disagio. « Sto bene. »
Klaus scosse la testa. « Io so… so cosa stai passando, con la storia del bambino e- »
« No, non lo sai » lo contraddisse l’albino. « Non puoi saperlo. »
« L’ho capito, andiamo, non sono stupido. »
Il ragazzo lo fissò con sguardo spento. Non era sicuro che Klaus avesse capito davvero che era innamorato di lui, ma anche se così fosse stato non sarebbe cambiato poi molto. Dopotutto, avrebbe avuto sempre London accanto. E London sarebbe riuscita a curare ogni suo dolore, mentre lui… lui sarebbe rimasto solo.
« Ma non serve che tu capisca » gli disse. « Non conta più niente, ormai. »
« Senti, Ben » continuò il moro, « buttati tutto alle spalle, lascia perdere tutto ciò che ti fa stare male. »
Ben increspò la fronte e schiuse le labbra come per dire qualcosa, ma si bloccò in tempo. Cosa avrebbe potuto rispondere, del resto?
E dovrei lasciar perdere te e London? No, mai.
Prima che potesse aggiungere qualche altra cosa, la sorella ricomparve nella sala da pranzo con una piccola torta circolare coperta di glassa. 
« Ho portato… Cosa c’è? » domandò la ragazza, vedendo i due poco distanti l’uno dall’altro, entrambi con un’espressione indecifrabilmente affranta.
Klaus guardò il gemello, sottintendendo più parole di quante ne avrebbe potuto esprimere. 
« Niente, London. »
 

*


Le settimane si susseguirono velocemente da quel momento; arrivò l’inverno, che portò con sé un vento gelido e poco invitante; arrivò la neve.
London aveva sempre amato la neve. In quei momenti, per chissà quale ragione, le capitava spesso di sognarla. Sognava di cacciare la lingua per catturare quei piccoli fiocchi candidi, sognava di stendersi sul manto bianco e creare angeli agitando braccia e gambe come una bambina, sognava di danzare sulla neve a piedi nudi baciata dai deboli raggi di sole… Ogni notte, in quell’ultimo periodo, faceva sogni del genere, che le lasciavano una piacevole quanto poco duratura sensazione di spensieratezza nel corso della mattinata.
Anche quella notte aveva sognato la neve, ma, proprio sul più bello – le sembrava che stesse rincorrendo un cervo in un bosco lontano miglia e miglia da casa – quella visione si era interrotta.
Si svegliò con la fronte leggermente sudata, preda di un familiare dolore al ventre. All’inizio non vi diede molto peso, limitandosi a rigirarsi nel letto con uno sbuffo, ma poi le fitte cominciarono ad aumentare, fino a diventare quasi insopportabili. Impegnata a biasciare insulti tra i denti, si accorse solo dopo qualche istante che il lenzuolo era bagnato, e anche gran parte del suo pigiama.
Scattò a sedere il secondo successivo, tenendosi le mani sulla pancia, in panico.
Oddio, no, no, pensava, terrorizzata. Non può essere, no.

« Klaus! » urlò, cominciando a scuotere il marito violentemente. « Klaus, svegliati! Klaus! »
Il ragazzo si riscosse dal sonno quasi immediatamente, sobbalzando. « Che succede? » mormorò, con il tono ancora impastato.
« Il bambino » gridò lei, sconvolta. « Si sono rotte le acque! »
Klaus comprese cosa stesse accadendo solo dopo qualche secondo. « Ma… cosa… il bambino… » balbettò, incapace di elaborare una frase di senso compiuto.
London si appoggiò alla spalliera del letto, passandosi le mani sul volto impallidito di botto. 
« E’ troppo presto. Troppo presto! » fremette. « E’ solo il settimo mese! »
Klaus le strinse una mano, provando a darle almeno un sostegno fisico. « Ti senti male? »
« Brutto stronzo! » urlò la moglie. « Non vedi che potrei morire da un istante all’altro? »
Il ragazzo spalancò gli occhi, sentendosi più inutile che offeso. « Cosa devo fare? »
« Non lo so » si lamentò London, stringendo il lenzuolo, quasi terrorizzata. « ... non lo so, ma fa’ qualcosa, aiutami! »
« London, ma- »
« Fa’ qualcosa, cazzo! »
« Non posso farti partorire io » protestò Klaus.
La moglie inspirò profondamente, tentando di calmarsi. 
« No, ovviament- ah, porca puttana, mi sta uccidendo » biascicò, il petto che si alzava e abbassava per l’agitazione. « Chiama mamma... e Ben. Sì, chiama mamma e Ben. Falli venire qui, ti prego. »
« Sono le tre di notte… » provò a dire il moro, ma fu bloccato da un urlo esasperato dell’altra.
London gli afferrò un braccio. 
« Chiamali e basta, coglione! »

Klaus stava passando dei momenti davvero poco piacevoli. Era più o meno l’alba, dalla finestra si riusciva a intravedere il sole che spuntava da dietro le basse case del Distretto, e tutta la zona era immersa nella tranquillità… se solo non fosse stato per le urla che provenivano dalla camera da letto.
London l’aveva praticamente cacciato dalla stanza perché, a sua detta, le faceva salire l’ansia. Non che ci tenesse ad assistere al parto, comunque. Per quei pochi minuti che era rimasto all’interno aveva visto abbastanza da convincerlo definitivamente a uscire.
Erano ore che la preoccupazione e il nervosismo lo stavano logorando, spingendolo a girare avanti e indietro per casa agitatamente. Non era riuscito a fare nulla di costruttivo, tranne che farsi prendere dall’ansia più del dovuto.
Il momento era arrivato. Dopo quasi due anni di tentativi, litigi, problemi, bugie e tormenti… quel piccolo erede sarebbe finalmente nato, ponendo fine a tutte le complicazioni scaturite dalla follia di suo padre che aveva preteso l’impossibile.
Klaus non era sicuro che tutto si sarebbe risolto con la nascita del bambino, ma in fondo al suo animo ci sperava. Aveva visto London piangere, aveva visto Ben autolesionarsi, aveva visto il loro mondo precipitare in un buio baratro di egoismo e frustrazione, aveva visto se stesso sgretolarsi, cadere e cercare di rialzarsi con una forza che non era mai stata parte di lui, aveva visto il suo orgoglio rimpicciolirsi fino al punto di incominciare ad amare London come una persona normale… Ora tutte le carte erano scoperte. Non restava che mischiare il mazzo e cominciare da capo, con la speranza di una vita migliore. Non restava che vivere.
Un altro strillo più acuto della moglie interruppe i suoi pensieri, attraversandogli la testa.
Ti prego, frugoletto, pensò Klaus, nasci in fretta.
Il tempo sembrava scorrere davvero lentamente, quasi come a volersi prendere gioco di lui, che era stato escluso da quella stanza per palesi motivi. Rimase a fissare – o meglio, incenerire – la porta di mogano per un tempo interminabile, attendendo con le braccia incrociate e le spalle appoggiate al muro.
Guardò poi fuori la finestra, prendendo ad osservare la neve che aveva ricominciato a cadere placidamente dal cielo non troppo nuvoloso. Si distrasse per un secondo, annullando i propri pensieri di fronte alla grandezza della natura. L’alba dopo la notte, la neve che cade dal cielo, le persone che cambiano e crescono, la nascita di un bambino…
Fu in quel momento che il pianto di un neonato spezzò con violenza il silenzio che si era creato dentro di lui.

La porta si aprì dopo qualche minuto, rivelando un Benjamin dal viso pallido-verdognolo e un enorme sorriso stampato sulle labbra.

« Vieni, Klaus » disse il ragazzo, prendendogli un polso e trascinandolo nella stanza da letto. « E’ meravigliosa, devi vederla. »
Klaus entrò a passo titubante, trovando Erzsébet Bridge al fianco di London, che era stesa tra le lenzuola con un fagotto tra le braccia. Quando alzò il viso, gli sorrise, e lui pensò che quello fosse il sorriso più bello che le avesse mai visto rivolgergli.
Si avvicinò lentamente, con lo stomaco in subbuglio e il cuore in gola, fino ad accostarsi accanto a London. Si sedette sul materasso, ancora incapace di guardare la bambina. La ragazza tornò invece ad osservarla con meraviglia, passandole una mano sulla piccola testa velata di capelli bianchi e sfiorandole il nasino con l’indice.
Klaus si lasciò vincere dalla curiosità e sbirciò la figlia dei due gemelli, che intanto aveva smesso di piangere e osservava il mondo con gli occhietti verdi spalancati.
Si trovò a dare ragione a Ben; era meravigliosa, con la pelle chiara, le guance morbide e le manine che si protendevano verso il volto della madre.
London guardò di sottecchi la reazione del marito, continuando a sorridere.

« Si chiama Klaudia » sussurrò, mentre stringeva la piccola a sé.
« Il femminile di Klaus? » domandò l’altro, stupito.
La ragazza annuì e fece cenno al fratello di sedersi accanto a loro. 
« L’abbiamo deciso insieme. »
Ben avvicinò una mano per accarezzare la bambina e quella gli afferrò prontamente un dito, suscitando una breve risata generale.
« Klaudia Wreisht » disse Erzsébet, tra sé e sé. « Non suona male. »
Klaus si accorse solo in quel momento di star tremando. Dopotutto, si ritrovò a pensare, non suonava male per davvero.

 















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Capitolo 18
*** 017. Seventeenth Chapter – Sunday morning. ***


Note: Aggiornare una volta al mese non mi fa bene per niente, perdo completamente il ritmo. Eppure non dipende da me: se fosse così starei a scrivere sicuramente tutti i giorni. E invece c'è la scuola di mezzo. Devo mantenere i nervi saldi - magari facendo un po' di yoga, come mi consiglia sempre il mio professore di filosofia.
Bando alle ciance, cosa ho da dire su questo capitolo? In realtà molto, credo.
Innanzitutto volevo chiarire sul nome di Klaudia. Spero che abbiate tutti colto il significato del gesto di London e Ben, ma, al di là di questo, volevo precisare che "Klaudia" non è il vero femminile di "Klaus". In italiano Klaus si traduce con "Nicola", e quindi il femminile appropriato - sia in italiano che in tedesco, a questo punto, perché coincidono - sarebbe "Nicole" o derivati, ma quando avevo scelto il nome della bimba ero straconvinta che Klaus fosse "Claudio", quindi ho agito di conseguenza. Pardon.
Alcuni mi avevano fatto notare che i figli di incesto nascono con problemi psico-somatici e... sì, qui noterete che genere di problema ha Klaudia, di certo non me l'ero lasciato sfuggire ;w;
Come al solito(?), in questo capitolo ci sarà dell'altro lime quasi-lemon, ma moderato perché non posso finire nel rating rosso. Già. Spero di non risultare monotona, solo che 1) non so descrivere scene di sesso; e 2) questi due mi ispirano tante cose così, e il mio cervello quasi mi impone di inserirle nella storia. Quindi... Pardon pt. II.
Ad ogni modo, ho voluto dimostrare un po’ della loro maturità, se si dovesse notare.
Credetemi, scrivere questo XVII è stato un vero e proprio parto - altro che London - forse perché c'è troppa felicità e, beh, non sono abituata. Ma tanto probabilmente sarà l'ultimo, quindi vado tranquilla (io).

Now I go (sto inglesizzando tutto, aiuto).
Buona lettura ♥
 

Il titolo del capitolo viene da "Lithium" dei Nirvana.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ














 

 





 














Blur

(Tied to a Railroad)






017. Seventeenth Chapter – Sunday morning.




London era seduta sul letto, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, e non riusciva a fare a meno di guardare quella culla nell’angolo con sguardo rapito. Sapeva che Klaudia stesse dormendo lì dentro, ma ogni tanto si alzava e andava a controllare, come per accertarsi che non si fosse dissolta da un momento all’altro.
Per l’ennesima volta in quelle giornate si accostò alla culla e osservò la figlia che sonnecchiava placidamente, spostando gli occhi verso le sue manine da neonata, il piccolo naso all’insù, le sottili labbra schiuse e i radi capelli albini che le decoravano la testa come una spruzzata di neve sul terreno. Era lì, Klaudia, era viva.
Respirava piano, sembrava una bambola di porcellana, ma era viva,
esisteva davvero. Non era un sogno, né un’illusione. Quella bambina era sua figlia, era stata lei a darla alla luce e lei l’avrebbe cresciuta, facendola diventare una donna. L’avrebbe vista cambiare rapidamente, le avrebbe insegnato l’alfabeto, le avrebbe raccontato tutta la sua vita, avrebbero litigato, un giorno l’avrebbe vista sposarsi e avere a sua volta dei figli.
Era stata così cieca… non si era mai resa conto di quanto la vita potesse essere bella, di quanto un frugoletto come Klaudia potesse portare un po’ di luce in tutta la famiglia. Se lo meritavano, in fondo. Forse da quel momento tutto sarebbe stato più facile, tutto avrebbe preso una piega diversa.
Accarezzò piano la fronte della bambina, scendendo fino alle guance morbide e rosee. Per essere nata durante il settimo mese di gravidanza non era per niente smunta o pallida: era esattamente come se l’era immaginata, meravigliosa nella sua innocenza.

« Se continui a fissarla e ad accarezzarla finirai per farla svegliare. »
London si voltò di poco e guardò il marito da sopra una spalla. « Cosa ne vuoi sapere tu di bambini? » commentò con un sorriso. « A stento sai che non li porta la cicogna. »
Klaus le si avvicinò e si unì alla contemplazione della bambina. « Sai, mi ha detto mia madre che i neonati riconoscono sempre la voce della mamma. »
« Come fa a saperlo? » domandò la ragazza.
« E lo chiedi a me? » ridacchiò Klaus. London rise a sua volta, cristallina.
« Proviamo » disse, abbassandosi di più sulla culla. « Klaudia, tesoro? Sono la mamma. » La bambina non fece alcun movimento, restandosene ferma a dormire.
« Klaudia? Lo so che mi senti, piccola, sono io » riprovò, spostandole un piccolo ciuffo bianco dalla fronte. « Klaudia? »
Ma Klaudia non si svegliò.

London avvicinò la mano chiusa a pungo alla propria guancia e, muovendola piano, mimò con le labbra: 
« Mamma. »
La bambina, dal canto suo, seduta sulla sedia ma con i piedi a penzoloni nel vuoto per la sua statura ancora poco elevata – aveva soltanto tre anni, del resto –, fissò la madre negli occhi, sbattendo leggermente le palpebre. Dopodiché, tornò a dedicarsi al suo pasticcino di cioccolato senza dar cenno di aver capito cosa la madre stesse facendo.
London emise un sospiro esasperato.
« Dài, Klaudia, avanti! » La figlia, tuttavia, continuò a mangiare indisturbatamente il suo dolcetto, finendo con lo sporcarsi tutta la bocca di crema al cacao. « Perché le hai comprato i dolci? » domandò arrabbiata al marito, che intanto stava apparecchiando controvoglia la tavola per tre. « Adesso non mangerà più niente! »
Klaus alzò gli occhi al cielo. « Guardava la vetrina con gli occhi talmente luccicanti che non le si poteva dire di no. Andiamo, Londie, rilassati. »
La donna prese il viso della bambina tra le mani, sbuffando. « Tesoro, guardami » le disse, prima di imitare una seconda volta il gesto con la mano chiusa a pugno. « “Mamma”! E’ semplice, vedi? »
Klaudia scoppiò a ridere, rivelando i dentini sporchi di cioccolata. « M-m! » fece, ma London stentava a credere che stesse provando ad imitare la parola “mamma”; piuttosto, somigliava soltanto a uno dei tanti versi insensati – o forse no, questo non poteva saperlo – che solo una bambina sorda di tre anni poteva fare.
Klaus ridacchiò. 
« E’ inutile, non sei una brava insegnante. »
« La fai facile tu » controbatté la moglie, recuperando un fazzoletto di stoffa per pulire la bocca della bimba. « Perché non apri una scuola per sordi, eh? »
L’ormai venticinquenne si ammorbidì leggermente; del resto, sapeva bene quanto London soffrisse nel parlare del problema di sua figlia. Era una bambina stupenda, certo, ma avrebbe dovuto scontare al loro posto gli errori di una vita. E il prezzo, a quanto pareva, era molto caro.
« London, ormai Klaudia è abbastanza grande per essere seguita da qualcuno. Non c’è bisogno che ti divida in quattro. » Avevano affrontato già altre volte quella questione, ma lei sembrava irremovibile sull’argomento, perché voleva istruire personalmente la figlia, almeno sul linguaggio. Non che lei conoscesse la lingua dei segni, ma aveva cercato per mari e monti quel libro che ormai portava con sé come un’ossessione, ovvero quello che raffigurava tutti i gesti basilari dei sordomuti.
« Non mi interessa » fece London. « Sai già come la penso. Prima devo insegnarle qualcosa io, poi potrà andare da tutti i maestri che vuoi. E’ una questione di principio. Sono sua madre, maledizione! Da che ricordi, sono stati i miei genitori a insegnarmi quasi ogni cosa, perché con lei dovrebbe essere diverso? »
« Non sarà diverso, infatti » replicò l’altro. « Ma ci vorrà più tempo. »
« Klaudia è una bambina molto intelligente » si ostinò la moglie. « Vero, amore? » chiese con un sorriso tirato, rivolgendosi alla diretta interessata, che la guardò senza capire.
« Hai ragione » concesse infine Klaus. « Non è colpa tua » aggiunse.
London spostò lo sguardo altrove. E di chi era la colpa? Si poteva stabilire? Scosse la testa, prendendo ad aiutare il marito ad apparecchiare la tavola. 
« Non c’entra avere colpa o meno. Il punto è che la nostra vita non sarà mai normale fino in fondo. »
Klaus le poggiò una mano sulla spalla, e con l’altra le accarezzò piano il viso. « E chi l’ha mai voluta, una vita normale? » chiese retoricamente.
 

*


L’acqua calda le scorreva sul corpo cancellando tutte le preoccupazioni. Scivolava via, sui suoi capelli, sulle braccia e sulle gambe, permettendole di rilassarsi e di abbandonare per un secondo tutto alle proprie spalle.
London reclinò la testa, lasciando che l’acqua della doccia le bagnasse il viso.
Era poco prima di mezzanotte; era rimasta tutto il tempo in camera con Klaudia perché lei aveva paura del buio e, quando la figlia finalmente si era addormentata, si era rintanata in quella pace solitaria prima di andare a letto.
London adorava la sensazione dell’acqua che scivoleva sulla propria pelle, la faceva sentire protetta, al sicuro, quasi come un abbraccio. E lei desiderava essere abbracciata, non perché fosse triste, bensì perché a volte era stanca di recitare la parte della ragazza orgogliosa e voleva soltanto ricevere un po’ di affetto. Non c’era nulla di male, ma per London Bridge era tutto più complicato. Non era mai stata brava a legare con le persone, e a venticinque anni adesso ne sentiva tutto il peso sulle spalle.
Nonostante ciò, comunque, le bastava avere la sua famiglia accanto. Sin da bambina era stata vezzeggiata, adulata e coccolata, e in quei momenti quasi sentiva la mancanza di una persona che la viziasse un po’, facendole credere di essere la regina suprema del suo mondo; tuttavia, adesso era il suo turno di dedicarsi a qualcun altro.
Lo era stato, precisamente, dal momento in cui Klaudia era stata concepita. Avrebbe dovuto metterselo bene in testa: lei prima di se stessa. Tuttavia, c’era sempre quella vocina insidiosa nella sua testa che pretendeva di essere ascoltata.
Si passò il bagnoschiuma sulle braccia e sulle spalle, cercando di rilassarsi.

« Se entro non mi meni, vero? » domandò una voce all’esterno del bagno.
London scosse la testa ridacchiando. 
« Puoi entrare, ma che ti meni non è da escludersi. »
Sentì Klaus aprire la porta e vide attraverso il vetro opaco la sua sagoma muoversi in direzione del lavandino. Il marito aprì il rubinetto, e probabilmente si lavò i denti, mentre lei continuava a stare ferma sotto il getto dell’acqua calda.
« Ci vuole tempo? » chiese lui.
London si decise, seppur a malincuore, a chiudere il getto e a uscire dalla doccia, dopo essersi strizzata i capelli zuppi d’acqua.
« Ho finito. Mi passi l’accappatoio? »
Klaus fece un sorriso obliquo. « Devo proprio? » disse, lasciando vagare maliziosamente gli occhi sul corpo snello della moglie, bagnato e tentatore.
L’altra alzò gli occhi al cielo. 
« Se non vuoi farmi morire di freddo, sì. »
« Conosco tanti altri modi per non morire di freddo » ribatté lui, recuperando l’accappatoio azzurrino, tuttavia senza passarglielo.
« Non fare il cretino, Klaus » protestò London, tendendo un braccio per sottrarre l’indumento dalle sue mani, ma Klaus le si avvicinò senza permetterle di strapparglielo; evitando le occhiatacce di lei, glielo poggiò sulle spalle personalmente.
« Così non morirai di freddo » disse, « ma posso guardarti lo stesso. »
London gli mise una mano sul petto, come monito, e gli lanciò uno sguardo a metà tra il serio e il provocatorio. « E’ così importante per te? »
« Cosa? » fece il ragazzo.
« Guardarmi » rispose lei. « Sembra che tu non ne possa fare a meno » aggiunse con una punta di orgoglio e supponenza.
Klaus infilò le mani sotto il suo accappatoio, prendendo ad accarezzarle lascivamente i morbidi fianchi. 
« E’ così » rivelò, posando leggermente le labbra sulla sua fronte.
London alzò d’istinto la testa, pur di baciarlo, ma l’altro si scostò di poco con un sorriso soddisfatto a ornargli il viso. 
« Sembra che anche tu non ne possa fare a meno » commentò, deciso a farglielo ammettere, almeno per una sola volta. Sarebbe stato un traguardo troppo grande persino per lui, quello si smuovere l’orgoglio di London, e infatti la ragazza non gliela diede vinta. Lasciò cadere l’accappatoio a terra senza remore, come se fosse stato un oggetto inutile, guardando insistentemente il marito negli occhi.
« Allora » gli domandò, « quali sono questi famigerati altri modi per combattere il freddo? »
« Potrei anche non dirteli » replicò Klaus, senza perdere quella maliziosa luce negli occhi scuri. « Ma come potrei, invece, abbandonare una dolce fanciulla al freddo e al gelo? »
London gli diede un leggero pugnetto sul braccio. « Ecco perché ti odio » ribatté, prima di tirarlo per la maglietta e baciarlo con lentezza, com’era solita fare quando aveva voglia di giocare con Klaus.
Il moro la spinse contro il muro, stanco delle provocazioni, e continuò a baciarla imperterritamente, come se fosse nato per essere l’unico a poterla sfiorare, toccare, accarezzare. Klaus non era mai stato possessivo, eppure su London rivendicava diversi diritti. Doveva essere sua, anche se non lo era mai stata. Doveva trattarla come si tratta una rosa appena colta e al contempo lasciare che lo pungesse con le sue spine.
London lo trasformava, semplicemente. Lo faceva impazzire.

« Adesso va meglio? » chiese con voce più roca, separandosi dolorosamente per un attimo dalle sue labbra. « O hai ancora freddo? »
La moglie, schiena contro il muro, rise maliziosamente. « Ancora un po’. »
Klaus non esitò a impadronirsi di nuovo della sua bocca famelicamente, tentando invano di sopprimere l’istinto. Era più forte di lui, non ci riusciva.
London, tuttavia, non si lasciava sopraffare con facilità e rispose con altrettanta veemenza. Come al solito, la loro era una guerra a chi ne sarebbe uscito sconfitto: a volte risultavano entrambi vincitori, o entrambi perdenti, ma non c’era mai disparità di risultato. Erano nati per combattersi e vincersi a vicenda, probabilmente.
Klaus si abbassò a baciarle il collo e le clavicole, facendole scendere un brivido lungo la schiena e, quando rialzò il viso, il ragazzo notò con piacere la sua espressione di desiderio crescente. 
« Se vuoi posso anche fermarmi » le disse all’orecchio, sfiorandole un lobo.
« Non dire stronzate » protestò London, mentre si ritrovava sempre più premuta contro la parete dal corpo dell’altro, fino a potersi aggrappare al suo bacino con le gambe. Klaus, tenendola così – in una scomoda quanto eccitante posizione –, la allontanò dal muro e si fece strada verso la camera da letto, ignorando il fatto che avesse ancora i capelli e la pelle bagnata.
Una volta aperta a tentoni la porta della stanza, adagiò la moglie sul materasso e fece per stendersi su di lei, ma London lo bloccò.
« Aspetta » sussurrò, facendolo semplicemente sedere accanto a sé. Il ragazzo non si oppose e, una volta seduto sul bordo del letto, lasciò che lei gli togliesse la maglietta, che finì lontano sul pavimento dove non avrebbe dato fastidio, e che gli accarezzasse le spalle delicatamente. Il tocco di London lo inebriava: sembrava sapere dove provava più piacere senza che lui glielo dicesse. Aveva mani piccole ma affusolate, con i palmi morbidi e caldi.
La ragazza prese a massaggiargli le spalle lentamente, poggiando e strofinando di tanto in tanto le labbra contro la sua pelle rovente – aveva sempre avuto la temperatura corporea un po’ sopra la media, ma forse in quel momento non c’entrava molto con il calore languido che lo stava attraversando –, tanto da fargli desiderare che quelle stesse labbra fossero altrove.

« Sta’ fermo » gli intimò sottovoce.
Klaus faticò ad obbedire, ma dopo qualche istante una punta di disagio si fece strada dentro di sé, abbandonando il desiderio per un attimo. Non era la prima volta, eppure in quel momento il fatto che London stesse fissando la sua schiena lo fece sentire uno schifo. Era inguardabile, del resto, piena di cicatrici orribili e portatrice del suo dolore.

« London » le disse, con un tono di voce più serio. « Smettila. »
La moglie rimase interdetta. « Ti dà fastidio? » domandò, interrompendo il massaggio.
« No… » rispose lui, temendo di essere stato frainteso. « Solo… non guardarmi. »
L’altra alzò un sopracciglio. « Mi spieghi come faccio a non guardarti? »
« Non intendevo quello » ribatté Klaus, voltando di poco il viso verso di lei. « Non voglio che tu veda questo spettacolo raccapricciante, lo sai » continuò, parlando tra i denti e tentando di alzarsi, ma London lo fermò trattenendolo per un braccio. Non disse niente, limitandosi a restare ferma, in ginocchio dietro di lui sul materasso.
« London… » insistette. La ragazza passò le dita su quella che le sembrava la cicatrice più lunga, esaminandola con sguardo attento – l’esatto contrario di quello che avrebbe voluto lui –; era liscia al tatto e andava dalle scapole alla zona lombare, sovrapponendosi ad altre cicatrici.
« Klaus, sta’ zitto » sussurrò London, come se fosse già stanca di quella conversazione. « Parli troppo. »
L’altro stirò le labbra in un’espressione rassegnata. « Lo so che è orribile. »
« Non importa, » disse la ragazza, « lasciati tutto alle spalle e pensa a me, adesso. Soltanto a me. »
Klaus le avrebbe tanto voluto dire che stava pensando soltanto a lei in quel momento, ma London si sporse di poco da sopra una sua spalla, baciandogli la guancia, e poi il collo, facendogli dimenticare ogni cosa che fosse diversa dalla sua bocca.
« D’accordo » replicò, voltandosi e catturando le sue labbra morbide ancora una volta. Si sentiva insaziabile: lo sapeva, non ne avrebbe mai avuto abbastanza di lei.  
 
London, probabilmente, quella notte si era messa in testa di poter giocare a proprio piacimento; non aveva messo in considerazione, tuttavia, il fatto che Klaus fosse della stessa opinione. Nessuno dei due sarebbe riuscito a dire quante volte avessero già fatto l’amore – o era ancora soltanto sesso? –, eppure non si erano fermati, abbandonandosi a quella che qualcuno avrebbe definito lussuria; qualcuno di molto superficiale, però. La sottile differenza quasi non si notava più, avevano passato così tante notti insieme che probabilmente era impossibile ricordare quando il confine tra sesso e amore fosse stato valicato. Sempre se era già successo. Forse ci sarebbero voluti anni, o forse era avvenuto sin dall’inizio.
Klaus, in realtà, era convinto che non sarebbe cambiato poi molto: gli bastava che London fosse lì, in quel momento, accanto a lui. Cosa importava di quello che erano stati o di ciò che sarebbero diventati?
Niente, ecco cosa. Era solo un pensiero sfocato, nella sua mente, e non vi avrebbe dato importanza almeno finché non sarebbe sorto il sole.

« Klaus? » lo chiamò, con la testa appoggiata sul suo petto e le braccia avvolte intorno al suo busto; lui le stava accarezzando distrattamente i capelli, intrecciandoli tra le dita.
« Cosa c’è? »
« Ci pensi mai, al passato? » chiese la ragazza, guardandolo di sottecchi.
Quella domanda calzava a pennello, eppure Klaus ne rimase spiazzato. Sì che ci pensava, sì che si rendeva conto di quanto gli anni passati ad odiarsi fossero stati inutili, sì che l’avrebbe volentieri cancellato.

« A volte » rispose, continuando a giocare con i suoi lunghi capelli bianchi.
London chiuse gli occhi, rilassata. 
« E… se le cose fossero andate diversamente? »
« Diversamente come? »
« Se tu ed io… » cominciò, prima di bloccarsi. Riaprì gli occhi.
« Se tu ed io? » la incitò a continuare lui.
« Hai sentito? » domandò London, corrugando le sopracciglia.
Klaus rimase interdetto. 
« Sentito cosa? » fece, provando ad ascoltare il silenzio delle quattro del mattino. Non gli parve di cogliere nessun suono sospetto.
La ragazza si alzò a sedere e l’altro sembrò dispiacersene, ma lei non vi badò. Si scostò velocemente le coperte dal corpo e indossò una vestaglia, andando ad aprire la porta.
London, sebbene l’avesse messo in considerazione, sobbalzò nel vedere Klaudia sull’uscio della porta a piangere, stringendo il suo peluche a forma di orsacchiotto.

« Amore! » esclamò, precipitandosi su di lei. La prese immediatamente in braccio, stringendola a sé e lasciando che la piccola affondasse il viso nella sua spalla.
Klaus si mise seduto a sua volta, vagamente preoccupato. 
« Cos’è successo? »
« Niente, credo » rispose London, cullando la bambina che ancora piangeva. « Ha paura del buio » spiegò. « Vestiti, avanti, la faccio mettere qui vicino a noi. »
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, e si rimise il pigiama con una vaga aria delusa.
Uno spiacevole inconveniente, si disse, prendendo Klaudia dalle braccia della moglie, che intanto aveva ugualmente preso a rivestirsi. La bambina aveva smesso di piangere dopo poco, e ora lo guardava con gli occhi grigio-verdi spalancati.

« Apa! » disse, giocherellando con i suoi capelli scuri.
Klaus per un attimo restò stupito. 
« Ha detto “papà”? » chiese alla moglie.
London scosse la testa con amarezza. 
« Probabilmente no. Sarà solo uno dei suoi vocaboli immaginari. »
L’altro posò un bacio sulla fronte della piccola, facendola stendere sotto le coperte del letto matrimoniale. « Nella sua testolina bianca ci deve essere un mondo fantastico, pieno di suoni, parole… »
« A volte mi domando in che lingua pensa » lo interruppe lei, stendendosi accanto alla figlia. Klaus la imitò, lasciando che Klaudia lo abbracciasse ridendo. Era stupendo come riuscisse a mettergli il buonumore con una semplice risata cristallina.
London sorrise a quella scena. Nonostante fosse figlia di Ben, Klaudia si era affezionata moltissimo al padre adottivo – o meglio, illegittimo – e non si faceva scrupoli nel dimostrarlo ogni volta che poteva, persino senza le parole.

« Non lo so, London » replicò il ragazzo, sfiorando con le dita una guancia della bambina. « Ma è perfetta anche così. »
 

*


Quando si svegliò doveva essere circa mezzogiorno.
Guardò al suo fianco e, notando che London era ancora lì, al di là di Klaudia, gli scappò un sorrisetto. 
« Quando London Bridge ha mai dormito tanto? » le domandò sarcastico, scuotendola piano per un braccio.
London mugugnò qualcosa, voltandosi dall'altro lato. 
« Lasciami in pace » biascicò con il viso quasi affondato nel cuscino e la voce impastata dalla dormita.
Quanto tempo era rimasto sveglio, quella notte? Klaus ricordava di essersi addormentato all'alba.

« Lo sai che è quasi mezzogiorno? » le chiese.
London controvoglia si voltò verso di lui, gli occhi ancora semichiusi. 
« Dannazione, Klaus. Frequentarti troppo fa male alla salute. »
A Klaus venne da ridere, e scherzò: « Nessuno ti ha mai obbligato a frequentarmi, raggio di sole»
L'altra gli diede un leggero - leggero? – schiaffo sull’avambraccio, ma poi scoppiò a ridere anche lei, e per quale motivo neanche lo sapeva. « Sappi che ti odio ancora. »
« Lo so » rispose Klaus, prendendole una mano. « Me l'hai detto così tante volte che ho perso il conto. »
« E tu? » gli domandò lei di rimando. « Mi odi? »
« Non sai quanto » rispose, guardandola dritto negli occhi e intrecciando le loro dita.
London sorrise.
Era domenica mattina. In realtà, forse, era domenica mattina tutti i giorni.
Klaus pensò che avrebbero dovuto continuare a vivere così la loro vita, senza guardare al passato, senza guardare al futuro. Come in una fotografia. Solo in questo modo si sarebbero fermati a saggiare il presente, almeno per avere il tempo di capire quanto tutto stesse andando finalmente per il verso giusto.
Nulla in quel momento gli avrebbe impedito di ottenere anche un solo, singolo, meritato granello di felicità.

 














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Capitolo 19
*** 018. Eighteenth Chapter – Harder. ***


Note: Queste note saranno veramente molto lunghe.
Sono in un ritardo non colossale, di più. Mi faccio pena: sono pigra, lenta e con poco tempo a disposizione. Dovrei ottimizzare le mie giornate e invece commetto sempre lo stesso errore. Ma non capiterà più, lo giuro. Mi sono stancata anche io di aggiornare con questo andamento clau(s)dicante, quindi mi sono ripromessa di mettermi all'opera e lavorare con più costanza. 
Devo rispondere a diverse recensioni arretrate, lo dico perché mi sembra corretto. Quindi grazie a Alaska_ papavero radioattivo per essere state le ultime a recensire questa storia che continuerò ad aggiornare anche se dovesse essere la più malcagata di tutto EFP. Non mi sono dimenticata di voi, vi ringrazio qui ma lo farò anche presto in risposta.
Considerate che il ritardo è dovuto anche al fatto che questo probabilmente è stato il capitolo più difficile della storia. Mi sono trovata veramente in difficoltà, soprattutto con la questione degli hovercraft che - ve lo anticipo - sarà meglio trattata nel XIX. Ero indecisa su tutto: sul titolo, sui paragrafi, sui dialoghi... se non avessi chiesto aiuto alla mia beta e partnah di fiducia pandamito sarei ancora nel pallone, quindi ci tengo a ringraziarla perché senza il suo supporto questo capitolo non starebbe nemmeno in piedi.
Per quanto riguarda la questione "Europa" consideratela come un'eccessiva licenza poetica. Comincio a dirlo sin da ora, perché l'argomento non si chiuderà con i capitoli a venire, anzi. Come già detto sopra, tuttavia, sarà tutto spiegato a tempo debito, ora non voglio fare anticipazioni. Fatto sta, che per me l'Europa non è andata distrutta e che - dall'altra parte del mondo - convive ancora con Panem sul globo terrestre (necessariamente cambiata, ovvio). E, di conseguenza, Bridge e Wreisht non sono ricchi a caso, visto che nel mio immaginario hanno conoscenze in gran parte del continente orientale.
Come avrete già notato, ultimamente ho apportato un cambio di grafica: la storia così non solo è di gran lunga più ordinata, ma (credo) invogli anche di più alla lettura. Ho inserito i margini, giustificato il testo e revisionato metà dei capitoli. Sono abbastanza contenta, ma ci sto ancora lavorando, quindi non vi spaventate(?) se notate qualcosa di diverso dal solito.
Che altro...? Sì, mi dimentico le cose e lo sapete. E' bello, comunque, come i Klondon passino dal litigare da una cosa all'altra come se niente fosse x'' ma tanto in fondo è la loro natura, mica sono picci pucci rose e fiori, già. Questo è un capitolo un bel po' colorito, per loro.
In un paragrafo noterete citato un certo Roel Flos: lui è un personaggio che appartiene a yingsu, ed è il vincitore dei 73esimi Hunger Games (e la sua storia, che vi consiglio assolutamente, la trovate qui -> I'm frozen to the bones). Quindi ci troviamo in questo periodo, tanto per chiarire.
Ultima cosa ma non per importanza, ci tengo a pubblicizzare l'evoluzione de "Il Forno", un gruppo facebook che si è decisamente ampliato e che è gestito da admin stupende -> A Panda piace fare le bolle di assenzio. Iscrivetevi pure, se siete interessati :3 Si spamma, si chiacchiera e si sclera.

Finalmente ho finito.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene dalla cover "Stronger" dei 30 Seconds to Mars. 

Questo nuovo banner di zecca appartiene a... *rullo di tamburi* me! Ci sono stata anni a farlo e, anche se non mi convince del tutto, sono abbastanza soddisfatta. La verità è che detesto chiedere cose agli altri, e quindi mi ci sono messa d'impegno. Ecco qua. Spero vi piaccia.
















 






 














Blur

(Tied to a Railroad)






018. Eighteenth Chapter – Harder.




« Sono arrivati. » Lo disse con un sospiro un po’ troppo prolungato, appoggiandosi allo stipite della porta. A dire il vero, Klaus non aveva voglia di vedere nessuno di loro. Avrebbe preferito di gran lunga passare la giornata da solo con la moglie. « Portiamo Klaudia dai tuoi » le aveva proposto, ma London era stata irremovibile, Klaudia sarebbe rimasta a casa dal momento che aveva ancora i decimi di febbre.
Nonostante fosse il loro settimo anniversario, infatti – entrambri ancora non si capacitavano di quanto tempo fosse effettivamente passato dal loro matrimonio –, avrebbero trascorso la giornata in gran compagnia.
E che compagnia, stava pensando Klaus da quella mattina. Non ricordava bene se fosse stata London a invitare sia Wreisht che Bridge, o se fossero stati loro ad autoinvitarsi. Non aveva voglia di chiederselo, comunque, considerando che erano già arrivati e stavano giusto bussando al campanello.

« Va’ ad aprire, allora » lo incitò London, pettinandosi i capelli davanti allo specchio con una spazzola. « Mio padre detesta aspettare, lo sai. »
« Anche il mio » mugugnò Klaus, prima di scendere le scale e andare ad aprire.
La prima persona che si ritrovò davanti fu Erzsébet Bridge, che gli sorrise serena porgendogli un vassoietto di pasticcini abilmente incartato. Klaus lo prese senza badarvi troppo: che li avesse fatti lei o li avesse comprati, non avrebbe toccato dolci.
Sua madre e Alfons entrarono subito dopo la suocera e, dopo di Benjamin, Frantz fu l’ultimo. Klaus ebbe l’impulso di chiudergli la porta in faccia, ma si trattenne e lo fece entrare, provando ad ignorare la sua presenza. Anche quando scambiò qualche parola di cortesia con i Bridge sentiva il suo sguardo puntato addosso e, per quanto detestasse ammetterlo, la cosa lo metteva terribilmente a disagio.
Non era un caso che dopo essere stato frustrato lui e suo padre si fossero visti soltanto il minimo indispensabile durante quei cinque lunghi anni. A dire il vero, non gli aveva quasi più parlato, perché la rabbia gli impediva sopra ogni altra cosa di ragionare. Ogni volta che pensava a lui, ogni volta che si ricordava di quel suo ventunesimo compleanno passato nel peggiore dei modi, cominciavano a prudergli le mani e un sentimento d’odio si faceva strada dentro il suo petto.
Pensava a Klaudia, a come si sarebbe sentito se lui in persona le avesse torto anche un solo capello: male, ecco come; si sarebbe sentito la persona più orribile sulla faccia della terra. E non riusciva a capire come Frantz fosse sopravvissuto ai sensi di colpa per aver fatto del male al proprio figlio. Sempre se ne avesse avuti, di sensi di colpa. Conoscendolo, forse quella punizione gli era sembrata persino troppo blanda.
A volte si fermava a pensare a qualla vicenda come un personaggio esterno e più ci rifletteva, più si convinceva di essere dalla parte della ragione.
Con quale dignità, poi, si presentava in casa sua? Sembrava tranquillo, freddo come il marmo come sempre, con i capelli neri ordinatamente pettinati all’indietro e i corti baffi a contornargli il labbro superiore. Si aggirava tranquillo per l’atrio, parlando di tanto in tanto con Alfons e osservando l’ambiente con circospezione.
Klaus tentò di fare finta che non ci fosse, ma non era molto facile dal momento che si ritrovava davanti la sua figura austera ogni volta che si girava.
Strinse i pugni, arrivando a conficcarsi le unghie nei palmi delle mani. Sarebbe stata una giornata peggiore di quello che sperava, lo sapeva bene.  

« London e Klaudia sono di sopra » disse alla suocera, che era impaziente di vedere la nipotina.
« Si stanno facendo belle? » domandò Ben ironicamente, affiancandoglisi.
Klaus storse le labbra. 
« Klaudia non ne ha bisogno. »
« Anche London » ribatté l’albino. « O vorresti dire il contrario? » 
L’altro sorrise debolmente, scuotendo la testa. E meno male che sperava di avere un alleato.
Di bene in meglio, pensò allora, prima di volgere lo sguardo verso le scale, dove una Klaudia raggiante scendeva correndo incontro agli ospiti, seguita dalla madre.
La bambina in men che non si dica si fiondò tra le braccia di Ben, che la alzò dal pavimento come se fosse una piuma, sorridendo felicemente.

« Ciao, piccolina » le disse, accarezzandole affettuosamente i capelli bianchi come i propri. « Come va? »
Klaudia rispose con delle parole insensate, ma Ben continuò a sorridere esattamente come se stesse davvero capendo i suoi discorsi. Le baciò una guancia e Klaus, per qualche assurdo motivo, rimase paralizzato a fissare quella scena con lo stomaco chiuso in una morsa. La piccola si aggrappò al collo di quello che tutti credevano essere suo zio, ridendo per chissà quale ragione, e questo non poté che farlo sentire decisamente inappropriato, più a disagio di quanto già non fosse.
Spesso ricordava a se stesso che Klaudia non era veramente sua figlia, che non poteva permettersi di considerarla di sua proprietà, né poteva costringerla a non vedere Ben.
Perché avrebbe dovuto, poi? Era lui il suo vero padre. E si vedeva.
Forse qualcun altro non l’avrebbe notato, ma Klaus nel corso della sua vita aveva imparato a conoscere tutti i piccoli dettagli che caratterizzavano i due gemelli e che li distinguevano l’uno dall’altra, al di là del carattere. Si era accorto molte volte di quanto il viso di London fosse decisamente più aristocratico di quello del fratello; Ben, infatti, pur mantenendo i tratti ben definiti della sorella, aveva un volto più morbido e dolce, che a prima vista ispirava subito simpatia e gentilezza: le guance un po’ più piene di quelle di London, il naso più dritto e non all’insù come quello di lei, gli occhi lievemente più scuri, la pelle un po’ più chiara.
Più spostava lo sguardo da lui a Klaudia, più la somiglianza gli appariva palese. La bambina era la sua copia in miniatura, con le stesse identiche sfaccettature.
Sebbene avesse ancora soltanto tre anni, in cuor suo Klaus sapeva che con il passare degli anni sarebbe stata sempre più simile a Ben che a London, come a voler rimarcare i suoi errori ogni giorno della sua vita, a dimostrargli che non era degno persino di fingersi suo padre.
Scambiò una fugace occhiata con la ragazza, che, si accorse, lo stava a sua volta guardando di sottecchi. Forse stavano pensando la stessa cosa, forse anche lei si era resa conto di quanto Klaudia fosse figlia del gemello a tutti gli effetti.
Tuttavia, anche se qualcuno avesse tentato di tirar fuori la minima parte di Wreisht che sarebbe dovuta esserci in lei, era facile giustificarne l’assenza, dal momento che i suoi veri genitori erano gemelli e potevano far passare l’eccessiva somiglianza con i Bridge per una questione di geni.
Klaudia, inoltre, si trovava decisamente bene con Benjamin, Klaus lo vedeva in ogni sua più piccola azione. Poteva dire la stessa cosa di lui, che la abbracciava e teneva stretta a sé ogni volta che poteva. Gli faceva uno stranissimo effetto, e proprio non riusciva a immaginare che effetto, invece, potesse fare ai due fratelli.
London non lo dava a vedere, ma Klaus era certo che anche lei si sentisse leggermente in colpa a quella scena. Aveva privato Ben – quella che riteneva la persona più vicina a lei al mondo – di sua figlia, del resto.
Ma lui proprio non riusciva a comprenderlo: sembrava affrontare tutto serenamente, felice che loro fossero felici. Non sapeva se quella fosse la verità o se fosse soltanto una maschera per non mostrare la parte di lui che, Klaus lo sapeva, si stava inevitabilmente incrinando al passare del tempo; eppure cercava di non pensarci. Si era ripromesso – anzi, si erano ripromessi – che sarebbe andato tutto bene, che avrebbero dovuto dimenticare quel passato turbolento che aveva capovolto le loro vite. Sembrava difficile, certo. Era difficile. Bisognava soltanto essere forti. Essere forti e andare avanti.

« Ha ancora un po’ di febbre, Ben, potrebbe contagiarti » commentò London in quel momento, sorridendo e incrociando le braccia al petto.
« Lo sai che ho una salute di ferro » scherzò il gemello, prima di baciarle dolcemente una guancia. « Voi come state? »
« Bene, tutto sommato » rispose lei.
Ben si voltò verso Klaus.

« Sì, bene » assentì il diretto interessato, evitando tuttavia il suo sguardo.
Klaudia mormorò qualche altra parola. 
« Apa, apa! » ripeteva ogni tanto, aggiungendo altri numerosi versi apparentemente insensati.
« Papà, dici? » chiese Ben alla piccola, indicando Klaus con un cenno del capo. « Vuoi andare in braccio a lui? »
« Veramente- » provò a obiettare l’altro, ma l’albino gliela mise praticamente tra le braccia, guardandolo con quanta più naturalezza gli era possibile. Accennò anche ad un sorriso, che Klaus non ricambiò. Era proprio quel genere di situazioni che lo mettevano in imbarazzo, se si contava che Ben gli stava praticamente passando la figlia con una spontaneità di cui lui non sarebbe mai stato capace.
Strinse la bambina a sé e per qualche secondo continuò ad ascoltare le chiacchiere dei due gemelli con la madre come un completo estraneo. Perché in fondo era questo quello che era davvero; lui, tra i Bridge, ci era capitato per caso.

 
*


La giornata trascorse per molti versi davvero lentamente. Il pranzo sembrava non finire mai e ogni rintocco dell’orologio a pendolo era come un doloroso traguardo.
A London faceva piacere stare in compagnia della sua famiglia, ma doveva ammettere che la presenza di Frantz Wreisht la disturbava non poco. La cosa che più le faceva salire il nervoso era il fatto che lui si comportava come se niente fosse. Certo, manteneva sempre quell’atteggiamento serioso e formale, ma non sembrava toccato neanche un po’ dalle occhiate cariche d’astio del figlio o dalle fredde parole dei coniugi Bridge.
London sentiva di odiarlo come mai aveva odiato nessun altro. A momenti sperava ardentemente che una malattia lo cogliesse prima del tempo per portarlo a miglior vita e non si pentiva affatto di quei pensieri. Se Frantz fosse morto, a dire il vero, sarebbe stato meglio per tutti.
Tuttavia, non era un caso che fosse uno degli uomini più abbienti del Distretto: deteneva il controllo di un bel po’ di Pacificatori – corrotti probabilmente con il denaro, che sicuramente ai Wreisht non mancava – e nel suo piccolo cosmo poteva esercitare tutto quel potere come desiderava.

« Come sta andando il commercio della frutta in Europa? » stava domandando ad Alfons in quel momento. « Ancora problemi di spedizione? »
Il signor Bridge poggiò i gomiti sul tavolo e, intrecciate le dita, si portò le mani sotto il mento, osservando Frantz con cipiglio guardingo. « Capitol City mi ha promesso che risolverà il problema dei trasporti. Molti hovercraft impiegano giorni interi per andare e tornare; o sono in riparazione, o ce ne sono troppo pochi. Il bello è che quest’andamento titubante non conviene neanche a loro, dal momento che i prodotti alla fine sono destinati ai capitolini... dovrebbero provvedere al più presto. Tra un paio di giorni ci sarà un controllo generale degli hovercraft che partono dal Distretto Sei e tutti i voli saranno annullati per poi riprendere alle prime luci dell’alba. »
« Capitol City è in rovina » ribatté l’altro uomo decisamente, accavallando una gamba. « Spende una quantità indicibile di denaro per organizzare gli Hunger Games e alla fine si ritrova sempre in debito o con pochi soldi. Dovrebbero tassare i vincitori… ad esempio questo plurinominato Roel Flos ha guadagnato in poche settimane più di quanto avrebbe potuto immaginare in tutta la sua vita. »
Alfons non diede cenni d’assenso. « Da sempre Panem funziona così. Il Presidente fa solo ciò che rientra nei suoi interessi e tenere a bada le masse è uno di questi. Gli Hunger Games non saranno mai cancellati, o almeno non con Snow ancora al potere. »
London s’intromise prontamente nel discorso, folgorata da un pensiero improvviso. « Quindi Klaudia potrebbe essere estratta quando avrà compiuto dodici anni? »
Il padre si voltò verso di lei, riservandole uno sguardo apprensivo. « Temo di sì, tesoro. »
London spalancò gli occhi. A dire il vero non ci aveva mai pensato prima. « Papà… ma lei è… »
« Sorda » concluse Klaus, rientrando nella sala da pranzo con una nuova bottiglia di vino recuperata dallo scantinato. « Dovrebbe essere esonerata dalle mietiture. »
Alfons rimase a riflettere qualche secondo. « In effetti si potrebbe parlare con il sindaco. »
« Il sindaco non ha più potere di noi » replicò invece Frantz, fissando il figlio insistentemente, tanto che lui si sentì costretto a volgere lo sguardo altrove. « Anche quando Klaus fu estratto tentammo di parlare con lui, ma fu irremovibile sull’argomento; il sindacato nei Distretti non ha alcuna facoltà. »
« Ma Klaus non è sordo » precisò Alfons, alzando un sopracciglio, « è ovvio che non potesse essere esonerato per alcuna ragione. »
Lo sguardo di Frantz si fece più duro. « Di ragioni ce ne sarebbero eccome, ma forse il destino ha deciso a suo tempo che Klaus doveva essere punito. »
London vide chiaramente la reazione del marito: si alzò in piedi di scatto, di sicuro offeso nel profondo, con i pugni stretti talmente forte da sbiancargli le nocche. Sapeva che adesso la giornata sarebbe degenerata; era sicura che Klaus avrebbe risposto altrettanto crudelmente a suo padre, ma invece voltò i tacchi e se ne andò.
Alfons sembrò confuso da quella scena, Frantz fin troppo soddisfatto. London era certa che anche lei non avrebbe retto oltre, per cui seguì il ragazzo senza aggiungere nulla, biascicando tra i denti insulti poco piacevoli in direzione di quell’uomo che sembrava voler costantemente complicare la loro vita.


« Klaus » lo chiamò, ma lui sembrò non sentirla neanche.
Il ragazzo stava girando nervosamente per la stanza, con lo sguardo ardente di rabbia e il respiro veloce. 
« Ha detto che meritavo di essere punito! » disse, digrignando i denti per non urlare. « Quel maledetto- »
« Klaus » ripeté London, alzando il tono di voce. Gli poggiò una mano sull’avambraccio, ma lui si scostò bruscamente.
« Che vuoi? » sibilò.
London ritrasse la mano, offesa. 
« Devi calmarti. Tra un po’ vanno via. »
« Mi spieghi come faccio a calmarmi? Sei stata tu a invitarli, li hai chiamati senza nemmeno consultarmi… Che c’è, ti diverti a vedermi perdere le staffe a causa di quel figlio di puttana di mio padre? L’anniversario è di entrambi e anche io dovrei avere una certa facoltà decisionale! » cominciò a raffica, guardandola dritto negli occhi. A London, Klaus in quei momenti metteva sempre un po’ di soggezione, ma ormai vi era abituata e sapeva come ribattere, anche se restava a fissarla con quello sguardo di brace come se la volesse mettere a nudo.
« Non darmi la colpa di ogni cosa! » protestò. « Ho soltanto fatto quella che mi sembrava la cosa più giusta da fare. »
« Mi dispiace deluderti, ma è la cosa peggiore che ti potesse venire in mente » replicò lui. « Santo cielo, ma una sana scopata non ti bastava per festeggiare»
La ragazza fece un’espressione indignata. « Vedo che come sempre mantieni la tua risaputa delicatezza » commentò con una smorfia, incrociando le braccia.
« Sì, d’accordo? » fece Klaus, fronteggiandola. « E vuoi sapere una cosa? Non me ne fotte un cazzo della delicatezza, non me ne faccio niente delle belle parole perché qui fa tutto schifo e io mi comporto di conseguenza. »
« Fa tutto schifo, dici? » ripeté London, ormai fin troppo stizzita. « Ti stai creando dei problemi da solo, per una volta nella tua vita non hai di che preoccuparti e ti lamenti lo stesso soltanto perché non sai sopportare per due minuti le insinuazioni di tuo padre… Che ti costa mantenere per un po’ la facciata? Te l’ho detto, tra poco se ne tornano a casa e sarai libero di fare quello che ti pare! »
Klaus strinse i pugni, cominciando ad alzare il tono di voce. « Ma io neanche li volevo in casa nostra! Hai fatto tutto da sola, quando io invece avrei preferito passare la giornata da solo con te... »
« No » lo contraddisse lei, « tu avresti voluto passare la giornata a fare sesso, è diverso. »
Il marito inarcò le sopracciglia. « Scusa tanto se siamo sposati da sette anni e fare sesso è l’unica cosa che ci riesce meglio delle altre. »
London incassò il colpo a denti stretti. « Ah, è così che la metti? Per te conta solo questo? »
« Non sto dicend- » provò a chiarire Klaus, prima che la ragazza lo bloccasse.
« Non cambi mai! Hai la sensibilità di un maiale! »
« Chi se ne frega » sbottò lui, « sono libero di dire quello che mi pare, che a te piaccia o meno. »
« Ah, benissimo » esclamò London. « Allora da oggi le sane scopate te le scordi! »
L’altro sembrò più offeso del dovuto. « Che cazzo c’entra ora? »
« C’entra eccome » ribatté la moglie, soddisfatta, « dal momento che per te conta soltanto sfogare le tue pulsioni su di me come se fossi il tuo giocattolo. »
Klaus fece una breve risata aspra. « Ma che diamine dici, che tu stai sempre al gioco e urli come una verginella tutte le volte che lo facciamo? »
London assottigliò lo sguardo e rispose: « Te lo sarai sognato, idiota. Sei sempre stato fin troppo megalomane quando invece di “mega” non hai assolutamente nulla. »
Il sorriso – seppure falso – sulle labbra di lui morì all’istante. « Sei una fottutissima bugiarda. Dillo un’altra volta, avanti! »
« Lo dico quante volte mi pare » fece, alzando il mento in un muto segno di sfida.
« London, ma vaffanculo! » disse Klaus, andando in escandescenze e dandole una lieve spinta alle spalle.
« Non toccarmi! » strillò lei, ormai su tutte le furie.
« Perché ti comporti come se mi odiassi ancora? » chiese arrabbiato il marito. « Mi fai incazzare! »
« Che cosa vuoi dire? » domandò London, incapacitata. « Che non dovrei odiarti più? Non è cambiato niente, Klaus, mettitelo bene in testa, sono solo successe tantissime cose… ma io non sono cambiata, e nemmeno tu… »
« Lo vedi quanto fai schifo a mentire? Se è ancora come dici, allora torna a scopare con tuo fratello! »
London stentava a credere alle sue orecchie e sapeva che quel litigio inutile non avrebbe portato da nessuna parte, ma non poteva non rispondere a quelle provocazioni. « Non ti permettere di nominare Ben, lui non c’entra! »
« Sì che c’entra » contestò il ragazzo. « La verità è che non sai mentire, che non sai ammettere che adesso- »
« Che adesso cosa, che dovrei essere innamorata di te? » proruppe, nel tono tuttavia una nota di tentennamento abbondantemente nascosta dal sarcasmo.
Klaus la guardò con meno rabbia e il suo volto improvvisamente si fece più teso e serio. 
« Sì. »
Lo sguardo di London, invece, vacillò. « Non è vero. »
« Ridillo » sibilò lui. « Ridillo, forza, e io ti dirò che sei una puttana, che ti piace passare da me a Ben a tuo piacimento, che non sai deciderti perché sei la persona peggiore del mondo… Se vuoi torniamo ai vecchi tempi senza remore, possiamo scordarci di Klaudia e di tutto quello che abbiamo passato solo perché non sai arrenderti, per una volta… che ti costa, London? » Le afferrò le spalle, ma a differenza di qualche momento prima non c’era durezza in quel gesto, soltanto frustrazione. « Sono solo parole… solo parole»
London non avrebbe retto altro di quel discorso. Gli occhi le divennero lucidi prima che potesse veramente accorgersene, prima che potesse anche solo far prevalere la ragione sulla rabbia. « Sei un bastardo, Klaus » rispose, trattenendo a stento un singhiozzo, rimanendo immobile nella sua stretta decisa.
Klaus non voleva essere rude, non voleva farla piangere. Stava degenerando tutto. 
« Sarò anche un bastardo » le concesse, ammorbidendo la presa sulle sue spalle, « ma io lo faccio, vado contro il mio maledetto orgoglio per te, lo ammetto… lo ammetto che qualcosa è cambiato, e se solo me ne dessi l’occasione sarei anche capace di ammettere che io- »
London non seppe mai cosa sarebbe stato capace di ammettere Klaus, perché dalla porta comparve suo fratello, che teneva stretta la manina di Klaudia. « Che sta succedendo? »
Klaus lasciò le spalle della moglie, guardando verso il gemello. Avevano gridato. Non se n’era nemmeno reso conto.
In quel momento ringraziò che la bambina non potesse sentire, o sarebbe rimasta scossa da quante cose si fossero urlati poco prima. Eppure detestava l’idea che invece Benjamin avesse colto gran parte della discussione.

« Niente » ripose laconicamente.
« Stavate gridando » precisò il ragazzo.
Klaus corrugò la fronte. 
« Non ti interessa. »
London lanciò un’occhiataccia al marito e si avvicinò al gemello. « Lascia stare, Ben, va tutto bene. » In realtà sapeva nel profondo del suo cuore perché Ben fosse entrato proprio nel momento in cui Klaus stava per confessare l’inconfessabile – le stava per dire ti amo, glielo stava per dire per la prima e forse unica volta nella sua vita, dannazione – ma in quel momento cercò di non pensarci. Forse era stato meglio così, che il fratello avesse interrotto quella sottospecie di litigio, forse London non lo voleva nemmeno ascoltare. Non avrebbe saputo cosa rispondere, del resto. O quasi.
« Ci… ci stavamo preoccupando » mormorò Ben. « Shyvonne credeva chissà cosa stesse succedendo... »
« Non preoccuparti » cominciò London, ma Klaus la bloccò velocemente.
« Cosa sta succedendo, dici? » fece il moro, roteando sarcasticamente gli occhi. « Stavamo soltanto riflettendo su quanto la nostra vita matrimoniale faccia schifo. »
L’altro non seppe cosa replicare, interdetto.
« Klaus… » provò a fermarlo la moglie.
« Ecco » aggiunse quello, indicando Ben con un gesto eloquente della mano, « visto che ci tieni tanto a fare la bugiarda tornatene da lui. »
London gli riservò un’occhiata carica di risentimento. « Ma che cosa ti prende oggi? »
« Mi prende che mi sono rotto il cazzo » rispose, « delle tue bugie e di tutto questo. »
Benjamin rimase in silenzio, continuando a stringere la mano di Klaudia che spostava lo sguardo dall’ uno all’altro, spaesata.
« E che cosa vuoi che faccia? » domandò la ragazza, stufa di quella discussione.
« Quello che ti pare, ma non continuare a prendermi in giro. »
Ci fu un istante di pesante silenzio, così greve che si poteva toccare con le dita.
« Puoi andartene, se vuoi » continuò Klaus, rabbuiandosi, « e portare con te tua figlia. Alla fine io non sono neanche il suo vero padre, no? »
London avrebbe voluto ribattere, davvero, ma notò qualcosa – o meglio, qualcuno – sull’uscio della porta che li stava fissando con un’espressione impietrita.
Klaus e Ben, seguendo lo sguardo improvvisamente inorridito di lei, si voltarono nella sua stessa direzione. Non sapevano se Shyvonne Wreisht fosse passata per caso oppure no, eppure aveva udito chiaramente l’ultima parte di quella discussione che non sarebbe neanche dovuta nascere.

 
*


« Cosa stai facendo? » domandò Klaus, confuso.
Era notte fonda e dalla finestra della camera da letto a stento trapelava la luce della luna, che sembrava essersi ritirata a posta dietro le nuvole per permettere al buio di soffocare ogni cosa.
London aveva appoggiato un borsone sul letto e vi stava infilando tutto quel che poteva: abiti, asciugamani, cianfrusaglie. La stanza era sottosopra.

« Hai parlato con tua madre, no? » chiese di rimando lei, seccata. « Le hai detto di non dire niente a nessuno per nulla al mondo? »
« Sì » assentì il ragazzo, ma London sembrava non ascoltarlo neanche.
« Klaudia è in pericolo. » Era almeno la quarta volta che ripeteva quella frase e ogni volta sembrava convincersi sempre di più della sua veridicità. « Dobbiamo andarcene. »
Klaus se ne stava con le braccia lungo i fianchi e la fissava con sguardo interdetto. « Ma se ti ho appena detto che ho parlato con mia madre… »
« Non mi fido di tua madre! » sbottò London, incenerendolo con un’occhiata. « E non dovrei nemmeno più fidarmi di te, dal momento che hai combinato un casino. »
Il marito non seppe cosa rispondere. Optò per il silenzio, che sembrava essere l’alternativa migliore. D’altronde London aveva ragione.
« Passami quelle magliette » gli intimò lei.
« E dove vorresti andare? Panem non è così grande » fece Klaus, prendendo quegli abiti con un sospiro di frustrazione. « Ci troveranno ovunque andremo, non possiamo scappare così. »
London infilò le magliette nel borsone. « Io non ho mai parlato di Panem. »
L’altro rimase a pesare il valore di quelle parole per qualche secondo. « Stai pensando all’Europa?! » esclamò, esterrefatto. « London, è impossibile, chiaro? Da Panem non si fugge. »
« Lo so benissimo! » gridò la ragazza, adirata. « Per una volta lascia fare a me, so perfettamente come muovermi. »
« Ci uccideranno! » disse Klaus con enfasi, prendendole un braccio per farla voltare verso di lui. « Me, te, Klaudia, Ben. Non puoi dire sul serio. »
London gli diede una spinta. « Stammi a sentire: ho parlato con mio padre, oggi. Domani ci sarà un controllo degli hovercraft e tutti i voli saranno annullati fino alle prime luci dell’alba. E’ la nostra occasione: ci infiliamo in uno degli hovercraft intercontinentali e ce ne andiamo, a costo di corrompere tutti i piloti dell’hangar. »
Klaus faticava a credere a quelle parole. « Non ce la faremo mai. Poi sai che non potremmo più tornare indietro? E cosa ci aspetterà dall’altra parte? Non possiamo buttarci così senza sapere nulla! »
« Mio padre dice che l’Europa è in via di ripresa » cominciò London, tornando a concentrarsi sul borsone, che era già stracolmo, « e sta messa molto meglio di Panem, soltanto che Capitol City non ne parla mai per ostentare la sua apparente supremazia sul mondo intero. E’ tutta una grossa bugia: Panem e l’Europa sono alleate adesso, certo, ma sono sempre state rivali, sin dagli inizi della Terza Grande Guerra. » Fece una breve pausa, provando a chiudere la cerniera. « Ci faranno restare, vedrai. Al massimo ci chiederanno delle informazioni su Capitol, ma ci faranno restare. »
« London, ragiona: sappiamo quello che stiamo lasciando, ma non quel che troveremo. »
« Non mi interessa! » disse lei. « Panem fa schifo; siamo sotto dittatura, lo capisci? Un giorno Klaudia sarà costretta a partecipare alle mietiture, senza contare che se davvero qualcuno scoprisse la sua vera identità sarebbe… uccisa. Dai Pacificatori, da tuo padre, dai Pacificatori di tuo padre… non lo so. Dobbiamo andarcene, e se tu non vuoi venire non importa, ce ne andremo da sole. »
Klaus emise uno sbuffo esasperato e stavolta la fece girare mettendole le mani tra spalla e collo. « London, guardami » la incitò, e la ragazza alzò lo sguardo su di lui solo dopo qualche istante. « Vuoi davvero rischiare così tanto? Andrà… andrà bene lo stesso. »
« No, Klaus » mormorò London. « Non andrà bene, e lo sai. E’ la nostra unica speranza di ricominciare da capo, di vivere una vita migliore, di dare a Klaudia un vero futuro... ti prego… »
Klaus le accarezzò il mento con una mano, corrugando la fronte. « E’ una follia. »
La moglie si strinse a lui di slancio, nascondendo il viso nel suo petto. Non voleva più litigare, non voleva più vivere così. « Lo so. »
 
 










 

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Capitolo 20
*** 019. Nineteenth Chapter – Bury me in all my favorite colors. ***


Note: Non sarò molto prolissa perché è tardi e domani ho una specie di interrogazione di storia, senza contare che devo ancora ripetere (per non dire studiare). In ritardo, come al solito, ma ci tenevo a pubblicare prima di partire per Praga (lunedì *^*) per una settimana. Quindi, badum tss, eccomi qua a rompervi le scatole come sempre.
Capitolo più breve rispetto al precedente, ma, credo, molto più intenso. Ho sperimentato per la prima, vera volta il PoV di Ben e di Ludmille Schnee, perché volevo distaccarmi un po' da ciò che sta accadendo a Klaus e London (questione degli hovercraft rimandata al prossimo capitolo). Perciò, benvenuti nel vero mondo di Benjamin Bridge.

Alcuni personaggi che compaiono qui, Mary e Lloyd Mars e Reg Addams, sono proprietà di AriiiC_, che aspettava questo capitolo tipo dall'era dei dinosauri. Ok. Spero di averli trattati bene.
Ho usato uno stile abbastanza diverso per cercare di entrare nella storia a tutti gli effetti e mi ci sono impegnata davvero molto. Mi dispiace soltanto che il "seguito" sia di gran lunga diminuito, proprio ora sul più bello ;u; Esatto, perché questo 19 determina la fine della seconda parte di Blur. La terza sarà... tutta un programma. Spero che i lettori non spariscano proprio ora che le cose si faranno assai più interessanti, per cui, se mi lasciate un segno del vostro passaggio mi fa sempre piacere, da morire.
Ora vado e mi dedico alla Guerra dei Trent'anni, sì.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Cancer" dei My Chemical Romance. Assolutamente interpretabile. 

Questo nuovo banner di zecca appartiene a... *rullo di tamburi* me! Ci sono stata anni a farlo e, anche se non mi convince del tutto, sono abbastanza soddisfatta. La verità è che detesto chiedere cose agli altri, e quindi mi ci sono messa d'impegno. Ecco qua. Spero vi piaccia.
















 


 


















Blur

(Tied to a Railroad)






019. Nineteenth Chapter – Bury me in all my favorite colors.




La pavimentazione dell’hangar era impolverata ed emanava un pungente odore di benzina. Klaus si guardò intorno; non vedeva altro che hovercraft, elicotteri, operai in movimento, motori… Era quello il paradiso del Distretto Sei. Lui non aveva mai lavorato in vita sua – quella del mentore, infatti, non poteva di certo considerarsi una vera professione – e in quel momento tutto quell’affaccendarsi gli stava confondendo il cervello. Qualcuno l’aveva visto entrare, certo, ma nascondersi o cercare di passare inosservato sarebbe stato ancora più rischioso.
Sapeva già con chi parlare, sapeva già cosa dire e cosa fare, ma per non destare troppi sospetti dal momento che era presente anche un discreto numero di Pacificatori intrattenne delle brevi conversazioni con diverse persone, nominado Capitol City ogni tanto nel caso ci fosse stato qualcuno ad origliare.
Ci fu un uomo, tuttavia, con cui scambiò delle informazioni essenziali. Era alto, anche se un po’ meno di lui, aveva i capelli neri, la pelle e la tuta sporche di olio per motori.

« Reg Addams? » gli domandò Klaus, avvicinandosi cercando di non risultare troppo circospetto.
Questi alzò lo sguardo su di lui e si pulì le mani sul pantalone della tuta. 
« In persona » rispose, alzando un sopracciglio. Quando riconobbe l’identità dell’altro, comunque, mutò la sua espressione perplessa, lanciandogli un’occhiata d’intesa. « Ho risolto quella questione, non hai assolutamente nulla di cui preoccuparti » disse a Klaus. « Domani mattina alle sei in punto, aspettatemi nell’area tre. »
« La busta con i soldi ti è arrivata? » chiese lui.
« Perfettamente integra. »
Non ci furono bisogno di altre parole.
Klaus voltò i tacchi e dopo pochi minuti abbandonò l’hangar.

La pavimentazione dell’hangar era impolverata ed emanava un pungente odore di benzina. Ancora. Klaus credette che ci fosse addirittura più gente del giorno prima, intenta in ogni genere di lavoro. Buttò un’occhiata in giro, stringendo convulsamente i manici del borsone, dopodiché fece segno a London di avvicinarsi.

« Dov’è Reg? » chiese lei, inquieta, stringendo una Klaudia ancora mezzo addormentata tra le braccia.
« Ha detto di aspettarlo qui » rispose laconicamente, cercando nuovamente il viso dell’uomo in giro.
« Klaus… credo che qualcuno ci abbia visto » mormorò la moglie, accarezzando i capelli della bambina, come per tranquillizzarla, quando invece l’unica da tranquillizzare sarebbe dovuta essere lei.
« Per forza ci hanno visto » ribatté Klaus nervosamente, squadrando con ansia quella parte meno affollata dell’enorme hangar, detta “area tre” perché delimitata da un grosso tre bianco sul pavimento. « Almeno non sapranno quale hovercraf prenderemo. Mi ha detto Reg che non ho nulla di cui preoccuparmi… ma adesso dove diavolo è, porca di quella-? »
L’imprecazione si perse nel vuoto quando il pilota comparve improvvisamente davanti a loro. « Svelti » sussurrò soltanto, esattamente nel momento in cui il suono acuto e prolungato di una sirena si propagò all’interno dell’hangar, facendo bloccare i vari operai per poi indurli ad andarsene o a salire sugli hovercraft a seconda della loro mansione. Come previsto, nessuno badò minimamente a loro. Neanche i Pacificatori, quasi tutti esausti per il turno di notte e intenti a darsi il cambio, avevano fatto particolarmente caso a loro, ben appostati in un angolino dimenticato.
Klaus sentì una scarica di adrenalina attraversagli il corpo e insieme a London percorse a passi veloci la distanza che li separava dall’hovercraf più vicino, quello guidato da Reg.
Era una vettura di modeste dimensioni rispetto a tutte quelle che Klaus aveva visto a Capitol City, forse destinata unicamente allo scambio delle merci.

