I Love A Folk Boy

di EdSheeran_ObsessED
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mysterious ***
Capitolo 2: *** Two ***



Capitolo 1
*** Mysterious ***


“Vorrei che tu non fossi mia figlia” urlò mia madre mentre sbatteva l’impasto del pane sul tavolo.
Uno: il mio nome è Adrian come quello di mia nonna, Wood è il mio cognome come quello di mio padre, Robert.
“Devi sempre fare l’infantile” continuò mamma.
Due: ho sedici anni, sono alta un metro e settantacinque. Sono troppo alta.
“è vero ho sbagliato io, ma tu subito mi dai addosso”.
Tre: vivo a Suffolk in Irlanda. La mia casa è una villetta in legno  bianco circondata da un prato verde in estate, giallo in autunno.
“Perché se poi ti dicessi che mi dispiace, cosa che non farò, tu apriresti quel rubinetto che hai al posto degli occhi e inizieresti a piangere!”
Quattro: Adoro la musica folk. Il folk è vita. Artisti preferiti di sicuro Ed Sheeran, Bob Dylan e Damien Rice. Gli ultimi due sono un po’ antiquati.
Cinque: sono una tipa antiquata. Adoro leggere e bere il tè, mi astengo da quelle tecnologie diaboliche come i social network. A volte sembro un Hamish.
Sei: vesto colorato, molto colorato. Se avessi il coraggio porterei la bandana tra i capelli.
Sette: i miei amici mi chiamano hippie.
Otto: non so suonare la chitarra, ma vorrei imparare.
Nove: Gatti. I gatti sono la mia passione, dopo il folk e la pizza.
Dieci: non mi sono mai innamorata.
Quando finii di contare fino a dieci, ricordando a me stessa chi ero, prima di uscire dalle staffe, mia madre mi stava facendo ancora la ramanzina.
“Adrian mi stai ascoltando? Ecco vedi che sei infantile, quando ti devo impartire la lezione tu voli nel tuo mondo. Cresci!” continuò mia mamma. Si passò le mani sporche di farina nel grembiule che aveva appeso al collo. “Cosa hai da dire a tua discolpa?” chiese, coprendo l’impasto con il panno che poco prima le avevo inumidito.
“Non dovrei discolparmi. Ti avevo chiesto di andare al botteghino stamattina e prendermi un biglietto per il concerto di Ed Sheeran, tu non l’hai fatto. Fine della storia, dopotutto sono solo due anni che raccolgo i soldi per questo momento”. Mia madre storse gli occhi “Ecco ci risiamo, lo vedi? Uno chiede scusa e tu lo assali con i sensi di colpa!” “Io esco, mi sono rotta” le dissi con tono secco. Aveva sbagliato lei, e pretendeva che io reagissi con stile e maturità. Forse dimentica che ho solo sedici anni.
Presi a camminare lungo il viale di ciottoli gialli che passava davanti casa mia. Le mie Vans rosse spiccavano su quello sfondo giallo. Avevo sotto il braccio una copia di “Orgoglio e Pregiudizio”. Era l’edizione dell’epoca di mia nonna. Preferivo quella alle nuove edizioni, perché mi piace il colore delle pagine dei libri vecchi, e il loro odore. Quel pomeriggio soffiava un lieve vento, quindi l’odore si sarebbe sparso nell’aria. Guardavo il filo arancione delle mie cuffie andare avanti e indietro, mano a mano che io mi allontanavo da casa. Era quella la mia routine. Scuola, casa, ramanzina del giorno, pomeriggio passato nel parco a leggere libri antichi ascoltando Damien Rice in sottofondo. Arrivai al parco, come al solito era semi vuoto. La cosa non mi sorprese più di tanto, Suffolk è un piccolo paesino. Era il quindici Ottobre, ma non faceva per nulla freddo. Le foglie cadevano dagli alberi creando un enorme tappeto rosso sull’erba. Mi piaceva quando le pestavo, mi piaceva il loro rumore scricchiolante. Cercai con lo sguardo il mio solito posto, e lo trovai. Mi sedevo sempre sotto lo stesso albero, alla stessa ora, da qualche mese ormai. Quello era diventato il mio posto, nessuno ci si avvicinava.