« Forza » li incitò il maggiore con un rapido gesto della mano, constatando che l’ultimo Pacificatore in vista aveva appena fatto dietrofront.
London e Klaudia salirono per prime attraversando la stretta porta di metallo e Klaus dietro di loro. Non si voltarono indietro nemmeno per un istante, pensando a nascondersi nello scomparto più buio e isolato del veivolo, come se qualcuno li potesse vedere anche attraverso le spesse pareti. L’interno era pieno di casse, scatoloni sigillati, pacchi dall’aria anonima e ricoperti di plastica; i tre si appostarono a terra tra le merci, gettando il borsone in un angolo e poggiando la schiena contro il metallo.
London respirava velocemente, stringendo Klaudia tanto forte da farla svegliare. La bambina, confusa, vedendo lo sguardo preoccupato della madre e sentendo vibrare tutto cominciò a spaventarsi e a piangere, per cui fu Klaus a prenderla tra le braccia e a provare a consolarla.
Dopo pochi istanti Reg azionò definitivamente il motore. Non poterono vederlo, ma sapevano che l’hovercraft si stava alzando in volo e che presto grazie al tetto apribile dell’hangar sarebbe stato alto nel cielo, a far compagnia alle nuvole.
London non aveva mai volato e quasi sembrò rimanere terrorizzata dall’incredibile frastuono che il motore produceva. Inoltre, l’assenza di finestrini le stava causando un attacco di claustrofobia.
Stavano scappando, come dei codardi. Avevano scelto la via più difficile.

« Non l’ho neanche salutato… » sussurrò la ragazza con tono spezzato, attirandosi le ginocchia al petto, gli occhi spalancati nella penombra dello scomparto.
« Sta’ tranquilla, Ben starà bene » provò a mormorare Klaus, ma la sua stessa voce gli morì in gola. Ormai il dado era tratto e indietro non si poteva tornare. Sapeva che l’idea di separarsi da Ben per sempre la stava dilaniando, ma doveva farsi forza. Per Klaudia, per se stessa, per lui. Lasciare Panem implicava lasciarsi tutto alle spalle: famiglia, passato, problemi, ricordi… tutto doveva essere cancellato.
La maggior parte dei veivoli si librò nel cielo mattutino come uno sciame di mosche. Ognuno volò in una direzione diversa e quello guidato da Reg Addams partì alla volta della fuga più rischiosa di sempre, verso l’ignoto, verso un nuovo mondo.
Klaus si rese conto solo in quell’istante di non aver nemmeno detto addio a tutto quello che aveva conosciuto fino ad allora.  
 

*


Benjamin non si era sentito mai tanto teso prima di quella cena. Lo capì perché le mani sembravano tremargli leggermente troppo e il cibo non ne voleva sapere di andare giù, restandogli ancorato in gola o alla bocca dello stomaco. Aveva voglia di rimettere tutto, di vomitare anche se stesso. Si asciugò i palmi intrisi di sudore sulla stoffa dei pantaloni e quando sua madre servì l’ennesima portata le sussurrò piano che non si sentiva affatto bene. Erzsébet gli riservò una rapida occhiata preoccupata, poi gli mise una mano sulla spalla in un gesto di muto conforto.
Suo padre, di fronte a lui, lo guardò invece con fare più indagatore e, forse, stanco. Alla sua non poi così veneranda età aveva avuto l’onore di organizzare entrambi i matrimoni dei propri figli e, per quanto quell’idea gli facesse ribrezzo, almeno era servito a qualcosa. O non proprio.

« E così » disse l’uomo seduto accanto ad Alfons, addentando un pezzo di carne, « non ha notizie di sua figlia? »
Il signor Bridge strinse la presa intorno al suo calice e annuì gravemente. « Abbiamo trovato solo una lettera in casa… pare che stiano bene, ma non abbiamo idea di dove effettivamente possano essere andati. »
L’ambasciatore Mars continuò a guardare il piatto davanti a sé. « Dovreste contattare le autorità, è assai strano che siano spariti così, nel nulla, da… quanti? Cinque giorni? »
Ben ricominciò a sudare freddo. Perché tutti sembravano volergli ricordare che Klaus, London e Klaudia se n’erano andati? Non avevano lasciato nessuna informazione, se non quella lettera coincisa indirizzata alla famiglia Bridge: stiamo bene. Addio. Queste erano le ultime parole della missiva.
Addio.
Ben aveva stretto quella lettera tra le mani solo per qualche secondo, poi l’aveva strappata in quanti più pezzi gli era stato possibile. Addio. Qualcosa gli faceva immaginare cosa li avesse spinti a scappare, a rifugiarsi in chissà quale oscuro luogo del mondo, ma più ci rifletteva, più le mani gli tremavano e il suo stomaco si stringeva in una morsa, fino a fargli desiderare di aprirsi il ventre con un coltello per porre fine a quella sensazione di malessere perenne.
Se n’erano andati per proteggere Klaudia. Se l’era ripetuto sino alla noia. Non aveva versato nemmeno una lacrima, perché era per il bene di sua – loro – figlia che avevano abbandonato tutto e tutti. Forse lui avrebbe agito alla stessa maniera, eppure non riusciva a fare a meno di tremare. Era più forte di lui, come una forza trascendente che lo scuoteva per farlo impazzire.
In quel momento avrebbe tanto voluto alzarsi, salutare tutti e andarsi a chiudere nella sua stanza per sfogarsi e riposare, ma era costretto a stare lì e far finta di sorridere.
Mary J. Mars poco lontano da lui si stava mordicchiando un’unghia con lo sguardo perso nel vuoto. Anche lei non aveva mangiato praticamente nulla e questo da un lato lo confortava. Si sentiva capito.
Suo padre e l’ambasciatore continuarono a parlare per una buona mezz’ora, mentre Erzsébet andava e veniva dalla cucina trasportando piatti vuoti o pieni a seconda della direzione. L’ultima persona seduta a quella tavola era Ludmille Schnee, vincitrice e mentore del Distretto, che interveniva sporadicamente nel discorso, dal momento che era stata lei a far conoscere i due uomini.
A Ben sembrava di essersi alienato dal mondo, quella sera, tutto ciò che gli rimbombava in testa erano i suoi pensieri.
Addio. Ogni tanto quella parola tornava a fracassargli il cervello.

« E così dovremmo fissare una data per il matrimonio » disse Lloyd, l’ospite. « Ormai Mary ha compiuto diciotto anni e può perfettamente sposarsi con il mio consenso. »
« Mamma non avrebbe voluto » biascicò la ragazza, incrociando saldamente le braccia. Il padre la ignorò.
« Sì, credo che sia giunto il momento » rispose Alfons accennando a un sorriso cordiale. « Dopotutto non abbiamo nulla da perdere. » Un colpo di tosse lo colse all’improvviso, ma nessuno sembrò farci caso.
« Bene » asserì il signor Mars. « Oggi è il dodici giugno. Un mese va bene per i preparativi, no? »
« Sì » rispose velocemente Ben. Non vedeva l'ora di isolarsi da quella gente. « E’ perfetto. »
Mary gli lanciò un’occhiataccia e stirò le labbra probabilmente per trattenere un’imprecazione. « Assolutamente perfetto » ripeté la ragazza, con una velata nota di sarcasmo.
« Almeno loro collaborano » commentò Alfons mestamente. « Non ha idea di cosa ho dovuto passare per far sposare mia figlia. »
Lloyd alzò il proprio calice. « Un’idea ce l’ho, non si preoccupi » fece, guardando Mary di sottecchi. « Adesso brindiamo! »
 

*


L’estate era vicina e si sentiva dal caldo che si faceva via via più afoso e incombente come la scure di un boia. Tuttavia, in quel momento, la bella stagione sembrava ancora lontana. Un temporale improvviso scoppiò in tarda serata, portando il freddo con sé. Lloyd e Mary se ne andarono prima che la pioggia potesse aumentare, mentre Ludmille preferì intrattenersi per aspettare che la tempesta passasse visto che la sua casa era molto lontana da quella zona, nel Villaggio dei vincitori.
La pioggia, in ogni caso, sembrò prendersi gioco di lei perché continuava a battere imperterritamente; così i Bridge la invitarono a trascorrere la notte da loro e lei si sentì costretta dalle circostanze ad accettare, sebbene si sentisse abbastanza a disagio in quel maniero antico e pieno di stanze.

« Non preoccuparti, cara » le aveva detto Erzsébet, preparandole una delle camere riservate agli ospiti. « Sei la benvenuta qui. »
Ludmille sorrise debolmente, ringraziandola, quando la donna uscì e la lasciò da sola.
Si sedette sul letto e guardò fuori dalla finestra: non riusciva neanche a scorgere il giardino, tanta era la pioggia che picchiava sui vetri. Odiava i temporali. Non avrebbe voluto trovarsi lì fuori per niente al mondo.
 

*


Un fulmine improvviso illuminò la stanza con una lama di luce tagliente quanto quella di un pugnale e, in seguito, un tuono fece vibrare le pareti azzurrine.
Ben si tappò le orecchie con forza con i palmi delle mani, stringendo le palpebre come per non rimanere accecato. L’odore pungente del sangue gli arrivò alle narici e lo stordì completamente. Aveva ancora le mani sporche, le dita appiccicose e i polsi freschi di nuovi tagli.
Lho fatto di nuovo. Questo era l’unico pensiero che gli viaggiava nella mente stanca e provata. Aveva promesso a Klaus che non si sarebbe più tagliato e invece quella volta non aveva resistito alla tentazione; aveva preso la lametta e si era inciso la carne. Una, due, tre, quattro volte. Il sangue era colato, rapido e ammaliante.
No!, aveva urlato, dentro di sé, più terrorizzato delle altre volte. Era rimasto a fissare quel liquido vermiglio che gli era colato lungo le mani e lungo le braccia, che aveva macchiato le lenzuola e gli aveva confuso il cervello. I suoi occhi grigioverdi spalancati avevano catturato ogni più piccola sfumatura di quel rosso cremisi e accecante quasi quanto quella lama di fulmine, avevano colto la sua macabra potenza e osservato tutte le diramazioni, fino a che la testa non aveva cominciato a girargli.
Ben si accasciò sul letto, lasciando vagare lo sguardo sul soffitto che a tratti gli sembrava familiare e a tratti sembrava essere la cosa più estranea del mondo. Anche quello si colorò di sangue. Anche i fulmini, le pareti, i vetri, il pavimento divennero rossi. Un mare di sangue. Era sangue quello che respirava, l’aria sembrava essersi dissolta nel vuoto. Stava soffocando.
Si alzò di scatto dal letto e quel movimento improvviso aumentò i giramenti di testa, che lo fecero barcollare e cadere a terra. Sperò che nessuno l’avesse sentito, non voleva essere visto in quello stato. Non voleva essere visto e basta.
Strisciò piano in direzione della porta, mentre un altro fulmine – bianco o rosso che fosse – sembrò volerlo divorare. Si trattenne dall’urlare, in panico. La vista gli si annebbiò, ma continuava a vedere il sangue dovunque.
Basta, per favore, basta!, gridò nella sua testa, alzandosi con difficoltà e raggiungendo a tentoni la maniglia della porta. Che ore erano? Le tre? Si accorse di non volerlo neanche sapere. Non voleva conoscere l’ora della sua morte.
Spalancò la porta e cominciò ad arrancare nel buio soffocante del corridoio, pregando con tutto il cuore di non inciampare e svegliare tutti.
Non aveva idea di cosa stesse facendo, ma la sua mente quasi gli ordinava di salire le scale e raggiungere il terrazzo. Era quella la sua meta. Sentiva che tutto sarebbe dipeso da quel luogo e da quel momento. Un passo. Un altro. Un altro ancora.
Ben si ritrovò affannosamente sulle scale senza neanche accorgersene. Si aggrappò al corrimano, chiedendosi solo per un istante se il sangue avrebbe lasciato qualche traccia. Certo che l’avrebbe fatto, anche se lui in quel momento non desiderava altro che sparire nel nulla come se non fosse mai esistito. Sparire come avevano fatto Klaus e London.
Klaus e London. Quei nomi gli graffiarono il cranio e Ben dovette mordersi le labbra per non urlare. Qualcuno sembrava strillarglieli dall’interno, con l’intenzione di farlo morire di emicrania. Klaus. Klaus. Klaus.
L’avevano abbandonato, questa era la verità. Tutto ciò che volevano era che lui rimanesse da solo.
No, non era vero, stava degenerando tutto. Erano andati via per proteggere Klaudia.
Ben capì di essere arrivato sul terrazzo solo quando un’ondata di vento, freddo e pioggia lo investì con violenza, lasciando che il pigiama gli si appiccicasse addosso e che l’acqua lavasse via il sangue. La vista gli si appannò ancora di più, ma almeno tutto quel rosso stava sparendo. Tutto ciò che riusciva a vedere era la pioggia. Pioggia ovunque. Gli bagnò completamente il corpo, lo fece respirare, quasi gli entrò nella pelle. Per un attimo gli diede un’improvvisa sensazione di libertà, ma subito dopo acuì il dolore e fece crescere il gelo dentro di sé. Il freddo sembrò penetrare nelle sue vene al posto del sangue, costringendolo a camminare più lentamente. Ogni passo era un traguardo, ogni volta che poggiava i piedi nudi l’uno davanti all’altro sul gelido pavimento bagnato si sentiva sempre più pesante e vuoto al tempo stesso.
Aria, pensava soltanto, strizzando gli occhi nel buio per cercare di vedere almeno la ringhiera. Datemi aria.
Tutti l’avevano abbandonato. O, forse, era stato lui a permettere che tutti l’abbandonassero. Era stato troppo buono, troppo gentile e disponibile con il mondo e nessuno si era mai preoccupato di ricambiare quella bontà anche solo per ringraziarlo.
Forse l’aveva sempre saputo, che sarebbe finita così. Forse non ne vedeva l’ora. Sarebbe stato libero, finalmente. Morto, ma libero. Quella volta i tagli non erano bastati, non avevano sortito nessun effetto su di lui, se non quello di farlo sprofondare ulteriormente nel dolore e nella solitudine.
Con un ultimo, doloroso passo, arrivò finalmente alla ringhiera. Sporgendosi da lì – troppo per qualcuno che vuole soltanto affacciarsi – Ben si domandò per un istante se il corpo di una persona vuota e sola avrebbe fatto rumore nel precipitare al suolo.
 

*


Qualcosa la svegliò. Ludmille non sapeva dire bene cosa, ma qualcosa la fece alzare a sedere sul letto di scatto come se fosse stata reduce da un incubo orribile.
Credette di aver sentito un rumore, come di qualcuno che inciampa nei propri passi. All’inizio pensò che fosse soltanto la suggestione, ma dopo un po’ udì nel silenzio della casa altri passi sconnessi lungo il corridoio in cui si trovava la sua stanza. Non poteva averlo confuso con lo scrosciare della pioggia o con un tuono, doveva essere qualcuno che si era svegliato e aveva deciso di farsi una passeggiata notturna.
Ludmille avrebbe voluto rimettersi sotto le coperte per cercare di riposare, ma tutto ciò che riuscì a fare fu scostarsi le lenzuola di dosso e cominciare a girovagare per la camera, nervosa. Arrivò al punto che dovette aprire la porta per guardare chi si fosse svegliato, tanto era curiosa la sensazione che la pervadeva. Inquietudine, ecco di cosa si trattava.
Sbirciò nel corridoio con sguardo circospetto, cercando di vedere oltre il buio. Non c’era nessuno. L’unico rumore era quello della tempesta che ancora infuriava.
Fece appena qualche passo, svoltò l’angolo. Il rumore si fece più forte e Ludmille notò che da una scala in fondo gocciolava dell’acqua.
Quale persona sana di mente andrebbe a prendersi una boccata daria sul terrazzo durante una bufera?, si domandò, incapacitata, prima che la sua preoccupazione cominciasse a crescere di secondo in secondo. La risposta alla sua domanda era chiaramenete “nessuno”, eppure la donna fissò la porta spalancata al di là delle scale con un profondo senso di paura.
Ludmille aveva sempre odiato la pioggia, figurarsi i temporali. Ciò nonostante, a passi veloci salì i gradini e si fiondò sul terrazzo.

Pioveva a dirotto. Si sentì sferzare la pelle pallida da quel violento e freddo acquazzone estivo, ma l’istinto le suggerì di continuare ad avanzare, ignorando il fatto che si stesse bagnando completamente, dalla testa ai piedi.
Sono impazzita, si disse, mentre i suoi occhi si assottigliavano fino a diventare due lame per vedere meglio al buio.
Il suo cuore perse un battito. C’era qualcuno, su quel terrazzo.

« Cosa stai facendo? » gridò, cercando di sovrastare il rumore del temporale. Si avvicinò ancora, notando che la persona in questione si stava sporgendo troppo dalla ringhiera. « Ehi! »
Quello si voltò di scatto in preda al panico, colto in flagrante, e Ludmille pensò di aver visto male. Benjamin?
« Torna indietro! » urlò ancora, spostandosi i capelli corti e fradici perché distinguere qualcosa che fosse a più di qualche spanna da lei era impossibile. « Coraggio! »
« No! » gridò Ben in risposta, così forte che sembrava essersi graffiato le corde vocali, aggrappandosi con tutte le forze alla ringhiera. « Vattene! »
Ludmille non fu capace di riflettere ancora a lungo, prima di agire: scattò in avanti rischiando di scivolare e sbattere la testa, ma si fiondò su di Benjamin prima che quello potesse davvero buttarsi. Caddero entrambi a terra, lei aggrappatagli addosso per non farlo sfuggire.
« No… » fece Ben, tentando di spostarla in tutti i modi, « va’ via! »
Ludmille scosse la testa, bloccando qualsiasi tentativo del ragazzo di dimenarsi. « Torniamo dentro. »
« No, no! » pianse lui, tuttavia smettendo di lottare tra le sue braccia dopo pochi istanti. La donna aveva la vista annebbiata, ma riuscì a capire che quelle gocce sul viso di Ben non erano altro che lacrime. Lacrime amare, fredde, violente, lacrime che urlavano, lacrime di smarrimento e di frustrazione.
Lacrime di un suicida ancora in vita ma con il cuore già morto.

 










 

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Capitolo 21
*** 020. Twentieth Chapter – Valhalla. ***


Note: Buona Pasquetta♥ Avete mangiato le uova? Io sì, e credo di stare per esplodere.
Per una volta aggiorno dopo… *fa il conto* 19 giorni, anziché un mese. Mi sono impegnata, sul serio.
Bando alle ciance. Prima di cominciare a spiegare delle cose, devo assolutamente ringraziare le persone che hanno recensito lo scorso capitolo: ehykaya, _cashmere, LysL_97, Joyd14th e Giuly_D4. Grazie, davvero, mi avete fatta felicissima♥
Ecco, passato questo capitolo – che segna l’inizio della terza parte di Blur, a cui tengo molto, sinceramente – gli altri mi verranno sicuramente più facili, anche perché non vedo l’ora di entrare nella parte più angst. Senza contare che, dopo maggio, sarò libera di fare quello che cavolo mi pare, sperando solo di non prendere il debito in chimica. Temo che per settembre/ottobre Blur sarà finita, e io non voglio çwç Cioè, sì che lo voglio, ma ancora mi chiedo cosa farò dopo nella mia carriera di efp writer. Qualcuno già sa che mi piacerebbe da morire trasformare questa storia in un romanzo, ovviamente adattando i personaggi ad un contesto diverso, perché ci ho lavorato così tanto che vorrei far conoscere le vicende di questi tre pampini anche ad altre persone. Ma ci vorrà del tempo, quindi non cancellerò questa storia.
Un’altra cosa che mi sta a cuore chiarire è questa: può sembrare che con l’andare avanti di Blur le vicende si stiano sempre più staccando dalla sezione di Hunger Games, ma come ben sapete non posso spostarla nelle originali. Badate che, poi, tra qualche capitolo il contesto della Collins mi tornerà più utile che mai, quindi se cercavate qualcosa di più inerente alla saga, non demordete ancora :')
Come vedrete, in questo capitolo c’è una new entry a cui sono affezionatissima, Käthe. Presto scoprirete chi è, sono curiosa di conoscere le vostre opinioni su di lei uwu Inoltre, avrete qualche delucidazione su Frantz Wreisht, giusto per farvi un po’ capire il motivo sul suo carattere così violento.
Poi… oh, non potete sapere quante litigate col tedesco mi sia fatta xD Ho dovuto chiedere a mari e monti la traduzione di alcune frasi che troverete sotto, e tuttora non sono soddisfatta. Io lo studio, ma da poco, ecco perché mi sono dovuta affidare ad altri.
Ultima cosa ma non per importanza, prima che queste note diventino interminabili: la famosa questione degli hovercraft e dell’Europa. Come avrete capito, Klaus, London e Klaudia hanno tentato una fuga azzardatissima che, se solo fosse scoperta, costerebbe loro molto caro, perché naturalmente è vietato uscire da Panem senza permesso. Tuttavia, non credo che l'America non abbia più contatti con l'Europa, ecco perché secondo me ci sono hovercraft addetti anche ai viaggi intercontinentali. Loro si sono infilati in uno di questi e sono scappati, atterrando in una delle quattro nazioni in cui (nel mio immaginario) si è divisa l'Europa dopo una terza e una quarta Guerra Mondiale: Capo Nord, Aspasia, Anthea e Valhalla. QUI vi metto una cartina approssimativa che ho creato, per farvi capire meglio (Capo Nord è lo stato giallo, Aspasia quello rosa, Anthea quello rosso e Valhalla - dove sono capitati Klaus e London, per intenderci - quello violetto. I territori azzurri sono stati sommersi, mentre quelli verdi credo siano deserti o controllati da qualche altro paese.) Le lingue, come l'inglese a Panem, sono rimaste più o meno invariate a seconda delle zone. Ecco perché sopra ho nominato il tedesco, ed ecco perché Ben sa parlare l'ungherese. L'Europa, sempre secondo licenza poetica, è molto più tollerante di Panem e le varie nazioni sono sempre divise secondo cittadine e province, non Distretti come a Panem. Il sistema politico è sempre una specie di dittatura per ogni stato, ma mascherata, e tutti gli stati europei sono alleati tra di loro, un po' come un'Unione Europea futuristica. Spero davvero che non sia tutto campato in aria, perché ho cercato di essere il più realistica possibile, sempre in riferimento al contesto della Collins, perché naturalmente lei non ha mai spiegato come è nata Panem.
Finalmente ho finito, vi lascio al capitolo, sperando vi piaccia.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da ben due canzoni. Una è l'omonima "Valhalla" dei 30 Seconds to Mars, l'altra è "Immigrant song" dei Led Zeppelin. Inoltre, come spiegavo sopra, una nazione dell'Europa post-apocalittica si chiama proprio così, perché il cosiddetto Valhalla è una specie di paradiso per i guerrieri morti in battaglia, nella mitologia nordica. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 





 















Blur

(Tied to a Railroad)






020. Twentieth Chapter – Valhalla.




« Chiudi a chiave. »
London non esitò a fare quanto richiesto, abbandonandosi ad un sospiro di sollievo, o forse di rassegnazione. Senza nemmeno che Klaus glielo dicesse, girò la chiave nella serratura almeno tre volte e solo dopo aver constatato che la porta era ben chiusa si voltò a guardare la stanza. Klaus gettò il borsone stracolmo sull’unico letto appoggiato alla parete, per poi sedervisi con un sospiro altrettanto liberatorio.
Klaudia trotterellava avanti e indietro per la camera, toccando con le sue manine di bimba tutto ciò che riusciva a vedere.
Era mezzanotte inoltrata e dalla strada non proveniva alcun suono.

« A quanto pare » fece Klaus, « qui vanno tutti a dormire presto. »
London lo guardò in tralice, incapace di riuscire a pensare a qualcosa che non fosse “ce l’abbiamo fatta”. « Credo sia ora che anche noi ci mettiamo a dormire » disse, aprendo la cerniera del borsone e cominciando a cercare i loro pigiami. « Domani avremo tantissime cose da fare… dobbiamo cambiare i documenti, parlare con il sindaco, trovare qualcosa di simile ad un lavoro- »
« London » la bloccò il marito, sfiorandole una mano per tentare di rassicurarla, « ci pensiamo domani. Adesso rilassati. »
Lei si girò di poco, parlando più a se stessa che a Klaus. « Ci sto provando, davvero. Solo che… »
L’altro la osservò, in attesa.
« … niente, lascia stare » fece infine, passandosi una mano sul viso stanco. « Sono distrutta. » Klaus annuì e la aiutò a sistemare le cose che stava cacciando dal borsone.
Trascorsero circa un’oretta nel silenzio più totale e soltanto dopo aver messo a posto i beni essenziali si lasciarono andare ad un sonno lungo e senza sogni.

 
*


« Non c’è male come prima settimana qui » disse Klaus, aggiustandosi gli occhiali da sole sul naso. « Valhalla è un bel posto, c’è bel tempo, la gente non vuole ucciderci, il sindaco ci ha accolti in questa ridente cittadina… »
« Possibile che devo essere io a ricordarti che non è ancora detta l’ultima parola? » sbuffò London, strattonando un po’ la mano di Klaudia perché la bambina si stava incantando davanti a un negozio di dolci. « Eppure dovresti essere tu quello prudente, dopo gli Hunger Games. »
Klaus la guardò dietro le lenti scure, alzando un sopracciglio. « Per una volta sono ottimista. Per la prima volta in vita mia. Ti dispiace? »
La moglie continuò a camminare, trascinandosi dietro la figlia che si era imbronciata per non essere riuscita ad ottenere ciò che voleva. « Nella mia testa sono ancora a Panem » sospirò la ragazza. « Tu conosci persino la loro lingua, io sono un pesce fuor d’acqua. »
« Devi ringraziare mia madre, che a volte da bambino mi parlava in tedesco » spiegò l’altro. « E comunque qui molti lo parlano, l’inglese. »
« Non so se hai notato con che occhi ci guardano » precisò London. « Ci disprezzano. Siamo forestieri. »
« Ma almeno non siamo visti come potenziali nemici » ribatté Klaus.
« E chi te l’ha detto? » chiese lei, fermandosi.
« Senti, London » sbuffò il marito, « sei stata tu a voler andartene da Panem. Adesso non ti creare problemi da sola, sei fin troppo paranoica. Per una volta ammetto che avevi ragione, che qui la pensano diversamente, che in Europa si sta bene e sembra sicura. »
London si ammutolì e si morse le labbra.
« Andiamo » le disse, prendendole una mano ed esortandola a camminare di nuovo verso l’albergo dove erano momentaneamente alloggiati. La moglie non disse più niente e si limitò a portare un piede davanti all’altro, non del tutto convinta dalle parole di Klaus. Non era colpa sua, del resto, se era diventata così sospettosa.
Dopo qualche minuto raggiunsero una piccola piazza con il pavimento di pietra, al centro del quale si stanziava un’imponente fontana di marmo bianco. Accanto ad essa si poteva osservare quella che aveva l’aria di essere una statua commemorativa, rappresentante un uomo della media borghesia, con tanto di cappello a cilindro e frac elegante. Non c’erano moltissime persone lì, dal momento che era ora di pranzo, eccetto qualche vecchietto seduto sulle panchine vicino alla fontana, una comitiva di ragazzi seduti a dei tavolini e un paio di bambini che facevano una gara di corsa.
Klaudia, a quella visione, si staccò dalla madre e cominciò a correre a sua volta, spensierata, facendo volare via al suo passaggio tutti i piccioni che le capitavano a tiro.

« Klaudia! » esclamò London, decisa ad andarle dietro, ma Klaus la trattenne.
« Avanti, lasciala divertire un po’ » disse, mentre la bambina aveva cominciato a ridere e seguiva quei due ragazzini, senza mai raggiungerli perché quelli erano molto più veloci di lei.
London lo fissò con sguardo sconcertato, ma dopo qualche istante provò a rilassarsi: non c’erano pericoli, doveva stare tranquilla.
« Andiamoci a sedere lì, almeno la tengo d’occhio » mormorò, vinta, indicando una panchina poco lontana. « Però tra dieci minuti andiamo via. »
« D’accordo » assentì Klaus, alzando gli occhi al cielo. Si sedettero con la fontana alle spalle, beandosi per un secondo di quell’istante di pace. Le risate dei bambini, lo scrosciare dell’acqua, i piccioni che svolazzavano sulla piazza… sembrava tutto perfetto, un momento da cornice.
« Credi che potremmo davvero vivere una vita normale, qui? » domandò London improvvisamente, senza sciogliere la stretta di Klaus tra le loro mani.   
Il ragazzo la guardò per un secondo, poi tornò a posare lo sguardo su Klaudia che correva, facendo tuttavia un sorriso obliquo. 
« Solo se tu lo vuoi, mia Londie. »
Lei sorrise a sua volta. Le sembrava di non averlo fatto per secoli.
 
Klaus si alzò solo dopo un quarto d’ora abbondante e non per andarsene. 
« Aspetta qui » le disse. « Torno subito. »
London rimase un attimo spaesata e lo vide avventurarsi in una via che non avevano mai attraversato prima. Irrigidì la schiena e tornò a guardare Klaudia che giocava con quei due bambini, non avendo la minima idea di come stesse comunicando con loro.
London constatò da sé che senza Klaus la sua inquietudine era ritornata a livelli molto alti. Prese ad osservarsi intorno, soffermandosi appena su una ragazza che le si era casualmente avvicinata. Ragazza che la fissò per qualche secondo senza dire nulla.
Che cosa vuole?, si chiese, quasi entrando in panico. Quella, però, la sorpassò senza badare minimamente al suo stato d’ansia, continuando a fumare la sua sigaretta e camminando oltre in direzione della statua commemorativa. Il cuore di London si rilassò appena, prima che, stavolta, si avvicinassero i due bambini che stavano giocando con Klaudia, seguiti proprio dalla figlia.

« Ist sie taub?1 » domandò quello che sembrava il maggiore, giocando con uno yo-yo colorato. Lei si attirò la borsetta al petto, involontariamente, e lo fissò senza capire.
Il bambino più piccolo ridacchiò. 
« Sie ist nicht von hier, Rodrich!2 »
« Ist dieses taubes Mädchen deine Tochter?3 » riprovò l’altro. London stava per alzarsi, prendere in braccio Klaudia e andarsene, ma prima che potesse davvero farlo la ragazza di prima si aggiunse alla conversazione.
« Ti sta chiedendo se questa bambina è sorda e se è tua figlia » disse quella, con un pesante accento tedesco, rilasciando uno sbuffo di fumo. « Non sei di queste parti, vero? »
London si alzò quasi di scatto. « N-no » mormorò. « Puoi dire a questi bambini che ce ne stiamo andando e che dovrebbero imparare a farsi i fatti loro? »
L’altra ridacchiò. « Come vuoi » rispose, poi si voltò verso i due bambini. « Spielt weiter, ich werde es machen.4 » Entrambi fecero spallucce e tornarono ai loro giochi senza più degnarle d’attenzione.
« E così sei di Panem… » fece la nuova arrivata, aggiustandosi il ciondolo della catenina che portava al collo. « Non si vedono molti panemiani in giro. »
London non le rispose. « Adesso devo andare » disse semplicemente, stringendo la mano di Klaudia, che si lamentò perché voleva di sicuro continuare a giocare. « E’ stato un piacere » aggiunse con una punta di saccenza.
La ragazza dai capelli castani ridacchiò, ormai intenzionata a invadere gli spazi di London. 
« Io ho dei parenti, a Panem » continuò, imperterrita, prendendo a camminare accanto a lei senza chiedere il suo consenso.
« Interessante » ribatté l’albina. Non sapeva se quella fosse una bugia o meno, ma in ogni caso non aveva intenzione di ascoltare le chiacchiere di quella che aveva tutta l’aria di essere una prostituta. Gonna corta, tacchi che la facevano apparire più alta di quanto già non fosse, scollatura generosa – per quanto le sue curve fossero poco accentuate, forse per motivi di costituzione –, rossetto cremisi…
« Sono gli stessi parenti che hanno fondato questa piazza » specificò la mora, indicandole la statua onoraria. « Quello sarebbe un mio pro-prozio, era un magnate della zona e si atteggiava a paladino della- »
« Sì, sì, d’accordo » la bloccò London, seriamente infastidita, « ora mi lasci in pace? »
L’altra incrociò le braccia e alzò gli occhi al cielo. « Va bene, fare amicizia con gli stranieri non è il mio forte, ma almeno apprezza il mio tentativo! »
« Fare amicizia al momento non rientra nelle mie priorità » replicò. « Se vuoi scusarmi… » London affrettò il passo, lasciandosi alle spalle quella tedesca impertinente. E io che credevo che qui fossero tutti freddi e sulle proprie povera illusa, si disse, scuotendo la testa. Prima di lasciare la piazza, però, si trovò a passare accanto alla statua commemorativa e ripensò alle parole di quella ragazza.
Ha dei parenti a Panem, rifletté, ed è tedesca.
Ignorò ancora le lamentele di Klaudia e si avvicinò alla targa che decorava il piedistallo dell’uomo di marmo. “Dem Rosenplatzgründer gewitmet5” c’era scritto. London non aveva idea di che cosa potesse significare, ma, invece, sbiancò di botto nel leggere il nome di quell’uomo. A caratteri cubitali, sulla targa era vergato in bella grafia: “Albert Wreisht”.
Quando si voltò a cercare la ragazza mora con lo sguardo, si accorse con rabbia che quella era già andata via.

 

*
 
 
Klaus si domandò per tutto il giorno perché London non avesse apprezzato i fiori che le aveva regalato. Aveva rischiato di perdersi almeno una decina di volte solo per trovare un fioraio aperto all’ora di pranzo e lei, dopo aver guardato distrattamente il mazzo, non l’aveva più calcolato. Sembrava ancora più tesa di quella mattina, il che, da un lato, lo preoccupava. Non l’aveva mai vista così agitata.

« Cosa c’è ancora che non va? » le chiese, puntiglioso, mentre lei continuava a girare per la stanza sistemando tutto ciò che, tuttavia, era stato già sistemato.
« Niente! » esclamò London fin troppo repentinamente. Klaus la stava fissando con occhi incapacitati. « Niente » ripeté lei. « Va tutto a meraviglia. »
« Oh, meno male » fece il marito con sarcasmo. Davvero non riusciva a capire quale fosse il problema. « Avanti, non prendermi per il culo, cos’è successo? »
London lasciò perdere l’armadio che stava ordinando e con un sospiro grave si lasciò cadere sul letto. « Non ci crederai mai. »
« Se magari ti decidessi a parlarmi… »
Lei ignorò la sua ultima considerazione. « Quando te ne sei andato, stamattina, ho conosciuto una ragazza. Mi si è avvicinata con una scusa e ha cominciato a parlarmi, farmi domande, raccontarmi un po’ di storia della sua vita, insomma, a importunarmi… senza che io le avessi chiesto niente, poi! »
« Non vedo dove sia il problema » replicò Klaus, che intanto si era avvicinato alla brandina di Klaudia per aggiustarle le coperte mezze cadute sul pavimento. Le lanciò una breve occhiata addolcita e poi tornò a rivolgersi alla moglie. « Se l’hai seminata dopo un po’, non capisco perché ti preoccupi tanto. »
« Fammi finire » protestò la ragazza, « la parte clou non è ancora arrivata. »
« La parte clou»
« Sì » sbuffò London, « perché mi ha parlato soprattutto della sua famiglia. Alcuni dei suoi parenti sono a Panem. Mi ha detto che quello raffigurato nella statua onoraria era un suo pro-prozio e che era il fondatore della piazza. Fin qui, beh, tanti auguri, soltanto che… dopo averla sorpassata sono capitata proprio vicino alla statua e… »
« E? » la incitò a continuare Klaus, ora seriamente attento. Una ragazza tedesca con dei parenti a Panem.
« Ho scoperto che questo tizio si chiamava Albert » continuò. « Albert Wreisht»
Il ragazzo spalancò gli occhi scuri, colto quasi del tutto di sorpresa. All’inizio credette di non aver capito bene. « Mi stai dicendo che hai trovato una mia parente? E’ assurdo! »
« Lo è » confermò London, mordendosi le labbra.
« E perché non me l’hai detto subito? » esclamò Klaus con tono arrabbiato. « Cosa stavi aspettando, la menopausa? »
La moglie fece una smorfia offesa e incrociò le braccia. « Non sono sicura che stesse dicendo la verità… e se fosse una spia di Capitol City? »
L’altro recuperò la giacca e le lanciò uno sguardo di rimprovero. « London, ma per favore. » Si avviò verso la porta della stanza. « Rosenplatz, giusto? »
« Dove vai? » chiese lei, turbata.
« Vado a cercarla » rispose Klaus. « Forse, per una volta, potrò conoscere la verità sulla mia stupida e inutile famiglia. »
 

*
 

London aveva insistito tanto per uscire a cercare quella ragazza con lui. Klaus le aveva risposto male più di una volta, ma alla fine si era lasciato convincere, soltanto perché sapeva quanto lei avesse timore di rimanere da sola. Avevano svegliato Klaudia di soprassalto dal momento che non potevano lasciarla lì in albergo, ma lei dopo un po’ era crollata di nuovo e adesso London era costretta a portarla in braccio per tutto il tragitto.
Erano circa le undici di sera, ma la Piazza delle Rose era più frequentata che di giorno. La ragazza si accostò di più a Klaus e insieme si incamminarono verso un bar vicino, addentrandosi in quella folla di ragazzi e uomini.

« Dovrebbe essere uscita di qui » disse London, che ricordava vagamente di aver visto quella ragazza venire da quella direzione. Il bar era molto grande, dall’esterno sembrava persino avere un secondo piano con un’altra sala. Quel posto era pieno di voci, schiamazzi, risate e musica, ma loro non erano andati lì per divertirsi.
« Allora entriamo » assentì Klaus, varcando per primo la soglia del locale.
All’interno li investì d’improvviso un acre odore di birra e alcool; London si affrettò a sedersi ad uno dei tavoli più vicini, mentre il marito si avvicinò ad un cameriere per chiedergli se conoscesse la ragazza che stavano cercando, descrivendola brevemente.
Dopo qualche istante si andò a sedere accanto a moglie e figlia.

« Che ha detto? » domandò London, stringendosi Klaudia al petto.
« Pare che questa sia la nostra giornata fortunata » rispose Klaus, guardandosi in giro con circospezione, « se è la stessa persona, allora lavora qui. »
« E dov’è ora? »
« Ha detto che adesso va a chiamarla. »
La moglie si guardò intorno a sua volta, concentrandosi sui clienti che entravano e uscivano dal bar. Sembravano persone normalissime, in ogni caso. Eppure aveva paura di loro, per qualche strano motivo. Riconoscere di non sapere la loro lingua, essere in territorio straniero, non avere punti di riferimento… la stava uccidendo. Era passata soltanto una settimana e già le mancava tutto di casa sua. Tutto e tutti.
Erano giorni che si chiedeva cosa stesse facendo Ben, come l’avesse presa per la loro partenza improvvisa, se avesse capito.
Certo che ha capito, si ripeteva. E il mio gemello, mi capisce sempre al volo.
Nonostante ciò, senza di lui, si sentiva una persona completamente diversa, come se una parte di sé le fosse stata portata via in modo brusco e doloroso e che fosse rimasta nel passato, in un altro mondo, in un’altra vita.
Dopo qualche minuto la ragazza di quella mattina si presentò al loro tavolo. 
« Hallo! Was kann ich euch zu trinken bringen?6 »
Klaus la squadrò per un tempo quasi interminabile. « Ti dobbiamo parlare » disse, in modo che anche London capisse.
« L’avevo immaginato » sorrise quella, spostando una sedia e accomodandosi accanto a loro, con le gambe accavallate. Appoggiò il mento a una mano e prese a fissarli senza dire niente, come se stesse aspettando le loro domande e come se avesse già preparato le risposte. Sembrava essere già al corrente di tutto quello che volevano chiederle.
« Prima di tutto » cominciò Klaus, a disagio, « qual è il tuo nome? »
« Käthe Wreisht, tanto piacere » rispose, porgendogli la mano, che lui non strinse. « Sorpreso, Klaus? »
« Tu sai chi sono, ma io non so chi sei tu » constatò il ragazzo, allibito. « Vuoi illuminarmi? »
« Se proprio insisti… » sbuffò la mora, alzando gli occhi al cielo. « A quanto pare sei disinformato del tutto, devo partire da lontano. » Fece una breve pausa. « Sai chi era Leonore Wagner? »
« Mai sentita » rispose Klaus, facendosi tutt’orecchi.
« Bene » ribatté Käthe, « Leonore Wagner era mia madre. E sai come l’avevano soprannominata, da queste parti? Puttana. E’ un bel titolo, non trovi? Eppure glielo diedero per un motivo che trovo alquanto stupido… Era innamorata di un certo Frantz Wreisht, se non ricordo male. »
Klaus impallidì e non seppe cosa replicare, cominciando a collegare i puntini nella sua testa.
« E lui lo era di lei, oh sì » continuò la ragazza. « Proprio una bella coppia. Ma lei era una poveraccia e Frantz era già promesso a un’altra donna, che tra parentesi era sua cugina di primo grado. Lo scandalo fu, tuttavia, inevitabile. Leonore restò incinta e, per riparare al danno, Ludvig e Monika Wreisht, i genitori di Frantz, affrettarono il matrimonio e fecero partire i novelli sposi per Panem, dove non avrebbero avuto complicazioni e dove la diffamazione per un tale scandalo non li avrebbe raggiunti. Ludvig aveva molte conoscenze, quindi la giovane coppia non ebbe problemi ad attraversare l’Atlantico. Leonore ebbe tutt’altra sorte. A pochi giorni dal parto, non appena venne a sapere della partenza del suo amato, si suicidò per disperazione, gettandosi da un ponte. » Käthe si godette le loro facce sconvolte per qualche secondo abbondante, dopodiché disse: « E’ una bella storia, non credete? »
London fu la prima ad elaborare una frase di senso compiuto. « Quindi tu saresti… sua sorella? » chiese, spostando lo sguardo da lei al marito.
« Sorellastra » precisò la mora, giocando con una ciocca dei propri capelli. « Non noti la somiglianza, Bridge? »
L’altra restò decisamente sconvolta, limitandosi a tenere la bambina tra le braccia e a fissarla con sguardo incredulo.
« Come hai fatto a sapere chi siamo? » sibilò in un soffio Klaus, guardandola allo stesso modo. « Insomma, non ci siamo mai visti prima… »
Käthe lo fissò negli occhi, ghignando appena. « Sbagliato. »
Il ragazzo corrugò la fronte. « E quando ci saremmo incontrati, scusa? »
« Panem, Distretto Sei » disse semplicemente. « Diciassette... luglio… di otto o sette anni fa, se non sbaglio. Zona ovest. Era un bar molto più squallido di questo e pioveva. Io ho fatto per due mesi la cameriera lì. Dovevano essere le due di notte, forse, tu eri ubriaco e in compagnia di un ragazzo che a giudicare ad occhio e croce doveva essere suo fratello » spiegò, facendo verso le ultime parole un cenno con la testa in direzione di London, che irrigidì la schiena e stirò le labbra.
Klaus capì al volo di quale diciassette luglio stesse parlando e tentò di fermarla, ma Käthe continuò: 
« Non aggiungo cos’altro ho visto perché la donzella, qui, potrebbe scandalizzarsi. »
London le lanciò un’occhiata di brace, mentre Klaus si affrettò a domandare, per spegnere il discorso: « Eri a Panem? »
« Già » ribatté la mora, studiandosi distrattamente le unghie di una mano smaltate di nero. « Sai, ero curiosa di conoscere mio padre. Quando conobbi la verità sui miei genitori, decisi che per una volta nella mia vita avrei dovuto fare qualcosa di intelligente e stupido al tempo stesso. Avevo un obiettivo e l’ho raggiunto con tutti i mezzi che avevo a disposizione. Volevo guardare Frantz Wreisht in faccia, e ci sono riuscita. »
« Io non ti ho mai vista nel Distretto Sei » provò a contraddirla Klaus, biascicando quelle parole tra i denti. Davvero era stato spiazzato dalla presenza di quella ragazza che, per di più, era la sua sorella illegittima. Forse quella personalità così deliziosa era una caratteristica che avevano nel sangue.
« Sono io a non essermi mai fatta vedere » ribatté Käthe. « Ti ricordo che tuo padre non sa nemmeno che esisto, non avevo voglia di sconvolgergli ancora di più la vita. So che ha fatto cose orribili – una delle quali fu sicuramente mettere incinta tua madre – ma da un lato lo comprendo. Gli hanno strappato in un solo secondo tutto ciò che amava, l’hanno abbandonato in culo al mondo solo per interesse personale. »
« Suo padre è un bastardo » s’intromise London prontamente, alzando il tono di voce. « Avrebbe ucciso mia figlia se non ce ne fossimo andati! »
« Sinceramente questo non fa parte dei miei interessi » disse l’altra con voce annoiata. « Non è colpa mia se il cervello di un uomo è capace di incepparsi e prendere una cattiva strada. »
« Indirettamente questo è tutta colpa tua » le fece notare Klaus, con una cattiveria nemmeno tanto velata. « Se tu non fossi mai nata… »
« La tua vita sarebbe stata migliore? » domandò lei, incapacitata, facendogli il verso. « Oh, sai quanto m’importa! E pensare che quella notte corteggiasti anche me, facendo apprezzamenti poco casti sul mio sedere! Ancora non sono riuscita a capire di quale sponda fai parte. »
London emise un basso verso di rabbia.
« Sta’ tranquilla » disse poi, rivolgendosi a London, « non mi avrebbe mai portata a letto. A parte che mi fa ribrezzo l’idea di scopare con un mio consanguineo, e poi a me piacciono le ragazze » – e qui le fece un occhiolino malizioso.  
A Klaus sfuggì una risata nervosa. Nessuno era riuscito a metterlo più imbarazzo di Käthe prima d’ora. 
« Fantastico, sul serio… E comunque non mi hai spiegato come facevi a sapere i nostri nomi e come hai fatto a riconoscerci. »
« Ho una memoria di ferro » spiegò. « E, durante quel periodo in cui sono stata a Panem, ho studiato la tua famiglia. So che tua madre prepara il caffè dopo pranzo, che tuo padre il sabato si chiude nel suo studio ad amministrare i suoi soldi e anche che quando avevi otto anni ti ha promesso alla pupilla della famiglia Bridge, nonostante Alfons ed Erzsébet non ne fossero entusiasti. »
« Ti hanno mai detto che potresti fare la stalker, di professione? » chiese London a quel punto, infastidita e irritata per il comportamento di quella che – non l’avrebbe mai pensato – era sua cognata a tutti gli effetti, o quasi. « Ti pagherebbero veramente bene. »
« I soldi non mi interessano, Bridge, forse non l’hai capito » replicò la mora, continuando a sorridere in modo saccente e decisamente poco amichevole. « Guardami… dopo essere diventata ufficialmente l’ultima erede dei Wreisht di Valhalla ed aver ricevuto tutti i loro beni, a ventisette anni mi ostino ancora a fare la cameriera. Sarà che mi piace vivere alla giornata… » lasciò volutamente la frase in sospeso. Sembrò ricordarsi solo in quel momento che era in servizio, per cui aggiunse velocemente: « Scusate, se non vi dispiace adesso devo tornare al lavoro o il capo mi ammazza. Ci vedremo sicuramente molto presto, non vorrete di certo raffreddare il nostro fantastico legame famigliare… » li salutò, mandando nella loro direzione un bacio con la mano e, dopo essersi alzata da quel tavolo, sparendo con la stessa velocità con cui era apparsa ed entrata nelle loro vite. Come un ciclone, come una gazza ladra in picchiata pronta a rubare qualcosa di prezioso.
A quanto pareva, pensò London, le sorprese in casa Wreisht non finivano mai.

 













E’ sorda?
Lei non è di queste parti, Rodrich!
Questa bambina sorda è tua figlia?
Tornate a giocare, ci penso io.
Al fondatore di Piazza delle Rose.
Salve! Cosa vi porto da bere?










 

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Capitolo 22
*** 021. Twenty-first Chapter – My fading voice. ***


Note: Stranamente sto aggiornando nell'arco dei quindici giorni. Comincio a farmi paura per questa inusuale puntualità.
Prima che me ne dimentichi, vorrei pubblicizzare la mia pagina facebook, giusto perché mi capita di mettere spoiler/indizi/anteprime di Blur ogni tanto. Ecco qua ->  The bumblebee • Ivols fanwriter
Quanto è cambiato Klaus, comunque, oddio çwç Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, eppure l’ho visto crescere di pagina in pagina, l’ho visto cambiare parola dopo parola… e ciò mi uccide, perché i guai di questi tizi non finiscono mai, come i Rotoloni Regina, pertanto il suo carattere non finirà mai di mutare. Esattamente come quello di London, ma di lei parlerò poi, anche se è proprio la figura centrale di questo capitolo.
Il “flashback” non è un vero e proprio flashback, ma l’ho messo in corsivo per motivi che saranno chiariti in seguito, troppo fluff, forse. E poi credo sia il momento che tutti stavano aspettando(?). Io, almeno, sì, anche se l’avevo già scritto secoli or sono. Preciso che tra il suddetto flashback e il paragrafo prima di esso c’è un salto temporale di circa due anni. Viene spiegato, ma comunque ci tenevo a specificarlo :3
Probabilmente questo è il capitolo più lungo di tutti, e uno dei più ricchi. I prossimi sono tra i miei preferiti, credo, ma non aggiornerò molto presto perché maggio sarà un mese veramente lungo e pieno.
Avrete sicuramente notato che da un po’ di tempo a questa parte sto mandando messaggi d’aggiornamento a coloro che hanno inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite [27, 5 e 45… vi adoro, sul serio]. Nel caso non voleste più riceverli, basta dirmelo :)
Niente… Valhalla e Kathy La Svergognata vi salutano ♥
Si ringrazia Mito che ogni tanto mi beta qualcosa, visto che ultimamente è stata da me per quattro giorni e siamo andate al Comicon assieme, oltre ad esserci fatte tante selfie stupide (ci tengo a precisare che per me la parola selfie è femminile) e tanti video altrettanto stupidi (o forse no?) che l’iPad non mi farà caricare. Detto ciò… è finito il vino (cit.).
Buona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da "Grace" di Jeff Buckley. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.







 








 





















Blur

(Tied to a Railroad)






021. Twenty-first Chapter – My fading voice.




Il primo mese a Valhalla era trascorso senza troppe complicazioni. Klaus aveva imparato a capire che le occasioni della vita dovevano essere colte al volo, al di là dell’orgoglio. Così aveva accettato l’aiuto di quella che aveva scoperto essere sua sorella e aveva subito deciso di acconsentire a lavorare con lei quando gliel’aveva proposto. Dalle stelle alle stalle, avrebbe detto qualcuno. Eppure a Klaus non importava più niente; certo, fare il cameriere e prendere le ordinazioni ai tavoli non lo entusiasmava come essere seduto a uno di quegli stessi tavoli, ma bastava soltanto stringere un po’ i denti per sopportare quella sorta di umiliazione. Era la prima volta che provava seriamente a guadagnarsi del denaro da solo e, da un lato, si sentiva soddisfatto.
Oltre che per il lavoro, incontrare Käthe era stata una vera fortuna dal momento che aveva lasciato loro senza problemi una delle case che le erano state date in eredità dal comune dopo che lei era risultata essere l’ultima discendente dei Wreisht a Valhalla.
Non dovevano pagare un affitto e London aveva tempo da perdere durante la giornata sbrigando le varie faccende domestiche e provando imperterritamente ad insegnare la lingua dei segni a Klaudia, che già aveva fatto moltissimi progressi.
Dopo molteplici e vani tentativi, stavano riuscendo a costruirsi una vita normale. Forse non era un sogno, forse la normalità si era finalmente insediata dentro di loro. O forse aveva semplicemente mascherato bene tutto il resto.
 

*


Il letto era caldo e accogliente. London era rintanata sotto le coperte ed era abbracciata al corpo ugualmente caldo di Klaus, che sembrava in costante dormiveglia, come se non potesse mai sul serio addormentarsi del tutto, con le labbra socchiuse e il petto che si alzava e abbassava appena. Per nulla al mondo si sarebbe voluta alzare, eppure si scostò le lenzuola di dosso come se gliel’avesse ordinato una forza esterna e se non l’avesse fatto era certa che sarebbe accaduto qualcosa di brutto.
London non vedeva niente, non riusciva a guardare oltre il suo stato di incoscienza e nemmeno quando poggiò i piedi nudi a terra, sul pavimento freddo, riuscì a svegliarsi.
Si mosse furtivamente nella camera da letto, sbattendo un fianco contro la cassettiera di legno. Gemette di conseguenza, ma badò al dolore solo per un minuscolo istante.
Anche aprire la porta non fu difficile. Sembrava ipnotizzata: aveva gli occhi aperti e, un passo dopo l’altro, tentava di scendere al piano di sotto. Una voce nella sua testa la guidava e l’aiutò a non farla cadere gradino dopo gradino.
Cucina, vai in cucina.
Era la propria voce, ne era certa, tuttavia aveva qualcosa di diverso e non osava immaginare cosa sarebbe successo se le avesse disobbedito.
Tutto ciò che vedeva era buio. Buio davanti a sé, buio nella sua testa, buio dentro il suo petto. Solo dopo qualche secondo cominciò a scorgere qualcosa, ma non era sicura che fosse qualcosa di reale. Come un’allucinazione che prendeva forma nella sua mente con il passare dei secondi. Iniziò a intravedere quella che sembrava un’altra camera da letto, ma di sicuro non era la sua perché aveva un letto singolo, le pareti azzurrine, decorate da alcuni quadri, un’ampia porta-finestra che dava su un balconcino privato… Le ci volle qualche istante per riconoscerla del tutto. Era la camera di Ben. Mancava soltanto lui.
London inciampò nei suoi stessi passi e giunse in cucina caracollando, sostenendosi al muro per non cadere. Il cuore cominciò a batterle molto più velocemente e, per qualche motivo a lei sconosciuto, non si trattava di una bella sensazione.
Dov’è Ben?
Quella stanza era troppo vuota, c’era troppo silenzio, troppa tensione che aleggiava nell’aria. London provò a guardarsi in giro, ma quella sorta di allucinazione le permetteva una visuale estremamente ristretta. Qualcuno all’improvviso cominciò a bussare alla porta, che aveva tutta l’aria di essere chiusa a chiave, e lei sobbalzò.

« Benjamin! » urlò una voce che lei riconobbe come quella di sua madre. « Fammi entrare! Fammi entrare subito! »
Il cuore le salì in gola. Sua madre chiamava Ben, ma Ben non era in quella stanza. Cominciò a respirare velocemente, come se le mancasse l’aria o faticasse a immagazzinare l’ossigeno nei propri polmoni. Spostò lo sguardo nella penombra della camera, finché non si accorse di un corpo che non aveva notato prima, steso a terra, a pancia in giù. Il suo stomaco si contrasse con violenza.
Apri il cassetto delle posate, le ordinò intanto quella voce trascendente. London non l’ascoltò, concentrandosi sul corpo. Gli si accucciò accanto e lo fece voltare verso di lei.

« Benjamin! » continuò a gridare Erzsébet. « Ti prego! »
Apri il cassetto!
Era suo fratello. Era lì, con gli occhi serrati e le labbra schiuse, come quelle di Klaus quando si addormentava. Ma il suo petto, a differenza del marito, era immobile. E la maglietta era intrisa di sangue fresco. L’odore le giunse alle narici ancor prima che si potesse rendere conto di ciò che stava vedendo.
Un grido d’orrore le rimase attanagliato in gola, gli occhi le si spalancarono nel vuoto.
APRILO!

« Apri la porta! »
« Va tutto bene, London » disse qualcun altro, facendola sobbalzare. Si girò verso la fonte di quella voce e ciò che vide la lasciò ancora più sconvolta e atterrita di quanto aveva fatto il corpo esanime del gemello sul pavimento. « Sei al sicuro » sorrise un altro Benjamin, di un sorriso storto. Era seduto sul letto e la guardava come si guarda un condannato a morte.
London lasciò andare quell’urlo terrorizzato che aveva trattenuto fino a qualche istante prima.
London credette di aver visto la morte in faccia; sembrava che tutto il dolore del mondo avesse preso possesso di lei e minacciasse di distruggerla in un fugace battito di ciglia.
London, senza neanche accorgersene, fece quanto richiesto dalla voce e recuperò a tentoni la prima posata che le capitò sotto le dita esili. Un coltello.


 
*


Qualcosa lo fece svegliare di colpo. Klaus si alzò di scatto a sedere sul materasso e sgranò le iridi scure nel buio della notte. Non sapeva se era stato un incubo, ma aveva una bruttissima sensazione addosso, come se l’angoscia gli stesse stringendo la gola con le sue mani vellutate.
Notò subito che London non c’era. Capitava spesso che lei di notte si alzasse per andare a prendersi un bicchiere d’acqua e lui non aveva mai capito perché non portasse la bottiglia con sé già prima di andare a dormire. Scosse la testa e si passò una mano sul volto. Non aveva nulla di cui preoccuparsi. Se l’era solo immaginato.
Si lasciò ricadere sul letto, inerte, guardando il soffitto bianco della camera. Chiuse gli occhi, aspettandosi di sentire il calore del corpo di London entro breve accanto a sé. E invece non successe niente. L’altro lato del letto rimase vuoto per molti minuti, così tanti che Klaus cominciò a pensare che la moglie fosse annegata in quel bicchiere d’acqua.
Fu più forte di lui: abbandonò le morbide coperte con uno sbuffo e si decise a scendere le scale. In ogni caso, non avrebbe preso sonno finché non l’avrebbe avuta addormentata e al sicuro vicino a sé.
Attraversò il corridoio del piano superiore e scese i gradini uno alla volta, già scocciato di dover essersi scomodato per vedere cosa stesse facendo London. Sorrise sarcasticamente al pensiero. Che cosa non si fa per un Bridge in grave pericolo, si disse, sospirando.
Qualche secondo più tardi, trovò London in cucina.

« Oh, ma cosa stai-? » cominciò a domandare, varcando l’uscio della porta, quando si accorse dell’oggetto che la moglie teneva in mano. Era immobile, sembrava reggersi in piedi a stento ed era così pallida che avrebbe fatto invidia ad un fantasma. E stringeva un coltello tanto forte che le sue nocche erano sbiancate visibilmente. Aveva lo sguardo perso nel vuoto e si puntava la lama al ventre. La sua mano tremava, ma le intenzioni erano chiare.
Klaus non ci pensò neanche due volte e si scagliò su di lei con uno scatto, terrorizzato all’idea che London potesse accoltellarsi in preda a chissà cosa.

« Fermati! » gridò, gettandosi sul suo corpo senza nemmeno riflettere sul fatto che così facendo si sarebbero potuti ferire. Caddero a terra l’uno sull’altra, Klaus che stringeva il corpo della moglie per frenarla da quell’impulso improvviso, scosso almeno quanto lo sembrava lei. Il coltello, fortunatamente, finì lontano sulle piastrelle del pavimento.
London sembrò ridestarsi per la botta e il suo sguardo assente svanì l’istante successivo, lasciando spazio, però, a un’espressione che Klaus era certo non avrebbe mai dimenticato.
L’urlo improvviso della ragazza gli fece ghiacciare il sangue nelle vene. Prese a dimenarsi, come se lui fosse un estraneo con intenzioni tutt’altro che positive, e continuò a gridare. Urlava così tanto che avrebbe potuto svegliare tutto il vicinato, perciò fu costretto a tapparle la bocca con una mano.

« London, ascoltami! » provò a dirle, ma lei sembrava più sconvolta che mai, tremava da capo a piedi e aveva le pupille dilatate dalla paura. « Era solo... un incubo, London, solo un incubo » mormorò, mentre lei cominciava a piangere e a dimenarsi sempre di più; alla fine riuscì a liberarsi dalla stretta di Klaus e strisciò a terra in direzione della parete, dove si appoggiò con la schiena.
London si coprì il volto con le mani e accompagnò le lacrime con una serie di singhiozzi straziati, quasi come se avesse visto la morte con gli occhi e ne fosse rimasta traumatizzata.
Klaus le si avvicinò e le si accucciò accanto, sfiorandole una spalla. 
« London… »
« NO! » strillò, scostandosi bruscamente da lui. « Non toccarmi! »
« London, sono io » fece il marito, alzando le mani in segno di resa, turbato da quella reazione.
London sembrò rendersene conto solo in quel momento, perché prese a guardarlo con occhi diversi. 
« E’ successo qualcosa a Ben » annaspò, stringendogli una mano intorno al polso. « E’ successo qualcosa a Ben! » ripeté, forse per convincerlo di quella tesi.
Klaus la aiutò ad alzarsi e, dopo che lei si rimise in piedi con difficoltà, la strinse al petto senza dire nulla. London si abbandonò e pianse altre lacrime sulla sua spalla, certa che quella non era stata soltanto un’allucinazione o un incubo.

« E’ successo qualcosa a Ben... » disse ancora, come se il disco delle sue parole si fosse rotto.
« No, London » le rispose Klaus, poggiandole una mano dietro la nuca e accarezzandole piano la testa. « Era soltanto- »
« Non mi credi! » esclamò lei, con un altro singhiozzo. « E’ mio fratello gemello… tu non capisci… »
« D’accordo, non capisco » acconsentì. « Ma non possiamo dire con certezza che gli sia successo qualcosa. »
« Ma io l’ho visto » protestò London, « era morto! Morto, hai capito? Morto! »
Klaus non rispose niente ancora una volta. Piuttosto, le spostò una sedia dal tavolo e la fece sedere lì. « Ti preparo una camomilla. »
La ragazza non si arrese. « C’era un altro lui seduto sul letto… e mi ha sorriso… »
« Un altro lui? » ripeté il marito.
London si accorse che il suo ragionamento vacillava. Se gli era davvero successo qualcosa, allora perché c’erano due Ben in quella stanza? Tuttavia, al di là delle lacrime fredde che le bagnavano le guance e che le ottenebravano la capacità di ragionare lucidamente, London sapeva che quella visione non l’aveva avuta per caso e, inoltre, non ricordava di aver mai sognato una cosa del genere. Si guardò le mani tremanti e pensò a come aveva stretto il coltello fino a qualche minuto prima. Cosa avrebbe fatto, se Klaus non ci fosse stato? Si sarebbe… uccisa?
Quel pensiero le fece scendere altri brividi lungo la schiena. Lei non aveva mai desiderato di morire, neanche lontanamente, neanche per sbaglio. Sperò che Klaus preparasse in fretta quella camomilla, almeno le avrebbe fatto fermare quell’insopportabile tremito. 
« Non so cosa mi sia preso… » ammise in un sussurro, guardando di sottecchi il coltello abbandonato sul pavimento. Era uno di quelli lunghi e affilati, adatti a tagliare il cibo più calloso.
Klaus seguì la direzione del suo sguardo e si affrettò a togliere quella lama dalla loro vista. 
« E’ tutto finito, adesso » le disse.
London, suo malgrado, non gli credette nemmeno per un attimo.

Da quanto tempo stava così? Da quante ore, giorni, settimane? London non se lo ricordava più. Aveva provato a ricordarsi di quanto fosse bella la vita, di come tutto stesse finalmente migliorando, ma tutto ciò che riusciva a pensare era il buio del suo incubo.
Si sentiva come strappata dalla realtà, come se una parte di sé fosse rimasta in camera con Ben – accanto a quello vivo o morto non aveva importanza.
London non riusciva più ad essere ottimista. La sua mente non riusciva a colmare il vuoto che si era creato dentro di sé, le sembrava che il filo che la legava ancora a suo fratello fosse stato tranciato di botto da un paio di forbici con le lame affilate. Non lo sentiva più, non sentiva più niente che la facesse essere ancora connessa a Ben.
Una rottura, una rottura brusca e improvvisa. Ecco cos’era stata, quella visione.
Era annegata in un mare senza l’acqua che potesse sommergerla.
Si strinse il cuscino al petto e aspettò che Klaus si stendesse accanto a lei, paziente.

« Come ti senti? » le sussurrò lui, infilandosi sotto le coperte.
London non gli rispose, ma si lasciò cingere dalle sue braccia salde e, anche se non si addormentò né avrebbe provato a farlo, rimase così tutta la notte, con i pensieri volti a Panem, al mondo che si era lasciata alle spalle e al fratello che aveva abbandonato senza ombra di spiegazione.

 

*


Un bacio. Labbra bramose, mani tra i capelli, respiri che si contaminavano.
Klaus non ricordava più quanto fosse bello fare l’amore con London, era passato veramente tanto tempo dall’ultima volta e quasi ne sentiva una mancanza fisica, come se abbracciare il corpo nudo della moglie tra le lenzuola fosse l’idea più vicina alla perfezione che potesse immaginare. E se secondo alcuni la perfezione non esisteva, si era detto, allora non avevano mai provato a guardare più a fondo nelle piccole cose. Come un bacio, un “buonanotte” sussurrato alle prime luci dell’alba, un intreccio di mani e corpi che si cercavano a vicenda, uno scontro di sguardi penetranti e lascivi, un sorriso spontaneo.
Tutto quello era
perfezione, e Klaus non desiderava nient’altro.

« A che stai pensando? » gli chiese London improvvisamente, girandosi verso di lui. Klaus le accarezzò una spalla e alzò gli angoli le labbra. « A quanto mi era mancato tutto questo. » Le sue dita passarono ad esplorarle una guancia e lei chiuse gli occhi a quel tocco leggero e familiare al contempo. Non rispose nulla, forse perché era rimasta ammutolita dalla sincerità del marito, quando lei era stata sempre la prima a mentire tra i due. Era così difficile abbattere le barriere, eppure Klaus ci stava riuscendo, mentre London era rimasta a metà strada, in bilico tra bugie e verità.
« Hai freddo? » domandò lui piano, con una nota dapprensione forse fin troppo evidente per i suoi canoni.
« Un po’ » rispose, e il suono soave della sua voce fu accompagnato da un fruscìo del lenzuolo. Klaus si alzò dal letto e si apprestò a chiudere la finestra semiaperta, rabbrividendo per la brezza fredda che gli accarezzò il corpo nudo e illuminato dai deboli raggi lunari.  
« Meglio » mormorò London, facendo cenno allaltro di tornarle accanto; lui si stese nuovamente sul letto, coprendosi con le coperte morbide.
Gli istanti successivi furono occupati da un dolce silenzio, tuttavia colmato dagli sguardi. Indagatori, attenti, comprensivi. Si osservavano negli occhi placidamente, senza nessun segno di odio o rancore. Stesi l
uno accanto allaltra, si sfioravano appena e Klaus le portò una ciocca di capelli bianchi dietro lorecchio, riuscendo a vedere bene come lei si beò anche di quel breve contatto.

« Baciami » sussurrò London, così piano che sarebbe stato difficile sentirla. Ma Klaus la sentì e la baciò, sorridendo lievemente. Ciò nonostante, si allontanò di poco dopo qualche secondo.
« Cosa c’è? » gli chiese, cogliendo la sua esitazione.
Il ragazzo si alz
ò su un gomito e la guardò in silenzio. 
« London » bisbigliò, con un tono diverso da tutti gli altri che lei aveva sentito rivolgerle.
Lo osserv
ò, in attesa, con un cipiglio vagamente confuso. 
« Cosa? »
« Io… » tentennò Klaus, come cercando il coraggio per continuare negli occhi della moglie. « Ti amo » disse infine, semplicemente. « Sono stato un bugiardo per tutto questo tempo. » Non era mai stato bravo con le parole, eppure a London si illuminarono gli occhi e prese a guardarlo con un leggero sorriso ad incresparle le labbra. Lei non gli avrebbe mai risposto, e non perché non lo amasse, ma soltanto perché era troppo orgogliosa per ammetterlo. E forse Klaus lo sapeva perfettamente, perché si lasciò baciare e sovrastare dal corpo sinuoso della ragazza, che salì a cavalcioni su di lui, ridacchiando.
« Lo so, idiota » disse London. « Credo di averlo sempre saputo. » Allora si abbassò sulle sue labbra e lo baciò, ancora. Avrebbe voluto continuare a baciarlo per tutta la notte.

Due anni. Due anni passati a nascondersi dal mondo.
London se ne rese conto guardando Klaudia che giocava con le sue bambole in giardino, facendo prendere loro il tè. Era cresciuta davvero molto: era diventata più alta e per la sua ancora giovane età di cinque anni e mezzo mostrava già un’intelligenza non indifferente, forse sviluppata per compensare la mancanza d’udito. Non riusciva ancora a capacitarsi di come la figlia fosse in grado di capire perfettamente sia lei che Klaus, eppure ne era felicissima, oltre che estremamente orgogliosa. Se Ben l’avesse vista, in quel momento, ne sarebbe andato di sicuro fiero allo stesso modo.
Un sospiro triste le fuoriuscì dalle labbra a quel pensiero. Per quanto tempo fosse passato, non si era ancora abituata alla mancanza del gemello. Tuttavia, dopo quell’incubo non ne aveva più avuti altri e forse aveva imparato ad autoconvincersi che si fosse trattato soltanto di una semplice quanto inaspettata e terrificante allucinazione.
Per scacciare quell’orribile ricordo, s’immerse ancora una volta nella contemplazione di Klaudia. London, in quel momento, sola in casa poiché Klaus aveva il turno di pomeriggio al bar, era in cucina a lavare i piatti e teneva d’occhio la figlia tramite la finestra sopra il lavandino, che le permetteva una discreta visuale del cortile appena fuori l’ingresso. La bambina era seduta lì ad un tavolino e giocava indisturbatamente, ridendo con le sue bambole come se fossero state sue amiche in carne e ossa. Un velo di malinconia coprì ancora una volta i suoi pensieri. Chissà, si chiese, se Klaudia avrebbe mai potuto avere delle amiche vere. Nel suo caso avrebbe sicuramente fatto comodo un fratello o una sorella, ma attualmente lei e Klaus non erano in condizione di farle un tale dono, né lo sarebbero stati mai. 
Sorrise amaramente. Era capitato molte volte in quegli anni che un ritardo del mestruo la facesse sospettare di essere incinta, ma le sue speranze – in fondo era di questo che si trattava – erano sempre state deluse. Così sarebbe successo anche quella volta, in cui sembrava che la nausea e i giramenti di testa volessero prendere il controllo su di lei. Tutti falsi allarmi, naturalmente, come c’era da aspettarselo. Lei e Klaus non avrebbero mai avuto un figlio loro, doveva metterselo bene in testa.
Anche quando si guardava allo specchio e credeva di essere ingrassata o credeva che il seno le fosse diventato stranamente più sodo, si sfiorava la pancia con le dita, ma subito dopo accantonava il pensiero. Odiava illudersi da sola, del resto, per cui ormai non ci sperava neanche più.
Chiuse il getto dell’acqua e si asciugò le mani, dopodiché cominciò a riordinare le stoviglie appena lavate. 
Ecco, anche sua madre, che l’aveva sempre voluta vedere come una perfetta donna di casa, sarebbe stata fiera di lei adesso. Tutti, forse, nell’intero Distretto Sei lo sarebbero stati. London era cambiata, lo sentiva come mai prima d’ora. Sentiva di essere diversa, di star diventando pian piano una persona migliore, anche se in fondo al suo cuore sarebbe sempre rimasta la ragazza viziata e impertinente che era un tempo. Un tempo che, a pensarci, le sembrava lontanissimo.
Finì di sistemare in pochi secondi i piatti e le posate, ma, prima che potesse raggiungere Klaudia in cortile, sentì il telefono squillare. Era un apparecchio che London non aveva mai sopportato, ma da quando si erano trasferiti a Valhalla aveva dovuto farci l’abitudine perché lì lo usavano molto più che a Panem.
Dalla finestra lanciò una veloce occhiata alla figlia, convincendosi che in quel breve lasso di tempo che l’avrebbe persa di vista non sarebbe accaduto niente perché il cancello che separava il giardino dalla strada era chiuso e Klaudia non era così incosciente da scavalcare e uscire, dopodiché si decise a rispondere. Giunse nel salotto in men che non si dica e alzò la cornetta del telefono a muro, vecchio almeno di una cinquantina d’anni.

« Pronto? »
Dall’altra parte della linea arrivarono delle parole frammentate e sconnesse, disturbate da un rumore di sottofondo.
« Chi parla? «» insistette lei, premendosi meglio il telefono sull’orecchio. A quelle parole la risposta fu identica e incomprensibile. London fu costretta a riattaccare con uno sbuffo. Lei lo sapeva, che quegli aggeggi erano inutili.
Fece per tornare in cucina, ma prima di varcare la soglia della porta il telefono squillò ancora una volta. Si precipitò a rialzare la cornetta.
« Pronto? » riprovò, con una nota più acida nel tono di voce. La replica non arrivò esattamente come qualche istante prima, così lei perse la pazienza: « Si può sapere chi è, dannazione? »
Forse era semplicemente qualcuno che voleva farle uno scherzo di cattivo gusto, per cui riattaccò senza nemmeno aspettarsi che il misterioso interlocutore rispondesse davvero.
« Bene! » esclamò, irritata, sbattendo di nuovo la cornetta al suo posto. Lasciò il salotto velocemente, dirigendosi in giardino per spiegare a Klaudia che era ora di rientrare.
Quando aprì la porta principale di casa, ancora prima di riuscire a capire cosa non andasse, una strana sensazione la investì di botto. Uno strano fastidio alle tempie, come se qualcuno la stesse osservando da lontano. Si guardò intorno e non vide nessuno. Fu sul punto di tirare un sospiro sollevato, quando si rese conto che la parola “nessuno” suonava fin troppo estranea nella sua testa; le rimbalzò da una parte all’altra della mente, ampliandole di conseguenza quel vuoto improvviso nel petto.
Nessuno. Nel cortile non c’era nessuno.
A eccezione di due bambole di porcellana cadute sull’erba.
 

« Klaudia? »
La voce le uscì così tremante che London stessa se ne spaventò. Il cortile era talmente desolato che sembrò eguagliare quella sensazione dentro il suo petto. Le gambe le vacillarono. Klaudia non cera.
La sua reazione fu repentina: si voltò di scatto e rientrò in casa, cominciando a cercare in tutte le stanze come un’ossessa, correndo affannosamente per spostarsi da una camera all’altra, vuote dalla prima all’ultima.
Forse era rientrata da sola e non se n’era accorta. Forse era troppo impegnata a insultare mentalmente l’interlocutore anonimo del telefono per essersi accorta della porta principale che sbatteva. Doveva essere così, per forza. Non riusciva a pensare ad altre alternative.

« Klaudia! » urlava, intanto, spalancando tutte le porte che le capitavano a tiro. Anche al piano di sopra la corsa fu inutile. Non c’era nessuna traccia della bambina.
L’aria cominciò a venirle meno, il cuore cominciò a batterle all’impazzata, come se ogni battito od ogni respiro fosse una violenta stilettata al petto. 
« Klaudia, tesoro! »
Dannazione, non mi può sentire!, pensava intanto, con la poca dose di lucidità che le era rimasta. Scese nuovamente le scale e si precipitò una seconda volta in cortile, dove non era cambiato un solo filo d’erba.
London si fiondò sul cancello senza pensarci due volte, con il cuore in gola, e solo allora si accorse che le sbarre erano state bloccate da una spessa catena di ferro, il cui lucchetto si trovava dalla parte opposta.
Le lacrime cominciarono a pungerle gli occhi ma non riuscì a versarle subito perché la paura era ancora più forte della disperazione.
Dov’è, maledizione, dov’è?!
Iniziò a collegare solo in quel momento. Le due telefonate erano state un diversivo per allontanarla dalla bambina; in quel lasso di tempo qualcuno si era intrufolato in giardino, aveva preso Klaudia e, dopo aver bloccato il cancello per rallentare London, l’aveva portata via con sé. Non era difficile da immaginare.
Lhanno rapita. Quel pensiero le rimbombò nel cervello, così tanto che lei prese a scuotere violentemente il cancello pur di farlo aprire, ma quello naturalmente rimase ben chiuso. 
« Apriti, cazzo, APRITI! » urlò, ancora più furiosa per l’irrisorio tintinnare della catena contro le sbarre. Diede un calcio ad una di queste, ma non successe niente.
Ai lati dal cancello c’era un muretto di pietra, alto quasi più di un uomo di media statura. Dietro la casa c’era un’altra uscita, ma prendendo quella strada avrebbe perso molto più tempo. Seguì l’istinto disperato e aggrappandosi all’edera rampicante che cresceva intorno al muretto, si arrampicò fino in cima.
Scendere sarebbe stato ancora più facile, se solo London per la fretta non fosse scivolata sulla pietra. La caduta fu, probabilmente, una delle cose più dolorose che avesse mai provato. Cadde sull’asfalto della strada con una velocità di cui lei neanche si accorse, finendo con il volto rivolto al terra. Rimase completamente stordita per qualche minuto buono; la vista le si appannò e un dolore lanciate alla caviglia destra le fece sopprimere a stento un grido.
Non poteva fermarsi così. L’asfalto della strada le pungeva una guancia e la sua mente non aveva abbastanza forze per ordinarle di alzarsi, senza contare che il dolore alla caviglia era talmente prepotente che pensò di essersela spezzata.
Si rimise in piedi dopo troppo, troppo tempo, aggrappandosi ancora una volta al muretto per sorreggersi. Cominciò a zoppicare per la strada, ignorando il dolore e proseguendo a denti stretti. Le lacrime che prima le si erano formate alla base delle ciglia premevano per sgorgare come cascate, ma London continuò a mordersi le labbra per ignorare qualsiasi cosa che la facesse distrarre dal pensiero della sua bambina rapita. Una raffica di domande si materializzava e annullava nella sua testa ogni secondo.
Dove l’avevano portata? Perché l’avevano rapita? Cosa le avrebbero fatto? Volevano un riscatto? Ma perché architettare un piano così elaborato? E perché proprio Klaudia e non un’altra bambina?
Dopodiché, tornava a concentrarsi sulla ricerca, che era la cosa più importante in quel momento; le domande potevano aspettare.
Era il primo pomeriggio, motivo per il quale non c’era molta gente per strada. Tuttavia, appena London scorse un passante che camminava accanto al viale alberato della sua via, gli si fiondò contro, quanto più veloce le era possibile per la caviglia – slogata o rotta che fosse.

« Ha visto… sie hat…? » balbettò, passando da una lingua all’altra per l’agitazione, già ansante per lo sforzo. L’uomo, nel vederla in quello stato, provò a cambiare direzione, ma infine, seppur con uno sguardo sospettoso, le disse: « Cosa tu vuoi? »
London gli strinse una spalla con la mano, spalancando gli occhi su di lui. « Ha visto una bambina con i capelli bianchi in giro? » domandò tutto d’un fiato. « Ha circa sei anni… è alta più o meno- »
« Io non ho visto no bambina, mi dispiace » rispose l’uomo, scrollandosi la ragazza di dosso e riprendendo a camminare. London digrignò qualche insulto tra i denti e continuò a caracollare per la strada, alternando un piede all’altro con un’espressione sofferente. Cercò di essere il più veloce possibile, ma in quel momento la cittadina le sembrava infinitamente grande e ostile, proprio come un qualche essere superiore che adesso sembrava avere tutta l’intenzione di calarle una scure sulla testa per tutti i suoi errori commessi nell’arco di una vita intera.
 
 
*
 

« E così, dopo averle guardato il culo giusto per accertarmi che non avesse anni di grasso accumulato al posto delle natiche, le ho chiesto se volesse uscire con me » spiegò Käthe, asciugando i bicchieri appena lavati con un panno pulito.
« E lei cosa ti ha risposto? » chiese Klaus, alzando gli occhi al cielo. « Che non ne vedeva l’ora? »
« Magari » ribatté la sorella, amareggiata. « Mi ha detto che non voleva ferire i miei sentimenti e che purtroppo le piaceva il fantastico gingillo che avete voi maschi. »
« Ha detto proprio così? » finse d’interessarsi Klaus.
« Il sunto è questo » rispose la maggiore con una scrollata di spalle, « tanto me la pagherà cara lo stesso. »
Il ragazzo la guardò con un sopracciglio alzato. « Non puoi molestare una tizia a cui hai chiesto di uscire dopo dieci minuti dall’averla conosciuta. »
« E tu, allora? » replicò Käthe con una smorfia di superiorità. « Vuoi contare tutte le volte in cui hai importunato London, solo che poi hai finito per innamorarti di lei come uno stupido adolescente in piena fase ormonale? »
Klaus le lanciò una fredda occhiata che bastò a farla tacere. Käthe sapeva di non poter toccare certi tasti, ma ogni tanto gli lanciava qualche provocazione per vedere se lui stesse al gioco. La differenza tra lui e la sua sorellastra, in effetti, stava semplicemente nel fatto che Käthe non era mai cresciuta.
E poi lo stupido adolescente dovrei essere io… si disse Klaus con un sospiro esasperato.

« Comunque London non è per niente male » aggiunse lei ridacchiando. « Se mai poteste essere interessati ad un rapporto a tre, fatemi sapere. »
« Spiacente, ma la merce non è in vendita » fece Klaus, lasciandole una sarcastica pacca sulla spalla. « Ritenta e sarai più fortunata. »
Käthe sbuffò. « Voi di Panem siete troppo all’antica… » cominciò, quando entrambi alzarono la testa allo sbattere della porta del locale, deserto a quell’ora. Sulla soglia comparve proprio London e quella, non appena li ebbe individuati dietro il bancone, si diresse verso di loro zoppicando.
L’espressione di Klaus mutò dall’annoiato all’allarmato nella frazione di un secondo.
« Che cosa è successo? » domandò, nel vedere la moglie in quello stato.
« Klaudia! » sbottò lei con un singhiozzo, gli occhi già rossi di pianto. « L’ho cercata ovunque… l’hanno presa… e io… » mormorò, versando altre lacrime e stringendo gli avambracci del marito come in una morsa. Sembrava stremata ma determinata al contempo.
Il ragazzo non chiese altro e, senza spiegare nulla a Käthe o al capo, sorresse London e insieme uscirono dal locale. Klaus non pretese spiegazioni e, intenzionato a chiedere ai passanti o a contattare le autorità, s’incamminò accanto alla moglie, ma dopo qualche secondo un boato proveniente da poco lontano li fece bloccare sul posto.
Si guardarono intorno, spaesati, poi alzarono gli occhi in alto.
Un hovercraft si alzò in volo in una porzione di cielo poco lontana a loro. Un hovercraft grosso, nero, minaccioso.
Un hovercraft con il simbolo di Capitol City.


















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Capitolo 23
*** 022. Twenty-second Chapter – Lacrimosa dies illa. ***


Note: Fortunatamente ho pochissimo da dire. Come previsto, maggio è stato un mese lungo e pesante a causa degli impegni scolastici, ma adesso che sono libera (e senza debiti ♥) posso dedicarmi completamente a Blur, che spero di portare a termine al più presto, quindi non vi spaventate se gli aggiornamenti diventeranno un pochino più costanti.
Con questo capitolo XXII ho raggiunto un paio di traguardi: in primis, le 100.000 parole su Word - e non potete capire quanto ne sia soddisfatta! -, le 80 recensioni qui su Efp e le quasi-2000 visualizzazioni del prologo. Grazie, perciò, alle persone che mi sostengono e grazie a tutti voi che leggete e/o recensite, mi rendete una persona estremamente felice. 
Spero che questo capitolo vi piaccia, anche perché c'è un po' più d'azione ed entriamo finalmente nel vivo di tutta la storia.

Buona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da "Lacrymosa" degli Evanescence, oltre che dal "Requiem" di Mozart, accompagnato da una preghiera in latino (il Dies Irae) che recita proprio questo verso. La traduzione è: "Quel giorno (sarà) pieno di lacrime". Non specifico a quale giorno mi riferisco perché è spoiler(?). 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 



 

















Blur

(Tied to a Railroad)






022. Twenty-second Chapter – Lacrimosa dies illa.




Tre giorni. Tre giorni, sette ore e trentacinque minuti, per la precisione. Ecco il tempo trascorso da quando Klaudia era stata rapita. London l’aveva contato quasi di minuto in minuto.
L’avevano portata via. Se lo stava ripetendo dal momento in cui aveva trovato il giardino di casa vuoto, con quelle stupide bambole di porcellana a terra, sull’erba, a confermare il proprio terrore. London non aveva il coraggio di domandarsi dove l’avessero portata, che cosa le avessero fatto e che cosa le stessero facendo proprio in quel momento. Klaudia aveva soltanto cinque anni, era sola ed era sorda. Non riusciva a immaginare quanto fosse spaventata e al solo pensiero le veniva voglia di urlare e piangere al contempo. La sua bambina era in pericolo: non le importava come, non le importava quando e dove, ma l’avrebbe trovata, anche a costo di girare tutta Panem a piedi o di corsa.
Klaus era stato molto più pragmatico di lei, occupandosi di tutto il necessario. Aveva preparato un borsone in fretta e furia – lo stesso di quando erano partiti, a stento aveva avuto il tempo per accorgersene –, aveva parlato con Käthe e lei gli aveva indicato a chi rivolgersi per tentare la missione suicida di tornare a Panem; era stata proprio la sorellastra a dire loro che conosceva le persone giuste per queste cose proprio quando erano arrivati a Valhalla, in circostanze di simile raggio d’azione ma direzione e pericolo diversi.
Avevano preso un altro hovercraft appena otto ore prima, erano saliti senza nemmeno guardarsi indietro e si erano chiusi in un mutismo disperato, interrotto unicamente dalle blande rassicurazioni di Klaus. London non aveva detto semplicemente niente; si era limitata per tutto il viaggio a fissare un punto imprecisato davanti a sé con sguardo vuoto ma determinato. E proprio lì, in quel momento, London aveva saputo che quella situazione avrebbe preso una brutta piega. Era poco più che una sensazione, ma pian piano si stava trasformando in un ronzio disturbante nel suo cervello, come un avvertimento. Ma non le importava. Non le importava di nulla e di nessuno. Non avrebbe mai abbandonato sua figlia così, in balia di sconosciuti rapitori, nelle mani di persone malvagie.
Doveva trovarla. Trovarla e portarla al sicuro.

Atterrarono all’alba, in un’area talmente desolata che la determinazione di London si sgretolò per un istante.

« Dove siamo? » domandò con voce tremula, guardandosi intorno. Era una vecchia e arrugginita ferrovia abbandonata e nell’aria polverosa regnava un silenzio denso di tensione.
« Avevo detto al pilota di portarci al Distretto Sei » rispose Klaus con una velata nota di insicurezza nella voce. « Credo che siamo vicini, questo posto fa parte della zona mai più ricostruita dopo i Giorni Bui. Forse era il luogo migliore per l’atterraggio. »
London non fece altre domande e s’incamminò prima di lui, a passo spedito, alzandosi il cappuccio della felpa sui capelli. Ancora non sapevano come avrebbero fatto ad entrare, né cosa avrebbero fatto o detto quando sarebbero stati riconosciuti.
Erano passati due anni. Due anni intensi, ma trascorsi fin troppo velocemente. In due anni possono cambiare molte cose, ma Klaus e London avevano avuto giusto il tempo di provare a saggiare un briciolo di felicità prima che questa fosse portata loro via bruscamente, in una frazione di secondo.
London non provò assolutamente nulla nel mettere piede di nuovo sul suolo del proprio Distretto, tutto ciò che attraversava la sua mente era Klaudia. Soltanto dopo riaverla abbracciata avrebbe cominciato a pensare al resto. Eppure c’era un’altra costante nei suoi pensieri: Ben. In quel momento avrebbe dato il mondo pur di vedere suo fratello… e forse non sarebbe stato tanto difficile, se fossero riusciti ad entrare.
Velocizzò il passo senza nemmeno accorgersene, tanto che superò il marito in men che non si dica. Klaus, in ogni caso, la raggiunse subito e insieme continuarono a camminare l’uno a fianco all’altra in direzione della porta sud del Distretto – la prima che avrebbero incontrato.
Il tempo si annullò passo dopo passo. Nessuno dei due seppe dire quanto ne era passato – eppure il sole era ancora basso nel cielo, quindi non dovevano averci messo molto – quando avvistarono da lontano un gruppo di persone in movimento, davanti a uno spesso muro di cemento armato che separava la zona abitata da quella disabitata e abbandonata. Solo allora London si costrinse a non agire di impulso e a trovare quantomeno una sorta di piano.

« La porta è sorvegliata dai Pacificatori » fece notare a Klaus, bloccandolo per un polso e indicando il drappello appostato davanti alla porta sud con un cenno del capo. « Come entriamo? » chiese, mentre cominciava a sentire le pulsazioni del proprio cuore aumentare a dismisura. Un solo passo falso sarebbe costato loro molto caro.
Klaus strinse in risposta la mano della moglie e fissò le mura come per cercare una soluzione. 
« Quelli dovrebbero essere commercianti… oppure operai » disse, socchiudendo gli occhi per guardare meglio da lontano. « Mi sembra che siano in fila per entrare. »
« Ma se non sbaglio hanno un’autorizzazzione firmata dal sindaco o una cosa del genere… » ricordò London. « Non possiamo presentarci così e sperare di entrare. »
« Non possiamo nemmeno aspettare qui fuori per sempre » ribatté Klaus. « In realtà basterebbe non farci riconoscere. A quello ci penseremo una volta dentro. » Si voltò verso di lei e le nascose meglio sotto il cappuccio i capelli bianchi, tratto distintivo dei Bridge che avrebbe potuto causare la rovina del piano. London alzò appena lo sguardo su di lui e lo osservò accarezzarle guancia e fronte con i polpastrelli.
« Diremo che siamo autorizzati da tuo padre » continuò Klaus, alzandosi a sua volta il cappuccio sulla propria testa. « Sul mio non conterei a prescindere. »
La ragazza annuì e spostò nuovamente gli occhi sulle mura, mentre il marito non li distoglieva da lei, forse per controllare il suo stadio di agitazione.
« London » la chiamò, stringendole ancora una volta la mano. « Qualsiasi cosa accada, noi due non ci conosciamo. »
London gli rivolse un’occhiata perplessa – quasi spaventata all’idea. « Noi due non…? »
« Non ci conosciamo » confermò Klaus. « Non devi assolutamente dare a vedere che siamo sposati. Se uno di noi dovesse essere riconosciuto, almeno l’altro potrà entrare. Chiaro? »
La moglie sembrò atterrita, eppure annuì comunque. Stavano rischiando la vita, stavano rischiando tutto. Il cuore le martellava in petto e quasi le mozzava il respiro, mentre la pelle del viso era impallidita a vista d’occhio. « Andiamo » fece infine, non provando nemmeno a nascondere il tremolio nella propria voce.
Entrambi sciolsero la stretta tra le loro mani, riprendendo a camminare con atteggiamento nervoso e facendo stridere nel silenzio tombale la suola delle scarpe contro il terreno cosparso di pietruzze. Avvicinandosi alla porta sud, cominciarono a distinguere altre cose: i Pacificatori accanto ad essa erano molti più di quanti ce ne sarebbero stati normalmente, tutti con le armi ben salde in mano.

« Klaus, aspetta » si allarmò London, ma Klaus con un cenno del capo e un’occhiata che voleva sembrare determinata la incitò a continuare a camminare. La ragazza si ricordò che dovevano apparire il meno intimi possibile, o i problemi sarebbero arrivati ancora prima di riuscire a mettere piede all’interno del Distretto, quindi cercò di ignorare l’ansia crescente e di sembrare disinvolta.
Dopo qualche metro, si videro costretti a mettersi in fila dietro un gruppo di operai. Ognuno di loro trasportava un carretto o una cassa, talvolta borse e sacche, piene di arnesi e panni sporchi d’olio – dovevano essere di sicuro gli addetti alla manutenzione dei treni. L’uomo in fila prima di loro indossava una tuta di jeans completamente macchiata e si puliva la fronte con un fazzoletto di stoffa pulito.
Si voltò verso di loro giusto un istante, li squadrò per qualche secondo, ma poi tornò a parlare con il suo collega senza dire nulla. London tirò un sospiro di sollievo e si abbassò ancora di più il cappuccio sui capelli per non essere riconosciuta. Sapeva che Klaus era dietro di lei perché percepiva il suo sguardo sulla nuca, che forse avrebbe dovuto incoraggiarla, mentre non faceva altro che farle venire voglia di voltarsi e correre in un altro posto. Quella situazione le aveva fatto salire la tensione a fior di pelle, tanto che era costretta a incrociare convulsamente le braccia al petto per calmarla. Manca poco, si ripeteva, guardando ogni operaio parlare brevemente con uno dei Pacificatori all’entrata, mostrare quello che aveva l’aria di essere un tesserino lasciapassare e scomparire dietro la grande porta di ferro. Rivedrò Ben, mamma e papà. Mi aiuteranno a cercare Klaudia, andrà tutto bene.
Stava diventando una litania nella sua testa, ma era l’unica cosa che la spingeva a proseguire, a mettere un piede davanti all’altro. Solo dopo qualche secondo, le parve di sentire l’uomo davanti a lei pronunciare distintamente la parola “Bridge”. Il cuore le si fermò nel petto, per poi riprendere a battere più velocemente di quanto stesse facendo prima.

« Che siano maledetti » disse un altro sconosciuto, aggiungendosi alla conversazione. « Ho sempre saputo che stavano dalla parte di Capitol. »
Dalla parte di Capitol?, si chiese lei, terrorizzata. Che diavolo è successo perché pensino una cosa del genere?
« Già la figlia – chissà come, forse si è scopata Snow in persona – è scomparsa nel nulla, magari andandosene in qualche bella località esotica, ma adesso ci si mette anche il fratello! »
Klaus le strinse una spalla repentinamente, prevedendo una qualche sua mossa. La strinse così forte da farle male e mormorò qualcosa tra i denti, che lei non colse perché troppo concentrata sulla conversazione di quegli operai. Avrebbe tanto voluto ribattere acidamente e mandarli a farsi fottere, ma la presa di Klaus la riscosse dalle proprie pulsioni.
« Infatti » concordò uno di loro, « ho sempre pensato che i Bridge fossero più influenti dei Wreisht… è stato Frantz Wreisht ad essere trovato morto in casa sua l’altro giorno, no? Dicono che sia stato ucciso. »
A quelle parole, il mondo intorno a lei parve congelarsi.
Morto. Frantz Wreisht era morto. Trovato ucciso in casa sua. I suoi occhi si spalancarono e dentro di sé una voce per poco non esultò.
Sentì la presa di Klaus abbandonarla e il suo braccio ricadere al suo fianco; fu vinta dall’istinto e si voltò verso di lui. Sul viso di entrambi era dipinta la stessa espressione persa nel vuoto, ma senza accenno di dispiacere o tristezza o rabbia. Klaus la guardò con occhi carichi di sottintesi e lei non riuscì a trattenere  un piccolo sorriso a fior di labbra. E finita, avrebbe tanto voluto dire, se solo non fosse che non era finito un bel niente. Klaudia era ancora da qualche parte, lontana da lì, lontana da loro. Eppure, nonostante ciò, in un battito di ciglia avevano visto cancellarsi una delle cause che aveva afflitto a lungo la loro vita, uno dei motivi per cui erano scappati in Europa, la persona che aveva arrecato loro ogni sorta di problema.
London si domandò per un momento chi potesse averlo ucciso, ma si accorse che non le importava. Fosse stata Shyvonne stessa o chiunque altro, sarebbe corsa a ringraziarlo non appena avesse potuto.

« Coincidenze strane? » continuò l’uomo, tuttavia. « Non ti sembra un po’ forzato che Wreisht sia morto proprio quando hanno ritrovato la nipote? »
London avrebbe voluto urlare, forse di gioia, o forse per buttare fuori tutta quell’ansia. Nipote, nipote, nipote. Stavano parlando di Klaudia, per forza. Ha detto nipote!
« Sì, la figlia dei fuggitivi… com’è che si chiama? »
« Ah, e questo chi se lo ricorda. »
« Comunque in effetti è strano che questa bambina sia spuntata dal nulla quando i genitori non si trovano da tipo due anni… per me c’è dietro qualcosa. »
Gli occhi di London cominciarono a pizzicarle. Non poteva crederci, Klaudia era lì, nel Distretto Sei, per chissà quale miracolo. E Frantz Wreisht era morto.
« Mi sembra che adesso sia stata portata dai Bridge » riprese l’uomo davanti a lei, sul quale stava quasi inciampando per il sollievo.
« Sì, alla fine sono gli unici parenti che le sono rimasti » disse il collega, grattandosi la nuca. « I genitori restano un’incognita. »
L’unico desiderio di London in quel momento era scavalcare quella fila, superare i Pacificatori e correre a casa, dalla sua bambina, da suo fratello e dai suoi genitori. Il mondo non le era mai sembrato tanto bello, i suoi occhi non erano mai stati tanto appannati da lacrime di felicità. Klaus le si accostò appena, ancora con il loro piano bene impresso nella mente, e le sussurrò all’orecchio. « Visto? Va tutto bene. » Il sorriso di London si allargò. Gliel’aveva detto, Klaus, che ogni cosa si sarebbe messa a posto. « Però dobbiamo mantenerci in allerta » continuò, « la situazione non è cambiata. »
La moglie annuì un po’ troppo vigorosamente, guardando dritto davanti a sé. Solo poche miglia la separavano dalla sua famiglia. Poche e dolorose; ogni metro che percorreva, ogni passo che muoveva l’avvicinava sempre più alla meta, ma al contempo faceva crescere la sua paura. E se non li avessero fatti entrare? Quel pensiero le faceva tremare le mani dall’angoscia.
Manca poco. Mancava veramente poco.
La fila continuò a sfoltirsi e le persone continuarono ad avanzare, mentre il sole si alzava sulle loro teste per dare inizio a una nuova giornata.
O forse, a una nuova era.
 

*


Erano quasi giunti alla porta. Klaus aveva cominciato a sudare freddo, mentre riusciva a percepire perfettamente la fretta di London, oltre alla voglia di entrare e riabbracciare finalmente Klaudia.
Guardava gli ultimi uomini rimasti davanti a loro. Avevano smesso di parlare dei Bridge da un po’ di tempo e ora se ne stavano in silenzio ad aspettare il proprio turno, esattamente come loro. Eppure Klaus notò che c’era qualcosa di strano nei loro volti. Sembrava che fossero in attesa di qualcosa – qualcosa che non era varcare la porta e basta. Li squadrò da lontano, mentre dietro di lui arrivavano sempre altri operai e accanto alla loro fila se n’era addirittura formata un’altra, mentre un altro Pacificatore controllava le persone che uscivano dal Distretto. Si domandò perché tenessero le armi così strette in mano, come se fossero in allerta di qualche pericolo imminente.
Una sensazione di disagio s’insinuò dentro il suo petto, mentre altre goccioline di sudore gli scendevano lungo il collo e la schiena.
Lanciò un’ulteriore occhiata ai Pacificatori appostati accanto alla porta, che avevano cominciato a discutere con uno degli uomini in fila e il suo stato di allarme si aggravò quando lo gettarono a terra. Uno dei suoi colleghi intervenne per difenderlo, ma quelli gli puntarono le pistole addosso all’unisono. 
« Dov’è il tuo lasciapassare? » gridò uno di questi, la voce distorta dal casco che gli copriva completamente il volto.
« L’ho… dimenticato » fece l’accusato, alzando le mani in segno di resa.
« E come hai fatto a uscire, lurido ribelle? » domandò retoricamente il Pacificatore, sferrandogli un calcio nell’addome. Klaus udì i suoi gemiti di dolore anche se si trovava a un po’ di metri di distanza da lui.
Ribelli, pensò, cercando di collegare quello che stava ascoltando agli ultimi avvenimenti di Panem di cui aveva avuto qualche informazione, due anni prima. Sta succedendo qualcosa, qualcosa di grosso.

« Io... io non sono un ribelle… » mormorò l’uomo a terra, piegandosi su se stesso. « Fatemi entrare. »
Il Pacificatore scosse la testa con cattiveria e gli sparò ad una gamba. Klaus sentì il colpo rimbombargli nelle orecchie e nella gola; senza pensarci due volte prese London per un polso e la trascinò più indietro possibile, cercando di non farsi notare.
« Che sta succedendo? » gli chiese la moglie, con gli occhi spalancati su di lui.
« Non lo so… » provò a rispondere, quando un improvviso e lungo fischio lugubre bloccò tutti i presenti sul posto. Durò così tanto che London fu costretta a tapparsi le orecchie con i palmi delle mani, mentre Klaus si guardava intorno senza riuscire ad individuare la fonte di quel rumore disturbante.
« Siamo pronti! » urlò un uomo poco lontano da loro, sovrastando persino quel frastuono. « Tirate fuori le armi! » Quasi all’unisono tutti gli operai presenti aprirono le borse o tolsero i teli sporchi d’olio per motori dalle casse, rivelando varie e numerose armi da fuoco. Dei Pacificatori cominciarono a sparare a vuoto, ma alcuni lavoratori furono colpiti dai proiettili vaganti.
London urlò, ma il suo grido fu soffocato dagli spari e dalle grida degli altri. In poche frazioni di secondo cominciò ad alzarsi la polvere dal terreno, mentre diversi corpi cadevano a terra privi di vita.
Klaus agì di scatto e, tenendo sempre London stretta per un polso, cominciò a correre nella direzione opposta alla sommossa. Una serie di domande senza risposta gli vorticava nel cervello, fino ad annebbiargli la vista: dove si erano procurati quelle armi? Ma, soprattutto, perché avevano delle armi? E perché le avevano cacciate di comune accordo dopo quel lugubre fischio prolungato? Corse così velocemente che la ragazza faticò a stargli dietro, anche per la caviglia ancora ferita, ma non appena incontrarono il muro di un’area di servizio della vecchia stazione, vi si nascosero annaspando per riempire i polmoni d’aria pulita.
London si poggiò una mano sul petto che si alzava e abbassava fin troppo rapidamente. 
« Cosa… facciamo… adesso? » sibilò per la mancanza di ossigeno.
Klaus la fece appoggiare con la schiena al muro e le prese il viso tra le mani. 
« Dobbiamo entrare » le disse, guardandola fisso negli occhi. Anche quelli della ragazza cercarono disperatamente il suo sguardo, in cui si persero in cerca di conforto. Klaus riuscì a distinguere ogni più piccola sfumatura delle sue iridi, tanto erano dilatate dalla paura.
« Klaudia è dentro! » esclamò la ragazza, aggrappandosi – artigliandosi, quasi – alle sue braccia.
« Ascoltami » fece lui, tenendo ferme le mani sul suo viso. « Ascoltami bene, adesso. Dobbiamo entrare da un’altra porta, qui è troppo pericoloso. »
« C-ci vorranno ore di cammino ininterrotto » balbettò London, ma lo sguardo di Klaus represse ogni sua protesta.
« Non importa, non possiamo farci sparare » replicò, « in qualche modo dobbiamo entrare e nasconderci. Non ho idea di cosa stia accadendo, ma il Distretto Sei non sarà sicuro né ora né tanto meno nei prossimi giorni. »
London continuò a fissarlo disperatamente, come se Klaus fosse rimasto la sua ultima certezza. « Cosa facciamo? »
« Non lo so, ma per adesso cerchiamo di raggiungere casa tua » rispose e poi le posò un veloce quanto leggero bacio sulla fronte pallida. « Andrà tutto bene, te lo giuro. » Solo allora si staccò da lei, affacciandosi al di là del muro per controllare la situazione. London annuì, senza riuscire a soppesare davvero le parole del marito. Sarebbe andato tutto bene, doveva andare tutto bene.

Si allontanarono dal muro dopo qualche secondo.
London fece qualche passo incerto in direzione della zona ovest, dove non c’era una vera e propria porta presidiata da qualcuno, ma un nuovo rumore minaccioso la costrinse ad alzare lo sguardo: il cielo si colorò di hovercraft neri e ostili, oscurando persino il sole, e da alcuni di essi cominciarono a piovere piogge di proiettili. Le grida aumentarono anche all’interno delle mura, Klaus e London riuscivano a sentirle anche da quel luogo isolato. O meglio, luogo che credevano isolato, fin quando un Pacificatore spuntò improvvisamente alla loro destra. 
« Fermi! » gridò, puntando la sua pistola addosso alla ragazza.
Klaus pensò che quel Pacificatore fosse davvero stupido, perché si gettò su di lui ancora prima che quello potesse accorgersene. Un proiettile partì dalla canna, ma finì molto lontano dalla loro portata. Klaus era molto più alto di lui, per cui riuscì a stenderlo a terra dopo una breve colluttazione e a bloccargli le mani con una stretta ferrea. In un lampo gli rubò la pistola, digrignando i denti e sferrandogli, dopo, una ginocchiata nello stomaco.
Avvenne tutto molto velocemente: strinse la pistola tra le dita e l’avvicinò al petto del Pacificatore che mormorava parole e imprecazioni incomprensibili, forse per minacciarlo, ma sparò ancora prima di rendersene conto.
London indietreggiò, mentre la tuta bianca del Pacificatore si colorava di rosso scuro, rosso cremisi, e nell’aria si librava un odore metallico e pungente. Sangue. Il Pacificatore smise di respirare nel giro di pochi secondi.
Klaus lasciò cadere la pistola a terra.
L’aveva ucciso.

Klaus si gettò insieme alla sua spada sull’erba bagnata, proprio sulla riva del fiume, accanto al cadavere del ragazzo che aveva appena ucciso. Non sapeva nemmeno chi fosse. Guardò il numero sulla sua maglia imbrattata di sangue: riportava, scritto in bianco, il numero Sette. Non ricordava nemmeno il suo nome, eppure era certo che il suo volto l’avrebbe perseguitato per sempre. Di notte, di giorno… nessuna differenza.
Klaus non aveva mai ucciso nessuno. Doveva già considerarsi fortunato se alla Cornucopia non gli avevano staccato la testa e non l’avevano fatta rotolare per un pendio. Quelli erano gli Hunger Games: si vince o si muore. E lui non voleva morire, ci teneva così tanto alla sua stupida e inutile vita che non sapeva nemmeno di cosa avesse paura. Quindi avrebbe dovuto uccidere per vincere; niente di più semplice.
Si guardò le mani colorate di rosso e si affrettò a sciacquarle nel fiume, fissando con occhi sconvolti il sangue che defluiva dalle sue dita e si disperdeva nell’acqua fredda e cristallina. Si bagnò anche la faccia, forse per cancellare l’immagine di quel ragazzo ormai supino a qualche metro di distanza da lui, ma non servì assolutamente a nulla.
L’aveva ucciso.
Mors tua, vita mea. Lui era morto, Klaus era vivo.
Quanto aveva importanza in quel momento?
Klaus alz
ò gli occhi al cielo finto coperto da poche nuvole finte e trapunto di stelle e costellazioni altrettanto finte. Lo stavano guardando, a Capitol City, seduti sui loro comodi divani di pelle? Le avrebbero guardate spegnersi tutte, quelle ventitré vite?
Klaus desiderava essere quella ventiquattresima vita – il vincitore – con tutto se stesso, ma capì che uccidere non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione, esattamente come impartire torture o gioire della dipartita altrui. Uccidere l’avrebbe segnato più di qualunque altra cosa, più della paura della morte.
Klaus non voleva uccidere.


Probabilmente altri Pacificatori vicini sentirono lo sparo perché in pochi istanti si ritrovarono accerchiati da quattro di essi, tutti con le armi puntate su di loro.

« Non ti azzardare a prendere quella pistola » disse uno di loro a Klaus, indicando con un cenno del capo l’arma che lui aveva fatto scivolare a terra poco prima. « Sappiamo chi sei » proseguì, avvicinandoglisi piano con la propria pistola sempre alzata. « Togliti pure quel cappuccio, Klaus Wreisht. »
Klaus non obbedì, ma il Pacificatore, coperto dagli altri tre, continuò a girargli intorno.
« Sono mesi che a Capitol ti cercano, che fine hai fatto? » gli domandò con voce sarcastica. « Sai, sei mancato tanto a tutti. »
Il ragazzo stirò le labbra, mentre il suo sguardo si spostò disperatamente su London, in piedi poco lontano da lui.
Il Pacificatore, seguendo la direzione del suo sguardo, fece un cenno ai colleghi. 
« Sì, lei uccidetela pure. »
Klaus scattò in avanti, parando il corpo di London con il proprio. « No! » gridò, in panico.
L’uomo scosse la testa con ironia, mentre un altro attirava London a sé e le bloccava le mani dietro la schiena. La ragazza provò a dimenarsi, ma quello le puntò la pistola ad una tempia, spegnendo ogni suo tentativo di fuga.

« Un’ultima preghiera, vincitore del cazzo? » domandò il Pacificatore, puntando la pistola carica alla fronte di Klaus.
« Fermo, aspetta! » urlò uno dietro di lui, spingendolo ad abbassare l’arma. « Non sarebbe meglio portarlo a Capitol? E’ quello che è scappato, no, Wreisht? Ci serve, ci daranno una ricompensa! »
Klaus non si mosse, spostando lo sguardo dai Pacifiatori davanti a lui a quello che tratteneva e minacciava London con un’altra pistola. Se avesse osato fare qualcosa, quello le avrebbe sparato. Non poteva permettersi di fare alcun movimento, sembrava che l’avrebbe pagata cara anche per il solo fatto di respirare. « Aspettate… » provò a dire, sudando più freddo che mai, ma la sua voce risultò solo un veloce sibilo che venne coperto dalla replica del primo Pacificatore.
« E Capitol sia » disse, e Klaus giurò che sotto il casco della divisa stesse ghignando crudelmente. « Della mogliettina, qui, cosa ne facciamo? »
London emise un ringhio basso, come una preda intrappolata che non si arrende, ma il Pacificatore continuò a tenerla ferma, con la canna della pistola appoggiata alla tempia. 
« Gli farà compagnia » disse il collega, « e gliene farà anche quando saranno morti entrambi. »
Klaus avrebbe voluto fare qualsiasi cosa, anche solo sputare addosso uno di loro, ma un improvviso dolore lanciante dietro la nuca lo fece prima barcollare e poi cadere a terra privo di sensi, con il volto sul pietrisco e l’eco di un grido di London nella testa.
E poi venne il buio.
Un buio ben diverso da tutte le tenebre che si potessero immaginare, il buio della sconfitta e dell’umiliazione, il buio di chi sta per perdere ogni cosa. Era il principio di qualcos’altro, di un buio ben più reale di quanto potesse anche solo pensare. E quel buio sarebbe stato pieno di lacrime e dolore, quel buio avrebbe soffocato ogni cosa.
In quelle tenebre non vigevano regole, non esisteva un “si vince o si muore.”
Quello non era un gioco. Quella era la guerra.


 










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Capitolo 24
*** 023. Twenty-third Chapter – Enemy's song. ***


Note: Sono tornata, dopo tre settimane anziché due, causa trasloco che mi sta uccidendo. Perché non c'è niente di più bello di un trasloco fai-da-te. Già (notate l'ironia, per favore ç-ç). Ho trovato molto difficile scrivere questo capitolo perché per un breve quanto doloroso periodo sono entrata in una fase di blocco e ho davvero creduto di poter andare in paranoia. Non voglio avere IL blocco in estate, quando ho tanto tempo libero D:
Sinceramente non ho molto da aggiungere, a parte che spero siate pronti per il ventiquattresimo capitolo, ovvero quello a cui conduce tutta la storia e che è già mezzo-scritto :)
QUI c'è la mia pagina facebook, se può interessarvi, e QUI c'è il gruppo scambio-recensioni creato da poco, gestito da me, JD Jaden e Tinkerbell92, dove si organizzano iniziative e tante cose carucce. E poi le mie colleghe sono persone stupende, per cui iscrivetevi soltanto per loro :'3
Grazie ancora a tutti i seguaci (fa molto setta satanica °^°) di Blur, vecchi e nuovi, vi amo ♥
Bon, vi lascio a La canzone del nemico

Buona lettura ♥

Il titolo del capitolo viene da "Part II" dei Paramore. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 




 
















Blur

(Tied to a Railroad)






023. Twenty-third Chapter – Enemy's song.




C’era silenzio. Fu la prima cosa che avvertì nel ritornare cosciente. L’unico suono percettibile era il suo respiro che si regolarizzava.
Non riuscì a riaprire gli occhi per quelli che le sembrarono molti minuti. Inspirava, espirava. La sua guancia era a contatto con qualcosa di freddo, probabilmente le mattonelle di un pavimento. Cominciò ad schiudere le palpebre, piano, mentre il fascio di luce tremulo del luogo in cui si trovava l’abbagliava dolorosamente, come una lama che le feriva le cornee.
Serrò nuovamente gli occhi perché non riusciva a tenerli aperti neanche per poco – non ancora, almeno, presto si sarebbe abituata. Si concentrò sulle altre percezioni: si rese conto che c’era un’eccessiva puzza di chiuso, che era stesa a pancia in giù e che un dolore terribile alla testa le bloccava qualsiasi iniziativa di movimento.
Strizzò ancora una volta le palpebre e finalmente cominciò a distinguere qualcosa. Si trovava, effettivamente, su un pavimento piastrellato di bianco, in una stanza pulita ma piccola, decorata con delle fastidiose e mal funzionanti luci al neon. Dalle sue labbra fuoriuscì un basso gemito.
Dove si trovava? Se lo chiese veramente per la prima volta negli istanti successivi. Nel suo cervello regnava uno stato di caos e confusione, accompagnati da ricordi sfocati ma insistenti, che premevano per farsi strada nella sua mente annebbiata. Un hovercraft, Klaus, una grande porta di ferro, degli spari, dei Pacificatori, qualcuno che le puntava una pistola alla tempia.
Non cominciò subito a collegare i punti, perché fu distratta da un ulteriore fastidio, questa volta alle braccia, che in poco tempo si trasformò in dolore. Erano costrette dietro alla schiena, con i polsi ben stretti legati da una corda ruvida, che si collegava ad un’altra che le tratteneva ferreamente le caviglie.
Un’ondata di panico si fece ampiamente strada nel suo petto, tanto che cominciò a dimenarsi e a cercare di liberarsi, invano. Il respiro le si velocizzò nuovamente, al pari dei suoi tentativi di fuga. Tutto ciò che ottenne, in ogni caso, fu un maggiore intorpidimento alle membra di gambe e braccia.
Lanciò un grido di esasperazione e disperazione, ma si arrese l’attimo successivo.
I battiti del suo cuore aumentarono al pari del mal di testa, così forte che quasi non riusciva a pensare ad altro, e provò a calmarsi per cercare di ragionare lucidamente.
Voltò il capo nelle direzioni che le erano possibili e ciò che più l’atterrì fu il fatto che non c’era traccia di porte o finestre. Giunse all’affrettata e disperata conclusione che probabilmente ce ne dovesse essere una alle sue spalle, ma il solo pensiero di doversi muovere e girarsi dall’altro lato la fece andare in paranoia. Tuttavia si costrinse a farlo, anche perché non sapeva cosa avrebbe fatto se avesse scoperto di trovarsi in una stanza senza vie d’uscita. Sarebbe di sicuro impazzita, in quel caso.
Ricacciò indietro un singhiozzo che le pulsava nella gola e cominciò a strisciare per voltarsi dalla parte opposta. Si sentiva uno stupido verme indifeso, in quel momento, ma sperava che non ci fosse nessuno a guardarla perché il suo viso era il ritratto dello sconforto e dell’angoscia.
Dove diavolo mi trovo…?, continuava a pensare, voltandosi piano. Quando quel doloroso movimento fu completato, scoprì che una porta effettivamente c’era, ma non provò nemmeno a sospirare di sollievo perché era talmente possente – e blindata – che non sarebbe riuscita ad abbatterla nemmeno con una forza sovrumana. Inspirò profondamente, provando a non rimanere intrappolata tra le salde reti del panico che si stava impossessando di lei. Non voleva piangere e non ci sarebbe riuscita, perché la paura era più grande di ogni altra emozione che potesse provare in quel momento.
Tentò di tirarsi su e di sedersi con la schiena appoggiata alla parete, ma abbandonò presto l’intento perché una fitta di dolore ai muscoli della schiena bloccò quel gesto.
Il suo cervello continuava a pulsare di domande, pensieri, ricordi confusi, il tutto amalgamato alla perfezione in quel mal di testa incessante che si diffondeva a partire dalla nuca, come se qualcuno le stesse perforando il cranio con un lungo chiodo, per poi librarsi nella sua mente. Chiuse gli occhi e cercò ci concentrarsi sugli ultimi avvenimenti che riusciva a ricordare.
Avevano trovato Klaudia… era nel Distretto Sei, insieme a Ben e ai suoi genitori, e Frantz Wreisht era morto. Il mal di testa aumentò, ma stavolta lei non si arrese.
Una frase detta da un Pacificatore le rimbombò all’improvviso nelle orecchie, come se un megafono inesistente la stesse urlando a distanza ravvicinata.

« E Capitol sia… Gli farà compagnia, e gliene farà anche quando saranno morti entrambi. »
Morti. Entrambi. Le sue braccia esili furono percorse da un tremito involontario.
London continuò a ripetersi quella frase nella mente, muovendo appena le labbra e tenendo gli occhi chiusi, come se stesse provando a convincersi del contrario. Si trovava a Capitol City. Volevano ucciderla. Volevano uccidere Klaus.
I pensieri si annebbiarono ancora di più e tutto per un attimo si annullò, persino la sua paura.
Dov’è Klaus?
Il fatto di non riuscire a trovare una risposta immediata a quella domanda le fece più paura di tutto il resto. In quel caso avrebbe davvero voluto avere la forza per alzarsi in piedi e picchiare sulla porta finché qualcuno non le avrebbe risposto, ma era bloccata lì, a terra, sul quel maledetto pavimento di piastrelle fredde e bianche a contemplare il vuoto della stanza e il vuoto dentro di sé.
D’un tratto un rumore metallico le giunse alle orecchie e dunque la porta si spalancò, rivelando un Pacificatore che entrò nella cella senza preamboli. Per un improvviso e necessario istinto di sopravvivenza London ritrasse il suo corpo fino a toccare una parete, terrorizzata da cosa quell’uomo avrebbe potuto farle; l’ultima volta che aveva visto un Pacificatore, quello aveva avuto intenzione di spararle alla testa.

« Fermo! » tentò di gridare, ma la sua voce risultò più che altro solo un misero sussurro spezzato. « Non toccarmi! »
Il Pacificatore, con sua grande sorpresa, la ignorò completamente, limitandosi a lasciare sul pavimento un secchio di plastica e un vassoio dello stesso materiale con una ciotola e un bicchiere d’acqua. London lo fissò con gli occhi spalancati e rimase in silenzio esattamente come lui, che si apprestò ad abbandonare nuovamente la cella.
Prima di richiudere la porta blindata, tuttavia, disse: 
« Se collaborerai, non ti faranno molto male. Ti consiglio di non opporre resistenza. »
« Aspetta! » provò di nuovo la ragazza, ma il Pacificatore scomparve nel giro di un secondo. Non aveva idea di cosa avesse voluto dire – o forse aveva troppa paura persino di pensarlo. Non opporre resistenza. Suonava più come una minaccia, che come un consiglio. A cosa?
London si morse le labbra, sperando con tutta se stessa che avrebbe trovato il modo per scappare di lì con Klaus prima di ricevere altre visite inattese.
Visite che, ne era certa, non sarebbero state tranquille come quella. 
 

*


Prima ancora del dolore, Klaus sentì un rivolo di sangue scivolargli dalla bocca, lungo il mento. Subito dopo la guancia, lo zigomo e il labbro inferiore iniziarono a pulsare in modo lanciante, tanto che dovette strizzare le palpebre per non lacrimare e mostrarsi più inerme di quanto già non fosse. Nonostante ciò, non abbassò lo sguardo, anche se alcuni capelli gli scivolarono davanti agli occhi.
« Abbiamo notato con piacere che sei già stato punito da qualcun altro » sghignazzò l’uomo davanti a lui, quello che gli aveva dato poco prima i pugni al viso. Aveva una faccia anonima ma losca, i capelli brizzolati per l’età avanzata e gli occhi ottenebrati dalla cattiveria – o forse, dal semplice piacere di vedere una persona soffrire davanti a lui. « Ti hanno torturato anche nel posto in cui sei scappato? »
Klaus non rispose per l’ennesima volta. Tutto ciò che aveva detto da quando si era svegliato era stato “Liberatemi!” agli uomini che gli si erano parati davanti, prima di cominciare a percuoterlo come se fosse stato solo un’inutile valvola di sfogo. Quella scomoda posizione non gli permetteva alcun tipo di contrattacco – anche se avrebbe avuto la peggio in ogni caso, considerano che si trattava di tre persone contro una.
Il suo corpo era in piedi in mezzo alla stanza fetida in cui l’avevano rinchiuso, retto da catene in diagonale ancorate al muro che gli tenevano le braccia alzate e i piedi distanti l’uno dall’altro.
Dopo un primo giro di puro e sadico divertimento, quegli uomini, probabilmente alleati di Capitol City, avevano cominciato a fargli delle domande a raffica. Ad ogni risposta non data corrispondeva una percossa; gli avevano già stretto le catene, dato dei pugni al volto, delle ginocchiate nello stomaco e dei calci negli stinchi, ma Klaus aveva continuato a rimanere in silenzio. Non perché volesse proteggere la verità o nascondere qualcosa, ma soltanto perché non aveva la minima idea di ciò che stavano dicendo. Parlavano di rivolte, fughe, Hunger Games, ghiandaie, altri vincitori, ribelli e Distretto Tredici.
Innanzitutto, Klaus aveva sempre creduto che il Distretto Tredici fosse andato distrutto molti anni prima della sua nascita e, inoltre, lui e London erano mancati gli ultimi due anni, per cui non sapeva neanche lontanamente di tutte le cose che potessero essere accadute. Già, London. Klaus non sapeva dove diavolo l’avessero portata e non osava chiederlo perché era sicuro che non avrebbe ottenuto risposta. Era un pensiero che lo tormentava sin da quando aveva aperto gli occhi.

« No, queste cicatrici sono vecchie » intervenne un altro uomo alle sue spalle, passandogli la mano callosa sulla schiena. Klaus provò a dimenarsi perché quel tocco lo umiliava più di qualunque altra cosa, ma non riuscì nell’intento. Era sicuro che quel tizio stesse ridendo di lui anche se non poteva vederlo e avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poterlo stendere al suolo a suon di pugni. « Chissà come se l’è procurate… frustate? »
L’uomo davanti a lui fece un sorriso storto. « Forse mi stai dando un’idea, sai? I vecchi metodi sono sempre i migliori. »
Le membra di Klaus a quelle parole si irrigidirono all’istante, involontariamente, e le sue pupille si dilatarono. Sapeva che quelle percosse erano soltanto l’inizio di un lungo soggiorno, ma preferiva quelle ad altre frustate.
« No, Preston » intervenne il terzo uomo, incrociando le braccia, « Emil ha richiesto apertamente di lasciare la frusta a lui. »
Il ragazzo fissò negli occhi quello che aveva parlato, intenzionato a metterlo in soggezione, ma lui non si scompose e gli si avvicinò con fare minaccioso. Gli fece alzare la testa prendendolo per i capelli e, vicinissimo alla sua faccia, gli domandò: « Dove si nascondono i ribelli? » Il suo alito fetido gli invase le narici.
« Non lo so » si decise a replicare – anche perché non esisteva risposta più vera – senza staccare gli occhi dall’uomo.
L’altro, tuttavia, rise con asprezza e gli diede l’ennesimo pugno dello stomaco, a cui Klaus non poté fare a meno di gemere debolmente.
« Non lo sai? Oh, povero stupido bambino. » Gli lasciò andare i capelli e girò in tondo, scrutando il suo corpo esposto. « Beato Emil, lui che ha gli ordini si divertirà molto con te. »
Klaus non si volle domandare chi fosse quell’Emil e cosa gli avrebbe fatto quando si sarebbero incontrati. Come aveva già pensato, la sua permanenza a Capitol City non sarebbe durata soltanto qualche giorno, anzi, forse non avrebbe più rivisto casa sua, forse non avrebbe più rivisto nemmeno London o Klaudia. Il nome della moglie gli premeva sulle labbra, ma non aveva il coraggio di pronunciarlo per paura di poterla mettere ancora più in pericolo.
Sempre che non labbiano già uccisa, sembrava sussurrargli insistentemente una voce nel suo cervello, a cui cercava di non dare ascolto. Si era detto che se l’avessero voluta uccidere, le avrebbero sparato già quando li avevano scoperti, nel Distretto Sei… ma non aveva idea di dove la tenessero rinchiusa – in realtà non sapeva nemmeno dove fosse rinchiuso lui. In un palazzo, in una prigione? Non c’erano finestre e anche soltanto il fatto di non riuscire a capire se fosse giorno o notte gli faceva perdere lucidità, come se stesse smarrendo il controllo del proprio corpo di minuto in minuto. Non sapeva dire neanche quanto tempo fosse passato da quando si era svegliato, perché quella tortura stava procedendo lentamente e dolorosamente. Più percosse riceveva, più il tempo rallentava. Gli sembrava addirittura di riuscire a sentire in lontananza il ticchettio di un orologio, sempre più lento… Quando le lancette si sarebbero fermate, allora sarebbe morto?
Inspirò a fondo, sperando di non impazzire, così almeno avrebbe provato a scappare non appena sarebbe rimasto da solo, per quanto l’idea gli apparisse assurda già in partenza.

« Dove sei stato in questi due anni, Wreisht? » tornò a chiedergli. « Il Presidente Snow vorrebbe tanto saperlo. »
Klaus perse giusto un istante a collegare gli avvenimenti alle parole di quell’uomo. Erano stati rintracciati a Valhalla da un hovercraft. Se non Capitol, allora, chi era stato a rapire Klaudia? Non rispose nemmeno a quella domanda, non voleva che riuscissero a giungere né a Käthe, né alla bambina, che per il momento era al sicuro.
Il mutismo di Klaus, in ogni caso, infastidì ancora di più i tre uomini che continuarono la loro personale tortura, finché qualcuno non li chiamò per interfono.

« Basta così, per oggi » disse una voce distorta dall’apparecchio. « Con lui continuerò io a lavorare domani. »
Uno dei tre uomini alzò gli occhi al cielo. « Non crederti fortunato, Wreisht » disse, aprendo la porta blindata. « Emil saprà come passare il tempo con te e con la tua amata mogliettina. »
Klaus si agitò improvvisamente, pur essendo incatenato. « Dov’è? » domandò di scatto, forse già terrorizzato da una possibile replica.
L’uomo rise semplicemente in risposta e abbandonò la stanza con i suoi colleghi, lasciandolo solo e dolorante.
Avrebbe voluto urlare, persino infrangere le barriere del suono se avesse potuto, ma si impose di mantenere la calma per cercare un piano di fuga. Si guardò intorno con ansia, sperando di trovare qualcosa che potesse aiutarlo a scappare, ma tutto ciò che vide furono una telecamera e l’interfono sulla parete di fronte a lui. La cella era completamente vuota e nei muri non c’era nemmeno una crepa.
Capì che qualcuno lo stava osservando, perché una piccola lucina rossa lampeggiava sotto la telecamera; tenne fissi gli occhi su quella luce.
Chi sei, maledettissimo bastardo?
Nei successivi minuti non accadde assolutamente nulla. Klaus sentì il dolore delle percosse aumentare sempre più e i pensieri farsi di gran lunga più sfocati. Si accasciò alle catene per quanto gli era possibile e si umettò le labbra con la lingua per eliminare il ferruginoso sapore del sangue, ma quel gesto valse a poco. I polsi e le caviglie gli dolevano già incredibilmente e sperava che quel posto non l’avrebbe fatto impazzire prima del previsto. Non solo si sentiva soffocare da quella cella piccola e chiusa, infatti, ma l’idea di non sapere cosa ne avrebbero fatto di lui e London lo tormentava tanto da farlo sentire male.
Le tempie pulsavano di dolore e il pensiero della moglie ugualmente torturata – o peggio – gli si aggrappava voracemente alla gola, come per soffocarlo, facendogli desiderare di avere la forza di liberarsi da quelle catene solo per raggiungerla.
Le aveva detto che sarebbe andato tutto bene, se lo ricordava quasi come se l’avesse appena pronunciato. Anzi, gliel’aveva giurato.
Klaus si chiese con orrore se sarebbe riuscito* a mantenere la promessa.

 

*


Non aveva neanche la più pallida idea di quante ore potessero essere trascorse. Era rimasta tutto il tempo a fissare la parete di fronte, facendo vagare i pensieri dalla sua famiglia a Klaus. Si era chiesta troppe volte se Klaudia fosse effettivamente al sicuro, ma era certa che in compagnia dei suoi genitori e di Ben i pericoli non fossero molti – anche se dopo quella sparatoria alla porta sud del Distretto Sei ne era sempre un po’ meno convinta. Quanto avrebbe voluto rivederla, riabbracciarla, dirle che la sua mamma non l’avrebbe mai più lasciata sola… E quanto avrebbe voluto rivedere Ben, nessuno sarebbe mai riuscito ad esprimerlo a parole. Era un dolore diverso da tutti gli altri, un dolore che proveniva dall’interno del suo petto e si espandeva – si imponeva – intorno al cuore, coprendolo di un manto freddo, come quando la pioggia ricopre il terreno di schizzi violenti.
Una lacrima fu sul punto di scivolarle sulla guancia, ma ebbe l’ostinazione di non farla cadere. Nulla era perduto, anche se l’essere bloccata in quella cella metteva a dura prova quella piccola ma costante scintilla di speranza.
Speranza che, nonostante il suo ardore, si smorzò all’entrata di un Pacificatore.
London era certa che non fosse lo stesso di prima, perché questi si avvicinò con fare minaccioso e con un calcio rovesciò il vassoio che non aveva nemmeno toccato – e come poteva, dal momento che aveva le braccia legate dietro la schiena?

« Si cambia stanza, bambolina » le disse l’uomo con cattiveria, « non credo ti dispiacerà, visto che non hai gradito il cibo. »
London quasi ringhiò nella sua direzione, arretrando fino alla parete. « E, di grazia, come avrei fatto a gradire se sono legata come un animale? » Non sapeva dove avesse cacciato quel sarcasmo pungente, ma forse era soltanto un modo per cercare di difendersi. Ma le parole non vincono mai, avrebbe dovuto saperlo.
« Appunto, avresti potuto mangiare come un animale, con quella bella boccuccia che ti ritrovi » rispose il Pacificatore, palesemente ridacchiando sotto il casco bianco. Dopodiché si abbassò sul suo corpo e se la caricò in spalla.
« Lasciami andare! » urlò London, cercando di scalciare in qualsiasi modo, ma la doppia corda non le permetteva di opporsi più di tanto. « Lasciami! »
Il Pacificatore non si scompose e la trascinò di peso lungo il corridoio al di fuori della stanza, del tutto immune alle sue grida di protesta. London perse giusto un istante ad osservare l’ambiente, vuoto e spoglio esattamente come la cella, raramente decorato da altre porte – ma mai finestre.
Continuò a dimenarsi sulla spalla dell’uomo, finché quello non la fece cadere violentemente a terra per farla smettere. L’impatto fu doloroso, soprattutto per il suo mento che batté contro le mattonelle. Gemette e probabilmente il Pacificatore si beò di quel suono, per cui, forse non ancora soddisfatto, le diede un calcio alla schiena con la punta dello stivale, che le mozzò il respiro.

« E’ inutile opporsi, bambolina » disse, ricaricandosela in spalla come se fosse fatta di piume e non di carne.
« Non chiamarmi così » biascicò London, non arrendendosi del tutto. Si lasciò trasportare malvolentieri per quel corridoio anonimo, dimenandosi con tutte le proprie forze, che tuttavia cominciarono ad indebolirsi di secondo in secondo, finché non iniziò a sentirsi quasi completamente fiacca.
Non poteva lasciare che quella spasmodica voglia di fuggire l’abbandonasse, non poteva lasciarsi andare in quel modo.
Eppure, in effetti… da quanto tempo non metteva del cibo sotto i denti, o da quanto non beveva un sorso d’acqua? Improvvisamente quei bisogni si fecero pressanti, come se stessero per trascinarla vero una lenta agonia; aveva la gola secca, così come lo stomaco e la vescica contratti. Si domandò per quanto avrebbe retto, ma, soprattutto, se avrebbe retto. Non aveva idea di cosa volessero farne di lei e il suo terrore aumentava al trascorrere del tempo, mentre la speranza di scappare, suo malgrado, diminuiva progressivamente.
London sapeva di non aver mai avuto un’alta sopportazione del dolore – detestava ammetterlo, ma aveva persino creduto di morire con il parto di Klaudia – ed ora l’idea di poter essere torturata, per crimini che forse non potevano considerarsi nemmeno tali, la stava atterrendo. Non poteva arrendersi, non poteva limitarsi a lasciare che fossero gli eventi a decidere.
Aveva paura del dolore, questa era la verità, aveva paura che potessero scorticarla o seppellirla viva o, ancora, bruciarla.
Non voleva che la toccassero, nemmeno per sfiorarla.
L’istinto, infine, fu più forte di ogni altra cosa. Si mosse ancora un po’ sulla spalla del Pacificatore, fino a raggiungere l’incavo tra spalla e collo con la bocca; morse repentinamente e il più forte possibile, lì dove c’era il tessuto. Strinse i denti fino a sentire la pelle e l’urlo dell’uomo invaderle i timpani. La reazione fu istantanea: quello la sbatté contro il muro, lasciandola poi cadere sul pavimento un’altra volta.

« Stupida puttana » sibilò, prima di recuperare la propria pistola dal fodero e colpirle la testa con il calcio. Non ebbe neanche il tempo di rispondere a quell’insulto, che tutto divenne buio. Ancora.
 

*


Era caduto addormentato, per chissà quale motivo. Il suo corpo cominciava a perdere le forze, costretto in quella posizione.
Eppure tutto era più nero di prima, più dell’incoscienza, non percepiva alcun tipo di luce, nemmeno quelle al neon della cella. Poi capì che qualcuno doveva avergli messo una benda davanti agli occhi, perché sentiva chiaramente il nodo premergli dietro la nuca.
Deglutì a fatica con la poca saliva che gli era rimasta e strinse i pugni intorno alle catene. Cercò di escludere il battito velocizzato del proprio cuore dalla mente, concentrandosi sugli altri suoni che riusciva ad ascoltare.
Passi. Lenti, circospetti, poco lontani da lui.
S'irrigidì immediatamente e mormorò a bassa voce, pur sapendo che non avrebbe ottenuto alcuna risposta: 
« Chi c’è? »
« Sei sveglio. » Era una semplice affermazione, che tuttavia gli fece ghiacciare il sangue nelle vene. Una voce distorta, roca, eppure calmissima. Capì che doveva trattarsi di Emil, colui che aveva richiamato i tre uomini per interfono. « Allora, Klaus… ti va di giocare un po’? »
Klaus rabbrividì d’istinto nell’ascoltare il proprio nome pronunciato da quella voce. Drizzò le orecchie al suono di un piccolo sibilo indistinto, che tuttavia nel silenzio della cella rimbombò come lo sparo di mille cannoni. Era un veloce movimento, un suono quasi impercettibile, come del cuoio che schiocca piano sul pavimento.
Come una frusta.








*Questa espressione è voluta e non dovrebbe essere un errore dal momento che voglio indicare una condizione del futuro relativamente al passato.










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Capitolo 25
*** 024. Twenty-fourth Chapter – Stranger in a strange land. ***


Note: Questo è il famigerato capitolo ventiquattro. Tutta Blur conduce qui. E per questo non dirò altro in merito.
Scusate il fin troppo frequente uso del corsivo, ma non ho trovato modo migliore per esprimere… determinati sentimenti. Spero davvero, davvero che vi piaccia, anche perché avevo preparato questa scena sin da quando ho cominciato a scrivere Blur. Purtroppo non mi vedrete aggiornare per un po’ di tempo perché sto traslocando, quindi mi staccheranno la linea telefonica e non avrò internet per un bel po’; inoltre, il 24 luglio parto per Dublino e tornerò il 7 agosto, soltanto allora mi vedrete postare il venticinquesimo capitolo (a meno che non riesca a scriverlo alla velocità della luce, ma ne dubito) e… mi scuso a prescindere per la suspense non voluta ^^’
Anyway, l’unica cosa che desidero davvero è questa: dopo aver letto il capitolo, vi pregoviprego çwç, ascoltate la canzone che dà il titolo, ovvero Stranger in a Strange Land. E’ la canzone, è tutto, è perfetta. Racchiude un mondo, sul serio ♥
Grazie ancora a tutti per tutto, sono così felice di aver superato le cento recensioni in un modo che non potete immaginare. Senza il sostegno di molte persone, giuro che non sarei arrivata fino a questo punto. Grazie di cuore, soprattutto a Marty e a Mito, per cose che loro già sanno e non c’è bisogno che glielo dica… sono persone fantastiche, le adoro, durante la stesura di questa storia non vorrei accanto nessuno di diverso da loro.
Vi ricordo che QUI c'è la mia pagina facebook e QUI c'è il gruppo scambio-recensioni, che vi invito caldamente a visitare.
Adesso vado, a presto e b
uona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Stranger in a strange land" dei 30 Seconds to Mars; se ne consiglia vivamente l'ascolto dopo la lettura. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 




 
















Blur

(Tied to a Railroad)






024. Twenty-fourth Chapter – Stranger in a strange land.




Vide la donna davanti a sé sobbalzare bruscamente e tapparsi le orecchie con le mani. Erzsébet, poi, si abbassò su di lei e la strinse forte, come se potesse diventare polvere tra le sue mani da un istante allaltro. Sussurrò qualcosa tra le labbra e le bagnò la fronte con lacrime calde.
Klaudia non capiva.
Perch
é le pareti della casa vibravano? Perché si erano nascoste nel seminterrato del maniero? Perché la nonna la abbracciava così?
Klaudia era forte, Klaudia non voleva piangere. Non l
aveva fatto quando un uomo brutto e grosso laveva trascinata dal giardino di casa sua fino ad un hovercraft nero come un pipistrello nella notte, non lavrebbe fatto nemmeno in quel momento.
Abbracci
ò la nonna con dolcezza, tentando di rassicurarla, ma Erzsébet non smise di tenerla stretta tra le braccia.
Klaudia continuava a non capire. Dov
erano la sua mamma e il suo papà? Doverano nonno Alfons, nonno Frantz e nonna Shyvonne?
Era sicura che zio Ben avrebbe messo a posto ogni cosa. Lui era sempre sorridente, sempre gentile con lei e la faceva sempre ridere. S
ì, zio Ben avrebbe risolto tutto. 
Ma zio Ben non c
era.
E le mancava tanto.


 
*

 
Aveva ancora le braccia legate in alto, tenute alzate da due catene sospese in diagonale. Il ferro, stretto convulsamente intorno ai suoi polsi, gli aveva graffiato – e gli graffiava tuttora – la pelle fino a farla sanguinare. Ma quello era il male minore, dopotutto.
Klaus aveva la schiena nuda rivolta verso il suo aguzzino, che quasi riusciva a distinguere ogni muscolo della sua pelle contratto dal dolore. Dei rivoli di sangue nero, sporco, gli colavano sui fianchi e, poi, a terra. Goccia dopo goccia.
Il supplizio era cominciato da poco, ma Klaus non sapeva dire quanto, di preciso. Gli sembravano già passate ore, quando in realtà erano soltanto pochi minuti.
Tredici frustate, per cominciare. Tredici come quelle che gli aveva inflitto suo padre tempo addietro e di cui portava ancora le cicatrici. Sarebbe già dovuto essere svenuto, ma – purtroppo – era ancora pienamente cosciente. Avrebbe di gran lunga preferito essere rigettato con violenza nel suo subconscio piuttosto che sopportare altre frustate; quasi aveva accarezzato il desiderio di morire, con il pensiero.

« Dove si nascondono i ribelli? » chiese una voce per interfono, fredda e distaccata, probabilmente quella di un altro Pacificatore.
Klaus non rispose, con la testa bassa e gli occhi semichiusi. Alla fine Emil gli aveva tolto quella maledetta benda, ma nulla era migliorato. Respirava a fatica, mentre la catena gli dilaniava i polsi e il dolore lanciante alla schiena lo teneva quasi in ginocchio, visto che se non fosse stato per le catene, sarebbe già caduto – volentieri, tra l’altro. I suoi muscoli supplicavano per un minuscolo secondo di riposo da quella posizione che da dolorosa era diventata lanciante.

« Dove si nascondono i ribelli? » ripeté la voce, incolore, anche se con il tono leggermente più marcato.
Lui non rispose di nuovo. Era l’ennesima volta che gli facevano quella domanda, ma non lo sapeva, dopotutto; non poteva di certo inventarsi un qualche stupido nascondiglio. Aveva provato a dire a quelli che l’avevano catturato che era stato tutto uno sbaglio, che lui non c’entrava niente con quella rivolta di cui tanto parlavano. Ma non l’avevano ascoltato, naturalmente.
E tenevano anche London rinchiusa, da qualche parte.
Al pensiero di lei, ugualmente torturata, qualcosa scattò nel suo cervello. Strinse i pugni e sibilò: 
« Andate a farvi fottere. »
Silenzio. « Continua » disse poi la voce all’aguzzino.
La frusta calò di nuovo sulle sue spalle, lacerando la pelle. Klaus strinse i denti fino a farsi male e si morse le labbra, pur di non dare ad Emil la soddisfazione di vederlo urlare, soccombere totalmente.