Mi misi a sedere, le gambe incrociate, le mani nascoste nelle maniche. Ogni tanto le mordevo, le maniche, non le unghie, quelle le portavo lunghe. Quel giorno le morsi di più, cercavo di trattenere le lacrime, ero molto delusa da mia madre. Non le avevo mai chiesto nulla, l’unica volta che le ho chiesto qualcosa, lei se ne era dimenticata. Non riuscii a trattenermi, e le lacrime iniziarono a scendermi lungo le guance. Alzai lo sguardo dal libro e notai per la prima volta un ragazzo, seduto con le gambe incrociate giusto davanti a me. Reggeva un quaderno, mi guardò, poi abbassò lo sguardo e prese a scrivere. Avevo come la sensazione che stesse scrivendo di me. Normalmente mi sarei andata a sedere da un’altra parte e avrei fatto finta di nulla, ma non quel giorno. Ero troppo arrabbiata, troppo scombussolata, che misi da parte la timidezza. Posai Orgoglio e Pregiudizio sull’erba, mi alzai, pulii la gonna dai residui di foglie, e gli andai incontro con passo deciso.
“Che cosa hai scritto?” dissi con tono minaccioso al ragazzo. Lui stava per rispondermi, ma io mi sedetti vicino a lui e continuai “Ora tu mi fai vedere cosa hai scritto su di me. Lo so che riguarda me, altrimenti me lo staresti facendo già leggere!”. Lui mi guardò con un accenno di sorriso sulle labbra.
“Se tu mi dessi il tempo di rispondere” disse. Cavoli, aveva una voce davvero bella, non me l’aspettavo. Era come, come gli accordi di chitarra nella mia canzone folk preferita. Lo guardai cercando di decifrare l’espressione che aveva sul viso.
“Avevo giusto aggiunto una ciocca bionda” disse lui mostrandomi il disegno che aveva fatto. “Vedi” disse mettendomi una mano tra i capelli. “è qui, tra tutti questi capelli castani. È solo una ciocca ma non credo vada trascurata”. Continuai a fissarlo un po’ spaventata a dire il vero. Fissavo i suoi occhi scuri e il suo sorriso accennato sulle labbra. Una lacrima che finiva di scorrermi lungo la guancia mi risvegliò dal piccolo coma in cui ero caduta.
“Chi sei?” chiesi sottovoce. “Questa è proprio una bella domanda. Forse non lo so nemmeno io chi sono. È uno dei grandi quesiti di cui leggevo l’altra volta nel libro di mio padre. Tu come vorresti che mi chiamassi?”
Continuavo a fissarlo scioccata e mi lasciai sfuggire un “Austin” dalla bocca. “Allora, io sono Austin” disse lui stringendomi la mano. “Adrian” gli risposi quasi meccanicamente. Lui mi guardò e disse sottovoce “Va bè dai ormai sono in gioco”. Prese dal suo zaino un fazzoletto di stoffa e mi asciugò quell’ultima lacrima che avevo sul viso. Stavolta mi scostai leggermente.
“Perché mi hai disegnata?” gli chiesi. Lui sospirò. “Non so, mi hai ispirato, credo. O forse perché sono tre mesi che ti vedo, ogni pomeriggio di ogni giorno ed ero a corto di fantasia. Ma comunque ci vuole parecchia fantasia per disegnarti”. Mi scappò un sorriso. “Perché? Non sono come tutte le altre ragazze che potresti vedere giù in paese?”.
Lui riflettè un attimo. “No, a dire il vero. Quale ragazza in paese mette un’ampia gonna rossa con sotto le scarpe da ginnastica? Nessuna. Quale ragazza in paese ha tutti i capelli castani, eccetto un'unica ciocca bionda? Nessuna”. Io iniziai a ridere, e forse ad arrossire.
“E poi non credo che a molte ragazze piaccia ancora Bob Dylan” continuò.
“Come sai che mi piace?” chiesi io sorpresa.
“Dovresti imparare a cantare a bassa voce” disse lui ridendo.
 Stavolta arrossii per davvero, ne ero certa. “Anche se non mi dispiace affatto sentirti cantare Dylan, è il mio cantante preferito da quando avevo dodici anni”. Il cuore mi sobbalzò in gola.
“Devo andare adesso” disse lui mettendo le matite nello zaino. “Spero non ti dispiaccia se tengo il disegno” concluse alzandosi. Non gli risposi ma lo guardai allontanarsi tra gli alberi. I capelli neri che si spettinavano con il lieve vento, lo zaino portato solo sulla spalla destra, e la sua infinita altezza.  
Mi chiesi se non l’avessi immaginato. Dopotutto in tre mesi che andavo a leggere lì, non l’avevo mai visto. Mi voltai di nuovo verso di lui, ma era sparito. 

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Capitolo 2
*** Two ***


Stranamente quel giorno il libro non se ne scendeva. Non riuscivo a leggere due parole senza alzare lo sguardo cercando quel misterioso Austin, ma lui non tornò. Sospirai mettendo Orgoglio e Pregiudizio nella mia sacca. La guardai per un po’. L’adoravo, era proprio il mio stile. Era gialla, rossa e verde ed era fatta a mano da mia nonna. Era un po’ che non l’andavo a trovare, così pensai di fare un salto da lei in campagna. Mi alzai e levai i residui di foglie dalla gonna e presi a camminare tra gli alberi. Camminai per due minuti con la testa abbassata, guardando la strada scorrere e cambiare direzione sotto i miei piedi. E ripensai a Austin. “Austin” dissi “Probabilmente non è neanche il suo nome. Mi ha chiesto lui di dargli un nome, e io ho scelto questo, ma perché?”. Feci una smorfia perplessa “E poi io non l’ho mai visto prima, giuro”.
Poco dopo ero davanti il cancello di casa della nonna. Lo aprii ma prima di andare a bussare passai per il pollaio. Nonna faceva un po’ di fatica a camminare, e non passava per il pollaio da un po’. Per lei era diventato troppo stretto e faticoso piegarsi per entrare dento quell’albergo per galline. Così andai io, presi dieci uova e le misi nel cestino, poi andai verso la porta. Bussai e sentii la voce dolce di mia nonna chiedere “Chi è?”
“Sono Adrian” dissi. Mentre lentamente lei si avvicinava alla maniglia, guardai la casa. L’esterno cadeva quasi a pezzi. Non siamo mai stati una famiglia ricca, per questo viviamo come gli Hamish, un po’ estraniati dal mondo moderno. I forni a microonde non ce li possiamo permettere e nemmeno i computer. Cuciniamo tutto a mano, coltiviamo i nostri ingredienti, e passiamo il tempo così, tra l’orto, l’impasto del pane, e i libri. Nonna Hanne non era del sud dell’Irlanda. È venuta a Suffolk quando era incinta di mio padre, quaranta anni fa. Lei e il nonno si erano innamorati a prima vista e dopo molti anni di fidanzamento e matrimonio hanno deciso di avere un figlio. Ma nonno non era affatto un uomo ricco e tutto ciò che abbiamo noi oggi lo dobbiamo a lui e alle sue fatiche. È morto da due anni ormai. Inutile dire quanto fu triste la nonna quel giorno. Prese la fede del nonno e la legò con del semplice spago all’antenna sul tetto. Disse “Da la su mi protegge, e veglia su tutti noi”. La fede è ancora lì, non è volata via nemmeno con l’uragano dell’anno scorso.
“Ti sbrighi ad entrare piccolina?” disse nonna Hanne che aveva aperto la porta ormai da qualche minuto. Ritornai sul pianeta terra e le sorrisi “Dovresti ridipingere la facciata” dissi entrando. Sentii subito il classico odore di cucinato. Ormai nonna odorava di biscotti, li faceva sempre. “La casa rispecchia la sua padrona” disse andando in cucina “E non mi pare io abbia una bella facciata, non credi?” disse mettendo le mani sul seno ormai cascante. Risi, mi piaceva come la nonna scherzava sul suo aspetto, anche se per me era sempre carina.