« Perché non dici la verità, Wreisht? » gli chiese, quindi, con tono vellutato, parandoglisi di fronte e schioccandogli un altro improvviso colpo di frusta sul torace, così vicino al collo e al volto che lo lasciò senza fiato nei polmoni e senza forza di pensare.
Emil indossava una maschera nera, una maschera che gli confondeva la voce e gli nascondeva il viso. Klaus non sapeva perché né aveva la facoltà di domandarselo, eppure non aveva potuto fare a meno, per un breve istante, di notare che quell’uomo aveva qualcosa di terribilmente familiare. Le movenze, forse, i passi lenti e le spalle rigide.
Schiuse appena le labbra per rispondere, quando una frustata gli colpì l’addome con violenza, lasciandogli un altro – un altro – segno rosso sulla pelle, e da esse fuoriuscì soltanto un grido strozzato. Si accartocciò su se stesso, ma le catene non gli permettevano di muoversi più di tanto.
Il supplizio continuò, mentre l’aguzzino sembrava sorridere beatamente del dolore dell’altro. Ormai aveva anche smesso di fargli domande, come se si stesse semplicemente divertendo. Klaus non poteva vederlo, ma sapeva che in fondo ci stava godendo moltissimo nel vederlo soffrire al pari di una bestia da macello.
A quel punto, quando la lucidità sembrava volerlo abbandonare, non riuscì a non pronunciare quella domanda che gli vibrava, bruciava, nella gola sin da quando si era risvegliato. 
« Dov’è London? » Soltanto un sussurro, biascicato tra i gemiti di dolore.
L’aguzzino esitò un istante, poi rispose piano, quasi con tono addolcito – e finto, naturalmente. 
« Tua moglie? Nella stanza accanto. »
Quell’affermazione gli portò un veloce lampo di speranza negli occhi scuri, ma scomparve immediatamente, sostituito dal terrore più puro. Il cuore gli si bloccò in gola e i pugni cominciarono a sudargli.
« Cosa… cosa le stanno… facendo? » deglutì, lasciando che il suo sguardo serpeggiasse furiosamente sulla figura del tutto abbigliata di nero dell’altro.
« Ah, questo non lo so. »
Sarcasmo. Klaus aveva sempre adorato il sarcasmo, ma in quel momento avrebbe preso volentieri a pugni l’uomo che aveva di fronte e che lo stava prendendo in giro con tanta nonchalance. Ringhiò di disperazione, dando uno strattone violento alle catene.
« Non puoi farci niente, Klaus. Finché non ci dirai tutto quello che sai, London riceverà il tuo stesso trattamento » continuò Emil con voce atona, priva di emozione. « O anche peggio. »
« Io non so niente » ansimò, alzando la testa per quanto gli era possibile. Non riuscire a vedere negli occhi quel maledetto bastardo lo stava facendo impazzire. « … quando lo capirete? »
L’aguzzino schioccò la frusta sul pavimento con uno scatto del braccio, facendolo sobbalzare. « Sei stato catturato nel Distretto Sei durante un tentativo di rivolta. Con un’arma. Tu sei un ribelle, Wreisht, non negarlo. »
Gettò la frusta a terra e gli si avvicinò piano, giungendogli proprio di fronte. Faccia a faccia.
Klaus cercò disperatamente di cogliere qualcosa in quel volto nascosto, ma non riusciva vedere oltre il buio. Il che, da un lato, lo spaventava a morte.

« Adesso ci sono solo due possibilità: o ci dici tutto quello che sai » – e qui gli diede una ginocchiata nel ventre, facendolo piegare in due – « o finirà male. »
« Uccidetemi pure » mormorò, cercando di deglutire e stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche.
« E chi ha parlato di uccidere te? » chiese l’altro con cattiveria, avvolgendogli una mano guantata intorno alla gola. Klaus probabilmente sbiancò, cogliendo al volo il significato di quelle parole, ma nel buio di quella stanza fetida era impossibile che l’altro se ne accorgesse.
… E invece se ne accorse.

« Non… non starai dicendo… » fremette in un sibilo, contraendo la mascella.
L’uomo con la maschera gli accarezzò piano il collo, quasi con una dolcezza inaudita, facendo scorrere le dita lunghe sulla pelle nuda, sulla carotide, sulla mandibola. Poi gli diede un altro calcio violento, tra la gamba e il fianco, che provocò l’ennesimo rantolio di dolore.

« Hai capito benissimo » rispose lui. « Dopotutto sei intelligente, Klaus. »
A quella affermazione un brivido gli percorse tutte le membra del corpo. Aveva usato un tono confidenziale, un tono che poche persone si permettevano di usare con lui.
Con le poche forze che gli rimanevano gli sputò addosso.
L’aguzzino, dopo un istante di esitazione in cui sembrò trattenersi con tutto se stesso per non ucciderlo sul posto, invece di adirarsi, sembrò sghignazzare da sotto la maschera.
Si allontanò per un secondo, raggiungendo la porta in fondo alla stanza. Con lui rientrarono due Pacificatori.

« Portatelo nella stanza accanto » furono le sue ultime parole.
 
Lo trascinarono fuori da quel tugurio, sanguinante e mezzo svenuto, tenendolo per le braccia. Un Pacificatore gli teneva una doppietta puntata sulla schiena, mentre Emil li seguiva in silenzio.
Klaus venne gettato in una stanza completamente diversa dalla precedente; dalle pareti bianche, candida e immacolata. Per un attimo credette di star sognando, perché la luce di quell’ambiente per poco non lo accecò dopo tutto il buio che aveva sopportato, ma poi capì subito che quello sarebbe stato un altro dei suoi peggiori incubi. C’era qualcosa di inquietante in quella situazione, qualcosa di terribilmente sbagliato, di terrificante.

« Legatelo » ordinò l’uomo con la maschera ai Pacificatori, prima che un urlo non costringesse Klaus ad alzare lo sguardo di scatto.
« Klaus! » gridò London, spaventata, alla vista del suo corpo seminudo e sanguinante.
Ebbe una visione sfuggente di lei legata ad una sedia, ma capì che stava bene. Non le avevano fatto ancora niente. Era lì, era viva.
Era viva.
Lo legarono nuovamente al muro, di fronte a lei, anche se questa volta con meno brutalità – e perché mai, poi, non aveva il coraggio di chiederselo.
Riprese lucidità poco a poco, mentre il dolore delle piaghe appena inflitte diventava sempre più straziante, come se gli stessero bruciando la pelle con dei tizzoni ardenti.
Ogni secondo metteva a fuoco altri dettagli, come le armi dei Pacificatori inevitabilmente puntate su di loro, i dettagli della maschera di ferro dell’aguzzino, il pavimento di mattonelle lucide e pulite, la sedia su cui era seduta London…
La ragazza gli rivolse uno sguardo perso e spaesato; i suoi occhi erano appannati dalla disperazione. Gli mormorò qualche altra cosa, che non riuscì a cogliere.
Una fitta al petto, che finalmente gli fece comprendere cosa sarebbe successo di lì a poco, giunse dolorosamente a riportarlo nella cruda realtà.
Eppure il peggio doveva ancora arrivare.
Sillabò un 
« Andrà tutto bene » con le labbra, ma nemmeno lui riuscì a sentire la propria voce – non riusciva nemmeno a crederci fino in fondo, a quella parole. Fu scosso da un tremito di paura. Un presentimento, che gli aleggiava nel cervello e gli faceva ronzare le orecchie. Un maledetto, terribile presentimento.
Non potevano farlo… non potevano
Emil, che prima si era divertito tanto a flagellarlo, si interpose tra di loro, come a volerli dividere anche solo con la sua figura imponente e totalmente abbigliata di nero. Neanche un lembo di pelle, infatti, si intravedeva nella sua persona.

« Adesso dovrò recitare la parte del cattivo » disse, quasi dispiaciuto, camminando piano e soppesando ogni passo. « Quanto mi dispiace… »
Si portò una mano alla maschera.
Klaus, sin dalla prima volta che l’aveva incontrato e sin da quando aveva ascoltato quella sua voce gelida, irrisoria, falsa, aveva desiderato vedere il suo volto, per poterlo guardare bene in faccia, per sperare di trovare almeno una traccia di compassione nei suoi occhi, una traccia di pietà… Ma ora era terrorizzato all’idea di scoprire chi – o forse cosa – ci fosse sotto quel travestimento.
L’aguzzino si tolse la maschera lentamente, lasciando scivolare le sue ciocche di capelli bianchi una ad una. E poi, infine, rivelò il suo viso.
Klaus sentì il sangue defluirgli dal volto; rimase a fissarlo con un grido aggrappato alla gola, che quasi lo soffocò tanta fu la violenza di quella visione, come se non avesse più voce, come se non avesse più pensieri. Tutto si ghiacciò in quell’istante in cui l’aguzzino si voltò verso di lui, tutto si spense, per poi riprendere a pulsare davanti alle sue cornee come un’illusione ottica distorta che dà vita a copiosi e annebbianti giramenti di testa.
Fu come ricevere un’altra frustata – altre dieci, venti, trenta frustate. Quasi riuscì a sentire il cuoio che gli lacerava la pelle a sangue, di nuovo, ma non si rialzava e gli rimaneva attaccato alla cute, diventando una vanga e scavando in profondità, fino a renderlo vuoto, fino a privarlo di ogni cosa, di ogni certezza che gli era rimasta.
Un lampo di terrore, stupore, ripulsione attraversò gli occhi di Klaus.
Benjamin Bridge, lì, in piedi, davanti a lui.
Con un sorriso.
Un sorriso maledettamente e orrendamente diverso da tutti gli altri che aveva visto rivolgergli, un sorriso raccapricciante per quanta spietatezza vi fosse celata.
Benjamin Bridge.
Ben.
L’aguzzino. Il suo nome non era Emil, non era un capitolino, non era un uomo, ma un ragazzo cresciuto fin troppo in fretta. Non era vero, non poteva essere vero, reale, tangibile. Non poteva.
Benjamin.
Il suo nome divenne ghiaccio nella mente di Klaus, divenne nero, divenne un graffio. Un graffio più nitido e violento di tutte le torture che potesse immaginare.
London sembrò andare in panico, occhi e bocca spalancati dall’incredulità e dall’orrore. Il suo viso candido era diventato mortalmente pallido, mortalmente spento, mortalmente terrorizzato
« Ben? » Fu un sottile sussurro che non udì nessuno. Qualcosa che somigliava ad una supplica disperata, come se gli stesse chiedendo conferma che fosse realmente lui, o forse che fosse tutto un orribile sogno e che lui fosse venuto a salvarli da quella follia.
Salvarli. Salvarli.
Klaus diede un improvviso e doloroso strattone alle catene, tentando invano di avanzare di qualche centimetro e avvicinarsi a colui che l’aveva torturato fino a qualche istante prima.
Torturato. Benjamin l’aveva torturato.
Un flusso repentino d’ira si espanse lungo le membra irrigidite del suo corpo, quasi risvegliandole dal torpore in cui erano piombate. Lo avrebbe volentieri steso al suolo e massacrato, fino a sentire le sue suppliche disperate, fino a sentirlo urlare e morire.
Klaus in quel momento voleva che Benjamin morisse, per mano propria. Lentamente, dolorosamente, pezzo a pezzo.

« Che cazzo stai facendo? » urlò, fuori di sé, quasi bruciandosi le corde vocali.
Ben lo bloccò sul nascere con un’espressione... divertita. 
« Sai, Klaus? E’ bello vederti strisciare, per una volta. Dopo anni interi passati a marcire in solitudine, mi merito un po’ di spettacolo, no? »
La voce di London arrivò ovattata – era ancora così flebile che non avrebbe potuto nemmeno sentirla –, eppure sortì lo stesso effetto di un fulmine a ciel sereno, carico di disperazione. « ... che cosa stai dicendo…? »
Ben si voltò di scatto verso di lei, come se si fosse ricordato solo in quel momento che fosse lì insieme a loro. « Benjamin Bridge non esiste più. Siete stati voi ad ucciderlo, a distruggerlo»
Klaus tentò di liberarsi dalle catene in qualsiasi modo, ma più ci provava, più le ferite lo indebolivano, rendendolo solo carne da macello in trappola. Non poteva essere vero, non poteva essere vero, no.
« Liberaci, fottuto bastardo! » gridò, digrignando i denti e sentendo qualcosa di simile... alle lacrime… pungergli alla base delle ciglia. Lacrime furiose, incredule.
Credeva di conoscerlo. Lo aveva sempre creduto. Sempre.
Fino a quel momento.

« E perché dovrei? »
Silenzio da parte dell’altro. Silenzio ostinato, allibito, smarrito. « Perché dovresti? » ripeté, indignato. Klaus sperava che fosse tutta una farsa, ma quella sottile aspettativa svanì nel nulla l’istante successivo.
« Dopo tutto quello che mi avete fatto? » continuò l’albino, prendendo poi ad ignorarlo per avvicinarsi a sua sorella – alla sua gemella – come se la stesse vedendo per la prima volta in vita sua, come se stesse scoprendo una perla sepolta all’interno di una conchiglia.
London aveva gli occhi lucidi di panico, ma tentava ancora di darsi un contegno e di non piangere come una stupida bambina. Le sue labbra erano serrate e screpolate, i muscoli del viso contratti in uno spasmo e i pugni stretti, con le unghie conficcate nei palmi delle mani.
Ben le scostò con delicatezza una ciocca di capelli dalla fronte e le carezzò piano una guancia.
Klaus avrebbe voluto staccarsi da quelle catene per afferrargli la collottola e sbatterlo al muro finché tutte le sue ossa non si sarebbero frantumate, ma ogni suo movimento era nullo. Come si permetteva di toccarla?
Riformulò le sue parole: 
« Liberala » disse duramente.
« Avresti dovuto trovare qualcuno che ti sapesse proteggere meglio, Londie » le sussurrò Ben aspramente, prendendole il mento con una mano e inducendola a guardarlo negli occhi. Occhi uguali, occhi gemelli.
Dalle sue labbra tremule sfuggì un singhiozzo. 
« Ben… smettila, ti prego… » gemette debolmente, lasciando vagare freneticamente lo sguardo sul volto del fratello, completamente sfigurato dalla ferocia.
« Hai scelto lui, alla fine. Lui. Lui che non ti merita. E guarda dove sei finita… » replicò a quel punto, neanche minimamente toccato dalla supplica di London, staccandosi di botto come se la pelle di lei scottasse e la potesse sentire ardere persino da sotto i guanti.
Tornò in direzione di Klaus, che continuava a dimenarsi, anche se con meno convinzione. Le forze sembravano abbandonarlo di botto in quel momento. Ribellarsi, tentare di fuggire… non serviva a niente. Era diventato tutto impossibile. Esistevano soltanto loro tre, quella stanza e quelle maledette catene. Null’altro era vero, non riusciva a pensare a qualcosa che non fosse quella lama bruciante di rabbia nel suo petto. Eppure dei ricordi sfocati gli viaggiarono con sorprendente velocità nella mente: Ben che lo baciava con una dolcezza di cui nemmeno London era mai stata capace, Ben che gli puliva e fasciava le ferite lasciate dalla frusta di suo padre, Ben che lo invitava ad entrare con un sorriso radioso nella stanza in cui London aveva partorito, Ben che gli diceva qualcosa in ungherese… qualcosa di cui non conosceva il significato, ma che assomigliava molto a “Perché ti amo”.

« Mert szeretlek. »
Nessuno di quei ricordi combaciava con quell’immagine. Nessuno.
Benjamin in quel momento fece un cenno ai Pacificatori. 
« Cominciate con lei. »
Klaus gli lanciò un’occhiata di panico. « Che cosa? » sibilò, sconvolto.
« Oh, vedrai » rispose lui, incrociando le braccia, pronto ad assistere a chissà quale spettacolo. « Anzi, sai che ti dico? Guardala anche tu. Guardala bene, Klaus, perché potrebbe essere l’ultima volta. »
Klaus gli ringhiò contro qualcosa.
Non London, non lei.

« Finché morte non vi separi, ricordi? » chiese retoricamente Ben, infine – il pacifico, amabile, pacato e dolce Ben.
Il loro aguzzino.

 









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Capitolo 26
*** 025. Twenty-fifth Chapter – Punish them for pleasure. ***


Note: Salve, pochi lettori estivi che sono rimasti ^o^ Oggi è il 18 agosto, tutti sono in vacanza tranne me, perché sono tornata da Dublino da meno di due settimane e già mi manca tutto. Per farmi passare la nostalgia, comunque, mi sono immersa nella scrittura di questo capitolo che ritengo uno di quelli più intensi, proprio in termini psicologici. Ne sono (stranamente) abbastanza soddisfatta, per cui il vostro parere in merito non potrà farmi più che piacere :3 Spero tanto di aver reso bene le emozioni dei personaggi, perché come potete immaginare non è stato un compito semplicissimo, ma mi ci sono impegnata davvero tanto per raggiungere almeno un risultato decente.
Passando alle informazioni tecniche: ho aggiunto un altro capitolo nella tabella di marcia di Blur, perché mi sono resa conto che alcune scene avrebbero occupato più spazio nella narrazione, come quelle di questo 25 che si sono rivelate piuttosto lunghette (è il capitolo più lungo scritto finora, ecco). I capitoli, quindi, dovrebbero essere in tutto 31, ma contando anche il prologo e l'epilogo saranno 33. Poi magari modificherò anche qualcos'altro, perciò non prendete le mie parole per oro colato.
La canzone che dà il titolo, End of all days, è un'altra di quelle da ascoltare assolutamente, perché a mio parere descrive moltissimo il cambiamento drastico di Ben, soprattutto con i versi "A maniac messiah, destruction is his game, a beautiful liar, love for him is pain" e "I punish you with pleasure and pleasure you with pain." Ascoltatela, davvero, la trovo meravigliosa (come se non facessi già abbastanza pubblicità ai Mars, ehm).
Purtroppo in questo periodo non posso rispondere alle recensioni, sono praticamente impossibilitata con tutte le cose che ho da fare. Sappiate che comunque le leggo con emozione sempre crescente, mi fate sempre più felice, perciò grazie ancora a tutti di cuore, non avrei mai pensato che Blur sarebbe stata così bene accolta ♥
Un'ultima cosa, questo capitolo è stato scritto in parte in diretta con Marty, ovvero l'ideatrice di Ben e London, perché è stata da me giusto ieri, quindi glielo dedico con tutto l'affetto del mondo ♥

Prima di andarmene definitivamente, assicurandovi che il prossimo capitolo non sarà pubblicato a distanza di un mese, vi ricordo che QUI c'è la mia pagina facebook e QUI c'è il gruppo scambio-recensioni, che vi invito caldamente a visitare come sempre.
Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene da "End of all days" dei 30 Seconds to Mars. 

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Blur

(Tied to a Railroad)






025. Twenty-fifth Chapter – Punish them for pleasure.




Tutti i suoi sensi sembravano morti, come se stessero anticipando la sua fine. La sua pelle quasi non aveva più sensibilità, specialmente quella dei polsi e delle caviglie: arrossata, graffiata, sanguinante. Klaus sentiva che presto quelle catene sarebbero arrivate a mangiargli la carne viva fino ad arrivare all’osso.
La sua gola era secca e infiammata per quanto aveva urlato, lo aveva fatto finché aveva potuto. Ma ciò che faceva più male erano gli occhi e le orecchie.
Le sue pupille saettavano ad ogni minimo movimento di Benjamin o London e le cornee pungevano di lacrime non cadute, lacrime inorridite.
Guardare quella scena era stata una prova orribile, gli aveva richiesto uno sforzo sovrumano: eppure non aveva potuto fare a meno di tenere gli occhi spalancati dinanzi alla peggiore delle torture che si potesse immaginare. London aveva urlato tutto il tempo, più di lui, più di tutte le volte in cui l’aveva sentita urlare. I propri timpani ancora ronzavano delle sue grida, gli erano penetrate nel cervello e continuavano a risuonargli dolorosamente nella testa.
Sentirla urlare così gli aveva fatto capire quanto fosse vulnerabile, indifesa… sentirla urlare così, di dolore, l’aveva annientato.
Adesso le scariche erano finite e il corpo di London era abbandonato svenuto – svenuto, svenuto, svenuto – sulla sedia elettrica, con la testa piegata di lato, immobile.
Klaus non aveva più voce e non riusciva a smettere di fissarla con le labbra tremanti, perché cercava di mormorare qualcosa, ma tutto ciò che fuoriusciva dalla sua bocca erano respiri mozzati e inudibili.
Gli occhi spalancati sull’immagine della moglie riversa sulla sedia, il sangue che gli bolliva nelle vene, tutti i pensieri annullati.

« Sinceramente » esordì il ragazzo accanto a London, intento a toglierle gli elettrodi da tempie e polpacci, « pensavo che avrebbe resistito di più. Il voltaggio era molto basso. »
Klaus si riscosse appena e spostò lo sguardo gelido e al contempo disperato su di Ben. Non sapeva neanche lontanamente come controbattere, ancora non riusciva a capire il perché di tutto quello.
« La prossima volta lo aumenteremo, così si abituerà… » continuò il gemello, « forse. » Si ravvivò i capelli ora leggermente più lunghi di quel che ricordava e si voltò finalmente verso di lui. « Non trovi che sia bellissima anche così, Klaus? »
Le membra del moro s’irrigidirono quasi in uno scatto. « Bastardo… » biascicò.
« Come? Non ho sentito bene » fece Ben, avvicinandoglisi di poco. « Quando Londie si risveglierà sarà il tuo turno, sai? Voglio che veda bene, proprio come hai fatto tu. »
Klaus diede l’ennesimo strattone alle catene. « Non la toccherai di nuovo » sibilò, con uno sguardo che da solo sarebbe riuscito a strappare la pelle di chiunque… ma non quella di Ben, non ora che la sua pelle era diventata ferro.
Il ragazzo, in risposta, rise aspramente. 
« Certo che ne avete di strada da fare » disse, prima di mollargli un pugno nello stomaco, a cui Klaus si accartocciò con un gemito. « Ordini a me non se ne danno. »
 

*

 
La pelle pizzicava, come se avesse appena sfrigolato su una griglia. London riaprì gli occhi dolorosamente, quasi le palpebre fossero incollate. L’immagine che le restituirono i suoi occhi per un istante le fece credere di essersi svegliata da un lungo e terribile incubo. Ben…, provò a sussurrare, ma le sue labbra emisero soltanto un soffio lieve e indistinto. Per un momento percepì che suo fratello le stesse sorridendo, eppure le sembrò una cosa tremendamente familiare e tremendamente estranea al contempo.
Quello non era il solito sorriso di Ben, era, piuttosto, un sorriso… cattivo.
Gli occhi della ragazza, ipnotizzati, rimasero puntati su quella figura angelica e demoniaca, quando poi la sua attenzione venne attirata da un corpo legato alle spalle del gemello.
Klaus!, lo riconobbe – perché non sarebbe potuto essere nessun altro – cominciando a tremare di paura. Risistemò i tasselli nella sua testa, prendendo ad osservarsi poi le caviglie e i polsi imprigionati con delle cinghie di cuoio. La pelle delle braccia, inoltre, era spaventosamente arrossata e bruciava come se fosse a contatto con il fuoco da ore.
Ricordò, improvvisamente, tutto ciò che era accaduto. E avrebbe voluto svenire di nuovo, forse avrebbe anche voluto morire.
Morire...
Il suo corpo si immobilizzò sulla sedia elettrica e le iridi divennero gelide dalla paura, il volto cadaverico. Non riusciva a pensare, a dire nulla.
London Bridge in quel momento era uno scheletro senza vita. Distrutto, immobile, quasi evanescente. Come un misero scherzo di luce nella penombra.

« Giusto qualche istante fa, London, mi ritrovavo a dire a Klaus che la tua bellezza è ineguagliabile anche in questo stato » considerò Ben, accarezzandole distrattamente una spalla. Una carezza che bruciava, proprio come le ustioni. Il suo sguardo cercò disperatamente quello del gemello, ma senza trovarlo. « Sarebbe un peccato sprecarla o rovinarla con certe torture rudimentali, perciò queste le riserveremo a lui. Klaus è forte... » sghignazzò il ragazzo, senza nascondere il sarcasmo o il disprezzo nella sua voce, « un vero uomo»
London sentì Klaus ringhiare, offeso e spaventato nel profondo. Legato come una bestia da macello, provocato, umiliato, frustato… quale sarebbe stato il passo successivo? Gli occhi della ragazza si incatenarono a quelli del marito e vi rimasero fissi per un tempo interminabile. Sembravano gridare aiuto, ma quando si fusero con i propri la paura venne sostituita dall’angoscia. E capì cosa pensava, e capì quanto stesse odiando Ben in quel momento.
Uno sguardo, un legame.
Perché Ben non la guardava? Perché si ostinava a darle le spalle? Se solo avesse potuto leggere nei suoi occhi… forse avrebbe capito perché
Dimmelo, ti supplico… dimmi soltanto perché… Le bastava soltanto una risposta per perdonargli tutto. Guardami, Ben, guardami!
Ma Ben non la guardava, suo fratello adesso fissava Klaus e lei sentiva la pelle bruciare ancora come se fosse Klaus, come se la stesse finalmente guardando, come se potesse comunicare con lui in un qualsiasi modo. Un solo contatto. Era tutto ciò che desiderava.
Pianse.
Cominciò a piangere come se il mondo stesse per finire. E forse era vero, forse tutto si sarebbe distrutto nel giro di poche ore… o forse sarebbe durato in eterno. Soltanto loro tre, in quel bianco d’agonia, con i volti bagnati di lacrime. In eterno.
La voglia di morire non si era ancora assopita nella sua mente.

« Dunque » cominciò Benjamin, schiarendosi la voce, « prima del proseguimento delle danze, presumo che vogliate sapere cos'è successo dopo la vostra repentina fuga in Europa. Ve lo concedo, avete il diritto di sapere come sono andati i fatti. »
Un lampo improvviso attraversò le iridi di London. Voleva sapere tutto, ogni singolo dettaglio di quei due anni trascorsi lontani da lui, voleva sapere chi aveva ucciso Frantz Wreisht e soprattutto se Klaudia stava bene. Senza neanche accorgersene, si protese leggermente verso il corpo del gemello, quasi volesse riattaccarsi a lui come quando condividevano il grembo materno. Due innocenti creature, un tempo, indivisibili.
Ora divise, più che divise. Lontane anni luce. Estranee.
Quel pensiero la spaventò più di ogni altra cosa.
Klaus teneva gli occhi puntati ferocemente su di Ben e aspettava che lui iniziasse a parlare, come se quello sguardo duro e violento potesse costringerlo a dire la verità, forse addirittura spingerlo a pentirsi. Ma Ben era caparbio, ostinato, proprio come la sorella. Aveva in mano le redini della situazione e sembrava esserne pienamente consapevole.
London lo guardava, e più lo guardava, più gli appariva una creatura incomprensibile, come se fosse tutt'altra persona. Eppure voleva ascoltare ogni singola parola pronunciata dalle sue labbra, perché ne aveva strettamente bisogno, di un bisogno fisico e disperato.
Nonostante tutto, Ben le era mancato come l'ossigeno in apnea.

« Da dove cominciare? » si chiese l'albino, per darsi un punto di partenza. « Sarò sintetico perché purtroppo dovremo dedicare il nostro tempo ad altre attività. In ogni caso... dovete sapere che mio padre mi aveva finalmente trovato una donna da sposare, con l'aiuto di Ludmille Schnee. Il suo nome è... o era, non lo so con precisione al momento... Mary J. Mars, ovvero la figlia di un ambasciatore di Capitol City. Qualche giorno dopo la vostra fuga e la vostra lettera, organizzammo una cena per incontrarla dal momento che da poco lei aveva compiuto la maggiore età e lì decidemmo la data del matrimonio, prevista in un mese. » Ben si concesse una breve pausa per guardare London di sottecchi e lei fece di tutto pur di attaccarsi a quello sguardo sfuggente, di rimanerci ancorata, anche se senza successo.
« Ci saremmo sposati, davvero, ero disposto a tutto pur di rendere felice la mia famiglia dopo la vostra scomparsa, ma di punto in bianco anche Mary è sparita nel nulla, probabilmente scappata con un altro. Un destino felice, per uno come me che si è visto sfuggire dalle dita tutte le persone che contavano davvero. »
London emise un singhiozzo, chiaro e pulito. Improvvisamente tutto cominciava a gravare su di lei, ogni colpa era amplificata e ogni pensiero diveniva una lama nel cervello. L'ho abbandonato, l'ho abbandonato, è colpa mia!
Ben sembrò ignorare il suo lamento e continuò a tenere fissi gli occhi su Klaus, che ricambiava quello sguardo di brace: il mondo, in quelle iridi, parole, insulti, ricordi, errori.

« Ah, a proposito, Londie » continuò, ma senza mai guardarla, « papà è morto. »
Questa volta qualcosa uscì dalle corde vocali di London, un grido strozzato di sconcerto e paura. Alfons, suo padre... loro padre... non poteva... « No! »
« Sì, invece » precisò Ben, « era malato e non l'ha mai detto a nessuno. Me n'ero a stento accorto nell'ultimo periodo perché ogni tanto tossiva sangue, ma l'ultima sera andò a dormire serenamente, senza dire nulla a mamma, come se già sapesse quello che stava per succedere. Mi chiese di salutarti, quando ti avrei rivista. All'inizio non avevo capito, ma poi tutto mi fu chiaro. »
London si dimenò sulla sedia nonostante le cinghie e mormorò qualche altra cosa, ma Ben non le dedicò più dell'attenzione necessaria.
Le lacrime continuavano a bagnarle il volto già smunto e pallido e il cuore pulsava di dolore, ogni battito era una stilettata al petto. Aveva abbandonato tutti, aveva abbandonato la sua famiglia. 
« Ben... Ben... » piangeva, supplicandolo di guardarla, liberarla e di poter finalmente disperarsi sulla sua spalla, tra le sue braccia.
« Da piccola non piangevi mai » commentò il gemello, semplicemente. « Adesso sei diventata fin troppo debole e credo di sapere di chi sia la colpa. »
Klaus strattonò le catene per l'ennesima volta nonostante i graffi ai polsi. London sapeva che non era colpa di Klaus, né di Ben, né di chiunque altro all'infuori di lei. Era stata sempre una bugiarda egoista, forse si meritava tutto quel dolore, forse se ne meritava anche di più. Ma perché... perché così, perché in quel modo? Tutto troppo velocemente e violentemente. Meglio morire, mille volte meglio. Per far tacere ogni cosa.
« Proseguendo il racconto, comunque... Il primo anno non siete mai stati realmente in pericolo. Finché nessuno spifferava la vostra scomparsa a Capitol City eravate al sicuro, ma con la settantaquattresima edizione degli Hunger Games è successo l'impensabile: tutta Panem ha scoperto che Klaus non c'era ad adempire al suo ruolo di mentore, così i Pacificatori sono venuti a casa vostra, distruggendo gran parte di porte, finestre e mobilio e poi sono venuti a ricattarci. Io mi sono subito alleato con la capitale per risparmiare la mia pelle e quella di mamma, così come Frantz. Shyvonne invece si è opposta e tutto ciò che ha ricevuto è stato un proiettile alla fronte. Le ricerche sarebbero continuate, se solo la cosiddetta Ghiandaia Imitatrice non avesse scatenato il putiferio: Katniss Everdeen, Distretto 12, vincitrice dei settantaquattresimi Hunger Games. Con un suo gesto sconsiderato ha acceso la scintilla della rivolta, quella di cui avete avuto un assaggio appena qualche giorno fa. Diciamo che Snow era molto più occupato a tentare di domarla, piuttosto che pensare ad un vincitore scomparso nel nulla. »
I pensieri le si confondevano sempre più nel cervello, i battiti del cuore erano sempre più pesanti. Non capiva a cosa volesse portare quel discorso, anche se una vaga e terribile idea già l'aveva.
« Frantz Wreisht però continuò le sue ricerche, mentre io dopo il disastro della terza edizione della Memoria sono stato chiamato a servire la capitale e quindi sono stato costretto ad abbandonare. Frantz è riuscito a giungere alla vostra posizione dopo una serie di coincidenze e ha mandato alcuni dei Pacificatori fornitigli da Capitol a rapire Klaudia. Questa mossa, sinceramente, non l'ho ancora capita. So solo che dopo aver scoperto che lei in realtà è mia figlia desiderava... eliminarla, come se fosse un aborto di natura. » Una breve risata aspra spezzò il suo discorso. « Lei... da che pulpito. Comunque, Klaudia è finita nelle mani di Frantz, ma il caso ha voluto che quel giorno fossi tornato al Distretto Sei a prendere dei prigionieri ribelli. Le voci girano in fretta, così sono corso da lei perché più o meno avevo capito cosa volesse farle. »
London trattenne il respiro, quasi fino a svenire di nuovo.
« Ho sparato a Frantz prima che le potesse torcere anche solo un capello. »
La ragazza vide Klaus immobilizzarsi, mentre dentro la sua testa pensieri contrastanti si davano battaglia, aggrappandosi l'uno all'altro per farla impazzire.
Ben... il suo Ben non avrebbe mai ucciso nemmeno una mosca, ma l'aveva fatto per proteggere Klaudia, la sua... la loro bambina. La figlia di una vita mai realmente avuta, un'innocente su una barca di meschini peccatori. Il dolore per un attimo si annullò.

« ... dov'è... dov'è Klaudia? » mormorò, con gli ultimi sibili di voce che le erano rimasti. Dio, quanto aveva urlato, quanto aveva creduto di star morendo bruciata viva su quella maledetta sedia...
Il fratello la guardò da sopra una spalla. 
« A casa con mamma. Sta bene. »
Un sospiro fuoriuscì dalle labbra tremanti di London, l'unico sollievo in un mare di stordimento, incertezze e disperazione. L'unico.
Klaus anticipò la domanda che più le premeva nella gola, ma che non aveva il coraggio di pronunciare. 
« Perché ci stai facendo questo? » Anche lui parlava a bassissima voce, anche lui aveva urlato. Il pensiero che presto avrebbe assistito alle sue, di torture, inerme e impotente, le fece venire voglia di rimettere anche l'anima.
Ben rispose repentinamente, come se si stesse già aspettando quella domanda da tempo. 
« I motivi sono tanti, troppi. Mettiamola così: sto facendo il mio dovere di servo di Capitol City e sto punendo dei ribelli. Ma dall'altro lato sono solo qualcuno che si è stufato di essere usato come l'ultimo degli stracci, di vedere gli altri felici e contenti e di essere sempre abbandonato come un essere inutile. »
Il silenzio gravò nella stanza dopo quella risposta. Le mani di London presero a tremare convulsivamente, così come le spalle e le labbra. Era terrorizzata, sconvolta, anche se sapeva che il fratello non aveva detto tutta la verità. Ben, però, voleva davvero vendicarsi di loro, di tutto il dolore che gli avevano involontariamente causato. E London conosceva benissimo quel dolore, l'aveva sperimentato sulla propria pelle quelli che pensava fossero secoli fa.
Quell'incubo, quella visione raccapricciante eppure così veritiera.
Un Benjamin se n'era andato, un altro aveva fatto la sua terribile comparsa.
Tutto il dolore del mondo, in quell'incubo, si era riversato su di lei. Tutta la sofferenza, il buio, tutto, sulla sua pelle, sotto la sua pelle, dentro di lei.
Adesso capiva.
Adesso capiva perché.
Perché nessuno può sopportare sul proprio corpo tutto il dolore del mondo.
Ben si voltò finalmente a guardarla e i suoi occhi la spaventarono, la atterrirono a tal punto che desiderò non averli mai visti. Non sembravano neanche lontanamente gli occhi di suo fratello, erano occhi malvagi e pieni di brama di vendetta.
No, non avrebbe mai voluto guardarlo, avrebbe preferito ricordarsi lo sguardo radioso del gemello che conosceva un tempo. Avrebbe preferito perdersi in quei ricordi, senza mai più riemergere.

« Sei pronta, adesso, Londie? » le chiese quasi dolcemente, avvicinandosi e prendendole il mento. Un altro contatto che la ustionò. Ma mai quanto il successivo.
Assicurandosi che Klaus vedesse bene, la baciò sulle labbra delicatamente, come se fosse fatta di porcellana, come se appena qualche minuto prima non l'avesse torturata sulla sedia elettrica. Come se l'amasse ancora, come se non avesse mai smesso.

 
*

 
« Ti prego, Ben, smettila... » disse flebilmente la ragazza, tentando di ignorare tutto il dolore mentale che la stava pervadendo, dilaniando, più delle scariche elettriche.
Ben alzò di nuovo la frusta, ma stavolta non la calò. Non subito, almeno. 
« Come hai detto, Londie? »
« Basta, per favore » sussurrò l’albina, che aveva ritrovato la voce in fondo alla sua gola. « ... Lo stai uccidendo. »
La risata del gemello echeggiò tra le pareti; poi, come se avesse ignorato questa breve parentesi di dialogo, frustò Klaus per l’ennesima volta, al che lui lanciò un urlo esasperato, stringendo le catene fino a farsi sbiancare le dita.
« No! » fece la ragazza, aggrappandosi ai braccioli della sedia e osservando un’altra striscia rossa disegnarsi sulla schiena esposta del marito, già piena di sangue, sudore e cicatrici. « Ben, ti prego! »
« Pregami quanto vuoi, sorellina » mormorò l’aguzzino, « ma adesso devo divertirmi. »

Forse aveva conservato un briciolo di lucidità in un angolo della sua testa.
Non capiva nulla, si sentiva soltanto stordito e... invisibile. Come se il suo corpo avesse smesso di esistere. Non sentiva più niente, eccetto il dolore e la paura che lo corrodevano dall'interno.
Klaus non aveva mai avuto così paura in vita sua. Era irrazionale, inspiegabile, intensa. Non era semplice terrore di morire, ma piuttosto di star perdendo ogni cosa. La dignità, la forza, ogni certezza. Ma ciò che più lo spaventava era il fatto di non riuscire neanche ad immaginare quale sarebbe stata la prossima mossa di Benjamin – del nuovo Benjamin, di quella persona che nel giro di pochi attimi aveva messo più volte a repentaglio le loro vite.
Avrebbe continuato le torture, vedendoli soccombere ai suoi piedi per mera rivincita personale? Li avrebbe liberati, prima o poi, oppure... oppure li avrebbe uccisi?
Quel pensiero gli pulsava in testa e si deformava al passare dei secondi. Non era possibile, si diceva, che sarebbe andata a finire così. Doveva esserci un altro esito, un altro finale per quella terribile situazione. Non potevano morire e basta, così, per mano del ragazzo di cui più si erano fidati in tutta la loro vita.
Eppure se pensava allo sguardo impassibile o divertito di Ben durante quelle torture... Aveva voglia di urlare, di prendergli il cranio tra le mani per sfondarlo contro un muro, di sentirlo urlare a sua volta. Aveva fatto soffrire London, l'aveva legata alla sedia elettrica ed era rimasto ad osservare mentre un Pacificatore aumentava il voltaggio di scarica in scarica.
L'ha fatta soffrire, quel maledetto bastardo.
Era per quello che aveva paura. Era per quello che continuava a tremare. Non aveva idea di dove sarebbe riuscito a spingersi. E, suo malgrado, non aveva idea di quanto sarebbe riuscito a guardarla morire.
Perché, anche se li avesse liberati, avrebbe ottenuto la sua agognata vendetta comunque. Li stava uccidendo, sì, ma partendo dall'interno.

Erano passati giorni. Erano state ore, minuti, secondi interminabili. Ogni attimo era scandito dal dolore, ogni respiro era un miracolo.
Li tenevano lontani, in celle diverse, e nessuno li aveva più considerati in quei giorni – perché forse, se avessero ricevuto anche solo un'altra tortura, non sarebbero stati più utili a nessuno, neanche alla vendetta di Ben.
Klaus sapeva che prima o poi l'incubo sarebbe ricominciato, ma quasi non aveva la forza per pensarci. Nemmeno quando lo trascinarono di peso in un'altra stanza, sempre spoglia e vuota come le precedenti, eccetto per una catena legata al muro che gli avrebbe bloccato entrambi i polsi e per un letto in un angolo munito di manette. Sembrava l'ambientazione adatta ad un assassino sadico e pervertito e Klaus cominciò a domandarsi se Ben non si sarebbe rivelato un personaggio del genere prima o poi.
Come previsto, lo incatenarono al muro e lui fu costretto a sedersi a terra perché non riusciva a stare in posizione eretta per troppo tempo. Rimase così, per molti minuti, con le braccia alzate in alto e intrappolate, come se lo volessero torturare più con l'attesa che con il vero spettacolo. E lui aveva già una vaga idea di ciò a cui avrebbe assistito, lo sentiva nelle vene.
Esattamente come si aspettava, qualche minuto dopo London fu portata in quella stanza da Ben in persona, accompagnato da un altro aguzzino sconosciuto e dall'aria severa. La ragazza probabilmente era stata quasi del tutto sedata, tanto che si muoveva appena e si lasciava sballottare dai due a loro piacimento, come una bambola di pezza. Totalmente inerme, ma cosciente.
Klaus provò ribrezzo per Benjamin in quel momento. Come osa...?
La ammanettarono al letto come aveva previsto e un terribile presentimento cominciò a farsi strada nella testa di Klaus, ronzando minaccioso.

« Che cosa vuoi farle? » domandò allora, dimenandosi dalle catene per quanto poteva.
« Speravo che avessi un'immaginazione più fervida, Klaus » ghignò l'albino, giocherellando con le manette intorno alle caviglie della sorella. « Coraggio, prova ad indovinare. »
« Vuoi stuprarla, magari? » chiese tra i denti, quasi come una fiera che è stata catturata dal cacciatore.
« Sai perfettamente che io non farei mai una cosa del genere » disse e parve sincero, anche se adesso Klaus aveva milioni di dubbi su di lui.
« E allora cosa cazzo ti sei inventato stavolta? » ansimò, in cerca di una risposta, per quanto orrida questa potesse essere.
« Oh, vedrai... » ribatté Ben, facendosi passare qualcosa dal collega. Una lama. Klaus rabbrividì: era lunga e seghettata. « So che non ne vedi l'ora. »
« Sei un folle... » biascicò Klaus, in panico, nel vederlo avvicinarsi nuovamente a London, ancora stordita dal sedativo. « Posa quella lama, dannazione! » Sapeva che più si mostrava impaurito, più Ben l'avrebbe provocato, ma era più forte di lui. Paralizzato dal terrore, lo guardò sfiorare il collo di London con i polpastrelli e sorridere sarcasticamente.
« Ancora non hai imparato, eh? » fece, attendendo che i sensi della gemella si ristabilizzassero. « A quanto pare ci vorrà più tempo di quel che credevo. »
London in quel momento diede segno di essere ben vigile e mormorò appena: « Mmh... », come se parlare le costasse una fatica immane. Ben continuò ad accarezzare la sua pelle pallida con le mani e alla sinistra si tolse il guanto per avere un contatto ancora più ravvicinato con lei. Nessuna barriera tra di loro, solo pelle contro pelle.
Klaus rabbrividì di repulsione e inveì contro di lui, livido di rabbia per quella circostanza anomala e ancora incomprensibile.

« Sei un fottuto vigliacco, prenditela con me, avanti! » gridò il moro, stringendo i pugni fino a sentire la pelle dei palmi bruciare. Qualsiasi cosa stesse per farle, di sicuro era peggio della sedia elettrica e delle frustate messe insieme. Avrebbe dovuto fare male, più male. Avrebbe dovuto rendere la sua vendetta più dolce.
« Ci sarà tempo anche per quello, non preoccuparti » sogghignò l’altro. Staccò la mano dal corpo della gemella e si rigirò il coltellino tra le dita, sfiorando poi le sue cosce con la punta della lama, lasciandole un leggerissimo graffio bianco sulla cute. London tremò visibilmente, ma senza emettere neanche un lamento, stavolta. Klaus sapeva, sentiva che sua moglie si fidava ancora del fratello e questo da un lato lo riempiva di… paura, forse. Come poteva, dopo tutto quello che aveva fatto?
Rimasero in silenzio per qualche istante, quando poi Ben, facendo risalire il coltellino lungo il profilo di London, raggiunse l’orlo dell’abito spartano che le avevano fatto indossare e indugiò giusto un secondo, prima di afferrare un lembo della stoffa con l’altra mano e tagliarle del tutto il vestito di dosso. La ragazza emise un verso strozzato e si agitò sullo spoglio materasso ruvido, restando completamente nuda dinanzi ai tre uomini presenti in stanza.

« Benjamin… » digrignò Klaus tra i denti, sbiancando e agitandosi a sua volta tra le catene che comunque non gli avrebbero permesso alcun tipo di fuga. « … avevi detto che non… » non riuscì a terminare la frase, mentre le labbra gli vibravano d’odio.
« Lo so cos’ho detto, Klaus » ribatté l’altro. « Ho detto che io non l’avrei mai stuprata. » Lasciò che sulla sua bocca si disegnasse un sorriso storto e poi si voltò verso il suo collega, a cui passò il coltellino e fece un cenno. « London mi ha sempre fatto capire che preferiva scopare con Klaus che con me. Vedi se riesci a fare meglio di lui. »
London comprese a fondo solo in quel momento il significato di quelle parole e cominciò a piangere, di nuovo, ma questa volta silenziosamente, girando la testa di lato per non assistere – in qualche modo – a quello che stava per accadere. Sembrava già distrutta, abbandonata a se stessa, inerte nelle mani di suo fratello. Sembrava quasi pronta, come se volesse compiacerlo pur di essere finalmente liberata. « Ben… » sussurrò soltanto, quasi il suo nome fosse l’unica cosa che riuscisse a dire. « … ti prego… » Eppure sapeva già perfettamente che pregarlo non serviva a nulla. Se l’avesse voluta vedere violentata da qualcun altro, allora London si sarebbe rassegnata a quella volontà. Doveva farlo, ma nessuno di loro l’avrebbe sentita urlare ancora. Klaus non l’avrebbe vista soccombere totalmente. Era uno dei suoi ultimi desideri, quello di mostrarsi forte nonostante stesse morendo lentamente dentro. Un desiderio irrazionale e immotivato, ma bruciante. Doveva resistere anche a quello, per Klaus e forse anche per quel briciolo di orgoglio che le era rimasto.
Benjamin non si mostrò per nulla scosso da quel tentativo di supplica, ma si apprestò ad abbandonare la stanza, voltandosi un’ultima volta a guardare Klaus, come se fosse disinteressato dalla violenza che si stava per compiere tra quelle mura, una violenza che avrebbe rubato a London probabilmente tutto ciò che le restava.

« Non ti azzardare! » urlò lui, « Non puoi farlo davvero, è tua sorella! Tua sorella, porca puttana! Benjamin»
Ben lo ignorò e si chiuse la porta blindata alle spalle, lasciandoli soli con l’altro torturatore.
Klaus trattenne il fiato e allungò le gambe, contorcendosi per cercare di liberarsi. 
« Non la toccare! » continuò a gridare e scalciare. « Non devi neanche sfiorarla! »
L’uomo si soffermò giusto un istante su di lui, prima di prendere a fissare London con un’insistenza che da sola sarebbe bastata a violarla. La ragazza si ritrasse d’istinto sul materasso e quel movimento fece tintinnare le manette contro i bordi inferriati del letto. « N-no… » mormorò con voce terrorizzata, aggrappandosi ai cerchi metallici con tutta la forza che aveva. « … Klaus… » Klaus cosa, di preciso? Aiuto« Klaus… » pianse, ancora, sentendo la poca forza di volontà che le era rimasta venir meno. Doveva riuscirci, doveva resistere, sopportare il dolore e domare l’umiliazione.
Il ragazzo lanciò un grido di frustrazione e continuò a contorcersi sul pavimento, mentre il nuovo aguzzino alzava appena gli angoli delle labbra. 
« E’ ancora presto per urlare » disse viscidamente l’uomo, avvicinandosi al corpo esposto di London. Tenne tra le dita callose la lama che gli aveva concesso Ben e gliela puntò alla gola, nel frattempo che con l’altra mano scendeva ad accarezzarle un seno, per poi stringerlo con forza. Le proteste disperate di lei non valsero a nulla e così gli insulti gridati al vento del marito.
Klaus non si era sentito mai più in trappola prima d’ora: non solo per quelle maledette catene, ma soprattutto per la scena che Ben lo stava costringendo a vedere e per l’atto che avrebbe dovuto sopportare London. E’ la sua gemella!, continuava ad urlare una voce nella sua testa, ma era limpido come l’acqua che il Bridge stesse facendo quello soltanto per provocare lui. Fino a che punto vuoi spingerti, figlio di puttana…
London era sua moglie. Se pensava a tutto ciò che avevano passato e poi la guardava ammanettata a quel letto, in lacrime, toccata e fissata e bramata da quello sconosciuto… Era sua moglie. Sua.
Mia.
Nessuno poteva toccarla, non così, non davanti a lui, non per ordine di Benjamin.
Nessuno.
L’uomo cominciò ad ambire subito ad una meta più appetibile e con le dita tracciò il profilo della pancia della ragazza, che si mordeva le labbra per non cominciare ad urlare dal ribrezzo crescente. La lama ancora puntata alla giugulare le stava impedendo ulteriori proteste, ma, quando lo sconosciuto le sfiorò l’interno coscia e la costrinse ad aprire di più le gambe, London reagì d’istinto e voltò il viso in modo da riuscire a mordere le dita che reggevano il coltellino. L’aguzzino imprecò, ma subito dopo premette con più forza la lama sulla gola bianca della ragazza, tanto che lei pensò che sarebbe morta con una pressione leggermente maggiore.
London si morse ancora le labbra e l’interno della guancia fino a sentire il sapore del sangue in bocca e le sue lacrime si seccarono per lasciare il posto ad una gelida paura che le si aggrovigliò intorno alle viscere.
L’uomo osò ancora di più e nel frattempo avvicinò il proprio viso al suo, investendolo con un respiro caldo e appesantito; accostò il naso alla guancia di lei, saggiando il profumo della sua pelle con gli occhi socchiusi. 
« Tuo marito deve essere stato molto fortunato » disse, quasi come se fosse affascinato dalla visione della ragazza, come se ritenesse un grande privilegio quello di avere il suo corpo diafano tra le mani.
Ma Klaus non era della stessa opinione e fissava le dita del torturatore ancorate alla coscia di London, un contrasto così netto e sporco su una pelle che gli era appartenuta e che gli apparteneva ancora. E odiava quell’uomo, lo odiava, odiava Benjamin, li odiava corrodendosi l’animo e disperandosi per non avere la capacità di ucciderli con le proprie mani in quel preciso istante. Le loro facce così disgustosamente vicine, le lacrime e le grida di London così vivide nella sua testa, le mani di quell’uomo. Le mani. Su di London.
Lanciò ancora un grido e diede un violento strattone alla catena, finché un suono chiaro e pulito gli ronzò nelle orecchie: l’anello della catena si era staccato dal muro, lasciandogli ancora i polsi intrappolati, ma il corpo libero di muoversi. Le frustate e i tagli cominciarono a pulsare di nuovo come se fossero freschissimi e dovette raccogliere tutta la forza del mondo, una forza che lui credeva di non avere, per alzarsi da quelle mattonelle impolverate. Strinse i denti e con passi veloci raggiunse l’aguzzino, senza neanche sapere bene cosa fare. Voleva soltanto che smettesse di toccarla.

« Levale quelle luride mani di dosso! » L’uomo aveva giusto fatto in tempo ad accorgersi dell’improvvisa liberazione di Klaus che lui alzò i pugni bloccati dalla catena più spessa davanti al viso e gli sferrò un colpo alla mascella, sentendo i polsi vibrare contro il ferro e l’osso dell’altro ricevere la botta.
Tuttavia, non era stato abbastanza forte. L’aguzzino si riprese dal colpo fin troppo velocemente e con un ringhio si avventò su Klaus, facendolo cadere a terra e sovrastandolo con il suo corpo; cominciò a prenderlo a calci e ad ognuno di essi Klaus sentiva la punta dei suoi stivali rendergli la pelle ancora più livida e il dolore farsi sempre più strada nelle proprie membra.

« Klaus! » urlò London, agitandosi ancora sulla branda senza sapere cosa fare. Cercava di tirare le mani fuori delle manette e gridò per quello sforzo sovraumano, sentendo la pelle cedere sotto il metallo e le falangi comprimersi per provare a passare oltre. Avrebbe sopportato qualsiasi tipo di tortura, se necessario, ma non poteva vedere Klaus pestato a morte così, dallo stesso uomo che stava tentando di violentarla.
Il marito accusò diversi colpi e gemette, poi tentò un contrattacco dettato dalla disperazione e, approfittando di una minima distrazione dell’avversario, prese a prendergli a pugni lo stomaco, aiutato dalle catene ai polsi che gli conferivano una potenza maggiore. Tuttavia, il vantaggio durò poco, perché l’uomo gli afferrò i capelli e gli sbatté più volte la fronte sul pavimento, finché non cominciò a uscirgli del sangue dal naso. Klaus annaspò e provò a liberarsi, ma ormai non riusciva a capire più nulla, completamente accecato dal dolore. Pregò per assurdo che London riuscisse a liberarsi e scappare, ma quel pensiero non si formulò neanche del tutto nella sua mente che la porta blindata si spalancò di nuovo, rivelando ancora una volta la figura di Benjamin, armato di pistola.
Klaus riuscì appena a cogliere di sfuggita quell’immagine, prima che uno sparo rimbombasse tra le pareti opprimenti di quella stanza. 

 










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Capitolo 27
*** 026. Twenty-sixth Chapter – You used to be everything to me. ***


Note: Poco da dire, e sono stata anche abbastanza puntuale ^^' 
Tra una decina di giorni inizierà di nuovo la scuola e per me allora sarà la fine, quindi mi godo questi ultimi giorni di vacanza cercando di scrivere il più possibile.
Cosa c'è da precisare su questo capitolo? Innanzitutto, circa a metà, troverete un drastico cambio stilistico - fortemente voluto dalla sottoscritta. Si passa dalla terza alla seconda persona e dal passato al presente: ciò è dovuto al fatto che ho scritto quel pezzo probabilmente secoli fa e adesso, giunto il momento di inserirlo, non ho avuto il coraggio di cambiarlo, perché ci sono affezionata. Inoltre, in quel passo ritroverete una scena già vista nel capitolo ventuno - My fading voice, ma rivisitata.
Il titolo di questo capitolo è probabilmente uno dei più angst (per ora), e naturalmente si riferisce al PoV di Ben, mentre "You" si riferisce a Klaus e London.
Purtroppo (e me ne rammarico tanto ç_ç) non posso ancora rispondere alle recensioni, ma sapete già che prima o poi lo farò perché non mi piace lasciare le cose in sospeso. Comunque, continuo a ripetervi che vi adoro, non so cosa farei senza i vostri commenti sempre entusiasti ♥

As usual, vi ricordo che QUI c'è la mia pagina facebook e QUI c'è il gruppo scambio-recensioni, che vi invito caldamente a visitare!
Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene da "Dead star" dei Muse. 

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Blur

(Tied to a Railroad)






026. Twenty-sixth Chapter – You used to be everything to me.




Klaus sentì il proiettile sfrecciargli vicino ad un orecchio e, addirittura, perforare la carne dell’aguzzino, proprio alla tempia, prima che le sue cervella gli esplodessero addosso. London urlò, credendo che il gemello avrebbe colpito il marito, ma rimase sconvolta nel guardare quell’immagine: Klaus ricoperto di sangue, suo e non, steso del tutto inerme sul pavimento. Poteva perfettamente essere morto, eppure Ben per qualche motivo aveva sparato al suo subordinato che ora giaceva poco lontano da Klaus, privo di vita.
London alzò lo sguardo su suo fratello e rimase a fissarlo con il volto terreo e… stupito. Conservava forse ancora un po’ di umanità dentro di sé? C’era ancora parte del vecchio Ben dietro quello spesso strato di vendetta? Si convinse in quello stesso istante che sì, doveva essere così. Che doveva usare quello spicchio di umanità che era rimasto a suo fratello proprio contro di lui, per dargli una possibilità di redenzione.
London smise di dimenarsi sul materasso e lo chiamò a bassa voce: 
« Ben… » Non aveva idea di quante volte avesse già pronunciato il suo nome in quei giorni, ma ne aveva strettamente bisogno. Chiamarlo, sperare che tornasse.
« Ci lascerai andare, adesso? » mormorò Klaus, dopo aver sputato un grumo di sangue sul pavimento. Si mosse piano, cercando di alzarsi, e Ben ignorò – o fece finta di ignorare – il richiamo della sorella per avvicinarsi a lui.
« Era soltanto una prova, Klaus. Avevo allentato la catena di proposito » rispose l’albino, sedendosi sui talloni per osservarlo meglio, come se fosse una cavia su cui fare esperimenti. « Volevo soltanto vedere fin dove ti saresti spinto per lei. »
Klaus rimase totalmente interdetto e si bloccò. « E sei soddisfatto? » chiese con rabbia. Pur essendo senza catene, non aveva la forza di fare nulla, se non imprecare tra i denti e fissare Benjamin pieno di frustrazione.
Lui non rispose.

 
*


La porta blindata si aprì con un rumore metallico e disturbante, ma la prigioniera preferì tenere gli occhi serrati comunque.
Tremava dalla paura e dal freddo, battendo i denti ogni tanto in un riflesso involontario, perché per qualche strano motivo non le avevano tappato la bocca. Sarebbe stato anche inutile, d’altronde, se si metteva in conto che tutte le sue urla le aveva sprecate anche quel pomeriggio sulla sedia elettrica; forse non aveva più voce.

« Come sta la nostra ospite? » domandò una voce irriverente, la voce che avrebbe riconosciuto tra mille.
« Ben, sei tu? » sussurrò, aprendo di poco gli occhi. La stanza era buia e gelida e nessun fascio di luce arrivò ad abbagliarla, cosa che da un lato le fece scendere altri brividi lungo la schiena. Era paradossale come giusto qualche ora prima avesse creduto di poter morire bruciata quando in quel momento stava quasi congelando. Era mezza nuda, inoltre, perché i vestiti rattoppati che le avevano costretto ad indossare si erano tutti bruciacchiati.
London non lo vide perché era tutto scuro e offuscato, ma poté giurare che Ben stesse ridacchiando. Fu la peggiore delle reazioni che potesse aspettarsi, nonostante si fosse dovuta abituare gradualmente in quelle settimane alla nuova natura del gemello… ma non ci era ancora riuscita. Non poteva dimenticare o sopprimere tutti i ricordi, ed era proprio questo il motivo per cui non riusciva a odiarlo.

« Sei ancora viva, Londie? » chiese, stavolta acidamente. « Se vuoi posso rimediare subito. Ah, no, ma che dico. Mi servi ancora, per il momento. »
La prigioniera represse un singhiozzo in fondo alla gola, cercando di mantenere la mente lucida. Doveva capire che cosa fosse successo al suo amato fratello, al suo Benjamin. Doveva farlo ritornare in sé, non aveva ancora abbandonato l’intento. « Lo sai, Ben? Quando ce ne siamo andati credevo che non ti avrei rivisto mai più » disse con voce roca, provando a sorridere. « Mi eri mancato tanto. »
La risata di Ben si trasformò in un ghigno. « Cos’è quest’affetto improvviso? Ah, l’ho sempre saputo che sei una bugiarda. »
« No! » mormorò lei, spaventata. « E’ la verità, te lo giuro. »
« Se ti fossi mancato così tanto ci saremmo rivisti in circostanze migliori, non trovi? »
London scosse la testa, quando si accorse che Ben era molto vicino a lei, così riprese a tremare. Rimase orripilata dal pensiero: perché tremava di fronte a suo fratello?
« Ben… ti prego, posso… posso abbracciarti? » domandò pianissimo.
L’altro non rispose per qualche secondo buono, restando quasi spiazzato da quella richiesta improvvisa, una richiesta che non si sarebbe mai aspettato dopo tutto quello che le aveva fatto.

« Non sei più solo, adesso. Ci sono io... Londie, ricordi? Sei stato tu il primo a chiamarmi così. » London fece una breve pausa, come per prendere aria. « La solitudine è scomparsa, perché sono qui con te, ora… sono qui… » continuò lei, prendendo a tremare irrefrenabilmente, ancora spaventata e scossa dal cambiamento radicale di suo fratello. Avrebbe affondato il viso nelle mani, se solo non avesse avuto i polsi legati al muro. Non ce la faceva a guardarlo per più di qualche minuto, le faceva male, la feriva.
« Tu non sai cos’è la solitudine » ribatté freddamente il ragazzo, asciugandole una lacrima solitaria con i polpastrelli. London non si sottrasse a quel contatto di ghiaccio – sebbene ne fosse terrorizzata – perché le era mancato terribilmente, che lui ci credesse o meno.
« Mi dispiace » riuscì a sussurrare, considerando che la voce le stava venendo meno e che prendersi tutte le colpe in quel momento sembrava difficile e semplice allo stesso tempo.
« Non ha importanza. Pagherete per tutto quello che mi avete fatto » replicò il gemello, assumendo un tono più duro ed estraneo, quasi appartenesse a tutt’altra persona.
London tirò su con il naso, riprendendo con un coraggio che nemmeno credeva di avere a guardarlo negli occhi, che anche nel buio della cella erano illuminati dalla sete di vendetta. Era un peccato che occhi belli come quelli fossero pervasi da un sentimento così negativo. Occhi che un tempo sorridevano sempre, occhi che guizzavano di genuinità e parlavano senza alcun bisogno di parole.
Che cosa ti è successo…?

« Non fargli ancora del male, ti supplico... »
Ben si bloccò, irrigidendo la schiena. Poi, invece di continuare ad accarezzarle lentamente le guance per asciugare qualche lacrima, le diede uno schiaffo che le fece voltare il viso dall’altro lato. Un suono veloce, palmo contro guancia, che si propagò nel silenzio della cella dieci, cento, mille volte. Una volta Ben non le avrebbe mai alzato le mani addosso.
« Pensi a lui anche adesso? » gridò il ragazzo, non riuscendosi a contenere.
« Ti prego, Ben… » gemette, protendendosi con il corpo verso di lui. « Lascialo andare… »
« No! » urlò il ragazzo, ora fuori di sé. « Ho passato anni interi a soffrire come un cane a causa vostra, non vi libererò tanto facilmente proprio ora che posso ottenere ciò che voglio! »
« E tutto ciò che vuoi è veder morire l’unica persona che tu abbia mai amato? » London l’aveva fatto apposta, quasi sconsideratamente e senza riflettere, a fargli quella domanda, forse soltanto per vedere la sua reazione. Soltanto per avere… una conferma. Chi hai amato davvero?
« Stai parlando di te o di Klaus? » sibilò Ben a poche spanne dal suo volto.
London emise solo un soffio: 
« Klaus. » Lo sapeva, l’aveva sempre saputo in fondo al suo cuore che Ben aveva sempre amato Klaus, forse ancor prima che lo facesse lei. Un pensiero fulmineo le attraversò il cervello: erano gemelli. Lei e Ben erano gemelli. Nati dallo stesso grembo; cresciuti nella stessa convinzione di amarsi l’un l’altro perché non esisteva nessun altro modo per rendere vivo e tangibile quel legame nelle loro menti; destinati ad allontanarsi per un’altra persona. La stessa persona. Gemelli, fino in fondo, nella mente e nel cuore.
Il ragazzo, che quasi sembrò spaventarsi di quella risposta, le diede uno schiaffo più forte del precedente, che la fece cadere a terra insieme ad un lugubre tintinnio delle catene.
Lei non provò a fare niente, perché in effetti non c’era più nulla da fare. Sapeva quanto il fratello fosse ostinato, perché quel tratto del suo carattere era forse l’unico che condividevano. Così legati, uniti, ma diversi.
Ben le poggiò un piede sulla pancia e fece lievemente pressione, provocandole un gemito impaurito. Forse aveva già qualche costola incrinata, se solo non fosse che…

« Ben » continuò a dire lei, tremando, con il volto già pallido di natura ora quasi cadaverico. « Credo di essere incinta. »
L’altro si bloccò come se qualcuno avesse congelato il suo corpo e sgranò le iridi grigioverdi nella penombra. Spostò il piede dalla sua pancia e si sedette sui talloni accanto a lei, forse per guardarla più da vicino e cercare di capire se stesse mentendo o meno. Sembrava turbato, turbato come non l’aveva mai visto in quelle settimane di prigionia. E scettico, perplesso. « Chi altro ti sei scopata, Londie? »
London indietreggiò di qualche spanna. « Nessuno… » mormorò, capendo cosa gli stesse passando per la mente, e continuò prima che lui potesse aggiungere altro: « E’… è di Klaus, te lo giuro. »
Ben indurì lo sguardo e i suoi occhi assunsero una sfumatura più minacciosa. « E com’è possibile, se lui è sterile? »
« Non lo so… » pigolò, lasciando fuoriuscire quei singhiozzi che aveva trattenuto. « Non lo so, Ben, non lo so… » Gli si avvicinò con il corpo, fino a poggiare il mento sulla sua spalla. Era la cosa più vicina ad un abbraccio che potesse immaginare e pregò con tutta se stessa che suo fratello non lo rifiutasse.
E lui non lo fece.
Le circondò il busto con le braccia e appoggiò la mano dietro la sua nuca, facendole affondare il viso nel suo petto. London lo ringraziò nella sua mente e si abbandonò così, inspirando il suo profumo e sentendosi paradossalmente al sicuro nella sua stretta. Non sapeva perché gli aveva rivelato di essere incinta. Forse non avrebbe dovuto, ma non poteva tenergli nascoste altre cose, non dopo averlo tradito e abbandonato.

« Ti supplico, non dirlo a Klaus » sussurrò.
« Tu non ne hai avuto il coraggio, vero? » le domandò, improvvisamente calmo. « Sei solo una bugiarda egoista e vigliacca, dopotutto. Dovrai pagare il tuo silenzio. » Fece una pausa, scostandosi leggermente da lei. « E i suoi baci. »


Che cosa stai facendo, Benjamin Bridge?
Hai ancora le mani macchiate di sangue – il loro sangue – e gli occhi pieni di immagini strazianti e le orecchie ronzano di urla e le labbra secche ti impediscono di proferire parola.
La notte è ancora lunga, forse non riuscirai a superarla.
Tenti di serrare le palpebre, ma invano. Non prenderai sonno facilmente, non dopo quello che hai fatto, che hai visto, che hai ascoltato oggi.
Il vecchio, dolce, pacato Ben cerca ancora di far capolino, ma tu ti sei ripromesso di seppellirlo per sempre. E’ acqua passata. Adesso che la tua vendetta è arrivata ti senti molto meglio, no?

… No?
Un mattone si è depositato nel tuo stomaco e probabilmente non si dissolverà mai. Forse è la tua coscienza.
Ma a chi importa della coscienza quando ti hanno strappato via il cuore tempo fa?
Si sa: è il cuore che comanda. Però ora che non ce l’hai più è l’odio che ti spinge ad andare avanti, ad arrancare nel vuoto alla ricerca di una meta.
Passano secondi, minuti e ore senza che tu te ne accorga, mentre scivoli in un tormentato dormiveglia.
I cattivi non dormono mai sonni tranquilli, è risaputo. Quindi accontentati, Benjamin – sempre che questo sia ancora il tuo nome –, perché sei stato tu a scegliere di giocare la parte dell’antagonista.
Anche la vendetta ha il suo prezzo, dopotutto.


Non sai perché ti trovi qui, circondato dal buio di una stanza che non ricordi di aver mai visto. Non distingui molte cose, eccetto una finestra aperta alla tua sinistra ornata da sottili tende di seta e qualcosa che assomiglia a un letto matrimoniale.
C’è qualcuno con te, proprio su quel letto, ma riesci a distinguere solo le loro voci, bisbigliate appena nella notte.

« Hai freddo? » domanda piano una voce maschile, apprensiva.
« Un po’ » risponde l’altra e quel suono soave è accompagnato dal fruscio del lenzuolo.
L’uomo si alza e si accinge a chiudere la finestra accanto alla quale sei appostato. Per un attimo ti coglie il terrore di poter essere visto, ma quello ti passa accanto senza fare caso a te, come se tu fossi invisibile ai suoi occhi nonostante non ci siano nascondigli o ombre a coprirti. Forse è un sogno, un sogno da cui vorresti e non vorresti svegliarti al tempo stesso.
I deboli raggi lunari gli illuminano il volto e, mentre la tua vista si abitua alla penombra, capisci che colui che hai davanti non è un uomo, bensì ancora un ragazzo tra i venti e i trent’anni.
E’ nudo, e si affretta a chiudere le imposte rabbrividendo. E’ alto, anche più di te, con le spalle larghe e il fisico asciutto; i capelli scuri gli ricadono scompostamente alla base del collo e un filo di barba gli increspa il mento squadrato.
Klaus.
Lo riconosci con orrore e ti appiattisci contro la parete, sperando di non dover vedere altro.
Sei intelligente, dopotutto, Ben, quindi colleghi immediatamente che l’altra figura nel letto non può che essere tua sorella, London Bridge.
… No. London Wreisht.

« Meglio » mormora lei, facendo cenno a Klaus di tornarle accanto.
Il ragazzo si stende nuovamente sul letto, coprendosi con le coperte morbide.
Tenti di tapparti le orecchie con i palmi delle mani, ma è inutile. Non stanno parlando adesso e c’è qualcosa di infinitamente peggiore delle parole. Gli sguardi.
Si stanno osservando negli occhi placidamente, senza nessun cenno di odio o rancore.
Stesi l’uno accanto all’altra, si sfiorano appena e Klaus le porta una ciocca di capelli bianchi dietro l’orecchio.
London non dice niente e si limita a chiudere gli occhi. Vedi bene che in realtà si sta beando di quel contatto. In realtà ricordi anche tu, ancora, come le carezze ruvide di Klaus riuscissero a lasciarti un’inaspettata quanto strana e appagante sensazione di benessere.
E’ frustrante stare lì in silenzio a guardarli, ma i tuoi muscoli non accennano a muoversi neanche di un centimetro. Sono bloccati. Sei ancorato in questa stanza senza vie di fuga.

« Baciami » sussurra London, così piano che a stento riesci a sentirla.
E quando lui la bacia, sorridendo lievemente, capisci che quel qualcosa che si è spezzato in te tempo addietro non potrà mai essere riparato.
Capisci che non è di London che ti importa; non è per lei che il tuo cuore raggrinzito si è sgretolato, non è per lei che adesso le lacrime ti bagnano le guance.
Le vuoi bene, certo. Le vuoi bene ancora.
Ma Klaus la ama. E tu ami lui, incondizionatamente, irrimediabilmente.


Non vuoi vedere oltre; non hai la forza fisica e psicologica di versare altre inutili lacrime.
Adesso sei forte, Ben, sei riuscito a vendicarti. Presto entrambi moriranno e sai che tutto questo è frutto della tua immaginazione.
E’ solo un sogno, solo un sogno… Ma non riesci a svegliarti. Sei inchiodato con i piedi per terra e serrare gli occhi ti riesce impossibile.
Soggiogato dalla tua testa, non puoi – o non vuoi – smettere di fissarli rabbiosamente. Dai un pugno al muro, ma non per questo loro se ne accorgono.
Non si sono mai accorti di te, del resto, perché dovrebbero farlo ora, in un momento di intimità del genere?
Vedi Klaus allontanarsi di poco da lei.

« Cosa c’è? » gli domanda London, cogliendo la sua esitazione. Il ragazzo si alza su un gomito e la guarda in silenzio.
Ti ritrovi a pensare, tuo malgrado, che vorresti tanto essere al posto di tua sorella, in questo momento. Essere guardato, bramato così è probabilmente il tuo desiderio più profondo e nascosto. Scacci subito questo pensiero, digrignando i denti.

« London » bisbiglia, con un tono che non hai mai sentito rivolgergli a nessun altro. Sentir pronunciare il suo nome da lui è un’altra pugnalata al petto e ti costringi a ricacciare indietro le lacrime che premono sempre più per cadere.
Lei lo osserva, in attesa, con un cipiglio vagamente confuso. 
« Cosa? »
« Io… » tentenna, come cercando il coraggio per continuare negli occhi della moglie. « Ti amo » dice infine, semplicemente.
Una stilettata al cuore – ma quale cuore? –, l’ennesima. Urli, così tanto che ti bruci la gola. Ma loro non ti sentono.
Non si curano minimamente neanche della tua esistenza.
Lo sapevi, Ben. Lo sapevi sin dall’inizio. Sapevi che sarebbe finita così.
Ti accucci con le ginocchia al petto, la schiena contro la parete, tentando di escludere Klaus e London dalla tua testa. Ma non ci riesci, ovviamente. Loro sono parte della tua vita, parte di te stesso.
Qualche lacrima scende caparbia sul tuo volto pallido, infrangendo la tua aura di autocontrollo.

« Sono stato un bugiardo per tutto questo tempo » continua Klaus, riprendendo ad accarezzarle i capelli.
Non è mai stato bravo con le parole, lo sai bene. Lo sai maledettamente bene.
London non risponde, piuttosto, lo guarda con un leggero sorriso ad incresparle le labbra. Conosci bene anche lei. Non gli risponderà mai, e non perché non lo ami, ma semplicemente perché è troppo orgogliosa per ammetterlo.
E forse Klaus lo sa perfettamente, perché si lascia baciare – sembra felice, non credi? – e sovrastare dal corpo sinuoso della ragazza, che sale a cavalcioni su di lui, ridacchiando.

« Lo so, idiota » dice. « Credo di averlo sempre saputo. »
A questo punto affondi il viso nelle ginocchia e ti lasci cullare dall’oblio, quasi privo di forze o di coscienza, mentre tutto intorno a te si fa sempre più buio… e sfocato.

Ti alzi di scatto a sedere, ansimando, sentendoti i capelli appiccicati di sudore e il respiro affannato, così tanto che credi di non riuscire più a respirare per parecchi minuti.
Sapevi che era un sogno, perché reagisci così?
Cerchi di ignorare quella voce nella tua testa, la quale – lo sa meglio di te – afferma che quelle cose che hai appena visto sono accadute davvero.

« Ha detto di amarla » sussurri al buio, il vuoto nello stomaco che si ingrandisce sempre più. Quante volte gliel’hai chiesto? La ami, Klaus? Sei innamorato di London? Quante volte ti aveva mentito o non aveva risposto?
… ti eri forse illuso, Benjamin?
La voce nel tuo cervello diventa più autoritaria.
E’ Emil. Fa di nuovo capolino nei tuoi pensieri e ti divora la mente, urlando parole dapprima incomprensibili, poi sempre più petulanti e orribilmente meravigliose.
Ti prendi la testa tra le mani e gridi a tua volta, ma sai bene che Emil è più forte e alla fine vincerà.
Vince sempre, d’altronde.
Strilla istericamente, squarciandoti il cranio e il petto e l’anima. Ti ordina di distruggere ciò che ti distrugge.
Klaus, urla Emil con rabbia. Klaus e London.

« No… » bisbigli impaurito, temendo la sua reazione come non mai. Li ucciderà, lo sai bene. Li ucciderà entrambi.
Delle piccole goccioline di sudore freddo ti imperlano la fronte e le tempie, mentre senti il corpo abbandonarti ad altri istinti, alla parte più perversa di te. La parte che sa esattamente in che modo
distruggerli.
Emil prende di nuovo posto nel tuo corpo, esiliandoti nei recessi del tuo stesso cervello.

« Sei uno stupido, Benjamin » sputa lui, scostandosi bruscamente il lenzuolo da dosso.
Il tuo corpo guidato da Emil esce dalla stanza in cui è alloggiato e si incammina per i corridoi male illuminati, attraversando zone che non avevi neanche mai visto.
Poi, raggiunge la porta blindata che cercava e la apre di scatto. E’ la cella di London.

« Come sta la nostra ospite? »
L’interno è buio, ma si distingue bene un corpo di donna legato con delle catene al muro per evitare un qualsiasi tipo di fuga.
Sentendo Emil aprire la porta, London si ridesta dal suo dormiveglia e lo fissa terrorizzata. 
« Ben, sei tu? »


Ben le diede un calcio di scatto, facendole lanciare un grido di dolore e di sorpresa; poi salì a cavalcioni su di lei, impugnando con espressione folle quello che aveva l’aria di essere un bisturi, tirato fuori da una tasca. « Ti piace baciarlo, non è così? »
« Ben… no… Ben… » lo supplicò la sorella, fissando lo strumento nelle sue mani. Per un istante aveva creduto… aveva creduto che il suo Benjamin… fosse tornato.
« Sta’ zitta » scattò lui, ancorando le gambe intorno ai suoi fianchi e schiacciandola con il suo peso. London gemette qualcosa tra le labbra, in panico. « Vorrei tanto che tu adesso potessi guardarti, sorellina. Strisciante, sotto di me, inutile. Devi soffrire esattamente come ho sofferto io » le disse con tono carezzevole.
London tentò di divincolarsi, anche se il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Era tutto perduto, suo fratello non sarebbe mai più stato lo stesso, era diventato totalmente insano. Come se fosse un’altra persona. Come se il vecchio Ben non fosse mai esistito.
Con delicatezza eppure decisione lui le fece un primo taglio sul labbro, che prese a sanguinare copiosamente. London emise un suono strozzato e cominciò a sentire in bocca il sapore della ruggine. Amaro, salato, dolce sulla sua lingua. Forse era quello, il gusto della follia.

« Perdonami, ti prego! » gridò, dopo aver sputato del sangue. « E’ tutta colpa mia! »
Ben si fermò per un secondo, saggiando con l’udito il suono di quelle parole disperate, umiliate, supplichevoli. « E’ facile ammetterlo adesso, vero? »
London seppe – e in quel momento una parte del suo cuore si frantumò in mille schegge di vetro – che quello era ancora soltanto l’inizio. Sapeva che Ben voleva vendetta, sapeva che li avrebbe distrutti, per poi autodistruggersi a sua volta.
Sapeva perfettamente che tutto quello la stava terrorizzando a morte.
Forse sapeva persino che stava terrorizzando a morte anche lui.

 
*

 
Quando il ragazzo si svegliò, ancora con mani e piedi legati strettamente da due corde ruvide e pesanti, accasciato sul pavimento, non comprese immediatamente dove si trovasse. Come tutte le volte che si svegliava, naturalmente.
Il viso ormai sciupato che toccava le mattonelle fredde, la schiena martoriata che chiedeva riposo – inutilmente – e il respiro affannato come dopo una lunga corsa. Provò a girare la testa, ma una fitta lo costrinse a rinunciare al proprio intento.
Klaus non credeva di aver mai provato tanto dolore fisico in vita sua, neanche quando era stato frustato da suo padre; quasi avrebbe preferito morire, se solo ne avesse avuto l’occasione. Ma Ben non l’avrebbe mai lasciato andare, non ora che stava avendo la sua vendetta, non ora che poteva sentirsi realizzato nel vedere soccombere la causa di tutti i suoi problemi.
Klaus fece un sorriso amaro. Una volta aveva persino creduto che il giovane Bridge fosse innamorato di lui, per qualche stupido e assurdo motivo. Eppure ora stava manifestando tutto il suo odio e il suo rancore; forse non sarebbe più riuscito ad amare nessuno in vita sua. Forse si sarebbe ammazzato, dopo averli visti morire entrambi, soffocati dalle sue stesse torture.
Klaus stava aspettando la morte. Eccome se la stava aspettando. Non desiderava altro che andarsene da quello schifo di mondo, un mondo che non l’aveva mai voluto e che aveva tentato di rigettarlo in tutti i modi possibili.
Klaus, devi sposarti contro la tua volontà; Klaus, devi partecipare agli Hunger Games; Klaus, sei sterile; Klaus, uccideremo l’unica persona che tu abbia mai amato.
Un brivido gli scosse le spalle, quando sentì rumori metallici provenire dalla porta blindata di fronte a lui, minacciosa. Il suo peggiore incubo, che si apriva e lo inghiottiva ogni volta come una voragine.
Eppure la prima persona che vide entrare non fu Benjamin – il quale ad ogni modo seguì a ruota insieme ad un Pacificatore –, ma un corpo indistinto che si accasciava sul pavimento. Non riusciva a girarsi, per cui si limitò a ringhiare contro i nuovi arrivati.

« Buongiorno, Klaus. Fatto buon riposo? » chiese Ben con tono dannatamente retorico e delicato, armeggiando con qualche strumento che non aveva il coraggio di immaginare.
« Meraviglioso » biascicò con una nera ironia, le labbra screpolate contro il pavimento.
« Splendido, perché oggi ti aspetta una giornata altrettanto meravigliosa » continuò l’altro, sedendosi sui talloni accanto a lui e girandogli la testa a forza per i capelli per vedere quale gradito ospite avesse portato con sé.
Klaus gemette di dolore nel voltarsi e all’inizio non capì – dopotutto l’ultimo momento di lucidità assoluta che avesse avuto era stato molte settimane prima. Solo ascoltando la sua voce si rese conto di chi fosse steso, o meglio stesa, a pochi centimetri da lui.

« Ben, che stai dicendo? » mormorò la ragazza, raggomitolata su se stessa. Non era neanche legata, ma era troppo debole persino per muovere qualche muscolo. L’aguzzino aveva previsto anche questo.
« London… » fremette Klaus, nel riconoscerla. Dovevano essere passati molti, troppi giorni dall’ultima volta che l’aveva vista, quando avevano azionato ancora una volta la sedia elettrica davanti ai suoi stessi occhi.
Qualcosa scattò dentro di lui, qualcosa capace di fargli ignorare il dolore e la sofferenza, provò ad avvicinarsi a lei a denti stretti e con occhi colmi di panico, ma Ben si interpose tra di loro.
La prese per il mento e la guardò dritto negli occhi – occhi uguali, occhi gemelli. 
« Sta’ zitta, Londie » le intimò e la sorella sembrò arrendersi alla sua volontà. Forse aveva capito che non poteva contrastarlo.
Klaus la osservò disperatamente, notando la sua pelle bruciata e ustionata e i tagli sul volto, specialmente sulle labbra. Sembravano freschi di qualche giorno. Un moto di rabbia lo attraversò da capo a piedi. 
« Quando cazzo ti decidi a liberarla? »
« Quando non mi servirà più » ribatté l’altro seccamente, voltandosi di scatto verso di lui. « E la distanza di quel giorno dipende da te, caro Klaus. »
« Vaffanculo, bastardo. »
« Tutti questi termini scurrili… Non cambi mai, vero? » domandò Ben con una risata vuota e gelida.
« Perché, qualcuno cambia? » replicò Klaus seccamente.*
« Direi di sì. » E forse Ben aveva ragione. Forse aveva ragione perché proprio lui, il più insospettabile dei Bridge, si era trasformato in un mostro senza pietà.
Senza aggiungere altro tirò un coltellino maneggevole da una tasca e Klaus si preparò al peggio, sibilandogli contro parole indistinte. Ma Ben non lo utilizzò per ferirlo, bensì per liberarlo dalle corde che gli avevano dilaniato polsi e caviglie per ore e giorni interi.
Un momento di stupore doloroso gli annebbiò i pensieri, quando poi comprese che in realtà l’aguzzino non lo stava liberando sul serio. Probabilmente aveva in mente qualcosa.
Klaus lo fissò con sguardo di fuoco e, vedendo che anche Ben si limitava a osservarlo di sottecchi senza proferire parola, strisciò in direzione della moglie ugualmente debole e semisvenuta. Le sfiorò un braccio con mano tremante e poterla toccare dopo tutto quel tempo gli sembrò un miracolo.
London gli rivolse un sorriso stanco e triste al contempo, un sorriso così amaro che gli distrusse ogni speranza con la velocità di un battito d’ali.

« Andrà tutto bene » le sussurrò con voce roca, carezzandole una guancia con la punta delle dita, forse per paura di ferirla ancora di più dopo tutto quell’orrore. « Te l’ho promesso… »
London scosse la testa e fu allora che Ben la spostò bruscamente con un calcio, dopodiché la attirò a sé da dietro, puntandole lo stesso coltellino di prima alla gola. « Ti sbagli » gridò, premendo la lama sulla giugulare bianca della gemella. « Finirà male, Klaus. Finirà male e lo sai bene. »
« Ben… » ribatté l’altro, stavolta con tono implorante, notando che la moglie non si dimenava neanche né tentava di liberarsi. « Avanti, lasciala. »
« Supplicami » disse, con un luccichio sinistro negli occhi ora più grigi che mai.
Klaus ringhiò nella sua direzione. Perché, perché non la liberava e basta?
Un rivolo di sangue vermiglio colorò la gola della ragazza, che gemette per la ferita, ma non c’era nessuna traccia di paura nei suoi occhi. Anche lei, forse, non vedeva l’ora di farla finita. Troppo dolore: fisico, psicologico, distruttivo, tutto insieme.

« Ho detto: supplicami. »
Il moro guardò in faccia entrambi i gemelli tentando di cogliere qualcosa di più nei loro volti, ma tutto ciò che vide furono follia da parte di Ben e spossatezza da parte di London.
Klaus non aveva mai supplicato nessuno e mai l’avrebbe fatto, ma se si fosse dovuto abbassare a quei livelli per salvarla… non si sarebbe tirato indietro, non dopo che aveva imparato ad amarla, non dopo che avrebbero potuto vivere una vita normale insieme, non dopo che erano stati catturati per uno stupido errore.

« Ti supplico, lasciala andare » disse fievolmente, allungando una mano verso di loro, senza naturalmente raggiungerli. « Falla tornare a casa da Klaudia… »
Ben premette ancora un altro po’ la lama sulla pelle. « Devi alzare la voce, qui non ti sentiamo bene. »
« Ti supplico, Ben, cazzo! Cos’altro vuoi sentirmi dire? E’ tua sorella gemella, e tu vuoi ucciderla per qualche fottuto motivo? Smettila con questa storia e uccidimi, se è questo che vuoi! Uccidimi! » gridò Klaus con le poche forze che gli erano rimaste, 
« Oh, Klaus » ribatté l’albino, scuotendo la testa come se quella fosse stata una stupida battuta. « Io non mi limiterò alla misera soddisfazione di ucciderti, forse non l’hai ancora capito. »
London bisbigliò qualcosa, ma Ben la zittì dandole un altro strattone violento. L’altro lo fissò negli occhi.
« Eppure una volta eri innamorato di me… lo so… » mormorò Klaus, con un tono così affranto che poteva sembrare reduce da un pianto d’agonia. Ma Klaus stava piangendo dentro di sé, stava già morendo pezzo a pezzo.
L’aguzzino strabuzzò lo sguardo, incapacitato, le iridi di ghiaccio che esprimevano qualcosa di molto simile a rabbia e dolore maledettamente combinati. Klaus vide ancora qualcosa del vecchio Ben in quegli occhi, qualcosa che improvvisamente lo fece apparire una vittima ai suoi occhi, esattamente come tutti loro.
Ben gettò London di lato, scaraventandosi contro di lui. 
« Questo non dovevi dirlo, figlio di puttana! »
Gli sferrò un calcio nell’addome, e un secondo, un terzo, un quarto, facendolo rantolare dal dolore. Probabilmente aveva già qualche costola incrinata o spezzata, ma a Ben non importava. L’avrebbe ammazzato perché aveva avuto il coraggio e la sfrontatezza di mettergli la verità davanti agli occhi, servita su un piatto d’argento.
London provò a fermarlo, aggrappandoglisi ad una caviglia, ma il gemello era accecato dalla furia e si liberò facilmente di lei.

« Al patibolo! » urlò, completamente dimentico della compostezza di qualche istante prima. « Al patibolo entrambi! Fucilateli! »
Klaus sputò del sangue, dopodiché fissò il viso sconvolto del suo – ormai – nemico. Vide London essere trascinata via dal Pacificatore, vide Ben prendersi la testa tra le mani e urlare dalla collera, vide il buio della stanza inghiottirlo nuovamente, senza neanche dargli il tempo di collegare gli ultimi avvenimenti.
E così si sarebbe conclusa la sua misera esistenza, così avrebbe visto sua moglie morire accanto a lui e, ancora, così avrebbe visto l’unica persona di cui si era mai fidato distruggersi in preda a una pazzia che, lo sapevano bene tutti e tre, era solo causa del male che si erano inferti a vicenda. 


















*Semi-citazione di Mondo Senza Fine, Ken Follet, da un dialogo dei fratelli Merthin e Ralph.





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Capitolo 28
*** 027. Twenty-seventh Chapter – The man who sold the world. ***


Note: Ci siamo. Il momento è arrivato.
Non voglio dire nulla su questo capitolo, a parte che è stato una sofferenza scriverlo. E... il prossimo lo sarà ancora di più. Mi sento una persona orribile in questo momento.
Sarei davvero felice di sapere cosa ne pensate, anche perché da qualche capitolo a questa parte mi sembra che l'entusiasmo di voi lettori sia un po' diminuito ^^' Ma forse è colpa mia, quindi se qualcosa non vi è piaciuto fatemelo sapere comunque!
Ci tengo, tuttavia, a ringraziare GiadaGrangerCullen, che si è prodigata a lasciare un piccolo commento a tutti i capitoli di questa storia. Grazie infinite, davvero ♥

Pagina facebook QUI e gruppo scambio recensioni QUI. Ultimamente mi sono anche aperta un account Ask!, quindi se volete farmi qualche domandina vi risponderò volentieri :3
Adesso mi dissolvo.
Buona lettura! ♥


Il titolo del capitolo viene dall'omonima "The man who sold the world", cover dei Nirvana. A voi l'interpretazione su chi sia "l'uomo che ha venduto il mondo" in questa storia.












 





 


Blur

(Tied to a Railroad)






027. Twenty-seventh Chapter – The man who sold the world.




Un sussurro lieve, sottile, come il confine tra la vita e la morte. « Ben, guardami… »
Il ragazzo non si voltò verso di lei, armeggiando con le sue manette. Per la prima volta in settimane di prigionia l’aveva lasciata libera per metà: era ancorata ad un’asta di ferro solo per una mano, mentre l’altra corse a cercare il polso di lui. London non aveva idea del perché di quella scelta, ma preferì non fare domande. Avevano altro di cui parlare. « Ben… » riprovò, « ti supplico… »
A quelle parole il gemello le rivolse finalmente lo sguardo, uno sguardo freddo – gelido – come quando erano cominciate le torture, uno sguardo che non apparteneva neanche lontanamente al Ben che conosceva un tempo.
« Ti prego… non puoi farlo davvero… » proseguì lei, risoluta, fissandolo con gli occhi colmi di speranza e disperazione contemporaneamente.
« Non saranno le tue suppliche a smuovermi, sorellina. » Ecco la sua sentenza, repentina e lapidaria. Era lui ad avere il potere di disporre delle loro vite, in quel momento.
London cadde in ginocchio ai suoi piedi, più volontariamente che per l’effettiva mancanza di forze. 
« Ti prego! » In qualsiasi altra situazione non si sarebbe mai umiliata così di fronte a nessuno, ma adesso non aveva alcuna importanza – niente aveva più importanza.
Non poteva farlo. Ucciderli.
Entrambi.
Non… poteva.
London voleva resistere e aspettare di versare le lacrime alla fine. Perché non l’ascoltava? Perché Ben non ritornava in sé? Si ritrovò ad abbassare la testa a terra, lì, sul pavimento, mentre il fratello la scrutava dall’alto con fare dolorosamente impassibile. 
« Farò qualsiasi cosa tu voglia » disse piano, soppesando ogni singola parola. Tutto dipendeva da lei. « Potrai farmi stuprare da tutti i Pacificatori di Panem, tagliarmi la lingua e farmi fare un migliaio di sedute sulla sedia elettrica, ma ti scongiuro… » la voce le si incrinò, tanto da non farle riuscire a concludere la frase. Si maledisse in silenzio per la vigliaccheria, inspirando piano per tentare di calmare quel turbinio di sentimenti che le stava facendo a brandelli il cuore. Non voleva che Ben la vedesse in quello stato, neanche se era stato lui stesso a ridurla così. Doveva farcela, doveva convincerlo. Quella era, probabilmente, la prova più difficile della sua vita: decidere per tre persone diverse e fare in modo che tutto andasse… bene.
« Tutto ciò che vuoi è che lo risparmi, no? » domandò Ben con una punta di superiorità mista a irritazione. « E allora perché ti ridicolizzi così? »
London alzò di poco il viso e si asciugò una lacrima fuggitiva con il palmo libero. « Lo sai perché… » mormorò, trovando chissà dove il coraggio di riprendere a guardarlo.
« Perché lo ami? » fece retoricamente il fratello, alzando gli occhi al cielo. « Che motivo stupido. »
A quella frase, la ragazza si alzò da quella umiliante posizione e si abbandonò con le spalle contro la parete. « Tu hai fatto altre cose per amore. » Era una frase schietta, lapidaria come l’affermazione di lui di qualche istante prima – incredibile come in alcuni tratti si assomigliassero ancora, come nell’ostinazione in cui erano immersi entrambi sin dalla nascita. « Io continuerò a pregarti di salvarlo, tutta la notte se dovesse servire, perché non ti permetterò di ucciderlo. »
« Perché alla fine ottieni sempre ciò che vuoi… » disse Ben a mo’ di conclusione, con un sorriso velatamente amaro. « Se lo ami così tanto, sangue del mio sangue, perché non gliel’hai mai detto? So che non l’hai mai fatto. Lo so. »
« Sono stata una stupida, Ben, non mi ero mai resa conto fino ad adesso di quanto fosse importante… e non puoi immaginare quanto mi faccia star male il pensiero di non aver mai fatto nulla per dimostrarglielo » rispose velocemente lei. « Vi ho sempre lasciati indietro per dare la priorità a me stessa, vi ho sempre trattati come se foste di mia proprietà e non ho mai avuto il coraggio di esprimere ciò che sento davvero… ma adesso… sembra tutto così facile, non trovi? Io che mi confesso a te, qui, in questa cella, prima di andare a morire. Eppure nessuno mi conosce meglio di te, non avrei alcun bisogno di ammettere le mie colpe perché sai esattamente ciò che intendo. Siamo ancora uniti, in fondo. Lo sento » continuò, desiderosa di arrivare al punto della questione con tutta se stessa. Era un fuoco nuovo, quello che la pervadeva: non era rabbia, non era frustrazione, né dolore. Determinazione. Era un lampo di determinazione quello che le attraversò le iridi grigioverdi, un lampo che le avrebbe permesso di sorvolare su ogni altra cosa, persino sui giochetti psicologici di suo fratello. « Non so quanto possa importare adesso, ma lo amo. » Perché era così facile dirlo, in quel momento? Perché non l’aveva urlato a Klaus tutte le volte che aveva potuto? London rifiutò categoricamente di domandarselo, o il gemello avrebbe avuto la meglio. Si morse le labbra, reclinando la testa all’indietro e socchiudendo le palpebre, come per motivarsi e darsi forza. « Ed è… strano, non so spiegartelo, è diverso da tutto ciò che abbia mai provato… è come essere attratti dal fuoco pur sapendo che potrebbe scottarti, è come… come guardare i dettagli di un dipinto che non hai mai visto, sempre… nuovo»
Ben, che l’aveva ascoltata fino a quel momento senza proferire parola, tuttavia, per quanto potesse essere cambiato, la stupì con una malinconica domanda che non si sarebbe mai aspettata: « Hai amato anche me, un tempo, London? O era solo una delle tue maledette bugie? »
London non esitò a replicare, già certa della risposta più di quanto potesse anche solo immaginare. « Ti ho amato e ti amo ancora. Non amerò mai Klaus come amo te. Siete… due cose completamente diverse. » Quelle parole erano serie, sincere, spontanee e crude nella loro immediata schiettezza. « Non smetterò mai di amarti, neanche dopo tutto quello che è successo » – fece una breve pausa misurata, come se si fosse preparata quella frase da tempo – « ma tu devi risparmiare Klaus… e lasciarmi morire. »
Ben continuò a guardarla con occhi seri e attenti. « Perché non mi supplichi di risparmiarvi entrambi, allora? »
« L’hai sempre saputo, Ben, che uno di noi tre sarebbe dovuto morire » mormorò la sorella. La sua voce si abbassò giusto sull’ultima parola, accompagnata da un’altra lacrima fuggitiva che non si sottrasse all’attenzione del ragazzo, fermo e in piedi accanto a lei. « Deve andare così. Non c’è una spiegazione logica, è così è basta. Non è il destino, non è la natura, non è Dio… Io, a mio tempo, ho conosciuto la felicità, almeno un po’. Adesso è il tuo turno… lo stai aspettando da troppo tempo. Uccidi me, Ben. Me e basta. » Prese un ultimo profondo respiro, prima di aggiungere: « Facciamola finita, non possiamo continuare così. »
Ben non si mosse né diede segni di cedimento. « Mi piacerebbe dire che hai ragione, London, ma purtroppo morirete entrambi domani. »
La reazione dell’altra fu istantanea: gli afferrò il polso ancora una volta e lo strinse così saldamente che lui non ebbe neanche la voglia di liberarsi. « Devi ascoltarmi! » fece, alzando nuovamente il tono, che divenne quasi autoritario. « Quando tornerai in te, perché so che accadrà, la tua vita non sarà più nulla senza noi due » e quella era pura e semplice verità, lo sapevano bene entrambi. Cosa avrebbe fatto Ben, del resto, quando si sarebbe reso finalmente conto delle proprie azioni e quando, secondo le parole di London, sarebbe ritornato in sé? « Ma se tu risparmiassi Klaus… potreste costruire un futuro diverso da questo… »
Il fratello scoppiò in una risata fredda e dolorosa, lasciandola interdetta e sulle spine più del previsto. « E se risparmiassi te, quindi, continuerebbero a considerarci come gli stupidi gemelli incestuosi e vivremmo per sempre felici e contenti? »
« Se risparmiassi me » si affrettò a precisare la ragazza, rendendo il proprio tono sempre più deciso, come se sapesse nel profondo del proprio cuore di averlo convinto già all’inizio della conversazione, « non ti perdonerei mai. Mai, Ben, hai capito? »
« Non dire stronzate, London, Klaus non sarebbe mai capace di costruire… un altro futuro, come dici tu. Piuttosto, avrebbe la peggiore delle reazioni se uccidessi soltanto te, lo sai bene. »
« Non mi interessa, perché Klaus non si toglierebbe mai la vita » ribatté. London ci aveva pensato. Aveva pensato alla reazione di Klaus dopo la propria morte imminente più di ogni altra cosa, e alla fine era giunta alla conclusione che lui, a differenza di Ben, non sarebbe mai stato capace di raggiungere il suicidio. Lo conosceva – o meglio, aveva imparato a conoscerlo.
Lei, invece, adesso non sarebbe mai riuscita a vivere senza di Klaus. Era entrato troppo in profondità, aveva abbattuto ogni sua barriera e difesa, aveva fatto in modo che lei gli appartenesse, e non solo in senso fisico. Quando London l’aveva sposato, non avrebbe mai immaginato di riuscire a concepire un simile pensiero nei suoi confronti. Non avrebbe neanche mai immaginato di sacrificarsi per lui.
Klaus doveva rimanere in vita. Doveva. Non c’erano alternative, ed era quello che stava cercando di far capire al fratello.

« Non t’importa nemmeno del bambino che porti in grembo? » sibilò l’altro. « O del fatto che lo farai soffrire più di quanto possa fare una pallottola nel petto? Egoista, fino alla fine. »
Il cuore di London cominciò ad accelerare i battiti.
Il bambino. Klaus. Lo farai soffrire. Egoista.
Non le restava molto tempo per convincerlo – e forse per convincere se stessa ad arrivare fino in fondo –, ma non poteva fallire. 
« Perché non mi capisci? Sto cercando di mettere le cose a posto, per una volta! Fidati di me, ti supplico… Deve andare così! Finché Klaus non saprà di nostro figlio, andrà tutto bene. »
« Sembra che tu non veda l’ora di morire per porre fine alle tue sofferenze » replicò Ben, passandosi una mano sul volto e allontanandosi di qualche passo.
London lo osservò e colse una sfumatura di titubanza nei suoi gesti. 
« No, Ben » disse lei risolutamente, « non vedo l’ora che da qui nasca qualcosa di diverso dalla sofferenza e non vedo l’ora di sapere te, Klaus e Klaudia finalmente al sicuro. »
Ben tornò a voltarsi di scatto verso di lei. « Vuoi davvero privare Klaudia di sua madre e di un fratello o una sorella? » chiese, con voce sempre più dura.
La sorella sembrò quasi spaventata da quelle parole e si accarezzò il ventre con la mano libera, ma non demorse. Tirò su con il naso e corrugò la fronte per trattenere altre lacrime. 
« Ti sto dando l’opportunità di salvare chi ami davvero. »
« No, London, guarda che lo stesso discorso fatto da te vale anche per me! Io ti amo, ti amo più di qualunque cosa sia mai stata mia. Forse l’avresti voluto sentire prima, ma Klaus non è niente, rispetto a te » continuò, respirando velocemente, con gli occhi sgranati dalla follia, o forse da quell’improvvisa e violenta sincerità, o forse da tutto il dolore che si stava riversando su di loro in quel momento. « Quando eravamo bambini, una volta, ho giurato di proteggerti, ti ho promesso che saremo invecchiati insieme e che quel figlio di puttana di Klaus non avrebbe contato niente nelle nostre vite! E invece guarda cos’è successo… Lui non è mio fratello, non siamo nati dallo stesso grembo, lui non mi capisce… eppure tu sei stata la sorella peggiore del mondo, ma io ti amo comunque. »
London lo fissò intensamente, questa volta con il cuore pietrificato. Era fermo, lì, nel petto, perché lei sapeva di aver raggiunto il proprio obiettivo, ma ne era terrorizzata. Le parole le uscirono di riflesso, come se scottassero e non vedesse l’ora di liberarsene: « E’ per questo che mi dovrai uccidere » disse in un sussurro. Un sussurro lieve, sottile, come il confine tra la vita e la morte.
 

*


Una volta – probabilmente dopo gli Hunger Games – Klaus ricordava di aver pensato che nella sua vita avesse già sofferto abbastanza, che dopo quella terribile esperienza non ci sarebbe stato niente di peggiore. E invece…
E invece…
Era la seconda volta che aspettava la morte, solo, chiuso in una stanza soffocante. Nove anni prima aveva aspettato i suoi cari prima di partire per Capitol City, adesso aspettava con dolorosa impazienza l’unica persona che avrebbe potuto mettere tutte le cose a posto.
Sapeva che Ben sarebbe arrivato a dargli un ultimo saluto, non poteva essere altrimenti, dal momento che quel pomeriggio aveva praticamente ammesso di amarlo – un tempo, almeno. Adesso lui non era più il Bridge che conosceva una volta, ma un completo estraneo. Un maledettissimo sconosciuto.
Appoggiò la testa al muro e abbandonò i muscoli della schiena contro di esso. Ancora non capiva cosa gli fosse successo, ancora non si capacitava del fatto che desse a loro due la colpa di tutti i suoi problemi. Era ancora scioccato, confuso, furioso.
Gemette tra le labbra e tossì per qualche secondo, conscio di avere qualcosa di lesionato all’interno del torace. Ma ormai cosa importava? Un proiettile l’indomani avrebbe posto fine ad ogni cosa, ad ogni sofferenza, pensiero o ricordo.
Klaus ne era dannatamente terrorizzato e sentiva il cuore sempre più in gola al passare dei secondi. Doveva parlare con Ben, forse poteva ancora farlo ragionare.
Era una vivida scintilla di speranza nel suo cervello che gli permetteva di stringere i denti, di ignorare il dolore e la paura. E non si spegneva: era lì, costante, e aspettava insieme a lui.
Aspettò per ore, finché la porta della sua cella non si aprì con un rumore sinistro, rivelando la figura del suo personale torturatore.
Klaus abbassò le palpebre e si concentrò solo sui suoni: il proprio respiro pesante, quello nervoso di Ben e i suoi passi quasi tentennanti. 
« Sapevo che saresti venuto » gli disse a bassa voce.
La cella era buia, ma il ragazzo sentì lo sguardo dell’altro fisso su di sé, seduto sul pavimento sudicio con le ginocchia rannicchiate al petto e i polsi bloccati dietro la schiena, come sempre.

« Volevo semplicemente ascoltare gli ultimi desideri di un condannato a morte » ribatté Ben, soppesando ogni parola. « Dopotutto ho conservato un po’ di misericordia per questo momento. »
Klaus inspirò lentamente, tentando di calmare quel tremito che gli abitava il petto. « Ho un ultimo desiderio? »
« No, non sul serio, ma voglio sentire cos’hai da dirmi » rispose, « perché sono sicuro che vuoi parlarmi... non è così? »
Klaus annuì, ma non replicò per qualche secondo, creando tra di loro un silenzio denso di tensione. « Penso di averti supplicato abbastanza, ma lo farò un’ultima volta se servirà » disse infine. « Non m’importa di quello che vuoi farmi, ti consentirò di uccidermi anche nel peggiore dei modi se solo tu… » si bloccò, ingoiando le parole che non riuscivano a farsi strada tra i suoi denti.
« Se solo io…? » lo incitò a continuare l’albino.
« Lo sai, Benjamin » fece Klaus con tono stanco: stanco della vita, del dolore, dell’umiliazione. « Sai cosa voglio dire. »
Ben non stette al gioco per pura soddisfazione personale e incrociò le braccia al petto, troneggiando sul suo corpo a qualche spanna da lui. « No, Klaus, illuminami. Dillo, dì ciò che pensi, dì ciò che vuoi che faccia. »
Klaus riaprì completamente gli occhi e li immerse nel mare ghiacciato che erano diventati quelli di Ben. « Salvala. » Poté sembrare quasi un ordine, ma l’altro colse ogni singola sfumatura della sua voce e rimase bloccato. Nel suo tono c’era speranza, decisione, dolore e paura. E qualcos’altro che Ben non seppe classificare in un primo momento, perché non l’aveva mai sentito nella voce di nessun altro. « Salvala e ti perdonerò ogni cosa. Tornerete da Klaudia insieme e tutto si sistemerà, senza di me. »
Un mondo senza di me sarebbe infinitamente migliore, avrebbe voluto aggiungere, ma non ne aveva il coraggio o la forza. Era ancora attaccato alla vita, per quanto potesse ammettere il contrario, era ancora terrorizzato dall’indomani. Si trovava in un limbo: tutto ciò che aspettava era uscirne.
Eppure una sicurezza sconosciuta cominciava a diramarsi dentro di sé, alleggerendogli sempre più il respiro e quel peso che premeva sullo stomaco. Ben e London erano gemelli, uniti nel profondo, ed era certo che lui non l’avrebbe mai lasciata morire perché non l’avrebbe mai sopportato.
Ma uccidendo lui… sarebbe ritornato tutto come prima, per loro, tutto sarebbe ricominciato dal punto in cui l’avevano conosciuto.
Cosa ci faccio nelle loro vite?, si era domandato più volte. E se lo domandava anche ora. Klaus era sbagliato, imperfetto, superfluo, solo. Si era sempre sentito così, in fondo, ma finché aveva avuto London accanto nessuno di quei pensieri aveva avuto più importanza.
Ben gli si avvicinò con qualche altro passo e si abbassò proprio di fianco a lui, alzandogli il mento con una mano per guardarlo meglio in faccia. Sembrava… sembrava aver preso già una decisione. 
« Forse non hai capito, Klaus » soffiò a pochi centimetri dal suo viso, parlando lentamente e incatenando per istanti interminabili i loro sguardi, « è soltanto te che voglio uccidere. »
 
 
*

 
Infine, arrivò il mattino dell’esecuzione.
London non aveva neanche provato a dormire, ma per il resto della notte era rimasta a rimuginare sui propri pensieri, ormai convinta della propria decisione. Sperava soltanto che Ben la mettesse in atto. Si fidava ancora di lui, eppure aveva tantissimi interrogativi in testa.
Venne riscossa dal proprio stato di riflessione da due Pacificatori, che la liberarono dalle manette e la spinsero fuori dalla cella, incitandola a camminare con le pistole puntate alla schiena. Il cuore le pulsava in gola con una forza sconosciuta, ma cercò di mantenere comunque un certo contegno: camminò per i corridoi a testa alta e le labbra serrate, avvicinandosi passo a passo alla sala d’esecuzione, anche se era molto debole e per questo zoppicava leggermente.
E’ così, quindi, che si sente un condannato a morte, pensava, scossa da qualche brivido sfuggito alla sua aura di autocontrollo. Preferiva dare la colpa alle piante nude dei piedi contro il pavimento freddo, ma sapeva di non poter più mentire a se stessa: era terrorizzata.
I Pacificatori la scortarono, con sua grande confusione, in un’altra cella e London si chiese che cosa avessero in mente. Aspettò senza fare domande, torturandosi le mani per l’ansia e la paura. Non si era mai sentita così spaventata eppure decisa in tutta la sua vita.
Qualche minuto dopo, anche Klaus venne spinto nella stessa stanza. London lo riconobbe con un sussulto e rimase immobile a fissarlo, smettendo persino di torcersi le dita nervosamente. Klaus ebbe la stessa reazione e si fermò a qualche passo da lei con il respiro mozzato.
Erano entrambi senza catene o manette o corde. Minacciati da quattro Pacificatori, certo, ma liberi. Vicini, terribilmente e dolorosamente vicini.

« Avete un minuto » disse uno di loro, senza abbassare la propria arma.
A quella inaspettata concessione, quasi in uno scatto entrambi si fiondarono l’uno sull’altra, guidati dalla disperazione, e si aggrapparono ai propri corpi con una forza che non sapevano di avere ancora. Klaus strinse London a sé con tale trasporto che la ragazza gemette per le ferite, ma anche lei si artigliò alle spalle del marito, affondando il viso nel suo petto e tremando per cercare di sopprimere le lacrime.

« Mi dispiace… » mormorò Klaus in qualcosa di simile a un singhiozzo, chiudendo gli occhi e attirando ancora di più la nuca di London contro di sé.
« Shh » sussurrò lei, inspirando l’odore della sua pelle. Voleva ricordarsi ogni dettaglio di lui, prima di morire. E’ per te che lo sto facendo… per te…, si diceva intanto, mentre sentiva le gambe sempre più molli e il suo corpo abbandonarsi nella stretta di Klaus. Avrebbe voluto custodire quel momento per sempre, chiuderlo a chiave nei recessi del suo cuore.
Il ragazzo si abbassò sul suo volto e le baciò la fronte, le ciglia umide, le guance e le labbra ancora segnate dai tagli, versando a sua volta lacrime che aveva pensato di riuscire a trattenere.
London gli afferrò il viso con entrambe le mani e lo baciò di rimando, sentendo qualcosa distruggersi dentro di sé: Klaus non aveva mai pianto di fronte a lei – forse non aveva mai pianto e basta. Era come una corazza che si era riuscito a costruire per dimostrare al mondo quanto fosse forte, per dimostrare che non sarebbe mai crollato.
E invece era tutta una menzogna: anche lui era un uomo, anche lui provava paura più di chiunque altro in quel momento, anche lui stava accogliendo la morte a braccia aperte per salvare l’unica persona che avesse mai amato davvero.
 

*


Dopo quel fugace incontro li portarono in uno dei piani più bassi della prigione, per gran parte occupato da un’enorme sala vuota e grigia dal soffitto alto, sorvegliata da alcuni capi-Pacificatore attraverso uno spesso vetro antiproiettile e insonorizzato.
Era quello il luogo in cui venivano svolte le esecuzioni: una fila di ribelli era pronta contro il muro e una schiera di Pacificatori davanti a loro con i fucili puntati. Erano ancora abbastanza rilassati – a differenza dei condannati – perché probabilmente stavano aspettando altre persone prima di dare il via all’esecuzione.
Allinearono Klaus e London insieme agli altri ribelli, in riga l’uno accanto all’altra. Con poca delicatezza li sbatterono con la schiena al muro, costringendoli ad alzare le mani in alto sotto la minaccia delle doppiette.
Era giunto il momento. Quella era la fine della storia. Lui sarebbe morto.
Ecco la fine delle sue sofferenze, dei suoi problemi e anche della sua vita. Sarebbe stato veloce: se avessero centrato il cuore tutto si sarebbe concluso in pochi, seppur dolorosi, istanti di agonia. Non aveva più voce in capitolo, ormai. Non aveva più niente, neanche un briciolo di onore o dignità.
London si girò un’ultima volta verso di lui, con sguardo disperato ma anche rassegnato. Klaus inspirò lentamente, cercando di imprimersi l’immagine della moglie come ultimo ricordo.
Andrà tutto bene, London, le disse con il pensiero. Adesso tornerai a casa.
Era convinto che Ben sarebbe spuntato da un istante all’altro per impedire che sua sorella venisse fucilata, ma un sudore freddo cominciò a irrigidirgli la schiena.
Dov’era? Perché non aveva fatto ancora nulla?
Quasi come per rispondere a quelle domande, Ben comparve dietro il vetro antiproiettile e per un secondo tutti i pensieri di Klaus si annullarono: eccolo, in tutto il suo orrido splendore, pronto ad assistere alla sua morte. Lo fissò per qualche istante, poi abbassò lo sguardo. Non voleva che fosse lui l’ultima cosa che avrebbe visto prima di morire.
London, invece, sembrava esser diventata più determinata alla visione del gemello. Klaus notò che avevano incatenato i loro sguardi come se da essi ne dipendesse il mondo e il suo cuore si rilassò, lasciando spazio ad una muta e paradossale tranquillità. Benjamin non l’avrebbe uccisa, nemmeno nella più remota delle opzioni.

« Forse non hai capito, Klaus, è soltanto te che voglio uccidere » gli aveva detto quella notte, dopo che lui l’aveva supplicato di salvare London.
Eppure Ben non faceva nulla; se ne stava lì in piedi dietro alla vetrata con le braccia conserte e gli occhi puntati sulla gemella, come se stesse soppesando la possibilità di lasciarla morire o meno.
Avanti…

« Puntare. » I Pacificatori improvvisamente raddrizzarono i fucili in direzione dei ribelli a quell’ordine.
Le labbra di London presero a tremare, ma la voce le uscì decisa dalle corde vocali:
« Scusami… »
« Che cosa? » domandò Klaus, interdetto, escludendo tutti gli altri rumori fuori dalla sua testa.
« Mirare. » I Pacificatori presero la mira, concentrandosi sui bersagli.
London non rispose, chiudendo gli occhi e tirando su con il naso. Klaus si chiese che cosa avesse voluto dire e un moto di allarme si fece strada dentro il suo petto, quasi divorandolo.
Avanti, Ben, fa’ qualcosa!, gridò nella sua mente, mentre il suo respiro si velocizzava. Non poteva ucciderli entrambi… andava contro ogni logica. Non poteva stare a guardare mentre le uniche due persone che avessero contato qualcosa nella sua vita venivano ammazzate per crimini che non avevano commesso.
Klaus sentì il cuore martellargli nelle orecchie e si guardò intorno, cercando di cogliere qualsiasi indizio che avrebbe smentito ciò che stava per accadere.
Benjamin… ti prego…
Un ronzio fastidioso interruppe ogni cosa. Era il suono dell’interfono che veniva attivato e Klaus rialzò lo sguardo di scatto verso la postazione di Ben, che adesso era vicino ad una sorta di microfono.

« Fermi! » irruppe, sovrastando ogni altra cosa.
I Pacificatori si arrestarono immediatamente alla sua voce e abbassarono le armi.

« Fermi » ripeté lui, con tono meno brusco. « C’è un mandato di liberazione per uno dei ribelli. »
Klaus improvvisamente si sentì al posto giusto. Non era una sensazione normale: stava per morire fucilato insieme a un’altra trentina di persone… ma andava bene così. London sarebbe sopravvissuta, ormai ne era assolutamente certo.
Fece un sorriso pieno di amarezza e socchiuse le palpebre per darsi forza. Era triste che dovesse finire in quel modo, ma se n’era fatto una ragione. Meglio morire che continuare a soffrire e vederla soffrire ancora.
Klaus riconobbe una ferma decisione nella voce di Ben – o di quel che ne era rimasto di lui – e il suo stomaco si contrasse in una morsa, ma quel peso nel petto si dissolse di botto. Dopo l’esecuzione London sarebbe tornata nel Distretto Sei, da Klaudia, da sua madre, e forse avrebbe provato a far ragionare il gemello, a farlo tornare la persona che era un tempo. Era convinto che nessuno meglio di lei potesse riuscirci.
La ragazza, intanto, aveva abbassato il volto, mormorando qualcosa tra le labbra sfregiate. Klaus perse qualche istante a guardarla ancora una volta, lasciando che la sua immagine gli invadesse gli occhi come un abbagliante fascio di luce nel buio.
Turbato dall’eccessivo silenzio di Ben, però, si riscosse e lanciò uno sguardo allo spesso vetro antiproiettile opaco dietro cui era nascosto. Lo vedeva, lì, in piedi. Vedeva la schiena dritta, gli abiti neri così in contrasto con la sua figura candida, il microfono contro cui era leggermente appoggiata la sua bocca, il suo viso dai tratti dolci contratto in un’espressione dura e… di infinito dolore.

« Klaus Wreisht, sei libero. »
 


















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Capitolo 29
*** 028. Twenty-eighth Chapter – Goodbye, goodbye, goodbye. ***


Note: Mi sento davvero, davvero in colpa perché non aggiorno da tre mesi. Sono stata praticamente incasinatissima e ho perso la voglia di scrivere, senza nemmeno sapere perché. Ma comunque non ho mai pensato neanche lontanamente di abbandonare questa storia, perciò eccomi qui, di nuovo. Avrei voluto scrivere questo capitolo in un modo diverso, ma ho già dovuto combattere contro il blocco e quindi mi sono dovuta accontentare ç_ç Spero vi piaccia, in ogni caso, e che non mi odiate tanto - ma siete liberissimi di farlo, mi sento una persona bruttissima.
Come sempre, pagina facebook QUI e gruppo scambio recensioni QUI. Ultimamente mi sono aperta un account Ask!, quindi se volete farmi qualche domandina vi risponderò volentieri :3 E ho anche un blog tumblr, adesso. Oddio, troppi link x° 
Adesso vi lascio al capitolo.
Buona lettura! ♥


Il titolo del capitolo viene da "A modern myth" dei 30 Seconds to Mars. Vi metto il link perché dovete assolutamente ascoltarla, è la mia canzone preferita della playlist di Blur. E quella che mi fa più piangere. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 


 


















Blur

(Tied to a Railroad)






028. Twenty-eighth Chapter – Goodbye, goodbye, goodbye.




Quelle parole gli rimbombarono nella cassa toracica in un’eco ghiacciata.
Gli ci volle qualche secondo per assimilare il significato di quell’affermazione così cruda, di quella breve sequenza di parole che suonò estremamente stonata e sbagliata nella sua testa.

« Klaus Wreisht, sei libero. »
Era libero.
La mente di Klaus si svuotò. 
Benjamin lo stava risparmiando. Lo capì nello stesso istante in cui le orecchie cominciarono a ronzargli, quasi i Pacificatori avessero sparato tutti nello stesso istante.
Ma non c’era stato nessuno sparo, non era morto ancora nessuno, e un pensiero di brutale violenza gli esplose nel cervello. Un brivido gelido gli percorse le membra.
Ben stava sacrificando London.
Fu come un lampo accecante nella sua mente che lo stordì e gli fece ghiacciare il sudore alla base del collo.
London... Il nome della donna che amava, che aveva sempre odiato e amato, l’unica donna e persona per cui sarebbe morto, gli vibrò sulle labbra e una paura improvvisa quanto famelica cominciò a divorargli il petto con una tale intensità da farlo barcollare. 
Per qualche istante non volle credere a quelle parole e rimase fermo lì, contro il muro, con le mani alzate in segno di resa e lo sguardo perso davanti a sé. 
Non accadde nulla, tutto rimase statico e bloccato in quell’infinita frazione di secondo.
Poi gli occhi corsero a Ben; e lui voltò il viso, fece qualche passo e si allontanò dal vetro antiproiettile, sparendo dalla sua vista, come se non volesse assistere alle conseguenze della propria decisione.
Lurido codardo.

« Benjamin... » balbettò Klaus, prima, con la paura ad attanagliargli la gola. « Benjamin! » urlò poi, sentendo la propria voce disperatamente terrorizzata rimbombare in quell’enorme sala grigia e vuota.
La sua testa cominciò a sovraffollarsi di pensieri contorti e taglienti; avanzò di qualche metro, come per tentare di avvicinarsi a Ben e ammazzarlo con le proprie mani, ma prima che potesse anche solo fare altro, quattro braccia ben salde lo bloccarono all’improvviso e lui non volle neanche vedere a chi appartenessero. In un primo momento non ebbe la forza di opporsi, ma poi cominciò a lottare - senza risultati. Lo trascinarono indietro, verso l’uscita, e quando fu abbastanza lontano dagli altri ribelli i Pacificatori ripresero la propria cantilena di morte.
Puntare...

« No... » mormorò Klaus, sconvolto, scorgendo da lontano la figura di London, immobile esattamente come una meravigliosa statua di cera, pallida e fragile. « No, no, no... »
I Pacificatori che lo stavano trascinando via non diedero segno di aver ceduto alle sue proteste, così lui continuò a urlare e a dimenarsi, pur essendo allo stremo delle forze.
« No! »
Mirare...
« London! » gridò ancora, bruciandosi le corde vocali e combattendo contro quelli che lo trattenevano. Avrebbe voluto fare qualsiasi cosa per impedire quell’esecuzione. Avrebbe voluto ucciderli tutti, stringere e tenere London al sicuro, portarla via, tornare a Valhalla, proteggerla, salvarla...
London non si voltò verso di lui, ferma contro il muro, e Klaus non smise di urlare, vittima della rabbia e del terrore. 
Riuscì a liberarsi con uno sforzo disumano, senza neanche badare minimamente al dolore dei graffi, dei lividi, delle frustate, e cominciò a correre.
Il respiro spezzato, le gambe deboli, il cuore martellante, il tempo rallentato di botto.
Gli sarebbe bastato solo un istante. Un’ultimo secondo per salvarla. Tutto ciò che Klaus voleva era...
Fuoco!

« London»
... salvarla.

I proiettili colpirono quasi tutti contemporaneamente. Il rumore degli spari coprì ogni cosa e le urla di Klaus non valsero più a nulla.
Vide ogni singolo dettaglio di quella scena: il petto di London si colorò di rosso cremisi all’altezza del cuore e, mentre il suo corpo cadeva scompostamente a terra, la macchia si allargò sui suoi abiti anonimi da prigioniera, fino a che il sangue cominciò a sporcare anche le mattonelle sotto di lei in una pozza scarlatta sempre più larga.
Klaus non smise di correre nemmeno dopo aver visto la stessa scena moltiplicata per tutti i ribelli condannati, anzi, corse ancora più velocemente, così tanto che i suoi muscoli provati dalle torture non ressero, facendolo inciampare e cadere a pochi metri dal corpo di London.
Non gli importava se presto sarebbe stato trascinato nuovamente via, non gli importava più di nulla. Si mosse in direzione della moglie perché non ce la faceva neanche ad alzarsi, con la paura ormai cristallizzata nel petto, e strisciò tra i cadaveri riversi sul pavimento stringendo i denti.
Raggiunse London.
I suoi occhi scuri rimasero spalancati per attimi interminabili su di lei, poi Klaus tentò di farla voltare verso di sé e nel guardare il suo viso si sentì morire. 
Era scioccato; fissava il suo volto pallido e le labbra già violacee, appena dischiuse, e le palpebre che nascondevano i suoi occhi meravigliosi, senza avere la capacità di pensare a nulla, se non al fatto che fosse morta. Che ora fosse lì, stretta tra le sue braccia, sempre incantevole, sempre sua, ma morta.
Morta...
La attirò più forte contro il proprio petto, la scosse prima leggermente e poi più bruscamente, ma lei restava inerte, come una bambola di porcellana ormai rotta. Non si muoveva né respirava. Non l’avrebbe mai più vista ridere, piangere o arrabbiarsi. Era morta al posto suo.
London...
La strinse ancora e ancora, come se nient’altro avesse importanza, appoggiò la propria fronte alla sua e si macchiò le mani del suo sangue vermiglio.
Ti prego...
Non ebbe la forza e la lucidità di piangere. Gli sembrava soltanto un sogno orribile, una scena finta e irreale, con i contorni sfocati. Continuò soltanto a guardarla con gli occhi sbarrati e con il dolore a distruggerlo dall’interno, come un’avida bestia che lo stava disintegrando.
Fu solo qualche secondo, poi i Pacificatori giunsero per portarlo via. E lui si ribellò, urlò ancora pur senza riuscire a sentirsi, reagì come un animale, guidato da un istinto primordiale, e provò a lottare, picchiare, scalciare, ma qualcuno di loro lo stordì con una botta in testa.
L’unica cosa che riuscì a fare prima dell’oblio fu ispirare il profumo di London un’ultima volta. Era profumo di lacrime, di sangue, di sudore, di lavanda, di lamponi, di errori, di speranze distrutte. Un profumo dolceamaro, ma molto più amaro che dolce.
 

*


Gli sembrava di avere un chiodo piantato in testa. Aprì le palpebre il più lentamente possibile, come se fossero incollate. 
Un ambiente spoglio e privo di colori, una stanza semivuota. Klaus era steso su una brandina scomoda e, nel riprendere coscienza, guardava il soffitto bianco e pieno di crepe. Non era legato, ma sentiva dolore ovunque, non riusciva a muovere neanche un muscolo.
Una nebbia opprimente gli aleggiava nel cervello, sfocando ogni cosa. Tentò di alzarsi a sedere, ma delle scintille di dolore si espansero per tutto il suo corpo, bloccandolo. 
Il suo primo pensiero fu che gli sarebbe tanto piaciuto morire. Era un desiderio quasi irrazionale, in quel momento, ma vivido nella sua testa. Pregò che le forze lo lasciassero. Si sentiva... evanescente. Sarebbe potuto essere già morto, se solo non ci fosse stato quel dolore a irradiarsi in ogni parte del suo corpo - a partire dalla nuca e dal petto -, a ricordargli che lui, purtroppo, esisteva ancora e che la realtà intorno non era soltanto un misero scherzo della sua mente.
Passarono molti minuti e Klaus rimase lì, con la faccia rivolta verso il soffitto, sperando di abbandonare quel mondo da un istante all’altro. Ma il suo desiderio non si realizzò né in quel momento, né nei secondi a venire.
Alla fine, decise di stringere i denti e provare ad alzarsi. Non riusciva a capire nulla, si sentiva semplicemente come qualcuno che si è svegliato dopo lunghi anni di coma. Non aveva la percezione del reale, nemmeno dei ricordi più recenti.
Con uno sforzo che gli costò qualche secondo di affanno, si mise a sedere sulla brandina e aspettò qualche istante per chiudere gli occhi e mettere a fuoco quella situazione così anomala. Si passò una mano sulla fronte e sentì la sua pelle bollente. Doveva avere anche la febbre, dunque. Forse qualche ferita si era infettata. 
Rimase così, fermo e seduto, per un po’ di tempo, con un mal di testa crescente e una sensazione di spossatezza sempre più maligna. Cercò di focalizzare gli ultimi avvenimenti, ma per molti minuti non ricordò altro che vuoto. E paura. E dolore. Soprattutto dolore.
Ma era un dolore che non aveva mai sperimentato, un dolore sconosciuto, molto diverso da tutti i tipi di dolore che avesse mai provato, molto più forte e brutale. 
C’era ancora nebbia nel suo cervello, quando all’improvviso... un lampo, un fulmine a ciel sereno. Si aprì una voragine nella sua testa e da lì sgorgarono tutti i ricordi. 
Per un attimo rimase senza respiro, lasciandosi investire da quel flusso di emozioni, mentre il suo cuore accelerava i battiti di colpo. Ogni battito divenne una coltellata.
Si alzò in piedi di scatto.
Ma quel movimento così improvviso e per nulla premeditato gli provocò una dolorosissima fitta alla testa, che gli cominciò a girare. E cominciò a girare tutto, tentò di appoggiarsi alla parete, ma si lasciò cadere a terra come un corpo senza vita.
Rimase a terra. Gli sembrava di non respirare più. Le ferite gli facevano ancora più male.
Adesso ricordava.

« London... » sussurrò nel silenzio della stanza.
London era morta.


 
*


Se n’erano andati tutti. Ora era finalmente solo. 
Si stupì di quel pensiero. Qualche mese prima non avrebbe neanche mai pensato di poter accostare due parole come “finalmente” e “solo”. Ma adesso non voleva nessuno. Non voleva essere visto.
Camminò per la sala grigia lentamente, senza guardare nessuno di quei cadaveri stesi a terra in particolare. La stava cercando, certo, ma non era ancora pronto a mettersi di fronte alla realtà. 
Camminò silenziosamente e ogni suo passo rimbombava nel silenzio tombale della sala delle esecuzioni. Forse qualcuno poco più tardi sarebbe arrivato a portare via i corpi dei ribelli. Poi li avrebbero bruciati. Non avevano tempo per seppellirli, la guerra continuava. 
Si chiese per un istante cosa sarebbe successo quando quelli di Capitol City avrebbero scoperto la verità su di lui. Ma in realtà non gli importava. Aveva giocato. Aveva distrutto. Non gli restava null’altro da fare, se non lasciarsi disintegrare da Emil. 
Spostò il cadavere di un uomo sulla quarantina con un calcio e poi la vide. 
Era lì, London. A terra. In una posizione innaturale, con le braccia e le gambe piegate, la bocca socchiusa, il viso pallido. Il petto era inzuppato di sangue. 
Il cuore gli si bloccò nel petto, il respiro si mozzò.
Ben cadde a terra in ginocchio.
La strinse forte contro il proprio petto.
E urlò, urlò tutto il dolore che nessun altro avrebbe ascoltato.

 
*

 
Era riuscito ad alzarsi. Il suo corpo tremava e la testa gli mandava fitte lancianti, ma non aveva alcuna importanza. Corse contro la porta della stanza - o cella - in cui l’avevano portato e tentò di aprirla, ma quella rimase beffardamente bloccata. Era chiusa a chiave. Quindi non l’avevano liberato davvero, era stata tutta una farsa. Lanciò un urlo disperato e cominciò a picchiare con i pugni sul metallo della porta, sfogando tutta la sua rabbia, continuando a gridare come un animale intrappolato.
Lo sapeva che lo stavano guardando, da qualche parte, lo sapeva che doveva esserci qualche altra telecamera nascosta. 
Gridò per quelle che gli sembrarono ore. Nessuno venne ad aprirgli. Diede un ultimo pugno alla porta, così forte che sentì spezzarsi almeno un paio di falangi della mano sinistra. Stavolta urlò di dolore e delle lacrime gli appannarono la vista. 
Ma non era ancora abbastanza lucido per piangere, era troppo accecato dalla rabbia e dall’odio, avrebbe voluto uccidere chiunque gli fosse capitato a tiro in quel momento, sarebbe anche stato capace di strangolare tutti i Pacificatori con la mano buona. 
Il centro propulsore di quell’odio era, però, un’altra persona. 
Giurò a se stesso che si sarebbe vendicato di Benjamin, sperò per il suo bene che morisse nel più doloroso dei modi, perché se lo avesse rincontrato l’avrebbe ucciso in un modo ancora peggiore.
Si accasciò sul pavimento ancora una volta, con la schiena appoggiata alla parete. Respirava velocemente e si teneva la mano ferita stringendo i denti. Se qualcuno l’avesse visto davvero, in quel momento, avrebbe pensato che stesse quasi ringhiando contro qualcosa.
Klaus tenne lo sguardo fisso davanti a sé, in direzione della brandina. Ma non la stava guardando sul serio. Tutti i suoi pensieri si addensavano in un unico perno.
E, nella sua testa, sentiva il fucile che aveva ucciso London sparare dieci, cento, mille volte.

Non gli portarono da mangiare, né da bere.
Si erano completamente dimenticati di lui. Rimase in cella per giorni interi, senza muoversi, senza respirare più del necessario, sentendo le forze abbandonarlo sempre più e la propria volontà vacillare.
Aveva perso tutto. Ora avrebbe perso anche se stesso. Non gli era rimasto più niente, neanche qualche briciola di dignità.
Rimase con la schiena appoggiata al muro per quella che sembrò un’eternità, un’eternità fatta di istanti congelati, un’eternità terribilmente lunga e vuota. 
La fame e la sete lo colsero come bestie fameliche quasi quanto il dolore che lo intorpidiva, trascinandolo verso un abisso nero, verso l’oblio.
Non aveva più percezione di nulla, gli sembrava che il mondo si fosse improvvisamente appannato, che i pochi suoni che raggiungevano le proprie orecchie fossero dei martelli pneumatici. 
Era debole.
Era quasi morto.
Era debole e quasi morto, svenuto sul pavimento della cella, quando le bombe giunsero ad attaccare la prigione.

Era incosciente, o forse no. Si sentiva trasportare da qualcuno. Delle voci provenienti da ogni direzione urlavano, impartivano ordini, chiamavano persone che non aveva mai sentito nominare. Il suo corpo veniva sballottato e l’aria che respirava era piena di fumo, mentre i suoi polmoni erano pieni di polvere. 

« Questo è ancora vivo! » gridò qualcuno, molto vicino a lui. « Portatelo insieme agli altri feriti! »
Rumore di hovercraft in volo, in lontananza. Rumori, rumori assordanti, e polvere che gli entrava nelle narici e in bocca e lo soffocava. Non aveva la forza nemmeno per tossire. 
Venne caricato su una specie di barella e trasportato per qualche metro. Mosse piano le dita della mano destra. Cominciò a sentire l’aria fresca sferzargli sul volto sudato e provato. 
Stava per risvegliarsi. Stava per riaprire gli occhi e guardare il cielo dopo settimane di prigionia, ma qualcuno gli iniettò qualcosa con una siringa e allora lui ricadde preda del proprio subconscio. 

Quando Klaus si svegliò, fu investito da una piacevole sensazione di torpore. Nessun dolore. Neanche lieve. Si sentiva semplicemente stanco, come se avesse vissuto per diecimila anni.
Si guardò intorno molto lentamente. Era in un luogo fin troppo diverso da quello in cui aveva vissuto quelle settimane. Sembrava un palazzo abbandonato e in via di decadimento, con letti di fortuna recuperati un po’ ovunque. Dai feriti sulle brandine, sul pavimento, sulle barelle, capì che doveva essere una sorta di ospedale improvvisato. Degli infermieri volontari correvano in giro accertandosi che i feriti stessero bene, alcuni controllavano le persone in condizioni più gravi, altri coprivano i morti con delle lenzuola pulite. 
Si guardò il braccio e vide un ago affondato in endovena, collegato ad una flebo poco lontana. Era steso su un materasso e l’avevano, probabilmente, imbottito di antidolorifici. 
Non aveva idea di cosa fosse successo. L’ultima cosa reale che ricordava era... uno sparo. E del sangue. E un profumo familiare. 
Tentò di alzarsi, ma arrivò presto un’infermiera a dirgli di restare fermo, perché non era ancora pronto per alzarsi. Gli sorrise gentilmente e poi corse in direzione di un altro ferito.
Klaus prese un lungo respiro, sorpreso di non ritrovarsi i polmoni distrutti dal fumo e dalla polvere. Aveva freddo, ma non gli importava.
Il suo busto era fasciato da numerose bende pulite e la mano sinistra era stata ingessata. Gli suonò strano che qualcuno si fosse preso cura di lui, quando invece pochi giorni prima non facevano altro che torturarlo.
Aveva ancora una volta la mente annebbiata, ma stavolta era una sensazione piacevole, benigna. Per un momento ci fu soltanto lui, la libertà, l’aria fresca e le voci lontane degli infermieri che si adoperavano per i pazienti. 
Poi sentì qualcuno piangere, a qualche materasso di distanza. Era un uomo, probabilmente poco più vecchio di lui ma conciato molto peggio. Aveva metà testa fasciata e piena di sangue. Sarebbe stato impossibile vedere le sue lacrime in quella condizione, ma i suoi singhiozzi erano così straziati che devastarono la mente di Klaus.

« Sono morti... » mormorava tra sé, ma lui riusciva a sentirlo perfettamente, come se fosse il suo interlocutore. L’uomo strinse di scatto il polso dell’infermiera di prima, che era tornata per controllarlo. « Dimmi che li seppelliranno, ti prego... » pianse, ancora.
La ragazza annuì e lo tranquillizzò, ma sembrava soltanto che lo stesse facendo per accontentarlo. E Klaus cominciò a sentirsi male.
Sembrò che il tetto gli fosse crollato improvvisamente addosso, come aveva fatto quello della prigione. Sono morti, dimmi che li seppelliranno, ti prego.
Gli mancò l’aria, ancora una volta.
E ricordò, ancora una volta.
Il dolore tornò a farsi sentire, più violento di prima. Come un fuoco che lo stava bruciando dall’interno. Come un fuoco che non avrebbe mai smesso di ardere.

 
*

 
Klaus dormiva. Lo osservava, da lontano. Era quasi immobile sul suo materasso, il petto si alzava e abbassava appena.
Era vivo. Forse per miracolo.
Ben non riusciva a fare a meno di guardarlo. Ben il torturatore, Ben il traditore, Ben la spia dei ribelli. L’avevano avvisato prima del bombardamento della prigione. Era riuscito a scappare. Ben aveva voluto che morisse anche Klaus, in quell’esplosione. Avrebbe voluto portare a termine ciò per cui Emil era venuto alla luce. 
Uccidere Klaus.
Klaus, non London.
E invece aveva fatto una muta promessa alla gemella. L’aveva salvato. E lei era morta. E ora giaceva sotto un cumulo di macerie.
E invece Klaus era ancora vivo. 
In quel momento due impulsi si facevano strada nella propria mente: soffocarlo con un cuscino o baciarlo. O entrambi. Due impulsi, due riflessi del proprio io, uno di Emil e uno di Benjamin.
Alla fine gli si avvicinò. Cautamente, per non svegliarlo. Non voleva essere visto, né da lui né da nessun altro. 
Lo osservò più da vicino. Aveva le labbra leggermente schiuse, i capelli sulla fronte e il viso imperlato di sudore freddo. Era pieno di bende e sangue secco.
Ucciderlo o baciarlo. 
Fu difficile domare entrambi gli impulsi, ma alla fine Ben semplicemente si voltò e se ne andò.

 


















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Capitolo 30
*** 029. Twenty-ninth Chapter – Offer me that deathless death. ***


Note: Un mese d'attesa come al solito. Ormai ho preso questo brutto andamento. Spero di riuscire ad aggiornare con gli ultimi capitoli più velocemente (ne dovrebbero restare tipo tre o quattro più epilogo, dipende se decido di lasciare le cose come prima o di aggiungere un altro capitolo, dal momento che questo mi è uscito... oceanico, penso sia il capitolo più lungo di Blur - e fu così che con questa premessa non lo lesse nessuno), a febbraio comunque dovrei avere pochi impegni, sempre se la scuola non decide di distruggermi la vita come in quest'ultimo mese.
Per quanto riguarda il contenuto del capitolo... è molto introspettivo. Mi sono informata bene su tutte le patologie mentali e i farmaci che vengono nominati, quindi sappiate che la discussione sul comportamento di Ben non terminerà qui. Blur, dopotutto, tratta anche di questo, del capovolgimento delle persone: buono o cattivo? Bianco o nero? Questo personaggio ha fatto la cosa giusta o sbagliata? Tutte domande aperte che sta al lettore interpretare :3
Con questo XXIX (perché è troppo figo scriverlo a numeri romani °ç°) si apre una quarta, ultima parte di Blur, che però non durerà molto - io già piango per quando questa storia sarà finita, come già sapete è la long a cui tengo di più e... e... boh, mi autoemoziono. 
Se ci avete fatto caso, btw, non sto mandando più messaggi d'aggiornamento perché i seguaci ormai sono veramente tanti (g r a z i e di cuore a tutti, davvero davvero, vi adoro) e aprire più di 50 finestre mi fa impallare il computer (quindi si tratta più di un problema tecnico che di mancanza di voglia x°). Tra parentesi l'html mi odia, ad alcuni capitoli mi si è cancellato il banner per non so quale motivo e quindi dovrò rimediare. E penso che un giorno di questi farò pulizia di tutti quei caporali che adesso mi cominciano a dare sui nervi e li sostituirò con delle virgolette basse normali.

Come sempre, pagina facebook QUI, gruppo scambio recensioni QUIaccount Ask! qui, e blog tumblr qui. Sembra la lista della spesa, aiuto.
Adesso vi lascio decisamente al capitolo - ché io sono ancora distrutta per la morte di Londie, ma vabbé, mi sono abituata a convivere con l'angst.
Buona lettura! ♥


Il titolo del capitolo viene da "Take me to church" di Hozier.