“Non dovresti far arrabbiare tua madre” disse poi lei mettendomi davanti i biscotti con le gocce di cioccolato. “L’ha voluto lei” dissi io dando un morso.
“Certo, ma tu sei superiore a lei e fai finta di aver torto e di chiedere scusa, tutto si risolve in meno tempo, non credi?” Non le risposi. Guardai le foto appese al muro di lei e del nonno. Sembrano felici, anzi lo erano. Pensai a lungo se dirle o meno del mio incontro con quel ragazzo oggi al parco.
“Nonna, è possibile che io abbia immaginato una persona?” le chiesi. Lei si voltò e mi guardò sorridendo. “Perché?” chiese. “Oggi ho incontrato un ragazzo, era davvero simile a me, mi intriga molto che credo io l’abbia solo immaginato”. Nonna posò lo straccio umido sul pane, proprio come poche ore prima aveva fatto mia madre a casa. Si sedette lentamente di fronte a me e mise una mano sotto il mento.
“Non credo che alla tua età si possa immaginare una persona. Alla mia forse è probabile, ma alla tua no. Quel ragazzo esiste a quanto pare, e avete molto di cui parlare” disse lei dolcemente “Parlare eh! Perché la bocca alla tua età si usa per parlare, non per sbaciucchiamenti vari!”. Risi e sentii le guance andarmi a fuoco. Non mi vedevo proprio a sbaciucchiarmi con Austin, il solo pensiero mi dava il ribrezzo.
“Tu hai mai immaginato qualcuno?” le chiesi allora. Lei chiuse gli occhi e si strinse le braccia al petto.
“Oh come no, Peter, Peter Williams.” Disse tenendo gli occhi chiusi. “Era l’uomo più omaccione della capitaneria navale. Andava in giro con la sua maglietta attillata bianca a strisce blu. Ed era bravo a pilotare una nave, come a pilotare una donna. Mi prendeva per i fianchi, mi faceva roteare, voltare e girare sotto le luci di Liberty City al ritmo di musica jazz. E come se non bastasse sapeva prepararmi un martini da capogiro”. Concluse il racconto delle sue fantasie con un enorme sorriso sulle labbra. Poi abbassò gli occhi e amaramente disse “Ma queste sono le fantasie di una vecchia, che vorrebbe ancora essere la donna di un tempo, sinuosa, romantica, desiderata da tutti gli uomini. Tu non devi avere queste fantasie, sei bella e giovane e hai molti anni davanti a te.”. Si alzò mettendomi i biscotti avanzati in una busta. “Non l’hai immaginato quel ragazzo, tesoro. Ma ora va a casa prima che fa buio, e grazie per avermi preso le uova”. Mi ero totalmente dimenticata delle uova, e avevo tenuto il cesto in una mano per tutto il tempo. Le diedi un bacio e uscì fuori. I grilli mi avrebbero fatto compagnia nel viaggio di ritorno. Chiusi la porta gialla, scesi le scale e guardai la facciata della casa. “Secondo me Austin farebbe un bel lavoro qui” dissi allontanandomi.