Questo nuovo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 










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(Tied to a Railroad)






029. Twenty-ninth Chapter – Offer me that deathless death.


 
Il cielo era color carta da zucchero – un colore che aveva sentito nominare un paio di volte a Capitol City, durante i suoi soggiorni da mentore –, un misto tra il grigio e l'azzurro, vivacizzato da qualche rada nuvola fumosa e da un vento pungente. Guardò in alto e si lasciò sferzare il viso da quella brezza di fine autunno. Respirò. Quasi gli faceva male, respirare, ma era uno dei dettagli che lo faceva sentire ancora vivo, perché ormai aveva perso la cognizione dello spazio, del tempo e di se stesso. Non gli restava nulla – a stento l'aria.
Klaus mosse qualche passo lento in direzione della porta del maniero. Non voleva entrare davvero. Avrebbe preferito di gran lunga starsene chiuso in casa tutto il giorno, sotto le coperte e con il viso affondato nel cuscino, pregando di riuscire a prendere sonno per sperare di vederla ancora un'altra volta, almeno lì, almeno nei suoi sogni. Aveva dormito così tanto in ospedale che quasi non ricordava più cosa volesse dire essere svegli.
Dopo il bombardamento alla prigione da parte dei ribelli, Klaus era stato salvato quasi per miracolo insieme a pochi altri feriti in un ospedale di fortuna; dopo la vittoria della guerra, i ribelli avevano conquistato Capitol City e sfruttato l'ospedale ufficiale della città, pieno di medici capitolini che avevano deciso di passare dalla parte dei vincitori per evitare gravi ripercussioni – non che ne avessero avute, in ogni caso, considerando quanto i ribelli fossero stati magnanimi con i prigionieri. Dunque, era stato definitivamente curato lì e tenuto a letto, sotto antidolorifici e sedativi per giorni, settimane intere. Aveva sentito di sfuggita da un infermiere che commentava con ammirazione, o forse pietà, su tutte le ferite a cui era riuscito a sopravvivere: frustate sulla schiena e sul torace, di cui qualcuna infettata dal sudiciume, costole incrinate o spezzate, contusioni, tagli più o meno profondi, stomaco semi-infilzato da un asta di ferro dopo il crollo della prigione, disidratazione, pneumoconiosi (l'aveva chiamata così?) ai polmoni, falangi spezzate, ematomi sul viso e uno dei timpani danneggiato. Avrebbe voluto ridere tra sé, sembrava l'autopsia di un cadavere e non di una persona ancora viva. E non riusciva a concepirlo. Sarebbe dovuto essere morto e invece qualcosa lo teneva ancora legato a questo mondo, come se non volesse lasciarlo andare. Lo rendeva pieno di rabbia, perché sarebbe dovuta essere London quella ancora viva, non lui. Non lui.
Alla fine, era tornato al Distretto Sei. Molto presto, probabilmente, avrebbero anche cancellato quella stupida denominazione territoriale, ma Klaus sapeva che avrebbe continuato a chiamare quel luogo così. Era la cosa più simile a una casa che avesse mai avuto – perché Valhalla era stata più di una casa, era stato un mondo onirico e ormai fittizio ai suoi occhi che avevano visto i peggiori orrori immaginabili.
Il Distretto Sei era grigio come sempre, ma ora, dopo la rivolta, ancora più pieno di polvere, macerie e case abbandonate o distrutte. In strada regnava un silenzio quasi irreale. Le poche persone che vedeva in giro avevano i volti cupi, stanchi, inusuali per della gente che aveva appena vinto una guerra. La colpa, quindi, doveva essere della morte che aveva infestato tutta la nazione, portando via bambini, parenti, amici, intere famiglie. Portando via donne, madri, figlie, sorelle, mogli. 
Portando via London. Ma Klaus sapeva perfettamente che la colpa non era da attribuire alla guerra. La colpa di tutto, per lui, si riversava in un'unica persona, che ora probabilmente avrebbe rivisto. Era una sensazione che gli pizzicava le tempie: sapeva, non importava come, ma sapeva che Benjamin era ancora vivo e che era tornato al Distretto proprio come lui.
Prima di raggiungere Klaudia, Klaus aveva pensato di tornare nella casa in cui vivevano lui e London prima della fuga in Europa, ma si era ricordato che l'avevano completamente trafugata, e non era pronto a vedere i propri ricordi completamente distrutti, in balia della degradazione. Così era andato a casa dei suoi genitori. Gli aveva fatto uno strano effetto rientrare dopo così tanto tempo – gli sembravano passati secoli – in quella villa austera e possente. C'era odore di stantio, di muffa, di vuoto. Quando aveva visto il sangue incrostato sul pavimento – apparteneva alle cervella si suo padre o di sua madre? – era stato investito da una nausea prepotente che l'aveva spinto a rimettere tutto il cibo biologico ingerito in ospedale nelle ultime settimane. Aveva, poi, raggiunto la sua vecchia stanza e si era letteralmente gettato sul letto, mandando al diavolo le ridicole stampelle dategli in dotazione per le operazioni chirurgiche da poco ricevute, ed era rimasto lì per ore senza fare nulla, con gli occhi chiusi, i pensieri lontani e il cuore in subbuglio. 
Era stato il pensiero di Klaudia a spingerlo ad alzarsi. London avrebbe voluto di sicuro riabbracciarla e non perderla mai più di vista, quindi lui avrebbe dovuto assicurarsi che stesse bene e al sicuro. Perché, dopotutto, Klaudia era anche sua figlia e le voleva bene. Non importava che il vero padre fosse in quel momento il suo peggior nemico. Doveva imporsi mentalmente che Klaudia era un modo per essere più vicino a London, non a Ben.
Era rabbrividito a quel pensiero, riflettendoci meglio: Klaudia non era un oggetto, né un modo per riportargli London alla memoria. Klaudia aveva una propria mente, una propria vita, un proprio futuro e non aveva alcun peccato, alcuna colpa. Tutti i loro errori non si sarebbero riflettuti su di lei, perché lei era un'anima innocente.
Si era ricordato, sulla strada del maniero dei Bridge, che forse Klaudia ancora non sapeva della madre. Si sentì male al pensiero che sarebbe dovuto essere lui a dirglielo. Quasi non ebbe più la forza di camminare. Ebbe una fitta allo stomaco e l'orecchio colpito dall'esplosione, seppur in via di guarigione, cominciò a ronzargli.
Si era come bloccato, di fronte alla porta, fissandone i dettagli davantì a sé con occhi vacui. 
Ma alla fine avanzò di qualche ultimo passo e bussò. 

Klaus non aveva ragionato su chi sarebbe andato ad aprirgli, ma nel vedere Erzsébet sull'uscio della porta si sentì abbastanza sollevato. Lei, però, sembrò assai più sorpresa, come se non si aspettasse di trovarlo lì in carne e ossa. Si portò una mano alle labbra dischiuse ed emise un leggero singhiozzo prima di abbracciarlo in una stretta commossa. Quasi... materna. Klaus si sentì diventare molle in quell'abbraccio. Avrebbe voluto ricambiare, ma non ci riuscì. Rimase immobile, sentendo le lacrime della donna bagnargli leggermente il collo. 

« Stai... stai bene... » sussurrò Erzsébet, sciogliendo la stretta per guardarlo negli occhi. Si soffermò sul suo viso stanco e ancora ornato dalle cicatrici e cambiò espressione, diventando più preoccupata. Anche lei, però aveva un volto provato e sciupato. Klaus la trovava molto più invecchiata, sebbene avesse poco più di una ventina di anni di lui: i capelli castani spenti, striati di grigio, la fronte e il collo decorati da rughe sconnesse e le spalle smunte, ricurve. 
Voleva tanto risponderle. Dirle che, no, non stava bene. Essere vivo era una mera forzatura a cui era costretto. E si chiese se sapesse di London, vacillando. Pensarla... morta, lo rendeva ancora debole, scosso. Come se lo credesse ancora un incubo da cui potersi risvegliare. Uno psicologo avrebbe detto che Klaus era, in quel momento, nella fase di negazione del dolore. In ogni caso, non voleva avere la responsabilità di doverlo dire anche a sua madre. 
Qualcosa nel suo sguardo adulto, però, gli fece capire che anche lei aveva saputo. Fu una consapevolezza che attraversò gli occhi di entrambi – quelli di Erzsébet si inumidirono di lacrime fresche.
Klaus annuì mestamente, mantenendo l'espressione che lo caratterizzava da settimane – un'espressione distaccata, dura e al contempo piena di dolore – e trovando il coraggio di poggiarle con freddezza una mano sull'avambraccio. Era il massimo che riuscisse a fare, ma anche lei, comunque, meritava un po' di conforto per la perdita subita. 
« Dov'è Klaudia? » fu la prima cosa che chiese. Gli sembrava di non parlare da una vita intera, perché la voce gli uscì roca, più bassa di quanto aveva pensato.
Erzsébet rimase per qualche istante con il viso teso, poi annuì e lo invitò in casa, facendogli strada verso il salotto al pianterreno. 
Prima ancora di entrare in quella stanza, prima ancora di incontrare il viso della bimba, Klaus scorse da lontano i suoi riccioli albini e il cuore, la voce, il respiro, gli si bloccò ogni cosa. Klaudia, come per istinto, si voltò proprio in quel momento verso di lui; fece cadere le bambole che aveva tra le mani sul pavimento e lanciò un gridolino che lei stessa non poté sentire. La bambina si alzò di scatto e corse verso il papà. Klaus la prese in braccio e la alzò in aria, per poi stringerla forte al petto. Per poco non barcollò, rischiando di riaprire le ferite delle operazioni per lo sforzo, ma non gli importava. Stava bene, era salva.
Sentì Klaudia cominciare a piangere a dirotto, avvolgendogli le braccine intorno al collo, e così pianse anche lui. Furono soltanto lacrime calde e silenziose, all'inizio, ma poi divennero un pianto liberatorio, di sfogo e sollievo al contempo. Non avrebbe mai voluto che Klaudia lo vedesse piangere, ma fu più forte di lui, non riuscì a fare nient'altro. Voleva soltanto ringraziarla mentalmente per il fatto di essere lì, di essere viva, in braccio a lui.
Perché Klaudia era un timido raggio di luce tra una coltre di nuvole, in quel momento. L'unico miracolo in un oceano di disperazione.
Eccola, la bambina che gli aveva salvato la vita con il solo fatto di essere venuta al mondo, la bambina che ora lo stava salvando di nuovo da un baratro buio e senza fine.
Erzsébet si portò una mano al cuore e fece un leggero sorriso di commozione, a quella scena, ma subito le si incrinò. Lanciò un'occhiata in direzione delle scale e tirò su con il naso, preparandosi ad una conversazione difficile. 
Doveva assolutamente parlare con Klaus.

Aveva ancora Klaudia in braccio, quando si voltò verso la donna. 
« Grazie » mormorò piano, senza riuscire a trovare altro da dire. « Per averla protetta » aggiunse. 
Erzsébet annuì e Klaus a quel gesto si sentì finalmente libero di andare via, di tornare a casa, di tornare nella sua stanza a degradarsi. Il massimo che avrebbe fatto sarebbe stato prendersi cura della bambina. E basta. Non c'era altro scopo nella sua vita, ormai. 
Si voltò e fece per raggiungere l'ingresso senza chiedere altro, ma lei lo bloccò. 
« Klaus, aspetta » gli disse, con un tono di voce fin troppo tentennante, insicuro. 
Klaus avrebbe voluto ignorarla e andarsene, ma qualcosa lo fermò. Non voleva restare in compagnia di quella donna, della madre di sua moglie e dell'uomo che l'aveva uccisa. Non voleva restare tra quelle mura che lo facevano sentire di secondo in secondo più inquieto. Eppure c'era qualcosa che lo trattenne. 

« Devo parlarti » spiegò la donna, vedendolo tornare sui suoi passi. 
« Di cosa? » domandò lui, con un leggero e fastidioso presentimento.
« Di London e... di Ben. »
Klaus pensò che era stata furba. Mettere London in primo piano, quando era palese sin dal principio che volesse parlargli del figlio. Lo proteggeva ancora, dopo tutto quello che aveva fatto, dopo tutto il male che aveva causato? Si chiese fino a che punto una madre potesse spingersi per difendere il frutto del proprio grembo.
London aveva rischiato la vita per Klaudia, Shyvonne aveva cercato di contrastare la caccia di Capitol – certo, un po' troppo tardi per qualcuno che vuole dimostrare l'affetto nei confronti del figlio. In ogni caso, erano morte entrambe. Entrambe sparate dai Pacificatori, una al cuore e una alla testa. 
Sentì, ancora una volta, un pizzicore alla base degli occhi: due donne erano morte per salvarlo. Due sacrifici per una vita che adesso lui non voleva neanche più vivere. 
Probabilmente, però, anche Erzsébet si sarebbe fatta uccidere per salvare Benjamin. E adesso doveva giocare le sue carte. 
Klaus si stupì di volere ascoltare che cosa avesse da dire. Forse voleva soltanto restare ancora un altro po' lì per respirare la stessa aria che aveva respirato London, in quella casa. O forse voleva da quella conversazione altri motivi per odiare Ben, semplicemente.

« D'accordo » si limitò a risponderle, rivolgendole uno sguardo impenetrabile. Fece scendere Klaudia, ma la prese comunque per mano e insieme seguirono Erzsébet in cucina.
« Vuoi qualcosa da bere? » domandò Erzsébet, una volta raggiunta la stanza, aprendo una dispensa accanto al frigorifero. Non aspettò neanche che Klaus replicasse, perché cominciò a maneggiare un paio di bustine di tè e un pentolino d'acqua bollente. 
« No, io non... » Klaus scosse la testa e si massaggiò una tempia. « Di cosa devi parlarmi? » le chiese senza preamboli, pur accomodandosi a una delle sedie attorno al tavolo. Era una domanda che le aveva già fatto nemmeno cinque minuti prima, ma era fin troppo impaziente, non aspettava altro che cominciare quella conversazione. 
Erzsébet rimase qualche istante in silenzio e Klaus sospirò di frustrazione. Non gli importava che fosse un discorso probabilmente molto difficile da affrontare, voleva soltanto che lei parlasse e basta. Avrebbe tratto le conclusioni dopo. 

« Ben mi ha già raccontato ogni cosa » disse infine, senza voltarsi verso di lui, mentre alzava la fiamma del fornello per preparare il tè. Lei non potè vederlo, ma Klaus si era immobilizzato e la sua espressione si era congelata di botto. 
« E' qui? E' ancora vivo? » domandò, calcando quell' "ancora" come se volesse imprimergli la maggiore quantità di disprezzo possibile. Strinse i pugni sulla superficie del tavolo. 
« Sì. »
Klaus non si domandò neanche se la suocera avesse voluto rispondere a entrambe le domande, perché un brivido violento gli percorse la schiena. Benjamin era lì, quasi sicuramente al piano superiore. Se lo sarebbe dovuto aspettare. Il suo cuore improvvisamente accelerò i battiti, pulsandogli in gola. 
Era a pochi metri da lui. Quasi gli sembrò si sentire i suoi passi dal soffitto. Tentò di calmarsi e di inspirare lentamente. 
« E che cosa ti ha raccontato? Non puoi esserti fidata della sua versione, lui è- »
« Klaudia » lo interruppe la donna, voltandosi verso la nipotina. La bambina le sorrise. « Perché non vai a prendere le tue bambole? »
Klaus alzò un sopracciglio. Come faceva a sentirla? Non le aveva neanche detto la frase con i gesti, eppure Klaudia si alzò dalla sua sedia e andò a prendere le sue bambole, tornando qualche istante dopo e mettendosi a giocare sul divanetto in cucina, accanto al tavolo dove Klaus si era seduto.
« Ma come...? » provò a chiedere, ma Erzsébet lo interruppe una seconda volta.
« Ecco, il tè è pronto » gli disse, versando la bevanda fumosa in due tazze bianche e offrendone una a Klaus. Per un momento lui si domandò se non l'avesse avvelenata; bevve comunque. Il liquido bollente gli scottò il palato, ma quasi non se ne curò. Era buono.
« Parlare davanti a una tazza di tè è mille volte più facile » lo rassicurò Erzsébet con un sorriso un po' tirato, a cui Klaus non rispose.
« Lo spero. »
La donna prese un lungo sorso di tè prima di cominciare. « Klaus, Benjamin è molto malato. »
« Ma davvero? » chiese sarcasticamente lui, cercando di costruirsi una corazza che avesse retto a quella conversazione che si apriva sotto i peggiori auspici. « Povera creatura. »
Erzsébet lo fissò, impassibile, per qualche attimo. Poi si alzò d'improvviso e andò ad aprire un'altro mobile in legno, dietro di lui. Da un cassetto pescò una bustina argentata. E una scatolina bianca. E un'altra. E un'altra ancora.
Tornò indietro con le mani piene, riversandone il contenuto sul tavolo.

« Cosa sono? » domandò Klaus, scettico, prendendo quella che sembrava una confezione cilindrica di pasticche. C'era scritto "litio".
Erzsébet si sedette nuovamente di fronte a lui e intrecciò le dita sul tavolo, riprendendo a fissarlo. 
« Medicinali, Klaus. » Tamburellò le dita sul ripiano e poi afferrò la prima scatolina che le capitò davanti. « Antidepressivi. Catalizzatori dell'umore. Amitriptilina. Farmaci neurologici. » Klaus alzò lo sguardo su di lei, quasi studiandola. Erzsébet gettò la scatolina di nuovo nel mucchio con un'espressione frustrata. « Non si tratta di malattie curabili, ma neanche di malattie fisiche. Il problema è... nel suo cervello. Nella sua mente. » Lanciò un'occhiata a Klaudia, come per accertarsi che non fosse rimasta turbata da quella scena. Era tranquilla sul divanetto a giocare, facendo versi buffi.
Klaus non sapeva cosa ribattere. Cosa c'entrava, in quel momento? Era di questo che sua sua suocera volva parlargli?

« Non conosciamo le patologie precise, ma sappiamo che da quando Ben è bambino soffre sicuramente di bipolarismo, crisi d'identità, forse schizofrenia, disturbi della personalità. » Fece una pausa, sospirando. « E' stato sempre molto bravo a nascondere ogni cosa... fino ad adesso. London non sapeva neanche dell'esistenza delle medicine. »
Klaus ebbe un moto di rabbia nel sentire nominare London in merito a quell'argomento, ma rimase in silenzio. Aveva deciso di ascoltarla fino alla fine.
« Ben le ha sempre prese, sempre. Si preoccupava degli orari, di non rimanere a stomaco vuoto, di chiudere a chiave il cassetto. Poi... » si fermò, come se si fosse persa tra le parole, ma poi continuò: « Le cose sono degenerate. Non me l'ha mai confessato apertamente, ma conosco mio figlio e so che cosa gli passava per la mente. La vostra partenza, la morte di mio marito... l'hanno distrutto. Aveva smesso di prendere i farmaci, si tagliava i polsi, ha tentato di... di suicidarsi e... » si bloccò ancora una volta, asciugandosi le lacrime che erano cominciate a caderle sulle guance. « Se n'è andato»
Klaus in un primo momento non capì. Cosa voleva dire che... se n'era andato? Rimase confuso da quelle informazioni, spiazzato, ma la sua rabbia non si affievolì neanche per un secondo.
« Non è stato Ben a farvi tutte... quelle cose... » continuò. « E' stato Emil. Emil. Ti posso giurare che non era in sé. Emil è la parte di lui che non avrebbe mai voluto mostrare, quella che avrebbe dovuto sopprirmere per tutta la vita. Se non avesse smesso di prendere i farm- »
« Ha ucciso London, Erzsébet. » Non si trattenne. Lo disse con una calma glaciale, ma le sue labbra tremarono nel pronunciare quella breve e al contempo terribile frase ad alta voce. « Te l'ha detto questo, quel maledetto bastardo? »
Erzsébet scoppiò in un singhiozzo, ma annuì, continuando a piangere. Il suo tè ormai sapeva di lacrime. 
Fu Klaus stavolta a fissarla con sguardo duro. Non poteva permettersi di giustificarlo. Non poteva e basta. Era sua madre, certo, ma anche London era sua figlia. 
E lui, lui, lui l'aveva sacrificata.
Anche le sue mani cominciarono a tremare, di rabbia e paura. Sentiva ancora in lontananza dei passi, come se la presenza di Benjamin volesse soffocarlo. Sapeva che era lì, sapeva che molto probabilmente stava anche ascoltando tutta la conversazione. Voleva forse metterlo alla prova?

« Non puoi giustificarlo » aggiunse a voce più bassa, ma digrignando i denti.
Erzsébet tirò su con il naso. 
« Ti stavo soltanto spiegando le ragioni per cui- »
« Nessuna ragione! » sbottò Klaus, alzando nuovamente il tono perché non riusciva a contenere la propria rabbia. « Non mi interessa di tutte le malattie che possa avere, per me potrebbe morire anche in questo stesso istante e sarei la persona più felice al mondo, ma nulla giustifica le sue azioni, nulla, te ne rendi conto? Ancora non riesco a capire come faccia ad essere ancora vivo dal momento che i ribelli hanno espugnato la prigione! » Prese un respiro più profondo, come se quel discorso farfugliato velocemente e pieno di risentimento l'avesse affaticato. 
Erzsébet si asciugò ancora una volta le guance rigate e poi incrociò le braccia. 
« Ben era una spia dei ribelli. Non credo abbia avuto il modo di dirtelo. »
Klaus per un secondo rimase spiazzato. « Una spia? »
« Una spia, sì » confermò la donna. « Faceva da infiltrato a Capitol City. Il suo compito era quello di calarsi nella parte di un torturatore per passare informazioni ai ribelli. E' anche grazie a lui se sono riusciti a prendere la prigione. »
Ebbe l'ennesimo moto di rabbia nei suoi confronti. « Se era una spia dei ribelli, perché si è calato così bene nella parte? London è morta insieme a un'altra ventina di persone, se non di più! »
« Non poteva interferire con le esecuzioni, o l'avrebbero scoperto. Salvare te è stata una mossa azzardatissima, se ai piani alti se ne fossero accorti in tempo avrebbe cambiato... non dico le sorti della guerra, ma dell'assalto alla prigione di sicuro. »
Klaus la guardò fisso negli occhi. « E se avesse salvato London, invece? Sarebbe cambiato qualcosa? » Fare quella domanda gli fece malissimo, si sentì il petto infilzato da mille pugnali. « Erzsébet, ascolta. Ci ha... torturato. Si divertiva a frustarmi, a vedere sua sorella urlare sulla sedia elettrica. Non mi pare che fosse una semplice spia. Lui si divertiva a farci del male. »
Erzsébet sembrò scioccata da quell'affermazione. Forse non sapeva che London era stata persino torturata con la sedia elettrica. Eppure, continuò a difenderlo: « Era Emil a volersi vendicare di voi. Ben non vi avrebbe mai fatto nulla del genere. Non vi avrebbe mai traditi. Ha fatto il doppiogioco con la capitale soltanto per proteggere me e Klaudia. »
« E si è trasformato in un mostro » biascicò Klaus, mentre i suoi occhi venivano attraversati da ombre infinite. Si era ricordato che Klaudia aveva rivisto Benjamin e pensò che se le avesse torto anche solo un capello ci avrebbe pensato di persona a ucciderlo nel peggiore dei modi. 
Avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro, giudicare ancora Erzsébet soltanto perché lo stava difendendo nonostante la morte della figlia, arrabbiarsi fino a implodere di frustrazione, magari urlare. Ma non poté fare più nulla, o meglio, non riuscì a fare più nulla, perché la porta della cucina si aprì all'improvviso, lasciando entrare la persona oggetto di quella discussione.
Klaus si alzò di scatto e la sedia fece rumore nello spostarsi bruscamente sul pavimento pulito. Erzsébet trattenne il fiato, Klaudia smise di giocare per osservare dal suo divanetto il nuovo arrivato.

« Klaus » lo chiamò Benjamin, tenendo la porta aperta per invitarlo a seguirlo. Pronunciò il suo nome con una strana cadenza, quasi sofferente, violenta. « E' una questione di cui dobbiamo parlare faccia a faccia. Mia madre non c'entra. »
Klaus si sentì le gambe molli e la testa cominciò a ronzargli di pensieri che entro poco l'avrebbero fatto impazzire. Rimase in silezio, come sotto shock, con gli occhi spalancati e le labbra secche, incapaci di mettere insieme delle parole di senso compiuto. Rivederlo lì, così improvvisamente, serio e composto, in vesti diverse dal Benjamin che aveva conosciuto un tempo ma anche dal torturatore che aveva fatto morire London... l'aveva rigettato di botto nella paura più pura e assoluta, nel semplice e primordiale terrore che quell'uomo potesse fargli ancora del male e che lui fosse totalmente inerme.
Ma fu la rabbia, ancora una volta, a sopraffare gli altri sentimenti. Strinse i pugni fino a sentire le unghie conficcarsi nei palmi e serrò le labbra, lasciandosi pervadere da quella furia che avrebbe potuto spingerlo a compiere atti inimmaginabili. 

« Seguimi » lo incitò Ben, assottigliando gli occhi su di lui e persuadendolo con quel tono di voce basso e pacato, completamente diverso da quello con cui osava prendersi gioco di lui alla prigione. 
Un barlume di razionalità attraversò la mente di Klaus. Non poteva aggredirlo lì, davanti a Klaudia. Gli serviva soltanto un appiglio per non impazzire definitivamente e sopportare un'altra dura conversazione. 
Gli serviva un punto fermo, una certezza.
Guardò di sottecchi Erzsébet, diventata pallida e tremante – adesso temeva che lui aggredisse il suo adorato figlioletto? – e poi spostò lo sguardo su Klaudia, che fissava entrambi i padri con i suoi occhi grandi e dolci, come se volesse spingerli a chiarire ogni questione irrisolta.
Klaus si fece forza, prese per mano la bambina e la portò con sé. Con Klaudia insieme a lui, forse sarebbe riuscito a trattenersi e non saltare addosso a Benjamin.
Per tutto il tragitto tenne stretta la sua manina. Per tutto il tragitto trattenne il respiro.

Entrarono nella biblioteca del maniero al piano superiore. Klaus ricordava perfettamente quella sala tappezzata di libri, con le finestre ampie e i grossi lampadari appesi al soffitto. Il mappamondo era ancora nello stesso angolo, forse un po' impolverato, i tappeti perfettamente in ordine e gli scaffali non sembravano essere cambiati di una virgola.
Era in quel luogo che Ben gliel'aveva confessato. Mert szeretlek, perché ti amo. All'epoca lui non aveva capito, ma adesso il significato di quelle parole gli appariva chiaro e assurdo al contempo.
Ti amo. London non gliel'aveva neanche mai detto. Ma non aveva importanza. Aveva accettato London anche per il suo orgoglio, aveva imparato ad amarla con tutto se stesso e avrebbe volentieri dato la vita per lei.
Avrebbe dovuto proteggerla.
Quel pensiero si fece strada nella sua testa, tra la coltre di rabbia e odio. Era il senso di colpa che prendeva forma piano dentro di sé, minacciando di ucciderlo. 
La mano di Klaudia sudava freddo e lui si voltò brevemente a guardarla: era cresciuta, in quei pochi mesi. Aveva quasi sei anni, ormai, ed era cambiata tanto. Si era fatta più alta, più matura. I capelli più lunghi e più mossi, il viso si era leggermente affinato.
Anche lei ricambiò quell'occhiata, infondendogli coraggio con la sua tipica espressione dolce e risoluta allo stesso tempo – quello di una bimba che può ottenere tutto ciò che chiede solo grazie a quei magnifici occhi di giada.
Klaus alzò nuovamente lo sguardo su di Benjamin, avendo appena il tempo di accorgersi che sulle pareti e su una scrivania c'erano moltissime foto dei gemelli da bambini. Non ebbe la forza di guardarle, sapeva che il loro viso sorridente e spensierato – passato, ormai inesistente – l'avrebbe ferito più di ogni altra cosa.
Si accorse che Ben lo stava fissando.
Si sentì di nuovo completamente disarmato, impaurito. Se lo immaginò prendere una frusta uscita da chissà dove e ricominciare a torturarlo. Gli sembrò persino di sentire il freddo metallo intorno ai polsi che gli mangiava la carne. Si concesse di respirare lentamente, o si sarebbe mostrato più debole di quanto già non fosse.
Debole, maledettamente debole.

« Credo che mia madre ti abbia già raccontato tutto » esordì Ben, camminando tra gli scaffali. « Ma volevo parlarti di persona. »
« E dirmi cosa? » Klaus non sapeva dove fosse riuscito a trovare quel filo di voce che gli uscì dalle labbra. Si maledì in silenzio per questa sua paura ostinata. « Parlami, avanti. Giustificati » lo incitò, alzando la voce.
Ben – era ancora quello il nome con cui doveva chiamarlo? – fece un sorriso storto e amaro. 
« Non voglio giustificarmi. La storia delle mie... malattie... è vera. Ma non è una scusa per cancellare ciò che ho fatto. »
Le labbra di Klaus tremarono e così le mani, Klaudia se ne accorse. Non riusciva a parlare di fronte a lui.
« Cose di cui vorrei pentirmi, ma non ci riesco del tutto. » Stava per continuare, ma lanciò un'occhiata a Klaudia e sembrò trattenersi. 
Klaus non ce la fece più e superò il terrore di botto: 
« Vorresti? Vorresti pentirti? » gridò, lasciando la mano della bambina e avvicinandosi a lui di un passo. 
« E' ancora Emil che... che mi tormenta... è colpa sua se non riesco ancora a elaborare le mie... azioni. »
Il respiro di Klaus si velocizzò. Sembrava che dicesse tutto quello soltanto per prendersi gioco di lui. Suonava così falso e sbagliato, nella sua testa, che non riusciva a credere neanche ad una sola delle sue parole.
« Sembro uno psicopatico » commentò l'albino tra sé, scuotendo la testa. « Desideravo così ardentemente vendicarmi nel mio subconscio che quando Emil è venuto alla luce ha fatto tutto contro la mia volontà. Ma Emil è una parte di me che non ho saputo controllare, e che tuttora mi deconcentra. Se solo lui non ci fosse... se solo fossi una persona davvero sana di mente... ti starei confessando tutto il mio dispiacere in questo momento. »
Dispiacere?, si chiese Klaus, pieno d'ira. « Hai vendicato la tua maledetta solitudine su di noi, adesso sei contento? »
« Non è così semplice » ribatté lui, accarezzando la superficie del mappamondo e facendolo girare piano. « Se solo fossi in grado di capire qualcosa del mio cervello, te lo spiegherei. »
« Non me ne fotte un cazzo del tuo cervello, Benjamin! » urlò improvvisamente, avanzando pericolosamente verso di lui, ma senza ancora avere il coraggio di sfiorarlo. « Hai ucciso London! Tua sorella, l'hai uccisa, hai capito? » continuò a gridare, senza ritegno, mentre il viso di Ben si congelò improvvisamente. « Perché non mi hai lasciato morire e hai ucciso lei, perché? L'hai uccisa, l'hai uccisa, maledetto bastardo figlio di- »
Klaudia in quel momento scoppiò a piangere. Non era un pianto liberatorio, come quello con cui aveva salutato Klaus. Scoppiò in un pianto isterico, cadendo a terra e coprendosi il viso con le mani.
Klaus interruppe il suo sfogo di botto, voltandosi allarmato verso la bimba.
« Klaudia... » sussurrò.
Benjamin in quello stesso istante gli diede una spinta e lo sbatté contro una libreria dietro di lui. La sua schiena ancora in via di guarigione urlò di dolore. 
« Sei impazzito?! Ha imparato a leggere il labiale! » gli gridò in faccia, afferrandolo per la collottola. « Non lo sapeva ancora! »
Klaus sentì il respiro di Ben sul viso e sentì le viscere contorcersi, mentre gli occhi pungevano di lacrime. Davvero Klaudia lo era appena venuta a sapere così, in quel modo orribile?
Ben si staccò da lui, quasi come per trattenersi dall'ucciderlo sul posto, e raggiunse la bimba lentamente, allungando una mano verso di lei.

« Klaudia... » sussurrò anche lui, ma la voce gli si spezzò, e cadde in ginocchio accanto a lei. « Klaudia, mi dispiace... »
Ben cominciò a piangere, cambiando improvvisamente espressione e stringendo la bambina in un abbraccio straziato. Klaus avrebbe voluto urlargli di non toccarla, ma inaspettatamente Klaudia ricambiò l'abbraccio e affondò il faccino nel petto del vero padre, come se lo stesse già perdonando.
Era un legame, il loro, un legame molto più forte di quanto Klaus potesse immaginare. E anche lui, non riuscendo del tutto a comprendere quella connessione e restando in quella posizione ad osservarli, si abbandonò alle lacrime e si arrese al dolore. 

 
 
*


Erzsébet si era occupata di Klaudia e l'aveva portata al piano inferiore, provando a consolarla. Era lei ad averle insegnato a leggere il labiale ed era lei che sarebbe stata la sua figura materna, d'ora in poi. Durante la conversazione con Klaus, le aveva fatto prendere a posta le bambole per distrarla dalle parole piene di risentimento che lui le aveva rivolto, ma adesso non c'era stato modo di bloccare gli eventi. Klaudia aveva capito. Forse aveva capito ancora prima di guardare Ben e Klaus urlarsi contro. Era una bambina molto intelligente, dopotutto, ma forse fino a quel momento aveva provato a nascondere la realtà, a illudersi che la sua mamma fosse ancora viva e in salute e che la stesse aspettando a casa con dei dolci al cioccolato. Ma London era morta, il suo corpo era a miglia e miglia da casa e non sarebbe più tornata dalla sua bambina.
Klaus e Ben erano rimasti nella biblioteca, ad asciugarsi le lacrime e guardarsi senza aver bisogno delle parole.
Alla fine, fu Ben a riprendere il discorso per primo. 
« Credi sul serio che io sia felice di aver salvato te invece di mia sorella, Klaus? » domandò, accasciandosi su una poltrona.
L'altro non lo imitò, restando in un angolo con i propri pensieri e la propria rabbia non ancora soppressa. 
« E allora spiegami perché l'hai fatto » disse con voce stanca, come se in realtà non volesse neanche davvero ascoltare ciò che avrebbe potuto rispondere. « Mi sarebbe andata bene se avessi ucciso me. L'avrei capito. Ma London... » le parole gli si bloccarono in gola.
« London mi ha supplicato di salvarti » fece Ben, con un filo di voce, reclinando la testa sulla spalliera della poltrona e chiudendo le palpebre. « Non mi avrebbe mai perdonato se avessi sacrificato te per lasciare in vita lei. E io non volevo che mi odiasse, indipendentemente da me o Emil. Essere il suo fratello maggiore ha complicato di più le cose. » Fece una risata spossata, passandosi poi una mano sulla fronte. « Beh, sai, siamo gemelli ma io sono nato per primo. A volte mi divertivo a rinfacciarglielo, vederla indispettita era la cosa più bella del mondo. »
Il cuore di Klaus si strinse in una morsa e una fiammata d'odio misto a dolore gli investì il petto, ma la seppe domare. Quelle parole gli facevano più male di una frusta contro la schiena. 
« Lo sai che ti amava, vero? » gli chiese Ben, riprendendo ad osservarlo dal basso della poltrona. « Forse l'hai sempre saputo. Amava te... più di chiunque altro » sull'ultima affermazione il tono gli si incrinò e l'ennesima lacrima gli rigò una guancia.
Per quanti giorni non aveva pianto, Ben Bridge? I giorni passati a infliggere torture, a sentire le loro urla, a entrare nella parte del sadico manipolatore... quanto l'avevano davvero cambiato?

« Per favore » aggiunse Ben, recuperando parte della voce che Klaus aveva conosciuto un tempo, quella voce dolce e un po' malinconica che da sempre lo aveva caratterizzato, « qualsiasi cosa ne sarà di me o di te, non permettere che facciano del male a Klaudia. Lei non c'entra nulla in tutto questo. E' la mia bambina, non dovrà pagare per le mie colpe. »
« Lei non è tua » replicò Klaus, punto nel vivo. « Non sarà mai la tua bambina. E sei un ipocrita vigliacco se pensi di poter conquistare la sua fiducia adesso. »
« Io l'ho sempre protetta. Non puoi dirmi che non è mia figlia, non ne hai il diritto » ribatté l'albino, ritornando dalla difesa all'attacco – ma questa volta più velatamente, più sicuro di aver vinto un'altra battaglia. « E' tutto ciò che mi è rimasto e per quanto tu lo odi, apparterrà sempre anche a me. A me e a London. »
Klaus distolse lo sguardo da Ben e guardò fuori alla finestra più vicina. Il cielo era rimasto dello stesso colore, tra il grigio e l'azzurro, e Klaus pensò che se fosse virato più sul verde avrebbe avuto la stessa sfumatura degli occhi dei gemelli. Inspirò, espirò. Voleva andare via da quel posto.
« Klaudia verrà con me » disse, pensando che anche se Ben l'avesse voluta trattenere lì per far provare a lui la stessa solitudine che in quegli anni l'aveva dilaniato, Klaus avrebbe trovato un modo per portarla con sé. Allontanarla da lui era la soddisfazione più grande che potesse avere in quel momento.
Benjamin semplicemente non rispose, restando fermo sulla poltrona.
Klaus si avviò verso la porta, senza guardarlo, e provò un brivido di paura quando gli passò accanto: era ancora terrorizzato da lui e si odiava per questo. Doveva autoimporsi che non era più una vittima. Era libero.
Prima di andarsene, prese coraggio e si girò un'ultima volta verso di lui.

« Non ti perdonerò mai, Benjamin. Non m'importa di tutti i favori o le torture che tu possa avermi fatto. Non c'entra neanche Klaudia in questo caso. Tu... hai ucciso London. E io non ti perdonerò mai»
Ben gli lanciò un'occhiata imperscrutabile. « L'avevo immaginato. » Fece una pausa, come se volesse aggiungere altro. « In questo momento vorrei tanto baciarti, Klaus » disse, infatti. « Per vedere se non ho risucchiato via tutta la vita dal tuo corpo. Per vedere se hai creduto alle mie parole. E per il semplice gusto di farlo. Ma sarei un pessimo fratello, più di quanto non lo sia già stato. »
Klaus non rimase scosso da quell'affermazione, anzi, gli provocò un'infinita tristezza, e persino l'odio nei suoi confronti per un secondo si affievolì. Lo guardò negli occhi, così profondamente che Ben si sentì costretto a distogliere lo sguardo.
Alla fine Klaus uscì dalla biblioteca e chiuse la porta, allontanandosi dall'uomo che gli aveva rubato la felicità.


 










 




 

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Capitolo 31
*** 030. Thirtieth Chapter – Let her go. ***


Note: Do re mi fa sol la si- scusate, dovevo scrivere qualcosa di demenziale. Che dire, dopo due mesi di ritardo non so davvero come scusarmi per i mancati aggiornamenti. Questa volta la scusante non sono stati gli impegni, ma la mia scarsissima voglia di scrivere... e preferisco scrivere i capitoli quando sono ispirata piuttosto che scriverli male.
Tra poco Blur compie due anni (a fine aprile) e per allora/massimo maggio vorrei finirla, così potrò dedicarmi anche ad altri lavori che ho in mente - purtroppo riesco a scrivere solo una long per volta, infatti per finire Blur avevo anche momentaneamente sospeso la mia long nel fandom di Game of Thrones (autopubblicità neanche tanto occulta, bene).
Allora, molte persone mi odieranno, credo, dopo questo capitolo, ma le cose erano programmate per andare così sin dall'inizio - e a tutto c'è un perché, ogni cosa in Blur tecnicamente dovrebbe avere un senso, ho cercato di essere abbastanza attenta sotto questo punto di vista. Anche semplici elementi come una sciarpa bianca (vedi cap. 16) ritornano per scopi più alti(?). Anyway, anche la psicologia dei personaggi è, diciamo, piuttosto elaborata, e anche qui c'è un perché se fanno delle scelte piuttosto che delle altre.
Questo, giuro, non era nato come capitolo chilometrico, non so che cavolo è successo. Anche perché tra la parte iniziale dal pov di Klaus e quella dal pov di Benjamin c'è stato all'incirca un mese di nulla, prima non avevo per nulla voglia di scrivere, poi sulle ultime scene sono esplosa... sì, quindi scusate il mio essere logorroica (anche nelle note ahhaha che bello)

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Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene dall'omonima e tristissima "Let her go" di Passenger.

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Blur

(Tied to a Railroad)






030. Thirtieth Chapter – Let her go.


 
Si svegliò in un luogo freddo. Era steso su un fianco, e le coperte sembravano non riuscire a trasmettergli neanche un po’ di calore. 
Sbatté le palpebre nel buio, cercando di capire dove si trovasse. Non era la stanza delle torture, quella, e nemmeno la semplice cella in cui l’avevano gettato dopo l’esecuzione. Quello su cui era steso era un letto matrimoniale. Lo capì girandosi di poco e allungando un braccio alla sua sinistra. La sua mano toccò qualcosa di freddo, per cui la ritirò immediatamente, spaventato. Tutto il gelo della stanza sembrava provenire da quell’angolino.
Klaus riusciva a vedere poco e, quando la vista si abituò di più al buio, comprese che quella stesa accanto a lui era una persona. Qualcosa gli avvolse le viscere in una morsa dolorosa.
Allungò la mano una seconda volta, toccando quel lembo di pelle congelato che doveva appartenere al braccio dell’altro. Lo scosse piano, ma quello non si mosse, voltato dall’altro lato esattamente come lui era steso su un fianco qualche istante prima.
Lo scosse di nuovo, questa volta con maggior vigore, alzandosi persino a sedere e prendendo a smuoverlo anche con l’altra mano. Nulla.
Klaus voltò con decisione il corpo verso di lui, a denti stretti. Sapeva chi era, non aveva dubbi.
Nonostante l’oscurità, infatti, il volto di London entrò nel suo campo visivo squarciandogli il petto. 
Ma... No, no,
no. Non poteva essere davvero lei. 
Una maschera di dolore e orrore gli si dipinse in viso. Quella non poteva essere London. 

No...
Anche se nel buio si distingueva poco, la donna era mortalmente pallida, le palpebre abbassate, i capelli flosci e le labbra schiuse in qualche muto sussurro. 
« London… » mormorò Klaus, stringendole la mano in un riflesso involontario. Anche quella era inumanamente fredda. « London! »  esclamò, di nuovo, scuotendola ancora un’altra volta come per farla svegliare. Strinse le dita intorno alle sue braccia esili, invocando ancora e ancora il suo nome. Ma lei era immobile, non respirava, non parlava, non reagiva, non faceva nulla che potesse far pensare che fosse ancora in vita. Eppure Klaus la chiamava.
Era lì, davanti a lui, dopotutto. Era lì, maledizione, avrebbe dovuto salvarla!
« No » gridò, attirando verso di sé il suo corpo gelido. «
No! » urlò, poggiando una mano dietro la nuca di lei per appoggiare il suo viso contro la propria spalla. Cominciò a piangere. 
Klaus, una volta, non piangeva mai. 
Prese a singhiozzare, come un bambino, cullando debolmente la moglie tra le sue braccia tremanti, soffocando imprecazioni e altre urla di dolore. Dolore che avrebbe definito ben più infinito di quello inflittogli dagli aguzzini di Capitol City, un dolore che non si poteva spiegare a parole né poteva essere immaginato. 
Cosa avrebbe dato, in quel momento, pur di farla tornare indietro…


Qualcosa lo svegliò. Forse fu il cinguettio di qualche uccellino solitario, oppure quel colpo di tosse che lo colse alle prime luci dell'alba. Aprì le palpebre lentamente, come se fossero incollate, e guardò il vuoto della propria stanza per qualche momento, come se potesse trovarvi una soluzione a tutti i problemi. 
Nulla, il vuoto rimase soltanto vuoto.
Si mise a sedere sul bordo del materasso, spostandosi le coperte di dosso bruscamente, e si stropicciò gli occhi ancora stanchi. Provò a motivarsi, come faceva tutti i giorni, e alla fine - senza esserci davvero riuscito - si alzò.
Dei gesti meccanici segnavano il suo quotidiano: apriva le tende, si faceva una doccia, preparava la colazione per sé e per Klaudia, ripuliva tutto. Spesso restava nel letto tutto il giorno.
Quella mattina, però, Klaus sentiva di essersi alzato con uno spirito diverso. Aprì un'anta dell'armadio per recuperare gli abiti che avrebbe indossato e per la prima volta in quelli che sembravano secoli - mesi, lunghi mesi - si ritrovò a guardarsi allo specchio. Si trattava di uno di quelli incorporati nell'armadio, lungo e sottile. Klaus sapeva che era sempre stato lì, ma aveva sistematicamente evitato il proprio riflesso da quando era tornato a vivere in quella casa. Gli specchi e la sola idea di quello che vi avrebbe trovato riflesso lo terrorizzavano.
Per qualche strano motivo, però, quella mattina non aveva paura di guardarsi. Anzi, era quasi... curioso. Si tolse la maglia del pigiama e rimase lì, a torso nudo, davanti allo specchio, nel più totale silenzio.
Si scrutò a lungo e intensamente, esaminando ogni lembo della propria pelle scoperta. Non si riconosceva. 
Era davvero lui quello scheletro nel riflesso?
Un'enorme tristezza  cominciò rapidamente a impadronirsi di lui. Odiava i cambiamenti e odiava vedersi così, debole, inerme e vecchio, in qualche modo. Magrissimo, con le spalle ricurve e le ossa sporgenti, le braccia penzolanti e ogni centimetro ricoperto da tagli e cicatrici. I capelli gli erano cresciuti molto, ben oltre il collo, e la barba sfatta gli dava un'aria trasandata, insieme alle occhiaie nere sotto gli occhi e l'espressione cupa.
Egli stesso era lo specchio di tutto ciò che gli avevano fatto, di tutto il dolore che gli avevano causato, e di tutti gli errori commessi nell'arco di una vita.
Si fissò ancora a lungo, mentre pensieri di varia natura gli serpeggiavano nel cervello. Doveva rimettersi in sesto, non poteva continuare a degradarsi così.
London non avrebbe mai voluto che lui si riducesse in questo stato. Il solo pensiero di lei che, se fosse stata ancora viva, avrebbe potuto vederlo in quel momento gli fece venire la nausea. E fu questo a riscuoterlo. 
Prese una maglietta pulita, a maniche lunghe e a girocollo perché non voleva che Klaudia scoprisse più cicatrici di quante già ne conosceva, dei boxer e un jeans, e con quel bottino si diresse in bagno. 
Lì prese il proprio rasoio e, dopo averlo fissato per qualche minuto come per sfidarlo a commettere suicidio piuttosto che una semplice rasatura, cominciò a eliminare la barba completamente. La mano sinistra, ancora in via di guarigione, gli diede qualche problema, ma alla fine riuscì a radersi del tutto, non senza qualche graffio sulle guance.
Poi prese delle forbici e passò ai capelli. Li voleva corti, corti come non li aveva mai portati. Voleva essere una persona diversa. O almeno sembrarlo.
Alla fine, quando numerose ciocche furono nel lavandino, Klaus posò le forbici e s'infilò nella doccia.

« Klaudia? » Sapeva che non poteva ascoltarlo, ma quello era l'unico momento in cui lui poteva parlare con qualcuno. L'unico momento in cui poteva - e voleva - sentire la propria voce. Scosse la bambina piano, sedendosi sul letto accanto a lei. Klaudia ci mise qualche minuto per ridestarsi e lo salutò con un sorriso un po' spento, accennando al suo nuovo taglio di capelli.
Klaus le posò un bacio sulla fronte e continuò ad accarezzare i suoi, di capelli, per qualche minuto, mentre lei gli stringeva l'altra mano. 
« Vuoi venire con me? » le chiese all'improvviso. Un'idea gli era balzata di colpo in mente, e non sapeva neanche per quale motivo. Forse non era una buona idea, ma sentiva di doverlo fare.
Klaudia mostrò un'espressione interrogativa, dopo aver capito il senso della domanda grazie alla lettura del labiale. Klaus ancora si stupiva di quanto fosse diventata brava - ma lei, dopotutto, era sempre stata una bambina intelligente. 
« Nella nostra vecchia casa, ricordi? » rispose lui, continuando a sfiorarle i capelli albini. « Devo cercare una cosa. »
Klaudia annuì e subito si tirò in piedi. 
Klaus, nel guardarla infilarsi il suo maglioncino di lana rosso, sperò soltanto che la visione della loro casa completamente trafugata non li avrebbe distrutti.

La prima cosa che sconvolse Klaus quando rimise piede nella propria vecchia casa fu la totale assenza di odori.
Quella villa non aveva conservato neanche uno dei profumi che ricordava. Tutti cancellati, brutalmente. Di colpo si dimenticò anche del profumo di legno che aveva sempre invaso la sala da pranzo. Sparito.
Le finestre erano distrutte, il pavimento disseminato di vetri rotti come le conchiglie di una spiaggia. La porta era aperta, lui e Klaudia erano entrati senza alcun bisogno di forzarla. 
La polvere regnava sovrana in quella scena tristissima: una villa abbandonata, come tante altre, era ciò che risultava adesso quel posto.
La luce opaca di fine autunno faceva capolino da drappi di stoffa stracciati appesi alle finestre - Klaus credeva che una volta quelle fossero state delle brutte tende, ma non le avrebbe mai ridotte in quello stato.
A che scopo ridurre la loro casa così? Era questo che si domandava, camminando lentamente tra i frammenti di vetro, ceramica, porcellana, legno. Un groppo gli si formò in gola e non riuscì a mandarlo giù. Erano riusciti a distruggere anche quella parte della sua vita. Forse l'avevano svuotato talmente tanto che alla fine non sarebbe più stato capace di provare dolore. Non sarebbe stato capace di provare più nulla.
E non sapeva a chi dare la colpa di tutto quello. Certo, i diretti interessati erano quelli di Capitol City - e ovviamente Benjamin -, ma era lui stesso, in prima persona, a provare gran parte del rimorso. 
Sentiva, nel profondo, che in realtà la colpa di tutto era soltanto sua. E non riusciva a scacciare quella terribile sensazione di frustrazione mista a malinconia in nessun modo. Per placarla, si disse che se ne sarebbe andata da sola. Forse, un giorno.
Klaus continuò a tenere Klaudia per mano e insieme salirono al piano di sopra. 

Non sentì neanche la botta contro il pavimento quando cadde in ginocchio, nella sua vecchia stanza matrimoniale. Era resistito all'incirca dieci secondi, ma poi il respiro gli si era bloccato e i polmoni avevano smesso di pompargli ossigeno nel sangue. E il dolore era esploso, ancora una volta, violento, come un ordigno che si sarebbe sempre riattivato all'infinito.
Quella era la loro camera.
Fu un misto di ricordi a farlo cadere in ginocchio, un misto di risate, lacrime, grida, baci, sorrisi lontani. Era tutto concentrato in quella stanza: gran parte della sua vita convergeva in quel letto, in quei mobili, in quelle mura ormai decadenti e dall'intonaco rovinato. La sfumatura glicine della pittura si era estinta, l'armadio era stato sfondato, ogni cornice o cimelio era stato rubato. 
Fu quel degrado, insieme ai ricordi, a devastarlo del tutto.
Klaudia gli si avvicinò, preoccupata, e gli poggiò una mano sulla spalla, scuotendola leggermente. Klaus rimase ancora fermo in quella posizione per qualche secondo, mentre il suo sguardo vagava in cerca di anche un solo, singolo dettaglio positivo a cui appigliarsi, ma alla fine si alzò e si strofinò le palpebre.
E' solo una stanza, tentò di imporsi, lanciando un'occhiata a Klaudia, che lo fissava di rimando con i suoi grandi occhi grigioverdi. Solo una stanza, Klaus.
« Klaudia » disse, abbassandosi un po' alla sua altezza e prendendola leggermente per le spalle. « Mi aiuti a cercare un anello? »
La bambina fece un'espressione confusa, poi Klaus indicò la base del proprio dito anulare e allora capì, annuendo vigorosamente. Avrebbe fatto di tutto per Klaus, in quel momento. Lui sapeva che non c'era alcuna speranza di ritrovare la propria fede - la casa era stata completamente trafugata molto tempo prima del proprio ritorno al Distretto - ma un tentativo non gli costava nulla.
Mentre Klaudia curiosava nei comodini e nel comò, Klaus si dedicò all'armadio distrutto. Aveva ben poche speranze, ma qualsiasi oggetto avesse ritrovato sarebbe stato per lui un tesoro da custodire avidamente. 
Spostò la prima anta di legno penzolante e frugò all'interno, rovistando tra i pochi vecchi abiti che erano rimasti: un suo cappotto nero, delle cinture, delle canotte di cotone, una sciarpa bianca. Klaus quasi si bloccò, nel riconoscerla. Era la sciarpa che aveva regalato a London per il suo ventiduesimo compleanno - uno dei pochi regali che le avesse mai fatto. La prese tra le mani quasi tremando, avvicinandosela al viso e inspirandone l'odore. Con sua grande sorpresa, profumava ancora di buono, di lei. Era il profumo più bello che avesse mai sentito in tutta la sua vita, l'unico profumo che quella casa aveva conservato, l'unico profumo immortale e incancellabile. Chiuse gli occhi e la rivide davanti a sé, la rivide sorridergli e parlargli, sembrò persino che quella sciarpa fosse la sua mano che gli accarezzava una guancia. 
Riaprì gli occhi e si voltò verso Klaudia, che aveva preso a cercare sotto il materasso, infilandosi persino sotto il letto. Gli scappò un sorriso e le si avvicinò, con l'intenzione di regalarle la sciarpa della madre; dopotutto era nata proprio il mese dopo il compleanno di London e quella sciarpa era una delle poche cose che le sarebbero rimaste di lei. Ma quando Klaudia spuntò nuovamente da sotto il letto, fu con un'espressione vittoriosa che mostrò a Klaus un piccolo e opaco anello dorato.

 

*


Benjamin non dormiva da molto tempo. Aveva dimenticato persino cosa volesse dire cadere in un sonno profondo e dimenticare il mondo circostante. Era una sensazione lontana e ormai sconosciuta, quasi impossibile da ricordare.
Le sue notti consistevano in un ripetuto groviglio di pensieri e rimorsi. Soprattutto rimorsi. Sensi di colpa. A volte cadeva in dormiveglia, ma ogni minimo rumore o spostamento lo riportava bruscamente alla realtà, senza concedergli tregua.
Sogni e incubi erano spariti da molto tempo, lasciando spazio a un frustrante ed infinito vuoto cosmico. Il buio che lo abbracciava quando chiudeva le palpebre per provare a riposare era diventato il suo migliore amico e confidente. Ma il suono del suo stesso respiro lo disturbava e poi le mani cominciavano a prudergli e le dita sembravano incollate. Ed ecco come Benjamin non riusciva più a dormire; le poche ore di sonno che il suo corpo gli concedeva sembravano soltanto una mera e perfida illusione.
Quella notte, Ben aveva deciso di svuotare un'intera boccetta di sonniferi. Il suo corpo era debole e stanco, la mente provata e i suoi nervi non avrebbero retto a lungo di quel passo. Doveva ricominciare a prendere le pillole, le medicine, i farmaci, perché solo in questo modo forse le cose sarebbero ritornate al proprio posto. 
Solo in questo modo Emil se ne sarebbe definitivamente andato.
Ben fece un sorriso amaro nel riempirsi un bicchiere d'acqua: alla fine aveva vinto lui. L'aveva sopraffatto, l'aveva annientato, gli aveva portato via tutto ciò che amava. 
La colpa non è tua, Benjamin, gli sussurrava a volte la sua voce impertinente, che compariva dal nulla, nei momenti in cui il rimorso per aver lasciato morire sua sorella si faceva così grande da spingerlo a tentare il suicidio ancora una volta - magari era la volta buona, magari quella volta sarebbe riuscito a sparire da quel mondo pieno di sofferenza, si diceva. Ma c'era qualcosa che lo bloccava. Come un elastico che lo tratteneva: lui tentava di spingersi sempre più avanti, forzando quella molla, ma alla fine tornava sempre indietro, al punto di partenza. Al punto in cui tutto gli era crollato addosso, al punto in cui lo specchio della sua vita piena di menzogne e dolore andava in frantumi, lasciando dietro di sé soltanto il nulla.
Ben pensava che fosse Emil a trattenerlo, ma non riusciva ancora a capire se lo facesse per vedere fin dove si sarebbe riuscito a spingere prima della fine o per obbligarlo a una dura sopravvivenza. Emil gli diceva che non aveva colpe per quello che aveva fatto, Emil attribuiva tutto il merito di quel dolore a Klaus e London, Emil avrebbe tanto voluto uccidere Klaus e riprendersi London, ma alla fine le cose erano andate diversamente. E adesso la sua presenza stava svanendo, lentamente, come se la morte di London avesse catalizzato la sua progressiva distruzione.
Sarebbe rimasto, per la prima volta nella sua vita, davvero solo con se stesso. E nonostante tutto, nonostante avesse odiato Emil dal profondo della propria anima, ne era terrorizzato. 
La solitudine, del resto, era sempre stata la sua più grande fobia. Quando anche Erzsébet sarebbe morta, quando Klaus e Klaudia sarebbero scappati lontano da lui... cosa avrebbe fatto, cosa sarebbe successo?
Ben evitò di rispondere a quella domanda e si preparò a ingerire le pillole, quando improvvisamente qualcuno bussò alla porta del maniero. Sobbalzò leggermente, lasciando cadere la prima pillola che aveva preso in mano a terra. 
Posò il bicchiere ancora pieno sul tavolo e andò ad aprire, non voleva che sua madre si svegliasse. La porta cigolò leggermente e un forte vento autunnale investì l'atrio, facendolo rabbrividire. Ma fu nel riconoscere il proprio ospite che il respiro gli incespicò per la gola.
« Klaus? » Non si aspettava di vederlo, lì, sull'uscio di casa, di nuovo faccia a faccia con lui. Non dopo così poco tempo, almeno. C'era qualcosa di diverso in lui, non aveva neanche più la barba e i capelli lunghi.
Klaus si appoggiò allo stipite della porta e, per qualche assurdo motivo, gli fece un grande sorriso, anche se un po' spento. « Ciao, Ben, posso entrare? »
Ben perse qualche secondo ad osservare il suo viso, spiazzato da quella scena, ma poi comprese cos'era accaduto quando si soffermò sull'odore pungente di alcool che emanava il ragazzo. « Sei ubriaco » constatò semplicemente, anche se una minuscola parte di lui aveva sperato che quel sorriso che gli aveva rivolto fosse sincero. 
« Non sono ubriaco » protestò l'altro, con un tono strascicato che rivelava l'esatto contrario. « Dov'è London? Fammi entrare. »
Ben rimase con la mano sulla maniglia della porta, bloccato, e gli disse freddamente: « Vai a casa, qui non c'è nessuno. »
Klaus sbuffò e incrociò le braccia. « Avanti, Ben, non farti pregare. »
Un lampo attraversò la mente dell'albino. « Dov'è Klaudia? L'hai lasciata a casa... da sola? » chiese, realizzando che la sua bambina adesso si trovava isolata dal mondo, nel suo letto a dormire. Ma se si fosse svegliata... 
Senza neanche indugiare, afferrò il proprio giubotto dall'attaccapanni nell'angolo - fortunatamente indossava ancora gli abiti di quel pomeriggio piuttosto che il pigiama - e prese Klaus per un braccio, sbattendo la porta.
« Cosa ti prende? » domandò il moro, dimenandosi.
Ben riuscì a trascinarlo per qualche metro, ma poi l'altro si liberò. « Senti, puoi andare dove vuoi, ma io vado da Klaudia. »
Klaus si fermò e lo fissò per qualche secondo, poi riprese a camminare dietro di lui, preso dal senso di colpa per aver lasciato la figlia sola in casa nel cuore della notte. Ma la sua mente era ancora annebbiata dall'alcool e da quel momentaneo senso di liberazione, Ben riusciva a vederlo perfettamente nei suoi occhi. Riusciva a leggere ogni suo contraddittorio sentimento, in quel momento, come se Klaus fosse un libro aperto e rovinato. 
Benjamin si incamminò verso il vecchio maniero dei Wreisht a passo spedito e Klaus lo seguiva, ora stranamente in silenzio. 
Il vento continuava a soffiare, forte, e il Distretto - deserto e buio a quell'ora - aveva un'aria spettrale. Carte, foglie e polveri volavano e vorticavano raso terra sull'asfalto, creando un triste contrasto con la tipica staticità di quel luogo che, in fondo, era sempre rimasto uguale a se stesso, anche dopo la rivolta. 
All'improvviso, durante il tragitto, Klaus parlò di nuovo. « Come mai non dormivi? »  
Ben voltò il viso verso di lui e gli lanciò un'occhiata penetrante. Era probabile che Klaus avesse momentaneamente dimenticato gli avvenimenti degli ultimi mesi dopo la sbronza di quella notte, ma non riusciva a giustificarlo per aver lasciato Klaudia da sola. Klaudia non meritava la solitudine, Klaudia non avrebbe fatto la sua stessa fine, mai.
Figuriamoci però se Klaus riesce a giustificare me per tutto ciò che ho fatto, pensava intanto, tornando a guardarsi la punta delle scarpe e procedendo più velocemente.
« Dì la verità, ti stavi divertendo con qualcuno, eh? » ammiccò il moro, dandogli una leggera spallata.
Per tutto il tragitto non si erano neanche sfiorati e Ben, a quel contatto improvviso e inaspettato, si sentì del tutto inerme e sentì l'irrefrenabile impulso di difendersi. « Sei in vena di scherzare? » gridò, spingendo Klaus con tutta la forza che aveva; il ragazzo perse l'equilibrio e cadde sull'asfalto, frastornato. « Beh, perché io no! »
Klaus sembrò rendersi conto solo in quel momento della persona con cui stava parlando - la persona che per settimane l'aveva torturato. Spalancò gli occhi e cominciò a indietreggiare, senza neanche alzarsi, come se Benjamin avesse ancora pieno controllo di lui e della sua libertà.
Ben, d'altro canto, si rese conto solo in quel momento della sua reazione fin troppo istintiva. Nel guardare Klaus di nuovo a terra, di nuovo terrorizzato, di nuovo strisciante... qualcosa dentro di lui si risvegliò. Si guardò i palmi delle mani, che avevano preso a tremare come ogni volta che i sensi di colpa lo assalivano violentemente, e balbettò qualche parola che lui stesso non riuscì a sentire.
Non poteva permettere a Emil di risalire a galla, non poteva permettergli di distruggere ancora le persone che amava. 
« Klaus... » mormorò, con un tono basso e sottile, quasi fosse lui quello terrorizzato e non l'altro. Si passò una mano sulla fronte e poi gli tese l'altra per aiutarlo a rialzarsi.
« N-no... tu non sei Ben... » sussurrò Klaus, fissandolo con sguardo pieno di rabbia e paura al contempo. « Tu... tu sei... »
« Io non sono nessuno » tentò di rassicurarlo l'albino. « Ti giuro che non ti toccherò mai più, ma ora alzati, ti prego... »
Klaus restò a fissarlo per qualche secondo, ma poi afferrò la sua mano e si tirò su, pur barcollando ancora. « Tu non sei Ben » ripeté, stavolta con tono più convinto, anche se meno duro. 
« Sarei dovuto esserlo » rispose Benjamin mestamente. « Sarei dovuto essere tutt'altro. Hai ragione. »
Klaus distolse lo sguardo da lui e quel luccichio divertito nei suoi occhi venne sostituito da un'ombra nostalgica. Mentre si incamminavano nuovamente, prese a giocherellare con una catenina che portava al collo e che catturò l'attenzione di Ben. Era semplice e d'acciaio, corta, si poteva nascondere facilmente sotto la maglietta. Alla sua estremità era appeso un anello d'oro, che Ben identificò come la fede nunziale di London - era troppo stretta per poter essere di Klaus. Si domandò brevemente dove l'avesse trovata, ma poi, nell'elaborare quel dettaglio, scoprì che non gli importava. Apparteneva a lui, poteva farne ciò che voleva. Era sua.
Immaginò i loro nomi scritti e intrecciati all'interno dell'anello e una fitta allo stomaco per poco non lo bloccò sul posto; e allo stesso modo, la sua immaginazione vagò ben oltre, figurandosi i loro sguardi e le loro mani e i loro corpi intrecciati, indivisibili. Ma in un modo diverso da come lo erano stati lui e sua sorella, in un modo estraneo che non riusciva quasi a concepire. In un modo che lui aveva sempre bramato e per cui aveva sempre sofferto. 
Ben avrebbe dato la vita per ricevere lo stessto trattamento che aveva ricevuto London, sempre amata e protetta da Klaus, come se lei fosse stata l'unica dea da dover onorare, l'unica persona per cui morire senza indugio.
E un pensiero lo colpì, allora. London sarebbe per sempre stata intrecciata a loro. Nonostante tutto, nonostante la sua morte, non li avrebbe mai davvero abbandonati. Nonostante tutto lei sarebbe stata sempre il muro invalicabile tra loro due.
Klaus si portò la fede tra le labbra e poi la lasciò ricadere sul proprio petto. Allora si voltò verso di lui e lo guardò profondamente, come se lo stesse analizzando. E Ben si sentì disarmato del tutto da quello sguardo, si sentì piccolo e insignificante. 
« Mi manca, Benjamin » disse infine, semplicemente, ora abbassando gli occhi sull'asfalto. « Mi manca da morire. »
Benjamin fu scosso da tanta improvvisa e straziante sincerità, ma sapeva che Klaus da ubriaco tendeva a dire tutto ciò che gli passava per la mente, indipendentemente da quanto tristi o insensati fossero i suoi pensieri. « Anche a me, Klaus » rispose con voce lieve. Anche a me. Ed era la verità. London gli mancava ferocemente, come una parte di lui che gli era stata strappata via e che non poteva essere più colmata.
« Vorrei tanto che fosse qui a rimproverarmi per essermi ubriacato, o a provocarmi per vedermi perdere le staffe, o ad abbracciarmi per dirmi che va tutto bene » continuò il moro, con un'espressione affranta. « Non è giusto. »
Da quando London era morta, Ben si era sempre domandato se avesse fatto la scelta giusta, se avesse fatto il possibile per proteggere sua sorella e Klaus dalla furia di Emil. La risposta era no, chiaramente. Non era giusto, né sensato, né concepibile che London si fosse dovuta sacrificare per lasciare in vita loro due.
London che spesso era stata egoista, bugiarda, negligente e orgogliosa, pur portando il bambino di Klaus in grembo, alla fine aveva deciso di morire. Era stata una sua decisione, una a cui non poteva sottrarsi. Se lui fosse stato nei panni di lei, avrebbe voluto che la richiesta del proprio gemello - ancora quel maledetto e meraviglioso legame tra loro due che li aveva portati al baratro - venisse esaudita. E Ben si rammaricava di non aver potuto fare altro, di non aver potuto dare un futuro a quel bambino, di non aver potuto lasciare London libera, di non aver dato la possibilità a Klaus di riabbracciare la moglie che aveva amato per una vita intera. 
Ma era stata una decisione di London, quella di morire. E questo, purtroppo, Klaus non l'avrebbe mai capito, né accettato. Non avrebbe mai avuto la facoltà di comprendere cosa volesse dire lasciar morire la propria sorella gemella per lasciare in vita la persona che lei aveva più amato. Per il suo bene. 
Se essere stato risparmiato dall'esecuzione, se essere amato così profondamente da due persone allo stesso tempo che avevano mandato all'aria tutto per renderlo felice, se accettare di comprendere la malattia di Ben non gli andava bene... cos'era giusto, dunque, per lui?
Come se stesse leggendo i suoi pensieri, Klaus aggiunse a bassa voce: « Mi hai salvato la vita. » E Ben pensò che quella frase non avesse mai avuto significato più negativo. Capì che qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi spiegazione gli avesse dato, Klaus lo avrebbe sempre incolpato, disprezzato, biasimato. 
Ne aveva tutto il diritto, del resto.
La consapevolezza che non l'avrebbe mai perdonato lo accompagnò per tutto il tragitto rimanente verso il maniero dei Wreisht.

Salì personalmente a controllare che Klaudia non si fosse mossa dal proprio lettino, e per fortuna era così. Riposava abbastanza tranquillamente, rannicchiata in posizione fetale e con un braccio sotto il cuscino rivestito con una federa rosa. Ben tirò un sospiro di sollievo e rimase per qualche minuto ad osservarla mentre dormiva, soffermandosi su ogni dettaglio che potesse fargli pensare che qualcosa fosse fuori posto.
Klaudia aveva la fronte leggermente corrugata e le labbra socchiuse, come se nel sonno avesse un'espressione imbronciata perché qualcuno la stava infastidendo. Le rimboccò le coperte, le augurò in silenzio di fare dei bei sogni e si apprestò a spegnere la luce della piccola lampada sul comodino accanto al letto, ma poi si ricordò che lei aveva paura del buio e quindi la lasciò accesa. 
Uscì dalla stanza e chiuse la porta, scendendo nuovamente al piano di sotto, dove Klaus era ancora sveglio e in piedi. 
« Adesso vai via? » chiese infatti lui, appoggiato con le spalle contro il muro. Ben non poté fare a meno di notare che, anche in quello stato, pur essendo ubriaco e stanco, Klaus manteneva sempre quel suo atteggiamento un po' sciatto e ammiccante che da sempre lo caratterizzava. Lo stava fissando dal basso verso l'alto, con le braccia incrociate e una gamba un po' piegata. E lo trovava dannatamente attraente e dannatamente invitante, ma non poteva permettersi di fare pensieri del genere in quel momento.
Notò che quella stanza era proprio quella in cui si erano incontrati per la prima volta, quando Frantz Wreisht li aveva presentati l'uno all'altro. Quanti anni avevano allora, otto? Ne erano davvero passati all'incirca venti da quel giorno? 
Era cambiato tutto. Se magari quel giorno non fosse esistito, se magari loro non si fossero mai conosciuti, forse adesso le cose sarebbero state migliori per tutti e tre.
« Sì, vado via » rispose, avvicinandosi alla porta d'ingresso. « Ma tu non lasciare più Klaudia da sola, resta in casa. »
Klaus sospirò. Sembrava già aver accantonato il dialogo avuto prima di giungere a destinazione, perché gli fece un nuovo sorriso, questa volta un po' sghembo. « Se vuoi puoi restare. »
Ben quasi stentò a credere alle proprie orecchie. « Vuoi che resti? »
« Perché no? » ribatté il moro, staccandosi dal muro e avvicinandosi a lui. « Mi sento solo e questa casa è così vuota... »
L'albino alzò un sopracciglio. « C'è tua figlia, di sopra. »
« Ma con lei non posso parlare, né posso ascoltarla » replicò Klaus, avvicinandosi ancora di qualche passo. A Ben per qualche istante quella breve distanza fece paura, come se i ruoli tra di loro si fossero nuovamente invertiti: chi teneva il coltello dalla parte del manico era ancora ignoto. « Te l'ho detto, Ben. London mi manca. Mi manca. Sono solo adesso, non è ciò che volevi? »
Adesso capisci cosa vuol dire essere soli, vero, Klaus?, Emil avrebbe risposto, ma Ben mormorò soltanto: « No, Klaus, non è ciò che volevo. Io volevo soltanto... sparire. »
L'altro scosse la testa e lo guardò dritto negli occhi. « No, non sparire, Benjamin. Non adesso. »
E fu soltano caos, dopo, perché Klaus gli afferrò la nuca e lo baciò. Il mondo sembrò crollare per l'ennesima volta quella notte, sembrò andare in mille pezzi e poi ricomporsi da solo alla velocità della luce, perché Ben fino a qualche istante prima credeva che non avrebbe mai più provato quella meravigliosa sensazione in tutta la sua vita. Ma quel bacio sembrava soltanto un pretesto per sopperire alla mancanza fisica di London; era falso, in qualche modo, falso e vorace, perché Klaus era come affamato di qualcosa che non avrebbe mai più ritrovato in nessun altro, neanche in lui.
Si staccò bruscamente, con gli occhi spalancati e il respiro velocizzato. « No, Klaus, no, no, ti prego... » sussurrò, quasi  supplicandolo di lasciarlo in pace. Perché lui sarebbe dovuto morire in solitudine e in agonia, con solo i ricordi di quelle sensazioni e di quell'amore così doloroso e al contempo e inebriante che l'aveva distrutto per gradi. Non meritava una seconda possibilità, non meritava neanche un briciolo della sofferenza di Klaus - o della sua passione.
E poi... lui era ubriaco, esattamente come la loro prima e ultima volta insieme in quello squallido ostello della zona ovest. Non voleva che quella notte finisse così, voleva andarsene semplicemente a casa e imbottirsi di sonniferi finché il suo stomaco non sarebbe collassato.
Doveva restare solo, solo, solo
Klaus lo inchiodò improvvisamente al muro dietro di lui, come se non accettasse il fatto di poter essere rifiutato. Il suo era un comportamento irrazionale e confuso, ma al momento sembrava non importargli altro.
« Supplicami. Ricordi? » gli disse a un orecchio, premendo contro il suo petto e facendo scorrere le labbra sul suo collo esposto. 
Non hanno lo stesso collo, non hanno lo stesso profumo, non hanno la stessa pelle, Ben era siuro che Klaus stesse pensando questo in quel momento. Eppure continuava a baciarlo, senza ascoltare le sue blande proteste, senza lasciarlo andare.
London gliel'aveva detto che, una volta che lei sarebbe morta, ci sarebbe stata una possibilità in più per loro due.
Ma non era vero. Certo che non era vero. Klaus non l'avrebbe mai amato o voluto. Adesso lo desiderava soltanto perché si sentiva solo e perché voleva sfogarsi. Se fosse stato lucido l'avrebbe trattato in tutt'altro modo.
« Klaus... » provò a dissuaderlo ancora, perché le parole erano la sua unica arma in quel momento. Niente più fruste, graffi e ferite, solo stupidissime parole. Non riusciva a respingerlo, non riusciva a scappare. Ed è risaputo che, per quanto esse possano essere dure, combattere con le parole non serve assolutamente a nulla.
Infatti Klaus lo zittì immediatamente e continuò a baciarlo - e continuò a ucciderlo, lentamente.
Perché se da un lato Ben l'aveva distrutto con la violenza, Klaus lo stava facendo in quel modo ancora più brutale e dolce allo stesso tempo.
Gli sarebbe dovuto resistere, avrebbe dovuto respingerlo e rifiutarlo, avrebbe dovuto allontanarsi e scappare.
Tuttavia non ci riuscì.


 
*


« Klaus? »
Fu un richiamo lontano, quello che sentì. Non ricordava di preciso come fosse finito in quel posto: sembrava una semplice ma rigogliosa radura, piena di alberi, fiori e piante di un verde luminoso. Klaus capì subito che si trattava di un sogno, perché non ricordava di aver mai neanche immaginato un luogo così meraviglioso e tranquillo. 
Proseguì lentamente, a piedi nudi sull'erba bagnata di rugiada, respirando a pieni polmoni quell'aria fittizia. 
Sentiva delle voci, in lontananza, voci familiari e gioiose, voci che desiderava raggiungere disperatamente. E risate, risate di bambini.
Velocizzò il passo e si addentrò in quel labirinto di foglie e arbusti, finché non si riscoprì a correre a perdifiato, alla ricerca della fonte di quei suoni così melodiosi. A un certo punto fu così tanto vicino alle risate di quei bambini che cominciò a guardarsi intorno per cercare di capire dove si trovassero. 
Dal tronco di un albero spuntò un bambino all'incirca dell'età di Klaudia, che correva per non farsi prendere da una bambina più piccola dietro di lui. Non riusciva a definire l'età di quest'ultima, ma lei riuscì comunque a fargli spuntare un sorriso sulle labbra: era un po' paffuta, con la frangetta castana, e giocava ad acchiapparella con il maggiore. Entrambi non fecero caso a lui, ma continuarono a ridere e scherzare placidamente in quell'angolo di paradiso.
Klaus si sarebbe fermato ad osservarli per ore, ma fu di nuovo quel richiamo ad attirarlo, questa volta così nitido e vicino che sentì il proprio respiro bloccarsi e il cuore cominciare a battere molto più velocemente.
« Klaus. »
Klaus si voltò ancora una volta. Dove prima c'era il nulla, adesso aggrovigliata ai rami di un albero c'era un'altalena fatta di foglie e fiori, che si dondolava al ritmo della donna seduta su di essa. 
Eccola, eccola con i suoi bei capelli albini e il sorriso luminoso, eccola con i suoi occhi intriganti e l'espressione serena. 
« London. » La sua era una constatazione. Sì, era lei. Sì, era la prima volta che la sognava
viva. « Io... » cominciò a dire, ma perse presto le parole, quasi annullato da quella visione.
London gli rivolse un altro sorriso, oscillando ancora un po' sull'altalena, prima di scendere e avvicinarsi a lui. 
Klaus rimase immobile: avrebbe voluto piangere, ancora, ma anche la tristezza in quel momento era sopraffatta dal...
sollievo. Dal sollievo di poterla rivedere nei suoi sogni, esattamente come se fosse viva e vegeta. E, pur convivendo costantemente con la consapevolezza che il cadavere di London si trovasse in realtà a miglia e miglia da lui, il suo cuore non riuscì a non credere che sua moglie fosse veramente lì - anzi, si autoconvinse che non si sarebbe mai più risvegliato da quel sogno. 
Un violento brivido gli percorse la schiena quando London - o la sua riproduzione onirica - gli accarezzò con gentilezza una guancia. Gli sembrò quasi di sentirlo, quel contatto, come se la sua mano fosse reale. 
« Sei cambiato » sussurrò piano London, esaminandogli il viso con le dita sottili.
« London, io... » La verità era che Klaus non sapeva cosa dire. Non sapeva da dove
partire. La verità... era che le parole non servivano a nulla, gli bastava soltanto averla lì accanto a lui, tutto il resto non aveva importanza.
« Shh, va tutto bene, amore » lo interruppe lei, quasi come ascoltando i suoi pensieri. Lo baciò leggermente sulle labbra e Klaus la strinse a sé perché non voleva che se ne andasse, non voleva che morisse di nuovo. « Va tutto bene » ripeté London, continuando ad accarezzargli il viso. « Devi perdonarlo. »
La sensazione di pace nel suo petto, improvvisamente, si spense di botto. « Cosa? » chiese, interdetto.
« Perdonalo, Klaus. » L'espressione di London non lasciava dubbi sulla persona a cui lei si stava riferendo. 
Klaus non voleva parlare di Benjamin. Non con lei, non in quel momento. Non gli avrebbe permesso di rovinare anche quel sogno. « Posso restare? » domandò quindi, deviando la conversazione. 
« No, Klaus » rispose la moglie con un sorriso triste. « C'è ancora bisogno di te dall'altra parte. Non permetterò che Ben e Klaudia rimangano soli. Non se lo meritano. »
Klaus restò quasi spiazzato e abbassò lo sguardo a terra, non sapendo cosa replicare. Una lacrima caparbia sfuggì al suo controllo. London gliela asciugò con il pollice, dopodiché scomparve.
Scomparve tutto.
Come in una fotografia che si sfoca sempre di più, fino a lasciare soltanto un vuoto grigio.


Klaus riaprì gli occhi e la prima cosa a cui pensò fu quanto gli sarebbe piaciuto morire. Morire per rivederla e sentirsi vivo.
L'amarezza di aver avuto ragione sul fatto che fosse soltanto un sogno lo investì in un'ondata violenta. Rimase fermo, steso su un fianco nel letto, fissando un punto imprecisato della stanza, solo con la propria tristezza e un gran mal di testa a fargli compagnia.
Soltanto dopo qualche minuto di assoluto silenzio, però, si accorse del respiro lieve alle sue spalle. 
Klaus si congelò e non osò muoversi. Era un respito lento e calmo, quasi impercettibile. Il cuore cominciò a martellargli nel petto. Forse era stato davvero tutto un orribile incubo, forse London era lì e...
No, non era possibile. Questa non è casa nostra, questo non è il respiro di London, pensò. 
Non aveva il coraggio di voltarsi, specialmente dopo aver notato i propri vestiti buttati sul pavimento e dopo aver constatato di aver dormito nudo, facendogli escludere la possibilità che fosse Klaudia ad essersi infilata nel letto. 
Era davvero stato con una puttana? L'aveva davvero tradita... così?
L'amarezza venne sostituita da uno straziante e doloroso senso di colpa. Si alzò su un gomito e si voltò piano, deciso ad allontanare e pagare quella donna perché se ne andasse il prima possibile. Non poteva credere di essersi concesso ad un'altra persona in quel modo, facendole vedere tutte le proprie cicatrici e sfogandosi per placare la mancanza di London, solo perché la sera prima aveva bevuto qualche alcolico di troppo. Si sentì così male a quel pensiero che sarebbe volentieri corso in un angolo a nascondersi dal mondo intero per sempre.
Ma ciò che vide, una volta girato dall'altro lato del letto, lo lasciò ancora più sconvolto, atterrito, scioccato. 
Era Benjamin Bridge quello steso accanto a lui. 
 

 














 

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Capitolo 32
*** 031. Thirty-first Chapter – All my tears have been used up. ***


Note: A volte ritornano. Io meno volte di quelle che dovrei. Comunque eccomi qui, ero ispirata e ho concluso in pochi giorni questo capitolo. Aprile e maggio non ho neanche scritto una virgola, sono sincera, perché ho sudato sette camicie per prendere una media decente a scuola, visto che mi preparo al fatidico quinto liceo #lavitadiIvola. Appunto, probabilmente non vi interessa.
Non ho nient'altro in particolare da dirvi, in realtà, solo che Blur è quasi finita e... sono soddisfatta così. Un giorno proverò a trasformarla in un romanzo, eliminando totalmente il contesto di HG, ma mi ci vorrà veramente molto tempo. Per ora godetevi questi ultimi capitoli, se sono decenti, perché poi quasi di sicuro mi dedicherò a tutt'altri progetti e Klaus, London, Ben e tutta la combriccola se ne andranno un po' in vacanza, se lo meritano dopo tanto angst e tante sofferenze. Credo.

Come sempre, nel caso voleste seguirmi altrove(?), vi linko la mia pagina facebook QUI. Stavolta niente lista della spesa :°

Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene da "Another love" di Tom Odell. Vi consiglio di ascoltarla... anche se in effetti non c'è nessuna canzone della playlist di Blur che non vi consiglierei di ascoltare.

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Blur

(Tied to a Railroad)






031. Thirty-first Chapter – All my tears have been used up.


 
Klaus rimase paralizzato per qualche secondo, ma dopo quel momento di stordimento sentì il rimorso e la frustrazione invadergli il petto in una vampata di fuoco. Non pensò neanche alle proprie azioni, cominciò semplicemente a scuotere il corpo addormentato di Benjamin con violenza, finché quello non si svegliò di soprassalto, voltandosi spaventato verso di lui.
« Che cosa ci fai qui? » urlò Klaus, spingendolo con impeto giù dal letto. Ben cadde a terra e si rialzò dopo qualche istante, ancora indebolito dal torpore della dormita – e degli avvenimenti precedenti –, massaggiandosi una tempia. Lo fissava con sguardo spaesato e innocente ed era nudo. Nudo di fronte a lui. Nudo di vestiti, nudo di tutte le bugie di una vita, nudo di maschere. Era semplicemente identico al Benjamin Bridge che Klaus aveva imparato a conoscere una volta.
« Klaus... » provò a dire in un flebile sussurro, ma sembrava essere a corto di parole. Parole che, comunque, l'altro non avrebbe ascoltato.
« Esci subito! »  gridò Klaus, ricordandosi di essere nudo a sua volta e coprendosi il più possibile con il lenzuolo. Non si trattava di pudore, ma non voleva che Ben vedesse il suo corpo.
Se Klaus pensava che Benjamin quella notte aveva rivisto tutte le sue cicatrici, che le aveva accarezzate allo stesso modo in cui gliel'aveva inflitte, con lo stesso sorriso di trionfo, con gli stessi sospiri di piacere... gli si rivoltava lo stomaco e la rabbia aumentava – perché non avrebbe mai smesso di aumentare.
Ben gli rivolse un ultimo sguardo triste e cominciò a raccattare i propri abiti sul pavimento e a rivestirsi il più in fretta possibile. Non parlò, mentre Klaus continuava a fissarlo con occhi colmi di ira.
« Che cosa cazzo è successo? » gli chiese lui, digrignando i denti. Non voleva neanche saperla, la verità, ma aveva bisogno di fare chiarezza nella sua mente annebbiata.
Ben indossò la propria maglietta e poi si voltò nuovamente verso di lui. « Eri ubriaco » disse soltanto.
« E tu hai pensato bene di approfittarne? » domandò il moro, alzandosi dal letto. In fin dei conti, non gli importava che Ben vedesse – rivedesse – le sue cicatrici. Magari sarebbe servito a qualcosa, anzi, a far sì che i sensi di colpa lo divorassero per tutto ciò che aveva fatto.
Ben gli restituì un sorriso amaro e un'espressione quantomai sincera, così tanto che Klaus faticò ad accostare quell'immagine a quella dell'uomo vestito in nero nella sala delle esecuzioni che aveva voltato le spalle a sua sorella, prima di ucciderla. Si sentì ancora più confuso di fronte al suo viso, come se l'odio nei suoi confronti stesse vacillando per qualche secondo.
« No, Klaus. Tu hai pensato bene di approfittarne. Hai pensato di sfogarti, hai pensato che magari io e London non siamo tanto diversi, giusto? Beh, non è così. Siamo diversi, tremendamente diversi. Lo sapevi già, ma hai voluto constatare ancora una volta, e io non sono riuscito a tirarmi indietro, lo sai... lo sai il perché... »
Klaus lo fronteggiò senza paura a quella risposta, ma la sua determinazione stava ormai scemando. « Stai dicendo che sono stato io a prendere l'iniziativa? Stai dicendo che avrei tradito London... con te? Di proposito? » Fece una risata spenta, perché non credeva neanche alle proprie orecchie. Di sicuro Ben se l'era inventato, di sicuro l'aveva manipolato o obbligato o...
« Sono felice di vedere che non ricordi, Klaus. E' meglio così. E' meglio per te, ma anche per me. E, in ogni caso, ti assicuro... » si bloccò, inspirando lentamente ma tremando un po' nel rilasciare l'aria, « ti assicuro che non l'hai tradita. »
Non era vero. Klaus aveva ricordi confusi di quella notte, ricordi che si schiarivano piano al passare dei minuti, come se la nebbia che li pervadeva stesse svanendo per lasciare il posto alla cruda realtà dei fatti, una realtà che lui non voleva accettare. 
L'aveva tradita.
Ho tentato di... sostituirla. 
Con Benjamin. 

La verità gli si presentò così, terribile, nei suoi pensieri.
Era lui il colpevole dell'accaduto, lui aveva trattenuto Ben in casa e lui l'aveva trascinato verso la stanza da letto.
Indietreggiò, con gli occhi fissi nel vuoto, e ricadde seduto sul materasso. Si prese la testa tra le mani e gli ci volle tutta la forza di volontà del mondo per non mettersi a piangere davanti a lui, per non apparire una persona estremamente debole e spezzata. 
Ma lo era, lo era, lo era.
Un debole, un vigliacco, un fallito. 
Aveva fallito nel proteggere London, aveva fallito nel darle un figlio, aveva fallito nel riportarla a casa, aveva fallito persino nel riportarla da Klaudia e nel supplicare suo fratello di salvarla... e adesso falliva, ancora una volta, concedendosi alla stessa persona che l'aveva fatta ammazzare.
« Vattene » disse a Ben, rompendo il silenzio che si era creato intorno a loro. « Non voglio vederti. »
L'altro indugiò per qualche secondo, in piedi davanti a lui, e provò a sfiorargli una spalla, ma Klaus si alzò di scatto e lo spinse bruscamente verso la porta.
« Vattene! » urlò ancora. « Vattene, vattene da casa mia, dannazione, vattene dalla mia fottutissima vita! »  Eppure stavolta, per la prima volta, la rabbia graffiante contenuta in quelle parole non era rivolta a Benjamin, ma soltanto a se stesso. E Ben sembrò capirlo, perché annuì e se ne andò in silenzio, lasciandolo solo con la voglia di sprofondare nel baratro – la stessa voglia che aveva fatto compagnia a lui per anni.


 
*


Era un mattino spento e vuoto. Non c'erano nuvole, soltanto poco vento, ma il sole sembrava una lampadina fredda nel cielo. 
Klaudia si scostò dalla finestra e si andò a sedere al tavolo accanto a Klaus per la colazione. Lui le aveva preparato del latte caldo e delle fette di pane con il cioccolato, poi si era immerso nei propri pensieri e l'aveva quasi del tutto abbandonata per qualche minuto.
A Klaudia piaceva osservarlo, di tanto in tanto, quando era sovrappensiero, perché riusciva quasi sempre a capire quello che gli passava per la mente. Il suo sguardo in quel momento diceva frustrazione, fedele compagna della perenne tristezza che ormai infestava i suoi occhi, anche quando provava a sorridere per lei. 
Klaudia sapeva che il suo papà non era più come una volta. Sapeva che la morte della mamma l'aveva sgretolato in mille pezzi. Sapeva che probabilmente non riusciva più neanche a vivere o a trovare una motivazione per farlo senza di lei.
Klaudia sapeva, semplicemente. Ben ed Erzsébet le avevano raccontato tutto ciò che era stato loro possibile, o quasi, perché lei avrebbe dovuto avere la facoltà di capire e interpretare la verità a modo suo, anche se era ancora una bambina. E lei aveva capito. Credeva di aver capito ogni cosa, ogni tassello di quel puzzle intricato e apparentemente impossibile; adesso sentiva di dover adempire al proprio compito: mettere ogni tassello al proprio posto.
Si alzò velocemente e andò a prendere il quaderno che le aveva regalato la nonna e che aveva lasciato nella stanza accanto.
« Dove vai? » le domandò Klaus, ma lei ovviamente non lo sentì. Rientrò dopo qualche secondo con il proprio bottino e lui inarcò le sopracciglia, accennando con fare sorpreso al piccolo quaderno di carta che teneva tra le mani. Klaudia sorrise e gli mostrò le prime pagine, piene di disegni infantili che ritraevano orsetti rosa, altalene, motivi geometrici senza senso e... la sua famiglia. Klaus focalizzò la propria attenzione su un piccolo riquadro in cui erano disegnati tutti i membri dei Wreisht e dei Bridge. Erano chiaramente delle figure stilizzate e semplici, tutte troppo alte e magre, con teste più grandi del normale, ma Klaus riconobbe ognuna di esse: Frantz era disegnato con dei grandi baffi neri, Erzsébet con un sorriso enorme, mentre lui, London e Benjamin si tenevano la mano. Accarezzò con i polpastrelli quel buffo ritratto della realtà, soffermandosi sul volto gentile della London sulla carta. Sembravano quasi una famiglia normale e felice.
Klaus si voltò verso di lei e le posò un bacio sul capo, facendola poi sedere in braccio a lui. Continuarono a sfogliare il quaderno insieme, passando oltre i numerosi esercizi di scrittura della bambina. Arrivati a delle pagine vuote e bianche, Klaudia impugnò la penna che aveva recuperato.
"Mi... manca... –  scrisse, piano e con grafia tremante –  mamma".
Klaus la guardò, stupito, per un istante lunghissimo. Klaudia gli passò la penna, incitandolo a scrivere qualcosa.
"Anche a me", replicò lui di getto, cercando di usare comunque una calligrafia comprensibile per la figlia. Lei gli avvolse forte le braccine intorno al busto e smorzò un singhiozzo affondando il viso nel suo petto. 
« Klaudia, ti prego, non piangere... » mormorò Klaus, più a se stesso che alla bambina, perché sapeva che di quel passo non avrebbe retto neanche lui. Doveva resistere per lei, almeno quella volta. Riprese la penna e scrisse: "E' in un posto migliore ora". Si sforzò di credere alle sue stesse parole.
Klaudia lesse la frase, si asciugò gli occhi, tirando su con il naso, e annuì. "Lo so" aggiunse. "Mi vorrà sempre bene".
A Klaus ci volle ancora più forza per scrivere qualcos'altro, la sua mano quasi faticava a muoversi sul foglio. E tremava. Anche la sua grafia era comparabile a quella di un bambino. "Certo. Stanotte l'ho sognata, era felice e camminava in un prato con tanti fiori colorati... mi ha detto che dovrò sempre proteggerti d'ora in poi". Passò ancora una volta la penna a Klaudia.
"Anche io devo protegere qualcuno". Klaus le segnalò l'errore con una finta occhiata di rimprovero e lei fece un piccolo broncio rattristito. "Proteggere" corresse.
"Chi?"
"Ben". 
Tre lettere, tre coltellate al petto. Klaus si chiese come fosse possibile che Klaudia volesse ancora bene al suo vero padre nonostante avesse scoperto che era stato proprio lui ad uccidere London. Decise, per un impulso di vigliaccheria, di deviare la discussione e cambiare argomento. Non voleva assolutamente parlare di lui, non dopo quella notte.
"Chi ti ha insegnato a scrivere?"
"Nonna Bet".
"Ha fatto un ottimo lavoro".
"Mi porti a casa loro qualche volta?"
Klaus tentennò nel replicare, ancora una volta. "Non ti piace qui?"
"Si ma io voglio che stiamo tutti quanti insieme ora che la mamma non cè piu Stamattina ho visto Ben andarsene... perche non è rimasto qua?"
Klaus sorvolò sugli errori ortografici – comunissimi per una bambina di sei anni – e impiegò diversi secondi per pensare ad una risposta che non la turbasse. "Perché non se lo merita".
"Ma anche lui è mio papà".
Klaus spalancò gli occhi e gli sembrò che il sangue nelle proprie vene si fosse ghiacciato. "Io sono tuo padre".
"Ben mi ha raccontato la verita" fece Klaudia, impegnandosi per scrivere il più veloce possibile e non sbagliare.
"Quando?"
"Quando tu eri via". 
Klaus capì che si riferiva al suo periodo di riabilitazione nell'ospedale di Capitol City dopo la vittoria dei ribelli. E così si era assicurato una garanzia, quel bastardo. Dirle che il suo vero padre era lui, in realtà, prima ancora di rivelarle la morte della madre. Un moto di disgusto e rabbia gli inondò il petto. "Non dovresti volergli così bene dopo quello che ha fatto" scrisse precipitosamente, cominciando a far fuoriuscire tutto l'odio che stava cercando di trattenere.
"Io lo perdono" ribatté Klaudia sul foglio, mentre Klaus la fissava intensamente, stupito e ferito. "E devo proteggerlo Ti prego papà mi porti da lui qualche volta?"
Ti prego, aveva detto. E l'aveva chiamato ancora papà, nonostante tutto. Ma lo stava supplicando. Gli stava chiedendo di tornare da Benjamin, di tornare ad essere una famiglia, di tornare a volergli bene così come faceva lei. 
Klaudia non capiva che per lui tutto ciò andava oltre l'impossibile. Chiuse il quaderno di scatto e la bambina lo guardò con delusione, forse perché aveva sperato di convincerlo. La fece scendere dalle proprie gambe e cominciò a sgombrare il tavolo dai residui della colazione, come se quella conversazione – la prima vera conversazione della sua vita con la figlia – non fosse mai esistita.


 
*


In fin dei conti, Benjamin non aveva mai fatto del male a Klaudia. Era ciò a cui aveva pensato Klaus tutta la giornata e, così, i giorni successivi.
Ben era stato un torturatore, un assassino, uno psicopatico, ma la sola cosa che non si era mai azzardato a fare era stata permettersi di torcere anche solo un capello alla sua bambina.
Ma ha lasciato morire sua sorella, si ripeteva lui in continuazione, torcendosi le dita e provando a dare un senso alla sua coscienza che lo stava portando verso altre soluzioni. Klaus sarebbe volentieri morto pur di non dare un'altra sola, singola soddisfazione a Benjamin, eppure qualcosa lo stava spingendo ad accontentare Klaudia e a riportarla da lui. Non capiva come lei fosse riuscita a perdonarlo – forse con gli anni si sarebbe pentita amaramente di averlo fatto, così come Klaus sperava che fosse.
L'unica cosa al mondo che desiderava adesso era che sua figlia – perché lo era, non biologicamente, ma lo era – fosse felice. Non gli restava alcun'altra speranza, ormai, non gli restava neanche un'aspirazione, un sogno, un desiderio al di fuori di quello.
Gli sembrava di aver vissuto e visto già troppo. I ricordi bruciavano sulla sua pelle, come se gli fossero stati incisi, marchiati sulla carne, indelebili, incancellabili. Klaus Wreisht aveva soltanto ventotto anni, ma già sentiva sulla propria schiena il peso di una vita lunga e intensa, e il solo pensiero di dover vivere altri anni di sofferenza, altri anni senza London, senza felicità, lo dilaniava. 
Ma più di ogni altra cosa, lo dilaniava la propria vergognosa debolezza. Si sentiva sporco, marcio, viscido come un verme, a far vincere il proprio nemico per l'ennesima volta. 
Perché alla fine aveva vinto ancora. Non avrebbe mai smesso di vincere. Lo capì mentre bussava al campanello dei Bridge, tenendo stretta la manina di una Klaudia sorridente e quasi spensierata. Lo capì quando fu Ben stesso ad aprirgli con una maschera di stupore dipinta in viso. Lo capì quando Klaudia si allontanò con lui nell'atrio, abbandonandolo sull'uscio della porta con le braccia stese lungo i fianchi.

Alla fine, Erzsébet lo invitò ad entrare e lui si arrese rimettendo piede in quella casa, quasi senza nemmeno rifletterci. Nonostante tutto, la percepiva come un luogo molto più familiare del maniero dei Wreisht, come un rifugio... eppure era, allo stesso tempo, anche la tana del lupo. Un contrasto che nella sua mente si sviluppava e cresceva fino a farlo implodere.
Klaus si odiava. 
Sono così dannatamente debole.
Non avrebbe mai smesso di odiarsi.
« Penso che Klaudia potrà rimanere qui nei fine settimana » biascicò, accomodandosi allo stesso tavolo dove lui e sua suocera avevano discusso la volta scorsa. Lei non seppe cosa rispondere, meravigliata del suo gesto e delle sue parole, restando semplicemente a fissarlo con occhi stupiti. « Me l'ha chiesto lei. »  
« Te l'ha chiesto... lei? » 
Klaus annuì. « Voleva stare con Benjamin » spiegò laconicamente, massaggiandosi una tempia, « e ci ho riflettuto a lungo prima di portarla qui. Ho pensato che alla fine... ora che lei sa la verità... » 
« Che Ben ha ucciso sua madre? » domandò Erzsébet, stringendosi forte le mani in grembo.
« Che Ben è il suo vero padre. » 
La donna non ribatté per qualche secondo, soppesando quella replica attentamente ma senza far trasparire alcuna emozione evidente.
« Non lo sapevi? » chiese Klaus.
« Credo di averlo sempre saputo » rispose lei, socchiudendo le palpebre con aria stanca. « Riconosco i miei figli in lei. Riconosco la gentilezza di Ben e la caparbietà di London. Riconosco i loro lineamenti. Sono la loro madre, dopotutto. »   
Klaus rimase in silenzio per un bel po', pensando a cosa dire o fare. Ci aveva pensato anche lungo il tragitto verso il maniero dei Bridge, ma aveva dimenticato ogni cosa. Le fece, invece, una domanda che avrebbe voluto fare a London molto tempo prima, quasi non pertinente al discorso: « Perché tu e Alfons approvavate la loro relazione? »
Erzsébet fece un sorriso spento. « Non lo vedevi? Non lo vedevi quanto davvero si amassero? Quanto fossero le due metà di uno stesso corpo, di una stessa mente? »  
Klaus non rispose. Non voleva rispondere. Non voleva ammettere che, sì, l'aveva sempre notato, ma non voleva neanche urlarle contro perché Benjamin non vale neanche un granello di London.
« Andare contro la loro relazione sarebbe stato come andare contro un cataclisma naturale: non poteva essere soppressa o nascosta. Era pura, semplice, genuina » continuò la donna. Fece una pausa. « Ma poi sei arrivato tu. Sei entrato nelle loro vite, li hai completamente annientati. »
Klaus quasi si sentì ferito da quell'affermazione. Ma la comprese fino in fondo.
Erzsébet ci mise qualche altro secondo per trovare le parole giuste, forse per non essere troppo schietta. « E' colpa tua se da quel momento non hanno fatto altro che distruggersi a vicenda. Era come... era come una lotta inconsapevole e infinita. Era come se una parte di quel corpo perfetto che erano prima volesse prevalere per prendere in mano il controllo della situazione. Si stavano disintegrando per te, per tenerti in vita, per renderti felice. L'ho capito solo adesso. Dopo anni e anni di rimpianti e rimorsi ho capito la natura dei miei bambini... due angeli, due angeli travestiti.
Non so perché a noi. Non so perché due figli così meravigliosi e così... sbagliati. Ma io e Alfons li abbiamo amati più di ogni altra cosa, li abbiamo sempre protetti, perché loro erano il nostro miracolo... forse non li meritavamo, ma abbiamo fatto di tutto per tenerli al sicuro da loro stessi. Dio, Klaus, non hai veramente idea dei sacrifici che abbiamo fatto per nascondere a London la malattia di Benjamin, non hai idea di quanto lui abbia combattuto, per poi vedersela strappare via da Emil, da quella parte malvagia che ha sempre cercato di eliminare... è una sconfitta terribile, per noi e per lui. Ti sembrerà che alla fine sia stato Ben a prevalere, ma non è così... London si è arresa, alla fine. L'ha lasciato vincere perché lo amava troppo per vederlo ridotto all'ombra di se stesso. Lo so per certo. Io credo a mio figlio, credo a ciò che mi ha raccontato. Forse un giorno ci crederai anche tu. Tu che sei così fortunato ad essere stato il centro del loro universo che probabilmente non te ne rendi neanche conto. » 
Klaus rimase definitivamente senza parole. In un primo momento aveva pensato che Erzsébet stesse cercando di giustificare Benjamin ancora una volta, ma poi era riuscito a capire a fondo il senso di quel discorso e non aveva voluto interromperlo, perché riassumeva perfettamente, forse, tutto ciò che era stata la loro vita. Per un momento si estraniò dalla propria situazione e guardò la scena, rielaborando quel discorso nella propria mente, come uno spettatore esterno. E gli sembrò di guardare una fotografia, gli sembrò di ripercorrere tutta la propria vita come una serie di diapositive grigie e sfocate, sfocate, sfocate, in cui difficilmente si poteva fare chiarezza. Erzsébet ci aveva provato e forse era riuscita, con le sue conclusioni di madre e osservatrice, a sciogliere uno dei tanti nodi che componevano l'intricato groviglio dei loro sentimenti: perché loro tre erano sempre stati così... uniti?

Erzsébet prese a sciacquare delle tazzine sporche di caffè che erano rimaste nel lavandino e riprese nuovamente a parlare. « Potresti trasferirti qui, un giorno, Klaus » gli disse, ma senza guardarlo. « So che rifiuterai a prescindere, ma stare da solo non ti servirà assolutamente a nulla. Credo che se tentassimo di essere una famiglia sarebbe meglio per tutti. Siamo rimasti solo noi quattro ormai e la guerra è finita. »  
Klaus non si alzò dalla sedia, ma tornò ad assumere un tono di difesa e attacco contemporaneamente. Non riusciva più a parlare in un modo diverso, come se dovesse cacciare gli artigli per sopravvivere e comunicare con le poche persone che gli rivolgevano la parola. « Io invece penso che sarebbe meglio portare Klaudia qui nei finesettimana e basta » ribatté aspramente. « Già è tanto se ho preso questa decisione, credimi. »
« Sapevo avresti risposto così » disse la donna. « Ma sono sicura che un giorno ogni cosa tornerà al proprio posto. »   
« Ne dubito » fece invece l'altro, ostinato e fedele alla propria rabbia. « Voglio tenermi il più lontano possibile da Benjamin. E voglio che tu protegga Klaudia da altri suoi eventuali attacchi da schizofrenia, o quello che è, quando lei verrà qui. Devi giurarmelo. » 
Erzsébet si voltò di poco verso di lui. « Klaudia è al sicuro qui. »  
« Devi giurarmelo » ripeté Klaus. « Se le dovesse accadere qualcosa... » 
« Ti giuro che non le accadrà assolutamente nulla, Klaus. Non fin quando io e Ben saremo ancora in vita. »
Quella risposta lo colpì, in qualche modo, e sembrò convincerlo dell'incolumità della figlia tra quelle mura. « Me lo auguro. Klaudia è l'unica cosa che mi è rimasta. »
La suocera gli rivolse un sorriso spento, e lui lasciò la stanza, con uno strano senso di rimorso. Sentiva di aver mentito ad Erzsébet, in qualche modo, sentiva che dopo il discorso che gli aveva fatto la storia del volersi tenere lontano da Benjamin fosse completamente e terribilmente sbagliata. Klaus, dopotutto, continuava ad odiarsi perché non riusciva a combattere la minaccia di Ben come avrebbe voluto, non l'avrebbe mai odiato abbastanza e non riusciva – e non sarebbe riuscito – a stargli lontano per un tempo abbastanza prolungato. Come aveva detto anche la suocera, Ben era come un'altra parte di London, un suo riflesso. Ma un riflesso fittizio. Distorto. E lui lo desiderava e respingeva al contempo, lo odiava e stava cominciando a capirlo. 
Lo aveva svuotato così tanto che ora Klaus non sapeva neanche più cosa pensare.

« Klaus, aspetta. » 
Ancora la sua voce. Quella voce. Quella voce che avrebbe preferito non ascoltare mai più. Quel tono quasi... innocente.
« Che vuoi? » sbottò bruscamente, con la mano ferma sulla maniglia della porta d'ingresso. Stava per andarsene e lui l'aveva bloccato. « Ti ho portato Klaudia, non sei contento? »
« Lo sono, ma... » tentennò Ben, guardando ovunque meno che verso di lui. « Devo parlarti. Ora. »   
« E di cos'altro? » domandò Klaus, imprimendo quanto più disprezzo gli era possibile nella voce. « Ti ho già detto che non voglio vederti. » Ben abbassò definitivamente lo sguardo a terra. « Si tratta di London. Non ti avrei trattenuto se non fosse stato importante, te l'assicuro. »
Il respiro di Klaus si velocizzò; non sopportava che lui avesse ancora il coraggio di nominarla. Il cuore cominciò a pompargli il sangue nelle vene molto più velocemente. « Dunque? » riuscì a dire con un filo di voce. 
« Vieni con me. » 
Lo condusse nel piccolo e curato salotto al pianterreno, il più lontano possibile dalla cucina dove si trovava Erzsébet, probabilmente perché non voleva che lei ascoltasse anche un brandello della loro conversazione, che ascoltasse qualcosa che riguardava solo loro due.
Klaus non si sedette sull'ampio divano in pelle e Ben lo imitò, preferendo restare a camminare nervosamente per la stanza, come se in realtà non fosse ancora pronto per quel discorso e stesse riordinando le idee. 
Tremava. Klaus non l'aveva mai visto tremare tanto.
« Allora? » lo incitò nuovamente lui, già spazientito dalla situazione. Si appoggiò con la schiena ad un mobile di legno pieno di cassetti e incrociò le braccia saldamente, quasi si stesse aggrappando a se stesso. « Niente più misteri, Benjamin. Parla. » 
Ben si passò una mano sulla fronte e continuò a girare per il salotto, ignorandolo. Non sapeva da dove cominciare. Non sapeva, forse, se volesse effettivamente parlargliene davvero oppure no. Ma non riusciva più a trattenersi. Non riusciva più a tenersi dentro altri segreti.
Il moro alzò gli occhi al cielo. « Senti, se non- »
« Era incinta, Klaus. »  
In quella stanza, in quel preciso momento, sembrò calare il gelo. 
Klaus spalancò gli occhi e li tenne fissi su Benjamin, sciogliendo la stretta tra le proprie braccia e ammutolendo del tutto. Un'ombra passò sul suo viso, un'ombra di disperazione. 
London è stata con qualcun altro...?, si domandò, sentendo le sue gambe farsi improvvisamente molli e deboli. 
Era... incinta... incinta...
Benjamin ricambiò il suo sguardo atterrito e scosse la testa. « So a cosa stai pensando » gli disse, avvicinandosi lentamente, pur essendo terrorizzato dal suo silenzio. « Pensi che lei ti abbia tradito, quando eravate a Valhalla. » Fece una pausa, tremando ancora di più. « Non è così. Me l'ha giurato. Lei non ti ha mai tradito, non ha neanche mai pensato di farlo. »
Klaus rimase immobile, con gli occhi sgranati nel vuoto, ma la sua espressione mutò nel giro di pochi secondi. Dall'incredulità passò allo shock e, poi, ad una dolorosa comprensione dei fatti. 
London era incinta... di mio figlio.
Non si chiese neanche come fosse possibile.
Si ricordò della bambina che correva spensierata nel suo sogno. Frangetta castana e occhi... grigioverdi...
... di mia figlia...
Arrivò la rabbia. Ben la vide chiara, dirompente, nel suo sguardo. E ne ebbe paura. Ma non seppe reagire prontamente, non quanto lui.
Klaus si voltò di scatto e prese il primo oggetto che trovò a portata di mano, un vaso di vetro colorato appoggiato su un tavolino, per poi scaraventarlo contro Benjamin. Lui riuscì a spostarsi un secondo prima che il vaso andasse in frantumi contro il muro, ma Klaus, inarrestabile nella sua furia improvvisa, gli lanciò contro anche una piccola scatolina di cristallo intarsiato, che Ben non riuscì del tutto ad evitare. Uno spigolo lo colpì in fronte, Ben urlò e cadde a terra. La scatolina andò anch'essa in frantumi, provocando un rumore agghiacciante, insieme al corpo del ragazzo che sbatteva sul parquet. 
« Tu... tu lo sapevi... » biascicò Klaus, con una voce che vibrava per quanto odio vi fosse contenuto, avvicinandosi a lui come un predatore che sta per avventarsi sulla preda. Era affamato di vendetta. « Lo sapevi! E l'hai ammazzata lo stesso! » urlò, stavolta con tono graffiante.
Salì di scatto a cavalcioni su di lui e lo afferrò per la collottola con una mano, cominciando a prendergli a pugni il viso con l'altra. Era la mano sinistra, la mano di un mancino, la mano che si era rotto e che voleva fargli più male possibile. Benjamin era stato stordito dalla botta in testa e un rivolo di sangue già gli colava tra i capelli albini, ma Klaus continuò a colpirlo senza sosta, la mandibola, la guancia, lo zigomo, il naso. Lo colpì così tante volte e con così tanta rabbia che non ebbe neanche il tempo di rendersi conto che lui aveva perso i sensi. Quando la mano gli faceva troppo male per continuare, si fermò e si rese conto che il suo pugno e le sue nocche erano imbrattate di sangue, esattamente come il naso di Ben e la sua tempia.
Si staccò di botto da lui e indietreggiò strisciando sul pavimento, inorridito da tutto. Le sue mani si ferirono con dei frammenti di cristallo, ma non riuscì a sentire il dolore. Non quello fisico. Ormai era lo shock ad aver preso il sopravvento. Sentiva le orecchie fischiargli, i polmoni aridi. 
Indietreggiò fino sbattere contro il muro, improvvisamente spaventato, terrorizzato a morte, da se stesso e da Benjamin che da quella prospettiva sembrava morto.
Vedeva sangue ovunque.
Si alzò e aprì la porta del salotto, schizzando via, fuori di lì, quasi tramortendo Erzsébet che era stata attirata dai rumori e che lanciò un grido nel vedere il corpo sanguinante del figlio sul pavimento. La ignorò, ignorò quel grido, ignorò ogni cosa, persino Klaudia che lo guardava da sopra le scale, confusa. Scappò, corse. Via da quella casa, via da quella giornata, via da quella vita.
Avrebbe voluto essere qualsiasi altra persona, in quel momento, non voleva più essere Klaus Wreisht. Non voleva più dolore, non voleva più nulla. Per un momento, mentre correva tra le polverose vie del distretto, mentre la catenina con la fede penzolava sul suo petto, desiderò persino di non aver mai incontrato London.
 
 

 













 

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Capitolo 33
*** 032. Thirty-second Chapter – Ghosts that we knew. ***


Note: Sì, eccomi, ce l'ho fatta. Sono morta di caldo, mi hanno seppellita al concerto dei Muse, ma ce l'ho fatta.
In questo capitolo ci sono diverse informazioni "politiche": non ho alcuna competenza per darle, ma ho cercato di fare del mio meglio per far quadrare alcuni punti/retroscena di Blur, come appunto l'enigmatica figura di Käthe. Mi ha sempre affascinato il background politico di Panem e in generale del mondo/era di Hunger Games, e ritengo che dalla Collins non sia stato per nulla spiegato esaustivamente, dunque ho cercato di chiarire il maggior numero possibile di vuoti per quanto riguarda questo argomento, anche se non ne sarò mai pienamente in grado. Quando riscriverò Blur in chiave originale, ovviamente, questi vuoti saranno trattati con maggior cura e non si potranno più considerare vuoti o "buchi di trama", o almeno spero. Quindi perdonatemi per queste enormi licenze poetiche che mi sono concessa.
Questo capitolo stranamente è molto simmetrico, mi stupisco di me stessa. Il prossimo sarà lunghissimo, già lo so, ma cercherò di pubblicarlo per fine agosto o inizio settembre... è l'ultimo, del resto. Dopo ci sarà soltanto un piccolo epilogo.
Tutto ciò mi fa sentire molto strana - intendo, il fatto che tra poco Blur sarà conclusa. E' strano, davvero, è stata una parte di me per così tanto tempo.

Come sempre, nel caso voleste seguirmi su facebook, vi linko la mia pagina QUI.

Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Ghosts that we knew" dei Mumford&Sons. "Hold me still, bury my heart on the coal / Hold me still, bury my heart next to yours" è uno dei versi più belli che abbia mai ascoltato, mi fa piangere tantissimo. Avrei voluto inserire molte più canzoni dei M&S, ma non ne ho avuto l'occasione. Sappiate soltanto che meritano moltissimo.

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Blur

(Tied to a Railroad)






032. Thirty-second Chapter – Ghosts that we knew.

 


Non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Sapeva soltanto che era sorto il sole. Non aveva dormito, o forse sì, o forse era stato soltanto dormiveglia.
Klaus guardò il cielo. Era una bella giornata. Tirava persino poco vento.
Non si alzò. Dopo aver corso per ore, lontano dai Bridge, lontano dalle loro bugie, era rimasto un giorno intero buttato a terra per strada, all'angolo di una piazza minore e poco frequentata della zona nord del distretto, schiena contro il muro di un palazzo grigio e annerito dalle recenti esplosioni. Ricordava che una volta c'era un meccanico, in quel palazzo, il nonno di un suo tributo.
Christina, ricordava ancora il nome della ragazzina. Ora quel palazzo era vuoto e freddo, anonimo.
Un pensiero gli avvolse la mente. Sì, se fosse nata, avrebbe voluto chiamare sua figlia Christina. Non c'era un motivo preciso. Suonava bene. Christina Wreisht. Klaudia e Christina. Klaus, London, Klaudia e Christina.
Klaus sapeva che sarebbe stata femmina, perché la bambina del suo sogno non poteva essere altri che sua figlia – somigliava tanto a London, ma anche a lui. Sarebbe potuta essere una sorellina perfetta per Klaudia, lei l'avrebbe adorata.
Ricordò che nel suo sogno era comparso anche un altro bambino che giocava con Christina, ma sembrava persino più grande di Klaudia. Klaus capì che doveva trattarsi del primo figlio di London e Ben, il figlio che London aveva perso e per cui si era disperata per settimane. Lui, sì, era maschio. Avrebbe amato anche lui, se solo fosse nato.
Immaginò di tenere quei due bambini tra le braccia, immaginò di compare loro la cioccolata così come faceva con Klaudia, immaginò London cantare loro delle ninnananne.
Innocenti. Innocenti morti ancora prima di mettere piede in quel mondo spietato e crudele.
Forse era meglio così. Forse non essere mai nati era un privilegio inestimabile. Ma Klaus si sentiva egoista. Voleva sua figlia. La voleva lì, con sè, abbracciata al suo petto o a giocare a nascondino con Klaudia. E Ben gli aveva portato via anche lei. Non c'era nulla, nulla, che lui non gli avesse portato – strappato – via.
Continuò a guardare un punto imprecisato davanti a sé, stravaccato sull'asfalto della piazza come un senzatetto, ipnotizzato dal vuoto e da quei pensieri che lo stavano disintegrando.

Passavano poche persone lungo quella via e i pochi che gli degnavano un minimo di interesse gli rivolgevano soltanto qualche occhiata compassionevole per poi continuare per la propria strada. A Klaus andava bene così. Sarebbe voluto restare buttato lì a terra per sempre, non desiderava più alcun contatto umano.
Eppure dovette alzare la testa di scatto quando sentì un familiare accento tedesco chiamare il suo nome.
« Klaus? »
Klaus dovette mettere a fuoco il volto di quella donna prima di riconoscerla del tutto, perché era in controluce e accompagnata da un'altra ragazza.
« Klaus, sei tu? » ripeté lei, abbassandosi accanto a lui. Gli spostò i capelli dalla fronte e gli accarezzò una guancia, con un'espressione preoccupata. « Bruder... »
«  Käthe... » mormorò lui con voce roca, stringendole un polso.
La sorella gli rivolse uno sguardo allarmato. « Sì, Klaus, sono io. Cosa ti è successo? »
Klaus la guardò, semplicemente, ma non disse nulla. Non voleva neanche sapere perché lei fosse lì e insieme a quella ragazza. Forse era la sua nuova conquista, si limitò a pensare, ma nessun sorriso sornione colorò le sue labbra.
« Klaus... » fece di nuovo Käthe. « Cos'è successo? » continuò, prendendogli il volto sciupato tra le mani per spingerlo a non distogliere lo sguardo dal proprio.
« Guardami... » sussurrò Klaus, a poca distanza dal viso della sorella. « Guardami e prova a immaginare tutto quello che mi è successo. » Lo disse con un tono stanco e afflitto, come se stesse per esalare il suo ultimo respiro.
Käthe lo guardò, come lui aveva chiesto di farle, e notando le sue occhiaie, le sue labbra secche, la sua pelle estremamente pallida, pensò che stesse davvero per morire. « Bridget, aiutami, devo portarlo a casa » concluse velocemente, rivolgendosi all'altra ragazza, pronta per aiutarlo ad alzarsi, ma Klaus la bloccò di nuovo serrando la propria mano intorno al suo polso. Käthe si accorse che era sporca di sangue.
« No! » urlò lui, improvvisamente arrabbiato. « Prova a indovinare, ti ho detto, avanti! Provaci! »
La sorella s'incupì. « E' stata la guerra, vero? La guerra ti ha fatto questo? »
Klaus avrebbe voluto scoppiare a ridere. La guerra... magari fosse stata solo la guerra... magari...
Ma poi Käthe sembrò subito intuire qualcosa. « ... ma avete trovato Klaudia, vero? » Lui annuì e l'altra prima si rilassò, ma poi sgranò gli occhi, cominciando realmente a capire. « Aspetta, Klaus... dove... dov'è London? »
Il tono allarmato della donna non lo scalfì per niente... all'inizio. Si stupì lui stesso di quella reazione quasi del tutto impassibile, come se si fosse già abituato all'assenza di London, come se non gli importasse più nulla di lei.
Il panico arrivò subito dopo.
I ricordi scoppiarono ancora una volta nel suo cervello, vividi e strazianti come lo erano sempre stati. Le frustate, lo sparo, il corpo senza vita di London stretto tra le sue braccia, il crollo della prigione, il vuoto, i bambini del suo sogno, il sangue sul volto di Benjamin. Guardò le nocche della propria mano ancora imbrattate, ancora doloranti, e un brivido gli scivolò lungo la schiena. Gli sembrò di non respirare più.
Spinse Käthe di lato e si alzò di scatto, cercando di scappare come aveva fatto appena il giorno prima. Ma sapeva già che non sarebbe arrivato tanto lontano. Non serviva a nulla scappare, nascondersi. Il dolore l'avrebbe trovato sempre.
Percorse solo qualche metro, poi si fermò, in mezzo alla piazza, con i raggi del sole che gli sfioravano il viso. Abbassò le spalle e la testa, come se tutto il peso del mondo stesse davvero gravando su di lui in quel momento, come se avesse raggiunto la più alta soglia del dolore e ne fosse uscito sconfitto.
Miseramente sconfitto. Ancora una volta.
Käthe giunse dietro di lui, gli abbracciò la schiena in silenzio e appoggiò la guancia tra le sue scapole, mentre un ultimo urlo di sofferenza fuoriusciva dalla sua gola.


 
*


Alla fine del racconto, Klaus si sentì completamente svuotato. Gli sembrava che della sua vita non gli fosse rimasto altro, che tutta la sua esistenza convergesse nelle ultime settimane che avevano portato all'esecuzione di London.
Käthe, nel frattempo, aveva fatto qualche esclamazione, sorseggiando il misero bicchiere d'acqua che il fratello aveva offerto a lei e Bridget, mentre Klaudia colorava assorta sulla poltrona accanto al divano su cui erano sedute le due donne.
Klaus all'inizio aveva cercatato di specificare il minor numero di dettagli possibile a costo di non rivivere quella terribile esperienza, o almeno in parte. Sentiva ancora le frustate sulla propria schiena, come se non finissero mai, come se non esistesse tregua a quella sofferenza. Non riusciva a non rivivere quelle sensazioni anche solo pensandole, quindi alla fine si era abbandonato anche ai più piccoli dettagli. Voleva soltanto sfogarsi con qualcuno che l'avrebbe capito.
Käthe, nel silenzio più totale scaturito dalla fine del racconto, lo stava fissando con uno sguardo serio ed empatico, mentre correva a stringere la mano della sua ragazza.
« Se posso permettermi una considerazione » azzardò Bridget, rompendo il silenzio, « non posso completamente biasimare Benjamin. Anche io ero una spia dei ribelli. Lui ha fatto cose terribili, certo, ma da un lato... lo capisco. »
Klaus le lanciò un'occhiata in tralice, alla quale lei rimase impassibile; poi rivolse la stessa occhiata a Käthe. « Tu lo sapevi? Sapevi che lei era una spia? » domandò, interdetto.
La sorella annuì. « Il suo nome è Bridget Snow. Credo che il nome e la qualità dei suoi vestiti ti facciano capire facilmente di che famiglia stiamo parlando. »  
Klaus rimase ancora più esterrefatto. « Sei la figlia del Presidente? E parteggiavi per i ribelli? »
« Nipote, la maggiore » precisò la ragazza. « E, sì, ero una spia dei ribelli. Ero la prima a ritenere gli Hunger Games una barbarie, nonostante nessuno della mia famiglia lo sapesse... mi avrebbero ignorata se avessi provato a contrastarli, dopotutto, o disconosciuta se necessario. Io sono stata nei distretti. Ho viaggiato molto. Ho conosciuto Panem. E questo mi è bastato per essere dalla parte dei ribelli. »  
« Ci siamo conosciute così, quando venni nel Distretto Sei per la prima volta. A te e London l'ho raccontato » continuò Käthe. « O meglio, ho raccontato quasi tutto. Vedi, Klaus... » e qui si morse le labbra, tentennando su come procedere – non sapeva, effettivamente, se quella spiegazione l'avrebbe fatto infuriare o se l'avrebbe aiutato a schiarirsi le idee, « anche io sono una spia. Una spia di Valhalla, ovviamente. Non è vero che sono arrivata nel Distretto Sei solo per conoscere mio padre... il governo mi incaricò di indagare sui miei familiari oltreoceano perché temevano che la loro presenza a Panem potesse far scaturire una qualche ripercussione sull'Europa. Che un accordo tra nostro padre e Snow potesse spingere gli americani ad abbandonare la pace con il continente. » Fece una pausa, riprendendo fiato. « Quella volta, in quel bar dove incontrasti Benjamin quel diciassette luglio... beh, io ero lì, a fingermi una cameriera, per incontrare un emissario di Capitol City, da cui avrei potuto ottenere informazioni. Non mi aspettavo che fosse una donna, né che in realtà lei fosse una portavoce dei ribelli. A dire il vero non mi aspettavo che esistessero dei ribelli in procinto di dare avvio a una rivolta, in generale. Ovviamente capii che nostro padre non era così influente come credevano a Valhalla, e dunque il pericolo di un contrasto era nullo. Valhalla non c'entrava con la rivolta civile, la mia "missione" era finita. Eppure, una volta tornata in Europa, mi chiesero di tenermi in contatto con Bridget per seguire l'evolversi della situazione. Ci siamo tenute in contatto, forse più di quello che avremmo dovuto » concluse, con un piccolo sorriso involontario.
Klaus rimase frastornato da quella confessione, non seppe cosa dire per un bel po'. Gli erano appena stati svelati dei retroscena politici della rivolta, aveva appena scoperto tutta la verità sulla sua sorellastra.
Ecco perché lei aveva così tanti contatti a Valhalla, ecco perché ha saputo darci una casa e un lavoro in Europa senza problemi, pur senza dare troppo nell'occhio.
Cominciò ad osservare la maggiore con occhi diversi. Anche lei gli aveva mentito. Un'altra persona che gli aveva tenuto nascosto qualcosa. Eppure non si sentiva di incolparla. Il suo lavoro l'aveva aiutata a conoscere la ragazza di cui ora era palesemente innamorata – quel sorriso, quel sorriso non gli era sfuggito.
Gli faceva estremamente piacere che altre persone al mondo fossero ancora capaci di sorridere così genuinamente.   
« Ho pregato Käthe di trasferirsi con me, una volta che la ribellione fosse finita. Ed eccoci qui. Prima di andare a Capitol voleva passare a salutarti. Sapeva in cuor suo che ti avrebbe trovato ancora nel Distretto Sei » fece Bridget, sfiorando il ginocchio della bruna.
Käthe distolse lo sguardo, probabilmente in imbarazzo ad essere messa così a nudo dei propri sentimenti da una persona che la conosceva così bene. Lei non era una donna sentimentale, ma con Bridget sembrava formare una buona coppia.
Klaus osservò la più giovane – neanche poco spudoratamente: bassa, sicuramente più bassa di loro, ma con curve sinuose, occhi azzurri e capelli biondissimi. Sarebbe quasi potuta essere una Bridge.
Bridget Bridge... il solo pensiero, per quanto ironico, non riuscì a fare altro che incupirlo ancora di più.
Tutto ciò che seppe fare al loro racconto, alla fine, fu cercare di annuire nel modo più comprensivo possibile, incapace di dare giudizi concreti sulla rivolta e sui retroscena politici del continente. Non riuscì a dire alcuna parola, ancora con la testa che viaggiava tra i corridoi della prigione di Capitol City.
Fu proprio Bridget a riprendere a parlare, perché il suo discorso iniziale non era ancora concluso. « Comunque, Klaus, volevo dirti che mi dispiace davvero per tutto quello che ti è successo. Non te lo meritavi. Nessuna persona lo meriterebbe. »
« Sei stata alla prigione? » domandò lui, incapace di guardarla negli occhi. E se anche lei fosse stata una psicopatica? Se anche lei avesse fatto del male a  Käthe?
« Sì, ma non durante la rivolta » rispose la bionda. « Ero con la mia famiglia, che per la maggior parte è ancora viva. Nessuno ha saputo del mio ruolo fino alla fine. Un ruolo più tattico che pratico, dopotutto; mi occupavo dei contatti. Ero una delle braccia di Plutarch Heavensbee... si fidavano tutti ciecamente di me. »
Klaus si chiese chi fosse quell'uomo: il nome gli suonava familiare, ma non voleva realmente saperlo. Non voleva altre spiegazioni, né altre storie. Si chiese anche, però, come facessero i ribelli a fidarsi di una parente di Snow. Forse Bridget non era così santa come voleva fargli credere. Già il solo fatto di essere una doppiogiochista – come Benjamin, proprio come lui – la rendeva la persona più marcia in quella stanza, nonostante potesse essere quella con i migliori ideali. « Quindi non hai mai incontrato Benjamin? » domandò schiettamente. Quella era l'unica domanda, tra le milioni che aveva, che si sentiva in grado di fare.
« L'ho incontrato, invece » rispose, tentennando leggermente, « sono stata io a contattarlo, prima della Terza edizione della Memoria degli Hunger Games. Sapevamo tutti che tu eri scappato con la tua famiglia – sospettavo persino che fossi a Valhalla, però Käthe non mi ha detto nulla per tenerti al sicuro – ma sapevamo anche che gli ultimi due Bridge rimasti al Distretto Sei stavano collaborando con la capitale per cercarti. Benjamin era la nostra spia perfetta, come in un altro universo lo saresti potuto essere tu. Siamo stati noi a infiltrarlo alla prigione. Avevamo bisogno di una persona come lui. » Sembrò quasi sentirsi in colpa a pronunciare quelle parole. Sapeva di sicuro quanta gente era morta in quella prigione. Eppure non esitò a continuare il discorso. « Senza di lui e pochi altri non avremmo mai conquistato la prigione. Senza la prigione non avremmo mai conquistato la capitale. Senza la capitale non avremmo mai vinto la guerra. Grazie a persone come Benjamin, ora Klaudia e gli altri bambini di Panem potranno vivere un futuro sereno, senza il terrore dei Giochi. Capisci, vero, che questo è un passo avanti incredibile? Capisci che è la svolta che permetterà a tua figlia di vivere senza la paura o il fiato sul collo della capitale? »  
Käthe le pregò sottovoce di concludere, perché immaginava quanto quel discorso potesse fare male al fratello, ma Bridget rimase risoluta nella propria gentilezza. Lei non voleva essere rude, voleva solo raccontare i fatti così come erano andati, oggettivamente.
Klaus si sforzò di capirlo. Bridget parlava di un "noi", come se si sentisse davvero legata alla causa, come se si sentisse lei stessa una dei ribelli che avevano combattuto sul campo.
Rimase per qualche secondo a riflettere, cercando di abbandonare o almeno relegare la rabbia che lo accompagnava da mesi, ormai, e capì che per una guerra servono dei morti, anche della propria fazione se necessario, o non si potrebbe avere nemmeno una vittoria. Pensò che questo ragionamento fosse crudele, ma da un lato lo condivideva. Era lo stesso ragionamento che l'aveva portato a vincere gli Hunger Games. Mors tua, vita mea. Sconfitta di Capitol, vittoria dei ribelli. Nonostante non si intendesse di politica, infatti, non riusciva a biasimare Bridget del tutto, anche se tecnicamente London era morta a causa di quella maledetta rivolta.
Un pensiero fulmineo lo colpì: anche la loro era stata una guerra. Lui, London e Ben avevano combattuto. Si erano estinti a vicenda, e alla fine la vittima di tutte le loro battaglie – perse, vinte, inconcluse – era stata sua moglie.
L'aveva pensato prima, l'aveva sempre pensato: i morti di guerra sono necessari per la fine della stessa.
Chiuse le mani a pugno. « Purtroppo a me questo non interessa. Se fossi rimasto a Valhalla con London e Klaudia la mia vita sarebbe stata completa, perfetta. »
« Ma Klaudia è stata rapita » dovette ricordargli Käthe a bassa voce, osservando la bambina poco lontana. « Ed è stata portata a Panem. Voi non potevate sapere che c'era una ribellione in corso, non potevate prevedere tutto quello che sarebbe successo. E' stata una catena di eventi senza fine a cui né tu né London vi siete potuti sottrarre. »   
Klaus la fissò, quasi giudicandola. Sperava che avrebbe compreso la sua rabbia, e invece stava semplicemente mettendo i tasselli a posto insieme a Bridget – l'ultima cosa che avrebbe voluto fare in quel momento. Forse tra mesi, anni, ma non in quel momento.
« Forse è successo tutto per... per dare a Klaudia un futuro » continuò la bruna. « Io non credo nel destino e in queste stronzate, ma se guardi gli avvenimenti da un'altra prospettiva, London è morta per far vivere a sua figlia una vita serena, per salvare lei... e te. Tutto acquista un senso. »  
Un macigno si depositò sullo stomaco di Klaus. Capire, provare a capire, anche contro la propria volontà, gli stava alleggerendo la mente, ma stava anche aumentando i suoi sensi di colpa. Klaudia avrebbe potuto vivere anche senza di me, con sua madre... tutto perché Ben non mi ha lasciato morire al suo posto-
« Nessun senso! » sbottò Klaus, anche se con un tono di voce non alto come avrebbe voluto. « Ero io a dover morire, non lei! E' soltanto colpa di Benjamin alla fine, lo capisci? »
Käthe scosse la testa. « Klaus, io ti capisco perfettamente. Nei tuoi panni io sarei arrabbiata con il mondo intero allo stesso modo, se non di più. Ma io voglio aiutarti a... a superare questo dolore. Se tutto ciò che mi hai raccontato è vero, se la storia delle malattie di Benjamin è vera... prova un attimo anche tu a metterti nei suoi panni. In pochissimo tempo lui ha dovuto cercare un modo per proteggere se stesso, la sua sanità mentale, sua figlia, sua madre, sua sorella, te, le informazioni sui ribelli, i ribelli stessi. Un meccanismo forse troppo complicato per la sua mente incrinata. Qualcosa è andato storto, forse nella prigione, dove davanti a tanta violenza è stato soffocato dalla follia, quel meccanismo è crollato. Ha cercato di salvare il salvabile, sua sorella gli ha chiesto di morire e l'ha supplicato di salvarti. Tu, al suo posto, cosa avresti fatto? Avresti esaudito l'ultimo desiderio della tua gemella o l'avresti condannata alla stessa vita che stai vivendo tu adesso? Cos'è peggio, essere morti o restare in vita? Tu soffri davvero perché lei è morta o perché... vorresti ancora averla qui con te? Riflettici. Rifletti su cosa è peggio. Vivere o morire? »   
Klaus odiava, odiava letteralmente dover essere messo faccia a faccia con la realtà. Aveva imparato a odiare a dover dar conto alle versioni degli altri. Lui si trovava benissimo da solo con la sua sofferenza e la sua rabbia, perché gli altri si ostinavano a raccontargli altre mille, intricate versioni di quello che era accaduto? Perché? « London... London era incinta di nostra figlia... mia figlia... Io meritavo il peggio... io dovevo morire. »
« Tu parli così perché sei accecato dalla rabbia. Tua figlia... non credi che dopo tutte quelle torture London non sarebbe mai stata capace di darla alla luce? Non credi che lei l'avesse messo in conto? » gli spiegò, cercando di essere comprensiva, ma risoluta come Bridget al tempo stesso. « Te lo ripeto. Non eri nei panni di Benjamin. Sono sicura che se tu fossi stato al suo posto, con tutti i suoi problemi mentali, eppure con tutta la forza di volontà del mondo, avresti fatto la stessa identica cosa. »
Käthe pensava fermamente che Klaus avesse bisogno di ricominciare a vivere. Gli serviva quella scarica elettrica che gli mancava, che aveva sempre visto a Valhalla e che invece non aveva neanche intravisto quel mattino, quando l'aveva trovato buttato sull'asfalto – non voleva ammetterlo, ma se n'era spaventata a morte. Non voleva che anche suo fratello, dopo la guerra, smettesse di essere se stesso. Era difficile o impossibile, certo, superare tutto, ma aveva bisogno di qualcuno che lo spingesse a farlo. Il solo tentativo l'avrebbe risollevato da quella depressione in cui era piombato.
Käthe gli sarebbe sempre stata vicina, al Distretto Sei, a Capitol o a Valhalla che fosse. Forse anche Klaus lo sapeva perfettamente. Forse Klaus sapeva persino che, in fondo, le uniche altre persone che potevano aiutarlo e dargli la forza per non soccombere erano due.
E lui aveva un disperato bisogno di quelle persone.
Klaudia e Ben.
Ben, non Benjamin Bridge, non Emil, non il gemello di London, non la persona che l'aveva fatta uccidere. Semplicemente Ben.
Si accorse solo in quel momento di quanto Ben, il vero Ben, gli mancasse da morire.


 
*


Käthe e Bridget erano andate via. Sarebbero rimaste al distretto solo per un altro paio di giorni, poi sarebbero partite per Capitol City. Klaus sentì un vuoto allo stomaco quando accompagnò sua sorella alla porta, per poi chiuderla dietro di lei. Käthe era l'unica Wreisht che gli era rimasta – l'unica che non avrebbe mai disprezzato sul serio, nonostante il suo carattere schietto –, l'ultimo membro della sua disgregata famiglia.
Tornò in salotto da Klaudia massaggiandosi una tempia; la trovò nella stezza posizione in cui l'aveva lasciata, seduta di sbieco sulla poltrona a colorare i suoi disegni. Le si avvicinò e le accarezzò i capelli.
La bambina alzò gli occhi su di lui, poi indicò verso la porta di ingresso con un'espressione interrogativa.
« Torneranno presto » disse Klaus a bassa voce, mimando bene con le labbra, però, in modo che la figlia capisse. « Ti è simpatica Bridget? »
Klaudia annuì vigorosamente, poi gli indicò il proprio disegno. "Ti piace?" scrisse in un angolo del foglio, con la matita.
Klaus osservò la piccola opera della bambina, ammirando il fatto che stesse già migliorando sia a disegnare che a colorare. Ricordò che anche Ben era un bravo pittore.
« Chi sono? »
Sul foglio erano raffigurati tre bambini che giocavano con un gatto in un prato, sorridenti. Quella al centro doveva essere sicuramente Klaudia. Gli altri due...
La bambina scrisse, sulle rispettive figure, "fratello" e "sorella". In un primo momento Klaus si rattristò per il palese desiderio della figlia di avere compagnia, ma poi, soffermandosi sul disegno, un brivido gli percorse la spina dorsale. Avevano le stesse fattezze dei bambini del suo sogno.
Se per un istante rimase profondamente inquietato da quella coincidenza, quello dopo gli sembrò giusta. Era giusto, quasi scontato, che anche Klaudia sognasse la madre e i fratelli mai nati.
Klaus sfilò delicatamente la matita dalle dita della bambina e scrisse sull'ultima figura, sotto a "sorella", "Christina, è questo il suo nome".
Klaudia prese un'altra matita e aggiunse, accanto al fratello, "Credo che il suo nome invece è Thames". Poi spostò gli occhietti vispi da lui al disegno e viceversa. "Me l'ha detto una volta, ma Christina no è un po antipatica".
A Klaus sfuggì una breve risata. Antipatica... Dio, sarebbe stata davvero la figlia sua e di London perfetta.
Girò il foglio, perché ormai il disegno si stava riempiendo di scritte. "Continua a sognarli" scrisse, stringendosi Klaudia in braccio. "Non smettere mai. Loro ti vogliono bene".

Quella notte sognò di nuovo London e i bambini. All'alba aveva solo un vago ricordo di quel sogno, perché non era stato vivido come il primo che aveva fatto. Tuttavia, dopo quella dolce immersione nel mondo onirico, non riuscì più a prendere sonno.
Per tutta la mattina, mentre svegliava Klaudia e l'aiutava a vestirsi, mentre preparava la colazione e mentre usciva in strada per accompagnarla al maniero dei Bridge, tentò di ricordarsi le poche parole che London gli aveva rivolto, ma tutto ciò lo riportava sempre al primo sogno.
« Va tutto bene. Devi perdonarlo » gli aveva detto. Ed era sicuro che fosse la stessa cosa che gli aveva detto anche quella volta.
Klaus sapeva che London avrebbe voluto che lui perdonasse Ben. Si chiese se lei l'avrebbe mai fatto, se fosse accaduto il contrario e lei fosse rimasta in vita. L'avrebbe perdonato soltanto perché era il suo gemello?
Non sapeva darsi una risposta.
Bussò alla porta dei Bridge ed Erzsébet gli aprì dopo qualche secondo, sorridendo e lasciando un bacio sulla guancia alla nipote, che sorrise di rimando.
« Vuoi entrare? » domandò lei
Klaus osservò la sua espressione serena, nonostante l'ultima volta che era stato in quella casa avesse pestato il figlio a sangue, poi spostò lo sguardo sulla manina di Klaudia, stretta in quella della nonna.
Sentì che stava per fare al contempo la cosa più sbagliata e più giusta al mondo.
Devi perdonarlo. Klaus non avrebbe mai perdonato Benjamin. Ma la sua vita non poteva continuare così, all'insegna dell'odio e della rabbia pura.
« Stavo... » cominciò, incrociando le braccia per dissimulare tutta la tensione accumulata, « stavo riconsiderando la proposta che mi avevi fatto poco tempo fa. »
« Vuoi trasferirti qui? » chiese Erzsébet, sorpresa.
Klaus prima abbassò la testa, poi annuì.
La donna lo abbracciò.

 
 
 











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Capitolo 34
*** 033. Thirty-third Chapter – Underwater. ***


Note: Mi rendo conto che questo è il capitolo più lungo e intenso della storia. Ed è anche l'ultimo. Ne vado stranamente soddisfatta, anche se probabilmente ad alcuni risulterà un po' pesante da leggere, ma... ehi, dopo l'epilogo non vi romperò più le scatole con Blur, sarete finalmente liberi da tutto questo angst gratuito. Non mi dilungherò a spiegare quanto mi abbia fatto soffrire fisicamente scrivere la conclusione effettiva, mi dedicherò ai ringraziamenti e alle mie emozioni e intenzioni riguardo questa storia nell'epilogo, che cercherò di postare la settimana prossima. Non ho voglia di allungare il testo ancora di più.
Ringrazio vivamente Marty per il supporto datomi in questo capitolo e per avermi suggerito alcuni passi che trovo stupendi. Ringrazio anche i miei genitori per avermi portata al mare in un posto meraviglioso, che mi ha conferito l'ispirazione necessaria per scrivere questo difficilissimo capitolo di Blur.
Infine, vorrei soltanto aggiungere che so perfettamente che ad alcuni questo finale risulterà deludente, mentre altri probabilmente ne saranno felici. Sappiate soltanto che era tutto calcolato sin dal principio, che non ho mai "parteggiato" nessun personaggio e che la vicenda doveva andare esattamente così, perché la storia di questi tre ragazzi risultasse un ciclo completo. La loro psicologia e le loro azioni hanno condotto a questo: hanno fatto tutto da soli, io mi sono semplicemente limitata a dare loro vita e a muoverli. 
Questa storia è parte di me, ormai, spero sul serio che l'abbiate apprezzata. Se vi va di lasciarmi un parere per questo capitolo, naturalmente, ve ne sarei più che grata. 
Mi sto già dilungando ed emozionando troppo.
Ps: il "never" è come l' "always" della Rowling per Blur :°

Come sempre, nel caso voleste seguirmi su facebook, vi linko la mia pagina QUI.

Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Underwater" di Mika.
Durante il capitolo, invece, sarà citata "Hoodoo" dei Muse, ovvero la canzone che un po' racchiude tutta la storia (da cui viene anche il misterioso "Tied to a railroad" sotto il titolo).