“Ha un disegno di te” pensai. Abbracciai il cuscino del letto affondandoci dentro la faccia. “Ma perché? Cosa può trovarci di artistico in me?”. Mi alzai di scatto e andai davanti allo specchio che mia madre mi aveva regalato al mio compleanno. Guardai attentamente le gambe grassottelle, e la pancia che spuntava. Non era piatta e atletica, era gonfia, era grassa. “Senza giri di parole Adrian” mi dissi passandomi una mano sulla pancia “Tu sei grassa!” conclusi. Sbuffai sconsolata e mi sedetti sul letto. I capelli iniziarono a spettinarsi tutti per il solo fatto che mi ero mossa. “Questi dannati capelli. Ma perché dovevo nascere riccia?”. Mi passai una mano tra le ciocche per risistemarle “Davvero non capisco quell’Austin”. “Quel chi?” disse mia sorella dietro di me. Stava immobile sulla soglia della porta, con la spalla destra appoggiata al muro e le gambe incrociate. Era il mio totale opposto; aveva le gambe snelle, la pancia piatta, si vestiva con colori sobri e i suoi capelli lisci non si sarebbero mossi neanche con un tornado. Ero persino gelosa del suo nome, Meredith. Il mio era così serio, il suo molto più giovanile. “Quel…” dissi alzandomi di scatto “Quel ragazzo che fa il filo a Cecilia, ma l’hai vista è così brutta!” cercai di rimediare velocemente una scusa. “Certo, tu menti. Non saresti capace di chiamare brutta nemmeno una rosa appassita, piccola hippie” disse Meredith sempre più curiosa. Avanzò nella stanza e si mise seduta. “Allora, chi è?” chiese. Non volevo dirglielo. Probabilmente avrebbe pensato di fare la scema anche con lui, come faceva già con tutti i ragazzi. Passava così il suo tempo, e la cosa peggiore è che ci riusciva sempre. Era forse il suo fascino, non lo so, ma ogni dannato ragazzo che puntava quello le correva dietro dopo pochi giorni. Non volevo che Austin facesse così, forse ero un po’ gelosa di lui. “Non mi interessa minimamente, glielo dico” pensai. “Austin, un tizio che ho conosciuto al parco oggi” dissi tranquillamente. Vidi gli occhi brillarle. “è carino?” chiese sorridendo. “Non c’è male” dissi “Adrian devi descrivermelo!” Sospirai, ecco fatta la frittata. “è alto, più alto di me, ma non di molto. È magro e ha delle belle spalle larghe. Gli occhi sono scuri, marroni credo, non ci ho fatto molto caso. Ha le labbra sottili e i denti dritti se proprio ti interessa” “Oh si i denti sono fondamentali, non sai che fastidio baciare uno con la bocca da cavallo!” disse Meredith ridendo. “Già. E comunque, ha i capelli corti neri, e basta, non ricordo altro”. Meredith sembrava soddisfatta della mia descrizione “Sembra carino” disse alzandosi “Me lo presenterai giusto?”. Mi guardò con gli occhi verdi penetranti, non sapevo mentirle. “Appena ci faccio più amicizia, te lo presento” dissi fingendo un sorriso. Meredith si girò verso lo specchio e si guardò “Credi che possa piacergli? Che mi troverà bella?” disse passandosi una mano tra i capelli. “Bellissima” dissi io sottovoce. “Sembri triste piccola hippie” disse lei “Non è che ci hai messo il pensiero su questo Austin?”. Non mi piaceva come pronunciava il nome. Gliel’avevo dato io, era una cosa che apparteneva a me. Spalancai gli occhi “Il pensiero? Ma va, è tutto tuo!” dissi dandole le spalle. “Meglio” disse lei “Nessuno riuscirebbe ad amare una che non si ama”. Meredith sparì nel corridoio. Guardai a lungo il pavimento, poi lentamente alzai lo sguardo nello specchio e vidi di nuovo il mio riflesso “Ha ragione” pensai “Non sono fatta per essere amata”.
“Adrian, Meredith, scendete a tavola” urlò mia madre dal piano di sotto. Sentii le scale scricchiolare in un secondo, era Meredith che scendeva. Era sempre la prima a iniziare a mangiare, e l’ultima a finire. Mangiava davvero tanto, ma aveva la fortuna di essere magrissima. Io invece appena toccavo un po’ di pane, mi gonfiavo come una mongolfiera. Scesi anche io, e trovai papà a tavola. Aveva il viso sporco di carbone, segno che aveva avuto una giornata pesante in miniera.