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Blur

(Tied to a Railroad)






033. Thirty-third Chapter – Underwater.

 


Il salone dei Bridge era sempre vuoto a quell'ora. 
Klaus, vivendo in quella casa da ormai più di quattro mesi, aveva imparato ogni abitudine, o quasi, delle persone che vi abitavano. A quell'ora, in un momento imprecisato tra le due e le tre del pomeriggio, Erzsébet, Klaudia e Benjamin riposavano. La donna portava la bambina in camera con sé e la faceva addormentare, mentre il ragazzo si chiudeva nella propria stanza, inaccessibile a chiunque tranne che al proprietario. Quando Ben era fuori, la porta era sempre rigorosamente chiusa a chiave e Klaus non aveva indagato più di così: pochi giorni dopo il suo trasferimento, aveva preso coraggio ed era entrato nella camera di London, restando in silenzio a contemplare i mobili che erano appartenuti alla ragazza che lui si era sempre detto di odiare – un periodo distante anni luce da quel giorno, la loro adolescenza. Era stato un momento estraniante, in cui non era riuscito a pensare a nulla che non fosse la presenza di una London sedicenne che camminava e viveva in quell'ambiente accogliente dai colori tenui. Gli era sfuggito un sorriso; si era domandato, poi, se la stanza di Benjamin gli avrebbe potuto fare lo stesso effetto. Ma non aveva mai trovato l'occasione di entrarvi. 
Erano state rare, in quei mesi, le volte in cui avevano parlato, anche per un breve scambio di parole. Una parte di Klaus era ancora pervasa dall'odio ossessivo, ma un'altra, la ormai dominante, si era rassegnata agli eventi, lasciandolo vivere con i propri silenzi e i propri ricordi lontani, sfocati.
Klaus l'avrebbe chiamata apatia, ma era al momento la sensazione che preferiva, perché era riuscita a dare un freno al dolore che aleggiava ogni giorno nel suo petto.
A volte si sentiva solo, altre pensava che Klaudia fosse l'unico appiglio che lo tenesse ancorato a quella vita, altre ancora credeva che fosse la rabbia sopita a spingerlo ad andare avanti, aspettando di esplodere e distruggere ogni cosa intorno a sé. 
A volte Klaus smetteva di pensare e basta. Prendeva un libro dalla biblioteca o una vecchia chitarra appartenuta ad Alfons e provava a leggere o suonare, solo in quel grande salone elegante, solo con la propria mente. Cercava di dare un senso ad ogni cosa, senza mai riuscirci.
A volte rifletteva sul fatto che ogni cosa sarebbe potuta andare diversamente se lui avesse amato Ben e non London sin dal principio. Se ne dava la colpa, più di quanta ne avesse realmente, più di quanta ne meritasse.
Se io lo avessi amato, anche solo per un secondo...
A volte cantava a bassa voce canzoni che ricordava, canzoni della zona ovest, canzoni del distretto. Non gli piaceva cantare, ma gli veniva spontaneo quando imbracciava la chitarra.
Come to be, how did it come to be, tied to railroad, no love to set us free, watch our souls fade away and our bodies crumbling-
Aveva imparato a suonare, aveva imparato ad ascoltarsi mentre pensava ai gemelli Bridge anche senza volerlo. Erano parte della sua vita, dopotutto, erano il perno intorno cui era girata tutta la sua esistenza fino a quel momento. E Klaus li riconosceva in alcune melodie, in alcune parole. Riusciva a riconoscere persino se stesso in quella sofferenza che dilagava nella sua disperata voglia di soffocare tutto con un po' di musica.
-And I had recurring nightmares that I was loved for who I am and missed the opportunity to be a better man.
Klaus avrebbe soltanto voluto essere un uomo migliore.
A volte sapeva perfettamente di non essere solo in quel salone. A volte il gatto nero di Klaudia – trovato da lei con Erzsébet nei pressi del vecchio mercato – gli saltava sulle gambe e pretendeva di essere accarezzato, altezzoso come solo un felino potrebbe essere, ma non era la sua presenza a turbarlo.
Una volta era seduto sul divano, si era girato e l'aveva visto, lì, appoggiato alla porta aperta con un'espressione indecifrabile, mentre lo fissava intensamente, proprio come se stesse osservando un'opera d'arte in cui era riuscito ad immedesimarsi. Benjamin lo stava ascoltando. Forse lo ascoltava sempre, senza che lui se ne accorgesse.
Da quel giorno aveva fatto finta che lui non ci fosse, anche se, effettivamente, il salone dei Bridge non era mai davvero vuoto a quell'ora.


 
*


Quella notte trovò particolarmente impossibile chiudere occhio. Pensava più del solito, si rigirava tra le lenzuola più del dovuto, sudato, come se fosse una notte d'estate e lui non riuscisse a prendere sonno per il caldo asfissiante.
Ma non era estate. E non faceva caldo.
Alla fine Klaus si arrese e si alzò dal letto, frustrato, e uscì in corridoio per dirigersi al bagno per darsi una rinfrescata. Eppure lungo quella breve strada qualcosa lo bloccò. Gli bastò un istante per accorgersi che qualcosa era fuori posto... che la porta di Benjamin era socchiusa
Un'intensa sensazione di stupore e curiosità si diramò dentro di lui, sostituendo l'angoscia dell'insonnia. Lo considerò un invito esplicito, come se Ben stesso gli avesse suggerito di entrare nella sua stanza quella notte.
Aprì ancora un po' la porta, giusto quanto bastava per passare. La mano poggiata sulla maniglia gli sudava incredibilmente. Si sentiva come se stesse per entrare in una tana di serpenti.
Ben dormiva sul proprio letto. Fu la prima e ultima cosa normale che notò.
Cercò di restare in assoluto silenzio per non svegliarlo, ma non poté impedirsi di rimanere a fissare con shock quello spettacolo così macabro.
Una piccola luce rimasta accesa sul comodino era tutto ciò che illuminava l'ambiente, ma a Klaus bastò per vedere quello che non avrebbe mai dovuto vedere.
Si era sempre detto che quella fosse solo una stanza e non capiva perché Ben non facesse entrare nessuno, tanto meno sua madre. Ora invece comprendeva. Ora sentiva il peso di quelle mura, ora sentiva l'aria farsi più pesante nei suoi polmoni.
Mobili graffiati, frammenti di vetro sul pavimento, tende strappate, scritte raccapriccianti e soprattutto disegni. Disegni alle pareti, a terra, sugli oggetti. Klaus rimase al contempo affascinato e disgustato quando riconobbe i soggetti.
Io e London.
Klaus e London dipinti ad abbracciarsi, baciarsi, a volte morti, a volte senza qualche arto, a volte separati, con fattezze sovrannaturali, dipinti di rosso cremisi. Klaus per un momento si chiese se la pittura non fosse sangue. 
Quello del sangue era l'odore che regnava sovrano in quella camera, dopotutto.
Rimase senza fiato a contemplare quell'ordinato disordine, specchio della sua mente, e a raccogliere tutti i dati sensoriali che riusciva a percepire – come ad esempio la totale assenza di suoni all'infuori del respiro regolare di Ben.
Klaus si avvicinò a lui lentamente, per osservarlo meglio. Per qualche strano motivo dormiva tranquillo, come se finalmente avesse preso sonno dopo mesi di incubi ad occhi aperti. Aveva qualche ciuffo di capelli albini a coprirgli la fronte, la bocca leggermente schiusa e un'espressione quasi rilassata.
Non provò odio nel guardarlo, non quella volta. Solo curiosità. Una tremenda e insaziabile curiosità.
Individuò subito quella che aveva l'aria di essere un'agenda stropicciata sul comodino, accanto a un pacchetto di pillole non identificate e un bicchiere vuoto. Non seppe perché, ma sentì lo spasmodico bisogno di leggere quelle pagine, di leggere quello che Ben pensava realmente.
La prese tra le mani e, in un primo momento, si sentì in colpa ad invadere la sua privacy, ma un momento dopo non gli importò più. Il diario era pieno di fogli e appunti inseriti disordinatamente tra le pagine. 
Cominciò a leggerne l'inizio. "Mamma stamattina mi ha detto di essere un bambino forte e speciale. Ho solo dieci anni, lo so, ma sarò bravo e ce la metterò tutta per guarire da questa specie di malattia. Non ho capito bene di cosa si tratta, ma mamma e papà hanno detto di non dire niente a London per il suo bene. Io voglio il suo bene."
Klaus sentì una mano invisibile graffiargli il cuore violentemente. Voleva il suo bene... Non ce la fece a continuare quella parte della sua infanzia. Sfogliò le pagine, fino a leggere di sfuggita il proprio nome più di una volta.
Si fermò in una pagina macchiata di inchiostro. "Non credo che London sappia o abbia capito. Le ho detto di amarla e le è bastato. Non credo che a Klaus basterebbe, se glielo dicessi. Ma no, no, no, lui non lo saprà mai. Sono convinto che mi riderebbe in faccia se gli dicessi cosa provo, se gli dicessi che mi piace... anche se, beh, 'mi piace' è riduttivo. Maledizione, cosa mi sta succedendo? Klaus e London sono promessi, non posso intromettermi, non posso deludere mamma e papà. E poi si vede lontano un miglio che l'odio di Klaus è tutta una finzione. Vorrei non essermene accorto."
Klaus cominciò a respirare più velocemente, inquieto per tutti i segreti che avrebbe potuto violare leggendo quel diario. Ma non riuscì a fermarsi.
"Ho questo diario da moltissimo tempo, eppure mi sono accorto solo ora di non aver mai scritto 'Caro diario'... mi sento in colpa, è strano. E' successa una cosa, comunque... mi tremano le mani mentre scrivo... non riesco neanche a dirlo. No, anzi, non riesco neanche a realizzarlo. Sono stato a letto con Klaus. Oddio. Non ricordo neanche com'è successo. Eravamo in un bar della zona ovest ed è degenerato tutto... è stato... è stato il momento più bello della mia vita. E' vero, ho perso la verginità con London, ma con lui... è stato diverso. Non so cosa scrivere, di preciso. So solo che vorrei che s'innamorasse di me. Ma non accadrà mai. Non deve accadere. Klaus deve sposare London. Klaus ama lei, anche se non vuole ammetterlo."
Ricordò che Ben gli aveva chiesto se fosse innamorato di London innumerevoli volte, ma lui aveva sempre mentito o non aveva risposto, da buon codardo qual era. Non sarebbe cambiato nulla se Benjamin avesse saputo la verità, certo, ma ciò non aiutava Klaus a non sentirsi uno sporco e meschino bugiardo.
Proseguì la lettura, nervoso, controllando che l'altro stesse ancora dormendo. "Li ho convinti. Alla fine si sono sposati. Doveva andare così, era tutto programmato sin dall'inizio. Non c'è spazio per me. Non c'è spazio per un po' di felicità. No. Tocca a loro essere felici. London sarà felice, lo so. Supereranno ogni difficoltà, insieme. Forse capiranno di... di essere fatti l'uno per l'altra."
Gli si bloccò il respiro in gola. Benjamin aveva previsto tutto, o quasi. Aveva previsto che avrebbero cominciato ad amarsi, un giorno. Perché lui sapeva. Lui vedeva. Vedeva la loro attrazione, vedeva la verità in ogni bugia, vedeva sentimenti positivi in quell'odio che tanto decantavano da ragazzi. E invece Klaus era stato così cieco...
Sfogliò qualche altra pagina, soffermandosi su una particolarmente disordinata – non era nel suo stile. Era sgualcita, bagnata di lacrime ormai asciutte. "Klaus gliel'ha detto... ha detto a London della nostra notte di luglio. Gliel'ha detto. Abbiamo litigato, io e lei, lei e lui, lui ed io. Abbiamo litigato. Perché gliel'ha detto...? Ha rovinato tutto! Come faccio ad amare una persona così superficiale? Come?"
Klaus smise di leggere per qualche secondo. Quelle parole gli stavano perforando il cervello. Si sentiva estremamente a disagio nel ripercorrere tappe della propria vita da un'altra prospettiva. Si sentiva il cattivo.
"Oggi è nata Klaudia. Sono così felice... E' nata prematura, ma è bellissima e in salute, ci somiglia tantissimo. Spero che le nostre famiglie non sospettino niente. Dobbiamo ricominciare da capo. Questo è un punto di svolta, nient'altro deve andare storto. Ora London e Klaus potranno essere una vera famiglia, con Klaudia. Io resterò solo, ma non importa, sapevo che questo sarebbe stato il mio destino. Va bene così. Va bene. Starò meglio. Smetterò di tagliarmi, continuerò a prendere le pillole. Starò meglio. Sono felice. Sono felice che London lo ami, sono felice che anche Klaus ami lei. Sì, sono felice. SONO FELICE."
Klaus provò un brivido nel leggere quelle lettere in maiuscolo. Era tutto così... falso. Sembrava tanto che Ben stesse mentendo a se stesso.
Da quel punto una sezione del diario si chiudeva, per lasciare spazio ad altre pagine, completamente diverse. Appunti sui medicinali, numeri, calcoli, macchie incrostate di sangue.
Poi i suoi pensieri riprendevano, più sconnessi e confusionari di prima. "Nella mia vita ho desiderato cose orribili. Ho desiderato che lei non esistesse, oppure semplicemente che non l'avesse mai incontrato. Così lui avrebbe visto... avrebbe visto che esistevo anch'io. Ma è la mia sorella gemella. Non dovrei neanche pensare queste cose. Lei è il mio unico raggio di luce, voglio che sia felice. Sono un pessimo fratello."
Al respiro di Benjamin si aggiunse il suono delle pagine che Klaus stava sfogliando velocemente, inquieto. Altro sangue. Alcune parole erano illeggibili.
"Se ne sono andati. Se ne sono andati per proteggere Klaudia. Sono al sicuro. Ho provato a suicidarmi, ma ho fallito. Non faccio altro che fallire."
I pensieri divennero molto più brevi e radi, intervallati da altri appunti e fogli aggiuntivi. Poi scomparivano anche quelli.
Pagine bianche, pagine vuote.
"Ho smesso di prendere le pillole. Voglio restare solo con il mio dolore. Voglio essere normale. Perché nessuno lo capisce? Senza pillole mi sento più me stesso. Mi sento meglio e peggio contemporaneamente. Mi sento...  giusto."
Altre lunghe pause.
"Papà è morto."
Pause asfissianti, molto più intense dei pensieri stessi.
"Perché sono ancora vivo? Non posso continuare a vivere così. Non posso continuare a vivere e basta. Devo morire. Devo."
Il diario sembrava terminare così. Klaus sentiva il cuore pulsargli con violenza nel petto, come se volesse essere liberato dalla gabbia toracica. Voltò un'ultima pagina, credendo di non trovare più nulla. 
"CHI SEI?"
Una scritta nera, enorme, che ricopriva tutta la pagina, nera e sporca. A seguire, schizzi crudeli, bozze macabre su corpi torturati e dilaniati. Non c'erano più parole. 
Klaus aveva voglia di urlare, ma si trattenne. Quel viaggio nella mente di Benjamin l'aveva lasciato annientato, terrorizzato. Spostò lo sguardo su altri oggetti della stanza, notando che quella scritta era riportata un po' ovunque, ma soprattutto sullo specchio a muro in fondo alla camera. Era rotto – probabilmente i frammenti di vetro venivano da lì – ma la scritta, minacciosa proprio come quella nel diario, era ancora leggibile. Si immaginò Benjamin che la leggeva ogni volta che si specchiava o che incrociava il proprio sguardo nel riflesso. Chi sei? Forse nessuno poteva davvero rispondere a quella domanda. 
Klaus sentì un dolore improvviso al dito indice e lo ritirò di scatto, tagliandosi più profondamente. Dalle sue labbra fuoriuscì un'imprecazione spontanea: tra le pagine del diario era nascosta una piccola lama rettangolare, quasi come se fosse un segnalibro o un promemoria.
Sentì un movimento in direzione del letto e quindi alzò lo sguardo su di Ben, che stava aprendo gli occhi. Quell'esclamazione l'aveva svegliato.
Klaus non ebbe il tempo di fare nulla, neanche di posare il diario, che Benjamin, nel riconoscerlo, si alzò di scatto dal materasso, impugnando un coltello che teneva sotto il cuscino.
« Come sei entrato? » biascicò velocemente, la lama puntata contro di lui e gli occhi spalancati dal panico. Il suo sguardo viaggiò velocemente dal volto di Klaus al diario che teneva tra le mani. Il suo viso impallidì di botto. « Come sei entrato?! » ripeté, stavolta gridando e tendendo di più il coltello.
Klaus fece un passo indietro, non sapendo come giustificarsi. « Ben... », alzò le mani in alto, « la porta era aperta. » 
Ben cominciò a respirare più velocemente e a tremare. Digrignò i denti. « Vattene subito. »  
« Ascolta, io- » 
« Klaus, ti farò del male se non te ne vai subito. Ti ucciderò. VATTENE! » urlò, di nuovo, con il panico evidente che gli attraversava le iridi lucide.
Klaus spostò lo sguardo sul coltello, che tremava come la presa del proprietario. Notò che la lama era sporca di sangue rappreso. Notò che Ben aveva cominciato a sudare freddo. « Uccidermi? » disse, senza abbassare le mani. « Sarebbe la volta buona. Non l'hai fatto una volta, adesso hai la tua occasione. »   
« Potrei farlo davvero se non te ne vai! » gridò l'altro, avanzando di qualche passo, sull'orlo di una crisi di nervi. « Lasciami solo, esci! » 
« Hai detto che non volevi più stare da solo, no? » insinuò Klaus, porgendogli il diario.
Ben lo ignorò. « Non ti voglio qui. Non avresti nemmeno dovuto vedere tutto questo. Non faccio entrare neanche mia madre » mormorò velocemente, accavallando le parole. « Prendi anche quel maledetto diario, non mi importa, ma esci immediatamente! »   
Klaus lo guardò negli occhi e non riuscì a vedere altro che panico e paura. Aveva invaso il suo spazio. « Non ho paura di te. Non adesso. » Erano quasi pari.
A Ben sfuggì un singhiozzo isterico. « Non voglio farti del male... » disse, ma senza smettere di minacciarlo con il coltello, « ma devi andartene! Per favore! » Sferzò un fendente nell'aria e Klaus ebbe appena il tempo di tirarsi indietro prima che lo ferisse al braccio.  
Era vero che non aveva paura di lui. Anzi, quel momento aveva tutta l'aria di essere una resa dei conti. Dolore per dolore. Supplicami..., avrebbe voluto dirgli. Non ho sentito bene, supplicami.
Alla fine rinunciò. Klaus non era Benjamin. Klaus non era Emil. Non provava piacere nel vederlo soffrire. Si allontanò dopo un ultimo sguardo, chiudendo la porta di quella stanza degli orrori dietro di sé e lasciandolo finalmente – di nuovo – solo.


 
*


Caro Klaus,
a dire il vero non so nemmeno da dove cominciare. Alla fine l'avevo imparato il tedesco, visto? Commetto ancora qualche banale errore di trascrizione, ma nel complesso questa lettera dovrebbe essere leggibile. L'avevo imparato anni fa per te. Per sembrare migliore ai tuoi occhi. Ma non te l'ho mai detto. Ci sono molte, troppe cose che non ti ho detto e adesso sto cercando di rimediare. E' tardi, lo riconosco, ma un tentativo non mi farà male. Hai il diritto di sapere. 
Probabilmente quando leggerai questa lettera sarò già morto. Mi toglierò la vita. Sono ansioso di abbandonare questo mondo. Per favore, non sentirti in colpa. Assicurati che anche London non conviva con il rimorso, perché, lo giuro, non è colpa vostra. All'inizio, per giustificare il dolore della mia solitudine, mi ero detto che la causa di tutte le mie sofferenze eravate voi. Poi ci ho riflettuto meglio, a lungo, e sono giunto alla conclusione che la colpa di questa situazione non deve essere attribuita a nessuno all'infuori di me. 
Sono nato sbagliato. Sono malato. Ho bisogno delle mie pillole e delle mie medicine per sopravvivere, per restare il Benjamin che tutti hanno imparato a conoscere. Se smettessi di prenderle... non so chi o cosa potrei diventare.
Ho smesso di prenderle da qualche giorno. Volevo provare ad essere normale, volevo convivere da solo con il dolore causato dalla vostra improvvisa partenza. So che adesso siete lontani, so che siete fuggiti per tenere Klaudia al sicuro, ma so anche che un giorno troverai il modo di leggere questa lettera. 
L'ultima pillola che ho preso, mercoledì scorso, era un antidepressivo. Ne sento la mancanza. Me ne accorgo perché ho più voglia di morire del solito e finalmente... finalmente potrò accontentarmi. Credo che questo sia l'ultimo momento di lucidità che mi è concesso, prima dell'oblio.
London non sa nulla della malattia, delle pillole, della depressione. So esattamente cosa proverà quando lo verrà a sapere. Siamo gemelli, uniti nella mente. Soffrirà. Forse soffrirà più di me. Voglio che tu la sostenga, che le resti vicino. Solo con te potrà superare la mia morte. Non te lo perdonerei mai se tu la abbandonassi... ma sono sicuro che non lo farai, vero?
Klaus, credo di essermi innamorato di te dalla prima volta in cui ti ho visto. Allora non sapevo neanche lontanamente cosa fosse l'amore, ovvio. Eri così diverso da me, così ribelle, audace, affascinante. Eri il mio esatto opposto, così vicino a tutto ciò che sarei voluto essere ma che non sono mai potuto diventare per non deludere la mia famiglia. Sembra assurdo, ma credo di aver scoperto la mia omosessualità così, pensando a te prima di andare a dormire, sognandoti, desiderando ogni singola volta di essere al posto di London. 
London è l'unica donna della mia vita. Sono stato con altri uomini per fare esperienze, soprattutto dal punto di vista sessuale, ma le sono rimasto fedele sempre. Lei è ciò a cui tengo di più al mondo, è l'altra parte di me, la parte che non avrebbe mai dovuto soffrire. Io vivo in funzione di lei. Vivo per renderla felice. La sua felicità è il mio fine ultimo. E ho sempre saputo che sarebbe potuta essere realmente felice solo con te. So benissimo che non ha un carattere facile, che non ti confesserà mai ciò che prova. Ma tu devi fidarti di me: London ti ama. 
Per questo motivo l'ho lasciata andare. Vi ho lasciati andare. Vi ho convinti io a sposarvi, ricordi? Perché possiate essere felici, senza alcun intralcio, senza di me.
Dite a Klaudia che le voglio bene, proteggetela e fatela crescere in un mondo sereno e lontano che non comprende la presenza del suo vero padre.
Sarei voluto restare in vita per lei... ma non posso. E' giunto il mio momento. 
Avrei voluto un'altra vita, un altro amore, un altro dolore, lo ammetto. Ma non mi pento di nulla. Sono pronto. Vi amo.
Ti amo.
Addio,

 
Benjamin

 
*


Alla fine Klaus aveva tenuto il diario. Se l'era portato in stanza, senza alcun motivo apparente. Non aveva letto altre pagine, l'aveva semplicemente posato sul comò. Tuttavia, nel poggiarlo lì, due fogli erano caduti delicatamente sul pavimento, fluttuando.
Erano due lettere: una indirizzata a lui e una a London – quella per la sorella scritta in una lingua sconosciuta a Klaus.
Klaus aveva letto la propria. L'aveva letta più di una volta. L'aveva... soppesata. Alla fine, non aveva più dormito quella notte. Era rimasto a fissare il soffitto con le lettere, ormai stropicciate e malridotte, strette in pugno e un terribile groppo fermo in gola.
Era l'alba e Klaus non sapeva più cosa fare o pensare; era così confuso che avrebbe potuto tranquillamente rimettere tutto ciò che aveva mangiato la sera prima – ma aveva davvero mangiato? Non ricordava.
Non ricordava neanche le poche cose che aveva sognato in quel breve momento di dormiveglia verso le tre del mattino. London? Christina?
Stranamente, non voleva saperlo. Voleva solo togliersi quel peso. Doveva parlargli a tutti i costi.
Si ritrovò davanti alla porta della stanza di Benjamin, proprio come quella notte. Non sapeva se avrebbe trovato il coraggio di bussare. Non sapeva che reazione avrebbe avuto. E ne era spaventato, in effetti.
Dopo qualche secondo di immobilità, Klaus bussò, senza insistenza. Due colpi contro il legno della porta. 
« Benjamin? » 
Ci furono lunghi e pesanti istanti di silenzio. Klaus sapeva che Ben era dentro. Sapeva che l'aveva sentito.
Gli aprì dopo qualche minuto.
Lo sguardo di Klaus si ritrovò già all'altezza degli occhi dell'altro.
« Cosa c'è adesso, Klaus? » domandò l'albino con un sospiro stanco.
Klaus sapeva che guardarlo negli occhi era l'unica arma che gli era rimasta, l'unico potere che aveva ancora su di lui. Si chiese se questa volta – come la maggior parte delle volte – Ben avrebbe distolto lo sguardo. Nonostante tutto era sempre troppo umile, troppo fragile all'apparenza. Klaus non riusciva a capirlo quasi mai. Era un'enigma troppo complicato. Inafferrabile.
In quel momento sembrava che si fosse sistemato alla meno peggio, con i capelli albini ancora leggermente scompigliati e... un piccolo taglio sul braccio che forse aveva appena smesso di sanguinare.
« Scusa » disse. In realtà non voleva neanche dirlo, lui non si scusava mai, né aveva motivi per scusarsi con Ben. Forse.
Gli mostrò le lettere, alzando il pugno che le teneva strette in una morsa. « Perché non me le hai fatte leggere prima? »  
Ben distolse lo sguardo. Klaus sapeva che l'avrebbe fatto. Era giusto così, che non si guardassero, che non guardassero dentro l'altro, che non condividessero qualcos'altro oltre alle parole strettamente necessarie. Klaus in realtà sperava che fosse sempre Ben a distruggere quella catena che si creava tra i loro occhi, perché sapeva che poter guardare ancora quella meravigliosa e particolare sfumatura grigioverde – iridi perfette e imperfette al contempo – lo dilaniava. Eppure era un dolore che entrambi, in fondo, bramavano più di ogni altra cosa. Perché era rimasto solo il dolore, non c'era nient'altro, quasi non esisteva sentimento più concreto di quello. Solo un distruttivo dolore di cui entrambi avevano bisogno per sopravvivere. Un meccanismo che si era instaurato in loro: dolce, crudele, insostituibile masochismo.
Klaus non aveva più segreti per Ben. E probabilmente ora neanche lui ne aveva. Si erano completamente spogliati di loro stessi. Klaus aveva letto quella lettera, gli aveva strappato i pensieri più nascosti del suo inconscio.
Ora siamo quasi nella stessa condizione, pensò con fredda ironia.
Le mani di Ben tremarono per un brevissimo secondo prima di rispondere. « Non avresti nemmeno dovuto sapere che esistevano, o almeno, non con me vivo. Vedo che hai letto anche quella di London e... e mi domando come, visto che è in un'altra lingua. Forse guardarla ti avrà dato l'illuminazione necessaria » disse, riuscendo a controllare il tremito che aveva intravisto.
Per un momento Klaus si sforzò di stringere i denti e non ribattere nel modo più scortese che poteva – dannazione, era sua sorella, ma non poteva permettersi di nominarla ancora tanto facilmente. Non così. Come se pronunciare il suo nome avrebbe attutito il conflitto tra loro due. Non poteva e basta. Non era un suo diritto. 
Posso solo immaginare quello che c'era scritto, Benjamin, avrebbe tanto voluto dire. Il tuo sconfinato desiderio di morire, di non essere mai nato, il tuo amore per lei. Perché, allora, non sei morto al posto suo?
Klaus notò che fissava le lettere spiegazzate strette nel suo pugno e per un riflesso involontario si sentì in dovere di allentare la presa, ma comunque non gliele riconsegnò. Tecnicamente erano destinate a lui, ora che le aveva lette erano sue, non aveva senso farle ritornare nelle mani del mittente.
Sospirò, prima di replicare, esattamente come aveva fatto lui. « Non voglio sapere cosa le avevi scritto. Voglio solo capire... perché. Aiutami a capire. Aiutami e forse le cose andranno meglio. O forse no, ma è l'ultimo maledetto granello di speranza che mi resta. » 
L'occhiata che gli riservò fece capire a Klaus che Ben non voleva aiutarlo a capire. Non voleva fargli capire cosa voleva dire vivere la sua vita o avere a che fare con la sua testa. Non importava quante volte avesse letto quelle lettere, nessuna rispecchiava appieno ciò che si portava dentro. Klaus pensava di sapere cosa volesse dire soffrire, cosa significasse provare dell'autentico dolore, non solo fisico. Ma forse Benjamin era di un'altra convinzione. 
« La spiegazione 'ho problemi mentali e dovrei essere rinchiuso in un qualche istituto psichiatrico, ma nessuno lo fa' ti soddisfa? » sbottò, esasperato. « Perché questa è l'unica risposta che posso darti. La mia vita mi fa ribrezzo. Cos'altro c'è da capire? »  
Klaus rimase senza parole. Forse non ne aveva mai avute davvero per quel momento. Voleva capire, certo, ma avrebbe potuto aspettare per parlargli. Aspettare e prepararsi un discorso coerente. Aveva una vita intera e vuota davanti, avrebbe dovuto aspettare. E invece eccolo lì, di fronte a lui, annientato di ogni pensiero.
Notò che Ben aveva cominciato a grattarsi il polso, arrossando una delle cicatrici più recenti, che avrebbe presto ripreso a sanguinare. L'istinto lo spinse ad afferrargli la mano, in uno scatto, per farlo smettere. Non voleva vedere altro sangue. Tutto quello che aveva già visto gli bastava.
Toccare la sua pelle congelata gli causò un brivido lungo la colonna vertebrale. Aveva centinaia di cicatrici su entrambi i polsi e le braccia, sottili e simmetriche, ordinate, come tutto ciò che faceva parte di Benjamin. Klaus, nel toccarlo, ne percepì alcune, lisce al contatto con la propria pelle. Sei stato tu, sei stato tu, è colpa tua, sembravano sussurrare, in una bassa cantilena.
Si chiese se Ben provasse le stesse sensazioni quando pensava alle sue, di cicatrici, la stessa frustrazione, lo stesso rimorso. Si chiese se gli facessero male e bruciassero allo stesso modo. Si chiese se avesse anche lui paura di toccarlo.
Gli ci volle un'enorme forza di volontà per distogliere lo sguardo da quelle cicatrici – così diverse dalle proprie, così... giuste – e riagganciarlo a quello di Ben, sperando di trovare altre risposte, risposte a domande che neanche conosceva.
« Ti giuro... » disse, scavando tra le parole meno rudi che riuscisse a trovare in quel momento, « ti giuro che io non ho mai voluto il tuo male. Ti giuro che non avrei mai voluto farti soffrire. Se tutto questo è davvero in parte anche causa mia, sappi che non avrei mai voluto che accadesse niente del genere, che avrei preferito mille volte non sposare London e restare solo tutta la vita. Se solo avessi saputo... se tu mi avessi detto tutto ciò che c'era in quelle lettere... prima... lei... lei magari sarebbe ancora qui, capisci? Con te, Klaudia, Erzsébet... con me. »  
« Quelle lettere erano destinate ad essere lette quando sarei stato morto! Morto » c'era rabbia in quella replica, una rabbia fredda e scorticante. « Dovevo essere io a morire, tempo fa. Io volevo morire! Io voglio morire. »  Stava trattenendo il respiro. « Ma il pensiero di aver ucciso mia sorella non mi lascia andare. London non vorrebbe mai che lasciassi te e Klaudia da soli... è per questo che non mi posso suicidare come ho sempre sognato di fare. Se questo pensiero non mi tormentasse ogni secondo della mia vita non ci penserei due volte a tagliarmi la gola con quel coltello! » Bruciò con uno sguardo glaciale la mano di Klaus, quasi a volergliela staccare. « Le cose non sarebbero potute andare diversamente, lo sai benissimo. Ho provato a suicidarmi poco tempo dopo aver scritto quella lettera, ma ho fallito. Poi mio padre è morto e non potevo lasciare mia madre da sola, in balia delle minacce di Capitol... è curioso, ma sembra che a un certo punto tutto il mondo abbia bisogno di me, ma quando sono io ad aver bisogno di qualcuno tutti si dimenticano della mia esistenza. Infine, quella... quella personalità che io chiamo Emil ha preso il controllo di me e io non sono stato più cosciente delle mie azioni... ho provato a combatterlo in tutti i modi, e tuttora cerco di eliminarlo completamente dalla mia testa senza alcun risultato, ma sono riuscito a prevalere su di lui quando ha cercato di uccidervi entrambi. Mi ha messo di fronte a una scelta. Tu o London o entrambi. »  Rilasciò il fiato che aveva trattenuto, molto lentamente. « Sai già com'è andata. Sai già qual è stata la mia decisione e perché. Adesso lasciami. » 
Klaus, nell'ascoltare il tono arrabbiato e ferito dell'altro, non riuscì a restare calmo. Non ne era ancora capace, c'erano ancora milioni di sentimenti negativi che ribollivano in lui come fuoco vivo, come se fosse proprio Ben il tizzone che li faceva ardere in continuazione. Lui avrebbe persino voluto aiutarlo – stava cercando di metterci tutta la buona volontà del mondo –, gli avrebbe dato un sostegno per riceverne in cambio... era l'unica possibilità che avevano per vivere e sopravvivere insieme. Aiutarsi. Ma per il momento nessuno dei due sembrava ancora disposto a farlo.
Gli strattonò il polso, facendo un passo in avanti, ancora più vicino a lui, e assottigliò lo sguardo, riprendendo a fissarlo in maniera aggressiva, sebbene una piccola parte di sé stesse ancora cercando di trattenersi per non esplodere – l'aveva già fatto una volta, era quasi impazzito di rabbia quando aveva scoperto di Christina.
« Perché ti sei innamorato di me, eh, Benjamin? Hai detto che l'unico scopo della tua vita era farla felice. Avresti dovuto proteggerla, invece hai fallito. Anche io ho fallito. Anche io avrei dovuto proteggerla, e invece ti ho concesso di ammazzarla! » Prese una pausa per enfatizzare le sue parole. « Se tu sei qui adesso è perché London ha voluto che tu fossi ancora in vita. Stai rendendo vana la sua morte facendoti del male e commiserandoti così. Stai facendo del male a tutti quelli che ti circondano, senza neanche rendertene davvero conto! Ancora! »  
Klaus si rese conto l'istante successivo che quel discorso non aveva senso. Che quelle parole erano vane. Non sarebbe mai tornato indietro nel tempo, non poteva aggiustare le cose, doveva farsene una ragione. Ma non ci sarebbe riuscito finché la rabbia avrebbe continuato a pervadere la sua mente. Doveva sfogarsi. E la sua ultima possibilità per farlo era mettere a Benjamin la cruda realtà davanti agli occhi.
« Come fai a chiedermi perché mi sono innamorato di te dopo aver letto quella lettera? » mormorò l'albino, stavolta con tono quasi disperato. Una lacrima scappò dalle sue ciglia, involontaria, e lui non fece niente per impedirle di rigargli la gota e poi scomparire oltre il mento. « Io non ho mai voluto fare realmente male a qualcuno, eccetto me stesso. Non ho mai voluto niente di tutto questo. Volevo solo... volevo solo rendere felici le persone che amavo, senza recare fastidio, senza essere ingombrante. Ma tutto è andato storto! Quel Benjamin Bridge che tu ricordi non esiste più. Non puoi sperare di riportarlo... di riportarmi indietro. E' inutile. Sono solo un deposito di medicine che cammina, adesso. » 
Klaus s'irrigidì. Fece un passo indietro, turbato, abbandonando definitivamente il contatto fisico, con la paura che, più fosse stato vicino, più la personalità crudele di Ben sarebbe potuta tornare a galla. Aveva colto della lucida follia in quelle intime confessioni, aveva sentito il desiderio di ferire e di ferirsi, aveva sentito quella stessa voglia di non essere mai esistito che stava accompagnando anche lui da mesi, dopo gli eventi della prigione.
Fu quell'inaspettata e indesiderata chimica di pensieri che lo spinse a non biasimarlo del tutto per ciò che stava facendo. Si sentì male per la compassione che stava provando nei suoi confronti: avrebbe voluto dirgli che ammazzarlo era l'unica cosa che desiderava davvero in quel momento, che non lo faceva solo per amore di London e Klaudia, ma avrebbe anche voluto consolarlo e, malsanamente, affondare le dita tra i suoi capelli per appoggiargli la nuca contro il proprio petto e stringerlo a sé, tenerlo vicino fino a quando non sarebbero morti del dolore che loro stessi si erano causati, o forse fino a quando il mondo non sarebbe finito, sgretolato intorno a loro.
Klaus stirò le labbra e lo fissò con sguardo spaesato. Dopodiché, spostò lo sguardo sull'ambiente circostante, soffermandosi sui disegni alle pareti, sulle scritte sul pavimento e sulle boccette di pillole aperte sulla scrivania. Scosse la testa, tra sé. Non voleva lasciar dilagare la sua rabbia ancora una volta. Voleva soltanto trovare... un modo. Un modo per smetterla di soffrire, o almeno per convivere con quella sofferenza. Un modo per ricominciare.
« Non m'importa di chi sei o chi dici di essere » mormorò. « Voglio solo che tu provi a collaborare. Sto rinunciando al mio odio nei tuoi confronti per ricominciare a vivere. Sto rinunciando a qualsiasi cosa, anche se ormai non ho più niente. » Si rese conto che le sue mani erano ancora strette a pugno e decise di distendere le dita. Provare rabbia non aveva più alcun senso a quel punto. Stava cominciando a realizzarlo solo adesso. Se avessero continuato a discutere per sempre, la loro vita non sarebbe assolutamente cambiata.
Dolore moltiplicato per anni, odio accumulato, insulti, discussioni irrisolte, sguardi accusatori e lacrime salate. Klaus non voleva più nulla di tutto ciò. Era stanco.
« Benjamin » proseguì, « ti prego... »    
« Mi preghi? » domandò l'altro con un tono basso e vibrante. « Che senso ha pregarmi? Non sono più un torturatore, Klaus. »  
« Ti prego di smettere di amarmi » precisò il moro. « Non fa altro che peggiorare le cose. »  
Il viso di Ben si contrasse in un singhiozzo inudibile. « Non puoi... non puoi chiedermi questo... » sussurrò con voce ormai spezzata. Altre lacrime caddero dai suoi occhi umidi, piccole e crudeli perle sul suo volto pallido. Non riuscì a fare altro che rifugiarsi tra le braccia di Klaus, affondando il viso nella sua maglietta, all'altezza della spalla. « Io non volevo ucciderla... » pianse, « io non volevo ucciderla, Klaus, te lo giuro... te lo giuro... »  
Klaus rimase paralizzato. Si sarebbe aspettato di tutto da lui: uno sfogo, delle urla, una risata isterica, ma non un abbraccio. In un primo istante non ricambiò la stretta, restando inerme e inerte, con lo sguardo verso un punto impreciso ben oltre la spalla dell'albino. Poi chiuse gli occhi, stanco, provato, arrendevole, e si abbandonò in quell'abbraccio, attirando l'altro ancora di più a sé e appoggiando la tempia contro i suoi capelli bianchi. Ne inspirò l'odore, lontano anni luce dal profumo di London, ma pur sempre incredibilmente e dolorosamente familiare.
Si lasciò inebriare da quella sensazione, si lasciò trasportare da quel remoto desiderio di abbandonarsi agli eventi, di lasciarsi andare, di perdonare momentaneamente ogni cosa pur di vivere davvero per qualche altro piccolo istante.
« Lo so » riuscì a sussurrare.
Tutto ciò che voleva era rivivere ogni cosa che aveva perso. Non importava come.


 
*


Le magliette erano già a terra, le cinture slacciate.
Ben aveva la pelle d'oca mentre Klaus lo baciava, lo spogliava, lo disarmava. Si rese conto che quella era la prima volta in cui si ritrovavano in quella situazione entrambi completamente lucidi. Si stupì di quel pensiero: Klaus lo stava facendo suo ed era del tutto cosciente. 
Eppure, in un angolo remoto della sua mente, sapeva perché tutto quello stesse accadendo. 
Pensa che io sia solo il riflesso di London, si disse, accarezzando la sua barba sottile nell'afferrargli il viso. Ma non importa
Tuttavia le parole si fecero strada tra le sue labbra da sole. « Klaus... sai bene che io non sono lei. Non dovrei... non dovremmo... » 
Klaus lo zittì con un'occhiata penetrante. « Ho bisogno di te. Ho bisogno di questo per sopravvivere. » 
« Ma tu non mi ami... » mormorò, abbassando la testa, consapevole dei sentimenti di entrambi, così diversi e complementari.
L'altro lo indusse a non distogliere lo sguardo. I suoi occhi scuri e intesi erano come una calamita fatale in quel momento. « Ha importanza? » 
« Dovremmo fermare il dolore, non assecondarlo » disse lui, lasciando scorrere l'indice sulla sua guancia. « Così non faremo altro che nutrirlo. »   
Klaus avvicinò di nuovo le labbra alle sue, ma senza baciarlo. Respirò sulla sua bocca, prima di parlare, respirò il suo stesso respiro. « Mi sono reso conto di aver bisogno del dolore. Voglio che tu mi faccia soffrire. Ne ho bisogno. » 
A Ben risultò difficile respirare, invece. La presenza di Klaus lo comprimeva. 
Forse sarebbero riusciti a vivere anche senza respirare, un giorno, come in apnea, sott'acqua. Purché fossero insieme, l'uno nelle mani dell'altro.
« Non voglio farti ancora del male... » mormorò Ben, chiudendo gli occhi. 
Klaus catturò di nuovo la sua bocca famelicamente, costringendolo a stendersi sul letto, sotto di lui. Gli afferrò entrambi i polsi sfregiati e glieli bloccò sopra la testa, premendo per non farlo fuggire. Ben non era sicuro che si sarebbe lasciato trasportare fino a quel punto se Klaus non l'avesse inchiodato così. Era sbagliato.
Sbagliato.
Come me.

Eppure Ben aveva sempre dovuto imprigionarsi per essere libero – quale contraddizione, quale paradosso. Adesso non era meno diverso: una prigione di piacevole dolore per accantonare momentaneamente ogni errore commesso nella sua vita. 
Non riusciva a trattenersi e si odiava per questo. Klaus aveva ancora troppo potere su di lui e ne avrebbe sempre avuto. 
Il suo corpo parlava chiaro, era un libro aperto in quel momento. Brividi intensi, cuore martellante nel petto e respiro accelerato. Klaus lo osservava, lo osservava e capiva.
Mi osserva per trovare qualsiasi dettaglio che possa ricordargli London. Pensieri cattivi, insinuazioni fastidiose e distruttive. Ben non voleva andare avanti per quello, perché sapeva esattamente ciò che Klaus stava cercando.
Un'imitazione.
Un verso a metà tra un sospiro e un gemito gli fuoriuscì dalle labbra quando Klaus cominciò a scendere con la bocca, baciandogli prima il mento e poi percorrendogli con la lingua il tratto dal collo allo sterno, prima senza guardarlo, poi alzando di nuovo gli occhi su di lui. A Ben sembrò tanto che volesse guardare le sue reazioni, che non volesse perdersi neanche un secondo del suo corpo in conflitto.
Quello sguardo – che era stato causa delle sue torture mentali sin da ragazzino – era fiammante, arrabbiato e deciso. Sembrava voler dire "che cosa sto facendo?" e "guardami, guardami mentre ti distruggo" al contempo. La sua stretta virile abbandonò i suoi polsi affinché le sue mani si dedicassero alla lampo dei pantaloni.
Benjamin reclinò la testa all'indietro sul cuscino, lasciandolo fare, reprimendo con tutta la concentrazione possibile un fremito d'eccitazione. L'autocontrollo lo stava abbandonando.
Klaus gli sfilò i pantaloni velocemente, lasciando poi scorrere le dita sulle sue gambe tese.
Ben pensò che il moro fosse ansioso di proseguire, ma Klaus si stava semplicemente limitando a fissarlo. Non ancora soddisfatto – lo sarebbe mai stato davvero? – di quell'ingenua tortura psicologica si rialzò da quella posizione e ritornò faccia a faccia con lui, reggendosi con le braccia sul materasso. « Sei stato con altri uomini, quindi? » 
Ben per un secondo rimase spiazzato da quella domanda. Poi ricordò che lui aveva letto le lettere e il suo diario. « Sì » rispose a bassa voce.
« Quanti? »  Un'altra domanda secca, diretta.
« ... abbastanza, Klaus, perché? » disse, lasciando vagare gli occhi sul suo volto per cercare di decifrare quell'espressione seria.
« Erano... » parve tentennare, corrugando le sopracciglia scure, « erano come me? »   
L'ombra di un sorriso fece capolino sulla bocca di Ben. « No. Nessuno è come te. » Ed era vero, dannatamente vero: nessuno sarebbe riuscito ad eguagliare Klaus, per lui. Klaus era un universo a parte, distante, irraggiungibile. Lo sarebbe sempre stato. Perché ogni volta che provava ad avvicinarsi, lui faceva almeno tre passi indietro, metaforicamente.
Anche in quel momento Klaus era irraggiungibile. Non lo avrebbe mai avuto davvero, non sarebbe mai stato realmente suo.
Il moro non ribatté, continuando a osservarlo e afferrando avidamente i dettagli del suo viso, contratto in un'espressione di crescente desiderio.
A che cosa stai pensando?
A che gioco stai giocando?
Perché mi guardi...
così?
Il ventre di Klaus era premuto contro il proprio e Ben pensò che se fosse rimasto per qualche altro secondo in quella posizione non avrebbe resistito oltre.
Voleva baciarlo. Voleva possederlo. Ora. Subito. Tra gemiti strozzati e sensi di colpa. Mentre gocce di sudore gli scendevano lungo il collo. Mentre morivano dentro, ancora una volta. Mentre la libidine cancellava ogni ricordo.
Si sporse per catturare le sue labbra, ma Klaus si scostò, lasciandogli intendere che doveva essere lui a dirigere il gioco. 
Vuole essere lui a decidere quando baciarmi, quando toccarmi. Vuole comandare. 
... bastardo.

Ben allungò una mano verso il suo volto, accarezzandogli prima la mandibola in una muta preghiera, poi scendendo sul collo lentamente. Era una carezza quasi violenta, ruvida. Fece pressione con la dita, sentendo il battito del suo cuore attraverso l'arteria carotide. Avrebbe potuto strangolarlo, se avesse voluto.
Si figurò Emil che prendeva di nuovo il controllo, che lo scaraventava sul pavimento, salendo a cavalcioni su di lui e soffocandolo con entrambe le mani.
« Vuoi ancora uccidermi » constatò Klaus, ma senza scostare la sua mano dalla propria gola. Forse voleva vedere fin dove si sarebbe spinto. « So che lo vuoi. »  
« Ho preso le pillole » disse lui, risalendo con le dita tra i suoi capelli ormai corti – nonostante qualche ciuffo ribelle gli ricadesse ancora sulla fronte. « Te l'ho detto, non ti farò più del male... adesso... adesso riesco a controllarmi. » 
« Non ti credo. » 
Solo quell'affermazione gli sarebbe bastata per fargli perdere il controllo, se non avesse ingerito le pasticche prima che Klaus gli bussasse, quella mattina. Ringraziò il cielo di averle prese.
« Voglio vedere quanto riesci a mantenere il controllo » continuò. « Voglio portarti al limite. Voglio punirti, vederti soffrire per ciò che mi hai fatto. »
Ben deglutì. « La verità è che sei tu a volermi uccidere, Klaus. Ammettilo. » 
Il bacio che seguì fu come una conferma. Era il suo modo di ammetterlo, il suo modo di vendicarsi. E Benjamin lo adorava, adorava quel vortice di dolore misto alla passione. Se ne sarebbe drogato, se avesse potuto, per accantonare il passato nelle viscere della sua mente.
Era una vendetta dolce, l'unico modo che Klaus aveva per riscattarsi.
Non erano gli stessi baci che riservava a London, no. Lei era stata sicuramente trattata come una regina da lui – immaginava quanto l'avesse fatta godere, quanto l'avesse amata con tutto il proprio corpo, e la invidiava, la invidiava terribilmente anche se ora era morta, perché lei sarebbe stata per sempre l'unico amore di Klaus – e Benjamin non avrebbe mai avuto il privilegio di provare le sue stesse sensazioni, di capire che cosa volesse dire essere amati da una persona che avrebbe preferito morire pur di tenerti in vita.
Ma si sarebbe accontentato. Si sarebbe accontentato di quell'odio bruciante, di quella rabbia che aleggiava costantemente nello sguardo di Klaus. Si sarebbe accontentato di tutto, per lui. Non poteva fare altrimenti.
Klaus riprese la sua discesa verso i suoi boxer e Ben schiuse le labbra in un sospiro limpido.


« Non mi perdonerai mai, vero? » 
Un sottile sussurro nella notte, che però spezzò il silenzio con violenza.
Klaus rimase girato dall’altro lato, sveglio e cosciente, incapace, stavolta, di guardarlo negli occhi.
Una pugnalata al petto, l'ennesima. Ben non sapeva distinguere cosa fosse peggio: che lui lo guardasse oppure no. Nel primo caso lo faceva sentire maledettamente sbagliato, colpevole; nel secondo, invece, sentiva la mancanza fisica di quegli occhi roventi fissi sul proprio corpo. 
Non davi le spalle a London quando andavate a letto insieme, non è così?
Non portavi neanche la fede quando eri con lei...

Ben sapeva che, da quando Klaus era tornato al distretto, la prima cosa che aveva recuperato era stata l’anello, perché non l’aveva mai indossato e adesso più che mai simboleggiava il loro legame. Non se l’era più tolto, neanche quella notte.
Da un lato era stato un gesto che l'aveva ferito profondamente, ma dall’altro riteneva che fosse giusto così.
« No, mai » rispose Klaus chiaramente. 
L'altro annuì, mesto. « Lo sapevo. » Lo sapeva, lo sapeva che non sarebbe mai stato in grado di perdonarlo o giustificarlo, anche se avesse imparato a comprendere le sue ragioni.
Gli accarezzò una spalla, sfiorandogli poi, con lentezza, ogni cicatrice che lui stesso aveva lasciato mesi addietro. Klaus tremò al suo tocco, ancora vittima della paura che lo legava a Benjamin e a quelle cicatrici. Tremò, ma non disse niente.
Erano cicatrici sconnesse, pallide, sparse su tutta la schiena e le braccia, e si sovrapponevano a quelle causate dalla frusta di Frantz Wreisht e a quelle dei Giochi. Si domandò come facesse a sopportarle, dal momento che non se l'era procurate da solo come invece aveva fatto lui... era un'umiliazione troppo grande, troppo pesante. Se pensava che la maggior parte di quelle cicatrici era opera sua gli si bloccava il respiro in gola.
Aveva rovinato quel corpo così bello e imperfetto, quella schiena tesa e pronta, quelle braccia salde e forti, ma al contempo l'aveva reso una meravigliosa opera d'arte.
Rabbrividì a quel pensiero. Era come se il Klaus attuale fosse stato completamente forgiato dalle sue mani e dalle sue torture. Doveva vergognarsene.
Ben lo abbracciò da dietro, lasciando che il suo petto incontrasse la fredda e martoriata schiena di lui. « Non mi amerai mai abbastanza. » Non era una domanda, ma una lucida e triste constatazione. Mai abbastanza. Fermarsi al "mai" sarebbe stata una frase troppo distruttiva per entrambi, anche se si sarebbe avvicinata di più alla realtà.
Klaus non rispose e si lasciò accarezzare in silenzio, nonostante la pelle d'oca che aveva cominciato a pervadergli le spalle. 
Ti lasci trattare così dal tuo nemico, Klaus?
Nemico. Cognato. Aguzzino. Amante.
« Perdonami » sussurrò Ben, bagnandogli la spalla di lacrime gelide e inattese, « ... perdonami... »
Klaus ignorò quella supplica, perdendosi in pensieri che non gli era dato conoscere o interpretare. Poteva soltanto immaginarli, e si dannava per questo.
Stai fingendo che io sia London, che non sia un uomo? Stai pensando a lei? 
« Siete diversi... » mormorò Klaus, chiudendo gli occhi nel buio.
Ben se l’aspettava, una constatazione del genere. « Lo so. Lo siamo sempre stati. » Non sapeva bene cosa dire, in realtà, stava cercando di essere sincero. Sentì le sue membra irrigidirsi e allora tentò di farlo rilassare baciandogli le scapole, e poi il collo. « Tu sei la persona migliore che abbia mai conosciuto... » gli confessò, tenendolo stretto, quasi possessivamente. Sembrava una frase assurda, considerato che di certo Klaus non era mai stato una brava persona. Ma per Ben non esisteva qualcun altro in grado di accantonare il dolore come aveva fatto lui. Non esisteva nessuno migliore di così.
Klaus si liberò della sua stretta, alzandosi a sedere sul materasso e dandogli ancora le spalle. Alla luce della notte – fievole, quasi inesistente – l'albino poté ammirare meglio quell'intricato e ipnotico disegno di cicatrici.
Klaus si alzò e si avvicinò alla porta-finestra della stanza del maniero in cui era ospitato, appoggiando una mano vicino al vetro e osservando il cielo stellato. Era una notte limpida e serena, con una mezzaluna che brillava nel buio.
Ben ammirò il suo profilo nudo ed esposto, ricordandosi che una scena simile l'aveva già vissuta in sogno, ma da un'altra prospettiva. Lo trovò bellissimo e... drammatico. 
Klaus, dopo qualche secondo di staticità, cominciò a raccogliere i propri vestiti e indossarli nuovamente. Si rivestì in silenzio, accendendosi una sigaretta e infilandosi i pantaloni scuri, mentre l'altro lo osservava, rapito dalle sue movenze. Trovava che fosse affascinante in ogni cosa che faceva, anche quando sbuffava il fumo o si appuntava la cintura.
«Già vai via?» Parole che gli sfuggirono contro la sua stessa volontà; non avrebbe voluto neanche pronunciarle con un tono così dispiaciuto.
Klaus si girò verso di lui con la testa, per un attimo, con la sigaretta che pendeva ancora dalle sue labbra sottili eppure così espressive ed eccitanti. Aveva uno sguardo vacuo, adesso, come Ben aveva sospettato. Il rosso tabacco che bruciava gli illuminava gli occhi di un'ombra ardente, quasi sovrannaturale. Annuì, alla fine, e Ben seppe che non se ne sarebbe mai andato davvero, che sarebbe tornato da lui ogni volta che gli avrebbe fatto comodo, che l'avrebbe considerato lo specchio di sua sorella fino a quando non avrebbe fatto i conti con la realtà.
Sarò l'eterno secondo, per te.
Ma non importa. Tutto questo mi basta.

Delle lacrime gli appannavano ancora gli occhi grigioverdi, mentre si attirò le ginocchia contro il petto, appoggiandosi allo schienale del letto, in un gesto di autoprotezione. Tutto ciò che voleva era una conferma. Una conferma per tutto. 
Gli serviva soltanto un'ultima risposta.
« Klaus » lo chiamò, con voce leggermente incrinata, attirando di nuovo la sua attenzione, « posso farti solo una domanda su di lei? » La sua occhiata lo spinse a continuare. « L'hai mai odiata davvero, come hai sempre detto di fare? » 
Klaus s'infilò la propria maglietta nera, fece un'ultimo tiro dalla sigaretta, poi la spense nel posacenere sul comodino. « Mai » rispose. 
 
 
 
 
 










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Capitolo 35
*** 034. Epilogue – Blur. ***


Note: 26 aprile 2013 - 12 settembre 2015. Due anni e mezzo. Quest'avventura è durata due anni e mezzo. E ora si conclude.
Mi dispiace farvi sorbire queste note lunghissime, quindi se volete potete passare direttamente all'epilogo, tuttavia dei ringraziamenti sono necessari.
Prima alcune spiegazioni, però: l'epilogo effettivo si ambienta svariati e indefiniti anni nel futuro, ma è intervallato da alcuni flashbacks importantissimi (sono pieni di doppi significati, spero che qualcuno lo noti), ognuno incentrato su una delle tre relazioni portanti di questa storia. L'ultimo di essi riprende una scena del capitolo ventuno, che probabilmente qualcuno ricorderà.
Aggiungo solo delle cose che non ho potuto spiegare apertamente nel testo per non "rovinare" l'atmosfera: Bridget e Käthe vivono insieme a Capitol City; qualche anno dopo il trasferimento adottarono un bambino quattro anni più grande di Klaudia, Ashton (con cui la shippo tantissimo, ma tralasciamo), che verrà menzionato nell'epilogo. Cosa è successo agli altri personaggi... beh, non ve lo anticipo. Avrei voluto dedicare più spazio alle spiegazioni, ma mi sono detta che preferivo un epilogo breve, più basato sull' "atmosfera" che su un effettivo riassunto dei fatti.
Spero che la conclusione di questa storia non abbia deluso nessuno, perché è ciò che doveva accadere sin dal principio, come ho detto già anche altre volte. Ci ho lavorato sopra per più di due anni, cercando di mettere ogni tassello a posto e di aggiustare tutto per far convergere la storia in questo finale dolceamaro. Sono stata notti, giorni interi a scrivere e a soffrire con Klaus, Londie e Ben, a casa, stravaccata sul letto, in spiaggia, in auto, in pullman, sentendomi in colpa ma comunque fiera di ciò che stavo scrivendo. Volevo una storia drammatica, intensa, più psicologica che romantica e alla fine... alla fine l'ho costruita, eccola qui. La mia Blur. Blur, sfocatura, un significato un po' sfuggente, un titolo poco chiaro in principio, ma fondamentale nella conclusione.
Non avete idea di quanto sia triste e contenta allo stesso tempo di aver terminato questa storia. Mi fa un effetto stranissimo. Mi dedicherò sicuramente ad altri progetti d'ora in avanti (maturità che incombe come la scure di un boia permettendo), in primis continuerò A song of light and dark nel fandom di Game of Thrones e Il sangue del vicino è sempre più rosso sempre in quello di Hunger Games con pandamito (se volete continuare a seguirmi, a proposito, cosa che mi farebbe immensamente piacere, vi linko per l'ennesima volta la mia pagina facebook QUI). Nonostante tutto, comunque, so già che nessun'altra storia sarà come Blur, soprattutto dal punto di vista affettivo. E' la mia prima long conclusa, una long che su Word conta 737 pagine in A5 e 146861 parole. Una long che vorrebbe tantissimo trasformarsi in un libro, un giorno, con i doverosi cambiamenti riguardo il contesto, l'ambientazione e la trama. Spero con tutta me stessa di riuscire a riscriverla, ma voglio far passare qualche annetto ancora prima di cercare di pubblicarla, per far maturare ancora il mio stile e per consolidarlo (dato che tra il primo capitolo e l'ultimo c'è un abisso in quanto a differenza di stile, lo riconosco). Tra l'altro, non voglio che Blur sia il mio primo romanzo, perché so perfettamente cosa dovrò passare per farla accettare da qualche casa editrice (non è, esattamente, il tipo di libro adatto al lettore medio italiano a livello di contenuti, credo)... ovvero le pene dell'inferno, praticamente.
Intanto... grazie a tutti voi per averla letta. Grazie a chi ha letto solo il prologo e a chi ci ha cliccato sopra solo per sbaglio. Grazie a chi ha recensito tutti i capitoli, la maggior parte, o anche uno solo. Non nominerò tutti i recensori, ma sappiate che vi adoro, mi avete fatto sciogliere con tutti i vostri complimenti e le vostre bellissime parole, che mi hanno aiutata e spronata molto. Grazie a chi ha letto la storia in silenzio, a chi l'ha letta soffrendo con i personaggi e a chi l'ha letta per noia. Grazie ai 34 preferiti, 11 ricordati e 55 seguiti. Grazie per le migliaia di visualizzazioni, grazie per il supporto e l'entusiasmo che molti di voi mi hanno dimostrato, anche sui social. Grazie a chi ha messo un piccolo like alla mia pagina.
Grazie ai FolliH, la mia seconda famiglia, le persone che ho importunato per mesi con gli scleri su Blur, i post e gli aggiornamenti. Grazie di cuore, vi adoro e vi adorerò sempre e comunque. Vorrei nominarvi tutti, ma queste note già stanno diventando fin troppo chilometriche e voi siete novanta - novanta, cioè!
Grazie a Sofia, mia cugina, che durante le vacanze estive e natalizie ha dovuto sopportare le mie lacrime amare mentre scrivevo, commuovendosi un po' anche lei.
Grazie ad Anna, la mia migliore amica, che c'è sempre stata e sempre ci sarà, qualsiasi cosa io scriva, qualsiasi cosa io m'inventi di sana pianta.
Grazie a Mito aka Letizia (ma chi è Letizia?), la persona che più mi sopporta in assoluto, a distanza e non, ascoltando i miei audio infiniti su whatsapp e rispondendomi con quale misterioso insetto ha trovato in stanza quella sera, riuscendo comunque a trovare il modo per tirarmi su di morale e aiutarmi nelle imprese più assurde. Grazie anche per il betaggio, per i commenti seri e per quelli demenziali, grazie per la compagnia durante le nottate insonni.
E infine, grazie a Marty, la creatrice dei gemelli, la regina suprema dell'Angst e della drammaticità, che mi ha aiutato innumerevoli volte a plottare, elaborare dialoghi e situazioni, senza contare i milioni di finali alternativi, i dubbi alberi genealogici creati al computer e gli scleri senza orario e senza fine. Grazie per esserci stata, per avermi aiutato e sostenuto, per avermi dato l'opportunità di muovere due personaggi che adoro e che adesso sento davvero miei, come se li conoscessi da sempre, come se li avessi trasmessi nella mia mente sin dalla prima volta che me li hai presentati.
Grazie a tutti. Davvero. Grazie. Ormai ho esaurito le parole e i pensieri.
Ora non posso fare altro che lasciarvi al gran finale di questa turbolenta avventura, è giunto il momento di andare, anche se ho sicuramente dimenticato di dire qualcosa.

Per l'ultima volta... buona lettura ♥
 

Il titolo dell'epilogo non viene da alcuna canzone in particolare. Tuttavia, il sottofondo ideale sarebbe "Hoppipolla", una canzone islandese dei Sigur Ròs, perfetta per la conclusione di Blur.

Quest'ultimo banner appartiene a me, 
©Ivola. Spero vi piaccia.

















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Blur
∞ 
(Tied to a Railroad)




 
 
034. Epilogue – Blur.

 

Passi frettolosi, di bambini che correvano sull'erba di un giardino accogliente, spensierati. Risate, qualche gridolino acuto, sorrisi divertiti.
« Bang! » 
La bambina cadde sul prato rotolando e continuando a ridere.
Il fratello, con un sorriso vittorioso, abbassò le mani piegate a mo' di pistola. « Ho vinto io, Londie! » 
La piccola London non smise di ridere, nemmeno quando Benjamin si buttò sull'erba con lei.
« Però voglio una rivincita » precisò la bambina. « Anche a scacchi. »
« Te l'ho spiegato » ribatté il gemello, aggiustandole una ciocca di capelli e portandogliela dietro l'orecchio, « per vincere a scacchi devi sì uccidere il re, ma è più importante fare fuori la regina. E' lei la pedina pericolosa. »  
London sbuffò, ma poi sorrise di nuovo. « Io sono la regina! » esclamò con fare giocosamente altezzoso. « E tutti gli altri sono miei umili servitori. »
« Certo » la assecondò Ben, dopo essersi alzato nuovamente in piedi e inchinato al cospetto della sorella. « Nessuno vi mancherà mai di rispetto in mia presenza, vostra grazia. »
« Allora sarai il mio alfiere » ridacchiò London. 
« Con piacere » il gemello le prese la mano e ne baciò il dorso elegantemente, « mia regina. »


Il tramonto incendiava l'orizzonte.
Un tripudio di colori accesi, vividi, caldi, che allo sguardo di Klaus risultò come un messaggio. 
« Apa? » 
Klaus non si voltò, affacciato al terrazzo del maniero con aria assorta. Non si voltò fino a che Klaudia non gli poggiò una mano sulla spalla. Si girò e la vide sorridergli con un calore tale che poteva essere paragonato a quello del tramonto. Le sorrise a sua volta.
« Papà, Ashton e le zie stanno per arrivare alla stazione » gli disse, rimboccandosi i capelli dietro un orecchio. Gli ricordava terribilmente London quando faceva così, anche se i capelli di Klaudia erano molto più voluminosi e la madre non portava l'apparecchio acustico dopo un intervento. « Dobbiamo andare a prenderli, ricordi? »  
Klaus annuì. Notò che aveva la sciarpa bianca di sua moglie avvolta intorno al collo. Se ne separava raramente quando cominciava la stagione autunnale.
« Altri due minuti e usciamo » assentì, tornando a volgere lo sguardo al sole bruciante che calava sui tetti dei palazzi ricostruiti del distretto.
Klaudia si aggrappò al suo braccio e prese anche lei ad osservare il tramonto.
Gli faceva quasi uno strano effetto essere lì, solo e invecchiato, con lei. Era cresciuta. Era diventata una donna, faticava ancora ad ammetterlo. Alta, bella, dai tratti morbidi e materni, gli occhi gentili e il sorriso dolce. Rivedeva tutti i Bridge che aveva conosciuto in lei. 
Klaus andava spesso al cimitero a trovarli. A volte portava loro dei fiori, altre restava semplicemente a contemplarli. Passava oltre la tomba di Ludmille Schnee, morta durante la rivolta, dei suoi genitori, di persone sconosciute, poi svoltava e si ritrovava di fronte le lapidi che rappresentavano le due persone più importanti della sua vita.
Il corpo di London non era mai stato realmente seppellito, ma Erzsébet, quando era ancora viva, le aveva fatto costruire una tomba accanto a quella del marito per commemorarla. Lì, ventisette anni dopo, era stato seppellito anche Benjamin, morto dello stesso cancro di suo padre. E infine, l'anno successivo, Erzsébet stessa era giunta a completare la famiglia.
Le lapidi dei gemelli erano all'ombra di un olmo, vicine, di un lucido marmo bianco. Klaus a volte, guardandole, si domandava se li avesse mai conosciuti davvero, se la loro presenza fosse mai stata reale, se non fosse stato tutto un sogno.
A volte piangeva, altre versava solo qualche lacrima, altre sorrideva. 
Erano parte di lui.
L'avevano amato così tanto da allungargli la vita.

Un sottile velo di imbarazzo aleggiava sui due ragazzi che camminavano in un vicolo della zona ovest.
Il più alto dei due si accese una sigaretta, interrompendo il silenzio che si era creato con il leggero scatto dell'accendino. « Quindi? » 
Benjamin lo guardò senza capire, continuando a camminare. « Quindi cosa? » Teneva le mani in tasca perché non voleva che Klaus vedesse quanto gli stavano sudando.
Il moro fece un tiro dalla sigaretta. « Lo diremo a qualcuno? » 
« Io... » tentennò l'altro, non sapendo bene cosa dire o tanto meno cosa pensare di quella situazione. « Non credo. »
« Assolutamente no » disse Klaus, annuendo in segno d'accordo. « Nessuno deve venire a sapere di questa notte. Né ora né mai. »    
Ben non rispose, annuendo distrattamente.
« Ce la fai a mantenere questo segreto, Big Ben? » domandò Klaus con un ghigno malizioso. 
L'altro alzò gli occhi verso il sole che stava sorgendo e sospirò. « Sai, Klaus, a volte mi viene proprio voglia di ucciderti. »  
Il diciassettenne non smise di sogghignare. « Lo so. »  


La figlia appoggiò la testa sulla sua spalla e sospirò piano, chiudendo gli occhi. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai, o che la sua vita si concludesse in quel modo, in quel preciso istante. 
Sarebbe stato perfetto.
Klaus si rigirò tra le dita la fede che portava al collo. Mai come in quel momento si era fermato a pensare con lucidità a tutte le cose che gli erano successe nella sua vita. Quel tramonto lo stava facendo riflettere, gli stava facendo mettere tutto definitivamente in ordine.
Ripensava alla sua adolescenza, ripensava a tutte le cazzate che aveva fatto. Ripensava al suo odio forzato per London, al matrimonio, alla prima notte di nozze. Ripensava al vero odio che aveva provato quando aveva scoperto di Christina, quando aveva capito il reale significato delle ultime parole della moglie.
Ripensava al fatto che amare Benjamin era stato l'unico e ultimo modo che gli era rimasto per amare London. Pensò che da un lato sarebbe stato molto più sicuro odiarli, piuttosto che amarli e poi perderli, ma che dall'altro la sua vita non avrebbe avuto alcun significato senza quel sentimento corrodente e corroborante.
Amore, una parola inventata dagli uomini per giustificare le proprie azioni, o forse soltanto qualcosa di più perverso e precario… qualcosa che tuttora Klaus non riusciva a spiegarsi. Forse non aveva nome, forse tutte le sue convinzioni erano sbagliate. 
Perché, se proprio Klaus avrebbe dovuto immaginarsi l’amore, l’avrebbe immaginato come una persona sola e sconsolata che si diverte nel costruire farfalle di carta e nel guardare vecchie fotografie sbiadite, dal tempo e dal vento. Un amore triste, dopotutto. Un amore senza punto di partenza o punto d’arrivo, un amore che travolge come un treno quelle persone che hanno avuto il coraggio di legarsi da sole alle rotaie con corde ruvide e pesanti.
Klaus abbandonò presto quelle riflessioni sconclusionate. I suoi pensieri non avevano senso. Nessuna definizione di amore per lui aveva senso.
Giusto o sbagliato? Nero o bianco?
London o Ben?
Niente aveva davvero un senso.
Niente che non fosse quel legame che li aveva legati per tutta la loro esistenza. Quel legame, più forte di qualsiasi forza, che non aveva fatto altro che ricucirsi, spezzarsi e risaldarsi all'infinito. Quel legame sconosciuto, a metà strada tra la distruzione e l'autodistruzione. Quel legame che lui avrebbe quasi definito... una sfocatura.

« Io… » tentennò Klaus, come cercando il coraggio per continuare negli occhi della moglie. « Ti amo » disse infine, semplicemente. « Sono stato un bugiardo per tutto questo tempo. » 
Si lasciò baciare e sovrastare dal corpo sinuoso della ragazza, che salì a cavalcioni su di lui, ridacchiando. 
« Lo so, idiota » disse London. « Credo di averlo sempre saputo. » Allora si abbassò sulle sue labbra e lo baciò, ancora. 
Uno scontro di labbra morbido e voglioso, mani che si cercavano, sguardi finalmente sereni, onesti, coraggiosi, corpi che combaciavano alla perfezione. 
« E tu? » domandò Klaus in un sussurro, accarezzandole i fianchi e facendo sfiorare i loro nasi – due respiri che si contaminavano l'uno nell'altro. « Mi amerai mai? » 
London gli sorrise come solo poche volte aveva fatto. Gli prese una mano e ne baciò il palmo. Fece lo stesso con l'altra, lambendo le dita con le sue labbra umide. 
Quelle mani. Quelle mani erano sue. E lei, oh, lo sapeva.
« Può darsi, Klaus » sussurrò a sua volta, « può darsi. »  












 
 
 

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