“Papi” dissi sorpresa. Non tornava mai a cena, rimaneva sempre ore in più a lavoro per guadagnare denaro extra. “Ciao piccolina” disse lui mandandomi un bacio dalla sedia. Mamma mise a tavola le patate schiacciate e il brodo di gallina. Le patate ormai erano il nostro pane quotidiano. Da perfetti irlandesi avevamo la maggior parte dell’orto occupata da piante di patate. Hanno aiutato molto il nostro popolo durante la crisi. Meredith si fiondò sulla pagnotta di pane ancora caldo, mentre io mangiavo solo il brodo di pollo, il più lentamente possibile, per farmelo bastare. Per lo più mi rincuoravo vedendo mamma e papà mangiare seduti vicini, chiacchierando e sorridendo. Era molto che non facevamo una cena di famiglia, con tutta la famiglia al completo.
Aiutai a sparecchiare, mentre Meredith si alzò e andò verso le scale. “Meredith, la tavola” disse mamma. “Scusatemi, ma sono in ritardo per le preghiere serali” disse girandosi. Ogni giorno ne inventava una, ma quella volta non avrebbe funzionato. Di solito cenavamo io e lei. Mamma cucinava, ma poi andava a rassettare il salone o le stanze, perché aspettava papà per cenare. Meredith inventava scuse come “Devo finire la ricerca di scienze” e lasciava a me i suoi piatti da lavare. Io non le rispondevo mai, non mi piacciono i litigi. Papà si alzò dalla sedia e il solo gesto fece scattare Meredith verso il lavandino. Lavò un piatto, poi mise gli altri nella mia metà di lavandino. “Ho finito” disse. Papà si avvicinò per controllare e approvò. “Posso andare adesso?” chiese lei. Io la guardavo incredula. “Vai, e Adrian sbrigati, hai ancora tutti quei piatti da finire!” disse papà allontanandosi. “Poi ti do una caramella eh” disse Meredith passandomi affianco.
Quando finii di lavare i miei e i piatti di Meredith, passai davanti la soglia del salone e sentii mamma e papà che parlavano. Avevano un tono preoccupato, così mi nascosi dietro la porta e origliai. “Dobbiamo trovare una soluzione, Ally” disse papà. “Ma è definitivo? Magari ti ridaranno il lavoro” “Hanno chiuso definitivamente, non possiamo sopravvivere con il nostro orto, ci sono spese esterne da pagare e che a malapena riusciamo a colmare.” disse papà disperato “Lo sai meglio di me che dobbiamo stare a lume di candela la sera per riuscire a pagare le bollette. Ti rendi conto? Siamo nel 2013 e usiamo ancora le candele?! Edison si starà rivoltando nella tomba” disse lui. Sentii mamma ridere e scappò una risata anche a me. “Ne usciremo” disse lui.
Quella era stata davvero una brutta notizia. Salii le scale lentamente per non farmi scoprire e andai nella stanza di Meredith. Non mi sorpresi quando vidi che si stava tirando le sopracciglia invece di dire le preghiere serali. Spensi la luce della stanza. “Ma che fai idiota!” urlò lei acida. “Non dobbiamo accendere la luce la sera, lo sai!” dissi io. Lei si alzò e riaccese la luce “Stai zitta” disse lei. Non spensi di nuovo la luce, probabilmente avrebbe alzato le mani se l’avessi rifatto. “Papà ha perso il lavoro, cerca di contribuire” dissi io guardandomi le mani. Le sue erano ben curate mentre le mie a furia di lavare piatti extra erano tutte screpolate. “Vedrai che se la caverà il vecchio” disse Meredith con indifferenza, accendendo un’altra lampadina per vedere meglio quale sopracciglio andava rimosso. Sospirai, non c’era nulla da fare con quella, era proprio stupida. “Idiota” dissi sottovoce. “Cos’hai detto piccola stronzetta?” disse lei alzandosi di scatto. Era il momento di correre, e iniziai a scappare verso la mia camera. Meredith mi raggiunse, mi prese e mi scagliò sul letto. Mi alzò la maglietta e iniziò a darmi un pizzico prolungato vicino al seno, dove avevo gli altri lividi. Mi scesero le lacrime dal dolore. “Non farlo più feccia umana” disse lei uscendo e sbattendo la porta. Avevo il viso bagnato, e mi addormentai con gli occhi gonfi per le lacrime. 

 

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